Dirty Blood di Sapphire_ (/viewuser.php?uid=57477)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***
Capitolo 1 *** Capitolo uno ***
Buon
pomeriggio a tutti!
È
da un secolo che non pubblico qualcosa qui su EFP, mi mancava!
Rivelo
il perché: sono una che quando scrive una storia ha bisogno
di
sapere tutti i dettagli prima di metterla effettivamente nera su
bianco, e a causa della mia (in)costanza difficilmente arrivo a quel
punto. Ho tipo un milione di storie organizzate e praticamente
nessuna conclusa. Mi stavo chiedendo il perché di questa
cosa, e mi
sono accorta di come, a un certo punto, finisco per stancarmi e
perdere la verve che mi aveva spinto a organizzarmi tutta felice.
Per
questo ho voluto provare un altro metodo, uno che non usavo da quando
avevo appena iniziato a scrivere - ovvero... otto anni fa? - in
pratica scrivere seguendo la scia dell'ispirazione. Proprio per
questo vi dico subito che la trama è ancora vaga nella mia
testa, ho
solo alcuni punti sicuri, ma di altro andrò dove mi porta il
cuore -
o meglio le mie dita. Anche il titolo d'altro canto deriva da una
ispirazione momentanea, cercherò di essere fedele anche a
quello.
Vi
chiedo scusa in anticipo per dei (sicuri) ritardi negli
aggiornamenti, ma purtroppo mi sto incamminando verso la fine del mio
percorso liceale e la maturità si fa sempre più
vicina, perciò non
so quanto potrò dedicarmi alla storia come altre volte
invece
faccio. In ogni caso farò il possibile per non perdere
l'ispirazione
e concludere questa storia - è una sfida personale, questa!
Ringrazio
in anticipo chiunque voglia leggerla e anche chi, eventualmente, mi
voglia lasciare una recensione: anche il più piccolo parere
(positivo o negativo che sia) mi farebbe un enorme piacere, e mi
affido a voi per correggere eventuali discordanze fra i vari capitoli
- starò attentissima a non commetterne, ma come ho
già detto
solitamente mi organizzo le cose in anticipo!
Buona
lettura!
~Sapphire_
~Dirty
Blood
Capitolo
uno
Non
sapeva come fosse finita in quella situazione. Più ci
pensava, più
le sembrava una situazione insensata.
Era
tutto iniziato come una brutta giornata, con una perpetua nausea che
non voleva abbandonarla, giramenti di testa e il buio che le
compariva di fronte agli occhi, in fastidiosi flash che le facevano
venire fitte alla testa, come se qualcuno la stesse ripetutamente
infilzando con uno stiletto proprio alle tempie.
Si
era detta che fosse una banale sindrome premestruale – anche
se di
solito diventava solo isterica e molto irritabile – ed era
andata
avanti in quella giornata orribile.
Almeno
fino a quando, tornando a casa in quella buia e grigia serata
invernale, dopo che il sole era già calato e New York veniva
illuminata dalle luci artificiali dei locali e dei lampioni, si era
ritrovata quasi rapita da qualcuno –
no, qualcuno non era il termine adatto. Da uno strano essere di
dubbia provenienza.
Dopo
quel momento era stato solo un susseguirsi di terrore e proprio
mentre stava per svenire – almeno non avrebbe dovuto
sopportare
mentre era cosciente un probabile stupro – era stata tirata
via e
costretta a correre per non si sa quanto tempo, traballante su dei
tacchi che avrebbe dovuto lasciare a casa.
E
ora era lì, in un sudicio vicolo che puzzava in maniera
preoccupante, immobilizzata da una mano sul polso e il peso di quella
persona addosso e taciuta da un'altra mano sulla bocca.
Dalla
corsa e dal buio di quel vicolo non era riuscita a vedere chiaramente
la persona che l'aveva costretta a quella fuga così
improvvisa e
confusa.
Ophelia
si divincolò in preda al terrore, gli occhi verdi sbarrati e
puntati
su quella figura che la costringeva a stare ferma con malagrazia,
riuscendo a vedere solo una massa di mossi capelli biondi.
In
tutto quel trambusto, l'unica cosa a cui pensò fu che quella
mattina
avrebbe dovuto mangiare la torta al cioccolato e fregarsene dei
brufoli che le sarebbero usciti l'indomani.
Tanto
non ci arrivo a domani,
pensò
con una sarcastica constatazione, abbastanza inadatta a quel
frangente.
Presa
però ancora dallo spavento continuò a
divincolarsi, senza
particolare successo, finché non riuscì a mordere
la mano che
continuava a coprirle la bocca. Sentì il sapore ferroso del
sangue
che le pizzicava la lingua e il ragazzo che emise quasi un ringhio di
dolore.
La
mano non si spostò, ma quell'attimo di debolezza fu
sufficiente per
strattonare un'altra volta e avere lo spazio per allontanarsi; fu
però ancora trattenuta al polso, mentre la bocca era
finalmente
libera.
Stava
per urlare, quando il ragazzo si girò con aria irata e il
fuoco
negli occhi.
«Vuoi
farti ammazzare? Stai ferma, cazzo!» sibilò a
bassa voce.
Ophelia
fu praticamente trapassata da un paio di occhi bianchi come la neve,
che di certo non si aspettava di vedere.
Si
stette finalmente ferma e iniziò a tremare come una foglia.
«Che
succede? Chi sei tu?» pigolò spaventata, mentre
sentiva le lacrime
pungerle gli occhi in maniera fastidiosa.
Il
ragazzo la guardò sprezzante con quegli occhi bianchi.
«Se
sopravviviamo te lo dico» fece ironico.
Ophelia
tacque di nuovo e cercò di ascoltare anche lei quello che
provava a
sentire il tizio. Ma purtroppo non udì nulla, neanche il
rombo di
una macchina – eh già, erano in una zona troppo
sperduta anche per
le auto.
«Merda!»
mormorò il ragazzo, facendola sussultare. Poi si
girò verso di lei.
«Ascoltami
bene, idiota: noi adesso ci spostiamo in silenzio,
per questo motivo tu dovrai stare assolutamente zitta,
d'accordo? E
non ti conviene
tentare di scappare, altrimenti ti mollo a quel bastardo che ti
farà
la festa e me ne laverò le mani. Sono stato
chiaro?» disse a bassa
voce, avvicinando il volto a quello della ragazza per farsi sentire
meglio.
