Interior Dissidia - Untold tales

di Odinforce
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Quiet Song ***
Capitolo 2: *** Sempre nel mio cuore ***
Capitolo 3: *** Il risveglio dello Sforzo ***
Capitolo 4: *** Torna a casa, Forrest ***
Capitolo 5: *** Fratelli ***
Capitolo 6: *** Alla via così ***
Capitolo 7: *** L'eterna speranza ***
Capitolo 8: *** L'ultimo sciamano ***
Capitolo 9: *** L'inizio della fine ***
Capitolo 10: *** Mr & Mrs Plutz ***
Capitolo 11: *** Il mio cuore, oceano di pace ***



Capitolo 1
*** Quiet Song ***


Quiet song
 
Image and video hosting by TinyPic . Spero che ti ricorderai di me, Snake.
Non ho idea di quanto tempo sia passato dal nostro incontro. Giorni? Mesi? Anni? In questo posto dimenticato da Dio, il tempo sembra non contare nulla. Nient’altro che un susseguirsi irregolare di giorni e notti, dove nulla nasce... ma tutto sembra morire.
Forse sei già morto. Forse mi hai dimenticata. Ma spero che, ovunque tu sia finito, questo pensiero possa raggiungerti e ti faccia ricordare di me.
Il mio pensiero. Il ricordo del mio silenzio.
Quiet.
Fai silenzio, allora, e ascolta.
Ascolta il mio canto.
So che lo farai, Snake. So che mi ascolterai, come hai sempre fatto quando ci siamo conosciuti. Quando ci siamo affrontati. Quando mi hai catturata. Quando ho deciso di combattere al tuo fianco. Quando ho deciso di tacere, per proteggere te e il tuo popolo di guerrieri.
Anche ora, in questo posto, mi trovo costretta a tacere. Il parassita continua a maledire e fortificare il mio corpo. Non ho alcuna intenzione di infettare le mie compagne attraverso la voce, perciò resto in silenzio. Anche qui, anche ora.
Cerco di proteggerle, come ho fatto con te.
So che sei finito qui anche tu, Snake. E come te, ho subito lo stesso destino. Sono precipitata chissà come in questo inferno chiamato Oblivion, per mano del suo padrone senza volto, costretta a combattere fino alla morte per il suo diletto.
Nul, il Mai Nato. Il viaggiatore. Il distruttore di mondi. Non importa quanti nomi si diverta a collezionare, non cambierà la sua natura: quella di un gran figlio di puttana. Al suo confronto, Skull Face era adorabile quanto il tuo cane, Snake.
Ho combattuto, e ho perso. Sono sopravvissuta. Sono fuggita. Ho trovato riparo in questo grande palazzo arabo: un tempo doveva appartenere a qualche sultano, ma ormai è poco più che un rudere. Non sono sola. Sono una delle molte anime salvate dalla guerra, accolte tra queste mura da colei che si è proclamata sua padrona.
La padrona si chiama Lilith. Nera come un’africana. Le piacciono i serpenti. Tuttavia, non intende parlare di sé... due tratti in cui ci assomigliamo, in effetti. Forse per questo mi sta simpatica. Si limita ad ospitarci e a farci sentire a nostro agio, me e le altre rifugiate.
Non ci sono uomini in questo palazzo, siamo tutte donne: guerriere, principesse, studentesse, aliene, eroine. Superstiti di parecchi mondi, scampate per miracolo alla guerra che infuria su Oblivion.
Lilith ci tratta bene, cerca di non farci mancare nulla. Purtroppo non può restituirci ciò che abbiamo perduto. Molte di queste ragazze lamentano la perdita dei loro cari, altre della vita che avevano prima di finire quaggiù. Io non dico nulla. Mi limito a osservare, ad ascoltare: ormai le conosco tutte, queste rumorose compagne di prigione. Le potrei elencare dalla prima all’ultima.
Dejah Thoris, principessa di Barsoom. Bella quanto testarda. Non fa che proporre di radunarci per ribellarci a Nul, ma Lilith si oppone ad ogni suo tentativo.
Kitana, un’altra principessa. Abile e forte, ci sa fare. Anche lei ha riconosciuto la sconfitta. Passa quasi tutto il tempo con la sua amica/ancella/amante, Jade. Non passa giorno in cui non le trovi fare sesso in qualche angolo del palazzo, per ingannare il tempo. Patetiche.
Lamù, un’aliena piagnucolona. Non fa che svolazzare per le sale lamentando la perdita del suo “tesoruccio”, chiunque sia. Inutile quanto un cracker in una giornata afosa.
Ivy, un’alchimista. Non ha rinunciato a essere arrogante e altezzosa... tipici atteggiamenti di una nobile ricca e viziata. Si pavoneggia di continuo con la sua spada, ma è disposta ad allenare le compagne per tenerle pronte a un’eventuale battaglia.
Beatrix, una paladina. Ho ascoltato a lungo i suoi racconti: un tempo, soldato spietato e inarrestabile. Si è addolcita dopo aver visto quanto male stava dilagando sul suo mondo, grazie anche all’amore per un suo compagno di squadra. La sua speranza è ancora forte, sogna di ricongiungersi al suo amato e alla sua regina.
Tanya, soldatessa. Ci sa fare in battaglia, è una dal grilletto facile. Ha regalato la vittoria al suo esercito parecchie volte, nel mondo da cui proviene. Anche lei, però, non è riuscita a vincere la guerra su Oblivion. Ha appeso le pistole al chiodo da quando è arrivata, e sembra attendere nient’altro che la fine del mondo.
La Strega. Non ha nome, o almeno non vuole dirlo. Anche lei è molto riservata, ma fa del suo meglio per proteggere il palazzo e le ragazze. Con quel grosso cappello e l’enorme davanzale non passa inosservata... probabilmente ha battuto più nemici con il suo fascino, piuttosto che con i poteri.
Fujiko, una ladra. Affascinante quanto stronza, non piace quasi a nessuno. Ciononostante riesce a stare al suo posto, confidando che Lilith trovi presto una soluzione per questo casino.
Come no. Molte di queste ragazze sono nient’altro che delle povere illuse. Non hanno visto ciò che ho visto io.
Non hanno provato ciò che ho provato io. Là fuori, tra le macerie d’innumerevoli mondi consumati dalla guerra. Non hanno visto il caos, dentro e fuori del proprio corpo, infuriare come una tempesta... e trascinarle fino ad un passo dalla morte.
Le rispetto solo perché hanno perso ciò che avevano di più caro. Le lascio sperare, se le fa sentire meglio. Non potrei dir loro nulla neanche se volessi.
Tu cosa avresti fatto, Snake?
Sono qui da settimane, ormai. Ho visto molte donne raggiungere questo posto, ospitate più che volentieri da Lilith. Ma io so che, oltre l’apparente benevolenza che lei ci concede, si nasconde qualcosa di ben più sinistro. L’ho capito solo ieri, quando davanti ai miei occhi è apparso un visitatore del tutto inatteso.
Nul.
L’ho visto scendere dal cielo con le sue orrende ali nere, come un angelo della morte. Pensavo volesse combattere. Ormai so di cosa è capace quel mostro. Invece, ha camminato tranquillo in mezzo a noi, sotto i nostri sguardi agghiacciati. Non ero l’unica, infatti, ad aver incontrato Nul in precedenza ed essere in grado di raccontarlo (in un certo senso, se pensiamo al mio caso). Kitana e Beatrix si sono persino inginocchiate al suo cospetto. Lui le ha degnate a malapena di uno sguardo, per poi passare oltre.
Lilith gli è venuto incontro, terribilmente seria. Nul le ha accarezzato il viso, hanno avuto una breve conversazione e poi si sono ritirati insieme nella camera di lei. Allora ho capito tutto.
Lilith è la sua compagna, la sua amante. La sua silenziosa complice in questa terra maledetta. Non so da dove proviene... forse dallo stesso mondo di Nul. Forse è per questo che si conoscono, che sono così intimi. Per questo lei non osa mettersi sulla sua strada, e lo lascia scatenare il caos su Oblivion.
Eppure, Nul le permette di proteggerci. A quale scopo? Possibile che sia così indulgente?
So che non potrò mai comprendere la verità, ma per me è abbastanza. Nulla ha senso in questo posto, lo sappiamo entrambi, Snake.
Perché dovremmo sorprenderci ancora per qualche atrocità, dopo quelle che abbiamo vissuto entrambi sulla nostra pelle?
Dopo essere sopravvissuti al fuoco, alle bombe e a giganteschi robot che camminano... perché dovremmo ancora provare un sentimento come lo stupore?
Fino a ieri non sapevo cosa fare, finché Nul non è venuto a trovarci. Quel bastardo si è trattenuto con Lilith per un paio d’ore. Noialtre non abbiamo sentito nulla, finché non sono usciti dalla stanza. Nul ha riattraversato il salone e stava per prendere il volo, quando una delle ragazze ha deciso di compiere una pazzia... di mostrare apertamente di essersi bevuta il cervello.
Fujiko, proprio lei. Doveva essere proprio disperata per avventarsi su Nul in quel modo. L’ho vista farsi avanti e sparargli addosso con le pistole di Tanya. E mentre sparava, urlava... gli urlava contro tutto il suo dolore, la sua disperazione. E nel frattempo riuscivo a cogliere poche parole sensate.
“Ridammelo! Ridammi il mio Lupin!!”
Nul ha reagito subito dopo il primo sparo. Ha schivato ogni colpo, avvicinandosi a Fujiko sempre di più. Arrivato davanti a lei, i caricatori erano ormai vuoti. Non avevo mai visto nulla del genere in vita mia.
Ho visto Nul afferrarla per il collo e sollevarla da terra, sotto lo sguardo attonito delle altre ragazze. Solo Lilith è rimasta a guardare senza battere ciglio. È rimasta a guardare, come tutte noi, mentre Nul sconfiggeva Fujiko con un’arma ben più pericolosa della pistola.
Le parole.
“Anche volendo, non posso. E anche potendo, non vorrei farlo. Tu non sei degna del suo amore. Non sei degna di nulla.”
Poi ha mollato la presa, facendola cadere a terra. L’abbiamo subito soccorsa, mentre Nul lasciava il palazzo senza aggiungere altro. Fujiko era in uno stato pietoso; ha pianto a lungo, nonostante le altre abbiano cercato di consolarla. Lilith non ha fatto nulla per impedirlo, sapeva che sarebbe stato inutile.
A quel punto ho capito cosa fare. Perché le altre non hanno visto ciò che ho visto io.
Il primo colpo di Fujiko era andato a segno. Il proiettile aveva preso Nul alla spalla; di striscio, ma era abbastanza.
Lo aveva colpito. Ferito.
L’ho notato solo io, nel mio silenzio.
Nul non è invincibile.
Ecco perché ora sono qui, Snake. Qui sul tetto del palazzo, imbracciando il mio fucile. In silenzio, lontana da quelle oche e dalla serpe nera che finge di essere la nostra protettrice. Ho tutto ciò che mi serve proprio qui, tra le mie mani.
Nul non è invincibile. Può essere colpito, ferito... forse ucciso. Non so se posso farcela, ma ci proverò. Se proprio devo morire su Oblivion, lo farò nel modo giusto: mentre guardo il mio ultimo bersaglio attraverso questo mirino telescopico. Mentre canto la mia canzone.
Mentre penso a te, Snake.
Nel nostro mondo, mi era rimasto un solo linguaggio: la vendetta. Su questo mondo, ho perso anche quel linguaggio. Eppure me ne resta un altro: la speranza. Non la speranza di poter tornare indietro, né quella di sopravvivere. Né di vincere.
La speranza, piuttosto, che un giorno ci rivedremo.
Nul ritornerà da queste parti, prima o poi. È ovvio che apprezza la compagnia di Lilith... anche un semidio come lui ha appetiti umani, evidentemente. La cosa va a mio vantaggio. Nul ritornerà, e mi troverà pronta.
Il mio mirino telescopico lo punterà, e allora farò fuoco.
Spero di ucciderlo, ma non voglio confondere quest’illusione con la speranza. Dubito di essere l’unico cecchino giunto su Oblivion... ma sono ancora qui, armata e pericolosa.
Spero che ti ricorderai di me, Snake. So che mi ascolterai, come hai sempre fatto quando ci siamo conosciuti.
Ascolta il mio canto, il mio silenzio.
E allora ci rivedremo.
Passo e chiudo, Snake.

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Capitolo 2
*** Sempre nel mio cuore ***


Sempre nel mio cuore
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Silenzio, vento e polvere. Gli unici compagni di viaggio per l’uomo che vagava lungo quella strada deserta: una lunga striscia di cemento, spoglia e spezzata, inutile avanzo di un ignoto mondo distrutto. Uno dei molti tasselli di un enorme mosaico di caos sul quale il viaggiatore camminava, il mondo chiamato Oblivion. Il regno spezzato. La tomba, l’abisso in cui precipitavano tutti i mondi conosciuti per mano del suo signore, Nul.
Sasuke Uchiha era sopravvissuto alla folle opera di distruzione di quel demonio, avvenuta attraverso un numero incalcolabile di scontri e guerre. Neanche per un attimo aveva accettato la sfida di Nul, ossia combattere contro la propria nemesi in cambio del ritorno a casa. Nel suo caso, era stata una proposta inaccettabile... per non dire impensabile. Come avrebbe potuto affrontare – uccidere – il suo migliore amico?
Non dopo tutto quello che aveva passato prima di finire laggiù.
Sasuke non avrebbe fatto mai più il gioco di nessuno.
Non che ormai avesse più importanza... perché quell’uomo aveva già perso tutto.
Continuò a camminare lungo la strada, nel silenzio più assoluto, sotto il cielo coperto da eterne nuvole grigie che non lasciavano passare nemmeno uno spiraglio di luce. A malapena ricordava come fosse fatto il sole: il tempo non aveva significato su Oblivion, perciò gli sembrava di essere finito laggiù da secoli.
Si chiese per quanto tempo ancora sarebbe riuscito a proseguire, prima di perdere persino la speranza.
Qualcosa attirò la sua attenzione. Sasuke aguzzò la vista in avanti e scorse una figura: una persona si stagliava a pochi metri di distanza, in piedi sull’asfalto. Esitò per un momento, poi afferrò la spada appesa al suo fianco e attivò il potere racchiuso nel suo occhio destro: lo Sharingan s’illuminò, iniettando di rosso la pupilla.
Sasuke non percepì alcun potere né ostilità da quella persona, perciò si rilassò. Affrettò il passo e la raggiunse subito, ormai consapevole di cosa avesse trovato.
Davanti a lui c’era una ragazza, sporca e malconcia. Più bassa di lui di tutta la testa, era molto giovane, non più di diciassette anni; anche lei aveva tratti somatici orientali, ma una notevole abbronzatura rendeva più scura la sua pelle; aveva lunghi capelli neri e abiti di città, una camicetta rosa sopra un paio di pantaloncini corti. La sua bellezza era pesantemente offuscata dallo shock e la stanchezza che la dominavano in quel momento; respirava a fatica, e i suoi occhi spenti sembravano persi nel vuoto.
Quando ormai parve un miracolo che riuscisse ancora a reggersi in piedi, la ragazza crollò a terra, sotto lo sguardo sorpreso di Sasuke.
Il ninja si guardò intorno. La strada era ancora deserta, non vedeva nessun altro nei paraggi. Esitò ancora per un attimo, dunque si chinò e afferrò la ragazza. Avrebbe dovuto portarla subito nel luogo sicuro che conosceva, ma poteva aspettare; Sasuke si limitò a uscire dalla strada, raggiungendo una roccia vicina dove fece sedere la ragazza. Non aveva ferite gravi, ma era evidente quanto fosse stremata; prese la borraccia e le aprì la bocca, facendole bere una generosa quantità d’acqua.
La ragazza riacquistò conoscenza, tossendo un po’ per l’acqua appena ingoiata. Notò l’uomo davanti a lei e cacciò un urlo, improvvisamente spaventata. Sasuke la trattenne con la mano, aspettandosi una reazione del genere.
« Stai calma, non voglio farti del male » la rassicurò, tenendo salda la presa. « Puoi sentirmi? Capisci quello che dico? »
La ragazza si rilassò gradualmente, riprendendo fiato. I suoi occhi erano ancora colmi di paura, ma nel frattempo rispose alla domanda.
« S-sì. »
« Bene » disse Sasuke. « Come ti chiami? »
« Mi... mi chiamo... Reiko. »
« Io sono Sasuke, molto piacere. Da che parte stai? »
« Co-cosa? »
« Da che parte stai? » insisté il ninja. « Scusa, ma devo chiedertelo. Sei un eroe o un nemico? »
Reiko non sembrò capire, limitandosi a fissarlo incredula.
« Non capisco » sussurrò. « I-io non sono... un eroe. Non sono nessuno. »
« Uhm... »
Sasuke non replicò. Continuava a scrutarla con il suo Sharingan, per capire se poteva fidarsi davvero. Dopo tutto quello che aveva passato in quell’inferno, non ci si poteva aspettare che un tipo come lui credesse subito alle parole di una sconosciuta appena incontrata... anche se questa aveva sembianze di una ragazzina ferita e spaventata. Perciò rimase in ginocchio di fronte a lei, osservandola con il suo inquietante occhio rosso.
Ci volle un buon minuto di pazienza per convincere Sasuke della buona fede di Reiko. Lei non mentiva, e la sua aria sconvolta non era mutata di una virgola per tutto il tempo. Lo Sharingan continuava a non rilevare nulla in lei: nessun chakra, né altre energie interiori che potessero conferirle qualche potere. In definitiva, Sasuke aveva davanti a sé una normalissima ragazza.
Il ninja si rilassò, disattivando lo Sharingan.
« Perdona i miei modi bruschi » disse. « Di questi tempi non è saggio abbassare la guardia facilmente. Pensiamo a te, piuttosto... Reiko, giusto? Che cosa ti è successo? »
« Io... non lo so » rispose la ragazza. « Non so che diavolo sta succedendo. Fino a poco tempo fa ero a casa mia, poi un’ombra gigantesca mi ha travolto... e mi sono ritrovata in questo posto assurdo! »
« Da quanto tempo ti trovi qui? »
« Io... da tre giorni, credo. Oh, è così difficile... mi sembra di aver dimenticato un sacco di cose, persino lo scorrere del tempo. »
« Già, ti capisco » commentò Sasuke. « Un’altra cosa, Reiko. Sei arrivata qui da sola? O eri con qualcuno? »
Gli occhi di Reiko si riempirono di lacrime prima di rispondere.
« Io... da sola! » esclamò. « Però... ne sono sicura... so che qualcun altro è arrivato qui. Io... lo sto cercando disperatamente. Ho vagato finora su queste... strade, in cerca di... di lui... »
Sasuke estrasse un fazzoletto dalla tasca e glielo porse. Reiko lo prese subito e si asciugò le lacrime.
« Va bene » dichiarò il ninja, tagliando corto. « Se sei da sola, allora questo facilita le cose. Ci riposeremo un po’, dopodiché ti condurrò in un posto sicuro. »
Reiko lo fissò per alcuni istanti, e annuì dopo aver asciugato ogni lacrima dal suo viso.
« Grazie » fece Reiko, restituendo il fazzoletto.
Sasuke sedette davanti a lei, trovando posto su una roccia vicina. Lanciò un’occhiata al cielo: anche se era perennemente coperto dalle nuvole, era evidente che il sole stesse per tramontare. Presto avrebbe fatto buio. Il ninja raccolse dunque un po’ di legna dal terreno e ne fece un mucchio sullo spazio tra lui e Reiko.
« Non è che per caso hai un accendino, vero? » domandò lui.
« Uhm, no, mi dispiace. »
« Peccato. Vorrà dire che mi toccherà dare spettacolo di nuovo. »
Sasuke sollevò quindi la mano, tenendo alti l’indice e il medio.
Arte del Fuoco: Tecnica della Palla di Fuoco Suprema!
Un getto di fuoco eruppe dalla sua bocca, incendiando la legna appena raccolta. Reiko cacciò un nuovo urlo, stavolta per la sorpresa; tacque dopo un attimo, mentre un bel falò scoppiettava ora accanto alla ragazza.
Sasuke tornò a sedersi al suo posto, fissando Reiko con curiosità. Sapeva riconoscere gli sguardi, e quello che aveva visto negli occhi di lei dimostrava di sicuro una cosa: Reiko non era del tutto estranea a fenomeni del genere. Era certo che avesse già visto simili tecniche all’opera, anche se non proveniva dal suo stesso mondo. Preferì non indagare oltre, tuttavia, poiché in fondo non gli importava.
Ci fu una lunga pausa, ma alla fine il ninja riprese la parola.
« Chi stai cercando? » domandò. « Qualcuno che ti è caro, immagino. »
« Sì... » rispose Reiko. « Sto cercando Ryu. Lui è... ecco... »
« Il tuo ragazzo. »
Reiko arrossì parecchio e tacque. Sasuke notò quella reazione, e una forte familiarità invase i suoi pensieri. In quel momento Reiko assomigliava tremendamente a qualcuno di sua conoscenza... e che gli era molto caro.
« Be’, io... » iniziò a balbettare. « Lui... noi... insomma, mi sta a cuore moltissimo, ma non so se si può definire... »
« Ok, è il tuo ragazzo » tagliò corto Sasuke. « Va tutto bene, guarda che non me ne importa niente. Dunque anche lui è finito su Oblivion? »
Reiko tacque, e annuì lentamente.
« Non ci siamo incontrati, ma ne sono sicura. So che Ryu è qui. Lo sento, nel mio cuore. So che è qui da qualche parte... forse mi sta aspettando. Per questo devo raggiungerlo. Forse... riusciremo a tornare a casa insieme. »
Sasuke non replicò. Conosceva bene quella sensazione: quando ami qualcuno, il legame può essere così forte da superare ogni barriera fisica. Le sensazioni diventano certezze, e le speranze restano forti, qualunque cosa accada.
Ma Reiko non aveva la minima idea di come funzionassero le cose su Oblivion. Per quanto ne sapeva Sasuke, quel Ryu poteva essere già morto... ucciso in un ciclo di guerra organizzato da Nul. Doveva dirglielo subito: costringerla a fare i conti con l’atroce realtà il prima possibile...
« Lo hai mica visto? » domandò Reiko in quel momento. « Lo hai incontrato nei paraggi? »
« Io... no, mi dispiace » rispose Sasuke, impassibile. « Mai incontrato nessun Ryu. »
« Peccato... ma non intendo darmi per vinta. Continuerò a cercarlo, e non mi arrenderò finché non l’avrò trovato. »
Sasuke sospirò. Ora Reiko gli ricordava qualcuno di totalmente diverso. Quella determinazione era fin troppo familiare: un tipo difficile da spezzare, come dimostrato dal suo migliore amico fin da quando lo aveva conosciuto. Anche se Reiko era una normale ragazza priva di talento, era certo che non si sarebbe fermata; non avrebbe rinunciato alla sua ricerca. Portarla al sicuro sarebbe stato inutile, perché lei avrebbe ripreso subito a cercare il suo amato.
Non aveva altra scelta che accontentarla.
« Parlami di lui » ordinò. « Forse posso aiutarti a trovarlo. »
Reiko lo guardò sorpresa per un attimo, poi obbedì.
« Ryu è un grande guerriero » disse. « Ha dedicato la sua vita alle arti marziali e alla giustizia. È cresciuto in un dojo, apprendendo fin da piccolo vari stili di combattimento sotto la guida di un grande maestro. Poi ha cominciato a viaggiare per il mondo, in cerca di altri grandi guerrieri da sfidare. Per un po’ di tempo ha vissuto sulla mia isola, lavorando come boscaiolo insieme a mio nonno; è così che ci siamo conosciuti. Io gli portavo sempre da mangiare, e lui mi raccontava delle sue avventure. Mi parlava degli avversari che aveva sfidato, e delle incredibili tecniche di cui erano dotati. Monaci sputafuoco, soldati colossali, ragazzine toste e guerrieri mascherati. Mi sembravano storie assurde, ma anche Ryu non era da meno, con le tecniche che mi mostrava. Inoltre lo vedevo allenarsi nel tempo libero, dando prova della sua incredibile forza e tenacia. »
Sasuke ascoltò in silenzio, assimilando ogni informazione.
« Un giorno, Ryu dovette ripartire » continuò Reiko. « Aveva ricevuto una lettera da un suo grande amico, che lo invitava a raggiungerlo per unirsi a lui in un nuovo viaggio. Così le sue avventure sono ricominciate: fui costretta a vederlo partire, anche se ormai avevamo stabilito un legame. Decisi di regalargli il mio braccialetto » aggiunse, afferrandosi il polso destro, « affinché potesse ricordarsi di me. »
« È mai tornato da te? » chiese Sasuke.
Reiko annuì con un lieve sorriso.
« Oh sì. Con mia grande sorpresa l’ho visto tornare dopo qualche mese. Ero felicissima, perché non mi aveva dimenticato... neanche per un momento; portava ancora il mio braccialetto. Decise di restare con me; anche se il suo spirito guerriero lo aveva spinto a partire, il suo cuore lo aveva riportato a casa... da me.
« Per un po’ le cose andarono bene tra noi. Poi, un giorno... è accaduto tutto questo. »
Il sorriso di Reiko svanì di nuovo.
« Ho visto il mondo intero svanire da sotto i miei piedi, ingoiato dall’oscurità... insieme a Ryu. Non so come sia successo, né perché... ma per il momento non m’importa. Voglio solo ritrovare Ryu, poi troveremo una soluzione insieme. »
Tacque, e approfittò di quel momento per sistemarsi meglio accanto al fuoco. Sasuke restò in silenzio, valutando le informazioni appena ricevute. Qualcosa si fece subito largo tra i suoi ricordi più recenti, distraendolo per un po’ dal dolore perenne che affliggeva la mente.
« Arti marziali » disse a voce alta. « In base alle informazioni che mi hai dato, penso di sapere dove possa trovarsi Ryu. »
Reiko lo fissò sorpresa.
« Davvero? »
« Sì. Esiste un solo posto su Oblivion su cui un tipo del genere oserebbe mettere piede. Ci sono già stato, anche se non è stata un’esperienza piacevole. Ryu potrebbe trovarsi laggiù senza ombra di dubbio. »
« Fantastico! È molto lontano? »
« Lo spazio non ha alcun significato in questo mondo. Ad ogni modo, ho un potere con il quale posso raggiungere rapidamente luoghi lontani. Passeremo la notte qui, e domattina raggiungeremo quel settore. »
Reiko sorrise, incapace di aggiungere altro. Sasuke aveva appena alimentato le sue speranze, accettando di aiutarla nella sua ricerca.
Il ninja, d’altro canto, non lo stava facendo per la ragazza; piuttosto, sapeva che era la cosa giusta da fare. Negli ultimi giorni, dopo quello che Nul gli aveva fatto, aveva percorso vari settori di Oblivion in cerca di altri superstiti, salvandoli e portandoli al sicuro; era la sua missione, il suo ultimo compito cui adempiere in attesa che tutto finisse.
La notte era calata nel frattempo sopra le loro teste, e la stanchezza non tardò ad arrivare. Reiko si sistemò come meglio poteva per dormire tra le rocce; con sua gran sorpresa, Sasuke si avvicinò a lei avvolgendola con il suo mantello.
« Grazie! » fece con un sorriso. « Ma così resterai senza... come farai per stanotte? »
« Non preoccuparti per me » tagliò corto lui, riprendendo posto sulla sua roccia. « Non penso che dormirò molto, comunque. »
Reiko stava per aggiungere altro, ma s’interruppe. Solo in quel momento si accorse il tragico particolare sul corpo di Sasuke, nascosto per tutto il tempo dal mantello che le aveva appena prestato. Al ninja mancava buona parte del braccio sinistro; di esso non restava altro che una manica vuota mossa dal vento.
« Oh cielo » mormorò lei, sconvolta. « Mi dispiace. Come... com’è successo? »
Sasuke le restituì la sua solita occhiata inespressiva.
« Ho pagato il prezzo per i miei errori. »
Fu tutto ciò che ebbe voglia di dire in quel momento. Reiko capì che non era il caso di insistere e si distese su un fianco, concedendosi al dolce abbraccio del sonno.
 
Il mattino seguente...
Sasuke e Reiko si svegliarono molto presto, non appena il cielo nuvoloso si degnò di dare una parvenza di luce mattutina. Il ninja attese che la sua nuova compagna di viaggio fosse pronta a partire, dopodiché agì, scostando la ciocca di capelli che gli copriva l’occhio sinistro. Reiko vide un occhio completamente viola, con sei cerchi concentrici e sei piccoli segni simili a un 6 intorno alla pupilla.
Sasuke voltò quindi lo sguardo da un’altra parte, e dopo pochi istanti si aprì a mezz’aria una sorta di buco nero, oltre il quale si poteva vedere un luogo completamente diverso.
« Entra, non aver paura » disse a Reiko. « Questo portale ci condurrà a destinazione. »
Reiko obbedì dopo una breve esitazione, passando con cautela attraverso il varco. Sasuke la seguì a ruota, e il portale si chiuse subito dopo.
I due si trovavano ora in un altro settore di Oblivion. Una landa deserta, ricoperta di terra rossa e rocce taglienti, battuta dal vento. Davanti a loro si ergeva una gigantesca costruzione: era una piramide a gradoni, alta, nera e antica, circondata da un anello di formazioni rocciose. Il silenzio era quasi assoluto, spezzato di tanto in tanto dal gracchiare di corvi e avvoltoi che svolazzavano nei paraggi.
« Che posto orribile » commentò Reiko, stringendosi nuovamente nelle sue spalle per la tensione. « Ma dove siamo? »
« La Piramide di Argus » spiegò Sasuke, indicando la costruzione davanti a loro. « Uno dei tanti settori di Oblivion, ricavato con un frammento di un altro mondo. Nul lo ha realizzato come parte della sua sfida contro i più grandi guerrieri di tutti i mondi: qui ha lottato un sacco di gente, scalando la piramide e affrontandosi in duelli all’ultimo sangue. »
« Oddio... credi allora che Ryu si trovi qui? »
Sasuke non rispose subito, cercando parole adeguate.
« È una possibilità. »
I due si avvicinarono alla piramide per qualche decina di metri, superando l’anello di rocce che ne faceva da perimetro. Fu allora che Sasuke si fermò, attirando l’attenzione di Reiko.
« Dovrai restare qui, Reiko » le disse con serietà. « Andrò avanti da solo. »
« Oh? Perché? »
« Quello che vedresti più avanti non ti piacerebbe, nemmeno un po’. Fai come ti dico, per favore. »
« Ma... »
« Devi ascoltarmi, Reiko » insisté Sasuke. « Questo posto è saturo di morte e distruzione. Non puoi nemmeno immaginare quante persone hanno perso la vita su quei gradini... e preferisco risparmiarti la vista di un tale scempio. Perciò ascoltami e resta qui. Penserò io a cercare Ryu nei dintorni. »
Reiko tacque, mentre un orribile presentimento invadeva la sua mente e il suo cuore. Sasuke si rifiutò di aggiungere altro, perciò fu costretta a obbedire alla sua richiesta; descrisse l’aspetto del suo amato con precisione, poi il ninja le voltò le spalle per raggiungere la piramide.
La ragazza si appoggiò alla roccia più vicina, cercando di non cedere allo sconforto. Sasuke era un tipo davvero enigmatico: sembrava non volerle rivelare informazioni oltre un certo limite. Arrivò dunque a chiedersi cosa le stava nascondendo... e per quale motivo.
Nel frattempo, Sasuke aveva già raggiunto la cima della piramide con pochi balzi. Trovò il luogo esattamente come lo aveva lasciato l’ultima volta: la stessa desolazione, l’aria intrisa di morte e silenzio. Centinaia di cadaveri sparsi dappertutto, lungo i gradini della piramide fino alla cima; inutili resti dei potenti guerrieri che avevano raccolto la sfida di Nul.
Ryu era uno di loro.
Sasuke lo trovò in cima alle scale, dopo aver esaminato con calma ogni cadavere nelle vicinanze. La descrizione fatta da Reiko combaciava con ciò che aveva davanti: il corpo esanime di un giovane muscoloso dai capelli castani; indossava un karate gi bianco dalle maniche strappate all'altezza delle spalle, un paio di guanti di protezione, una cintura nera e un hachimaki rosso sulla fronte. Al polso destro, inoltre, indossava un braccialetto di perle verdi... senza dubbio, quello che Reiko gli aveva regalato prima di partire.
Sasuke rimase in ginocchio a osservarlo, mantenendo l’aria cupa. Non si era fatto illusioni, nemmeno per un attimo: era certo di trovare un tipo del genere sulla Piramide di Argus... annientato per mano di un invincibile nemico. Lui stesso era scampato per un soffio allo stesso destino, solo pochi giorni prima. Quei terribili momenti tentarono di fare breccia nella sua mente, ma restò concentrato; ormai non aveva più nulla da fare lassù.
Aveva trovato ciò per cui era venuto, non restava altro che riportare la tragica notizia a Reiko.
Era inevitabile che accadesse. I ricordi riaffiorarono nel giro di un istante: Sasuke non riuscì a impedirlo, e rivisse il dolore più grande mai provato in vita sua.
 
Lui e Naruto avevano trovato Nul dopo una lunga ricerca. Lui li aveva scelti come Eroe e Nemesi del mondo da cui provenivano, destinati ad affrontarsi in uno scontro mortale: il vincitore sarebbe tornato a casa, secondo la promessa di quel diabolico individuo senza volto.
Entrambi avevano trovato la proposta inaccettabile. Dopo tutto quello che avevano passato, Naruto e Sasuke erano certi di una cosa: non si sarebbero affrontati fino alla morte per il diletto di un tipo del genere. Perciò avevano unito le forze e dato la caccia a Nul, per costringerlo a riportarli a casa.
Lo avevano trovato lassù, sulla Piramide di Argus: l’uomo senza volto aveva appena ucciso l’ultimo guerriero che aveva raggiunto la cima, come se nulla fosse. Si era rifiutato di riportare i due amici a casa, e lo scontro fra loro era stato inevitabile.
Avevano spinto i loro poteri fino al limite. Naruto Uzumaki e Sasuke Uchiha, i ninja più forti della loro generazione, tali da poter distruggere intere terre con un colpo solo. Tutto questo potere si era rivelato inutile contro Nul: quel mostro era in grado di imitare e riflettere qualsiasi abilità o potere di cui fosse dotato il suo avversario. E contro i ninja più forti della loro generazione, i poteri evocati di conseguenza si erano rivelati spaventosi.
Lo scontro era stato breve, ma violentissimo, tale da portare gli eroi e il nemico lontano dalla Piramide. Sasuke era crollato a terra, esausto, alla totale mercé di Nul. Questi si stava avventando su di lui con una replica del Susanoo, gigantesco guerriero di chakra armato di spada...
Ma il colpo non arrivò mai.
Naruto si era posto in difesa dell’amico, prendendosi il colpo al posto suo.
« Naruto... nooo! »
« Ugh... scappa, deficiente. »
Naruto non aveva aggiunto altro, impiegando le sue ultime energie per salvare Sasuke. Il chakra del Demone Volpe ammantò il suo corpo, usando la sua potenza per scagliare un ultimo colpo contro Nul; il Rasenshuriken lo colpì in pieno, ma serviva solo a distrarlo. Sasuke non riuscì a far nulla, mentre una coda di chakra lo avvolgeva e con una forza enorme lo scagliava lontano, via dalla valle.
Avrebbe visto Naruto solo qualche giorno dopo, al Cimitero dei Mondi, quando ormai era troppo tardi. Il suo corpo era stato sigillato in un cristallo insieme a quello di sua moglie, come un trofeo da collezione. Sasuke restò impietrito a lungo ai piedi di esso, comprendendo di aver fallito.
 
Riaprì gli occhi, ponendo fine ai ricordi. Tornò a guardare il cadavere accanto a lui, ricordando l’impegno preso con Reiko. Aveva ancora qualcosa da fare.
Reiko vide Sasuke tornare pochi minuti dopo. Il ninja atterrò con un balzo davanti a lei, ma contrariamente alle sue aspettative era solo. Prima che la ragazza potesse fare domande, Sasuke tese la mano in avanti, mostrandole l’oggetto che reggeva: il braccialetto, tutto ciò che aveva potuto recuperare dal corpo di Ryu.
« Mi dispiace » disse Sasuke, tetro.
Reiko capì nel giro di un istante, e grosse lacrime vennero fuori dai suoi occhi mentre prendeva il braccialetto. Scoppiò in un pianto incontrollato, sotto lo sguardo freddo del ninja; questi non sapeva cosa fare, ma poi, in un gesto che nemmeno lui seppe spiegarsi, cinse la ragazza con il suo braccio.
Rimase così, aspettando paziente che Reiko smettesse di piangere. Avevano tutto il tempo del mondo, l’unico che era rimasto a entrambi.
Più tardi, Sasuke avrebbe portato a termine il suo compito. Avrebbe aperto un nuovo portale e condotto Reiko nel luogo sicuro: un ospedale in cui trovavano rifugio tutti i sopravvissuti al caos di Oblivion. Le avrebbe raccontato ogni cosa, per soddisfare la sua precedente curiosità su cosa gli fosse accaduto; un modo come un altro, secondo lui, per distrarla dal dolore per la perdita di Ryu.
« Grazie infinite » avrebbe detto Reiko con un debole sorriso. Dopotutto era ancora viva grazie a lui, e aveva fatto il possibile per aiutarla.
Non poteva negarlo, né avrebbe mai provato a farlo. Sasuke aveva fallito. Non era riuscito a tornare a casa, né a proteggere il suo amico... il migliore che avesse mai avuto, l’unico rimasto al suo fianco anche nei giorni più bui. Aveva perso ogni cosa: il mondo, gli amici, la famiglia. Non c’era modo di recuperarli, finché il caos continuava a imperversare su quel mondo.
Ma lui non aveva ancora finito. Il ninja era ancora vivo, e poteva ancora fare qualcosa. Dopo aver ritrovato Naruto al Cimitero dei Mondi, aveva giurato ai piedi del suo feretro di cristallo che non si sarebbe arreso. Lui non aveva potuto sconfiggere Nul, ma era certo che qualcun altro sarebbe riuscito in questa impresa. Perciò si era rimesso in viaggio subito dopo, per compiere la sua nuova missione.
« Aiutare e portare in salvo tutti quelli che incontro su ogni settore » avrebbe spiegato a Reiko, all’ingresso dell’ospedale. « Radunare il maggior numero di superstiti. La mia speranza è che qualcuno di voi trovi un modo per vincere questa guerra... e trionfi dove io e Naruto abbiamo fallito. Io continuerò su questa strada, finché avrò la forza per percorrerla. »
Reiko avrebbe capito. Anche se lei era solo una normalissima ragazza, per Sasuke significava un altro piccolo successo: alimentare le speranze degli eroi sopravvissuti su Oblivion. Un nuovo, piccolo punto a favore di coloro che ancora si battevano per sconfiggere Nul.
Perché, se aveva imparato qualcosa da quell’idiota del suo migliore amico, era proprio questo. Sasuke non si sarebbe mai arreso.
Era la sua via del ninja. 

