Custoditi in un colore

di Laix
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Carta colorata - CoRan ***
Capitolo 2: *** Post-it multicolor - CoAi ***
Capitolo 3: *** Lenzuola azzurre - ShinRan ***
Capitolo 4: *** Vino rosso - YuYu ***
Capitolo 5: *** Schermata bianca - CoAi ***
Capitolo 6: *** Celeste come gli angeli - ShuAkemi ***
Capitolo 7: *** Cielo grigio - HeiKazu ***
Capitolo 8: *** 7 colori dopo la pioggia - CoAyumi ***
Capitolo 9: *** Carnagione marrone scuro - AmuroRan ***
Capitolo 10: *** Zucca arancione - VermCalv ***
Capitolo 11: *** Cocci trasparenti - KaiAo ***
Capitolo 12: *** Fegato verde - EriKog ***
Capitolo 13: *** Porsche 356/A nera - CoAiGin ***
Capitolo 14: *** Bersagli argentei - VermChianti ***
Capitolo 15: *** La vedo grigia! - AiMitsu ***
Capitolo 16: *** Caramella gialla al limone - SherryVerm ***
Capitolo 17: *** Turbinio di neve bianca - ShuJodie ***
Capitolo 18: *** Film da bollino rosso - SeraCo ***
Capitolo 19: *** Se mescoli nero con nero - GinVerm ***
Capitolo 20: *** Faccia viola ed occhi gialli - Tutti ***
Capitolo 21: *** Kit medico rosso - SeraShu ***
Capitolo 22: *** Rosso vermiglio - ShinVerm ***
Capitolo 23: *** Colori in bottiglia al Poirot - AmuAzu ***
Capitolo 24: *** Contraddizione chiaro-scura - GinSherry ***
Capitolo 25: *** I diversi colori del tè - AiRan ***
Capitolo 26: *** Il ladro bianco e il gatto nero - KaiAo ***
Capitolo 27: *** Compressa bianca e rossa - CoAPTX ***
Capitolo 28: *** Di punto in bianco - VermBourb ***
Capitolo 29: *** Il freddo è blu scuro - ShinRan ***
Capitolo 30: *** Nel centro opaco della condensa - CoAi ***
Capitolo 31: *** Cipria beige - AkaYuki ***
Capitolo 32: *** Compressa bianca e rossa 2 - AiAPTX ***
Capitolo 33: *** Il colore pallido del sole - ShinHeiji ***
Capitolo 34: *** Romanzo rosa - SerAmuro ***
Capitolo 35: *** Lava arancio bollente - ReiShiho ***
Capitolo 36: *** Corrente cobalto - MaryShu ***



Capitolo 1
*** Carta colorata - CoRan ***


1.  Conan e Ran ~

***

 




Carta colorata


- Mi potrai mai perdonare, Ran? -
- No -
La figlia del detective dormiente si lasciò sfuggire a bassa voce quell'unico monosillabo, accompagnato dalla mano sinistra tremante che si portò alla fronte per nascondere gli occhi.
- No – ripeté, forse più a se stessa che a lui. No, Ran, no che non lo perdoni. Non ti azzardare. Adesso basta.
Conan la guardò affranto, immobile nella sua posizione, senza fiatare. La fissò ancora e ancora, come se potesse pungerle la pelle del viso col solo ausilio del proprio sguardo insistente. Iniziavano a fargli male le gambe, visto che era seduto a terra a gambe incrociate da una buona mezz'ora, ma ignorò il malessere. Anche lei aveva assunto la stessa posizione, di fronte a lui. Il bello è che non ricordava come fossero finiti così: avevano iniziato a parlare di quella questione, e ad un tratto si erano ritrovati seduti a terra. Non si erano nemmeno alzati per accendere la luce, nel momento in cui l'oscurità della sera aveva iniziato ad inondare la stanza: erano troppo presi dal discorso, troppo impegnati a ritenere irrilevante qualsiasi cosa esistesse al di fuori di quella chiacchierata. La stessa chiacchierata che aveva condotto lui, una volta per tutte, a dirle la verità su ogni cosa, nonostante vestisse ancora i panni di un ragazzino. Sui motivi per cui aveva nascosto la verità, sulla situazione da cui si era sentito minacciato a lungo e che ora era stata debellata... e sulla sua vera identità.
Ma niente era andato come aveva sperato.
Forse intimamente lei ne era felice, ma c'era un imponente - e giustificato - muro di risentimento che le impediva di dimostrarlo.
- Io l'ho fatto solo per proteggerti... - riprovò lui con un filo di voce.
Ran, per tutta risposta, si alzò da terra bruscamente ed uscì da quella camera, sbattendo la porta.
Il detective sospirò. Era più difficile del previsto. Molto, molto più difficile, ma doveva resistere, e doveva capirla. Come reagirei io al suo posto? Probabilmente allo stesso modo, o quasi.
Certo era frustrante, non era abituato a gestire situazioni di quel genere. Guardò fuori dalla finestra, senza avere molto altro da fare: inseguire Ran al piano di sotto sarebbe stato inutile, lei si sarebbe semplicemente spostata in un'altra stanza per stare lontano da lui. Quando le sarà passata un po' la rabbia magari tornerà qui. Rimango qui ad aspettarla... anche per tutta la notte. Ora credo voglia stare da sola.

Dopo circa venti minuti, Ran ritornò da lui. Si chiuse la porta alle spalle e si rimise nella posizione precedente, seduta per terra di fronte a lui, senza dire una parola. Lui si prese del tempo per analizzarla, constatando che pareva distrutta. Il suo viso era quasi inespressivo, gli occhi gonfi e le labbra strette. Guardava in basso, il pavimento, e nient'altro: non osava alzare gli occhi su di lui.
- Guardami, Ran -
- No -
- Stai dicendo quell'unica parola da quasi un'ora. Mi stai facendo impazzire -
- Tu mi hai fatto impazzire per oltre un anno. Possiamo ritenerci quasi pari, almeno? -
- Non era mia intenzione, sto tentando di spiegartelo da un po'. L'ho fatto per un bene superiore -
- Un bene che non era il mio -
- Mi guardi in faccia, per favore? -
- La tua concezione di “protezione” è stata basata sul farmi del male. Sul farmi soffrire, in modo longevo. -
Lei continuava a tenere lo sguardo basso, come se una calamita potente infilata nel pavimento le impedisse di fare altrimenti. Era davvero scoraggiante. Conan sospirò nuovamente e scosse la testa, senza sapere come comportarsi.
- Ti ho già detto tutto quel che dovevo, Ran. Mi ripeterei e basta. L'ho fatto per te, e ti ho fatto del male nel tentativo. Mi dispiace -
- Sei patetico. Ricorri sempre alle solite scuse. E soprattutto credi che io ci caschi anche questa volta, credi che tanto ti perdonerò ancora -
Due lacrime iniziarono a scorrere sulle guance della ragazza, incontrollabili. Lei si morse il labbro e poi continuò a parlare, con voce rotta e flebile.
- Perché non ti sei mai fidato di me, nemmeno una volta...? Non mi credevi in grado di sopportare il tuo segreto? Mi hai detto un sacco di bugie, continuamente. Per te ero solo la ragazza a cui mentire nei modi più stupidi e rapidi... lo sono stata per tanti, tanti mesi... senza saperlo... -
- Ran, stai sbagliando, io non... -
- Ed io ti ho sempre creduto, come una perfetta idiota... sei un bastardo... -
- Io ti amo, Ran -
- Stai zitto! -
Lei si portò le ginocchia al petto e le avvolse con le braccia, per poi affondarci dentro il viso e iniziare a piangere rumorosamente, il corpo scosso da fremiti.
- Sei un bastardo... - ripeté con voce bassa e attutita da quella posizione rannicchiata.

- Ti amo -
- Ed io ti odio! -
Lo urlò forte, provocando a lui uno squarcio di ferita invisibile all'altezza del petto. Non capiva se lo diceva così tanto per dire, in preda alla rabbia, o se era seria. La seconda prospettiva lo pietrificava dal terrore.
Lei si rialzò di scatto, furiosa e piangente, uscendo di nuovo dalla camera con lo stesso procedimento di poco prima.
- Devi andartene da questa casa, vattene! - la sentì urlare sulle scale esterne, prima di udire anche l'eco del suo pianto continuo fino al piano inferiore.
Lui appoggiò la schiena alla parete sospirando forte e afferrandosi un ciuffo di capelli, in preda ad una pesante angoscia. Ok, stava diventando davvero troppo complicato, non sapeva più a che cosa appigliarsi. Ma doveva mettercela tutta e avere una pazienza infinita, perché se l'avesse persa anche lui, come Ran, non ci sarebbe stato modo di recuperare quel rapporto.
Dal piano di sotto udiva ancora il pianto ovattato e solitario della ragazza, che aveva su di lui lo stesso effetto che avrebbe potuto avere una piccola e insidiosa lama continuamente infilzata negli stessi punti vitali. E poi udiva soltanto il silenzio. E il buio che lo circondava. Anche quello pareva avere il suo suono.
Si portò una mano sul braccio, stritolando il tessuto della maglia e la porzione di pelle sottostante. Serviva sia come movimento anti-stress, sia come distrazione su un dolore fisico più sopportabile.
Resisterò senza pause, ci dovessi impiegare un tempo incalcolabile. Forse tu vuoi davvero che io me ne vada, magari non vuoi nemmeno più vedermi, ma invece rimarrò... ti mostrerò che, come tu hai saputo aspettare me, io saprò aspettare te. Al momento mi va bene anche il tuo odio, lo accetto. Hai carta bianca.
E quando deciderai di colorarla, con un qualsiasi colore, io sarò qui.




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Angolino:
Okay, la prima scelta è ricaduta su Conan e Ran, in una vicenda post sconfitta dell'organizzazione per la quale il detective trova il coraggio di confessare a Ran tutta la verità, la quale però, contro le sue migliori aspettative, non la prende molto bene. Cosa ne pensate? Intanto grazie per aver letto, alla prossima! ^.^
P.S. Le storie saranno più o meno tutte di questa lunghezza :) Come forse sarà balzato all'occhio, i colori rappresentano il fattore che legherà ogni capitolo all'altro, il che dà una parvenza di senso al titolo della raccolta :P Ogni shot sarà simboleggiata e nominata da un colore attinente alla situazione. A dire il vero in quasi ogni storia ci sarà il riferimento ad un segreto nascosto o rivelato, a seconda dei personaggi (come in questo cap la vera identità), motivo per cui ho scelto il verbo "custodire". Bene, oltre ad essere prolissa nelle storie lo sono pure nelle note, quindi basta, a voi la parola XD ciao! ^^ 

 

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Capitolo 2
*** Post-it multicolor - CoAi ***


2. Conan e Ai ~

***





Post-it multicolor


- Professore, che schiappa! L'ha inventato lei questo gioco, eppure non dovrebbe perdere ogni partita contro di me -
- Sei imbattibile, eh! -
- Accolgo l'affermazione! -
Conan e Agasa ridevano e parlavano ad alta voce sopra alla colonna sonora incessante di un videogame, mentre lei cercava di lavorare al computer. Era sempre così. Gente che urlava e rideva nello stesso momento in cui lei tentava di portare a termine un lavoro che, in fin dei conti, interessava anche ad altri.
Sentendoli, ad Ai vennero in mente due scimmiette ammaestrate apposta per qualche show. Con quest'immagine parodistica riuscì a contrastare l'irritazione che le montava dentro, liberando anche una risatina divertita.
- Ehi, Haibara, che ridi? -
- Pensavo a te con le sembianze di una scimmia pidocchiosa -
- Oh. In effetti è divertente -
Conan appoggiò le mani sulla scrivania di Ai e con le gambe si diede una spinta verso l'alto, per potervisi accomodare sopra accanto a fogli, appunti e cartelle.
- Kudo, scendi da lì -
- Perché? Ti do fastidio? -
- Parecchio -
- Ma in questo modo non ti ricordo maggiormente una scimmia? -
- Sì, ma di quelle che ti tirano i capelli e non ti lasciano in pace -
- Avanti, giuro che me ne sto zitto -
- Se sposti anche solo di qualche centimetro un singolo foglio, giuro che... -
Il detective, appena dopo essersi guadagnato un'occhiataccia dalla scienziata avente la funzione di completare eloquentemente la sua frase, si infilò un'auricolare nell'orecchio per ascoltare un file audio dal proprio cellulare. Ai bevve un sorso di tè dalla tazza che amava tenere di fianco al computer ad ogni ora, guardandolo curiosa.
- Cosa ascolti? -
- La chiamata che credo di essere riuscito ad intercettare. Tra Bourbon e un interlocutore non ancora identificato, che voglio scoprire adesso -

- Sì, come no... e in che modo intenderesti scoprirlo? Per me corri troppo con la fantasia... -
- Eccola, dovrebbe essere questa... -
- Non si tratta di una conversazione tra due pettegole al bar, cerca di tornare sulla terra -
- Shhhhht! -
Ai per tutta risposta sbuffò, cogliendo l'occasione per continuare a lavorare al computer. Finalmente lui aveva un pretesto per starsene muto, e finalmente lei poteva proseguire.
Conan assottigliò gli occhi e rimase ad ascoltare con estrema concentrazione quel file, fino al momento in cui, contro ogni aspettativa, scoppiò a ridere.
- Ops, ho sbagliato file... questa è la registrazione stupida che hai fatto l'altro giorno con i ragazzi -
- Q-quale registrazione? -
- Quella in cui cantate a squarciagola una canzone strappalacrime -
- CANCELLALA! -
- Wow, ma che ambizioni avete sulla musica?? Ma senti qua, senti con che sentimento canti questa canzone difficilissima! -
- Ma veramente è Ayumi! E ti ho detto di... -
- No no, io dico che sei tu! Ma poi perché mai l'avete registrata col mio telefono? -
- ...CANCELLARLA! -
Ai allungò le mani verso di lui presumibilmente per strangolarlo, al che lui cercò di accontentarla, divenuto un po' inquieto.
- D'accordo, va bene... va bene! Adesso cercherò di trovare il file giusto... okay? -
- Certo che ce ne vuole di stupidità, per scambiare un file di intercettazione dell'organizzazione con uno di canto sguaiato -
- Sì, sono davvero una scimmia pulciosa -
- Ma le scimmie sono intelligenti. -
- Non ti posso contraddire... oh! Eccolo -
- Ah, che bello. Ora ti puoi intrattenere ed io posso lavorare, forse... -
Con un lieve sorriso di sollievo la scienziata riportò lo sguardo sul PC, re-immergendosi nell'intricata rete di schemi che aveva davanti. Ok, ora bisognava riprendere il filo. Dunque, dove diavolo era rimasta...?
- Pfff... ahahah! Quanto è idiota questo programma radio. L'hai mai sentito a quest'ora, sul canale 2? -
Ai abbassò lo sguardo e sospirò con pesantezza, a dir poco seccata. D'istinto guardò la propria tazza quasi vuotata, con l'ultimo strato di tè sul fondo. E pensò che stava per finire il momento del tè, perché adesso era l'ora del caffè, forte.
- Dannazione, Kudo. Non so cosa ti prenda oggi, ma non fai altro che distrarmi -
- Non hai risposto alla mia domanda -
- Perché è una domanda cretina -
- In poche parole sono sceneggiati radio di genere giallo, in cui alcuni interpretano gli assassini ed altri i detective. Ma sono casi banali, si risolvono ancora prima che finiscano di raccontare i dettagli! -
- Oh, ma è inconcepibile, davvero -
- E' inconcepibile eccome, visto che è così seguito -
- Ma non dovevi lavorare anche tu, al fine di proteggere la nostra pellaccia? Com'è che sei finito in radio? -
- Lo so, hai ragione. Sicura di non volere una cuffia per ascoltare? -
- E' una delle poche cose al mondo di cui sono sicura -
- Non so, magari sono io ad essere esagerato... -
Ai lo ignorò totalmente e riprese il lavoro il più rapidamente possibile, con sguardo concentrato e attento.
- Posso continuare a lavorare adesso? -
- Accidenti, ma prenditi una pausa -
- Cosa? -

- Guarda che cos'hai qui... la scrivania e il muro sono pieni di post-it! -
- Non posso mica ricordarmi tutto a memoria... -
- Sì, ma sono davvero tante cose, tante nozioni da tenere a mente. Sembra la stanza di una psicotica -
Ai lo fissò assottigliando gli occhi, al pari di un serpente che ha individuato la propria preda e si accinge ad attaccare.
- Haibara, ogni tanto avvertimi se hai bisogno di una mano, okay? -
- Non ne ho bisogno -
- Beh, però nel caso in cui capitasse. Nell'eventualità che tu ti senta un essere umano normale -
- Non capiterà -
- Non avevo dubbi -
Lui ridacchiò continuando a trafficare con i tasti del cellulare, alla ricerca di qualcosa che, evidentemente, era ignoto.
Ai sperò intensamente che gli elementi di disturbo si fossero esauriti. Kudo normalmente la lasciava lavorare in pace, ma magari quel giorno si stava annoiando, chi poteva saperlo. Riprese a premere i tasti del computer con accuratezza e controllo, studiando i procedimenti che prendevano vita sullo schermo e annotando a mente i dati che ne uscivano. Percepiva però una lieve ombra d'agitazione all'altezza dello stomaco, in perenne movimento: vedere costantemente accanto alle proprie mani, con la coda dell'occhio, la sagoma del detective seduto – anzi, appollaiato - sulla sua scrivania, così vicino e così disinvolto, la distraeva in ogni caso, anche se il soggetto in questione restava zitto. Non sapeva spiegarsi il perché sotto un punto di vista conscio, ma una cosa la sapeva per certo: non era un fatto negativo. Metteva agitazione, ma era quasi gradevole.

All'improvviso fu costretta a distogliere lo sguardo per l'ennesima volta dallo schermo, la sua attenzione catturata da una fatto inspiegabile: Kudo aveva afferrato un post-it ancora vuoto, di colore blu, scrivendoci sopra qualcosa sulla base di ciò che leggeva sullo schermo del computer.
- Kudo... che fai? -
- Ti aiuto. Ti scrivo due appunti su questo post-it -
- Non mi serve. E poi è probabile tu trascriva i dati errati, non puoi conoscere esattamente il linguaggio che sto utilizzando in questi programmi -
- Nah, un po' li conosco. Ho studiato anche io tempo addietro, ti ricordo. Forse hai ragione, non sarà una trascrizione perfetta ma magari ti farà risparmiare una mezz'ora di lavoro -
- Perché lo fai...? -
- Perché ne hai già tanta, di roba da fare. La quantità di post-it appiccicati qui dentro mi opprime -
- Ma sono miei, la stanza è mia. E a me non da fastidio -

- Ma poi come faccio a venire a trovarti o ad assisterti, se attacchi ovunque questi foglietti tanto colorati quanto minacciosi?? -
- Ti fanno così paura? -
- Credo che se io fossi un vampiro, li vedrei come tanti spicchi d'aglio -
- Oh... ti allontanerebbero. Questo significa che grazie ai post-it mi assicurerei la tua assenza, e perciò la possibilità di lavorare in santa pace? -
- Quante storie! Ringraziami piuttosto, ti sto facendo un favore -
- Un favore che non ho chiesto -
- Uff, sempre la solita... -
Conan finì di scrivere a penna le ultime espressioni alfa-numeriche e appiccicò con veemenza il foglietto blu alla parete di fronte.
- Visto? Non sono poi così male -
- Hai scritto un paio di simboli che non esistono... -
- E-ehm, ecco... no, in realtà sei tu che ancora devi scoprirli! -
- Certo, immagino -
Il detective ridacchiò imbarazzato, togliendosi poi l'auricolare dall'orecchio e infilando il cellulare in tasca.
- Però ho apprezzato il gesto – sentenziò Ai, appoggiandosi le mani sulle ginocchia e guardandolo in volto. Il detective, ancora seduto sulla scrivania, la guardò stupito.
- Davvero? Meno male. Pensavo di averti dato solo fastidio -
- Mi hai dato anche quello, infatti -
- Ti pareva... -
- Ti accomodi sulla mia scrivania come un maleducato, mi disturbi di continuo con scemenze assurde, intralci il mio lavoro con trascrizioni di simboli geroglifici completamente inventati... ma, tutto sommato, ho apprezzato qualcosa in questo -
- Notevole. Tipo che cosa? -
Tipo la vicinanza. Lo starmi accanto, il rivolgermi la parola per portarmi la mente da un'altra parte anche solo per alcuni istanti... e la compagnia di qualcuno che non sia un post-it pieno zeppo di nozioni e formule complicate. So che lo fai apposta, e non solo perché non hai nient'altro da fare che disturbarmi.
Ma queste considerazioni, forse, era meglio tenersele per sé.


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Angolino:
Questa shot mi è stata ispirata da un'immagine vista diverso tempo fa, dove appunto Conan se ne stava appollaiato sulla scrivania di Ai mentre lei lavorava... :P In questo caso il “segreto” è un poco sottile e si riferisce agli ultimi pensieri della scienziata, la quale infatti preferisce tenerli nascosti. Fatemi sapere! Alla prossima ^.- 

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Capitolo 3
*** Lenzuola azzurre - ShinRan ***


3. Shinichi e Ran ~

***




Lenzuola azzurre



- Ehm... lasceresti qualcosa anche a me, magari? -
- C-come? Sì, certo! -
Ran si bloccò all'istante, in pieno imbarazzo. Stava mangiando come un bue inferocito, e per giunta era tutto cibo che Shinichi aveva gentilmente portato a casa sua per non farla cucinare. Avevano programmato una bella serata da soli, approfittando dell'assenza di Kogoro in agenzia, per mangiare tutte quelle meravigliose pietanze. Solo che Ran stava facendo fuori tutto praticamente da sola, in preda ad una fame che pareva cosmica.
- Cioè, se hai così fame puoi mangiare quanto vuoi, ti chiedo solo di lasciarmi... che so, quella polpetta laggiù, che sembra buona -
- Ma ti pare?? Hai portato tutto tu, è chiaro che dovremmo fare almeno a metà... perdonami, mi fermo un secondo per una pausa -
E subito dopo aver pronunciato quelle parole, afferrò di soppiatto una patatina per infilarsela in bocca. Mh, che goduria, che goduria.
Ma che le prendeva?
Shinichi la guardava perplesso, anche se abbastanza divertito. Non gli era mai capitato di vedere Ran in quella condizione. Lei era molto imbarazzata, guardava in basso rossa in volto, con qualche chicco di riso ancora appiccicato al viso.
- Sei nervosa perché hai paura che tuo padre rientri all'improvviso e devasti la nostra serata? E' per questo che mangi velocemente? -
- No, no, mio padre lo sa, ed anche se non gradisce troppo la nostra unione... non farebbe niente di sconveniente -
- Sicura? Io comunque ti avevo offerto di venire a casa mia, in villa Kudo. Come sai è vuota da tempo -
- Sì, ma ti ho già spiegato il motivo per cui preferivo rimanere qui -
Già, gliel'aveva spiegato. Ran aveva detto di non sentirsi molto bene da tutto il giorno, e che perciò preferiva non uscire per non rischiare di prendere freddo. Credeva di avere problemi allo stomaco, la nausea l'aveva colta spesso fin dal mattino.
- Mi ricordo, tranquilla. Solo pensavo, se non ti sei sentita bene... non è il caso che diminuisci un po' questa frenesia mangereccia? -
Senza accorgersene minimamente, Ran aveva ripreso a mangiare con le mani dei panini cinesi oliati, ovviamente priva di ritegno. Ma cosa diavolo...? 
- Aaah!! Shinichi, non... non so cosa mi sia preso!! Non lo faccio apposta, io... -
Si infilò in bocca un pezzo di carne con velocità, come se il buco nero dentro di lei assorbisse rapidamente tutto ciò che era imbandito su quella tavola, con o senza la sua volontà.
Shinichi scoppiò a ridere di gusto, in fondo era una scena davvero memorabile e divertente.
- Sei spassosissima! -
- Piantala! Non è vero, ti faccio solo pena! -
- Ma no, davvero, sono contento se mangi così! Sei molto magra, mi fa piacere se metti su un po' di chili -
- Non ti azzardare a dire che... -
Ran non completò la frase, perché la sua bocca fu improvvisamente intasata di dolci spugnosi al cioccolato che richiedevano una masticazione attenta e prolungata. Ma quando li aveva presi? Si era persa un passaggio. Era inutile, il controllo le stava completamente sfuggendo.
- Azzardarmi a...? - continuava a provocarla Shinichi, con un sorrisetto perfido in volto.
Dopo che aver deglutito quei dolci Ran gli mise il broncio, decisa a mantenerlo almeno fino alla fetta di torta successiva. Ma poi scoppiò a ridere, di punto in bianco, rendendosi conto dell'assurdità della situazione che lei stessa aveva creato. La sua risata contagiò anche Shinichi, continuarono a ridere per svariati attimi con serenità e spensieratezza.
Finché Ran non espresse le sue impressioni.
- Ahahah! Incredibile! Accidenti, non mi è mai successo! Sarò incinta, magari è per quello! Ahahah! -
Il ragazzo bloccò di colpo la sua risata, gli occhi usciti fuori dalle orbite per svariati metri, improvvisamente pietrificato. Soltanto lei stava ancora ridendo, ma probabilmente per inerzia, perché dopo le ultime due risatine forzate si fermò allo stesso modo, con la stessa espressione di lui.
Lentamente voltarono la testa l'uno verso l'altra, guardandosi allibiti.
Lei posò lentamente sul tavolo la fetta di torta al limone che teneva in mano, che doveva essere la sua prossima preda, e deglutì rumorosamente.
- Cos'hai detto che avevi, oggi? Nausea? -
- S-sì... -
- M... mentre adesso stai mangiando come un bufalo, per via di una fame che... -
- ...che non so spiegarmi... -
Lui trasse un profondo respiro, mantenendo il contatto visivo con lei. Con la ragazza con cui, dopo tanto tempo, dopo un lungo periodo in cui il desiderio era stato fomentato, era riuscito ad avere finalmente un rapporto totale, sotto ogni aspetto. Ma era comunque da poco che avevano intrapreso quel solido e deciso legame, ed erano finiti a letto soltanto due volte sino a quel momento. Entrambe le volte non erano state programmate, bensì nate con spontaneità e cogliendo la magia del momento... momento in cui, forse, erano mancate le contromisure necessarie...
E infatti ora, in una serata come tante altre, Ran si ritrovava con una centrifuga al posto dello stomaco e con la nausea in agguato.
- No, no, no... insomma, Shinichi, insomma... -
- Ran, tranquillizzati, avanti... non credo proprio che... voglio dire... - il ragazzo si avvicinò a lei, avvolgendole le spalle con un braccio e stampandole un bacio sulla guancia.

- Voglio dire... soltanto due volte e già si presenta questo rischio? E' assurdo, no? Certo che è assurdo, statisticamente parlando – tentava di convincere lei e se stesso, ma la verità era che stava sparando un tot di fandonie per scacciare l'ansia.
- Shinichi, questa motivazione non lo rende impossibile -

- L-lo so bene, ma... -
- Aiuto... non so se ho mangiato troppo o cosa, ma... credo di dover vomitare -
- Oh, no... - 
NO! 
Lei si aggrappò alla camicia di lui, posando la fronte sul suo petto.
- Se fosse così, Shinichi... appena mio padre viene a saperlo, lui... -
- Mi ammazza, mi brucia vivo qui, seduta stante -
- Sì... -
- Abbiamo 19 anni, non so se siamo proprio in grado di... -
- Tu no, visto che pensi solo ai killer psicopatici e ai loro metodi deviati di uccisione -
- Dannazione, questo cosa c'entra adesso?! -
- Ma sono certa che non sarebbe un compito così difficile, anzi... -
Di punto in bianco lei ridacchiò felice, rimanendo in quella posizione e stringendolo nel suo abbraccio. Sembrava soddisfatta di quella situazione.
Lui pure non si sarebbe disperato, forse. Ma era terrorizzato.
- E poi c'è anche mia madre, accidenti. Lei sì che mi ammazza davvero -
- Yukiko?? Sul serio? Eppure mi sembra una donna dalla mente molto aperta, penso sarebbe contenta per noi -
- Quello sì. Ma l'idea di diventare già nonna la traumatizzerebbe -
Risero entrambi, immaginando quella scena. E immaginandone tante altre, inerenti sia ai familiari che a loro stessi.
Tuttavia dopo alcuni giorni ebbero conferma che niente di tutto ciò si sarebbe realizzato in tempi brevi: Ran scoprì di avere soltanto attraversato una breve influenza intestinale, caratterizzata da momenti di fame intensa e da conseguenti malesseri.
- Forse quella nostra paura è stata normale, automatica... -

- Puoi dirlo. Almeno hai messo su qualche chiletto? -
Sotto le coperte azzurre del letto su cui erano stesi, lui iniziò a riempirla di pizzicotti, ricevendo in cambio un pugno in testa con bernoccolo.
- Non molti. Tra l'altro ho proprio finito tutto l'altra sera, non ti ho lasciato nemmeno la polpetta che desideravi... -
- Pazienza, ne è valsa la pena. Comunque non sarebbe male se accadesse davvero, presto o tardi... -
- Cosa? -
- Beh... -
Lui la avvolse lentamente tra le proprie braccia, investendola col proprio calore e sussurrandole qualcosa all'orecchio.
- Lo sai... -
Lei arrossì bruscamente, voltando la testa e guardandolo negli occhi.

- Sì... hai ragione – sussurrò lei di rimando.
- Per quell'occasione, quando sarà vera... -
Lei trattenne il respiro, impaurita e impaziente al tempo stesso, quasi tremante, in desiderosa attesa di conoscere il seguito di quel pensiero.
- ...dovrò sequestrare un intero ristorante per poterti saziare -
Lei assottigliò gli occhi, la tempia pulsante e il sopracciglio ballerino.
- Razza di idiota! - sbraitò lei con tono imbronciato, lasciandogli un altro bernoccolo. 




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Angolino:
Una situazione leggera, ipotetica e futura, dove il protagonista si sta facendo un pochino più furbo :P Ne approfitto per ringraziare i recensori che finora si sono fatti sentire!! Grazie ragazzi! *___* 
Alla prossima! ^.-

 

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Capitolo 4
*** Vino rosso - YuYu ***


4. Yukiko e Yusaku ~

***





Vino rosso

Yukiko, donna adulta ancora nel fiore degli anni, o almeno così la sua apparenza suggeriva, si avvicinò con fare circospetto al marito Yusaku, seduto alla scrivania di casa e con la sua piena attenzione rivolta allo schermo del computer, sul quale stava presumibilmente scrivendo un romanzo giallo.
- Yusaku? -
Lo chiamò lei, distraendolo. Di solito non lo faceva mai, non mentre lui stava lavorando. Anche se aveva cose importanti da dirgli, aspettava sempre che lui completasse un testo.
Lui distolse lo sguardo dallo schermo e lo alzò su di lei, le sopracciglia alzate.
- Sì, tesoro? -
- Tu mi tradisci? -
L'uomo sbarrò gli occhi e poi sbatté le palpebre diverse volte, stupefatto a dir poco. Mosse le labbra balbettando qualcosa, prima di riuscire a parlare.
- Yukiko... cosa hai detto? -
- Mi stai tradendo? -
- Ma come ti viene in mente, tesoro? -

- “Tesoro” un bel niente. Inizio ad avere molti sospetti su di te, ti conviene non fare lo gnorri -
- No, no, un attimo... cosa? Puoi almeno spiegarti? -
- Quando sono fuori casa, anche per svariate giornate, non ti fai mai sentire. Forse perché sei troppo impegnato con qualche altra persona, approfittando della mia assenza?! -
- Ma veramente, proprio perché sei tu quella che è sempre in giro, in lungo e in largo, dovrei forse essere io a nutrire dei sospetti. No? Però io mi fido di te, quindi non sento il bisogno di chiamarti di continuo -
- Ho capito, ma non lo fai proprio mai! Un messaggio, una mail... niente! Solo ogni tanto qualcosina di futile, giusto per darmi il contentino... -

- Non intendo darti il contentino, intendo salutarti e farti sentire che ci sono, seppur con poche parole. Non ti basta? Prenderò nota di questo tuo disagio, ma per il resto ti assicuro che sono sempre chiuso qui dentro a lavorare, sono anni che è così, lo sai... -
- L'altra sera, rientrando a casa, ho visto due calici di vino quasi vuoti sul banco in cucina. Vino rosso per giunta, l'unico che piaccia a me... beh, uno era tuo, ma l'altro non era mio. -
- A dire il vero... -
- Chi è la fortunata con cui hai brindato in mia assenza? Eh? -
- In realtà ho offerto qualcosa al mio editore, venuto a casa la sera stessa in cui sei rientrata. Sto ultimando il libro, volevamo parlare degli ultimi dettagli prima della pubblicazione e brindare a questo traguardo, tutto qua -
- Il tuo editore? Ahah! Mai sentita scusa più patetica -
- Ma è vero, Yukiko... vuoi chiamarlo e farti dare conferma? -
- No, ma in compenso chiamerò un'altra persona. Davvero, queste scuse idiote... mi fanno imbestialire! -
Yukiko si diresse indispettita verso il proprio cellulare, lasciato all'ingresso, lo afferrò e compose un numero, senza esitare. Yusaku rimase in attesa, ancora esterrefatto e privo di idee in proposito.
Dall'altra parte l'interlocutore misterioso di Yukiko rispose, e lei parlò.
- Shinchan! Tuo padre mi tradisce -
- No, no, no! Yukiko!! - dopo aver detto queste parole ad alta voce, Yusaku si alzò frettolosamente dal tavolo per raggiungerla, i movimenti impacciati.
- C... cosa hai detto? Cos'ha fatto papà?! - reagì bruscamente il figlio dall'altra parte del telefono.
- Mi hai capito bene, piccino. Volevo che lo sapessi, è giusto che tu lo sappia -

- Mamma, passami quel... quel... passamelo, subito. Ho da dirgli un paio di cose! -
Yusaku tirò via il cellulare dalla mano di Yukiko, portandoselo all'orecchio per chiarire la situazione col figlio.
- Shinichi, non la devi ascoltare, oggi non so cosa le sia preso -
- Papà, razza di...!! Dannazione, mi auguro che sia tutto un errore, me lo auguro sul serio, perché se per caso è vero... se per caso la stai tradendo... - gli intimò con tono minaccioso.
- Ma perché credete sia così facile una cosa simile? Io ho soltanto... -
- Chi è? L'editrice? La correttrice delle bozze?! -
- Accidenti, non ti ci mettere pure tu!! Ma mi credete davvero un tale latin lover? Cosa diamine ve lo fa pensare?? -
- Papà, a me basta solo sia un errore di mamma. Lo è? Perché in caso contrario prendo un aereo e vengo lì, ovunque voi siate nel mondo, apposta per darti un colpo in testa. -
Yusaku sospirò gravemente, accerchiato da un lato e dall'altro da quella surreale situazione.
- Ma certo che è un errore, figliolo. Certo che lo è. Che lei mi creda o no. Voglio dire, tua madre è... stupenda, unica, non so per via di quale fortuito miracolo sia capitata proprio nella mia vita, ma è certo che non sono così sciocco e idiota da lasciarmela scappare! Una volta che l'ho trovata, posso solo ringraziarla ogni singolo giorno per essere al mio fianco, a sopportare anche le cose che non vanno in me. Una così non la si trova più. E ne sono ben consapevole... -
All'improvviso Yukiko gli tirò via il cellulare di mano e se lo portò all'orecchio, concludendo la conversazione.
- Scusami, Shinchan. Errore mio. Non ci pensare più -
Lei riagganciò, posando poi il cellulare sul tavolo. E riguardò Yusaku, con un tenue sorriso raggiante. Si avvicinò lentamente a lui, portandogli le braccia al collo e baciandolo lievemente sulle labbra, in silenzio. Anche nell'attimo seguente, quando riaprirono gli occhi, rimasero in quella posizione.
- Ci voleva tanto per dirmi due cose carine? - gli bisbigliò.
- E tu devi per forza ricorrere a questi metodi, per farti dire due cose carine? -
- Sempre! -
Lei ridacchiò e lui scosse la testa, pensando che una così era davvero difficile da trovare.



************************************************************
Angolino: 
Non so voi, ma questi due fuori di testa li trovo troppo forti :D Volevo provare a "sfruttare" il classico lato scherzoso (e un po' macabro, diciamocelo) di Yukiko per indurre il marito a fare qualcosa di diverso nei suoi confronti, scuotendolo un po' U__U E nel frattempo ci tengo a ringraziare chi già sta commentando, chi sta leggendo e chi ha inserito questa ff nelle seguite! <3
Ciau, alla prossima! ^____^

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Capitolo 5
*** Schermata bianca - CoAi ***


5. Conan e Ai ~ 

***





Schermata bianca


Colpi contro la porta della stanza, forti e decisi. Colpi incessanti. Facevano vibrare le pareti, tremolare i vetri della finestra.
Da dove diavolo lui tirasse fuori la forza per produrre quei suoni, tramite quel corpo da ragazzino delle elementari, Ai lo ignorava completamente. Anzi, no, in realtà sapeva pressapoco a cosa fosse dovuto. Alla rabbia.
Grazie al cielo, grazie al cielo aveva una chiave per chiudere la porta della stanza.
- Aprimi! Dannazione, Haibara, fammi entrare! Apri questa porta o ti garantisco che finisce male! -
Credo possa finire male anche nel caso in cui ti aprissi, a dire il vero.
Ai emise un sospiro grave dovuto all'ansia, allontanandosi dalla porta e iniziando a ragionare per risolvere quella situazione. Continuava a pensare ad una scena ipotetica e melodrammatica in cui, aprendogli la porta, Kudo sarebbe balzato nella stanza e l'avrebbe sbattuta contro la parete in malomodo, intimandole in modo minaccioso di sputare il rospo nel modo più preciso possibile. In realtà non credeva sul serio che Kudo l'avrebbe fatto, però il timore ce l'aveva e si aggravava man mano che quei colpi rimbombavano sulla porta.
- Haibara, io ti avverto... aprimi, adesso, o la butto giù questa merda di porta! -
Come chicca finale, un colpo un po' più duro degli altri riecheggiò nella camera di Ai.
- Kudo! Ascoltami bene – gli disse la scienziata attraverso la porta, avvicinandosi ad essa per farsi udire meglio.
- O la smetti e ti dai una calmata, o qui dentro non ci entri nemmeno tra un secolo -
- Cos'è che mi dovrei dare? Una calmata?! -
- Capisco bene quello che provi, okay? Se ho deciso di non rivelarti la verità per un certo periodo di tempo, è proprio perché lo capisco -
- No, Haibara, non si è trattato di un certo periodo! E se Agasa non si fosse lasciato scappare quella piccola rivelazione, visto che lui sapeva già tutto da tempo, chissà per quanto ancora sarebbe andata avanti questa menzogna! Io sarei ancora qui speranzoso a brancolare nel buio, come un povero idiota! -
- Hai ragione, però...-
- Mi avete imbrogliato tutti e due... solo che lui, alla fine, non è più riuscito a tenerselo dentro! Eri tu quella che gli ha imposto di mantenere il silenzio! -
- Perché pensavo potessimo ancora uscirne! -
- Sai solo scappare con la coda tra le gambe, non hai neanche il coraggio di dirmelo chiaramente guardandomi negli occhi! -
Dopo avere alzato la voce in quel modo, lui diede alla porta altri due o tre colpi forti, facendo sobbalzare la piccola scienziata. La sua mente volò al fatto accaduto appena pochi istanti prima: acquattata dietro l'angolo della parete, aveva visto Agasa pronunciare delle parole a Conan, il quale subito dopo si era alzato in piedi dalla sedia con uno scatto davvero poco rassicurante, partendo poi al suo inseguimento. A quel punto lei era letteralmente fuggita, chiudendosi nella sua stanza ed arrivando a creare quella folle situazione.
- Sei una codarda! Bugiarda, ipocrita e codarda! -
E proseguì con un'altra scarica, procurandosi sicuramente forti dolori alle mani, non poteva essere altrimenti. Ai pensò che era la seconda volta che lui si arrabbiava in quel modo con lei: la prima era avvenuta tanto tempo prima, quando si erano appena conosciuti e lei aveva rivelato subito di essere la creatrice dell'APTX. In effetti non avevano avuto un buon acchito iniziale.
- Ti detesto, dannazione! Non me l'aspettavo da te! Aprimi! -
Lei abbassò lo sguardo e chiuse gli occhi, affranta, mentre ascoltava l'eco dei pugni e delle parole di Kudo.
So che non sta parlando sul serio. Forse. Vero? Sì, è solo in preda all'ira e allo sconvolgimento, tuttavia è doloroso. Seppur si tratti di considerazioni portate all'eccesso, il fatto che tramite questo stato alterato lui stia riuscendo a farle emergere mi fa pensare che, probabilmente, le ha covate davvero nei miei confronti.
In ogni caso l'avrebbe perdonato. Sostenendo però un peso amaro sul cuore.
All'improvviso i colpi alla porta cessarono. Come quelle tempeste che, dopo aver scosso rumorosamente una città, si fermano nel silenzio. Ma lei non sentì dei passi allontanarsi, perciò Kudo era ancora lì.
- Haibara... apri la porta... -
Il suo tono era cambiato drasticamente, completamente ribaltato. Lo sentì anche appoggiarsi di peso sulla porta, come fosse privo di forze. Ed era esattamente la sensazione che le venne trasmessa dalle sue seguenti frasi strascicate.
- Aprimi... ti scongiuro... ho bisogno di parlarti... -
Ai si sentì invadere il petto da tristezza e malinconia. La repentinità con cui l'umore di Kudo era variato la sconvolse, soprattutto perché in lui la collera sembrava essersi dissolta del tutto, sostituita da dolore e smarrimento.
- Lasciami entrare... e parlami chiaramente, voglio sentirlo da te... -

Lui diede un altro colpo alla porta, ma decisamente lieve e stanco. Sicuramente anche Kudo era stanco. Stanco di comportarsi in quel modo, stanco di una situazione che non poneva tregue.
- Voglio saperlo... ho il diritto di saperlo... -
Lui appoggiò la fronte alla porta, chiudendo gli occhi e stringendo i pugni. Era una consapevolezza dura da sopportare, ancora di più se la diretta interessata, l'unica che potesse rivelargli concretamente ogni dettaglio, si rifiutava di farlo. O anche solo di comunicare con lui. Era anche per questo motivo che si era infuriato in quel modo, per quanto attualmente iniziasse a vergognarsene. Ma era davvero troppo.
Tutto ad un tratto dovette raddrizzare la testa, visto che la porta che gli faceva da supporto sparì da quella posizione, per potersi aprire. Si ritrovò la esile figura di Haibara davanti agli occhi, visibilmente angosciata e impaurita. Fu in quell'esatto istante che si rese conto del suo sbaglio.
- Scusami. Ho esagerato -
- Non ti preoccupare, non hai nulla di cui scusarti -
Ai si fece da parte per lasciarlo passare. Lui entrò nella stanza, deciso e incerto al contempo, come se tuttavia fosse spaventato a morte all'idea di dover ascoltare le rivelazioni della scienziata, le stesse che aveva richiesto a gran voce fino a quel momento.
Lei richiuse la porta e Conan si voltò a guardarla, il viso contratto. La semioscurità in quella stanza era decisamente marcata, il sole stava tramontando per lasciare spazio ad un cielo blu scuro e cupo. L'unica fonte di luce proveniva dalla schermata bianca e anonima di un computer acceso che emetteva lievi ronzii, e che sembrava comunicare loro il reale stato delle cose: “qui non c'è più niente da vedere, accantonate il lavoro svolto finora, okay? Adesso c'è solo uno schermo vuoto”.
- Allora? E' tutto vero, Haibara? -
- Lo è. Il mio lavoro, che ha come obiettivo quello di farci tornare adulti definitivamente, è una continua corsa verso un vicolo cieco. Qualunque direzione gli faccia prendere, qualunque minimo dato io possa variare, il risultato non cambia. C'è sempre un maledetto muro a sbarrare la strada, anche nelle ipotesi che sembrano più ottimistiche -
- Esattamente da quanto lo sai? -
- Da molti mesi. Da ancora prima delle ultime due volte che hai assunto l'antidoto temporaneo. Preferivo che tu ne prendessi pochi perché... perché, ecco... -
- Perché ormai sono rimasti la mia unica, flebilissima possibilità di ritornare al mio vero aspetto. -
Lei annuì mesta, per confermagli la frase. Lui abbassò lo sguardo scuotendo lievemente il capo, rialzandolo dopo poco per proseguire nel discorso.
- Prima dicevi... dicevi che me l'hai tenuto nascosto perché credevi potessimo ancora uscirne -
- Esatto. Ho evitato di darti ansie che in quel momento mi parevano inutili, visto che magari, con alcune ricerche aggiuntive, sarei potuta giungere ad un risultato soddisfacente -
- E sei ancora della stessa idea? -
- Non proprio -
- Cos'è cambiato? -
- Il dato statistico riguardante le possibilità di riuscita dell'antidoto vero e proprio. Un dato molto basso -
- Così basso da essere preoccupante...? -
- Kudo. La percentuale di riuscita dell'antidoto definitivo dell'APTX si aggira intorno allo 0,1% -
Il detective riabbassò lo sguardo sospirando gravemente, comprimendo l'aggressiva ed alta marea di emozioni che si stava abbattendo dentro di sé.
Come fosse una visione mistica, vide scomparire diverse cose di fronte a sé. Vide scomparire nel nulla il suo vero corpo, vide scomparire l'aula del liceo che frequentava, i compagni di classe che lo conoscevano, la prospettiva di poter indagare liberamente su qualsiasi caso usando il suo nome, la sua possibile carriera. Vide scomparire Ran.
- Come ben sai, prima o poi i tuoi anticorpi reagiranno totalmente agli antidoti temporanei. La durata del loro effetto si ridurrà sempre più, fino ad annullarsi del tutto. In altre parole... -
- Mi posso scordare di tornare come prima -
- Mi dispiace. Ho fatto il possibile. -
Lui si voltò dandole le spalle, posizionandosi poi le mani sui fianchi e restando immobile dov'era. Ai non lo sentiva neanche respirare, pareva si fosse calato in uno stato di ibernazione. Lei si accostò silenziosamente a lui, alzando la mano sinistra per toccargli con delicatezza la schiena. In realtà aveva una notevole voglia di abbracciarlo, per fargli capire che non era solo, che lei riusciva a capirlo. Però non sapeva quanto sarebbe stato opportuno e soprattutto non sapeva se ciò lo avrebbe realmente rassicurato. Si alzò in punta di piedi e gli sussurrò qualcosa all'orecchio, con tono apprensivo.
- Ma ti assicuro che lavorerò su quello 0,1% applicando ogni mia singola capacità. E' comunque un dato non ancora scaduto nell'impossibilità, seppur di poco -
- Haibara... -
Lui si voltò su se stesso, trovandosela davanti a pochissimi centimetri da sé. Si aspettò che lei indietreggiasse almeno di mezzo passo, ma non lo fece.
- Credo non ne valga la pena. Credo che continuare a vivere in un'illusione sia sfiancante e dannoso... sia per me che per te. -
Parlava con un filo di voce, i suoi occhi esprimevano dolore e angoscia. E la guardavano in maniera diretta. Pian piano si stava tramutando in un Kudo che Ai non conosceva, che doveva adattarsi alla nuova e indesiderata incombenza, che non aveva mai visto. E che avrebbe preferito non incontrare mai.
Era evidente che Kudo non avrebbe mai voluto arrendersi, ma che al contempo si sentiva privo di risorse a causa di una situazione d'impotenza. La fragilità che in quel momento lui stava trasmettendo ad Ai, seppur senza farlo apposta, le riempì il cuore di fitte di compassione, sentimento che la indusse ad alzare un braccio per posargli una mano sulla guancia. Rimase così per alcuni secondi, in silenzio, prima di parlargli.
- Se il prezzo da pagare è vederti in questo stato ogni giorno, da adesso in poi... stai pur certo che quel dato dovrà quantomeno alzarsi. Illusione o meno, ce la metterò tutta. -
Lui sgranò gli occhi, colpito da una simile affermazione. Le sorrise mestamente, continuando a percepire il tocco confortante di lei sul proprio viso. Sapeva tuttavia che le sue parole erano certamente dirette ad ammortizzare quel momento, ma non il futuro. Il futuro andava rimodellato, ripensato... in modo definitivo.





******************************
Questa shot è basata su un'idea rivisitata un milione e mezzo di volte, lo so, ma volevo provare a re-interpretarla ^^ Ovverosia l'ipotesi che Ai non riesca ad ottenere l'antidoto definitivo dell'APTX, costringendo entrambi a rimanere nell'aspetto infantile. Diciamo che l'ispirazione ultima mi è arrivata dall'OAV10, al quale ho dato uno sguardo poco tempo fa :D e che si concentra su questa situazione.
Un ringraziamento enorme ai commentatori, aaaaw!! :') E a chi sta seguendo! E' chiaro che se vi andasse di recensire solo determinate coppie che vi piacciono e non tutte, è stra-lecito ^.^ Grazie ragazzi, alla prossima! ^^ 

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Capitolo 6
*** Celeste come gli angeli - ShuAkemi ***


6. Shuichi e Akemi ~

***





Celeste come gli angeli


- Shuichi... tu credi negli angeli? -

- No, per niente... perché, tu sì? -
Lei sospirò lievemente sarcastica, come se si aspettasse una risposta simile da lui. Mantenne le braccia incrociate sulla ringhiera del balcone sul quale si trovavano, sentendo le sottili sbarre di ferro un po' traballanti sotto il proprio peso. Ma finché lui restava alla sue spalle, si sentiva al sicuro.

- Certo! Io me li immagino come creature bellissime, brillanti, protettive... che ti stanno sempre accanto -
- Con le classiche ali enormi sulla schiena? -
- No, ma che dici? Non necessariamente... avanti Shu, apri un po' la mente! Come sei rigido e schematico -
- Non sono rigido, sono realista... semmai sei tu che navighi troppo con la fantasia -
Lei sorrise ma molto mestamente, un sorriso giusto per fargli piacere. Dopodiché abbassò lo sguardo un po' intimorita e affranta. Shuichi captò quel cambiamento e la guardò per qualche secondo, nel silenzio che si era creato, maledicendosi mentalmente per il proprio carattere sempre così brusco e pessimista.
Mentre l'uomo voltava lo sguardo in avanti, verso il calmo panorama cittadino bagnato dalla luce rosata del tramonto invernale che si stendeva sotto i loro occhi, provò con una frase incerta a risollevare un minimo la situazione.

- Senti, ma... dato che ci credi... tu pensi di avere un angelo custode sempre al tuo fianco? -
- Io credo siano i miei genitori... due angeli -
- Oh, addirittura due... sei fortunata, allora... -
Akemi scosse la testa ridendo, apprezzando il fatto che lui fosse andato contro le sue stesse convinzioni e durezze al solo scopo di darle retta e dirle cose che potessero darle gioia. Per assecondarla, anziché ignorarla. Anche il suo tono era cambiato, passando dall'aggressivo che era inizialmente al dolce e calmo, che non sembrava neanche appartenere a lui. Akai si era sottoposto ad un tale cambio di programma per lei.
Soffici fiocchi di neve avevano iniziato a cadere lentamente sulla città.

- Shu, non sei obbligato a dare corda a tutte le cose strane che dico -
- Non "ti do corda", Akemi... ti ascolto, che è diverso. A me piace stare a sentire qualsiasi cosa tu dica, dalla più assurda alla più seria, non me ne importa nulla. L'importante è che parli -
Lei voltò la testa e lo guardò intensamente per dei secondi interminabili, gli occhi fissati costantemente su di lui e la mente che riusciva solo a distinguere la sua figura. Anche lui la guardava di rimando, sembrava perplesso ma allo stesso tempo felicemente sorpreso.
- Che c'è? Ti sei incantata? -
- Mi piace tantissimo quando parli con quel tono... lo sai? -
- Ed io ci tengo a farti sapere che mi viene fuori solo con te. -
A quel punto lui fu attraversato da quello che sembrava un lieve rossore sulle guance. Era solo l'effetto dell'aria fredda, o l'impenetrabile corazza di Akai stava subendo qualche crepa di troppo? A quella vista Akemi voltò lo sguardo dalla parte opposta e silenziosamente stirò le labbra in un sorriso, emozionata. Non voleva farglielo vedere, perché non sapeva proprio come lui avrebbe potuto reagire. Magari non l'avrebbe presa bene, chi poteva saperlo, non lo conosceva ancora benissimo.
- Ma piuttosto, non hai freddo? Siamo qua sul balcone da un bel po' e sei poco coperta, vuoi la mia sciarpa? - chiese lui con una certa fretta.

Vide che lui era sul punto di togliersela per poterla dare a lei, una calda sciarpa di lana color porpora che, effettivamente, era resa piuttosto invitante da quel freddo polare. Akemi sorrise nuovamente, stavolta in bella vista: aveva notato che lui in realtà si era imbarazzato del tutto e che perciò ogni discorso era buono per fuggire da certi argomenti, anche il rapido cedimento di una meravigliosa e soffice sciarpa. Era un atteggiamento che la faceva intenerire oltre ogni limite, peccato solo che lì con lui, su quel balcone, poteva starci ancora poco tempo. Ragion per cui Akemi non aspettò che lui si levasse la sciarpa dal collo: al contrario gliela afferrò e la tirò verso il basso costringendolo a piegarsi in avanti, portandogli il viso verso il proprio, e quando lui fu abbastanza vicino lo baciò.
Un pacato fiocco di neve si insinuò in quell'istante tra le loro labbra, come se fosse geloso della loro unione e intendesse quantomeno far sentire la propria presenza. Questo pensiero indusse Akemi a sorridere di gusto, mentre sentiva il piccolo fiocco di neve arrendersi e sciogliersi sotto il calore vittorioso di quel bacio.

Dopo alcuni secondi silenziosissimi, quando lei si staccò lentamente, continuando però a tenere saldamente gli estremi della sciarpa di Shuichi nelle mani, prese a fissarlo negli occhi, mentre lui ricambiava con uno sguardo assai spaesato e sorpreso.
- Shuichi, ecco... scusa la frettolosità, farà sparire di certo il romanticismo. Ma il punto è che credo di essermi davvero innamorata di te – gli sussurrò, approfittando di quella vicinanza. Era certa che se anche avesse mosso solo le labbra senza emettere suoni, lui l'avrebbe comunque capita, perché non si trattava di una questione di sensi: era una questione mentale.
Con il coraggio che la caratterizzava da sempre, Akemi rialzò lo sguardo per incatenarlo a quello di lui, il quale ascoltava così attentamente da sembrare una statua.
- Tuttavia ora devo proprio scappare. E stai tranquillo che la sciarpa non mi serve – concluse Akemi, mormorando.

Lei diede ancora uno strattone amichevole alla sciarpa, sorridendo, poi la lasciò andare e si voltò per andarsene.
- Akemi, aspetta -
Lui la afferrò per un braccio, inaspettatamente. La portò verso di sé e le diede un altro bacio, stavolta più lungo e meditato, silenzioso e coinvolto. E fu perciò il turno di lei, per rimanerci di stucco.
- Non andartene – le sussurrò Shuichi.
- Non posso, Shu... lo sai che io... ho una situazione così. C'è gente che mi sta addosso. E' già una fortuna che sia riuscita a passare da te, oggi -
Ma in realtà lei non aveva idea di ciò che era riuscita realmente a fare con lui. Fu questo il pensiero che molto rapidamente gli attraversò la mente, prima di concentrarsi sul seguito della frase di Akemi. Sapeva già come si sarebbe conclusa, perché conosceva l'argomento a cui lei alludeva, e per questo non poté evitare di percepire una fitta al cuore. Preferiva che non se ne andasse.
- Ma ci rivedremo, Shu... non appena sistemerò tutto questo casino... presto, okay? -
Lei aveva ancora la mano stretta nella sua. Bastava quel contatto caldissimo ad attenuare il freddo che si poteva percepire sul resto del corpo.



Lei aveva una situazione così, già. La stessa situazione che l'aveva uccisa.
Cosa poteva fare adesso, se non sentire terribilmente la sua mancanza, lì da solo su quel balcone? Il balcone su cui, qualche giorno prima, era stato in compagnia di Akemi. Quasi incantandosi, guardò il punto in cui si era trovata lei, ma non riusciva ad immaginarla con nitidezza. Era proprio vera l'opinione che le aveva sentito dire su di lui: rigido, schematico, scarso con la fantasia. Il freddo gli pungeva sulla pelle, da quella posizione vedeva ancora lenti e candidi fiocchi di neve cadere sulla distesa di palazzi, mentre fumava una sigaretta con sguardo spento e vacuo. Rabbrividì e si strinse maggiormente la sciarpa attorno al collo, ricordandosi il ruolo che quell'indumento aveva avuto e provando perciò piacere al tatto con essa.
Per meritarsi un risvolto del genere, causato da individui tanto meschini, che cosa poteva aver fatto di male quella ragazza? A parte essere la persona più gentile e audace della Terra? A parte essere riuscita a donare a lui un altro modo di vedere le cose, un'altra strada da far percorrere ai propri pensieri, nuovi pensieri, una strada completamente differente e ben diversa da quella spesso brutale su cui si trascinava da troppi anni per sopravvivere. Una prospettiva più solare e alimentata da buoni sentimenti, ecco cos'era riuscita a regalargli.
In ogni caso, era una domanda che Shuichi non faceva altro che porsi, giorno e notte, senza alcuna sosta. Si appoggiò alla ringhiera di ferro con una mano, strizzando gli occhi addolorato e col respiro che mancava, sentendo qualcosa crollare dentro di sé.

Un angelo custode, diceva lei soltanto pochi giorni prima. Magari era vero. Shuichi aveva già perso diverse persone nella sua vita, ma tra tutte avrebbe preferito pensare fosse Akemi il proprio armonioso angelo.




****************************************************
Questa è una vicenda chiaramente ambientata nel passato di Shuichi, il misterioso periodo in cui lui si frequentava con Akemi, poco prima che lei venisse uccisa dall'organizzazione. Una coppia che ho sempre adorato, nonostante purtroppo si sia visto poco su di loro – tuttavia quel poco è bastato a far capire che coppia seria e delicata fossero :)
Come vi è sembrata? Ne approfitto intanto per ringraziare un sacco chi sta recensendo, siete un tesoro!!! :') E tutti i lettori e chi segue! 
Ciau! ^^ 

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Capitolo 7
*** Cielo grigio - HeiKazu ***


7. Heiji e Kazuha ~

***






Cielo grigio


Fin da quando aveva compreso appieno la situazione di Kudo, molto tempo prima, Heiji aveva capito per certo due cose: in primis che il suo caro amico dell'est non navigava in acque rosee a causa di quell'organizzazione che avrebbe potuto dargli la caccia in qualsiasi momento; e in secondo luogo che prima o poi lui, Heiji Hattori, che ascoltava da Kudo i numerosi racconti riguardanti quell'oscura minaccia, ci sarebbe finito completamente in mezzo. Perché era suo amico, un vero amico, e non l'avrebbe mai abbandonato, tanto meno nel momento del bisogno. Solo non sapeva quando tutto ciò sarebbe accaduto: le telefonate improvvise che gli faceva Kudo l'avevano sempre un po' spaventato e tenuto col fiato sospeso, ogni volta temeva riguardassero un piano d'attacco nei confronti dell'organizzazione, un piano in cui magari pure lui avesse un ruolo preciso. Però non era ancora mai successo, Kudo si limitava soltanto a riferirgli i dettagli e le novità della sua situazione e dei suoi piani, senza mai coinvolgerlo direttamente.
Fino a quel giorno.
Fino a quella mattina di una giornata uggiosa e cupa, dove il cielo coperto di nuvole ingrigiva il pianeta. La giornata in cui, attraverso il telefono, si era sentito rivolgere da Kudo le fantomatiche e tanto immaginate parole: “E' tutto pronto per il piano finale contro gli uomini in nero, questa sarà la volta decisiva. Hattori, per favore... mi vorrai aiutare?”
La giornata in cui anche lui, al pari di Kudo, aveva dovuto prendere una decisione dolorosa. Forse molto più dolorosa, a dire il vero: Kudo in fin dei conti non aveva mai dovuto raccontare nulla a Ran, aveva deciso fin da subito di tenere nascosto tutto - era di certo rattristante doverle mentire in modo costante ma, nonostante la presenza di determinati sentimenti, tra loro due non era ancora nato nulla di pratico e dichiarato che poi era stato demolito. Mentre tra lui e Kazuha, da diversi mesi, qualcosa era nato eccome. Era stato sfogato fuori tutto, tutti i sentimenti provati per anni da entrambi erano confluiti come un fiume in piena che, finalmente, sfocia in un mare di passione. Avevano chiarito e suggellato un patto, una vera storia, una vera relazione. E stavano bene, le loro giornate insieme erano serene. Erano innamorati.
Ed era proprio per questo motivo che lui doveva proteggerla. Allontanarla da quel destino assurdo.
I suoi cupi pensieri vennero interrotti dall'entrata di Kazuha nel bar, un locale in cui Heiji le aveva dato appuntamento per “parlarle di una cosa”. Lei lo raggiunse, si avvicinò a lui e lo baciò sulle labbra, un po' imbarazzata per il ritardo.
- Heiji, scusami se sono arrivata con qualche minuto di ritardo... colpa dei mezzi pubblici. Non arrabbiarti con me, okay? - disse sorridendo, con le guance arrossate.
Lei non sospettava assolutamente nulla. Non immaginava nemmeno cosa stava per succedere.
Heiji sentì un'incrinatura terribile nel proprio petto, che gli provocò una smorfia in viso. Lei lo guardò perplessa e si sedette al tavolo, di fronte a lui, togliendosi il cappotto ma continuando a fissarlo.
- Ehi, amore mio... cosa c'è? -
Quando lei finì di sistemarsi bloccò un cameriere, chiedendogli cortesemente un caffè. Il suo sorriso tuttavia non spariva, nonostante fosse contrassegnato da una sfumatura di preoccupazione.
- Kazuha... io... dovevo parlarti -
- Certo, mi ricordo -
La sua voce era dolce, affabile. Lei allungò una mano per afferrare quella di lui, abbandonata sul tavolo. Gliela strinse e continuò a guardarlo negli occhi, con l'intento di infondergli coraggio.
- Va tutto bene? -
Kazuha... dannazione... no. Tu credi che così mi migliorerai la situazione, e invece... mi sentirò morire il doppio...
Heiji strinse a sua volta quella mano e chiuse gli occhi, traendo un profondo respiro. Poi li riaprì con decisione e la guardò, deciso ad affrontare subito l'argomento e ad evitare i giri di parole.
- Kazuha, sto per farti del male -
- Eh? Cosa? -

- Credo sia meglio se la finiamo qua. Noi due. -
Gli occhi di lei, così espressivi e magnetici, parvero spegnersi per un istante. Quando poi riacquistarono colore con la stessa rapidità con cui l'avevano perduto, erano sbarrati e confusi, in cerca di chiarimenti.
- N... non ho capito -
- Hai capito benissimo. E' meglio che... che ognuno vada per la sua strada. -
Pronunciare quelle parole gli costò qualche anno di vita, ne fu certo, altrimenti non avrebbe percepito quella fatica indescrivibile, e non avrebbe esaurito tutto il fiato dopo una semplice frase. Lei iniziò a balbettare qualcosa, allentando di riflesso la presa sulla mano di lui. Una mano che iniziava a scottare terribilmente, a contatto con la sua.
- Heiji... mi stai lasciando? -
- Sì. -
Lei emise un sommesso gemito di dolore e gli lasciò la mano, mettendosi diritta sulla sedia e tentando di recuperare il respiro, divenuto malfermo. Si mise a fissare con insistenza il tavolo, esattamente come lui. Quando riparlò, la sua voce era poco più che un mormorio.

- Ma perché...? -
- Ci ho pensato un po', e ho deciso così -
- In... in cosa ho sbagliato? -
I suoi occhi iniziarono ad arrossarsi, mentre lei rialzava lentamente lo sguardo su di lui. Uno sguardo afflitto e privato della lucentezza di cui era stato dotato appena pochi minuti prima, un'immagine da cui Heiji si sentì devastare come fosse divorato da un incendio di fiamme nere.
- Mi... mi sembrava che... andasse tutto così bene... stavamo così bene... -
- Ed era così, te lo garantisco, Kazuha. -
- Certo, un po' di alti e bassi... litighiamo spesso, io ho il mio carattere... ma in fondo... a chi non succede...? -
- Non è questo, non sei tu. E' solo che... -
…solo che ora, insieme ad un amico, devo lottare contro un nemico vero e troppo pericoloso perché tu possa stare ancora al mio fianco e rischiare di essere relazionata a me. O peggio, se tu arrivassi a sospettare qualcosa potresti avere intenzione di immischiarti, e non posso permetterlo. E se mi succedesse qualcosa? Se venissi ucciso? Il dolore ti perseguiterebbe. Tutto l'amore che provi per me non troverebbe più via di sbocco, non riuscirebbe a posarsi su nessun altro se non sul mio ricordo. Invece io ti indurrò ad odiarmi, così più avanti non soffrirai, qualunque cosa accada. Te ne potrai fare una ragione alla svelta e voltare pagina. Perciò odiami, Kazuha. Da adesso.
- …solo che c'è un'altra -
- Un'altra cosa? -
- Un'altra ragazza. Di cui mi sono innamorato -
Lei riabbassò lo sguardo di colpo, come se sulla sua testa fosse piombato un masso pesante caduto da una montagna. La vide gestire maldestramente gli improvvisi sussulti al petto, la vide portarsi una mano alla bocca per bloccare ogni possibile parola inconsulta, vide le sue spalle tremare. Heiji era certo che quello poteva essere uno dei motivi che più avrebbe minato la sensibilità della ragazza. Kazuha strizzò gli occhi e poi li rilassò, preferendo però tenerli ancora chiusi.
Forse doveva metabolizzare tutto ciò che stava accadendo. Nel frattempo arrivò il cameriere che, con sguardo alquanto perplesso, posò discretamente il caffè della ragazza di fronte a lei, prima di andarsene in silenzio.
Lei a quel punto riaprì gli occhi, rimanendo zitta. Con un gesto lieve portò la mano alla tazza fumante, spingendola lentamente verso di lui.
- Bevilo tu. Io non riesco, mi viene da vomitare -
- Kazuha... -
- Lurido bastardo schifoso -
- Lo so, me lo merito -
- Perché l'hai fatto? -
- Non l'ho fatto. E' successo e basta -
- Chi è? Lei chi è? -
- Una che non conosci. Una detective -
- Oh, che bello. Magnifico. Avete una passione in comune, sei contento? -
- Onestamente sì -
Lei emise un sospiro tremante. Giusto con un minimo preavviso, le lacrime iniziarono a scorrerle sulle guance a fiotti, accompagnate dai singhiozzi.
- Sei contento... che... che non dovrai più avere niente a che fare... con una stupida che non capisce nulla di casi? -
- Non voglio che tu pensi questo, non mi interessa... -
- Heiji, io... io credevo che... io ci credevo davvero... -
Lei iniziò a singhiozzare e piangere, seppur in modo discreto e senza attirare troppo l'attenzione. Si portò le mani al viso nascondendosi gli occhi, tentando di sfogare un minimo il tumulto che sentiva interiormente. Heiji nel frattempo spostò lo sguardo al panorama fuori dalla finestra, il loro tavolo era proprio di fianco ad essa. Vide soltanto il cielo in maniera netta e totale, col suo grigiore e la sua cupezza. Ma era molto meglio che guardare Kazuha, la sua amata Kazuha ridotta in uno stato pietoso provocato da lui. Era convinto che se si fosse messo sul serio a fissarla, avrebbe cambiato idea. Pur di non farla stare così male avrebbe rimangiato tutti i suoi buoni propositi protettivi.
Dammi una sberla, Kazuha, o urlami contro... fai qualcosa che possa farmi sentire meglio...
- Heiji... dimmi cosa devo fare e come vuoi che io sia... cambierò, posso farlo, farò il possibile per diventare il tipo di ragazza che preferisci, per continuare a piacerti... -
Ma cosa diavolo stai dicendo, Kazuha? Come ti può venire in mente?
- Heiji... Heiji, io ti amo... e non voglio questo... -
- Kazuha, no... -
- Non puoi farmi questo davvero... dimmi che è uno scherzo... -
- Ormai ho deciso -
- Resta con me, ti scongiuro! -
Al ragazzo di Osaka non piaceva l'idea di essere arrivato a farla supplicare. Proprio per niente, e infatti si sentì immediatamente un verme. Lei allungò le braccia per afferrare quelle di lui, posate sul tavolino, continuando a piangere sommessamente. Il suo corpo sussultava di continuo e i suoi gemiti erano udibili, e lui avrebbe preferito un colpo di pistola in testa piuttosto che quella visione angosciante.
Kazuha... tesoro mio... io spero tanto che... che tutto si risolva per il meglio, un giorno. E vedrai... vedrai che succederà.
Lei strinse più forte le sue braccia e lui, per tutta risposta, si alzò dal tavolo tentando di sottrarsi a quella presa.
- No! Non andartene! Non farmi questo, resta! -
- Adesso devo proprio andare, Kazuha. Scusami -
- HEIJI! -
Lui fece il giro del tavolo e si posizionò dietro di lei, abbassandosi e abbracciandola per l'ultima volta. L'abbracciò forte e aspirò il suo profumo, i loro visi in pieno di contatto. Lei rimase bloccata, stupita e in silenzio, senza capire.
- Scusami. Per tutto. -
- Heiji... per cosa... per cosa mi stai lasciando davvero? -
Lo so, questo non è il tipo di abbraccio fatto da qualcuno si è preso una cotta per un'altra. Ma da qualcuno che ti ama con tutto se stesso. E mi sa che tu l'hai capito. Cerca però di non nutrire questi dubbi...
Lui sciolse il contatto e si raddrizzò, voltando poi le spalle e dirigendosi verso l'uscita del locale. Dietro di sé immaginò che Kazuha avrebbe iniziato ad urlare il suo nome per fermarlo, ma non accadde. Pensò quindi che fosse rimasta ferma su quella sedia, ancora incredula e incapace momentaneamente di reagire in modo opportuno, a fissare qualcosa di fronte a sé. Non poteva saperlo con certezza, perché non intendeva più voltarsi.
Appena il tempo di varcare la soglia del locale che anche le sue guance erano rigate di lacrime amare, il cuore si sgretolava. Si diresse in fretta verso casa, pronto ad affrontare i momenti restanti del giorno più brutto della sua vita.
Quando tutto questo finirà, se finirà bene... spero sarai in grado di capirmi e perdonarmi. Fino ad allora continua ad essere il sole che sei sempre stata, ad illuminare ogni cosa come hai fatto con me. Il cielo plumbeo non fa per te.




********************************************
Una delle coppie sempreverdi :) Ed anche questo tipo di vicenda (sì, ok, sono pallosa ;D) immagino sia stata trattata più volte, ovvero l'ipotesi in cui Heiji sia costretto a interrompere i legami con Kazuha nel momento in cui si trovi coinvolto attivamente nella questione dell'organizzazione al fianco di Kudo, per non metterla in rischio. Qui l'ho estremizzata un po' immaginando che stiano già insieme, con un Heiji sognatore che in fondo spera di non dover mai sentire la seria richiesta dell'amico dell'est.
Aspettando la prossima (che magari sarà un po' più allegra, vista la linea di tristeeezza percorsa dalle ultime tre :P ) ringrazio enormemente i recensori, non so che dire!! :') E anche tutti i lettori, grazie ragazzi! ^__^ 

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Capitolo 8
*** 7 colori dopo la pioggia - CoAyumi ***


8. Conan e Ayumi ~ 

[Avvertenze: TONNO HIGH LEVEL]

***





7 colori dopo la pioggia


- Etciù!! -
- Oh, no, Conan! Non mi dire che ti stai ammalando anche tu! -
Ayumi lo guardò esplodendo in tutta la sua apprensione, mentre proseguivano la loro camminata mattutina verso la scuola.
- Ehm... no, spero di no... -
- Non voglio rimanere da sola a fare il tragitto fino alla scuola... -
- No, non rimani da sola. E anche se mi ammalassi, nel frattempo tornerebbero gli altri a farti compagnia -
- Come fai a saperlo?! Magari non si riprenderanno così in fretta come pensi!! -

- Ma sì, invece -
- Ti dico di no, è ancora troppo presto! Resisti ancora qualche giorno, ti prego!! -
- Uff... -
Accidenti, che pesantezza quella bambina certe volte. Era un tesoro, un esserino di incredibile dolcezza, però la sua vocina squillante e agitata e mitragliata nei timpani di prima mattina non era esattamente ciò che si richiedeva per un momento di benessere. Tuttavia Conan le sorrise il più cordialmente possibile, cercando di comprenderla: tutti gli altri ragazzini – Genta, Mitsuhiko e persino Ai – erano a casa influenzati, a causa della brutta stagione che stava rendendo così fredda anche quella mattina e che lo faceva starnutire. Quel giorno c'era soltanto lui a farle compagnia nel tragitto, e di certo Ayumi un po' temeva l'evenienza di dover stare da sola se anche lui si fosse raffreddato. Ogni suo starnuto era una mina, per lei.
- Ehi, Conan, vuoi un fazzoletto? -
- Sì, grazie... -
Lei divenne leggermente rossa sulle guance e, con un sorrisetto timido, cercò nel suo zainetto un pacchetto di fazzoletti che poi gli porse. Mantenendo quell'atteggiamento e abbassando un po' lo sguardo, si fece coraggio per le parole successive.
- Sai, Conan... un po' sono felice che gli altri siano rimasti a casa -
- Beh, ci credo. Non è il massimo se si presentano e ti attaccano i germi -
- Ma no, non è solo per quello! E' che... è che così, almeno... come posso dire... -
Le sue guance si imporporarono ulteriormente, il suo sorrisetto divenne più raggiante.
- Così almeno stiamo da soli. Camminiamo solo io e te, fianco a fianco. Ecco... sì...! -
Lui la vide voltare il viso altrove, dalla parte opposta, forse per nascondere l'imbarazzo. Conan sorrise: gli faceva una gran tenerezza, specie quando mostrava quel genere di atteggiamento da bimba infatuata.
E decise comunque di farla contenta.
- Hai ragione, non ci avevo pensato. E' bello stare un po' da soli, chiacchierare in due -
- Sì! V-vero? -
- Già! Spero di non ammalarmi, così ti posso accompagnare a scuola anche nei prossimi giorni -
- Oh, g... grazie... -
La piccola Ayumi, sentendosi sciogliere dentro e incoraggiata da tali parole, si avvicinò d'istinto a lui per cingergli un braccio con le proprie manine. Continuarono a camminare così per un po', in silenzio. Conan non aveva nessun problema, anzi, pensò a quanto quella ragazzina, oltre che timida e dolce, fosse anche coraggiosa. Farsi avanti in quel modo era una caratteristica che in molti non possedevano.
- Ehi, Conan... q-quando saremo grandi... cosa faremo? -
- Andremo a scuola? -
- Sì, beh... a parte quello? -
- Mmm... faremo qualche sport? -
- Okay, sì... e p-poi? -
- Ehm... boh? -
Ayumi sospirò, chiudendo gli occhi rassegnata. Quel ragazzino era proprio un po' stupido, ogni tanto.
- I-intendo noi due! -
- Ah, noi due! Ahah, beh! Ci iscriveremo entrambi al club di investigazione, o lo fonderemo -
La bambina si sentì sempre più spiazzata dalla sua ottusità, e lo guardò un po' indispettita.
- Non capisci niente, Conan – le uscì in modo automatico.
- Cosa?? -
- Lo sai che per ringraziarti per avermi accompagnato stamattina, mia mamma mi ha aiutato a prepararti un pranzo carino? -
- Oh, ma che gentile, non dovevi -
- Ma non è solo per quello che l'ho fatto! -
Lei assunse di nuovo una tinta paonazza in volto, guardandolo decisa.
- Immagino tu l'abbia fatto per esercitarti in cucina -
- No!! -
- Allora forse perché hai visto che i miei pranzi sono sempre abbastanza scabri -
- No! -
- Okay, alt, ricapitoliamo... l'hai fatto per un altro motivo ben preciso? -
- Sì! - disse lei imbarazzata, quasi urlando.
Lui la guardò e sorrise, stringendosi nelle spalle per farle capire che non lo sapeva.
- P... perché mi piaci... e vorrei che un giorno... -
Lei deglutì, dalla sua espressione emergeva un misto di euforia e disagio, entrambi allo stesso livello.
- ...tu mi chiedessi di uscire -
Okay, l'aveva detto. Ayumi sospirò, col batticuore a mille e l'improvviso caldo nonostante l'aria fredda.
Conan evitò di guardarla a lungo, rimanendo però stupefatto.
Diamine, ma quanto sono precoci questi ragazzini? Dev'essere la generazione. Tra lei e Mitsuhiko non si sa quale sia il più impaziente... chissà se anche Haibara si sente rivolgere certe parole da lui? Per me si guardano un po' troppi film romantici che gli mandano in pappa il cervellino.
- Beh, Ayumi... io credo... che sia un po' presto -
- S-sì, lo so... per questo parlo al futuro -
- Ma in futuro può succedere qualunque cosa. Incontrerai tante altre persone, magari ti interesserà qualcun altro -
- N-no, ti assicuro di no! -
- E non è detto che le nostre strade saranno ancora incrociate, ci hai pensato? -
Lei sbarrò gli occhi e si bloccò sul posto, senza parole. Si prese un paio di secondi per rielaborare quella frase, poi continuò la sua camminata accanto a lui, il quale si sentì stringere maggiormente il braccio dalle sue manine ancora appigliate alla sua giacca.
- Perché dici questo, Conan...? - sussurrò lei, in ansia.
A sentirla così gli si strinse il cuore. Non poteva certo dirle che prima o poi avrebbero dovuto dirsi addio, nel momento in cui lui sarebbe tornato ad essere Shinichi.
- Perché... credo davvero che possa succedere qualunque cosa -
- Tu... non hai intenzione di tornare in America dai tuoi genitori, vero?! Ormai resterai qui, giusto? Crescerai qui insieme a noi, giusto?! -
Lei alzò la voce arrossendo ancora, stavolta con un leggero velo di lacrime a coprirle gli occhi. Il detective non gradì molto quella visione.
Poverina. Inizio a pensare che forse, per lei, sarà parecchio doloroso. Non ci avevo mai dato tanto peso, però...
- Ayumi... io... penso di sì -
- Non andartene, ti prego. Dobbiamo fare ancora tante cose insieme! Resta qui con noi i prossimi anni, resta... con me -
Le tremarono appena le labbra, gli occhioni giganti da cerbiatto che lo fissavano tristi. Lui sospirò, indeciso se farle la brutta sorpresa più avanti o se iniziare in quel momento a mettere i primi paletti.
- Non lo so. Non dipende da me, sai... tuttavia... speriamo vada tutto per il meglio. Okay? -
Ayumi, chiaramente non soddisfatta da quella risposta evasiva, annuì incerta e abbassò mestamente lo sguardo. Il silenzio piombò tra loro, interrotto solo dal rumore del vento. Le nuvole si allontanavano, venendo trasportate in un'altra zona e lasciando respiro al cielo sopra di loro, che andava aprendosi. Il detective alzò lo sguardo e, meravigliato, pensò di trasmettere la propria emozione anche alla piccola, che in quel momento era piuttosto afflitta.
- Ehi, Ayumi, guarda un po'... l'arcobaleno! -
Lei alzò gli occhi verso l'alto e lo vide, che si stagliava coloratissimo e libero da ostacoli. Era un arco completo disegnato sopra i palazzi, con tanti colori a formarlo. Lei sorrise allegra e di cuore, quel tipo di spettacolo era proprio ciò che da sempre la elettrizzava. Conan fu lieto di vederla così, sapendo che probabilmente non era bastata quella visione a farle dimenticare la cupa conversazione di poco prima, ma che di certo era servita a sviarla per un po'.  



****************************
Ecco qui una delle coppiette più inusuali, la cui controparte femminile mi farà sempre una gran pena D: Il suo ignorare la situazione intera non credo porterà a risvolti piacevoli... quindi a mio parere questo è ciò che potrebbe pensare il protagonista, messo alle strette da alcune dichiarazioni inaspettate. Esponendo peraltro la sua incapacità tonnosa, messa qui in luce e smascherata da una mocciosetta :P 
Come sempre, lovvo all'estremo tutti i recensori!! <3 Grazie! Questa è una shot tranquilla in attesa delle prossime, spero vi sia piaciuta! Alla prossima! ^-^ 


 

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Capitolo 9
*** Carnagione marrone scuro - AmuroRan ***


9. Amuro e Ran ~

***




Carnagione marrone scuro


- Fossi in te, Ran, un pensierino ce lo farei -
- Piantala, Sonoko!! Faccelo tu il pensiero, se ti piace tanto – le rispose Ran contrariata, rossa in volto.
- Io?? Io sono già sistemata! E Amuro di certo non calcola me nel modo in cui sta calcolando te -
- Non sta calcolando un bel niente... sono solo le tue fantasie perverse, come al solito -
- Sì, sì... guarda come sei imbarazzata, ahahah!! Insomma, perché no? E' un ragazzo carino... lavora praticamente sotto casa tua... ti dà qualche attenzione... non come quell'altro che sta sempre in giro per il mondo e non si sa mai che fine stia facendo! -

- Ma saranno affari miei, no? - le disse Ran con tono implorante, sempre più messa alle strette.
- Giusto, hai ragione. Beh... -
La conversazione tra le due ragazze fu interrotta dal bussare sulla porta dell'agenzia.
- Sì? Avanti – disse Ran a voce alta, rivolta alla porta.
Questa si aprì, rivelando la figura alta di un giovane ragazzo castano e dalla carnagione scura. Egli entrò nel salotto dell'agenzia, chiudendosi la porta alle spalle.
- Ciao, Ran. Scusa se sono passato solo adesso, hai ancora bisogno per quel problema al computer? -
- C-ciao Amuro! Sì... in realtà sì -
Dannazione, mi ero completamente scordata di avergli chiesto di controllarmi il pc! Perché doveva venire proprio adesso? Con Sonoko presente, pronta a gettare benzina sul fuoco...
E infatti, la tanto maliziosa quando giocosa secondogenita dei Suzuki ridacchiò sotto i baffi con molto, molto gusto. I suoi occhi diventarono due piccoli archetti goduriosi, gli angoli delle labbra stirati così tanto verso l'alto da sembrare parte di una maschera.
Amuro si incamminò verso loro due, in tutta tranquillità, infilandosi la mano destra nella tasca posteriore dei jeans grigi.
- So che sono passati alcuni giorni da quando me l'hai chiesto, ma ho avuto tempo soltanto ora. Non ti disturbo? Se preferisci posso tornare in un altro momento, oggi sono libero -
- No, non la disturbi! Ma vi disturbo io sicuramente, quindi scappo – proclamò Sonoko con tono alto e su di giri, voltandosi verso Ran per rivolgerle un sorriso colmo di intesa. Intesa che, peraltro, nutriva soltanto Sonoko.
Ran le restituì invece uno sguardo torvo e minaccioso, che prometteva cose molto cattive per il prossimo futuro. Ma Sonoko parve infischiarsene, troppo contagiata da quella succulenta situazione. La castana si avvicinò alla sua amica dell'agenzia, sussurrandole una frase velocissima nell'orecchio prima di levare le tende.
- E' troppo figo! Io i miei consigli te li ho dati, okay? -
Dopodiché le fece l'occhiolino e si avviò verso l'uscita, posando una mano sulla spalla di Amuro e salutandolo allegramente. Quando lei uscì, lasciandoli da soli, Amuro indossava un'espressione piuttosto perplessa.
- E' un po' strana la tua amica -
- Eh? I-in che senso? -
- Ha sempre questo atteggiamento frivolo? -
- Sì... molto spesso, almeno -
- Sembra una farfallina alla ricerca continua di emozioni nuove -
- Ahah! Direi che come metafora è piuttosto azzeccata -
- E' curioso che siate così amiche, ma è anche molto bello. Voglio dire... nonostante i caratteri così diversi -
- Che vuoi dire? -
- Che tu sei una persona più posata, seria. Con la testa sulla spalle, visibilmente affidabile e sincera. Si capisce subito che su una come te si può contare -
- G... grazie... -
- Sono rare le ragazze così. -
L'ultima frase, detta in tono più basso e quasi sussurrato, provocò a Ran un principio di pelle d'oca. Lei si schiarì la gola e con la mano si portò un leggero ciuffo di capelli dietro l'orecchio, voltandosi alla ricerca di un appiglio pratico che potesse smorzare l'improvviso imbarazzo.
- Dunque, a-allora... il computer -
- Sì, giusto, il computer -
- Visto che sei venuto per quello -
- Appositamente per quello -
Ran si avviò verso il computer portatile abbandonato sulla scrivania del padre, aprendone lo schermo. Con la coda dell'occhio vide Amuro accostarsi a lei, alto e robusto, con lo sguardo puntato sullo schermo del pc. Lei deglutì appena, cercando di pensare solo al problema tecnico che dovevano affrontare.
- Qual è il problema? -
- Vedi, ora lo accendo. Ecco. Però invece di mostrare il desktop, mi fa apparire una serie di codici che non comprendo, e qualsiasi cosa io schiacci non va avanti. Che diavolo sono? -
- Sì, è un intoppo di avvio che ho riscontrato molto spesso. Posso? -
Lui si chinò in avanti, portando le braccia verso la tastiera. Ran si fece un po' indietro, per evitare di toccarlo e ostacolarlo. Notò subito i muscoli di quelle braccia, resi evidenti dalla maglia nera piuttosto aderente che Amuro stava indossando, una maglia che donava lo stesso destino anche ai suoi pettorali. Dai quali era inaspettatamente difficile distogliere lo sguardo.
La ragazza sbatté le palpebre più volte, schiarendosi nuovamente la gola. Aveva un po' di sete.
- Tutto bene, Ran? -
- Sì! Vado a prendere da bere – disse, forse a voce un po' più alta del normale.
Si avviò frettolosamente verso la cucina, afferrò due bicchieri di vetro e li posò rumorosamente sul tavolo, sospirando a causa dell'agitazione.
Questa è tutta colpa di Sonoko! Non ho mai avuto quel genere di pensieri sul ragazzo che ora sta nel mio salotto, e non mi farei prendere da certe emozioni se non ci fosse lei a rincarare la dose con tante stupidaggini. Coraggio, ora torna di là tranquilla, come sempre.
Riempì i bicchieri con tè freddo e tornò da dov'era venuta, sorridendo cordialmente ad Amuro, lievemente irrigidita. Lui rialzò lo sguardo dallo schermo per puntarlo su di lei, gli occhi illuminati di gratitudine.
- Un po' di tè freddo è quel che ci vuole! Grazie -
- Sì. Prego. -
- Mi sembri un po' pensierosa, Ran... sbaglio? -
- Sì. Sbagli. -
- Inizia a fare caldo qua dentro, eh? -
- C-come? -
Lui bevve mezzo bicchiere di tè con una certa foga, sospirando sollevato subito dopo. La guardò, sorridente ma anche vagamente perplesso.
- Intendo per via dell'estate che arriva – specificò.
- Ah, sì! Sì, certo, molto caldo, per questo ho optato per una bevanda fredda -
- Hai fatto bene. Soffro molto il caldo, non so se sia dovuto al mio miscuglio di origini, provenienti anche dal sud -
- Sì, può essere... -
Lui sbuffò, afferrandosi il bordo della maglia nera e portandolo verso l'alto per togliersela, senza preavviso. Rimase solo con indosso una canottiera bianca, su cui faceva capolino la collana argentata che portava al collo, ora resa visibile.
Ran si accorse di aver trattenuto il respiro per tutto il tempo, con occhi sbarrati. La sua pelle scura risaltava molto rispetto al bianco della canottiera, così come, chiaramente, i muscoli che aveva già notato prima, e di cui ora poteva osservarne anche la struttura. Lui si passò una mano tra i capelli, finendo poi di bere il suo tè e sentendosi finalmente a posto con se stesso.
Okay, Ran. Richiamati al contegno. Basta guardarlo, concentrati su altro. Ti odio, Sonoko, ti odio, è colpa tua che mi metti idee cretine in testa.
- Ehi, per te è un problema se sto così? -
- EH?! N-no! No, fai pure! Eheheh! -
Smettila di ridere, scema!
- Grazie, davvero! Non riuscivo a concentrarmi con tutti questi strati addosso. Ho scelto una maglia un po' pesante per la giornata -
- F-figurati, fai con comodo... e, dunque... come va il lavoro al pc? -
- Benissimo, non manca molto. Si tratta di sbloccare un paio di cose, e già che ci sono ti installo un programma di sicurezza che ti eviterà questi problemi in futuro. Ho il tuo permesso? -
- Sì sì. Ce l'hai. -
- Ottimo... -
Lui le sorrise, affabile. Anzi, molto affabile. Anzi, molto diretto. Un sorriso attraente in piena regola.
Lei arrossì di colpo e distolse lo sguardo, cercando qualcos'altro da fare. Qualsiasi cosa andava bene, qualsiasi.
- Non vuoi venire qui a vedere cosa combino sul tuo computer? -
- Sì, va bene... - mormorò, maledicendosi mentalmente subito dopo.
Si accostò a lui, in evidente disagio. Gli sfiorò anche il braccio per sbaglio, sentendone il calore. A quel punto lui parlò, la voce poco più di un sussurro, riuscendo però a farsi sentire grazie alla vicinanza.
- Ehi, volevo chiederti scusa per l'altra sera, Ran... -
- R-riguardo a cosa? -
- Quando in macchina ti ho tirata verso di me tenendoti premuta al mio corpo, per far sbattere l'auto dalla parte del passeggero.* L'ho fatto solo per la situazione d'emergenza in cui ci trovavamo, e non volevo certo tu ti ferissi... -
- Ma parli sul serio?? Hai fatto un atto coraggioso al solo scopo di risolvere una situazione pericolosa, riuscendo anche a salvaguardarmi! Perché mai dovresti scusarti? -
Lui smise per un attimo di digitare sulla tastiera, posando i palmi delle mani sulla scrivania e rimanendo leggermente chino in avanti. Lei lo guardò nel suo sguardo assorto, con aria interrogativa. Amuro fissava un punto di fronte a sé, pensando a qualcosa con cui ribattere.
- Non lo so, magari... magari avresti potuto non gradire il gesto. Un ragazzo conosciuto da poco che all'improvviso ti prende e ti trattiene... - lui ridacchiò, forse lievemente imbarazzato, facendola sorridere.
- No, non ti fare di questi problemi! L'hai fatto perché... perché lo richiedeva la circostanza -
- Già. Ma ti confesso che da quel momento ho iniziato a pensare che... -
A quel punto, rimanendo chino in quella posizione, lui voltò lentamente lo sguardo verso di lei, con l'ombra di un sorriso. Si guardarono a quella distanza ravvicinata, mentre Ran tornava nuovamente in apnea inconsapevole. Gli occhi di lui assunsero profondità e intensità, mentre si insinuavano nella mente di lei.
- ...che non sarebbe male se accadesse ancora, senza una circostanza che lo richieda necessariamente -
Lei deglutì, il batticuore improvvisamente accelerato e le mani gelide. Oh, no. Oh, no, allarme rosso, rossissimo.
Amuro continuò a sondarla con quello sguardo, senza l'intenzione di smettere. Il suo sorriso era indecifrabile, ma portatore di un chiaro obiettivo. Quello di imprimersi nella sua testa. Forse lui stava solo aspettando una reazione, una risposta, e finché non sarebbe arrivata avrebbe continuato a fissarla in quel modo disarmante.
Lui alzò una mano e, pacatamente, la posò sulla schiena di lei. La mosse appena in più direzioni, Ran sentiva il movimento silenzioso e caloroso sulla propria pelle. E comunque certo che Amuro aveva caldo, se emetteva tutto quel calore. Lei arrossì senza tregua, in preda ad un imbarazzo che la tramutò in pietra.
Mi serve un aiuto. Fatico a muovermi. Credo di avere il cervello in tilt, non so cosa fare! Come si evolverà questa situazione se rimango così? Aiuto, un aiuto!
- Ran-neechan, sono a casa! -
Il suono di quelle parole e di quella vocina le fece esplodere il cuore di sollievo. Dietro di sé sentirono la porta aprirsi, permettendo a Conan di fare capolino nella sala col suo solito sorrisetto ingenuo. Il quale si spense all'istante, non appena apprese la natura della scena che gli si poneva davanti.
Cosa. Diavolo. Sta facendo. QUELLO. - Pensò il detective, stizzito appieno nell'anima da quell'incresciosa visione.
Ran e Amuro si voltarono nella sua direzione, la prima con sguardo sollevato e implorante, il secondo con espressione del tutto neutra e sorridente. Lentamente tolse la mano dalla schiena della ragazza, in tutta calma, e si girò con tutto il corpo verso il ragazzino.
- Ehi, ciao Conan! Tutto bene? Mi sembri un po'... cupo – gli disse Amuro, con tono scherzoso.
- Può essere. Mi sarò svegliato col piede sbagliato. - gli rispose il ragazzino con tono di tenebra.
Doveva darsi una calmata, o sarebbe stato troppo sospetto. Venne colto da una gran voglia di saltargli al collo, ma si placò forzatamente.
- Oh, eccoti, che bello! Fatti dare una mano con quello zaino pesante – disse Ran, avvicinandosi frettolosamente a lui per dargli una carezza agitata sulla testa.
Nel frattempo Conan non staccava gli occhi da Amuro, il quale gli stava restituendo uno sguardo alquanto divertito. Ma cos'aveva tanto da ridere? E poi che diamine ci faceva in canottiera, quel bell'imbusto?
- Brrrr, che freddo! Non è il caso di vestirsi? - propose Conan in tono ironico e insinuante, sempre guardandolo.
Amuro ridacchiò, afferrando la propria maglia nera tolta poco prima e afferrando anche il concetto.
- Hai proprio ragione! Il tè freddo che Ran mi ha gentilmente offerto... sai, mi ha scosso dentro, mi ha fatto venire i brividi -
Lo disse in modo ambiguo e vibrante, guadagnandosi lo sguardo più torvo del detective e quello più imbarazzato di Ran.
- Quindi sì, ho un po' freddino anche io, mi rivestirò -
- Bene. - rispose secco il detective.
- Ran, qui al computer è tutto a posto, ti ho installato anche il programma di cui ti parlavo. Per qualsiasi altro problema... -
Si incamminò verso di loro, mentre si infilava la maglia.
- ...spero non esiterai a contattarmi. Sai dove trovarmi, a un passo da casa tua -
- S... sì... sì, certo, anzi! Ti ringrazio molto per oggi. Troverò un modo per sdebitarmi -
- Certo, pensaci su. Ci sono sicuramente modi più belli di altri... -
Lei arrossì nuovamente, mentre Conan percepiva la propria tempia entrare in fase implosiva. Prima o poi l'avrebbe strozzato malamente. Amuro continuò a ridacchiare sarcastico, dirigendosi all'uscita.
- Come ad esempio qualche dvd da prestarmi, mi piace molto il cinema. Ahah! Ciao, buon proseguimento! -
E se ne andò, smontando quell'aria tesa e ambigua che aveva creato poco prima tra loro.





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*Amuro qui si riferisce all'episodio in cui vanno tutti all'inseguimento della donna che ha rapito Conan, perciò Amuro, nel tentativo di bloccare l'auto di questa nemica fa una manovra di guida molto pericolosa che sfascia mezza macchina, tenendo quindi salda Ran addosso a sé per evitare che lei si ferisca.

Dunque, come vedete non succede nulla di disastroso tra i due protagonisti di questa shot :P Un po' perché interrotti da chi di dovere, un po' perché Ran è molto fedele... ma ciò non toglie che Amuro se le merita proprio certe attenzioni :Q___ Bwahaha! Non è che avreste voluto una Ran un po' più intrepida? Come la pensate? Essendo che questa "specie" di coppia viene sperimentata pochissimo e provo giusto ora a farlo volevo un'opinione legata a questo fatto, anche se doveste commentare questa unica shot, no problem :) Anche per capire quanto realmente possa incontrare assensi/dissensi! Io non ce li vedo proprio come tipologia di coppia, ma qualche cacchiatina stupida tra i due ci starebbe :P 
Intanto voglio ringraziare tanto chi sta già recensendo, non so che dire, siete meravigliosi!!! <3 E tutti i lettori! 

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Capitolo 10
*** Zucca arancione - VermCalv ***


10. Vermouth e Calvados ~

***






Zucca arancione



Ma a cosa diavolo sto pensando?
Credo davvero di riuscire ad ottenere qualcosa da lei? O anche solo a sperarlo?
Credo sul serio che dandole tutta l'attenzione che vuole, che scortandola dappertutto e stando alle sue regole possa un giorno guadagnarne qualcosa?
No, levatelo dalla testa, imbecille. Lei è troppo per te. E' troppo in là.

- Calvados? Mi stai ascoltando? -
- Sì, Vermouth. Ti ho sentita -
- Non mi sembrava, sai? Ripetimi il piano che ti ho illustrato -
- Ecco... allora... - rielaborò lui, maldestro e a disagio.
- Come immaginavo. Cosa ti frulla nella testa quando ti parlo? -
Mi frulla la tua immagine, ecco cosa. Il tuo viso, la tua espressione e i tuoi occhi. Il tuo corpo. Mi frulla tutto di te, nella testa. Sia quando mi parli, sia quando mi guardi... e anche quando non sei presente. Continuamente.
- Perdonami, in realtà sono un po' preoccupato. Tutto qui. Non sono certo che funzionerà – rispose lui sottotono, distratto.
- Beh, se decidi di ignorarmi proprio mentre ti parlo dei momenti clue del piano, è certo che non funzionerà... -
- Non è solo questo. Mi sembra un po' troppo azzardato ciò che vuoi fare durante la notte di Halloween. L'FBI non se ne starà con le mani in mano, ci accerchieranno -
- Non mi dire che hai paura? - gli chiese Vermouth con sguardo malizioso e provocatorio, sorseggiando del whisky con ghiaccio dal proprio bicchiere.
- No. Almeno, non per me. Ho paura per te -
A quell'affermazione lei rimase immobile, il bicchiere ancora accostato alla bocca, servendosi di un'occhiata penetrante per guardarlo fisso negli occhi.
Ecco. Ecco, pezzo di deficiente. Ma stai zitto una buona volta nella tua vita, no? Ora se ne accorgerà, dannazione. E' furba, e questa frase le darà sospetti. Si accorgerà che sei perso di lei.
- Paura per me? Non mi credi in grado di compiere una missione simile? -
- Non intendo dire questo, assolutamente. Dico solo che vorrei ci pensassi un po' di più senza buttarti a capofitto, perché non è una missione da nulla... vorrei che considerassi molti più aspetti... -
- Ma li considero. Sono settimane che preparo questo piano, settimane che assumo identità altrui per spianarmi la strada. Quindi cosa c'è che non va? -
- Niente... niente, perdonami. Sto farfugliando cose a caso -
- Calvados. Se credi di non essere pronto per uno scontro del genere con l'FBI, ti conviene dirmelo subito che cambio partner -
- No! No, cioè... voglio dire... -
Accidenti. Se continuo così non solo la insospettirò, ma la invoglierò a rifiutarmi anche come partner professionale. Dal momento che non ho speranze di essere un altro tipo di partner per lei... almeno questo ruolo vorrei tenermelo stretto.
- … sì? Cos'è che vuoi dire? Inizio a stufarmi, darling. -
- V-voglio dire... non intendo ritirarmi da questo incarico. Ti accompagnerò al porto la notte di Halloween, ti coprirò le spalle e terrò sotto tiro gli agenti nemici -
- Era questo che volevo sentirti dire – gli disse lei con un sorriso compiaciuto, mentre si alzava dalla sedia per andare a prendere qualcosa dalla sua borsa, lasciata all'ingresso dell'appartamento. Ora che era girata, lui ne approfittò per fissarla nel suo portamento e nei suoi movimenti. E sospirò fortemente.
Dannazione, sei perfetta. Perché lo sei in questo modo? In un modo che mi disintegra tutto il coraggio che io possa avere? Non riesco nemmeno a dirti quanto tu sia importante per me. Figuriamoci rivelarti il mio amore. Tuttavia... tuttavia mi accontento di starti accanto quanto più possibile, ti affiancarti in ogni missione, anche la più pericolosa... perché, se pure te lo dichiarassi, forse inizieresti ad usarmi. Sempre se non lo stai già facendo.
Doveva aver assunto uno sguardo a dir poco affranto e bastonato, visto che Vermouth si lasciò scappare un paio di risate neanche troppo sommesse.
- Accidenti, Calvados, ti hanno rubato le caramelle? Cos'è quel muso lungo? -
- Vermouth. Quando saremo lì, quella notte, non dovrai preoccuparti di nulla. Ti proteggerò in ogni istante, colpirò chiunque ti si avvicini in maniera preoccupante -

Lei lo guardò con espressione assorta e perplessa, in silenzio. Si riaccomodò sulla sedia di fronte a lui, appoggiando la mano sul vetro freddo del suo bicchiere.
- Sì... lo so. Lo so che lo farai. Finora hai sempre fatto così – gli rispose lei con tono pacato e con una lieve nota di calore.
- Se sei soddisfatta di come ho lavorato con te fino ad oggi, stai pur certa che continuerò così -
- Molto bene. Solo un avvertimento, però: ci sarà anche Sherry quella notte, e se mi accorgo di qualche tuo colpo rivolto a lei... non mi farò il minimo problema a spararti. E ad ammazzarti. Perché lei è mia. E' chiaro? -
Non è la prima volta che mi minacci. Sarebbe più che lecito odiarti, da parte mia. Eppure, quando fai così, non fai che incrementare la mia passione e la mia voglia di sbatterti contro una parete.
L'uomo congiunse le proprie mani e intrecciò nervosamente le dita, abbassando il capo ed emettendo un profondo respiro. Tentò di non far trasparire quell'ultimo pensiero dai suoi atteggiamenti, di reprimerlo, ma non era così scontato. Si sentiva masochista a stare lì dentro. Doveva uscire da lì o non avrebbe più risposto delle sue azioni, visto che già non rispondeva più dei suoi pensieri. E lei parve accorgersi di quel suo fastidioso impiccio, di quella sua faticosa ripresa.
- Ahahah, ma non mi dire... le cattiverie e le minacce ti fanno un effetto singolare, eh? A cuccia, cagnetto vivace... -
Vermouth ridacchiò e si rialzò in piedi, avvicinandosi a lui e chinandosi in avanti, portandogli una mano al mento per alzargli con delicatezza il viso verso il proprio. Adesso si guardavano, i loro nasi a pochi centimetri l'uno dall'altro, le corrispettive iridi incatenate.
Potrei morire qua, in questo momento. Non me ne importerebbe nulla. Sarebbe qualcosa di magico andarsene con quest'ultima immagine in mente.
- Mi raccomando. Conto su di te. - gli sussurrò lei a quella distanza ravvicinata, le sue labbra rosse che si muovevano al ritmo delle parole. Fu l'unica cosa che lui notò in modo significativo, prima che lei si raddrizzasse nuovamente per proseguire oltre e uscire silenziosamente da quella stanza.
Alla fine della missione di Halloween ti rivelerò tutto ciò che provo per te. Non importa quale sarà la tua reazione e la tua decisione a riguardo, anche perché sono quasi sicuro tu l'abbia già capito, ma te lo dirò comunque. Altrimenti diventerà ingestibile. Dopo quella notte di luna piena, io... verrò da te e lo confesserò. Aspettami.




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Questa breve shot è dedicata ad uno dei personaggi che più mi ha fatto pena D: Calvados, che nemmeno abbiamo avuto il tempo di conoscere, se non quando è andato a morire ammazzato nel caso dell'Halloween Party per fare un favore a Vermouth :D Ed è proprio questo l'episodio su cui si appoggia la shot. Nel manga veniamo a scoprire solo dopo (con l'arrivo di Chianti) che Calvados, cecchino dell'organizzazione, era innamorato di Vermouth e pronto a fare di tutto per lei. Ho provato ad immaginare cosa lui provasse nel periodo appena precedente al fattaccio, fatale per lui, giustificando così la rabbia di Chianti nei confronti di Vermouth, la quale presumibilmente se lo portava dietro in questo tipo di missioni poiché consapevole del suo sentimento. Poverino, non capite che compassione mi aveva fatto :/ XD
Comunque sia, non voglio perdere occasione per ringraziare da matti i recensori, siete fantastici!!! ^__^ E molto, molto attenti alle sfumature delle storie :) Alla prossima!