Ophelia
non ebbe neanche la forza di rispondere, annuì a testa bassa.
«Bene»
mugugnò l'altro, lanciandole un'altra occhiata di
sufficienza con
quegli spaventosi occhi bianchi.
Dopo
che l'aria spaventata della ragazza ebbe convinto l'altro che non ci
sarebbe stato nessun tentativo di fuga, con cautela uscirono dal
vicolo – o, perlomeno, Ophelia fu trascinata fuori da esso,
per poi
iniziare di nuovo a correre su quei traballanti tacchi che le
facevano cedere ancora di più le gambe.
Subito
riprese a mancarle il fiato – doveva mettersi a fare un po'
di
esercizio fisico, non poteva rischiare di svenire per una corsa a
diciannove anni – ma continuò a correre,
più spaventata da cosa
avrebbe potuto farle quel ragazzo piuttosto che da quello che li
stava inseguendo.
Non
sapeva dove stavano andando e neanche per quanto avessero corso,
finché non sbucarono in una stradina e un'auto nera
inchiodò di
fronte a loro due, costringendoli a fermarsi bruscamente. Dal
finestrino mezzo abbassato una voce risuonò chiara.
«Salite!»
l'esclamazione imperiosa fece tremare Ophelia più di quanto
non
stesse già facendo, ma il ragazzo dagli occhi bianchi, senza
sorpresa, si lanciò sulla portiera, aprendola rude e
buttando tra i
sedili la povera ragazza sballottata da una parte all'altra.
L'odore
fresco e pungente di menta mischiata a quello più soffocante
del
tabacco le fece arricciare il naso, mentre un fianco iniziò
a
dolerle inseguito alla botta appena ricevuta.
«Parti»
il ragazzo disse quello mentre entrava di volata, ma non fu
necessario perché il guidatore stava già partendo
in quarta, senza
nemmeno aspettare che lo sportello fosse chiuso.
Ophelia
si ritrovò sbalzata in avanti dal movimento improvviso e fu
costretta ad appigliarsi al sedile del guidatore di fronte a
sé per
non farsi troppo male, ma così facendo il polso,
già malandato a
causa della stretta ferrea del tizio, dovette sopportare tutto il suo
peso, facendola gemere di dolore.
«Ancora
un po' e quel bastardo vi avrebbe preso entrambi»
La
voce, con tono canzonatorio, la richiamò alla
realtà e sollevò di
scatto lo sguardo, finendo per fissare colui che stava a fianco del
guidatore, girato verso i sedili posteriori e con un sorriso
sardonico sul volto pulito e uguale a quello del ragazzo che l'aveva
praticamente rapita. Al posto di un paio di occhi bianchi
però, ce
n'erano un paio castano-verdi che spostavano alternativamente lo
sguardo da lei all'altro tizio e viceversa. Quest'ultimo si
girò
imbufalito verso colui che aveva parlato – la cui voce,
Ophelia
l'aveva riconosciuta, era quella che gli aveva ordinato di salire
–
e lo guardò in malo modo, mentre la ragazza si stupiva di
non vedere
più gli occhi bianchi, ma un paio sempre castano-verdi,
uguali in
tutto e per tutto a quelli del nuovo arrivato, solo con una luce
incazzosa al posto di quella divertita.
«Taci
idiota»
«Non
trattare male Milly, Nicky» una terza voce, femminile,
intervenne,
rivelando la ragazza che vi era alla guida.
«Non
chiamarmi Nicky!»
«Non
chiamarmi Milly!»
Le
due voci, uguali, risposero in sincrono, irritate.
Ophelia,
ancora in una posizione scomoda, notò solo un vago movimento
con la
mano da parte della giovane.
«La
ragazza sta bene?» continuò imperturbata la
sconosciuta. Ophelia,
sentendosi chiamata in causa, smise di adocchiare la strada in cui si
trovavano – esattamente, dove si
trovavano?
- e fissò con occhi grandi e spaventati i due gemelli
– sì, lo
erano senza dubbio – che la osservavano.
«Sì»
rispose secco quel Nicky.
«Insomma,
sembra che stia per morire di infarto, ma tutto sommato non sembra
messa male» fu più esauriente Milly, osservandola
con curiosità.
Ophelia,
sentendosi osservata, si mise lentamente seduta composta, venendo
squadrata senza tregua dai due ragazzi. Cercando di evitare il loro
sguardo, finì per incrociare gli occhi anch'essi
castano-verdi della
giovane che guidava, la quale cercava di intravederla dallo
specchietto retrovisore.
Ophelia
deglutì, percependo il suo gesto fin troppo rumoroso.
«Potreste
spiegarmi chi diavolo siete?»
Le
parole stridule uscirono prima che potesse frenare la lingua. Subito
dopo si diede della stupida, pensando che se volevano quei tizi
potevano benissimo ucciderla e nascondere il suo cadavere da qualche
parte in cui nessuno l'avrebbe mai trovato.
Pensando
a tutti i modi in cui poteva finire allegramente a far compagnia ai
lombrichi sottoterra le venne un brivido di terrore e di disgusto.
I
tre non sembrarono toccati dal tono che usò, a
metà tra l'isterico
e il minaccioso.
«L'avevo
detto io che sarebbe stata una ragazzina molesta» disse con
tono
accusatorio sempre lo stesso Nicky, ignorandola su tutta la linea.
«Avanti
Domi, non la conosci nemmeno. Non sembra male»
cinguettò allegro
l'altro.
«Guardala:
già dalla faccia si capisce che è fastidiosa. E
poi mi spiegate
perché sono stato io quella a doverla recuperare? L'idiota
mi ha
pure morso!» continuò lamentoso quel Nicky, Domi,
o come cavolo si
chiamava, iniziando a sventolare la mano ferita su cui spiccavano
rossastri dei segni di denti.
«Tu
mi stavi quasi impedendo di respirare» intervenne furente
Ophelia,
stupendosi di partecipare a quella conversazione. Anche se sapeva che
poteva finire in un fosso da un momento all'altro, quei tre erano
talmente strani che si ritrovò a battibeccare anche lei come
se non
fossero dei totali sconosciuti che l'avevano appena rapita.
