La cerchia dei cinque

di DonnieTZ
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Angelica ***
Capitolo 2: *** Lootah ***
Capitolo 3: *** Makiko ***
Capitolo 4: *** Angelica ***
Capitolo 5: *** Wolfgang ***
Capitolo 6: *** Lootah ***
Capitolo 7: *** Makiko ***
Capitolo 8: *** Wolfgang ***



Capitolo 1
*** Angelica ***




 
Sono in cinque, seduti attorno al tavolo, immersi nella luce liquida di qualche candela che non serve a contrastare l’oscurità. Le luci elettriche sfarfallerebbero tutto il tempo e Angelica sa che non lo sopporterebbe. Non può vedere la sagoma di Gaia, seduta al buio in un angolo della stanza, ma la consapevolezza che sia lì, da qualche parte, continua ad agitarla.
È pentita di aver acconsentito, ma è troppo tardi per tirarsi indietro. Quelle persone – stupidi incoscienti, pensa – hanno pagato per essere lì, e lei deve arrivare alla fine della nottata. Non c’è modo di scappare.
«Potete parlare, ma solo quando vi faccio delle domande» continua a spiegare, con il suo inconfondibile tono di voce, rauco e annoiato.
Con la lingua, in un gesto istintivo, gioca con l’anello argentato che porta alle labbra, rimpiangendo il tempo in cui faceva male avere quel pezzetto di metallo infilato nella carne. Darebbe qualsiasi cosa per sentire del dolore fisico e realizzare di essere estremamente e innegabilmente terrena, mentre quegli occhi sconosciuti la fissano, soffocandola di aspettative.
Afferra le mani delle due persone al suo fianco, senza troppe cerimonie. I suoi anelli ingombranti – un teschio, un drago, una grossa fascia di metallo – si incastrano a quelli del giovane uomo alla sua destra. Gli riserva un’occhiata dura, come a sgridarlo per essersi agghindato quando lei dovrebbe essere l’unica ad avere quel privilegio. Lui gli rimanda uno sguardo pacato, inondato dal giallo delle fiamme, come se nulla di quanto accade al tavolo lo riguardasse davvero. Una strana sensazione le striscia lungo la spina dorsale, ma lei la ricaccia indietro.
Idiota. Idioti, tutti.
Angelica non chiude gli occhi, non si mette a dondolare avanti e indietro, non emette strani versi; si limita ad allentare il controllo che esercita ogni singolo giorno, si limita a lasciarsi andare, e loro arrivano subito.
Prima qualcosa di vecchio, che si attacca alla pelle come la sensazione di entrare in una stanza piena di libri antichi: carta che marcisce, umidità, puzzo di morte. Di solito le capita quando al tavolo ci sono persone anziane, con una vita lunga alle spalle e molti meno giorni davanti. Non è esattamente una sensazione nuova, ma è più intensa. Come ad accertarsi che non ci sia nessuno che corrisponda alla descrizione, Angelica alza gli occhi sui presenti: iniziano a sentire qualcosa, anche se non sanno distinguere se si tratti di soggezione o paura, ma sono tutti troppo giovani perché si spieghi la forza di quella sensazione.
Presto arriva lo strano formicolio, come un prurito impossibile da localizzare, che migra sull’epidermide. C’è il solito, vecchio terrore ad annodarle le viscere, ma Angelica lo tiene a bada. La sensazione passa dalla pelle alla carne e poi più a fondo, penetrando nelle ossa.
La prima a farsi avanti è una donna. Angelica riesce a riconoscerla come tale perché un’aura materna e confortevole sembra abbracciarla, quando la sua coscienza viene schiacciata in un angolo.
«Vorrei che ti ricordassi di dare da bere alle piante.»
La frase le esce fuori senza che possa controllarla, calma e pacata, così diversa dal tono con cui Angelica parla. Fissa i suoi occhi in quelli di uno degli uomini che ha vicino e, improvvisamente, trova intollerabile il modo in cui se ne va in giro: la camicia spiegazzata, i capelli in disordine, la barba ispida spruzzata di grigio.
«E datti una sistemata, santo cielo. Cosa penserà la gente a vederti così?»
Gli occhi dell’uomo si riempiono di lacrime e Angelica sente il cuore stringersi. Un dolore acuto e reale, che è della donna, ma anche suo. Il dolore di lasciarsi qualcosa alle spalle consapevoli che non ce la farà da solo, che è troppo difficile affrontare la vita, più di quanto non lo sia affrontare la morte.
«Guardami. Puoi farcela, puoi andare avanti.»
«Mi sento così solo.»
L’uomo parla in un lamento ferito, rassegnato, penoso. Angelica, dall’angolo di sé in cui è schiacciata, vorrebbe schiaffeggiarlo, ma la donna che la abita lo ama.
E quindi lo ama anche lei, senza possibilità di negarlo.
«Sei cocciuto, ecco cosa sei. Perché non vai a stare da Luca o da Marco? Lo sai che loro sarebbero contenti, sai che abbiamo cresciuto dei figli come si deve.»
Come si deve? Com'è che si devono crescere dei figli per potersi premiare con questa frase di circostanza? pensa Angelica.
La donna soffoca quel pensiero, andando avanti a parlare con la sua voce dalle labbra di Angelica. L’uomo resta in silenzio, ad ascoltare i rimproveri dolci della moglie, rigirando la fede che porta ancora al dito.
«Devi lasciarmi andare. Lo farai, per me?»
La donna non aspetta risposta, forse perché il tempo è un concetto molto più vago da dove viene, e striscia via proprio come si è attaccata ad Angelica: un cerotto tolto lentamente che nasconde una ferita aperta.
Angelica si gonfia dentro al suo corpo, inspirando a fondo, riempiendo gli angoli nascosti. È come costruire nuovamente una diga, più che aprirla, e lasciare che l’acqua stia immobile al suo posto, fino all’orlo. Deve subentrare subito, concentrandosi a tornare in sé appena è libera di farlo, altrimenti rischia di lasciare spazio a qualcosa che non deve averlo, che non deve presentarsi a quel tavolo.
Non c’è tempo per il sollievo, però, perché presto un’altra persona si affaccia e scorre come acqua gelida dentro Angelica, spingendola da parte. Nessuno dei presenti se ne accorge, non è qualcosa di visibile, né qualcosa di comprensibile, ma Angelica può solo stare a guardare e ascoltare. Una spettatrice ridotta al silenzio.
«Mi dispiace. Mi dispiace così tanto.»
Senso di colpa, Angelica lo sente, appiccicoso e scomodo, mentre parla al posto della nuova donna. La sua voce gratta la gola, fa un male cane mentre l'aria vibra fra le corde vocali.
«Mi dispiace tu mi abbia vista così. Mi dispiace» continua, in una cantilena disperata.
Lo sguardo – di Angelica o della donna, non c’è mai troppa differenza – si posa sull’altra ragazza al tavolo. Una giovane vestita di un maglione enorme, come se bastasse a difenderla dalla sofferenza, con gli occhi già gonfi di pianto e il labbro inferiore stretto fra i denti nello sforzo di trattenersi.
Angelica sa tutto e non sa nulla, come al solito. C’è qualcosa di profondamente devastante, qualcosa che la sta scuotendo, ma non riesce ad afferrarne i contorni. Un ricordo vago, a cui ha accesso solo in parte.
E parlare diventa sempre più difficile, perché la gola si stringe in una morsa ferrea e il collo inizia a fare male. La corda brucia sulla pelle.
La corda, la corda, la corda…
«Basta!»
È stata Angelica a parlare, scacciando via dalla pelle la donna, quella che sua nonna avrebbe chiamato uno spirito inquieto, con le solite cazzate mistiche che Angelica si rifiuta di abbracciare. Per lei è solo una donna che si è ammazzata, niente di più. Fa un po’ più freddo e le è rimasta addosso la sensazione di soffocare, anche se dovrebbe essere abituata agli imprevisti di quel genere.
Tutto quello che vorrebbe fare, in realtà, è alzarsi e abbandonare il tavolo, superare Gaia e chiudersi la porta alle spalle. Più di tutto – più del perdere il controllo e dell’essere messa all’angolo – Angelica odia l’idea che Gaia potrebbe farsi di tutta quella storia. Odia sembrare una visionaria. Odia la possibilità concreta di essere pazza. Essere presa per un’approfittatrice sarebbe il minore dei problemi. Vorrebbe quasi esserlo, vorrebbe quasi fosse tutta una messa in scena per lucrare sul dolore dei presenti.
Si pente di aver tirato fuori il suo stupido lavoro chiacchierando con Gaia, fra le lenzuola stropicciate e quella sua mano scheletrica ad accarezzarle la pelle calda. L’immagine di quei momenti balena nella sua mente e Angelica capisce di aver commesso uno sbaglio: si è distratta.
Eccoti, piccola Angelica.
La voce le rimbomba nell’anima, calda e profonda.
Pensavo non mi avresti più…
«…ospitato.»
La presenza, nata come un pensiero fuori posto, diventa voce, e Angelica è messa di nuovo da parte. Questa volta, però, la questione non riguarda altri che lei. Lei e Lui.
A volte vorrebbe credere in Dio e chiamare quella voce il diavolo, ma ha smesso da tempo di farsi domande, o forse non le è mai interessato dargli un nome.
«Quanto tempo.»
Angelica parla con voce profonda e languida, mentre si tocca le orecchie e le labbra come a contare gli anelli argentati che pendono ovunque, come se li sentisse estranei su di sé. Perché è questo che Lui sta facendo: misura i cambiamenti dall’ultima volta, anni indietro, e prende nota di ogni anomalia per puro gusto di dimostrare che la possiede.
In realtà non è certa che sia un lui, non è certa si possano applicare definizioni che a volte vanno strette perfino agli umani, ma ha come la sensazione che – fosse materiale – sarebbe un uomo. Un brutto, terrificante, viscido uomo.
«Angelica e il suo appuntamento con i morti. Sei diventata brava a tenermi fuori, ma sei sempre il centro del mio esistere, sono sempre qui, non importa quanto ci provi. Piccola Angelica. Gaia ti distrae, con le sue mani e i suoi occhi, con la sua lingua, non è così? La sua presenza, in quell'angolo, è una piccola puntura che preme e preme e preme. E chi abbiamo qui?»
Si guarda intorno, un sorriso divertito sulle labbra.
«Ah, un marito che ha tradito sua moglie più volte di quante si possano contare. Ora lei è morta e lui si dispera. Come la ama. La ama troppo, perché non c'è più nulla da amare. Com’è semplice, quando non bisogna sopportare ogni singolo giorno, non è forse vero? Fai questo, fai quello. Quante volte avresti voluto ucciderla? Quante volte hai pensato che fosse la piaga della tua esistenza, che avresti potuto avere di meglio, che le stavi facendo un favore.»
L’uomo è pietrificato, gli occhi spalancati, le mani ancora salde attorno a quelle dei suoi vicini. La paura è più forte dell’indignazione. Non il semplice timore suscitato da Lui, dalla sua voce cavernosa e dalle verità che sembra possedere, no. La paura perché quello che Lui vede è quello che abita l’uomo, la sua essenza più profonda, la sua anima più sporca. Angelica lo sa bene, perché è successo anche a lei, la prima volta che Lui l’ha trovata. Perfino dall’angolo in cui è rintanata in se stessa, Angelica sente l’odore stantio del terrore dei presenti.
«E poi, e poi, ah, la piccola figlia che ha trovato la madre appesa in camera. Oh, povera piccola. È colpa tua? Sei stata una figlia tanto deludente? Sei stata così… Basta!»
Angelica spinge, urla, si allarga ai confini del suo essere pur di scacciarlo, ma non dura molto, non può vincere contro di Lui. Gli ha aperto la porta e lui ha tutta l’intenzione di restare il più possibile. Anche se Angelica non sa spiegarsene il motivo.
Nuovamente, la sua coscienza defluisce, non è abbastanza forte, e Lui prende il sopravvento, con prepotenza. Ride di una risata secca, prima di continuare con il suo passatempo.
«Come si dice? Il meglio deve ancora arrivare. Chi altro c'è?»
Gli occhi di Angelica si posano sull’uomo alla sua sinistra: lunghi capelli neri raccolti in una treccia, la pelle una liscia distesa rossastra, tesa sopra i muscoli e le ossa. Tutto è squadrato, sporgente, definito. Lo sguardo, la sua parte più ruvida.
«Cosa fai tu, qui? Ho sentito che c'eri, ma non riuscivo a preoccuparmene, non fino in fondo, non quando non ero lei. Questo mi manca, di Angelica, sentire, vedere, pensare. Tutto è così concreto quando si entra nel suo piccolo corpo morbido. Cosa fai qui, quindi?»
Per una volta, Angelica avverte una strana vibrazione, come se qualcosa non fosse al suo posto. Un pericolo, tanto vicino da poterlo toccare.
«Parlo con i morti» risponde l’uomo.
Ha modi decisi e calmi, né la sua voce esprime una qualche emozione. Si è limitato a costatare l’ovvio.
«E i morti cosa potrebbero mai dirti, sciamano?»
L’uomo fa un leggero verso di disapprovazione, come se quella parole fosse un piccolo insulto che lui può ignorare, ma che dimostra la bassezza dell’interlocutore. Angelica soppesa le sue stesse parole.
Sciamano? E poi cosa, un cazzo di unicorno?
«Ti avvicini alla mia Angelica, e per cosa? Cosa potresti mai volere da lei? Lo sapevo, io lo sapevo, prima, ma ora è difficile ricordarlo. La sua mente è piccola e limitata. Comunque qui ci sono io, e io la rendo inutile, sporco la sua piccola anima, la sua anima nuova. Lei non sa niente, come un guscio da riempire, e ti sarebbe piaciuto, riempirla? Vuoi riempirla?»
L'allusione appesantisce l'aria, ma Angelica continua a sorridere di un sorriso non suo, tirato e inquietante.
«No. Gradirei molto di più svuotarla» è la risposta.
«Impossibile, impossibile, impossibile.»
Angelica sta cantilenando, con la voce profonda che diventa un’onda, che si alza e si abbassa. Brucia tutto: le bruciano gli occhi, la pelle, la testa, come dopo una giornata particolarmente estenuante. Improvvisamente la cantilena si placa, il silenzio appesantisce l’aria, e Angelica si volta.
Non ne può più di essere manovrata come una marionetta, eppure il suo sguardo non può fare a meno di posarsi sul giovane al suo fianco, a destra.
«Sai cosa succede a quelli come te?» chiede Angelica.
L’uomo a cui si rivolge si esibisce in un sorriso strano, sognante, e lei è costretta a continuare a parlare.
«Un giorno ti sveglierai e ucciderai tutti. Pensi che la mia piccola Angelica possa fermarti? È per questo che siete qui? Finirete per essere schiacciati come insetti e… basta! Rompete il cerchio, rompete il cerchio!»
Angelica urla, nuovamente padrona di se stessa, e l’altra ragazza al tavolo sembra quasi ridestarsi. Lascia le mani e la connessione che teneva i presenti ancorati al tavolo, aggrappati gli uni agli altri, va in frantumi. Tutti si allontanano.
«Andatevene, andate via» riesce a dire Angelica, mentre dentro di sé lotta per vincere il controllo del suo stesso corpo.
Ma sta tentando di contrastare una presenza che non sembra aver intenzione di lasciarla stare, il male che l’accompagna da una vita. Gli ha lasciato uno spiraglio, proprio come un tempo, e Lui non vuole perdere l’occasione di torturarla più a lungo possibile.
Angelica tenta di alzarsi, di nascondersi, consapevole che qualcuno ha lasciato la stanza, mentre altri sono ancora lì, alla ricerca di un modo per aiutarla. Gaia le si avvicina, cauta, tendendo la mano nella sua direzione. Angelica cerca di allontanarla, vorrebbe gridarle di andarsene e lasciarla sola, perché si prospetta una lunga nottata in cui dovrà combattere e dovrà vincere ad ogni costo. La sua voce, però, è intrappolata in un angolo.
Quando tutto diventa nero, quando la sua coscienza diventa sottile e sembra staccarsi dal suo corpo, è allora che sente due mani calde afferrarle la gola.
Quando Angelica sparisce nel nulla, può sentire tutto l’universo.





