La realtà dei sogni

di LilituDemoneAssiro
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'incontro ***
Capitolo 2: *** Non è tutto oro ciò che luccica ***
Capitolo 3: *** Come non ho amato mai.... ***
Capitolo 4: *** Siamo come fiori nel deserto ***



Capitolo 1
*** L'incontro ***


Non ricordo quanto tempo abbiamo trascorso in quella stanza. Minuti, ore, forse l’intero pomeriggio.
Non ne ho memoria. La memoria distorce il tempo e lo spazio quando la felicità ti sfiora, rendendo i ricordi simili ad una stanza piena di piume, che sollevi, soffi via, e lasci cadere sul viso come neve: e ti fa sentire al sicuro, coccolato… non intimorito, ma amato. Accarezzato.
Erano anni che non ricordavo l’ultima volta in cui mi ero sentito al sicuro, e non solo. Forse è per questa ragione che l’unica cosa che ricordo con chiarezza di quel pomeriggio, era il calore. Il vento caldo d’estate spostava la tenda dalla finestra socchiusa, e mi accarezzava i capelli: dovevo tenerli lunghi nonostante le riprese fossero finite da un pezzo, il mio agente sottolineava l’importanza della figura del Soldato d’Inverno dentro e fuori dal set. Io pensavo solo a quanto la mia voce tremava quando lui spostava la solita ciocca ribelle dall’occhio destro, la spostava dietro l’orecchio, e mi sorrideva; quei capelli gli piacevano, lo portavano da me, e io non potevo far altro che sgretolarmi tra le sue mani ancora un po’, ad ogni tocco, ad ogni carezza, ad ogni abbraccio.
Quando lui mi chiamava “Winter Boo bear”, il mondo scompariva. La mia pelle e la sua, la distanza tra il battito del mio cuore ed il suo, perdevano forma, ed io affondavo tra i colori, nei suoni e la musica che dolce suonava nell’aria. Perché tutto quello che lui era con me, ed io con lui, diventava un canto delle sirene a cui nessun marinaio avrebbe potuto mai resistere. Io per primo.
Quella vita, nonostante tutto, nonostante gli sforzi fatti per ottenere quel contratto, il sudore nelle palestre per cambiare dato che ero “gracilino” ed uno come me non poteva ottenere un gran successo -la moda richiedeva altro -, lasciava trascorrere i giorni uguali e distanti, come se non si fosse realizzato il sogno di una vita, ma avessi imboccato la strada per il mio personale inferno in terra.
Volti uguali, corpi uguali, e sotto la maschera nulla. Mi stavo perdendo in un mondo vuoto, stavo diventando vuoto; le luci non mi riscaldavano e sentivo sempre più freddo, ma non mi importava.
Finchè il destino ha colpito così forte le fondamenta delle mie certezze da lasciarmi quasi stordito…Il destino l’ha voluto esattamente dov’era, combatterlo non sarebbe servito. Ricordo ancora la firma del primo contratto con la major, l’esultanza, la voglia di fare e strafare, perché no. Ora che anche il mio nome era lì, avrei fatto sì che tutti l’avessero ricordato per molto tempo, quindi la cosa più importante era il primo impatto con il cast, ricorda: simpatia, sorrisi a profusione, offri da bere ai colleghi uomini, e flirta senza esagerare con le donne. Ti adorano sempre quando fingi così: e almeno stavolta, ne sarà valsa la pena. Io ero nel film di Capitan America accanto al protagonista, avrei interpretato la parte dell’amico d’infanzia, l’unico che non lo aveva mai lasciato letteralmente fino alla fine, e avrei fatto di tutto per rendermi benvoluto da cast e troupe intera: le occasioni quando arrivano devono essere prese al volo e strette, spremute fino al midollo…perché non tornano. Solo i rimpianti restano.

Avevo i crampi a furia di stringer mani ed abbracciare estranei: ormai mancava solo lui, il protagonista. Avevo stretto la mano anche ai cameraman, avevo offerto ciambelle e caffè, mi sentivo come una matricola idiota al college, pronta a stendersi davanti l’ingresso della confraternita pur di compiacere i senior. Solo il protagonista ancora non si vedeva neppure arrivare.
Ah, la solita prima donna che pretende il mondo ai suoi piedi, pensai. Va bene, finchè non pesta i miei di piedi, buon viso a cattivo gioco. Tutto è utile. Tutti sono utili. Finchè da dietro la porta dell’ufficio degli executives, mi giunge all’orecchio una conversazione in cui chiedevano spaventati cosa stesse accadendo a Mr.Evans, se fosse nulla di grave, come mai ancora al pronto soccorso, e quando sarebbe stato in grado di raggiungerci nonostante la crisi.

Crisi? …ancora al pronto soccorso? Mmm. Forse la prima donna è più interessante di quanto sembra: devo saperne di più, osserva e ascolta mi ripetevo, le cose si fanno intriganti. Al che, dopo un’altra ora, quando oramai eravamo tutti pronti a lasciare gli studios, lo vedo arrivare. Trafelato si getta addosso al gruppo tra mille scuse, inchini riverenti nei confronti dei producer, e abbracci da copione per tutti. Tranne che per il sottoscritto: mi stava ignorando? Cercava di imporre la sua posizione di protagonista al nuovo arrivato? Perché diavolo non si prendeva la briga di salutarmi?
Perché per salutare me, era rimasto immobile nell’attimo in cui aveva posato gli occhiali da sole...Io non capivo, mi faceva sentire a disagio e la cosa non mi piaceva. Mi fissava senza una parola, e per quei secondi di odioso silenzio avevo il timore che tutto fosse rovinato ancora prima di iniziare. Poi, quel sorriso ha fatto capolino.

Conoscerlo, stringergli la mano la prima volta, sentire il suo odore… o mio dio, il suo odore. Pelle così candida sfiorata da un tenue aroma di vaniglia, portava il soffio della vita tra le mani, e io non ho potuto non sorridergli a mia volta. Aveva occhi gentili che lasciavano sorridere tutto il mondo attorno a lui: quegli occhi gentili non pretendevano nulla, e tagliavano la mia nebbia come un’alba che relega gli incubi nel limbo, lasciando il posto al sole. Il mio sole… Non sapevo come difendermi da occhi così innocenti, ero nudo.

Arrossire. Abbassare lo sguardo. In fretta, non lasciar trasparire il momento di confusione. Cosa diavolo mi stava passando per la testa...
Avrei voluto scomparire, se non fosse che nel peggior frangente, lui mi abbraccia. Quasi rimango senza fiato, mentre mi sussurra “Non mordo, tranquillo”. Sbarro gli occhi. Come. Vorrei solo capire come è arrivato fin lì. Io rispondo con un sorriso che doveva sembrare più una smorfia di dolore, ora che mi torna alla memoria, ma lui noncurante proseguiva appoggiandomi il braccio sulla spalla davanti a tutti e dicendo che non vedeva l’ora di conoscermi meglio; dato il tempo che avremmo passato insieme, fare amicizia era importante. Non potevamo essere due perfetti estranei fuori dal set se sulla pellicola dovevamo essere l’uno il prosieguo dei ricordi dell’altro.
Nonostante il tuffo al cuore che mi fermava il fiato in gola, balbettai un “va bene” quasi come una condanna a morte: tutta la tracotanza iniziale era stata spazzata via da un profumo. E, mentre cercavo di riprendere un contegno, lui mi strappa il cellulare dalla mano e digita veloce un numero, un altro telefono squilla. Era il suo. Si era appena preso il mio numero.

Ma cosa diavolo stava accadendo, e soprattutto perché trovavo piacevole tutta quella invadenza. Perché. Ok Sebastian, torna in te, smettila di far domande, non servono a nulla, non ora, ricorda la prima regola: sempre buon viso a cattivo gioco, sfrutta ogni occasione, e sii forte dei tuoi propositi, quindi va bene Mr.Evans, vuoi un amico? Eccomi. Sarò la tua ombra, e finchè mi vorrai attorno, troverai miele ad aspettarti. Nonostante alla fine non fossi uscito sconfitto da quel primo meeting, la sera mi ritrovai a prender sonno a fatica, un pensiero mi formicolava dietro l’orecchio, e non riuscivo ad individuarlo nonostante gli sforzi: alla fine dovetti ricorrere ad una tisana per riuscire a rilassarmi, e il buio pose fine a quella giornata assurda.
La prima telefonata non si fece attendere, e il giorno dopo, all’ora di pranzo, una voce nota: “Un aperitivo, dai, e due chiacchiere. Alle 7 ti vengo a prendere davanti il tuo appartamento, e sii puntuale, per prendere una birra non ti occorre la make up artist. A dopo occhi belli”.
Come mi aveva appena chiamato…? Addirittura i nomignoli inventa? Va bene. Vediamo quanto è profonda la tana del bianconiglio, pensavo, mentre le mie guance, di testa loro, erano diventate rosse come un tramonto estivo, e una fiammata aveva confuso i sensi. I miei occhi lo avevano colpito, a quanto pare il momento di smarrimento non aveva colto solo me il giorno prima. Sorrisi tra me e me, compiaciuto. Quella sensazione piacevole mi accompagnò tutto il giorno fino a che, armato di tuta, berretto calato sul viso, e portafoglio in tasca, scesi le scale del mio appartamento qualche minuto in anticipo, giusto per fargli sentire chi aveva il controllo della situazione.

Ovviamente lui, dato che era fermo lì ad aspettarmi.
“Ciao Sebastian, come stai? Non vedevo l’ora di rivederti, ieri sono stato un maleducato a tardare in quel modo. Non accadrà mai più.”  E di nuovo quel profumo a confondermi i sensi…
Il tutto ovviamente condito dal sorriso disarmante che il giorno prima mi aveva lasciato quasi a terra, nemmeno un gancio alla mascella. Cominciamo bene dissi tra me e me, non hai fatto in tempo ad incrociarlo che già perdi l’uso della parola: al che tentai di riempire quei secondi di imbarazzante silenzio con un “Tranquillo, avrai avuto i tuoi buoni motivi, e io non sono ancora nessuno per poterti dire nulla per un semplice ritardo”, ammiccai.

Aspetta, cos’ho detto? ANCORA? Ti prego fa che non abbia sentito, o prevedo guai: ma da dove è partito quell’ “ancora” …Sei un ragazzino Sebastian, hai ancora molto sì, da imparare. 
Fortunatamente lui sorvolò la piccola gaffe, aprì lo sportello del passeggero invitandomi ad entrare ed ingranò la marcia. Durante il tragitto, non parlò molto, mi chiese solo se apprezzavo la musica e, da un mio cenno di approvazione, dal lettore mp3 della vettura iniziò a suonare una chitarra che conoscevo bene, molto bene.
Era Jeff Buckley. Poco prima di restare in piedi davanti casa mia ad aspettarmi come una statua greca, impassibile ed eterno, lui stava ascoltando Hallelujah. Il sangue smise di scorrere, lo sguardo cercava di fissare un punto del cruscotto per non lasciar trasparire l’emozione nel sentire quella voce, stavano per scendere le lacrime.