«Mi
sono pentito di non avertelo impedito del tutto» rispose
velenoso il
ragazzo.
«Avanti
Nicky, non essere così astioso. E non continuare a
spaventarla»
intervenne la ragazza, notando il pallore di Ophelia a sentire le
parole di “Domi”.
«Perché
invece di fare la mamma non mi spieghi perché il principino
ha
mandato noi a recuperarla e non ha mosso il suo regale culo? E non
tentare di trovare una scusa questa volta, Claire»
continuò il
solito, sbuffando come una teiera.
«Ti
sei risposto da solo, fratellino. È un principino, per
questo manda
noi cavalieri a recuperare le donzelle con cavallo, armatura e
spada»
ironizzò “Milly”.
«Se
continua così la spada gliela ficco su per il culo»
«Va
bene» interruppe subito Claire, senza spostare lo sguardo
dalla
strada «Rimanda il tuo adorabile turpiloqui a dopo tesoro, e
dai
qualche spiegazione a quella povera ragazza – a proposito,
com'è
che ti chiami?»
Ophelia
fu ritirata dentro la conversazione con la forza.
«Ophelia»
borbottò.
«Uh,
che nome adorabile» rispose deliziata Claire, lanciandole un
veloce
sguardo dallo specchietto.
«Perché
devo essere io a darle spiegazioni? Sono già stanco di tutta
questa
storia» rispose con voce isterica Domi.
«Dio,
fratellino, sembri una donna in piena fase mestruale» fece
sarcastico Milly in risposta.
«Se
non la pianti finisci in strada»
«Smettetela
entrambi. Cavolo, mi sembra di stare con due dodicenni invece che con
due adulti» si lamentò stanca la giovane ragazza
«E comunque sei
tenuto a darle spiegazioni in quanto sei stato tu a trascinarla fino
a qui» asserì convinta.
Domi
fece una faccia sconvolta.
«Io?
Io sono quello a cui dovrebbero essere date spiegazioni, dato che me
ne stavo tranquillo per i fatti miei finché quel coglione
non mi ha
trascinato via strillando come un invasato che dovevamo andare a
recuperare questa... Questa...» si interruppe, indeciso su
come
definirla.
Ophelia
gli lanciò un'occhiata irata.
«Se
voi volete darle spiegazioni bene, io non farò proprio
nulla»
E
con queste parole da bambino viziato, Ophelia vide il ragazzo
assumere un'espressione corrucciata e incrociare le braccia in un
angolo del sedile.
Sentì
chiaramente Claire sospirare esausta.
«Beh,
direi che a spiegarle tutto sarà direttamente Sargas, ormai
non c'è
più tempo» tubò allegro Milly,
guardando fuori.
Proprio
in quel momento Ophelia sentì l'auto accostare e il motore
spegnersi.
Guardò
fuori dal finestrino, cercando di riconoscere il posto, ma non
riuscì
a capire dove diavolo fosse finita. Fuori una sequela di edifici
tutti grigi e simili tra loro rendevano la strada monotona; c'erano
alcuni lampioni a illuminare la strada ma non erano sufficienti,
perciò il luogo oltre a essere monotono risultava anche
abbastanza
lugubre e desolato.
«Dove
siamo?» sussurrò, ormai certa che la stessero per
trascinare
nell'ennesimo vicolo, questa volta per soffocarla con una busta di
plastica.
«La
smetti con tutte queste domande?» berciò
infastidito il solito
Domi.
«Su
Domi, non farti saltare le coronarie» fece con falso tono
smielato
il gemello, ricevendo come risposta un dito medio molto chiaro.
«Da
qualche parte a New York»
Vanno
pazzi per le risposte esaurienti qui,
pensò sarcastica Ophelia, attenta a frenare la lingua questa
volta.
«Avanti,
scendete» ordinò Claire. Ophelia rimase immobile
mentre il ragazzo
affianco a lei apriva lo sportello e usciva. Dopo un paio di secondi,
rituffò la testa bionda dentro l'auto.
«Ti
sbrighi o vuoi rimanere qui tutto il giorno?» fece con tono
infastidito.
La
ragazza si precipitò fuori, rischiando quasi di rompersi
l'osso del
collo su quei maledetti tacchi e venendo investita da un venticello
notturno leggero ma gelido, che la costrinse a stringersi meglio
addosso il cappotto grigio scuro.
I
tre non l'aspettarono, andando sicuri verso l'edificio davanti a cui
si erano fermati. Ophelia si affrettò a seguirli, mantenendo
una
certa distanza e iniziando a frugare disperatamente nella borsa e
nelle tasche, alla ricerca di qualcosa che però sembrava
scomparso.
«Cerchi
questo?» chiese beffardo Domi.
L'odio
che cresceva nei confronti di quel ragazzo si mischiò alla
disperazione che provò nel vedere il suo cellulare nelle
mani
dell'altro, che lo faceva dondolare incurante del rischio che potesse
frantumarsi a terra.
Il
telefono, la sua unica e ultima speranza di poter essere salvata da
quei tre pazzi che con tutta probabilità l'avrebbero
smembrata e
sparso i suoi pezzetti in giro per la città – ok,
forse non doveva
esagerare in tal modo – comunque, il suo telefono era andato
nelle
mani di quel bastardo che continuava a ridersela di fronte alla
reazione di Ophelia, che era sbiancata.
«Domi»
lo richiamò il gemello, ridacchiando di fronte alla scena
«Avanti,
smetti di giocherellare con lei e muoviti a entrare. Anche tu,
sbrigati»
Domi
si limitò a scrollare le spalle, ancora ridendo, poi si mise
il
cellulare in tasca e la precedette mentre il gemello attendeva che
Ophelia uscisse dalla trance in cui era entrata e camminasse. Lei, in
risposta, più che camminare si trascinò verso di
loro come una
condannata a morte, intravedendo Claire che stava già
entrando
dentro l'edificio senza attenderli.
Non
provava nemmeno a scappare, consapevole che sarebbero riusciti a
riprenderla senza troppi sforzi, ma un lato della sua mente, non
sapeva se quello più incosciente o quella più
ragionevole, le
diceva di correre via perché, d'altro canto, c'era qualcosa
di più
che strano in loro, in primis in quel diavolo di Domi che poco prima
aveva gli occhi bianchi e l'attimo dopo di un normalissimo
castano-verde.