 

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Capitolo 11
*** Cocci trasparenti - KaiAo ***


11. Kaito e Aoko ~

***




Cocci trasparenti



- Aoko... n-no! Lasciami spiegare! -
Kaito scattò fulmineo da un lato appiccicandosi alla parete con tutto il corpo, per poter evitare l'oggetto contundente che gentilmente gli era stato lanciato contro.
- WAH! Ferma! Mi lasci spieg... -
- RAZZA DI... - Aoko afferrò una statuetta di marmo dalla mensola dei soprammobili. Sembrava pesante.
- Nonono!! Ferma, quella no! -
- ...ORRIBILE... - Aoko caricò il tiro all'indietro con la massima potenza, decisa a scagliare quell'oggetto come fosse una bomba.
- ...BASTARDO! - urlò, lanciando la statuetta nella direzione di Kaito. Quest'ultimo la schivò con lo stesso tipo di movimento precedente, emettendo un urletto spaventato da fanciulla.
La statuetta andò ad infrangersi contro la parete, i suoi cocci che cadevano inermi a terra provocando tonfi continui. Kaito era abbastanza abituato a quella curiosa abitudine di Aoko Nakamori, quella di lanciare materiali a caso o specificamente addosso a lui, solo che l'aveva sempre esercitata con oggetti molto più blandi e leggeri, tipo le spugne o i quaderni di scuola, insomma cose gestibili. E mai con potenziali armi del delitto, come erano quegli oggetti pesanti e troppo spesso appuntiti. Questa era una novità che non era certo di voler sperimentare.
Kaito si voltò verso di lei deglutendo, a disagio, cercando delle parole adatte per poterla calmare.
- E-ehi, Aoko, tesoro, che ne dici se discutiamo come due persone civ... -
- Cos'hai detto? -
- Eh? -
- Tesoro? -
- Cos... sì, ma... - balbettò, capendo subito che la scelta di parole “per calmarla” era stata sbagliatissima.
- TESORO?! A CHI, A ME? TESORO A ME? MUORI, MALEDETTO! -
Aoko si tuffò letteralmente nel proprio armadio per trovare qualche altro oggetto grosso e possibilmente omicida: ne estrasse una palla da bowling. Kaito sentì nell'immediato il terrore farsi strada in lui, unito però ad una buona dose di divertimento.
- Pfff, ahahah... scusa, ma perché ti tieni nell'armadio una palla da bowling...? -
- Perché non lo chiedi direttamente alla palla, EH?! - e dicendo questo gliela scagliò addosso con una forza che pareva sovrumana. Lui urlò e, terrorizzato, si dovette abbassare per evitare il colpo proprio in testa, dopodiché la palla andò a piantarsi nel pavimento aprendo un buco nel parquet. Kaito si voltò lentamente e allibito verso quel buco, immaginando che avrebbe potuto aprirsi nel suo cranio.
- Ma... sei completamente impazzita?! Mi vuoi uccidere?! -
- Oh, ma che sagace! -
- Aoko, tutto questo è ridicolo! E surreale! A saperlo prima non ti rivelavo di certo la vera identità di Kaito Kid... pensavo che la cosa potesse piacerti, però vedo che... -
- PIACERMI?! Il ladro che più odio al mondo, il ladro patetico che si inventa tanti giochetti magici di sparizione senza alcuno scopo se non per fonderci il cervello... il ladro che da anni tiene segregato mio padre in centrale anche di notte e che quindi ha rovinato la mia famiglia... scopro che sei tu! -
- Sì, però non mi sembra il caso di... -
Lei sospirò e parve rilassarsi per un momento, abbandonando le braccia lungo i fianchi. Lo guardò intensamente, con uno sguardo diretto e profondo che colse Kaito impreparato.
- Tu, Kaito, il mio migliore amico. E sì, lo ammetto, il ragazzo che più mi piace da anni. Il ragazzo che avrei voluto frequentare anche in futuro. Sei quel lurido e tremendo ladro, che mette a soqquadro la città con la sua sola presenza... nonché l'unica fonte di argomentazione di mio padre ad ogni ora del giorno, che sembra ormai non essere più interessato a nient'altro... forse neanche a quello che faccio -
- Ehi, guarda che è sempre tuo padre a prendere l'iniziativa per catturarmi, mica lo costringo a farlo, anzi -
- Sei tu... Kaito Kuroba e Kaito Kid sono... la stessa, squallida persona. -
- Mi spiace che non ti faccia piacere, ma prima o poi avrei dovuto rivelartelo, Aoko... ed ora che... ora che stiamo iniziando a frequentarci un po' più seriamente, ora che stiamo andando oltre l'amicizia, non potevo più mentirti e non dirti che... -
- Alt. Basta così. Tutte le cose che stai elencando al presente... devono diventare al passato. Perché non ho più intenzione di frequentarti, scordatelo, io non esco coi criminali. Coi criminali ipocriti e da strapazzo, per giunta. -
- Ma Aoko, dannazione, sono sempre io, non sono cambiato! Sono il Kaito che hai sempre conosciuto! -
- Il Kaito che pensavo di conoscere, semmai! E che invece è uno stronzo e un bugiardo! - dopo aver sbraitato quelle parole, Aoko parve risvegliare quella bestia nascosta dentro di sé e raccolse da terra una mazza di legno caduta per sbaglio dall'armadio scagliandogliela addosso, seguita poi da altri tre o quattro oggetti pesanti. Kaito li schivò tutti velocemente, di nuovo impaurito e colto alla sprovvista, abbassandosi o spostandosi di lato.
- ARGH! UH! Aiuto! Aoko, se mi centri mi fai fuori davvero! -
Per tutta risposta lei fece uno scatto in avanti e corse verso di lui, caricando un pugno diretto alla sua faccia. Lui ebbe abbastanza riflessi da bloccarlo a pochi centimetri dal proprio naso, tuttavia non vide l'altro pugno rivolto allo stomaco. Accusò il colpo con un gemito di dolore, sentì tutta la rabbia che vibrava nella mano serrata della ragazza. Dopodiché lei iniziò a colpirlo ovunque, specialmente con piccoli e rapidi pugni sul suo petto, che grazie al cielo non erano né forti né particolarmente dolorosi. Erano soltanto uno sfogo, Kaito lo capiva. Perciò la lasciò fare.
Dopo una manciata di secondi lei parve placarsi, terminò la sfuriata di colpi e a quella distanza ravvicinata alzò lo sguardo furioso su di lui, con un leggero fiatone.
- Pensavi potesse piacermi la rilevazione che tu fossi Kid? Cosa te l'ha fatto credere? -
- Ci... ci sono centinaia, se non migliaia di ragazze in questa città che darebbero un braccio per passare una serata con Kaito Kid... -
- Beh, ma non io! Non sono fra quelle! -
- Sì, lo sto notando... -
Lei avvicinò ancora di più il viso a quello di lui, affilando gli occhi e guardandolo fisso con sguardo tagliente.
- Sii felice, fuori da quella porta ci sono migliaia di ragazze in fila per te. Vai! Aspettano solo di fare un bel volo sul tuo deltaplano – disse lei sussurrando con tono rabbioso.
- Cosa me ne faccio di migliaia, se tra loro non trovo te? -
Dopo che lui le rivolse quella frase, usando un tono tra l'apprensivo e il suadente, lei si ritrovò sbalordita e con gli occhi sgranati. I quali si riempirono di lacrime, all'istante.
Dannazione, Kaito le piaceva davvero, le piaceva da anni. E col passare del tempo quel sentimento si era approfondito, specialmente in quel periodo, arrivando a farle pensare di volerlo nella sua vita a tutti i costi. Lo voleva nella sua vita anche adesso, nonostante quel cambiamento di programma e quell'enorme ostacolo, con tutte le forze. E sentirgli dire quelle parole, sentirlo esprimere il suo sentimento così ricambiato, la riempiva sia di gioia che di amarezza. Perché come diavolo faceva a sorvolare su tutto, a fare finta che nulla fosse accaduto...? Ogni parola che lui aveva detto quella sera riguardante l'identità di Kid era stato un colpo demolitore contro la fiducia che aveva avuto in lui. Era quel criminale, lui vestiva i panni... di quel maledetto ladro...
Senza che se ne rendesse conto, la delusione e la tristezza avevano preso il sopravvento, manifestandosi tramite lacrime ben visibili e silenziose.
- Non piangere, Aoko – le mormorò lui, afferrandole con delicatezza il mento con una mano.
- Levami le mani di dosso – rispose lei con voce tremante, pur sentendo un piacevole brivido nello stesso istante in cui lui l'aveva sfiorata. Maledizione.
- Non piangere - ripeté lui, ignorandola.
Lei alzò il braccio ed afferrò la sua mano, iniziando a fare pressione per togliersela dalla faccia. Basta. Non lo voleva più a quella distanza ravvicinata, non voleva più essere toccata.
- Lasciami stare, Kaito. Leva questa mano e vattene, allontanati! - disse lei alzando la voce, prima di essere bruscamente interrotta dall'improvvisa vicinanza del viso di lui. Aoko non fece nemmeno in tempo a reagire, visto che lui si fiondò sulle sue labbra senza un minimo di preavviso. E, suo malgrado, nonostante l'iniziale e brevissimo tentativo di resistenza, non poté far altro che abbandonarsi al coinvolgimento. Sentì un braccio di lui stringerle la vita e attirarla a sé, l'altra mano ancora sul suo viso. E nonostante tutto l'odio che stesse provando in quel momento, assieme alla voglia di scaraventargli addosso altri oggetti centrandogli la testa e di sbatterlo fuori da quella casa, non riuscì proprio a resistere. Era un momento che aveva aspettato da tempo e con troppo desiderio, per lasciarselo scappare.
Anche lei allungò le braccia e gliele portò al collo, incollandosi a lui come una ventosa.
No! No, un momento... Aoko, riprenditi! Hai un grosso conto in sospeso con lui! Un...
Aoko sentì una mano di Kaito infilarsi sotto la sua t-shirt, sulla schiena, diretta verso l'alto. Quel tocco le bruciava la pelle da quanto era ardente.
Se continuiamo così... se continuo a lasciarlo fare... non so se poi sarò più in grado di interrompere...
A quel punto lei si costrinse a staccarsi bruscamente, sospirando forte e con le lacrime agli occhi. Le faceva male comportarsi così. Le faceva male vedere lo sguardo smarrito e confuso di Kaito, ma era una questione di principio. Perché le faceva male anche il ricordo del padre che non tornava più a casa per rimanere a lavoro, e che quando tornava non le chiedeva neanche come stava o cosa stesse combinando, visto che le parlava solo dei casi riguardanti Kid.
Ed ora non poteva far credere a Kaito di avere ancora la situazione in mano, in qualche modo doveva fargli imparare la lezione, anche a scapito dei propri desideri. Se avessero continuato, gli avrebbe passato un messaggio sbagliato rispetto a ciò che lei stava provando davvero.
- Aoko...? -
- Kaito... ti prego... per oggi basta così. Ci parleremo un'altra volta, ho bisogno di pensare -
- Vuoi che me ne vada? -
- Sì. Devo stare da sola. -
Lui annuì mestamente, guardando in basso verso il pavimento. Vide cocci di vetro e pezzi di legno rotto ovunque, i vari resti della sfuriata di Aoko. Si voltò su se stesso sentendosi frastornato, silenzioso e con sguardo spento, diretto verso la porta. Si rivoltò verso di lei, prima di uscire.
- Se hai bisogno di qualsiasi cosa... di una mano, di parlare... chiamami e verrò qui subito - le disse, senza superare il filo di voce.
- Sì... lo so... -
- Bene... spero che ti passerà. Non intendevo farti del male. Ciao, Aoko -
Ed uscì, dicendo quelle parole a voce bassa. Aoko andò a richiudere la porta per poi appoggiarci sopra la schiena, alzando la mano e toccandosi le labbra per ripensare al bacio tanto sperato di pochi secondi prima. La sensazione era ancora vivissima, le pareva quasi che stesse tutt'ora succedendo.
Rimanendo con la mano in quella posizione, in balia di una lotta interiore dove l'amore e l'odio si affrontavano in prima linea, scoppiò in un pianto intriso di emozioni contrastanti per le quali non sapeva più in cosa credere.






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Queste povere coppiette le voglio proprio far finire male :D :D Mi sto accorgendo di questo, LOL.
Non ne so molto su questa coppia, ma so che Kaito mi piace molto e che Aoko detesta Kaito Kid, perciò credo proprio che non la vedrebbe bene una rivelazione simile. Anche in questo caso ammetto che la shot mi è stata parecchio ispirata da un'immagine divertentissima... dove Kaito si fa i film mentali sul momento in cui rivelerà ad Aoko la verità, immaginando di portarla ovunque nei cieli notturni a bordo del suo deltaplano, ma poi appena sotto si vede la realtà dei fatti, ovvero Aoko e l'ispettore suo padre che appena vengono a saperlo lo legano/imbavagliano/rinchiudono in uno stanzino buio lasciandolo lì a soffrire XD Fantastica. Magari ci farò la shot. Deheheh.
Ordunque, fatemi sapere cosa ne pensate! Qualche fan della coppia all'orizzonte che mi possa dire se sono rimasta abbastanza IC? :D E grazie a tutti i recensori, ai lettori e chi segue, come sempre! <3

 

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Capitolo 12
*** Fegato verde - EriKog ***


12. Eri e Kogoro ~

***






Fegato verde



- Oh, no, NO! Ditemi che non è vero! -
Queste furono le parole aggressive e al contempo imploranti pronunciate dall'avvocato Eri Kisaki nel momento in cui l'ascensore in cui si trovava si bloccò senza tanti preamboli, spegnendo le proprie rassicuranti luci bianche e lasciando accesa soltanto quella piccola d'emergenza, di un allarmante colore rossastro.
- No, non può essere vero. E' uno scherzo! Riparti, adesso! -
L'avvocatessa iniziò a pigiare nervosamente tutti i tasti del pannello dell'ascensore, con ordine totalmente casuale, come se quell'atto potesse rimettere in moto i circuiti di quel dannato scatolotto che la stava trasportando.
- Mmm, proposta: se invece di schiacciare bottoni a caso mettessi da parte il tuo solito isterismo, e premessi quello della chiamata d'emergenza? Che dici? - le chiese l'uomo dietro di lei, rimasto anch'egli bloccato in ascensore.
Ecco. ECCO. No, perché l'ironia di rimanere rinchiusa in quel bussolotto errante denominato “ascensore” era un conto, volendo poteva anche accettarla, cioè, può capitare a tutti, basta avere un po' di pazienza ed i soccorsi arriveranno. Davvero, nessun problema.
Ma pure la beffa di rimanerci chiusa dentro col suo ex marito, beh, no, quella proprio era una presa per i fondelli.
- Sì, Kogoro, grazie, senza il tuo genio non saprei proprio che fine farei. Adesso lo premo, questo schifo di bottone per le emergenze -
- Brava. - rispose lui, secco.
Ad Eri scattò l'occhio destro, in preda ad un tic nervoso. Ma evitò di pensare a quanto quel canzonante “brava” le avesse dato fastidio, e pigiò il pulsante d'emergenza con forza eccessiva. Adesso doveva pensare alla propria salvaguardia, qui era in gioco il suo benessere fisico e mentale. Primo passo: uscire da lì il prima possibile. Per la paura di rimanere in ascensore a lungo? No. Per la presenza di Kogoro.
- Bene, fatto. Okay. Perché non rispondono? - chiese lei, dopo diversi secondi di silenzio.
- Perché devi dargli tempo -
- Tempo per cosa? Tempo a chi? Se schiaccio un maledetto pulsante d'emergenza voglio subito una risposta! -
- Uff, rilassati, vecchia racchia... - disse svogliatamente Kogoro, appoggiandosi ad una parete dell'ascensore a braccia conserte e sbadigliando.
- Cos'hai detto?! -
- Niente. -
- Kogoro, stai molto attento. Ci sono numerose persone in questa città a cui non auguro di rimanere bloccate in un ascensore con me. Ed una di queste sei tu. Anzi, forse sei quello più controindicato -
- Quale onore! Ahahah! - rise lui sguaiatamente, facendosi totalmente beffa del suo tono minaccioso.
- Non sto scherzando, devi capir... -
A quel punto lei venne interrotta dalla voce della speranza. Una voce proveniente dall'interfono di emergenza applicato al pannello dell'ascensore. Il suono della salvezza.
- Pronto? Chi c'è? -
- Io! Oh, santo cielo, grazie! Sono rimasta bloccata in ascensore! -
- E' da sola, signora? -
- No, purtroppo no. C'è uno. Potete venire a salvarmi? - disse lei, lineare e serena.
Kogoro trattenne una risata colossale, a sentirla parlare così. Ma quanto, quanto riusciva a divertirlo quella testardona?
- Signora, anzi, signori, dovrete aspettare ancora un po'. Abbiamo individuato un guasto tecnico di grossa portata, l'ascensore non ripartirà col solo ausilio dei suoi contatti elettrici. Dovrete aspettare i soccorsi che trasporteranno l'abitacolo fino a giù manualmente -
- Cosa? Mi scusi, ma questa manovra quanto tempo richiederà?! -
- Non glielo so dire, signora, può volerci parecchio, quindi è meglio se nel frattempo trova un modo per intrattenersi. Abbia pazienza, per favore, e ci scusi davvero -
- “Intrattenermi”? Sono in un ascensore, non in un circo! -
La voce all'interfono si interruppe, facendo ripiombare il silenzio nell'angusto abitacolo. La luce rossastra d'emergenza ronzava appena, rendendo l'intera situazione ancora più irritante, specialmente agli occhi di Eri. Ma perché mai lei e Kogoro si erano dovuti incontrare per caso in quel parcheggio sotterraneo prima di decidere di salire insieme in ascensore? Perché, quando mai?
- Dannazione. Ma si rendono conto di quello che dicono? -
- Beh, Eri, io un modo per intrattenerci ce l'avrei in mente, eccome! - dichiarò Kogoro sornione, tirando fuori una delle sue tipiche espressioni da depravato e mostrandola spavaldamente ad Eri.
Quest'ultima si voltò lentamente verso di lui con sguardo omicida e disgustato.
- Sei un porco schifoso, come al solito -
- E' per questo che ti sei innamorata di me -
- No, Kogoro, so che ti piace pensare che io sia una malata di mente, ma non è così -
Eri sospirò fortemente, ricominciando a premere i vari bottoni del pannello. Magari, per qualche strana combinazione di tasti, l'avrebbe fatto ripartire. Quanto ci sperava.
- Ma la smetti? Mi attacchi il tuo nervosismo! - irruppe Kogoro, scocciato.
- Beh, sarebbe anche ora! Te ne stai lì in panciolle mentre siamo bloccati in questa situazione terribile! -
- Che è terribile concordo, visto che ci sono bloccato dentro con la reincarnazione umana di Lucifero. Ma per il resto non vedo il problema, i soccorsi arriveranno e nel frattempo magari mi faccio pure una dormita... - detto questo si sedette a terra, di nuovo sbadigliando.
Eri lo guardò con espressione irritata e sarcastica, senza parole. Ma in fondo lui era così, senza eccezioni. E forse aveva ragione.
Dopo altri tentativi di far ripartire quella scatola elettrica schiacciando a raffica quei poveri pulsanti, decise di arrendersi all'evidenza. Anche lei si lasciò scorrere verso il basso, sedendosi a terra esattamente come Kogoro, anche se a debita distanza da lui. Purtroppo quell'ascensore era ben poco spazioso, quindi il concetto di “distanza” era alquanto relativo.
- Tesoro, sovrapponi bene le gambe, altrimenti lo sai che mi scappa l'occhio – ridacchiò lui malizioso, notando come il tailleur giallo scuro di Eri le impedisse di sedersi comodamente senza dover sfoggiare le sue beltà.
- Accidenti, sei proprio uno scellerato. Neanche sedermi comoda mi è concesso! -
- E invece ti è concesso eccome, io mica mi lamenterei! - proclamò lui con grande sicurezza. Nonostante tutto Eri lo faceva ancora impazzire, se doveva guardare il lato fisico: e quando si vestiva in quel modo, da avvocatessa super affaccendata e crudele, doveva trattenersi dal saltarle addosso.
- Beh, mi lamenterei io – disse lei, posizionando le gambe in modo più pudico possibile.
Poi, dal nulla, Eri iniziò una conversazione, fosse anche solo per ingannare quel malaugurato lasso di tempo.
- Come sta Ran? -
- Mh? Bene, direi. Ha un bel po' di studio da affrontare, sai com'è al liceo. Dannazione, non la invidio proprio... -
- Sì, ricordo quanto tu “amassi” studiare. Piuttosto ti impiccavi. -
- Già, per fortuna ne sono uscito prima che accadesse. Ahah! Comunque, per il resto, la nostra piccola sta bene. Certo, ogni tanto le manchi. Magari dovresti venire a trovarla più spesso -
- Cosa? Sul serio...? - chiese Eri, sconcertata. Non si aspettava una simile considerazione: è vero, non vedeva spessissimo la figlia, ma si sentivano comunque molto tramite telefonate e messaggi. Certo, non era la stessa cosa...
- Se ogni tanto voleste trascorrere un po' di tempo insieme a casa nostra, basta dirmelo prima che me ne vado di casa per qualche ora, e vi lascio libere. Sarebbe una buona cosa, per Ran -
- Sì... sì, se la metti in questi termini, si può fare... - rispose lei, a voce bassa.
Poi si mise a fissare l'uomo seduto a qualche passo da lei. Kogoro era costellato di difetti e sapeva accendere autentici fuochi di rabbia, ma nei confronti della figlia tirava fuori le sue risorse migliori. L'avvocatessa sorrise istintivamente, non poté farne a meno.
- Che ti ridi? -
- Niente che ti riguardi -
- Sai cosa mi hai ricordato? Una strega che sorride di fronte alla sua vittima -
- Se preferisci vederla così, a me sta più che bene! -
- Ahah. Scherzo. Era proprio un bel sorriso, sai? Magari tirane fuori degli altri simili mentre stiamo qui – disse lui, con calore.
Lei trasse un respiro, percependo una piacevole fitta nel petto. Perché ogni tanto lui se ne usciva con considerazioni tanto gentili e buone...?
- Stavo comunque pensando che questo potrebbe essere un notevole sogno erotico, per un uomo. Se qui dentro ci fossero rimaste altre donne, oltre te... avrei chiesto ai soccorsi di attardarsi il più possibile, puahahah! -
E perché era anche in grado di distruggerle con tale repentinità? Quella risata. Quel filone logico sconcio e superficiale. Eri strinse le labbra e i pugni, quasi arrivò a ringhiare, capendo che quell'uomo non sarebbe mai cambiato di una virgola, mai. Che odio.
Il tempo passò inesorabile, ma nessun segnale arrivò dal mondo esterno. Nessuna voce, nessun rumore d'intermittenza, nessuna luce nuova. Solo quella piccola e rossastra luce ronzante, solo il silenzio tra loro due.
D'un tratto Eri appoggiò la nuca alla parete dell'ascensore, sentendo la testa iniziare a girare vorticosamente. Iniziò anche uno sgradevole principio di nausea alla bocca dello stomaco, perciò intensificò il proprio respiro per attenuare quegli indesiderati sintomi, provocati da agitazione e caldo. Maledizione, faceva veramente caldo, adesso. Non c'era un filo d'aria. Abbassò la testa e chiuse gli occhi, alzando una mano per asciugarsi il sudore dal viso.
- Eri...? Ehi, stai bene? -
- Oh, sì, certo che sto bene. Sono bloccata in un ascensore da non so più quanto tempo, sto perdendo ore di lavoro e perlopiù ci sono rimasta bloccata col mio ex marito, ma sì, va tutto bene – sputò fuori lei, acida. Che andasse al diavolo. Era nervosa e aveva una gran voglia di dirgliene di tutti i colori, a quel depravato.
- Ehi, ehi, calma, dolcezza. Ti ho solo chiesto come stai! -
- Ed oltre a quello hai fatto tante altre cose, credimi. Per anni ho sopportato le tue frivolezze, mi hai fatto salire la bile fino alla gola da quanto nervosismo sei riuscito a provocarmi, mi hai fatto il fegato verde e contorto le budella! Sei contento?! -
- Però hai chiamato il tuo gatto col mio nome – annotò lui.
- TACI! Non è vero, non è il tuo nome, è la contrazione del tuo nome, che è diverso! -
Dopo aver alzato la voce in quel modo per pronunciare quelle frasi, gli occhi di Eri videro una leggera cascata biancastra accompagnata dalla sgradevole sensazione di frastornamento. Chiuse gli occhi e quasi cadde in avanti, in preda nuovamente ai sintomi di poco prima.
- Ehi, ehi, sciocca... basta sbraitare, okay? Dimmi, hai ancora qualche problemino con la pressione? -
, avrebbe voluto rispondergli, ma aveva bisogno di un pizzico di tempo prima di poterlo formulare per bene, senza quell'arsura. In effetti aveva sempre sofferto un po' di abbassamento di pressione, nulla di grave, ma in condizioni debilitanti come quella un simile problema non esitava a ricomparire e a darle disturbi. Il caldo terribile, l'ansia, Kogoro. Davvero un bel mix.
Il detective dormiente si alzò da terra emettendo gemiti da sforzo, come se stesse facendo chissà che. Fece due passi verso di lei e si risedette al suo fianco, approfittando della temporanea debolezza fisica della donna per cingerle le spalle con un braccio ed attrarla verso di sé, sospirando.
- Appoggiati qui, è meglio. Fatti una dormita. Non sarò un cuscino ma sono abbastanza morbido! -
Eri sentiva il proprio viso adagiato sulla spalla dell'uomo, e socchiuse gli occhi per accertarsene. Sì, era così. Dannazione.
Ma si fece cullare volentieri, almeno fino a che quel fastidioso assopimento non si fosse concluso. Le faceva bene restare appoggiata a qualcun altro, senza dover contare sempre e solo sulle proprie forze.
Passarono svariati minuti, ed Eri parve riaversi un minimo: sentiva che difficilmente si sarebbe giù rialzata in piedi, ma almeno riusciva a muovere la testa e a parlare senza grossi problemi. Tuttavia la testa non la mosse da lì, intimorita dall'idea che poi avrebbe ripreso a girare insidiosamente, e optò per continuare a tenerla adagiata sulla spalla di Kogoro, che dal suo canto non si muoveva di un centimetro, paziente. E lui la teneva ancora avvolta dalle spalle, tra l'altro. Almeno il braccio poteva pure toglierlo da lì, no?
- Allora, Eri? Stai meglio? Sono sicuro di sì. Lo facciamo un bell'applauso al comprensivo Kogoro? - chiese lui, ironico.
Ma sì, forse sì. Glielo potrei anche concedere, un contentino. In fin dei conti ha fatto una cosa carina, si è preoccupato vedendomi in questo stato, si è alzato per venire a darmi una mano pur conoscendo le mie reazioni spesso isteriche... è rimasto qui senza muovere un muscolo, quindi una cosa gentile gliela potrei anche dire. Mi potrei sforzare, sì, ne sono convinta. Anche se si lascia scappare troppo spesso battute spiacevoli, anche se nei momenti che sembrano sereni e pacifici lui fa apposta a rovinare l'atmosfera, anche se si diverte a vedermi adirata, anche se si prende gioco di me quando...
- Prima o poi ti trascino in tribunale, Kogoro Mori. -
No, proprio non ce la faceva a dirgli qualcosa di dolce e carino. Tra l'altro il suo proposito era stato quello, sul serio, ma poi il suo cervello e la sua bocca si erano messi in moto per produrre qualcos'altro, ascoltando i suoi istinti. E vabbè, pazienza.
- Ah, sì? E con quale motivazione mi ci porteresti? -
- Per il tuo essere eccessivamente stucchevole. -
- Ahahah! E' una causa che ti accetterrebbero?? -
- Ahahah! Accetterebbero quasi tutto, da me. - dichiarò lei in tono definitivo.
Lui deglutì, guardando altrove e sbarrando gli occhi. Non è che gli piacesse poi così tanto quella terrificante prospettiva. In effetti, per Eri, sbatterlo in galera con insulse motivazioni quando più le pareva e piaceva poteva essere un gioco da ragazzi: quindi meglio smettere di provocarla, almeno per quella giornata.
- Anzi, anzi. Il tribunale no. Mi è venuta un'idea molto, molto più divertente e cattiva – mormorò lei quasi tra sé e sé, con ghigno famelico, ma lui la sentì comunque. E rabbrividì.
Cosa diavolo aveva in mente?

Il giorno dopo lo capì. Lo comprese, senza più poter tornare indietro. L'orrore si materializzò in casa sua, all'agenzia investigativa Mori, quando Eri ne varcò la soglia armata di un mestolo da cucina e di un sorriso trionfante, proclamando a gran voce:
- Oggi la pappa la preparo io! -
La frase tuonò come un ululato di sventura: Ran ridacchiò nervosa, contenta di vedere la madre così all'improvviso ma al contempo angosciata da quella sua stramba volontà, Conan impallidì all'istante e iniziò a balbettare una scusa sul fatto che Agasa l'aveva appena invitato fuori a mangiare, mentre Kogoro corse ai ripari, nascondendosi prima dietro il divano e poi in un armadio. Non doveva essere trovato.
- Kogoro, esci fuori! Non sei curioso di assaggiare ciò che ha in serbo la tua adorata Eri? Eeeehi, tesoro? - chiese lei con un'evidentissima nota ironica e crudele, dato che sapeva perfettamente quanto Kogoro (quanto tutti, a dire il vero) odiasse la sua pessima cucina.
Lei iniziò a sbattere il mestolo contro le pentole in una sorta di rito indigeno, intimando a tutti di seguirla ai fornelli. Ma Kogoro aveva tanta, tanta paura. Ebbene sì, eccola la punizione che lei tanto aveva osannato malignamente il giorno prima in quell'ascensore: cucinare per loro, a casa sua.
Sarebbe decisamente stato meglio il tribunale.





*************************************
Non so se lo ricordate, ma Eri è piuttosto famosa per essere una capra in cucina e per disgustare spesso i suoi familiari con le sue “prelibatezze”. Tra parentesi, penso che questi due siano un po' rimbambiti quando si confrontano :'D in senso buono e simpatico, eh. Più o meno.
Volevo fare da tempo una shot ambientata in un ascensore bloccato, ahahah XD ma non sapevo chi infilarci dentro, e poi din don, ci sto pure a pensare?? Chi meglio di Eri e Kogoro, che dopo qualche minuto di tenera vicinanza sprizzano scintille di cattiveria? ^.^
Spero vi sia piaciuta! E grazie, graziegraziegrazie ai commentatori, siete troppo... kawaii! ç___ç (dopo questo aggettivo siete autorizzati a scappare lanciandomi ortaggi) ed anche ai lettori!
Già che ci sono, mi concedo di dire che mi piacerebbe se ci fosse qualche nuovo lettore che ha voglia di dirmi cosa ne pensa, e non per forza su ogni capitolo, ne sarei solo contenta :') Please! In cambio vi prometto tante dolci paroline succose (che bel regalo, eh...)
Grazie, alla prossima ^__^ Che sarà la numero 13, e quindi... penso ci metterò qualcosa di cupo. Ragazzi, è il numero a chiederlo ù__ù Ciau!


 

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Capitolo 13
*** Porsche 356/A nera - CoAiGin ***


13. Conan, Ai, Gin ~

[Rating: Giallo]

***







Porsche 356/A nera



- TOGLIETEVI! LEVATEVI DI MEZZO! -
Le parole che il detective urlava mentre si faceva strada sgomitando tra la folla, la folla che si era formata e riunita attorno al luogo dell'incidente, parevano venire assorbite dall'aria e dal tumulto delle altre voci. Non importava a quale volume le avesse urlate, sarebbero state comunque annullate dall'atmosfera.
- Vi prego... lasciatemi passare! -
Erano tutti adulti alti e ingombranti e lui, con quel corpo piccolo e debole, faceva una fatica sovrumana ad avvicinarsi al luogo del fatto. Sapeva benissimo cos'era successo, l'aveva visto da lontano, dall'altra parte della strada, come se avesse avuto la scena proprio di fronte alla faccia.
Aveva visto perfettamente la Porsche 356/A nera sfrecciare sulla carreggiata, diretta verso una ragazzina castano-ramata che, ignara, era intenta ad attraversare la strada. Aveva sentito l'intensità del motore aumentare, il rombo farsi più assordante man mano che l'automobile, come fosse dotata di vita propria, individuava il suo bersaglio in avvicinamento.
Conan aveva capito al volo l'andamento di quella situazione e aveva urlato il suo nome, il nome di Ai, pregandola di fermarsi e di indietreggiare immediatamente.
D'istinto si era anche messo a correre sperando di poterla spingere via da lì. “Piuttosto rischio la mia vita, ma non la tua!” era la frase mentale che, con rigore e ritmo frenetici, gli era echeggiata nella testa durante quella breve e vana corsa. Ma aveva saputo fin dall'inizio che non l'avrebbe mai raggiunta in tempo, e che quel pensiero non si sarebbe concretizzato. Un po' come una bolla d'aria che, nel tentativo di gonfiarsi e trovare la sua forma completa e perfetta, esplode all'improvviso, divenendo nulla.
E dall'ottica di quella bolla immateriale, aveva visto Ai proseguire lentamente nella sua camminata, forse sovrappensiero, e voltarsi verso di lui meditabonda, attirata dalle sue grida. Come se non si fosse accorta di nulla. E poi era stato tutto velocissimo e irrecuperabile.
Il momento seguente, anche Ai aveva compreso. O meglio, in quei decimi di secondo aveva fulmineamente dato conferma ai suoi più oscuri dubbi, secondo cui ormai era stata scoperta e riconosciuta dai suoi nemici da tempo. Nel momento in cui si era voltata dalla parte opposta, verso la carreggiata, vedendo il parafanghi d'acciaio di un'auto nera d'epoca ben conosciuta a pochissimi metri da lei, rombante e veloce, aveva compreso tutto. Già, non poteva essere altrimenti: l'auto non avrebbe virato verso la sua direzione, se non fosse stato così. Trovata per caso? O intercettata consapevolmente? Ormai importava poco. Aveva fatto giusto in tempo a sgranare gli occhi e poi a richiuderli di scatto, prima di collidere con quella mostruosa e omicida vettura. Guidata da un elemento non tanto differente da essa: Gin.
Quale onore, Sherry. Ti mostri così, alla luce del sole, senza nemmeno darmi la fatica di scendere dalla macchina per infliggerti la punizione che meriti. Nasconderti dentro un corpo ristretto, mescolarti alla massa e provare a comportarti da persona normale sono azioni che non ti hanno aiutato. E non l'avrebbero mai fatto. Forse all'inizio sì, forse hai anche agognato la salvezza, ma dovresti sapere che queste cose non possono durare a lungo, dovresti ricordarti che ho un occhio piuttosto vigile e allenato ad impedirtelo. Lo ammetto, avrei voluto assaporare molto di più questo momento, parlarti e guardarti prima di eseguire l'atto estremo... ma come lasciarsi scappare un'occasione così? Vederti in mezzo alla strada proprio mentre io sto passando con l'auto, avrei forse dovuto svoltare da un'altra parte? Mai. Sarebbe stata una pazzia, una perdita di tempo. Il mio piede è calato sull'acceleratore con forza inconsulta e incontrollabile, la mia auto pronta a diventare la mia micidiale arma del delitto. Grazie, Sherry, per questo momento. Non lo scorderò mai.
Questo fu il pensiero di Gin, accompagnato da un immancabile sorriso sadico e impuro, appena dopo lo scontro. Appena dopo aver udito, con una sensazione di malsana goduria, il rumore del corpo della traditrice contro la carrozzeria.
- Ehi, chiamate un'ambulanza! La ragazzina è ancora viva! -
- Il pirata della strada è scappato dopo averla investita! -
- Qualcuno ha segnato la targa?! -
- Delinquenti, assassini! -
Tante voci anonime che si mescolavano, in allarme e in crisi. Tutte appartenenti a tante persone riunite attorno a lei, in cerchio e in massa, oscurando a lui la visibilità e ostacolandogli il passaggio. Andatevene via, non c'entrate niente con lei, non sa chi siete, non vi conosce!
Ma finalmente riuscì a costruirsi un sentiero, a passare oltre quella barriera umana, ritrovandosi improvvisamente davanti al centro dell'incidente avvenuto. Davanti ad Haibara. Che giaceva distesa a terra in una pozza di sangue che lentamente si allargava, con occhi sbarrati e fissi in un punto casuale ma ben preciso, verso il cielo. Le mani tremanti e il volto attonito e confuso, cercava di ritrovare il ritmo regolare del respiro, incespicando e allora ritentando, in agonia. Numerosi rivoli di sangue le imbrattavano il viso e i vestiti, come se ormai facessero parte di un decoro stabilito.
- Oh, no, merda... Haibara!! -
Quella visione sconvolgente lo portò a fiondarsi ed inginocchiarsi di fianco a lei, partendo subito ad esaminare ogni minimo particolare di quella situazione, accantonando prontamente ogni accenno di emozione tumultuosa e negativa che mirava a destabilizzarlo e portarlo sulla strada sbagliata. In quel momento non poteva permetterselo, la massima concentrazione era l'unica arma di cui doveva disporre. Anche se, in realtà, una disturbante confusione aveva già iniziato a farsi strada, come se avesse centinaia di campanellini incastrati in testa che suonavano e risuonavano, tutti insieme.
Le parole di Ai, pronunciate da lei soltanto qualche giorno prima, gli riecheggiavano nella testa. Perché mai? Perché ora? Semplice. Perché erano sincronizzate perfettamente a ciò che lui provava in quel momento. “Sai, si tratta di un processo che non si può impedire né arrestare. Una volta che applichi questa sostanza alla molecola, per lei va a finire così: disgregazione completa. Poverina. In laboratorio capita molto spesso. Lo vedi? Ti piace? Ehi, Kudo, invece di guardare per aria come un camaleonte arrostito, ti decidi ad ascoltarmi per istruirti un po' come si deve?”
Si sentiva proprio così, come quella molecola. In un processo che non poteva impedire né arrestare iniziò a sentirsi interiormente disarmato, ogni cellula del suo essere si stava disgregando con incredibile rapidità, ma doveva resistere. Doveva rimanere lucido e attento ancora per qualche minuto, almeno per qualche minuto, cercando di affrontare quella tragedia nel modo più razionale possibile, allo scopo di risolverla per il meglio. Allo scopo di salvare Ai.
- Ehi, Haibara, mi vedi? Sono qui! Vedi che sono qui? -
Lei spostò lentamente lo sguardo verso di lui, a scatti, con quegli occhi sbarrati e increduli. Il suo respiro era completamente mozzato e interrotto, riusciva ad emettere per lo più deboli gemiti e il sangue scorreva fuori da ogni ferita aperta come fosse un fiume rosso alla ricerca frenetica del suo mare.
No... no, è terribile...
Tu dovevi proteggerla...
Avevi promesso di proteggerla. Le hai mentito.
E guarda adesso com'è.
Devo agire, ma non voglio guardare. Non ci riesco.

Alla sua destra udì chiaramente i singhiozzi di Ran, che tuttavia si stava attrezzando nelle chiamate d'emergenza senza perdere un solo secondo. Già, c'era anche lei quel giorno, avevano deciso di fare un giro tutti insieme. C'era anche Agasa, dal quale però non stava udendo una sola parola o un solo lamento: e ciò era preoccupante. Se fosse successo qualcosa ad Ai, il professore sarebbe probabilmente entrato in un brusco stato di shock, che forse era già iniziato a causa di quella sola visione. Non ebbe il coraggio di voltarsi per verificarlo, e comunque non ne aveva il tempo: doveva ragionare e capire quale soccorso prestare ad Haibara. Ma più la guardava, più capiva che le soluzioni erano limitate.
L'accenno mentale ad Agasa, così come quello alle limitazioni, portò di nuovo ad alcuni proverbiali ricordi riguardanti la ragazzina. Maledizione, stupide immagini e frasi confusionarie che non ti lasciano in pace nemmeno nei momenti meno opportuni! “Lo devo tenere d'occhio. Se il professore continua a mangiare e bere in questo modo – hai capito bene, bere, e intendo vino – diventerà un ammasso di colesterolo vagante per le strade di Beika. Come, scusa? Certo che glielo dico, quotidianamente, ogni quattro o cinque ore! Ah... dici... dici che forse è un po' troppo...? Beh, ma deve pur capirlo... a costo di essere dura... perché ci tengo tanto, a lui. E vorrei proprio che i suoi valori sanguigni, al prossimo esame, si avvicinino almeno alla stabilità.”
Il ragazzino, ansimando, cominciò a tamponare forte con le mani una ferita aperta sul suo petto, quella che sembrava essere la più grave, per limitare la fuoriuscita di sangue. L'angoscia lo stava assalendo con forza e senza dargli tregua, la testa girava.
- Haibara, senti la mia voce? Cerca di respirare lentamente, in modo profondo. Va tutto bene. Cerca il tuo ritmo, okay? So che puoi farlo. Non ti preoccupare di nulla! -
Lei parve volere seguire il suo consiglio, ma ciò che ne ricavò fu soltanto una maggiore agonia. Il suo corpo non intendeva seguire le direttive. Lei iniziò a socchiudere le palpebre più volte, perdendo lo sguardo su di lui. E lui vide chiaramente la luce nei suoi occhi avviarsi verso il buio, verso un'altra dimensione. “Io credo fermamente nella teoria dei mondi paralleli. O dimensioni, chiamali come diamine ti pare, ma ritengo estremamente improbabile che l'unica realtà esistente sia la nostra. Chi ci crediamo di essere, noi esistenze uniche e indissolubili, senza possibilità di un nostro pari al di là dello spazio e del tempo? Ah, che illusi. E' chiaro che non è così. Kudo, ma se invece di guardare cartoni animati aventi un target che non va oltre i 4 anni, facessi discussioni più approfondite con me? Hai paura di consumarti il cervello?”
Ogni minuscola considerazione, in quel momento, diveniva facile esca per quei brevi estratti di ricordi, che abboccavano senza riserve. E che si affacciavano alla sua mente spavaldi, desiderosi di essere ascoltati di nuovo, di mostrare i lati migliori della ragazza che ora giaceva riversa di fronte a lui.
“Poi mi dici che ne pensi, okay? Non sprecarne nemmeno una goccia, è stata dura cuocerlo. Anche perché in caso contrario verrò a saperlo! Ci ho messo un po' di curry... so che ne vai matto. Spero ti piaccia.”
Deglutì disperato, cercando però di mantenere la situazione in stallo e di risollevarla, parlandole con quanta più chiarezza possibile.
- No, no, Haibara... resisti... e resta qua... va tutto bene...! -
Lei trovò la forza, non si seppe bene da dove, di alzare la mano tremante per afferrare quella di lui, che si trovava ancora compressa sul suo petto e tinta di rosso. Sembrava quasi volesse dirgli di smettere, di rilassarsi, e semplicemente di afferrare la sua mano. Perché sarebbe contato solo quel gesto, in quel momento.
Lui sgranò gli occhi, senza parole, ma percependo in pieno il messaggio. Le afferrò la mano senza esitare, mantenendo però la mano libera nella stessa posizione di prima, per poter dare sia a lei che a se stesso una parvenza di salvaguardia.
- Non mollare, Haibara... tieni lo sguardo su di me! Te la caverai! -
Non ce la farà. Non è possibile.
Il detective sapeva già come si sarebbe conclusa quella vicenda. Tuttavia cercò di non demordere fino all'ultimo, di accompagnarla nel modo più morbido possibile verso il suo destino. Si avvicinò ulteriormente al suo viso e continuò a sussurrarle parole rassicuranti e di pura bontà, la ringraziò per quello che aveva fatto per lui, non le lasciò la mano nemmeno per un istante. Esattamente come lei voleva.
Ai non voleva scuse, rimorsi e lacrime. Ma l'opposto.
“Non fare quella faccia. Farò tutto il possibile per aiutarti.”
Quando giunsero i soccorsi sul posto, la vita l'aveva già abbandonata. Il suo corpo inerme, privato del respiro e della sofferenza, giaceva ora tra le braccia del detective. Il quale la stringeva forte, incurante della presenza altrui, continuando a mormorarle nell'orecchio altre parole e appoggiando la propria fronte su quella di lei, imbrattata di sangue. L'odore del sangue era molto forte, si costrinse a sopportarlo. Faticava ancora a crederci, si rese conto che era un avvenimento troppo gravoso da smaltire, forse era per quel motivo che non intendeva muoversi da quella posizione ancora per un po'.
Sentiva i raggi del sole colpirli, caldi e pieni, come se volessero far sapere che anch'essi partecipavano a quel dolore. Ai l'avrebbe di certo interpretata così, in un armonico misto di umanità e natura. Lui sapeva che per tutti era in arrivo un oscuro periodo, fatto di pianti degli altri ragazzini che ancora non sapevano nulla, fatto di un Agasa improvvisamente solo e di un Mitsuhiko devastato dal suo sentimento. Fatto di un se stesso in preda al disorientamento e privato di una fidata alleata che aveva condiviso la sua condizione e le sue sensazioni.
Tanto valeva rimandarlo il più possibile, questo periodo, ritardando la sua separazione da Haibara.
Ma alle proprie spalle sentì una voce che si offriva di farlo rinsavire dall'abisso creato da quelle prospettive. Percepì Ran che, delicatamente, si chinava su di lui dicendogli di smetterla. Glielo stava chiedendo dolcemente, con la voce ancora rotta dal pianto e dall'angoscia, e lo faceva per il suo bene. “Basta, fermati, staccati. Per favore”. Udiva a ripetizione quelle parole, come una nastro che non può essere interrotto da nessun tasto, ma non per questo avrebbe eseguito.
Poi un terribile lampo intriso di dubbio atroce.
La quasi totale assenza di sorpresa sul volto distorto di Ai, in quei suoi ultimi attimi. Il gesto pronto e consapevole che gli aveva riservato tramite la sua mano. La stretta. I suoi movimenti lenti e apparentemente ignari sulla strada, proprio la strada da cui era arrivata l'auto nera che l'aveva assassinata.
L'hai fatto apposta, Ai?
Quel dubbio proprio non ci voleva. Si sentì mancare il respiro.
Hai seguito la logica che ti aveva portato a rimanere seduta da sola sull'autobus dirottato, tanto tempo fa, prima dell'esplosione? Da cui ero riuscito a salvarti? La stessa logica che ti faceva credere che, sacrificandoti in un modo o nell'altro, noi tutti saremmo stati più al sicuro?
Ai, no... dimmi che non è così...
Il problema è che non puoi dirmelo. Non lo saprò mai.

Già, non avrebbe mai saputo se era stato solo un incidente, frutto di fatali coincidenze, o se lei aveva fatto in modo che accadesse, buttandosi in mezzo alla strada dopo aver intercettato quell'auto all'orizzonte. Non l'avrebbe mai saputo, poiché sapeva solo le conseguenze.
Sai, Ai... sono abbastanza sicuro che non sia così. Forse tanto tempo fa l'avresti fatto, senza esitazione... ma ormai sei cambiata. Il tuo obiettivo non era più la fuga, bensì la ripresa. Lo vedevo coi miei occhi. Magari non ne avevi l'impressione, ma io avevo imparato a conoscerti. Anche adesso sto sbagliando quasi di certo, vero? Perché la tua imprevedibilità non smette mai di giocare. Mi ci vuole sempre del tempo, perdonami, ma poi ci arrivo. Arrivo a capire alcuni tratti distintivi che ti rendono ciò che sei. Non tutti tutti, però... questo concedimelo.
In mezzo ai tanti, tantissimi rumori e alle sirene della polizia intorno a loro, riusciva a distinguerle. A distinguere le parole che Ran, consapevole, non smetteva di sussurrargli. “Lasciala andare”.
L'aveva già lasciata andare, poco prima, su quella strada.
Forse dovrei smetterla di fare promesse. Ma vorrei concedermene un'ultima, la più definitiva. E mi rivolgo a voi. Voi, che credete che ormai sia fatta, che pensate di aver eliminato il tassello più scomodo. Per quanto mi riguarda la lotta finale è appena iniziata, proprio in questo istante. Una lotta che vi vedrà distrutti, dilaniati dai vostri stessi mille pezzi. E voi ancora non lo sapete.
Questa volta la promessa verrà mantenuta.








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Tranquilli, non perdete tempo a tentare di uccidermi. Ci penso io da sola, visto che ho fatto fuori il mio personaggio preferito, e mi sa il preferito di tanti. D:
Questa era la shot numero 13 e si adattava a qualcosa di caratteristicamente “nero”. L'ipotetica morte della scienziata è stata affrontata spesso sotto una chiave di lotta finale contro l'organizzazione, di scontro coi suoi membri più importanti, o di atti di salvezza nei confronti di altri che la portano quindi a sacrificarsi per loro. In questo caso, se vogliamo, possiamo dire che non si realizza nulla di tutto ciò, in quanto non avviene nemmeno una sfida o un reale confronto, si tratta invece di un incidente, per quanto comunque provocato dai veri antagonisti della storia e con tutta l'intenzione del caso; tuttavia il punto che mi interessava era approfondire ciò che il protagonista potrebbe trovarsi a meditare in un'eventualità simile, piuttosto che la modalità.
Non so che altro aggiungere, se non di stare sereni perché le shot comunque non sono legate tra loro e nelle prossime Ai sarà più viva che mai ^__- Come sempre grazie a voi recensori, che usate sempre un po' del vostro tempo qui, e a tutti voi che leggete e a cui chiedo di lasciarmi nuove opinioni, se vi va :) Ed ora pista, alla prossima! 

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Capitolo 14
*** Bersagli argentei - VermChianti ***


14. Chianti e Vermouth ~

[Rating: Arancio]

***







Bersagli argentei


Un colpo. Fuori dal centro.
La donna sparò prendendo meglio la mira. Sparò di nuovo subito dopo.
Due colpi. Fuori dal centro, ma più vicini.
Vedendo che il centro esatto del suo bersaglio di metallo, a diverse yard di distanza, non veniva ancora scalfito, sparò una raffica di colpi ben mirati.
Cinque colpi. Sei colpi. Fuori dal centro.
Non permise alla frustrazione e all'ira di prendere il dominio di quella situazione. Era solo un allenamento, ma era importante. Ci voleva lucidità e, soprattutto, controllo delle proprie emozioni. Chianti mirò attentamente al bersaglio per l'ennesima volta, il quale le sembrava ancora più lontano di prima, e sparò con enfasi.
Sette colpi. Fuori dal centro. Maledizione.
Prese un respiro irritato e lo trattenne per tre, quattro secondi. Nell'assoluto silenzio di quella grande sala da allenamento oscura e illuminata solo dai fari posizionati ai lati, incastrò la pupilla nel mirino e concentrò tutta la sua capacità visiva sul centro del bersaglio. Fece leggera pressione sul grilletto. Ancora qualche secondo. Restrinse impercettibilmente la palpebra, il centro era a fuoco nella sua vista.
Sentì un rumore alle sue spalle, molti metri dietro di sé, all'ingresso della sala. Ma non ci fece caso e non si fece distrarre, anzi, se era entrato qualcuno avrebbe visto di cosa fosse capace. Fece pressione totale con l'indice, liberando il proiettile dal fucile, che saettò verso il bersaglio.
Otto colpi. Centro.
Chianti espirò lievemente e sorrise silenziosa, con l'occhio ancora posato in corrispondenza del mirino. Quando lentamente si rilassò staccandosi da lì e riponendo al suo fianco il fucile, si voltò all'indietro per vedere chi fosse venuto a farle visita nel bel mezzo del suo allenamento. E quando lo capì, quando riconobbe quella sagoma nel buio accostata alla porta d'ingresso, il suo sorriso di poco prima si spense all'istante.
- Wow, Chianti! Fai progressi. - dichiarò Vermouth con un fischio, falsamente colpita dalle performance della cecchina. - Non dovremmo aumentare la distanza tra te e il bersaglio, la prossima volta? Sicuramente ne usciresti comunque vincitrice -
Mentre la donna pronunciava quelle frasi, entrò nella stanza a passi sicuri avvicinandosi a Chianti. Pian piano uscì dalla penombra per entrare nella zona più illuminata della sala, arrivando di fronte a lei di qualche metro.
- Che cosa vuoi, stronza? - le chiese Chianti senza molti giri di parole e con un'evidente sfrontatezza nella voce.
- Oh, ma che modi. E dire che io sono venuta in pace. Chianti, tesoro, sono qui per chiederti una cosa molto seria – rispose Vermouth in tranquillità, portandosi alle labbra una sigaretta che doveva essersi accesa ancora prima di entrare lì dentro. Guardò Chianti e le soffiò poi il fumo in faccia, con altrettanta calma. Chianti sorrise perfida, accogliendo quel brutto gesto provocatorio.
- Non voglio che tu mi chieda niente. Sinceramente non voglio proprio che tu abbia a che fare con me, Vermouth. Figurati mettermi pure a farti dei favori! -
Chianti sbuffò oltremodo divertita, riafferrando il suo fucile e riprendendo l'allenamento come se fosse sola, puntandolo contro un nuovo bersaglio posizionato più lontano.
- Vattene. Ora. Mi sto allenando – concluse lei, stizzita.
- No. Lo farei volentieri, ma ciò che devo dirti non arriva da me, bensì dall'alto – le rispose la bionda.
- Ah, sì? E perché mai i piani alti avrebbero mandato te per darmi un avviso? Non ti credo. Non ti conosco benissimo, per fortuna, ma ne so abbastanza per capire che sei venuta soltanto a provocarmi – ribatté Chianti senza muoversi dalla posizione di poco prima e continuando a sondare il suo bersaglio attraverso il mirino. Le tremava il dito sul grilletto per la rabbia.
- Ma davvero pensi che io mi ritagli del tempo apposta per venire qui a farti arrabbiare? Vederti incollerita è di certo divertente, ma ho molto di meglio da fare. Adesso girati, non parlo con una tizia pateticamente altezzosa che mi dà le spalle -
- Ti ho detto di no. Di solito è Gin a passarmi gli ordini, non tu. Sparisci. -
- Non mi far perdere la pazienza, Chianti... e nemmeno il tempo, grazie. Ero abbastanza di buonumore, non vorrei uscirne diversamente -
- Oh, se ti annoi potresti andare laggiù assieme al bersaglio cercando di schivare le pallottole, così mi alleno con una sagoma umana e divento più brava. Che ne dici? Poi darò tutto il merito a te! - Chianti sghignazzò a voce alta, immaginandosi nella mente una scena simile e godendone alquanto.
- Anche se con quei bei tacchi da 10 cm, difficilmente schiveresti qualcosa. Direi che ti centrerei subito al primo, senza il minimo divertimento – le sussurrò infine Chianti, con una nota sadica nella voce.
- Ho detto di voltarti nella mia direzione e ascoltarmi, inutile pezzente – le rispose a tono Vermouth, lievemente spazientita.
Chianti sbarrò gli occhi e si staccò dal fucile, voltandosi di scatto verso di lei, irata.
- Oh, vedo che gli insulti attirano la tua attenzione. Adesso metti giù quel giocattolo ed apri bene le orecchie – le impose Vermouth con un mezzo sorriso.
- Come mi hai chiamata? -

- Inutile. Pezzente. E' chiaro o devo stenderlo meglio? -
Chianti emise un sussulto rabbioso e si voltò dalla parte opposta, cercando di dominarlo. Ma non ce la fece: in realtà quando aveva l'occasione per esternare le sue emozioni negative, non se la lasciava scappare. L'aveva fatto spesso anche con il suo caro collega e amico, Calvados, colui che aveva sempre dovuto sorbirsi i suoi sfoghi isterici durante i quali, per gentilezza, non la interrompeva mai, ma la lasciava fare, chiedendole soltanto alla fine “Ed ora? Stai un po' meglio?”. Il quale aveva sempre avuto una parola buona e paziente per appianare il suo spirito bollente, senza farle pesare nulla. Il quale aveva iniziato a provare un amore fatale per la donna che Chianti ora aveva di fronte, e che aveva causato la sua morte.
- Non ti basta tutto quello che hai già fatto, eh? Non ti basta mai. Devi continuare a danneggiare chi ti sta attorno, a far sentire la tua lurida supremazia, a spargere veleno come una schifosissima vipera che non vedrei l'ora di sfracellare sotto le ruote della macchina! - le urlò in faccia Chianti, alzando il tono frase dopo frase fino a far riecheggiare la propria voce in quel luogo chiuso.
Vermouth, per tutta risposta, iniziò a ridere.
- Accidenti, Chianti, che bel quadretto! E cosa avrei mai fatto per danneggiare te? Non ricordo di averti mai ritenuta così importante da indurmi a farti qualcosa. Forse è solo per via del tuo amico, Calvados, se te la prendi con me? Ma mica l'ho ammazzato io – rispose lei con insidiosa e fittizia ingenuità, riportandosi la sigaretta alle labbra.
- E' a causa dei tuoi assurdi e inconsistenti piani se lui è morto. L'hai costretto a seguirti la notte di Halloween, e... -
- Costretto? Io? Quello mi seguiva come se fosse il mio cane. E' stato molto utile, lo ammetto, fino a che non ha deciso di farsi ammazzare come un idiota. Ma che ci vuoi fare, la vita è anche questo – concluse Vermouth, cercando di arrivare subito al nocciolo della questione. Ma Chianti, con gli occhi lampeggianti di furia, non glielo permise.
- Non parlare di lui in questo modo. Non azzardarti mai più, o ne vedrai delle belle, stronza psicotica. Te lo garantisco. - le sussurrò Chianti con la voce simile ad un tetro sibilo.
Vermouth parve sia infastidita sia esaltata dall'atteggiamento della sua interlocutrice. Iniziò a scrutarla attentamente e trattenne a stento una risata crudele, prima di parlare.
- Ci tenevi davvero tanto a lui, vero? Ti piaceva, lo amavi? Scommetto di sì. Dimmi la verità -
- Non vengo certo a dirlo a te, bastarda -
- Vuoi che ti dica tutte le cose che diceva a me? O preferisci sapere il modo in cui mi guardava? E in cui mi desiderava? Ci tieni a saperlo? -
Chianti strinse i pugni, il labbro che iniziava a tremarle per la collera e l'indignazione. Doveva resistere, perché Vermouth avrebbe continuato ad accanirsi su quel suo punto debole fino a che non l'avesse vista crollare.
- Penso non mi avesse mai parlato di te. Forse una volta, così, di sfuggita, quando gli ho chiesto da chi fosse composta la sua squadra di cecchini. Mentre sono certa che a te parlasse di me, eccome, non faceva altro – riprese Vermouth, con quel sorriso affilato allargato.
- Smettila, Vermouth. E' un consiglio – ribatté la cecchina con voce ringhiosa.
- Questa cosa ti infastidiva? Che cosa ti diceva su di me? Tutto ciò che avresti voluto sentire su di te? -
- Ti ho detto di smetterla, sul serio. Non sto scherzando, questo è un... -
- Te l'ho portato al patibolo appena prima che tu riuscissi a fartelo, eh? Ma tranquilla! Non ci sarebbe mai stato, con te – si affrettò a puntualizzare la bionda, rivolgendole un sorriso falsamente compassionevole.
A quel punto Chianti perse le staffe e, senza potersi controllare o analizzare le conseguenze delle proprie azioni, sputò in faccia alla donna di fronte a sé. Fu una liberazione, un gesto che le fece addirittura tirare un lievissimo sospiro di sollievo. Ma sapeva che non sarebbe durata a lungo, nel momento in cui la reazione dell'altra sarebbe arrivata. Perché l'altra, che a lei piacesse o meno, era un membro dotato di cariche più elevate della sua: sperava che questo non comportasse una reazione a catena di vari membri sulla gerarchia.
Senza comunque scomporsi, la cecchina fissò la sua controparte chiudere ermeticamente gli occhi per svariati secondi di immobilità, portarsi lentamente un braccio verso il viso per asciugarselo in modo accurato col tessuto della sua maglia e poi riabbassarlo, senza emettere neanche un respiro. Poi la vide riaprire gli occhi di scatto, grigi e taglienti come scaglie di iceberg. Dall'espressione che indossava sembrava le fosse nata una nuova ombra dentro, pronta ad uscire fuori e scagliarsi contro di lei. Quella scena, in qualche modo, soddisfò Chianti: ormai era fatta, tanto valeva andare fino in fondo.
- Ah... allora adesso lo capisci, come ci si sente? A sentirsi sputare addosso certe affermazioni? -
E detto questo Chianti le sorrise graffiante, gustandosi appieno il suo cupo disappunto. Ma anche Vermouth, dopo alcuni secondi di palpabile silenzio dominante in quel luogo nero, ricominciò a dirle qualcosa.
- Chianti, cara. A questo punto... - cominciò la bionda, a voce relativamente bassa ma molto chiara. - ...si rende necessario che tu capisca da subito la differenza che separa noi due. -
Chianti era dotata di grandi riflessi, ma non poté anticiparla. Vermouth fece uno scatto rabbioso in avanti, verso di lei, alzando un braccio. La cecchina portò le mani in avanti per bloccarla dalle spalle e apparentemente ce la fece, finché non percepì un dolore lancinante sul collo scoperto. Fu come se qualcosa penetrasse in un unico e piccolo punto, ma fino in fondo, bruciando tutto. E da un certo punto di vista era così: capì che Vermouth le aveva premuto con forza la brace della sigaretta ancora accesa sul collo, per spegnerla sulla sua pelle. Chianti lanciò un urlo di dolore, digrignò i denti e tentò di respingerla, portandole a sua volta una mano al collo e afferrandoglielo, stringendo poi con una certa pressione. Vermouth le sorrise cupamente, non poteva sbagliarsi: adesso erano vicinissime, potevano udire i respiri pesanti l'una dell'altra.
- La differenza sta qui, Chianti. La differenza sta nel fatto che se tu ora premi di più sul mio collo, brava, così... - a quel punto dovette sforzare di più la voce, che faticava ad uscire per via della stretta. - ...e ancora di più, arrivando a strangolarmi o a farmi seriamente del male, ti succederà di tutto. Il capo lo saprà, saprà soprattutto che la causa è stata una stupida lite e te ne combinerà di tutti i colori, senza lasciarti pace. Ma se invece io faccio questo... - premette ancora di più la sigaretta sul suo collo, girandola a destra e a sinistra per spegnerla e costringendo Chianti a trattenere faticosamente altri gemiti doloranti, mentre il sudore le imperlava il viso. - ...se io faccio questo a te, non importa. Potrò fare anche di più, potrà saperlo chiunque ai piani alti, anche il boss in persona, che non succederà nulla... non è ritenuto grave! – a quel punto la bionda si staccò bruscamente da lei, tossendo e portandosi la mano al collo per massaggiarselo, e vedendo l'altra fare altrettanto, vedendola coprirsi la ferita circolare nera provocata dalla brace. Recuperando fiato, Vermouth la guardò dritta negli occhi e concluse il suo discorso.
- Ecco, Chianti. E' proprio questa la differenza. E se non vuoi che la prossima volta il risvolto sia peggiore, ti conviene abbandonare da subito certi slanci sprezzanti come quello di poco fa -
- Brutta... lurida... sgualdrina... - ansimò Chianti, premendosi nervosamente il punto di pelle bruciante. L'odio che stava provando in quel momento non aveva misura alcuna. Realizzò che, anche se quel suo discorso aveva senso, non le importava nulla. Prima o poi, quando magari non avrebbe più avuto nulla da perdere, l'avrebbe fatta fuori. Nel peggiore dei modi.
- Diventerai il mio bersaglio mobile e umano, Vermouth... fosse l'ultima cosa che faccio... -
- Ti auguro che sia proprio, ma proprio l'ultima. - ribatté la bionda sottovoce, prima di girare i tacchi per uscire da quella stanza. Ma poi, come colta da un'illuminazione, si rivoltò verso Chianti.
- Ah, giusto, il motivo per cui ero venuta. Il capo ti chiede di smantellare tutto il rifugio di Calvados, contenente fin troppe tracce e prove della sua presenza. Sa che tu lo conoscevi meglio di altri, perciò... -
- E perché non lo fa fare a te, visto che l'hai provocata tu questa perdita? Eh?! -
- Perché io non ho tempo per questo genere di cose. Buona serata, Chianti – disse la bionda avviandosi verso l'uscita, e prima di varcare la soglia si rivoltò inviandole uno “smack”. - E per tutto il resto... good luck! -
Poi si richiuse la porta alle spalle, scomparendo alla vista. Chianti sbraitò un urlo rabbioso afferrando il fucile e scagliandolo a terra con violenza. Afferrò poi il proprio telefono, senza esitazione, e telefonò a Gin.
- Gin! Dammi una commissione, adesso. Devi darmi qualche target, qualcuno da colpire, oggi stesso. Non c'è qualcuno? Va bene qualsiasi cosa! -
- Sei impazzita, Chianti? Non ci sono lavori in vista, e comunque non appena vengo informato ti... -
- Devo sfogarmi, trovami qualcuno! Ti scongiuro! -

Gin le chiuse la chiamata, senza ascoltare oltre. Un altro bastardo.
Chianti guardò il telefono con mano tremante, per poi sbatterlo di fianco a sé. Si piegò per recuperare il fucile lasciato a terra, si avviò al pannello di controllo della sala e premette con forza i tasti che liberavano sul campo molteplici bersagli di metallo, da colpire con velocità. Tornata alla postazione si concentrò facendo del suo meglio per ignorare il dolore pulsante e acuto ancora presente sul collo, al fine di abbattere quanti più bersagli possibili. Alzò il fucile e si rimise in posizione d'attacco, prendendo la mira e individuando le sagome metalliche.
“Il capo ti chiede di smantellare il rifugio di Calvados, contiene troppe tracce della sua presenza.”
Un colpo, due colpi. Fuori dal centro. Tre colpi, un bersaglio tramortito.
“Sa che tu lo conoscevi meglio di altri, perciò...”
Quattro colpi, cinque colpi. Vicini al centro. Sei colpi, sette colpi, scarica a raffica, perdita del conto. Otto bersagli tramortiti in tutto.
“Perché io non ho tempo per questo genere di cose.”
Ultimo colpo, netto. Centro.







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E arriviamo ad uno scontro tra le due donne cattivelle dei MIB. Non so voi, ma io le a-d-o-r-o, entrambe. E lo stesso vale per questo conflittuale rapporto che intercorre :P Ho preso spunto dalle varie scene in cui loro, nel manga, se ne dicono un po'. Se vogliamo questa shot è collegata alla numero 10 (Vermouth e Calvados), una specie di seguito che possa giustificare le reazioni di Chianti - non si sa esattamente quale tipo di legame ci fosse tra Chianti e Calvados, ma era qualcosa che ha portato lei ad odiare la bionda che ne ha indirettamente provocato la dipartita. Ho provato comunque ad interpretarlo nel modo che avete letto, anche perché secondo me le motivazioni sono più o meno quelle lì.
Fatemi sapere cosa ne pensate del confronto tra queste due serpi! Che a me ispira aggressività, ma magari qualcuno le avrebbe viste meglio ad un grazioso tavolo da tè, chi lo sa :P Come sempre siete liberi di darmi le vostre impressioni anche solo su questa shot, se vi ispira qualcosa, senza vincoli ;) EEEEE ragazzi! Vorrei sinceramente ringraziarvi di cuore per le vostre minacce di morte in seguito al capitolo precedente, yuppi! Detto così è assurdo, e per fortuna non tutti voi l'avete fatto XD Ma per me questo significa avervi fatto leggere un testo che in qualche modo non vi ha lasciati indifferenti, quindi ditemene pure di tutti i colori! :') E grazie a Dudi_Mouri che ha fatto sì che la Porsche sia stata giustamente rinominata col nome del modello che dovrebbe essere, perché sennò rimaneva la 911 iniziale che avevo scritto io e che, come dire, per quanto figa e sportiva... no .___.
Grazie a tutti ragazzi, davvero! <3 

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Capitolo 15
*** La vedo grigia! - AiMitsu ***


15. Ai e Mitsuhiko ~

***





La vedo grigia!


Questo bastardello mi sta sconfiggendo ad occhi chiusi.
Fu ciò a cui pensò Ai, davanti alla scacchiera. Lo pensò con un'espressione tra il divertito e il risentito, perché da una parte era ammirata dall'intelligenza del suo avversario, dall'altra però voleva vincere. E che diamine.
D'altronde l'avversario era pur sempre un bambino, non poteva farsi fregare così davanti al naso. La scacchiera di Mahjong si frapponeva tra lei e Mitsuhiko, il quale fissava le tessere del gioco con sguardo concentrato e assorto, come se ogni cosa circostante avesse cessato di esistere. Invece il senso di sfida non era tanto presente nei suoi occhi, non tanto quanto lo era in quelli di Ai, almeno.
Era il turno del ragazzino: dopo interminabili secondi di silenzio, in cui non volò una mosca, alzò il braccio per muovere una tessera in una posizione alquanto azzardata. Che scombinò totalmente i piani di Ai.
Eh, no, però. Un conto è lasciarlo vincere, anzi, sarebbe onorevole da parte mia. Ma perdere così perché mi sbaraglia le pedine è un'altra storia!!
La ragazzina sbuffò, leggermente spazientita. Rimise in moto i congegni del suo cervello per poter ribattere alla mossa dell'avversario in modo degno ed egualmente pericoloso. Mitsuhiko la notò e, vedendola così, dovette comprimere un risolino innocente.
- Ehi, Ai, guarda che non devi mica lasciarmi vincere... me la cavo abbastanza col Mahjong, e non mi offendo se perdo -
Eccole, le prime crepe che si aprivano sul suo orgoglio da giocatrice. Lei, che aveva lo sguardo basso sulla scacchiera, alzò soltanto gli occhi verso di lui. Beh, già che Mitsuhiko la pensava così poteva anche fingere fosse vero, così ci faceva anche una figura migliore... ma poi scosse la testa, con un sorriso.
- So che potresti pensarlo, visto che sto facendo proprio schifo in questa partita, ma ti assicuro che è tutta farina del tuo sacco. Non riesco a contrattaccare come si deve -
- Come mai? Forse... forse sei distratta, hai i tuoi affari a cui pensare? Ed io ti ho disturbata...? - chiese lui a voce bassa, titubante.
- No, perché sei davvero forte! Ed è la verità, non lo dico per esaltarti. Anzi, non ci penso neanche, mi stai facendo quasi arrabbiare – disse lei con esagerato e giocoso tono di sfida, suscitando una risata nel ragazzino.
- B-beh, grazie... sai, ci giocavo così tanto con mio padre, che ora ci ho fatto la mano – disse lui timidamente, sentendosi lusingato dal complimento di Ai.
Lei annuì e gli sorrise. Era contenta di vederlo ridere di nuovo spensierato, come un bambino dovrebbe fare: in quella giornata che aveva passato con lui non era ancora successo. Ma adesso, forse grazie alle sue lamentele sull'essere troppo scarsa rispetto a lui in quel gioco, il peggio sembrava passato.
Notò anche come Mitsuhiko avesse istintivamente parlato al passato, riguardo al giocare con suo padre a Mahjong. Nell'indecisione di sondare o meno quella sua scelta di parole, il ragazzino la anticipò comunque togliendole il dubbio.
- Chissà se ci giocheremo ancora, io e mio papà. Mi piacerebbe, ma... se glielo chiedo, mi sa che gli rubo solo del tempo... - azzardò lui, affranto.
Ai rimase in silenzio, guardandolo compassionevole e ripensando al motivo per cui si erano ritrovati lì, lui e lei, a giocare a Mahjong, in quel pomeriggio primaverile.
***
Quella stessa mattina, durante il suo breve giretto di spese varie per lei e per il professore, Ai non si accorse nemmeno di essere passata davanti alla casa di Mitsuhiko. Aveva imboccato quella via sovrappensiero, guardando il cielo ed ascoltando i cinguettii degli uccelli e pensando agli affari propri, e soltanto nel momento in cui aveva visto Mitsuhiko uscire di corsa dalla propria abitazione aveva realizzato di essere lì. Perciò si era avvicinata a lui sorpresa e sorridente, per salutarlo, trovandolo però sull'orlo delle lacrime.
Ad Ai non piacque in maniera istantanea il fatto di averlo visto correre fuori di casa con le lacrime agli occhi. Per niente, un connubio tutt'altro che rassicurante. Lui parve basito e imbarazzato trovandosela davanti all'improvviso, tuttavia la tristezza che portava nell'espressione in quel momento ebbe la meglio, e Ai lo notò.
Senza nemmeno pensarci, la ragazzina gli prese la mano per trascinarlo da un'altra parte, lontano da lì. E Mitsuhiko non le chiese nulla, né che cosa volesse fare né dove stessero per andare, semplicemente si lasciò portare passivamente dove lei preferiva, poiché capiva le sue buone intenzioni. E si fidava.
Quando quindici minuti dopo giunsero in un bar piuttosto affollato, Mitsuhiko non riuscì a trattenersi. Avrebbe voluto, vista anche l'ingente quantità di persone sconosciute intorno a loro, ma dopo aver udito Ai sussurrargli una frase come “fregatene, se ti devi sfogare” decise di darle ascolto. Ai era sveglia, sapeva sempre quale fosse la cosa migliore da fare, perciò volle darle retta. Almeno, lui la vedeva così.
Mentre lui dava sfogo ad un pianto ancora sconosciuto e incomprensibile, Ai si diresse al bancone sia per lasciarlo un po' da solo sia per ordinare qualcosa di fresco per entrambi. Ogni tanto gli lanciava delle occhiate per assicurarsi che non decidesse di andarsene via, o che nessuno lo infastidisse.
Quel pianto non ha niente a che fare con i classici piagnistei dei bambini. E' qualcosa di serio, mi chiedo cosa gli sia capitato.
Lo guardò ancora per qualche secondo preoccupata, vedendolo a tratti singhiozzare e a tratti calmarsi, fino a che la cameriera non le consegnò le bevande. Ai le portò entrambe al tavolo e a quel punto il ragazzino sembrava essersi tranquillizzato, le guance ancora rosse.
- G-grazie... -
- Figurati. Ti ho preso il succo alla pesca, so che ti piace più degli altri -
- Sì... - rispose lui a bassa voce, con un lieve sorriso timido.
La piccola scienziata si accomodò di fronte a lui, incrociando le braccia sul tavolo e notando in modo automatico che, come al solito, non arrivava a toccare terra coi piedi. Non poteva fare a meno di notarlo ogni singola volta, nonostante l'abitudine: e a dire il vero si trattava di una sensazione che non le dispiaceva, sicuramente l'apprezzava molto di più di quanto non facesse l'altro suo compare detective incastrato nella stessa situazione. In ogni caso si levò quel pensiero dalla testa, concentrandosi sul piccolo interlocutore di fronte a lei.
- Allora. Hai voglia di spiegarmi cos'è successo? Te la senti? -
- Non... non è una cosa interessante, ti annoieresti -
- Guarda che non mi annoio per ogni singola cosa di questo mondo -
- Beh, a volte un po' sembra così – rispose Mitsuhiko con tono sommesso, emettendo un lieve risolino. Contagiò anche lei, sapendo che in fondo lui stava scherzando.
- Dai, davvero, dimmi tutto. Sennò mi preoccupo – lo incalzò Ai.
- No, Ai, io non voglio questo! -
- E allora parlamene, coraggio. Magari riesco a darti qualche consiglio, che ne dici? -
Il ragazzino la fissò con un misto di apprensione e timore. Ai non capiva bene di cosa lui avesse paura, forse di dover fare uscire dalla bocca alcune considerazioni riguardanti la sua famiglia. Il problema doveva per forza risiedere lì, altrimenti non l'avrebbe visto fuggire dalla sua abitazione.
Lui poi annuì lentamente, ancora non del tutto convinto. Ma provò subito a rivelarle tutto ciò che gli frullava in testa.
- A... allora... il problema principale è rappresentato da mio padre e dai suoi modi di fare -
- Cosa fa? Risponde male a tua madre? O magari ti urla addosso? Ti ha dato qualche ceffone?! Perché in quel caso c'è da chiamare i... -
- No, Ai, no!! Aspetta un attimo! - ribatté lui, preso alla sprovvista.
- Ah, oh! Sì, sì. Scusa. Come al solito do per scontate le cose peggiori. - rispose lei, sentendosi internamente imbarazzata come non mai.
Se reagisco così come posso sperare che lui mi racconti qualcosa? Bloccati, stupida.
- Davvero, non è nulla di così grave... - riprese lui, con l'ombra di un sorriso.
Era intenerito dalla reazione spropositata di Ai, perché era vero, lei tendeva sempre a pensare al peggio e ai lati più brutti delle cose, quasi come se fosse immersa in una lotta costante contro il fato. Spesso le sue parole forti e i suoi atteggiamenti pessimisti mettevano a disagio le persone intorno a lei, o addirittura le irritavano. Ma a lui piaceva, gli piaceva da morire quel suo modo di agire così disfattista e spesso sprezzante delle consuetudini. A lei non interessava fare colpo sugli altri, le interessava dire quel che diamine pensava e, se poteva farlo con una certa sfrontatezza, non si faceva problemi. All'inizio anche lui rimaneva spesso spiazzato, ma poi ci aveva fatto l'abitudine in fretta, constatando che era un lato di lei unico e pazzesco. Era Ai, punto e stop, e non doveva cambiare assolutamente nulla.
Mentre la fissava, lui si ritrovò a sorridere pensando a quelle considerazioni. E arrossì di colpo.
Ai se ne accorse, alzando le sopracciglia perplessa.
- …Mitsuhiko? Che hai? -
- Eh?! N-niente! - rispose lui, riprendendosi. Non poteva certo dirle che stava un attimino ricordando quanto lei gli piacesse. - Dunque, s-stavo dicendo... -
E lui le raccontò tutto di getto, omettendo il meno possibile. Per tutta la durata del resoconto Ai rimase concentrata su di lui senza mai distogliere lo sguardo, annuendo di tanto in tanto. Alla fine lasciarono passare alcuni secondi di silenzio, in cui Mitsuhiko tenne basso lo sguardo e in cui la ragazzina rimuginò su ciò che aveva ascoltato.
Il problema principale era effettivamente il padre, il quale aveva iniziato a rincasare molto tardi quasi ogni sera, attribuendo il motivo ai pesanti e lunghi orari di lavoro. Motivo che però non reggeva, e la madre aveva quindi iniziato a porsi la classica domanda su cosa lui combinasse per rientrare a quegli orari, inventandosi palesemente un sacco di bugie. Indagine conclusa abbastanza in fretta, anche per via dei vari messaggi che la madre gli aveva scovato sul cellulare: messaggi molto vaghi e poco chiari, che però lasciavano intravedere la presenza di un'altra donna. Nonostante l'uomo si fosse poi difeso con la moglie, la donna aveva reagito molto male. Era iniziata perciò una serie di litigi dapprima sommessi e nascosti, che vedevano in campo soltanto i due genitori, divenuti poi nel giro di poco tempo manifesti e chiassosi, capaci di svolgersi in mezzo a parole violente e a pugni sbattuti sulle pareti, capaci di coinvolgere anche gli altri due membri che poco c'entravano, cioè Mitsuhiko e la sorella maggiore. Il ragazzino infatti, da sempre legato alla sorella, in quel periodo lo era ancora di più: più stavano vicini, più sopportavano la situazione. Purtroppo, però, pure lei non stava attraversando un bel periodo: la notte precedente Mitsuhiko non era riuscito a chiudere occhio, non solo perché angosciato dai problemi dei genitori, ma anche perché nella stanza accanto aveva udito la sorella piangere ininterrottamente. Lei stava affrontando la situazione in quel modo, inoltre la nuova scuola superiore in cui studiava era troppo difficile e severa, aveva tanti esami e poca concentrazione a disposizione, e il ragazzo che le piaceva le aveva appena dato un due di picche. Il suo modo per sfogarsi era quello, e Mitsuhiko avrebbe voluto darle supporto, ma non ce la faceva. Era arrivato al limite, costringendosi ad addormentarsi senza successo e fuggendo il giorno dopo da quella casa, per allontanarsi un po' da quel tipo di aria. Era domenica, qualcosa da fare l'avrebbe certo trovato: e poteva pure dire che trovare Ai di fronte a casa era forse la cosa migliore potesse capitargli.
Ai sembrò formulare un verdetto, mentre sorseggiava gli ultimi rimasugli del suo thè freddo dalla cannuccia.
- Quindi...? Che te ne pare? Sono esagerato? - chiese titubante Mitsuhiko, rialzando lo sguardo su di lei.
Ai finì completamente il suo thè, producendo il rumore risucchiante del liquido rimanente sul fondo del bicchiere. In tutta tranquillità, gli restituì lo sguardo. Era molto pacata e allo stesso tempo decisa.
- Ci sto pensando, e credo che farò una visitina a casa tua. - disse lei, per poi alzarsi serenamente dalla sedia. Lasciò i soldi sul tavolo e si avviò verso l'uscita del locale, seguita da un Mitsuhiko oltremodo allibito ed esagitato, e pure un po' terrorizzato.
- AI! Ai, no, fermati! Oh, dannazione... - provò lui, una volta che furono sulla via del ritorno verso casa sua.
- Ai, ehi, ti va di fermarti un secondo e dirmi cos'hai intenzione di fare? - chiese lui portandosi di fianco a lei con uno scatto, in preda all'ansia.
Lei camminava tranquilla, lo sguardo serio puntato di fronte a sé. Non si girò a guardarlo mentre gli rispondeva.
- Te l'ho detto, no? Vorrei che andassimo a casa tua. Solo un momento. Sai, devo chiedere un'informazione -
- Oh, avanti, non è necessario... non sei tenuta a farti carico dei miei problemi! - riprovò lui tirando fuori un sorriso forzato e un tono acuto di voce. Come diavolo faceva a bloccarla, adesso?
- Non mi faccio carico di un bel niente, Mitsuhiko. Voglio solo vedere com'è casa tua -
- Ma l'hai già vista! -
- La rivedo con piacere -
Il ragazzino si portò le mani al viso stropicciandosi la faccia, senza sapere più che pesci pigliare. Era fatta, okay, addio. La vedeva davvero grigia.
Appena dieci minuti più tardi si trovavano di fronte al campanello di casa Tsuburaya. Ai lo suonò, senza cenno di esitazione e mantenendo sempre quell'espressione serafica. Mitsuhiko credeva che se la sarebbe fatta nelle mutande: lo inquietava molto l'idea di vedere Ai fronteggiare il padre, che in quel momento era l'unico genitore presente in casa, visto che la madre era fuori per compere. Lo doveva ammettere, di film mentali negli ultimi mesi se ne era fatti parecchi, e tutti quanti vedevano come protagonisti lui e Ai, però più grandi e maturi: lui le chiedeva un appuntamento, lei accettava, andava tutto bene, veniva quindi il momento di farla conoscere ai genitori, la portava a casa sua, i suoi la accoglievano sulla soglia sorridenti, “ma che bella ragazza che hai trovato!”, le offrivano la cena, e tutto andava per il meglio. Questo significava far conoscere una ragazza ai propri genitori.
E non quello scenario apocalittico che stava per scatenarsi! Non Ai che, ancora piccola e apparentemente ingenua, ne diceva di cotte e di crude a suo padre. E pure a sua madre, se fosse stata presente. Maledizione, addio ai suoi idilliaci progetti...
- Ai, posso solo chiederti di... di contenerti un po'? - le chiese intimorito Mitsuhiko mentre attendevano una risposta dal campanello, avvicinandosi a lei.
La piccola scienziata si voltò verso di lui, il braccio ancora alzato e pronto a tirare una seconda scampanellata se nessuno fosse arrivato nel giro di pochi secondi, e gli sorrise. Gli sorrise in modo assai rassicurante e portatore di pace.
- Ma certo, Mitsuhiko. Certo. Avevi forse qualche dubbio? -

Nonostante quel sorriso, il ragazzino udì con grande chiarezza una nota diabolica nella sua voce. Deglutì, riconoscendo la propria impotenza in quella situazione.
D'accordo, al diavolo, si fidava ciecamente di lei. Mentre vedeva il padre che, perplesso, apriva la porta e attraversava tutto il vialetto d'ingresso diretto verso di loro, si fece coraggio per fronteggiare qualsiasi evenienza.
- Mitsuhiko...? Che c'è? Non mi ero neanche accorto che fossi uscito. Hai portato con te un'amica? Entrate pure se volete – disse cordialmente il padre ad entrambi, guardandoli.
- Piacere, signor Tsuburaya, chissà se si ricorda di me. Beh, altrimenti pazienza. Senta, una domanda veloce -
- Vuoi chiedermi qualche dolcetto extra come fanno tutti gli amichetti di Mitsuhiko, eh? - proferì lui con una mezza risata, rimembrando probabilmente Genta, che veniva lì un giorno sì e l'altro pure e che quindi sbancava loro il frigo. Ai ridacchiò candidamente allo stesso modo di lui, anche se con atteggiamento piuttosto finto, due melodiche risate che si allacciavano tra loro, finché lei non chiese:
- Ahah, figuriamoci, signor Tsuburaya! Non mi permetterei mai! Volevo solo chiederle se è a conoscenza del fatto che il suo tentativo di trasformare la sua pacifica famiglia in un pandemonio fatto di grida, tradimenti e pianti sta producendo conseguenze spiacevoli sulla salute dei suoi figli. Così, tanto per sapere! - dichiarò lei, mantenendo quel sorriso volutamente plastico sul proprio angelico visetto.
Il signor Tsuburaya sbiancò sul colpo, rimanendo immobile come una statuina scolpita in un luogo di intemperie, e pure Mitsuhiko assunse una forma molto simile. Ma il ragazzino, allo stesso tempo, sentiva di provare una gran gratitudine.
***
Mitsuhiko rise di gusto quando fece la mossa finale contro Ai, vincendo. Ormai la scacchiera era tutta in mano sua da un bel po', entrambi lo riconoscevano, ma lo scacco vincente era comunque doveroso per chiudere tutto in bellezza. Tuttavia non era quello il motivo della sua risata, bensì il ricordo di ciò che aveva fatto Ai poche ore prima. Dopo aver sputato fuori quella sua domanda sarcastica e puntigliosa al padre, era iniziata una piccola guerra di cui Ai aveva monopolizzato strategia e scoppio, vincendo indiscutibilmente: la ragazzina non aveva alzato la voce nemmeno una volta, al contrario l'aveva fatto il padre, sentendosi attaccato e messo alle strette. Il tutto comunque si era concluso per il meglio e senza spargimenti di sangue, con una frase finale di Ai simile a “Col suo permesso Mitsuhiko oggi sta con me da un'altra parte, finché non fate tornare l'ossigeno in casa vostra” e si erano dileguati. Lei effettivamente l'aveva invitato a casa di Agasa, quel pomeriggio, dove poi aveva avuto inizio quella sciagurata partita di Mahjong.
- Che fai, piccolo demonio? Ridi sulle mie spalle, sulla mia sconfitta?! Bel fairplay! - gli disse Ai, corrucciata.
- No, giuro che non è così! - ribatté lui, sempre ridendo.
- Comunque, riprendendo la tua domanda di prima: io dico che se un giorno di questi chiedi una partita a tuo padre, sono certa ti dirà di sì -
- Dici che potrebbe essere un po' rinsavito, dopo oggi...? -
- Diciamo che, magari, ci ha pensato un po' su. - disse lei, facendogli intendere una risposta positiva.
A quel punto lei gli prese la mano, per rassicurarlo. Lui si tramutò in un peperone rosso di stagione, evitando il suo sguardo ma ricambiando di buon grado la sua stretta. Avrebbe lasciato a lei la decisione del momento in cui interrompere quel contatto, perché lui di certo non l'avrebbe fatto.
Mitsuhiko ebbe modo di verificare quella sera stessa l'ipotesi di Ai. Ed era vero, lui e suo padre giocarono a Mahjong per ore, facendo più partite in tutta tranquillità. Nonostante le tensioni ancora percepibili, era stata una piacevole serata, e lo doveva soltanto a lei. Le telefonò prima di andare a dormire, trovandola ancora sveglia.
- Ai, grazie per oggi. Grazie di tutto, avevi ragione! -
- Ne sono felice, l'importante è che stai bene tu -
- S-sì... - ascoltando quella frase di Ai, lui divenne color porpora, ma si costrinse a ignorare il fatto.
- Spero di non averti disturbato. E spero che, se succedesse ancora una cosa simile... tu possa starmi ancora accanto. Non sarebbe andata così bene se avessi incontrato chiunque altro davanti a casa mia, stamattina -
Ai lasciò passare un po' di silenzio, sentendosi colpita e traendo gioia da quella frase così ben elaborata nei suoi confronti. Era piuttosto convinta che nessuno al mondo provasse emozioni tanto positive per lei quanto Mitsuhiko.
- Sì, anche se ti auguro non succeda più nulla di brutto. E in caso contrario... certo, sarò al tuo fianco – puntualizzò lei.
Lui sorrise raggiante e con il cuore librato, aveva sperato in quelle parole. Non avrebbe potuto chiedere di meglio e, nell'indecisione se rivelarglielo o meno, Ai lo anticipò:
- Sempre e solo se non ci mettiamo più a giocare a quel maledetto gioco, perché ne va della mia autostima! Altrimenti te ne puoi tornare a casa a piagnucolare nel tuo angolino, tsè! -
Mitsuhiko scoppiò a ridere, apprezzando l'ironia pungente della ragazza in qualunque situazione. Lei era così, ed era tutto ciò che lui chiedeva rimanesse.





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Ciaooooo ragazzi!!! Ehi, non mi sono volatilizzata nell'etere senza lasciare tracce XD Dopo una pausa “stagionale”, eccoci qui di nuovo con una parata di shot pronta ad essere sfornata ^O^ Come stateeeeee? Non ho certo dimenticato i vostri bei commenti e vi ringrazio infatti moltissimo per le precedenti recensioni! E voglio farvi sapere che sto seguendo alcuni consigli da voi stessi proposti. Infatti prima o poi la fantasia inizierà a scarseggiare, ragion per cui le vostre idee possono solo essermi d'aiuto :D
Fatemi sapere cosa ne pensate di questa, più delicata e rilassata rispetto alle ultime pubblicate :) Mi raccomando, vi voglio vedere carichi e belli come l'ultima volta!! *.* I due protagonisti in questione non si sa mai bene come inquadrarli, ognuno immagino la pensi un po' a modo suo, ma di certo non si può dubitare di un legame alquanto genuino. Troppo carini ç_ç Ma adesso lascio la parola a voi! Alla prossima! ^__^

 

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Capitolo 16
*** Caramella gialla al limone - SherryVerm ***


16. Sherry e Vermouth ~ 

***






Caramella gialla al limone



Mentre affrontava quell'arduo lavoro al computer, fu abbastanza sicura di avere un calo di zuccheri.
Era un progetto veramente difficile e i piani alti dell'organizzazione le avevano dato un ultimatum quasi impossibile da rispettare, ma non aveva molta altra scelta se non farcela. Fare come chiedevano loro. Sempre.
Abbassò un attimo lo sguardo dallo schermo luminoso, si stropicciò gli occhi e allungò in automatico una mano verso il piccolo cesto di vimini alla sua destra, contenente caramelle ai gusti di frutta. Quelle caramelle erano un concentrato di zuccheri, di certo l'avrebbero tirata un po' su.
- Ahi, ahi... mangiare dolci fuori pasto fa ingrassare, Sherry -
Sentì quella voce adulta e femminile alle sue spalle, mentre scartava la carta di quella piccola dolcezza. Non si voltò subito, tanto la riconosceva benissimo: quel tono melodico e suadente poteva appartenere soltanto a lei.
- Lo so, però mi serve... faccio fatica a guardare i numeri sullo schermo, mi si sta appannando la vista – le rispose Sherry, un po' timorosa.
- E allora piuttosto staccati per qualche minuto dal lavoro, no? -
- Non posso. I capi sono stati molto chiari sui tempi da rispettare... tempi che forse nemmeno un androide riuscirebbe a soddisfare -
- Oh, ci credo. Ci credo sicuramente, li conosco. Ma Sherry, fidati... -
Vermouth le si avvicinò, posando una mano sulla sua schiena e dicendole qualcosa a bassa voce.
- Ci parlo io con i capi. Lascia fare a me. E in questo modo avrai qualche giorno in più, con la possibilità di riposare i tuoi poveri sensi -
- Davvero lo faresti, Vermouth? -

- Sono mai venuta meno ad una mia stessa proposta? -
La donna bionda le fece un occhiolino, allontanandosi poi dalla sedia e andando ad afferrare anche lei una caramella. Ad entrambe piacevano molto quelle gialle, al gusto di limone.
A Sherry piaceva abbastanza Vermouth. La stimava per la capacità misteriosa che aveva avuto di costruirsi una reputazione così solida all'interno di quell'inferno, arrivando a godere del massimo rispetto di quasi tutti i membri, specie di quelli più importanti. Tuttavia, per quello stesso motivo, tendeva a temerla. Ma solo a volte. Era una donna che esercitava una tale influenza da farle spesso percepire una forte sensazione di squilibrio.
Si atteggiava sempre da amica e compagna più adulta, con più esperienza, su cui poter contare o da cui prendere esempio, specialmente con lei che era solo una giovane ragazza. Ma aveva la sensazione che nascondesse ben altro.
Quando la guardo negli occhi leggo una moltitudine di significati. Tanti veli che nascondono tante verità. Da una parte sono occhi sinceri, ma dall'altra sono spaventosi.
Per questo tendeva ad accettare i consigli di Vermouth, ad esserle grata per alcuni favori, ma a non fidarsi mai. Era meglio non farlo, se lo sentiva, si trattava di una sensazione istintiva. Prima o poi forse i fatti gliene avrebbero dato conferma, ma chi poteva saperlo?
- Forza, Sherry, giù le mani da quel computer! Mettilo in stand-by. E raccontami qualcosa di te – le disse Vermouth con tono affabile ed un mezzo sorriso, infilandosi in bocca la caramella e accomodandosi su una sedia girevole di fianco a lei. Erano sole, in quel grande ufficio oscurato da una densa penombra.
- Mmm... cosa potrei raccontarti di me? Non ho giornate molto interessanti, sono sempre chiusa qui dentro – rispose Sherry in maniera pragmatica, voltandosi per metà verso di lei. Voleva finire di inserire alcuni dati al pc, prima di seguire il consiglio riposante di Vermouth.
- Non saprei, ma di certo l'inventiva non ti manca, mia cara – rispose la donna a voce relativamente bassa, mentre allungava una mano per premere il pulsante della tastiera che avrebbe mandato lo schermo del computer di Sherry in stand-by. Quest'ultima rimase con le mani sospese a mezz'aria, senza più poter proseguire il lavoro sui tasti poiché lo schermo, ormai, era divenuto nero. A quel punto abbassò le braccia sulle proprie gambe, rassegnata, pensando che in fondo forse era meglio così: era davvero stanca e quel lavoro le stava friggendo i neuroni.
- Che so... - proseguì Vermouth in tutta calma, come se non avesse fatto alcun azione come, per esempio, spegnerle il computer nel bel mezzo di un lavoro. Sherry rimase silenziosa a fissarla, in attesa di un seguito.
- Stai uscendo con qualcuno? O ti piacerebbe vedere qualcuno? - propose la donna con voce sinuosa e divertita, mentre un sorriso complice le si formava in viso.
Le guance di Sherry si imporporarono, udendo quelle parole. Si affrettò a trovare una risposta, muovendo le braccia in modo impacciato e iniziando a balbettare qualcosa di confusionario.
- N...no...c-cioè...ma che dici?! V-voglio dire... io, insomma... -
- Ho toccato un tasto dolente o sei solo un po' imbarazzata? -
- Ehm, dunque... insomma, Vermouth... chiusa sempre qui in questo laboratorio, è un po' d-difficile che io possa davvero frequentare qualcuno... -
- Santo cielo, ragazza mia! Hai quasi 18 anni, avrai quanto meno adocchiato qualcuno, voglio ben pensare? -
- S... sì... -
- Ah, lo sapevo! - esclamò la donna sorridendo raggiante e battendo le mani una sola volta, in segno di vittoria. Allungò la mano verso il cesto per afferrare una seconda caramella, sempre e rigorosamente al limone.
- E chi sarebbe, se posso? -
- Takei... - rispose Shiho con voce sommessa e melodica.
- Quello che passa la maggior parte del tempo al microscopio, qui in analisi? -
- Esatto... insomma, è... è carino -
- Certo che lo è. E dimmi, lui sa già di essere il tuo bersaglio? -
- Assolutamente no! -
- E quando ritieni sia il caso di dirglielo? -
- Mai. Pensavo... pensavo mai. -
Vermouth alzò gli occhi al cielo, con vaga esasperazione. Sherry abbassò lievemente lo sguardo, intimidita all'inverosimile e in forte disagio. Non voleva più parlare di quella questione. Voleva soltanto mangiare tutte le caramelle al limone restanti, in santa pace.
- Darling, se ti comporti così diventa chiaramente dura. Lui, poi, sarebbe un ottimo partito: state sempre “chiusi qui dentro” entrambi, usando le tue parole, no? Almeno lavorereste insieme, con un po' più di gioia. Non sarebbe fantastico? -
La giovane scienziata abbozzò un sorriso timido, da dietro la propria corazza di ferro protettiva. Guardò la splendida donna di fronte a sé, cercando un'intesa nel suo sguardo, che trovò subito. Vermouth le risvegliava allarmanti presentimenti e sinistre sensazioni, era vero, ma in fondo ci sapeva fare con le relazioni interpersonali e di certo era un'ottima dispensatrice di consigli. Forse avrebbe dovuto ascoltarla.
- Sì, lo sarebbe. Forse sì. E... come dovrei fare...? -
- Intanto, sono dell'idea che dovrebbe svegliarsi un po' anche lui. Si è accorto di qualcosa? Ti lancia qualche sguardo? -
- I-in realtà sì... -
- Chiaro, sei una ragazza stupenda -
- M-ma che dici?? -
- Dico la verità, sciocchina. Comunque è già un buon segno che se ne sia accorto! A questo punto non devi far altro che rispondere opportunamente ai suoi segnali. Cosa che sono certa tu non abbia ancora fatto, perché hai la testa dura -
- S-segnali, del tipo... che dovrei riservargli anche io delle occhiate? Che dovrei sorridergli, scambiarci qualche battuta ogni tanto? -
- Ottimo, my dear. Ottimo! Ehi, ce le finiamo queste caramelle deliziose? -
Continuando a disquisire di quell'ardua questione, tra timorose domande e concrete risposte, o a chiacchierare del più e del meno di argomenti piacevoli che interessassero ad entrambe, le due finirono sul serio tutte le caramelle che si trovavano nel cestino, ridacchiando e confidandosi l'un l'altra, in una piacevole ora che filò liscia e leggera. Sherry non ebbe mai abbastanza parole per ringraziare Vermouth per averle concesso e garantito quel lungo momento di svago, e per aver fatto in modo che lei potesse goderselo senza sentire il fiato sul collo dei capi.
E allo stesso modo non ebbe mai le parole per spiegarsi il repentino ed assurdo cambiamento del suo rapporto con quella donna, qualche mese più tardi, da un giorno all'altro. Mai.
Solo qualche tempo dopo comprese che quell'agghiacciante variazione era in qualche modo legata e causata dal lavoro scientifico svolto dai suoi genitori.
- Ehi, Sherry... -
- C... ciao, Takei! - lei sollevò lo sguardo verso il suo collega carino per il quale aveva una mezza cotta, stupita e sorpresa. Ultimamente le rivolgeva spesso la parola, ma in quel momento non se l'era aspettato.
- Ho saputo che hai ereditato la ricerca dei tuoi genitori... com'è? -
- Molto, molto complessa. Non mi piace per niente, ma... ma sai come funziona, qui. Dobbiamo farlo. -
- Già. Già, e... so anche che questa sperimentazione ha dato parecchi disturbi a Vermouth. Disturbi... spiacevoli – il ragazzo aveva un tono pesante e insinuante, oltre che molto basso, come se stesse tentando di comunicarle qualcosa.
- Ah... ah, sì? In che senso? -
- Non saprei dirti in che senso. Sono affari troppo top secret. Però... so che lei sperava che ormai si fosse concluso, che nessuno avrebbe più riaperto questo lavoro. Ma sei arrivata tu, che hai le competenze per proseguirlo -
- Dici che è un problema...? -
- Dico che è molto incazzata. Stai attenta. -
Per qualche ragione, quel lavoro condotto precedentemente dai suoi aveva fatto infuriare la donna in nero. Dopo la loro dipartita, toccava a Shiho proseguire quelle ricerche: motivo per cui l'odio di Vermouth aveva cambiato rotta, la sua bussola era impazzita, dirigendosi verso un'isola segreta denominata Sherry, che sarebbe stata presumibilmente attaccata e saccheggiata. Sperava solo non distrutta.
Dapprima Vermouth aveva soltanto smesso di ricambiarle il saluto. Ma mai lo sguardo, quello purtroppo glielo ricambiava sempre. La guardava con espressioni crudeli ogni volta che ne aveva l'occasione, a prescindere dalle pacifiche premesse che c'erano state nel loro rapporto, a prescindere dai buoni momenti che avevano tuttavia passato. E questo urtava molto Sherry, la quale si sentiva scossa da un atteggiamento che era per lei incomprensibile e ingiustificato. E pauroso.
Avrebbe voluto parlarle, chiederle almeno di chiarire la loro situazione e il loro evidente fraintendimento. Perché Sherry non intendeva certo arrecarle dispiaceri, tanto meno colpirla così nel suo punto debole, e voleva scusarsi di persona se invece, indirettamente, stava commettendo quell'errore. Solo che non ne aveva il coraggio. Tante volte aveva pensato di prendere l'iniziativa e dirigersi da lei, ma le bastava uno degli sguardi della donna per zittire nell'immediato i propri buoni propositi di riappacificazione. Sentiva i propri nervi vibrare come corde di chitarra mosse da un rocker impazzito, quando succedeva.
E decise di accantonare completamente quest'idea di riavvicinamento a Vermouth il giorno in cui la donna in questione, con passo felpato, pacato e indisturbato si avvicinò alla sua scrivania, appoggiando una mano allo schienale della sua sedia e porgendole una semplice domanda in tutta tranquillità. Shiho la riconobbe senza nemmeno voltarsi, bastava ascoltare con attenzione il rumore dei passi sul suolo, dei tacchi che producevano una tetra eco in quel posto chiuso.
- Come stai, Sherry? Ti senti rilassata oggi? -
La giovane scienziata la fissò per alcuni, silenziosi secondi. Deglutì, investita dal disagio e dal battito cardiaco alterato. Non sapeva come rispondere nella maniera più assoluta, se non in modo tremendamente scontato.
- Mmm... sì, grazie...? -
- Beh, smetti da questo esatto istante di sentirti così. Perché... -
Vermouth si abbassò, accostando la propria bocca rossa all'orecchio della ragazza, per sussurrarle qualcosa. Ne uscì un suono basso e strisciante, che nascondeva in sé significati e intenzioni maligne nascoste troppo a lungo, che ridonava vita a tutte le paure ispirate in Sherry. Non solo le paure di quel momento, o quelle che poteva aver percepito ai primi tempi in quell'organizzazione. Anche le paure di quando era piccola, la paura di rimanere a casa da sola per troppo tempo, la paura del mostro sotto al letto. Le venne in mente tutto. Ed era bastato quel messaggio mormorato direttamente nel timpano.
- Perché tu morirai. Non uscirai viva da qui, mai e poi mai. Te lo garantisco. E quando do la mia parola, Sherry, difficilmente le cose vanno diversamente. -
La giovane rimase immobile, imbalsamata. Non un solo muscolo doveva muoversi, e non un solo nervo doveva cedere. In quel momento era indispensabile rimanere ferma. O si sarebbe sgretolata.
- Questa tua ricerca mi ha dato tanti problemi e me ne darà ancora. Tu quindi mi comprenderai, vero? Certo, certo che mi capisci, sei così acuta. Così sagace e pura – fece una pausa, per poterle quasi sfiorare la guancia con le labbra, mentre Shiho si sforzava per non lasciarsi sfuggire alcun lamento. - Il mio è solo un occhio per occhio, piccola e ignobile creatura. -
Vermouth si raddrizzò di nuovo, continuando a fissarla con un sorriso volutamente piatto.
- Divertiti, finché sei in tempo. E' l'ultimo, vero consiglio che posso darti. Goodnight, Sherry – e si allontanò così com'era arrivata, coi passi che risuonarono quasi a rallentatore.
Da quel giorno la giovane scienziata non smise di rimanere in stato di allerta continua. Quando ripensava a quella surreale conversazione avuta con la donna, la nausea l'acchiappava come fosse una rete occultata e pronta ad ingarbugliarla. L'ansia aumentava nei momenti in cui udiva il nome di Vermouth pronunciato da altri colleghi, o quando la intravedeva per stanze e corridoi, dopodiché si appianava, ma la accompagnava assumendo nella sua mente la forma immaginaria di vari eventi mortali che avrebbero potuto abbattersi su di lei in qualunque momento.
L'inquietudine era sempre presente. Il terrore solo ogni tanto. L'angoscia si era insinuata nei suoi occhi, nella tastiera e nello schermo del computer, nelle sue mani. Era ovunque. Temeva tutto ciò che avrebbe potuto fare quella donna nei suoi confronti, quando meno se l'aspettava e approfittando delle sue debolezze. Era questo il suo dannatissimo scopo? Trasformarle la quotidianità in un campo minato?
Un pomeriggio arrivò finalmente una delle sue minuscole e personali “armi” in grado di combattere quelle cupe sensazioni: un collega di basso rango posò accanto al suo computer un piccolo cesto di vimini colmo di caramelle al limone. Sospirò con grande gratitudine, finalmente qualcosa di vagamente positivo in quel mare d'oscurità. Mentre finiva di digitare un codice sulla tastiera afferrò distrattamente una caramella e se la infilò in bocca, iniziando a gustarla molto lentamente. Voleva prolungare quell'istante il più possibile.
Quando la prima caramella andò giù, afferrò la seconda, sempre con lo sguardo fisso sullo schermo. Mentre si rigirava quella piccola prelibatezza in bocca e scorreva la mano nel cesto alla ricerca della terza, con le dita sfiorò qualcosa sul fondo del cesto. Accigliata portò lo sguardo lì, scorgendo un piccolo foglio di carta nascosto sotto tutte le caramelle, recante un messaggio. Con un'improvvisa sensazione trapanante e il cuore in gola, estrasse velocemente quel biglietto e lo lesse alla velocità della luce, con la caramella ancora in bocca e quasi estinta.
“Hai ancora voglia di svagarti ogni tanto? Allora questo gioco forse ti piacerà! A me piace molto, si chiama “trova la caramella avvelenata”. Se le eviti tutte, beh... congratulazioni, avrai vinto! - Vermouth”
Sherry strabuzzò gli occhi e sputò all'istante la caramella che aveva in bocca, improvvisamente sudata fradicia e col respiro ansimante.
Merda... merda, ne ho già inghiottita una!
In preda al panico, con uno scatto fulmineo buttò a terra tutto il cesto e le piccole caramelle gialle si sparsero ovunque. Le sue dolcissime caramelle, le buone compagne di quei giorni orribili, tra le quali si nascondevano delle infiltrate avvelenate. Gli altri colleghi si voltarono a guardarla perplessi e indispettiti, visto che stava disturbando il lavoro. Anche Takei, il quale tra parentesi aveva smesso di rivolgerle la parola per paura di finire nel mirino di Vermouth, la fissò in tralice, senza capire i suoi bizzarri comportamenti.
E' pazza... è fuori di testa... vuole uccidermi... farà qualsiasi cosa!
Si alzò di scatto e scappò nel primo bagno disponibile, per darsi una sciacquata d'acqua fredda ed eventualmente disintossicarsi costringendosi a rimettere. Ma non fu necessario, dopo tutti quei minuti il veleno avrebbe già iniziato a fare effetto, perciò se ancora stava bene significava che le due caramelle che aveva mangiato non erano tra quelle che la donna aveva avvelenato per farla fuori.
Ci impiegò molto tempo per ritornare ad una condizione normale. Il respiro non voleva saperne di calmarsi, il cuore le tamburellava nei timpani, gli stessi timpani che avevano dovuto ascoltare quelle minacce, e il suo corpo tremava in modo indiscriminato. Lacrime di impotenza e fragilità iniziarono a sgorgarle dagli occhi, mentre Sherry si fissava allo specchio del bagno ridotta in quello stato. Si strinse tra le braccia per contrastare alcuni singhiozzi che la scuotevano, approfittandone quantomeno per sfogare tutta la tensione accumulata in quell'ultimo periodo.
Quanto avrebbe dovuto lottare ancora? Contro quanti nemici? Perché aumentavano, invece di diminuire? Le avevano tolto anche l'ultimo e gustoso sfizio che le era rimasto. Erano contenti, adesso?
Cosa diavolo aveva fatto di male? 






