Summa Supplicia

di _Blanca_
(/viewuser.php?uid=593279)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Al George Inn ***
Capitolo 2: *** Bon Fleur Place ***
Capitolo 3: *** Granelli di sale ***
Capitolo 4: *** Mrs. Blackwell ***
Capitolo 5: *** Pagine dal passato ***
Capitolo 6: *** Il demone di Goudhurst Close ***
Capitolo 7: *** Segreti ***
Capitolo 8: *** Hypericum ***
Capitolo 9: *** Danse macabre ***
Capitolo 10: *** Ellsworth House ***
Capitolo 11: *** La morte nello specchio ***
Capitolo 12: *** Alice Mallory ***
Capitolo 13: *** Un messaggio inatteso ***
Capitolo 14: *** La fanciulla della fonte ***
Capitolo 15: *** Quand’anche camminassi in una valle oscura ***
Capitolo 16: *** Fantasmi ***
Capitolo 17: *** L'ultimo tassello ***
Capitolo 18: *** Nalusa ***
Capitolo 19: *** Nella nursery ***
Capitolo 20: *** Deuteronomio ***
Capitolo 21: *** Ladri di baci ***
Capitolo 22: *** Confessioni notturne ***
Capitolo 23: *** Madri e figlie ***



Capitolo 1
*** Al George Inn ***


1.

A Vale.
Per i tanti pomeriggi passati a tessere storie insieme.
____________________________________



— Summa Supplicia —




I. Al George Inn




1875. Inghilterra

Anna Hawkins aveva sempre vissuto in punta di piedi sul limitare di mondi diversi; mondi verso i quali non le era concesso reclamare piena appartenenza. Li guardava come si guarda un paesaggio attraverso il vetro di una finestra chiusa: benché potesse osservare tutto, nitidamente, ne restava separata. E osservando Brewer Street, da una stanza al secondo piano dello George Inn, la consapevolezza di essere un’estranea tra estranei era forte come mai.
Maidstone era dolorosamente diversa dalle cittadine della Nova Scotia: non c’erano ariose strade sterrate, né case di legno bianco, né una natura aspra come il profumo delle foreste di abeti. Qui gli edifici, dai tetti scuri e aguzzi, se ne stavano stretti l’uno all’altro, come soldati impauriti. Alcuni erano di mattoni rossastri, altri di un malsano giallio, altri ancora parevano anneriti dalla fuliggine. Colonne di fume eteree e pallide, come fantasmi, si levavano dai comiglioli, dissipandosi in un cielo grigio. Di tanto in tanto, una carrozza, o un calesse, passava lungo la via: il ferro degli zoccoli cozzava contro il selciato, sembrava il martellare di un fabbro. Lontano, un orologio batteva l'ultimo di cinque colpi.
Anna studiava il via vai di fauna umana: la gente entrava e usciva dai negozi; fermi sul marciapiede, tre uomini fumavano sigari, grossi come salsicce, e un drappo di nebbia serpeggiava tra di loro; più in là, una coppia di signore se ne andava a passeggio sottobraccio. Sfoggiavano vite strettissime, sederi sporgenti e cappellini di paglia ornati di nastri e piume. Una bimbetta le avvicinò: portava una gonna piena di toppe, un cencioso scialle sul capo e una cesta di arance tra le braccia. Anna comprese, dai gesti, che la bambina stava cercando di vendere la frutta, ma le ricche donne le rivolsero soltanto uno sguardo e una parola, come chi getta briciole ai passeri, e perseguirono fino a scomparire dietro l’angolo con Wheeler Street.
L’attenzione di Anna rimase sulla bambina ― le ispirava una tristezza amara, che andava sommandosi alla propria inquietudine ― e quando la piccola si sottrasse alla sua vista, imboccando un vicolo, Anna sospirò, piantò le mani sui fianchi e prese a camminare avanti e indietro. Le assi scricchiolavano sotto i suoi stivaletti dalle punte scolorite e lei si sentiva sorvegliata dal cipiglio solenne, vagamente nauseato, dell'ultima Hannover. Il ritratto della regina era l’unico quadro nella stanza; che era piccola, ammobiliata con sobrietà, riscaldata dalla stufa nell'angolo. Una vecchia borsa da viaggio e un baule stavano ai piedi di un letto intatto. Un cappottino rammendato e uno scialle di lana grezza erano appesi alla sedia; guanti senza dita e un rigido borsellino erano sul tavolo, dove una lampada ad olio, spenta, fungeva da umile centrotavola.
Anna udì un cigolio di ruote. Si riaccostò alla finestra. Una carrozza si era appena fermata davanti alla pensione. Ne scesero due uomini: indossavano lunghi pastrani e le falde dei capelli nascondevano i visi. Entrarono al George Inn, ma la carrozza non ripartì e Anna sentì riaccendersi le speranze. Prese un respirò e sedette sulla sponda del letto, con le dita intrecciate e la mani affossate tra le pieghe della gonna. Attese. E attese.
E nessuno venne a bussare.
Chiunque fossero i due uomini, non erano lì per lei. Così come non lo erano state le tre carrozze che aveva visto fermarsi alla locanda nelle ultime due ore. Quanto ancora avrebbe dovuto pazientare? Possibile che si fossero dimenticati di lei?
Anna si alzò. Prese il borsello e liberò la cinghia che lo teneva chiuso. Ne cavò fuori una pistola, piccola come la sua mano: una lucida derringer con la canna argentata e l’impugnatura color avorio. Prima la guardò, inclinando il capo, come si guarda un gingillo diventato troppo familiare per suscitare interesse; poi, la mise da parte ed estrasse un plico di fogli tenuti assieme da uno spago. Erano lettere e telegrammi; nell’indirizzo del mittente comparivano le parole Bon Fleur Place. Era stata Anna a cominciare la corrispondenza. Sarebbe stata in grado di recitare a memoria il contenuto di ogni singola lettera, tante volte le aveva lette e rilette, prima e durante il viaggio in mare.

Mia cara zia Woodhams

aveva scritto lei, mesi addietro,

sono vostra nipote Anna. Non ci siamo mai scritte, ma so che mio padre vi mise al corrente della mia nascita, più di venti anni fa. Io devo scrivervi, col lutto nel cuore, per comunicarvi che il mio caro padre ci ha lasciato. Riposa già da tre giorni accanto alla tomba di mia madre. Sono a conoscenza della rottura dei rapporti tra voi e mio padre, ma negli ultimi giorni, prima della sua morte, egli mi confidò il proprio rammarico per essersi allontanato da voi, sua sorella maggiore. Spero di fare cosa gradita allo spirito di mio padre, se scrivo con la speranza di un ravvicinamento. Non ho nessuna pretesa e non vi presento nessun obbligo.
Vi chiedo soltanto una parola gentile.
Vostra nipote,
A. Hawkins

Dall'Inghilterra era giunta una risposta che era andata ben oltre le tiepide speranze di Anna.

Nipote adoratissima,
la notizia della morte di Jonathan ci ha addolorato tutti.
Prima che anche per me giunga la più triste delle ore, permettimi di fare ammenda. Un viaggio è una richiesta non da poco, per una donna giovane e sola, ma quale gioia sarebbe averti qui in Inghilterra. Vorrei avere la possibilità di prendermi cura di te, come di una figlia, e mostrarti l'affetto che per troppi anni è stato negato a Jonathan, per motivi che adesso mi si rivelano in tutta la loro egoistica vanità.
Con affetto,
V. Woodhams

Un telegramma dopo l’altro, erano stati presi accordi, stabilite date e fatte promesse.
Anna mise via le carte, e con loro il borsello, decisa a scendere al pian terreno.
Nella calda saletta, dalle pareti rivestite di pannelli di legno, ronzavano solo ospiti uomini: fumavano sprofondati nelle poltroncine rosse; bevevano vino, sorseggiavano tè; e ciarlavano tutti assieme, in un gran brusio. In quel nuovo Paese, la gente, pur parlando la sua stessa lingua, lo faceva con un accento che a tratti rendeva ad Anna difficile capire cosa si dicessero. Ma mentre si spostava per la sala, lei non badò a nessuno, né si prese il disturbo di controllare che qualcuno stesse badando a lei. Rivolse la parola soltanto a un cameriere, per chiedergli se sapeva dove abitasse il signor Walter Woodhams di Bon Fleur Place.
«Woodhams? Il Woodhams del birrificio su Buckland Road?»
Anna disse di sì.
«Fuori città. A quasi quattro miglia da East Farleigh. Dovete andare laggiù, signorina?»
«Dovrei, sì...» tagliò corto Anna. Ringraziò il cameriere e tornò sui suoi passi. La stanchezza le suggerì la scelta più opportuna: presto il sole sarebbe tramontato e lei poteva permettersi di trascorrere una notte al caldo. Se quella sera nessuno fosse venuto a chiedere di lei, avrebbe trovato l’indomani mattina il modo di raggiungere Bon Fleur Place.
Anna era appena uscita dalla saletta, quando una donna, che sparecchiando il tavolo vicino aveva origliato la conversazione, si accostò al cameriere.
«Davvero cercava i Woodhams
«Sì. Strano, vero?»
«Dev'essere la domestica nuova. Ho sentito che cercavano qualcuno che andasse a servizio da loro. Ma quella deve venire da parecchio lontano. Hai sentito che accento? E che pelle scura. Sembra una zingara.»
«Per forza deve venire da lontano» disse il cameriere. «Anche l'altra è venuta da fuori. Dopo quello che è successo dai Woodhams, dove la trovano, qui in città, una disposta a lavorare da loro?»
Mentre il cameriere parlava, dietro di lui, un uomo seduto a un tavolo solitario, chiuse con lesta delicatezza il libricino sul quale aveva tenuto lo sguardo fino a quel momento. Raccolse guanti e capello e lasciò la sala.
All’ingresso, deserto, Anna era a metà della scala, quando udì una voce maschile.
«Miss!»
Anna non era abituata all’appellativo di miss: non pensò che il richiamo fosse rivolto a lei; e salì altri tre gradini.
«Miss Hawkins!»
Anna si fermò, voltandosi.
Un giovane uomo, ai piedi della scala, chinò il capo a mo’ di saluto. Le sorrideva: un sorriso fievole, che sembrava costargli fatica. Aveva il volto pallido, asciutto, sbarbato e vestiva di scuro; la cravatta di seta blu era magistralmente annodata attorno al rigido colletto bianco della camicia. Guanti e cappello erano serrati tra le lunghe dita nervose, contro la gamba destra. Nella mancina, stringeva un libretto. «Perdonatemi. Questo modo di rivolgervi la parola è sfrontato: ne sono consapevole» disse lo sconosciuto, in tono pacato. «Ma ho accidentalmente udito la vostra conversazione con il cameriere. Dunque, voi siete la nipote di Walter Woodhams? Siete la figlia di Jonathan Hawkins?»
Anna poggiò una mano sulla balaustra, aggrottando le nere ed erte sopracciglia.
«E voi chi siete?»
L’accenno di sorriso, sulle labbra sottili dello sconosciuto, acquistò una sfumatura di scusa. «Il mio nome è William Hall. Sono un amico del signor Woodhams. Mi ha informato lui, personalmente, del vostro arrivo. Ma mi è parso di capire che siete bloccata, qui, al George Inn? Conosco abbastanza vostro zio da azzardarmi a pensare che abbia ― come posso dire? ― perso di vista il calendario.»
Anna notò che William Hall non parlava come gli altri: infondeva precisione, eleganza quasi, in ogni parola; le accarezzava, come fossero ninnoli preziosi. Lei teneva ancora la mano sulla balaustra. Esitava. Non era una sprovveduta. Nutriva nei confronti degli uomini, in particolare gli uomini bianchi, scarsa fiducia e pochissima considerazione. D’altra parte, aveva sempre potuto constatare che gli uomini erano in grado di mantenere un'altissima considerazione di loro stessi senza l’aiuto di nessuno.
Il cruccio sulla fronte dovette tradire la sua diffidenza, perché William disse: «Desidero soltanto rendermi utile, miss Hawkins. Sarei lieto di mettere una delle carrozze della mia famiglia a vostra disposizione. Tuttavia, non posso offrirmi di accompagnarvi. Un impegno irrimandabile mi trattiene qui. Inoltre, voi capite, non sarebbe appropriato condividere una carroz―»
«Quanto parlate» lo interruppe Anna. «Accetto la carrozza. Grazie.» Girò i tacchi e sparì su per le scale.
In camera, non ebbe ripensamenti: era pressoché impossibile che quel tale, quel William Hall, mentisse; in che altro modo avrebbe potuto conoscere il nome di suo padre? Lei era giunta a Maidstone quella mattina stessa. Nessuno la conosceva. Doveva essere stato necessariamente lo zio Woodhams a parlare di lei a William Hall. Al che, si sentì in dovere di mostrarsi un poco più garbata con quest’ultimo e, in capo a cinque minuti, fu di nuovo al pian terreno, ad allungare il collo in cerca dell'uomo.
Lo ritrovò subito: lui aveva occupato una poltrona vicino alla finestra. Se ne stava con le lunghe gambe accavallate, un gomito sul bracciolo e una mano davanti alla bocca, immerso in quella che sembrava una greve e malinconica contemplazione della strada: l’andirivieni per Brewer Street si era fatto rado.
Anna gli sedette difronte, senza inviti e senza permessi, tant'è che William non fu il solo a voltarsi con un velo di stupore nello sguardo. Ma fatta sparire la sorpresa dagli occhi cerulei, recuperò alla svelta un sorriso e disse di aver mandato a chiamare Benton, il cocchiere. Sarebbe stato lì in pochi minuti.
Anna rispose di non avere fretta.
E cadde il silenzio, mentre attorno a loro il chiacchiericcio non conosceva pause.
«Vi ha raccontato altro mio zio - di me?» tentò di scoprire Anna.
«Solo che siete sua nipote acquisita. Nata e cresciuta nelle vecchie colonie.»
Di nuovo, silenzio.
Poi, fu William a riprendere: «Posso chiedervi come è stato il viaggio?»
«Lungo e scomodo.»
«Mi auguro che l’Inghilterra sappia ripagarvi della fatica.»
Anna scrollò le spalle.
«Posso farvi un’altra domanda, signorina Hawkins?»
«Se la smettete di chiedere il permesso, sì.»
«Avete viaggiato sempre da sola?»
Anna sbuffò. «Che idea! Certo che no! Cosa credete? Che io sia capace di condurre da sola un piroscafo da una parte all’altra dell’oceano? Ero in compagnia di un equipaggio e due centinaia di passeggeri.» Non le riuscì di decifrare il sorriso di William: aveva colto l'ironia? O si credeva sbeffeggiato? Per scongiurare un terzo silenzio, subito continuò: «Cosa siete voi?»
«Al momento, in parti eguali incuriosito e perplesso.»
«Intendo: qual è la vostra professione? Di che vi occupate?»
William si volse verso la finestra, umettando le labbra.
«Di tenere viva l’illusione di essere un uomo di penna.»
«Ah, scrittore. Ho incontrato uno scrittore. Una volta.»
«E come lo avete trovato?»
«Morto.»
«Prego?»
«Era un funerale ― più che un incontro.»
«Oh.» William si schiarì la gola. «E che cosa accadde al poveretto?»
«Niente che si possa ricondurre a me» disse Anna, spicciola.
William corrugò la fronte spaziosa e innalzò un sopracciglio. Schiuse la bocca e, dopo una fugace occhiata oltre finestra, annunciò: «Benton è arrivato.»
Difatti, c'era un cab davanti all’ingresso della pensione: il cocchiere stava scendendo dalla cassetta, collocata in alto, sul retro della signorile vetturina.
Anna tornò in camera per indossare cappotto e scialle; infilò i guanti e agganciò il borsello alla vita. Quando fu di nuovo nell'atrio d'ingresso, William Hall la stava aspettando, con la tuba di velluto calcata sui lucidi riccioli neri e le mani dietro la schiena. Anna si accorse che era piuttosto magro, e molto alto; lei arrivava a malapena al suo petto.
William la scortò fino al calesse. «Portate i miei saluti a vostro zio. E a vostra zia. Sono certo che il vostro arrivo non la troverà indifferente.» Nel sorriso di congedo dell'uomo, Anna scorse un che di diverso: una piega di intima ilarità, vaga e sfuggevole, che per un motivo che non seppe spiegarsi le suscitò un vago, quanto improvviso, nervosismo.
William chiuse lo sportello, fece un cenno al cocchiere e il calesse partì.
Gli interni del cab erano scuri; più lindi e più eleganti di qualsiasi diligenza sgangherata su cui Anna avesse mai viaggiato prima. Presto, la ragazza dimenticò il sorriso di William Hall e riuscì a rilassarsi, al centro del sedile imbottito; attorno a lei, i vetri e le pareti vibravano appena. Era piacevole non avere più sotto al sedere i duri sedili di terza classe del treno che l’aveva portata da Londra a Maidstone. Ed era piacevole non avere più come compagni di viaggio il russare di una corpulenta vicina, il pianto stridulo di un neonato e il lezzo del sudore altrui.
Il calesse procedeva veloce. Abbandonata la città, la vettura si gettò tra le umide braccia della campagna. Le ruote affondavano nel fango mentre, dagli strappi tra le nuvole, una bella luna tonda iniziava a diffondere il proprio chiarore sopra i placidi campi bruni, sopra le pettinate distese di verde e sopra le acque del Medway. La strada seguiva il fiume ed era abbastanza vicina da permettere ad Anna di scorgere, oltre la cortina di alberi, la coda di un battello e il volo di qualche gabbiano solitario.
Dalla parte opposta al fiume, verso sud, incontrarono presto le luci del villaggio di East Farleigh. Passato il villaggio, giunse un bivio. La strada saliva verso un’altura, sulla cui sommità sorgeva una grande casa bianca, in parte nascosta dalla vegetazione. Nessuna luce brillava dietro le finestre.
Anna si sorprese quando il calesse superò il bivio tirando dritto e la bella casa divenne un puntino alle loro spalle.
Quasi dieci minuti di scalpiccii e sussulti più tardi, lungo il bordo della strada, apparve l’inizio di un muretto; il muro condusse a un cancello di ferro battuto, aperto. Un viale di ghiaia, arginato da una pittoresca fila di piatti massi, serpeggiava con dolcezza su per una pendenza, terminando ai piedi di tre gradoni di pietra.
Benton tirò le redini e il calesse si fermò: Bon Fleur Place era una villa a tre piani, grande, ma non imponente, sebbene chiunque l’avesse costruita avesse chiaramente tentato d’impregnarla della solennità di un castello o di un’abbazia. Le finestre erano incassate in cornici sormontate da piatti archi; il portone si nascondeva nell’ombra di un portico quadrato e intrecci di fiori e foglie, scolpiti nella pietra, si contorcevano sui capitelli e sul frontone. Ai lati dell’ingresso due torrette, dai tetti a cono, coperti di tegole nere e piatte come le scaglie di un serpente, si stagliavano orgogliose contro il livido cielo della sera.
Benton aprì lo sportello del cab.
«Siete a casa, miss.»











____________________________________

➽ Note autrice.
Summa Supplicia è il primo lavoro originale che metto in rete, ma è necessaria una puntualizzazione. I protagonisti di questo capitolo (Anna Hawkins e William Hall) sono un’evoluzione di personaggi creati per un gioco di ruolo, ormai chiuso da tempo, di genere sovrannaturale/moderno. Sulla prima, rivendico la piena paternità; in quanto al secondo, è opera di una compagna di giochi — Aliisza — che mi ha autorizzata a rielaborarlo in versione vittoriana.
Questa storia, quindi, nasce dalla voglia di calare dei personaggi a cui sono affezionata in un contesto nuovo e diverso. La presenza di tropi del genere gotico e horror è voluta, ma spero di averli rimescolati abbastanza da non presentarli come noiosi cliché. Riguardo all'accuratezza storica, ho cercato di restare fedele alla realtà del luogo e dell’epoca. Sugli elementi esoterici, sia occidentali sia della cultura nativa americana, invece, non c’è niente da prendere come realistico.
Per concludere, ringrazio chiunque vorrà soffermarsi su queste pagine.


Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Bon Fleur Place ***


2




II. Bon Fleur Place





‘Casa’ si ripeté Anna, scrutando le fessure di luce gialla, tra le tende al pian terreno. Le finestre di Bon Fleur parevano spiarla a loro volta, come gli occhi di un gatto diffidente. Benton era ripartito con uno schiocco di frusta e il cigolio delle calesse si faceva pian piano distante, disperdendosi nell’aria umida e ferma della sera.Sistemato lo scialle sul capo, Anna risalì il viale e, quando fu sul portico, non dovette attendere più di una manciata di istanti, prima che la grande porta venisse aperta dall’interno. Si affacciò una donna. Giovane, minuta, un palmo più bassa di Anna. Indossava un grembiule bianco sopra un abito azzurro; una candida crestina era appuntata sui riccioli, biondissimi, lucidi come quelli di una bambola di porcellana.
Anna si presentò ― era la nipote dei signori Woodhams, la stavano aspettando ― e i begli occhi blu della cameriera si adombrarono di stupore e sospetto. Disse che il signor Woodhams non era ancora rientrato. Anna si sentì invitare ‘ad attendere nel parlour’ mentre la cameriera andava a informare ‘madam’. Non fosse stata la domestica a far strada, Anna non avrebbe avuto idea di dove trovare un parlour ― qualunque cosa fosse. Seguì la cameriera nella penombra del vestibolo, dalle pareti coperte di legno scuro; da un lato, se ne stava uno scheletrico attaccapanni di metallo, dall’altro, una grande scala a chiocciola fagocitava gran parte dell’ambiente. La spirale di gradini saliva verso l’alto, e l’accompagnava una fila di colonnine, raccordate tra di loro da intagli fitti come merletti, tanto complessi che tentare di seguirne il disegno faceva venir il mal di capo.
La cameriera aprì la porta a vetri del vestibolo e introdusse Anna in un secondo ambiente, dove lei contò quattro porte ― tutte doppie e tutte chiuse ― e vide, sul fondo, una seconda porta a vetri. Qui, le pareti erano coperte di legno solo per due terzi; in alto, nel sibilante chiarore delle lampade a gas, correva una tappezzeria a fiori, di un verde scurissimo. Vi erano inchiodati tanti piccoli quadri, dalle cornici massicce, e un lungo specchio rettangolare. In un angolo, il pendolo di un orologio ondeggiava lento.  
Toc toc. Toc toc. Toc toc.
Non si udiva altro.
La cameriera spinse i battenti della prima porta sulla sinistra e fece cenno ad Anna di accomodarsi.
Il parlour si rivelò essere un salottino, ingombro come un bazar. Là dove le pareti non erano nascoste da quadri e acquarelli d'ogni dimensione, da credenze e vetrinette cariche di vasi e candelabri, di vassoi e porcellane, si poteva scorgere il cupo Borgogna della tappezzeria. Le tende, di velluto marrone, davanti alla finestra a bovindo, era tirate, tranne per il sottile spiraglio che Anna aveva scorto dall’esterno. Le bordavano nappe color oro, grandi come dita di bambini. Al centro del tavolo rotondo, c’era un vaso cinese, bianco e blu, da quale spuntava un'esplosione di piume di pavone insieme a un mazzo di fiori secchi.
Quando Anna guardò di nuovo verso la porta, la cameriera era già svanita. Lei se ne restò in piedi, sul tappeto persiano. Lasciò cadere lo scialle sulle spalle, scoprendosi il capo, e incrociò le braccia al petto. Aveva le dita infreddolite, ma nella stanza non c’era nessun fuoco per scaldarsi: il camino era spento.
Fuori, la pendola continuava con l’implacabile toc toc, toc toc, toc toc.
Finalmente, riapparve la cameriera. Era intenta a strofinare il dorso di una mano contro il fianco della gonna. Sembrava a disagio.
«Miss... uhm... sono spiacente, ma... madam vi prega di andare.»
«Cosa?»
La cameriera spostò la mani dietro la schiena. Sollevò il mento, come a farsi coraggio. Parlò tutto d’un fiato: «La signora Woodhams giura di non avervi mai invitata. Non desidera assolutamente ricevervi. Di conseguenza, deve chiedervi di andare.»
«Ma che è? Uno scherzo?»
«No, miss. La signora non scherza mai» disse, grave, la cameriera. «Ve lo assicuro.»
Le labbra di Anna rimasero aperte ma non le riuscì di cavarsi una sillaba di bocca.
Poi, un moto di rabbia la scosse dallo spaesamento e, sempre a braccia conserte, avanzò verso la domestica.
«Che se lo scordi. Io non ho viaggiato fin qui, dall'altra parte del mondo, su suo espresso invito, per sopportare certe bizze da vecchia rimbambita.»
Poiché Anna non possedeva una voce carezzevole, e quando parlava a briglia sciolta, che lo intendesse o meno, diventava aggressiva, la domestica arretrò di un passo e sbatacchiò le palpebre orlate dal ventaglio di ciglia bionde.
Anna costrinse le labbra in un sorriso costipato. Addolcì i toni. L’aveva appena sfiorata dall'idea che spaventare il personale di servizio sarebbe stato un modo pessimo di presentarsi. «Chiedo scusa... dimentichiamo la parte della vecchia rimbambita. Solo... per favore, puoi riferire alla signora che io non andrò proprio da nessuna parte fin quando lei non sarà scesa a parlarmi?»
La cameriera parve annaspare in un genuino smarrimento. Poi, sospirò. Fece un cenno di assenso e, di nuovo, lasciò Anna da sola.
L’attesa fu lunga.
Trascorsero due minuti. Che divennero cinque. Che divennero dieci. Anna si era accomodata in poltrona da un pezzo, col mento tra le mani e i gomiti piantati contro la ginocchia, quando con la coda dell’occhio vide una figura comparire sulla soglia del parlour.
Scattò  in piedi.
Vivian Woodhams, che da un lustro aveva passato i cinquanta anni, le si presentò in un abito d’un viola cupo e intenso, con strati di balze e pieghe che si gonfiavano attorno alla vita da vespa. Non era una figura alta e matronale, ma possedeva eleganza nel portamento e nell’espressione: diritta come un fuso, le spalle spioventi e il mento alto, e uno sguardo da imperatrice pronta a emanare una condanna a morte. Stava scrutando Anna, tenendosi le mani, coperte di pizzo nero, accostate al ventre.  «Ebbene, sei davvero di chi dici di essere?» inquisì la donna. Aveva una voce tutt’altro che robusta, eppure c’era qualcosa di fortemente autoritario nel tono. Vivian Woodhams era il genere di persona capace di mettere in soggezione chi le stava accanto con uno sguardo diretto e una parola pacata.
Nemmeno Anna, suo malgrado, si scoprì del tutto immune alla presenza della zia. «C-certo. Certo che lo sono.» Si schiarì la gola. «Sono vostra nipote.»
«Perché sei qui?»
«Perché mi avete invitata.»
«Sul mio onore, non ho mai fatto nulla di simile. L'inclinazione alla menzogna è un’eredità materna?»
Anna sbatté le palpebre. L’attacco era stato crudele e inaspettato. Ma che cosa stava succedendo? Perché sua zia negava di averla invitata? E sul serio quella donna era la stessa persona che aveva scritto parole traboccanti affetto materno? Le sembrò più probabile che si fosse addormentata sul sedile del calesse, eppure era sicurissima di essere sveglia.  Quel che stava accadendo, stava accadendo davvero. Non poteva essere altrimenti.
Anna fece l'unica cosa sensata: aprì la borsello e tirò fuori i telegrammi.  
«Se non mi avete invitata voi, zia Vivian, allora chi ha scritto questi?»
La zia avanzò e, appena le fu dinanzi, Anna avvertì un intenso profumo di fiori, come se qualcuno le avesse appena aperto un potpourri sotto al naso.  «Sei pregata di rivolgerti a me come madam o signora Woodhams» disse la donna, tendendo una mano verso le carte. Le dita magre si allargavano in grossi nodi alla congiunzione delle ossa, tanto da somigliare a ramoscelli secchi, avvolti in una pelle raggrinzita.
Anna consegnò il plico di carte e la signora Woodhams si spostò verso il tavolo. Prese il tagliacarte dal vassoio, segò la cordicella con un colpo secco e sedette al centro esatto del divano scarlatto. Lei leggeva, in silenzio, mentre Anna se ne rimaneva in piedi, senza saper esattamente cosa dire. O cosa fare delle proprie mani. Si accontentò di studiare il profilo della zia. Sulle tempie, ciocche color cenere si mischiavano al castano dei capelli, raccolti in un’acconciatura tutta riccioli e trecce. La fronte era alta e il naso era diritto e stretto. Non c’era colore sulle guance flaccide ma la bocca sottile, i cui angoli sembravano costretti verso il basso da fili invisibili, aveva una sfumatura di rosso scuro. Le estremità esterne delle sbiadite sopracciglia, sopra gli occhi neri, puntavanoverso l’alto, in uno strano contrasto con il perpetuo broncio delle labbra. La signora Woodhams continuava a sfogliare i telegrammi. Anna notò la chatelaine, d’argento, agganciata alla vita del vestito; tra i gingilli che pendevano dal fermaglio, scorse una chiave, uno specchietto ovale e una paio di forbicine da cucito.
Dopo quella che ad Anna parve una mezza eternità, la signora Woodhams ripiegò l'ultimo telegramma.
«Di queste parole non una è mai uscita dalla mia penna o dalla mia bocca» disse la zia.
Al che, Anna ebbe una gran voglia a chiederle quand'è che era diventata tocca, ma prima che potesse farlo, la zia aggiunse: «È stato il signor Woodhams. A mia insaputa.» E volse lo sguardo sulle tende, attratta da uno scalpiccio di zoccoli che andava facendosi più forte e vicino. «Si parla del diavolo. Una volta tanto, la natura ritardataria del signor Woodhams ha sua utilità ― Siediti.»
Anna obbedì, sistemandosi nervosamente sul bordo della poltrona.
La signora Woodhams non disse più una parola. Restò seduta al centro del divano, composta e impettita, con la schiena diritta e le mani in grembo.
Non udivano più lo scalpiccio sul viale. Ma poco dopo, furono raggiunte dal chiacchiericcio nel vestibolo.
«La visita dagli Ellis è stata piacevole, signore?»
Anna riconobbe la voce della domestica bionda.
«Moltissimo» rispose una voce maschile, piena e pacata. «Sebbene, ancora non comprendo perché mai questo tennis sia diventato più popolare del croquet. Ai miei tempi, non ci piaceva altro. E che rimanga tra noi, Lillian, comincio a pensare di sostituire le mie gocce di laudano, alla sera, con un posto da spettatore a un scontro tra tennisti.»
La cameriera rise. «Signore, avete ospiti.»
«Ma davvero? A quest'ora?»
L'attimo dopo, fece la sua comparsa nel parlour un distinto signore in pantaloni di angora, cravatta di seta e giacca grigia, con un orologio d'argento nel taschino e assolutamente nulla di mefistofelico nell'aspetto. Più vecchio della moglie di quasi dieci anni, lo zio Woodhams aveva una placida faccia inglese, incorniciata da due folte e lunghe basette, e capelli bianchi come la barba di San Nicola.
Anna ebbe appena il tempo di alzarsi in piedi che il vecchio Woodhams aveva già compreso tutto: venne verso di lei, sorridendo, e a braccia tese. «Anna! In carne o ossa! Finalmente, sotto al mio tetto!» In men che non si dica, Anna si ritrovò stretta in un abbraccio vigoroso, che che odorava di tabacco, di brandy e di acqua di colonia. «Fatti guardare!» Lo zio fece un passo indietro, continuando a stringerle i gomiti. «Sei un fiore di ragazza! E che aspetto sano! Signora Woodhams, non è forse il ritratto della salute vostra nipote?»
La signora Woodhams, sublime ritratto della stizza, non fiatò.
«Ma, Anna, sei in anticipo. Credevo non saresti arrivata prima del diciassette di questo mese.»
«Oggi è il diciassette» disse Anna.
«Oh. Accidenti a questa mia testa, che non è mai stata brava col calendario. E l’età non aiuta. Ti chiedo scusa, poveri noi. Avrai pensato che il tuo vecchio e sciocco zio si fosse scordato di te! Ma, dimmi, da quanto sei arrivata?»
«A Maidstone questa mattina. Qui da nemmeno mezz'ora.»
«E indossi ancora il soprabito?» esclamò lo zio. Si guardò attorno. Guardò il tavoletto davanti al camino. «E non c'è il tè. Dov'è il tè? Signora Woodhams, le vostre maniere di padrona di casa si sono arrugginite?»
«Come la vostra capacità di tenermi al corrente dell'arrivo di ospiti» ribatté la signora Woodhams, con gelido distacco.
Per tutta risposta, lo zio Woodhams sfoderò un sorriso benevolo. Si avvicinò alla moglie, mise le mani sulle sue spalle e le stampò un bacio sulla guancia. Lei strizzò le palpebre, come in preda a una fitta di dolore.
«Suvvia, signora. Non tenetemi il broncio.»
«Avete mentito, quando vi siete offerto di occuparvi della risposta alla lettera.»
«Perché la notizia vi aveva turbata.»
«Avevate promesso di rispondere secondo i miei desideri.»
«Fui sul punto di farlo. Fin quando non ho realizzato che il rancore nei confronti di vostro fratello è un’immane ― permettetemi il termine ― idiozia. Il genere di insensatezza che mi sarei sentito in colpa ad alimentare. E adesso non guardatemi con quest'aria di rimprovero! Vi ho tenuto all'oscuro dell'arrivo di Anna, è vero. Ma l'ho fatto soltanto per risparmiarci settimane di proteste.»
«Suppongo non abbiate pensato alle conseguenze.»
«La sola conseguenza che prevedo è un po' di compagnia in più per questo inverno.»
La signora Woodhams continuò: «Voi sapete benissimo che cos'era la madre della ragazza. Guardatela. Guardatela bene. Non c'è modo di farla passare per inglese.»
«Può sempre divertirsi a fare credere la gente di essere spagnola» ribatté lo zio, in tono leggero.
«Già. La gente. Che cosa dirà la gente? Dopo quello che abbiamo rischiato pochi mesi fa, voi portate in casa nostra un―»
«Signora!» la interruppe il marito. Il tono giocoso si stava incrinando. «Rivendico il sacrosanto diritto di ospitare sotto il mio tetto qualsiasi parente mi aggrada, sia esso inglese, pellerossa, folletto o lillipuziano. E che se ne vada al diavolo - la gente. Lillian!»
La cameriera fu lì in un attimo.
«Prepara la camera degli ospiti» ordinò il signor Woodhams. «Anna, dove sono i tuoi bagagli?»
Anna disse di averli lasciati alla pensione in Brewer Street.
«Bene. Lillian, avverti Bert. Deve andare al George Inn, pagare per la camera e ritirare i bagagli di miss Anna Hawkins. E dì alla signora Blackwell di preparare subito del tè per tre.»
«Due» corresse la signora Woodhams. «Per due sarà sufficiente.» Si alzò in piedi, in una sinfonia di fruscii, e lasciò il parlour.
«Non badarci, Anna» sospirò lo zio. Si accomodò in poltrona, allungando le mani sui braccioli. «La cara signora non si lascia sfuggire occasione per abbandonare la scena come fossimo tutti in un dramma di Shakespeare. ― E ma Santo Iddio!» Si stava sfregando i palmi delle mani. Occhieggiò al camino spento. «Ogni volta che resto fuori l'intera giornata, ritrovo questa casa fredda come una cripta. Lillian, sii gentile, accendi il fuoco.»

*

Dopo essersi riscaldata con il tè, rimpinzata di biscotti e mandato giù, senza vergogna, due fette di pound cake al limone, Anna affrontò la spirale della scala a chiocciola con lo stomaco pieno e l'animo tranquillo. Lo zio Woodhams aveva affidato a Lillian il compito di mostrarle la casa e l’ambiente al piano superiore era tale a quello inferiore. Stessa tappezzeria verde a fiori, stesse lampade e una quantità non minore di quadri.
«Questa è la camera di vostro zio» disse Lillian, accennando alla prima porta sulla destra. «E quella è la stanza di madam.» Indicò la porta opposta.
Avanzarono lungo il corridoio: era largo e profondo, illuminato dalla doppia finestra sulla facciata, dietro la balaustra della scala.
«Il salottino del disegno» continuò Lillian. Era la porta successiva a quella della camera dello zio. «In tutta sincerità, non so perché lo chiamino così. Nessuno disegna, in questa casa. Immagino sia perché è rivolto ad est ed è molto luminoso. Ma lo troverete piuttosto piccolo, temo. Una volta era il vestibolo tra le due camere padronali. Adesso, la seconda camera è per gli ospiti... Insomma, è la vostra. Eccola...» La cameriera fece scattare il pomello e sospinse la porta. «In fondo al corridoio, c’è la stanza da bagno e le scale per i domestici. Da lì, si può raggiungere le stanze sull'attico.»
«E là che c’è?»
Anna stava guardando la porta di rimpetto a quella della camera degli ospiti.
La cameriera aggrottò la fronte. «Quella era la nursery.»
«Ci sono stati bambini in questa casa?»
Nessuno le aveva mai parlato di cugini.
«Una. Ma è morta. Tanti anni fa. Così mi ha raccontato la signora Blackwell.» Lillian sospirò. Poi, dopo un attimo di silenzio, ammise: «Io non ho mai visto quella porta aperta. Madam ha vietato ai domestici di metterci piede. Se ne occupa lei. E ha fatto fondere tutte le copie delle chiave. L'unica rimasta la tiene sempre con sé.»
«La chiave attaccata alla chatelaine?»
Lillian fissò Anna, stupita dalla sicurezza della deduzione di lei. Annuì.
«E non vuole che nessuno ci entri. È strano...»
«No, è solo triste. Dev'essere stato terribile perdere quell'unica bambina. Non avete notato che madam veste ancora a lutto? ― Ma venite adesso.»
Entrarono. La camera era priva della folla di suppellettili, divanetti e poltroncine che presiedevano il parlour. Lungo la tappezzeria si alternavano strisce bianche e crema. I mobili di mogano erano massicci ma limitati all'essenziale. C’era un vanity addossato in un angolo, vicino al catino e alla brocca dell’acqua; uno scrittoio sotto alla finestra e una cassettiera di fianco alla porta. Anna vide il baule e borsa da viaggio, che attendevano di venir svuotati, accanto a una poltroncina ai piedi del letto. Soprabito, scialle e guanti stavano, accuratamente piegati, su una sedia imbottita. Nel caminetto scoppiettava un placido fuocherello, ma la camera era ancora fredda.
«Spero sia di vostro gradimento» disse Lillian.
«Oh, è perfetta» rispose Anna. Lo credeva davvero, perché mai prima di allora le era stata offerta una sistemazione simile. Spiò tra le tende della finestra. Era ormai notte. Anna vide un prato chiuso, in lontananza, da una fila di bassi alberi. Lasciò ricadere le tende e andò a stendere le mani verso il fuoco. C’era un quadro, appeso sopra la mensola ― l’unico presente nelle stanza. Era una scena bucolica. Una pastorella, vestita di bianco e di rosa, dormiva lungo la riva di un sassoso ruscello.
«Se solo il padrone ci avesse avvertito» sospirò Lillian, «vi avrei fatto trovare dei fiori freschi.»
Anna le sorrise. «Va bene anche così. Non devi disturbarti...»
«Oh, non è un disturbo» insistette la domestica. «Non c’è niente che mi piaccia come i fiori. ― Se mi date la chiave del baule, sistemo i vostri vestiti.»
«No!»
Anna si maleddisse immediatamente per essere scattata in quel modo. Abbozzò un sorriso. «Io... preferisco fare da sola.»
«Come volete. Vi preparo il bagno, nel frattempo?»
Anna disse sì, ringraziò e stette a guardare Lillian voltarsi e chiudere la porta. Attese, con un crescendo di batticuore, di non sentirne più passi.
A quel punto, andò alla porta. La chiave era rimasta nella serratura e lei la fece scattare.
Sola, chiusa dentro, un improvviso malessere le rimbalzava tra stomaco e cuore. Un attimo, era nausea. E l’attimo dopo, era un dolore in mezzo al petto. Trovò la forza d’animo necessaria a recuperare la chiave dal borsello. Si inginocchiò davanti al baule e lo aprì.
Il primo strato di stoffa erano pantaloni e giacca da uomo. Sarebbe stato un gran fastidio spiegare alla domestica perché quegli abiti si trovavano nel suo bagaglio, ma non erano la fonte dell’agitazione di Anna. Lei li sollevò e li appoggiò sul letto. Quindi, infilò una mano in mezzo alla camicia da notte ripiegata e cavò fuori fagotto ricavato da un fazzoletto di lino.
Anna sedette sui talloni. Sciolse il nodo. La stoffa svelò un libriccino di ruvida pelle, tenuto chiuso da un nastro bianco. Il nastro teneva anche fermo un anello dall’aspetto insolito. Era di fattura semplice, liscio, ricavato dal ferro. Lo decorava una pietra ovale, trasparente come il vetro, e poco più grande dell’unghia di un mignolo.
Trascorse un minuto intero senza che Anna accennasse ad alzarsi dal tappeto, o anche solo ad alzare lo sguardo dal libro e dall'anello.
Poi, sospirò. Chiuse gli occhi. Lentamente, annodò di nuovo il fazzoletto e finì di svuotare il baule, gettando sul materasso la camicia da notte, le calze, i vestiti di seconda mano e un cofanetto di legno, che valeva anche meno delle spazzole e i nastrini al suo interno.
Ma il baule non era ancora vuoto.
Quella che giaceva sul fondo sembrava la valigia di un medico.
Anna la fissò per un lungo attimo, con il volto tirato e le mani aggrappate al bordo del baule. Poi, allungò le braccia per tirare su la valigia. Era pesante come ricordava. La spostò nell’ultimo vano della cassettiera. Nel mentre, prese in considerazione di sotterrare là sotto anche il libro e l’anello. Ma alla fine, riluttante, decise che avrebbe tenuto l’anello nel cofanetto; e  fu il libro a finire sul fondo della cassettiera.
Quando Anna ebbe finito con il baule e la borsa, con suo sommo sollievo, Lillian non era ancora tornata e lei ebbe il tempo di gettarsi in poltrona e chiedendosi se non sarebbe stato meglio seppellire la valigia insieme a suo padre. Se l'avesse fatto ora si sarebbe sentita veramente e completamente libera. Ma ormai era tardi. ‘Non l’aprirò mai più’ promise. ‘Non la guarderò mai più. Non ci penserò mai più.’ 

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** Granelli di sale ***


3




III. Granelli di sale





Quando la cameriera comunicò che la cena sarebbe stata servita di lì a pochi minuti, Anna si era già cambiata d'abito, dopo aver almanaccato su quale pezzo del suo scarno guardaroba fosse presentabile a un pasto serale. Esistevano delle regole, lo sapeva. Ma quali fossero le regole era sempre stato, e restava, un enigma. Nel dubbio, si era infilata in un abito sui toni del ruggine. La blusa era accollata e aderente; le maniche lunghe e strette; la gonna liscia e stretta, priva di balze, se non sul didietro. Anna aborriva il sellino; e nessuno le aveva mai fatto capire l’importanza di stringersi in un corsetto. Lo indossava di rado. Quella sera era una delle sporadiche occasioni.
Prima di uscire dalla camera, seduta al vanity, si assicurò che nessuno ciuffo fosse sfuggito alla treccia, sciolta sulla schiena. Non sapeva mai come sistemare i capelli e trovava difficile, a tratti fastidioso, raccoglierli sulla nuca, perché i suoi capelli, nerissimi e molto più corti di quanto imponesse la moda, erano naturalmente lisci e pesanti.
Su una cosa, dunque, la signora Woodhams aveva ragione: Anna somigliava poco al padre inglese e fin troppo a una madre che tutti chiamavano selvaggia. Le somigliava nel colore della pelle, nella forma ovale del viso, nel naso aquilino e negli zigomi prominenti. Ancor di più, le somigliava nel luminoso castano degli occhi. Nella persona di Anna ― e Anna ne era consapevole ― poteva essere indicata un’infamia quasi maggiore al sangue misto, quella era l’espressione volitiva, diretta, priva della pudica dolcezza che una creatura nata donna avrebbe dovuto possedere.
Scendendo al piano inferiore, Anna trovò subito il salone da pranzo: la porta era stata spalancata. Il salone era l’ambiente dirimpetto al parlour. Le diede l’impressione di essere grande quanto quest’ultimo, e poco meno gremito di soprammobili. Il fuoco nel camino scoppiettava e dall’orologio d’argento, sulla mensola di marmo, si diffondeva un limpido ticchettio. Delle tende rosse nascondevano il vano della grande finestra a bovindo, come un sipario davanti al palco di un teatro.
I Woodhams, seduti ai capi opposti di un tavolo al quale avrebbe trovato comodamente posto una decina di commensali, erano eleganti. Lo zio Woodhams portava un lucido gilet color cipria con i bottoni di madreperla e la signora Woodhams era fasciata in un raso blu dai riflessi viola. Una spilla d’oro era appuntata al colletto di trina nera.
Anna fu invitata dallo zio a occupare il terzo posto apparecchiato: a metà del lato lungo del tavolo. Lei sedette trattenendo un sorriso. Non sarebbero sembrati ridicoli, a passarsi brocche e casseruole da quella distanza? Ma appena Lillian le sistemò dinanzi una scodella già piena di zuppa di gamberi, e le riempì il calice, comprese la scioccante verità: nessuno si sarebbe servito da sé. Fece per fiondarsi sul cucchiaio ma vide la signora Woodhams unire le mani. Anna ritirò il braccio e corse ai ripari, imitando la posa assunta dallo zio: mani giunte e occhi bassi. La signora Woodhams recitava una preghiera di ringraziamento, Anna non trovò di meglio da fare che spiare Lillian. L’aveva di fronte. La domestica stava in piedi, accanto alla porta, con le spalle rivolte al muro; zitta, immobile e con lo sguardo basso.
La signora Woodhams terminò la preghiera. Venne il momento del segno della croce. Poi, quello della zuppa, durante il quale lo zio sollecitò gaiamente Anna a ripetere il racconto del proprio viaggio, a beneficio della zia. Anna lo accontentò. Ma, mentre parlava, dovette sforzandosi di ignorare l’atteggiamento della zia, che a mala pena le rivolgeva lo sguardo. E quando lo faceva, erano occhiate colme di noia e sufficienza, come se stesse sopportando la presenza di una creaturina particolarmente rumorosa.
Anna disse che la decisione di lasciare la Nova Scotia era stata ponderata per settimane. Da quando era rimasta sola, si guadagnava da vivere lavorando in un emporio, al porto di Yarmouth, gestito dai Martin. Marito e moglie. I Martin erano stati amici di suo padre e le avevano offerto sistemazione in una stanzetta, tutta per lei, sopra il negozio. Certo, la paga era poco più di una miseria e lei non desiderava invecchiare tra gli scaffali dell’emporio, ma l’Inghilterra sembrava così spaventosamente lontana.
Tuttavia, Anna considerava la capacità di prendere decisioni avventate, cancellando in un sol colpo le riflessioni precedenti, il suo personalissimo talento.
Una mattina di fine settembre si era svegliata e, mentre fissava il soffitto di quella sua stanzetta, aveva deciso che era il giorno buono per fare i bagagli per il Vecchio Mondo. Era andata in diligenza fino a Halifax e lì si era imbarcata a bordo della SS Augusta. L'oceano l'aveva visto sempre e solo dalle banchine del porto. Ritrovarvisi al centro, su di un puntino di metallo, sperduto in un’infinita distesa d'acqua, era stata una sensazione come, poteva metterci la mano sul fuoco, non ne avrebbe più provate in vita sua. In undici giorni l'Augustaaveva coperto la rotta da Halifax a Londra. E che città era Londra! Che caos! Con tutte quelle strade, e quelle carrozze, e i fiumi di gente, e le scie di fumo nero nel cielo e gli odori pungenti. No. Non avrebbe mai avuto il coraggio di vivere a Londra. Era stato un sollievo quando il treno aveva abbandonato Londra per immergersi nella pettinata campagna del Kent.
«Ti invidio, Anna» disse lo zio. «In mezzo secolo, sono andato per mare una volta soltanto! Due mesi in Belgio, e subito di ritorno. Ma quante città sul Continente vorrei visitare. E l’America! Ah, l’America!»
«Viaggiare da sola, per una donna, è sconveniente» lo interruppe la moglie, serafica. «Una signora, o signorina, che abbia a cuore la propria reputazione non azzarderebbe tanto. Oltre che pericoloso, può sollevare cattive voci.»
Lo zio Woodhams rise.
«Tuo padre, Anna, doveva essere l'unico Hawkins amante dell’avventura.»
«L'avventura non è materia per donne.»
«Sarà come dite voi, mia cara» sospirò distrattamente lo zio Woodhams e tornò a rivolgersi ad Anna. «Avrei voluto conoscere Jonathan. Uomo coraggioso, senza dubbio. Partire per le colonie da giovane... quanti anni aveva, all'epoca? Diciassette? Diciotto?»
«Ventuno» disse la signora Woodhams. «E io vorrei che si potesse giungere al termine di questa cena senza nominare ulteriormente mio fratello.»
Lo zio e Anna si guardarono l'un l'altra. Lui le regalò un placido sorriso di paziente complicità. Poi, scosse il capo e cambiò argomento. «Vivian, non vi ho ancora detto come la nostra Anna è arrivata a Bon Fleur, questo pomeriggio. William Hall era al George Inn! L’ha riconosciuta e le ha offerto il calesse.» La faccenda pareva inspirargli una discreta soddisfazione.
In quanto alla signora Woodhams, invece, qualcosa, nella rivelazione, dovette suonarle particolarmente inaspettato. O orripilante. O entrambe le cose. Ad Anna non fu chiaro. La zia abbassò il cucchiaio e serrò le labbra. Fissò il marito. Fissò Anna. E, ancora, il marito. Ma, alla fine, quel che la signora pronunciò fu un semplice e asciutto: «Non sapevo che il giovane Hall fosse tornato da Londra.» E immerse di nuovo il cucchiaio nella zuppa.
«Io l’ho saputo solo oggi pomeriggio. Sua sorella Ada era dagli Ellis. Ha detto che William è tornato due giorni fa.»
«Ha trovato quel che cercava, a Londra?»
«Questo non l'ho scoperto.»
«Cosa cercava?» si intromise Anna.
«Un editore.»
«Ah, sì, capisco... Mi ha detto di essere uno scrittore.»
«Un aspirante Le Fanu. Almeno, questa era la sua aspirazione, l'ultima volta che l'ho incontrato. Caro William! L'abbiamo praticamente visto crescere, insieme ai suoi fratelli. Sono i figli del vecchio dottor Hall, Dio l'abbia in gloria. William è il figlio di mezzo. Non avrà più di due o tre anni più te. Un giovanotto a modo, l’avrai notato. E anche di bell'aspetto, mi dicono. Ma questo lo lascio decidere a te.» Il signor Woodhams chiacchierava a cuor leggero, ignaro ― o forse volutamente indifferente, come sospettò Anna ― del crescendo di gelido astio sul viso tirato della moglie. «È quanto meno curioso che che sia ancora scapolo. ― Signora Woodhams, non sarebbe bello se Anna lo sposasse?»
Ad Anna andò di traverso il sorso di zuppa. ‘Questa è la definizione di discorso prematuro!’ Tossì dietro al pugno chiuso.
La signora Woodhams non batté ciglio. «Personalmente, non augurerei a nessuno di sposare uno scribacchino che vive sulle spalle del fratello maggiore. Ma a ogni modo, l'unica opinione che conta, in merito, è quella di William.»
«E... uhm... la mia» aggiunse Anna.
Per la prima volta, la signora Woodhams le rivolse un sorriso.
E fu un sorriso talmente pregno di compatimento che Anna si ritrovò a pensare che uno sguardo in cagnesco sarebbe stato meno umiliante.
«Tu non puoi reclamare alcun diritto di scelta. O sei davvero tanto ingenua da credere altrimenti? Da non capire il peso della tua condizione di nascita? Se un vero inglese, per di più in buone condizioni economiche e di famiglia rispettabile, dovesse mai volerti per moglie, se fosse pronto ad abbassarsi a tanto, un rifiuto da parte tua sarebbe impensabile, e inaccettabile sotto ogni punto di vista.»
«Via! Via!» intervenne lo zio. «Signora, quanta severità!»
Ad Anna scottava il viso. Non di vergogna, ma di rabbia. Nemmeno tentò di tenere a freno la lingua. «Pensate un po’, zia, io ho già ricevuto una proposta di matrimonio. E l'ho rifiutata. Senza pensarci due volte. E senza sentirmi in colpa. E lo rifarò in futuro, ogni volta che sarà necessario.»  
«Se quanto affermi è la verità» ribatté la signora Woodhams, senza scomporsi, «devo credere che, in quanto ad arroganza e mancanza di intelletto e buon senso, tu sia addirittura peggiore di tuo padre. Jonathan era un tale sciocco.» Tracciò un cerchio sul fondo del piatto, con la punta del cucchiaio, in un movimento leggiadro del polso. «Uno sciocco dalla lingua lunga. Mi ha sempre stupito che sia riuscito a sopravvivere, in quelle terre incivili. E abbia persino trovato il tempo di ingravidare quella sua prostituta indiana.»
«Oh, Vivian, ti prego!» esclamò lo zio Woodhams.
Anna scattò in piedi. Gettò il tovagliolo sul tavolo. Senza dir nulla, senza chiedere scusa o permesso, uscì dal salone. Nel farlo, passò di fianco a Lillian. La domestica non si mosse dal proprio posto, ma voltò il capo e seguì Anna con uno sguardo ansioso e sorpreso.

*

Anna sedeva in poltrona, a gambe incrociate, in sottoveste e corsetto. I capelli sciolti, dietro le orecchie, scendevano sulla schiena, sulle spalle e sulle braccia nude. Teneva i gomiti premuti contro le ginocchia e i pugni serrati davanti al mento. Massaggiava le nocche. Sotto i suoi occhi, asciutti e assenti, si stendevano gli arabeschi dorati del tappeto.
La rabbia era svanita. Adesso, l’abbattimento e la tristezza le schiacciavano il petto e chiudevano la gola. Avevano il peso e il sapore amaro del ferro.
Qualcuno bussò alla porta della camera da letto.
Anna non si mosse e non aprì bocca.
Bussarono di nuovo.
Anna espirò. «Avanti...»
Entrò Lillian. Piano, quasi timidamente.
«Mi manda vostro zio, miss. Chiede se volete che vi si porti il resto della cena in camera. Dice che non vi fa bene andare a letto con lo stomaco vuoto.»
«Non ho fame.»
«Non volete neppure una tazza di tè?»
«No... grazie.»
«Come desiderate.»
Lillian si congedò con un inchino del capo, ma prima che la sua mano potesse raggiungere il pomello, Anna alzò lo sguardo su di lei, la fronte aggrottata in un’improvviso pentimento.
«Il modo in cui mi sono alzata da tavola è stato tanto terribile?» Si morse le labbra. «Non so mai cos’è tollerabile e cosa no.»
«Non sta a me giudicare, miss.»
Anna abbassò le braccia e reclinò il capo contro l’imbottitura. «Sai, se avessi saputo come stavano davvero le cose, non sarei mai venuta qui. Non ho mai elemosinato l’affetto di nessuno. Non inizierò a farlo adesso. ― E ho smesso di ascoltare quello che la gente pensa di sapere sulla mia famiglia. Eppure... eppure avevo sperato tanto che, almeno quaggiù, dove non vivete accanto agli indiani, non sarebbe stato poi così importante chi era mia madre.»
Lillian sfregava il dorso della mano contro il fianco. Se ne stava a labbra dischiuse, con il capo appena reclinato verso la spalla e le sopracciglia sollevate in un’espressione incerta. Una domestica non poteva, né doveva, essere abituata a inaspettate confessioni a cuore aperto.
Nondimeno, Lillian ebbe qualcosa da dire. «Non vi abbattete così, miss.» Si avvicinò alla poltrona. «Vostro zio è felice di avervi qui. Sono sicura che farà il possibile per farvi ben volere da tutti.»
Guardandola con attenzione, e da vicino, Anna notò che la cameriera somigliava alla pastorella del dipinto sopra al caminetto. Aveva la pelle bianchissima, le guance rosate e gli occhi grandi e vivaci. I lineamenti erano proporzionati, minuti, dolci e belli. Sembrava più una bambina che una donna. Cosa Anna avrebbe dato in cambio di un aspetto come quello. Mai in vita sua aveva assaporato la libertà di andare ovunque, camminare per qualsiasi strada e entrare in qualsiasi stanza, senza dover sopportare gli sguardi altrui, immaginarne i giudizi e trovare la forza di non badarci. Agognava un aspetto anonimo più di quanto avesse mai desiderato la bellezza delle donne bianche.
«Capisco che non sia la stessa cosa» continuò Lillian, torcendo nervosamente il grembiule con le dita affusolate, «ma... sapete, la mia famiglia è povera e non ha sempre avuto una reputazione pulita. So cosa vuol dire dover sopportare i pregiudizi.» Fece una pausa. Smise di toccare il grembiule e, in un respiro, parve racimolare coraggio e risolutezza. «Per quel poco che conta, io penso che il modo in cui vi ha parlato madam sia sbagliato. Ingiusto. Cattivo, a essere onesta. Lo so... lo so, come vi ho detto, che non è compito mio giudicare, specialmente la padrona, e vi pregherei di non dirle che l’ho fatto. Ma i miei pensieri non cambiano. Insomma, a prescindere da quale sia la sua opinione dei vostri genitori, non ha alcun senso trattarvi male. Non avete scelto voi da quali genitori nascere. Nessuno può. Quindi... come si può trasformare la famiglia in una colpa?»
Anna distese le labbra un sorriso raddolcito. Alzò una mano, per stringere quella bianca e minuta della cameriera.
La ragazza non nascose la sorpresa di quel contatto, ma non ritirò la mano.
«Com'è che ti chiami?»
«Lillian. Lillian Parker, miss. Ma tutti mi chiamano Lily.»
«Lily. Chiamami Anna, per favore. Non miss o signorina Hawkins.»
«Ma non starebbe bene, miss.»
«Se sta bene a noi due, chi altro dovrebbe avere da ridire?»
«La signora Woodhams. Non le piace quando non si rispettino le regole.»
Anna fece spallucce. «Allora, noi due non rispetteremo le regole, quando lei non ci vede e non ci sente.»
Lily coprì la mano di Anna con la propria. Sorrise.

*

Dormire era impossibile. Lo stomaco di Anna continuava a esibirsi in gorgoglii di protesta. Tovò nel ricordo del pound cake la voglia di abbandonare il caldo delle coperte. A tentoni, nel buio pesto della camera, trovò la lampada a olio e l’accese.
Faceva davvero troppo freddo per andarsene in giro in camicia da notte. Recuperò lo scialle, infilò le babbucce e uscì dalla camera.
Un chiarore lattiginoso filtrava dalla finestra sopra la scala; facendo somigliare il corridoio deserto alla navata di una chiesa rischiarata da un rosone. La casa scricchiolava. Sibilava. Ansimava. Dal piano inferiore, si arrampicavano i cupi battiti della pendola.
Per un lungo attimo, lo sguardo di Anna restò come incatenato alla porta della nursery. Poi, la giovane donna si mosse: percorse in fretta il corridoio, raggiunse la scala e la scese. A tre gradini dalla fine della scala, trasalì. Fu a un soffio dal cadere, e dal far cadere la lampada. Anna appoggiò una mano sulla balaustra. Strinse le dita fino a sbiancare le nocche. Il cuore batteva tanto forte da sovrastare persino il rumore della pendola.
E si fece di nuovo avanti, allungando la lampada dinanzi a sé.
Non c’era nessuno sull’ultimo gradino.
Eppure, solo un istante prima, era sicurissima di aver visto qualcuno seduto sullo scalino, con le braccia tirate al petto e il viso tra le ginocchia.
Anna lasciò la balaustra. Chiuse le palpebre. Pizzicò la pelle all’attaccatura del naso. ‘Ho sonno e fame’ si rassicurò. E abbastanza brutti ricordi per alimentare le più stupide fantasie notturne.
Scese gli ultimi gradini. Al pian terreno, le porte erano state chiuse e, man a mano che Anna setacciava il corridoio, e lo trovava deserto, il cuore si calmò. E lei con lui.
Quando fu accanto alla pendola, controllò l’ora. Dietro al vetro, le tozze lancette, appuntite come frecce, era attorniate da arzigogolati riccioli. La lancetta corta era quasi sul numero tre e quella lunga quasi sul dodici. ‘Le tre di notte. L'ora delle streghe.’
Ma mentre guardava l’orologio, Anna non vide cosa si muoveva alle sue spalle, lontano dalla calda pozza di luce della lampada.
Non vide la sagoma che si contorceva in un angolo. Nera come un cadavere consumato dalle fiamme. Scheletrica come un morto di stenti. Si teneva diritta su due gambe, ma la schiena era curva in avanti, sotto il peso di una testa che grondava capelli, occultando qualsiasi viso la creatura potesse mai avere. La sagoma si rintanò più vicino alla parete. Parve perdere di consistenza, mutare in un’ombra contro il legno e svanire all’interno di esso, come una macchia di inchiostro assorbita dalla carta.
Anna si voltò.
Sotto la scala a chiocciola, nascosta alla vista degli eventuali visitatori che potevano transitavano per il vestibolo, Anna individuò la porta del seminterrato. Era aperta. Scese i gradini. Laggiù faceva davvero freddo come in una cripta e Anna ringraziò che la cucina fosse la prima stanza, dietro l'angolo del corridoio. Entrando, sentì la gelida durezza dei mattoni sotto le suole delle babbucce. C’era un forte odore di spezie, e un più vago e inafferrabile profumo di brodo. Da una finestra stretta e bassa, appena sotto al soffitto, filtrava un raggio di luna, che si rifletteva contro una fila di tegami. Anna avanzò. Era difficile capire quanto fosse grande la cucina. La lampada le rivelava file di pentole e padelle di rame, appese alle pareti, e mazzetti di erbe messe a essiccare a testa in giù. Vide una bilancia d’ottone e una fila di barattoli di vetro. Spuntò l'estremità di un lungo tavolo da refettorio. E quando Anna lo ebbe percorso fino alla fine, emerse la stufa a legna, sulla quale era rimasto un bollitore. Da qualche parte, nel buio, qualcosa gocciolava.
Poi, udì un colpetto, secco e breve.
Anna sobbalzò, guardandosi alle spalle.
Lo spavento passò subito.
Un gatto marrone, dal pelo lungo e spettinato, era balzato su uno dei tavoli addossati contro le pareti. Nel farlo, aveva fatto cadere una saliera, spargendo sul tavolo una striscia di granelli di sale. Il gatto li pestò con le zampe, mentre annusava a muso basso la saliera.
«Ciao» sussurrò Anna. Si avvicinò alla bestiolina. Gli accarezzò il dorso, e quella prese a fare le fusa, drizzando la coda folta e gonfia. «E tu chi sei? Non sapevo fossi qui. Sai per caso dove tengono i dolci?»
E una voce rispose.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Mrs. Blackwell ***


4




IV. Mrs. Blackwell





«Anna, perché sei in piedi a quest'ora della notte?»
«Zia!»
«Rispondi» comandò la signora Woodhams. Era sulla soglia. Tra le sue mani ossute, una candela diffondeva un tremulo chiarore.
«Fame...»
Il gatto spingeva la testolina contro il braccio di Anna, mentre le fusa gli grattavano in gola.
«Avresti dovuto chiamare Lillian. Non hai visto il cordone accanto al tuo letto?»
«Mmh, pensavo fosse lì per decorazione» provò a scherzare Anna.  
Sul viso della signora Woodhams si formò un'espressione di compito fastidio. Venne avanti. Il fruscio della vestaglia, una nera e sontuosa cascata di frange, copriva il suono dei passi, leggeri come quelli di una creatura spettrale. La signora scacciò il gatto e controllò il tavolo.
«Hai rovesciato il sale.»
«È stato il gatto.»
«Rovesciare il sale attira la mala sorte.»
«Fortunato il gatto ad avere nove vite, allora.»
La signora Woodhams, sollevando la candela, indicò una dispensa dall’altra parte della cucina.
«Prendi quello che desideri e torna subito in camera. Non conosci la casa. Rischi di farti male, al buio.»
Raccomandazione o minaccia: Anna non lo capì. Provò, però, una mezza voglia di chiedere alla padrona di casa perché anche lei fosse a zonzo a quell'ora della notte. Ma, per farlo, avrebbe dovuto inseguirla: la signora Woodhams si era voltata immediatamente ed era già svanita in corridoio. Le parve di udirla risalire le scale. In una mirabile esibizione di noncuranza, Anna si tolse il cruccio dalla fronte e fece spallucce: non le importava un fico secco, in quel momento, delle passeggiate notturne della vecchia. Le sue priorità erano tappare il buco allo stomaco e tornarsene a letto, al caldo.