In
qualche modo anche la curiosità la spronò a
seguirli perché si era
resa conto che quei tizi non l'avevano rapita a caso, ma ero decisi a
prendere proprio lei.
Arrivò
di fronte all'edificio ed entrò prima di Milly, che gli
apriva con
galanteria la porta – certo, galanteria, per non dire
“così
evitiamo gesti scemi da parte tua” che sarebbe stato brutto.
Si
ritrovò in una stanza di medie dimensioni, completamente
spoglia;
nonostante ciò il pavimento a scacchi era lindo e ci si
poteva quasi
specchiare. Non vi erano porte di sorta, escludendo quella da cui
erano appena entrati, solo un ascensore, il cui pulsante veniva
premuto più volte da Claire, rischiando di venir frantumato.
«Guarda
che non arrivi prima se lo rompi» disse Domi, inarcando un
sopracciglio in direzione della ragazza e poi un'occhiata di
diffidenza per Ophelia, appena arrivata con l'altro gemello.
È
diffidente? LUI è diffidente? Sono io qui quella che non
capisce che
cazzo succede,
pensò isterica.
Ma
non disse nulla manco questa volta e dopo pochi secondi le porte
dell'ascensore si aprirono, rivelando uno spazio di tre metri per
tre, ricoperto di moquette blu e con una fastidiosa canzoncina che
proveniva da degli altoparlanti.
Fu
spinta dentro da Milly – a quanto pare la delicatezza era
qualcosa
che avevano in comune i due gemelli – ma non
riuscì a vedere che
pulsante avesse premuto Claire, in quanto era stata relegata
nell'angolo opposto e a malapena vedeva la porta coperta com'era dai
due ragazzi che, notava solo ora, erano fin troppo alti.
In
quei due minuti di ascensore, nel quale sentiva vagamente i due
ragazzi riprendere a battibeccare come al solito, riuscì
finalmente
a osservare bene i tre rapitori.
I
due ragazzi, due gocce d'acqua, con medesimi capelli biondi e
carnagione dorata, si distinguevano fondamentalmente per il taglio di
capelli, un poco diverso, e l'atteggiamento anch'esso per certi lati
differente: Ophelia coglieva in Milly meno cattiveria rispetto a
Domi, i cui cinque canonici minuti di incazzo sembravano non finire.
Erano comunque entrambi molto alti e con un fisico che sembrava
allenato, anche se non poteva vedere più di tanto dalle
felpe che
ambedue indossavano.
La
ragazza, Claire, era alta anch'essa, con un fisico longilineo e
lunghi capelli neri nei quali spiccavano ciocche verde elettrico che
facevano contrasto con la carnagione dorata uguale a quella dei due.
Ophelia
guardò il fisico dell'altra con una smorfia, osservando i
vestiti
aderenti che mettevano in evidenza la belle curve.
Ma
che cazzo, pure i rapitori-modelli mi dovevano capitare,
pensò sconsolata, pensando che forse aveva fatto bene a non
mangiare
la famosa torta al cioccolato.
La
porta si aprì con un lieve suono, interrompendo le
elucubrazioni di
Ophelia ma non le battutine dei due.
«...avrei
potuto ammazzarlo quando volevo!» berciava Domi con la
perenne aria
irata. L'altro rideva sarcastico.
«E
perché ti sei fiondato sull'auto allora?» lo
pungolava.
«Sai
che ansia dovermi togliere poi il sangue dalla maglia. E poi quella
tizia mi sarebbe svenuta davanti e l'avrei dovuta portare in braccio.
Ma anche no»
Ophelia
iniziò a sudare freddo.
Ok,
l'avrebbero uccisa, lo sapeva.
«Mi
state facendo venire il mal di testa, sembrate due oche
starnazzanti»
sibilò Claire.
«Senti
chi parla» la pungolò Domi «Sei peggio
di noi, sorellina»
Claire
gli lanciò un'occhiataccia mentre Ophelia sobbalzava.
“Sorellina”,
beh, alla fine non era stupita più di tanto.
Evviva,
era incappata in tre fratelli serial killer.
La
paura che si era attenuata riprese a farla tremare mentre veniva
condotta dai tre per corridoi, porte e scale senza un apparente
ordine preciso.
Passarono
di fronte a porte dalle quali si sentivano alcune voci e se Ophelia
non urlò fu solo perché il solito Domi le
lanciò un'occhiata
lampeggiante e perché sarebbe potuta cadere dalla padella
alla
brace.
Quando
Ophelia si iniziò ad accorgere che non c'era neanche una
finestra in
quel posto – erano sottoterra per caso? - si dovettero
fermare di
fronte all'ennesima porta. Claire non bussò nemmeno,
aprì la porta
senza troppi convenevoli ed entrò; i due ragazzi invece si
premurarono di spingere anche questa volta Ophelia dentro.
Dopo
l'ennesima spinta però Ophelia cadde come rischiava di fare
da ore:
un tacco le si impigliò da qualche parte e rotolò
a terra con
pochissima grazia, sbattendo dolorosamente un ginocchio e causando le
risate incontrollate dei soliti gemelli.
Viola
dalla vergogna, Ophelia si risollevò e alzando lo sguardo
finì per
incrociare quello di un ragazzo che, appoggiato mollemente su una
scrivania, la guardava con le braccia incrociate e un sopracciglio
inarcato.
«Davvero,
Sargas, non capisco perché volessi assolutamente che ti
portassimo
questa tizia» Milly ruppe il silenzio creatosi osservando il
bel
ragazzo che continuava a fissare Ophelia.
Quest'ultima
si sollevò traballante, non osando ricambiare lo sguardo e
lanciando
solo veloci occhiate di sottecchi a quel Sargas, ritrovandosi a
considerare che lì sembravano tutti fatti con lo stampino.
Com'era
possibile che fossero tutti così belli? Si sentiva fuori
luogo!
Le
occhiate lanciate furono sufficienti per notare i corti capelli
corvini che gli incorniciavano il volto pallido dall'espressione
improvvisamente corrucciata e gli occhi blu cupo che la squadravano
in maniera sfacciata dalla testa ai piedi.
Ma
la sorpresa che provò in quel momento Ophelia non fu data
tanto
dalla bellezza del tipo, bensì dal vedere un ragazzo legato
e
imbavagliato su una sedia all'angolo della stanza, un ragazzo che
riconobbe subito dai riccioli castani.