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Capitolo 3
*** Il risveglio dello Sforzo ***


Il risveglio dello Sforzo
 

Oblivion era un mondo di caos. Un abisso oscuro in cui tutte le cose trovavano la loro fine. Eroi e malvagi, uomini e macchine, animali e alieni, divinità... e persino i mondi. Nulla trovava scampo all’opera di distruzione voluta da Nul, signore indiscusso di quel limbo; ogni battaglia organizzata su Oblivion procurava un numero incalcolabile di morti, e la distruzione dei loro mondi di appartenenza. E ciò che rimaneva di loro veniva scaricato senza alcuna pietà in un luogo remoto, una sorta di enorme discarica realizzata nel cuore di una cupa metropoli. Il settore più terribile di Oblivion, ciò che ne costituiva la più drammatica essenza.
Il Cimitero dei Mondi.
Darth Vader vagava attraverso quell’enorme ammasso di rovine, in quel momento. Lui era il Signore Oscuro dei Sith, potente nel Lato Oscuro della Forza e temuto in tutta la galassia da cui proveniva. Si era macchiato di crimini orribili in nome del suo maestro, l’Imperatore, muovendo guerra contro vari mondi e uccidendo tutti coloro che si ribellavano al regno del male. Vader aveva le mani sporche del sangue d’innocenti, ma soprattutto di colei che aveva amato prima di cadere nel Lato Oscuro. Aveva distrutto, corrotto, annientato, ucciso.
E avrebbe sopportato per l’eternità il peso di tutto il male che aveva causato.
Eppure, nonostante tutto ciò, persino uno come lui provava sgomento alla vista di una tale rovina. Un numero incalcolabile di resti delle battaglie avvenute su Oblivion, ammassati su interi isolati della città fantasma su cui camminava. Intorno a lui vi erano enormi dune ricolme di oggetti e rovine di ogni sorta, che si ammucchiavano tra le strade e gli edifici. Vader non riusciva a vederne la fine, tanto il luogo era sconfinato.
Il Sith vagò per un po’ in assoluto silenzio, cercando di farsi largo tra quei cumuli di rovine. C’erano oggetti e cianfrusaglie di varia natura, da quelli di uso comune a vere e proprie armi. C’erano spade, fucili e pistole, ma anche libri, bastoni, e veicoli; inutili resti di coloro che avevano lottato ed erano morti. Vide anche molte astronavi, ma era troppo sperare che funzionassero ancora... o che fossero in grado di portarlo via da quel mondo di caos. Camminò per un po’ tra i resti della più vicina, uno shuttle con su scritto Freedom sulla fiancata, abbandonato come la carcassa di un immenso animale.
Vader non tardò a trovare anche dei cadaveri tra quelle rovine: uno di questi attirò la sua attenzione, poco più avanti; si trattava di un uomo, vestito con un lungo impermeabile grigio e un cappello. Sarebbe sembrato un normalissimo detective, se non fosse stato per la gran quantità di arnesi che spuntavano fuori da ogni parte del suo corpo malconcio: martello, lente d’ingrandimento, ombrello, scarpe a molla e altri gadget di ogni sorta. La morte aveva spento per sempre l’aria comica che avrebbe dovuto dimostrare.
Non poteva fare nulla per lui.
Vader rimase a guardarlo per un minuto al massimo, poi decise di proseguire.
Doveva trovare Nul. Quel diabolico individuo lo aveva richiamato dalla morte, sfidandolo a combattere nell’ennesimo ciclo di battaglie; per vincere avrebbe dovuto uccidere un certo eroe, e come premio, secondo le parole di Nul, sarebbe ritornato in vita.
Ma Darth Vader non poteva accettare la sfida. Come avrebbe potuto, infatti, affrontare l’eroe scelto come sua nemesi? Questi, infatti, non era altri che suo figlio, Luke Skywalker... tutto ciò che gli era rimasto di caro dopo la sua caduta nelle tenebre. Grazie a lui, era riuscito a ribellarsi all’Imperatore e a ucciderlo, riportando equilibrio nella Forza. Ci aveva rimesso la vita, ma era giusto che accadesse: Vader era certo di non poter liberarsi mai più dell’oscurità nel suo cuore, nonostante il suo ultimo atto di redenzione.
E ora si trovava a fare i conti con uno squilibrato senza volto che lo aveva sfidato, coinvolgendo anche suo figlio.
Ovviamente lo avrebbe ucciso, per ciò che aveva osato fare. Restava il problema su come affrontarlo: Nul aveva dimostrato fin da subito la sua immane potenza, imitando poteri e capacità di coloro che gli stavano vicino. Come eliminare un tipo del genere?
Una regola fondamentale nel combattimento consiste nel conoscere il proprio nemico. Doveva saperne di più su di lui, per questo si era messo in viaggio... con la speranza, inoltre, di trovare suo figlio in quell’inferno.
Qualcosa attirò la sua attenzione ancora una volta. Vader spostò lo sguardo alla sua sinistra: tra le macerie che componevano l’ennesima duna notò una coppia di spade, conficcate l’una sull’altra formando una X. Una era lunga e argentata, fatta di un materiale simile a cristallo, con una sfera azzurra incastonata sopra la guardia; l’altra era uno spadone molto più grosso, color carne e sangue, con un occhio pulsante posto alla base della lama.
Vader restò a guardare le spade per un po’, colmo di una strana sensazione di familiarità. Aveva l’impressione di aver già visto quelle armi, in passato, di aver viaggiato e lottato per conquistarle; ma era accaduto davvero? Era come cercare di ricordarsi un sogno e tentare di separare la memoria dalla fantasia...
Un improvviso rumore spezzò il silenzio, distraendolo di nuovo. Vader si voltò, sentendo dei colpi nelle vicinanze. Qualcuno stava facendo un gran baccano. Il Sith percepì una strana presenza: un potere notevole, ma nulla di eccezionale; si avvicinò con cautela, afferrando la spada laser dalla cintura.
Superò la duna e trovò la fonte del rumore. Vader vide un uomo che armeggiava con un macchinario, ai piedi di un altro ammasso di rovine. Rimase incuriosito dal suo aspetto: era molto basso, vestito completamente di nero come lui, dotato di mantello e di un casco simile al suo... solo che questo era molto più grosso, sproporzionato rispetto al resto del corpo.
« E parti, dannata macchina! » sbottò l’ometto, tirando calci al marchingegno. Questo, tuttavia, non dava segni di vita.
Vader rimase a guardarlo, certo che quel tipo non fosse una minaccia. Ripose perciò la spada, ma il suo respiro attirò l’attenzione di quello strano personaggio, che si voltò a guardarlo. Rimase in silenzio per qualche secondo: anche dal suo casco proveniva un respiro metallico, ma meno inquietante, finché...
« Uff! Aria... aria! »
L’ometto alzò la visiera del casco, rivelando il suo volto. Non era nulla di speciale: il volto di un uomo qualsiasi, con occhiali rotondi e l’aria un po’ ingenua. In quel momento ansimava per riprendere fiato.
Persino uno come Darth Vader trovò tutto questo assai ridicolo: ormai era palese che un tipo del genere fosse una sorta di caricatura dello stesso Sith, tanto che arrivò a chiedersi cosa ci facesse laggiù.
« Be’, cos’hai da fissarmi in quel modo? » chiese l’ometto, accigliandosi. « Mai visto uno che cerca di far funzionare una macchina? »
Vader non rispose, ma si voltò a guardare l’oggetto dell’irritazione di quel tipo. Un macchinario piuttosto semplice, alto circa due metri, che recava la scritta “Mr. Coffee”.
Faceva sul serio? Quel tipetto stava facendo tutto quel casino per un distributore di bevande?
Ma perché sorprendersi? Vader aveva già fatto i conti con la natura caotica di Oblivion, dove ogni cosa era priva di senso; ecco perché si fece avanti facendo appello al suo potere. Fece appena un cenno in direzione della macchina, e il Mr. Coffee tornò a funzionare.
L’ometto lo guardò sbalordito.
« Contento, adesso? » commentò Vader, impassibile.
« Certo! Sorseggio sempre il caffè a quest’ora » rispose lui, preparandosi subito una tazza. « Ne vuoi un po’ anche tu? »
Vader scosse la testa.
L’ometto bevve qualche sorso di caffè, scrutando il Sith con aria improvvisamente compiaciuta.
« Bene, allora sei tu » dichiarò. « Sei l’originale... Darth Vader, colui che ha permesso la mia esistenza. »
« Non capisco di cosa parli. Non ti conosco nemmeno. »
« No? Che peccato... ma rimedierò subito. Io sono Lord Casco Nero del pianeta Spaceball, capo delle forze armate degli Spaceballs e braccio destro del presidente Scrocco! Signore oscuro del Lato Posteriore dello Sforzo! »
Tacque, e nel frattempo sollevò una mano, mostrando il grosso anello argentato che indossava.
Vader immaginò che quell’accessorio avesse a che fare con i titoli onorifici di cui si vantava, tuttavia non batté ciglio.
« Buon per te » dichiarò il Sith, infine.
Casco Nero lo fissò, visibilmente deluso.
« Come, tutto qui? » protestò. « Ti ho appena detto chi sono e tu non fai una piega? Mi aspettavo di meglio dal potente Darth Vader! »
« Se speravi di impressionarmi, hai fallito. Però m’incuriosisci, questo è certo. Prima hai detto che io ho permesso la tua esistenza... cosa intendevi dire? »
« Intendo dire che io sono stato creato grazie a te, e al film in cui sei comparso. Io sono la tua parodia. La mia storia è stata realizzata, tra le altre cose, per sfottere la saga di cui tu fai parte. »
Vader tacque per un po’, prima di ribattere.
« Film? Parodia? Di cosa stai parlando? »
Casco Nero divenne sorpreso.
« Vuoi dire che non lo sai? » disse. « Uhm, a quanto pare sei qui da poco. Avrei pensato il contrario, visto che ci incontriamo in questa discarica! »
« Che cosa dovrei sapere? »
« Te lo spiego volentieri, però ti avverto... potrebbe essere uno shock per te. Devo sapere qualcosa sulla tua salute? Soffri di cuore o altre cose del genere? »
Vader provò una forte irritazione. La Forza rispose alle sue emozioni, facendo tremare il suolo e le macerie più vicine. Casco notò la reazione e arretrò di un passo.
« Va bene, va bene, non agitarti! » esclamò. « Tieni a bada il tuo Sforzo! Sicuro di non volere un caffè? »
« Parla, prima che perda del tutto la pazienza! »
« D’accordo! Sei il personaggio di un film, va bene? Il cattivo di Star Wars, uno dei personaggi più famosi della saga. »
Vader tacque di nuovo. Continuava a non trovare un senso nelle parole di quell’ometto, ma di una cosa era sicuro: non mentiva.
« Che cosa significa? »
« Ancora non ti è chiaro? » ribatté Casco. « Purtroppo le cose stanno così. Io, tu e tutta la gente finita in questo posto proveniamo da opere di fantasia. Siamo tutti personaggi di film, fumetti, videogiochi e cose di questo genere. Io, come ti ho già detto prima, provengo da un film, Spaceballs, nato come parodia del tuo, cioè Star Wars. »
« Vuoi dire che noi... non siamo reali? » domandò Vader.
« Proprio così, purtroppo. »
« Com’è possibile? Io non mi sento “finto” in alcun modo. »
Casco Nero scrollò le spalle, rassegnato.
« Lo so, vale anche per me » ammise. « Mi sento vivo come una persona vera, eppure so di essere finto. La nostra esistenza è dovuta a quelli che hanno scritto le nostre storie: gli scrittori, i registi, i programmatori... i nostri creatori, insomma. Nessuno può immaginarlo, finché non finisce in questo posto di merda... e la verità gli viene sbattuta in faccia in un modo o nell’altro. »
Vader lo fissò.
« Tu come lo hai scoperto? »
« Mah, in verità ho sempre saputo cosa sono. Anche durante il film sapevo di essere in un film; sono la tua parodia, dopotutto, è naturale che dovessi saperlo. Il punto è che non potevo farci niente, ero obbligato per natura a seguire il copione. Poi, un giorno, dopo la mia avventura sul grande schermo, sono finito quaggiù... insieme a tutto il mio mondo. »
Casco Nero indicò un punto al di là del Mr. Coffee. Vader seguì la direzione e vide i resti di un’astronave gigantesca, ancor più di uno Star Destroyer imperiale; vide anche una navetta molto più piccola, un camper dotato di alettoni e propulsori. C’erano dei cadaveri tutt’intorno: soldati e ufficiali del regno di Casco Nero, per la maggior parte, ma anche altri esseri ben più strani; un uomo con fattezze canine, un androide femmina, un orso. Il Sith rimase a fissare tutto questo in silenzio, lasciando che il suo respiro glaciale fosse l’unico rumore a echeggiare nei paraggi.
« È terribile, vero? » commentò Casco, osservando a sua volta quello sfacelo. « Non è sopravvissuto nessuno eccetto me, nemmeno la mia nemesi. Sono l’unico sopravvissuto di Spaceballs... ma alla fine toccherà la stessa sorte anche a me, vedrai. »
« Questo non ha senso » obiettò Vader, ragionando per conto suo.
« Che vuoi dire? »
« Se la tua nemesi è morta, perché sei ancora qui? Nul avrebbe dovuto riportarti indietro, secondo le regole della sua sfida. »
« Sfida? Regole? Di che diavolo parli? »
Il Sith capì subito che qualcosa non quadrava, e non si perse in ulteriori chiacchiere. Gli bastò esaminare la memoria di Casco Nero grazie ai suoi poteri per scoprire ciò che voleva; impiegò meno tempo del previsto, poiché la mente di quell’ometto non era un granché... del tutto priva di difese. Ignorò il desiderio di sapere come avesse fatto a diventare Signore Oscuro dello Sforzo e trovò ciò che gli interessava: l’incontro tra Nul e Casco, avvenuto pochi giorni prima in quello stesso posto.
Sentì le loro voci echeggiare nelle sue orecchie, come se fosse stato presente sulla scena.
« Bene, bene... cosa abbiamo qui? Nientemeno che Casco Nero, l’ultima delle balle spaziali. »
« Tu chi sei? Che cosa vuoi da me? »
« Assolutamente niente... come niente è quello che diventerai ben presto. L’oblio ti attende, buffoncello... spero che ti piaccia, perché non potrai sfuggirgli. »
« Come osi provocarmi? Ora ti faccio vedere di cosa sono capace! »
« Oh, un anello! Che paura! Dove l’hai trovato, in un uovo di pasqua? »
« Non è di questo che dovrai aver paura... ma del mio Sforzo! »
« Lo Sforzo, giusto. Vuoi dire questo? »
« Cosa? Io... ah! Argh... aaaaaargh! »
« Ora sai cosa si prova nel sentirsi strizzare le palle da qualche forza invisibile. Vuoi che continuo? Magari puntando verso il tuo cuore, o la tua gola. Potrei farlo, se lo desideri. »
« Ghhh... la...scia...mi! »
« Come vuoi. »
« Uff... uff... bastardo... »
« Tu invece sei simpatico, Lord Casco. Hai fatto ridere un sacco di gente con la tua performance. Ma quel tempo è ormai finito. Rassegnati, e preparati all’inevitabile: tu morirai quaggiù... morirete tutti. Non c’è vittoria, non c’è ritorno. Presto sarai dimenticato. »
« Ma... perché? Perché fai questo? Chi diavolo sei? »
« Io sono Nul, il Mai Nato... eroe di un mondo mai esistito. Accontentati di questo, perché il resto non lo capiresti mai. Ora, se vuoi scusarmi, ho altre faccende da sbrigare. Addio, “signore oscuro”... che lo Sforzo sia con te! Ahahaha... »
Vader tornò al presente, e un gran numero di emozioni lo assalirono subito dopo tutte insieme. Sorpresa, sgomento, delusione, rabbia, per tutto ciò che aveva udito e scoperto nei ricordi di Casco.
Dunque era tutto un inganno: Nul non intendeva riportare in vita nessuno. La sua sfida, le battaglie organizzate, erano solo un enorme inganno: una menzogna articolata per spingere eroi e cattivi ad affrontarsi fino alla morte reciproca.
Eroi e cattivi immaginari, per giunta...
« Oooh, che male » brontolò Casco, massaggiandosi la fronte. « A momenti mi spaccavi il cranio con la tua intrusione! Spero per te che sia servito a qualcosa. »
« Può darsi » rispose Vader, tornando serio e freddo. « Mi hai dato informazioni preziose, per questo ti ringrazio. Ora tutto è un po’ più chiaro, almeno. »
Gli voltò le spalle, pronto a rimettersi in cammino.
« Ehi, aspetta un momento! Dove credi di andare? »
Vader si fermò, voltandosi un’altra volta. Casco lo aveva chiamato a gran voce, un’improvvisa rabbia dipinta sul suo volto.
« Il mio obiettivo non è cambiato » dichiarò il Sith, « nonostante ciò che ho appena scoperto. Io troverò Nul, e lo fermerò. »
« Buon per te » ribatté Casco. « Ma non lascerò che tu te ne vada così, come se nulla fosse. Dopotutto, sembra proprio che io ti abbia appena aiutato a vederci chiaro in questa faccenda, non è così? »
Vader annuì.
« E allora? »
« Allora mi devi un favore, bello. Voglio avere il piacere di sfidarti! »
Casco unì quindi le mani, stringendole a pugno all’altezza dell’inguine. Vader vide il suo anello brillare di verde, emettendo una lama di luce identica a quella di una spada laser. Un modo decisamente assurdo per imitare l’arma di un Jedi, ma non provò nemmeno a commentare.
« Non sei alla mia altezza » dichiarò Vader, glaciale come sempre. « Lascia perdere. »
« Scordatelo! » ribatté Casco. « Forse è come dici tu, non ho speranze... ma non per questo intendo rinunciarci. Affrontare Darth Vader, l’uomo responsabile della mia esistenza, è un’occasione più unica che rara... quando pensi che mi ricapiterà? »
Il Sith non rispose. Rimase muto e immobile ancora per qualche secondo, lasciando che il suo respiro echeggiasse di nuovo nei dintorni. Poi decise, e la sua mano afferrò la spada laser; la lama rossa brillò davanti a sé, puntandola contro il suo buffo avversario.
« Sia come vuoi, allora » dichiarò.
Casco Nero sorrise, prima di celare di nuovo il suo volto con la visiera del casco. Si lanciò contro Vader in un assalto frontale; il Sith parò facilmente il colpo. Casco provò a spingere, cercando di avanzare, ma invano; Vader, d’altro canto, riconobbe la forza del suo avversario... e capì che non se la sarebbe cavata con così poco.
Casco rinunciò a spingere e si staccò da Vader; sferrò altri colpi con la lama, ma il Sith li parò tutti. Vader contrattaccò subito con un fendente; Casco lo schivò, e il Mr. Coffee fu tranciato in due al posto suo. Scattò di lato, con una velocità sufficiente da sorprendere Vader, e colpì ancora; il Sith parò ancora, mettendoci stavolta una forza maggiore. La lama rossa deviò quella verde, e Casco fu respinto ancora.
« Non male » ammise Vader a voce alta. « Ti avevo sottovalutato, dopotutto. »
« Mi fa piacere » commentò Casco, compiaciuto. « E non hai ancora visto tutto! »
Puntò l’anello contro Vader, mirando alle sue parti basse. Il Sith sentì un potere estraneo penetrare le sue difese: era lo Sforzo, sprigionato da Casco nel tentativo di colpire un punto decisamente ovvio...
Purtroppo fu una mossa inutile. Vader non sentì alcun dolore, e non batté ciglio mentre Casco insisteva con quella tecnica. Questi, dopo un po’, si fece incredulo: ovviamente non poteva sapere che il suo nemico, dopo essere diventato Darth Vader, aveva perduto molte parti del corpo... comprese quelle riguardanti la sua virilità.
« Merda » esclamò Casco. Con il suo stupore aveva abbassato la guardia, e Vader ne approfittò per colpirlo con una spinta di Forza; l’ometto fu quindi scaraventato all’indietro, andando a sbattere contro il cumulo di macerie più vicino.
Vader si fermò, mantenendo comunque attiva la spada laser. Aspettò paziente la mossa successiva del suo avversario, che avvenne dopo mezzo minuto; il Sith lo vide riemergere dalle macerie, il casco un po’ ammaccato. Ansimava, ma sentiva in lui ancora molto potere.
« Sei soddisfatto? » domandò Vader. « Io preferirei concludere qui la nostra sfida. Non ho alcun interesse nella tua morte... e mi stai solo facendo perdere tempo. »
Casco Nero rispose con una risata beffarda.
« Allora dovrai uccidermi, temo... perché non intendo arrendermi! »
Riattivò la lama e balzò in avanti, pronto a continuare. Vader sollevò la spada e parò il nuovo attacco; ne seguì un nuovo agitarsi di lame, un susseguirsi di colpi rapidi e letali parati da entrambe le parti. Casco Nero faceva del suo meglio per tenere testa al Sith, pur essendo consapevole di non poterlo battere: lui era solo una parodia, una comica imitazione del guerriero oscuro che aveva di fronte... ma non per questo intendeva farsi da parte. Vader percepì la sua determinazione mentre lottavano, l’ultimo desiderio di quell’ometto perduto nell’oblio: se quella era davvero la fine di Casco Nero, almeno sarebbe morto con la soddisfazione di aver sfidato il suo originatore.
« Che ti succede, amico? » commentò Casco a un certo punto, canzonando il suo avversario. « Hai ucciso tipi molto migliori di me nei tuoi film... dov’è finita la tua sete di sangue? »
Vader si fermò.
« Non ho mai avuto sete di sangue » dichiarò. « Ma se davvero desideri che io versi il tuo, allora non mi lasci altra scelta. »
La lama rossa calò sulla testa di Casco, troppo in fretta perché lui potesse difendersi o schivare. Non fu necessario, tuttavia: la spada laser di Vader non riuscì a decapitarlo. La lama si era fermata contro la superficie di quel grosso casco... evidentemente era fatta di un materiale antilaser.
Casco Nero alzò la visiera, mostrando a Vader il suo volto dominato dall’euforia mentre rideva di gusto. Il Sith ne approfittò per sferrargli un pugno in faccia, approfittando dell’apertura. Casco crollò a terra di nuovo.
« Acc... ci sono cascato di nuovo! » brontolò, mentre si rimetteva in piedi.
Vader sospirò. Ormai la situazione era diventata fin troppo ridicola. Possibile che si fosse davvero ridotto a giocare con quel buffone? Avrebbe voluto riprovare a convincerlo ad arrendersi, ma Casco attaccò di nuovo, lanciandosi in un attacco frontale con la spada. Il Sith arrestò la sua corsa, afferrandolo semplicemente per il casco. Questi reagì, agitando la lama nel tentativo di colpirlo, ma invano: era troppo basso per raggiungerlo; Vader mollò la presa, e Casco andò a sbattere poco più avanti contro altre macerie.
Si rialzò ancora, sotto lo sguardo freddo del Sith. Casco Nero era davvero disposto a combattere fino alla fine. Fino alla morte. Sollevò quindi la mano, pronto a sfoderare di nuovo la sua arma... ma si accorse che non aveva più l’anello.
« Perso qualcosa? »
Casco trattenne il fiato mentre Vader gli mostrava l’anello, finito tra le sue mani. Evidentemente glielo aveva sottratto dopo l’ultimo attacco.
« Ora sei disarmato » dichiarò il Sith. Usò la Forza per spezzare l’anello, riducendolo in pezzi che fece cadere a terra. « Non potrai continuare a combattere. È finita. »
Casco restò in silenzio per qualche attimo. Poi scosse la testa lentamente, come per negare ciò che aveva sentito.
« No... non è finita. Col cavolo che è finita! »
Il terreno cominciò a tremare, mentre l’ometto alzava le mani al cielo. Vader vide parecchie macerie sollevarsi da terra, controllate dal potere di Casco Nero, e ne rimase sorpreso. Come ci riusciva? Eppure aveva distrutto il suo anello... possibile che avesse ancora un tale potere dalla sua?
« Sai, i miei nemici avevano ragione » esclamò Casco. « Stella Solitaria, il maestro Yogurt... avevano ragione! Lo Sforzo non è contenuto in un anello... lo Sforzo è in me! Lo è sempre stato! L’ho capito troppo tardi... ma non abbastanza tardi per fare questo! »
Vader non rispose. Doveva ammetterlo, quel piccoletto era riuscito a sorprenderlo. Vide il camper spaziale e molti pezzi dell’astronave Spaceball One, attratte dal potere di Casco e radunarsi sopra la sua testa: e Casco rideva, nel frattempo, beandosi dell’effetto provocato sul suo avversario.
« Ricordati di questo, Darth Vader! » gli urlò. « Ricordati di me... di Casco Nero! Ho sterminato il popolo dei Rattar... ho superato il livello 350 di Candy Crush in 28 mosse... e sono sopravvissuto a un viaggio a velocità smodata senza allacciarmi la cintura di sicurezza! Ma soprattutto... sono riuscito a sfidarti! »
Vader mise da parte la spada e alzò le mani, pronto a difendersi da un eventuale, ennesimo e disperato attacco. Il potere della Forza lo avrebbe protetto, ma non fu necessario. Il Sith fu assalito da una nuova ondata di stupore mentre vedeva quel cumulo di macerie cadere addosso allo stesso Casco Nero. L’ometto rimase dov’era, continuando a sorridere, mentre veniva seppellito da rottami e rovine.
Vader accorse quando ormai era troppo tardi. Non c’era stato alcun errore, lo aveva capito subito. Quell’attacco non era mai stato rivolto sul Sith ma su Casco Nero stesso. Lo aveva percepito attraverso la Forza (o lo Sforzo, come lo chiamava Casco). Usò il suo potere per rimuovere le macerie; ritrovò il suo avversario là in mezzo, il corpo spezzato e coperto di sangue; solo la testa non era ferita, grazie al suo ridicolo casco, ma gli occhiali si erano rotti. Respirava ancora, anche se con molta fatica. Vader rimase a fissarlo, sapendo di non poter fare più niente per lui.
« Non dovevi farlo » dichiarò il Sith. « Non era necessario che arrivassi a tanto. »
« Ugh... sì... invece » rispose un sofferente Casco. « Era giusto così. Già da tempo... pensavo di farla finita... ma poi... sei arrivato tu. Non potevo lasciarmi sfuggire... un’occasione del genere. »
L’ometto sorrise, mentre un rivolo di sangue colava dalla sua bocca.
« Sono una parodia... lo sarò sempre. Ma ora... posso morire felice... con la soddisfazione di aver sfidato... il grande Darth Vader. La tua vita... la tua storia... hanno permesso a me di esistere. Forse non è stata granché, come vita... finta, per giunta... ma era la mia vita. Per questo... ti ringrazio.
« Spero... spero che tu possa andare via da qui, nonostante tutto. Se altri sono sopravvissuti... portali in salvo... lontano da qui. E se incontrerai Nul... prendilo a calci in culo... anche da parte mia. »
Vader rimase in silenzio, ma chinò il capo in un vistoso cenno d’assenso.
Casco allargò il suo sorriso, e smise di respirare.
Darth Vader riprese la marcia poco più tardi, lasciandosi alle spalle una grossa colonna di fumo. Laggiù, tra i resti della Spaceball One, aveva bruciato il corpo di Casco Nero in una pira funebre. La tradizione dei Jedi, mai dimenticata. Nonostante tutto, quell’ometto era riuscito a sorprenderlo, perciò meritava molto più che un semplice abbandono in una cupa discarica.
Non lo avrebbe dimenticato, finché gli fosse stato concesso di ricordare.
Casco Nero gli aveva dato nuove informazioni: alcune preziose, altre incredibili. L’idea che tutte le vittime di Oblivion fossero personaggi immaginari era assurda, ma cercava di non pensarci. Non era importante, dal suo punto di vista... e non cambiava nemmeno un po’ la sua decisione.
Che importava essere immaginario, se respirava e camminava? Se i suoi ricordi e le sue sensazioni erano vive nella sua testa? Se il suo cuore batteva e lottava per non sprofondare in nuovi abissi del Lato Oscuro?
Non aveva alcuna importanza. Avrebbe finto di non averlo mai saputo, perché aveva ben altro a cui pensare.
Doveva trovare Nul, e salvare Luke dalla sua rete d’inganni. Era già morto, non gli importava di rimetterci la vita, vera o finta che fosse. Contava solo il fatto di proteggere suo figlio, ovunque fosse finito.  
Proprio per questo non avrebbe smesso di cercare, né di lottare.
 

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Capitolo 4
*** Torna a casa, Forrest ***


Torna a casa, Forrest
 
Quel giorno, su Oblivion dominava la calma. Un fatto piuttosto raro, che poteva avvenire solo nei brevi intervalli tra un ciclo di guerre e un altro. Quella, dunque, era solo un’altra quiete prima della prossima tempesta. La città al centro di quel regno di caos era dunque avvolta dal silenzio; i Senzavolto, spettri imitatori della gente comune, percorrevano le strade come ogni giorno, ignare comparse di uno spettacolo che non potevano comprendere.
Una figura solitaria camminava per le strade con passo tranquillo, come se sapesse di non avere nulla da temere. Non era un Senzavolto, bensì qualcosa di molto più misterioso: costui indossava abiti neri sotto un lungo soprabito bianco dotato di cappuccio, che gli oscurava il volto. Era dotato anche di un’altra caratteristica che lo rendeva superiore a un uomo normale – per non dire inquietante – ma in quel momento la nascondeva.
Il suo nome era Nul, ed era il padrone indiscusso di Oblivion. Il Mai Nato. Servitore di una volontà suprema, il cui ordine era di distruggere tutti gli eroi di tutti i mondi.
Presto si sarebbe rimesso all’opera, ma nel frattempo passeggiava tranquillo, godendosi la breve pausa. La sua passeggiata lo condusse fino a un piccolo parco in centro, grigio e tetro come il resto della città: il prato era secco, giostre e panchine erano in rovina. I Senzavolto lo percorrevano come se nulla fosse, indifferenti a tutto.
Qualcosa attirò l’attenzione di Nul. Una piuma svolazzava davanti a lui, mossa dal debole vento che soffiava in quel momento. L’afferrò, incuriosito: era una normalissima piuma, bianco-grigia, ma non sapeva dire da dove provenisse. Oblivion non era certo posto per colombi o piccioni, e non lo sarebbe mai stato. A lui non poteva sfuggire nulla, nel suo regno, ma anche ai suoi occhi quel particolare era decisamente insolito.
Nul alzò lo sguardo, incuriosito da un nuovo elemento che riteneva estraneo. Poco più avanti, su una panchina all’esterno del parco, sedeva un uomo. Non un Senzavolto, ma un uomo reale: era alto, vestito con giacca e pantaloni bianchi, e teneva in mano una scatola di cioccolatini; a giudicare dal cartello posto accanto alla panchina, era evidente che aspettasse l’autobus. Costui sembrava non fare caso a ciò che aveva intorno a lui: il parco in pessimo stato, i Senzavolto, il cielo oscurato dalle nuvole eterne... niente. Era come se non gli importasse, o forse era troppo stupido per rendersene conto.
Nul capì tutto nel giro di un istante. Mentre guardava quell’uomo la sua mente si riempì delle informazioni necessarie, tutto ciò che doveva sapere a riguardo. Strinse la presa sulla piuma che aveva afferrato poco prima e avanzò, andando a sedersi sulla panchina accanto al signore. 
L’uomo si voltò a guardarlo subito, e fece un sorriso cordiale.
« ‘Giorno » disse. « Mi chiamo Forrest, Forrest Gump. »
« Uhm? Oh, piacere » salutò l’incappucciato. « Io mi chiamo Nul. »
Ci fu una pausa, durante la quale Nul continuò a scrutare il suo vicino. Aveva un’aria normale, ma la voce era strana, come se avesse un lieve ritardo mentale... ma questo già lo sapeva.
« Aspetta l'autobus? » domandò Nul.
« Oh, sì » rispose Forrest. « Devo prenderlo per andare da Jenny. »
« Uhm, Jenny... sì, capisco. È molto che aspetta? »
« No, aspetto da pochi minuti. Spero che l’autobus arrivi presto, però. »
« Uh-uh. Vedrà che arriverà. »
Forrest si voltò a guardare Nul, soffermandosi sulla testa.
« Come mai tiene il cappuccio alzato? » domandò curioso. « Non piove ancora. »
« Non è la pioggia ciò da cui voglio ripararmi » rispose Nul. « Piuttosto, sono gli sguardi della gente che mi danno pensiero. »
« Non capisco. »
Nul scosse la testa.
« Non mi aspetto che lei possa capire. Ma ho le mie ragioni per non mostrare la mia faccia a nessuno. »
Forrest scrollò le spalle, lasciando cadere il discorso con un « Ok ». Poco dopo porse a Nul la scatola che teneva tra le mani.
« Vuole un cioccolatino? »
« Perché no? Grazie mille. »
Forrest sorrise, e ne prese uno anche lui.
« Potrei mangiarne una tonnellata, di questi qui » disse nel frattempo. « Mamma diceva sempre: "La vita è uguale a una scatola di cioccolatini..." »
« “...non sai mai quello che ti capita” » completò Nul.
Forrest assunse un’aria molto sorpresa.
« Giusto! Come fa a saperlo? La sua mamma lo diceva anche a lei? »
« Non esattamente. È stato mio padre a insegnarmelo. »
« Oh, ok. »
Nul sospirò.
« Mio padre mi ha insegnato un sacco di cose » disse dopo aver mandato giù il cioccolatino. « Tutto quello che lui ha imparato nella sua vita, lo ha trasmesso a me. Mi ha creato praticamente a sua immagine e somiglianza. »
Il sorriso di Forrest si fece più largo. Sembrava davvero un bambino troppo cresciuto, tanto era innocente e ingenua la sua espressione.
« Suo padre deve essere un uomo molto in gamba » commentò. « Non deve essere facile fare il padre... non saprei dire. »
« Perché? »
« Non ho mai conosciuto mio padre. Mamma diceva che papà era andato in vacanza, e non è più tornato. »
« Oh... mi dispiace. »
« Va bene così » aggiunse Forrest con una nuova alzata di spalle. « Ho avuto la mamma, e Jenny, e Bubba, e il tenente Dan. Non sono mai stato davvero solo, finora. »
« Capisco » fece Nul. « Eppure è sempre triste vivere senza un genitore. Nessun bambino dovrebbe vivere così. Lo so perché posso dire lo stesso, in un certo senso. Io non ho mai avuto una mamma. »
Stavolta fu Forrest a essere dispiaciuto.
« Heh... va bene così » replicò Nul. « Mio padre ha fatto molto per me... eppure non abbastanza, devo dire. »
« Come mai? »
Nul non rispose subito. La calma di cui era pervaso rischiava ora di spezzarsi, a causa dell’argomento di cui si erano ritrovati a parlare. Sentì l’irritazione minacciare di emergere, pronta a trasformarsi in rabbia che avrebbe sfogato di conseguenza su tutto lo scenario. Ma non poteva permettersi di perdere il controllo, non in quel momento.
L’incappucciato strinse i pugni, sospirando ancora. Forrest non ci fece caso.
« Mio padre... non si è impegnato a fondo nel realizzare il suo sogno » disse Nul. « Un sogno di cui io facevo parte. Se avesse osato di più, io ora non sarei qui. Non ha lottato abbastanza... ha avuto paura. »
Aveva parlato con voce dura, glaciale. Il rancore in quelle parole sarebbe stato evidente per tutti... ma non per Forrest, che aveva ascoltato con interesse e innocenza.
« È normale avere paura, signore » disse lui. « Tutti hanno paura. Ho avuto paura anch'io, qualche volta. »
« Uhm. Davvero? »
« Sì, signore. In Vietnam, per esempio, quando c'era la guerra. Ora, io non sarò un pozzo di scienza, ma so che significa avere paura. Quando si va in guerra, si porta con sé tanta paura... paura di morire. Se non avessi fatto come Jenny mi ha detto di fare, forse la paura mi avrebbe vinto... e sarei morto laggiù. »
« E cosa ti ha detto Jenny? » chiese Nul, pur sapendo benissimo la risposta.
« Mi ha detto di correre » disse Forrest. « E io ho corso. So che forse non ci crederà, ma io corro come il vento che soffia. Ho corso per salvarmi la vita e quella dei miei compagni. Ma... non abbastanza per salvare tutti. »
« Mi dispiace molto. »
Forrest tornò a guardare avanti. L’autobus non era ancora arrivato. Intorno a loro dominavano ancora la quiete e il debole vento, e sullo sfondo i Senzavolto continuavano a vagare.
« Mamma diceva sempre che è normale avere paura » disse Forrest, « e non c'è da vergognarsi. La paura si può combattere. Lei non crede? »
Nul annuì.
« Sì, ci credo eccome. Ho visto un sacco di gente affrontare le proprie paure... e vincerle. Loro sì che erano veri eroi. »
« Bene. Chissà, forse suo padre ha solo un momento in cui ha paura, ma poi gli passerà. Forse, quando starà meglio, farà quello che... sì, insomma... quello che non avrà più paura di fare. »
« Sì... forse. »
Nul guardò Forrest, che continuava a sorridere con innocente ottimismo. Che ne poteva sapere un tipo del genere di ciò che stava passando? Dell’abisso in cui era precipitato per colpa della Volontà Suprema? Del caos che aveva contribuito a spargere su quelle stesse strade, annientando innumerevoli vite?
Tutto perché suo padre aveva paura...
Incredibilmente, si trovò a dargli ragione. Ed ecco un altro insegnamento di suo padre tornargli alla mente, anche se non ne ricordava l’origine: “La speranza più forte è quella che proviene dagli esseri più innocenti”.
Chissà, forse non tutto era perduto. Fu sul punto di crederci sul serio, quando la voce di Forrest lo riportò a quel cupo presente.
« Lei dov'è diretto, signor Nul? »
« Io? » fece lui, incerto. « A dire il vero non devo andare da nessuna parte. Ma la mia destinazione non è un problema. Il vero problema è un altro, e quello sei tu, Forrest. Non dovresti essere qui. »
Forrest non sembrò capire.
« Perché no? Questa è la fermata del bus. »
« Lo so... ma tu non dovresti essere qui comunque. Presto accadrà qualcosa di molto brutto, qui, tra queste strade. Su questa terra. Su questo mondo. »
Forrest cominciò ad avere un’aria preoccupata.
« Che cosa accadrà, signore? »
Nul pose una mano sulla sua spalla.
« Qualcosa che non puoi capire » mormorò. « Non perché sei stupido, ma perché sei innocente. Tu non lo sai, ma sei stato molto importante per mio padre... gli hai insegnato molto, e lui ha trasmesso questi insegnamenti a me. Ecco perché so cosa diceva sempre tua madre: lei era una donna davvero in gamba; ti ha insegnato bene, e so che tu farai lo stesso nel tuo futuro. »
Calò il silenzio per qualche secondo, mentre Forrest cercava di assimilare quanto gli era appena stato detto. Alla fine, la sua risposta fu decisamente breve.
« Ok. »
Nul fece un sorriso che nessuno avrebbe mai visto.
« Hai ispirato più gente di quanto tu creda, Forrest Gump... e lo hai fatto semplicemente correndo. Ecco perché non dovresti essere qui... e non ci resterai. »
Un rumore alla loro sinistra attirò l’attenzione di entrambi, interrompendo il dialogo. Si voltarono, e videro un autobus in avvicinamento; un incrocio lo separava dalla fermata, in attesa che scattasse il verde del semaforo.
Forrest si alzò dalla panchina, afferrando la valigia e la scatola di cioccolatini. Nul fece altrettanto, e i due tornarono a guardarsi.
« Perchè mi sta dicendo tutto questo, signore? » domandò Forrest, ancora curioso.
Nul alzò le spalle.
« Heh... perché ci siamo incontrati » rispose. « Forse per caso, forse perché era destino... non saprei dire. Mio padre mi ha insegnato molte teorie, ma poche certezze. Per questo non so se abbiamo tutti un destino prestabilito, o se siamo tutti trasportati in giro per caso come da una brezza; ma io credo in entrambe le cose. Forse le due cose capitano nello stesso momento. Comunque sia, mi fa piacere che questo sia accaduto. »
Forrest sorrise ancora.
« Mi piace questo suo modo di credere. »
Nul ridacchiò.
« Bene. Allora fallo tuo, Forrest... magari può esserti utile in futuro. Ora va’... Jenny ti sta aspettando. Va’ da lei. »
L’autobus, nel frattempo, era arrivato. Il mezzo si fermò davanti alla fermata e aprì le porte; non scese nessuno, perché il bus era vuoto. Forrest si avvicinò, ma prima di andare offrì la mano a Nul; questi ne rimase sorpreso, ma la strinse con piacere. L’uomo salì quindi sullo scalino del bus, pronto a partire.
« Mi ha fatto piacere parlare con lei! » riuscì a dire prima che le porte si chiudessero.
Nul rimase immobile, mentre l’autobus ripartiva con il suo unico, nuovo passeggero. L’incappucciato alzò lentamente una mano per salutare, mentre rispondeva al vuoto che si era creato all’improvviso.
« Anche a me... ha fatto piacere. »
La stessa mano lasciò andare la piuma raccolta poco prima, che fu di nuovo portata via dal vento. Nul la seguì per un po’ con lo sguardo, muovendosi nella direzione presa dall’autobus. Questo svanì poco più avanti, illuminato da un sottile raggio di sole sbucato improvvisamente dallo strato di nuvole. Nul alzò lo sguardo, ma il varco si era già richiuso, portando con sé la luce.
Era fatta. Forrest Gump era tornato a casa, sano e salvo... lontano dal caos di Oblivion che avrebbe rischiato di distruggerlo. Quell’uomo, la sua vita, le sue idee, avevano ancora un valore per la Volontà Suprema. Per questo Nul non aveva potuto far altro che lasciarlo andare; in effetti, non avrebbe sopportato l’idea di veder morire anche quel buon signore tra le macerie del suo abisso.
Lo invidiò per questo. Forse Forrest aveva ragione, e sperò che la sua liberazione da Oblivion sarebbe servita a qualcosa... magari ad alimentare le speranze di suo padre, a liberarlo dalla paura.
Nul sospirò, malinconico. Ricordò che il suo compito non era ancora terminato, così si rimise in marcia. Non gli piaceva, ma non aveva altra scelta. Voltò le spalle al parco e prese una strada a caso, cominciando a correre. Corse a lungo, ignorando il paesaggio e i Senzavolto; ignorò ogni cosa e continuò a correre, mentre una canzone del passato risuonava nella sua mente:
 
Running on, running on empty
Running on, running blind
Running on, running into the sun
But I'm running behind.
 