 
Eccomi con una nuova storia che è un esperimento e che non so quando aggiornerò (anche se cercherò di farlo di frequente, come per le altre mie storie, salvo imprevisti). Perché un esperimento? Perché questo non è il mio genere, perché il soprannaturale non è la mia zona sicura e perché ci sono tanti protagonisti, ma differenti POV, per cui dovrò cercare di renderli come li desidero io anche senza uno specifico punto di vista.
Si sperimenta, insomma.
E poi ho una vaga idea di trama, ma davvero non so dove porterà... quindi vedremo, vedremo. 
Come sempre grazie per essere arrivati fino a qui e GRAZIE ancora di più se vorrete lasciare una recensioncina.
DonnieTZ


 

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Capitolo 2
*** Lootah ***




Viaggiano sui mezzi pubblici, in silenzio. Wolfgang ha gettato su Lootah il suo sguardo supplicante e quest’ultimo si è sentito costretto a controllare gli orari alla fermata; così hanno scoperto che potevano ancora fare in tempo per l’ultima corsa.
Wolfgang sembra adorare i mezzi pubblici. Fa scorrere il pallido dito affusolato sul profilo del sedile di fronte, rapito dalla plastica, liscia e colorata. La plastica ha uno strano effetto su di lui, come le fotocellule nei bagni pubblici, il microonde e qualsiasi cosa sia attivata dalla semplice pressione di un dito.
Lootah si spazientisce e gli afferra la mano per farlo smettere, poggiandogliela nuovamente in grembo.
«Stai pensando» constata Wolfgang, con tono sognante.
«Qualcuno deve pur farlo» è la risposta secca di Lootah.
«Ti stai chiedendo se ne vale la pena.»
«No, so già che non ne vale la pena. Sto pensando a come dirlo ai ragazzi. Siamo in viaggio da troppo tempo e un’altra delusione potrebbe creare dei problemi
«Hai paura che se ne vadano e ti lascino solo. Hai paura che io ti lasci solo? Non posso lasciarti solo, lo sai.»
Lootah sospira; esistesse una condanna terrena fatta su misura per lui, allora quella condanna sarebbe Wolfgang. Non si pente della promessa che ha fatto, né di averlo cavato fuori dalla prigione che era diventata la sua mente, ma portare a termine i suoi piani sta diventando difficile e non ha bisogno di trascinarsi dietro un peso morto.
«Non è questo il punto. Devo trovare il modo di chiudere il cerchio. Non dovessi riuscirci sarà stato tutto inutile.»
«Morire è dare valore al tempo che resta.»
Wolfgang parla con tono sottile, come se non fosse già più lì, con Lootah. Si spegne piano, un tramonto di coscienza, e il suo sguardo vaga verso il sedile di fronte. Il suo dito si alza e torna a percorrerne i contorni, rapito.
Lootah tenta di ignorarlo e si specchia nell’ampio vetro al suo fianco. Vorrebbe fosse più semplice, vorrebbe avere in tasca ogni risposta e sapere perfettamente cosa fare, invece si trova a vagare nella notte, inseguendo fantasmi inafferrabili. Ha paura – la paura lo tiene ancorato alla realtà – ma deve fare una scelta e non può farla da solo, non può decidere per tutti loro. Eppure Angelica sembra un caso senza speranza che riduce le decisioni ad una sola: non hanno bisogno di accollarsi un demone e di compromettere il cerchio. Dovrà convincerli a cominciare la ricerca da capo e sa che non sarà facile. Perfino lui aveva riposto delle speranze in questa negromante. Come tutte le altre, però, anche lei ha finito per rivelarsi inutile.
«Le persone non sono oggetti» esordisce Wolfgang, dopo averlo lasciato ai suoi pensieri per qualche minuto.
«Disse quello che le beveva» ribatte Lootah con asprezza, tornando a guardarlo.
Wolfgang gli riserva un sorriso triste, spalancando ancora di più i suoi grandi occhi chiari. L’iride sembra galleggiare in quel mare di bianco, alla ricerca di una risposta scritta da qualche parte.
«Lei sembrava stare molto male» continua, sempre più triste.
Lootah serra la mascella, voltandosi nuovamente per fuggire a quello spettacolo penoso.
Sa bene che la ragazza sta soffrendo, lo ha visto, lo ha sentito, ma non è affare loro. L’ha aiutata a liberarsi della presenza, per questa notte, e ha già fatto più di quanto gli fosse richiesto. Hanno questioni più importanti di cui occuparsi e l’infantile empatia di Wolfgang dovrà essere rivolta al dispiacere dei due che li aspettano a casa, non a una sconosciuta.
«Tu puoi aiutarla» continua l’altro, intestardendosi.
«Ti sembra semplice perché non sai cosa mi stai chiedendo» gli risponde.
«Saresti in pericolo?»
«Questa presenza… non ho idea di cosa voglia, né di quanto sia violenta. Probabilmente, quando possiede Angelica, se ne dimentica anche lei. Infilarci in questa situazione non metterebbe a rischio solo me, ma anche gli altri. Anche te. Tu più di tutti.»
«Puoi aiutarla» ripete Wolfgang, con un tono sognante che male si accorda al tenore della discussione.
Lootah lascia uscire l’aria dalle narici, con forza, esasperato da quella lotta impossibile da vincere. Provare a ragionare con l’altro è come inoltrarsi in un labirinto senza uscita.
«Non sa neanche quello che fa, dovrei insegnarle tutto.»
«Come hai fatto con me. Come hai fatto con tutti noi» gli ricorda Wolfgang, sempre con il tono di chi sta parlando del tempo.
Lootah non risponde, contando mentalmente le fermate che mancano all’arrivo. Ricaccia indietro ogni immagine che gli balena nella mente: Wolfgang, arruffato e confuso, sepolto fra una montagna di libri, incapace di parlare, dimentico di ogni cosa; Makiko all’uscita di scuola, nella sua divisa impeccabile, che gli guarda dentro perché già sa per quale motivo sia lì; Esteban, che non ha bisogno di spiegazioni per sapere cosa lo renda speciale.
E Angelica.
Il suo sguardo disperato nel tentare di schiacciare il demone, l’alone vago di rabbia che non serve a nascondere il dolore, la confusione per una maledizione che si è trovata cucita addosso e che non sa gestire.
«Cazzo» mormora, ad alta voce, ignorando lo sguardo interrogativo di Wolfgang che si riflette nel finestrino.

La casa che hanno affittato è un piccolo bilocale, stipato di letti e cianfrusaglie. Ognuno di loro si porta dietro piccoli brandelli di vita per non dimenticare che hanno un punto d’origine, in quel viaggio che sembra infinito.
Lootah riesce appena ad entrare, le chiavi ancora strette in pugno, che Esteban lo assale con la sua curiosità esplosiva.
«Va bene? È quella giusta? Eh?»
L’accoglienza è rumorosa come al solito, tinta del suo accento spagnolo. Il ragazzo si alza dalla sedia, abbandonando le carte sul piccolo tavolino, e in due falcate gli è già davanti. Gli stringe le spalle in una morsa dolorosa, per quanto involontaria.
«Potrebbe andare bene, sì» è la risposta cauta di Lootah, che si divincola e si allontana per non specchiarsi negli occhi speranzosi dell'altro.
«Potrebbe?» chiede ancora Esteban, perplesso.
Lootah cerca di ignorarlo. Ha sprecato troppe forze per liberare Angelica, lasciandola incosciente alle cure della sua ragazza, e ora non è certo di essere pronto ad affrontare quel discorso. Si versa un bicchiere d’acqua, seguito da Wolfgang come un’ombra.
«Quindi cos’avete visto? Lei com’è?» continua Esteban.
Lootah finisce di bere, con calma, appoggiato alla cucina. Wolfgang si mette a giocare con il rubinetto, aprendolo e chiudendolo, immergendo le lunghe dita nel filo d’acqua, per infrangerlo e lasciarlo ricomporre. Lootah riesce a sopportarlo per un paio di secondi, poi gli afferra perentorio la mano – gli anelli che premono sulla pelle – e chiude il getto una volta per tutte.
«Allora?»
«Ha un demone» si decide a rispondere, allontanando Wolfgang dalla cucina.
Quest’ultimo ha un sorriso sognante dipinto in viso, che subito si rabbuia quando sente quella parola. Lootah non può preoccuparsi di turbare la sua sensibilità, perché si rende conto di dover spiegare a tutti la situazione, così avvicina una sedia al piccolo tavolino e prende un profondo respiro. Esteban lo segue, in apprensione.
«Un demone?»
«Lui la aiuterà» cantilena Wolfgang, facendosi avanti a passi incerti.
«Lo farai?» domanda ancora Esteban, guardando Lootah dritto negli occhi con la sua innocenza incontaminata.
«No, non lo farà.»
Makiko parla, la frase detta a stento, ed è un evento tanto raro che tutti i presenti sono costretti a voltarsi verso di lei, sorpresi. Se ne sta rannicchiata sulla sedia, i lunghi capelli scuri a coprirle buona parte del viso. Sembra la fragilità personificata, ma c'è molto più di questo, oltre le apparenze.
«Perché non dovrebbe farlo? Eh?» chiede Esteban, tornando a guardare Lootah.
«Non vuole. E noi non chiediamo» risponde Makiko, criptica, selezionando poche parole dal suo ristretto vocabolario.
Lootah le ha chiesto di evitarlo, ma non dev’essere facile costruire un muro e lasciare fuori le percezioni, i pensieri degli altri, le loro paure. Non è certo che Esteban abbia capito di cos’è capace, né che la questione interessi particolarmente a Wolfgang. Lui, di contro, trova snervante l’idea che lei possa coglierlo con tanta immediatezza semplicemente standogli vicino.
«Abbiamo due possibilità. Possiamo parlarle e chiederle di unirsi alla cerchia, ma dovremmo trovare il modo di scacciare il demone e non sono certo di riuscirci, o potremmo cercare ancora, trovare una negromante adatta.»
«Ehi, sentite, stiamo viaggiando da troppo tempo, ok? Non che qui non mi piaccia, mi piace, la pizza e tutto il resto, ma non possiamo ricominciare tutto da capo. Dios, non ne posso più di visitare manicomi o di ritrovarmi in qualche puzzolente fiera di paese a farmi leggere la mano da un’imbrogliona, davvero.» borbotta Esteban.
«Non sarà facile, ma se è quello che volete, andrò a vedere cosa vuole questa presenza» dice Lootah, alla fine.
Makiko spalanca appena gli occhi, fissandoli su di lui che se li sente bruciare addosso.
«Lo faresti davvero,?» chiede Esteban, una leggera nota colpevole nella voce.
«Sì, ma potrebbe servirmi il tuo aiuto per tornare. Dovrai tenerti pronto.»
«Certo, che problema c’è. Sono sempre pronto» è la risposta.
«Psicopompo» mormora Wolfgang, sorridendo divertito.
«Idiota» ribatte Esteban, che ancora non si è deciso a cercare su un vocabolario e resta convinto che sia un insulto, per il genuino divertimento dell’altro.
«È tardi, andate a dormire, domani andrò da Angelica e cercherò di spiegarle la situazione» li interrompe Lootah.

Sono tutti a letto e lui si ritrova con le palpebre abbassate a forza, incapace di prendere sonno. Può sentire Wolfgang trafficare con qualcosa, in cucina, ma si ostina a tenere gli occhi serrati. Dorme sul divano-letto da settimane e sta diventando bravo a chiudere fuori il resto del mondo.
Dall’altra stanza arriva il russare di Esteban, e Lootah si chiede come Makiko riesca a dormire, in quell’assurdo letto a castello decorato in modo infantile.
«Sei sveglio.»
Wolfgang si dev’essere avvicinato, con il suo passo leggero, perché la sua voce è un sussurro che Lootah riesce a sentire perfettamente.
«Continui a fare rumore.»
«Scusa.»
Cala nuovamente la quiete, ma la presenza silenziosa di Wolfgang al suo fianco non aiuta a dormire sul serio.
«Cosa c’è?»
«Ho fame» è la risposta titubante.
Così Lootah si mette a sedere e si decide ad alzare le palpebre. Wolfgang si staglia contro il buio, con il suo pallore e la maglietta grigia che sembra estremamente fuori luogo su di lui. Dalla finestra entra la vaga luce della strada, qualche fascio di sporadici fari, il lieve rumore di una città che riposa.
Wolfgang si siede subito al suo fianco.
«No, te l’ho già detto» lo rimprovera Lootah.
«Stanno dormendo tutti.»
«Non è questo, lo sai.»
«Non sporcherò.»
«Wolfgang, no.»
È difficile, scorgere lo sguardo ferito nella penombra e sapere di esserne la causa, ma Lootah l’ha fatto una volta e non ripeterà l’esperienza. Non ha nessuna intenzione di cedere sull’argomento.
«Forse Esteban può-»
«Non è questo. Non è un problema che tu abbia fame. Ma non così. Non così e basta.»
«Quando ci sarà la negromante sarà diverso, vero? Lei potrà controllarmi e non dovrò darti fastidio ogni volta che avrò un po’ fame. Anche gli altri potranno farlo, se vorranno.»
La voce di Wolfgang si incrina appena, e Lootah gli poggia una mano sulla spalla, nel tentativo di consolarlo e rassicurarlo. La verità è che non permetterebbe mai a nessun altro di nutrirlo come lui vuole essere nutrito, perché è comunque troppo pericoloso. Anche nel momento in cui dovesse esserci una negromante pronta a imporgli il suo volere.
«Prendi l’ago» gli dice poi, piano.
Mentre l’altro si allontana, ingoia la frustrazione per l’intera situazione. Per quell’Angelica che creerà più problemi di quanti ne dovrebbe risolvere, per i due nell’altra stanza per cui sente di essere responsabile, e per quel vampiro a pezzi che non ricorda nulla e conosce ancora meno. Il rischio che correrebbe Wolfgang, se lo spirito dovesse possedere la negromante, sarebbe il più alto. E Lootah vorrebbe soffermarsi su tutti gli altri problemi, su tutte le altre difficoltà che quella scelta comporterebbe, ma questo è l’aspetto che lo preoccupa più di ogni altro.
Sa che non può cedere, non può farsi vincere dalla paura, non può annegare nel mondo materiale e perdere sé stesso. Soprattutto non può, né ora né mai, condividere un gesto tanto intimo con Wolfgang e permettergli di nutrirsi direttamente dal suo corpo in quel momento. Semplicemente non può.




