(folg)orazioni

di tyger
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1: Rapsodia su una sera di vento (e una marina mancata) ***
Capitolo 2: *** Battiti ***
Capitolo 3: *** Senza titolo; ovvero, mille e un'attesa ***
Capitolo 4: *** Autunno (out of tune) ***
Capitolo 5: *** What do we talk about ***



Capitolo 1
*** 1: Rapsodia su una sera di vento (e una marina mancata) ***


Rapsodia su una sera di vento (e una marina mancata)

 

Il vento lo prese alle spalle, in una raffica di tonante abbaglio dei sensi.
Sara lo avvolse tra le braccia e prese fiato contro la sua guancia, la sua barba di tre giorni e l'odore di polvere da sparo che si portava dietro da ore. I capelli lunghissimi di lei avvolsero entrambi in un fragilissimo bozzolo scompigliato dalla tempesta che saliva, saliva dalla terra, dai geranei nei vasi di terracotta che parevano scoppiare di umidità, saliva come una strada che sognava quasi ogni notte e come una marea che ancora non l'affogava.
"Andiamo dentro" disse la donna.
Annuì confuso, i veli dell'anima scompigliati da un soffio lieve da stringere lo stomaco e il cuore. L'aria non è mai al posto giusto, sempre a cambiare natura o mancare, a germogliare stranezze d'ossigeno e memoria. Le sfiorò il viso con un bacio appena salato.
Camminarono lungo il vialetto di pietrisco, calpestando le erbacce e sgranocchiando lo scroscio della pioggia nel calpestio dei piccoli sassi, passi accavallati come nervi che si stendono senza slegarsi. Sara fece entrare l'uomo, poi lo seguì dentro, sul tappeto di feltro, e si chiuse alle spalle la porta a vetri. Si riaccese, stonato e più caldo, ogni senso, escluso dal mondo esterno graffiato dall'acqua e dagli artigli del vento. Una mano tra i capelli in boccoli sformati, che effondevano umida delizia di affanno e attiravano, inevitabili, con quell'essere scomposti come fosse l'unico modo possibile, l'unico modo vero. Ma non è che un dettaglio. Le pentole, impilate negli armadietti in cucina, tremano all'ennesimo tuono. Il divano borgogna è un po' spostato, la collezione di souvenir coperta di polvere, la bottiglia di Chianti sul ripiano del giradischi rotto è stata aperta? Non sto parlando con nessuno. E' sera. Niente qui dentro sa di mare.
Arnout le posa le mani sul petto, la spinge contro la porta. Lei prende fiato tra i denti. Sta pensando a un ragazzo che ha conosciuto da giovane, non le è mai importato il nome, ma leggeva sempre libri molto belli mentre l'aspettava all'entrata della scuola, e aveva il viso ingenuo ma gli occhi in tempesta, e avrebbe compiuto gesti come quello per tutto il tempo. Arnout non sembra fatto per quello.
"Perché non suoni" le dice. Ha il fiato accorciato dalla dolcezza, da un'eccitata levità di esistere.
"Suonami qualcosa, ti prego."
"D'accordo."
Lei non si muove. La terra trema sotto i loro piedi anestetizzati dalla distrazione.
Non si muove. E' perfetto. Non c'è niente da conservare, nessuna tensione, nessun ridefinire. Si annullano del tutto in quello stallo, in quell'attesa sommersa. Finché Sara lo implora, in un istante, con gli occhi, di avvicinarsi ancora. Arnout inclina la testa, i capelli bagnati le fanno socchiudere gli occhi. Non si tratta di niente, di niente. Non c'è più acqua, qui dentro.
Un bacio veloce, fatto bene, più intenso dove qualcosa manca. Pulsa qualcosa di inesplorato. La donna si allontana, piano, i tacchi attanagliati dalla finta moquette e un'espressione sul viso da marionetta o da stella di Broadway. Arnout appoggia la fronte contro il vetro della porta, chiude gli occhi e rimane in attesa che le dita di lei sfiorino i tasti del pianoforte, come la scia di pioggia che camminando disegna per terra, simile alla coda di una sirena.
 