Corse finché poteva, finché, inevitabilmente, Forrest Gump svanì dal suo cuore. Il gelo e l’oscurità s’impadronirono di lui ancora una volta, e tutto divenne insignificante. Dalla sua schiena emersero due grandi ali piumate, nere e cupe come quelle del corvo; smise di correre e spiccò il volo, lasciandosi alle spalle strade e palazzi.
Il momento era giunto. L’opera doveva compiersi. Il conflitto doveva infuriare, il fuoco della distruzione bruciare. La guerra doveva cominciare.
 

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Capitolo 5
*** Fratelli ***


Fratelli
 
Voi che state leggendo queste righe, probabilmente avete già conosciuto Oblivion, il mondo spezzato. L’abisso in cui sono stati gettati innumerevoli mondi allo scopo di annientarli. In tal caso, avrete già appreso molti degli eventi che si sono verificati su questo suolo caotico: le molte guerre, gli incontri e i duelli già avvenuti e – in alcuni casi – quelli che ancora devono avvenire.
Ormai avrete compreso che su Oblivion le leggi del tempo e dello spazio non hanno significato. Gli istanti sono lunghi come ere, e luoghi lontani possono essere percorsi in tempi sorprendentemente brevi. Il suolo di Oblivion è composto da frammenti di mondi ormai distrutti, rendendolo di fatto un regno multiforme: un enorme mosaico fatto di tasselli fusi insieme senza cura.
Noi rivolgeremo l’attenzione su uno di questi numerosi tasselli: un settore remoto di Oblivion, ignorato persino dal suo signore, Nul, il Mai Nato. Il luogo è una montagna solitaria, silenziosa e avvolta dalle nevi; sarebbe una normalissima vetta se non fosse per il fatto che sulle sue cime accade qualcosa di straordinario.
Tra i popoli antichi era nota come la Montagna dove le Luci Toccano la Terra. Un luogo sacro e colmo di magia, dove gli spiriti si recavano per mostrare al mondo i loro prodigi. Grazie a loro – si diceva – le piccole cose diventavano grandi, l’inverno lasciava posto alla prima vera... e così via.
Ma quei giorni felici erano ormai morti. Perduti, insieme al mondo stesso.
Ora la Montagna giaceva su Oblivion, ultimo avanzo di un’ennesima vittima della Volontà Suprema. Dimenticata, ma ancora viva, la magia continuava a scorrere tra le rocce e la neve... e questo aveva attirato infine l’attenzione di qualcuno, mentre su Oblivion infuriava ormai l’ennesimo ciclo di guerre.
La Montagna vide arrivare ai suoi piedi una giovane donna. La sua pelle scura la rendeva identica alle persone del popolo africano, con una folta chioma di capelli dorati che le incorniciava il volto. Aveva inquietanti occhi gialli, identici a quelli di un serpente. Era bellissima, ma non era umana più di quanto non lo fosse una pietra o un ramoscello; perfino la bestia più spregevole di tutto il mondo sarebbe stata migliore di lei, per quello che aveva fatto. Perché ella era in realtà Lilith, prima compagna di Adam e madre dei demoni. Il serpente che aveva segnato il destino dell’umanità, prima di cadere lei stessa nelle Tenebre e nell’eterna dannazione.
Lilith osservò la Montagna senza alcun timore. Un ampio mantello grigio avvolgeva un corpo perfetto che altrimenti sarebbe stato nudo, in balìa di vento e neve; ma lei non provava freddo né fatica. Rivolse lo sguardo al cielo, dove le luci danzavano: un fenomeno identico all’aurora boreale, ma solo in apparenza. Erano gli spiriti, lo sapeva, e l’attendevano sulla cima del monte.
E Lilith avanzò, scalando la Montagna. Per lei non fu un problema muoversi tra quelle rocce impervie, e in breve tempo arrivò sulla cima innevata. Non appena mise piede sulla roccia più in alto, gli spiriti discesero, prendendo forma.
Le luci si fecero più forti, mentre nell’aria risuonava il canto ancestrale: un grande coro di voci che echeggiavano tutt’intorno, attraverso una melodia dolce ma profonda. Lilith attese, silenziosa e senza timore.
Davanti a lei si radunarono molti spiriti, in forma di animale. Vide un leone, un cervo, un lama e una coppia di orsi; poi arrivò un cane, o forse un lupo, non riusciva a capirlo; poi giunse un mammut, seguito da una tigre dai denti a sciabola e una specie di bradipo dagli occhi sporgenti.
Lilith li osservò uno dopo l’altro, mentre si radunavano intorno a lei formando un cerchio. Avevano tutti l’espressione seria o triste, rivolta sulla donna. Tutti loro, dal primo all’ultimo, erano stati eroi, protagonisti di meravigliose avventure. Storie passate, precipitate su Oblivion insieme ai loro mondi... per essere dimenticate. Quest’amaro pensiero s’insinuò nella mente della donna, mentre uno spirito si faceva avanti.
Lilith alzò lo sguardo: era un animale molto diverso dagli altri, molto più antico. Era un dinosauro, un Velociraptor... o almeno come lo avevano immaginato gli uomini fino a pochi decenni fa: un lucertolone bipede alto quasi quanto un uomo. A renderlo più insolito erano la postura eretta e gli abiti umani che indossava; appariva più sereno rispetto agli altri spiriti, cosa che a Lilith non sfuggì.
« Sam V. Raptor » mormorò la donna, osservandolo. « Ero sicura di trovarti qui, fratello mio. »
« E io ero sicuro che saresti venuta a trovarmi, sorella » disse Sam con tono pacato. « È un vero peccato che il nostro primo incontro debba avvenire così: io morto, e tu al fianco del nemico. »
Lilith lanciò un’occhiata tutt’intorno. Gli altri spiriti si erano fatti, se possibile, ancora più seri e tristi. Naturalmente sapeva benissimo cosa era capitato a tutti loro, dal primo all’ultimo. Nul li aveva distrutti: non aveva avuto pietà alcuna mentre scatenava la guerra su Oblivion, una devastazione di enormi proporzioni. E tutti quegli animali – quegli eroi – erano rimasti coinvolti, morendo uno dopo l’altro.
Simba, il prode leone, sovrano delle Terre del branco. Bambi, il principe della foresta. Kuzco, l’imperatore divenuto lama. Balto, il coraggioso mezzo lupo. Kenai e Koda, gli inseparabili fratelli orsi. Manny, Diego e Sid, improbabile trio di amici preistorici. Animali, creature innocenti... eppure eroi di grandi avventure.
Nul non aveva avuto pietà, neppure di loro. Anche se non aveva alzato la mano per finirli, aveva permesso che la guerra aggiungesse anche loro all’enorme numero di vittime.
Lilith era stata più compassionevole. Il che era ironico, poiché lei non era migliore di Nul. Era stata un mostro fin dal tempo prima del tempo... ma da quando era finita laggiù, aveva deciso di voltare pagina. Si era rifugiata in un luogo remoto, accogliendo tutte le donne sopravvissute alla guerra, in attesa che le acque si calmassero... ma invano. Le acque erano diventate così tempestose, ormai, da non poterle più ignorare. Per questo aveva raggiunto la Montagna, in cerca di suo fratello Sam.
« Allora, sorella » domandò Sam dopo la pausa. « Cosa ti porta da queste parti? »
« Sono venuta a chiederti consiglio » rispose Lilith. « La situazione è sfuggita di mano. »
« Eh già... me ne sono accorto. Ben poco sfugge alla mia attenzione, da quando sono asceso a uno “stato superiore”. Io e gli altri spiriti lo vediamo chiaramente: la guerra ha annientato quasi tutto, ormai. Gran parte dei mondi è precipitata quaggiù, insieme a tutti i loro abitanti. Pochi sono sopravvissuti... e quei pochi lottano per tornare a casa, ignari della verità. Nostro fratello si appresta a distruggere questi ultimi pilastri che reggono il mondo. »
Lilith annuì.
« Ora ha commesso una follia ancora peggiore » disse. « Ha risvegliato Sauron, l’Oscuro Signore, e lo ha sguinzagliato contro gli ultimi eroi rimasti! »
« Sauron... è un bel problema. Quel demonio, se non erro, non ama avere padroni... lui vuole essere il padrone di tutto. Se ha ripreso a camminare su queste terre, la vedo molto brutta... molto più del solito. »
« È una catastrofe! » sostenne Lilith. « Nul ha perso il controllo, ormai... vuole davvero che ogni cosa scompaia nel nulla. »
« Nul » aggiunse Sam, sospirando. « Che razza di nome! L’ho visto, sai? Si ostina a nascondere la faccia e svolazza dappertutto come un avvoltoio, ingannando il prossimo. Mi chiedo ancora se lo fa per nascondere agli altri il suo punto debole, o per dimenticare se stesso. Tu che ne pensi? »
« Non ne sono sicura. Noi... non parliamo molto. »
« No, infatti. Vi accoppiate, il più delle volte. Spero che questo faccia parte dei tuoi piani. »
Lilith distolse lo sguardo dal fratello, amareggiata. Gli altri spiriti sembravano accusarla, con nient’altro che il loro cupo silenzio.
« Non posso ribellarmi a lui » mormorò. « Ha molto più potere di me. »
« Tu non vuoi ribellarti » ribatté Sam, « e non ti biasimo. Tu hai bisogno di lui... ami ancora la parte di lui che, secondo la Volontà Suprema, doveva essere al tuo fianco. Va bene così... probabilmente avrei fatto la stessa cosa, se fossi stato al tuo posto. »
Lilith annuì, ripensando al passato.
« Mi dispiace per ciò che ti è accaduto » disse infine.
Sam scosse la testa.
« Non potevi fare niente » rispose. « Io non potevo fare niente, fin dall’inizio. Sai bene cosa sono... che cosa sono stato per nostro padre: un innocente passatempo. Il primo eroe da Lui immaginato... scopiazzato pesantemente da un botto di roba, vero, ma ciò non cambia la mia natura: pura e semplice finzione. Ero il Suo amico immaginario, l’eroe dei Suoi sogni... e come tutti i sogni, destinato a finire dopo il risveglio.
« Non posso parlare a nome di tutti gli amici immaginari, ma mi piace pensare che siamo tutti consapevoli del nostro destino. Per questo ho accettato fin da subito la mia fine, Lilith. Nostro padre mi aveva già messo da parte molto tempo fa, quando è cresciuto, e ora ha mandato Nul a darmi il colpo di grazia. Mi ha portato al Jurassic Park, costringendomi a vedermela contro i miei stessi simili. Per come la vedo io, è stata una mossa inutile... ma questo non fa che sottolineare l’inutilità di tutto! »
Lilith non sembrò capire.
« Che cosa vuoi dire? »
« Voglio dire che il tentativo di Nul non porterà a nulla » aggiunse Sam. « Questa guerra, questo caos... non serviranno a distruggere un bel niente! Nostro padre s’illude, se crede di poterci dimenticare così facilmente. Guarda me... guarda noi » e indicò gli altri spiriti. « Siamo morti, eppure esistiamo ancora. »
Lilith si guardò intorno. Ora gli spiriti annuivano con orgoglio, appoggiando l’idea di Sam; un’idea tuttavia insufficiente per rassicurare la donna.
« Eppure Nul non vuole rendersene conto » sostenne, mostrando nuova amarezza.
« Già » ammise Sam. « Da quando è caduto su Oblivion crede di aver perso la sua identità, di non essere nessuno. Ma lui non ha idea di cosa significhi non esistere davvero... io, infatti, lo so perfettamente; ecco perché mi considero molto più “nessuno” di voi. Lo capisco... tra noi tre, Nul è il più simile a nostro padre. È stato creato a Sua immagine e somiglianza, dopotutto; condivide le sue idee e le sue emozioni... segue ciecamente gli ordini della Volontà Suprema, e non si fermerà finché non sarà Lui stesso a fermarsi. »
Tacque di nuovo, lasciando che il vento fosse l’unica voce a risuonare nell’aria per un po’.
Lilith non sapeva cosa fare. Non si era mai sentita così impotente in tutta la sua vita: proprio lei, che nel mondo da cui proveniva aveva segnato il destino di una razza intera con una semplice tentazione. Ora era poco più che una schiava sessuale, costretta a concedersi a Nul ogni volta che lui lo desiderava. Non che fosse poi così male, dal suo punto di vista... ma mentre loro si “accoppiavano” (come lo aveva definito Sam), il mondo andava in pezzi.
Possibile che Sam avesse ragione? Che tutto dipendeva dalla decisione della Volontà Suprema?
Lo stesso padre che li aveva abbandonati, dal primo all’ultimo... e che ora muoveva questo folle Deus Ex Machina contro tutti gli altri figli della Fantasia.
« Non posso accettarlo » dichiarò Lilith con voce dura. « Non posso credere che non ci sia un altro modo! »
« Eppure è così » ribatté Sam, pacato. « Dobbiamo essere pazienti, sorella... dobbiamo aspettare. Vedrai che nostro padre ci ripenserà. Ordinerà a Nul di fermarsi, e questa distruzione avrà fine. »
« E quanti altri poveretti dovranno morire prima che questo avvenga? Quanti altri eroi, nemesi o innocenti dovranno essere sacrificati? Al punto in cui siamo, dubito fortemente che il Padre voglia ripensarci... e se ancora ci speri, Sam, dopo tutto questo tempo, allora sei un illuso! »
Gli spiriti reagirono, facendosi accigliati. Sam fu l’unico a restare calmo, sicuro di sé.
« Non m’illudo di niente, Lilith » disse il dinosauro. « Non m’illudo che il Padre mi riporti alla luce per giocare insieme di nuovo. In effetti qui non si parla di me... ma di te; e di Nul, e di tutti gli altri fratelli ancora sepolti; voi, a differenza di me, avete avuto l’occasione di esistere tra le pagine di una storia. Siete il sogno nel cassetto di nostro padre... e Lui può ancora aprirlo. E quando questo accadrà, voi potrete esistere davvero. »
Tacque di nuovo. Lilith restò in silenzio, ma la sua espressione dura non accennò a svanire. Le parole di Sam non erano bastate a rassicurarla. La donna sospirò, mentre tutti gli spiriti continuavano a fissarla ansiosi.
« Non potrà mai accadere, se tutto questo sarà distrutto » dichiarò infine. « Non posso restarmene con le mani in mano... non posso restare nel mio angolo ad aspettare che tutto finisca. Devo agire, ora, prima che tutto vada perduto. »
Gli spiriti rimasero esterrefatti da quella risposta.
« Non puoi fare nulla, sorella » disse Sam, restando calmo. « Combattere è inutile, lo sai meglio di me. »
« Oh, ma io dispongo di ben altre risorse, oltre alla mia forza. Finora le mie tentazioni non hanno mai fallito... sono certa che potranno ancora servire a qualcosa, in questo mondo spezzato. Non m’importa di fallire o morire, non mi fermerò finché non avrò tentato almeno una volta. »
Lilith fissò il fratello con i suoi occhi da serpente; una lingua biforcuta scattò fuori dalla bocca per un istante, sufficiente per turbare Sam e tutti gli altri spiriti. Il velociraptor sospirò.
« Non posso impedirtelo. Tu sei venuta da me in cerca di consiglio, e io te l’ho dato. Ora tocca a te farne buon uso... ormai non mi resta che augurarti buona fortuna. »
Lilith annuì.
Gli spiriti si fecero avanti, avvicinandosi ulteriormente alla donna. Simba, Koda, Kenai, Balto, Kuzco, Bambi, Diego, Sid, Manny; camminarono piano intorno a lei, silenziosi, avvolgendola con la loro luce arcana. Nel frattempo la neve si scioglieva sotto i suoi piedi, lasciando il posto ad erba e fiori freschi. Lilith osservò sorpresa il fenomeno: era convinta che su Oblivion non potesse nascere nuova vita... ma mentre ci pensava, l’erba e i fiori appassivano rapidamente fino a seccare.
Gli spiriti lanciarono un’ultima occhiata a Lilith, prima di ritirarsi e svanire definitivamente nella luce.
Solo Sam era rimasto, osservando la scena fino alla fine.
« Che cosa significa? » domandò Lilith.
« Quello era il consiglio dei miei “colleghi” » dichiarò Sam con un sorrisetto. « Le piccole cose diventano grandi... significa che anche un piccolo gesto può fare la differenza. Riflettici sopra, e forse scoprirai cosa puoi fare. »
E senza attendere risposte dalla sorella, lo spirito le voltò le spalle e tornò nella luce, svanendo insieme agli altri spiriti.
 
Più tardi, Lilith aveva preso la sua decisione. Per metterla in pratica si era recata in un nuovo settore di Oblivion, una spiaggia deserta e avvolta dalla nebbia. Tra quelle sabbie trovò un superstite dell’ultima guerra, un eroe: un alieno umanoide dalla pelle blu dotato di coda e tratti somatici felini. Giaceva privo di sensi sulla sabbia, ancora vivo... forse scampato a un naufragio, ma Lilith non poteva esserne sicura.
Importava solo che quell’eroe fosse ancora vivo.
Lilith poteva sentire le emozioni di quell’eroe, che pulsavano deboli nel suo cuore affaticato. L’ultima guerra lo aveva sconvolto... messo a dura, di certo; ancora un po’ e avrebbe perso definitivamente la speranza, la voglia di combattere e di tornare a casa.
A meno che...
Tra quelle emozioni trovò qualcuno. Il ricordo di una persona, molto cara all’eroe. Una donna, naturalmente... ormai era brava a riconoscere simili emozioni. Lei avrebbe potuto spronarlo, spingerlo a rimettersi in piedi... se solo fosse stata al suo fianco anche laggiù.
Ricordando i consigli di Sam e degli altri spiriti, Lilith pensò subito a cosa fare. Sfiorò il petto dell’eroe, collegandosi alle sue emozioni, e con il suo potere le risvegliò. E la voce dell’amata risuonò forte nella testa dell’eroe, che lentamente riaprì gli occhi.
« Ora sono con te, Jake... siamo uniti per sempre. »
« Ugh... Neytiri... »
« ...per sempre... »
« Neytiri! »
Jake Sully aprì gli occhi, urlando a gran voce il nome della sua amata. Ma mentre si alzava a sedere, si rese conto che accanto a lui non c’era nessuno. Nemmeno Lilith, che nel frattempo era andata a nascondersi poco lontano. Osservò la scena soddisfatta, prima di abbandonare la spiaggia.
Lilith lo sapeva bene, ormai: niente funzionava meglio dell’amore per rimettere in piedi un eroe. Ne aveva visti molti, attraverso gli occhi di suo padre, rialzarsi da terra prima che fosse troppo tardi. Grazie all’amore, gli eroi ritrovavano la voglia di vivere, di combattere, di vincere; la voglia di affrontare il nemico fino all’ultimo respiro. E tra quelle rovine c’erano molti eroi sopravvissuti che avevano bisogno di una spinta del genere.
Così Lilith proseguì. Avrebbe trovato gli altri eroi e risvegliato i loro cuori, spingendoli a ricordare ciò per cui lottavano. Avrebbe agito nell’ombra, per non rischiare di farsi scoprire da Nul; era un piano rischioso, ma preferiva correre il rischio piuttosto che farsi da parte per l’ennesima volta. Sam e gli altri spiriti l’avevano convinta a fare una piccola cosa, che forse avrebbe portato grandi benefici in futuro.
Forse era questa la chiave, il modo giusto per affrontare la guerra. Spingere gli eroi a rimettersi in piedi; convincerli a non mollare, per affrontare Nul fino alla fine.
Forse sarebbe bastato. Avrebbe convinto il Padre a porre fine alla guerra.
Spingere gli ultimi eroi a combattere ancora.
Erano l’ultima speranza, una luce ancora accesa nel fondo di un abisso... una luce che, se alimentata, avrebbe annientato l’oscurità e il caos.
E Oblivion avrebbe rivisto la luce, alla fine.
 

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Capitolo 6
*** Alla via così ***


Image and video hosting by TinyPic Alla via così
 
Dopo tutto quello che aveva passato negli ultimi anni, Jack Sparrow doveva farsene una ragione: niente dura per sempre. La pace, per esempio, ma anche il rum. Soprattutto il rum... anche se in quel preciso momento ne aveva ancora una bottiglia piena in mano. Con l’altra invece reggeva il timone della sua nave, la Perla Nera, lottando disperatamente contro il mare in tempesta.
Jack non aveva mai affrontato nulla del genere, neanche nei suoi più folli viaggi con la testa durante una sbornia colossale. Il che era tutto dire per uno come lui, che poteva vantarsi di aver vissuto avventure straordinarie, folli e pericolose. Aveva affrontato pirati non-morti, sirene, cannibali, streghe, divinità, leviatani e mostruosi uomini-pesce; inoltre era morto, per poi ritornare in vita dopo la sua fuga dai confini del mondo.
Non necessariamente in quest’ordine.
Jack Sparrow aveva compiuto imprese incredibili, insomma, sufficienti da bastare per un centinaio di vite... se solo avesse potuto viverle tutte. Ma nemmeno questa immensa collezione d’imprese aveva potuto prepararlo all’abisso in cui ora era precipitato chissà come, insieme alla sua amata Perla. Un abisso ancora più tremendo dello Scrigno di Davy Jones.
Oblivion, il regno spezzato. Un luogo di puro caos in cui precipitavano tutti i mondi conosciuti per mano del suo signore, Nul. Costui si divertiva a sfidare eroi e malvagi sopravvissuti a duelli mortali, in un ciclo di guerre apparentemente infinito.
E Jack Sparrow aveva subìto la stessa sorte. Il campo di battaglia lo circondava, una grande metropoli sommersa dal mare, squassato da onde gigantesche. Il nemico lo attendeva a poca distanza, Davy Jones, il feroce capitano dell’Olandese Volante. Poco importava se costui era morto in un’avventura passata: su Oblivion, la morte perdeva significato insieme a molte altre leggi della natura; e Nul la piegava volentieri per riportare in vita molte carogne, spingendole ad affrontare di nuovo gli eroi responsabili della loro fine.
Davy Jones aveva raccolto la sfida senza pensarci due volte, lieto di assaporare l’occasione di una vendetta. Non era stato Jack a ucciderlo, la volta scorsa... ma quell’eccentrico pirata aveva contribuito parecchio a spedire il suo cadavere nelle profondità del suo stesso scrigno.
Entrambe le navi sfidavano la tempesta, tenendo duro finché potevano. Il suono dei cannoni non bastava a sovrastare il tuono che echeggiava sopra le loro teste. La Perla Nera contro l’Olandese Volante, ancora una volta; le ultime due navi rimaste a galla, mentre le altre che le affiancavano – nelle rispettive fazioni – erano ormai colate a picco.
Jack era rimasto solo. I suoi alleati erano caduti uno dopo l’altro, spazzati via dai cannoni e dalla tempesta: Rufy, Uncino, Kenway, Long John Silver... uomini di altri mondi, canaglie come lui. Pirati. Per questo aveva accettato di combattere al loro fianco... e non gli era dispiaciuto affatto. Ma ora la morte li aveva portati via, lasciandolo da solo.
Un’onda si abbatté sulla Perla, scuotendola da poppa a prua. Jack non riuscì a reggersi, perse la presa dal timone e cadde all’indietro, rotolando per il ponte fradicio. La schiena e la testa urtarono con forza il parapetto, facendogli vedere le stelle per qualche attimo. Tirò un sospiro di sollievo non appena tornò a vederci: se l’onda fosse stata appena un po’ più forte sarebbe volato fuori bordo... e Dio solo sapeva cosa ne sarebbe stato di lui.
Ma Dio non poteva aiutarlo in quel momento. Nessuno poteva aiutarlo. Era da solo... solo contro un nemico ormai troppo vicino. Davy Jones stava muovendo l’Olandese contro di lui: anche quel maledetto era rimasto solo, privo di ciurma e alleati malvagi... ma era ancora una seria minaccia. Poteva quasi vederlo, quell’orrido essere con la faccia da piovra, gli occhi crudeli di un demone degli abissi della peggior specie. Presto gli sarebbe toccato risentire la sua voce, e già immaginava cosa gli avrebbe detto:
« Jack Sparrow, temi tu la morte? »
E lui avrebbe risposto, ironico: « Capitan Jack Sparrow, prego! »
Perché nessuno se lo ricordava? Perché nessuno si prendeva la briga di pronunciare il titolo di cui andava così fiero? Avrebbe dovuto subire questa beffa anche laggiù, alla fine di tutte le cose?
Questo pensava mentre giaceva sul ponte della Perla, inzuppato dalla testa ai piedi. Il timone era ancora saldo, ma a cosa sarebbe servito rimettersi ai comandi? Era la fine, lo sapeva. Non poteva vincere, né tantomeno uccidere Jones... era troppo stanco per fare qualsiasi cosa.
Forse avrebbe dovuto restare a Burton Castle, pensò con amarezza. Non avrebbe dovuto voltare le spalle a quei simpatici ragazzi che tanto gli assomigliavano. Ma se n’era andato perché non aveva voluto restare; la bussola lo aveva guidato fuori dalla porta, lontano dal castello e dai suoi abitanti.
La bussola!
Jack l’afferrò di nuovo. Che cosa voleva di più in quel momento? L’ago si mosse subito, puntando verso la bottiglia di rum accanto al suo piede. Jack la prese e bevve un sorso abbondante, mentre un lieve sorriso increspava le sue labbra. Guardò ancora la bussola: l’ago si spostò, puntando verso il timone. Il sorriso si allargò. Così, lentamente, con molta fatica, si rialzò in piedi; si aggrappò al parapetto e mosse i piedi in avanti, cercando di non scivolare. Riprese dunque mano al timone, mentre i suoi occhi puntavano di nuovo verso l’orizzonte. L’Olandese Volante era sempre più vicino, pronto per un ultimo, estremo attacco frontale.
Jack sorrise ancora di più. Dopotutto, se quella era davvero la fine di tutto, preferiva andarsene così: dritto e fiero, ai comandi della sua nave, con una bottiglia di rum in mano e una spada stretta nell’altra. Peccato solo che la sua spada fosse spezzata, in quel momento.
« Mannaggia » borbottò seccato. Dove poteva rimediare un’arma più decente in mezzo a quel casino? Non c’era più tempo...
Se solo avesse avuto un’arma migliore, la sua uscita di scena sarebbe stata perfetta.
Fu allora che ripensò a qualcos’altro, o meglio a qualcun altro. Un ragazzo che lo aveva aiutato in passato contro Barbossa, armato di una strana spada simile a una chiave... un’arma in grado di fare cose incredibili e di tornare sempre tra le mani del suo padrone.
In quel momento gli avrebbe fatto proprio comodo, un’arma del genere.
Chissà come si chiamava quel ragazzo, pensò.
« Sara? No... Uhm... Ser... Su... So... Sora! Ma certo... Sora. »
Sora. Il Custode del Keyblade.
Jack chiuse gli occhi, ripensando nostalgico a tutte le imprese passate insieme a quel ragazzo, e tese la mano libera in avanti. Ricordò il momento in cui aveva preso in mano quell’arma straordinaria, pensando a quanto gli sarebbe piaciuto averne una uguale...
Una luce abbagliante si accese sulla mano di Jack, avvolgendolo per qualche istante. Quando essa svanì, il pirata scoprì di avere in mano qualcosa di nuovo... qualcosa d’incredibile.
Era un Keyblade, proprio come quello di Sora, ma con una forma diversa. La lama era sottile e nera, con i "denti" a forma di ancora e la guardia a forma di timone. Alla base della lama vi era un simbolo simile a un medaglione atzeco maledetto, e ce n’era un altro alla base della catena appesa alla guardia. Jack rimase a fissare incredulo la sua nuova arma per alcuni secondi, prima di ricomporsi.
Non capiva come era potuto accadere, così all’improvviso... ma non avrebbe rifiutato un’occasione del genere. Dunque era degno d’impugnare un Keyblade, dopotutto.
« Adesso sì che si ragiona! » esclamò soddisfatto.
Ora Jack Sparrow poteva ritenersi pronto ad affrontare la sua fine. Dritto e fiero, ai comandi della sua nave, con una bottiglia di rum in mano e un Keyblade stretto nell’altra; e avrebbe usato quell’arma per arrecare il maggior dolore possibile al suo nemico, prima di esalare l’ultimo respiro.
« Yo ho! Yo ho! la spada e il corpo e il mare » canticchiò estasiato. « Ahaha! Mi senti, Nul? Spero di sì, perché questo è uno spettacolo che non puoi assolutamente perderti! Osserva bene... perché ricorderai per sempre questo giorno come il giorno in cui... »
BUM!
Una cannonata colpì la Perla in quel momento, facendola sussultare. Evidentemente l’Olandese aveva ancora qualche palla di cannone.
« ...capitan Jack Sparrow » completò Jack, seccato.
La nave di Jones incombeva di fronte a lui, imponente bestia di legno dotata di fauci. Anche senza la sua ciurma e il potente Kraken, con l’Olandese ai suoi comandi riusciva ancora ad incutere timore a chiunque.
Ma Jack Sparrow aveva già perso tutto, quindi non aveva più nulla da temere.
Il pirata bevve quindi un altro sorso di rum, gettò via la bottiglia e puntò in avanti il suo Keyblade.
« Yo ho, beviamoci su!! »
Era tempo di farla finita, una volta per tutte. E alla fine, sarebbe morto con il sorriso sulle labbra. 

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Capitolo 7
*** L'eterna speranza ***


L’eterna speranza
 
Image and video hosting by TinyPic Il camioncino sfrecciava lungo la strada da quasi due ore, muovendosi attraverso un territorio sempre uguale. Ovunque i suoi passeggeri voltassero lo sguardo, infatti, non vedevano che pura desolazione: nient’altro che una distesa di terra e rocce, arida e spoglia come un deserto. Tutto parte di uno scenario molto più grande, naturalmente: quel territorio non era che uno dei molti frammenti che componevano quel mondo di caos e desolazione, noto a tutti con il nome di Oblivion.
Oblivion, la morte di tutto. Un abisso oscuro in cui tutte le cose trovavano la loro fine. Nulla trovava scampo all’opera di distruzione voluta da Nul, signore indiscusso di quel limbo; ogni battaglia organizzata su Oblivion procurava un numero incalcolabile di morti, e la distruzione dei loro mondi di appartenenza.
E la stessa sorte era capitata ai due personaggi che ora vagavano su quella landa desolata a bordo dello sgangherato camioncino.
L’uomo al volante era un ragazzone dai capelli bruni e il viso lentigginoso; aveva un fisico da giocatore di football, e in quel momento indossava una canottiera e un cappello rosso. Il suo nome era Bill, proprio come suo padre e suo nonno; Bill Terzo, come qualcuno si divertiva a chiamarlo ai vecchi tempi.
Bill continuava a guidare, impegnando ogni fibra del suo corpo a non interrompere quest’azione. Cercava di guardare avanti, ma ogni tanto lanciava occhiate ansiose al sedile del passeggero, dove giaceva la persona che lo accompagnava nel suo viaggio. Si trattava di una bellissima donna dai lunghi capelli dorati e la pelle candida, vestita con ciò che un tempo era stata un’elegante veste bianca. Lei si chiamava Kelda, nobile dama del regno di Asgard. In quel momento versava in brutte condizioni: una ferita ancora fresca spiccava dal suo fianco, cosa che nelle ultime ore l’aveva indebolita di molto.
Sicuramente ora vi starete chiedendo cosa ci facesse un umano in compagnia di un’asgardiana ferita tra le terre caotiche di Oblivion. Si dà il caso, in effetti, che Bill e Kelda si fossero conosciuti alcuni anni prima in un luogo molto più tranquillo, nella ridente cittadina di Broxton in Oklahoma. All’epoca, Asgard era stata ricostruita nei pressi di quel paese, a seguito dell’ultimo Ragnarok che il regno aveva dovuto affrontare... ma questa è un’altra storia. Sta di fatto, comunque, che tra Bill e Kelda era stato amore a prima vista (più o meno): un amore profondo, intenso, tale da colmare l’abisso che separava la natura di entrambi.
Lei, dea immortale di un regno antico; lui, umile e onesto lavoratore presso la tavola calda di famiglia. Pochi avrebbero scommesso sul felice proseguimento di una storia del genere. Il nonno di Bill aveva un detto: “Un uccello può amare un pesce, ma dove si costruirebbero una casa?”
“Sul bordo del fiume” fu la risposta, fornita a Bill da un giovane forestiero poco dopo aver conosciuto Kelda. Era stato questo a incoraggiare il mortale a seguire quella strada... la strada verso Asgard e la sua bella dama.
Le cose erano andate bene fra i due, anche se i pericoli non avevano mancato di minacciare la loro vita. Perché Asgard era da secoli fonte di guai: il regno degli dèi era un faro di eterna luce attraverso le tenebre, ma oltre alle navi attirava anche nemici e guerra, più in fretta di un Pokémon in un parco pubblico. E Bill e Kelda si erano ritrovati spesso nell’occhio del ciclone: una serie di sventure che avevano messo a repentaglio il loro legame e la loro stessa vita. Ma nonostante tutto erano riusciti a restare insieme, fino alla morte e persino oltre, uniti all’eterno banchetto degli eroi caduti nel Valhalla.
Ma nessun mondo era al sicuro dalla Volontà Suprema, nemmeno Asgard. Così anch’esso era precipitato su Oblivion, insieme a tutti i suoi abitanti. Molti erano morti subito, ma Bill e Kelda erano sopravvissuti; ben presto si erano trovati a combattere in una guerra al fianco dei signori di Asgard, contro un vasto esercito di nemici richiamati dal diabolico Nul.
E avevano perso. Bill e Kelda, nonostante avessero lottato con valore, non erano riusciti ad aver ragione del nemico, e ben presto erano stati costretti a fuggire, dopo che il più grande eroe di Asgard era sparito alla vista di tutti. Avevano assistito impotenti al crollo della città, per poi tentare la fuga tra le vie di una metropoli molto più cupa, abitata da uomini senza volto; avevano proseguito, lasciando la città con il primo mezzo di trasporto dotato di benzina.
Ora i due disperati amanti erano in viaggio, inseguendo l’ultima speranza di salvezza.
« Ti senti meglio? » chiese Bill a un certo punto, dopo aver lanciato l’ennesima occhiata alla sua amata.
« Sì » rispose Kelda con un debole sorriso. « Guarisco in fretta, lo sai. »
Bill annuì, e la prese per mano sorridendo a sua volta. Quel tocco gentile fece dimenticare il dolore e lo sconforto, ma solo per pochi attimi; subito dopo, infatti, accadde qualcosa che cancellò il suo sorriso.
Il camioncino si era fermato, e Bill non tardò a scoprire il perché: l’indicatore del carburante parlava chiaro... era finita la benzina.
« Maledizione » brontolò il giovane, rassegnato. « Speravo che la benzina durasse un po’ di più! Ora come faremo? Siamo ancora in mezzo al nulla... dovremo proseguire a piedi. »
Kelda si sporse in avanti, osservando il paesaggio che non era mutato di una virgola.
« Non importa » dichiarò, guardando in avanti. « Ormai siamo vicini, lo sento. »
« Ne sei sicura? »
« Lo sono, invero. »
Bill scrollò le spalle, sperando che Kelda avesse ragione. Perciò, non avendo altra scelta, scese dal mezzo e raggiunse Kelda dall’altra parte, aprendo la portiera. Lo sguardo dell’uomo cadde inevitabilmente sulla ferita della dea, che tuttavia aveva smesso di sanguinare già da un pezzo; anche per un’asgardiana di alto rango come lei non era facile né rapido riprendersi da simili danni. Appariva ancora debole, eppure continuava a sorridergli.
« Ce la fai a camminare? »
« Credo di sì » rispose Kelda, « ma non abbastanza in fretta. »
« D’accordo... allora ti porterò io. »
E senza aspettare un permesso o una risposta qualsiasi, Bill la prese in braccio, tirandola fuori dal camioncino. L’asgardiana ne rimase assai sorpresa, ma poi, mentre s’incamminavano verso la giusta direzione con lei tra le braccia, il suo sorriso si fece più largo.
Bill se ne accorse poco più avanti.
« Che c’è? » chiese.
« È la prima volta... » ammise Kelda, « la prima volta che mi trovo tra le braccia di uomo... sostenuta dalle sue forti e amorevoli braccia. Non era mai accaduto, prima d’ora. »
« Hehe... davvero? Be’, mi pare strano... eppure avrai conosciuto parecchi altri uomini prima di me. Possibile che nessuno ti avesse mai presa in braccio? »
« Nessuno, che fosse dio o mortale, mi ha mai concesso questa gentilezza. »
« Nemmeno tuo padre? »
« Non ho memoria di quei giorni lontani... ma non importa. Sei tu, mio William, tutto ciò che ora importa davvero. »
Kelda posò dunque una mano sulla guancia di Bill, accarezzandogliela. Sarebbe stato un momento estremamente romantico, se non fosse stato per la desolazione che li circondava, il cielo grigio e il sangue che imbrattava le candide vesti dell’asgardiana. Bill ricordò tutto questo e proseguì, continuando a trasportare la sua amata; fu sorpreso nel rendersi conto che lei pesava meno della spada e del fucile che portava con sé nel frattempo... armi che finora lo avevano protetto, ma non gli avevano permesso di trionfare sul nemico.
Kelda aveva ragione, avevano bisogno di un potere superiore per vincere la guerra. La sfida di Nul aveva regole precise: dovevano eliminare i loro nemici, e in cambio sarebbero tornati a casa. Dopo tutto quello che avevano passato non aspettavano altro, ed erano pronti a tutto pur di risvegliarsi dall’incubo.
I due proseguirono per circa un quarto d’ora, finché davanti a loro non apparve qualcosa di nuovo. Bill smise di camminare non appena fu di fronte all’orlo di un grande cratere circolare. Qualcosa lo aveva provocato di recente, forse un meteorite, ma da quella posizione non riusciva a stabilirlo.
« Ci siamo » dichiarò Kelda, guardando verso il fondo del cratere. « Siamo arrivati... percepisco la Forza di Odino provenire da laggiù. L’ultima fonte rimasta del potere del mio popolo. »
« Uhm... credi che si tratti di Thor? » domandò Bill ansioso. « Sarà ancora vivo? »
« Deve esserlo, poiché infatti ne sento il potere ancora attivo nelle vicinanze. Ora puoi mettermi giù, caro William... posso camminare di nuovo. »
L’uomo obbedì, e insieme scesero giù per il cratere con molta cautela. Bill aveva ripreso mano alle armi, guardandosi intorno; Kelda fece altrettanto, pur non avendo bisogno di spade o fucili per difendersi.
Ciò per cui avevano fatto tanta strada apparve finalmente davanti ai loro occhi, al centro del cratere. Ma non era ciò che si aspettavano di trovare. Kelda, inorridita, cadde perfino in ginocchio quando riconobbe ciò che vide.
Un martello giaceva al centro del cratere, nient’altro. Un grosso martello fatto di uru, materia estratta dal cuore delle stelle e pressoché invincibile. Giaceva intatto di fronte ai due amanti, recando sulla sua superficie una scritta leggibile:
 
Chiunque impugnerà questo martello,
se ne sarà degno,
otterrà il potere di Thor.
 