 
Ecco il secondo capitolo!!
Ve lo dico, mi sono affezionata a Wolfgang nel giro di due righe. 
Sì, lo so, è un capitolo mingherlino (temo lo saranno tutti) che spiega poco o nulla, ma presto molto verrà spiegato e i personaggi verranno introdotti meglio anche grazie ai loro POV.
Insomma, che ne dite?  Se vorrete farmi sapere sarò contentissima. Mi sto divertendo a scrivere questa storia, davvero, anche se non so dove porterà, né come.
A presto!!
DonnieTZ



 

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Capitolo 3
*** Makiko ***




Il saluto di Lootah è un cenno del capo, mentre si chiude la porta alle spalle. Dentro, però, il suo mondo è una densa nube di dubbio e senso di colpa. Da qualche parte, un piccolo punto nero è la sua paura, come il fondo di un pozzo profondo che non riesce a bere la luce del sole.
Lootah è un temporale estivo appeso nell'aria.
Makiko lo guarda sparire oltre la superficie in legno, così può finalmente fare un lungo respiro che le apre i polmoni e le rilassa le spalle; l'aria sembra improvvisamente più leggera. Non le piace la paura piccola e scura di Lootah, non le piace tastarla con la punta della mente e sentire che è pronta ad allargarsi per inghiottire tutto il resto.
«Pasta!» urla Esteban dalla cucina, come se lei non fosse ad un paio di metri di distanza.
Non che Lootah non le piaccia, ma stare in compagnia di Esteban è più semplice. C'è tanto spazio, dentro di lui, per pensieri limpidi e luccicanti come l'acqua di un fiume: l'amicizia, la famiglia, le avventure. Brilla tutto e, quando qualcosa è opaco, lo è giusto per un istante.
Makiko si tiene le sue impressioni per sé, trincerandole dietro il silenzio delle convenzioni sociali, proteggendole dalla fragilità delle relazioni e degli affetti. Ha imparato a farlo, ha imparato ad ingoiare e tenere giù, nello stomaco, tutti quei pensieri. Perché le persone non vogliono sentirsi dire come stanno, non vogliono sentirsi dire cosa pensano, non vogliono condividere un'intimità tanto profonda con loro stessi, né con lei. Così il silenzio è diventato un ottimo alleato, morbido e rassicurante.
A volte deve parlare, ma soppesa le parole, scegliendole con cura.
«Allora, pasta?» chiede Esteban, guardandola in attesa.
Makiko annuisce.
«Che ne pensi di tutta questa storia? Credi che sia quella giusta?» chiede ancora lui, tornando a trafficare con i fornelli.
Makiko non si limita a crederlo. Lo sa. Attraverso la consapevolezza di Lootah, ha capito che Angelica è l'ultimo tassello di un piano che deve riuscire e non può impedire ad una certa speranza di crescere e gonfiarsi. Non sa bene fino a che punto sia sua o di Esteban – che impregna l'aria con il suo ottimismo – ma è pronta a godersi quella sensazione fino al ritorno di Lootah.
«Forse» si limita a rispondere.
Torna a fissare il tavolo, la carta sottile, le piccole linee che si incrociano e si sfiorano fino a diventare frasi. Sta scrivendo a suo padre, come sempre, per raccontargli di universi distanti che lui non ha mai conosciuto e che mai conoscerà. Suo padre, come lei, ha il silenzio cucito sulla pelle perché il mondo faccia meno male e, come lei, ha tutto il mondo dentro. Per questo è solo e per questo lo sarà anche lei. Una solitudine ereditaria, tramandata assieme alle loro doti.
Lo ha detto a Lootah, quando si è ritrovata quell'uomo strano fuori da scuola: restare soli è il destino di tutti loro. Non è una condanna, Makiko lo sa bene. Una condanna è forzarsi ad essere ciò che non si è fino a premere se stessi così tanto da implodere; è mettere da parte il dentro per il fuori, come se l'apparenza basti a parlare del tutto. No, lei non ha paura della solitudine. Ha paura di negarsi pur di non restare sola, ha paura di nascondersi e implodere. Il resto, tutto il resto, è meno spaventoso.
«Speriamo! Lootah non sembrava troppo convinto, ma questa mi sembra quella buona, me lo sento» continua Esteban.
Makiko ascolta, scrivendo gli ultimi saluti.
Lootah ha paura dello spirito, ha paura che Angelica possa condannarli tutti, ha paura sia troppo fragile per resistere contro la volontà di chi – dall'altra parte – vuole sbirciare in questa realtà, ha paura di dover combattere e di non uscire vincitore, ha paura che il mondo dipenda da quanto e come Angelica sarà in grado di piegarsi senza spezzarsi.
In fondo al suo pozzo c'è dell'acqua torbida e densa.
Gli spiriti, però, non riguardano affatto Makiko. Lei non è da quella parte, vicino al confine con l'irrealtà, perché il suo posto è nelle sabbie mobili del reale. Il fatto che Lootah parli di cerchia, citando antiche leggende, la diverte sempre. Per lei, tutti loro sono una linea tracciata con mano insicura che passa da un mondo all'altro. Da Wolfgang a lei, dagli spiriti alla materia.
Quando i pensieri vanno a Wolfgang, Makiko dà consistenza alla consapevolezza che sia sveglio, nell'altra stanza, a rigirarsi nel buio che hanno creato apposta per lui. Vorrebbe essere in grado di rassicurarlo, ma fra loro i discorsi diventano sempre troppo complicati e Makiko finisce per perdersi e perdersi nelle spirali di quella mente caotica.
«E quindi manca solo l'Esterno» continua Esteban, sedendosi a tavola in attesa che il pranzo richieda nuovamente la sua attenzione.
Makiko annuisce ancora. Vorrebbe raccontargli tutto sull'Esterno, ogni cosa che Lootah e Wolfgang hanno deciso di non condividere con loro – con lui – ma si esporrebbe troppo, e i pensieri di Esteban si offuscherebbero solo per la certezza che lei possa invaderli.
Mentre a lei piacciono limpidi e sicuri, così adatti a quella giornata timidamente soleggiata, con il rumore concreto delle persone qualche piano più in basso, i saluti e la strada, come una sinfonia in cui ogni nota cade alla perfezione. Esteban appartiene al calore – della gente, dei luoghi, del tempo – e la riscalda appena un poco.
«Lootah ha una passione per questi nomi, eh? L'Esterno»
«Già» risponde Makiko.
Lootah ha bisogno dei nomi per riconoscere le cose, per averne un po' meno paura, ma per Esteban è difficile comprenderlo. Lui non ha bisogno di nomi, perché i suoi timori sono chiari quanto le sue certezze e, in quella chiarezza, risplendono di coraggio.
Il coraggio, dopotutto, ha bisogno che la paura venga riconosciuta e accettata.
Esteban finisce di cucinare, la giornata sembra un quadro dipinto a pennellate calde e Makiko si ritrova a sorridere mentre imbusta la lettera.
 
Quando il pomeriggio inizia ad allungarsi, nell'aria prende a vibrare una strana preoccupazione. Il lieve momento di benessere, che Makiko ha sentito solo qualche ora prima, evapora come acqua al sole. Piano, inesorabilmente.
Mentre Esteban sonnecchia rumorosamente sul divano, Makiko segue quell'incrinarsi di pensieri fino all'altra stanza, in cui tutto è immerso in un buio impenetrabile e quei pensieri cupi sembrano appesantire l'oscurità ancora di più. Makiko tenta di abituare la vista, ma fallisce miseramente e si siede per terra dopo un paio di passi. C'è profumo di morte, dolciastra e polverosa. Fiori appassiti e vecchi libri. Il profumo di Wolfgang.
«Tornerà presto» dice Makiko in un sussurro lieve.
«Sì» risponde Wolfgang.
Il frusciare del lenzuolo sembra ricalcarne l'irrequietezza, il buio sembra proteggerlo dai suoi stessi pensieri contorti. Eppure arriva un silenzio improvviso di coscienza. Uno di quei vuoti che Makiko non sa spiegarsi e che la spaventano, come se non ci fosse proprio nessuno nella stanza, come se Wolfgang non esistesse, non fosse reale e tangibile. I vuoti la spaventano più dei pensieri caotici, più di quell'animo lacerato e confuso, più di ogni altro aspetto del vampiro. Vampiro, come Lootah lo ha presentato e come lei faticherà sempre a vederlo perché Lootah è deciso a proteggere lei ed Esteban da quell'immagine violenta.
«Deve spiegare tanto» continua Makiko, per rassicurarlo.
Grazie.
Quella parola cancella il buco nero di pensieri, riecheggia da qualche parte nell'aria che li separa, perché Wolfgang non l'ha detta ma la sente dentro, a fondo. È un ringraziamento che vale per molto di quanto è accaduto fra loro, che li unisce come accade sempre, di quella strana connessione che è propria di chi non è adatto al mondo. Un grazie per tutte le questioni su cui Makiko tace con Lootah. E lei vorrebbe spiegare che non la riguardano, che sentire tutto non le da diritto di dire tutto, ma lascia stare, assorbendo la gratitudine che si staglia contro l'oscurità della preoccupazione.
Dentro Wolfgang ci sono mostri fatti di buio che fagocitano ogni cosa, lasciando spazio solo al terrore. Ci sono buchi d'anima che continuano a bruciare i loro contorni, come carta contro il fuoco. E poi spiegazioni confuse, giustificazioni sommarie, fascinazioni effimere.
Il centro di quell'uragano, il punto fermo, è un ricordo annodato all'anima perché non si perda nel vento.
Ma Makiko, lì in mezzo, non vuole proprio starci.
«Angelica ti piace» dice, per strapparsi da quella connessione.
«Ho bisogno di lei» è la risposta di Wolfgang.
Ma Makiko legge oltre quella semplice frase e un sorriso le tende le labbra.
«Non devi ascoltare Lootah quando lo dice. Non sei egoista.»
«Forse sì. Ma sarà meglio quando ci sarà una negromante. Sarà meglio, andrà bene.»
Makiko assapora quel miscuglio aspro di parole non dette. La rassicurante certezza che una negromante significherebbe non dover più aver paura di ferire qualcuno per la fame, la paura che Lootah smetta di nutrirlo per questo, il combattuto timore all'idea di poter essere controllato come una marionetta.
Poi quello spirito, che nella sua mente labirintica è un demone pronto ad approfittarsi di quel controllo, perché è così che Lootah lo chiama e ne parla. E Lootah ha sempre ragione, per Wolfgang, in modo tanto assoluto da rasentare la fede.
«Non permetterà allo spirito di farti male. Lui andrà ad affrontarlo.»
«Questo mi fa paura.»
«Lo so, ma Lootah è forte, più di noi e più di quanto pensa.»
Makiko parla con l'insicurezza di una lingua non sua, ma i venti forti che sta sfiorando con la mente sembrano trascinarla dove non vuole. Wolfgang è inspiegabile, come qualcosa di troppo vecchio per avere una forma. È una fortuna che lei non abbia la stessa ossessione per le etichette di Lootah, altrimenti stare in quella stanza sarebbe impossibile.
«Sarebbe più facile se... se lui parlasse. Se parlasse davvero. Wolfgang, non voglio farlo, ho paura. E allora io potrei dirgli che non importa, che troveremo un altra negromante e che andrà bene.»
«Lui pensa di dover essere forte per noi» Makiko sospira, indecisa, prima di concludere «per te.»
L'uragano diventa un cuore che pulsa nuova vita. Dura giusto un attimo, il tempo in cui quelle parole arrivino ad avere il peso e il senso che hanno. Ma è un attimo importante, è un attimo significativo.
«Sono una sua responsabilità. Pensa che io possa fare del male a qualcuno. Per questo è lui che mi nutre. Per questo sta sempre con me.»
Ma dentro, Wolfgang si aggrappa a quel battito che sfuma via, con le unghie e con la mente, sperando di non lasciarlo andare, di essere abbastanza folle da conservarlo e coltivarlo. Makiko assiste a quello spettacolo con una stretta nel petto, oltre le costole. Ha creduto di capire quello che Wolfgang sente, nei mesi passati, ma non sa davvero fino a che punto sia qualcosa di abbastanza concreto da essere interpretato e compreso. Sembra un sentimento fatto di attimi che svaniscono, che non trovano scogli a cui ancorarsi e finiscono per essere trascinati via dalla corrente.
Vorrebbe dirgli che Lootah tiene a lui, che si preoccupa per lui, ma ha già detto troppo, ha già condiviso qualcosa che era di Lootah e solo suo. Così si alza per non lasciarsi trascinare via assieme a quel battito, per restare salda sui piedi e nel mondo.
«Devi dormire» dice soltanto, prima di chiudere Wolfgang nel suo buio.
 
Nell'altra stanza la luce è forte e ferisce gli occhi. Esteban sembra ridestarsi piano, forse per il lieve rumore di Makiko che si avvicina. Si mette seduto e le fa spazio al suo fianco, dove lei si rannicchia. Il divano è uno scomodo ammasso di cuscini che diventerà un letto anche quella sera, ma che non pare adatto a nessuno dei due compiti.
«Cos'ha? Sta male o qualcosa del genere?» le chiede, dopo uno sbadiglio, forse interpretando un'espressione che Makiko non credeva di avere.
«Qualcosa del genere.»
«Si può sapere dov'è finito Lootah?! Dios, doveva solo convincerla ad unirsi alla cerchia, non spiegarle ogni singolo dettaglio.»
Esteban si alza, e la sua impazienza lascia un'impronta calda a fianco a Makiko.
Vorrebbe solo avere il potere di condizionare gli altri, a volte. Prendere le loro anime e cantare una ninnananna fino a farle addormentare, serene e leggere. Invece può solo assistere, impotente, a tutte le aspettative, i rimorsi, i rimpianti, le felicità, le conquiste.
Assistere e non esserne mai parte.



