Bloodborne — Scholars of the Old Blood

di Black Swallowtail
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I — Prologue. ***
Capitolo 2: *** II — Scholars of the Old Blood. ***
Capitolo 3: *** III — Eyes closed. ***
Capitolo 4: *** IV — The sacrifices we have made. ***
Capitolo 5: *** V —“Curse the fiends, their children too.” ***
Capitolo 6: *** VI — What we left untold. ***



Capitolo 1
*** I — Prologue. ***


Note dell'autore: La storia è ambientata svariati anni prima degli avvenimenti narrati nel videogioco e ripercorre, cronologicamente, le vicende che hanno portato alla scoperta del Sangue Antico, allo scisma, alla creazione della Chiesa della Cura; la mia ricostruzione dei fatti è basata sul saggio "The Paleblood Hunt", una dettagliata analisi della storia e dei suoi personaggi, e cerca di attenersi, per quanto possibile, al canone di Bloodborne.

Scholars of the Old Blood

 

I “Prologue”

I Labirinti Phutmeriani sono l'eredità più oscura che l'uomo possieda; un'eredità che si estende sotto di noi, sempre più in profondità, allungando i suoi cunicoli sotterranei come tentacoli, a formare gigantesche città in rovina composte di una quantità infinita di stanze e corridoi, la cui diffusione capillare è testamento di una grandezza ormai perduta.

Da essi, spira una sorta di silenzioso magnetismo che attrae le menti più acute, come invitandole ad avventurarsi nel suo cuore, a perdersi tra i resti di una civiltà crollata, ridotta ormai solo a grandiosi quanto claustrofobici monumenti decadenti, nascosti agli occhi del mondo. I segreti che covano le malevoli pietre consunte, attraversate da sporcizia e blandamente illuminate da lanterne che non hanno mai perso pallidi riflessi bluastri, sono come un canto folle alle orecchie di chi può udirlo.

Un richiamo talmente melenso e pieno di promesse, da smuovere all'aziona anche i più riluttanti. Forse è una regola non scritta, nascosta, che le menti più acute, per quanto tentino di avvicinarsi alla conoscenza, vacillino e si perdano più facilmente, come richiamate proprio in virtù della loro disperata sete di sapere.

I sussurri che tormentavano tutti noi, non erano lontanamente paragonabili a quelli che Caryll diceva di udire. Per noi, erano come lontanissimi gemiti, come il fruscio delle foglie nel mezzo di un tifone; per lei, invece, erano rumorosi ululati e parole disumane che risuonavano e vibravano di un timbro cosmico, che la spingevano a piegarsi sul banco da lavoro, giorno e notte, incidendo ogni singolo suono che udiva in uno strano, contorto simbolo, un alfabeto di complicate rune che non andavano mai a formare una frase di senso compiuto.

E fu proprio Caryll a guidarci fino al luogo dove tutta la nostra storia ebbe inizio.

Se solo avessimo saputo a cosa stavamo andando incontro, forse ci saremmo fermati.

O forse, come falene attirate da una fiamma, avremmo seguito fino all'ultimo il pallido fantasma di una sapienza cosmica, trascendentale.

Forse, eravamo destinati a bruciare fin dal principio.

 

Venticinquesimo giorno di esplorazione, o almeno è quello che ha detto Micolash sedendosi attorno al fuoco da campo. I suoi occhi nervosi non smettono di guardarsi attorno, per tutto il tempo in cui consumiamo l'ennesima parca cena, senza parlare molto, ognuno perso nei propri pensieri.

Laurence si è seduto insieme a me e Gehrman per tracciare la piantina dell'ultima parte che abbiamo percorso, disegnando meticolosamente ogni stanza, ogni corridoio, ogni angolo. Fino ad ora, non abbiamo incontrato nessun ostacolo degno di menzione, al di fuori di numerose strade inagibili e nuovi tunnel che sembrano stati scavati recentemente; qualche ragno fuori proporzione, una bestia che strisciava nei corridoi debole e stanca, ma nessun altro. Effettivamente, come è possibile che viva ancora qualcuno, in queste profondità abbandonate da secoli, forse millenni?

Siamo lontani dalla luce del sole e la via è rischiarata solo da funghi fluorescenti o lanterne che risalgono ai tempi dell'antica Phtumeru, ma che non hanno perso la loro lucentezza. Secondo Laurence, abbiamo percorso almeno sei o sette piani di profondità, corrispondenti ad altrettanti ascensori, il che rende questo luogo il più profondo in assoluto tra quelli esplorati in precedenza.

Gehrman è dubbioso, posso vederlo dal suo sguardo accigliato. Tra tutti i presenti, è probabilmente il più preoccupato dai possibili pericoli, abbastanza da avere la coscienza di potarsi dietro un'arma e di avermi fatto fare lo stesso. Nonostante, fino ad ora, non siamo stati costretti ad usarle più del necessario, ho un continuo, orribile presentimento, come se dalle ombre qualcuno seguisse i nostri movimenti, come se, più scendessimo, più ci avventurassimo nelle profondità di questo Labirinto, più qualcosa di chiami.

Caryll negli ultimi giorni ha iniziato a lavorare sempre più frettolosamente, adducendo a questo suo febbricitante incidere l'aumentare della chiarezza della voce che la chiama. C'è qualcuno, o qualcosa, che ci attende più in basso e ne siamo perfettamente consapevoli. Per tale ragione, siamo sempre in allerta, in attesa che accada qualcosa; non sappiamo di preciso cosa, non sappiamo se effettivamente verremmo attaccati, o quando, ma una cosa è certa – mai, prima d'ora, un Labirinto è stato così profondo ed ostile, ma allo stesso tempo mortalmente immobile, come acquattato in attesa di prenderci alla sprovvista.

Ho perso il conto delle missioni di esplorazione che noi scolari di Byrgenwerth abbiamo intrapreso. La nascita del nostro gruppo, dopotutto, è dovuta proprio alla nostra volontà di scoprire cosa si nasconde nelle viscere dei sotterranei abbandonati dagli scomparsi Phtumeriani; e più crescevano i nostri successi, più i nostri ranghi si sono rimpolpati. Nuovi scolari, desiderosi di conoscer,e di scoprire, di mettersi alla prova, sono giunti fino a noi, avvicinandosi alla nostra modesta dimora, poco più che una grande torre contorta stipata di libri e alambicchi, di scartoffie e polvere. Le sue sale vuote si sono animate e riempite e sempre più esploratori hanno iniziato ad avventurarsi nei tunnel. Molti non fanno ritorno, ma nessuno sembra essersi mai scoraggiato per qualche vita umana spezzata nell'oscurità brutale delle rovine.

Abbiamo scoperto numerose città e combattuto una quantità di creature orripilanti, come vomitate da incubi reconditi e strisciate fuori da essi solo per tormentarci. Creature che, al di fuori dei Labirinti, non avremmo mai visto, simili a grossi lupi, a volte dalle sembianze vagamente umanoidi, a volte talmente grandi da poter arrampicarsi sul loro pelo ricoperto di scintille e scariche elettriche.

Ogni nostra esplorazione ci ha sempre messo di fronte a qualche nuovo, più letale pericolo, che si trattasse di una trappola o di un sinistro e bestiale abominio.

Ma mai prima d'ora, ci siamo ritrovati in una situazione come questa, così in profondità, lontani da tutto e da tutti, circondati da una calma assoluta. Non c'è nessun rumore, tra questi resti, se non i nostri sussurri, i nostri respiri, i nostri scalpiccii, il crepitare del fuoco o lo scribacchiare della piuma d'oca sulla pergamena. Mai prima d'ora qualcosa ci ha chiamato tanto intensamente.

Appoggiata con la schiena contro un polveroso e gelido muro ricoperto di crepe e macchie scure, la mano guantata che giocherella pensosamente con l'elsa della spada, esamino il gruppetto così mal assortito di esploratori che armeggia attorno al falò, ognuno preso dai suoi pensieri, ognuno turbato profondamente, chiedendosi inevitabilmente cosa ci attende oltre, appena sotto di noi; quando arriveremo alla fine di questo viaggio—se ne usciremo vivi.

È una sensazione, più che una certezza, e nessuno ha osato ancora dirlo ad alta voce, ma sono sicura che tutti, dentro di noi, stiamo pensando la stessa cosa: non è una spedizione come le altre. C'è qualcosa che non va, qualcosa di diverso, come un vento gelido che ci manda i brividi, ma non sappiamo dire esattamente cosa.

Che si tratti del febbricitante lavorare di Caryll, il suo continuo sussurrare, come se stesse parlando con qualcuno che non possiamo udire?

Che sia il nervosismo spasmodico di Micolash, del suo voltarsi a guardare, del suo passarsi le mani tra i capelli?

Oppure l'improvvisa mancanza di avversità che rende Gehrman così nervoso, sempre pronto a scattare con l'arma già in mano?

O ancora, sono io, che vengo inutilmente plagiata da qualcosa che non esiste, che continuo a sfocare e distorcere la realtà secondo le mie impressioni?

Laurence, dal canto suo, sembra crescere in eccitazione ogni volta che esploriamo una nuova stanza, ogni volta che troviamo un nuovo ascensore. Non so dire quante volte ci abbia già incitato a proseguire, con una determinazione che sembra quasi sfociare nell'ossessione, aizzato all'esplorazione da tutti questi strani elementi, piuttosto che dissuaso.

Probabilmente, se non ci fosse lui, avremmo già abbandonato questa avventura per riprenderla con un gruppo più numeroso e preparato. Nessuno si aspettava di dover scendere fino ad una tale profondità; ad una profondità stimata di sei piani, dieci contando anche il labirinto da quattro immediatamente collegato a questo, siamo talmente lontani ed isolati da ogni cosa, da rischiare di perdere la nostra sanità mentale.

Siamo tutti più irritabili, preoccupati, nervosi, troppo eccitati nel caso di Laurence, per questo le nostre interazioni sono ridotte al minimo indispensabile. Dopo quasi un mese di combattimenti e di accampamenti, di stretti cunicoli, di luci pallide e stanche, di cibo freddo e duro, di marce logoranti, è normale mostrare segni di cedimento. Le provviste stanno scarseggiando, ho notato mentre Laurence le ha distribuite, il che potrebbe spingerci a tornare sui nostri passi, nel migliore dei casi.

Nel peggiore, potremmo dover continuare la discesa…

Fino a perderci del tutto nel cuore delle rovine Phtumeriane.

“Ci siamo.”

La debole, bassa voce di Caryll attira immediatamente l'attenzione di tutti, distogliendomi dalle mie riflessioni. Le sue mani tremanti hanno smesso di incidere febbrilmente le sue rune, depositando le pietre lisce, già terminate, in un piccolo mucchietto ai piedi delle fiamme del falò. Volta appena la testa verso il corridoio che si dilunga a partire da questa stanza, verso l'ignoto, divorata dall'oscurità più avanti.

“Qualunque cosa mi stia chiamando, è laggiù.”

Laurence scatta in piedi, “Ne sei sicura? Non c'è alcun errore, vero?” Le afferra le spalle, delicatamente, come farebbe con una figlia, piegandosi fino a guardarle negli occhi lattiginosi, “Sei stata davvero brava, Caryll.”

Lei annuisce, abbassando leggermente il viso, il palmo della mano che strofina la fronte, come disturbata dal richiamo che ha udito arrivare così vicino. Gehrman mi fa cenno di mettermi in piedi, stringendosi meglio nella sua veste, seguendo le direttive di Laurence che si sta già preparando a mettersi in moto. Micolash sembra esitare, aggrotta la fronte, ma non trova nulla da dire o la forza di protestare; dopotutto, rimanere fermi qui una notte sarebbe inutile. Ci logorerebbe ancora di più, come è accaduto in precedenza.

Dormire all'interno dei Labirinti è un incubo. Lontano dalla luce del sole, perennemente minacciato da una possibile imboscata, non c'è modo di riposare, nemmeno con un'arma accanto, a portata di mano.

Vogliamo tutti che questo incubo finisca il prima possibile. E se per farlo dobbiamo metterci in marcia ora, verso la direzione indicata da Caryll, che così sia. Dopotutto, non possiamo fare altro, non c'è una scelta; tornare indietro, arrivati così vicino, non è qualcosa che Laurence farebbe. Possiamo solo proseguire e sperare che, qualunque cosa ci abbia chiamati, qualunque cosa ci aspetti, non sia troppo per noi o per le nostre menti.

La porta che emerge dalle tenebre fitte, allontanate dalle torce che Micolash e Laurence tengono alte, non è diversa dalle altre. Una semplice lastra di ferro scorrevole che, afferrata dal basso, viene spinta in un'intercapedine, lasciando libero il passaggio. Ho perso il conto di quante ne abbiamo sollevate, simili a questa.

Gehrman mi fa un secco cenno della testa, al quale rispondo annuendo e scivolando accanto all'uscio, la mano già poggiata sulla Rakuyo, pronta ad estrarla al minimo accenno di pericolo. Laurence offre la torcia a Micolash, mentre lui si china a sollevare la porta afferrandola dal bordo sporgente. Senza alcuno sforzo o resistenza, sollevando solo un nugolo di polvere e ragnatele, il meccanismo scorre permettendoci di passare, di avanzare all'interno della stanza ovale.

Sento Laurence trattenere il fiato, quando alza la sua fiaccola abbastanza da gettare uno sprazzo di luce verso un altare riccamente decorato, una specie di piccolo santuario attorno al quale sorgono innumerevoli, ripugnanti statue di creature mostruose e deformi, dalle molteplici braccia e occhi su tutto il corpo, scolpite nel marmo con un dettaglio talmente minuzioso, che solo un folle avrebbe potuto creare.

“La voce… mi chiama. La sento.”

Caryll si avvicina al santuario, il braccio teso verso l'alcova dove sta l'effige di una donna che regge tra le delicate mani, uno scrigno.

“—Finalmente, siamo arrivati.”

Le sue dita esitanti si avvicinano alla serratura, sfiorandone il lucchetto intarsiato, ricoperto di un alfabeto Phtumeriano oscuro ed insensato, che nemmeno lei può capire.

MARIA!” L'avvertimento urlato da Gehrman è sufficiente a farmi scattare come una corda tesa. Non so dove sia il pericolo, da dove provenga, ma non c'è dubbio a cosa stai mirando. Quindi, con un balzo, mi precipito su Caryll, rotolando assieme a lei sul pavimento duro e spigoloso, ricoprendomi di polvere e calcinacci, appena prima di sentire un violento spostamento d'aria passare accanto alla mia spalla, ed una lama graffiare l'edicola dove la mia compagna era in piedi.

La luce rossastra rivela un essere che non ho mai visto, una creatura che sembra avvicinarsi alle fattezze umane, abbozzate, ma non terminate, come uno schizzo allungato, pallido e contorto di un uomo. La pelle grigiastra, quasi lattea, per la mancanza di luce, è ricoperta di una fitta ragnatela di rughe che la rendono incartapecorita, ma che aderisce perfettamente alle braccia e alle gambe oblunghe, come un sottile strato avvolto attorno alle ossa deformi. Le sue dita, lunghe ed ossute, che spasmodicamente si agitano attorno all'elsa dei due shotel, sono affilate, come artigli posticci e consunti.
Ma la cosa peggiore, è l'espressione congelata sul suo viso, nei suoi neri occhi ciechi che a malapena vedono nel buio. Un urlo rauco che fuoriesce dalla sua bocca aperta, in un viso come quello di uno scheletro, poco più di un teschio su cui sia stato poggiato delicatamente uno strato di pelle umana.

Gli abiti che indossa, una sontuosa pelliccia nera e cremisi, un tempo dovevano essere stati segno di gran nobiltà, ma ora, dopo tutto questo tempo, sono poco più che stracci che ancora veste con orgoglio, come a volerci impressionare.

L'umanoide scivola accanto alla statua, accarezzandone il volto come con nostalgia, prima di controllare che lo scrigno non sia stato toccato. Solo allora, dopo essersi accertato che le mani di Caryll non abbiano insozzato il suo santuario, si volta contorcendosi verso di noi, urlando, stridendo e battendo le lame una contro l'altra. Micolash fa un passo indietro, intimidito, quasi sul punto di fuggire, ma una mano di Laurence sulla spalla lo trattiene dallo scappare nell'oscurità dei tunnel alle nostre spalle.

“Quello è...” la sua voce tremante non riesce a terminare la frase, ma Laurence annuisce, aumentando la forza della sua presa, “Sì. Uno Phtumeriano in carne ed ossa. O almeno, quel che ne rimane.” Si volta verso me e Gehrman, “Questo è un lavoro per te e la tua apprendista, amico mio.”

Preparo la Rakuyo alla battaglia, aprendone la lama con uno schiocco, prima di rivolgermi a Laurence, “Non dovrebbero essere tutti morti?”

“Queste rovine sono luoghi che sfuggono alla nostra comprensione, al tempo e allo spazio.”

“Non importa, ora.” mi ammonisce Gehrman, di colpo, riportandomi alla realtà, “Pensiamo solo ad ucciderlo.” La sua Lama della Sepoltura si trasforma in una falce con lo schiocco del meccanismo che si salda, lasciando che la afferri con due mani, piegandosi appena sulle ginocchia, pronto a scattare.

“Non fatevi uccidere. Non ora che siamo così vicini.”

Gehrman sogghigna, senza nemmeno guardarlo, gli occhi che seguono i fluidi movimenti dello Phtumeriano, “Per chi mi hai preso?”