Ed una non riuscii a trattenerla.
Era la mia canzone preferita da quando avevo memoria: nei momenti più bui, nelle giornate più spente, quando l’abisso sembrava circondarmi, l’amore che mi trasmetteva mi permetteva di piangere e lavare via il male. Perché il destino voleva che la ascoltassi proprio lì, maledizione! I nervi scoperti non vanno mostrati in pubblico, le corde tese che nascondono si spezzano facilmente e non voglio più farmi spezzare. Ma quella maledetta lacrima era scesa, e non avevo la più pallida idea del cosa fare. Lo sapeva lui per me. Senza che me ne fossi neppure reso conto aveva accostato, si era girato verso di me, e con le dita l’aveva raccolta ed asciugata. “Suppongo piaccia anche a te, eh? Questa canzone ha il potere di ricordarmi che alla fin fine, non siamo mai soli. Qualcosa nell’universo ci aspetta sempre, basta trovarlo. “E di nuovo quel sorriso incorniciato.
“Hai proprio ragione. Sono un ragazzino, ma quando la ascolto, tutto prende un’altra piega e la parte più sentimentale del sottoscritto si fa vedere. Tu non raccontarlo in giro però, eh! Sono il baldanzoso James Buchanan Barnes, sciupafemmine, combattente di prim’ordine e cattivissimo futuro Soldato d’Inverno, ho una pessima reputazione da difendere”; tentai l’ironia. Di solito funziona. Anche questa volta, fortunatamente: lui irruppe con una risata cristallina, dolcissima…che quasi non trattenne per un minuto e giù io con lui. Aveva le lacrime agli occhi. Perfetto, aveva funzionato. Credo che mi farò un gin-tonic dopo questo exploit, altro che birra.
Arrivammo al locale dopo quasi 20 minuti di guida tranquilla, in cui Jeff accompagnava i miei pensieri tormentati. Il locale era in periferia, nulla di vistoso ed eclatante, un tranquillo pub dove andare a prendere qualcosa con un amico -per fortuna pensai-, almeno nessun tiro mancino dalla star Mr.Evans-Capitan American idol. Il gin-tonic scendeva in gola facendo terra bruciata, scaldando le pareti di uno stomaco massacrato dalla tensione; ma parlare con lui fu molto più facile di quello che avevo pianificato e non ebbi necessità di affogare la mia inettitudine nell’alcool. Parlammo, ridemmo, e ci ascoltammo per ore. Lui sembrava davvero interessato a ciò che avevo da dire, anzi oserei dire che alle volte sembrava pendere dalle mie labbra quasi in adorazione. Impossibile. Non hai mai retto l’alcool Sebastian, e quella volta non differiva dalle altre.
Però, come illusione, non era affatto male. Lui mi sedeva davanti raccontando della passione per la recitazione nata da poco più che ragazzo quando, nonostante intorno gli chiedevano di essere solo una bella figura da esposizione, lui urlava al mondo che aveva così tanto da fare, da offrire, da vivere, che rifiutava con tutto se stesso di rimanere solo un’altra presenza destinata a brillare e scomparire.
E mi vuoi dire che con quest’aspetto, ti sei davvero posto il problema? Davvero ti sei fatto tanto male?


E continuava sull’argomento poi, parlando di quanto ora fosse contento di aver ascoltato i consigli di un buon amico per interpretare Capitan America; gli ultimi erano stati anni davvero difficili, la pressione lo stava logorando e guardare ciò che poteva, ciò che voleva, ma ancora non sentiva, lo feriva intimamente. Alle volte aveva l’orrenda sensazione che un fantasma di lacrime gli rimanesse in gola pronto a soffocarlo, tanto era il male che sentiva ma non riusciva a lenire. Avrebbe preferito non darlo a vedere, ma sembrava che con me parlare gli fosse davvero facile: ridere e scherzare, imprecare pensando a ricordi spiacevoli, rabbuiarsi riportando alla mente quelli dolorosi lo rendevano immensamente umano. Io, davvero, non capivo.
Nel vederlo così sincero, quasi mi sentivo in colpa ad avergli dato della prima donna, il giorno prima. Mi sorrideva come se da tempo non aspettasse altro che l’occasione di essere se stesso, per cui ora non era più necessario lasciare la parte migliore di sé stipata in un ripostiglio: magra consolazione, almeno non ero l’unico a pensarla in questo modo. Forse poteva davvero nascere un’amicizia, vedremo. Le ore intanto volavano; era caldo nel pub e la leggera umidità che trasudava dal mobilio in legno, rendeva il tutto meno sterile, la chiacchierata più confortevole, e la presenza di un essere umano nella mia giornata decisamente meno spiacevole del solito.

Era bello trovarmi lì con lui. Non avrei mai voluto che la serata finisse in fretta, ma l’orario di chiusura del locale si avvicinava e il gestore fu costretto a chiederci di prendere l’uscita. Lui saldò il conto per entrambi, e con la promessa di ricambiare quanto prima, mi avviai alla vettura. Il viaggio di ritorno sembrò durare un battito di ciglia mentre mi lasciavo trasportare dal vento che scorreva forte sulla mano fuori dal finestrino aperto, e volavo alto. Scesi lesto dalla macchina, nonostante l’ora tarda, quando mi volsi verso di lui e feci per stringergli la mano; ringraziarlo della serata appena trascorsa era il minimo. Ma senza avere neppure il tempo di proferire parola, prese la mano e mi trascinò a se. Letteralmente. E mi abbracciò.

Di nuovo quel profumo, maledizione…Vorrei affondare il viso nella tua spalla, chiudere gli occhi e dissolvermi in quel profumo. Mi fai sentire a casa, e non capisco il perché.

Cercai di consolare con qualche pacca sulla spalla quella che sembrava una disperata richiesta d’affetto, assicurandogli che non doveva temere, il suo coprotagonista era meno stronzo di quel che pensava e non vedeva l’ora di conoscerlo meglio. Gli strappai un sorriso nonostante avesse le lacrime agli occhi, cosa che mi faceva quasi sentire a disagio, perché in quel contesto tutto avrei voluto tranne che vederlo triste. In fondo hai o potresti avere tutto ciò che un essere umano può desiderare, la bellezza, l’intelligenza, il talento, e la sensibilità per chiedere agli altri cosa pensano, di curarti della loro opinione; perché invece sembri sempre guardare altrove verso qualcosa che non c’è? Sei strano Mr. Evans. Sei piacevolmente, freneticamente, vorticosamente strano, Mr. Evans. E io sono curioso.

Lo abbracciai di nuovo a mia volta, presi il telefono dalla tasca dove lo vedevo sporgere e feci un selfie, centrando un primo piano degli occhi : ” Quando ti senti perso e non hai modo di raggiungermi per fare due chiacchiere, guardami e respira. Non mordo nemmeno io, tranquillo.” E gli restituii il telefono, col sorriso più leggero e spensierato di cui ero capace.

Aveva l’espressione di un bambino che corre davanti l’albero la mattina di Natale, e lo trova pieno di doni.
Strinse il telefono con entrambe le mani e sussurrò, voltandosi verso la vettura “Non lo dimenticherò…”. E sparì in quelle che erano le prime luci dell’alba. Io non avevo letteralmente la più pallida idea del perché avessi appena fatto ciò che avevo fatto, avevo solo seguito l’istinto stavolta e avevo guadagnato una profonda leggerezza d’animo. Un sacco di mattoni era appena caduto dalla spalla, mi sentivo più leggero, e contento di me; presi sonno non appena toccate le lenzuola.

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Capitolo 2
*** Non è tutto oro ciò che luccica ***


Ci meritavamo entrambi la pace, evidentemente. 
E non rimpiansi nulla di quello che era successo quella sera, perché così vivo non mi sentivo da anni; uno slancio simile verso un altro essere umano sembrava quasi il ricordo di una vita passata, non mia, per quanto era lontano nella memoria l’ultimo tentativo. Eppure con lui mi era riuscito dannatamente bene. 

Alcuni dicono che “Chi ben comincia è a metà dell’opera”: quella sera dovevo aver compiuto un miracolo, evidentemente, perché dall’inizio delle riprese il tempo di nuovo riprese a scorrere veloce, come se qualche divinità capricciosa avesse posato le sue dita sulle lancette forzandole in avanti, e tutto nei mesi che seguirono divenne estremamente semplice e vivido. Sul set scherzavamo tutto il giorno, scambiandoci occhiate d’intesa quando si trattava invece di comportarsi da professionisti per rendere il giusto pathos nelle scene più drammatiche; e fuori, beh, fuori eravamo inseparabili. Trascorrere ogni momento libero con lui divenne quasi necessario, discutere delle successive riprese ci faceva sentire più tranquilli in un lavoro che aveva un profondo significato. Io ero al mio primo vero impegno con una major, ma lui doveva portare sulle spalle il fardello della letterale personificazione del sogno della potenza americana; con il tempo e la confidenza, però le circostanze mi portarono a notare come l’idea spesso lo mettesse a disagio, rendendolo quasi insofferente. 

E la cosa mi preoccupava. Il carattere affettuoso e gioviale che mi aveva avvicinato quel primo meeting, era la luce delle giornate di tutti, nessuno escluso. Vedevo in lui il sapore della vita che non si arrende, della gioia di alzarsi ogni mattina come un sopravvissuto alle sofferenze, pronto a testa alta come un faro che davanti alle tempeste non smette di guidare i marinai verso la salvezza, e volevo fare quanto in mio potere per non vedere mai quella luce offuscarsi. Ma temevo per lui. Non posso negarlo. Spesso lo vedevo allontanarsi senza una ragione dal gruppo in fretta e furia, per tornare poi dopo una ventina di minuti, con la raccolta di scuse più ridicola della storia. E non ne capivo la ragione.

Fino a quella sera. 

Oramai avevamo l’abitudine di ritrovarci nello stesso pub ogni giovedì alle 7, e solo in caso di contrattempo, dovevamo chiamare per avvisare che non saremmo potuti trovarci lì. Giunsi davanti all’ingresso saltellando come un cucciolo, avevo anche appena acquistato un nuovo paio di Nike, e non vedevo l’ora di mostrargliele. 

Ma lui non c’era.