 
Ehi!
Beh, sono un po' in un blocco, ma volevo produrre questo capitolo ed eccolo qui. Probabilmente mi sarà sfuggito qualche errore, abbiate pazienza e non odiatemi. I capitoli di Makiko sono contorti, lo so, ma più brevi. Tentare di dipingere una persona che percepisce l'interiorità degli altri è difficile, figurarsi quando è culturalmente così distante da me... però sono abbastanza soddisfatta del risultato. ^__^
Quindi... spero vi piaccia e spero vorrete farmi sapere! 
A presto!!

DonnieTZ


 

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Capitolo 4
*** Angelica ***




«Questo sarebbe un posto tranquillo per parlare?»
L'uomo – Lootah, come si è presentato alla porta di Angelica solo dieci minuti prima – scruta la tavola calda con aria sospetta mentre parla.
«Sicuro per me. Non parlo con i clienti a casa. Diventate...» Angelica cerca una parola, facendo un gesto eloquente con la mano, «instabili» conclude.
Sente l'uomo sospirare pesantemente, ma lo ignora mentre si siede ad un tavolino, ordinando una bistecca e aspettando che lui la imiti dopo aver studiato il menù.
«E poi sono stata piantata solo un'ora fa, ho bisogno di proteine e zuccheri e qualsiasi altra cosa.»
Dovrebbe sentirsi peggio: abbandonata, rifiutata, negata per l'ennesima volta, ma si sta abituando alle persone che spariscono. Nella sua vita, sono loro i veri fantasmi, le presenze incostanti e impalpabili. I fantasmi – quelli veri – hanno una concretezza che la spaventa.
«Per tornare al motivo della mia visita-»
«Non rimborso. Come ho detto ieri sera, non sempre c'è qualcuno ad aspettare. È meglio così, fidati. Vuol dire che se ne stanno in un posto migliore.»
La frase d'obbligo, la bugia impossibile da negare, l'inutile rassicurazione che i clienti vogliono sentirsi dire perché è ciò in cui già credono, una speranza a cui aggrapparsi. In fondo a loro non frega nulla – di questo Angelica è sicura –, ma la morte dei loro cari gli ricorda la vicinanza della loro, l'impossibilità di sfuggire alla fine definitiva.
«Non esiste un posto migliore.»
Angelica smette di far vagare le pupille sulla sala, sulla quotidianità dei presenti, e li fissa in quelli scuri del suo interlocutore, sorpresa.
«Quanta fede, buon per te» gli dice, sarcastica, iniziando a giocherellare con le bottiglie delle salse, allineandole e raggruppandole.
«Credere e sapere sono due cose molto diverse, Angelica. Posso chiamarti Angelica?»
C'è un vago tono accondiscendente nella parlata sicura di Lootah, che lascia su Angelica l'impressione di apparire davvero molto stupida o che l'uomo sia convinto in qualche modo di sapere tutto su tutto. Cosa che lo renderebbe decisamente più stupido di lei.
«Come ti pare» risponde, inacidita.
«Angelica, quello che hai fatto stanotte è stato rischioso. Approssimativo
«Eh tu sei un grande esperto, è così?» Angelica continua a credere sia tutto una specie di scherzo, un modo per portarla allo scoperto e farle ammettere di essere un falso.
Non è sicura di sapere dove l'uomo voglia andare a parare, ma è decisa ad ignorare il ricordo delle sue mani sulla sua gola e il sollievo dell'incoscienza che subito le ha seguite, per questo alza gli occhi dalle sue dita alle sue iridi scure. Lo scambio di sguardi viene interrotto dall'arrivo della cameriera, che poggia le loro ordinazioni sul tavolo con fare distratto, prima di lasciarli nuovamente soli.
«Tu ci credi davvero» constata Angelica, dopo qualche istante, vagamente perplessa.
«Non dovrei?»
«Senti, ci sono due tipi di persona: quelli che ci credono perché sono folli o disperati, e le persone normali.»
«Forse perché non hai ancora incontrato persone che sanno
Lootah mangia tranquillamente, dopo quelle parole. Ad Angelica, invece, prude la pelle per qualche strano motivo e vorrebbe semplicemente alzarsi e andarsene senza voltarsi indietro. Quell'uomo puzza di morte – vecchi libri e fiori appassiti – anche se non è il suo odore. Più un residuo, come un'impronta appena percettibile.
«Mi sto complimentando con me stessa per non averti fatto entrare, sai?»
«Non puoi essere una negromante e una scettica allo stesso tempo.»
Quel termine risveglia vecchi ricordi. Memorie di sua nonna, di questioni che Angelica non vuole affrontare.
«E chi lo dice?» sibila.
«La logica» è la risposta di Lootah.
Angelica decide che è arrivato il momento di sapere, senza girare attorno alla questione per altri lunghi minuti. Mastica, ingoia e realizza che quell'uomo non è possibile negarlo, non è una di quelle verità che si possono ignorare e attribuire alla follia. Angelica non può trattarlo come tratta il fatto di essere una negromante.
«Si può sapere che vuoi da me?»
«Non hai notato nulla di strano, negli ultimi anni? Più spiriti, più-»
«Punto primo: non chiamarli spiriti. Queste cazzate da film dell'orrore mi irritano» lo interrompe Angelica, puntando la forchetta nella sua direzione.
«Come preferisci chiamarli?» domanda Lootah, quieto, come se avesse a che fare con una bambina.
«Non li chiamo e basta» spiega Angelica, risoluta, riprendendo a mangiare.
L'uomo le appare esausto ed esasperato, ma non è un suo problema. Lui l'ha cercata, lui è seduto a quel tavolo a parlarle di spiriti.
«Molto bene. Hai notato cambiamenti degni di nota, negli ultimi anni?»
«Che le persone stanno iniziando a preoccuparsi di quello che mangiano con una certa paranoia?» scherza Angelica.
«No, parlo degli spiriti
Lootah sembra raggiungere finalmente l'orlo della rabbia, quando parla. Angelica realizza quanto l'uomo si prenda sul serio, come un soldato in una specie di guerra santa.
«Va bene, datti una calmata. Diciamo che mi sembra di essere diventata più brava, d'accordo?» si rassegna a dire Angelica.
«Non è così.»
«Ah, grazie.»
«Il velo si sta assottigliando.»
Angelica lascia andare una risata breve e secca, incredula.
«Dimmi che è uno scherzo. Dimmi che non hai appena detto questa frase.»
Angelica scivola lentamente verso la serietà, specchiandosi nell'espressione imperturbabile di Lootah.
«Tu sei serio. Si tratta di un sito internet, è così? Qualche manifesto sull'arrivo dell'apocalisse? Una setta?» Angelica tira ad indovinare con parole fra il divertito e l'irritato
«Non siamo una setta. Siamo un antico gruppo di persone che-»
«È evidente che prendi molto sul serio la tua missione e sono contenta per te, ok? Sul serio, è bello avere uno scopo nella vita, ma non sono proprio tipo da sette, quindi...» lo interrompe, lasciando sfumare l'ultima parola come se la conclusione fosse ovvia.
Vuole chiudere la questione. In realtà vorrebbe tapparsi le orecchie ed essere infantile, ma sta tentando di comportarsi da adulta solo per dimostrare qualcosa all'uomo, anche se non sa bene cosa o perché.
«Posso affrontare il tuo demone una volta per tutte.»
A quelle parole Angelica non può che abbandonare le posate nel piatto, per specchiarsi negli occhi di Lootah, astiosa. Demone. Odia sentire quella parola, odia conoscerne gli angoli bui e i risvolti pratici. Odia l'uomo che ha davanti, le sue sicurezze, quell'odore di morte che le chiude improvvisamente lo stomaco.
«Poniamo che creda tu stia dicendo la verità, che tu sappia tutto di questa roba e conosca un modo. Come faresti? Perfavore, demone, potresti cortesemente levarti dalle palle? Ci ho provato, fidati, non funziona» ribatte, sarcastica, imponendo alle sue gambe di non fuggire.
«Andrei oltre il velo.»
«Oltre il velo? E come, ammazzandoti?» chiede Angelica, sempre meno incline a credere a Lootah, eppure sempre più incuriosita dalla sicurezza con cui l'uomo si traveste e si presenta.
Oltre il velo.
Cazzate, cazzate, cazzate.
«È quello che faccio, il mio compito: viaggio oltre il velo.»
«Quindi siete un antico gruppo di persone che passeggia nell'aldilà per divertimento?» chiede Angelica, cercando di fare il punto di quell'assurda conversazione.
«No, è solo compito mio. Conoscerai gli altri e potranno raccontarti cosa fanno, se vorrai. Il mio compito è monitorare il velo dall'altra parte e l'attività delle energie che spingono per entrare nel nostro mondo.»
«Non voglio immaginare il tuo biglietto da visita» dice Angelica, con meno convinzione di quanta vorrebbe, abbassando gli occhi sul piatto. «Ti occupi dei demoni?» chiede poi, cercando di nascondere l'indecisione.
«Se vogliamo dar loro questo nome, sì.»
Angelica si perde nei suoi pensieri per qualche istante. Se fosse possibile? Se potesse vivere la sua vita senza il costante controllo su se stessa dettato dalla paura che Lui le suscita?
Gioca con la lingua contro l'anello argentato incastonati nella carne, alla ricerca di uno strano sollievo da quell'indecisione.
No.
Ha promesso a sua nonna che non avrebbe più ceduto a nessuna tentazione, a nessuna proposta, a nessun accordo.
«Senti, è tutto molto bello e sono contenta che tu abbia degli amici con cui giocare, ma ho deciso di aver avuto una dose sufficiente di follia nella mia vita. Se non ti dispiace, vorrei davvero fare finta che tutta questa storia degli spiriti e dei demoni sia una mia personale allucinazione.»
Angelica si alza, frugando nella borsa alla ricerca del portafoglio. Lootah la ferma alzando un palmo nell'aria, lentamente, e lei rimette via i soldi, serrando la mascella.
Sì, può offrire lui, decisamente, visto che l'ha ascoltato per più tempo di quanto si sarebbe meritato. Così Angelica fa per andarsene, sentendo lo sguardo di Lootah bruciargli addosso.
«Siamo passati tutti da qui: nessuno ci ha mai creduto, nessuno ci ha mai presi sul serio, nessuno è mai voluto restare» Lootah la ferma con quelle parole decise e terribilmente vere. «Se avessimo più tempo ti assicuro che la conoscenza della cerchia sarebbe graduale e riusciresti ad abituarti all'idea come tutti noi. Ma non c'è tempo, Angelica. Quindi hai fino a domani sera. Poi partiremo e te ne resterai con il tuo demone per il resto della vita.»
Quando Angelica si gira, Lootah è ancora seduto nella sua posizione rigida, ma la sta guardando con una freddezza che non c'era prima. Lo scruta, cercando di leggere altro oltre a quella cortina di atteggiamento militare e saggezza, ma non vede nulla, non sente nulla. Lo guarda tirare fuori un pezzo di carta e una penna, per scrivere qualcosa con mano ferma.
Quando le porge la nota, Angelica vorrebbe davvero non prenderla, ma la sua mano decide per lei e si stringe sul pezzo di carta.
 
Per il resto del tempo, non fa altro che pensare ad ogni singola parola di Lootah. Lo fa tornando a casa, chiudendosi la porta alle spalle, riempiendo lo scatolone con i pochi oggetti che Gaia le ha lasciato in casa e che non vuole più vedere.
Ripercorre ogni frase mentre pulisce casa, mentre guarda un film, mentre cena, mentre si prepara per andare a letto, mentre entra sotto le lenzuola e serra gli occhi in un gesto meccanico.
Liberarsi di Lui.
Per sempre.
Per davvero.
Improvvisamente, mentre sta scivolando nel sonno, la consapevolezza le striscia dentro, crescendo e mettendo radici. Non ha scelta, non ne ha avuta da quando Lootah le ha fatto quella proposta. Deve provare, è inevitabile. È stato stupido credere di resistere a quella tentazione, come alla tentazione di molti, molti anni prima.
Oh, Angelica, cosa faresti senza di me?
La voce la insegue nell'oscurità in cui è sprofondata. Sembra avere il potere di tenerla giù, a fondo, nel sonno denso e soffocante.
Se ascolterai lo sciamano ti ritroverai sola. E tu hai paura di restare sola, Angelica. Io sono tutto ciò che ti resta quando le persone della tua vita spariscono nel nulla. Sono la tua famiglia.
Angelica cerca di risalire, di svegliarsi, di impedirgli di parlare. Ma quando dorme è Lui a decidere.
Stai stringendo un altro patto con il diavolo. Cosa direbbe tua nonna? Povera, piccola Angelica, una delusione anche per i morti.
Non le resta che raccogliere le forze in quell'oscurità, accumulandole come gelida neve fra le braccia, reagendo a quell'attacco intimo e terribile.
Vaffanculo.
Lui, a quella parola di sfida, si limita a ridere di gusto.