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Capitolo 2
*** Battiti ***





Battiti




Chiudo il rubinetto, mi sfilo i guanti di plastica gialla troppo grandi e li getto nel lavabo. Gocciola, l'acqua, sfalzata al ticchettio dell'orologio appoggiato contro il muro della cucina. Mi guardo intorno. Tasto i ripiani stretti e costellati di briciole, senza smettere di canticchiare a mezza voce, fino a sentire la stoffa sotto i polpastrelli. Asciugo le pentole con un panno scucito, le dita di un ricordo che mi solleticano l'ippocampo, un po' della mia scarsa e dispersa attenzione fuori dalla finestra allo zampettare impacciato di un uccellino sul prato.
Suoni. I tempi delle cose, come musica. Somme armoniche, accumuli d'onde per un attimo in fase, e che poi scivolano e grattano l'uno sull'altro, ma sempre tutte insieme - così percepiamo il mondo; e uniamo i puntini, tracciamo linee, sentiamo - che cosa? I cicli, le stagioni. I ritmi. Distesi come nervi stremati da una contrattura, che si stirano, esausti, prima di slacciarsi.
Non sono le parole giuste, tesoro, non lo sono per niente. E la musica non era questa, non era questa che si condensa adesso nella mia gola e risale alla bocca, si appiccica al gusto del caffè bevuto dopo pranzo, in una sinestesia di memorie e descrizioni mancate, o forse è soltanto l'ombra - è questa, forse, ci siamo detti, è questa la volta giusta, o è soltanto l'ombra alla periferia dello sguardo, in quell'area male illuminata con lo spazio di manovra per l'immaginazione. Ci siamo detti, e poi soffiati come vetro sottopelle. L'ultimo ritmo incompreso batteva più forte, allora, tachicardico.
Scuoto la testa. Come se potessi fisicamente sottrarre il cranio alla traiettoria inerziale dei pensieri che rotolano nello spazio lungo la mia rete neurale. Sciocco, no? Mi sento un po' bambina. Non smetto di cantare.
Allora, chi sei? Aspetto di ricordarne il nome; mi salirà alle labbra se la riavvolgo e la canto da capo, a piccoli pezzi, con le parole che riaffiorano a tratti un po' rimescolate, non più che lettere incollate l'un l'altra alla meglio, passi improvvisati su una musica nuova.
Forse neanche esiste a priori, forse si costruisce, istante dopo stonato istante. Fa differenza? Cosa sei? Un pentagramma sbavato che si rovescia su un suono metallico e va in frantumi di vapore quando appoggio l'ultimo pentolino asciugato sul ripiano di cucina, strofino le mani con lo straccio umido e lo lascio andare. Epifania bugiarda. Mi accorgo di uno schizzo di salsa di pomodoro rimasto incastrato in un'intercapedine alla giuntura del manico. Lo tolgo con uno strappo di scottex, poi risciacquo velocemente.
La canzone è sparita. Macbeth, dove cerchi le streghe? Ripescarla dalla memoria, se mai c'è stata, è difficile come camminare su un filo da ubriachi.
Ma t'aspetto, t'aspetto, t'aspetto. Chissà se sai che ti aspetto dietro ogni gesto, nei più insignificati. Che scorgo l'impressione dei tuoi lineamenti nelle architetture della realtà, ovunque.
Ripongo le pentole delicatamente. Mike mi si avvicina e mi annusa le caviglie lasciate scoperte dai vecchi pantaloni della tuta. Gli arruffo il pelo con una carezza rapida, poi ciabatto fino alla finestra.