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Come è evidente questa shot è ambientata nel passato, quando Shiho ancora lavorava nella sezione scientifica dell'organizzazione sotto l'ufficiale pseudonimo di "Sherry". Posso dire che in questo caso è tutto totalmente inventato, provando ad immaginare un passato tramite cui si possa giustificare il terrore che attualmente Ai prova per Vermouth e, viceversa, l'astio provato da quest'ultima per via di un torto involontario, passando però per un fattore che penso nel manga non sia assolutamente accaduto: un buon rapporto, o comunque pacifico, tra Vermouth e Sherry. Ve lo confesso, mi è piaciuto davvero tanto immaginarle così, non dico amiche, ma almeno comprensive compagne di sventure. Spero di avervi passato almeno un po' di questa sensazione :) Per questa shot mi preme particolarmente chiedervi: mi fate sapere? <3 
E come al solito vi lovvo follemente a tutti voi commentatori e lettori, con voi si discute troppo bene ç___ç E tutti i consigli che mi state dando contribuiranno alla crescita di questa raccolta ;) Grazie ragazzi!!! Huuuuugs! 

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Capitolo 17
*** Turbinio di neve bianca - ShuJodie ***


17. Shuichi e Jodie ~

***






Turbinio isolante di neve bianca



- Aiuto. Ok, moriremo. Hey, OCCHIO! Ma sul serio, potresti andare un po' più piano?! -
- Mmm... no, direi di no. Non voglio arrivare tardi – proclamò Akai con un mezzo sorriso assolutamente saccente e di un'antipatia rara.
Jodie si picchiò da sola la fronte col palmo della mano, esasperata e senza parole. Cioè, non è che fosse così difficile da analizzare quella situazione: brutale nevicata in corso, fiocchi di neve grossi come soffioni si schiantavano contro l'auto limitando la vista oltre il parabrezza, l'asfalto collezionava centimetri di neve ed era scivoloso, la macchina slittava di continuo come fosse ad una gara di derapate. E allora perché, perché Shuichi andava così forte?! Si sarebbero andati a schiantare, già lo sapeva.
- Sì, tesoro mio bello, ma non mi va di rischiare la vita per non dover arrivare tardi! Rallenta! E' solo una stupida festa natalizia tra colleghi... e poi a te neanche dovrebbero piacere, queste cose! - gli disse frettolosamente Jodie, appigliandosi con ansia estrema alla maniglia interna della portiera per non sbandare a destra e sinistra.
- E perché mai non dovrebbero piacermi? - gli chiese di rimando Shuichi mentre guidava, tenendo il suo sguardo imperturbabile sulla strada come se in quel momento non imperversasse una delle più terribili tempeste di neve degli ultimi anni.
- Beh, perché... perché tu sei tu! Sei oscuro, truce e... ehm... inquietante. Quindi, a rigor di logica, come fanno a piacerti le feste natalizie? - chiese Jodie, perplessa.
- Ah. Quindi lo dici solo per questo motivo? -
- In realtà sì. Perché, non ho ragione? -
Shuichi fece spallucce, pensandoci su qualche secondo.
- Ma sì. Credo tu abbia ragione. Bello schifo, queste feste – disse ridacchiando.
Dopodiché girò bruscamente il volante per fare una curva pericolosa sugli strati di neve senza sbandare. Anzi, senza sbandare troppo. Jodie fu sul punto di capitombolare sotto il cruscotto, motivo per cui si tenne salda con le mani alla cintura di sicurezza urlando un “damn it!”.
Le sembrava di essere ad un rally, sul serio. E non impazziva all'idea che fosse sulla neve, era pericoloso e Shuichi sembrava avere il piede incollato all'acceleratore. Anche se aveva un po' di fifa e spesso chiudeva forte gli occhi per non guardare i muri o le vetrine dei negozi avvicinarsi fulminei e minacciare lo schianto, tutto sommato si fidava della guida di Shuichi. Era completamente pazzo, ma si fidava.
- Oddio... oh my... ma manca ancora tanto, alla fine di questa tortura...? - borbottò Jodie tra sé, piagnucolante.
- Quanto la fai lunga, fifona. Siamo quasi arrivati. Speriamo ne sia valsa la pena, eh? -
- Beh, sì, speriamo. Altrimenti qualcuno dovrà risarcirmi i danni morali! - ridacchiò lei, e con immensa gioia vide che anche lui rimase contagiato dal suo buonumore.
In fondo si divertivano insieme. Erano completamente diversi, lei fin troppo esuberante e chiacchierona, lui taciturno e analitico. Ma per qualche strana alchimia sembravano essersi trovati ed interconnessi, i loro caratteri si erano agganciati ed uniti su quella linea sentimentale in grado di tenere fuori dai suoi confini i fattori contrastanti che li caratterizzavano.
- Si faranno strane idee gli altri, vedendoci arrivare insieme...? - gli chiese Jodie, titubante.
- E anche se fosse? E' giusto che si facciano tutte le idee che vogliono, perché sono vere – rispose lui senza batter ciglio. Lei sorrise emettendo un lieve sospiro, sollevata.
A volte pensava di essere l'unica a ritenere ci fosse un legame di un certo tipo tra loro. Di essere l'unica a credere che, da diversi mesi, si stessero frequentando a tutti gli effetti, o a credere che per lui non fosse nulla di serio ma solo una sorta di svago. Sentendogli dire quelle parole, perciò, percepì una piacevole fitta di calore nel petto e cercò di convincersi del contrario. Doveva eliminare quel suo fastidioso dubbio di essere solo parte di un divertimento post-lavoro, e iniziare a considerarsi come lui effettivamente la vedeva: una donna con cui stare, con cui presentarsi alle feste tra colleghi, con cui fare viaggi traumatici in un'auto che sbandava senza tregua sulla neve.
Quel viaggetto “tranquillo” infatti sarebbe sempre rimasto impresso nella sua mente come uno dei momenti migliori, nonostante il trambusto e il timore: avevano riso per quasi tutto il tempo, lei aveva sbraitato in due lingue diverse per farlo desistere da quel tipo di guida, la neve li aveva accompagnati e al contempo piacevolmente isolati dal resto del mondo.
E lui le aveva detto quella frase.
- Anche nel caso in cui io non mi diverta alla festa, spero proprio che ce ne saranno comunque altre a cui partecipare. Fosse anche solo per momenti come questi, per fare un viaggio in macchina fino a là con questa atmosfera, io e te da soli. - poi aveva tolto la mano dal cambio marce per posarla sulla sua, anche se solo per pochissimi secondi. E l'aveva guardata per finire il suo discorso.
- Buon Natale, Jodie. -


La giovane agente ripensava spesso a quell'episodio, così come ripensava a quanto le piacesse il fatto che Akai riuscisse a tirare fuori alcuni lati speciali e gentili solamente con lei. Tuttavia, ormai, ci ripensava con una morsa al cuore che era in parte costituita da gioia e in parte da amarezza, specialmente in quella serata in cui aveva avuto conferma su quali fossero i piani dell'FBI riguardo all'organizzazione nera che stavano cercando da anni: il piano non era nient'altro che inserire un agente sotto copertura in mezzo a quell'ammasso di corvi neri e assassini, qualcuno da confinare tra loro per un tempo indefinito e mettendogli a rischio la pelle senza riserve. E la scelta su chi poteva ricadere, se non su uno dei migliori agenti che ci fosse in circolazione...?
- E' lavoro, Jodie. Non posso rifiutarlo, e ci tengo alla riuscita di questa operazione – le diceva lui ogni volta che affrontavano l'argomento e che la vedeva sottotono, col morale abbassato.
- Lo so, che cosa credi? - rispondeva lei brusca, per fargli capire che non cadeva di certo dal pero. Ed era così anche in quella serata precisa in cui stavano cenando a casa di Akai, senza tuttavia quasi toccare cibo. - Certo che lo so, sono un'agente anche io e conosco le logiche di certe pianificazioni. Quindi evitami queste patetiche paternali -
- Non intendo fare questo. Ti ho vista un po' giù, e volevo solo... -
- Basta così! Qui non è importante cosa “volevi tu” o cosa “voglio io”. Qui ha importanza soltanto il lavoro, le coperture, le missioni, i criminali! – disse alzando la voce e anche il calice di vino rosso, portandoselo alle labbra e ingurgitando un grande sorso. - Lo so bene, e tra l'altro io stessa sono anni che mi trovo sulle tracce di quell'organizzazione. Anzi, meglio così: ora che ti ci infilerai in mezzo, mi passerai quante più informazioni possibili! -
- Jodie... -
- Dalla prossima settimana, siamo d'accordo? Quando sarai lì dentro infiltrato e confuso tra loro... giorno e notte, costantemente in pericolo... tieni bene gli occhi aperti. Sempre. Okay? Fatti amico qualcuno, magari, in modo da rubargli più facilmente le informazioni. Okay? -
- Ascoltami, vorrei che... -
- Mi raccomando, voglio tutti i file. Soprattutto quelli su Sharon Vineyard, che ha assassinato la mia famiglia. Ti ricorderai, vero? Aspetto tutto sulla mia scrivania -
Lei si rese conto che, ad ogni frase, vedeva sempre più offuscato. Con gli occhi riempiti di lacrime e la voce incrinata, sorseggiò di nuovo avidamente del vino. E mentre Shuichi si alzava dal suo posto per raggiungerla e stringerla tra le braccia, lei iniziò a lasciarsi andare a quel dolore e a singhiozzare nel modo più sommesso possibile.
- Ti va di restare stanotte? - le propose Akai sotto voce e con tutta la dolcezza di cui il suo animo d'acciaio disponeva.
- Sì... - rispose lei senza esitazione. Presto non l'avrebbe più rivisto per molto tempo o, nel peggiore dei casi, non l'avrebbe proprio rivisto più. Non voleva lasciarsi scappare quelle poche occasioni che avevano ancora da passare insieme, prima della sua missione di infiltrazione tra gli uomini in nero.


Erano già passati due mesi. Due mesi di sporadiche telefonate, di frettolosi incontri quasi clandestini, di impercettibili parole sussurrate nell'aria. In qualche modo riuscivano a restare in contatto, specialmente quando Akai, in completa copertura e con la nuova identità di Dai Moroboshi, si presentava dal capo James Black per lasciar giù dei rapidi e spediti resoconti. O per lasciare dei documenti riguardanti Vineyard, alias Vermouth, sulla scrivania di Jodie, come lei aveva chiesto.
Un giorno, incontrandosi all'ombra di un parco desolato, Shuichi le aveva spiegato che stava seguendo il suo consiglio: si stava facendo amico un membro di quell'organizzazione, per avvicinarsi di più a loro e rimanerne in stretto contatto. Questo membro era una ragazza piuttosto giovane, Akemi Miyano, figlia maggiore di due scienziati dell'Org. Le raccontò che, per poter attaccar bottone con lei, si era addirittura buttato sotto la sua macchina finendo in ospedale, e che lei non sospettava ancora nulla.
- Ah, una giovane donna? - gli chiese di puntualizzare Jodie, lievemente stizzita. Tra tutti gli uomini che dovevano esserci in quel nero covo, proprio lì doveva ricadere la scelta? Ma Jodie scosse la testa e se la fece subito passare: era lavoro, non gioco e nemmeno intrallazzo. Doveva affrontare quella situazione pericolosa, e in cui lui era in pericolo, con estrema serietà.
- Sì. Sfruttando lei riuscirò a penetrare di più nella loro rete, tirando fuori qualche informazione e strategia utile -
- Sicuro che lei non ti stia già usando a suo vantaggio? -
- Sicuro. E' una brava ragazza, tutto sommato, si trova lì dentro soltanto perché ci è costretta -
- Devi averci parlato molto, per aver già capito che è una brava ragazza – riprese lei, sempre senza riuscire a mascherare nella voce quella punta di fastidio e gelosia. Doveva smetterla, e se lo ripeté mentalmente. E' lavoro, lavoro.
Poi ne passarono altri quattro, di mesi. Mesi in cui, per Jodie, divenne sempre più complicato avere un qualsiasi tipo di contatto, digitale o fisico, con Shuichi. Lui era ormai coinvolto appieno in quel gigante “nido di corvi” e di certo indagava senza sosta. Si chiedeva spesso cosa stesse facendo, come stesse agendo, se si sentisse in pericolo, dove si nascondesse, con chi stesse parlando. Se stesse ancora “sfruttando” la giovane donna adescata nell'organizzazione, o se avesse smesso. Se anche lui soffrisse la sua mancanza come lei stava soffrendo la sua.
In una notte fonda di autunno, in un orario in cui le luci della città erano attenuate al massimo e i rumori affievoliti, riuscirono a vedersi. La giovane agente era al settimo cielo e faticava quasi a contenersi, anche perché aveva immaginato quel momento nella sua testa una tale quantità di volte che ne aveva perso il conto; e sebbene ogni legamento del suo essere vibrasse di gioia, sebbene tutto ciò che ormai le era parso irreale si era invece concretizzato, non intendeva ostentarlo: un po' per rispettare quella vecchia e maliziosa regola femminile, quella del “ignorare e farsi desiderare”, e un po' perché sospettava che Akai non andasse proprio matto per gli atteggiamenti esuberanti e mostrati al 100%. In ogni caso, lei non poté fare a meno di tirare un gran sospiro di sollievo: a parte qualche ferita qua e là, le pareva che lui stesse benone. Aveva il viso tirato per la stanchezza e forse anche per l'angoscia, ma non era di cattivo umore, anzi.
Per questo aveva pensato che, passando quella notte insieme dopo tanto tempo in un anonimo hotel, si sarebbe riuscita a ritrovare una traccia di quell'antica armonia che li legava. Ma non fu così.
Lei lo vide per tutto il tempo distratto, a tratti senza forze. Era di certo esausto dal tenore di quella “seconda” e fasulla vita che stava conducendo, ma non era solo questo, ed erano i suoi occhi a comunicarglielo: era come se il nocciolo del problema, in quel momento, fosse tra loro due e basta. L'organizzazione, il pericolo, la distanza, erano tutti fattori che non c'entravano nulla.
Evitò comunque di chiedergli qualsiasi cosa, nonostante le continue e insidiose fitte al cuore, miste alla delusione: aveva una paura matta di rovinare completamente l'atmosfera di quella serata, come se già di per sé non arrecasse abbastanza pesantezza. Era l'unico momento in cui lui trovava il modo di svagarsi e di slacciarsi da quell'incubo in cui era confinato, e non si sentiva in diritto di rovinarglielo.
- Solo una cosa, poi non ti chiedo più nulla. Stai bene, Shu? - le chiese lei mentre gli teneva ancora il braccio attorno al petto, titubante, nel buio di quella stanza illuminata soltanto dalle luci esterne della città che penetravano attraverso le finestre. Ormai si trovavano lì dentro da qualche ora, prima o poi l'alba rosa si sarebbe delineata all'orizzonte.
Vedendo che non rispondeva, Jodie si staccò da lui e si alzò a sedere sul letto, guardandolo. Lui fece lo stesso e si accostò sul bordo, in procinto di alzarsi, poi si voltò verso di lei con un mezzo sorriso stanco e vagamente amareggiato.
- Sì. Magari adesso però mi faccio una doccia. Perdonami, sono solo un po' distratto da tante questioni. Questo particolare lavoro... è più duro di quel che credessi. -
E senza aggiungere altro, si diresse verso il bagno. Lei annuì tra sé e sé, convincendosi che quel discorso aveva più che mai senso. E ignorando la sensazione pungente che, però, qualcos'altro le stesse sfuggendo.
Dopo svariati minuti scosse la testa e si alzò, andando a sedersi al tavolo per mangiare una grossa pesca come colazione appena prima dell'alba.
E, davvero, non lo fece apposta. Non fu realmente sua intenzione spiare la mail che arrivò in quell'esatto momento al cellulare di Shuichi, posizionato di fronte a lei sul tavolo e con lo schermo ben illuminato dal testo del messaggio, perfettamente leggibile. Non voleva farlo, ma era lì, di fronte a lei, arrivato appositamente come un segnale mistico.
Ciò che lesse le bloccò momentaneamente la masticazione e pure il battito cardiaco. Finì di leggere il messaggio, lo rilesse almeno un paio di volte in tutto, forse tre, e poi posò delicatamente la pesca sul piatto, deglutendo a fatica quell'ultimo boccone con lo stomaco richiuso. Spostò la testa verso la finestra e fissò il panorama calmo e silenzioso a lungo, inespressiva, ascoltando gli scrosci d'acqua provenienti dalla doccia ancora attiva.
Quando Akai uscì dal bagno, lei si era già rivestita e l'alba aveva iniziato a permeare i palazzi con la sua morbida luce rosata.
- Che fai, Jodie? Non puoi aspettare un attimo? - le chiese lui, perplesso.
- Anche quello è lavoro, Shu...? - le disse lei sottovoce e mesta, indicando con un cenno della testa il suo cellulare sul tavolo.
Lui spostò lo sguardo verso l'oggetto, afferrandolo e leggendone lo schermo. Dopo alcuni secondi di silenzio, capì e sospirò.
Un messaggio arrivato in piena notte da Akemi Miyano, il quale citava “Sì, te l'ho detto io stessa l'altro giorno, no? Che anche io mi sto innamorando di te. Ma sono contenta tu abbia voluto ricordarmelo, con quell'amabile atteggiamento che tiri fuori solo con me. Ed io ti voglio ricordare che, se mai usciremo da questo casino, potremo ricominciare insieme. Chissà, magari potremo andarcene e partire via lontano! Ci staresti, Shu? Spero di sì”. Lui si morse le labbra, sospirando di nuovo gravemente e voltandosi verso Jodie che lo fissava seria, ma non arrabbiata. Soltanto malinconica.
“Solo con me”. Erano quelle le tre parole del messaggio che forse l'avevano più scalfita.
Perché la verità era che, anche se non se l'erano comunicati formalmente, la loro relazione si era conclusa da un pezzo. Come possono due agenti federali, spesso sotto copertura in missioni rischiose e in postazioni diverse del pianeta, sperare di andare avanti in quel modo? Lei lo sapeva già da un bel po', e forse quel che le serviva era semplicemente una bella conferma dei fatti. Ora che questa era arrivata, ed anche tosta, poteva rilassarsi. In teoria.
- Te ne avrei parlato, Jodie... -
- No, non voglio saperne nulla. Non sei tenuto a spiegarmelo, non c'è mica un contratto. Immagino sia soltanto lavoro, devi impegnarti a guadagnarti la fiducia dei membri dell'organizzazione e per questo scopo sei disposto a... -
- No. Non è solo lavoro. Non in questo caso, non con lei. Lo pensavo all'inizio, ma poi... -
La conversazione parve morire lì, in modo eloquente. Jodie annuì frettolosamente senza guardarlo e prese la sua borsa, mettendosela in spalla.
- Tranquillo, Shu. Ci avevo sperato, forse, ma non ci avevo mai creduto sul serio. E' troppo difficile per due come noi. Anzi, sono felice che in mezzo a quell'incubo che stai vivendo, tu abbia trovato qualcosa che ti dà la forza di andare avanti e stare su con l'umore. E dico davvero – concluse Jodie con un sorriso triste ma molto sincero.
- Jodie... se solo volessi rimanere qui un attimo, così che io possa... -
- Te l'ho già detto, non devi preoccuparti. - ribatté lei, facendo due passi verso l'uscita. - E' già l'alba, tra poco inizio il mio turno e ho parecchio lavoro da fare. Così come penso anche tu. E' stato bello passare la nottata qui, come... come tutte le volte – si affrettò ad aggiungere, dirigendosi verso la porta della stanza. Shuichi la fissò per tutto il tempo, senza emettere un suono.
Una volta uscita da lì, Jodie si richiuse la porta alle spalle e si diresse all'ascensore. Vi entrò da sola, digitò il piano terra, si appoggiò con la schiena alla parete dell'abitacolo ed affondò il viso in entrambe la mani, premendo forte, le dita bagnate via via dalle lacrime.
Avrebbe dato probabilmente tutto ciò che aveva con sé in quel momento, compreso il suo tesserino da membro FBI, per poter tornare indietro a quella lontana serata invernale, in quell'auto guidata in modo pazzoide in mezzo alla neve e che minacciava di collidere contro un muro ogni due minuti. Avrebbe dato tutto per poter avere ancora quel genere di fifa, quella leggerezza, per poterlo avere al suo fianco che rideva con lei, per udire di nuovo frasi come quelle che, quella sera, si era lasciato sfuggire. Per poter rivedere attorno a loro quei turbinii di neve che li avevano circondati con assoluto candore.
Mentre singhiozzava da sola, confidando nella lentezza di quell'ascensore nell'arrivare al pian terreno, sperò di riuscire a dimenticare quei momenti che non sarebbero tornati mai più.


Appena il mese successivo, Akemi Miyano rimase vittima di omicidio da parte dell'organizzazione stessa. L'informazione arrivò all'FBI tramite Akai, perciò anche alle orecchie di Jodie. La donna si stupì di se stessa nel constatare che tutto ciò che provava era solo un'immensa, sconfinata tristezza: non poteva certo gioire della morte altrui, usando lo stupido pretesto che c'era di mezzo un uomo; senza contare che aveva ormai imparato, nella propria concezione mentale, ad attribuire ad Akemi il ruolo di salvatrice per Shuichi, il ruolo di colei che aveva il potere di farlo sorridere e di fargli sentire il cuore leggero pur restando incastrato nel contesto nemico. In realtà avrebbe soltanto voluto ringraziarla di questo, e non di certo saperla morta.
Il suo pensiero volò subito a Shuichi. Chissà come diavolo di sentiva, in quel momento? Senza più quell'àncora, senza più quella donna di cui, in fondo, pareva essersi innamorato?
Il mese dopo ancora, Akai completò il suo periodo di infiltrazione tra gli uomini in nero, in quanto smascherato e con la copertura saltata. Tornò alla sede dell'FBI in veste di agente federale, ritrovandovi Jodie in perfetta forma.
- Posso entrare? - le chiese lui all'ingresso del suo ufficio, bussando appena. Jodie annuì con vigore e con un sorriso.
- Certo, vieni pure. Hai qualcosa per me? -
- Esatto. Un po' di fascicoli ricreati da me su quel che ho capito di Sharon Vineyard -
- Grazie, mettili pure qui. Questi mi serviranno davvero per indagare. E' stato complicato stilarli? Com'è lei? -
- Diciamo che lo sa, ha capito quel che stavo facendo. Perciò se arriverà il giorno in cui te la troverai di fronte, sappi che non ha gradito affatto questa mia azione -
- Ne prendo atto. Può essere pericolosa quanto vuole, perché quando mi incavolo io non sono da meno! - disse lei con un esagerato e giocoso broncio di vittoria, suscitando la risata di lui.
- Comunque ti trovo bene, Jodie. Ne sono felice -
- Anche io ti trovo bene, Shu. Nonostante... nonostante tutto quello che devi aver passato. - provò ad azzardare lei, scorgendogli per un attimo un'ombra nera e cupa negli occhi. Non sapeva come e quanto stesse soffrendo la perdita di Miyano, ma decise che non vi avrebbe indagato: erano solo affari di Shuichi e, semmai lui avesse avuto voglia di parlarne, sapeva di certo dove trovarla. - Ma insomma, che dire... sono contenta di ritrovarti nell'FBI. E' questo il posto in cui devi stare. -
- Lo è davvero. Me ne sono reso conto più che mai. - disse a bassa voce.
Lei gli rivolse un limpido sorriso, prima di concludere.
- Bentornato, agente Akai – dichiarò con un mezzo inchino, a cui lui rispose ben volentieri.



 





********************************************
Ciao belli!!! :D Eccoci qui con una shot dedicata a Shu e Jodie, una coppia che mi è stata suggerita/richiesta più volte (grazie a tutti voi suggeritori!) e che inoltre avevo abbozzato già da un bel po' di tempo, l'ho solo risistemata un poco per buttarvela addosso senza pietà :) ^.^
Che ne pensate? Io volevo fare una cosa più leggera, eh, ma alla fine mi sono fatta venire la malinconia da sola. ç__ç XD Jodie comunque non è una tipa da buttarsi giù, quindi l'ho lasciata bella sostenuta anche dopo la batosta!! Yeah! E Shuichi, BEH... trovo che sia il più, ehm, aitante giovanotto (:Q_____) che ci sia lì dentro, però di sicuro è un tipo piuttosto impegnativo D:
Bando alle ciance! Aspetto di avere vostre impressioni e vi ringrazio tanto, come sempre, per le vostre splendide recensioni, mi fate sempre tanto piacere :') ne voglio ancora eh, hancoraaaah! *sbava* Deheheh, alla prossima! ^^ 

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Capitolo 18
*** Film da bollino rosso - SeraCo ***


18. Sera e Conan ~ 

***







Film da bollino rosso


Era iniziato tutto con un “Conan-kun! Ti va di venire qui, da me, per aiutarmi a far funzionare un nuovo e complicatissimo software che ho installato sul pc?”
“No, Sera.”
“Ma dai, perché no? Sei l'unico che può capirci qualcosa in mezzo a tutti questi comandi, l'unico con un cervello all'altezza!”
Arrossito. “E va bene, va bene... dammi una mezz'ora.”

Poi era continuato con “Conan-kun, grazie per il software! Già che sei qui... sto partecipando ad un concorso online di gialli e caccia ai criminali. E' un gioco figo! Vuoi rimanere e aiutarmi a scovare i colpevoli?”
“No, Sera.”
“Ti prego! Con le abilità deduttive e invidiabili che possiedi tu, sicuramente arriviamo primi al concorso...”
Arrossito. “E va bene, d'accordo, ma solo per stavolta. Fammi vedere com'è...”

E poi era finito con “Conan-kun! Ormai è tardi per prendere i mezzi, perché non rimani qui a vedere un horror di quelli brutali e privi di scrupoli, una roba cattiva come si deve?!”
“No, Sera!”
“Eddai! Uno come te, coraggioso e temerario, che teme uno stupido film horror...?”
Quasi arrossito, prima di captare la trappola e capire che, forse, quella scema aveva semplicemente paura a rimanere sola a vedersi un horror e che perciò, con lusinghe e complimenti, tentava di attirare degli adepti attorno al suo piccolo regno.
“Eh, d'accordo... non ho molta scelta... però poi mi riaccompagni in moto, okay?”
“Certo! Sìsìsì! AH, che bello, non hai idea del sollievo, avevo una paura!”
Come volevasi dimostrare.
“Non saresti costretta a vedere queste schifezze, comunque!”
“E invece sì. Devo mostrare a me stessa fermezza, autocontrollo, buona gestione della paura e imperturbabilità”.

Fermezza, autocontrollo, buona gestione della paura e imperturbabilità.
Ed era stando appiccicata ad un bamboccio annoiato, urlando peraltro come una quaglia impazzita, che Sera intendeva dimostrare a se stessa quelle qualità?
- Oh, santo cielo, ma è... è... disgustoso! - disse lei tremante come una foglia, guardando l'orrore nello schermo.
- Sì, me ne sono accorto... hai un criterio di scelta che è veramente discutibile. Lo togliamo? Guardiamo qualcos'altro, magari? - propose lui, sbadigliando.
- Perché, ti da fastidio? Hai paura? Se te la stai facendo sotto lo togliamo eccome, non esitare a chiedere! - rispose lei con un sorriso forzato.
- Non cercare di dare la colpa a me, Sera! -
- B-beh, allora no... però, se non ti fastidio, continuerei a guardarlo perché... - tentennò prima di finire il discorso, sempre tremante e con una certa difficoltà nel tenere gli occhi aperti per il troppo schifo. - Perché è... è una figata, in fondo -
- Oh, ma insomma Sera, è disgustoso o è figo?! Datti da fare per prendere una decisione, perché ne va anche del benessere della mia serata! - rispose il piccolo, imbronciato.
- E' una figata disgustosa, va meglio? AH! AIUTO! - rielaborò lei, arpionandosi ancora di più a lui e stringendolo fino a fargli sfiorare la sensazione di soffocamento, e all'occorrenza sbraitandogli nelle orecchie.
- Guarda che schifo, guarda che schifo!! Arrivano! Ma che diavolo sono? Zombie, cannibali? Assetati di sangue, razze indigene che... oddio... oddio, no... -
- Io vedo solo sangue ovunque, nient'altro. Qualcuno sbranato ogni tanto, forse... - disse sbadigliando ancora, con una gran voglia di appisolarsi se solo non ci fosse stata quella simpaticona che sussultava ad ogni scena cruenta, con una frequenza perciò molto alta. Le scene splatter e trash davano fastidio a prescindere, ma a lui non facevano impressione e, vederle o meno, non poneva una grossa differenza. Al contrario, lo sforzo gli era richiesto per riuscire a sopportare lei.
- Ah sì, hai ragione, quello è un intestino! Fantastico, vero? - disse Sera esaltata, rimangiandosi tutto nella scena dopo quando l'intestino in questione venne sostituito da altre interiora non meglio identificabili.
- Una meraviglia... - sbuffò lui, non potendone più. - E poi staccati da me, dannazione. -
-
Sono sempre più convinta che quegli esquimesi non abbiano delle sane abitudini -
- Ma... non sono esquimesi! Ti pare che mangino esseri umani?! -
- No, ma non mi veniva in mente nessun altra etnia. Cosa mangiano, pesci? Pinguini? -
- Ma che ne so, chi se ne frega?! -
- Giusto, penso vivremo bene anche senza saperl... ARGH, ECCOLI!!! NON-MORTI! - piagnucolò senza sosta Sera, spaventandosi in modo piuttosto autentico. Conan non la credeva così fifona, anzi, avrebbe tranquillamente pensato che di fronte ad un horror sarebbe stata in grado soltanto di ridacchiare sprezzante, e invece? Rideva anche, certo, diceva che dopotutto era molto figo e fantastico, ma intanto se la faceva sotto come pochi. E, cosa non meno importante, gli stava sfasciando sia la pazienza che il timpano.
Dopo alcune scene molto splatter e molto esplicite, Sera parve accusare una serie di piccoli conati di vomito, seguiti da sospiri, mugugni e lamenti trattenuti. Ci mancava scoppiasse in lacrime.
- Ehi, Conan-kun... c-che ne dici s-se... se fai qualcosa che possa rallegrare l'atmosfera e farmi ridere? -
- Del tipo? Togliere il film definitivamente e mettere su un Pixar? -
- No, con quelli piango... -
- Ricordami d'ora in poi, ti prego, di non accettare mai più le tue proposte cinematografiche -
- Potresti cantare! - ribatté lei, senza prestargli ascolto - Ecco, se canti mi fai un piacere -
- Cantare?? Ma perché?! -
- Perché sei talmente scarso e inascoltabile che mi metterai di buonumore. Coraggio! Fai sorridere Sera-neechan, daaaiiii! - lo pregò lei con occhioni scintillanti.
- ...stai scherzando, spero. -
- Beh, se preferisci che fino alla fine del film io continui a strapazzarti per la paura, bloccarti la circolazione sanguigna e urlarti nelle orecchie e magari piangerti addosso come una... - a quel punto la scena orribile che si parò davanti ai loro occhi, e in grado anche di formulare sulla faccia del detective espressioni di perplessità mista a disgusto, produsse l'ennesimo urlo demoniaco di Masumi.
- MA CHE SCHIFOOOOOOO! -
- Va bene va bene VA BENE!! Santo cielo! - proclamò Conan disperato, cercando di sovrastare le lamentele di lei. - Okay! Canterò qualcosa, così la finisci! -
A quel punto Sera si infilò la mano in tasca e armeggiò con qualche cosa, senza farsi vedere da lui. Dopodiché gli sorrise amabile, spronandolo ad andare fino in fondo in quella sua impresa.
- D'accordo, sappi che te ne sono grata -
- Che diavolo stavi facendo? Cos'hai in tasca? -
- Niente! Ho i tappi per le orecchie, nel caso in cui la situazione diventi ingestibile -
Il detective fu preso dal forte impulso ti risponderle con una testata ben assestata, e lei probabilmente lo capì, altrimenti non si sarebbe messa a sghignazzare. Lui comunque sorvolò oltre, prese un bel respiro e, dopo qualche secondo di suspence, permise alla sua voce canterina di diffondersi per la stanza, decisa e ininterrotta. Ancora, e ancora. Accompagnando l'apocalisse.
Sera comunque non volle ostentare il suo divertimento e scherno, motivo per cui mantenne lo sguardo sulla televisione trattenendo per quanto possibile le risate e soffocando in esse più e più volte. Era bello poter provare una sensazione simile di fronte ad un horror, sapeva di aver avuto una grande idea.
Una volta terminato quel mix agghiacciante che aveva preso luogo in quella stanza, il detective sospirò platealmente, voltandosi poi verso di lei con espressione quasi altezzosa.
- Beh? Va meglio? Piaciuto lo spettacolo? -
- Oh, sì, non sai quanto – rispose lei in modo subdolo, estraendo dalla tasca il misterioso oggetto che aveva toccato prima che lui iniziasse a cantare: il suo cellulare, aperto su una funzione ben precisa.
- Ehi, maledetta bugiarda, mi spieghi perché il tuo telefono sta registrando l'audio? E soprattutto, da quanto tempo è in funzione? -
- Perché d'ora in poi, quando sarò di malumore, saprò che suoneria mettere - replicò lei sorridente, facendogli l'occhiolino. E magari si sarebbe aspettata un'occhiata complice da parte di lui, una risata abbozzata, un commento auto-ironico, ma non certo un piccolo mostro inferocito che le saltava addosso tirando fuori le zanne.
- Dammi quel telefono, dannata! Cancella tutto! - sbraitò lui allungando le braccia e tentando di afferrare il cellulare che lei, chiaramente, teneva alzato in aria ridendo e sbeffeggiandolo.







*************************************
Okay, ero in vena di cose più leggere e stupidotte :D E a mio parere un personaggio come Sera si presta molto bene ad un tale genere XD
Facciamo un applauso all'entrata in scena della detective donna del mangaaaaa! E' la prima volta che la inserisco in questa raccolta, nonostante l'abbia già trattata ampiamente in una mia precedente FF e in relazione proprio col protagonista, mentre qui mi è toccato inaugurarla da un punto di vista prettamente trash ù__ù Che evoluzione XD
Aw, vi ringrazio per i vostri commenti, le vostre impressioni e i vostri consigli, è segno di una vostra piacevolissima partecipazione!! :') Grazie a voi tutti, ai lettori e a chi vorrà aggiungersi nel recensire! ^__^ So che Sera riscuote spesso un notevole successo (su di me in primis, LOL) quindi, se siete suoi fan, fatevi sentire e insultatemi per averla relegata ad un pessimo horror! :P
Alla prossima! 

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Capitolo 19
*** Se mescoli nero con nero - GinVerm ***


19. Gin e Vermouth ~ 

[Rating: Arancio/Rosso]

***






Se mescoli nero con nero


Non importa quale paio di orecchini stai per indossare.
Non devi fare colpo su nessuno, e non su di lui, almeno.
Così come non importa quale vestito sceglierai, se sarà abbinato adeguatamente al colore delle scarpe, se è meglio questa acconciatura di capelli piuttosto che l'altra, se è opportuno l'ombretto rosa chiaro o quello viola scuro. Tutto ciò non avrà alcun valore. Perché queste attenzioni scrupolose sono tipiche di quella emozionante preparazione che precede un buon evento, una grande occasione, una serata particolare. E tutte queste cose, qui, con lui, nelle vostre situazioni, non esistono.
Quindi basta, non è necessario ricontrollare il proprio riflesso allo specchio. Non è necessario nemmeno quel profumo di una marca futilmente costosa, così come futile è l'effetto che provocherebbe nella tua controparte. Non importa.
Così come non importa come ti senti, come stai. Non è contemplato il tuo stato d'animo o un tuo eventuale desiderio, perché fa tutto parte di un'altra sfera, di un'altra gamma di esistenze in cui la tua, e la sua, non sono comprese. Non lo saranno mai. In parte ti vedi gioire di questo, di questa diversità accigliante che vi caratterizza, altrimenti quel sorriso non sarebbe comparso allo specchio di fronte a te.
Ma è amaro. Ti accorgi che è un sorriso amaro, uno di quelli che il viso riporta in superficie per fronteggiare situazioni normalmente intraprese con la tristezza o con la frustrazione, come fosse un meccanismo di difesa. Perché è sempre meglio ostentare determinate espressioni piuttosto che altre, ostentare la propria dura roccia anche se magari è fatta di gomma.
Puoi farlo però per te stessa. Puoi curare la tua immagine, portarla al livello massimo del suo potenziale, sfoggiarla con chi desideri e dove desideri, sentendoti dentro essa e facendoti scudo con essa. Sì, si può fare, ed è giusto farlo. Ma non ti servirà in questo preciso contesto, sai bene che lui non ha mai speso, e mai spenderà, una sola parola in proposito. Non si sbilancerà né con lo sguardo, né coi gesti, né con le movenze, né con i discorsi. Né con se stesso. Niente di niente, il nulla, il mistero.
Si possa dire, poi, che i misteri ti hanno sempre attratta, e ancora di più ti attrae l'impossibilità di risolverli. Forse è il caso di farsi due conti.
Con lo specchio di fronte, guarda bene i tuoi occhi. Leggici dentro tutto quello che vuoi, tutto quello che ti serve, tutto quello che contengono e tutto quello a cui aspirano. C'è un bagaglio enorme, in quei due pallini colorati, che spesso viene ignorato e soppresso. E poi guardali mentre si strizzano in automatico alla più lieve percezione del dolore. Un dolore che proviene dal collo, che hai deciso di coprire con un leggero foulard bianco panna. Quando con la mano lo scosti per guardare cosa c'è sotto, quando la stoffa sfiora le piccole ferite ancora fresche, tenti di controllare la reazione istintiva del tuo sguardo che vorrebbe nuovamente piegarsi dinnanzi a questo segnale tagliente, che vorrebbe soffrire.
E sappi che non importano nemmeno quelli. Non importa a nessuno la presenza di quelle piccole macchie rosse e nere che costellano una ristretta area del collo, alcune ancora esposte e aperte, altre già ricoperte da un sottile strato di crosta, ma comunque brutte a vedersi e irritanti a sentirsi. Sfiorando quella parte di pelle rovinata, che ci impiegherà un po' a rimarginarsi del tutto, ritieni che in realtà ti converrebbe sorvolare e passare oltre. Fare spallucce e ricoprire il tutto col foulard, che in caso contrario comunque non cambierebbe nulla. Se a nessuno importa nulla, tanto meno importerà a lui, che quelle ferite te le ha provocate in un momento di foga incontrollata, nella tua camera, due notti fa. Hai provato a chiamarla “passione”, visto il contesto in cui ciò è avvenuto, ma hai riso subito, perché chiaramente non lo è, si tratta invece di frenesia inconsulta tendente ad un pizzico di cannibalismo, e quando hai pensato a questa precisa parola hai riso nuovamente tra te e te. Ne sei stata vittima, ma ti ha fatto comunque ridere di gusto.
In fondo è divertente.
Fanno male, anche solo coprendoli. Porzioni di pelle che non ci sono più, strappate via come granelli di sabbia turbinati dal vento e non più benvenuti nel loro stesso deserto. Quella stoffa forse non è proprio la migliore che potessi scegliere, è un po' troppo ruvida, sfrega a contatto con la pelle guastata e danneggiata e rimanda quella fitta dolorosa che ti impone di abbassare lo sguardo per non doverlo guardare attraverso il tuo riflesso. Piuttosto che vederti vagamente sofferente, spaccheresti quello schifo di vetro.
Gin lo farà ancora, e ancora. E da una parte è stata opera tua. Quando ti ha fatto del male, quando ha esagerato durante uno dei vostri tanti incontri notturni, un po' ce l'hai portato tu a quello stato. Hai voluto dare il meglio, hai voluto fargli vedere la volta stellare e le orbite e lui è impazzito. Ma non è colpa tua, sappi che è giusto fare così. Non è giusto invece reagire come lui ha fatto, ma lo sai: spesso non sembra neppure un essere umano. Se ha comportamenti da bestia fuori dalla tua camera, con le altre persone, avrà comportamenti da bestia anche nella tua camera, e con te.
Il peggio è quando fingi di non saperlo.

 

“Ehi, quando ce lo facciamo un Martini? E' passato del tempo dall'ultima volta...”
Quella stupida e languida domanda non smetterà mai di fartela. E devi ancora capire se ti dispiace oppure no. Se ti da fastidio quel preciso momento della richiesta ma ti piace la conseguenza, o se ti piacciono entrambi, o se in fondo non hai nemmeno idea di cosa significhi il concetto globale di “piacere”. Trovi tutto molto astratto ed eccessivamente futile, come quella domanda.
Quante volte te la farà ancora? Non le rispondi mai, non subito, almeno. E non a parole, bensì a fatti. Odi i discorsi, per questo parli lo stretto necessario, per questo forse non la disgusti poi così tanto. Non ti azzardi nemmeno a pensare che tu a lei piaccia, sempre perché ancora non sei certo di cosa voglia dire, e perché è fondamentalmente impensabile. Credi sia così, almeno, che di alternative ce ne sono ben poche.
Non hai a che fare con una donna normale, perciò molte di queste domande sono tasselli di puzzle che saranno pure incastrati correttamente tra loro, ma che ritraggono un'immagine differente da quella mostrata in copertina. Opposta, o girata al contrario. Ma questo lo sai da sempre, è uno dei motivi per cui hai deciso di frequentarla in questo modo malato, un modo che lei riesce ad accettare e che assurdamente contraccambia, che assurdamente apprezza. Perché anche lei ha qualcosa di distorto dentro di sé, un vetro rotto che può riflettere i tuoi stessi cocci, e tu l'hai captato, l'hai usato. E perché a lei, di te, della tua persona e di ciò che possiedi oltre quella facciata da mostro glaciale, non gliene può importare assolutamente nulla. Probabilmente questo è l'altro motivo per cui l'hai scelta. Almeno non ti dovrai preoccupare di tediosi aspetti più profondi, più umani.
Non importa niente. Non importa neanche adesso, mentre ti guarda e ti sorride, perché quel sorriso è buttato lì per accompagnare maliziosamente quella dannatissima e infingarda domanda. Anzi, ogni volta che vedi quel sorriso che ti rivolge, senti che ti ispira qualcosa: ti ispira contraddizione, un concetto che invece, questa volta, conosci molto bene. Perché è proprio ciò che muove il mondo.
Il fuoco contro il ghiaccio, il bene contro il male: è questo che vedi nei suoi sorrisi taglienti. La marea contro la lava. Non riesci a vedere uno o l'altro poiché sono impegnati in uno scontro indecente, quindi li vedi entrambi, vedi lo schifo del mondo e allo stesso tempo il suo lato migliore, e ti basta guardarla. Ti basta guardare il suo sorriso, in particolar modo, per poter assorbire una tale esperienza, per poter ammirare e soffrire di fronte a quel contrasto ingestibile e alla tua stessa inadeguatezza umilmente umana in uno scenario così vasto, inarrivabile. Perché non capisci mai se in quel sorriso si nasconde qualcosa di buono o di malevolo nei tuoi confronti. E non capisci cosa desideri. Quel che è peggio è che ti piacerebbe fosse malevolo, ma anche che non lo fosse. Non da lei, almeno. Vedi? Contraddizione.
Ripensi alla tua schiena, mentre stai per risponderle. Ripensi a quei solchi rossi lunghi, profondi e non ancora rimarginati che attraversano diverse aree della pelle della tua schiena. Forse lei non ha gradito poi così tanto il regalo che le hai lasciato sul collo, quando i tuoi denti hanno iniziato ad accusare le stesse esigenze che accusano forse quelli dei vampiri, lasciandoti andare talmente tanto da arrivare quasi ad azzannarla. Quella che doveva essere una piccola serie di sensuali morsetti si è trasformata in qualcos'altro. Ma è colpa sua. Ti ci ha mandato lei in quello stato confusionario, istintuale e primordiale. In ogni caso lei sembra aver ritenuto opportuno vendicarsi l'ultima volta che il Martini ha preso forma nel buio della tua stanza, utilizzando quegli artigli dipinti di rosso che lei chiama “unghie” per aprirti un bel po' di strati epidermici. Utilizzando un momento che dovrebbe essere dolce e passionale per crearti un volontario dolore difficile da riparare, con l'aggiunta di un vago sorriso sadico che hai potuto scorgere sul suo volto.
Sorridi al pensiero, perché lei si sarà pure vendicata, ma a te è piaciuto.
E ti piace il sospetto che lei potrebbe fare anche di più, se solo si incazzasse come si deve. Ti attraversa l'idea di farle del male ancora, spacciandolo per semplice desiderio ardente, di vederla uscire sconfitta dal Martini numero 1. Così lei, la volta dopo, esagererà a sua volta per compensare e creare uno spietato Martini numero 2.
Vermouth è ancora lì di fronte a te, il suo gomito appoggiato sulla tua spalla, il suo viso vicino al tuo, il profumo dei suoi capelli incastrato nelle tue narici, i suoi occhi nel tuo cervello. Sta aspettando una risposta, anche se chiaramente la conosce già.


Ti senti stanca come non mai. Agitata, e confusa.
Quando ti ritrovi a pensare frasi come “era da tempo che non mi succedeva” inizi a preoccuparti, perché non è un buon segno, evidentemente se è passato del tempo dall'ultima volta che una data cosa è accaduta è perché in effetti non avevi più intenzione di permetterle di esistere oltre.
Invece eccola lì, ed eccoti qui. Ancora davanti a questo specchio, davanti ad un riflesso di te sempre più provato e colmo di domande. Uno specchio maledetto da fiaba, col potere di ridurti in stati pessimi ad ogni giorno che passa; no, tranquilla, non sei invecchiata. Non puoi. Sei solo un po' giù di tono, c'è un po' di secchezza qua e là, ci sono gli occhi che vorrebbero infossarsi sotto il peso che grava sull'anima. Com'è che era, per l'appunto? Occhi specchio dell'anima? Ancora con questi specchi, comunque. Ti perseguitano ora, e sempre.
Ti guardi di nuovo, la tua espressione stanca e cupa e grave che ti restituisce la sua beffa dal vetro, la bocca lievemente socchiusa che necessita di continua aria, come se interiormente ti venisse usata e riciclata a quantità e velocità elevatissime. Ed è proprio questo che fa l'angoscia. Ti appoggi con pesantezza con una mano al lavandino, passandoti l'altra sul viso ora abbassato e afflitto. I pensieri demoliscono la diga protettiva imposta dal tuo cervello e a grande potenza si fanno strada, concorrono tra loro per aumentare la tua preoccupazione e tenerti sveglia, per un attimo ti chiedi addirittura quale vincerà, sei abbastanza curiosa, ma li blocchi con una smorfia. Hai solo voglia di dormire. Sei davvero stanca, ed è tardissimo.
Lui ha esagerato ancora, molto di più dell'ultima volta. Non riesci a toglierti quell'immagine di voi dalla testa, non riesci a toglierti quella sensazione ancora vivida dalla pelle. E, come sempre, sai che tanto non importa. Né a lui, né a nessun altro - ma comincia forse ad importare a te. Non ti importa che ti abbia fatto del male, perché tu puoi rispondere per le rime o farlo anche uccidere se proprio si spingerà oltre, in più sai con chi hai a che fare, e non ti spaventa. Ma c'è qualcosa che non quadra, quando hai accettato questo dannato e avariato gioco di squadra con lui non intendevi prendere questa raccapricciante scorciatoia. Pensavi sarebbe stato almeno un po' diverso, almeno un po' piacevole, qualcosa da cui entrambi avreste potuto trarre sollievo seppur tramite vie di sfogo discutibili. Ma siccome hai pensato male, inizierai a preparare impacchi caldi e naturali per i dolori che ti trafiggono in varie zone del corpo, a preparare una contromisura mentale forte, ferrea e distaccata per contrastare al meglio la frustrazione che ti affligge. Ma di certo non inizierai a preparare una vendetta, perché hai il vago sentore che, prima cosa, non servirà a nulla se non a stimolarlo ancora di più nelle sue scelte malsane, e seconda cosa credi che forse lui ci speri.
Quindi innalzi il muro. E' un muro di pietra ma è anche viscido, c'è questo liquido verdognolo e vischioso che cola lungo la parete e nessuno potrebbe mai arrampicarcisi senza scivolare come un verme. Quindi è una protezione autentica e perfetta. A meno che uno non vada a recuperare una scaletta.
Se è questo che lui vuole, questo non avrà. Può andare a farsi fottere. Adesso vai a stenderti, assorbi la consapevolezza che tutto ciò ti avvilisce, ma che passerà e non avrà mai la meglio assoluta su di te. Ecco, senti questo soffice materasso sotto la schiena, prendi due o tre respiri e trattienili per sopportare il dolore che avverti ai muscoli, rilassati nuovamente e fissa il soffitto, in questo buio illuminato solo dalla luce lunare che passa dalla finestra.
Non ti fa male sapere che dovresti lasciarlo andare. Ti fa male sapere che dovresti lasciarlo andare ma che non ci riuscirai, perché sei arrivata al punto di non poterne fare più a meno. Perché lui si è insinuato in modo imprevedibile nel tuo essere, nella tua vita: eri talmente impegnata a creare giochetti e a trarlo nella tua rete di malizia, che lui nel frattempo ha costruito la trappola su quella stessa rete e molto probabilmente ti ha presa. Infatti lo vuoi, lo vorresti anche stasera. Gli sussurreresti una minaccia di morte, subdola ma seria, nel caso in cui lui decidesse di agire ancora come l'ultima volta, in modo così stupido e privo di criteri logici, e lui forse capirebbe. Perché lo sa che non scherzi, lo sa che ne saresti capace. Ma poi capisci che a lui non importa un fico secco, perché tu stasera vuoi lui, ma lui forse vuole solamente vedere il dolore nel tuo viso.
Ti fa male sapere che tu dovresti arrivare prima, nella tua stessa scala, ma che ti stai trascinando da sola al secondo posto. Perché se ancora intendi rischiare in questo modo con lui, se non in modo ancora peggiore, è perché non ti poni più al livello su cui ti ponevi prima, un piedistallo così alto che non permetteva a nessuno di sfiorarti e tanto meno farti del male. Mentre ora sei scesa un po', i primi danni sono arrivati, seguiti subito dai secondi, prepara il tappeto per accogliere i terzi. E qualcosa ti fa accettare questa situazione, vale a dire lui. Ti accorgi che per lui sì, lo faresti, ma questo non significa che vorresti farlo razionalmente. Significa solo che i tuoi valori si stanno sballando a causa di qualcuno che non sei tu stessa, non riconosci più ciò che è perfetto per te e ciò che non lo è, in balia di una tumultuosa corrente emotiva che ti schianta sul fondo. E significa che qualcuno, un altro essere umano, ti ha piazzato in questa terrificante condizione.
Alzati improvvisamente dal letto, con uno slancio, con la forza dell'ira. Una rabbia che monopolizza il tuo sistema nervoso, così, arrivata silenziosa, adesso. La devi usare, la devi sfogare finché è presente, altrimenti si sedimenterà in malo modo nei recessi del tuo animo e anche se penserai che si sarà volatilizzata nel nulla in realtà sarà ancora lì, a mangiarti pian piano e a saltare fuori quando meno te lo aspetti. E' così che fa la rabbia, è così che gli organi del corpo la gestiscono, e chissà perché nessuno mai lo capisce o fa finta di non capirlo.
Dirigiti a passi veloci verso il tuo tiro a bersaglio affisso alla parete, togli da lì la foto di Sherry che tieni appesa da tempo, perché è divertente crivellarla di freccette appuntite quando sei un po' annoiata e riempire la foto di buchi, immaginando sia il suo reale volto. Al suo posto piazzacene una di Gin, che sei riuscita a scattargli di nascosto qualche tempo fa, e inizia a dilaniare la sua immagine brandendo le freccette come fossero pugnali. Infilza la foto, ancora, e ancora, accresci la forza ad ogni colpo. Ma come ti permetti, lurido bastardo? Che cosa mi hai fatto? Come diavolo fai a tenermi sveglia e furiosa durante la notte seppur senza essere presente?
Che cosa mi hai fatto?
Ti vorrei morto. Ma prima ti vorrei qui.


Chiudi gli occhi per un po', con la testa adagiata sul poggiatesta del sedile della tua Porsche, in sosta in un parcheggio. Chiudi gli occhi e pensi intensamente a quando la odi, la detesti, a quanto non vorresti rivolgerle più la parola se non per dirle cose crudeli, a quanto non riesci a guardarla senza infuriarti, non vuoi neanche che entri nella tua macchina, non vuoi che lei te la contamini.
E tutto ciò avviene perché non la capisci.
E perché ti dispiace.
Ti dispiace? Come, scusa, aspetta, ho sentito bene?
Ti dispiace?

Ma quindi un'espressione simile è contemplata nel tuo intricato e lugubre spettro emozionale? Stai scherzando, vero? La tua mente è realmente riuscita a formulare un pensiero tanto caritatevole? Nei suoi confronti, poi?
Ma che ti ha fatto, questa qui?
Ah, ecco, ecco perché la odi. Perché ha giocato coi tasselli della tua psiche un po' come farebbe una bimba vivace coi mattoncini del lego. Te la immagini quasi mentre lo fa, e un po' ti viene da ridere, perché la immagini sul serio da bambina e ti accorgi che la tua mente, la stessa mente che inizia a formulare pensieri strani e indesiderati, la raffigura come una bambina davvero bellissima.
Ma non lo farai. Non riderai di questa cosa né proverai una sorta di affetto, piuttosto prendi quest'immagine mentale e bruciala.
Un sonoro sospiro che ti sfugge. Come ha fatto questo sospiro ad uscire da solo non lo sai, privo di un preavviso e di un consenso da parte tua. Ma non ci darai un peso eccessivo, è meglio non farlo.
Così come è meglio non pensare più a lei. Al fatto che pensavi avrebbe reagito come ti eri aspettato, con un'ira e una sete di vendetta capace di eguagliare il tuo ultimo atto di concentrata cattiveria nei suoi confronti e darti quindi più soddisfazione, ma è stato il contrario. Lei ha capito perfettamente che questo ti avrebbe esaltato, e mai e poi mai te l'avrebbe data vinta... ma, in secondo luogo, c'era qualcosa di più.
Qualcosa che l'ha ferita, lei non intendeva mostrartelo ma tu l'hai captato, perché essere una persona meschina e brutale, che tu sei, non significa essere privo di perspicacia e intuizione, che infatti hai. L'hai notato nei suoi occhi grigi, in un suo momento di distrazione. Era come se lei si aspettasse finalmente qualcos'altro, da te, che però non è arrivato. Che però è stato massacrato dai tuoi insulsi e animaleschi comportamenti.
E quindi tu hai continuato per la tua strada, danneggiando di minuto in minuto tutto ciò che era già difficilmente recuperabile. Lei non ti ha più detto niente a riguardo, ha assorbito tutto grazie alla sua bella corazza di alluminio. Un insulto, uno schiaffo, un calcio con tacco nello stinco? Niente?
Assolutamente niente. Ti ha lasciato così, senza dire una parola, lasciandoti questa cortina fumogena insediata nel cranio che forse viene denominata dubbio. E con quello sguardo, proprio quello, di cui il tuo sesto senso è rimasto vittima.
O magari a lei non importava niente di quel che tu stessi facendo, e di come lei dovesse rispondere. Magari niente di tutto ciò è reale, è solo un concetto rimasto sospeso nella vastissima area delle probabilità del mondo, senza fondamento né prova. A voi non importa nulla l'uno dell'altra, ti sei convinto di questo, e non inizierà certo adesso.
Riapri gli occhi, perché chiusi non ci stanno. Le tue convinzioni sono troppo sommarie e lo percepisci, di nuovo, percepisci ogni genere di cosa da quando stai pensando così tanto a questa ignobile faccenda, percepisci anche l'energia elettrostatica nell'aria e i microrganismi batterici sotto il tappetino dell'auto. Non ti mollano. Rivedi i mattoncini del lego, rivedi una bambina.
Rivedi il male che hai fatto a questa bambina da grande. E rivedi i suoi occhi grigi che ti fanno pesare quello che hai creato, che si chiedono se realmente sei cosciente delle tue azioni o se è solo follia. Ma non ti chiedono delle scuse, non ne vogliono, non ne hanno bisogno, sono occhi consapevoli e veggenti, non sono spaventati. Semplicemente, in amarezza, si chiedono il perché di tutto questo. Sono alla ricerca di una vaga utilità e di uno sporadico senso logico che nemmeno tu sai dare, evidentemente, perché non ne trovano e allora si rassegnano. E se ne vanno.
Si allontanano da te. Ma non importa neanche questo, vero? Probabilmente lei si è fatta le sue ragioni, e ha già dimenticato tutto. Forse ha pure dimenticato la tua faccia, che ora le farà anche schifo. Le donne fanno davvero in fretta a mettere da parte ciò che le schifa, che siano insetti ronzanti, rettili striscianti o esseri ignobili come te.
La detesti per questo, vorresti si comportasse diversamente o che esponesse le sue opinioni in merito, senza lasciarti in balia di squallidi dubbi e logoranti dispiaceri. Non ci puoi ancora credere che ti senti così, questo non sei tu. Lei non è lei, voi non siete voi. Che cosa siete? E che cosa volete?
Detesti lei come detesti questa situazione, quest'aria che inizierà a tirare tra voi due. E un altro sospiro inatteso, come quello precedente, ti sfugge all'improvviso, e speri che possa raggiungerla ovunque lei si trovi adesso.




Ti eri ripromesso di non farla più entrare nella tua automobile d'epoca, perché te la contamina con la sua infingarda presenza. E poi tutto quel profumo pungente che si spruzza addosso, che viene assorbito dal tessuto dei sedili, quei suoi capelli che ogni tanto si infilano nelle fessure, il rumore rovistante della sua borsa. Il suo lieve respiro. Non vorresti sentire ogni singola cosa di lei, ma purtroppo succede.
Speri che la sigaretta che ti stai per accendere possa cancellare ogni traccia di quella fragranza artificiale che ha inondato l'auto quando lei è entrata. Speri che entro la fine della sigaretta quell'ambivalente donna se ne sia andata, e con lei le sue abitudini e i suoi segreti.

Peccato tu stia fumando molto, molto lentamente.

Di solito hai sempre l'ultima parola, e perciò anche la prima. Non si può pretendere di immedesimarsi nella coda di qualcosa, qualsiasi cosa, senza esserne anche la testa. Il serpente a sonagli smuove la sua coda per seminare il terrore, ma usa la testa per localizzare le prede.
Da quando sei entrata in questa macchina odorante di vecchio, antico e vagamente ammuffito, non hai ancora scucito una parola. C'è una strana oppressione nell'aria, mentre fissi lo sporco panorama cittadino fuori dal finestrino, una strana oppressione che no, non riesci ad eludere come credevi. Te ne accorgi subito, l'oppressione di quel tipo è qualcosa che vorresti dissipare al più presto. Specie se si è creata con lui, perché sì, anche lui la sta sentendo: ti basta rivolgergli anche solo una mezza occhiata per comprendere che non sei l'unica, in quell'auto, ad accusare questa specie di dannata sindrome. Solo che lui ha un vantaggio: al contrario di te lui non parla quasi mai, quindi se anche questa volta la sua bocca rimane serrata chi potrebbe mai accorgersi della differenza?
Tu.
“Ti sei mai pentito di qualcosa in vita tua, Gin?”

Non le rispondi. Sai bene che risposta vuole. Vuole che tu lo ammetta, che hai sbagliato e che non doveva per forza andare così. Quella domanda vorticava incessantemente nel silenzio tra di voi, poco fa, ma non risponderai soltanto perché lei l'ha acciuffata e ricreata a parole.

Non glielo richiedi. O quell'uomo risponde adesso, a questo giro, o del prossimo non se ne fa niente.

Squallido dubbio, logorante dispiacere, bambina che gioca coi lego. Ricordi questa sequenza, simile ad un'ancestrale maledizione? Sono due le possibilità, o permetti che la situazioni acquisti senso e si risolva per il meglio consentito, o la chiudi qui facendo una bella tabula rasa. Senza sapere cosa accadrà mai dopo.

Aspetti ancora un po', appoggiata allo schienale dell'auto, lo guardi soltanto di sottecchi. Poi neanche più. Tieni solo i timpani in allerta. Ma sai già come si articolerà il finale di questo filmino trash di seconda categoria.

L'orgoglio è un grosso macigno dall'ampio diametro, tanto che se lo visualizzi nella mente non riesci nemmeno ad vederlo nella sua interezza.
Un po' vorresti fargliele, queste dannate scuse, ma un po' no. Non sai cosa determini il no. L'assenza di un certo tipo di coraggio, probabilmente. Le vibrazioni che lei ti spedisce con l'ausilio della sua presenza e dei suoi occhi puntati su di te sono notevoli, quasi insostenibili, o meglio, sei tu a captarle in questo modo.

Tempo scaduto. Non sei mai stata brava a concedere seconde possibilità. Non ce la fa lui, ma in fondo non ce la fai neanche tu. Abbassi lo sguardo e cerchi il rossetto nella borsa, un tentativo di camuffamento come un altro per fingere un repentino cambio di atteggiamento.

Non importa nulla, come al solito. Non importa quanto questo silenzio aleggiante nell'abitacolo dell'auto sia totalmente contrapposto al grande fracasso che avete dentro, e che paradossalmente non trova via di sbocco né spazio. Non importa quanto a lungo ve lo terrete ancora dentro, continuando a credere che non si è mai abbastanza l'uno per l'altra, che questi “Martini” possano in qualche modo colmare questo insensato baratro comparso tra di voi fin dagli inizi.
Non importa quanto questo vostro legame vi stia facendo del male, e quanto più cresce tanto più si ramifica in voi, poiché il male è forse l'unica cosa reale che conoscete. Ma forse, questa volta, è stato tutti frainteso. Forse, questa volta, non era il male vero, era solo qualcosa che avete scambiato erroneamente per tale e che, preso in tempo, poteva essere convertito in qualcosa di meglio.
Ma in fondo, perché farlo? Perché cercare di cambiare così, costringendo queste idee folli a rientrare nei vostri programmi? Perché darsi tanta pena, e per chi, poi? No, mai.


Iniziavate davvero a sperare che mescolando nero col nero uscisse per magia un colore diverso?


 


 




********************************
Okay, questa ci ho messo un po' a farla D: Peso D: Come penso sia chiaro, ho provato ad adottare uno stile diverso da quello utilizzato nelle altre shot - più inerente al genere introspettivo - facendolo appositamente per questi due personaggi e per il rapporto che li unisce. L'ipotesi che aleggia in tutta la shot è che entrambi vorrebbero qualcosa di più, o meglio, vorrebbero essere qualcosa di più agli occhi dell'altro, qualcosa che va oltre il classico Martini (in questo caso anche fin troppo abusato)... ma che in fondo sono guidati da una sorta di insicurezza di base dovuta al loro oscuro e diffidente modo di pensare, che li porta a ritenere molto improbabile un'eventualità simile e che sia più automatico e semplice rimanere nei propri rigidi ruoli. Da qui nasce il contrasto tra il rapporto superficiale che hanno deciso di impostare e ciò che iniziano però a sentire veramente, dandosi infine per vinti di fronte a questo dubbio fin troppo vincolante. Okay, sì, è un po' un casino. ^.^
Comunque mi hanno ispirato per provare a scrivere qualcosa in questo modo, dovrei provare anche coi DB D: wahahah! E perciò, siccome è una mezza novità anche per me, mi farebbe davvero piacere un vostro parere da fuori su come sia uscita questa accozzaglia di cose :) Giusto per sapere se vi siete dati un colpo in testa già a metà, o se l'avete fatto solo alla fine. O all'inizio direttamente, magari. Yeah
Grazie a tutti, come sempre, recensori meravigliooooooooosiiiiiii e carichiiiiii <3 e lettori! Bye bye, alla prossima! ^^ 

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Capitolo 20
*** Faccia viola ed occhi gialli - Tutti ***


20. Conan, Ai, un po' tutti ~

[Avvertenze: Ai Haibara centric; Halloween shot]


***






Faccia viola ed occhi gialli

 

Dovrei sempre dare ascolto alle mie sensazioni.
In passato lo facevo e mi ero ripromessa di farlo anche nel presente e nel futuro, in ogni momento: se per caso avessi percepito, in una situazione dove tutto apparentemente sembrava filare liscio, qualcosa che sarebbe potuto andare storto, anche qualcosa di estremamente piccolo e insignificante, avrei dovuto tenere le orecchie dritte e i sensi ben attivi. E dire NO, no, non andiamoci, non facciamolo, teniamoci alla larga, datemi retta, non è come sembra!
Avrei dovuto farlo anche questa volta, perché la suddetta sensazione era ben presente, oh, eccome se lo era. Per il bene mio, dei miei cari e di chiunque altro non conoscessi, avrei dovuto avvertirli di lasciar perdere, senza temere reazioni sarcastiche che annullassero le mie preoccupazioni. Avrei dovuto farlo.
Ma non l'ho fatto. Ed ora siamo qui.

Il mio personale e quasi “animalesco”, direbbe qualcuno, senso del pericolo si è attivato appena prima di varcare la soglia dei grandi magazzini. E' sabato mattina, c'è il sole ma l'aria è piacevolmente ventilata, le persone escono, le famiglie si riuniscono, le coppiette ridono, i gelati iniziano a fuoriuscire da ogni locale, i colori accesi della primavera sono dappertutto. I grandi magazzini sono aperti e prontissimi ad accoglierci con offerte e buona merce, senza contare il nuovo ristorante aperto al terzo piano, ci aspetta una gran bella giornata ed “urrà” è la parola che si ode con più frequenza. Allora cos'è che mi attanaglia così?
Questo è stato il mio primo cruccio, e lo ricordo bene. Mi sono fatta l'elenco di tutte le cose belle che quel giorno mi avrebbe proposto, ma ciò non è servito ad appianare quel senso di oppressione di cui il mio stomaco, improvvisamente, ha iniziato a farsi carico. Ho guardato le trasparenti porte d'ingresso dell'enorme centro commerciale aprirsi in modo automatico ed elettronico di fronte a me, ma non sono riuscita ad entrare. Vedevo bene l'entrata, mancavano solo pochi passi e mi sarei trovata nel grande atrio al piano terra, ma non intendevo compierli. Non dovevo entrare lì dentro. Le gambe diventate stecche di acciaio, i miei occhi a percorrere con frenesia tutto l'interno del centro alla ricerca di qualcosa di sbagliato, le mie mani in preda ad un lieve tremore, il mio respiro temporaneamente fermo. Cosa stava succedendo?
C'era qualcosa di orribile, lì dentro. Un'ombra densa e invisibile a tutti, persino a me stessa, mi stava permeando dalla testa ai piedi.
Conscia di questa mia ultima certezza, del tutto ingiustificata, una voce mi ha scossa e fatta tornare alla realtà.
- Ehi, Haibara? Ti sei incantata? Vieni dentro o no? -
Ho balbettato qualcosa, cercando di riprendermi. Gli ho detto di sì, in modo poco convinto. Tuttavia Conan mi conosce abbastanza e non prende alla leggera certi miei atteggiamenti, e dalla sua espressione perplessa ho capito che, in seguito, mi avrebbe chiesto qualcosa. Non so se esserne contenta o meno.
Ho preso un bel respiro, un po' tremante, e ho costretto le mie gambe a muoversi per permettermi di entrare nel centro commerciale alto dieci piani. Concentrati, Ai. Cosa vuoi che succeda qui dentro, in un posto tanto spensierato? Ok, ero dentro, le porte si sono richiuse con un rapido scatto alle mie spalle. Ho fatto un passettino indietro per verificare che si aprissero ancora al passaggio di un corpo: si sono aperte, quindi in trappola non ero, per il momento. I miei occhi si sono soffermati sugli enormi striscioni rossi a scritte bianche affissi sull'alto soffitto e che pendevano verso il basso segnalando “Promozioni del 50% su tutti i capi di primavera!”, cercando di trarne beneficio. Forza, torna nella realtà, qui ci sono solo cose belle. Promozioni, vestiti, shopping, persone che ridono, colori sgargianti, gelati. Ripeti, ripeti più volte mentalmente questa lista di cose.
- Che ti succede? Non stai bene...? -
Ed ecco che, come avevo supposto, Conan mi chiedeva qualcosa in più sul mio dubbioso stato d'animo. L'ho tranquillizzato, dicendogli di aver avuto una strana e sinistra sensazione entrando dentro i grandi magazzini, ma che stava passando. Non era vero, ce l'avevo ancora, ma non ero intenzionata a rovinare la giornata anche a lui.
- Beh, magari hai ragione! Forse succederà qualcosa che, non so, ci obbligherà ad indagare su un caso...! - mi ha risposto, sospettosamente raggiante.
- Oh, no, speriamo di no! Non vorrai portare rogna anche qui, in una giornata così bella?! - gli ho risposto, buttandogli giù il morale. Non mi sono sentita in colpa: dopo quella sua discutibile osservazione se lo meritava proprio.
- Dai, cerchiamo di stare allegri. I ragazzi si stanno divertendo, così come anche il professore e le ragazze... rimandiamo a dopo i discorsi cupi, se ce ne sarà bisogno, okay? - mi ha chiesto, ed io ho annuito in segno di accordo. Il mio sguardo si è posato in automatico sui ragazzini, i detective boys, che strepitavano come bambini amanti dello shopping (ciò che effettivamente erano...) soprattutto quando passavamo di fronte ai negozi di videogame. Poi ho spostato gli occhi sul professore, che ridacchiava allegro principalmente per due motivi: la presenza gioiosa dei bambini e la presenza dei negozi di elettronica. Forse ancora di più per questi ultimi. Infine ho guardato le ragazze: Ran, Sonoko e Sera si erano aggiunte a noi, finalmente libere dai pensieri degli esami scolastici e in pieno shopping-raptus, non so se come sfogo o come semplice passione, specialmente per la Suzuki. Quella è matta, tirando ad indovinare avrebbe comprato 5 o 6 vestiti da sera nuovi soltanto al piano terra (e ripeto, i piani sono dieci).
Ogni piano brulicava di persone in fermento per i saldi primaverili, di profumi provenienti dai locali e dai bar, di attrazioni e decorazioni che vitalizzavano pareti e vetrine. Lungo un luminoso corridoio avevamo anche incontrato gli agenti Sato e Takagi, in quel momento in borghese, che si facevano un bel giretto romantico sottobraccio, per poi salutarli e augurarci di rivederci prima di uscire dal centro commerciale. Insomma, l'atmosfera generale era davvero piacevole.
Eppure, qualcosa non andava. La mia sensazione si era un po' attutita, ma non si era spenta. Vorticava ancora dentro di me come fosse una piccola corrente d'aria nera e sporca, pronta a saltare fuori quando meno me lo fossi aspettata, e quell'ombra di presagio invisibile mi sembrava calasse dall'alto soffitto per cascare sopra di noi. Ogni tanto mi giravo dalla parte opposta rispetto agli altri, fingendo di guardare le vetrine, e tiravo dei pesanti sospiri per liberarmi a tratti da quella sensazione opprimente, facendo una specie di riciclo d'aria. Lo facevo di nascosto perché non volevo preoccupare i bambini, che avrebbero iniziato a tartassarmi di domande, né nessun altro. Mi rendevo conto che molto probabilmente era un problema mio e solo mio, e non volevo che altri ne venissero intaccati.
Anche se circa due ore più tardi, arrivati al terzo piano, poco prima di entrare in un Noodle Bar per pranzare, giunse il primo segnale esterno ed autentico che potesse dare forma ai miei disagi.

Dapprima avevamo sentito un crescente frastuono provenire dall'ultimo piano, il decimo. Sembrava originato da un grande movimento di persone che parlavano a voce alta, ma era solo un'impressione, infatti inizialmente nessuno ci aveva dato peso. Quando poi, però, quelle voci avevano aumentato il volume e un paio di urla avevano risuonato chiaramente, la situazione era un po' cambiata. E non ci voleva un genio per capire che erano grida generate da qualcosa di molto simile al terrore.
Tramite la gigantesca colonna trasparente delle scale mobili, posizionata proprio nel centro della grande struttura, si potevano intravedere tutti i piani soltanto guardando in basso o in alto. Tutte le persone che si trovavano sopra o sotto di noi si erano sporte oltre le ringhiere che delimitavano i piani, rivolgendo la testa all'insù, verso il decimo. L'abbiamo fatto anche noi, abbiamo guardato verso l'alto per poter captare l'origine di quel frastuono, e con la coda dell'occhio vedevo Conan che si preparava a sgattaiolare tra la folla e scattare in alto, colto dalla sua solita e malsana curiosità.
- Ci sarà stato un omicidio...? - aveva proposto Agasa con voce malferma. Beh, probabile, quando ci troviamo tutti insieme per fare un giro queste cose accadono spesso, ahimé.
Ma no, io ero convinta di no: c'era qualcosa di più. Quel breve ma intenso chiasso era giunto dal decimo piano fino a tutti i piani più sotto, riuscendo ad attirare l'attenzione di chiunque si trovasse lì dentro; l'aria poi si era notevolmente appesantita, la preoccupazione era ormai sfumatura presente su ogni volto che io guardassi. Era come se, nell'intera struttura, regnasse una tetra e inspiegabile consapevolezza comune: prima tra tutte, quella di tenersi pronti a qualsiasi eventualità.
Anche Sera pareva essere già sul piede di guerra, come Conan, per andare in avanscoperta. Ma per qualche ragione non lo stavano ancora facendo. Per evitare che ciò accadesse, mi ero avvicinata di soppiatto a lui sussurrandogli i miei timori.
- Non lo fare. Non ci andare, non dirigerti all'ultimo piano per scoprire cosa succede, aspetta ancora qualche minuto... -
Lui, perplesso, mi ha chiesto il perché. E mi ha anche chiesto se quelle mie affermazioni c'entrassero con le mie cupe sensazione di quella mattina. Gli ho risposto di sì, che erano pienamente collegate e che anche in quell'esatto momento ero sicura che lui non dovesse azzardarsi a salire di sopra. Tanto, se si fosse trattato di qualcosa di davvero grave, entro pochi minuti l'avremmo scoperto tutti.
E così fu. Sempre sopra di noi, stavolta non all'ultimo piano, ma al settimo, successe la stessa cosa: qualcuno urlò, di punto in bianco, e diverse persone gridarono sconnessamente “ma che cos'ha, cosa gli prende?!”, o qualcosa del genere. Qualcuno iniziò a piangere, facendo riecheggiare il suono di galleria in galleria. Non capivamo. E quell'esatta sequenza di avvenimenti si verificò ancora, in svariate aree dei piani superiori, più volte. Tra il settimo e il decimo, la situazione era quella. Ma di che situazione si trattava? Dalle frasi e dai lamenti sembrava che più persone si stessero sentendo male, che manifestassero sintomi inspiegabili, che fosse intossicazione alimentare? Ok, ma che bisogno c'era di urlare o piangere? Era chiaro che qualcosa ci stava sfuggendo. Ed era chiaro che la mia nera sensazione non si sarebbe fatta così intensa, fino quasi a scoppiare, se si fosse trattato solo di quel motivo.
Al nostro piano, il terzo, giunse qualcuno in fretta e furia che aveva usato le scale di emergenza per scendere dai piani più alti. E per avvertirci. Ricordo ancora i nostri movimenti, le nostre reazioni: ci siamo girati tutti a guardarlo, con un misto di curiosità, timore e trepidazione, a guardare quest'uomo di mezz'età fin troppo rosso in volto, anzi, livido e violaceo, coperto sul viso e sulle braccia scoperte di quelle che sembravano pustole bianche e spesse, e le cui vene sottopelle risaltavano in modo spaventoso sia sul collo che sui polsi. E vibravano, si gonfiavano. I suoi occhi, ingialliti e iniettati di sangue, cercavano aiuto. Le sue labbra erano rosso fuoco e dalla bocca perdeva un filo di bava, boccheggiavano per riuscire a formulare frasi di senso compiuto. Era uno spettacolo terrificante, io e gli altri siamo rimasti immobili a fissarlo senza parole e nessun altro in quel piano si stava muovendo, tuttavia l'uomo in questione sembrava lucido. Per quel momento, almeno. Stava tentando di dire qualcosa, prima che una donna compassionevole iniziasse a fare qualche passo timido verso di lui.
- NON TI AVVICINARE!! - ha urlato lui ringhioso, diretto alla donna. La sua voce, il suo urlo, conteneva una nota disumana e imbestialita. Ce ne siamo accorti tutti, inutile nasconderlo.
Era come se quell'uomo si stesse trasformando.
- SCAPPATE! E' UN VIRUS! - cominciò l'uomo sempre con quella voce para-mostruosa, utilizzando la parte della sua mente ancora lucida e consapevole. - DEVE ESSERE UN VIRUS! Qualcosa... qualcosa... che qualcuno ha liberato e disperso... QUI DENTRO, IN QUESTO POSTO... -
Qualcosa? Un virus liberato da qualcuno qui dentro, per attaccarci? Era questo il suo messaggio? Una specie di attacco terroristico? Io lo stavo interpretando così. Ma chi diavolo avrebbe potuto fare...
- Lassù... si stanno infettando... TUTTI... ANDATEVENE! -
E detto questo, gli occhi dell'uomo si sono riversati all'indietro facendo scomparire le sue iridi, si è portato le mani al collo tozzo e gonfio come se stesse soffocando ed è crollato a terra, in mezzo a lamenti agonizzanti mostruosi da sentire. Poi si è bloccato, e penso fosse morto quasi subito. Ci siamo guardati tutti, attoniti. Lentamente ho voltato lo sguardo alla mia destra e ho incrociato prima i volti impauriti di tot sconosciuti, e poi quelli dei miei amici. Gli occhi dei ragazzini erano già inondati di copiose lacrime. Gli occhi del mio migliore amico non guardavano nessuno, se non il cadavere malamente riverso di fronte a noi: lo fissava con un misto di attenzione e orrore, e capivo fosse alla ricerca di una spiegazione logica a quell'evento. Fa sempre così quando non capisce qualcosa.
Sera, in quanto detective dotata di occhio a lunga gittata, ha seguito il suo esempio, Ran e Sonoko hanno intimato ai ragazzi di non guardare e il professor Agasa si è fatto strada verso di me, in atteggiamento protettivo. Probabilmente entro poco intendeva trascinarmi via da lì, senza guardare in faccia a nessuno, afferrandomi il braccio e conducendomi fuori da quel luogo sospettosamente infestato da qualcosa.
Ma anche volendo, non avrebbe potuto.
All'improvviso, venuto dal nulla, un allarme fortissimo. Gli allarmi del centro commerciale, posizionati su ogni piano e corridoio, hanno iniziato a ululare tutti assieme, producendo un suono a dir poco urtante e assordante a causa del quale molte persone, giovani e adulti, si sono portati le mani alle orecchie. Ho guardato tutti gli altri del mio gruppo, senza sapere cos'altro fare: l'ho fatto sia per dare loro un sostegno visivo, sia per riceverne io stessa da loro.
Finché i rumori al piano terra non hanno attirato la nostra attenzione: attraverso le vetrate abbiamo scorto squadre di poliziotti corazzati che, a velocità e risolutezza impeccabile, applicavano grosse e pesanti sbarre di ferro a tutte le entrate e le uscite del centro commerciale, impedendo accessi ma anche fughe. Dietro di loro innumerevoli auto della polizia a sirene spiegate, sopra di noi il chiaro rumore di eliche appartenenti ad un elicottero, un poliziotto là fuori con un megafono in mano, pronto a dare un comunicato. Ad un tratto il campo visivo esterno ci è stato oscurato, visto che le squadre addestrate hanno applicato anche spesse pareti di materiale isolante a tutte quelle uscite già sbarrate: queste azioni compiute dalle forze dell'ordine hanno indotto le persone occupanti il pian terreno a correre e lanciarsi contro le uscite, infuriate e impanicate, per impedire quella chiusura totale. Ma ciò non è stato di nessuna utilità. Mentre sbiancavamo, realizzando lentamente cosa ci stesse per succedere, il poliziotto col megafono ha fatto risuonare nell'aria un messaggio che desse drastica conferma ai nostri dubbi. Un messaggio che potesse spiegarci il motivo per cui eravamo stati improvvisamente bloccati lì dentro come fossimo in un'enorme gabbia (infetta, peraltro), ed anche per cui, appostati là fuori, vi era una schiera di poliziotti armati e pronti a colpirci se non avessimo eseguito gli ordini.
Solo una spiegazione poteva aderire a quello sfacelo: eravamo in quarantena.

Una volta percepito il pieno senso di quell'allarme, il panico non ha impiegato molto prima di farsi strada lungo ogni angolo e corridoio del centro commerciale. Alcuni iniziavano già a correre da una parte all'altra per scappare, senza tuttavia una meta: vie d'uscita non ce n'erano più. Altri urlavano e piangevano, altri ancora rimanevano fermi dov'erano pensando alla cosa migliore da fare, come il nostro gruppo.
- Maledizione! Ci chiudono qui dentro assieme ad uno schifosissimo virus che non vogliono fare uscire dallo stabile?! - ha urlato Sonoko, irata.
- E' normale, Sonoko. Quando in uno spazio chiuso viene sparso un agente letale, come un virus che inizia ad infettare esseri umani, lo spazio in questione viene messo in quarantena con tutte le persone malcapitate rimaste dentro, per evitare che il virus esca da lì e si propaghi in città infettando tutti. - ha spiegato Sera, diplomatica e con una pacatezza accigliante, soprattutto data la situazione. Ma questo ha soltanto fatto infuriare di più la secondogenita Suzuki.
- LO SO, lo so cos'è una quarantena!! Ah, ma poi vedrai: quando uscirò da qui e avviserò la mia famiglia su quanto è successo, la polizia ne vedrà delle belle. La prossima volta ci penseranno meglio a rinchiudere un membro della compagnia Suzuki qui dentro come fosse un topo di fogna!!! - ha esclamato nuovamente, rossa in volto.
Sapevamo che il suo era soltanto uno sfogo privo di senso. Lei aveva paura, al pari di noialtri, e si corazzava col nome della sua famiglia, che non avrebbe comunque potuto salvarla da una quarantena ufficiale: per quanto ne sapevamo, Sonoko poteva già essere infetta. Come tutti noi.
Ho visto Sera rimboccarsi le maniche della maglia e incamminarsi lungo gli spazi liberi del nostro piano, guardandosi attentamente attorno e ignorando la paura dilagante. Forse cercava qualcosa di utile, o semplicemente indagava razionalmente, ma di certo ferma non ci riusciva a stare.
- Ehi, da quel che ho capito questo virus è nell'aria, si respira. Qui la gente si sta infettando a caso, senza il necessario contatto da parte di un altro infetto - ha proposto come ipotesi Conan, guardandosi attorno e vedendo altri corpi che, in preda a spasmi tutt'altro che rassicuranti e ricoperti di sintomi inspiegabili, cascavano inerti al suolo. Dal canto mio tentavo di ignorare il più possibile l'orrore della cosa, visto che c'ero dentro, ma certo non è facile come dirlo.
- Quindi cosa proponi? Di smettere di respirare? - l'ho schernito io, per arrivare il più in fretta possibile ad una soluzione. Tragicamente, lui ha annuito.
- Magari cercate di respirare il meno possibile. Non vedo altra soluzione. Anche se è una cosa stupida: c'è la probabilità di essere già tutti infetti, e che sia una questione di tempo prima che i sintomi saltino fuori anche su di noi. Perciò ora la speranza è di recuperare un antidoto. Chi ha sparso il virus dovrebbe trovarsi ancora qui dentro, messo in quarantena come noi: era al decimo piano quando l'ha fatto, quindi non può avere avuto il tempo di uscire. Dobbiamo scovarlo e costringerlo a darci la cura - ha sentenziato, accogliendo il nostro favore. Sera era tornata accanto a noi aveva sorriso, guardandolo dritto e proponendo a sua volta una linea di attacco:
- E' quello che sto facendo: individuare gente sospetta. Guardiamoci prima un po' attorno, potrebbe essersi spostato usando le scale fisiche e averci anche teso altre trappole. Senza contare che magari non si tratta di un solo colpevole. Se vediamo qualcuno di sospetto, fermiamolo! In caso contrario... andiamo di sopra, Conan? - un altro sorriso di sfida, come se stesse indagando su un caso qualunque e non su un'imminente strage provocata da assassini invisibili. Certo che il temperamento dei detective non si esaurisce mai, in qualunque situazione essi si trovino, anche la più tragica; anzi, aumenta.
In ogni caso, come trovare il responsabile? E avremmo fatto in tempo?
Conan ha corso verso la ringhiera del terzo piano e ha guardato verso l'alto, con espressione tesa e tirata, cercando di localizzare qualcuno di losco. Nel frattempo io mi sono diretta verso i ragazzini, spaventati a morte: avevano capito benissimo la situazione, di film horror in cui accadevano eventi simili ne avevano visti (anche troppi, per la loro età) e temevano forse di esserci dentro, di dover affrontare quelle stesse scene fantascientifiche: virus che trasformavano la gente a livello del DNA, rendendoli esseri cannibali. Li ho tranquillizzati, dicendo loro che quella era la realtà e che come tale andava affrontata, che ne saremmo usciti sani e salvi. Ho consigliato loro di non guardarsi troppo attorno e di parlare soltanto di cavolate, per distrarsi. Diciamo che un paio di urla agonizzanti di altri infetti sopra di noi, provenienti dal quarto piano, non stavano aiutando il mio progetto di “distrazione bambini”: tutti e tre hanno iniziato ad urlare di paura di fronte a me, temendo di fare la stessa fine. Era una paura lecita, ma più ci pensavano e più se l'attiravano.
- Bambini, non vi accadrà nulla. Non farete quella fine. Se per caso vi sentite qualcosa, un qualsiasi malessere anche piccolo, venite a dirmelo, okay? Poi ci penserà Kamen Yaiba a salvarci tutti, ma dovete dargli tempo, ha molto lavoro da fare qui -
A quel punto i ragazzi mi hanno sorriso timidamente, tra lacrime e guance arrossate. E hanno annuito, lievemente rincuorati.
Speravo solo di avere ragione, e che non accadesse loro nulla di nulla.
- Ehi, ehi!! Ragazzi! State bene?! - le voci accaldate e accavallate degli agenti Sato e Takagi ci hanno temporaneamente estratto dal nostro denso cumulo di angoscia, spiegandoci la situazione più nel dettaglio, visto che erano in diretto contatto con la polizia. Ci hanno confessato che nemmeno loro avevano via di scampo, pur conoscendo e avendo comunicato con gli agenti esterni che avevano dato l'ordine di sprangare ermeticamente quel luogo. In quel momento non erano più agenti di polizia, ma possibili minacce per la situazione sanitaria della città di Tokyo (o dell'intera nazione nel peggiore dei casi) e sembravano accettare diplomaticamente la loro condizione, ligi al dovere.
- E-ehi, Conan... ti è già venuta qualche idea? - aveva chiesto Ran, speranzosa, accostandosi al piccoletto. Era incredibile come lei si fidasse di lui, in fondo era solo un “bambino”. Era come... come se lei, in realtà, sapesse. Sapesse qualcosa, o perlomeno lo sentiva a livello sensoriale e inconscio, che ne so. Beh, mi importa poco.
Conan le aveva afferrato la mano, rassicurandola, in quanto la vedeva piuttosto spaventata e impallidita.
- Non avere paura. Ci sto pensando, troverò il modo di uscire tutti di qui illesi. Fidati di me, sarà il tuo modo di aiutarmi – aveva pronunciato lui, come fosse l'eroe sublime di qualche sceneggiato. Gli mancava solo l'immagine del tramonto alle spalle, una bella ondata scenografica che andava a schiantarsi contro gli scogli dietro di lui ed era fatta. E lei, naturalmente, si era sciolta in un bel sorriso, seppur mantenendo ancora un'espressione rigida e pallida dovuta alla tremenda situazione generale. Dovuta ai rumori di passi che correvano, alle grida, ai tonfi di individui intorno a noi che, come scelti in modo casuale da una roulette russa immaginaria, cascavano a terra morenti. Sinceramente, ciò che mi metteva più in ansia era l'idea di quegli orribili sintomi: non è che avessi tutta questa voglia di riempirmi di pustole putrescenti bianche come bava rappresa. E non avevo nemmeno fretta di soffocare nel rigonfiamento della mia trachea. E i miei occhi mi piacciono turchesi, non gialli.
Sera scalpitava, voleva andare a cercare il colpevole e massacrarlo di botte fino a fargli sputare tutta l'arcata superiore dentaria, ma Conan era stranamente meditabondo e riflessivo: invece di tuffarsi subito all'attacco preferiva rimanere in difesa a ragionare, e mi trovavo d'accordo con lui. Fino a che non ho compreso il vero motivo della sua immobilità e tensione, che ricordava una corda di violino.
Ho guardato il suo polso, per sbaglio, prima che lui lo coprisse velocemente con la manica della felpa. Polso su cui si erano formate un paio di piccole pustole bianche, cresciute sulla pelle infiammata e divenuta rosso fuoco.
Il cuore in gola, all'istante. All'improvviso faticavo a respirare, e la sensazione tetra e opprimente che avevo avuto per tutta quella giornata mi stava sembrando nulla, in confronto. Mi sono avvicinata a lui di soppiatto, per sussurrargli qualcosa nell'orecchio, ma lui mi ha anticipato.
- Stammi lontana. Fidati. - la sua voce era tirata come la sua faccia.
- Non credo sia contagiosa, né al tatto né alla vicinanza. Credo che l'abbiamo respirata tutti. Adesso tocca ai nostri organismi reagire o meno, coi loro tempi, e il tuo... - volevo proseguire con “il tuo sta iniziando ora”, ma ho preferito di no. Angosciarlo ulteriormente sarebbe servito a poco ed io ero agitatissima, quindi bastava così.
- Conan. Non farlo vedere a nessuno, tieni ben coperto quel polso -
- Lo so. Scoppia un casino se mi vedono. Ehi, hai con te qualche mentina forte? -
- Sì, forse, la cerco. Come mai? -
- Ho una nausea terribile. La menta potrà mitigarla – e detto questo, aveva tossito un po' forte un paio di volte. Poi un altro paio.
Cazzo.
Gli ho trovato la mentina, porgendogliela. Nonostante quello stato in cui stava per trovarsi, tentava di mantenere la calma e non la smetteva di guardarsi intorno con occhio scrutatore per trovare i responsabili, serio e attento.
Poi ho sentito qualcuno che mi picchiettava sulla spalla. Mi sono girata, trovandomi Sera davanti, stranamente a disagio.
- Ehi, Ai. Ne hai qualcuna anche per me, di mentina...? - stavo per risponderle di sì, quando ho capito perché me le chiedeva. Per lo stesso motivo di Conan. Inoltre lei aveva una maglia piuttosto scollata e si iniziavano a intravedere strisce blu orripilanti sul suo petto, vene in risalto e colme di sangue infetto. Oh, santo cielo.
Poi la situazione è precipitata. I ragazzini hanno urlato furiosamente, e inizialmente pensavo fosse per le solite ragioni. Ma poi ho visto il professor Agasa cadermi accanto con un tonfo sordo, con le mani al collo e gli occhi roteati e gialli come limoni, e ho capito. Ho sentito ogni fibra del mio essere sfracellarsi.
Il professore. Il virus aveva colpito irrimediabilmente il professore. Dapprima ho sentito solo la rabbia, poi la tristezza, infine la disperazione. Mi sono inginocchiata di fronte a lui a fissarlo, senza riuscire ad emettere un solo suono, sentendomi morire dentro. Le ragazze stavano urlando, disperate quanto me. I bambini piangevano. Le persone attorno indifferenti, troppo prese dai propri tentativi di salvezza. Penso che Conan si sentisse un po' come me, ma non potevo saperlo: non lo sentivo, era muto come un pesce. Ed io non riuscivo a staccare gli occhi da Agasa. Il mio insostituibile Agasa.
Poi è iniziata una reazione a catena assurda, che non mi ha dato il tempo di realizzare tutta quella vicenda. L'agente Takagi ha estratto velocemente la pistola dal retro dei pantaloni, puntandola nella mia direzione, e infine ha sparato. Il proiettile ha colpito qualcosa alle mie spalle, ciò che era stato l'obiettivo di Takagi. Ma che cosa? Inutile dire che lo sparo ha intensificato a dismisura il panico tenuto in bilico fino a quel momento in tutta la struttura, e che la gente ha iniziato a sciamare da tutte la parti. Ma non era stato solo lo sparo, il motivo di paura.
Perché la cosa dietro di me, che era stata prontamente colpita da Takagi... altri non era che l'uomo giunto al terzo piano poco prima, e che ci aveva avvertiti tutti prima di stramazzare a terra. E che da stramazzato e morto, si era... rialzato. Ed era venuto verso di me, bavoso e mugugnante. Quando Takagi l'ha colpito, è ricascato a terra, stavolta stecchito e con la faccia completamente viola scuro.
A quel punto, una sola domanda: se quell'uomo si era rimesso in piedi... cercando poi di aggredirmi... l'avrebbero fatto anche tutti gli altri colpiti dal virus...?
Non ho fatto in tempo a formularmi mentalmente la domanda, che la risposta si è materializzata davanti ai miei occhi. Un sacco di gente a terra, e intendo gente presumibilmente deceduta, si stava rialzando in preda alla follia, per attaccare in modo casuale e spropositato quelli rimasti ancora sani e inattaccati dal virus. In pratica, avevo fatto un errore ad assicurare ai ragazzini che quegli assurdi film di fantascienza non avrebbero preso luogo. Perché a quel punto è giunta la mia seconda e paradossale domanda: zombie?
Sonoko ha urlato come una pazza di fronte ad uno di quei morti viventi, qualcosa come:
- OH... MA... CHE SCHIFO! - E non so se “che schifo” sia l'espressione che mi sarebbe uscita più automaticamente, piuttosto “Oh aiuto sto per essere ammazzata”, tipo. Ma ognuno è fatto a modo suo.
Entro poco anche Agasa sarebbe diventato così. Ho strizzato forte gli occhi cercando di non pensarci, per il momento, alzandomi in piedi e scattando verso i bambini urlanti per proteggerli, e per pensare ad un modo di uscire di lì e salvarci la pellaccia. Eravamo confinati in quarantena, dannazione, chiusi dentro con un ammasso di pericolosi infetti! Mentre la rabbia mi montava dentro come un vulcano in eruzione, vedevo cose terribili: gli zombie, o chiamateli come volete, strappavano pezzi di carne dal corpo delle loro prede vive. Ed erano piuttosto veloci.
Sato e Takagi sparavano, facendoci da barriera, per fortuna. Fino a che Sato non è stata attaccata da uno di loro, da dietro, sul collo. Mi sono voltata subito dall'altra parte, non ho avuto il coraggio di guardare. Ho sentito soltanto Takagi urlare rabbioso e sparare a raffica.
Dietro di me sentivo “Scappate, scappate!” e così abbiamo fatto. Siamo scappati, a casaccio, come tutti gli altri, scontrandoci tra noi e schivando il più possibile quelli con la faccia violacea e i denti sporchi di sangue. Ho visto Ran che a suon di calci e pugni ne tramortiva tre o quattro che l'avevano accerchiata, come fossero fantocci, motivo per cui mi sono accostata a lei il più possibile.
- Nascondiamoci sulle scale di emergenza! PRESTO! - aveva urlato Conan, aprendoci la porta di sicurezza per farci entrare per primi. Poi era entrato anche lui, chiudendosi la porta alle spalle e serrandola col catenaccio applicato allo stipite. In quel nuovo silenzio che ovattava i suoni esterni abbiamo tirato un sospiro di sollievo, prima di urlare all'unisono per lo spavento quando qualcosa (qualcuno) è venuto a sbattere contro la porta, emettendo versacci gutturali e voraci. Uno di loro, che ci aveva visti.
- Scappiamo giù per le scale! - ha urlato Ran, tentando di prendere le redini della situazione. Quando c'era di mezzo un grave pericolo, quella ragazza attivava al massimo tutti i propri sensori.
Siamo scesi un po' verso il basso, fino a che non abbiamo ritenuto di essere abbastanza lontani da quegli esseri da poterci fermare a prendere fiato.
- Ma che cavolo sta succedendo...? - ha chiesto Sonoko con un sussurro di voce e le lacrime agli occhi. - L'agente Sato... avete visto? E' stata... morsa... -
- Non... non torniamo su a vedere come stanno lei e Takagi...? - ha proposto Mitsuhiko tra i singhiozzi, in un impeto di piccolo coraggio. Chiaramente la nostra risposta è stata no, perché tornare su equivaleva a fare la stessa fine. Io, comunque, con l'angoscia nel cuore, pensavo solo ed unicamente ad Agasa. Volevo urlare, frignare e rotolarmi a terra disperata in quell'esatto istante, lo giuro, era il mio unico desiderio. Ma non l'ho fatto, non potevo ancora farlo.
- Oh... NO... oh, no, Conan! - ha esclamato Ran, portandosi le mani alla bocca e fissando scioccata il suo piccolo coinquilino. Il soggetto in questione si teneva aggrappato alla ringhiera delle scale con grande fatica, allentandosi il colletto della felpa per il caldo e rivelando così la presenza di svariate pustole. La colorazione del suo viso stava passando dal rosso al violaceo, esattamente rispettando la sequenza dei sintomi che già avevamo visto, e la sua temperatura corporea doveva aver raggiunto un assurdo picco. I ragazzini lo guardavano ad occhi sbarrati, pietrificati.
Ran si era fiondata accanto a lui, inginocchiandosi alla sua altezza e cingendogli le spalle col braccio.
- Coraggio, sali sulle mie spalle. Ti porto giù io, e poi ti porto anche fuori da qui! -
- Non posso, sono... sono infetto... - aveva tossito ad occhi chiusi, e quando li aveva riaperti erano coperti di diversi capillari rotti.
- Non me ne frega niente! Ti porto fuori da qui e costringo qualcuno a curarti! Forza, sali! -
- Ran... allontanati... mi sta succedendo qualcosa che non...! - a quel punto si era accovacciato a terra ma, prima che potessimo soccorrerlo, qualcosa ci ha aggrediti alle spalle.
Sera Masumi. Che invece di passare dallo status “morte”, era slittata direttamente alla trasformazione. E ce l'aveva con noi.
Inutile che sto a descriverla, era come tutti quei mostri là fuori, ed emetteva dei ringhi che non avevano assolutamente nulla di umano. Ricordo che abbiamo urlato senza tregua e che, in preda al terrore, siamo scappati ancora giù per le scale. Ran non voleva lasciare Conan, agonizzante a terra e forse sotto processo di trasformazione, ma l'abbiamo costretta a venire via. Io mi sentivo morire dentro, ma non potevo farci nulla, in quel momento. Mi aggrappavo al pensiero che, se fossimo sopravvissuti, avremmo potuto convincere l'esterno a far calare un antidoto su di noi, salvando sia i sani sia gli infetti trasformati.
Ma come sopravvivere in mezzo a quel putiferio, con il nostro sangue già infestato?
Mentre eravamo inseguiti da una Sera impazzita e famelica, siamo arrivati al piano terra spalancando le porte che ci hanno condotto nell'atrio del centro commerciale. Si stava verificando un disastro, un massacro umani-mostri da film di fantascienza.
A quel punto, per il troppo caos, ci siamo divisi, senza farlo apposta. Mi sono ritrovata sola, spintonata di qua e di là. E lo stesso stava di certo accadendo agli altri. Non sapevo dove fossero finiti tutti, non sapevo dove fossero i bambini! Non potevano farcela da soli, ma in mezzo a quel casino non riuscivo a trovarli!
Correndo a perdifiato e schivando quanti più individui potessi, sono arrivata ad un negozio di giocattoli rimasto deserto, mi ci sono infilata dentro scegliendo di nascondermi in una casetta di plastica di quelle che si piazzano in cortile. Sono rimasta nascosta lì dentro, in assoluto silenzio e con le gambe rannicchiate al mio petto, per un tempo incalcolabile. Le urla agghiaccianti, fuori da quel piccolo loculo silenzioso, proseguivano incessanti e mi gelavano il sangue. Ho iniziato a piangere senza tregua, scossa da forti fremiti, sentendomi tremendamente in colpa per tutto. Per i bambini, che probabilmente in quell'istante fronteggiavano da soli gli zombie; per Agasa, per Conan; per non aver dato ascolto alla mia terribile sensazione quella mattina, prima di entrare in questa trappola mortale, prima di rimanere chiusi ermeticamente e lasciati soli con dei mostri ingestibili che si nutrivano di noi.
Non ho comunque fatto in tempo a disperarmi troppo: qualcuno è entrato con lentezza e passo felpato nel negozio di giocattoli deserto, emettendo un lieve, cupo e lungo ringhio. Mi pareva quasi di conoscerlo. Il ringhio si è avvicinato nella mia direzione, alla ricerca di una preda, e ho stretto la presa attorno alle mie gambe mantenendo il più fermo silenzio. Poi, all'improvviso, l'individuo lì fuori ha aperto la porticina della casetta giocattolo in cui ero nascosta, trovandomi. Ho guardato in faccia quello che sarebbe stato il mio presunto assassino, e ho riconosciuto Conan, col volto stravolto dalla potenza di modificazione genetica del virus. Era diventato uno di loro, e il sorriso diabolico dipinto sul suo volto mentre mi guardava, mentre guardava il suo cibo, mi ha costretto ad arrendermi. Ho urlato respingendolo, ma lui mi ha afferrato dal colletto e trascinato fuori da lì con una forza che non gli apparteneva, eseguendo poi il suo mostruoso dovere.