Lo Phtumeriano balza contro di me, il mantello che svolazza dietro di lui, seguendone l'ampio scatto, in un movimento tanto veloce da lasciarmi quasi scoperta; il movimento della Rakuyo che mi permette di difendermi, di evitare che le lame trancino la mia carne, è puramente un riflesso, che non è sufficiente a contrastare la prodigiosa forza di questa creatura. Vacillo, perdendo terreno per un istante, il braccio che minaccia di cedere, dandomi a malapena il tempo di far scattare la mano verso la pistola e puntarla contro il viso dell'umanoide. Il colpo che esplodo solleva uno spruzzo di sangue sufficiente a farlo indietreggiare, ferito di striscio al polso, ma non abbastanza da renderlo un bersaglio ottimale per Gehrman.

Quando la Lama della Sepoltura rotea seguendo i movimenti del maestro, la sua lama ricurva è già stata intrappolata da uno dei due shotel, producendo una pioggia di scintille rossastre. Ci allontaniamo con un balzo, mettendo tra noi e il nemico una distanza di sicurezza sufficiente. È molto più forte di qualunque altra creatura che abbiamo affrontato nei sotterranei.

E sopratutto, sembra abituato al combattimento. Non si muove casualmente, come farebbe una bestia ferale. No, questo Phtumeriano duella per uccidere. Ed uccidendo, protegge.

Digrigno i denti. Il sangue palpita nelle mie vene, come chiamandomi, invitandomi; mi ricorda che, per quanto io possa allontanarmi, la mia stirpe mi accompagnerà sempre e con essa, i suoi doni… e le sue maledizioni. Potrei rilasciare tutto con uno schizzo di sangue e annichilirlo nelle fiamme.

Ma non voglio cedere. Non voglio piegarmi a quel sangue di Cainhurst che mi avvelena.

Stringo la Rakuyo, mettendomi nuovamente in posizione, pronta ad attaccare ancora una volta. Gehrman, al mio fianco, scivola accanto allo Phtumeriano, che esattamente come prima para il colpo della falce, spingendolo leggermente indietro… per poi ululare di dolore quando la lama della falce si separa dal manico e Gherman vi mena un fendente, scivolando attraverso la sua guardia. Prova a saltare all'indietro, a trovare riparo, ma sono già alle spalle ossute della creatura, affondando la lama sottile della Rakuyo fino in fondo, trapassando il suo petto da parte a parte. Lo schizzo di sangue, come una fontana nerastra, gocciola sul pavimento, facendomi traballare sotto il peso del corpo dell'umanoide.

Tenta di scuotermi via, di allontanarmi, ma nonostante le mie braccia stiano scricchiolando, mi sforzo di tenerlo bloccato sul posto, lasciando che la Lama della Sepoltura, con un unico, rapido movimento, abbracci il suo collo e ne fenda la tenera carne, estirpando il cranio dalle spalle e lasciando il corpo senza vita crollare sul selciato.

Quante volte abbiamo combattuto così? Molte più di quante possa ricordare. L'addestramento è diventato ben presto una lotta per la sopravvivenza quotidiana, una routine sempre più sfiancante. Gehrman mi ha forgiata nella battaglia, mentre scendevamo nei sotterranei.

Possibile che ora, finalmente, la nostra affannosa missione sia giunta al termine?

Caryll si avvicina nuovamente all'altare, rimanendo in contemplazione della statua, senza più osare allungare la mano verso lo scrigno, nonostante ormai il suo guardiano giaccia a terra, decapitato, senza più vita nel corpo. Micolash, invece, si china con mano tremante a toccare qualcosa, un oggetto sul pavimento che, appena sfiorato, rilascia un liquido biancastro, etereo, che riluce debolmente nel buio.

“Un guscio..?” lo stringe tra i polpastrelli, delicatamente, portandolo all'attenzione di Laurence, “Non ho mai visto nulla di simile prima.”

Ma il loro discorso viene bruscamente zittito dalle parole di Caryll, che allunga la mano ad aprire lo scrigno, affondando la mano in esso, producendo un sinistro rumore di qualcosa di molle, come bagnaticcio, che viene rimestato.

“Mi ha chiamato per tutto questo tempo. Sangue che chiama sangue, un lontano canto che ci ha guidato fino a qui.”

“Cos'è questa… cosa?” chiedo, guardando intimorita all'interno del baule. Nel momento in cui i miei occhi si poggiano sul contenuto, qualcosa in me si spezza. È come se un occhio fino ad ora nascosto si fosse aperto, finalmente, mostrandomi qualcosa appena al di sotto della superficie. Stringo le labbra, faticando perfino a respirare, il corpo tremante e sconquassato dalla nausea. Devo fare appello a tutte le mie forze per non crollare in ginocchio.

“Non lo so...” sussurra Caryll, “Ma la sua voce, riesco a sentirla. È poco più che un sussurro, che arriva da lontano, come se dentro di esso fosse rimasto un frammento di qualcosa di più grande. Come se questo...”

“Fosse sangue di un dio.” conclude Micolash, gettando un'occhiata a Laurence. Siamo tutti confusi, di fronte alla sostanza all'interno del forziere. Confusi, perché la verità verso la quale vuole condurci sembra impossibile da afferrare. È qualcosa che va ben oltre ciò che l'uomo può comprendere. Questo non è il nostro territorio. Eppure… in qualche modo, mi sento terribilmente attratta da esso.

Laurence esita. Apre la bocca, come per parlare, ma sembra spaventato dalle sue stesse parole. Sta combattendo anche lui, dentro di sé, per decidere se prestare fede a quella sensazione.

“—è possibile che...” ci guarda, uno ad uno. Ci guarda, con una scintilla nel profondo del suo sguardo, la scintilla di chi brama la conoscenza. Di chi ha appena deciso di violare un territorio mai prima d'ora toccato da alcuno, “che gli Phtumeriani ci abbiano lasciato più che mostri e labirinti. È possibile che gli Phtumeriani...” stringe tra le mani il guscio fluorescente, “Siano riusciti a contattare delle creature che vanno oltre l'umanità.

Degli dei.”

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Capitolo 2
*** II — Scholars of the Old Blood. ***


II —“Scholars of the Old Blood”

 La Scuola di Byrgenwerth si affaccia sul Lago della Luna, proprio perché Mastro Willem trova conforto, nei suoi momenti più bui, nell'osservare il grande disco pallido che se ne sta stancamente sul cielo stellato. Quando qualcosa lo tormenta, avviluppando la sua mente nel dubbio, si ritira sul balcone, chiudendosi la porta alle spalle, e rimane in piedi sul balcone, le braccia dietro alla schiena, il viso rivolto verso lo sconfinato specchio d'acqua cristallino, sul quale il riflesso lunare è perfetto come su uno specchio. Nella tranquillità e nella meditazione, rimane a rimuginare, distante da tutti quegli allievi che vedono in lui la figura di un mentore, di un grande rettore attorno al quale radunarsi per un consiglio, una parola di conforto, di ammirazione.

Byrgenwerth, quale luogo di ascetica sapienza e di ritirato studio, lontano dalla caotica città che si erge al di là degli intricati boschi e lontano dalle paludi ributtanti veleno ribollente, accoglie scolari e studiosi, una comunità dove non c'è un vero leader, quanto meno non formalmente; ma è opinione comune, tra i tanti che si aggirano nelle grandi stanze colme di imponenti scaffali pieni di libri, tra coloro seduti attorno ai tavoli a leggere e scrivere, tra gli astrologi che osservano il cielo con grandi cannocchiali il cielo punteggiato di astri, che Mastro Willem sia il più intelligente e saggio, nonostante non si avvicini nemmeno alla mezza età. La sua figura è guardata con un rispetto che va oltre quello dello studente per il maestro – si tratta della venerazione che si riserva a grandi saggi e conoscitori, uomini di un retaggio destinato a rimanere nel tempo. Per quanto appaia provato nel corpo, più vecchio degli anni che in realtà dovrebbe avere, consumato dal dovere di tenere insieme la nostra comunità, quanto dal peso dei suoi ideali e delle sue ricerche, nessuno lo ha mai ritenuto un debole.

Una cosa è certa, il Rettore è un uomo terribilmente divorato dai dubbi della conoscenza. Più di una volta, radunati attorno a lui sul balcone, lo abbiamo sorpreso a parlarci con voce sommessa di un luogo irraggiungibile, sopra alle nostre teste, oltre il confine del cielo. Un luogo dove risiederebbero esseri più potenti, al di là di ogni comprensione, creature di progenie stellare, esseri in grado di annichilire le stelle e abbracciare la luna; grandi esseri la cui concezione sfugge ai canoni della nostra mente e che i nostri occhi rifiuterebbero di osservare.

“Avremmo bisogno di più occhi, per vederli,” aveva esordito, una volta, tormentandosi le mani con una sorta di ansia, tipica di chi sta scrutando qualcosa di irraggiungibile, sicuro che la sua mente non potrà mai afferrarlo.

“Sta forse parlando degli dei?” il tono di Micolash, in quell'occasione, era quasi scettico, ma comunque vibrante di una genuina, quasi distorta curiosità, una morbosa sete di conoscenza che lo voleva spingere verso quel piano cosmologico di cui predicava il nostro Maestro.

Laurence aveva storto la bocca, a quelle parole, come se quelle cialtronerie non fossero che un mero chiacchiericcio di un fanatico, ma la risposta di Willem lasciò entrambi insoddisfatti, ma allo stesso vibranti di una domanda che ha accompagnato la nostra discesa nell'oscurità delle catacombe buie degli Phtumeriani. Il Rettore sospirò a fondo, tese la mano verso il cielo, allungando le dita come a voler afferrare un lembo della volta celeste per attirarla a sé, quasi seguisse un richiamo ancestrale, “Se esistessero gli dei, Micolash, allora tutto sarebbe terribilmente semplice, non trovi?” scosse piano la testa, le labbra serrate, come se esitasse nel continuare, “Qualora ci fosse davvero qualcuno sopra di noi, oltre il cielo, o sott'acqua, dove non riusciamo ad arrivare, dove i nostri occhi non vogliono portarci perché limitati dalla cecità umana—allora, in quel caso, non sarebbero dei. Ma sicuramente, vi sarebbero molto, molto vicini.”

Forse è stata una casualità, forse si è trattato di un segno del destino, forse qualcosa è scattato, dentro di noi, quel giorno, qualcosa che ha messo in moto quelle forze di cui amavamo tanto speculare. Caryll ha iniziato ad udire sussurri, voci disumane, come un canto flautato un gorgoglio lontano, una musica che giunge alle sue orecchie da lidi lontani, ben al di là dell'intelletto umano, da spiagge e scogliere che esistono da qualche parte in un cosmo lontano, attraverso il sottile velo che divide l'umanità ed il mondo tangibile, da quello del sogno e dell'irrealtà. La voce di Mastro Willem, quel giorno, ha tremato, quando ci ha chiesto di rimanere solo, sul balcone. Per giorni è rimasto lì, a parlare fiocamente con la languida luce lunare, come ad aspettare una risposta dall'alto.

Una risposta che non è mai arrivata.

Una sera, Laurence si è recato da lui, allontanandosi dalle aule di lezione e dalle biblioteche per arrivare all'osservatorio sul lago. La luna era ormai ridotta ad una falce, quando entrò nel grande atrio dell'osservatorio, ormai vuoto, perché le grandi nuvole scure che ricoprivano il cielo impedivano di utilizzare i cannocchiali; il silenzio di tomba che lo accolse fu rotto solo dallo scalpiccio dei suoi passi, mentre saliva la grande scala a chiocciola che si attorciglia su se stessa, per raggiungere il luogo di riflessione di Mastro Willem.

“Laurence.”

Quando il Rettore lo chiamò, seduto nella semioscurità dell'osservatorio, le mani attorcigliate e lo sguardo quasi perso a scrutare il buio, Laurence si irrigidì di colpo. Si avvicinò a lui, pieno di domande, di dubbi, ma sopratutto, bramoso di sapere, conoscere quale sarebbe stata la decisione del nostro mentore sulla situazione. Per la prima volta, i nostri discorsi non si riducevano a congetture; c'era qualche forza superiore che stava operando, stava parlando a Caryll, che tentava febbrilmente di tradurre quelle parole in strani simboli runici attorcigliati, folli e spezzati.

La risposta di Willem fu degna del suo retaggio di grande studioso, costantemente alla ricerca dui una verità superiore che, un giorno, potesse essere d'aiuto all'umanità intera, il motivo del suo tormento e della sua riflessione.

“Seguiamo questa voce. Qualcuno ci sta chiamando…” sospirò a fondo, per esalare, con quel respiro, gli ultimi dubbi, “E noi abbiamo il dovere di rispondere.”

Gehrman ed io non siamo veri e propri studiosi. Per quanto usufruiamo della conoscenza di Byrgenwerth, svolgiamo più un lavoro di guardie del corpo, di blanda forza militare con il compito di tenere al sicuro gli studiosi e, all'occorrenza, di tuttofare. È stato questo, oltre che lo stretto rapporto di amicizia tra il mio maestro d'armi e Laurence, a procurarci un posto nella spedizione che ci ha portato a scendere all'interno dei Labirinti Phtumeriani. Per quanto gli esploratori di tombe si siano dati da fare, il richiamo di Caryll ci ha spinto molto più in basso dei livelli conosciuti fino ad ora, a tracciare una nuova, contorta mappa di tunnel infiniti e stanze decadenti. Uno sforzo che ci ha consumato nel corpo e nello spirito.

Ma la ricompensa finale, ciò che abbiamo trovato, è quanto di più grande potessimo immaginare, una scoperta incredibile, che va oltre ogni nostra previsione. Un passo avanti per l'umanità, verso più grandi mete, verso l'ascensione.

Perciò, ora che emergiamo da questo Labirinto soffocante, con la luce della pallida alba ad accoglierci, abbastanza tenue da non ferirci gli occhi, dopo così tanto tempo passato nell'oscurità dei cunicoli, ci sentiamo agitati da una sensazione divorante – l'eccitazione della più grande scoperta dei nostri tempi, dell'intera storia.

Non siamo soli, in questo universo. Qualcuno ci guarda, forse con disinteresse, da qualche parte, come noi osserviamo colonie di formiche. Mastro Willem aveva ragione.

“Fate attenzione a quello,” Laurence fa un cenno con la testa alla cassa gorgogliante che io e Gehrman trasportiamo faticosamente tra le braccia, “Ci siamo quasi, ormai.”

Micolash, osservando l'orizzonte con il suo monocolo, annuisce soddisfatto, indicando la vecchia torre d'astronomia in lontananza, “Siamo davvero vicini, avevo ragione,” mormora soddisfatto, prima di precederci, con l'intenzione di portare la buona novella il prima possibile a Byrgenwerth. L'intero istituto è in attesa, probabilmente congelato, trepidante di conoscere non solo il nostro destino, ma l'esito della ricerca, il risultato finale. Tutti smaniano di conoscere quale tesoro riposasse in fondo alla catacomba nella quale siamo discesi.

La marcia continua fino a sera, senza che molto sia discusso, ognuno immerso nei suoi pensieri. Caryll, sopratutto, ha continuato febbrilmente a scrivere per tutto il tempo, annotando rune su rune. La vicinanza a questa sostanza indefinita, l'oggetto del richiamo che l'ha guidata per tutto questo tempo, sembra renderla frenetica nel suo lavoro, alquanto strano, poiché lei rappresenta, notoriamente, l'elemento più quieto e riservato del gruppo. Solo Mastro Willem è in grado di sostenere un dialogo concreto con lei, dalla mia esperienza; quando ha interagito con Laurence, Micolash o saltuariamente con Gehrman, ha sempre dato risposte stringate ed asciutte, prima di tornare a rintanarsi in se stessa. Probabilmente, il richiamo, ora che è così vicino, dev'essere molto più chiaro, abbastanza da non darle pace; tentare di dare una forma concreta a qualsiasi cosa gli venga detta è un modo per sfuggire, per allontanare la mente e darle pace, per un momento. Mi sorprende il fatto che la sua mente non sia ancora andata in pezzi, dopo tutta questa pressione divorante, questo continuo sussurrare arcano.

Il fuoco del falò arde di fiamme arancioni e rossastre, attorcigliandosi in innumerevoli, diverse forme, divorando la legna che abbiamo gettato per alimentarlo, per allontanare le tenebre. Per quanto gli alberi si innalzino attorno a noi, la sensazione di non essere più circondata da quelle pareti dal tanfo di sangue e muffa è come sconfortante. La permanenza all'interno di quei luoghi ci ha inevitabilmente danneggiato e avremmo bisogno di tempo per tornare completamente in noi stessi. Perfino ora, con la consapevolezza di non essere circondata da pericoli sconosciuti, da belve orrende o da trappole antiche e deviate, non riesco ugualmente a dormire, come tutti gli altri. Gehrman non ha mai dormito molto, se ne sta sempre in disparte, in silenzio, a rimuginare o a leggere alla luce di una piccola lanternina, sempre pronto a scattare al momento giusto, teso come una corda di violino; Micolash e Laurence, dal canto loro, sembrano troppo morbosamente attratti dal contenuto della nostra scoperta per riuscire a chiudere occhio, preferendo piuttosto aggirarsi attorno alla pesante cassa, sfiorandone continuamente gli intarsi, i bordi, il coperchio. Tentano inutilmente, alla luce di una fiaccola, di comprendere il significato delle incisioni, delle figure rappresentante, creature da incubo senza una forma umanamente concepibile e innumerevoli, sconosciute scritte smussate dal tempo e dalla muffa, ormai illeggibili.