 

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Capitolo 3
*** Senza titolo; ovvero, mille e un'attesa ***




Senza titolo; ovvero, mille e un'attesa


Le vetrine dei negozi di fronte luccicano dei riflessi sfocati dei lampioni.
Si spengono intorno alle sette e mezzo, in questo periodo. La loro luce gialla, insieme calda e aliena per come si getta sull'asfalto sconnesso, colora tutte le mie impressioni.
La prima mattina si porta dietro il freddo appiccicoso di una tristezza strisciante, lo stesso disagio della colazione buttata giù con lo stomaco chiuso, e questa luce che bagna la periferia mentre, dietro le case basse, oltre i campi, il rosso dell'alba - oggi particolarmente intenso - inizia a infettare il cielo.
Tiro fuori le cuffie dallo zaino, le attacco al cellulare, scorro le playlist. Il pullman è già in ritardo di quattordici minuti. Prendo un respiro più profondo all'intro arpeggiata della prima ballata acustica. Scrivo a Elisabetta di tenermi un posto a lezione, nel caso in cui facessi tardi anche oggi. L'irritazione mi serpeggia nello stomaco, pungente ma stanca. Quest'ora della mattina sembra sedare le sensazioni, in qualche modo - tranne alcune; alcune le esalta, come fa il sale.
Allontano il pensiero.
Il proprietario della macelleria davanti alla fermata arriva in macchina, parcheggia sullo spiazzo coperto di ghiaia, scende, chiude l'auto, mette in una tasca della giacca le chiavi e prende quelle del negozio, tira su la saracinesca, apre la porta, entra, accende la luce, richiude. In genere arriva prima la fruttivendola. Gli altri negozi, quando passo da qui, sono sempre chiusi, quindi non ho idea dei loro orari.
Le tre ragazze sedute sul muretto alla mia destra scoppiano a ridere d'improvviso, superando lo sbarramento di decibel della musica nelle mie orecchie. Il mio vicino di casa passa in bici e mi saluta con un cenno della mano. Mi sistemo lo zaino sulle spalle e controllo il display del cellulare: diciotto minuti di ritardo.
Un piccolo morso di apprensione allo stomaco; e non è per il ritardo che accumulerò anche oggi - maledizione, vorrei che lo fosse. Che tutto fosse una lineare corrispondenza, che io riuscissi a spengermi dentro le cose che accadono l'una dopo l'altra. E abbracciare questa debolezza, dentro di me, come prezzo per non essere riuscita a vivere normalmente senza sentirmi soffocare e schiacciare ad ogni ombra. Perderei il conto dei miei crolli letali se ancora credessi che vale la pena tenerne traccia. Lo psicologo continua a darmi appuntamenti, ma radi, perché ha l'agenda piena.
La sagoma arancione dell'autobus si riflette nella vetrina di fronte, tra le luci dei lampioni, e un nodo di brividi mi si stringe tra gli altri, chiudendo il senso di essere qui, anche stamattina, esattamente qui dove sono, mentre senza poterlo impedire faccio lampeggiare lo sguardo oltre i finestrini e intravedo all'interno, poco più di un'ombra ma fin troppo nitido ai miei occhi, in mezzo a tutti i passeggeri che affollano lo stretto spazio, Giulio. Prendo fiato e il respiro mi brucia la strada fino ai polmoni.
Non sono pronta ai suoi occhi che mi cercano, in mezzo alla gente che ci separa, senza farsi vedere, non sfacciati quanto li vorrei - e non dovrei neanche pensarlo - né alla piega che gli prendono gli occhi quando mi sorride sottovoce, con una dolcezza che non gli vedo mai addosso tranne che in quegli attimi che non so mai se sono accaduti davvero, tanto sono fragili, esitazioni di uno sguardo che si trattiene per quella frazione di tempo in più che scava un abisso tra il quotidiano e lo straordinario. O forse, pronta o meno, dovrei solo ammettere, dopo tutti questi altalenanti mesi, che non riesco a dare più importanza a nient'altro, come se nient'altro che questo, nella mia vita e tra i miei desideri, avesse la stessa verità, la stessa necessità d'esistere, nient'altro che questo. E d'altronde nient'altro riesce a sciogliere i coaguli che mi ingolfano il petto, a dissolvere il tempo, nel crudele piacere dell'abbandono.
Ho un sorriso sulle labbra, prepotente, e non ho memoria di come ci sia arrivato; così vorrei che fosse la mia vita, da quando ho capito che non riesco a viverla altrimenti che nella perpetua mancanza d'attenzione, mettendo da parte tutte le idee e i giudizi morali che ho sempre avuto, spenta come una sigaretta contro il posacenere, persa dentro le cose.