- Ahahah... ah... ah... - rise Conan, poco convinto e piuttosto sconvolto. - Ah, ehm, Haibara... non per urtare la tua sensibilità né il tuo operato, ma... s-sei proprio certa di voler presentare questo tema all'insegnante, per la prova di fine anno della seconda elementare...? -
- Sì, certo. - affermò Ai priva di esitazione.
- Ripeto... seconda elementare... - riprovò lui, con un certo tatto.
- In fondo l'insegnante ha detto che per questa prova avevamo libertà totale di scegliere genere e stile, ed io ho scelto l'horror. Comunque non ero tanto sicura della forma, per questo te l'ho fatto leggere prima. Come ti sembra? -
- B-beh, ecco... - a quel punto lui aveva chiuso il quaderno su cui Ai aveva scritto quel testo, iniziando a ridere come un idiota e a faticare a contenere le risate. Erano ancora in aula nel bel mezzo della lezione, e la maestra si sarebbe arrabbiata.
- Ma cosa diavolo ridi, Kudo?! -
- L'ho trovato fico, lo confesso! Ma per una bambina non è un po' troppo, visto da fuori? - le aveva sussurrato lui, sempre ridendo.
- No, non lo è. Penserà che sono una bambina un po' strana e psicotica, ma dimmi, chi è che già non lo pensa? -
- Anche questo è vero, però... -
- Ehi, Ai-chan!! - una voce proveniente alle loro spalle, da parte dei tre piccoli DB, seduti tutti l'uno di fianco all'altro. - Abbiamo già finito anche noi di scrivere il nostro tema... possiamo leggere il tuo?? Le tue storie sono sempre avvincenti! -
Ai aveva annuito in tutta tranquillità, anche piuttosto soddisfatta, e aveva passato loro il suo tema horror mentre Conan si metteva le mani nei capelli.
- Haibara, che fai?! Scoppieranno a piangere per la paura! -
- Ah, Kudo, taci. E' solo un tema fantascientifico! -
- Se poi si prendono spavento, te ne occupi tu e soltanto tu. Hai capito? Ti ho avvertita, io non ci metto dito -
- Sì, sì. Ora stai zitto o cosa? La maestra ci sta guardando male. E tu che diavolo hai scritto, il solito giallo intricato che capirai soltanto tu? - chiese lei, altezzosa.
- Non hai detto che la maestra ci sta beccando? Quindi alt, basta, finiamola qui – rispose lui, irritato e schivo.
- Qualcosa mi dice che ci ho preso... -
- Sai, sono proprio contento di essere stato lo zombie che ti ha mangiato viva alla fine della storia. -
- Non avevo dubbi. -
Dopo che i bambini dietro di loro finirono di leggere, pallidi in volto e con la fame improvvisamente scomparsa, e che restituirono il tema ad Ai, quest'ultima andò a presentarlo alla maestra Kobayashi.
- Ecco qui, maestra. Ho ultimato il tema. -
- Oh, grazie, Haibara! Non vedo l'ora di leggerlo, sarà di certo ben elaborato come gli altri tuoi scritti -
- Beh, lo spero – rispose lei, con un sorriso ingenuo.
La maestra leggeva i temi direttamente in aula, dando subito il voto. Conan non vedeva l'ora di fissare la reazione della maestra, mentre Ai se ne stava tranquillamente appoggiata al banco ad occhi chiusi, riposandosi la vista. Fino a quando non fu richiamata alla cattedra per il responso, e lei si avviò.
- Haibara, non c'è che dire. Per una ragazzina della tua età è un tema scritto bene – le disse la signorina Kobayashi, piuttosto irrigidita sia nel volto che nella voce. Era provata da qualcosa, e si poteva immaginare cosa.
- Oh, grazie. Ma...? C'è un ma, vero? - aveva chiesto Ai. Forse Kudo aveva ragione: sarebbe stata rimproverata per il genere scelto, l'horror, per le descrizioni schifose degli zombie e per la violenza delle scene.
- Sì, in effetti c'è qualcosa che ti voglio appuntare, e sappi che non ho gradito. Esattamente qui, guarda – passò l'indice sul testo, sulla scena in cui il suo amico iniziava ad accusare i sintomi, e lo puntò su una parola. - Vedo scritta una parolaccia. Hai inserito una parolaccia! - esclamò, impettita. - Non si fa, Haibara! -
- M... ma... - balbettò Ai, capendo che ciò che aveva irrigidito la maestra non era stata la tematica sanguinosa trattata nel tema, bensì la presenza di una stupida parolaccia. - Ma maestra, era per dare un tocco di realismo! Voglio dire, se lei si trovasse in una situazione tanto pericolosa e terribile, non gliene scapperebbe nemmeno una?! Anzi, sono stata fin troppo leggera inserendone una soltanto – puntualizzò Ai, sostenendo a testa alta le sue ragioni.
- Haibara! Non intendo discutere su questo punto! Sostituiscila subito con un'altra parola, adesso, altrimenti si abbassa il voto! -
Ai sbuffò, riportando il tema al suo banco e sostituendo la parola con una meno volgare, imbronciata. Conan, di fianco a lei, rideva sotto i baffi.
- Che ne dici di “acciderbolina”, Haibara...? Ci starebbe proprio in un attacco zombie, eh? - le suggerì, sarcastico e provocatorio.


- WAHAHAHAH!!! -
Masumi, dopo aver letto quel tema seduta su un muretto fuori dalla scuola Teitan, si spanciò dalle risate, del tutto incurante del fatto di trovarsi in luogo pubblico.
- Che figata, CHE-FIGATA. Ragazzi, sono diventata uno zombie! Sono veramente onorata che tu abbia scelto me, Ai! - le disse Sera sorridendo con entusiasmo e suscitando il consenso della ragazzina. - Che ne dici di scrivere un seguito in cui mi fai massacrare tutti quelli che mi passano a tiro?? -
- Beh, ci potrei pensare, perché no? - rispose Ai ridacchiando.
- Bah, non capisco perché mi hai descritta come una pazza shopping-compulsiva e come un'oca che starnazza frasi sulla potenza della sua famiglia! - si lamentò Sonoko, che aveva letto il tema insieme a Sera e Ran.
- Mah, probabilmente perché dovresti farti due domande...? - le suggerì Conan ironico, suscitando un'infuocata aria di sfida negli occhi di Sonoko.
- Io lo trovo molto avvincente! Non ci avevo mai pensato, ma credo mi piacerebbe prendere a calci e pugni gli zombie, sapete? - disse Ran, sorridendo cordiale alla piccola scienziata. Poi però aggiunse qualcosa, con un velo di perplessità. - Solo una cosa non ho capito, Ai... cos'è che io dovrei “sapere” ma che forse “inconsciamente so” riguardo a Conan? Vedi, l'hai scritto in questa parte del testo... -
Il diretto interessato voltò fulmineo lo sguardo verso di lei, impaurito. E le inviò un messaggio telepatico del tipo “pazza, sei una pazza! E pure rimbambita!”, che Ai comunque accolse. Oh, no, OH NO, perché Haibara si era lasciata sfuggire certe frasi così delicate nel suo dannato testo?! Si ricordava il pezzo: era il punto in cui lei riteneva che Ran si fidasse forse un po' troppo di lui, come se in realtà già sapesse qualcosa. Quel qualcosa, chiaramente, si riferiva alla sua vera identità.
- Mmm... beh, ecco, in realtà quel pezzo... come posso spiegare... - iniziò Ai, senza però sapere che scusa inventarsi. In effetti si era lasciata troppo trasportare dal racconto, e non ci aveva fatto caso. Ops.
Guardò Conan, in ansia, il quale le restituì uno sguardo smarrito, perché nessuno dei due sapeva adesso come venirne fuori.
- MA MI HAI FATTO FUORI?! - disse qualcuno, portando fortunatamente altrove il discorso. Era Agasa, che aveva appena terminato la lettura. - Ai, sarebbe questa la tua riconoscenza nei miei confronti? Farmi ammazzare da un virus?! - sembrava sinceramente offeso.
- Suvvia, prof, non hai letto la descrizione della mia disperazione? E' quello che conta davvero, no? In più hai dato un grande slancio a questo racconto, con la tua tragica infezione. Dovresti esserne orgoglioso -
- Ma sentitela... no, sono troppo sconvolto. - annunciò lui, mogio. - Stasera dovrò trovare un modo per risollevarmi l'umore... tipo una bella fetta di torta al cioccolato che potrei passare a ritirare adesso in pasticceria - disse raggiante.
Ai sospirò, concedendogli la tregua. Non c'era rimasto realmente male, anzi, l'aveva usato
come assurdo pretesto per poter finalmente piantare le zampe su una bella fetta di torta calorica, dopo che Ai l'aveva costretto a dieta forzata.
Anche perché, forse, la reazione peggiore fu quella dei ragazzini: essi erano parsi stranamente silenziosi e in trance, in quegli ultimi momenti, ed ora era chiaro il motivo. Il loro sfogo era adesso pronto ad uscire.
- Non guarderò mai più un film di zombieeeee! - urlò Ayumi.
- Io non entrerò mai più in un centro commercialeeeee! - starnazzò Mitsuhiko.
- Ma come fanno gli zombie a mangiare soltanto carne umanaaaaaa?! - sbraitò Genta.
E giù a piagnucolare sconnessamente. Conan, a quel punto, si avvicinò di soppiatto ad un'allibita Ai e si accostò al suo orecchio per dirle qualcosa.
- Io te l'avevo detto. Adesso qui te ne occupi tu... ciao ciaooo! - mormorò lui sarcastico, con un sorrisone.

 

 






********************************************
Bene, leggendo il finale vi sarete accorti che no, non li ho trasformati tutti in bestie sanguinose per poi lasciarli lì a mangiarsi vicendevolmente ;D ;D ;D
Questa shot in realtà è stata fatta tempo fa, tuttavia mi sembrava consono pubblicarla per una qualche evenienza particolare e attinente, e cosa meglio della festa dark per antonomasia?? *.* Volendo si può dire che questa sia la prima shot che si immerge in una specie di AU, in particolare con la fantascienza, comunque prevista nel mio immaginario di raccolta (anche se in questo caso, alla fine, si rivela essere tutto un tema scolastico splatter scritto dalla nostra scienziatina <3). E sì, da amante del genere volevo piazzarci da tempo gli zombie di mezzo, lo ammetto XD E ho trovato quindi questo escamotage. Non che gli “zombie” in sé mi facciano impazzire, ma le storie che possono fuoriuscirne a volte sono composte bene. Ma comunque niente da fare, gli alieni non li batte nessuno! :')
E quindi Buon Halloween a tutti, anche se un po' in anticipo!! ^O^ E GRAZIE per le vostre recensioni, i vostri consigli, sempre dati in modo attento e caloroso! :') E scusate davvero se vi ho tirato in mezzo a tutto ciò, ahahah XD Ricordo poi, a qualunque altro lettore abbia voglia, che è SEMPRE ben accetto per recensire e darmi le sue personali impressioni anche su singole shot! ;)
Alla prossima! ^.- E occhio agli zombie ^.- 

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Capitolo 21
*** Kit medico rosso - SeraShu ***


21. Sera e Shuichi Akai ~ 

***







Kit medico rosso


Lei sapeva già che, appena varcata la soglia di casa, sua madre le avrebbe urlato contro in malo modo e con tutta la voce che aveva – non è che sarebbe poi stata questa grande novità.
E infatti fu così. Ma forse questa volta aveva ragione (aveva ragione tutte le volte, a dire il vero, ma Masumi non l'avrebbe ammesso mai e poi mai, poteva scordarselo quella racchia). Quando la signora Akai, nonché sua madre, le si parò davanti a mò di statua guardiana che non lascia entrare gli avventurieri nel tempio se non dopo averli sottoposti a terribili prove, conosceva già tutto l'iter straziante che l'attendeva. Aveva smesso di contare il verificarsi di quella stessa situazione cinquemila volte fa.
La donna, con sguardo cupo, si ergeva su di lei approfittando della sua altezza. Non era poi tanto alta, a dire il vero, ma agli occhi di una Masumi ancora nanerottola pareva quasi un gigante.
La piccola sbuffò visibilmente, schiva e altezzosa, col chiaro intento di irritare la madre.
- Masumi! Cosa sono tutti quei lividi e quel sangue secco che hai sulla faccia?! E i vestiti strappati? Hai ancora fatto a botte coi tuoi compagni, eh?! - le urlò indignata, cercando di mascherare al meglio quella che, in realtà, era grande preoccupazione. Masumi lo notò dalle sue sopracciglia, erano piegate in quel modo acuto con cui si piegano quando una persona è triste. Però capiva anche che la rabbia a sua madre serviva come mezzo e corazza, per poterle impartire una lezione.

La piccola sbuffò ancora, posandosi le mani sui fianchi e spostando la testa a sinistra, guardando altrove. Le faceva male il naso, da cui ancora usciva un piccolo rivolo di sangue (scorrendo sopra a quello più grosso che ormai si era seccato), ma non intendeva darlo a vedere. Doveva mostrare a tutti la sua forza, ai compagni, a se stessa. A sua mamma.
- Guardami quando ti parlo, piccola peste! La vuoi smettere di fare le risse a scuola?! Quello è un luogo dove si impara e si cresce! Non dove si fanno andare le mani! -
- Hanno iniziato loro, e non è colpa mia se i miei compagni sono degli stronzi! -

- Masumi, niente parolacce qui dentro! Vedi di moderare i toni, altrimenti ne prendi ancora. Adesso fila in bagno e datti una sciacquata! -
La donna sospirò, esasperata. Perché sua figlia doveva riempirla continuamente di quel genere di preoccupazioni? Senza contare la quantità di volte che la scuola la chiamava, la avvertiva della cattiva condotta della bambina, dei disagi che provocava in classe e della sua spiacevole natura rissosa. Un vero maschiaccio di bambina.
Masumi fissò in tralice la madre, fissò soprattutto i suoi lunghissimi e vaporosi capelli che ondeggiavano a ritmo dei suoi gesti rapidi e ansiosi. Erano veramente morbidi, li adorava, li avrebbe tanto voluti così. E invece li aveva corti e ribelli, col cavolo che da grande avrebbe avuto lo stesso dono, dannazione. E poi sua mamma era bella, una bellezza stranissima poiché contrassegnata dai tipici tratti un po' tetri che parevano caratterizzare tutti i membri di quella stramba famiglia. Aveva degli occhi scintillanti che ricadevano su occhiaie molto profonde, che la facevano sembrare un po' una diva horror.
- Perché sei così manesca, Masumi? E' la terza volta in un mese che ti vedo tornare a casa in questo stato... sei all'ultimo anno delle elementari, vorrei che lasciassi un ricordo migliore a quella scuola... -
- Almeno gliel'ho fatta pagare! Avresti dovuto vedere il mio compagno, quel poveraccio, mentre rantolava a terra... perché alla fine, anche se mi provocano, vinco sempre io! - rispose la bambina, ridacchiando con gusto e alzando un pugno in segno di vittoria. Il suo era chiaramente un tentativo di provocare e di attirare inopportune attenzioni su di sé. Stava di fatto che la madre, almeno per quel giorno, non pareva disposta a tale scopo.
- Ah, non ne posso più... - sospirò, voltando poi la testa verso una porta in fondo al corridoio in cui si trovavano. - Shuichi! Per favore, vieni qui a prenderti tua sorella? Dille qualcosa tu, che magari ci capisci qualcosa meglio di me! - disse lei ad alta voce, sperando in quell'ultima risorsa.
Uno dei due fratelli maggiori, quello chiamato a rapporto, era l'unico in quella casa che riuscisse a mettere dei freni al comportamento instabile e spericolato di quella bambina. Forse perché anche lui possedeva un'indole molto simile, seppur domata col tempo, riuscendo quindi ad entrare più in empatia con Masumi e capendo i suoi problemi.
La porta della stanza si spalancò, e ne uscì un giovane ragazzo alto, robusto e dagli occhi identici a quelli della madre. Shuichi Akai si diresse pacato verso di loro, accennando un sorriso divertito non appena vide le tracce di una rissa all'ultimo sangue sul viso della sorellina.
- E brava la nostra piccola – esordì lui, ironico.
- Non incoraggiarla! Per favore, portatela in camera tua e parlaci un po'... falla ragionare, se puoi, anche se è un'impresa impossibile – e mentre diceva quelle parole, Shuichi vide la piccola Masumi dietro di lei che muoveva la bocca a vuoto e faceva facce stupide per emulare la madre e farle il verso. Ancora una volta, lui ridacchiò divertito. Adorava la sua sorellina, anche se era una ragazzina agitata e impegnativa - anzi, forse proprio per quello.
- Dai, Masumi-chan. Andiamo. - disse Shuichi allungando una mano verso di lei, che la piccola afferrò timidamente.
Quando Shuichi la condusse nella propria stanza in fondo al corridoio, chiudendo la porta, la timidezza non aveva ancora abbandonato la bambina. Tutte le sue difese da maschiaccio crollavano di fronte al fratello maggiore: aveva una tale ammirazione per lui da arrivare quasi a sentirsene in soggezione, anche se sapeva bene che non era quello l'intento del fratello. Anzi, con lei si era sempre dimostrato tranquillo e paziente, il loro rapporto era semplice e lineare, eppure c'era una forza nascosta che la portava ad adorarlo e rispettarlo totalmente.
- Siediti pure sul letto, Masumi-chan -
Lei eseguì annuendo, mentre lui cercava nel cassetto del comodino qualcosa con cui pulirle il viso e medicarla. Ne estrasse una scatola rossa, un kit medico di media grandezza contenente tutto l'occorrente e che doveva essere quello suo personale. Mezzo minuto dopo lui era inginocchiato di fronte a lei: con la mano destra le teneva fermo il viso e con la sinistra le passava il cotone zuppo di disinfettante sulle piccole ferite ancora aperte.
- A... auch!! - gemette lei, strizzando gli occhi per il dolore.
- Eh sì, Masumi, ci hai proprio dato dentro questa volta – rise lui con un suono al contempo profondo e leggero, passandole il cotone nel modo più delicato che conosceva. Lei comunque restava ferma, anche se faceva male, pensando che era fortunata ad averlo lì in casa: era partito mesi prima per un addestramento militare per diventare agente, e tornava a casa di rado. Sperava rimanesse quanto più possibile, era contentissima della sua presenza.
- Non è colpa mia, Shu-niichan... - mormorò lei, come se temesse il suo giudizio.
- Oh, lo so bene. So che in realtà sei una bambina brava e gentile, ma che se vieni provocata non risparmi nessuno – le rispose lui, cogliendola nel segno. - Il punto è, Masumi-chan, che agendo così non fai altro che il loro gioco. Loro si aspettano la tua rabbia e la tua indignazione, e di certo ci godono un bel po' quando ti vedono reagire esattamente come pensavano -
- E quindi che dovrei fare?! Lasciare tutto così? -
- Ignorarli. Hai tanta energia, piccola, che potresti canalizzare nella testa al fine di pensare, piuttosto che nelle mani al fine di picchiare. Pensa alla frustrazione che avranno loro, quando ti vedranno reagire in modi diversi e molto, molto più astuti -
- Ma... non sono capace... auch!! -
- Ops, scusa. Qui vicino al naso è un po' bruttino. Comunque, certo che ne sei capace... avrai bisogno forse di un po' di tempo, e di buona volontà, ma le cose si sistemeranno -
- Shu-niichan, anche tu eri così a scuola...? -
- Sì, certo che sì. Perché pensi che la mamma chiami sempre e solo me per aiutarti? Perché ne ha passate di cotte e di crude anche con me, quando avevo la tua età. Ma ti assicuro che, purtroppo, non è un atteggiamento che ti porterà molto lontano -
- Okay... - rispose lei in un mormorio, annuendo appena. Si fidava, però erano indicazioni molto difficili da seguire. Cosa c'era di meglio di spaccare la faccia a qualcuno che ti faceva salire il sangue alla testa dalla rabbia?
Le venne un moto di frustrazione e non perché non si sentiva capita, ma perché non le piaceva l'idea di doversi adattare in modo diverso alle situazioni quotidiane. Veniva provocata, spintonata, spesso insultata, ingiustamente... ed era lei a dover cambiare? Beh, forse sì, perché gli altri non l'avrebbero fatto. Più ci pensava, più capiva che la strada indicata dal fratello sarebbe stata molto lunga.
- Shu-niichan, io cercherò di smetterla... mi farò gli affari miei... però sappi che loro sono veramente degli stronzi – si sfogò la piccola con tono triste e abbattuto, poi trattenendo il fiato e sperando che la parolaccia non provocasse nel fratello la stessa reazione della madre.
Lui ridacchiò e la guardò con enorme dolcezza, prima di rispondere.
- Sì, lo so. So che sono dei grandissimi stronzi – terminò lui, suscitando un sorriso divertito sul viso di Masumi. - Ma tu non lo sei. Quindi non ti abbassare al loro livello, intesi? -
- Intesi! - disse lei, più energica.
Dopodiché lui richiuse il disinfettante e lo ripose nuovamente nel kit, continuando a parlarle.
- Ecco fatto, sei a posto. Tieniti su i cerotti ancora per qualche ora, ce la fai? -
- Ce la faccio. Shu, hai già sparato all'accademia?? - chiese lei, curiosa. Voleva fargli quel genere di domande già da un po'.
- Sì, certo. Abbiamo un'area d'addestramento fatta apposta, ci passo molto tempo – mentre rispondeva, anche Shuichi si sedette sul letto, al fianco della bambina. Quest'ultima sentì il letto sprofondare da quel lato sotto il suo peso. - Vorrei affinare le mie tecniche di mira, sai? -
- Per diventare un ciuchino?? -
- Cecchino, Masumi. Si dice cecchino – rispose lui, e iniziò a ridere di gusto, immaginando se stesso nella forma di un asinello con giacca di pelle intento a sparare, facendola arrossire violentemente. - Però sì, è ciò che mi piacerebbe fare. -
- E non ti piacerebbe fare l'agente segreto?! - a quel punto Masumi scattò in piedi sul letto, i piedini affondati nel materasso. L'euforia l'aveva colta, mentre agitava le braccia e fissava il fratello con occhi brillanti. - Che so, tipo quelli dei film americani che si infiltrano ovunque? Tipo l'FBI?! -
- Oh, beh, l'FBI forse è un obiettivo un tantino lontano e fuori mano. Però sì, ci proverò, perché no? Mai dire mai! - ribatté lui, rinvigorito dall'atteggiamento esaltato della sorellina.
- Ed io cosa potrei fare?? - le chiese lei, arrossendo un po'.
- Mmm... - Shuichi alzò lo sguardo al soffitto assottigliando gli occhi, in atteggiamento pensante. Gli vennero subito in mente tutte le volte in cui aveva smarrito qualcosa, anche oggetti importanti, che venivano poi ritrovati da Masumi: a lei bastava sapere gli ultimi luoghi della casa in cui lui era stato, cosa aveva fatto di preciso (anche i gesti più insignificanti) e sapeva ritrovare il suo oggetto smarrito in pochi minuti, quando a lui sarebbero servite anche delle ore. Riusciva a prestare una tale attenzione ai dettagli da non farsi quasi mai sfuggire nulla, risolvendo tutte quelle tipiche problematiche che le persone distratte faticavano a compiere.
- La detective. Potresti fare la detective -
- Cosa?! Io? Un lavoro dove c'è da avere pazienza, attenzione, fare silenzio e ragionare... naaaah, non fa per me!! Io voglio correre, sparare e muovere le mani! - rispose lei, saltellando sul letto un paio di volte. Lui rise, scuotendo la testa.
- Chi lo sa, Masumi-chan. Magari, crescendo, ti renderai conto di alcuni aspetti a cui non avevi fatto caso prima, ma che ti piaceranno -
- Okay, allora facciamo così: se tu ti impegni a diventare un FBI, io cerco di darmi una calmata e di fare la detective!! Ci stai? -
- D'accordo, ma... perché ci tieni così tanto che io faccia parte dell'FBI? - chiese lui, perplesso.
- Perché quando ne parli ti brillano gli occhi! Diventi contento, sorridente! Forse non te ne accorgi da solo, ma è un pensiero che ti fa battere il cuore. Io lo so! Puoi fidarti di me! - rispose lei, le guanciotte rosse e il sorriso allargato.
Lui la fissò con occhi sbarrati, piacevolmente sorpreso. Come si era aspettato, lei non prestava grande attenzione solo ai dettagli materiali, ma anche a quelli emotivi ed umani; proprio ciò che dovrebbe fare un detective, nel sondare i sospettati e gli innocenti. E proprio ciò che farebbe una ragazzina dal cuore d'oro, attenta al benessere dei propri cari, come lo era lei.
- Beh, sì, forse ci hai preso. Forse, eh! Tocca a te scoprirlo! - gli disse lui, in tono di sfida.
- Dici così solo perché non vuoi ammettere che ho sempre ragione! Gneeeeeh! - gli rispose lei ridendo, facendogli un'amichevole e fraterna linguaccia.



Ripensare a quel lontanissimo pomeriggio, come le stava accadendo adesso mentre era sola e distesa sul prato del parco sotto la luce incerta del sole, le dava sempre una sensazione ambigua che ancora non riusciva a catalogare. Si sentiva meglio, peggio? Non si sa.
E anche il suo stesso viso sembrava non trovare la giusta via, sperimentando comunque entrambe le opzioni. Mentre si asciugava le due lacrime scappate dagli occhi, e pur tuttavia facendo un sorriso, Masumi si sollevò a sedere, guardando di fronte a sé. Era ancora vestita con la divisa azzurra liceale, visto che si era diretta lì subito dopo la scuola senza dare spiegazioni superflue a nessuno. Mentre la sua mente lavorava, i suoi occhi incrociarono l'immagine della fontana del parco vicino cui giocavano dei bambini, schizzandosi l'acqua addosso.
Hai visto, Shu? Ce l'abbiamo fatta alla fine. Tu FBI, io detective. E avevi ragione, appena ho iniziato a provarci mi è piaciuto da subito! Però ne abbiamo fatto di lavoro e, non so tu, ma io ci ho messo davvero tanto tempo a darmi una netta calmata... anche se l'altro giorno mi sono lasciata di nuovo andare e ho dato un calcio in faccia ad uno, sai? Era un ladro, però.
Ridacchiò tra sé e sé ripensando alla faccia di Kaito Kid dopo aver 1. scoperto che lei era in realtà una ragazza, e 2. scoperto di aver preso un clamoroso calcio in faccia.
Ma so che anche tu ti sei dato da fare. Che anche tu sei da qualche parte, in questo momento, perché non mi arrendo alle notizie sulla tua morte. Non lo farò. C'è qualcosa di oscuro che non ci stai dicendo, ti trovi ancora nei dintorni ed io lo sento, e spero tu sappia che aspetto solo un tuo segnale, qualsiasi cosa. Non sparire così. O almeno, se proprio devi, non farlo con me.
Sospirò silenziosa, ignorando la brutta stretta al cuore per la paura di aver preso un granchio e che in realtà suo fratello fosse stato annientato davvero dal nemico, ma sapendo invece di avere ragione e che non poteva essere diversamente.
Sapendo che se si fosse presentato un momento di bisogno, se si fosse fatta ancora del male, inciampando o malmenandosi con qualcuno o rimanendo ferita in uno scontro, lui sarebbe arrivato col suo kit medico a disinfettare; forse era una cosa ingenua continuare ad attribuirgli quel compito nella mente, ma era un pensiero troppo rassicurante per rinunciarvi. Anche a distanza di anni, anche se lui era lontano e lei pure. Lui invisibile, ma lei con l'occhio sviluppato. Lui introvabile, ma lei con buone capacità di ricerca. Lui curatore e con il kit, lei ferita e sbucciata. Lui sorridente a autoritario, lei sorridente e intimidita. Lui ragazzo con ambizioni, lei bambina con dei sogni.

Lui FBI, lei detective.







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Hola ragazzi! ^__^ Ecco una shot incentrata su un rapporto fraterno che tra l'altro nel manga è stato più volte menzionato e immaginato, ma mai affrontato direttamente con scene concrete, da che io ricordi. Lasciando un attimo da parte i vari fattori, spoiler e non, che circondano questi due (soprattutto riguardo alla loro famiglia) qui ho voluto trattare proprio il loro rapporto che a me ha da sempre incuriosito, e penso molti di voi :) Forse per via del fatto che se ne sa così poco, e perché presi singolarmente sono due grandi personaggi. Akai rulez, insomma. E me li immagino proprio così, con lui buono e tendenzialmente protettivo e lei tutta caruccia e tenerina nei suoi confronti, concentrandomi in questo caso su un ipotetico fatto passato, slittando poi al periodo collocato dopo la presunta scomparsa di Akai.
Questa shot mi è uscita di getto ed è una di quelle che ho preferito comporre ç___ç Spero di avervi passato un po' del suo tenore, e quindi, se avete voglia, vi chiedo di farmi sapere cosa ne pensate! :) E' ovvio poi che il colore rosso non è scelta casuale per una storia riguardante gli Akai ^^ Ghgh
Un abbraccio GIGANTE e peloso (?) a tutti voi ciccini recensori, poi siete stati TROPPO belli nelle ultime shot e mi avete dato una grande carica, grazie ragazzi!! :') E' anche grazie a voi che queste shot vanno avanti, credo lo sappiate. E grazie anche a tutti i lettori che vi dedicano il loro tempo, alla prossima!!

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Capitolo 22
*** Rosso vermiglio - ShinVerm ***


22. Shinichi e Vermouth ~ 

[Avvertenze: Shinichi un po' OOC]

***







Rosso vermiglio 

Sbatté le palpebre più volte, nel tentativo di svegliarsi, prima di capire dove diavolo si trovasse. Attraverso l'appannamento depositato sugli occhi, Shinichi intravide delle pareti color panna candido che però non gli risvegliarono alcun ricordo significativo. Ancora non sapeva in che luogo si trovasse, né come ci fosse finito.
Si sentiva tremendamente frastornato. Ciondolò la testa prima a destra e poi a sinistra, nella difficoltà di sollevarla e tenerla diritta. Emise un paio di deboli respiri, cercando di riaccendere la sua mente che in quel momento era come congelata, almeno per ricordarsi cosa l'avesse debilitato in quel modo.
Il vino. Il calice di vino bianco che aveva bevuto durante la festa, ma che aveva perso di vista per una manciata di secondi... e in quel breve tratto di tempo, qualcuno ci aveva fatto finire dentro qualche droga. Stordito, si era poi trascinato a stento nel bagno, prima di crollare lì e perdere i sensi. Lui era stato drogato. Da quella donna.
- Ben svegliato, detective – disse una voce bassa e suadente alle sue spalle, con l'evidente nota di un sorriso al suo interno.
Sentendola, e dando quindi conferma ai suoi dubbi, si costrinse a riassestarsi il più velocemente possibile. Raddrizzò la testa meglio che poteva e aprì bene le palpebre, schiarendosi poi la gola e cominciando a parlare con voce bassa e rauca.
- Dove diavolo siamo...? -
Vermouth non rispose e camminò in avanti fino a pararsi di fronte a lui, a qualche metro di distanza. Lui si guardò attorno lentamente, constatando di essere seduto su una poltrona in pelle bianca e rossa, sorretta da legno massiccio, che doveva essere un cimelio costosissimo. Poi risollevò lo sguardo su di lei, in tralice.
- Perché mi hai portato qui...? -
- Perché qualcuno là fuori ti avrebbe dato una lezione, in quella sala adibita a festa dove ti atteggiavi a furbo indagatore. Credimi. Li conosco abbastanza per sapere che è così -
- Pensavo ci fossi soltanto tu, stasera, invitata a questa festa del magnate... c'erano invece altri adepti dell'Organizzazione? -
- Oh, tesoro. - rispose lei con sorriso e tono quasi compassionevoli, come se dovesse spiegare ad un bambino piccolo come mangiare senza sporcarsi. - Ci sono sempre altri membri dell'Organizzazione. Specie quando sono presente io -
- Beh, avresti allora potuto avvisarmi di nascosto che era una zona pericolosa, ed io sarei uscito da lì. - Si schiarì ancora la gola e strizzò bene gli occhi per un secondo, prima di riprendere a parlare nel modo più chiaro che gli riusciva. - Non era necessario tramortirmi con strane droghe e trascinarmi fino a qui... che poi non sono nemmeno così leggero, ora come ora, come diavolo hai fatto a portarmi fin qui da sola? -
- Sono infatti stata aiutata da una mia guardia del corpo. Ti abbiamo raggiunto nel bagno e quando sei svenuto ti abbiamo prelevato. Ma niente paura, la guardia è un bravo ragazzo corpulento che, dietro giusto compenso, tiene la bocca chiusa ed esegue i comandi -

- Che meraviglia, stordito nel bel mezzo di un'indagine sull'Organizzazione e poi trasportato in giro per l'hotel da un energumeno gorilloso... proprio il tipo di serata che prospettavo – sentenziò lui, ironico ed irritato.
- Suvvia, cool guy, non è comunque una serata normale in un hotel normale. Sei stato scorrazzato a peso morto per un hotel di lusso, mica è da tutti! -
- Non credo che questo ammortizzi in alcun modo il tuo atto -
Lei ridacchiò, per poi avanzare e camminare oltre la poltrona su cui Shinichi era seduto, raggiungendo il mobiletto adibito agli alcolici posizionato dietro di lui. La donna sparì infatti dalla sua vista, ma la sentì afferrare una bottiglia di vetro alle sue spalle per aprirne poi il tappo.
- Quindi, si potrebbe dire che... seppur con i tuoi modi discutibili e poco apprezzabili... tu mi abbia salvato, stasera...? - azzardò lui con voce più bassa e insinuante, guardando la parete spoglia di fronte a sé. Vi erano affissi sopra un paio di quadri anonimi.
Vermouth afferrò un bicchiere di cristallo ed iniziò a vuotarci dentro il liquido alcolico e ambrato, senza alzare lo sguardo.
- Diciamo di sì – rispose lei, continuando col suo daffare. Il rumore del liquido che si tuffava sul fondo del bicchiere e che gorgogliava accese una gran sete nella gola del detective, la quale era ancora arsa e impastata a causa del sonnifero e dell'intontimento.
- Posso offrirti qualcosa da bere? - gli chiese Vermouth al momento giusto.
- Si può avere dell'acqua? -
- Non ne ho -
- E allora va bene lo stesso che prendi tu... -
La sentì afferrare un secondo bicchiere e vuotare anche quello. Vide poi il braccio candido di lei sporgersi oltre lo schienale della poltrona e porgergli il bicchiere, che lui prese e si portò alle labbra. Poi lei si spostò di nuovo alla sua postazione iniziale, di fronte a lui e a qualche metro di distanza, appoggiandosi ad un mobiletto basso alle sue spalle col palmo della mano rimasta libera.
Shinichi non sapeva se il motivo fosse che da molto tempo non beveva quel genere di cose, o che in generale non ne aveva mai fatto un uso smodato; stava di fatto che, quando iniziò ad ingerire due sorsate di quel whisky forte, esso gli bruciò nell'immediato la gola e si espanse densamente nel suo petto mozzandogli quasi il fiato. Guardò infatti con stupore la donna di fronte a sé, che invece se lo beveva in tutta calma con ampie sorsate senza che il suo viso facesse una piega. Resistette all'impulso di tossire, sentendo quel calore pesante irradiarsi.
- Ehi, darling... - disse lei guardandolo divertita, dopo aver riabbassato il bicchiere. - Mi chiedo se tu ci sia abituato o meno, a questi gioiellini -
- Ed io mi chiedo se tu non sia un'alcolizzata -
- Ahah! E' una domanda lecita, lo ammetto -
- No, sul serio. Ne bevi tanta di questa roba? Ci hai fatto davvero l'abitudine? -
- Oh, tranquillo, non preoccuparti. So badare a me stessa -
- Non è preoccupazione, è solo che... cioè... ah, lascia stare – concluse lui, lievemente imbarazzato.
Lei si disegnò di nuovo un sorrisetto saccente sul volto. Anche lui alzò esitante lo sguardo per guardarla, solo qualche secondo. E non poté fare a meno di constatare che la perfezione con cui quella donna si incastrava in quel suo vestito rosso era quasi imbarazzante. Era lungo, aderente, con spacco alto sulla gamba sinistra, partiva da metà petto ed era privo di spalline, e sembrava fosse stato creato appositamente per lei; o che lei, entrandoci, gli avesse donato la forma ideale. Si erano scelti l'uno per l'altra.
Lui scosse lievemente la testa, non troppo felice dei pensieri appena fatti inconsapevolmente, e la riguardò con sguardo più serio.
- Beh, dunque, in totale, ci troviamo nella tua stanza d'albergo costosa e inarrivabile? -
- Oh, che intuito, bravo. E da cosa lo deduci? - rispose lei, prendendolo chiaramente poco sul serio.
- Dalle pareti immacolate, dal marmo presente in ogni arredo, dalla qualità dell'alcol, dal letto smisuratamente enorme e soffice, dal panorama, dalle... -
- Sì, sì. Insomma, ci hai azzeccato -
- Però continuo a chiedermi che ci facciamo qui, io e te, e perché mai tu mi abbia portato fin qua -
- Ma come, detective? Tanta esibizione deduttiva per poi non capire una cosa così semplice? -
- Eh? -

- Per una notte di passione, no?! - ribatté lei, sbalordita, come se non riuscisse a credere al fatto che lui non ci fosse arrivato da solo.
Lui aprì la bocca per controbattere, ma gli morì tutto immediatamente in gola. Si rese conto di non avere assolutamente parole in grado di pareggiare quell'affermazione, e perciò fu solo capace di sbarrare gli occhi e deglutire un groppo grosso più o meno come Tokyo.
Boccheggiò ancora un po', sentendo il sudore freddo partirgli dal collo e allungarsi giù fino alla schiena, le mani calate in un blocco di ghiaccio invisibile.
- L'hai notato anche tu, no? A cosa mi serve un letto così grande se poi ci dormo da sola...? -
Passarono alcuni secondi di silenzio interminabili. Si poterono udire i rumori del traffico giù in strada, alcuni clacson, il ruotare di eliche di elicotteri in lontananza. E quando Vermouth vide che lui era in preda alla totale paralisi visiva e auditiva, ad occhi stralunati e a bocca di pesce, scoppiò in una risata fragorosa.
- No way, darling! Stavo scherzando! Ci caschi veramente, in questi tranelli da quattro soldi? - confessò lei continuando a ridere, facendolo sentire un completo idiota.
- V-Vermouth, ma... ti pare il caso?! I-io stavo cercando di fare una discorso serio... -
- La serietà è molto noiosa. Ma se è questo che vuoi, così sia -
Shinichi recuperò il respiro, visto che a quanto pare il suo sistema di ossigenazione si era un attimo bloccato, e pian piano ritornò anche la lucidità. Il batticuore persisteva ancora, veloce e agitato, ma prima o dopo si sarebbe placato. A quel punto si concesse di guardarla storto e imbronciato.
- N-non è che ci casco, è solo c-che... - non finì la propria frase, dal momento che si portò il bicchiere alle labbra e ne vuotò ancora qualche sorso frettoloso. Il liquido ancora bruciò, ma paradossalmente gli stabilizzò un po' di più le emozioni. Maledetta, maledetta donna.
Mi ha fatto prendere un colpo.

- Okay, perdonami, ora sarò seria. Ah, che risate – disse nuovamente lei esilarata, afferrando la sua borsetta in pelle rossa ed estraendone una sigaretta. Se la portò alle labbra e l'accese, proseguendo poi nel discorso. - Comunque, non c'è un motivo particolare per cui ti ho portato qui. Volevo solo fare una chiacchierata, tutto qua. Non ne ho mai fatte con la versione adulta di te. -
- Già, è vero. Non ci avevo pensato... - rispose Shinichi ancora un po' irrigidito, ma con le spalle un po' più rilassate.
- E' definitivo, ora? Rimarrai adulto? -
- Sì, questa volta sì. L'antidoto è stato finalmente terminato. Ma questo non significa che io abbia finito con voi, non ho ancora sgominato del tutto la vostra Organizzazione -
- Oh, darling, ma tu puoi andare avanti per tutto il tempo che vuoi, per quel che mi riguarda. Anche per tutta la vita, se non ti stufi tu stesso. E ti auguro anzi di farli esplodere nel peggiore dei modi che ti venga in mente -
- Vermouth, non tirartene fuori. Ci andrò giù pesante, e guarda che non scherzerò nemmeno con te -
- Beh, è comprensibile, sì. Te ne ho creati pure io di problemi e pensieri, forse me lo merito. E siccome sono curiosa, dimmi un po'... - disse lei abbassando il tono della voce e trasformandolo in un sibilo suadente, simile a quello di un'incantatrice. Si raddrizzò con tutto il corpo ed iniziò una lenta e pericolosa camminata verso di lui, facendo risuonare nell'aria il rumore dei tacchi delle sue scarpe vermiglie come il vestito. Lui trattenne il respiro, vedendola avvicinarsi in quel modo. Ma che diavolo voleva? Il profumo artificiale che già si sentiva per tutta la stanza si acutizzò, quando lei gli fu vicina. La donna arrivò al fianco della sua poltrona e si abbassò fin quasi a inginocchiarsi, incrociando le braccia ed appoggiandole sul bracciolo, al solo scopo di iniziare a fissarlo con intensità.
- …se mi prenderai, che cosa avrai intenzione di farmi? - terminò lei, con lo stesso tono.
Shinichi non voleva, il suo unico intento era di spostare la testa altrove e comunque in direzione opposta a quella di lei, ma c'era una diamine di calamita che gli attraeva lo sguardo verso quel viso incoronato da capelli biondi e voluminosi. Incatenò quindi i propri occhi a quelli di lei, senza dire una parola e senza nemmeno sbattere le palpebre, immerso in quelle due piccole sfere di un azzurro chiaro e limpido e spiazzante. Guardandoli, si immaginò di tuffarcisi e di farci una bella nuotata dentro. Non sapeva perché doveva pensare ad una stupidaggine simile, non aveva il minimo senso. Deglutì a fatica, emettendo l'unico rantolo composto da parole che poté far uscire dalle labbra secche.
- Vermouth, non guardarmi così -
- Perché? -
- Perché... -
Perché non riesco a ragionare. 

Ed era vero, si stava sentendo improvvisamente incapace, traballante. La fissava senza riuscire a fare null'altro, notando le lente volute di fumo che si innalzavano dalla sigaretta stretta tra le sue dita. L'odore di fumo era forte, ricopriva tutti gli altri sentori.
Iniziò ad odiarsi per la maniera ridicola con cui stava incassando il fascino diabolico di quella donna, diventandone vittima - perché questo stava accadendo, se non si dava al più presto una svegliata.
Vermouth si rialzò silenziosamente. E, senza nessun tipo di preavviso, allungò una mano per accarezzargli lentamente il viso, delicata come una rosa e pungente come una sua spina.
Lui rimase lì a farsi fare la coccola, come uno stoccafisso. Lei sorrise tagliente, prima di allontanarsi e ritornare a prendere il suo bicchiere di whisky.
Perché sto reagendo come un moccioso? Ho sempre pensato fosse una bella donna, non è mica la prima volta, ma quando parlavo con lei nelle mie sembianze da bambino non ho mai avuto problemi. Mentre adesso che siamo qui, con me di nuovo adulto, ho blocchi ed esitazioni... e in più lei, nei miei confronti, sta mostrando atteggiamenti... particolari.
Shinichi, non capendo cosa stesse accadendo, seguì l'esempio di lei e si riportò il bicchiere alle labbra, che però ormai era vuoto.
- Posso... ehm... posso averne ancora? -
- Tieni, finisci il mio. Sarebbe un peccato avanzarne... - disse lei in tono morbido, porgendogli il suo stesso calice.
- M-ma... -
- C'è qualche problema? -
- Ecco, no... non credo. - rispose lui col sangue alla testa ormai bollito, allungando la mano e afferrando quel bicchiere.
- Beh, insomma... - sospirò lei riprendendo un tono normale e tenendo la sigaretta tra le labbra rosse. - Non si è capito mica quel che farai, furbetto. Faresti prima a startene tranquillo e in panciolle nel tuo salotto, invece di metterti di nuovo in mezzo a pericoli mortali. Non ti è proprio bastata la lezione precedente? -
- So bene quello che faccio, grazie – rispose lui, con la testa che girava. Che fosse già l'effetto dell'alcol? O più probabilmente era l'effetto di quella strega?
- No, non lo sai, cool guy. E ti piace non saperlo, altrimenti non faresti un lavoro che ti costringe a scoprire. - continuò lei, finendo la sigaretta e spegnendola nel posacenere. - Per questo stesso motivo, stasera faticherai ad andartene da solo con le tue gambe. -
Il ragazzo non capiva benissimo quel che stava dicendo, ma fece spallucce. Dopodiché Vermouth si avviò verso il suo comodino accanto al letto e, mentre era girata, lo sguardo di Shinichi cadde incontrollato sul suo fondoschiena in movimento. Vi indugiò sopra per svariati secondi, quasi ipnotizzato, e infine il ragazzo si spiattellò una mano sul viso massaggiandosi gli occhi. Basta, basta, sperava fosse soltanto per via del persistente frastornamento e di quell'acido solforico mascherato da whisky che aveva ingerito, e non per meri istinti maschili in festa. Lei si fermò accanto al comodino e si portò le mani dietro il collo per sganciare la catenina d'oro che indossava, anche se pareva non stesse riuscendo subito nell'impresa. La catenina era molto esile, quasi invisibile. Shinichi mise a tacere anche alcune fantasie galoppanti, mentre guardava le forme di lei muoversi impercettibili sotto il tessuto del vestito. Poi distolse lo sguardo, traendo un bel respiro, cercando eventualmente un pezzo di marmo contro cui sbattere la testa.
- Mi sembri un poco a disagio, darling. - disse lei, allusiva.
Ma come fa a beccare tutto quello che faccio? Scommetto che si diverte. Ah, ma con me non si va troppo lontano con quest'atteggiamento.
- E tu mi sembri in difficoltà. - rispose lui, alzandosi da quella poltrona e dirigendosi verso di lei come se fosse un automa privo di volontà e comandato a distanza. Cosa gli stesse muovendo il corpo in quella direzione proprio non lo sapeva. Lei rimase ferma e voltò di sbieco lo sguardo verso di lui, piuttosto sorpresa. Quando il detective giunse dietro di lei, afferrò piano gli estremi della catenina per sganciarla al posto suo.
- Lascia fare a me. Tu tieni soltanto i capelli sollevati – disse lui a voce bassa, e lei annuì piano, tirando su la propria massa di capelli chiari e fluenti con entrambe le mani, mentre alcuni ciuffi sfuggiti alla sua presa ricadevano morbidamente sulle spalle nude. Quando lei fece quel gesto lui si sentì invadere le narici dal profumo intenso di frutta fresca che era stato smosso, e iniziò suo malgrado a concentrarsi sul minuscolo gancio della catenina. Accidenti, quant'era piccolo. Provò più e più volte, afferrando il gioiello in diversi modi strategici, e quel suo modo di indugiare gli consentì di percepire maggiormente la pelle liscia della sua nuca, sfiorandola di continuo. I suoi occhi si persero infatti su quella sinuosità e su quella pelle candida a pochi centimetri da lui, solo per un momento; ora poteva udire anche i suoi lievi e bassi respiri, e gli venne improvvisamente una voglia matta di baciarle il collo.
Ma se lo levò dalla testa, subito. Mai, mai e poi mai. Ti ricordi chi hai davanti, sì? Ti ricordi i problemi che ti ha provocato, assieme a quella banda di squilibrati con cui lavora? Ti ricordi che è un'assassina, una bugiarda, una spia che metteva cimici in casa tua e che godeva a vedere la disperazione negli occhi di alcuni suoi nemici che, ops, erano però tuoi amici? Ecco, bene.
Shinichi chiuse gli occhi per un momento, trattenendo il respiro. Doveva darsi una calmata interiore.
Ma come faceva a pensare lucidamente in quella precisa condizione? Gli sarebbe bastato come semplice esperimento ed analisi, davvero. Aveva solo voglia di scoprire quale consistenza potesse avere quella pelle, nient'altro. C'era troppa curiosità.
Evitare di farlo, sapendo già che gli sarebbe rimasto sia il dubbio che un piccolo rimorso per non aver provato? O soddisfare una volta per tutte quel bisogno leggero, indolore, che in fin dei conti non avrebbe avuto alcun risvolto?
Senza nemmeno formularsi la risposta, mantenne gli occhi chiusi e calò silenziosamente il volto verso la spalla sinistra della donna, posando con delicatezza le labbra dischiuse sulla pelle del suo collo. Vermouth rimase immobile e silenziosa come un predatore in piena caccia, lasciandoglielo fare senza dire una parola. In realtà chiuse gli occhi anche lei, ma lui non l'avrebbe mai saputo.
Come il detective si era aspettato, la sensazione "vellutata" era quella che più si trasmetteva. Sapeva di stare sbagliando, soprattutto perché ancora non sapeva quanto avrebbe fatto durare quell'azione, ma era un istinto più forte della sua volontà razionale e che era esploso grazie a piccole forze nascoste. Spostò le labbra di qualche millimetro più su, poi più giù, in una brevissima serie di impercettibili baci.
Ma poi si riprese e rialzò il viso lentamente, riaprendo gli occhi e sganciando finalmente quella catenina, che in realtà era molto facile da togliere. A quel punto lei rilasciò scendere i capelli e riabbassò piano le braccia, al che lui ne approfittò per far scorrere le mani anche su di esse, percorrendole dalle spalle fino ai polsi, di impulso.
Poi si raddrizzò, con la testa pesante e la mente in uno stato che ricordava molto quello febbricitante.
Vermouth si voltò su se stessa, per ritrovarsi faccia a faccia con lui. Gli posò delicatamente la mano destra sul petto, quasi lui non la sentì. Shinichi abbassò lo sguardo e intravide appena dietro di lei quel grande letto morbido, simile ad una grossa spugna soffice in grado di risucchiare tutto ciò che aveva intorno. E pensò che in fondo sarebbe bastata solo una spintarella per farla cadere lì sopra ed evviva, addio dignità ma benvenuto divertimento. Ignorò ciò che aveva appena pensato, ignorò le fantasie provocanti che tornavano a saltellare sguinzagliate nella sua mente e che gli mostravano quanto si sarebbe perso se non le avesse dato quella spinta, e si concentrò invece su tutto il resto che gli capitò a tiro per distrarsi velocemente.
Nononono, smettila ora, no, guarda quella finestra, che vetro limpido, che meraviglioso stipite, sarà fatto in legno di mogano oppure di quercia, il panorama riprende l'ovest di Tokyo oppure l'est, quelle luci laggiù sono delle sirene o delle semplici decorazioni...
Cretino!

La donna alzò lo sguardo e avvicinò il viso al suo, per depositargli un leggero bacio sulla guancia. Rimasero così per diversi secondi, in cui lui poté percepire il proprio batticuore frenetico e il lieve tremore della mani. Finché poi lei si ricompose, sorridendogli con tenerezza. Sì, esatto, tenerezza. E lui si sentì sfracellare di meraviglia le interiora.
- Forse è meglio che vai a casa, cool guy. Fatti una bella dormita – mormorò lei.
- Sì... sì, forse è meglio – rispose lui, con voce quasi robotica.
Diamine, era stordito, ma stordito male. Se solo lei avesse smesso di sorridere in quel modo delizioso...
Doveva uscire a prendere un po' d'aria, questo era sicuro. Disintossicarsi.
Però un po' gli dispiaceva, che lei l'avesse silurato così rapidamente. Anzi, gli dispiaceva parecchio. Si era sentito ammirato, all'altezza della situazione, persino un po' corteggiato da colei che riteneva essere oggettivamente una delle donne più belle del mondo. Insomma, un bel picco di autostima l'aveva avuto, così tanto che addirittura un paio di mosse audaci nei suoi confronti si era azzardato ad attuarle. Ma invece... era stato così malaccio e impacciato da spingerla a dirgli “vai a casa e fatti una dormita”? E pensare che credeva di essere pure attraente, a volte...
Era meglio così, di certo, almeno in questo caso. Però non poteva evitare di sentirsi un po' offeso, sia nell'orgoglio che nei sentimenti.
- Ho fatto... qualcosa di sbagliato? Di troppo azzardato? - chiese lui con una manciata di coraggio, titubante.
- No, darling. E' tutto a posto. Ma ti vedo davvero stravolto, e ci tengo alla tua salute – rispose lei, modificando però lievemente quel suo sorriso. Da tenero e dolce, era divenuto qualcos'altro: vi si era formata una sfumatura fredda, previdente.
- Alla mia salute? Ma sei seria? - ribatté lui dubbioso, ma intimamente rincuorato. Era strano, ma sentirle dire certe parole gli piaceva.
- Sì, certo. - annuì lei, ferma e risoluta. E di punto in bianco il suo sorriso si tramutò completamente in malizioso e scaltro, i suoi occhi grigi si affilarono. - E, a questo punto, mi è parso di notare che la cosa sia reciproca. Ci tieni anche tu alla mia salute, vero? -
Shinichi non lo capì da subito, e la guardò perplesso. Ma poi comprese, e fu come se tutti i suoi dubbi fuoriuscissero come un fiume in piena e sfondassero le recinzioni delle sue illusioni. Sbarrò gli occhi, fissandola, poi abbassò lo sguardo e scosse lentamente la testa.
Come aveva potuto pensare, anche solo per un momento, che tra loro si fosse creata un'atmosfera particolare quella sera? Che lei avesse davvero pensato qualcosa di grandioso su di lui, o che avesse apprezzato l'attenzione che lui le aveva riservato?
Shinichi sbuffò e ridacchiò con arroganza, alzando il volto su di lei e lanciandole un fulmine d'odio con lo sguardo.
- Ma tu credi veramente che basti così poco per convincermi a non farti nulla? Per farmi cambiare idea, per indurmi a fingere che tu non abbia mai commesso nulla e lasciarti incolume? -
- Sì, perché sei stato labile esattamente come tanti altri. - rispose lei spegnendo il proprio sorriso ed incrociando le braccia. - Basta sempre così poco, my dear. E questa è una delle cose che stasera hai scoperto. Il tuo corpo e la tua mente, senza l'ausilio della tua razionalità, si sono mossi da soli e hanno provato qualcosa per me, hanno tentato di scoprirmi, perché evidentemente a loro piaccio. Vogliono qualcosa, in senso benefico. E questo bel concetto spesso si scontra con propositi negativi e autoritari come quelli che tu supponi di avere nei miei confronti -
- Sei una criminale, dannazione! Hai commesso azioni orribili ed è ovvio che non potrai continuare a girare a piede libero e averla vinta per sempre! E no, non è facendomi capire che effettivamente sei una donna attraente che mi farai cambiare idea! Ma non ci pensare neanche. Il tuo posto è la galera, che ti piaccia o no. -
- Ah, cool guy, ma a chi vuoi darla a bere... quando prima mi passavi allo scanner con le mani, mi annusavi come fossi un campo di fiorellini di montagna e pensavi le peggio cose su di me sbirciando il mio letto, non sembrava proprio che mi desiderassi in carcere -
Shinichi si morse forte il labbro, per poi sospirare gravemente. La odio, la detesto. Quanto la detesto.
Come sono caduto in questa sua trappola idiotissima?
-
Sei sempre molto bravo e convincente con le parole. Ma è il momento che tu capisca quello che realmente puoi e non puoi fare, se vuoi il mio parere – propose lei.
- No, non lo voglio. Da una che corteggia i suoi nemici per ottenere la loro compassione in modo da scontarsi la pena, proprio non voglio sentire nulla... - sentenziò lui con tono lugubre, sentendosi ancora in qualche modo ferito. Era stato stupido a crederle e, in fondo, a godere di quella situazione singolare e armonica che si era creata, quindi era in parte colpa sua. Ma sapere che lei aveva giocato per tutto il tempo era qualcosa che lo atterriva, e non sapeva neanche bene il perché. Non gli importava nulla di lei, l'avrebbe sbattuta in gattabuia personalmente, quindi che aveva da tormentarsi in quel modo?
- Sta un po' a sentire, ragazzino. - Lei cambiò il tono, abbandonò il suo classico sarcastico e malizioso e passò ad uno freddo, crudele e diretto. Stava per succedere qualcosa di spiacevole, e Shinichi lo captava nelle vibrazioni dell'aria; e, per l'ennesima volta, se ne sentì dispiaciuto. Non avrebbe voluto che le cose volgessero in quella direzione, ma ormai aveva idea che fosse fatta. 

- Ho l'impressione che tu non abbia mai fatto i conti con la tua superficialità, vero? Beh, vedi di sfoltirla al più presto, perché fatichi a vedere al di là dei tuoi piccoli ed insulsi scopi da detective al servizio della giustizia. Ti immedesimi mai nella controparte, tu? Provi a capirne le motivazioni? No, sono sicura di no. Tu non sai cosa ho dovuto passare per arrivare a questa posizione, che cosa ho affrontato e come ho lottato da sola, non sai assolutamente niente e dubito potresti anche solo immaginarlo. Quindi, alla luce di questo, apri bene le orecchie: non permetterò ad un ragazzino qualunque di parlarmi in questo modo o addirittura minacciarmi di distruggere me e tutto ciò che ho ottenuto. Spero sia chiaro adesso, con questa maniera, visto che quella dolce e tuttavia piacevole che avevo scelto inizialmente non ha funzionato. - concluse lei, con sguardo vitreo.
Shinichi, scosso da un paio di brividi duri come la roccia, abbassò la testa e la fissò intensamente con una serietà quasi irreale.
Un ragazzino qualunque. Aveva detto tante cose, in quel suo breve discorso, ma quelle parole erano forse le più carogne, almeno alle sue orecchie.
- Ti auguro di non essere sempre e solo piena di segreti, Vermouth. Di ricoprire ogni singola azione di falsità e di secondi fini. Andando avanti così diventerai un segreto tu stessa, e nessuno riuscirà più a vederti per quella che sei. -
- Oh, ma che toccante. Questa te la concedo con gioia, okay? Significa che hai guardato un po' più in là, oltre il tuo naso da segugio. Bravo. E adesso goodnight, darling – disse lei, indicando la porta con un cenno della testa e fissandolo con un lieve e gelido sorriso, recuperato da non si sa bene dove.
- Sì. Buonanotte, e grazie ancora per avermi drogato e tutto il resto -
- Non c'è di che. Quando vuoi! -
Oppresso e demoralizzato, senza più degnarla di uno sguardo, lui spalancò la porta della stanza e uscì fuori, richiudendosela bruscamente alle spalle. Lasciò quella stanza permeata di tentazioni e illusioni, dove le ombre diaboliche del rosso vermiglio avvolgevano ogni cosa risvegliando profondi impulsi. Vermouth rimase ferma e silenziosa, udendo i passi di quel giovane detective allontanarsi gradatamente, fino a scomparire pure nell'eco.
Abbassò lo sguardo e fissò il pavimento, con espressione grave e improvvisamente sofferente. Nessuno doveva scoprirla in quello stato. Nessuno doveva capire quanto quel suo stesso discorso finale fosse falso e male interpretabile, esattamente come tutti i suoi atti precedenti di quella sera, e di quella giornata in generale. Doveva proteggere se stessa e tutto ciò che aveva, e purtroppo quel “ragazzino” era davvero l'unico tassello che le risvegliasse il timore della perdita, della sconfitta. Lui poteva riuscire a distruggere quel sistema, ne aveva le capacità, e se per difendersi occorreva andargli contro e scoraggiarlo e fargli pesare le sue azioni più del dovuto, era pronta a fare anche questo. Suo malgrado, controvoglia, arrivando anche a rovinare quel legame inusuale e tacitamente conciliante che erano riusciti a instaurare senza che quasi se ne rendessero conto.
Si strinse un lembo di vestito vermiglio con forza, dominando la frustrazione. Si sedette sul letto, nel silenzio, ritrovandosi a desiderare di tornare indietro solo di qualche minuto... e di farlo restare lì, con lei. In tutta semplicità.
Mi dispiace, cool guy. Non pensare male di me. Ma finché non molli la presa, non puoi aspettarti che io lo faccia per prima.
Ti ho infilato la mia catenina d'oro nella tasca della tua giacca. Spero che domattina, quando la ritroverai, il primissimo pensiero che ti attraverserà la testa sarà qualcosa di buono e soave. Almeno il primo.







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Ciao ragazziiiii, non sono trapassataaaaaah!!! 
Sì, allora XD Come state, belli? ç____ç Hahaha spero che nessuno di voi abbia dimenticato questa raccolta (ehi? C'è nessuno? Oh, un fantasma. Signor fantasma, mi riporti qui gli utenti...?) che quando posso riprendo ad aggiornare. Ma essendo stata assente per un po' ne ho pubblicata una abbastanza corposa!
Passo subito ai chiarimenti, ehm. XD Penso si sarà capito, ma giusto per precisare: ho una strana e perversa smania per la coppia ShinXVerm. Da sempre, e non è che mi piacerebbero insieme come coppia definitiva, certo che no, ma magari, come dire... qualche volta, qualche avventura e qualche approccio ravvicinato... ah, come mi farebbe contenta. XDDD So di non essere l'unica, mi è capitato di beccare qualche altro utente qui in giro che concordava animatamente, e quindi se siete là fuori, SE udite il mio richiamo disperato, fatevi sentire. Che così poi ne faccio una più “tosta”, WAHAHAH!
No ma davvero, divento scema quando questi due li vedo nello stesso posto e non vedevo l'ora di spiantarla fuori, questa shot. <3 Chiaramente ho usato Shinichi e non Conan, perché insomma, c'è un limite a tutto XD Ho inserito “OOC” per Shinichi perché ritengo che, vista la faccenda di Ran, sarebbe uscito un probabile (e giusto) dibattito sul fatto che lui non farebbe mai una cosa del genere, specie con una poco di buono. Ma vi dirò che, alternativamente, di mio non avrei inserito l'OOC: Shinichi è comunque un ragazzo/uomo con normali impulsi e che non viene esattamente ignorato da una come QUELLA, quindi non trovo sia impossibile ipotizzare un “crollo” di quel tipo. Però ognuno la vedrà come desidererà! :)
Dopo questo bel padellone di roba, aspetto adesso di sentire le vostre ^__^ Come sempre grazie per il vostro calore e le vostre belle parole, di capitolo in capitolo e di recensione in recensione! Siete generosi e anche molto accurati, sempre. Wow :')
Alla prossima! E buone feste a tutti!

 

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Capitolo 23
*** Colori in bottiglia al Poirot - AmuAzu ***


23. Amuro e Azusa ~

[Azusa centric]

***





Colori in bottiglia al bancone del Poirot


- Buona giornata, signora Takeru! E mi saluti tanto suo figlio, per una pronta guarigione! -
Lo guardo dalla parte opposta del bancone, mentre dice quelle parole sorridendo alla signora Takeru. Sto asciugando un paio di bicchieri ancora umidi con un panno e mi viene da sorridere, non posso farne a meno! Tooru Amuro è il ragazzo arrivato da poco, ed è di una cortesia incredibile. E' venuto a chiedermi un lavoro due settimane fa, cercava un posto in cui fare il cameriere perché era rimasto senza finanze, perciò gli ho fatto un colloquio veloce e devo dire che questo sembra un mestiere fatto su misura per lui. Non è facile essere cortesi con tutti, ma proprio tutti, in modo così naturale e affabile, preparare pietanze e cocktail velocemente e non demoralizzarsi nemmeno quando qualche cliente ci risponde male. Io lo so bene, che faccio questo lavoro da tanti anni. Ci ho messo del tempo per acquisire questa spontaneità lavorativa, mentre lui pare avercela da sempre. Insomma, ho scelto un buon assistente!
Da quando c'è lui, poi, la clientela mi sembra aumentata. Soprattutto quella femminile, perché sì... è pure bello. Cioè, voglio dire. Carino. Volevo dire “carino”. Entrano qui in massa, queste ragazze delle medie o del liceo, prendono posto al tavolo di fronte al bancone e iniziano a sussurrare tra loro tutte allegre e divertite, guardando continuamente in direzione di Amuro. Lui lo capisce bene, e altrettanto allegro va da loro a prendere le ordinazioni e le tratta coi guanti bianchi per tutta la loro permanenza. Come sono infatuate loro, dopo! Ahahah!
So che ha chiesto anche a Mouri, il detective dell'agenzia qui sopra al bar, di lavorare un po' con lui gratuitamente, in apprendistato. Perché a lui piacerebbe fare il lavoro di detective, in realtà... ma una persona così gioviale e premurosa, potrebbe davvero farlo? Cioè, se guardo Mouri me ne posso anche rendere conto: stressato, svogliato, un po' sbruffone, a volte su di giri e ubriaco, o ancora arrogante. E mi sembra una personalità atta al lavoro di detective, no? Sento dire spesso che anche Kudo aveva questo tipo di carattere, eh già, il detective liceale che da molto tempo non si vede più nei paraggi e che, tra l'altro, mi pare avesse una mezza storia con la figlia di Mouri. Povera ragazza, circondata da detective gradassi e da casi di omicidio... beh, ma in tutto ciò, che c'entra Amuro? Come si fa ad associarlo ad un carattere simile?
Mi riprendo da questo mio flusso di pensieri nel momento in cui Amuro incrocia il mio sguardo. Mi guarda un attimo, fisso e con un accenno di perplessità, e poi distende il suo viso in un gran bel sorriso, di quelli che fanno sciogliere un po' tutti i clienti che passano di qui. Io forse arrossisco un po', anzi, sicuramente... gli restituisco il mio usuale e breve sorriso timido, e abbasso lo sguardo rimettendomi a lavoro. Ho un sacco di stoviglie da sistemare, questo bar ogni tanto pare un campo di battaglia.
- Azusa, vuoi che continui io? - Mi si è avvicinato alle spalle e non l'ho nemmeno sentito. Qualcosa mi dice che ha un passo piuttosto felpato, infatti mi giro di scatto, sorpresa. - Sarai stanca, tu sei qui dalle otto del mattino, mentre il mio turno è iniziato alle dieci. Dai, vai a farti un piccolo break! Ti preparo un caffè? -
Accidenti, è una fonte inesauribile di gentilezza. Ma da dove la tira fuori, da dove la riesce a prendere?? Reagisco impacciata, cercando di dosare i miei movimenti e le mie espressioni, ma non so proprio che cavolo mi stia uscendo fuori. Riesco a rantolare una specie di balbettio, infatti, accompagnato dallo scontro di un paio di tazzine che quasi mi scivolano di mano.
- Ah, ecco, no, cioè, non preoccuparti! Per me non è un disturbo, a-anzi, io... -
- Dai, in questo momento il bar è praticamente vuoto, o adesso o mai più. Vai tranquilla, ci metto pochissimo! -
- O... okay, se... se la metti così, okay! Ma sistema proprio tutto tutto, eh. Non voglio disordine di alcun tipo -
Oddio, ma perché gli ho risposto così? Non sarò stata troppo brusca? Non voglio certo atteggiarmi da super capo, è solo che... santo cielo, non ero preparata. In ogni caso, lui ridacchia divertito.
- Ahah, certamente, capo! - dice sarcastico, portandosi una mano dritta alla fronte come per segnalare il “Signorsì signore”.
Vorrei sotterrarmi. Ma tuttavia rido anche io.
Mi prendo quindi 5 minuti di pausa, bevendo il caffè fatto da lui, mentre si appresta a finire tutto il lavoro di sistemazione stoviglie al posto mio. Ritorno poi in postazione, constatando che in effetti il bar è vuoto da oltre un quarto d'ora. Non è orario di punta, e va bene così: se ogni tanto ci possiamo anche rilassare, è decisamente meglio!
Non faccio in tempo a gioire di questo pensiero. Sento il suono del campanello posto in cima alla porta d'ingresso, smosso dall'entrata di qualcuno, e mi volto per vedere chi sia. E' una donna mora vestita con un lungo cappotto blu, sul viso indossa un grosso paio di occhiali da sole della stessa tinta, nonostante il sole oggi non ci sia, anzi, il cielo è molto nuvoloso e cupo. E' già la seconda volta che viene in questo bar, la riconosco in quanto mi comunica qualcosa di stravagante, e come l'altro giorno decide di prendere posto al tavolo più distante del locale, nell'angolo opposto alla porta d'ingresso. Amuro comunque la conosce, la volta scorsa si era avvicinato a lei per salutarla. Vedo che lo sta per fare anche questa volta.
- Scusami, vado un attimo a salutare un'amica – mi avvisa.
Infatti sistema diligentemente le ultime tazze sulla mensola ed esce dal bancone per avvicinarsi a lei, laggiù nell'angolo, mentre la donna si toglie gli occhiali e gli sorride. Lo vedo che si china su di lei e che entrambi iniziano a sussurrarsi qualcosa. Anche l'altra volta mi sono chiesta se, per caso, lei non sia la sua fidanzata o comunque qualcuna con cui lui intrattiene una sorta di relazione: ammetto che comunque mi sembrerebbe strano, dal momento che lei è visibilmente più avanti con l'età, ed è pure poco gradevole di aspetto. Ha un viso aguzzo, scarno e complessivamente bruttino, oltre ad essere stramba nel modo di vestirsi e atteggiarsi. Che ci farebbe Amuro, giovane e bello, con una del genere?
***
- A cosa devo stavolta la tua visita qui nel bar, Vermouth? - le chiese Amuro, sussurrando piano.
- Al fatto che vorrei un caffè shakerato, ma fatto decentemente e non allungato con fredde brodaglie – rispose lei ironicamente, con lo stesso esiguo volume di voce.
- Ahah, che cliente esigente. Che ne dici di limare un po' questa tua costante voglia di ironizzare? Io qui ci tengo alla mia copertura – ridacchiò lui, guardandosi per qualche secondo attorno con circospezione.
- Lo so, sciocchino. Ma in realtà sono qui per metterti in allarme su una cosa. Era troppo urgente e particolare per comunicartela tramite telefono, quindi sentimi bene -
Vermouth gli disse che, in quel giorno o al massimo quello seguente, qualche nemico sarebbe venuto a fargli visita nel bar. Dei piccoli gruppi criminali, nemici dell'Organizzazione, avevano grossi sospetti circa l'identità di un giovane cameriere che lavorava al bar Poirot. Sarebbero quindi entrati a sondare la zona, uno per uno, e a trarre le dovute conclusioni. Per fortuna Vermouth aveva avuto una tale soffiata da un paio di spie, giungendo quindi ad avvisare il collega.
- Occhi bene aperti, Bourbon -
- Sarà fatto. Me ne occuperò io. -
- Ne sono certa. Un'auto di ronda sarà qui, oggi, sbarazzandosi di tutto ciò che tu ti lascerai alle spalle -
- Vi ringrazio. Ehi, ma ti conci sempre così male quando vieni a trovarmi? -
- Sai com'è, il camuffamento prevede anche questo. Preferisco non farmi vedere in giro col mio vero aspetto. E poi non vorrei mai fare ingelosire troppo la barista, che è cotta di te – aggiunse lei, facendogli l'occhiolino.
- Ahah, ma mi prendi in giro?? -
- Santo cielo, a voi uomini bisogna proprio specificare tutto nei minimi dettagli -
- Nah, credo invece che siate voi donne a tessere un po' troppe fantasie campate in aria -
- Beh, lo giudicherai tu stesso, suppongo. Ah, Bourbon? -
- Sì? -
- Il caffè shakerato lo vorrei veramente. -
***
Il cielo plumbeo che c'è fuori mi sta facendo venire un gran sonno, oltre alla tristezza. Accendo tutte le luci del locale, illuminando all'istante la mobilia e gli spazi, strizzando inizialmente gli occhi per l'improvviso contrasto. La donna mora se n'è andata da un pezzo, e stranamente con lei se n'è pure andato un piccolo peso che mi gravava addosso... ma non saprei dirne il motivo. Tra l'altro, ad un tratto, mi sono accorta che lei aveva preso a fissarmi. Che fosse davvero la sua donna? E che si fosse accorta dei miei sguardi indiscreti? Beh, pazienza... anche se mi sento ancora un po' interdetta.
Inizia ad entrare molta più gente, adesso che è quasi sera. Entrano anche Conan e Ran, due facce amiche che, in questo momenti un po' desolanti, sono sempre felice di vedere. Voglio offrire ad entrambi una spremuta d'arancia, perciò Amuro in un battibaleno si affretta a prendere tutto l'occorrente. I suoi gesti indaffarati e giocosi mi fanno nuovamente sorridere.
- Ecco qui, ragazzi! Spremute fresche e soprattutto gratuite, ahah! -
- Grazie, Amuro! - risponde Ran raggiante, afferrando la spremuta.
Conan invece non lo ringrazia, anzi, prende la sua spremuta e lo guarda pure storto. Ma che ha? Il suo atteggiamento mi costringe a trattenere una risata: che è un bambino strano l'avranno capito tutti di certo, ma ogni tanto è proprio incomprensibile. Rimango accigliata quando mi accorgo che, in realtà, pure Amuro gli rivolge uno sguardo ambiguo, quasi sinistro, come se volesse incutergli timore. Tuttavia Conan non si fa intimidire, regge il suo sguardo e poi, come se non gliene importasse nulla, si volta dalla parte opposta per seguire Ran fino ad un tavolino. Amuro scuote lievemente la testa, sia con divertimento sia con quello che pare essere senso di sfida, ed io proprio non capisco. Sempre così sereno e cordiale, deve proprio decidere di tirare fuori un lato stupido del suo carattere con un ragazzino? Ma perché?
Fingo comunque di non aver visto, e continuo nel mio lavoro. Ho una sensazione strana che mi rimane addosso - credo sia dovuta soprattutto al fatto che, talvolta, ho ragione di presumere che il mio collega mi nasconda qualcosa. Ma mi rendo quasi subito conto che è una stupidaggine, scatenata forse dall'insieme di queste inusuali scenette che mi si parano davanti e a cui fatico a dare spiegazioni, e la giornata prosegue come al solito e senza novità apparenti. Noto solo che Ran, ogni volta che si avvicina al bancone per un motivo o per l'altro, adotta questa singolare sequenza di azioni: appoggia il bicchiere vuoto sul banco, attira la mia attenzione, sorriso complice, occhiolino, che io non capisco; ordina qualcos'altro per sé o per Conan, lo fa con voce sbarazzina, sorriso complice, occhiolino, che io non capisco nuovamente; riporta l'ultima consumazione per l'appunto consumata al bancone, magari ordina qualcos'altro con quella nota quasi alticcia nella voce, altro sorriso complice, altro occhiolino. Ed io che, in tutto questo, non capisco.
- Ma dai, si tratta di Amuro! - ci tiene a puntualizzare lei, ad un certo punto, vedendomi perplessamente sfinita da cenni che non comprendo.
- Che cosa intendi, scusa? -
- Come procede il vostro rapporto... lavorativo? - mi pare piuttosto maliziosa, ma ovviamente faccio finta di nulla. Sono una donna matura, al contrario di lei che, senza offesa – anzi, con un pizzico d'invidia – mi pare di capire sia ancora giovane e instancabilmente colma di inventiva.
- Oh, procede... benissimo, direi. E' un ottimo aiutante e un serio lavoratore -
- E nient'altro? -
- Cos'altro dovrebbe essere?? -
- Oh, suvvia! Non ti ha mai chiesto di vedervi insieme in un altro posto, oltre l'orario di lavoro...? -
- No, Ran, anche perché qui dentro io e lui siamo a costretti a vederci per qualcosa come dieci ore, okay? Non sono poche – rispondo io ridacchiando. E credo di aver capito questo strano giochetto: se lei riesce a racimolare un po' di informazioni da me, poi avrà una notevole quantità di materiale gossip da spartire con Sonoko e Sera. E giuro che, se avessi qualcosa, glielo direi! Le adoro così tanto, queste ragazze, che offrirei loro volentieri un mezzo pomeriggio di pettegolezzi gratuiti, anche sul mio conto. Ma, ecco, purtroppo mancano i pezzi forti...
Lei mi pare leggermente delusa, infatti. Ma anche premurosa, quando mi rivolge di nuovo un sorriso affabile e pronto alla situazione, come per dirmi “avanti, ora magari non è ancora successo niente di che, ma se vai avanti così sono sicura che qualcosa arriverà!”. Almeno, sono abbastanza certa di aver letto questo, nella sua espressione.
Decide poi di andarsene, guardandosi attorno alla ricerca di Conan, che scappa sempre. Entrambe lo scorgiamo in fondo al locale, insieme ad Amuro: gli sta parlando nell'orecchio, dicendogli qualcosa a bassa voce. Tooru annuisce lievemente, guardandolo poi negli occhi e sussurrandogli qualcosa a sua volta. Sembrano quasi un po' minacciosi, però...
Ehi, aspetta un attimo... non è che pure quel bamboccio sta facendo il malizioso con Amuro, incitandolo a far qualcosa nei miei confronti? Magari, condizionato da Ran – o ammaestrato da lei in tal senso – non ha potuto resistere. Oh, no, non ci posso credere...
Che vergogna se fosse così! Preferirei parlassero di altro, o almeno lo spero!! Che so, piani segreti e identità celate, cose da nascondere e robe varie da film d'azione... ahah, chiedo troppo?
Arriva il momento della sera, prima di cena, ed io inizio davvero ad essere stanca: sono qui dentro da 10 ore. I turni lunghi fanno parte di questo mestiere, soprattutto quando il giorno prima ti prendi la pausa, ma per fortuna ci sono abituata. Mi concedo un sentito sospiro, appoggiandomi per qualche secondo sul bancone, e penso che non so cosa farei senza le mie dosi quotidiane di caffeina che ho a portata di mano, senza i succhi d'arancia vitaminici. Senza le occhiate dolci e ammiccanti che ogni tanto Amuro mi scocca.
No, aspetta, FERMA LI'. Che cosa diavolo ho appena pensato? Ho sul serio elaborato la parola “ammiccante”?!
Che poi è inutile, sono abbastanza certa che tutte queste cose me le immagino da sola e in modo sistematico. Eppure sono abbastanza sicura che, poco prima di scendere in magazzino, Amuro mi avesse rivolto un paio di sguardi che non classificherei esattamente nella divisione “indifferenza”. Sono abbastanza percettiva ma ripeto anche che io, ogni tanto, mi lascio allegramente andare a questo genere di fanciullezze da shojo manga...
Okay, le mie divagazioni mi stanno facendo vergognare da sola come una scimmietta ammattita e rimasta incastrata tra i rami di un albero da cocco tropicale e MENO MALE che in questo istante lui è giù e non può vedermi così, altrimenti dovrei pure nasconderglielo ed espormi nei miei soliti exploit di disagio, chissà che casino uscirebbe!
Uff, comunque. Mi calmerò, garantito. Niente scimmie. Per un attimo decido di prestare attenzione al mondo fisico che mi circonda, anche perché ci vivo: non c'è nessuno. La gente a quest'ora si sposta in locali più alla moda, in centro, va a bersi dei drink in attesa di fare serata, perciò ormai il bar è rimasto vuoto. Finalmente tra poco chiuderemo, ed io... 


Per poco non mi si ferma il cuore per il terrore. Rimango immobile, con occhi sbarrati e bocca socchiusa, senza immettere più aria. Mi ritrovo una pistola puntata in mezzo agli occhi, da parte di un uomo grasso, sudato e vestito con uno smoking bordeaux, dall'altra parte del bancone. Non oso muovere un muscolo, ma non capisco che sta succedendo. Quando è entrato? Perché non l'ho sentito? E perché sono rimasta totalmente sola nel bar proprio adesso?!
- Fammi un White Russian, cocca. Molto, molto alcolico, grazie. Se sarà abbastanza buono magari ti risparmierò pure. E adesso ascoltami bene, okay? Sto cercando una persona -
Non so, forse è per via della paura folle che sto percependo, ma la mia mente ha fatto una cosa stranissima: invece di pensare a come salvarmi in questa situazione disperata, ho pensato subito con terrore che io non lo so fare il White Russian, che è un cocktail troppo complesso e che forse non ho nemmeno tutti gli ingredienti adatti. Il mio cervello è chiaramente in tilt, e adesso però riesco a ponderare una maledettissima cosa con chiarezza: Amuro doveva andare giù in magazzino proprio ora? Dov'è? Credo che lui saprebbe come riemergere da questo scenario da incubo, è un mio pensiero istintivo.
Perché magari è un incubo, può essere? Può essere che mi sia addormentata sul bancone, visto che ero stanca, e che quindi ora...
Sento il freddo metallo della canna di quell'arma sfiorare la pelle sulla mia fronte. Traggo un forte respiro tremante, constatando che nei sogni no, non si avvertono questo genere di sensazioni nitide. Ho talmente paura che non riesco nemmeno ad urlare un “aiuto”, non riesco a formulare nulla.
In quel momento, però, lo vedo con la coda dell'occhio: Amuro sta sbucando fuori dalla porticina che conduce alle scalette del magazzino, dal quale è appena risalito. Sta rientrando in sala molto lentamente e silenziosamente, come un gatto randagio che scruta da lontano la sua preda. Si muove con incredibile agilità tra un tavolo e l'altro, avvicinandosi passo dopo passo a quest'uomo entrato nel bar, senza farsi notare. Io, nel mio piccolo, regolo il mio sguardo e le mie reazioni, in modo da distrarlo.
- Se tu mi rispondi con i dovuti modi e la dovuta chiarezza, ti darò anche un contentino alla fine, bellezza – continua a dirmi quest'uomo tremendo, che tra l'altro mi sembra anche molto ubriaco. E non so definire se questa condizione lo renda più innocuo o più pericoloso. Deglutisco, annuendo appena e vedendo che, dietro di lui, Amuro sta per balzare. L'uomo vestito in bordeaux non l'ha visto, e abbassa finalmente la pistola, soddisfatto.
- Molto bene. Allora, dimmi dove si trova il tuo... - l'uomo non riesce a finire la frase, poiché Amuro gli balza al collo bloccandoglielo sotto un braccio, con forza, mentre con l'altro lo riesce a disarmare dando un secco colpo di mano al suo polso. La pistola cade e striscia a terra, Amuro la calcia lontano e continua a tenere la presa sull'uomo grasso che si divincola. Io ricomincio a muovermi, quasi a spasmi, ma non so cosa fare, sono in panico! Vedo che Amuro stringe la propria mano libera a pugno e che, fulmineo, colpisce l'uomo sulla tempia usando le nocche, provocandogli stordimento immediato. L'uomo barcolla a terra, mentre Amuro lo tiene da sotto le ascelle.
- Oh... santo... cielo...! Stai bene?! Aspetta, vado a chiamare la polizia! - grido, ancora impanicata.
- Okay, Azusa, chiamala tu. Io lo porto un attimo nel retro, per vedere se ha altre armi con sé o documenti che possano identificarlo. Se non mi sposto i clienti vedranno tutto dalla vetrina, ed è proprio meglio che questo non accada! -
- S-sì, hai ragione! Vai pure, ma stai attento... -
Ho ancora il fiatone e il batticuore lancinante per l'agitazione, mentre Amuro, armato di grande coraggio, solleva l'intontito uomo in bordeaux da sotto le ascelle e lo trascina sul retro del bar. Mi auguro che non succeda nulla di brutto, mentre chiamo la polizia.
***
- Eccoci a noi, gran pezzo di idiota. Non ti aspettavo così presto, ma meglio togliersi il dente marcio il prima possibile, no? – ansimò Amuro, una volta arrivato sul retro del locale e depositato malamente a terra quell'ammasso di lardo.
Il freddo pungente dell'aria li investì. Anche se si trovavano all'esterno, non sussisteva il rischio di essere visti da qualcuno: il retro del bar rimaneva dislocato dalle strade principali e ben nascosto sotto le sporgenze dei tetti, specie ora che già faceva buio. Mentre l'uomo a terra tentava di riprendersi tra lamenti e grugniti, Amuro scardinò una piccola grata bianca posizionata nella parte inferiore del muro di cemento accanto a cui si trovavano. Dopo averla rimossa, infilò una mano nella cavità e ne estrasse un paio di guanti, una pistola e un silenziatore, posizionati lì molto tempo prima per qualsiasi evenienza.
- Brutto... figlio... di una gran... - iniziò a mugugnare l'uomo a terra, aprendo bene gli occhi e fissando il suo nemico in tralice, il quale stava indossando i guanti.
- Non mi pare il caso di sprecare il fiato, amico - rispose Amuro in tutta calma e senza nemmeno guardarlo, avvitando rapidamente il silenziatore alla canna della pistola. - Risparmialo per quando parlerai con chi di dovere, all'altro mondo. -
L'uomo in bordeaux tentò di rispondere, digrignando i denti. Tuttavia Amuro non glielo permise e, guardandolo freddamente dall'alto, gli puntò la pistola al petto. Fece subito fuoco, sparando due colpi silenziosi a breve distanza e facendo sobbalzare il corpo dell'uomo altrettante volte. Due fori neri si aprirono sulla camicia dell'uomo ormai immobile, circondati via via da un alone rosso sempre più visibile e ampio. Nell'istante seguente, un'auto nera e silenziosa si accostò all'imbocco del vicolo oscuro in cui Amuro e il corpo erano posizionati, e ne uscirono due uomini anonimi vestiti di nero. Senza dire una parola né accennare uno sguardo, essi si avvicinarono a lui ed eseguirono a menadito il compito che era stato loro affidato: sollevarono il corpo inerme, uno dalla testa e l'altro dai piedi, per trasportarlo dentro il bagagliaio dell'auto; poi rientrarono entrambi dentro la macchina, uno alla guida e l'altro dal lato del passeggero, riavviarono il motore e l'auto nera scomparì dietro l'angolo. Doveva trattarsi dell'auto di “ronda” dell'Organizzazione, il cui passaggio gli era stato accennato quello stesso pomeriggio.
***
- Uff, eccomi qui! Che sfortuna, eh? - vedo Amuro rientrare nel bar, e mi prende un'ondata di sollievo. Sono davvero colpita dal suo coraggio.
- Amuro! Come stai? Sei ferito? Quell'uomo ti ha fatto del male? - gli chiedo impaziente e apprensiva.
- Assolutamente no, Azusa, tranquilla. Tutti i pazzi sono in questa zona, eh?? Meno male che c'è Mouri qui sopra! - lo vedo ridere di gusto, seppur con un velo di tensione e leggermente sudato in viso. Beh, è ovvio, abbiamo appena avuto a che fare con un malintenzionato!
- Cavolo, puoi dirlo forte... ma nessuna paura, adesso, perché chiamo subito la polizia! Scusa se non l'ho ancora fatto, ma... mi tremavano troppo le mani – dico io, coi nervi ancora fortemente provati da quel che è accaduto, al che lui mi si avvicina preoccupato e mi afferra le mani per tranquillizzarmi, portandosele al petto. Sento che le sue sono ancora fredde, visto che è rimasto fuori, eppure mi trasmettono calore. In realtà con questo suo gesto mi mette ancora di più in agitazione, accidenti... vedermelo così vicino, con le mani nelle sue, beh, non me l'aspettavo. Eheh, ehm.
Ma confesso che, in un altro contesto, questo momento sarei riuscita a godermelo di più... adesso sono troppo spaesata, ho rischiato grosso e mi viene automatico mettere tutto il resto in secondo piano. In ogni caso tante paranoie sono inutili a prescindere, è chiaro che lui lo stia facendo in buona fede, per pura generosità, e mica per altro.
- Oh, ma non è necessario chiamare la polizia. - Quando mi dice questa frase, con un tono che voleva essere piatto ma che in realtà trovo essere persuasivo, rimango interdetta senza capire. - Non sai che è successo, Azusa: mentre eravamo sul retro, lui ancora stordito ed io lo che lo perquisivo, è passato un poliziotto sulla strada principale e l'ho chiamato a gran voce! E' arrivato da me correndo e ha chiamato subito i colleghi, la volante è arrivata in fretta e se lo sono portati via, ammanettato e barcollante. Un gran colpo di fortuna, sono ancora elettrizzato! -
Alzo lo sguardo per guardarlo negli occhi, sbalordita, non posso crederci! Siamo uno di fronte all'altro, lui sorride contento e mi contagia, oltre al fatto che siamo entrambi sollevati e ancora vivi, incolumi!
Ma quando Amuro riapre gli occhi e mi guarda, ancora con quel sorriso stampato in volto, qualcosa mi disturba violentemente. Non so cosa sia, ma gli restituisco lo sguardo perché voglio capirlo. Ecco, sono gli occhi: nei suoi occhi castani si è come formata una sfumatura strana, stralunata e vibrante, sta baluginando nelle sue iridi in una sorta di danza diabolica. Il suo sorriso mi pare all'improvviso malato, folle, mi destabilizza interiormente. Mi si blocca di colpo il respiro, da quanto questa sensazione si fa forte dentro di me. Che diavolo gli prende a questo ragazzo, tutto d'un tratto? Cosa sta accadendo nella sua testa, nel suo sguardo? Il sorriso dolce e spensierato del sollievo è tutta un'altra cosa, non è questo. Questo è un sorriso derivante dall'attuazione di qualcosa di crudele, e azzarderei pure da una sete malevola che è stata appena appagata, da...
- Ci facciamo un drink per festeggiare, Azusa? - mi chiede lui, di punto in bianco, cancellando del tutto quella sfocatura nei suoi occhi. E' tornato Amuro, è tornato un ragazzo normale, un bravo cameriere cordiale e lavoratore.
Non so, forse è stata una mia impressione? Sempre legata al mio solito dubbio che lui, effettivamente, nasconda qualcosa? Sono ancora spaventata, poco fa ho davvero temuto di essere uccisa, perciò la mia mente si è azionata e dentro di me si sono attivati dei sensori di allarme che non sapevo neanche di avere, e magari sono questi a stravolgermi la visione dei fatti... forse mi fanno vedere cose assurde, che non esistono?
- Lascia fare a me. Coi cocktail sono un mago!! - riprende lui, staccandosi da me e correndo agilmente dietro al bancone.
Io sono ancora ferma lì, come una bambola afflosciata in una vetrina, ancora scioccata da una percezione che, forse, mi sono semplicemente immaginata. Mi volto verso di lui e mi lascio cadere su una sedia lì accanto, coi muscoli indolenziti.
Mentre lo guardo selezionare gli alcolici dalla mensola per poi destreggiarsi tra essi, mi scappa un sorriso più quieto. Sì, forse devo soltanto calmarmi, non devo pensarci più. Specie se c'è Amuro che, come avevo giustamente supposto, è riuscito egregiamente a salvarci entrambi da questa situazione. Non ho nulla da temere, finché lui sarà qui dentro. Giusto?
- Sì, Amuro, grazie. Per me qualcosa di forte, okay? Devo rilassare i nervi – ridacchio io, guardando nella sua direzione. Con la coda dell'occhio vedo però qualcuno appena fuori dal bar, che sbircia dalla vetrina. Non faccio in tempo a girarmi per individuarla, tuttavia mi pareva la sagoma di quella stramba donna mora in blu che ogni tanto viene a fargli visita. Noto che anche Amuro l'ha vista, e che addirittura le ha sorriso annuendo lievemente, come fosse un cenno di intesa. Ma, di nuovo, lo ribadisco: credo di stare immaginando tutto. Ah, che ansia, chissà come farò a dormire stanotte!
- Qualcosa di forte, eh? Mmm, lasciami pensare... - dice lui assottigliando gli occhi e meditando.
Poi annuisce tra sé e sé, afferra un paio di alcolici e, con uno dei suoi sorrisi attraenti, inizia a mischiarli. Non so cos'abbia in mente, non me ne intendo molto di cocktail, tanto che non lo intuisco nemmeno quando lui mi rivela uno degli ingredienti...
- Credo che questo andrà bene. Ti piace il Bourbon? -






**********************************************************
Eh... piace sì, il Bourbon :P
Oh, crisi nel decidere il nome di questa shot: avevo a disposizione il white russian, l'uomo in bordeaux, la donna in blu, ma alla fine ho voluto rievocare l'ambientazione da bar e ho scelto i tanti colori vetrati tipici degli alcolici!
Comunque rieccoci qui, con un nuovo capitoletto relativamente soft che possa un po' slegarsi dal ritmo del precedente e che metta in scena il nostro caro Amuro... nei confronti del quale ho evitato qualsiasi tipo di spoiler, lasciandolo un attimo così :P E per chi non se lo fosse ricordato subito, Azusa è la ragazza che lavora al bar Poirot, quello situato sotto l'agenzia Mouri. E che di fatto lavora con Amuro, in veste di docile cameriere :D Questa couple mi era stata suggerita e ho voluto dare un approfondimento al personaggio di Azusa narrando tutto con la sua prima persona, ma anche poi dando spazio a situazioni scomode e di tensione che fanno parte del panorama di Bourbon. In questo modo si può evidenziare il grande distacco tra i due mondi - quello quotidiano e innocente di Azusa (che poi sarebbe anche di molti altri) e quello apparentemente normale ma in realtà oscuro di Amuro, mescolandoli tra loro. Comunque, come avete visto, non erano gli unici due personaggi presenti, un Conan una Ran e una Vermouth ci stavano tutti ;) E non ho perso l'occasione di prendere un po' in giro Kogoro e Kudo, OVVIAMENTE :D
E ragazzi, vi ringrazio enormemente per tutte le recensioni che mi lasciate e che sono tutte, ma proprio tutte, ricche di impressioni, di consigli, insomma, uniche! Tutte queste sperimentazioni le faccio anche per scoprire da voi cosa vorreste più leggere, e ogni volta siete delle saette ahah! :D Ringrazio tanto chi si legge ogni capitolo, chi se li è letti tutti di botta, chi si legge quelli a cui è interessato e che su quelli tornerà sempre a farsi sentire, e anche chi legge silenziosamente e che spero seguirà con piacere tutto il resto!!!
Alla prossima! :D ^______^ 

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Capitolo 24
*** Contraddizione chiaro-scura - GinSherry ***



24. Gin e Sherry ~

[Rating: Arancio/Rosso]

***







Contraddizione chiaro-scura


Tranquilla, ti devi rilassare. Fissala bene, controlla i suoi movimenti, ma non muoverti. Non muoverti, Ai, fissala ma non muoverti, o lei lo capisce.
Ricordi? La percentuale di possibilità che una Vedova Nera morda un essere umano è piuttosto bassa, sotto il 40%, poiché non è tra le sue prede usuali. Inoltre è un animale pigro. Ma se ti muovi la spaventi, è più piccola di te. E se la spaventi ti morde, perché si deve difendere.
Tienila d'occhio. Non succederà niente. E smettila di tremare, ti prego.

Questo circolava nella mente della piccola Ai, mentre teneva la bocca serrata stretta e gli occhi bassi, fissi su un ragno nero di modeste dimensioni con zampe lunghe e macchia rossa sul dorso, tipica delle Vedove Nere. Il ragno più velenoso al mondo le camminava di fronte sul pavimento e, di tanto in tanto, virava in direzione di lei, con l'intenzione forse di arrampicarsi sulla sua gamba, poi cambiava idea e si allontanava. E poi di nuovo verso di lei. Ai era inginocchiata a terra, perciò la vedeva molto da vicino e la fissava senza sosta, lottando per restare immobile e respirando solo dal naso con alta frequenza. L'aracnide, dopo essere rimasto fermo per qualche secondo nello stesso punto, si diresse all'improvviso verso di lei con decisione e velocità, con l'ausilio delle sue lunghissime zampe anteriori, e iniziò ad arrampicarsi sul muro su cui Ai era appoggiata con la schiena – anzi, inchiodata a forza e legata, senza quindi poter scappare. Cominciò la sua scalata alla sinistra di Ai, perciò lei abbassò lentamente lo sguardo in quella direzione per tenerla d'occhio. La Vedova Nera camminò in alto, sempre più un alto, fino ad arrivare ad altezza sguardo permettendo alla ragazzina di vederne il grosso corpo nero ad un'allarmante vicinanza. Ai prese un profondo respiro dal naso, trattenendo poi l'aria e sentendo il proprio cuore tentare di uscirle dal petto. L'aracnide, individuando probabilmente un buon appoggio nella sua persona, allungò una zampa anteriore verso la sua spalla. E si arrampicò su di essa.
Ai sobbalzò impercettibilmente, emettendo un gemito dalla gola. Ma poi rimase immobile, spalancando gli occhi e vedendo la stanza girare per un momento, in preda alla vertigine. Guardò di fronte a sé, pur notando con la coda dell'occhio l'animale nero sulla propria spalla, ma cercò di farci il meno caso possibile. Ai sentì delle piccole e lievi punture sulla pelle del collo, dove il ragno stava camminando dirigendosi verso il suo orecchio. La ragazzina chiuse gli occhi di scatto e le sue piccole spalle ricominciarono a tremare leggermente, mentre dominava le lacrime di paura e la nausea crescente che lo stomaco le inviava, mentre sentiva il ragno solleticarle l'orecchio con le zampette appuntite, arrampicarsi sulla sua testa e destreggiarsi tra la sua chioma di capelli.
Poi, finalmente, non percepì più il lieve peso dell'animale. Probabilmente esso si era staccato raggiungendo il muro, per tornare nelle fessure del soffitto, e si era servito di lei soltanto per aiutarsi nella scalata.
Ai riaprì gli occhi e buttò fuori il fiato, silenziosamente. La testa le girò terribilmente per un attimo e il sudore freddo si fece più percepibile, un breve attimo in cui le venne sul serio da vomitare. Già i ragni le facevano schifo piccoli, figuriamoci in contesti simili.
- Com'è stato? Adrenalinico? -
Ai, disgustata e senza parole, mantenne lo sguardo basso ed alzò solo gli occhi verso quell'uomo, adottando uno degli sguardi più glaciali che le riuscivano.
- Oh. Come sei bella quando mi guardi così. - dichiarò Gin.
- Hai tanti altri giochetti in mente come questi, Gin? Quando la smetterai? - rispose lei, ed era convinta che il suo tono sarebbe uscito piuttosto deciso, invece tutta la frase era stata poco più di un sussurro.
- Quando smetterò di divertirmi, immagino - ribatté lui alzando le spalle. - E ne abbiamo ancora per molto, mia cara. – concluse poi con un freddo sorriso.
Ai emise un gemito, trattenendo le lacrime che da ore lottavano per allagarle la faccia. Non poteva dargliela vinta, neanche con la più piccola soddisfazione.
Gin la teneva segregata dentro quella stanza lurida e stagnante da molte ore, dopo averla scoperta e catturata personalmente. O almeno le sembrava fossero solo ore – non erano giorni, vero? Una vera e propria prigionia, di cui lui si era ampiamente servito per trattarla nel modo che lui credeva lei meritasse. Compiendo su di lei atti di quel genere, sia fisici che psicologici, uno dietro l'altro, non le aveva dato pace: liberare nella stanza una Vedova Nera e orientarla verso di lei era stato solo uno degli svariati intrallazzi che si era goduto.
Ma, comunque, ciò che lei più desiderava era che tutto finisse il prima possibile. Vedeva molto remota la possibilità di essere salvata da chiunque, quindi non le rimaneva che essere uccisa. E aspettava solo quel momento, che sarebbe stato meglio di quella trafila bizzarra di sadismo che Gin adorava infliggerle. Perché tutto ciò? Perché non la finivano e basta?
- Sparami. Non puoi spararmi adesso? - gli chiese la piccola Ai senza guardarlo, con sguardo fisso e spento, lasciando che i suoi pensieri si materializzassero da soli.
Il coraggio per fargli quella domanda non le mancava per niente, perché il vero coraggio sarebbe stato quello di rimanere ancora lì, cosciente, a farsi fare tutto ciò che Gin aveva in mente. E lei quel coraggio non lo aveva. Le venne nuovamente da piangere, specialmente nel momento in cui udì un sonoro “clic”, quello del coltello portatile di Gin che schizzava fuori dal porta coltelli, segnale che una nuova, piccola tortura basata su taglio era in arrivo. Sentì il proprio cuore esplodere di ansia e terrore, la mente vacillare sulla soglia del limite.
Gin iniziò ad avvicinarsi a lei, brandendo il coltellino e sogghignando.
- Che cosa mi hai chiesto, Sherry? Puoi ripetere? -
- SPARAMI! LURIDO BASTARDO! SPARAMI! -
Ecco, l'aveva fatto, aveva urlato con tutto il fiato che aveva in corpo, fino forse a consumare le corde vocali, perché non reggeva più. E pazienza se in fin dei conti la sua era solo una provocazione, poiché quell'uomo non le avrebbe sparato, non ora. Lei poi ansimò forte, abbassando bruscamente la testa e sentendo alcuni dei suoi capelli, sporchi e umidi, entrarle negli occhi e infastidirli. Scosse quindi la testa, tossì subito dopo a causa del dolore alla gola, tenendo sempre bassa la testa per evitare di guardare troppo a lungo la figura di quell'uomo demoniaco che si ergeva di fronte a lei. Lui stava di certo sorridendo, sorridendo di estrema goduria, ne era sicura.
Era stanchissima. Una stanchezza strana e debilitante sotto ogni punto di vista, nata dal paradossale accostamento di adrenalina e sfiancamento fisico. Aveva infatti moltissima energia in corpo, la sentiva fluire chiaramente e i suoi nervi vibravano senza sosta anche per quel motivo, ma non poteva muoversi da lì e quindi doveva contenerla. Un fatto che le era già capitato, alcuni anni prima, e che per un'assurda associazione mentale le si stava ripresentando proprio ora alla memoria: decidere i ricordi da rileggere non era mai stato il suo forte, spesso decidevano loro stessi l'ordine in cui rimostrarsi.
Ricordava che si era iscritta ad una gara di corsa campestre, per staccare un po' dagli studi e dai lavori, con l'autorizzazione degli uomini in nero che la controllavano. Aveva compiuto degli allenamenti estenuanti e corso decine di volte attorno al campo del college per guadagnarsi anche solo la vana possibilità di vincere contro studenti già ben allenati da tempo; arrivato il giorno della corsa lei era pronta, agitatissima poiché era la prima volta che si esponeva così, alla luce del sole e dello sguardo di centinaia di persone sconosciute, ma le sue gambe funzionavano, il suo cervello aveva implementato il giusto ritmo da seguire e il suo respiro era calcolato per ricaricarla ad ogni passo – e, ovviamente, l'adrenalina essenziale era entrata in circolo. Tuttavia quel giorno non corse. Perché, per questi stessi motivi, le sue gambe non si mossero: troppa emozione, troppo stress accumulato da allenamenti folli ed estremi, troppo nervosismo. La pistola a salve che segnava l'inizio della gara aveva sparato, i concorrenti erano scattati in avanti, ma lei no. Si era spostata invece contro la recinzione a lato del campo, da sola, cadendo poi a terra con le gambe stremate, percependo esattamente quella stessa sensazione che provava adesso: tanta energia, tanta voglia di fare e adrenalina, ma nessuna possibilità di metterla in atto e sfogarla.
E potrebbe non sembrare, ma da sopportare questo era difficile, così difficile che l'unica conseguenza corporea poteva essere il tremore forte che in quel momento e in quella stanza, infatti, l'assoggettava.
Voglio morire. Voglio che lui mi spari un colpo in testa, perché non ce la faccio più.
- Sparami, Gin. - disse lei nuovamente, quasi implorando, con un tono di voce assai più flebile e debole dovuto a quella condizione terribile.
Le sue mani dovevano essere ormai livide e purpuree, considerato tutto il tempo che erano rimaste legate dietro la schiena con quel laccio strettissimo e ruvido. Non le sentiva più, erano fredde e insensibili e senza flusso sanguigno. Deglutì serrando gli occhi, stanca e dolorante, sudata e gelida. Quando riaprì le palpebre scorse nuovamente i ciuffi dei propri capelli ramati davanti agli occhi, incrostati e umidi.
- Lo desideri, Sherry? Desideri questo? - sussurrò lui, la sua voce lugubre e profonda che riecheggiò diabolicamente nella stanza fredda e semi-oscura, illuminata solo da una luce verde-giallognola proveniente da una lampada alogena affissa alla parete. Era una luce scabra, inquietante e sporca, che annullava i colori vivaci e metteva in risalto solo le incrostature nel pavimento, le crepe sulle pareti, il nero del vestito di Gin. Il nero delle anime presenti in quella stanza.
- Beh, non posso darti quello che cerchi. Non adesso. - concluse lui, arrivando di fronte a lei e inginocchiandosi alla sua altezza, alzandole il mento con la mano guantata e posandole poi la lama del coltellino sulla guancia sinistra.
Non c'erano finestre. Non c'era niente, solo un tavolino di legno marcito che stava ancora su per qualche forza di trazione sconosciuta. Le palpebre di Ai tremarono per la gran voglia di abbassarsi e chiudersi, ma lei le mantenne aperte a forza, ansimando lieve. Le ginocchia erano ormai fuse col pavimento, doloranti come se ci fossero piantati dentro due piccoli pugnali, i piedi nudi gelidi e abbandonati.
Gin aveva iniziato a percorrere con il coltello la pelle liscia del suo viso, a studiarne ogni centimetro e a indagarne la consistenza. Spesso rigirava la lama, e questo Ai lo sentiva, tramite una brevissima fitta nel punto in cui la lama non era più piatta ma tagliente.
Avere Gin a quella vicinanza le stava facendo male. Era come un danno fisico, era come bere un'intera bottiglia di whisky in un solo sorso, come correre verso una parete di cemento e schiantarcisi addosso.
Perché tutto questo? Perché non l'ammazzava subito, così si levavano entrambi il dente avariato?
- Prendi l'antidoto, Sherry – le sussurrò Gin.
Oh, eccola la risposta.
Eccola.
- Cosa... cosa hai detto? - chiese lei, smettendo improvvisamente di tremare. Il corpo, adesso, doveva stare sull'attenti.
- Prendi l'antidoto dell'APTX. Sherry. -
Gli occhi di Ai, mentre ora fissavano Gin, si riempirono all'istante di lacrime. Il suo cuore continuò a battere, ma con un battito diverso, come fosse più lento e volesse fermarsi da solo.
- Co... cosa? - richiese Ai, sempre più convinta di essersi solo immaginata tutto. La sua voce le uscì incrinata, coerentemente alle lacrime.
L'antidoto si trovava nella scatoletta dei medicinali che lei quel giorno aveva portato con sé e nascosto nella tasca della sua giacca. E lui adesso lo sapeva, doveva avergliela perquisita.
- Non vuoi? Non vuoi prendere l'antidoto, Sherry? Non vuoi tornare adulta? - le chiese Gin, quasi dolce, incredibilmente. Affabile, comprensivo. Addirittura le asciugò una lacrima che le era sfuggita. Una dolcezza intrisa di una rara ipocrisia crudele.
- No. No, non voglio... - rispose Ai in tono piatto, ancora incredula.
- Perché non vuoi? -
- Non con te, Gin. Non posso. -
- Non puoi o non vuoi? -
- Vorrei che tu mi lasciassi stare... -
- Non puoi o non vuoi? - ripeté lui. - Ti consiglio di ricercare la vera risposta dentro di te, piccola traditrice... e di rispondermi in modo accurato -
- Allontanati da me. -
- Non voglio farti del male... -
- Sì, invece. -
- Non è l'unica cosa che so fare, sai? Hai un'idea fin troppo errata di me -
- Vai via, allontanati! Sto male. -
- Oh, ho capito. Ne sei sicura? -
Appena dopo aver pronunciato quelle parole, Gin si alzò e si diresse all'angolo della stanza. Ai sapeva cosa stava per fare, e si preparò, rannicchiandosi verso terra più che poteva e trattenendo a stento i lamenti che avrebbe voluto sputare fuori. Dopo pochi secondi la sentì: una secchiata d'acqua gelida le arrivò addosso, con dentro ancora dei grossi pezzi di ghiaccio che la colpirono sulla testa e sulle membra. Era già la terza secchiata che riceveva, e l'effetto non era migliorato.
Sputacchiò l'acqua fredda che le era entrata in bocca, rimanendo rannicchiata con le braccia tese all'indietro, legate, e senza alzare lo sguardo. Ma sapeva che lui la stava fissando.
- Io ora vado a prenderti l'antidoto nella giacca. E tu lo prenderai, Sherry. Lo sai che ti desidero, lo sai da tempo... - disse lui, inginocchiandosi di nuovo accanto a lei. - …ma non sono un pedofilo. Quindi prendi l'antidoto. -
- No, NO!! - gridò Ai, perdendo del tutto le staffe e iniziando a singhiozzare forte, con la paura che l'assaliva. - Vattene via! O se vuoi rimanere uccidimi! Cosa ti costa, maledetto stronzo?! Basta, basta Gin! BASTA! -
Gin mosse fulmineo il braccio sinistro, colpendola forte in viso e ribaltandola a terra. Ai rimase in quella posizione, singhiozzando e rimanendo sempre più senza fiato, nella totale disperazione.
- Prendi quel cazzo di antidoto! - urlò Gin avvicinando il viso al suo e guardandola intensamente. - Non farmi fare qualcosa di cui poi potrei pentirmi! -
Ai non gli rispose, continuò invece a sussultare rumorosamente e a nascondere il viso a terra, per non dovercelo avere davanti una volta aperti gli occhi.
Gin sapeva che andare a prendere l'antidoto e cercare di farglielo ingerire a forza non sarebbe servito a nulla, lei era ancora lucida e lo avrebbe morso fino forse a staccargli le dita, sapeva essere molto decisa. Per questo gli piaceva così tanto. Stordirla e aspettare che lo ingerisse? No, perché sarebbe rimasta stordita pure dopo, e lui non voleva.
- E va bene. Hai raggiunto il limite. - dichiarò lui infine, quando prese la decisione che avrebbe senz'altro convinto la scienziata a dargli retta.
Gin quindi si alzò di scatto, prese nervosamente una sigaretta dal pacchetto che teneva nel taschino e l'accese. Poi si diresse verso la porta, uscendo furiosamente dalla stanza senza richiuderla.
Questo catturò l'attenzione di Ai, la quale placò poco a poco i suoi lamenti e voltò lo sguardo verso l'uscita. Dov'era andato Gin? Che cosa aveva in mente?
Il cuore le tamburellava senza tregua. Aveva paura, adesso, paura davvero. Aveva capito perfettamente che la voglia sessuale del suo nemico non si poteva più spegnere, e quel morboso desiderio che lui provava nei suoi confronti, nel suo corpo, gliel'aveva letto fin troppo spesso negli occhi anche anni prima. Ora temeva i metodi a cui lui sarebbe ricorso per convincerla a prendere l'antidoto dell'APTX e concedersi a lui.
Una cosa, però, era assolutamente da capire e mettere in conto: Gin ce l'avrebbe fatta ad avere da lei quello che voleva, in un modo o nell'altro. E perciò sarebbe stato meglio, il prima possibile, che Ai trovasse un modo costruttivo di affrontare la situazione inevitabile in modo da non rimanerci troppo sotto. In modo da continuare poi a vivere, se mai le fosse stata data una seconda possibilità; o in modo, comunque, da andarsene all'altro mondo con la mente ancora integra e tutto sommato sana, e non devastata da ciò che Gin le avrebbe fatto.
Un meccanismo di difesa e di estraniamento: questo le serviva, per proteggersi da lui e dal suo intento. Se ne avesse trovato uno abbastanza buono e ben progettato, avrebbe potuto stare parzialmente tranquilla e sopportare le ingiurie in arrivo.
Dunque, come fare? Da dove cominciare, quando il soggetto da tenere fuori dalle barriere difensive è uno problematico e impegnativo come Gin?
Dai ricordi. Dai ricordi relativi a lui. Dalle sensazioni più intime provate nei suoi confronti, anche quelle mai prese in esame e mai attentamente sondate, per sua stessa decisione.
Perché sì. Sembrava incredibile, ma ce n'erano alcune, forse, che non erano per forza legate all'odio, al rancore e alla paura... e che lei aveva prontamente accantonato in un angolo buio del cuore e della mente, una volta uscita dall'organizzazione. Non ci aveva mai più voluto pensare, perché si sentiva colpevole anche solo al vago pensiero di riprovare certe sensazioni buone nei confronti di Gin. Nei confronti di Gin...
Non puoi o non vuoi? Ti consiglio di ricercare la vera risposta dentro di te, piccola traditrice...