*

Il mattino seguente, pioveva. Una pioggia leggera, fitta, incessante. Anna, dopo essersi lavata il viso, sedette al vanity; il mento sopra al pugno e lo sguardo fisso sul proprio riflesso assonnato. Non aveva ancora messo piede fuori dalla camera e già era di malumore. Dapprima, incolpò la pioggia. Poi, ammise che la fonte del broncio sul suo viso era la pura e semplice idea della convivenza con la zia Woodhams.
Anna inspirò a pieni polmoni. Si fece coraggio: ‘A conti fatti, è solo una vecchia donnetta antipatica. Ho affrontato di peggio.’ E, come le aveva detto Lily, poteva sempre far affidamento sullo zio. A lui, e a lui soltanto, avrebbe chiesto scusa per l’esito della cena. In quanto alla zia, ricordò ciò che ripeteva sempre sua madre: nessuno ha il potere di cambiare il modo di pensare altrui, ma niente può toglierci il controllo delle nostre azioni. ‘Io mi comporterò al mio meglio’ decise Anna. ‘Se la zia ci tiene proprio tanto a disprezzarmi, è affar suo!’
Il pensiero della madre condusse lo sguardo di Anna verso il cofanetto.
Esitante, allungò una mano. L’aprì. Guardò l’anello, ma non osò toccarlo.
In quel momento, bussarono alla porta.  
Anna richiuse di scatto il cofanetto, come fosse stata sorpresa a rubare.
«Avanti!»  
Entrò Lily: sorridente, fresca e graziosa, quanto il fiore di cui portava il nome.  
«Buongiorno! Temevo di averti svegliata.»
«Buongiorno» Anna spostò il pugno dal mento alla tempia. «Che ore sono?»
«Quasi le dieci.»
«Così tardi...»
Lily disse che lo zio non aveva voluto che la svegliassero. Pensava fosse molto stanca per il viaggio. I signori, dal canto loro, avevano fatto colazione alla solita ora. Il signor Woodhams era andato al birrificio, come ogni giorno.
«E madam sta dando disposizioni alla signora Blackwell.»  
«A chi?» sbadigliò Anna.
«La cuoca. La moglie del signor Blackwell. Lui preferisce che lo si chiami semplicemente Bert... Si occupa del giardino, dei cavalli, delle vetture. E di tutti i lavori pesanti. Oggi, è andato a Maidstone col padrone. Quando piove, il signor Woodhams non conduce mai da sé il calesse. ― Comunque, vuoi che ti aiuti a vestirti?»
Anna declinò l’offerta, che le suonava vagamente ridicola.  
«Preferisci mangiare qui o nel salottino della colazione?» chiese Lily.  
Per mera curiosità, Anna optò per la seconda proposta e poco più tardi, scoprì che il salottino della colazione era una stanza adiacente al salone da pranzo. C’erano tre ampie finestre, che davano verso est, e se fosse stata una bella giornata di sole, a quell'ora del mattino, la stanza sarebbe stata la più calda e la più luminosa della casa. Ma la pioggia continuava a cadere; e Anna bevve il tè, mangiò del prosciutto alla griglia e sbucciò un uovo sodo con in compagnia di una volpe impagliata e del dandy soprappeso, in braghe attillate, nel ritratto sopra al caminetto.
Conclusa la solitaria colazione, e stufa di passeggiare avanti e indietro davanti alle finestre martoriate dalla pioggia, Anna decise che era il momento di esplorare.
Attraversò il salone da pranzo e tornò nel parlour. Era deserto. In effetti, non le fosse stato detto che in casa vi erano altre persone, avrebbe iniziato a credere di essere completamente sola. Lei, la pioggia e i funerei battiti della pendola, che parevano riecheggiare in ogni buio angolo di ogni stanza abbandonata.
Poiché nessuno la sorvegliava, Anna mise le mani su qualsiasi cosa. Avrebbe potuto trascorrere l'intera giornata a studiare quadri e chincaglierie, ma fu sufficiente un quarto d'ora per giungere alla conclusione: di metà degli oggetti non ne capiva la funzione, tanto da dubitare che ne possedessero una, e nell'altra metà non vedeva nulla di abbastanza bello da giustificarne la messa in mostra.
Nel parlour c’era anche una porta, in parte coperta da tendaggi, a cui, il pomeriggio del suo arrivo, Anna non aveva minimamente badato. Provò ad aprirla e, per la sua soddisfazione, i battenti scivolarono di lato rivelando una biblioteca. Le pareti erano  interamente rivestite di scaffali, alti fino al soffitto a cassettoni, e vi aleggiava un odore di polvere, misto a cenere e cera. Vicino al camino, spento, erano sistemate due poltrone e una greppina e, nell’angolo accanto, stava silenzioso un pianoforte di mogano. Un intarsio color bronzo, una ghirlanda di edera e boccioli di rosa, decorava un lato della cassa.  
Ma ad Anna non interessavano i libri, né gli strumenti musicali. Attratta dalla portafinestra, sul lato opposto all’entrata, non ci pensò due volte ad affrontare la fresca e pungente umidità della veranda con il suo abito di cotonina bianca.
La veranda somigliava a un largo corridoio; le pareti esterne, e il soffitto, erano formati da pannelli di vetro, incastrati in uno scheletro di ferro battuto. Da quanto capì Anna, percorrendola da su a giù, la veranda correva lungo tre quarti del lato sud della casa. Attorno a lei, statue di gesso bianco ― Veneri al bagno, eroici Apolli e Diane cacciatrici ― si alternavano ai vasi pieni di terra. Rododendri, calle, orchidee, begonie dalle foglie violacee venate di nero, come rigoli di inchiostro; e gerani, tra le cui brune foglie stellate, orlate di verde, Anna sorprese qualche spaurito fiorellino scarlatto, che non si era ancora rassegnato all’autunno.
Anna strappò via un fiore e giocherellò con lo stelo, mentre si accostava alla parete di vetro.
Il giardino sul retro si stendeva fino a un pittoresco muretto di pietra, con una piccola breccia da un lato, e lungo il quale cresceva quel che in primavera sarebbe stato un florido roseto. Quel pomeriggio, era solo un triste groviglio di rami e ramoscelli coperti di spine.
Al centro esatto, il muro si apriva su una scalinata. Questa scendeva lungo una dolce pendenza, fino a una grossa fontana ottagonale, incassata al livello del prato. Anna non poteva esserne sicura, da quella distanza e attraverso il vetro sporco e rigato, ma ebbe l’impressione che nella vasca non vi fosse acqua.
Quando iniziò a sentir freddo, tornò in biblioteca, dedicandosi alle due porte che non aveva ancora aperto. Una capì essere la porta che collegava la biblioteca all’ambiente centrale della villa; l’altra scoprì affacciarsi su uno studiolo.
Anna immaginò appartenesse a suo zio. Le pareti erano come quelle del parlour, color Borgogna, e c’era una massiccia scrivania rivolta verso la finestra. Anche qui, gli scaffali erano colmi di libri, registri e almanacchi, ma c’era una vetrina che valeva l’attenzione di Anna: strani aggeggi di metallo. forse strumenti scientifici. Eppure, Anna non ne era sicura perché i pochi oggetti che riconobbe erano armi: una piccola balestra, un revolver LeMat e, agganciato alla parete sul fondo, un arco.
In ogni caso, li abbandonò per andar a scoprire se la poltrona del signor Woodhams fosse comoda o meno. Lo era. Ma una volta accomodatasi in poltrona, che aveva lo stesso odore di tabacco e liquori del proprietario, Anna vide la fotografia che lo zio teneva sulla scrivania: era il faccino ovale, sereno e sorridente, di una bimbetta. Poteva avere nove o dieci anni, al massimo. Portava un fiocchetto, tra i lunghi boccoli scuri e teneva le manine in grembo, sulle pieghe di una gonfia gonnella.
Anna prese tra le mani la fotografia, che era incassata in una grossa cornice di velluto rosso. ‘Cugina’ pensò. ‘Chissà come sarebbe stato, se ci fossimo incontrate?’ L’avrebbe presa in antipatia, come sua madre? O sarebbero state amiche?
Anna provò una punta di tristezza per la possibilità mancata e, con un sospiro, rimise a posto la fotografia.
Uscì dallo studiolo.
C’era ancora una stanza da esplorare al pian terreno: la porta successiva a quella del salone da pranzo.
Anna socchiuse i battenti e spiò tra la fessura.
Avrebbe scoperto più tardi, chiedendo a Lily, che la stanza era un boudoir, ma a lei parve un altro cupo salottino, stipato di soprammobili, tende e scaffali. Il grosso gatto marrone dormiva acciambellato sul tappeto, davanti al fuoco. La signora Woodhams, con le spalle rivolte alla porta, era seduta a uno scrittoio. Da come se ne stava curva, Anna immaginò che stesse scrivendo qualcosa.
Il cigolio della porta doveva essere stato coperto dalla pioggia perché la signora Woodhams non aveva nemmeno alzato lo sguardo. E, poiché Anna non aveva nessun desiderio di anticipare il primo faccia a faccia della giornata con la zia, ringraziò la propria cautela, richiuse la porta e batté il ritirata.

*

Era quasi mezzogiorno, quando Anna si avventurò nel seminterrato, dove lo scrosciare della pioggia giungeva attutito. La cucina, vista di giorno, si rivelò più ampia di quanto Anna avesse creduto, la notte precedente. Un gran fuoco ruggiva nel camino, una casseruola borbogliava sulla stufa e una donna di mezz’età, armata di coltello, riduceva a tocchi una carcassa. La donna, con le labbra cementate in una linea diritta, occhieggiò verso Anna. «‘Giorno, signorina.» La voce era roca, la cadenza uguale a quella della gente di Maidstone. «Finalmente la si vede anche io.»
Anna andò verso il tavolo.
«Buongiorno. La signora Blackwell, giusto?»
«In persona.»
La signora Blackwell aveva una faccia larga, coperta da un prato di lentiggini, tutta contratta in un cipiglio. Era ben piazzata, con le spalle spioventi e il seno florido. «Spero che il mio coniglio in umido vi piaccia più della zuppa di gamberi. Mi avete rimandato tutto in cucina, ieri sera.» E calò il coltello sul trancio di carne.
«La zuppa era buonissima» provò a scusarsi Anna. «Ma la compagnia mi ha chiuso lo stomaco.»
La cuoca ribatté con un mugugno disinteressato.
«Dov'è Lily?»
«L’ho mandata al villaggio.»
«Con questo brutto tempo?»
«Le commissioni non aspettano mica il sole. Quando vanno fatte, si fanno. ― Perché cercate Lily? Vi serve qualcosa?»
Anna scosse la testa. «Volevo solo farle una domanda.»
«E dovrete aspettare, allora. Qui siamo in pochi a rimboccarci le maniche.»
«In effetti, pensavo che in una casa così grande lavorassero più domestici.»
«Le case grandi sono altre. E comunque, prima si era di più.»
«Prima quando?»
«Prima di adesso» tagliò corto la signora Blackwell.
Anna inarcò un sopracciglio. Mise le mani sui fianchi, rilassando le spalle. «Magari...» Si finse interessata alla crepa sulla cappa del camino, volgendo la schiena alla cuoca. «Potete dirmi voi quello che volevo chiedere a Lily.»
«Che vi serve di sapere?»
Anna si girò.
«Come si chiamava la bambina?»
La signora Blackwell, in procinto di rovesciare i tocchi di carne dal tagliere al tegame, indugiò con gli occhietti verdi e sospettosi sul volto di Anna.
«Che bambina?»
«La figlia dei miei zii.»
«Oh. Lei.» La cuoca sospirò. «Violet.»
«Come è morta?»
«Era debole di salute, povero angelo. Un inverno, la febbre se l'è portata via che non aveva ancora undici anni.»
«E non ci sono stati altri bambini?»
«Madam non era più molto giovane, quando Violet è venuta al mondo. E non fu un parto facile. Quello, e l'età... Insomma, capite da sola, no?»
«Sì, capisco. Ma, all’epoca, voi e vostro marito lavoravate già qui, a Bon Fleur?»
«Già...»
«E... e da quand’è che mia zia ha deciso di mettere sotto chiave la nursery?»
Per un attimo, la cuoca parve sorpresa. Poi, rindossò il suo cipiglio scostante. «Bah, non me lo ricordo esattamente... qualche mese dopo la morte della bambina.»
«E in che anno è successo?»
«Era il Sessantasette.»
«Ma c’è un motivo... insomma, perché mia zia tiene la stanza chiusa?»
«Santa pace, signorina! Quante domande!»
Anna fece spallucce.
«Mi hanno cresciuta così.»
«Brutta abitudine quella di farsi gli affari degli altri» l’avvisò la signora Blackwell, agitando verso di Anna la punta del coltello.
Ma Anna non batté ciglio.
«Se devo vivere qui, voglio sapere come funzionano le cose.»
«Funzionano che adesso io non ho tempo per le chiacchiere. E voi non avete proprio altro da fare?»
«In effetti, no. Non so se avete notato, ma non è proprio una fiera qua attorno.»
«Allora, fatemi il favore di andare a far nulla da un'altra parte.»
Con un sorrisetto forzato, e un principio di antipatia nascente, Anna esaudì il desiderio della cuoca. Per un po', si tenne occupata gironzolando tra gli altri ambienti del seminterrato: il tinello dei domestici, la stanza del bucato, con le vasche e le presse, e le cantine in cui erano stipati vino e patate, legna e carbone; riparò in camera da letto, fin quando, poco prima di pranzo, una Lily superstite dalla pioggia bussò per informarla dei nuovi decreti della signora Woodhams.
«Non vuole che mangiate con lei, nel salone» disse. L’imbarazzo le si leggeva in viso. «Vi chiede di pranzare in camera.»
Anna nascose la dolorosa sorpresa dietro un indifferente: «Va bene». Non era la prima volta che si vedeva proibire di condividere lo spazio con un bianco, ma la vera umiliazione stava nell’essere allontanarla da qualcuno con cui aveva un legame di sangue. Scosse il capo. ‘Deve disprezzarmi davvero fino in fondo’.
Lily starnutì. Aveva i capelli umidicci e l'aria infreddolita.
«Tu dovresti stare vicino al fuoco» disse Anna, trascinandola di peso davanti al caminetto.
«Oh, non c'è da preoccuparsi.» Lily sorrise, sventolando una mano. «Non mi ammalo facilmente – io.»
«In ogni caso, è stata una gran cattiveria mandarti fuori sotto la pioggia. Che diavolo c'era di tanto importante da fare?»
«Madam aveva una lettera da far arrivare a Maidstone.»
«E non poteva affidarla allo zio?»
Lily si strinse nelle spalle. «So soltanto che era per gli Hall. Ho letto l'indirizzo. ‘Mr. W. Hall di Ellsworth House.’»
Anna aggrottò la fronte.
«‘W. Hall?’ William Hall?»
«Immagino di sì.»

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Pagine dal passato ***


5.




V. Pagine dal passato





Nel pomeriggio, Anna si rinchiuse in biblioteca, accese il caminetto e cercò un passatempo. Trovò scatole di giochi da tavola e mazzi di carte, ma era sprovvista di compagni di giochi; trovò degli spartiti musicali, ma lei non sapeva suonare e non c'era nessuno disposto a suonare per lei. Così, dopo una sconfitta a Klondike, raccolse le carte dal tappeto e si decise a usare la biblioteca per lo scopo al quale era destinata: leggere. Anna non aveva particolari opinioni sui libri. Non la ripugnavano, né l'esaltavano; ne aveva avuti tra le mani a sufficienza da imparare a leggere e scrivere in modo passabile, ma non abbastanza da poterne amare i contenuti.
Quel pomeriggio, impiegò mezz’ora per scegliere. Scartò la Bibbia, i filosofi, i saggisti, i poeti; alla fine, tra un Trollope e un Dickens, nascosto sotto La Fiera delle Vanità, scovò un libro dalla copertina color smeraldo. Titolo e autore erano impressi in sottili e svolazzanti caratteri d'argento: Dalla Terra alla Luna di Jules Vernes.
Sorridendo a metà tra perplesso e soddisfatto, Anna si distese sulla greppina, incrociò le caviglie e aprì il libro davanti al naso.
Ma non andò lontano con la lettura.
Era appena alla seconda pagina, quando la porta del parlour venne aperta e la signora Woodhams comparve sulla soglia della biblioteca.
«Sei qui» disse la zia.
Anna fu in piedi con la rapidità di una molla. «Io... spero di non aver fatto male... a sistemarmi in biblioteca. Faceva freddo. Ho pensato di poter... » Guardò il fuoco nel caminetto, a un tratto cosciente delle macchie di carbone  sulla gonna bianca. «Vi lascio subito la stanza.»
Ma la signora Woodhams la fermò con un gesto della mano. «Resta. Non ho bisogno della biblioteca.» Entrò. Si diresse agli scaffali vicini al pianoforte e prese un libriccino grigio, con una lunga croce era impressa sul dorso. Poi, si volse verso la nipote. «Che cosa stai leggendo?»
Anna mostrò la copertina.
«Vernes» constatò la signora. «Quel francese tutto scienza e fanfaluche che si fa chiamare scrittore. Tuo zio ha sempre avuto gusti dozzinali. Giacché pare che tu sia in grado di leggere, e di questo mi sorprendo, ti consiglio di dedicarti a qualcosa di maggiormente istruttivo.»
Anna inspirò e strinse le labbra. Schiacciato in quel sorrisetto nervoso, il proposito di comportarsi al suo meglio si sbriciolò, in un attimo. «Zia cara, ma credete sul serio di mortificarmi proibendomi di sedere a tavola con voi o dandomi della sciocca ignorante? Se questo è il caso, ho io un consiglio per voi: impegnatevi un po’ di più, se volete spuntarla.»
La signora Woodhams parve studiare la nipote da capo a piedi, e da piedi a capo. Sorrideva, flebilmente, carezzandosi la base del collo. «Sei davvero uno strano esserino» sospirò. «La degna figlia di tuo padre.»
Ad Anna prudevano le mani dalla voglia di lanciarle contro il libro. Per non cedere alla tentazione, lasciò cadere il romanzo sulla greppina. «Questo strano esserino può chiedere quale torto vi ha fatto? Lo sapete che sono venuta qui in buona fede. Sono stata invitata. Credevo di essere voluta.»
«E io ti ricordo che è stato tuo zio a ingannarti.»
«Rispondete alla mia domanda! Perché mi disprezzate? Il fatto che mia madre non fosse una donna bianca è davvero tanto inaccettabile?»
Il sorriso della signora Woodhams si dissolse, ma la detestabile pacatezza dei modi non accennò a incrinarsi. «Dimmi, Anna: sei a conoscenza del motivo per il quale tuo padre salpò per le Americhe?» Camminava intorno al pianoforte, sfiorando la cassa con la punta delle dita. A ogni passo, la chatelaine mandava flebili tintinnii.
Per un istante, Anna esitò. «Debiti» ammise. 
«Mio fratello non era un uomo coraggioso. Era un codardo. Un un egoista.»
«Era giovane.»
«Lo ero anche io, quando Jonathan ha abbandonato me e nostra madre. Ci ha lasciate sole, a tener a bada i debitori, a occuparci di un fratello malato e di un padre rimasto storpio in guerra.»
«Ma quando ha trovato un lavoro, vi ha mandato il denaro.»
«Denaro che grondava sangue.»
«Ma che pensate? Che se ne andasse in giro a sgozzare agnellini innocenti? Le persone a cui dava la caccia erano criminali. Banditi. Assassini. E non credete che non facesse il possibile per consegnarli vivi alla legge... quando glielo permettevano.»
«E mentre lui scorrazzava nell’Ovest, a caccia di banditi, io ho dovuto seppellire tutta la nostra famiglia. Il piccolo Andrew. Nostro padre. Nostra madre.» La signora Woodhams fece una pausa: guardava la finestra della veranda. Fuori, la pioggia non accennava a diminuire. «Il denaro non può sostituire un fratello, ma lui ha preferito una prostituta indiana alla sua famiglia. E ora, devo ringraziare l'egoismo di mio marito, per l'ultima beffa: avere costantemente davanti agli occhi la prova e il ricordo vivente della slealtà di Jonathan.»
«Questo è il problema?» esclamò Anna. «Odiate mio padre perché ha amato mia madre più di voi. ― Ma che colpa ne ho io? La mia colpa è quella di esistere?»
La signora Woodhams avvicinò il libro al petto. «Dunque, possiedi almeno un poco di intelletto» concluse, serafica.
«Allora, fate pure!» soffiò Anna. «Disprezzatemi. Ma non vi azzardate mai più a chiamare mia madre prostituta. Non pensate, neppure per un attimo, che mio padre se la sia scelta come si compra una schiava al mercato. Non sapete nulla di mia madre. E di me.» Voltò le spalle alla zia e uscì in fretta e furia dalla biblioteca. Si sentiva ardere di rabbia, tanto che appena mise piede in camera, tirò un calcio a una gamba  dello scrittoio. Cinque minuti dopo, marciando in su e in giù davanti al caminetto, comprese che la sfuriata non aveva ― né avrebbe in futuro ― giovato alla situazione e al suo stato d’animo, ma non venne sfiorata da rimorsi o pentimenti.

*

Era da poco passata l’ora del tè, e la pioggia iniziava a dar tregua alla campagna, quando il signor Woodhams tornò a Bon Fleur. Anna, scorto il calesse dal salone da pranzo, andò ad attendere lo zio nel vestibolo. Il padrone di casa, stanco ma di buon umore, entrò con un giornale arrotolato sottobraccio, il bastone da passeggio in mano e la sciarpa a penzoloni attorno al collo.
Lo seguiva un ometto dallo sguardo malinconico come quello di un segugio fattosi troppo vecchio per la caccia: era Cuthbert, detto Bert, Blackwell. Nel porgere i saluti ad Anna, Bert si levò il cappello, rivelando i grigi capelli minacciati dalla calvizia, ma non spiccicò parola. Anna lo osservò scendere nel seminterrato: si muoveva lento, con un'andatura gobba e passo indolente.
Dopo una cena silenziosa, eccezion fatta per i tentativi di conversazione dello zio Woodhams, quest’ultimo chiese ad Anna di fargli compagnia in biblioteca. «Non ti dispiace, se fumo in tua presenza, vero?» Sedette in poltrona e accese la pipa.
Anna, che aveva visto uomini, in sua presenza, ubriacarsi come disperati e prendersi a pugni come imbecilli, non vedeva ragione di offendersi per del fumo. Si accomodò a propria volta in poltrona, di fronte allo zio; sollevò di peso il gatto ― la bestiola li aveva seguiti nella stanza, a coda ritta, in cerca di attenzioni ― e se lo tenne in grembo. Il gatto ringraziò a suon di fusa.
«Milton ti ha in simpatia» disse lo zio.
«Non ho mai visto un gatto come questo. Sembra un piccolo... peloso puma.»
«È un Norvegese delle Foreste.»
«Che nome importante!» rise Anna.
Lo zio aspirò dalla pipa. «Dimmi... come si è comportata oggi la nostra signora Woodhams?» chiese.
Anna chinò lo sguardo e affondò le dita tra la pelliccia di Milton, che aveva appoggiato il muso sulla sua spalla. Non le piaceva mentire. Raccontò della discussione avuta con la zia tentando, però, di celare quanto si sentisse sul piede di guerra. 
Il signor Woodhams prestò ascolto, senza dar segno di fastidio o malumore. E quando Anna tacque, lui, allontanando la pipa dalle labbra, disse: «Sarò onesto, mia cara Anna. L’atteggiamento di mia moglie non mi sorprende. È esattamente ciò che sospettavo ― o, per meglio dire, temevo. E tuttavia, sono fiducioso. Io credo che con il tempo la sua indisposizione nei tuoi confronti verrà meno. ― Adesso, chiedo a te di essere sincera: mi rimproveri di averti invitata con una bugia?»
«Non sono arrabbiata. Come potrei? Mi avete trattata con più premura voi, in questo poco tempo, che... chiunque altro per tutta la mia vita. Avrei solo voluto sapere subito i veri sentimenti di mia zia.»
Il signor Woodhams mosse il capo in un cenno di assenso e restò in silenzio per qualche secondo, prima di riprendere: «Sii paziente con tua zia, te ne prego.» La voce e lo sguardo erano d'un tratto appesantiti da una nota malinconica, stanca, inaspettatamente seria. «Non è una donna cattiva, ma la vita le ha indurito il cuore e raffreddato l’animo. Alle volte, penso che abbia scelto di rinunciare ai sentimenti per non smarrire il senno. Immagino...» Si interruppe. Sospirò. «Immagino ti abbiano avvertito della nursery.»
La ragazza annuì. «Mi chiedevo» azzardò, dopo un’ulteriore pausa, «perché la zia la tiene chiusa a chiave?»
«Per amore di Violet. Per amore del ricordo della nostra bambina.»
«Ha vietato anche a voi di entrare?»
«Questa è la mia casa e nulla mi è vietato. Ma non ho desiderio di vedere la nursery. È troppo doloroso. Come ti dicevo, a ciascuno il suo modo di salvarsi dalla follia. E in quanto a tua zia, lei più di tutti conosce gli orrori di una mente che smarrisce la ragione.»
Anna aggrottò la fronte.
Il signor Woodhams non tardò a interpretare lo uno sguardo confuso e interrogatorio della nipote. «Da giovane, tua zia è stata un’infermiera. Al County Lunatic Asylum. Hai mai visitato un manicomio, Anna?»
Anna scosse il capo.
«Sono l'Inferno in terra» disse il signor Woodhams. E non aggiunse altro. Fumava e fissava il dimenarsi delle fiamme, nel caminetto. La legna scoppiettava. Milton, acciambellato sulle ginocchia di Anna, continuava con la sinfonia di fusa. Nell’atrio, la pendola batté nove colpi.
Anna vide lo sguardo dello zio farsi lontano, opaco quasi; specchio di una mente immersa in un pensiero fisso e distante. Vide gli angoli delle palpebre venir attraversati da un guizzo. Vide le dita rugose tracciare un segno sempre uguale sul bracciolo della poltrona.
«Pensate a Violet, zio?»
La voce di Anna parve risvegliare il signor Woodhams.
«No... no.»
«Allora, in quale ricordo eravate immerso?»
«Come sai che stavo ricordando qualcosa?» 
«In mancanza di libri, ho imparato a leggere le persone.»
Il signor Woodhams increspò un sorriso. «Che peculiare capacità, in una personcina così giovane. C'è chi direbbe che in te vi sia un po' della strega.»
«Un sospetto infondato» disse Anna. «Ditemi a cosa stavate pensando.»
«Pensavo... a un fatto assai spiacevole, accaduto tre anni fa.»
«Ha a che fare con il manicomio ― o con mia zia?»
Lo zio temporeggiò, prendendo una lunga boccata di fumo.
«Quando... quando lavorava in quell’ospedale, Vivian divenne assistente di un medico di nome Mallory. Tre anni fa, Mallory venne travolto da uno scandalo... se vogliamo usare una parola cortese. Da ricco e rispettato qual era, finì i suoi giorni come un derelitto, abbandonato da tutti ― oh, ma non credo che dovresti ascoltare certe cose, Anna.»
Anna inarcò un sopracciglio. «Mio padre andava a caccia di criminali. Non mi impressiono con poco. Cos’è? Una storia di amanti? Di denaro rubato?»
«Se solo!» esalò lo zio Woodhams. «No. Morirono delle persone. In un modo tanto terribile che non oso ripeterlo a voce alta. La storia che ne seguì fu ancora più raccapricciante. Siamo stati fortunati che, all’epoca dell'accaduto, i rapporti tra la nostra famiglia e quella del dottor Mallory fossero diventati praticamente inesistenti.» Lo zio sollevò una mano. «Ma basta così. Non portiamo avanti questo argomento. Non mi piace rinvangare brutti ricordi, prima di andare a dormire. Alla mia età, prender sonno non è facile.» Indicò uno scaffale, alle spalle di Anna. «Prendi la scatola di legno sul secondo ripiano. Lì, accanto al libro di sciarade. Sai giocare a Backgammon? ― No? Bene. Questa è la sera buona per imparare.»

*

Durante la settimana che seguì, Anna oziò con e come il gatto, tra sbadigli in poltrona e appostamenti alle finestre. Pioveva sempre. E nelle pause tra uno scroscio e un temporale, l'aria pregna d'umidità e il terreno infangato non invogliavano alle passeggiate. Non che ad Anna dispiacessero la calma e il tempo libero: dopo il viaggio, l'ozio era un piacere, ma sarebbe stato piacevole anche avere qualcuno con cui condividere il dolce far nulla.
Lo zio restava a Maidstone dal mattino al tardo pomeriggio e la signora Woodhams trascorreva le giornate tra il boudoir e la camera da letto, non mostrando alcun interesse per la nipote. Si incontravano soltanto a cena, e tanto bastava a entrambe. In quanto a Lily e alla signora Blackwell, erano perennemente indaffarate e presto Anna capì che ronzare loro attorno in cerca di conversazione le rendeva ansiose.
«Madam penserà che ce ne stiamo in panciolle» disse Lily.
«Non sta mica bene che passiate il tempo con i domestici» rimbrottò la signora Blackwell. «Lo dico per voi, signorina. Dovete imparare il vostro posto.»
Una volta, Anna si offrì di aiutare in cucina. La signora Blackwell la guardò come se avesse insultato lei e tutta la sua famiglia. Anna comprese l’antifona e decise che si sarebbe accontentata di scambiare qualche parola con Lily, quando la ragazza entrava in biblioteca a controllare il fuoco.
Relegata a quella strana solitudine, ad Anna la casa sembrava più vuota e triste di quanto già non fosse in realtà. La prospettiva di trascorrere l'inverno in tal modo la deprimeva ma si sentiva un’ingrata a lamentarsi, sia pure in segreto. Viveva in una casa ricca, alle spese di parenti ricchi: avrebbe dovuto essere felice.
E, forse, anche senza l'affetto di una zia e con poca compagnia, Anna avrebbe potuto essere felice se solo la casa non avesse iniziato a turbarla, come una singola goccia di inchiostro intorbidisce l’acqua in un calice di cristallo. A volte, era soltanto una vaga inquietudine che si contorceva all’altezza dello stomaco. Più spesso, era la sensazione di essere spiata. In più di un'occasione, durante le letture in biblioteca, il suo sguardo si era fissato sulle tende, e sul modo in cui gli spifferi riuscivano a muoverle. Una volta, si alzò per andare a spostare le tende, con un gran strattone.
Naturalmente, dietro non vi trovò niente e nessuno.
Soltanto la presenza dello zio riusciva a dissipare le fantasie di Anna. In sua compagnia, la casa perdeva ogni senso di minaccia e le sere trascorse assieme, davanti al camino della biblioteca, divennero fin da subito i momenti preferiti da Anna.
Lo zio amava parlare di invenzioni, di macchinari, delle novità della scienza; e lo faceva con una tale affabilità, con un tale fanciullesco entusiasmo, che Anna non si sentiva mai incapace di comprendere e ricordare. Una sera, le mostrò i tesori dietro la vetrina dello studio: un sestante, una piccola bussola di rame (che chiusa si mimetizzava nella forma di un orologio da taschino), un caleidoscopio, un astrolabio spagnolo, un binocolo del Settecento, una sfera armillare costruita nel cuore del Secondo Reich e stampe di animali ― grossi rettili dall’aspetto sgraziato ― di cui Anna non aveva mai sentito parlare, né ne aveva mai visti dal vivo.
«Megalosaurus... Hylaeosaurus...» sillabò Anna, scorrendo il dito sotto le parole. «Ma sono animali veri?»
Alzò lo sguardo sullo zio; lei sedeva sul tappeto, davanti al camino, e il signor Woodhams se ne stava in poltrona, con la pipa in una mano e una lente d’ingrandimento nell’altra. Stava osservando la riproduzione in legno di un cervo volante, appuntata in cima a un spillo.
«Lo erano. Milioni di anni fa. Dinosauria ― li hanno chiamati.»
«Dinosauria...»
«È  greco e vuol dire lucertole spaventose. ― Cos'è quel sorrisetto scettico? Non credi che siano esistiti? Ne ho viste io le statue, a grandezza naturale. Fu alla Grande Esposizione di Londra, nel Cinquantuno. Ah, quando torneremo nella capitale, Anna, ti porterò al British Museum e ne vedrai i fossili con i tuoi occhi.»
Anna non sentì accendersi nessuna fiamma d'interesse, al pensiero di lucertole giganti eppure, la sera seguente, rimpianse fossili e lucertole. Dopo una partita a Backgammon, lo zio le mise sotto al naso tre libri. Era in vena di consigli sulla lettura e le scelte erano ricadute su Manuale di Etichetta, Le Abitudini della Buona Società e Le Figlie d’Inghilterra di Sarah Stickney Ellis.
«Scommetto qui che non si parla di lucertole spaventose» commentò Anna, sollevando la copertina de Le Figlie d’Inghilterra.
«No, ma vi troverai molti utili consigli per le giovani donne. Così mi hanno assicurato.»
«Voi non l’avete letto, zio?»
«Sono stato molte cose, in vita mia, ma mai una giovane donna.»
«Fortunato voi.»
Il signor Woodhams sbuffò un sorriso, insieme al fumo della pipa.
«Rimpiangi di esser nata donna?»
«Rimpiango di vivere in un mondo modellato sui bisogni degli uomini.»
«Ah! Che piccola lingua tagliente. In questo, somigli a tua zia» Lo zio si strofinò il mento. «Non hai torto. Riconosco che vi siano molte ingiustizie a questo mondo e il tuo sesso ha ben ragione di protestare. - A ogni modo, promettimi che avrai la buona volontà di seguire i miei consigli.»
Anna mantenne la promessa e si dedicò a Le Figlie di Inghilterra quella stessa sera: a letto, in vestaglia, al chiarore della lampada a olio. Come aveva immaginato, nella prosa della Ellis non comparivano lucertole, né grandi né piccole. In compenso, v’erano altri tipi di stranezze.

Come donne, dunque, più importante di ogni altra cosa è l’essere sempre liete della propria inferiorità all’uomo ― inferiori nelle capacità mentali come nella forza fisica.

Anna sospirò. ‘Questa m’è nuova.’ Le avevano sempre detto di tenere la testa bassa accanto agli uomini, ancor più se bianchi, ma addirittura gioire della propria inferiorità! Continuò a leggere, più per sollecitare l’arrivo del sonno che per interesse. Nulla di quanto la quacchera aveva da dire le sembrava utile. Tutto ciò che ne comprese fu l’idea che la forza di una donna risedesse esclusivamente nella capacità di influenzare le scelte gli uomini.
Fin quando non incappò in un quesito:

È tua intenzione vivere per te stessa o per gli altri?

La frase colpì Anna, pizzicando un senso di colpa che aveva tentato di nascondere insieme all’anello e alla valigia. ‘Codarda’ sussurrò una voce nella sua testa: la voce della coscienza. Anna chiuse il libro, lo mise via e spense la lampada. Ma il senso di colpa accompagnò il suo sonno ed era ancora con lei, quando fu il momento di alzarsi dal letto. Anna, vestita di tutto punto, stette a rimirare l’anello, adagiato nel palmo della mano. Non lo indossò, ma nemmeno lo ripose nel cofanetto. Lo lasciò scivolare l’anello nella tasca della gonna.

*

A una settimana dall’arrivo di Anna, il signor Woodhams, dovendo dedicarsi ad alcune lettere, dispensò la nipote dal fare la dama di compagnia e Anna, poiché era domenica e i domestici godevano della serata libera, poté imporre la propria presenza a Lily.
Da principio, la cameriera protestò: madam non avrebbe approvato. Ma quando Anna disse che era assai improbabile che la zia venisse presa dal capriccio di arrancare fino sull’attico per una ronda a sorpresa, sul volto di Lily fiorì un sorriso di maliziosa complicità.
La camera di Lily era piccola e spoglia, col soffitto spiovente e le pareti bianche. Il letto era poco più di una branda e l’unico addobbo si trovava sul davanzale della finestrella: un vaso sbeccato, dal collo stretto, che la cameriera riempiva ogni quanto poteva di fiori freschi, raccolti in giardino o lungo il viale d’ingresso. Quella sera, c’era un mazzetto di fiori di lavanda. Ad Anna tornò in mente la sua vecchia camera, sopra l’emporio dei Martin, e rifletté sulla singolarità della sua situazione: a detta della società, lei aveva origini ancor più umili di Lily, eppure eccola lì, servita come un’ereditiera.
Spostarono il tavolinetto vicino alla stufa e presero il tè; poi, Lily mise mano al cestino del cucito, dedicandosi al ricamo. Si era tolta crestina e grembiule e con i lunghissimi riccioli biondi, sciolti sulle spalle, sembrava pronta a posare per un pittore dallo spirito romantico. Rapide e leggere, le sue piccole dita lavoravano l’orlo di un fazzoletto bianco.
Anna chiese di raccontarle qualcosa: da dove veniva? Da quanto lavorava per i suoi zii?
E Lily raccontò.
Era nata a Broomfield: un villaggio all’ombra del castello di Leeds. Sua madre, a propria volta una domestica, era morta quando Lily aveva nove anni. In quanto al padre, non sapeva neppure che faccia avesse. Lily non aveva ancora imparato a camminare, quando il signor Parker aveva deciso che il mestiere di marito e di padre non gli era congeniale. Se ne era andato di casa. Sparito nel nulla. E quella era la macchia d’infamia: di una donna abbandonata dal marito non si poteva che dire e pensare male. Ma loro erano state fortunate ― disse Lily ― perché i parenti materni, a dispetto dei pettegolezzi, erano stati animati da buon senso e buon cuore. Avevano trovato loro un tetto; e un lavoro rispettabile per sua madre. Quando quest’ultima li aveva lasciati, una cugina si era presa cura dell’orfana. Lily era cresciuta in casa di persone semplici e timorate di Dio; voleva loro un gran bene, assicurò, ma era stata molto felice, all’inizio dell’estate passata, di andare a servizio dai Woodhams di Maidstone, lasciando una casupola affollata di bambini e dove tutte le stanze puzzavano di rape bollite. Man a mano che parlava, Lily parve perdere riserbo e timidezza; qualità che, evidentemente, dovevano far parte del ruolo di cameriera ma che erano estranee alla sua vera natura.
«Hai lavorato per qualcun altro, prima di venire qui?»
«Sì, lo scorso anno, per una signora di Rochester. Sono rimasta in quella casa solo per due mesi. ― Ma adesso è il tuo turno! Scommetto che hai tante storie da raccontare.»
«Non così tante» sviò Anna. Stava rovistavano nel cestino del cucito, tra bottoni di legno, straccetti e nastrini.
Lily interruppe il ricamo per fissare Anna: una curiosità quasi infantile le animava lo sguardo. In sussurro, domandò: «Sei nata tra gli indiani?»
«Sì.» Anna avvolse un nastrino bianco attorno alle dita. «Ma non ricordo nulla - del villaggio, intendo. Ero una piccola cosetta in fasce quando mio padre tornò a prenderci.» Lesse il dubbio sul volto di Lily e anticipò la domanda: «Mia madre non è stata comprata. O rapita. Lui tornò per lei perché ne era innamorato. E mia madre l’ha seguito perché lo amava. Mia madre era un Ahawiti. Si chiamava Awenisa. Ma i bianchi la chiamavano Evie.»
«Quindi, sei nata tra gli indiani e cresciuta tra i bianchi. E sei sempre rimasta nella Nova Scotia?»
«No, ci spostavamo spesso, da una provincia all’altra. E ancora più spesso, quando io cominciai a crescere. Sopratutto nelle cittadine sperdute, dove... sai, la legge arrivava a fatica e i criminali avevano vita facile.»
Lily aveva abbandonato il ricamo in grembo. «Dev’essere stato tutto così... così... avventuroso!»
Anna decise di raccontarle di quando suo padre aveva dato la caccia a Willie MacCallum, un rapinatore di banche, accusato di tre omicidi. «La sua prima vittima fu la moglie. Era giovane, e incinta. E lui l’ammazzò di botte - letteralmente.» Era riuscito a fuggire di prigione a una settimana dall’esecuzione, e mentre la polizia lo cercava inutilmente attorno a Sherbrooke, suo padre l’aveva catturato nella valle del fiume Saint Lawrence. «Due giorni dopo, a mezzogiorno in punto, MacCallum era un cadavere appeso alla forca.» Anna conosceva la vicenda nei dettagli perché lei ne era stata protagonista e testimone: a diciotto anni e una carabina in spalla.
Ma questo non lo disse a Lily.
Come non disse che era stata lei a conficcare una pallottola nella gamba sinistra di MacCallum, mentre il bandito cercava di scappare a cavallo.
In più, in cuor suo, il ricordo dei genitori iniziava a renderla malinconica, e fu un sollievo quando Lily, ormai perso ogni contegno, disse: «Quella... cosa... che hai raccontato a tua zia... è vera?»
«Quale cosa?»
«Il matrimonio! Davvero hai ricevuto una proposta di matrimonio?»
«Oh, quello» sbuffò Anna. «Sì. Veniva spesso all’emporio per smerciare le pelli di castoro. Più che una moglie, cercava uno sfogo per i suoi bassi istinti. Immagino fosse stufo di lasciare i suoi soldi nei bordelli. E aveva le stesse idee di mia zia: era convinto che una ‘mezza indiana’ se lo sarebbe preso senza fare storie. Si sbagliava. E come è solito di certi uomini, non ha voluto un no come risposta, fin quando non sono stata costretta a colpirlo. Forte. E con cattiveria.»
«L’hai picchiato?» squittì Lily.
Anna fece spallucce.
«Chi vuole deflorare finisce defenestrato.»
Lily, che stava riponendo il ricamo nel cestino, sobbalzò tanto bruscamente da farsi cadere di mano il ditale. Avvampò. Rise: una risata nervosa. «Se madam ti sentisse usare certe parole!»
Il ditale, rimbalzando sul pavimento, rotolò sotto al letto.
Anna ghignò. «Defenestrare? Ho scoperto questa parola pochi giorni fa. Non è curioso che esista una parola per un azione così particolare?» Si alzò, raggiunse il materasso e si inginocchiò sul pavimento, allungando una mano alla cieca, sotto al letto. «Non lo trovo...»
«Non ti preoccupare. Lo tirerò fuori domani mattina. - Ma davvero sei venuta alle mani con un uomo?»
«Cose che capitano» ribatté Anna, continuando a tastare il pavimento. Sollevò le lenzuola e scrutò sotto al letto: buio pesto.
«E ti capitano spesso?»
Anna aggirò la domanda. «Sono gli uomini che vogliono risolvere tutto con una rissa o un duello. A me non piace mica venire alle mani. E laggiù non è proprio come qui, in Inghilterra. I gentiluomini scarseggiano. Non si va lontano facendo le svenevoli.» Si alzò in piedi, mollando una scrollata alla gonna, mentre Lily la osservava incredula. «Perché mi guardi così? Mio padre ha passato la vita a inseguire gli esemplari peggiori, pensi che non avrebbe dovuto insegnarmi a starmene fuori dai guai?» tagliò corto. «Aiutami a spostare il letto...»
«Faremo rumore» protestò Lily.
«No, se lo solleviamo. Datti una mossa!»
Lily rifiutò di nuovo. Anna insistette. E, alla fine, con un sospiro strozzato, la cameriera diede il suo contributo. Mossero il letto di lato, verso la porta; e Anna scoprì che era più pesante di quanto avesse immaginato.
Il ditale era vicino al muro.
Ma le ragazze non lo degnarono di uno sguardo, sorprese com’erano da quel che avevano appena scovato.







➽ Note autrice
First things first: un grazie particolare a Mirrine, New Red Eyes e vali_ per le recensioni ai precedenti capitoli ( ・ω・)ノ❤ E grazie anche ai lettori silenziosi!
Qualche puntualizzazione, storica e non: Ahawiti (pronuncia: ah-ui-ti) è un nome di fantasia per una popolazione fittizia - farina del mio sacco, insomma;  tutti i libri (e rispettivi estratti) citati nel capitolo sono reali; il Klondike è una variante del solitario e il Backgammon in Italia si chiama Tric-trac - anche nei futuri capitoli, i termini particolari resteranno in inglese, per rispettare lo spirito della storia; il Kent County Lunatic Asylum è un ospedale psichiatrico costruito a inizio Ottocento in una zona a sud-ovest della città di Maidstone. Ribattezzato nel corso del tempo Oakwood Hospital, è stato chiuso tra gli anni Settanta e Ottanta del Novecento.

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Il demone di Goudhurst Close ***


6




VI. Il demone di Goudhurst Close





Lily andò al tavolo, prese la lampada e tornò accanto ad Anna. Insieme si accovacciarono, per guardar meglio: numeri. Una fila di numeri, incisa sul legno del pavimento. Ed era un lavoro talmente mal abbozzato da far supporre che non fosse stato realizzato con un oggetto apposito. ‘Un chiodo. O uno spillone’ pensò Anna, strofinando la punta dell’indice sul primo numero, del quale restava soltanto un semicerchio: indizio che qualcuno doveva aver provato a grattare via i numeri, abbandonando subito l’opera. Seguivano un sette particolarmente distorto, un tre, un due, un altro tre e un cinque.
«Che cosa bizzarra» sussurrò Lily. «Perché si dovrebbero scrivere dei numeri sul pavimento?»
«Perché si è a corto di carta e inchiostro?»
Lily sbuffò un sorriso.
«Sarà stato qualcuno della vecchia servitù?»
Anna si strinse nelle spalle.
«Forse...
»  sussurrò scherzosamente la cameriera, dopo un attimo di silenzio, «è un messaggio segreto.» 
«O la combinazione di una cassaforte.»
«O le coordinate di un tesoro nascosto!»
Anna colpì l’asse con le nocche: lo spazio sottostante non era vuoto. E lei notò che l’asse era comunque troppo ben incastrata per poter venir rimossa.
Il mistero non trovò soluzione. Non quella sera.
Il ditale venne raccolto e riposto nel cestino del cucito, il letto fu nuovamente spostato e, prima che la pendola battesse un quarto alle undici, Anna se la svignò dall’attico, passando dalle scale di servizio, senza incontrare nessuno e senza udire altri suoni che non fossero i dolenti gemiti della vecchia villa, il familiare ticchettio della pendola e i sibili del vento, che correva giù per i camini spenti e tra gli spifferi delle finestre.
Quando fu al piano inferiore, Anna, già con una mano sulla maniglia, si trattenne davanti alla porta della propria camera: tese il braccio in avanti, scacciando il buio con il suo mozzicone di candela.
I dipinti sorvegliavano il corridoio vuoto con i loro sguardi immobili.
Anna volse l'attenzione alla porta della nursery: chiusa, come sempre.
Entrò in camera.
Nell’esatto istante in cui la porta si richiudeva con dolcezza alle sue spalle, e il buio fagocitava di nuovo il corridoio, la maniglia della nursery ebbe un tremito.
Iniziò a ruotare su se stessa. Lentamente. Senza scatti, né cigolii. Ma la porta non si aprì. Nessuno uscì dalla stanza.
La maniglia tornò immobile.
Intanto, in camera, Anna era seduta allo scrittoio: immerse la punta del pennino nell’inchiostro e appuntò i numeri su d’uno foglio per la corrispondenza; al posto della prima cifra, tracciò un punto interrogativo, aggiungendo poi una colonna di possibili cifre che avrebbero potuto completare il segno rimasto: un otto, uno zero, un altro cinque.
Il mattino seguente, Lily le disse di aver domandato ai Blackwell se sapessero dei numeri, ma quelli erano caduti dalle nuvole. A quel punto, poiché parlarne con la signora Woodhams era fuori discussione, Anna dovette attendere la quotidiana chiacchierata serale con lo zio, in biblioteca.
«Avete trovato che cosa, cara?» sospirò lo zio, rimuovendo una pedina rossa dalla tavola del Backgammon.
Anna ripeté per bene la scoperta.
«Parola mia: non ho davvero idea di chi sia l'artefice» disse il signor Woodhams. «Non mi avventuro nell’attico da anni. Ma Sant’Iddio!» Scosse il capo. «Più passa si avanti e più diventa arduo trovare dei domestici ben educati. Rovinare così il mio pavimento! Da non crederci! - È il tuo turno di tirare i dadi, Anna.»
In breve, Anna e Lily si trovarono d’accordo nel presumere che del significato dei numeri dovesse esserne a conoscenza soltanto colui o colei che li aveva incisi. Era una faccenda curiosa, a suo modo interessante, sopratutto nella piatta cornice di Bon Fleur Place, ma si trattava di un vicolo cieco e, in quanto tale, venne presto dimenticata.
Almeno per qualche tempo.

*

Passò una settimana. Giunse Ognissanti. Ottobre mutò in novembre e il primo venerdì del nuovo mese, il signor Woodhams portò Anna al birrificio. Era una mattina rigida e furono costretti a prendere la carazzo chiusa; a Bon Fleur, possedevano infatti due vetture: il calessino a due posti e la carrozza; e due cavalli: e un giovane purosangue arabo, per la monta, e il grigio boulonnais, che, allo schiocco di frusta di Bert, iniziò a trainare la carrozza giù per il largo viale.
La tramontana spazzava la campagna tinta di ruggine, gli alberi avevano perduto le foglie e la terra dura era coperta di brina. Soltanto quando la carrozza superò il bivio, e Maidstone iniziò a delinearsi in lontananza, come un freddo miraggio, le nubi si diradarono un poco e una stanca sfera di sole apparve nel cielo di metallo. Anna, seduta accanto allo zio, non risentiva del freddo. Trovava, anzi, che fosse un autunno piuttosto tiepido, al confronto con quelli della Nova Scotia; ma fosse anche stata una giornata da battere i denti, la prospettiva di trascorrerla fuori dalla villa, e lontano dalla zia, era sufficiente a riscaldare il buon umore.
«Dove hai preso quel gioiello, Anna?» domandò, d’un tratto, lo zio Woodhams.
Anna abbassò lo sguardo sulle proprie mani. Solo il giorno prima era passata dal tenere l’anello in tasca ad indossarlo all’anulare della destra: per qualche motivo, credeva che indossare l’anello potesse diminuire la sua colpa. Era un’illusione. Ma un’illusione rassicurante.
«Apparteneva a mia madre.»
«Dono del signor Hawkins?»
«Sì...»
‘In un certo senso.’
«Ha una fattura insolita» commentò lo zio. «E la pietra - che cos’è?»
«Cristallo di rocca.»
Il signor Woodhams, con le mani sul pomo del bastone, si voltò a guardare il fiume.
«Quando la mia signora non ci sarà più, erediterai tu i suoi gioielli. Ma perché attendere un evento tanto triste per riempire un portagioie?»
Anna colse l’allusione e abbozzò un sorriso riluttante.
«Non ho bisogno di gioielli, zio. Ho vissuto ventidue anni senza e vi assicuro che non sento il bisogno di cambiare.»
Il signor Woodhams sorrise.
«Questa è una frase che non si sente spesso sulla bocca delle giovani donne.»
«Io credo che molte più donne di quanto si creda siano indifferenti a ninnoli e pietruzze.»
«Allora dev’essere una cospirazione dei gioiellieri d’Inghilterra quella di farci credere il contrario.»
Anna scrollò le spalle. «Di certo, per un gran numero di uomini è più facile seminare gioielli che dimostrare rispetto» borbottò.
Un quarto d’ora più tardi, Maidstone li accolse nella laboriosa confusione mattiniera.
Dal campanile della chiesa di Tutti i Santi, l’orologio adempiva al suo nobile scopo, scandendo il tempo per tutti, dagli impettiti uomini d’affari e ai miserabili accattoni. Nugoli di persone si muovevano lungo le strade, trafficavano nei negozi, nei mercati a cielo aperto e negli uffici fumosi. Le carrozze si fermavano davanti al palazzo del municipio; in stazione, i treni rallentavano e acceleravano, tra neri sbuffi e un assordante sferragliare; omnibus semivuoti, o pieni come un uovo, andavano su e giù per le strade e barche grandi e piccole scivolavano sulle increspate acque grigie del Medway.
Il birrificio Woodhams & Arden sorgeva proprio lungo la sponda del fiume. Era un compatto edificio di mattoni rossi, il più grande e il più elegante di tutta Buckland Road; un cancello si apriva sul piazzale d’ingresso e sulla cima della facciata sventolava, orgogliosa, la croce di San Giorgio.
Anna, al braccio dello zio, visitò la sala di cottura, le cantine per la fermentazione e quelle per la conservazione; ovunque, gli operai la salutarono con una reverenza che lasciò Anna a disagio e incapace di ricambiare. Infine, lo zio la condusse in un elegante ufficio di noce, al terzo e ultimo piano, dove Anna prima venne presentata al segretario - il signor Crofton - e, più tardi, al socio dello zio: Mordecai H. Arden.
Il signor Arden fece irruzione nell’ufficio liberandosi come una furia del cilindro. Era un uomo alto, magro e, all’apparenza, poco più giovane del signor Woodhams. Sfoggiava una fronte spaziosa e sporgente, piccoli occhi grigi e corti baffetti come non se ne vedevano dai tempi del principe Alberto. Aveva talmente tanta fretta di comunicare chissà cosa al signor Woodhams che, sulle prime, non parve accorgersi della presenza di Anna. Quando il signor Woodhams portò la nipote alla sua attenzione, lui salutò con il calore di un generale costretto alla pubblica resa e  disse al signor Woodhams che v’erano affari da discutere,  sottolineando che l’argomento avrebbe senza dubbio alcuno annoiato la signorina.
Anna comprese l’antifona: baciò la guancia dello zio, si armò di  ombrello, perché le nuvole s’erano fatte minacciose, e uscì.
La prima tappa fu la sala della degustazione, al pian terreno: un locale luminoso e chiassosamente allegro. I tavolini di legno erano lucidi come specchi e le pareti affrescate come le mura di una chiesa; ma lì, al posto di aureole e croci, i personaggi portavano in trionfo boccali di birra e fasci di luppoli. Pur col naso all’insù, per osservare gli affreschi, Anna si accorse subito di essere l’unica donna nella sala. Un dettaglio che i gentiluomini presenti, invece, dovevano aver notato fin dal principio, a giudicare dalla quantità di occhiate che Anna sorprese in sua direzione. Infastidita dagli sguardi, e sottilmente innervosita dai sussurri, con uno sbuffo virò verso l’uscita della sala, risoluta a gettarsi in Buckland Road. Sperava che, nella folla generale, nessuno avrebbe badato a lei. E al colore della sua pelle.
Anna era una camminatrice svelta: in pochi minuti, perlustrò Buckland Road, e senza tentennamenti se la lasciò alle spalle, per infilarsi in un dedalo di stradine, nel cuore della cittadina. Smarrirsi non era una conclusione contemplata. Aveva fiducia nel proprio senso dell’orientamento: prestava attenzione alle facciate degli edifici, ai nomi delle strade e a quelle dei negozi; a ogni incrocio e ogni svolta, si guardava indietro. Vagava e gironzolava, attenta a non farsi pestare i piedi e spintonare dalla gente, o peggio ancora investire dalle carrozze; spiava una vetrina dopo l’altra: un giocattolaio, un orologiaio, una libreria, una sala da tè, una farmacia... Intanto, sopra Maidstone, le nubi continuavano ad ammassarsi, sempre più nere e sempre più gonfie. L’aria stillava umidità e, dai bordi delle strade, si levavano lezzi pungenti, che il vento del nord, tanto gentilmente, spargeva di via in via.
A un certo punto, l’attenzione di Anna venne catturata da un campanello di bambini, riuniti in crocicchio: stavano ammucchiando fascine attorno a un fantoccio, con in testa un cappello da pellegrino. Uno dei bambini, accucciato sui talloni, scriveva con un gessetto bianco su un cartello rimediato da un due assi di legno inchiodate assieme: A penny for the Guy. Anna, senza la più pallida idea di cosa stessero organizzando, continuò per la sua strada, prendendo mentalmente nota di chiedere delucidazioni allo zio. Quando, infine, volle prendersi una pausa dallo sgomitare tra la gente, riparò sotto un vecchio arco di pietra, che faceva da imbocco a un vicoletto defilato. Si appoggiò con la schiena alla parete, che trasudava un che di nero e umidiccio; sopra la sua testa, una targa sbiadita: Goudhurst Close.
Mezzodì era vicino. Gocce di pioggia, rade e sottili, ticchettavano sul selciato. La strada sembrava essersi svuotata, sottraendo ad Anna soggetti da osservare per passatempo.
Dal nulla, il rivebero di uno schiato colpì le sue orecchie.
Poi, giunse quello una voce maschile.
«Jenny! Ingrata puttana! Torna subito dentro! Non tollererò un altro secondo di questa sceneggiata!»
Anna si voltò di scatto verso il vicolo. Voce e rumori provenivano dal fondo, ma il vicolo curvava di lato, nascondendole la fonte. Anna si staccò dalla parete con un colpetto di reni e, percorsi i pochi passi che la separavano dall’angolo, si affacciò per sbirciare: in fondo a Goudhurst Close c’era un negozio; cinque lerci gradini, una sola ringhiera sbilenca e una stretta porta nera. Sopra l’architrave, pendeva un’insegna: Bernbaum Pawnbroker.
Un grasso omuncolo in maniche di camicie, con il colletto slacciato sotto il panciotto, caracollò giù per gli scalini. Brandiva un bastone da passeggio e il faccione, acceso e sudaticcio, era accartocciato dalla rabbia. Sbraitava contro due donne, le quali, al grido dell’uomo, si era bloccate a poco più avanti. Erano entrambe giovani, e si tenevano per mano. Una era elegantissima, in un completo da passeggio color lavanda; il cappellino, appuntato sui boccoli neri, le copriva parte della fronte: alta, dritta e bianchissima. L’altra, in abiti modesti, era bassa, magra e dall’aspetto slavato e impaurito.
«Vi dico io cosa non è tollerabile, Bernbaum» disse la donna ben vestita; il mento alto, la voce contenuta e il tono fermo. «La vostra arroganza, la vostra prepotenza e la vostra crudeltà.»
Bernbaum strinse i pugni. Inspirò, allargando le narici arrossate. Aveva il collo teso e le vene gonfie. Anna rimase nascosta dov’era, con il cuore che palpitava per il destino delle due sconosciute. Lei conosceva gli indizi di un’esplosione di collera fisica e si rammaricò per la cecità delle donne. Non avrebbero dovuto fermarsi a fronteggiarlo. Stavano soffiando su di una miccia accesa e vicinissima alla bomba.
«Credete di poter entrare in casa mia e rubarmi la servitù?» ululò Bernbaum.
«Si rubano gli oggetti. Non le persone. Questo non riuscite a comprendere: Jenny non è un oggetto. Non è un vostro oggetto.»
«Vi trascinerò davanti a un giudice!»
«Fatelo! Portiamo i vostri scheletri nell’armadio davanti alla legge.»
«E chi pensate che crederanno, eh? A me? O a quella pezzente?»
«Crederanno ai suoi lividi.»
E l’ira dell’uomo esplose:
Bernbaum si scagliò in avanti e serrò la sua grassa mano attorno al bianco collo della donna.
Jenny lanciò uno strillo, correndo a rifugiarsi accanto al muro.
Bernbaum trascinò la sua vittima verso gli scalini, dando le spalle all’entrata del vicolo. «Ti faccio vedere io qual è il tuo posto!» E con un’ultima poderosa spinta, buttò la donna a terra e sollevò il bastone.
Un colpetto secco, come di un sasso che batte contro un sasso, riecheggiò nel vicolo.
Il braccio armato di verga crollò e l’uomo incassò il capo tra le spalle, coprendosi la testa con la mano libera.
Anna lo aveva colpito alla nuca con il manico dell’ombrello.
Bernbaum girò su stesso, infiammato di dolore e confusione, ma senza il tempo di raccapezzarsi: appena Anna l’ebbe dinanzi, gli sferrò un gran pugno sul naso adunco. Un gancio carico, preciso e veloce. Al pugno seguì una scudisciata dell’ombrello contro la mandibola e un crudele affondo in mezzo all’inguine.
E Bernbaum si accasciò sugli scalini, strabuzzando gli occhi e boccheggiando.
La donna era subito corsa via, ad abbracciare Jenny. La stringeva come una madre stringe una figlia; e tutte e due fissavano Anna, allibite e impaurite.
«Andate via» disse Anna.
Quelle non si mossero.
«Andatevene!»
La donna, con un sussulto, parve riprendersi dallo spavento: prese Jenny per mano e si mosse verso l’uscita del vicolo. Prima di sparire oltre l’angolo, la giovane si voltò a guardare un’ultima volta Anna.
Anna, però, stava tenendo sottocontrollo l’uomo.
Lui tossiva, tra una bestemmia e l’altra. Il sangue gli colava giù dal naso, macchiando i denti e inzuppando le labbra. Mentre con una mano cercava di tamponare il sangue, tendeva l’altra per riappropriarsi del bastone.
Anna lo bloccò:  inchiodò la mano contro il scalino, schicciando il dorso con la punta dell'ombrello.
«Demonio!» sputò Bernbaum.
Anna inarcò un sopracciglio, imperturbata .Gli uomini che s’affannavano a far la voce grossa le suscitavano una blanda insofferenza; erano molesti, come rumorosi galletti dalle piume sempre arruffate, ma non facevano paura.
«Tu... tu... tu non sai in che affari ti sei immischiata! Non sai contro chi ti sei messa contro! Io ve la faccio pagare - a tutte tre! Io vi faccio ammazzare!»
A quell’ultima minaccia, in Anna, l'irritazione mutò in uno scatto di furia ferina. Come una leonessa che ruggisce, o un lupo che mostra le zanne, piombò sopra l’uomo: un ginocchio contro lo sterno e il bastone dell’ombrello contro la gola.
Immobilizzato sotto di lei, Bernbaum cercava di spingerla via. Sforzo invano. Pallido come un morto, e con lo sguardo allucinato di ossesso, si stava rendendo conto che la forza che lo teneva a terra era troppa... per appartenere a un corpicino di donna. 
«Qualunque sia il vostro legame con quelle donne, signore - finisce oggi» soffiò Anna. «In questo momento. Alzate di nuovo un dito su di loro, o su qualsiasi altra donna... e sarò io ad ammazzare voi.»
L’uomo rantolò, rovesciando gli occhi.
Anna tolse l’ombrello e levò il ginocchio.
Qualche secondo ancora e sarebbe morto soffocato.
Anna si voltò e lasciò Bernbaum lì, ai piedi del negozio di pegni, semi-svenuto e col viso pieno di sangue. Raggiunse l’uscita di Goudhurst Close e aprì l’ombrello: stava iniziando a piovere con insistenza. L’altra mano, quella con cui aveva tirato il pugno, era lungo il fianco: Anna fletté le dita. Una, due, tre volte. Un sorriso impercepibile le aleggiava sulle labbra. Erano passati anni dall’ultima volta che quella cosa, dentro di lei, si era svegliata. Non credeva di essere più in grado di attingervi con tanta rapidità.
Si sbagliava.  Sapeva ancora farlo, e almeno di questo si scoprì profondamente lieta.

