Amori oscuri

di belle_delamb
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Mi concedi un ballo? ***
Capitolo 2: *** Gelosia ***
Capitolo 3: *** Antichi rancori ***
Capitolo 4: *** L'uomo dei sogni ***
Capitolo 5: *** Dark Shade ***
Capitolo 6: *** Il dottor Watson ***
Capitolo 7: *** La musa ***
Capitolo 8: *** A.A.A. cercasi psicoanalista ***



Capitolo 1
*** Mi concedi un ballo? ***


Christine era innamoratissima. In casa se n’erano accorti tutti, sia il padre sempre distratto, sia la madre perennemente preoccupata, addirittura il fratellino che passava tutto il giorno chiuso in stanza a giocare ai videogiochi. Impossibile non riconoscere i sintomi dell’amore. Testa sempre tra le nuvole, quel perenne sguardo sognante e quel camminare a mezz’aria.
-Nostra figlia cresce- diceva la madre, guardandola con inquietudine.
-Vorrei proprio vedere il tipo che le ha rubato il cuore- borbottava il padre.
-Passerà- rispondeva il fratellino –è solo un’infatuazione-
Christine salutò tutti con un gesto della mano prima di correre fuori, svolazzante. Le pareva di vedere tutto il mondo di un rosa shock tanto era forte il sentimento che le opprimeva il cuore. Il suo amore si chiamava Kevin ed era a capo della squadra di basket della scuola. Capelli biondi come l’oro e muscoli scolpiti nella roccia. Christine, cheerleader, lo vedeva sempre agli allenamenti e ogni volta era invasa dalla stessa folle euforia che la metteva di ottimo umore e la spingeva a fare acrobazie di ogni tipo. Quel pomeriggio aveva indossato l’abito più bello e si era diretta con un’idea in testa. Voleva chiedergli di accompagnarla al ballo di fine anno. Già si vedeva in mezzo alla sala abbracciata a lui, il vestitino blu a palloncino che era andata comprare giusto il giorno prima, i capelli biondi sciolti, i tacchi a spillo e lui … oh, quelle braccia forti e quel sorriso sicuro. Non avrebbe desiderato altro che essere baciata da quelle labbra. Entrò in palestra persa nei propri pensieri. Era ancora presto, mancava mezz’ora agli allenamenti per cui si diresse allo spogliatoio. E fu proprio quando fu dentro che sentì dei gemiti. Una delle ragazze l’aveva scelto come luogo d’amore? Stava quasi per uscire, troppo persa in sé stessa per disturbare una delle sue compagne di disavventure, quando riconobbe una voce.
-Sei bellissima, Mary -
Ci fu un attimo di negazione da parte di Christine. No, non poteva trattarsi della voce amata, ma ben presto ebbe la triste conferma.
-Non adularmi, Kevin – e poi un altro gemito.
Se il mondo in quel momento le fosse crollato addosso Christine avrebbe reagito meglio. Frastornata uscì e andò a sedersi su una delle panche della palestra, cercando di mettere ordine nella sua esistenza. Cosa poteva fare ora che la sua vita era andata in mille pezzi? Non era neppure certa di avere ancora il cuore nel petto, forse era andato in mille pezzi dopo ciò che aveva visto. Sospirò stancamente e restò in attesa di qualcosa. Infine, non arrivando nulla, si diresse verso casa e disse alle compagne che incrociava per strada che non si sentiva bene. Arrivata in camera si gettò sul letto e scoppiò in lacrime. Solo quando si fu calmata decise che non l’avrebbe proprio fatta passare a quel ragazzo e alla sua bella, dopotutto non era vissuta quattrocento anni senza imparare nulla sulla vita.

La prima cosa che fece fu dirigersi ad Avalon, terra in cui era nata. Non aveva proprio un piano in mente, ma sapeva a chi doveva rivolgersi affinché la vendetta andasse a buon fine. Si recò da Jane, sua vecchia amica e grande conoscitrice delle arti magiche.
-Carissima!- esclamò questa correndole incontro e abbracciandola con forza –a cosa devo questa visita? Pensavo che non avresti più lasciato il mondo mortale da quando ti sei trasferita lì con la tua famiglia-
-Ho bisogno di una mano- disse Christine, diretta, e rapida spiegò la situazione in cui si trovava.
Jane si mostrò subito scandalizzata. Come poteva un mortale rifiutare una figlia di Avalon? Non avrebbe mai potuto ricevere onore più grande del suo amore. –Ho proprio quello che fa per te- disse –non è una polvere fatata normale quella che ti voglio consegnare, ma una nuova formula appena uscita da palazzo reale-
-Dammela-
Jane sorrise. –Prima però devo invitarti alla prudenza, è molto potente e distorce la realtà del mortale con cui va a contatto-
-Allora è proprio quella che fa per me- esclamò Christine. Forse non avrebbe dovuto rinunciare del tutto alla sua infatuazione per Kevin.

Giunto il giorno del ballo Christine si preparò con grande cura. Scelse il suo abito più bello, di un rosa intenso, quasi fucsia, così che potesse nascondere eventuali macchie vermiglie, si sistemò i capelli dorati in uno chignon, lasciando scendere alcune ciocche sulle spalle scoperte, si truccò con attenzione, usando la matita viola sulla palpebra superiore e quella nera su quella inferiore. Infine scelse le decolté più seducenti che aveva e afferrò la pochette rosa. Guardatasi un’ultima volta davanti allo specchio uscì, svolazzando e lanciando un urlo di saluto ai genitori e al fratello.
-Ci risiamo- esclamò il padre–ormai ha quattrocento anni, possibile che non capisca che non si può innamorare di chiunque?-
-Caro, alla sua età non eravamo forse anche noi così?-
-Hai ragione, cara, hai fin troppo ragione- e tornò a leggere il giornale.

Christine aveva dato appuntamento a Mary dinnanzi alla palestra con la scusa di volerle comunicare una scelta importante riguardante le cheerleader. Quando la fata giunse la ragazza era già arrivata e ciondolava su e giù sui tacchi da venti centimetri e con un rossetto così rosso da risplendere al buio.
-Allora?- l’accolse.
Christine la raggiunse con passo sicuro. –Sei promossa-
-Cosa?-
- All’oltretomba- e con un gesto rapido le strappò il cuore dal petto, restando impassibile quando il sangue le macchiò l’abito e il viso. Non era certo una di quelle fatine schizzinose che non riuscivano a tenere in mano un cuore senza urlare, lei aveva visto tante guerre nei suoi secoli di vita e quello non era il primo organo con cui aveva avuto diretto contatto. Lasciò che la rivale cadesse al suolo, quindi, gettato il cuore a terra, si voltò e andò laddove sapeva che Kevin avrebbe incontrato Mary: davanti all’ingresso del teatro dove si sarebbe svolto il ballo.
-Ehi- la salutò il ragazzo e Christine poté ammirare i muscoli che spingevano sotto la camicia bianca –hai visto Mary?-
Per risposta la fata gli gettò sul viso la polvere magica e questa penetrò non solo negli occhi ma anche nelle orecchie e nel naso. Kevin sbatté le palpebre e guardò imbambolato Christine per un attimo.
-Non mi riconosci più, tesoro? Sono Mary -
- Mary – sussurrò lui, sorpreso.
-Schiocchino, non mi aspettavi?- gli diede un colpetto sulla guancia, quindi si attaccò al suo braccio, palpando il muscolo sodo. Oh, quasi lo aveva perdonato! –Su, entriamo, questa sera voglio ballare fino a crollare a terra dalla stanchezza-
Lui ubbidì senza dire nulla.
Christine fu subito illuminata dalle luci che erano state montate appositamente nel teatro e si chiese cosa vedessero gli altri. Una bella dama con il suo valoroso cavaliere, come già le era successo mille volte nel passato. Sospirò e si strinse un po’ di più a Kevin.
-Mi concedi questo ballo?- chiese con un bel sorriso.
-Certo- esclamò lui.
La fata buttò indietro i riccioli biondi sfuggito allo stretto chignon e lo trascinò dietro di sé. Andarono al centro della sala e iniziarono a ballare.
-Dimmi, Kevin, cosa ti piace di me?- chiese la fata, cingendogli le spalle con le braccia.
-Sei bellissima-
Lei ridacchiò. –Non puoi nemmeno immaginare in quanti me lo abbiano detto- così tanti uomini che molto spesso non riusciva a evocarne il nome, o il volto, o entrambe le cose.
-Nessuno è mai stato sincero come me-
Oh, anche questa frase non era nuova. Mille l’avevano detta dopo che lei li aveva incantati. Ben pochi erano stati sinceri con lei. Gli accarezzò il volto. Era uno dei tanti pensò con tristezza, solo uno qualunque, come gli altri. Questo le dispiacque, ma allora tanto valeva terminare subito. Lo attirò a sé, conducendolo in un angolo buio del teatro senza dire nulla.
-Dove mi porti?- chiese lui.
Christine si voltò silenziosa, quindi gli prese il viso tra le mani a coppa e posò le sue labbra su quelle carnose di lui. Fu un bel bacio, almeno quello. Sentì la vita entrare dentro di lei come un liquido, come acqua. Non era la prima volta che lo faceva per cui riuscì a non sprecarne nemmeno un goccio mentre il giovane si contorceva. Lo lasciò cadere a terra solo quando ebbe finito. Finalmente la sua fame era placata. Erano tutti così presi dal ballo che non se ne accorsero. Lei si rimise il rossetto che le era andato via, quindi si spostò nuovamente al centro della pista. E proprio da lì vide John, il nuovo capo del giornalino del liceo. Non si era mai accorta di quanto fossero belli i suoi occhi blu e di quanto fosse alto e slanciato. Sorrise, il cuore che riprendeva a battere forte. Improvvisamente il mondo le sembrò nuovamente rosa e sentì le ali che si muovevano sotto l’abito, contro la schiena. Ecco il suo prossimo amore.

Note: Questo racconto partecipa al challenge Mal di challenge e parla dell’infatuazione.
Questo racconto partecipa anche al challenge La sfida dei duecento prompt con il prompt 19 l'infatuazione.

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Capitolo 2
*** Gelosia ***


La musica mi rimbombava nelle orecchie assordante. Avevo la nausea e una gran voglia di provare le mosse di karatè che avevo imparato da bambina, in una calda e noiosa estate. James ballava tranquillamente con l’altra tenendola un po’ troppo stretta, quasi per timore che gli sfuggisse. E pensare che fino a un settimana prima quella che veniva tenuta in quel modo ero io. La nuova fiamma, una biondina alta appena un metro e un tappo, mi lanciò uno sguardo sprezzante e potei quasi giurare che mi avesse fatto anche la linguaccia, la mocciosa. Mi voltai e andai al bar, desiderosa di prendere qualcosa da bere. Quel triangolo amoroso mi rendeva tremendamente nervosa. Mi accasciai su uno sgabello e ordinai, quindi pensai a quello che potevo fare. Lei si chiamava Stephanie Orange e aveva iniziato a prestare interesse per James quando aveva saputo che si era fidanzato. Bassa e decisamente poco seria, ma questo a quale uomo importa? Sospirai. Beh, era stato bello stare con James, anche se per poco, essere il suo raggio di sole, ricevere i suoi messaggi pieni di parole dolci, quasi troppo per una come me. Ora era tutto per quell’altra.
-Il posto è libero?-
Voltai la testa e vidi un’anziana signora avvolta in un pesante scialle nonostante il caldo del locale. Strano che si trovasse in un posto del genere con tutto quel fracasso. –Certo, si sieda pure-
-Grazie, cara, sei proprio una dolce fanciulla- si arrampicò sullo sgabello con un’agilità incredibile per una donna di quell’età.
-Grazie- mormorai.
-Ma hai una faccia così infelice, perché una ragazza così bella non dovrebbe essere felice?-
Mi sforzai di sorridere. –Non ho nulla-
-Non puoi mentirmi, ho visto troppe cose in questa vita perché mi si possa mentire … un problema di cuore, giusto?-
Annuii. Non era così difficile da capire dopotutto.
-Una terza incomoda, forse?-
-Proprio così-
-Mi spiace molto- disse con voce che mi parve davvero triste.
-Non ha importanza- mentii, ma sentivo gli occhi che mi bruciavano, ben presto sarebbero scese le lacrime, lo sapevo.
-Io posso aiutarti-
-Come?- chiesi sorpresa e un po’ curiosa.
L’anziana sorrise e frugò un attimo in borsa per tirare fuori un medaglione a forma di piramide. –Prendi questo, è un amuleto che potrà realizzare qualsiasi tuo desiderio-
Sorrisi e, scettica, lo presi in mano. Subito fui scossa da un brivido. Seppur all’apparenza metallico l’oggetto in realtà era caldo.
-Devi stringerlo forte, appoggiartelo sul cuore e pensare a ciò che vuoi, ma attenta, lo puoi usare solamente nella notte di Valpurga [1], altrimenti le conseguenze saranno molto gravi-
-Notte di cosa?-
-Valpurga- sorrise, mostrando dei denti rovinati e distanziati tra loro –è il 30 aprile, questa notte-
-Quindi devo usarlo ora?-
-Esatto- scese dallo sgabello –e sii prudente, formula bene il desiderio, basta una parola sbagliata perché tutto finisca molto male-
Quella frase m’inquietò. Osservai la vecchietta allontanarsi, passo dopo passo, per poi sparire oltre la porta del locale. Ancora una volta mi chiesi cosa ci facesse lì. Una risata però mi riportò subito alla realtà. Girai la testa appena in tempo per vedere James che prendeva in braccio la terza incomoda. Fissai l’amuleto e lo strinsi a me con rabbia. Perché non provare? Espressi il desiderio in un sussurro.
-Voglio che Stephanie Orange sparisca dalla mia vita per sempre- più chiaro di così cosa dovevo dire? Improvvisamente la piramide s’illuminò di rosso. Sobbalzai, sorpresa e spaventata. L’amuleto tremò alcuni secondi poi si fermò. Restai immobile aspettando chissà cosa. Non successe nulla. Scossi la testa, ma cos’avevo in mente per credere a una cosa simile? Infilai l’amuleto in borsa e mi godetti il resto di quell’orrenda serata.

La mattina successiva mi svegliai tardi e con una forte emicrania. Scesi dal letto e m’infilai sotto la doccia sperando di riprendermi dalla serata precedente. James aveva avuto il buon gusto di riaccompagnarmi a casa, ma non speravo che ci sarebbe stato un proseguo della nostra storia. Uscii dalla doccia senza che sostanzialmente fosse cambiato nulla da prima. Feci colazione, quindi accesi il cellulare. Subito mi salutò un tintinnio. Era arrivato un messaggio? Lo presi e vidi che era di James. Mi diceva che Stephanie aveva avuto un grave incidente tornando a casa la sera precedente e che era morta sul colpo. Lasciai cadere il cellulare sul tavolo e fissai il vuoto. La vecchietta aveva ragione, il mio desiderio era stato esaudito anche se non esattamente nel modo in cui lo avevo espresso. Mi sedetti e iniziai a pensare alle possibili conseguenze. Essere arrestata? Perché mai? Non l’avevo certo uccisa io, non fisicamente almeno, né le avevo adulterato la bevanda o altro. Ma ero veramente priva di colpe? Ispirai a fondo e cercai di calmarmi, quindi risposi a James con le dita che mi tremavano. Nel messaggio esprimevo tutto il mio dispiacere per quella morte anche se non ne provavo nessuno. Dopodiché andai in camera mia, presi l’amuleto dalla borsa e lo nascosi in fondo al mio armadio, decisa a sbarazzarmene il prima possibile, come se si trattasse davvero della prova di un omicidio.

Il funerale di Stephanie fu decisamente ipocrita. Nessuno l’aveva sopportata in vita, ma in morte tutti diventano bravi e così io fui la prima a dolermi per quella scomparsa precoce. James, al mio fianco, sembrava il meno dispiaciuto, come se di quella ragazza gli fosse importato poco fin da principio. Questo, non posso negarlo, mi fece piacere, anche se non potei fare a meno di chiedermi come avrebbe reagito se ci fossi stata io al posto di Stephanie. Ma con me era stato vero amore, l’avevano detto tutti. Mi attaccai al suo braccio e lui mi sorrise.
-Non mi piacciono i funerali- commentò –che ne dici di andare a prendere qualcosa al bar?-
Annuii, persa nei miei pensieri. Non potevo infatti fare a meno di pensare all’amuleto. Forse era stata tutta una coincidenza. Sì, doveva essere andata proprio così.

I giorni successivi proseguirono rapidamente e riuscii anche a dimenticarmi per qualche ora dell’amuleto e di quello che era successo. James, dal canto suo, si comportò come un fidanzato modello, dedicandomi interi pomeriggi di passeggiate, risate e chiacchiere. Proprio in quelle occasioni ricordai cosa mi era piaciuto di lui e ciò che mi aveva spinta ad accettare la sua proposta di fidanzamento, nonostante sapessi bene che era stato più volte coinvolto in triangoli amorosi.
-Ti ho trascurata in questo ultimo periodo, ti prometto che non succederà più- disse una di quelle volte, tenendomi stretta sulle sue ginocchia –ho anche in mente una cosa per farmi perdonare- aggiunse, dandomi una carezza sulla guancia.
-Niente pattinaggio sul ghiaccio, lo scorso anno sono caduta-
Lui rise. –No, pensavo a un weekend in montagna, solo noi due, i miei dovrebbero andare a Londra per affari la prossima settimana, che ne diresti se ne approfittassimo per recarci alla baita?- Sorrisi. Con baita James intendeva la sua casa in montagna. Non mi aveva mai invitata là.
-Allora? Ti piacerebbe venire?-
-Non so- mormorai –forse è un po’ presto, stiamo insieme solo da un mese-
-Su, ci conosciamo da due mesi-
Mi mordicchiai le labbra. –Ho solo bisogno di un altro po’ di tempo- mormorai.
-Ho capito, non ne parliamo più allora-

Due giorni dopo James mi annunciò che non avrebbe rinunciato al weekend sulla neve e che non ci sarebbe neppure andato da solo.
-Combinazione vuole che anche Margaret si trovi sola nella sua casa- mi disse durante la nostra ultima uscita.
Venne così fuori che Margaret era figlia di amici dei suoi genitori. Una ragazza d’oro, la definiva la madre del mio fidanzato. Neanche a dirlo che a me già non piaceva.
-Non mi sembra il caso- iniziai, ma lui m’interruppe subito.
-Non iniziare con la tua gelosia, io e Margaret siamo stati più che amici, ma adesso siamo appena conoscenti-
E come poteva rassicurarmi con quelle parole? Tutt’oggi penso che lui volesse provocare la mia gelosia e che la colpa di ciò che successe dopo non fu del tutto mia.
-Promettimi almeno che ti farai sentire- dissi.
-Certo- e mi baciò.

Partì il giorno seguente e non rispose né alle mie chiamate né ai miei messaggi. Inutile dire che la rabbia prese il sopravvento. Mi tormentai tutto il sabato e chiamai tutte le persone di cui avevo il numero per organizzare un’uscita nel tentativo di dimenticare ciò che stava succedendo. Alla fine l’unica ad accettare fu la mia compagna di università, Julie. C’incontrammo in un bar in centro verso il tardo pomeriggio per un aperitivo.
-Mi dispiace che tra te e James le cose non funzionino- mi disse quando mi fui sfogata, bisognosa di confidarmi con qualcuno.
Tutto qua? Nessun consiglio? Tornai a casa più infuriata che mai e presi immediatamente l’amuleto. Ci avevo pensato a fondo, ma non vedevo nessun’altra soluzione attuabile in breve tempo. Ricordavo bene l’avvertimento che mi aveva dato l’anziana signora, ma in fondo la prima volta aveva funzionato benissimo, perché la cosa non doveva ripetersi? Strinsi a me la piramide ed espressi il desiderio.
-Voglio che James sia solo mio-
Di nuovo la luce nell’amuleto. Più rilassata mi rifugiai nel letto e mi addormentai subito, certa che il giorno seguente mi avrebbe portato delle buone notizie.

Fui svegliata da una strana sensazione, come se ci fosse qualcuno fermo nella mia stanza intento a fissarmi. Sbattei le palpebre ma la mia camera era vuota e fuori era ancora buio. Mi rigirai di lato e richiusi gli occhi, certa che fosse una conseguenza della tensione accumulata il giorno prima. Effettivamente la sensazione parve momentaneamente sparire, per cui mi concentrai sul sonno e mi riaddormentai. Sognai qualcosa di confuso, bianco e gelido al tatto. Mi ritrovai in un luogo buio e senza nessuna speranza di uscirne.

Quando finalmente mi svegliai era tarda mattina. Mi alzai, stiracchiandomi e m’infilai sotto la doccia. L’acqua tiepida allontanò il freddo del sogno. E poi ebbi di nuovo la sensazione che ci fosse qualcuno oltre la tenda della doccia, qualcuno intento a fissarmi. Non riuscii a resistere alla tentazione di tirarla di lato e guardare oltre. Nulla, solamente il lavandino e la lavatrice. Ero troppo nervosa, dovevo darmi una calmata altrimenti mi sarebbe venuto un infarto. Andai in cucina ma non riuscii quasi a toccare cibo nonostante mia madre mi avesse preparato delle crepes ripiene di cioccolato, il mio piatto preferito. Infine accesi il cellulare e restai in attesa che James mi chiamasse per annunciarmi una disgrazia. Non successe niente. Forse se non veniva usato nella notte di Valpurga l’amuleto non aveva nessun problema. Fu solo poco prima di pranzo che mio padre mi chiamò con voce preoccupata.
- Mary, vieni qua-
Lo raggiunsi chiedendomi cosa potesse volere. E quando giunsi in soggiorno vidi la televisione accesa e la foto di James al centro dello schermo. La voce di una giovane giornalista diceva che James Kirk era morto quella mattina presto, travolto da una valanga. Barcollai e mi appoggiai allo stipite della porta, incapace di fare qualsiasi cosa. Era solo, continuava la giornalista. Nessuna amica di famiglia gli stava facendo compagnia quando era morto. Mi aveva mentito, forse voleva solo provocarmi.
- Mary – mi chiamò mio padre –tesoro, siediti- e mi aiutò ad accomodarmi su una sedia.
-Io non volevo- mormorai –non volevo-
-Non è colpa tua- disse mio padre.
Mia madre entrò rapida nella stanza e non appena vide la foto di James al telegiornale spense la televisione. Io scoppiai in lacrime.