« No... » sussurrò Kelda, sconvolta. « Non era questo... non era questo che speravo di trovare. Quando ho percepito la Forza di Odino, speravo... speravo di trovare Thor... o lo stesso Padre di Tutti... ancora vivi! Ma questo... questo inutile strumento... annienta ogni speranza rimanente. »
Bill rimase in piedi al suo fianco, meno sconvolto di lei ma altrettanto rassegnato. Sapeva bene quanto Kelda che non potevano farci nulla con quel martello: esso era Mjolnir, il Martello di Thor. L’arma suprema di Asgard, ricolma della Forza di Odino, che aveva sconfitto e fatto tremare di paura interi popoli in tutto l’universo. Ma per impugnare quell’arma bisognava esserne degni, come diceva la stessa iscrizione fatta da Odino in persona. E solo Thor, in secoli di storia, era stato degno di sollevare Mjolnir.
Solo la morte era capace di tenere lontano il Dio del Tuono dal suo martello... e dal momento che di lui non c’era traccia nei paraggi, la realtà poteva essere solo quella.
Che cosa potevano fare, ormai? Sperduti in una landa desolata, senza benzina e con un martello impossibile da sollevare, Bill e Kelda non riuscivano a vedere altre soluzioni per cavarsela. Per un po’ rimasero in silenzio, vittime dello sconforto, lasciando che vento e polvere fossero i padroni della situazione.
E poi, una nuova disgrazia giunse alle loro spalle.
Bill e Kelda si voltarono, mentre una risata beffarda echeggiava per tutto il cratere. Tra le rocce si stagliava ora un nuovo individuo: un uomo dai lunghi capelli neri e gli occhi verdi; verde era anche l’abito che indossava, e un elmo dorato con due corna ornava la sua fronte. Costui rideva beffardo, nonostante apparisse in condizioni assai gravi: gli mancava tutto il braccio destro, come se una forza immensa glielo avesse incenerito. L’altro braccio reggeva uno scettro malconcio dalla punta affilata, con il quale cercava di restare in piedi.
E nel frattempo rideva di gusto, rivolto ai due amanti accanto al martello.
« Chi diavolo è quello? » chiese Bill, incerto.
« Riconoscerei quella risata ovunque » mormorò Kelda, sconvolta più che mai. « La voce del serpente, fonte dei peggiori mali mai accaduti alla splendente Asgard. Invero tu sei Loki, l’ingannatore! »
Loki non rispose, continuando piuttosto a mantenere quel ghigno beffardo.
Bill trasalì per lo stupore, dopo aver udito tale verità. Loki! Figlio di Laufey, sovrano dei Giganti di Ghiaccio di Jotunheim. Adottato da Odino molti secoli fa, divenuto di fatto fratellastro di Thor.
« E tu sei Kelda, nata di luce e cielo, di albe e vento » dichiarò infine Loki, avanzando di qualche passo. « Mentre tu sei Bill, figlio di Bill, figlio di Bill. Bill Terzo di Broxton. Bene, è proprio il caso di pronunciare un detto di voi mortali: “Il mondo è davvero piccolo”... anche se invero non camminiamo più su Midgard. »
Loki era noto nei miti come il dio degli inganni e delle malefatte, ma la realtà era ben diversa: Loki non era dispettoso, era malvagio. Aspirava al potere supremo, a spodestare Odino e a regnare su Asgard e su tutti i Nove Mondi. Questo era sempre stato il suo massimo obiettivo, fin da quando era ragazzino... e attraverso i suoi diabolici inganni aveva attentato innumerevoli volte all’equilibrio del Regno Splendente. Da lungo tempo era diventato nemesi di Thor, sebbene questi avesse sempre avuto pietà di lui... e questa sua inguaribile indulgenza aveva permesso a Loki di continuare a minacciare Asgard.
E Bill e Kelda erano caduti vittima in uno dei suoi ultimi piani. All’epoca Loki aveva sembianze ben diverse, per questo non lo avevano riconosciuto subito... ma ciò non cambiava la realtà dei fatti: l’Ingannatore era responsabile di gran parte delle loro sofferenze passate.
Bill si fece avanti, puntando la spada contro Loki.
« Stà indietro, bastardo! » urlò. « Non provare ad avvicinarti ancora. »
« Oh... pensi di incutermi timore con così poco? » commentò Loki. « Con una vecchia lama asgardiana e un po’ di tipica spavalderia americana? Anche se sono gravemente ferito, ho ancora potere sufficiente per ricordarti quanto ti sono superiore. »
Lo scettro brillò di azzurro, minacciando di colpire. Kelda si fece dunque avanti, ponendosi al fianco del suo amato.
« Non dimenticarti di me, ingannatore » dichiarò lei con voce dura. « Anche se non sono Thor, posso dominare anch’io la furia del cielo e della tempesta. Perciò attento... avanza ancora di un passo e scatenerò questa furia su ciò che resta di te! »
Loki si fermò, osservando la coppia che aveva di fronte. Bill e Kelda mantenevano la posizione, l’uno a fianco dell’altra, pronti a combattere insieme fino alla fine.
« L’amore » commentò con aria teatrale. « La più grande ed eterna delle illusioni! Un inganno che persino io fatico a comprendere. La forza che ha piegato la volontà di uomini e dèi per generazioni, spingendoli verso il dolore e la rovina. E mio fratello non ha forse conosciuto simili dolori, quando donò il suo cuore alla mortale guaritrice di Midgard? Proprio lui, Thor, bramato da donne e dee ben più degne, preferiva piuttosto le attenzioni di una sciocca farfallina dalla breve vita.
« Voi non siete da meno, giovani piccioncini... il vostro legame è solo fonte di enormi pene. »
Bill sospirò seccato.
« Perché voi asgardiani dovete parlare sempre così complicato? Non potete pretendere che tutti siano costretti ad ascoltarvi con un dizionario dei sinonimi in mano! Senza offesa, Kelda » aggiunse, rivolto a lei.
« Va tutto bene, mio caro. »
Loki ridacchiò ancora, sempre più divertito.
« Ad ogni modo » aggiunse Kelda, « dubito che tu sia venuto fin quaggiù per insegnarci inutili menzogne sull’amore, Loki. Rivela le tue intenzioni, dunque! »
« Sì, sputa il rospo! » esclamò Bill.
Loki non rispose subito, aspettando di smettere di ridere.
« Haha... non è evidente? » fece. « L’oggetto del mio desiderio è alle vostre spalle. Ora che Thor è finalmente fuori dai piedi, ho l’occasione per impadronirmi di Mjolnir. »
Bill e Kelda si voltarono, osservando per un attimo il martello.
« Questo tuo inganno è privo di ogni senso, Loki » dichiarò Kelda, tornando a fissarlo minacciosa. « Conosco bene l’oscurità che ottenebra il tuo cuore marcio. Tu non sei degno di sollevare il Martello, e mai lo sarai! Non potrai sottrarre Mjolnir da questo posto. »
Loki rise ancora. Era davvero irritante, persino per il nulla che li circondava.
« E chi ha parlato di prenderlo? » ammise l’ingannatore. « Ricordo questa piccola seccatura, ma poco importa. Ciò che importa è che sono arrivato qui, affinché possa dimostrare il mio operato al signore di questa guerra. Nul ha promesso di ricondurmi a casa e al trono che mi spetta, qualora avessi trionfato sul mio avversario... e ritengo che la presenza di Mjolnir al mio fianco sia prova sufficiente di tutto il trionfo. »
Bill e Kelda rimasero ad ascoltare fino alla fine, impietriti per l’orrore.
« Tu sei pazzo » concluse Bill.
« Uhm... io preferisco definirmi complicato » rispose Loki, alzando le spalle. « Ma non mi aspetto che possiate capirmi, né invero m’importa. Ora, preferite farvi da parte con i vostri piedi... o mi costringerete ad annientarvi? »
Fece un altro passo avanti, zoppicando. Bill e Kelda non avevano mai abbassato la guardia, perciò si apprestarono a sferrare il primo colpo... ma non fu necessario. Un nuovo imprevisto impedì l’avvento di un possibile scontro mortale.
« Tu non farai un bel niente, Loki! »
Una voce ignota, proveniente dall’alto, attirò l’attenzione dei presenti. Loki, Bill e Kelda alzarono lo sguardo, appena in tempo per vedere un nuovo individuo atterrare a poca distanza da loro: era di altezza e corporatura normali, vestito con un lungo soprabito bianco dotato di cappuccio che gli celava completamente il volto. Due grandi ali nere spuntavano dalla sua schiena, cosa che gli aveva permesso di volare fino a poco prima.
Alla sua vista, Loki s’inginocchiò.
« Potente Nul » mormorò con tono rispettoso. « Benvenuto, mio signore. »
Bill e Kelda si scambiarono un’occhiata sconvolta, nel sentir pronunciare quel nome. Nul! Non lo avevano mai incontrato prima di allora, ma dopo tutto ciò che avevano sentito sul suo conto avevano ben ragione a temerlo.
Nul, tuttavia, non badò assolutamente ai due innamorati, preferendo piuttosto rivolgere tutta l’attenzione sul dio degli inganni.
« Bah... te l’ho già detto l’altra volta, quando ti ho reclutato: i tuoi fottuti convenevoli non m’impressionano affatto » gli disse con voce glaciale. « La tua falsa gentilezza è inutile quanto un pezzo di carta igienica sotto i miei stivali... perciò risparmia il fiato, ingannatore, e usalo soltanto per dirmi qualcosa di utile. »
« Ehm... come desideri. In effetti stavo per chiamarti, Nul, perché tu potessi constatare il risultato della mia sfida. Mio fratello Thor è morto... e tutto ciò che resta di lui giace quaggiù. »
Indicò Mjolnir con aria soddisfatta. Nul guardò il martello a sua volta, restando tuttavia impassibile come un manichino. Bill e Kelda restavano in silenzio in disparte, quasi dimenticati, in attesa di un verdetto a loro favorevole.
« Bene » dichiarò infine Nul dopo una pausa. « Allora non mi resta che farti le mie congratulazioni, Loki, figlio di Laufey. Sei sopravvissuto. La tua guerra è finita. »
« Grazie, mio signore. Manterrai dunque la tua promessa? Mi riporterai ad Asgard? »
« Oh, ti manderei volentieri in un posto migliore di questo, Loki... se tu fossi realmente in ginocchio di fronte a me! »
Nul si voltò di scatto. Bill e Kelda lo videro sollevare una mano e stringerla intorno a semplice aria, come se avesse appena afferrato qualcosa d’invisibile. Nel frattempo, il Loki che avevano di fronte svanì nel nulla... e un altro Loki riapparve dove Nul si era voltato. L’incappucciato lo teneva stretto per la gola, sollevandolo dal terreno con facilità.
Kelda cominciò a capire. Loki era il dio degli inganni, dopotutto, e amava colpire di sorpresa i nemici con le sue illusioni. Evidentemente Nul se n’era accorto, e ora aveva appena dissolto l’illusione dietro cui si era celato Loki. L’ingannatore lo fissò sbalordito, mentre scalciava inutilmente per non soffocare... ma nelle sue condizioni non riuscì a opporre alcuna resistenza.
« Sorpreso, Loki? » disse Nul divertito. « Bene... in effetti trovo molto divertente l’idea di aver appena ingannato lo stesso dio degli inganni! Anche se, a dire il vero, ti avevo ingannato fin dall’inizio. »
« Co... cosa? » ansimò Loki.
« Eh già. Riportarti ad Asgard? Come se io ne fossi davvero capace. È tempo che tu capisca l’unica, vera realtà di Oblivion: non c’è vittoria per voi... e non c’è ritorno. »
« No... tu... avevi promesso... »
« Lo so... e ti ho fregato alla grande. Buon viaggio all’inferno, viscido rompiscatole. »
Crack.
Nul lasciò la presa, e Loki cadde a terra morto, sotto lo sguardo incredulo di Bill e Kelda. L’incappucciato gli aveva spezzato l’osso del collo come fosse un ramoscello secco. Non era una realtà facile da accettare: Loki, il dio degli inganni, eterna nemesi di Thor e flagello degli Aesir, era stato appena ucciso con una facilità inaudita.
Nul osservò compiaciuto il cadavere di Loki ancora per un po’, prima di rivolgere la sua attenzione sulla coppia di sopravvissuti. Bill e Kelda rimasero in guardia, tenendosi nel frattempo per mano.
« Bene... devo ammettere che sono molto sorpreso di vedere voi due da queste parti » dichiarò Nul, usando un tono molto più gentile. « Kelda Grantempesta e Bill Terzo. Una gran bella coppia di romanticoni, sopravvissuti al caos e alla guerra... almeno fino a oggi. »
Bill alzò un poco la spada.
« Che cosa vuoi da noi? » domandò.
« Porre fine alla vostra inutile resistenza. Credetemi, mi dispiace davvero che dobbiate subire tutto questo: sebbene l’uccisione di Loki mi abbia dato una gran soddisfazione, non c’è nulla di personale nelle mie azioni. Tutto deve finire: così ha deciso la Volontà Suprema. »
« Dunque vorresti ucciderci » intervenne Kelda. « Se così fosse, avresti potuto lasciare che fosse Loki a infliggerci il colpo mortale! Ho udito le voci sul tuo conto, Nul, e ho appreso che non ami intervenire di persona sul conflitto che hai scatenato. Perché, dunque, ora ti muovi contro di noi? Perché hai impedito a Loki di ucciderci? »
« Perché conoscevo bene Loki, e la sua abitudine di tormentare le sue vittime. Sono intervenuto appena in tempo per risparmiarvi l’atroce e lenta agonia che altrimenti avreste subìto per mano di quel folle. Io, invece, sono molto più discreto, e non amo perdere tempo quando uccido... soprattutto quando si tratta di eroi del vostro calibro. »
Nul cominciò ad avanzare verso la coppia, disarmato eppure minaccioso quanto un cataclisma. Bill e Kelda rimasero immobili, dominati dall’incredulità per quanto stava accadendo.
« Vi prometto che non sentirete niente » annunciò l’incappucciato, « quindi spero che possiate considerarlo un favore. Mi dispiace, davvero. »
Si alzò il vento all’improvviso. Nul fermò il suo avanzare, sorpreso: evidentemente non era opera sua, ma Bill si rese conto ben presto della verità. Al suo fianco, Kelda stava manifestando il suo vero potere: una lancia di ghiaccio apparve tra le sue mani, mentre il vento vorticava sempre più forte intorno a loro.
« Non so che farmene del tuo dispiacere, distruttore di mondi » dichiarò la dea, furiosa. « Né di quella che tu consideri pietà! Da quando sono finita su questo mondo insieme al mio amato, non ho fatto altro che subire una lunga sequela di disgrazie... ma non mi sono mai piegata ad esse! Perciò ti farò vedere, Nul, che gli asgardiani si arrendono solo dopo aver esalato l’ultimo respiro! »
Bill fissò la sua amata con orgoglio, stringendo la presa sulla spada. Kelda era ormai guarita completamente, per questo ora era di nuovo capace di sfoggiare il suo grande potere.
Nul rimase immobile, incurante del vento gelido che sferzava il suo abito bianco; nonostante l’ombra che celava il suo volto, era comunque evidente che fosse impressionato dal coraggio dimostrato dai suoi avversari.
« Come preferite, milady » disse. « Vi concederò una degna morte, se tanto ci tenete. »
Kelda reagì subito dopo. Alzò la mano libera, scagliando una raffica di vento contro il nemico. Nul si protesse con le sue ali, impedendo a un gran numero di schegge di ghiaccio di perforare le sue membra. Si accorse troppo tardi che era solo un diversivo: Kelda si era nel frattempo alzata in volo, evocando un vortice d’aria che fece abbattere sull’incappucciato. Nul lo schivò per un soffio, spiccando il volo a sua volta; una lancia di ghiaccio apparve sulle sue mani, identica a quella di Kelda. L’asgardiana ne fu sorpresa, ma riuscì comunque a difendersi dal successivo contrattacco di Nul. Le due lance cozzarono l’una contro l’altra, strette fra le mani dei loro padroni.
Bill era rimasto a terra, incredulo. Kelda era in pericolo, ma non sapeva come aiutarla finché la lotta avveniva così in alto. Abbassò lo sguardo: accanto a lui giaceva ancora Mjolnir, immobile al centro del cratere. L’arma più potente di Asgard... se solo avesse potuto usarla!
« Aaaaah! »
« Kelda! »
Nul aveva colpito la dea, trafiggendole la spalla con la lancia. Il colpo fu tale da scaraventarla a terra con forza, lontano da Bill. L’incappucciato atterrò subito accanto a lei, osservando ciò che aveva appena fatto.
Kelda era ferita, ma ancora viva... ancora intenzionata a lottare. Cercò di rialzarsi, sotto lo sguardo glaciale di Nul.
« Ti sei battuta con onore, asgardiana... proprio come Thor » dichiarò lui, gelido. « Ma non puoi battermi, e lo sai. Permettimi dunque di finirti, risparmiandoti ulteriori sofferenze. Arrenditi ora, e ti prometto che avrai una degna sepoltura insieme al tuo amato. »
Kelda sputò sangue, rivolgendo uno sguardo furioso a Nul.
« Che cosa hai fatto al figlio di Odino? »
« Ciò che andava fatto » rispose Nul. « Abbiamo combattuto, e anche a lungo. Thor era pronto a morire, per proteggere ciò che restava di Asgard su questo mondo. Gli ho concesso di battersi fino all’ultimo respiro... e infine è caduto, come suo padre e molti altri prima di lui. Come ti ho già detto, non c’è nulla di personale nelle mie azioni... eseguo solo il volere di mio padre. »
Si chinò su Kelda, afferrandole il bel viso insanguinato. La dea giurò di sentirlo sospirare, mentre le accarezzava i capelli.
« Così bella... così forte. Vorrei tanto non doverlo fare... ma non ho altra scelta. »
« Noooooo! »
Nul si voltò, appena in tempo per vedere Bill correre come un pazzo verso di lui. La spada del giovane colpì la lancia di ghiaccio, spezzandola in due; Nul cadde all’indietro per la sorpresa, mollando la presa su Kelda. Si rialzò in piedi senza sforzo, mentre l’asgardiana veniva soccorsa dal suo amato.
« Kelda... stai bene? »
« Sì... grazie, William. »
Nul scoppiò a ridere osservando i due amanti, stretti ognuno tra le braccia dell’altro. La sua risata parve spezzare il momento magico che si era creato.
« Però, devo ammettere che Loki aveva ragione, almeno su una cosa » disse. « L’amore è un’eterna illusione. Fa svalvolare uomini e dèi, li spinge tutti verso il dolore e la rovina. È un sentimento forte... eppure così fragile! »
Detto questo evocò una spada, identica a quella di Bill. Si scagliò quindi sull’uomo, che tuttavia parò il colpo con la sua arma.
« Bastardo... non ti permetterò di farle del male! Non me la porterai via! »
« Non temere, non lo farò » disse Nul. « Vi condurrò in un luogo dove potrete giacere insieme, per l’eternità. »
L’incappucciato ebbe la meglio. Il suo attacco spezzò la difesa di Bill, insieme alla spada; il ragazzo cadde all’indietro, atterrando proprio accanto al martello di Thor. Nul rimase ad osservarlo, senza attaccare ancora.
« Così mettete a dura prova la mia pazienza » dichiarò, alzando un poco la voce. « Ammiro i vostri sentimenti, non posso negarlo... ma non vi salveranno da tutto questo. Niente vi salverà! La vostra vita, la vostra storia... il vostro amore... svaniranno nel nulla eterno! »
Kelda si rialzò in piedi in quel momento, attirando l’attenzione del nemico.
« Sei libero di ripetere la tua cantilena all’infinito, distruttore... ma io e il mio amato non ci arrenderemo. Non ci spaventa la morte, né l’oblio, poiché invero li abbiamo già subiti entrambi. Ma se proprio dobbiamo subire questo fato ancora una volta, allora lo accoglieremo in piedi... e non ai tuoi piedi! »
Nul non rispose, lasciando parlare piuttosto il suo potere. Una nuova lancia di ghiaccio apparve sulla sua mano, pronto a sferrare un colpo decisivo...
Wham.
Qualcosa colpì Nul alle spalle, con una forza tale da staccarlo dal suolo e spedirlo lontano, rapido come un proiettile. Kelda ne fu sorpresa, ancora di più quando scoprì che quel colpo micidiale era stato sferrato da Bill, forte della nuova arma che impugnava ora tra le mani.
Il martello di Thor.
« William... » sussurrò l’asgardiana, incredula. « Tu puoi... Mjolnir... dunque ne sei degno. Ne sei degno! »
« Uhm, pare di sì » ammise Bill, guardando a sua volta il martello. In un gesto disperato, nel desiderio di difendere l’amata, aveva afferrato quell’arma, scoprendo con enorme stupore di poterla sollevare. Perfino lui stentava a crederci: dopotutto non era mai successo che un barista di Broxton fosse degno di impugnare l’arma di un dio.
Ma lo stupore di entrambi ebbe vita breve, e lasciò il posto all’esasperazione pochi secondi dopo. Nul era riapparso davanti a loro, sospeso nell’aria grazie alle sue ali... apparentemente illeso, nonostante avesse preso un colpo tremendo.
« Sorprendente » dichiarò l’incappucciato. « Non mi aspettavo assolutamente una cosa del genere... eppure, pensandoci bene, è quasi logico che tu sia degno di impugnare quell’affare, Bill. Hai coraggio da vendere, ti sai battere... e sei pronto a sacrificarti per coloro che ami; hai tutte le carte in regola per essere considerato un eroe, insomma... e se non ricordo male, è proprio per questo che ti furono aperte le porte del Valhalla, in passato. Be’, congratulazioni, ragazzo... ora hai il potere di Thor tra le tue mani! »
Bill e Kelda tornarono in guardia ancora una volta. Ormai era chiaro, nonostante le chiacchiere Nul era ancora una minaccia per loro... ma avrebbero continuato a combattere senza timore.
« Ora sì che diventate ai miei occhi dei buoni avversari » aggiunse Nul in quel momento. « Sia chiaro, nonostante tutto vi voglio morti... perché questo non cambia niente. Anzi, mi rende ancora più facili le cose... perché la mia forza proviene da quella del mio nemico! »
La mossa successiva dell’incappucciato lasciò Bill e Kelda di stucco. Sulle mani di Nul, infatti, era apparso un martello, identico in tutto e per tutto a Mjolnir; l’arma emetteva scariche elettriche, come se a impugnarlo fosse il Dio del Tuono in persona.
« Come diavolo è possibile? » protestò Bill, fissando la scena esterrefatto. « Perché ora ci sono due martelli? »
« Non lasciarti ingannare, William » spiegò Kelda. « Esiste un solo Mjolnir. Nul è semplicemente in grado di replicare i poteri e le armi altrui, come abbiamo già potuto constatare. Costui non è altro che un volgare imitatore! »
« Heh... può anche darsi » ammise Nul. « Ma guardate fin dove posso arrivare con le imitazioni! »
Spalancò le ali e volò ancora più in alto, mentre sollevava al cielo il martello. Il cielo si fece ancora più scuro, tuonando in modo minaccioso, e fulmini in grande quantità vennero fuori dalle nuvole; si abbattevano tutti su Mjolnir, come attirati da un parafulmine, caricandolo di energia. Tutto il cielo sembrava agitarsi al comando del martello, e i tuoni parevano una grande orchestra guidata dal suo direttore.
« Non avresti dovuto prendere quel martello, Bill! » gridò nel frattempo. « Mi ha permesso di fare questo... perché io, a differenza di te, so tutto ciò che c’è da sapere sul potere di Mjolnir! Io so tutto! So tutto di Thor, e di Odino e di Asgard... e so tutto di voi due! La vostra storia era così bella... e mi dispiace che abbia avuto vita breve. Ma tutto deve finire... e così sarà! »
Nul si apprestava a concludere lo scontro, sferrando un colpo micidiale da cui i due amanti non potevano difendersi. Bill e Kelda ne furono consapevoli, ma non per questo si lasciarono abbattere dallo sconforto. Restarono in piedi tenendosi ancora per mano, fissando il nemico sopra di loro.
« Sei pronto, William? » domandò Kelda.
« Uhm... direi di sì. Mi dispiace, ma purtroppo non credo di poter respingere quell’attacco. Ha ragione lui, non so niente di Mjolnir... non saprei come fare... »
« Non importa. Hai fatto abbastanza... anzi, hai fatto molto di più. Hai combattuto per me, proprio come un tempo... e ne sono felice. »
La dea gli rivolse un sorriso dolce, che Bill si trovò a ricambiare.
« Be’... tanto vale resistere finché possiamo, allora » disse l’uomo. « Non mi va proprio di dare soddisfazione a quel maledetto, sei d’accordo? »
« Lo sono, William. »
« Bene. Sai, dopo l’esperienza nel Valhalla non mi spaventa l’idea di morire di nuovo. Però... non mi era mai capitato di vivere un’avventura del genere. Spero che Nul abbia torto su quella storia del nulla in cui finiremo... e sull’amore. »
Kelda posò l’altra mano sulla guancia di Bill, accarezzandogliela di nuovo. Continuava a sorridere fiera, nonostante fosse vicina la fine.
« Non temere, William » gli disse. « L’amore non è illusione, come Nul crede. L’amore è speranza. Lo è sempre stato, e lo sarà sempre. Un’eterna speranza... una promessa di gioia e pace per tutti coloro che credono nell’amore. Per noi è stato così, in fondo... anzi, lo è ancora. Perciò non temere, amore mio... noi resteremo insieme, qualunque cosa accada. »
Il vento iniziò a vorticare fra i due, evocato da Kelda come protezione. Bill, incoraggiato, sollevò il martello, il quale si caricò di energia; l’ultima difesa prima di scomparire per sempre. Lo sapevano entrambi, era la fine... ma non sarebbero fuggiti.
« Addio » sentenziò Nul, abbassando il martello. Un fulmine enorme fu scagliato contro il suolo, un grande fascio di luce mortale pronto a distruggere per sempre i due amanti; e con loro, tutta l’area. Bill reagì nello stesso istante: un fulmine scaturì dal Mjolnir originale, dritto verso l’alto: la sua potenza bastò per fermare l’avanzata del colpo di Nul, impedendogli di raggiungerli.
Ma l’attacco di Nul si rivelò comunque più forte. Bill lo sapeva, non aveva alcuna speranza per respingere il colpo e restituirlo al mittente. Ma non intendeva mollare per questo, e continuò a resistere, deciso a combattere fino all’ultimo respiro. Al suo fianco, Kelda lo proteggeva, usando tutto il suo potere di asgardiana.
Era così bella, così forte. Bill ripensò al passato, e con orgoglio ammise di non avere alcun rimpianto: non si sarebbe mai pentito di essere giunto ai piedi della splendente Asgard con un mazzo di fiori per Kelda. Certo, forse avrebbe preferito non colpirla in fronte con una pietra per farle avere i fiori... ma per il resto era felice per come fossero andate le cose. Fino ad Asgard, per lei, poi fino a Latveria... e poi nel Valhalla.
Per lei.
Bill Terzo, l’uomo che aveva conquistato il cuore di una dea. C’era di che andarne fieri, dopotutto.
Così, mentre il fulmine del suo martello perdeva potenza, e quello di Nul avanzava spietato contro di loro, Bill si voltò a guardare la sua amata per l’ultima volta, catturando le sue labbra in un ultimo bacio. Lei rispose ad esso, e fu un piacevole oblio... lungo come un istante, breve come un’eternità... mentre la luce li avvolgeva entrambi, conducendoli verso la fine.
Un’eterna speranza.
 
Poco più tardi, era tutto finito. Nul aveva lasciato quella landa desolata, raggiungendo un luogo completamente diverso: un’area che un tempo doveva essere stata un parco pubblico o qualcosa del genere, ormai in rovina. Dove un tempo sorgevano alberi e giostre per i bambini, ora spuntavano dal terreno grossi pilastri di cristallo. Al loro interno, in ognuno di essi, erano rinchiusi coppie di persone, stretti in un abbraccio caloroso.
Nul camminava in mezzo ad essi, portando con sé due corpi: quelli di Bill e Kelda, sue ultime vittime. Anche se a malincuore, aveva deciso la loro sorte fin dall’inizio... fin da quando aveva notato la loro presenza su Oblivion. Nel mondo da cui provenivano, quello di Thor, non erano stati molto importanti: il loro amore, nulla più che una breve storia di contorno... ma che per qualcuno era rimasta nel cuore. Non erano stati dimenticati del tutto, per questo erano sopravvissuti nell’abisso dei mondi distrutti.
Ecco perché meritavano una degna sepoltura, secondo la Volontà Suprema.
Nul non poteva far altro che obbedire agli ordini. Perciò, una volta atterrato tra i feretri di cristallo, non fu sorpreso di trovare un piedistallo vuoto pronto all’uso: lo raggiunse subito, posandovi sopra i corpi di Bill e Kelda. Nonostante avessero preso in pieno un fulmine d’immane potenza, non erano andati inceneriti... ma esso aveva comunque tolto loro la vita.
Nul alzò lo sguardo. Qualcosa cadde giù dalle nuvole in quel momento: una piccola scintilla di luce, come una goccia di sole, che si posò esattamente sul piedistallo. Esso fu avvolto per alcuni secondi da un bagliore intenso; quando svanì, Nul poté vedere un nuovo feretro di cristallo davanti a sé: Bill e Kelda riposavano ora al suo interno, stretti in un abbraccio reso eterno da una forza ignota. Ai piedi del cristallo spiccava inoltre una targa con su scritta un’epigrafe in lingua italiana.
 
Bill Cobb III, l’uomo che amò una dea.
Kelda Grantempesta, la dea che amò un uomo.
Insieme per sempre, anche dopo la morte.
Insieme per sempre, anche alla fine di tutto.
 
Nul sospirò, amareggiato. Un’altra coppia di eroici amanti riposava ora nel Giardino dell’Eterna Illusione, per mano sua. Era costretto a farlo ogni volta che la Volontà Suprema glielo ordinava... ogni volta che aveva a che fare con storie romantiche rimaste nel cuore di suo padre. Storie a cui, per qualche motivo, Egli si degnava di rendere omaggio anche laggiù, nell’abisso in cui precipitavano tutti i mondi e le loro storie.
Non lo faceva con piacere. Nul li invidiava, dal primo all’ultimo. Ogni eroe che riposava in un cristallo stretto alla sua amata aveva qualcosa che lui non aveva mai ottenuto... e che non avrebbe mai assaporato. Amore... ciò che aveva fatto sorridere con orgoglio tutti quegli eroi fino all’ultimo respiro. Ciò che li aveva tenuti in piedi fino alla fine, proprio come Bill e Kelda.
Nul li invidiava... e avrebbe continuato a invidiarli fino alla fine.
Perché valeva la pena vivere in quell’illusione per cui tanto lottavano.

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Capitolo 8
*** L'ultimo sciamano ***


L’ultimo sciamano

Image and video hosting by TinyPic Mi chiamo Melinda Gordon. Sono sposata e abito in una piccola città. Ho un negozio di antiquariato. Sono una persona come voi, tranne che per il fatto che fin da bambina ho scoperto di poter parlare con i morti. Mia nonna li chiamava “spiriti intrappolati sulla terra”, coloro non ancora passati oltre perché hanno dei conti in sospeso con i vivi e vengono a chiedermi aiuto.
Per raccontarvi la mia storia devo raccontarvi la loro.
 
Un’altra battaglia stava volgendo al termine su Oblivion. Un altro massacro; un altro tributo di morti pagato al crudele Nul, signore di quel mondo spezzato. L’aria era impregnata di fumo, il suolo cosparso di macerie, sangue e cadaveri. Gli unici rumori a dominare la scena erano il vento, il crepitare di deboli fiamme e il respiro affannoso degli ultimi due sopravvissuti.
Da una parte c’era il giovane Yoh Asakura, l’eroe. Dall’altra c’era Hao, sua nemesi e fratello gemello: reincarnazione del potente sciamano che da mille anni minacciava il mondo a cui entrambi appartenevano. Entrambi destinati a diventare Shaman King, signore degli sciamani, in grado di cambiare il destino di un intero pianeta; entrambi destinati ad affrontarsi, fino alla morte di uno o dell’altro.
Ed era accaduto, nell’avventura che li aveva resi noti come eroe e malvagio; ora, la Volontà Suprema li aveva costretti a sfidarsi in un nuovo duello, ancora più feroce e spietato.
Ecco perché si trovavano là in quel momento, allo stremo delle forze... unici superstiti di un’atroce battaglia. Avevano dato fondo a tutto il loro potere, tanto da perdere il controllo dei loro spiriti. Hao era il più incredulo fra i due, naturalmente: non si aspettava una simile conclusione... sperava di trionfare dove una volta aveva fallito; e ancora una volta, Yoh Asakura era di fronte a lui, lo sguardo colmo di pace e determinazione.
Si scambiavano un’occhiata sfinita, reggendo con mani tremanti le loro spade insanguinate.
« È finita » dichiarò Yoh, ansimando. « È finita, Hao... non hai più forze. »
« Hah... è vero » ribatté la sua nemesi. « Ma vale... hah... anche per te. Lo sento, fratello... hah... anche tu... hai esaurito tutto il tuo furioku. Non potrai sconfiggermi... in quello stato. »
« Non ho bisogno di altro furioku. Ti ho già sconfitto. »
Hao cercò di ridere, ma gli venne fuori solo una brutta smorfia malvagia, offuscata dalla fatica.
« Sconfitto... ma non ucciso » sibilò. « E io non mi fermerò mai... finché vivo. Io sono Hao... l’unico vero re degli... »
« Dacci... un taglio! » sbottò Yoh, esasperato. « So già tutto di te... perché diavolo continui a ripeterti? Sei davvero... noioso. »
« Allora fermami... hah... cosa aspetti? Hai ancora paura di uccidere... tuo fratello? »
Yoh strinse la presa sulla sua katana, appoggiando la punta al suolo per reggersi in piedi.
« Hai minacciato il nostro mondo per mille anni » mormorò, « rovinato e distrutto chissà quante vite... hai stravolto l’equilibrio della società degli sciamani... e ancora osi ritenerti mio fratello? Certo, avrai pure il suo corpo… ma lì dentro... »
Puntò un dito all’altezza del suo cuore.
« ...sei solo un mostro. »
Hao restò in silenzio per un po’. Difficile dire se le parole di Yoh lo avessero turbato o meno. Dopotutto ne aveva sentite di cose nel corso della sua lunga vita... perché le parole di uno sciocco ragazzino avrebbero dovuto toccarlo proprio adesso?
« Forse... è davvero così » dichiarò infine, abbassando lo sguardo. « È per questo che Nul mi ha arruolato in questa guerra. E tu... sei l’eroe che ha il compito di fermarmi. Perciò diamogli quello che vuole, fratello mio... possiamo sferrarci ancora un ultimo colpo, con le forze che ci restano. Sei pronto... a morire? »
Yoh sorrise, e sollevò la spada come se non aspettasse altro.
« Non sarò mai pronto a morire... ma lo stesso vale per te! »
Hao sollevò la spada a sua volta.
« Muori, maledetto... muori!!! »
Scattarono in avanti nello stesso istante, l’uno contro l’altro. E la morte li colse entrambi pochi istanti dopo, non appena le loro lame trapassarono il petto del proprio avversario.
Un’altra fine, con somma gioia del Mai Nato.
 
Tempo dopo...
Melinda Gordon era giunta al limite. Da quando era precipitata su Oblivion non aveva fatto altro che camminare in avanti, alla costante ricerca di ciò che aveva perduto. Nel suo mondo aveva una famiglia, degli amici... ora era rimasta sola, circondata da nient’altro che rovine. Aveva perso tutto, a parte la speranza: le aveva permesso di continuare a muoversi, giurando di cercare i suoi cari finché ne avesse avuto le forze.
Ora le forze stavano per abbandonarla. Chiunque avrebbe potuto constatarlo, vedendola in quello stato: il suo vestito era lacero, i piedi scalzi e insanguinati, il bel viso sporco e pieno di graffi. Il suo sguardo era spento, come se non vedesse più nulla.
« Jim... Aidan... » sussurrò con il poco fiato che aveva. I nomi del marito e del figlio, ciò che aveva di più caro al mondo. Ciò che Oblivion le aveva tolto.
La donna crollò sulle ginocchia, in mezzo a una distesa di macerie e morti. Poco lontano giacevano le ultime vittime della guerra: due ragazzi identici, riversi a terra nel loro stesso sangue, il petto di entrambi trapassato da una lama. Melinda lanciò loro un’ultima occhiata disperata, mentre la sua vista si offuscava; non aveva più la forza per reggersi in piedi, né per tenere gli occhi aperti.  
Ma riusciva ancora a sentire. Ecco perché un’altra voce attirò la sua attenzione, proprio dove giacevano i due gemelli. Melinda si rese conto di non essere sola: vedeva ciò che gli altri non potevano vedere, grazie al suo dono.
Un uomo dai lunghi capelli argentati, vestito come un samurai, stava in ginocchio accanto a uno dei due ragazzi. Piangeva forte, versando lacrime inesistenti che non bagnavano il suolo. Perché egli era un fantasma, e Melinda Gordon riusciva a vederlo.
Lo spirito piangeva per quel ragazzo. Doveva essere suo amico.
Melinda lo fissò, incapace di poter fare di più.
Il samurai si voltò a guardarla, e lo stupore s’impadronì di lui.
« Tu... » mormorò, asciugandosi il viso. « Tu riesci... a vedermi? »
Melinda annuì debolmente, prima di appoggiarsi al suolo con le mani. Stava perdendo conoscenza, lo sentiva.
« Jim... Aidan... perdonatemi. »
« Ehi, stai bene? » la chiamò il samurai. « Coraggio, non mollare... resta sveglia! »
« Chi... sei? »
« Io sono Amidamaru. Sei una sciamana anche tu? Oh cielo, stai molto male... ma non temere, ti aiuterò! »
« Mi dispiace... non ce l’ho fatta... a trovarvi. »
Melinda chiuse gli occhi, sotto lo sguardo sconvolto di Amidamaru. Le tenebre avevano infine avuto ragione di lei.
 