 

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Capitolo 4
*** Autunno (out of tune) ***


 

 

 

Autunno
(out of tune)

 

 

 

Mentre raggiungeva la piazza si sentiva scavare dentro.

Lo stanco turbinìo delle foglie morte sotto i suoi passi frustrati dall'incertezza, appena s'alzava un po' di vento, le pareva una sciocca e malriuscita imitazione della vita. I grandi alberi erano stati sul punto di scoppiare di colori, fino a pochi giorni prima, ridondanti di giallo vivido da abbagliare e spruzzati di arancione, di verde fuori contesto, un'arroganza autunnale e bellissima; adesso i lunghi rami spogli, sgraziati, tagliati di netto in più punti, lasciavano pendere qualche foglia incolore, mentre sul cemento un po' sconnesso s'era formato uno sbilenco ma compatto tappeto molliccio e dall'odore troppo intenso.

Quella mattina gelida e piena di sole s'inseriva in una lunga serie di attese in cui s'era intrappolata, e non sapeva uscirne. Gli alberi con la loro esuberanza mancata accerchiavano la sua vita che giaceva adagiata su consuetudini scomode ma fisse, condannate a sbattere la testa contro un orizzonte troppo basso. I piccoli margini di libertà che si ritagliava, tra gli orari delle lezioni, dei mezzi pubblici, dei suoi familiari, degli impegni incastrati in bilico sui propri nervi, pure se li sentiva troppo stretti addosso, come se si stesse piegando a qualcosa che in realtà le era di peso.

Si trattava pur sempre di attese. Il tempo libero, così prezioso, si risolveva nell'attesa di qualcuno - o no?

Ma non è questo il punto, si diceva. Non è qui che volevo arrivare. Non è questo che volevo dire.

Era forse il tappeto marcio di foglie, l'odore di sfioritura, il fatto che le panchine fossero umide di ricordi, o che il tempo scorresse appiccicandosi addosso a lei, che si chiudeva nella giacca (nuova, un regalo a cui ancora non aveva fatto l'abitudine; se la sentiva strana addosso, troppo lunga e troppo pesante, con una cerniera capricciosa e bottoni troppo distanti) e il vento, comunque, si insinuava in ogni spiraglio che non riusciva a proteggere - senza cattiveria, solo con pacata irrisione.

Andò a sedersi. Guardò l'orologio, di nuovo; sapeva che ora fosse, avendone controllato il quadrante una decina di volte negli ultimi cinque minuti, ma lo fece come se fosse un tic inconscio, come se con quell'azione occupasse produttivamene una frazione di quel tempo in bilico, di troppo.

Quindici minuti, si disse, e vado a prendere il treno. Non posso aspettare un'ora in questo stato. Ogni minuto esala spossatezza, marciume, una specie di dolore. Qui, qui è tutto pesante. Ma perché? Perché fuggire, se voglio restare?

Perché se poi l'attesa fosse vana, avrei gridato al mondo l'inutilità del mio tempo. Ed è così che si muore.

Certo, certo che sono tragica. Sto facendo la scema, nient'altro. Se fossi una persona seria, non sarei neanche venuta fin qua, sarei andata alla stazione senza nessuna deviazione, senza neanche valutare un'altra possibilità. Lo so, lo so.

E si chiedeva, quasi per abitudine, per quel po' d'insofferenza che le faceva dolere il respiro, quale lama di coltello le stesse scavando nel petto, anche mentre le appariva ovvio che il suo problema stava nel non voler vedere le risposte.

Ancora, in fondo non è questo l'importante, si diceva poi, sorridendo di quella piega delle labbra che agli altri pareva a volte una smorfia e a volte un insulto, a seconda forse della luce - o più probabilmente della profondità della loro incomprensione per un'autoironia tanto consapevole da affilarsi su se stessa, e sfociare con calma nell'amarezza senza perdere una scheggia della propria irrisione sfacciata. Sorridendo sommessamente, senza forzatura e senza gentilezza.