Quando sei qui dentro non hai assolutamente nulla, chiaro?
Non c'è un essere umano che possa vagamente nominarsi tuo amico, al massimo conoscente, quando proprio ti va di lusso; non hai alcun tipo di aiuto, niente che vada dal “mi passi quella biro laggiù, per favore?” al “mi copri un paio d'ore che vado a farmi una passeggiata, invece di lavorare? Oggi non ne ho molta voglia, ti ripagherò!”; non hai nulla a cui affezionarti, un oggetto, un mobile, la tua stanza, niente, perché è tutto troppo impersonale e anonimo, esattamente i due aggettivi che presto plasmeranno anche te come persona. Non ti viene neanche spontaneo affezionarti, perché sai che prima o poi qualcosa/qualcuno ti fotterà alle spalle, qualcosa/qualcuno lo perderai, qualcosa/qualcuno sarà solo l'inutile facciata superficiale di ciò che pensavi fosse più profondo.
Non hai scampo, in poche parole. Ma hai solo una grande, insostituibile e inseparabile alleata: la solitudine.
E quando sei sola come un cane, e pure occasionalmente tormentata e maltrattata dai cosiddetti “colleghi”, che cosa fai? Sì, giusto, risposta esatta: ti concentri sulle tue cose, sui tuoi lavori, senza mai alzare o spostare lo sguardo. Perché ogni angolo estraneo è un baratro oscuro da cui stare lontani, perché tutti ti vogliono male, qui dentro, alla ricerca costante del modo più creativo per demolirti, quindi prosegui a testa alta e senza rendere conto a nessuno.
Quest'idea ti fa venire un po' di paura. Ti fa svegliare nel cuore della notte con la certezza che non ne uscirai mai e che questa vita prima o poi ti schiaccerà, ma ci stai provando. Non hai altra scelta. Sai che è ingiusto, ma non hai altra scelta, tu. Ti asciughi delle lacrime di troppo, ti vesti silenziosamente ed esci per lavorare, senza guardarti mai attorno, come ti sei proposta fin dal primo giorno.
Hai solo tua sorella, che però non incroci da oltre due mesi. Sai che c'è e che gira per lo stabile, ma non hai idea del dove né del quando, non vi permettono di vedervi... la aspetti sempre in laboratorio, anche se difficilmente arriverà.
Però, chi lo sa, qualcuno magari un giorno varcherà quella soglia e ti aiuterà davvero. Non succederà e ne sei piuttosto certa, ma mai dire mai, giusto? Sarebbe bello, lo pensi spesso. Sarebbe bello legare il tuo cuore a quello di qualcun altro. O per lo meno legare la mente, sarebbe interessante anche quello.
Per questo, quando inizia ad entrare spesso quel Gin nel laboratorio di ricerca, ti viene una strana sensazione.
Perché capisci che, lì dentro, lui ci entra solo ed esclusivamente per te.
- Buongiorno, Sherry. Non staccarti da lavoro, mi raccomando: ieri ti ho vista fissare fuori dalla finestra per un po' troppo tempo -
La sua voce così profonda ti fa venire i brividi, anche quando dice cose normali e non minacciose. Con te comunque non ha mai usato un tono crudele, non ancora almeno, ma glielo senti usare spesso con altri: gente che, tra l'altro, non hai poi più visto in giro.
- Sì, lo so. Starò più attenta. Finirò il prima possibile. -
Bene così. Risposte brevi, asettiche e prevedibili. E' il metodo giusto per allontanare ipotetici contatti.
Ma anche se ti comporti così, lui continua ad entrare in laboratorio. E a parlare con te, sempre. Non gli importa se gli rispondi senza guardarlo, senza colorare la tua voce, se lo tratti esattamente come tutti gli altri.
Lui ogni giorno entra comunque, e ti squadra un po'. Lo fa sia prima che dopo averti parlato. All'inizio senti il disagio, ma poi ci pensi meglio su: questo tipo di contatto elimina per qualche minuto la pesante solitudine che ti circonda. Ed è una bella sensazione.
Solo Gin lo fa. Nessun altro. Solo Gin ti dà un po' di importanza, ti ricorda che esisti, ti mostra che ritaglia del tempo per te. E, senza farlo apposta, ti sei messa a contare i giorni dal momento in cui lui è entrato in laboratorio per la prima volta. Sono già 9 giorni che lui viene a trovarti.
“Viene a trovarti”. Questa è l'espressione a cui pensi, notoriamente amichevole e piacevole. Quindi è questo che pensi di lui, in fin dei conti? Ma come è possibile?
Sai benissimo la fama che Gin esercita all'interno di questa organizzazione. Sai che è privo di scrupoli, che uccide la gente senza nemmeno interrogarsi sui motivi, che gli piacciono le torture e che è decisamente oscuro. Quindi come puoi pensare a qualcosa di positivo nei suoi confronti?
Lo sai bene perché lo fai: perché è l'unico, lì dentro, che quando entra ti mette in agitazione, ma quando esce ti lascia uno strano calore nel cuore. Un calore che ti illumina il viso con un sorriso, che ti fa sperare che il giorno dopo arrivi in fretta... per poterlo vedere di nuovo.
Sei comunque un essere umano, ti serve quel calore per sopravvivere. Te ne serve ancora, sempre più: una sola volta al giorno inizia a sembrarti poco, vorresti che lui venisse con maggior frequenza. E' sbagliato, lo sai, perché lui è una cattiva persona - ma tu, in fondo, che cosa sei? Lavori anche tu per le stesse persone, quindi che diavolo sei?
Lui entra ancora in laboratorio, ti dice le solite parole secche e piuttosto vuote, spesso pure un po' maleducate, ma non importa: è lì presente, ed è questo che conta. Poi cambia registro, smette di essere vuoto e cupo e aggiunge quel pizzico di tonicità alle sue parole e ai suoi atteggiamenti, e non sai perché lo fa, non hai molta esperienza in campo: gli viene spontaneo? E' un tentativo di farti avere un'opinione migliore di lui? Beh, ci sta riuscendo.
E poi riprende a fissarti mentre lavori, come al solito, e come al solito ti piace. Vorresti che non si limitasse sempre e solo a parole e sguardi, ma che andasse un po' oltre... più sul concreto. Perché ciò si tradurrebbe in una sola cosa: più calore.
- Gin – dici, titubante. - Tu... ti piace stare qui? -
Non sai bene perché glielo chiedi, e nemmeno dove prendi il coraggio per farlo.
- Ti do fastidio, Sherry? - chiede lui, e ti sembra di cogliere una leggera nota di sorpresa nella sua voce.
- No, no. A me no. Ma volevo essere sicura... che nemmeno a te desse fastidio – e ti torci le mani nel dirlo, dopodiché ti inumidisci le labbra. Che agitazione.
- Non mi da fastidio, altrimenti farei dell'altro. Non credi? -
Da quanto tempo il cuore non ti batteva così? Non sapevi nemmeno se ce l'avevi ancora, il cuore. Ti sembrava fosse fermo da quando l'organizzazione ti ha avuto in pugno.
E questa è una buona notizia, questo è bellissimo. Dannazione, è una sensazione stupenda: il cuore che va forte, la faccia che arrossisce, le mani un po' fredde.
E poi una mano che si adagia sulla tua schiena. La sua mano. Grande, forte, ma delicata su di te.
Ti volti a guardarlo. I suoi occhi sono glaciali, ma ti fissano senza cattiveria.
E ti senti bene.
Poi però ti senti male. Insomma, lui è un assassino, è una persona sbagliata per cui provare certe emozioni. Ma, te lo ripeto un'ultima volta... tu, in fondo, cosa sei? Sei tanto diversa da lui?
Sei sporca anche tu. Lo sai che il tuo veleno, APTX4869, e tanti altri piccoli esperimenti che fai, hanno già ammazzato diverse cavie e persone? Lo sai che, anche se non li vedi personalmente, le tue mani sono comunque già zozze di sangue?
Oh, sì che lo sai. Ed è per questo che il tuo cuore macchiato di nero trova la forza e la sfrontatezza di battere per uno come Gin.
Sai qual è il guaio? Che quando una si sente sporca, colpevole e sbagliata, riterrà di meritare soltanto persone sporche, colpevoli e sbagliate quanto lei. Come lui, come Gin. E' proprio lui il tipo di individuo che un'assassina come te può ritenere giusto, per quanto “ignara” e “sfruttata”. E sai qual è l'altro guaio? Che adesso hai altro a cui pensare, ma prima o poi te ne pentirai.
In più ti senti sola, e hai il presentimento che pure lui non scherzi. Anche per questo motivo lui ti cerca in questo modo, può essere? Per lottare insieme, uno affianco all'altra.
Non lo sai. Non lo sai, ma ti ritrovi a pensare che sì, in quel momento vuoi che lui rimanga lì e che ti tenga la mano sulla schiena. O che la sposti sul tuo viso, come sta facendo adesso. Ti senti di nuovo una persona, una ragazza con dei sentimenti. Lo devi soltanto a lui, che ti consente di combattere insieme la solitudine, che ti fa riscoprire il piacere della lusinga.
Poi lui se ne va, perché chiamato all'improvviso dai piani alti dell'organizzazione; ti guarda ancora, poi sparisce dietro la porta. Ma questa volta non ti senti più sola. Hai un nuovo sentimento che ti è entrato in circolo e che ti farà compagnia, fino al momento in cui lui non si ripresenterà di nuovo.

Ai, ancora distesa a terra, sorrise debolmente tra le lacrime ancora fresche. Trovato.
Aveva trovato il modo di proteggersi. Aveva risvegliato l'antico, maledettissimo sentimento che ingenuamente si era trovata a provare per lui nel suo periodo iniziale all'interno dell'organizzazione. Era una ragazza giovanissima, sola e impaurita, e lui... lui, beh, prima di iniziare a trattarla in quel modo orribile, era stato un faro nella nebbia. Un bel faro luminoso, doveva ammetterlo.
Quei sentimenti c'erano stati, era inutile negarlo. Sentimenti senza ragione né logica, come purtroppo ce ne sono tanti.
Non puoi o non vuoi? Ti consiglio di ricercare la vera risposta dentro di te, piccola traditrice...
Ai chiuse gli occhi, sospirando. Va bene. Se non fosse riuscita a trovare il modo di essere uccisa prima, avrebbe preso l'antidoto. E, da adulta, si sarebbe concessa a Gin cercando di riprovare quel sentimento, cercando di immedesimarsi nuovamente nella Shiho che era stata diversi anni prima. Ce l'avrebbe fatta, era solo questione di concentrazione.
La piccola scienziata riaprì gli occhi di scatto quando sentì Gin che, con passi frenetici e pesanti, ritornava verso quella stanza.
- A... AH! Lasciami, maledetto! -
Ai sbarrò gli occhi, improvvisamente senza fiato. Aveva sentito bene?
Era proprio quella voce ad aver appena parlato?
Il terrore la congelò sul posto, si sentì il cuore in gola. Non poteva essere, no, non poteva essere vero... un incubo...
Ma ciò che vide un secondo dopo le confermò i dubbi. Sulla soglia apparve Gin, alterato e diabolico, che teneva con forza per il colletto un ragazzino molto più basso di lui. Un ragazzino con gli occhiali che lei conosceva molto bene.
Ai si alzò a sedere, davvero lentamente, guardando attonita e stordita la scena che le si parava davanti. Si sentiva come un robot che viene messo in funzione dagli umani per la prima volta e che deve ancora scoprire il mondo.
Che cosa ci faceva lì?
Che cosa DIAVOLO ci faceva Kudo, lì dentro?!
- Che prode alleato che ti sei trovata, Sherry. Ti ha seguito fino a qui, voleva tirartene fuori. Peccato sia stato un po' idiota a pensare che io non mi accorga delle cimici che mi vengono piazzate in auto... - mormorò Gin ironico, stringendo la mano attorno al colletto del suo nuovo topolino in gabbia.
Era tutto sbagliato, tutto terribilmente fuori posto! Poteva andarle bene essere giustiziata da sola, poteva andarle bene anche essere tormentata in quel modo e minacciata di continuo, e soprattutto avrebbe preferito centinaia, MIGLIAIA di volte essere morsa dalla Vedova Nera di poco prima, piuttosto che trovarsi a fronteggiare quella situazione orribile!
- Ha... Haibara... - sussultò Conan, fissandola sbalordito dalla soglia della stanza.
La sua voce, la sua espressione. La sua paura. Tutti elementi che contribuirono a fare uscire Ai dalla soglia mentale che fino a quel momento l'aveva tenuta integra, fino a farla praticamente impazzire.
La ragazzina iniziò ad urlare la parola “No” a ripetizione, disperandosi e stravolgendo il viso e la voce, aumentando e diminuendo la velocità, alzando e abbassando il volume, sbattendosi contro il pavimento o la parete, dilaniandosi l'anima.
Tutto. Tutto, ma non questo. Non lui.
Conan aveva abbassato lo sguardo per non doverla guardare. Capiva perfettamente come Haibara doveva sentirsi, la conosceva bene e sapeva anche quanto lei avrebbe preferito di gran lunga altri risvolti negativi, piuttosto che proprio quello.
- Che ne dici, Sherry? Il ragazzino qui presente potrebbe essere un pretesto sufficiente a farti prendere l'antidoto? - le chiese cordialmente Gin.
- Sì... sì, lo è! Adesso lascialo, Gin, vieni da me e basta! Lascialo andare, ti darò tutto, tutto quello che desideri! - rispose lei, disperata e tra le lacrime.
- Oh, ma davvero? Che belle parole che ti escono, quando sei messa alle strette! -
Gin rise fragorosamente, mentre Conan guardava la scena sbiancando. In un attimo aveva capito cosa stava succedendo e a cosa era servito lui in quel contesto specifico.
- Haibara... ascoltami bene. Non farlo! - disse infatti, fregandosene totalmente delle possibili reazioni di Gin.
La sua affermazione spense la risata di Gin e catturò l'attenzione di Ai, la quale lo fissò tremante e sfinita.
- Ragazzino, forse non ti è chiara una cosa – e detto questo, Gin estrasse la pistola dalla tasca e la puntò al collo del detective, caricandola. - Se lei non prende l'antidoto, tu sei morto. Non l'avevi capito? -
- Non devi farlo. Mi hai capito bene? - continuò Conan guardando Ai, come se Gin non avesse detto una sola parola.
Subito dopo Gin lo scaraventò a terra sbraitando, puntandogli nuovamente la pistola contro. Conan emise un gemito di dolore quando picchiò la testa sul pavimento, ma si riebbe quasi subito. Ai abbassò lo sguardo terrorizzata, senza sapere quale direzione tremenda avrebbe preso quella situazione.
- Haibara... - mormorò Conan mettendosi a sedere faticosamente, premendosi il punto della testa dolorante e guardandola. - Non fare delle stupidate. Non farle, non ne vale la pena -
- Non ne vale la pena? Per la tua vita non ne vale la pena?! - rispose lei, senza parole.
- Esatto, Sherry, ottima risposta. Il ragazzino è avventato, non ha idea di quel che dice e tu prenderai quell'antidoto! Perché io stanotte ho intenzione di stravolgerti, dilaniarti fino a che non mi si chiudono gli occhi dalla stanchezza... e credimi... – si interruppe un secondo, per emettere una lieve risata bassa. - ...non mi stanco facilmente. Sono anni che faccio le notti in bianco. -
Nel silenzio denso che cadde su di loro subito dopo, Ai si scoprì di nuovo preda del tremore e della paura più nera. Non era più così sicura che il suo “metodo difensivo” basato su antichi sentimenti errati potesse funzionare.
Guardò Conan, di fronte a lei, cercando disperatamente il suo sguardo protettivo e affabile. Avrebbe voluto slegarsi da lì e andarlo ad abbracciare, ma non poteva. Il detective le restituiva lo stesso identico sguardo, con la sola differenza che, nei suoi occhi, luccicava un barlume di coraggio che intendeva trasmetterle.
Mi... mi salverai, Kudo? Ci riuscirai? Ti scongiuro... solo per questa volta...
Gin si chinò e appoggiò la canna della pistola sulla testa di Kudo, con decisione.
- Allora, Sherry? Decisione finale? -
- Haibara - riprese Conan, inarrestabile. - Non-lo-devi-fare. Non farlo. Promettimelo. -
- K...Kudo... io... io lo... devo... -
- Haibara! Guardami! Non prendere l'antidoto! Non dargli modo di... - non poté finire, poiché Gin lo colpì sulla testa con il manico della pistola, facendolo cadere a terra stordito. Ai si spaventò, ma per lo meno non lo aveva ucciso.
- Sì! Sì, lo prendo! Fermati, Gin... prendo l'antidoto. E' nella mia giacca, vai a prenderlo e consegnamelo - disse Ai velocemente, senza indugiare.
- Perfetto, Sherry. Ho sempre saputo che sei piuttosto coscienziosa, intelligente... - sussurrò Gin, godurioso. Si diresse alla giacchetta di Ai, abbandonata a terra, estraendone dalla tasca una scatoletta per medicinali. L'unica pillola presente lì dentro era proprio l'antidoto all'APTX.
Gin quindi andò a slegarla, tuttavia Ai non riuscì ancora ad alzarsi per via delle gambe e delle braccia intorpidite. Quando Gin le porse la pillola, la guardò intensamente per sussurrarle qualcosa, con quei due piccoli occhi ghiacciati.
- Stanotte ci divertiremo, te lo prometto. Ti voglio cattiva, poiché io non sarò da meno – la scienziata rabbrividì, ma nonostante ciò gli restituì uno sguardo ferreo servendosi del coraggio rimasto, prima di sentirgli concludere la frase. - Sarà la notte più bella della nostra vita. -
- Fai... fai schifo... - mormorò Conan confuso, cercando di risollevarsi da terra dopo la botta ricevuta.
- Oh, giusto. Sei ancora qui? - Gin lo afferrò con forza dal colletto e lo spinse contro la parete, intimandogli di restare immobile. - Ritieniti fortunato di poter vedere questa scena. Una scena che aspetto da tanto, troppo tempo... -
Ai prese la pastiglia, diventando nuovamente Shiho. La trasformazione non era niente di nuovo per Conan, ma lo era per Gin, che fissò tutta la scena con un misto di incredulità e approvazione.
Vestiti logori e strappati, sudore su tutta la pelle, respiro ansimante. Tutto ciò, ovviamente, eccitò istantaneamente Gin, che si diresse verso di lei per aiutarla ad alzarsi.
Poi, però, cambiò idea. Con una mano la tenne a terra, mentre lei cercava di tirarsi su.
- Gin, a-almeno... almeno lasciami lo spazio per muovermi... -
- No, no, dolcezza. Sta giù. - mormorò lui, aumentando la pressione sul suo petto rimasto quasi del tutto nudo.
- Gin, ma che... -
Lui si chinò, posando le proprie labbra sulle sue e poi tuffandosi a capofitto in un bacio infuocato, che quasi non le lasciò modo di respirare. Shiho tentò di districarsi, ora che stava riprendendo la sensibilità agli arti superiori, spingendolo dalle spalle o quanto meno sgusciando via da sotto, ma non riuscì proprio, i movimenti di lui erano troppo decisi.
Ma sul serio. Come diavolo aveva fatto, anni prima, a provare anche solo un cenno di sentimento positivo nei suoi riguardi?
Sentiva le mani di Gin iniziare a percorrerle le zone di pelle scoperte, salire sul seno e premere, scendere ai fianchi e poi giù ai glutei. I suoi movimenti, dapprima scattosi e frenetici, si facevano stranamente sempre più studiati e sinuosi, più rallentati e immersi in quella condizione, e lei ne rimase basita: questo prevedeva il sentire davvero una sensazione, e non credeva che lui ne sarebbe mai stato capace o anche solo intenzionato. La sua lingua però non perdeva ritmo, anzi, pareva acquistarne man mano che le movenze si intensificavano.
Ah, già, ora ricordava come aveva fatto a provare certe emozioni per lui. La solitudine, la forza della lusinga, il sentirsi desiderata.
Adesso doveva solo riuscire a sentirle ancora; le serviva una buona dose di auto-suggestione, così magari poteva resistere. Le era rimasto un po' di tessuto sulla pancia, ma lui lo strappò via. Adesso era veramente vicina a non avere più veli, e provò a distendere membra e nervi per capire il risultato della sua tecnica. Provò, in una personale ricerca folle, ad alzare le mani per immergerle con titubanza nei lunghi capelli argentei di lui, e provò anche a chiudere gli occhi per calarsi nella situazione. Lui, che con la testa era sceso un po' verso il basso, tornò subito su per riprendere il bacio, ed esso proseguiva, mentre entrambi rimanevano immobili in quella sorta di trance.
Non poteva certo dire le piacesse, ma neanche la disgustava completamente. Forse ci era vicina. Ed era proprio come allora: quando una si sente sporca e colpevole, crederà di meritare uno sporco e colpevole.
Mentre la sua bocca era incollata a quella di Gin, però, Shiho spostò a fatica gli occhi verso la parete, nel punto in cui giaceva il detective, e una fitta le attraversò il cuore. Non voleva che lui la vedesse in quello stato.
Per fortuna lo vide con lo sguardo abbassato e, a dire il vero, completamente affranto. Conan aveva messo a repentaglio la sua vita per impedirle di fare quel gesto, ma lei non l'aveva ascoltato, e d'altra parte aveva avuto poca scelta.
Quando Gin si accorse che lei osava guardare da un'altra parte durante il loro bacio, si staccò bruscamente e le afferrò il viso con impazienza. Poi voltò lo sguardo nella direzione in cui aveva guardato lei, con espressione omicida.
- Cosa c'è, Sherry, cosa stai guardando? -
- C-cosa?! No, no, io... -
- A me i guardoni non sono mai andati a genio! -
A quel punto Gin estrasse la pistola, puntandola verso Kudo. E fermando il tempo, un tempo immobile in cui Shiho ebbe giusto il tempo di capire cosa stesse accadendo, e Conan giusto quello di alzare lo sguardo verso di loro.
Poi Gin sparò. E il detective cadde all'indietro, con un buco in fronte.

Shiho si trovava sopra a Gin, a cavalcioni. E teneva con entrambe le mani la sua pistola, puntata sulla fronte dell'uomo. Lei aveva una coscia nuda adagiata proprio sulla zona addominale di lui, zona sulla quale si era formata una grossa macchia rossa che si estendeva man mano che i secondi passavano. Ed era stata lei a infliggerla, a quanto pareva.
Il bello è che Shiho non sapeva come ci fosse finita, lì sopra di lui, e nemmeno come avesse fatto a ferirlo. E nemmeno come mai avesse lei in mano la pistola, ora.
Proprio così, non ricordava cosa fosse accaduto nei pochi secondi antecedenti: la ragazza accusava un classico buco mnemonico, un po' come quelli di cui aveva sentito parlare spesso gli studenti universitari del college, quando essi bevevano troppo durante le feste notturne e il giorno dopo non ricordavano pezzi di serata; i cosiddetti buchi, appunto.
Lei non aveva bevuto fino ad annegare i neuroni, ma aveva subìto un trauma e il suo cervello, forse, si stava adoperando di conseguenza. Per essere finita in quella posizione, comunque, il suo corpo doveva aver scaturito una forza di cui non era a conoscenza, provocata di certo dalla rabbia cieca. Aveva trovato anche il tempo e la scaltrezza di prendere l'arma di Gin e usarla per sparargli all'addome.
Gin rideva. Sputava sangue di continuo, ma rideva. E la guardava con un misto di odio e venerazione, come se in fondo gli piacesse moltissimo quel tipo di morte che adesso lo attendeva.
- B... Brava, Sherry... Ti... - provò lui, tossendo più volte. - Ti... ti adoro. -
- Zitto. -
Dopo quella secca risposta, Shiho caricò la pistola e la accostò alla fronte di Gin. Lui sorrise di nuovo, coi rivoli di sangue sulle labbra.
- Ti adoro... mi... mi fai impazzire. -
- Non so fino a che punto tu sia arrivato con me, Gin. Non me lo ricordo - Ai si guardò verso il basso, trovandosi i vestiti ancora più strappati di quel che ricordava. - Ma quel che è certo è che non mi importa più, vista la fine che stai per fare. -
- Sì... sì, spara, Sherry... fammi contento... -
- Tu sei pazzo. -
- Ho sempre voluto... una fine simile... - lui tossì ancora, sputando altre gocce di sangue e poi ansimando con affanno, fissandola ad occhi sbarrati.
- Una fine... inflitta da... - provò di nuovo Gin, alzando la mano sinistra tremante per afferrare il braccio teso di Shiho, sporcandoglielo di sangue. - ...da una creatura meravigliosa. -
Il tono di Gin era nettamente cambiato, si era quasi umanizzato, e Shiho faticava a crederlo. Forse, così consapevole e vicino alla sua ora, aveva deciso di provare ad essere qualcun altro, anche solo per pochi secondi. E aveva deciso di farlo con lei.
Le guance di Shiho erano già bagnate di lacrime. Compiere un atto simile, per quanto intimamente giustificato, non era di certo tra le sue corde.
Emise un sussulto intriso di tristezza e rabbia, incrociando in suoi occhi con quelli piccoli e congelati di Gin. Occhi che non avevano mai mostrato pietà per nessuno... e che nemmeno in quel momento la richiedevano.
- Perché... hai fatto una cosa simile, Gin? Lo avevo preso l'antidoto, lo avevo preso! Quindi perché lo hai ucciso?! - urlò lei, straziata ancora dal ricordo del suo amico che, tuttora, giaceva addossato alla parete.
- Non... non gli ho sparato in testa... sciocca... -
- Cosa? -
Shiho fece scattare la testa verso la parete. Ma Conan era disteso a terra con il capo rivolto verso la parte opposta, quindi non riusciva a vedere se effettivamente l'aveva colpito alla fronte o meno: stava di fatto che era immobile, e quindi...
…no. Le parve che ad un tratto si fosse mosso. Era possibile l'avesse colpito su una spalla, o su una porzione di petto? Che fosse ancora vivo?
- KUDO! KUDO, MI SENTI?! - gli urlò Shiho, ansimando forte.
Kudo non rispondeva, ma si muoveva con movimenti lenti, forse ancora stordito e dolorante da una ferita non mortale, non ancora almeno.
- Al contrario di lui, io... non ho speranze, e quindi... facciamola... finita... - continuò Gin, al limite estremo delle sue forze, con gli occhi che tentavano di rivoltarsi all'insù. Era questione di secondi e se ne sarebbe andato.
Shiho lo fissò con un sentimento che non sarebbe mai riuscita a descrivere, non era nemmeno sicura che altri esseri umani fossero arrivati mai a provarlo. C'era l'odio, c'era la rabbia, c'era la gratitudine, la tristezza, la gioia, il rimorso: emozioni alternate in una feroce gamma chiaro-scura.
Gin non l'aveva ucciso, e probabilmente apposta. Erano in accordo, questo è vero, ma non si aspettava che lui davvero avrebbe mai rispettato un accordo stipulato con una sua vittima. E invece...
Dannazione. Era l'essere più contraddittorio che avesse mai conosciuto.
- Ho voluto... rispettare i patti, perché... perché eri tu. - concluse lui, boccheggiando, rispondendo ai suoi dubbi mentali.
- G... Gin, io... - biascicò lei, scossa dai fremiti.
- Basta... basta così, Sherry... -
Lei annuì, mordendosi forte il labbro. Non sapeva più cosa provare. Ma se Gin voleva quella fine, beh... forse sarebbe stato addirittura un atto di bontà, quello di sparargli e farlo soffrire di meno.
- Addio. Per sempre. -
E la ragazza fece fuoco. La mano di Gin crollò a terra, così come il suo viso martoriato scattò di lato. Lei trasse un lungo, profondo respiro, aprendo la mano e lasciando cadere la pistola a terra.
Decise di concedersi ancora un attimo diverso dal solito, prima di lasciarsi andare all'enorme sollievo che provava per la propria salvezza e per quella di Kudo. Perciò, mentre il suo amico detective tentava di riaversi, ancora vivo, lei ne approfittò per fare una cosa senza farsi vedere.
Allungò una mano verso il petto di Gin, dove c'era il cuore, e ve la posò sopra.
Era un mostro, quell'uomo. Un autentico mostro capace solo di provare rancore, vendetta, odio... e forse anche qualcos'altro, però, che aveva mostrato solo a lei. La creatura meravigliosa. E l'aveva fatto per pochissime volte e per pochissimo tempo.
Era un mostro, le aveva fatto e detto delle cose orribili, ma tanto tempo prima era stato un faro. E come tutti i fari, aiutava i malcapitati come lei a muoversi nel buio, grazie alla sua luce.
Quello che stava pensando non aveva alcun senso, ma voleva farlo. Non l'avrebbe mai perdonato, anche se adesso se n'era andato, mai e poi mai; ma voleva dedicare a Gin degli ultimi pensieri non del tutto negativi, nonostante si sarebbe meritato proprio tutt'altro: Shiho credeva nelle vite precedenti e nelle ipotetiche successive, e sperava che, in questo modo, lo si potesse aiutare a nascere nella prossima vita in un modo diverso, più buono e caloroso, incarnandosi in qualcuno che avrebbe agito come faro non solo in minuscole porzioni della sua vita, ma per molto, molto di più.
Perché le persone aiutate da lui, poi, se ne sarebbero ricordate. E volenti o nolenti, se lo sarebbero portate nel cuore.
Esattamente come aveva fatto lei.









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Ciao genteeeee!!! Come state?! Ed ecco che tornano i fantasmi... D: Come ogni volta che manco da un po' di tempo, ho preferito inserire un capitolo abbastanza corposo per recuperare :P No, dai, svegliatevi, non addormentatevi a metà!
Dunque, questa volta è toccata ad uno dei pairing a mio parere più inquietanti. A differenza di molti, non gradisco troppo vedere Gin solo ed esclusivamente come un mostro privo di sentimenti e perciò, per quanto poi magari sia maggiormente rappresentato così, se c'è l'occasione di conferirgli qualcosina (ina ina) di buono e positivo cerco di non mancarla. E' questo il caso, seppur moooolto superficiale almeno fino al finale in cui la vicinanza alla morte gli intensifica il senso d'umanità, in contraddizione al suo usuale carattere. Più o meno lo stesso vale per Ai/Shiho che, per quanto sia tutta tremolina e impaurita la maggior parte delle volte che la vediamo, secondo me c'ha tranquillamente due palle così (concedetemelo) che nei momenti opportuni tirerebbe fuori, come comunque le abbiamo visto fare in altre occasioni. Da questa idea nasce quindi la shot, oltre all'aggiunta di una piccola immaginazione relativa al passato di Shiho nell'organizzazione, in cui viene ipotizzato un suo giustificato attaccamento ad un Gin un po' diverso da quello che conosciamo. E infine non dimentichiamo che, stando a ciò che dice il vecchio detto “se puoi maltrattare un Kudo, maltrattalo!” ho avuto necessità di piazzare anche lui verso la fine, per un frizzantino tete-a-tete con Gin :D
Comunque sia bando alle ciance, aspetto di leggere le vostre impressioni: ricordatevi che questa FF va avanti anche grazie a voi e perché c'è un vostro ascolto, è questo il motivo principale per cui appunto attendo quell'ascolto :) E' un motore. E infatti, come al solito, vi abbraccio virtualmente per tutte le belle recensioni che mi lasciate <3 Vi adoro, un po' come Gin adora Shiho :)
Bwahaha alla prossima! 

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Capitolo 25
*** I diversi colori del tè - AiRan ***


25. Ai e Ran ~ 

***






I diversi colori del tè 

Cavolo, Conan, quando prendi certe iniziative sei davvero un po' deficiente...

A questo pensava Ran, mentre una percepibile corrente di tensione pareva entrare dalla finestra aperta assieme all'aria, avviluppando il salotto dell'agenzia Mouri.
La ragazza si dipinse un forzato sorrisetto in volto, il più gentile possibile, mentre si voltava su se stessa per osservare la sua improvvisa ospite.
Ai Haibara giaceva seduta sul divano del salotto, le lunghe gambe accavallate e con la pelle scoperta, vista la stagione estiva: indossava una deliziosa gonna di tela azzurro scuro, su cui si adagiava una leggera canottiera rosa pallido con due sottili spalline, che comunque erano coperte dai morbidi capelli ramati che le erano un po' cresciuti.
E la guardava. Né perplessa, né arrabbiata, né scocciata. La guardava e basta, trasparente come la colla di pesce che Ran metteva sui dolci.
- Ai, vuoi... non so, una tazza di tè freddo? - provò, con un tono di voce abbastanza ballerino.
- Non ce n'è bisogno, Ran, grazie comunque -
- Pesca o limone? -
- …non ce n'è bisogno, dicevo. Ma se proprio vuoi, limone. - rispose Ai perplessa, lasciandosi sfuggire un lieve sospiro scocciato. Che tanto di problemi non se ne faceva.
- Ottimo! - rispose Ran con una punta d'angoscia nella voce, che cercò di controllare evitando magari di dire altre parole in cui si potesse sentire.
Guardandola anche solo per pochi secondi, comunque, Ran non poté fare a meno di constatare quanto Ai fosse diventata una bella ragazza. Con i capelli un po' più lunghi rispetto al caschetto con cui li aveva sempre tenuti da bambina e ragazzina, permetteva si vedessero maggiormente quei naturali riflessi ramati che la rendevano così particolare; il corpo le si era slanciato forse anche troppo, per una ragazza di 16 anni, ma uno sviluppo precoce non dava certo alcuna premura, specialmente nel suo caso, in cui quelle gambe lisce e bianche prive di qualsiasi difetto catturavano per forza l'occhio, così come tutto il resto quando si alzava in piedi e camminava. Ran ridacchiò, pensando a quando beccava in pieno Conan sbirciarle alcune parti del corpo e diventare rosso subito dopo, scuotendo la testa e talvolta dandosi delle pacche in testa; oppure pensando a quanto quel caro ragazzo di Mitsuhiko morisse letteralmente dietro ad Ai, facendo sì che il suo alto quoziente intellettivo (riconosciuto da tutta la scuola superiore Teitan) si abbassasse drasticamente di fronte alla giovane ramata. Andava proprio giù in picchiata.
Ma se restava ancora lì impalata a pensarci troppo, Ai le avrebbe di certo chiesto se era per caso ammattita. Ran si voltò velocemente e si avviò in cucina, con passo abbastanza nervoso, e quando fu al sicuro dietro la porta chiusa, sospirò.
Se mi sento così non è colpa di Ai, questo è chiaro, non è lei da biasimare. E' colpa della poca alchimia che c'è tra noi due, forse... anzi, evidentemente è così... della tensione che ogni volta percepisco quando ho a che fare con lei.
Era simile ad un senso di inadeguatezza, si sentiva scrutata e studiata da Ai ogni volta che ci parlava; per quanto fosse un naturale atteggiamento della ramata, senza intenzioni crudeli, non si sentiva mai al sicuro quando vi veniva sottoposta. E, viste le espressioni spesso annoiate, ciniche e altezzose assunte da Ai, non si sentiva neanche mai all'altezza delle sue osservazioni. Questa spiacevole sensazione era iniziata quando Ai e Conan stavano finendo le medie, cioè quando erano diventati visibilmente più grandicelli e svegli, e via via si era sempre più accentuato: l'incantesimo era cominciato e avviato.
Questo era un problema, chiaramente, poiché Conan frequentava molto Ai e quindi spesso la invitava a cena in agenzia, o fuori al parco/ristorante/cinema/eccetera quando uscivano tutti insieme, ed era molto difficile sottrarsi a quel suo potere di giudizio. Al tempo stesso era una calamita, Ran andava più volte incontro al problema spinta dalla volontà di entrare maggiormente in empatia con Ai... peccato che, dall'altra parte, non le risultava arrivasse lo stesso intento; pareva anzi che ad Ai non potesse proprio fregar di meno.
Questo la feriva sempre un po', però in qualche modo, con la presenza di altre persone ed altri facili metodi di distrazione, si trovava sempre l'appiglio per tirarsene fuori e voltare pagina, sperando che la volta dopo sarebbe andata meglio. Ma non era mai, mai successo che Ai e Ran si ritrovassero completamente sole nello stesso posto. Questo non era sicura di poterlo gestire dignitosamente, vista l'ansia che già aveva sostituito i succhi gastrici nello stomaco.
Ed era colpa di Conan, che aveva sbagliato a dare gli orari dei suoi stupidi allenamenti, dicendo così ad Ai di presentarsi prima all'agenzia quando lui chissà quando diavolo sarebbe tornato. Ran estrasse il proprio cellulare di tasca, digitando il suo numero con fare nevrotico e portandoselo all'orecchio: Conan rispose dopo pochi squilli.
- Ran? Che c'è? -
- Conan! Dannazione, Ai si trova qui già da un quarto d'ora... quando cavolo finisci i tuoi allenamenti di calcio? -
- Mmm, direi... un'altra ventina di minuti almeno – rispose lui annoiato.
- Venti minuti. - ripeté Ran con un blocco di pietra in gola. - Ma si può sapere perché le hai detto di venire così presto? E' maleducazione, lei pensava di trovarti qui subito e invece tu sparisci e ti ripresenti tra venti minuti minimo? -
- Minimo, infatti, hai detto bene. Potrebbero essere anche trenta. Non l'ho mica fatto apposta, Ran, sai come sono queste cose... il coach vuole tenermi ancora un po' qui in vista dei tornei regionali e... -
- Al diavolo i tornei regionali e pure il tuo coach. E pure te. - rispose lei con un golem di pietra, stavolta, ficcato in gola. E in tutto ciò, Conan rise di gusto.
- Ma dai, Ran, quante storie! Tu e Ai vi conoscete da quanto, dieci anni? Intrattenetevi, raccontatevi stupidate da donne, giocate a scacchi o fate la settimana enigmistica, che ne so... qualcosa troverete -
- Mi prendi in giro, Conan? Sai benissimo cosa penso di tutto ciò, mi sono confidata con te. E speravo tu capissi! Lo sai che con Ai ho un blocco emotivo, non so spiegarmi neanche io il motivo ma non riesco a parlarle normalmente, non riesco a farla sorridere o anche solo farla sentire a proprio agio... -
- Ai si sente a suo agio praticamente dovunque, anche se non ha interesse a mostrarlo. Credimi. Andrai benissimo, non devi preoccuparti di questo! -
- Almeno non puoi darmi qualche consiglio? Tu riesci bene a relazionarti con lei, andate d'accordo e sai sempre come prenderla, come faccio a farla rilassare in mia presenza? -
- Lei si è già rilassata, te lo dico proprio perché la conosco. L'unica che non si rilassa, qui, sei tu. Stai tranquilla, bevetevi qualcosa di fresco e passerà tutto! -
- Tutto qui quello che puoi dirmi? Due suggerimenti o due dritte non... -
- Mi fido di te, Ran! Ora devo andare, il coach mi chiama. Ci vediamo tra una mezz'oretta. Anzi, fai anche quaranta minuti, okay? - concluse Conan, mettendo giù la chiamata.
Mancò poco che Ran distruggesse il telefono col solo ausilio della sua gentile presa di ferro.
Ora i minuti avanzavano pure di decine. Ma bene. Non solo la beffa di dare orari sbagliati ad Ai, di mettere lei in quella situazione difficile e di farsi bellamente gli affaracci suoi, ora c'era pure il gusto del dubbio su quando realmente sarebbe tornato a fare da collante tra lei e Ai. Oh, ma che divertente.
Tutta la patata bollente a me, vero? Quando torni ti rivolto la testolina, Conan.

Ran respirò a fondo, prima di afferrare due bottiglie di tè freddo dal frigo per versarne in due bicchieri distinti: gusto limone per Ai, gusto pesca per lei. Rigorosamente pesca. Cavolo, anche sui gusti erano completamente diverse...
Si schiarì la gola afferrando i due bicchieri, e tornò in sala. Ed eccolo lì, lo sguardo scrutatore di Ai tanto conosciuto e già sguainato, già posizionato in prima linea per la battaglia, lo sguardo che aveva imparato a temere e a non saper fronteggiare con alcun mezzo, che aveva imparato a sviare voltandosi verso la prima persona che le capitava a tiro: ma come fare ora, che l'unica persona a tiro era proprio lei stessa?
- E-ecco qua! Limone, eheh! -
- Grazie. - rispose Ai, senza mollare lo Sguardo.
- Ma figurati, per così poco! Non devi! - disse Ran con un'enfasi tanto eccessiva da interdire Ai.
- Beh, ma... si ringrazia comunque la gente se ti viene offerto qualcosa, no? - ribatté lei, calcolando la sua prossima reazione con lo Sguardo attivo.
Lo Sguardo era posato su Ran costantemente. Analisi di Ran Mouri in corso, 48%.
- Ehm... sì, presumo di sì! Allora hai fatto bene a ringraziarmi, cioè, lo avrei fatto anche io. Va molto bene quello che hai fatto, decisamente. Non volevo dire il contrario. E... e quindi... -
Ran sospirò mentre le parole più insensate del mondo di esaurivano finalmente sulla sua lingua, appoggiò i due bicchieri sul tavolino e si sedette sull'altro divano, di fronte ad Ai. All'improvviso esaurì anche la voglia di mantenere vivo quel teatrino ridicolo, fatto di una gentilezza costruita e ansiosa, e permise al suo viso di abbattersi un poco ma visibilmente, pur mantenendo un'ombra di sorriso di circostanza.
Ai lo notò, mentre afferrava il suo bicchiere di tè al limone e lanciava delle occhiate alla sua interlocutrice. Ran non alzava lo sguardo, ma sapeva di essere ancora osservata e probabilmente giudicata.
- Perché non ti siedi qui accanto a me? - le propose Ai, battendo una mano accanto a sé. - Questo divano è piuttosto lungo, che senso ha occuparne due? -
Ran alzò lo sguardo sgranando gli occhi, fissando la mano di Ai che batteva sullo spazio di divano a fianco a lei, che batteva su e giù, su e giù. Glielo stava chiedendo sul serio? Ma come, non la stava odiando? O per lo meno schernendo brutalmente nella sua mente?
Ran annuì poco convinta e presa in contropiede, però si alzò volentieri e andò a posizionarsi affianco alla giovane ramata. Rimasero in silenzio svariati secondi, o meglio dire un minuto intero, in cui si sentirono solo i risucchi di té tirati su con la cannuccia. Limone VS Pesca, a questo Ran pensava incessantemente, pur di non ricercare cosa diavolo avrebbe potuto dirle adesso: aveva apprezzato la proposta amichevole di Ai, ma non sapeva come “ripagarla” e, anzi, si era forse irrigidita ulteriormente; averla così vicina le faceva percepire la sua aura e le sue vibrazioni. La cannuccia le si infilò nella gengiva per l'accanimento con cui i suoi denti l'avevano aggredita. Ahia.
- Come va la scuola? - chiese infine Ran per rompere il silenzio, senza altre idee se non quelle più scontate tratte direttamente dall'Enciclopedia dello Scontato&Banale. Diamine, sapeva benissimo come andava la scuola a lei e pure a quell'altro! Lei e Conan erano probabilmente i più intelligenti non solo della scuola che frequentavano, ma di tutto il Giappone, e non era mica solo lei a saperlo.
Che domanda idiota.
- Va bene, direi. Un po' noiosa, devo confessartelo, ma voglio finirla normalmente con tutti gli altri -
- Anche se ti hanno offerto quella borsa di studio scientifica per l'estero, che ti farebbe saltare l'ultimo anno slittando già all'università? Scusa se lo so già, me l'ha detto Mitsuhiko... -

- Figurati, se lo sai già meglio ancora, mi risparmi la faticaccia di dirtelo e le reazioni fuori luogo che mi devo sempre sorbire da chi ne viene a conoscenza. - rispose lei facendo spallucce, e facendo rabbrividire un poco Ran. - Comunque sì, non intendo accettarla già adesso e forse nemmeno dopo. Sono affezionata agli altri, a tutti voi, se decidessi di andare via poi dovrei vedermela con qualcuno... - disse Ai con un lieve e adorabile risolino, che aiutò Ran a rilassarsi.
- Intendi Mitsuhiko? Ci rimarrebbe malissimo se tu partissi lontano – mormorò Ran, convinta di aver fatto centro.
- In realtà pensavo più ad Ayumi. -
Okay, uccidetemi. Centro errato e affondato. Dannazione, ora che mi avvicinavo a fare un discorso normale con lei...
Ma mentre Ran era impegnata a fissare il vuoto con occhioni da cerbiatto sconsolato, Ai continuò a parlare con trasporto e senza dare alcun peso alla gaffe della karateka.
- Abbiamo legato molto, io e lei, ci coinvolgiamo a vicenda in quasi tutto. Ma penso anche agli altri, mi mancherebbero tutti ed io mancherei a loro, o almeno spero -
- Quindi anche Mitsuhiko? - insisté Ran, che aveva una gran voglia di difendere a spada tratta quell'adorabile e bravo ragazzo. - Penso che lui, per te, abbia... come dire... un sentimento di... -
- Sì, può essere. - sviò completamente Ai. - Ma vorrei farlo mettere insieme ad Ayumi -
- Cosa?? Davvero? E' infatuato pure di Ayumi? -
- Suvvia, chi non lo sarebbe? E' così fin dalla nostra infanzia. -
- E a Genta chi ci pensa? - si intromise ancora Ran, decisa a protrarre quel tipo di conversazione sciocca il più possibile.
- Ah, santo cielo, Genta... finché non si mette la testa a posto, affianco ad Ayumi non ce lo voglio neanche vedere. Da quando è dimagrito e ha messo su un paio di muscoli, si è montato la testa. Non lo sopporto -
Ran si fermò un attimo e ridacchiò di gusto, pensando al povero ex cicciotto. E pensando che allora, forse, ad Ai interessasse solo una persona. E chi altro poteva essere se non il suo amico cervellotico quanto lei? Aveva una voglia matta di chiederle se con Conan ci fosse mai stato qualcosa, visto che lui non scuciva una parola neanche sotto tortura, ma aveva timore di spingersi troppo in là e figurare come un'impicciona.
- Comunque, come vedi, ho molto da fare qui, non posso ancora andare via. E poi ammetto che mi mancherebbe quel mezzo scemo di Conan, mi mancheresti tu... tutti, insomma -
Ran trasse un lieve respiro di sorpresa e commozione, sperando che Ai non l'avesse beccata, ma ovviamente lo Sguardo era allenato anche a quello. Quindi tanto valeva uscire allo scoperto.
- Ti mancherei... anche io? -
- E perché non dovresti, scusa? - ribatté Ai perplessa, emettendo di nuovo quel risolino così carino.
- Perché, beh... non mi pareva che... - Ran deglutì, decidendo di confessarsi una volta per tutte. - ...che avessimo un grande rapporto. Purtroppo, anche se lo vorrei... -
Ai fece per rispondere, ma la risposta dovette morirle soffocata in gola. Nonostante fosse un serbatoio umano di risposte sempre pronte e dell'ultima parola, a questo giro Ai non sapeva come riparare la situazione.
Tornò uno strano silenzio tra loro, che però Ran volle distruggere il prima possibile.
- Ma questo non vuole essere un rimprovero! Se non per me stessa, che non sono in grado di farti domande decenti o di fare una conversazione normale con te... -
- Ma perché dovresti farlo? Cioè, chi ti obbliga? - chiese Ai, iniziando a percepire una lieve tensione da cui normalmente non veniva sfiorata.
Ran avrebbe voluto risponderle “Il tuo Sguardo!” ma era ovviamente una scelta stupida da seguire. Tuttavia il viso di Ai parve addolcirsi all'istante vedendola così in difficoltà, un tenue color porpora le si diffuse sulle guance e decise di agire subito in modo da tranquillizzarla.
- Voglio dire, Ran... tu non devi sentirti in bisogno di farmi sentire a mio agio o cose del genere, questo lo sai, vero? -
- Ma sei a casa mia, io non posso lasciarti qui da sola per chissà quanto tempo, visto che quel rimbambito ha deciso di darti orari sbagliati... anzi, lo sai che non sa nemmeno quando rincaserà stasera? -
- Appunto, al massimo sarà il rimbambito a prendersene le responsabilità. Ma tu non sei tenuta a... -
- Io invece penso di sì! D'accordo, non è mio rigoroso dovere farlo, ma perché non provarci...? -
Ai ridacchiò, annuendo e concordando con lei.
- D'accordo, e allora riproviamoci, visto che anche io non mi ritengo proprio una cima in questo settore. Ci sono altre domande che vuoi farmi, all'infuori della scuola? - propose la ramata con un accenno di sorriso: niente di troppo esagerato, ma comunque c'era.
- No, a dire il vero non mi viene in mente niente – rispose Ran senza indugio, maledicendosi subito dopo per la desolante trasparenza della sua risposta. D'altra parte era l'assoluta verità, quanto poteva essere inutile continuare a fingere e incespicare sulle proprie frasi?
- Ottimo, allora posso iniziare io. Oggi per me è una giornata importante, lo sapevi? -
- No, non lo sapevo, Ai. Come mai? -
- Perché oggi ricorre un anniversario. Un anniversario che io tengo sempre molto da conto -
- Davvero? L'anniversario di cosa? -
- Della morte di mia sorella -
Ran rimase ammutolita, fermandosi anche di risucchiare il tè dalla cannuccia. La guardò intensamente, sorreggendo per la prima volta a pieni voti lo Sguardo di Ai, che ormai era diventato un semplice e comune sguardo permeato da un'espressione sempre un po' fredda, ma carica di emozione e di una lieve malinconia.
- Oggi sono... dieci anni esatti – Ai abbassò il viso, senza sorridere né intristirsi. - Ogni anno, in questo giorno, confesso di rintanarmi un po' nei miei ricordi. E sono sempre gli stessi, i pochi che mi sono rimasti... -
- E che sono sicuramente molto belli... - rispose Ran senza perdersi in frasi elementari come “mi dispiace” oppure “non sei costretta a parlarne se non vuoi”, una scelta che Ai gradì notevolmente. Si sentiva strana a parlare di un argomento così intimo per la ramata: ricordava bene che aveva perso la sorella quando era piccola, un fatto che tutt'ora aveva un certo peso per lei.
- Sì, lo sono. E tutti quei ricordi me li conservo gelosamente, finché la miriade di formule scientifiche non li sopprimerà del tutto, almeno -
Ran rise in modo genuino, ammirando il sarcasmo che Ai riusciva ad esercitare anche in contesti simili.
- E dimmi, lo sanno anche gli altri? Se in questo giorno tu ti senti un po' diversa, è bene che i tuoi amici evitino di trattarti in modi sconvenienti come farti aspettare trenta minuti pur avendoti incitata a presentarti prima... -
- No, lo sa solo il professor Agasa. E tu. Siete gli unici due, e vorrei rimanesse così -
- Come? Sul serio? - rispose Ran sorpresa, ma sentendo un gran peso levarsi dal cuore. Godeva davvero di quel tipo di considerazione, da parte di Ai? Si era davvero immaginata tutto fin dall'inizio, le brutte idee che si era fatta non esistevano?
- Sì, ti sarei grata se non trapelasse. Sono certa che tu hai una capacità di discrezione molto più estesa di tanti altri... e sono felice che questo mio pensiero sia nelle tue mani – concluse Ai, rivolgendole un bellissimo sorriso che tolse quasi il fiato alla mora.
- Ti va... di parlarmi un po' di tua sorella? - azzardò Ran. Si sentiva così contenta e nuova che probabilmente avrebbe avuto il coraggio di chiedere di tutto.
- Sì, certo. Ti assomigliava molto, sia nell'aspetto che nel carattere. Ogni tanto la rivedo in te... e credo che questo non sia un male -
- No, non lo è. Anzi, direi che è una fortuna! Quindi permettimi quest'osservazione... se lei mi somigliava... eravate molto diverse, vero? -
- Se esistesse un termine più accentuato di “opposte”, sarebbe quello giusto -
Entrambi risero di tale consapevolezza, continuando a parlare sia di Akemi che di altri argomenti che interessassero entrambe. Questo permise loro di far scorrere il tempo, di non accorgersi quasi quando Conan rientrò in casa sbadigliando.
- Ehi, voi due! La smettete di parlare di smalti e di fighi della scuola, e mi aiutate a preparare qualcosa da metter sotto i denti? -
- Preparatelo da solo! - risposero all'unisono le due ragazze.
- Ma che modi sono? Io mi faccio il mazzo per i tornei del nostro paese, e voi... -
- Ma chi se ne frega! - risposero di nuovo insieme.
- Okay, siete ufficialmente inquietanti. Ora io, con cautela, mi sposterò in cucina e voi non ve ne accorgerete... - disse Conan con tono impaurito, nascondendosi in cucina e per la precisione dietro l'anta aperta del frigo.
- Ecco, bravo, stai lì per un po'. Giusto il tempo di farmi sbollire la rabbia per quanto sei svampito! - ribatté Ran.
- Concordo! Ehi, Conan, già che ci sei ci fai un favore? - continuò Ai.
- Ci prepari qualcosina anche a noi? Tipo due uova sbattute? -
- Magari con delle verdure bollite a parte? -
- E una bella ciotola di riso bianco con salsa di soia? -
- E con sesamo, spezie e funghetti? -
- Abbrustolisci due fettine di pane? -
- Prepari un piattino d'olio aceto e sale? -
- E pure un'insalata di alghe! Grazie! - conclusero ancora all'unisono, dopo essersi alternate il menù completandolo.
Mentre Conan rabbrividiva da dietro l'anta del frigo, constatando tra l'altro che al suo interno non vi era alcun ingrediente da loro richiesto e che quindi urgeva una veloce via di scampo, le due ragazze in salotto si guardarono per qualche istante prima di scoppiare a ridere.
Essere così in sintonia nelle loro battute non era cosa da poco. E, soprattutto, non era qualcosa di tipico delle persone completamente opposte, o di quella parola più esagerata che Ai avrebbe voluto inventare. Ran era contenta, lo era davvero, sapeva da sempre che Ai non era quel tipo di persona sfidante e critica che forse sembrava. Abbassò lo sguardo sul proprio tè quasi finito e che teneva in mano, in cui i cubetti di ghiaccio si scontravano ancora, poi lanciò un'occhiata pure a quello di Ai, che era solo a metà.
Il limone e la pesca non sono poi così diversi. Uno è fin troppo aspro e l'altro fin troppo dolce, ma proprio per questo si possono completare.
- Ai... - provò Ran, guardandola decisa e sorridente. - Sei abituata a fare qualcosa di particolare, nel giorno di questo anniversario? -
- Sì... ehm... - risposte Ai titubante, arrossendo notevolmente e incuriosendo Ran oltremisura. - Diciamo che tento di cucinare un piatto per cui lei andava matta, come se fosse un richiamo in suo ricordo. Diciamo che tento disperatamente, ecco. Perché si tratta di un'antichissima ricetta cinese risalente a secoli fa che... -
- Perfetto! Proviamo a farla insieme! -
- N-no Ran, non capisci, è quasi impossibile! Non so come facesse a cucinarsela lei, perché anche trovare tutti gli ingredienti giusti è un'impresa, ma il più delle volte mi viene uno schifo e allora penso che forse dovrei smettere di deturpare la sua memoria con quell'orrore culinario che era per lei così buono... -
- Forza, prendi la borsa e usciamo a comprare quello che ci manca, stasera il menù prevede questo! -
- Ma lasciami almeno spiegare la ricetta, no? - chiese Ai con una nota d'orgoglio spezzato.
- No! Non sono mica una alle prime armi... - disse Ran alzandosi e prendendo le proprie cose con una velocità tale da incitare Ai a fare lo stesso. - Questa volta Akemi rimarrà estasiata dal tuo lavoro! Te lo prometto. Andiamo? -
Ai la fissò con un sorriso, prima di alzarsi e annuirle con vigore. Prese la propria borsa e insieme uscirono di casa, con questo nuovo e arduo progetto in mente.
Nel frattempo Conan uscì dalla cucina trionfante, poiché aveva assemblato un mini menù piuttosto somigliante a tutto ciò che le due fanciulle avevano richiesto. Peccato che in salotto non trovò nessuno a fargli i complimenti, e allora capì che era stato brutalmente tradito ma che almeno si sarebbe pappato tutti lui. E sorrise, capendo che quelle due, finalmente, avevano avuto tempo e modo di trovare un piano comune su cui andare d'accordo davvero.








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CIAO POPOLOOOOOO! Non ho fatto passare 2 anni dall'ultima shot, olè! <3 Signor fantasma, vero che non è passato troppo? ç___ç
Allora, come avrete notato questa shot non è ambientata in un universo parallelo dove Genta è magro e coi muscoli e dove Conan ama nascondersi dietro le ante dei frigoriferi: è bensì ambientata in un futuro in cui non è stata trovata una soluzione definitiva all'effetto dell'APTX, cosicché Conan e Ai sono stati costretti a ri-crescere e ad avviare un tipo di vita differente. Ho decisamente accantonato la questione di Ran angosciata dal ricordo di uno Shinichi che non è più tornato e dei relativi dubbi riguardo Conan che ogni tanto ha, volevo che la storia si concentrasse su tutt'altro e perciò, tra i personaggi qui trattati, sono stati instaurati da subito i rapporti che avete visto. Non so voi, ma il legame tra Ai e Ran trovo sia piuttosto attraente poiché è privo di basi, in realtà, ma comunque in grado di passare attraverso fasi profonde (basti pensare allo scenario super romantico in cui si sono strette la mano, o al salvataggio di Ran nei confronti della ramata, o il semplice ricordo di Akemi che ogni tanto le provoca) però l'ho pensata in un futuro in cui Ai, più grandicella e sempre più somigliante a quella che è “la fredda” Shiho, sia decisamente meno gestibile da parte di una Ran più dolce e suscettibile.
Grazie come sempre per la vostra presenza e calore su questa raccolta! :') Aspetto di sapere le vostre impressioni e/o calunnie su queste due tizie che si scontrano o su qualsiasi altra cosa, un'amichevole zampata a tutti e alla prossimaaaaa!
 

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Capitolo 26
*** Il ladro bianco e il gatto nero - KaiAo ***


26. Kaito e Aoko ~

Avvertenze: seguito della shot n. 11 "Cocci trasparenti"


***






Il ladro bianco e il gatto nero


In una piccola casa ai margini di Tokyo, lontana da luci e rumori, Kaito si rigirava nel letto da ore.
Erano le 3.07 del mattino, cielo sereno. Il buio invadeva completamente la stanza e, bruttino a dirsi, anche il suo cuore. I suoi occhi erano sbarrati a fissare le pareti illuminate dalla scarsa luce della luna, a tratti li chiudeva a forza per riuscire ad addormentarsi, ma senza successo.
Aveva davvero sbagliato così tanto, fino a quel punto? Quel letto dove stava era enorme. Ogni tanto entrava un gattino nero dalla finestra, forse randagio, e se Kaito gli dava da mangiare allora il gatto decideva di fargli compagnia, spesso dormendo affianco a lui. Quella notte però il gattino era altrove, a godersi la vita molto più di quanto stesse facendo lui in quel momento, questo di sicuro.
Ti vorrei qui con me. Affianco a me.
L'immagine di Aoko sdraiata di fianco a lui su quel letto troppo grande insisteva nel pervadergli la mente. Era solo immaginazione, poiché non era mai successo prima, ma era dettata da un forte desiderio, oltre da che da una forte sensazione di perdita: non era nemmeno sicuro che Aoko avrebbe mai più varcato la soglia di quella casetta. Allungò la mano sullo spazio vuoto accanto a lui, tastando le coperte e ravvivando quell'immagine, facendosi più che altro del male.
Quella non era la sua dimora ufficiale, poiché lo era la vecchia casa di suo padre nelle vie più centrali della città, in cui lui ormai stava raramente: quella casetta distante dal caos l'aveva comprata per conto suo, proprio per starsene in pace, e soltanto altre due persone al mondo avevano avuto il piacere di vederla: il suo vecchio assistente e Aoko, nessun altro sapeva della sua esistenza. Cercò di pensare ad altro più che poteva, ma era complicato... continuava a rivedere gli occhi di Aoko, la sua rabbia, le sue lacrime, a sentire ancora i suoi pugni addosso e le sue parole taglienti. Vedeva tutto questo ad occhi aperti e pure chiusi, non c'era proprio scampo.
Ti prego, Aoko, suona alla mia porta stanotte. Sai dove abito adesso, ti ci ho portato qui, quando ti ho preparato i cupcake. E quando tu hai messo in forno il pesce per farmi paura. Farei qualsiasi cosa per rivedere il sorriso che avevi quel giorno... qualsiasi cosa.
Lo stesso sorriso che lui aveva contribuito ad eliminare senza pietà, peraltro, con la rivelazione della sua identità. Sospirò gravemente, un sospiro lungo cent'anni che non gli appianò lo sgradevole senso di impotenza, nonché unico suono che riecheggiava ora in quella stanza. Era desolante, avrebbe almeno voluto l'accompagnamento del miagolio del gattino.
Ore 3.51, coperte a terra per tutte le volte che si era rigirato. Prime nubi di passaggio e adagiate sulla sagoma della luna. Non aveva mai sbagliato un colpo in vita sua, ma aveva l'impressione che se anche gli fosse accaduto non si sarebbe sentito così vuoto come in quel momento, così povero dentro. Si alzò a sedere, portando la concentrazione altrove per quanto possibile: ad esempio agli ultimi accorgimenti di quello che, la sera dopo, sarebbe stato il suo ultimo furto della sua breve carriera di ladro. Non gli andava troppo a genio come scelta, questo era chiaro... amava quel suo stile di vita, vi si era abituato con estrema armonia e, sì, pure goduria. Il successo, le urla di tifo e incoraggiamento da parte di migliaia di persone sconosciute, la vittoria costante contro le forze dell'ordine, la fama... e il brivido, quello non mancava mai, la sua amicona adrenalina. Ma si era reso conto che, per amore, per quel tipo di brivido forse maggiore, era pronto anche a questo. Se voleva riconquistare Aoko dopo quell'ultima e deprimente litigata che avevano avuto, doveva darsi una mossa in quel senso e farle capire che lui era disposto a smettere, smettere di essere il tanto odiato Kaito Kid.
La procedura del suo ultimo piano era piuttosto semplice: visto che lui era giusto un po' egocentrico, quella stessa mattina aveva preparato e inviato le copie di una gran bella lettera in uno stile sfolgorante che potesse annunciare il grande evento, con tanto di cornici e decorazioni, utilizzando una carta spessa color panna di una consistenza ruvida meravigliosa – tutto ciò doveva rappresentare quel misto di amarezza ma anche entusiasmo di nuova vita imminente che sentiva dentro di sé. Non era sicuro che l'ispettore Nakamori avrebbe colto quel significato poetico intrinseco alla sua selezione dei materiali, ma almeno ci aveva provato. L'obiettivo era il furto dello sfavillante scrigno Coral Reef, situato direttamente nella magione di Jirokichi Suzuki, che però in quanto scrigno andava aperto, poiché il vero tesoro giaceva al suo interno. Per fare questo gli serviva una chiave speciale creata dallo stesso scultore di quel gioiello, la chiave Biancazzurra, che lui aveva già rubato un paio di anni prima nel corso di un'altra mostra. In pratica aveva tutto sotto controllo, restava solo da ideare un piano che fregasse Jirokichi ma, diciamocelo, non era mai stato il problema fondamentale.
Improvvisamente qualcuno bussò alla porta di casa con fare deciso. A quell'ora di notte? Kaito fece scattare il suo sguardo verso l'ingresso, colto di sorpresa. Aoko!
Saltò giù dal letto e corse verso la porta, aprendola esagitato e col sorriso già plasmato sulle labbra. Sorriso che gli si spense quando vide che non era Aoko ad aver bussato: d'altra parte come aveva potuto pensarlo? Una ragazza giovane e sola in giro per un vicolo di periferia come quello...? Per cosa, poi, per andare a trovare uno che l'aveva distrutta? “Ehi, ciao, spero di non disturbare! Come stai, bastardo?”
- Ehi, vecchio – sospirò, vedendo il suo caro assistente Konosuke di fronte a sé e appoggiandosi allo stipite della porta. Gli voleva bene, ma che amarezza infinita.
- Signorino, mi deve perdonare l'orario e la brutta sorpresa, perché a giudicare dalla sua reazione mi sa che stesse aspettando qualcun altro -
- No, nessuno. Sono solo un po' stanco. Dimmi tutto -
- Come mi ha chiesto di fare, stanotte sono andato al capanno abbandonato del sesto distretto di Beika per recuperare la chiave Biancazzurra, dove la teniamo nascosta da tempo -
Santo cielo, l'aveva completamente scordato. Giusto, aveva mandato Konosuke a riprendere la Chiave! Meglio, così aveva metà del lavoro già fatto.
- Sì, infatti, mi serve per domattina per poter preparare tutto il piano. Ce l'hai? - gli chiese Kaito, allungando la mano per riceverla.
- La Chiave è sparita, signorino. Sono venuto a dirle questo -
- Cosa? -
- So che è strano, poiché solo noi due eravamo a conoscenza di quel nascondiglio. Mi dica, ha già annunciato il suo furto di domani sera con il suo avviso? Non è che tramite il suo messaggio si poteva indovinare il nascondiglio? -
- Sì... l'ho già mandato a giornali, televisioni e commissariato di polizia. E ho scritto una poesia che, come tutte le volte, nasconde gli indizi per prevenire e sfidare i miei furti, compreso il nascondiglio della chiave. Ma era impossibile indovinarlo! Ho messo solo riferimenti astratti, soltanto chi conosceva il posto esatto poteva trovarlo, te l'assicuro. Solo io e te -
- Eppure qualcuno l'ha preceduta. Senza la Chiave, il Coral Reef non si può aprire e rubarlo sarebbe piuttosto inutile -
Kaito si morse il labbro, constatando la gravità e il blocco di quella situazione. Ma chi, chi poteva essere stato? Sbuffò fuori aria come una ventola arrugginita quando, purtroppo, gli venne in mente solo un nemico in grado di arrivare a tanto.
Quel marmocchio stucchevole... dev'essere lui... ma stavolta era davvero impossibile individuare il nascondiglio della Biancazzurra solo tramite quel messaggio, a malapena me lo ricordavo io. Come diavolo ha fatto?
Kaito si scombinò da solo i capelli sbuffando di nuovo con agitazione, iniziando ad odiare il modo in cui gli eventi decidevano di piegarsi.
- Ascolta, per stanotte lasciamo perdere. Me ne occuperò domani, sono troppo stanco adesso... -
Konosuke annuì, lasciandolo solo e allontanandosi dalla casa. Kaito chiuse la porta in malo modo e si appoggiò ad essa coi palmi delle mani: con i pensieri in turbinio, con Aoko che nella sua mente volteggiava fino a scontrarsi con la chiave Biancazzurra, decise di andare a farsi una doccia notturna per sciacquarsi via un po' di quel disagio. Si spogliò del tutto già lì, buttando i vestiti sul letto prima di avviarsi, e quando finalmente fu sotto lo scroscio d'acqua calda chiuse gli occhi e alzò la testa verso il flusso, si portò le mani dietro la nuca e rilassò i muscoli, abbandonando la mente a quel rumore e a quella sensazione. Basta, basta tormentarsi, almeno per un po'.
Nel frattempo, Aoko arrivò di fronte alla casetta. Si guardò attorno, lungo lo stretto viale buio e deserto, come normalmente ci si aspettava a quell'ora di notte. Doveva essere in preda alla pazzia per piombare lì in quel modo, e non era nemmeno sicura che Kaito fosse rimasto a dormire lì... guardò verso la casa oltre il cancello, e vide le tende tirate verso l'esterno, quindi in teoria qualcuno c'era. Ma all'interno solo buio, nessun movimento.
Una lieve folata d'aria fredda percorse il viale e la fece rabbrividire, perciò si alzò il colletto della giacca con entrambe le mani. Si sentiva veramente una scema ad essere giunta fin lì, ma stava male da giorni e, adesso che aveva l'occasione di attenuare il dolore, era meglio non lasciarsela sfuggire. E poi, aveva un altro compito da svolgere.
Aprì la cancellata, attraversò il vialetto e fu davanti alla porta. Col cuore che batteva come un forsennato, bussò flebilmente, pur sapendo che nessuno avrebbe potuto udire un rumore tanto lieve. Ma aveva troppa paura, troppa angoscia, perché era sì arrivata fin lì, ma quando avrebbe avuto Kaito davanti a sé? Cos'avrebbe fatto? Non si era preparata niente, né un discorso o che altro. Certo, lo scopo esatto per cui era venuta lì esisteva, ma aveva bisogno di preparare il terreno.
A parte tutto, voleva solo vederlo con tutte le sue forze. Aveva lasciato passare un po' di tempo dall'ultimo litigio con lui, sperando che lentamente la sua ferita tornasse a posto, ma era accaduto l'opposto: Kaito le mancava, e giorno dopo giorno si sentiva sprofondare nell'angoscia e nel disorientamento. Un po' come la muffa che infesta le pareti di vecchie case, si adottano tutti i modi possibili per eliminarla e si tenta di ignorarla, ma alla fine quella rimane lì, intossicandoti con costanza. Ma com'era possibile sentirsi così, visto che lo odiava? Lui era quella feccia di Kaito Kid. Già. Questo pensiero le fece bussare un po' più forte, e poi ancora di più. Ah, adesso voglio proprio vedere se non mi senti, bastardo.
Probabilmente l'avrebbe picchiato. Lui avrebbe aperto, non si sa con che faccia, e lei l'avrebbe massacrato di botte. Era comunque un modo di chiarire, anche se non dei più usuali. O magari avrebbe fatto tutt'altro. Non lo sapeva, tanto erano l'amore e l'odio che si alternavano e pareggiavano, ma voleva scoprirlo. Dai, Kaito, vieni ad aprirmi. Svegliati...
Bussò di nuovo, sempre però con una certa soggezione. Si sentiva piccola piccola, indifesa, senza risorse o protezioni. Perciò aspettava, guardando il terreno ancora inumidito dalle ultime piogge e udendo il suono delle folate d'aria fredda, rabbrividendo e stringendosi tra le proprie braccia. Bussò ancora, senza successo, e aspettò, mordendosi il labbro. Ma più passava il tempo in cui nessuno veniva ad aprirle, più quella terribile angoscia di averlo ormai perso risaliva su fino al petto con violenza. Si sentì mancare un po' il respiro, perciò prese fiato mentre gli occhi diventavano acquosi e la mano tremante. Kaito.
Riprovò, ancora e ancora, ma nessuno arrivava. Si lasciò scappare il primo singhiozzo, poi vennero tutti gli altri. Erano giorni che stava così, che le bastava un nonnulla per farsi prendere da quei sentimenti, ed ora aveva davanti la prova pratica dei suoi più lugubri pensieri: Kaito probabilmente era lì dentro, ma non voleva vederla. Si convinse di questo, e perciò bussò ancora più forte.
- Kaito! - provò a dire a voce alta e rotta, non in modo da svegliare tutto il vicinato, ma da farsi sentire almeno da lui.
Niente. Non la voleva più, in nessuna salsa presentabile, né amica né tanto meno qualcosa di più. Aoko si portò il dorso della mano alla bocca, cercando di soffocare degli odiosi singhiozzi che la scuotevano come meglio intendevano. Quella mano fu presto inondata dalle sue lacrime, se la morse forte per concentrarsi sul dolore fisico.
Senza riuscire ad arrendersi bussò ancora, con una forza tale da far scattare il meccanismo della porta, la quale si socchiuse da sola: era aperta. Aoko trasse un respiro sbarrando gli occhi, fissando la maniglia e poi afferrandola lentamente. Decise di entrare, senza fare rumore.
Una volta in casa richiuse la porta e si guardò attorno. Avanzò piano nel buio, attraversando la cucina (ahah... cupcake e pesce in forno...) e arrivando poi all'altezza della spaziosa camera: ci sbirciò dentro, e sembrava non ci fosse davvero nessuno. Si trovò quasi subito davanti al grande letto, davvero grande per una sola persona (gli piace stare comodo... l'ho pensato anche la volta scorsa...) e fu quando vide tutti i suoi vestiti sparsi a terra e sul letto che le venne un imbarazzante dubbio. Perché quelli erano i vestiti di Kaito, ne era sicura.
Kaito uscì dalla doccia, che l'aveva fatto davvero riemergere da quello stato ottenebrante in cui si trovava da ore, se non da giorni. Sospirò di sollievo, afferrando solo un piccolo asciugamano e legandoselo in vita: amava sentire l'acqua asciugarsi da sola sul corpo, senza strofinarla via, qualsiasi stagione fosse. Non perse perciò tempo ad asciugarsi e uscì dal bagno, prendendo il suo cellulare lasciato appena lì fuori. Compose il numero del suo assistente, il quale rispose dopo pochi squilli.
- Ho avuto un'idea. Se qualcuno mi ha rubato la Chiave, e so già di chi si tratta poiché è l'unico che possa averlo fatto, dovrò rubargliela di nuovo. Di certo di furti ne so meglio io di lui, e so dove abita! -
- E se la Chiave non fosse in casa sua, ma l'avesse nascosta altrove? O se, peggio, avesse già previsto la sua mossa e stesse già preparando una trappola? -
Nel frattempo Kaito si diresse verso la sua stanza per sdraiarsi a letto e pensare bene a come agire: il piano si era un po' sovraccaricato di impegni ma, visto che era l'ultimo della sua vita, doveva pur essere complesso e ingegnoso, no?
Entrò in stanza guardando in basso e senza fare attenzione a ciò che lo circondava, iniziando anzi a trafficare nei suoi cassetti e negli armadietti per cercare vestiti adatti da mettersi addosso. Senza fare attenzione ad Aoko che, dall'altra parte del letto, sbarrava gli occhi e tratteneva il respiro.
- Starò attento, Konosuke, e in quel caso cercherò indizi che mi possano portare al nuovo nascondiglio della Biancazzurra. O sveglio il marmocchio e lo randello di legnate finché non me lo dice. -
- Tenga gli occhi aperti, signorino... ci sono sempre delle alternative! -
- Ah sì? E quali? - e, mentre diceva questo, l'inutile asciugamano che si era legato in vita si sfilò giù, visto tutto il movimento che stava facendo, tuttavia non se ne preoccupò di certo. Con le chiappe all'aria continuò a trafugare i cassetti, sbuffando a ripetizione. E Aoko, sempre in quella posizione impietrita, non poté più tacere.
- KAITO. -
- Eh? -
Il ragazzo si voltò verso la fonte della voce che aveva parlato e cacciò un urlo da donnola, il suo cellulare volò per aria – si sentì anche l'eco: signorino?! - e ripiombò a terra, smontandosi in vari pezzi.
- Ma ma ma... ma tu che...?! - chiese voltandosi verso di lei.
- Rimettiti... quel... - provò lei, col viso che andava a fuoco.
- Oh... oh, s-sì! Certo! -
Kaito riprese l'asciugamano e se lo legò di nuovo alla bell'e meglio, tra l'altro con scarso successo, vista la fretta. Ah, meno male che era buio e che entrambi non potevano vedere con chiarezza le reciproche espressioni.
- V... vuoi che accenda la luce, Aoko? -
- Direi di no. - rispose lei al limite dell'imbarazzo, con un filo di voce.
Aoko alzò gli occhi su di lui, deglutendo. Si rese conto che il suo corpo brillava lievemente alla luce lunare, poiché forse non si era asciugato. E in realtà una volta gliel'aveva pure detto, che lui aveva quell'abitudine. Arrossì ancora di più, cercando di fissarlo con meno desiderio possibile, visto che lei era venuta lì con intenzioni serie.
- Posso... sapere che ci fai qui? -
Con estremo sollievo e senso di vittoria, Aoko constatò che pure Kaito doveva essere parecchio nervoso e imbarazzato. Beh, non essere l'unica in quella stanza a sentirsi così era un bel passo avanti.
- Kaito, io... non so che cosa ci faccio qui -
- Non lo sai? -
- Sono qui e basta, che cosa devo spiegare? -
- Okay. Lo capisco. -
- Lo capisci? -
Kaito iniziò ad avvicinarsi a lei, molto lentamente e sull'attenti. Non voleva correre il rischio di sembrare invasivo o di non rispettare le sue scelte.
- Con o senza motivo, speravo lo facessi presto. E' da giorni che lo spero. – sussurrò lui. Sentì una fitta al cuore quando lei gli alzò una mano contro, titubante, con un chiaro cenno che lo fermasse.
- Non avvicinarti, Kaito -
- Adesso mi rivesto, scusa -
- E come ti vestirai? Coi tuoi vestiti, o con quelli di Kaito Kid? - chiese lei, volutamente pungente. Ogni volta che ripensava a quella doppia identità le bruciavano gli occhi per la rabbia, la delusione. Per quella che, da semplice menzogna per lui, era un tradimento per lei. Prese un lieve respiro gonfiando il petto, cercando di reprimere qualsiasi impulsività: non era abituata, ma stavolta era opportuno farlo.
Kaito abbassò lo sguardo mestamente, scuotendo lievemente la testa e sospirando.
- Volevo solo dire che ti ho chiamato molte volte ma non hai mai risposto, e quindi... speravo in questa tua mossa -
Lei annuì e abbassò lo sguardo a sua volta, ripensando a quanto lo aveva effettivamente ignorato. E a quanto fosse stata male ogni volta che aveva rifiutato una sua chiamata, per via della testardaggine assurda di cui era dotata. A quanto tutt'ora si sentisse a pezzi, risentendo la sua voce e vedendo la sua faccia dopo un periodo che le era parso un'eternità, e scegliendo tuttavia di tenerlo ancora a distanza.
- Forse non lo vuoi sentire da me, ma mi sei mancata. Non hai idea di quanto. -
Gli occhi di Aoko si annacquarono ancora come due piccole pozze limpide dopo una brutta tempesta. Lo fecero all'istante, senza darle nemmeno il tempo di incassare quelle parole. Le scappò un sospiro greve, forse due, maledizione a lei.
Kaito iniziò ad avvicinarsi di nuovo, ignorando i segnali che prontamente Aoko, vittima del suo stesso orgoglio e di un ferito risentimento, ancora gli intimava per allontanarlo da lei. Ma d'altra parte c'era entrata lei in casa di Kaito, violando l'ingresso, quindi ora che poteva aspettarsi? Che lui obbedisse ciecamente? Aveva iniziato lei, legittimando lui.
Il ragazzo ladro era ormai vicino, di fronte a lei, quando qualcosa raschiò il vetro della finestra. Entrambi si voltarono, vedendo un piccolo gatto nero che con la zampetta picchiettava sul vetro, miagolando. Kaito sorrise e si sporse per aprire la finestra, lasciandolo entrare a scorrazzare per la stanza. Anche Aoko sorrise, inevitabilmente, poiché di fronte ad un animale era dura non farlo.
- E' il tuo nuovo amico? -
- Sì, mi fa un sacco di compagnia. Ma lo fa solo perché gli do da mangiare i miei avanzi, sennò credo passerebbe oltre -
- Magari invece si è affezionato, chi può dirlo? -
- Mi auguro di no. Perché a quanto pare non sono molto buono, con chi mi si affeziona... -
Kaito riportò lentamente lo sguardo su di lei, più serio che mai. I suoi occhi blu sfavillavano alla luce della luna, i cui raggi ora entravano meglio dalla finestra aperta, togliendo all'istante il fiato alla ragazza. Sembravano due zaffiri. Lei prese a fissarlo come incantata, non riusciva a staccargli gli occhi di dosso. Non riusciva a pensare a qualcosa che non fosse quel suo corpo ancora pieno di gocce d'acqua.
- Ti ho fatto del male. Sono stato superficiale, bugiardo... non ho pensato alle conseguenze. -
- Sì, lo hai fatto... -
Quando Aoko udì il suo stesso tono di voce uscitole di bocca, ebbe la tentazione di darsi una sberla. Cos'era quella roba romantica e sussurrata così udibile e, soprattutto, incontrollata? Sberla, sberla!
Kaito fece un altro piccolo passo per arrivare quasi ad aderire col corpo di lei. Alzò una mano verso il viso di Aoko, sfiorandole i capelli.
- Mi sono preso gioco di te... e di tutto ciò in cui credevi riguardo a me. Fossi in te, mi comporterei alla stessa tua maniera. -
Abbassò di poco la testa per poterle sussurrare all'orecchio, sfiorandole la guancia con la propria, continuando intanto ad accarezzarle una ciocca di capelli. Aoko, dal canto suo, stava trattenendo il respiro e deglutendo a tutto spiano, cercando di controllarsi. Sentiva il profumo di lui arrivarle come un tornado fin dentro le narici, sentiva le punte dei suoi capelli sfiorarle il naso e lasciarle qualche goccia d'acqua sopra.
- Non ti si può biasimare in alcun modo, Aoko. Non hai sbagliato niente, e prima o poi anche il gatto se ne accorgerà e potrete stringere amicizia... -
Aoko si lasciò sfuggire suo malgrado un risolino, pensando a quell'ipotetica scena in stile fumetto. Anche lui aveva ridacchiato con dolcezza in risposta, e nel frattempo aveva calato la testa ancora di più, arrivando a baciarle il collo con delicatezza. Lei aveva mosso d'istinto le mani in avanti per toccargli il ventre, e percepì subito sotto le dita gli addominali di lui, la pelle umida e fresca. Aoko socchiuse la bocca sospirando, chiudendo gli occhi e alzando la testa, mentre lui non smetteva.
La mano di lui, quella che accarezzava i capelli, scese piano verso il basso. Percorse tutto il fianco del suo corpo con estenuante lentezza, fermandosi all'altezza della coscia. Intanto i baci di Kaito abbandonarono il suo collo e si spostarono sulla guancia, sempre più vicini alla bocca. Lei spostò le mani sulle sue braccia muscolose, tastando appena e iniziando una timida avanzata verso le spalle.
Poi Aoko spalancò gli occhi, con un malsano mix di desiderio e di voglia omicida. Perché sapeva che quel comportamento di Kaito era un tentativo di cambiare discorso e di dirottare la sua attenzione altrove, e la cosa peggiore è che ci stava riuscendo, dal momento che stava letteralmente morendo dalla voglia di scaraventarsi addosso a lui e di sentirsi quella sua maledetta mano sulla pelle per tutta la notte. Che razza di bastardo.
- Aoko... - sussurrò lui con voce trascinata, interrompendosi per un attimo ma continuando, con la mano, a massaggiarle quel lato di corpo. - Lo sapevi che quello di domani sera sarà il mio ultimo furto? Lo sapevi che smetterò per sempre, che tu mi hai convinto a farlo? -
Oh, ecco, che fortuna sfacciata. Si era presentato per Aoko il momento perfetto per disfarsi della sua vicinanza, per presentargli una resa dei conti e per fare ciò che effettivamente si era proposta di fare dall'inizio, andando lì. Se n'era quasi dimenticata.
- Sì, Kaito, lo so. - sussurrò lei allo stesso modo sensuale di lui, anche se un po' troppo ironica, e lui lo captò. Infatti Aoko si infilò una mano sotto la giacca, estraendo qualcosa. E Kaito rimase a bocca aperta quando vide cos'era.
- Cercavi forse questa...? - gli chiese gentilmente Aoko, staccandosi da lui con piena padronanza di sé e raddrizzandosi. Stop ai giochi.
Lui fissò la chiave Biancazzurra nella mano della ragazza, senza riuscire a proferire parola.
- Aoko... perché ce l'hai tu? E come l'hai trovata? - chiese lui, del tutto spiazzato e teso.
- Ti serve per il tuo ultimo furto di domani, vero? E' indispensabile per l'apertura del Coral Reef. -
La Chiave scintillava alla luce lunare, un ammasso di piccole pietre argentee e azzurre che assemblavano la forma di una chiave un po' più grossa di quelle comuni, disposte in modo così accurato da poter far scattare il complesso meccanismo della serratura del Coral Reef. Aoko non sorrideva, teneva salda la Chiave in mano e, da dietro essa, fissava Kaito con espressione seria e inflessibile.
- Come l'ho trovata? Beh, grazie al tuo biglietto. Grazie all'avviso che hai mandato alla polizia, annunciando il tuo ultimo furto -
- Ma il biglietto era impossibile da decifrare, era una poesia inerente a... -
Kaito si bloccò, con le parole che gli morivano in gola. Capì tutto in un colpo solo, come attraversato da una scarica elettrica.
- Dove l'amore crolla e spezza la morale, l'oggetto è ormai occultato per il suo atto finale. Anche se è l'apertura il suo potere, con la sua forma e il suo meccanico Sapere, in quel luogo resta chiuso, lo stesso dove il tuo cuore va in disuso. - recitò Aoko, ripetendo parola per parola una strofa della poesia di Kaito.
La poesia era in effetti lontanamente traducibile, non poteva negarlo, ma in quel caso soltanto Aoko ci sarebbe mai potuta arrivare. Certo, non credeva proprio che lei si sarebbe potuta attrezzare in quel modo.
- Ho pensato al posto in cui Kaito Kid possa aver spezzato il suo amore e la sua morale, abbandonando lì il suo cuore amareggiato. E ho pensato che quel momento infausto coincidesse con il nostro incontro di qualche tempo fa, in cui ti mi dicesti tutta la verità. E in cui io mi arrabbiai a tal punto da dirti addio, demolendo il mio cuore e, a quanto pare, anche il tuo. Cioè, quello di Kid. -
- Già. E quel posto era... -
- Il capannone del distretto 6 di Beika. E' lì che hai deciso di dirmelo, all'ora del tramonto. Me lo ricordo bene. E stando al biglietto, era proprio lo stesso posto in cui si trovava l'oggetto dell'atto finale, cioè la Biancazzurra per il tuo ultimo furto. Ho provato a ritornare in quel posto dopo aver letto la poesia... e l'ho trovata, rubandotela. -
Un miagolio riecheggiò per la stanza, lungo e raggiante. Che il gattino avesse fatto i complimenti ad Aoko? Probabilmente sì, visto che lei parve riconoscersi nell'elogio con un sorrisetto accennato.
- Brava, Aoko. Mai mi sarei aspettato che fossi proprio tu a darmi del filo da torcere all'alba del mio ultimo furto... -
- E invece, come vedi, tutto può succedere. - disse lei abbassando la Chiave, ma tenendola molto stretta.
- Non me la restituirai, vero? -
- Puoi provare a prendermela con la forza. -
- Kaito Kid non sfiora le donne neanche col respiro... -
- Poco fa non mi sembrava -
- Perché ora sono Kaito e basta -
- E sei pure mezzo nudo -
- Ti dispiace davvero? Poco fa non mi sembrava – la canzonò lui facendole il verso, e sogghignando interiormente per il broncio infantile nato sul viso di Aoko.
Con un sorriso amareggiato, Kaito abbassò lo sguardo e rilassò le braccia. Per quell'ultimo tiro mancino aveva subito pensato al suo antico nemico detective, e invece una cantonata peggio di questa non avrebbe potuto prenderla. Aoko era il suo nemico. Aoko l'avrebbe ostacolato e forse fatto arrestare. Aoko si impadroniva dei suoi oggetti preziosi rubati e di speranze accumulate nel tempo, Aoko cambiava registro e ruoli senza scomporsi, con gesti talmente insospettabili da farlo sentire un completo idiota.
Ma Kaito era pronto a subire, ad arrendersi, a farsi derubare da lei, a farsi invertire, perché quello era un autentico Ultimo Furto che forse non avrebbe portato a termine. Troppo difficile da architettare, in cui le pedine erano diverse dal solito e potevano quindi mettere in discussione ogni cosa, dalla sua integrità di ladro alla veridicità del suo unico amore.
Un altro miagolio convinto saettò attraverso l'aria, come un segnale decisivo: presentava la prossima mossa.
- Consegnala a tuo padre. - disse Kaito a voce bassa ma ben udibile. Con la coda dell'occhio vide il gattino nerissimo stopparsi di colpo e guardarlo ad occhi ben aperti, verdi e cristallini, in attesa del seguito.
- Come dici? - gli chiese Aoko quasi senza voce, stupita, dopo almeno dieci secondi di silenzio totale.
- Se gliela consegni, non avrò alcun mezzo per completare il mio ultimo piano. -
- E basta? Ti arrendi così? -
- La mia nemica sei tu. E non ho altra scelta. Ma anche se l'avessi, sceglierei questa via -
- Sai che potrei farti arrestare? Sai che mi basterebbe dire tutto a mio padre, consegnandogli questa Chiave, per porre fine ad ogni cosa? -
- Appunto, libera di farlo. Finalmente mi vedrai dietro le sbarre, un sudicio ladro che ha tenuto tuo padre lontano da casa per tanto tempo, che gli ha impedito di interessarsi alla vita di sua figlia. Hai tutte le risorse per farlo... -
- Ma... ma sei scemo o cosa? - chiese lei, con autentica perplessità in volto.
- Cos'è, ti manca il coraggio adesso? Puoi finalmente rovinarmi la carriera, e ti fai prendere dai dubbi? -
- Non ti rovinerei solo quella, Kaito, ma anche la vita! -
- Suvvia, poche distinzioni. Agisci, Aoko, sei venuta con la chiave Biancazzurra in mano e con propositi agguerriti in testa, porta a termine tutto! Forza! -
Aoko sembrò tentennare, mentre Kaito alzava la voce incitandola a dargli contro. Il gattino era intanto salito sul letto e li fissava interessato, miagolando flebilmente di tanto in tanto. Ed era l'unico suono, poiché ormai nella stanza era calato un silenzio denso e teso.
Kaito si portò le mani sui fianchi, abbassando il volto verso la sua destra in modo da non incrociare più lo sguardo con quello di Aoko. Quest'ultima notò che la pelle di lui era ormai asciutta, ma sempre illuminata da quel chiarore blu opaco donato dalla luna. Perse un altro battito cardiaco, ma ci fece meno caso possibile.
- Allora? Che cosa aspetti? - chiese lui, piuttosto scocciato.
- Aspetto di capire dove sta la fregatura. - rispose lei con la stessa scocciatura.
- Stavolta rimarrai delusa. Se davanti a me ci fosse stato tuo padre, Jirokichi, il piccolo detective, uno squadrone di polizia, avrei potuto architettare il peggio in pochissimi secondi e riprendermi quella Chiave. - continuò lui a testa voltata, senza mai guardarla e parlando in modo deciso; solo nell'ultima frase il suo tono parve vacillare e abbassarsi. - Ma con te non ci riesco. -
Aoko trasse un lieve respiro, fissandolo in modo così intenso da non sbattere nemmeno le palpebre. Fu in quel momento che lesse per davvero il viso di Kaito, la sua espressione amareggiata e sconfitta, nonostante lui non le stesse restituendo lo sguardo. Vide i suoi occhi tristi ma anche determinati, di qualcuno che ha accettato il suo limite e che sa di non poter proseguire. Di qualcuno che, pur avendo la capacità di vincere, la trattiene a sé senza sfogarla, preferendo la silenziosa sconfitta per mano di colei che ama. In poche parole, lui stava fermo e mesto dov'era per fare un piacere a lei.
Deve aver capito ciò che ho provato, quando mi ha detto tutta la verità. Non l'aveva previsto, certo, e ha trattato la situazione con leggerezza, ma poi l'ha compreso sul serio. E il suo comportamento di adesso, beh... ne è solo la conseguenza.
Per farmi riemergere da quello stato in cui mi ha fatto piombare, è pronto a rovinarsi.
E' pronto a dare la vittoria a me, a far contenta me.
Lui ha considerazione di me.
Lui... per me...

Gli ultimi pensieri erano stati dei flash notturni in grado di rischiarare la mente. Li aveva formulati in modo spontaneo, concatenati tra loro secondo il ritmo del battito del cuore. Non poteva sbagliarsi.
Aoko si avvicinò lentamente a Kaito, con passi così delicati da non sentirsi nemmeno. Kaito, che pareva infatti non essersene quasi accorto, sollevò di poco lo sguardo solo quando si vide porgere qualcosa sotto gli occhi.
La chiave Biancazzurra, che Aoko gli stava consegnando.
Lui trasse un forte respiro, sbarrando gli occhi senza parole. Alzò di scatto il volto per fissarla, indeciso se afferrare l'oggetto oppure no, ma lei rispose anche a quel quesito silenzioso.
- Prendila e vai. Compi il tuo ultimo furto. Kaito Kid ne ha combinate parecchie, ma deve pur avere il diritto di salutare i suoi fan per l'ultima volta – mormorò Aoko con un sorriso, tenendo la Chiave in sospeso tra la propria mano e quella del ragazzo. Quel gesto voleva dire tanto, tantissimo, e Kaito lo sapeva: non si trattava di una semplice consegna di un oggetto, ma di una grande dimostrazione di fiducia.
- Ma vedi di portarlo a termine, senza farti arrestare. Deve essere fatto bene! -
- Aoko, è l'ultimo davvero. Te lo prometto. E sarà perfetto -
- Me lo auguro. Lo seguirò tutto, al primo sgarro ti prenderai una botta in testa... -
Kaito alzò la mano titubante, lasciandosi posare sul palmo la Chiave da parte di Aoko. Poi si inarcò in avanti e la baciò, senza alcun preavviso.
Forse lo scatto fu un po' troppo impetuoso, perché una caviglia di Aoko cedette per il peso e lei crollò all'indietro, sul letto, facendo scappare velocemente il gattino nero che sennò sarebbe rimasto spalmato sotto. Ovviamente lei si era aggrappata al braccio di Kaito e perciò pure lui si era lasciato trascinare dalla caduta, finendo disteso sulla ragazza.
Mentre i due si guardavano ad occhi sbarrati e col fiato sospeso, i visi a pochi centimetri di distanza ed entrambi col cuore a mille, sentirono il gattino allontanarsi dalla stanza con miagolii indispettiti.
Aoko si trovò a scongiurare il cielo che Kaito avesse ancora quell'inutile micro-asciugamano addosso legato in vita, e che non fosse nuovamente scivolato giù. Però, subito dopo, pensò che avrebbe anche potuto scoprirlo.
Tuttavia si riscosse nuovamente e bruscamente, cercando di levarselo di dosso, e lui decise di assecondarla.
- Scusami, Kaito, ma... io vorrei essere sicura di avere a che fare con... -
- Con Kaito, e basta. Senza l'ombra di Kaito Kid che ancora incombe, vero? -
Lei lo guardò sorridente, annuendo appena. Illuminati dalla luce lunare, i due si scambiarono uno sguardo ravvicinato colmo di intesa.
- Da domani sera, il problema smetterà di esistere. Te l'ho promesso... -
- Mi fido... - sussurrò lei in risposta, mentre finalmente pronunciava le parole che desiderava dirgli da tempo.
“Mi fido”. Voleva tanto potersi fidare di Kaito, ma dopo quelle bugie non era più riuscita a provare quel sentimento rassicurante nei suoi confronti, rimanendone afflitta. Temeva non ne sarebbe stata più in grado. Invece ora ce l'aveva appena fatta, Kaito gliene aveva dato il motivo, glielo leggeva negli occhi e lo sentiva nella sua energia.
Non aveva ancora intenzione di dirgli che non era necessario smettere di essere Kaito Kid, purché lui dicesse sempre la verità da lì in avanti. Purché diminuisse la frequenza dei colpi, permettendo all'ispettore Nakamori di tornare a casa più spesso. Purché la tenesse informata sulle sue mosse e i suoi intenti, senza cacciarsi in casini seri senza che lei lo sapesse.
Ma tutto questo glielo avrebbe suggerito il giorno seguente, quando avesse ricevuto piena conferma delle promesse mantenute da Kaito.
Un miagolio fugace, un'ombra nera e pelosa che schizza fuori dalla finestra, solcata dalla luce della luna piena. Ora che la situazione era cambiata, ora che il fantasma si sarebbe eclissato per un po', chissà se il gatto sarebbe tornato ancora.









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Dunque, minuscola spiegazione: come menzionato all'inizio, questa shot è il seguito della numero 11, cioè l'unica tra tutte (almeno per ora) che vada a completare una shot indietro, e il motivo c'è! Alcuni utenti, sia in recensione che privatamente, mi chiesero di non lasciare così in sospeso la vicenda di Kaito e Aoko, i quali avevano chiuso la shot in malo modo e senza tanta possibilità di una buona via d'uscita. Erano stati molto vittime della mia passeggera cattiveria. E ammetto che pure io avevo quel piccolo tassello in sospeso che infastidiva, e non va bene ù___ù Ebbene, questa shot è dunque arrivata per smentire la loro disfattaaaa! ;D Come vedete ho voluto dar loro un buon risvolto finale, se lo meritano porelli... Certo, hanno la testa che hanno (soprattutto Aoko!) ma in qualche modo il compromesso è arrivato, e anche più roseo di quello che Kaito avrebbe potuto aspettarsi, viste le reali (e ancora nascoste) intenzioni di Aoko sul futuro di Kaito Kid ^__^
E dopo aver dato loro una riassestata positiva, aspetto di sapere che ne pensate o se vi aspettavate qualcosa di diverso! Come al solito qualche dubbio ce l'ho, specialmente sul comportamento piuttosto passivo e da "incasso" che adotta Kaito... ma penso che con Aoko di fronte, seppur in quei spiacevoli panni, farebbe così. Credo ò__ò
Grazie a tutti ragasssss, alla prossima!!! ^.^ 

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Capitolo 27
*** Compressa bianca e rossa - CoAPTX ***


27. Conan e APTX4869 ~

Genere: Introspettivo

***







Compressa bianca e rossa


Mi piacerebbe che tu la finissi con questo giochino. Che tu comprendessi il male che veramente hai causato, con la tua sola esistenza.
Che tu capissi che pur essendo qualcosa di inanimato, passivo e minuscolo, sei praticamente un'arma insondabile e micidiale capace di sparire senza lasciare tracce, se non appunto una pozzanghera stagnante di rancore e impotenza uniti ad una serie di miserevoli prospettive.
Mi piacerebbe che noi due arrivassimo finalmente ad una resa dei conti, farmaco meschino e codardo.
Mi piacerebbe che tu. Non fossi. Mai. Esistito.