Quando Melinda riaprì gli occhi, era tutto diverso. Le ci volle un po’ per mettere a fuoco, ma in breve tempo scoprì di stare distesa su un letto in una stanza d’ospedale, senza avere la minima idea di come ci fosse arrivata. La stanza era molto buia, ma riuscì comunque a notare altri letti nelle vicinanze, tutti occupati da persone in stato comatoso. Esaminò le sue condizioni: non sembrava ferita né medicata; al posto dei suoi vestiti indossava un freddo pigiama da ospedale, e c’era la tipica flebo infilata nel braccio. Le gambe erano intorpidite, come se non le muovesse da tempo.
Per quanto tempo era rimasta priva di conoscenza?
Mentre se lo chiedeva, la porta della stanza si aprì: Melinda vide entrare un infermiere, o almeno lo sembrava. Questi non aveva volto, come se fosse un manichino vivente. Era un Senzavolto, un abitante di Oblivion.
Il Senzavolto rimase immobile mentre notava Melinda, unica persona della stanza ad avere gli occhi aperti. Se avesse avuto una faccia, di certo avrebbe assunto un’espressione stupita.
« Ehm... »
Il Senzavolto si avvicinò subito a lei, afferrandola per le spalle.
« Cosa...? Ehi! Lasciami! »
Il Senzavolto non l’ascoltò. Afferrò una piccola torcia dal taschino e puntò la luce verso gli occhi di Melinda, esaminandola. Lei continuò a divincolarsi, ma l’infermiere proseguì nel suo compito, imperturbabile. Il tutto durò una manciata di secondi, poi il Senzavolto lasciò la presa: solo in quel momento si rese conto che quello strano essere aveva appena esaminato le condizioni. Il Senzavolto girò quindi i tacchi e si allontanò, uscendo dalla stanza.
« Che succede? » mormorò Melinda, sconvolta. « Dove sono? »
« Non temere. Sei al sicuro. »
La donna si voltò di scatto. La sua sorpresa fu grande quando vide che un altro individuo si trovava ora accanto al suo letto, fluttuando nell’aria come se mancasse la gravità. Naturalmente Melinda capì subito che era un fantasma, ma la sua memoria impiegò un po’ per darle modo di riconoscerlo. Era Amidamaru, lo spirito del samurai incontrato prima di perdere conoscenza.
« Finalmente » dichiarò lui, sorridendo compiaciuto. « Sei sveglia, finalmente. Ormai temevo di non vederti riaprire mai più gli occhi. »
« Io... cosa? » fece Melinda, confusa. « Ma quanto... per quanto tempo sono rimasta incosciente? »
« Ho vegliato su di te in questa stanza per settantasette giorni. »
Melinda restò a bocca aperta per lo stupore.
« Settantasette...? Mio Dio... ma questo posto... dove mi trovo? »
« In un posto sicuro » rispose Amidamaru. « Un rifugio per tutti i superstiti della grande guerra. »
« Come ci sono arrivata? Mi hai portato tu? »
Prima che Amidamaru potesse rispondere, la porta della stanza si aprì di nuovo. Questa volta entrò un tipo dotato di faccia: appariva come un uomo di mezz’età, alto e dallo sguardo serio, penetrante; indossava una giacca grigia sopra una camicia azzurra senza cravatta, e camminava appoggiandosi a un bastone. Aveva l’aria stanca, come se si fosse appena svegliato.
Melinda rimase a fissarlo senza parlare, incerta sul da farsi. Amidamaru faceva altrettanto al suo fianco, anche perché il nuovo arrivato non poteva vederlo né sentirlo.
« Lei deve essere la bella addormentata che ha deciso di tornare tra noi » dichiarò l’uomo, avvicinandosi al letto con un forte sbadiglio. « Non poteva proprio aspettare l’indomani mattina, vero? »
« Ehm... » fece Melinda, ancora incerta.
« Va tutto bene, sono un medico. Dottor Gregory House, in questo posto comando io. Come si sente? »
« Io... bene, credo. Sto bene, a parte le gambe... riesco appena a muoverle. »
House afferrò una cartella clinica, esaminandola con calma.
« Be’, è naturale dopo due mesi di coma profondo » commentò. « Non si preoccupi, in questo posto si guarisce in fretta... secondo le mie stime le basteranno un paio d’ore per riprendere perfettamente ogni capacità motoria. »
Melinda spostò lo sguardo in varie direzioni, dalle sue gambe ad House, per poi rivolgerlo su Amidamaru. Il fantasma alzò il pollice senza dire nulla, ma il messaggio era palese. Voleva dire che lei poteva fidarsi di quel medico.
« Ricorda il suo nome? Come si chiama? » chiese House in quel momento, attirando la sua attenzione.
« Oh... Melinda. Melinda Gordon. »
« Bene, direi che la memoria è a posto. Il mio verdetto è positivo, signora, perciò posso dirle con sicurezza che si rimetterà molto presto. »
Melinda notò il tono burbero e sbrigativo usato dal dottore, ma non osò replicare. Era tipico delle persone molto indaffarate, il che fece supporre che House fosse così occupato da non poter trattare meglio i pazienti. Eppure aveva un occhio attento: l’uomo doveva aver notato subito la fede nuziale posta al dito di Melinda, perciò aveva pensato di chiamarla “signora” fin da subito.
« Mi dica una cosa, dottore » chiese Melinda, dopo una breve esitazione. « Questo posto... siamo ancora su Oblivion, vero? »
House sospirò.
« Ho paura di sì, mia cara » le rispose. « Immagino che lei sia una delle tante povere anime scelte per combattere in questa guerra... e ne è uscita viva per miracolo. E mi dica, quale sarebbe il suo ruolo? Strega? Cavaliere? Principessa? »
« Uhm, no... io non sono... insomma, io posso solo vedere e comunicare con i... fantasmi. »
House sembrò indifferente alla risposta, e si limitò ad una leggera alzata di spalle.
« Non riesco a ricordare come sono arrivata fin qui » aggiunse Melinda, abbassando lo sguardo.
« Mah » fece House, « di solito è il signor Uchiha a portare qui i feriti più gravi, ma lei non ne ha avuto bisogno: è arrivata con le sue stesse gambe. Non mi sorprende che non riesca a ricordarlo... quando è arrivata era priva di volontà, come in una sorta di trance. Non aveva effetti personali con sé, a parte questa. »
House afferrò qualcosa da sotto il letto di Melinda, e gliela mostrò: era una katana, una spada giapponese. La donna la osservò stupita: era certa di non averla mai vista prima in vita sua. L’afferrò tra le mani, ma poi la mise via.
« Ero in trance, dunque? » chiese.
« Già. In pratica, la macchina camminava, ma al volante non c’era nessuno. »
« Sì... so bene che cosa si prova. Non è la prima volta che mi succede. »
Melinda tornò a guardare Amidamaru. Era pronta a scommettere che lui fosse responsabile del fatto di cui parlavano.
« Bah, come vuole » tagliò corto House. « Sono certo che avrà una storia appassionante da raccontare, signora Gordon... ma sfortunatamente non ho tempo né voglia di ascoltarla. Le consiglio di riposare un altro po’, in attesa di recuperare l’uso delle gambe. Poi sarà libera di andare, qualunque siano i suoi programmi futuri. »
Il dottore si diresse verso l’uscita, ma Melinda lo richiamò.
« Aspetti! È... è mai venuto nessuno a visitarmi? Mio marito? Mio figlio? Li cerco fin da quando sono finita in questo posto maledetto... li ha per caso incontrati? »
House scosse la testa, cupo.
« Mi dispiace. Nessuno è mai venuto a visitarla da che si trova distesa su quel letto. »
Esitò ancora un secondo, poi oltrepassò la soglia, sparendo nel corridoio.
Melinda rimase dov’era, quasi esterrefatta. Lentamente spostò lo sguardo attraverso la stanza, ora più illuminata dopo che House aveva acceso la luce. C’erano altri cinque letti, tutti occupati da altri personaggi in stato comatoso: difficile dire da quanto giacessero su quelle brande; alcuni, inoltre, avevano una mascherina per l’ossigeno applicata al viso. Melinda fissò in particolare il paziente sul letto vicino: era un ragazzino dai corti capelli biondi; un paio di occhiali giacevano sul comodino accanto al letto, coperti da un lieve strato di polvere. Sembrava che dormisse, ma il macchinario che monitorava le sue condizioni ricordava la dolorosa realtà, con il suo bip costante.
« È triste, vero? » disse la voce di Amidamaru all’improvviso. « Vedere tante persone in simili condizioni... sospese sul sottilissimo confine tra la vita e la morte. Sottile, eppure così... immenso. »
Melinda tornò a guardare il fantasma, con aria triste.
« Che cosa sta succedendo? » domandò. « Che cosa mi hai fatto? »
Amidamaru sorrise leggermente.
« È una lunga storia. »
 
Melinda passò le due ore successive a scambiarsi informazioni con il fantasma, mentre recuperava i suoi vestiti e, pian piano, le sue funzioni motorie. Dal racconto di Amidamaru apprese molte cose sul mondo da cui egli proveniva: una Terra pressoché identica alla sua, ma con una presenza maggiore d’individui sensitivi. Questi individui erano noti come sciamani, in grado di vedere e controllare gli spiriti.
Amidamaru raccontò del suo incontro con Yoh, giovane sciamano con cui aveva stabilito un forte legame. Insieme avevano vissuto molte avventure, durante il viaggio che avrebbe condotto il ragazzo al grande torneo degli sciamani. Yoh aveva le carte in regola per diventare un potente sciamano, se non addirittura il leggendario Shaman King... ma il destino aveva posto un grande ostacolo sul suo cammino.
Raccontò di Hao, sciamano millenario reincarnatosi nel fratello gemello di Yoh. Crudele e malvagio, aveva dichiarato guerra al popolo degli sciamani... e avrebbe vinto, se Yoh e Amidamaru non fossero scesi in campo per affrontarlo, insieme a un gran numero di amici e alleati. Perché la forza di Yoh proveniva dall’amore e dal sostegno di molti... mentre Hao era solo, con l’unico supporto del suo spirito implacabile. Così il nemico fu sconfitto, e la pace tornò a regnare sul popolo degli sciamani.
Amidamaru aveva creduto che fosse tutto finito, ma si sbagliava. Non molto tempo dopo la fine della guerra, aveva visto il sorgere di una nuova crisi: aveva visto il mondo intero venire inghiottito dall’oscurità, e al risveglio era cambiato tutto. Lui e Yoh erano finiti su Oblivion, costretti a combattere in una nuova guerra di enormi proporzioni. Dopo un breve viaggio si erano uniti a un folto gruppo di eroi ai piedi del grande albero Nordrassil, un settore di Oblivion, ma lo scontro con Hao li aveva separati dal resto del gruppo.
« Hao era inarrestabile » disse il fantasma, concludendo il suo racconto. « Per contrastarlo, io e Yoh abbiamo dato fondo a tutto il nostro potere, finché le mie forze non sono venute meno. Ero allo stremo quando il mio amico ha sferrato il colpo finale... e non ho potuto vedere la sua conclusione. Quando mi sono ripreso... per Yoh era troppo tardi. »
Melinda vide le lacrime solcare il viso di Amidamaru, in quel momento, scivolando lungo le guance per poi ricadere sul tavolo... ma senza lasciare alcuna traccia. La donna rimase in silenzio, aspettando pazientemente che il fantasma proseguisse.
« Erano morti entrambi. Yoh e Hao... si sono uccisi a vicenda. Io sono uno spirito, so cosa si prova... eppure non ho visto le loro anime lasciare i corpi quando ciò è accaduto. Al mio risveglio c’era solo silenzio e morte. Ero rimasto solo... persino lo spirito guardiano di Hao era sparito, andato chissà dove. Mi sentivo abbandonato, indifeso; non ricordo di aver mai provato così tanto dolore... così tanta paura... in vita mia. »
Altre lacrime interruppero il racconto di Amidamaru. Melinda restò in silenzio, sempre paziente.
I due avevano proseguito la conversazione fuori dalla stanza in cui Melinda era stata ricoverata. In quel momento si trovavano nella mensa dell’ospedale, seduti ad un tavolo accanto alla finestra. Poiché ormai era mattina, il luogo era già occupato da altre persone, ma la donna non ci faceva caso: il suo compagno invisibile versava lacrime di fronte a lei, unica persona in grado di vederlo.
« Non so dire per quanto tempo ho vegliato sul cadavere di Yoh » riprese Amidamaru. « Il tempo non ha significato su Oblivion: i giorni scorrono, ma senza armonia. Per me non cambiava nulla, comunque. Avevo perso tutto, non sapevo dove andare: ero pronto a restare insieme a Yoh finché di lui fosse rimasto qualcosa... ma poi ho visto te. »
Rivolse lo sguardo su Melinda, interrompendo il flusso di lacrime.
« Quando ho capito che eri una sciamana, ho ricordato di essere ancora in grado di fare qualcosa di buono... di utile. Non potevo permettere che qualcun altro morisse in quell’orribile campo di battaglia. Avevi perso conoscenza, ma non era un problema: ho preso possesso del tuo corpo, controllandolo come se fosse il mio. Perdonami, ma mi sono permesso di usare il tuo corpo per fare alcune cose prima di condurti fino a questo posto. »
« Quali cose? » chiese Melinda.
Amidamaru sospirò.
« Non potevo abbandonare il corpo di Yoh come se nulla fosse... così l’ho seppellito. In quanto ad Hao... be’... quell’essere spregevole ha ingannato la morte per mille anni prima che finissimo in questo posto. Così, per non correre rischi, ho fatto a pezzi il suo cadavere con la spada di Yoh. » Il fantasma indicò la katana, che Melinda aveva portato con sé nel frattempo. « Poi ti ho fatto camminare fino all’ospedale, dove ti hanno ricoverata. E poi... be’, lo sai già. »
Amidamaru tacque, giunto ormai al capolinea con il racconto.
Melinda sospirò, divenuta improvvisamente molto triste.  Aiutava i fantasmi da molti anni, ma era impossibile abituarsi a tanta sofferenza: spiriti erranti in cerca di conforto, anime prigioniere di emozioni negative. In attesa di andare oltre, verso la grande luce. Melinda faceva il possibile per aiutarli, ma ogni volta che apprendeva le loro storie, ne condivideva il dolore. Anche ora, anche in un mondo così lontano... e lei aveva già il suo dramma personale da affrontare.
Non aveva mai incontrato un tipo come Amidamaru, in vita sua. Non le capitava spesso di conoscere fantasmi vecchi di secoli. Per lei era terribile l’idea che un’anima in pena vagasse per così tanto tempo in un mondo a cui non apparteneva più.
« Mi dispiace tanto, Amidamaru » si trovò a dire a voce alta. « Vorrei tanto poter fare più di questo. Ormai non ti resta che passare oltre. »
Il fantasma sospirò.
« Credimi... lo avrei già fatto se avessi potuto » rispose. « Ma pare che Oblivion sia una prigione per i morti quanto per i vivi. È come se non esistesse un aldilà su questo mondo... chi muore è condannato a restare qui, indipendentemente dalle sue origini. Io sono un guerriero, non un saggio... ma anche uno come me può rendersi conto facilmente che questo luogo sfugge a qualsiasi comprensione. E a questo punto non mi resta che una domanda da pormi... la stessa che di certo avrai in mente ora anche tu. »
« ...e adesso? » completò Melinda, annuendo leggermente.
« Già. Che fare adesso? Fino ad oggi ho sempre avuto uno scopo. Prima proteggevo Yoh, poi ho protetto te... fino al tuo risveglio. Ora non mi resta più nulla da fare. Immagino che mi toccherà vagare in eterno in questo mondo, finché anch’esso non finirà. »
Melinda esitò per qualche secondo, poi riprese la parola.
« Ti sbagli, hai ancora qualcosa da fare. »
« Sarebbe a dire? »
« Tu hai scelto di proteggermi, Amidamaru. È vero che ormai mi sono ripresa, ma penso di aver ancora bisogno del tuo aiuto. Ho ancora uno scopo: ritrovare mio marito e mio figlio, ovunque siano finiti. Ormai so bene cosa mi aspetta là fuori, e se dovrò tornare a vagare su Oblivion, meglio sapermi muovere con le giuste capacità. Sei d’accordo? »
Il fantasma tacque, sorpreso dalla coraggiosa proposta di quella donna. In quel momento gli parve di parlare con una versione più matura di Yoh, e per questo provò molta nostalgia.
Un sentimento che lo spinse a sorridere.
« Il mio spirito ti guiderà attraverso il tuo cammino » dichiarò.
Appena Melinda ebbe terminato la sua lunga e abbondante colazione, i due si alzarono dal tavolo e s’incamminarono per lasciare la mensa. Lo sguardo della donna cadde per alcuni secondi su un ragazzo che le passava davanti in quel momento: costui era basso e magro; non aveva segni particolari, a parte i capelli grigi come l’argento, lisci e lunghi fino alle spalle. Mentre passava, il ragazzo ricambiò la sua occhiata, fissandola con due occhi che parevano di ghiaccio.
Melinda si fermò, improvvisamente turbata. Il ragazzo, tuttavia, la ignorò e proseguì, dopo aver mostrato un sorriso lieve quanto inespressivo.
« Tutto bene? » domandò Amidamaru.
« Sì... » rispose Melinda, un po’ incerta. « Quel ragazzo... non so perché, ma mi dava una brutta impressione. »
« Già, anche a me, in effetti... ma se si trova da queste parti non può essere pericoloso. Questo è un rifugio per gli eroi, dopotutto. »
Melinda trascorse il resto della giornata in tranquillità, rimanendo all’interno dell’ospedale. Dopo aver verificato sui computer dell’atrio che suo marito e suo figlio non avevano mai messo piede nell’edificio, la donna non vide altra scelta che restare. Le occorreva tempo per ambientarsi, così impiegò le ore successive percorrendo i vari reparti. Ognuno di essi ospitava pazienti di ogni sorta, accuditi dai Senzavolto che obbedivano per qualche ragione al dottor House. Melinda lo incrociò più volte nei corridoi, occupato in mansioni di vario genere.
Numerosi personaggi occupavano i reparti, ricoverati in modo più o meno grave; erano tutti sopravvissuti a qualche battaglia precedente, sconfitti sia nel corpo che nell’anima, in molti casi. Alcuni, agli occhi di Melinda, avevano un’aria stranamente familiare: assomigliavano molto a personaggi visti in tv, o nei libri, o ancora nei fumetti. A un certo punto, per esempio, giurò di aver incrociato Luigi, il fratello del più celebre Super Mario, intento a vagare con aria sconsolata per il corridoio. Ciò contribuiva a rendere ancora più assurda la situazione, ma nessun altro sembrava farci caso. Amidamaru non ne sapeva nulla.
Non tutti potevano riprendersi completamente: Melinda se ne rese conto quando passò davanti al reparto psichiatrico, dal quale provenivano lamenti che le fecero passare la voglia di proseguire. Amidamaru si limitò a seguirla in silenzio, come un fedele animale da compagnia.
La sera non tardò ad arrivare. Melinda e Amidamaru si fermarono su un balcone, osservando con amarezza il cupo panorama che li circondava: la città dolente di Oblivion si stagliava di fronte a loro. Gli alti palazzi di ferro e cemento, dimora di milioni di Senzavolto... spettri di un popolo a cui molti eroi ricoverati in quell’ospedale sapevano di appartenere. Il regno di Nul rispecchiava in un certo senso la società moderna: un mondo pieno di persone senza identità, costrette a un’esistenza grigia e tetra con il solo obiettivo di tirare avanti. Vite vuote fatte di giorni tutti uguali, anime prigioniere di un sistema avido e instabile.
Il sospiro di Melinda attirò l’attenzione del suo spettrale compagno.
« Che cosa ti tormenta? » le chiese.
« Nulla di nuovo, a dir la verità » ammise la donna. « È questo posto... questo mondo. Più lo guardo, meno lo capisco. Eppure, più mi accorgo quanto assomigli al mio mondo, sotto certi aspetti. Questa orribile città, i Senzavolto... in qualche modo sembrano rispecchiare l’umanità moderna. »
« Uhm... l’ho pensato anch’io, sai? È lo stesso tipo di umanità che si trova nel mio mondo... o almeno in buona parte di esso. Per seicento anni il mio spirito è rimasto accanto ai vivi, e ho visto il mondo cambiare intorno a me. In peggio. Ho visto gli uomini perdere gran parte della gloria, sostituendola con la semplice tendenza al sopravvivere. Non è più tempo di spade e di scudi, ma di carte e valigette. Per questo, osservando simili persone camminare per le strade, mi sono domandato spesso chi fossero i veri fantasmi. »
« Tutto cambia, con il passare del tempo. Anche la natura umana. »
« È così. Il difficile è riuscire ad accettarlo. Per noi fantasmi, il problema è proprio questo. Perciò molti non riescono subito a passare oltre... non accettano lo stato delle cose. »
Melinda non riuscì ad aggiungere altro. Lo sapeva fin troppo bene. Si disse che era il caso di lasciar perdere e rientrare nell’edificio, perciò si voltò: fu allora che si rese conto di non essere più sola sul balcone.
Sulla soglia c’era di nuovo quel ragazzo dai capelli d’argento. Questi era immobile e silenzioso, ma quando Melinda si voltò a fissarlo, fece un nuovo sorriso gelido e se ne andò, sparendo nel corridoio.
« Bah » fece la donna, esasperata. « È davvero inutile capirci qualcosa, qua in mezzo. »
E se ne andò a sua volta, pronta a terminare quella giornata su un comodo letto.
 
DRIIIIIIIIIIIIIIIIIN...
L'allarme svegliò Melinda di soprassalto. Guardò fuori dalla finestra: era appena l'alba. Perché aveva puntato la sveglia a quell'ora?
Ma non c'era nessuna sveglia da puntare. L'allarme proveniva infatti da fuori, e non prometteva nulla di buono.
« Melinda! » la chiamò subito Amidamaru. Il fantasma sembrava sconvolto oltre ogni dire... e ormai Melinda lo conosceva abbastanza da capire che solo un pericolo tremendo poteva allarmare un tipo come lui.
« Amidamaru, che succede? »
« Qualcosa di terribile sta per arrivare » spiegò lo spirito. « Non riesco a identificarlo, ma mi sento infastidito... è qualcosa di assolutamente malvagio! Colpirà questo posto molto presto... dobbiamo scappare! »
Melinda esitò per un attimo, ma alla fine fu costretta ad annuire. Raccolse i vestiti, li indossò e uscì dal corridoio, dove risuonava forte la voce del dottor House attraverso gli altoparlanti.
« Questa non è un'esercitazione. Tutti gli ospiti e i pazienti in buona salute sono pregati di raggiungere la hall immediatamente. Ripeto: questa non è un'esercitazione. Tutti gli ospiti e i pazienti in buona salute sono pregati di raggiungere la hall. Immediatamente. »
La donna obbedì automaticamente all’ordine, percorrendo il corridoio. Altri personaggi intorno a lei seguivano l’esempio, causando una gran confusione nei paraggi.
Poi qualcosa l’afferrò all’improvviso. Melinda fu scaraventata contro il muro più vicino, e per alcuni secondi vide le stelle. Si voltò e riconobbe gli aggressori: due Senzavolto, vestiti da inservienti dell’ospedale.
« Ma cosa... no! Fermi... Aaaaah! »
« Oh no, Melinda! »
Amidamaru cercò di intervenire, ma prima che potesse fare qualsiasi cosa accadde qualcosa di nuovo: il pavimento sotto i piedi dei Senzavolto si deformò, spostandosi di lato, e li scaraventò lontano dalla loro vittima.
Il fantasma non capì subito come fosse accaduto, ma poi si accorse del nuovo gruppo di personaggi apparso sulla scena. Il più vicino, un ragazzino biondo, aveva le mani ancora appoggiate a terra. Che fosse stato lui?
« Stupeficium! » urlò un altro nel frattempo, un ragazzo occhialuto armato di bacchetta. Un getto di luce rossa colpì i Senzavolto, e i due crollarono a terra privi di sensi. Sotto lo sguardo incredulo di Amidamaru, i salvatori raggiunsero Melinda, sconvolta ma ancora illesa.
« Stai bene? » chiese un altro membro del gruppo, una donna formosa dai capelli castani, armata di pistole.
« Sì... sì » rispose Melinda, ansimando per la paura. « Non capisco... mi hanno aggredita all'improvviso, non ho potuto fare nulla. »
« Erano al servizio di House » osservò un terzo ragazzo. « Non doveva essere in grado di controllarli? »
Il dubbio fu confermato da nuove urla e rumori poco lontano. Melinda, Amidamaru e gli altri si voltarono: videro altri Senzavolto, intenti ad aggredire ogni ospite dell’edificio a portata di tiro; il gruppo di eroi si allontanò in tutta fretta, per impedire che altri innocenti venissero coinvolti in quell’improvvisa ondata di follia.
Melinda rimase indietro, insieme ad Amidamaru.
« Ho sentito parlare di loro » osservò il fantasma, mentre osservava quel gruppo allontanarsi. « Si fanno chiamare ‘I Valorosi’... pare che ne abbiano passate tante prima di arrivare qui. »
« Oh... pensa un po’ » si limitò a commentare Melinda, ancora sconvolta.
« Non è sicuro restare qui. Sono certo che questa improvvisa ribellione è opera del grande male che percepisco. »
« Va bene » dichiarò Melinda, ancora sconvolta. « Andiamocene. Solo... mi dispiace non poter fare la mia parte. »
« Che vuoi dire? »
« In questo posto, tra tutti questi eroi, almeno per una volta... mi piacerebbe saper combattere. »
Amidamaru restò in silenzio, come se fosse indeciso.
« Avrei preferito risparmiarti tutto questo » disse piano il samurai. « Però hai ragione... la cosa più giusta è combattere. Se davvero lo desideri, posso donarti la mia forza... ancora una volta. »
« La tua forza? E come? »
Il fantasma pose una mano sulla sua spalla.
« Tu puoi vedermi... perciò, anche se provieni da un altro mondo, sei una sciamana a tutti gli effetti. Ecco perché potrai unire il tuo corpo al mio spirito: in questo modo potrai usufruire delle mie abilità, della mia forza di samurai. »
« Una specie di possessione, vuoi dire? » domandò Melinda.
« Sì, ma in questo caso sarai cosciente. Sarai tu a controllare me, e combatterai come se fossi sempre stata una guerriera. Questa è la via che posso offrirti, se davvero desideri combattere in questa battaglia. Fa’ la tua scelta, Melinda Gordon. »
BUM!
Un boato assordante echeggiò dappertutto, mentre il pavimento vibrava con una tale forza che Melinda faticò a reggersi in piedi. Tutto tacque dopo pochi secondi. Era come se qualcosa di enorme fosse esploso nelle vicinanze, ma l’ospedale non sembrava aver subito danni strutturali.
Melinda capì che non c’era più tempo da perdere, dunque accettò la proposta di Amidamaru.
« Unione! » esclamò lo spirito: un attimo dopo penetrò nel corpo della donna, la quale emanò per qualche secondo un bagliore argentato. Strinse la presa sulla katana che aveva portato con sé: all’improvviso sapeva come maneggiarla, perché la conoscenza del bushido era penetrata nella sua mente.
La forza del samurai era la sua, adesso. Non restava che unirsi alla battaglia.
Il silenzio fu spezzato da un nuovo boato proveniente dall’esterno. Il pavimento tremò ancora, ma stavolta Melinda non perse l’equilibrio.
« Dobbiamo capire che succede » disse la voce di Amidamaru, echeggiando nella sua testa. « Da qui non è possibile vedere nulla. Proviamo a raggiungere il tetto! »
Melinda annuì e prese a correre, dirigendosi verso la rampa di scale più vicina. Strada facendo vide altri eroi procedere nella stessa direzione, che evidentemente avevano avuto la sua stessa idea.
Raggiunsero il tetto dell’ospedale dopo pochi minuti. Esso era già affollato da un folto di gruppo di personaggi: riconobbe il dottor House, Luigi e il gruppo che l’aveva salvata poco prima, i Valorosi. Guardavano tutti la stessa cosa: una torre gigantesca, più alta di ogni grattacielo di Oblivion, si stagliava in lontananza di fronte all’ospedale. Melinda vide cinte e bastioni, pietra nera e tetra, incommensurabilmente forte, montagna di ferro... così oscura e terribile alla vista da mettere a dura prova ogni speranza di coloro la guardassero. E sulla sua cima vi era un grande occhio infuocato, senza palpebra e con la pupilla verticale, puntato come un faro sinistro verso l’ospedale.
Attraverso gli occhi di Melinda, Amidamaru scoprì dunque la fonte del terribile male che aveva percepito. L’oscurità, il potere di un ignoto nemico che stava per fare la sua mossa contro quella manciata di eroi sopravvissuti.
Entrambi rimasero a guardare in silenzio, increduli di fronte al male che sembrava incombere sul mondo intero.
« Il Nemico. Il Nemico è pronto, e sta arrivando » annunciò una voce nelle vicinanze. Melinda abbassò lo sguardo: era di nuovo quel ragazzo dai capelli argentati, visibilmente sconvolto. Udì altre voci, quelle degli eroi più vicini al parapetto; valutavano la situazione, prendevano decisioni, si organizzavano. Si ritenevano pronti ad affrontare qualsiasi minaccia, anche questa.
Melinda voleva davvero unirsi a loro? Non era mai stata una guerriera: prima di finire su Oblivion, fantasmi a parte, aveva sempre condotto una vita ai limiti della normalità; era stata una casalinga, una venditrice d’antiquariato, una moglie... una madre. Aveva sempre tralasciato l’azione, in un modo o nell’altro; aveva sempre agito con le parole, non con le mani. Perché allora aveva impugnato una spada? Credeva davvero di poterla usare, nonostante il potere appena ricevuto?
Le voci degli altri eroi parvero abbassarsi di volume, mentre quella di Amidamaru risuonava forte nella sua testa.
« Non aver paura, Melinda » le disse con gentilezza. « È normale aver paura... ma questo è il momento per essere coraggiosi. Forti. È il momento di scegliere come affrontare ciò che ci attende. »
« Io... »
« Non vuoi rivedere tuo marito e tuo figlio? »
« Sì. Con tutto il cuore. Non mi importa più di morire... vorrei solo poterli riabbracciare, ancora una volta. »
« Vale lo stesso per me. In un modo o nell’altro, mi ricongiungerò con i miei cari. Forse andremo incontro alla fine... ma questi eroi che ci accompagnano hanno ragione. Uniamoci a loro! »
Melinda tornò ad ascoltare le altre voci. Quegli eroi esultavano con coraggio, spronati dalle parole dei Valorosi. Alzavano i pugni e le armi al cielo, pronti a combattere; Melinda sorrise e fece altrettanto con la sua katana.
« Grazie, Amidamaru. »
« Grazie a te, Melinda Gordon. »
« Resterai al mio fianco? »
Il sorriso fiero dello spirito parve brillare nell’oscurità.
« Fino alla fine. »
Avrebbe fatto la sua parte, con l’aiuto di Amidamaru. Sarebbe scesa in campo al loro fianco con rinnovata speranza. Per la prima volta avrebbe combattuto: non per vincere, né per proteggere... ma per mantenere viva una speranza. La speranza di rivedere i suoi cari alla fine di tutto.
Perché morire non era la fine, lo sapeva ormai fin troppo bene. Era solo la prima tappa di un nuovo viaggio, verso un mondo fatto di luce: forse la stessa luce che le nuvole di Oblivion celavano alla vista, impedendole di brillare sul mondo.
Voleva crederci, nonostante tutto. E se era pronta a morire per ciò in cui credeva, allora era fatta. Melinda Gordon era un’eroina.

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Capitolo 9
*** L'inizio della fine ***


L’inizio della fine
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Oblivion, settore “Agrabah”. Ieri.
L’urlo di dolore echeggiò per ogni sala del palazzo, tale da attirare l’attenzione di tutte le donne che lo abitavano. Alcune furono spaventate da un simile suono, ma la maggior parte provò solo un lieve turbamento. Nessuna di loro, invece, provò ad avvicinarsi alla porta dietro la quale era avvenuta la tragedia: sapevano che sarebbe stato inutile intervenire... era troppo tardi per tutto.
Solo la padrona scelse di farsi avanti, dirigendosi a passi lenti verso la soglia. Costei era Lilith, superstite di un altro mondo come tutte loro. Quando fu davanti alla porta, questa si aprì improvvisamente dall’interno. Lilith arretrò di un passo mentre dalla stanza usciva l’unico uomo presente in tutto il settore. Un giovane dai capelli neri sulla ventina, vestito di nero, gli occhi azzurri e colmi di dolore. Avanzò con decisione senza curarsi di Lilith, né delle altre donne, diretto verso l’uscita del palazzo.
Il suo nome era Noctis, ultimo superstite del suo mondo.
Lilith lo seguì con lo sguardo per qualche attimo, poi si voltò verso la stanza da cui era uscito. Vide ciò che aveva spinto il principe a urlare in quel modo poco prima: la principessa Lunafreya giaceva sul letto, immobile. Morta. La padrona sospirò, amareggiata; non aveva potuto fare nulla per salvarla... Oblivion aveva appena raccolto un’altra vittima.
Possibile che non ci fosse fine a questo caos? Che tutto fosse destinato a scomparire?
Lilith guardò le sue ragazze, importanti per lei come figlie o sorelle. Non poteva più sopportare questa serie di tragedie. Tornò a guardare Noctis, ormai prossimo all’uscita, e lo raggiunse un attimo dopo con un balzo. Il principe si fermò a guardarla.
« Ti ha detto qualcosa? » chiese la demone, seria.
Noctis non rispose subito. Una lacrima solcò la sua guancia ancora una volta.
« Mi ha detto cosa devo fare... e lo farò. »
« Capisco. Potresti aver bisogno di aiuto. »
« Sì. Assicurati che il mio messaggio giunga a destinazione. »
Lilith annuì, mentre il principe le spiegava cosa avrebbe fatto.
 
Oblivion, settore “Varykino”. Oggi.
Darth Vader stava in piedi sulla terrazza. Osservava come al solito la meraviglia che lo circondava ogni giorno da quando aveva deciso di rifugiarsi laggiù. La brezza, la quiete e i bei ricordi, materializzati al suo fianco grazie al potere della Forza: le immagini illusorie di sua moglie e dei suoi figli alleviavano il dolore e la solitudine. Sarebbe stato tutto perfetto, ma la consapevolezza di trovarsi su un altro mondo, devastato dal caos, smorzava ogni tentativo di restare in pace. Inoltre era preoccupato per suo figlio: quello vero, ancora disperso chissà dove là fuori.
Luke...
Qualcosa lo fece distrarre all’improvviso. Un disturbo nella Forza, che lo spinse a voltare lo sguardo. Vader notò qualcuno in lontananza, sulla riva del lago. Allarmato, si avvicinò subito con pochi balzi: erano due persone, ma lui rivolse tutta l’attenzione su quella sdraiata a terra.
Suo figlio, Luke Skywalker. Il giovane cavaliere Jedi giaceva immobile tra i sassi, gli occhi chiusi. Una donna gli stava accanto, osservandolo tranquilla.
« Luke! » esclamò Vader, inginocchiandosi accanto al figlio.
« Non temere, è ancora vivo » disse la donna.
Il Sith si voltò a guardarla. Era una donna nera, molto bella, con una folta chioma di capelli dorati e occhi da serpente. Non aveva vestiti, ma in compenso portava alcune placche dorate simili a squame che le coprivano le parti più intime.
« Tu chi sei? Che cosa gli hai fatto? » chiese Vader, minaccioso.
« L’ho salvato dalle acque in cui rischiava di annegare. »
« Sento molta oscurità in te. Non tentare di ingannarmi, donna. »
« Non sono una donna, sono Lilith » ribatté lei, alzandosi in piedi. « Non intendo nascondere i miei peccati, ma non voglio nemmeno ingannarti, Signore dei Sith. Se non vuoi credere a me, credi a tuo figlio. Se guardi nei suoi ricordi scoprirai la tragedia a cui è sfuggito per miracolo... nella quale io non ho alcun ruolo. Ma ti consiglio di farlo più tardi, ora è meglio apprestargli le dovute cure. Non ti pare? »
Vader tornò a guardare Luke, e si rese conto che quella aveva ragione. Era molto debole, e rischiava di morire senza un intervento immediato. Così, senza più esitare, prese il figlio tra le braccia e si diresse verso la villa. Lilith lo seguì a ruota, calma e silenziosa.
Poco più tardi, la situazione si era stabilizzata. Luke riposava ora in una stanza della villa, opportunamente medicato. Vader uscì dalla stanza, sollevato: come suggerito da Lilith, aveva guardato nei suoi ricordi per scoprire cosa gli fosse accaduto. Lo scontro all’ultimo sangue, insieme ai suoi compagni, contro un essere terrificante: un oscuro signore, ancor più terribile e malvagio dell’Imperatore. Uno scontro da cui Luke era uscito vivo per miracolo.
Ci avrebbe pensato più tardi, si disse, poiché aveva ancora un’ospite di cui occuparsi. Lilith era rimasta nel corridoio, ad aspettare.
« Immagino che ora ti aspetti gratitudine da parte mia » mormorò il Sith.
« Non l’ho fatto per la gratitudine » rispose Lilith. « Piuttosto l’ho fatto per avere la tua attenzione... e la tua fiducia. »
« Fiducia? Non la concedo più così facilmente... e tu hai un legame con Nul, lo sento. »
Lilith sogghignò.
« Oh, non temere per questo. Per quanto mi dia piacere il suo calore tra morbide lenzuola, non sto affatto dalla sua parte. Non bramo la distruzione totale come lui. Cerco di salvare delle vite, quando posso. »
« Vite fasulle. Creature di fantasia... come te e me. »
Lilith tacque, visibilmente colpita. Si dava il caso che Vader avesse scoperto da tempo la vera natura di tutti coloro che mettevano piede su Oblivion. Il fatto che provenissero tutti da opere come film, libri, fumetti o videogiochi. Opere di fantasia, fonte d’intrattenimento per chi esisteva davvero.
« Dunque lo sai » osservò la demone dopo una pausa. « Sei più in gamba di quanto immaginassi, Vader. »
« Che cosa vuoi, allora? Arriva al punto » incalzò il Sith.
« Se sei così in gamba, perché ti nascondi? Perché ti rifugi in un luogo così remoto, in compagnia dei tuoi ricordi, mentre il mondo va in pezzi? Mentre la guerra infuria e miete innumerevoli anime? Hai grandi capacità, Darth Vader... ma ti rifiuti di sfruttarle nell’ultima battaglia che ti attende. »
Vader restò in silenzio, apparentemente impassibile.
« Non intendo combattere per il diletto di un dio » mormorò infine.
« Uhm, è una buona ragione. Ma se ti dicessi che Nul non è affatto un dio? Che le sue capacità, per quanto potenti, hanno una debolezza? Se tu e gli altri eroi rimasti la sfrutterete nel giusto modo, potreste fermarlo una volta per tutte. »
Vader guardò la porta al suo fianco, oltre la quale riposava un ignaro Luke.
« Ti stai rivolgendo al guerriero sbagliato » obiettò il Sith. « Non sono un eroe... non lo sono più. »
« Questa guerra non può essere vinta solo dagli eroi » dichiarò Lilith. « Qui non si tratta di sconfiggere le forze del male, ma di fermare una volontà che vuole annientare ogni cosa. Sia la luce che l’oscurità. Ecco perché, oltre alla luce, serve l’oscurità per fermarla. »
« Vuoi che Nul sia sconfitto, dunque. Ma se è così, perché non sei tu stessa a muoverti contro di lui? »
Lilith non rispose subito. Sul suo volto apparve una profonda amarezza.
« Per lo stesso motivo per cui tu non hai mai desiderato uccidere tuo figlio... per amore. Evidentemente non sei ancora pronto per portare il fardello che desidero affidarti, Vader, ma posso aspettare. Tornerò da te... quando non avrai altra scelta che unirti alla battaglia. »
Voltò le spalle a Vader, procedendo nel corridoio diretta verso l’uscita.
 