Sbiancò.
«Matthew?»
|
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Capitolo 2 *** Capitolo due ***
Salve,
lettori e lettrici di EFP!
Dopo
quasi due settimane di assenza, ecco il nuovo capitolo di questa mia
originale. Era pronto già da alcuni giorni, ma dovevo dargli
una
sistemata e correggere alcune incongruenze, quindi mi ci è
voluto
qualche giorno in più.
Anche
questo capitolo, come l'altro, non spiega granché della
storia;
anzi, credo che confonda ancora di più. In ogni caso tutto
sarà più
chiaro con il resto dei capitoli, in cui le informazioni saranno date
pian piano per creare un po' di suspense.
Spero
vi intrighino i personaggi e anche che non li troviate troppo banali,
però li conoscerete meglio con l'andare della storia.
Ho
notato che il primo capitolo non ha riscosso tanti commenti, ma in
ogni caso spero che qualcuno apprezzi anche il secondo capitolo di
questa storia a cui tengo particolarmente. Mi piacerebbe tanto che
qualcuno mi dicesse un suo parere, qualunque esso sia, per poter
migliorare o anche per spronarmi a continuare a scrivere, ma
ringrazio comunque anche chi si limita soltanto a leggere!
Alla
prossima!
~Sapphire
NOTE:
non so se qualcuno di voi coglierà il riferimento agli occhiali
di Maya*, comunque sia il nome è riferito al
“velo di Maya”
di Schopenhauer.
~Dirty
Blood
Capitolo
due
La
situazione stava sfiorando i limiti dell'assurdo e, purtroppo, non
parevano esserci miglioramenti all'orizzonte.
Va
bene – più o meno – essere quasi
stuprata, va bene anche essere
“salvata” e portata in un luogo sconosciuto da tre
pazzi con
occhi multicolori, ma, davvero,
perché il suo ragazzo si trovava legato e imbavagliato su
una sedia,
con un grosso taglio sulla fronte da cui continuava a scendere
copiosamente sangue?
«Mathias?»
ripeté balbettando Ophelia, per poi iniziare a tremare
nuovamente
terrorizzata.
«Sarebbe
più corretto chiamarlo Aragorn» disse flemmatico
quel ragazzo
sconosciuto – pareva si chiamasse Sargas, giusto?
Ma
quella che voleva essere un'informazione pacifica, perlomeno da parte
di lui, non fu altro che la goccia che fece definitivamente
traboccare il vaso. In questo caso il vaso era Ophelia, la quale
iniziò a strillare al principio di una crisi isterica.
«Si
può sapere che cazzo succede?!
CHI SIETE VOI? Perché ci avete portato qui? Che avete fatto
al mio
ragazzo?» urlò, iniziando a piangere.
Mathias
iniziò a divincolarsi, cercando inutilmente di slegarsi e
ottenendo
solamente un violento colpo alla nuca da Milly, che lo fissava con
curiosità.
«Uh,
gli hai applicato un sigillo?» chiese voltandosi verso il
moro e
ignorando su tutta la linea la povera Ophelia che si
accasciò al
suolo, pallida come se stesse per svenire da un momento all'altro.
Cosa molto probabile, d'altronde.
«Ovvio.
Anche se non so quanto sia necessario, è così
debole che mi fa
ridere»
Ophelia
in quel breve scambio di battute si sentì chiaramente
svenire e il
busto le cedette per un attimo, crollando in avanti, e si sarebbe
fatta male se non fosse stato per Claire che la afferrò
appena in
tempo; la mora le diede qualche piccolo schiaffo sul viso, cercando
di farle riprendere colore. Ophelia sentì il sangue riprende
a
fluire, poi continuò a piangere.
«Sargas,
non credi sia il caso di dirle qualcosa? Questa poveretta fra un po'
sviene seriamente» bofonchiò con aria preoccupata
Claire, cercando
di tirare su Ophelia e facendo ondeggiare la chioma scura sui fianchi
lasciati scoperti dal top nero.
Con
fatica la fece alzare in piedi, per poi trascinarla su una poltrona
posta affianco alla scrivania; il corpo di Ophelia si
afflosciò
sulla pelle nera, i capelli lisci spettinati e gli occhi messi in
ombra dalla frangia.
«Che
rottura» intervenne Domi.
«Potresti
non lamentarti per cinque minuti? Grazie» fece ironica Claire.
«Non
lamentarmi? Sono stato trascinato in questa situazione senza neanche
averlo chiesto!»
«Ti
ricordo che è il tuo lavoro»
«Non
mi pare che il mio lavoro sia andare a recuperare ragazzine
isteriche» continuò a battibeccare Domi, mentre
Milly osservava la
situazione ridendo e senza preoccuparsi di nasconderlo.
«Claire,
Dominik: smettete di litigare. E tu, Maximilian, invece che ridere
porta gli occhiali di Maya» intervenne gelido Sargas.
A
Ophelia, non ancora del tutto ripresa, sembrò che
più che
arrabbiato il moro fosse tremendamente annoiato dalla situazione. A
malapena si accorse che Max (finalmente il nomignolo acquisiva un
senso!) uscì dalla stanza con aria annoiata, lasciando il
gemello a
sorvegliare scazzato quello che pareva essere un vero e proprio
prigioniero.
Ma
la ragazza si ridestò sentendo un gemito da parte del suo
ragazzo.
Sollevò lo sguardo verso di lui, gli occhi che si colmavano
di nuovo
di lacrime osservando i riccioli scuri bagnati di sangue e gli occhi
vitrei. Nonostante si fissassero negli occhi, Ophelia si accorse di
non cogliere nessuna preoccupazione da parte dell'altro: la fissava
con odio e, quando la ragazza balbettò il suo nome,
iniziò a
divincolarsi nuovamente senza successo.
Dominik,
di fronte allo sguardo scioccato dell'altra, lo afferrò
violentemente per i capelli e gli portò indietro la testa,
facendogli torcere in malo modo il collo.
«Vedi
di stare fermo, bastardo, mi stai irritando»
soffiò freddo, per poi
lasciarlo andare. Si guardò poi la mano, macchiata di
sangue, e
sbuffò infastidito.