*

Nessuno, né al birrificio né a Bon Fleur, sospettò mai nulla di quanto accaduto in Goudhurst Close. Al freddo venerdì seguì un sabato ugualmente freddo, ugualmente grigio e ugualmente ventoso. Ma il brutto tempo non scoraggiò Anna dal passeggiare in giardino, nelle prime ore del pomeriggio. Milton la seguiva. Per qualche minuto, la bestiola accettò di farsi tenere in braccio; poi, come ogni gatto degno del suo nome, balzò via dalle braccia di Anna e prese a zampettarle al seguito a proprio piacimento. In quanto ad Anna, a tratti camminava e a tratti sedeva sull’erba; un po’ rifletteva e un po’ osservava.
File di faggi limitavano il terreno dei Woodhams, ma nel giardino crescevano anche noci, gelsi e ciliegi. Nelle aiuole, ora brune e deserte, in primavera sarebbero spuntate primule rosse, azzurre e bianche, grandi margherite gialle e tappeti di tenera malva. Lo aveva detto Bert. Anna, però, faticava ad immaginare fiori e colori trovare spazio in un paesaggio così malinconico.
Quando Anna si distese sulla schiena, in mezzo al prato, Milton le venne vicino, annusandole una guancia; lei smise di giocherellare con l’anello e gli grattò il collo, fissando l’accecante grigiore del cielo. Uno stormo volò, veloce, e svanì oltre il tetto della villa; si udì uno scalpiccio di zoccoli, prima lontano, poi più vicino; da qualche parte, nella campagna, un corvo gracchiava, le greggi belavano e i cani abbaiavano.
Ma Anna stava pian piano sprofondando nei pensieri, e nei ricordi, e per molto tempo non badò a nulla. Solo quando i pensieri divennero troppo cupi, e i ricordi troppo angoscianti, decise che ne aveva abbastanza del giardino. Si diresse alla scalinata, per rientrare dalla veranda.
Per raggiungere la scalinata, dovette passare accanto alla fontana e, nel farlo, mise in fuga una grossa cornacchia, che si era messa a saltellare lungo il bordo di pietra.
Anna si fermò. Seguì con gli occhi il volo del cornacchia. Poi, guardò la fontana. La vasca era profonda quasi sette piedi. Ed era vuota, proprio come aveva intuito vedendola, per la prima volta dalla veranda. Il fondo stava svanendo sotto un strato di fogliame.
Giorni addietro, l’ultima volta che il vecchio Bert aveva pulito la vasca, Anna aveva assistito, seduta sul bordo, con le gambe penzoloni.
«Come mai non c’è acqua?» aveva chiesto.
La risposta si era fatta attendere: Bert, gettato il sacco, gonfio di foglie, dentro la carriola, aveva borbottato a capo chino: «Volere di madam.» La voce, debole e rasposa, quasi era andata perduta tra i sibili del vento d’autunno. «Non le piaceva più vedere la fontana piena d’acqua.»
Ad Anna era sembrata una motivazione assai vaga e bizzarra. Ma d’altro canto,  giudicava la zia Woodhams una creatura incomprensibile da capo a piedi.
In quel pomeriggio di novembre, tuttavia, accadde un genere di bizzarria che Anna avrebbe rimpianto per molto tempo a venire. E ancor di più avrebbe odiato il ricordo di come un gesto semplice e casuale le si fosse ritorto contro. Le sarebbe bastato non farsi distrarre dalla cornacchia. Le sarebbe bastato non abbassare lo sguardo. Le sarebbe bastato non aver mai deciso di indossare l’anello di sua madre.
Ma abbassare lo sguardo fu proprio ciò che fece.
Guardò le proprie mani.
Vide l’anello.
E vide il cristallo tingersi, lentamente, di rosso: fu come vedere una stilla di sangue mischiarsi a una goccia di acqua limpida.
Il terrore pietrificò Anna. Sapeva cosa stava accadendo al cristallo. Sapeva perché stava accadendo. Da principio, fu incapace di muoversi, incapace di respirare, incapace di pensare. Poi, il cuore esplose in battiti forsennati e Anna temette di essere sul punto di crollare sulla ginocchia. Il vento freddo le batteva il viso e scarmigliava i capelli, eppure lei sentiva la fronte e le guance ardere, come in preda alla febbre.
«Anna!»
Anna trasalì: era la voce di Lily. Udì i passetti della cameriera, giù per la scalinata.
«Ti stavo cercando! Il padrone ti vuole in biblioteca. È appena arrivato il signor Hall.»
Anna nascose l’anello sotto la mancina, stringendo le mani al ventre. Aveva lo sguardo fisso, imbambolato, ma le girava la testa. A stento, trovò la forza di strapparsi di bocca un roco mormorio.
«Arrivo subito.»








Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Segreti ***


7




VII. Segreti





Anna avvertì lo sguardo di Lily su di sé, non appena la cameriera l’affiancò.
«Ti senti bene?»
Anna fece cenno di sì, ma non osò parlare di nuovo: temeva che la voce l’avrebbe tradita. Girò i tacchi e si diresse alle scale, seguita a ruota da Lily, che ancora la osservava, perplessa. Invece di rientrare in casa dalla veranda, Anna fece il giro della villa: era a mala pena cosciente del movimento dei propri piedi, ma sapeva di dover prendere tempo. Doveva calmarsi. Non sarebbe stata in grado di comparire davanti a nessuno con il terrore che le faceva ancora tremare i polsi.
Entrò in casa e si trattenne nel vestibolo, per liberarsi del soprabito e appenderlo all’attaccapanni.
«Lily...» chiamò, con un fil di voce.
«Dimmi.»
«Che tu sappia, è mai accaduto qualcosa di... violento, là, in giardino?»
Lily batté più e più volte le palpebre sugli occhi azzurri.
«Violento?»
«Un incidente, magari?»
«Non lo so. Non ho mai sentito nulla a riguardo.» Lily sfiorò il braccio di Anna. «Perché lo chiedi?» Tacque. Aggrottò le bionde sopracciglia. «Sei sicura di sentirti bene?»
Anna inspirò, drizzando le spalle; le braccia lungo i fianchi e le unghie premute contro i palmi. «Sì... io... mi stanno aspettando.» Oltrepassò la porta a vetri e marciò attraverso l’atrio ma Lily, che l’aveva seguita passo passo, l’acchiappò per un gomito, bloccandola davanti ai battenti chiusi della biblioteca.
«Aspetta!» bisbigliò. «Sei tutta scarmigliata. Se ti presenti così davanti ai suoi ospiti, madam ci rimprovererà entrambe.»
L’appunto colse Anna alla sprovvista: si guardò la gonna con l’espressione di chi ha appena scoperto di possedere un corpo fisico.
Lily, alle sue spalle, stava già armeggiando con le forcine. «Gli Hall hanno la brutta abitudine di piombare qui senza avvertire» sospirò.
«Quindi... vengono spesso in visita?» Anna si era appena ricordata di sfilare via l’anello: la pietra era tornata trasparente. Lo lasciò scivolare in tasca.
«Abbastanza. Almeno una volta al mese. Sopratutto William Hall. L’ho visto andare e venire come fosse uno della famiglia.» Tolte di mezzo le ciocche sfuggite alla treccia, Lily consigliò ad Anna di pizzicarsi le guance e mordicchiare le labbra, perché ― le fece notare ― entrambe avevano perso colore.
Anna obbedì, ringraziò confusamente, e quando Lily aprì la porta, fece il suo ingresso in biblioteca.
La signora Woodhams, in abito da pomeriggio nero da capo a piedi, sedeva sulla greppina, composta e impettita come dinanzi all’obbiettivo di una macchina fotografica; lo zio Woodhams e il signor Hall occupavano le due poltrone, più rilassati di due dandy in un’oppieria cinese. Tutti e tre si voltarono all’unisono verso Anna. Ed Anna venne travolta dalla certezza di trovarsi faccia a faccia almeno con un custode del segreto del giardino. Lily non poteva sapere, perché era a Bon Fleur da pochi mesi, ma fra i tre accanto al camino doveva pur esserci qualcuno che conosceva la verità.
Con quell’amara certezza piantata nel petto, Anna si avvicinò.
William Hall si alzò e le rivolse un leggero inchino del capo.
Anna, con il cuore preda delle palpitazioni, dimenticò l’esistenza delle riverenze e rispose con un sorriso storto ― che le costò un piglio di rimprovero da parte della zia.
«Anna, vieni qui, accanto a tuo zio» disse il signor Woodhams. La prese per mano. «Come sei fredda!»
«Ero fuori. A passeggio.»
«Allora, mettiti qui, accanto al fuoco.»
Lo zio la invitò ad accomodarsi sul bracciolo della sua poltrona e lei accettò, ma tanto valeva cercare di scaldarsi davanti a un cumulo di cenere: i suoi non erano il genere di brividi che potevano venir dissipati da un focolare.
«Vuoi che faccia portare del tè?» domandò lo zio. «Come vedi, al momento ne siamo sprovvisti» aggiunse, ironico. «Ma devi capire che si tratta di una cortesia nei confronti del nostro William: il signor Hall non è un ammiratore della bevanda.»
«Ah, sì? Ed è legale, per un inglese?»
Lo zio ridacchiò e William Hall si rimise a sedere con un' increspatura di sorriso sulla bocca. La signora Woodhams rimase in assoluto silenzio; non un cenno di espressione le sporcò il volto.
«Vostro zio esagera» disse William, pacatamente. I grandi occhi chiari, assoluti padroni del viso magro, sembravano immuni alla piega cordiale delle labbra. «Non ho nulla contro la bevanda, ma dopo aver visto le condizioni di lavoro delle operaie, nelle fabbriche lungo il Tamigi, sono le leziose scatoline di latta a risultarmi odiose.» Fece una pausa, carezzando con le lunghe dita bianche il tessuto damascato del bracciolo. «Non tutti i padroni si ricordano di comportarsi umanamente, come vostro zio, miss Hawkins.»
La signora Woodhams si levò in piedi. «William, se hai tanto a cuore le condizioni degli operai, dovresti seguire l’esempio di tuo fratello e farti strada in politica.» Accompagnata dal solenne fruscio della maestosa gonna, si spostò dietro la poltrona dello scrittore, adagiando un braccio alla spalliera.
Entrambi pallidi, entrambi abbigliati di nero, la signora Woodhams e il signor Hall formavano un quadro che Anna trovò sgradevolmente accordato; per un istante, ebbe l’impressione di aver difronte la replica vivente di certe suggestive illustrazioni che le era capitato di sbirciare, tra le pagine di romanzetti zeppi di vampiri, spettri e relazioni proibite.
«Non ho la stoffa del politico, lo sapete» si scusò William. Non guardava la signora, che lo sovrastava come un’ombra in carne e ossa; guardava il fuoco.
«Dì piuttosto che sei troppo onesto per la politica.»
«E troppo intelligente» disse lo zio Woodhams.
«Alas!» sospirò la signora. «Io sono d’accordo con Clifford: ci hai detto che è contrario alla tua decisione - e ha ragione di esserlo. La vostra famiglia è una delle più importanti di Maidstone. Perché vuoi gettare via il nome di tuo padre ― Dio l’abbia in gloria ― per il capriccio di voler diventare precettore?»
«Perché voi non vi curate degli affari vostri?» gettò lì Anna, in un mugugno.
E si ritrovò vittima di tre sguardi: di divertimento quello dello zio, sorpreso quello del signor Hall, impassibile quello della signora Woodhams.
«Voglio dire...» riprese Anna, a voce più alta, «non capisco perché usate quell’aria di rimprovero, signora. Il signor Hall non è libero di scegliere la carriera che desidera? Non è questo uno dei vantaggi di essere un uomo ricco? Decidere per sé stessi? Perché deve rendere conto a voi?»
«Devi perdonarla, William» disse la signora Woodhams. Sorrise, serafica. «Questa nostra piccola scimmietta ha difficoltà nel comprendere molte cose ― comprese le più ovvie. È estranea alla civiltà. Ma non è interamente colpa sua: è stata allevata da due selvaggi.»
William si mosse sulla poltrona. Batté le palpebre. Umettò le labbra, tirate in un sorriso di contrito imbarazzo. Chiaramente, non sapeva come lenire l’insulto rivolto alla nipote senza offendere la zia.
Il signor Woodhams gli andò in soccorso, cambiando la rotta della conversazione con una manovra salda: «Per quanto mi riguarda» batté una mano sul bracciolo, con aria soddisfatta, «sarò lieto di assecondarti nel tuo progetto, William. Ho già in mente almeno tre famiglie della contea che sarebbero felicissime di vedersi raccomandare un giovane come te per l’educazione dei loro figliuoli. Mi occuperò di informarli prima della mia partenza.»
«Avete la mia gratitudine, signore» disse William.
«Partite, zio?» si intromise Anna. «Per dove?»
«Per Londra, cara. Devo occuparmi di persona di alcuni cambiamenti nelle esportazioni oltremanica.»
«E quando dovete partire?»
«La prossima settimana: partirò di mercoledì e tornerò il successivo.»
La signora Woodhams, ignorando marito e nipote, riesumò l’argomento che sembrava esserle tanto caro: «Se davvero possiedi la vocazione all’insegnamento, William, dovresti aspirare a un posto in un istituto. Uno di prestigio. Con il nome di tuo padre, e le conoscenze di tuo fratello, non hai porte chiuse da temere. Le entrate sarebbero maggiori. La reputazione migliore.»
«Credetemi, signora» disse William. «Quando vi assicuro che ho già valutato i pro e i contro della mia scelta. Io chiedo soltanto di lavorare in un ambiente raccolto e tranquillo. Desidero un mestiere che mi assicuri uno stipendio decoroso e del tempo da dedicare alla scrittura. Non ho alcun interesse per le relazioni sociali.»
«Il che è un male» decretò la signora Woodhams. «Sei troppo giovane per abbracciare la vita dell’anacoreta.»
Anna, smesso di ascoltare nel momento in cui la zia aveva ripreso la parola, scese di scatto dal bracciolo. «Scusatemi...  io... ho... mal di testa. Vorrei andare a sdraiarmi un po’. Signor Hall, è stato un piacere rivedervi.» E William non ebbe il tempo di levarsi in piedi, che Anna era già fuggita dalla biblioteca.

*

Anna chiuse a chiave la porta della camera e tirò fuori l’anello: la pietra era ancora trasparente. Appoggiò il gioiello sulla mensola del caminetto, arretrò, cadde seduta sulla sponda del letto. Nascose la bocca dietro le mani. I denti torturavano i polpastrelli; i respiri entravano e uscivano, lenti e irregolari, a ogni sobbalzo del cuore; e lei cercava invano il coraggio di calmarsi.
‘Magari si sbaglia’ pensò. ‘Ma non si è mai sbagliato... prima d’ora.’
Trascorse qualche minuto senza che Anna potesse aggrapparsi a un pensiero rassicurante. A un certo punto, quando i crampi allo stomaco iniziarono a farla sentire sull’orlo della nausea, prese a camminare: dal letto alla finestra, e dalla finestra al letto; il capo chino e le mani strette sui fianchi.
Si fermò. Lo sguardo salì verso il vetro e cadde oltre lo spiraglio tra le tende.
Con una certa sorpresa, vide William Hall: stava passeggiando, vicino al muretto delle rose, ed era in compagnia della signora Woodhams. Lui teneva le mani dietro la schiena, lei cincischiava una foglia secca, forse raccolta da terra, forse strappata dalla veranda; iniziarono a scendere la scalinata, William offrì il braccio e la signora accettò. Parlavano.
Ma, da lassù, Anna non poteva udire la loro conversazione.
«Ora che vostra nipote abita con voi, dovremo trovare un'altra sistemazione» stava affermando William, in quell’esatto momento, curandosi di tenere la voce bassa. Attorno a loro, il pomeriggio stava sfumando nella sera e il vento continuava a battere la campagna.
«E perché mai?» obbiettò atona la signora Woodhams.
«Perché mi avete assicurato di poter mettere a tacere i domestici, quando sarà il momento, ma vostra nipote... lei potrebbe parlare.»
«Anna non è affar tuo» sentenziò la signora: mentre guardava la vasca vuota, ai piedi della scalinata, ridusse in briciole la foglia, stropicciandola tra le magre dita coperte di pizzo nero. «Mi occuperò io di lei. Ma noi non rimanderemo: questa è l’occasione perfetta. Io ho aspettato fin troppo e tu hai promesso.»
«Non ho intenzione di venir meno alla mia parola. Sto soltanto dicendo che sarebbe saggio scegliere una sistemazione maggiormente discreta.»
«Sei stato tu a dire che se vogliamo che funzioni, la villa è il posto migliore. Inoltre, qualsiasi altro luogo potrebbe sollevare sospetti. Ora, taci. Arriva mio marito.»
Il signor Woodhams, appena uscito dalla veranda, li stava raggiungendo.
Anna, dalla finestra, lo vide.
Ma i colpi alla porta la costrinsero ad allontanarsi.
«Anna?» chiamò Lily, dall’altro lato, trovando la serratura bloccata.
Anna andò ad aprire.
La cameriera le disse di essere appena stata mandata dal padrone: «Hai ancora mal di capo?»
«Sì...»
Non era più una bugia: l’agitazione si era tradotta in pena fisica e adesso sentiva davvero la testa pesante.
Poco più tardi, Lily tornò con un vassoio: un piattino di leccornie e una tazzina dalla quale si levava un profumo di arancia. Sistemò il vassoio sul piano del vanity, al quale Anna si era seduta, con il mento tra le mani. «Infuso di passiflora e scorza d’arancia. Un toccasana per il mal di capo. Biscotti e gelatine le manda la signora Blackwell. Speriamo non sia un raffreddore in arrivo. ― Oh, be’! In ogni caso, questo rende l’ultima notizia meno spiacevole...»
Anna la fissava, in attesa dell’ultima notizia.
«Dovrai cenare qui, in camera. Il padrone andrà a Maidstone con il signor Hall. Pare che la signora Hall abbia-»
«Signora Hall? Ma non era scapolo?»
«La signora Hall è la moglie del maggiore dei fratelli Hall. Credo si chiami Clifford. Ti dicevo: mi è parso di capire che l’abbia fatto ambasciatore di un invito improvvisato a Ellsworth House. Madam, però, ha declinato.»
«E lo zio andrà da solo?»
Lily fece spallucce e intrecciò le mani davanti al grembiule. «Stando a quel che mi ha detto la signora Blackwell, il padrone è molto affezionato a tutti gli Hall. E loro lo considerano al pari di un parente.» Azzardò un sorrisetto. «Immagino che al padrone non dispiacerebbe se la parentela tra i Woodhams e gli Hall diventasse reale.»
Anna, sprofondata in pensieri lontanissimi da quella camera, e dal chiacchiericcio di Lily, impiegò più del dovuto a capire di cosa si stesse parlando. Avuta l’epifania, alzò lo sguardo su Lily e in tono piatto commentò: «Mio zio dovrà trovare un’altra nipote da far sposare a William Hall.»
«Perché dici così? Lui non ti piace?»
«Come pretendi che lo sappia? Non lo conosco» sbuffò Anna. «E poi, in biblioteca, mia zia mi ha chiamata scimmia. Finirà col fargli credere che sono una bestiola incivile.»
«O, magari, il signor Hall preferirà farsi un’opinione da sé.»
«Sì, be’...» Anna sollevò la tazzina: la stringeva come fosse stato un bicchiere di liquore. Bevve un sorso. Il vapore le carezzava le guance. «In ogni caso, io non ho la stoffa della moglie. Non riesco a ubbidire a nessuno.» E il discorso venne abbandonato.
Venne l’ora di cena, che Anna consumò nella solitudine della camera. Ma mangiò poco e controvoglia. Angoscia e nervosismo le scorrevano sottopelle, finendo col concentrarsi in un nodo alle viscere. Non aveva più toccato più l’anello, abbandonato sulla mensola; e per un po’, non seppe far altro che starsene stesa sulla schiena, a fissare in cagnesco il soffitto. Era ormai tarda sera, quando comprese l’inutilità di quel suo rimuginare. Doveva decidere: ignorare o indagare.

*

Quando Anna si presentò nel tinello dei domestici, Lily stava spazzando il pavimento e i Blackwell riposavano: Bert fumava una pipa mentre la signora Blackwell cercava sollievo dalla fatica quotidiana tenendo i piedi appoggiati a uno sgabello; la gonna sollevata a metà dei grossi polpacci coperti da calze nere. Sul tavolo, tra i due, stavano una teiera e due tazze scompagnate.
Non appena notarono Anna sulla soglia, la signora Blackwell lanciò un’occhiata storta alla fila di campanelli, affissi alla parete; poi costrinse la propria corpulenta figura a levarsi in piedi, rassettando la gonna a suon di scrollate. «C’è qualche problema, signorina?» s’informò, con tono ben poco servizievole.
Bert continuava a fumare, ma Lily mise a tacere il raspare della saggina contro i mattoni del pavimento.
Anna, per un attimo, fu tentata di far dietrofront. Sospirò. Si schiarì la voce. E avanzò verso il tavolo. «Forse, quello che sto per chiedervi vi sembrerà bizzarro» esordì. «Ma vorrei sapere se nel giardino di questa casa, precisamente vicino alla fontana, è mai accaduto qualcosa che definireste violento. Come un’aggressione. O un incidente?» Tacque, avvertendo un tremito al pensiero di nominare l’ultima ipotesi. Si fece coraggio. «Una morte?»
La domanda venne accolta da un silenzio tombale.
Il vecchio Bert non alzò neppure gli occhi. Anzi, parve piegarsi ancor di più su se stesso. La signora Blackwell fissava Anna con un’espressione talmente seria da risultare pressoché indecifrabile. In quanto a Lily, alternava uno sguardo genuinamente perplesso tra Anna e la cuoca.
«Da dove salta fuori questa domanda?» chiese la signora Blackwell.
«Non rispondete alla mia domanda con un'altra domanda» ribatté Anna.
La signora Blackwell si volse verso il marito: lui aveva appena mosso il capo, scoccando uno sguardo sottecchi in direzione della porta. La moglie lo imitò. Ci fu un altro attimo di silenzio. Poi, la cuoca si riaccomodò  al tavolo e, con aria quasi solenne, assicurò che: «Non so chi v’abbia messo in testa certe idee, ma non è successo proprio niente, in questa casa. Né fuori, né dentro.»
Anna interrogò a Bert. «Dice la verità?»
Il vecchio allontanò la pipa dalla bocca e Anna lo vide chinare impercettibilmente il capo, quasi avvertisse il peso dallo sguardo accigliato della moglie. «Non è successo niente» ripeté, in un borbottio a mala pena udibile, e senza guardare in viso né la moglie né Anna.
Anna non domandò altro.
Con una sbrigativa parola di ringraziamento, uscì dal tinello senza mostrarsi né offesa né insoddisfatta.

*

«Mentono» sentenziò Anna.
Era tornata in camera da letto e Lily l’aveva seguita, pochi minuti dopo, con il pretesto di sistemare lo scaldino tra le lenzuola. Ora Anna camminava davanti al caminetto, pigiando le nocche contro il palmo; prima una mano e poi l’altra; in quanto a Lily, sedeva in poltrona, le manine in grembo e una quieta perplessità dipinta sul volto.
«Perché credi che abbiano mentito?»
«Perché sono dei pessimi bugiardi. E perché entrambi hanno guardato verso la porta: temevano di veder entrare qualcuno. O di essere uditi. Da mia zia, devo supporre: non c'è nessun altro in casa. Quindi... o loro sanno cosa è accaduto e non vogliono che mia zia ne venga a conoscenza. Oppure, mia zia sa e non vuole che i domestici ne parlino.»
Lily si mordicchiò un labbro, piegato in un broncetto carico di scetticismo.
«Io non ho ancora capito da dove arrivi questa tua idea. Hai visto qualcosa, vicino alla fontana?»
Anna non rispose.
«Anna?»
«È... solo una sensazione» sviò lei. «Ma non è questo l'importante.»
«A me sembra molto importante.»
Anna si fermò. Posò lo sguardo su Lily. Indurì l'espressione.
«Devi dirmi una cosa. E devi essere sincera. Da quando sei qui, hai mai avuto l’impressione... di... di non essere sola - anche quando sei sola?»
«Eh?»
«È che, a volte, sopratutto quando sono in biblioteca, mi sento come se qualcuno mi stesse spiando.»
Lily fissava Anna come se quest’ultima avesse iniziato a parlare in una lingua sconosciuta. Aprì e chiuse la bocca un paio di volte, prima di riuscire a rispondere: «Io... be’... qualche volta, mentre rassetto le stanze, mi sembra quasi che tutta quella gente nei ritratti stia lì a controllare che faccia bene il mio lavoro. E poi c’è quella orribile volpe impagliata nel salottino della colazione. Mi fa venire i brividi. Ma questo è quanto. Ma tu di cosa stai parlando?» Fece una pausa. All’improvviso, rise. «Non starai pensando a dei fantasmi, voglio sperare?»
Anna distolse lo sguardo. Respirò a fondo. «Io... no...» Inghiottì un sospiro, strizzando le palpebre. «Lasciamo stare. Non pensiamoci più. Lavoro troppo di fantasia, tutto qua.»
Lily si alzò, si avvicinò ad Anna e raccolse le mani di lei tra le sue. Le sorrise: un sorriso di dolce intelligenza. «Anna, ascoltami: questa casa è vuota e isolata e capisco che possa... alimentare qualche suggestione. Ma oggi pomeriggio hai preso freddo e adesso sei rossa in viso e senti che mani gelate che hai! Hai bisogno di riposare e stare tranquilla. Una bella dormita, e domani mattina ti sentirai meglio.»
Anna avrebbe voluto, con tutto il cuore, seguire il consiglio di Lily. Ma la notte trascorse insonne, e i pochi minuti di sonno concessi furono vessati da incubi.
Alla prima fredda luce dell’aurora, Anna era già in piedi, vestita di tutto punto; si sentiva stanca, inquieta e aveva il nitido ricordo dell’ultimo sogno ancora davanti agli occhi. Davanti alla fontana vuota. L’anello era caduto sul fondo, risucchiato - svanito - tra le foglie morte. Lo aveva gettato lei. E subito si era guardata le mani e le aveva scoperte sporche. Di sangue. Gocciava, denso e scuro, tra le sue dita.
Non si dovevano mai ignorare i sogni: glielo aveva insegnato sua madre.
Ma Anna aveva voltato le spalle al mondo di sua madre nel momento esatto in cui era salita a bordo dell’Augusta.
E non era disposta a tornare su i suoi passi.
Lasciò la camera e, indossato il cappottino, uscì di casa: la villa ancora fredda e buia come una tomba. Fuori, l’aria pungeva e uno spettrale velo di foschia aleggiava sul prato, imbiancato di brina notturna. Anna scese alla fontana e raggiunse sul bordo della grande vasca ottagonale. Le cornacchie, sul tetto di Bon Fleur, gracchiavano: sembravano l’unico suono udibile, in tutta la campagna.
Anna teneva l’anello tra le mani, raccolte a coppa.
Di nuovo, vide la pietra dipingersi, lentamente e inesorabilmente, di un rosso scurissimo.
Avrebbe voluto gettarlo via, come nel sogno; si limitò a serrare le dita attorno al gioiello. Strinse tanto forte da far sbiancare le nocche, mentre la rabbia scalciava per prendere il posto della paura: com’era possibile che dopo essere fuggita così lontano, dopo essere letteralmente scappata dall’altra parte del mondo, quel maledetto anello continuasse a perseguitarla?
Non era giusto. Non se lo meritava.
‘Che si tengano i loro segreti’ decise Anna. ‘Non mi interessa. Io non ricomincerò con quella vita.’
Si voltò, lo sguardo risalì le mura di Bon Fleur Place e il cuore sobbalzò.
Dietro una finestra la secondo piano, una delle finestre della nursery, c’era una figura: una donna vestita di nero.
Anna si era allarmata perché, per un attimo, complici la distanza e la luce ancora fioca, la figura le era parsa sconosciuta.
Ma non era affatto una sconosciuta.
Era la signora Woodhams. E stava guardando Anna.
Lei ne sostenne lo sguardo, fin quando la zia non si ritirò dalla finestra: arretrò e parve svanire, risucchiata dal buio della nursery.








Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Hypericum ***


8




VIII. Hypericum





Alle otto in punto, attorno al tavolo della colazione, il signor Woodhams diede una notizia che lasciò moglie e nipote parimenti stupefatte. Ma per ragioni diverse. Se Anna si ritrovò a dover gestire sorpresa e gratitudine, la signora Woodhams arrivò a metter giù la tazzina del tè, per poi tamponarsi con il tovagliolo le labbra, serrate in una linea dura e diritta, dietro alla quale imprigionò qualsiasi avvisaglia di emozione.«Pensate davvero che sia una scelta opportuna?» chiese.
«Opportuna e corretta» disse lo zio Woodhams, sbucciando la testa del suo uovo alla coque. «Anna è mia nipote. Verrà inclusa tra gli eredi dei miei beni.»
«Vi ricordo che i suoi genitori non erano sposati.»
«Fosse anche stata adottata, ciò non mi toglie il diritto di includerla tra gli eredi.»
Le labbra della signora Woodhams ebbero un primo percepibile tremito.
«Questa vostra scelta sembra un capriccio.»
«Non sta a voi mettere parola sulla gestione del denaro» le ricordò il marito, in tono più alto ma con calma maggiore. «Ormai è deciso. Prima della fine del mese farò cambiare il testamento. E ho preso un’ulteriore decisione.» Si rivolse ad Anna: «Il prossimo anno andremo a Londra.»
Anna sorrise, confusa. «Londra? Perché?» Aprì il sorriso. «Per i dinosauria?» scherzò, rubando un quadratino di cioccolata dal piattino accanto al burro.
«La scelta spetta a te. Ma mi auguro che tu decida per qualcuno nato, quanto meno, in questo secolo. — Parlando seriamente: hai ventidue anni. Puoi ancora partecipare a una o due Stagioni con la ragionevole speranza di uscirne vittoriosa.»
«E che cosa dovrei vincere?»
«Un marito.»
«Oh...» Anna camuffò il disagio dietro un altro mezzo sorriso. «Pensavo di dover sposare William Hall» ironizzò.
«Non precludiamoci le possibilità.»
Anna tacque e rifletté, sbocconcellando il cioccolato. Di Londra aveva avuto una sgradevole prima impressione, ma adesso l’idea di tornarvi per un periodo limitato non le dispiaceva. Non per i dinosauri o per i londinesi. E in quanto ai mariti, considerava la possibilità di trovarne uno remota, improbabile e semplicemente ridicola. Era l'inaspettata occasione di allontanarsi da Bon Fleur a tentarla. Vedeva una nuova via di fuga.
Inoltre, l’entusiasmo dello zio sapeva essere contagioso: per il resto della colazione, con la signora Woodhams barricata dietro un religioso silenzio, il signor Woodhams si esibì in entusiaste descrizioni degli svaghi londinesi: i musei e il teatro, l’opera e il balletto, i giardini, le corse dei cavalli, le esposizioni botaniche...
«Ma quando andremo, zio?» lo interruppe Anna. «Quand’è questa—com’è che l’avete chiamata? Stagione?»
«In primavera. Subito dopo la Pasqua.»
Anna guardò la triste e fosca mattina di novembre che si stendeva fuori dalla finestra.
«La primavera è lontana.»
Lo zio Woodhams accolse la delusione della nipote con un sorriso di bonario compiacimento. «Ma è pur vero che Londra ha le sue regole particolari. Vedi, gli eventi della Stagione, a Londra, vengono anticipati alla prima seduta del Parlamento — subito dopo Natale.»
«E non possiamo andare a Londra dopo Natale?»
«Se sei tanto impaziente, una soluzione si può trovare. Per quanto mi riguarda, mi è impossibile lasciare il birrificio in inverno, ma forse tua zia sarà disposta a trasferirsi a Londra, in gennaio?» Guardò la moglie, in attesa di una risposta.
La signora Woodhams, chiamata in causa, costrinse il volto in un sorriso affilato.
«Caro marito, sapete bene che io non amo Londra.»
«Già, già...» Lo zio strofinò il mento rasato di fresco. «Abbiamo pur sempre dei buoni amici, nella capitale. Chiederemo a qualcuno di loro la gentilezza di ospitare Anna. Ai Morris, magari. O ai Connelly. O alla vedova Beecham. Chissà se cerca ancora una dama di compagnia. Curate ancora una corrispondenza con lei, Vivian?»
La signora Woodhams tastò la trina del colletto con i pallidi polpastrelli.
«Posso pronunciare la mia onesta opinione?»
«Come sempre, mia cara.»
«Ebbene, se desiderate condurre Anna a Londra, portatela pure tra cavalli e giardini, ma per l’amor di Dio, e della vostra dignità, non presentatela in società. Le sale di Londra sono un covo di serpi. Ma serpi d'alto rango. La più raffinata ragazza del Kent sarebbe all’istante giudicata una rozza campagnola. In quanto ad Anna, tanto varrebbe presentarsi con un orso ammaestrato. — Volete vederla ammogliata il prima possibile? Molto bene. Io sarò la prima a rallegrarmi, nel vederla lasciare questa casa. Ma sono fermamente convinta che la contea rappresenti un terreno di caccia più che adeguato alla sua situazione.»
Venne interrotta dall’entrata di Lily: era appena arrivata una lettera da Maidstone, indirizzata al signor Woodhams.
Lui l’aprì. Lesse. E sorrise.
«La signora Hall organizza una cena.»
«A quando?» indagò la moglie.
«Sabato venti. Vedrai, Anna: la famiglia ti piacerà. Hanno due bambine deliziose e la giovane signorina Hall è tua coetanea. Sarà una piacevole compagnia, per te.»
«Anna non può partecipare alla cena» disse la signora Woodhams.
Marito e nipote la fissarono.
«E perché mai?» domandò lui. «È stata invitata. È qui, nero su bianco.»
«La sua educazione non è adeguata a un evento sociale.»
«Non si tratta di una cena di gala! È un incontro pressoché informale, tra amici di vecchia data.»
«Proprio perché saranno presenti persone di cui abbiamo guadagnato stima e rispetto sarà opportuno evitare di metterci in ridicolo davanti a loro.»
Anna seguiva il duello tra gli zii: la schiena curva, un gomito puntellato sul tavolo e il mento affossato contro il palmo. Era mattino presto — troppo presto per scaldarsi per gli abituali insulti da parte della signora Woodhams.
«Se Anna non dovesse venire» insistette lo zio, «la signora Hall si ritroverà con un gruppo di invitati dispari.» Rilesse l’invito. «Tredici, per di più! Le dame saranno in meno di uno, rispetto ai signori uomini. Non vogliamo certo mettere in difficoltà la padrona di casa. Anna deve partecipare.»
«La signora Hall troverà una sostituta, se l'avvertiamo in anticipo. Anna resterà a casa.»
«Sciocchezze. Anna verrà con noi.»
«Non possiede abiti adatti.»
«E questo sarebbe un impedimento?» rise lo zio. «Domani mattina, accompagnerete Anna da Seaver. Comprate pure tutti gli abiti che ritenete necessari. Per la cena. — E per Londra. In quanto all’educazione, sono certo che nelle prossime due settimane, sotto la vostra guida, signora, le mancanze saranno sanate.»
La moglie parve a corto di risposte. E Anna riuscì a prendere la parola.
«Zio, a me non dispiace restare a casa» disse, tranquillamente.
«No, cara. Non devi vivere reclusa per far contenta tua zia.»
Anna avrebbe voluto confessare che la felicità della zia Vivian era l’ultimo dei suoi pensieri. Temeva, piuttosto, che ospiti e invitati, per quanto meno serpi degli altezzosi londinesi descritti dalla signora Woodhams, non potessero avere comunque idee differenti da quest’ultima. E Anna si sentiva stringere lo stomaco all’idea di venir esposta agli sguardi scrutatori di un gruppo di benestanti signorotti di campagna. L’avrebbero studiata e giudicata come fosse stato un bizzarro animaletto giunto da un paese lontano.
Ma il signor Woodhams l’ebbe vinta, sia sulla moglie che sulla nipote; e quando gli zii uscirono per recarsi alla funzione, ad Anna fu lasciato tra le mani il Manuale di Etichetta.
Il libro però, aperto al capitolo delle maniere a tavola, rimase abbandonato sullo scrittoio. Anna si rigirava l’anello tra le dita, osservava il limpido cristallo e non pensava più né a Londra né alla cena degli Hall. Andò al vanity e ripose l’anello nel vecchio cofanetto. Non l'avrebbe più indossato, e il secco toc del coperchio, suggellò la decisione presa all’aurora.

*

Tra le stoffe e i manichini di Seaver — un'elegante sartoria in Gabriel's Hill — Anna venne sottomessa alle sevizie della moda, per l’occasione incarnata dai gusti della signora Woodhams. Cercavano un abito per la cena a Ellsworth House e, in ordine, vennero bocciati un vestito lilla, un completo di taffettà verde smeraldo e una seta blu cosparsa di fiori d’argento.
«Sei troppo scura. È impossibile trovare un colore che ti doni» commentò la signora Woodhams, seduta su di un divanetto, inflessibile esaminatrice degna dell'inquisizione spagnola.
Anna si sentiva morire: di caldo e di insofferenza. Continuava a venir trascinata tra il paravento di tela e la triade di specchi, seguita come un'ombra da una sartina armata di spilli e fettuccia.
«Perché devono essere così stretti alle ginocchia?» sibilò. «Tanto varrebbe legarsi le gambe e andare in giro saltellando...»
«È la nuova moda» pigolò la sarta.
«Gran bella moda...»
«Non borbottare» la richiamò la signora Woodhams. «È maleducazione.»
«Sto dicendo» disse Anna, voltandosi verso la zia, «che queste gonne sono scomode.»
«Non ha importanza. Ciò che importa è che diano valore al personale.» La signora Woodhams si alzò e comparve nello specchio, alle spalle di Anna. «Ricorda: è dovere di una donna mostrarsi sempre elegante, composta, raffinata, ma senza dar l’impressione di essere artefatta. Devi considerare come un tuo esplicito compito il renderti gradita allo sguardo altrui.»
«Credo che abbiate confuso i doveri di una donna con le qualità di un centrotavola.»
«Devi abbandonare questa inclinazione al sarcasmo.»
«Perché devo essere seria, madam? Voi siete abbastanza seria per tutte e due.»
La signora Woodhams ignorò Anna e si rivolse alla sarta: «Vorrei vedere altri abiti già confezionati, per favore.»
Il desiderio venne esaurito, quando due commesse entrarono nella stanzetta con una bracciata di vestiti. Anna, in corsetto e sottoveste, era stramazzata sul divanetto. E da lì non si mosse, mentre la zia Woodhams esaminava i nuovi modelli.
La scelta finale ricadde su di un abito di un vivo e lucido color avorio.
Anna tornò nella parte del manichino con riluttanza ma, terminata la vestizione, quando si guardò allo specchio dovette ammettere, almeno con sé stessa, che il vestito era la cosa più bella ed elegante che avesse mai avuto indosso. Le maniche erano lunghe fino ai gomiti, la scollatura quadrata e adeguatamente profonda; una fascia color ambra stringeva la vita, a mo’ di cintura, e uno strato di merletto del medesimo colore, leggero come il velo di una sposa, era drappeggiato sopra le balze della gonna. Nel complesso, l'abito era comunque scomodo quanto i precedenti, ma la signora Woodhams aveva scelto bene: Anna era scura e non vantava una figura giunonica; l’ambra e l’avorio ravvivavano l’incarnato e il taglio semplice, seppur raffinatissimo, del modello evitava di farla somigliare a una goffa bamboletta infagottata in metri e metri di stoffa in eccesso.
«Passabile» decretò la signora Woodhams, dopo aver osservato Anna da ogni lato. «Ma dovrai indossare un corsetto più stretto.»
«È davvero necessario?» esalò Anna.
«Sì.»
Anna guardò la sarta, in cerca di supporto. Ma la sarta, che stava sistemando l’orlo, le remò affabilmente contro: «In effetti, ho notato che avete la vita un po’ troppo larga. E sapete come si dice?  'La vita perfetta è quella che può venir racchiusa, nella sua interezza, tra le mani di un cavaliere.'»
Anna fu tentata di ribattere che se un uomo si fosse azzardato a posare le mane su di lei, la circonferenza della sua vita sarebbe stato l’ultimo dei problemi del suddetto uomo. Optò, invece, per piantarsi le nocche sui fianchi e commentare con un tagliente: «E scommetto che qui vendete dei corsetti adatti? Quando si dice la fortuna.»
La sarta si schermò dietro un risolino.
«Anna taci» ordinò la zia. 
Trovato l’abito per la cena, la signora Woodhams scelse stoffa e modelli per il resto del guardaroba, che le sarte avrebbero confezionato nei giorni a venire: due cappotti, quattro abiti da giorno, tre da passeggio, tre da sera.
Quando lasciarono Seaver, mezzodì era passato ma il tempo di spendere i soldi dello zio Woodhams era lungi dal giungere al termine. Fu la volta non di una ma di due modisterie: venne acquistata biancheria nuova, due cappellini, un paio di guanti lunghi e due paia di guanti all’uncinetto; un girocollo di raso (da abbinare al vestito per la cena), un parasole e un ventaglio, due diverse borsette e un borsellino di velluto per le monete. Anche gli stivaletti con le stringhe furono giudicati inadatti: ne servivano di nuovi, dotati di bottoni e dal tacco rigorosamente a rocchetto. E alla fine, il povero Bert dovette trovare il modo stipare le scatole sia sul retro della carrozza che all'interno della vettura.
«Com'è possibile spendere tanto tempo in vestiti» borbottò Anna, accasciata in un angolo della carrozza. Bert stava, finalmente, conducendo fuori da Maidstone. «Sono esausta.»
«Povera nipote mia» ribatté algida la signora Woodhams. «Sei stanca di spendere denaro altrui per circondarti di belle cose.»
Anna sussultò.
«Ma io non li volevo nemmeno i vestiti nuovi!»
«Nondimeno, li stai ricevendo. Dovresti pronunciare più parole di gratitudine e meno borbottii.»
Anna ammutolì. In quel momento, la carrozza stava attraversando un incrocio e lei vide un bambino, col viso sporco e i vestiti rattoppati, che spazzava la strada dagli escrementi dei cavalli.

*

A Bon Fleur, il signor Woodhams sfregò le mani quando vide il risultato delle spese della moglie. «Non gioite troppo» disse lei. «Esteriormente sarà presentabile, ma servirà più di qualche ora in sartoria per rimediare ai suoi modi.»
Due giorni dopo, come previsto, lo zio Woodhams lasciò la villa e il primissimo mattino, freddo e nebbioso, fu lo sfondo dei saluti: Anna baciò e si lasciò baciare e dopo che lo zio fu salito in carrozza ― a Maidstone, lo attendeva il treno per Londra ― la signora Woodhams abbandonò la nipote sul portico, a osservare la vettura che si allontanava. La partenza del marito lasciò la signora Woodhams nella totale indifferenza. La donnna mostrò, tuttavia, l'intenzione di soddisfare la volontà di lui e mise subito le cose in chiaro con Anna. «Se non posso evitare di mostrarti al mondo» dichiarò, «sappi che farò quanto in mio potere per trasformarti in qualcosa di cui non debba necessariamente vergognarmi.» E Anna si chiese se dovesse considerare un peggioramento il fatto che la zia si fosse riferita lei usando il termine 'cosa', piuttosto che creatura o scimmia.
Da mattino a mezzodì, e da mezzodì alla sera, le giornate di Anna si ridussero a un elenco di regole da imparare a memoria: come sedersi, come restare seduta e come alzarsi; come, quando e in che maniera salutare; come, quando, di quali argomenti e con quale tono di voce era permesso discorrere. Persino il modo di guardare, di tenere le mani in grembo o di portare un ombrello andavano rettificati secondo le regole del bon ton. Anna, raschiando il fondo della pazienza, sopportava. Ma tra una riverenza e uno sventolio di ventaglio, arrivò a chiedersi quale fosse il modo più appropriato, per una signorina, di sbattere la fronte contro il muro.
Un pomeriggio, dopo l’ennesima mattinata piovosa, un vento greco trascinò via le nubi, rivelando una distesa di pallido azzurro. Il sole inondava il boudoir della signora Woodhams: cadeva sui fiori dei tappeti indiani, sui ricami rosso e oro della dormeuse, sul legno laccato dello scrittoio, sopra il quale la signora teneva i registri di economia domestica e un tomo la cui stazza biblica, e la lunghezza del titolo, Anna reputava vagamente agghiacciante: Mrs Beeton's Book of Household Management.
«Canto Nono. Sahara. Preludio. Tragedia della moglie» stava leggendo Anna, seduta vicino alla finestra; schiena diritta e mento basso, reggeva il libricino con entrambe le mani, tenendolo adagiato sulle ginocchia serrate. Era controllata a vista dalla signora Woodhams, che ricamava seduta sulla dormeuse, e non osava abbandonarsi a una posizione più rilassata.
La zia aveva deciso che ogni giorno, per un’ora e mezza ― non un minuto di meno ― Anna doveva dedicarsi alla lettura ad alta voce di quella che definiva «buona poesia e utile prosa inglese»; gli insegnamenti morali le avrebbero giovato e l’esercizio l’avrebbe aiutata a correggere il suo «sgradevolissimo accento» in favore di una pronuncia pulita e signorile.
«L’uomo dev’essere compiaciuto; ma compiacerlo è della sposa il piacere. Giù, nell’abisso delle necessità di lui, ella si getta, dona... don―» Anna si mangiò il resto del verso in uno sbadiglio.
«Non sbadigliare in quel modo» disse la signora Woodhams, senza interrompere l’abile lavorio dell’ago.
«Se potessi leggere qualcosa di meno noioso, non dovrei preoccuparmi di trattenere gli sbadigli» rispose Anna, asciutta.
La zia tirò con grazia il filo verso l'alto.
«Hai almeno compreso l’insegnamento del poema?»
Anna ispirò e diede la stura al rosario di aggettivi con l'entusiasmo di un penitente in confessionale.
«Una donna deve essere una moglie servizievole. Obbediente. Devota al marito, e ai figli. Sempre  altruista. Sempre pronta a confortare. Sempre con una parola gentile sulle labbra. E ― e ― sapete cosa, madam?» Chiuse il libricciolo e lo schiocco secco fece rizzare la testa a Milton, che sonnecchiava ai piedi della signora Woodhams. «Quale donna riuscirebbe mai a essere davvero così perfetta? Patmore dei miei stivali! Se gli uomini vogliono davvero un angelo, invece di una donna, che vadano in chiesa, rubino una statua e se la piazzino in salotto.»
La signora Woodhams accolse lo sfogo con ammirevole freddezza. «Impara a tenere le tue opinioni per te, Anna.» E continuò a ricamare.
«Ma perché? Perché gli uomini hanno deciso così? Un gruppetto di uomini, un bel giorno, afferma che le donne devono essere composte e silenziose e ecco che dobbiamo comportarci tutte allo stesso modo? ― Per quanto mi riguarda, questa faccenda della cieca obbedienza è una gran stupidaggine. Ragionate: chi ci assicura che tutti uomini sappiamo sempre quale sia la cosa migliore da fare? E se il marito in questione fosse un criminale? Se impazzisse con la vecchiaia? O se fosse semplicemente un citrullo? Pretendete di trasformarmi in una donnina tutta obbedienza e sguardi miti ma io lo vedo benissimo che voi, per prima, non siete mai d'accordo con le decisioni di mio zio.»
La signora Woodhams calò le pallide palpebre sui piccoli occhi scuri. Abbassò il telaio. «Non ammetto di sentire parole come ‘solfa’, ‘piazzare’ e ‘citrullo’ uscire dalla tua bocca.»
«Oh, per favore!» sbottò Anna. «Sto facendo tutto quello che mi chiedete. Ho persino iniziato a indossare il corsetto e questo maledetto sellino.»
«Anna.»
«Insomma, dovete censurare il mio vocabolario anche quando sono in casa?»
«Come è possibile che tu non comprenda?»
«Comprendere cosa?»
«Le buone maniere sono tutto.»
«Pensavo che i soldi fossero tutto...»
«Un villano arricchito sarà sempre considerato né più né meno di un fenomeno da baraccone. Le maniere impeccabile e una reputazione adamantina sono il lustro della nostra classe.»
«Una reputazione adamantina, eh? Ecco perché vi date tutti tanta pena per nascondere i panni sporchi.»
La signora Woodhams la fissò.
«Di che cosa stai parlando?»
Anna si nascose dietro una scrollata di spalle. «Parlo in generale.» Si era chiesta spesso se i Blackwell avessero confidato alla signora Woodhams delle domande che lei gli aveva posto. Ma né la zia, né i due domestici, avevano mai detto o fatto qualcosa al riguardo; nemmeno il più piccolo accenno.
La signora Woodhams volse lo sguardo alla finestra.
La porta del boudoir era socchiusa e, dall’atrio, giunsero i battiti della pendola. Erano le due del pomeriggio.
«Basta così con la lettura» disse la zia.
«Ma manca ancora mezz’ora.»
«Chiaramente, oggi non sei in grado di concentrarti. Sei troppo agitata. Va a fare una passeggiata. L'aria e il movimento gioveranno ai tuoi nervi.»
Anna aggrottò le sopracciglia e non si mosse: l’invito a uscire di casa era tanto insolito da risultare sospetto.
«Va fuori» rincarò la signora Woodhams.
Anna ancora tentennava. Ma, alla fine, non volle  sprecare l'inaspettata libertà.

*

La campagna era desolata, la strada piena di pozzanghere e non c’era modo di evitare di affondare gli stivaletti nel fango. Il vento si era placato, ma nonostante il sole, l'aria mutava il respiro in vapore e presto Anna sentì le guance e la punta del naso pizzicare. Incrociò un carretto, carico di legna: lo conduceva un contadinotto che le rivolse un sorriso sdentato; giunse al bivio e là si attardò, indecisa se riprendere la via di casa o proseguire verso East Farleigh. Mentre valutava, e sfregava le mani infreddolite, il suo sguardo andò alla magione bianca sull’altura: lo spettro tondo e perlaceo della luna piena era già sorto sopra la casa.
Anna prese la via per il villaggio.
Ma non andò lontano.
Dovette fermarsi prima di voltare oltre la dolce incurvatura della strada, che piegava attorno a un tozzo carpino rimasto senza una foglia: si udiva il suono, sempre più vicino, di un cavallo al galoppo. Anna si tolse della strada, riparando sul muretto, basso e diroccato, che in quel tratto la costeggiava. Sedette. Attese. E notò l’erba che infestava il muro: dalle fessure tra le pietre, spuntavano steli pieni di foglioline lunghe, strette e ancora verdi, a dispetto dell'autunno. Anna si chinò a strapparne un mazzolino. Guardò le foglie in contro luce: davano l’impressione di essere cosparse di fori piccoli come capocchie di spillo.
L’attimo dopo, lasciò cadere il braccio in grembo e si voltò verso l'albero: il cavallo portava in sella un cavaliere.
E il cavaliere era William Hall.
Lo scrittore dovette riconoscerla subito: tirò le redini e fece fermare il cavallo proprio davanti ad Anna. Toccò la falda del cappello con la mano inguantata, in cui stringeva il frustino.
«Buon pomeriggio, signorina Hawkins.»
«Buon pomeriggio.»
Anna restò seduta; osservava cavallo e cavaliere dal basso, con le mani strette al bordo del muretto. Nella bestia perfettamente strigliata, dagli zoccoli piccoli e la criniera lunga e corvina, riconobbe un vigoroso esemplare di morello arabo.
«Dove siete diretta?»
«Da nessuna parte in particolare. Passeggio. Voi dove ve ne andate?»
«Vago anche io. Le giornate di sole stanno diventando rare. Ne approfitto per cavalcare.» Batté affettuosamente la mano sul collo del cavallo. Poi, tacque. Contemplava il viso di Anna e Anna, dal canto suo, non distolse lo sguardo. Immersi nella morente, quasi onirica luce di novembre, l’incarnato del signor Hall le parve alabastrino; né il freddo né la cavalcata non erano riusciti ad arrossargli il viso. L’azzurro degli occhi, però, mostrava un che di vivido, intenso ed espressivo che Anna non ricordava di aver scorto in precedenza, né a Bon Fleur, né alla pensione. E nonostante tutto, non riusciva a decifrare le intenzioni di lui: ogni respiro sembrava trattenere una parola, sospesa sulle labbra socchiuse.
«Dovrò parlare con vostra zia» disse William. «Non dovrebbe lasciarvi passeggiare sola. Qualcosa di spiacevole potrebbe accadervi.»
Anna sbuffò.
«Non datele false speranze.»
«Parlo seriamente: potreste incappare negli zingari.»
«Finiremmo per ballare e cantare insieme.»
William increspò un sorriso. Un sopracciglio spiovente si innalzò più dell'altro. «Raccogliete erbe prima del tramonto e non temete la compagnia degli zingari. Dev’esserci della strega in voi.»
«Da quel che dite tutti, mi pare di capire che ci vuole poco per essere una strega, qui in Inghilterra.»
«Sapete come chiamiamo l’erba che avete tra le mani?»
«Erba di San Giovanni. Cresce anche in Nova Scotia. Ma mia madre diceva che non era originaria di laggiù. La portarono i coloni.»
«Difatti. È originaria della nostra isola. Il suo nome scientifico è Hypericum perforatum.»
«Siete uno scrittore o un botanico?»
«L’iperico è il genere di pianta che mi interessa. Taluni le danno il nome di Scacciadiavoli. Sapete indovinare il motivo?»
Anna fissò William, assottigliando le palpebre. Non nascose il senso di sfida che le suscitava la conversazione. ‘Crede di potermi impressionare con qualche romanzata’ pensò. Rispose, schietta e imperturbata: «Dicono abbia il potere di allontanare gli spiriti maligni.»
Il sorriso di William si tinse di una sfumatura a metà tra sollazzo e soddisfazione.
«Naturalmente. Come ho potuto credere che non lo sapeste. ― A questo punto, posso lasciarvi senza temere per la vostra incolumità: sapete difendervi da qualsiasi spirito malevolo o dispettosa fata che infesta la nostra bella campagna.»
«Sfortunatamente, non conosco una pianta che tenga alla larga gli scrittori.»
«Sul mio onore: sono innocuo.»
«Chi mi assicura che, da un momento all’altro, non mi sguinzaglierete contro una prosa terribile?»
William umettò le labbra. Poi, le strinse. Ma non smarrì del tutto il sorriso.
«Credo che il mio ultimo editore condividesse i vostri timori.»
«E allora come lo avete convinto a pubblicarvi?»
«Non l’ho fatto. Ha rifiutato.»
«Ah...» Anna si guardò attorno. Da lì, era ancora possibile vedere la magione sull'altura. La indicò al signor Hall con un gesto della mano. «Sapete chi abita in quella casa?»
William parve sorpreso della domanda.
«Ma come? Non vi hanno detto chi sono i vostri vicini?»
Anna scosse il capo.
«Fantasmi.»
La fronte di Anna si aggrottò.
«Almeno, in questo periodo dell’anno» soggiunse William, con un sorriso morbido. «Al momento, è disabitata. La casa appartiene alla mia famiglia. Mio fratello e mia nuora hanno l’abitudine di rifugiarvisi in estate. E a Natale. Ogni anno, organizzano un ballo per la Vigilia. È una vecchia tradizione di famiglia. ― Mi auguro che quest’anno avremo un’ospite in più.»
Anna rispose con una scrollata di spalle e lasciò cadere il discorso, insieme all'iperico, che gettò a terra; sperava che William interpretasse il silenzio come un invito a riprendere la sua strada, per permettere a lei di continuare sulla propria. E lo scrittore sembrò intendere: toccò di nuovo il cappello e chinò il capo. «Godetevi il resto della passeggiata, miss Hawkins.» Con un colpetto di talloni, spronò il cavallo.
Ma Anna aveva già cambiato idea. Scese dal muretto.
«Signor Hall!»
William si fermò, facendo voltare il cavallo.
‘Chiediglielo. Chiedigli della fontana.’
«Io...»
William la guardava, e attendeva.
«Io... vorrei leggere i vostri racconti, uno di questi giorni.»
«Lusingato. Il vostro interesse è un complimento.»
E ripartì.
Anche Anna si rimise in cammino, rimproverandosi la sua perenne incostanza. Quando fu a East Farleigh, passeggiare per il villaggio non le tolse dalla testa  l'incontro con William Hall. Senza rendersene conto, dedicò allo scrittore ― e a quei suoi malinconici occhi azzurri ― più pensieri di quanti fosse solita a dedicare a qualunque altro uomo. E, nel contempo, pensava ai progetti dello zio Woodhams: un marito e un matrimonio. Fu il ricordo del viscido mercante di pellicce a mettere a tacere la girandola di condiscendenti fantasie. ‘Ma che vai pensando!’ si disse, in un moto di rabbia generale.  ‘Nessun uomo decente ti reputerebbe amabile. Non sei abbastanza... angelica.’

*

Quando Anna tornò a Bon Fleur, era ormai buio. Temeva un rimprovero da parte della zia ma nessuno le venne incontro, né nel vestibolo, né nell'atrio. Il parlour era vuoto. La biblioteca deserta. Bussò alla porta del boudoir e le rispose il silenzio. Eppure, le lampade erano accese.
Calò nel seminterrato dove, con un certo sollievo, trovò Lily in cucina.
La cameriera armeggiava al tavolo, con un pestello e vasetti di erbe essiccate. Un bollitore era sulla stufa. «Oh, eccoti!» esclamò Lily. «Ma che t’è saltato in mente? Restare fuori fino a tardi! Avevo paura ti fossi smarrita! E non sarebbe stata davvero la sera adatta: tua zia si sente male.»
«Come? Che le è successo?»
«Non lo so! La signora Blackwell è con lei, in camera. Non mi ha lasciata entrare.» Rovesciò nella ciotola del pestello un cucchiaio di valeriana.
Anna lesse le etichette sugli altri barattoli: melissa, meliloto, tiglio, biancospino, arancio e violetta. «Queste sono erbe calmanti.»
«Mi ha detto la signora Blackwell di preparare questo infuso.»
«La zia ha avuto una crisi di nervi?»
«Davvero, non lo so!» ripeté Lily. «Ma ha chiamato la signora Blackwell appena il signor Hall è andato via.»
«Il signor Hall? William?»
Lily annuì, vigorosamente.
«È stato qui? ― Strano! L’ho incontrato, sulla strada per il villaggio, non mi ha detto di avere una visita in programma.» Tuttavia, la stranezza era mitigata dal sapere per certo che le visite dello scrittore erano sempre improvvisate.
Ma Lily, finendo di sminuzzare le erbe con il pestello, rifilò ad Anna uno sguardo di sottecchi. «Ci credo ― che non te l’ha detto!» bisbigliò.
Anna la fissò.
«Che intendi?»
Lily scosse il capo.
«Niente...»
«No ― riconosco quella faccia. L’avevi il giorno del mio arrivo. Che cosa c'è?»
«Niente» ripeté Lily.
Ma Anna continuava a scrutarla.
E la cameriera incassò il capo tra le spalle.
«Io non so cosa sia successo esattamente, però...» Si azzittò. Occhieggiò verso la porta. Poi, sussurrando in tutta fretta, come chi confessa un peccato o una vergogna, disse: «Madam ha ricevuto il signor Hall al piano di sopra.»
«E allora? C’è un salottino, di sopra.»
«Non erano nel salottino, Anna. Li ho visti entrare in camera da letto.»
Anna sprofondò nel mutismo. Poi, lentamente, distorse la bocca in una smorfia di spaesamento. Infine, rise: un verso corto, sfiatato, nervoso. «No!» esclamò, con il sorriso congelato. «So cosa stai pensando. E non voglio pensarlo. Perché è impossibile. E... e... disgustoso.»
Lily chinò lo sguardo. «Impossibile o meno» disse, a mezza bocca, «è comunque un comportamento che non mi sarei mai aspettata dalla padrona. Se qualcuno lo venisse a sapere, pensa a come ne uscirebbe la sua reputazione. E quella del signor Woodhams.»
«Io penso che tu stia lavorando troppo di fantasia.»
Lily rialzò gli occhi, di scatto.
«Tu accusi me di lavorare troppo di fantasia?»
«Per quanto ne sappiamo, potrebbero aver giocato a carte. Certo, la camera da letto è una scelta... insolita, ma ― capisci cosa intendo.»
«A dirla tutta, non credo siano rimasti in camera.» Lily gettò un secondo sguardo alla porta. «Il signor Hall era qui da venti minuti, o poco meno, e io ero in biblioteca, a passare la cera sul pianoforte, quando ho sentito dei rumori. Provenivano proprio da sopra la biblioteca.»
«Dalla nursery?»
«Già! La camera è collegata alla nursery.»
«Che... che genere di rumori?»
«Prima ho sentito un rumore di mobili che venivano spostati. Almeno ― così sembrava. E poi, e su  questo ci metto la mano sul fuoco, ho udito un urlo. Brevissimo. Strozzato. Sono sicurissima che fosse la voce di madam.»
«Mia zia ha urlato e nessun altro l’ha sentita?»
«Bert era fuori, nelle stalle. E la signora Blackwell era quaggiù, nel tinello: qui sotto non deve aver udito nulla.»
Anna decise di andare a informarsi da sé: corse su per la scala a chiocciola, ma non appena fu dinanzi alla camera della zia, non ebbe il tempo di sollevare il braccio e bussare, che la porta si aprì e lei si ritrovò faccia a faccia con la signora Blackwell, e il suo famigliare cipiglio.
«Lily mi ha detto che mia zia―»
«Vostra zia ha bisogno di riposo e silenzio» la interruppe la cuoca. Uscì dalla camera, costringendo Anna a indietreggiare, e si chiuse la porta alle spalle. Dall’altro lato, si udì lo scatto della serratura. «Non è successo niente. Solo un po’ di stanchezza. ― Sciò! Lasciate in pace vostra zia. E andate a togliervi quegli stivaletti infangati, per l'amor di Dio ― guardate come avete ridotto il pavimento!» Spostò Anna di lato, togliendosela da dinanzi; e mentre la cuoca marciava verso le scale, Anna la sentì borbottare: «Dannata ragazzina ― le avevo detto di tacere»
Anna se ne stette lì, a fissare truce la scura superficie della porta, indecisa. Non sopportava la zia Woodhams quand’era calma, davvero voleva affrontarla dopo una crisi di nervi? Perché recitare la parte della nipote preoccupata quando, in cuor suo, non provava alcun affetto per quella donna? Arretrò e si diresse nella propria stanza da letto.
La signora Woodhams restò in camera per il resto della serata. Il mattino seguente, non scese per la colazione, non fece chiamare Anna e impartì disposizioni alla signora Blackwell senza alzarsi dal letto. Verso le dieci, però, giunse una lettera. Il corriere fu fatto attendere nel vestibolo perché il messaggio chiedeva una risposta immediata. Lily consegnò la lettera alla padrona e, cinque minuti più tardi, ne mise una scritta di fresco tra le mani del corriere.
Fu proprio Lily a informare Anna: la lettera proveniva da Ellsworth House.
«E come sta mia zia?» chiese Anna.
«Mi è parsa stanca, ma tranquilla.»
In quanto ad Anna, non aveva il permesso di vedere la zia; e lei era ben disposta a rispettare il divieto.
Dopo pranzo, Anna mentre riposava sul sedile della finestra del parlour, con Milton tra le braccia e lo sguardo perso in direzione del viale ― il vetro era rigato: un’acquazzone si era rovesciato sulla campagna attorno a mezzogiorno ― vide una carrozza oltrepassare il cancello.
Avevano ospiti.