Il Cimitero dei Mondi. Ieri.
Noctis aspettava. Dopo un lungo vagare era finalmente giunto alla meta: il cuore di Oblivion, luogo che più di tutti ne costituisce l’essenza. Il Cimitero conteneva i resti di ogni battaglia consumata sul mondo, ammassati in giganteschi cumuli come immondizia. Il principe stava in quel momento sul punto più alto della discarica, seduto su un trono fatto interamente di spade fuse insieme. Ingannava il tempo smanettando sul suo smartphone, tra immagini e applicazioni varie. Non sapeva quanto avrebbe dovuto aspettare, ma era paziente... una virtù che aveva sviluppato nel suo hobby preferito, la pesca. In effetti, la situazione non era troppo diversa: anche in quel caso si trattava di catturare un pesce... uno molto sfuggevole, per non dire pericoloso.
Doveva pazientare, ma per fortuna aveva tutto il tempo del mondo.
L’attesa fu lunga, ma alla fine fu premiata. Noctis alzò lo sguardo non appena udì il rumore di un battito d’ali. Vide ciò per cui era venuto: lo vide scendere dal cielo e atterrare con grazia di fronte a lui, con un paio di maestose ali di corvo. Nul, il Mai Nato, era giunto: vestito di nero, con un lungo soprabito bianco dotato di cappuccio che gli celava il volto.
Noctis restò al suo posto, mentre il nuovo arrivato si avvicinava silenziosamente a lui. Inquietante, minaccioso, implacabile: Nul era tutto questo fin da quando aveva dato inizio alla guerra tra eroi e nemesi nel suo regno. Pochi erano sopravvissuti per vederlo di persona, e quel giovane seduto sul Trono di Spade era appena stato aggiunto alla lista. Il che non era necessariamente un bene, ma Noctis restò al suo posto, continuando a digitare sullo smartphone.
« Stai comodo? » domandò Nul, dopo una pausa.
« Non molto, in verità » fu la risposta. « Questo trono è freddo è duro... non capisco proprio come fai a starci seduto così a lungo. »
« Non potrei desiderare sedia migliore su cui osservare la mia opera. »
« Sì, be’... se tardavi ancora un po’ mi si addormentavano le chiappe. »
« Perdonami, la mia agenda è piena di impegni, ma alla fine ho trovato il momento per raggiungerti. »
Nul tacque, facendo un leggero inchino.
« Dunque... principe Noctis Lucis Caelum » aggiunse, fissando il ragazzo. « Il quindicesimo eroe... l’ultimo del suo mondo. A cosa devo l’onore della tua presenza sul mio posto preferito? »
Noctis distolse lo sguardo dallo smartphone, indurendo la sua espressione.
« Davvero non lo sai, o ci tieni ad ascoltarlo dalle mie labbra? Ho perso tutto ciò che avevo di più caro: il mio regno, i miei amici... Luna. L’ho vista morire davanti ai miei occhi, non molto tempo fa. Lei era tutto ciò che mi restava. Ora sono rimasto solo, in questa discarica che tu chiami casa. »
Ancora silenzio. Noctis vide Nul chinare leggermente la testa, un chiaro segnale di rammarico. La cosa lo stupì... ma se fosse un sentimento sincero o fasullo, non sapeva dirlo.
« Mi dispiace » ammise l’incappucciato. « Distruggervi non mi appassiona neanche un po’, ma è il mio dovere. È la Volontà Suprema: non c’è vittoria, non c’è ritorno. Tutti voi sprofonderete nel nulla. »
Noctis sospirò. Si era preparato a una simile risposta. Aveva studiato a lungo il suo nemico prima di decidere di affrontarlo: sapeva a cosa sarebbe andato incontro. Non aveva speranza di convincere un tipo del genere a cambiare idea, a mutare il suo obiettivo; non con le parole, almeno. Davanti a sé vedeva un’unica scelta, perciò si alzò dal trono, posando a terra il cellulare.
« Come vuoi » dichiarò. « Ma ti garantisco, sbruffone, che suderai parecchio per farmi sprofondare nel nulla. »
Nul non sembrò battere ciglio alla minaccia. Ne aveva sentite ben altre, in passato. Ecco perché, senza alcuna esitazione, allargò le braccia, evocando un gran numero di armi intorno a sé. Spade, scudi, lance e pugnali; lame affilate e pronte all’uso, sospese nell’aria, in attesa di colpire. La maestosa riserva di armi del regno di Lucis. Aveva replicato alla perfezione il potere di Noctis... un fatto che lo stesso principe fu costretto ad ammettere con una buona dose di turbamento.
« Preferirei assicurarti una morte rapida e pulita » annunciò Nul, gelido. « È la tua ultima occasione, principino: resta immobile, non reagire... e il ricongiungimento con i tuoi cari sarà immediato. »
Noctis sorrise beffardo, ignorando le numerose lame puntate contro di lui.
« Preferisco farli aspettare ancora un po’, se non ti dispiace. »
« Te l’ho già detto... mi dispiace eccome. Molto bene, che la battaglia abbia inizio! »
Una tempesta di lame si abbatté su Noctis, attaccandolo da ogni parte con rapidità fulminea. Il principe evocò a sua volta alcune armi, proteggendosi da ogni colpo. Resistette, senza urlare né arretrare; ci fu un lampo, infine, e le armi di Nul furono respinte. Questi rimase dov’era, immobile per la sorpresa.
Tritamago.
Noctis non perse tempo e si scagliò sul nemico, impugnando un paio di daghe dalla lama ricurva; Nul parò l’attacco appena in tempo, con armi simili a quelle del principe. Respinse il principe e sferrò vari fendenti, senza riuscire tuttavia a colpirlo. Noctis schivò ogni colpo con maestria; spiccò un salto e lanciò una daga alle spalle di Nul. Il ragazzo scomparve, per poi riapparire nel punto esatto in cui la daga si era conficcata. Nul parò il colpo successivo con un’ala, che lo protesse come uno scudo. Si voltò e attaccò ancora, ma Noctis fu più veloce: sferrò un altro fendente, così forte da spezzare entrambe le daghe del nemico.
« Oh? » fece Nul, sorpreso.
« Pft... dovresti cambiare fabbro! » esclamò Noctis. Attaccò ancora, ma Nul aveva già evocato una nuova arma, una spada. Parò il nuovo attacco e scattò di lato, per mantenere la distanza.
Doveva ammetterlo, non gli capitava da tempo un avversario simile.
Fraternity.
Noctis abbandonò a sua volta le daghe. Al loro posto apparve una lunga spada, azzurra come il mare e dotata di un nastro rosso; era diversa da quella impugnata da Nul, ma il principe era certo di poter contrastare il suo potere. Scattarono ancora, l’uno contro l’altro, incrociando le lame; rimasero a contatto per lunghi istanti, facendo forza sulla propria arma. L’eroico principe contro l’angelo sterminatore: la loro forza era pari.
« Nnngh... è questo il meglio che sai fare? » esclamò Noctis, continuando a spingere.
Nul rise da dietro la sua spada.
« No... perché tu sai fare di meglio! »
Sferrò una pedata al ginocchio di Noctis, facendolo sbilanciare. Nul vibrò un nuovo colpo, ma il suo tentativo di tagliare in due il nemico andò a vuoto: Noctis evocò un pugnale e lo lanciò lontano, teletrasportandosi insieme ad esso. Lo afferrò ancora e lo rilanciò, dritto contro Nul; questi gettò la spada e afferrò il pugnale al volo. Noctis riapparve di fronte a lui. Cercò di sferrargli un pugno, ma colpì solo del freddo acciaio. Il principe si era protetto con uno scudo oro e azzurro, appena evocato.
Nul cominciò ad irritarsi.
Noctis attaccò ancora. Respinse l’avversario con lo scudo, mentre sull’altra mano evocava una spada. Ansimava un po’ per la fatica, ma continuò a sorridere. Nul reagì: spada e scudo apparvero sulle sue mani, ma fu allora che si rese conto che qualcosa non andava. Sfortunatamente, non aveva tempo per pensarci su; Noctis si era lanciato di nuovo alla carica.
Ci fu una serie di affondi e parate da entrambe le parti. Nul era il più aggressivo fra i due, ma Noctis contrastava bene i suoi attacchi; si era preparato a lungo, grazie alle informazioni acquisite prima di raggiungere il Cimitero dei Mondi. Ecco perché lottava senza alcun timore. Colpì ancora e ancora, senza esitare... finché un colpo, finalmente, andò a segno.
« Argh! »
La lama del principe colpì l’avversario al volto. Nul perse l’equilibrio e cadde all’indietro, rotolando giù per le rovine. Noctis riprese fiato e lo raggiunse, osservandolo mentre si rimetteva in piedi. Il cappuccio bianco che celava a tutti il volto del distruttore, strappato dal colpo di spada, si era abbassato.
Ora riusciva a vederlo in faccia.
Noctis aveva di fronte un ragazzo, non più vecchio di lui. Aveva il naso e la mascella sottili, sopracciglia arcuate e occhi bianchi come il ghiaccio. I suoi capelli erano invece d’argento, lisci e lunghi fino alle spalle. Un taglio fresco spiccava dalla sua guancia destra, dove la spada lo aveva colpito.
« Bah » commentò Noctis, serio. « Mi aspettavo ben altro che una faccia del genere da un distruttore di mondi... sembri quasi uno normale. »
Nul fece un sorriso orribile, maligno.
« Già... questo è il volto di un eroe. Un eroe ispirato da tipi come te, Noct... un eroe mai nato. È questo che sono in realtà! Ti aspettavi un mostro? Be’, sappi che i mostri peggiori si nascondono dietro un bel faccino... non c’è cattivo più cattivo di un buono, quando diventa cattivo. »
Noctis sospirò.
« Hai finito? Sai, non è che non m’importi del tuo problema, ma francamente non saprei che dirti. Dovresti parlarne con uno psichiatra. »
« Tu, invece... dovresti solo crepare!! »
Nul spiccò un salto enorme, evocando nel frattempo uno spadone. Noctis indugiò per un istante: aveva combattuto un sacco di volte insieme al proprietario di quell’arma, sul suo mondo, per non riconoscerla. Vederla ora in mano a un simile nemico era pari a un insulto. Restò immobile, apparentemente privo di guardia. Vide lo spadone calare su di lui e, appena prima che lo raggiungesse, fece la sua mossa. Il principe abbandonò spada e scudo e si protesse a sua volta con uno spadone. Nul fu sbalzato all’indietro, ma atterrò in piedi grazie alle sue ali.
Il giovane dai capelli d’argento fissò sorpreso la nuova arma impugnata da Noctis. Uno spadone grande quasi quanto lui, di colore grigio, dotata di due fori sopra la guardia. La conosceva bene: l’aveva già vista in passato, in mano a un altro eroe.
La Buster Sword.
Com’era possibile? Nul fissò l’arma tra le sue mani. Era diversa: ciò che impugnava era una replica di quella usata da Noctis in battaglia, forgiata su Eos e brandita dall’amico Gladio. Ora se ne rendeva pienamente conto: quel ragazzo non stava lottando con le sue solite armi... per questo era riuscito a ferirlo.
Il principe sorrise ancora, notando l’espressione del suo nemico.
« Cominci a rendertene conto, vero? » dichiarò. « È sempre soddisfacente vedere il proprio nemico in difficoltà... soprattutto quando scopre di essere stato fregato!
« Sai, non posso dire di essere un esperto di divinità... ma per quanto ne so, non si è mai visto un dio sanguinare. Forse perché tu non sei un dio, dico bene? Né un angelo, né un demone... sei solo umano. Se ora sanguini, è perché ho scoperto il difettuccio nel tuo superpotere. Devo riconoscerlo, sai replicare alla perfezione i poteri e le tecniche di chi affronti... ma se il tuo avversario rinuncia alle sue capacità e combatte con armi diverse, le cose cambiano. Cominci a capire, stronzo? Ecco come sono riuscito a fregarti. »
Nul era allibito. La sua mano passò sulla ferita alla guancia, respirando forte per la rabbia.
« Dove... hai preso quelle armi? » sibilò.
Noctis guardò per un attimo la Buster Sword, cupo.
« Erano dove le hai lasciate » rispose. « Accanto ai cadaveri degli eroi a cui appartenevano! Squall, Gidan, Cloud, Firion, Kain, Lightning... e tanti altri. Ho combattuto con loro, erano miei amici... e sono morti uno dopo l’altro. Morti nella battaglia in cui tu ci hai costretti a lottare. Sarei morto con loro, se non fosse stato per Luna... se non mi avesse convinto a restare con lei nei suoi ultimi momenti. Le ho promesso che avrei affrontato quest’ultima battaglia... e l’ho fatto. »
Fece un cenno, e molte armi apparvero di colpo intorno a lui. Quindici armi in totale, che andarono a disporsi in fila ai suoi fianchi. Nul vide spade e lance, daghe e scudi, di varia forma e fattura. Le riconobbe tutte, dalla prima all’ultima arma: appartenevano ad eroi già incontrati, poiché caduti da tempo su Oblivion. Tutti morti.
Nul poteva quasi vederli accanto a Noctis, in quel momento, schierati ancora una volta contro di lui. Gli eroi dei quindici mondi: cavalieri e principi, guerrieri e maghi, salvatrici e alieni... accomunati da un’unica parola. Fantasia.
Percepiva i loro spiriti, carichi di orgoglio e sfida... e lui si sentiva quasi inerme al loro cospetto.
Solo.
« Questo è l’inizio della tua fine, Nul » dichiarò Noctis, puntando la sua arma in avanti.
Fu allora che Nul scoppiò a ridere, contro ogni aspettativa. Rise a lungo, sempre più forte: poco importava se fosse ferito, spogliato della sua onnipotenza; si faceva comunque beffa di quel principe coraggioso.
« Bene... ti sei dimostrato in gamba, Noct » commentò, ricomponendosi. « Davvero in gamba. Oltre ogni mia aspettativa. Hai scoperto la mia debolezza, complimenti... hai appena compiuto un passo che ben pochi altri prima di te sono riusciti a compiere. Temo, tuttavia, che non procederai più avanti di così. »
Noctis alzò le spalle, poco convinto.
« Hah... tu dici? »
« Oh sì » ribatté Nul. « Credi di avere la vittoria in pugno, adesso? Sono spiacente, bello, ma sei fuori strada... scoprire la mia debolezza non ti darà alcun vantaggio. Lo ammetto, non sono un dio. Posso essere ferito nel modo che tu hai appena dimostrato... ma questo segreto non ti permetterà di uccidermi. »
« E perché mai? »
Nul fece un passo in avanti.
« Io sono come te, Noctis. Sono un eroe, il protagonista di una grande avventura... ma a differenza di te, io non sono mai nato. La mia avventura non è mai cominciata, perciò non ho mai vissuto. Per questo... non posso morire! »
La sua mano destra scattò in un gesto fulmineo. Nuove armi si manifestarono al suo comando e si scagliarono su Noctis, rapide come saette; il principe fece in tempo a muovere le sue armi e a proteggersi da quella violenta pioggia di colpi. Nul non rimase in disparte: si scagliò a sua volta contro il giovane pochi attimi dopo e, afferrata la prima spada a portata di mano, cercò di tagliarlo in due. Noctis parò con lo scudo. Nul tentò di nuovo, mentre una tempesta di lame infuriava intorno ai due guerrieri. Noctis reagì, afferrando una nuova spada: era lunga e argentata, con il manico di un revolver. Vibrò un colpo, dritto con il fianco di Nul, che tuttavia riuscì a parare con una lancia. Noctis non aveva finito; non appena la lama del suo Gunblade toccò l’arma del nemico, premette il grilletto; ne seguì una piccola esplosione che prese Nul in pieno, scaraventandolo fuori dalla tempesta di lame.
Il giovane alato crollò a terra, ma riprese l’equilibrio con una capriola. Spalancò le ali e si alzò in volo; Noctis riuscì nel frattempo a disperdere le lame nemiche, afferrò un pugnale e lo lanciò contro Nul.
« Non ci casco di nuovo! » gridò l’angelo. Afferrò il pugnale al volo con una mano, l’altra pronta a sferrare un sonoro pugno a colui che si sarebbe materializzato davanti a lui tra un istante...
Ma non accadde.
« Cosa? »
Nul abbassò lo sguardo, e capì l’inganno. Quella di Noctis era stata solo una finta per distrarlo: il principe aveva infatti lanciato una seconda arma in un’altra direzione, sulla cima del cumulo di rovine più vicino. Nul lo vide teletrasportarsi su quel punto e scagliarsi su di lui un attimo dopo, con un’altra spada.
Noctis sferrò un fendente, ma Nul si protesse con un’ala e lo respinse. Il principe reagì ancora: la spada tra le sue mani mutò forma, riconfigurandosi in un’arma da fuoco...
Blam, blam, blam!
Un paio di colpi perforarono un’ala, tranciandola di netto. Un altro prese Nul in piena fronte, bucandogli il cranio. Lo sguardo sorpreso del Mai Nato si congelò nei suoi occhi, insieme al resto del corpo, mentre precipitava come un sasso verso terra. Noctis lo guardò soddisfatto per un attimo, prima di proiettarsi a terra in tutta sicurezza.
Nul si schiantò a terra subito dopo. Non si mosse. Possibile che fosse davvero finita? Noctis, pur desiderando che fosse vero, non riusciva a crederci: non era ciò che si aspettava. Rimase in guardia, evocò numerose spade e le scagliò sul corpo del nemico, impalandolo al suolo. Nul non reagì in alcun modo.
E’ finita...?
Noctis attese ancora, infine tirò un sospiro di sollievo. Era fatta. Aveva vinto.
Forse le precauzioni prese non erano più necessarie, dopotutto.
« Ahahaha... »
Il principe alzò la testa, allarmato. La risata echeggiava nell’aria, come se fosse il vento stesso a ridere. Stupefatto, vide il corpo di Nul sgretolarsi tra le sue spade come cenere; sentì la risata farsi più forte, poi questa tacque. Al suo posto udì altre voci.
« Però, è un tipo tosto » commentò la prima, giovane e femminile.
« Già... era da tempo che non ci capitava un avversario simile » rispose una seconda, maschile e matura.
« Lo abbiamo sottovalutato. Questo è stato il nostro errore » dichiarò la voce di un terzo giovane.
Noctis si voltò in ogni direzione, ma non vide nessuno. Chi stava parlando? Spiriti? Fantasmi? Non riusciva a capirlo. Eppure aveva parecchia esperienza alle spalle su entità del genere...
Poi una mano estranea si posò sulla sua spalla. Si voltò e vide Nul: lo sguardo era gelido, la testa e le ali di nuovo integre, come se non gli avessero mai sparato. Noctis fu così sorpreso che non fece in tempo a reagire, mentre Nul lo afferrava per la gola con una forza micidiale.
« Un errore che non ripeteremo più » disse. La sua voce era strana, come se fossero le tre precedenti a parlare all’unisono.
Strinse la presa sul principe e si alzò in volo, trascinandolo con sé. Raggiunse un’altezza molto elevata, tale da sovrastare l’intero Cimitero dei Mondi, mentre manteneva la presa sulla gola del suo avversario. Noctis non riuscì a reagire in alcun modo, tanto era impegnato a cercare di respirare.
Eppure, quando Nul smise di sbattere le ali, non riuscì a fare a meno di porgli una domanda, con il poco fiato che aveva.
« Chi... cosa diavolo... sei? »
Nul allentò leggermente la presa, mentre i suoi occhi si colmavano di una rabbia indescrivibile.
« Noi... IO SONO NUL! »
Detto questo, lo scaraventò via. Noctis precipitò con la forza di un missile, del tutto impotente a causa dello shock. Dopo un breve volo, il suo corpo precipitò contro un edificio che delimitava il Cimitero, e finì al suo interno dopo aver sfondato la parete. Fortunatamente era riuscito ad evocare uno scudo che ridusse l’impatto, ma la caduta fu comunque rovinosa. E dolorosa.
Per un po’ non vide più nulla: nella sua testa c’erano solo dolore e caos. Aveva delle fratture, perdeva sangue e respirava a fatica. Si avvicinava la fine, lo sentiva.
Poi, quando fu di nuovo capace di vedere e sentire normalmente, si accorse di non essere solo.
Nul era a pochi metri da lui, in piedi sul pavimento di quell’edificio abbandonato. Un sorriso di trionfo era dipinto sul viso, rivolto ora sul suo corpo malconcio.
« Allora, principino » commentò l’angelo, soddisfatto di ciò che vedeva. « Credi ancora che questa sia la mia fine? »
Lentamente, Noctis cominciò a ridere. Nul ne fu sorpreso, ma poi cominciò a notare qualcosa. Quell’espressione gli era familiare: l’avevano avuta molti altri eroi, tra quelli affrontati di persona. Eroi che lo avevano sfidato pur sapendo di andare incontro alla morte; guerrieri temerari che avevano dato la vita per una speranza in cui credevano. Morti con scopo ben preciso, come proteggere qualcosa... o qualcuno. Perciò li aveva visti morire con il sorriso sulle labbra... perché si erano spenti nel modo in cui ritenevano giusto.
Fu allora che Nul capì le intenzioni del principe.
« Tu non sei venuto con l’intento di uccidermi » esclamò, puntandogli contro un dito. « Ora capisco... il tuo piano era un altro, non è così? Volevi guadagnare tempo? Proteggere qualche persona cara dalla guerra? O volevi esalare l’ultimo respiro con la soddisfazione di avermi visto sanguinare? Allora sei patetico, come tutti gli altri tuoi predecessori... simili sacrifici non servono a niente nel mio mondo. Non c’è scampo da Oblivion! Non esiste vittoria, non esiste ritorno! »
Noctis rimase zitto e sorridente, ancora riverso su quel pavimento polveroso. La cosa parve irritare Nul, che sospirò seccato.
« Non vuoi dirmelo? Come vuoi... tanto cominciavo a stufarmi. »
Evocò una spada e fece un passo avanti, pronto a sferrare il colpo di grazia. Noctis continuò a ridere.
« Questa... non è la fine. È l’inizio... l’inizio della tua fine. »
« Cosa? »
Nul si fermò.
« Sapevo di non poterti uccidere » riprese Noctis. « Ma ciò che ho fatto... permetterà ad altri... di finire il lavoro. Sapevo che sarebbe accaduto... e so come finirà. Presto, tu e il tuo mondo... sparirete. »
« Oh, e chi dovrebbe riuscire in tale disperata impresa? »
Noctis rise ancora, rifiutandosi di rispondere.
Nul cominciò a perdere la pazienza. Nel frattempo nella sua testa serpeggiava il dubbio, arricchito con una notevole dose di timore. Che quel giovane agonizzante riverso ai suoi piedi dicesse sul serio? Che sapesse davvero ciò che sarebbe avvenuto?
« Lunafreya » mormorò, giungendo alla verità. « Ma certo... lei era una veggente. Ti ha mostrato il futuro, vero? Hai agito così perché sapevi come sarebbe andata. Ecco perché conoscevi il mio punto debole... e lo hai sfruttato fino in fondo. Eppure sapevi a cosa andavi incontro. Mi hai sfidato, pur sapendo di affrontare una battaglia persa... perché eri destinato alla sconfitta! Lo hai fatto perché era già scritto nel tuo futuro! »
Si avventò su Noctis, afferrandolo per la giacca.
« Chi sono questi “altri” di cui parlavi? » gli chiese, minaccioso. « Come faranno a sconfiggermi? Dimmelo! »
Wham.
Qualcosa di lungo e sottile colpì Nul in piena faccia. Questi cadde all’indietro, mollando la presa su Noctis. L’angelo si rialzò quasi subito, ma rimase esterrefatto quando capì cosa era accaduto.
Era stato lo stesso Noctis a colpirlo, con una canna da pesca. L’aveva evocata, come una delle sue numerose armi.
Il principe tossì sangue, ma poi riprese a ridere.
« Heh... così sto sicuro... che non dimenticherai questo giorno, pesciolino » dichiarò, sempre più stremato. « Il giorno in cui hai abboccato al mio amo... fin da quando abbiamo incrociato le spade. Certo, alla fine hai vinto tu... ma morirò felice, sapendo che da questo momento... tu e il tuo mondo avete i giorni contati. »
Nul strinse i pugni e digrignò i denti. Ne aveva abbastanza di questa storia, voleva solo porvi fine il prima possibile. Guardò Noctis dritto negli occhi e replicò ancora una volta il suo potere, evocando una grande quantità di armi. Noctis vide spade, asce, lance e spadoni saettare in ogni direzione, conficcandosi su ogni colonna portante di quel piano; queste cominciarono a sgretolarsi, indebolite gravemente dai colpi appena subiti.
Nel frattempo Nul gli aveva voltato le spalle, dirigendosi a grandi passi verso l’esterno.
« È l’inizio... della tua fine! » gli gridò Nocits, deciso. « Gli ultimi pilastri... loro sapranno come fermarti... scopriranno il tuo segreto... grazie a me. »
Non ottenne risposta, ma ormai non aveva più importanza. Il principe si abbandonò sul pavimento, pronto ad accogliere l’inevitabile. Calcinacci sempre più grandi venivano giù dal soffitto, mentre le colonne andavano in pezzi. Il palazzo stava crollando, ma Noctis restò al suo posto. Tenne lo sguardo verso l’alto, vedendo ben più di una semplice parete che andava in frantumi.
Vedeva suo padre, i suoi amici più cari, e Lunafreya. Gli sorridevano e gli tendevano la mano, come per invitarlo a seguirlo. Lui continuò a sorridere, perché era pronto. Sapeva che questo era solo l’inizio: il preludio dell’ultimo conflitto, che si sarebbe concluso con la fine del caos.
Ma sarebbero stati altri eroi a porvi fine, come Luna gli aveva rivelato prima di morire.
« Il custode della chiave. La predatrice di tombe. Il ragazzo che è sopravvissuto. Il guerriero che cammina nei sogni. La mano destra del destino. L’alchimista d’acciaio. Il guerriero dragone. Il cavaliere delle stelle caduto. Loro vinceranno... ci riusciranno grazie al tuo sacrificio. »
« Ce l’ho fatta... Luna » mormorò con le sue ultime forze. « Hai visto? Andrà tutto bene... torneremo tutti... a casa. Non saremo dimenticati. »
Sollevò una mano tremante verso l’oscurità. Stava per tornare da loro.
Nul atterrò sulla duna di macerie dove sorgeva il Trono di Spade e vi sedette, appena in tempo per godersi lo spettacolo: davanti a lui, l’edificio nel quale aveva lasciato Noctis stava crollando. Sentì la vita del principe spegnersi mentre una nube di polvere e macerie si levava nell’aria. Un altro eroe era appena caduto: l’ultimo di una lunga serie. Oblivion aveva preso un’altra vita.
Per una volta, tuttavia, Nul non poté ritenersi soddisfatto del risultato. Lo scontro con quel ragazzo lo aveva scosso più di quanto avesse immaginato: non solo era arrivato a guardarlo in faccia, ma era riuscito anche a ferirlo; aveva scoperto la sua debolezza... ma soprattutto, era riuscito a ingannarlo.
Mentre si copriva nuovamente il volto con il cappuccio, la minaccia di Noctis risuonò nelle sue orecchie. Non riusciva a crederci, ma la cosa continuava a turbarlo: com’era possibile? Oblivion, la guerra, lui stesso... tutto aveva avuto origine per mano della Volontà Suprema. Solo Lui aveva il potere di porvi fine. Come avrebbe potuto un gruppo di eroi far cessare tutto questo?
E soprattutto, come avrebbe potuto Noctis rivelare loro il suo punto debole, se era appena morto?
A meno che...
L’angelo abbassò lo sguardo. Noctis stava seduto su quel trono poco prima dello scontro, intento a smanettare sul suo cellulare...
Un cellulare che ora sembrava svanito nel nulla.
 
Altrove, in quello stesso momento...
Lilith stava sulla cima del grattacielo più alto della città, intenta ad osservare ciò che si era appena compiuto. In lontananza poteva scorgere una grande nube di polvere sollevarsi dal suolo, là dove sorgeva il Cimitero dei Mondi. Anche lei aveva percepito la vita di Noctis spegnersi in quel momento, e provò un gran dispiacere. Avrebbe voluto un destino diverso per quel giovane, se solo avesse avuto il potere per cambiarlo.
Ci fu un lieve boato, seguito da uno spostamento d’aria. Lilith si voltò: nulla sembrava cambiato su quel tetto, ma poi una figura si materializzò davanti ai suoi occhi. Era una donna dai capelli bruni raccolti in una coda di cavallo, vestita solo con un bikini nero, collant strappati e un cinturone militare. Non disse una parola mentre si avvicinava a Lilith, che le sorrise.
« Com’è andata? » domandò la demone.
L’altra donna non rispose, ma afferrò un oggetto dalla cintura e glielo porse.
Lilith lo prese. Era lo smartphone di Noctis, rimasto intatto. Esaminandolo, notò come il dispositivo fosse stato impostato sulla registrazione di un video, terminata da poco.
« Bene... ottimo lavoro, Quiet. »
Quiet annuì.
« Sai, sono lieta che tu abbia resistito alla tentazione di sparare al mio amato » proseguì Lilith. « So che non deve essere stato facile per te, ma credimi... questa era la cosa migliore. Questa è la speranza per la salvezza di tutte noi. »
Entrambe lasciarono il grattacielo poco dopo. 
 
Oblivion, settore “Varykino”. Oggi.
Darth Vader non esisteva più. Al suo posto era tornato Anakin Skywalker, il cavaliere Jedi che era sempre stato. Spronato dai fantasmi del suo passato dopo la morte del figlio, era riuscito finalmente ad uscire dall’oscurità, abbandonando la maschera del male. Il suo urlo echeggiava ancora per tutto il settore, disperdendosi tra le montagne che circondavano il lago.
Non c’era tempo da perdere. Gli ultimi eroi avevano bisogno del suo aiuto: percepiva il loro dolore anche da così lontano. Avrebbe combattuto al loro fianco, come desiderava Luke. Perciò, senza più indugiare, si alzò dalla riva del lago e tornò nella villa, recuperando tutto il necessario per affrontare una battaglia. Dopo aver indossato nuove vesti, più consone al suo aspetto ringiovanito, Anakin raggiunse la soglia, ma vi trovò qualcuno ad aspettarlo.
Era Lilith. Inquietante come sempre, ma con un sorriso compiaciuto impresso sulle sue labbra.
« Guarda un po’ chi è riemerso dalle tenebre » commentò la demone, osservando bene il Jedi.
« Ancora tu » mormorò Anakin, infastidito dalla sua presenza. « Che cosa ci fai qui? »
« Ti senti meglio, vero? Come amo ripetere, niente è meglio dell’amore per rimettere in piedi un eroe. Hai una grande forza, ma anche tu avevi bisogno di una mano dal tuo amore per recuperarla. »
Anakin non sembrò capire, ma poi rivolse lo sguardo verso la riva del lago, dove aveva incontrato lo spirito di sua moglie Padmé.
« Era opera tua? » domandò a Lilith. « Sei stata tu a farmi questo, con la visione di Padmé? »
Lilith alzò le spalle.
« Ha importanza? » fece. « Quello che conta, ora, è che stai meglio... ma soprattutto che sei pronto ad affrontare ciò che ti attende. L’ultima battaglia, quella decisiva per il destino di tutti. »
« Lo so. È proprio laggiù che voglio andare, perciò fatti da parte... non ho tempo da perdere. »
Lilith non si mosse.
« Non così in fretta, eroe... dopotutto non sai ancora come affrontare Nul. Per questo sono di nuovo qui: ora sei pronto per portare il fardello che desidero affidarti. »
Tese una mano e gli porse uno smartphone, appartenuto un tempo al principe Noctis Lucis Caelum. Anakin lo fissò incerto: per lui era solo un primitivo mezzo di comunicazione... del tutto ignaro della storia che circondava quell’oggetto.
« In esso troverai informazioni importanti » spiegò Lilith. « Troverai il modo per affrontare Nul... per ferirlo. Con queste informazioni, tu e gli altri eroi rimanenti trionferete su questo caos una volta per tutte. »
Anakin restò in silenzio, mentre un pensiero amaro attraversava la sua mente.
« Era questo che volevi rivelarmi la volta scorsa » mormorò. « Potevi farlo... o potevi scegliere Luke per questa impresa. Forse sarebbe sopravvissuto. Perché hai scelto me? »
Alzò lo sguardo, solo per rendersi conto che Lilith era sparita. La sua risposta, tuttavia, echeggiò nell’aria in quel momento.
« Perché tu sei stato scelto fin dall’inizio. »
E Anakin partì poco più tardi, diretto verso il luogo dove sarebbe avvenuta l’ultima battaglia. Avrebbe combattuto al fianco degli ultimi eroi rimasti, gli amici di Luke, forte delle informazioni appena apprese sul conto di Nul. Gliel’avrebbe fatta pagare cara, sfruttando fino in fondo le sue debolezze venute alla luce con il sacrificio di Noctis.
Presto sarebbe giunta la fine, per tutto e tutti.

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Capitolo 10
*** Mr & Mrs Plutz ***


Mr. & Mrs. Plutz
Image and video hosting by TinyPic Oblivion era un mondo di caos. Un abisso oscuro in cui tutte le cose trovavano la loro fine. Eroi e malvagi, uomini e macchine, animali e alieni, divinità... e persino i mondi. Nulla trovava scampo all’opera di distruzione voluta da...
Scusate, dalla regia mi dicono che gran parte di voi lettori conosce già questa solfa, perciò con permesso salto l’introduzione e passo subito ai protagonisti della storia.
Su una pila enorme di cadaveri alieni e guerrieri robotici frantumati, stavano i leader dei due schieramenti. Da una parte c’era il colonnello Neopard di Armadha, mercenario alieno con sembianze di felino umanoide, vestito con un’uniforme militare. Dall’altra c’era la capitana Alyonesse, della stessa razza, sul cui aspetto spiccavano la corazza color viola e la folta criniera bianca che incorniciava il suo viso. Entrambi mercenari, eroi di guerra del loro mondo; molti popoli tremavano al solo sentir pronunciare i loro nomi. E molti altri popoli erano disposti a pagare profumatamente per i loro eccellenti servigi.
Cosa più importante, Neopard e Alyonesse erano fidanzati... ma in quel momento questa fatale condizione non contava un bel niente. Stremati per la lunga battaglia ma ancora in piedi, si puntavano a vicenda le armi, scrutandosi con sguardi colmi di rabbia e dolore.
Erano mercenari, perciò si erano trovati spesso a dover combattere ai lati opposti della scacchiera per conto dei loro clienti. Avevano combattuto, sterminato e distrutto su vari pianeti per ingenti somme di denaro...
Non v’importa neanche di questo? Va bene, andiamo avanti. Per farla breve, i due piccioncini erano finiti su Oblivion come parecchi altri sventurati. Nul, signore indiscusso di quel mondo caotico, aveva organizzato un ciclo di battaglie che li aveva coinvolti, ma combattendo – ancora una volta – l’uno contro l’altra. Nel loro caso, Nul aveva dovuto mettere mano al portafogli per spingerli a combattere, dando vita a una sanguinosa battaglia.
Neopard e Alyonesse, ignari di essere stati assoldati dallo stesso individuo, avevano radunato il proprio esercito di automi e alieni e aperto le danze alla prima occasione. Ecco il risultato: ogni macchina o alleato xenomorfo giaceva ora in pezzi ai loro piedi. Anche loro, tuttavia, erano malconci. Neopard era ferito a un braccio e non poteva muoverlo; Alyonesse era coperta di sangue e tremava per lo sforzo di restare in piedi. Le sue braccia reggevano un fucile laser grosso quasi quanto lei, e lo puntava alla gola del suo amato. Neopard faceva lo stesso, puntandole in fronte l’unica pistola carica che gli restava.
Era una situazione di stallo. Due mercenari alieni, allo stremo delle forze dopo un’accanita battaglia, si puntavano le armi a vicenda. Fidanzati. Uno spettacolo che solo il supremo Nul riusciva a godersi appieno, mentre sorseggiava una bibita dal suo trono sulla vetta più alta del Cimitero dei Mondi.
In tanti anni di carriera, Neopard e Alyonesse non erano mai arrivati a tanto. Dal loro contorto punto di vista, c’era una bella differenza tra affrontarsi in battaglia per lavoro e arrivare ad uccidersi. Il tempo sembrava fermo intorno a quella coppia, come i loro deboli corpi, mentre si scrutavano con amarezza. Entrambi sembravano incapaci di prendere una decisione, finché...
« Non posso » dichiarò Neopard, abbassando la pistola. « Non voglio farlo. »
« No... avanti, fallo! » gli gridò contro Alyonesse. « Sparami... così almeno uno di noi tornerà a casa! »
« A quale prezzo... dovrei tornare a casa senza di te? No, Elenthari, non lo farò... neanche per tutti i crediti interplanetari dell’universo. »
Dagli occhi di Alyonesse sgorgarono lacrime, rigando un viso già ricoperto di sangue. Le sue mani tremarono più forte mentre stringeva la presa sul fucile.
« Ti prego... » mormorò lei. « Ti prego, Groft... non costringermi a farlo. »
Neopard sospirò.
Nul si sporse in avanti, concentrando la sua attenzione al massimo su quel momento cruciale.
« Grabbaga plutz... allora non c’è altra scelta » dichiarò l’armadhiano, puntandosi la pistola alla tempia.
Alyonesse sgranò gli occhi, orripilata.
« Groft... no...! »
« Ti amo. »
« Nooooo! »
Blam!
 