“Perché una cosa del genere dovrebbe essere stata in mano agli Phtumeriani?” chiede Micolash, passandosi una mano tra i capelli, lanciando un'occhiata di sottecchi a Laurence, “Possibile che, davvero, siano entrati in contatto con esseri di piani superiori?”

“Non abbiamo vere e proprie certezze, non ancora. Ma questo guscio, il materiale che emette ed il suo bagliore sono un indizio. Non credo di aver mai visto un'animale che avesse un esoscheletro simile. Inoltre...” poggia una mano sulla cassa, “Il contenuto di questo baule parla da sé.”

“La domanda che mi tormenta, è che genere di esseri abbiano incontrato, come li abbiano richiamati?” scrolla le spalle, “Cos'è accaduto agli Phtumeriani, poi? Sono rimaste solo rovine...”

Distolgo l'attenzione, lasciandoli alle loro grandi domande prive di risposta e alle loro teorie incomprensibili, avvicinandomi invece a Gehrman, accomodandomi di fianco a lui, poggiata contro la roccia sul quale lui si è seduto. Mi guarda per un istante, seguendo i riflessi del fuoco sui miei capelli, prima di tornare ad osservare Caryll intenta a scrivere febbrilmente.

Il vento ulula tra i rami degli alberi, facendoli scricchiolare, sollevando qualche foglia caduta. L'autunno si avvicina inevitabilmente, un'altra stagione muore lentamente, il mondo sembra continuare a scorrere come sempre. Ma se ciò che quei due stanno dicendo rispecchia la verità… quanto potrà durare questa normalità? Le parole di Laurence sono state piuttosto inquietanti. Gli Phtumeriani hanno davvero avuto ricevimento presso delle divinità? E se è stato questo a distruggerli… non stiamo forse camminando sui loro stessi passi?

“Qualcosa ti preoccupa, Maria?”

Trasalisco alla posata domanda del mio maestro, irrigidendomi di colpo. I nostri sguardi si incrociano e, nei suoi occhi scuri, non riesco a vedere nulla. Nemmeno l'accenno di un'emozione, solo oscuro nulla. Nei miei, invece, così chiari da sembrare di vetro, è possibile leggere il mio animo così facilmente?

“No, io...” mi mordo il labbro, ben sapendo che non c'è motivo di mentirgli, perché se c'è qualcuno in grado di capirmi, dopotutto, è proprio lui. Lo ha appena dimostrato, dopotutto.

“È comprensibile provare paura.”

“Cosa?” rifuggo il suo sguardo, puntando il mio verso il basso, mordendomi nervosamente il labbro inferiore.

“Tutti abbiamo paura. Sopratutto in una situazione come questa, quando è l'ignoto che si spalanca davanti a noi. Non c'è bisogno di nasconderlo...” sogghigna, “Non a me, almeno.”

Un attimo di silenzio, un istante in cui Gehrman beve un sorso dalla sua borraccia, prima di riporla sulla cintura, “Domani Mastro Willem ci accoglierà. Solo allora, capiremo per cosa abbiamo intrapreso questo viaggio. Ma dimmi, Maria,” seguo la sua mano, il suo indice, teso verso il lago in lontananza, verso la torre di Byrgenwerth, “Ti sei mai chiesta quale sia il problema di Willem… No, di tutti noi? Perché studiamo, così affannosamente, quale sogno stiamo inseguendo?”

“La conoscenza?” Una risposta infantile, forse, ma che Gehrman sembra trovare abbastanza divertente, se non banale, perché scuote la testa, “No, certo che no. La conoscenza è uno strumento, non un fine. Altrimenti, ci potremmo accontentare di quello che vedono i nostri occhi e vivere semplicemente guardando ciò che la sensibilità ci offre. No, Maria… Quello che Mastro Willem vuole, che tutti gli altri stanno perseguendo, è un fine più alto. L'evoluzione dell'uomo, il raggiungimento di uno stadio superiore. Ad ogni costo.”

“Per questo cerchiamo nelle catacombe di Phtumeru? Mastro Willem crede che loro ci siano riusciti?”

“Esattamente. Gli Phtumeriani hanno intravisto… Una verità che subissa l'umana comprensione.”

Ma se così è stato, se loro sono riusciti ad ascendere, ad evolversi, se erano così vicini a questa verità—perché sono caduti?

Una domanda che non riesco a formulare. Ho paura della risposta che potrei ricevere.

Sì, effettivamente… ho paura.

“Ricorda, Maria, che è la paura a differenziarci dalle bestie. Senza di essa, non saremmo poi così diversi da loro.”

Quando il fuoco si spegne, riducendosi a poco più di braci morenti e a cenere tiepida trasportata via dal vento notturno, le nostre voci si spengono. L'unico rumore che persiste, è lo scribacchiare di Caryll sul suo quaderno… un continuo annotare che accompagna la mia notte, senza sonno, fino a che la nostra marcia non riprende, faticosa, verso casa.

Laurence e Micolash accendono le torce, scacciando il buio, mentre ci inerpichiamo lungo la strada che serpeggia nel bosco ammantato dal buio. Ci avviciniamo, sempre di più, alla conclusione del nostro viaggio. Ed è per questo, che non posso fare a meno di provare una stretta allo stomaco.

Ci sono segreti che forse sarebbe meglio lasciare nascosti.

Ma nessuno di loro sarebbe disposto ad ascoltarmi.

Le porte di Byrgenwerth sono aperte e il corridoio sul quale si affacciano le diverse aule brulica di studiosi e studenti, come se tutto l'istituto si fosse radunato qui, per assistere al nostro rientro. Laurence è il primo a fare il suo ingresso, iniziando subito a gridare, ad alta voce, di fare spazio, di non saltarci addosso, nel tentativo di superare il forte brusio di curiosità che accompagna l'esatto istante in cui io e Gehrman mettiamo piede all'interno, attirando su di noi innumerevoli sguardi e sussurri. Nonostante nessuno possa sentire i sussurri, né sappiano di cosa si tratti ciò che trasportiamo con tanta cura, la sontuosità del baule in pesante marmo e la strana, sinistra aura vibrante che sembra spirare dal suo contenuto, fungono da calamita per l'attenzione generale.

In una sorta di posticcia processione ci facciamo largo attraverso la folla di curiosi, di occhiate incuriosite, piene di aspettative; nessuno osa fare domande rivolgendosi a noi direttamente, ben consci del fatto che non diremmo nulla, almeno finché Mastro Willem non abbia preso visione della nostra scoperta e tratto le dovute conclusioni. Il religioso silenzio che cade sulla folla, nel momento in cui l'arca che trasportiamo passa tra di loro, sembra come dare ancora più sacralità a questo momento.

Con la coda nell'occhio, intravedo Caryll che si tiene le tempie, massaggiandole come per dare un sollievo impossibile, perché il dolore che prova, il tormento che sboccia in lei, non è un male fisico, ma viene da oltre il luogo che possiamo raggiungere con gli occhi – su questo, ne siamo tutti più che sicuri.

Ovviamente, Mastro Willem è ad attenderci sul Lago della Luna, nonostante ormai del disco notturno si intraveda a malapena la sfocata sagoma, dato che l'alba è ormai al suo culmine e il cielo inizia a rischiararsi di una lattea quanto incerta luce mattiniera. Come sempre, ci dà le spalle, per cui riusciamo a vedere le sue mani che si torcono nervosamente, nel vano tentativo di trovare pace nell'attesa. La sua figura leggermente incurvata, avvolta negli abiti lunghi del Rettore, sembra così trepidante.

L'attesa sta per giungere alla fine.

“Mastro Willem, siamo tornati. E abbiamo qualcosa da mostrare. Qualcosa che cambierà per sempre ogni cosa.”

Gehrman posa l'arca accanto a lui, con un leggero tonfo, un rumore che sembra quasi infrangere l'atmosfera di sospensione in cui si era avvolto e, annuendo profondamente, si piega a spingere appena il coperchio all'indietro, rivelando uno spiraglio, per osservare la sostanza brulicante all'interno. Il basso ribollire accarezza le nostre orecchie, dolcemente, e Willem, per un lungo istante, non si muove, ma rimane immobile, come congelato, ad osservare la massa scura, quasi viva, incantato. I suoi occhi si spalancano, quasi ad abbeverarsi di quell'immagine, ed il suo respiro si fa, per un secondo, affannoso, come dopo una lunga corsa, dopo uno scontro mortale.

“Aveva ragione, Maestro,” sussurra Micolash, passandosi una mano sul volto, “C'è qualcosa. E noi ne siamo testimoni, ora. Siamo sicuri.”

“Finalmente...” lo studioso accarezza dolcemente la cassa, quasi con tenerezza, proprio come farebbe un padre con un figlio, mentre la sua bocca incredula emette un respiro quasi inudibile, “Ascenderemo ad un nuovo piano. Raggiungeremo nuove vette. L'evoluzione dell'uomo—” affonda la mano nel liquido grumoso, fino al polso, sorridendo incredulo, “Finalmente, entreremo in contatto con gli esseri sopra di noi.”

“Gli dei?”

“No, Micolash...” Mastro Willem alza la mano grondante di sangue, portandola vicino agli occhi, sangue di un profondo colorito nero e torbido, “I Grandi Esseri.”

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Capitolo 3
*** III — Eyes closed. ***


III —“Eyes closed.”

 L'unico rumore che rompe l'altrimenti assoluto silenzio della biblioteca, è il frusciare delle pagine degli uomini impegnati in attente letture, le loro menti immerse tra foreste di d'inchiostro e montagne di carta, trascinati dalla loro sete di conoscenza nei grandi tomi rilegati che riempiono gli scaffali, talmente alti da sfiorare il soffitto; gli ampi tavoli, ingombri di pergamene e libercoli dove vengono presi furiosamente appunti, ospitano le innumerevoli figure degli studiosi piegati sulle letture alla luce delle pallide lanterne a muro, che forniscono un'illuminazione concentrata, per non affaticare la vista nella semioscurità, ma che lasciano ampie chiazze di buio negli angoli più abbandonati della stanza. Come amanuensi impegnati nel loro scribacchiar,e il grattare delle loro pene non può che richiamare alla memoria il febbricitante lavoro di Caryll, il suo instancabile operato di trascrizione degli indecifrabili sussurri dei Grandi Antichi, la voce che ci ha guidato fino al Sangue Antico.

Nonostante siano passati a malapena quattro mesi dal ritrovamento durante la spedizione nelle catacombe, tutti sono presi da una frenesia assoluta, una forza quasi disumana che li sospinge, impedisce loro di riposare, in un continuo, infinito lavorio metodico, uno studio febbrile per mettere insieme tutta la conoscenza possibile attorno alle sedicenti divinità, come insiste nel chiamarle Micolash, o semplicemente esseri dai poteri vicini a quelli di un dio, come li appellano Laurence e Mastro Willem; improvvisamente, moltissimi testi di esoterismo o che credevamo scritti da folli, da uomini dalla mente distaccata dalla nostra realtà iniziano ad avere senso, ad acquistare un significato che ci era sfuggito. Fino ad ora, noi credevamo che fossero loro i disperati, la cui mente era andata in pezzi, mostrando un mondo nebuloso, ma ci sbagliavamo – per tutto questo tempo, siamo stati noi quelli ciechi. Loro vedevano perfettamente qualcosa che sfuggiva al nostro sguardo. Quante storie, descrizioni di creature nebulose, sussurri, ora sono divenute metodo di studio, recuperate da scaffali polverosi dove erano rimaste a lungo abbandonate, bollate come eresie e testi senza alcun fondamento. È ironico, quindi, come un folle a volte capisca molto meglio l'universo di uno studioso; ma forse, la pazzia non è altro che manifestazione di una mente savia, che ha capito troppo per non spaccarsi in milioni di frammenti. La visione di quelle creature, di un frammento di esse, li ha ridotti davvero in quello stato di farneticazione, di disperazione.

In religioso silenzio, mi faccio strada tra pile di libri e appunti, tra scolari come invasati nel loro studio, assorbiti del tutto da quella scoperta epocale che sta per segnare l'esistenza dell'essere umano per sempre. Abbiamo compiuto il primo passo in un territorio sconosciuto, proibito all'essere umano, competenza di qualcuno molto più in alto di noi; stiamo seguendo i passi degli Phtumeriani, la strada che li ha portati a toccare con mano qualsiasi cosa risieda al di là del nostro piano d'esistenza, su in cielo, o in fondo al mare, chi può dirlo?

Dal giorno della scoperta del Sangue Antico, gli esperimenti hanno iniziato a susseguirsi, uno dopo l'altro, per tentare di capire la vera portata di ciò che abbiamo tra le mani. È una sostanza come mai si è vista, senza un vero stato, che sembra sangue, ma di un colorito scuro, alle volte, mentre invece, in altre situazioni, ci è apparsa bianca, completamente trasparente, come se mancasse del pigmento cremisi. Senza forma, senza pace, in un basso ribollire continuo, non credo sia possibile definirla propriamente sangue. Si tratta di qualcosa di diverso, di trascendentale, mai visto dall'essere umano e per questo del tutto inclassificabile, sopratutto nelle sue proprietà miracolose, che ne comprovano, ancora più di prima, l'origine sovrannaturale: non importa quale ferita o malattia il corpo abbia subito, l'iniezione di questa sostanza sembra dare il via ad un processo curativo che va al di là dell'immaginabile. Abbiamo osservato corpi maciullati, squarciati, richiudersi e tornare insieme, studenti tormentati da malattie mortali, che sputavano icori nerastri e accusavano febbri orribili, ardenti, tornare in perfetta salute subito dopo l'iniezione.

Fino ad ora, le straordinarie capacità curative sono l'unico effetto pratico che questo miscuglio ha dimostrato, oltre, ovviamente, ad una incredibile resistenza ad ogni tipo di analisi e classificazioni che abbiamo tentato. Micolash e Laurence, sotto la paziente guida di Maestro Willem, han no più volte tentato di distillarlo, di impiegarlo in innumerevoli esperimenti, senza alcun risultato soddisfacente. A quanto sembra, l'unico modo per renderlo utile, di dargli un'utilità tangibile, è quello di metterlo in circolazione nel corpo umano, che invece di rigettarlo, lo accetta e ne giova. Piuttosto strano, decisamente.

Davanti alla porta del laboratorio, con fare pensoso, sta appoggiato Gehrman, le mani affondante nelle tasche della sua uniforme, intento ad osservare la luna che si riflette sulla distesa d'acqua sconfinata del lago, anche oggi innaturalmente calmo, senza una minima perturbazione sulla sua superficie.

“Non penso di averlo mai visto agitato, sai?” esordisco, avvicinandomi al mio maestro d'armi, scuotendolo dalla sua riflessione. Non si scompone, si limita a rivolgermi un mezzo sorriso, a grattarsi la corta ed ispida barba nerastra, “Nemmeno io. È come se non conoscesse alcun turbamento, nemmeno quello dei pesci che vi nuotano. La superficie è sempre…” sospira, scuotendo la testa, lasciando morire le parole sulle labbra, “Sei qui per gli esperimenti, Maria?”

Stringo appena la bocca, esitante per un secondo, chiedendomi se effettivamente voglio assistere anche oggi a qualsiasi cosa stiano facendo al di là della porta chiusa; qualche gemito soffocato riesce a filtrare attraverso lo spesso uscio, gemiti di dolore, grida soffocate per non rompere la quiete dello studio, per nascondere qualsiasi cosa stia accadendo, invisibile agli occhi degli altri membri di Byrgenwerth. Questa è una faccenda che riguarda solo noi, gli Scolari del Sangue Antico, gli unici a conoscere la vera natura degli esperimenti, del procedere delle scoperte; solo dopo attente discussioni, decidiamo di passarne frammenti innocui a coloro che stanno sotto, ai normali studiosi, alla massa che attende ulteriori sviluppi, per tenerli buoni, magari nella speranza che i loro studi portino qualche frutto.

Se sapessero verso quale territorio ci stiamo avventurando, quale prezzo stiamo pagando, potrebbe scoppiare il caos, potrebbero protestare, additarci come fanatici. Come ha detto Laurence, non capirebbero il nostro scopo, non riuscirebbero ad afferrare il motivo del nostro agire; solo noi abbiamo visto, solo noi abbiamo capito. Per elevare l'umanità, è necessario mettere da parte l'etica, certamente: l'evoluzione senza sacrificio è impossibile.

“Stanno di nuovo..?”

Deglutisco, quando Gehrman fa un mero cenno del capo verso il portone, “Non senti i rumori? Questa è la terza iniezione, oggi.” Scrolla le spalle, come se la cosa non lo riguardasse direttamente, “Sembra che le teorie fossero giuste, dopotutto.”

Lo guardo di sottecchi, provando a sbirciare la sua espressione sotto al cappello, ma non riesco a scorgere nulla, gli occhi nascosti, la bocca ferma in una espressione neutra, senza emozione, la stessa che veste sempre, in qualsiasi momento. Quando legge, quando parla, quando mangia, quando ascolta—quando uccide. Indecifrabile, al di sotto della sua maschera di indifferenza verso il mondo, tanto che se non fosse lui stesso a dirmi di provare qualche emozione, di sentire paura, disgusto, repulsione, come ogni essere umano, dubiterei di lui.

“Sei venuta a portargli l'ultimo reperto? Abbiamo sudato parecchio per ottenerlo.”

“Sì.” alzo il mantello, a rivelare un piccolo contenitore avvolto in un panno, in modo da nasconderlo alla vista, “Quel Labirinto è stato davvero ostico… Ma ne è valsa la pena.”