➽ Note
Il poema letto da Anna è The Angel in The House (L’Angelo del Focolare) scritto tra il 1854 e il 1862 da Coventry Patmore. Ha per soggetto la descrizione del matrimonio e della moglie ideale. L’altro libro nominato in questo capitolo (Mrs Beeton's Book of Household Management) era, all’epoca, un popolarissimo e dettagliato manuale per la gestione dell’economia domestica e della cura della casa. Un ‘must have’ di ogni buona moglie borghese.

È d’obbligo un enorme grazie a chi continua a passare di qui ٩(♡ε♡ )۶
Ho anche notato che sono saliti i lettori silenziosi che hanno inserito la storia tra i preferiti e seguiti. Sappiate che vi ho visto ― e che vi lovvo assai. Io cercherò di continuare con gli aggiornamenti regolari e forse, più avanti, potrei riuscire a portare il ritmo a due capitolo alla settimana. ❤

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Danse macabre ***


9




IX. Danse macabre





La carrozza risalì il viale, il cocchiere tirò le redini e scese dalla cassetta.Anna lo riconobbe: era Benton. L’uomo spalancò lo sportello e dalla carrozza emerse la dinoccolata, e sempre elegante, figura di William Hall: tirava mollemente l’orlo del guanto destro mentre gli occhi, pervasi dall’abituale piglio mesto, parevano studiare le finestre più alte della facciata.
‘Ha un bel coraggio a ripresentarsi qui!’ Anna era risoluta a non dar credito alle congetture di Lily, giacché il solo immaginare una relazione tra la vecchia zia e lo scrittore le suscitava ripugnanza. Purtroppo, però, quello era anche il genere di tarlo che, una volta iniziato a rosicchiare i pensieri, era impossibile da scacciare.
Ma quando un secondo passeggero uscì dalla carrozza, Anna trasalì. Scese dal sedile, lasciando cadere Milton; e il gatto per poco non finì calpestato, mentre la ragazza se la svignava dal parlour con una fretta del diavolo. Corse al piano di sopra, passando per le scale di servizio, si rintanò in camera e supplicò che gli ospiti si limitassero a lasciare un biglietto. ‘La zia non li riceverà’ si disse. ‘Non è nelle condizioni di ricevere visite.’
In capo a dieci minuti, però, Lily bussò con un’ambasciata: madam chiedeva la presenza di Anna nel parlour perché il signore e la signorina Hall avevano espresso il desiderio di incontrarla.
Anna non cedette al panico: era pronta a mettere sul tavolo la carta dell’emicrania. Ma d’un tratto si domandò che scopo avesse sfuggire all’incontro del pomeriggio, quando di lì a pochi giorni avrebbe dovuto fronteggiare la famiglia Hall al completo e alla presenza di testimoni?
Assicurò a Lily che sarebbe scesa nel tempo di rendersi presentabile. Con cura, e con più tempo del necessario, spazzolò la gonna, pettinò i capelli, arrotolò la treccia.
E si presentò al pian terreno.
La porta del parlour era spalancata, così che Anna, fermandosi a un passo dalla soglia, poté posare lo sguardo sugli ospiti prima che loro si accorgessero di lei. William era in piedi, davanti al caminetto acceso; come sempre vestito di scuro, tranne per il panciotto ― un grigio dalla sfumatura bluastra ― e per la testa dell'argento della spilla sulla cravatta. Teneva una mano appoggiata alle mensola e l’altra, serrata in un pugno, dietro la schiena. Lo si sarebbe detto in contemplazione dei guizzi del fuoco.
L’unica voce nella stanza era quella di Ada Hall, che condivideva il divanetto insieme alla signora Woodhams. Ada era giovane, bella e ben vestita: indossava un abito color fiordaliso e guantini di merletto bianco.
Ma, dettaglio più importante di tutti, Ada Hall era la stessa donna che Anna aveva soccorso in Goudhurst Close.
William, portando lo sguardo sul divanetto, si accorse di Anna e la salutò con un cenno del capo. Il gesto venne inevitabilmente colto dalle due donne, che si voltarono verso la porta.
«Anna, vieni avanti» ordinò la signora Woodhams. «Ada, ti presento la figlia di mio fratello» disse, con un tono che sfiorava l’annoiato.
Ada Hall fissava Anna come se fosse entrata nella stanza capeggiando un corteo di circensi: improvvisamente muta, allibita, sembrava persino trattenere il fiato.
E Anna temette il peggio.
Poi, con sua somma sorpresa, in un battito di ciglia, l’espressione di Ada cambiò: sfoderò un sorriso e si alzò in piedi non appena Anna fu accanto al divanetto. La fronteggiò ― si equiparavano in altezza ― e le strinse gli avambracci. «Sono così felice di incontrarvi.» Ada aveva labbra piene, rosse come ciliegie, e occhi grandi, di un azzurro più vivo e intenso di quello del fratello, privi di severità o malinconia. Nel complesso, era una versione ingentilita della bellezza algida e aristocratica dello scrittore. «William non fa che parlare di voi. Mi ha messo una tale curiosità di conoscervi.»
Essere il soggetto di conversazione prediletto dal signor Hall, per Anna, fu una rivelazione inaspettata.
In quanto allo scrittore, non batté ciglio: aveva appoggiato un gomito alla mensola e rimirava le zampe leonine del divanetto.
«Il piacere è mio» recitò Anna.
Ada la prese per mano e la trascinò con sé, obbligandola a prendere posto sul divano, mentre lei si accomodava tra zia e nipote. «Mi sarebbe dispiaciuto non trovarvi in casa: William mi ha detto che vi piace passeggiare. Certo... certo, so cosa state pensando: simili inconvenienti potrebbero venir evitati, se ci prendessimo il disturbo di annunciare le nostre visite. Ma dovete capire che per me, e per i miei fratelli, Bon Fleur è una seconda casa.» A differenza del fratello, Ada possedeva palesemente uno spiccato talento per il soliloquio. Quantomeno, aveva una voce gradevole: piena e fresca. «Ad ogni modo, ora che siete qui, William potrà consegnarvi il presente con le sue stesse mani.»
Chiamato in causa, il signor Hall drizzò la postura e atteggiò le labbra a quanto di più simile a un sorriso di circostanza. Andò al tavolo: c’era una cartellina di pelle. La raccolse e la portò ad Anna.
Lei lo fissò, dal basso.
«Che cos’è?»
«Una copia del mio ultimo racconto. Pensavo vi avrebbe fatto piacere.» Abbassò la cartellina, e il mento. «Ma capisco ora, dal vostro sguardo perplesso, che non parlavate seriamente. Il mio ego di scrittore mi ha ingannato.» Lo disse con tanta umile dolcezza che Anna, per un istante - uno soltanto - dimenticò ogni cattivo pensiero mai formulato su di lui.
«No! Voglio dire: sì. Sì che desidero leggere i vostri racconti.» Prese la cartellina dalle mani dello scrittore. «Non credevo ve ne sareste ricordato. Tutto qui.»
«Quando avrete terminato con i lavori di mio fratello» disse Ada, «dovete permettere a me di consigliarvi qualche lettura. ― Avete familiarità con i saggi di Mary Wollstonecraft?»
Anna si confessò ignorante.
«Allora, sarò felicissima di prestarvi le mie copie.»
«Ada, per favore...» sospirò William.
«Cosa?» saltò su la sorella. «Cosa ho detto? Da quando in qua sei diventato contrario alla Wollstonecraft?»
«Non sono contrario. Ma non dovresti imporre con questa irruenza i tuoi personali entusiasmi alla signorina Hawkins.»
Ada fece un gesto scocciato con la mano. «Sei di una tale boria, fratello mio. ― Adesso perché non usciamo per una passeggiata in giardino? Tra carrozza e divano, non ne posso più di star seduta.»
«Non mi sembra il tempo adatto a star all’aperto di proposito» obbiettò William.
«Andiamo in veranda, allora. Voi che dite, signora Woodhams?»
La signora Woodhams, rimasta a sorvegliare in silenzio i tre giovani, disse pacatamente: «Preferirei restare vicino al caminetto, mia cara.»
Ada si voltò verso Anna, per una tacita richiesta di opinione. E ad Anna bastò quello sguardo per comprendere il reale obbiettivo del giro di pareri: Ada sapeva che gli altri avrebbero rifiutato. Voleva parlare con lei. Da sola.
«Vi farò compagnia io.»
«Ottimo.»
«Non restate sulla veranda a lungo» raccomandò la signora Woodhams. «Fa freddo.»
Anna, catturata saldamente sotto braccio, si lasciò condurre da Ada attraverso la biblioteca. La fretta di essere fuori portata d’orecchio della signora Woodhams era pari a quella della signorina Hall, ma al contempo, l’aver appena lasciato la zia sola con William le metteva addosso una sensazione sgradevole: le sembrava di avere uno spillo, sottile come un capello, conficcato proprio sotto lo sterno. Era preoccupazione? Inquietudine? Stordita gelosia?
Uscirono sulla veranda. «Non avete idea di cosa non avrei dato per ritrovarvi!» esordì Ada, a voce bassa, cospiratrice. «Quello che avete fatto in Goudhurst Close è stato s―»
«Sconveniente» esalò Anna. «Sì. Lo so.»
«Sublime.»
«Eh?»
«Su - bli - me! Grazie!»
«Ah...» Anna non ricordava di essere mai stata ringraziata con tanto ardore per aver picchiato qualcuno. «Ehm... prego. E grazie a voi per non aver detto nulla davanti a mia zia.»
«Non avrei mai potuto farlo. Pensate forse che i miei fratelli sappiano quanto accaduto al negozio di pegni?»
«Già - e esattamente che cos’è che stavate facendo? Chi era quella ragazza?»
«Si chiama Jenny Lee. È ― era la domestica personale di quel Bernbaum. Ma altro che banco dei pegni! Quello è un vero e proprio strozzino. E un uomo orribile. Non soltanto pagava Jenny una miseria, e la batteva in continuazione, ma è arrivato perfino a...» Ada volse lo sguardo davanti a sé e serrò le labbra: d’un tratto, pareva sopraffatta, dallo sdegno e dalla frustrazione.
Anna comprese.
«Se lo avessi saputo, l’avrei colpito con più forza.»
«Io le dissi di lasciare il lavoro. Promisi che mi sarei adoperata per trovarle un altro posto. Ma lei aveva troppa paura. Credo che Bernbaum le avesse letteralmente logorato le forze. Mentali, oltre che fisiche. La terrorizzava. Non riusciva a reagire. Alla fine, capii che non sarebbe mai riuscita a scappare da sola.»
«E così l’avete portata via voi.»
«Dovevo fare qualcosa, prima che fosse troppo tardi. Non sto esagerando quando dico che c’era la possibilità che lui, in uno dei suoi scoppi d’ira, arrivasse ad ammazzarla. Per sbaglio o di proposito.»
«Avete fatto la cosa giusta. È siete stata molto coraggiosa.»
«Però, avrei dovuto essere più prudente. Non fosse stato per il vostro intervento...»
«Lo sarete la prossima volta. Ma che ne è di Jenny? È al sicuro?»
«Mia nuora aveva bisogno di una nuova cameriera da mettere in cucina. L’ho convinta ad assumere Jenny. Augusta non sa nulla del passato della ragazza e a King Street Jenny è al sicuro. In tutta sincerità, temo ancora una ripicca da parte di Bernbaum, ma lui non si è fatto vivo. ― Sia come sia, adesso sono in debito con voi, miss Hawkins. Se in futuro dovreste aver bisogno di qualunque cosa, non avete che da chiedere.»
Anna scosse il capo.
«No, non ci sono debiti. È sufficiente che questa storia rimanga tra di noi.»
«Lo sarà. Ma, se posso chiedere, dove avete imparato a picchiare a quel modo?»
«In Canada» buttò lì Anna.
«Oh... ehm...»
Prima che Ada potesse tirarsi fuori dalla vaghezza della risposta, Anna si affrettò a trascinare l’argomento verso altri lidi: si chiedeva se Ada fosse, in qualunque misura, a conoscenza del genere di relazione esistente tra la zia Woodhams e il fratello.
«Non ho intenzione di chiedervi favori, però, potreste togliermi una curiosità.»
«Dite pure.»
«Avete detto che vostro fratello vi ha parlato di me. In che termini?»
Ada sorrise. «Non dovrei tradire le confidenze tra fratello e sorella.»
«È un modo per evitare di dirmi che vostro fratello ha una pessima opinione di me?»
«Ma no!» rise Ada. «Vi trova peculiare: ecco la verità. Quasi veniste da un altro mondo. ― Perché vi interessa l’opinione di mio fratello?»
Anna vide una buona occasione; e la colse. Spolverò sulla frase una misera dose di pudico imbarazzo verginale, affermando: «Mio zio scherza sempre su un matrimonio tra me e vostro fratello. Almeno, io credo che scherzi.» Fissava di sguincio il profilo di Ada, pronta a cogliere ogni sfumatura della sua reazione.
Ada schiuse le labbra. Sorrise. E sospirò. «Io sarei felice di avere una sorella come voi.» E poi, dopo una pausa, mentre il sorriso perdeva forza, disse: «E sarei felice di vedere William mostrare interesse in una donna.»
«Lui non è interessato alle donne?»
«Non più negli ultimi anni.»
Ada rallentò il passo.
«Non volevo essere indiscreta» disse Anna. Ma la curiosità scalciava sotto la costruita calma. «È solo... che vostro fratello sembra aver un carattere così chiuso e io non so mai come parlargli.»
«Lo so. È introverso. Lo era anche da bambino» riprese Ada, quasi a mo’ di rassicurazione. Tacque per qualche istante. «Ha l’anima in pena e il cuore in lutto.»
«Ha perso qualcuno?»
«L’amore della sua vita.»
«E chi era?»
Anna non fingeva nemmeno più di voler trattenere le domande.
«Si chiamava Florance. William la conobbe a Londra, subito dopo aver concluso gli studi, all’università. Veniva da una famiglia di piccoli borghesi, onesti ma affatto ricchi ― Florance e William, però, erano spiriti affini. Persino nostro padre, che aveva sempre un occhio rivolto al borsello, non poté rifiutarsi di acconsentire al fidanzamento, tanto era innegabile la sincerità del legame.» Ada fece una pausa, scandita da un debole sospiro. «Ma Florance contrasse il mal sottile. E pochi mesi dopo la sua scomparsa, venne a mancare anche nostro padre: da anni la sua salute si era fatta debole. Per William fu tutto doppiamente più doloroso. Si trasferì a Londra. Facendoci avere sue notizie a distanza di settimane: lettere brevi e aride di dettagli. Conoscendo il carattere di mio fratello, ebbi timore che cercasse sollievo indulgendo in comportamenti distruttivi.» Guardò Anna e abbozzò un sorriso dolente. «Paure infondate: William è sensibile, ma non un debole, non possiede un solo grammo di depravazione in corpo. Si stava dedicando alla scrittura.»
«Ada!»
Anna e Ada si voltarono: William era entrato nella veranda. Le raggiunse.
«Ada, per noi è ora di andare.»
Ada mimò un broncio, scacciando la serietà. «Peccato. Io e miss Hawkins stavamo discorrendo con tanto piacere. Di te.»
«Sono un interessante soggetto di conversazione?»
«Non particolarmente» decretò Ada.
La carrozza degli Hall scendeva il viale e Anna, dal portico, la scrutava; con le labbra pressate, lo scialle attorno alle spalle e le braccia strette sotto al petto. Indulgeva in un effimero senso di sollievo. Ada Hall le piaceva, diversa come sembrava dal fratello e da sua zia. Inoltre, quanto le aveva confidato riguardo a William, rendeva assolutamente impossibile una relazione tra William e sua zia. ‘Ammesso che’ si insinuò una vocina, ‘il lutto non sia una copertura.’ Scosse il capo. Doveva smetterla di essere sospettosa. Restavano, comunque, altri quesiti: perché la zia Woodhams aveva ricevuto lo scrittore in camera da letto? Era stati davvero nella nursery? Cosa aveva fatto urlare la zia? Perché si era sentita male?
Anna rientrò.
La signora Woodhams era ancora nel parlour. Sedeva con la cartellina del signor Hall in grembo e ne carezzava i bordi con i pallidi polpastrelli. Anna le si avvicinò, cogliendo la possibilità di studiarla con attenzione. Era arduo decidere se fosse più pallida del solito; certo non aveva un’aria stanca o malaticcia. Ed era perfettamente in ordine: l’acconciatura impeccabile, la chatelaine alla cintura, orecchini ai lobi e uno smeraldo alla mano destra.
«Oggi vi sentite meglio, signora?»
«Sì.»
«Posso chiedervi cosa vi ha causato un malore?»
«L’età» rispose imperturbata la donna «Ti prego di non parlarne a tuo zio. Non c’è bisogno di farlo preoccupare inutilmente.»
Anna non rispose.
«Dunque?»
Anna continuò a tacere e la zia volse lo sguardo su di lei.
«Io credo che dovrebbe saperlo.»
«Ciò che che tu credi non ha importanza. Tuo zio può non darlo a vedere, ma è un uomo anziano, stanco e carico di responsabilità. È il suo lavoro a permetterci di vivere nell’agio. Il minimo che possiamo fare è evitare infastidirlo per ogni piccola paturnia.»
Anna inspirò.
«Va bene. Non dirò nulla. Però...»
«Cosa?»
«Lily mi ha detto di avervi sentita urlare.»
«Che sciocchezza. Nessuno urla, in questa casa. Lillian è una ragazzina sciocca e impressionabile, come tutte le cameriere.»
«Non è nessuna delle due cose. È attenta e intelligente. Ma ci avete mai parlato?»
«Non è mia abitudine fare conversazione con i domestici. Ed esigo da te lo stesso comportamento.» Allungò la cartellina alla nipote. «Va’. Fa il tuo dovere. Il signor Hall vorrà sapere cosa ne pensi del suo lavoro.»
Anna tirò via la cartellina dalla mano della zia.
«E voi che ne pensate? Il signor Hall è tutto ‘spettri e fanfaluche’?»
«Non avrei potuto esprimere meglio il pensiero.»
In camera, Anna si gettò bocconi sul letto. Aprì la cartellina. Sul primo foglio lesse solo il titolo del racconto e il nome dell’autore. La calligrafia, inconfondibilmente maschile, era curva e sottile, ma pulita e  leggibile.

Danse macabre

W. D. Hall

*

Il giorno seguente, lo zio Woodhams tornò a Bon Fleur. E non fu un ritorno a mani vuote. Aveva un dono per la moglie: attrezzi per il cucito, in una scatolina in madreperla a forma di conchiglia. E aveva un dono per la nipote: un orologio.
«Zio, spendete troppo denaro per me» disse Anna, rigirandosi l'orologio tra le mani. Era d’argento, ammirevole sia come opera di orologeria che di gioielleria; la cassa era incisa con roselline in boccio e la catenina era più sottile di un lavoro all'uncinetto.
Dalla poltrona della biblioteca, lo zio Woodhams le rivolse un sorriso mite e sonnacchioso. Quella sera un bicchierino, riempito di cognac, aveva preso il posto della pipa.
«È una cosa di poco conto.»
«Anche se lo fosse, quel che avete speso per l'orologio va a sommarsi con il denaro per tutti quegli abiti.»
«Non discutiamo di soldi, Anna» ribatté lo zio. «Come se non ne sentissi parlare già a sufficienza a lavoro.» Fece il gesto di avvicinare il bicchiere alle labbra, ma si bloccò a metà, abbassando la mano verso il bracciolo. Respirò a fondo.
Anna, seduta sul tappeto ai piedi della poltrona, alzò lo sguardo sullo zio: in quel volto anziano leggeva i chiari segni di stanchezza. Lo sguardo era opaco, le borse sotto gli occhi gonfie e scure, ed era la prima volta che vedeva un'ombra di barba ingrigire le molli guance. Forse la signora Woodhams aveva ragione: lo zio lavorava molto ― troppo ― per un uomo della sua età.
«Siete stanco, zio.»
«Sì» ammise lui. «Colpa della vecchiaia. Ormai, anche i viaggi più brevi iniziano a pesare. E la mia compagna ― l'insonnia ― non vuol saperne di abbandonarmi. Tanto più che niente mi rende più difficile prender sonno come il cambiare letto ― non che l'albergo di Londra non fosse dotato d’ogni comodità.» Che lo zio fosse svigorito ma sempre incline alle chiacchiere fu per Anna motivo di sollievo. Reclinò il capo e appoggiò la tempia al ginocchio dello zio. Seguì la rassicurante danza delle fiamme nel caminetto. Fuori, il vento soffiava feroce; e la villa gemeva.
«Non vedo l’ora di poter andare a Londra.»
Il signor Woodhams le carezzò la nuca con le sue dita tozze e gentili.
«Andremo. Presto.»
«Però, ditemi una cosa: è davvero importante, per voi, che io mi sposi?»
«Per te non lo è?»
«Non lo so. Ma so che non voglio un marito che mi tratti male. O che si vergogni di una moglie bianca solo per metà. Preferisco restare zitella per tutta la vita che ritrovarmi infelice e in trappola.»
«E io non ti spingerei mai ad accettare una proposta sbagliata» disse lo zio. «In cuor mio, sarei felice anche se restassi ad accudire questo tuo noioso zio fino all’ultimo dei suoi giorni. Ma chi rimarrà a far compagnia a te, quando io e la signora Woodhams non ci saremo più? Senza fratelli o cugini, vorresti davvero restare in questa casa, a invecchiare da sola?»
«Esistono destini peggiori della solitudine.»
«Sì. Forse, sì.»
Anna stava per alzare la testa, quando il signor Woodhams aggiunse: «Adesso, ti andrebbe di leggere qualcosa per me? Questa sera, mi sento assillare da brutti ricordi. Sii cara e aiutami a distrarmi. Leggimi Verne. Verne mi mette sempre di buon umore.»
E Anna non poté rifiutare.

*

Il pomeriggio dell’atteso venti di novembre, Lily non conobbe un attimo di respiro. Nelle vesti di cameriera personale, dovette aiutare la signora Woodhams a prepararsi per la cena. Poi, in gran fretta – perché le lancette della pendola erano sempre più vicine al numero sette - dovette soccorre Anna, finita in balia di gancetti, lacci e bottoni. Quando le riuscì di infilare Anna nel vestito, arrivò il momento dei capelli: armata di ferro arroventato tra le braci, riuscì nel miracolo di mutare la liscia cascata corvina in un trionfo di boccoli, da arroccare in un’acconciatura raccolta.
«Perfetto» sospirò, fermando l'ultima forcina. Poggiò le mani sulle spalle di Anna. Mirò il risultato dei suoi sforzi nel riflesso allo specchio del vanity. E sbuffò. «Tutti i riccioli del mondo non serviranno a nulla se terrai su quell'aria da funerale per tutta la sera.»
Anna, tenendosi ben stretta l’aria da funerale, rifilò uno sguardo alla finestra.
Era buio pesto. E pioveva a dirotto.
Ammise a voce alta ciò di cui era intimamente consapevole dal giorno stesso dell’invito. «Non ci voglio andare.» Sapeva di suonare piagnucolosa e irriconoscente, ma non poteva mentire a se stessa e fingersi entusiasta. Sentiva lo stomaco annodato, un grumo sassoso in gola e un accenno di palpitazioni. E il fatto che, a partire dalla mattina, la zia Woodhams l'avesse costretta a un semidigiuno, per assicurarsi di farla entrare in un bustino stretto al limite, non migliorava il suo stato d’animo.
«Sopravviverai» la rassicurò Lily. Si sporse in avanti per prendere il girocollo di raso, sul piano del vanity.
«Mi fisseranno tutti.»
«Lo spero bene ― con la fatica che ho fatto per prepararti!»
«Penseranno che sono una... una... scimmia che cerca di atteggiarsi a signora.»
«Smettila di dirti cattiverie.» Lily annodò il nastrino al collo nudo di Anna e Anna sentì i polpastrelli delicati soffermarsi a carezzarle la pelle, appena sotto il fiocco del girocollo. «Sei incantevole. Solo perché sei diversa dalle altre, non vuol dire che tu non sia bella.»
Ma Anna continuava a interrogare il proprio sconsolato riflesso.
«E se mi chiedono di parlare? Io non so fare conversazione.»
«Ma come? Con tutte le ore trascorse con madam, possibile che tu non abbia imparato nulla?»
«Io... io... ho dimenticato!» sbottò Anna. «Tutte quelle regole. Ho in testa una gran confusione!» Lasciò lo sgabello, proprio mentre Lily le porgeva i guanti. Anna li indossò, a forza di strattoni: erano lunghi fin oltre il gomito. Poi, ricevette il ventaglio, da allacciare al polso destro, e la borsetta a sacca, piena di frange. «Magari posso ancora dire di non sentirmi bene...» borbottò.
Lily non sembrava volerle dare ulteriore spago. «Non ricordo se ho messo un fazzoletto nella borsetta.» E si mosse verso la cassettiera.
Ma Anna, aperta la borsetta, la rassicurò. «Lo hai fatto: eccolo.» Serrò le labbra e aggrottò la fronte. Tirando fuori il fazzoletto, aveva notato un dettaglio: «Questo non è uno dei miei.»
«Oh! Devo aver fatto confusione rimettendo in ordine la biancheria.»
«Chi è ‘M.’?»
Lily fissò Anna, senza capire.
Anna le mostrò il fazzoletto: su un angolo, c’era un’iniziale ricamata. La lettera M.
Lily batté le palpebre e poi, lentamente, corrugò la bella fronte.
«Non saprei...»
«La signora Blackwell, forse?»
«No. Ho sentito Bert chiamarla per nome. Si chiama Sophia.» Lily prese il fazzoletto dalle mani di Anna. «Oh, be’...» E lo sostituì con uno preso dal primo scomparto della cassettiera.
Un colpo secco risuonò contro la porta della camera, che si aprì senza che Anna avesse pronunciato il permesso. La zia Woodhams entrò, imperiosa, avvolta nel velluto nero, dai riflessi bluastri, di un abito dal lungo strascico. Grossi orecchini ― due gocce di onice ― ondeggiavano ai lati del suo viso, mentre avanzava verso la nipote.
Lily, indegna di attenzione, dovette farsi alla svelta di lato per evitare di venir travolta dalla padrona.
La signora Woodhams esaminò Anna, facendo scorrere due volte lo sguardo da capo a piedi, e a ritroso, come ad accertarsi che non una singola piega del vestito cadesse nel modo errato. Poi, alzò una mano e serrò il mento di Anna tra indice e pollice. La obbligò a voltare il capo, prima da un lato e poi dall’altro, mentre le palpebre si stringevano sulle iridi scure e indagatrici. Era la prima volta che la zia toccava Anna ― e Anna ne ricavò la sensazione di essere una capra al mercato.
«Bene. Non sei impresentabile» decretò la signora. «Andiamo. È tardi. La carrozza è pronta.»
Uscì. E Anna si affrettò a seguirla, mentre Lily chiudeva la breve processione.
«Ricordati» iniziò la zia Woodhams, mentre scendeva la scala a chiocciola. «Parla poco ed educatamente. Non fare domande invadenti e non dare risposte sconvenienti. Se sei in dubbio su cosa dire, taci e sorridi. A labbra chiuse. E mi raccomando: non stringere la mano, non rivolgere la parola a chi non ti è ancora stato presentato ― aspetta sempre che io o tuo zio, o i padroni di casa, ti introducano ― e, sopratutto, non fare smorfie.»
Anna non stava ascoltando. Era troppo occupata a scongiurare di pestare lo strascico della zia.
Sul portico, attendeva Bert: aperto l'ombrello, l’uomo scortò prima la padrona fino alla vettura. Poi, tornò indietro per Anna. Salendo in carrozza, con una certa sorpresa, lei scoprì che lo zio non era ancora lì.
Lo attesero, mentre l’acqua batteva sul tettuccio della carrozza: era un rumore assordante, come una pioggia di sassi. E continuarono ad attendere. Ma dello zio Woodhams nessuna traccia.
Spazientita, la signora Woodhams bussò contro la parete, per chiamare Bert.
«Dov’è il signor Woodhams?» chiese, al vecchio cocchiere, il cui cappello e pastrano grondavano penosamente acqua.
«Non lo so, madam» ammise Bert, con la sua fiacca e tremula voce. «Dev’essere ancora in casa.»
«Va a chiamarlo. Subito.»
Bert obbedì. Tornò in capo a una manciata di secondi: il signor Woodhams era con lui.
Lo zio salì in carrozza e prese posto accanto alla nipote: era elegantissimo, con i guanti bianchi e il suo miglior bastone da passeggio; il viso rasato, le candide basette pettinate e gli aleggiava attorno un buon odore di colonia.
«Dove eravate?» lo interrogò la moglie.
«Chiedo perdono. Mi sono attardato più del dovuto nello studio.»
«Arrivereste tardi anche al vostro funerale, marito mio.»
Il signor Woodhams sorrise e colpì il tettuccio della carrozza con il bastone. Si udì uno schiocco di frusta e, con un debole scossone, la carrozza iniziò a muoversi.










➽ Note autrice.
Siamo ormai (quasi) a metà di questa (dis)avventura vittoriana e io ringrazio, oltre ai lettori che mi stanno ancora seguendo, anche i recensori del capitolo precedente. Risponderò il prima possibile!
Per finire, vi anticipo che la prossima settimana - probabilmente, non sono ancora sicura al cento per cento - pubblicherò due capitoli. Avremo a che fare che un evento di quelli grossi e non voglio farvi soffrire troppo l’attesa.

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** Ellsworth House ***


10




X. Ellsworth House





King Street, lontana dagli effluvi del Medway, dai fumi dei fabbricati e del chiasso di chi, per vivere, era costretto a insozzarsi le mani, si trovava in una zona della città considerata vanto e desiderio di ogni famiglia dabbene.
Anna aveva avuto un primo contatto con l’elegante quartiere ai tempi di Seaver, poiché Gabriel’s Hill precedeva King Street di due traverse, e adesso guardava la strada, ampia e battuta dalla pioggia, oltre il vetro rigato della carrozza. Le villette si susseguivano, nel giallo chiarore dei lampioni, abbracciate dall’ombra di parchi e giardini alberati.
La carrozza si arrestò davanti a una casa a tre piani. La facciata di mattoni rossi era coperta dall’edera, gli infissi e cornicioni erano bianchi e un terrazzino incoronava lo stretto portico, sorretto da quattro compatte colonne; al pian terreno, al di là delle tre vetrate di una maestosa finestra a bovindo, si agitava una danza di sagome nebulose: Ellsworth House era viva, e affollata.
La carrozza percorse il diritto e levigato viale che conduceva al portico. Lo zio Woodhams, munito di ombrello, condusse a braccetto la moglie al riparo del portico. E Anna li seguì, arrangiandosi da sé. La sveltezza con la quale la porta venne spalancata le sottrasse la possibilità di osservare il giardino: sulla soglia c’era un uomo, con una livrea blu, i capelli grigi e il volto cavallino.
«Buonasera, Ledford!» salutò lo zio Woodhams, con entusiasmo bonario.
Il maggiordomo, mentre si spostava per farli entrare, rispose con un rigido inchino e una frase di benvenuto pronunciata con voce stentorea. Una cameriera era già lì; e si adoperò per raccogliere i soprabiti.
Anna, intanto, era mezza accecata dalla luminosità dell’ingresso.
Dopo il viaggio nel buio della campagna, le infiocchettate lampade a gas diffondevano una luce che le sembrava sul punto di dare fuoco al vivido color crema della tappezzeria. E bruciava, contro l’oro delle massicce cornici: una processione di quadri saliva lungo la parete, costeggiando la scala, ripida e lucida, del colore delle castagne mature. Sul fondo del ingresso, stava una porta doppia, chiusa; la porta sulla destra, invece, era socchiusa: dallo spiraglio fluiva un allegro cicaleccio e sporadici scoppi di risa.
Anna continuava a osservare la scala. L’attrasse, per prima, la statua acquattata sulla colonnina in fondo alla balaustra: sedeva come un gatto, e di un felino aveva effettivamente il corpo, ma la testa era umana, femminile, e due ali da rapace erano ripiegate sulla schiena. A calamitare, poi, di prepotenza l’attenzione di Anna fu il primo quadro ai piedi della scala. Era un ritratto a mezza figura: un gentiluomo seduto di traverso su di una sedia; un braccio appoggiato sopra il basso schienale intagliato; alle spalle, una parete scura e i drappeggi scarlatti di una tenda. Anna tentò di indovinarne l’età: quaranta anni, forse. Non più di cinquanta, di certo. Era bello ― lineamenti regolari, capelli nerissimi, ricci e folti; un naso lungo e aquilino ― ma la fronte contratta, le labbra rosa, sottili come una ferita, e gli alteri occhi azzurri ispiravano antipatia più che ammirazione. Il taglio degli occhi, però, le era familiare. Molto familiare.
La voce della signora Woodhams, ridotta a un sibilo di vibrante rimprovero, interruppe le riflessioni.
«Anna!»
Gli zii si stavano spostando verso la porta socchiusa, Anna li raggiunse e Ledford fece scorrere i battenti.
Eccole, le sagome dietro le tende: sebbene nella stanza fossero radunate non più di una quindicina di persone, ad Anna parve una folla spaventosa, immersa nella medesima sfrigolante luce dell’ingresso. E nel caldo. Il caldo del camino, delle lampade, delle carni seppellite sotto le gonne pesanti, le strette cravatte, le camicie inamidate. Il chiacchiericcio si affievolì ma non si interruppe; e tutti volsero gli occhi agli ospiti appena entrati. Al che, Anna avrebbe giurato che il corsetto stesse cercando di farle vomitare entrambi i polmoni.
Venne loro incontro una donna dai capelli rossi, di bell’aspetto, vestita di bianco dalla punta dei guanti a quella degli stivaletti. Era Augusta Hall: padrona di Ellsworth House, non più nel fiore della giovinezza ma lungi dal dirsi vecchia. Si lasciò baciare la mano dal signor Woodhams e stringere gli avambracci dalla signora Woodhams. Sorrideva; e Anna non poté far a meno di notare che i sorrisi calorosi poco sembravano adatti alla compita bellezza di Augusta Hall.
Lo zio Woodhams si voltò verso di lei, rimasta prudentemente alle sue spalle, ne cercò la mano e la presentò.
«È un vero piacere incontrarvi di persona» asserì Augusta.
Anna si barricò dietro un sorriso serrato. Chinò il capo e fletté le ginocchia. «Il piacere è mio, signora Hall. Vi sono molto riconoscente per l’invito» recitò, meccanicamente. Era sotto esame: poteva sentire lo sguardo della zia Woodhams su di sé, gradevole come una lama che scortica la pelle viva.
La signora Hall sciorinò un altro sorriso e, da quell’istante in avanti, parve escludere Anna dalla sua considerazione, prendendo a discorrere con i Woodhams: espresse rammarico per il brutto tempo e interesse per le condizioni del viaggio.
Anna, a testa bassa, con gran piacere si lasciò rapire dalla contemplazione delle cuciture dei guanti. Non poteva, però, impedirsi di tendere l’udito, nel tentativo di strappare voci conosciute e frasi di senso compiuto al chiacchiericcio generale.
E mentre la signora Woodhams assicurava che il tragitto in carrozza, a dispetto della pioggia copiosa, non aveva subito intoppi, si avvicinò loro un uomo. Il suo aspetto colpì Anna: somigliava in modo impressionante al ritratto nell’ingresso. Eppure ― era palese ― non poteva trattarsi della stessa persona: era più giovane almeno di una decina d’anni. Un secondo scambio di convenevoli, rivelò ad Anna che egli altri non era se non Clifford Hall ― il quale mostrò per lei un interesse pari a quello sfoggiato dalla moglie. Dopo le frasi di rito, concluse con l’augurio che la signorina Hawkins fosse in ottima salute, iniziò a parlare con il signor Woodhams. Gli interessava sapere se il viaggio a Londra era stato fruttuoso, in relazione ai nuovi contratti d’esportazione. «Me ne accennava poco fa il signor Arden» informò: aveva una robusta voce di petto, che si accordava a una figura atletica, dalle spalle larghe e il portamento eretto.
Anna seguì il movimento del capo del signor Hall: accanto alla finestra, spiccava per altezza lo zelante Mordecai Arden, intento a conversare con un altro ospite.
In quel momento, Ada Hall sorprese il gruppetto alle spalle. Vestiva anche lei di bianco; e portava perle al collo e alle orecchie. Salutò i Woodhams, salutò Anna e poi disse: «Ho il permesso di rapire vostra nipote, signori? Vorrei presentarla ai nostri ospiti.»
«Naturalmente» rispose lo zio Woodhams. «Ma non sciuparla: mi raccomando. È pur sempre la mia unica nipote.»
La signora Woodhams parve schiava della necessità di schiacciare le labbra, fino a far quasi perdere loro colore, mentre lo zio Woodhams stringeva affettuosamente la mano di Anna, come se gli costasse una reale fatica separarsi dalla nipote.
Anna venne affidata alla signorina Hall e i Woodhams si divisero: lo zio, seguito da Clifford, portò la conversazione al signor Arden; la zia venne accompagnata da Augusta sul bel canapè color cipria, già occupato dall’unica altra donna abbigliata di scuro del parlour, e che doveva avere all’incirca la stessa età della signora Woodhams.
Per Anna fu un valzer di inchini e sorrisi, prodigati e ricevuti, davanti a volti maschili e femminili, giovani, meno giovani e anziani, tutti inequivocabilmente inglesi. Una cascata di nomi le riempì le orecchie: colonnello Cross, dottor Easton, signor Ellis, scapolo fresco di Cambridge, fratello minore di James Ellis, il quale era ufficialmente fidanzato con la signorina Margareth Honeycutt, nipote – quest’ultima – della Lady Barnes con la quale la signora Woodhams era in fitta conversazione. C’erano, poi, le figlie minori di Lady Barnes: due bionde colombelle, dal profilo alla francese, di nome Gladys e Ruth. Infine, una Lisa Lawson, amica d’infanzia di Ada, non bella come le Barnes, ma dagli occhi castani luminosi e intelligenti.
Di William Hall nemmeno l’ombra.
E Anna si guardò bene dal chiedere ad Ada perché il fratello avesse rinunciato alla cena.
‘Poco male’ ragionò, mentre si aggrappava ai precetti della zia Woodhams: sorrideva molto più di quanto parlasse, rispondeva solamente alle domande dirette con frasi tanto cortesi da sfiorare l’impersonale. In cuor suo, sentiva di star recitando la parte di una bambolina inebetita: una parte che le andava ancor più stretta del corsetto. Si rallegrò soltanto di un particolare: nessuno pronunciò il minimo accenno a suo padre, a sua madre, o alla Nova Scotia. Anna accarezzò la speranza che i padroni di Ellsworth House non avessero fatto circolare troppe informazioni. Forse, per una volta, avrebbe potuto godere del privilegio di venir ignorata ma non additata, né apertamente, né alle spalle. ‘Oppure’ pensò ‘nessuno osa dire nulla, qui e ora, perché i miei zii sono presenti.’
Ledford venne a sussurrare qualcosa ad Ada, in merito al menù, e lei dovette allontanarsi, lasciando Anna in compagnia di Margareth Honeycutt, che aveva già trovato una paziente ascoltatrice in Lisa Lawson. Portava avanti un semi-monologo sul proprio desiderio di tornare a Parigi, fosse stato solo per poter assistere una terza volta all’allestimento de Les Deux Orphelines. «Per apprezzare davvero una pièce» asserì, col piglio dell’esperta, «si deve necessariamente vedere e ascoltare l’opera nella lingua in cui è stata pensata dall’autore. Trovo inutile e ignorante sostenere il contrario.»
E aggiunse dell’altro che Anna non udì.
Aveva appena visto William Hall entrare nella stanza: lo scrittore era in compagnia di un giovanotto biondo. Parlavano.
Ma Anna  non badò allo sconosciuto. Lei fissava William. Ne fissava il profilo, osservando il modo in cui le palpebre calavano sugli occhi chiari, animati da un’attenzione presente ma distaccata. Era impaziente di scoprire come lo scrittore avrebbe guardato verso la zia Woodhams. O verso di lei.
«Miss Hawkins?»
Margareth Honeycutt la chiamava.
Anna la fissò. Capì che le era stata rivolta una domanda. E non aveva idea di quale fosse l’argomento.
«Mi chiedevo» ripeté la signorina Honeycutt, «com’è la scena teatrale, in Canada?»
«Non saprei. Io non sono mai stata in un teatro.»
Un misto di sorpresa e contenuta ilarità si accomodò sul sorriso della signorina Honeycutt. «Che gran peccato» disse. Ma sembrava voler intendere: ‘che gran rozzezza!’
Si udì un rumore simile a un soffio cupo e sordo.
Era stata aperta una porta scorrevole.
Ledford si fece avanti.
«Signore, signori – la cena è servita.»
Ci fu un movimento generale: chi era seduto si levò in piedi e, come fosse stata la cosa più naturale del mondo, in un attimo ogni donna fu al braccio di un gentiluomo. La signora Hall, accompagnata del signor Arden, guidò il corteo, seguita dal marito, che scortava Lady Barnes. Ada era con lo zio Woodhams e la signora Woodhams in compagnia del colonnello Cross.
Anna, intenta a fissare la parata, rimase nelle retrovie, felicemente dimenticata e libera di riprendere fiato.
La libertà durò poco.
Stava sistemando il laccio del ventaglio attorno al polso, quando William comparve al suo fianco e Anna a stento trattenne un sussulto, sopprimendo la sorpresa in un battito di ciglia.
Lo scrittore le porse il palmo, coperto dal guanto bianco. Nell’innalzarsi di un sopracciglio, e nel debole sorriso, si leggeva la preghiera di accettarlo come accompagnatore.
Riluttante, Anna affidò le dita alla mano di William. E in silenzio si spostarono nell’adiacente sala da pranzo. Là, per via dei pannelli di legno alle pareti, regnava una luce più soffusa. Sulla tovaglia di damasco, tripudio di pizzi bianchi, c’erano candelabri a tre braccia e coppe di vetro colorato, traboccanti felci e rose, bianche e gialle.
William condusse Anna al posto a lei riservato: l'ultimo, sul fondo della tavola. Lo scrittore spostò la sedia, lei ringraziò con un cenno del capo e lui subito si allontanò. Anna lo vide prendere posto accanto alla zia Woodhams sul lato, e sull’angolo, opposto del tavolo.
A capotavola c'era Clifford, con Augusta alla sua destra e Lady Barnes alla sua sinistra. Su entrambi i lati, signore e gentiluomini si alternavano; e accanto ad Anna finì l’uomo che aveva visto parlare con William. Il giovane, destinato a restare il suo unico interlocutore, considerata la disposizione dei posti, mise da parte la cerimoniosità e si presentò da sé: George Merrik, giornalista per il Maidstone Journal and Kentish Advertiser.
Ora che si stava degnando di prestargli attenzione, Anna notò che si trattava di un uomo attraente: una sorta di Apollo, con i capelli da cherubino e labbra da far invidia a una ragazza. Si mostrò prodigo di sorrisi e complimenti: «Non giudicatemi sfrontato, ma devo confessarvelo: voi rassomigliate in modo straordinario a certe bellezze che prima d’oggi ho ammirato solo nei quadri di quei pittori che si sono avventurati in Oriente. Siete come una incantevole odalisca turc–»
«Grazie tante. Ma io non sono turca. Men che meno un’odalisca» disse Anna. ‘E non sono nemmeno la fantasia lasciva di un pittore.’ C’era un che di mellifluo, nell’atteggiamento di Merrick, che la infastidiva come l’avrebbe infastidita sentirsi bussare continuamente sul braccio. Per di più, quando gli disse di essere arrivata «dalle Americhe», Merrik non le diede tempo di specificare e si gettò in una forbita narrazione dei suoi viaggi negli Stati Uniti. Più lui parlava, più Anna si chiedeva se fosse prolisso nella scrittura quanto nella conversazione. Tra la prima portata – zuppa di pesce – e la seconda – arrosto di carne contornato da patate e verdure – Merrik tenne strette le redine della conversazione, tant’è che Anna rinunciò a interromperlo. Un’odalisca muta come una mummia, tuttavia, non poteva tenere viva la fiamma di Merrik, che pian piano riversò attenzione, e annessi complimenti, all’altra sua commensale: Gladys Barnes.
Con gran sollievo di Anna.
Lei studiava gli intarsi floreali delle posate, sorseggiava a più riprese il Madeira dal calice di cristallo e, tra il tintinnio delle forchette, prestava orecchi agli argomenti che animavano la cena. Udì pettegolezzi, mascherati da educati vaniloqui, che avevano per soggetto gente a lei sconosciuta. Forse, si parlava dei Lord della Camera. Forse, dei vicini di casa. Qualcuno tirò in ballo il tempo e qualcun altro le condizioni delle strade. Non mancò la politica: Disraeli e i conservatori, Sua Maestà e «i terribili irlandesi sempre sul piede della rivolta.»
Ma Anna non riusciva a resistere: la maggior parte dei suoi sguardi, pur rapidissimi e di sottecchi, finiva in direzione della zia Woodhams e di William. Li colse spesso a discorrere tra di loro, a voce contenuta; il che le impedì di capire di cosa parlassero. Ma il loro atteggiamento era irreprensibile. Non uno sguardo, non un gesto, non uno sfioramento in grado di suscitare alcun sospetto.
Intanto, le portate continuavano, interrotte dalla pausa del ghiaccio al limone, fin quando vennero portate un numero spropositato di gelatine alla frutta e un pudding freddo alle mele. Fu allora che Anna iniziò a intravedere il miraggio di abbandonare la sedia. Era piena come un uovo, le doleva il fianco destro e temeva di aver esagerato con il vino, perché anche la testa le faceva male: il cranio prudeva e pizzicava sulla nuca e al centro della fronte.
Dopo quel che le parve un tempo infinito, la cena venne ufficialmente dichiarata conclusa.
Per permettere agli uomini di fumare liberamente e bere cognac, le signore si spostarono in salotto: la stanza in fondo all’ingresso. Il salotto era più arioso del parlour e, nonostante il fuoco acceso, si percepiva un filo di umida frescura.
Per Anna, fu un sollievo. Andò accanto alla finestra, sperando in qualche spiffero, mentre agitava il ventaglio. Teneva una mano pressata sul fianco indolenzito e respirava affondo e lentamente. Nessuno, nemmeno Ada, si interessava a lei.
La signora Woodhams e lady Barnes si erano accomodate sul divano, vicino al camino; le altre si radunavano attorno al pianoforte verticale. Margareth Honeycutt, sollecitata dalle compagne, sedette sullo sgabello imbottito. Le dita sottili saltavano sui tasti bianchi e neri, intessendo una melodia lenta, dolce, simile a una ninnananna. La musica si fuse alla pioggia, che picchiettava contro i vetri e gorgogliava giù per le grondaie. Poi, Margareth iniziò a cantare, sfoggiando una voce piena e intonata, da cantante di operetta.
Anna, sventolando pigramente il ventaglio sotto al mento, in parte ascoltava – la canzone era una supplica a un taglialegna: doveva risparmiare un albero tanto caro al cuore dell’autore – e in parte fantasticava sul momento in cui si sarebbe slacciata il corsetto. Per caso, udì lady Barnes domandare sottovoce alla zia Woodhams se avesse risolto un certo «problema della servitù.» La zia disse che, al momento, riusciva a gestire Bon Fleur Place anche con la servitù ridotta. Anna pensò a Lily: sola, a sgobbare nella buia villa, in compagnia dei due vecchi Blackwell. Inspirò ed espirò. Non vedeva l’ora di tornare da lei. Il commento di lady Barnes – qualcosa in merito alle fatiche di mantenere buona la nomea di una casa – si smarrì sotto l’applauso, breve e spontaneo, che accolse le ultime note di Woodman spare that tree.
Le signorine Barnes suggerirono di continuare con un brano vivace, e dopo aver ronzato qualche minuto attorno agli spartiti, annunciarono che la signorina Honeycutt avrebbe eseguito il Fairy Wedding Waltz. Il valzer fu una tentazione troppo forte per le due sorelle: l’una come cavaliere dell’altra, si misero a danzare, saltellando e volteggiando con allegria infantile in su e in giù per il salotto. Erano appena crollate su una poltroncina, rosse per il movimento e le risate, quando  Merrik, William e i due Ellis entrarono in salotto.
Merrik disse che era una gran sgarberia, da parte delle «belle signore» iniziare a divertirsi senza di loro. La frase rianimò le Barnes. Gladys, in particolare. Merrik le domandò se fosse disposta a concedere ai presenti l’onore di sentirla suonare il pianoforte; in tal caso, lui l’avrebbe «umilmente» accompagnata con il canto. E Gladys Barnes, con un sorrisino e un imporporamento delle gote, si dichiarò onorata. Margareth Honeycutt abbandonò il sedile, senza troppo gaio – notò Anna, che si era avvicinata al pianoforte – e la coppietta prese possesso dello strumento e degli spartito. Si consultarono; e scelsero Come into the garden, Maud.
Gladys suonava, Merrick cantava.
E Anna nascose un poderoso sbadiglio dietro il ventaglio, guardandosi attorno.
L’unica persona a tenersi a distanza dal pianoforte era William: alla finestra, controllava l’orologio, tirato fuori dal taschino, e teneva l’altra mano sulla tenda, come se l’avesse appena scostata per guardar fuori.
Anna chiuse il ventaglio. Marciò verso William e lo affiancò, con la precisa intenzione di risultare molesta. Mal di capo, Madeira e una sorta di languida sonnolenza anestetizzarono la già gracile maschera da educanda.
«Non vedete l’ora che la serata finisca?»
William ripose l’orologio nel taschino e si voltò, prontamente munito di sorriso.
«No. Affatto.»
«Eppure, siete annoiato» sussurrò Anna.
«No davvero» disse lo scrittore, con piatta gentilezza, adeguando il tono a quello di lei.
«Sì, invece. Avete la faccia di uno che sta crepando di noia.»
William sospirò. «Ebbene: sia come desiderate voi.»
«Non fate l'accondiscendente con me» soffiò Anna, battendo il ventaglio sul gomito dello scrittore. «Siete il genere di uomo che sopporta al massimo una riunione di tre persone: è chiaro come il sole.»
«Avete capacità di deduzione rimarchevoli. Potete illuminarmi su altri aspetti del mio carattere?» La calma di William rimase intatta, ma il sorriso e la gentilezza si raffreddarono; guardava verso il pianoforte, come se dividesse la propria attenzione tra Anna e la musica; le mani dietro la schiena e il mento diritto.
«Vi piace soffrire.»
«Ah. E che cosa ho fatto per meritarmi questa accusa?»
«Non ho altre parole per descrivere qualcuno che desidera spendere di proposito del tempo in compagnia di mia zia. A parte mio zio, ma lui è intrappolato dal matrimonio. Non può evitarlo.»
Anna sorprese William a far guizzare gli occhi verso il divanetto: la signora Woodham e lady Barnes ascoltavano l’esecuzione al pianoforte.
«Mi rincresce che abbiate poca stima di vostra zia» mormorò lo scrittore.
«Forse siete voi che la stimate troppo.»
William parve irrigidire la mascella. Anna lo vide stringere i denti. E se ne rallegrò, in modo sottile, quasi sadico.
«Ho letto il vostro racconto.»
William portò lo sguardo su di lei, voltando il capo il minimo indispensabile.
«Come lo giudicate?»
«Non so un bel niente di letteratura. Non pretendo di giudicare nessuno.»
«Un’opinione personale, allora.»
«Be’– più leggevo e più avevo voglia di leggere. Quindi, suppongo sia una buona storia. Fa quello che dovrebbe fare un racconto: intrattenere. Ma l'eroina, Annalee, non mi piace.»
Lo sguardo di William si tinse di interesse genuino, seppur trattenuto.
«Posso saperne la ragione?»
«Tre volte le appare lo spettro del Cavaliere. E tutte e tre le volte, lei sviene. La prima volta è comprensibile. Ma ancora – e ancora? Sembra che perda i sensi solo per lasciare la scena al vostro Alistair.»
«Io posso soltanto affermare di aver tentato del mio meglio, per rendere i personaggi realistici.»
«Non lo metto in dubbio. Ma perché Annalee deve sempre svenire? Non penserete mica che, nella realtà, l'unica reazione di una donna, davanti al pericolo, sia stramazzare a terra? – Dite un po’: quante donne reduci da un incontro con un fantasma avete conosciuto, in vita vostra?»
«Nessuna, miss Hawkins. I fantasmi non esistono.»
«Allora, cambio la domanda: quante donne reduci da un incontro pericoloso avete conosciuto, in vita vostra, da rendervi sicuro della reazione più probabile e realistica?»
«Temo che la mia risposta non cambi.»
«Per gran fortuna delle donne nella vostra cerchia di conoscenze.»
William si voltò interamente verso Anna. «Vedo che affrontate l’argomento senza timori» disse, a voce bassissima. «La mia domanda non vi scandalizzerà. Aiutate uno scrittore a infoltire la propria conoscenza delle nature umane: come reagireste voi, se vi trovaste tormentata da – non so – un Ambrosio?»
«E chi è Ambrosio?»
«Un monaco lussurioso. Perfido. Depravato. Disposto a vendere l'anima al diavolo, pur di strappare via la virtù della giovinetta di cui è ossessionato.»
«Dipende dalle pallottole.»
«Pallottole?»
«Sì. Se Ambrosio è resistente o meno alla pallottole, dopo aver venduto l'anima al diavolo. Da noi, all’Ovest, abbiamo scoperto che un proiettile ficcato nel posto giusto risolve una straordinaria varietà di problemi.»
William sorrideva, ma non abbastanza da nascondere un germoglio di fastidio. «A sentir voi, non c’è nulla in grado di farvi paura. Non sarete come quei bambini che, per orgoglio, giurano di non aver paura dell'uomo nero?»
«Signor Hall, ho imparato che è dell’uomo bianco che c’è da aver paura.»
William non poté rispondere solo perché in quel momento Merrik tacque e Gladys tolse le mani dai tasti del pianoforte; mentre con perfetto tempismo, due cameriere entravano nel salone con i vassoi del caffè, seguite a ruota dagli altri uomini. Si formò un campanello attorno al camino.
William tardava a spostarsi, perché attendeva che fosse Anna a muoversi per prima. Ma Anna non era intenzionata ad avvicinarsi, priva del coraggio di infilare anche il caffè giù per lo stomaco. Piuttosto, guardando la porta spalancata, chiese: «Dov'è mio zio?»
Il signor Woodhams non era nel salotto.
«Si starà intrattenendo a parlare con Ledford» rassicurò William. «Lo fa sempre.»
Anna attraversò la stanza. Uscì sull’ingresso. Era vuoto.
In quanto a William, dopo un istante di tentennamento, come per valutare se fosse opportuno seguire la signorina Hawkins, comparve alle spalle di Anna. Ma proprio mentre lui raggiungeva la porta, lo sguardo dello scrittore aveva incrociato quello della signora Woodhams: la donna aveva sorvegliato la nipote molto più di quanto Anna stessa sospettasse. Adesso, con l’occhiata rivolta al giovane Hall sembrava imporre un muto e inflessibile ordine.
«Non mi sorprenderei se il signor Woodhams fosse nel quadrato dei domestici» disse William ad Anna. «Lasciate che chiami una delle cameriere. Voi tornate pure nel salone.» Allungò una mano. Stava per toccare il gomito di Anna, ma lei, ignara, si sottrasse alla presa e si spostò verso la balaustra.
William la seguì.
«Quello è vostro padre, vero?»
Anna indicò il grande ritratto a mezza figura.
«Sì, esatto.»
«Come mai troneggia qui, nell'ingresso? Ha costruito lui la casa?»
«A dir la verità no. Ellsworth House è stata acquistata per mio fratello, poco prima del matrimonio con Augusta. La casa di mio padre, la casa della nostra infanzia, è quella che avete visto sulla collina, non lontano da Bon Fleur Place. — Miss Hawkins, per favore.»
Anna si voltò, abbassando di scatto lo sguardo.
William le stava sfiorando un avambraccio. Le lunghe dita scivolarono verso il gomito, accarezzando il guanto.
Anna dovette resistere all'impulso di tirar via la mano.
Voleva che la lasciasse. Eppure, allo stesso tempo, inconcepibilmente, voleva che continuasse.
William accorciò le distanze di un passo. Guardava Anna come l’aveva guardata sulla strada per East Farleigh. E, come quel pomeriggio, Anna sostenne lo sguardo ceruleo. Ma non si chiese il perché del respiro corto e della testa leggera. Disse soltanto, con durezza: «Cosa c'è?» La disgustava immaginarlo nelle vesti di amante della vecchia zia Woodhams. La irritava che lui fosse anche solo complice o confidente.  Ancor meno trovava sopportabile la seta che separava la sua pelle dalla mano dell’uomo. Avrebbe voluto colpirlo e obbligarlo a dire la verità: sulla nursery, sulla zia Woodhams, sulla fontana. E avrebbe voluto baciarlo, con ferocia, con meno pietà di un lupo che squarcia la gola della preda.
Willliam schiuse le labbra. «Dovete concedermi la possibilità di parlarvi, in modo aperto e onesto.»
«Riguardo a cosa?»
«Riguardo a quel che è—»
Un’esplosione riecheggiò nella casa.











➽ Note.
È stata una settimana piena, ma ce l’ho fatta ad essere puntuale con il capitolo del venerdì. Avevo promesso un doppio aggiornamento: domani pubblicherò il capitolo undicesimo. Di nuovo grazie di cuore a chi legge e a chi commenta! Prometto che a questo giro riuscirò a rispondere alle vostre gentilissime recensioni.
Le tre canzoni nominate nel capitolo (Woodman spare that tree, Fairy wedding waltz e Come into the garden, Maud) sono delle cosiddette parlour songs: un tipo di musica popolare che, come suggerisce il nome, era eseguito nei salotti delle case della classe media, da cantanti e pianisti dilettanti. Il monaco Ambrosio di cui parla William, invece, è un personaggio del romanzo gotico Il Monaco, scritto da Matthew Gregory Lewis alla fine del Settecento.

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** La morte nello specchio ***


11




XI. La morte nello specchio





Anna avrebbe riconosciuto un colpo d’arma da fuoco anche in mezzo a una tempesta.  Tirò via la mano, raccolse malamente la gonna e corse su per i ripidi scalini, incurante di William, che prima la pregò di fermarsi, poi si vide costretto a tenerle dietro. In cima alla prima rampa di scale, era quasi buio; l’unica lampada accesa, tuttavia, rivelò la presenza di una persona, nel corridoio. Era una cameriera: si torceva le mani, davanti a una porta chiusa. Trasalì, accorgendosi della presenza di uno dei padroni.
«Susan, che cosa fai qui?» domandò William, avvicinandosi alla domestica.
Anna lo seguì.
«Ero a metà della scala di servizio, quando ho sentito quel gran botto, signore. Così sono corsa su, ma non ho trovato nessuno. Solo... ecco...» Indicò la maniglia. «Vedete: lo studio è chiuso a chiave.»
William corrugò la fronte, ma non si scompose. Fronteggiò la porta e testò la veridicità delle parole della cameriera: strinse la maniglia, provò a ruotarla; scuotette e strattonò.
Ma la porta era davvero chiusa.
«Va a prendere una copia delle chiavi, per favore.»
La cameriera obbedì, sfilando in fretta, e a testa bassa, accanto ad Anna.
«Ma non sentite questo odore?» disse lei, impaziente, a William. «È polvere da sparo. Avete armi, in casa?»
«Armi? No... assolutamente.»
«William! Che cosa sta succedendo? Cos'era quel rumore?»
Clifford aveva appena fatto irruzione nel corridoio, seguito dalla fazione maschile dei suoi invitati. In un attimo, il corridoio si riempì e Anna si ritrovò vicino alle scale, allontanata con galante prepotenza dalla porta. Sentendo borbottare di tubi del gas scoppiati, inspirò, strinse il ventaglio e morse un labbro. Si accorse che lo zio Woodhams non era salito. Ma udiva distintamente l’agitato vociare di voci femminili, levarsi dall’ingresso, e immaginò che fosse rimasto con le signore.
Passi frettolosi, su per le scale, annunciarono l’arrivo di Augusta Hall. Ledford e la cameriera di poco prima la seguivano. Tra le mani inguantate della signora Hall tintinnava un mazzo di chiavi. Gli uomini le cedettero il passo, lei raggiunse il marito e a lui affidò a lui le chiavi.
Anna udì lo scatto della serratura.
Poi, silenzio.
La porta era stata aperta, ma il muro di gentiluomini non permetteva ad Anna di vedere lo studio, per quanto si sforzasse di allungare il collo. Nessuno parlava. Nessuno si muoveva. Infine, un lieve scricchiolio: qualcuno, forse Clifford, doveva essere entrato nella stanza.
Una voce femminile urlò. Fu un grido a pieni polmoni, di strazio, di orrore, da far gelare il sangue. Un crescendo di mormorii agitati riempì il corridoio, e un coro di allarmati «Che succede?» giunse dal piano inferiore. Gli uomini, ammucchiandosi sulla soglia, finirono col bloccarne l’accesso. E Anna, in preda a un sussulto di angoscia, perdette la pazienza e si fece largo fino allo studio a suon di gomitate. Raggiunse la soglia. Entrò. Fu William ad afferrarla per un gomito, nell’istintivo, quanto inutile, tentativo di risparmiarle la vista.
Non c’era luce nel piccolo studio, all’infuori del tremulo chiarore dei lampioni in strada. Là, nella penombra, Walter Woodhams giaceva supino sul pavimento, in tutta la sgraziata e cruda goffaggine della morte: il capo riverso, la bocca aperta, gli occhi spalancati; nella mano destra stringeva una rivoltella. Il sangue inzuppava il tappeto, diramandosi attorno alla testa, come una macabra aureola. Ma non c’era solo sangue in quel grumo nero tra i soffici capelli bianchi; e non era solo sangue quel che macchiava la parete alle spalle dello zio.
Anna non urlò. Né accennò a un qualsiasi movimento. Stava lì, a fissare il corpo dello zio, incosciente del dolore al petto e del bruciore agli occhi: non respirava, non batteva le palpebre, non udiva nulla. Lo scroscio della pioggia, i singhiozzi di Augusta Hall, che nascondeva il viso contro il petto del marito, le espressioni di orrore e incredulità: le vorticavano attorno ma non raggiungevano la sua coscienza.
Non vide neppure l’unica persona abbastanza coraggiosa da avanzare nello studio: Merrik aveva intravisto qualcosa, abbandonato sullo scrittoio. Era la chiave dello studio; ed era appoggiata sopra a un foglio, sul quale il giornalista lesse una frase. Una ― una soltanto.
Vivian, tua è la colpa.