«Che
volete da noi?» sussurrò Ophelia, stremata. Le sue
parole erano
così basse che Dominik, dall'altra parte della stanza, a
malapena la
sentì.
Sargas
le lanciò un'occhiata, osservando come si fosse spenta
all'improvviso senza più lacrime da versare, con l'amara
luce negli
occhi di chi si arrende all'impossibilità di cambiare la
situazione.
«Da
lui niente, è solo un incidente di percorso»
rispose freddo il
moro. Ophelia sentì un fastidioso nodo alla gola.
«E
da me?» sussurrò, temendo la risposta.
Una
risposta che però non arrivò in quanto l'altro
tacque, limitandosi
a fare un cenno a Claire. Quest'ultima allora si avvicinò di
nuovo a
Ophelia, accucciandosi di fronte a lei e fissandola con i grandi
occhi castano-verde; ma lo furono solo per un attimo poiché,
come a
causa di uno strano gioco di luci, le iridi cambiarono colore
diventando bianche come la neve, distinguendosi comunque dal resto
dell'occhio.
Ophelia
rimase ipnotizzata da esse: fissandosi dritte l'una nello sguardo
dell'altra poté osservare accuratamente quel misterioso
evento che
aveva colto anche in Dominik ma che aveva pensato fosse solo
un'allucinazione. E per un attimo pensò che anche in quel
momento si
trattasse di una cosa del genere, ma tutto era troppo reale per
scambiarlo per una fantasia.
Le
folte ciglia nere rendevano ancora più pungenti gli occhi,
che però
conservavano una particolare dolcezza nello sguardo candido nel quale
la pupilla nera spiccava come uno spillo.
Il
viso le si addolcì ulteriormente quando sorrise e lentamente
le
prese le mani – era Claire ad avere le mani bollenti o erano
le sue
a essere fredde come il ghiaccio? - stringendole con delicatezza.
All'improvviso,
Ophelia sentì il grande masso che aveva dentro di
sé alleggerirsi;
era sempre lì, l'ansia e la paura non scomparivano del
tutto, ma la
sua mente si schiarì dalla nebbia fitta che fino a un
istante prima
l'avvolgeva e si rilassò, osservando la situazione con
lucidità. La
cosa comunque non fu molto utile, perché si accorse ancora
di più
della gravità della situazione – lei portata
lì contro la sua
volontà e il suo ragazzo picchiato e legato – ma,
nonostante ciò,
la sensazione di calma non scomparve, come se le fosse stato fatto un
incantesimo.
La
porta si riaprì con uno scatto e Max tornò
dentro, in mano un paio
di occhiali dalle vistose lenti viola. Le consegnò a Sargas
sotto lo
sguardo attento di Ophelia che aveva abbandonato la sicurezza degli
occhi di Claire per osservare che succedeva.
Il
ragazzo le prese con delicatezza per poi avvicinarsi a Ophelia. Non
si chinò come aveva fatto Claire, ma la squadrò
dall'alto, e sotto
il suo sguardo la ragazza si pietrificò. Visto a quella
così breve
distanza Ophelia riusciva ad ammirarne ancora di più la
bellezza, il
viso perfetto privo di sensibilità.
Si
era contrapposto alla luce che proveniva dal lampadario –
lì
dentro non c'erano finestre ad illuminare con la luce naturale, anche
se sarebbe stato inutile considerando che ormai doveva già
essersi
fatto buio – e così facendo aveva coperto la
giovane con la
propria ombra.
Si
sentì completamente oscurata, e non solo dal punto di vista
fisico.
Sargas quasi la schiacciava con la sua presenza fastidiosamente
imponente.
«Indossali»
ordinò solo, porgendole gli occhiali.
Il
distacco dalle mani di Claire fu quasi doloroso, ma la sensazione di
calma non l'abbandonò del tutto sotto lo sguardo attento
della mora.
Li
prese in mano, osservandoli: avevano una montatura dorata, antica e
datata dal tempo, ma sempre luccicante e le lenti, notò
meglio
Ophelia, variavano la sfumatura di viola a seconda della luce.
Con
cautela li indossò, per poi sentirsi una stupida ad aver
paura di un
paio di occhiali: cosa le avrebbero potuto fare d'altronde?
All'inizio
non colse alcuna differenza se non il violetto che avvolgeva ogni
cosa, poi si rese conto dell'aurea bianca, quasi argentea, che si
espandeva dai corpi dei quattro astanti. Ma fu altro che la
spiazzò.
Un
gemito strozzato le sfuggì dalla bocca, per poi coprire
quest'ultima
con una mano, scioccata e terrorizzata al tempo stesso.
Mathias
– o almeno, quello che fino a poco prima aveva le sue
sembianze –
non era più lui: al suo posto vi era una strana creatura
dalla pelle
fatta come di cuoio, grigia e opaca. La testa completamente calva
ricoperta di incisioni e simboli rossi, la bocca dalle labbra
inesistenti e gli occhi completamente blu, senza iridi, pupilla o
altro. Era talmente magro da sembrare uno scheletro ricoperto di sola
pelle.
«Ma
che cazzo...» le sfuggì, shockata all'inverosimile.
No.
Non poteva essere vero. Quella cosa non poteva
essere vera.
Doveva star
avendo le visioni,
non si poteva spiegare in altro modo una cosa del genere.
«Delizioso,
non trovi?»
Il
tono ironico di Dominik la risvegliò dalla trance in cui era
caduta
e terrorizzata si tolse gli occhiali, lanciandoli via sotto lo
sguardo spaventato di tutti.
Max
li afferrò appena prima che si schiantassero in terra,
evitando un
disastro.
«Ma
sei fuori di testa? Questi valgono più di te!» le
sibilò proprio
Max, tenendo con cautela il prezioso oggetto e allontanandosi da
Ophelia come se questa potesse alzarsi all'improvviso e romperglieli
apposta.
Ma
la ragazza, non sentendolo nemmeno, iniziò a strillare di
nuovo.
«Che
cazzo era?! Che cosa è successo?! Mi avete
drogata!» iniziò a
blaterare partita nuovamente di testa.
«Ma
perché non la sediamo?» fu l'allegra proposta che
Dominik fece con
sguardo disgustato.
«Sono
d'accordo con lui» fece Max.
«Ma
perché non siete un po' più
comprensivi?» rispose a tono la
sorella.