Mi calmai solo dopo parecchio tempo e mia madre decise che la cosa migliore da fare era uscire a fare una passeggiata, magari andare a prendere qualcosa di carino al centro commerciale. Io acconsentii, non sapendo cos’altro fare. Uscii dal portone a braccetto con mia madre. Proprio di fronte a casa mia, dall’altro lato della strada, mi parve di vedere qualcosa. Sbattei le palpebre, incredula. Riconobbi subito quel viso rotondo, quei capelli neri, quel corpo snello. James. No, non poteva essere lui, James era morto. Una macchina passò tra me e la visione coprendola. Quando potei di nuovo vedere non c’era nessuno. Forse mi ero sbagliata. Seguii i miei genitori ed entrai in macchina. E proprio mentre l’auto stava partendo lo rividi, pallido che mi fissava con sguardo da far ghiacciare il sangue nelle vene. In quegli occhi non c’era la minima traccia d’amore.

Nei giorni seguenti rividi più volte il mio defunto fidanzato. In fondo all’aula dell’università, nelle strade che percorrevo, in palestra, ovunque. Avevo inoltre la perenne sensazione che i suoi occhi fossero fissi su di me anche quando non lo vedevo. E poi lo sognavo ogni notte.
-Sarò per sempre tuo, nulla potrà dividerci- mi sussurrava e io piangevo, stretta nell’angoscia e non sapendo che soluzione trovare.
-Perché piangi, piccola? Dicevi sempre di amarmi, ora non provi più nulla?- chiedeva e mi stringeva a sé in una morsa priva di vie d’uscita che mi toglieva il respiro.
E a volte nei sogni c’era anche Stephanie. Se ne stava stretta a James, come se il triangolo amoroso che aveva dato inizio a quella storia non fosse mai finito. Io, lui e l’altra.
Una volta Stephanie mi colpì con violenza graffiandomi la guancia. Quando la mattina seguente mi svegliai vidi quattro righe rosse percorrermi la pelle. Fu in quel momento che compresi che dovevo fare qualcosa.

La prima cosa che tentai fu cercare la donna che mi aveva dato l’amuleto. Mi recai così al locale dove l’avevo incontrata e chiesi al barista.
-Mi ricordo di quella donna- mi disse –non l’avevo mai vista prima, non mi sembrava proprio il tipo che frequenta posti come questi-
Aveva ragione. –Sai qualcosa che possa aiutarmi a trovarla? Ho una cosa che le appartiene e voglio restituirgliela-
-Non l’ho più vista, ma se vuoi le riferirò il messaggio qualora dovessi rivederla-
-Grazie- mormorai. Uscii di lì e me ne tornai in casa. In seguito feci altre ricerche, nulla che mi portasse a una qualche soluzione.

Avevo perso completamente le speranze quando ieri mattina mentre andavo all’università ho rivisto la donna che mi ha dato l’amuleto. Sembrava proprio che mi stesse aspettando, ferma dinnanzi al cancello della mia facoltà. Guardandola alla luce del sole sembrava meno vecchia, con solo qualche piccola ruga sotto gli occhi.
-L’ho cercata molto- esordii fermandomi di fronte a lei.
Lei scosse la testa. –Mi hai delusa molto, piccola, io ti ho consegnato quell’amuleto perché tu mi ricordavi una persona a me molto cara che si ritrovò coinvolta in un amore a tre e che da ciò fu uccisa-
-Io ho sbagliato, ma ora non so cosa fare, la prego, mi aiuti- sentivo le lacrime spingere per uscire.
-Non si può più fare nulla, bambina, ti ho detto di usare l’amuleto nella notte di Valpurga perché è l’unico momento in cui la magia può essere attuata senza che l’anima del defunto resti impigliato al suo assassino-
-Io ho paura- sussurrai.
-Lo so, ma ora non puoi far altro che soddisfare la sua voglia, altrimenti lui ti perseguiterà per sempre- detto ciò se n’è andata, lasciandomi sola sotto il cielo plumbeo.

Ho scritto queste parole nel vano tentativo di lasciare una mia testimonianza. So che lui presto verrà a prendermi, so che non ci sarà possibilità di salvezza. Ieri notte me l’ha detto chiaramente.
-Ti porterò via con me, Mary, non temere, staremo insieme per il resto dell’eternità e non dovrai mai più temere che qualcosa ci divida, mai più-
E io ho paura, molta paura.

Morte misteriosa
Questa mattina la ventunenne Mary Stuart è stata trovata priva di vita nel proprio letto. La causa del decesso è al momento sconosciuta. Pochi giorni prima era morto il suo ragazzo in un incidente sugli scii. Vi terremo informati sull’evolversi di questa storia.

Note:
Questo racconto partecipa al challenge Mal d’amore challenge!, il tipo d’amore è il triangolo amoroso
[1] Notte di Valpurga: notte tra il 30 aprile e il primo maggio era festeggiata dai Celti ed era considerata come il momento d’arrivo della primavera.

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Capitolo 3
*** Antichi rancori ***


Florence sospirò e si portò alla bocca la tazza di caffelatte che aveva di fronte. Ken era in ritardo come ogni volta negli ultimi venti anni. Possibile che non capisse che il tempo era contato? Lanciò un’occhiata al grande orologio della stanza e solo in quel momento arrivò Ken, correndo.
-Mezz’ora- disse Florence.
-Non abbiamo un momento da perdere quindi-
Si spogliarono subito e si unirono sul divano. La donna assaporò i baci di lui su tutto il corpo. Ken non le piaceva, non le stava neppure simpatico, c’era una specie di antipatia reciproca. Nonostante ciò ogni martedì pomeriggio s’incontravano per consumare la loro relazione extraconiugale. Non era amore, solo attrazione sessuale. Forse neppure quella. Abitudine, ecco. Era una cosa che facevano da sempre e a cui non volevano rinunciare. Ogni tanto Ken scherzava dicendo che la figlia di Florence aveva i suoi stessi occhi e lei lo riprendeva sempre con asprezza.
-E dai, in fondo potrebbe anche essere mia figlia-
Questo era vero, ma la donna non voleva sentire una cosa simile nemmeno per scherzo, la paternità della sua bimba non doveva essere messa in dubbio in nessun modo.
-Su, Flo, lo sai che scherzo-
Florence chiuse gli occhi mentre il suo amante le accarezzava sensualmente il corpo.
-Bel completino- le mormorò all’orecchio.
-Sbrigati, i bambini aspettano di essere riportati a casa-
-Bambini? Eduard ha diciotto anni-
-Per me è sempre un bambino-
-Un bambino con la patente-
A Florence non piaceva il sarcasmo di Ken. Lo spinse via e scese dal letto prima che lui potesse replicare. Si rivestì in fretta e corse a sistemarsi di fronte allo specchio. Fu allora che vide il segno rosso che le aveva lasciato l’amante, proprio sul collo. –Ancora un tuo morso!- urlò –Mi puoi dire cosa devo inventarmi con mio marito questa volta!-
-Adesso è colpa mia? Sei tu che mi provochi!-
-Io? Ma se sei tu che ogni volta mi preghi per avere un appuntamento-
-Andiamo avanti così da anni, cara, se la cosa ti dispiacesse tanto non saremmo ancora qui a parlarne-
La donna si morse le labbra. In fondo lui aveva ragione. –Li passi a prendere tu i bimbi?-
Lui sospirò. –Se insisti-
-E non portare Louise a prendere il gelato, lo sai che non può assolutamente mangiare latticini-
-Certo, certo, ma se non le facessi infrangere qualche regola non sarei il suo zio preferito-
-Sei anche l’unico zio che ha- fu la sprezzante risposta.
-Ricorda, cara Flo, che sei ricca grazie a me-
-Certo, è stata una gran cosa presentarmi tuo cognato- disse, voltandosi di scatto –ma non l’hai fatto forse per la tua lussuria? Volevi tenermi vicino a te e come avrei potuto essere più vicina di così?- afferrò la borsetta che aveva appoggiato sul tavolino –Ci vediamo domenica a pranzo, non fare tardi come tuo solito- e uscì dalla stanza senza voltarsi.

Florence arrivò a casa quando ormai era tardo pomeriggio. Il marito, Frederick Wolf, uno degli uomini più ricchi del Paese, era seduto alla sua scrivania, intento a compilare dei fogli.
-Ben tornata, tesoro- disse mentre la moglie gli deponeva un bacio sulla fronte.
In fondo a Flo Frederick piaceva, più di Ken. –Com’è andata la giornata?-
-Le solite cose- borbottò lui –ah, abbiamo ospite a cena zio Albert -
La donna annuì. Era il fratello del defunto padre di Frederick, un uomo cordiale e alla mano. – Passerà Ken a prendere i ragazzi- disse.
-Perfetto, almeno il mio caro cognato fa qualcosa di utile alla famiglia-
Proprio in quel momento arrivò una delle domestiche ad annunciare una visita.
-Chi potrebbe esserci a quest’ora?- chiese l’uomo, sbuffando.
-Si tratta di una ragazza- disse la domestica –insiste che vuole parlare con lei-
Florence aggrottò la fronte e restò in ascolto. Possibile che si trattasse di un’amante del marito? Che quell’uomo sempre sulle sue la tradisse?
-Falla venire- disse Frederick alla domestica –se insiste-
Florence si sedette su una poltrona e accavallò le gambe, improvvisamente vigile. Voleva ascoltare e capire, era decisa a stare attenta a ogni parola che avrebbe detto la nuova arrivata. Il marito pareva abbastanza tranquillo, come se in fondo quella cosa non lo turbasse troppo.
La ragazza che fu condotta nella stanza era tremendamente giovane, con capelli scuri e occhi grigi che stranamente ricordarono a Florence proprio quelli di Frederick, questa cosa la inquietò tremendamente.
-Desidera, signorina?- chiese il marito, con tono cortese ma freddo, come se la giovinezza dell’ospite lo avesse turbato.
-Ricordare una promessa fattami da nostro padre-
Ci fu un attimo di glaciale silenzio.
-Cosa?- chiese l’uomo.
-I soldi che nostro padre mi ha promesso-
Florence per poco non scoppiò a ridere. Non era lei a essere la tradita ma sua suocera, improvvisamente si tranquillizzò.
-Se è venuta per infangare la memoria di mio padre se ne vada-
-Suo padre ha sedotto e ingravidato mia madre- urlò la ragazza diventando rossa di rabbia –e ora io voglio la mia parte d’eredità-
-Altrimenti?- chiese il marito.
-Altrimenti la vostra famiglia non avrà pace, dovessero passare anni, ma tutti coloro che portano il vostro cognome saranno condannati a una morte atroce-
Florence sobbalzò. Non era la prima minaccia che riceveva in vita sua, ma chissà perché quella la spaventò più delle altre.
-Fuori di qua- urlò l’uomo, alzandosi in piedi visibilmente furioso.
-E allora la maledizione si abbatterà su di voi, ne sia testimone il mio sangue- e, rapida, estrasse un coltello dalla tasca che si portò alla gola.
Florence abbassò il capo, improvvisamente nauseata dagli schizzi di sangue.

-Dici sul serio?- chiese lo zio Albert, il bicchiere di vino stretto in mano –Ma è orribile!-
-Lascia stare, non sei ancora stato nel mio studio, è un disastro- disse Frederick –e la cosa peggiore è che c’era anche Florence -
La moglie alzò la testa, sentendosi chiamata in causa.
-Per fortuna la polizia non ha fatto molte storie, hanno subito capito la situazione-
Certo, Frederick invitava a cena una volta a settimana il capo della polizia, non c’era da stupirsi che quella storia fosse stata subito archiviata.
-Del resto quella ragazza era sicuramente pazza, diceva di essere mia sorella- e scoppiò in una risata nervosa.
Florence notò che Albert a quelle parole si era irrigidito. Lui sapeva qualcosa di quella storia, era fin troppo chiaro.
Dal piano di sopra si sentirono dei colpi. Eduard che si esercitava con la batteria. Frederick sospirò. –E il figlio musicista di certo non aiuta-
-Anche tu, se non ricordo male, avevi una passione per la musica da ragazzo-
-Io suonavo la chitarra-
-Sempre musica- commentò Albert, ma continuava a sembrare soprapensiero.
-Non potrai paragonare la batteria alla chitarra?- e si persero in chiacchiere tra di loro, apparentemente dimentichi di quello che era successo solo poche ore prima.
Florence si lasciò andare ai propri pensieri. Quella storia non le piaceva. Si mordicchiò le labbra. Aveva bisogno di parlare con qualcuno, ma aveva lasciato la propria famiglia molto tempo prima e si era ripromessa di non tornarci più.
-Sono stanco- disse a un certo punto Albert –ti dispiace se concludiamo l’argomento domani mattina?-
-Certo- rispose Frederick, alzandosi –vieni, ti faccio vedere la stanza che Flo ti ha riservato-

Florence quella notte dormì male. Ogni volta che riusciva ad addormentarsi le toccava rivivere la stessa scena, la ragazza che si portava la lama alla gola e il sangue che schizzava ovunque. Si svegliava sempre con il cuore che le batteva forte e la sensazione che in tutta quella storia ci fosse qualcosa di profondamente sbagliato. Suonavano le cinque del mattino quando scese dal letto e andò alla finestra, con il disperato bisogno di prendere un po’ d’aria. Frederick dormiva placido al suo fianco, tranquillo come sempre. In momenti come quelli Flo avrebbe voluto essere tra le braccia di Ken. Non che lo amasse o altro, era più che altro un bisogno fisico. La donna si appoggiò al davanzale e infilò la testa tra le ante semiaperte della finestra. L’aria fuori era fresca. Il giardino della villa aveva un aspetto inquietante a quell’ora del mattino, come se fosse popolato da strani spiriti. Inspirò a fondo, quindi si ritrasse e tornò a letto.

La mattina seguente Frederick Wolf mandò una domestica a chiamare lo zio Albert visto che la colazione era stata portata in tavola già da un’ora.
-Strano, non ritarda mai- commentò.
-Forse è rimasto addormentato- mormorò Florence, ma una strana sensazione le opprimeva il petto.
L’urlo della cameriera confermò i suoi terribili sospetti. Moglie e marito corsero subito di sopra. Albert era riverso a terra, accanto al letto, immerso in una pozza di sangue.
-Qualcuno chiami un’ambulanza- urlò Frederick, gettandosi sullo zio nel tentativo di rianimarlo.
Florence si appoggiò allo stipite della porta, improvvisamente debole. Impossibile non ripensare alla maledizione lanciata dalla ragazza.

La causa della morte dello zio Albert fu individuata in un forte trauma cranico. Probabilmente era caduto dal letto e aveva sbattuto con violenza la testa. Florence non ci credeva, in cuor suo sentiva che quella storia nascondeva qualcosa. Prese ad andare su e giù per la stanza mentre aspettava Ken. Aveva anticipato il loro appuntamento, volendo parlare con qualcuno che non fosse il marito della situazione che si era creata.
- Flo, sei un incanto oggi- le disse il cognato non appena la vide.
-Non è il momento per queste cose- disse lei, spogliandosi rapidamente, presa dalla strana frenesia che la coglieva sempre quando vedeva Ken.
-Come vuoi tu, mia signora-
Si unirono senza ulteriore parole e solo quando ebbero concluso Florence si lasciò scappare tutto ciò che aveva in cuore.
-Non mi dire che questa storia ti ha spaventata- disse Ken, ridendo –eppure sei sempre stata più coraggiosa di me-
- All’epoca non avevo una famiglia a cui badare-
Ken la fissò un attimo con aria seria, prima di sorridere nuovamente. –Ti ricordi quando abbiamo rubato la tiara alla regina Titania?-
A Florence sfuggì una risatina. –Erano altri tempi-
-Solo due secoli fa … praticamente ieri-
Quelli erano stati momenti felici, prima dell’incidente. –A volte mi manca la corte, mi manca persino Titania- sospirò –forse è il caso di rivolgersi a Oberon, chiedergli aiuto-
-Solo perché un vecchio signore è caduto dal letto e ha battuto la testa? Non ti sembra di esagerare un po’?-
Forse Ken aveva ragione, forse… -C’è qualcosa in questa storia che proprio non mi convince-
-Aspetta qualche giorno e tutto si sistemerà, fidati, in fondo faccio anch’io parte della famiglia e mi vedi agitato?-
-No, ma tu non ti preoccupi mai per nulla-
-Hai ragione- disse Ken, traendola a sé e baciandola.
-Lasciami stare- si divincolò lei.
-Come vuoi, cara- disse lui, ubbidendo al comando.
Florence si rimise in piedi e andò a sistemarsi davanti allo specchio. Poteva ben vedere il riflesso di Ken che si stava rivestendo. Buffo che facesse parte della famiglia Wolf proprio grazie a lui. Era stato infatti Ken, già fidanzato con Caroline Wolf, a presentarle il suo futuro marito.
-Non sarebbe bello continuare i nostri giochetti anche da sposati?- le aveva chiesto e lei aveva accettato, non sapendo cos’altro fare visto che era stata cacciata dall’unico posto che nella sua lunga vita aveva conosciuto: la corte fatata.
-E comunque la mia Caroline non è per nulla preoccupata- esclamò Ken –con il suo cervello da gallina non è in grado nemmeno d’immaginare che la morte dello zio non sia stato un incidente-
-Nemmeno Frederick capisce- sussurrò Florence. Era stranamente legata al marito, anche se non lo amava.
-Sono esseri umani, tesoro, comprendono solo ciò che possono vedere-
-Già-
-E mia figlia, mi dispiace dirlo, è identica a mia moglie, incredibile- sbuffò.
-Devo andare- disse Florence, sentendosi improvvisamente fuori posto lì.

Quella sera venne la suocera a cena. Florence aveva sempre ammirato quella donna, alta, di bella presenza, sempre posata e sorridente, sembrava essere superiore a qualsiasi cosa, le ricordava quasi la regina Mab, l’odiata sorella di Titania, che era a capo della corte oscura. Frederick non le aveva voluto dire nulla della presunta sorellastra, ma Flo non dubitava che la donna avesse intuito qualcosa.
-Ciao, cara- le disse, stringendola a sé –i bambini come stanno?-
Florence sorrise. –Oh, bene, Eduard è di là e Louise… - non finì la frase perché la bambina arrivò correndo e saltando.
-Nonna- urlò.
-Piccola- la donna la strinse a sé e la sollevò.
Florence guardò la scena con un pizzico di gelosia. Louise era solo sua, la sua bimba, era l’unica dei figli che avesse ereditato i suoi occhi azzurri e i suoi capelli castano dorato.
-La nonna ha un regalo per te- disse la suocera ed estrasse un pacchetto che diede alla nipotina.
La bambina lo scartò rapidamente. Era un piccolo carillon con una ballerina che si teneva in equilibrio su una gamba. –Grazie, nonna- urlò, gettando le braccia intorno al collo della donna.
Florence si voltò per andare a finire i preparativi per la cena. Frederick era già al tavolo che stava discutendo con Eduard della scuola. Padre e figlio non si assomigliavano molto né fisicamente né caratterialmente. Florence entrò in cucina e ordinò alle cameriere di portare il cibo in tavola, l’ospite era arrivata.

Fu una serata piacevole nonostante il clima cupo che s’istaurava ogni volta che veniva accennato ad Albert. Arrivati al dolce Frederick si alzò.
-Vogliate scusarmi ma devo sistemare una faccenda prima di andare a dormire- disse per congedarsi.
-Io devo terminare uno scritto per domani- affermò Eduard, uscendo anche lui.
La piccola Louise dormiva placidamente con la testa appoggiata al tavolo.
-Sarebbe bello poter tornare bambini- disse la donna anziana.
Florence non ricordava la sua infanzia, ma le fate raramente la ricordano. –Già- sussurrò quindi, senza comprendere appieno le parole della suocera.
-Niente problemi, nulla di nulla … mi manca molto Albert -
Florence s’irrigidì. L’argomento evitato per tutta la cena ora era messo in tavola senza nessuna reticenza. –Manca a tutti- una frase semplice.
-Sei sicura che si sia trattato di un incidente?- le chiese, lo sguardo che brillava.
-Io … sì, è stato solo un incidente-
- Cos’altro potrebbe essere stato?-
Solo un incidente. Come mai Florence non ci credeva per davvero?
-Ci sono molte persone che odiano la nostra famiglia, Florence, troppe, mio marito, suo padre prima di lui, il padre di suo padre e via dicendo hanno fatto del male a molti per raggiungere i loro scopi, io ho cercato di allevare i miei ragazzi dando importanza ai sentimenti, non al denaro, ma penso che ci sia qualcosa nella famiglia Wolf, non so, qualcosa di negativo, qualcosa di… - s’interruppe e si portò una mano al petto, il viso distorto da una smorfia. Aprì la bocca ma non uscì nessun suono.
Florence scattò in piedi, non sapendo cosa fare. La suocera si accasciò a terra e solo allora lanciò un forte urlo.

-I ragazzi come stanno?- le chiese Frederick con tono lugubre quando Florence entrò nella stanza.
- Louise dorme, Eduard è in camera sua- si sedette affianco al marito e gli cinse la vita con un braccio. Non lo aveva mai visto così cupo, nemmeno nei momenti peggiori, neanche quando avevano detto loro che la piccola Louise era caduta da cavallo durante le lezioni di equitazione ed era finita in ospedale, neppure quando Caroline aveva avuto quel brutto aborto ed aveva rischiato la vita.
-Un infarto fulminante pensa il medico- sussurrò l’uomo, immobile – un’altra disgrazia frutto del caso-
Florence lo baciò. –Le sventure non vengono mai sole-
-Non ho ancora avvertito Caroline -
-Lo farò io-
-No, devo farlo io, era nostra madre- ispirò a fondo –la chiamerò domani mattina, ora è troppo tardi, non voglio farla preoccupare-
Lo capiva bene, più di quanto avrebbe pensato un tempo. Effettivamente vivendo in mezzo agli esseri umani stava diventando più sentimentale, forse troppo. E fu proprio questo sentimentalismo a farla parlare. –Forse dovremo vedere se quella ragazza ha una famiglia- sussurrò –mandare i soldi a loro-
-Quella ragazza era una bugiarda-
-Certo, ma questa storia è indubbiamente strana-
-Non si tratta di magia, è solo sfortuna-
E Florence non replicò, sapeva che non era prudente replicare quando suo marito assumeva quel tono di voce.