*

La pioggia e l'ora tarda non trattennero un folto campanello di vicini dal radunarsi al cancello di Ellsworth House. La notizia del suicidio del ricco Walter Woodhams si era già sparsa in King Street. All'alba, l'intera Maidstone ne sarebbe stata al corrente.
Le donne della casa, domestiche comprese, avevano avuto bisogno di sali, ventagli e braccia maschili. Alcune erano ammutolite, la maggior parte era scoppiate in un pianto. Tra i gentiluomini, c’era chi aveva cercato vigore nel mobiletto dei liquori.
Ma Anna... Anna era rimasta impassibile. Non era svenuta. Non aveva pianto. Non si era disperata.
Margareth Honeycutt, con gli occhi gonfi e un fil di voce, aveva sussurrato che «quella Hawkins» doveva essere la progenie di selvaggi senz’anima se riusciva a restare di ghiaccio. Anna l’aveva udita, ma non si era presa il disturbo di smentirla. In effetti, Anna non aveva rivolto la parola a nessuno, a eccezione dell’ispettore Barnemann.
L’ispettore ― un magro quarantenne, dai capelli rossicci e i modi pragmatici imposti dal suo mestiere ―  si era presentato a Ellsworth House insieme a un sergente di polizia, Hopper, due poliziotti e un medico legale. Dopo aver esaminato lo studio, mentre nel tinello della servitù, Hooper raccoglieva le testimonianze dei domestici, in salotto l’ispettore Bernemann aveva ascoltato invitati e padroni di casa. La signora Woodhams, crollata in uno stato semi-catatonico, era stata portata in una delle camere e affidata alla sorveglianza del dottor Easton, perciò Bernemann aveva chiesto ad Anna di riconoscere la rivoltella. E Anna la riconobbe. Era il revolver LeMat che lo zio teneva nella vetrina dello studio di Bon Fleur Place.
Era innegabile dunque che si trattasse di un suicidio.
Clifford Hall, il dottor Easton e il colonnello Cross avevano raccontato che il signor Woodhams era rimasto in sala da pranzo di sua iniziativa: voleva terminare il sigaro. Tutto doveva essere accaduto nei pochi minuti successivi: mentre nel salone si suonava e si conversava, il signor Woodhams doveva essere salito al piano superiore; nessun domestico, tuttavia, dichiarò di averlo incrociato all’ingresso. Woodhams era entrato nello studio e si era chiuso a chiave. Aveva scritto un ultimo messaggio al mondo e poi, puntando la canna contro il palato, aveva premuto il grilletto.
Adesso, dietro la finestra del terrazzino, Anna guardava la carrozza nera portare via la cassa. Era sola, lassù, nel corridoio del primo piano, dove quell’unica lampada a gas continuava a sibilare. Anna era immobile: le braccia lungo i fianchi, le labbra serrate, gli occhi asciutti e lo sguardo assente. Ma il cuore non era ghiacciato, no. Era a pezzi. E doleva tanto ferocemente da soffocare la capacità di riflettere. Lo zio Woohams era morto, ma Anna non ce la faceva ad afferrare quella nuova realtà. Il pensiero le scivolava via, come fosse fumo. Persino le voci al piano di sotto somigliavano a voci di spettri irreali. Ma era poi reale il secco scalpiccio di zoccoli che portava via suo zio? Ed erano reali le persone in strada, che si agitavano sotto la pioggia, come ombre inquiete?
Ora, c’era qualcuno dietro di lei. Anna vide il riflesso nel vetro. Ma quando si fosse avvicinato non avrebbe saputo dirlo.
William, in silenzio, le venne vicino fino a fermarsi a meno di un passo.
Nessuno dei due disse nulla.
L’uomo poggiò le grandi mani pallide sulle spalle di Anna: delicatamente, senza stringere, quasi con timore.
Anna non si mosse. Guardava giù, in strada, oltre il terrazzino.
Poi, piegò le labbra in un mormorio atono: «Mi segue.»
William esitò, prima di osare una domanda.
«Di che cosa parlate, miss Hawkins? Chi vi sta seguendo?»
«La morte.» Anna avvertì la presa dello scrittore farsi impercettibilmente più pressante. E continuò: «Non importa quanto io vada lontano, continua a seguirmi. Lo farà sempre. È la maledizione della mia famiglia.»
Da William giunse un altro pesante silenzio.
Anna non seppe mai se fosse stata lei a voltarsi e a cercare l’abbraccio, o se fosse stato l’uomo a sospingerla. Fatto sta che accadde. E William la tenne contro il proprio petto, con la delicatezza di chi maneggia una statuina di cristallo. Anna scorse sé stessa, avvolta nelle braccia nere dello scrittore: fino a quel momento, non si era minimamente accorta del lungo specchio ovale, sulla parete. La sua mente sconvolta riesumò un bizzarro ricordo. Tanto tempo prima, aveva sentito  dire, da gente superstiziosa, che in una casa colpita da un lutto la prima persona a guardarsi allo specchio sarebbe stata la prossima a morire.




Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Alice Mallory ***


12




XII. Alice Mallory





La vedova Woodhams trascorse tre giorni reclusa nella propria stanza. Accudita dalla signora Blackwell, e visitata soltanto dal dottor Easton, languiva in poltrona accanto al caminetto, in veste da camera e con le trecce sciolte sul debole petto. Nessuno, tuttavia, la vide versare lacrime. Il dottore, anzi, assicurò che i nervi della signora non avevano perduto completamente vigore: lo dimostrava il fatto che, di tanto in tanto, la dolente vedova levasse la voce per informarsi sui preparativi del funerale. Era altrettanto incoraggiante lo sforzo della donna di scrivere di proprio pugno l’elenco degli invitati alla cerimonia privata. L’animo era provato ma il volere ferreo e le idee chiare: non avrebbe ammesso nessuno, all'infuori dei nomi sul foglio. 
Questo fu quanto Anna venne a sapere, riguardo alla zia, giacché lei ebbe la forza di abbandonare la camera da letto una volta soltanto: nel pomeriggio del secondo giorno.
Il defunto doveva essere vegliato.
Walter Woodhams dormiva il suo ultimo sonno nel gelido parlour, dove lampade e camino restarono spenti, mentre l’aria si impregnava dello stucchevole aroma dei gigli che circondavano il catafalco. Lo zio avrebbe abbandonato il mondo dei vivi come aveva vissuto: elegante, ma sobrio, in giacca blu e camicia bianca, guanti e panciotto di seta. Il fazzoletto, legato sotto alla mascella, nascondeva lo scempio della pistola e teneva chiuse le lebbra grigie. Ma, per Anna, la veglia si rivelò un compito insostenibile. Non resistette che un quarto d’ora. Al che, come voleva l’uso, altri adempirono al lugubre dovere, giorno e notte: Ada e Augusta, i fratelli Hall, il segretario Crofton, la moglie e le figlie del signor Arden. 
Fu proprio l’instancabile Arden a occuparsi dell’organizzazione del funerale, assicurandosi che tutto si svolgesse in modo opportuno. Bon Fleur Place venne vestita a lutto: una corona d'alloro e di nastri neri fu appesa alla porta d’ingresso, gli specchi vennero coperti, le tende tirate, le fotografie rivolte all’ingiù. Gli inviti furono spediti, puntualmente. E accordi dettagliati vennero presi con il pastore e con il becchino. Non vennero trascurati neppure gli ordini alla pasticceria, che avrebbe spedito i dolci per il rinfresco. E affinché Anna avesse il guardaroba appropriato, furono ordinati per lei un ragionevole numero di accessori e abiti già confezionati.   
La morte aveva portato un insolito andirivieni di vivi a Bon Fleur eppure, dentro e fuori, il silenzio regnava sovrano. Tutti si spostavano da una stanza all'altra senza far rumore. Se parlavano, parlavano a bassa voce. Non si udì mai il trillo di un campanello, lo scalpiccio di un cavallo o l’acuto cigolio di una porta.

*

Alle otto del mattino del ventiquattro novembre, una luce bluastra carezzava le ceramiche dello Staffordshire. Il vassoio era abbandonato sul vanity; il tè, nella tazzina, era freddo. Anna non lo aveva toccato. Se ne stava a letto, rannicchiata su un fianco; una mano otto al collo, l’altra intenta a torturare le labbra spellate a forza di pizzichi. Era ingabbiata in un abito severissimo, nero come la pece, dal colletto di lino inamidato. I capelli erano tirati in una crocchia e mettevano crudelmente in mostra la cinerea opacità della pelle bruna. Occhiaie violacee adornavano gli occhi lucidi, dall’espressione esausta e intorpidita.
Anna aveva pianto, quella mattina.
Aveva pianto a lungo, in silenzio, senza vergognarsene. Aveva pianto di dolore, di rabbia, di esasperazione.
Anna era cresciuta imparando a non rifuggire la vista dei cadaveri, fossero vittime o carnefici. Omicidi, fucilazioni, accoltellamenti, impiccagioni: la vita era fragile, violenta e spaventosa; e la morte una costante. Per tacere dell’eredità che gravava sulle spalle di sua madre. E, di conseguenza, sulle sue.
Sua madre.
Anna avevo visto prima lei, poi suo padre, esalare l’ultimo respiro e trasformarsi in un corpo vuoto e rigido. Li aveva visti rinchiusi in una bara, calati in una fossa; li aveva visti sparire sotto la terra, lasciandola sola, con il ricordo dei volti e delle voci che diventava ogni giorno più sfocato, più difficile tenersi stretto.
Ma non aveva mai visto nessuno strapparsi via la vita.
‘Perché quest’orrore? Perché?’ 
Se solo, quella sera, lei fosse andata da suo zio, invece di discorrere con William. Se solo lo avesse fermato. Se solo... 
«Anna» chiamò Lily, con estrema dolcezza, seduta sulla sponda del letto. Indossava un vestito color tabacco, fuori moda di almeno un decennio; uno scialle di lana grezza pendeva dagli avambracci. «Anna, ti prego, prendi almeno un po’ di tè. Sono quasi tre giorni che sei a digiuno. Non vorrai sentirti male, in chiesa?» Lily aveva le palpebre arrossate per le lacrime trattenute. Sul volto teso si leggeva tutto: i nervi provati, lo spirito abbattuto e la stanchezza fisica. E nonostante tutto, non era mai venuta meno ai suoi doveri di domestica. 
Anna non rispose alla supplica. 
Lily le accarezzò il braccio. 
S’udiva un cristallino ticchettio. Giungeva dallo scrittoio. Era l’orologio da taschino: il regalo dello zio Woodhams. 
«Non è giusto...» sussurrò Anna. «Lui era felice.» E la voce si incrinò, come un ramoscello che si spezza. Tacque. Nuove lacrime si affacciarono agli occhi. Infine, le parole salirono alle labbra di getto, accorate, pur pronunciate con un fil di voce. «E io ero felice. Sono venuta fin qui... perché non ne posso più. Non la posso più sopportare... la morte. E l'orrore! L’orrore continuo. Volevo soltanto qualcuno che mi volesse con sé. E lui mi ha lasciata sola. Perché mi ha lasciata sola?»
Lily, nello sforzo di non farsi contagiare dal pianto, si piegò su di lei. «Io non lo so! Non lo so... però, Anna—Anna? Ascoltami...» D’impulso, tremando per il dolore, le baciò la tempia e la guancia. «Ti prometto che io resterò con te. Avrai sempre me. Sempre.»
Anna le strinse le dita e le portò sotto al mento.
Lily appoggiò il capo sulla spalla di Anna, che guardava fissamente il pavimento. Restarono così, immobili, mano nella mano.
Quando Anna parlò di nuovo, un rigurgito di bruta onestà aveva asciugato la voce. «La odio» disse, a denti stretti. 
«Chi?»
«Mia zia.»
«Non dire così...»
«È colpa sua, se lo zio s’è ammazzato. E poi... io l'ho sentita ridere.»
«Cos—quando?» soffiò Lily, sollevandosi.
«Ieri notte. Erano le tre. L'ho sentita, in corridoio, che rideva. E non era una risata isterica, no! Era... era compiaciuta.»
«Ma ne sei sicura?»
«Sì.»
«Non potresti aver sognato?» suggerì Lily. «La signora è una donna stoica, è vero, ma... no, non lo credo possibile. Forse è stato qualcun altro. C’erano le signorine Arden e il signor Crofton, ieri notte, nel parlour.»
«Nessuno di loro sale mai al primo piano.»
«Perché la signora Woodhams avrebbe dovuto trovarsi nel corridoio, a quell'ora tarda?»
«Magari ha finito di impazzire» ribatté Anna, mettendosi seduta. «Comunque, non sarebbe la prima volta.» E raccontò dell'incontro in cucina, la notte del suo arrivo.
Lily, visibilmente perplessa e angustiata, era a corto di parole. Sembrava intenta a ragionare. Tuttavia, Anna intuì che non le credeva — non fin in fondo. Non poteva rimproverarglielo. Anche se non avevano più parlato della fontana, o di presunte spie invisibili che infestavano la villa, quell’unico episodio doveva rappresentare per Lily un motivo valido per considerare Anna una persona facilmente impressionabile. 
Eppure, Anna era sicura: lei aveva davvero udito una risata. Non era stato un sogno, né l’inganno di una mente in bilico tra sonno e veglia. La notte passata, giaceva a letto, troppo affranta per dormire. La voce della villa, fatta di scricchiolii, la circondava. Venivano dai mobili, dalle assi del soffitto, dal cuore delle pareti. E il vento respirava attraverso la bocca del caminetto spento.
Poi, d’un tratto, la risata: un verso basso, gutturale, quasi demoniaco.
Anna era scattata a sedere, con il cuore agitato e l’orecchio teso. Aveva guardato d’istinto la porta chiusa. Ma la risata già non si udiva più. E quando si era alzata, muovendosi nel buio, per socchiudere la porta e spiare in corridoio, non aveva visto nessuno.   

*

Alle undici in punto, il cielo del Kent era terso e l’aria freddissima. Due morelli agghindati di pennacchiera nera trainavano la carrozza funebre; avanzarono lenti, per le strade lastricate, sotto gli archi e oltre il Len Bridge, fino alla chiesa di Tutti i Santi, che con la sua mole austera, le grigie bifore e il campanile merlato, sembrava voler ricordare l’obbligo di una coscienza limpida a chiunque si accostasse all’ombra delle sue mura.
Sotto le navate, odorose di fumo e incenso, faceva talmente freddo che ogni parola del pastore mutava in un spettro di fiato bianco.
Anna tremò per tutta la cerimonia. Era stata relegata al rango della servitù di Bon Fleur Place e di Ellsworth House. Davanti a lei, venivano gli amici e i conoscenti di una vita; mentre l’onore della prima panca era andata agli Arden, agli Hall e, ovviamente, alla vedova. La zia Woodhams appariva come un’immobile figura in gramaglie, celata agli sguardi altri da un pesante velo nero, lungo fin quasi a sfiorare il pavimento. Da sotto il doloroso schermo, non giunsero mai gemiti o singhiozzi; e il fazzoletto di seta nera, portato spesso alla bocca, rimase perfettamente asciutto.
Non ci furono pianti d’addio neppure durante la sepoltura. Il cimitero della chiesa era un lago verde smeraldo, circondato da mura di pietra che separavano i morti dalla strada e dall’argine del Medway; lo abitavano querce e cespugli di biancospino, lapidi e croci, statue di urne coperte da drappi, di angeli e di figure incappucciate.
La lucida cassa, dalle maniglie d’argento, venne calata in una fossa accanto a un’altra tomba: su di una lastra di marmo, posta in orizzontale sul terreno, un agnellino se ne stava accoccolato in un nido di bioccoli di rosa. Sotto, l’incisione:

Our Darling
Violet Jacqueline Woodhams
March 2, 1857
Dic. 30, 1867

Adesso entrambi, padre e figlia, avrebbero riposato lì, in quel fazzoletto di terra, vegliati dallo stesso angelo ― una mano giunta al petto e l’altra levata a indicare il cielo ― comprato dalla ricchezza della famiglia Woodhams.
E tutto si concluse in silenzio, quasi con tranquillità. Nessun pianto rumoroso, nessun teatrale svenimento; soltanto qualche bisbiglio, qualche muta lacrima femminile e molti sguardi bassi.
A mezzogiorno, le carrozze fecero ritorno a Bon Fleur Place. La vedova si ritirò e gli invitati si riunirono in sala da pranzo, dove sul lungo tavolo, coperto da una tovaglia nera, attendeva il rinfresco. Lily e la signora Blackwell servirono bicchierini colmi di vino speziato caldo, per rinvigorire le membra e gli animi. Ad Anna toccò il compito di distribuire i tondi e morbidi biscotti, avvolti nella carta bianca. Con spirito da automa, li lasciava nelle mani degli invitati e ringraziava per la vicinanza in quella «tristissima ora.» Ma fu allora che comprese cosa sigillasse davvero tutte quelle bocche borghesi, cosa imponesse loro di non sostenere troppo a lungo il suo sguardo. Sotto le compite condoglianze e i modi impeccabili serpeggiava il disagio. Si vergognavano di esser lì. Il ricco e rispettabile Walter Woodhams, che per anni aveva fatto affari con loro e aveva partecipato ai loro tè e alle loro cene, era morto suicida. Un peccato agli occhi del cielo. Un’infamia agli occhi della società.
Anna appoggiò il vassoio vuoto sul tavolino: avrebbe voluto ringhiare a quel manipolo di pupazzi incravattati e smidollate bambolette di andarsene via.
«Anna, non vi sentite bene?»
Era Ada: una delle poche persone di cui Anna non poteva mettere in dubbio la sincerità del cordoglio.
«Ho solo bisogno di restare qualche momento da sola.»
«Certamente. Ritiratevi, se ne avete bisogno. Degli ospiti mi occuperò io.»
«Grazie...»
Anna si diresse alla porta. William era proprio lì accanto; ad ascoltare il fitto parlottio di un uomo dai grossi baffi arricciati all’insù. Lo sguardo malinconico dello scrittore incrociò quello lucido e rabbioso di Anna. Durò un istante. Poi, Anna uscì dalla sala e William tornò al suo interlocutore.
Dalla notte del suicidio del signor Woodhams, non erano più rimasti soli nella stessa stanza; né avevano avuto modo, o desiderio, di rivolgersi la parola.
Anna scivolò nel parlour: le sembrò essersi ingrandito, ora che parte della mobilia era stata rimossa per far spazio al catafalco. Attraversò la stanza e cercò il sostegno della mensola del caminetto: un braccio teso e l’altra mano pigiata contro il ventre. Chiuse gli occhi. Ispirò ed espirò: i gigli non c’erano più, ma il loro profumo infestava ancora la stanza.
Lentamente, Anna si lasciò scivolare in ginocchio sul pavimento; con lo sguardo incollato al cumulo di cenere, vecchia di tre giorni, la sua mente sprofondò così a fondo nell’avvilimento più totale che furono necessari lunghi, lunghissimi secondo prima che Anna riuscisse a vedere ciò che stava realmente fissando.
Dalla cenere spuntava qualcosa: era bianco e  sottile.
Per un attimo, credette fosse un pezzo di carta. Ma quando allungò una mano e lo trasse via dalla cenere capì che si trattava di una pezzetto di stoffa. E sulla stoffa era ricamata una lettera: una M.
Era il fazzoletto finito per sbaglio tra la sua biancheria.
‘Chi l’ha bruciato?’
Anna sparse la cenere con la punta dell’attizzatoio. Non trovò altri resti del fazzoletto, solo carboni, legnetti bruciacchiati e... un altro pezzetto di stoffa. Era tinto di nero ― o forse di blu, di o marrone: difficile capirlo, sporco e bruciacchiato com’era ― però era ben visibile un pollice di ricamo, realizzato con del filo rossastro. Quale fosse il soggetto del ricamo, però, non era possibile capirlo.

*

Anna accolse l’alba spalancando le tende.
In giardino, gli spogli rami degli alberi erano immobili e la nebbia, che ammantava la campagna, preannunciava l’avanzare di un’altra giornata fredda e serena.
Ma non un’altra giornata da trascorrere chiusa in quella camera.
Anna, per natura incostante negli stati d’animo come nelle idee, sentiva il bisogno di ribellarsi alla passività, giacché l’immobilità, fisica e mentale, poteva solo acuire il dolore.
Dunque, si preparò, svelta, ma con una discreta cura: indossò un altro di quei casti e accollati abiti neri, ai quali l’etichetta la condannava per i successivi sei mesi; appuntò l’orologio al petto, aprì il cofanetto e infilò l’anello alla mano destra. Ma non sprecò tempo ad acconciare i capelli, badando solo a spostare le ciocche ai lati del viso.
Quando scese al pian terreno, la servitù doveva appena aver messo un piede giù dal letto. Si diresse allo studio; e lo trovò immerso nel buio. Nell’aria, fredda, percepiva ancora un tenue profumo di tabacco: l’odore della pipa dello zio Woodhams, un ultimo riverbero della sua esistenza.
Anna aprì le tende e socchiuse la finestra, lasciando entrare luce e aria pulita. Si guardò attorno: nessuno aveva toccato nulla, dalla maledetta sera in cui il padrone della villa aveva messo per l’ultima volta piede nello studio per trafugare il revolver.
La poltrona era tristemente vuota, e tale sarebbe rimasta. Le ante della vetrinetta erano chiuse, la cenere era ancora nel camino e un’ombra di polvere iniziava a formarsi sulla mensola. Sullo scrittoio, ben ordinato, giacevano una matita spuntata, un penna con la punta incrostata di inchiostro e la piccola lente d’ingrandimento con cui lo zio amava bearsi delle illustrazioni, sui cari libri di scienza. La foto di Violet era ancora rivolta a faccia in giù.
Anna, costringendosi a ricacciare indietro le lacrime, sollevò la cornice.
E si mise al lavoro.
Mentre fuori il mattino avanzava, e nell’atrio la pendola scandiva il susseguirsi dei quarti d’ora,  Anna rovesciò il contenuto di ogni cassetto, tastandoli fin sul fondo. Sfogliò ogni taccuino, ogni registro e ogni almanacco. Spiegò e lesse ogni lettera, ogni assegno e ogni telegramma.
«Che cosa stai facendo?»
Anna, seduta a gambe incrociate sul tappeto, alzò lo sguardo un sussulto trattenuto.
La zia Woodhams era sulla soglia: abbigliata di nero da capo a piedi; le mani raccolte al ventre e la fronte pallida e dura intorbidita da una ruga severa.
«Credevo vi foste dimenticata che vivo ancora sotto al vostro tetto» disse Anna. Riprese a voltare la pagine dell’agenda che teneva tra le mani, lasciando intendere quanto poco fosse interessata ai cipigli della vedova. In quanto all’agenda, era un contenitore di annotazioni giornaliere: appuntamenti di lavoro, acquisti, cene, pranzi... Giorni, settimane, mesi: tutti datati 1873.
«Dimmi che cosa stai facendo» ripeté la zia.
«Cerco.»
«Che cosa?»
«Lo saprò quando l’avrò trovato.»
Il pavimento scricchiolò: la signora Woodhams era entrata nello studio.
«Credi di poter scoprire perché il signor Woodhams si è ucciso, non è vero?» Una pausa. E poi: «Pensi tacesse su qualcosa. Problemi di denaro. Di salute. Un vecchio peccato tornato a tormentarlo.»
«Un uomo sereno, in buona salute che fa progetti per il futuro... non si toglie la vita. Quindi: sì. Deve esserci qualcosa che non sappiamo.»
«Perché ti affanni?» Non c’era né rimprovero né compatimento nella voce della zia. Solo una serietà altera. «Tutta Maidstone ha già risolto l’enigma. Se di enigma si può parlare. Il mio caro sposo ha avuto la cortesia di invocare il mio nome, prima di spararsi. Ha trascinato la mia reputazione nella tomba, insieme a lui.» Si spostò verso la finestra. «Non credi anche tu, come gli altri, che sia stata io a portarlo al suicidio? Che non avesse più la forza di sopportare la sua orribile consorte?»
Anna si levò bruscamente in piedi.
Zia e nipote si fronteggiavano, ai due lati opposti dello scrittoio.
«Che il vostro fosse un matrimonio infelice solo un imbecille avrebbe potuto pensare il contrario. Ma lo zio non vi odiava. Non vi rimproverava nulla. Nemmeno il vostro animo freddo. Al contrario: vi giustificava. Vi comprendeva. Aveva compassione. Forse... forse, in qualche modo, vi amava, persino.»
«Dunque, perché imputarmi la colpa del suo gesto?»
«Questo dovreste essere voi a spiegarlo a me.» Anna avanzò di un passo e, a muso duro, disse: «Che cosa nascondete?»
«Io non ho segreti» asserì la zia.
Anna ne osservava il profilo, stagliato contro il grigio vetro della finestra: le pareva che la zia avesse perso anche quel poco di emozioni di cui si era dimostrata capace in passato. A stento si trattenne dal gridarle contro. ‘Bugiarda! Io lo so che nascondete qualcosa. E non è qualcosa... qualcosa di umano.’
«Ma voi lo avete mai amato, vostro marito? Gli avete almeno voluto un po’ di bene?»
«E tu, piccola sciocca? Pensi che lui volesse bene a te?»
«Perché non dovrei pensarlo? Voleva prendersi cura di me, come—»
«Come una figlia. Come fossi nostra figlia. Ma tu non sei nostra figlia.»
«Non ho mai preteso di prendere il posto di Violet...»
«Lui credeva che potessi farlo» disse la zia Woodhams: adesso un riconoscibile disprezzo strisciava sotto il tono immobile. «Pensava che prendersi cura di te avrebbe fatto ammenda per la sua colpa. La sua. Non quelle che andava riversando su di me, nei confronti di tuo padre. Voleva assicurare a te il futuro che Violet non ha mai potuto vivere.» Rivolse di nuovo lo sguardo alla finestra. «È stata colpa di Walter se Violet è morta. E lui lo sapeva.»
Anna era confusa. «Ma mi hanno raccontato che Violet si ammalò. Che era di salute debole. Come può essere stata colpa dello zio?»
La zia strinse le mani sui gomiti; adesso Anna ne poteva vedere solo la complicata acconciatura e il collo bianco e sottile.
«Era stato un inverno freddo, quello — e un dicembre nevoso. La campagna era completamente imbiancata. Tutti i sentieri e tutti i rigagnoli gelati. Il mattino di Santo Stefano, Violet faceva i capricci. Voleva andare in giardino. Adorava la neve. Ma io non lo permisi, perché lei era ancora convalescente. Aveva avuto la febbre molto alta fino alla vigilia di Natale. Ma arrivò il pomeriggio e io dovetti recarmi a Maidstone. Un evento di beneficenza per i poveri. Noi avevamo lasciato che la bambinaia tornasse dai suoi parenti, per il Natale. Perciò fu Walter a restare con la piccola. Walter. Walter... sempre ingenuo, e permissivo, e irresponsabile. Lui accontentò Violet. La lasciò giocare tra la neve. Tutto il pomeriggio — tra la neve. E quando calò la sera, Violet scottava e tremava. La febbre era tornata.» Tacque. Si mosse un poco, e Anna tornò a scorgerne il profilo. La zia strofinò le dita sulla bocca. «Il primo giorno del nuovo anno, io seppellii la mia unica bambina.»
Anna non seppe cosa dire.
«Riordina e poi esci di qui» riprese la zia, voltandosi piano verso di lei. «Non hai il permesso di frequentare questa stanza.»
«Ma il vostro è un vizio...»
«Fa’ come ti ho detto.»
«Uscirò quando avrò finito. E rientrerò, se ne avrò il bisogno. O voglia.»
«Se non ti è ancora chiara la tua nuova condizione, nipote, lasciami parlare francamente: da oggi in avanti, dovrai obbedirmi. E voglio che tu sappia che io non tollererò più una sola parola sgarbata da parte tua.»
«Altrimenti? Mi caccerete via?»
«Non approfittare della mia pazienza, Anna.»
Anna si morse il labbro. Inspirò. Sviando lo sguardo truce verso la poltrona, mosse il capo in un riluttante segno di assenso. «Va bene...» mormorò.
«Inizia col fare ciò che ti ho appena detto» concluse la zia.
E ad Anna non rimase che fissare in cagnesco la schiena della donna, mentre questa usciva dallo studio. Udì i passi, leggerissimi, echeggiare in biblioteca. E poi, lontani, nell’atrio.
Certa d’essere sola, Anna dovette far appello a tutta la propria forza di volontà per sopprimere la voglia di colpire qualcosa. E non si trattenne per amore della mobilia, ma per evitare di richiamare l’attenzione della zia.
Questa volta, non avrebbe cambiato idea. Avrebbe continuano a indagare. Avrebbe scoperto cosa nascondeva la zia e avrebbe scoperto perché lo zio aveva premuto quel dannato grilletto. L’avrebbe fatto ad ogni costo. E poco le importava di doverlo fare di nascosto dalla vecchia.
Diede le spalle alla porta e riaprì l’agenda, là dove si era interrotta. Una dozzina di pagine più tardi si bloccò alla vista di un foglio piegato in due, infilato tra le pagine datate 12 luglio 1873 e 13 luglio 1873.
Anna spiegò il foglio. Era stampato: una breve colonna di caratteri, piccoli e nerissimi.

Delitto di Gabriel’s Hill.
Alice Mallory condannata all’internamento.

Si è concluso nella mattina di ieri, 14 luglio, il processo contro Alice Mallory. Al principio del passato mese, la sventurata donna, dinanzi a testimoni increduli, in preda ad una crisi isteria confessò di aver ucciso i suoi tre figliuoli, nella sera del 17 maggio di codesto anno. Individuati nella sua persona i nefandi segni di manifesta e violenta pazzia, i giudici hanno infine condannato la donna all’isolamento, nella forma di internamento a vita, all’interno della struttura del Kent County Lunatic Asylum. Cala, dunque, un tetro sipario sull’ultimo atto della raccapricciante vicenda che tanto commosse e inorridì la nostra comunità. 

«Mallory...» sussurrò Anna. Non era lo stesso cognome del medico per il quale aveva lavorato sua zia? Ricordò le parole dello zio Woodhams. ‘Morirono delle persone. In un modo tanto terribile che non oso ripeterlo a voce alta. La storia che ne seguì fu ancora più raccapricciante. Siamo stati fortunati che, all’epoca dell'accaduto, i rapporti tra la nostra famiglia e quella del dottor Mallory fossero diventati praticamente inesistenti.’
Anna si voltò di scatto verso la porta: c’era trambusto; e proveniva dall’atrio. Udì la voce di Lily, due tonfi, una porta sbattuta.
Anna abbandonò l’agenda sullo scrittoio, ma tenne il ritaglio di giornale, nascondendolo nella manica della blusa, e corse fuori.
I Blackwell, Lily e la zia Woodhams erano nel vestibolo.
Anna li raggiunse.
La cuoca, in soprabito e guanti di  lana, annodava i nastri della cuffietta sotto al mento. Bert, col vecchio pastrano, la sciarpa penzoloni e il cappello schiacciato sul capo, teneva sotto braccio una grossa e informe borsa, con manici tenuti assieme da uno spelacchiato pezzo di spago.
La zia Woodhams assisteva senza batter ciglio.
Ma Lily si mordicchiava un pollice, ansiosa.
«Ma signora Blackwell...» pigolò. «Davvero volete lasciarci così?»
«Ci rincresce» disse la cuoca, dura. «Ma siamo rimasti fino al funerale solo per rispetto del padrone.»
«Sono liberi di andare» assicurò la zia Woodhams. «Ne abbiamo già discusso. Ma, signora Blackwell, vi rinnovo l’invito a non contagiare Maidstone, e il villaggio, con le vostre fantasie.»
«Fantasie, madam?» esclamò la signora Blackwell; un lampo di indignazione nei piccoli occhi verdi. «È stata forse una fantasia il funerale del signor Woodhams? Questa casa, signora, è maledetta. Fa impazzire le persone. Prima la povera piccola Mary. Adesso il padrone. C’è il Diavolo annidato tra queste mura, ecco cosa. E la Mietitrice acquattata alla porta.» Fece il segno della croce. «Lily, figlia mia, dammi retta: trova un'altra casa dove andartene a servizio. E voi, signorina Hawkins... oh! Se non aveste fatto meglio a restarvene laggiù, nelle Americhe. Addio, signora Woodhams. Addio. A tutte voi. Che Dio vi protegga. Bert, andiamo.»
Bert, come un mulo silenzioso, seguì la sua istrionica moglie; e insieme se ne andarono da Bon Fleur Place.
Per sempre.
La signora Woodhams riaccompagnò la porta: sembrava assolutamente tranquilla. «Molto bene. Avremo bisogno di nuovi domestici. Ma fino ad allora...» Guardò la nipote. «Anna, mio marito era dell’idea che potessi oziare impunemente a sue spese. Io penso che sia il momento che tu contribuisca al mantenimento della casa. Aiuterai Lillian con i lavori domestici. Non possiamo pretendere che si faccia carico dell’interno lavoro.»
«Purché non mi mettiate a dormire con i piedi nella cenere, signora Woodhams.»
Anna cacciò un sorriso a labbra strette, mentre la zia saliva il primo gradino della scala a chiocciola.
«Sono certa che non sarà necessario. Lillian, preparami del tè. Lo prenderò nella mia camera. Anna, il parlour ha bisogno di essere riordinato e di prendere aria. Il signor Delaney verrà nel pomeriggio, per la lettura del testamento. Voglio che la stanza sia presentabile.»
Quando la signora Woodhams sparì in cima alle scale, il sorriso di Anna si dissolse in una linea diritta. Aggrottò la fronte. Si voltò verso Lily. «Chi diavolo è Mary?»
E Lily, ancora stordita dalla inaspettata partenza dei Blackwell, le rispose con uno sguardo di affranto spaesamento.








Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Un messaggio inatteso ***


13




XIII. Un messaggio inatteso





Anna uscì dal vestibolo a passo svelto. Lily prima stette a osservarla; poi, pur incerta, la seguì attraverso l'atrio e fino al boudoir. Anna socchiuse i battenti il poco necessario a scivolare nella stanza, tirando dentro anche la cameriera.
«Che stiamo facendo?» domandò Lily, in un sussurro.
Invece di rispondere, Anna riaccostò la porta, attenta a non far cigolare i cardini, e si mosse verso lo scrittoio. Individuò un sottile quaderno dalla ruvida copertina verdastra, accanto al mastodontico manuale di gestione domestica di Mrs. Beeton. Era l’official diary. «Credo di aver capito chi è Mary» disse, a bassa voce.
Lily la raggiunse, strofinando il dorso della mano contro la gonna, con l’insopprimibile bisogno di gettare occhiate spaurite alla porta.
«E chi è?»
«Una domestica.»
Anna aprì l’official diary.
«Che ne sai?»
«La signora Blackwell ne ha parlato usando il nome di battesimo. È qualcuno del suo stesso rango. Giovane, probabilmente: l’ha chiamata ‘povera piccola’. — Tu quando sei stata assunta? Il giorno esatto.»
«Il sette giugno. Era un lunedì. Lo ricordo benissimo.»
«Vediamo chi ha lavorato qui prima di quella data...»
Le pagine era suddivise in colonne; e ogni colonna riempita dalla calligrafia spigolosa della signora Woodhams, che da impeccabile padrona di casa, teneva nota di ogni aspetto del mantenimento, e della vita, di Bon Fleur Place: dalle scorte in dispensa ai giorni del bucato, dalla pulizia delle sale alle potature degli alberi in giardino. Ad Anna bastò leggere le prime due pagine del registro, con le annotazione delle tre settimane iniziali di gennaio, per avere la risposta che cercava.
«C’era una Mary, tra le cameriere.» Picchiettò l’indice sotto a un rigo, sul quale la signora Woodhams aveva annotato: ‘Parlour — sbattere i tappeti — Mary.’ «E c’erano anche una Lucy e un’Abigail.» Anna sfogliò le pagine successive. «Compaiono anche nelle settimane seguenti. Gennaio. Febbraio. Marzo. — E... guarda! Diciassette marzo: ‘Sal. colazione — pulizia vetri finestre — Mary.’ E il giorno dopo...»
«Non è più nell’elenco.»
«E nemmeno in quello dopo...»
Anna girò la pagina, e un’altra, e un’altra ancora. Il nome di Mary non compariva da nessuna parte. Dopo il quindici aprile svaniva anche Abigail. Dal ventitré restavano ‘Mrs. Blackwell’ e qualche rada annotazione sul lavoro di ‘Mr. Blackwell.’
«Saranno state licenziate» azzardò Lily. «O si sono licenziate.»
Anna, dopo un battito di palpebra, aggrottò la fronte e puntò lo sguardo sul profilo di Lily. «Dì un po’, Lily, perché hai bruciato il fazzoletto? Quello che con la M ricamata sopra.»
Le bionde sopracciglia di Lily scattarono verso l’alto.
«Ma che vai dicendo? Io non ho bruciato niente.»
«Ho trovato i resti nel parlour.»
«Io ho rimesso il fazzoletto nel cassetto» insistette Lily. «L’ho fatto quando ti ho dato l’altro. Non lo ricordi?»
«Non ci ho badato» ammise Anna. «In ogni caso, qualcuno l’ha buttato nel fuoco.»
Al che, le sopracciglia di Lily ridiscesero a disegnare una pensierosa v sugli occhi azzurri. «Ehm...» Esitò. «Quella sera — la sera della cena, intendo — ho detto alla signora Blackwell di aver trovato un fazzoletto e di non sapere a chi appartenesse, visto che non c’è nessun ‘M’ in casa.»
«E lei cosa ha detto?»
Lily fece spallucce.
«Ha borbottato che doveva essere qualche vecchio pezzo di biancheria.»
«Che razza di spiegazione è?»
«Non lo so! Io non ho insistito. Era soltanto un fazzoletto. Non credevo fosse una faccenda importante!»
Anna le fece cenno di riabbassare la voce. «Va bene. Va bene — allora deve averlo bruciato la signora Blackwell» concluse, rimettendo il quaderno al proprio posto.
«E perché mai avrebbe dovuto farlo?» ribatté Lily, fronte e bocca contratte in un’espressione a metà tra l’imbronciato e il confuso.
«Il motivo potrebbe essere nella risposta alla domanda: cosa è successo alla povera, piccola Mary?» sospirò Anna. ‘E perché la signora Blackwell ha associato Mary allo zio.’
«Quindi, pensi che il fazzoletto appartenesse a questa Mary?» si accertò Lily.
«O è così. O è tutta una grossa coincidenza» disse Anna, tornando alla porta. Sgusciarono via dal boudoir e Anna, senza spiccicar parola, marciò dritta alla biblioteca, con una Lily dall’aria sempre più mestamente perplessa al seguito.
Dalla biblioteca si spostarono nello studio.
«Che cosa è successo qui dentro?» esclamò Lily, davanti al disordine sullo scrittoio.
«Mi sono guadagnata il divieto di frequentare questa stanza.»
«Allora... non lo stai rispettando.»
«Lo so. Vecchia abitudine. Dura a morire.»
Anna frugava tra taccuini e quaderni e fogli sparsi.
«Non so cosa tu stia cercando, ma credo che adesso dovremmo proprio iniziare a fare quel che ci ha ordinato mad—»
«Eccolo!» Anna sollevò un molle quaderno con la copertina di pelle. «Contabilità.»
«E ora che te ne fai della contabilità?» esalò Lily.
«Voglio controllare entrate e spese, subito prima e subito dopo il diciassette marzo. Sai, a volte, movimenti insoliti di denaro equivalgono a situazioni insolite. A problemi improvvisi. A cambiamenti imprevisti...»
«Mmh, sei la degna erede di tuo padre» commentò Lily, a mezza bocca; e sbirciò il registro.
«Tasse. Tasse. Altre tasse» borbottava Anna. «Un cappotto nuovo. Un porta-tabacco comprato alla merceria Campbell. Spese per i cavalli. Un servizio da tè, da Londra. Non c’è nulla datato il diciassette. Ma...» Arrestò la discesa della mano lungo la colonna di cifre. «Diciannove marzo: quattro sterline e sei scellini versati a un certo ‘P. Sudworth’. — Sudworth. Il cognome non m’è nuovo. Chissà chi è.»
«Non... non è una persona» azzardò Lily. «Non posso metterci la mano sul fuoco, però... potrebbe essere Peter Sudworth’s, in Crieff Street. Ma non è del genere che organizza funerali per persone del rango dei tuoi zii. È per gente di modeste finanze. Molto, molto modeste.»
«Quattro sterline e sei scellini sembrano una cifra ragionevole, per coprire le spese del funerale di una donna che si manteneva come cameriera.»
Lily sussultò. «Oh! Buon Dio, non penserai che sia morta
«Spiegherebbe perché la signora Blackwell ha detto che ‘la Mietitrice è acquattata alla porta.’ E poi, pensaci: il diciassette marzo Mary sparisce dal registro della zia. Due giorni dopo, i miei zii pagano il funerale di un povero.» Anna chiuse il registro. 'E io scommetto che è della cameriera che mia zia impose ai Blackwell di non parlare, per non allarmare la nuova domestica.'
«Anna, fossi in te,  non farei affidamento sulla signora Blackwell» disse Lily, scuotendo il capo. «Non hai sentito quello che ha detto? La casa fa impazzire le persone! Voglio essere onesta, ora che se ne andata: ho sempre pensato che fosse una donnetta un po’ troppo superstiziosa. Crede persino nei cani neri che scorrazzano per le campagne. E una volta è andata in giro lamentando per una settimana che la sua ora era vicina. E sai perché? Perché aveva visto un gufo. Di giorno.»
«E tu non credi in queste cose?»
Lily parve risentita. «Io credo in Dio, e nell’immortalità delle nostre anime, nell’Inferno e nel Paradiso. Sarò pure una cameriera, ma non sono sciocca. La superstizione è peccato. Il Diavolo ha di meglio da fare che  giocare a nascondino qui dentro. E spiriti, goblins e presagi li lascio agli scrittori e ai ciarlatani. — Ora, se vuoi scusarmi, andrò a occuparmi di questioni reali: come preparare il tè per madam. E a te consiglio di iniziare la tua parte di faccende.» Girò i tacchi e uscì dallo studio.
Anna, con un gran sospiro, puntellò i palmi contro lo scrittoio, a braccia tese e mento reclinato; sul collo il peso di un brutto presentimento. A lei non era concesso il privilegio di vedere il mondo con gli occhi di Lily: un mondo dove si poteva asserire con somma certezza che gli spiriti esistevano soltanto per guidare la penna degli scrittori. Raccolse al piccola lente d’ingrandimento, appartenuta allo zio, e se la strinse al petto: si sentiva di nuovo sull’orlo delle lacrime. Ma la tristezza non le impedì di riflettere. L’animo superstizioso dalla signora Blackwell era un dettaglio a favore della possibile morte della cameriera: Anna sapeva che, tra i bianchi, esisteva la convinzione che il conservare in casa un oggetto, appartenuto a un estraneo passato a miglior vita, avrebbe potuto spingere lo spirito del defunto a tornare per tormentarne gli abitanti.

*

La pendola batté l’ultimo di quattro rintocchi e un trillo, all’ingresso, annunciò l’arrivo del signor Delaney: un uomo tozzo, dall’andatura lenta e i movimenti flemmatici, in pantaloni a righe e giacca di velluto verde. Dietro ai piccoli occhiali tondi c’erano occhi altrettanto piccoli e tondi, che parevano fatti apposta per assottigliarsi alla vista di cifre e cavilli burocratici. Nel parlour, in presenza della consorte e della nipote del defunto cliente, il signor Delaney assunse diligentemente al dovere di notaio, comunicando ufficialmente che la Woodhams & Arden passava nelle mani di Mordecai Arden, mentre un quinto del patrimonio sarebbe andato perduto, suddiviso tra lontani parenti in linea collaterale sparsi tra il Kent e il Surrey; il resto, Bon Fleur Place compresa, apparteneva legalmente alla vedova, libera di disporne a proprio piacimento.
«Credevo che il padrone avesse modificato il testamento, per includerti tra gli eredi» commentò Lily, quella sera, in cucina. Tagliava la carne. Sotto al tavolo, Milton spazzava pigramente i mattoni del pavimento con la punta della coda, in attesa di un avanzo di grasso che poteva piovere dall’alto, da un momento all’altro.
«Disse che l’avrebbe fatto prima della fine del mese» ricordò Anna, in tono piatto, davanti alla stufa. Pescò un carbone del secchio e lo gettò nel fuoco, smuovendo le braci con l’attizzatoio. Non le importava di essere praticamente nullatenente, se escludeva il misero gruzzolo portato con sé dalla Nova Scotia; ma le importava capire perché lo zio avesse mentito sulla promessa dell’eredità. Possibile che le avesse mentito di proposito? E a che scopo?
Se, al contrario, le intenzioni di lui erano state sincere, e se aveva da tempo progettato di mettere fine alla propria esistenza durante la cena dagli Hall, allora perché non risolvere prima ogni faccenda in sospeso?
Più Anna ragionava, più diventava diffidente. E non prestava fede alle insinuazioni della zia. Non poteva essere stato soltanto il rimorso per la morte di Violet, fosse anche diventato pesante col passare degli anni, a spingere lo zio al suicidio. Piuttosto, era pronta a credere che la zia tentasse, con quell’idea, di alleggerirsi la coscienza e ripulire la propria reputazione.
Lily interruppe il lavorio del coltello. Graffiava con i denti la piccola bocca carnosa, rivolgendo uno sguardo pregno di ansia al pavimento.
Anna se ne accorse.
«Qualcosa non va?»
Lily espirò. «È che... ecco, mi sembra una tale cattiveria — che ti abbia promesso un’eredità quando non aveva intenzione di cambiare davvero il testamento. Non avrei mai creduto il padrone capace di agire a questo modo. E dire che era sempre gentile e generoso.»
Anna chiuse lo sportello della stufa e si levò in piedi. «Non stare in pensiero per me.» Pulì le mani nel grembiule. «Per quanto mi riguarda, tutto quel denaro la vecchia se lo può portare nella tomba.»  E si voltò, per controllare il melmoso sobbolio del brodo nella pentola.
Ore più tardi, dopo tanto rigirarsi sotto le lenzuola, e un sofferto rimuginare, Anna cedette al sonno. Aveva vissuto cinque giorni senza riposo e adesso dormiva profondamente e placidamente, raggomitolata su un fianco, circondata dall’oscurità totale; le tende erano tirate e la luna era stata inghiottita dalle nubi.
Ma nel buio, qualcosa viveva.
La figura che aveva seguito Anna, la notte del suo arrivo, stava ritta e immobile di fianco al letto.
Sotto al groviglio di capelli neri si intravedeva un fioco baluginio rossastro: come due puntini, simili a due braci morenti nascoste tra i carboni spenti. Con un rumore sordo e debolissimo, simile allo schiocco di una chela, la scheletrica schiena nuda si curvò in avanti. La creatura avvicinò il volto, celato dai capelli, a quello di Anna. Sollevò una mano: le dita si muovevano come zampe di ragno, chiudendosi e stendendosi in moti convulsi. Le lunghe unghie spezzate sfiorarono la guancia di Anna. Un rantolo. Poi, un altro schiocco e la creatura ripiegò il collo all’indietro, in un movimento innaturale, quasi fosse attratta dal soffitto. Rannicchiò le braccia al petto e arretrò fino alla parete. E nella parete scomparve.
Anna si voltò dall’altro lato e continuò a dormire.

*

Anna lucidava con foga i candelabri, in fondo al salone da pranzo. Quel giorno la signora Woodhams aveva ordinato che non venisse acceso alcun camino, eccezion fatta per la cucina e il boudoir. Con dicembre alle porte, e la villa al freddo, mettersi d’impegno nei lavori domestici era l’unico modo per scaldarsi. Nemmeno quando udì il familiare scampanellio all’ingresso, Anna mise giù lo strofinaccio. Né si prese la briga di avvicinarsi alla finestra a bovindo della facciata. La porta del salone era spalancata e lei poté udire subito i passetti lesti di Lily, nell’atrio; poi, un parlottio nel vestibolo; infine, la voce autoritaria della signora Woodhams, che doveva aver fatto lo sforzo di mettere il naso fuori dal boudoir.

«Lillian, chi era?»
«Solo un medicante, madam. L’ho mandato via.»
«Molto bene. Ricorda che non riceverò visite, quest’oggi. Chiunque dovesse presentarsi per le condoglianze, fa lasciare i biglietti e dì loro di non tornare prima di dieci giorni.»
«Sì, madam.»
E il silenzio ricadde in ogni angolo della villa.
Trascorsero cinque minuti, scanditi dalla lugubre pendola e dai ticchettii dell’orologio sopra la mensola del camino.
Poi, dal nulla, Anna si sentì bussare sulla spalla.
Era Lily, entrata silenziosa come un gatto, i passi attutiti dal tappeto. La cameriera cavò fuori una lettera da sotto la cintura del grembiule e la porse ad Anna.

Miss. A. Hawkins
Bon Fleur Place
Maidstone, Kent

Anna soffiò via da davanti gli occhi una ciocca, sfuggita alla treccia. «Allora, non era un medicante» mormorò.
Lily scosse la testa. «Ti prego, non dirle che le ho mentito.» E lasciò la lettera tra le mani di Anna, che apprezzò l’intuitiva prudenza: se la zia avesse saputo che riceveva posta, gliela avrebbe strappata di mano. Lily uscì dal salone e Anna abbandonò lo strofinaccio sul tavolo. Spiegò il foglio riconoscendosi, suo malgrado, in preda a un timido e inopportuno moto di speranza.
Ma la speranza venne scalzata dalla sorpresa.
Il mittente non era William Hall.
Era Merrik, il giornalista.

Iniziava col chiederle 'perdono e comprensione' per il gesto 'sfacciato' di scriverle. Seguivano due di paragrafi di condoglianze e di interesse per il suo stato di salute, fisico ed emotivo.
Infine:

Scrivo con la certezza che la vostra sensibilità vi salverà dall’errore di scambiere la franchezza per villania.
La posizione che ricopro mi impone l’amaro dovere di comunicarvi che, qui in città, molte parole son state scritte, e altrettante bisbigliate, in merito alla dipartita del vostro caro parente. La malignità alberga in fin troppi individui e costoro si nutrono della notizia con voracità, gettando infamia sul ricordo del signor Woodhams, indifferenti al dolore vostro e a quello di vostra zia.
Ebbene se, in futuro, sul riserbo che abita la vostra delicata anima si aprirà uno spiraglio d’ardore, se verrete spronata da un legittimo desiderio di combattere le malelingue, sappiate che la mia penna è e sempre rimarrà al vostro servizio.

Anna rilesse l'ultima frase tre volte di fila.
E le sovvenne un’idea.
Ma necessitava di una giustificazione per metterla in pratica.
Sorprendentemente, fu la signora Woodhams a fornirne una quando, quindici minuti più tardi, nel tinello dei domestici, il campanello del boudoir iniziò a scuotersi come un disperato.
Anna accorse. Trovò la zia tranquillamente seduta allo scrittoio. Scriveva. Non alzò lo sguardo ma indicò il caminetto, con un molle gesto della mano armata di pennino.
Il fuoco languiva e nella cesta di vimini non c’era più legna.
«Per oggi, passi la distrazione. Ma non devo essere io a chiamarti. I camini vanno controllati ogni mezz’ora.»
Anna avrebbe voluto domandarle se temeva di consumarsi i preziosi polpastrelli, a forza di tirare il cordone del campanello. Ma tenne la bocca chiusa e le gambe in movimento: scese nel seminterrato, si fece carico di una bracciata di ciocchi e, risalite le scale, tornò nel boudoir. Ravvivò il fuoco con deliberata lentezza per approfittare del calore.
La signora Woodhams, intanto, continuava a scrivere.
Quando il fuoco fu vivo e scoppiettante, Anna si levò in piedi e, strofinando le mani sul grembiule macchiato di cenere, allungò un’occhiata da sopra la spalla della zia. «Scrivete gli annunci per il nuovo personale» constatò. «Se volete, li consegnerò io. Posso andare oggi stesso.»
La zia puntò gli occhi su Anna.
E Anna temette che potesse indovinare cosa le frullava per il capo. «Se ho be capito» continuò, «una vedova non dovrebbe farsi vedere in città, a breve tempo dal lutto. Io ero solamente la nipote acquisita. Da me non si ci aspetta troppa rigidità. E poi, volete che mi renda utile, oppure no?»
«Una giovane non deve frequentare strade e negozi da sola. E io non posso privarmi di Lillian per fornire a te un’accompagnatrice.»
Anna prese un respiro. «Signora, siamo sincere.» Venne avanti di un passo e intrecciò la mani davanti al grembiule. «Lo zio era l’unico a credere che fosse possibile maritarmi. La mia reputazione è svanita prima ancora di nascere.»
«Eppure, nel tuo tono non odo rimpianti, né dispiacere.»
«Preferisco guadagnarmi da vivere, con le mie mani, che vivere del denaro di un uomo sposato con l’inganno.»
La signora Woodhams mise via il pennino e si adagiò contro l’imbottitura dello schienale. Stette in silenzio per una manciata di attimi; i pensieri arginati dietro una maschera impassibile, il pollice sotto il mento e il gomito contro il bracciolo. «Andrai a Maidstone subito dopo pranzo» decise. «Adesso, va’! Basta star qui a oziare. ― E raddrizza il fiocco del grembiule. E sistemati la treccia. Sei tutta scapigliata. Marito o meno, la sciatteria è imperdonabile.»








Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** La fanciulla della fonte ***


14




XIV. La fanciulla della fonte





Quando Lily domandò ad Anna chi fosse l’autore della lettera, lei le negò una risposta. «Meno sai, meno devi mentire» disse; e calò davanti al viso la veletta nera, osservando nello specchio del vanity il proprio riflesso a lutto. Indossava uno degli abiti più eleganti, con le maniche a sbuffo e della trina attorno al colletto. Sui capelli, sistemati in una treccia raccolta, premeva un cappellino di paglia con un nastro di velluto nero; e le mani, dalle nocche arrossate per il freddo e il lavoro, erano nascoste da un paio di guantini di seta.
Il viaggio fu lento. Anna teneva le redini del calessino con la sicurezza dell’esperienza, ma non poteva costringere il cavallo al galoppo. O le buche, lungo la strada, avrebbero dato il ben servito alle ruote. Così, trascorse più di mezz’ora prima che gli zoccoli del boulonnais passassero dal pestare la terra gelata al battere contro l’umido e grigio selciato di Maidstone.
In città, Anna adempì al suo dovere: all’ufficio postale, consegnò gli annunci della zia Woodhams; poi, chiese dove fosse la redazione del Maidstone Journal and Kentish Advertiser. E la trovò là dove le era stata indirizzata: un edificio all’angolo tra due strade, dinanzi alla piazza del municipio. Quando, però, una volta all’interno, chiese di George Merrik, si sentì rispondere che sarebbe dovuta ripresentarsi l’indomani mattina, se sperava di trovarlo. Anna insistette: poteva almeno avere un indirizzo?
Al che, l’ometto canuto alla scrivania, scrutò Anna da capo a piedi. Benché muto, il suo quesito era palese: perché una donna, giovane, sola, e in pieno lutto, smaniava senza vergogna per l’indirizzo di George Merrik. Mentre lasciava un biglietto tra le mani di Anna, la risposta che dovette attraversare la mente dell’impiegato si tradusse in un abbozzo di sorriso sornione, accompagnato da un significativo scuotimento di capo. In quanto ad Anna, ringraziò e si allontanò, senza preoccuparsi di rettificare le fantasie dell’impiegato.
Stando alle indicazioni sul biglietto, Merrik risiedeva a poca distanza dalla chiesa di Tutti i Santi, sulla sponda opposta del Medway. Anna lasciò calesse e cavallo in custodia alla pensione più vicina, per poi incamminarsi lungo una viuzza in salita. Fairmeadow era una sfilata di casette color granata, l’una addossata all’altra, con le facciate linde e sobrie, ornate di buon gusto e senza opulenza; i medesimi pregi che si ci aspettava dagli inquilini che le abitavano.
Anna trovò la casa. Salì i sei pulitissimi gradini che separavano l’ingresso dalla strada. Bussò e attese: erano le due del pomeriggio e una sottilissima falce di luna già vegliava su Maidstone, mentre il sole si avvicinava sempre di più a un ovest sporcato dalle nubi.
La porta venne aperta da una donnetta dai riccioli ingrigiti e l’aria per bene. Indossava un modesto abito color ocra, con bottoni di coronzo; e occhiali piccoli come monete da mezzo penny poggiati sul naso lungo e stretto.
«Mi dispiace, il signor Merrik non è in casa» disse la donna, pacatamente, dopo che Anna ebbe comunicato il motivo della visita. E Anna si stava già sforzando di inghiottire il sommo fastidio per il tempo sprecato, quando la donna soggiunse: «Pranza sempre fuori. Ma, solitamente, non rientra mai più tardi delle due e trenta. Potete attenderlo, se non è un disturbo.»
Anna accettò.
La signora condusse Anna in un salottino, la cui unica finestra dava sulla strada, e la invitò a mettersi comoda, liberandola dall’impiccio del capottino.
«Posso offrirvi del tè?»
«No, grazie. Non disturbatevi.»
La signora, per un istante, parve spaesata dal rifiuto. Poi, sorrise. «Se vi serve qualcosa, io sarò in cucina: è la stanzetta qui accanto.» E abbandonò Anna a sé stessa, senza troppe cerimonie.
Lei prese posto sul divanetto, guardandosi attorno. I mobili erano lucidi e scuri, le tende blu come il petto dei pavoni, i rivestimenti del divano e delle sedie di un vivo carminio. Davanti alla finestra, c’era un piccolo tavolino rotondo; ospitava uno scrittoio, con corollario di penne, inchiostri e cartellina colma di fogli. Sopra la mensola del caminetto, invece, due grasse anfore di ceramica sembravano far da guardia a un cofanetto d'ebano. Non c’erano altri soprammobili, nella stanza; il che era strano, considerate la quantità di scaffali e vetrine, compresa una libreria semivuota; così come non c’erano quadri alle pareti, bensì cerchi, ovali e rettangoli di un tono più chiaro rispetto al bianco della tappezzeria.
Anna pazientava; schiena diritta e mani in grembo, controllando, di tanto in tanto, il suo orologio. Le due e dieci minuti. Le due e quindici. Le due e venticinque. Alle due e trentacinque, Anna, scivolata in avanti col fondoschiena, se ne stava a braccia conserte, gambe stese e caviglie accavallate, fin quando con un poderoso sospiro non si alzò in piedi, lasciandosi calamitare verso il tavolo.
Allungò le mani verso la cartellina incustodita.
E ne sbirciò il contenuto.
Si ritrovò sotto gli occhi un nudo femminile schizzato a matita. Era molto realistico, e dettagliato. ‘Scrittore, cantante e ritrattista. Che uomo pieno di talenti’ constatò Anna, affatto impressionata. Né dai talenti, né dal soggetto del ritratto. Nel bracciolo, sul quale la donna se ne stava languidamente adagiata, con lo sguardo di una Venere di provincia, riconobbe il divano del salottino; di conseguenza, sospettò che nemmeno la musa fosse frutto di pura fantasia.
Anna mise da parte il ritratto.
Il foglio sottostante doveva essere la bozza di una lettera. ‘Mia adoratissima Gladys’ e seguiva una accorata dichiarazione di banalità da innamorati, tra baci e promesse di fidanzamento.
Il terzo foglio, invece, era coperto di appunti. Parevano esser stati tracciati in fretta, o in sovrappensiero, a giudicare dalla calligrafia disordinata. Leggendoli uno di seguito all’altro, Anna capì che dovevano esseri possibili titoli... per un articolo di giornale.
I primi tre erano stati cancellati con una linea sottile: I fiori velenosi di Bon Fleur. La vedova nera di Bon Fleur. La casa degli orrori. E poi, in fondo all’elenco: La villa dei suicidi. Dentro la villa dei suicidi.
Anna pigiò la punta dell’indice sotto l’ultima parola. «Suicidi...»
Controllò gli altri fogli: erano immacolati. A quel punto, rimise tutto come l’aveva trovato e passò a esaminare libreria e scaffali. Dai segni sul legno, dedusse che di soprammobili ve n'erano stati, molti e a lungo; solo di recente dovevano essere stati rimossi. Arrivata al camino, aprì il cofanetto d'ebano; e non si sorprese troppo nel trovare le lettere della dolce metà di Merrik. Non ne lesse il contenuto per rispetto della già sufficientemente sfortunata signorina Barnes. Stava proprio richiudendo il cofanetto, quando dalla finestra intravide Merrik in persona e corse ad attenderne il rientro seduta sul divanetto, raccapezzando in fretta una postura e un'espressione compita.
Sentì la porta aprirsi e la voce della donna: «C’è una signorina per voi»; l’attimo dopo, Merrik varcò la soglia del salottino: alto e bello, in un completo da giorno grigio perla.
Anna rispose all'aria vagamente sorpresa di lui con un sorriso timido, a occhi bassi, nell’ombra della veletta.
«Avete ricevuto la mia lettera» asserì Merrik.
Anna fece cenno di sì.
Il giornalista chiuse la porta e andò verso Anna, che subito si levò in piedi.
«Non mi aspettavo una risposta tanto celere. Men che meno un incontro di persona.» Il tono di Merrik grondava più miele di un alveare; e Anna capì che sarebbe stato arduo seguitare con la parte della signorina pudica e schiva. «Voi siete davvero una giovane audace: la trovo una caratteristica ammirevole, nel vostro sesso.»
‘Si crede un esperto della materia’ pensò Anna.
E poi, senza preavviso, Merrik le strinse una mano. L’efebico viso del giornalista era vicino a quello di Anna. Molto più vicino di quanto lei desiderasse. E molto più vicino di quanto le norme sociali avrebbero permesso. Anna immaginò che l’averla trovata tutta sola, e affranta, nel suo salottino rappresentasse, dal punto di vista di Merrik, una tacita autorizzazione a scavalcare i limiti e tentare la sorte ― con buona pace di Gladys Barnes.
«Quanto sto per dirvi suonerà indelicato, considerata la situazione... ma il nero esalta la vostra bellezza.»
«Adesso che me lo avete detto voi, cercherò di indossarlo più spesso» mormorò Anna.
La beffa nella risposta passò inosservata al giovane, che iniziò ad accarezzarle il dorso della mano.
Anna si sottrasse alla presa, sforzandosi di non essere brusca. Distolse lo sguardo, tornò seduta e raccolse le mani in grembo. «Possiamo parlare, signor Merrik?»
«Naturalmente.»
L'uomo le sedette di fianco, volgendo viso e busto verso di lei; teneva un gomito adagiato sullo schienale e il ginocchio a sfiorare di proposito la gonna di Anna.
«Dunque ― cosa intendete ‘col mettere la vostra penna al mio servizio’?»
«Intendo scrivere, se la cosa incontra il vostro desiderio, un pezzo commemorativo. I lettori dell’Advertiser conosceranno il vero Walter Woodhams. L’uomo che fu in vita.»
«Ma a cosa devo questa generosità?»
«Non ho avuto il piacere di conoscere a fondo vostro zio. Ma conosco bene la famiglia Hall. La loro stima è una garanzia. Se loro lo hanno amato e ammirato, non posso dubitare che fosse una persona degna. Personalmente, ritengo inaccettabile e ingiusto che la memoria di un tal uomo debba venir insozzata dalle più basse menzogne.» Nell’ardore della dichiarazione, Merrik aveva portato la mano sull’avambraccio di Anna.
Ma Anna non batté ciglio: continuava a fissare le proprie mani. «Come potete immaginare» disse, «nell’ultima settimana leggere i giornali è stato l’ultimo di nostri pensieri. E, vedete, per me è difficile capire come parlare a difesa di mio zio se non so a cosa devo controbattere.»
«Davvero volete conoscere i dettagli?»
«Sì.»
«Tenterò di non urtare la vostra sensibilità.» E nel dirlo, Merrik sentì il bisogno di tornare a stringere una mano di Anna, come a donarle un supporto ― che lei non aveva richiesto. «Il biglietto è stato il male maggiore. O per essere più precisi: la vaghezza del contenuto. La gente tende a tessere ipotesi fantasiose là dove mancano i fatti.»
«Ah. Il biglietto, certo. Allora, anche mia zia è al centro dei pettegolezzi?»
«Temo fosse inevitabile.»
«E cosa vanno dicendo di lei?»
«Che deve aver commesso qualcosa di davvero terribile. C’è persino chi parla di un amante.»
Anna alzò lo sguardo sul giornalista.
«E quali prove hanno dell’esistenza di un amante?»
«I mal pensanti non hanno bisogno di prove. Le voci son più che sufficienti. Sopratutto il genere di voci che non si sa da dove nascano, ma che fanno in fretta a diffondersi. Basta un vicino che scorga un visitatore sospetto. O un corriere che faccia un po’ troppo spesso il medesimo tragitto.» Merrik sembrava sottilmente inebriato dal tema della conversazione. «Tuttavia, tenendo presente il passato di Bon Fleur Place, molti temono che vi sia dietro qualcosa di ben più grave di un adulterio.»
«Che dite? Quale passato?»
Per una volta, nei modi untuosi di Merrik, Anna intravide un sussulto di onesta sorpresa.
«Quale passato?» ripeté lui. «Ma come? Non sapete della ‘Fanciulla della Fonte’?»
Anna scosse il capo.
«Curioso» commentò Merrik. «O, forse, no» riprese, dopo un istante di riflessione. «Immagino che i vostri zii non amassero l’argomento.» Ed era lì, scritta sul un po’ volto incuriosito e un po’ sardonico di George Merrik, la conferma alle congetture di Anna. Non aveva mai avuto l’intenzione di parlargli di suo zio. La vita l’aveva disillusa: le fandonie, come i pregiudizi, erano un nemico incrollabile. Certo: avrebbe potuto fare un tentativo ― o almeno così pensava, prima di sbirciare la cartellina ― ma non sarebbe stato comunque il motivo principale della sua visita. Era  lì snella speranza che dalla bocca larga del giornalista cadessero le informazioni che andava cercando: se qualcuno era morto in un posto come Bon Fleur Place, i giornali dovevano saperlo; e se i giornali lo sapevano, lo sapeva anche George Merrik.
«State parlando della cameriera?»
«Oh ― dunque, sapete. ― Com’è che si chiamava? Margie? Mamie?»
«Mary.»
«Ecco, sì: Mary.»
«Che cosa le è successo?»
«Si è suicidata. Una notte, è uscita in giardino, si è immersa nella fontana e ha aspettato la morte.»
‘La fontana!’
Il cuore di Anna perse un battito. Sbiancò, dietro la veletta.
«Si... si conosce il motivo del gesto?»
«No. La novella Ofelia si è portata il segreto nella tomba.»
«Un suicidio senza un motivo?» ‘Un altro!’ «E nessuno ha pensato che potesse non essere veramente un suicidio?»
«Ovviamente. Ma non c'erano né ferite né lividi sul corpo della poveretta. E mai furono trovate prove che potessero far pensare che la ragazza fosse stata, in qualche modo, costretta o trascinata fino alla fontana. Tutti, padroni e servitù, vennero giudicati al di sopra di ogni sospetto. Comunque, potete immaginare come la triste faccenda accese l’interesse di mezza contea. C'è sempre un che di romantico e terrificante nell'immagine di una bella giovinetta che si abbandona all'abbraccio della morte. E, adesso, a distanza di pochi mesi, la storia si ripete ― ma vi vedo turbata, signorina Hawkins. Prendiamoci una pausa da questi spiacevoli argomenti.»
Merrik, con abile noncuranza, diminuì le già scarse distanze. E poiché Anna non diede segno di scostarsi, pensò bene di prendersi la libertà di sollevare la veletta. Ma non appena Anna avvertì la mano del giornalista scivolare sul suo collo, esaurita la pazienza e ottenuto ciò che voleva, gli strinse il polso con un scatto fulmineo che colse Merrik di sorpresa. «E basta.» Spinse via il braccio e si alzò in piedi.
«Sono imperdonabile. Avete ragione» sviolinò Merrik, accavallando le gambe. Ma tutto sembrava, fuorché pentito. «Se solo voi non foste così bella.»
Anna contrasse il volto in una smorfia vicina alla nausea.
«Più o meno bella della donna svestita che avete ospitato sul vostro divano?»
Il sorriso carezzevole di Merrik prima si congelò. Poi, si sciolse, lentamente, mentre gli occhi azzurri viravano in direzione dello scrittoio. Ma alla fine si trasse d’impiccio con una leggiadra scrollata di spalle.
«Non chiederò perdono per essere un ammiratore del Bello.»
Anna si piantò le mani sulla vita. «Non giudico i vostri passatempi» dichiarò, in tono secco, quasi disinteressato. «Quello che trovo vergognoso è che, con la scusa di volerci aiutare, vogliate carpire i dettagli della vita privata dei miei zii, per poi tirar su un articolo degno del più scadente penny dreadful. Dentro la villa dei suicidi, eh? ― A voi non importa nulla della reputazione di mio zio. A voi importa che il vostro giornale venda il più possibile.»
«Le vostre insinuazioni mi feriscono.»
«Merrik, che cosa vi fa pensare che io sia una sempliciotta? Il colore della mia pelle? Il fatto di essere donna? Entrambe le cose?»
Con un sorriso storto e un’alzata di sopracciglio, Merrik gettò la maschera. Sospirò rumorosamente, mettendosi comodo contro l’imbottitura del divanetto; sedeva al centro, con le gambe accavallate e i gomiti sollevati sopra lo schienale. «Che cosa posso dire in mia difesa? ― Un giornalista ha sempre bisogno di una storia. È il mio lavoro. La mia vocazione.»
«La vocazione dello sciacallo.»
«Perché mai? Perché do ai lettori quel che loro desiderano?» Merrik infilò una mano sotto la giacca e ne cavò una sottile scatolina argentata. «Non è colpa mia se la gente adora scandalizzarsi. In fondo, tragedie e malefatte altrui ci fanno sentire in pace con la nostra coscienza. Niente ci lusinga come il crederci migliori del nostro prossimo.»
«È di mio zio che state parlando, qui. Se non avete rispetto per lui, almeno fingete di averne per me fin quando vi sto di fronte.»
Merrik trasse dalla scatolina una lunga sigaretta bianca e se la portò tra le belle labbra carnose. «Se vostro zio non voleva l’onore delle prime pagine, avrebbe almeno potuto scegliere un proscenio più discreto.» E nel bagliore di un fiammifero, accese la sigaretta.
«Dite un’altra parola su mio zio» ebbe la bontà di informarlo Anna, «e il vostro prossimo articolo parlerà dei danni fisici causati dall’introduzione di una sigaretta accesa su per una narice.»
Merrik rise, sbuffando una nuvola di fumo. «Questo metodo di dissuasione è eredità del mestiere di vostro padre o delle usanze di vostra madre? ― Ebbene, sì, miss Hawkins. Mi sono informato sulle vostre origini.»
«Che io non mai avuto intenzione di nascondere a nessuno. Sai che impresa!»
«In ogni caso, devo presumere che non siate disposta a concedermi un’intervista. Peccato. Ma vi avverto: ancora qualche giorno e altri avanzeranno la stessa proposta. Il rispetto per il lutto non terrà a bada ancora per molto quelli che voi chiamate sciacalli. La gente non era tanto interessata a una morte dai tempi di Gabriel’s Hill.»
«Gabriel’s Hill? ― Intendete... Alice Mallory? La madre rinchiusa in manicomio?»
Merrik mosse il capo in un blando cenno di assenso.
«Raccontatemi cosa è successo a Gabriel’s Hill.»
«Datemi un buon motivo per farlo» ribatté Merrik, sornione, soffiando via altro fumo.
Anna fece spallucce.
«Ve ne do due. Gladys Barnes e la sua dote. Quella dote che potrebbe salvarvi dal continuare a vendere i soprammobili, e dallo scrivere articoli da disperato, pur di non finire in mezzo a una strada. Voi mi raccontate di Gabriel’s Hill e io non racconterò alla signorina Barnes delle vostre amichette con la tendenza a perdere i vestiti.»
«Siete impicciona e meschina, miss Hawkins. Mi piacete.»
«Sacripante, quale onore.»
«Bene. Veniamo a Gabriel’s Hill. Cercherò di essere breve. ― Vi abitava un medico: Joseph Mallory, con la moglie, Alice, e i tre figli. Erano ricchi, conosciuti e rispettati. Una famiglia perfetta. Idilliaca. Finché, una mattina, la governante entrò nella stanza dei bambini, per svegliarli ― e li trovò cadavere. Le povere creaturine erano state assassinate nel sonno. Tutte e tre con una coltellata al petto. Precisa e letale. Da principio, si sospettò della governante stessa, o della servitù. Ma dopo tre giorni ― tre giorni, badate bene, durante i quali la signora Mallory era rimasta chiusa nel silenzio, senza mangiare e senza alzarsi dal letto ― ecco che la signora, all’improvviso, si leva a sedere e inizia a urlare. Chi era con lei, descrisse la scena come terrificante. Come assistere un morto che si risveglia dalla tomba. Lacrime, urla, capelli strappati ― una crisi isterica in tutto e per tutto ― e Alice Mallory confessò di aver ucciso i bambini.»
«Ha confessato dopo tre giorni?»
«Dissero che la memoria della poveretta doveva aver soppresso il ricordo.»
«Quindi è per questo che l’hanno mandata al manicomio invece che al patibolo?»
«Scampò alla pena di morte perché all’epoca era in attesa di un quarto figlio. Ma abortì dopo poche settimane dall’internamento. La prova della sua pazzia, però, fu il fatto che diede la colpa al marito.»
«Al marito?»
«Disse che lui entrava tutte le notti nella sua camera da letto, si chinava su di lei e le sussurrava all’orecchio di far del male ai loro bambini. L’accusò di aver stretto un patto col Diavolo, per ottenere il potere di controllare la sua mente. Sciocchezze, ovvio. Ma sciocchezze d’effetto.»
«Che ne fu del dottore dopo l’internamento della moglie?»
«Pian piano, inesorabilmente, perse il rispetto, il denaro e la casa. E alla fine, anche la testa. Si diede all’oppio e all’alcol. Ed è spirato lo scorso inverno su un sudicio materasso di una casa per poveri.
Posso chiedervi il motivo del vostro interesse per la faccenda?»
Ma nemmeno sotto ricatto Anna avrebbe confessato a Merrik del legame tra il dottor Mallory e la zia Woodhams. «No. Non potete» disse. «Piuttosto, il vostro giornale avrà seguito indagini e processo, immagino. Avete delle copie?»
«Potrei recuperarle.»
«Fatelo. E speditele a Bon Fleur domani mattina.» Ma Merrik la fissava, aspirando la sigaretta, e Anna comprese come doveva concludere la frase, se voleva che il giornalista collaborasse. «Vi pagherò.»
«Ottimo.»
 






Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Quand’anche camminassi in una valle oscura ***


15




XV. Quand’anche camminassi in una valle oscura





Abbandonata Fairmeadow, pur certa che l'assenza da Bon Fleur avrebbe indisposto la zia, Anna si rifugiò nell’ombra della chiesa di Tutti i Santi. Seguì il viale lastricato fino all’interno del cimitero, dove grossi corvi stavano acquattati tra le scure fronde dei tassi; gracchiavano forte, sorvegliando le tombe con i loro piccoli occhi simili a perline di onice.
Anna trovò molte Mary, ma nessuna scomparsa nel marzo di quell’anno: era probabile che la cameriera fosse stata seppellita altrove. Il peregrinare tra le lapidi, tuttavia, la portò ad incappare in una tomba che ebbe subito la sua attenzione. Era posta accanto al muro che separava il cimitero dall’argine del Medway. Una grata, con un lussuoso intreccio di fiori in ferro, ne delimitava il perimetro quadrato; al centro, sopra un basamento di granito, si ergeva un gruppo di statue: una figura femminile, avvolta in una cappa, nascondeva il viso contro una bassa colonna; ai suoi piedi, c’era un leone seduto sulle quattro zampe, il capo eretto e lo sguardo fiero. I caratteri neri, sul basamento, recitavano:

Though I walk through the valley of the shadow of death,
I will fear no evil; for thou art with me;
thy rod and thy staff they comfort me.

Sotto l’epitaffio, quattro nomi:

William E. Hall
1780 ― 1833  
& His Wife Helen Adelaide
1783 ― 1853 

Horace Clifford Hall
Feb. 25, 1804 ― June 7, 1871

Tabitha Obedience Hall
May 8, 1810 ― April 4, 1865


Era una tomba di famiglia. ‘Che siano gli Hall di Ellsworth House?’ si interrogò Anna.
Ma la sua ultima e inevitabile meta fu la tomba dello zio Woodhams. Non c’era ancora una lapide, ma qualcuno ― forse Arden, forse proprio uno degli Hall ― aveva portato una corona di fiori freschi.
Anna scivolò in ginocchio dinanzi al letto di terra bruna. ‘Zio, che cosa devo credere?’ Lo zio, in vita, non poteva non sapere della sorte della cameriera; ma perché si era prestato al gioco dell’omertà? Che conoscesse il motivo dietro il suicidio di Mary? Sapeva? Sospettava? Aveva visto qualcosa? 
Anna chinò la testa e strizzò le palpebre, senza riuscire, né volere, scacciare il pianto. Per un po’, l’affanno della ricerca aveva anestetizzato il dolore, ma adesso riusciva solo a pensare che lo zio ― il suo buono, sorridente ed entusiasta zio ― era imprigionato là, sotto terra, con la morte che ne imputridiva le carni, giorno dopo giorno. Gli occhi attenti e gentili, le mani calde e il profumo di colonia: non c’era più nulla. Sarebbero giunti i vermi, poi la polvere, le ossa e due orbite vuote.
Anna soffocò i singhiozzi dietro la mano e affondò il mento contro il petto. Sopra di lei, il viso di pietra dell’angelo restava impassibile, indicando imperterrito un cielo che andava imbrunendosi, mentre le Pleiadi, e le prime stelle, tremolavano sopra il campanile.
«Signorina Anna.»
Anna alzò lentamente la testa: aveva riconosciuto la voce.
Si voltò ed ebbe la conferma.
Era il vecchio Bert.
Aveva con sé un pacchetto, avvolto in carta da drogherie, e lo teneva sottobraccio; stringeva in una mano il flaccido cappello, nell’altra uno spelacchiato mazzolino di fiori di campo. Non c’era un gambo che, per lunghezza, eguagliasse l’altro. «Non vi dispiace, vero?» disse Bert. E con la lentezza concessa delle sue articolazioni scricchiolanti, depose il misero omaggio di servitore accanto alla corona di fiori. Aveva ancora lo sguardo fedele di un cane; l'infelicità baluginava tra la stanchezza, come un riflesso di luce lunare su uno specchio d'acqua. Infine, mise la mano, scura e rugosa come la corteccia di un albero, sul capo dell'agnellino sopra la tomba di Violet, come avrebbe fatto un nonno sulla testolina di un bambino.
Anna tirò su col naso. Strofinò le mani inguantate sulle guance umide. Non disse nulla.
«Come sta la padrona?» azzardò Bert.
«Non è più padrona vostra» gli ricordò Anna, sottilmente aspra. «Ci avete lasciato.»
Bert sospirò: un sibilo rasposo. Poi, ligio alla propria ritrosia, disse: «Devo andare.» Batté una mano sul pacchetto. «Vi auguro tanto bene, signorina Anna. A voi, e a madam.» Fece per voltarsi.
Ma Anna si alzò in piedi. «Aspettate. Devo parlarvi.» E fissò Bert diritto in volto: lei aveva ancora un lucido eco di lacrime negli occhi scuri, ma la voce era ferma. «So di Mary. So cosa le è successo. ― Quindi, ditemi: i miei zii non volevano che voi e vostra moglie parlaste del suo suicidio? Non con Lily. Non con me. Forse, nemmeno tra di voi. Una cameriera che s’ammazza nel giardino di casa  non è un evento piacevole da rivangare. O sbaglio?»
Bert non rispose. Ma la sua espressione, prima di sorpresa e dopo di mesta e vergognosa rassegnazione, fu più che sufficiente a fugare i dubbi di Anna.
«Ora che siete libero di farlo, parlatemi di lei. Parlatemi di Mary.»

*

Nella quieta penombra, sotto le volte e tra le colonne, brillava qui e là, in cima agli alti e smilzi candelabri, la luce oleosa delle candele. Un uomo si muoveva accanto all’ambone: ne stava pulendo i gradoni; due donne camminavano lungo una delle navate laterali, coperte da lunghi scialli di lana.
In chiesa faceva più freddo che all’aperto, ma Anna non strofinava i polpastrelli contro le nocche inguantate per scaldarsi. Era nervosa. E impaziente. E fissava il profilo del vecchio Bert, che a sua volta rivolgeva gli occhi stanchi alla grande croce di legno, sulla sommità della recinzione del coro. Sedevano sull’ultima panca, in fondo alla navata centrale.
«Mary Tilley era una ragazzetta di quelle vispe ― se capite cosa intendo.» Bert, tutto ingobbito, con il cappello e pacchetto del droghiere sulle ginocchia, parlava con un fil di voce; per rispetto del luogo e per timore dell’argomento. «Ce ne aveva di spasimanti. Giù a East Farleigh. E pure una lingua svelta, c’aveva. I signori l’assunsero a Natale del Settantatré. Fu un miracolo che riuscì a restare a servizio.»
«Perché?»
«A madam non piacevano quelle chiacchiere sulla condotta di Mary. E poi, Mary ― be', non è che fosse pigra. Ma non faceva le cose come voleva la signora. Non sempre. E quando madam la rimproverava... l’ho sentita io, con queste mie orecchie, risponderle a tono. E mica una volta sola.»
«E la zia la lasciava fare?»
«Oh, no! Stava sempre a dirle che l'avrebbe buttata fuori. Una volta, la chiuse in chiave in camera, su nell'attico. Un'altra, perse la batté con un ombrello. Non fosse stato per il signor Woodhams, che prendeva sempre le difese di Mary, la signora l'avrebbe licenziata subito.»
«Perché mio zio la difendeva?»
«Sapete com'era vostro zio, no? ― C’ha sempre avuto un modo tutto suo di vedere le cose. Quel che per la padrona era imperdonabile, per lui era una ragazzata da niente. Rimproverava a madam di essere troppo severa.»
«E che potete dirmi della morte di Mary? Eravate tutti sotto lo stesso tetto. Nessuno ha almeno immaginato che motivo abbia spinto Mary a togliersi la vita?»
Bert fece cenno di no.
«Pensateci bene! Cercate di ricordare i giorni precedenti...»
«Ricordare? Ricordare!» Bert si passò una mano sul viso. «Come se potessi mai dimenticarmene!»
«Che intendete?»
«Fu... fu tre giorni prima... prima del fattaccio.» Bert sembrava strapparsi a forza le parole di bocca. «Nel cuore della notte, nell’attico, ci svegliò uno strillo. Era Mary. Lei dormiva nella stanza piccola. Non stava insieme ad Abby e Lucy. Corremmo da lei, io e mia moglie, e la trovammo tutta scombussolata. Un cencio. Tremava dalla testa ai piedi. Disse... ecco una cosa veramente strana. Disse di aver visto un’ombra. Una sagoma. Nera. E stava ai piedi del suo letto. Era una persona, diceva. Con la faccia tutta coperta di capelli, e sotto i capelli, due tagli rossi che parevano brillare.» Bert sospirò. «Non è che noi la si stette a sentire troppo. Hai fatto un brutto sogno, le dicemmo. Una tazza di tè e tornatene a dormire. E non se ne parlò più ― però...»
«Però?»
Anna a stento udì la propria voce: il cuore le martellava nelle orecchie.
«Nei giorni seguenti, Mary si comportò in modo diverso. All’epoca, non ci feci mica caso. Ma dopo quello che è successo, a ripensarci... come se ne stava zitta e quieta, ecco. E con certi cerchi viola sotto gli occhi. Sembrava c’avesse la testa chissà dove. Quasi dormiva in piedi. Ruppe un vaso, tanto stava distratta. La signora le diede una strigliata e lei sempre muta. ― Finché, quella mattina... fu io a vederla per primo, sapete? Trovai la porta della veranda socchiusa ― e già quello mi preoccupò. Era l’alba. Faceva un freddo del diavolo. C’era foschia. Dovetti prendere una lampada. Uscii, scesi le scale, per andare dai cavalli, come sempre. Arrivai alla fontana... e Mary era lì. Galleggiava a braccia aperte, come un Cristo in croce. Scalza, con i capelli sciolti e addosso solo la camicia da notte.» La voce di Bert si era fatta talmente bassa che Anna, per afferrare il resto, dovette chinarsi verso di lui e  sforzarsi di ignorare il violentissimo batticuore. «Io... io la chiamai. La trascinai fuori dall’acqua. Ma era già morta. Da ore. Doveva essere uscita in giardino in piena notte, mentre tutti noi dormivamo.»
Anna aveva la bocca secca e il petto in fiamme. Una, due, tre volte respirò, prima di trovare la voce per chiedere: «E... non... non ha lasciato nulla? Nessun messaggio? Niente di niente?»
Bert scosse il capo.
«Siete proprio sicuro?»
«Sicurissimo. Sono stato io a svuotare la camera e a riportare il baule alla madre. Mi fa male il cuore se ci ripenso. Era distrutta. Maledisse il giorno in cui sua figlia era andata a servizio a Bon Fleur. E maledisse tutta la casa. E tutti i Woodhams. Secondo lei, l'avevano spinta loro al suicidio. Ma, sapete, io non credo proprio che Mary si sia ammazzata per qualcosa che le hanno fatto i padroni. Nessuno s’ammazza per quattro rimproveri... A un certo punto, vista la reputazione di Mary, si iniziò a dire che forse era gravida e che chi aveva fatto il danno se ne era lavato le mani.»
«Ed era vero?» sussultò Anna. «Aspettava un bambino?»
«No. I dottori dissero che non c’era nessun bambino. Non c’aveva proprio niente che non andasse. Era sana come un pesce.»
In quel momento, una delle candele si spense, annegando nella cera, e Anna piombò nel barato del silenzio. Prese a fissare le proprie mani, serrate l’una nell’altra, senza nemmeno battere le palpebre.
«I... i miei zii» riprese, a fatica, «hanno pagato il funerale di Mary?»
«Sì. Come lo sapete?»
«L’ho letto in uno dei registri della contabilità.» Anna si voltò di scatto. «Non c'è nient'altro che sapete dirmi, Bert? Le... le altre due cameriere: a loro cosa è successo?»
«Si sono licenziate.» Bert si strinse nelle spalle. «Prima quella storia della sagoma nera. Poi Mary. Si impressionarono parecchio. Dissero che il fantasma di Mary infestava la villa. Chiacchiere su chiacchiere, e poco ci mancò che i signori non restassero a corto di personale. Non ci volevano venire, le cameriere, a lavorare a Bon Fleur.»
«Aspettate... ma Abigail e Lucy hanno visto il fantasma?»
«Ma che! No! E nemmeno io e Sophia. Non c'è nessun fantasma, là. È solo che dopo la morte di Mary, di notte, ogni scricchiolio e ogni sibilo giù per un camino è diventato un fantasma. ― Adesso, posso farvela io una domanda, signorina?»
«Sì...»
«Che ne sapevate, voi, della fontana? Perché siete venuta a domandarcene?»
Anna fece scivolare le dita sull’anulare della mano destra: avvertì la durezza dell’anello sotto la stoffa del guanto. «Solo... solo una sensazione» bisbigliò.
«Ah...» Bert, che la guardava con la coda dell’occhio, scosse il capo. «Voi, lasciatemelo dire, siete un bel po’ strana. Sophia l’ha detto subito. Mica per cattiveria, eh, ma... insomma, si sa... con una madre come la vostra. È gente mezza pagana, quella. Non v’offendete, eh...»
Anna non era offesa. Sopratutto perché non stava prestando ascolto ai borbotti del vecchio. Rifletteva. A fatica, ma rifletteva.
«Avete detto che Mary occupava la camera piccola. È la camera in cui adesso dorme Lily?»
«Si...»
«I numeri...» mormorò Anna. «Bert! ― Quando Lily vi domandò dei segni che abbiamo trovato sul pavimento, sotto al letto ― lei mi ha detto che voi e vostra moglie non ne sapevate nulla. È la verità?»
Il vecchio distolse lo sguardo e serrò le labbra. «È vero... a metà» sussurrò. «Io non dissi nulla. Fu Sophia a rispondere e lei non mentì. Sophia non ne sa nulla.»
«Ma voi sì.»
«Io. E vostra zia. E nessun altro. ― Vedete, la mattina in cui trovai Mary, la padrona fu la prima a entrare in camera della poveretta. E vide la scritta sul pavimento. Doveva averla fatta Mary, pensò. Allora, mi chiamò e mi disse di farla sparire. Voleva che la cancellassi.»
«Perché?»
«Non lo so. Era agitata. Nervosa. Quasi arrabbiata. Insomma, c’era una donna morta nel suo giardino e l'ispettore di polizia al cancello. E io ho solo fatto quel che mi ordinava. Ma a un certo punto, perse la pazienza. Ci stai mettendo troppo! esclamò. Prima che finissi di cancellare la prima lettera―»
«Lettera! Come? Il primo segno era una lettera?»
«Sì. Una D. ― Mi fece spostare il letto per nascondere tutto.»
«Ma senza dire perché?»
Bert annuì.
‘L’ha fatto per paura? O conosce il significato dei numeri?’
«Adesso, direte a vostra zia che ho parlato con voi?»
«No...» rispose Anna, sovrappensiero.
«Non avrei dovuto comunque raccontarvi di quella brutta storia. Vi siete agitata, e non vi fa bene ― agitarvi. Vi tremano le mani. E mi sembrate impallidita...»
E il vecchio Bert aveva perfettamente ragione.
«Sto bene» obbiettò Anna. «E voi ― voi adesso dovreste tornare da vostra moglie. È tardi.»
«E voi, invece? Perché siete da sola, lontana da Bon Fleur, a quest’ora? Si sta facendo buio.»
«Non ho paura del buio.»
Quando Bert se ne andò, Anna rimase seduta, immobile, su quella panca.
Le due donne erano uscite e l’uomo era scomparso oltre le transenne del coro; tutte le vetrate erano buie.
A un certo punto, Anna si alzò.
E ricadde subito seduta.
‘L’ombra nera con gli occhi rossi.’
Dunque, non era solo la morte a inseguirla.
Afferrò con una mano la spalliera della panca di fronte a lei. Strinse. E si rialzò in piedi. Aveva il respiro corto, leggero, rumoroso. «No... no... no... oh Dio, no...» Camminò in su e in giù, lungo le panche, e alla fine si lasciò andare con la schiena contro una delle colonne: le girava la testa, temette di svenire, ma si aggrappò alla lucidità con la disperazione di un naufrago che nuota verso una cima gettata in mare.
Non sapeva come reagire, ma sapeva che prima di prendere qualsiasi decisione, c’era una cosa di cui doveva assolutamente assicurarsi.
E non avrebbe perso altro tempo.






➽ Note.
L’epitaffio sulla tomba degli Hall è tratto dai Salmi: ‘Quand'anche camminassi nella valle dell'ombra della morte, non temerei alcun male perché tu sei con me; il tuo bastone e la tua verga sono quelli che mi consolano.’ Come scrissi già nelle note a uno dei primi capitoli, preferisco utilizzare l’inglese per alcuni termini o frasi.
Con la fine dell’estate, anche il mio tempo ‘libero’ si è ridotto. Io non mollo, ma mi sembra doveroso scusarmi per il lungo ritardo nella pubblicazione questo nuovo capitolo. Ringrazio tutti i lettori che continuano a seguirmi & tutti quelli che si sono aggiunti anche durante il periodo di stallo!

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Fantasmi ***


16.

XVI. Fantasmi




Era un orario inaccettabile per le visite e le maniere di Ledford, maggiordomo di Ellsworth House, iniziarono a vacillare davanti all’insistenza di Anna. «Permettetemi di ripetere» disse l’uomo in livrea, trattenendo l’ospite a un passo dall’uscio. «Al momento, i signori non sono in casa. Se poteste essere tanto cortese da lasciare un biglietto da visit―»
«E io lo ripeto a voi» interruppe Anna. Più cercava di tenersi stretta la pazienza, più la sentiva sfuggirle di mano. La sua insana agitazione era palpabile: nel gesticolio, nello sguardo acceso, nel tono sussurrato. «Non sono qui per gli Hall. Ho solo bisogno di entrare. Devo controllare una... cosa. Non sapranno che sono stata qui.»
Sul viso del maggiordomo si accomodò una cortese espressione di simil-orrore. «Signorina.» Allargò le narici del lungo naso gibboso e irrigidì le spalle. «Per favore, andate via.»
«Oh, avanti! Che volete? Soldi?»
«Signorina ― per favore ― andate via.»
Ledford, con le mani inguantate di bianco sui pomelli, era sul punto di chiudere la porta e Anna, dita serrate, era a tanto così dal tentare di introdursi a Ellsworth House passando sul corpo privo di sensi del maggiordomo, quando un avvicinarsi di passi annunciò l’arrivo di una terza persona: qualcuno scendeva le scale dell’ingresso.
«Ledford!» William si bloccò tra il terzo e il penultimo gradino, una mano sulla balaustra e l’altra a ciondoloni lungo il fianco; indossava un panciotto grigio antracite e una camicia bianca dai polsini abbottonati, ma era senza giacca e senza cravatta. La sorpresa ravvivò gli occhi cerulei dello scritturo, per poi lasciar campo a un laconico sorriso da gentiluomo del Kent. «Ledford, perché mai fate attendere miss Hawkins sul portico, come una mendicante?»
William li raggiunse e il maggiordomo si fece da parte, per cedere l’entrata ad Anna.
«Desolato, signore. Mi avete espressamente detto di non voler essere disturbato, in nessun caso, da chicchessia. Ignoravo che la signorina Hawkins rappresentasse un’eccezione.»
«Miss Hawkins rappresenta un’eccezione sotto molti aspetti ― temo.» E mentre Ledford chiudeva la porta e abbandonava l’ingresso, William soggiunse: «Davvero non immaginavo che avremmo ricevuto una vostra visita così presto.» C’era un che di esitante nella garbata dichiarazione: l’uomo chinò lo sguardo; strofinava debolmente, pensosamente quasi, i polpastrelli macchiati d’inchiostro.
Anna sollevò la veletta. Erano di nuovo soli, proprio là dove erano stati interrotti la sera della maledetta cena: ai piedi della scala, sotto lo sguardo del vecchio Hall. Ma se allora Anna aveva indugiato in un piastriccio di fastidio e desiderio, adesso smaniava per togliersi William dai piedi. Guardava lo scrittore; e guardava la sommità delle scale, oltre le spalle di lui.
«Tuttavia, se siete qui per mia sorella, o per Augusta, devo comunicarvi che non torneranno nel futuro più prossimo» stava spiegando William. «Mio fratello e mia cognata hanno reputato inopportuno restare qui, dopo quanto accaduto. Hanno scelto di trasferirsi, in primo luogo, per le bambine. Ada è andata con loro.»
«Trasferirsi? E dove?»
«Fuori città, nella casa sulla collina: la vecchia villa Hall. Mi rincresce che siate venuta fin qui inutilmente.»
«Non sono qui per loro.»
 William alzò gli occhi: la sorpresa si riaffacciò nello sguardo.
«Dunque, volete... accomodarvi?»
«No.»
Un respiro di tentennamento abbandonò le sottili labbra dello scrittore. «Miss Hawkins ― lungi da me offendervi, ma l’ora è tarda e voi apparite turbata. Sbaglio, forse, a ipotizzare che questa non sia una visita di cortesia? Se è accaduto qualcosa a Bon Fleur, io―»
«Devo vedere lo studio.»
«Lo studio? Il nostro studio?»
«No, lo studio della regina. ― Sì, il vostro studio, signor Hall. Quello dove mio zio s’è ammazzato. Avete presente?»
Messo davanti a quello spettacolo di malagrazia, con un lento battito di palpebre, William corrugò la fronte.
«E posso chiedervi perché?»
«No.»
Silenzio.
E poi, contro ogni previsione di Anna, William arretrò di un passo e indicò le scale con un molle gesto del braccio. «Prego.» E fece strada.
Anna lo seguì, fissandone la schiena, ampia e diritta, con un vago sentore di sospetto, sul quale, però, preferì non soffermarsi. Salirono le scale, percorsero il corridoio e raggiunsero lo studio. William aprì la porta, sospingendola.
La stanza era buia.
William entrò. Dalle eleganti campane di vetro di due lampade, appoggiate sullo scrittoio, si sprigionò un chiarore aranciato. La luce rivelò la mobilia: una poltrona di velluto verde, accanto alla finestra, occultata dalle tende; i libri sugli scaffali, infilati nel muro; le anfore di ceramica e le brocche di bronzo, disposte sulla mensola del caminetto; in una nicchia, stava il busto bianco di un vecchio dalla barba riccioluta e il piglio severo di un profeta.
Anna non aveva badato ai dettagli, la prima volta in cui era stata nello studio. Né li guardava ora, immobilizzata sulla soglia. Fissava il punto esatto in cui aveva visto il corpo scempiato dello zio Woodhams: sul pavimento, al centro della stanza. Il tappeto era stato tolto e il parquet riluceva per la cera. Anna temette di dar di stomaco, tanta era la violenza con la quale sentiva le viscere ribaltarsi, mentre si imponeva di avanzare. Da lenti e contriti, i suoi movimenti divennero pian piano più sciolti: attraversò lo studio, scostò le tende e scrutò, con gli occhi e con il tatto, gli infissi della finestra; fece scorrere le dita lungo il davanzale interno: lindo, liscio e senza l’ombra di un graffio. Allora, guardò giù, oltre il vetro: la finestra dava sul giardino e non c’erano sporgenze sottostanti, né alberi vicini. Percorse passo passo il perimetro dello studio, bussando contro il pregiato legno delle Indie Orientali, che copriva interamente le pareti; tre volte accostò l’orecchio ai pannelli, ma tutte e tre le volte scoprì di essersi ingannata: il muro non risuonava a vuoto.
In quanto a William, rimase immobile, in piedi, di fianco allo scrittoio, con la fronte bianca solcata da una ruga di crescente incertezza. E quando Anna iniziò a prendere a colpi di tacco il parquet,  non poté più tacere: «In nome di tutto ciò che è ragionevole, che cosa state facendo?»
«Dite un po’, siete sicuro che non esista una terza chiave? Oppure... un altro modo per entrare. Deve esserci un altro modo per entrare.»
«Buon Dio, state cercando dei passaggi nascosti.»
Anna si mosse verso la libreria e tirò giù uno dei tomi. William scattò verso di lei, agguantandola per un gomito, e la spinse a voltarsi verso di lui, che la scrutava con un fremito di supplica nel  azzurro freddo degli occhi. «Non ci sono passaggi nascosti, in questo studio. C’è una sola entrata. La porta. Che era chiusa dall’interno. Fu vostro zio a chiuderla.»
«Solo perché voi non siete a conoscenza di passaggi segreti, non vuol dire che non ce ne siano. C’è un motivo se li chiamano ‘segreti’!»
«Ditemi che non vi siete veramente convinta di quel che sto immaginando.»
«Che volete che ne sappia io di quello che vi passa per la testa!»
«Credete che vostro zio sia stato assassinato.»
«Sì» ringhiò Anna; la paura trattenuta dietro un ennesimo velo di lacrime.
«No, miss Hawkins...»
«Sì!»
«È stato un suicido.»
«Mio zio non aveva nessun motivo per voler morire. Deve essere stato un omicidio.»
William, senza accennare a perdere un solo grammo di calma e ragionevolezza, accolse il viso accaldato di Anna tra le proprie mani; aveva i palmi morbidi, la pelle fresca, e la sua carezza odorava di inchiostro. «So bene come vi sentite, in questo momento. So quanto state soffrendo.»
«No, non lo sapete...» mormorò Anna, debolmente. Si tirò indietro. Le gambe trovarono la poltrona e lei andò giù, seduta sulla sponda del sedile.
«Vi sbagliate» proseguì William, chinandosi su i talloni, davanti ad Anna. «Avete dimenticato che io conoscevo vostro zio sin da quando ero bambino. È stato un parente anche per me. Un buon parente. Un parente amato. Perciò non dubitate quando vi dico che non passerà giorno in cui non mi rimprovererò di non aver saputo indovinare la sofferenza segreta che lo tormentava. Ma voi, Anna, non torturatevi. Nessuno ha ucciso vostro zio. Nessun assassino misterioso è entrato da questa finestra, in una notte di pioggia, senza lasciare nemmeno un’impronta sul pavimento. E non ci sono passaggi segreti. Né colpi di scena. Non siamo nella Rue Morgue. Questo non è un romanzo. È la vita. E la morte giunge per motivi insondabili a noi umani. Arriva ― arriva anche quando crediamo di aver, finalmente, il nostro epilogo felice. Arriva e prende ciò che vuole.»
Anna si morse le labbra. «Non dovete spiegare a me come funziona la morte. Ma questa volta ― almeno questa volta ― ho bisogno di un assassino. Ho bisogno di qualcuno in carne e ossa, perché―»
«Perché credete di poter lenire il dolore, se aveste un viso contro cui rivolgerlo. Perché adesso il dolore vi sta divorando. Giorno e notte. Ogni minuto, ogni respiro, ogni pensiero ― non vi dà tregua. Non vi date tregua.» William coprì le mani di Anna con le proprie. «Se in questi anni passati ho imparato qualcosa... datemi ascolto: non inseguite fantasmi.»
«Fantasmi?» ripeté Anna, sottovoce, colpita dalla parola.
«Fantasmi. Fantasie
«Fantasmi...» disse, ancora, Anna, in un sussurro spento. Scosse il capo. Inspirò. «Posso avere un bicchiere d’acqua?»
«Sì.... sì. Certo. Voi attendete pure qui. Restate seduta e cercate di calmarvi.»
William uscì e Anna rimase dov’era. Sfilò via i guanti, piano, prima il sinistro e poi il destro. E stesa debolmente la mano, stette a guardare l’anello.
E il cristallo si tinse di rosso.
Questa volta, davanti al responso che andava cercando pur temendolo quanto la morte stessa, Anna non parve reagire. Abbassò la mano, raccolse le dita e calò le palpebre sugli occhi lucidi. «Fantasmi» esalò. E mentre il viso si induriva in una maschera di apatica rassegnazione, qualcos’altro nel suo sangue e nei suoi muscoli scalciava, domandando di venir lasciato a briglia sciolta.
E Anna lo lasciò uscire.
William tornò: si era premurato di portare di persona il bicchiere d’acqua, adagiato su un piattino. Trovò Anna ancora seduta in poltrona. «Ecco. Ma del vino speziato potrebbe giovarvi maggiorm―»
Il bicchiere s’infranse, il piattino andò in cocci e l’acqua si sparse sul bel pavimento: William venne spinto con violenza contro la libreria, cozzando la nuca contro il legno.
Anna lo teneva fermo: una mano serrata sul colletto della camicia, l’avambraccio contro il petto e la punta di un tagliacarte alla gola; l’aveva rubato dello scrittoio, mentre era sola. «Che cosa avete fatto?» ringhiò, espirando dal naso come un animale furioso.
William annaspò. Spalancò gli occhi per la pressione contro il petto e il completo spaesamento: come lo strozzino di Goudhurst Close prima di lui, non sembrava capacitarsi di dove provenisse la forza che lo inchiodava alla parete.
«Di cosa andate parlando?»
«Tu ― e mia zia ― che cosa avete fatto? Che cosa c’è tra di voi?»
«Non... non dovete dare ascolto alle malelingue. Qualunque cosa abbiate sentito dire―»
«Siete il suo amante?»
Con una lama puntata alla gola, William ebbe la dignità di sollevare il mento e indurire la mascella. «Non voglio nemmeno rispondere a una tale bassa insinuazione.»
Anna lo lasciò andare così bruscamente che lo scrittore, per un attimo, parve sul punto di perdere l’equilibrio. «Ma, in qualche modo, voi siete suo complice. Perché siete andato a trovarla, quando mio zio era a Londra? Perché vi ha ricevuto nella sua stanza da letto?»
William reclinò il capo contro la libreria, strofinando una mano sul petto indolenzito. «Non sono affari che vi riguardano» ribatté, a denti stretti.
«Ma davvero?»
«Davvero.»
Anna arretrò e indirizzò il tagliacarte verso William. «Siete fortunato che io sappia bene quanto la tortura sia inaffidabile, quando si vuole la verità.»
William emise un verso scettico, a labbra serrate, a metà tra un principio di risata e un colpo di tosse. «Fortunato, sul serio, a trovarmi alla mercé di cotanta civiltà. Avete mai preso in considerazione l’idea di partecipare agli incontri di pugilato, in certe sudice bettole della vecchia Londra?»
«Tenete presente questo: zia Woodhams non è mia amica. E se voi state dalla sua parte, allora state contro di me. Se scopro che avete a che fare con la morte di mio zio, vi farò pagare le conseguenze. A tutti e due.»
«Chi siete voi per presentarvi in questa casa, accusare e minacciare?»
«Sapete già chi sono, signor Hall. L’avete detto ad Ada, una volta. Qualcuno da un altro mondo.»
Piantò il tagliacarte sul tavolo.  E si voltò.
Fu solo la voce rancorosa di William a inseguirla.
«C’è qualcosa di anormale in voi, miss Hawkins. Profondamente anormale.»
Anna oltrepassò l’uscio. ‘Non posso darti torto.’ E scese le scale. Nessuno la fermò e in un attimo fu fuori da Ellsworth House. I pochi domestici rimasero ignari dell’accaduto e William, con uno sguardo serio, cupo e consapevole, animato da profonda preoccupazione e nessuna paura, si trattenne nella stanza del delitto. Tirò via il tagliacarte. Poi, a passi lenti, raccolse dal pavimento i guanti di seta nera: erano caduti quando Anna si era alzata di scatto dalla poltrona. Ed erano stati dimenticati. Lui li strinse. E, di nuovo, guardò il taglio inferto allo scrittoio.

*

A Bon Fleur, Anna trovò una convocazione, nel boudoir, che non poteva essere posticipata neppure per il tempo di togliersi cappellino e soprabito. «Dove sei stata?» la interrogò la zia Woodhams. La sua figura nero vestita occupava regalmente la dormeuse. Stava ricamando: un fazzoletto nero, intrappolato nel cerchio del telaio, e del filo rosso infilato nel sottilissimo ago. La gelida pacatezza della voce, bassa e ferma, bastò a far comprendere ad Anna quale intimo disappunto e preoccupante malumore avesse instillato nell’animo della zia. Tuttavia, la mente di Anna era troppo poco presente, in quella stanza, per potersene curare davvero. «Al cimitero. Alla tomba dello zio» rispose, atona, ritta in piedi; il fuoco nel camino dietro di lei, gettava la sua ombra sul tappeto indiano.
«Per l’intero pomeriggio?»
«Sono andata... a passeggio, poi. Lungo il fiume. Volevo... speravo di distrarmi.»
«Se pensi che stare all’aria aperta possa giovare al tuo stato d’animo, ti accorderò il permesso di uscire un quarto d’ora al giorno, durante le ore più calde, purché tu prima svolga prima i tuoi doveri domestici. Ma non voglio che tu vada vagabondando per Maidstone, o al villaggio, sotto lo sguardo di tutti. Il lutto deve esser vissuto in privato. Da oggi in avanti, delle commissioni si occuperà Lillian.»
Anna acconsentì alla prigionia facendo scena muta.
La zia continuava a ricamare. «E non credermi cieca» aggiunse, a mo’ di monito. «Mi rendo conto che, a modo tuo, dovevi essere affezionata a Walter. Ma è nostro dovere non cedere alla debolezza, Anna. ‘Noi siamo tribolati in ogni maniera, ma non ridotti all'estremo; perplessi, ma non disperati.’» In quel momento, entrò Lily: portava il vassoio con il tè;  a testa bassa, spiando zia e nipote con la coda dell’occhio, raggiunse lo scrittoio e mise giù il vassoio. «Ma tu hai la sfortuna d’aver ereditato una malsana inclinazione ai sentimenti violenti» seguitava a pontificare la signora Woodhams. «Jonathan era come te: tutto stomaco e niente testa. In quanto alla donna che ti ha messo al mondo, è risaputo e provato che la sua razza sia un crogiolo di viziosi. Tu sei come loro. E si vede ora, nella difficoltà, più che in passato. ― Lillian, osserva Anna: non pensi anche tu che la mia disgraziata nipote mostri segni di logoramento?»
Chiamata in causa, Lily portò le mani dietro la schiena e fissò l’orlo della gonna di Anna.
«Non saprei davvero dirlo, madam.»
«No, naturalmente. Tu non sai mai nulla» sospirò la signora. «Ora: fuori.» E fece gesto di uscire dalla stanza; gesto al quale entrambe le ragazze obbedirono all’istante.
«Ma dove sei stata?» domandò Lily, in un sussurro preoccupato, non appena lei e Anna furono in cucina. «Dove sei stata veramente?»
«Non chiedermelo...»
«Ma sono preoccupata! Prima quella lettera e adesso sparisci per ore e ore. E tua zia non ha torto, sai? Hai davvero una brutta cera. Sembri stravolta.»
Ma Anna le dava la schiena; incrociò le braccia e lasciò crollare le spalle. «Non... posso dirtelo. Non capiresti...»
Lily arretrò di un passetto. «Vedo che almeno su qualcosa tu e madam siete in accordo. Io sono solo una sciocca. È risaputo che le cameriere si intendono soltanto di argenteria e pettegolezzi.»
«Oh, smettila» Anna si volse di scatto. «Lily..» Cercò la mano della cameriera. La strinse, con fervore. «Lo sai che mi fido di te. Sei la mia unica amica, qui.» Esitò. «Io... ti dirò tutto. Solo ― non adesso. Adesso, devo chiederti un favore.»
«Sì?»
«Dormi con me, questa notte. Non voglio che te ne stai da sola nell’attico. Almeno per questa notte. Ti prego.»
Lily batteva le palpebre nella più perplessa e intimorita delle espressioni. Sospirò. Scuoté fiaccamente il capo. «E va bene» balbettò. «Io davvero non ti capisco, però se la cosa ti farà calmare ― va bene. Per questa notte.»
Ma la presenza di Lily, raggomitola sull’altro lato del letto, non ebbe alcun effetto benefico sui nervi di Anna. Lei stava seduta, con le gambe tirate al petto e la schiena contro la testiera. Aveva lasciato le tende spalancate e lo spettrale chiarore dell’ultimissima falce di luna a malapena le permetteva di distinguere le sagome dei mobili. Anna vegliò per tutta la notte, fissando in  cagnesco la porta, ascoltando il battito del proprio cuore, il respiro leggero di Lily, lo scricchiolio del letto.






Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** L'ultimo tassello ***


17.





XVII. L'ultimo tassello




«Svegliati, Anna. Svegliati...»
Anna sollevò la guancia dal cuscino. Vide Lily, nell’abituccio azzurro, in piedi accanto al letto. Reggeva un vassoio: tè e scaglie di cioccolato, burro per il pane abbrustolito e marmellata per gli ultimi scones della dispensa. Lily era cosciente della predilezione di Anna per i dolci a colazione, ma quella mattina lo stomaco di Anna doveva esser stato sostituito da una palla di cuoio: non si sentiva in grado di mandar giù mezza briciola. «Che ore sono?» bofonchiò. Era giorno, ma un giorno senza sole.
«Quasi le otto e un quarto.»
Ad Anna sfuggì un rantolo.
«La vecchia sarà su tutte le furie...»
«Ti crede in cucina» rassicurò Lily, adagiando la colazione sullo scrittoio.
«Perché non mi hai chiamato, quando ti sei svegliata?»
Lily sospirò. «Pensi che non sappia che questa notte non hai chiuso occhio?» La voce era arrochita da una pazienza amareggiata, vicina alla rassegnazione.
La testa di Anna ricadde di peso sul cuscino: le doleva la fronte e le pizzicavano le palpebre. Non ricordava quando si fosse addormentata, né cosa avesse sognato, ma suppose di essere crollata poco prima dell’alba. Espirò contro il cuscino.
«È arrivata posta?»
«No. Non ancora, almeno.»
‘Bene.’ Anna era risoluta a intercettare la posta per prima.
E ci riuscì.
Un'ora più tardi, mentre Lily era al mercato di East Farleigh, un corriere si presentò a Bon Fleur con due lettere e un pacchetto; le prime erano indirizzate alla signora Woodhams, il terzo alla signorina Hawkins. Richiusa la porta e stretta la corrispondenza al petto, lesta e guardinga come un gatto che ha saccheggiato la cesta di un pescatore, Anna salì di corsa in camera e girò la chiave nella toppa. Strappò il pacchetto. Conteneva una decina di pagine di giornale.
Anna spiegò la prima: Maidstone Journal and Kentish Advertiser annunciavano i caratteri ― neri, grossi, acuminati come quelli di un manoscritto medievale ― la data era il 18 maggio 1873 e il titolo, al centro del foglio, gridava: Orrore in Gabriel’s Hill. L’illustrazione sottostante grondava pathos: una stanza piena di balocchi; sul letto, tre piccoli corpi celati da un lenzuolo, dal quale spuntava una manina stretta al braccio di una bambola; a terra, una donna in ginocchio, con il viso affondato tra le mani; sull’uscio due uomini, di cui uno in abiti da poliziotto, dalle espressioni grottescamente distorte per lo sgomento.
Anna non volle sfidare la sorte e insospettire la zia Woodhams: avrebbe atteso la sera per setacciare gli articoli. Nascose tutto sotto il cuscino, raccattò le lettere e tornò al piano inferiore.
Bussò alla porta del boudoir.
«Entra.»
Anna obbedì.
Milton sonnecchiava sulla dormeuse. La zia Woodhams era allo scrittoio. «Hanno suonato quasi cinque minuti fa» disse la zia. Picchiettò il pennino contro la boccetta di vetro, per liberarsi dell’inchiostro in eccesso. «Ti sei attardata in chiacchiere?»
«Era il corriere a voler chiacchierare» mentì Anna, prontamente. Mise le lettere sullo scrittoio. «Mi sembrava sgarbato chiudergli la porta in faccia.» Si ritrasse di un passo.
La signora abbassò il pennino e raccolse le lettere. «Lieta che tu stia iniziando a comprendere il concetto di maleducazione, ma non devi incoraggiare gli uomini a parlarti.»
Anna non ribatté. Piuttosto, se ne restò a osservare le magre mani della zia, attendendo di veder aprire le lettere e scoprirne i mittenti. Sebbene non credesse di aver riconosciuto la calligrafia di William, aveva ottimi motivi per volersi accertare che non giungessero messaggi da Ellsworth House.
La zia spezzò un sigillo ma, invece di spiegare il foglio, alzò lo sguardo contro la nipote. «Che cosa fai ancora qui? Non hai oziato abbastanza ieri?»
Anna schiacciò la guancia tra i denti. Poi, chinò il capo e si mosse verso la porta.
«No. Aspetta. Torna qui. Fatti guardare meglio.»
E Anna, come un burattino, agì di conseguenza.
La fronte livida della zia Woodhms venne intaccata da una ruga, che assunse alla svelta la forma di un cruccio di rimprovero. «Hai un aspetto terribile. Non ti sarai presa un malanno, a furia d’andare a zonzo?»
«Io non ho dormito... molto bene. Tutto qui.»
«Mi domando se non sia il caso di chiamare il dottor Easton.»
«Non mi servono dottori. Sono stanca. Non malata.»
«Quand’è così, ti consiglierei di andare a riposare, ma non possiamo alterare ulteriormente il programma dei lavori domestici. Condurre una casa richiede costanza e fermezza. ‘Le mansioni di una padrona di casa somigliano a quelle di un generale dell’esercito.’ Naturalmente, se ieri non avessi saltato il lavoro, oggi potremmo permetterci una pausa―»
«Allora» interruppe Anna, «col vostro permesso, torno ai miei doveri.» Avrebbe voluto chiedere perché continuare a usare il ‘noi’ se a lavorare era ‘lei.’ E avrebbe voluto dire molte altre cose; cose che dovette inghiottire, come un boccone amaro, mordendosi le labbra, mentre lasciava il boudoir.

*

Undici rintocchi ruppero il silenzio dell’atrio. Lily non era ancora tornata. Anna, in cucina, lavava le verdure per il pranzo in una tinozza; l’acqua era talmente fredda che, nell’udire l’improvviso scampanellio dal tinello accanto, una parte di lei esultò per il sollievo. Abbandonò immediatamente le verdure, sfregando le mani, rosse come pomodori, in uno strofinaccio. Il campanello continuava a dondolare. «Arrivo... arrivo...» Anna gettò lo strofinaccio.
Pochi secondi dopo fu sulla soglia del boudoir. La zia Woodhams aveva momentaneamente lasciato lo scrittoio per godere del caminetto: se ne stava semidistesa sulla dormeuse; il cesto del ricamo, in fondo al divanetto, era aperto. Venne comunicata l’urgenza: la signora voleva del tè, e che venisse dal barattolo del darjeeling; ma prima voleva che Anna andasse a prenderle il telaio.
«L’ho dimenticato nella mia stanza. Fa’ in fretta e bada a non toccare nulla.»
Così Anna mise piede, per la prima volta, nella stanza della zia Woodhams. E la scoprì tutt’altro che peculiare: alle pareti tappezzeria color pulce, ovunque la medesima opulenza che appestava il resto della villa e, nell’aria, il profumo di fiori secchi che era un tutt’uno con la pelle e gli abiti della vedova. Era la camera di una signora, nulla di più e nulla di meno.
Anna individuò il telaio, sullo sgabello della toletta, e avanzò verso il tavolo. Nel muoversi, però, scorse la parete dietro il paravento cinese.
E vide una porta. Chiusa.
Era la porta della nursery.
Le gambe di Anna si bloccarono. La curiosità era tale che le parve di avere una corda attorno al polso. All’altro capo della corda, l’elegante pomello di bronzo intarsiato sembrava strattonarla con una dolcissima insistenza.
Non fu la forza di volontà a farla desistere. Fu un sussulto di timore ― nell’istante in cui qualcosa di leggero e freddo, come un fiocco di neve, lambì il retro del collo.
Anna si voltò di scatto, coprendo il collo con la mano.
Ma niente niente, e nessuno, poteva averla sfiorata. Era sola. Eppure, la sensazione di essere spiata divenne d'un tratto così violenta, così reale, che Anna dovette prendere tre lunghi respiri prima di sentire il cuore rallentare un poco la corsa.
Si precipitò alla toletta e agguantò il telaio, mentre gli occhi andavano al ripiano dinanzi a sé: era assediato da un’ordinata distesa di spazzole e pettini, forcine e spilloni, flaconcini di vetro colorato e scatoline di ceramica dipinta; nel mezzo, un portagioie di malachite. A catturare lo sguardo di Anna, però, fu un dagherrotipo in un cofanetto di pelle nere. L’immagine dietro al vetrino, scura e un poco sfocata, ritraeva i mezzibusti di un uomo e una donna; piuttosto giovane lei, vicino alla mezz’età lui, si tenevano sotto braccio. Il dagherrotipo doveva risalire almeno a vent’anni prima: era palese. Non solo perché il supporto era antiquato, ma sopratutto perché la donna dell’immagine era la zia Vivian. Indossava abiti chiari, una mantellina di pizzo e un cappellino a capote. In quanto all’uomo: non era lo zio Woodhams, ma un biondo gentiluomo dalla mascella quadrata, la fronte bassa e le sopracciglia diritte, catturate in un’espressione di distacco. Anche lui era abbigliato di chiaro e sfoggiava una vistosa cravatta attorno al colletto, alto fin quasi a sfiorargli il mento.
Chiunque egli fosse, se la zia ne teneva l’immagine lì, sul tavolo dove sedeva ogni mattina e ogni sera, doveva trattarsi di un uomo importante. Anna era già fuori dalla camera, mentre concludeva il pensiero, e scendendo la scala a chiocciola soppesò l’idea di domandare apertamente alla zia l’identità dell’uomo.
Ma il pensiero venne scalzato via quando Anna si rese conto di cosa aveva per le mani.
Si arrestò sull’ultimo gradino e fissò il telaio. I due cerchi tenevano fermo il fazzoletto nero che la zia stava ricamando la sera precedente; e il ricamo, incompleto, era una fantasia di fiori rossi. Anna toccò con i polpastrelli la stoffa tesa. Che una vedova preparasse per sé accessori a lutto non era sospetto, tuttavia lei non poté non ricordare i resti che aveva trovato tra la cenere del parlour, insieme al fazzoletto di Mary.
‘Stoffa nera e filo rosso.’
Quando Anna tornò nel boudoir, la zia era ancora sulla dormeuse. Le porse il telaio e la signora se ne appropriò senza smuovere lo sguardo dal fuoco.
«Posso farvi una domanda?»
Nessuna risposta.
«Ho visto che tenete un dagherrotipo sulla toletta...»
A quel punto, la signora Woodhams posò gli occhi scuri sulla nipote: uno sguardo talmente serio da risultare indecifrabile.
«Era lì. Davanti a me. Non ho potuto non vederlo» si giustificò Anna.
«E dunque?»
«L’uomo è mio zio? Intendo: l’altro mio zio. Vostro fratello minore.»
«No, sciocca. Andrew morì giovanissimo.»
«Oh, è vero. Allora, di chi si tratta?»
La signora Woodhams sistemò il telaio in grembo e prese a frugare nel cesto. «È un monito»  dichiarò, con indifferenza. Tirò via una gugliata di filo dal rocchetto. «Risale a molto, molto tempo fa.» Tacque. E poi, con un tono lievemente diverso, infuso di una fredda ponderatezza, disse: «E forse non sarà male condividerne il contenuto con te, nipote.» Un altra pausa. «Posai per quella fotografia in occasione del mio fidanzamento, ma in capo a pochi mesi il promesso sposo ebbe la sua privata epifania. Come conseguenza, io scoprii che i sentimenti molli e le passioni romantiche sono, per il matrimonio, fondamenta d’argilla. Non ho mai amato tuo zio Walter ― è vero ― né sono mai stata ignara dei suoi difetti, ma è stata una scelta saggia, la mia. Ho ottenuto una sicurezza economica che non avrei mai potuto sperare di guadagnare, percorrendo altre strade.» Tagliò il filo con le forbici della chatelaine. Lo infilò nella cruna dell’ago. «Ricorda, Anna: vivere moderatamente appagati in una comoda casa, con la dispensa piena e un camino acceso, è un’aspirazione ragionevole. L’amore è volubile, inaffidabile, passeggero. Non resiste al tempo e, sopratutto, non paga le tasse e non assicura una vecchiaia dignitosa.»
Anna fece spallucce. «Be’. Io potrò anche essere incline ai sentimenti violenti ― come dite voi. Però, il romanticismo non m’appartiene proprio.»
«Buon per te.»
«Qual è il nome del gentiluomo che vi ha insegnato tanto?»
«Era un dottore» disse la zia. «Si chiamava Joseph.» E l’ago trapassò la stoffa.
Anna nascose la sorpresa voltando il capo di lato. ‘Mallory.’ Dunque, la zia Woodhams non era stata soltanto l’assistente del dottore. Erano stati fidanzati.

*

La giornata trascorse. Lenta, quieta e sempre più fredda. Nel pomeriggio, mentre puliva le finestre del salottino del disegno, frequentato tanto di rado da aver preso un gran puzzo di polvere, Anna notò quanto fosse lugubre, quel giorno, la campagna. La terra era ingrigita dalla brina e il cielo somigliava a un oceano di nebbia. Il mondo aveva perduto colore e gli animali la voce; non un belato, non un uggiolio; solo le cornacchie, che abitavano il tetto della villa, di tanto in tanto facevano sentire il loro sgradevole vociare.
Per Anna, persino la desolazione della natura appariva invitante, se messa al confronto con le vuote stanze di Bon Fleur Place: neppure per un attimo riuscì a liberarsi della sensazione di esser spiata da occhi invisibili e, non avesse saputo ciò che effettivamente sapeva, avrebbe iniziato a credere di star perdendo il senno.
Scese la sera e dopo cena, terminate le ultime faccende, Anna e Lily si separarono sulle scale di servizio, ognuna col suo mozzicone di candela.
«Buonanotte, Lily.»
«Buonanotte, Anna. Seriamente: cerca di dormire, questa notte.»
Lily le baciò la guancia e Anna forzò un sorriso. Poi, rimase a guardare l’esile figura della cameriera che spariva nel buio dell’attico, con addosso una spossatezza fisica seconda soltanto al crescendo di angoscia annidata nel suo stomaco.
In camera, chiuse la porta a chiave, accese la lampada a olio e recuperò le copie dell’Advertiser. China sullo scrittoio, una pagina alla volta, Anna mise assieme i dettagli dell’omicidio di Gabriel’s Hill. Era avvenuto nella notte a cavallo tra il diciassette e il diciotto maggio del 1873, tra le mura di una bella villetta. Quel che al tempo aveva stupito polizia, giornalisti e opinione pubblica ― stando ai toni usati negli articoli ― fu che Alice Mallory, in trentadue anni di vita, non aveva mai dato segni di disturbi mentali. Proveniva da una famiglia sanissima ed era descritta come una donna rispettata in società, affettuosa con lo sposo e con la prole, mai tiranna con i domestici; un modello di virtù, di modestia e di temperanza. Cene e ricevimenti, pianoforte e ricamo, beneficenza e opere pie erano stati i suoi interessi. Dunque, cosa avesse innescato la follia, e l’omicidio, nell’arco di una notte restava un enigma.
L’unico cambiamento che sia il dottor Mallory, sia la governante ― miss Angela Kinney ― avevano dichiarato di aver potuto individuare fu un ‘insolito languore’ durante la settimana precedente.  L’Advertiser aveva raccolto la testimonianza di miss Kinney:

‘Si svegliava stanca. E lo trovai un poco strano, La signora Mallory è sempre stata una donna attiva. A tratti, io notai che riprendeva colore ed energie, ma mai per più di una o due ore. La maggior parte del tempo lo trascorreva quasi come una convalescente, a letto o in poltrona.’