Gli è accaduto qualcosa. Non so perché quello fu il primo pensiero, ma l’idea mi pugnalò al cuore come uno stiletto: dannatamente doloroso. Dov’era. Iniziai a chiamarlo, ma non rispondeva. Una, due, tre chiamate. Niente. E ripensai a quella telefonata afferrata per puro caso fuori l’ufficio degli executives. Se gli è accaduto qualcosa e non ha fatto in tempo a chiamarmi? Devo cercarlo. Presi la macchina e ingranata la quarta in men che non si dica, iniziai a tagliare ogni scorciatoia per andare a vedere se fosse almeno a casa, al sicuro tra le mura domestiche.
-Se ti è successo qualcosa e io non ero lì, non me lo perdonerò mai. Questi mesi, io, io…dio, io sono stato felice. Non farmi questo, non dirmi che ti è successo qualcosa e non ho potuto aiutarti, un pensiero simile è troppo da sopportare-, ripetevo ossessivamente guardando il finestrino sperando che nessuna pattuglia notasse la velocità folle con cui stavo tagliando la città. Piangevo al volante come una femminuccia, ero terrorizzato per un essere umano che non era il sottoscritto, e il mondo improvvisamente sembrava iniziare a ripiegarsi su se stesso; fosse stato necessario l’avrei raggiunto anche correndo, fino a lasciare i polmoni vomitati a terra. Chris sto arrivando.
Giunto davanti casa, vedendo la luce dalle finestre accesa, mi rincuorai parzialmente ma finchè non avessi constatato la sua sicurezza, non me ne sarei andato. Suonai il citofono, iniziai a battere come un pazzo sul portone ma niente. Finchè a gran voce iniziai ad urlare “Chris, apri! Sono io dannazione, sono Sebastian! Cosa ti è successo!?!??! Apri maledizione o sfondo il portone, sai bene che ne sono capace!” 

Un secondo in più. Solo un secondo di silenzio in più e lo faccio, dea sfortuna non mi sfidare. 

Ma fui anticipato dal suono dell’apertura del portone: di volata, su per le scale, dalle luci accese, presto. Non perdere un attimo, guarda ovunque, dove diavolo sei, urla il mio nome. Improvvisamente però, il cuore si fermò in gola. 
Quasi non lo riconoscevo perché era rannicchiato, seduto a terra accanto al letto, con le mani protese in avanti dalle ginocchia contratte: tremavano. 
Teneva la testa tra le gambe, e sì e no potevo sentirlo respirare.
“Chris cos’hai! Ti prego, guardami! Mi stai spaventando a morte!” , e gli presi il volto tra le mani cercando un segno di vita; ma gli occhi socchiusi, la pelle bianca come un lenzuolo e le gocce di sudore dalla fronte, non lasciavano presagire nulla di buono. Assolutamente nulla di buono. E fu lì che, guardando meglio, mi accorsi di un sacchetto di carta a terra, sotto il viso, calpestato tra i piedi, bagnato sui bordi…. Un sacchetto di carta…Il respiro flebile, il tremore…. Non è possibile. E sei riuscito a nascondermelo tutto questo tempo? Complimenti, testone.

Il non detto dei mesi precedenti aveva preso forma. 
Dopo un profondo respiro, deciso a tranquillizzarmi, con un braccio sotto le ginocchia e l’altro dietro le spalle per sorreggerlo, lo sollevai da terra. Magro sì, debole, decisamente no. Feci qualche passo e lo adagiai delicatamente sul letto, con la testa leggermente sollevata -aveva bisogno di respirare- e, ritagliato un piccolo spazio per me seduto lì accanto, tenendogli stretta la mano gelida, gli sussurrai “Sono qui, Chris, tranquillo, non vado da nessuna parte”, prima di iniziare ad intonare “Now I’ve heard there was a secret chord...”…
Se poteva lavare via il mio dolore, avrei fatto sì che corresse in tuo aiuto. C’è musica anche adesso, Chris, nonostante tutto. Il fiato sembra perso ma non è così, lo hai solo dimenticato dietro un muro fatto di creta, che può crollare molto in fretta se lo desideri. Io sono qui, toccami. Sentimi. Non sei solo, affrontalo con me. 
Non giunsi neppure a fine prima strofa che, dopo vederlo scosso da un profondo singulto, me lo ritrovai con la testa affondata nella spalla sinistra, in un mare di lacrime: era un fiume in piena che sfondava le dighe, che distruggeva tutto quello che trovava sul suo passaggio tra le foreste, le case, le strade, e le mie difese. Ogni tanto lanciava un urlo disperato, batteva i pugni contro la mia spalla, e giù di nuovo in lacrime. Mi venne spontaneo poggiare la mano libera dietro la sua testa, e girando le dita tra i suoi capelli, rassicurarlo “Piangi pure tutte le lacrime del mondo. Non ho paura”. 

Piccolo principe, non aver paura degli incubi. Sai? L’alba arriva sempre e di loro non resta più nemmeno un ricordo. 

Restammo seduti per un tempo interminabile, mentre io continuavo a tenere la mano dietro la sua testa per il timore che una nuova ondata di dolore, più forte delle precedenti, lo sopraffacesse. La disperazione non aveva corrotto – fortunatamente- il suo profumo, e senza essermene accorto, mi ero ritrovato con la testa appoggiata sulla sua spalla, a mia volta. Non me ne accorgevo, ma stavo sprofondando in quel profumo, e il ritorno non era contemplato. La lacrime lentamente cessarono.
Ne fui immensamente sollevato, quando finalmente sentii di nuovo la sua voce. 

“Ho pianto così tanto… Perdonami Sebastian. Non avrei mai voluto darti questo dispiacere.” Ed ecco di nuovo la dolce arrendevolezza dell’innocente al martirio: Chris maledizione smettila, non lo vedi quanto mi ha fatto male NON sapere cosa ti stesse accadendo, anziché saperlo e poterti stare vicino? Sono morto dentro quando non ti ho visto arrivare al pub, prima; non farmi questo, non lasciarti andare, non lasciarmi andare, resta con me.

L’unica cosa che mi uscì dalla bocca però fu un “Se dici un’altra cavolata di questo calibro, ti prendo a pugni. E stasera se vuoi, se hai paura e non te la senti di restare solo, posso rimanere a dormire. Il letto è grande nella camera degli ospiti, posso anche cucinare qualcosa per entrambi: non hai idea del diavolo che sono in cucina”, sogghignai, tentando di fingere una padronanza della situazione che non avevo, ma lo avesse aiutato, avrei finto fino alla fine.
E il sorriso a cui tanto dovevo, si affacciò di nuovo sull’orizzonte degli eventi. Le mie parole erano servite; recuperato il colorito, sembrava lui quello pronto a confortare me, pronto a tranquillizzarmi con quell’unico, immenso e immacolato sorriso, non più il contrario. 

Al che mi alzai, e dopo avergli adagiato una coperta sopra, mentre lui accennava un momento di riposo, mi avvicinai alla cucina per vedere cosa potevo combinare. Fortunatamente non diedi fuoco a nulla- dato che avevo mentito spudoratamente sulle mie qualità da cuoco, questo era ovvio- per cui l’importante era risolvere la cosa nel modo più celere e meno dannoso possibile: pasta, ci sono anche i pomodori, l’olio…. e sì, forse salvo la faccia. Mezz’ora e la cena era pronta, Chris forse è riuscito anche a riposare, quindi se gli porto il piatto, avrà forze sufficienti per mangiare: svoltato l’angolo con i piatti tra le dita, lo trovai seduto, poggiato ai cuscini, che aspettava il mio arrivo.
“Tu così mi vizi, sappilo. Poi se mi abituo, divento esigente” disse, diretto come un treno.
L’impatto, il cataclisma, l’esplosione di quella meteora si fece sentire senza filtri, e il mio viso si ritrovò dipinto come la tavolozza di un artista davanti l’opera in fieri: tu, e solo tu, un giorno spiegami come fai a centrare il bersaglio ogni volta, con precisione quasi chirurgica.  
Preferii però dissimulare l’imbarazzo ingiustificato, non ha bisogno di altre stranezze a tormentarlo quindi almeno dai tuoi pensieri –dato che puoi-, difendilo. 

“Tranquillo, non la cavi a buon mercato. I prossimi giovedì saranno tutti in conto sul tuo portafoglio, e stai sicuro che non mi tratterrò con le consumazioni”, risposi sedendomi accanto a lui, con l’ironia che sapevo riportarlo sui cieli più alti, disposto a tutto pur di tranquillizzarlo e non recargli altra insicurezza. 
“Mangia ora, o si fredda, e lo sai quanto poco mi piaccia sprecare energie senza un fine”, conclusi poi con un occhiolino. Con calma, lo vidi assaporare quello che avevo cucinato e direi, con estrema soddisfazione, dato che per me era il terzo tentativo tra i fornelli di tutta una vita e già il non vederlo rimettere, mi riempiva d’orgoglio; ero lì per aiutarlo, non per dargli il colpo di grazia, pensai tra me e me. Provai a terminare anche io il piatto, ma lo stomaco non rispondeva molto, quindi preferii portare il tutto in cucina, col proposito semmai di scaldare la portata nel microonde non appena avessi avuto reale appetito. 

“Come ti senti, ora, meglio? , dissi tornando in camera.

Si volse verso di me e quello gli uscì dalle labbra, suonò come la campana del treno che passa verso il non ritorno.

“Sei la persona più cara che ho, Sebastian. Certo che sto meglio, e lo devo solo a te. Puoi e devi restare, tutto il tempo che vorrai. Non avrò più segreti, te lo prometto.”
Non so come riuscii a mantenere la posizione eretta, dato che le gambe avevano ceduto, le dita formicolavano, e non riuscivo a smettere di sentire un caldo atroce darmi alla testa mentre i sensi facevano di tutto per abbandonarmi e io con le unghie e i denti, li ancoravo a me: cosa sta succedendo, Mr.Stan, calma, è solo la persona gentile ed amorevole di cui ti sei curato stasera, cosa ti stupisce. Non è nulla di strano, è il solito Chris, il solito stupido che continua a temere per gli altri, anziché per se stesso, che tiene così tanto a te da sentirsi in colpa per non essere stato sincero fino in fondo, quando tu avresti voluto sincerità solo per esser sicuro di non lasciarlo solo quando avesse avuto più bisogno di te.

E’ lui, è Chris. Calma.

“Era ora che ti rendessi conto di chi hai davanti. Sono contento. Ora cerca solo di riposare, la sera è stata lunga e non proprio piacevole, hai bisogno di riprenderti senza fretta. Perciò ora prenditi tutto il tempo che vuoi, io vado a sistemarmi nella camera degli ospiti.” E mi allontanai.
Avevi bisogno anche tu di riposare, caro il mio Sebastian, che tu lo voglia o meno quello che hai visto e sentito stasera ti ha colpito, e fingere un cuore di pietra non ti serve a nulla: la gentilezza e la bontà d’animo, sono le nemesi da cui non sei mai riuscito a sottrarti. Meglio dormirci su. Complimenti: dei propositi iniziali di conquista del set sei riuscito a fare una landa desolata in men che non si dica, augurati di non gestire allo stesso modo i prossimi impegni, o la tua carriera finisce prima ancora di iniziare.