Mi dà un colpetto sulla spalla, come a volermi incitare, “Entra pure. Io ho già visto a sufficienza, per oggi.”

Annuisco meccanicamente, avvicinandomi al battente, poggiandovi sopra la mano guantata. Vorrei deglutire, ma sento la gola talmente riarsa e la bocca terribilmente secca; ad ogni nuovo gemito, pianto che filtra attraverso la porta, qualcosa in me trema, esitante. Sacrifici necessari, mi ripeto, come un mantra. Lo stiamo facendo per il bene dell'umanità, il nostro scopo è grande, troppo grande per potersi porre limiti di tipo etico, è qualcosa che so troppo bene; per questo motivo, non mi oppongo agli esperimenti, contribuisco alla loro riuscita, tengo lontani i curiosi, mi avventuro nei Labirinti alla ricerca di manufatti ed indizi, mappando nuovi cunicoli e stanze, falciando bestie su bestie, raccogliendo campioni. Se ci lasciassimo osteggiare dal dubbio, non toccheremo mai il futuro, non raggiungeremo mai questi esseri superiori che ci stanno parlando.

Ed è proprio in queste ricerche, che io e Gehrman abbiamo trovato qualcosa di nuovo, che potrà forse guidarci, ancora di più, nel nostro viaggio verso la ultima rivelazione, verso la Verità Ultraterrena. Fin dal momento in cui abbiamo ritrovato questo reperto, stringerlo tra le mani è stato come toccare qualcosa lontano dal nostro mondo, una sensazione che mi ha mandato dei brividi gelidi lungo la schiena.

Spingo la porta, aprendo un piccolo spiraglio in cui mi infilo, chiudendo il battente alle spalle con un tonfo sordo, entrando nella stanza semibuia. L'aria è piena del familiare odore di sangue, talmente forte da attaccare la gola e graffiare le narici; l'unica fonte di luce naturale è la grande vetrata posta in alto, dalla quale filtra il bagliore lunare, una fioca luce che, nel suo pallido raggio, fa svolazzare frammenti di polvere e getta ombre sinistre sul pavimento. Piccole lanterne sono poggiate sui comodini che attorniano il lettino; le cinghie sono strette saldamente attorno al corpo di un uomo, che si dimena, geme, bisbigliando a bassa voce parole incomprensibili, il farneticare di un folle. Ansima e scalcia, lo sguardo che si sposta impazzito tutt'attorno, alla ricerca di qualcosa, o seguendo un movimento visibile solo ai suoi occhi dilatati.

“Lumache… strisciano, ovunque, si dimenano, brillano nel buio. Mi guardano, senza occhi, si avvolgono...”

Laurence si affretta ad annotare le parole deliranti del paziente, annuendo con soddisfazione, “Sentito? Di nuovo le lumache. È il quarto, non può essere un caso.”

“Dopotutto, abbiamo ritrovato un guscio gocciolante un liquido fosforescente, no?” Micolash si sfrega le mani, soddisfatto, prima di allungare le dita a cercare una piccola siringa ricolma di liquido. Ai riflessi lunari, il colore è quasi argenteo, con macchie scure, un rosso indecifrabile, come venato, Sangue Antico che gocciola dall'ago; ad un segnale pacato di Willem, Laurence si piega a tenere immobile il braccio dell'uomo mentre Micolash affonda nella vena il liquido. La contrazione nel corpo dell'uomo è evidente e, per un lungo istante, i suoi occhi divengono quasi bianchi, come presi da un'estasi, una sorta di rivelazione, “Occhi, occhi, occhi! Abbiamo bisogno di...” la sua bocca si spalanca in un urlo silenzioso, “NON VOGLIO GUARDARE ANCORA!”

L'urlo disumano che erompe dalla sua bocca, come un torrente, viene prontamente zittito da una rapida iniezione di sedativo e da un panno costretto contro il suo viso. Il suo corpo si agita ancora per qualche lungo, interminabile istante, prima di crollare contro il lettino, stralunato, la bocca ancora aperta, gli occhi spenti. Il suo petto si alza e si abbassa, lentamente, sotto l'effetto dei sedativi. L'esperimento sembra essere terminato, perché Willem ordina di liberarlo e portarlo nella stanza accanto, di adagiarlo sul suo giaciglio, in attesa del suo risveglio. Gehrman, scivolato silenziosamente dietro di me chissà quando, forse allarmato dall'urlo, si carica l'uomo svenuto in spalla e lo trascina fino al letto, accanto ad innumerevoli altre cavie, chiudendosi la porta alle spalle con un cigolio.

“Oh, Maria. Non sapevo fossi tornata.” Laurence mi si avvicina, sistemandosi i capelli biondi spettinati, asciugandosi la fronte ricoperta di sudore con un fazzoletto ripiegato con cura. Nonostante lo spettacolo, sembra piuttosto deluso e alla mia domanda, scrolla le spalle senza troppa convinzione, “Nulla di nuovo, per ora. Continuano a parlare di occhi, di lumache. Sembra che i Grandi Esseri possiedano una sorta di araldi, come degli auguri, i Fantasmi, nella forma di creature simili a...”

“A questa?” con un sorrisetto di soddisfazione, tolgo l'involucro del piccolo barattolo, rivelando, al suo interno, un piccolo invertebrato dal colore biancastro. Molliccio e gocciolante, emette un leggero bagliore prima nascosto dallo straccio in cui avevo avvolto il contenitore. Le sue piccole antenne vibrano verso di noi, ma oltre a questo, l'essere non sembra dare altri segni d'intelligenza, limitandosi a muoversi pigramente sul fondo, a contorcersi, ignaro della reazione che la sua esistenza sta suscitando in Laurence. La sua mano tremante si allunga verso il vasetto, stringendolo incredulo, mentre la sua bocca si spalanca, a sillabare due parole soffocate, “Lumache… fosforescenti...” come realizzando improvvisamente cosa stringe tra le mani, si affretta ad avvicinarsi ad un tavolo, facendomi cenno di seguirlo, chiamando a gran voce Micolash e Mastro Willem.

“Un Fantasma, ed è vivo. Guardatelo, è proprio un augure, una lumaca fosforescente! Micolash, il guscio, presto.”

Micolash si affretta a porgergli il guscio gocciolante, in modo che, alla lenta di ingrandimento, possano essere esaminati meglio. Anche ad un'occhiata superficiale, è ovvio che il liquido che entrambi secernono è lo stesso, della stessa, identica natura. Una conferma ulteriore, una prova tangibile che stringiamo tra le nostre mani.

“Ma è incredibile… Un familiare dei Grandi Esseri, una forma minore, ed è proprio qui. Dove lo hai trovato, Maria?”

Gehrman compare alle spalle di Laurence, poggiandogli una mano sulla spalla, “Un altro Labirinto Phtumeriano, in una città che a quanto pare si chiamava Isz. Non siamo potuti avventurarci oltre, purtroppo.”

“Il calice che ci avete dato non è sufficiente. Ne serve un altro, ma chissà dove è custodito...” sospiro, rigirandomi tra le mani il guscio del Fantasma, trovandovi, inevitabilmente, dei parallelismi, tanto nella forma quanto nelle proprietà, con la lumaca ultraterrena che si contorce di fronte a noi, probabilmente confusa dal nostro affannarci attorno a lei. E quindi, i Grandi Esseri possiedono una sorta di precursori, esseri che appartengono alla loro stirpe, ma che non sono ascesi ai loro livelli divini – Fantasmi, auguri del loro potere, che si trovano nei Labirinti allo stesso modo in cui abbiamo recuperato il Sangue Antico.

“Erano oggetto di culto,” proseguo nella mia spiegazione, dopo aver porto nuovamente il guscio a Laurence, ed essermi accomodata su una sedia dall'aria malmessa, “Lo abbiamo trovato su un altare che si agitava in mezzo ad una enorme quantità di gusci, proprio come quello.”

C'è un'idea che mi ronza in testa da quando abbiamo trovato quel Fantasma, un'idea forse folle, ma che non vuole lasciarmi in pace, che continua a tormentarmi, anche ora. Non abbiamo mai trovato altre creature simili, né loro resti, se non in luoghi in cui, in qualche modo, sembrano essere comparsi dei Grandi Esseri, o di cui sono rimaste delle tracce, come nel caso del Sangue Antico. Quindi, è possibile che in fondo alla perduta città Phtumeriana di Isz… Viva ancora un Grande Antico?

“Caryll, vieni qui, per favore.”

Alla richiesta di Willem, il costante grattare della penna si interrompe di colpo. Non avevo nemmeno visto la minuta studiosa, seduta nella semioscurità, intenta ancora ad annotare, una dopo l'altra, rune di follia sul suo taccuino; per tutto questo tempo, nemmeno per un singolo istante, ha mai smesso di scrivere, ha dato pace alla sua penna. Il rumore dello stilo che viene intinto nel calamaio si blocca e una sedia viene spinta all'indietro; Caryll sembra peggiorare di giorno in giorno. È sempre stata pallida, ma la sua pelle sta assumendo un colore lattiginoso, e le sue mani sono perennemente macchiate di inchiostro, di un nero che imita quello delle sue profonde occhiaie, in netto contrasto con la vuotezza dello sguardo, che sembra quasi non riuscire a distinguere propriamente la realtà.

Willem si avvicina a lei, sorreggendola dolcemente, guidandola verso il tavolo attorno al quale siamo radunati, sostenendola nel suo camminare debole. Si piega a sussurrarle qualcosa e lei, quasi rabbrividendo, annuisce, la bocca che si muove a rispondere, in un tono talmente basso da risultare indecifrabile. Quando arriva accanto al Fantasma, per un lungo istante, non sembra accadere nulla; ma quando l'essere si volta verso di lei, le antenne che vibrano esitanti, qualcosa attraversa rapidamente il viso di Caryll, la cui espressione si accartoccia. Si porta una mano alla testa, massaggiandosi la fronte, sofferente, quasi stia riflettendo su qualcosa – no, come se stia ascoltando qualcosa di terribilmente lontano, che rintocca nella sua mente come una campana di vetro, un tintinnio argenteo.

“—L'hanno abbandonata, lasciata indietro...” allunga una mano, ad accarezzare il piccolo essere, stringendolo delicatamente tra le dita. Il Fantasma si lascia stringere, senza ribellarsi, riposando tra i suoi polpastrelli, gocciolando il suo liquido bluastro, “Nelle profondità di un Labirinto.”

“Di chi stai parlando, Caryll?” il tono di voce di Willem è dolce, incoraggiante, mentre le stringe le spalle, in un invito a continuare a parlare, nonostante il chiaro sforzo a cui è sottoposta la sua mente, il tormento divorante di una voce terribilmente forte, un richiamo che sta crescendo dentro di lei.

“Ebrietas.”

Per il resto della giornata, Caryll non ha più accennato a Ebrietas, o alla sua natura. Le nostre congetture, ovviamente, sono che si tratti di un Grande Essere, probabilmente di cui questo Fantasma è l'augure, ma non abbiamo risposte certe. Per ora, non possiamo fare altro che concentrarci sugli esperimenti e sul significato di quello che abbiamo appreso oggi.

Radunati attorno ad una grande tavolata, ognuno seduto sulla propria poltrona, siamo immersi nei nostri pensieri, chiedendoci cosa possa significare la nostra scoperta, come procedere sul cammino dubbioso e contorto che stiamo percorrendo. Non c'è dubbio che stiamo, in qualche modo, procedendo verso la direzione giusta, ma i nostri progressi non sono che piccoli passi verso una verità talmente distante da non riuscire nemmeno ad intravederla nella sua interezza.

Laurence è il primo a rompere il silenzio e a prendere la parola, sistemando gli appunti che ha meticolosamente raccolto nel suo quadernino, mostrandoceli sommariamente, “Gli esperimenti con il sangue procedono alla perfezione. Le cavie reagiscono, quelle esposte continuamente al sangue si fanno più resistenti, più prestanti. Non c'è malattia che le tocchi. Tuttavia...”

“Gli Occhi, Laurence. Gli Occhi sono la chiave. La mente umana è troppo debole, limitata. Il Sangue è un mezzo che non può portarci che fino ad un certo punto. Non è qualcosa da usare in modo sconsiderato—Va temuto.”

“Temuto, Maestro?” Micolash piega la testa, confuso, “Eppure sta dando i suoi risultati, no?”

“Il nostro intelletto crolla, di fronte alla verità. Siamo ciechi, perché l'uomo è limitato, incapace di elevarsi. L'unico modo, è procurarci… nuovi, più grandi, più potenti Occhi.” Guarda Caryll, in un angolo, che continua a trascrivere rune, quasi come se tutta questa faccenda non la riguardasse, come se il mondo attorno a lei non abbia importanza. A volte, mi sono chiesta se effettivamente, e non veda più di quanto facciamo noi; che sia per questo, che è in grado di udirli? Lei possiede gli… Occhi di cui parla Maestro Willem?

“Noi pensiamo troppo in basso. Siamo nel più basso dei piani dell'esistenza, l'uomo è fragile e la mente è debole. Il Sangue Antico è troppo per essere sopportato… Questo è il nostro motto, come Scolari del Sangue Antico.”

Alza entrambe le mani, come ad incitarci, e tutti, quasi come fosse una preghiera, ripetiamo a bassa voce la formula che è divenuta il nostro simbolo, un ammonimento perché non si dimentichi mai cosa stiamo facendo, che terribile verità stiamo perseguendo.

“Siamo nati dal sangue, resi uomini dal sangue, disfatti dal sangue. I nostri Occhi devono ancora aprirsi… Temi il Sangue Antico.”

Se l'intelletto umano è così debole, che speranze abbiamo? Davvero siamo così in basso, che nemmeno quel Sangue Miracoloso può aiutarci?

Laurence incrocia il mio sguardo e scuote la testa, come a dirmi di rimanere in silenzio.

C'è una cosa di cui siamo sicuri… il Sangue Antico è la chiave. Il Sangue ci condurrà dove vogliamo, il Sangue ci permetterà di trascendere.

Per quanto Mastro Willem sia convinto che la mente abbia bisogno di Occhi, che il sangue non sia sufficiente, per quanto i dubbi ci tormentino, non possiamo permetterci di esitare. Dobbiamo avere fiducia e proseguire nella nostra missione, senza mai abbassare la testa, senza mai perdere di vista il nostro obbiettivo.

Questo è il nostro compito…

La Verità Ultraterrena.

La seduta si scioglie, ognuno va per la sua strada. Il sole sta sorgendo, un'altra notte passata nel laboratorio, a lavorare, senza concederci riposo, ma nonostante questo, non sento ancora la stanchezza schiacciante che dovrei provare; sono giorni che non mi concedo un vero riposo, tra gli esperimenti e le esplorazioni. Le poche volte in cui mi addormento, lo faccio sul pavimento sporco e consunto di un Labirinto, dove la mia dormiveglia è tutto fuorché riposante, pronta a scattare al minimo accenno di pericolo, o sulla scomoda sedia delle mie stanze, prima di rimettermi immediatamente a lavoro, dopo una manciata di ore di leggero sonno.

Anche gli altri sembrano terribilmente provati. Laurence e Micolash hanno passato gran parte degli ultimi mesi nei laboratori chiusi e soffocanti, fiocamente illuminati, o in biblioteche semibuie, piegati su grossi tomi di mitologia e romanzi di visionari folli, uomini che sospettiamo essere entrati in contatto, in qualche modo, con i Grandi Antichi.

Sono una degli ultimi ad uscire, lasciandomi Caryll e Maestro Willem alle spalle, intenti in una conversazione fatta di bisbiglii e sussurri, che non comprenderei nemmeno se volessi. Mi chiudo la porta alle spalle con un tonfo, poggiandomi stancamente contro il suo stipite, passandomi la mano sul volto, nel tentativo di svegliarmi, di riprendermi dall'improvvisa stanchezza piombatami sulle spalle. Il pensiero di dormire di nuovo sulla rigida sedia delle mie stanze è un pensiero già da solo abbastanza orribile, se aggiungo anche il farfugliare delle cavie sofferenti e la tensione che si sta creando tra di noi, di certo non posso aspettarmi un riposo soddisfacente.

“Sei stanca?”

Volto lentamente la testa verso Laurence, seduto sul davanzale di uno dei grossi finestroni che danno sul lago, dai quali entra la luce del primo mattino, bagnandoci degli stanchi raggi del sole biancastro.

Scrollo le spalle svogliatamente, senza rispondere alla domanda, più preoccupata, invece, di discutere del vero motivo per il quale mi ha atteso qui fuori. Non c'è altra ragione, per la quale dovesse attendermi, se non per parlare di quanto appena accaduto con Willem; o meglio, quello che, da qualche settimana a questa parte, si sta verificando. L'amaro, ma ancora dormiente, contrasto di idee che sta mettendo radici tra noi e il Maestro. Fin da quando gli esperimenti hanno iniziato a dare i loro primi, strani frutti, portando al collasso di diversi pazienti, a volte come presi da una sorta di frenesia rabbiosa che ci ha costretto ad ucciderli, a volte, invece, uccisi da accessi di follia che hanno distrutto le loro menti; fin da quando la mente delle cavie ha iniziato ad andare in pezzi, ed hanno iniziato a farfugliare di Occhi; fin da quando Maestro Willem ha iniziato a leggere e rivalutare taluni tomi di uomini distorti, fin da allora, una serpeggiante aria di divergenza ha iniziato a diffondersi. Il seme del dubbio sta sbocciando e nessuno sa quando sboccerà in un rabbioso scontro di ideali.