E uno degli articoli stampati nelle settimane successive riportava le dichiarazioni della polizia:

‘In merito alle presunte visite notturne da parte del marito, la signora Mallory nella sua cieca follia ha dichiarato: «È venuto per sette notti, quando la pendola batteva le tre. Ogni notte, al terzo rintocco lui era lì, in piedi accanto al letto, e i suoi occhi erano come carboni infuocati. È sempre stata mia abitudine tenere la porta della camera bloccata dal chiavistello, eppure lui riusciva a entrare, perché era il Diavolo a dargliene il potere. Si chinava su di me. Chiamava il mio nome. Sussurrava che io dovevo lavare via la sua colpa con il sangue dei nostri bambini. E io chiudevo gli occhi. E mi tappavo le orecchie. E lo supplicavo di andare via. Ma lui restava. E io dicevo di no. Ma a ogni visita diventava più difficile oppormi, perché le mie forze diminuivano, la mia volontà si indeboliva e i miei ricordi si annebbiavano. Giuro che durante quei sette giorni, al risveglio, non ho mai avuto memoria delle sue visite. Solo adesso ricordo. E solo adesso ricordo, l’ottava notte, di essermi levata dal letto, di aver preso il coltello dalla cucina e di esser entrata nella stanza dei bambini! I miei bambini! I miei angeli! Le mie creature innocenti! Li ho uccisi io, sì, ma ero una sonnambula. Ed era lui a controllare la mia mano.»’

La penna che aveva scritto l’articolo non si era trattenuta dal concluderlo facendo elegantemente notare l’ironia della situazione: il dottor Mallory era stato rovinato dalla stessa razza d’uomini sulla quale aveva costruito la propria fortuna: i matti, i lunatici, gli alienati.
Anna si passò le mani sul volto e poi rimase a reggersi la fronte, immersa in uno sconforto dal sapore di bile. Alice Mallory aveva detto la verità. Ne era certa almeno quanto era lo era del collegamento tra l’omicidio di Gabriel’s Hill, il suicidio di Mary Tilley e la morte dello zio.
Dovette alzarsi, in fretta, e prendere a camminare, perché si sentiva vicina alla nausea; e il cuore le batteva nelle orecchie. Ora che non aveva più dubbi sull’arma del delitto, poteva puntare il dito anche contro l’assassino.








Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** Nalusa ***


18.





XVIII. Nalusa




Quella notte, lunga e insonne, Anna non venne tormentata da apparizioni o risate diaboliche, ma dalla cruda violenza delle proprie emozioni: avrebbe voluto urlare ― lasciarsi cadere in ginocchio e urlare al soffitto. E ancora urlare, urlare e urlare. La paura era mutata in rabbia; un’ira che corrodeva i polmoni e bruciava, dall’interno, lentamente, sgretolando ciò che rimaneva di un già debole controllo di sé. Ma Anna non gridò. Né versò una lacrima o esalò un gemito. Si acquietò sul tappeto, con la schiena contro il letto e le ginocchia raccolte. ‘Questa è la mia punizione’ comprese. ‘Sono scappata. Ho voltato le spalle. Ho chiuso gli occhi. Mi sono tappata le orecchie. E questa è la punizione per la mia codardia.’ Perché cose tremende attendevano il lupo che abbandona il branco messo sotto la sua protezione: era la legge del grande spirito.
Sullo scrittoio, cosparso di giornali, lo stoppino della lampada si consumò pian piano. Ma quando l’orologio dello zio Woodhams segnò le cinque del mattino, e il chiarore dell’aurora era ancora lontano dall’arrampicarsi lungo le mura di Bon Fleur Place, Anna aveva riordinato lo scrittoio. E sé stessa.
Il nuovo giorno ebbe inizio come i precedenti: nella luce livida di una freddissima alba, Anna spazzò il fogliame dai gradoni del portico d’ingresso e sbatté i tappeti del parlour; nel boudoir, pulì il parascintille del camino, riempì la cesta per la legna e preparò il fuoco per la zia. Alle otto in punto, dopo che Lily ebbe servito la colazione alla signora Woodhams, sedette al tavolo della cucina, ingollò mezza tazzina di té e sbocconcellò una fetta di pane abbrustolito. Lily mangiava di fronte a lei e Anna, a capo chino sul piatto, respinse i tentativi dell’altra di conversare a suon di mugugni seccati e risposte a mezza bocca.
Un’ora e mezza più tardi, per la sorpresa di entrambe, un calessino arrancò lungo il viale della villa. Si rivelò essere il pingue signor Delaney, accompagnato da un assistente: un giovanotto dalla chioma fulva e riccioluta e due sopracciglia chiarissime, che sembravano sul punto di svanire contro la fronte lattea. La padrona di casa, che curiosamente non diede segno di fastidio per l’arrivo del notaio, li ricevette in biblioteca. In quanto ad Anna, qualunque fosse la ragione della visita, non era autorizzata a metterci bocca o a prestarvi orecchio.

Fuori, ruggiva la tramontana e
la porta del riparo per i cavalli tremava e scricchiolava. Anna, col cappottino pieno di rammendi indosso, ostinatamente indifferente al freddo e agli spifferi, strofinava con la striglia il muscoloso fianco del boulonnais, mentre Byron ruminava dal secchio del fieno. Sapeva di trovarsi proprio dove sua zia la voleva: tra le bestie, in mezzo al ronzio delle mosche e all’acre puzzo del letame. Ciò che la zia non poteva immaginare, però ― continuava a dirsi Anna ― era quanto lei preferisse di gran lunga la compagnia dei cavalli, e dei loro effluvi, ai mefitici segreti della lussuosa villa.
Il cavallo rizzò il collo e il fiato si condensò in uno sbuffo bianco sotto alle froge.
La porta era stata aperta.
Era Lily. Il vento le aveva tinto le guance di rosso, tale a quello della boccuccia tumida, ora piegata in un sorriso cauto; portava un boccale di ceramica, chiuso da un coperchio. «Quanta energia con quella spazzola. Stai cercando di spellare vivo il povero Billy Grey?»
Anna non rispose, non la guardò e seguitò a lavorare.
Lily non si perse d’animo. «Ti ho portato del vino caldo.» Adagiò il boccale su una stretta tavola, appoggiata a due tronchi, che fungeva da rustica panca; e si strinse per benino nello scialle. «Se continua così, la neve arriverà prima del solito. Non sembra proprio un clima da neve? Ma immagino tu sia abituata: mi hai detto che l’inverno in Nova Scotia―»
«Lily, che vuoi?» borbottò Anna. «Non dovresti essere a disposizione degli ospiti?»
«Sono ancora tutti in biblioteca, a discutere su certi documenti» spiegò pacificamente Lily.
Uno sbuffo si fece largo tra le labbra di Anna, contratte in un ghigno sottile, tra amarezza e sarcasmo. «Scommetto che mia zia sta cercando un modo per evitare che io riceva anche solo mezzo bottone, alla sua morte.»
«Sei troppo severa con tua zia.»
Anna si costrinse a non controbattere.
«Sai» riprese Lily, «quando ho visto la carrozza, ho pensato fosse il dottore.»
«Easton?»
«Sì. Ieri mattina, prima che andassi al mercato, madam mi ha affidato una lettera indirizzata al dottore.»
«Perché non me lo hai detto?»
«Sei tu che non parli con me» si difese l’altra. E dopo un attimo di titubante silenzio, disse: «E poi, ieri sera, mentre aiutavo madam a prepararsi per la notte...» Si interruppe, di nuovo restia.
Anna inarcò un sopracciglio.
«Ieri sera cosa?»
«Ecco, vedi: la signora è mai stata molto loquace con me. Mi dice quel che devo o non devo fare. E basta. Ieri sera, invece, continuava a parlare di te. Della tua salute. ‘Quella povera ragazza’ ha detto, ‘peggiora di giorno in giorno. Bisogna proprio farla visitare.’ E mi ha chiesto, di nuovo, se fossi d’accordo con lei.»
«E tu cosa hai risposto?»
«Anna, è difficile non essere d’accordo. Non dormi, mangi pochissimo e sei sempre di cattivo umore. Ma io lo capisco, sai. È per il signor Woodhams. È normale che tu non ti senta bene. L’ho detto, a madam. E le ho anche detto che sono sicura che, con il tempo, ti riprenderai. ― In ogni caso, è una cosa bella che tua zia si mostri preoccupata per la tua salute, non credi?»
«Non è preoccupata per me!» ringhiò Anna, a denti stretti. Strofinava con tanta di quella forza che Billy Grey scosse la testa e si spostò, grattando nervosamente gli zoccoli tra la paglia sul pavimento. «Si sta assicurando che il prossimo suicidio abbia una spiegazione palese. Vuole la tua testimonianza. E quella del dottor Easton. Così quando la nipote del signor Woodhams s’ammazzerà per il dolore nessuno si farà domande.»
Lily fissava Anna con tanto d’occhi. Aprì e chiuse la bocca due volte di seguito, prima di riuscire a esclamare, in un soffio orrificato: «Ma che cosa vai dicendo?»
Anna era al limite: gettò la striglia a terra, si voltò di scatto e avanzò a falcate verso Lily. «Vuoi davvero sapere perché mi comporto così? Va bene! Ho promesso che te lo avrei detto. E te lo dirò adesso.» Confessò tutto. Disse dell’incontro con George Merrik, di Bert e di William Hall; raccontò cosa aveva scoperto sulla scomparsa della cameriera; parlò di Alice Mallory, di Joseph Mallory e del legame del dottore con la zia Woodhams.
Quando ebbe terminato, Lily sentì il bisogno di un sostegno: sedette sulla panca, rigida e muta. Le guance avevano perso colore. Batté le palpebre. «Tu... tu credi... tu cos―» Dovette fermarsi, inghiottire e poi riprendere da principio: «Tu credi che quel medico avesse veramente fatto un patto col Diavolo? E che abbia costretto la moglie all’omicidio? E che lo stesso dottore abbia mandato una povera cameriera a suicidarsi?» Tacque. Serrò le labbra e scosse il capo. «Non può essere vero. Non ha alcun senso.»
«Difatti. Non ha senso» concordò Anna. La confessione l'aveva come esaltata; andò a sedersi accanto a Lily, torcendo il busto verso di lei. A voce bassa, continuò: «Non ha senso che il dottor Mallory sia il carnefice. Lui è una delle vittime.»
«Non è questo che intendo! Voglio dire che―»
«Quello che io voglio dire è che le vittime, fin ora, sono state tre: Joseph Mallory, Mary Tilley e mio zio.»
«Eh?»
«Uno è stato rovinato. Gli altri due assassinati. Per vendetta.»
«Vendetta? Vendetta di chi? Di un ‘fantasma nero con gli occhi rossi?!’» A quel punto, per la prima volta da quando Anna la conosceva, Lily alzò la voce: «È a queste fandonie che vuoi credere?
» strepitò. «Forse laggiù, in Nova Scotia, e ancora più a ovest, in mezzo alle foreste e sulle montagne abitano ancora degli spiriti. Ma noi siamo in Inghilterra. Siamo nel Kent. Qui gli spiriti servono solamente a riempire le tasche dei ciarlatani.»
«Ho letto i vostri libri. Ne avete a iosa di storie di fantasmi.»
«Storie, Anna. Sono storie. Alle quali credono i bambini e gli ignoranti.»
Anna espirò. «Ma per un momento – soltanto per un momento – immagina che non tutti i fantasmi esistano solo nei romanzo d’appendice. E... e immagina di voler assassinare qualcuno.»
Lily boccheggiò, impallidendo ancora di più.
«Vuoi uccidere qualcuno, ma vuoi essere completamente e perfettamente certa di non venir scoperta. Come agiresti?»
«Anna, ti prego, non parlare di certe cose nemmeno per scherzo.»
«Troveresti qualcuno che commetta l’omicidio al posto tuo: ecco come agiresti. Però, un sicario potrebbe tradirti. Potrebbe lasciarsi corrompere. Potrebbe essere catturato. Potrebbe parlare. Ora, immagina se la persona, per così dire, incaricata dell'omicidio fosse già morta.»
«Cosa?» chiocciò Lily
«Sto parlando di un fantasma.»
«Sì! L'ho capito – questo. Ma – cosa?»
«Hai mai sentito parlare di sedute spiritiche?»
«S-sì...»
«Durante una seduta, una persona potrebbe mettersi in contatto con un’anima. Un’anima... particolare. Lo spirito di una persona morta in un tale stato di rabbia e di rancore che, nel momento in cui qualcuno le fosse permesso di camminare di nuovo tra i vivi, sarebbe in grado di costringerli a compiere gesti terribili.»
Lily tratteneva il respiro, fissando Anna come se le avesse appena rivelato di esser lei stessa un spettro. «Come...» ansimò, «ti è venuto in mente un pensiero così contorto e raccapricciante? È per questo che rimani sveglia la notte? Per riempirti la testa di sciocchezze?»
«Non mi è venuto in mente! Ne ho sentito parlare, in passato. Esiste una leggenda tra il popolo di mia madre. Gli Ahawiti li chiamano nalusa. Ma non c’è uomo o donna, dall’est all’ovest, che non abbia sentito raccontare, almeno una volta nella vita, degli Spiriti Neri. Le Ombre. Sono esattamente come la figura che Mary Tilley disse di aver visto ai piedi del letto:  nere, a eccezione degli occhi, che sono sempre rossi.» Anna tacque per un istante. «Sai cosa si dice dei vampiri, Lily? Creature che possono muoversi solo di notte e che si nutrono del sangue dei vivi? Le Ombre agiscono nello stesso modo. Ma non si nutrono di sangue, no. Si nutrono dell’anima, dei pensieri, della volontà di una persona. Più se ne nutrono, più diventano potenti, più sono in grado di esercitare controllo sull’anima di cui si cibano. Sono pericolosi, quando sono liberi. Ma lo sono ancora di più, quando legati ai desideri di un vivo:
si racconta persino che, durante le guerre, ci fossero sciamani che evocavano le Ombre, le anime dei guerrieri morti tra le torture della prigionia, per gettare scompiglio tra la tribù nemica. Le Ombre diventano armi e non si fermano fin quando la vittima designata non è morta. »
Ma Lily non poteva più ascoltare. «Non ci sono sciamani, nel Kent!» saltò su.
«Qualsiasi persona esperta di pratiche occulte potrebbe farlo.»
«E chi sarebbe mai questa persona?»
«Non lo hai ancora capito? È mia zia.»
«Oh, Anna! Per l’amor di Dio!»
«Quella donna è crudele. Crudele, rancorosa e
»
«E tu stai perdendo il senno.»
«Ed ha lavorato per anni, come infermiera in un manicomio. Quante persone avrà visto morire, lì dentro, sole, abbandonate e disperate? Quanto sarà stato falice, per lei, accaparrarsi gli affetti personali dei suoi pazienti?»
«Cosa centrano i pazienti del manicomio?»
«Tutto ciò che serve, per tenere un’Ombra asservita, è di un oggetto che in vita sia stato di vitale importanza per lo spirito.»
Lily strinse le labbra: tremava.
«E pensa a Mallory!» continuò Anna. «Joseph Mallory rompe un fidanzamento ufficiale e qualche anno più tardi sposa un’altra donna. Forse, ha spezzato il cuore della zia. Forse, è stata l’umiliazione. Fatto sta che lei gli ammazza i figli, fa condannare la moglie e sta a guardare mentre lui finisce tra i reietti della società. – E poi, c’è mio zio. Che ha sempre considerato il responsabile della morte di Violet. Come se non bastasse questo, lo vede portare in casa me – la sua odiata nipote, figlia dell’odiatissimo fratello – e lo sente volermi includere tra gli eredi. Che fortunata coincidenza che poco prima di cambiare il testamento, senza un motivo apparente, mio zio si tolga la vita con un colpo di rivoltella.»
«E la povera cameriera, allora? Che male le può aver fatto?»
«Bert ha detto che non la rispettava.»
«Una cameriera maleducata la si licenzia, non la si uccide! E poi, nemmeno tu sei un faro di rispetto
filiale, eppure eccoti ancora qui: viva e vegeta.»
«Per adesso.»
«Basta! Ti prego!»
Lily si alzò in piedi, voltando le spalle ad Anna.
E Anna la imitò, levandosi bruscamente, e strattonò la cameriera per un braccio.
«Perché credi che William Hall non abbia voluto dirmi che cosa è successo nella nursery? Perché credi che la zia tenga la stanza chiusa a chiave?»
«Oh, ma è naturale!» esplose Lily, esasperata. «Adesso anche quell’allampanato d’uno scrittore è un assassino!»
«In qualche modo, è invischiato–»
«Smettila, Anna! Torna in te. Non lasciar andare a briglia sciolta la fantasia.»
«Non è fantasia. È reale.»
«Reale? Cosa rende reale quel che vai blaterando? Hai solo dei vecchi giornali e una favola, le parole di giardiniere ignorante e la tua antipatia per la signora Woodhams.»
Anna mollò la presa. Schiacciò le labbra tra i denti, fin a farsi male, e distolse lo sguardo da Lily. Si figurò nell’atto di cacciare la mano in tasca e cavarne l’anello con il cristallo di rocca; pensò di trascinare Lily fino alla fontana e mostrarle il cristallo tingersi di rosso. Scosse la testa e strizzò le palpebre. «Ma io l’ho vista – l’Ombra. È nella villa.»
«Cosa? Quando?»
«La prima notte. Mi alzai per andare in cucina. E la vidi: era ai piedi della scala a chiocciola. Stava lì, rannicchiata su se stessa. 
È stato un istante, ma era lì.»
«Parli seriamente?»
«Sì! Certo, quella notte, ho creduto fosse uno scherzo del sonno e del buio. Ed ho continuato a pensarlo, fino a quando – oh, ma a che serve? Tu non vuoi credermi.»
«Io ti credevo una persona intelligente. Assennata. Di buon senso. E invece, devo ascoltarti parlare di assurdità come una... come il più incolto e superstizioso dei bruti. Non ti riconosco!»
Anna piantò le mani sui fianchi e sospirò. ‘E se solo conoscessi il resto della storia...’
«Allora, aiutami a raccogliere delle prove.»
«E come?»
«Dobbiamo entrare nella nursery. Ci serve la chiave.»
Lily si ritrasse, come sotto la minaccia di un coltello. «Oh, no! Non mi comporterò come una ladra in casa della donna che mi dà cibo e lavoro.
Non asseconderò la tua follia..» Era terrorizzata: terrorizzata da Anna.
E Anna lo capì. La guardò spostarsi verso la porta e spingere un battente.
«Non dire nulla alla zia, ti prego.»
«Non le parlerò, no. Ma non voglio parlare neppure con te, fin quando non avrai ritrovato un briciolo di senno.»
Lily uscì. La porta sbatté. Anna se ne rimase là dov'era, respirando piano, affondando le dita nella ruvida stoffa del cappottino. Ma perché non aveva taciuto? Che cosa aveva sperato di ottenere? Ora, perduta anche la fiducia di Lily, era davvero sola.

Delaney e l'assistente lasciarono Bon Fleur poco prima di mezzodì. I tentativi di Anna di venir messa al corrente dei motivi della visita vennero liquidati dalla zia Woodhams con una gelida raccomandazione a curarsi dei propri affari. In quanto a Lily, tenne fede alla promessa: non parlò con la padrona e non rivolse più la parola ad Anna.
Almeno, fino all’ora del tè: Anna, accovacciata davanti alla stufa, stava ravvivando la brace, mentre Milton si strofinava contro la sua gonna. Lily entrò in cucina e ripose un vassoio nella dispensa; poi, senza fiatare, cavò fuori dalla tasca del grembiule una piccola fiala color ambra e la pose sul tavolo.
Il rumore attirò l’attenzione di Anna, che si voltò, alzandosi. Lesse l’etichetta: laudano. Fissò Lily.
«Apparteneva al signor Woodhams» disse la cameriera. «Faticava a prender sonno.»
«Lo so. Me lo ricordo. È il tuo modo di dirmi che ho bisogno di calmarmi?»
Lily sospirò, strofinando i palmi contro il grembiule. «Pensavo che potremmo usarlo sulla padrona» sussurrò, a testa bassa.
Le sopracciglia di Anna si arrampicarono su per la fronte.
«Non fraintendere.» Lily s’incupì, sollevando un poco il mento. «Non credo nemmeno un po’ a questa delle Ombre assassine. Ma – oh, Anna!» L’espressione della cameriera mutò: venne avanti, prese le mani di Anna tra le sue e la guardò. Anna si sorprese nel vederla sull'orlo delle lacrime. «Tu non capisci in che posizione ti trovi: il signor Woodhams non c’è più, la casa appartiene a madam e lei potrebbe cacciarti da un giorno all’altro. Ne avrebbe il diritto. La legge è dalla sua parte. E se  vai in giro a blaterare di fantasmi e accusi tua zia di aver ucciso il marito, e di voler uccidere anche te, sta certa che ti ritroverai in mezzo a una strada. O peggio.»
«Peggio?»
«Potrebbe farti rinchiudere in manicomio! Hai idea di quanto sia facile liberarsi di una parente scomoda? Hai idea di quante donne, senza denaro e senza affetti, vengano rinchiuse in quei luoghi spaventosi e dimenticate dalle loro famiglie, come fossero errori da cancellare?»
«Allora, mi stai aiutando perché–»
«Perché non voglio vederti trascinare in un manicomio. E non voglio star a guardare mentre perdi la ragione. Quindi prometti – prometti! – che quando vedrai con i tuoi occhi che la nursery è solo una nursery, non l’antro di una strega, abbandonerai queste idee malsane.»
Anna guardò le sue dita scure intrecciate a quelle bianche di Lily. Non disse nulla.
«Prometti?»
Silenzio.
«Prometti?»
«Prometto.»
«Questa notte, allora.»
«Questa notte, sì.»












____________________________________

➽ Note autrice.
La vostra autrice-wannabe torna a farsi sentire, principalmente per ringraziare ancora chi sta seguendo (e commentando). E siete giunti fin qui, nonostante i continui ritardi nella pubblicazione, possedete una pazienza ammirabile! ♡ Il climax si avvicina e mentre attendiamo di scoprire chi, tra Anna e Lily, abbia ragione, vi lascio un appunto sul presunto mostro: non è farina del mio sacco, gli Uomini Ombra (Shadow People) compaiono nella mitologia di molte popolazioni native americane; le versione sono tante e diverse, tutte abbastanza creepy a parer mio e quella raccontata da Anna è un mio personale mix di dettagli #licenzepoetiche.

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Nella nursery ***


19.





XIX. Nella nursery




Lily era sulla soglia della cucina. Anna la vide, smise di ramazzare la cenere e serrò la presa sul manico per contenere l’impazienza. Interrogò Lily con lo sguardo, mentre la cameriera si spostava verso il tavolo e prendeva posto su una sedia. Aveva l’aria di una scolara in castigo: a capo basso, una mano strizzava il grembiule, l’altra strofinava la vecchia tavola. Il coraggio era stato prosciugato dall’atto di versare il laudano nel tè che la signora Woodhams prendeva prima di coricarsi. «L’ho vista bere» assicurò, con un fil di voce. «Non sospetta nulla.»
Anna sospirò a labbra serrate. Chinò il mento e riprese a spazzare.
«La chatelaine?»
«Nel cofanetto di malachite.»
Erano le nove di una sera buia e coperta. La tramontana, che per tutto il giorno non aveva concesso un istante di tregua, ancora batteva la campagna. Bon Fleur Place resisteva alla furia, ma non senza dolersene: soffi e sibili, gemiti e scricchiolii infestavano le sale vuote e i corridoio deserti.
«Mi sento in colpa» confessò Lily, avvilita.
«Non lo saprà mai nessuno» liquidò Anna, alla spicciola. «A meno che tu non abbia esagerato con il laudano. Non vorrei che avessimo accidentalmente ammazzato la vecchia, tentando di mandarla a dormire come un sasso.»
Lily trasalì, nemmeno fosse stata punta da un’ape. «Impossibile!» si difese, a un tempo stridula e sfiatata. «Ho usato la stessa dose che prendeva il signor Woodhams.» Si interruppe. Aggrottò la fronte: aveva scorto il ghigno di Anna. «Ti sembra il caso di scherzare? Proprio non ti capisco. Sei troppo calma... per esserti convinta di aver a che fare con spiriti di ritorno dalla tomba.»
«È il proverbiale stoicismo indiano.»
«Sì, continua a scherzare ― tu.»
«Se davvero vuoi saperlo: no, non sono tranquilla. Sono arrabbiata. Ho voglia di prendere a calci qualcosa.» Ma era pur vero che l’appoggio di Lily, per scettico e riottoso che fosse, aveva aiutato Anna a riprendere le redini dei propri nervi. Era spaventata, arrabbiata e priva di una reale idea di come agire con la zia, ma non sola. Non più. Non completamente.
«Anna» chiamò Lily, mestamente. «Secondo quella tua storia, che accadrebbe mai se la persona che controlla un’Ombra dovesse morire?»
«Quel che accade a qualsiasi schiavo che si ritrova, di punto in bianco, senza padrone. Libertà. L’ incontrollata libertà di banchettare con chiunque le capiti a tiro.»
Lily sospirò. «Quante sciocchezze...»
«Non sei obbligata a entrare nella nursery» le ricordò Anna. «Hai fatto abbastanza―»
«Abbastanza per una cameriera?» interruppe Lily. «No, verrò con te. Voglio esserci quando ritroverai il senno.»


*


Mezzanotte in punto. Anna chiuse l’orologio da taschino, si alzò dalla poltrona e prese la lampada dallo scrittoio. Per un attimo, il suo riflesso entrò nello specchio del vanity: portava i capelli sciolti, li aveva spazzolati per riempire la lunga attesa, e aveva indossato le babbucce al posto degli stivaletti, ma era ancora stretta nell’abito nero con il colletto di lino inamidato. Grata al ruggire del vento, e ai lamenti delle vecchie ossa della casa, andò alla porta, girò la chiave e uscì in corridoio. Al passaggio del tremulo chiarore dell’olio che bruciava, le imponenti cornici proiettavano lunghe ombre nere contro la selva di fiori della tappezzeria. Gli occhi dei ritratti sorvegliavano Anna. Lei raggiunse la camera della zia Woodhams: da sotto la porta non filtrava alcuna luce. Il pomello si lasciò docilmente ruotare e Anna sospinse la tavola il minimo necessario per sbirciare l’interno.
Buio pesto.
Anna schermò la lampada con una mano e si infilò nella stanza. Il pavimento scricchiolò sotto il suo peso; poi, i piedi incontrarono la spugnosa ruvidezza di un tappeto. Anna guardò il letto: lo occupava una deforme prominenza nascosta dalle coperte. Rimase immobile, in attesa, tentando di carpire il respiro della zia sotto il battito del proprio cuore e i fischi del vento. Ma non riuscì a udire nulla. E scelse di non rischiare: invece di avvicinarsi, strinse la mascella e, lesta, puntò il mobile della toletta. Aprì il cofanetto di malachite: l’interno, rivestito di velluto, era diviso in scomparti; uno per ogni gioiello ― e uno per la chatelaine. Anna sganciò la chiave, la fece scivolare in tasca e in un attimo, in punta di piedi, fu di nuovo in corridoio.
Esalò un sospiro. E si accorse che le tremavano le mani.
Ma ignorò i tremiti, al pari dei brividi lungo la schiena fin su per la nuca, e percorse a ritroso il corridoio.
Si fermò davanti alla porta della nursery. Estrasse la chiave dalla tasca.
In quel medesimo attimo, vide una piccola luce ondeggiare a mezz’aria, nell'oscurità in fondo al corridoio. La luce si avvicinava: rapida. Cresceva di intensità.
Anna abbassò la chiave e non batté ciglio.
Lily abbozzò una sorta di sorriso incerto. Era in scialle e camicia da notte; e reggeva una corta candela tra le mani. La cascata di riccioli biondi, sulla schiena e sul petto, sembravano intessuta d'oro puro.
Anna accennò al mozzicone e Lily spense la fiammella. Lasciò la candela sul pavimento, accanto allo stipite della porta; dallo stoppino annerito un filo di fumo danzava nel buio.
Anna infilò la chiave nella toppa. Ruotò il polso. Uno schiocco metallico, come la morsa di una tagliola, riecheggiò lungo il corridoio.
La porta era aperta.
Anna e Lily si guardarono l’un l’altra. Poi, Anna spinse la porta e, tenendo la lampada alta, allungò un braccio nella stanza.
Entrò. E la prima cosa che la colpì fu il freddo: l’intera villa era al freddo, ma là dentro era da battere i denti. Poi, un odore. Un profumo: a stento percepibile, ma indubbiamente presente. Era dolciastro e pungente; somigliava alla cannella. Anna assottigliò lo sguardo per scrutare quel che la lampada stava rivelando: la camera di una bambina che doveva aver vissuto un’infanzia idilliaca. Di salute cagionevole com’era, Violet doveva aver trascorso la maggior parte dei suoi giorni in quella stanza; ragion per cui i genitori si erano spesi per circondarla di agi, svaghi e balocchi. Questi ultimi erano ovunque, attorno a loro: sugli scaffali e sul letto; sulla cassapanca ai piedi del letto e sul tondo tavolinetto al centro della stanza, la cui unica gamba era celate dai drappi di una tovaglia bianca. Decine e decine di occhi: di vetro, di legno, di stoffa, dipinti. Bambole di cera, animaletti di legno, figurine di piombo, pupazzi infilati in abitucci per il tè delle cinque; un orsacchiotto in una carrozzina su misura per le mani di una bambina; una sterminata collezione di automi e carrillon: tamburini, pagliacci, ballerine, pettirossi in gabbiette dorate e caroselli di leggiadri cavallini bianchi; sotto una delle due finestre, in parte coperte da lunghe tende di velluto, stava un cavallo a dondolo, con la criniera che sfiorava il pavimento e l’occhio pallido e assente di un cieco.
Lily si affiancò ad Anna. «Visto?» sussurrò, strofinando le braccia. «È solo una―AH!»
Anna sobbalzò. «Sssh! Zitta! Perché urli?»
Lily, che per lo spavento era indietreggiata di un passo, guardava verso il pavimento. Verso i propri piedi.
Milton le camminava tra le caviglie.
Il gatto aveva seguito le ragazze senza che nessuna delle due se ne fosse accorta.
«Oh... stupida bestia! Vuoi farmi morire di infarto?»
«Prendilo» disse Anna, in un mormorio. «O farà cadere qualcosa.»
E Lily eseguì. Milton parve intenzionato a starsene buono tra le braccia di lei, ma la grossa coda frustava nel vuoto.
«Possiamo andare a dormire adesso?» mormorò Lily.
La risposta di Anna giunse muta ma inequivocabile: invece di dirigersi alla porta, marciò dalla parte opposta e si avvicinò al caminetto. Sollevò la lampada: c’era un ritratto, inchiodato sopra la mensola. Era Violet. Doveva esser stato realizzato non molto tempo prima della sua morte perché quella nel ritratto non era un infante che da poco aveva abbandonato le fasce; era una bimbetta che si avviava ai primi anni dell’adolescenza. Era ritratta in piedi e leggermente di tre quarti, sullo sfondo di una parete di marmo; gli occhi sorridenti rivolti al pittore, i boccoli castani sciolti sul petto e un ombrellino tra le mani, in posa come una signora in miniatura. Indossava una cuffietta di paglia, adornata di nastri color malva, e un vestito a balze, verde e oro, che lasciava vedere le caviglie, coperte dalla calze bianche, e il paio di lucide scarpine nere.
«Da grande sarebbe diventata un donna molto graziosa» commentò Lily, in un sussurro mesto, alle spalle di Anna, mentre Milton tentava di sgusciare via. Ma Lily se lo tenne stretto al petto.
Anna non disse nulla. Era intenzionata a setacciare la nursery, coprendone passo passo il perimetro. E Lily le andò dietro, sforzandosi di ignorare le proteste del gatto. Più le frustate della coda si facevano ampie, più acuto diventava il verso di fastidio che la bestiola tratteneva in gola. Era un mugolio ininterrotto, lamentoso, ma ovattato dal violento tremare degli infissi delle finestra: sembrava quasi che il vento stesse tentando di spaccare i vetri. 
Viste da vicino, alla luce della lampada, le macchie sulla tappezzeria presero la forma di pallide roselline; la tazzine e i pattini del servizio da tè in miniatura, sistemati su di un banchetto davanti al camino, si rivelarono coperti da un velo di polvere e tra le torrette della casa delle bambole  ― che occupava il tavolo, insieme a una cesta piena dei legittimi abitanti della casetta ― pendevano i fili spezzati delle ragnatele. Anche i libri, allineati in cima alla cassettiera, erano impolverati. Anna lesse alcuni dei titoli, incisi sul dorso dei volumi: Goblin Market and Other Poems, The King of the Golden River, Alice’s Adventure in Wonderland, The History of Miss Polly Friendly... Poi, guardò i cassetti e sospirò. ‘Ci vorrà tutta la notte per controllare ovunque.’ Morse le labbra: era riluttante a spostare qualsiasi oggetto; temeva che la zia sarebbe stata in grado di accorgersi del minimo cambiamento nella stanza.
«Non riesco davvero a immaginare cosa una bambina possa fare con tutti questi giocattoli» stava borbottando Lily. «Io non avrei nemmeno avuto il tempo...»
Anna, che ricordava di aver posseduto solo una bambola di pezza, qualche trottola e un taumatropio, vinto a una fiera di bestiame vicino al fiume Kaministiquia, stava ragionando su altro: ‘Lily ha detto di aver sentito il rumore di un mobile che veniva spostato: cosa possono aver spostato?’ Soppesò la mobilia con una lunga occhiata. Escluse il letto: la cui testiera era inchiodata alla parete; escluse la cassettiera: sembrava molto pesante; restavano il tavolo e la cassapanca.
Sotto lo sguardo sempre meno convinto di Lily, Anna andò al tavolo. Appoggiò la lampada a terra, sul tappeto; poi, maneggiandole come se temesse di vederle sbriciolarsi tra le mani da un momento all’altro, spostò sul pavimento la cesta e la casetta di legno. Afferrò un lembo della tovaglia e la tirò verso di sé, lasciando che la stoffa si ammucchiasse ai suoi piedi.
Il respiro di Lily si mozzò.
«Mio Dio, ma che cos’è?»


 












Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Deuteronomio ***


20.





XX. Deuteronomio




Alla vista della ragnatela di segni perlacei, un torpido battito di palpebre accompagnò il silenzio di Anna. I segni coprivano interamente il piano del tavolo: un cerchio ne seguiva la circonferenza e, all’interno del cerchio, decine di quadrati intrecciati e sovrapposti formavano una complessa figura geometrica. Anna sfiorò le linee: le avvertì fredde, levigate, in rilievo.
In quel momento, Milton soffiò inferocito, conficcando gli artigli sulle braccia di Lily. La cameriera, trattenuto per miracolo uno strillo, lo lasciò andare e il gatto schizzò via, alla velocità di un proiettile. E si nascose.
Sotto al letto.
«No!» ringhiò Anna, scattando all’inseguimento. Si inginocchiò di fianco al letto. Alzò la cortina delle coperte.
Due tonde pupille rifletterono la luce della lampada.  Milton era acquattato in un angolo; appiattì le orecchie e snudò le piccole zanne in un altro soffio. Anna allungò una mano. E la ritrasse immediatamente: Milton l’aveva graffiata.
«Che gli è preso?» pigolò Lily, alle spalle di Anna.
«Non lo so» sibilò Anna. «Ma non possiamo lascia―» Tacque. Accostò un poco di più la lampada alla gambe del letto. «C’è qualcosa... nascosto qui sotto.» Affidò la lampada a Lily, facendole cenno di continuare a illuminare il pavimento sotto al letto, e protese le braccia verso una sagoma bassa e squadrata. Al tatto, l’oggetto era liscio e rigido, freddo.
Era un bauletto di latta, del genere che poteva aver custodito del tè, o cioccolatini, o biscotti. Il cammeo, sul coperchio, racchiudeva tre cinciallegre accoccolati su di un ramo di ciliegio in fiore.
Anna aprì il bauletto.
E lei e Lily aggrottarono la fronte all’unisono.
Fogli: piegati in due, l’uno dentro l’altro.
Anna li stese sul pavimento e Lily li illuminò.
Sul primo foglio compariva un’unica parola; le lettere erano in maiuscolo, grandi, traballanti, come tracciate da una mano inesperta.

F O R G I V E

Anna rivelò la seconda pagina. Di nuovo una parola. Di nuovo la stessa calligrafia insicura.

D E A T H
E il terzo foglio:


M A M A

E l’ultimo:
D T 3 2 3 5

Tump!
Con un sobbalzo, le ragazze si guardarono attorno. E non videro nulla. Anna tolse la lampada a Lily e si alzò, per scrutare meglio. Trovò la fonte del tonfo prima ancora di vederla, percependo qualcosa di duro premere sotto la suola della babbuccia sinistra. Per un attimo, con un’ondata di disgusto, pensò di aver pestato un insetto dalla corazza dura. Sollevò il piede: aveva frantumato la testa di una statuina di Biscuit.
Il resto del giocattolo decapitato ― una pastorella che suonava il flauto ― giaceva poco più in là. La testa doveva essersi staccata nell’urto contro il pavimento, perché la statuina era caduta dallo scaffale vicino.
Da sola.
Anna si trascinò indietro di un altro passo e il cuore perse un battito: tra gli ululati del vento, e i scricchiolii della casa, si stava insinuando un terzo rumore.
Musica.
Proveniva proprio dallo scaffale.
Era uno dei caroselli. La chiave era ferma. I cavallini erano fermi. Eppure, il carillon suonava. Suonava la malinconica Greensleeves: acuta e lenta, troppo lenta, sempre più lenta, sempre più acuta. I rintocchi cristallini mutarono in note stridule, simili a quelle di un pianoforte scordato, da far sanguinare le orecchie. Poi, terminò: un silenzio secco e improvviso.
Anna stava ancora trattenendo il fiato quando Lily si appigliò di peso al suo braccio. «Anna... Anna, andiamo via!» si sentì supplicare.
E Anna fu assolutamente d’accordo.
«Metti via la scatola. Io penso al tavolo.»
«E il pupazzo?»
«Lascialo.»
Pochi secondi e tutto fu al suo posto. Di contro, non ci fu verso di calmare Milton: riempì Anna di graffi e morsi e quando lei riuscì a trascinarlo fuori da sotto il letto, tenendolo per la collottola, si dimenò come un indemoniato. Soffiava e miagolava. Anna gli restituì il favore, sbattendolo a terra non appena furono oltre la soglia della nursery. Ma Milton atterrò prontamente sulle quattro zampe e corse via, con il pelo ritto sulla schiena e la coda gonfia, verso le scale di servizio.
Anna chiuse la porta. Fece scattare la serratura, tirò via la chiave e si voltò a controllare Lily: la cameriera respirava forte e tremava peggio di un fringuello infreddolito, tenendosi la lampada stretta al petto.
«Va’ in camera tua» disse Anna, sottovoce, con una fermezza che strideva violentemente con il suo reale stato d’animo. «Io rimetto a posto la chiave e ti raggiungo―». Non poté finire la frase: ammutolì davanti alla smorfia di terrore che si stava impadronendo del volto di Lily. Non ebbe bisogno di guardarsi alle spalle. Col fiato bloccato in gola, serrò la mascella; poi, inspirò. «Lily, non 
urlare. Non  urlare» ordinò. «Non può avvicinarsi alla luce.» In una mano, prese il manico della lampada, nell’altra il polso di Lily e, con un cauto mezzo giro su sé stessa, si voltò.
L’Ombra era del corridoio: immobile, ritta sulle gambe scheletriche, i piedi nudi a un soffio dall’argine dell’alone di luce. La si scorgeva a fatica, quasi fosse un tutt’uno con l’oscurità, quasi fosse l’inganno di un occhio allucinato. Eppure, la sua presenza era innegabile. Pesava nell’aria. La imputridiva. La ammorbava, come un gas venefico. Strisciava nei polmoni, nei cuori, nella mente di chi osava restare al suo cospetto.
Anna strinse con maggior vigore il polso di Lily. Riconosceva, adesso, quella sensazione di essere spiata che l’aveva vessata sin dal suo arrivo a Bon Fleur Place.
Si udì uno schiocco: l’Ombra si era mossa. Aveva drizzato la testa e due minuscoli puntini rossi baluginavano nel buio, là dove avrebbe dovuto trovarsi il viso dell’Ombra.
Anna inghiottì; le sembrò di aver in bocca sabbia invece di saliva. Fece forza sui muscoli irrigiditi dall’adrenalina e sollevò la lampada. «Non può avvicinarsi» rimarcò.
Con crepitio improvviso, una venatura attraversò la campana di vetro della lampada, da cima a fondo.
La fiamma ebbe un tremito.
L’Ombra strascicò le membra malferme verso la parete della nursery, se ne lasciò fagocitare... e scomparve.
Un tonfo sordo strappò ad Anna un sussulto. Il polso di Lily le sfuggì e lei si voltò di scatto.
Lily era sul pavimento, priva di sensi.

*

Anna strizzò il fazzoletto e l’acqua, nel catino, si tinse di rosa: alcuni graffi stillavano sangue, altri erano dolorosi rigonfiamenti.
«Che cosa è successo?» domandò Lily, racimolando la forza di parlare, con un fil di voce, dopo cinque minuti di mutismo. Per farla rinvenire era bastato uno scrollone; farle ritrovare la calma era umanamente impossibile. Sedeva ai piedi del proprio letto: le mani nascoste tra le ginocchia e gli occhi fissi al pavimento; a furia di dondolare avanti e indietro col busto aveva fatto scivolare lo scialle sul materasso.
«Abbiamo visto l’Ombra» disse Anna. «E lei ha visto noi.» Il suo tono, il suo sguardo, i suoi gesti erano al contempo ferrei e sereni; desiderava far da scudo tra Lily e la paura, perché pur incapace di essere coraggiosa per sé stessa, sapeva fingere sangue freddo per il bene degli altri.
Lily osservò Anna: diritta in piedi, le dava il profilo, fingendosi religiosamente dedita ai graffi.
«Vuol dire che moriremo?» esalò la cameriera.
Anna scosse il capo. «Non ci ha sussurrato nulla. Fin quando siamo vigili e sveglie, non può farlo. Però, è più potente di quanto pensassi» ammise. «La statuina. Il carosello. La lampada... Ha ucciso, si è nutrita come una sanguisuga e, a ogni pasto, la sua capacità di interagire con il mondo materiale deve essersi rinvigorita.»
Lily morse le labbra, sul punto di scoppiare in un pianto. «Come fai a parlare così?» esplose, in un sussurro rotto. «Come fosse qualcosa di... normale? Io... io non so se sto per svenire di nuovo o per vomitare!»
«Questo è normale. Si chiama paura» troncò Anna. Corrugò la fronte. «Quei segni sul tavolo, però, non mi sono chiari. Devono essere lì da prima che mia zia ricevesse William Hall, il mese scorso. E quella non deve essere stata la prima e unica volta che si sono incontrati nella nursery.» Sospirò. «La maggior parte delle sedute spiritiche sono una farsa, perché per squarciare davvero un passaggio tra il mondo dei vivi e quello degli spiriti servono ― come posso spiegarlo? Servono delle chiavi, ecco. I simboli, come quello sul tavolo, fanno da chiave. Ma non sono conoscenze alle quali chiunque può accedere. ― In quanto ai fogli nascosti sotto al letto, a giudicare dalla calligrafia, sembrano il risultato di una scrittura automatica. Durante una seduta, lo spirito evocato prende il controllo di uno dei partecipanti e scrive risposte a delle domande. Solitamente.» Abbandonò il fazzoletto sul bordo del catino e piantò le mani sui fianchi. «Il punto è che» proseguì, contemplando l’impenetrabile coltre notturna oltre l’abbaino, «non sono sicura che un’Ombra sia il genere di spirito che  abbia bisogno di comunicare attraverso un tramite umano.»
Lily fissava Anna dal basso. Deglutì. «Ma tu perché sai queste cose? Passino le storie che ti raccontava tua madre, ma la scrittura ― scrittura ― cosa? Automatica? Simboli? Sedute spiritiche? Hai partecipato a certe cose, in passato?»
«Non esattamente.»
«Allora, qual è l’esattamente?» implorò l’altra.
«Per questa notte basta con le stranezze.»
«Stranezze le chiami?» protestò Lily, stridula.
«Preferisci la parola orrori?»
«Stai nascondendo qualcosa.»
«Non lo nego.»
«E io non ho il diritto di sapere? Questa casa è infestata, Anna!»
«Sì! E poche ore fa, mi hai chiamato pazza, per aver detto la stessa cosa.» Anna le rivolse uno sguardo di sopportazione. «Il mio passato è un’altra storia. Buona per un altro giorno. Non peggioriamo la situazione.»
«Come può andare peggio?»
«Può, credimi. Può.»
La cameriera nascose il viso tra le mani. Gemette, esasperata.
«Oh, Dio aiutami!»
Anna si voltò apertamente, sciolse le braccia e andò a sedersi accanto a Lily. «Mi dispiace. È spaventoso ― lo so. Ma per favore, cerca di stare calma.» Le carezzò i capelli sulla schiena. «Vuoi del tè?» tentò.
«Vorrei poter essere altrove» singhiozzò Lily.
«Buona idea» disse Anna. «Puoi licenziarti. Torna a Broomsfield. Lascia Bon Fleur. Dopotutto, una cosa è certa: dopo questa notte, mia zia manderà l’Ombra contro me ― ammesso che non fosse già nei suoi piani.»
Lily scostò le mani, mostrando i bei lineamenti deformati dall’accoramento. «E chi ti assicura che a Broomfield sarò al sicuro? Chi ti assicura che non manderà quel mostro contro di me, come ha fatto con Mary? Io non voglio morire!»
Anna agguantò le mani di Lily. Le strinse, forte. «No. Lily, no 
tu non morirai!» E cercò l’umido sguardo di Lily con il proprio: energico al limite del rabbioso. «E nemmeno io. Perché farò finire questo incubo. Mia zia, e quel maledetto scrittore, la pagheranno. Hanno distrutto una famiglia. Hanno ucciso persone innocenti. Alice, i bambini, Mary, mio zio... meritano giustizia. E l’avranno.»
«Ma non puoi portarli in tribunale! Non hanno creduto ad Alice Mallory e non crederanno a te!»
«Leggi e tribunali non hanno spazio in questa faccenda. L’unica che può - che deve - agire sono io.»
«L’unica? Tu? Perché?»
«Te l’ho detto: perché devo. È un mio dovere. È una mia responsabilità. E perché...» Anna prese fiato - e insieme al fato, il coraggio di confessare: «Perché, anche se l’ho accettato soltanto in questi ultimi giorni, fuggire e fingere di non vedere... non è una soluzione. Mai.»
«Io non capisco.»
«No. Ma quando saremo al sicuro, allora capirai.»
Lily guardò le pareti spoglie e il basso soffitto della stanzetta, nell’ammirevole tentativo di non crollare.
«Ma che puoi fare tu contro quella creatura?»
«Posso toglierla alle grinfie di mia zia, tanto per cominciare. 
Ti ho detto che per mantenere il controllo di un’Ombra è necessario possedere un oggetto che, in vita, fu importante per quell’anima  ricordi?»
Lily annuì.
«È anche un lasciapassare per il mondo dei vivi. Troverò l’oggetto e lo distruggerò. E l’Ombra sarà costretta a tornare nel mondo a cui appartiene.»
Lily rimase in silenzio.
«Per adesso invece» continuò Anna, «restiamo vicino alle luce e aspettiamo il giorno. Domani mattina, porterò io la colazione a mia zia e, prima di svegliarla, rimetterò la chiave al suo posto.»
«No» la interruppe Lily. Tirò su con il naso. Asciugò le guance con il dorso della mano. «Io porterò la colazione. E rimetterò la chiave al suo posto. Io resto. Qui. Con te.» Le tremava la voce, ma continuò imperterrita: «Te l’ho promesso: avrai sempre me. Sempre.»
Anna, a corto di parole, curvò la bocca in un sorriso dolente e appoggiò la fronte a quella di Lily.
Con l’avanzare della notte, mentre il vento spegneva la voce, Lily cadde in una sorta di stremata apatia. Si raggomitolò sotto le coperte e Anna le stette accanto: seduta sul letto, intenta a rimirare il chiarore di lampada e candele. Faticava ad attendere il giorno, era in febbricitante bisogno di azione e, a un certo punto, chiese a Lily se avesse qualcosa per scrivere.
Lily si levò a sedere e aprì l’unico cassetto del traballante comodino dalle gambe secche. Ne cavò fuori un lapis e della carta per corrispondenza di rozza fattura.
Anna scrisse: ‘perdono’, ‘morte’, ‘madre’ e, infine, la sequenza di numeri e lettere. Ormai le era chiaro che anche il secondo segno fosse una lettera; se aveva confuso la T con il numero sette era per via del pessimo stato dell’incisione sul pavimento.
Restava l’enigma del significato.
Anna fissava il foglio. E rifletteva. Rifletteva e fissava. Fissava e rifletteva. Non badò a Lily, che si rigirava nel letto e allungava uno sguardo verso di lei. Dopo una  manciata di secondi, Lily sfilò il foglio dalle dita di Anna e aggiunse dei segni alla sequenza.

DT - 32 : 35

«Due lettere e due coppie di numeri.» Strascicava le parole per la spossatezza. «Possono indicare i versetti della Bibbia.»
«Davvero?»
«Non ti offendere: ma ho sempre sospettato che tu non sia andata spesso in chiesa.»
«Nessuna offesa.»
«Sei almeno battezzata?»
«Sì. Fu una delle poche cose su cui mio padre riuscì ad averla vinta. Diceva che mi avrebbe reso la vita più facile.» Sospirò. «Non divaghiamo. Dimmi del versetto.»
Lily si allungò di nuovo verso il comodino e, questa volta, tirò fuori un libriccino dalla copertina rossastra: una piccola Bibbia. «‘DT’ potrebbe indicare il libro del Deuteronomio, nell’Antico Testamento.» Sfogliò le pagine. «Trentadue: il Cantico di Mosè. Versetto trentacinque: eccolo.»
«Che cosa dice?»
«Mia sarà la vendetta e il castigo, quando vacillerà il loro piede. Vicino è il giorno della loro rovina e il loro destino si affretta a venire.»














Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Ladri di baci ***


21





XXI. Ladri di baci




Il vento notturno aveva sgombrato il cielo e la vista dell’azzurro terso instillò in Anna un effimero sollievo: finalmente, dopo giorni di nubi e bruma, l’alba era sorta assieme al trepido sole novembrino. In quanto a Lily, si era imposta di mostrare coraggio ma la paura riverberava in ogni gesto. Non riuscì neppure a riempire il bollitore del tè senza rovesciare l’acqua sul tavolo.
Anna tentò di rassicurarla rimarcando il loro vantaggio: sapevano come recidere i fili che permettevano alla zia Woodhams di dominare l’Ombra - e questo la zia lo ignorava. Anna aveva imparato da suo padre: concedere alla preda un falso senso di sicurezza e lasciare che abbassasse la guardia erano armi preziose a disposizione di qualsiasi cacciatore. «E fin quando non cala il sole l’Ombra è inoffensiva.» Sedeva con le mani, visibilmente coperte di graffi, premute contro le ginocchia: la stanchezza avanzava tortuosamente nel fisico, la mancanza di riposo offuscava i pensieri, ma la volontà di contrattaccare restava salda. Questa volta non ci sarebbero state fughe, ripensamenti o spalle voltate.
Così, alle otto in punto, Lily salì al piano superiore con il vassoio della colazione tra le mani - e la chiave della nursery nel grembiule.
Nell’abbandonato salone da pranzo, Anna tenne l’orecchio teso mentre si adoperava con una scala a pioli per tirar giù le tende: era giorno di bucato.
Trascorsero cinque minuti.
La pendola nell’atrio ticchettava mesta. 
Altri cinque minuti.
E ancora silenzio.
Anna vide Lily ai piedi della scala a pioli e dovette aggrapparsi alla scala per evitare di trasalire: non l’aveva udita entrare. «Potresti, per favore, fare rumore - uno qualsiasi - quando entri in una stanza?»
La cameriera era, se possibile, ancor più pallida della notte precedente. «Vuole vederti» disse. «Adesso.»
Anna si accigliò.
«Perché?»
«Non lo so. Mi ha solo detto di chiamarti.»
Anna scese dalla scala.
«La chiave?»
«Al suo posto. L’ho messa via prima di aprire le tende. La signora stava ancora dormendo ― credo. Spero! Oh, Dio...»
Anna strizzò l’avambraccio di Lily, un po’ per incoraggiamento e un po’ per comunicarle di esser fiera di lei, e si diresse fuori dal salone.
In capo a pochi secondi, sbucò in cima alla scala a chiocciola, constatando come il limpido chiarore del mattino rendesse il corridoio un palco poco adatto a un’apparizione spettrale. La porta della camera della signora Woodhams era socchiusa. Anna bussò: due tocchi lesti.
«Vieni avanti.»
Anna entrò come un martire nella fossa dei leoni: il cuore contro le tempie, il fiato fermo nel petto, le dita improvvisamente di marmo. Avvertì il calore del caminetto acceso insieme a un profumo insolito: caprifoglio.
La zia Woodhams era alla toletta, con la sontuosa vestaglia color pece drappeggiata attorno al corpo ossuto. Portava i capelli, venati di grigio, in parte costretti in una lunga treccia e in parte gonfi e spettinati ai lati del volto. Una volta, in biblioteca, Anna aveva sfogliato le pagine di Dickens; adesso, le sembrò di essere al cospetto di una miss Havisham che aveva scambiato l’abito da sposa abbandonata con le gramaglie di una vedova nera.  Si fermò alle spalle della zia, a debita distanza: una delle preziose fialette, sul piano della toletta, era aperta. Il contenuto era la fonte del profumo.
La signora Woodhams non levò lo sguardo sulla nipote. Era occupata a strofinare un olio sulle mani: gesti lenti, precisi, eleganti, ma affatto energici. «Ho una commissione per te.» Il rosso cupo delle sottilissime labbra era l’unica ferita di colore su una maschera inespressiva. «Devi consegnare una lettera alla signora Hall.»
«All’ufficio postale del villaggio o a King Street?»
«Nessuna delle due. Va’ alla vecchia villa.»
‘Sa che si sono trasferiti!’ Dunque, tra la posta giunta a nei giorni precedenti, doveva essercene stata da parte degli Hall. Anna continuò a fingersi ignorante: «Non so dove si trovi.»
«È la casa sulla collina, al bivio che precede il villaggio.»
«Oh...»
«Che cosa è successo alle tue mani?»
Il cuore di Anna perse un battito. La zia non si era girata, né aveva indirizzato lo sguardo verso il riflesso nello specchio. La vecchia aveva occhi anche dietro alla testa o era stata informata dell’intrusione notturna dalla sua diabolica servitrice?
«Milton.»
«Ti ha graffiata? Insolito. La bestiolina è sempre stata tranquilla.»
«I gatti sono animali imprevedibili.»
La zia chiuse la fialetta. «Va’ a prepararti.» E con un gesto secco accennò allo scrittoio, dove attendeva una lettera sigillata.
«Non è presto per le visite?»
La signora Woodhams si rimirò allo specchio; più  ignorava Anna e più Anna temeva il peggio. «Devi unicamente consegnare la lettera» disse. «Se dovessero offrirti di restare, declina con cortesia. Ricorda loro che siamo ancora in pieno lutto, che il tuo aiuto qui è indispensabile e  che non puoi assentarti oltre il minimo necessario.»

*

Il sole ebbe vita breve. Prima che i suoi raggi potessero dissipare il velo eburneo che aveva irretito i campi, grosse nuvole, sorte dall’ovest, ne divorarono luce e calore. Fossi e ruscelli restarono gelati e la brina era ovunque: sui rami neri e nudi, sugli aghi dei sempreverdi, tra le crepe delle vecchie staccionate e le pietre dei muretti. Anna, avvezza agli inverni oltreoceano e immune all’aspro fascino della stagione quanto agli ostacoli del clima, camminava con i pugni affondati nelle tasche e sul viso un’espressione che avrebbe scoraggiato anche il più audace dei passanti a rivolgerle il saluto. Aveva fretta di tornare a Bon Fleur. Non le piaceva l’idea di una Lily  sola con sua zia. Ammirava gli sforzi dell’amica, era grata e commossa per l’ostinata vicinanza che le dimostrava, ma allo stesso tempo temeva che la vecchia non avrebbe tardato a notare il disagio della domestica.
Di passanti Anna non ne incontrò. Né prima né dopo il bivio. La strada condusse alle pendici dell’altura, lungo i cui placidi fianchi si affollavano alti tigli e spogli cornioli. Arrivò alla fine della salita con le guance accaldate dal suo stesso fiato intrappolato dietro lo scialle, che fungeva al contempo da sciarpa e cappello. Abbassò lo scialle e respirò l’aria fredda e immobile.
Era davanti a un cancello chiuso.
Il cancello era affiancato da siepi: pareti alte e impenetrabili, fatte di foglie verdi screziate di ocra. Oltre le sbarre si stendeva una scoscesa scalinata e, in cima alla scalinata, sedeva la dimora di campagna della famiglia Hall.
L’edificio difettava dell’opprimente abbondanza di Bon Fleur Place. Con la facciata candida e levigata, un doppio registro di finestre perfettamente rettangolari, il tetto di ardesia cinto da una terrazza e un frontone triangolare a incoronare l’ingresso, la bella casa dimostrava di appartenere a un’epoca, lontana generazioni e generazioni, in cui l’ordine e la semplicità degli antichi erano sinonimo di raffinatezza e buon gusto.
Ma non sembrava esserci anima viva nei dintorni. Non un giardiniere, non l’ombra di un domestico dietro le finestre, non una voce umana.
L’intera collina era abitata soltanto dagli aspri richiami delle ghiandaie in cerca di bacche, dall’onnipresente gracidio dei gradassi corvi e, ad ascoltare bene, da un distante cinguettio: pieno e melodioso.
Anna strinse le sbarre.
E il cancello, per la sorpresa di lei, si lasciò socchiudere.
Ma Anna indugiò.
Estrasse la lettera. Fissò la spigolosa calligrafia della zia Woodhams. Infine, voltò il foglio, pronta a spezzare il sigillo.
In quel momento, l’aria trascinò una risata cristallina: un suono insolito, inumano, come l’eco di un eco.
Il sigillo rimase intatto e Anna si guardò attorno, in preda a un principio di inquietudine. William l’aveva avvertita, parlando di ‘spiriti malevoli e dispettose fate che infestano la nostra bella campagna’.
La risata divenne più vicina.
E smarrì l’aurea eterea e sinistra.
Anticipate da una pioggia di passettini, dagli alberi che delimitavano il sentiero sulla collina sbucarono due bambine. Corsero verso il cancello. Qualunque fosse il loro gioco, vennero interrotte dalla vista di Anna. Si fermarono, caute, a una decina di passi e presero a fissarla.
Anna le fissò di rimando, ricacciando mani e lettera in tasca.
Le bambine, che non dimostravano più di nove o dieci anni, erano acconciate come bambolette: indossavano scarponcini lucidi e cappottini rossi bordati di pelliccia. Una era mora, l’altra bionda; entrambe rifornite di boccoli, occhi azzurri e gote rosate. Anna si ritrovò a scrutare la bambina dai capelli biondi: la trovava straordinariamente somigliante a Lily. ‘Potrebbe passare per sua figlia...’ pensò, d’istinto.
«Tabitha, Elizabeth: salutate miss Hawkins. È un’amica della zia Ada.»
A parlare era stata una quieta voce maschile.
Anna riconobbe immediatamente il proprietario.
E immediatamente l’inquietudine tornò a rimestarle le viscere.
William avanzava verso il cancello a passo cadenzato; la figura dinoccolata era coperta da un scuro pastrano a doppio petto, lungo fino alle ginocchia e guarnito da un largo colletto di velluto di seta.
Le bambine, all’unisono, si esibirono in una riverenza. «Buongiorno, miss Hawkins» cantilenarono.
William si fermò alle loro spalle serio e composto. Salutò Anna sfiorando la falda della tuba con le dita inguantate.
«Buongiorno...» smozzicò Anna.
«Perché avete la pelle scura, miss Hawkins?» domandò la bambina bionda: c’era una sorta di caramellosa cattiveria dietro la limpida vocetta.
«Perché mi hanno lasciata troppo nel forno» disse Anna, spicciola.
«E perché avete un viso così brutto?»
«Elizabeth!» la richiamò William. «Sei maleducata.»
Elizabeth sguainò un broncio.
«Ci dici sempre che dobbiamo essere delle brave osservatrici.»
«Sei un’osservatrice. Ma non brava. - Ricordate l’uccellino che abbiamo visto mentre passeggiavamo? L’uccellino che canta questo cinguettio dolce che sentiamo anche adesso?»
«Lo zigolo delle nevi» asserì, timidamente, Tabitha.
«Esatto. Miss Hawkins viene dallo stesso paese di questa piccola creaturina. Un paese lontano, oltre la punta più estrema della Cornovaglia e oltre l’isola d’Irlanda.»
«Dalle Americhe» continuò Tabitha.
«Dalle Americhe più fredde. E come il piccolo zigolo, con le sue piume nere e marroni, che in inverno attraversa l’oceano per cercare rifugio in Inghilterra, anche miss Hawkins è una creaturina tanto piccola e scura quanto forte e resistente.»
Anna osservava William, sospettosa.
Ma lui si limitava ad alternare uno sguardo mite tra le nipotine.
«Entrate in casa adesso.»
Le due obbedirono, oltrepassando il cancello.
«Ad Augusta sta a cuore che le bambine facciano giornalmente attività fisica. Costringerle in casa non giova alla loro salute.» William, mani dietro la schiena diritta, discorreva con l’usuale compostezza, ma gli occhi azzurri rifuggivano Anna in quella che lei interpretò come una tacita rimarcazione di ostilità.
Anna, al contrario, fissava a muso duro il profilo dell’uomo.
«La signorina Field, la governante, è stata mandata a casa per un brutto raffreddore.»
Anna portò un sopracciglio un poco più in alto del gemello. «Quindi adesso siete voi la governante?» Dissimulò il malumore dietro l’apatica provocazione. «Vi avvicinate al vostro sogno di diventare tutore.»
«Sono uno zio. Mi comporto da tale.»
«Vostro fratello ha un bel coraggio ad affidarvi le sue figlie. Io non vi affiderei nemmeno un pesce rosso.»
La porta d’ingresso venne aperta, le bambine sparirono all’interno e l’atteggiamento di William mutò con la rapidità di una banderuola colpita da una folata di vento: si voltò verso Anna. La sovrastava in altezza, ma lei teneva il mento alto e le spalle basse. L’astio, stoico ma palpabilissimo, viaggiava da entrambe le parti.
«Come mai avete lasciato King Street?» chiese Anna.
«Dovrebbe essere affar vostro?»
«Non mi piace l’idea di avervi come vicino.»
«Considerato il luogo in cui ci troviamo, rivendico il diritto di porre per primo le domande: che cosa state facendo voi al cancello di Hawthorn?»
«E che diamine sarebbe Hawthorn?»
«Quella è Hawthorn. Hawthorn Mansion.» William accennò alla villa con un debole cenno del capo. «Sebbene nessuno la chiami più col suo vero nome da molto tempo. ‘La casa sulla collina’ ha avuto maggior presa.»
«Sarà perché non si vede ombra di biancospino qui attorno.»
«Non è questione di vegetazione. Hawthorn era il nome della famiglia che costruì la casa, a metà del secolo passato.»
«E me lo dite con l’aria saccente di chi è costretto a spiegare l’ovvio all’ignorante di turno.»
«E voi non avete risposto alla mia domanda. Progettate di minacciare un altro membro della mia famiglia? Con un altro tagliacarte?»
«No.»
«No, non avete intenzione di minacciare nessuno? Oppure: no, questa volta non userete un tagliacarte?»
«No, sono qui da parte di mia zia. Ho un messaggio per Augusta.»
Anna sfilò la lettera dalla tasca.
«Capisco.»
«Posso affidarla a voi?»
«Naturalmente.»
«Grazie.»
Anna, con la delicatezza di una coltellata, spinse la lettera contro il petto di William.
Lui si appropriò della lettera e, prima che Anna potesse ritirare il braccio, chiuse la mano libera attorno al polso di lei.
La pelle del guanto scricchiolò, mentre William pareva osservare i graffi sulla mano di Anna.
Anna non batté ciglio. Divincolarsi sarebbe equivalso a mostrare timore e lei non era intimorita. Era innervosita. Sommamente innervosita.
«Per favore, seppelliamo l’ascia di guerra e torniamo a comportarci come persone civili.»
«Ascia di guerra? Che triste scelta di parole!»
«Per favore.»
«L’ascia posso seppellirvela nelle budella.»
William la lasciò andare.
«Perché vi comportate in questo modo con me? Perché questa avversione?»
«Fatevi un esame di coscienza. Scoprirete di meritarvela.»
Fu allora che tutto il contegno di William crollò in un’unica violenta scossa di collera. «Sciocca dissennata!» esclamò, in un sibilo tra i denti. Afferrò Anna per le spalle. La costrinse a indietreggiare: schiena contro siepe, così che la recinzione li nascondesse alla vista di chiunque si fosse affacciato dalla villa. «Siete ancora convinta che io sia responsabile del suicidio di vostro zio?»
Anna, impassibile, contrasse la mascella. Le fu sufficiente un passo per cancellare la distanza: era abbastanza vicina a William da avvertirne il respiro caldo contro il proprio viso. Batté le palpebre. Gli guardò la bocca: la rabbiosa implorazione di poco prima sembrava ancora aleggiare tra le labbra dischiuse. «Consegnate la lettera ad Augusta, signor Hall. E buona giornata.» Fece per staccar via la mano dell’uomo dalla propria spalla.
William l’anticipò, senza arretrare. «So chi siete» disse. La collera era stata improvvisa come una scudisciata. E altrettanto breve. La voce dell’uomo tornò morbida e bassa: «O dovrei dire: so cosa siete.»
Le braccia di Anna crollarono.
«Mai avrei immaginato di incontrare qualcuno della vostra razza» seguitò William. «Voi non appartenete all’Inghilterra più di quanto un lupo appartenga a un salotto.»
Anna inspirò. Sentiva la testa leggera, il ventre pesante e infuocato, il cuore lanciato in una corsa a perdifiato. Erano metafore da scrittore o William Hall aveva realmente compreso? Anna finse calma: una calma che traboccava sfida. «Se è per questo, non ho mai avuto un posto a cui appartenere» dichiarò. «O un popolo. Non abbastanza bianca per essere accettata dai bianchi. Non abbastanza indigena per essere accolta fin in fondo dai nativi. È il destino dei meticci. Non apparteniamo mai, completamente, a nessun luogo e a nessuna famiglia.»
Ma William la guardava con l’accesa insistenza di chi non intendeva accontentarsi di meno della verità.
«Non è ciò di cui io sto parlando.»
«Allora, mi dispiace, ma non so proprio di cosa parlate.»
«Siete una creatura umana, miss Hawkins?»
Anna trattenne il fiato: William Hall sapeva la verità.
«Io sono... io» tentò di difendersi Anna. «Una donna. Come tante.» Tacque.
Nessuno dei due si mosse.
Poi, Anna si aggrappò al colletto di velluto. Con uno strattone costrinse William ad abbassarsi. Pressò di prepotenza la bocca contro quella di lui. Lo avvertì serrare le mani sulla sua vita e quella che doveva essere una spinta si sciolse in una presa salda. William tenne Anna ferma e la baciò con vorace impazienza. Le accarezzò la schiena, un fianco, poi una guancia, mentre Anna gli prendeva il viso tra le mani. E per un lungo, lungo momento entrambi trovarono una selvaggia liberazione nel rincorrersi di baci e tra i respiri affannati. Ma quando William cinse la vita di Anna con un braccio, lei lo respinse: aveva bisogno d’aria. Eppure, allontanarlo fu arduo quanto lo sarebbe stato rinunciare all’aria stessa.
«Visto?» ansimò, quasi senza voce. «Sono solo una donna.»
Sgusciò via dalla presa di William.
E lui non fece nulla per fermarla.