Quel martedì lasciò che Ken la prendesse con meno entusiasmo del solito. Era troppo preoccupata per riuscire a concentrarsi davvero su qualcosa.
-So che non è bello da dirsi- esordì il suo amante –e so bene che me ne pentirò non appena lo dirò, ma cosa c’è che non va?-
-Nulla-
-Mi ritrovo a insistere, non ti ho mai vista così … poco coinvolta … non sarà perché è morta la vecchia?- chiese, appoggiandosi su un gomito.
- Ken!- lo riprese lei.
-Quella donna non mi poteva proprio vedere, mi ha reso la vita impossibile, ma hai visto sua figlia? È un mostro, se non l’avessi presa su io sarebbe rimasta zitella-
A Florence sfuggì una risatina.
-E poi non era più giovane, a quell’età un malore improvviso è sempre possibile-
-Non è per lei, non solo almeno- ammise infine la donna.
-Credi ancora che la maledizione sia reale?-
-Tu cosa pensi?-
-Sinceramente? Che quella ragazza fosse una povera infelice, forse veramente figlia del nostro caro suocero, perché no? Non era certo un santo, comunque secondo me voleva essere accettata dalla famiglia, visto che è stata rifiutata si è suicidata, tutto qui-
-Logica pura-
-E se non avessi paura per i tuoi figli diresti anche tu così-
Aveva ragione, ma Florence non riusciva proprio a convincersi.
-Vuoi ancora rivolgerti ad Oberon?-
-Solo se sarà completamente necessario-
-Non lo sarà- disse Ken, stringendola a sé –e ora sei un po’ più coinvolta?-
-Riproviamoci- disse Florence, sorridendo ma proprio in quel momento il suo cellulare squillò. Subito fu percorsa da un brivido. Chi poteva volerle parlare a quell’ora del pomeriggio? Scese dal letto e andò a rispondere.
La voce dall’altra parte era di una donna, piatta e bassa, appena un sussurro. Le voleva comunicare che suo figlio Eduard aveva avuto un incidente e che lei doveva andare subito in ospedale. La donna si sentì svenire. Fu Ken ad accompagnarla in ospedale, non volle saperne di lasciarla andare da sola. A Frederick avrebbero detto che si trovavano allo stesso bar al momento della telefonata. Cosa ci facesse Eduard con la macchina non lo sapeva nessuno, infatti, anche se aveva la patente, gli era severamente proibito usare l’auto da solo. -Florence- esclamò il marito. Era in lacrime. –L’hanno operato, adesso è in coma, non sanno se ce la farà- Florence lo abbracciò. Non aveva mai visto Frederick piangere, non pensava nemmeno che ne fosse capace. Attesero insieme fino a sera.

La mattina seguente Florence si recò da Oberon, decisa a non lasciare nulla d’intentato. Fu fatta entrare nella sala del ricevimento quasi subito. Lo splendore di quel luogo superava quello di qualsiasi posto visitato da lei negli ultimi anni e la faceva sentire piccola e insignificante. Il re delle fate stava seduto sul trono, immobile, lo sguardo vigile. Era incredibile come la scena fosse identica all’ultima volta che era stata lì.
-Vostra Altezza- disse, con un profondo inchino.
-Florence, a cosa devo questa tua visita?-
Dritto al punto, ma forse era meglio così. La fata sospirò e raccontò ciò che era successo tutto d’un fiato. Oberon l’ascoltò senza parlare.
-Mi piego al vostro volere- concluse Florence, il capo piegato.
-Io non posso aiutarti, non fai più parte della mia corte- fu tutto ciò che disse il re.
-Non ero colpevole di ciò che successe anni fa, io non ho ucciso nessuno- urlò la fata, tremante, sentendosi improvvisamente richiamata in causa per ciò di cui non era mai stata colpevole.
-Tu e Ken avete ucciso un vostro simile, questo è ciò che mi ha spinto a cacciarvi all’epoca e che mi impedisce di aiutarti-
-Non c’erano prove- mormorò Florence.
-Ma c’eravate solo voi quel giorno in quell’ala del castello-
Ed era risaputo che loro due erano amanti, questo aveva spinto Oberon a condannarli entrambi, a buttarli in mezzo al mondo degli umani senza nessun indugio. Il popolo fatato aveva voltato loro le spalle. Florence sospirò stancamente. Stava diventando troppo simile agli esseri umani, se ne rendeva conto. Si congedò dal re e se ne andò senza aggiungere altro.

Nel periodo che seguì Eduard non migliorò, le sue condizioni rimasero costanti. Florence si recava a visitarlo ogni giorno insieme a Frederick. Ormai i medici dubitavano che si sarebbe svegliato.
-Vado a prendere una boccata d’aria- disse Frederick durante una delle visite.
Florence lo guardò uscire. Era quello che maggiormente soffriva a stare lì dentro e a vedere suo figlio ridotto in quel modo. Sospirò e prese la mano di Eduard. Era impressionante vedere tutti quei tubi, quelle flebo e quei monitor, quasi fosse un robot. Oberon avrebbe potuto far cessare tutto quello se solo avesse voluto. Non voleva.
Un urlo riempì l’aria. Florence seppe che un’altra disgrazia si era abbattuta sulla famiglia, quindi si alzò e andò ad affrontare il suo destino, pallida e salda.
Questa volta la vittima era Frederick che giaceva in fondo a una rampa di scale. Medici e infermiere lo stavano soccorrendo ma la fata seppe che sarebbe morto. E proprio allora notò qualcosa sulla mano del marito. Si chinò accanto a lui e poté vedere bene il segno prima di essere allontanata da uno dei soccorritori. Osservò da lontano i tentativi di rianimazione. Sapeva che cos’era quel segno, la domanda era a chi potesse appartenere, ma conosceva una persona che era in grado aiutarla in questo.

Jane l’accolse con un enorme sorriso sulle labbra. Era da tanto che non si vedevano, ma dopotutto Florence non visitava Avalon da molto tempo.
-Ehi, credevo che ormai fossi fissa tra gli umani- disse l’amica, abbracciandola –pensare che per poco non hai incontrato Christine, è giusta venuta a trovarmi poco fa-
Florence si sforzò di sorridere e si chiese cos’avesse portato la piccola Christine, quattro secoli appena, a recarsi ad Avalon. Guai anche per lei probabilmente.
-Dimmi tutto- la esortò Jane.
Florence raccontò quello che le era successo e le parlò del segno.
-Descrivimelo-
La fata cercò di essere il più precisa possibile e seppe di esserci riuscita quando vide lo sguardo di Jane brillare.
-Io so a quale stirpe fatata appartiene quel segno- esclamò esultante.
Quando Florence sentì il nome della stirpe per poco non si sentì mancare.

Ken l’attendeva come ogni martedì, ma questa volta in lui c’era qualcosa di diverso, oppure era solo Florence a vedere che non era lo stesso di sempre?
-Tesoro, oggi sei tu in ritardo- disse per accoglierla.
-So che sei stato tu, Ken della stirpe MacHolmes-
Lui sbatté le palpebre sorpreso, poi sorrise. –Ammetto che pensavo che a questo punto non lo avresti più scoperto-
-Ti rendi conto che mio figlio rischia di morire a causa tua?-
-Se lo avessi voluto morto non pensi che lo sarebbe già?-
Florence non era così ingenua da credere a quelle parole. –Vuoi ereditare tutti i soldi di famiglia, vero?-
Ken scoppiò a ridere. –Non faccio certo queste cose per soldi, no, io voglio vendicarmi di un torto fattomi molto tempo fa, da una certa Katherine Williams -
Quel nome non le era nuovo. –C’era una storia, una fanciulla che ingannò un membro del piccolo popolo rubandogli parte del suo potere, eri tu, giusto? Vuoi vendicarti perché quella ragazza t’ingannò-
Ken sorrise. –Esatto, non sai da quanto lavoro a questa vendetta-
-E io ero parte del piano-
-Flo, tesoro, ho scelto te per la chimica che c’è tra di noi, ammettilo, ti piace venire a letto con me-
Questo era vero, ma non avrebbe mai potuto perdonare Ken, non dopo ciò che aveva fatto. –Ci hai fatti cacciare da Oberon apposta-
-La corte è per gli stolti, chi resta lì? Solo quelli che non hanno il coraggio di affrontare il mondo, fate con mille anni alle spalle, praticamente delle mummie, noi giovani siamo in giro per il mondo, viviamo la vita degli esseri umani, ci uniamo a loro e a volte abbiamo anche figli, noi siamo il futuro, un giorno gli umani sapranno della nostra esistenza e pensi che la magia potrà difendere coloro che si ostinano a restare a corte? Con tutte le armi che sono state inventate? Credi davvero che Oberon possa difendere il suo piccolo popolo dalla bomba atomica?-
No, non poteva, di questo si parlava da tempo.
-Io ti ho dato la possibilità di stare in mezzo agli umani, noi riusciremo a nasconderci tra loro e a salvarci, ti ho anche dato una bella famiglia-
-Tu mi hai usata-
-Volevo vendicarmi, un sentimento naturale, non pensi?-
Naturale, proprio come l’odio che stava crescendo dentro di lei e la consapevolezza di non poter battere Ken in un incontro leale perché troppo forte.
-E poi ho voluto vendicare anche quella povera ragazza che si è uccisa, la nostra cognatina, perché non dubito che fosse figlia del vecchio Wolf-
-Hai sfruttato l’occasione per far cadere la colpa su di lei-
-Certo, altrimenti tu saresti diventata sospettosa e avresti capito subito che dietro a tutto c’ero io- sorrise –per dimostrarti le mie buone intenzioni sono disposto a renderti mia complice- Florence ispirò a fondo. Come crederci? Dubitava che Ken avrebbe lasciato stare i suoi figli e in quel momento la fata comprese che l’istinto di madre superava anche l’istinto di sopravvivenza.
-Io e te, una squadra, che ne dici?-
La fata ripensò agli incantesimi che aveva imparato e improvvisamente si ricordò del giorno in cui Viviana le aveva raccontato come aveva imprigionato Merlino. Per metterlo in pratica però doveva unirsi a lui per un’ultima volta. In fondo però questo non era un così grande sacrificio.
-Va bene- disse, fingendosi sconfitta.
-Questa è la migliore decisione presa in tutta la tua vita, Flo, non te ne pentirai-
La fata si avvicinò a Ken e lo baciò. Lui lo prese come un invito e incominciò a spogliarla senza ulteriori indugi. Florence attese che i loro corpi fossero uniti per procedere con l’incantesimo. Sapeva che era molto probabile che sarebbe rimasta imprigionata anche lei, Viviana era stata molto fortunata, ma raramente la fortuna aiuta i disperati. Ma tutto ciò che importanza aveva? Florence cominciò l’incantesimo e sentì subito il pavimento tremare.
-Cosa succede?- chiese Kevin, spaventato.
Florence non rispose, ma continuò con la formula, determinata a portare a termine quella storia, qualsiasi conseguenze ci fossero. Quando il suo amante cercò di allontanarla lei gli si aggrappò addosso. Una forte luce invase tutto, poi il buio.

Eduard Wolf si svegliò dal coma quando ormai i dottori non gli avevano dato nessuna speranza. Fu la zia Caroline a dovergli spiegare che il padre era morto e che della madre, così come di suo marito, non se n’era trovata più traccia. I maligni dicevano che erano fuggiti insieme, ma Caroline non ci credeva minimamente, più probabile che Ken stesse riaccompagnando a casa la cognata e che avessero avuto un incidente. Il ragazzo sbatté le palpebre. Aveva perso la madre e il padre, tutto gli parve cadergli addosso in quel momento. Non si accorse neppure della piccola luce, a forma di fatina, che stava sospesa a mezz’aria e pareva fissarlo con gli occhi tristi con cui una madre guarda un figlio che non potrà mai più riabbracciare.

Note: Questa storia partecipa al challenge Mal di Challenge e parla della sessualità senza amore

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Capitolo 4
*** L'uomo dei sogni ***


Era la terza volta quella settimana che facevo quel sogno. Lui, l’uomo dei miei sogni, era sempre lo stesso, alto, dai folti capelli neri e dalle labbra carnose, bello oltre ogni definizione. Si avvicinava ogni volta con la stessa sfrontatezza e vinceva sempre le mie resistenze senza una parola, spingendomi contro il muro e baciandomi, con forza bruta ma gradita. Il sogno finiva così, a metà. Quella notte però successe qualcosa di diverso, lui si bloccò e mi sorrise.
-Ho bisogno del tuo aiuto, Miriam, ho assolutamente bisogno che tu prenda la collana che troverai sotto la terza mattonella partendo dalla parete a destra della tua stanza. Quando l’avrai trovata spediscila all’indirizzo che vedrai sul foglietto che c’è con essa-
Riaprii gli occhi, turbata da quel sogno. Possibile che ci fosse qualcosa di vero in esso? Follia anche solo pensarlo, eppure qualcosa mi spinse ad ubbidire all’uomo che avevo sognato. Quale fu la mia sorpresa quando scoprii che la mattonella che aveva indicato si poteva alzare e che sotto di essa c’era veramente una collana con un biglietto sul quale si poteva leggere un indirizzo scritto a mano. Mi ritrovai così a non sapere cosa fare. Provare a mandare la collana? Oppure fingere che non fosse mai successo nulla e rimetterla dove l’avevo trovata? Ci meditai un attimo, poi annuii, perché non fare un tentativo in fondo? Al massimo non sarebbe arrivata a nessuna destinazione.

Quella mattina andai a lezione con una certa inquietudine. Prima di arrivare all’università ero passata a spedire la collana e avevo scritto nella lettera, che avevo allegato ad essa, di essere la nuova inquilina dell’appartamento in cui l’avevo trovata e che avendo visto il foglietto con l’indirizzo avevo ipotizzato che la collana appartenesse a qualche abitante di quel luogo. Chiedevo cortesemente di farmi sapere se la mia ipotesi era corretta. Pensando alla lettera presi posto in fondo all’aula. Il mio cellulare vibrò nello stesso istante. Era Mark, il mio ragazzo. Feci una smorfia. I primi tempi, quando tradivamo il suo amico Jonathan, erano stati eccitanti, ma ora tutto aveva perso il suo spessore e lui non faceva altro che parlare della sua ex. Gli risposi rapidamente, prima di concentrarmi sulle parole del professore. Stava parlando di Shakespeare. Improvvisamente mi chiesi, e non era la prima volta, se avessi scelto la strada giusta. Studiare lettere mi piaceva, certo, ma non mi sentivo a mio agio lì, proprio come non la ero stata a giurisprudenza e a lingue. Sospirai. Forse avrei dovuto provare le materie scientifiche. Biologia o chimica oppure, perché no, ingegneria. Come dirlo però a mio padre? Non volevo dargli l’ennesima delusione. Sospirai e mi ritrovai a ripensare al sogno fatto, all’uomo che mi aveva dato un brivido che non provavo da quando io e Mark eravamo amanti clandestini. Non riuscendo a concentrarmi decisi di alzarmi e andare a fare un giro. Proprio mentre camminavo per i corridoi della facoltà, lo sguardo perso nel vuoto, incontrai Jill, la mia compagna di corso, che arrivava con respiro affannoso.
-Sono in ritardo?- mi chiese.
-Non ti sei persa nulla-
Lei traballò sui tacchi alti, quindi si risistemò lo zainetto viola sulle spalle, un residuo del liceo probabilmente. –Stai andando via?-
-Non m’interessa e poi … ho fatto di nuovo quel sogno-
Lei inarcò le sopracciglia sorpresa, poi annuì. –Quell’uomo?-
-Esatto e c’è di più, se mi accompagni al bar ti racconto-
Jill parve un attimo indecisa, poi acconsentì. Andammo al bar di fronte all’università e ci accomodammo in un tavolino in disparte, in modo tale che i nostri discorsi fossero lontani da orecchie indiscrete.
-Tu non crederai alla storia della collana- fu la reazione di Jill al mio racconto.
-Non puoi negare che questa storia sia strana-
-Bizzarra, certo, ma questo non vuol dire che quell’uomo fosse reale- sospirò –piuttosto le cose con Mark come vanno?-
-Perché me lo chiedi?-
-Perché forse il problema non è l’uomo dei sogni, ma il fatto che tu non riesca a stare con un ragazzo senza tradirlo con un altro-
-Avresti dovuto studiare psicologia, lo sai?-
-Ora aggredisci perché ti senti scoperta- esclamò con sguardo vittorioso.
Sì, proprio una psicologa mancata, comunque era ancora in tempo per seguire la sua strada e soprattutto per lasciare stare la mia.
- Mark è un bravo ragazzo dopotutto e ti ama molto, dovresti dargli una possibilità-
-E secondo te cosa sto facendo?-
-Una possibilità vera intendo-
Mi alzai, infastidita da quello che Jill stava insinuando. –Questa chiacchierata mi ha fatto molto piacere, ma ora devo andare-
-Pensa a quello che ti ho detto-
-Certo, certo- dissi dirigendomi verso l’uscita.

Quella notte lo sognai ancora. Mi venne incontro come al solito, mi spinse contro il muro e lo baciai. Questa volta fui io a parlare.
-Ho mandato la collana- dissi.
Lui sorrise mostrandomi i denti bianchi. –Bene- e tentò di baciarmi.
-Fermo- dissi, spingendolo via –voglio sapere chi sei-
-Chi sono io? Non mi riconosci? Vengo ogni notte da te, non dovrei essere più uno sconosciuto-
-Chi sei?- ripetei con voce che non ammetteva repliche.
- Robert – si presentò con un profondo inchino –per servirti-
-Non mi basta un nome-
-Ma noi siamo un nome, cosa dovrei dirti di più?-
Solo un nome … odioso ma vero. –Almeno mi puoi dire per chi era quella collana?-
- Un’amica, gliel’ho semplicemente restituita-
-Tu abiti nella mia casa?- domandai con esitazione, temendo la risposta.
-Abitavo- mi corresse.
-Cosa vuol dire?-
-Prima di morire abitavo lì- puntualizzò e i miei dubbi divennero conferme. Mio padre mi aveva proprio trovato decisamente un bell’alloggio.
-Spero che tu non sia morto proprio nella stanza in cui dormo io- mormorai.
-Oh no, non temere, e poi non sono uno spirito vendicativo, al contrario- mi accarezzò la guancia.
-Se non sei rimasto per vendicarti allora perché sei qui?-
-Sinceramente non lo so, forse alcuni vanno avanti e altri rimangono qui, io sono sempre stato uno attaccato al passato-
-E come mai mi appari nei sogni?-
-Non so rispondere neppure a questo … mi hai forse preso per un’enciclopedia?- rise come se fosse la battuta più divertente del mondo.
Io rimasi muta, tra lo spaventato e il confuso. Doveva essere solo un sogno, non poteva esserci nulla di reale in quella folle storia. Forse avevo sognato anche la collana. Sì, doveva essere andata proprio così, altrimenti tutta quella storia proprio non si spiegava.
-So solo che sono qui e che mi sento vivo per davvero, forse per la prima volta nella mia vita-
A quel punto la sveglia cominciò a suonare, potevo sentirne con precisione il suono. –Non ora- mormorai.
-Non temere, tornerò- disse, prima di sparire nella nebbia.
Mi svegliai nel mio letto. Doveva essere stato solo un sogno, per forza. Mi misi seduta. Forse davo troppa importanza a quei sogni. Mi misi in piedi e iniziai a prepararmi. Mi stavo infilando la maglietta quando mi venne una folle idea. Rapida corsi al computer e lo accesi. Appena mi si aprì la pagina internet digitai il nome Robert e l’indirizzo del mio appartamento, quindi premetti invio e incrociai le dita, con la folle speranza che quel tentativo avrebbe dato i suoi frutti. Ed effettivamente qualcosa trovai. La pagina web si riempì di una serie di titoli. Aprii il primo e lessi rapidamente. Si trattava di un articolo di parecchi anni prima che parlava della morte di una coppia di fidanzati proprio nell’appartamento in cui stavo io. Entrambi erano morti per delle fughe di gas la cui origine non era chiara, comunque tutti i siti che aprii erano concordi nell’affermare che si era trattato di un incidente, o almeno che non erano state trovate prove di un intervento umano in quella faccenda. Cliccai su una delle fotografie per ingrandirle e potei vedere Robert abbracciato a una ragazza bionda dai grandi occhi azzurri. Quindi quella era la sua fidanzata. Sentii una stretta allo stomaco, era forse gelosia? Mi ricordava vagamente l’ex di Mark e questo non mi piaceva. Chiusi il computer e finii di prepararmi.

-A cosa stai pensando?-
-A nulla- dissi, continuando il bacio che Mark aveva interrotto.
-Ehi- disse lui allontanandomi –prima mi dici che succede e poi continuiamo-
-Non c’è nulla che non va- mi sforzai di sorridere.
-Ormai è da qualche giorno che ti vedo strana-
Forse non avrei dovuto tradire il tuo amico per te, pensai. Ovviamente mi limitai a scuotere la testa. –Sono solo un po’ stanca-
-Tutto qua?-
Annuii. – Cos’altro ci dovrebbe essere?-
-Non so, volevo solo esserne sicuro-
Mi rigettai su di lui, baciandolo. In realtà mentre le mie labbra si muovevano sulle sue il mio pensiero era molto lontano da lì, in un’altra realtà, tra le braccia di un altro, un uomo morto e sepolto.
-Aspetta-
Buttai indietro la testa e sospirai. –Non mi piace aspettare e lo sai bene-
-Questa sera i miei non ci sono-
Annuii. E a me cosa cambiava?
-Magari potresti venire da me, potremmo anche dormire insieme-
Passare la nottata lontana dal mio appartamento? Rischiare che Robert non venisse a trovarmi? Mi piaceva Mark, ma non fino a quel punto. –Penso che sia meglio non lasciare vuoto il mio alloggio, non vorrei che entrassero i ladri-
-Allora posso venire io da te-
Restai un attimo in silenzio prima di comprendere che non esisteva nessuna obiezione sensata. –Okay- mi ritrovai a dire.
-Perfetto, vengo per le nove-
Annuii senza avere la forza di dire nulla.