 

Ciao!
Lo so, lo so, è passato un sacco di tempo ed è tutta colpa mia e mia soltanto.
Spero di tornare a pubblicare con regolarità (solitamente ce la faccio, ma quest'estate è stata un incubo che ha finito per protrarsi... T__T).
Che dire? Spero che questo capitoletto vi piaccia, grazie per i passati commenti perché mi hanno fatto davvero piacere e grazie per essere arrivati fino a qui!
A presto!!
DonnieTZ

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Capitolo 5
*** Wolfgang ***




Wolfgang ha preparato il divano per Lootah tutto da solo. Continua a trovare affascinante il modo in cui possa diventare un letto, con la giusta quantità di spinte e pressioni, e se ne occupa ogni volta che può rubare a Esteban quell'impegno.
Ha fatto il letto.
E ha paura.
Lootah non è ancora tornato ed è uscito di mattina, con il sole che si stava alzando. Il tempo, per Wolfgang, non passa mai lentamente e per questo, più che per ogni altra cosa, ha molta paura. A volte capita che le palpebre si abbassino e siano passate ore, a volte capita così con i giorni. In passato, gli è capitato con gli anni. Semplicemente, quando il tempo non può finire, scorre come se non fosse possibile guardarsi indietro.
Quindi, quando avanza piano, ticchettando i suoi minuti, Wolfgang ha paura.
E Lootah non è tornato.
Queste due fastidiose, scomode consapevolezze si aggirano da qualche parte nella sua testa, gettandolo in un panico che nessuno può calmare, neanche Makiko.
«Buonanotte» gli dice, ferma nella cornice della porta come il soggetto di un quadro dallo sfondo scuro: la pelle bianca, gli occhi neri concentrati in uno sguardo profondo, il sangue spinto nelle vene a forza da quel suo piccolo cuore sfarfallante.
Wolfgang ha fame, è evidente dal modo in cui ne sente il profumo ferroso, da come ascolta il lieve rumore che si lascia dietro nella sua corsa e il pompare ritmico fra le costole.
«Buonanotte» risponde.
La camera si chiude nel suo buio, lui resta in sala, in piedi, a guardare come il cotone del lenzuolo si increspi di ombre, si pieghi in angoli netti e ruvidi, si contorca e si spezzi. Quando ha finito con il lenzuolo e le sue cangianti sfumature di bianco e grigio – e verde e blu, se guarda con attenzione –, allora passa al metallo nero del letto, sotto il materasso. Allunga le dita, lascia scorrere il polpastrello nei punti in cui c'è il bianco più bianco che abbia mai visto, anche se il metallo è scuro. Sa che lì si annida della luce e la tocca: è liscia, fredda, dura.
Improvvisamente ricorda che Lootah non vuole faccia così e la smette, sedendosi sul letto, in attesa.
Qualsiasi cosa sia successa a Lootah è sua responsabilità e pensa sia qualcosa di brutto davvero, perché non li lascerebbe mai soli, senza avvertire. La morte ha un contorno strano, quando finisce per soffermarcisi. A volte pensa che non importi: ora o fra minuti o fra anni, Lootah morirà. Moriranno tutti. E lui verrà ritrovato in un'altra stanza piena di libri e quadri, la pelle attaccata alle ossa, le gengive ritratte sui denti, come Lootah l'ha trovato tempo prima. E ci saranno altre persone al posto di quelle che ci sono ora.
Sono pensieri brutti, che si accavallano e si scontrano uno con l'altro, ma ci sono.
Sposta lo sguardo sulla porta.
Ha paura.
Lootah non è tornato.
Altre volte pensa che non vuole che le persone muoiano e lo lascino solo. Perché lui sarà solo per molto, molto tempo – non sa davvero quanto – e non vuole che quella sensazione gli si adagi negli organi interni come una malattia.
Il fatto è che tiene alle persone che ha attorno in quel momento della sua esistenza, ma sa che la loro rilevanza è dovuta tutta alla vicinanza. Se fossero lontani, se fossero sconosciuti, non importerebbe la loro vita tanto quanto la loro morte. Qualcuno, un'eternità indietro, gli ha detto che quella è cattiveria e non va bene, così lui cerca di non pensarci troppo.
Non saprebbe dire quanto tempo sia passato, quando la vernice un po' scrostata della porta prende a vibrare appena e si sente il tintinnio delle chiavi e la serratura scatta. Non saprebbe dirlo, ma non gli importa: è ancora notte, fuori dalle finestre, e Lootah è tornato.
Lootah che non c'era e ora c'è, in un procedimento esattamente inverso rispetto alla paura.
«Sei qui» mormora Wolfgang, gli occhi ampi di bianco.
«Già» risponde Lootah, esausto.
Wolfgang non chiede dove sia Angelica, non fa una singola domanda, perché sente la testa vuota e leggera del lutto mancato, di chi sta superando una perdita mai avvenuta, di chi è sceso a patti con la mancanza e viene contraddetto dalla vita.
«Sono stato a schiarirmi le idee» spiega Lootah, riempiendosi un bicchiere con la bottiglia che tiene sotto il lavandino, liquido ambrato e vetro spesso. «Angelica non sembra incline a partecipare. Le ho dato un ultimatum, ma non sapevo come dirvelo. Non so come dirlo a loro
Wolfgang si alza per avvicinarsi e sentire l'odore familiare che associa al sangue dell'altro: il ricordo di una spezia dimenticata, il profumo di una terra lontana, l'impronta del sacrificio che lo rende leggermente amaro.
«Mi dispiace» sussurra, percorrendo con il dito il profilo del lavandino, tentato di aprire l'acqua e guardarla scorrere, infrangersi contro le dita, ricomporre il suo getto.
«Non è colpa di nessuno. La ragazza è spaventata, braccata da qualcosa che non può controllare e noi siamo in viaggio da troppo. Non avrei saputo da dove cominciare anche se lei avesse deciso di seguirmi.»
Wolfgang continua ad aggrapparsi alle insicurezze da soldato di Lootah, come fossero loro a renderlo reale, concreto, vivo. Quei dubbi resi parole solo con lui sono un segreto condiviso che diventa il nodo del loro legame.
«Come abbiamo pianificato» risponde, mentre ascolta il cuore di Lootah battere ritmico nel suo petto.
«Non è così semplice.»
«Non vuoi che lo sia» Wolfgang si avvicina ancora un po', gravitando attorno a Lootah perché sente di essere al sicuro da qualcosa che lo spaventa: la possibilità di perderlo o, forse, quella di perdersi o, ancora più a fondo, quella di essersi perso da tempo.
«Hai fame?»
«No» risponde.
Anche se ha fame, anche se sarebbe semplice dire sì e sentire di nuovo Lootah dentro, come una marea tiepida che sale, lasciandosi dietro un po' di calore. Wolfgang si rende conto che potrebbe essere solo il bisogno a legarlo all'altro, la meccanica necessità di riempirsi e sentirsi un po' più vivo, il suo sangue. Non è certo di considerarlo un problema – le certezze sono per chi muore giorno dopo giorno –, non sa bene che farsene di quel pensiero, né se esista più spazio impolverato nella sua anima per riporlo e dimenticarlo.
«Devi mangiare. Se ci metteremo in viaggio ne avrai bisogno.»
A quelle parole Wolfgang abbassa lo sguardo, un bambino sorpreso a mentire, una parte recitata che diventa vera o, ancora, una verità che deve essere additata come bugia per fare meno male. Ha perso il conto delle innocenze vere e di quelle artefatte, Wolfgang, come ha perso il conto degli anni e il ricordo dei nomi. Forse Lootah si accorge della sua fame per come gli sta vicino, forse è perché sa che Wolfgang continuerà ad averne finché non farà un pasto vero invece di quei rabbocchi che bagnano appena senza riempire. E non può, ovviamente. Non è questione di moralità, né una particolare propensione a resistere agli impulsi. Avrebbe già affondato i denti nella prima giugulare a disposizione, se non fosse per Lootah, perché gli ha promesso di non farlo, per il suo obiettivo ultimo e finale sancito da una promessa solenne.
Annuisce e prende tutto il necessario perché Lootah si cavi dalle vene un po' di sangue e lui possa berlo piano, in punta di labbra.
«Continueremo a cercare» dichiara Lootah, come se fossero tutti lì e lui stesse cercando di motivarli a proseguire.
«Sono sollevato. Niente...» la frase si incastra appena, c'è troppa ombra sulla parola successiva.
«Demone» conclude Lootah.
Niente negromante, però, significa niente controllo. Niente controllo significa niente missione. Niente missione vuol dire che il suo desiderio non verrà esaudito.
Per il resto del tempo – veloce e sfuggente, perché a Wolfgang sembra passare solo un istante che ha già un bicchiere in mano – stanno in silenzio. Sono seduti sul bordo del materasso sottile, nella quiete della notte, gravati più dal futuro che da un passato incontrollabile.
«Gus sta facendo progressi. Mi ha scritto oggi» lo informa Lootah, premendosi il cotone disinfettato sul braccio.
Wolfgang beve il primo sorso. Caldo e viscoso, all'inizio sa solo del sapore ferroso del sangue, ma quando scivola sulla lingua e poi giù, lungo la gola, si lascia dietro il retrogusto di Lootah che è soltanto suo, che nessun altro avrà mai. Wolfgang chiude gli occhi un istante, abbandonandosi a quella consistenza che non è fatta solo di densità, ma di emozioni, paure, speranze, ricordi. Sono recenti e appiccicosi: la sensazione impotente di non poter convincere Angelica, l'inebriante idea del potere e la nota acida del fallimento; ma ce n'è di più vecchi, come sempre. Ci sono anche loro, seduti su un materasso ricoperto di sete polverose, Wolfgang con i denti a lacerare la carne del collo di Lootah per poi berne avidamente, tanto, troppo. Fino a sentire la punta legnosa del paletto vicino allo sterno, in una minaccia quieta da parte dell'altro. Ci sono loro, che si incontrano giorno dopo giorno, con Lootah che gli insegna nuovamente a parlare, a leggere, a scrivere, a pensare, finché quelle piccole capacità scontate non tornano a galla. C'è una richiesta ferrea a cui Lootah è costretto ad acconsentire.
«Posso fare io quello che fa lui.»
Wolfgang sa che Gus era la prima scelta di Lootah, sa che poteva esserci lui, lì, in quel momento, a bere da quel bicchiere, e il pensiero è una punta di rabbia che si allarga. Beve ancora, sperando di tenerla giù a galleggiare nel sangue. Dovrebbe ringraziare Gus per aver indirizzato Lootah da lui, per avergli rivelato il suo nascondiglio, il suo volontario isolamento non come espiazione di una colpa, ma come solitaria contemplazione del tempo, in una tomba di musica classica che non aveva più la forza di far suonare, pagine che non aveva più lucidità per leggere e dipinti che non riusciva a più a vedere.
«È meglio così.»
Wolfgang si chiede se quel discorso lo abbiano già fatto o se lui l'abbia solo immaginato, ma Lootah gli sta riservando uno sguardo di rimprovero che risponde alla domanda. Entrambi conoscono Gus, il sacrificio per un bene superiore non è esattamente nelle sue corde.
«Devo dormire» dichiara poi Lootah, quasi a se stesso, la voce stanca.
Wolfgang sente l'alba, da qualche parte, iniziare a pizzicare di luce. Finisce di bere, lava il bicchiere con cura, finendo per perdersi nel modo in cui l'acqua e il vetro sono fatti della stessa identica luce, ma uno è solido fra le sue dita mentre l'altra continua a scorrere, morbida e fredda. Quando ha finito – lunghi minuti in cui ha sentito Lootah muoversi, spogliarsi, lavarsi e prepararsi a dormire – striscia nel letto.
«Posso spegnere?» domanda Lootah, il dito posato sull'interruttore.
«Sì» risponde Wolfgang.
E cala il buio.
Hanno tende pesanti alle finestre e, in quella parte di mondo, tapparelle serrate. Quando Makiko o Esteban si sveglieranno, Lootah scuoterà Wolfgang per farlo dormire nell'altra stanza. Fino ad allora sono solo loro, lì, come ogni alba, due o tre ore in cui Lootah è solito dormire e Wolfgang annullarsi nella quiete.
Quel giorno, però, il respiro di Lootah resta leggermente controllato e Wolfgang si gira su un fianco, a coglierne la sagoma nel buio, saggiandone il calore.
«Devi fare scelte difficili, ma non sei da solo a compierle, Lootah. Non sei da solo» mormora.
In una proiezione di sé, si guarda alzare le dita e far scorrere i polpastrelli lungo la guancia di Lootah, ma è solo uno dei possibili futuri immediati. Un futuro che non si avvera, perché Wolfgang resta immobile e Lootah scivola lentamente nel sonno.
 
Wolfgang viene svegliato da voci e rumori. È ancora sdraiato nel divano divenuto letto, ma si alza appena sui gomiti per guardarsi attorno. Lootah è seduto sul bordo, la treccia un po' scompigliata e la maglietta stropicciata. Ha ancora addosso il calore del sonno.
Wolfgang sposta lo sguardo dalla sua schiena alle persone in pigiama, in piedi nella stanza, illuminate dalla luce del lampadario. Sembrano una foto ingiallita come quelle che gli ha mostrato Gus, quando Wolfgang si è deciso ad uscire dal suo nascondiglio e l'altro ha voluto aggiornarlo su tutta la storia che si era perso. Esteban continua a fare domande, sommergendo i presenti con la sua voce, agitando un po' le mani, pieno di curiosità.
Una di loro, vestita di nero, lo sguardo combattivo, è Angelica.
«Devo parlare con lui» dice, astiosa, mentre Makiko richiude la porta a doppia mandata senza proferir parola.
Wolfgang percepisce il battito accelerato dei cuori, l'agitazione, la sua stessa aspettativa. Guarda Angelica un istante soltanto e sa di appartenergli come un malato alla malattia, come il giocattolo preferito nelle mani del bambino che lo possiede.
«Andate di là, ne parliamo dopo» dice Lootah.
Makiko obbedisce, mentre Esteban impiega qualche attimo più del necessario, scrutando Lootah e poi Angelica, dubbioso. Anche Wolfgang si muove per alzarsi, ma Lootah gli afferra il braccio e lo stringe in una morsa, per imporgli di restare seduto sul letto.
Quando un po' di tempo si è accumulato nell'aria, quanto basta perché tutto torni alla tranquillità, Lootah si alza per andare verso la cucina.
«Hai cambiato idea?» chiede, senza guardare Angelica.
Wolfgang fa scorrere lo sguardo da lui a lei. Non si è mossa, ma ha nello sguardo un'ombra di rassegnazione che diventa sempre più evidente. Pensa per un attimo ad ucciderla, guardare la sua pelle bianca tingersi di grigio, percepire il battito rallentare e fermarsi. Lo fa con tutti, quando ha la possibilità di conoscerli un po' meglio, e non sa bene perché quella sia la prima fantasia che ha sulle persone, ogni volta.
«Devi togliermi questa cosa da dentro» dice, risoluta.
«Allora tu devi fare qualcosa per noi» risponde Lootah, finendo di preparare il caffè per poi posarsi contro la cucina, le braccia incrociate sul petto.
«Bene. Dimmi cosa devo fare. Basta che me lo togli.»
Wolfgang si apre in un piccolo sorriso al pensiero che Lootah abbia il potere di trovare i punti di pressione delle persone e premerli fino a mandarle in pezzi. Si sente potente, anche se quel potere non è suo.
«Prima lui deve mangiare sul serio. E ci servi tu per questo.»
Angelica sospira a quelle parole, chiudendo gli occhi in un gesto sfinito.
«Che cosa vorrebbe dire?» domanda poi, sempre più rassegnata, spostando lo sguardo su Wolfgang.
E lui può sentirlo, il sorriso inquietante che gli tende le labbra, ma non gli importa, non davvero.