Il letto era davvero confortevole, e le lenzuola morbide erano sulla pelle, soffici come una brezza estiva che ti sveglia alle prime luci del mattino; ma qualcosa mi tormentava, un pensiero, una virgola nel contesto fuori posto che, nonostante necessaria per dare un senso al discorso, non riuscivo a sistemare, e il sonno non arrivava. Continuavo a girarmi tra le lenzuola, agitato, spossato dal mio stesso nervosismo e data l’ora ormai tarda, avevo paura che la nottata sarebbe trascorsa in bianco. Dei rumori però attirarono la mia attenzione e il silenzio della inquieta notte venne infranto: erano dei passi. Mi voltai di scatto, ma non ero pronto a ciò che stava per accadere, lo ammetto. Chris era in piedi sulla porta.

“Cos’hai Chris? Ti senti male? Vuoi che ti preparo una tisana?”, chiesi, fingendo un sonno interrotto.
Ma lui non fece altro che avvicinarsi ancora, tenendo lo sguardo a terra, e sedette accanto a me. 
Gli appoggiai una mano sull’avambraccio e continuai “Chris, tranquillo, se hai bisogno di me, ci sono. Parla pure, non aver timore. Non te l’ho dimostrato a sufficienza quanto mi stai a cuore?”. E mentre uscivano quelle parole, imprecai per la lingua che non era stata tagliata dai denti che avrebbero dovuto serrarsi, prima di lasciarle uscire. Ormai il danno era fatto –tentai di rincuorarmi-, spera solo che lui sia in grado di sorvolare, e ricomincia a curarti di lui anziché del tuo povero ego ferito.
Un filo di voce, solo un filo di voce, non riusciva proprio a far uscire altro mentre, seduto, lo sguardo restava a terra e le dita incrociate non si staccavano. 

Al che compresi. “Se vuoi puoi dormire qui con me, il letto è spazioso, e non corri rischi di prendere calci, nonostante il mio sonno agitato. Allora, che ne dici? Il tuo amico d’infanzia Captain o mio Captain, ti dice resta pure se non riesci a dormire.” E gli sorrisi, di nuovo, come non avevo mai fatto per nessun altro in vita mia. Era troppo fragile per essere vero, tutto quel riserbo, tutta la delicatezza che trasudava, facevano male a chi, dal fango, lo guardava e sognava una vita in cui tanta purezza avrebbe potuto anche solo sfiorare un’esistenza tanto ingrata e vile. Mi scostai verso il centro del letto, per fargli posto.  
Lui sgranò gli occhi, lasciando accendere il blu che si animava così di vita propria, mentre la bocca spalancata non poteva credere a ciò che avessi appena fatto. 

Non rimanere immobile Chris, ti sto dando la possibilità di non sentire più male, almeno per stasera: mi sei caro e non sopporto vedere qualcuno a cui tengo, soffrire. Non stupirtene. 

Tenendogli la mano poggiata sulla spalla, lo aiutai allora a stendersi, scostando le lenzuola cosicchè nulla lo facesse sentire rifiutato. Lui si poggiò su un fianco, e io trovai naturale come il mattino che segue la notte, abbracciarlo. “Dormi ora, io sono qui. Ti tengo stretto, gli incubi stanotte saranno lontani.”
Ci svegliammo nel primo pomeriggio del giorno successivo.
Così riposato non mi svegliavo da anni. La stanchezza, il nervosismo e l’agitazione della notte prima, erano dissolti come una bolla di sapone che tocca terra, e mi sentivo un uomo nuovo. Non volevo aprire gli occhi, avevo paura che quella sensazione svanisse col risveglio, non volevo scoprire di aver sognato tutto. Ma preferii farmi coraggio e, col viso riscaldato dal sole, aprii lentamente gli occhi. 

Lui mi stava guardando. Sbattendo le palpebre nell’incredulità dell’avermi lì, non potè fare a meno di sorridermi come solo lui sapeva fare, artista ormai esperto nell’arte del ridurmi in pasta modellabile, solo con uno sguardo: va bene, hai vinto. Ogni dubbio su di te è fugato, hai la mia piena fiducia.

Allungò una mano per carezzare la ciocca di capelli che mi era caduta sul volto girandomi, e sistemarla dietro l’orecchio, prima di sorridermi di nuovo. E la mano che mi sfiorava, riportava di nuovo quell’aroma di vaniglia che avevo saggiato per la prima volta agli studios… Volevo la mia vita riempita solo di quel profumo, volevo svegliarmi ogni mattina sentendolo in tutta la stanza rendere la mia vita migliore, rendere me, migliore. La fantasia è un calice amaro da digerire, alle volte. 
Smettila Sebastian e torna in te. Continuavo a ripetermi che era davvero troppo prezioso, mentre io un egoista senza speranza. Ti vuole bene come se fossi un fratello, e te lo dimostra in ogni modo possibile: sii grato già per questo, e basta, che la fantasia non porta mai da nessuna parte, se non in vicoli ciechi dove pareti di gommapiuma su cui sbattere senza rimedio ti aspettano, pronte sempre a restituirti al punto di partenza. 
“Buongiorno Occhibelli. A quanto pare ti sono sempre più in debito, in fondo se stanotte sono riuscito a dormire è merito tuo”, si stirò pigramente.
Merito mio. Io non ho nessun merito, Chris, non valgo tanto. Pensai solo -Non farlo, non farti spazio tra le mie mura, tra le trappole che ho piazzato, tra i fossati che ho scavato intorno al pozzo nero che mi porto dentro, se ne venissi contaminato non me lo perdonerei mai, ed un altro peso simile ora non lo sopporterei. Non ora che mi guardi come se la mia vita potesse contare qualcosa, potesse essere davvero preziosa… -

Volevo piangere, ma lui me lo impedì, preferendo abbracciarmi.

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Capitolo 3
*** Come non ho amato mai.... ***