Mio caro APTX4869. E' così che io ti vedo, che noi tue vittime ti vediamo, e come tutti gli altri ti vedrebbero se sapessero qualcosa di più su di te. Che per fortuna non sanno.
Proviamo a fare un esperimento, visto che di esperimenti credo tu te ne intenda, diabolico bastardo: capisco che sei solo un piccolo agglomerato di sintesi chimiche, addirittura decorato in due colori, e che quindi puoi capirmi fino ad un certo punto, povero idiota, ma ti invito a immaginare una velocissima inversione di ruoli.
Tu sei me, ed io sono te. Solo per due minuti, okay? Allora: tu sei un liceale tutto sommato spensierato, proprio perché stai ancora vivendo l'adolescenza, magari non sei troppo allegro e vivace come altri tuoi coetanei, ma comunque beato e abituato ad avere il meglio dalla vita. Il motivo per cui non ti senti come gli altri è perché hai qualcosa di speciale, in realtà: un'intelligenza e una capacità deduttiva che ti consentono di esplorare anche altri ambiti, oltre alla tua pallosa vita liceale; esplorare i tuoi talenti, metterli in pratica e guadagnarti altresì il rispetto di alte cariche dell'autorità del tuo Paese. Non è meraviglioso? Ah, ho dimenticato di aggiungere che, in tutto questo, c'è pure una stupenda ragazza per cui hai una cotta indecente da diversi anni e che, udite udite, ti ricambia appieno! E che, secondo rullo di tamburi, sei riuscito a portare fuori per un appuntamento! Eh già, APTX, immaginati questo scenario: ci sarà stata un'altra pillolina che ti piaceva, no? Qualcuna che aveva caratteristiche simile alle tue, che se venivate assunte assieme stroncavate amabilmente le funzioni di qualche organismo? Sono certo sia capitato. E insomma, riesci a portartela fuori e vi divertite pure un sacco. Riesci a capire più o meno la bellezza di questo fatto, sì?
Però poi, in mezzo a questo tuo idillio, arrivo io. Così, come un fulmine a ciel sereno, come un semaforo rosso mentre sfrecci per le strade: arrivo io. Tu non hai potuto prevedermi, e ti distruggo tutto. Blocco i tuoi obiettivi, le tue prospettive future e le tue relazioni personali, blocco le tue attività abitudinarie e la spensieratezza delle tue giornate, li metto tutti drasticamente in stand-by per un periodo che, onestamente, devo ancora decidere. Poi magari ci penserò, ma non ora, perché ora me lo devo godere. Sono una dannata pillola crudele e arrivo così, senza preavviso, in un momento dove credevi stesse andando tutto bene, dove ti stavi rilassando dando libero arbitrio alla tua spontaneità, al tuo sentimento verso quella ragazza, in quel favoloso parco divertimenti in cui forse, ancora oggi, albergano i tuoi rimorsi.

Non è un po' troppo facile – se non poco dignitoso – dare la colpa esclusivamente a me? E' vero, io sono piuttosto infingardo e ci vado giù pesante, ma non agisco mai da solo. Come hai detto tu, sono inanimato e passivo, devo essere maneggiato dall'esterno. E se sono stato maneggiato da qualcuno verso la tua direzione, beh... non è che anche tu stesso sei complice della tua stessa disfatta? Cos'hai fatto per meritarti la mia presenza nel tuo corpo?
A proposito, perdona la sfrontatezza, ma ti suggerisco di ritenerti fortunato ad essere ancora vivo. Di solito non andava a finire così bene.


Ahahah! Divertente. Adesso magari è colpa mia? Ehi, aspetta aspetta... questa è mica una minaccia? Troppo lieto e troppo onorato di non essermi sciolto sotto il tuo devastante effetto, ma di essermi solo rimpicciolito, in una trasformazione che mi ha condannato a questo tipo di esistenza fatto di menzogne, sotterfugi e frustrazione.

Nessuno ti obbliga ad usare la menzogna come unica protezione.

E nessuno obbliga te a darmi lezioni di vita, stupido ammasso di tossicità che... che non sei altro.

Oh, ma che cattivo. Ora vai a dirlo alla mamma?

Fai poco lo spiritoso, la mia pazienza ha un limite che praticamente è invisibile. Anzi, su questo fronte devo proprio ringraziarti: visto che è da almeno un anno e mezzo che alberghi qui dentro di me, ho dovuto imparare ad incrementare la mia pazienza e il mio autocontrollo per sopportarti, due qualità che prima mi si dissipavano piuttosto in fretta.
Quindi grazie. Grazie per farmi capire ogni giorno che, nonostante io non ti regga proprio più, devo comunque convivere con te. Grazie per ricordarmi, durante ogni mia bugia, il modo in cui mi sono ridotto, in cui mi hai ridotto.
Grazie per ricordarmi quanto io sia stato stupido, quel giorno, a ficcare il naso in una faccenda troppo grande e che ha provocato il nostro terribile incontro.
Se tu però non fossi mai esistito, tutto questo non sarebbe comunque mai accaduto. La tua presenza, il tuo essere stato creato, è una maledizione di per sé. E' un male intrinseco che nessuno potrà mai scongiurare. Maledico il giorno in cui sei stato creato.

Maledici anche chi mi ha creato, magari? Povera Ai Haibara.

Non ho pensato a questo, non ti azzardare.

Sono dentro di te, posso vedere qualcos'altro oltre a quello che pensi consciamente. E' una catena, detective: io esisto perché lei esiste. Quindi pensaci bene. Se non fosse mai esistita lei, che ha permesso la mia creazione, saresti comunque qui a crogiolarti e a demonizzarmi? Non credo proprio.

Ti ho detto di smetterla, non potrei mai pensare a qualcosa di simile! La colpa è tua, non di Haibara! E adesso piantala, il tuo è un trucco psicologico da quattro soldi e non ci casco. Molecole tossiche mescolate l'una all'altra, ecco che diavolo sei. E come tale non avrai il privilegio del mio ascolto ancora per molto.
Ogni tanto immagino cosa sarebbe accaduto se tu mi avessi intaccato anche il cervello. Se anche le mie funzioni mentali fossero regredite esattamente come gli altri organi, portandomi al 100% allo stadio infantile...

Mah, non sarebbe cambiato poi molto. Dal tuo modo egoistico e primitivo di ragionare, per me rimani comunque un bamboccio.

Non ti sopporto più.

La cosa è reciproca.

E allora che ne dici di sparire da qui, eh? Perché non ti espelli da solo? Trova pure il modo più doloroso per andartene dal mio corpo, sfiniscimi fino all'ultimo sforzo, ma fallo! Perché non molli il tuo corpo ospite, perché non prendi nuovamente la tua strada alla ricerca di altre vittime da spolpare? Maledetto sadico! Vattene, hai già fatto una marea di danni alla mia vita, a quella di Haibara e dei nostri cari, alcuni dei quali non sanno nemmeno cosa stiamo passando, non si sognano neanche i disagi in cui troppo spesso ci fai piombare senza preavviso! Sai quante persone arrivano spesso a sospettare della mia identità?

No.

Conosci la fatica che quindi bisogna fare per dissuaderli, per ricreare nuove situazioni da zero abbastanza creative da distoglierli da quel pensiero?

Proprio no.

No, appunto non lo sai, perché tu tanto te ne stai in panciolle dentro di me sbadigliando di tanto in tanto e tenendomi ancorato ostinatamente a questa condizione, godendoti però lo spettacolo.
Sei di troppo, APTX. Un'esistenza ingombra atta solo a rovinare quella altrui.

Quel che dici non fa una piega, non ho mica intenzione di contraddirti. Dico solo una cosa, io... e cioè che a tutto questo dovevi pensarci un po' prima, forse. Prima di interrompere un appuntamento divertente per inseguire un criminale che, guarda caso, aveva una predilizione proprio per me e per la mia sperimentazione. Prima che facesse su di te quello che ha fatto, invitandomi a fare parte attivamente di questo progetto.

Non voglio... che la colpa ricada su di me. Mi hai sentito?
Sto facendo di tutto per farti uscire da qui. Haibara sta lavorando per trovare un antidoto definitivo che possa stroncarti per sempre. Ma più proseguiamo con le ricerche... più sembra che tu sia troppo forte...

Che bello sentirti dire almeno una cosa sensata, in tutto 'sto discorso. Io sono molto, molto forte. Non vi libererete facilmente di me. Quanto durano per ora gli antidoti? 24 ore? 12? Li sento, sai, mi mettono a tacere per un po', ma poi spariscono e mi lasciano prendere ancora il sopravvento. Mi fanno il solletico, detective, mi spiace dirtelo, e ti conviene smetterla di drogarti con quelle pillole insulse. Ma perché ti lamenti così tanto? C'è gente che mi assume volontariamente per mantenersi giovane, lo sai? Se sapessero di tutte queste tue lagne ti fucilerebbero... e a ragion veduta!

A me non interessa l'eterna giovinezza, o l'immortalità. A me interessa la mia vita di prima. La stessa che tu hai rovinato.

La stessa che tu hai portato allo sfacelo, a causa del tuo scarsissimo buon senso, della tua sconsiderata curiosità e della tua ricerca costante di pericoli ingestibili. Ecco cosa è successo, io sono soltanto la conseguenza diretta e pratica dei tuoi comportamenti. Il problema è che lo sai benissimo.

Il problema è che mi hai rotto le palle. Voglio tornare come prima, Apotoxina, lo capisci? Non voglio più questo corpo, non è il mio, e tu non hai il diritto di appropriartene in questo modo... di farne quello che più ti pare e piace, di ingrandirlo o rimpicciolirlo con tempistiche casuali... di relegarmi dietro un farfallino parlante e un detective dormiente, di precludermi i meriti intellettuali che mi spetterebbero, di farmi interrompere gli appuntamenti con la ragazza che amo...

Sei veramente, ma veramente un comico. Parli per caso di quell'appuntamento al ristorante, che avrebbe potuto durare molto di più se solo tu non l'avessi interrotto a metà per inseguire la pista di un omicidio? Oh, ma fammi indovinare: tu da tutto questo sei esente ed è solo colpa mia, giusto? Perché ad un tratto ho ricominciato ad agitarmi nel tuo sangue, ti ho stroncato l'altezza e la virilità, facendoti tornare bambino. E la lunghezza dei gioielli di famiglia, non dimentichiamolo.

Basta! Lo so... lo so che non è tutta farina del tuo sacco, però...

E allora, se lo sai, smettila. Menti agli altri? Mi sta bene, ma non puoi farlo con me. Io ti sento da qua dentro, detective, sento i tuoi sbagli prima ancora che arrivino. Ho monopolizzato il tuo organismo, da oltre un anno detto io le regole e i processi, sono sempre presente e non riuscirete mai, mai a debellarmi. Non esistono antidoti, prima te lo metti in testa e prima mi accetterai: cresceremo insieme. Ti ho consentito una seconda vita, ringraziami!

Piantati una cosa in mente: neanche se domani finisse il mondo e tu fossi l'ultima cosa rimastami, ti accetterei. Mi ammazzerei, portandoti con me all'altro mondo.

Libero di farlo. Sai a me che cosa cambierebbe...

Non potresti più fare del male a nessuno.

Che sciocchezza, ne esistono tanti altri come me. Ai Haibara si è data da fare a suo tempo. Brava, brava ragazza.

Perché mi fai questo? Perché ci fai questo?

Perché non avete altra scelta. Accettami, detective. Accettami presto, e faremo comunque grandi cose. Non tentare più di sopprimermi con mezzi temporanei, ti fai solo del male, ed io risorgerò sempre.
Accettami, e nessuno soffrirà più. Così i tre piccoli detective boys che ti vogliono tanto bene, non vedranno un giorno scomparire il loro amichetto nel nulla (hai mai pensato a ciò che Ayumi proverebbe, in quel caso? Mi sa di no. E per curiosità, che scusa pensavi di inventarti con loro?) e il simpatico dottor Agasa potrà continuare a crescere la figlia che non ha mai avuto e a cui si è tanto affezionato. Insomma, la mia esistenza porterà solo a cose positive e potrai metterti l'anima in pace. Che dire di Hattori? Un grande amico che ti accetterà sempre per quello che sei, anzi, direi che si è abituato a giocherellare con un bimbo astuto e antipatico durante i vostri casi, di sicuro a lui saranno indifferenti le tue sembianze: ti darà il tempo di crescere abbastanza da poter collaborare ufficialmente insieme, tutto calcolato.
A soffrire ci sarà Ran, certo. Che disdetta, eh? Ma è meglio cavarsela con una sola vittima piuttosto che con diverse altre. Pensaci, credo sia proprio un'ottima strategia. Lei si abituerà alla tua assenza, ad un Shinichi Kudo cattivone che non ha più fatto ritorno, piagnucolerà un po' all'inizio e ti manderà al diavolo, ma poi si troverà qualcun altro con cui spartire la vita e l'amore, te lo garantisco. E tu sarai felice per lei, dovrai esserlo, e vedrai di regolarti di conseguenza.


Tu... sei la cosa più ignobile... che potesse capitarmi.

E sono anche l'unico a dirti la verità, per questo mi odi. Tuttavia io ti trovo simpatico, almeno per ora, infatti non sei ancora schiattato. Ma smettila di minacciarmi con gli antidoti e accettami il prima possibile, detective, prima che io un giorno decida di provocare strani e indesiderati effetti che né tu né la scienziata vi sareste aspettati.

***


Conan si svegliò di colpo nella sua stanza, rimanendo disteso immobile ma spalancando gli occhi con una discreta ansia post-incubo. Il rumore del russare di Kogoro, che di solito gli dava tanto sui nervi e gli disturbava il sonno, questa volta gli fece percepire sollievo.
Era la terza notte consecutiva che faceva quel sogno. Che aveva quello stretto e spiacevole dialogo con la sua coscienza, incarnata nell'APTX4869. Però finiva sempre in modo diverso e aveva sempre lui, Kudo, l'ultima parola... avrebbe osato dire che soltanto questa volta l'Apotoxina l'aveva battuto, peraltro tramite una minaccia bella e buona. Sperava solo non fosse un presagio né un presentimento, così come sperava che, molto presto, quell'odioso farmaco avrebbe smesso di usare le sue notti per farlo sentire un idiota. E un bugiardo.





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CIAO POPOLOOOOOO! Eccomi riemersa dalle polveri del tempo e dalle ragnatele da scantinato!
Allora, ho cambiato idea 500 volte, questa shot era inizialmente nata per essere inserita nella raccolta, poi però l'ho pubblicata singola perché sì, poi però così non mi piaceva, poi però mi son data una testata col muro e ho deciso di rimetterla in raccolta. Visto che le entità parlanti sono effettivamente due. Evviva ù__ù
Maltrattare Kudo mi è sempre piaciuto e lo sapete, perciò costringerlo ad ammettere a se stesso i suoi sbagli e i suoi atteggiamenti discutibili tramite una conversazione interiore con l'APTX4869 (che altri non è che la sua coscienza, in una forma visualizzabile) mi è piaciuto parecchio. Per quanto io sia generalmente dalla parte di Kudo e condivida generalmente i suoi modi impulsivi di fare (ahio, pochi pomodori lanciati addosso grazie, che poi macchiano! AUCH, le patate fanno un po' più male!) è anche vero che un po' di self-scanning non gli fa male. Come vi è sembrato il carattere e la volontà di cui è dotato l'APTX? Avevo bisogno di un secondo personaggio per avviare la shot, ovviamente, e spero di averlo personificato abbastanza. A me sta simpatico LOL, un po' bastardo ma d'altra parte lo è.
Mi interessa anche sapere se avreste messo in ballo qualcosa d'altro, nella loro conversazione: non ho voluto allungarla troppo, però per tutto il tempo ho avuto la sensazione che mancasse qualche argomento, essendo che quello che parla è comunque il veleno creato da Ai. Mi direte in caso, un abbraccione! ^.^ *torna nella polvere*

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Capitolo 28
*** Di punto in bianco - VermBourb ***


28. Vermouth e Bourbon ~

***







Di punto in bianco


Ormai Amuro si era ironicamente abituato a quella situazione.
Era tipo la terza volta che accadeva (o quarta?) nell'arco di due settimane e, vista la tipologia dell'atto, non era certo rassicurante come frequenza.
Il giovane uomo infatti, mentre guidava tenendo diligentemente lo sguardo sulla strada, sentiva la canna di una pistola attaccata alla tempia. La donna al suo fianco, fissandolo di sbieco e con bocca serrata, rimaneva immobile col braccio allungato nella sua direzione, senza l'intenzione di rimuovere la propria arma da quella posizione.
Come le volte precedenti, il silenzio prendeva improvvisamente padronanza dell'abitacolo e la fredda sensazione dell'acciaio sulla pelle del cranio si acutizzava molto lentamente, assieme al proseguire delle lancette dell'orologio. E, sempre come le volte precedenti, a lui spuntava un sorriso beffardo sul volto. Non sapeva perché, non c'era proprio nulla da ridere, ma in qualche modo quella situazione lo divertiva ogni volta che si generava.
Lei lo divertiva.
- Se premo il grilletto, ridi uguale? - gli chiese cortesemente Vermouth.
- E' probabile, sai? Morire col sorriso non è cosa da tutti. -
- Ci proviamo? -
- Dai. Fai tu il conto alla rovescia, ti va? -
- Five. Four. - iniziò Sharon Vineyard in tono calmo, come se stesse contando le monetine per la spesa. - Three. Two. -
Amuro sentì un rumore secco e metallico sopra l'orecchio sinistro, lievemente echeggiante, segno che lei aveva caricato la pistola.
E pensò che la pistola, però, era la prima volta che la caricava mentre gliela puntava addosso. Non era mai arrivata a quel punto. Tra l'altro quel giorno Vermouth non pareva di buonumore – non sapeva ancora cosa le fosse accaduto, ma aveva intenzione di indagare.
Sempre che lei non stesse facendo sul serio. Bourbon allargò il proprio sorriso, ma corrugò le sopracciglia mentre una goccia di sudore freddo gli solcava la fronte e il cuore martellava nel petto.
- One. - dichiarò lei. Poi premette il grilletto.
Il colpo andò a vuoto, non uscì nulla. Si sentì uno schiocco metallico che vibrò nell'aria e che inflisse una fitta invisibile, di pure spavento, nel petto di Amuro. Lui mantenne le labbra serrate trattenendo il fiato ancora per qualche secondo, mentre lei ritirava il braccio e l'arma. Poi si rilassò, lasciando andare le spalle e il fiato, schiarendosi la gola.
- Era scarica, dunque. Così non c'è divertimento, Vermouth -
- Taci, sei diventato un colabrodo nel giro di cinque secondi -
- Beh, insomma, mettiti nei miei panni... -
- Sono già tantissimi, i panni in cui mi metto, mi mancherebbero giusto i tuoi e non ne ho alcuna intenzione – disse lei con una lieve nota di esasperazione e mettendo via la pistola, scatenando una risata di lui.
- Comunque, mia cara collega... - provò lui in tono calmo, prendendo la situazione molto alla larga e circumnavigandola, - prima non intendevo scatenarti questa reazione. Ti ho fatto una semplice domanda, c'era proprio bisogno di aggredirmi così? Puntarmi addosso una pistola e... -
- Mi hai chiesto qualcosa di cui non avevo voglia di parlare. E me l'hai chiesto un po' troppe volte, finché hai iniziato a scocciarmi. -
Il suo tono non ammetteva repliche, in teoria, ma Amuro si spazientì un poco. Dopo aver individuato una piazzola d'emergenza lungo la strada, inserì la freccia per potersi accostare lì. Uscito dalla carreggiata e posizionatosi lì, spense l'auto e con sguardo serio si voltò verso di lei, la quale invece non gli ricambiò l'occhiata né tanto meno la parola.
- Se fossero solo affari tuoi, ovviamente non mi impiccerei così tanto. Ma quello che stiamo facendo oggi, insieme, riguarda anche me. I soldi che poco fa hai depositato su determinati conti, riguardano la nostra missione. E voglio sapere perché ci hai messo così tanto, Vermouth -
- Rimetti in moto questa dannata auto. Non ti è proprio bastato il trattamento di poco fa? Ho avuto i miei motivi per averci messo più del solito e ti conviene non insistere più con le tue domande idiote. Fuck, e poi ti chiedi perché la gente ti punta pistole alla testa? -
- Non “gente”. Tu lo fai. Soltanto tu. -
- Rimettiti in strada, Bourbon, o lo faccio saltare in aria questo catorcio, con te e me dentro -
- Riesci a fare o dire qualcosa, nella tua vita, che non siano solo minacce?! Non mi muovo da qui! - rispose lui determinato, alzando la voce e sporgendosi verso di lei. - Non mi muovo da qui finché non mi parl... -
- D'accordo, ti dirò tutto, ma adesso vai! - rispose lei con un'evidente ansia nella voce, rinunciando a farlo desistere. Questo colpì il suo collega in modo particolare, che sbarrò gli occhi continuando a guardarla: non era da lei esporsi così tanto emotivamente.
Amuro si risistemò sul proprio sedile, inserì la marcia e ripartì in strada. Aspettò qualche secondo prima di parlare, guardando di tanto in tanto gli specchietti retrovisori.
- Ti sei fatta beccare, Vermouth? Ci stanno inseguendo? -
- Ah, ma figurati. -
- Questa risposta lascia molto spazio all'immaginazione, sai? -
- Cosa vorresti insinuare? Non ti fidi? -
- Oh, te lo spiego io cosa insinuo. - Bourbon recuperò il suo sorrisetto saccente mentre guidava, continuando a controllare gli specchietti per scrupolo e ascoltando, con una piccola parte del cervello, la musica jazz che risuonava alla radio. - Lascio la Donna in Nero accanto al marciapiede, perché deve andare in banca a depositare soldi di provenienza e natura sconosciuta; la suddetta Donna non dovrebbe impiegarci più di cinque minuti, visto il tipo di operazione e la sua dubbia natura legale; ma la Donna dopo mezz'ora ancora non è uscita, il caldo inizia a farsi sentire e a trasformare l'auto in una capsula compressa, il sottoscritto si spazientisce un po' e si chiede che fine abbia fatto, o peggio, se la natura di queste operazioni abbia avuto la meglio sulla Donna e l'abbia fatta scoprire dalle autorità -
Vermouth chiuse gli occhi e inspirò tanta aria dal naso, cercando di non soppesare nel suo cervello il modo assolutamente odioso che Amuro stava utilizzando per emettere la parola “natura” – apposta per infastidirla, tra l'altro.
- Capisci quindi perché la cosa mi dà da pensare? Che diavolo hai combinato in mezz'ora? Se ti hanno beccata, hanno beccato anche me che sono tuo complice. Per questo sto insistendo. Non sarai mica troppo orgogliosa da non poterlo ammettere, vero? -
Lui ridacchiò, contagiando stranamente anche lei, anche se in un modo diverso e non esattamente allegro. La donna riaprì gli occhi da dietro le spesse lenti blu dei suoi occhiali da sole, mantenendo un sorriso lugubre.
- Se anche mi avessero beccato, me ne sarei tirata fuori in qualche modo. Avrei mandato tutti verso quest'auto per arrestare te e lasciare in pace me -
- Oh, ma questo già lo mettevo in conto – rispose lui quasi ridendo.
- Metti in conto che io da un giorno all'altro possa tradirti, Bourbon? -
- Perché, non è forse così? Esiste forse qualcuno, in questa Organizzazione, di cui ci possa vagamente fidare? -
- Non lo so. Sicuramente, di me no – dichiarò lei facendo spallucce.
- Appunto. E mi sta bene. Faresti bene anche tu ad aspettarti lo stesso da me, magari non sono così gentile e onesto come credi... - mormorò lui, emulando il tono più losco che gli venisse per rendere divertente la situazione.
- Mah, fai come preferisci. Ci sarei abituata. E' più o meno da quando sono venuta al mondo che la gente mi pugnala alle spalle e cerca di ingannarmi, ben poche volte ho conosciuto altro che questo. Perciò tu non sei certo una novità – disse lei con tono piuttosto piatto, abbassando il finestrino per lasciare entrare un po' d'aria. Spostò quindi lo sguardo verso l'esterno, prima di concludere il suo discorso. - Sei in gamba, senza dubbio. Ma non sei una novità. -
Amuro aggrottò lievemente le sopracciglia, piuttosto colpito da quel breve discorso. Vermouth l'aveva detto senza scomporsi né aggravando i toni, come se stesse descrivendo un semplice aneddoto noioso e che tutti bene o male possano comprendere. Ma aveva detto ben altro, qualcosa che Amuro non si era certo lasciato sfuggire.
- Beh, che dire? Credo di essere contento almeno del “sei in gamba”, non immaginavo lo pensassi di me -
- E perché mai? Ammetto che avrei preferito un cagnolino da passeggio che esegue i miei ordini, come assistente. Invece mi hanno dato te, che usi il cervello. -
- Che disdetta. -
- Puoi dirlo forte. Troppo spesso ti fai domande su di me, indaghi, mi metti i bastoni tra le ruote... un cagnolino buono e zitto, pronto a correre per me ad ogni evenienza, sarebbe stato molto più utile! -
- Ma non così divertente come me, ammettilo - rispose lui sarcastico.
Ricordava ancora il giorno in cui aveva scoperto che sarebbe stata Vermouth ad affiancarlo nelle sue nuove missioni all'interno dell'Organizzazione. Soprattutto quelle preparate per l'FBI e altra gente del genere. Roba forte, in cui loro due si erano trovati a collaborare al massimo.
Era piuttosto certo che Vermouth sapesse praticamente tutto su di lui. Ma che, per qualche ragione, lo tenesse nascosto, e per questo motivo non sapeva mai fino a che punto poteva fidarsi di lei.
Con la coda dell'occhio la vide abbassare il finestrino completamente, per poi mettere un braccio fuori. La vide inclinare il viso verso l'esterno e socchiudere la bocca, inspirando aria. Amuro voltò leggermente lo sguardo verso di lei, notando che dietro le lenti dei suoi occhiali da sole lei aveva chiuso gli occhi. I raggi del sole estivo entrarono fiammanti dentro l'abitacolo, illuminandole i capelli biondi a tal punto da risultare accecanti.
Amuro ne fu abbagliato, tanto che per qualche secondo si dimenticò di riportare lo sguardo sulla strada.
Poi la vide portarsi di colpo una mano allo stomaco, mentre una smorfia di dolore le attraversava il viso. Amuro rallentò all'istante.
- Vermouth, va tutto bene? -
- Benissimo. - disse lei con voce flebile e strozzata. Teneva gli occhi chiusi e respirava ancora l'ossigeno che arrivava da fuori con una certa frequenza.
- Non mi sembra. Se non ti senti bene posso fermarmi, so di andare veloce e forse... -
- No. Sta passando. - disse lei, senza tuttavia rispecchiare col suo stato fisico le sue parole. Strinse la mano sullo stomaco, mentre due forti colpi di tosse la coglievano dal nulla.
E in quel momento Amuro capì cosa stava succedendo, e anche cosa l'aveva fatta attardare così tanto in banca.
Rimasero in silenzio per almeno dieci minuti, durante i quali Vermouth ebbe modo di riprendersi quasi completamente, anche se non senza fatica. La donna rialzò poi il finestrino, visto che di punto in bianco il cielo si era inscurito ed aveva iniziato a piovere forte, e si tolse gli occhiali da sole rivelando i suoi occhi cristallini, contrassegnati da alcune minuscole macchie rosse. Capillari rotti.
- Ah, dannazione. Mi ci vuole proprio una sigaretta – mormorò lei allungando una mano verso la propria borsa.
- No. Ferma dove sei. - disse Amuro bloccandole il braccio. Anche se in quel momento il problema era da tutt'altra parte, il giovane percepì senza volerlo la morbidezza della sua pelle. La strinse ancora un po' di più, sia per prolungare la sensazione, sia per la preoccupazione che realmente l'aveva allarmato.
Lei, immobile, mosse solo la testa verso di lui con occhi stupiti e all'erta.
- Che diavolo stai facendo, Bourbon? -
- Fumare ti fa male sempre, ma specialmente in questo momento. Poco fa non so cosa ti abbia preso, ma lascia che il tuo corpo si riprenda da solo, non danneggiarlo ancora di più. Ti sei vista allo specchietto? -
Lei lo guardò in tralice, prima di abbandonargli lo sguardo per aprire lo specchietto dell'auto di fronte a sé. Notò gli occhi rossi, così come le occhiaie profonde che iniziavano a riemergere da sotto il trucco.
Lo richiuse con calma, poi si appoggiò allo schienale fissando la strada di fronte a sé. Scorreva inesorabile. Veloce. Come la sua situazione.
- Beh. Ma a te che te ne importa? - chiese lei, sfrontata. La sua voce ricordava il ghiaccio, il vento freddo.
- Di cosa, scusa? -
- Del mio stato di salute? Di cosa sia meglio o peggio per me? -
Lui rimase in silenzio, assorbendo quelle parole dette in modo così duro da mostrare paradossalmente tutta la loro fragilità. Sempre con la coda dell'occhio, notò la mano destra della donna tremare leggermente, prima che lei la coprisse con un colpo secco dell'altra mano.
- Vermouth, non ho idea di cosa sia meglio o peggio per te. Ma abbiamo tutti la facoltà di prendere decisioni su come muovere le cose, ascoltando tutto ciò che ci viene proposto. In questo momento io ho ascoltato, ho visto che qualcosa non va. E semplicemente ti ho sconsigliato fortemente di fumare in un momento come questo, perché non credo sarebbe la cosa giusta per te -
- Sì, ma perché? Perché non mi hai lasciato a me stessa e basta? -
- Che ti devo dire? Forse perché non faccio parte di quella realtà che tu conosci così bene, quella in cui tutti ti hanno sempre ingannato e pugnalato alle spalle. E che probabilmente ti ha portato al punto in cui sei oggi. Forse ne sono fuori. -
Vermouth sussultò appena, sentendo quelle parole. Significava che lui aveva davvero ascoltato e compreso ciò che lei si era lasciata sfuggire poco prima?
- Dicendolo in parole più chiare e meno arrovellate... – iniziò lui, prendendo un lieve respiro e umettandosi le labbra prima di continuare. - ...significa che, forse, tengo a te. Sei una collega, e un'amica. Perché non dovrei fermarti, quando vedo che ti fai del male? -
Nel momento in cui lo disse, Amuro stesso lo realizzò. Non ci aveva mai pensato prima, davvero era così?
Davvero era pronto ad ammettere a se stesso di ritenerla come tale?
Vermouth non gli rispose per un bel po', troppo impegnata a guardare il panorama periferico della città con uno sguardo assolutamente indecifrabile. Evidentemente, non aveva proprio niente da rispondere in una situazione simile.
- Non ci credo nemmeno se me lo scrivi col sangue, darling – disse lei ironica, distruggendo quella piccola bolla di realtà alternativa. Ma facendo ridacchiare lui: sapeva che per lei quell'atteggiamento, in quel momento, era solo una copertura.
- Pazienza. Spero che col tempo ci crederai. - rispose lui, senza ancora ricevere risposta. Si chiese cosa stesse pensando lei in quel momento, visto che difficilmente l'avrebbe mai rivelato.
La pioggia intanto era aumentata, incupendo sempre più il cielo. I tergicristalli dell'auto si muovevano velocemente, inversamente all'atmosfera che si era creata in quell'auto, che pareva aver fermato il tempo e i rumori.
- Quel farmaco che hai preso tanto tempo fa... non ti sta dando tregua? - azzardò Amuro, deciso ad accennare almeno all'argomento.
- Esatto. Non so per quanto tempo avrà ancora pietà di me – rispose Vermouth sbuffando e incrociando le braccia, come se non gliene importasse nulla. - Prima in banca è successo questo. Mi sono sentita male e ho dovuto aspettare mi passasse, solo che ci ho messo più del previsto... i sintomi sono sempre più forti e frequenti. -
- D'accordo. Scusa se prima ho insistito così. -
Lei non rispose, e nemmeno gli rifilò uno dei suoi sorrisetti sarcastici. Continuava a guardare fuori quel cielo che, di punto in bianco, si era trasformato. Così come di punto in bianco lui, poco prima, aveva sfiorato la sua pelle di cui aveva la sensazione ancora in mente, così vivida da essere difficile da rimuovere. O quando di punto in bianco, ancora, si era voltato a guardarla mentre i raggi del sole la investivano.
Che giornata strana, che viaggio strano. Amuro sospirò lievemente malinconico, prima di riparlare.
- Se qualcosa ti preoccupa, ecco... puoi sempre parlarne con me -
- Tutto questo tuo affetto mi inquieta, Bourbon... -
- E' normale lo faccia. Mi avresti dovuto incontrare molto prima, Vermouth, nel tuo freddo trascorso pieno di cattivoni, perché ti saresti perdutamente innamorata di me -
- Non sono neanche certa tu fossi nato, quand'ero ragazza – lo zittì lei.
Amuro scoppiò a ridere, perché in effetti si era scordato di fare quei due conti lì. Ma non intendeva fermarsi, voleva distrarla ancora un po' da quella cupa ombra che si era allungata e che rischiava di ristagnare. E anche divertirsi, ovviamente.
- Allora, rimanendo più consoni alle leggi del tempo... puoi parlarmi quando vuoi, perché sei come la mamma che non ricordo di avere mai avuto! - disse lui in tono fanciullesco, deciso a “inquietarla” scherzosamente a quel modo ancora per molto. - Va meglio così? -
- Oh, per carità. Fammi uscire da qui, anche sotto la pioggia! -
- Aspetta, invece di “mamma” forse dovrei dire “matrigna”. Matrigna cattiva va meglio? -
- Sì, decisamente. Ma mi ripugna comunque l'idea – disse lei scuotendo la testa, estraendo di nuovo la pistola di prima. Amuro sospirò, esasperato.
- Eh, no, Vermouth... ho capito che è un periodaccio, ma te la prendi proprio per tutto? -
- Ma che dici, idiota? - rispose lei ridendo sarcastica. - Le devo solo dare una ripulita, visto che poi non avrò tempo... -
Quando Vermouth riaprì il tamburo della pistola, Amuro perse almeno due battiti cardiaci. Sbarrò gli occhi, guardando l'interno dell'oggetto metallico col fiato sospeso. Era carico per una munizione.
Quell'arma che gli era stata puntata alla testa, poco prima, in realtà era carica. Tra i diversi buchi vuoti e privi di cartucce, ce n'era uno contenente una pallottola. Le possibilità di incappare proprio in quel turno al momento dello sparo sono ridotte, ma ci sono.
Uno degli altri spazi vuoti gli aveva salvato la vita.
- Vermouth, ma... quella pistola... - provò lui, senza più molta voce e la gola secca.
Lei, in tutta risposta, rialzò lo sguardo su di lui con un sorriso accennato e sprezzante, sotto due occhi grigi taglienti. L'espressione che Amuro conosceva molto bene.
- Sì, Bourbon. Roulette russa. - mormorò lei sogghignando. - Sei stato molto fortunato, poco fa. -
Appurato che lei aveva corso il rischio di fargli esplodere la testa sul posto giocando alla roulette russa, Bourbon la fissò ancora per qualche istante. Poi sorrise, inevitabilmente. Perché anche in quello stato piuttosto pietoso, quella donna non intendeva perdere il proprio smalto.
Forse anche Amuro stesso aveva qualche problema alla testa, anzi, sicuramente. Perché, nella sua mente, poté riconfermare ciò che aveva provato all'inizio di quella traversata: le situazioni che ricreava con quella donna lo divertivano troppo.






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Okay, all'improvviso sembrano diventare due idioti e ho dovuto ricorrere alla roulette russa per fermare quel putiferio XD Scherzi a parte, questi due personaggi insieme mi hanno sempre intrigato un sacco! Ditemi che non sono l'unica! Ovviamente per la scena iniziale ho preso spunto da una vicenda che davvero accade nel , cioè quando Vermouth gli punta la pistola alla testa (in auto mentre lui guida... intelligente mossa .__.) perché Amuro accenna vagamente al suo “segreto” e al fatto che ne è a conoscenza. Ma stare zitto, mai?
Invece la parte centrale si basa sull'ipotetico fatto, sondato spesso anche da altri, che il farmaco tosto probabilmente assunto da Vermouth non si comporterà “bene” per sempre, scaturendo prima o poi i suoi effetti. Diventa perciò, in questa shot, il motivo su cui fa leva il rapporto tra i due, trasformando Amuro in un apprensivo kawaii e lei in una sciagurata indecisa se uscire dalla macchina in corsa o rimanere lì tramutandosi in pietra. Yeah
E' possibile poi che qualcuno di voi abbia avuto una sensazione di dejà vu leggendo alcune parti di questa shot, perché effettivamente alcuni dialoghi li ho ripresi pari pari da un'altra mia FF pubblicata qui tanto tempo fa (incentrata prevalentemente sul passato di Vermouth e sui risvolti sbagliati che lei stessa si è creata, fino alla decisione di entrare nell'Org. Because I love her ù_ù) e precisamente dalla scena in auto tra lei e Amuro. Come battute mi sembravano molto azzeccate per il tipo di shot, e le ho rivangate volentieri ;)
Ho finito, bene! Dilungarsi è sempre bello, ma dopo un po' mi scappate XD Grazie, grazie come sempre ai magnifici recensori che ogni tanto mi ritrovo sulle shot e per il vostro interesse!!! Siete grandi e spero di sentirvi quanto più possibile! :')
Alla prossima guys!

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Capitolo 29
*** Il freddo è blu scuro - ShinRan ***


29. Shinichi e Ran ~

***









Il freddo è blu scuro



- Sei sicura che essere qui, in mezzo al mare e in mezzo al nulla, non ti infastidisca? -
- L'unica cosa che un po' mi infastidisce, forse... è tutto questo buio – confessò Ran imbarazzandosi un poco e guardandosi attorno timorosamente. - Sai che non mi è mai piaciuto troppo. -
- Irrecuperabile come sempre... - mormorò scocciato, sbuffando.
- Smettila! - disse lei indispettita, colpendolo alla spalla con un pugnetto innocente. Nel fare questo, la modesta barca sulla quale si trovavano ondeggiò sull'acqua.
- Eddai, sto scherzando... non muoverti troppo, o ci rovesciamo! - la riprese Shinichi allarmato, tenendosi aggrappato con le mani ai lati della barca. Anzi, forse meglio chiamarla canoa, o una specie di via di mezzo.
- La prossima volta faremo in modo di noleggiare un bello yacht, che ne dici? - azzardò Ran maliziosa ma ridacchiando di gusto, mentre Shinichi si imbronciava.
- Mi scusi, sua maestà, se non ho dignitosamente provveduto a procurarle il bene desiderato -
- Per questa volta Vi perdono! -
Shinichi la fissò per un istante, in silenzio, prima di scoppiare a ridere insieme a lei. Si stava creando una bella atmosfera, nonostante avesse avuto parecchi dubbi sul tipo di appuntamento progettato per quella sera: aveva approfittato del suo temporaneo ritorno nel corpo di Shinichi per chiedere a Ran di vedersi, come faceva quasi sempre. Solo che, questa volta, aveva evitato ristoranti, luna park, torri panoramiche.
E aveva invece affittato una piccola barca, tenendo Ran all'oscuro. Aveva scelto di fare quel giro di sera tardi, quando il traffico marittimo sarebbe stato al minimo. In treno avevano raggiunto Odaiba, dove c'era il mare, e al porto Shinichi aveva trovato la barca affittata online: Ran era parsa raggiante, una volta capito il suo progetto. Erano passate almeno un paio d'ore da quando avevano lasciato il porto, si trovavano in mezzo al mare e Odaiba era visibile in lontananza come una striscia dorata.
- Se ci pensi bene, questa barchetta non è uno yatch ma è comunque di ultima generazione. Ha anche il motore qua dietro, vedi? -
- Oh, wow... ammutolisco di fronte a tutto ciò -
- Se tiro la cordicella andiamo spediti! -
- Che nemmeno i motoscafi potrebbero nulla! Mangiate la nostra polvere! -
- Ti scongiuro, Ran! Mi sono impegnato, stai un pochino al gioco... -
Lei continuò a ridere spensierata, con quel suono leggero che si librava nell'aria per poi posarsi lungo la superficie del mare. A Shinichi sembrava proprio così, era una sensazione che si riproponeva ad ogni suo riso e che non l'abbandonava.
L'abbandono. L'emozione che aveva innescato nel cuore di Ran durante quegli ultimi due anni.
- Allora, che giro vogliamo fare? Siamo diretti verso un'isola deserta per un tesoro? - continuò Ran a stuzzicarlo, genuinamente divertita.
- Stolta! Il tesoro è già conquistato. Perché è esattamente questo viaggio -
- Naaah... non mi dire!! Che finale indegno! Voglio un tesoro vero! -
- Ran, ma la smetti di smontarmi tutte le idee? -
Risero ancora, senza smettere di stuzzicarsi. Poi Shinichi ebbe un'idea per poter virare l'atmosfera su un altro piano un po' più malizioso. Non era da lui, ma il tempo concesso dall'antidoto era poco quanto poche erano quel genere di occasioni speciali. Complici il buio del cielo e il rumore del mare, sarebbe riuscito a nascondere l'imbarazzo facciale e vocale. Si sperava, almeno.
- Sei proprio sicura che avrei dovuto affittare una barca più grossa? - chiese lui mentre un'onda poco più grande delle altre colpiva la barca, bagnandogli tutta la mano destra di spuma.
- Beh, magari una di quelle con la prua su cui potersi sdraiare... e con la stiva!! - si espresse Ran, alzando gli occhi verso l'alto e fissando la nitidissima volta stellare. - Anche se forse... su quel tipo di barche la luminosità è eccessiva. E questo avrebbe impedito la vista di questo cielo incredibile. - concluse lei con voce bassa e sospesa.
- Già. E soprattutto, su quelle barche c'è molto spazio... e ognuno può potenzialmente farsi gli affari suoi. Chi sta in stiva, chi sulla prua, chi al timone. Mentre su queste piccole zattere evolute, beh... lo spazio è quello che è. Molto ridotto. Costringe due persone a stare molto vicine. -
Ran deglutì, fissata dagli occhi blu e intensi di Shinichi in cui si riflettevano le luci deboli della lontana Odaiba. Sembravano brillare. Non sapeva più se guardare il cielo o i suoi occhi, tanto era il magnetismo che esercitavano entrambi.
La ragazza trasse un respiro tremulo sollevando il petto e socchiudendo la bocca, col sottofondo continuo del mare a tappare i suoi silenzi.
- Vuoi dire... che l'hai scelta apposta, questa barca...? - azzardò lei a bassa voce, prendendo coraggio. Divenne paonazza all'istante, ma il buio che tanto la inquietava paradossalmente la proteggeva.
- L'ho scelta apposta. Per starti molto vicino. – concluse lui, espirando tutta l'aria che aveva tenuto compressa in petto. Il cuore gli batteva all'impazzata, anche se non lo faceva trapelare. - Ti dispiace? -
- N... no, anzi... non... non me l'aspettavo da te... - e guardò in basso, verso le loro rispettive gambe che per ragioni di spazio si toccavano.
- Non te l'aspettavi da me? Nel senso che solitamente... sono troppo tonto per ideare cose simili? E' questo che intendi? - chiese lui guardandola ansioso.
- No... non è questo, piuttosto è... -
Piuttosto è una bella novità che tu decida di fare una cosa tanto dolce con me. Da soli, poi. Mi stupisco che tu non mi abbia di nuovo invitata al ristorante, dove c'è tanta gente e dove magari potrebbe venire fuori qualche omicidio di cui seguire la pista. Abbandonando al tavolo una cara amica che forse, quella sera, poteva diventare qualcos'altro.
Ran scosse la testa dopo questo pensiero. Il pensiero di un evento passato e doloroso e ricordato per errore, in un momento decisamente poco opportuno. Riguardò il ragazzo con un sorriso accennato.
- Piuttosto è una cosa così tenera che sembra quasi non l'abbia ideata tu. Dì la verità, un tuo buon amico ti ha dato un suggerimento? - disse rivolgendogli un sorrisetto sarcastico. Lui, dall'espressione automatica che gli uscì, parve proprio punzecchiato nell'orgoglio.
- E invece no. Sono stato proprio io a idearla, da solo e con le mie forze! Sorpresa! - rispose lui, scocciato.
- Ahah, okay, Shinichi! Farò finta di crederti! -
Quanto ero stata male quella sera? Quando ho capito che non saresti più tornato al tavolo, perché Conan venne ad avvisarmi che eri sparito ancora, costretto ad allontanarti per un caso chissà dove e senza neanche il tempo di salutarmi. Senza neanche il tempo di salutarmi! Ma cosa ti costava tornare anche solo per un minuto? La delusione di quella volta... mi sembra sia stato solo ieri, invece è già passato un anno. Un altro anno in cui ti ho sentito a malapena, di certo molto meno di quanto abbia sentito i miei singhiozzi.
-
Ran, preferisci che aziono il motore o continuiamo semplicemente a remare? - chiese Shinichi imbracciando un remo.
“Non piangere”, mi diceva lui. “Non piangere, Ran-neechan. Sono certo che tornerà, abbi solo un po' di pazienza”.
- ...Ran? E' tutto a posto? - chiese lui sporgendosi in avanti, per guardarla meglio in volto. Ran lo distolse voltando la testa, rifiutandosi di mostrarsi.
- Sì. -
Ma perché sto pensando a queste cose orribili proprio adesso? Posso starmene in pace... almeno ora? Almeno ora che ci sei?
La tua stessa ombra di tristezza, quella che ti lasci sempre alle spalle e che si spalma su di me. La sento anche ora. E la odio.

- Sì, benissimo. - disse tutto d'un fiato. La voce era poco più che monocorde.
- Non... mi pare – azzardò Shinichi abbassando la voce, continuando a scrutarla. Aveva detto qualcosa di sconveniente, tanto per cambiare? O si trattava di un cambio d'umore tipicamente femminile?
- Ti ho forse detto qualc... -
- No, niente. Non hai fatto niente. Remiamo? -
- Okay... e remo sia. - concluse Shinichi offrendo i due remi più piccoli a lei e gettandole intanto due ultime occhiate fugaci. Sospirò, cercando di non dare peso a tutto ciò che in realtà lo stava turbando. Ma Ran, non si sa bene come se non per magia occulta, riprese il suo solito atteggiamento solare da così a così. Fu questione di un attimo.
- Allora! Mi porti verso quest'isola deserta oppure intendi tenerti tutto il tesoro per te?? -
- La seconda opzione, ovviamente! - rispose lui con lo stesso tono, rasserenato dalla ripresa di lei. Così rasserenato che, dicendo questo, introdusse una mano in mare schizzandole addosso un bel getto d'acqua. Ran, non appena ricevuto il colpo, spalancò bocca e occhi guardandolo stupefatta.
- Ma... cretino!! L'acqua è gelida, sei pazzo?! - e tuttavia lei rispose al colpo, raddoppiando anzi la dose. Shinichi iniziò a ridere, schizzandole ancora e innescando inevitabilmente una battaglia all'ultimo sangue: Ran non era tipo da tirarsi indietro, su queste cose.
- Accidenti, è fredda davvero!! Eppure non siamo neanche a metà autunno! - sentenziò Shinichi, forse per farla stare buona: ci dava dentro coi colpi.
- Non mi renderai più docile, scordatelo! - rispose lei intuitiva, ridendo a più non posso mentre gli gettava addosso spuma e acqua salata. Erano molto al largo, e l'acqua era freddissima nonostante la fine recente dell'estate: fredda, profonda e nera. Tre aggettivi che si aggrapparono alla mente di Ran, indebolendola temporaneamente.
- Triplo Attacco Spuma di Tritoooone! - continuò Shinichi, dandole il colpo di grazia.
Ma con te sono al sicuro, Shinichi. Anche sopra un'acqua così scura. Non è vero?
- Ahah, tu sei scemo! -
- Beh, non mi attacchi più? Perché ti sei fermata? Mi stavo appassionando -
- Perché mi sto congelando, grazie a te! - disse lei tremante, con la maglia quasi del tutto zuppa, esattamente come quella di Shinichi. Infatti lui, facendo spallucce, si sfilò via la propria rimanendo a petto nudo.
Ran smise all'istante di tremare, troppo sorpresa da quella vista. Ancora in posizione da guscio chiuso, con le mani strette attorno ai propri avambracci per proteggersi dal freddo, restò a guardarlo in silenzio. Poi deglutì, distogliendo in fretta lo sguardo.
In teoria avrebbe dovuto togliersi la maglia anche lei, se non intendeva crepare di freddo.
Non è che l'ha fatto apposta, vero, schizzandomi l'acqua addosso? Che pervertito...
Beh, ma anche se fosse...?

Ran espirò lievemente, tenendo lo sguardo fisso sul fondo della barca, sulle loro gambe che tutt'ora si toccavano. Tremò ancora per qualche secondo, stavolta per un duplice motivo. Chiuse gli occhi per alcuni secondi e li riaprì, determinata, afferrandosi i lembi inferiori della maglia e sollevandoli verso l'alto. Una volta sfilata via, il sollievo fu immediato: la sua pelle percepì l'aria più tiepida e non più il gelo dell'acqua che impregna gli indumenti, una sensazione talmente rassicurante da superare persino l'imbarazzo dell'essere rimasta in reggiseno.
Almeno fino a che non incontrò lo sguardo di lui. Che forse non si aspettava lei agisse così. Ran si ritrovò addosso gli occhi sbarrati ma anche meravigliati di lui, che la scrutavano assetati come se non avessero visto niente di così bello da molto tempo. Questo la fece imbarazzare parecchio, ma anche compiacere. Sorrise timidamente, senza stavolta abbassare lo sguardo: avrebbe fronteggiato quegli occhi, accogliendoli come meglio le riusciva. Non erano più due bambini.
Lui scosse la testa leggermente, per riprendersi, e a quel punto le passò un piccolo asciugamano con cui tamponarsi bene. In silenzio lei lo afferrò, posandoselo sulle spalle. Non si coprì né petto né pancia, da quel lato era del tutto allo scoperto ed era proprio ciò che voleva. Dallo sguardo che inconsapevolmente assunse Shinichi, capì che lui voleva la stessa cosa.
Lui provò più volte a distogliere lo sguardo, forse per educazione, ma alla fine tornava sempre lì. Lei invece restava a guardarlo senza muoversi, mentre il rumore delle piccole onde infrante contro la barca li circondava cantando.
- Hai ancora freddo? - chiese lui in un sussurro.
- Sì, un po'. - rispose lei senza togliergli lo sguardo di dosso.
Dietro di lui le stelle più luminose e basse baluginavano insistenti, stando a guardare la scena. Il pensiero delle stelle contrastava quello del buio, il pensiero del mare in movimento abbatteva l'idea di un mare cupo e fermo. E il pensiero che lui avrebbe potuto avvicinarsi ancora di più, demoliva quello del freddo.
Shinichi parve leggerle nella mente. Forse consapevole di avere poco tempo a disposizione con lei, dell'impossibilità di ricapitare presto in un'occasione simile, decise questa volta di non farsi assalire dalle inibizioni. Non era facile per lui, ma glielo doveva dati tutti i dispiaceri precedenti: sollevò le ginocchia per farsi spazio e si spinse verso di lei, trascinandosi sul fondo della barca, arrivandole di fronte a pochi centimetri di distanza. Lei rimase immobile a guardarlo, mentre il cuore le martellava così forte da superare il rumore delle onde.
Lì erano soli in mezzo al nulla, in mezzo al mare, non c'era neanche campo per il cellulare... nessuno avrebbe mai potuto disturbarli.
Per ragioni di spazio ridotto, i movimenti possibili erano limitati. Shinichi allungò le braccia verso il basso cingendole i fianchi, posando le mani sulla sua pelle morbida come si farebbe con un vaso prezioso. Lei immediatamente sentì il calore di quel tocco, e strinse le labbra. Poi lui si protrasse in avanti appoggiando il mento sulla spalla di lei.
- Non so quando potrò essere ancora qui con te, Ran -
- Non lo so nemmeno io... -
Furono le uniche due frasi che riuscirono a dire. Ed entrambe erano iniziate con “non”.
Pensi che non lo sappia? Ogni volta che ci vediamo abbiamo un timer invisibile piazzato sulla testa.
Pensi non sappia di tutti i tuoi impegni maledetti che proprio non puoi rimandare, nonostante tu veda come sto male quando te ne vai?
Che non sappia che mi metti in secondo piano senza pensarci due volte?
Che mi lascerai di nuovo sola?

- Ma Ran. Io ti prometto, qui ed ora... che farò il possibile per tornare al più presto, e in modo stabile. Senza più scappare. - mormorò lui, sempre con la testa appoggiata sulla sua spalla. La sua voce era diretta al mare, e tra le onde si perdeva.
Non ti credo.
Vorrei farlo, ma non riesco.

- Shinichi, non farmi promesse che forse non potr... -
- Ti dico che farò così. Una promessa è una promessa. -
Me ne hai già fatte parecchie, di promesse. Vuoi capire o no che non è bello rincarare la dose? Non puoi, non puoi...

...non vuoi.
Ran sospirò, sospirò fuori la frustrazione data dal pensare a tutte queste cose senza però riuscire a dirgliele.
Ogni volta fai la stessa cosa. Mi fai del male, in questo modo! Cosa ti impedisce di capirlo?
- Ma non voglio più restare a parlare di queste cose tristi, mentre sono con te su questa barca senza sapere quando potrà mai ricapitarci. -
E secondo me non è un caso che tu ci abbia ficcato in mezzo la parola “mai”.
Solo che non te ne rendi conto.

Ma comunque i pensieri di Ran vennero interrotti dal gesto che Shinichi fece subito dopo, coerentemente al suo discorso sul non parlare più mentre si è in barca da soli.
Ran sentì le proprie labbra agganciate a quelle di lui, che aveva sollevato la testa dalla sua spalla per posizionarla di fronte al suo viso. Senza indugio si era fatto avanti, fiondandosi sulla sua bocca e chiudendo gli occhi. Lei rimase stordita, stupefatta, ma non diede modo al suo stupore di prendere il sopravvento: chiuse gli occhi anche lei, spegnendo la mente e muovendo le labbra a pari passo. Il cuore le viaggiava, ovviamente, a una tal velocità da sentirsi svenire, e non aprì gli occhi per paura di vedere tutto vorticare, il sangue bollente arrivato alla testa. Stava succedendo. Stava baciando Shinichi. Non ci poteva credere.
Non ti credo.
Vorrei farlo, ma non riesco.

Strinse gli occhi, respingendo il malessere che l'aveva colta poco prima. La fonte dell'odio-amore che stava provando in quel momento era Shinichi stesso, che adesso però la stava baciando e accompagnando in un limbo tutto loro. Le mani di lui erano ancora posizionate sui suoi fianchi scoperti e all'improvviso le sentì muoversi, su e giù, esplorando anche la pancia. Piano, controllate, leggere, affondavano nella sua pelle centimetro dopo centimetro, a ritmo col movimento delle loro labbra. Lei inspirò aria dal naso, captando appieno quella sensazione tattile e sollevando le braccia, per portagliele al collo. Agganciati così continuarono ancora per diverso tempo, e le sembrava che il rumore del mare aumentasse e vorticasse con l'avanzare di quel contatto. La sua testa era in tilt, sovraccarico.
Ad un tratto Shinichi fece scorrere le mani verso l'alto, partendo dai fianchi. Giunto all'altezza del petto la afferrò con delicatezza e le fece una leggera pressione per indurla a stendersi. Lei lo capì e accettò. Mentre lui si stendeva sopra di lei, la barca ondeggiò molto più delle volte precedenti ma rimase stabile sulla superficie marina. Ran sentì nell'immediato il calore trasmesso dal corpo di lui, ora aderito al suo, un contatto di pelle che la immobilizzò in quel tiepido sollievo. Riaprì gli occhi vedendo prima il suo viso vicino e poi le stelle luminose là in alto. Lui poi abbassò la testa per baciarle il collo, gesto che la indusse a richiudere gli occhi sospirando con crescente affanno, man mano che lui aumentava il ritmo e la forza dei baci. Era la prima volta che le accadeva una cosa simile, ma se l'era sempre immaginata così. Giunta ad un certo punto, in quel leggero piacere che lui le provocava senza fermarsi, lei decise di riaprire gli occhi per guardare il cielo. Sorrise spontanea, più volte, ammirando quella volta stellare così bella e luminosa da non permettere alla solitudine di insinuarsi mai e poi mai.
Le stelle che guardavo tutte le volte che non c'eri. Stelle che non mi hanno mai fatto sentire sola. Guarda quante ce ne sono.
Il suo sorriso si spense, ma sperò che fosse solo un momento passeggero. Era finalmente con lui, e stavano iniziando ad avvicinarsi di più anche fisicamente, per la prima volta!
E magari anche ultima?
No, no, non esisteva questa cosa. Doveva farsi forza e sorridere ancora, era arrivato davvero quel momento e non poteva sprecarlo così, chissà quando sarebbe ricapitato ancora!
Già. Questa domanda, alla fine, c'è sempre.
Quella volta al ristorante, dove te n'eri andato?

Per fortuna, per fortuna Shinichi arrivò fino alla sua pancia iniziando a mordicchiarla e a tastarla, provocandole un piacere più intenso del precedente e del tutto inaspettato. Riuscì in questo modo a richiudere gli occhi e a lasciarsi andare, sospirando ancora e percependo ogni minimo movimento che lui compiva su quella zona. Con una mano le percorreva anche la gamba sinistra, dal ginocchio fino alla coscia.
Ho sempre voluto questo momento.
Avanti e indietro, iniziò anche con l'altra gamba. I movimenti erano sempre più incisivi, approfonditi, la sua bocca non abbandonava la sua pelle.
- Sh... Shinichi, tu... tu pensavi di...? -
- Ti farò capire a cosa pensavo... se hai ancora un po' di pazienza... -
“Ran-neechan, non piangere. Sono certo che tornerà, cerca di avere ancora un po' di pazienza.”
Ce l'hai la pazienza, sì o no? Non ti si chiede tanto! Solo un po' di pazienza!

Ran strinse le labbra, tormentata dallo scontro di emozioni che quel ragazzo le imbastiva involontariamente. Si portò le mani alla testa per stringersi i capelli, senza rispondergli. Cercò di concentrarsi sul piacere.
- Ran...? Allora? Ti va di aspettare ancora un poco...? - chiese Shinichi, ovviamente riferendosi alla situazione attuale. - Non te ne pentirai. -
Ogni volta che proprio dalla tua bocca escono quelle parole... io... io non...
E dopo di te me le dirà Conan...
E poi mio padre... e mia madre...
E la mia migliore amica...
E tutti quanti...
...e di nuovo tu, attraverso un telefono.
Se non addirittura qui, in mezzo al mare.

- No. Mi sono rotta di aspettare. -
- Eh? Cosa? -
Ran si alzò di scatto a sedere, come una furia. Qualcosa imperversava dentro di lei e andava fermata, non poteva trascinarsela appresso ancora per molto, o avrebbe rovinato tutto. Una rabbia repressa scatenata da poche e semplici parole, da un contesto generale che la stava mettendo a dura prova da tempo. Non sapeva perché proprio lì e proprio con lui presente, ma forse era una specie di resa dei conti rimasta in attesa per giungere a un confronto reale, usando la presenza fisica di lui.
Quando Ran si alzò in quel modo, però, Shinichi era ancora steso per metà sopra di lei. Perciò si ritrovò sospinto all'indietro con forza e, muovendo le braccia nell'aria, cercò di riottenere l'equilibrio venuto a mancare anche per lo stupore. Non ce la fece. La sua mano, invece di aggrapparsi al lato della barca, scivolò verso l'acqua e tutto il peso del suo corpo seguì quella direzione, cadendo oltre il bordo.
Quando Shinichi cadde in acqua, il rumore del tuffo fu forte e amplificato dal vuoto attorno a loro; la barca prese ad ondeggiare forte, tanto che Ran si aggrappò ai bordi per non cadere pure lei. Allarmata si sporse oltre il bordo della barca e guardò verso il punto in cui lui era scivolato, scorgendo la sua sagoma sotto la superficie scurissima dell'acqua. Per qualche motivo, non era ancora riemerso.
- Shinichi! Oh, santo cielo... -
Ma cosa diavolo ho combinato?!
Si portò una mano alla bocca respirando forte, spaventata, sapendo che se si fosse mossa con più leggerezza questo non sarebbe accaduto. Ma era arrabbiata, dannazione, per un attimo non ci aveva più visto...
- Shinichi?! -
A quel punto lui riemerse di colpo, prendendo un gran fiato e agitandosi in acqua. Lei sospirò di sollievo, anche se doveva sapere che Shinichi sapeva nuotare benissimo e che, di sicuro, cadere in acqua non era tra le cose che più lo spaventavano. Sempre se ne esistevano, di cose che lo spaventavano.
Mi sa di no, vero? Tu non hai paura di niente. Neanche delle mie reazioni, altrimenti non ti sentiresti libero di fare quello che ti pare e piace senza neanche sapere se a me va bene.
No, no, stop! Non adesso! Devo pensare a tirarlo fuori da lì.

- Shinichi, ce la fai? -
- S... sì, ce la fac... - balbettò lui, prima di ripiombare sotto la superficie dell'acqua. Lei rimase interdetta.
- Shinichi, mi prendi in giro?! -
Tanto per cambiare?!
- Smettila, mi stai spaventando! -
Lui riemerse di nuovo, agitando le braccia nell'acqua e digrignando i denti per lo sforzo. Che cosa stava accadendo?
- Ran... la... la mano! Dammi la mano! -
Lei allungò una mano senza fare domande, e lui gliela afferrò. Subito dopo, però, l'acqua rese scivoloso quel contatto e lui perse la presa, perciò ricominciò a tenersi a galla agitandosi in superficie ma senza muovere le braccia con coerenza.
Ran capì subito il problema: l'acqua era così fredda da intorpidire immediatamente i muscoli, e lui era a petto nudo, senza alcun tipo di copertura tra sé e quel freddo tagliente.
- Aggrappati ancora! Non puoi stare a galla da solo! - gli urlò Ran, determinata e con il braccio teso.
In questo momento, in cui sei così debole di fronte ai miei occhi...
Shinichi prese un fiato profondo prima di sprofondare ancora in acqua, per poi riemergere con lo stesso tipo di affanno e angoscia, mentre schizzi frenetici scoppiavano attorno a lui nel disperato tentativo di tenersi a galla.
...sei finalmente un po' più simile a me.
Il viso di Ran si fece perplesso, mentre esaminava questa curiosa considerazione. Il suo braccio, ancora teso, rimaneva immobile senza protrarsi verso il malcapitato.

Una sensazione che forse, adesso, ti trovi a sperimentare tramite il fisico. Io la provo emotivamente, ma in fondo non cambia la sostanza.
Potrei allungarmi verso di te, faticare e aiutarti in poco tempo. Esattamente come avresti potuto fare tu in tante occasioni, per aiutare me.
Priva di una vera e propria intenzione di ripicca, solo seguendo il flusso dei pensieri e lasciandosi trascinare dal rancore passivo che rilasciavano, Ran sentì il proprio braccio teso rammollirsi di colpo e la sua mano, afflosciata, si adagiò dentro l'acqua del mare.
Il freddo liquido e pungente le perforò la mano, ma quasi non se ne accorse, troppo assorta dal fatto che accadeva di fronte a lei. Shinichi, ancora contornato dai suoi schizzi forsennati, che non riusciva a stare a galla, sprofondava e riemergeva, ogni volta con meno fiato a disposizione.
E lei che nemmeno faceva la fatica di aiutarlo.
Questa è più o meno la sensazione che provo io, Shinichi. Quella che mi fai sentire. Simile al soffocamento, lo vedi? Tenti di riemergere in ogni modo dal tuo problema, ogni volta che puoi, ma qualcosa di più forte ti blocca i movimenti e tiene in ostaggio la tua mente.
- R... Ran! -
iniziò a boccheggiare lui, mentre una manciata d'acqua gli entrava in gola smorzando il suo urlo. Lui tossì forte e ripiombò sotto l'acqua blu scuro.
Cerchi una stabilità... cerchi di stare su... magari poi ti prende una crisi, però passerà...
Shinichi riemerse con tutti i propri sensi allarmati, muovendosi convulso e combattendo contro l'acqua fredda e implacabile. Non sentiva più le gambe, ormai, e la sensibilità alla pelle era sempre più astratta. Lame gelate lo trafiggevano in ogni parte del corpo, le gambe non lo aiutarono e lui tornò sott'acqua, come trascinato.
Tutte le volte... tutte le volte è così. Quanto te ne vai, quando ci vediamo ma mi schianti addosso la tua indifferenza. Ed io lo affronto da sola, lo sai? Non mi rimane molta scelta. Tu non te ne sei mai curato.
Da sotto la superficie, Shinichi fece uscire il braccio destro che partì alla ricerca di qualcosa, di un appiglio, in direzione della barca. Probabilmente della mano di Ran che, tuttavia, non c'era per aiutarlo. Anzi, c'era, ma anch'essa sepolta sotto acqua e sale, floscia e inanimata.
Non ho ancora capito se ti importa o meno. E stasera, come me la spieghi? Eri stanco di aspettare, volevi subito passare al sodo con me? Oh, eccola, la Ran che mi aspetta sempre e che finalmente stasera potrò trastullare... prima di scappare di nuovo, lontano!
Ran strinse il pugno sott'acqua e si morse il labbro, mentre contemplava ancora la scena di fronte a sé in una sorta di trance emotivo. Non si muoveva, non parlava, quasi non respirava: guardava e basta. Guardava la mano di Shinichi sbattere sulla superficie più volte, prima di immobilizzarsi assieme al braccio ed essere risucchiata poi sotto, senza forze.

E allora, adesso dimmelo.
Come ci si sente?

Paragonava le loro due situazioni, usando uno schema logico del tutto grottesco. La testa del ragazzo riemerse ancora, determinata, un fiato possente ne fuoriuscì prima che l'acqua nera gli vorticasse attorno allungando i suoi tentacoli gelidi verso la sua bocca, il suo naso, i suoi occhi, inondando tutto e cercando di comprimerlo al di sotto, più sotto. Lui rantolò e smise quasi di muovere le braccia in acqua, ormai totalizzate e vinte dal gelo; gli schizzi cessarono, così come la sua frenesia, e il silenzio minacciò di tornare sovrano mentre il suo corpo, appesantito ed esausto, virava verso i fondali marini. Le sue labbra erano visibilmente viola, il volto bianco e gli occhi impossibilitati ad aprirsi. Altra acqua gli entrò in bocca, lui tentò di parlare ma il fiato era spento.
Ran si riebbe in quel momento, a quella visione terrificante: improvvisamente in allarme, sveglia e vigile, si sporse notevolmente oltre il bordo e allungò una mano, riuscendo ad afferrare il braccio di Shinichi. Con forza sovrumana e dettata dallo spavento, lo trascinò verso la barca e, impiegando tutta la forza muscolare che sentiva di avere, lo sollevò sulla barca poco per volta.
- F... forza, Shinichi! Ora sei a bordo, sei salvo! -
Lui parve riprendersi, già nel momento in cui la metà superiore del corpo era sulla barca. Per la metà inferiore Ran fece fatica, dal momento che lui non poteva aiutarla spingendosi: non sentiva più niente, ci avrebbe messo un po' a recuperare la piena sensibilità.
Una volta sopra, Ran si affrettò a prendere una salvietta asciutta per avvolgerlo completamente. Sentiva il corpo di lui tremare, grondare acqua gelida, mentre tossiva forte per sputare fuori quella che aveva inghiottito. Entrambi respiravano forte, lei per lo sforzo e lui per la condizione in cui si era trovato.
E da cui non era stato salvato, non nei tempi giusti.
Santo cielo. Santo cielo, che cosa ho fatto.
Ran non poteva credere che ora lui stesse in quel modo per colpa sua. Eppure era così. Era successo qualcosa, nella sua testa e dentro di lei, che le aveva impedito di agire nel modo giusto. Qualcosa che le aveva consigliato caldamente di stare a guardare, per una volta, di essere lei quella con la padronanza delle condizioni altrui, per una volta, di vedere cosa sarebbe accaduto se anche lei avesse smesso di muovere un dito, per una volta...
Se anche lei avesse smesso di preoccuparsi per lui.
Shinichi continuava a tremare senza tregua, ma l'intensità del suo malessere stava diminuendo col passare dei secondi. La salvietta asciutta gli trasmetteva calore e lo aiutava a stabilizzarsi, così come a recuperare la propria lucidità mentale per ragionare sulla situazione attuale. Ran ancora respirava con affanno, non era riuscita a calmarsi e a farsi passare lo sforzo. Era spaventata da ciò che era accaduto, dal vedere Shinichi in quello stato e, soprattutto, dalla consapevolezza di averlo originato lei. Da se stessa.
Non sapeva a cosa mai stesse pensando Shinichi. Accartocciato nel suo asciugamano, teneva lo sguardo basso e respirava appena, impegnato in una propria ripresa. Non si girava, non la guardava, le dava le spalle. Ran avrebbe voluto avvolgerlo anche con il proprio corpo, ma non ci riuscì: poco prima gli aveva negato il suo aiuto, anche se per poco tempo, ma era stato un aiuto invocato e urgente. Come poteva adesso dimostrarsi apprensiva, senza sembrare ipocrita? Ma soprattutto, cosa le era preso?
La ragazza abbassò lo sguardo e chiuse gli occhi, rifiutandosi anche di guardare le stelle per svagarsi. Sentiva forte la presenza di Shinichi, anche se lui non alzava lo sguardo dall'acqua blu e non muoveva un solo muscolo. Senza guardarsi né parlarsi, lasciarono passare moltissimi minuti. Lo scroscio marino l'unico debole sottofondo, assieme ai loro respiri sempre più dosati e al cigolare delle assi della barca; la striscia dorata là in fondo, il porto di Odaiba, pareva in attesa di riaccoglierli.

Lui sapeva di aver appena rischiato grosso. Indipendentemente dai motivi, non aveva avuto la certezza di uscirne salvo mentre si trovava sotto la superficie, la lucidità per realizzarlo ce l'aveva avuta. Nonostante il tipo di compagnia presente con lui, a meno di un metro da lui. Ne era conscio e ne soffriva in silenzio, senza guardare la ragazza dietro di lui per paura del suo sguardo, delle sue parole e del suo prossimo atteggiamento. O dei propri, anche, perchè davvero non sapeva come avrebbe reagito una volta reincontrati gli occhi di Ran. La conosceva abbastanza bene da poter affermare che già si sentiva in colpa, fino alle viscere. Ma è anche vero che le reazioni da parte di chi ha accumulato da molto tempo possono essere le più imprevedibili.
- T... tor... - provò Shinichi dopo tutto quel tempo, con voce roca e provata. - ...torniamo a riva? -
Ran alzò lo sguardo di colpo, guardandolo esterrefatta. Non le diceva altro? Non la insultava, non gliene diceva di tutti i colori? Non si infuriava per averlo lasciato a se stesso? In quel momento in cui veniva inghiottito dalle acque, lui sapeva senza dubbio di potersi fidare di lei. Ma là sotto, forse, mentre cercava la sua mano nel blu intenso, aveva dovuto realizzare il contrario.
Che lui abbia capito tutto...? Che lui sappia come io mi senta in realtà?
Non poteva saperlo, erano tutte congetture. E aveva il presentimento che non l'avrebbe mai saputo, che non avrebbero mai più parlato di quel che era appena successo su quella barca. Mai più. Né ad altri, né a loro stessi.
Troppo oltre la logica, la coscienza. Difficile da ordinare e da ricalibrare nella mente, figurarsi esporlo di nuovo a parole. Un atto del genere sarebbe rimasto inchiodato lì, nel mare, coperto dalla spuma, dalla loro capacità di coglierne il significato più nascosto.
Dove c'è tutto questo amore, Shinichi, può esserci qualcos'altro di eguale intensità che attivi nello stesso momento. E che come l'amore viene stimolato, nutrito, stabilendo tra i due un confine di aspettative e delusioni così sottile da essere confuso senza pietà. I pensieri si trasformano, i sentimenti si intestardiscono e combatti senza sapere cosa stai combattendo, vedendo però in tutto questo un focus molto chiaro: tu.

Invece di remare, il ragazzo tirò la cordicella del motore dirigendo la barca verso la riva di Odaiba. Giunti a destinazione dopo diverso tempo, parcheggiarono la barca dove l'avevano trovata e si diressero alla stazione per un treno notturno, in silenzio. Shinichi era ancora lento nei movimenti, ma tutto sommato ripreso. Ran ne approfittava per guardarlo ogni volta che la sua attenzione era altrove, per il resto guardava a terra.
Il cielo ancora nero e colmo di stelle, il silenzio ancora fitto e inattaccato, li accompagnarono nel loro rientro.
Quando Shinichi prese le redini e iniziò a parlare di tutt'altre cose, col suo fare svogliato e un po' assente, guardando per lo più fuori dal finestrino, Ran capì di aver indovinato. Anche lei stette al gioco facendo del suo meglio. Anche lei guardando Odaiba che si allontanava.

 

 

 

********************************

Shot dearly headed a tutti coloro che non hanno pazienza :D No dunque, a parte gli scherzi. Siete liberissimi di sguainare l'accetta e di dire la vostra a riguardo, come vedete questa è una vicenda unconventional e stesso dicasi per la vostra impressione sui personaggi stessi (IC/OOC). E per chi fosse un fan ShinRan, sarei proprio curiosa di un vostro parere.
Spiego comunque un attimo che cosa accade. Di solito mi piace provare e trastullare le crack pairing, ma stavolta ho deciso di trattare una "crack situation" su un classic pairing. La coppia ShinRan, alla quale raramente mi dedico, è insitamente dolce ma anche travagliata, e fin qua penso si possa concordare. In questa shot è stata resa oggetto non più della bellezza del loro incontro sempre sperato, ma dell'aspetto più sofferto della situazione dei due, che ha manipolato il loro episodio in un risvolto un po' noir. Una Ran che, considerata l'intensità del sentimento positivo che prova, è capace di provare con eguale forza qualcos'altro di latente e malnutrito nel tempo, per il quale non sente di aver mai ricevuto aiuto. Riguarda quindi un livello più reattivo (specialmente da parte sua) e la difficoltà di farci i conti, di fronte a uno Shinichi finalmente presente ma che, come è fonte di buone cose, lo è anche delle peggiori lacrime della ragazza.
Dico che non è stato molto semplice, una coppietta così ben assortita e dolcemente stabilita non si è voluta prestare da subito a questa mia idea di trasformazione temporanea.
Grazie ragazzi, e spero che gli ShinRan non me ne vogliano! Anzi, sarei proprio curiosa di un vostro parere. Alla fine nessuno si è fatto male sul serio, visto? Visto?! D:

Alla prossima!

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Capitolo 30
*** Nel centro opaco della condensa - CoAi ***


30. Conan e Ai - Ten years later ~

***






Nel centro opaco della condensa


- Che ci fai qui stasera, detective? -
- Ho pensato di venire a farti compagnia, visto che ho saputo che eri sola a casa. E dopo aver saputo che avevi in credenza tutti gli ingredienti per una bella teglia di cupcake. - disse lui ad alta voce dall'atrio del salotto, mentre si toglieva la giacca dopo essere entrato nella casa di Hiroshi Agasa. Ai lo poteva udire grazie alla porta spalancata della cucina.
- Okay, bel tentativo. Sei qui essenzialmente per il secondo motivo – rispose lei ironica e alzando la voce per farsi sentire, girandosi di sbieco verso di lui e lanciandogli un sorrisetto saccente nel momento in cui lui varcò la soglia. Poi si voltò di nuovo verso il lavello, dove stata finendo di lavare gli ultimi piatti della sua cena solitaria. Agasa era fuori da qualche giorno per lavoro (o presunto tale) e lei non aveva mai avuto problemi a cenare da sola coi propri tempi e con le pietanze che più preferiva.

- No, suvvia... direi che entrambe le motivazioni si equiparano - ridacchiò Conan, entrando nella cucina e accomodandosi su una sedia al tavolo. - Ah, ho aspettato questo momento da tutta la settimana, credo...! -
- Quindi, in pratica, stai dando per scontato che io cucini dei cupcake solo perché ho gli ingredienti in credenza? -
- Ehm... sì? Perché, mi vuoi dire che non è così? Che sei disposta a spezzare in questo modo il mio fragile cuoricino? -
- Diamine, se era così semplice perché non me l'hai mai detto? Mi sarei risparmiata tante battutine spietate e frecciate gelide! -
Conan la guardò con espressione sarcastica, trattenendo se stesso dal rispondere in qualche modo sconveniente al solo scopo di avere l'ultima parola – anche perché, in ogni caso, non l'avrebbe mai avuta. Stava di fatto che, ad un certo punto della sua vita, e non ricordava neppure più quale, aveva compreso di andare pazzo per i cupcake, specie per quelli così delicati e gustosi che cucinava Ai, e davvero ci sperava che quella sera se ne sarebbe pappati almeno un paio.
- Eddai, Ai? Li prepari due o tre cupcake? Per noi due? - propose nuovamente Conan in modo più diretto, accompagnando la frase con un sorriso a trentadue denti e con un tono da animaletto del bosco.
Ai sospirò, voltandosi su se stessa e guardandolo dritto. - Sei disgustoso, lo sai? -
- E' un sì, vero? - esultò Conan, che aveva ormai imparato ampiamente a riconoscere certe frasi e atteggiamenti di Haibara. Quella che adesso chiamava Ai, che di rimando lo chiamava Conan e non più Kudo, per comune accordo e per cercare di lasciarsi altre vite alle spalle. La ragazza si rivoltò verso il lavello per asciugarsi le mani su un panno, senza ovviamente avere più bisogno di sgabelli o rialzi per arrivare all'altezza del lavandino: ormai aveva 16 anni, di nuovo, per la seconda volta in vita sua... esattamente come lui.
- No, diciamo che è... un forse. Perché stasera mi sta bene mangiare cupcake come dessert, ma vorrei che questa volta li cucinassi tu. - concluse freddamente lei, rivoltandosi verso di lui con un movimento netto che potesse sottolineare la convinzione di quella frase.
Le Parole del Terrore riecheggiarono dunque tra le cementate pareti di quella funesta dimora. Conan sbarrò gli occhi e la fissò come se lei si fosse trasformata in un orco, ma di quelli cattivi che mangiano esseri umani e incespicò nel rispondere.
- COSA? Io?! Ma sei impazzita, ti vuoi avvelenare? - glielo chiese con sentimento, come se avesse pietà per quella povera, ingenua creatura che ignorava il destino a cui andava incontro.
- Hai capito bene, sì. E' ora che impari a farli, o no? Non posso sempre fare tutto io! -
- Ma...ma questo no, ti prego!! Non ne sono capace, non esiste proprio! -
- Oh, ma piantala. Cosa diavolo mi tocca sentire! Sono degli stupidi cupcake, tutti sono capaci di cucinare dei cupcake, se ci si mette un attimo di impegno! -
- Tutti, eccetto me – confermò lui, grave.
- Zitto, ormai è deciso. O va così... o stasera non li vedi neanche col binocolo. A te la scelta. -

Da quell'ultima frase passò dunque circa un'ora, un'ora sufficiente a portare Ai all'esasperazione e Conan all'umiliazione.
Mentre Conan emetteva flebili lamenti e si grattava la nuca imbarazzato, la ragazza si guardò attorno spiazzata tra pentole bruciacchiate, grumi di farina acquosa sparsi ovunque e gusci di uova rotti ancora grondanti di liquido vischioso, il tutto coronato da un fumo puzzolente che fuoriusciva dalle fessure del forno. Era senza parole.
- Ma com'è possibile? Che razza di problemi hai? -
- Io te l'ho detto che non era una scelta plausibile! - piagnucolò il detective sedicenne, pulendosi il proprio maglione nero aderente dai residui di farina come se fossero velenosi.
- Sono dei cupcake, non ci vuole una scienza infusa a farli! Ti stavo dando anche le indicazioni, e... - scosse la testa, scocciata all'inverosimile. - Ma la vera domanda è: come fai ad avere voti alti in economia domestica, a scuola? E' una materia difficile, e per uno che non sa nemmeno infornare uno stupido tortino non dev'essere una vita facile -
- Ehm, può darsi che... che mi sia spesso dilungato a fare un po' di complimenti alla professoressa, e ad essere dolce e diligente nei suoi riguardi. Ma solo ogni tanto, eh – ammise lui, con un sorriso un po' troppo ammiccante.
Ai riassunse l'espressione di poco prima, dicendo la stessa identica frase.
- Sei disgustoso. -
- Devo pur sopravvivere in questo mondo crudele. -
- Sì, immagino. - Ai afferrò uno straccio umido e, sospirando, iniziò a pulire il piano da cucina che era messo peggio di un campo di battaglia. Notò anche una macchia di latte schizzata, non si sa come, sul proprio dolcevita che per fortuna era bianco, altrimenti l'avrebbe ammazzato. - Posso sapere a cosa diavolo stavi pensando, per sbagliare tutto così? -
- Ai, te l'ho detto... non sono in grado, non fa parte della mia natura questa roba – rispose Conan, con un tono però leggermente evasivo e accompagnato da un secco sospiro. E Ai se ne accorse.
- Per quanto uno sia impedito, e nel tuo caso sfioriamo sfaccettature cliniche, uno non può esserlo fino a questo punto. -
- E invece sì. -
- Smettila, per favore. - concluse Ai in tono definitivo, lasciando Conan piuttosto di sasso. Lui infatti alzò lo sguardo verso di lei, con attenzione, mentre lei continuava a pulire senza guardarlo. Tuttavia la sua espressione era visibilmente contrariata.
- E adesso perché te la prendi così? -
- Perché non mi piace quando ti ostini a nascondere i tuoi problemi. Te li tieni tutti dentro e non li dividi nemmeno con me, me, con cui hai già condiviso situazioni ben più drammatiche in passato. -
- Ne abbiamo già parlato, Ai... non è che ti escludo, è che mi infastidisce parlarne... -
- Però a Heiji ne parli. Si è fatto sfuggire qualcosina, con me -
Conan sbuffò a quelle parole, infilandosi una mano nei capelli. - Maledetto idiota dell'ovest... -
- E invece ha fatto bene. Sei spesso con la testa chissà dove e distratto anche nelle cose più semplici, bisogna sempre riportarti qui. Stai passando un brutto periodo e noi pochi che conosciamo la tua situazione vorremmo aiutarti, ma tu non ce ne dai modo – disse Ai con tono ancora più polemico, piazzando lo straccio tra le mani abbandonate di Conan e passandogli il messaggio sottinteso “adesso pulisci te”. Conan si alzò lentamente ed eseguì in silenzio, iniziando a passare lo straccio sui residui di farina appiccicosa ed evitando accuratamente lo sguardo di Ai.
Che fastidio quando tutti facevano così.
Con Heiji aveva ceduto perché, dannazione, quel ragazzo sapeva davvero scartavetrare le palle come pochi. Si era confidato con lui per farlo smettere di essere così pressante, non tanto per sfogarsi. E adesso ci si metteva pure Ai, che aveva cercato di immettere il discorso già parecchie volte, da lui poi abilmente sviato.
- Non fai così schifo a cucinare i cupcake perché non sei capace. Ma perché sei dappertutto fuorché nel tuo presente, ti ho guardato bene poco fa. Vuoi continuare così, in stile automa? Perfetto. E sai cos'è peggio? Che pensi che gli altri non se ne rendano conto, che io non veda la differenza rispetto a prima! E che quindi nessuno può capire cosa provi, nessuno può aiutarti, sei solo e abbandonato! - il tono tra rancoroso e canzonatorio adottato da Ai iniziò ad innervosire lui, che sospirò gravemente mentre ascoltava a testa bassa.
- La finiresti, Ai? - disse lui con un mezzo sibilo.
- No, ho appena cominciato! -
- E va bene, okay? Vuoi proprio umiliarmi in modo completo, così la faccenda può stuzzicarti meglio? E sia! - sputò fuori lui spazientito, lanciando lo straccio nel lavello. - Devo per forza confessare, a te e al mondo intero, che essere stato esiliato e dimenticato dalla mente e dal cuore di Ran, rimpiazzato all'improvviso da un tizio a caso che ha capito il suo valore e che l'ha fatta sua, mi fa sentire un perfetto imbecille e pure un estraneo. Che questa condizione, dopo lo shock iniziale, è diventata ormai quotidiana e che quindi io vivo a stretto contatto con tutto ciò che mi ferisce. Che tento di non pensarci, di non vederli, di non sentirli, anche quando mi sono vicini e mi mangiano di fianco, quando ridono. Anche quando sento lui arrivare la sera tardi ed entrare di soppiatto in camera di lei. Ma che, ovviamente, non ce la faccio a tenermi mentalmente lontano. - disse Conan appoggiandosi con entrambe le mani al lavello, sospirando a sguardo basso. Ai lo fissava con fronte aggrottata, senza dire una parola né anche solo fiatare.
- Ma anche che voglio cambiare. Ti confesso anche questo. Che hai ragione, che mi sono reso conto anch'io di vivere coi pensieri in un limbo tutto mio, dove la mia mente trova rifugio. E' solo questo, Ai. Quando tu capisci che con la testa scappo altrove, è solo per non doverli fronteggiare. Trovo modo di fuggire. - sbuffò e ridacchiò allo stesso tempo, scuotendo la testa. - E' ironico, per anni ti ho imposto di non fuggire da te stessa, mentre adesso sono io a non fare altro che quello. - concluse lui rinchiudendosi poi in un silenzio tutto suo. Passò qualche secondo prima che Ai, con cautela, si facesse avanti verso di lui per avvolgergli il busto con un braccio e appoggiare la testa sulla sua spalla. Lo cinse poi anche con l'altro braccio, tenendolo stretto per alcuni secondi. Lui piegò la testa per appoggiarla su quella di lei, e rimasero così, fronte contro fronte, per almeno un minuto.
Ai fu la prima a sciogliere l'abbraccio, mormorando nel frattempo un flebile “mi dispiace”. Lui scosse la testa con un sorriso, voltandosi su se stesso e appoggiandosi con la schiena al piano da cucina.
- No, va bene così. In fondo hai ragione. Ed è per questo che mi scaldo tanto – ridacchiò lui, contagiando anche lei. - Però è vero che voglio cambiare. Voglio smettere di essere così assente, riprendermi... -
- Immagino che non sia facile, Conan. Convivere con questa situazione, con lei insieme ad un altro... -
- Prima o poi sapevo sarebbe capitato. Non poteva mica durare in eterno, io ho continuato a nasconderle la verità in questi anni e lei giustamente ha cambiato strada. Me lo sono sempre aspettato. Solo che quando succede davvero, beh... è diverso – mormorò lui prendendo un respiro e continuando a fissare il pavimento. - E ti mette a dura prova. Ma è ora che anche io cambi strada... proprio come ha fatto lei. -
Ai accennò ad un sorriso e annuì, allontanandosi da lui e accomodandosi ad una sedia della cucina. Giocò un po' con le dita delle proprie mani, prima di riportare lo sguardo su di lui e annullare il silenzio denso che si era creato.
- E come pensi di fare? -
- Beh, in un modo... che forse è sotto ai miei occhi da un po' di tempo. Non so. -
- E cioè? - lo incalzò lei, iniziando a ridere e a sospettare. Cielo, no, se davvero adesso ripiega su Ayumi... che sempre più somiglia a Ran... siamo giunti davvero a destinazione. Cioè, non che Ayumi non sia un buon partito, ma lui l'ha già rifiutata due volte in questi anni... e solo perché adesso ha bisogno di qualcuno che lo aiuti a riemergere dai suoi problemi, non significa che Ayumi debba diventare improvvisamente disponibile. E poi lei direbbe di sì senza pensarci due volte, checcavolo...
Ai strinse le labbra, cominciando già a cercare nella mente un paio di rimproveri da rivolgergli nel caso in cui i suoi dubbi si fossero rivelati esatti. Ayumi era davvero sua amica, non voleva vederla sfruttata così.
- E cioè che stasera, in realtà, non sono venuto solo per i cupcake. C'è un altro motivo. Sono qui per... ecco... chiederti una cosa. - disse lui con voce calma nonostante la nuova agitazione comparsa nei suoi occhi, mentre si mordeva il labbro inferiore.
Ecco, ci siamo. Come sospettavo. Vuole chiedermi cosa ne penserei se chiedesse ad Ayumi di iniziare a vedersi. Vuole dei consigli, certo, ma io adesso mi arrabbio se pensa di poter chiamare a rapporto Ayumi ogni qualvolta ne ha bisogn...
- Ai. Cosa ne pensi se io e te ci frequentassimo? -
Il suo cuore eseguì un combinato tuffo verso il basso per poi rimbalzare verso l'alto, con onda d'urto. Sentì ogni preciso movimento nella cassa toracica. E non trascorsero neanche due secondi da quella richiesta che già era indecisa tra l'aver udito per davvero quelle parole o l'averle formulate nella mente dal niente, inventandosele. Propendeva per la seconda, poiché la prima era impossibile.
Anche se, quando lo guardò bene, notò che lui aveva incrociato le braccia nervosamente ed era diventato un po' rigido. Tuttavia sosteneva il suo sguardo scioccato, mantenendo un'espressione seria e attenta. Voleva una risposta.
- Allora? -
- No. -
Lo sguardo ben costruito di lui parve vacillare per un secondo, prima di tornare in piena sicurezza apparente. Lei stessa fu completamente esterrefatta, sconvolta della propria risposta.
Quante volte se l'era immaginata nella sua testa, negli anni? Quante volte aveva visto quella scena, sentito quel genere di frasi rivolte a lei da parte di lui, o addirittura sognate di notte? Tutta invenzione, certo, tutto prodotto del desiderio. Ma tante volte.
E adesso che per qualche assurda coincidenza astrale le veniva rivolta realmente quella proposta... diceva di no? Così, seccamente, senza neanche pensarci su?
Nel frattempo si rese conto di star leggermente tremando. I suoi pensieri burrascosi vennero interrotti da uno sbuffo di lui, debole come un soffio d'aria.
- Me l'ero immaginata una risposta del genere, da parte tua... -
- Cosa? E perché? -
- Perché ormai ti conosco. -
- C... Conan, io... io non pensavo che... -
- Che ti avrei mai chiesto questo? -
- N... non solo. Ma che ci fosse un'eventualità fantascientifica per la quale tu... -
- Per la quale io iniziassi a provare qualcosa per te? -
- La puoi smettere di completarmi le frasi? -
Lui rise, continuando a guardarla. Lei intanto sentiva le punte di tutte le dita della mano gelide, immobili.
- Ma è questo che succede quando c'è intesa, no? - concluse lui, con un sorriso quasi beffardo ma amichevole.
- La... la nostra intesa è diversa. E' sempre stata diversa. Basata su un'amicizia solida, sulla condivisione di una stessa e tragica situazione. Ma stai attento, stai attento a non confonderla con altri tipi di intesa -
- Ah, quante storie. Non do peso a tutte queste sottigliezze. Non mi importa da dove arrivi e di che tipo sia, c'è e basta. Non è abbastanza? -
- No, non lo è! Sei troppo superficiale! -
Lui sospirò, rimanendo a braccia incrociate e abbassando lo sguardo. Ai, quasi del tutto convinta che fosse un altro di quei sogni che ogni tanto faceva su questo argomento, ne approfittò per pizzicarsi una mano senza farsi vedere. La pizzicò forte, stritolò il lembo di pelle.
Dannazione, faceva male. Non era un sogno.
- Che cos'è che ti blocca, a parte le tue fissazioni? - continuò lui, sempre tenendo lo sguardo a terra. Lei alzò il viso per guardarlo, le spalle in tremore.
- Il fatto che non sono fissazioni. Conan, devi capire che... - tentò lei, cercando le parole. Deglutì e prese un bel respiro, unendo le proprie mani fredde per riscaldarsele e trovare rassicurazione. - ...che per fare una simile proposta a qualcuno, bisognerebbe quantomeno provare qualcosa nei suoi confronti. -
Lui a quel punto rialzò il volto, e si guardarono. Lui con le labbra serrate, lei con la bocca socchiusa per fare entrare aria, tanta aria. Continuarono a guardarsi per alcuni secondi, come due impalati.
- Se non sono stata abbastanza chiara: sarebbe meglio che quella persona ti piacesse. -
- Ma tu mi piaci, Ai. - concluse lui demolendola in una sola frase, facendole percepire il sangue congelato nelle vene e lo stomaco accartocciato. - E' anche piuttosto ovvio tu mi piaccia. Abbiamo un sacco di cose in comune, ci somigliamo in molte cose e pure negli atteggiamenti. Sei una persona discreta di cui ho sempre potuto fidarmi e con cui mi confido, soprattutto sulle cose importanti. Hai un carattere forte, non ti fai mettere i piedi in testa da nessuno e nello stesso tempo sai far divertire, se ti va. Siamo amici Ai, è vero, ma tu mi piaci. -
Conan concluse la frase con un sonoro sospiro, segno che tutto quel discorso l'aveva agitato molto più di quanto lui volesse far intendere. Stava tirando fuori un tipo di coraggio che non aveva mai dovuto esporre molte volte e che creava in lui scompiglio.
Ai avrebbe voluto tapparsi le orecchie e abbassare la testa fin sotto le ginocchia. Non perché quelle parole le dispiacessero, ma perché era troppo. Troppo e tutto in una volta, troppo perché il suo cuore potesse assimilare le informazioni e le emozioni senza confondere tutto in un vortice forsennato. Si portò una mano alla bocca, poi la spostò alla tempia e iniziò a fissare un punto vuoto davanti a sé.
- Ho come la sensazione che ti stia mettendo a disagio... - azzardò lui a bassa voce, senza togliere lo sguardo da lei. Era ormai partito in pista, difficilmente ne sarebbe uscito.
- Ah, guarda, nel mettere a disagio io sono campionessa. Se ogni tanto succede anche a me, può essermi solo d'insegnamento – biascicò lei, facendo ridacchiare lui di gusto.
- Non voglio insistere, non è nella mia natura. Ma posso almeno chiederti di pensarci un po' su, senza darmi questo due di picche tanto flash quanto clamoroso? -
- Oddio... - sussurrò lei col cuore in fiamme, continuando a massaggiarsi la tempia e schiarendosi la gola. - Non può funzionare tra noi. -
Le faceva male rispondergli in quel modo, un male quasi fisico. Ma per qualche ragione, sicuramente di matrice razionale, non riusciva a fermarsi.
- E perché no? -
- Ci odieremmo. Ci odieremmo dopo una settimana, credimi -
- No, non ti credo. Non potrei mai odiarti -
- Io ti odierei. Perché, piano piano, capirei sempre meglio che non sono io. Non sono io... la persona che pensi. Ti stai confondendo e tu per me non provi quelle cose, quei sentimenti... -
- E tu, invece? Per me li provi? -
Lei alzò la testa di scatto, con le dita della mano sinistra ancora incollate alla fronte. Lo fissò con occhi sbarrati, prima di alzarsi e dirigersi verso la finestra della cucina.
- Perché a me sembra proprio di sì. - azzardò lui parlando nella sua direzione. Lei scosse la testa senza girarsi a guardarlo, e si appoggiò al vetro della finestra guardando il giardino fuori casa.
Che bastardo. Vero bastardo. Vuoi rigirare la frittata, eh? Far confessare a me tutto quello che puoi, usandolo poi per rafforzare le tue richieste? Hai proprio sbagliato rotta.
Il problema era che lei, adesso, doveva misurare le sue risposte anche a costo di mentire. Perché aveva tanta, tanta voglia di dirgli di sì, di buttare fuori tutto ciò che fino a quel momento si era soltanto immaginata. Sospirò contro il vetro, fissando la condensa creata.
- Lascia almeno che sia io a giudicarlo, Ai. Non considerarti già da sola come persona sbagliata e non adatta a quel sentimento. Mettimi alla prova, okay? -
- Per farmi dire chiaro e tondo da te che non sono quella che pensavi? Oh, grandioso, e chi non lo vorrebbe subito! -
- Per dirti esattamente il contrario e smettere di farti essere così pessimista! -
- Sono soltanto... -
- Fammi indovinare, “realista”? Blablabla! E' vero che io ti conosco come amica e nient'altro, ma non sono così scemo, posso cambiare la mia concezione di te e tu sei libera di fare lo stesso con me! -
Lei sospirò di nuovo, creando una condensa più ampia. Si voltò su se stessa, rimanendo ancorata con la schiena alla finestra.
- Sai cosa penso? - iniziò a bassa voce, guardandolo dritto negli occhi. Era l'atteggiamento che abitualmente adottava quando doveva usare una certa dose di franchezza. - Che questa cosa del “cambiare strada come ha fatto Ran” ti stia leggermente sfuggendo di mano. Penso che lei ti manchi, e che tu debba coprire la mancanza. Penso tu stia cercando un modo per svagare la mente su qualcun altro che non sia lei, e non perché vuoi davvero cambiare, ma perché devi smettere di pensare a lei e non sai più come fare. E penso che, almeno in cuor tuo, questo possa rappresentare una ripicca nei suoi confronti. Ecco a cosa ti serve, la tua amica Ai: a distrarti un po' e a tappare i piccoli vuoti lasciati da altri! - concluse lei battendo un pugno sul davanzale della finestra. Soltanto quelle idee la facevano imbestialire.
- Non ho mai nemmeno pensato che tu dovessi “servire” a qualcosa, Ai. Ebbene sì, voglio ricominciare, ma non nel senso così negativo descritto da te! Mi sproni tanto a migliorare e a riemergere, e appena cerco di farlo mi demolisci così? Ho scelto di farlo con te, di farmi aiutare da te ma in modo attivo, non come semplice amica che mi sopporta! E' tanto difficile da capire? -
Ai rilassò la mano chiusa a pugno, percependo il freddo marmo del davanzale sulle dita. Socchiuse la bocca per inspirare un paio di boccate d'aria, sentendosi sempre più alle strette in quel discorso. Le ginocchia le sembravano molli.
- Voglio voltare pagina. E te lo richiedo di nuovo. Ti va di essere al mio fianco, nella prossima...? - riprovò lui, abbassando la voce e riacquistando negli occhi tutta l'agitazione iniziale. Perché in realtà fare quella proposta lo emozionava, era difficile anche per lui. E sembrava essere impaurito all'idea di un altro rifiuto da lei. - Non voglio farti sentire in colpa, però... ci sono davvero rimasto male, prima. Ti prego solo di pensarci su. Per favore. - continuò lui, abbassando lo sguardo con quella che sembrava autentica timidezza. - Dammi questa possibilità di giudicare da me... di poterti dire che sì, provo qualcosa per te. -
- Lo sai, vero, che io posso dimostrarti tutto il tuo sbaglio già adesso? - dichiarò lei, risoluta.
Lui sbuffò, perdendo visibilmente la pazienza. - E va bene! Visto che a quanto sembra sei nata imparata, e che sai già tutto di me, sentiamo cosa esce dalla tua sfera di cristallo! -
E Ai, senza farselo ripetere due volte, abbandonò la postazione alla finestra e si avviò a passo spedito verso di lui. Attraversò il tratto di cucina che li divideva fissandolo negli occhi, mentre lui, con sguardo stupito e confuso, se la vedeva arrivare contro a quella velocità. Voleva mica picchiarlo?
Non appena Ai gli fu di fronte, lui aprì la bocca per ribattere qualcosa e soprattutto molte scuse, visto che ormai si era convinto lei volesse colpirlo o spintonarlo - ma non poté farlo, perché lei posò le proprie labbra sulle sue e con una certa convinzione, tanta da destabilizzarlo. Mentre lui vacillava, lei allungò le braccia oltre il suo collo tenendolo stretto a sé. Era ancora con occhi sbarrati e confusi, senza fiato, e grazie a questo notò che lei gli occhi li aveva chiusi, gustandosi il momento.
Quindi era questa la prova del nove che Ai intendeva proporgli? Capire se lui avrebbe provato qualcosa tramite un bacio? Beh, una di quelle soluzioni risolute e senza scrupoli che lei era sempre stata in grado di prendere. Sorrise mentre la baciava, decidendo di stare al suo gioco. Ormai erano dentro, tanto valeva proseguirlo. Chiuse gli occhi e, lentamente, portò le mani in alto per posargliele sui fianchi.
Quel bacio forse durò un tantino troppo, aumentando di ritmo ad ogni secondo e portando i loro corpi ad aderire sempre più. Ad un tratto fu Ai a spezzare il momento, staccandosi con leggerezza dalle sue labbra e aprendo gli occhi per guadarlo a quella distanza.
- Allora...? Cosa provi? - sussurrò lei, febbrile. Nella carica di sfida che aveva infuso in quell'atto, si era quasi scordata che quello era un momento che si era immaginata parecchie volte.
- Provo che non capisco perché perdi tempo in questo modo... - rispose lui con lo stesso sussurro e mantenendo gli occhi chiusi, per poi tapparle nuovamente la bocca con la propria. Fu il turno di lei di rimanere sorpresa e, per quanto la cosa le stesse piacendo alquanto, non aveva però scordato il motivo primario.
- A... aspetta... - riprovò lei biascicando e tentando di prendere fiato, spingendolo dalle spalle. - Mi ascolti, per favore? E' una cosa seria – riuscì a mormorargli, senza smettere di ridacchiare vedendo il suo comportamento. Non riusciva più a scollarselo.
- Ai, che ne dici se ne parliamo più tardi...? Giuro, giuro che ne parliamo... -
- No, ascolta... - rispose lei, ma mentre diceva la parola “no” si accorse di averlo nel frattempo riagganciato tra le sue braccia, istintivamente. Tornò anche lei a baciarlo, coinvolta da quel vortice emotivo che sfociò in qualcosa di più: lui avanzò sospingendola in avanti, finché lei non si ritrovò con la schiena stesa sul tavolo e con lui che le aderiva contro.
- Conan! Conan, sei qui? -
Fu un attimo sospeso nell'aria che parve fermare il tempo. I due, con i visi ancora uniti nel bacio, aprirono di scatto gli occhi guardandosi. Rimasero così alcuni secondi mentre riconoscevano la voce di chi era appena apparso sulla soglia della cucina.
Ran si coprì il volto imbarazzata, muovendo la mano in agitazione e scusandosi tramite versi non comprensibili.
- Aaaah! Oddio, oddio, scusate... non lo sapevo, non immaginavo che... aaaaah! - mugugnò, cercando di allontanarsi da lì e tornando in salotto.
- Ah-haaaaaa! Io invece lo sospettavo eccome!! - squittì vivacemente Sonoko, che aveva accompagnato fin lì Ran per chissà quale diamine di motivo. E che, come fosse la spettatrice di un film, restava a guadare la scena entusiasta.
Conan e Ai si raddrizzarono nell'immediato e si ricomposero, lui sistemandosi i vestiti e lei i capelli. Lui capendo che avrebbe voluto farsi sorprendere da chiunque fuorché da Ran, lei tremando già al pensiero di quanto lui si sarebbe pentito.
- C... Conan, scusami, ma non rispondevi al telefono da ore e volevo capire dove ti fossi cacciato... la porta di casa era aperta, e quindi... - borbottò Ran dalla sala, ancora chiaramente imbarazzata. - Giuro che la prossima volta busso...! Aaah... -
Ai sbuffò ridacchiando, con un'ingente dose di amarezza. Si voltò in silenzio verso Conan, il quale aveva uno sguardo fisso e abbastanza spento. Cattivo segno.
- Ragaaaazzi... adesso noi ce ne andiamo e voi farete come se non fossimo mai venute!! Mi raccomando, eh?! - esultò nuovamente Sonoko battendo le mani e guardando prima Conan come se fosse un devastante latin lover, e poi Ai facendole l'occhiolino.
Ma quale occhiolino.
Ran mormorò un'altra breve ondata di scuse sconclusionate, prima di uscire di corsa con Sonoko da quella casa. Il silenzio piombò allora su di loro, solcato dal rumore di alcune gocce d'acqua nel lavello che il rubinetto rotto perdeva, finché Conan non si voltò verso di lei.
- Allora, do... dove eravamo rimasti...? - mormorò, senza guardarla negli occhi e con una voce quasi inudibile.
- Non fa niente, Conan. Ho capito. Altrimenti non avrei fatto questa prova -
- No, aspetta... stava andando tutto bene, finché... -
- Finché non hai capito che hai bisogno ancora di un po' di tempo. -
Lui sospirò affranto, abbassando lo sguardo come se una roccia gli fosse piombata sul collo.
- Non voglio più aspettare... risolverò questa cosa, e al tuo fianco io... -
- Al mio fianco ci vieni quando l'avrai risolta. Non posso sopportare ogni volta questa situazione. Potrà succedere chissà quante altre volte, anche solo con una telefonata che ancora è in grado di abbatterti così. No, non ci sto. Ti starò vicino fino a quel momento, ma come amica. -
- Hai ragione. Hai ragione su tutto. - disse lui diretto. - Non puoi essere il mio supporto morale in un quadro romantico. Io... mi dispiace. -
Ai si sedette sulla sedia iniziando a sentire una sgradevole oppressione, e lui le si avvicinò accarezzandole i capelli e abbassandosi per arrivare al suo orecchio.
- Anche se mi è piaciuto tutto. E non vedo l'ora... di rifarlo con la mente più sgombra, come tu vorresti. - le sussurrò questo, prima di lasciarle un silenzioso e lento bacio sulla fronte. - Volevo che questo lo sapessi. -
- Okay. - rispose lei in un sussurro quasi spento, atona.
Lui si raddrizzò, dandole un'altra carezza fugace e allontanandosi di mezzo passo. Lei, dopo ciò che aveva fatto, aveva già messo in conto l'impossibilità di tornare indietro - nel bene o nel male, da adesso le cose con lui sarebbero cambiate.
- Io... adesso vado. Preferirei rimanere qua con te, ma non mi pare... il caso. - mormorò lui schiarendosi la gola. - Ci sentiamo. Quando vuoi tu, non voglio disturbare. -
Lei annuì impercettibilmente, senza guardarlo più. Rimaneva seduta sulla sedia tenendo lo sguardo ancorato al pavimento, e Conan si morse il labbro fissandola, prima di sospirare appena e uscire dalla cucina con passi silenziosi.
Quando Ai udì la porta d'ingresso aprirsi e richiudersi, lasciandolo uscire da casa, si inarcò verso il basso reggendosi la fronte con una mano e cingendosi la pancia con l'altra.
- Vaffanculo, idiota... -
Chiuse gli occhi e lasciò uscire quei due singhiozzi che, in tempo zero, avviarono un pianto silenzioso tra sé e sé.