«Ma
perché non state tutti zitti?» fu il glaciale
commento di Sargas
«Pure tu. Se non la smetti di strillare come un'invasata,
Aragorn
sarà l'ultima cosa di cui ti dovrai preoccupare»
sibilò in
direzione di Ophelia, che si sentì di nuovo svenire.
«Grazie
tesoro, bell'aiuto. Io sto qui cercando di farla calmare e tu fai
queste fantastiche sparate» disse acida Claire.
Afferrò ancora la
mani tremanti della ragazza che si sentì di nuovo
tranquillizzata,
anche se rimaneva comunque un fascio di nervi.
Sargas
la ignorò.
«Allora...»
si interruppe.
«Ophelia»
gli suggerì Claire sottovoce.
«Ophelia»
ripeté il moro, per nulla scalfito «Come hai
appena visto, Mathias
non è quello che credi. Se è per quello, nemmeno
tu lo sei. Mi
spiace informarti che hai vissuto tutta la vita in una bugia»
iniziò.
Ophelia
impallidì per l'ennesima volta.
«Ma
sei un idiota? Davvero, c'è da farti un applauso per come
sei bravo
a interagire con le altre persone» fece sarcastica Claire. In
sottofondo, i due gemelli ridevano.
«Come
glielo dovrei dire, scusa?» la guardò Sargas,
iniziando a
spazientirsi.
«Con
un po' più di tatto magari. Ops, scusa, dimenticavo che
l'hai perso
con la simpatia»
Sargas
le lanciò uno sguardo gelido.
«E
fra un po' perderò anche la pazienza» fece un
sorriso glaciale e
Ophelia, ancora sconvolta, pensò vagamente che quella fu la
prima
vera espressione che gli vide fare.
«Cosa
intendi?» fece con la voce spezzata.
Nella
sua testa, una parte di lei cercava di riprendere il controllo del
suo corpo e delle sue emozioni.
Doveva
stare calma, urlare in maniera isterica non sarebbe servito a niente;
inoltre, se ci ragionava con più lucidità, quei
tre non le avevano
fatto del male e non sembravano decisi a farlo, nonostante le
frecciatine di Dominik. Era strano e si sentiva una sciocca ingenua a
pensarlo, ma forse quei tizi non erano contro di lei. In fondo
avrebbero potuto ucciderla o farle del male molto prima, invece
sembravano volerla in qualche modo aiutare – anche se non era
sicura che Dominik fosse d'accordo.
«Intendo
che non hai mai saputo la verità riguardo ciò che
sei e che ti
abbiamo portato qui proprio per mostrartela»
continuò Sargas.
Ophelia
rise acida, riprendendo piano il controllo di sé stessa.
«Uh,
davvero? E cosa dovrei essere allora? Se mi dici come lui uccidetemi,
non lo sopporterei» fece con velata ironia.
Ormai
non considerava più quel Mathias come il suo ragazzo. Lo
guardava e
vedeva solo quella creatura spaventosa. Un distacco emotivo stava
avvenendo in lei per farle mantenere un briciolo di sanità,
come
accadeva al seguito di ogni abbandono che viveva.
Si
conosceva: prima prendeva la situazione sullo scherzo, poi usciva di
testa, infine diventava dura come l'acciaio, impedendo a tutto e a
tutti di scalfire la corazza che si creava per sopravvivere
emotivamente.
«Se
fossi stata come lui non saremmo venuti a cercarti o, in caso, ti
avremmo ucciso subito» disse incolore Sargas.
Dentro
di sé, Ophelia tirò un piccolo sospiro di
sollievo.
Allora
non vogliono uccidermi,
pensò.
«Quindi
non volete uccidermi?» cercò una conferma.
«No»
Ed
ecco la prima bella notizia della giornata.
«Allora
volete torturarmi?» chiese. Non sapeva come stesse riuscendo
a porre
quelle domande con una tranquillità del genere; fino a pochi
minuti
prima era in piena crisi isterica.
«Non
vogliamo farti del male in nessun modo» tagliò
corto Sargas,
spazientito.
«Parla
per te» bofonchiò Dominik nelle retrovie.
«Siamo
qui per aiutarti. So che potrebbe non sembrare così, ma,
davvero,
non devi temerci» interloquì Claire morbida. La
mora le sfiorò i
capelli color miele, prendendole con delicatezza una ciocca e
giocherellandoci.
«Va
bene» disse solo Ophelia.
In
fondo, cos'altro avrebbe potuto fare? Anche se tutta quella fosse
stata una menzogna, di certo non sarebbe potuta fuggire: l'avrebbero
ripresa senza il minimo sforzo e inoltre non era sicura di sapere la
strada per uscire da quel labirinto.
Notò
gli sguardi straniti dei quattro, ma non nessuno commentò.
Era
meglio che rimanesse tranquilla.
«Quindi
ora che si fa?» chiese Max.
Già.
Che si faceva?
«Non
dovresti avvertire Lisander?» domandò Claire.
«Mio
padre è a Bucarest con Morgana, non ho modo di contattarlo.
Il
bastardo ha lasciato me a gestire i suoi problemi»
borbottò Sargas
con un vago cenno in direzione di Ophelia.
Ah,
quindi era pure un problema ora?
«Lasciamola
da qualche parte e aspettiamo che tuo padre torni, poi se ne
occuperà
lui» disse Dominik.
«Allora
potremmo anche aspettare in eterno» bofonchiò
Claire, alzandosi ma
non lasciando andare la mano di Ophelia che aveva ripreso. La bionda,
del canto suo, non voleva lasciargliela: sembrava che avesse lo
strano potere di tranquillizzarla.
«E
lui?» chiese ancora Max, indicando invece Mathias –
o Aragorn, o
qualsiasi altra cosa fosse.
«Lo
uccidiamo» risposero in coro gli altri tre.
Ophelia
impallidì.
«Cosa?»
Sargas
le lanciò un'occhiata di sufficienza.
«Beh,
a patto che tu non voglia continuare a starci» disse melenso.
L'apatia
sembrava averlo abbandonato, per lasciar spazio a delle emozioni
più
umane.
«Ma...»
iniziò la ragazza «Non potete uccidere una
persona!»
«Ti
sembra una persona quella?»
Ophelia
tacque.
«Se
non è una persona, allora cos'è?»
chiese.