E di nuovo quel calore che mi accompagnava quando lo tenevo stretto a me, si affacciò. Mi scostai un momento per riprendere fiato, tanto mi ero lasciato sopraffare da quel calore, e di nuovo le mie guance si infiammarono, lasciando trasparire l’emozione che forte era salita.
Lui comunque non smetteva di stringermi, e con una mano carezzava la pelle tra le scapole, mentre lieve intonava accanto al mio orecchio “Hallelujah”.
“ Questa canzone ci ha condannati”, sorrisi sarcastico.                                      
“Se questa è una condanna, allora che la mia anima sia dannata. Perché è meglio vivere un inferno con lei accanto a te, che un paradiso senza”.
La parola giusta. Sempre e comunque. Davanti avevo un essere proveniente da un altro mondo che si confondeva tra noi indossando un umano contorno, che mi leggeva nel pensiero, e mi dava sempre ed esattamente ciò di cui avevo bisogno: nel patetico tentativo di non lasciarmi andare mostrando ogni briciolo della mia fragilità, cercavo ancora scuse per allontanarlo. Sei sempre stato un idiota, sorrisi sotto i baffi, senza curarmi di dare spiegazioni. Lui preoccupato per la risata mi chiese se avesse esagerato, se mi avesse fatto sentire a disagio: volsi lo sguardo verso il suo e gli chiesi di continuare per favore ad esagerare in quel modo ogni volta che ne avesse sentito il bisogno.
Mi strinse ancora più forte. E la sensazione di calore cresceva sempre più, oramai ero in fiamme. Il signorino Sebastian Stan è felice, eh, mentre la mie dita cercavano la pace giocando sotto la sua maglietta, facendogli il solletico, provando a trovare quiete da un momento stupendo ma talmente pieno di emozioni a me sconosciute, da rendermi un po’ nervoso. Comunque almeno ero riuscito a fare ciò che sentivo giusto, quindi consumato il desiderio di redenzione nei suoi confronti, per riuscire a lenire la sensazione di intorpidimento, almeno quella sera preferii tornare a riposare nel mio letto. Quella sera, l’istinto mi diceva, rimanere non sarebbe stata una buona idea. Una carezza ancora, un buffetto sulla spalla e lo salutai.
“A quanto pare, nessuno dei due mordeva, alla fine.” dissi prendendo la porta. Lui mi lanciò un bacio ancora.
La vita scorre veloce quando sei felice, non smettevo di ripetermi, e se anche tutto questo un giorno dovesse finire, averti nella mia vita l’ha resa degna di essere vissuta. Quell’aspetto dell’essere mi era ignoto e mi sentivo come un esploratore in avanscoperta in una terra selvaggia, remota, pericolosa ma così seducente, da attirarti a sé con il solo risplendere delle foglie delle sue foreste, alla luce del sole.  Mi aveva travolto come un tornado, il suo arrivo; il fiume dei miei pensieri conoscendolo aveva distrutto gli argini e inondato tutto ciò che intorno avevo costruito.
Non era però spiacevole finalmente trovarsi a guardare le cose e sentirle, interessarmi al mondo prendeva una nuova piega, e la mia curiosità era di nuovo accesa, più viva che mai. Guardavo ora il mondo da un prisma che rifletteva l’arcobaleno, ed era stato lui a donarmelo, quindi se lui pensava che lo avessi meritato, poteva essere giunto il momento di smettere di avere una considerazione così squallida di chi fossi stato fino a quel momento. L’unico dolore di quei tempi si rivelò, stare attenti davanti agli altri, nel non esagerare nei gesti d’affetto: quante volte avrei voluto soprattutto davanti ad estranei, stringerlo, baciarlo, carezzargli le mani per urlare quanto fossi stato fortunato il giorno in cui mi aveva scelto… ma non potevo. E faceva male. Soprattutto quando vedevo che il suo sorriso attirava attenzioni poco gradite, ma come avermene? E’ il sole, è normale che tutti finiscano per essere attratti dalla sua luce.
Lui, dal canto suo, ogni volta che la consapevolezza di sguardi poco graditi lo sfiorava, trovava nella cortesia dei modi che lo contraddistingueva, il modo per allontanarsi e tornare da me; tutti gli volevano bene anche per quell’aspetto del suo carattere, io poi ormai lo amavo, soprattutto per quello. Tutto il mondo poteva circondarlo e pretendere una parte di lui, ma il suo sguardo era sempre rivolto a me.
Impossibile chiedere di più alla vita, decisamente impossibile.
Arrivammo ai giorni antistanti alla premiere in un batter di ciglio ed io, preoccupato per la tensione che lo attanagliava, non lo lasciavo un momento. Lo vedevo spesso cupo, con la mente altrove, contorto tra i suoi pensieri mentre i colleghi erano distratti: a me però non sfuggivano quelle sfumature, e quando mi accorgevo del buio in procinto di circondarlo, immediato era il mio intervento. Una battuta o un sorriso, o addirittura una ciambella alla fragola –erano le sue preferite-, tutto era utile pur di strapparlo alle tenebre e riportarlo da me; cosa stavamo a fare insieme, se lo lasciavo andare ai suoi demoni. Ormai negarlo era inutile, lo amavo con tutto me stesso, e avrei fatto sì che la mia gioia fosse la sua gioia, e che il suo dolore divenisse il mio dolore, perché ogni peso quando lo condividi con chi ti ama, non è più tale.
E la premiere giunse, finalmente. Ormai vicini alla fine di Maggio, il tepore delle giornate iniziava a lasciare spazio alle prime calure estive. Un paio di giorni prima lo accompagnai a scegliere il completo che avrebbe indossato sul red carpet, -gessato con cravatta, tutto rigorosamente nero- mentre ciò che avrei indossato io, era già scelto dal mio agente da quasi un mese: l’unica cosa fastidiosa di quel periodo era la lunghezza dei capelli. Il contratto che avevamo entrambi firmato includeva un sequel, ma mentre a lui era richiesto mantenere una massa muscolare importante sino ad allora –cosa che non posso dire m’infastidisse…- , io dovevo far allungare i capelli quasi alla base del collo: una gatta da pelare… se non fosse stato che lui li adorava. Giocava con le dita facendoli passare delicatamente sul palmo, li portava dietro l’orecchio per potermi guardare meglio negli occhi, o li annusava estasiato per poi guardarmi, più innamorato che mai; e io mi ritrovavo a desiderare che neppure il suo tocco, finisse mai.
Lui mentre sfilava davanti i giornalisti, brillava di propria luce. La bellezza della grazia che portava con se lo rendeva immortale, nelle movenze. Dio greco, tra noi distribuiva con somma pazienza una briciola di sé a ciascun pellegrino in preghiera, amorevole come non mai, ai miei occhi il dono che la vita fino a quel momento ingrata aveva deciso di elargirmi, pegno per il perdono delle sofferenze passate. Fortunatamente l’evento filò liscio sino al party organizzato dai produttori in centro, dopo la proiezione della pellicola. Il passo decisivo era stato delineato nelle nostre carriere, ed io contento più che mai, non vedevo l’ora di poter tornare a casa con lui per poter festeggiare la gioia del meritato riposo dopo tante ore di impegni massacranti; avevamo pianificato ogni cosa, avendo addirittura dato appuntamento a dei taxi in zone opposte della città così da non destare sospetti sui nostri spostamenti e finalmente giunse il momento in cui ci staccammo dalla gran baldoria, ad un’ora circa di distanza l’uno dalla sortita dell’altro.
Volo da te, amore mio. Aspettami, pensai in preda ad un’euforia quasi estatica. Quella sera sentivo come non mai il bisogno di stringerlo, di accarezzarlo, volevo sentire il profumo della sua pelle confondersi con la mia e impazzire, nel mentre. Approfittando delle ultime tenebre, riuscii ad entrare di soppiatto nel suo appartamento; non potevamo rovinare tutto proprio la grande sera, e lui era lì ad aspettarmi, finalmente in lacrime, ma di gioia. Non poteva fare a meno di continuare a baciarmi e ripetermi quanto fosse stato fortunato nell’avermi conosciuto, quanto la mia presenza nella sua vita, avesse reso le cose meno dolorose e gli avesse dato le forze necessarie per affrontare ogni sfida, e quanto sentiva di amarmi di più ogni giorno che trascorreva al mio fianco.
A quelle parole, le mie mani iniziarono a muoversi da sole. Da tempo ormai covavo il desiderio di sentire la sua pelle nuda sotto le dita, di sentire come e quanto avesse piacere nel sentirmi così preso da lui: eravamo due adulti innamorati, non avevamo nulla di che recriminarci, e desiderare la reciproca vicinanza era perfettamente normale. Spera solo che lo desideri anche lui o preparati a sprofondare per la vergogna…pensai, prima di iniziare a barcamenarmi nello stesso imbarazzo che da solo avevo fomentato. Piano piano cominciai, dopo avergli tolto la giacca ed appoggiata sul tavolo, a sciogliere la cravatta: non potevo negare l’ansia, tant’è che le mie mani in alcuni momenti erano visibilmente scosse all’idea di ciò che la mente aveva intenzione di fare, ma non potevo fermarmi, non ora che lo tenevo lì con me.
Ma lui si limitava a guardarmi immobile, non reagiva, e non ne capivo il motivo. Ti prego, ti prego, ti prego fa che lo voglia anche lui… ripetevo ossessivamente fino a che, aperto l’ultimo bottone della camicia, la sua pelle era lì, che mi chiamava.
“Non voglio assolutamente forzare nulla tra di noi” sospirai, guardandolo a quel punto negli occhi. “Se vuoi che mi fermo, se pensi che sto esagerando, non hai che da dirlo…” riuscii a dire con un filo di voce, guardando a terra per l’imbarazzo di ciò che volevo ma non dicevo.
“Io non so dove questa relazione ci porterà, ma so che finchè ho la certezza che lui batte solo per me” e appoggiai la mano sul suo petto …” niente di sbagliato potrà mai accadere tra di noi”.
Non avevo mai aperto a nessuno le porte della mia persona, in quel modo. Volevo renderlo felice, e questo mi faceva sentire un uomo migliore di quello che ero mai stato, prima di conoscerlo.
“ Sebastian. Ti ho per caso impedito di aprire la camicia? Non direi… quindi smettila. Non aver paura. Qualunque cosa accadrà, se accadrà, io continuerò ad amarti anche più di prima.”
Sorrisi abbassando lo sguardo, in modo sommesso, quasi in imbarazzo per aver pensato che lui avesse potuto trovarmi spiacevole. Oramai le luce del mattino si affacciavano dallo spiraglio di finestra socchiusa e non avevo idea del cosa stesse accadendo dentro e fuori di me, ma sentivo solo quanto era bello vedere che lui mi sorrideva dolce nel mentre mi privava delle mie difese, lasciando solo amore al suo passaggio. Aveva slacciato anche la mia camicia, e a quel punto io non fui più in grado di resistere: dovevo stringerlo, dovevo sentire il calore della sua pelle bruciare la mia, dovevo e volevo perdere la dimensione “io” e diventare “noi”. Amore mio sono qui, senti quanto calore hai restituito a questo corpo che credevo morto… pensavo intensamente, mentre lo abbracciavo. La sua pelle era un fulmine a ciel sereno che allentava ogni mia certezza, era un pianto tra le stelle di una galassia neonata che si affaccia nell’universo e con i suoi primi vagiti, porta la vita.
Dopo pochi secondi che a me erano però sembrati un tempo infinito, lui mi sollevò il mento verso il suo viso, mi diede un bacio ancora e mi disse che se avessi voluto riposare un po’, potevamo stenderci e riprenderci dalla fatica della giornata precedente. Non me lo feci ripetere due volte, e mi avvicinai verso il comò nella camera quando notai che nel cassetto della tenuta da notte, non aveva nulla per il periodo estivo. “Chris scusami, ma i pigiami estivi? O non lo so, gli indumenti con cui dormi d’estate?”
Lui mi sorrise sornione… “Io d’estate dormo in mutande”, rispose.
A quel punto credo di aver assunto sul viso, tutte le sfumature esistenti dello spettro della luce.
“Ah…quindi …. Bene. Promettimi solo che non riderai. Per scaramanzia, avevo indossato dei boxer molto vecchi, quasi logori, messi il giorno della mia laurea all’accademia e beh, se dormiremo in mutande, sono gli unici che ho…” ed evitando accuratamente il suo sguardo, iniziai a sciogliere la cintura e la zip dei pantaloni, ponendo la massima cura possibile nell’appoggiarli sulla sedia –un po’ per attenzione mia, un po’ per riuscire a distogliere l’attenzione da ciò che lui stava facendo-.
Stanno diventando un po’ strane le cose, pensai. Però era lui, era sempre lui con me, non avevo nulla di cui temere, anzi: in lui non dovevo fare altro che confidare. E mi appoggiai sulle lenzuola, sempre piacevolmente fresche di bucato. Lui si stese accanto a me, come era d’abitudine, ma stavolta sentivo che qualcosa stava iniziando a cambiare: lui era letteralmente in fiamme. Il suo corpo era pura brace, il che amplificava non poco l’aroma di vaniglia che lo circondava, rendendolo più forte di una droga che dritta va al cervello. Mi voltai verso di lui sperando che baciarlo prima di dormire, baciarlo ancora e ancora avrebbe permesso a quell’immenso calore di attenuarsi: invece più lo baciavo e mi stringevo a lui, più fremeva sotto il mio tocco, mentre le mani sfioravano la sua pelle nuda e cercavano di fissare nella memoria, quelle linee potenti che dagli abiti avevano solo potuto immaginare. 
Iniziai a piangere come un ragazzino.
Ma cosa diavolo mi sta accadendo… E più cercavo di tranquillizzarmi, più le lacrime scendevano. Quando lui capì cosa stava accadendo, mi rivolse lo sguardo e, compresa la situazione, preferì stringermi forte abbandonando ogni altro proposito.
“Non sei costretto a fare nulla. Ti prego amore mio, non piangere così…” diceva, mentre cercavo di appoggiare la testa vicino al suo cuore per regolare il moto del mio stato d’animo, e trovare un po’ di pace. Stavo cambiando, stavo scoprendo una parte di me che non conoscevo, e ritrovarmi davanti all’ignoto, mi aveva sconvolto: ciò che stavo diventando avrebbe cambiato ogni certezza su cui con tanta fatica avevo lavorato fino a quel momento, e mi avrebbe reso di nuovo inerme alla cattiveria del mondo.
Cosa devo fare, cosa devo fare, cosa… pensavo, mentre spingevo forte la testa sul suo cuore sperando che le mie paure così quasi potessero scivolare via. Perso nelle mie insicurezze, volevo solo sparire all’ombra della vergogna che provavo davanti a lui nel sembrare tanto piccolo, quando lui per me era grande quanto il sole.
Anche stavolta lui, consapevole più di quanto non lo fossi stato io di me stesso, anticipò la soluzione ad un problema sul momento decisamente ostico e dopo avermi asciugato le guance con un casto bacio, proseguì dicendo “Ora dormiamo, proviamoci. La giornata è stata davvero lunga, e un po’ di riposo non guasta. Io sarò sempre con te, e qualunque tua paura, la affronteremo insieme. Non importa quanto sarà necessario, io non ti lascio. Ricordalo”.
Sei la mia oasi nel deserto.
E spossato da quella miriade di pensieri affollati nella mia mente senza tregua in un tempo così piccolo, crollai tra le sua braccia amorevoli. Fu un sonno senza sogni, una notte infinita in cui ero sprofondato senza mezze misure, per questo fui immensamente sollevato del risveglio il pomeriggio seguente: avevo di fianco lui che dormiva come un angelo, rannicchiato su un fianco, col viso rivolto verso di me leggero e quasi sorridente, probabilmente stava sognando.
Gli sfiorai leggermente i capelli, sperando di non svegliarlo, in un momento di intima dolcezza come non avevo mai desiderato in vita mia: guardarlo portarmi per mano nonostante entrambi dispersi in una terra ignota, e per me, forte dinnanzi ogni pericolo, lo rendeva un eroe ai miei occhi come nemmeno il Capitan America che impersonava, avrebbe potuto. Mi sentivo amato. Profondamente. Senza limiti, senza rimpianti.
Quel pomeriggio compresi, guardandolo riposare, la piena dimensione di ciò che provavo nei suoi confronti e di ciò che avevamo costruito fino a quell’istante; i sensi di colpa, la paura, l’ansia della scelta del giusto e sbagliato smisero di attanagliarmi le viscere e ciò che accadde poi, fu solo la dimostrazione più alta di ciò che era nato.
Giusto o sbagliato perdono di significato quando l’amore ti ricorda che non ha sesso. Il sesso dell’amore è nell’anima di chi lo scopre ed i connotati fisici non delineano chi tu sia o chi sia il tuo destino, ma sviluppano solo la dimensione necessaria per individuare la materialità che ti conferisce uno spazio nel mondo. L’anima è altro, ed io amavo la sua anima più di ogni altra cosa. Il caldo di quel pomeriggio rendeva poi tutto quasi surreale, indefinito ma, nonostante un primo momento di imbarazzo, tutto quello che accadde tra di noi sapeva di così giusto e buono, da non lasciare spazio a niente che non fossimo “noi”.
Quei maledetti capelli continuavano a scivolare sul viso e, inumiditi dal sudore, non smettevano d’infastidirmi, alle volte anche coprendomi gli occhi; ma nonostante il fiato mancava tagliato da una passione così bruciante da far impallidire Amore e Psiche, e il dolore alle volte si faceva sentire tagliente come una lama, lui non smetteva di cercare quegli occhi neppure per un momento per cui con amorevole attenzione, all’occorrenza, li spostava indietro, così da potermi continuare a baciare ancora e ancora e ancora… Fare l’amore per la prima volta in vita tua, ti cambia, ora lo so. Non parlo di sesso fine a se stesso, l’atto che solitamente viene impiegato per perpetrare la tua specie nel mondo: quello ne avevo avuto quanto ne volevo fino a quel momento, senza riserve da alcuna compagnia avuta finora, sia di bell’aspetto che non.
Parlo di amore, quell’atto di una sonata stupenda che quando due persone interpretano assieme, crea musica attorno a loro.  Quel pomeriggio, io non ho mai smesso di udire una musica soave in lontananza perché ero musica, lì, con lui. Mentre lui non smetteva di carezzare i miei fianchi e io non potevo trattenermi dal baciare le sue spalle, adorato orizzonte dei miei eventi… , anche nel clou della nostra gioia, tutto ciò che vedevo era la bellezza di ciò che era e sarebbe da quel momento sempre stato.
Lui non smise un secondo di cercare i miei occhi quel pomeriggio. Quell’afoso, indistinto, unico pomeriggio. Io non avrei mai più smesso di cercare il suo. Storditi e stremati, alla fine ci accasciammo tra le lenzuola.
“…Per me era la prima volta…con… con…beh…” fece all’improvviso, prima di abbassare lo sguardo ed arrossire come il tramonto che si stava affacciando dalla finestra.
Gli presi una ciocca di capelli tra le dita prima di annuire e finire la sua frase “…Con te”.
Lo baciai con tutto l’amore che avevo, non potevo risparmiare a lui la parte migliore di ciò che ero e che potevo essere; tutto sarebbe stato sempre sopra le righe e lui doveva capire qual era adesso la stella polare che seguivo nei miei viaggi. 