Quella sera io e Mark andammo a dormire tardi. La sua presenza nel mio letto mi dava un certo fastidio, ma strinsi i denti e mi sforzai di non darlo a vedere.
Robert arrivò senza indugi. –Mi sei mancata- mi sussurrò –questa sera hai ritardato, sei in dolce compagnia?-
Sorrisi. –Ora sì- e lo baciai.
-Questa notte ho in mente una sorpresa- mi disse.
-Quale?-
Un attimo dopo ci trovavamo in un’enorme piazza con la torre Eiffel che brillava sopra di noi. La fissai ad occhi aperti. Ero stata in Francia solo una volta, anni prima. All’epoca la mia bambinaia, una delle tante, mi aveva portata a visitare la città mentre i miei si dilettavano in chissà quale attività. Ricordavo di essere stata sotto la torre Eiffel e di averne ammirato le forme con la fronte aggrottata, chiedendomi come fosse possibile che un ammasso di ferraglia attirasse tante persone. Ora lo comprendevo. Vederla così illuminata, non so, mi trasmetteva qualcosa.
-Ti piace?- chiese Robert al mio fianco.
-È meravigliosa- mormorai, il cuore in gola per la sorpresa.
-Ed è tutta per noi- disse e indicò un tavolino che parve apparso dal nulla –vogliamo sederci e bere qualcosa?-
Annuii, confusa ed euforica.
Robert mi precedette e tirò indietro la sedia per farmi sedere. Sorrisi, un vero gentiluomo. Mi accomodai.
-Cosa vorresti bere?-
-Non so, consigliami tu-
Un attimo dopo mi apparve di fronte un calice pieno di un liquido giallo e spumoso.
-Questo è un ottimo spumante- mi disse lui, con un sorriso, prendendo il calice analogo che era apparso di fronte a lui.
-Questo sta a me deciderlo- dissi, portandomi alle labbra il bicchiere. Devo ammettere che lo spumante mi piacque subito.
-È di tuo gradimento?-
-Abbastanza-
Robert bevve un lungo sorso, quindi sospirò. –Parigi, la mia città preferita-
-Anche la mia- dissi in un sussurrò.
-Davvero?-
-Sì, sarà perché quando eravamo a Parigi c’era Bea-
-E chi è? Se non sono indiscreto-
-Oh, era la mia bambinaia, una ragazza divertente, sapeva un sacco di cose, mi piaceva molto Bea-
-Siete rimaste in contatto?-
-Oh no!- esclamai, scuotendo la testa –Bea è andata via quando ero ancora piccola-
-Nulla di grave, spero-
-No, dopo un po’ se ne andavano tutte, papà non voleva che stessero molto, che mi affezionassi a loro-
-Quindi ne hai avute molte?-
-Troppe, non le ricordo neppure tutte- dissi, sforzandomi di sorridere –Bea, Hilary, Meg, Sally, erano così tante, tutte giovani, carine e cortesi- sussurrai. Tutte particolarmente legate a mio padre. Mi mordicchiai le labbra, ecco ciò che tutte avevano in comune, il legame con mio padre. Cercai di pensare ad altro.
-Deve essere stato difficile per te-
-Nemmeno troppo, alla fine erano come vaghe figure di passaggio, stavano un paio di mesi, sei al massimo e poi sparivano come se non fossero mai arrivate- sospirai. Non era doloroso parlarne, ma neppure piacevole, come se in qualche remoto angolo del mio cuore quella storia mi rattristasse.
In quel momento una musica invase l’aria. Robert si alzò e mi porse la mano. Sorrisi, sapendo cosa stava per succedere. Un attimo dopo ballavamo sotto la torre Eiffel illuminata.

-Miriam- mi chiamò una voce.
Aprii gli occhi controvoglia. Potevo ancora sentire il profumo di Robert e il calore di suoi corpi. Incontrare lo sguardo di Mark, tanto più che mi sembrava infuriato, mi fece sobbalzare.
-Chi è Robert?- mi chiese immediatamente.
Come poteva sapere di Robert? Possibile che avessi detto il suo nome nel sonno? –Non so, dimmelo tu-
-Un tuo amante probabilmente- ruggì, prendendomi per le spalle e scuotendomi.
-Lasciami, mi fai male- urlai, dibattendomi.
Lui mi lasciò e io sbattei con la schiena contro la spalliera del letto. –Pensavo che con me fosse diverso, ma tu non puoi cambiare- si alzò e si allontanò senza dire nulla.
Io rimasi immobile nel letto, tra il sollevato e l’infelice. Sobbalzai quando sentii la porta sbattere e attesi.

Più tardi vidi che avevo ricevuto una lettera. Non riconobbi il mittente per cui l’aprii e la lessi. Riguardava la collana che avevo spedito due giorni prima. Mi veniva comunicato che la collana era stata ricevuta e che la sorella di Sue era molto felice per averla ritrovata. Nulla d’altro. Presa da un’ispirazione improvvisa presi lo smartphone e ricercai il nome di Robert. Avevo ragione, Sue era il nome della fidanzata. Quella collana apparteneva a lei.

-Hai litigato con Mark?- mi chiese Jill, lo sguardo sgranato e la tazza di tè caldo tra le mani.
-Esatto e ora giurami di non prendermi per pazza-
Jill esitò, poi annuì.
Le raccontai rapidamente di Robert, dell’incidente che lo aveva ucciso, della lettera in risposta alla collana.
-Non hai detto nulla di Mark- mi fece notare lei.
-Non ha importanza ora-
-Sì invece, è di grande importanza ciò che pensi di lui-
Sospirai. Non capiva, non poteva capire, nessuno aveva mai capito.
-Lo chiamano amore conflittuale-
-Cosa?-
-Le tue relazioni, l’ho letto in uno dei libri di mio padre, è una teoria psicologica che dice che se si hanno avuti vari oggetti d’amori durante l’infanzia se ne hanno diversi anche da adulti e non ci si riesce ad accontentare-
La fissai un attimo senza parlare, non sapendo proprio cosa dire.
-Il tuo è un classico caso da manuale, genitori assenti e bambinaie troppo presenti-
-Forse hai ragione- acconsentii per poter spostare l’argomento su ciò che m’interessava maggiormente –ma adesso dobbiamo parlare di Robert -
-Mi dispiace dovertelo dire ma Robert è frutto della tua fantasia, il modo per trovare l’uomo perfetto e che tra un po’ non ti basterà più nemmeno lui-
Sospirai e mi alzai in piedi. –Mi dispiace, ma se non mi credi è inutile continuare questa conversazione- e me ne andai furiosa.

Quella notte chiesi a Robert di Bea.
-Era la mia fidanzata-
-L’amavi?-
-Mai come te-
E per il momento mi bastò.

Nei giorni seguenti cercai di evitare Jill. Quando ricevevo le sue chiamate le rifiutato e quando la vedevo all’università, cercavo di sedermi il più lontano possibile. Per quanto riguarda Mark mi capitò d’incontrarlo una volta. Ci fissammo un attimo, poi io proseguii dritta, fingendo di non sentire che mi stava chiamando. In quel momento avrei solo voluto essere tra le braccia di Robert.

-Mi sei mancato- gli sussurrai quella sera. Non l’avevo mai detto a nessuno prima.
-Anche tu mi sei mancata- mi disse lui, stringendomi a sé.
Restammo immobili, abbracciati, a farci da sfondo Praga innevata, così bella da sembrare irreale, ed effettivamente era irreale, appartenente a un sogno.
-Che ne dici di conoscerci un po’ più approfonditamente?- mi chiese Robert.
Mi sentii avvampare come ormai non succedeva più da anni.
-Scusa, non volevo imbarazzarti-
-Nulla- dissi io.
-Io sono disposto ad … -
Lo interruppi con un bacio. Certo che ero pronta, da molto tempo oramai. Iniziammo a spogliarci. Sentii il mio abito argentato scivolarmi lungo il corpo, quindi feci un balzo e gli cinsi la vita con le gambe, aggrappandomi a lui con tutta la mia forza. Lui mi depose su un enorme letto a baldacchino, quindi mi fu sopra.
-Sei mia, Miriam – mi sussurrò, con una voce che, chissà perché, mi fece rabbrividire.
Il suono del telefono invase il sogno. Mi sentii ghiacciare. No, non proprio in quel momento. Non potei impedire il risveglio.

- Miriam - era Jill.
-Che vuoi? Stavo dormendo- risposi, non nascondendo il fastidio.
-Mi spiace averti svegliata, ma è una cosa urgente- la voce sembrava agitata.
-Che cosa?-
-Si tratta di Robert -
Sospirai. –Dimmi-
-Ho parlato con il poliziotto che si è occupato dell’incidente-
-Tu cosa?-
-Non riattaccare, è importante, lui pensa che l’incidente sia stato provocato e non è tutto, la fidanzata di Robert aveva sporto una denuncia contro di lui, ritirata proprio il giorno precedente la loro morte-
-Una denuncia?-
-A quanto pare il fidanzato perfetto molestava la ragazza-
Non ci potevo credere. –Deve esserci una spiegazione-
-Io non so se credere o meno alla tua storia, Miriam, però promettimi che starai attenta-
-Attenta a cosa?- domandai –Non corro nessun pericolo- dissi, ma ormai neppure io ero troppo convinta di questo, nonostante non volessi darlo a vedere.
-Non so cosa stia succedendo, ma non sei la prima a dire di averlo sognato, ho parlato con il precedente proprietario di casa tua, dice che da quando aveva comprato la casa era tormentato dagli incubi-
Risi. –Credimi, i miei non sono incubi-
-Certo, tu sei una donna, ma con lui Robert era molto aggressivo, lo voleva uccidere-
-Impossibile- ma perché una parte di me non era così sconvolta e neppure sorpresa?
-Io non so davvero cosa sia vero e cosa no, ho l’impressione di stare per impazzire, ma ascoltami, la situazione è grave-
-Io credo in Robert – dissi con voce sicura, quindi riattaccai.

Inutile dire che fui tormentata tutto il giorno dai dubbi e che quella notte fermai Robert prima che mi abbracciasse.
-Un attimo, voglio che parliamo di una cosa- dissi, facendo un passo indietro.
-Tutto quello che vuoi-
E io gli dissi ciò che Jill mi aveva riferito. –Io non so a cosa credere- sussurrai.
Robert sospirò. –E se anche fosse?-
-Cosa vuoi dire?-
-Bea non era una santa, questo se lo dimenticano tutti-
Mi sentii gelare a quelle parole. –Sei stato tu?-
-Aveva giurato di amarmi, sai? Lo aveva detto così tante volte che alla fine mi aveva convinto- sbuffò, furioso –Mi ero innamorato veramente di lei, poi mi ha preferito l’altro-
-Sei stato tu?- ripetei.
-Se si fosse comportata meglio non sarebbe successo nulla-
Ora sì che Robert mi faceva paura.
-Ma tu non mi farai questo, vero? Altrimenti sarà la fine-
In quel momento mi piantai le unghie nei palmi delle mani con tutta la forza che avevo in corpo. Il dolore mi svegliò. Sbattei le palpebre disperata e osservai la stanza buia. Un attimo dopo chiamai Jill.

-Mi dispiace venire a casa tua a quest’ora- dissi, entrando quando Jill mi aprì la porta.
-Non importa- disse lei, facendosi da parte per farmi entrare.
-Non avrei saputo a chi altro rivolgermi e soprattutto non potevo aspettare fino a domani mattina-
Jill mi condusse in camera sua. Era una stanza piccola, con poster di cantanti che ricoprivano le pareti. –Accomodati dove vuoi-
Come se ci fossero molti posti. Mi accosciai sul letto. –Bella stanza- dissi, tentando di essere gentile.
-Grazie- si sedette sulla sedia della scrivania –ora dobbiamo capire come si annienta uno spirito-
-Non guardare me, io non ho mai visto un film horror in vita mia, non so neppure da dove s’inizi-
-Io conosco una persona che adora i film horror- mormorò Jill.
- Cos’aspetti a chiamarla allora?-
Lei sospirò. –Aspetta qua- si alzò e uscì dalla stanza.
-Io non intendevo immediatamente- dissi. Va bene la fretta, ma come poteva pretendere che una persona le rispondesse a quell’ora della notte? Era troppo tardi. Inaspettatamente Jill tornò in compagnia di un ragazzo dall’aria assonnata e dai capelli spettinati.
-Si può sapere p … - si fermò, la bocca spalancata, lo sguardo fisso su di me. Gli sorrisi, ben consapevole del mio fascino e dell’effetto che faceva sul ragazzo.
-Avremo bisogno del tuo aiuto- dissi.
-Al vostro servizio, fanciulle-

Spiegai rapidamente la situazione al fratello di Jill, che scoprii chiamarsi Jason, correlandola con molti sorrisi e sguardi languidi. La cosa funzionò alla perfezione.
-Signore, ammetto che è un caso difficile, ma non impossibile-
-Davvero?-
-Non esiste l’impossibile-
-Allora sono in ottime mani-
La soluzione però non era così semplice. –Gli spiriti restano legati ai luoghi in cui hanno lasciato qualcosa durante la loro vita-
-Questo cosa vuole dire?-
-Che dobbiamo cercare cos’ha lasciato a casa tua e che lo lega ad essa-
-E lo dobbiamo fare prima che io vada a dormire- non volevo più aver modo d’incontrare Robert, soprattutto dopo ciò che sapevo di lui.

Perquisimmo la mia casa da cima a fondo, cosa stavamo cercano non era chiaro, ma questo in fondo non aveva una grande importanza, lo avremmo capito non appena trovato.
-Non c’è nulla qua- urlò Jill dalla cucina.
-Deve essere qualcosa di evidente- precisò Jason, piegato sotto il mio letto.
Per sicurezza eliminammo tutto ciò che poteva trattenere lì Robert. E alla fine trovai un medaglione al cui interno c’erano delle ciocche di capelli e una scritta: Bea & Robert.
-Ecco cosa lo trattiene qua- esclamò Jason.
-A questo punto cosa facciamo?- chiesi.
-Bruciamo il medaglione e tutto sarà finito-
Lo bruciai personalmente e mi accertai che i capelli al suo interno ardessero fino a diventare cenere. –Meglio portarle fuori- dissi –tanto per essere sicuri-
Buttammo le ceneri il più lontano possibile dal mio appartamento, quindi ci congedammo. Io ero veramente stanca.
-Domani sei libera?- mi chiese Jason prima che ci separassimo.
-Certo-

Ho messo per iscritto questa storia per aiutare chiunque si trovi nella mia situazione, tra poco andrò a dormire senza più l’incubo di Robert.

L’appartamento sfortunato
Possibile che un appartamento porti sfortuna? Ieri mattina è stata trovata in fin di vita nel suo appartamento Miriam Liam, figlia dell’omonimo industriale. La giovane è morta poco dopo in ospedale. Chi l’ha assistita nei suoi ultimi attimi di vita dice che delirava, parlando di un uomo dei sogni. La causa della morte non è chiara, ma si sospetta una fuga di gas, lo stesso motivo che portò alla morte nello stesso luogo alcuni anni fa una coppia di fidanzati. Vi terremo aggiornati sugli sviluppi.

Note: Questo racconto partecipa al challenge Mal di challenge e parla dell’amore conflittuale

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Capitolo 5
*** Dark Shade ***


Con le lacrime agli occhi mi diressi verso la palestra. Ero stava vittima dell’ennesima delusione, nessuno mi aveva invitata al ballo di fine anno. Non che questa fosse una novità, succedeva ogni anno che io non venissi scelta, solo che questa volta avevo veramente creduto che Fred, il mio compagno di classe, me lo chiedesse, ne ero così certa da aver detto alla mia amica Jenny di avere già l’invito in mano. Sbagliavo. Entrai in palestra e mi cambiai rapidamente nello spogliatoio. Avevo intenzione di esercitarmi fino a cadere a terra dalla stanchezza. Mi diressi al tapis-roulant, decisa a cominciare con quello, quando qualcuno mi superò rapidamente.
-Ehi- esclamai, decisa a dirgliene quattro a quel maleducato. Le mie intenzioni mutarono non appena si girò. Era identico a come mi ero immaginato Erik, il protagonista della mia serie di romanzi preferiti, Dark Shade. Restai a bocca aperta incapace di parlare. Stessi capelli biondo cenere, stesso ciuffo che ricadeva sull’occhio destro, stessi profondi occhi azzurri, addirittura stesso sorriso, con la piccola cicatrice accanto al labbro che veniva descritta nei libri.
-Scusa, volevi andarci tu?- mi chiese –Sono un vero maleducato- fece un passo indietro e un profondo inchino –sono perdonato?-
-Certo- mormorai, non riuscendo a dire altro. Indossava la maglietta con pantera proprio come nel secondo romanzo della saga. Incredibile.
-Allora accetterai le mie scuse e un caffè?-
Mi sentii avvampare. Era un invito quello? Il primo della mia vita.
-Oppure il caffè non ti piace? Preferisci qualcos’altro?-
-No, il caffè va benissimo- dissi subito, temendo che potesse interpretare la mia esitazione come un rifiuto.

Un quarto d’ora dopo eravamo seduti sulle panche della palestra, il caffè fumante della macchinetta in mano, intenti a parlare come se ci conoscessimo da una vita.
-Vieni spesso in palestra?- gli chiesi.
-Qualche volta, per tenermi in forma- sorrise, proprio come doveva sorridere Erik nel romanzo, facendo risplendere lo sguardo.
Avrei voluto osare qualcosa di più, magari chiedergli il numero, ma mi mancò il coraggio. Lui però parve leggermi nel pensiero.
-Si sta facendo tardi, mi dai il tuo numero? Magari potremmo vederci ancora-
-Certo- glielo dettai con voce un po’ tremante, quindi aspettai che me lo facesse squillare –Ehm- dissi –però non ci siamo ancora presentati-
-Oh che sbadato- mi porse la mano –il mio nome è Erik -
M’irrigidii. – Kelly – sussurrai.
-Nome stupendo-
-Già-

Uscii dalla palestra saltellando, non mi sentivo così felice da molto tempo. Quel ragazzo sembrava uscito da chissà dove solo per risultare di mio gradimento. Mi diedi un pizzicotto per assicurarmi di non stare sognando. Incredibile come somigliasse al personaggio dei miei romanzi, ma a volte le coincidenze sanno essere enormi. Il trillo del mio cellulare mi fece sobbalzare. Era un messaggio di Erik, diceva che gli mancavo. Sentii un tuffo al cuore. Quella era l’inizio di una bella storia d’amore, ne ero certa. Non mi ero mai sentita così euforica. Ridacchiai tra me e me.

Ovviamente non riuscii a tenere la bocca chiusa. La prima che lo seppe, appena arrivata a casa, fu Jenny che rimase sorpresa.
-Fino a stamattina mi parlavi di Fred e ora chi è questo Erik?-
-Identico al protagonista di Dark Shade -
-Wow, allora deve essere davvero bello-
-Un sogno ad occhi aperti, è perfetto-
-Quindi andrai con lui al ballo?-
Non avevo più pensato al ballo. Sì, Erik sarebbe stato il cavaliere perfetto, quello che tutte le mie compagne avrebbero guardato invidiose.

Quella sera stessa accennai ad Erik del ballo, esprimendo la mia tristezza nel non avere ancora un accompagnatore. Lui non parve cogliere subito l’allusione, ma in seguito, dopo un po’ d’insistenza, comprese quanto per me fosse importante.
-Ti accompagnerò al ballo- disse.
Non riuscii a trattenere un gridolino di gioia. –Bene, ho un vestito bellissimo- e nuovissimo, ma evitai di aggiungerlo, sarebbe sembrato troppo disperato.

Nei giorni seguenti mi capitò di rileggere il primo libro di Dark Shade, nel tentativo di trovare cosa l’Erik reale e quello del romanzo avessero in comune. La descrizione fisica combaciava alla perfezione. Nella storia Erik era un immortale dall’origine non meglio specificata, una creatura tanto affascinante quanto infelice, che girava per il mondo e per le epoche senza riuscire a trovare la pace. Inutile dire che incontrava una ragazza, Gween, timida e impacciata, di cui s’innamorava. La loro storia d’amore era travagliata, ma procedeva per cinque libri senza nessun vero cedimento. Un amore fittizio, chiaramente irreale, senza contare che i due protagonisti non andavano oltre al bacio. La mia storia invece sarebbe stata molto più terrena e appassionata. Ero proprio intenta a fantasticare quando Erik mi propose una passeggiata al parco.
-Certo, dammi il tempo per prepararmi, mi passi a prendere sotto casa?-
-Sono praticamente già lì, fai con comodo-
Sospirando mi vestii, un abitino stretto che mi arrivava a malapena alle ginocchia e che valorizzava le mie gambe. Mi guardai allo specchio, feci un giro su me stessa, mi avvicinai con il viso per controllare che il trucco fosse a posto e corsi fuori, afferrando la borsetta.
-Sei stata velocissima- disse Erik che mi aspettava dinnanzi al portone.
In quello stesso momento passò la ragazzina che viveva al piano sotto al mio, mi salutò con un grugnito e ignorò completamente Erik. Per poco non scoppiai a ridere, brutta l’invidia.
-Invece ci ho messo troppo- dissi, afferrandomi al suo braccio.
-Sono ben disposto ad aspettarti- disse lui e c’incamminammo lungo il viale.
-Sei sempre così cortese-
-Come potrei non esserlo? E poi oggi sei proprio bellissima-
Ridacchiai. –Merito del vestito- sorrisi –quello che metterò sabato sera però sarà ancora più bello-
Qualcosa nel suo sguardo cambiò. – Kelly, forse dovrei dirti … - e proprio in quel momento vidi Jenny.
-La mia amica- dissi –vieni, te la presento-
-Aspetta-
Non lo ascoltai e lo trascinai con me, il mio trofeo, mentre chiamavo Jenny a gran voce.
Lei si voltò e mi fissò un attimo sorpresa, prima di venirmi incontro con un sorriso. – Kelly, che piacere vederti-
-Come stai?- le chiesi.
-Bene, stavo andando a comprare un girocollo che ho visto ieri, vuoi accompagnarmi?-
Ma come poteva chiedermelo vedendo che ero in dolce compagnia? Ma Jenny era sempre stata gelosa di me. –Come vedi- esordii, sicura di me –sono in ottima compagnia-
La mia amica mi guardò con occhi sgranati, quindi spostò lo sguardo intorno a me. –In che senso?-
Sbuffai. –Lui è Erik -
-Lui chi?-
-Ecco, era di questo che dovevo parlarti- disse Erik.
-Oh, l’invidia è proprio brutta- dissi rivolta a Jenny.
-Invidia? Dovrei essere invidiosa di una pazza che parla da sola?-
Quella frase mi colpì come un pugno.
-Ti hanno vista tutti in questi giorni, i monologhi che fai per strada, io speravo che fosse una cosa priva d’importanza, un’eccentricità, ma a quanto pare è qualcosa di molto più grave-
-Cosa stai dicendo?- sussurrai, la voce che tremava.
-Andiamocene- intervenne Erik –andiamo via, ti spiegherò tutto- e mi lasciai trascinare via da lui, non sapendo cosa fare.
Ci fermammo parecchio più in là. Mi appoggiai a un muro con il respiro affannato. –Adesso mi dici cosa sta succedendo-
Quello che Erik mi raccontò mi lasciò così sorpresa che dovetti sedermi sulla prima panchina e farmi rispiegare tutto da principio.
-Quindi tu sei veramente quell’Erik?- chiesi infine, per essere sicura di aver compreso bene, divisa tra lo stupore, la gioia e la paura.
-Quello che si racconta in quei libri è vero- disse lui, non abbassando lo sguardo.
-Sei immortale?-
-Sì-
-Wow, wow, è incredibile-
-Stai reagendo bene alla cosa-
-In realtà semplicemente non riesco a crederci-
-In cuor tuo sai bene che non ti sto mentendo-
Certo e potevo rivedere la reazione di Jenny, ma questo avrebbe voluto ammettere che Erik non era reale e io non potevo ammetterlo, ne sarebbe andata della mia salute.
-Io ti amo, Kelly -
Quello fu troppo, corsi via in lacrime.