 
Ciao!!
Sono imperdonabile! A mia discolpa, Wolfgang è davvero difficile da scrivere. Se nei primi capitoli è apparso del tutto innocente e un po' svampito, qui volevo che risultasse molto più complesso di così. Una complessità che spero sia stata già accennata da Makiko, ma che qui volevo rendere in tutto e per tutto. Non so se ci sono riuscita, lascio a voi l'ardua sentenza. XD Fra l'altro l'ultima parte non l'ho praticamente riletta perché dovevo, dovevo, dovevo pubblicare!
Insomma, SCUSATE, per il ritardo. Spero di essere più costante da questo punto in poi...
Per il resto: cosa ne pensate, vi piace, non vi piace, mi odiate per il ritardo?
Come sono andate le vostre feste, sopratutto?
Alla prossima e GRAZIE per essere passati e per essere pazienti. 
DonnieTZ


 

 

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Capitolo 6
*** Lootah ***




Angelica si siede sul bordo del letto, in attesa. Continua ad avere dipinta in viso l'espressione rabbiosa di chi è costretto a scomodi compromessi, ma Lootah la ignora; tutti, lì, sono il risultato di compromessi scomodi. A volte, nelle situazioni che le hanno richieste, hanno perfino preso decisioni orribili spacciandole per uniche possibilità rimaste.
Lootah ha deciso di far sopravvivere Wolfgang per uno scopo più grande, nonostante il pericolo, nonostante la ragione e l'istinto gli ordinassero il contrario.
«Allora, che dovrei fare, vi decidete a dirmelo?» protesta Angelica.
Wolfgang sposta lo sguardo da lei a Lootah, lentamente, senza riuscire a nascondere il modo in cui le pupille si sono allargate per fagocitare l'azzurro limpido dell'iride.
«Wolfgang ha bisogno di nutrirsi in modo tradizionale. Tradizionale per un vampiro. Non sappiamo perché, ma farlo gli permette un'autonomia duratura, maggiore lucidità di pensiero, maggiore controllo sulle sue azioni, più forza» inizia a elencare Lootah, cercando di non sfregarsi le mani sui pantaloni, rivelando così la sua personale tensione.
«Frena, frena, frena» inizia Angelica, sedendosi ancora più in là sul sottile materasso. «Vampiro? Stai dicendo che me lo devo attaccare alla giugulare o qualcosa di simile?»
«No» risponde Lootah, deciso. «Sto dicendo che lo nutrirò io, ma che ho bisogno della tua presenza perché il suo istinto non prenda il sopravvento.»
Lo hanno fatto mesi e mesi indietro e sapeva che trovare una negromante avrebbe significato ripetere l'esperienza.
Compromessi scomodi.
«Potrebbe ucciderti, è questo che stai dicendo?»
«Sì.»
Cala un silenzio pesante e un po' ruvido, che gratta sulla pelle di Lootah.
«Senti, io non la voglio questa responsabilità. Non so cosa si suppone io faccia, ma se non dovessi riuscire e lui dovesse ridurti pelle e ossa? E poi perché ti trascini dietro un... un...»
«Vampiro» dice Lootah, deciso, concludendo la frase. «Non lo decido io, è così che funziona e basta. Servono determinati gradi di separazione dal velo per riuscire a controllare l'equilibrio.»
«Ti rendi conto che suona assurdo, vero?»
Wolfgang si attacca appena alla maglietta di Lootah, increspando la stoffa e interrompendo il loro discutere continuo. Ha lo sguardo liquido di desiderio, la bocca arrossata, i denti che sporgono appena dalle gengive.
«Hai intenzione di fare quello che ti dico o no?» taglia corto Lootah, il tono caustico di chi non ha tempo da perdere.
«Cosa dovrei fare?» sibila Angelica, scrutando Wolfgang fra di loro.
«Tu e lui siete collegati: lui è sul limitare del velo, fra questo mondo e gli spiriti, tu sei connessa a qualsiasi cosa sia dall'altra parte.»
Angelica sospira e c'è una rassegnazione diversa, questa volta.
«Lo so che è difficile da capire, non siamo fatti per comprendere tutto questo. Siamo fatti per accettarlo, per assicurarci che continui ad essere così. Quello che devi sapere adesso è che tu hai il potere di fermarlo, di controllarlo nel caso in cui lui non riesca a farlo da solo» continua Lootah.
«Come?» domanda Angelica, il tono esasperato.
«Volendolo.»
«Questa non è una spiegazione. Niente di quello che hai detto è una spiegazione. Vampiri, sangue, è tutto assurdo.»
«È doloroso e piuttosto... intimo. Lui inizierà a nutrirsi e io gli chiederò di fermarsi quando sarà troppo. Se siamo fortunati, non dovrai alzare un dito e Wolfgang si fermerà da solo. Ma, visto quanto successo la volta scorsa, credo dovresti tenerti pronta» spiega Lootah, sfilando cauto la maglietta.
«La volta scorsa? Cos'è successo la volta scorsa, scusa?»
«Ho quasi dovuto ucciderlo per salvarmi la vita» risponde Lootah, senza che nulla trapeli dalla sua espressione.
Vorrebbe solo appropriarsi del tempo e farlo scorrere più in fretta, rapido e indolore. Invece fa un piccolo gesto della mano in direzione di Wolfgang, che si alza, fruga in un cassetto, e torna da loro con un paletto in mano.
«Quello è per me?» domanda Angelica.
«No. Non credo lo useresti solo come ultima risorsa. È per me» spiega Lootah.
Poi fa spazio, allargando le mani sul materasso per reclinare un po' il corpo, il collo esposto. Wolfgang si avvicina, felino, lento, pallido, per tornare a sedersi sul materasso. Lootah avverte il peso leggero della sua mano sulla coscia, il suo sguardo scorrergli sulla pelle, e lo stomaco gli si serra. C'è paura, ma anche qualcos'altro. Qualcosa che ha permesso ai vampiri di nutrirsi di vittime desiderose di andare incontro ai loro denti per secoli. Wolfgang posa l'altra mano sul viso di Lootah, piegandolo di lato, per poi leccarsi le labbra sotto lo sguardo scuro che controlla ogni sua mossa, anche dalla posizione scomoda in cui è costretto. Perché Lootah lo studia sempre, assicurandosi che ci sia ancora un'anima dietro le sue pupille, nei suoi gesti. A volte non sembra così, come in quel momento, mentre Wolfgang lo manovra in modo grottesco.
«Aspettate, aspettate» li ferma Angelica.
Si sfila rapidamente le scarpe, mentre Wolfgang emette un verso gutturale di impazienza. Poi, veloce, si piazza dietro i due, inclinando il materasso.
«Cerca di non bertelo tutto» mormora.
E nella sua voce Lootah può sentire la sua stessa paura.
Trascorre qualche altro attimo, lungo e dilatato, e Wolfgang riprende a muoversi. Piano, centimetro dopo centimetro, aprendo appena le labbra a mostrare i denti. Approda sulla pelle di Lootah, carezzandolo di bocca prima e di lingua poi. Lascia una scia bagnata, lunga e sottile. Lootah sente Angelica trattenere il fiato, sente il suo stesso corpo tendersi di una strana aspettativa.
Fallo. Ti prego. Fallo. Ora.
E Wolfgang affonda i denti.
Il dolore è immediato, accecante. Scorre da quel punto della pelle – ormai aperta sulla carne – fino al cervello, annebbiando per un attimo tutti i sensi. Lootah strizza gli occhi, deglutisce rumorosamente per non emettere un suono. Presto avverte la sgradevole sensazione del sangue che scorre via, succhiato fuori dal suo corpo. Parte gli scivola sul petto, caldo e fastidioso. Wolfgang sta emettendo piccoli versi soddisfatti che quasi coprono i rumori bagnati della sua bocca. La sua mano stringe i pantaloni di Lootah fra le dita, ferrea.
Basta un attimo, però, uno solo, e Wolfgang è su di lui, cavalcioni, a strizzargli fuori l'aria dai polmoni per lo spavento. Si attacca di nuovo al suo collo e si spinge contro il suo corpo, eloquente. E Lootah lo sa che ha perso già il controllo. Che il controllo non esiste. Eppure lo lascia fare, mentre la pelle lacerata brucia e un rumore strozzato gli si incastra in gola. Alza la mano libera – quella che non stringe il paletto come se ne andasse di tutta la gravità della terra – e tiene il palmo aperto e sollevato, ad indicare ad Angelica che va tutto bene. Che ce la fa ancora. Che Wolfgang ne ha bisogno.
Vanno avanti, infatti, muovendosi a ritmo con ogni sorso, per il volere di Wolfgang. Lootah alza anche l'altra mano, stretta al legno, per posarla sulla sua schiena, senza sapere bene se lo scopo sia stringerselo contro o allontanarlo.
Altri secondi, altro tempo accumulato sul bordo del dolore.
«Wolfgang» dice poi, quando la testa inizia a farsi leggera.
Non viene ascoltato, non c'è più nessuno ad obbedire a quel richiamo secco.
«Basta» dice Lootah, di nuovo.
Ma Wolfgang si muove ancora di più contro di lui, in un sesso che è tutto fatto di fame soddisfatta.
«Angelica» chiama allora Lootah, la voce ormai spezzata, la mano libera salita al collo del vampiro più per riflesso, mentre l'altra si sposta fra di loro, il paletto puntato all'altezza del cuore.
Sente il materasso inclinarsi un po' e gli sembra di essere in mare aperto, perché tutto ondeggia instabile. Ha bisogno di scappare, di andarsene, di salvarsi. Spinge via Wolfgang anche se è inutile, anche se lui è solida roccia e alta marea allo stesso tempo. Lootah avverte la vaga eccitazione della morte, come la prima volta, strisciargli lungo la spina dorsale. La voce di Angelica arriva lontana. Sta intimando di fermarsi, di smetterla, e non ha idea di come fare perché il vampiro si stacchi.
Poi Lootah spinge il viso di Wolfgang un po' più su, la pelle che tira, un urlo incastrato in gola, e vede Wolfgang guardare oltre le sue spalle, verso Angelica.
E com'è iniziata, finisce. Wolfgang si separa, la bocca e il mento impastati di sangue. Lento, come ipnotizzato, svuotato dalla volontà che lo portava a continuare a nutrirsi fino all'ultima goccia.
Lootah porta una mano sulla ferita, sente i lembi di pelle e preme, preme, preme cercando di tenersi dentro il battito del cuore e tutto il resto.
«Non so cosa fare, ora» mormora Angelica, piano, in un soffio, come se parlare più forte potesse interrompere la magia.
«Toglilo, fallo alzare, fallo alzare.»
C'è un leggero panico nella voce di Lootah, ancora sotto il peso di Wolfgang.
«Non so come.»
Lootah perde il contatto con la realtà, la vista si annebbia fino a diventare un vortice scuro con piccole luci scintillanti a punteggiarlo come un cielo. Sviene che sono ancora bloccati in quello stallo, cadendo all'indietro sul materasso.
 
Si sveglia perché sente il dolore tornare a strisciare dal collo.
«Non è una ferita brutta» sillaba Makiko, piano, appena lo vede sbattere le ciglia un po' di volte. «Ho già cucito. Ora bendo» continua, nel modo sintetico che ha di parlare una lingua non sua.
Lootah emette un piccolo verso dolorante, ma attende pazientemente. È ancora sul materasso e può vedere solo il soffitto e una parte del viso etereo di Makiko, niente di più. Quando la ferita è sistemata, tenta di alzarsi.
«Dovresti startene giù.»
La voce è quella di Angelica, ma Lootah ignora la raccomandazione, per strisciare sul materasso e poggiarsi allo schienale del divano che fa da testata del letto.
«Dov'è Wolfgang?» chiede, guardandosi attorno.
«In bagno» risponde Angelica, seccata.
«È lì da un po'» approfondisce Esteban, cauto.
I due sono seduti a tavola, davanti a due tazze di tè, e l'aria è piena di tensione.
Makiko scruta verso il tavolo e poi si avvicina all'orecchio di Lootah.
«Ha paura di averti fatto molto male. Devi parlargli» sussurra, cercando di non farsi sentire.
«Fra un attimo» è la risposta sbrigativa di Lootah. «Cos'è successo?»
«Che questa follia non la ripeteremo mai più, ecco cosa» sibila Angelica, nascondendosi dietro la tazza per una pausa drammatica. «Ora, visto che questi due non ne vogliono parlare, vorrei tu mi spiegassi tutto. E sono seria, tutto. Vampiri e demoni inclusi.»
«Voglio sapere cos'è successo a Wolfgang dopo che sono svenuto» ribadisce Lootah, ignorando la richiesta.
Angelica risponde con un verso esasperato.
«È successo che si è creato... qualcosa, ok? Un legame, non lo so, una connessione. L'ho guardato ed è stato come durante una seduta, quando mi entrano dentro. Sentivo di essere lui. Ho pensato di dovermi alzare come se fossi lui e lui si è alzato. Ho pensato a cosa fare, ma quando ho abbassato lo sguardo, il legame era andato. E lui era calmo, più o meno. Ti ha guardato per un po' come fossi il dessert, ma poi se n'è andato in bagno ed è rimasto lì.»
Lootah si alza a fatica ed Esteban gli è subito vicino per sorreggerlo.
«Dovresti davvero riprenderti» gli dice, abbozzando il solito sorriso leggero.
«Devo parlargli» risponde Lootah.
«E a me chi parla? Nessuno?!» sbotta Angelica, abbandonata al tavolo, prima di alzare gli occhi al cielo.
Ma Lootah le dà subito le spalle, diretto al bagno.
«Puoi occuparti tu di lei? Spiegale quanto riesci, quanto puoi. Sono certo ascolterà te e Makiko più di quanto non faccia con me. Se riuscite a convincerla a viaggiare prima di occuparci del demone, sarebbe meglio» biascica, sbrigativo, prima di aggrapparsi alla maniglia del bagno e abbandonare la presa di Esteban.

 



 
Ciao a tutti! Come state?
Scusate l'aggiornamento un po' "tardivo", ma è un periodo in cui fatico a fare tutto quello che vorrei fare e portare avanti ben due long è complesso. Comunque non abbandono nessuna delle due, perché sono le mie bambine. Quindi ecco capitoli che restano stringati, ma che cerco comunque di far uscire senza eccessive pause di secoli.
Allora, cosa dite di questa scena?? *___*
Scriverla è stato bellissimo, in biblico fra la violenza e la sensualità. 
Spero di essere riuscita a produrre qualcosa di decente!
A presto e grazie a chiunque mi lascia un commento! Siete fantastici!!!