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Capitolo 4
*** Siamo come fiori nel deserto ***


Mi sussurra “Ora tocca a me”, prima di stringermi la testa al petto.
Oddio, di nuovo quel profumo….
Tentai di chiudere gli occhi pregando di non lasciare trasparire la debolezza, ma ottenni l’effetto contrario, e mi ritrovai in ogni angolo, marchiato senza rimedio.

Sono perso nel tuo profumo, maledetto, e non ho la più pallida idea del cosa sto facendo, della ragione per cui lo sto facendo, e dove mi sto dirigendo: chi sei per farmi questo, smettila…

Ma invece di allontanarlo e dare retta al buonsenso, preferii incrociare le mie dita dietro le sue scapole, finendo ad abbandonarmi. Credo di esser crollato lì, perché quando aprii gli occhi nuovamente Chris non c’era più e al suo posto un aroma di pancetta e uova strapazzate, mi aveva raggiunto dalla cucina.

Sta preparando la colazione: era il momento di mettere immediatamente la tuta e raggiungerlo.

“Non avevi mai acceso un fornello prima, vero?”, disse, mentre con maestria le uova saltavano sulla padella e la pancetta sfrigolava sulla piastra. “La pasta era così scotta che quasi non la staccavo, quindi d’ora in poi facciamo che all’occorrenza, la cucina resta il mio campo” proseguì ridacchiando, mentre serviva a tavola un piatto così ordinato anche a vedersi, che divenni paonazzo memore della performance imbarazzante della sera prima: aveva leccato il piatto nonostante la mediocrità del risultato, aveva mangiato tutto solo per farmi contento.
-Cosa devo fare. In questi casi, cosa bisogna fare- continuavo a ripetermi ossessivamente. -Per favore, qualunque voce nella mia testa disposta ad aiutami, risponda immediatamente o prevedo il disastro di qui a breve-; la sabbia del castello aveva resistito per anni alle peggiori tempeste mentre ora veniva letteralmente spazzata via da un vento leggero, e io non avevo davvero la più pallida idea della direzione da prendere.
Nonostante tutto la mia vita non era così male con gli alti e bassi di una carriera al decollo, conoscenze utili, rapporti fugaci per variare la routine; perché cambiarla, perché lasciarsi cambiare ad un momento di debolezza. La mia vita era basata su una metodica ripetizione degli stessi eventi in grado di assicurarmi il necessario equilibrio, non c’era alcuna necessità di scavare nel tunnel in cui mi ero infilato, e un profondo terrore mi colse.

Tornai a casa quella sera, completamente svuotato.

Avevo lasciato qualcosa a casa di Chris, durante la colazione. Dopo quello che avevo visto e vissuto, una parte di me si era rifiutata di prendere la strada del ritorno verso casa, e aveva preferito rimanere lì con lui, a vegliarlo, pronto a non lasciarlo mai solo. Si era staccata da me -non avevo avuto molta scelta- come se quella fosse stata l’unica cosa giusta da fare, lasciandomi solo con i miei sensi di colpa.

L’unico problema era dato dal fatto che volevo raggiungerla. Volevo raggiungerli entrambi.

Nel mio letto, la sera, non potei fare a meno di piangere fino a perdere i sensi, altro modo di dormire non mi riusciva, tanto era doloroso il macigno che sembrava volermi sfondare il petto. I giorni successivi mi sforzai di lavorare sul bisogno di ristabilire i ritmi consueti, sicuri, conosciuti: studio, prove con l’insegnante di capoeira, scene davanti al green screen, allenamento in palestra, casa. Evitavo di riprendere l’argomento con lui non tanto per il timore di fargli del male, quanto per quello che stava accadendo a me. Sarei arrivato a fine riprese senza drammi, me lo dovevo, ma a questo punto allentai l’amicizia con lui, o qualcosa d’incontrollabile sarebbe accaduto, e io sarei tornato il solito ragazzino impaurito.

Il giovedì successivo, con la morte nel cuore, finsi un malore pur di evitare il giovedì al pub: mi pugnalò il cuore sentire la sua voce rattristata all’idea di non vedermi, al sentirmi dire “Riprenditi in fretta Sebastian: cos’è Captain America senza il suo Bucky….” .Il suo Bucky. Cerco di starti lontano, ma a quanto pare sai come centrarmi anche a distanza. Il suo Bucky, eh…La mia fantasia poteva essere senza speranze, ma tu non facevi nulla per evitarle contorsioni inutili; anzi, sembravi nato solo per alimentarle.

I giorni, seppur a fatica, sembravano riprendere un corso quasi conosciuto. Nulla di nuovo dietro l’angolo, nulla di diverso, nessun disastro in avvicinamento, e il giovedì successivo la scusa pronta per saltare l’appuntamento venne quasi spontanea da questa lingua biforcuta:” Ho un appuntamento con una ragazza stasera, scusami Chris, dobbiamo rimandare”. Peccato che la sensazione di disgusto per quello che avevo appena fatto, salì così in fretta da procurarmi la nausea, e il suo silenzio al telefono non mi aiutò affatto.

“Chris tutto bene? Dai, non mettermi il broncio, sai che mi farò perdonare. Ma questa è una bomba, e sono abbastanza sicuro di riuscire a portarmela a letto stasera stessa: sono occasioni che non vanno sprecate” ridacchiai, mentre guardavo intorno a me e sceglievo contro cosa potevo iniziare a tirare pugni fino a rompermi le mani.

Tu eri quello che la sera della sua crisi, gli aveva promesso che non lo avrebbe mai ferito. Dimmi cosa cazzo stai facendo, gridò quella che credevo fosse la mia coscienza: non parlavamo da così tanti anni che non ricordavo neppure esistesse.

Si limitò a salutarmi e chiuse la telefonata.

Sei un mostro signor Stan, continuavo a ripetere alla mia immagine, mentre fissavo lo schermo del cellulare che si stava spegnendo. Sei un mostro, complimenti. Stai benissimo nell’ambiente di cui tanto ti lamentavi, anzi, hai appena dimostrato che volendo potresti arrivare a stenderlo ai tuoi piedi. Sii fiero di te, almeno.

Rovinai indietro sul letto, cercando di coprire gli occhi con la mano che teneva il cellulare, ero tentato di richiamarlo e rimangiarmi tutto, dirgli che non avrei mai voluto dire quella stupidaggine, che mi stavo mettendo alla prova per verificare le mie capacità, non lo so, o qualunque cosa in grado di riportare indietro le lancette dell’orologio. Ma ormai il danno è fatto, mi limitai ad un vano tentativo di controllo del respiro per impedire al cuore di accelerare troppo, e andai avanti.

Ordina il sushi, stasera hai bisogno di consolarti.

Ma lo stomaco era serrato e, anche se ero solito fare anche gare tra di noi sul set per vedere chi ne trangugiava di più, quella sera nemmeno il sushi era dalla mia parte. Mi accasciai sul divano a quel punto, cercando l’apatia in un punto fisso della stanza; e probabilmente l’intento fu raggiunto, dato che quando mi ripresi dal torpore, fuori era completamente buio.

A quel punto, sentii il campanello.