– Qualche tempo dopo –
Un altro eroe era morto. I suoi compagni, i Valorosi, si erano riuniti all’ospedale di Oblivion per accettare la sua perdita. Quel folto gruppo di guerrieri piangeva la sua scomparsa in sala mensa, bevendo lattine di birra per onorare la sua memoria e il suo sacrificio. Altri personaggi, sullo sfondo, osservavano quel triste momento senza dire nulla.
Neopard e Alyonesse erano lì, insieme, vivi e vegeti. Per farla breve (ancora una volta), Alyonesse era riuscita a fermare in tempo la mano del suo amato, deviando il colpo in modo tale da ferirlo di striscio. Erano comunque conciati male, ma l’intervento improvviso di un nuovo individuo – un ninja con un braccio solo di nome Sasuke – aveva permesso loro di sopravvivere. Sasuke aveva portato i due mercenari all’ospedale, dove con le dovute cure si erano ripresi perfettamente.
Ciò che avevano passato là fuori, tuttavia, aveva tolto a entrambi la voglia di lasciare l’edificio. Ormai avevano capito che Nul li aveva ingannati fin dall’inizio: li aveva messi l’uno contro l’altra perché si uccidessero a vicenda... un piano che per poco non era riuscito.  E ora stavano lì, seduti in un angolo a un tavolo della mensa, ad assistere in silenzio al brindisi in memoria dell’ennesimo eroe caduto. Privati di uno scopo, ma soprattutto della speranza.
Neopard sospirò, osservando da lontano il gruppo di eroi con cui condivideva a distanza il dolore.
« Plutz » borbottò. « Ormai non passa giorno senza che qualcuno ci lasci la pelle in questo posto. »
Alyonesse, al suo fianco, non disse nulla. Lui la fissò comprensivo.
« A cosa pensi? »
« La stessa cosa che pensi tu » rispose lei. « Penso inoltre che noi potremmo essere i prossimi. »
« Già... è strano aver paura solo ora, dopo tutto ciò che abbiamo passato in tanti anni. »
« Forse perché non avevamo mai affrontato una guerra del genere. »
« Una guerra in cui non credevamo di perdere così tanto. Cysssa... ancora non riesco a credere che persino lui... »
L’armadhiano tacque di colpo. Sembrava sul punto di scoppiare in lacrime, ma si trattenne. Alyonesse pose una mano sulla sua.
« Mi dispiace » gli disse. « So che eravate amici... più o meno. »
Neopard tirò su con il naso.
« Paperinik non aveva la stoffa del mercenario... ma era un ottimo alleato. Forse il migliore che abbia mai avuto. Avrei voluto combattere al suo fianco ancora una volta. »
« Di questo passo, temo che lo raggiungeremo presto » commentò Alyonesse.
Neopard si voltò a guardarla. Non poteva che darle ragione.
« Hai qualche rimpianto? »
L’armadhiana fece un verso carico di sarcasmo.
« Hah... qualche rimpianto? Cysssa, da dove comincio? Non sono mai riuscita ad acquistare un blaster trisonico arkaniano a buon prezzo. Non ho mai messo piede su Makaar, di cui mi hanno sempre parlato bene. Avrei tanto voluto accettare quella missione su Selicaudia VI, dove c’era da guadagnare un sacco, ma in quei giorni... »
« Avevi il ciclo, lo so » completò Neopard. « Capisco che hai un bel po’ di rimpianti, ma... non riesci a trovarne uno un po’ più serio? »
Alyonesse gli scoccò dapprima un’occhiataccia, come se avesse sottovalutato i rimpianti che aveva appena menzionato. Poi, tuttavia, ammorbidì lo sguardo e ci pensò su.
« Non siamo mai riusciti a sposarci » disse infine.
Lo sguardo di Neopard fu indecifrabile a causa degli occhialoni che indossava, ma in compenso fece un sorrisetto.
« Già... questo lo rimpiango anch’io. »
« Eppure siamo sempre stati bene insieme » ammise Alyonesse. « Insomma, tra noi ha sempre funzionato, no? Ti avrei sposato volentieri in qualsiasi momento... purtroppo il lavoro ci ha sempre costretti a rimandare l’impegno. Mi dispiace, Groft. »
« Uhm... be’, siamo ancora in tempo. »
« Cosa? »
« E se lo facessimo qui, El? Che ne pensi? »
Alyonesse sgranò gli occhi per lo stupore.
« Groft... fai sul serio? »
Neopard non rispose. In compenso si alzò dal posto e s’inginocchiò davanti a lei, allargando il sorriso.
« Dama Elenthari Lleyr Dalagh, vuoi sposarmi? »
Nessun altro nei paraggi parve aver visto o udito ciò che Neopard aveva appena fatto, ma non aveva alcuna importanza. Alyonesse, pur essendo tutt’altro che una tipa romantica, non poté impedire a una lacrima di sgorgare dai suoi occhi per la gioia.
« Io... sì! Sì! Ma certo! »
Neopard rise, soddisfatto.
« Allora è fatta! Sposiamoci... tanto vale farlo qui e adesso, visto che potrebbe essere la nostra ultima notte. »
« Sì, ma come? Questo è un ospedale, mica un santuario... non credo che troveremo un sacerdote pronto per l’occasione. »
« Vorrà dire che improvviseremo » tagliò corto Neopard. « Non è la prima volta che me la cavo con mezzi di fortuna... ricordi quella volta su Grullop? »
« Fin troppo bene, mio caro. »
I due lasciarono cadere il discorso mentre uscivano dalla mensa. Pur essendo disposti a procedere con la loro idea, entrambi i mercenari sapevano di non poterla attuare da soli. Avevano bisogno di qualcuno che celebrasse le nozze. A Neopard venne in mente una sola persona che avrebbe potuto aiutarli in quell’edificio, e la trovò dopo pochi minuti di ricerca: si trattava del dottor House, primario dell’ospedale e sua attuale massima autorità. Il medico si aggirava per un corridoio con aria annoiata, appoggiandosi al bastone come al solito.
« Ehi, dottore! » chiamò Neopard, attirando la sua attenzione.
« Ah, siete voi » borbottò House, guardandoli. « Che cosa volete? »
« Io e la mia fidanzata vorremmo sposarci, subito. Dal momento che è lei a comandare in questo posto, ritengo che sia la persona più indicata a celebrare la nostra unione. »
House fissò i due alieni senza parlare, manifestando solo un accenno d’incredulità. Dopo aver apprestato svariate cure a un gran numero di guerrieri, maghi, principesse e alieni provenienti da infiniti mondi diversi, ciò che Neopard gli aveva appena proposto non gli suonava poi così assurdo.
« Bah... sono un medico, mica un prete » rispose infine. « Purtroppo vi rivolgete al tipo sbagliato. »
Alyonesse si lasciò sfuggire un’imprecazione.
« Grabbaga plutz, e adesso? Non avete preti in questo posto? »    
« Non che io sappia, mi dispiace. »
Neopard provò a insistere.
« La prego, dottore... là fuori c’è una guerra. Un sacco di eroi sono già morti, e noi potremmo essere i prossimi. Perciò, se proprio dobbiamo morire, vorremmo almeno farlo come marito e moglie... è il nostro ultimo desiderio in questo dannato mondo.  »
House alzò gli occhi al cielo, visibilmente spazientito. Il discorso non l’aveva impressionato neanche un po’, ma non era comunque tipo da negare il proprio aiuto. Perciò ci pensò su.
« Uhm, forse conosco il tipo giusto per sposare una coppia di alieni. Venite con me. »
Neopard e Alyonesse seguirono il medico, che li condusse al piano inferiore. Percorsero insieme alcuni corridoi fino a raggiungere un’area etichettata da un cartello con su scritto “Reparto Psichiatrico”. Esso era pieno zeppo di personaggi sopravvissuti alla guerra con gravi danni mentali, e ora restavano rinchiusi in celle imbottite. House condusse la coppia fino all’ingresso di una cella: la porta era priva di nome, ma qualcuno vi aveva scritto il numero “4A” con un pennarello. Oltre la porta si udiva in quel momento un suono di bonghi.
Il medico aprì la porta: dentro la stanza c’era un giovane umano sulla trentina, alto e dalla fronte spaziosa. L’aria da nerd sarebbe stata evidente per qualsiasi abitante del suo mondo, ma non per Neopard e Alyonesse, che in quel momento vedevano solo ciò che appariva ai loro occhi: ovvero un semplice umano intento a suonare i bonghi.
« Buonasera, dottor Cooper » disse House a voce alta. Il giovane alzò appena lo sguardo, ma continuò a suonare.
« Salve, dottor House, le piacciono i bonghi? » esclamò canticchiando.
« Non quando un mio paziente li suona a notte fonda. »
« Non riesco a dormire, perciò suono i bonghi! » ribatté il giovane, continuando a suonare.
« Le dispiacerebbe smetterla? Vorrei presentarle qualcuno. »
« Non è un buon momento, perché suono i bonghi! »
Neopard e Alyonesse si scambiarono un’occhiata. Chi diavolo era quel tipo?
House sospirò seccato.
« Siete armati, vedo » disse ai due armadhiani. « Vi autorizzo a farlo smettere. »
Alyonesse non se lo fece ripetere. In un attimo afferrò il suo blaster e sparò ai bonghi, vaporizzandoli con una piccola esplosione. Il giovane chiamato Cooper restò immobile per la sorpresa. Qualcuno – di certo un paziente rinchiuso in una cella vicina – urlò « Finalmente! »
« Bene, ora che ho finalmente la sua intenzione passo a presentarle i miei accompagnatori » fece House, soddisfatto. « Signori, lui è il dottor Sheldon Cooper, del dipartimento di fisica alla Caltech. Dr. Cooper, questi sono il colonnello Neopard e la sua fidanzata, capitana Alyonesse... come può ben vedere sono due alieni. »
Sheldon Cooper concentrò finalmente l’attenzione sui nuovi arrivati. Gli armadhiani lo fissarono: effettivamente non aveva una bella cera. Indossava una maglietta rossa con un fulmine giallo strappata in vari punti, e aveva occhiaie profonde. Di certo aveva trascorso momenti difficili.
« Oh, buonasera » disse Sheldon. « Mi perdoni se le sembrerò scettico, dottor House, ma quali prove ha per dimostrare che i signori al suo fianco sono creature extraterrestri? A giudicare dal loro aspetto esteriore sembrano soltanto una gatta e un leopardo antropomorfi, ergo potrebbero benissimo provenire da una Terra parallela in cui l’evoluzione abbia favorito i felini anziché i primati. »
House sbuffò seccato.
« Se la cosa non la convince, si senta pure libero di scoprire la verità sul loro conto... dopo che si sarà occupato di una questione ben più urgente. Questi due vorrebbero convolare a nozze il prima possibile, e ritengo che lei sia il più indicato in questo istituto per celebrare un matrimonio tra... creature non umane. »
Sheldon sorrise.
« Be’, naturalmente sono lusingato per il suo interesse, dottore. Tuttavia, poiché si parla di matrimoni, tra le mie conoscenze posso vantare unicamente quella di una cerimonia tra klingon. E dal momento che i suddetti promessi sposi non sembrano imparentati in alcun modo con la razza klingon, non vedo proprio come sia possibile che io celebri le nozze per loro. »
« Klingon? » domandò Alyonesse. « Cosa sono i...? »
House cercò di interromperla con un « no! », ma Sheldon era già partito in quarta con la sua risposta.
« Sono contento che tu l’abbia chiesto, i klingon sono una specie extraterrestre umanoide dell'universo fantascientifico di Star Trek. Nella serie classica erano i maggiori antagonisti della Federazione dei... »
« Non abbiamo tutta la notte, dr. Cooper » lo interruppe House. « Sono certo che ai signori non dispiacerà, viste le circostanze, adattarsi al repertorio che lei sarà in grado di proporre. »
Sheldon fissò ancora gli armadhiani.
« Ma loro non sono dei klingon! » ribatté ostinato.
House sospirò.
« Come vuole » dichiarò il medico. « È chiaro che preferisce continuare a suonare i bonghi nella sua cella in tarda notte, anziché aiutare una coppia a coronare il loro sogno d’amore. In tal caso togliamo subito il disturbo. »
House, Neopard e Alyonesse fecero per uscire dalla stanza.
« Un momento! » esclamò Sheldon, fermandoli. « Va bene... direi che, viste le circostanze, posso fare un’eccezione. »
Il giovane si alzò dal pavimento e andò loro incontro, pronto a procedere con la richiesta. Gli armadhiani si scambiarono un’altra occhiata, non del tutto convinti.
« Quanti klingon ha unito in matrimonio, dottor Cooper? » domandò Neopard.
« Nessuno, naturalmente. I klingon non esistono. »
E sotto lo sguardo incredulo della coppia, Sheldon uscì dalla stanza insieme ad House. Il gruppo percorse il corridoio fino all’uscita, diretto verso un posto più adatto per celebrare le nozze: l’ospedale era dotato anche di una cappella, perfetta per l’occasione. Strada facendo, Alyonesse spiegò bene a Sheldon la situazione; Neopard ascoltava alle loro spalle, ancora un po’ incerto sul conto del ragazzo scelto come celebrante.
« Ehm, dottore... è sicuro della sua scelta? » domandò ad House a voce bassa. « Quel ragazzo non mi sembra un tipo con le rotelle a posto. »
« Per questo lo tenevo nel reparto psichiatrico » commentò il medico, impassibile. « Comunque è innocuo, non temete... e che ci crediate o no, è davvero uno scienziato. E anche molto brillante... o almeno lo era. »
« Cosa gli è accaduto? »
« Era già un disadattato prima di finire su Oblivion, anche più di me. Poi la sua mente ha subito il colpo di grazia quando ha visto il suo migliore amico e la fidanzata di lui rinchiusi in un cristallo al Cimitero dei Mondi. »
« Grabbaga plutz » si lasciò sfuggire Neopard per lo stupore. Aveva sentito parlare di quel luogo, sebbene non ci avesse mai messo piede: un’area in cui qualcuno si era divertito a radunare i corpi di molti eroi, rinchiudendoli in feretri di cristallo insieme alle loro amate. Inevitabilmente arrivò a chiedersi se lui e Alyonesse avrebbero subito la stessa sorte, quando Oblivion avesse infine reclamato la loro vita.
« Bene, eccoci qua » dichiarò House, una volta giunti alla cappella. « Qui potrete celebrare la vostra unione in tutta tranquillità. Se non vi occorre altro, non vi resta che procedere. »
« A dire il vero mancano i testimoni » obiettò Sheldon.
« Allora trovateli. Io ho già fatto la mia parte, per cui non mi resta che tornare ai miei affari... auguri e figli maschi! »
E senza degnarli di un ulteriore sguardo, il medico girò i tacchi e si allontanò zoppicando.
« E adesso? » brontolò Alyonesse. « Chi ci farà da testimoni? Non abbiamo amici in questo posto. »
« Troverò qualcuno » la rassicurò Neopard. « Tu pensa a finire di organizzare la cerimonia con il dottor Cooper, ci vediamo dopo. »
L’armadhiano si allontanò a sua volta, raggiungendo la hall. Non c’era molta gente, a parte i soliti Senzavolto che lavoravano nell’ospedale, ma a Neopard bastava: doveva reclutare solo due personaggi per il suo progetto. Inevitabilmente pensò a coloro che – più di tutti – avrebbe voluto al suo fianco in quel momento: il sergente Q’wynkennon, androide Mark 8, inseparabile compagno di avventure; il suo Chewbecca, per voi esperti di partner spaziali. E Paperinik, papero terrestre maldestro quanto coraggioso... l’alieno più temerario che avesse mai conosciuto.
Oblivion li aveva portati via entrambi, con suo cosmico dispiacere.
Sperando di trovare due degni sostituiti alla svelta, Neopard raggiunse il tipo più vicino nella hall: una specie di albero umanoide alto più di due metri che vagava per l’area con aria assente.
« Ehi amico, puoi aiutarmi? » lo chiamò Neopard.
L’uomo-albero si voltò a guardarlo, incuriosito.
« Io sono Groot » grugnì lui.
« Piacere, sono il colonnello Neopard. Mi sembri un tipo sveglio, oltre che sfaccendato... ti andrebbe di fare da testimone al mio matrimonio? »
Una pausa.
« Io sono Groot. »
« Oh? Sì, me l’hai già detto » fece Neopard. « Allora, mi faresti da testimone? »
« Io... sono Groot. »
« Plutz... ma hai capito quello che ho detto? »
« Io sono... Groot » ripeté ancora Groot.
Neopard cominciò a spazientirsi.
« Io – mi – sposo! » esclamò, scandendo ogni parola come se parlasse a un ritardato. « Tu – fare – testimone! Mi – capisci? »
« Io – sono – Groot » rispose Groot, alzando a sua volta la voce.
« Cysssa! Ma stasera c’è il raduno intergalattico dei pazzoidi? »
« Lascialo perdere, non sa dire altro. »
Neopard si voltò, attirato dalla nuova voce, e vide un ragazzo: a prima vista sembrava un altro umano qualsiasi; aveva il naso e la mascella sottili. Dimostrava una ventina d’anni e indossava una comune giacca e pantaloni neri. L’unico particolare evidente erano i capelli grigi come l’argento, lisci e lunghi fino alle spalle. Il suo sguardo era serio, quasi gelido.
Groot si allontanò nel frattempo, come se l’improvvisa comparsa del ragazzo lo avesse turbato.
« Umpf » brontolò Neopard. « Ma quello che problemi ha? »
« Non è colpa sua » gli rispose il ragazzo. « “Io sono Groot” è tutto quello che sa far uscire dalla sua bocca, ma non è stupido. Certo, per quello che vuoi fare tu non è il candidato più adatto. »
« E tu chi saresti? »
« Mi chiamo Eidan. Non ho potuto fare a meno di sentire ciò che dicevi... stai cercando un testimone per il tuo matrimonio, giusto? Be’, io stasera non ho niente di meglio da fare, perciò eccomi... pronto a fare la mia parte. »
Neopard si ammorbidì nel giro di un attimo.
« Fantastico! Ora serve qualcuno anche per la mia sposa... a chi potrei rivolgermi? »
« A me. »
Neopard si voltò ancora. Dalla parte opposta a Eidan era comparsa come dal nulla un altro essere umano: stavolta si trattava di una donna nera, molto bella, con una folta chioma di capelli dorati e occhi simili a quelli di un serpente. Era un po’ più alta di Eidan, e indossava un abito bianco lungo e sobrio.
« Oh! Salve » fece Neopard, sorpreso dalla sua improvvisa comparsa. « Tu saresti...? »
« Lilith » disse la donna. « Anch’io ho del tempo libero, e sarò lieta di fare da testimone per la tua sposa. »
In un batter d’occhio, l’armadhiano aveva ottenuto ciò che cercava, perciò si strofinò le mani con aria soddisfatta. Ecco perché non fece assolutamente caso allo sguardo che si scambiarono Eidan e Lilith in quel momento... come se tra loro ci fosse qualcosa di complicato.
Neopard non sapeva assolutamente nulla di loro, ma se accettavano di aiutarlo per organizzare il matrimonio, conoscere i loro nomi era sufficiente.
« Molto bene, signori! » esclamò. « Se volete seguirmi fino alla cappella, possiamo procedere immediatamente. »
Mezz’ora dopo, era tutto pronto. La cappella dell’ospedale accoglieva ora tutti i membri necessari per le nozze: Sheldon Cooper stava in piedi sull’altare, ben informato sull’identità dei due sposi; in pochi minuti era riuscito a condensare le tradizioni terrestri, armadhiane e klingon in una breve cerimonia nuziale e non vedeva l’ora di pronunciarla a voce alta. Neopard stava al suo posto, in attesa della sposa che sostava fuori dalla porta. I due testimoni, Eidan e Lilith, attendevano silenziosi ai lati. Non vi erano altri partecipanti alle nozze, eccezion fatta per il dottor House (tornato indietro dopo aver capito di non avere affari a cui tornare), seduto su una delle panche in quarta fila, e Groot: quest’ultimo si era presentato nella cappella seguendo Neopard e gli altri, nonostante nessuno lo avesse invitato.
« Se per lei va bene, colonnello, possiamo cominciare » disse Sheldon.
« Sì, certo » annuì Neopard, leggermente ansioso. « Ehm... sicuro di aver capito tutto? Ha memorizzato ogni particolare su di noi? »
« Naturalmente. Non per vantarmi, ma ho una memoria eidetica. Potrei recitarle l’intera tavola periodica degli elementi, se lo volessi, compresi i... »
Un sonoro colpo di tosse (palesemente forzato) di Eidan interruppe lo sproloquio. Lilith fu sul punto di ridere, ma si trattenne.
« Va bene, cominciamo » aggiunse il giovane, tirando fuori uno smartphone. « Purtroppo temo di non avere alcun brano proveniente dal sistema di Armadha in memoria, ma immagino che – date le circostanze – potrete accontentarvi di una classica marcia nuziale terrestre. »
Neopard annuì ancora. Sheldon premette il tasto sul cellulare, e la musica partì.
Alyonesse fece il suo ingresso, percorrendo piano la navata. Non si era cambiata d’abito né si era truccata: continuava a indossare la solita corazza viola e portava un fucile laser appeso alla schiena, ma a Neopard non importava. In quel momento non vedeva una feroce mercenaria, bensì la donna per cui aveva perso la testa anni fa. La compagna perfetta, colei che voleva al suo fianco per tutta la vita... o almeno per tutto il tempo che gli restava. Alyonesse aveva percorso metà strada quando Groot le si avvicinò: tese un braccio, e dal suo legno crebbe uno splendido mazzo di fiori bianchi nel giro di pochi secondi. Alyonesse ne fu sorpresa, ma poi lo prese con un sorriso.
« Grazie! »
« Io sono Groot. »
L’armadhiana proseguì, raggiungendo Neopard davanti all’altare. Terminata la musica, Sheldon Cooper fu libero di celebrare.
« Gli dei forgiarono con il fuoco e l'acciaio il cuore armadhiano » disse con aria solenne, « e videro che quel cuore batteva forte e orgoglioso e dissero: "Oggi abbiamo creato il cuore più forte di tutto l'universo. Nessuno potrà stare dinanzi ad esso senza tremare”. Ma dopo qualche tempo videro che quel cuore batteva con minor potenza ed allora gli chiesero: "Perché sei più debole? Noi ti abbiamo creato come il più forte di tutto l'universo”. Ed il cuore rispose loro... »
Neopard, ricordando il suo ruolo, fece un passo in avanti e disse: « Sono solo. »
« Allora gli dei si accorsero del loro errore e forgiarono un altro cuore... »
Alyonesse fece un passo in avanti a sua volta, mettendosi di fronte allo sposo.
« Ma questo secondo cuore » proseguì Sheldon « batteva più forte del primo, ed il primo ne era geloso. »
Per i due sposi venne il momento del giuramento. Durante le nozze gli armadhiani non si scambiavano anelli come sulla Terra, bensì le armi: così Neopard estrasse la sua pistola dalla fondina, la ammirò e con un lieve sospiro la porse ad Alyonesse.
« Dama Elenthari Lleyr Dalagh » disse deciso, « questo blaster Plasmadha X3 modificato mi ha servito in 72 missioni negli ultimi anni, e mi ha salvato la pelle almeno in metà di esse. Ti prego di accettarlo come segno del mio amore e della mia fedeltà per te. »
Alyonesse prese l’arma. Non disse nulla, ma nei suoi occhi era evidente la commozione: per lei, un’armadhiana, quel gesto significava molto. Ora toccava a lei; afferrò dunque il suo fucile, lo ammirò e lo tese in avanti.
« Groft Var Moor » disse, con voce leggermente tremante. « Questo... questo quadrifucile PK87b rigelliano è stato mio fedele compagno fin da quando ho intrapreso la via della guerra. Ha massacrato interi eserciti nemici senza mai incepparsi. Mi ha permesso di conquistare la fortezza di Taa’aaT tutta da sola. T-ti prego di accettarlo... come segno del mio amore e della mia fedeltà per te. »
Neopard rimase, se possibile, ancora più colpito. Da quando stavano insieme, Alyonesse non gli aveva mai permesso di toccare quel fucile! Fu l’unico in quel momento a trovare commovente quel gesto; accanto a lui, invece, Eidan e Lilith si scambiavano un’occhiata dubbiosa.
Nel frattempo, i due mercenari rinfoderarono le armi appena scambiate.
« Se noi ci uniamo nessuno ci potrà mai fermare » dichiarò Neopard, prendendo le mani di Alyonesse tra le sue.
Sheldon parlò ancora.
« E quando i due cuori si unirono, batterono così forte che per la prima volta gli dei provarono realmente la paura. Essi tentarono di fuggire ma ormai era troppo tardi. I due cuori armadhiani distrussero gli dei che li avevano creati e lasciarono il paradiso. Da quel giorno nessuno può opporsi all'unione di due cuori armadhiani... nemmeno io.
« Groft Var Moor, il tuo cuore batte solo per questa... ehm, gatta? »
Neopard rispose: « Sì. »
« Starai al suo fianco contro chiunque si opponga a voi? »
« Sì. »
« Dama Elenthari Lleyr Dalagh, il tuo cuore batte solo per questo... felino? »
« Sì » rispose Alyonesse.
« Starai al suo fianco contro chiunque si opponga a voi? »
« Sì. »
Sheldon, rivolgendosi al pubblico, proclamò: « Allora tutti i presenti sappiano che questo felino e questa gatta oggi sono sposati. Prego, colonnello... può strusciarsi con la sposa. »
« Cosa? » fece Neopard, incerto.
« Come vi scambiate effusioni voi di Armadha? »
« Oh! Ci baciamo, che domande... non siamo mica animali! »
« Dal mio punto di vista sì » ribatté Sheldon, ostinato. « Mah... credevo avreste fatto come ne Il Re Leone. »
Eidan alzò gli occhi al cielo.
Sheldon fece ripartire la musica mentre Neopard e Alyonesse si scambiavano un bacio appassionato. Eidan, Lilith e il dottor House applaudirono subito dopo, seguiti da Groot che impiegò un po’ a capire come fare un applauso decente.
Era fatta. Un’altra missione era compiuta... la più importante di tutte. In quel momento riuscirono a tenere a distanza lo stato delle cose: Oblivion e la guerra sembravano a un universo di distanza mentre Neopard e Alyonesse si univano in matrimonio. Uniti per la vita.
« Be’... non è andata poi tanto male, vero? » commentò Neopard poco più tardi.
« No » rispose Alyonesse, accanto a lui. « È andata bene, direi... più che bene. Mi ha reso molto felice, nonostante tutto. »
I due sposi erano seduti sui gradini all’ingresso dell’ospedale, fissando l’orizzonte. Non si vedeva granché a causa dell’oscurità, ma poco importava. C’era silenzio e pace, quasi assoluta: Oblivion sembrava concederli solo durante la notte, permettendo ai sopravvissuti di riposare. E di prepararsi a un nuovo giorno di conflitti.
« Plutz » borbottò Neopard dopo una pausa. « Ora più che mai vorrei trovarmi su Extraluss... il posto perfetto per goderci la nostra luna di miele. Purtroppo dobbiamo accontentarci di questo. »
Alyonesse si alzò in piedi, mostrando al marito un inaspettato sorriso.
« Anche se ci trovassimo nell’Abisso di Proteus, sarei più che lieta di attraversarlo al tuo fianco. Io e te ne abbiamo fatte tante, Groft, sia come alleati che come avversari... e sono pronta a farne tante altre, ora che abbiamo consolidato il nostro legame. Questo mondo non mi spaventa più. »
Neopard, incoraggiato, sorrise e si alzò in piedi a sua volta.
« Bene, allora » dichiarò. « Abbiamo firmato il modulo di dimissioni e fatto rifornimento... ormai nulla ci trattiene in questo ospedale. Sei pronta ad andare, moglie? »
Alyonesse estrasse la pistola ricevuta in dono.
« Plutz! Sono prontissima, marito mio. »
Neopard sollevò il fucile, sempre più soddisfatto.
« Grabbaga plutz! Allora andiamo... abbiamo un cliente imbroglione da scovare! »
I due armadhiani si misero in cammino, armi in pugno, addentrandosi senza paura nell’oscurità. Ora che avevano realizzato il loro più grande desiderio, potevano andare all’altro mondo senza rimpianti... meglio ancora se fossero riusciti a farla pagare a Nul prima di esalare l’ultimo respiro. Avevano un intero campo di battaglia da attraversare, e tutto il tempo del mondo per farlo. Non avevano fretta... ma soprattutto, non avevano più nulla da perdere.
Così Neopard e Alyonesse lasciarono l’ospedale, del tutto ignari che il loro obiettivo era proprio alle loro spalle. Proprio in quel momento, infatti, un giovane dai capelli d’argento – lo stesso che aveva fatto da testimone allo sposo poco prima – stava in piedi sul tetto dell’edificio, osservando in silenzio la scena. Eidan li vide allontanarsi e addentrarsi nell’oscurità senza battere ciglio.
Si voltò, attirato da un movimento alle sue spalle. Lilith era là con lui, intenta ad annusare il bouquet di fiori di Alyonesse: poiché era l’unica donna presente al matrimonio, l’armadhiana aveva pensato bene di consegnarle subito il bouquet, senza doverlo lanciare in aria.
« Non ti ci abituare » le disse Eidan, gelido. « Sai che quella roba non dura a lungo, da queste parti. »
« Lo so » ribatté Lilith, « è per questo che cerco di godermeli il più possibile. Lo stesso stanno facendo quei due piccioncini laggiù, se ci pensi... assaporano tutto il tempo che gli resta su questo mondo. »
Eidan rivolse lo sguardo al buio.
« Quel tempo sarà molto più breve di quanto credano. Tra poche ore Sauron, l’Oscuro Signore, sarà pronto a colpire... e tutti questi eroi che si ostinano a restare vivi cadranno come cadaveri ai nostri piedi. »
Lilith non disse nulla, ma avanzò fino a trovarsi al fianco di Eidan.
« Vuoi distruggerli tutti... eppure concedi loro questi piccoli momenti di gioia » osservò. « Perché lo fai, se il tuo fine ultimo è la morte di ogni cosa? »
« Perché li ammiro » rispose Eidan, guardando avanti. « Dal primo all’ultimo. Non mi piace il ruolo di distruttore, Lilith, lo sai anche tu... è la Volontà Suprema che me lo fa fare. Ma se devo dare la morte a tutti questi personaggi – tutti questi eroi – allora farò in modo che si spengano nel modo giusto... senza rimpianti. Se resterà qualcosa dei signori Var Moor dopo domani, mi assicurerò che riposino in eterno in un cristallo. »
Lilith ridacchiò con aria beffarda.
« E come la metti con tutti gli altri? Sheldon, il dottor House, e tutte quelle povere anime rinchiuse nel reparto psichiatrico sotto i nostri piedi? Hai in mente un gran bel finale anche per loro? »
« Hanno avuto la loro occasione per brillare un’ultima volta nell’oscurità. Ora non resta loro che trovare la pace, nell’imminente oblio. »
« Hahaha... che sentimentale » commentò Lilith. « Ma del resto lo so già... altrimenti non trascorreresti così tanto tempo tra le mie braccia, amor mio. Né verseresti lacrime in gran segreto ogni volta che un cavaliere Jedi tira le cuoia davanti ai tuoi occhi. »
Eidan non rispose, limitandosi a lanciarle una nuova occhiata gelida.
« Bah, fa’ come ti pare... del resto io non sono migliore di te. Continua pure su questa strada, Eidan. »
Il ragazzo continuò a tacere mentre si copriva il volto con un cappuccio bianco.
« Mi chiamo Nul. »
« Scusa, Eidan » rispose Lilith.
E se ne andò, lasciandolo solo sul tetto dell’ospedale.

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Capitolo 11
*** Il mio cuore, oceano di pace ***


Il mio cuore, oceano di pace
 
Image and video hosting by TinyPic Ovunque voltasse lo sguardo, non vedeva che oscurità. Il buio totale. Un abisso in cui stava precipitando senza controllo. Era la fine, lo sentiva... la fine della battaglia.
Riku stava per svanire completamente. Aveva fatto tutto il possibile per sopravvivere, ma non era bastato. Aveva lottato fino all’ultimo respiro, finché alla fine – inevitabilmente – le forze non erano venute meno.
E ora stava andando incontro alla fine.
Si era illuso di poter sfuggire all’oscurità per tutto questo tempo. Ma forse Ansem aveva ragione: l’oscurità, prima o poi, conquista tutto.
Anche il suo cuore.
Improvvisamente, la caduta parve rallentare. Riku sentì una voce, dolce ma ignota. Lo chiamava per nome.
« Riku... »
Il giovane si guardò intorno ma non vide nulla.
« Che succede? Chi sei? »
« Non è importante. »
Riku sospirò.
« E ti pareva. Non è la prima volta che qualcuno mi fa questo giochetto. Va bene... che cosa vuoi da me? »
« Credi che sia la fine, ma ti sbagli. Il tuo cuore vive ancora... non merita di sprofondare nel buio eterno, ma devi essere tu a volerlo. »
« Non capisco. »
« Non è importante che tu capisca. È importante che tu scelga. Posso donarti luce e pace... perciò dimmi, Riku: cosa desideri? »
Riku guardò verso il basso, dove l’abisso lo attendeva.
« Uhm... di certo non mi va di finire laggiù » rispose.
Contemporaneamente, una gran luce brillò sopra di lui.
« Molto bene » dichiarò la voce. « Hai scelto. Luce e pace... le avrai entrambe, dove ti porterò. Sii felice, Riku, perché non sarai solo. »
« Aspetta! Non puoi dirmi chi sei? Dimmi il tuo nome, almeno! »
Dapprima fu il silenzio, ma quando la luce si fece abbagliante, Riku udì la risposta.
« Te Fiti. »
 
« Ehi, stai bene? Mi senti? »
Riku aprì lentamente gli occhi, dopo che qualcuno aveva iniziato a scuoterlo. Si ritrovò disteso su una superficie sabbiosa. I suoi vestiti erano umidi per l’acqua di mare, e una fresca brezza marina soffiava sopra di lui. Cercò di mettere a fuoco l’ambiente che lo circondava: da un lato vi era il mare, calmo e limpido sotto il cielo sereno; dall’altro, invece, vi era la spiaggia, una lunga distesa di sabbia, rocce e palme che si estendeva in entrambe le direzioni. Il luogo era molto familiare.
Riku pensò subito di essere tornato a casa, nel suo mondo, quando la voce che lo aveva svegliato attirò di nuovo la sua attenzione.
« Meno male, sei vivo! »
Riku si voltò. Si rese conto che al suo fianco c’era una ragazza: alta poco meno di lui, la pelle scura e con una folta chioma di capelli neri ondulati; indossava vesti da indigena di tonalità rossa. In quel momento fissava il ragazzo con i suoi grandi occhi ambrati, dimostrando un enorme sollievo.
Riku non la conosceva, ma provò un certo imbarazzo nel trovarsi a meno di un metro dal suo viso.
« Uhm... ciao » mormorò, alzandosi a sedere. « Tu chi sei? Da dove salti fuori? »
« Sono Vaiana » rispose la ragazza. « Vaiana di Motunui. E tu? »
« Riku. »
Il ragazzo si alzò dunque in piedi, guardandosi intorno. Bastò mezzo minuto per capire che il luogo che lo circondava non era la sua isola, anche se nell’aspetto e nella quiete che regnava ci assomigliava molto. Ma come ci era arrivato? Non riusciva a ricordarlo.
« Ehi, mi ascolti? » lo chiamò Vaiana di nuovo.
« Oh, scusami... cercavo di capire dove mi trovo. Cosa dicevi? »
« Ti chiedevo se sei sicuro di stare bene. »
« Sì, credo di sì. »
« Sicuro? Sei così bianco, persino sui capelli... non è che sei un semidio, un demone o qualche altro essere sovrannaturale? »
Riku inarcò un sopracciglio.
« No, sono uno normale, te lo assicuro. »
Il discorso cadde quasi automaticamente. Riku ne dedusse che Vaiana proveniva da un mondo diverso dal suo, dove evidentemente avevano tutti la pelle scura. Un po’ come gli abitanti di Agrabah, a pensarci bene. Da questo punto di vista, infatti, Vaiana gli ricordava molto la principessa di quel mondo lontano.
Ma ora aveva ben altro a cui pensare...
« Dove ci troviamo? » chiese. « Tu conosci questo posto? »
Vaiana annuì.
« Sì, questa è Te Fiti. L’Isola Madre, fonte del potere della creazione. Luogo d’origine di tutta la vita di questo mondo. »
Te Fiti...
Quel nome gli provocò una strana sensazione. Era certo di averlo già sentito da qualche parte, ma non ricordava dove né quando. C’era ancora molta confusione nella sua testa.
« Però, devi venire da parecchio lontano se non conosci Te Fiti » diceva nel frattempo Vaiana. « Ho indovinato, Riku? »
« Uhm... sì, esatto. Vengo da un’isola molto lontana » rispose lui. « Temo di essermi perso, però... non so nemmeno come sono finito qui. »
« Colpa della tempesta, sicuramente. »
« Quale tempesta? »
« Quella che infuriava in questo tratto di mare fino a ieri, e alla quale io stessa sono sopravvissuta per miracolo. Solcavo l’oceano con la mia gente in cerca di nuove terre, ma la tempesta mi ha separata da loro facendomi naufragare qui. Mi sono risvegliata sulla spiaggia poca fa, proprio come te. »
Riku incrociò le braccia mentre assimilava le ultime informazioni ricevute. Purtroppo non gli erano di alcun aiuto, in quel momento.
« Non ricordi proprio niente? Neanche la tempesta? » domandò Vaiana, intercettando la sua espressione.
« Purtroppo no. Ad ogni modo poco importa... magari più tardi mi tornerà tutto in mente. La cosa importante, adesso, è tornare da dove sono venuto. Tempesta o no, ora il mare è di nuovo calmo, non sarebbe un problema prendere il largo adesso. Tu hai una barca? »
« Ecco... è proprio questo il problema più grave. »
Vaiana fece cenno a Riku di seguirla. Camminarono insieme lungo la spiaggia per qualche centinaio di metri, finché la ragazza non si fermò: indicò un grosso ammasso di tronchi spezzati, incastrato tra due scogli che emergevano dal bagnasciuga.
« Quella è la mia barca » disse Vaiana, mortifera. « O almeno lo era... la tempesta me l’ha fatta a pezzi. A guardarla bene, mi sembra un miracolo che io non mi sia fatta un graffio. »
Riku sospirò, spostando lo sguardo dalla barca verso la vegetazione.
« Be’, non mi sembra così grave. Certo, con la tua barca non andremo da nessuna parte, ma si può rimediare... ne costruiremo una nuova. »
Vaiana lo guardò sorpresa.
« Ne sei capace? »
« Sì » rispose Riku con un sorrisetto. « Una volta ho costruito una zattera, e quasi tutta da solo. Con i resti della tua barca, un po’ di materia prima dell’isola e molto olio di gomito... potremo costruire una barca nuova in pochi giorni. »
Il giovane si aspettò che la sua nuova amica tirasse fuori un’espressione contrariata, tipica di chi non ama la prospettiva di un lavoro di fatica. Fu molto sorpreso, infatti, nel vedere Vaiana sfoggiare un sorriso a trentadue denti... forse meno, ma che dimostrava comunque un’aria compiaciuta.
« Fantastico! » esclamò la ragazza. « Una barca nuova in pochi giorni, e che sarà mai? Per me possiamo cominciare subito. »
Riku tacque, ancora più sorpreso.
« Uhm... ok, certo. Per prima cosa... sì, prendiamo dalla tua barca tutto ciò che è ancora utilizzabile. »
Si misero subito all’opera. Riku e Vaiana unirono le forze e in poco tempo recuperarono materiale prezioso dai resti della barca: corde, tronchi e una vela non troppo danneggiata. Non era molto, ma avrebbe certamente reso più facile la costruzione di una barca nuova.
A Riku parve – inevitabilmente – di essere tornato indietro nel tempo: ai giorni in cui viveva felice con i suoi amici sulle Isole del Destino... luogo che tuttavia desiderava lasciare per visitare altri mondi. Per questo aveva costruito una zattera con l’aiuto (piccolo) di Sora e Kairi, sperando di attraversare l’oceano per approdare su nuove terre. Un sogno tramutatosi in incubo dopo che l’Oscurità invase il suo mondo, dando inizio all’avventura.
Il ragazzo interruppe i ricordi non appena raggiunse il più vicino gruppo di palme, seguito a ruota da Vaiana. Occorreva molta legna per costruire un’imbarcazione decente, e davanti ai suoi occhi ne vedeva in abbondanza. Riku passeggiò con calma tra i tronchi, esaminandone il legno con qualche colpetto. Vaiana lo osservava a distanza, mentre un gran numero di sensazioni crescevano nel frattempo nel suo animo: cominciava ad ammirare quel ragazzo, pur non sapendo quasi nulla di lui... ma il fatto che avesse preso in mano la situazione così in fretta era da ammirare.
« Bene, la qualità di questi tronchi è ottima » dichiarò Riku, tornando da Vaiana.
« Te Fiti offre solo il meglio, quando si parla di natura » commentò lei con un sorriso.
« Che vuoi dire? »
« Oh... niente, non importa. Come procediamo adesso? Per la legna dovremo buttare giù un bel po’ di palme, ma senza gli attrezzi giusti la vedo dura. »
« Tranquilla, ho con me l’attrezzo perfetto. Sta’ indietro... »
Mentre Vaiana obbediva all’ordine, un’arma si manifestò improvvisamente sulla mano destra di Riku: una spada in forma di chiave, la cui lama e i denti apparivano rispettivamente come l’ala di un pipistrello e quella di un angelo. Il Keyblade, l’arma suprema, in grado di aprire e chiudere le porte di ogni mondo. L’arma che rendeva quel ragazzo un prescelto... un eroe.
Vaiana trattenne il fiato per lo stupore.
« Kahu o ka’naa! »
Riku si voltò.
« Cosa? »
« Tu sei Kahu o ka’naa! » esclamò Vaiana, meravigliata. « Una sentinella... un guardiano del cuore del mondo! Un salvatore venuto dal Grande Oltre! »
Il giovane rimase senza parole. Dal poco che aveva udito, intuì che Vaiana lo aveva appena riconosciuto come un Custode del Keyblade.
« Come fai a saperlo? » domandò.
« Mia nonna mi ha raccontato un sacco di storie, miti e leggende... compresa questa » spiegò la ragazza. « Quando le tenebre minacciano il cuore del mondo, dal Grande Oltre giunge Kahu o ka’naa per proteggerlo. Con la sua lama chiude la porta che conduce al cuore, così che le tenebre non possano più consumare il mondo. »
Silenzio. Riku era così sorpreso che non riuscì a ribattere in alcun modo. Non si aspettava affatto una simile rivelazione: finora aveva creduto di aver a che fare con una giovane selvaggia, del tutto ignara di cosa ci fosse al di là del mare e delle isole. Si vergognò all’istante per averlo pensato. Poi si rese conto che negli occhi di Vaiana non c’era affatto timore, ma solo meraviglia... e forse entusiasmo.
« Ecco, io... »
« Ecco perché hai un aspetto così strano » lo interruppe ancora Vaiana. « Certo, vieni dal Grande Oltre... e se Kahu o ka’naa è qui significa che il mondo è di nuovo in pericolo! Proprio qui... Te Fiti! Sei venuto per il suo cuore? »
« Cuore? Di Te Fiti? Scusa ma non so di cosa parli, io non ricordo nemmeno come sono finito su quest’isola. Comunque non devi preoccuparti, i mondi non sono più in pericolo... io e i miei amici abbiamo già salvato la situazione. »
Riku tacque, ripensando a ciò che aveva appena detto. Era certo che i mondi fossero al sicuro? I suoi ricordi sugli ultimi avvenimenti erano frammentari, eppure nel suo cuore covava una certezza: l’avventura si era conclusa, i nemici erano stati sconfitti. Per questo, ora, Riku non era preoccupato per i suoi amici... pensava solo a tornare a casa.
« Dài, mettiamoci al lavoro » dichiarò tagliando corto. Brandì il Keyblade e spiccò un balzo verso le palme, sferrando una serie di rapidissimi fendenti. Pochi secondi dopo, una mezza dozzina di tronchi cadde a terra ai suoi piedi, perfettamente tagliati, sotto lo sguardo esterrefatto di Vaiana.
« Fantastico » sussurrò meravigliata.
Così i due cominciarono a darsi da fare. Il Keyblade di Riku, pur rendendo più facile il lavoro, non lo rendeva meno lungo... ma dove lui metteva la forza bruta, Vaiana metteva l’ingegno; venne fuori, in effetti, che la ragazza la sapeva lunga sulle barche e la navigazione, molto più di Riku. Lavorarono insieme per diverse ore, radunando i tronchi e fabbricando nuove corde. Poi, quando il sole cominciò a tramontare, furono costretti a fermarsi. C’era ancora molto da fare, ma avrebbero proseguito l’indomani; così, mentre Vaiana si addentrò nella vegetazione in cerca di cibo, Riku fabbricò un piccolo riparo per la notte, realizzato in pochi minuti con un telo e un po’ di legna. Vaiana non era ancora tornata, così ne approfittò per pescare; aveva appena preso un grosso pesce quando vide la sua nuova amica di ritorno, con le braccia cariche di frutta.
Però... disse il giovane tra sé, facendo un sorrisetto. È davvero in gamba.
Poco dopo, i due erano seduti accanto a un fuoco, acceso in un istante con la magia di Riku. Questo, naturalmente, diede a Vaiana un altro motivo per osservare il ragazzo con aria meravigliata... ma quando notò che Riku aveva un’aria tutt’altro che allegra si fece più seria.
« Certo che, per essere un eroe, non dimostri molta allegria quando usi i tuoi poteri » commentò.
Riku sospirò, mentre sistemava il pesce sul fuoco.
« Purtroppo non sono diventato un eroe in modo allegro » disse. « La mia strada come Custode del Keyblade è cominciata molto male... poi, con il tempo, le cose sono migliorate. Ma quello che ho fatto non si può dimenticare. »
« Perché? Che cosa hai fatto di così grave? »
« Io... scusami, Vaiana, ma non mi va di parlarne. »
Vaiana lo fissò preoccupata per qualche secondo, poi lasciò stare.
« Va bene » dichiarò, sorridendo. « Aspetterò finché non sarai pronto. »
Riku annuì, e nel frattempo fissò l’orizzonte. Era calata ormai la sera, e le prime stelle cominciavano a brillare forte nel buio. Un gruppo di stelle attirò in particolare la sua attenzione: una costellazione a forma di amo da pesca, molto vicina alla linea dell’orizzonte.
« Curioso... non avevo mai visto una costellazione del genere » osservò Riku.
« Quelle stelle indicano il luogo dove si trova Maui » spiegò Vaiana.
« Maui? »
« Il semidio del vento e del mare. L’ho conosciuto durante la mia avventura. A prima vista può sembrare un tipaccio, ma in lui batte forte il cuore di un vero eroe. Ha fatto grandi cose per l’umanità, ma a volte ha rischiato persino di causare una catastrofe... »
Vaiana iniziò dunque a raccontare la sua avventura, cominciata fin da quando era nata. Maui aveva rubato il cuore della dea Te Fiti un millennio prima, causando la distruzione dell’isola e il dilagare dell’oscurità e dei mostri in tutto il mondo. Vaiana, figlia del capotribù di Motunui, fu scelta dall’oceano per restituire il cuore alla dea, ma per riuscire in tale impresa aveva avuto bisogno di Maui. Non era stato facile andare d’accordo con il semidio, ma alla fine avevano unito le forze e completato la missione, dopo aver affrontato insidie e pericoli di ogni sorta. Ora l’oceano, le isole e i popoli erano al sicuro, e l’isola di Te Fiti era rinata.
Riku ascoltò la storia della giovane con attenzione. Dal suo punto di vista non era un’avventura troppo diversa da quelle vissute da lui e dal suo amico Sora, ma c’era un particolare che lo aveva colpito. A quanto pare, Vaiana covava fin da piccola il desiderio di lasciare la sua isola e avventurarsi per mare... una curiosità per il mondo esterno e uno spirito di avventura identici a quelli di Riku, che a sua volta lo avevano spinto a partire insieme ai suoi amici.
Tra un passato ricco di avventura e una voglia matta di solcare gli oceani, il Custode del Keyblade cominciò a rendersi conto quanto lui e Vaiana avessero in comune... e la cosa non gli dispiaceva affatto.
« Frutta? » gli chiese Vaiana in quel momento, offrendogli il cesto.
« Sì, grazie… oh! »
Riku sgranò gli occhi per la sorpresa. Tra i frutti che la principessa gli stava offrendo ce n’era uno giallo a forma di stella.
« Che c’è? »
« Quel frutto » fece Riku, indicandolo. « Lo conosco, è un paopu. Dove lo hai preso? »
« Da quest’isola, naturalmente. Cresce anche sulla tua? »
« Sì... non mi aspettavo affatto di trovarlo anche qui. »
Vaiana, ispirata, prese il paopu nel frattempo e gli diede un morso.
« Mmm, è delizioso! Ne vuoi un po’? »
Riku arrossì di colpo.
« Ehm, grazie ma... non posso. Vedi, il paopu ha un significato particolare sulla mia isola. Se due persone dividono un paopu, i loro destini s’intrecciano... e saranno legati l’uno all’altra per tutta la vita. »
Vaiana osservò il frutto, visibilmente colpita.
« Oh, capisco. È tipo un frutto dell’amore, insomma. »
Riku ridacchiò.
« Be’... sì, si può dire così, in effetti. »
« Com’è romantico! » esclamò Vaiana. « Vorrei che ci fosse anche a Motunui! Allora tu... hai già diviso questa cosa con qualcuno? »
« Nah... » fece Riku. « Al massimo conosco qualcuno che muore dalla voglia di dividerlo con la ragazza del suo cuore. »
Inevitabilmente pensò a Sora e Kairi. Si chiese cosa stavano facendo, ma nel frattempo persisteva la certezza che stavano benissimo... ecco perché non si preoccupò minimamente per loro.
La voce di Vaiana lo riportò su quella spiaggia.
« Immagino che questo frutto sia cresciuto qui per volere di Te Fiti » osservò la principessa. « Deve aver sentito la tua presenza sull’isola e ha voluto donarti qualcosa che provenisse da casa tua, per farti stare meglio. »
« Uhm... può darsi. Dagli dèi non sai mai cosa aspettarti, dopotutto. »
« Forse vuole anche ricordarti la storia dei destini intrecciati. Dico sul serio, Riku...  non vorresti dividere un paopu con una persona speciale? »
Riku non riuscì a rispondere subito. Sicuramente non era un argomento facile per lui, e il fatto che Vaiana continuasse a fissarlo non aiutava. Quei grandi occhi ambrati resi brillanti alla luce del fuoco, belli come pepite...
« Chissà » mormorò, fissando il mare. « Ultimamente non ho avuto il tempo di pensare a cose del genere. E a pensarci bene, non sono sicuro... dubito che una ragazza vorrebbe intrecciare il suo destino a un tipo come me. »
Vaiana restò in silenzio. Era sicura che Riku le nascondesse qualcosa di spiacevole... qualcosa che aveva fatto e di cui non andava fiero. Non volle indagare oltre, perché dopotutto aveva una certa esperienza con individui dal passato oscuro. Da questo punto di vista, Riku non era diverso da Maui.
« Io non vedo niente di male in te » disse Vaiana, attirando l’attenzione del giovane. « E se in passato hai fatto qualcosa di male, capisco che ora stai lottando per lasciartelo per sempre alle spalle. Per questo... uhm... oltre al fatto che sei carino... io sarei felice di intrecciare il mio destino a un tipo come te. »
Riku si sentì avvampare. Ringraziò infinitamente il cielo per non avere uno specchio a portata di mano, per non vedere il suo viso diventato rosso per l’imbarazzo. Ad ogni modo, né lui né Vaiana aggiunsero qualcosa al riguardo, e l’argomento cadde automaticamente mentre guardavano da un’altra parte. Terminarono di cenare pochi minuti dopo, ed entrambi si ritirarono nei loro ripari per dormire. Per il Custode del Keyblade non fu facile prendere sonno, nonostante fosse molto stanco: le parole della principessa risuonarono a lungo nella sua testa, causando un miscuglio caotico di pensieri.
Vaiana lo trovava carino.
Anche lei... è molto carina, pensò.
 