La settimana seguente fu un’agonia. Dovetti andare a scuola e fare finta di non sentire le risatine dei miei compagni. Jenny mi evitava, fissandomi malamente quando c’incontravamo faccia a faccia. Inutile dire che non andai al ballo, senza cavaliere e senza dignità non c’era motivo di recarvisi. Inoltre fui ben attenta a evitare ogni occasione di aggregazione sociale, compresa l’ora di ginnastica, quando le ragazze si radunavano nello spogliatoio per spettegolare. Erik continuava a chiamare e mandare messaggi, ma io li ignoravo, seppure con un profondo dolore nel cuore. Avrei preferito cento volte potergli rispondere, ma non potevo accettare ciò che mi aveva detto. Poi un giorno lo trovai fuori dalla mia scuola. Rapida svoltai a destra per evitarlo.
- Kelly, aspetta- disse lui raggiungendomi.
Non gli risposi, il cuore in gola, la terribile paura di sembrare pazza.
-Non puoi ignorarmi per sempre-
-Sì che posso, come fanno tutti gli altri, tu non esisti- sbottai.
Ci fu un attimo di silenzio, come se la cosa l’avesse offeso. –Okay, hai vinto tu, ma dammi la possibilità di spiegarti tutto-
Mi limitai a scuotere la testa.
-So che tu a me ci tieni-
Mi sfuggì una risatina nervosa.
-Sbaglio forse?- chiese lui, afferrandomi per il braccio.
-No- ammisi con un certo rancore.
-Cambia forse qualcosa che mi possa vedere solo tu? Il tuo sentimento per me è diverso?-
No, non lo era, per me non era cambiato assolutamente nulla. Questa volta non risposi, lui non doveva sapere cosa provavo.
-Quello che provo per te è autentico-
Osservai un gruppo di ragazzi che mi fissava ridacchiando. Dovevo proprio essere uno spettacolo esilarante. –Fa male- sussurrai –essere derisa ma male-
-Ma l’amore deve fare un po’ male, altrimenti non è autentico, non pensi?-
Mentiva e io lo sapevo, ma non riuscii a oppormi. Ispirai a fondo, non potevo accettare quel tipo d’amore.
-Ti amo, Kelly, nessuno potrà mai amarti come me-
Rabbrividii a quella frase. Era la stessa che nel romanzo rivolgeva a Gween quando questa aveva scoperto che lui era immortale. Le cose però erano diverse. Nella storia Erik era un personaggio reale, visibile a tutti, mentre nel mio caso … beh, poteva anche essere frutto di un delirio allucinogeno per quanto ne potevo sapere.
-Mi concedi almeno una possibilità?-
Sospirai.
-Dai, una sola possibilità, non ti deluderò-
Gliel’avrei concessa anche se mi avesse delusa. Annuii, impossibilitata a parlare e lasciai che quel fantasma, invisibile a tutti tranne che a me, mi baciasse in mezzo alla strada, sotto lo sguardo derisorio di tutti i presenti, ma in fondo quella cosa non m’interessava.

I giorni che seguirono furono in fondo felici, nonostante i sentimenti contraddittori che provavo. Erik cercava di essere il più presente e il più premuroso possibile, il migliore dei fidanzati, l’unica pecca era che in fondo non era reale.
-Non è meglio che gli altri non mi vedano?- mi chiese una sera, in camera mia –Non potrei essere qui altrimenti-
Uscii dal bagno. Mi ero messa la mia camicia da notte più bella, quella bianca di seta. –No, effettivamente se i miei ti avessero visto non ti avrebbero certo permesso di dormire con me-
-Vieni- disse, allargando le braccia.
Mi rifugiai nel suo abbraccio e mi accoccolai contro di lui, appoggiando la testa contro il suo petto e ispirando il suo profumo. –Raccontami qualcosa di te, della tua vita- mormorai.
-Ma di me sai tutto, è scritto in quei romanzi-
-Sei davvero immortale?-
-Oh sì, è vero tutto, dalla maledizione della strega al mio continuo viaggiare, solo una cosa non è detta: io non posso apparire a tutti-
-Perché?-
-Era la parte peggiore della maledizione, poter vivere per sempre ma essendo visto solo da alcune persone, una tortura-
-L’autrice del libro come conosceva la tua storia?-
- Gliel’ho raccontata io, lei ha solo modificato alcune parti, ma la struttura principale è la stessa-
Quindi questa era la storia. Ne rimasi quasi un po’ delusa, chissà cosa mi aspettavo, ma a volte le spiegazioni più semplici sono le più sorprendenti e le meno credibili. Alla fine c’era solo una cosa che mi premeva di sapere.
-Tra voi due … -
-Non c’è mai stato nulla- mi precedette lui.
-Sicuro?-
-Certo-
-Allora perché le hai raccontato la tua storia?-
-Perché mi sentivo tremendamente solo, è terribile essere immortali, vedere tutti accanto a sé morire, sapere che si rimarrà sempre soli, senza nessuna possibilità di vedere chi si ama di nuovo … è orrendo-
-Prima di me quante sono state?- chiesi d’impulso.
Lui esitò. –Vuoi davvero sapere?-
No che non volevo, ma dovevo. Annuii e sostenni il suo sguardo.
-Alcune- ammise lui –ma non entrerò nel dettaglio-
-Quante?-
-Oh, Kelly, non importa, adesso ci sei tu, questa è l’unica cosa che conta-
-Non è vero-
-Sapere delle altre può solo farti male-
Ma forse iniziavo ad abituarmi a quel dolore che accompagnava la nostra relazione, quasi a bramarlo. –Dimmi di loro- insistei e alla fine lui cedette.
Mi raccontò così della sensuale Charlotte, fanciulla della Francia medioevale, timida e uccisa dalla peste, e di Jane, figlia di un pirata, ribelle e anticonformista, che nel Cinquecento viaggiava vestita da uomo e che un giorno finì accoltellata in una rissa. E poi c’era Isabel, altezzosa e ricca, morta di inedia perché si era ribellata al padre. E ancora Laura, attricetta di teatro, quasi una meretrice, conoscitrice dell’arte dell’amore, deceduta per consunzione. E tante altre, troppe perché potessi ricordarle tutte. Bellezza e giovinezza le accomunava, rendendole simili, seppur nella loro diversità, e poi c’era un’altra cosa che le eguagliava.
-Sono tutte morte giovani- mormorai.
Erik esitò un attimo, poi annuì. –Erano però anche periodi in cui non si viveva a lungo-
-Muoiono tutte in maniera atroce-
Questa volta Erik non replicò.
-Sarà lo stesso per me-
-Oh, questo no, farò in modo che non ti succeda nulla- esclamò con trasporto, prendendo le mie mani tra le sue.
E io quella sera volli credergli.

Qualche giorno dopo mia madre volle parlarmi. Mi fece sedere in cucina e improvvisamente mi sembrò di essere ritornata bambina e di aver combinato un qualche guaio per il quale presto sarebbe arrivata la punizione.
-Ho incontrato Jenny stamattina-
Mi sentii gelare.
-Mi ha detto che non ti vede da un po’-
-Abbiamo litigato- ammisi.
-Lei mi ha detto che ti ha vista parlare da sola e che tu l’hai aggredita-
Esitai un attimo prima di parlare. –Non è andata proprio così, lei mi ha detto delle cose che non mi sono piaciute ed è per questo che le ho risposto-
-Va bene- mia madre sospirò –sei strana, Kelly, in questi giorni sei proprio strana-
-Sono stanca, ho molto da studiare-
Mia madre annuì, ma non era convinta. –Sai che con me puoi parlare di tutto, vero?-
-Certo- non di Erik però, lei non avrebbe capito, nessuno poteva capire.
-Non dirò nulla a tuo padre, ma voglio che tu mi prometta che ti confiderai con me se ci sarà qualcosa che non va-
Promisi e vidi il viso di mia madre rilassarsi leggermente. Improvvisamente mi sentii in colpa perché non avrei mai potuto mantenere la mia promessa.

Quella sera posi ad Erik il problema che mi premeva più di ogni altro. Eravamo abbracciati nel mio letto e mi tirai un po’ su per guardarlo in faccia.
-Per quanto potremo andare avanti così?- domandai.
Lui mi parve sorpreso. –Non ti diverti? C’è qualcosa che non va?-
-No, non volevo dire questo, ma non potremo mai essere una coppia normale, vederci con gli amici, fare shopping insieme, non so, tutte queste cose-
Lui sospirò con sguardo triste. –Purtroppo non possiamo, a meno che … no, nulla- e scosse la testa.
-A meno di cosa?- insistei, convinta per un attimo che ci potesse essere una soluzione.
-Nulla, nulla-
-Cosa non vuoi dirmi?- lo fissai negli occhi.
-Non ha importanza-
-Per me sì, ti prego, sii sincero-
-Ci sarebbe un modo per passare nel mio mondo, là potremo vivere il nostro amore alla luce del sole, visti da tutti-
-Stai parlando della Terra del Sole?- chiesi, ricordando che nel romanzo era da là che veniva.
-Proprio di quella-
-Nel libro non viene detto come andarci, né ne parli mai in modo accurato, dici solo che è il luogo da cui provieni e che lì non è mai notte-
-Non amo parlare di quel luogo, è legato al mio passato, ma se non c’è nessuna soluzione e tu desideri questa cosa sarei veramente felice di andarci con te-
-Ma vorrebbe dire lasciare questo mondo?- chiesi.
-Purtroppo sì, non c’è altra soluzione da questo punto di vista-
-Io non so se potrei- lasciare i miei genitori, tutto ciò che conoscevo.
-Non sei costretta a farlo, era solo una proposta-
Ma aveva insinuato l’idea e questa iniziò a tormentarmi. Oh, come sarebbe stato bello poter stare insieme a Erik, dimenticare tutti i problemi, essere finalmente felice. Anche se questo mi avrebbe fatto immensamente male.

-Sono pronta- gli dissi un giorno, mentre passeggiavamo fianco a fianco lungo la strada.
-Vuoi davvero venire nella Terra del Sole?-
-Sì-
Erik sospirò. –C’è un solo modo in cui puoi farlo-
-Come?-
-Poco fuori dalla città c’è una roccia, è parecchio alta, si chiama Rocca della Sventurata, tu devi andare lì e … - esitò.
-Parla- lo spronai.
-Devi lanciarti giù da quella-
Inizialmente pensai di non aver capito bene, oppure che stesse scherzando, ma quando lui ripeté la frase compresi che non c’era stato nessun fraintendimento. –Morirò-
-Oh no, quello è il portale, ti troverai nella Terra del Sole-
-Io non voglio buttarmi- mi sfuggì un po’ più forte di quanto avrei voluto dirlo.
-Per raggiungere la Terra del Sole non c’è altra strada … ma ovviamente possiamo anche continuare a vivere qui-
Certo, era una possibilità. Quel pensiero mi diede molto da riflettere e non potei negare a me stessa che il solo pensiero di dover lasciare la mia casa e tutto ciò che essa rappresentava mi faceva venire le lacrime agli occhi. Poi successe un’altra cosa. Erik, inizialmente così comprensivo, iniziò a farsi più distante, a trovare scuse per non vedermi, scuse assurde visto che lui non poteva avere una vita come tutti gli altri individui. Qualcosa non andava ma, ahimè, folle d’amore, non facevo che crogiolarmi nel mio dolore, nutrendomi di esso, unica mia fonte di sostentamento visto che c’entrava lui. Alla fine decisi di affrontarlo.
-Vuoi che io venga con te nella Terra del Sole, vero?-
-Mi farebbe molto piacere- fu la risposta di Erik, come se la cosa in fondo non gli importasse più di tanto, ma io sapevo che voleva.
-Mi devo lanciare?- tremavo, ma lui fece finta di nulla.
-Un salto, poi tutto andrà bene, come mai in vita tua-
Non gli credevo, non sarebbe stato così semplice. –Dammi un po’ di tempo-
-Una settimana- esclamò, alzandosi, lasciata finalmente la maschera.
Lo osservai andarsene, le lacrime agli occhi. Ora dovevo solamente capire cosa fare.

Quella sera mi misi al computer e, dopo un attimo di esitazione, digitai il nome “Terra del Sole” sul motore di ricerca. Subito mi apparve un sito dedicato a Dark Shade, lo aprii e potei leggere una descrizione dettagliata del luogo, insieme a un suo disegno. Il tutto si basava su un racconto che io non avevo letto e che doveva fare da prequel alla trama, raccontando cos’era successo a Erik prima d’incontrare Gween. Rapida scaricai il racconto in e-book e mi misi a leggerlo, certa di poter trovare al suo interno qualcosa di utile. In realtà si accennava solo a un periodo nella vita di Erik passato in quel luogo, nulla di significativo. Nonostante ciò lessi con molto piacere la storia e mi parve di essere tornata la liceale ingenua che sprofondava nelle pagine della saga, sognando di trovarsi tra le braccia di Erik. Ovviamente ora non ero più così felice di averlo trovato, non dopo le ultime cose che erano successe. Fu proprio mentre stavo per chiudere internet che vidi il titolo di una pagina web.

Addio Margaret, ci mancherai

Curiosa di sapere cosa c’entrasse quell’addio con Dark Shade e la Terra del Sole aprii la pagina. Restai a bocca aperta quando vidi una ragazza lentigginosa, con ricci capelli corvini ed enormi occhiali, tenere tra le mani un’edizione speciale che racchiudeva i primi tre libri della saga. Lessi l’articolo.

La sedicenne Margaret White si è gettata dalla Rocca della Sventura. I motivi del gesto non sembrano essere chiari, ma si è ormai esclusa sia l’ipotesi dell’omicidio sia quella dell’incidente. La ragazza aveva vinto lo scorso mese l’ambito 3 special di Dark Shade.

Quindi era un’altra appassionata della saga, proprio come me, e si era lanciata dalla Rocca della Sventura, laddove, secondo Erik, bisognava buttarsi per raggiungere la Terra del Sole. Coincidenze? Illuminata da un’oscura intuizione digitai il nome della roccia e il termine suicidi, quindi premetti invio. Un gran numero di siti mi si presentò davanti e dopo circa mezz’ora avevo messo insieme un po’ di materiale interessante e agghiacciante. Margaret White non era la sola appassionata di Dark Shade suicidatasi in quel luogo, la lista di ragazze come lei era molto lunga. Terminai l’ultimo disperato articolo e chiusi il computer, bisognosa di pensare. In realtà mi girava tremendamente la testa. Erik mi aveva quindi mentito. O meglio non mi aveva mai detto che non ero l’unica, che c’erano state delle altre e che erano morte. Nessuna Terra del Sole per loro, nulla di nulla. Iniziai a chiedermi se anche per me non ci sarebbe stato nulla dopo il volo. Ma non lanciarmi voleva dire rinunciare a Erik, lasciare andare il mio unico amore, ero davvero disposta a quello?

Non sentii Erik per alcuni giorni e, seppur con dolore, evitai di cercarlo. Inutile dire che per me fu quasi un’agonia non poter ascoltare la sua e nemmeno condividere i miei pensieri. Quando non resistetti più lo chiamai.
- Erik – sussurrai –ho saputo delle altre-
Ci ritrovammo al parco dietro casa mia. Non dormivo da giorni, logorata da un amore che ormai mi faceva solo soffrire.
-Perché non mi hai detto nulla?-
-Io non le amavo come amo te- disse lui.
-Si sono gettate, sono morte per te-
-Loro non ci credevano veramente- sospirò e mi parve più bello che mai in quel momento –loro non mi amavano come te-
Quella frase mi strinse il cuore. Era vero, lo amavo alla follia, ma era abbastanza?
-Ora sta a te decidere, se vuoi o meno venire via con me-
-Ho paura- sussurrai. -L’amore è paura e dolore, Kelly, solo i folli non lo comprendono-
Sì, l’amore faceva male.

Ho messo per iscritto questi avvenimenti. Perché l’ho fatto? Avevo bisogno di ricapitolare tutto, tremendamente bisognosa di capire cosa fare. Amo Erik, lo amo alla follia, so che senza di lui la vita non potrà più essere la stessa. Allora perché sono ancora qui indecisa su cosa fare? Forse perché amare Erik mi fa male, tremendamente male, come se fossi pazza, come se non avessi nessuna possibilità di recuperare la sanità mentale. Sono pazza e questo mi fa soffrire. Erik non vuole il mio bene, questo l’ho compreso, altrimenti non mi chiederebbe di lasciare tutto ciò che amo per lui, se ci tenesse davvero a me acconsentirebbe a vivere con me nel mio mondo. A lui in realtà non importa se accetterò o meno, sa che ci sono delle altre pronte a fare l’estremo salto, per lui un nome, un viso, un destino valgono un altro. Per lui non cambierà assolutamente nulla, questa è la cosa più dolorosa. Per me sì. Lui però conosce già la mia risposta, sa che mi arrenderò e che sceglierò lui, come hanno fatto le altre. Questo è il mio addio, l’ho scritto perché si sappia il motivo del mio gesto, perché non si dica in giro che è stato fatto per poco amore della vita, perché io lo faccio proprio per amore, vero amore. Ma l’amore fa male.

Note: Questo racconto partecipa al challenge Mal di challenge e parla dell’amore masochistico

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Capitolo 6
*** Il dottor Watson ***


Arthur sospirò stancamente e alzò la testa dal libro per guardare l’orologio. Sua moglie era al telefono da esattamente mezz’ora e non sembrava esserci speranza che smettesse a breve. Sentì una risatina della sua Carmen. La sua amica doveva essere proprio divertente per farla ridere in quel modo, lui ormai non ci riusciva più da tempo. In quei momenti gli sembrava quasi di essere tornato ai primi giorni di matrimonio e di vederla sorridente e rosea intenta in mille attività. Gli pareva quasi di averla lì davanti, di sentirla seduta sulle sue ginocchia, la testa buttata indietro, la bella gola esposta. Scosse la testa e si frugò in tasca per prendere il telecomando. Si era ripromesso di non esagerare ma doveva pur insegnarle che il marito ha sempre la precedenza sulle amicizie. Premette il pulsante rosso e un attimo dopo sentì il gemito di dolore della moglie.
-Scusa, Kate, ma il telefono ha ricominciato a dare la scossa, ci dobbiamo lasciare-
Le due si scambiarono i saluti quindi Carmen riattaccò. Arthur nascose rapidamente il telecomando e si preparò ad accogliere la moglie con un sorriso.
-Allora, cosa ti ha raccontato la nostra Kate?-
-Le solite cose- disse lei, sedendosi sul divano e accavallando le gambe. Era di una bellezza celestiale con la sua pelle bianchissima e i lunghi capelli castani che scendevano in morbidi boccoli. –Sai, ha preso un cagnolino- disse con voce tenera –dice che è veramente affettuoso-
-Cara, ma tu hai paura dei cani-
-Già- mormorò lei –ma ogni tanto mi piacerebbe … -
-Non possiamo, tesoro, tu hai paura-
-Certo-
Arthur la capiva, sapeva che lei aveva un vuoto terribile, quel bambino che proprio non voleva venire. Avevano provato in tutti i modi ad avere un figlio ma senza nessun risultato e Carmen proprio non riusciva a superare la cosa. Lui l’aveva rassicurata, proprio come doveva fare un marito, l’amava comunque e avrebbero fatto altre prove, erano ancora giovani dopotutto e poi c’era sempre l’adozione.
-Cosa leggi di bello?- gli chiese la moglie.
-Oh, un libro di Watson sul comportamentismo[1]-
-Per il tuo lavoro?-
-Più che altro per diletto- sorrise –ma anche un po’ per lavoro, sì-
-Ti piacciono molto quei libri, chissà, magari un giorno ne leggerò uno anch’io-
-Oh no, non sono libri adatti a una donna-
-Sì, forse hai ragione-
Arthur sorrise. Aveva proprio una moglie bella e perspicace, cosa poteva volere di più dalla vita? Improvvisamente gli tornarono alla mente i ricordi dell’infanzia, i genitori che urlavano in cucina, lui chiuso in stanza, le mani premute sulle orecchie per non sentire, lo sguardo perso là fuori, sulla spiaggia, sul mare, sulle lontani luci delle isole. Oh, come avrebbe desiderato essere così lontano, su una barca in mezzo all’acqua. Quasi riusciva a rivivere il momento in cui era fuggito uscendo dalla finestra.
-Cosa desideri mangiare, amore?- gli chiese la moglie, rapendolo ai suoi pensieri.
-Scegli tu, cara, sai che mi piacciono le sorprese-
-Okay- Carmen si alzò e fece per andare.
-Tesoro- la riprese lui.
-Oh, certo- tornò indietro e gli depose un bacio sulle labbra.
-Ora puoi andare- la congedò lui, soddisfatto.
Carmen uscì con una leggera riverenza. Arthur non poté fare a meno di pensare alla prima volta in cui l’aveva vista, lui appena un ragazzo, ancora imberbe, lei già una donna, nuda, seduta su uno scoglio, i lunghi capelli lasciati liberi mossi dal vento, le labbra che intonavano un motivetto. L’aveva amata subito e l’aveva osservata tutta la notte, incantato.
Sembrava passata una vita da quel momento. L’uomo sospirò e riprese la lettura.