Lanciai imprecazioni a non finire contro chi rompeva l’anima a quell’ora dato che l’indomani sarebbe iniziato il week-end, le riprese erano concluse, cambiamenti al copione ulteriori non erano previsti e quella era la serata meno adatta per richiedermi interazione con il genere umano. Infastidito come pochi, aprii la porta senza neppure controllare chi era.

Chris. Era Chris.

Mi stava fissando con gli occhi rossi e gonfi, le labbra erano contratte in una smorfia di dolore, dalla postura sembrava fosse quasi sul punto di darmi un pugno, quando le uniche parole che uscirono dalla sua bocca furono:” Perché. Dimmi cosa ho fatto. Ti chiedo scusa, ma dimmi cosa ho fatto. Sono due settimane che mi eviti, non ce la faccio più.”

No, anche questo no. Non puoi pensare di arrivare così nella mia vita, spazzare via tutto, lasciarti riempire di melma, e farti trovare qui ad implorare un perdono che non devi. Tu non devi niente a nessuno, sei l’essere umano migliore che io abbia mai conosciuto; sei tutto quello che ho sempre sognato di incontrare, oasi nel deserto di questo pellegrino in fin di vita. Mi hai salvato la vita e sei tu qui pronto ad implorare il mio perdono? Quando dovrei essere io a gettarmi a terra, stringendoti le ginocchia per non vederti andare via, per poter brillare ancora un po’ della tua grazia riflessa... Quello imboccato era un sentiero senza ritorno, solo allora me ne resi conto.

Con un filo di voce lo supplicai di entrare.

Lui non fece più di qualche passo, ma io chiusi la porta d’ingresso sperando che quel po’ di forza che stavo raccogliendo, non fluisse via attraverso gli interstizi nascosti delle mura che ci circondavano: pregai l’anima mia, ovunque fosse nascosta, di sostenermi in quel momento. Raccolsi le sue mani tra le mie, ramingo senza dio in preghiera al santuario della sua umanità, e finalmente riuscii a scollare le labbra:

”Di cosa hai di che farti perdonare, Chris. Di avermi voluto bene fin dal giorno in cui mi hai conosciuto? Di essere così maledettamente pieno di affetto per questo mondo malato, da riuscire a voler bene anche ad un povero stronzo come me?” e presi un momento per riprendere fiato. Per una serpe, smettere di sputare veleno può essere estremamente faticoso. Ma quando lo guardavo, vedevo la luce che non si piega davanti alle ombre, vedevo la primavera spaccare il ghiaccio dell’inverno e lasciare la vita fiorire, bella come se fosse il suo primo fiore, quello appena sbocciato. Aveva un cuore immenso l’uomo che avevo di fronte, e io mi sentivo dannatamente fortunato all’idea di averlo conosciuto.

Aveva gli occhi pieni di lacrime, ma nulla gli aveva impedito un passo ancora verso di me - la vaniglia che accarezza la sua pelle lattea ormai mi annebbia completamente i sensi, sono in balia della marea-, pensai prima di diventare una miniatura pronto a nascondermi nella tasca della sua giacca. Però ora mi guardava dritto negli occhi, non aveva più lo sguardo mesto rivolto al pavimento, ed era eterno come una montagna che bacia il cielo, forte come finora non lo avevo mai visto.

“Mi chiedo se potrai ….” , ma non ebbi modo di concludere la frase.

Sentivo le sue guance ancora umide dalle lacrime versate, mentre le sue labbra erano premute contro le mie. Sto cercando io di chiederti scusa, non il contrario, maledizione! La mia testa urlava, mentre il mondo mi implodeva dentro. Sentivo di dovergli un atto di puro affetto, un momento di coraggio in cui potevo dimostrargli quanto la mia vita fosse stata travolta nel momento in cui, dopo averlo conosciuto, si era accorta che il buio sovrastante in realtà era la mappa dell’intreccio di stelle più radioso dell’intera volta celeste. Eppure anche di quella scelta, lui era riuscito a liberarmi. Mi aveva dato la possibilità di essere io ad odiarlo, ad allontanarlo, a prenderlo a pugni se non avessi apprezzato il gesto, aveva ancora una volta posto aventi a sé, la mia integrità, il mio benessere: fortunatamente, nel mentre di quel vortice di inutili psicodrammi, il corpo aveva scelto di ignorare completamente ciò in cui la mente si dipanava e con il braccio sinistro già gli cingevo un fianco mentre con il destro, avevo sollevato la mano dietro la sua nuca, in una silente carezza.

Sono morbide, le tue labbra, non lo avrei mai immaginato: hanno il sapore dell’immensità, in un mondo infinitamente piccolo… Rendi la mia vita degna di essere vissuta Chris Evans, qualunque cosa tu faccia.

Dopo secondi di serafica pace, mi scostai leggermente e poggiai la testa sul suo petto: il battito del suo cuore calmo e pacato, mi rassicurava. Non stava in alcun modo rimpiangendo la scelta fatta pochi secondi prima, l’ansia era un ricordo lontano, e il respiro era scandito in maniera solenne e regolare. Aveva voluto tutto quello che era accaduto in quegli ultimi momenti, nulla in lui lasciava trasparire ripensamenti, anzi: ora ai miei occhi appariva come una roccia, forte in mezzo alla corrente, unico appiglio di questo marinaio alla deriva. Solo in un secondo momento ebbe il coraggio di ammettere che avrebbe voluto avvicinarsi a me fin dal nostro primo incontro, tanto lo avevo colpito; non posso negare che il tutto mi riempì d’orgoglio.

Lì per lì, le implicazioni di quanto era accaduto, comunque, non ci sfiorarono minimamente ma scossi da un leggero moto d’imbarazzo in cui nessuno riusciva a riprendere parola, preferii rompere il silenzio offrendogli per cena il sushi che mi ero fatto consegnare: “Dai, non l’ho cucinato io, Master-Chef che altro non sei. Vuoi dividere la cena o preferisci ricordarmi quanto sono scarso in cucina…”, sospirai, beato del calore del suo petto accanto al mio viso.

“Apriamo quelle buste allora, ho una fame indecente. Per correre da te, ho saltato anche la cena. Povero il mio stomaco…”, ridacchiò. Le sue braccia ora mi avevano completamente circondato, e non desideravo altro che lasciarmi trasportare ancora un po’, ma era ora che dimostrassi che non si era trovato faccia a faccia con un bambino. Quindi dopo un momento iniziale diciamo abbastanza concitato, i giovedì insieme erano ripresi, anche se in una diversa sede: eravamo sempre io e lui, del cibo, qualche birra, e la voglia di vivere.

Seduti a tavola, io lo guardavo e pensavo che non avrei mai più voluto altri occhi addosso. Mai più.

Meglio non correre troppo però, voglio dare ad ogni momento trascorso con lui il giusto peso, sottolinearlo con la giusta armonia: quella che stava crescendo non era una infatuazione adolescenziale, non era la lieve fiammella di un lume che si accende per le strade al sopravvenire delle tenebre: era un devastante incendio che sarebbe arrivato a far impallidire anche il sole, tanto era potente.

La tenerezza dei suoi modi mi ancorava alla realtà, non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso; volevo imprimere nella memoria ogni centimetro di lui, ogni sua movenza, ogni abitudine così da poterle tenere a mente quando mi fossi ritrovato nel mondo, lontano. Sorridevo nel vederlo mangiare di gusto, ammiccavo nel vedere quanto fosse bastato poco per renderlo allegro e farlo stare bene, in fondo non volevo altro fin da quando lo avevo conosciuto, quindi perché fare una questione del come fossi arrivato a vederlo sorridere, continuavo a domandarmi. Inutile spreco di energie. Un primo bacio con un tuo coetaneo c’era già stato quando non avevi neppure 15 anni, nell’angolo buio dei bagni dei ragazzi della scuola, convinti che non vi vedesse nessuno: ma era stato più uno scontro senza ferite troppo gravi, in cui nessuno dei due aveva ben capito dove la scelta potesse portare, e dove non vi erano stati né vinti né vincitori. Ma almeno la curiosità era stata affrontata, il dubbio era stato risolto, ed eri andato avanti senza troppe domande. Non ti aveva disgustato, ma non avendo neppure provato nulla, non sapevi bene cosa potesse rappresentare per te.

Sapevo però cosa lui stesse iniziando a rappresentare per te.

Non essendomi mai trovato a desiderare tanto intensamente la felicità di qualcuno che non fosse quella del sottoscritto, sorridere anche solo all’idea di saperlo allegro mentre combina il disastro con il sushi e la soya sul tavolo, era quanto di più avessi mai potuto chiedere: tu che ti sei fatto spazio tra i miei pensieri senza nessuna pretesa, tu che mi siedi davanti e mi guardi come se non avessi aspettato altro che di conoscermi, solo ed esclusivamente tu.
Romantico. Mi portavi ad essere romantico. Ti guardavo e ti sognavo ricoperto di fiori, disteso in un prato sotto il sole del mattino che guardi il mondo attraverso quei cristalli che hai a posto degli occhi, prima di voltarti verso di me che ti guardavo estasiato, mentre mi baciavi ancora. Ancora, ne volevo ancora.

Tu guarda in che bel casino ti sei infilato, Sebastian Stan
, sospirai dentro di me. Meglio concludere questa giornata senza ulteriori stravolgimenti, per ora ne abbiamo avuti abbastanza entrambi.

“Se vuoi, puoi restare a dormire. Non mi dispiacerebbe riuscire a riposare come abbiamo fatto l’altra volta.” Dissi, con tutta la naturalezza che potevo. Non trovavo nulla di strano nel saperlo accanto, anzi, addormentarmi col suo profumo che dolce mi cullava, e svegliarmi ritrovandolo lì, era una necessità da soddisfare se non volevo letteralmente sentire male. Mi prese la mano poggiata sul tavolo, e sorridendomi disse “Se lo vuoi, resterò ogni volta che lo vorrai.”

Gli prestai una maglietta e dei pantaloni che utilizzavo per coricarmi. I 15 kg in più degli allenamenti che aveva messo su per prepararsi al ruolo più importante d’America però si vedevano e, mentre a me quanto gli avevo prestato calzava senza pretese, a lui specialmente sul petto tiravano, e non poco. Come fai ad essere qui con me, non è possibile… ma lui per fortuna sembrava fin troppo divertito dall’ironia della taglia in più necessaria, che attento alla mia espressione perplessa: il tutto, mentre già aveva preso posto sul divano.

“Ti va di guardare la partita? Stasera giocano i Lakers se non sbaglio. Solo qualche minuto per vedere risultato e come si comportano, poi spengo. Ho così tanto da chiederti prima di andare a dormire…”.