Bisogna guardare più a fondo. Dietro. Allora, a volte, appare.

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Capitolo 5
*** What do we talk about ***


 

What do we talk about



"Ho smesso di scrivere."
"Vedrai che è solo un periodo." Greta fece un gesto vago con la mano. "Gli esami, tua madre con la gamba rotta, il ristorante. Sei già parecchio impegnata."
L'altra ragazza alzò le spalle, aprì una lattina di birra e si riempì il bicchiere.
"Ho anche smesso di leggere. Quasi. Magari Carver non m'ha fatto bene."
"Macché."
"Non sai nemmeno di cosa sto parlando."
Greta schioccò le labbra.
"Mary, senti. Ascoltami. Ti dico una cosa, però non prenderla male."
Maria sedette al tavolo di cucina e portò il bicchiere alle labbra, bevendo la schiuma in un piccolo sorso. Greta silenziò la televisione e si voltò del tutto verso la coinquilina.
"Prometti" insistette.
"Okay."
"Ma che bevi la birra in quel bicchiere?"
"Ma che vuoi?"
"No senti lascia stare e ascoltami, è importante. Mi ascolti, vero?"
"Sono qua. Parla."
"Prima dammi un po' di birra."
"Non ti piace."
"Sì che mi piace."
"Prenditi un bicchiere."
Greta sbuffò e si pizzicò il naso, a disagio.
Maria lanciò un'occhiata alle facce che sorridevano sullo schermo della tv. Lineamenti piacevoli, bocche larghe e sorridenti - rossetti accesi per le donne, senza eccezione - vestiti eleganti e postura impeccabile, occhi chiari che brillavano in quella luce artificiale che faceva splendere uniformemente ogni angolo di studi lucidi e senza ombre.
"Mi stai mettendo ansia" disse Maria, prima di prendere un altro sorso.
Greta giocherellava con il telecomando.
"Mh?"
Maria sollevò le sopracciglia, appoggiò il bicchiere e allargò le mani.
"Allora? Che c'è?"
Greta la guardò negli occhi. Indugiò. Abbassò lo sguardo e restituì la voce alla televisione con un movimento impacciato.
"Niente, non preoccuparti."
"Ormai dimmelo, che cazzo."
"Poi."
Maria vuotò il bicchiere e si alzò. Greta si voltò al rumore della sedia che strusciava contro il pavimento.
"Non ti fa bene bere ancora a stomaco vuoto."
L'altra prese la lattina dal ripiano di cucina.
"Mi pareva che mia mamma fosse all'ospedale con una gamba ingessata, invece è qui, pensa."
Greta si concesse un sorriso senza allegria.
"Hai pianto", disse.
"Sembri uscita da uno dei miei racconti del cazzo", proruppe Maria.
Sbatté la lattina sul ripiano. "Quando mi metto a scrivere perché mi sento incapace e disabituata, ma non so se ho veramente niente da dire. Mi metto lì e sanguino, solo che butto un sangue trasparente che cola via in un attimo, non macchia nemmeno, a me quasi non fa male. Non succede un cazzo. Niente."
Si stropicciò gli occhi con una mano. La conduttrice del talk show si congratulò con un ospite e il pubblico applaudì. Greta socchiuse stancamente le labbra.
"Sul serio, niente. Sono una parodia, e anche tu. Stiamo qui a fare cose stupide e non dirci niente. Non so se ci faccio caso solo io, non mi pare che sia normale, ma poi non so. Non succede niente."
Greta attese qualche secondo, poi disse:
"Se ti va di parlare, ti ascolto. Intendo, se mi vuoi dire cosa è successo."
"Giovanni mi ha lasciata."
Greta spense la televisione.
"Come ti ho detto, se ti va di parlarne..."
"Non mi va di fare un cazzo" mormorò Maria, e uscì.











 

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