Laurence è convinto che il Sangue Antico sia la chiave, così come lo siamo io, Gehrman e Micolash. D'altronde è proprio con esso che abbiamo iniziato gli esperimenti, che abbiamo mosso i primi passi in avanti, che i pazienti si sono rafforzati e, alle volte, hanno avuto un frammento di visione di qualcosa che va oltre la realtà. Eppure, secondo Willem, cioè non è sufficiente; non è il Sangue Antico la chiave di volta, ma gli Occhi. La mente umana è debole e può facilmente essere preda della pazzia, della corruzione; per quanto Sangue uno possa bere, la mente non si eleverà mai, vacillerà e cadrà ad uno stato più basso, primitivo.

Per ora, nessuno sembra protestare. Il rispetto che tutti nutriamo per Mastro Willem è troppo per permetterci di contraddirlo aspramente e quindi procediamo su una sottile linea di equilibrio che minaccia di spezzarsi ogni volta – e quando accadrà, chissà cosa faremo?

“Lo so, Maria, che vorresti parlare al Maestro, ma...”

“Vorrei solo che non rifiutasse a prescindere i nostri metodi.” protesto, interrompendolo.

Laurence unisce i polpastrelli delle dita, pensoso, prima di rispondermi con tono pacato, “Lui è il nostro Maestro. Troveremo un modo. Il nostro obbiettivo è lo stesso, dopotutto. Abbiamo bisogno di Occhi, questo è inevitabile…” Laurence si alza in piedi, indicandosi la fronte con un dito, quasi a volerne strappare via qualcosa, “Occhi della mente, per vedere ciò che l'uomo non può.”

“I nostri occhi devono ancora aprirsi,” ripeto, a bassa voce, “Forse hai ragione. Forse abbiamo bisogno solo di aspettare.”

Senza una parola di più, ci allontaniamo, ognuno per la sua strada e lo sento scendere le scale, verso il piano inferiore, verso le aule di insegnamento, probabilmente per andare a riferire le notizie che abbiamo accordato di rendere pubbliche.

Per una ragione che non riesco a comprendere, sento come una sorta di brivido che mi attraversa. In lontananza, dove l'occhio appena arriva, dove cielo e acqua si uniscono, riesco a scorgere grandi nuvoloni neri che si addensano, riempiendo l'orizzonte con una spessa coltre di oscurità e lampi.

I nostri Occhi devono ancora aprirsi…

Cosa serve, per riuscire a scrutare il mondo invisibile?

“Ci sarà una tempesta.”

Mi volto di scatto. Caryll è alle mie spalle, che osserva il cielo scurirsi, tormentando la penna che stringe tra le mani. Si volta a guardarmi, le pupille come vuote, quasi non riuscisse a vedermi del tutto.

“Preparati… Perché ti spazzerà via.”

 

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Capitolo 4
*** IV — The sacrifices we have made. ***


IV — “The sacrifices we have made.”

Dal giorno dell'esperimento, con i mesi che sono trascorsi, tutto è andato avanti senza alcuna ulteriore discussione, nonostante la tensione sia palpabile, anche ora. Gli esperimenti proseguono senza intoppi e, ogni giorno, i risultati continuano a renderci diffidenti; sempre di più sono i pazienti che iniziano a lamentarsi di udire il rumore dell'acqua che si agita, o a sillabare nella notte il rumore di un gocciolare frenetico e costante che solo le loro orecchie percepiscono. Molti hanno iniziato a mostrare segni di rabbia e suscettibilità di stampo quasi bestiale, per cui Gehrman ed io abbiamo dovuto farli sparire silenziosamente da Byrgenwerth senza farci notare.

Nella notte, abbiamo portato via le cavie ormai ingestibili ed intrattabili e, nelle profondità del bosco, le abbiamo sgozzate una ad una, gettando i loro corpi in pasto alle belve, lasciandoci alle spalle le tetre radure ricolme di miasma paludoso. Nessuno si avventura mai nei Boschi Proibiti, ragion per cui, quando un corpo viene lasciato lì, non viene mai più ritrovato. La palude lo scioglie e lo corrode, le bestie lo divorano, le ossa scompaiono e nessuno osa fare domande.

Ormai, anche se gli altri studiosi non ne proferiscono parola, silenziosamente, nel profondo della loro mente, sanno cosa stiamo facendo. Le urla sono troppo forti, a volte, per essere soffocate ed il fatto che alcuni studenti scompaiano, ovviamente solleverebbe, normalmente, delle domande. Ma sapendo la natura del nostro scopo, conoscendone le finalità, nessuno vuole protestare e, in nome del progresso dell'uomo, lasciano che la nostra meticolosa ricerca continui.

Le trasfusioni di Sangue Antico continuano a fornire un esito non del tutto soddisfacente. I pazienti divengono, inevitabilmente, non solo ingestibili, ma vicini per abitudini ferali a dei mostri, per cui dopo poco vanno irrimediabilmente tolti di mezzo. Allo stesso tempo, tuttavia, l'assunzione del liquido sconosciuto sembra, per un istante, aprire le loro menti, una specie di terzo occhio che dà visioni orribili, prima che la loro mente vada in pezzi ed inizino a farfugliare di acque ed oceano. “Beh, possiamo dire che è un passo in avanti, o no?” sogghigna Micolash, piegandosi su un uomo che, rannicchiato sul letto, avvolto nelle sue coperte, continua a farfugliare frasi insensate sull'oceano, o ad imitare il rumore delle onde. Il suo sguardo è colmo di terrore, come se stesse guardando nelle profondità di un abisso. Proseguiamo oltre, ad una donna che, poggiata contro il muro e seduta sul pavimento, invece che sul letto, alza gli occhi sbarrati su noi due, quando la illumino fiocamente con la lanterna per esaminarla.

“Poggiala sul lettino, per favore,” mi chiede lo Scolaro, iniziando ad annotare nome e generalità del soggetto, prima di piegarsi su di lei con un monocolo per osservarne la pupilla dilatata, “Nulla di strano, ci vede normalmente.”

“Eppure continua a farfugliare. Ascoltala,” mi siedo accanto a lei, la sento sussurrare a bassa voce, la bocca che si contrae violentemente, come mossa da un continuo spasmo. Sta sussurrando onomatopee per il gocciolare dell'acqua. Io e Micolash ci scambiamo un'occhiata stranita, “Cosa vuol dire?”

“Vorrei saperlo. Sembra quasi che vedano, o sentano, qualcosa collegato all'acqua. Ma perché? Forse i Grandi Esseri vivono nell'acqua?” schiocca la lingua, insoddisfatto, ma appunta ugualmente la sua conclusione, “Avremo tempo di rimuginarci dopo. Abbiamo quasi finito, mancano giusto due—”
Ascoltandolo distrattamente, faccio per alzarmi, quando sento un tremante tocco pieno di esitazione raggiungere la punta delle mie dita, come una silente supplica di non andare. La donna, agitata, mi stringe la mano, invitandomi a non lasciarla. La sua presa è talmente debole e spossata, che riesco a malapena a sentirne la pressione attorno al palmo, ma le rimango comunque accanto; non sarebbe la prima volta, che uno di loro muore davanti ai miei occhi. Tuttavia, nessuno, prima d'ora, si è teso ad afferrarmi, come in un disperato grido silenzioso di aiuto.

I suoi occhi incavati mi osservano per un lungo istante, prima di riuscire a trovare la forza di parlare. Mi piego leggermente su di lei, così che possa udire il suo sussurro soffocato, poco più che un respiro,“Credi che l'acqua… goccioli anche nel fondo del mare?”

Si porta una mano a coppa all'orecchio, come tentasse di udire meglio un suono preciso, terribilmente lontano, appena percettibile, “Senti il gocciolare? Drip, drop, slip, slop… Drip, drop… Slip...”

Mi volto un secondo, senza lasciare la sua mano, per richiamare Micolash, impegnato a trascrivere i sintomi di uno dei pazienti più rabbiosi, il cui sferragliare delle cinture costrittive arriva fino in fondo alla stanza. Quando nota la mia urgenza, scatta immediatamente al mio fianco, inginocchiandosi accanto alla donna sofferente, che per tutto il tempo, non ha fatto altro se non continuare ad imitare il suono di una goccia che precipita e a stringere la mia mano.

“Cos'ha di strano?” mi chiede lo studioso, gettandomi un'occhiata di traverso, piena di irritazione, “Non sta dicendo nulla di diverso dagli altri.”

“Prima mi ha chiesto qualcosa di insolito, qualcosa che aveva a che fare con il fondo del mare. C'è qualcosa di strano, non trovi?”

“Io credo che—”

La frase di Micolash viene bruscamente troncata dall'ululato di dolore della donna, che si irrigidisce di colpo, aggrappandosi disperatamente alla mia mano, gli occhi sbarrati, colmi di puro terrore, presa da un fremere incontrollabile, gli occhi pieni di lacrime. Si porta le mani al volto, singhiozzando sempre più forte, gemiti sconclusionati e soffocati, come se si stesse disperatamente proteggendo da una visione orribile.

Mi chino su di lei, scuotendola con dolcezza, come farebbe una madre con una bambina spaventata, sussurrandole dolcemente parole di conforto.“Va tutto bene, va tutto bene. Cosa c'è?”

“L'hanno uccisa… L'hanno uccisa...” lentamente, terrorizzata, apre uno spiraglio tra le dita, lasciando intravedere un suo occhio vibrante di terrore, “L'hanno uccisa… Gli dei ci aiutino,” il suo urlo lacera la stanza, facendo agitare tutti gli altri pazienti, un urlo della più sublime e pura paura che abbia mai sentito nella voce di un essere umano, talmente intenso da farmi vacillare per un istante, “L'HANNO UCCISA E LEI LI HA MALEDETTI TUTTI QUANTI.”

“Dalle un sedativo, subito.”

Micolash scatta ad afferrare una boccetta ricolma del medicinale e, grazie ai miei sforzi, riusciamo a tenerla ferma, incatenarla al letto, e farle trangugiare tutto il liquido nella fiala. Il suo corpo inizia a rilassarsi e, dopo qualche istante, rimane immobile, presa da un sonno pesante e, possibilmente, privo di sogni. Non vorrei che si svegliasse di nuovo agitata per via di qualche strano incubo. Mi volto verso lo studioso, che la sta ancora guardando con un'espressione a metà tra l'interesse ed il disgusto, proprio quella che ci si aspetta nell'uomo di scienza che osserva il suo deforme esperimento.

“Non so di cosa stesse parlando, ma mi ha dato i brividi.” mi limito a commentare, sistemandomi una ciocca di capelli scivolatami sugli occhi durante la colluttazione per tenere la folle al suo posto. Micolash, dal canto suo, sembra estremamente interessato, a giudicare dalla solerzia con cui prende appunti, “Ha parlato del mare, di un assassinio… Non capisco, ma sembrava qualcosa che interesserà sicuramente Laurence. Io finisco gli ultimi esami, posso cavarmela da solo. Maria,” strappa un foglio dal suo registro, porgendomelo dopo averlo accuratamente ripiegato, “Porta questo all'attenzione degli altri. Dobbiamo discuterne il prima possibile.”

Ripongo la nota nella tasca della giacca e mi lascio alle spalle la camera buia dei pazienti, chiudendo delicatamente la porta con un tonfo. Il sole mattutino è nel culmine del suo arco, l'ispezione ha occupato molto più tempo del previsto, ma Micolash è un uomo fin troppo diligenete quando si tratta di annotare minuziosamente ogni aspetto dell'esperimento. Questi controlli sono necessari per valutare i nostri progressi ed ormai ho fatto lo stomaco alle scene di follia e dolore che genera la nostra marcia verso la Verità Ultraterrena. Ormai, non c'è più compassione per il loro dolorante stato; dopotutto, sono vittime sacrificali che di loro spontanea volontà sono giunte al macello, la scelta è stata loro, unicamente la loro. La sofferenza che provano è per un bene più grande, per questo dobbiamo succedere nella nostra impresa – per non sprecare le loro vite, non renderle un'inutile risorsa bruciata nel nome del fallimento.

La nota spiegazzata di Micolash è una descrizione precisa dello stato della paziente e del suo improvviso delirio, riportando, con cura, le parole che ha gridato in preda a quell'accesso di follia. Non riesco a capirne il significato; in qualche modo, sono generate dal Sangue Antico, dall'apertura di uno degli Occhi che Maestro Willem ricerca tanto disperatamente, quindi devono avere una certa importanza. Che siano collegati ai Grandi Antichi, in qualche modo? Ma chi avrebbe commesso questo sedicente omicidio? Chi è stato ucciso tanto brutalmente?

Laurence è sul balcone, insieme a Willem. Salita la scala a chiocciola, li intravedo attraverso l'uscio lasciato accostato. La loro discussione non sembra esattamente ostile, ma posso percepire, dal loro tono, quel nervosismo, quella vaga ostilità che continua ad aleggiare in ogni discorso che intercorre tra loro. Mi fermo sull'uscio, senza interromperli, con l'intenzione di cogliere almeno un frammento del loro discorso, nonostante la distanza.

Willem è seduto sulla sua sedia a dondolo, si lascia trasportare ritmicamente dalla leggera brezza che soffia da ponente, picchiettando le dita sul lungo bastone da Rettore, ascoltando Laurence al suo fianco, anch'egli con lo sguardo perso all'orizzonte.

“—è passato un anno da quando abbiamo trovato il Sangue Antico, Maestro, eppure i nostri progressi procedono ancora terribilmente a rilento. I reperti di Fantasmi ormai hanno confermato i nostri sospetti sugli Phtumeriani, sulla discendenza dei Grandi Esseri. Eppure, non riusciamo ad andare oltre.”

Willem sospira, stancamente, il sospiro di un uomo che si avvicina alla vecchiaia, massaggiandosi la fronte e rimanendo in silenzio per un istante, prima di rispondere, “Quello di cui abbiamo bisogno, mio Laurence, sono gli Occhi. Le nostre menti sono ancorate a questo piano e non riescono ad osservare oltre…” gli indica l'orizzonte, sul quale si ammassano nuvoloni scuri, “Quello che vediamo non è altro che un frammento pallido e marginale. Ci servono più Occhi, più conoscenza, solo allora potremmo ottenere la verità. Laurence, i nostri Occhi—”

“Sono ancora chiusi, lo so!” L'improvviso scatto di Laurence mi fa trasalire. È raro vederlo perdere la pazienza e sono sicura che mai, prima d'ora, lo abbia fatto di fronte a Willem o, ancora peggio, gli abbia urlato contro. Ma ora, sembra terribilmente esasperato, oltre che provato. È vero che, in tutto questo tempo, i nostri esperimenti non hanno subito alcun sostanziale progresso. Siamo fermi, a metà tra il nostro territorio, umano, e i confini di quello superiore, dei Grandi Esseri che ci osservano. Comprendo la sua frustrazione. Abbiamo visioni troppo diverse, che si osteggiano a vicenda, e ci siamo arresi alla volontà di Willem per via del rispetto che proviamo nei suoi confronti. Tuttavia, i suoi metodi non ci stanno portando da nessuna parte.

Questa storia degli Occhi è come un peso che ci trascina in basso, che ci impedisce di avanzare. Le uniche, sostanziali, nuove scoperte, seppur di carattere marginale, sono state quelle ottenute con il Sangue Antico. Nonostante questo, nessuno di noi ha protestato. Abbiamo lasciato Caryll a scrivere le sue rune, Micolash ad ispezionare ogni giorno uomini sofferenti, Laurence a sperimentare con mezzi insufficienti per il timore di contraddire la sua volontà.

Digrigno i denti.

Un dannato peso su tutti noi…

“Oh, ha chiamato anche te, Maria?”

Alzo gli occhi di scatto per incontrare quelli di Gehrman, poggiato contro la balaustra della scala, sull'ultimo gradino, le mani nelle tasche, che mi osserva con un mezzo sogghigno, “Non ti avevo forse detto che origliare è una pessima abitudine? Ed io che credevo che a Cainhurst foste tutti dei signori.”

Le mie guance iniziano ad ardere per la vergogna e la mia presa sul foglio si fa abbastanza forte da stropicciarlo irrimediabilmente. Scuoto la testa, “Non stavo...”

“Origliando? No, suppongo di no. Una signorina di Cainhurst come te, al massimo, potrebbe aver colto, per caso s'intende, un frammento di conversazione, non è così?”

Vorrei gridargli di smetterla. Smetterla di continuare a pronunciare quel nome, a ricordarmi quel posto, quella ripugnante corte di falsità e di ipocrisia, di maschere e viscido servilismo, di abominevoli pratiche, di ributtante edonismo, di tradimenti e di legami di sangue. Ho fatto di tutto per soffocare il mio passato, per stracciarlo e dimenticarmene, ma non posso lavare il mio sangue. Non posso mondare il mio odio.

“Smettila...” ringhio a bassa voce.

“Stavo scherzando.”

“Lo so.”

Mi si avvicina, poggiandomi una mano sulla testa, come farebbe un padre con una figlia, scompigliandomi appena i capelli diafani, di quel colore cenere, quasi albino, che indica la mia discendenza dalla Regina Annalise, “Mi dispiace, Maria.”

“Lo so.”

Rimaniamo in silenzio per un lungo istante, ognuno perso nei propri pensieri, proprio come ai tempi dell'addestramento. In un certo senso, non mi dispiace, questa situazione. Mi ricorda tempi più felici. Non è passato molto tempo, ma la nostalgia in me è ancora abbastanza forte da farmi assaporare un momento come questo, quando ancora non stavamo combattendo contro noi stessi, contro l'universo stesso, per raggiungere una verità tanto distante da apparire come un miraggio vibrante.