Io non proferii parola, ma trovai più semplice appoggiarmi a lui mentre accendeva lo schermo. Lo tenevo stretto, e nel sentire la radio cronaca, concentrato com’ero su tutt’altro rispetto alla partita, finii per assopirmi. Mi svegliò la sua mano sulla guancia, mentre mi chiedeva se volessimo andare a letto, ormai era ora di dormire, e io fui estremamente contento nel dirigermi ancora mezzo intorpidito verso la camera. Avevo l’abitudine di dormire sul fianco sinistro da quando ero piccolo e dopo aver preso il mio posto, fui scosso da un brivido lungo tutto il corpo quando lo sentii abbracciarmi, e darmi la buonanotte mentre teneva il petto appoggiato sulla mia schiena ed il suo respiro mi carezzava la base del collo.

“Buonanotte Occhibelli”… ed un bacio ancora all’angolo della bocca, mi cullò fino al limitare dei miei pensieri prima del sogno.

Sei completamente in balia della marea, Sebastian. Cosa farai ora.

Nonostante fossimo alla fine di Gennaio, e io non riuscivo a scaldarmi neppure davanti il camino, il solito freddo che mi tagliava pelle era scomparso: un dolce tepore lasciava un lieve formicolio solleticarmi la punta delle dita mentre la sua presenza mi avvolgeva come un mantello sotto la neve facendomi sentire al sicuro, protetto.

Forse è ora che la piccola serpe smetta di sputare veleno… pensai, prima di incrociare i miei piedi ai suoi e sprofondare nell’oblio di un dolce riposo.

Farlo diventare parte delle mie giornate divenne un obbligo a cui non potevo venir meno. Oramai le riprese erano concluse, restava solo il lavoro in post produzione con la computer grafica e quant’altro necessario per completare le scene specialmente quelle girate davanti il green screen, quindi eravamo liberi di decidere del nostro tempo libero, insieme. Non avevamo più bisogno di accampar scuse con la troupe per giustificare la strada di uscita degli studios assieme, potevamo semplicemente farci un colpo di telefono mentre eravamo fuori per decidere da chi avremmo dormito la sera successiva.

Io mi accorgevo di guardarlo mentre eravamo in riunione, e trovarlo bellissimo.

Non tanto per l’aspetto fisico che era evidentemente in grado di bucare gli schermi e raggiungere le folle, ma per l’amorevole conforto che mi dava sapere che quella tigre bianca avesse scelto proprio me. Trovavo solo terribilmente fastidioso quando le fans tentavano di lanciarsi addosso a lui per ottenere autografi o abbracci, o le colleghe lo avvicinavano con fare viscido tentando di estorcergli incontri fuori dal set: a quella sensazione non potevo rimediare però, era parte del nostro lavoro anche la possibilità di lasciar sognare, quindi dovevo solo mantenere la calma e lasciare la lingua biforcuta nascosta dietro i denti. Ma se quella stronzetta mora si avvicina ancora, …. Pensai prima di tirarmi un ceffone sulla guancia. Smettila. Non essere patetico.

Mi scoprii geloso. Sensazione decisamente sconosciuta, ma con cui era il momento di fare i conti; poteva essere almeno un’altra fronte da cui imparare. Bastava solo mantenere il controllo e non lasciarsi sopraffare, parlavo in fondo solo di un’emozione come le altre che poteva essere elaborata e studiata, incamerata ed utilizzata all’occorrenza sul set, perché no. Ma il risultato di ragionamenti simili spesso non mi portava a fare altro che allontanarmi qualche momento dal gruppo verso i servizi, per poter ripetere gli esercizi di respirazione imparati durante le lezioni yoga e tornare in una dimensione più umana.

Specialmente quando lei faceva capolino in zona. Era solo una comparsa, eppure i giorni successivi iniziai a trovarla sempre più di frequente fuori dagli uffici dell’executive, o in zona mentre Chris si trovava in riunione con il suo agente e dire che la trovavo piuttosto seccante era riduttivo. Prendeva il caffè dove Chris era solito fermarsi la mattina, ed iniziò addirittura a frequentare la stessa palestra dove Chris era costretto ai soliti allenamenti estenuanti. Ricorderò sempre quanto li odiava, quanto li trovasse inutili per la sua recitazione, e quanto lo facessero sentire sminuito nell’impegno che profondeva nell’interpretare quel ruolo.

Angelo sensibile, hai una purezza d’animo che spesso quasi mi spaventa.

Lei per quel che mi riguardava, invece, stava per essere promossa nella scala della mia irritabilità da seccante ad irritante, e dire che iniziavo a non sopportare più quella faccia intorno a lui, era un eufemismo. Una mattina poi, l’apice fu raggiunto proprio mentre lo stavo raggiungendo per il brunch. Aprile inoltrato ci permetteva uscite all’aperto davvero gradevoli, ma lei era riuscita a farmi una sorpresa davvero inaspettata e poco gradita, durante il nostro meet-up, facendosi trovare all’ingresso del ristorante dove Chris mi stava aspettando, intenta a lasciargli un biglietto e scappare conscia della mia figura in lontananza che si avvicinava.

Arrivai come uno strale che centra il bersaglio. “Cosa ti ha dato. Mostramelo.”, gli intimai.

“Stai tranquillo, non è successo nulla.”, tentò di replicare.

“Ti ho detto mostramelo, sto perdendo la pazienza. Se non vuoi che la raggiungo e faccio un casino, mostrami…quel…maledetto…biglietto.”

Lui sospirò e si arrese all’evidenza del mio stato d’animo, quindi mi porse il biglietto che in mano, aveva già quasi stracciato. Lo aprii, e lessi Rhonda Thompson, call me 555-6743 XOXOXO.

Divenni livido di rabbia. Avevo serrato i pugni tanto da lasciar quasi le unghie entrare nel palmo della mano, respiravo in maniera così pesante da sentir girare la testa, e se non me ne andavo a breve rischiavo qualche stupidaggine, cosa che al momento non potevo permettermi con la premiere del Primo Vendicatore in arrivo. Non ci pensai due volte, mi voltai e me ne andai. Con gli occhiali da sole prontamente calzati, la testa rivolta a terra e il cuore in pezzi, preferii sparire senza dare alcuna spiegazione: avrei voluto sbattere la testa contro il muro fino a rompermela, per quanto male sentivo pur di non soffrire più.

Perché Sebastian, perché, smettila, riprendi il controllo.

Sarebbe dovuto capitare prima o poi, era assurdo anzi che ancora non fosse accaduto. Poi io non avevo alcun diritto su di lui, era liberissimo di vedere chiunque, quindi di cosa si stesse parlando in quel processo alle streghe che avevo allestito nella mia testa, ancora non mi era chiaro. Oltretutto l’avevo lasciato davanti al ristorante senza alcuna spiegazione, senza una parola, davanti ai camerieri che avevano assistito alla scena e probabilmente lo avevano messo nell’imbarazzo di dover rispondere alla domanda se il tavolo fosse prenotato ancora per due. Cosa gli ho fatto, dannazione… Iniziai a prendere a pugni il volante mentre mi dirigevo verso casa e, dato l’ematoma comparso la sera, fui stupito di come fossi riuscito a non romperlo.

Le mura del mio appartamento dovevano aiutarmi a riprendere una dimensione quasi umana, e dopo aver indossato il completo delle buone intenzioni, presi per andare al suo indirizzo. Avevo bisogno di tranquillizzarlo, chiedergli scusa e riportare le cose nel giusto equilibrio; se la bilancia si piegava troppo rischiavamo entrambe le nostre carriere, e non avrei mai voluto fargli una cosa simile.

Davanti al portone dovetti prendere un profondo respiro prima di suonare il campanello, ma davanti le responsabilità non era più il caso di fuggire, quindi a testa alta mi mossi.

Il suono dell’apertura si fece sentire quasi istantaneamente e dopo l’ennesimo profondo respiro, entrai e presi le scale per il piano superiore, dove mi attendeva una scena inaspettata, questo era da ammettere.

Signor Evans, cosa ti sta succedendo, pensai immediatamente mentre gli occhi si erano sbarrati, decisamente increduli. Era al telefono, paonazzo. Urlava, imprecava, prendeva a pugni i mobili…

“Non ti permettere mai più! Devi sparire, non me ne frega niente di quello che volevi! Dimmi chi ti ha dato il cazzo di permesso di presentarti ad un mio impegno, addirittura! Fatti rivedere ancora e chiamo la polizia, maledetta pazza!”, e giù il telefono sbattuto a terra, mentre cercava di riprendere fiato dalle urla. Ansimava come avesse appena concluso una maratona, ed ero terrorizzato che si lasciasse prendere dal panico.

Ma cos’hai fatto, Chris… E mi avvicinai verso di lui; ma mentre ancora teneva lo sguardo fisso a terra nel tentativo di riprendere il controllo, le sue parole, leste, fecero
piazza pulita del marasma in cui ci eravamo ritrovati fin dal mattino:” Nessuno mai deve farti sentire fuori luogo. Tu non sei fuori luogo, gli altri lo sono e lo saranno sempre”. Era maledettamente calmo mentre con quella sentenza, mi inchiodava a terra.

Di colpo si voltò poi verso di me, quasi digrignando i denti, e afferrandomi per le spalle il tono di voce salì di nuovo: “Tutto devi pensare, tutto! Tranne che io possa guardare altri che occhi che non sono i tuoi!”, prima di stringermi a sé con tutta la forza che aveva. Io ero geloso in un contesto che oramai aveva del surreale ma lui, lui sembrava…sembrava quasi innamorato. Mentre io affondavo sempre di più. Mi stringeva, e non pensavo ad altro che a quanto fossi stato ingenuo ed immaturo, nell’essermi lasciato confondere senza alcuna valida ragione.

Sei sicuro di quello che stai per fare? Attento, ogni passo falso adesso ti può portare verso la fine, la lingua biforcuta sibilava dietro le quinte. Eppure lasciarmi attirare dal dolce scintillare del pomello di quella porta nascosta tra i miei pensieri, aveva il volto dell’umanità che per tanto tempo era stata ignorata.
“Sssshhhh… Non volevo comportarmi in quel modo. Non volevo anzi e non dovevo.” Presi il suo volto tra le mani, mentre la presa non era più salda, e lo baciai. Non risparmiai un briciolo di attenzione e devozione in quel bacio, saggiando ogni movenza con estrema attenzione e certosina pazienza, per sentire come le corde del mio essere vibrassero ad ogni movimento, ad ogni battito.

Siamo vita che pulsa, quando siamo insieme: sono tuo fin dal primo giorno che ti ho incontrato.

Lasciata aperta la porta, non avrei più controllato ciò che poteva entrare od uscirne, e a quel punto non mi importava più. Tutta la passione che avevo, tutto il trasporto, doveva trasparire: non ti avrei più negato nulla di me, continuavo a ripetermi mentre lo legavo a me per sempre.

In questo bacio, ti regalo tutto l’amore che ho. Dovremo stare attenti, il mondo è crudele e può non capire, ma farò tutto ciò che è necessario perché nulla ti ferisca mai più.

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