DonnieTZ


 

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Capitolo 7
*** Makiko ***


 
 
Makiko guarda il punto in cui Lootah scompare nel bagno e poi sposta lo sguardo su Esteban, che torna al tavolo con il sorriso un po' meno abbagliante. Dentro, la sua luce è leggermente offuscata, bagnata dal vago timore di non essere all'altezza dei compiti sempre più importanti che Lootah gli riserva. Batte i palmi uno contro l'altro, prima di sedersi, mimando un'espressione incoraggiante.
Makiko lo percepisce con chiarezza, perché ha imparato a conoscerlo, mentre Angelica è qualcosa di nuovo e confuso. Come Wolfgang, il suo rapporto con la morte sembra attingere a tutto ciò che di vitale c'è nella stanza, assorbendolo fino a rendere l'aria soffocante. Makiko legge anche altro: una combattività istintiva, che gli dà forza per andare avanti, sopravvivere al dolore. Una corazza protegge la negromante contro il mondo, ma non è un muro: può essere tolta, nell'intimità dell'amicizia, nella vulnerabilità dell'amore, per mostrare Angelica senza protezioni.
«Allora, cosa vuoi sapere?» domanda Esteban.
«Tutto. Chi siete? Cosa fate? Perché avete bisogno di me?» risponde Angelica.
Il suo passato è ruvido tessuto cicatriziale sull'anima, ma Makiko non vuole addentrarsi in quell'oscurità, non ancora; così si concentra su Esteban, sulla sua voce.
«Io sono Esteban. Questa è Makiko. Lootah ci chiama cerchia. In passato dovevano essercene molte, poi quelli come noi sono diventati diffidenti o rari, e le cerchie sono andate scomparendo.»
«Va bene, ma cos'è una cerchia? Vi mettete lì e fate strani rituali o qualcosa di simile? Perché io non ho intenzione di versare sangue per questa cosa, grazie
«Non versiamo sangue» interviene Makiko, scrutando l'altra negli occhi.
O, almeno, non loro. Lootah lo fa per Wolfgang, ma non c'entra la cerchia in quel rituale.
Spiegarlo è complicato in ogni caso. Tutti loro sapevano, in qualche modo, quando sono stati reclutati: lei perché non ha mai bisogno di spiegazioni, Esteban perché sua nonna era parte di una delle ultime cerchie, Wolfgang perché era vivo ai tempi in cui erano ancora diffuse. Makiko sa anche di Lootah ed è una delle molte cose che vorrebbe non sapere.
Dentro Angelica, però, ci sono nodi di negazione che servono a tenere chiusa una porta, l'accesso che il demone può attraversare con tanta facilità. La sua paura diventa la paura di Makiko, una connessione a senso unico che minaccia di soffocarla e che deve sedare con convinzione. Angelica non le riserva lo stesso sprezzante atteggiamento che ha con Lootah e che sta iniziando a riversare su Esteban; la trova un enigma e si limita ad ignorarla.
«Quello che dovremmo fare è... non so come dire. Immagina che questa dimensione e un'altra dimensione siano collegate, siano intrecciate fra loro, mi segui?» continua Esteban, gesticolando per accompagnare la spiegazione. «A volte ci sono degli strappi, e noi abbiamo il compito di trovarli e ricucirli. È come se il tessuto fosse un po' vecchio, perché è stato trascurato.»
«Parli dell'aldilà? Quindi noi teniamo l'aldilà di là
«Più o meno.»
«Più o meno?» domanda ancora Angelica.
Makiko percepisce la sua frustrazione. Si è negata per anni di comprendere, accettando quello che era in grado di fare come una stranezza, e ora ha davanti verità che ha sempre conosciuto e non ha mai desiderato come parte della sua vita. Vorrebbe dirle che capisce, che quello che ha passato – anche se preferisce tastare quei ricordi con circospezione – renderà tutto più difficile. Deve tacere, però, perché quello che è in grado di fare è più spaventoso di tutti i loro talenti, più violento, più crudele. Leggere gli altri, percepirli, è la più grande delle invasioni. Deve restare segreta.
«Ecco, senza di te non possiamo iniziare.»
«Stai dicendo che questa è teoria?» sibila Angelica.
«No, no. Solo che dobbiamo essere in cinque. Beh, cinque più l'Esterno
«Dovrò cavarti fuori ogni singola informazione?»
Esteban sospira nel sentire quella domanda, perché c'è troppo da spiegare, troppo da far capire, e non è facile per qualcuno che già sa.
«Quello che noi siamo» inizia Makiko, «serve a chiudere gli strappi nel velo. Tutti abbiamo un ruolo. Senza qualcuno come sei tu, non è possibile farlo.»
Non le piace parlare, non le piace arrancare fra le parole per trovare quelle giuste, ma le difficoltà dell'altro la chiamano, spingendola a tentare di aiutarlo.
«Ecco, diciamo che noi ci occupiamo di mantenere l'equilibrio fra qui e , ma siamo più...» Esteban si ferma, in cerca della definizione giusta, ma sembra non trovarla.
Makiko gli scava dentro e la trova per lui.
«Potenti» dice.
«Sì, potenti. Siamo più potenti degli altri, quindi abbiamo bisogno di una persona che ci controlli, che si assicuri che non stiamo unendo i nostri sforzi per, che ne so, conquistare il mondo o qualcosa di simile. Lootah lo chiama l'Esterno e dice che in passato gli Esterni davano la caccia a chi si comportava male o a chi non accettava il suo ruolo nella cerchia. In teoria non hanno poteri, in pratica sono cresciuti all'interno di famiglie di cacciatori. O, almeno, era così quando c'erano le cerchie. Quando c'è anche l'Esterno, la cerchia funziona alla perfezione, come se tutto si catalizzasse. Sembra che quei due abbiano già in mente qualcuno, però, quindi non sarà difficile quanto trovare te.»
Esteban indica il bagno con lo sguardo. Sta ricalcando parole sentite nei racconti di sua nonna, narrazioni che l'hanno cresciuto, e scampoli di informazioni raccolte da Lootah.
«Trovare me?» domanda Angelica, passando la lingua sull'anellino argentato che le buca il labbro.
Makiko sente il conforto di quel gesto, sente il sollievo nella consapevolezza di essere fatta di carne e sensazioni fisiche.
Quella domanda preoccupa Esteban, che cerca aiuto con lo sguardo, incerto.
«Le persone come te a volte vivono negli ospedali» risponde per lui.
«Ah.»
Angelica abbassa lo sguardo sulla tazza. Sta pensando al passato, perché anche lei ha vissuto in un ospedale, ha ingoiato medicine, a messo la sedia in cerchio e parlato con sconosciuti. Anche lei e quindi, mentre rivive frammenti di ciò che è stato, anche Makiko.
«Non aiuta che non si sappia quasi mai, nelle famiglia, a chi toccherà essere come te» chiarisce Esteban. «Noi siamo fortunati, perché si tramanda dal genitore al figlio» aggiunge, indicando sé e Makiko.
Angelica sembra improvvisamente colpita dall'idea che loro abbiano qualcosa, che siano diversi, proprio come lei.
«Cosa... cosa siete?» chiede, senza riuscire a mascherare la titubanza, una vibrazione che attraversa le sue parole.
«Oh, già. Lootah adora le definizioni, noi un po' meno. Comunque» inizia Esteban, puntandosi un dito contro il petto «puoi considerarmi un mutaforma. Posso diventare un animale, insomma. A volte, nelle cerchie, prendevano i mannari ma, ehi, io sono meglio.»
Segue un silenzio irreale, lungo, che si dilata. Makiko saggia in punta di mente l'incredulità di Angelica.
«Tu vedi i morti, lui diventa un animale» le ricorda, lapidaria.
«Siete seri?»
«Ti farei vedere, ma fa parecchio male e preferirei farlo solo se è necessario. In più c'è tutta la storia dell'essere nudi e ancora non ci conosciamo abbastanza bene. Ma mi vedrai presto all'opera, se decidiamo davvero di... esorcizzarti» sorride Esteban, come se fosse una battuta particolarmente divertente.
L'espressione di Angelica si irrigidisce e i suoi occhi scuri si specchiano in quelli di Makiko.
«Tu?»
«Da dove vengo, a volte mi chiamano tennyo. Qui forse sarei una fata o una ninfa. E su un'isola sarei una sirena.»
«Oh, certo, ovviamente» risponde, sarcastica.
«Senti, per tutti noi esistono così tanti nomi che non sapremmo neanche come spiegarti. E vale la stessa cosa per te: c'è chi ti chiamerebbe sensitiva, chi ti chiamerebbe strega, chi negromante. La verità è che scegli tu. O Lootah, perché a lui-»
«Piacciono le definizioni» conclude Angelica, le parole ormai familiari, prima di sospirare pesantemente. «So che non dovrei chiederlo, visto quello che faccio, ma siete sicuri di essere a posto? Niente droghe?»
«Niente droghe. È una delle regole di Lootah» risponde Esteban.
«Gli piacciono anche le regole, eh?» domanda Angelica, retorica, giocando con la tazza per fare ordinati cerchi umidi sulla superficie del tavolo.
Esteban si limita a sbuffare fuori una risata che è un assenso.
«Se decidi di restare, viaggeremo per trovare l'Esterno» dice Makiko, riportando la discussione ai punti essenziali.
La ragazza le appare colma di informazioni fino all'orlo, esausta, la forza che lentamente l'abbandona, ma non possono fermarsi ora. Non deve uscire di casa senza buona parte delle risposte che le servono.
«E una volta che lo trovate, che dovrei fare io?» domanda, infatti.
«Tutti abbiamo un potere su quello di noi che viene dopo. Makiko, per esempio, aiuta me quando sono in un'altra forma, Lootah può aiutare te e farti da scudo con gli spirti-»
«Ti prego, non chiamarli così» lo interrompe Angelica, secca.
Esteban si limita a stringersi nelle spalle, prima di continuare.
«E tu controlli Wolfgang. Questo è uno dei tuoi compiti» spiega, spostando lo sguardo su Makiko per l'ennesima volta.
Non sa quanto rivelare. Non sa se le piacerà quello che dovrà fare.
«Quando tu chiami uno spirito, scusa, un'entità o come preferisci, non passa da uno strappo. La tua dote è assorbirli attraverso il velo, se così vogliamo dire. Questo ci aiuta quando dobbiamo localizzare lo strappo, capire perché si è formato, controllare se qualcosa di negativo ne è uscito o se qualcuno l'ha creato per qualche motivo. Gli strappi possono causarsi in molti modi, da soli o per colpa di qualcuno. Tu chiami l'entità che potrebbe avere le risposte e, attraverso te, lei può concretizzare il suo sapere affinché tutti noi lo si possa conoscere» Esteban la guarda, attento a cogliere indizi nella sua espressione.
C'è confusione – tanta, troppa – oltre a tutto il resto.
«Devo fare delle sedute? È questo? E se qualcosa di negativo prende e decide di volermi usare come un albergo?»
«Le energie sono vaghe quando sono dall'altra parte, ma qui diventano più solide. Possiamo capirle. Per venire hanno bisogno del permesso, però. Positive o negative. Tu dai il permesso per una volta sola in sedute. A Lui lo hai dato per sempre» dichiara Makiko, seria.
In Angelica si agita di tutto, a quelle parole: vergogna, senso di colpa, panico. Makiko non riesce a schermarsi, non più, e si abbandona a quella marea, chiudendo piano le palpebre per smettere di combattere. Così percepisce di aver fatto un errore: ha chiamato il demone Lui, come Angelica l'ha sempre definito nella sua mente. Non dovrebbe saperlo, però, non dovrebbe conoscere quel nome segreto. Riapre gli occhi. Lo sguardo di Angelica si assottiglia, fermo su di lei, sospettoso, ma la abbandona presto.
«E quando mi libererete di...»
La frase evapora nel vuoto, e nessuno ha una vera risposta. Makiko sente la paura – acida e scura – allargarsi dallo stomaco di Angelica come una nube tossica.
«Lootah andrà oltre il velo. Deciderà lui quando» le risponde, prima di avvertire dal bagno un'energia forte, vibrante, fatta di istinti basilari.
Scatta in piedi, colpita.
«Che succede?» domanda Esteban, perplesso.
Makiko non lo ascolta. Si limita a camminare verso il bagno, a bussare alla porta in legno scrostato.
«Tutto bene, tutto bene» dice Lootah, sbrigativo, consapevole che il tocco delicato delle nocche sia il segno distintivo di Makiko.
Lei resta in silenzio. Sente gli occhi degli altri due scavare fra le sue spalle, curiosi, ma sposta l'attenzione oltre la porta, in bagno, dove Lootah e Wolfgang sono aggrappati uno all'altro. Non sa se siano fisicamente in contatto – se quell'aggrapparsi sia un abbraccio reale – o se la sua mente stia percependo l'intensità della loro connessione emotiva. Sa solo che sono intimi, in quel momento, e che Wolfgang ha paura e rabbia ad agitarglisi dentro. Si sente vivo dopo molto tempo e Lootah deve contenerlo come si argina un fiume in piena.
«Che succede, si può sapere?» chiede ancora Esteban, in apprensione.
«Mi è sembrato che loro facessero rumore» gli spiega, lentamente, scandendo parole estranee.
Torna al tavolo, indecisa, timorosa che Lootah non riesca a calmare Wolfgang.
«Tutto questo è una follia, ma se serve a levarmi di torno questa cosa, allora ci sto. Non che abbia nessuno da salutare, da queste parti» dichiara Angelica, il tono esausto.
Makiko è distratta da quello che accade nell'altra stanza, ma cerca di non venirne assorbita, di non perdersi in quello che non la riguarda. Quindi torna sui due a tavola, sulle loro diverse anime strizzate a forza nei loro corpi.
«Quindi ci metteremo a cercare questo Esterno e, quando lo troveremo, salveremo il mondo. Perfetto» è la dichiarazione finale di Angelica, mentre si abbandona contro lo schienale della sedia.
Benvenuta, pensa Makiko, senza riuscire davvero a soffocare l'apprensione.