“Maria, ascolta—” L'improvvisa frase di Gehrman viene troncata da Laurence che rientra dal balcone, l'espressione incupita, segno più che chiaro dell'ennesimo fallimento del tentato dialogo con Willem. Quando ci intravede, tuttavia, cerca di nascondere la sua insoddisfazione e l'irritazione, mettendo su una maschera di circostanza e salutandoci con un cenno secco del capo.

“Vi ha convocati il Maestro?” chiede, rivolgendosi a Gehrman, “Deve essere per qualcosa di importante.”

“Non te ne ha parlato?”

Laurence scuote la testa, ma il mio maestro d'armi gli dà un colpetto alla spalla, “Ti aggiornerò io, allora.”

“Micolash vorrebbe parlarti. È urgente. Tieni questo.” mi affretto ad aggiungere, porgendo al nostro compagno la pagina stropicciata, che afferra rapidamente, ringraziandomi; dopo questo rapido scambio di battute, Laurence scende frettolosamente le scale, scomparendo dalla nostra vista, probabilmente recandosi immediatamente al laboratorio. Spero riescano a venire a capo della frenesia improvvisa di quella paziente, perché, in qualche modo, sembra un ulteriore, faticoso passo in avanti, dopo un così lungo tempo di stallo.

Seguo Gehrman sul balcone, il sole che viene coperto da nuvole temporalesche di passaggio, di un colore terribilmente scuro, come un presagio di sventura. Non sono mai stata una persona influenzabile, né superstiziosa, ma da quando, mesi fa, Caryll mi ha rivolto quella frase criptica, ed allo stesso tempo catastrofica, ho sentito una specie di brivido percorrermi la schiena ed ora temo i temporali e le nubi tempestose.

Alla fine, a distanza di mesi, nessuna tempesta mi ha spazzata via, ed ho finito per smettere di dare importanza a quelle parole, tuttavia, ogni tanto, le sento echeggiare nella mia mente, come una sorta di profezia in attesa di avverarsi. Scrollandomi via la sensazione di inquietudine, ci avviciniamo a Willem, che sembra ancora assorbito dal lago, al quale sembri sussurrare qualcosa, parole perse nel vento, che non riesco a comprendere. Non è una novità, oltretutto, che il Rettore si rivolga al Lago della Luna, il suo più grande confidente, al quale bisbiglia le sue preoccupazioni, le sue ambizioni.

In questo preciso momento, Maestro Willem mi appare come un uomo vecchio, molto più vecchio di quanto sia, e tormentato dalla Verità Ultraterrena, dalla sua incapacità di vederla, dalla sua mancanza di Occhi.

“Maestro Willem, voleva parlarci di qualcosa?” esordisce Gehrman, arrivandogli al fianco, le mani ancora affondante nelle tasche, in una posa informale, quella di due amici che osservano il cielo grigio ed uggioso.

“Il Lago è stranamente silenzioso, oggi...” sospira lui, di rimando, pensoso, parole più rivolte a se stesso che a noi. Dopo un secondo, inclina leggermente la testa verso il mio maestro, “Ti ho convocato con la tua apprendista, perché ho ricevuto una notizia della massima importanza, qualcosa per cui ho assoluto bisogno di voi.”

Si schiarisce la voce, come preparandosi a dirci qualcosa di incredibilmente importante. L'atmosfera, per qualche motivo, è terribilmente pesante. Le nuvole iniziano a farsi più fitte, più scure, come una cappa nerastra che grava sulle nostre teste. Sembra esitare, indeciso sul da farsi, limitandosi a far ondeggiare e scricchiolare ritmicamente la sua sedia a dondolo, seguendo un movimento irregolare, nervoso. Qualcosa di talmente grave, di talmente segreto, che nemmeno Laurence ne è a conoscenza; qualcosa che solo noi possiamo conoscere, per la quale gli serve assolutamente il nostro aiuto.

Per qualche ragione, le parole di Caryll risuonano terribilmente nitide, ora, proprio come le avesse pronunciate ora.

Ci sarà una tempesta.

“Un Grande Essere si è spiaggiato, lontano da qui, sulla costa.”

Devo prepararmi...

“Un Grande Essere? È sicuro di quello che dice, Maestro Willem?”

“Sì… Tuttavia, Gherman, è accaduto qualcosa di terribile. Quel Grande Essere—è morto.”

“Morto?!”

...Mi spazzerà via.

“Sì. È stato ucciso, e le profondità del mare lo hanno riportato indietro. Dovete recuperarlo, immediatamente.”

Un lampo in lontananza. Il vento si alza più forte, rabbioso.

Ci sarà una tempesta.

 

Lontano, sulle coste del mare che si estende ben oltre l'orizzonte, tanto grande da far impallidire perfino il Lago della Luna, sorge un piccolo villaggio di pescatori. È un luogo come un altro, ignorato dal mondo, come i tanti agglomerati di case fatiscenti che sorgono sparse lungo la linea di pietrisco e scogli a strapiombo sulle profondità oceaniche. La sua popolazione è composta da semplici uomini, che vivono di pesca e di caccia alle balene, imbarcandosi sulle loro imponenti navi di legno e ferro, fiocine ed arpioni alla mano, andando alla caccia di bestie enormi che possano permettere loro di sopravvivere ancora un po' in quel luogo così solitario, sferzato dal vento salmastro.

La vita scorreva pacifica, quasi stagnante, senza alcuno scossone o particolare agitazione diversa dalle solite difficoltà di chi vive in un piccolo gruppetto di case legnose o in muratura, ben lontane dalla magnificenza degli edifici della grande Yharnam o dalla possanza delle spesse mura di Byrgenwerth. La loro venerazione va a sconosciuti dei del mare, che allungano la loro generosa mano quando vengono ricompensati con offerte, fornendo in cambio di libagioni, protezione e benedizione. I loro sono riti pagani, che affondano radici in una tradizione di vecchi lupi di mare e pionieri di tempi dimenticati, uomini che nel mare hanno vita, sostentamento e morte.

Quando dedichi la tua vita al mare, e ne fai la tua sposa, allora ne arrivi a conoscere i segreti; e quando passi gran parte della tua esistenza a scolarne i flutti rabbiosi, allora puoi dire che, effettivamente, sia più casa della terra.

Ma nemmeno il più abile dei marinai avrebbe potuto prevedere cosa sarebbe accaduto, in quella notte di tempesta rabbiosa, quale orribile catena di eventi avrebbero scatenato tutti loro, armandosi di catene, lance e fiocine, per abbattere il mostro che avevano osservato alzarsi dal mare gocciolante.

La notizia ci è giunta inaspettata, ci ha preso tutti alla sprovvista, ma cosa potevamo fare, se non partire immediatamente?

Ormai mesi e mesi fa, una tempesta terribile ha sconvolto i mari attorno al Villaggio dei Pescatori. I pesci morivano, di balene non ce n'era nemmeno traccia. Per quanto avessero pregato il loro dio e sacrificato tutti i loro averi, nessuno aveva risposto alla loro chiamata. Solo un orripilante mostro si era alzato dalle onde del mare, una figura pallida, cadaverica, enorme, che li aveva osservati da lontano, mentre le navi si avvicinavano a lei, brulicanti di uomini urlanti, pronti ad arpionare e massacrare quel mostro che aveva gettato una maledizione sulle loro case. Quegli ottusi marinai, sulle loro navi di legno e metallo, hanno attaccato un Grande Essere che si è rivelato a loro, dalle profondità del mare.

I flutti rabbiosi dell'oceano in tempesta li ha inghiottiti, straziati, tormentati, uccisi. La creatura ha continuato a combattere, rabbiosamente, per non cadere preda i quegli arpioni che trapassavano la sua carne. Ha combattuto con tutta la sua disperazione, mentre la tempesta, attorno, infuriava e si scatenava, rovesciando imbarcazioni e affogando tutti quegli uomini, una schiera, un esercito di invasati alla ricerca di redenzione per le loro case, per il loro Villaggio morente.

Poveri sciocchi, hanno strenuamente assaltato quell'essere divino, affondando ripetutamente le armi in lui, squarciando la sua pelle diafana, facendo schizzare sangue cremisi, tingendo il mare dello scuro rosso della morte, rendendolo torbido e maledetto. Quello scontro titanico si è protratto, finché il corpo del Grande Essere non è stato punteggiato di squarci, ferite e piaghe, finché, infine, stremato, non è crollato inerme su di loro, per ricevere l'ultimo attacco, il colpo di grazia.

Il mare si è aperto, inglobando, infine, il cadavere del Grande Essere, ucciso da meri uomini, da pescatori agguerriti e rabbiosi, per eliminare una maledizione inesistente – ed è questa la prova più grande della loro natura ultraterrena, ma non divina. I Grandi Esseri possono morire. Possono essere uccisi da mano mortale. Ma, al contrario di noi, non lasciano di certo che tutto finisca in questo modo.

Pochi giorni fa, il mare in tempesta ha depositato qualcosa, sulle spiagge di quel solitario, abbandonato Villaggio di Pescatori. Un cadavere, un gigantesco corpo senza vita, dal colore diafano, quasi trasparente, un bianco più pallido della morte stessa. E così, il Grande Essere è tornato sui loro lidi, ma questa volta, ha portato con sé una maledizione orribile.

Solo in quel momento, solo quando il peccato è stato consumato e la punizione è giunta, solo allora hanno capito quale errore irreparabile avessero compiuto.

Hanno ucciso un essere sovrannaturale, al di là del mondo, dell'umanità.

Ai loro occhi, deve essere stato un vero e proprio dio. Lo hanno pregato, ma il cadavere non ha risposto.

Dalle profondità marine, Madre Kos è tornata, per portare la sua maledizione su un Villaggio di Pescatori.

Per questo, mentre la tempesta lì fuori imperversa, siamo saliti su questa carrozza, diretti verso una cittadina fatiscente e distrutta, costruita sulle cose erose del mare, un agglomerato come un altro di casupole di legno o muratura.

Verso il Villaggio di Pescatori… E verso Madre Kos.

 

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Capitolo 5
*** V —“Curse the fiends, their children too.” ***


V —“Curse the fiends, their children too.”

 

“Eccolo… il Villaggio di Pescatori.”

Gehrman mi indica con un secco cenno del capo l'agglomerato di case su palafitte, dall'aria malandata e divorata dal mare, che sembrano a malapena reggersi in piedi. In un'insenatura direttamente sul mare, si estende il centro abitato, casupole che in lontananza non brillano nemmeno di una singola luce. L'intero luogo è avvolto nel buio, a stento illuminato dal riflesso lunare che faticosamente si fa strada tra le ultime nubi temporalesche. Mi mordo il labbro nervosamente, ma il mio mentore sembra calmo, senza nemmeno un accenno di dubbio o nervosismo, in quello che stiamo facendo.

Gli ho spiegato la situazione mentre eravamo nella carrozza che ci ha lasciati non troppo lontano dal paese, gli ho raccontato le parole gridate dalla paziente, come sembrassero perfettamente combaciare con la morte del Grande Essere chiamato Kos, quasi, in qualche modo, fosse riuscita a sentirla, ad avvertirne la morte; come se lei stessa fosse precipitata nel fondo del mare, gettata nelle profondità oscure degli abissi dove il corpo della divinità risiedeva, prima di essere portato sulla spiaggia dalla tempesta, ma nonostante ciò non si è scomposto. Mi ha semplicemente guardato negli occhi con un mezzo sogghigno, una sorta di sorriso che si riserva ai bambini troppo fantasiosi, “Limitiamoci a fare il nostro lavoro,” ha risposto, senza prestarmi troppa attenzione, “Lascia che siano Laurence e Micolash ad occuparsi di quello.”

Ma le parole della donna non vogliono abbandonarmi. Per quanto possa essere stata una coincidenza, sarebbe prendersi in giro catalogarla come tale; ogni volta che ci ripenso, un leggero brivido serpeggia sulla mia pelle, come un gelido tocco invisibile e devo chiudere gli occhi per scacciarlo. Ma Gehrman ha ragione, non possiamo permettere alla suggestione o alle parole deliranti di una paziente di ostacolarci, né agli scrupoli di porci un limite. Siamo andati troppo avanti, per abbandonare la strada che abbiamo intrapreso – se tornassimo indietro, sarebbe stato tutto un inutile spreco. Ora che la verità ci sembra così vicina, ora che un Grande Essere è alla nostra portata, non possiamo assolutamente permetterci di vacillare. O di dubitare.

Gehrman mi passa il suo cannocchiale, “Dà un'occhiata.”

Obbediente, lo porto agli occhi, puntandolo contro le casette fatiscenti, bagnate dal mare, probabilmente a causa della alta marea e della furia scatenata dalla tempesta, che ha fatto alzare il livello dell'acqua fino a lambire e quasi a sommergere molti edifici. Aggiusto il fuoco, nel tentativo di osservare il dettaglio indicatomi, sulla pallida spiaggia che, da questa distanza, è solo una striscia di sabbia biancastra. Tuttavia, seguendo il suo indice, riesco a scorgere qualcosa, una forma indefinita, come una massa mortalmente pallida, abbandonata, come una sorta di creatura marina immobile, depositata probabilmente dalla rabbia di un'onda più furiosa delle altre.

Gli getto un'occhiata, una tacita domanda alla quale risponde con un secco cenno del capo. Quello è il nostro obbiettivo, in fondo al villaggio, il cadavere del Grande Essere conosciuto come Madre Kos. Non sappiamo esattamente come verremo accolti dagli abitanti del Villaggio, o se ne siano rimasti ancora vivi. È probabile che siano tutti morti, massacrati dalla punizione divina, dal maremoto che li ha riempiti di acqua. Il mare agonizzante per la perdita della sua regina li ha distrutti.

“Sei pronta?” allunga la mano sull'arma poggiata alle spalle, l'inquietante falce contorta, forgiata per essere divisa, trasformarsi in una sciabola, quel tipo di arma che lui definisce “Trick Weapon”, facendola scattare, allungandone il manico con un secco rumore di giunture, “Non avremmo alcuna pietà, per nessuno.”

“Se qualcuno è rimasto in vita.” puntualizzo, poggiando la mano sulla Rakuyo, “Non ho visto luci o movimenti, con il cannocchiale. Possibile che il mare li abbia uccisi tutti?”

“Lo scopriremo tra poco.”

Iniziamo la discesa lungo il fianco ripido della collina, inerpicandoci giù per un sentiero serpeggiante e ghiaioso, punteggiato di rocce erose dal vento e dalle intemperie. Il tifone sembra essersi placato ed ora la cappa di nuvole nere e pesanti riposa silenziosa sulle nostre teste, piangendo, di quando in quando, qualche gelida goccia che cade senza suono attorno a noi. La notte è sinistramente silenziosa, nessun rumore sembra spezzare l'aria di sospensione, quasi di irrealtà, che ci avvolge, mentre ci avviciniamo sempre di più al Villaggio. Stiamo per incontrare un Grande Essere… o meglio, il suo cadavere. Quindi, sono creature che possono morire, non importa quanto siano potenti, magnificenti, quasi divini, rimangono pur sempre esseri mortali, che soccombono ad una flotta di pescatori, di semplici uomini armati di fiocine.

Mano a mano che la distanza diminuisce, riesco ad intravedere dei dettagli che, dalla distanza, non ero riuscita ad individuare. L'acqua salmastra sembra scura, quasi torbida, e molti edifici sono ricoperti di cirripedi e cozze, come se il mare stagnasse in questo luogo da molto tempo, ormai. Probabilmente, il cadavere è spiaggiato tempo addietro, ma la notizia è giunta alle nostre orecchie solo ora. Le notizie, dopotutto, viaggiano lentamente, in particolare se provengono da un villaggio di pescatori sperduto sulla costa e rinchiuso nel proprio piccolo, soffocante mondo.

Mi tornano in mente le giornate alla corte di Cainhurst, il tempo passato tra i soffocanti ricevimenti, una vita composta di ipocrisia e falsità, un continuo, distorto tentativo di elevare il proprio edonismo e la propria perversione, di lottare per un potere inutile, di avvicinarsi alla Regina Annalise solo per una briciola di rilevanza. Fuori dalle sontuose, ma così vuote stanze del castello, al di là delle mura innevate e delle torri barocche, fuori dal poderoso cancello che fungeva da spartiacque tra il dorato e lussuoso mondo aristocratico ed il resto della realtà, non sapevo cosa ci fosse davvero. E probabilmente, nemmeno tutti quei pomposi nobili sprezzanti ne avevano idea, esattamente come i semplici, rozzi abitanti di questo Villaggio. Il paragone mi fa sorridere amaramente, perché, alla fine, per quante arie si potessero dare, per quanta presunzione li permeasse, non c'era differenza sostanziale tra i sangue blu agghindati in abiti sontuosi e dei pescatori.

Il Villaggio non è molto esteso, per la maggior parte si tratta di ampie case di legno divorato dall'acqua marina, paludosa e torbida, che arriva fino alle caviglie, bagnando i nostri pantaloni e insinuandosi nelle scarpe, rendendo a volte difficoltoso il movimento. Non c'è nessuno ad accoglierci, nessuno che ci guarda dagli edifici, nessuno per quel che rimane delle stradine fangose. Gehrman schiocca la lingua, osservandosi cautamente attorno, probabilmente chiedendosi dove potrebbero essere tutti gli abitanti. Stringe le labbra, pensoso, osservando le scale fatiscenti, abbattute, le finestre sfondante ed i tetti crollati: tutto è in uno stato di distruzione ed abbandono che va al di là del semplice disastro naturale. È come se, dopo la marea, nessuno si sia preso la briga di ricostruire alcunché. Possibile che nessuno di loro sia sopravvissuto?