***

- Pronto? Ai? -
- Eh, no, cocco. Sono il professore. -
- Oh! Oh... ehm... professor Agasa? Che p-piacere sentirti! - e il fatto che Hiroshi avesse risposto al cellulare di Ai gli diede uno strano e terribile presentimento. - Per c-caso... Ai non può rispondere? -
- Beh, ma certo che può. E' solo che non vuole. -
Eccolo, il presentimento concretizzato. Se poi ci assommava il tono indicibilmente accusatorio che aveva appena adottato Agasa, i suoi terrori trovavano conferma.
- Ah, o-okay... beh, peccato! Richiamerò, eheh! -
- No, tu non richiamerai, eheh! - lo canzonò lui, lasciando Conan un attimino di sasso. - Semmai richiama lei, solo se e quando avrà voglia! -
- P... professore... mi spieghi che succede...? - provò titubante Conan, già pentendosi della propria domanda. Era ovvio cosa stesse passando per la testa di Agasa... - Sono tre giorni che non sento Ai e mi sono preoccupato. Provo a chiamarla e mi rispondi tu, per di più con questo tono... -
- Spiegamelo invece tu cosa succede. Spiegami perché tre sere fa, dopo essere tornato a casa tardi, l'ho trovata da sola sul divano a piangere. - udendo quelle parole rancorose Conan si schiaffò un palmo sulla fronte, più che mai a disagio. - Non è facile tirare fuori le cose da Ai, ma dopo avere insistito un po' mi ha raccontato il necessario per capire chi fosse il responsabile. -
- Professore, mi... mi dispiace così tanto! Non intendevo farlo, è successa tutta una cosa per la quale... -
- Sì, sì, sì. Lo so. Basta così. - concluse Agasa sospirando, riacquistando solo in quel momento un poco del tono familiare e affabile che tutti conoscevano di lui. - Ti chiedo solo di aspettare che sia lei a chiamarti. In questo momento non ha proprio voglia, per questo mi ha pregato di rispondere adesso. -
- Sono un deficiente... -
- Eh, magari un po' sì. -
- Le puoi dire da parte mia che mi dispiace? Che ne possiamo parlare quando vuole? Che sono disponibile per lei 24h su 24? -
- Vedrò, Conan. Non voglio illuderla e ferirla, sai bene quanto su questo argomento io sia cauto... - rispose lui, innestando in Conan uno spontaneo e dolce sorriso.
Sapeva eccome che Agasa, negli anni, aveva sentito Ai crescere in casa sua come fosse una figlia. L'aveva assistita in tante cose, era sempre stato presente e lei, per lui, era diventata il tesoro più importante. Chi osava volerla toccare e farle del male doveva prima passare sul suo cadavere. Anche per questo Conan capì subito che in quel momento era normale che Agasa ce l'avesse un po' con lui: trovare Ai piangente e comprendere che la colpa era sua non lo metteva certo in buona luce agli occhi dell'uomo.
- Cercherò di parlarle su questo, comunque. Lo faccio solo perché sono affezionato anche a te... fossi stato chiunque altro, ti avrei mandato a quel paese intimandoti di non telefonare mai più -
- Ahahah... addirittura? - chiese Conan sbuffando. - Sicuro che Ai sia d'accordo con questo tuo modo di fare...? -
- Ah, non lo so. Sta di fatto che nessuno si può permettere di urtare la sensibilità della mia piccola. -
- Piccola? - osò sfidarlo Conan, rimanendo interdetto di fronte a simili esternazioni. - Prof, ehm. Così mi inquieti. Ti sei accorto che Ai ha 16 anni fisicamente e 26 mentalmente...? -
- Non mi interessa. Per me è sempre piccola. - rispose lui senza ammettere repliche.
Conan se la rise sotto i baffi stando bene attento a non farsi scoprire da lui, il cui lato da paparino protettivo era in fondo adorabile. Un lato che di sicuro Ai non apprezzava così tanto come forse lui credeva, ma preferì non dirglielo. Quando si accorse che Agasa era giunto ai saluti finali, si affrettò però a interromperlo per un'ultima cosa che gli continuava a rimbalzare in mente.
- Professore, mi prometti di dirle almeno quest'unica cosa, stasera? -
- E cosa sarebbe? -
- Le puoi dire... - prese un respiro e si raddrizzò bene, prima di finire la frase. - Le puoi dire che sono tre giorni che penso continuamente a quel momento? -







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Ah! Che difficile sta shot!
La difficoltà è stata soprattutto nel fatto che ho sofferto sul finale! D: La mia dolce Ai ç___ç
A parte gli scherzi, sono stata moooolto indecisa su come finirla... da un lato voleva prevalere il lieto fine, dall'altro il rispetto dei personaggi (almeno il più possibile, considerato il contesto). E non so neanche se ho azzeccato una di queste due opzioni :D Perciò a questo giro mi servono le vostre opinioni! Il trafiletto finale di Agasa, come avrete capito, è servito anche a dimostrare qualche “effetto collaterale” che si è verificato sul detective. E vi dirò un'altra cosa, ad un tratto non ho più sopportato né lui né lei XD (e voi direte, perché allora non li hai fatti fuori entrambi che in una tua fanfiction niente ti vieterebbe di farlo? In fondo il trash attira anche un certo numero di view!) Lei perché troppo cocciuta e pessimista, lui perché anima in pena che fino alla fine rimane nella sua catalessi emotiva. Mi sono usciti così, e così sono rimasti XD Mi direte voi come la pensate, se concordate con questo andamento o se in fondo poteva succedere altro.
Comunque sia, era un botto che non ci si vedeva! ^___^ E colgo l'occasione per ringraziare chi ancora sta seguendo e commentando questa raccolta! Per la prossima shot ho in mente una coppia così crack, ma così crack che non ci si ricorderà nemmeno chi diavolo fossero i personaggi in origine. Nggghhh
Alla prossima! ^.- e grazie per essere arrivati fin qui!

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Capitolo 31
*** Cipria beige - AkaYuki ***


31. Akai e Yukiko ~

***








Cipria beige


- Oh! Sei... già qui?! - esclamò Yukiko non appena svoltò un angolo della sua stessa casa, villa Kudo. Era passata dal salotto alla cucina con il suo tipico slancio, trovandosi Okiya parato di fronte a lei a intralciarle la strada. Entrambi si bloccarono con un lieve sussulto, per non scontrarsi del tutto.
- Scusa, Fujimine. Non ti avevo neanche sentita entrare -
- Non preoccuparti! Stai uscendo? -
- No, a dire il vero. Cioè, sto uscendo dalla cucina però -
Lei ridacchiò. - Ah, ovvio! Io invece ci sto entrando, pensa -
- Già. - mormorò lui abbozzando un sorriso assolutamente di circostanza che comunicava il gentile messaggio “e adesso puoi anche levarti così passo, ad esempio”.
Lei eseguì, a prescindere da ciò che Okiya pensasse davvero, così lui poté passare e dirigersi in salotto. Non prima, comunque, di averle rivolto un altro sorriso accennato per ringraziarla del piccolo disturbo.
Uno di quei sorrisi che Yukiko adorava tanto.
Aaaah. Che gentleman, quello.
La donna sorrise tra sé e sé, pensando a come quelle gite fuori porta aventi l'unico scopo di camuffare quell'affascinante, tenebroso e muscoloso agente dell'FBI fossero sempre appaganti. Era una faticaccia essere giusta nei tempi tutte le volte, ma quando il figlio la chiamava per quelle piccole missioni si sentiva frizzante come l'adolescente eterna che era. Si strinse nelle spalle, continuando la sua traversata in cucina. Non appena ne varcò la soglia, le si illuminarono gli occhi.
- Ma che profumino! Cosa stai cucinando, se posso? -
- Il solito stufato di manzo – gli rispose lui ad alta voce dalla sala, mentre sistemava il computer sulla scrivania.
- Ma secondo la ricetta che ti ho insegnato io? - continuò lei, avvicinandosi ai fornelli e alzando il coperchio della grossa pentola adagiata sul fuoco. Notò qualcosa di diverso, un colore e una consistenza del cibo per lei del tutto nuovi.
- Diciamo che ho applicato qualche modifica – rispose lui dalla sala sempre a voce alta, con un'evidente nota sorridente nel tono.
- Ah, che furbetto! Qui qualcuno intende superare il maestro, o sbaglio? -
Yukiko afferrò il mestolo posizionato a fianco del fornello e iniziò a mescolare un po' quel brodo speziato, per provare a trovare da sola gli ingredienti a lei poco chiari. Il profumo che sprizzò fuori dal movimento circolare del mestolo le fece quasi girare la testa per la delizia di cui era intriso.
- Non sbagli – concluse lui, affacciandosi alla cucina e appoggiandosi allo stipite della porta. - Sarebbe proprio mia intenzione. -
- Bad guy. - mormorò lei, portandosi il mestolo alla bocca per assaggiare il brodo e voltandosi intanto verso di lui con un sorriso.
- Com'è? - chiese lui, incrociando le braccia e fissandola. Sembrava molto curioso del parere della “maestra”.
- Si avvicina alla perfezione, questo brodo -
- E cos'è che ancora lo distanzia dalla perfezione? -
- Il sale. Ce n'è un pochino troppo. -
- In realtà ne ho messo in scarsità, lì dentro. Non sarà perché tu sei abituata a poco sale, in ciò che mangi? -
- E tu come fai a saperlo? -
- Dal fatto che me lo ripeti tutte le volte che vieni qui e mi insegni un piatto – disse lui a voce bassa, facendola lievemente imbarazzare. - E dal fatto che sei abbastanza in linea da ritenere che, nella tua dieta, zucchero e sale siano dosati in modo molto severo -
- Oh, ti ringrazio, lo prendo come un complimento! - esclamò lei facendogli l'occhiolino.
- Beh, lo è. - concluse lui con una scrollata di spalle, senza rinunciare ad uno dei suoi sorrisi improvvisati e abbozzati.
Sì, quelli che a Yukiko piacevano tanto.
- Ah! Bene. - mormorò lei, voltandosi frettolosamente verso il pentolone e rimettendo tutto a posto, sia coperchio che mestolo. - Allora, che... - si voltò su stessa e si appoggiò al piano cucina. Si leccò via dall'indice una goccia di sugo scivolata dal mestolo. - ...che programmi abbiamo oggi? Mi avete colto un po' impreparata con le telefonate di ieri, sembrava una cosa urgente -
- Rifare la maschera del nostro amico Subaru Okiya – disse lui perplesso, tastandosi più volte la guancia sinistra. - Si sta sgualcendo. -
- Sì, l'ho visto subito appena ci siamo scontrati. Si può sapere che combini?? - chiese lei già esasperata, attraversando il tratto di cucina che li separava per avvicinarsi al viso di lui e ispezionarlo meglio.
- Beh, sai, sono un agente e più precisamente un cecchino. Ogni tanto mi devo strofinare contro il mio fucile, con la guancia -
- Detto in questo termini è qualcosa di terribile, agente – rise di gusto lei, mentre gli tastava delicatamente la guancia con le dita. - Possibile mai che un bell'uomo come te non abbia invece una donna contro cui strofin... - si bloccò, pensando che magari non avevano ancora la confidenza necessaria per parlare di certi argomenti. Yukiko era l'impulsività e l'entusiasmo fatti a persona, ma ogni tanto le conveniva mettere in conto che non tutti erano così. In special modo l'elemento che ora si trovava davanti. Saettò lo sguardo verso di lui, a quella vicinanza, per constatare quali effetti aveva potuto sortire: lo trovò piuttosto impassibile, dietro quegli occhialetti finti da studente finto con una vita finta.
- E chi ti dice che io non ce l'abbia? - rilanciò lui, con un tono altrettanto impassibile ma carico di sarcasmo.
- Beh, in quel caso non me lo dire nemmeno perché sarei gelosa marcia – concluse Yukiko alzando un sopracciglio e disegnandosi un soddisfatto sorriso sul volto: era fatta. Anche se a primo acchito le era apparso il contrario, con lui si poteva scherzare.
Quest'idea la rilassò abbastanza da farla ridacchiare in modo tale da contagiare anche lui. Lei si alzò sulle punte dei piedi per esaminargli il volto da vicino.
- Okay, ascolta. Ci sono giusto dei graffietti che sarebbero anche riparabili senza stare a togliere tutta la maschera... ma... – disse sospirando, mentre tornava con la pianta dei piedi a terra. - E' comunque meglio toglierla e rifarla da capo, visto che i graffi hanno danneggiato anche la membrana interna. Se lasciassi tutto com'è riparando solo i graffi esternamente, prima o poi si logorerebbe comunque dentro. Che ne dici? -
- Sembra noioso, ma facciamolo. -
- E vacci piano con questi fucili. -
- Sì, capo. -
Lei, con le mani sui fianchi, gli sorrise ironica e poi si voltò intimandogli di seguirla verso il piano di sopra. Salirono le scale in silenzio, Yukiko di qualche passo avanti a lui mentre, come sempre, non si sforzava di ridurre l'ondeggiare dei fianchi a destra e sinistra, sorridendo sorniona tra sé e sé e molto attenta a non farsi scoprire da lui.
Ohohoh! Come sono esaltanti questi appuntamenti! E per di più a casa mia, ci rendiamo conto? Non mi viene neanche la sensazione di scappatella e me la posso godere al massimo. Meglio di così!
Ridacchiò da sola come una piccola civetta, e Akai alzò lo sguardo perplesso verso di lei.
Anche se... mmm... eravamo mai rimasti soli, prima di oggi? Yukiko si portò indice e pollice al mento, riflettendo. Le prime volte c'era sempre anche Shinchan, a supervisionare i lavori di travestimento... perché non si fida mai. Poi una volta c'è stato anche Yusaku, perché anche lui avrebbe dovuto indossare la stessa maschera la sera in cui Akai ha rivelato di essere ancora vivo. La volta ancora dopo c'era l'agente Jodie, che ormai aveva scoperto tutto e poteva rimanere a guardare... e poi... e poi, beh, questa.
No. Mai stati soli prima.

Una volta compreso ciò, sussultò sul posto con espressione tra il terrorizzato e l'esaltato. Si bloccò sulle scale, e Shuichi le si scontrò contro.
- Aaaaah! - ululò Yukiko.
- Fujimine, c'è... ehm... qualche problema? - mormorò Shuichi mentre si risistemava sul viso gli occhiali di Okiya, sbilanciati dopo l'urto. Notò che lei persisteva nel dargli le spalle e teneva lo sguardo basso, anzi, cercava proprio di nasconderglielo.
- No... nono!! Ti sei fatto male? - disse lei quasi strillando, continuando a dargli le spalle e ricominciando a salire le scale facendo risuonare i suoi tacchi.
- Oh, mi sono solo rientrati gli occhiali nella maschera, tranquilla – disse lui sarcastico.
- Spero tu ci veda ancora abbastanza per salire le scale! -
- Anche se non ci vedessi seguirei la scia di profumo. - rispose lui calmo, sistemandosi ancora meglio gli occhiali sul naso.
Lei si bloccò di nuovo, e di nuovo lui le andò addosso con un grugnito. Lo sentì sbuffare sonoramente ma non se ne preoccupò, anzi, stavolta si voltò per guardarlo bene negli occhi.
- Come hai detto? -
- Era... una battuta – si scusò lui guardandola assorto, alzando le sopracciglia. - Nel senso che, visto che ti metti sempre un quintale di profumo, mi sarebbe bastato seguire quello per arrivare a destinazione... -
- Ah, fiu... già pensavo fossi un maniaco -
- Eh, beh, è proprio la mia principale reputazione... -
- Ma no, è che... - sospirò lei, leggermente rossa in viso e agitando le mani. - Aaah, lascia perdere! Quanto sono scema! -
Lei si rivoltò e salì gli ultimi scalini quasi correndo, in agitazione, facendo ridacchiare Akai che intanto scuoteva la testa. Non sapeva cosa le prendesse, ma era piuttosto divertente.
Yukiko oscillava nel suo vestito composto da fasce beige e rosse, tenendosi bene ferma la gonna – non aveva previsto di dover salire le scale in fretta.
- Ecco, Akai, seguimi verso la solita stanza –
- La stanza delle torture? - azzardò lui, come amava chiamarla. Si riferiva alla stanza in cui, ogni volta, gli veniva applicato quel travestimento da lei.
- Proprio quella! Gli strumenti di tortura sono già tutti al loro posto, come vedi... - disse Yukiko diabolica, una volta che entrambi varcarono la soglia di quella piccola sala illuminata da forti lampadine. Lungo una parete era affisso un grande specchio, sotto cui un largo mobile di legno sosteneva i vari attrezzi del mestiere.
Shuichi, già consapevole della varie fasi, si sedette sulla sedia di fronte allo specchio e iniziò a togliersi la maschera da solo. Uno di quegli atti che Yukiko detestava, da parte di tutti coloro che truccava.
- No, Akai! Quante volte ti devo ripetere di non toglierti la maschera da solo?! - esclamò lei chinandosi su di lui e afferrandolo per i polsi, impedendogli di continuare. A quella vicinanza dal suo viso, notò che tutta la parte del mento era già stracciata.
- Ma che differenza ti fa? La maschera è da cambiare, non è più utilizzabile... - sbuffò lui guardandola negli occhi, annoiato.
- La divido in pezzettini che poi riciclo, mi serve! -
- Lo dici tutte le volte, poi alla fine del trucco sei così stanca che la butti sempre via -
- Ma che fai, mi spii? -
- E' impossibile spiarti, ogni tua azione è plateale e alla luce del sole -
Lei sospirò forte e un poco toccata nell'orgoglio, mentre ancora gli serrava i polsi e lo guardava così da vicino. La situazione gli doveva sembrare molto, molto divertente, altrimenti non si sarebbe lasciato andare in un sorriso abbozzato e sereno.
Sì, sempre quelli che a Yukiko piacevano tanto e che a quella vicinanza diventavano pericolosi.
Gli lasciò i polsi e si raddrizzò sospirando, guardando fuori dalla finestra e allontanandosi.
- Ah, fai quello che vuoi. Nessuno di voi ha mai rispetto per noi camuffatrici! - si esasperò lei, mentre in sottofondo sentiva il doloroso rumore della maschera che si staccava e si lacerava.
Quando Akai se la fu tolta del tutto, sbatté le palpebre sollevato e sospirò. - Abbi pazienza e tieni in conto che, tra non molto, dovrò restare immobile per almeno tre ore. -
- Te lo meriti. - sentenziò Yukiko in tono lugubre, continuando a tenergli il broncio.
Akai ridacchiò. - Mi fai un favore? Se da basso senti fischiare la pentola perché il manzo sta bruciando, corri tu a spegnerlo? -
- No, te lo lascio bruciare – disse lei mentre, con sguardo basso, apriva tutti gli astucci con foga e ne estraeva vari pennelli e tubetti.
- Ah, che peccato. Volevo offrirti la cena stasera. -
Un paio di pennelli le caddero di mano e finirono a terra, mentre li estraeva. Si chinò per raccoglierli ma si chinò pure Akai, così per poco non sbatterono la testa l'uno contro l'altra. Si bloccarono appena in tempo con la mano tesa verso terra, le cui dita si sfioravano reciprocamente, appena in tempo per alzare la testa e incrociare i loro sguardi.
Yukiko si ricordò improvvisamente di quanto fossero penetranti gli occhi del vero Shuichi, con quel colore acceso e l'occhiaia pronunciata che una volta si era divertita a coprire col fondotinta. Ci aveva messo una vita. Con un inopportuno batticuore velocemente si rialzò, mentre anche lui si ricomponeva sulla poltroncina.
- In quel caso va bene... - sussurrò lei senza ancora guardarlo. - Spegnerò il fornello quando necessario. Ma solo perché voglio capire che cavolo ci hai messo dentro per renderlo così visivamente delizioso -
- Lo stufato ringrazia. -
- Viene anche Shinchan a cena, giusto? - chiese lei con nonchalance, schiarendosi la gola e iniziando a pulire i pennelli con uno straccetto.
- Che io sappia tuo figlio è in campeggio con Agasa e gli altri ragazzi. -
- Ah. - Si schiarì ancora la gola e prese un lieve sospiro, prima di proseguire. - Allora la ragazzina? Quella che sta da Agasa? -
- Beh, temo che pure lei sia in campeggio, no? - azzardò lui con un mezzo sorriso.
- Ah, sì. Beh... credo di sì. - sussurrò lei a disagio, velocizzando il ritmo di pulizia dei pennelli inconsciamente.
- I tuoi colleghi, forse...? -
- Sono di ronda tutta la sera e la notte. Ma il problema principale è che ho preparato stufato solo per due persone -
- E perché accidenti l'hai fatto, se abiti da solo? -
- Perché intendevo ringraziarti per il disturbo che ogni volta ti prendi, senza mai chiedere nulla in cambio. - rispose lui stringendosi nelle spalle, in tutta calma. Quando vide che lei si era immobilizzata sul posto, smettendo all'improvviso di passare ossessivamente lo straccetto logoro sui pennelli ormai ultralucidi, si affrettò ad aggiungere: - E per dimostrare alla maestra di cucina che sì, posso superarla. -
- Ah! Questo è tutto da vedere. - sentenziò lei con un sorriso ironico ma segnato inequivocabilmente da un'emozione più profonda. Simile alla gratitudine, allo stupore.
Scese il silenzio, e quando Yukiko intinse un primo pennello in una sostanza collosa Akai si appoggiò meglio allo schienale della poltrona, piegando all'indietro la testa e chiudendo gli occhi.
- E' accaduto più volte che tuo figlio ti facesse venire in Giappone dall'America, da un giorno all'altro, per questo genere di emergenze. Non tutte le madri sarebbero disposte a farlo, non credi? - proseguì Akai, deciso a non lasciar cadere l'argomento.
- Io... negli ultimi tempi non sono stata molto presente nella vita di mio figlio. Me ne sono andata in un altro Paese mentre lui qui affronta la vita da solo, nemmeno molto facile, visto quello che è successo. Sento che questo è il minimo che possa fare – mormorò lei passandogli le prime e delicate pennellate sul viso, percorrendo con minuziosità i tratti sotto gli occhi e ai lati del naso.
- Non l'hai certo fatto per menefreghismo. L'hai fatto perché sai che è un ragazzo intelligente e indipendente. Forse hai capito che era addirittura meglio che te ne andassi -
- Sì. Più o meno è andata così. - disse lei rimanendo china su di lui e intingendo nuovamente il pennello nella sostanza. - Mi sono quasi sentita di troppo, e vedo che in fondo lui non ne soffre. Questo almeno mi fa stare tranquilla. Ma comunque cosa saresti, il mio analista personale? -
- Consulenza per consulenza. Tu mi trucchi, io ti faccio terapia -
- Mi sembra un ottimo scambio, visto tutto il tempo che ci metteremo. Ma non ti facevo così chiacchierone... -
- Per confessartela tutta, sono ben poche le persone con cui imbastisco conversazioni che vadano oltre un certo numero di parole -
- Beh, sarai invogliato dalla mia parlantina. Dal fatto che io parlo anche coi muri e non mi offendo quando non mi rispondono -
- Quando non ti rispondono? Perché, a volte lo fanno? -
- Sì, agente... lo fanno quando sono esasperati. -
Risero entrambi, lui con gli occhi chiusi e lei col pennello che ancora solcava quel viso segnato. Non avevano mai parlato di quel genere di argomenti, durante tutte le altre sedute: forse il rimanere da soli aveva sortito questo, come primo effetto.
- E che mi dici del tuo lavoro? - chiese Yukiko, picchiettandogli sul viso la cipria.
- Che finché non ho distrutto quei miserabili, non mi sento l'anima in pace -
- Potrebbe mai un uomo del tuo genere ottenere la pace dell'anima? -
- No. Forse no. -
- Non voleva essere una domanda retorica, ma una domanda vera e propria. -
- Anche la mia è una risposta vera e propria. -
- Penso che tu debba un po' rilassarti, Shuichi... - dichiarò lei scuotendo la testa ma rimanendo con lo sguardo attento sulla densità della cipria. - Scusa se ti chiamo per nome, ma sono abituata così e non me ne importa un fico secco. -
- Figurati. Yukiko. - precisò lui, facendola lievemente arrossire e anche ringraziare il cielo che lui avesse gli occhi chiusi. - E penso tu abbia ragione, ma ne ho passate tante. Troppe. E quando attraversi determinati periodi e situazioni, la tua anima entra in uno stato di perenne confusione. Quindi non saprei proprio cosa risponderti. -
- Va bene così. Ma ricorda che non sei costretto a rimanere a guardare e riguardare i brutti periodi della tua vita e il modo in cui ti hanno segnato. Puoi sempre fare qualcosa per riprenderti. -
- E' vero. Ti ringrazio, ogni tanto ci vuole qualcuno che me lo ricordi -
Lei sorrise, mentre lui aprì un solo occhio verde con cui le mandò un lampo di complicità.
Parlarono di queste e di altre cose per almeno un'altra ora, finché Shuichi non sospirò in modo enfatico.
- Pausa sigaretta? -
- Se proprio devi... -
- Non ti fa male la schiena a rimanere inarcata senza pause per tutto questo tempo? -
- No, perché sono concentrata! -
- La concentrazione non è un cuscinetto per la colonna vertebrale -
- Che ti devo dire? Ho ancora il fisico! - ululò lei compiaciuta, facendogli l'occhiolino.
Lui rise scuotendo la testa e uscì dalla stanza accendendosi una sigaretta estratta dalla tasca della camicia nera. Yukiko rimase in quella saletta ad aspettarlo, visto che doveva riordinare diversi flaconi e scatole. Quando lui tornò, aveva portato anche una bottiglia di whisky e due bicchieri.
- Oh, ecco qui il ritratto di una vita sana - biascicò Yukiko scuotendo la testa. - Ti vuoi ubriacare mentre ti trucco? E' il tuo modo per riuscire a restare fermo nelle prossime due ore? -
- Non mi ubriaco certo con un bicchierino -
- Beh... io sì. Quindi metti pure via l'altro bicchiere. -
- Oh, questo è interessante... - scherzò lui alzando un sopracciglio nella sua direzione e facendola imbarazzare.
- Che vorresti dire? Lo vedi che allora avevo ragione, a pensare fossi un maniaco? -
- Mi sa proprio di sì. - posò bicchieri e bottiglia sul mobile, facendo attenzione a non disordinare gli strumenti da trucco. - Forza, Yukiko, un piccolo brindisi per smorzare questo sempre lungo e duro lavoro. E per festeggiare me, che col mio stufato di stasera ho superato la maestra -
- Guarda che tu lavori di fantasia, bello! - alzò la voce lei punzecchiata da quella presunzione insensata, e quasi come volesse sfidarlo afferrò un bicchiere e gli fece il gesto di riempirglielo. - Ti mostrerò che tutto quel sale che hai buttato in pentola era meglio impiegarlo per curarti le ferite di guerra che ti beccherai dopo cena, sapendo che hai perso -
Lui rise e versò il liquido ambrato prima nel bicchiere di lei e poi nel proprio. La sera iniziava a scendere oltre la finestra della saletta, permeando gli alberi scossi dalla brezza di un morbido manto blu.
- Sempre se sarai ancora sobria – mormorò lui, avvicinando il bicchiere al suo e scontrandoli lievemente per il brindisi.
- Sappi che bevo solo per scaldarmi... - disse lei portandosi il bordo del bicchiere alla bocca e guardandolo di sottecchi, lievemente scocciata.
In effetti, acutizzando lo sguardo, lui notò che sulle braccia nude della donna regnava un'incontrastata pelle d'oca. Solo con quel vestito a maniche corte e senza un golfino, con l'aria serale ancora troppo fresca e a tratti gelida che penetrava dalle fessure della finestra, non poteva pensare di rimanere così ancora a lungo senza prendersi un malanno. Continuando a bere un sorso, Shuichi sparì per alcuni secondi fuori dalla saletta lasciando Yukiko perplessa a scaldarsi con altri rapide ingurgitate di whisky. Si sarebbe ubriacata di quel passo. Ma non aveva nessun golf perché di giorno faceva caldo. Già una volta era stata beccata da Shinchan in quello stato, vestita succinta in pieno inverno mentre beveva mezza bottiglia di vino per scaldarsi perché aveva scordato la giacca in macchina e non voleva uscire a prendere aria, al che lui le aveva dato della scema irrecuperabile senza batter ciglio e col suo tipico modo da sbruffone maleducato. Lei gli aveva risposto “meglio buttar giù vino che farmaci sconosciuti”, che per quanto fosse stata una battuta di gusto crudele almeno l'aveva ammutolito definitivamente.
Quando Akai ritornò in stanza, col bicchiere vuoto, aveva con sé anche la propria giacca di pelle nera. Lei non si mosse e non disse nulla, anche se la vista di quel nuovo indumento le accese una piccola fiamma di bramosia. Come se Shuichi l'avesse capito, coprì le spalle di Yukiko con la giacca e gliela sistemò un minimo, sfiorandole la pelle con le dita e lasciandole in regalo un brivido in più, non dovuto al freddo. Lei poi afferrò i bordi della giacca per assestarsela da sola, evitando di voltarsi ma mormorandogli un ringraziamento. Lui si appoggiò al mobile dei trucchi, riempendosi un secondo bicchiere.
La donna rimase immobile con lo sguardo incatenato ai riflessi ricreati dal vetro lucido della bottiglia. Aveva la mente un poco annebbiata e spaesata, mentre stringeva i lembi della giacca che in quel momento le dava finalmente un po' di calore – e che era più pesante di quanto immaginasse. Cosa ci teneva dentro, il piombo? Comunque un gentleman, davvero. Sorrise fra sé e sé, ma la verità è che mantenne il sorriso anche quando alzò lo sguardo su di lui. Sentiva di avere le guance un po' rosse e gli occhi un po' lucidi, anche lei aveva finito velocemente il suo drink improvvisato. Shuichi, sentendosi osservato, le propose un secondo bicchiere che lei saggiamente rifiutò.
- Ti sei scaldata abbastanza? -
- Abbastanza -
Shuichi annuì e poi evitò il suo sguardo, concentrandosi sul drink nel silenzio che si era creato. Ma continuava a sentirsi osservato. Rise, scuotendo la testa.
- Non mi sono innamorata di te, tranquillo – puntualizzò Yukiko, intravedendo una sfumatura di disagio e soggezione nel sorriso di Akai.
- Mpf... -
- Ti guardo così perché sei un bravo ragazzo. - continuò lei, tenendo ancora lo sguardo sereno su di lui. - E alle brave persone è necessario sorridere. -
Quando lui la guardò, smettendo momentaneamente di bere, aveva un'espressione assorta e attenta. Non si aspettava di sentirsi rivolgere una simile dichiarazione.
- E perché sono brilla. Anche per quello ti sorrido. - concluse lei alzando il bicchiere alla loro salute, per poi avvicinarlo alla bocca e bere il nulla. Quando se ne accorse guardò il bicchiere con sguardo risentitissimo, come se avesse ricevuto uno schiaffo. Questo fece ridacchiare ancora Akai.
- Senti, quando inviti qui la ragazza dell'FBI?? Quella bionda che ti accompagna sempre nelle missioni? E' davvero in gamba! - esultò Yukiko allungandosi un secondo bicchiere.
- Chi, Jodie? Ma adesso che c'entra? -
- Ed è anche bella! -
- Sì, è vero, ho capito... ma te lo richiedo, cosa c'entra? -
- C'entra sempre! Stavate insieme, vero? -
- Yukiko... -
- Quanto tempo fa? -
Shuichi sospirò, mandando giù l'ultimo sorso di whisky.
- Come lo sai? Te l'ha detto lei? -
- Ma figurati. -
- E chi allora? -
- Nessuno, Shuichi! L'ho capito guardandovi, un giorno che eravate qui entrambi. Mi ci è voluto ben un minuto intero, perché siete agenti super scaltri, ma alla fine è così -
Lui annuì lievemente, perdendo lo sguardo nel vuoto subito dopo e sorridendo amaramente. Un tipo di reazione che non scalfì Yukiko nemmeno nell'anticamera di se stessa.
- E niente, perciò quand'è che vi rimettete insieme? -
- Yukiko, è... è un po' più complicato di così – disse lui lentamente, come se ogni sua parola potesse diventare un pretesto esplosivo per chissà quale altra conversazione.
- Per me, tra i due, sei tu quello che fa diventare le cose complicate -
- Ma che intuito... -
- A lei ci vorrebbe giusto un'ora per rimettere tutto a posto -
- Lo so, lei è molto più decisa di me -
- E allora dovrò darle una mano, povera ragazza. - decise lei, bevendo dal bicchiere. - Come brucia sto liquido! -
- In che senso darle una mano? - le chiese con una bella accordata d'ansia nella voce. Quella donna gli faceva provare sensazioni da cui normalmente non veniva neanche avvicinato.
- Oh, tu non preoccuparti. - disse, facendolo preoccupare. - Le darò un paio di consigli, accontentati di questo. Ve lo meritate. Aaaah, anche se da una parte mi dispiacerà così taaaanto! - ululò lei gettandosi addosso a lui senza pudore. Gli mise le braccia attorno al collo e iniziò a piagnucolare sul suo robusto petto, mentre un perplesso Shuichi le teneva salda la giacca sulle spalle che minacciava di cadere a terra ad ogni suo sussulto. - Aiutando lei ti perderò per sempre! -
- Che stupida che sei... - rise lui, tenendola in quella sottospecie di abbraccio grottesco. - Verrò ancora qui a farmi torturare da te e dai tuoi strumenti -
- Promesso?! -
- Promesso. -
Al che lei, contenta e convinta dal discorso, si staccò da lui e ricevette per l'ennesima volta in quella giornata uno di quei suoi bei sorrisi accennati. Yukiko allora ricambiò con qualcosa tipico di lei: gli fece ancora l'occhiolino.
Uno di quegli occhiolini che a Shuichi piacevano parecchio, ma per cui non intendeva far trasparire nulla.








**************************************
Ok, visto? Non è come sembra XD Potete asciugarvi il sudore dalla fronte!
E' una cosa impensabile, lo so, ma tutto è stato innescato dal fatto che, quando mi sono tornati sottomano i capitoli delle rivelazioni di Akai – e quindi dove diamo per certa la sua doppia identità con Okiya, mi imbatto in questa cosa: Yukiko, presente in Villa Kudo sottoforma di ricordo molesto, esaltata come poche all'idea di poter pasticciare ancora un po' l'agente dell'FBI perché, insomma, fondamentalmente è figo e lei potrà (anzi, dovrà) passare molto tempo con lui. Sommandolo al fatto che, se ci pensiamo, è lei che gli ha insegnato mezzo vivere (come cucinare, come fare quello e l'altro, probabilmente anche come lavarsi) di momenti se ne sono certamente scambiati, il che va a giustificare la reazione che ha Yukiko in quel capitolo. E niente, da qui sono decisamente partita per la tangente e ho voluto scriverci qualcosina :D Come vedete tutto molto innocente, non ho fatto carognate!
I personaggi? IC? Poi loro sono un po' come i poli del sud e del nord, tremendamente non-simili :') Si compensano. Anche Jodie in fondo ha un carattere più estroverso e gioioso che ricorda quello di Yukiko, il “problema” è che lei ha tutto un background con lui che crea un certo peso che certamente Yukiko non ha. Comunque classificherei questa shot sotto la voce “missing moments”, perché di certo un rapporto c'è e bisogna un po' immaginarselo ;) Un ringraziamento va a voi, sia ai nuovi recensori che ogni tanto compaiono nelle review e lasciano commenti WOW, che agli usuali che non mollano mai! *___*
A presto!

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Capitolo 32
*** Compressa bianca e rossa 2 - AiAPTX ***


32. Shiho e APTX4869 ~

Alert: non è un seguito, ma è lo stesso schema della shot 27

***






Compressa bianca e rossa - parte 2

Si spalancano di fronte a me le due classiche opzioni, visto che questa soluzione non funziona né mai funzionerà: perseverare in questa direzione che pare un vicolo cieco, perché in fondo io ci vedo un potenziale di riuscita anche se in tempi lunghi, oppure gettare subito la spugna e passare a qualche altro percorso sperimentale che, forse, si rivelerà più fruttuoso sulla breve durata. Ma che mi ruberà ancora tanto tempo e che probabilmente farà la fine dell'opzione precedente.
Non ci giurerei proprio, sulla riuscita di questo compito in tempi ristretti. E' da oltre un anno che l'ho capito. Chissà che diavolo ho mescolato qualche anno fa per crearti così forte, APTX... e chissà se sono io ad aver perso colpi nel frattempo, a non avere più l'elasticità mentale necessaria a trovare una soluzione completa ai tuoi inesorabili effetti. Me lo chiedo di continuo.

Ahahah, che spasso.

...ma che?

Ahahahahah...

Oh, no...

Oh, , volevi dire...

Non è possibile. Non ci credo.

E invece credici, baby.

Ancora tu... dopo tutto questo tempo torni ad assillarmi. Ormai credevo fosse finita tra noi.

Mi hai praticamente invocato. E come puoi pensare che il nostro bellissimo amore sia finito, Sherry? Io non l'ho mai e poi mai pensato! Mi ritengo offeso, tradito.

“Amore”? Mi hai rovinato la vita, e tu lo chiami “amore”?

Si vede che era un amore tanto passionale e travolgente da rovinarci entrambi, che ti devo dire. Lo trovo davvero romantico.

Ascolta, APTX. Io non dovrei essere qui a pensarti e a... parlarti.

Ma tu mi parli e mi pensi costantemente, piccina. Passi le tue giornate e le tue nottate davanti ad un computer per pensare unicamente a me.

Per pensare unicamente a come distruggerti, se vogliamo essere precisi.

Ecco, di nuovo. Non fai altro che offendermi e ferirmi. Ho dei sentimenti, sai? Comunque ammettilo: quando ti senti sola perché sei bloccata in questo buio stanzino di casa a lavorare per me, quando sai di non poter donare tempo ed energie alle tue relazioni interpersonali, un po' sei contenta che io ci sia. E che ti tenga compagnia.

Nella tua concezione tenermi segregata in uno stanzino buio e impedirmi di vedere sia la luce del sole che altri esseri umani è “tenermi compagnia”?

Sì.

La risposta è no.

Sono una pillola, dannazione, Sherry! Abbi elasticità! Cosa vuoi che sia la mia concezione, rispetto a quella di una persona?

Comunque la risposta non cambia.

Cambia eccome, invece. Pensaci bene. Io e te, qui da soli tutto il giorno... al riparo da occhi indiscreti che tanto non ci capirebbero... tu che leggi dentro di me, vedi le mie formule e i miei intimi segreti, mi apri e mi richiudi... aaaah...

Sai che ti dico? Stavo bene senza di te, erano mesi che non facevi così e non ti facevi sentire nella mia mente. Sparisci.

Forza, voglio sentirtelo dire. Meglio ancora se accompagnato da un gemito. Dai, Sherry, un'ultima volta, e se lo dici a chiare lettere giuro che me ne vado.

Te ne vai per sempre?

Per sempre. Allora, sei contenta che io ti faccia compagnia, che ti intrattenga, che ti faccia passare il tempo in modo così scientifico, affascinante e intelligente?

Sì, in fondo ne sono contenta.

BINGO!

Bene, ora puoi andare.

Ma scherzi? Adesso che inizia il divertimento, donna della mia vita?

Avevi giurato!

Sono una pillola, dannazione, Sherry! Cosa vuoi che significhi un mio giuramento rispetto a quelli fatti da una persona?

Sei davvero osceno. Lasciami stare, ti prego, sto lavorando e mi manca ancora così tanto...

Suvvia, ti do il permesso io stesso di prenderti una piccola pausa. Io, che sono il boss di quest'operazione e che ho dato il via ad un infinito e inconcludente lavoro.

Non voglio pause. Voglio debellare il tuo effetto per sempre, e mi serve tutto il tempo che ho a disposizione.

Ah, sì, a proposito, ti avevo già detto che tutto il lavoro che stai facendo per trovare un antidoto che mi contrasti è completamente inutile?

Sì, me l'hai già ripetuto più volte e con crescente enfasi.

Ah, ecco, mi sembrava. E allora perché lo stai ancora facendo? Sei per caso un po' smemorata?

Lo sto facendo perché la tua opinione tutt'altro che disinteressata mi entra in un orecchio e mi esce dall'altro.

Sei sempre crudele con me. Mi ignori, mi tratti da idiota. E mi fai soffrire. Dopo quello che abbiamo creato insieme mi pare proprio ingiusto da parte tua.

Non abbiamo creato un bel niente, a parte una quantità indecente di sbagli e sofferenze.

Appunto, a me non sembra “niente”!

Vattene, APTX.

Non voglio lasciarti sola.

Mi hai già fatto fin troppa compagnia in passato, e ti ringrazio, eh. Ma adesso sto bene così.

Non è vero, non ti credo. Non c'è nessuno qui sotto con te, in questo seminterrato. Chi si sta preoccupando dei tuoi occhi stanchi, del tuo mal di testa, del livello di caffeina che ti sale nel sangue? Del fatto che hai voglia di vedere la luce del sole ma che, quando uscirai da qui, sarà già sorta la luna?

Nessuno.

Esatto.

Ma cos... no, basta! Smettila! Lo stai facendo apposta, non ti voglio nella mia testa!

Ma io ci sono, Sherry. Ai. Shiho. Dimmi come vuoi essere chiamata ed io eseguirò. Io ci sono e mi preoccupo, non ti lascio sola nemmeno in questi momenti. Perché so che tu sola non ci vuoi stare, ma quasi nessuno lo capisce.

Davvero, ascoltami: già non ne posso più di osservare e ri-osservare allo sfinimento le tue molecole e i tuoi gradi di tossicità.
Conosco ogni singolo atomo del tuo essere. Ci manca solo che devo pure parlarti nella mia testa e farmi dire da te come mi sento.

Guarda che basta dire “Sì APTX, hai ragione su tutto e ti ascolterò ancora” che va bene lo stesso.

Ma non intendo proprio niente di tutto ciò!

Guarda che se vuoi prendere per il culo la gente intorno a te, o il tuo amichetto che ancora pensa ci siano concrete possibilità di tornare il bello che era prima con un antidoto del tutto impossibile da creare, mi sta più che bene. Ma sai con certezza che con me questa tecnica non può attaccare, e per un semplice motivo. Come tu vedi tutto di me, io faccio lo stesso con te.

Come ti ho creato ti distruggo.

Oh, lo vedo, Sherry. Dai, sono sicuro che tra dieci o quindici anni potrai ripeterlo con più sicurezza e prove dei fatti.

Non mi provocare. Io non prendo in giro nessuno, pondero bene quello che comunico agli altri e “al mio amichetto” e ti assicuro che ho praticamente la soluzione sotto il naso.

Beh, vuol dire che il tuo naso si è perso chissà dove. A proposito, sai che ho parlato anche con lui qualche tempo fa? Col tuo amichetto. E' stato esilarante. Anche se fate a gara a chi spara più stronzate su voi stessi e sul vostro reale stato delle cose, in realtà quello lì è messo peggio di te.

Stai scherzando, vero? Non ti bastava tormentare me ogni volta che ne avevi lo spiraglio di possibilità?

Eh, no, con te quasi non riuscivo più e mi dispiaceva. Solo che con lui è stato anche faticoso, e poi mi sta sulle palle, giuro che se un giorno mi gira la luna storta gli provoco qualche scherzetto corporeo perché davvero, Sherry, deve imparare un attimino chi comanda. Mentre con te è diverso, non farei mai nulla di simile perché io posso giurare di amarti, sei la donna che mi ha creato...

E tu sei un gran manipolatore. Anche se fatto di cellulosa.

Sei la donna con cui ho fatto le più grandi cose, grazie a cui ho costruito una mia reputazione diabolica.

Che meraviglioso quadretto... da andarne proprio fieri.

Io ne vado fiero, perché c'eri tu al mio fianco e perché sei tu ad averlo permesso. Anzi, ecco qui una sorpresina: ti ricordi il giorno in cui sono stato creato? Sintetizzato in una pillola in laboratorio, finalmente, direttamente dalle tue esili e bianche mani? Io me lo ricordo benissimo. Mi tenevi tra le dita, ma soprattutto ricordo il sorriso che ti si era formato sul viso, soltanto a vedermi. Ero il tuo piccino!

No, non credo di ricordarmelo. E' passato molto tempo.

Dopo tanti sforzi e notti insonni, ecco che prendevo forma sotto i tuoi occhi! Ce l'avevi fatta, Sherry, ero il tuo vero, primo e tangibile lavoro, frutto dei tuoi studi! Bellissimo, che momento. Non dimenticherò mai quando ci siamo guardati la prima volta, io piccolino e a due colori. Tu con quel sorriso così fresco, così sollevato. Così amorevole.
Mi amavi anche tu, bella scienziata. E forse mi ami ancora adesso, come io amo te, perché di fatto sono nei tuoi pensieri e riempio le tue giornate come nessun altro. Sono sempre dalla tua parte, a prescindere dalle tue colpe. E perché in fondo sono stato la tua prima grande soddisfazione, fonte dei tuoi elogi, e non lo scorderai mai.


Ecco, APTX, arriviamo allora ad un bel compromesso: io ti ringrazio molto per quei bei momenti passati assieme, ma ora sono conclusi ed è tempo di voltare pagina per entrambi. E' tempo per me di creare l'esatto contrario di ciò che sei adesso e di distruggerti. E per te, beh, è tempo di essere distrutto. Non fa una piega.

Allora te li ricordi, quei momenti...

Non te lo posso nascondere, a quanto pare. E nemmeno negarli. Ero troppo giovane e ingenua, abituata solo ad essere strigliata e biasimata, nonostante i miei studi e gli sforzi. Quando finalmente sono riuscita a darti sia una forma che un nome, per me è stato il primo traguardo e in quel momento ti ho davvero affibbiato un grande significato. Eri il mio, mio APTX4869.

Oh, ti prego, dillo ancora...

Vicino al tuo nome compariva il mio, ovunque venisse segnalato. Eravamo sempre affiancati.

Fino a quando non hai iniziato a stufarti di me.

E a temerti.

Quando sarebbe iniziato questo tracollo? Me lo puoi spiegare?

Quando ho capito che ammazzavi la gente.

Beh, tesoro, lavoravi per un'organizzazione criminale che di lavoro fa quello, mica per una wellness & fitness. Cosa ti aspettavi?

Sei il motivo per cui sono stata riconosciuta come un'assassina. Per cui ogni tanto vorrei lasciarmi morire, sebbene poi decida di non dartela vinta. E sei il motivo per cui Shinichi Kudo, la prima volta che mi ha incontrata, mi ha odiata profondamente.

Shinichi Kudo non ti darà mai un lieto fine. Ha già altro per la testa e tu chissà perché te ne occupi così tanto. Mentre io sì, posso darti il fine che meriti. Cosa volevi che facessi, Sherry, una volta che mi hai composto così?

Che facessi quello che avevo inteso creandoti! Ricostituire i corpi delle persone, non devastarli!

Stai a vedere che ora è colpa mia, perché non ti sei studiata bene qualche libro?

Certo che è colpa tua! Perché sei andato diversamente da come previsto dai miei calcoli, perché i casi in cui lasciavi in vita le tue vittime erano pochissimi.

Però hai visto che tu sei stata una di quei sporadici casi? Ti ho lasciata viva e vegeta, dandoti la possibilità di rivivere un'infanzia che avevi perso. Eseguo i tuoi desideri, non i tuoi dispiaceri.

Oh, ma che dolce.

In realtà sì. Ti penso sempre, penso al tuo benessere.

Smettila, mi fai ribrezzo.

Mi ecciti un po' quando mi tratti così male nonostante le mie amorevoli cure.

Sei una schifosa compressa, non oso immaginare come potresti eccitarti.

Puoi immaginare almeno il mio immenso amore per te? Mia creatrice, mia donna dalle mille risorse?
Mi puoi dire se mi ami come io amo te? E che ci ameremo per sempre?


Non vedo l'ora di schiacciarti sotto la suola della mia scarpa più lurida. Tutto questo mentre ingerisco l'antidoto definitivo.

Pazzesco, mi fai impazzire! Sappi che io non dimenticherò mai i nostri primi e veri momenti insieme. Nessuno ce li porterà via, e se solo tu volessi dedicarti al mio pieno sviluppo, anziché alla mia distruzione... ti assicuro che arriveremmo lontano, creando grandi novità. Volevi ricostituire i corpi, giusto? E' il lato più benefico della faccenda che tenti di inseguire? Benissimo, mi presterò anche a questo, purché sia tu ad occupartene. Ti aiuterei e ti spronerei.
Ma invece no, eh? Preferisci eseguire gli ordini di un tappo con gli occhiali. E ingerire un antidoto che ti farà perdere la seconda opportunità di costruirti un'infanzia, un cerchio di affetti e un futuro decente. Brava! Che ottima scelta di percorso!


Che ne sai, tu, di tutto questo?

Sveglia! Te l'ho già spiegato il paradigma, ed è estremamente sexy: tu sai cosa c'è dentro di me, ed io dentro di te.
Io voglio, desidero che tu conosca i miei atomi. Lascia che io faccia lo stesso con te.


Non è normale che io mi senta sessualmente molestata da un farmaco. Adesso basta...

Tu questo antidoto, Sherry, non lo vuoi prendere. Non mi vuoi davvero abbattere.
Lo fai solo per lui, ma a te non interessa. A te piace questa vita che ti ho regalato.


Apotoxina, stai sforando il limite e non finirà bene, te lo garantisco.

Tu ci sguazzi in questa vita. Lui no, lui vuole il tuo antidoto e le tue capacità. Tu vuoi i ragazzini detective, vuoi Agasa, vuoi andare a scuola, vuoi un primo amore decente. Lui è pronto ad abbandonare tutto questo, ma tu no.

Pasticca di merda, taci, taci, devi tacere.

Dimmi solo che ho ragione. Che in qualche modo ti ho colpita, che forse non dico solo cattiverie e cose insensate al solo scopo di infastidirti, e che ci penserai.

Io... no. Preferisco di no. Hai causato troppi mali, APTX. Mi ricordi troppi eventi orribili. E la tua esistenza ha provocato in me un senso di colpa e di responsabilità che fatico tutt'oggi a gestire.

Sono un peso per te e la tua coscienza, Sherry? Non ti mancherò, quando mi cancellerai? Non mi ami più?

Sei un peso per me, APTX. E non ti amo più.
Non ti ho mai amato.
A dire il vero non so neanche come tu abbia potuto pensarlo.
Per me sei solo un cupo ricordo che neutralizzerò appena potrò.

Per me sei...

Sei...

La mia prima creazione, la mia prima vittoria, e il mio primo dispiacere amaro.

Sei...

APTX? Mi ascolti?

Ma ci sei?

APTX? Dove sei finito?

Ehi? Rispondi? Mi stai ascoltando?!

APOTOXINA! Come puoi sparire così nel bel mezzo di un discorso!

Non ti ho mai amato, e non vedo l'ora di distruggerti! Mi senti?! Ci sei? Apotoxina? Ci sei?!
Ora mi voglio sfogare e non c'è nessuno qui con cui possa farlo! Ci sei solo tu!
Dove sei finito? Stavamo parlando! APTX!

Ti prego!

Ci sono. Ci sono, tesoro mio. Non ti lascio.
Volevo solo capire che effetto ti potesse fare la mia assenza.
E l'ho visto.


 




****************

- Haibara? -
Ai, ancora china sul tavolino d'acciaio di quel fresco seminterrato, si riebbe solo in quel momento da quello che forse era stato un momento di trance.
Sussultò e aprì bene gli occhi, li focalizzò su ciò che aveva sotto al naso. Nella penombra guardò le proprie dita immobili a contatto con un vecchio campione di APTX4869.
Il campione era aperto, poco prima lei ne stava estraendo la polvere interna per poterla poi esaminare per l'ennesima volta. E poi basta, nella sua testa tutto si era spento ed era arrivata quella voce. Era rimasta in quella posizione chinata per quanto tempo?
Conan, con passo cauto e incerto, scese alcune scale del seminterrato ma rimase in alto, continuando a parlarle.
- Tutto ok? Sarà tipo la quinta volta che ti chiamo... -
- Ero... concentrata. -
La voce sussurrata e cupa che le uscì mise a disagio entrambi. Lui decise di scendere ancora le scale, fino ad arrivarle di fianco per guardare cosa stesse facendo sul tavolino. Come aveva supposto, armeggiava con una compressa aperta.
- E' L'APTX, quello? -
- Sì. -
Aperta e devastata, con tutta la sua polvere interna sparsa attorno, la pillola di APTX giaceva inerme e apparentemente innocua.
Le fece quasi un po' pena.
Ai rimase a fissarla più tempo del necessario, con sguardo spento. Nel totale silenzio che si era creato, Conan si grattò la nuca leggermente imbarazzato e provò a riproporle qualcosa.
- Come ti dicevo prima, anche se non mi hai sentito... ti va di uscire? C'è un bel tramonto. I ragazzi reclamano la tua presenza -
- Sì... meglio. Meglio se mi porti via da qui almeno per un po'. - mormorò lei, senza guardarlo.
Conan, reso un po' perplesso dalle sue parole e dal suo tono, provò a seguirle lo sguardo. Sforzando gli occhi contro la penombra, riuscì a capire che era concentrata sul farmaco, come se stesse cercando di capire cosa farne realmente.
Ma poi gli venne un lampo di comprensione.
Un ricordo fugace e molesto, che aveva interessato anche lui e che l'aveva malamente colpito per diverse notti di seguito.
L'APTX. Lì, davanti a loro. E lei, così provata mentre lo fissava. Come lo era stato lui qualche giorno prima, dopo che...
- E' successo anche a te? - provò Conan con un mormorio.
Ai si voltò verso di lui, drizzando bene le orecchie, ma non disse nulla. Credeva di sapere cosa stesse intendendo Conan.
- Voglio dire... ci hai parlato? Hai parlato con l'APTX? E ti ha detto... alcune cose? - continuò il detective, sentendosi un pazzo nel momento stesso in cui pronunciava quelle parole. Ma aveva la netta, nettissima sensazione di essere sulla strada giusta.
Perché se l'APTX trovava il modo di tormentare lui, chissà cosa ne doveva concepire con lei.
- Non so di cosa parli. Allora, andiamo? - lo liquidò Ai, nonostante i suoi occhi fossero carichi di significato. Lo aveva capito, ma voleva voltare pagina subito.
Conan annuì e accettò di buon grado le sue intenzioni: se l'APTX voleva tenerla segregata lì dentro, lui avrebbe fatto di tutto per contrastarlo.
Le afferrò dolcemente il polso e la condusse su per le scale, fuori da quel luogo. E prima di chiudersi la porta alle spalle, Ai lanciò un ultimo, ansioso sguardo alla compressa dilaniata sul tavolino d'acciaio.








************************************************
Dopo la shot n. 27, che ha visto l'APTX alle prese con un portasfiga uguale a lui, ecco APTX–2 il ritorno :D Stavolta alle prese con Ai, la sua ufficiale creatrice.
A differenza della conversazione avuta con Conan, dove l'APTX si era accanito mostrando il suo lato più borioso e antipatico al solo scopo di ferirlo e minacciargli una fine tutt'altro che piacevole, qui ho adottato tutt'altro registro. L'APTX è riconoscente a Sherry, è solo grazie a lei se adesso può “parlare” e agire e questo lo capisce, quindi non vede il motivo di attaccarla o minacciarla solo per farla desistere dalla creazione dell'antidoto: anzi, le mostra il suo aspetto più sentimentale e malinconico tramite dichiarazioni più o meno velate (e porche, sì lo ammetto XD). Per lui Shiho è tutto, e per quanto la prenda un po' in giro in modo crudele non le vuole male. E analogamente al caso del detective, tende a suggerirle cinicamente la verità dei fatti e ad anticipare i suoi pensieri poiché, come nell'altra shot, è semplicemente una forma della loro coscienza. Nel caso di Shiho, forse lei sotto sotto gli dà un po' ragione, e sempre sotto sotto è anche orgogliosa di quella sua creazione, nonostante i problemi che le ha presentato – ma questa è un'idea contestabile.
Facciamo poi che questa shot è dedicata a shinichi ran amore, che con incredibile pazienza l'ha attesa ricordandomi ogni volta che la dovevo pubblicare (spero di non averti deluso! ^_-) e a unusual kind of lemonade, a cui ricordo essere piaciuto il personaggio dell'APTX e che, in ogni caso, mi commenta sempre le shot! :***
Grazie a tutti, ai nuovi recensori e a quelli meno nuovi, a chi legge sempre! Siete sempre i benvenuti se volete farvi avanti, su qualsiasi capitolo vogliate ^__^ Alla prossima!

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Capitolo 33
*** Il colore pallido del sole - ShinHeiji ***


33. Shinichi e Heiji ~ 

Alert: seguito simbolico della shot n. 7, che era una HeijiXKazuha | quella in cui Kudo chiede ufficialmente a Heiji di unirsi a lui nella lotta finale contro l'organizzazione. Hattori accetta, ma, troppo preoccupato per Kazuha e per il suo destino se lei venisse collegata a lui, decide di lasciarla in modo piuttosto squallido, per allontanarla e per potersi assicurare l'odio della ragazza nel caso in cui lui non tornasse.

***







Il colore pallido del sole 

Di pesi gravosi il suo amico dell'est ne aveva già abbastanza, senza che si aggiungesse lui con i suoi musi lunghi e battute tetre ad aggravare il tutto. Era da circa due ore che Heiji cercava di darsi un contegno, in presenza di Shinichi e di tutti gli agenti segreti alle prese con l'operazione finale contro l'organizzazione, ma proprio non ce la faceva.
Era onorato, orgoglioso e ancora incredulo di aver avuto la possibilità di fare parte di un piano simile e con così altolocate autorità nazionali e internazionali. Per un detective, e soprattutto un tipo di detective al quale mirava diventare lui da sempre, era semplicemente fantastico. Tuttavia non era ancora riuscito a scucire un sorriso, da quando era arrivato lì, o anche solo due frasi di gratitudine, una pacca sulla spalla all'amico Kudo che ora era nella sua forma vera ed adulta, dopo tanto tempo. Niente.
E questo perché il “niente” era tutto ciò che sentiva. Si rendeva conto che in quell'adrenalinica situazione avrebbe dovuto sentirsi gioioso ed esaltato ma anche impaurito e ansioso allo stesso livello, tanto da spaccare un muro a suon di pugni, ma la verità era che per percepire certe emozioni era necessario avere l'organo giusto per farlo, il cuore. Ed Heiji il cuore non l'aveva più. Sentiva di averlo lasciato indietro, precisamente in un bar di una stazione di Osaka e davanti alle mani di una ragazza con cui si era incontrato per condannare se stesso e lei ad un lungo e insensato tormento, e sentiva di averglielo lasciato tutto intero, non solo un pezzo o metà. Tutto.
Heiji era una persona estrema, o tutto o niente. Tutto a lei, niente a se stesso. Com'era giusto che fosse.
- Hattori? -
La voce di Kudo gli servì per svegliarlo da quel flusso di pensieri che gli aveva velato gli occhi e trattenuto la testa verso il basso. Si svegliò, per l'appunto, alzò il viso e lo guardò.
- Sì, Kudo? -
- Che cos'hai? -
Heiji rimase a guardarlo per un paio di secondi, conscio di aver dato malauguratamente nell'occhio. Non aveva detto assolutamente nulla a Kudo riguardo i suoi ultimi risvolti personali: aver lasciato Kazuha definitivamente era una decisione che, in quel momento, aveva solo ed esclusivamente due testimoni, lui e lei. Nessun altro ancora era venuto a saperlo, forse Ran, essendo amica della ragazza. E non aveva alcuna intenzione di estendere oltre questo triste quadretto: Kudo era già appesantito da tutta una serie di fattori e da una missione in corso, non gli sarebbe servito a niente sapere dell'esito disastroso della sua relazione con Kazuha. Niente, se non a preoccuparlo ulteriormente.
- Non ho nulla. Tu, Kudo? Tutto ok? -
- Io sì. Sarai mica spaventato? - azzardò Kudo alzando un sopracciglio, volutamente ironico.
- Spaventato da che? Da quattro corvetti cattivi che pensano di averci in pugno? Figuriamoci -
- Quattro corvetti armati fino ai denti. -
- Poco cambia. - tagliò corto lui, distogliendo lo sguardo e sperando che la conversazione potesse concludersi lì.
- E allora rimane la domanda principale... - mormorò di nuovo Kudo, inducendo Heiji a drizzare le orecchie. - Che cosa c'è che ti preoccupa? -
- Perché sei così convinto io sia preoccupato? -
- Perché sei un libro aperto? - ironizzò Kudo alzando le sopracciglia e guardandolo, anche se Heiji non gli restituiva lo sguardo. - Se non hai paura per te stesso, ce l'hai per qualcun altro? -
- Per nessuno. Kazuha è al sicuro. -
Shinichi lo scrutò molto attentamente, prima di parlare. - Non insinuavo fosse per forza lei, quel qualcun altro. Quindi è Kazuha il problema -
- L'ho nominata solo perché la conosci anche tu -
- O perché ti invade la testa -
- Senti, Kudo... -
- Ascolta, se non ne vuoi parlare va bene. Ti chiedo solo di cambiare atteggiamento ma non per me o per gli altri, per te stesso. Non puoi affrontare questi nemici se sei così schiacciato dal tuo malumore, e scusa la franchezza. -
- Userò la rabbia che provo contro di loro. -
- Non sembri arrabbiato, anche se un po' ci speravo. Sembri sfinito. Sembri pallido nonostante il tuo colorito di pelle. Per questo ti sto avvertendo -
Heiji si infilò le mani in tasca, fissando il pavimento con sguardo apatico. Ci mancava solo che la gente gli descrivesse per filo e per segno quello che credeva fosse il suo stato d'animo.
- Hai finito? - sibilò Heiji in direzione di Kudo.
- Hattori, mi vuoi dire che succede? -
Le lacrime di Kazuha erano l'immagine che più ricorreva nella sua mente. Le vedeva in continuazione, vedeva lacrime trasparenti che scendevano, si moltiplicavano, si scontravano, vorticavano e si trasformavano. Qualunque cosa pensasse o vedesse in quella stanza, era tutto condito dal ricordo delle sue lacrime terribili. Il ricordo successivo, invece, erano i suoi gemiti di dolore mentre nemmeno riusciva a guardarlo in faccia. Umiliata dalle sue bugie, dal suo fittizio autocontrollo. Heiji sospirò con forza, chiudendo gli occhi.
- Ho bisogno di stare un po' da solo, Kudo. Non ne ho avuto modo. Forse hai ragione, forse fare parte di questo piano così importante mi mette ansia. Mi ci devo preparare, se avrò bisogno ti chiamerò -
- Non ti credo. - sentenziò Kudo con voce ferma, fissandolo. E questa volta, Heiji rialzò lo sguardo lentamente per ricambiarlo.
In realtà Shinichi era stato sopraffatto da quel cambio di tono nella voce dell'amico. Era diventata poco più di un sussurro lugubre, intrisa di una tale malinconia da stentare a riconoscerlo. Qualunque cosa gli fosse accaduta, non gli stava lasciando la giusta lucidità per pensare e affrontare il pericolo.
- Per favore, Hattori. Ho bisogno di persone molto ferme e possibilmente entusiaste al mio fianco, in questi giorni. Non è un gioco. -
- Ma pensi che non lo sappia? Mi prendi per il culo? - iniziò Heiji, scaldando un po' la voce.
- E allora dimmi perché fai così. Puoi confidarmelo. Non sono solo la tua spalla sul lavoro, sono un tuo amico e speravo l'avessi capito in questi anni, ma evidentemente sei scemo – continuò Shinichi colpendo apposta sui punti più scoperti.
- Amico o non amico, questi sono affari miei! Non dovresti tornartene dagli altri agenti e pianificare con loro le strategie? Eh? -
- Vorrei ci venissi anche tu, visto che ti ho chiesto di partecipare al piano non certo per farti tappezzare le pareti con il tuo bel corpicino. -
- Ed io ti ho chiesto di lasciarmi qualche minuto da solo. -
- Sono circa due ore che ti lascio da solo, perché avevo capito fin da quando sei arrivato con quella faccia smorta che qualcosa non andava. Ma adesso basta. Adesso collabori con noi, sono io a gestire il piano e ti ordino di seguirmi. Ora. -
- Stai scherzando, spero? - ridacchiò Heiji, fissandolo incredulo.
- Io spero invece che sia tu quello che scherza, perché qui c'è bisogno di te e tu te ne freghi. Preferisci fare il cane bastonato, così magari attiri tutta l'attenzione su di te come sempre ti piace fare -
- Kudo... - sibilò Heiji, guardandolo fisso.
- Te lo ripeto, non è un gioco. -
- Ed io te lo ripeto, lo so! -
- Proprio perché lo sai, allora, o mi dici che succede - mormorò Shinichi, avvicinandosi ancora di più al viso dell'amico, - o sarò costretto ad allontanarti da questa missione. -
Heiji sgranò gli occhi, rimanendo senza fiato. Fissò a quella vicinanza gli occhi blu intenso dell'amico, col cervello che rapidamente andava in tilt rabbioso.
Allontanarmi? Prima mi chiedi di sacrificare la mia vita per i casini che hai combinato tu, costringendomi a lasciare la persona più importante della mia vita per metterla al sicuro, senza nemmeno sapere se sarò ancora vivo per poterla rivedere, e poi mi minacci di allontanarmi perché non sei in grado di lasciarmi un po' da solo a riflettere?
- Ma che razza di amico sei? - gli chiese Heiji, traducendo nel modo più contenuto possibile i suoi ultimi pensieri.
- Uno che ti vuole aiutare. - rispose Kudo a bassa voce, chiudendo gli occhi.
- Tu non mi vuoi aiutare. Mi vuoi fare infuriare come un pazzo, che è diverso – continuò Heiji avvertendolo con uno sguardo di puro fuoco.
- Probabile, sì. E' l'unico modo che conosco per tirarti fuori le parole di bocca -
- Vai al diavolo, Kudo -
- E' tutto, quindi? E' questa la tua decisione? - Kudo si fece di lato, per potergli indicare l'uscita.
Guardando la porta d'uscita, Heiji rivide per l'ennesima volta le lacrime della ragazza. Lacrime che lo aspettavano, oltre quella porta, ma che probabilmente l'avrebbero rifiutato subito. Al pari di lui anche Kazuha era una persona estrema, su quello si trovavano: se aveva già deciso di non perdonarlo, sarebbe stato un “mai più”. Gli parve quasi che la porta si stesse bagnando con delle leggere cascate di lacrime moltiplicate.
Nelle orecchie sentì rimbombare i sussulti di Kazuha. Sentì il suo dolore. Sentì le sue suppliche. Se chiudeva gli occhi rivedeva se stesso trattarla con freddezza e indifferenza, respingerla e voltarle le spalle. Rivedeva i suoi messaggi e le chiamate sul display del telefono, mentre lui rifiutava e bloccava ogni richiesta. Ed Heiji si arrabbiò molto.
Fece scattare la mano in avanti, afferrando Shinichi per il colletto della camicia e portandoselo vicino al volto. Era furioso, digrignava i denti e vedere Kudo che lo fissava con assoluta indifferenza gli faceva aumentare la rabbia, se possibile.
- Cerchi botte, Kudo? - gli chiese a voce bassissima e tetra.
Shinichi lo continuò a guardare con sguardo serio, gli occhi fermi e la bocca serrata. Non si divincolò né cercò di fermarlo.
- Io no. Cerco dialogo. Tu invece, le cerchi? -
- Io un po' sì -
Dopo avergli sussurrato questo, Heiji gli mollò un pugno in pieno volto. Il detective dell'est cadde all'indietro, urtando un mobile e facendo cadere tutto ciò che c'era sopra. Il fracasso degli oggetti caduti a terra attirò l'attenzione di tutti i presenti, che subito si precipitarono verso di loro.
- Hey, hey!! Che succede qui?! - chiese Jodie concitata, quando vide Shinichi raddrizzarsi lentamente ed asciugarsi il labbro inferiore dal sangue. - Ma si può sapere che state combinando? -
- Niente, Jodie. E anche tutti voi, tornate pure in sala, io vi raggiungo tra poco. Qui me la sbrigo io – mormorò Shinichi strizzando un occhio per il dolore.
Jodie ed altri agenti rivolsero uno sguardo interrogativo soprattutto ad Heiji, che aveva ancora la mano chiusa a pugno – la prova schiacciante della sua momentanea colpevolezza. Alcune persone a lui sconosciute lo guardarono in tralice, scuotendo la testa. Sapeva cosa stavano pensando. Che con tutti i problemi che già avevano con l'esterno, c'era qualcuno lì dentro che li procurava pure dall'interno. Bell'acquisto! Forse Kudo aveva ragione a volerlo mandare via.
Heiji abbassò lo sguardo e si massaggiò il pugno. Udì i passi di tutti allontanarsi, mentre una Jodie ansiosa sussurrava ad entrambi di placarsi al più presto e di riappacificarsi, che non c'era tempo per certe questioni. Quando Heiji e Shinichi rimasero di nuovo soli, nella penombra di quella stanza, rimasero a lungo in silenzio senza guardarsi: uno pulendosi il labbro, l'altro massaggiandosi la mano.
Fu Heiji a rompere il ghiaccio.
- Hai l'osso duro. Mi sono fatto male -
- Almeno una soddisfazione -
Altro silenzio, altri gesti muti. Il detective dell'ovest voltò lentamente lo sguardo verso la finestra, scorgendo il sole del tramonto più pallido che mai. Opacizzato da scie sporche di vecchie nuvole, il suo colore stava virando al bianco spento. Sospirò, raddrizzandosi meglio che gli riusciva.
- Me ne vado allora. E scusami. - gli mormorò, finalmente prosciugato da quella rabbia cieca che aveva trovato nel pugno la sua via di sfogo.
Mentre Heiji si avviava verso l'uscita senza aggiungere altro, Shinichi allungò una mano per afferrargli forte il braccio.
- No, non te ne vai. Resti qui e combatti. Hai capito? -
Heiji lo guardò incredulo, senza credere alle sue orecchie.
- Ma tu... non hai detto che... -
- Immagino che, qualunque cosa ti sia successa, sia stata per causa mia. - mormorò Kudo senza guardarlo.

- Ma no, Kudo... è che ero arrabbiato e tu eri la prima cosa che avevo a tiro... - provò a giustificarsi Heiji, per non dovergli rivelare la verità.
- Quel tuo cazzotto è stato molto eloquente. Ce l'hai con me. E forse con la mia richiesta di averti qui a rischiare la vita, più precisamente -
- Basta così, Kudo... io... -
- Cos'è successo con Kazuha? Ha scoperto qualcosa su tutto questo e sei preoccupato che possa essere in pericolo? -
Shinichi saltò subito a quella conclusione perché era esattamente la sua stessa paura, nonché ragione per la quale in tutto quel tempo non aveva mai rivelato a Ran neanche un grammo di verità. Heiji trasse un profondo e sentito respiro, sentendo di non avere quasi più vie di fuga. Nel frattempo Kudo gli lasciò il braccio, e rimasero fianco a fianco in silenzio.
- Su questo puoi stare tranquillo. Kazuha... l'ho messa al sicuro. Più sicuro di così non si può. - mormorò Heiji, cercando di abbozzare il sorriso più genuino che gli usciva.
- Ti prometto che la rivedrai alla fine di questa missione, Hattori. Ne uscirai vivo e la riabbraccerai, te lo giuro -
- No, Kudo. Non la riabbraccerò mai più comunque, quindi non crucciarti -
- Che vuoi dire? -
- Che il metodo che ho scelto è molto sicuro. Così tanto che ho fatto in modo di non farla nemmeno soffrire, se io morirò. -
Kudo sbarrò gli occhi, voltando lo sguardo allibito verso di lui. Dopo qualche secondo carico di tensione, boccheggiò qualcosa per parlargli.
- Lei... tu... - provò Kudo, trovando le parole solo in un secondo momento ma sentendosi già un verme. - Tu l'hai... indotta a odiarti? -

Heiji non rispose, semplicemente abbassò lo sguardo. Non voleva davvero arrivare a questo, a dare pesi inutili al suo migliore amico, a rischiare di farlo sentire in colpa per colpe che in realtà non aveva. Ma voleva così tanto, così tanto confidarsi con qualcuno e tirare fuori tutto quel marciume che sentiva dentro di sé. In un piccolo angolo di sé sperò che Kudo lo capisse e che lo invogliasse ancora a parlargli, a sfogarsi. Poteva farlo soltanto con un amico fidato che non l'avrebbe mai giudicato: lui.
- Vi... siete lasciati? L'hai lasciata tu? - bisbigliò con voce roca Shinichi, conscio del grande e bellissimo sentimento che aveva accompagnato Heiji e Kazuha negli ultimi mesi. Lo conosceva perché ne aveva provato invidia non poche volte, e non desiderava altro che risolvere quella ostacolante situazione per poter fare lo stesso con Ran al più presto, copiandoli senza pietà.
- Dimmi di no... Hattori... - tentò Kudo, sperando che quel fatto non fosse realmente accaduto.
- Sì, Kudo. Ma è meglio così. Preferisco così, per lei. - decise di confessare Heiji, abbassando lo sguardo.
- Ma... io... - bisbigliò Kudo, scuotendo la testa e strizzando gli occhi in una smorfia. - Mi dispiace... mi dispiace così tanto. So che cosa provi per lei e... Hattori, è tutta colpa mia! -
- Levatelo dalla testa, Kudo! - alzò la voce Heiji, parandosi di fronte all'amico. - E' stata una mia decisione! Avrei anche potuto dirti di no e tirarmene fuori, non credi?! Non avresti potuto biasimarmi, ma ho deciso di fare così di testa mia! Tu non c'entri! -
- Non è vero, Hattori, non è così. E il fatto che mi hai picchiato ne è la prova! Ti ho causato io questo dolore... - continuò Kudo incredulo, sospirando e fissando ostinatamente il pavimento. - Per un mio capriccio, ho separato te e la tua ragazza... -
- La mia ex ragazza – puntualizzò Heiji, fissandolo negli occhi e sentendo bruciare il petto al suono di quella sua stessa affermazione. - Quindi adesso non ti devi preoccupare. -
Shinichi lo guardò mestamente e sospirò, per niente convinto da quella frase. - Sei libero di andartene, se vuoi. E di tornare da lei. -
- No. -
- Come dici tu non posso biasimarti... e quasi mi trovo a sperare tu lo faccia... -
- Basta, Kudo! -
- Ti ho rovinato tutto... -

- Basta, almeno tu! - gli gridò in faccia Heiji, al limite dell'esaurimento. - Almeno tu non guardarmi così! Non provare pena, non implorarmi di fare cose che non posso fare! - le ultime frasi, che gli uscirono con voce rotta, colpirono in pieno il detective dell'est che lo ascoltava senza muovere un muscolo. - Fai invece il contrario! Insultami come stavi facendo prima, minacciami se ti è necessario, portami alla rabbia... fammi provare altro che non sia questo tormento, questo senso di colpa micidiale che... -
Heiji si bloccò, portandosi le mani alla testa in assoluto silenzio. Se la strinse e Shinichi lo notò, provando un moto di tenerezza e compassione tale da allungare il braccio spontaneamente verso l'amico. Gli toccò la spalla con forza, sperando di infondergli il coraggio di superare quella fase e di ricomporre se stesso dai cocci. Shinichi si avvicinò ulteriormente a lui, abbassando lo sguardo e facendo sì che i loro ciuffi di capelli si sfiorassero. Voleva che la sua presenza fosse un perno per Heiji, in quel momento. Almeno questo glielo doveva.
Rimasero di nuovo a lungo avvolti in un silenzio solo a volte tratteggiato dai sospiri gravosi di Heiji.
- Io... - cominciò Heiji con voce rotta e affannosa, al limite come i suoi nervi. - Io... non ti permetterò mai di affrontare quest'impresa da solo... mai... -
- Lo so. - gli sussurrò Kudo in risposta.
- Se anche non me l'avessi chiesto... mi sarei offerto io. Non mi tiro indietro proprio adesso... non ti lascio solo, qui dentro. Perché non sono solo una spalla sul lavoro, sono anche tuo amico e pensavo ci fossi arrivato negli anni... - sospirò Heiji, velando ironicamente la frase. - ...ma evidentemente sei scemo. -
Shinichi rise sottovoce, ed Heiji con lui, sebbene in mezzo alle lacrime. Non ce l'aveva fatta più, finalmente aveva rivelato a qualcuno i suoi pensieri e il suo disagio, finalmente si era visto rispondere in maniera positiva e aveva ricevuto coraggio da una mano amica. Era sfinito, e si stava sfogando. Lo poteva fare solo in quel momento e solo con lui, lo sapeva bene.
Afferrò il braccio di Shinichi e vi si sorresse, mentre dava sfogo al ricordo ancora cocente delle lacrime di Kazuha, unendoci le proprie. Kudo lo sostenne per tutto il tempo senza una parola di troppo, semplicemente facendogli capire di non essere solo.
Quando Heiji si calmò, si staccò lentamente da lui tenendo lo sguardo basso al pavimento e respirando ancora con un poco di affanno.
- Ti prometto – mormorò Shinichi guardandolo serio – che se quest'ultima missione finirà bene, e sono certo che sarà così, andrò personalmente a parlare con Kazuha per chiarire tutto. Per farle comprendere il tuo nobile gesto che pochissimi al mondo sarebbero riusciti a fare. È una ragazza molto emotiva e intelligente, e capirà. Ripareremo a questo piccolo disastro – concluse Shinichi ridacchiando, facendo spuntare un sorriso sul viso di Heiji.
- È che non so neanche se sarò ancora vivo per rivederla, per spiegarle tutto. Non lo so. -
- Certo che lo sarai, basta non commettere passi falsi. -
- Se rimani vivo solo tu, però, non dirle niente. Lascia ogni cosa com'è. Voglio che in quel caso lei ignori tutto e si rifaccia una vita. -
- Hattori... - mormorò Kudo scuotendo il capo, impressionato da tanto altruismo. Si chiese se lui stesso sarebbe mai stato capace di ragionare in quel modo.
- Mi hai capito bene, Kudo? -
- Sì, ho capito. Ma non lo trovo giusto. -
- Non importa, è una mia richiesta e in caso estremo la rispetterai. -
Shinichi annuì amaramente.
- E adesso... - alzò un po' il tono Heiji, rimboccandosi le maniche e sospirando determinato - ...andiamo a prepararci e a elaborare un piano coi fiocchi. Un bel piano anti-corvo. Forza! -
- Magari vai prima a sciacquarti gli occhietti rossi e gonfi, bambolina -
- Ehi!! - ribatté Heiji imbronciato e col labbro inferiore sporgente, fingendo di volergli tirare un altro pugno.
L'amico ridacchiò, guardandolo gioioso. Stava tornando l'Hattori di sempre.
E avrebbe fatto di tutto per permettergli di rimanere tale fino alla fine di quei cupi giorni.
Kudo e Hattori amavano da sempre sfidarsi su tutto, sulle indagini, sulle capacità deduttive, sulle loro ragazze. Se in quest'ultima sfida Hattori era pronto a dare la vita per lui, anche Kudo non sarebbe stato da meno.







*********************************************
Era da tempo che volevo fare una shot HeijiShinichi (alzi chi la mano chi si aspettava lo yaoi spinto!) ma non mi veniva in mente nulla che non finisse in una totale storiella demenziale. Ed era un peccato, visto che reputo la loro amicizia piuttosto speciale. Solo dopo ho pensato che si poteva trovare una via seriosa prendendo come spunto una delle prima shot pubblicate in questa raccolta, la numero 7, brevemente riassunta all'inizio. In questa shot Shinichi non sa ancora nulla e nemmeno sospetta vagamente la cosa, da lì quindi ha preso piede tutto.
Ragazzi, so che tutti voi in fondo state aspettando una bella shot GinVodka dove lo yaoi possa finalmente essere presente, ma spero vi sia piaciuta anche questa! Specie ai fan di Hattori, alcuni dei quali si sono fatti sentire in capitoli precedenti, o ai fan di Hattori che prende a cazzotti Kudo (io! ioooo!) e che spero condividano con me l'idea che l'amicizia tra questi due detective sia da sempre uno dei punti più forti. Penso che in una situazione del genere arriverebbero a supportarsi in un modo simile. 
Ritaglio sempre uno spazietto per ringraziare tutti per le vostre bellissime e originali recensioni, che mai mancano di consigli e tocchi personali! Alla prossima!!!

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Capitolo 34
*** Romanzo rosa - SerAmuro ***


34. Sera Masumi e Tooru Amuro ~ 

***




Romanzo rosa

- Eccoti i soldi, te li lascio qui sul tavolo. -
- Oh, no, prendili pure. Oggi offre la casa. -
Masumi guardò perplessa Amuro, il sorridente cameriere del Poirot, che le aveva appena rivelato che il suo caffè era offerto.
- Uh. Davvero? - ridacchiò Sera, riprendendosi le monetine che aveva lasciato sul tavolo vicino alla tazza di caffè vuota e ricacciandosele in tasca. - Come mai? C'è qualche offerta giornaliera? -
- Nah, non direi. Semplicemente poi lo pago io per te alla cassa – concluse lui, guardandola sorridente.
Masumi corrugò la fronte senza capire. Poi si imbronciò e si portò le mani ai fianchi, iniziando a fiutare il motivo.
- Ma perché dovresti pagarmi tu il caffè? Sembro squattrinata, okay, e forse un po' lo sono, ma riesco a pagarmelo da sola! -
- Non è niente di tutto ciò, sciocchina – ridacchiò lui, lasciando interdetta Sera al patetico suono della parola “sciocchina”. - Non posso offrirti un caffè in pace senza che tu pensi alle cose peggiori? -
- No, un attimo... ma perché mi vuoi offrire il caffè? - insisté lei, convinta che ci fosse qualcosa sotto. Era una detective e certe cose le percepiva, sprovveduta di certo non era. - Non ci conosciamo neppure tanto bene, ci saremo visti tre volte... -
- Perché sei carina. Allora, posso? - risolse lui con l'ennesimo sorriso, lasciando Sera completamente ammutolita.
- Ah... ehm... io... - balbettò lei, iniziando ad imbarazzarsi e portandosi una mano dietro la nuca. Non ricordava più l'ultima volta che qualcuno le aveva offerto un caffè perché era carina. Forse non c'era proprio mai stata nella vita una volta così, ecco perché.
- Lo prendo per un sì. A presto, Sera-san! - la salutò Amuro, girando i tacchi e tornando al suo lavoro.
Sera gli guardò le spalle ancora per alcuni secondi, prima di uscire perplessa, molto perplessa, da quel locale e salire in sella alla sua moto.
Tooru Amuro, mentre serviva i tavoli, lanciò un'occhiata di sbieco verso l'esterno e la vide mettersi il casco per poi partire a razzo. Sorrise tra sé e sé, con un solo pensiero fisso in testa: step 1, raggiunto.

Alcuni giorni dopo, Sera insisté per pagarsi il caffè e il pasticcino alla crema coi propri soldi. Amuro le rispose che aveva già pagato lui in cassa, e che ormai non poteva emettere un altro scontrino.
- Beh, allora vorrà dire che ti passo i soldi in mano senza farci vedere da nessuno -
- Non mi interessano i tuoi soldi, Sera-san... - rise lui, asciugando alcuni bicchieri appena tirati fuori dalla lavastoviglie. - Mi interessa che tu venga qui spesso, così ci facciamo due chiacchiere. Hai da fare, oggi? -
- Sì, devo proprio scappare. - rispose lei un po' freddamente.
Non capiva che cosa quel ragazzo volesse ancora da lei. L'apprendista del detective Mouri le stava abbastanza simpatico e, in quelle poche volte che si erano visti anche assieme alle altre ragazze del Teitan, non le era certo passato indifferente. Si era accorta della sua grande intelligenza e dell'acume, della generale prontezza di riflessi nei riguardi di qualunque cosa contenesse una minima percentuale di pericolo, e del fatto che, sommariamente, era davvero in gamba. Un detective a suo parere idoneo, in grado di tenere testa alle situazioni - ovviamente erano le medesime caratteristiche che possedeva lei e che viceversa, a rigor di logica, avevano colpito anche Amuro, che lei se ne fosse accorta o meno.
Lui era anche bello, solare, sempre sorridente, eccetera eccetera. Però, davvero, cosa voleva da lei?
- Che peccato. Cerca di passare anche quando non sei così impegnata, così abbiamo il tempo di parlare e di mangiare insieme qualcosa. Ovviamente offerto da me. -
La ragazza roteò gli occhi al cielo e lui rise di gusto, mentre lei afferrava il casco per uscire fuori, con un lieve batticuore. Indugiò ancora qualche secondo al bancone.
- Ci posso pensare. Vediamo. Basta che non mi chiami ancora “sciocchina”, sono rimasta traumatizzata l'ultima volta! -
- Beh, mi fa piacere però che te lo ricordi. -
Lei gli fece la linguaccia e si diresse fuori, senza più voltarsi.
- A presto, sciocchina – la salutò lui facendo in modo che lei sentisse. E col seguente pensiero in testa: step 2, raggiunto.


- Masumi, stammi a sentire un secondo... -
- Sì, Shu-nii! Dimmi tutto! -
- Potresti stare un po' più lontana dal Poirot e dal cameriere che ci lavora dentro? -
Sera rimase a bocca aperta come un baccalà, senza sapere cosa rispondere al fratello maggiore. Comunque, su una cosa era sicura: stava per arrossire.
- Mh... perché mi dici questo? - gli chiese lei, a disagio.
- Perché ultimamente ti vedo spesso uscire da lì. E per diverse ragioni che ora non ho il tempo di spiegarti, lui non mi piace particolarmente. -
- Avete avuto degli screzi, vero? Vi conoscete... -
- Non ti preoccupare degli screzi che abbiamo avuto noi. Preoccupati di starci lontana. -
Di cui la traduzione era “visto che a me non piace, non deve piacere neanche a te”.
Oh, oh. Solo lei cominciava a intravedere la situazione prendere direzioni un po' tortuose?
- Ma... Shu-nii... - iniziò lei, cercando bene le parole. Col fratello conveniva sempre essere cauti, figurarsi col fratello potenzialmente incazzoso. - Se tu hai dei problemi con lui mi sta bene. Cioè, non benissimo, ma sono affari vostri. Lui a me non ha fatto niente e... -
- E' solo questione di tempo. -
- Ma che dici? A me non sembra il tipo che farebb... -
A quel punto Shuichi si fermò, bloccando bruscamente la loro spensierata passeggiata verso la sede dell'FBI, e la costrinse a voltarsi a sua volta verso di lui.
- Masumi, quello che dici è vero. Ma fidati se ti dico che da quell'individuo è meglio stare alla larga, non puoi mai essere sicura di ciò che gli passa per la testa -
- Penso tu ti stia preoccupando troppo, Shu... non sono più una bambina, so a cosa vado incontro! E poi non è niente di che, è solo uno che ogni tanto mi offre un caffè, che c'è di male? Eh? - provò lei, con un sorriso molto tirato ma speranzoso.
- Non sono nato ieri, Masumi. - le disse lui semplicemente, alludendo al fatto che lei non riusciva a nascondere i sentimenti come forse credeva. E che se per caso la sua ingenuità le impediva di vedere cosa c'era dietro alle continue offerte di caffè da parte di un ragazzo, c'era il fratello a ricordarglielo.
Lei abbassò lo sguardo, piuttosto in imbarazzo. Non le andava di stare lontano dal Poirot, ormai le piaceva andarci e Tooru non le dispiaceva affatto, era solare come lei.
Il problema era che Shuichi era freddo, invece, e non lo capiva. Non li capiva.


- Niente moto, oggi? - chiese Amuro con la sua solita cordialità, tuttavia squadrandola da capo a piedi con sguardo curiosamente insistente.
Vedendola con indosso un vestito, invece della solita giacca di pelle e pantaloni, aveva capito che difficilmente era venuta in moto. Non era un vestito particolarmente femminile, ma era leggero e morbido, adatto alla stagione, e le stava molto bene.
- Che intuito da detective – disse lei facendo una linguaccia. - Niente moto. L'ho portata a sistemare, c'è un problemino alla marmitta -
- Spero nulla di grave – continuò lui cercando di sembrare interessato ma senza riuscirci: non la guardava in volto, indugiava invece con lo sguardo sul suo vestito.
- No... niente di grave – sorrise lei, captando il modo in cui la guardava.
- E senza moto, immagino dovrai fermarti qui per un po'. Proprio come ti avevo proposto qualche giorno fa... -
- Uh, sì. Probabile che abbia qualche minuto in più di tempo – confermò lei, fingendosi disinteressata. Come se non avesse leggermente programmato tutto.
- Molto bene! Caffè anche oggi? - disse lui allegro, uscendo dal bancone e chiedendo ad Azusa se poteva prendersi venti minuti di pausa.
Venti minuti che passò interamente con lei, seduti ad un tavolino appartato del locale a bere e scherzare. Erano in effetti due persone così solari da non trovare delle vere difficoltà a parlare di tutto e di più, a prescindere da quanto si conoscessero: veniva loro spontaneo e si divertivano.
- E quindi, quando posso venire a vedere la tua stanza d'albergo? Ho sempre voluto vedere come vive una persona in un albergo – disse lui, sorridendo senza malizia.
- Oh, beh... come vivrebbe in un appartamento normale, suppongo – rispose lei scrollando le spalle.
- Ma non è un appartamento normale. Ci sono dei servizi diversi, e... insomma, sono curioso! Mi inviterai? -
- Beh... penso... si possa fare - rispose lei, percependo però un pizzico di disagio. Non capiva perché lui stesse bruciando le tappe a quella velocità, possibile che davvero lei gli piacesse? Non riusciva a togliersi dalla testa le parole del fratello maggiore. Forse Shuichi temeva che, come gran parte dei ragazzi di quell'età, Tooru si volesse approfittare di lei per divertirsi un po'. E se c'erano altri motivi, qualcosa di guastato nel loro rapporto e nel loro passato, lei lo ignorava perché Shuichi si teneva tutto per sé. Magari comunque era vero e Tooru era un collezionista di ragazze, chi poteva saperlo – ma con tutte quelle che venivano al bar a sbavargli addosso, perché proprio lei? Forse perché non sbavava in modo così palese? Non lo sapeva, ma di certo sentiva un interesse per lui che era recentemente cresciuto, e probabilmente allo stesso livello percepito da Amuro. E cioè, a ben pensarci, anche a lei sarebbe andato a genio il divertirsi fine a se stesso con un ragazzo, senza un impegno forzato. Lei era uno spirito libero, fattore che forse il fratello faticava a prendere in considerazione.
- Va bene. Dimmi tu quando sei libero. - concluse lei con un sorriso, contagiando anche lui.
Il quale nella mente pensò: step 3, raggiunto.


- Masumi? Dove sei? -
- Sì, Shu, scusami! So che dovevamo vederci, ma ho fatto tardi e... ecco... - si giustificò lei al telefono, senza sapere cosa dirgli in sostituzione di “sono con il tale che detesti e non riesco a venire”.
- Con chi sei? -
- Con un paio di amiche! -
- Non credo proprio. -
- Come? - esalò con rossore violento in viso.
- Masumi. Preferirei non dover scoprire che... -
Ma perché, perché suo fratello proprio non riusciva a fidarsi di lei e la trattava ancora come una mocciosa? Non si vedevano né sentivano mai, quelle rarissime volte che succedeva lei ne era gioiosa - fino a quando, almeno, non realizzava che la motivazione per cui la cercava consisteva nell'intimarle di stare lontana dalle persone che le piacevano. E solo perché, a quanto pareva, le suddette non piacevano a lui. Non capiva se oltre a questo ci fosse anche gelosia fraterna, apprensione, semplice di voglia di rompere le palle. Qualsiasi cosa fosse era frustrante a dir poco.
Sentì in sottofondo la voce dell'agente bionda, Jodie, fermarlo e dirgli qualcosa come “ooh, ma lasciala un po' in pace!”
- Jodie, se si mette a frequentare quel tizio ho il dovere morale di non lasciarla in pace -
- Shu-nii, ti sento. -
- Sì, bene. Meglio così. -
- Non hai il diritto di impormi cosa fare e chi vedere nel momento in cui le mie scelte vanno contro i tuoi desideri! Io sono io, è chiaro? - disse lei di getto, temendo però subito una sua reazione. Con lui era spesso colta da questi brevi attimi di coraggio che, purtroppo, evaporavano velocemente così come erano arrivati.
- Stai pur certa che ragionando così vedrai le conseguenze sulla tua pelle. - rispose semplicemente lui, freddo.
- Adesso devo andare. Ci sentiamo più tardi, forse. -
E riattaccò, sospirando scocciata. Non era abituata a comportarsi così con il fratello, ma la stava davvero irritando.
Tornò da Tooru, che la stava aspettando all'ombra di un albero, per andare insieme verso il suo albergo dove lei l'aveva infine invitato. Dove sarebbero stati da soli. Sorrise soddisfatta alla vista dello sguardo sereno di lui, chiaro indice di come la loro situazione stesse filando liscia come l'olio.
Alla faccia tua, Shu-nii.


Appena Masumi si svegliò, percepì la testa girarle vorticosamente. Richiuse gli occhi e sentì le braccia intorpidite, i sensi confusi. Provò a riaprire le palpebre tremanti e in quel breve lasso di tempo constatò che si trovava nella sua stanza d'albergo, riconobbe subito il soffitto e la disposizione delle lampade a muro. Beh, ottimo, no?
Adesso i problemi erano soltanto due, fortunatamente: uno, non ricordava nulla dei momenti precedenti al presunto sonno che l'aveva colta lì dentro; due, era legata al letto con delle manette. Mettiamone un terzo che non guasta mai: chi l'aveva portata lì in quello stato?
Provò a sollevare la testa, ma le ricadde subito sul cuscino. Ansimò leggermente in preda alla nausea. Era intontita ad un livello tale da farle venire il presentimento di essere stata drogata, tesi avvalorata dalla difficoltà nel ricordare gli ultimi eventi.
La telefonata con Shu. Tooru che la aspettava sotto l'albero. Il suo sorriso bianco in contrasto con la carnagione scura, con l'ombra. La camminata verso l'albergo. Tooru che le offriva da bere al bar dell'hotel, prima di salire. Lei che si arrabbiava perché era stufa di farsi offrire cose.
Tooru...
Dove diavolo si trovava lui? Non era stato mica aggredito come lei e portato chissà dove?
- Oh, ma ben svegliata, dolce fanciulla – disse una voce allegra appena uscita dal bagno, a lei molto conosciuta.
Quella di Amuro.
Lui le camminò accanto, guardandola sorridente mentre se ne stava legata, immobile e intontita. Senza aiutarla, come se fosse tutto assolutamente normale. Lei fece saettare lo sguardo in tutte le direzioni, cercando un responsabile, temendo che lui non stesse capendo la gravità della situazione. Ma non c'era nessun altro oltre a loro due, lì dentro, e il suo sorriso stampato non intendeva lasciargli il volto.
Che significava?
- Ci hai messo un bel po' a svegliarti, ti facevo meno dormigliona -
- Ehi. Che... che vuol dire tutto questo? -
Sera si allarmò non poco, perché il suo primo pensiero non fu qualcosa come “questo tizio mi ha ingannata, Shu aveva ragione, mi sta tenendo come ostaggio!”, che era poi la situazione effettiva progettata da Amuro, ma i suoi dubbi andarono tutti diretti a qualcos'altro. Il sadomaso.
Amuro forse apprezzava quel genere di cose?
Oh, santo cielo.
E suo fratello, se lo sapeva, come diavolo aveva potuto nasconderglielo?! Invece di usare tanti preamboli idioti come “non mi piace particolarmente quel tizio”, “gli passano cose strane per la testa”, “ho il dovere morale di fermarti”, dirle subito che era un tipo tutto manette e fruste era troppo difficile?!
Masumi si schiarì la gola, maledicendosi per essersi fatta trascinare in una situazione simile in completa ingenuità. La sua agitazione si rifletté a tutto il corpo, inconsciamente iniziò a tirare i polsi legati verso di sé facendo tintinnare il metallo delle manette contro lo schienale del letto. Quel rumore la fece rabbrividire.
C'era di buono che, almeno, le manette non erano ricoperte da pelo colorato.
- A-allora, io ti avverto, Amuro-san... ehm... come posso spiegarmi... - iniziò lei arrossendo.
Amuro la fissò perplesso, mentre la sentiva parlare. Inclinò la testa.
- Spiegare cosa, scusa? Sei ammanettata, per caso ti è sfuggito? -
- Sì, e, ehm. E' proprio di questo che vorrei parlarti. Cioè, mettiamo che mi andasse bene passare subito al sodo con te, ma... - Masumi deglutì, in totale imbarazzo. - Ma a me... ecco... non piacciono particolamente queste pratiche. Ecco. -
- Di che pratiche parli? - proseguì Amuro, senza ben capire.
Presumendo che la ragazza stesse per avere un singolare crollo nervoso, almeno a giudicare dai sussulti del suo corpo e dai respiri agitati, Amuro ritenne doveroso farla desistere subito da azioni scomode come urla, squittii e insulti, tutte cose che avrebbero potuto attirare orecchie indiscrete – in fondo si trovavano in una struttura pubblica. Quindi, a questo scopo, estrasse lentamente una piccola pistola da dietro i pantaloni e gliela puntò addosso.
Sera sgranò gli occhi, senza poterci davvero credere.
Oh, per la carità.
Oh, ma, ma, cosa sto vedendo.