Quella sera Carmen cucinò il piatto preferito del marito: pasta allo scoglio. All’inizio la donna non amava cucinare quel tipo di pietanza, diceva che non poteva nemmeno pensare di cuocere degli esseri provenienti dal mare. Ovviamente Arthur aveva fatto in modo che collegasse la pasta allo scoglio a degli stimoli positivi, come dei regali. Certo, era più semplice utilizzare i rinforzi negativi, ma non aveva potuto fare altro e alla fine la sua costanza era stata premiata e lui si poteva godere il suo piatto preferito una volta la settimana senza nemmeno dover chiedere.
-Ottimo come sempre- disse l’uomo, con un ampio sorriso soddisfatto –diventa migliore ogni volta che lo cucini-
-Grazie, amore- esclamò lei, arrossendo leggermente. Era più bella che mai in quel momento, le guancie rosse per l’imbarazzo.
-Ma ti devo tutta la mia gratitudine-
-Non dire così-
-Invece è vero- allungò un braccio per prenderle la mano dall’altra parte del tavolo e assaporò la sua pelle di velluto –hai reso la mia vita magnifica-
Carmen si limitò a restare immobile, leggermente tremante. Ad Arthur parve identica alla notte in cui era accorso in suo soccorso, lei smarrita, senza più un posto dove andare, lui bisognoso di qualcuno d’amare. Erano adatti l’uno per l’altra più di molta altra gente di sua conoscenza. Certamente più di Jim ed Elizabeth, lui depresso perché stava invecchiando, lei piena di soldi da poter comprare anche l’amore, o almeno una parvenza di esso. E di Ken e Jill, che si tradivano a vicenda e si erano sposati solo per far dispetto ai rispettivi ex. Il loro amore almeno non era finto e lui non avrebbe mai permesso che finisse.
-Questa notte voglio passarla con te- sussurrò l’uomo.
Carmen arrossì violentemente, come se fosse ancora una ragazzina.
-Vuoi?-
-Certo-

Quella notte Arthur si svegliò madido di sudore. Accanto a lui sua moglie dormiva serenamente, come una bambina, un braccio sul cuscino, l’altro nascosto sotto le coperte, l’immagine dell’innocenza. L’uomo ispirò a fondo. Lei era ancora lì, il suo era stato solo un incubo, il mare non se l’era ripresa e come avrebbe potuto? In fondo la sua pelliccia l’aveva nascosta bene e nessuna selkie può riunirsi al mare senza di essa. Ricordò quando aveva spiato la creatura marina, acquattato tra gli scogli, per poi tentare l’impossibile, prendere la sua pelliccia, che lei teneva accanto a sé senza che lei se ne accorgesse. Era stata un’impresa folle ma aveva funzionato alla perfezione. La selkie, spaventata e priva di protezione, era finita tra le sue braccia, preda facile da manipolare. Doveva solo ringraziare che era finita nelle sue mani e non tra quelle di qualche folle. Lui era stato un marito amorevole e comprensivo. All’improvviso un rumore lo fece sobbalzare. Cos’era? Lanciò uno sguardo alla moglie che però non si era svegliata. Meglio così. Rapido scese dal letto, afferrò la torcia che teneva accanto al comodino e la pistola che aveva nascosto in un cassetto, un fatto di pura sicurezza. Uscì dalla camera e si ritrovò nel corridoio buio. Decise di attendere prima di accendere la torcia, non voleva che qualcuno vedendo la luce lo attaccasse per primo, quindi proseguì al buio. Un altro rumore, identico a quello di prima, un colpo secco, sembrava provenire dal piano di sotto. Arthur sentiva il cuore esplodergli nel petto. Non si era mai trovato nella condizione di dover usare la pistola fuori dal poligono. Deglutì, sapeva quello che doveva fare, puntare l’arma e sparare, non era difficile, doveva solo accertarsi di colpire dritto al cuore, altrimenti avrebbe rischiato di ferire l’intruso che avrebbe potuto sparargli a sua volta. Doveva sparare per uccidere. Ispirò a fondo, contò fino a dieci, quindi iniziò la discesa delle scale. Nel frattempo il colpo si ripeté. C’era sicuramente qualcuno là sotto. L’uomo si fermò alla fine delle scale, restò un attimo in ascolto, raccolse tutto il suo coraggio, poi proseguì verso la cucina, certo che l’intruso si trovasse lì. Entrò nella stanza con un balzo solo per accorgersi che il rumore proveniva da una finestra che continuava a sbattere. Dopo il primo momento di disappunto si rese conto che si era rotta la maniglia e che quindi non si riusciva più a chiudere. Con una risatina di sollievo cercò qualcosa per bloccarla fino all’indomani, in modo tale che smettesse di far rumore e fu proprio allora che vide qualcosa fuori, una figura pallida e spettrale che pareva guardarlo. Rapido Arthur spostò il pesante tostapane e bloccò la finestra, quindi guardò nuovamente fuori. Il misterioso spettatore era sparito. C’era mai stato qualcuno là fuori? Oppure si era immaginato tutto? Non lo sapeva, ma l’unica cosa che desiderava in quel momento era di ritornare di sopra, nel suo letto, accanto alla sua Carmen.

La mattina seguente Arthur era di buon umore, certo che la figura fuori dalla finestra fosse stata solo il frutto della stanchezza e dello spavento. Salutò la moglie con un bacio e uscì per andare al lavoro.
-Non aspettarmi per pranzo, tesoro- le urlò prima di chiudere la porta.
-Certo- gridò di rimando Carmen.
Arthur salì in macchina e mise in moto. Notò subito che dal mezzo proveniva un rumore strano e che faticava ad avanzare. Premette il freno e scese, certo che ci fosse qualcosa che non andava. Fu allora che vide che le ruote erano state tutte e quattro lacerate con un taglio. Si sentì gelare il sangue nelle vene. Chi poteva essere il responsabile? Si pentì di aver fatto togliere le telecamere l’anno precedente, dopo che, a causa di un temporale, si erano rotte entrambe. Quello sembrava proprio un avvertimento e si ritrovò a pensare alla figura vista il giorno precedente fuori dalla finestra. Preso dal panico si guardò intorno, quasi temesse che l’intruso fosse ancora lì da qualche parte. Scrutò gli alberi e i cespugli senza alcun risultato, non c’era proprio nessuno lì.

La giornata passò lentamente. Arthur aveva chiesto in prestito la macchina a Karl, suo vicino, nonché compagno di golf il sabato pomeriggio.
-Ti hanno proprio sistemato bene- aveva commentato l’uomo –qualche nemico?-
-A quanto pare-
-Hai sempre la pistola, vero?-
-Sì- ma aveva evitato di raccontare dell’uomo fuori dalla finestra, in fondo quelli erano fatti suoi.
-Dovesse esserti utile un fucile non hai che da chiedere-
-Per ora cercherò di accontentarmi di quello che ho-
-Certo, ma è sempre bene sapere che non si è soli-
-Grazie di tutto-
-Nulla, bisogna difendere la propria famiglia a tutti i costi, non c’è nessuno che lo possa capire più di me-
Arthur pensava proprio a quel discorso mentre sistemava le carte del laboratorio. Lanciò un’occhiata terrorizzata quando sentì un rumore e si ritrovò a ridacchiare vedendo che si trattava solo di una delle cavie che era caduta. Era troppo agitato, doveva darsi una calmata altrimenti gli sarebbe venuto un infarto. Ispirò a fondo e cercò di concentrarsi sui dati che aveva davanti. Un esperimento che però era finito molto male, aveva perso ben tre animali senza ottenere niente di utile. Sospirò e lanciò uno sguardo all’orologio. Erano già le tre, perché Carmen non lo aveva ancora chiamato? Sapeva che la regola era sentirsi alle due in punto. Sbuffando infastidito, l’uomo prese il telefono e compose il numero di casa. La moglie non rispose e la linea si staccò. Imprecando tra i denti Arthur si alzò, agitato. Quello era il momento che aveva sempre temuto, quando Carmen non avesse più ubbidito ai suoi ordini. Ma forse era successo qualcosa. Sì, doveva essere questa la spiegazione, magari l’uomo era tornato … doveva fare qualcosa immediatamente. Afferrò nuovamente il telefono e, dopo aver frugato nella rubrica dell’agenda per alcuni secondi, compose il numero di Karl.
-Pronto?-
- Karl? Sono Arthur- disse, mangiandosi le parole.
-Ciao! Se è per la macchina la puoi tenere tutto il giorno, oggi Jane sta a casa con i bambini e io uso la sua-
-Grazie, ma non è per questo, ti ho chiamato perché Carmen non risponde al telefono, potresti vedere se va tutto bene?-
-Certo, resta in linea-
L’uomo aspettò con ansia, guardando la lancetta dei secondi dell’orologio che si spostava. Gli sfuggì un sospiro di sollievo quando riconobbe la voce della moglie.
- Arthur?- chiamò.
-Tesoro, cos’è successo?-
-Sono rimasta chiusa in camera da letto, la porta si è chiusa e deve essersi incastrata, Karl l’ha dovuta sfondare-
-Pensavo che ti fosse successo qualcosa-
-Mi dispiace averti fatto preoccupare-
-Non importa, basta che tu stia bene-
-Sì, anche se mi sono spaventata-
-Lo credo, faremo riparare la serratura e … - s’interruppe un attimo prima di aggiungere –sicura che non ci fosse nessuno in casa oltre a te?-
Ci fu un attimo di silenzio sorpreso. –No, caro, chi doveva esserci?-
-Nulla, solo curiosità- e tra sé rivedeva la figura dell’uomo immobile e spettrale fuori dalla finestra –oggi cercherò di tornare un po’ prima-
-Lo apprezzerei molto-
-Lo farò, non temere-

Quel giorno Arthur tornò a casa alle cinque. Carmen era seduta sul divano e lui poté subito notare che l’aveva rifatto: si era mangiata le unghie. Questo lo infastidì leggermente, detestava quel suo vizio, ma in fondo aveva vissuto una brutta giornata, normale che cercasse di sfogarsi in qualche modo. Sospirò, per quella sera andava bene così.
-Tesoro- esclamò la moglie, alzandosi e andandogli incontro.
Lui la trasse a sé e la baciò sui capelli che profumava di salsedine.
-Mi sono spaventata-
-Adesso però va tutto bene, ci sono io qui con te-
Si sedettero sul divano, l’uno accanto all’altra.
-Ora raccontami tutto-
-Sono andata in camera da letto per sistemare alcune cose e cambiare le lenzuola, a un certo punto la porta si è chiusa, non ci ho fatto particolarmente caso, pensavo semplicemente che si fosse chiusa per la corrente d’aria visto che c’era la finestra aperta, così ho finito di fare quello che stavo facendo e ho fatto per uscire, ma la porta era bloccata- scosse la testa.
-Cercherò di capire io stesso cos’è successo-
Lei annuì, pallidissima, quasi stesse per rendere l’anima da un momento all’altro. Arthur le accarezzò i capelli, poi la guancia, quindi la fece voltare e la baciò sulla bocca. Lei gli si strinse contro e lui ricordò la loro prima volta sulla spiaggia, la pioggerellina della primavera che li ricopriva, la luna che li illuminava. Era stato uno dei momenti più belli della sua vita, esattamente come quando aveva visto Carmen percorrere la navata della chiesa verso di lui, bellissima nel suo abito bianco, leggermente goffa sui tacchi alti, il velo che le ricopriva il volto e che lui stesso aveva sollevato. Il loro era amore e lui aveva intenzione di rendere la sua Carmen ancora più perfetta, cosicché lui non avesse mai potuto desiderare una donna che non fosse lei. Le tirò indietro i capelli.
-Non devi temere nulla-
-Lo so-
-Io ti proteggerò da tutto-
-Oh, Arthur – sospirò lei.
Restarono immobili sul divano, abbracciati, senza aggiungere nulla.

Quella sera Arthur decise che era meglio andare a cena fuori, un modo come un altro per distrarsi. Provò anche a chiedere a Karl se lui e la moglie avessero voluto mangiare qualcosa insieme a loro.
-Molto volentieri, è da un mese che prometto a Jane di portarla in quel nuovo ristorante che ha aperto ed ogni volta succede qualcosa che m’impedisce di farlo- scoppiò in una forte risata –quale occasione migliore di questa?-
Arthur gli fu immensamente grato, capendo che in realtà Karl accettava l’invito solo per ciò che era successo quel giorno.
-Prendiamo la mia macchina, ovviamente-
-Certo, se non si vuole spingere-
La serata andò molto bene. Arthur e Karl parlarono di lavoro e di golf, mentre le loro consorti, entrambe pallide e minute, quasi donne d’altri tempo, stupende a vedersi, si scambiavano tra di loro consigli sulla casa e sui libri da leggere sorridendo e annuendo amabilmente. Una normale cena, di quelle che si sarebbe dovuto fare un po’ più spesso.
-Non avevo mai mangiato delle aragoste così buone- commentò Karl, annuendo d’approvazione.
-Questo locale è delizioso- commentò Jane, con il suo accento inglese.
-Anche il vino è molto buono- disse Arthur.
-Io proporrei un brindisi- disse Karl, alzando il calice –alla nostra amicizia ed ad altre mille serate come questa-
Arthur si spinse in avanti per il brindisi e notò che Carmen aveva una strana espressione, come se fosse triste.
-A un futuro roseo- urlò Jane, le guancie rosee.
Carmen abbassò la testa. C’era decisamente qualcosa che non andava.

Tornarono a casa a mezzanotte passata. Karl era palesemente brillo e questo infastidì un po’ Arthur, quell’uomo gli ricordava suo padre, con il passo traballante e la voce stridula.
-Non mi piace quando la gente beve troppo- borbottò, assicurandosi che la porta di casa fosse ben chiusa.
-Hai ragione, è disdicevole- mormorò Carmen, con voce triste.
-Qualcosa non va, cara?-
-No, solo che è stata una lunga giornata-
-Lo capisco, ora andiamo a dormire e … - a quel punto notò qualcosa a terra. Acqua? Una pozza accanto alla poltrona, ma non pioveva più da settimane. Un secondo e comprese che c’era qualcuno in casa. – Carmen, esci e … - non terminò la frase perché fu colpito da qualcosa e spinto con violenza a terra.
-È lui?- chiese una voce.
-Sì, ma ti prego, non fargli del male- supplicò Carmen.
Arthur si toccò la fronte dolorata. Sanguinava. Si spinse di lato e vide chi l’aveva aggredito: una creatura antropomorfa con una folta pelliccia legata in vita. Comprese in quel momento che il passato era tornato.
- Dov’è la pelliccia di mia sorella?- chiese l’uomo con un tono che non ammetteva repliche.
Il fratello di Carmen. Gli sfuggì una risatina isterica al pensiero che finalmente conosceva il cognato. Quello per risposta gli ficcò un calcio alle coste.
- Dov’è?-
-In cassaforte- cedette lui e diede il codice.
L’uomo scomparve lasciando lì.
-Oh, Arthur – sussurrò Carmen, chinandosi al suo fianco –mi dispiace, ma io non appartengo a te, io sono del mare- gli accarezzò teneramente la guancia.
-Io ti amo-
-Anch’io- sussurrò lei –ti amo nonostante tutto- gli depose un bacio sulla bocca, il loro ultimo bacio.
-L’hai chiamato tu?-
-No, mio fratello mi cerca da quando mi hai preso la pelliccia-
-Sapevi che ero stato io?-
Lei annuì. –Certo, inizialmente ti odiavo, ma poi mi sono innamorata di te- sospirò.
-Ora che succederà?-
-Tornerò al mare, non c’è altra scelta, io appartengo ad esso-
E Arthur ricordò tristemente le leggende delle selkie che ritrovavano la loro pelliccia ed erano costrette a tornare al loro elemento.
-Eccola- esclamò l’intruso, tornando con la pelliccia di Carmen tra le braccia. Com’era bella e bianca. Lei si alzò e la prese tra le mani tremanti, come se si fosse ricongiunta a una persona cara persa per troppo tempo. L’uomo osservò la sua amata stringere a sé l’oggetto con una passione tale che in lei non aveva mai neppure intuito.
-E ora occupiamoci di te- disse il cognato, muovendosi verso Arthur, che chiuse gli occhi sconfitto.
-No- intervenne Carmen, che improvvisamente sembrava ringiovanita di dieci anni, con i capelli più folti e la pelle splendente –ci voglio pensare io-
-Come vuoi, sorella-
-Tu inizia a uscire e accertati che non ci sia nessuno là fuori a ostacolare la nostra partenza, non ci vorrà molto-
-Come desideri- e uscì.
Carmen aspettò alcuni secondi, quindi si avvicinò ad Arthur. –Devo andare- disse solo, non guardandolo in viso.
-Ti prego, resta- pianse Arthur.
-Non posso, il richiamo del mare è troppo forte, non posso resistere-
-Ti prego- allungò una mano verso di lei.
-Addio, amor mio- esitò un attimo prima di aggiungere –dovrai trovare un’altra a cui dare la scossa-
-Tu avevi capito?- chiese lui, sorpreso.
-Certo, non sono una stupida, anche nel mondo magico si conosce il comportamentismo e Watson – sospirò tristemente –questo però non mi ha impedito di amarti-
-Io verrò alla vecchia spiaggia-
Lei parve esitare un attimo, prima di parlare. –Potrei esserci-
-Allora io verrò, anche se ci fosse una vaghissima speranza-
-Vieni, forse ci sarò- ed uscì di lì, bella come la era soltanto alla luce pallida della luna.

Cinque anni più tardi

Arthur osservava il mare calmo alla luce della luna. Laddove un tempo aveva visto Carmen per la prima volta c’era solo il vuoto. Si era trasferito lì da quando la sua amata se n’era andata, nella folle speranza che lei mantenesse la promessa e di poterla così vedere almeno una volta ancora. Durante quel periodo aveva compreso che i sentimenti che provava per lei erano autentici. L’amava come non avrebbe mai potuto amare nessuna ed era disposto ad aspettare anche tutta la vita se fosse stato necessario. Chiuse gli occhi e ricordò l’ultimo regalo che la sua Carmen gli aveva fatto. Pochi mesi dopo la sua partenza, Arthur aveva ritrovato un cesto fuori dalla porta, dentro al quale c’era un bel bambino. Attaccato ad esso c’era un biglietto scritto con l’amata calligrafia.
Il frutto del nostro amore, ultimo mio pegno.
Tua C.
Aveva cresciuto il bimbo con tutto il suo amore, unica cosa che ancora lo teneva legato alla sua amata. Almeno non era più solo ad aspettarla. E in cuor suo era certo che Carmen sarebbe tornata almeno una volta per vedere il figlio. E lui avrebbe aspettato, ci fossero voluto cinquant’anni, lui avrebbe aspettato.

Note:
[1] Nel Novecento Watson pone le basi del comportamentismo, corrente psicologica, certo che l’unico dato oggettivamente esaminabile sia il comportamento e che questo si possa modificare attraverso una serie di premiazioni e punizioni.
Questo racconto partecipa al challenge Mal di challenge e parla dell’amore di Pigmalione

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Capitolo 7
*** La musa ***


Non avevo mai visto creatura più bella di lei. La incontrai per la prima volta in un soleggiato pomeriggio del febbraio del 1923 in un caffè di Parigi, i bei boccoli biondi sciolti sulle spalle, lo sguardo azzurro che pareva brillare più di un diamante, le maniere da gran dama. Me ne innamorai all’istante. All’epoca ero uno squattrinato pittore, figlio di nobili, allontanato dalla famiglia per le mie idee troppo lontane dall’aristocrazia. Passavo il tempo girando per le strade e incontrando amici con le mie stesse idee, persone romantiche che volevano ritornare ai tempi passati, quelli in cui si dava più importanza ai sentimenti che alla ragione. Fu proprio mentre aspettavo uno di questi miei conoscenti che la vidi. Oh, all’epoca non avrei potuto essere più felice. Mi alzai dal mio posto e mi presentai con un profondo inchino.
-Scusate, ma non ho mai visto donna più bella, posso farvi un ritratto?-
E lei, dopo il primo conveniente rifiuto, accettò. Scoprii così che si chiamava Chantal de Beauvoir ed era figlia di un ricco uomo d’affari che ora lavorava in Inghilterra ma che era d’origine francese.
-Discendiamo dalla monarchia- mi confidò –ma non ditelo troppo forte, i regnanti qui non sono molto apprezzati-
E io promisi. Quel giorno stesso, al nostro primo incontro, tentai di strapparle un bacio che lei mi rifiutò.
-Le signore non baciano al primo incontro- si difese.
-E al secondo?-
Lei scoppiò a ridere e scosse la testa. -Questo è un no-
-Sono stata educata seriamente-
Questo mi piacque. –Mi permettete però di farvi un ritratto in casa mia?-
-Solo se mi promettete che non allungherete le mani su di me-
E io promisi, certo che l’avrei convinta a cedere.