“Cosa sono quelli?”

Il mio sguardo viene catturato da una massa brulicante e biancastra, che si dimena al di sotto della superficie dell'acqua, che ricopre il legno marcito, che sguazzano tra due corpi accasciati e per metà divorati, sangue nerastro che cola dai loro corpi, la pelle raggrinzita e le bocce spalancate in un urlo silenzioso, spento nel momento del dolore. Mi piego su un corpo, girandolo a pancia in alto con un calcio deciso, che non provoca alcuna reazione negli esseri biancastri, che continuano a strisciare e contorcersi senza alcun terrore; richiamo il mio mentore con un cenno della mano, mostrandogli l'enorme quantità di quegli esseri vermiformi, vivi e proliferanti, che si accatastano sui corpi, banchettando con le loro carni, divorandone pezzo per pezzo, come farebbe un qualunque verme o parassita.

Ma non si tratta di semplici divoratori di cadaveri. Sono creature che non ho mai visto, ma che, quando stringo tra le mani, mi mandano una sensazione orribile, come se la mia mente stesse vibrando, osservando qualcosa di familiare, ma al tempo stesso lontanissimo… la stessa sensazione cosmica che ho provato stringendo tra le mani l'Augure trovato nel Labirinto di Isz.

Questi esseri parassitari, che divorano i cadaveri, sguazzando nell'acqua putrida e proliferando in enormi colonie, strisciando di rovina in rovina, aggrovigliandosi a rocce e assi … “Sono auguri di Madre Kos. O meglio, sono come parassiti.”

“Parassiti di Kos, mh?” mormora Gehrman, schiacciandone uno tra le dita, osservandone il liquido trascendentale, così simile a sangue, colare tra le sue dita, “Una punizione per il loro peccato. La maledizione di Madre Kos a questi assassini di divinità?” sogghigna, pulendo le dita sporche sulla giacca, “Decisamente adatto, non trovi?”

Continuiamo a proseguire guardinghi, ora più all'erta di prima, in attesa di un pericolo imminente. Qualunque cosa questi Parassiti di Kos facciano, agli organismi ospitanti, è sufficiente a prepararmi ad uno scontro. È meglio temere l'ignoto, piuttosto che caderne preda a causa di eccessiva temerarietà – sopratutto quando si tratta di creature ostili e maledette. I resti degli edifici tutt'attorno sono solo l'ennesima conferma dell'orribile fato degli abitanti, che hanno abbandonato ogni sentore di umanità, trasformandosi in qualcos'altro. Non c'è dubbio che la maledizione li abbia colpiti, li abbia mutati.

La conferma arriva un attimo dopo, quando, rannicchiati dietro ai resti di un muro collassato, osserviamo un folto gruppo di abomini piangere ed ululare al cielo, disperati, contorcendosi nel dolore. In loro c'è ancora qualche caratteristica umana, ma è talmente flebile che fatico a trovarne; il parassita, attorcigliandosi attorno a loro, li ha mutati in ributtanti creature marine, ricolme di squame e cirripedi che succhiano il loro sangue, aggrappandosi alla pelle marcita e grondante. I loro occhi, acquosi e nerastri, sembrano quasi ciechi, e riescono a malapena a vedere dove camminano, reggendo tra le mani dalle dita affilate, quasi artigliate, spaccate e piagate, rudimentali fiocine arrugginite e sporche di sangue rappreso.

Si lamentano, invocando un nome con voce gutturale, quasi indistinguibile, che tuttavia, ha ancora un vago sentore umano. Gehrman li indica, raggruppati attorno ad un pozzo, a rotolarsi nell'acqua, divorati dai Parassiti che strisciano sui loro corpi, nelle loro bocche, senza che loro possano ribellarsi, ma solo grattarsi, contorcersi, divorati da quegli esseri sovrannaturali, figli di un Grande Essere che hanno massacrato, pieni della loro ignoranza, della loro stupidità.

“Sono stati toccati da un Grande Essere.” si alza in piedi, iniziando a camminare, lentamente, verso di loro, la falce poggiata contro la schiena, pronta a stracciare le loro carni, ad abbeverarsi del loro malato sangue, “Non ci faranno passare.”

“Dobbiamo ucciderli?”

Mi lancia uno sguardo gelido, completamente privo di umana compassione, scevro da ogni dubbio, “Non possiamo fermarci, Maria. La Verità Ultraterrena è vicina. Quelli non sono più esseri umani...” mi poggia una mano sulla testa, come a volermi calmare, a volermi sostenere, con fare quasi paterno, “Sono bestie. Mostri che soffrono, condannati dalla loro stessa brutale stupidità. Ucciderli è un atto di pietà.”

Non possiamo fermarci ora. Ci sono sacrifici che vanno compiuti e questi pescatori maledetti non sono altro che creature mutate, non più umani; com'è possibile, dopotutto, che un essere umano possieda una forma tanto rivoltante e bestiale?

Non sprecheremo tutte le vite che abbiamo spento. Non smetteremo di cercare la Verità. Questa è al cosa giusta da fare…

Vero?

Avanziamo lentamente, senza farci prendere dalla fretta, passo dopo passo, le armi già pronte a mieterli, a fare strage di questi goffi ibridi, che ci osservano con attenzione, gli occhi quasi ciechi, mentre ci avviciniamo a loro. Le loro fiocine si puntano contro di noi, fendendo l'aria con fare minaccioso, una sorta di avvertimento, un gemito indecifrabile che emerge dalle loro gole divorate dai Parassiti di Kos. Che esseri ripugnanti, deviati… La stupidità è stata la loro rovina. Non avevano Occhi per vedere, per comprendere quello che stavano facendo.

Ha ragione Gehrman, ucciderli è un atto di pietà. Nulla più che un atto di pietà.

“KOOOOOOO—” l'urlo che fuoriesce dalla gola del primo, che si getta in avanti con la lancia pronta a colpire, si interrompe bruscamente quando viene lacerato da un colpo secco della Lama della Sepoltura. Un fiotto di sangue sprizza in aria, insieme ad una cascata di Parassiti che fuoriescono dalle sue carni straziate, torcendosi nel dolore. Lo stivale di Gehrman li schiaccia, con nulla più che il rumore dell'acqua infranta.

Esitano, indietreggiando di un passo, osservandoci mentre, come segugi, ci avventiamo su di loro. Troppo veloci, troppo letali, non importa quanto maldestramente attacchino, quanto debolmente tentino di difendersi, è facile scivolare sotto la loro guardia, per farli a pezzi, tranciarli, strapparli, epurarli, liberarli. La Rakuyo affonda, ancora ed ancora, con eleganza e precisione, in una mortale danza di acciaio, arabeschi di morte tracciati dalla spada e dal pugnale, facendone a pezzi uno, due, tre. Le loro urla sono terribilmente umane. Qualcuno, più cosciente degli altri, implora pietà, ululando, il volto distorto che tenta di assumere un'espressione disperata.

Ma che pietà possono volere, abomini come voi?

Solo un'onesta morte.

Alcuni appaiono più umani di altri. Alcuni non sono ancora sufficientemente infettati per risultare come mostri. Ma non posso esitare, non posso fermarmi, nemmeno quando le lacrime rigano le loro guance, quando chiedono di essere risparmiati, quando squarcio le loro gole e strappo le loro teste, piegandomi su di esse per aprirle, scavare al loro interno con il coltello, spaccandone le ossa fino a raggiungere il cervello, alla ricerca di Occhi.

Nessuno di loro ne possiede, nessuno di loro, toccato dal Parassita, sembra essere più che un essere umano. È un processo meccanico, quello della strage e della ricerca. Gehrman si dirige verso una casa, sfonda la porta con un calcio, avventandosi contro coloro che sono rannicchiati al suo interno, tremanti contro una parete, che si lamentano sdraiati su cumuli di spazzatura, sdraiati tra le rovine delle loro case. Qualcuno tenta di difendersi, stringono rastrelli, coltellacci, oggetti per la pesca o per l'uso quotidiano, perfino delle forchette, ma non sono un problema, perché la loro carne si taglia e lacera come qualsiasi altra. Di fronte alle creature dei Labirinti, questi ululanti, indifesi non sono nulla.

Trapasso uno di loro, esattamente al centro del petto, lacero la sua testa, cerco al suo interno, ma non trovo Occhi. Non ce ne sono, non importa quanti ne cerchiamo, ma non è un lavoro che possiamo trascurare – perché, non c'è dubbio, qualcuno di loro deve averne.

Due, tre, quattro, accatastati uno sopra all'altro. Nessuno di loro.

“Prendi quella a destra,” mi ordina, seccamente, prima di scivolare nell'edifico accanto, lasciandomi di fronte ad una porta socchiusa, una casa relativamente intera, che l'acqua ha invaso ma non ha distrutto.

Spingo delicatamente l'uscio, l'interno è fiocamente illuminato da un'unica lanternina appoggiata su un tavolo ricolmo di cibo marcito, di piatti spaccati, di sedie scagliate a terra. Pile e pile di stracci e spazzatura sono accatastate negli angoli, forse brandine riempitesi di sporcizia. Un forte odore di corpo marcente riempie le mie narici, come un pugno allo stomaco; non si tratta solo di pesce, no, è carne umana, carne divorata dalla corruzione del tempo, dell'acqua fangosa.

Alle mie orecchie arriva un singhiozzo sommesso, una voce spezzata che sussurra qualcosa, una sorta di preghiera a bassa voce, una supplica angosciante. Prendo in mano la lanterna, tenendola bene in alto, dove la luce pallida possa fendere le tenebre, rivelando lo sfacelo della stanza, poco meno di una discarica… e sopratutto, uno di quegli esseri inginocchiati accanto al letto.

Come altri, non è abbastanza mutato da essere del tutto mostruoso, ma conserva ancora qualche tratto umano distinguibile, nonostante il suo volto sia deformato e ricoperto di cirripedi e altri parassiti marini. Una delle sue cavità orbitali è vuota, dalla quale un Parassita di Kos si agita, prima di sparire nuovamente al suo interno. Arrivo al suo fianco, illuminando con la luce esitante e stanca del lume la cosa sul quale è piegato.

Poggiati sul letto, ci sono due corpi, irriconoscibili dagli altri, mutati come innumerevoli altre creature che ho massacrato; ma lui, piange disperato sui corpi scannati, stringendoli al petto, scuotendoli, come a volerli svegliare, sussurrando frasi mostruose ed incomprensibili, un gorgoglio che non sembra avere nulla di umano. Eppure, nonostante questo, disperato, è lì che stringe i corpi mutilati, ululando di dolore.

Due abomini che abbiamo massacrato fuori, che ha trascinato all'interno, come in un folle tentativo di proteggerli. Ma ormai, sono morti. Ormai, ho strappato la loro vita, com'era giusto che facessi…

“MA...LED...TITUTT...MOS...VI PR...SVEGL...TE...” la sua testa crolla sul petto di uno delle creature. Con disperazione, con un grido pieno di dolore assoluto, di dolore terribilmente umano, stringe la testa di uno di loro, aperta, scavata orribilmente alla ricerca di Occhi, al suo petto.

Congelata, rimango ad osservare quella scena ripugnante.

Non è possibile…

Perché?

Perché?

Perché?

—Sono solo abomini. Non possiamo fermarci ora, non posso gettare tutto alle ortiche, non ora. La Verità, così vicina, non posso lasciarla sfuggire. Cosa sono questi rimorsi, ora? Cos'è questo senso di colpa? Ne abbiamo uccisi tanti, sperimentando, nei laboratori. Stringo i denti.

La Verità… è troppo grande per abbandonarla ora.

Con uno strano disgusto nello stomaco, trapasso la sua testa, da parte a parte, spaccando in due il cranio. Non mi do la pena di cercare Occhi. L'idea mi dà la nausea.

Prima di uscire, getto un ultimo sguardo a quei corpi.

“Dannazione.”

Sbatto la porta, lasciandomi alle spalle quella scena orripilante. Gehrman mi aspetta poggiato contro la bocca del pozzo, la Lama della Sepoltura ancora grondante di umori, le mani ancora sporche di liquido cerebrale, segno dell'ennesima ricerca in qualche cranio. Mi porto una mano al viso, nascondendo un improvviso conato di vomito, reprimendolo nel fondo del mio stomaco, ma non credo di averlo ingannato. Nessuno mi conosce meglio di lui.

“Stai bene, Maria?”

“Sì.” rispondo, senza guardarlo in viso, tenendo lo sguardo basso.

Mi stringe la spalla, una presa gentile, ma sicura, un blando tentativo di sorreggermi, “Lo facciamo per un bene superiore. Per la nostra Verità Ultraterrena, per l'evoluzione dell'uomo. L'evoluzione senza coraggio sarebbe solo un fallimento.”

“Lo so.” stringo la Rakuyo, mordendomi il labbro, “Non possiamo fermarci ora.”

Dietro di noi, lasciamo solo i resti di un Villaggio di Pescatori massacrato, distrutto dal mare, dai Parassiti, dall'ira di Madre Kos.

Kos è abbandonata, penosamente, sulla spiaggia, una enorme figura biancastra, più pallida della morte, il corpo straziato da innumerevoli arpioni, ancore, fiocine, che trapassano la carne, aprendosi una via attraverso il suo corpo. Gli squarci sparsi per tutto il suo corpo gelatinoso e senza vita sono le ultime testimonianze del sacrilegio compiuto da questi stessi che ora la pregano, disperati, piangendo. Una schiera di tritoni, dal corpo squamoso e fragile, con code posticce e mal sviluppate che si allungano dal bacino, stanno in preghiera, inginocchiati a rispettosa distanza dal cadavere emettono un basso mormorio, indistinguibile, come se alzassero una supplica straziante in una lingua diversa, superiore alla nostra, comprensibile solo a quel Grande Essere che hanno spento rabbiosamente. Pentiti, piangenti, si sono resi conto del loro errore, hanno capito di aver commesso uno dei più grandi peccati che si possano concepire – Deicidio. L'assassino di una divinità, di un essere superiore, di colei che dormiva nel profondo del mare.

Uno dopo l'altro, uccidiamo anche loro. Li falcidiamo, senza che emettano rumore o smettano di pregare; ignorano la morte che li circonda, finché non piomba su di loro, completamente assorbiti dal pianto per quella salma riportata dal mare, il mare che li nutre, il mare che è la loro casa. Il mare che hanno offeso.

“Non ci credo...” sussurro, il respiro che sembra quasi spegnersi, a quella visione ultraterrena, “Questo è… un Grande Essere.”

Osservarne uno direttamente è qualcosa che ferisce. Perfino noi, abituati ormai a lavorare attorno a questa Verità Ultraterrena, a scrutare nel suo ventre, a toccare il Sangue Antico, i Fantasmi, i resti Phtumeriani, sentiamo la nostra mente urlare per un secondo, minacciare di spaccarsi, infrangersi. I nostri Occhi non sono ancora sufficienti, la nostra carne è troppo debole, la nostra mente troppo limitata. Solo la volontà ci sorregge, ci impedisce di andare in pezzi, di fronte a quel corpo esanime, enorme, orribilmente allungato e sdraiato, gentilmente poggiato dalla corrente marina, orribilmente profanato. Il suo viso, parzialmente quasi umano, non sembra avere un'espressione, semplicemente è neutro, privo di emozioni… O forse, è la nostra cecità ad impedirci di osservarle.

Ci avviciniamo, in religioso silenzio, solo il rumore dei nostri passi sulla sabbia, sotto una enorme luna spuntata attraverso le nuvole, a guidare i nostri piedi verso il Grande Essere che abbiamo cercato tanto a lungo, verso uno di coloro che sono al di sopra di noi, verso Madre Kos. Morta, uccisa da semplici esseri umani.

L'intera scena sembra quasi strapparmi il cuore dal petto. Una sorta di profonda tristezza, di dolce malinconia, nell'osservare il corpo gelido di Kos, si deposita sulle mie spalle, come una cappa pesante, schiacciante. Alcuni Parassiti strisciano fuori dalla carcassa, stanchi, morenti, come se privi di una motivazione di rimanere in vita, ora che nessuno è più maledetto, ora il che il Villaggio dei Pescatori è vuoto. Non è rimasta anima viva, se non noi.

“Maria… Guarda.” Gehrman, piegatosi sul corpo di Kos, indica con volto, per la prima volta, stupefatto, qualcosa che non riesco a vedere. Qualcosa sul corpo, una sorta di rigonfiamento, di grossa sacca, quasi pulsante, che sotto al mio esitante tocco, sotto alle mie dita tremanti—No, non è possibile.

Possibile..?

Ci scambiamo uno sguardo di intesa, di meraviglia, di infinita sorpresa.

Kos… era incinta. Prima di morire, portava un bambino nel suo grembo. Il feto di un Grande Essere che vive ancora, lì dentro, anche se la sua amata madre è morta, assassinata.

Per quanto sopravviverà? Credevamo che i Grandi Antichi non potessero riprodursi. Credevamo perdessero il loro figlio. Potrebbe morire da un momento all'altro. Potrebbe spegnersi nel momento in cui vedrebbe la luna. Potrebbe perfino non uscire mai dal grembo materno.

“—Facciamolo.”

Una sensazione di nausea orribile sale dal mio stomaco, fino alla mia gola, pungente. Il rigetto, la consapevolezza di ciò che stiamo per fare.