Perfetto. Davvero magnifico. Amuro probabilmente non si riusciva a far bastare le fruste o le borchie. Aveva addirittura una pistola.
E la domanda angosciante era come intedesse usarla, a questo punto. Sera scosse la testa, non voleva nemmeno pensarci.
- Non puoi fare sul serio, Amuro-san... io, ecco, io... queste cose qua... non... -
- Mi vuoi dire di che “pratiche” parlavi prima? -
- Pratiche sessuali. - puntualizzò Sera velocemente, mordendosi un labbro e iniziando a sudare.
Il ragazzo rimase in silenzio per alcuni secondi, a bocca socchiusa, fissandola. Dopodiché si piegò in avanti e scoppiò a ridere tenendosi la pancia. Sera non capì cosa diavolo ci fosse da ridere, in quel modo sguaiato per giunta, ma si unì anche lei alle risate giusto per non farsi mancare nulla e scrollarsi un po' di dosso tutta quell'ansia.
- Tu sei matta! Non era proprio quello che avevo in mente, legandoti a questo letto - continuò Amuro, affievolendo man mano la sua risata e raddrizzandosi. - Ciò che avevo in mente, mi spiace dirtelo, riguarda tutt'altro. Per la precisione tuo fratello. - ribatté lui soddisfatto, guardandola mentre cambiava espressione in modo lento e ben delineato. Sera iniziava a comprendere tutto, tutto il diabolico meccanismo.
- Cioè... è come se io fossi un tuo ostaggio? Per... attirare mio fratello qui? -
- Mh. Esatto. -
- Col quale quindi, deduco, sei in brutti rapporti? -
- Brava. -
- E mi hai corteggiata tutto questo tempo, fin dall'inizio, solo a questo scopo? -
- Precisamente. -
- E per nient'altro? -
- Niente che mi venga in mente. -
- Che sei uno stronzo abissale te l'ha mai detto nessuno? -
- Più e più volte. -
Sera cacciò un urlo da arte marziale selvaggia e mosse le gambe per aria, cercando di colpirlo con dei calci. Tirò poi forte le braccia verso l'alto, stringendo i denti e sperando di poter sfracellare il supporto in legno di quel letto, ma il materiale era troppo resistente. Tuttavia continuò, ancora e ancora, procurandosi forti dolori ai polsi per via delle manette.
Nel giro di tre secondi era divenuta un autentica bestia desiderosa di sangue.
Le era sembrato tutto un po' troppo bello e semplice, per essere vero.
- Liberami immediatamente! -
- Per sottostare alla tua furia? Proprio no -
- Ti ammazzo! Ti squarto vivo! -
- Sì, l'ho notato e ti credo - rispose lui senza scomporsi, continuando a puntarle contro la pistola e facendo sì che lei se ne rendesse almeno conto. Perché sembrava non importagliene proprio una cippa. - Ma ti consiglio di non agitarti in questo modo e di non attirare attenzioni inopportune, sciocchina. -
Se avesse sentito ancora una volta, una sola volta il suono di quella parola, se lo sarebbe presto mangiato vivo senza nemmeno cuocerlo. Era terribilmente indispettita per ciò che aveva subìto, e ancora non aveva nemmeno ben chiaro tutto il quadro generale in cui lei stava fungendo da ingranaggio essenziale.
Sera smise di sbraitare, nutrendo in effetti il timore di attirare qualcuno del personale in quella stanza e provocargli magari un incidente. Spostò lo sguardo su di lui, tranquillizzandosi meglio che poteva e cercando di affrontare la situazione in modo neutro. Gli sorrise tagliente, guardandolo in cagnesco.
- Proprio una bella idea, complimenti - disse lei sarcastica, in tono di sfida.
- Mi spiace di averti fatto credere ad una bella storiella. -
- Nah, tanto lo so che ormai hai perso completamente la testa per me, nel tentativo di fregarmi. -
Amuro sorrise divertito, senza staccarle gli occhi di dosso. Era tosta la ragazza. - E' probabile, ma era un rischio che dovevo correre. -
- Beh, comunque pazienza. Me ne tirerò fuori senza problemi, io volevo solo divertirmi! -
- Mi fa piacere sentirtelo dire. Io invece non sono tipo da relazioni passeggere e divertenti, sono un ragazzo serio. - disse lui ridacchiando, facendole salire il nervo compulsivo. - Comunque tuo fratello sta già arrivando... mentre dormivi stesa dal sonnifero, gli ho inviato un SMS col tuo telefono, fingendomi te. Ormai è questione di minuti. -
- Cosa... cosa intendi fare? - gli chiese Sera in un bisbiglio, percependo delle sgradevoli fitte al petto. Non aveva paura per se stessa, ma per il fratello. L'aveva già perso una volta, almeno nelle sue intime convinzioni, e non voleva sperimentare di nuovo quell'orribile sensazione dopo averlo ritrovato. Si colpevolizzò per aver contribuito inconsciamente, e stupidamente, ad attirarlo in quella trappola.
- Te lo dirò tra poco, quello che voglio fare a Shuichi Akai. Sarà molto divertente. - ribadì lui a bassa voce, con un ghigno poco rassicurante.
Sera si sentì in dovere di intervenire assolutamente per evitare il peggio. Non sapeva come, ma si trovava lì e doveva ricorrere a tutte le risorse di cui disponeva.
- Ascolta, qui hai già qualcuno. Hai me. D'accordo? Fai quello che ritieni necessario a me, non so se hai in mente torture o cose simili, ma qualsiasi cosa sceglierai gli servirà da lezione vedendo il risultato su di me, te lo assicuro. Perché immagino sia questo ciò che vuoi fare: dargli una lezione per qualcosa successa tra di voi. Avete ancora questioni da risolvere e non sapete come fare, se non scoccandovi queste “punizioni”? Sì, forse, non lo so e non mi interessa, ma non sarà necessario aggiungere altro. Non commettere niente ai suoi danni, ti scongiuro! Ne ha già passate tante! Io non posso perderlo di nuovo! - disse lei senza esitazione, lasciandosi andare, guardandolo dal letto implorante. Sentiva le lacrime pizzicarle gli occhi.
Amuro la guardò perplesso, sbattendo le palpebre e massaggiandosi il mento.
- E' molto... onorevole da parte tua – disse lui, sinceramente colpito. - Ma non ho alcuna intenzione di applicare torture o anche solo di usare questa pistola, se non per intimarti di stare buona fino al suo arrivo. -
- Vuoi usarla su di lui, allora? Ti ho già chiesto di... -
- No, nemmeno su di lui. Non ho strumenti di tortura con me, e non sono abituato a portarmene dietro. E se proprio vuoi saperlo, questa pistola è scarica. -
Sera trattenne il fiato, senza capire un accidente.
- E allora, cosa diavolo vuoi fare? Dimmelo. - disse lei fermamente, guardandolo dritto negli occhi. - Non ho paura. -
Amuro assottigliò gli occhi, riflettendo. Abbassò lo sguardo concentrato verso terra, massaggiandosi ancora il mento. Poi, come colto da un'illuminazione, rialzò lo sguardo su di lei.
- Dimmi una cosa, Sera-san. Tu in che rapporti sei con tuo fratello? -
- Generalmente... buoni – biascicò lei, senza capire dove lui volesse andare a parare. Ed esitando a dire la parola “buoni”, visto che sarebbe stato meglio usare la parola “strani e incogniti”, nonostante il bene fraterno che scorreva tra i due, e questo parve non sfuggire ad Amuro.
- Ogni tanto ti fa arrabbiare? Dì la verità. E' impossibile che uno col suo carattere, così diverso dal tuo, non contrasti di tanto in tanto. -
- Sì, abbiamo dei contrasti. Ma come tutti. Ogni tanto abbiamo idee diverse, modi di agire diversi... -
- E cosa succede quando le vostre idee sono dichiaratamente diverse? -
- Lui cerca di farmi fare ciò che vuole, ciò che preferisce. Ciò che preferisco io è come se non contasse. Se a lui non piace qualcosa spinge anche me ad odiarla, perché pensa sia la cosa migliore per me – disse lei tranquillamente, come fosse sotto l'effetto di un incantesimo. Come mai si stesse aprendo con quel tizio era un mistero, ma in fondo neanche così tanto: aveva avuto spesso bisogno di sfogarsi su questo punto, lei voleva bene a Shuichi ma non era la prima volta che lui si comportava così con lei. Lo riteneva un atteggiamento molto scorretto e manipolatorio, forse esercitato per via del suo essere sorella minore da incanalare sulla giusta via, e non aveva mai avuto il coraggio di dirglielo direttamente. Ora che aveva l'occasione di parlarne, seppur con la persona più sbagliata, era di certo un sollievo.
- Ho capito cosa intendi. Ti senti trattata come una bambina -
- Una mocciosa senza cervello -
- In qualche modo vorresti dimostrargli il contrario? Che invece sei adulta, responsabile, in grado di gestire le tue azioni? -
- Disperatamente. -
- E quindi – iniziò lui, avvicinandosi a lei e cercando nella tasca dei jeans la chiave per aprire le manette, - te la sentiresti di dargli questa dimostrazione assieme a me? -
Quando lui riaprì le manette, lei fece scivolare fuori i polsi e si mise a sedere sul letto, guardandolo perplessa. - Cosa intendi dire? -
- Ti chiesto scusa in anticipo per quello che sto per dirti – cominciò lui, sedendosi sul letto accanto a lei. - Tra me e tuo fratello ci sono molti problemi risalenti al passato. Non sono facilmente risolvibili, non so se lui te ne parlerà mai, ma se avrai voglia gli chiederai di farlo. Io lo odio, te lo dico senza mezzi termini. E non riesco tutt'ora a trovare un metodo convincente per prendermi gioco di lui, fargli capire che io ci sono sempre e posso essere una seria minaccia nella sua vita. E' l'unica vendetta sensata e non sanguinosa che mi venga in mente, però sembra sempre piuttosto il contrario, è lui che mi scocca gli sgambetti più umilianti. E questo non mi va veramente più giù. -
Sera guardò il pavimento con sguardo attento, ascoltando tutto ma sentendosi sempre più perplessa. Capì comunque che l'atmosfera si era fatta più rilassata, lei si sentiva tranquilla e le si era anche esaurito il nervosismo. - Capisco... ma quindi io cosa c'entro? -
- Volevo “usarti” per fargli passare dei gran brutti momenti. Lui ti sta sicuramente chiedendo di stare alla larga da me, perché ha captato il pericolo. Teme che io cerchi di frequentare te solo per fargli capire che ho in pugno alcune parti della sua vita, che mi sono “impossessato” di sua sorella, e che non deve farmi arrabbiare. -
- E correggimi se sbaglio, ma non è esattamente quello che intendevi fare? - chiese lei ironica, alzando un sopracciglio.
- Sì. Ma siccome non sono così orribile non l'avrei tirata lunga con te, al contrario ti avrei fatto capire tutto molto velocemente. Tanto che ti ho portata qui al nostro primo appuntamento, ti ho legata e frastornata, in modo che tu potessi capire subito che genere di persona posso essere e spegnessi nell'immediato qualsiasi sentimento provassi per me. Voglio solo fare uno scherzo permanente a lui, non far soffrire te a lungo termine. -
Sera si grattò la nuca, pensierosa. - Detto così sembra quasi un atto gentile. Se la premessa non fosse uno scherzo sadico, rischierebbe di esserlo. -
- Volevo che leggesse il tuo messaggio falso che gli ho inviato io, in cui ho semplicemente scritto che ti sentivi spiata da qualcuno. Che lui allora piombasse qui di fretta, mosso dal dubbio si trattasse di me, e ci trovasse insieme in qualche atto esplicito e imbarazzante. Niente di spinto o che potesse seriamente turbarti, Sera-san, ma per lui doveva essere un momento impressionante e cruento che la memoria gli avrebbe rinfacciato spesso. Cosa c'è di meglio della tua sorellina avvinghiata al tuo nemico? -
Masumi arrossì, voltando lo sguardo dal lato opposto di lui. Santo cielo che ricopre mari e fiumi della Terra, che mente bizzarramente perversa.
- Con delle manette? Allora lo vedi, che qualche mania forse ce l'hai?? -
Lui ribatté ridacchiando. - Ovviamente te le avrei levate al momento opportuno. Solo che volevo rendere ignara anche te fino alla fine, senza spiegarti nulla e agendo all'improvviso, mi andava bene avervi entrambi contro. Fino a quando, almeno, non mi è sorto il dubbio che avremmo potuto collaborare. -
Sottolineò quella parola, inducendo Sera a rivoltare lentamente lo sguardo verso di lui.
- Quando hai detto “hai me, usa me” e hai fatto venire a galla tutto il tuo coraggio, ho voluto chiederti se per caso anche tu non avessi qualche questione in sospeso con tuo fratello. Nulla di grave come quelle che ho io, ma qualcosina che ogni tanto ti irritasse, che nonostante tu provi e riprovi a fargli capire non ti riesce mai. Ed ecco che è spuntata fuori. Ecco che forse vogliamo dimostrargli la stessa cosa: che lui non ha il controllo che crede. Che è giusto vedere me come minaccia, e te come donna. -
Masumi ci pensò su attentamente, capendo perfettamente la logica di quel discorso.
E pensò che non era affatto male. L'aveva giudicato come perverso, ma in alcune cose che aveva detto le riusciva di identificarsi in modo piuttosto semplice.
- Mi prometti che è solo questo ciò che hai in mente? Non gli farai del male? -
- Te lo prometto. Voglio solo divertirmi molto e vedere la sua faccia dilaniata da amare consapevolezze, Sera-san. Ed essere sicuro che se lo ricorderà ancora per molto tempo. - sorrise lui, stavolta in modo più rassicurante.
Sera sorrise allo stesso modo, prima però di accigliarsi e innervosirsi all'improvviso. Il piano le piaceva e la convinceva, Tooru aveva capito piuttosto a fondo le sue motivazioni; ma adesso c'era da definire il lato pratico di questo piano malvagio. Masumi era diretta e non amava girare attorno alle cose, perciò espose subito i suoi dubbi.
- Dovremo baciarci sul serio? - chiese allora ridacchiando e scrollando le spalle, come se in fondo sapesse che non era possibile. Sicuramente lui aveva un piano più congegnato.
- Beh. Certo che sì. Come altro fare, sennò? - chiese lui in tutta tranquillità, stringendosi nelle spalle.
Lei divenne un peperone rosso spellato e pestato esattamente alla fine di quella frase. Si voltò di nuovo dall'altra parte per non mostrarsi a lui.
Era abbastanza pazzo.
- E se io mi rifiutassi? - mormorò, colta all'improvviso da una timidezza che di solito non si confaceva ad una come lei.
- Lo farò comunque, come avevo previsto inizialmente nel mio piano che non ti comprendeva come complice. - rispose lui con la stessa identica calma. Era tutto molto naturale per questo individuo, maledizione.
- Questa è molestia, lo sai? Io ti potrei denunciare! - continuò lei, stavolta guardandolo aggressiva ma sempre con un acceso rossore sulle guance. Si sentiva patetica all'inverosimile, specie perché lui rise a quell'affermazione.
- Bah, ho affrontato di peggio. Fallo pure se vuoi. Ma ti perdi una grande occasione, facile facile, di convincere tuo fratello a porti al suo stesso livello. -
Sera prese un profondo respiro, per poi rilasciarlo lentamente dal naso con un accenno di frustrazione. Sembrava un ippopotamo pronto a caricare.
Lui in fondo aveva ragione.
E lei non era famosa per essere una codarda.
Lei non era famosa per lasciarsi scappare occasioni d'oro.
Erano solo due bacetti che si sanno dare anche i ragazzini delle elementari.
E se ancora arrossiva per una cosa del genere, suo fratello non aveva torto a trattarla come una piccola, indifesa marmocchietta.
E Amuro, un bel ragazzo con cui già aveva messo in programma di divertirsi, era matematicamente impossibile baciasse male.
Due piccioni con una fava alla faccia di questo, di quello e quell'altro ancora, chiunque essi fossero.
- E va bene. Ci sto. Basta tergiversare. - disse lei ferma e con pieno controllo, rivolgendogli un'occhiata di infuocata determinazione che divertì moltissimo Amuro.
- Vuoi fare pratica, dolcezza? - chiese lui per scherzare e per provare a gettarla ancora nell'imbarazzo.
- Assolutamente. - e il fatto che mantenesse lo sguardo e il tono su quella linea inflessibile e dalle evidenti sfumature guerriere, lasciò di sasso Amuro che spalancò gli occhi. Oh, oh. Lei alzò una mano e gli afferrò il mento, senza esitare. - Dobbiamo essere credibili o no? -
Lo trascinò verso il proprio viso, stampando le labbra su quelle di lui. Amuro le portò le mani alle spalle per allontanarla, in quanto troppo preso in contropiede. Era tosta la ragazza, ed era già la seconda volta nell'arco di cinque minuti che lo pensava. Ma d'altronde l'aveva pensato anche tutte le volte precedenti in cui l'aveva incontrata.
Tuttavia, quando le sue mani si posarono sulle esili spalle di lei, si fermarono. Gliele tenne appoggiate sopra senza spingere né allontanarla, perché se lei aveva mostrato quell'impulso e quel coraggio, era adesso il suo turno di non farsi stravolgere e di accettare il suo impeto.
Lasciò comunque a lei la guida di quell'atto, la quale aveva la chiarissima intenzione di evolvere l'entità di quel bacio. Si lasciò trascinare, e mentre la baciava sorrise. Come aveva immaginato, si stava divertendo.
Ma adesso la questione importante era: si stava divertendo anche lei?
Decise di staccarsi lentamente e gradualmente, senza rischiare di essere brusco. Incontrò il suo viso a non più di due centimetri dal proprio, lievemente arrossato e contornato da due occhi lucidi e trasognati. A vederla così da vicino e in quello stato, coi capelli neri già scompigliati e mossi, era oggettivamente molto bella. Peccato somigliasse tanto ad Akai, ma era qualcosa che poteva per il momento accantonare in un angolo molto remoto della mente.
- Okay, sì... sei già molto convincente così. Se volevi dimostrarlo ce l'hai fatta. - le mormorò lui con un sorriso, forse più dolce di quel che inizialmente intendesse darle. Spostò le mani dalle spalle al suo viso, con una delicatezza che scosse Sera con dei brividi.
Lui si lasciò sfuggire un sospiro malfermo, mentre le toccava le guance e la guardava a quella vicinanza: sentiva delle piacevoli fitte nel petto, piccole ma mitraglianti, e fece scivolare una delle due mani lungo il fianco della ragazza.
- Se allora sono stata credibile... adesso dobbiamo solo aspettare che arrivi – sussurrò lei, ma quasi non si riusciva a udire. Lui la sentì solo perché le era così vicino, perché sentiva i respiri a contatto con la pelle.
- Già... dobbiamo solo aspettare – confermò lui sempre sussurrando, come se temesse di sgretolare i vetri invisibili di quell'atmosfera alzando solo di poco la voce. - Solo aspettare. -
- Già. - concluse lei fissandolo e deglutendo.
Non appena lei disse questo, entrambi capirono come il verbo “aspettare” si stesse adeguando poco alla situazione attuale. Tooru mosse il viso in avanti e le afferrò il labbro inferiore con le proprie, per poi estendersi a tutto il resto con una lentezza estenuante.
- Non fraintendere, sto facendo pratica anche io con te – biascicò lui senza interrompere il bacio.
- Certo, lo capisco – gli fece eco lei allo stesso modo.
Nel giro di mezzo minuto Sera si trovò distesa sul letto mentre con le mani gli arpionava i capelli e le spalle, percependo in modo vivido una scia di respiri e labbra che pian piano scendeva e totalizzava il suo collo.
- Okay, è probabile che a questo punto siamo diventati credibili... - riuscì a dire lei ora che aveva un attimo di fiato.
- Sì, siamo diventati credibili. Ma secondo me manca ancora qualcosa – mormorò lui tra i respiri.
- Uh, anche tu avevi questa sensazione? -
- Chiara e limpida -
Continuando così ancora per un po', completamente avvolti da quell'inaspettato momento lussurioso che aveva preso forma uscendo dal loro controllo, non si accorsero che la porta della stanza effettivamente si aprì, ad un certo punto. Un Akai agitato e poi brutalmente impietrito da capo a piedi fece capolino lì dentro, senza dubbio. E avrebbero continuato ignari se non fosse che Akai, dopo aver intercettato prima la sorella, poi Bourbon e infine un paio di manette, annunciò la sua presenza in malo modo, gestì male lo sconvolgimento che aveva preso possesso di lui alla vista di ciò che dinnanzi ai suoi occhi si svolgeva e attrasse così l'attenzione di parecchi passanti in corridoio.
La leggenda narra che fu uno spasso di dominio pubblico, insomma, ma che i due diretti interessati se lo stavano quasi perdendo, presi com'erano dalle loro precedenti faccende. A malavoglia dovettero interrompersi e riscuotersi nel momento in cui Amuro incassava due pugni in pieno viso (erano stati dolorosi, ma che gioia intensa il pensiero di avergli provocato un trauma e averglielo letto negli occhi) e Sera riceveva in regalo lo Sguardo del Ghiaccio Eterno dal fratello.
Il piano non era sicuramente fallito, dunque. L'obiettivo era stato raggiunto. Solo che ad un tratto si era accantonato da solo, non si sa in quale momento preciso. Dimenticato.

Akai non lo avrebbe mai ammesso nemmeno col demonio in persona armato di tridente, ma aveva preso una batosta quel giorno. Realizzare, in modo peraltro così palese ed esplicito, che la sorella faceva quello che voleva senza stare a sentire i suoi consigli, mossa da futili sentimentucci da ragazzina per uno che tentava di soggiogarla al solo scopo di ferire lui, l'aveva fatto sospirare più e più volte con gravità e stancare più del necessario. Neanche il caffè nero riusciva alle volte a risollevarlo. In questo modo non gli veniva neanche più voglia di metterla in guardia, facesse un po' come le pareva. Era grande e doveva prendersi le sue responsabilità, stop, punto.
Mentre per quanto riguardava il caro Rei, lo avrebbe ucciso probabilmente molto presto. D'altra parte Scotch gli mancava, no? Stai per raggiungerlo. Fatti trovare ancora in una situazione simile con mia sorella, e lo raggiungi all'istante.
Oh, per carità, che piaga infetta quella situazione.
Sembrava la stupida trama di uno di quei romanzi rosa da 100 yen che vendevano fuori dalle edicole.








***************************************
Allora, come immagino avrete constatato, il contesto generale adottato per questa shot lo classificherei abbastanza serenamente nella categoria “assurdo o quasi”, categoria che riscopro sempre più piacermi in modo preoccupante. XD Poi, altra cosa, spero si sia capito bene tutto di questo capitolo. Essendo strutturato in modo un po' diverso da altri capitoli, con continui passaggi di scene che non tutti sempre gradiscono, mi auguro sia stato tuttavia scorrevole e non troppo incasinato.
Comunque, a parte forse qualche scena, credo la shot sia stata mantenuta su una linea ordinaria, facendo solo agire i personaggi, soprattutto Shuichi, in modi magari non sempre convenzionali. Ma passiamo alla nostra bella pairing completamente non-sense: era da tempo che volevo farci una shot, su questi due, e con il nostro amato Shuichi Akai (il mio sicuramente almeno) a fare da letale filo conduttore, è potuto uscirci qualcosa. Tooru i suoi motivi li aveva già e li conosciamo, mentre per Sera sono stati ricreati dal nulla ma mi parevano sensati – il problema della sorella che si sente padroneggiata da uno col carisma del fratello. E Sera e Amuro... che ne dite, come vi sembrano? Mi hanno sempre istigato, per quanto non si siano proprio incontrati decine di volte: hanno diverse cose in comune, a cominciare dal vizio di fare i detective della situazione; Masumi ogni tanto parla di lui a Ran e Sonoko, e anche quando si incontrano spiccano sempre per delle determinate qualità e si notano a vicenda. Insomma, very interesting, e tutta la shot l'ho voluta impostare su un tiro mancino progettato ai danni di Shuichi, qualcosa che potesse soddisfare entrambi. Che poi, vabbè, come al solito ho fatto evolvere in qualcos'altro *gnegnagnuhihi* 
E ovviamente spero vi sia piaciuto, mi piacerebbe come sempre ricevere vostre impressioni, non siate timidi :] Per vedere se si capiva fin da subito che Amuro stava progettando questo genere di atto, o se lo si realizza più facilmente dopo quando Sera affronta la cosa. O anche per dirmi che potevo evitare tutta questa pantomima e piantarli subito in albergo aggratis, che veniva un capitolo anche meno lungo ù___ù
Grazie a tutti per leggere/recensire/fare altre cose con questa raccolta! Vedo spesso utenti nuovi spuntare, mi fa molto piacere ^__^ Alla prossima!  

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Capitolo 35
*** Lava arancio bollente - ReiShiho ***


35. Rei e Shiho ~ 

Rating: Arancio/Rosso

***







Lava arancio bollente


Shiho rimaneva con il pugno sospeso in aria, a contemplare la porta chiusa dell'appartamento di Amuro.
Era passata al bar Poirot per trovarne l'indirizzo, chiedendolo ad Azusa, la quale era stata restia sulle prime per una ragione prettamente legata alla privacy. Dopo aver finalmente ceduto, capendo che era importante, le aveva scritto l'indirizzo su un post-it - e Shiho si chiese cosa esattamente l'avesse convinta, a quel punto: la sua paura era che Azusa si fosse messa in testa che tra lei e Amuro scorresse del tenero, e che quindi volesse favorire gli eventi; il viso di Shiho doveva essere stato molto più teso del necessario. Con un sorriso accennato e forse inopportunamente complice, Azusa le aveva passato il foglietto giallo con sopra l'indirizzo.
E adesso Shiho si trovava lì, di fronte casa sua. Di fronte alla sua porta chiusa. Col pugno pronto a bussare timidamente, ma che ancora non si era mosso di un millimetro. Rimaneva nell'aria, congelato.
Sospirò, guardando in basso. Sentì il suono di musica ovattata provenire da un altro appartamento, musica anni '30 americana, a sua volta accompagnata dal ronzare della lampadina difettata sopra la sua testa. Il corridoio era deserto e in penombra, dalle pareti di uno spento color azzurrognolo, le persiane delle finestre di quel pianerottolo rotte e storte. Entravano degli spiragli d'aria calda e afosa, nonostante fosse sera inoltrata, che caricavano il viso della ragazza di un velo umido di sudore fermo.
Shiho deglutì e chiuse gli occhi, sentendo il disagio cominciare a serpeggiarle dentro. Era arrivata così sicura di sé in quel posto, con tutto un discorso ben confezionato già in testa e con un sorriso dipinto in volto che quasi si sarebbe potuto definire spavaldo, ma appena messo piede fisicamente nel condominio e arrivata poi al terzo piano, di fronte alla sua porta, tutto questo pacchetto di sicurezza interiore era svanito nell'etere. Nel forte odore di candeggina che permeava quel posto. Chiudendo gli occhi stava riuscendo a concentrarsi di più sui rumori, ad udire i passi di lui all'interno dell'appartamento. Quindi c'era e non era fuori casa, adesso ne era sicura, ma questo non facilitava il suo tentativo di approccio.
E il pugno rimaneva in aria, in attesa di un suo segnale. Doveva solo bussare, avvertirlo della sua presenza e parlare con lui di una cosa. Senza possibilmente scappare prima che lui aprisse la porta.
Solo bussare.

***

- Giusto, giusto – annuì Sherry frettolosamente, guardando l'orologio da parete con un'evidente ansia negli occhi.
- Se poi rifai tutto il calcolo senza tenere conto delle percentuali di rischio, in realtà il risultato può avvicinarsi a quello sperato! Vero, Sherry? Confermi? -
- Confermo, dottor Kinoyata – annuì ancora lei, mordendosi il labbro e iniziando a muovere un piede su e giù senza rendersene conto.
- Davvero confermi? Questo significa che sei pronta a rifare tutto il progetto... senza includere consciamente i rischi? - chiese perplesso il dottore, anche se in parte ammirato.
- Sì, sì, credo di sì – tagliò corto lei con un gesto della mano, alzando ancora lo sguardo verso l'orario. Poi, come se le avessero assestato un colpetto sul collo, realizzò la natura dell'azzardo a cui stava dando riscontro positivo, e sgranò gli occhi. - No, aspetti. Cosa?! -
- Ecco, immaginavo non mi stessi ascoltando... -
- Non è così, dottore... -
- Quindi niente? Anche tu rifiuti? -
- Senta... -
- Vuoi che ne parliamo un'altra volta? -
Sherry si portò un'unghia ai denti, mordicchiandola preoccupata e imbarazzata. Riguardò l'orario, di riflesso.
Mancavano solo venti minuti alla rubrica di moda “Carol's Fashion Corner”, in onda prima dei talk show serali. E lei doveva ancora sistemare le attrezzature, pulire e correre fino alla sua stanza che era dall'altra parte dell'edificio...
- E' una cosa importante, Sherry. Spero tu lo capisca. E' fondamentale tu lo capisca. Chi accetterà la modifica di questo progetto senza implementare misure di sicurezza e ignorando i margini di rischio relativi... -
Quella sera presentavano la nuova collezione Victoria's Secret. Maledizione.
- ...e dunque, nonostante compierà un significativo gesto per la nostra comunità criminale, dovrà al contempo prendere coscienza di una grande, terribile responsabilità. Tu sei giovane, ma tutti sanno che... -
- Sì, infatti – mormorò lei sovrappensiero, senza più ascoltarlo da un po' e guardando un punto fisso di fronte a sé con le pupille ristrette.
- Sei proprio certa di voler fare questa cosa? -
- Io adesso devo sistemare tutto, dottor Kinoyata. E andarmene. Le dico domani. -
- “Le dico domani” cosa? -
- Una risposta -
- Una ris... -
Ma Sherry lo ignorò, decisa a fare quello che doveva: era già molto in ritardo sulla sua tabella di marcia. Dopo aver quasi rischiato di accettare un progetto mortale a causa di una svista, gli sorrise di sfuggita e gli aprì gentilmente la porta per fargli capire, senza parole inopportune, che era libero di andare. Il dottore la guardò perplesso, per poi avanzare un passo esitante verso la porta ed uscire a testa bassa.
Sherry richiuse la porta quasi con violenza, una volta che il dottore fu fuori. Corse nel centro del laboratorio e con grande fretta iniziò a raccogliere tutti gli strumenti per riporli nelle credenze, stando comunque attenta a non romperne nessuno – ma per forza tutti delicati, dovevano essere?! Le venne il fiatone in men che non si dica, che cresceva d'intensità insieme al tintinnio nevrotico degli strumenti che si scontravano l'un l'altro tra le sue braccia. Quando ebbe finito diede una pulita generale con uno straccio già sporco, sapendo quindi di star commettendo un brutto errore per il quale, comunque, valeva assolutamente la pena. Strofinò le superfici in ceramica, i fornelli metallici, qualche vetro, senza badare praticamente a nulla poiché la sua mente era già altrove, nella sua stanza. Sul suo programma preferito.
Si tolse il camice velocemente, lo ridusse ad una palla di stoffa e lo lanciò in una cesta apposita in uno sgabuzzino. Uscì dal laboratorio, lanciò un ultimo e apprensivo sguardo all'orologio da parete, chiuse a chiave la porta e corse. Corse come una furia attraverso i cupi corridoi della sede dell'Organizzazione, sbattendo una porta dopo l'altra e arrivando velocemente nell'ala est dell'edificio dove, invece di prendere l'ascensore, scelse le scale. Salì due scalini per volta, udendo il proprio respiro forsennato e sentendo la gola bruciare. C'era fortunatamente abituata, poiché ogni giovedì, il giorno che dedicava la serata televisiva al Carol's Fashion Corner, si ritrovava strettissima coi tempi. Il suo programma di moda preferito, l'unica cosa decente che guardasse in TV, iniziava proprio pochi minuti dopo la fine del suo turno di lavoro.
Trafelata e sudata arrivò davanti la porta della sua stanza, cercando rapidamente la tessera magnetica nelle tasche dei jeans. Quando la trovò la strisciò sul pannello applicato alla maniglia, la serratura non fece in tempo a completare il suo giro di scatto che lei entrò dentro di getto, fiondandosi sul divano a pancia in giù e scovando il telecomando nascosto in mezzo ai cuscini. Accese la TV sul canale che trasmetteva la rubrica di moda e, quando vide che era appena cominciata la sigla d'inizio, si rilassò emettendo un grande sospiro e sorridendo sollevata. Ansimò ancora per un po', a causa dello sforzo fatto durante la corsa e la scalinata, placando piano piano il suo respiro e deglutendo più volte. Infine capì di avere un gran caldo e di essere completamente sudata, ma non poteva ancora farsi una doccia, doveva vedere la nuova collezione e i commenti infuocati di Carol a riguardo. Perdersi anche solo una frase di quella donna equivaleva ad essersi persi l'intera puntata. Era davvero il massimo!
A Shiho la linea Victoria's Secret piaceva da morire, ma sapeva già che Carol avrebbe devastato il marchio infilzandolo a suon di parole taglienti e già insanguinate dai precedenti attacchi contro le case di moda più importanti. A volte concordava con lei, mentre in altre occasioni la trovava davvero fuori luogo – ma, intendiamoci, era questo il bello. Era il bello della moda, dei dibattiti sulla moda, del fuoco vitale che si accendeva sulla moda. I vestiti, l'intimo, i colori sgargianti, le modelle, i pizzi e i filamenti degli abiti più eccentrici, le passerelle, i flash forsennati dei fotografi, le montature d'occhiale appariscenti portate dai critici di moda, e la splendida Carol col suo rossetto viola bruttissimo. Il giovedì sera era tutto ciò che ancora, senza alcuna riserva, le animava il volto con sorrisi sinceri. Shiho avrebbe osato dire che viveva per i giovedì sera, in quel posto maledetto dov'era rinchiusa e che non aveva proprio nient'altro da offrire. Finché le lasciavano la TV, e finché il palinsesto non fosse cambiato, lei avrebbe tirato avanti alla grande. Alla faccia di tutti.
Si lasciò scappare un risolino eccitato alla vista del primo corpetto fucsia e nero che lo schermo della TV fece scorrere, seguito subito dopo dallo sguardo disgustato ma divertentissimo di Carol.
«Nemmeno a Carnevale avrei il coraggio di vederlo in giro!» emise la donna dalla TV.
Shiho rise e intanto, ancora sdraiata a pancia in giù sul divano, si sfilò il maglioncino nero rimanendo in reggiseno. Il bello di avere una stanzetta tutta per sé. Aveva ancora un gran caldo dalla corsa, nonostante il suo cuore avesse ritrovato un ritmo regolare; sospirò scompigliandosi i capelli, già arruffati e in parte appiccicati al viso, focalizzando lo sguardo vivo sullo schermo.
Solo in quell'esatto momento qualcosa andò storto. Solo allora avvertì una sensazione opprimente e subdola, che le affondò i suoi neri e sottilissimi tentacoli nel petto avvinghiandosi silenziosamente attorno al suo cuore. Poteva quasi vederli, mentre con lentezza diffondevano ombra al suo interno pulsando debolmente di un'intensa luce viola. Non sapeva dove poteva aver visto un'immagine simile per poterla evocare così facilmente, forse in un film. O forse era la sua mente a conoscerla già da prima. Una sensazione così chiara, ma di cui non si era minimamente accorta fino a quell'istante.
Non avrebbe saputo descriverla, era solo a livello sensoriale ma era più netta che mai, soprattutto ora che si era calmata e che il silenzio, inframmezzato solo dalle voci accalorate e sintetiche prodotte dal televisore, dominava la stanza.
I suoni le parvero improvvisamente più attutiti. Aveva solo una finestra, piccola e stretta, oltre la quale vedeva scendere il buio della sera. E in quella fitta penombra, mentre il respiro tornava a farsi inspiegabilmente pesante e usciva soffocato dalla sua gola, Shiho voltò lentamente, molto lentamente, lo sguardo verso sinistra. Verso la cucina. Sapeva che qualunque fosse la minaccia, la sua forma, la sua vibrazione tetra, il suo alone e il suo odore, proveniva da lì. Era in cucina.
Le sue labbra iniziarono a tremare, e così fecero le mani. Gli occhi attenti e sgranati, pronti a cogliere ogni minimo movimento. Sembrava tutto fermo. Ma a quel punto lo vide. La luce in cucina era spenta, ovviamente, ma lei vide perfettamente. Osservò la sagoma alta e oscura di Gin ergersi sulla soglia, e vide anche il riflesso dei suoi denti bianchi. Stava sorridendo.
Con il cuore che balzava in gola in un triplo salto, Shiho scattò seduta sul divano come se avesse ricevuto una scossa elettrica di migliaia di volt, allungando per prima cosa un braccio verso il suo maglione abbandonato.
- No. Ferma così come sei. -
Shiho obbedì, perché non poteva fare altrimenti. Quel timbro vocale profondo e denso, che attraversava tutta la stanza per unirsi alle zone d'oscurità che la permeavano, non ammetteva sicuramente repliche o atti contrari al suo ordine. Nel suo immaginario, Shiho rivide uno di quei tentacoli neri e pulsanti uscirgli dalla bocca. E raggiungerla.
La ragazza rimaneva immobile, con un braccio teso verso il maglione e con lo sguardo fisso su Gin. Con il suo corpo, racchiuso solo in un reggiseno bianco e in pantaloni neri, esposto verso di lui. Deglutì in mezzo ai suoi respiri, ma non ebbe il coraggio di fare altro. In sottofondo la voce ovattata di Carol sbraitava contro un critico di moda che sosteneva il marchio, e il pubblico rideva.
- Non ti muovere di un millimetro. Ma continua a respirare così. - sibilò lui, uscendo dall'ombra e venendo avanti di qualche passo.
Shiho avrebbe voluto indietreggiare, e col busto lo fece. Si tirò un poco indietro ma non troppo, poiché le parole di Gin erano come un incantesimo: la condizionavano a ciò che chiedevano. Aveva imparato un registro di comunicazione molto importante da quando viveva in quel luogo e da quando aveva conosciuto Gin: o si faceva come diceva lui, o si riceveva in regalo un proiettile.
Il busto di Shiho, mantenuto in una posizione tanto tesa, iniziò a tremare.
- Come hai fatto a entrare? - trovò il coraggio di chiedergli in un sussurro.

***

La ragazza rilassò il pugno e lasciò che il suo braccio si abbandonasse lungo il fianco, sospirando scocciata. Amareggiata da se stessa, dalla sua mancanza di coraggio.
Aveva affrontato situazioni ben peggiori in passato, non riusciva a capire perché trovasse tanta difficoltà a compiere gesti stupidi come bussare ad una porta o parlare direttamente con una persona che non aveva alcuna intenzione malevola nei suoi confronti. Che poi tutto ciò che doveva dire a quella persona, Tooru Amuro, o meglio Rei Furuya, il quale ora si trovava dietro quella porta in casa sua a farsi gli affari suoi, era “grazie”. Dopodiché se ne poteva andare. Non lo avrebbe disturbato, perché era solo un “grazie”, non rubava tempo. C'era solo il problema delle convenzioni sociali, che richiederebbero alcuni pro-forma: magari lui sarebbe stato ospitale e l'avrebbe invitata dentro a bere un bicchiere d'acqua o a fare due chiacchiere, ma lei avrebbe detto “no, no, volevo solo dirti grazie”. “Grazie”. “Grazie”.
Grazie.
Grazie.
Ripetila ancora un paio di volte in testa.
Quanto poteva essere complicato pronunciare quella parola. Anche solo per rivolgerla a Kudo, che tanto aveva fatto per lei, ci aveva messo una vita.
- Chi c'è? - disse una voce ovattata al di là della porta.
Shiho sobbalzò sul posto, allarmandosi. In qualche modo l'aveva sentita o percepita. Boccheggiò e si guardò intorno, come per cercare un nascondiglio e considerando anche la possibilità di fuggire rapidamente lungo lo stesso corridoio che l'aveva condotta lì. Il suo corpo stava già scattando da solo in quella direzione - si costrinse con sforzo a non farlo. Senza sapere essenzialmente cosa fare, specialmente se soggetta a quella pressione improvvisa, riguardò la porta con un misto di imbarazzo a apprensione per se stessa. Fissò precisamente l'occhiello, rendendosi conto che lui doveva essere già arrivato lì da un pezzo e che probabilmente la stava guardando. Questo significava che, adesso, si stavano guardando l'un l'altra. Chissà le risate che si era fatto. Oppure no?
Come avesse fatto a percepire la sua presenza era un mistero, ma contrariamente non sarebbe diventato l'agente acuto che era. La porta si aprì delicata, quasi silenziosa, lasciando aperto solo uno spiraglio.
Porca miseria, che ansia.
Da lì arrivarono immediatamente luce, suoni allegri e aria condizionata fresca. Shiho vide tutto a rallentatore e questo le consentì di cogliere ogni dettaglio e di avere quasi il tempo psicologico per prepararsi. Si passò una mano sul volto, sospirò velocemente e riabbassò il braccio, stringendo forte il pugno. Aspettò solo che uscisse anche la testa di lui, dallo spiraglio.

***

- Non mi ci vuole niente ad entrare nelle stanze degli altri, se riesco ad avere il pass-partout - le rispose Gin in tutta calma, senza abbandonare il ghigno.
Il ghigno era qualcosa che forse faceva anatomicamente parte del viso di Gin. Shiho aveva pensato spesso che magari non si poteva eliminare, ormai plasmato nei suoi muscoli facciali.
- E perché mai, con tutte le stanze più interessanti che avresti potuto violare... hai scelto la mia? - continuò Shiho, senza però riuscire a guardarlo negli occhi e puntandoli quindi al colletto della camicia di lui.
- Perché nessun'altra stanza è interessante come questa, in realtà. - proseguì lui, fissandola come lei invece non riusciva a fare.
- Ti... ti sbagli – sussurrò Shiho socchiudendo gli occhi, iniziando a capire dove lui voleva andare a parare. Ma avrebbe tergiversato, preso tempo, fatto la finta ignorante. Era l'unico modo di venirne fuori.
- Su cosa mi sbaglio? -
- Forse credi di trovare qui dentro documenti top-secret, o compresse miracolanti. Ma non c'è niente di tutto questo, io lascio tutto in laboratorio a disposizione di chiunque. Qui non troverai niente, solo un televisore e un po' di cibo precotto. Tutto qua. -
- Ed oltre a questo, trovo anche ciò che cerco davvero. Ciò a cui ho puntato fin dall'inizio, Sherry. - la indicò con lo sguardo. - Dei documenti segreti non me ne faccio nulla. -
- Qua non c'è niente che ti possa servire, Gin. Puoi uscire, adesso... -
E smetterla di fissarmi mentre sono in questo stato.
- Lascia deciderlo a me, questo punto. Sarò io a constatare cosa mi possa servire e cosa no... non sei d'accordo? -
Shiho era consapevole dell'inquietante ossessione che quell'individuo aveva sviluppato nei suoi confronti. Prima di allora era stata solo certezza astratta, consolidata da sguardi, gesti, parole ambigue; ora si apprestava a divenire concreta da un momento all'altro. E questo era spaventoso, andava evitato assolutamente in qualsiasi maniera le fosse venuta in mente. Senza volerlo l'aveva istigato, vista la sua condizione attuale che sicuramente non lasciava Gin indifferente. Se pensava che poco prima si stava spogliando, ansimando accaldata per la corsa, e che lui era già lì...
Fu scossa da un terribile brivido. Questo brivido giunse dalle profondità dense e basilari del suo essere, quelle che mai venivano stimolate, portandosi dietro tutto un bagaglio di consapevolezza che forse non sapeva neanche di avere: tale brivido la convinse ad arrendersi, a non provare neanche a fermare ciò che stava per accadere – per il semplice fatto che nulla avrebbe potuto impedire l'imminenza. Lei era troppo fragile e spaventata rispetto a lui, sicuro di sé e fisicamente più forte.
Ma com'era possibile che il suo corpo le consigliasse questo? Come poteva esserci un vero e proprio accordo tra il corpo e la mente, la quale invece rifiutava categoricamente la disgrazia? A quale dei due doveva dare retta? Erano entrambi parte di lei, ma in profondo disaccordo.
Quando lei smise di rispondergli, poiché già precipitata in uno stato simile allo shock, lui lo interpretò come arrendevole accondiscendenza. Non passarono neanche due secondi interi che lui si avviò a grandi passi verso di lei, sormontandola. E fu in quell'istante che Shiho scelse la mente, scelse di reagire laddove il corpo già si rifiutava a priori per non sprecare inutilissime energie: prima di permettere al corpo di Gin di esserle addosso, fece saettare gli occhi verso la porta d'ingresso. Dopodiché scattò in quella direzione, sgusciando da sotto il corpo dell'uomo, scivolando via come una zanzara invisibile. Si diede una spinta sui polpacci e schizzò verso la porta per scappare, poteva farcela.
Gin fu comunque più veloce. Ma lei, intimamente, lo sapeva già.
Lui si voltò di colpo e la afferrò per un braccio prima che scappasse, strattonandola verso di sé in malomodo e rilanciandola sul letto. Lei urlò, mentre impattava col materasso.
In fondo non avrebbe davvero potuto farcela. Mentre vedeva Gin salirle sopra e stringerle una mano al collo e l'altra al polso sollevato, capì che in fondo il corpo aveva avuto ragione fin da subito intimandole di non combattere più. C'è un istinto, quello più biologico e slegato dal raziocinio, che per quanto soggetto ad ostinata ignoranza non smette di esistere. Chiuse gli occhi, sentendo un dolore acuto al braccio strattonato.
Ma lei non voleva arrendersi così, era contro i suoi principi e il suo carattere. Perché diamine non lo faceva, invece, gettando le armi che non aveva mai avuto? Perché la mente ergeva questa armatura di ferro difensiva che la teneva sveglia, vigile, lucida nonostante tutto? Sarebbe stato più semplice se non l'avesse fatto, se anche la mente avesse deciso di soccombere, di dimenticare presto.
Il reggiseno le venne strappato via, e urlò di nuovo. Il cuore batteva all'impazzata e doveva uscirne, subito, ma non sapeva come. Provò a rotolare via dal letto, sempre sgusciando da sotto di lui, ma la presa al collo era forte e avrebbe rischiato di soffocarsi da sola. Aveva ancora gli occhi chiusi, come ottimo strumento difensivo per non vedere il proprio corpo ridotto in quel modo e per non osservare lo sguardo folle di Gin mentre le faceva questo – ma, ovviamente, ad un certo punto li riaprì. Scelse di provocarsi altri traumi, per non si sa quale logica ragione, ma riteneva opportuno farlo per poter prendere atto e liberarsi.
Lui le strinse forte le spalle per tenerla ferma, ma lei si muoveva in continuazione e quasi a spasmi, urlandogli addosso e mordendogli le mani. Al che lui le lasciò libero il collo per tapparle bruscamente la bocca, coprendo però anche il naso fino a quasi non permetterle di respirare. Con l'altra mano le bloccò il ventre nudo, riuscendo intanto a muoverla in altre zone che Shiho avrebbe preferito tenere per sé ancora per un bel po'.
Le faceva male ogni punto che lui esplorava, non c'era un pizzico di delicatezza in quell'atto ma solo la dichiarata volontà di renderlo memorabilmente orribile, doloroso. Era una violenza sotto ogni singolo aspetto e lei la stava subendo.
Devo rendermene conto. E devo stare tranquilla. Lo dimenticherò. Sono forte.
Devo stare tranquilla.
Lo dimenticherò.

Non riusciva a proteggersi in nessun modo. Il suo corpo tremava da cima a fondo e aveva l'impressione che più si muoveva e più le mani di lui si chiudevano su di lei, bloccandola e ferendola. Che ogni suo tentativo di difendersi comportava una ferita aggiuntiva, come un piccolo animale che per dimostrare al branco di saper arrivare alla cima di un albero alto e con la corteccia troppo spessa e sgranata si ferisce nel farlo, precipitando prima per il dolore insopportabile.
Mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime tentò con entrambe le mani di liberarsi dalla presa di Gin che le serrava bocca e naso, perché rischiava davvero di soffocare – e forse lui, in preda alla follia, nemmeno se ne stava rendendo conto.
Merda umana. Ti odio.
Riusciva a pensare nonostante tutto, anzi, erano parole molto chiare nella sua testa, come se lì nel cranio il tempo scorresse più disteso. Strinse forte il polso di Gin e spinse, tirò, strattonò, diede colpi, ma non c'era verso. Il petto stava per esploderle invocando fiato, percepì pressione inaudita ai bulbi oculari.
Ti detesto, ogni cosa di questo mondo muore al tuo passaggio.
Ogni cosa del mondo.

Gli tirò anche un paio di calci, col solo risultato di permettergli di afferrare una delle sue gambe da sotto la coscia. Considerò la possibilità di morire così, prima che lui potesse attuare il peggio su di lei, risparmiandosi tanto dolore per i tempi a venire. Ed era una buona possibilità, malauguratamente le piacque. Dal televisore sentiva provenire le risate del programma, che fortemente stridevano con i suoi lamenti soffocati.
Quando decise di non lottare più e di lasciarsi andare, staccò le mani dal polso di Gin e le lasciò scivolare lungo i bordi del letto, tenendo gli occhi aperti e socchiusi, fissi al soffitto. Tenne il corpo ancora acceso per alcuni attimi, ma spense l'anima.
Fu a quel punto che sentì distintamente una terza voce nella stanza.
- Lasciala andare. Subito. -
Tutto si fermò, Gin compreso. Quest'ultimo voltò il viso furibondo in direzione della porta, per capire chi avesse parlato e fatalmente interrotto quel momento. Chiunque fosse stato, lo avrebbe ammazzato lì sul posto.
La sua presa sulla bocca di Shiho si era in automatico rammollita, per via della sorpresa che ora gli spostava l'attenzione sulla sua prossima preda. La ragazza ne approfittò per levarsela di dosso, tirare una rumorosa boccata d'aria che le bruciò la schiena e rotolare giù dal letto, sfinita. Iniziò a tossire e ad ansimare, restando in posizione rannicchiata a terra e cercando di riprendersi. Si portò una mano al seno per coprirselo, alzando poi il viso verso la porta.
Riconobbe Bourbon, un giovanissimo agente dell'Organizzazione. Non doveva avere tanto più della sua età. L'aveva visto non più di due o tre volte per i corridoi dell'edificio.
Cosa ci faceva lì? E anche lui, come diamine aveva potuto aprire la porta della sua stanza?
Poi le venne in mente che forse non era stata chiusa bene. Quando era entrata di corsa in camera per guardare la TV, aveva aperto forzatamente la serratura per la fretta e probabilmente era rimasta incastrata fuori, impedendo alla porta di chiudersi del tutto. Che lui fosse passato in corridoio in quel momento e avesse sentito strani rumori all'interno?
Ma cosa poteva ricavarci dal salvarla, uno di quella malvagia congrega? Perché non aveva semplicemente riso della situazione e tirato avanti per la sua strada, come avrebbe fatto chiunque altro lì dentro?
- Spiegami chi diavolo saresti tu. - proferì Gin nella sua direzione, con occhi gelidi e tono di tenebra.
- Forse non ti ricordi di me. Sono Bourbon. -
- Infatti, non ricordo. Le persone poco importanti che non mi colpiscono sono destinate a evaporare ai miei occhi -
- Beh, vorrà dire che da questo momento di me ti ricorderai bene - insinuò il ragazzo con sicurezza e un sorrisetto sfottente in volto. Poi gli ricordò qualcosa con un lampo d'astuzia negli occhi. - E tu, Gin, oggi avresti una missione importante. -
- So bene quali sono i miei programmi. Non mi muovo prima di sera, però, e come vedi adesso ho altro da fare – ringhiò lui in risposta.
- Non credo ci sia permesso sprecare energie in modo improprio poco prima di missioni importanti. -
- Non ci sarebbe neanche permesso ficcare il naso nelle questioni degli altri. -
- Però tu lo fai, esattamente come tutti. Quindi lo faccio anche io, e non credo nemmeno che il boss sarebbe particolarmente felice di constatare ciò che sta succedendo qui, prima delle tue operazioni – suggerì Bourbon con un sorriso saccente e tutt'altro che amichevole. - Ci sono situazioni in cui il tempo ci sfugge di mano. Sono semplicemente venuto a ricordartelo, Gin. -
Gin gli riservò un'occhiata diabolica e omicida, prima di alzarsi dal letto e ricomporsi. Nominare il boss, in qualche modo, riusciva sempre a placarlo un poco e farlo anche desistere da determinati propositi.
- Ti beccherai una pallottola nel cranio molto presto. Stanne certo. - gli sibilò Gin a bassa voce mentre gli passava accanto per uscire dalla stanza, smuovendo ombre e sgradevoli correnti d'aria. Rivolse un'ultima occhiata fredda a Sherry, prima di sparire.
Bourbon sorrise di quell'intimidazione, sapendo che non avrebbe avuto alcun riscontro concreto: Gin era famoso per il suo pronunciare quotidianamente quel genere di frasi. Dopodiché abbassò lo sguardo su Shiho, ancora a terra, e il sorriso gli si spense nell'immediato.
Entrò nella stanza, avvicinandosi cautamente a lei.
- Ehi. Dimmi, va tutto ben... -
- Vattene. -
Il tono glaciale e mortuario con cui gli venne rivolta quell'unica parola lo bloccò sul posto. Sembrava essere stata pronunciata da un'antica statua in rovina, dimenticata per secoli dal genere umano e ricordata solo per caso.
- Ascoltami. Ti voglio solo aiutare a rialzarti. Volevo sapere se... - allungò una mano verso di lei, ma la ragazza gliela colpì forte per allontanarla da sé, sentendosi completamente minacciata.
- Non osare toccarmi! - urlò lei all'improvviso con forza, contro di lui. Era una furia, tremava da capo a piedi.
Lui si sentì destabilizzato, ma tentò di capirla. Qualunque essere umano di sesso maschile, in quel momento, doveva apparire come un mostro ai suoi occhi di giovane ragazza. Si prese circa un secondo di tempo per guardarla e individuare la sua disperazione, gli occhi iniettati di sangue e i lividi sulle spalle. Il suo sentirsi sola contro tutti. Voleva davvero aiutarla, ma non contro il suo volere.
- Va bene. Ho capito. Perdonami. -
Bourbon si voltò e tornò nel corridoio esterno, chiudendo delicatamente la porta e lanciandole un'ultima occhiata prima di farlo.


Il giorno dopo, durante il lavoro in laboratorio, Sherry continuava a distrarsi. Tutte le operazioni che richiedevano attenzione le facevano perdere lo sguardo nel vuoto, sbagliare. Le tremavano leggermente le dita. In quei momenti mollava il lavoro a metà e correva in bagno, fissandosi a lungo allo specchio e bevendo ampie sorsate d'acqua dal rubinetto.
Aveva una nausea costante da quando si era svegliata, la voglia di vomitare sempre dietro l'angolo. Non lo faceva solo perché non aveva ancora toccato cibo dalla mattina e lasciato lo stomaco vuoto.
Quella era già la quinta volta che si trovava in bagno – che chiamarlo bagno era un complimento, era solo uno sgabuzzino angusto provvisto di specchio, rubinetto e water. Ma lei lo preferiva, perché era sicura che andando lì non avrebbe incrociato nessuno. Tutti preferivano i bagni grossi e lussuosi che il posto offriva in altre parti dell'edificio. E per la quinta volta in quella giornata, si prendeva interi minuti per rimanere sola e isolata, e per avere brutte opinioni di se stessa.
Sentiva di avere ceduto. Di avergliela data vinta, di aver deciso di soccombere sotto il suo potere. Di non aver reagito abbastanza e di avere forse scelto, inconsciamente, di dare il suo corpo a lui. Pensieri negativi, contrastanti e insensati le riempivano la testa in quei brevi minuti di solitudine, e se si guardava allo specchio le cresceva la voglia di distruggerlo per cancellare il suo stesso riflesso. Sentiva i nervi al limite.
Si raccolse in se stessa, stringendosi le braccia e tremando d'angoscia. Forse l'evento era ancora troppo fresco, ma non riusciva a levarsi dalla mente le immagini che l'avevano caratterizzato. Ricordava ogni singolo dettaglio, gli odori e i suoni. Odore di fumo e cuoio vecchio quando lui si era avvicinato. Rumori bruschi e urla quando l'aveva presa.
Si portò le mani al viso, ma subito dopo si scosse sentendo bussare alla porta.
Chi poteva essere? Nessuno, nessuno mai veniva in quello schifo di bagno.
- Chi... chi è? - chiese lei con voce tremula. L'idea che fosse ancora Gin la privava di ogni forza.
- Fossi in te uscirei da quello stanzino in fretta. Non ti fa bene passarci così tanto tempo, è claustrofobico! -
Shiho sgranò gli occhi, riconoscendo la voce fresca di Bourbon. Ma che faceva, la spiava?
- Se ti stai chiedendo se per caso ti spio, la risposta è no. E' che anche io cerco di venire sempre in questo bagno, non amo il lusso sfrenato fine a se stesso specie se usurpato da certi individui. Preferisco questo, ma oggi lo trovo sempre occupato per poi scoprire che c'eri dentro tu. -
Shiho aprì la bocca per controbattere, ma non le uscì alcuna parola. Rimase in silenzio ancora per un po', guardandosi allo specchio. Constatò per l'ennesima volta che aveva un aspetto orrendo.
- Adesso... esco – biascicò lei, con voce roca.
- Grazie. - rispose lui, neutro.
Ma lei non uscì. Non ce la faceva. Non poteva fare a meno di analizzare la situazione a posteriori: il giorno prima lui l'aveva vista in quello stato pietoso, aveva anche tentato di aiutarla ma lei gli aveva urlato contro come una bestia in catene. Come faceva adesso ad uscire e passargli accanto in tutta calma, salutarlo come se niente fosse accaduto? E mostrarsi a lui, ancora una volta, in tutta la sua vulnerabilità?
E se lui, in quanto uomo, avesse tentato di approfittarsi di lei? Esattamente come aveva fatto Gin?
Se fosse stato tutto un suo piano per adescarla?
Quasi come si fosse dimenticata che lui era fuori, Shiho sospirò e si strinse le braccia nuovamente, abbassando il volto e provando paura per la sua stessa ombra.
- Stai bene? - chiese all'improvviso lui da oltre la porta, non sentendola più.
Shiho non gli rispose, ma qualcosa la colpì. Il tono di voce di lui non era secco, nonostante avesse tutto il diritto di esserlo. Era tranquillo, pacifico, morbido. Pronto ad accogliere ogni sua risposta come un grande cuscino pieno di piume. Quel “stai bene” non era un generalissimo e impersonale “come stai” di circostanza. Era proprio “tu, Shiho Miyano, stai bene? Oppure stai male? Me lo vorresti dire?”
Non lo conosceva di persona, ma su questo Shiho non aveva alcun dubbio. Era istinto.
- No. Non tanto. - rispose lei senza giri di parole.
- Lo immagino, e ti capisco.
- Come puoi capirmi?
- Perché ieri ti ho guardata negli occhi.
La ragazza sussultò a quelle parole, guardandosi di nuovo riflessa nello specchio. Era davvero così palese, ciò che credeva essere il suo nascostissimo stato d'animo?
Sì. Il giorno prima, quando lui l'aveva vista nel momento peggiore, era stato per forza palese. Shiho scosse la testa, perché così non andava bene: lei lì dentro aveva una determinata reputazione che era decisa a mantenere almeno con gli estranei. Se proprio non riusciva a guadagnarsi il rispetto di alcuni membri che la conoscevano meglio, come Gin e Vermouth, doveva provare con chi ancora non aveva avuto modo di rapportarsi con lei. Non intendeva incutere timore a nessuno, al contrario di molti altri. Ma almeno farsi rispettare in modo degno, nel suo essere naturale, e far capire che ben poche cose la scalfivano o turbavano a dispetto delle apparenze, questo sì. Si raddrizzò.
- Ascolta, non credo di capire bene di cosa parli. Ieri ho avuto un momento no, questo non posso negarlo, ma come ne ho avuti tanti altri. Non è successo niente di che, credimi – gli disse in modo fermo da dentro il bagno.
- Ne hai avuti tanti altri? Quindi è ricorrente che Gin cerchi di abusare di te mentre guardi la TV? -
Shiho rimase zitta, sentendosi irritata. Lui stava facendo dell'umorismo, lo capiva, forse per alleggerire la conversazione o forse per tenerle testa. Comunque non stava apprezzando.
- No, non intendo... precisamente quello – biascicò lei. - Ma che, come puoi vedere tu stesso, non viviamo in un posto idilliaco. Queste cose, se non peggiori, succedono. -
- Okay, capito! Molto chiaro. Quindi, alla luce di questo... ti spiacerebbe uscire e lasciarmi il turno? - chiese lui con un tono sempre calmo, tanto che Shiho lo immaginò perfettamente stringersi nelle spalle.
- Sì... ora... ora esco – ripeté lei, cercando di darsi una sistemata alla faccia pallida. Aprì il rubinetto per sciacquarsi. Anche dopo essersi asciugata, tuttavia, non accennò ad uscire. Era colta da quest'onda di disagio che non la mollava, al contrario le rimaneva arpionata attorno.
Passarono probabilmente minuti. Non sapeva se Bourbon fosse ancora là fuori, ma capì che era così quando lui riparlò con voce bassa e affabile.
- Non hai alcun bisogno di fingere vada tutto bene. Sherry... noi non ci conosciamo, ma conoscevo tua madre - e dicendo questo Shiho sussultò di nuovo e drizzò le orecchie. Ebbe la sensazione che il ragazzo non fosse molto sicuro di proseguire e che stesse faticando a formulare quelle parole, nonostante avesse comunque deciso di farlo. - Se per caso tu hai ereditato la sua sensibilità, beh... da un lato sono felice per te, perché è una buona dote. Ma dall'altro no, per niente, poiché credo di sapere cosa ti passi per la testa in questo momento. -
- Ascolta, vattene. Ti prego. Lasciami sola. - rispose Shiho di getto e con voce incrinata. Iniziava ad essere troppo per lei. Erano parole che le servivano, che voleva sentire, ma che al contempo la sopraffacevano come colate laviche e non conosceva nessun metodo valido per gestirle.
- L'ultima cosa di cui tu hai bisogno è essere lasciata sola, lo sai questo? -
Shiho sbarrò gli occhi, senza credere alle sue orecchie. No, ma sul serio, ma chi credeva di essere e cosa pensava di sapere di lei? Delle sue sensazioni? Della sua persona, dei suoi bisogni? Cosa?
- Lo so, sì! Non ci volevi per forza tu, di cui ricordo a malapena la faccia, a puntualizzarmelo! - rispose con la stessa acidità, senza sapere perché lo trattasse così. Le veniva spontaneo, ma ci soffriva.
- D'accordo, io me ne vado. Ma tu in cambio devi fare una cosa e promettermi che la farai. -
La ragazza scosse la testa, senza capire. Si era immaginata una risposta tanto brusca quanto la sua, invece lui aveva ancora mantenuto la calma e avanzato quella richiesta. Lo avrebbe mandato a quel paese, se non fosse stata colta da gran curiosità.
- Promettimi che, quando sentirai i miei passi allontanarsi, tu smetterai di guardarti allo specchio. -
Shiho rimase ad ascoltarlo allibita. Era convinta, a questo punto, che lui la spiasse sul serio. Guardo in alto sul soffitto, timorosa di trovarci telecamere o cimici.
- Non è odiando te stessa che risolverai questa situazione. Non è dandoti colpe o giustificando in qualche modo gli atti di Gin. -
Lei si riguardò allo specchio all'istante, facendo l'esatto contrario di quel che lui aveva appena consigliato. Ma adesso aveva necessità di farlo, di scontrarsi con l'espressione angosciata che la fissava di riflesso.
- Quei segni che oggi riesci a vedere così bene, non sono stati causati da te o dalla tua mancanza di coraggio. -
Quasi come se lui fosse una voce guida, lei si portò una mano alla spalla destra e tirò giù la spallina della maglietta bianca: intravide un grosso livido viola che ancora padroneggiava quell'area di pelle. Scese con la mano poco più sotto, sfilando man mano il tessuto della maglia e arrivando all'altezza dell'ascella, scorgendo dei graffi rossi.
Eppure, più li guardava e più si convinceva fosse colpa sua. Perché lei aveva consentito a quei segni di apparire sul suo corpo. Lei aveva reagito a malapena all'attacco di Gin, permettendogli di fare questo.
Le bruciarono gli occhi, le bruciò il petto.
- In questo specchio compare una persona debole. E voglio che lo capisca, che è debole. Che deve migliorare. - rispose Shiho, atona e inflessibile.
- E' proprio la risposta che mi aspettavo da te. Per questo voglio assicurarti che no, non è così. Sei anche fin troppo forte. Hai reagito con velocità, sei venuta a lavoro stamattina, stai cercando di superare tutto da sola senza condividere la tua disperazione. Ma stai sbagliando. Colpevolizzi la persona sbagliata, mirando a te stessa. -
- Perché perdi tempo a dirmi tutte queste cose? Avrai un sacco da fare, no? - la sua voce usciva strozzata, ma se ne capivano le parole.
- Esisteva una persona per la quale, ancora oggi, mi sento in dovere di farlo... -
Continuando ad ascoltarlo vedeva la stanza annacquarsi. Si passò le dita delicate sul collo, ricordando la pressione che Gin vi aveva esercitato senza esitazione, e singhiozzò. Si portò una mano alla bocca guardandosi ancora, senza staccare gli occhi avviliti dal vetro.
Il suo collo. Trattato in quel modo.
- Ho la conferma che sei come tua madre, per questo sento forse il dovere di fermarti. Lei faceva esattamente come te quando qualcosa andava storto nella sua vita... - disse Bourbon in modo affettuoso, inducendo Shiho a gemere e stringere forte gli estremi del lavandino. - Si colpevolizzava di continuo, credeva che ogni singolo sbaglio fosse opera sua anche quando non c'entrava nulla. E il fatto di aver messo te e tua sorella in questa condizione non faceva che aggravare l'odio verso se stessa. Era una testona incredibile, lo sai? Peggio di un mulo - continuò lui leggero, con un evidente sorriso dolce ad accompagnare le sue parole, una dolcezza intrisa nei suoi ricordi che stava riuscendo a trasmettersi a Shiho. - Passava ore davanti allo specchio a fare questo genere di ragionamenti. Si feriva da sola laddove gli altri non avevano ancora colpito, e tu non fare come lei, per favore. Non fare mai come lei. Perché ti amava, Shiho. E perché lei non vorrebbe questo per te. -
Le lacrime sgorgavano copiose lungo il viso di Shiho, mentre ritirava su le spallina e abbassava lo sguardo con la mano ancora premuta sulla bocca, per non vedersi più riflessa.
Non andartene. Parlami ancora di lei.
Dall'altra parte, Rei Furuya fissava la porta con un sorriso mesto. Gli sarebbe piaciuto guardarla negli occhi mentre le faceva quei discorsi, o magari sfiorarle la mano, quel tipo di gesti affabili che credeva potessero fare piacere ad una ragazza. O magari no, fatto sta che a lui sarebbe piaciuto farlo, se non fosse che il temperamento di Shiho gli impediva anche queste semplici mosse. Chissà che in futuro non ci sarebbe riuscito davvero, instaurando con lei un rapporto quanto meno normale che non si svolgesse attraverso le porte? Con lei, in realtà, sospettava non si potesse dare per scontato. Sorrise di nuovo, stavolta in modo più dolce.
Da dentro il bagno Shiho sentì i passi di Bourbon in procinto di allontanarsi, forse perché, sentendola piangere, preferiva lasciarla sola almeno per un po'. Fu colta da un poderoso moto di premura e ansia.
Non andartene, continua.
Non mi lasciare sola.

D'istinto, senza pensarci, Shiho aprì la porta del bagno e lo bloccò afferrandogli la mano.
Lui allora cercò di voltarsi per guardarla, ma lei gli respinse la spalla robusta in avanti e gli chiese di non farlo, di non guardarla mentre era in quello stato. Lui accettò e la rispettò nei suoi voleri, rimanendo fermo com'era a guardare lo stretto corridoio in penombra e udendo Shiho singhiozzante alle sue spalle. Sentiva che lei gli stringeva la mano forte, gli parve anche di percepire qualche lacrima arrivargli sulla pelle.
Stettero così per molto tempo, ognuno dei due senza muoversi dal posto, facendo quello che stavano facendo anche prima: lei piangendo alla ricerca di conforto, di una stretta di mano, e lui offrendola senza riserve e usando il suo tempo a quello scopo.
Poi qualcosa si mosse dentro di lui, un tipo di potenza corporea motivata dalla volontà di andare oltre quel genere di approccio. Forse era il suono della sua voce, anche se incrinata dal pianto, forse era il tocco della mano. Iniziò a non bastargli più come consolazione, gli sembrò d'un tratto troppo statica e insapore. Come faceva Shiho a trarne davvero vantaggio? Come tutti gli impulsi, compreso quello stesso mostrato dalla ragazza, anche questo in arrivo era piuttosto irrazionale e privo di premesse, allo stesso modo in cui lo sarebbero state le conseguenze possibili – e proprio per questo gli sarebbe riuscito facile da seguire. Provò nell'immediato.
- Se ti abbraccio ti arrabbi? - disse lui a bassa voce, rivolto al corridoio.
- Mi arrabbio moltissimo. -
- Con un abbraccio io non potrei comunque vedere il tuo viso. Farò in modo di non vederlo. -
- Lo devi promettere, però. -
- Cosa? -
- Che non mi guardi. -
Rei abbassò lo sguardo con un lieve sorriso, privo di qualunque malizia. Si voltò lentamente su se stesso e alzò lo sguardo sopra la testa ramata della scienziata, deciso a rispettare i patti nonostante i propri desideri; con la coda dell'occhio la trovò ferma e rigida, indecisa sul da farsi, e prima di darle il tempo di pentirsi allargò le braccia e la avvolse trattenendola vicino a sé, in silenzio, come un guscio sui fondali marini si richiude col preciso fine di proteggere dalle creature feroci.
Senza spiegarsi perché mai avesse accettato, ma probabilmente per via di quello stesso impulso che aveva mosso Rei e che chiedeva tutt'altro che spiegazioni logiche se non quelle di un corpo solo e freddo, Shiho constatò che, in mezzo a quello sconforto che l'aveva scossa in profondità, riuscì quasi ad arrossire quando entrò in contatto col petto di lui. Riuscì a sentire il proprio battito cardiaco e a capire che era viva. Poi sentì anche quello di lui, contro il timpano.
Oddio...
E' caldissimo, qui.

Era il calore il fattore che più la colpiva, non credeva si potesse percepirne così tanto in un solo momento. Deglutì, chiudendo gli occhi e azionando una serie d'istinti non inclini a sottostare al suo controllo: annusò il suo profumo, affondò la testa dove le sembrava più morbido, aumentò lievemente la stretta attorno al suo busto. Non osò quantificare il tempo che sarebbe rimasta ancorata a lui.
Rei chiuse gli occhi allo stesso modo, sentendola fragile ma al contempo vitale contro di sé; percepiva scorrere in lei un fiume di vibrazioni che gli si trasmettevano tramite la pelle. Appoggiò il mento e il naso tra i suoi capelli, e al pari di lei non si premurò mai di valutare il tempo trascorso. Sperava solo fosse sufficiente a risollevarla.
Passo per passo, forse, non lo sapeva. Ce l'aveva fatta ad averla vicino dal vivo e non attraverso le porte, ma non poteva ancora guardarla in viso – quello, forse, sarebbe stato il prossimo step. Lo diceva che non poteva dare niente per scontato.

***

- Oh... ciao, che sorpresa – disse Tooru alzando le sopracciglia, piacevolmente sorpreso di trovarsi Shiho Miyano sulla soglia della sua porta di casa. Non aveva nemmeno idea di come avesse trovato il suo indirizzo, ma si stava vergognando un po' al pensiero di lasciarla lì fuori in quel tugurio di corridoio. Mandò giù un altro sorso della birra in lattina che teneva in mano, prima di invitarla dentro. - Vieni, non rimanere lì. Posso per caso offrirt... -
A quelle parole, Shiho strinse gli occhi spaventata e si voltò di scatto per fuggire. Non aveva più voglia di questa situazione, di essere costretta a ricordare brutti avvenimenti del passato, di tirare fuori un loro momento di cui probabilmente lui non aveva neanche più memoria. Per lei era stato importante, ma a lui cosa gliene poteva mai fregare? Si era messa lei in quella situazione, ma se ne era pentita. Non era pronta come aveva stupidamente pensato di essere. Gli avrebbe scritto un bel SMS più tardi, aveva il suo numero.
Però lui la bloccò, come aveva fatto lei alcuni anni prima. Per la precisione le afferrò una mano e la fece rimanere ferma com'era, con lo sguardo rivolto al corridoio afoso. Strinse poi quella mano, ricreando un silenzio denso tra loro che Shiho incassò senza neanche fiatare.
Era un messaggio molto chiaro, questo, da parte di Rei Furuya, alias Bourbon. Stava cercando di dirle che lui ricordava. Che lui sapeva perché in quel momento, dal nulla e con sorpresa, Shiho si trovasse lì. E sapeva anche perché le stava mancando il coraggio di affrontarlo.
- Adesso puoi girarti. Ed entrare a bere qualcosa con me – mormorò lui in tono affabile quando ritenne che il tempo necessario al loro difficile ricongiungimento fosse trascorso.
- Non... non c'è bisogno... volevo solo dirti... -
“Grazie.” Avanti, dillo. E' una sola parola, anche breve. “Grazie, grazie”.
Grazie.
Perché non te l'ho mai detto.
Nonostante tu mi abbia salvata.

- Potrai dirmi quello che vuoi, ma siccome mi vergogno molto a lasciarti in mezzo allo schifo che c'è qua fuori, che ne dici di dirmi le stesse parole davanti a un cesto di patatine e una bottiglia di birra fresca? -
Shiho deglutì e considerò l'opzione.
Lei amava le patatine.


E furono proprio quelle, le patatine, il mondo in cui lei si rifugiò. Ne mangiava una dietro l'altra in silenzio, riempiendo l'aria del rumore di patatina masticata. Rei ridacchiava alla vista di tutto ciò, aprendo la birra.
- Aspetta, ho un dubbio terribile. Sei maggiorenne? Puoi berla la birra? - chiese lui con finto allarmismo, tenendo la bottiglia sospesa sul suo bicchiere senza versarla. Lei gli scoccò un'occhiata sarcastica, al che lui rise e gliela versò.
Shiho ormai conosceva la vera identità del ragazzo, così come lui conosceva perfettamente la sua. Non c'era alcun tipo di vera tensione tra loro, contrariamente a quanto Shiho aveva sospettato mentre si dirigeva lì.
In ogni caso, qualunque cosa lei intendesse dirgli, desiderava farlo subito e togliersi il dente una volta per tutte: non ce la faceva più, i nervi saltavano come pazzi.
- Allora, cosa volevi dirmi? - chiese, passandole il bicchiere di birra.
- Sono qui solo perché mi sono resa conto di una cosa, e per nient'altro. Era importante e da affrontare di persona, niente e-mail o messaggi – disse tutto d'un fiato e con voce fermissima, fissando il cesto di patatine. Poi alzò gli occhi su di lui, incrociando limpidamente il suo sguardo intelligente. Iridi contro iridi. - Ero a casa mia a leggere una rivista. Ero annoiata, ho anche acceso la TV e ho trovato una rubrica di moda. Mi stavo divertendo a quel punto, ma poi qualcosa ha iniziato a pungermi il petto. Più guardavo e più mi pungeva, non capivo cosa fosse, fino a che non ho coraggiosamente azionato i ricordi, poiché qualcuno, una volta, mi disse che secondo lui ero anche “fin troppo” coraggiosa. E così ho ricordato delle cose accadute in un passato che adesso mi sembra molto lontano. Ho ricordato cose che pur avendomi segnata non mi hanno più perseguitata, per non essere andate a fondo ed essere state interrotte al momento giusto. Ho ricordato all'improvviso che non ti ho mai ringraziato per quella volta. -
Dopo quel breve discorso, Shiho era priva di forze e con la gola secca. Afferrò il bicchiere di birra in tutta calma e lo tracannò letteralmente.
Amuro rimase fermo con una mano attorno al mento a riflettere, guardandola. Non le aveva staccato gli occhi di dosso un solo attimo durante il suo discorso – anche volendo non sarebbe riuscito, doveva ammettere che il magnetismo dei suoi due occhi turchesi era forte, molto forte e prepotente, specie quando parlava in quel modo concitato. Da interlocutore si era sentito avvolgere e attrarre in modo piuttosto totale.
- Che ne pensi? - gli chiese Shiho, ormai con entrambi i piedi su quel percorso imbarazzante.
- Penso che ho capito. Bene. Ma non mi devi ringraziare, perché lo fai? – rispose lui stringendosi nelle spalle e bevendo la sua birra.
- Mh, forse perché mi hai evitato uno stupro? - azzardò lei, appoggiando il bicchiere vuoto sul tavolo.
- Ah, per quello. Ma figurati. Era mio dovere di essere umano impedire una cosa del genere -
Lei si prese qualche attimo di silenzio per poterlo fissare con sguardo fermo e occhi ben puntati su di lui. Rei la guardò di rimando, reggendo la sua espressione. Era un po' difficile non distogliere lo sguardo per primo, specie con la consapevolezza che lei non avrebbe ceduto, ma era anche molto bello e affascinante riuscire a reggerlo a lungo. Sotto sotto iniziò a divertirsi.
- Quindi tu non ci hai dato molta importanza. Giustamente. Beh, per me è stato molto importante e soprattutto temerario da parte tua, visto che hai rischiato di essere ammazzato per salvare una mezza sconosciuta -
- Se dico “per una donna questo ed altro” risulta una patetica battuta da film di serie B? -
- Assolutamente patetica e assolutamente di serie B. -
Lui sorrise, scuotendo la testa. - E' un rischio che ho corso molto volentieri. Se ben ricordi ero arrivato preparato, non sono uno sprovveduto. -
Shiho annuì, ricordava bene. Il ragazzo si era servito della scusa della missione urgente per convincere Gin a desistere dalle sue intenzioni: informandosi tempo dopo, Shiho aveva scoperto che Bourbon aveva l'abitudine di studiarsi minuziosamente le tabelle lavorative di tutti i colleghi, in modo da arrivare sempre informato da loro ed eventualmente scoccare loro dei tiri mancini, proprio come aveva fatto quella volta con Gin. Se non avesse saputo che Gin aveva degli impegni quel giorno stesso, con quale altra scusa avrebbe potuto farlo sloggiare?
- Comunque... qualunque sia il motivo per cui tu hai deciso di salvarmi quella volta... io ti dico grazie. Perché non l'ho mai fatto là dentro, nemmeno quando ne ho avuto l'occasione, mi vergognavo troppo. Dopo quel giorno, vicino al bagno sgabuzzino... - si morse il labbro ricordando il momento d'affetto che avevano avuto, un momento rimasto isolato e che, per quanto la sua mente ancora lo delineasse perfettamente, non aveva mai più avuto alcun seguito. Si passò una mano sulle labbra. - … io non ti ho più avvicinato. Non volevo che tu mi ricordassi nello stato pietoso in cui mi avevi trovata. Non volevo tirare più fuori la questione, e ringraziarti invece comportava che io lo facessi, come adesso. -
- Ti sta costando fatica e dolore, quindi. Per questo desidero informarti del fatto che non era necessario, né prima né adesso, ma che lo apprezzo. Sei davvero molto coraggiosa, più di me. - concluse lui sorridendole dolcemente. Shiho arrossì all'istante.
Maledizione.
La ragazza abbassò bruscamente lo sguardo sulle patatine, continuando a mangiarle con vigore, e lui rise.
Il fatto che lui desse scarsa importanza alla gravità dell'avvenimento, o lasciasse intendere che per lui era così, non le dispiaceva. Non si sentiva mancata di rispetto o danneggiata nella sua sensibilità, anzi, cercava di risucchiare leggerezza dal punto di vista più spensierato di lui. C'era già lei ad appesantire sempre le situazioni e a vederle più gravi di quel che erano: se c'era qualcuno che si comportava all'opposto di lei e liquidava il tutto con un'alzata di spalle, le conveniva andargli allegramente dietro.
- Qualsiasi cosa ti provochi imbarazzo o dolore, preferirei che terminasse qui. Ti ringrazio delle tue belle parole, ma finiamo qui questi tristi discorsi e parliamo d'altro. Cosa fai nel weekend? - propose lui allegro, alzandosi per accendere la TV.
- C... cosa? - chiese lei stupefatta e ancora destabilizzata, non capendo se aveva sentito bene.
- Ahah, sto scherzando – ridacchiò lui, anche se in modo un po' troppo ambiguo per i gusti di Shiho. - Vorrei però davvero parlare di qualcos'altro. -
- Tipo... di cosa? - chiese timidamente lei con le patatine in bocca, non sapendo di cosa potesse parlare con un ragazzo che conosceva così poco.
Ma soprattutto, ora che aveva fatto il suo bel discorso, non era forse il caso di alzarsi e levare le tende? Non capiva perché fosse ancora seduta su quel divano a bere birra e mangiare.
- Tipo di questo film. L'hai mai visto? - chiese lui, fermando lo zapping su un canale preciso.
- Ascolta, non vorrei rubarti altro temp... -
- Dimmi almeno se l'hai visto – insisté Rei.
Con un sospiro e un particolare batticuore, Shiho guardò lo schermo e vide delle immagini a lei sconosciute.
- Si chiama “Entrampment”, è un film di spionaggio di fine anni '90 davvero avvincente. Ti va di guardarlo? -
- Di guardarlo... nel senso... adesso? Con me? - chiese lei confusa.
Rei si guardò attorno, sollevando le sopracciglia. - Non so, tu vedi qualcun altro? A parte il tuo amico immaginario? -
- Lascia stare i miei amici immaginari... -
- Uh, sono più di uno? -
- Qualunque numero tu possa pensare, loro sono sempre di più. -
Lui rise, apprezzando quel tipo di tetro umorismo e pensando che lei lo esercitasse con una certa classe. - Appunto. Sì, Shiho, mi riferisco a te. - disse sorridendo e guardandola, in attesa di una sua reazione e/o risposta. Shiho si schiarì la gola e abbassò lo sguardo, trovando un po' di difficoltà nel guardarlo in viso.
Adesso che si era tolta quel grande peso di dosso e gli aveva detto ciò che doveva, si sentiva leggera e abbastanza euforica. Quel pensiero l'aveva appesantita per tutta la settimana da quando le era tornato in mente, ed era stato un vero sollievo rivelarglielo ed ottenere addirittura un riscontro così positivo da parte sua. E poi stava ripensando a poco prima, al gesto che aveva fatto per assicurarle che lui ricordava tutto: senza servirsi di parole, solo mani e movimenti, gli stessi che aveva fatto lei anni prima. Una scelta davvero sottile e anche molto empatica.
Già.
In ogni caso, Shiho si scoprì incline a farsi trascinare volentieri dal sereno stato d'animo in cui versava in quel momento. Esattamente come quando si lasciava trascinare da negatività infusa, per fortuna le capitava anche il contrario. A quanto pareva.
Alzò lo sguardo su di lui, ancora in attesa. Si ficcò una patatina in bocca e annuì, scucendo un sorriso che, per quanto lei l'avesse completamente ignorato, demolì il cuore di Rei.
- Sì, va bene. Mi piace guardare film mai visti. Ma se per caso non mi piacesse, mettiamo su “I love shopping”. -
- Guarda, sono certo che arriveremo ai titoli di coda. - affermò lui assottigliando gli occhi, come se avesse accettato una terribile sfida.
Lei sorrise ancora e lui di nuovo perse un fiato. Se andava avanti così tutta la sera avrebbero dovuto attaccargli una bombola d'ossigeno da sub.
E così quella che doveva essere una conversazione toccata e fuga, piena di timori e dubbi e ricordi oscuri, si era trasformata in una serata film alla velocità della luce. Come era potuto accadere, Shiho ne ignorava le occulte dinamiche. Alle volte determinate persone potevano renderlo possibile, e lo imparò quella sera. Le sembrava un po' di essere ad un appuntamento al buio, anche se naturalmente le premesse non erano quelle – qualunque cosa fosse, sperava andasse bene.
Qualunque cosa fosse quel calore che a tratti le si addensava nel petto, quando lui le si sedeva accanto o le offriva qualcosa senza aspettarsi nulla in cambio, o qualunque fosse la natura della luce che lui conteneva negli occhi quando la guardava, sperava fosse qualcosa di buono.










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Io parto sempre con l'idea di fare delle shot brevi e concise, gente. Lo giuro, non so come altro spiegarlo se non giurandolo. Ma poi escono le pappardelle, e perciò ringrazio chi ha avuto la voglia di arrivare fino a qui ç___ç
Allora, mi sembra chiaro che in questa shot ho stravolto tutto ciò che si poteva stravolgere in virtù di un filone narrativo che altrimenti veniva complicato: i tempi, prima di tutto; la relazione esistente o meno tra Amuro e Shiho ai tempi dell'Org, visto poi il loro incontro sul Bell Tree Express e quello che si dicono (Shiho non era Shiho, ma le parole di Amuro erano dirette a lei); e poi la faccenda di Elena, ma su questo pare ci siano pochi dubbi. Come per altre volte, però, mi interessava mostrare altri fattori nella shot :)
Spero che nel complesso vi sia piaciuta. Questi due personaggi sono molto particolari immaginati in una ship, soprattutto perché, correggetemi se sbaglio, sono oggettivamente belli se considerati potenzialmente come coppia. Gosho è un gran mandrillone, è inutile che si nasconda dietro a casi impossibili e teste mozzate, appena scorgerà il momento adatto farà fare cose ad alcuni suoi personaggi mancanti; Ai/Shiho è un personaggio che non può permettersi di lasciare senza accompagnatore, visto che sta accoppiando pure i ciottoli della strada di fronte l'agenzia investigativa. Sa bene che Ai con qualcuno ci deve finire e siccome Shinichi non potrà mai andare bene non gli rimane che trovare qualcun altro: diciamo che tra le scelte possibili, si può pensare che Rei ne esca vincitore. Oppure lascia crescere Mitsuhiko e ciao, ma sinceramente come posso dire, spero di no.
La scelta di questo pairing per la raccolta è avvenuta in seguito alla corrente che da poco si è formata nel fandom (sempre più utenti scrivono a riguardo) e perché sapete che se posso cerco di seguire i vostri consigli; e a questo proposito voglio ringraziare la carissima _Violetta (cuori <3) che, dopo diverse chiacchierate, mi ha suggerito di provare a shottare questo pairing di cui lei è piuttosto esperta... anzi, molto esperta – così come LadySherlock, che ugualmente me l'ha suggerita poco dopo e che ugualmente ci scrive sopra. Lo stesso suggerimento è arrivato poi da altri, quindi tirando le somme l'unica non esperta sono io e OOOLLLE'! D:
E grazie, grazie come sempre a tutti voi che commentate e leggete! <3 Vi aspetto anche qui, eh! A prestissimo!!! 

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Capitolo 36
*** Corrente cobalto - MaryShu ***


36. Mary Sera e Shuichi Akai ~ 

***







Corrente cobalto


Ma quello è uno stramaledetto coltello da cucina?
- Eh, mamma. Credo che tu adesso stia forse esagerando. -
- Oh, tranquillo Shuichi. - rispose Mary facendo roteare il manico del coltello con un gesto rapido della mano destra. Perché sembrava molto esperta? - E' qui per precauzione, per farti capire la situazione e avvertirti. Vedi, è simbolico. Non lo userò se non sarà necessario. -
E immagino che questo dovrebbe tranquillizzarmi.
Shuichi, giovane ragazzo dalle grandi speranze, si appoggiò con una mano al tavolo della cucina guardando fisso sua madre. Lei sorrideva appena, con gli occhi però glaciali.
- Tutto questo... perché hai scoperto ciò che voglio fare nella vita? -
- Eh, sì, amore mio. Se adesso mi spieghi bene tutto e lo approverò, metterò giù il coltello. -
- E se non ti piace? -
- Vedremo. -
Sta scherzando, spero.
Le botte io le posso capire e riesco a reagire. Ma questa sta imbracciando un coltello di 25 cm.


§§§

Shuichi doveva ammetterlo almeno a se stesso: c'era rimasto male per la reazione di Mary riguardo le sue personali scelte di vita. Voleva sfogare fuori ciò che sentiva dentro nei modi a lui più consoni.
- Ma che figata. Quindi tu fai a rissa con tua madre?
Stereo ad alto volume e note di metal pesante nell'aria, indumenti spiegazzati abbandonati a terra e bottiglie di plastica vuote sparse ovunque. Shuichi Akai, 17 anni, a petto nudo e con una bandana nera attorno alla testa, faceva pesi in camera sua per allenare le braccia. La sigaretta accesa stretta tra le labbra, il sudore che correva lungo il viso. 
- Che c'è, vuoi il suo numero? 
- Se tua madre è d'accordo perché no? Sono single!
- Oltre che minorenne e con l'età di suo figlio. 
- Possiamo sorvolare, Akai! 

Ogni volta che arrivava a scuola con un occhio nero o lividi e graffi sulla pelle, succedeva tutto di nuovo. I compagni maschi se la ridevano, gli chiedevano come se li era fatti e lui diceva la verità, trasparente e inespressivo: mi sono menato con mia madre. 
A quel punto era una festa, anche e soprattutto ormonale. Lo circondavano e si sedevano sul suo banco, lo interrompevano di continuo, gli si arrampicavano quasi addosso con una gran curiosità e voglia di documentarsi in merito. Donne violente sempre piaciute? 
Emise un rantolo rapido per lo sforzo, a denti stretti: aveva cambiato pesi e aumentato di molto i kg. Il petto gonfio iniziava a imperlarsi di sudore, la musica era forte e scuoteva le pareti. 
- Tra l'altro è una gran figa o mi sbaglio? 
- Preferisce i cazzotti o le sberle?
- I calci in mezzo alle gambe no, spero!
- Possiamo cambiare argomento, ragazzi? 
- Che pensieri che mi vengono... 

Sua madre era una idol incontrastata per la sua classe, una idol piena di fan adolescenti e arrapati che non sapevano fare altro che allargare le narici al solo pensiero di farsi picchiare da una bella donna matura. Non riusciva a capire quale elemento, esattamente, in questo filone logico, potesse farli eccitare. 
A lui sembrava solo una pazza sclerotica che non sapeva crescere decentemente dei figli. 
Aumentò la velocità delle bracciate, l'attrezzo sembrava sempre più pesante e il muscolo si contraeva sotto lo sforzo. Doveva ingigantirli, quei bicipiti, per realizzare il suo grande obiettivo. Lo stesso obiettivo che la madre aberrava e non voleva neanche sentirgli nominare, perché non era una donna capace di provare empatia o di mettersi nei panni altrui, di provare a capire le ragioni e i sentimenti di qualcun altro, di accettarli. Non lo sarebbe mai stata. 
Shuichi strinse forte il pugno attorno al peso.
- Abbassa quello schifo di musica! - 
La voce di Mary gli arrivò da oltre la porta della camera, alta e irata. Il ragazzo cercò di alzare il volume con la manovella dello stereo, ma era già al massimo. 
- Shuichi? Perché sento odore di fumo? - 
Lui decisa di ignorarla, continuando col suo allenamento e intensificandolo man mano che lei parlava. Non aveva nessuna voglia di ascoltarla né di parlarle. 
Con la coda dell'occhio vide la maniglia della porta venire alzata e abbassata ripetutamente dall'esterno, senza risultati visto che aveva chiuso a chiave.
- Vattene – gli disse lui sovrastando la musica, ma probabilmente lei non lo sentì, visto che la maniglia non accennava a fermarsi. Oppure lo sentì, ma se ne fregò, come faceva di norma.
Shuichi sospirò, portando una mano alla maniglia e tenendola ferma. Dall'altra parte sentiva ancora pressione, ma la sua presa ferrea era più forte. Sorrise sfottente, guardando verso lo specchio da parete di fronte a sé, sporco e macchiato: fissò il suo corpo in allenamento, fissò il proprio sguardo cupo e segnato dalle occhiaie. Fissò il taglio che aveva sotto l'occhio, nuova cicatrice targata Mary, inflitta il giorno in cui aveva scoperto la sua intenzione di diventare agente FBI.
- Shuichi, sappi che non mi ripeterò. Apri questo schifo di porta, altrimenti la sfondo. Ti devo parlare. -
- Vattene. - ripeté lui, con tono identico a prima. Voleva essere irremovibile con lei, non aveva altra scelta se intedeva ottenere un minimo il suo rispetto. Per parlare col cemento si deve diventare cemento, e usare il suo linguaggio.
- Shuichi, apri. Stai fumando? Se ti becco che fumi ti spacco la testa in due, mi hai capito? - sembrava veramente su di giri, ma il ragazzo si strinse nelle spalle.
- C'è mai stato un argomento sul quale non volessi spaccarmi la testa in due? - gli disse lui, e una smorfia di fastidio immediato gli modellò il viso: si era ripromesso di non risponderle e ignorarla, se non per invitarla ad andarsene, e invece le stava dando corda. Ancora, e ancora.
Era questo il motore che alimentava sua madre.
Mary smise di esercitare pressione, al che Shuichi lasciò la presa dalla maniglia e tornò al suo allenamento, espirando una nuvola di fumo. Si era espressa molto chiaramente su ciò che pensava delle sigarette e l'aveva avvertito più volte del fatto che, semmai l'avesse beccato, non avrebbe avuto reazioni cordiali. Lui se ne fregava, ma non aveva proprio voglia di subire una sua sfuriata.
- Se hai deciso di non aprirmi – ricominciò lei, il cui tono sembrava vibrare – ti consiglio di allontanarti dalla porta entro 3 secondi. -
Shuichi sorrise, senza fermare le bracciate coi pesi e concentrandosi sulla musica: non credeva l'avrebbe davvero fatto. Tutte minacce a vuoto per sfogare le sue frustazioni di donna indigesta e furiosa con l'intero pianeta.
Tuttavia, nella sua mente, Shuichi contò. Arrivato al “tre”, si accorse di poter proseguire fino al cinque, fino al sette, fino al dieci. Scosse la testa divertito, perché come volevasi dimostrare era solo passata di lì per sputargli addosso un po' di veleno, prima di accorgersi di non avere il fegato di sfondare davvero la porta. L'idea di una persona che usasse così perfidamente il proprio tempo, ai danni di colui che più avrebbe dovuto proteggere in quanto genitore, gli mandò il sangue al cervello. Strinse i denti sia per lo sforzo fisico che per la rabbia.
Dall'altra parte Mary aveva caricato abbastanza forza nel piede e nella gamba. In realtà stava quasi desistendo, ma una frase, una sola frase pronunciata dal figlio dall'altra parte della porta le fece vedere tutto nero, le azzerò i suoni, la confuse.
- Vai affanculo, vecchia. -
La gamba si mosse da sola, sospinta da una molla invisibile e lanciata direttamente dagli inferi, con una potenza tale da smontare tutti i cardini della porta in un solo colpo. La porta venne scagliata all'interno della stanza di Shuichi, il ragazzo si riparò con un braccio solo e la guardò sbigottito, con una maledetta sigaretta in bocca.
Di nuovo vide nero.


- Ahi... sei un piccolo bastardo. - mormorò Mary, mentre si teneva un blocco di ghiaccio sul collo. - Mi hai fatto un male cane. -
- Ah, ma certo. Mi è arrivata addosso una porta, ma il bastardo sono io -
- Devi portare rispetto a tua madre - la donna abbassò lo sguardo, preda forse della frase imbarazzante appena pronunciata.
Shuichi stava per risponderle, ma sospirò e gettò la spugna. Non aveva voglia di perdere tempo così. Lei era diventata una furia per alcuni istanti e lui aveva reagito per difendersi, colpendola a sua volta - ma ovviamente, notando la differenza di potenza tra loro due, Mary ad un certo punto aveva dovuto desistere.
- Non è più divertente prenderci a botte, sono passata in netto svantaggio -
- Mamma, ti rendi conto di come parli? -
Un po' gli veniva da ridere, perché era davvero fuori come un balcone. Vide formarsi sul viso di sua madre un lieve sorriso divertito, che si allargava man mano che passavano i secondi, e quindi sì, gli venne da ridere davvero. Risero entrambi nel salotto di casa, senza ben capire perché lo facessero, era uno scenario piuttosto confuso composto da una buona percentuale di amarezza ma anche da divertimento fine a se stesso. Una cosa strana e che solo in compagnia di sua madre capitava, ma fu spontaneo per entrambi.

§§§

- Da quando è cresciuto ve le date sul serio, eh, Mary? -
Mary sospirò, tenendo annoiata la cornetta del telefono vicino all'orecchio. Quanto poco le mancavano le frecciatine della sorella.
- Sì, e quindi? Qualche problema? -
- Magari potreste smetterla? -
- Magari potresti non rompermi le palle, Elena? -
Dall'altra parte del telefono sentì Elena ridacchiare e sbuffare.
- Beh, se voi vi divertite chi sono io per intervenire? -
- Appunto, brava. -
- Non mi fa piacere vedere mia sorella e mio nipote ridotti allo stato brado quando litigano... -
- E allora non contemplarci, sarà tutto più semplice. -
- Ma perché fai così? -
Elena sapeva che non era il caso di fare certe domande, ma un po' le interessava capire le frustrazioni represse della sorella. Solo un pochino.
- Perché mio figlio è un deficiente e ha desideri molto insani -
- E quindi tu lo picchi -
- Non vedo che alternative io abbia -
Elena sbuffò e si contenne dal dire ciò che pensava. - Comunque, quali desideri? Parli delle ragazze? Te le porta in casa e si fa sentire in modo improprio? -
- Oh, magari. Magari fosse quello, Elena. No, il problema è peggiore: vuole fare l'FBI, e me l'ha nascosto in tutti i modi. -
- Temo che tu fossi l'unica che ancora non l'aveva capito... -
Mary rimase in silenzio, ammutolita da quella considerazione. - Si vedeva così tanto? Secondo me no. L'avrei capito anche io, sono sua madre, per la miseria. -
- Ci sono tante cose che, da madre, tu rifiuti caterogicamente di vedere. -
- Ma io... -
- In tutto, Mary. Ma soprattutto in Shuichi. -
Mary avrebbe espirato fumo vulcanico dalle narici, se ne avesse avuto a disposizione: quanto aveva voglia di riattaccarle il telefono in faccia.

§§§

- Se tuo figlio ti alza le mani dovresti chiamare la polizia, Mary! -
Kotomi, la vicina di casa, ogni tanto sentiva del casino provenire da casa Akai. Niente di che, solo mobili che cadevano e cose che volavano, ma nel suo personale senso di giustizia e benessere comune si premurava di andare a suonare il campanello per accertarsi che andasse tutto bene. Succedeva che poi si intratteneva con Mary, per la quale sembrava provare una certa simpatia, per farle capire che così non andava proprio bene: questi giovani burrascosi e problematici andavano fermati in tempo, anche con l'ausilio delle forze dell'ordine, nonostante il dolore dato dalla consapevolezza che erano i propri figli ad essere incriminati. Le due donne erano in salotto a prendere un tè offerto da Mary, e Kotomi non faceva altro che scuotere la testa con disapprovazione fissando il livido nero/ocra sul collo della vicina.
- Chiamali, Mary. Tuo figlio deve pur mettere la testa a posto e un riformatorio potrebbe fargli bene, hai visto come ti concia? -
- Oh, ma no, cara. E' un ragazzino, gli piace giocare -
- Quello tu lo chiami giocare? -
- Sì. Credo proprio di sì. - Mary chiuse gli occhi e sorseggiò il suo tè con gusto.
Kotomi non ci poteva credere.
Shuichi, che le sentiva parlare dal corridoio buio e silenzioso a quell'ora tarda della sera, sorrise tra sé e sé.
Era proprio matta.
- Scusa se uso questi termini mentre parlo di tuo figlio, ma a me sembra un demonio! Un mostro! -
- E perché, scusa? -
- Non si mettono le mani addosso ad una donna, alla... propria madre! -
- Avrà i suoi motivi per farlo, no? - Mary continuò a sorseggiare, guardandola vispa e curiosa da sopra la tazza.
Cambiava maschera in modo eccellente, quando opportuno.
- Ma... ma... - Kotomi era sconvolta. - Non dovresti prenderla così alla leggera, è pericoloso! -
Mary fece spallucce. - Sai, Kotomi, io credo che ogni figlio sia speciale per qualcosa. E il mio lo è per questo. -
Shuichi trattenne il fiato, si toccò un braccio. Percepì una strana scossa nel petto.
Da quando la madre si prodigava in uscite simili? Laddove chiunque altro avrebbe visto solo violenza, problemi, malumore e sconcerto, lei trovava qualcosa di "speciale". Qualcosa per cui tirare fuori un sorriso d'orgoglio per il proprio figlio che, in quell'istante, le dipingeva il volto.

§§§

- Shu-niichan! - la piccola Sera, poco più che uno scricciolo ed entrata solo recentemente nella sua vita, gli tirò la maglietta nera. Dapprima timidamente, poi sempre più forte e con insolenza vedendo che lui non la degnava della minima attenzione.
- Che c'è, bambina? -
- Mi compri... il... gelato...? - ora che il fratello la stava finalmente guardando, neanche troppo felicemente, la bambina fu assalita da improvviso imbarazzo, terrore, atterrimento. Shuichi le sorrise appena.
- Va bene, andiamo a prenderlo. Che gusto ti piace? -
- … -
- Quindi? -
- … -
Per qualche ragione, e in un modo che lui stesso non conosceva, pareva averla terrorizzata.
- Masumi-chan? - riprovò lui, e la bambina si scosse un poco.
- Eh... io... -
- Preferisci che lo chieda alla mamma? Preferisci sia lei a prenderti il gelato? -
- No... eh... -
In realtà, dal momento che il fratello le aveva parlato e addirittura sorriso dopo un mese di tentativi per attirare la sua attenzione, la piccola era solo al limite della gioia e faticava a reagire; doveva metabolizzare, essere certa di ciò che stava vedendo, ma il fratello frettoloso non gliene stava dando tempo. Prima che potesse fermarlo era già scattato verso il salotto, per informare mamma Mary. Lei non si mosse dalla stanzetta per timore di farlo arrabbiare e perciò, a malincuore, rimase seduta sul letto ad aspettarlo a sguardo basso e affranto.
- Mamma? Mi serve che porti lo scricciolo fuori, vuole il gelato. Lo farei io ma ha paura di me, a quanto pare – disse Shuichi sbadigliando e grattandosi la pancia, trovando Mary seduta al tavolo della cucina con lo sguardo basso su qualcosa. Probabilmente stava controllando le bollette prima di sfuriare in modo apocalittico: pagare le bollette non piaceva a nessuno, a lei ancora meno che agli altri.
- Ohi, mamma? Mi senti? - si avvicinò a lei di più, pur temendo che si voltasse di scatto con le unghie ben esposte all'esterno. Ovviamente era solo un'immagine in stile cartone animato horror, ma che ci poteva fare? I traumi erano traumi.
Ogni tanto, quando lei lo ignorava bellamente, a lui veniva una gran voglia di spintonarla. Cresciuto a spintoni e schiaffi, era uno schema comunicativo che conosceva bene e da cui sua madre veniva prontamente attivata. Lui spesso lo faceva solo per gioco, senza risultare aggressivo e sfrontato, Mary lo capiva e reagiva allo stesso modo divertito, pur tramortendolo sul divano con tecniche alla stregua del wrestling.
E fu quello il caso: arrivato alle sue spalle le spintonò la spalla destra, la vide quindi ondeggiare in avanti come un fantoccio e si aspettò una controreazione pronta, che però non arrivò.
Non era mai successo. Prima di potersi accigliare per questo grande evento, si avvicinò già con un sorriso da idiota e con le parole in testa per sfotterla e provocarla, ma si bloccò quando vide ciò che Mary stava guardando. Un album di foto, dove quasi tutte le fotografie riportavano momenti di un passato che pareva lontanissimo. Dove suo padre era raffigurato ovunque, dove lui era piccolo. Dove lei sorrideva molto di più.
Solo in quel momento si accorse che le spalle di Mary stavano sobbalzando. Udì dei gemiti sommessi, molto sommessi. Vide un fazzoletto stretto nel suo pugno. Lui aprì la bocca per parlare, ma non gli uscì alcun suono. La gola secca, la testa che girava leggermente. Mary si voltò a guardarlo, presa alla sprovvista.
Non disse nulla neanche lei, si limitò a guardarlo con gli occhi azzurri arrossati, gonfi e inondati di lacrime. La bocca era socchiusa, ma non singhiozzava. Era solo molto affranta.
Shuichi voleva andarsene subito, però era ipnotizzato e non riusciva a toglierle gli occhi di dosso.
- Puoi anche solo ripensarci? - chiese lei in un sussurro roco, inchiodandolo con lo sguardo. - Alla carriera di FBI? -
Nonostante le lacrime, lo sguardo le si indurì. Ma Shuichi capì tutto.
Sei dura, donna. Dura come la pietra, il ghiaccio, sei cemento. Io con te divento calce ma tu non ti rompi mai, una corrente salata che viaggia al contrario e apre le onde. Eppure guarda cosa hai nascosto lì sotto. Dietro le botte, gli insulti, lo sguardo, l'odio, ti stai solo preoccupando per me e per la fine che forse un giorno farò, forse scritta nel mio destino, o forse soltanto rincorsa da me in una fuga inutile e senza senso. Hai già visto tutto coi tuoi occhi e su un altro uomo. Hai ragione.
Ma questa è la mia vita.

- Ci penso io a portare fuori Masumi. Le compro il gelato. -

La piccola Sera, in attesa in cameretta, raccolse coraggio e si avviò decisa verso il salotto, i pugnetti stretti. Doveva chiarire a suo fratello che voleva fosse lui a farle compagnia. Amava la sua mamma, anche se a volte era un po' spaventosa, ma voleva passare un po' di tempo con Shuichi.
Quando la piccola arrivò in sala, si bloccò osservando una scena che per molti anni l'avrebbe accompagnata nei ricordi.
Mary si copriva gli occhi con la mano destra, sussultando. Shuichi, inarcato su di lei, la sua mano sinistra posata sulla chioma bionda della madre, le stava dando un bacio silenzioso e prolungato sulla testa.


§§§

- Ah! Ma quanto è bello essere di nuovo tutti insieme?! -
Sera, ormai grande e grossa, esplodeva di gioia nella stanza dell'hotel in cui ormai viveva da mesi con la madre rimpicciolita. Quel giorno una serie di eventi avevano portato Shuichi e Shukichi in quel posto, assieme a loro due. Era la prima volta che la vedevano in quello stato.
Shuichi fissò a lungo la madre bambina e imbronciata. Sorrise tagliente.
Mary fissò a lungo il figlio un po' troppo alto e un po' troppo minaccioso, e armato. Sorrise glaciale.
- Oh, ma che tenera. - sussurrò lui.
- Non ti azzardare, Shuichi. - sibilò lei.
- Sennò che mi fai? - gongolò lui, godendosi quel momento così ricco di soddisfazioni. - Mi salti addosso tipo scimmietta impazzita? -
- Sai che possono fare molto male, le scimmie, quanto ti si scagliano addosso? -
- E sai che basta un gesto secco e semplice per spezzare loro il collo? -
- Non se prima ti affondano i denti nella carotide. -
- Pallona gonfiata e violenta anche da bambina. -
- Bambino disagiato anche da adulto. -

- Madre psichiatrica. -
- Moccioso di merda. -

- Eddai, basta, baaaasta...! - provò Shukichi, pieno d'ansia, restando nascosto dietro il fratello maggiore. - Calmatevi, vi prego... -
- Viene quasi voglia di accarezzarti e prenderti in braccio, mammina. - continuò Shuichi imperterrito, scoperchiando le tempie pulsanti della piccola Mary.
- Tu provaci, che vedi cosa combino tra le tue muscolose braccia da patetico agente al servizio di una giustizia farlocca -
Shuichi se la rise di gusto, riconoscendo la madre in ogni singola, singola virgola delle sue frasi.
Shukichi voleva buttarsi giù dalla finestra, mentre Masumi se la rideva di brutto pure lei.
- Che belli che siete! Troppo dolci e divertenti! Voglio farvi un video! - disse lei contenta. Aveva un criterio molto bizzarro per misurare la dolcezza, ma almeno metteva allegria.




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Eccoci qui con la mitica, super-atomica, frizzantissima Maaaaary Sera!
Ok, ho pompato parecchio il suo lato crudele e sadico, ma d'altronde lei non sta tanto a posto ed è per questo che è adorabile. <3 Allora, le cose qui sono un po' cambiate nel senso che le modalità con cui Mary scopre i sotterfugi di Shuichi (cioè il nasconderle la verità sui suoi studi per diventare FBI) sono diverse nel manga, ma come in tutte le shot mi servono piccole modifiche per dare senso alla micro-storia trattata in quel momento. Inoltre qui, riguardo al marito scomparso in circostanze misteriose, le stesse che hanno convinto Shuichi ad intraprendere investigazioni in veste di FBI, mi sono fermata alla semplice preoccupazione materna che avrebbe potuto provare, anche se in realtà esistono altre motivazioni legate al plot. Stesso dicasi per Elena Miyano: sono solo teorie quelle secondo cui le due sarebbero sorelle, infatti quel trafiletto è breve breve e non volevo sbilanciarmi troppo, ma mi ha fatto piacere inserirlo.
Spero che per tutto il resto, corredato da scene completamente inventate, vi sia piaciuto! Io penso che entrambi, in modi del tutto diversi, siano dei pazzi furiosi e meravigliosi. U___U Sono stata contenta di veder comparire sempre più familiari di Shuichi, che secondo me aiutano a capire come mai quest'uomo sia così dark - e non so voi, ma personalmente credo che il carattere della madre su questo figliolo abbia inciso parecchio. Dopo il flashback al mare c'è abbastanza materiale su cui immaginare il resto del loro rapporto ed io l'ho visto un po' così, ma magari qualcun altro li avrebbe pensati diversi e... più pacifici... ^.^
Aspetto le vostre opinioni in merito, e grazie per le recensioni che ogni tanto arrivano anche su capitoli vecchi ^.^ A prestooooo!

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