Nei giorni seguenti Chantal venne più volte nella mia umile dimora. La convinsi, dopo diversi tentativi, a posare nuda, solo un nastro rosso intorno al bel collo da cigno, simbolo di ciò che avevano dovuto patire i suoi antenati [1].
-Siete incantevole-
-Dipingete e guardate un po’ meno il mio corpo-
E ubbidii di buon grado, perdendomi nel suo corpo bianco e perfetto. Sotto le mie mani il ritratto stava prendendo forma e non ne avevo mai fatto uno più somigliante. Fu proprio in quei giorni che iniziai a soffrire di quelle tremende emicranie che non mi avrebbero più lasciato. Mi succedeva spesso dopo i nostri incontri e a volte non mi permettevano di dormire.
-Quella ragazza non ti fa bene- mi disse una volta Philippe, il mio migliore amico –continua così e ti porterà nella tomba-
-Pensa un po’ per te, stai dimagrendo-
Lui scoppiò a ridere. –Dimagrisco per amore, caro mio, la mia bella non può competere nemmeno lontanamente con la tua-
-Questo è tutto da vedere- dissi io, offeso da quell’affermazione –presentamela-
-Mai e poi mai … sto finendo il suo ritratto, quando l’avrò terminato potrai dire che ho ragione-
-Ne dubito fortemente-
-Vedrai, vedrai-
Quella fu l’ultima volta che vidi Philippe. Alcuni giorni dopo, non avendolo più incontrato nei nostri soliti luoghi, andai a trovarlo a casa sua certo che fosse troppo preso dalla sua innamorata per ricordarsi degli amici. Mi aprì la porta una fanciulla in lacrime. Ci misi diversi minuti a calmarla e alla fine riuscii a capire che era la sorella del mio amico e che questo era stato trovato morto in camera sua quella mattina.
-Stava male da giorni- si lamentò la ragazza scossa dai singhiozzi.
-Mi dispiace- mormorai, imbarazzato.
-Era sempre stato così in salute-
Restai in silenzio, non riuscendo ad accettare quell’idea: Philippe non poteva essere morto, era assurdo. –Posso vederlo?- chiesi, certo che se non l’avessi visto non ci avrei mai creduto e che avrei pensato per tutto il resto della mia vita che fosse semplicemente uno scherzo e che lui si trovasse in America con la sua amata, intento a ridere della mia credulità.
-Certo- disse la sorella e mi fece segno d’entrare.
Arrivato di sopra potei accertarmi che si trattava proprio di Philippe. Ed era identico all’ultima volta che l’avevo visto, solo un po’ più pallido. Mi ritrovai a mormorare una preghiera, anche se era ormai molto tempo che non lo facevo più.
-Si terrà una mostra la prossima settimana- disse la sorella singhiozzando –si metteranno in mostra i suoi quadri, se volete venire-
-Certo, questo è il minimo che gli devo- mormorai, osservando il mio amico morto. Non riuscivo a distogliere lo sguardo da lui, era come se fosse impossibile guardare altrove con lui lì. Pensai ai pomeriggi passati a discutere insieme, ai suoi viaggi oltreoceano, alle donne che si erano susseguite nella sua breve vita e di cui mi aveva parlato, fino all’ultimo, quella dama misteriosa che lo aveva stregato.

Quella sera mandai un biglietto a Chantal perché c’incontrassimo in un bar. Avevo bisogno di bere qualcosa di forte e soprattutto di qualcuno con cui parlare, con cui confidarmi.
-Era un tuo caro amico?- mi chiese.
-Il più caro-
-Mi dispiace molto- disse lei, allungando una mano e accarezzandomi il viso con immensa tenerezza.
-È stato lui ad insegnarmi quello che so sulla pittura- continuai.
-Muore giovane colui che al cielo è caro- disse lei.
-Menandro- mormorai, riconoscendo il verso del poeta greco.
-Esatto- sorrise, un sorriso che mi parve illuminare la sala fumosa.
-Non pensavo che ti piacessero i classici-
Lei rise, una risata simile al canto di un uccello, che invase l’ambiente come una melodia. Scosse leggermente la testa e i suoi capelli si aprirono come un ventaglio ricadendole sulle spalle delicate. Era splendente. –Ci sono tante cose che non sai di me- disse con una certa tristezza nella voce.
-Scoprirò tutto-
-Ne dubito, nessuno c’è mai riuscito-
-Vuol dire che gli altri non erano bravi come me-
Lei si limitò a scuotere la testa. –Forse-
-Solo forse?- sorrisi, cercando di sembrare affascinante.
Lei si limitò a stringersi nelle spalle, senza aggiungere una sola parola sull’argomento. Cambiammo discorso e ci perdemmo in divagazioni sulla notte e sulla sua immensa bellezza.

Tornai a casa tardi e afflitto da una terribile emicrania che mi tenne a letto tutto il giorno seguente. Il mio sonno fu disturbato da incubi, strane creature che spuntavano dal nulla e che cercavano di trascinarmi via con sé, lontano dalla mia bella Chantal. Vidi una delle figure: aveva le fattezze di Philippe. Mi svegliai urlando e restai immobile al buio, cercando di rallentare il battito del cuore e di convincermi che era stato solo un sogno. Qualcosa mi diceva però che non si trattava solo di un incubo, ma che c’era qualcosa di molto peggio. Quando finalmente mi ripresi dal mio malessere mandai un biglietto a Chantal, dicendole che, sebbene la cosa mi spezzasse il cuore, non stavo abbastanza bene per vederla. La sua risposta arrivò quasi subito ed era composta soprattutto da consigli e incoraggiamenti. Sospirai e ispirai il suo profumo che impregnava la carta. Avrei davvero desiderato che in quel momento fosse al mio fianco. Per ora dovevo accontentarmi di quello.

Fortunatamente riuscii a riprendermi in tempo per visitare la mostra del mio caro amico, un modo per fargli capire quanto tenevo a lui ora che non potevo più dirglielo. Mi accolse la sorella, ricomposta. Impossibile dire che non assomigliasse al fratello, lo potevo ben vedere sotto la luce che filtrava dalle finestre. I suoi lineamenti erano solo leggermente più delicati di quelli del mio amico.
-Grazie per essere venuto- disse, poi si appese al mio braccio e mi trascinò in giro per la sala, indicando prima questo e poi quel quadro, raccontando la storia che stava dietro ad ognuno di loro –Philippe parlava molto spesso di voi, eravate il suo più caro amico, il fratello che non ha mai avuto-
Mi sentii tremendamente lusingato da quelle parole. Anche Philippe per me era stato molto importante, una famiglia quando mio padre mi aveva cacciato di casa non approvando la mia vita d’artista. E proprio in quel tragico momento mi aspettavo di vedere un’altra persona che a lui stava a cuore: la sua amata. Ma cercando lei incrociai uno sguardo familiare, solo che era dipinto su un quadro. Restai a bocca aperta.
-Quello è il suo ultimo quadro- mi spiegò la sorella quando capì a cosa mi riferivo. Il dipinto della bella, quindi, solo che quella sulla tela era Chantal, la mia Chantal. Non era possibile. Feci un passo in avanti, poi indietreggiai. Stessi lineamenti delicati, stessi folti capelli biondo, stesso sorriso, stessi occhi. Era lei, inutile negare. Se ne stava in ginocchio sul letto, il lenzuolo rosso che le lasciavano scoperto un seno, la finestra aperta dietro di lei. Ma cosa ci faceva nel quadro di Philippe? Ero certo che i due non si conoscessero, che non si fossero neppure mai visti. Forse era solo una donna che le assomigliava, una somiglianza incredibile, certo, ma questa era l’unica spiegazione possibile, a meno che … no, non potevo neppure pensare che lei mi avesse mentito. Inspirai a fondo e diedi le spalle al quadro, desiderando di non posarvi mai più sopra gli occhi. Improvvisamente mi era venuta la nausea.

Quando rividi Chantal le mie paure scomparvero. Come avrebbe potuto un’anima simile, così dolce, così delicata, così deliziosa, tradirmi? Non potevo neppure immaginarlo. Così ripresero i nostri incontri e continuai con il suo ritratto. Contemporaneamente il mio male peggiorò. Mi sentivo sempre più stanco e avevo dei violenti giramenti di testa. Fu in uno di quei giorni di euforia e malessere che ricevetti una lettera da Londra. Mio cugino James, figlio di una sorella di mio padre che era fuggita con un inglese, mi diceva di aver trovato un quadro che riteneva di un certo valore e mi chiedeva di raggiungerlo. Decisi così che un cambiamento d’aria mi avrebbe potuto aiutare anche se questo voleva dire lasciare Chantal per un periodo di tempo non meglio determinato. In realtà speravo anche di ricevere un incarico da un ricco amico di James, che io avevo avuto modo di conoscere in passato e che sapevo apprezzare le mie opere. Magari in quel modo sarei riuscito a mettere da parte un po’ di soldi e ad ottenere il permesso di sposarla. Il saluto a Chantal fu straziante. Lei si mise a piangere e mi pregò di non lasciarla. Io le promisi, anzi, le giurai che sarei tornato il prima possibile.

Il viaggio verso Londra fu tranquillo. Al mio arrivo trovai James ad aspettarmi. Non era cambiato molto dall’ultima volta in cui l’avevo visto parecchi anni prima. Soprattutto aveva mantenuto la stessa aria arrogante, come se lui fosse l’unico al mondo a conoscere qualsiasi cosa.
-Sei un po’ pallido, cugino- mi disse –sei forse malato?-
-Solo un po’ stanco-
-Troppe donne, vero? È il male di famiglia-
Quella frase m’infastidì. –In realtà solo una-
-Ti accontenti di una sola donna?-
-Lei è fantastica, una creatura di un altro mondo-
-Altro mondo? Addirittura? Nessuna donna si può definire così, caro cugino, non dopo che l’hai conosciuta bene almeno-
Mi sentii gelare e dovetti lottare con me stesso per non insultarlo. – Chantal è la donna migliore che sia mai esistita- sbottai.
-Come vuoi tu, cugino-
Mi morsicai la lingua per non proseguire.

La giornata trascorse tutto sommato in maniera piacevole. La villa dei miei zii era proprio come la ricordavo, enorme e riccamente arredata, come se al suo interno ci vivessero dei re. Non avevo mai visto tanto oro tutto assieme, nonostante anche mio padre avesse una predilezione per questo tipo di metallo. Nemmeno gli zii erano cambiati molto, lui il classico inglese, flemmatico e poco disposto a intrattenersi con me, lei una donna ormai sfiorita, triste e desiderosa di passare il tempo in solitudine per leggere e ricamare. Da parte loro ottenni poca attenzione e la cosa non mi dispiacque.
-Andiamo nel mio ufficio- disse James, dopo aver effettuato i soliti convenevoli che si legano alla cena. Lo seguii in un’enorme stanza con pavimento di marmo e un quadro di mio cugino a grandezza naturale che troneggiava sopra un camino decorato di pietre preziose. –Ti piace il mio modesto rifugio?-
-Molto bello-
-Non esagerare- esclamò, cercando di simulare disinteresse –ora veniamo al motivo della tua visita: il quadro-
-Sono proprio curioso-
-Vado a prenderlo- e sparì dietro un divisore.
Mi guardai in giro, osservando i vari tipi di whisky che si trovavano dietro una vetrinetta. Tutte quelle bottigliette dovevano valere una vera fortuna.
-Eccolo qua- esclamò James tornando con il quadro in mano –il fortunato … tutto a posto?-
No, nulla era a posto, perché il soggetto del quadro mi era molto familiare. Chantal, con i lunghi capelli mossi dal vento, stava immobile e nuda su una scogliera, le braccia aperte, gli occhi socchiusi, il mare che sembrava ruggire furioso dietro di lei.
-Chi è quella donna?- mormorai.
-Che importa? Sarà stata un’amichetta del pittore, che ne so io-
Ma quella risposta ovviamente non mi bastava.
-La cosa importante è capire se è autentico o meno-
Mi avvicinai cauto, quasi temessi da un momento all’altro che lei ne sarebbe uscita per venirmi a prendere e trascinarmi in mare. –Di che secolo dovrebbe essere questo dipinto?-
-Inizio Settecento, potrebbe esserlo?-
Certo che poteva. Gli chiesi il nome dell’autore. Lo conoscevo e sapevo che nelle sue opere scriveva sempre le sue iniziali in basso a destra. Quella era la prova definitiva. Quasi svenni quando le vidi.
-Posso dirti che è autentico-
-Anche la scritta?- domandò mio cugino, girando il dipinto.
Dietro di esso era stato scritto a grandi lettere.
Alla mia amata Megan, perché possa vivere per sempre.
Megan? Un altro nome, ma il volto era inconfondibile, era la mia Chantal fuori da ogni dubbio. Improvvisamente mi venne un’idea. –Ho un dubbio- dissi –potrebbe anche trattarsi di un’ottima imitazione- mi finsi pensieroso.
-E come possiamo averne la certezza?-
-Dobbiamo scoprire qualcosa sulla donna ritratta, abbiamo il nome, Megan, magari riusciamo a ricavare qualcos’altro-
James arricciò il naso, infastidito, poi annuì. –Va bene, fammi solo pensare a chi possiamo rivolgerci- un attimo dopo aveva la risposta –ho un amico storico-
-Ottima idea-
-Potremo recarci da lui domani stesso, prima concludiamo questa storia meglio è-

Inutile dire che quella notte non chiusi occhio, troppo preso dai miei pensieri e dall’ansia che questi mi portavano. Cos’era in realtà Chantal? Non certo una donna se aveva vissuto così tanto. Non umana. Forse una fata? Questo avrebbe spiegato la sua incredibile bellezza. Ma in lei, me ne rendevo conto soltanto ora, c’era qualcosa di crudele. Sì, una di quelle fate belle e cattive di cui parlano tanto le leggende. Chissà quanti aveva incantato prima di me, quanti sprovveduti. E mi vennero in mente le leggende che venivano raccontate in giro. Creature mostruose anche se all’apparenza delicate. Non riuscivo a ricordare come si sconfiggevano, ma in quel momento la cosa migliore sarebbe stata tentare di riposare per riuscire a mettere da parte più energia possibile ed affrontare la storia. La mattina mi sorprese sfinito.

-Conosco questa donna- esclamò lo storico, osservando il quadro con sguardo rapito –la cosa buffa è che compare in moltissimi dipinti anche di epoche molto diverse-
-Cosa vorrebbe dire?- domandai, il cuore in gola.
-Beh, o è immortale, oppure in realtà rappresenta qualcos’altro … la dea ispiratrice dei pittori, non so- sorrise –la cosa più interessante è che descrizioni di donne simili si ritrovano anche in delle poesie, come se fosse un’ispiratrice delle arti in generale-
-Teoria interessante- esclamò James, fingendosi un intenditore d’arte.
-Molto affascinante- concordò lo storico –chissà se c’è un modello originale, una donna che riuscì così a sopravvivere alla polvere-
Sì che c’era e io la conoscevo molto bene.

Tre giorni dopo ripartii per Parigi, deciso ad affrontare Chantal. Avevo consultato dei libri e avevo una vaga idea di cosa potesse essere, e se avevo ragione dovevo sconfiggerla prima che fosse troppo tardi. Non l’avvisai del mio ritorno, ma la sera stessa ricevetti un suo biglietto in cui mi dava appuntamento al solito caffè per poterci salutare. Dopo una forte indecisione uscii per andare ad affrontarla, tanto valeva togliersi il dente subito. La trovai seduta al tavolo, i capelli fulvi sciolti sulle spalle, le carnose labbra rosse sorridenti, un leggero vestito bianco che una volta mi avrebbe fatto pensare all’innocenza, ma che ora mi faceva solo rabbrividire. Improvvisamente mi accorsi di odiarla.
-Finalmente- esclamò lei, sbattendo le palpebre –temevo che non saresti venuto- si portò le mani al cuore, un gesto un tempo tenero.
-So tutto- le dissi, sedendomi di fronte a lei.
-Cosa?- domando confusa.
-Via la maschera, so chi sei-
-Non capisco- -Sì che capisci … Megan -
Nessuna reazione, a parte un movimento del sopracciglio. –Non so a cosa ti riferisci-
-A un quadro del Settecento in cui compare la tua immagine-
Lei scosse la testa. –Una ragazza che mi somiglia-
Per tutta risposta io elencai il nome di tutti gli artisti che avevano incontrato ragazze identiche a lei. –Tutte coincidenze?-
Chantal aprì la boccuccia un paio di volte, poi scoppiò in una sonora risata. –No, non sono coincidenze in effetti- disse con una voce che non pareva nemmeno la sua.
-Chi sei?-
-La giusta domanda sarebbe chi non sono, visto che sono stata un po’ tutto, vergine, prostituta, amante, moglie, principessa, contadina, in questi secoli non mi sono mai fatta mancare nulla-
-Sei immortale?-
-Sì, mai sentito parlare delle Leanan Sidhe? Un tempo eravamo vampiri, oggi apparteniamo al popolo fatato. Noi ispiriamo gli uomini, rendiamo poeti gli ottusi e pittori i goffi, siamo le loro muse-
-Perché lo fate?-
-Oh beh, noi ci nutriamo di loro, la loro energia per noi è fondamentale, in fondo è uno scambio, la fama per la vita, non pensi che sia equo?-
Scossi la testa con forza. –Tu … -
-Sì, ti ho mentito e tutto il resto, noi fate facciamo così, da sempre, unica condizione è non unirsi mai carnalmente con gli uomini che ispiriamo, altrimenti questo ci ucciderebbe … purtroppo non concedersi sta diventando sempre più difficile, una volta la donna era amata e rispettata come un oggetto sacro, le cose però peggiorano con il tempo, arriverà il giorno in cui sarà impossibile ispirare qualcuno senza concedersi e allora sarà la nostra fine- sospirò sconsolata.
-Quindi mi hai solo usato-
-Ci siamo usati, come succede tra uomini e donne- si strinse nelle esili spalle –ora però il gioco è finito-
-E cosa succederà?-
-Oh, io ne cercherò un altro, tu per quel poco che hai da vivere non lo so-
-Poco da vivere?-
-Non ti accorgi che stai morendo? Ormai ho sciupato gran parte della tua energia-
-Io non posso morire- sussurrai –sono troppo giovane-
-Oh, caro, ne ho uccisi di più giovani- si alzò –comunque tu sei uno dei miei preferiti- sussurrò con tono confidenziale.
Aprii la bocca per parlare ma scoprii che mi mancavano le parole.
-Non fare quella faccia, tesoro, ci sono modi peggiori di morire e il mio ritratto diventerà molto famoso recandoti fama da morto come mai ne avresti avuta se non mi avessi incontrata- si sporse oltre il tavolo e mi pose un bacio sulla fronte –avrai sempre un posto speciale nel mio cuore- aggiunse.
La osservai andarsene senza dire più nulla. Restai immobile al tavolino per un tempo che mi parve eterno.

Ho cercato delle cure, ma non esiste rimedio, quando una Lenan Sidhe ti vuole non c’è soluzione. Sono destinato a lasciare questo mondo, sento che le energie mi lasciano ogni giorno un po’ di più, forse mi rimangono ancora delle settimane, magari mesi, ma presto verrà e non posso farci nulla. I medici parlano di tisi, consunzione, un male vecchio come l’uomo, come lei. Non l’ho più rivista, lei, la mia Chantal. So che dovrei odiarla, è a causa sua se morirò, ma non posso fare a meno di fissare il suo ritratto e amarla. È la sua natura che la spinge a uccidere, in fondo non ci può proprio fare nulla. Sono anche disposto ad accettare la mia fine adesso. Lo faccio per lei, sperando di unirmi a lei.

Note:

[1] Dopo la Rivoluzione Francese era pratica comune presso le giovani donne indossare nastri rosso al collo in onore dei morti alla ghigliottina.


Questo racconto partecipa al challenge Mal di challenge e parla dell’amore inibito alla meta

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Capitolo 8
*** A.A.A. cercasi psicoanalista ***


La stavo studiando da qualche giorno: Lucy von Wordak, ricca ereditiera di bella presenza. Bionda, carnagione pallida, fisico slanciato, occhi penetranti. Doveva essere mia, lei e il suo patrimonio. Sedurla non sarebbe poi stato troppo difficile, ne avevo sedotte tante di donne e nessuna si era rivelata resistente al mio fascino. Ero certo che lei sarebbe cascata come altre, dovevo solo trovare l’occasione giusta per entrare nella sua vita. E alla fine l’attesa fu premiata: m’infiltrai al compleanno di un suo amico. La musica era troppo assordante per il mio udito fine e il rumore di tutti quei cuori mi faceva impazzire, ma non c’erano molte altre scelte. Dovevo agire in fretta e poi fuggire nella notte, possibilmente con la mia preda. Ed eccola là, la vidi al bancone, seduta su uno sgabello con le gambe accavallate, teneva un bicchiere con una mano, lo sguardo annoiato perso davanti a sé. Quello era il momento giusto. Mi buttai in avanti e la raggiunsi.
-Posso offrirti qualcosa?- le chiesi.
Lei mi guardò in malo modo. –Non accetto bevande dagli sconosciuti-
Scoppiai a ridere. –Io sono John – dissi porgendole la mano.
Lei non si mosse. –Ora sei uno sconosciuto di nome John -
-E il nome non ti piace?-
-Non molto a dire il vero-
-Mi hanno sempre detto che ho un bel nome-
-A me non piace-
Era pur sempre un contatto iniziale. Mi sedetti al suo fianco e ordinai una bevanda anche se sapevo già che non l’avrei toccata. Io non bevevo mai … alcolici.
-Non mi hai detto il tuo nome- dissi.
-Non voglio dirtelo-
Detestabile. Doveva ringraziare i suoi averi e il suo fisico se non demordevo. –Allora cercherò d’indovinare-
-Fai come credi-
-Bella, ti chiami Bella-
Lei scosse la testa sbuffando.
-Allora sei Gemma, brilli come una gemma-
Scosse nuovamente la testa e vidi un leggero sorriso che le piegava le labbra.
- Lucy – dissi in fine.
Lei mi fissò sorpresa un attimo prima di riprendere un’espressione neutrale. –Perché proprio Lucy?-
-Perché sei bellissima-
Le sfuggì una risatina. –Non è una risposta-
-E la tua non è una domanda-
La ragazza scoppiò a ridere. –Hai avuto solo fortuna-
-Magari è destino-
-Oppure sei uno stalker -
-Ti sembro uno stalker?-
-Potresti-
Fanciulla interessante. –Come posso dimostrarti di non esserlo?-
-Andandotene-
-E se io non volessi?-
-Potrei considerarle molestie sessuali- disse sempre con il sorriso.
-Non rimani mai senza parole, eh?-
-Questo è una cosa che mi dicono in molti-
Sorrisi, certo di poterle fare ancora abbassare le difese. –Mi piacciono le ragazze che sanno cosa dire-
-A me no-
-Un carattere difficile-
-Già- e qualcosa oscurò il suo sguardo limpido. Avevo toccato un tasto dolente. –A volte però bisogna vedere cosa ci sta dietro-
-Una vita complicata- tentai.
-Più o meno- scosse la testa –anche tu?-
-Sì- dissi, senza mentire –ho avuto le mie difficoltà-
-La vita sa essere molto ingiusta- sussurrò lei, perdendo la spavalderia di poco prima.
Avevo fatto breccia nel suo cuore? Troppo presto per dirlo. Non dovevo abbassare la guardia, altrimenti sarebbe stata la fine e avrei perso l’opportunità di conquistarla per sempre. Sorrisi e mi strinsi nelle spalle. –Molte volte la vita è un vero disastro, il trucco è guardare la direzione giusta-
-Un messaggio di speranza- mormorò lei, scuotendo la testa.
-A volte deve esserci spazio per la speranza-
Lei annuì.