*

La passeggiata di ritorno non bastò a sedare il tumulto nell’animo di Anna. Rientrata a Bon Fleur, chiuse la porta e, nella solitudine del vestibolo, crollò sul primo gradino della scala. Sospirò, esausta e stravolta. Non si vergognava del bacio in sé, pur conscia dell’indecenza implicita nel gesto. Né si vergognava delle sensazioni che il bacio aveva infiammato nel suo ventre: erano tanto oscene quanto impossibili da non agognare. L’umiliazione nasceva dalla propria meschina bassezza: aveva avuto lo stomaco di indugiare nel piacere con un uomo qual era William Hall. Giurò che mai più si sarebbe permessa di tradurre i desideri in atti concreti, ma non si faceva illusioni. Conosceva le proprie debolezze: l’incostanza, l’irruenza, la tendenza a seguire gli istinti, sbagliati o meno che fossero. A differenza di quanto andava proclamando la zia Woodhams, tali difetti non avevano nulla a che vedere con sua madre. Erano suoi e suoi soltanto.
Anna avrebbe continuato a odiare William.
E avrebbe continuato a desiderarlo.
Ma non l’avrebbe ammesso davanti a nessuno. Nemmeno al diretto interessato. Nemmeno sotto ricatto.
D’altra parte, problemi più urgenti si prospettavano all’orizzonte. ‘Se davvero sa chi sono, lo userà contro di me.’
«Oh! Eccoti!»
Era Lily, che stava scendendo le scale.
Anna scattò in piedi. «Cosa è successo?»
«Nulla...» Lily si fermò sul terzo gradino, esitante, stringendo le mani sulla balaustra. «Madam ti sta aspettando. Nella sua stanza. Ti ha visto sul viale.»
«Addirittura due convocazioni nel giro di una mattinata» borbottò Anna.
«Almeno sembra tranquilla» disse Lily. «Non è mai uscita dalla sua camera.» E poi, a voce bassissima: «Credo sia ancora l’effetto del laudano.»
Anna salì i primi gradini, passando di fianco a Lily.
«Anna?»
«Mmh?»
«Hai il viso arrossato.»
«Fa molto freddo fuori.»
Anna, in scialle e cappotto, oltrepassò la porta della camera: spalle basse, il busto diritto e mani giunte.
La signora Woodhams attendeva in poltrona, accanto al caminetto: i capelli erano stati acconciati, mani e polsi ornati dal giaietto degli anelli e dei bracciali, un elegantissimo abito, dalla blusa coperta di sangallo, aveva sostituito la vestaglia. La donna se ne stava appoggiata contro la spalliera, ma teneva la schiena rigida; il fuoco, dietro il parascintille, rimase l’unico soggetto degno del suo sguardo assente anche quando Anna le si palesò davanti.
E fu allora che Anna venne travolta da un’ondata di orrore: la zia teneva la mano destra aggrappata all’estremità del bracciolo, mentre tra le dita della mancina, sul grembo, stringeva qualcosa.
La statuina senza testa.
Il primo istinto di Anna fu di guardare la porta della nursery, ma da quel punto della stanza il paravento la nascondeva. Così, soppresse il movimento e decise di non pronunciare una sola parola al riguardo. Se la zia si preparava a un interrogatorio, lei era pronta a una portentoso rifiuto di qualsiasi accusa.
«Augusta ha ricevuto la mia lettera?» domandò, atona, la signora Woodhams.
«Sì.»
«Dunque, come d’accordo, Benton sarà qui alle quattro. E’ bene iniziare subito con i bagagli.»
Anna aggrottò la fronte.
«Bagagli? Chi parte?»
«Soggiornerò dagli Hall fino alla fine di questa settimana.»
«Non è inopportuno per una vedova farsi vedere in società?»
«Non definirei un soggiorno alla vecchia villa un’uscita in società. Inoltre, esistono doveri morali che non possono e non devono venir sacrificati al buon costume.» Una breve pausa. Poi, continuò: «Ho riflettuto molto sull’idea di un incontro con il signor Arden. Non dubito delle sue capacità di gestire il birrificio ma, dei due soci, tuo zio era il solo ad avere a cuore le condizioni degli operai. Ho ragione di temere che siano in arrivo cambiamenti negativi per questi ultimi.  Vorrei che quanto di positivo Walter realizzò in vita non vada completamente perduto.»
Anna era confusa.
«E voi che voce avete in merito? Credevo che, per la legge, il birrificio fosse nelle mani del signor Arden.»
«Hai compreso bene. Ma voglio sperare che Mordecai onorerà la lunga conoscenza che lega i Woodhams agli Arden.»
«E quindi perché andate dagli Hall?»
«Mordecai sarà loro ospite domani sera.»
«Una lettera non è sufficiente?»
«Una lettera può venir ignorata. Di proposito.»
«Ah! Al contrario, ignorare voi - di proposito - è arduo. Non può buttarvi in un cestino o chiudervi in un cassetto» concluse Anna. «Che fine ha fatto la cieca obbedienza alle decisioni degli uomini?»
La zia Woodhams alzò finalmente lo sguardo su di lei: era seria, ma calma. Talmente calma da risultare una sfinge indecifrabile. «In alcune occasioni, l’obbedienza deve essere di facciata. Convinci l’uomo che una tua idea è frutto della sua mente e sarete felici entrambi. Lui avrà nutrito l’orgoglio, tu ottenuto quanto desiderato.»
«Mi sembra un gran bel modo di complicarsi la vita.»
«La vita è per sua definizione complicata. Ma adesso veniamo a noi. Durante la mia assenza, Bon Fleur è affidata a te. Assicurati che Lillian non trascuri le faccende e dai il buon esempio sfuggendo l’ozio. Posso fare affidamento su di te, Anna? Posso fidarmi?»
La signora Woodhams fissava la nipote e accarezzava il collo decapitato della statuina con il polpastrello del pollice.
Per un momento, regnò il silenzio.
Uno scoppiettio di scintille turbinò nel caminetto.
«Sì.»

*

I
l cab che più di un mese prima aveva condotto Anna al cancello di Bon Fleur Place ora attendeva davanti al portico. Benton caricava i bauli della signora Woodhams sulla vettura, mentre la padrona di casa si attardava nel vestibolo.
E Anna era con lei.
«Ti prego di comportarti secondo buon senso.» La zia levò la mano avvolta nella seta di un guanto dall’orlo impellicciato. Invitò Anna a sollevare il viso, facendo scivolare le dita sotto il suo mento.
Anna quasi temette che la zia potesse avvertire il battito esagitato del proprio cuore.
Ma non indietreggiò.
«Non voglio pentirmi di averti accordato fiducia» rimarcò la zia. «Ne abbiamo bisogno entrambe. Perché, da qui in avanti, dovremo cavarcela da sole - io e te
Anna fece cenno di sì con il capo.
«Salutate gli Hall da parte mia.»
«Naturalmente.»
La zia abbassò la mano.
E poi accadde l’impensabile.
La signora accostò quelle sue labbra fredde e rosse alla guancia della nipote: fu più una carezza che un bacio, ma fu sufficiente a far rabbrividire Anna.
Benton si affacciò.
«Madam, il calesse è pronto.»
La signora Woodhams abbassò la veletta davanti al volto e uscì sul portico. Anna la seguì fino alla soglia. Poi, stette a guardare la zia accomodarsi sul sedile del cab. Guardò Benton chiudere lo sportello e issarsi a cassetta. Mentre il calessino scendeva lungo il viale, Lily comparve al fianco di Anna.
«Sei ancora scettica?»
«Assolutamente sì. Trama qualcosa.»
«Il bene degli onesti operai?»
Anna liquidò le speranze di Lily con in un eloquente sbuffo.
«Pensi abbia capito che siamo entrate nella nursery?»
«Penso che questa partenza non sia casuale.»
«Io ho un’orrenda sensazione.»
«Siamo in due. Ma tanto vale approfittare del momento.»
«Che intendi?»
Anna chiarì subito: voleva setacciare, in lungo e in largo, la camera da letto della zia. Si mise all’opera, aiutata da Lily. Ebbero presto conferma del timore che aveva ragionevolmente preoccupato entrambe dal momento dell’annuncio della partenza: la zia Woodhams doveva aver portato con sé l’oggetto che le permetteva di controllare l’Ombra.
«E come poteva essere altrimenti!» sbottò Anna, sbattendo uno dei cassetti dello scrittoio. «Non è così stupida da lasciarlo incustodito.»
«E ha portato via la chiave della nursery» disse Lily, richiudendo il cofanetto di malachite. Si guardò attorno, affranta, stringendosi nelle braccia. «Anna, anche se l’oggetto fosse ancora qui... come potremmo capire di averlo davanti? Non abbiamo idea di cosa sia. »
Anna fissava in cagnesco lo scrittoio. ‘Avrei dovuto far parlare Hall!’
Lily puntò lo sguardo verso la finestra.
Il sole stava tramontando.
«Sarà una lunga notte.»







____________________________________

➽ Note autrice.
Torno con una comunicazione di servizio.
Mi ero ripromessa di concludere la pubblicazione entro la fine dell’anno. I programmi festaioli delle prossime settimane, uniti alla mia lentezza cronica con gli edit finali, mi hanno messa davanti all’amara verità: non è fattibile. Perciò i prossimi capitoli (sei in tutto) verranno pubblicati a partire da Gennaio.
Dunque, questo è l’ultimo messaggio del 2016.
L’autrice vi saluta con l’ennesimo doveroso grazie: a chi ha inserito la storia tra le seguite/ricordate/preferite, a chi si è fermato per farmi sapere la propria opinione, a chi ha buttato un occhio qui e là.

Happy holidays! 🎄

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** Confessioni notturne ***


22





XXII. Confessioni notturne




«Sì» fece eco Anna, con un mormorio a mezza bocca. «Sarà una lunga notte.» Mani sui fianchi e sguardo rabbuiato, fissava lo scrittoio della zia Woodhams come fosse stato alla radice delle loro disgrazie. Alzò la voce: «Non la passeremo impreparate: ci accampiamo in biblioteca. Aspettami là. Io devo prendere una cosa.» E prima che Lily potesse indagare, Anna era già fuori dalla camera.
Risalì il corridoio fino alla propria stanza da letto e vi sgusciò dentro, riaccompagnando la porta. Si ritrovò costretta a far quanto aveva giurato di non osare mai più: andò alla cassettiera, si accovacciò sui talloni e aprì l’ultimo cassetto.
Guardò il libriccino di ruvida pelle. Guardò la temuta valigetta. Prese tempo:
il tempo di inghiottire un respiro profondo, di battere lentamente le palpebre, di umettare le labbra. Infine, raccolse il libro e sollevò la valigetta; adagiò entrambi sul letto e si spostò verso il comodino, per riesumare la darringer dal fondo del cassetto. In un gesto dettato dall'abitudine, abbassò il cane e si accertò che il tamburo ruotasse a dovere. Nel mentre, con la coda dell’occhio, colse la propria figura, intrappolata nello stretto abito nero, riflettersi nello specchio del vanity.
Allora, alzò lo sguardo e si mirò apertamente.
Se era in procinto di affrontare quel che temeva, se era giunto il momento di tornare ai vecchi tempi, tanto valeva farlo a dovere.
Cinque minuti più tardi, lo specchio incorniciava una donna in vesti inequivocabilmente maschili 
e di conseguenza altamente funzionali. Solo per la comodità Anna aveva davvero interesse, tanto da non percepire nulla di intollerabile o inappropriato nel panciotto marrone che stringeva la camicia di calicò, dal colletto sbottonato, e nascondeva le bretelle dei robusti pantaloni di tela di cotone; erano arrotolati un palmo sotto al ginocchio, in modo da lasciar scoperti gli stivaletti. Anna non indossò né giacca, né fazzoletto al collo ma, gettando sulla schiena la treccia corvina, quasi rimpianse di aver lasciato ai Martin il fido cappello dalle falde larghe.

*

Lily sembrava aver interpretato alla lettera le parole di Anna. Aveva portato in biblioteca una pila di coperte e aveva riempito il carrello delle vivande con gli avanzi del pranzo e con il bottino di una mezza razzia della dispensa: acqua, tè e caffè, pane e focaccine, una zuppiera di fagioli bolliti con pancetta e un vassoio da carne di manzo in salsa alle erbe, un’insalata di uova soda e barbabietola, quanto restava di un tortino alle mandorle e noci.
Anna, entrando in biblioteca, trovò la cameriera alle prese con il caminetto: stava smuovendo le braci, aizzando le fiamme contro i grossi ciocchi coperti di muschio ed edera secca. Lei sistemò libro e valigetta sopra la greppina, stando attenta a non pestare Milton, trotterellatole in contro a coda diritta. Da Lily si attendeva una banale esclamazione di sorpresa, in merito al cambio d’abito, ma l’amica ― pur dopo un’occhiata non priva di perplessità ― assai più pragmaticamente accennò alla greppina, mise via l'attizzatoio e chiese: «Che cosa sono quelli?»
«Li ho portati con me dalla Nova Scotia.» Anna stava battendo il perimetro della biblioteca: controllò che le porta dello studio, del parlour e dell’atrio fossero chiuse a chiave ― e che ogni chiave fosse nella toppa. «Avevo sperato di non dovermene mai più servire. Ma, arrivate a questo punto, spero invece che potranno esserci utili.» Scrutò la veranda, attraverso la portafinestra: non c’erano luci, nella campagna, e una nuova falce di luna, sottile come la punta di un’unghia, languiva in un tetro cielo senza stelle.
A quel punto, Anna tornò indietro,
recuperò valigia e libro e sedette a gambe incrociate accanto a Lily. Alle spalle il camino, davanti a loro il basso tavolino che per tante sere aveva ospitato il Backgammon dello zio Woodhams.
I due ganci scattarono sotto le dita di Anna.
La valigetta venne aperta.  
Lily sbatté le palpebre.
La valigetta custodiva un massiccio revolver: un Beaumont-Adams del Settanta. Ma, di tutto il contenuto, la rivoltella era l'oggetto meno peculiare. V’erano un accerino, una robusta corda color polvere, mezza dozzina di sacchetti di tela e un panno verde ― il quale, palesemente, avvolgeva altri oggetti. Infine, un pugnale protetto da una grezza guaina di pelle. Anna lo sollevò: il manico era pallido, percorso da fitte venature, simile alla corteccia di un albero. Mise a nudo la lama: larga, opaca e ricurva. «Questa è una delle poche armi che possono ferire uno spirito» annunciò, senza enfasi né timori. «Il manico è di corno. Il corno di un cervo bianco, catturato durante la luna piena.»
Lily dischiuse le labbra ma, quale che fosse l’esclamazione di tramortita incredulità che Anna le lesse nello guardo, non sembrò riuscire a cavarsela di bocca. Milton le balzò in grembo, ma lei gli badò.
Anna rinfonderò il pugnale. Prese il panno verde. Lo srotolò. La stoffa rivelò una lunga piuma d’aquila, con il calamo avvolto in un tendine. Insieme alla piuma c’era quella che Lily scambiò per una piccola ciotola malamente intagliata in una pietra dai riflessi vetrosi: blu e verdi. Si trattava, in realtà, di una conchiglia.
Senza dir nulla, Anna aprì uno dei sacchetti di tela e ne estrasse dei mazzolini di erbe essiccate. Usò l'accerino per bruciarne un’estremità. Poi, sistemò il mazzetto all’interno della conchiglia e vi agitò sopra la piuma con una delicatezza solenne.
Un profumo dolciastro riempì la sala e i sensi delle ragazze.
Anna osservò il fumo: il filo bianco saliva in fitti riccioli. 'Si contorce' constantò. 'Avverte il male che infesta la casa.' Alzandosi in piedi, pose la conchiglia sulla mensola del caminetto e disse: «Queste sono erbe purificatrici. Da sole non basteranno a tenere lontana l’Ombra, ma le renderanno più difficile usare i suoi poteri.»
Lily inghiottì.  Guardò il lampadario che sibilava sopra le loro teste.
«Perché? Non è sufficiente la luce?»
«La luce è fondamentale. Ecco perché temo che tenterà di spegnerla. Non ricordi l’altra notte, come si è accanita contro la lampada?»
Lily si strinse Milton al petto; la bestiola, tranquilla e inconsapevole, faceva le fusa.
Anna guardò Lily: le parve penosamente diversa dalla vivace ragazza con lo sguardo di bambina che, un mese addietro, l’aveva travolta di domande, mentre prendevano il tè nell’attico. Adesso era una giovane donna pallida, spenta e abbattuta. Gli eventi degli ultimi giorni dovevano averle gettato addosso una tale spaurita confusione eppure, nonostante tutto, non aveva abbandonato Bon Fleur Place.
Non aveva abbandonato Anna.
E Anna capì che era il momento di dirle la verità. O, almeno, la parte di verità dalla quale 
sperava Anna  Lily avrebbe potuto trarre un poco di sollievo, forse, una volta passata la nuova ondata di confusione. Tornò seduta: la schiena contro il tavolo, una gamba stesa verso il camino, l’altra tirata al petto. Sfilò l’anello dal dito e lo affidò al palmo di Lily.
La cameriera alternò uno sguardo di mesta perplessità tra gioiello e proprietaria.
«L’anello fu fatto realizzare da mio padre» esordì Anna. «Ma la pietra apparteneva a mia madre. È un cristallo di rocca. I nativi la usano durante le cerimonie di purificazione. Questo cristallo fu benedetto da una sciamana Ahawiti.» Fece una pausa. Lily non disse nulla. E Anna riprese: «Il che gli ha conferito una capacità particolare. Pensa all’ago di una bussola. Pensa a come è in grado di puntare verso nord. Il cristallo funziona in modo simile. Quando qualcuno di ― come posso dire? Quando qualcuno di non umano causa una morte, o un atto malvagio e violento, lascia sempre una traccia. Un calco invisibile, un solco, una traccia impossibile da percepire per la maggior parte dei viventi.»
«La fontana!» esclamò Lily, in un soffio di spaurita realizzazione.
«Ed è accaduto per puro caso» continuò Anna, poggiando stancamente l’avambraccio sopra il ginocchio. «Nel momento in cui misi piede in questa casa, giurai a me stessa che non avrei più nemmeno sfiorato questi oggetti. Ma... mi sentivo in colpa. Così, per rimediare, decisi di indossare l’anello. 
Una sciocchezza, lo so!  In ogni caso, ricordi quel pomeriggio, quando ricevemmo la visita di William Hall e tu venisti a chiamarmi, in giardino? Io ero sul bordo della fontana. Avevo appena visto il cristallo farsi rosso. È così che la pietra percepisce la traccia di malvagità.  Portai l’anello con me quando andai a King Street, dopo aver parlato con Bert. E anche là, nello studio, il cristallo divenne rosso. Se potessi entrare nella vecchia dimora dei Mallory, nella camera dei bambini, sono sicura che il cristallo avrebbe la stessa reazione.»
Lily restituì l’anello, cauta e timorosa.  «Quindi» disse, con un fil di voce, «tutti questi oggetti appartenevano a tua madre?»
«Tutti, tranne il revolver» sospirò Anna. «Quello era di mio padre.»
«E perché... perché tua madre possedeva oggetti simili?»
Anna, indossato di nuovo l’anello, spostò lo sguardo sul fuoco. Temporeggiò. Pensò alle parole adatte. Infine, scelse le più semplici: «Mia madre discendeva da una stirpe di donne ― una stirpe antica, precedente all’arrivo dei coloni. Avevano il dovere di sorvegliare il mondo degli spiriti. Erano poste a sentinella del fragile muro che protegge i vivi dai morti, gli uomini da coloro che umani non sono più ― o non lo sono mai stati. Ogni volta che una minaccia ha gravato sugli Ahawiti, ogni volta che esseri oscuri e senza nome sono strisciati fuori dalle foreste, una donna della mia famiglia l’ha respinta.» Mentre parlava, con gli occhi scuri rivolti alle fiamme e la luce che danzavatra le dure linee del suo volto bruno, fu come se la sua vita passata fosse stata evocata nella stanza, al pari di uno spettro risvegliatosi dopo un lunghissimo sonno, giunto da una terra remota, bella e primitiva. Nel suo racconto echeggiava il lento trotto dei cavalli pezzati ― quanti giorni aveva trascorso in sella!
e lo sciabordio delle acque gelide di torrenti che scorrevano tra le foreste di aceri e querce ― quante notti passate all'aperto, davanti a un misero fuoco! E, sullo sfondo del racconto, baluginava la dorata quiete del grano nelle pianure e al bianco silenzio delle montagne, il tremito delle foglie rosse d'autunno e il turbinio del vento d'inverno, l'accorato ululato dei lupi e l'incresparsi delle acque dei laghi al passaggio dei castori. «Mia madre, però, era diversa. Era irrequieta. Insofferente alle regole. Non si accontentava di proteggere il villaggio, non attendeva che le minacce avanzassero, andava a scovarle di proposito. Non che non tornasse spesso tra gli Awahiti, ma per la maggior parte del tempo viveva come una raminga, vestiva come un uomo e non temeva i bianchi più di quanto temesse gli spiriti. Un giorno, a furia di girovagare, incontrò mio padre. Lui andava inseguendo un criminale ma finì accerchiato da un branco di Teste Volanti»
«Di cosa?» saltò su Lily, a tanto così dallo strozzarsi col suo stesso fiato.
«Le Kanontsistóntie. Divorano carne umana.»
Lily, a occhi sgranati, riuscì solo a portarsi le mani davanti alla bocca, prendendo a schiacciare il labbro inferiore tra i polpastrelli.
«Mia madre gli salvò la vita» continuò Anna. «O lui la salvò a lei. Raccontavano sempre versioni opposte. 
Comunque, come ti ho già raccontato, dopo la mia nascita, mia madre decise di riprendere a viaggiare  insieme a mio padre. Il villaggio considerò la sua decisione come un tradimento. Non per l’aver scelto un bianco come compagno, non era certo la prima né l’ultima, ma per aver condiviso con lui i segreti sul mondo degli spiriti. Non si fidavano. Credevano che simili conoscenze, in mano ai bianchi, potessero diventare estremamente pericolose.» Scosse il capo. «E come dargli torto? Guarda in che situazione ci troviamo!» Sospirò. «Lei non fu più la benvenuta e io non vidi mai il villaggio. Non per questo, però, mia madre abbandonò la missione. Mio padre imparò da lei e io imparai da entrambi. E quando gli spiriti erano calmi, c’era sempre una taglia da riscuotere e quei soldi erano le nostre entrate.» Tacque. Strinse il pugno e fissò l’anello. Udì Lily respirare forte e a fatica, come se cercasse di non lasciarsi sottrarre l'ultimo brandello di calma.
Il silenzio non si interruppe nemmeno quando Lily racimolò la forza di levarsi in piedi. Andò al carrello. Si versò del tè. Ne prese qualche sorso; poi, ancora con la tazzina tra le mani, finì col collassare sulla poltrona.
«Allora... allora è questo che intendevi, quando mi hai detto che la signora Woodhams è una tua responsabilità. Stai raccogliendo l’eredità di tua madre.»
Anna rilassò la mano. «Avrei dovuto farlo molto tempo fa.» Continuò a osservare il fuoco. «Dopo la morte dei miei genitori, sapevo benissimo quali fossero i miei doveri, ma io non sono mai stata né forte né coraggiosa. Non come mia madre. Ho sempre odiato l’oscurità. Odio le creature che la abitano. Ho sperato così tanto che quaggiù, in Inghilterra, potessi essere soltanto Anna Hawkins. Senza quei doveri. Senza quelle responsabilità.»
«Non sarà da me che riceverai parole di biasimo...» esalò Lily.
Anna ascoltò il ticchettio dell'orologio dello zio Woodhams, nella tasca del panciotto, ripetersi per sei volte. «Però... ci ho provato.» I suoi occhi si allontanaro dal fuoco, riparandosi tra pieghe del palmo. «Quando mio padre morì, non avevo nessun desiderio di continuare la vita del cacciatore di taglie. Andai a Westville, con l'intenzione di restarci solo per l'inverno. Là viveva una donna, amica di mio padre, che gestiva una pensione: lavorai per lei in cambio di vitto e alloggio. Il marito, invece, lavorava in una delle miniere di carbone della zona. Era a capo delle squadre di operai. Fu da lui che venni a sapere che nella cava c'erano stati dei disordini. Alcuni minatori avevano detto di aver visto una creatura aggirarsi nelle gallerie. ― Una figura nera. Con gli occhi rossi.»
Lily si agitò sulla poltrona.
«Girava voce che fosse il fantasma di uno dei minatori morti nel crollo avvenuto una decina di anni addietro.»
«E lo era?» sussurrò Lily.
«Sì, lo era ― come scoprii in seguito, quando cominciai a indagare di nascosto ― ma un altro dettaglio rendeva la faccenda ancor più allarmante agli occhi dei minatori: a una settimana dalla prima apparizione, il figlio maggiore del proprietario della cava era morto precipitando giù dalla terrazza della magione di famiglia. Nessuno capì se fosse stato un incidente o un suicidio. L'unica cosa certa era che quel giovane, Michah Tremblay, era morto alla vigilia dei suoi ventuno anni. Padre e madre, fratello e sorella sconvolti e distrutti. Ma Michah era nato dal primo matrimonio del signor Tremblay: un anno come vedovo e subito s'era trovato una nuova moglie. Michah e il fratellastro, Gideon, avrebbero dovuto ereditare entrambi la miniera e tra i due non correva buon sangue. Allora ce ne impiegai, di tempo, per mettere insieme i pezzi! Ma adesso l'intera faccenda sembra persino banale: Gideon Tremblay aveva usato l'anima di quello svenutato minatore per liberarsi del fratello maggiore. E stava progettando di uccidere anche la sorella. Non sopportava neppure l'idea di rinunciare a quel poco di eredità destinata alla dote di lei. Io sapevo cosa doveva fare: una notte, mi intrufolai all'interno della magione... ma... ma arrivai troppo tardi. Vidi quella ragazza... non aveva che quattordici anni... in piedi, sul cornicione della terrazza. Corsi verso di lei»
Anna serrò le labbra: le mancava la voce. Strizzò le palpebre e chinò il capo, strofinando i polpastrelli lungo le sopracciglia.
Mai, prima di allora, aveva raccontato la storia a voce alta.

«Non certo la prima che volta che vedevo un cadavere! Eppure, quella piccola ragazza, sul prato nero... il suo collo piegato in quel modo innaturale... e i suoi occhi... aperti... che fissavano me, lì, impietrita sulla terrazza, come a chiedermi 'perché non mi hai salvata?' 'Perché non ti sei mossa prima?' Non riuscirò mai a togliermela dalla testa - quell'immagine.»
Lily andò di nuovo a sedersi accanto ad Anna. Da principio non disse nulla: la guardò e adagiò la piccola mano bianca sulla spalla di Anna. «E che ne fu di Gideon Tremblay?»

«Mi sorprese sulla terrazza. Io ero così sconvolta che gli dissi tutto. Gli dissi che sapevo cosa aveva fatto.»
«E lui?»

«Rise, dicendo che avrebbe raccontato alla polizia che ero stata io a spingere Nelly. Ero una ladra, una sporca meticcia, che era stata sorpresa in casa. Quale giudice non gli avrebbe creduto? Quale difesa potevo offrire io, davanti a un'accusa del genere?» Anna strinse i denti. «Sua sorella giaceva cadavere là sotto e lui... quel miserabile moccioso, un pallido flaccido ragazzino... sogghignava e rideva! Io persi la testa. Lo aggredii. Non per ucciderlo, no... ma... lui  sbatté il capo contro il marmo della balaustra e―» Anna dovette tacere: due volte il petto si alzò e si abbassò in un respiro. «Col poco di lucidità che mi restava, frugai il suo corpo in cerca dell'oggetto che gli permetteva di controllare l'Ombra. Fui fortunata. Lo trovai: un medaglione con la foto di quelli che dovevano essere stati i figli del minatore. Scappai via e appena fui abbastanza lontana dalla magione, bruciai la foto. Nei giorni successivi, feci fondere il medaglione. Ma allora ero giù sulla strada per Yarmouth. Lasciai la città quella stessa notte. Scappai letteralmente dall'altro capo del Paese.»
Anna guardò la poltrona vuota: la poltrona dello zio Woodhams. Le parve di poterlo ancora vedere lì, il caro zio, sorridente e ottimista, la pipa in mano e lo sguardo luminoso, colmo di paterna gentilezza. E ricordò il sogno fatto dopo la scoperta della fontana. Nel sogno, aveva gettato via l’anello. E le sue mani si ricoprivano di sangue.
Anna aveva davvero le mani sporche di sangue.
Del sangue di suo zio. Come del sangue di Nelly Tremblay. E di Gideon Tremblay.
Chiuse occhi. Le tremava il respiro. «Non mi perdonerò mai. Il cristallo mi ha avvertito. Sapevo che qualcosa di terribile era accaduto in questa casa. E ho voluto ignorarlo ugualmente. A tutti i costi. Di proposito. Ho ucciso io mio zio.»
«Anna!» esclamò Lily. «Non dire certe cose! Tu... tu hai chiesto ai Blackwell!»
«Ho fatto un tentativo, non ho ricevuto risposta e tanto m’è bastato per sentirmi autorizzata a fingere che non fosse successo nulla.» 
«La signora Woodhams e il signor Hall sono i soli colpevoli» insistette Lily. «Tu non hai nessuna colpa. Tu non hai fatto nulla di mal―»
«Questo è il punto!» esclamò Anna. «Io non ho fatto nulla. Ma avrei dovuto. Avrei dovuto continuare a domandare. A cercare. A comprendere.»
Lily scosse la testa. «Anche se così fosse, a questo punto, a cosa possono servire tutti questi ‘avrei dovuto’?» Spostò la mano sul viso di Anna: con la punta delle dita tracciò un carezza dal sopracciglio allo zigomo, poi coprì la guancia di Anna con la piccola mano calda. «Cosa dobbiamo fare adesso: questa è l'unica domanda che conta.»
Anna si sforzò di annuire. Ricambiò il tocco di Lily, stringendole con delicatezza il polso della mano sollevata.
«Hai ragione. Devo pensare all'adesso. E te lo prometto, Lily. Ti terrò al sicuro. Non perderò anche te.»
«Lo so. Io mi fido di te.»
Cadde un breve silenzio.
«Che cos'è il libro?» chiese, poco dopo, Lily. «Ha l’aria vecchia.»
«Un cimelio di famiglia. I segreti degli spiriti furono sempre tramandati di racconto in racconto. Ma, una volta anziana, la madre di mia nonna decise di adottare i metodi dei coloni e affidarsi all’inchiostro.» Anna raccolse il libro e ne sollevò la copertina. Mostrò a Lily le pagine ingiallite: ritratti di esseri mostruosi, volti deformi e corpi bestiali, si alternavano a paragrafi scritti in una lingua che, per usando lettere familiari, non era certo inglese.
«È la lingua degli Ahawiti?» tentò di raccapezzarsi Lily.
«Sì.»
«Dunque è una... specie di grimorio?»
«Non conosco quella parola.»
«Un libro di incantesimi. Come quello delle streghe.»
«Oh, no. Nessun incantesimo. Qui c’è solo quanto serve a respingere le cose malvagie. N
ient'altro. Non lo apro da anni. I disegni mi danno gli incubi. Però, mi sembra di ricordare che la mia antenata si fosse presa la briga di trascrivere qualcosa... » Sfogliò le fragili pagine. «...riguardo alle Ombre.»
«Qualcosa?» pigolò Lily, in precario equilibrio tra angoscia e speranza. «Come un altro modo per cacciarle via?»
«Se siamo fortunate.»
Non lo furono.
Anna ritrovò le pagine dedicate alle Ombre: la somiglianza tra le scheletriche figure sulla pagina e la creatura che si nascondeva a Bon Fleur era lampante, ma districarsi in quella selva di calligrafia sbiadita e linguaggio vecchio di tre generazioni fu arduo. Anna era abituata a riconoscere il suono delle parole, non la grafia; e le sue conoscenze erano comunque circoscritte a termini quotidiani. Non aiutava neppure il fatto che fosse passato moltissimo tempo dall'ultima volta che Anna aveva pronunciato anche una sola frase nell'ostica lingua materna.
Passarono le ore.
Le erbe si consumarono. Il fuoco ebbe bisogno di nuovo bracciate di legno. Lo studio e la veglia vennero intervallate da una cena rapida: nessuna delle due ragazze era nello stato d'animo adatto a rimpinzarsi, solo Milton si leccò i baffi, reclamando la sua doppia razione a suon di fusa e miagolii. 
Giunse mezzanotte.
L’una, le due, le tre.
Non accadde nulla. La villa era silenziosa e la notte taceva.
Alle tre e venti in punto, Anna si alzò dalla poltrona e scosse la spalla di Lily, che sonnecchiava sulla greppina.
«Ho trovato qualcosa!»
«Buone notizie?»
«Dipende dai punti di vista.»
«Oh...»
«Se ho capito bene» sospirò Anna, con il libro aperto tra le mani, «la mia bisnonna ha trascritto il resoconto di tutti gli incontri con le Ombre di cui avesse memoria. Lei non ne affrontò mai, ma chi che venne prima di lei sì. Sette volte. In cinque casi, le Ombre furono sconfitte distruggendo l’oggetto a cui erano legate. Una volta, chi dominava l’Ombra si pentì, bruciò di persona l'oggetto e rimandò indietro la Nalusa. Ma nel settimo caso, fu troppo tardi.»
«Troppo tardi per cosa?»
«Troppo tardi per sfruttare il legame tra la Nalusa e l’oggetto.»
Lily, muta e sperduta, fissava Anna.
«Più una Nalusa si nutre di anime altrui e più si allontana da chi fu in vita. Un’Ombra alla quale dovesse venir concesso di continuare a nutrirsi per anni finisce col diventare qualcos’altro. Non più uno mero spirito, ma una creatura fatta di materia solida: le ossa tornano ad essere ossa. La sua carne torna ad essere carne. Ciò che le mie antenate ne dedussero fu che, se in questa nuova creatura non v’è più nulla di umano, l’oggetto che un tempo era amato dall’essere umano perde ogni potere di controllo. Né può essere usato per bandirla dal mondo dei vivi.»
«E da quale punto di vista questa può essere una buona notizia?» gemette Lily.
«Forse non avremo bisogno di scoprire quale sia l’oggetto e sottrarlo a mia zia.» Anna chiuse il libro. «Possiamo combattere l’Ombra apertamente. Come fecero le mie antenate: la trafissero con una freccia dalla punta infuocata.»
«Quindi che cosa vorresti fare?» biascicò Lily. «Attendere che l’Ombra continui a uccidere, così che diventi un bersaglio a cui appiccar fuoco?»
«È pur sempre un piano di riserva.»
«Che non potremmo attuare, se le prossime vittime saremo noi!»
Solo in quel momento, Anna vide l’ovvio quanto insuperabile ostacolo. Si passò una mano sugli occhi: le sembrava di avere le tempie strette in una morsa.
«Giusta osservazione.»
«Possibile che non ci sia nemmeno un’indicazione su come individuare l’oggetto?» riprese Lily.
«Non una parola! Almeno non di quelle che sono riuscita a tradurre.» 
«Anna...»
«Mh?»
«Quanto tempo è che non dormi?»
«Non ho tempo di dormire.»
«Ma ne hai bisogno.»
«Non ci riuscirei comunque.»
«Tentar non nuoce: concediti un po’ di riposo e magari ne gioverà anche la traduzione del libro. Resterò io sveglia. Prometto di chiamarti al minimo rumore.»
Anna protestò. Lily insistette, imperterrita, e alla fine il buon senso l'ebbe vinta: Anna, pur con una certa intima riluttanza, mise via il libro e si distese sulla greppina. Lily prese il suo posto in poltrona. Entrambe si raggomitolarono nella propria coperta, mentre Milton, a pancia all’aria, si rotolava sul tappeto davanti al camino.
«Anna» chiamò Lily, sottovoce.
«Sì?»
«Perdonami.»
«Per cosa?»
La cameriera sospirò; teneva un gomito contro il bracciolo, il mento sul palmo e gli occhi bassi. «Per non averti creduto subito. Se avessi saputo quale peso ti porti sulle spalle.»
Anna abbozzò un sorriso. «Lascia stare» sbadigliò. «Ho sbagliato io. Non dovevo pretendere che credessi alla mia storia senza darti le giuste spiegazioni.» Chiuse gli occhi.
In capo a dieci minuti, al contrario delle sue previsioni, già dormiva della grossa.
Il sonno fu profondo, ma inquieto. L’angoscia presente si fuse al dolore passato. Anna vide la scarna croce che aveva piantato sulla tomba di suo padre e vide l’angelo di pietra che vegliava quella dello zio Woodhams. Sentì di nuovo le labbra di William Hall sulla sua bocca e sentì le mani nere della Nalusa attorno al suo collo. Si svegliò, di soprassalto, credendo di soffocare. Aveva dormito per due ore, ma le sembrava di aver poggiato la testa sul cuscino solo un minuto prima. Si sentiva più fiaccata e confusa di prima.
E qualcuno la stava effettivamente toccando: era Lily, che le scrollava una spalla.
«Anna! Anna!» Il sussurro tremava di preoccupazione. «C’è qualcuno sulla veranda!»








____________________________________

➽ Note autrice.
Ben ritrovati, lettori cari!
Dopo una vergognosa assenza di più di due mesi, torno a pubblicare. A mia discolpa posso solo dirvi che il 2017 è iniziato col botto. Nel senso che mi sono ritrovata con un botto di roba di cui occuparmi e il tempo da dedicare alle revisioni - e relativa energia mentale necessaria - si è ridotto in modo drastico.
MA non ho gettato la spugna e, se qualcuno bazzica ancora da queste parti con la voglia di sapere come andrà a finire la storia, eccoci di nuovo qui!

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Madri e figlie ***


23





XXIII. Madri e figlie




Anna balzò in piedi e corse con lo sguardo alla finestra.
Buio pesto.
«Sei sicura?»
Lily annuì con tutto il vigore della paura.
Anna si mosse in fretta: prese il candelabro a due bracci dalla mensola del caminetto, accese le candele e recuperò il pugnale.
«Rimani qui.»
E Lily non parve in vena di disobbedire: riparò dietro una poltrona, seguendo i movimenti di Anna con uno sguardo spaurito.
Anna fece scivolare il chiavistello e spinse la mano armata contro il vetro. Uscì. Era l’ora più fredda della notte e il gelo le piombò addosso come un rapace: vide il proprio respiro ― corto, e lento al contrario del battito del cuore ― mutare in uno spettrale soffio di nebbia, mentre scrutava alla propria destra: il livore delle statue emergeva tremulo dall’oscurità compatta.
Lontano, tra i campi, un cane ululò.
Poi, silenzio.
E nel silenzio, uno strusciare di passi.
Anna roteò il pugnale, volgendone la lama verso il basso, alzò il braccio e si voltò.
Ma il suo assalitore fu lesto. O, forse, solo fortunato: bloccò il polso di Anna prima che la lama potesse piantarsi nel suo collo.
Anna calciò contro il ginocchio.
L’altro indietreggiò e barcollò, piegandosi sulla gamba azzoppata.
Il clangore del candelabro contro le lastre del pavimento scosse il silenzio con la violenza di un’esplosione ― ma non nascose un gemito: Anna aveva colpito l’uomo al volto con un pugno. E non gli concesse il tempo di riprendersi: gli fu subito addosso, buttandolo a terra, steso sulla schiena. Con il ginocchio gli tenne un braccio schiacciato contro il pavimento e con la mano libera costrinse l’altro braccio contro il petto. Sollevò il pugnale.
«Anna!»
Lily, accorsa sulla veranda, fissava con orrore la scena.
Il braccio di Anna rimase alzato ― ma immobile.
«Miss Hawkins...»
«Sì, signor Hall? In che cosa posso esservi utile?» ringhiò Anna.
«Non sono... qui per arrecare male a nessuno» boccheggiò William, sotto di lei.
«Siete qui per spiare, allora. Vi manda la mia cara zia? Ha ordinato al suo cagnolino di assicurarsi che io abbia i minuti contati?»
«Non sono qui per arrecare male a qualcuno!» ripeté lo scrittore.
La sua voce grondava un misto di supplica e rabbia febbrile, ma le candele si erano spente e il chiarore interno della biblioteca non era sufficiente a mostrare ad Anna l’espressione sul volto di lui.
Anna inspirò: le dolevano i muscoli del braccio, tanto era forte e serrata la presa sul pugnale; poi, espirò e, lesta e busca, si levò in piedi.
«Alzatevi! Alzatevi e andate dentro ― e se provate qualcosa, giuro sulla tomba di mio padre, che vi taglio la gola.»
Vistosamente a fatica, William si trascinò in piedi, facendo perno sul ginocchio sano, mentre in segno di resa mostrava i palmi nelle mani, nascoste dai guanti neri. Fece quanto intimato senza distogliere l'attenzione dalla lama che continuava a vedersi rivolta contro. Entrò in biblioteca, seguito a ruota da Anna; seguita, a sua volta, da Lily.
«Andate vicino al pianoforte» disse Anna. «Lily, portami la corda, per favore.»
Lily, pur con l'aria di chi non sa più nemmeno dove si trovi, eseguì. 
Anna scrutò William: cadendo, l'uomo aveva perduto il cappello; ora un ricciolo nero pendeva sull’ampia fronte pallida; ma il colorito delle magre guance era acceso, sotto le meste sopracciglia lo sguardo appariva rabbioso, e un rivolo di sangue scuro colava dall’angolo della bocca dischiusa. Lo scrittore abbassò appena le braccia e le spalle, sotto il lungo pastrano nero, crollarono lentamente.
«Miss Hawkins, lasciatemi spiegare―»
«Sedetevi.»
«Dove di grazia?»
«A terra: sono sicura che nostro pavimento sia degno delle vostre terga.»
William prima serrò le labbra. Poi, allargò le narici in un respiro rumoroso. Infine, a denti stretti, obbedì: le lunghe gambe piegate davanti a sé e la schiena appoggiata al massiccio piede che sorreggeva la coda del pianoforte.
Intanto, Lily se ne stava alle spalle di Anna, con la corda tra le mani. Anna gliela sfilò via, affidandole il pugnale. In quanto a William Hall, pur senza lame alle gola, non azzardò a ribellarsi mentre Anna si adoperava per legargli entrambe le mani dietro la schiena, alla gamba del pianoforte con un nodo a prova di ladro di cavalli. Tuttavia, non si trattenne dal protestare a voce.
«Tutto questo è incivile e in alcun modo necessario.»
«Disse l’uomo che si intrufolò di soppiatto, in case altrui, nel cuore della notte.»
«Sono le cinque e mezzo del mattino.»
«Oh, be', questo cambia tutto!»
William sospirò.
«Quantomeno, miss Hawkins, vi riconosco il merito d’aver elevato a raffinata arte la proverbiale capacità di confondere del vostro sesso.»
«Di che blaterate?»
«Prima mi accusate di essere un assassino. Poi, mi baciate. Infine, mi prendete a pugni.»
L'accenno all’incidente del pomeriggio ebbe su di Anna lo stesso effetto di una frustrata contro una bestia già inferocita: mise a tacere William facendogli sbattere la nuca contro il legno. In piedi, arretrò di due passi, gettò le spalle all’indietro e stese una mano affinché Lily le restituisse il pugnale. 
«Perché siete qui?» soffiò.
«Per voi. Dovevo vedervi. Parlarvi.»
«Siete stato accontentato, allora. Mi avete davanti. Parlate.»
Ma William guardò Lily.
«Preferirei che la conversazione fosse privata.»
Anna esibì un sorriso serrato: il controllo di sé andavano annegando sotto la rabbia. «Non siete voi a dettare le condizioni, signor Hall. Lily resta e voi vuotate il sacco. Vi ha mandato mia zia: sì o no?»
William crucciò le sopracciglia. «E perché mai avrebbe dovuto? No, la signora Woodhams non sa che mi trovo qui. Nessuno sa che sono qui. Vi ho raggiunto a quest’ora improbabile per una ragione precisa. Vi sapevo sola. Speravo in un incontro privato. E segreto.»
«E che diavolo stavate facendo sulla veranda? Cos'è? D'un tratto vi siete dimenticato che abbiamo una porta e un campanello?»
«Non... non era mia intenzione entrare dalla veranda» tentò di chiarire l'uomo. «Ma per assicurarmi che nessuno fosse sveglio, ho pensato di percorrere il perimetro della casa, prima di suonare. Così facendo, ho visto la luce provenire dalla biblioteca. Pensando che fosse insolito, mi sono avvicinato...»
Anna e Lily si guardarono l’un l’altra: scettica la prima, perplessa la seconda.
Lily racimolando il coraggio di parlare, si rivolse direttamente al signor Hall. «Ma come siete passato dal giardino alla veranda? C’è un solo chiavistello. E si trova all’interno. Ed era tirato.»
Alla domanda non seguì alcuna risposta: William umettò le labbra sporche di sangue e fissò il pavimento.
«Dunque?» incalzò Anna.
«La cameriera si sbaglia. Il chiavistello non era stato tirato.»
«Non è vero!» insistette Lily; e si voltò verso Anna. «Ricordo di averlo controllato, nel pomeriggio, prima che della partenza della signora. Era chiuso.»
Anna prestava ascolto a Lily, guardandola con la coda dell’occhio, ma continuava a fissare lo William.Scosse il capo. «Al diavolo il come! Io voglio sapere che cosa volete. E voglio sperare che siate qui per confessare.»
L'uomo levò lo sguardo su di lei. Uno sbuffò roco, sfiatato, a metà tra un riso e un gemito grattò la sua gola. «Siete tanto testarda quanto cieca. Foste un uomo, meritereste un posto in Parlamento. Ve lo ripeto: io non ho nulla a che vedere con il suicidio del signor Woodhams.»
«Bugiardo» sibilò Anna.
«Smettetela con queste accuse. Vi fanno sembrare una pazza. Una pazza pericolosa.»
«Non sono pazza. Ma posso essere pericolosa... per coloro che fanno del male alla mia famiglia.»
Lily si accostò ad Anna. «Non confesserà» le sussurrò. «È pur sempre un ricco. Quelli come lui sono incapaci di ritenersi colpevoli di nulla.»
«Noto che avete trovato nella cameriera una valida alleata» sospirò William.
«Io non sono ‘la cameriera’» squittì Lily, in un'improvviso sussulto di ardore. «Ho un nome, come lo avete voi!»
«Se lui non parla, lo faremo noi» esplose Anna, e piantò le nocche sui fianchi. «Sappiamo cosa è successo nella nursery. Abbiamo visto il sigillo. Abbiamo letto i messaggi. Voi e  mia zia avete invocato uno spirito: uno spirito nero dagli occhi rossi. Un'Ombra. Tre anni fa, avete comandato allo spirito di costringere una donna, Alice Mallory, a uccidere i suoi stessi figli. Sei mesi fa, avete fatto in modo che spingesse al suicidio una domestica: Mary Tilley. Nello stesso modo, avete portato mio zio a rivolgersi la rivoltella contro.»
Le parole di Anna caddero nel silenzio. A parer suo, William Hall stava dando una notevole prova d'attore, fissandola con quei grandi occhi cerulei d’un tratto pieni di stupore e sgomento.
«Ma chi ha avuto l'idea?» riprese. «Chi è la mente? La vecchia s’è fatta abbindolare dal giovane? O è stata lei a sedurre voi?»
William seppe solo muovere il capo in uno stordito cenno di diniego.
«Voi stupidi ― stupidi! ― arroganti bianchi. Siete come bambini che giocano col fuoco. C’è un motivo se il mondo dei vivi e quello dei morti sono separati. O pensate davvero di poter rompere le regole a vostro piacimento?»
William taceva.
«Avete perso la lingua, signor Hall?»
Lo scrittore deglutì. «Quel che dite corrisponde a verità ― ma solo in minima parte. Ho aiutato vostra zia a mettersi in contatto con uno spirito: questo è vero. Lo spirito di sua figlia. Violet.»
Anna assottigliò le palpebre: una fugace sorpresa, sporcata dal dubbio, ebbe la meglio sulla rabbia.
«E Violet ha riposto?» indagò.
«Sì.»
«I messaggi nella scatola dunque provenivano dalla bambina?»
William annuì. «Furono scritti attraverso di me. Ho lasciato che lo spirito della piccola mi usasse come tramite, mentre sua madre poneva le domande.»
«Che domande?»
«Riuscì a formulare una soltanto: chiese se fosse arrabbiata con i suoi genitori. Con suo padre. Per averne, seppur indirettamente, causato la morte. E con lei ― per non essere rimasta in casa, a curarla e vegliarla come avrebbe dovuto fare una madre. La bambina guidò la mia mano, tracciando la parola ‘perdono.’ Ma prima che vostra zia potesse asciugarsi le lacrime e continuare con le domande, lo spirito mi costrinse a scrivere, freneticamente, una dopo l’altra―»
«Madre. Morte» anticipò Anna. «E la serie di numeri e lettere.»
«La signora Woodhams si spaventò.»
«Quel grido...» realizzò Lily, in un sussurro.
«Lo spirito di Violet ci lasciò e noi non osammo più tentare. Questo è il punto, miss Hawkins: quel giorno ― quel pomeriggio di ottobre, quando vostro zio era a Londra e voi al villaggio ― quella fu la sola e unica volta che tentammo una seduta spiritica. Qualunque cosa sia accaduta tre anni fa, o sei mesi fa, o in seguito... né io né vostra zia ne siamo gli artefici.»
Ma Anna non gli credeva. «Allora, spiegatemi come mai il messaggio di Violet, quei numeri e quelle lettere, è lo stesso messaggio che Mary Tilley incise sul pavimento della propria stanza poco prima di suicidarsi? O forse mia zia non vi ha informato della coincidenza?»
William serrò la mascella. «So della scritta sul pavimento: la signora Woodhams me ne mise al corrente subito dopo la morte della domestica.»
«Lo tenne nascosto a mio zio, ma ne parlò con voi?»
«Vostra zia ha fiducia in me.»
Anna sbuffò. «Su questo non avevo dubbi! E vi informo che quella non è una sequenza alla rinfusa. Quello è―»
«Un versetto del Deuteronomio» l'azzittì William. «Mia sarà la vendetta e il castigo» recitò, «quando vacillerà il loro piede. Vicino è il giorno della loro rovina e il loro destino si affretta a venire. ― È una promessa di vendetta. Possibile che non l'abbiate ancora capito, miss Hawkins? Qualcuno sta cercando di vendicarsi dei Woodhams. E sta usando queste morti per farglielo sapere. La vostra sventurata zia è una vittima. Non una carnefice.»
Un respiro incerto gonfiò il petto di Anna, ma nulla turbò la durezza della sua espressione.
«Io non credo a una sola parola―»
«Se non credete a me, credete almeno alla logica.» La compostezza di William parve giungere al punto di non ritorno e parlò con l'aspra durezza di chi è esasperato dall'altrui ottusità. «Se vostra zia avesse voluto liberarsi del consorte, perché scegliere un suicidio? E addirittura far sì che il marito la indicasse come causa diretta? Non vedete che adesso, come conseguenza, a eccezione della mia famiglia, la signora Woodhams è stata allontanata dalla società? Pensate davvero che vostra zia ― una donna che si è adoperata tutta la vita per raggiungere benessere e ottenere rispetto ― aspiri a ridursi come una reietta? Per quale motivo rischiare tanto? ― E ammettiamo, per un attimo, che abbia avuto un valido motivo, ammettiamo... ammettiamo che l'abbia fatto per l'eredità: la domanda resta la medesima. Perché un suicidio, con tutta l'onta che ne consegue, quando avrebbe potuto inscenare un incidente?»
Anna affondò i denti nella guancia.
«E parliamo della morte della Tilley. Foste stata qui la scorsa estate, non avreste fatto altro che sentire ovunque, in città, un infinito sussurrarsi dei peggiori pettegolezzi. C'era chi andava dicendo che la cameriera si fosse suicidata perché portava in grembo il figlio di Walter Woodhams. ― Miss Hawkins, sembrate ignorare totalmente che persone del rango dei vostri zii non possono permettersi di mettere in scena suicidi all'interno delle proprie dimore e sperare di uscirne indenni. Una reputazione rovinata può essere letale tanto quanto una coltellata o un colpo di rivoltella.»
Anna arretrò di mezzo passo, senza sapere su chi o cosa posare lo sguardo. Parte di lei non voleva ― o non poteva ― accettare il ragionamento di William, e lo rifiutava come un puledro selvaggio che rifiuta le redini, eppure... quelle stesse parole stavano rodendo le sue certezze. Cercò Lily. Ma Lily stava lì, zitta, a mordicchiarsi di nuovo il pollice, con un'espressione di contrito timore sul viso bianco come un lenzuolo.
«E se vi servono prove tangibili» riprese William, «prendete in considerazione questo: la signora Woodhams non sa nulla di spiriti ed esoterismo. È una profana in quel campo. Ecco perché ha domandato a me di aiutarla a mettersi in contatto con Violet.»
«Quindi voi ammettete di esserne esperto?» disse Anna.
«Sì, lo ammetto. Sono venuto qui per questo. Per fare chiarezza: su quanto accaduto nella nursery e sul mio legame con vostra zia. Sentii il bisogno di parlarvene già quella sera, a Ellsworth House, ma la piega presa dagli eventi mi convise a rinunciare. Dopo una tale tragedia, il più piccolo accenno a simili argomenti sarebbe stato da insensibili. Ma poi voi avete iniziato ad accusarmi. E io non potevo sopportarlo.»
«Oh, è qui per orgoglio allora...» biascicò Lily .
«Chiamatelo come preferite! Ma nessun essere umano, che non sia totalmente privo di dignità e amor proprio, accetterebbe di venir ritenuto colpevole della morte di una persona cara senza tentare di provare la propria innocenza.» William guardò Anna. «Quante volte dovrò ripetervi che amavo vostro zio come fosse stato un mio parente?»
Anna, sempre più nervosa, camminò fino al tavolino. Mise giù il pugnale. Poi, una mano aggrappata al fianco e l'altra a strofinare la fronte, serrò le palpebre: le sembrava di avere il cranio in fiamme. Ed era stanca. Così dannatamente stanca. «Avete parlato di prove tangibili, ma mi avete dato solo chiacchiere.»
«Le prove sono qui»  rispose William. «Nella tasca interna del pastrano, ho le lettere che vostra zia scrisse durante le mie ultime settimane a Londra. Cercavamo un accordo per la seduta. Il luogo e il momento più adatto. Leggete con i vostri occhi. Ci sono tutti i dettagli.»
Anna si avvicinò di nuovo al pianoforte e fletté le ginocchia, ritrovandosi faccia a faccia con lo scrittore. Ne studiò lo sguardo, risoluta a cogliere il minimo indizio di menzogna.
Non trovò nulla.
Così, tanto riluttante quanto guardinga, quasi temesse di finire con le dita in una tagliola, avvicinò le mani al petto di William. Il pastrano era già sbottonato. Lei spostò il colletto, per rivelare la fodera interna: delle carte spuntavano dalla tasca. Anna le sfilò via. Tornò in piedi e arretrò, esaminando alla svelta: le lettere erano datate tra il principio dell’estate e la prima metà di settembre, nell’indirizzo compariva la parola Londra e la calligrafia era indubbiamente quella della zia Woodhams.
«Sembrano vere» mormorò Anna.
«Ma» disse Lily che, accanto a lei, stava a sua volta spiando le lettera, «abbiamo cercato nello scrittoio della signora. Non c’erano lettere del signor Hall.»
«Le ha bruciate» disse William. «Non era il genere di corrispondenza che desiderava lasciare ai posteri.»
In quel momento, da dietro la porta chiusa, giunse un rintocco: nell’atrio, la pendola batteva l’ora.
Due rintocchi.
Tre rintocchi.
Quattro rintocchi.
Cinque rintocchi.
Un sesto rintocco e di nuovo silenzio.
Anna sollevò lo sguardo dalle carte; e lo fece con una lentezza che non le apparteneva. Fissava dinanzi a sé, verso l’accesso alla veranda. 
I fogli ondeggiarono nel vuoto e caddero sul tappeto.
C’era qualcuno, là fuori.
Due persone.
Nonostante il buio, Anna riusciva a distinguerli perfettamente. Una figura  ― la più alta  ― se stava un poco più indietro: aveva spalle larghe, rese ancor più massicce dalla pelliccia cucita sul lungo cappotto. Teneva il capo chino così che il cappello gettassero sul suo viso un'ombra che ne oscurava completamente i lineamenti. La seconda figura, più vicina e più minuta, non si nascondeva: mento alto e occhi incatenati a quelli di Anna. Era una donna, ma indossava abiti simili a quelli del suo compagno. I capelli neri erano spartiti in due trecce, che le ricadevano sul petto, e un collare di ossa e pietre stringeva il collo scuro e sottile. Sotto al petto, all'altezza del costato, una macchia scarlatta impregnava la stoffa.
La donna sollevò una mano. Stese il braccio, volgendo il palmo verso l’alto.
Anna sapeva che non chiedeva di entrare.
Chiedeva a lei di raggiungerla.
«Madre...»
 








____________________________________

➽ Note autrice.
Approfitto di questo solito angolino per ringraziare chi, nonostante la lunga pausa, ha letto il capitolo precedente. Non ho avuto tempo di rispondere singolarmente alle recensioni e ai messaggi ma prometto di farlo al più presto (anche se, per il momento, cercherò di sfruttare ogni attimo libero per correggere il resto dei capitoli.)
Alla prossima! (-ω-ゞ

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3411718