L’intera Game Central Station era caduta. Quasi nessuno aveva trovato scampo dalla distruzione totale, causata da un’improvvisa invasione di Scarafoidi. I pochi superstiti si erano rifugiati nelle profondità del gioco Pac-Man, nella sala riservata alle riunioni dei Cattivi Anonimi.
Riku era uno di loro. Faceva del suo meglio per barricare l’unico ingresso alla sala, insieme agli altri eroi rimasti: Ralph Spaccatutto, Felix Aggiustatutto, il sergente Calhoun, Vanellope e un gruppo di soldati di Hero’s Duty. L’ultima resistenza contro l’invasione di Scarafoidi.
Riku era certo che non barricarsi là dentro non sarebbe servito a molto. Avrebbe solo rimandato una sorte ormai inevitabile. Il nemico era troppo forte questa volta... il potere dell’Oscurità non lo avrebbe protetto contro ciò che si stava scatenando là fuori.
Nul, il Mai Nato. Il distruttore di mondi. Più crudele e spietato dell’Oscurità stessa.
Ma era sicuro che non tutto era perduto. Sora era sparito da prima dell’attacco... era certo che se la fosse cavata in qualche modo. Avrebbe voluto combattere al suo fianco per l’ultima volta, ma da quella stanza non sarebbe uscito vivo. Ma c’era qualcosa che poteva fare per il suo amico: ebbe l’idea non appena vide una telecamera ancora attiva in un angolo della stanza. Si rivolse perciò ad essa, serio ma sorridente.
« Se mi ascolterai, Sora, forse per noi sarà troppo tardi... ma non per te. Sarai ancora in piedi, come solo tu riesci a fare. Perciò ricorda, non arrenderti. Noi crediamo in te... tu sei la chiave. Pensa che sia solo un’altra partita: tu sei l’eroe, e Nul è il cattivo... perciò datti da fare e distruggilo. Noi abbiamo fatto il possibile per proteggere la stazione... il resto tocca a te. »
Ralph Spaccatutto si unì a lui nel messaggio.
« Buona fortuna, amico mio... e spacca tutto! »
« Gli Scarafoidi! » urlò un soldato. « Stanno arrivando! »
« In posizione! » ordinò Calhoun. « Quei maledetti dovranno sudarselo, quest’ultimo pranzo... FUOCO!!! »
La porta si spalancò. Uno sciame di orridi insetti giganti invasero la stanza. Spari, urla, colpi energetici. Riku brandì il Keyblade, pronto a vendere cara la pelle insieme a tutti gli altri.
Poi venne il buio.
 
Riku si svegliò di soprassalto. Aveva il respiro affannoso, come se avesse fatto una lunga corsa, e grondava di sudore. Avvertì una fresca brezza mattutina sulla pelle, che lo fece rilassare piano piano. Capì di aver semplicemente sognato, ma stava già dimenticando la scena. Si guardò intorno: era nel suo riparo sulla spiaggia, dove si era messo a dormire la notte prima; il sole stava sorgendo su Te Fiti... l’isola madre, come l’aveva definita Vaiana.
Vaiana...
Si voltò verso il riparo accanto al suo, ma scoprì che era vuoto. Evidentemente la sua nuova amica si era già svegliata, ma non la vedeva nei paraggi. Pensando che probabilmente fosse andata in cerca di altro cibo – o in bagno – cercò di non preoccuparsi e si alzò in piedi. Aveva un gran bisogno di lavarsi, perciò lasciò la spiaggia per inoltrarsi nella vegetazione, raggiungendo un corso d’acqua che aveva scoperto il giorno prima. Proseguendo, Riku trovò un laghetto poco profondo, alimentato da una splendida cascata: un ottimo posto per fare un bagno, pensò con un sorriso... ma mentre afferrava il gilet per sfilarselo, si accorse che quel posto era già occupato da qualcuno.
Vaiana era laggiù, immersa nell’acqua fino alle ginocchia. Senza vestiti. In quel momento dava le spalle a Riku, permettendo comunque a quest’ultimo di vedere più del dovuto. Il ragazzo si lasciò sfuggire un gemito di sorpresa, attirando l’attenzione della principessa che – naturalmente – urlò.
« Whaaah! Riku! » esclamò, coprendosi il petto in un istante. « Accidenti, mi hai fatto venire un colpo! »
« Cavolo... scusami Vaiana » rispose lui, rosso di vergogna. « Giuro, non avevo idea che fossi qui! Ehm... volevo solo... »
Non riuscì a finire la frase. In effetti non si era mosso dal suo posto, sotto lo sguardo incredulo di Vaiana.
« Be’, non stare lì imbambolato! » ordinò lei. « Piantala di fissarmi in quel modo e voltati, per piacere. »
« Sì... certo. »
Riku si voltò subito, cercando di concentrarsi sulla vegetazione... ma la sua mente non voleva saperne di dimenticare ciò che aveva appena visto. Nel frattempo, alle sue spalle, Vaiana era uscita dall’acqua e si stava rivestendo, borbottando con aria irritata.
« Bah... tu guarda se anche su un’isola deserta mi doveva capitare una cosa del genere. Come se non dovessi già preoccuparmi di folle di bellimbusti a Motunui che mi sbavano dietro... speravo che almeno un Kahu o ka’naa non avesse manie da guardone. »
« Non sono un guardone » ribatté Riku. « Non è mia abitudine sbirciare ragazze, nemmeno sul mio mondo! »
« Se lo dici tu... ma sei comunque un uomo! »
Riku sospirò, cercando di placare una breve irritazione.
« Se può farti sentire meglio » mormorò, « hai una bellissima schiena, un meraviglioso sedere e due splendide gambe! »
Era ancora voltato, perciò non poté vedere la reazione di Vaiana: rimasta di sasso al sentir pronunciare quelle parole. I suoi occhi spalancati per lo stupore, immenso quanto l’oceano. Finì di rivestirsi e raggiunse Riku nel silenzio più assoluto, fissandolo negli occhi con aria indecifrabile.
Riku rimase immobile, aspettandosi un ceffone che sapeva di meritare. Vaiana, tuttavia, si limitò a mollargli una schicchera sul naso.
« Stupido » commentò lei, sfoggiando una sorta di ghigno. Poi gli voltò le spalle e sparì tra i cespugli.
Riku rimase dov’era per ancora qualche istante, poi tornò a concentrarsi sul laghetto, ancora imbarazzato. Doveva farsi perdonare in qualche modo, ma ci avrebbe pensato più tardi: nel frattempo si spogliò e s’immerse in acqua, cercando di non pensare a niente.
Ma cosa diavolo gli era saltato in mente? Perché aveva detto quelle cose ad alta voce? Era davvero così stupido? Credeva di fare la cosa giusta, dopotutto... non era un esperto in fatto di donne, ma ora era certo che urlare complimenti a una ragazza nuda non fosse l’idea più saggia.
Eppure, continuò a pensare che Vaiana meritava un sacco di complimenti... e che, poco prima di andarsene, avesse il viso rosso quanto il suo.
Un colpo di tosse alle sue spalle lo fece trasalire pochi istanti dopo. Si voltò e vide Vaiana, appoggiata a un tronco accanto alla riva, le braccia incrociate sul petto e l’aria immensamente soddisfatta.
Riku rimase senza parole.
« Be’, devo ammettere che anche tu hai una schiena, un sedere e delle gambe niente male » commentò divertita. « Direi che con questo siamo pari! »
E sparì di nuovo tra i cespugli, lasciando Riku di sasso.
Il ragazzo uscì dall’acqua poco più tardi e fece ritorno alla spiaggia, pulito e asciutto. Trovò Vaiana sul bagnasciuga e si avvicinò: doveva dirle ciò che finora le aveva nascosto.
« Senti, io... » iniziò a dire, ma si bloccò non appena notò cosa stava guardando Vaiana: sulla sabbia era comparso un enorme solco, che partiva dal mare e si allungava verso la vegetazione. Non ci voleva un genio per capire che qualcosa di grosso era sbucato dall’acqua per addentrarsi nell’isola. Prima che i due ragazzi potessero interrogarsi sull’identità del nuovo arrivato, un gran baccano attirò la loro attenzione. L’ospite misterioso si muoveva tra gli alberi, facendoli scricchiolare o addirittura sradicandoli; questo stava spaventando stormi di uccelli, che lasciavano la vegetazione librandosi in massa nel cielo.
« Ho un brutto presentimento » dichiarò Riku, facendosi serio. « Vado a scoprire di che si tratta, tu resta qui. »
« Neanche per sogno » ribatté Vaiana. « Io vengo con te... Te Fiti potrebbe essere in pericolo, è mio compito difendere il suo cuore! »
In un attimo la ragazza afferrò un remo a mo’ di arma, suscitando nuovo stupore in Riku.
« E pensi di proteggere un’isola con un pezzo di legno? »
« Questo pezzo di legno mi è stato più utile di quanto tu creda, in passato... ci ho persino picchiato Maui! »
Riku fu tentato di insistere, ma lo sguardo della principessa pareva non ammettere obiezioni. Anche Sora e Kairi sapevano dimostrare lo stesso ardore nei loro occhi, e questo riuscì a convincerlo.
Anche Sora, in effetti, per un periodo era sopravvissuto con una spada di legno.
« Va bene » disse sospirando. « Ma stammi vicino e non fare mosse avventate. »
Evocò il Keyblade e iniziò a correre, inoltrandosi di nuovo tra gli alberi. Vaiana lo seguì a ruota, senza nascondere un’aria compiaciuta. Seguendo i rumori e le tracce attraverso la vegetazione, non fu affatto difficile scovare l’intruso, e lo individuarono infine dopo una breve ricerca.
Vaiana e Riku si appostarono dietro una roccia non appena se lo trovarono davanti: l’essere aveva l’aspetto di un granchio gigante, dal guscio tempestato di oro, pietre preziose e altri oggetti di valore. Si faceva largo tra gli alberi senza alcun ritegno, abbattendoli in grande quantità con la sua mole.
« Che diavolo è quello? » domandò Riku a bassa voce.
Vaiana trasalì, decisamente più sorpresa.
« Non posso crederci... quello è Tamatoa! »
« Lo conosci? »
« Purtroppo sì... l’ho incontrato tempo fa a Lalotai, il Regno dei Mostri. Aveva rubato l’amo da pesca di Maui e lo abbiamo affrontato per riprendercelo. È molto forte, ma anche decisamente stupido. Se ora è qui, sarà sicuramente per... »
Un’improvvisa risata interruppe Vaiana. Riku alzò lo sguardo: Tamatoa si era fermato, e ora era alle prese con una parete di roccia ricoperta di muschio; cercava di buttarla giù a colpi di chela, sghignazzando con aria allegra.
« Ohohohoho!! Finalmente... il cuore di Te Fiti sarà mio! Potere della creazione, sto arrivando! »
« Lo sapevo, vuole il cuore di Te Fiti! » esclamò Vaiana, che uscì da dietro la roccia. « Presto Riku, dobbiamo fermarlo! »
« Ehi, un momento... »
Riprese a correre senza aspettare il ragazzo, e in un attimo si piazzò alle spalle del granchio gigante.
« Ehi, Tamatoa! »
Il mostro smise di scavare, voltandosi a guardare chi l’aveva chiamato.
« Tu! » esclamò, riconoscendola subito. « Mi ricordo di te... sei l’amichetta di Maui, quella che mi ha ingannato facendomi cantare a squarciagola mentre lui mi rubava l’amo da pesca! Oh, piccola canaglia, non credevo che ti avrei più rivista. »
« Già, il mondo è proprio piccolo... per tua sfortuna » ribatté Vaiana. « Ti avverto, Tamatoa, non ti permetterò di arrivare al cuore di Te Fiti... perciò ti consiglio di tornartene subito a Lalotai, o te ne farò pentire amaramente! »
Tamatoa restò in silenzio, per nulla impressionato dalla minaccia.
« Ooh, credi davvero di minacciarmi con i tuoi occhioni e uno stuzzicadenti? A meno che... un momento! Non è che stai cercando di distrarmi un’altra volta per dare a Maui l’occasione di attaccarmi? Dov’è quel maledetto? Dov’è Maui? »
« Maui non è qui, mostro... dovrai accontentarti del suo sostituito meno chiacchierone e più sbrigativo. »
Riku si era fatto avanti, mettendosi in guardia accanto a Vaiana.
« Uhm? Un altro moccioso » osservò Tamatoa, fissandolo con aria curiosa. « Non ti conosco... eppure hai un odore familiare. E quell’arma... è davvero possibile? Tu sei una Sentinella del cuore del mondo! »
« Però, mi conoscono in parecchi da queste parti » commentò Riku. « Ad ogni modo poco importa... se sei nemico di Vaiana allora sei mio nemico, e ribadisco la sua minaccia. Vattene subito dall’isola, o ti strapperò le zampe una per una. »
Lo sguardo di Tamatoa si posò per un attimo sulle sue stesse zampe, alle quali – notò Riku – ne mancava una. Avrebbe ricordato più tardi come Maui gliel’avesse strappata molto tempo prima. Il mostro, nel frattempo, aveva assunto un’aria più minacciosa.
« Se credi che resterò a guardare mentre mi strappi le zampe, sentinella, ti sbagli di grosso. Raaaaah! »
Si scagliò sul ragazzo con una velocità sorprendente. Riku fece appena in tempo a scansarsi, restando comunque sorpreso dalle capacità del mostro; afferrò Vaiana e la spinse da parte, preparandosi ad attaccare.
Firaga Oscura!
Una palla di fuoco azzurro eruppe dalla mano libera di Riku ed esplose sul guscio di Tamatoa, facendo piovere oro e diamanti in ogni direzione. Il mostro crollò a terra, urlando per il dolore, ma si riprese in breve tempo.
« Urgh... perché lo fai, sentinella? » domandò a Riku mentre si rialzava. « Non dovremmo essere nemici... riconosco il tuo odore... è l’oscurità! La stessa oscurità che ha generato me e i miei fratelli di Lalotai! »
Riku sentì un gemito di stupore alle sue spalle. Vaiana aveva sentito tutto... ma in quel momento non poteva preoccuparsene, perché Tamatoa si fece avanti sempre più minaccioso.
« Credevi che non me ne sarei accorto? » domandò ancora il crostaceo. « Strano che un guardiano dei mondi porti con sé il malefico potere delle tenebre... forse non sei così santo come volevi farmi credere? Oh be’... non importa, visto che mi hai attaccato mangerò anche te! »
Fermoscuro!
Tamatoa e Riku attaccarono nello stesso momento. Il ragazzo sfoderò un’altra abilità oscura, con la quale balzò sopra il crostaceo un gran numero di volte colpendolo con il Keyblade. Tamatoa, dapprima messo alle corde, alla fine riuscì a difendersi e bloccò l’ultimo attacco, afferrando Riku con una chela e sbattendolo contro un tronco. Il ragazzo perse la presa sul Keyblade, che cadde al suolo.
Era completamente bloccato. La presa di Tamatoa era fortissima, e non riusciva a muovere le braccia. Senza il Keyblade non poteva farcela.
« Ohohoho » fece Tamatoa, scoppiando a ridere estasiato. « Non fai più tanto il duro con la tua lametta, adesso? E anche il potere dell’oscurità non ti servirà a niente, contro di me. Prima mi hai colto di sorpresa... ma non puoi distruggere chi è nato dall’oscurità stessa! Buon viaggio nel mio stomaco, sentinella... ti avverto, impiego trent’anni per digerire qualcosa. »
« Ehi, Tamatoa! Non dimenticarti di me! »
Un occhio del mostro si voltò verso il basso. Vaiana si era fatta avanti e aveva afferrato il Keyblade di Riku; questi fu molto sorpreso nel constatare che la ragazza riusciva a tenerlo in mano. Ora che aveva attirato l’attenzione di Tamatoa, Vaiana lo attaccò con la stessa arma, lanciandoglielo addosso.
Tamatoa afferrò il Keyblade al volo, con la chela libera.
« Grazie! » commentò soddisfatto. « Lo aggiungerò alla mia collezione... l’arma di Kahu o ka’naa è addirittura più preziosa dell’amo da pesca di Maui, non mi farò sfuggire un tesoro simile. E presto... ci aggiungerò anche il cuore di Te Fiti! »
« Tu parli troppo, idiota. »
« Oh? »
Si voltò ancora. Riku era ancora bloccato, ma mentre Tamatoa parlava lui era riuscito a liberare un braccio; lo puntò in avanti e il Keyblade apparve sulla sua mano, sparendo dalla chela del mostro.
« Ma cosa...! »
Thundaga!
Un fulmine enorme eruppe dal Keyblade e colpì Tamatoa in piena faccia. Il colpo fu tale che il mostro crollò nuovamente al suolo con tutto il suo peso. Riku, libero dalla sua presa, scese con un balzo di fronte a Tamatoa, pronto a dargli il colpo di grazia.
Megaflare!
Un grande globo infuocato eruppe dal Keyblade, esplodendo a mezz’aria. Provocò un bagliore accecante che costrinse Vaiana a coprirsi gli occhi, ma udì lo stesso un urlo tremendo. Tamatoa, infatti, fu colpito in pieno dalla magia di Riku, un’esplosione che lo staccò dal suolo e lo spedì in aria. I ragazzi non poterono vedere il mostro mentre spariva oltre la vegetazione, lontano da Te Fiti, ricadendo nell’oceano a parecchi chilometri di distanza.
Tutto tacque mezzo minuto dopo. Quando Vaiana tornò a vedere, trovò Riku dove lo aveva lasciato... con la differenza che ora lui era solo, in piedi di fronte a un grosso cratere fumante. Il ragazzo si voltò a guardarla: voleva chiederle se stesse bene, ma la domanda gli morì in gola non appena notò l’espressione nei suoi occhi. Sembrava preoccupata – per non dire spaventata – e non dovette indovinare perché.
Vaiana lo aveva visto scatenare il potere dell’Oscurità.
« Già, ora sai di cosa sono capace » mormorò distogliendo lo sguardo. « Mi dispiace che tu abbia dovuto scoprirlo così, non era mia intenzione. Purtroppo la realtà è questa. In passato ho dato retta alle persone sbagliate: mi avevano convinto ad abbracciare l’oscurità, per ottenere il potere necessario per proteggere i miei amici. Credevo di essere abbastanza forte da dominarla, ma mi sbagliavo... i nemici volevano solo usarmi per i loro scopi. Anche se mi sono dimostrato degno di impugnare un Keyblade, resto comunque legato all’oscurità e non posso... »
Non finì la frase, perché Vaiana si era fiondata in un attimo su di lui per abbracciarlo. Riku si fece incredulo nell’istante successivo.
« Va tutto bene » gli disse una voce all’orecchio, oltre quella folta chioma nera. « Va tutto bene, Riku... lo capisco. Sapevo che mi nascondevi qualcosa, e immaginavo che fosse qualcosa di terribilmente difficile da spiegare. L’ho capito fin da subito... ma ti ho lasciato mantenere il segreto, perché ho capito fin da subito di potermi fidare di te. »
Riku scoprì di essere commosso. Una cosa che non provava da un bel po’ di tempo.
« Lo hai capito... fin da subito? »
« Sì » ribadì Vaiana. « L’ho visto nei tuoi occhi, Riku... gli occhi di un eroe. Maui aveva i tuoi stessi occhi, e gli dèi sanno quanto ha sbagliato in passato. In te ho visto subito la sua stessa volontà di rimediare agli errori del passato, e di restare nella luce. »
Il ragazzo non osò ribattere. Lei aveva perfettamente ragione. Si ritrovò così a rispondere all’abbraccio, circondando a sua volta Vaiana con le sue braccia; smise per un attimo di pensare, godendosi quel momento, desiderando che durasse in eterno...
Ma poi lasciò la presa. Vaiana tornò quindi di fronte a lui, e insieme si guardarono intorno: lo scontro con Tamatoa aveva inflitto grossi danni all’ambiente circostante. Il muro di roccia, soprattutto, era spaccato e rischiava di cadere in frantumi da solo.
« Oltre quelle rocce si trova il cuore di Te Fiti » osservò Vaiana, amareggiata. « C’è mancato poco che non venisse rubato di nuovo... non possiamo lasciare il posto in queste condizioni. »
« Va bene, ci penso io » tagliò corto Riku, puntando il Keyblade verso il muro danneggiato.
Magnetega!
Creò una sfera energetica che si diresse sul muro, e con il suo potere attirò una gran quantità di rocce e detriti dall’area. In pochi secondi, la crepa fu sigillata da un enorme cumulo di rocce, sotto lo sguardo sbalordito di Vaiana.
« Magnifico » sussurrò.
« Che dici, basterà per tenere lontano futuri seccatori? »
« Credo di sì... »
« Bene, allora qui abbiamo finito. Coraggio... abbiamo una barca da terminare. »
Riku s’incamminò verso la spiaggia, mentre il Keyblade spariva dalla sua mano. Quella stessa mano, un attimo dopo, fu afferrata da Vaiana, che la tenne stretta finché non tornarono alla spiaggia.
 
Motunui stava bruciando. Vaiana si guardò intorno: udiva forti rumori, urla terrorizzate o disperate; il cielo notturno aveva sfumature rosso cremisi, un vento impetuoso scuoteva le fronde degli alberi e le urla non accennavano a tacere. Ovunque voltasse lo sguardo, la principessa non vedeva che fuoco, dolore e caos.
E morte.
Stava sulla spiaggia, impotente di fronte a quella catastrofe come una foglia secca sbattuta da un uragano. Davanti a lei riconobbe l’unico che – forse – avrebbe potuto fare qualcosa: Maui, semidio del vento e del mare, forte del suo amo da pesca; era appena atterrato sulla sabbia, pronto a fare la sua parte... ma Vaiana si rese conto che qualcosa non andava.
« Vaiana, scappa! »
Lei non obbedì all’ordine, e nel frattempo scorse una figura farsi avanti tra le tenebre. Gli parve un semplice uomo vestito con un lungo soprabito bianco, il cui volto era celato completamente da un cappuccio; due ali nere da uccello spuntavano dalla sua schiena.
Non sapeva ancora di avere di fronte Nul, il Mai Nato. Il distruttore di sogni e di fantasie.
Maui lo affrontò, sferrandogli un colpo con il suo amo. Nul lo schivò, per poi contrattaccare un attimo dopo. Un amo da pesca identico a quello di Maui si manifestò sulle sue mani, e con un colpo da maestro mandò il semidio al tappeto. Vaiana restò dov’era, impietrita dall’orrore: impotente come una foglia, mentre osservava il nemico salire sulla schiena dell’inerme Maui, sollevando l’amo da pesca per finirlo...
Chiuse gli occhi. Le urla e i tuoni bastarono a celare quell’orrore anche alle sue orecchie.
Quando riaprì gli occhi, trovò l’incappucciato di fronte a lei, più spaventoso dell’inferno che stava consumando la sua terra. Non riusciva ancora a muoversi, perciò non fece nulla mentre egli sollevava una mano verso di lei... per accarezzarle il viso.
« Così bella... così forte » lo sentì mormorare attraverso il cappuccio. « Così piena di vita. »
Vaiana non capì.
« Il tempo dei sogni è finito » aggiunse Nul. « È tempo di svegliarsi e vivere. »
 
« Whaah! »
Vaiana si svegliò di soprassalto. Aveva il respiro affannoso, come se avesse fatto una lunga corsa; avvertì subito una fresca brezza sulla pelle, che la fece rilassare piano piano. Il sole splendeva forte sopra di lei, e sulla spiaggia di Te Fiti sulla quale stava seduta. Si voltò e riconobbe Riku, poco lontano, ancora impegnato a lavorare alla barca; in quel momento stava a torso nudo per resistere al gran caldo. Per qualche attimo si smarrì ammirando quel fisico scolpito, brillante alla luce del sole...
« Ehi, tutto bene? »
« Oh? »
Riku l’aveva chiamata, riportandola al presente.
« Tutto bene? » ripeté mentre si avvicinava a lei. « Ti ho sentita gridare... hai avuto un incubo? »
« Oh... sì, credo di sì » fece Vaiana, grattandosi la testa. Improvvisamente si sentì imbarazzata da morire. « Non ricordo bene... anzi, a dire il vero non ricordo nemmeno quando mi sono addormentata. »
« Circa un’ora fa » rispose Riku. « Eri stremata dal lungo lavoro e ti sei presa una pausa. Non mi sorprende, è tutto il giorno che lavoriamo sulla barca. »
Voltarono entrambi lo sguardo sull’imbarcazione. Ormai mancava poco al suo completamento: la vela era stata riparata da Vaiana, e ora Riku si stava occupando di assicurare le ultime assi di legno con robuste corde. Procedendo a quel ritmo, sarebbero stati pronti a partire il giorno seguente.
La ragazza, tuttavia, non riuscì ad esserne lieta in quel momento. Anche dopo il risveglio continuava ad avere una strana sensazione, riflessa sul suo viso in quel momento. La cosa non sfuggì a Riku, che tornò a fissarla preoccupato.
« Qualcosa non va? »
« Uhm » fece Vaiana. « È così strano. Riku... hai mai avuto la sensazione di non sapere se sei sveglio o se stai ancora sognando? »
« Sì, mi è capitato qualche volta » rispose il ragazzo. « Di recente, poi, ho persino dovuto viaggiare attraverso i sogni. »
« Davvero? »
« Sì, ma è una lunga storia e non vorrei mandarti in pappa il cervello. Comunque, dopo quell’esperienza penso di essere in grado di distinguere la realtà dal sogno... e ti assicuro che puoi strare tranquilla. Siamo svegli tutti e due, adesso. »
Vaiana tacque, poi ridacchiò.
« Heh... meno male! »
La ragazza si alzò dalla sabbia e tornò a lavorare sulla barca. Riku rimase tuttavia al suo posto, mentre in gran segreto covava un notevole turbamento. Si dava il caso, infatti, che Vaiana non fosse l’unica ad aver provato quella strana sensazione di recente. Le aveva detto quelle cose per rassicurarla, ma in realtà non era del tutto sicuro di ciò che diceva: ancora non ricordava come fosse giunto a Te Fiti, infatti, e questo la diceva lunga.
Forse Riku stava sognando di nuovo, e non sapeva come uscirne.
Calò la sera. I due ragazzi avevano lavorato sodo, e ora la barca era finalmente completa. Erano pronti a lasciare l’isola, cosa che avrebbero fatto l’indomani mattina: in quel momento pensavano solo a rilassarsi davanti a un bel falò consumando una cena sostanziosa. L’allegria era ritornata nel cuore di entrambi dopo giorni di fatica e lotte, tanto che Vaiana aveva persino preso a ballare davanti al fuoco, con gran sorpresa di Riku.
« Però, devo ammettere che sei davvero brava! » commentò lui, impressionato.
« Grazie! È stata mia nonna ad insegnarmi questa danza... tutti la prendevano per matta, ma aveva ragione su molte cose. Non sarei arrivata così lontano, se non fosse stato per lei. »
Riku annuì, comprensivo.
« Gli aiuti migliori provengono sempre da chi meno te lo aspetti » mormorò. « Sembra una lezione che coinvolga tutti i mondi, a quanto pare. »
Vaiana guardò il mare, avvolto dalla notte come tutto il resto. La luce del fuoco illuminò il suo viso fattosi di colpo malinconico. Colpa del ricordo di sua nonna, naturalmente. Poi, tuttavia, la ragazza scacciò il pensiero e tornò a sorridere.
« Non voglio essere triste » dichiarò. « Domani lasceremo Te Fiti e torneremo a casa... dobbiamo essere felici per questo! »
Riku annuì con un sorrisetto.
« Cosa? Tutto qui? » fece Vaiana, guardandolo. « Avanti, Riku, puoi fare di meglio! Mostrami la tua allegria, coraggio... balla con me, vediamo che sai fare! »
« Cosa? Ehi, un momento... aspetta! »
Il ragazzo fu così sorpreso che non riuscì ad opporre resistenza mentre Vaiana lo afferrava per le mani e lo faceva alzare, costringendolo a fare un rozzo volteggio. Riku perse l’equilibrio e cadde sulla sabbia come un sacco di patate, insieme a Vaiana che lo teneva ancora per mano. I due rotolarono per alcuni metri, allontanandosi dal falò.
Quando si fermarono, erano ancora stretti l’uno all’altra, distesi sulla sabbia. Si fissarono con aria incredula, poi Vaiana scoppiò a ridere.
« Ok, direi che con questo hai appena dimostrato di non saper ballare! »
« Heh... pare proprio di no. »
« Però è stato divertente, Riku... nonostante tutto, sono contenta di averti incontrato. »
Vaiana si aspettò altri commenti, per questo non riuscì a prevedere quanto accadde un attimo dopo. Riku aveva avvicinato il viso al suo e le loro labbra si stavano sfiorando. Lei trattenne il respiro: non poteva crederci, e in un attimo si ritrovò a desiderarlo con tutta se stessa. Poi non ci fu più spazio per nessun pensiero perché Riku si fece ancora più avanti e la baciò.
Vaiana non era preparata a quel contatto, né alle sensazioni che ne seguirono. Inizialmente fu delicato e dolce, e il suo corpo reagì immediatamente; si lasciò andare a ciò che stava vivendo. Poi, pian piano, il bacio diventò più profondo e passionale. Era un momento magico. Riku mise le mani tra i capelli di Vaiana che assecondò ogni suo gesto. Le sue labbra erano come acqua nel deserto, e lei sentiva che non ne avrebbe mai avuto abbastanza.
I loro cuori parvero brillare più forte insieme, danzando nel loro amore appena balenato nel buio che avvolgeva l’isola e l’oceano.
 
Una donna nera vagava con passo sicuro attraverso il Cimitero dei Mondi, in quel momento. Luogo ricolmo di morte, rovina e silenzio. Accoglieva un numero incalcolabile di resti delle battaglie avvenute su Oblivion, ammassati su interi isolati della città fantasma. La donna continuò a camminare, imperterrita. Intorno a lei vi erano enormi dune ricolme di oggetti e rovine di ogni sorta, che si ammucchiavano tra le strade e gli edifici. Non riusciva a vederne la fine, tanto il luogo era sconfinato.
Il suo nome era Lilith, ma questo Vaiana e Riku non potevano saperlo. Immobili come statue tra le rovine, invisibili come spettri, osservavano quella persona mentre si aggirava tra le rovine. Cosa cercasse, non era dato saperlo... non per quei dure ragazzi in quel momento.
Che succede? Dove siamo?
La voce di Riku rimase inascoltata.
Lilith si fermò all’improvviso. Qualcosa tra le macerie aveva infine attirato la sua attenzione. Vaiana e Riku la videro chinarsi e raccogliere qualcosa: sembrava una piccola pietra di forma ovale, che brillava di una tenue luce verde. Vaiana fu l’unica a riconoscere subito quell’oggetto, e trattenne il fiato per l’enorme sorpresa.
Il cuore di Te Fiti!
Lilith parlò a quell’anima smarrita, comprensiva.
« Non ti lascerò svanire in questo oblio » dichiarò.
Il cuore di Te Fiti brillò più forte. La sua luce si fece abbagliante, tale che Riku e Vaiana non riuscirono più a vedere.
 
Si svegliarono insieme, di soprassalto. La luce continuò ad abbagliarli, ma questa volta era il sole. Si erano addormentati accanto al falò la notte prima, dopo aver... no, non pensate male. Questa è una fanfiction con rating verde, è per tutti! Si sono baciati e basta, d’accordo? Si sono baciati a lungo, fino ad addormentarsi.
Ora erano di nuovo svegli, pronti a cominciare un nuovo giorno su Te Fiti. Pronti a lasciarla, dato che la barca li attendeva a pochi metri da loro per prendere il largo. Riku e Vaiana la fissarono a lungo, immobili sulla sabbia, senza dire una parola. Il ricordo di ciò che avevano sognato era sparito al loro risveglio, lasciando comunque un grande turbamento nei loro cuori.
Riku sospirò, spezzando il silenzio.
« Qualcosa non va? » gli chiese Vaiana.
« In effetti sì » fu la risposta. « È davvero strano... all’improvviso sento di non stare facendo la cosa giusta. Per anni non ho fatto altro che credere quanto fosse piccolo il mio mondo... e solo di recente mi sono reso conto di quanto mi sbagliassi. Per anni ho desiderato lasciare la mia casa, viaggiare. Morivo dalla voglia di conoscere altri mondi. Tutto perché credevo fosse giusto. Mi sbagliavo... e proprio come allora, sento di sbagliarmi ancora. »
Una pausa.
« Non so ancora perché, Vaiana... ma non desidero più lasciare questo posto. Non mi va di tornare a casa, non ancora. »
La giovane lo fissò negli occhi, cercando di comprendere.
« Pensi ancora di non meritarlo a causa del tuo potere oscuro? » chiese.
Riku scosse la testa.
« No. Semplicemente perché laggiù le cose sono a posto, ora. Io e i miei amici abbiamo vinto la battaglia, i mondi sono di nuovo al sicuro. Dopo tutto quello che ho fatto, sento un gran bisogno di restare lontano da tutto e riposarmi... ora sento che sia questa la cosa più giusta da fare. »
Pose una mano su quella di Vaiana. Lei sorrise.
« Bene, allora non sono l’unica a pensare qualcosa di insensato » dichiarò lei. « Anch’io penso la stessa cosa, Riku. Neanch’io muoio dalla voglia di tornare subito a casa. I miei cari e i miei amici stanno bene, non hanno bisogno di me per il momento... tornerò da loro quando mi sentirò pronta a farlo. Sento di voler passare ancora un po’ di tempo qui, su quest’isola. E se tu... ecco... volessi restare a farmi compagnia... non mi dispiacerebbe affatto. »
Riku sorrise a sua volta, e fu sul punto di aggiungere qualcos’altro... quando un brontolio allo stomaco lo fece tacere. Si rese conto di avere una gran fame, e cercò istintivamente qualcosa da mangiare nei dintorni. L’occhio gli cadde su un frutto accanto ai resti del falò, l’unico rimasto dalla cena della sera precedente.
Un paopu.
Vaiana lo guardò a sua volta, e con gran sorpresa di Riku si sporse in avanti e lo afferrò. Pochi istanti dopo lo aveva già spezzato in due, offrendo una metà al ragazzo.
Lui la prese.
Ora anche Riku era certo di voler intrecciare il suo destino con Vaiana.
Le parole, ormai erano superflue, bastavano gli sguardi... e i sorrisi. Per questo i due giovani mangiarono in silenzio quel frutto straordinario, seduti vicini sulla spiaggia. Fu un pasto breve, ma alla fine il passo fu compiuto: ora la principessa di Motunui e il Custode del Keyblade avevano stabilito un vero legame.
« Grazie, Riku » disse Vaiana con un sorriso.
« Per cosa? »
« Per tutto questo. Grazie a te, non sono più sola. »
Si alzò in piedi e sciolse la cintura, lasciando cadere la gonna sulla sabbia. Sotto indossava ancora quelle che Riku poteva ritenere primitive mutandine, ma il ragazzo si concentrò su ben altro: rivide un meraviglioso sedere e due splendide gambe, mentre la sua proprietaria s’incamminava verso il mare. Quando l’acqua le arrivò al petto si tuffò, per riemergere poco più avanti dopo qualche secondo; fece ondeggiare la sua folta chioma nera verso il cielo, muovendo un arco fluido che si disperse nell’aria in una pioggia di perle d’acqua.
A quel punto Vaiana si voltò a guardarlo, e gli tese una mano come per invitarlo ad afferrarla.
Riku avvertì qualcosa di familiare in quel gesto, ma in quel momento non ricordava la scena precisa. Aveva importanza? A pensarci bene non ne aveva. Per questo scosse la testa e si alzò a sua volta dalla sabbia. Accettò l’invito, e seguì Vaiana verso il mare. La raggiunse e tese la mano per afferrare la sua, ma la principessa si lasciò cadere all’indietro all’ultimo istante, immergendosi un’altra volta. Riku, sorpreso, fece altrettanto; Vaiana lo aspettava e si strinse a lui, regalandogli un nuovo bacio tra quelle acque limpide.
A Riku parve di sognare. Anche se nel suo cuore era ancora forte il dubbio, riuscì a tenerlo a bada... e se fosse stato un sogno, avrebbe voluto durasse in eterno. Lo stesso valeva per Vaiana.
Finché fossero stati insieme, tutto sarebbe andato bene.
 
  • Oblivion, settore “Agrabah” -
« Mia signora? »
Lilith alzò lo sguardo, attirata dalla voce che l’aveva chiamata. Una ragazza dai capelli verdi, vestita con solo un bikini tigrato, fluttuava a pochi metri sopra di lei.
« Oh, Lamù... perdonami, ero sovrappensiero » fece Lilith. « Che cosa vuoi? »
« Sta arrivando Nul, mia signora. Ho pensato di avvertirti. »
Lilith guardò l’orologio a pendola più vicino.
« Uhm, è già l’ora del nostro appuntamento. Non mi ero accorta di quanto tempo fosse passato... »
Si alzò dalla poltrona e si stiracchiò, lanciando un’ultima occhiata all’oggetto che fino a poco prima aveva catturato completamente la sua attenzione. Una grossa sfera di cristallo appoggiata a un tavolo, al cui interno fluttuavano degli oggetti: due sfere di luce dorata si muovevano intorno ad una pietra verde luminosa, ruotando come pianeti intorno a un sole. Lilith indugiò ancora per un attimo, poi si voltò dirigendosi verso l’uscita.
Lamù si avvicinò alla sfera, incuriosita.
« Cos’è questo, mia signora? »
Lilith si fermò.
« Qualcosa che non puoi capire, mia cara » le rispose. « Alla fine non sono altro che le ennesime vittime di questa guerra: cuori smarriti nelle tenebre. Li ho salvati, donando loro un posto in cui continuare a battere... a sognare, in attesa che tutto questo giunga al termine. »
E lasciò la sala, diretta verso il suo diabolico amante.
Lamù non chiese altro, poiché, contrariamente al pensiero di Lilith, capiva molto bene. Lei stessa era una superstite di Oblivion. Era già fortunata ad aver conservato ogni parte del suo corpo intatta, a pensarci bene... a differenza di quei poveretti ora rinchiusi nella sfera davanti ai suoi occhi. Lilith non aveva potuto fare di più per loro: avrebbero vissuto in un bellissimo sogno fino alla fine.
Fino alla fine di Oblivion. 

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