 


Ciao!
Dopo secoli torno a voi con un nuovo capitolo. Ringraziate Red per non dover subire ventimila volte gli stessi nomi, visto che mi ha dato una grossa mano da quel punto di vista (e passate da lei che scrive benissimo)!
Ho avuto un serio blocco con questa storia, perché - come si nota - questo stupido capitolo denso di informazioni mi sembrava impossibile da scrivere senza che uscisse un disastro. Alla fine è qui e prometto solennemente che il prossimo sarà meglio (probabilmente sarà dal punto di vista di Wolfgang o di Lootah).
Nel frattempo ringrazio chi continua a seguirla (che pazienza!), e vi informo che questa storia sarà il mio progetto per il camp NaNo di aprile, sperando che darmi un obiettivo di parole per il mese mi aiuti a velocizzare i tempi di aggiornamento!
Siete preziosi quando mi lasciate le recensioni!
A presto... 
DonnieTZ



 

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Capitolo 8
*** Wolfgang ***


 

Lootah lo osserva poggiato contro il muro, in attesa, a fianco alla porta chiusa dietro cui gli altri stanno parlando. Wolfgang si è accorto del suo ingresso perché il calore ha spazzato via un po' dell'oscurità che sente dentro. È una luce che spinge ai margini, ma non ha la quiete dell'alba; è una fiamma contro la notte. Quando lo guarda di rimando – pelle scura, occhi profondi e maglietta tesa sul petto – le parole gli risalgono la gola.
«Mi dispiace» mormora, la voce incrinata.
Si è rinchiuso in bagno per scappare dall'estatica sensazione di sentirsi vivo, lucido, riempito fino agli angoli più remoti del sangue speziato che ormai conosce a memoria, che è una parte tanto fondamentale della sua esistenza. Scappare gli è parsa una necessità, perché tutte quelle sensazioni violente e bellissime sono venute al costo caro di aver fatto del male a Lootah. Sa che presto il sangue prenderà il sopravvento, ma non sa come dire all'uomo che ha davanti di stare lontano, al sicuro, dove il vampiro non possa trovarlo.
Il motivo della sua profonda tristezza non è il semplice senso di colpa, però. In parte è egoismo: Lootah ha fatto una promessa e, dovesse succedergli qualcosa, quella promessa verrebbe infranta. E poi c'è quel grumo di sensazioni fugaci che continua a ripresentarsi, a pulsare al centro della sua vecchia anima. Ormai lucido, nuovamente sazio, realizza come Lootah sia un bambino che gioca a fare l'eroe, sperduto nella sua breve esistenza. Aver bisogno di lui come ne ha bisogno, sentire la necessità premere sotto la pelle, comporta realizzazioni scomode. È troppo vecchio – troppo antico – per tutti i suoi desideri.
Sente come non gli capitava da mesi – da quel primo incontro con Lootah, quando si è nutrito dopo decenni – ed è quasi troppo. Una sensazione spaventosa di esserci, di vivere, di capire. Quando non beve da tempo, gli è difficile pensare ad altro; quando finalmente ci riesce, vorrebbe tornare nella nube tossica di confusione che lo accompagna sempre. Avverte il profumo di Lootah e non sa fino a che punto sia ormai anche il proprio, visto che a scorrergli nelle vene c'è il suo sangue.
«Non ti ho fermato in tempo, è una mia responsabilità» gli dice l'altro, avvicinandosi cauto al punto in cui Wolfgang è seduto, un ginocchio al petto e l'altra gamba distesa sul pavimento freddo di piastrelle sbeccate. «So che sei preoccupato per la promessa che ti ho fatto, ma non la infrangerò. Non mi succederà niente finché non l'avrò rispettata» continua, sedendosi al suo fianco.
A quelle parole, Wolfgang scatta, girandosi verso di lui e afferrandogli il braccio.
«Credi che sia solo questo?» sibila, distante solo un respiro.
La rabbia è fredda e misurata, come se qualsiasi dimostrazione di vitalità gli fosse comunque impossibile, come se esprimere passioni estreme fosse prerogativa dei mortali.
Qualcuno bussa piano, da fuori.
«Tutto bene, tutto bene» dice Lootah, sbrigativo, senza distogliere lo sguardo da Wolfgang.
C'è Makiko oltre la porta, lo sanno entrambi, e sanno che lei saprà sempre tutto di loro, per quel legame inspiegabile che connette i tre. Eppure Wolfgang non lascia la presa e Lootah non smette di guardarlo. Restano ancorati, nonostante siano stati esposti.
«So che non è solo questo» scandisce Lootah, piano, in un sussurro che ha il tono della cospirazione.
Allora Wolfgang si calma, sposta la mano, lascia ricadere la testa contro il muro e chiude gli occhi.
«Come ti senti?» sente chiedere.
«Pieno di te» risponde, quindi.
«Potrai bere più spesso, ora che c'è Angelica, e potrai aiutare la cerchia. Presto saremo in grado di capire quali sono i nostri limiti, non ci saranno incidenti» spiega Lootah, come se fosse necessario parlare per riempire quel momento.
«Torniamo a casa?» domanda Wolfgang, restando immobile.
Può sentire il battito di Lootah con più precisione, ora che resta chiuso nel buio delle palpebre abbassate. Ha ancora sulla lingua il suo sapore. Il calore si sta diffondendo, sta per arrivare ovunque nelle sue membra intorpidite.
«Presto. Il tempo di qualche preparativo e ci metteremo in viaggio. Voglio controllare con Gus che i nostri documenti e i conti siano a posto.»
Wolfgang serra la mascella a quel nome, ma annuisce impercettibilmente comunque, a esplicitare di aver capito e di approvare.
Piano, poi, scivolando contro le piastrelle, posa la testa sulla spalla di Lootah. Lo sente irrigidirsi un istante, per rilassarsi subito dopo. È il risultato del morso, Wolfgang lo sa, perché quel tipo di doloroso abbandono si porta dietro una certa paura che non sparisce subito. Sa che Lootah lo vedrà sempre come un pericolo e sa di esserlo. È grato di quella consapevolezza, anzi, perchè dimostra semplice intelligenza. Non gli farebbe mai una colpa di quegli attimi di puro istinto che lo allontanano, come non si sofferma a spiegarsi gli altri momenti, quelli in cui sono così vicini da perdere i confini e le distanze che solitamente li separano.
Resta con la tempia appoggiata alla sua spalla, quindi, abbandonandosi sempre di più all'appagamento del sangue, alla sua densa estasi, alla sensuale riscoperta del proprio corpo che si rianima, che si concretizza.
«Tu come stai?» domanda poi, la voce lieve.
«Un po' annebbiato, ma passerà presto.»
Si accumula altro silenzio e c'è ancora una vaga tensione, ma sta scivolando via piano, sta lasciando il posto ad altro, e Wolfgang non vuole perdere quel momento com'è successo a molti altri. Quell'attimo non vuole dimenticarlo, anche se sa che succederà, anche se non può fare nulla per impedire a Lootah di diventare passato e di perdersi nella memoria di chi è destinato a sopravvivergli. Anche se non può pretendere di sopprimere la parte di sé che sarà sempre il sanguinario mostro, l'essere che brama e distrugge.
«Dovrei parlare con Angelica, ora» dice Lootah, dopo lunghi minuti, spezzando la quiete.
«La aiuterai davvero. La aiuterai come hai fatto con noi.»
Quella di Wolfgang vorrebbe essere una dichiarazione, l'ennesima rassicurazione su quanto Lootah sia buono. Nonostante il suo passato, nonostante le azioni che hanno macchiato la sua coscienza. L'altro si limita a sbuffare una risata, però, e a sganciarsi da quel momento con noncuranza, per alzarsi e andare alla porta.
Wolfgang lo ascolta appena chiedere agli altri se le tende siano tirate e se possano passare, così come percepisce in sottofondo l'assenso di Esteban e Makiko. Sta pensando ad altro, la mente che vaga, le paure che si accumulano e si diradano nel modo in cui soltanto lui riesce a percepirle. Lootah dovrà andare dall'altra parte del velo, trovare il demone e liberare Angelica dalla sua presa. Sarà pericoloso, anche se Esteban sarà pronto a riportarlo indietro, e quella prospettiva lo riempie della solitudine che arriverà il giorno in cui Lootah non ci sarà più.
«Vieni?»
La domanda dell'altro lo riporta alla realtà e Wolfgang si alza e inizia a seguirlo, gettando solo una rapida occhiata ai presenti, seduti attorno al tavolo. Ripara in camera da letto, sempre sulla scia dei passi di Lootah, inoltrandosi dove non c'è traccia di luce, neanche artificiale. Quando sono ormai dentro, Lootah chiude la porta alle sue spalle, isolandoli nuovamente dal resto del mondo.
«Non parli con Angelica?» chiede Wolfgang, perplesso.
«Fra un attimo. Sdraiati.»
Il vampiro obbedisce, scivolando nel letto a castello, di sotto, con gesto fluido. Lootah lo segue subito dopo, stendendosi al suo fianco, permettendogli di poggiare la testa sul suo petto. Sotto l'orecchio di Wolfgang c'è un suono che ha sentito altre volte, ma mai con la chiarezza che ha in quel momento. Ora che si è nutrito riesce a carpirlo e farlo suo.
«Il tuo cuore batte forte.»
«Lo so» risponde Lootah.
«Hai paura?»
«In parte.»
«Cos'altro?»
La domanda di Wolfgang sfuma nel silenzio. L'oscurità non ha i contorni pesanti che ha quando è solo, perché quel cuore ne scandisce il ritmo, ne rischiara gli angoli. Sanno entrambi cosa anima quel suono, ma afferrarlo, concretizzarlo, è un rischio che Lootah è troppo giovane per correre e Wolfgang semplicemente troppo vecchio.
Eppure, per un attimo, la resa sembra l'unica opzione.
«Temo che Angelica ti metta in pericolo con il suo demone» rivela Lootah, in un sussurro, mentre il suo palmo caldo si alza nell'aria e atterra piano fra i capelli di Wolfgang.
Le dita scorrono fra le ciocche, districandole con cura, distratte dal loro stesso lavoro. Il respiro di Lootah è quieto rispetto allo sfarfallio nel suo petto, ma si spezza un attimo quando Wolfgang gli accarezza il fianco per risalire e insinuare la mano sotto la maglietta.
Ora che può avvertirlo con chiarezza, ora che i suoi sensi sono resuscitati dalla confusione che li annebbiava, Wolfgang vuole assaporare in punta di dita un po' del suo calore.
«Temo che questa...» cerca una parola, Lootah, ma il palmo di Wolfgang lo esplora con cautela, meno gelido del solito ma freddo come può esserlo solo la mano di un morto rianimato da quell'assurda legge della natura. «Temo tu stia sfruttando una mia debolezza per ottenere ciò che vuoi senza pagarne le conseguenze. Temo che sia troppo facile cedere» continua.
Non sta parlando di Angelica, né della cerchia, né di quella missione suicida per riparare le ferite del mondo. Lootah sta parlando di loro, del morso, delle notti trascorse uno al fianco dell'altro, della mano che scivola e accarezza il suo petto, sorella delle dita che scorrono fra i capelli di Wolfgang. Lo sanno entrambi, ne sono dolorosamente consapevoli.
Wolfgang esplora la consistenza dei muscoli e delle ossa, fra lo sterno e l'ombelico. Non c'è l'ossessiva necessità di capire che ha quando non si nutre da tempo; c'è solo la curiosità verso un corpo estraneo e familiare. C'è desiderio. Possibilità di possesso.
Con le dita accarezza più in basso, lievemente.
Lootah scatta, spaventato, e si allontana tanto da finire in piedi, in mezzo alla stanza. In quel gesto veloce, non ha tenuto conto di quanto sangue ha perso. Con i sensi attenti che gli sono propri, Wolfgang lo vede oscillare e tentare di trovare un appiglio che non c'è per evitare di svenire crollando al suolo. Così il vampiro fa qualcosa che gli è stato proibito: si muove rapido e in un battito di ciglia lo sta sorreggendo.
«Non... non farlo.»
«Lo so, scusa.»
Scuse che valgono per tutto: per aver tentato di avere l'impossibile, per essersi mosso velocemente, per il sangue che continua a prendersi senza curarsi delle conseguenze, per quello che gli abita il cuore e il ventre quando lo ha così vicino.
Sono scuse vuote, ora che è nuovamente in sé, perché non può dispiacersi fino in fondo, non quando ciò che è giusto e ciò che è sbagliato hanno perso ogni significato decine di anni fa. Per questo afferra il viso di Lootah fra le dita pallide e sottili, tenendolo stretto come se avesse il peso di un pensiero.
Basterebbe così poco, sarebbe così facile...
«Wolfgang.»
La voce lieve di Makiko li interrompe, ma loro restano immobili al centro di quel buio, ad un respiro di distanza. È entrata nella stanza in punta di piedi – percepita fin dal primo passo – forse solo per assicurarsi di aver sentito bene le emozioni che si agitavano nell'oscurità oltre la porta.
«Wolfgang. Non vuole. Lascialo libero.»
Il vampiro espira piano, al suono di quel richiamo, e il suo fiato si infrange contro le labbra di Lootah, sulla carne morbida che le riempie.
«Ehi, ehi.»
Angelica sembra averli raggiunti e preme l'interruttore. La luce allaga con prepotenza la stanza della sua presenza abbagliante. Le pupille di lootah non si restringono, però; restano larghe di sottomissione, fisse in quelle di Wolfgang.
«Che succede?» domanda Angelica, avvicinandosi ai due senza la solita sicurezza.
Wolfgang la percepisce chiaramente, sente tutto. È invincibile, immortale, infinitamente più importante dei piccoli insetti che stanno strisciando in quella stanza.
Vuole Lootah e avrà Lootah. Nel suo letto, sul suo corpo, fra le labbra, a scorrergli dentro rosso e intenso. È suo, solo suo, soltanto suo.
«Fallo smettere» intima Makiko ad Angelica. «Fallo smettere, fallo smettere, fallo smettere» continua, in un sussurro, stringendosi le braccia al corpo, come a tentare di contenere l'ansia.
Nella mente di Wolfgang, quel gesto è chiaro come se la stesse guardando. Vede tutto, sa tutto, niente può sfuggire al suo controllo, al suo assoluto volere.
Invece basta un contatto e tutto si infrange. Angelica ha posato la sua mano – anelli pesanti e unghie laccate di nero – sulla spalla di Wolfgang.
Il vampiro si ridesta; orrore e paura e disgusto gli si agitano improvvisamente dentro. Libera Lootah dalla presa del desiderio e si allontana, ritirandosi in un punto lontano della stanza, terrorizzato da se stesso. Dal suo angolo, scruta i presenti, colpevole. Le sue iridi chiare scivolano da Makiko ad Angelica e, infine, su Lootah.
L'uomo si sta reggendo al muro, affannato, l'odore della paura ad impregnargli la pelle.
«È il sangue» riesce a dire alle due ragazze, gettando al vampiro una rapida occhiata. «il sangue lo fa tornare quello che è.»
«Che diavolo vorrebbe dire?» domanda Angelica.
«Che sono quello che sono» mormora Wolfgang. «Sono un predatore e voi siete... prede


 
Non so quanti errori ci siano, ma ecco il nuovo capitolo moltooo #Wootah? #Loogang? Va beh, fate voi, sta di fatto che ci sono questi due. XD Spero vi piaccia!!! 
Grazie al CampNaNo sto riuscendo a scriverne un po', quindi sono felice. 
Nel prossimo capitolo non so bene cosa scriverò, ma è probabile che - una volta spiegato un po' meglio cosa accade a Wolfie quando si nutre - i nostri inizieranno a muovere il culo per salvare il mondo (era ora?). 
Fatemi sapere, che quando lo fate avete tutto il mio amore!
A presto!
DonnieTZ

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