Stiamo per compiere il peggiore dei peccati che esistano a questo mondo, il più orribile che l'uomo concepisca. Gehrman stringe la Lama della Sepoltura, avvicinandola al ventre pulsante della defunta Kos.

Uno sguardo è quello che ci serve.

Il taglio è preciso, netto, e il liquido argenteo, quasi trasparente, che fuoriesce non è sangue, ma qualcosa di diverso, che bagna il terreno, le nostre mani, rovesciandosi al di fuori del suo corpo che va perdendo anche l'ultima scintilla di vita – quella del figlio che portava in sé.

Il corpo dell'Orfano di Kos è osceno, deformato, eppure molto più alto di un essere umano. Il suo viso è sformato, la pelle grinzosa, che al tatto sembra quasi deformarsi e piagarsi. Si contorce, senza rumore, preso dagli spasmi di una nascita così brutale, di una vita così breve, mentre i suoi occhi scuri, che ancora non distinguono il mondo, si puntano istintivamente verso il mare, verso la luna che ci osserva, indifferente, mentre ci prepariamo a commettere l'atrocità.

Mentre è a terra che geme e rantola, preparo l'arma a strapparlo dal cadavere di Kos. Un colpo di Rakuyo recide il cordone ombelicale, in uno sprizzo di sangue trasparente, lasciando che quel pezzo di carne nerastro ed inerme cada a terra, prima che Gehrman lo raccolga prontamente. Stringendone tra le mani, si può ancora sentire il vago sentore di vita che lo permea, strappandogli un profondo sospiro.

Siamo pronti a fare quel che è necessario, con le armi già strette tra le dita, mentre quel figlio morente spalanca la bocca malformata in un gemito silenzioso, un richiamo ad una madre che non può rispondere. È nato completamente solo, a questo mondo. È nato per morire, per osservare la luna, il mare da cui proviene, e poi sparire, incapace di invecchiare, di vivere.

È il nostro compito, dopotutto, quello di spegnere la sua vita, in nome della Verità che perseguiamo. Delle vite bruciate per essa.

Ci pieghiamo sull'Orfano, le lame poggiate sul suo collo.

Un solo taglio è sufficiente.

Un urlo disumano, antico quanto il mare, quanto il cosmo, risuona potente nelle nostre menti, nelle profondità, negli abissi dell'oceano, scuotendolo profondamente, un grido di dolore, di un bambino che è stato ucciso ancor prima di poter aprire gli occhi.

Il grido di chi accusa i suoi uccisori.

Il grido di chi maledice un assassino.

—Abbiamo commesso il più grave dei peccati. Abbiamo ucciso un Grande Essere, un dio.

Deicidio.

E una maledizione ricade su di noi, ululata da mille voci, ed una sola, da gutturali cori disumani, simili a quelli di un bambino morente, di un Grande Essere ucciso.

Mentre lasciamo il Villaggio di Pescatori con il corpo, posso sentire quella maledizione cadermi addosso, scolpirsi nella mia mente, perseguitarmi come un fantasma, mandarmi brividi lungo tutto il corpo.

 

Ancora oggi, ricordo perfettamente quelle parole.

Le parole della nostra maledizione.

È stato da quel giorno… che abbiamo iniziato a bruciare.

Siamo stati maledetti—

Perché abbiamo peccato.

 

“Siano maledetti i mostri, ed i loro figli, ed i figli dei loro figli… Per sempre.”

 

 

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Capitolo 6
*** VI — What we left untold. ***


VI —What we left untold.”

 

Byrgenwerth era così silenziosa, nel cuore della notte, senza nemmeno una luce ad illuminarne pallidamente le stanze, da apparire come un antico reliquiario abbandonato a se stesso, lasciato a marcire. Si specchiava sul grande lago che si estende a perdita d'occhio, fino a sfiorare l'orizzonte tenuemente rischiarato dal riflesso lunare, in quella sera così limpida e tranquilla, priva della tempesta che aveva fatto scoccare in me una scintilla di terrore.

Mastro Willem ci aveva atteso pazientemente sul balcone, sospirando il nostro ritorno insieme a Micolash e Laurence, decisamente più trepidanti di lui, a malapena incapaci di trattenere la loro eccitazione. È stato proprio Micolash che ci ha accolto alle porte della biblioteca, con gli occhi sbarrati, nell'osservare il corpo in posizione fetale che trasportavamo avvolto nel mantello di Gehrman, e di cui si intravedeva a malapena la sagoma umanoide attraverso il tessuto. Non riuscì nemmeno a balbettare le parole necessarie a chiedere una qualche spiegazione, allungò semplicemente una mano a sfiorare il cadavere esanime, quel feto privato della vita che riposava tra le braccia del Maestro. Laurence, alle sue spalle, si passò una mano sul viso, incredulo, di fronte a quell'essere di cui intravedeva a malapena i lineamenti, le braccia contorte, il corpo gracile, tremolante. L'Orfano della Madre Kos era giunto a Byrgenwerth, tra le nostre braccia.

Quella notte, avrebbe segnato la discesa nel morboso, ripugnante inferno che avremmo costruito e sorretto nel nome della Verità Ultraterrena, dello scopo ultimo che ci eravamo dati. Sentivo già un peso sulle mie spalle, invisibile, ma che lacerava il mio petto – il peso dell'orribile massacro che avevamo compiuto.

Ho abbandonato la mia arma. Ho gettato via la Rakuyo. La sua vista mi disgustava troppo, mi ricordava, in modo fin troppo ripugnante, tutto il sangue versato, le vicende di quella notte che hanno portato alla nostra definitiva caduta.

Perfino ora, che ripercorro con la memoria quei momenti, qualcosa in me sia gita, un istinto che non riesco del tutto a reprimere, un senso divorante di pentimento per ciò che abbiamo compiuto. Se solo lo avessi ascoltato prima, se solo avessi compreso appieno quel che stavamo facendo, forse ora sarebbe tutto diverso.

Portammo il corpo a Mastro Willem e a Caryll, che attendevano sul balcone, senza una parola, in religioso silenzio. Sono sicura che Caryll avesse già capito tutto, in un certo senso, che già sapesse della maledizione e del deicidio che avevamo compiuto; se poteva udire i sussurri degli Antichi, allora sicuramente aveva sentito l'ultimo, lacerante grido dell'Orfano di Kos, mentre lo estirpavamo dal ventre della madre, spegnendo quella scintilla di vita che era germogliata in lui per un solo istante.

Quella fu la notte che segnò la definitiva frattura tra di noi. Le nostre ideologie erano troppo diverse e tra Laurence e Willem si stava creando un abisso che non poteva più essere colmato; non c'era modo, dopotutto, di conciliare due visioni estremamente diverse come le nostre. Eravamo sicuri che fosse il Sangue la via verso l'evoluzione, non quegli occhi che Mastro Willem continuava a predicare.

Laurence, Micolash e Willem sezionarono il corpo dell'Orfano. Ad oggi, non so cosa abbiano compreso, cosa abbiano trovato al suo interno, se non quello strano, ripugnante Cordone Ombelicale nero e contorto, secco, ma che in qualche modo, ancora pulsava di una conoscenza ancestrale, che fece contorcere le nostre menti al tocco.

L'alba non era ancora sorta, quando ci radunammo attorno alla grande tavola in cui avevamo tenuto le nostre discussioni, in passato, e dove scoppiò l'ultima, feroce lite, che segnò il punto di non ritorno, lo scisma che ci avrebbe condotto lontano, a dire addio a Byrgenwerth, al lago, a quel luogo che era stato casa nostra così a lungo.

“L'umanità ha bisogno del Sangue Antico, di quello dei Grandi Esseri per riuscire a progredire!” la voce di Laurence era intrisa di collera, mentre batteva il pugno sul legno levigato, facendo tremare il tavolo e producendo un sordo tonfo, soffocato dalle sue parole irose, “Il Sangue ci ha portato ai Grandi Esseri!”

“Hai visto i suoi effetti, Laurence...” il tono di Willem era, al contrario, abbastana placido da innervosire ancora di più il suo interlocutore, “Hai visto come distrugge la mente ed il corpo. Non è ciò di cui abbiamo bisogno.”

“L'evoluzione senza sacrificio non porterà da nessuna parte. Lo hai detto tu stesso!”

Ignorando la risposta brusca del suo allievo, spostò lo sguardo su di noi, su di me, su Micolash, su Gehrman, e strinse le labbra, come se avesse solo in quel momento capito come stavano davvero le cose. “Voi la pensate come lui, non è così?”

Non ricordo cosa risposero gli altri, ma io, seppur il germoglio del dubbio stesse affondando le radici dentro il mio petto, annuii. In qualche modo, ero ancora convinta di potermi redimere, se solo avessi conseguito la Verità Ultraterrena. Ero convinta che avrebbe cancellato tutte le mie colpe, purgato le mie mani del sangue che le lordavano.

Ero un'illusa che cercava disperatamente assoluzione.

“Capisco. È così, quindi—” mugugnò tra sé Willem, carezzando distrattamente l'asta del suo lungo scettro, il simbolo della sua supremazia, della sua conoscenza, “E non c'è modo di giungere ad un compromesso.”

“Lo abbiamo fatto fin troppe volte. Ora basta, Maestro.” Laurence abbassò il capo, in segno di rispetto. Dopotutto, per quanto le nostre idee divergessero, per quanto il solco spalancatosi fosse un baratro insormontabile, in noi era ancora viva la stima per la conoscenza che egli aveva diligentemente raccolto e donato a tutti noi. Nonostante tutto, sarebbe rimasto sempre il nostro maestro.

Quella fu l'ultima volta in cui vidi Mastro Willem e Caryll. E furono proprio le parole della maestra delle rune a lasciarmi un brivido gelido sulla schiena, che rimase a tormentarmi per molto tempo, un memento sinistro, che accompagna, anche ora, la maledizione di Kos.

“Siete nell'occhio del ciclone. Ne verrete distrutti.”

Fece una pausa.

“Finiremo tutti in cenere.”

Il giorno seguente, eravamo pronti a partire. Laurence aveva già preparato tutto nei minimi dettagli, pronto alla scissione che ormai gravava su di noi come una minaccia costante. Lo attendevamo fuori dalle porte di Byrgenwerth, prima ancora che le luci dell'alba si innalzassero a tingere il Lago delle milioni di sfumature di blu che ricordo ancora a memoria.

Come suo primo e migliore allievo, aveva sentito il bisogno di andare a porgergli un ultimo saluto. Un saluto che ebbe un segno profondo, su di lui. Era pallido, quando si chiuse alle spalle il grande portone della scuola. Ma non si voltò nemmeno un istante. Lo sentimmo solo sussurrare, in poco più di un respiro, che non avrebbe dimenticato. Che non avrebbe mai cancellato dalla sua mente quell'avvertimento. Senza bisogno di chiedere, sapevamo già tutti di cosa stesse parlando.

“Siamo nati dal sangue, resi uomini dal sangue, disfatti dal sangue. I nostri Occhi devono ancora aprirsi… Temi il Sangue Antico.”

Lo ripeté un'ultima volta e noi, in religioso rispetto, gli facemmo eco. Quello era il più grande, il più prezioso insegnamento che ci aveva lasciato il nostro maestro, prima che lo abbandonassimo.

Se solo lo avessimo seguito...

E così, abbandonammo per sempre quella che era stata la nostra casa e ci dirigemmo verso la città che si erge, imponente, al di là dei boschi.

Yharnam ci attendeva. Ma nessuno di noi ne era felice.

Tutti avevamo lasciato qualcosa di nostro, a Byrgenwerth.

E, in fondo, sapevamo bene che, come aveva detto Caryll...

Saremmo finiti tutti in cenere.

Qualunque sia il marchio che bruci la nostra anima, scorra nel nostro sangue, ci ha portato alla rovina che avevamo solo intravisto. Accecati dalla grandezza della nostra scoperta, così vicini al reame delle creature divine che risiedono nei piani astrali, che scivolano nei nostri sogni e si nutrono dei nostri incubi, non avevamo nemmeno pensato, nemmeno per un secondo, al peccato che stavamo commettendo.

Uccidere un dio, il più grande crimine che l'uomo possa arrogarsi. Profanare il cadavere di un Grande Essere abbandonato, scavarne nella carne molle e putrescente, per violentarlo ancora, strappando quel bambino cresciuto nel suo ventre. Soffocandone, in ultimo, i suoi respiri, ancora prima che potesse capire di essere nato.

Solo dopo, abbiamo capito che ogni Grande Essere perde il suo bambino e che cerca disperatamente un suo surrogato. Solo dopo, abbiamo compreso appieno di aver infranto un ciclo che trascende la natura, qualcosa di cosmico ed insondabile per noi che siamo sul piano più basso. Solo dopo, quando abbiamo gettato una maledizione orribile su noi stessi, sul mondo stesso, abbiamo vagamente compreso quale follia ci abbia mosso fin dal principio.

Studiamo la storia per comprendere gli errori di chi ci ha preceduto. Le città pthumeriane cadute, le catacombe vuote, abbandonate, tutte quelle rovine lasciate a marcire distanti dall'occhio umano, avrebbero dovuto farci capire verso quali lidi ci stavamo dirigendo. In realtà, credo che tutti, dentro di noi, nella nostra coscienza più profonda, che non comprendiamo del tutto ma che è nostro istinto primordiale, sapevamo cosa stava per accaderci. Ma abbiamo represso ogni rimorso, ogni dubbio, nel nome della Verità Ultraterrena, perché convinti di aver intravisto, per un singolo istante, un modo per trascendere la nostra puerile umanità.

—Eravamo così convinti di poter progredire abbeverandoci di sangue mostruoso, da non farci alcuno scrupolo. Uccidere, ingannare, profanare e tradire; sperimentare, massacrare, violare, ogni cosa ha avuto la sua giustificazione. Ma nessuno di noi ha mai avuto il coraggio di ammetterlo, nemmeno per un secondo. Siamo rimasti silenziosi e abbiamo lasciato la cosa più importante non detta.

In fondo, sono sicura che tutti sentivamo che stessimo commettendo un grosso errore.

Il peso della mia colpa mi stava schiacciando.

Mi guardavo allo specchio e mi chiedevo—Ero davvero io Maria? Quel viso pallido, dagli occhi così chiari da sembrare vuoti, costantemente animati da un'ombra di malinconia e dubbio, erano ancora i miei?

Ero ancora un essere umano, o ero un mostro?

“Siano maledetti i mostri, ed i loro figli, ed i figli dei loro figli… Per sempre.”

Quella maledizione risuona ancora nelle mie orecchie, quando lascio che i miei pensieri seguano il loro corso, privi di alcun controllo. Quando siedo nella Torre dell'Orologio, ad osservare la città sotto di me, al tramonto del sole rossastro che, esausto, lascia il posto alla luna; quando cammino per i grandi corridoi, per le scale, per le stanze del Centro Ricerche e loro gridano il mio nome, mi implorano, mi chiedono scusa; quando sono sdraiata nel mio letto, lo sguardo vitreo e l'oscurità che nasconde il mondo intorno, nella vana speranza di darmi sollievo.

Ogni volta, qualcosa in me freme. Ogni volta, ricordo il massacro che abbiamo compiuto, le loro grida disperate, le loro preghiere. Ogni volta, i volti sfigurati dei pazienti che si dimenano e supplicano il mio perdono, suonano come una canzone ripugnante, che racconta tutti i miei peccati.

Non sono più sicura di ciò che stiamo facendo, non lo sono da molto tempo. La fede assoluta che ho avuto nella nostra causa per così tanto tempo, si sta lentamente spegnendo, divenendo sempre più pallida, più flebile.

Senza la Rakuyo tra le mie mani, ho smesso di cacciare le belve ripugnanti che noi stessi abbiamo creato. Gehrman continua a muoversi nell'ombra, ad eliminare le prove, per tenere buona la popolazione di Yharnam, in modo che la nostra Chiesa della Cura non debba rispondere dei suoi crimini. Laurence è terribilmente determinato a continuare, nonostante tutto. Non gli interessa quale sia il prezzo da pagare, perché è convinto che il risultato sarà il bene di tutti, che basterà a ripulirlo dalle disgustose azioni di cui si sta macchiando, direttamente ed indirettamente.

I nostri esperimenti sono solo orribili torture, innominabili e ripugnanti abbastanza da renderci più mostri di quelli che creiamo. Noi agiamo consapevolmente, non corrotti da nulla, se non dalla nostra stessa ambizione. Ma la mia determinazione vacilla.

Ho paura che sia troppo tardi. Ho paura di non poter più tornare indietro.

Siano maledetti i mostri...

Noi siamo i mostri, vero?

—Cosa abbiamo fatto?

Ci sono molte cose che non abbiamo mai detto.

Ci sono molte cose che io non ho mai detto, nemmeno in questo mio estremo momento.

Ci sono segreti che vanno lasciati dormire, lontani dal resto del mondo. Se solo lo avessi capito prima...

L'orologio della Torre Astrale batte un ultimo rintocco.

Mi siedo, le gambe accavallate, lo sguardo vitreo che scorre su Yharnam, sotto di me. Mi sembra quasi di poter vedere Byrgenwerth, in lontananza.

Abbiamo commesso tanti peccati inconfessabili.

Per questo, ho capito che non c'è dubbio. Il nostro destino era segnato. Questa è la punizione per quelli come noi, che hanno voluto giocare con gli dei.

Aveva ragione Caryll.

 

Eravamo destinati a bruciare fin dal principio.

 

Scholars of the Old Blood — End.

 

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