Quello fu solo il primo di una serie d’incontri. Lucy si rivelò una ragazza interessante oltre che di bell’aspetto. Le piaceva l’arte, la letteratura e soprattutto aveva un debole per la psicologia.
-Avrei voluto diventare una psicologa- mi confidò una sera –ma mio padre non volle, una Von Wordak studia giurisprudenza, non psicologia-
-Sei ancora in tempo-
-Oh, ma adesso mi manca la voglia-
-Se una cosa ti piace non dovresti rinunciarci-
-Tu hai mai rinunciato a qualcosa?-
-A tante cose- ammisi.
-Allora siamo simili in fondo … entrambi disillusi-
-Già, purtroppo penso che in questa vita non si possa essere altro- dissi e mi avvicinai un po’ di più a lei, con la speranza di tentare un approccio.
Lei fissava immobile di fronte a sé, simile ad una statua più che a una donna. Non avevo mai visto creatura più elegante. Le cinsi le spalle con un braccio e lei ancora non si mosse. Potevo sentire il suo profumo. Lavanda, sì, un sentore di lavanda. Avvicinai le mie labbra alle sue.
-No, aspetta- disse lei, tirandosi indietro.
-Cosa?-
-Non mi sento pronta-
Il desiderio di baciarla stava diventando una vera tortura. Le passai le dita tra i capelli, accarezzandole la nuca. –È solo un bacio-
-Non è solo un bacio- dissi, scattando indietro –non è mai solo un bacio-
-Aspetta- allungai le braccia verso di lei, ma Lucy si era già alzata e stava indietreggiando.
-Mi dispiace, non volevo farlo-
-Aspetta, io … -
Non servì a nulla, lei si voltò e corse via.

Passai i giorni seguenti a sognarla e le notti a cercarla, ma sembrava che Lucy non si volesse far trovare, quasi riuscisse a scomparire nel nulla e io non mi ero mai sentito così sperso come in quel momento senza di lei. La desideravo e mi ritrovavo a pensare a mia madre quando da bambino mi teneva sulle ginocchia, con quel viso dolce, così simile a quello di Lucy. Incredibile la loro somiglianza, non solo nel fisico, ma anche nei modi di fare. Identico anche quel leggero difetto di pronuncia per il quale entrambe non riuscivano a pronunciare la erre e quindi la trascinavano. Delizioso. Alla fine, non potendo più resistere, mi presentai a casa sua, suonando il campanello in una notte temporalesca.
-So che sei in casa- urlai, quando vidi che lei stava indugiando.
Un attimo dopo la porta si aprì e la potei vedere, pallida e bellissima nel suo pallore, ferma sulla soglia, i capelli leggermente mossi dal vento. –Non avresti dovuto venire- mormorò –non ricordavo neanche di averti detto dove abitavo-
-Invece sì, probabilmente non lo ricordi- mentii.
-Forse … perché sei venuto?-
-Volevo vederti- e non ero mai stato più sincero in vita mia.
-Io no- fece per richiudere la porta ma io la bloccai.
-Aspetta un attimo-
Lei scosse la testa. Non vedeva l’ora che andassi via, era palese, io però non ero dello stesso parere.
-Mi sei mancata, Lucy -
-Addirittura? Ci conosciamo appena-
-Credi all’amore a prima vista?-
-Credo a molte cose ma non a questo- e scosse la sua bellissima testina.
-Nemmeno io ci credevo-
-Parli al passato?- chiese lei, ridacchiando.
-Chissà perché-
-Non dirmi che ora ci credi- disse con aria di sfida.
-Non cambio facilmente idea-
-Io sì- esclamò lei per poi scoppiare a ridere. –Non ti arrendi proprio-
-Arrendersi? Non so nemmeno cosa voglia dire-
Lucy rise ancora, una risata argentina. –Lo ammetto, sei un tipo interessante- e si fece da parte.
-Posso considerarlo un invito?- chiesi, non potendo entrare se non espressamente invitato.
-Entra- disse lei ridendo –sei proprio strano-
E non immaginava nemmeno quanto. La superai e inspirai a fondo. Ero venuto lì con la segreta speranza di riuscire a morderla e portare così a termine ciò che avevo progettato fin da principio. Purtroppo sapevo che non ci sarei riuscito, impossibile, assomigliava troppo a mia madre. Mi accomodai sul divano, dove lei m’indicò e la osservai prendere posto di fronte, sistemandosi la gonna. Era di una bellezza statuaria, splendente, una di quelle che era difficile da vedere in giro, una bellezza appartenente ad altri tempi, altri luoghi. La osservai con il cuore che minacciava di uscirmi dal petto tanto forte mi batteva.
-Allora, cosa vuoi?- mi chiese Lucy.
-Solo vederti-
Lei scoppiò a ridere. –Intendevo da bere, vuoi qualcosa da bere?-
Scossi la testa.
-Non ti ho mai visto bere … sei proprio strano-
-Sì, la persona più strana che incontrerai mai- anche mia madre mi diceva sempre che ero strano.
-Nonostante ciò mi piaci-
Quelle parole, di una naturalezza incredibile, mi lasciarono a bocca aperta. Era quindi una dichiarazione quella? Aprii la bocca per dire qualcosa, ma prima di riuscirci me la ritrovai tra le braccia. Ci baciammo e fu un bacio così delizioso che ne rimasi inebriato. La sollevai da terra e lei mi colpì in testa.
-Sul tavolo- ordinò.
-Dove?-
-Per di là-
La portai in braccio fino al tavolo, quindi la depositai là sopra. Lei si strinse ancora di più a me con le gambe, togliendomi allo stesso tempo la camicia. Sentii le sue unghie incidermi la pelle e i suoi capelli ricoprirmi il viso. Era quello l’amore? O era solo passione? Non lo sapevo, ma mi piacque comunque. Fu intenso e bellissimo. Non mi ero mai sentito così bene.
-Devi andartene- disse Lucy, non appena avemmo finito –devi andartene immediatamente-
-Perché?- chiesi, deluso.
-Vattene- mi spinse via –non voglio vederti mai più-
E mi ritrovai nella notte, solo, com’ero sempre stato.

Il ricordo di Lucy, del suo corpo premuto contro il mio, mi perseguitava, non mi permetteva quasi di respirare, anche se io non avevo veramente bisogno del respiro per vivere. Vagavo per le strade, ipnotizzavo le fanciulle a cui bevevo qualche goccia di sangue, per poi lasciarle tornare alla loro banale vita, ebbre di un po’ d’immortalità. In realtà io desideravo il sangue di un’altra ragazza e questo desiderio mi tormentava come un dolore fisico. Alla fine mi ritrovai nuovamente di fronte a casa sua e, dopo essermi detto mille volte che non lo avrei fatto, bussai nuovamente alla sua porta.
- Lucy – urlai.
Nessuna risposta. Sbattei con forza contro la porta, fuori di me.
- Lucy, apri, io ti amo- quelle parole sconvolsero anche me non appena le dissi. L’amavo veramente? Oppure era solo un trucco per convincerla ad aprire dopo il quale l’avrei divorata? Non lo sapevo, l’avrei scoperto solo se lei avesse aperto quella porta, cosa che non fece. Poco prima dell’alba me ne andai, solo, in lacrime e sconfitto. Mi sembrava di non aver mai subito una simile delusione nella mia lunga vita.

Passò quasi un mese ma il ricordo di Lucy era fisso in me e non voleva saperne di andarsene. Mi ritrovavo a passare sotto casa sua ogni notte, senza sapere com’ero giunto fin lì e con il folle desiderio di entrarvi a tutti i costi pur di vederla. Sapevo però che la cosa non avrebbe risolto nulla. E poi una notte lei finalmente aprì.
-Entra- mi ordinò.
E io ubbidii, più felice che mai. Ci accomodammo in salotto, dove lei si accese una sigaretta e mi fissò pensierosa.
-Ammetto che vorrei sapere perché ti sei fissato così tanto con me, sono proprio curiosa- Non mi aspettavo un tale incipit, ma era sempre meglio del silenzio.
-Allora? Aspetto la risposta-
-Sei identica a mia madre-
Lucy distorse il viso, poi scoppiò a ridere, una risata profonda che le tramutò il volto, ringiovanendola. –Stai scherzando-
-No-
-Oh- aggrottò le sopracciglia –sei preda del complesso edipico quindi?-
-Può darsi-
-Non ci posso credere … beh, raccontami un po’ di tua madre allora-
-In realtà non la vedo da molto-
-Una brutta lite?-
-Con mio padre-
-Fammi indovinare: a causa di tua madre?-
-Per niente, mio padre pensava che fosse colpa mia se mia sorella era morta-
Il sorriso sparì dalle labbra di Lucy. –Oh, mi dispiace-
-Ormai ho imparato a conviverci, lei cadde dalle scale quando io dovevo guardarla, ma quando si è molto giovani non si pensa ai bambini, o sbaglio?-
-Hai ragione- mormorò lei.
-Mio padre però non la pensava così, per lui ero un disonore, lo sono sempre stato in realtà, poi tra lui e Margaret c’era un rapporto speciale, era la sua piccola bambolina- sorrisi al ricordo di mia sorella, i morbidi boccoli dorati, i grandi occhi castani e le guancie paffutelle –sembrava un angioletto, le piaceva correre per i corridoi, voleva diventare una grande ballerina, come quelle che si vedono a teatro, era brava e caparbia-
-Devi aver sofferto molto-
-Come tutta la famiglia-
-E tua madre?-
-Mia madre mi difese, proprio come faceva sempre, ma penso che in fondo anche lei pensasse che fosse colpa mia, forse credeva addirittura che l’avessi spinta io-
-Non penso-
-Sì invece, ho questo dubbio atroce-
Lucy si alzò e potei vedere come le stava divinamente l’abito sui fianchi, sembrava che le fosse stato cucito addosso, una seconda pelle, un vero spettacolo da lasciare a bocca aperta. Mi alzai a mia volta, rapito da quello spettacolo. Era bellissima, una creatura che pareva provenire da un altro mondo, da altri luoghi, molto lontani. La raggiunsi rapidamente e la presi tra le braccia. Lei non parve notarlo, come se si trovasse in un altro posto, come se io non esistessi o fossi insignificante per lei.
-Ti amo- mormorai.
-No, tu rivedi in me tua madre, è diverso-
-Perché mai? Tu non sei mia madre, io posso amarti-
-Forse- mormorò assente.
La baciai.
Trascorsi il giorno seguente nascosto nella sua stanza, le tapparelle abbassate per non permettere alla luce di entrare. Lei mi aveva riso in faccia quando aveva saputo che ero un vampiro.
-Questo è decisamente impossibile- aveva commentato.
-Invece no-
-Raccontami tutto, voglio sapere qualsiasi cosa su voi principi della notte-
Ammetto che inventai parecchie cose, la vita dei vampiri è parecchio noiosa in verità. Sempre le stesse cose, mai nulla di nuovo. Sangue, notti, dolci amori destinati a diventare polvere, molta solitudine. Tanta tristezza. Non potevo certo dire quello a Lucy, l’unica soluzione era quindi quella d’inventare una storia felice e avventurosa.
-Deve essere una gran bella vita- disse Lucy con un sorriso provocante, come il suo corpo ignudo sotto le lenzuola –ma a me non piacerebbe-
-Come mai?-
-Non so, troppe avventure, troppe persone, troppo di tutto, le cose devono essere misurate, per questo la vita non è eterna, altrimenti ci sarebbe troppo posto per tutto ciò che facciamo e ci perderemmo al suo interno-
Risi a quella folle visione del mondo. –Essere immortale ha i suoi lati positivi, puoi vedere epoche che non avresti mai pensato che arrivassero-
-Questo è un bene o un male?-
-Non so, dipende dai punti di vista- mormorai, attirandola a me –sinceramente ora non voglio pensarci-
-E poi vedere tutti coloro che si amano morire, deve essere atroce-
-Certo, ma dopo un po’ è brutto da dirsi, ma ci si abitua-
-Come in ogni cosa-
-S’impara a considerare le persone come cose di passaggio, qualcosa che se ne va per non ritornare più-
- Anch’io sono qualcosa di passaggio quindi?- chiese lei, con voce curiosa.
-Tu sei diversa-
Scoppiò a ridere. –Voi vampiri non siete poi tanto diversi dagli essere umani di sesso maschile, sai? Anche loro dicono che sei diversa e poi se ne vanno, è una vecchia e triste storia-
Come potevo spiegarle che non mentivo? Io provavo davvero qualcosa di molto profondo per lei, l’amavo per davvero, un sentimento mai provato per nessuno fino a quel momento. Potevo però dirglielo? Mi avrebbe creduto? Non dissi nulla, restai in silenzio, certo che fosse troppo prematuro esprimere i miei sentimenti in quel momento. Lei si sporse in avanti e mi baciò.
-Ma per oggi voglio crederti, voglio pensare di essere davvero diversa per te-
Non dissi nulla, il silenzio in quel momento era il mio migliore amico, e lasciai che lei si stringesse a me.

La vita senza Lucy divenne da quel momento in avanti insopportabile. Quando si doveva allontanare io non facevo altro che aspettarla, il cuore in gola nella paura che lei potesse non tornare più. Mi ritrovavo così a sperare nel suo ritorno non appena se ne andava. Tutto era noioso senza di lei, persino ciò che un tempo avevo trovato divertente perdeva interesse ora. Dipendevo da lei in tutto e questo, ahimè, Lucy lo aveva compreso fin troppo bene e non aveva remore ad approfittarsene. Mi derideva e mi punzecchiava, ero diventato il suo giocattolo, quello che fin da bambina aveva desiderato e mai avuto. In cambio io ricevevo il suo supporto e i suoi consigli. Era diventata la mia psicanalista e non mi vergogno a dirlo. Passavo ore, sdraiato sul letto al suo fianco, a raccontarle i miei problemi, a parlare di mio padre e di mia madre, anche di mia sorella.
-Credi che mia madre mi abbia perdonato?- le chiedevo spesso, rivedendo in lei la donna che mi aveva messo al mondo.
-Tu cosa pensi?-
-Non ho ucciso mia sorella, ma forse non importa quello che ho fatto, ma quello che pensa che abbia fatto-
Lei annuiva e segnava tutto su un quadernetto che portava sempre con sé, aumentando la mia curiosità verso di esso e i segreti che nascondeva.
Una notte scoprii che durante il giorno un uomo veniva ad alleviare la sua solitudine.
-Chi è?- chiesi, già immaginando la fine del nostro rapporto.
-Mio cugino- si giustificò Lucy con aria ingenua.
E io mi sforzai per crederle.
Poi iniziarono le chiamate. Chiunque la chiamasse lo faceva sempre alla stessa ora e lei correva a prendere il telefono. Rispondeva con voce civettuola, ridacchiando, come se dall’altra parte ci fosse un corteggiatore. Io restavo a fissarla, immobile, desideroso di conoscere l’identità di quell’altra persona, roso dalla gelosia.
-Chi era?- chiedevo quando aveva terminato.
-Oh, nessuno- e cambiava discorso, facendomi rodere dalla rabbia.
Chi era il misterioso interlocutore? Non lo seppi mai. Ma gli strani comportamenti di Lucy non si limitavano a ciò. A volte usciva di notte, vestita con una camicia da notte di seta leggerissima. Dove andasse non lo sapevo. Lei accusava il sonnambulismo di queste uscite di soppiatto.
-Ne soffro fin da piccola, ormai ho imparato a conviverci-
-Può essere pericoloso-
-No, non è mai successo nulla-
-Potrebbe-
-Non succederà- era tremendamente sicura di sé, forse troppo.
-Come puoi esserne così sicura?-
A questo punto interrompeva sempre il dialogo con un bacio.
Il tempo trascorreva così, ozioso. E poi ci fu l’incidente. Ci tengo a precisare che io non feci nulla. Io non ne fui neanche lontanamente responsabile. Accade un giorno, con il sole alto e io che non potevo uscire di casa. Il cugino di Lucy, o meglio colui che veniva sempre in casa quando io ero immerso nel mio sonno, cadde da un ponte e morì sul colpo. Ufficialmente un incidente, officiosamente si parlò di omicidio o almeno di suicidio, perché i lati del ponte erano troppo alti per poter cadere giù per un incidente.
-Non so come sia successo, lui non può essersi buttato- si disperava Lucy, come se avesse perso un amante.
-A volte le persone non si conoscono mai fino in fondo- la consolai io.
-Lui non l’avrebbe mai fatto, lo conoscevo bene-
Me ne andai, pensoso. Lucy nascondeva qualcosa era palese, la domanda era: volevo davvero sapere? Oppure era meglio una beata ignoranza? In quel momento non lo sapevo, avrei solo voluto non aver mai incontrato Lucy. Purtroppo l’incontro c’era stato e non potevo più tornare indietro.
Ritornai solo dopo alcune ore durante le quali avevo passeggiato nelle vie buie, riassaporando la mia vecchia vita e il dolce sapore del sangue delle passanti. Quanto mi era mancato tutto quello! Ah, finalmente un po’ di libertà. Purtroppo il desiderio di rivedere Lucy ebbe la meglio e io dovetti tornare da lei.
La ritrovai nel modo peggiore in cui un innamorato può trovare la donna amata: in lacrime per un altro uomo.
-Pensi ancora a lui?- le domandai.
Lei impallidì un attimo per poi arrossire completamente. Le sue guancie erano simili a due pomelli rossi come mele. In quel momento mi parve che avesse perso tutto il suo fascino, cancellato dalle lacrime e dalla tristezza, dal dolore per quell’altro, un essere insulso che, non capivo proprio come, aveva conquistato il suo amore. Sì, avrei potuto liberarmi della sua influenza, il quel momento ne ero proprio sicuro. Sbagliavo, il mio attaccamento per Lucy non diminuì, anzi, non fece che aumentare, insieme alla mia infelicità. E poi arrivarono altri parenti. Cugini di primo, secondo, terzo, persino quarto grado, nipoti perduti nel tempo, zii che non sembravano più vecchi di lei, persino un fratellastro.
-Ho una famiglia un po’ allargata- si giustificava lei, ma io non le credevo, non le potevo proprio credere.
-Non voglio più vedere nessuno vicino a te-
-Sei troppo geloso-
No, non era gelosia la mia, era semplice buon senso, sapevo che mi mentiva, non avevo nessun dubbio al riguardo. Mi rodevo, conscio di non poter fare nulla, controllando ogni suo movimento e alla fine arrivò la tragica conclusione della più bella storia d’amore che avessi mai vissuto.

-Dobbiamo parlare- mi disse Lucy una notte –io e te non possiamo più stare insieme-
Urlai e protestai con tutto il fiato che avevo in gola. Perché mi lasciava? Non mi amava più?
-Sei troppo geloso, io non posso fare nulla, sembra che tu dipenda da me, se non ci sono io non fai nulla-
-Io posso cambiare-
-No che non puoi, le persone non cambiano, anche mio padre lo diceva sempre, penso che ne fosse addirittura certo, ma non c’è mai riuscito, è sempre rimasto lo stesso e mia madre lo ha sempre perdonato, nonostante tutto-
-Io non sono tuo padre e tu lo sai bene-
-Tu sei identico a lui-
-Questo è un addio?- mormorai con le labbra tremanti, il cuore lacerato dal dolore.
-Sì, un addio-
-Per sempre?- quasi non riuscivo a parlare.
-Per sempre- confermò.
-C’è un altro?-
-Non essere ingiusto, non ti ho mai tradito-
Ma come potevo crederle? Lei mi aveva sicuramente tradito. E prima di rendermene conto mi ero avventato contro di lei e avevo estratto i miei canini. Oh, la fame era davvero troppa, così come la rabbia. Come desideravo il suo sangue, come volevo vendicarmi una volta per tutte. Il ceffone arrivò senza che io lo avessi previsto.
-Ecco il tuo problema- urlò Lucy come una pazza, spingendomi via, verso la porta d’ingresso. Mi colpì ripetutamente, fino a quando il sangue non iniziò a scendermi dal volto. Io la fissavo senza riuscire a reagire, capendo proprio in quel momento quanto forte potesse essere la dipendenza che nutrivo per quella giovane. Poco dopo ero fuori dalla porta, solo, sanguinante, sotto la tempesta. A nulla valsero i miei richiami, Lucy non aprì né quella notte né quelle seguenti. Passo sempre davanti alla sua villa. A volte la luce della sua stanza è accesa e posso vedere due figure, sembrerebbero un uomo e una donna. A volte in realtà scopro che si tratta di una lampada e di un bustino portabiti, ma l’illusione è quasi perfetta. Altre resto nel più atroce dubbio. Mi tradisce forse? Non lo so, ma la mia vita non sarà più quella di prima perché non esisterà più giorno in cui io non penserò a lei.

Note: Questo racconto partecipa al challenge Mal di challenge e parla dell’amore dipendenza

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