Il
silenzio cadde nella stanza.
«È
lungo da spiegare» disse Sargas, e i suoi occhi aggiunsero
“e io
non ho voglia di spiegartelo”.
«Abbiamo
tempo no?»
«No»
fece secco Dominik, alzandosi di scatto.
«Se
qui abbiamo finito io vado, ho una partita in sospeso con Abel e quel
bastardo l'ultima volta mi ha fatto tornare in mutande, devo
prendermi la rivincita» disse rapido, praticamente correndo
verso la
porta.
«Prima
di correre via, tu e Max occupatevi di questo tizio» lo
bloccò
Sargas. Il biondo fece una smorfia, ma senza dire niente
tornò
indietro e insieme al fratello costrinse il tizio a mettersi in
piedi, slegandolo dalla sedia.
Mathias
cercò di fuggire, ma i due gemelli lo afferrarono per le
braccia e
gliele torsero, costringendolo a seguirli.
«Beh,
ci si vede» disse con un sorriso Max e, senza che Dominik
aggiungesse nulla, si dileguarono.
«Dove
lo stanno portando?» fece preoccupata Ophelia.
«Non
credo tu lo voglia sapere. E poi dimenticati di quello lì,
era solo
un mostro che ti stava ingannando per prenderti gli occhi»
rispose
Claire.
«Cosa?»
«Perfetto:
Claire, occupati di lei. Portala da qualche parte, spiegale il
necessario e poi domani faremo qualcosa. Ti avviso stasera» e
senza
aggiungere altro, anche il moro prese il volo.
«Evviva»
fece sarcastica Claire, ma vedendo l'improvviso sguardo spaesato
dell'altra sospirò.
«Andiamo»
disse solo, e Ophelia abbassò gli occhi.
E
adesso?
Abel
Houbraken non era un tipo molto paziente.
Per
questo quando Dominik – il caro, dolce, bastardo Dominik
– arrivò
dopo più di un'ora di attesa, sentì l'istinto
omicida che si faceva
strada in lui.
«Finalmente.
Iniziavo a pensare che gli strozzini mi avessero fatto un favore e ti
avessero finalmente accoppato» soffiò sarcastico.
«Muori»
fu il felice augurio che gli venne di risposta.
Lo
squadrò in silenzio. Beh, Domi non era di certo un tesoro di
simpatia, ma doveva aver avuto una brutta giornata se si limitava a
borbottargli “muori” – senza scalfirlo
minimamente, ovvio – e
a sedersi con malagrazia nella sedia dall'altra parte del tavolino.
Dopo
un paio di secondi arrivò anche Maximilian, con il solito
sorriso
divertito stampato in faccia, che prese un'altra sedia e si mise a
cavalcioni vicino al fratello.
«Magari
un'altra volta» disse poi Abel «Deduco tu abbia
avuto una
bellissima giornata»
Dato
che il fratello non accennava a rispondere, ma si limitava solo a
fare un cenno all'uomo dietro il bancone, Max intervenne.
«Sargas
ci ha spedito a recuperare una ragazzina isterica»
«Ma
dai. E chi sarebbe?»
«Una
da sopprimere» rispose velenoso Dominik.
«Adorabile»
commentò il ragazzo.
Lanciò
poi uno sguardo al locale: lo Spectrum era ancora mezzo vuoto, in
fondo era ancora presto per la vita notturna tipica del posto. Si
sentì perciò autorizzato a parlare senza il
rischio di orecchie
indiscrete, complice il fatto che gli altri giocatori dovevano ancora
arrivare – com'è che tutti si stavano prendendo il
brutto vizio di
arrivare in ritardo? Il poker era una cosa seria!
«Non
sapevo che Sargas fosse il tipo da ragazzine isteriche»
continuò
versandosi altro gin nel bicchiere vuoto. E tanti saluti se era a
stomaco vuoto.
«Sargas
è un tipo da prendere e sbattere al muro»
«Ignoralo,
è arrabbiato perché ha mandato noi a recuperare i
suoi affari»
«Che
affari?» chiese con nonchalance.
«Cazzi
nostri» rispose con la solita delicatezza Dominik,
accendendosi una
sigaretta e sbuffandogli il fumo in faccia. Abel scrollò le
spalle,
accedendosela a sua volta.
«Era
solo per fare conversazione» rispose placido.
«Immagino»
rispose sarcastico il biondo.
«E
Amadeus come se la passa?» chiese Max.
Abel
fece una smorfia sentendo nominare il suo capo.
«Lasciamo
perdere, sono giunte voci di strani traffici di Omega e dei Grigi
sono andati a fargli una sorpresina. Poi si è attaccato alla
bottiglia e non so che fine abbia fatto»
«Ma
dai, chi ha fatto la soffiata?» tubò Max,
divertito al massimo.
«Che
ne so, stanno sospettando di quei viscidi francesi che stanno
cercando di farci lo scalpo da un po', ma non abbiamo prove»
rispose
Abel annoiato, senza tentare nemmeno di nascondere gli effettivi
traffici del suo collega. Tanto sapeva che prima o poi sarebbe uscito
fuori qualcosa, se da parte dei francesi o di altri non gliene
importava. Omega gli stava pure sul cazzo.
«Rapite
un francese e fatelo cantare, no? Di certo Amadeus saprà
come farlo»
fece ironico Max.
«Non
so, non che me ne importi a dire il vero» rispose annoiato
Abel.
Poi,
senza dire una parola, vide Dominik attaccarsi al bicchiere e non
staccarsi più.
Sorrise
vedendo entrare nel locale Clay e Drake.
«Smettiamo
di parlare di lavoro. Siamo qui per giocare no?»
Dominik
ghignò.
«Siamo
qui per farti il culo» fece melenso.
Abel
rise. Beh, in fondo poteva sempre provarci.
Il
suono del traffico giungeva lontano alle orecchie di Sargas Van
Middlesworth.
Di
lontane origini inglesi e tedesche, era l'unico discendente di
Lisander Van Middlesworth, uomo dai troppi anni e dalle troppe
amanti, che preferiva dedicarsi alla fidanzata di turno piuttosto che
al figlio.
Ma
Sargas non veniva toccato dal comportamento del padre, piuttosto era
infastidito che gli avesse lasciato una patata bollente tra le mani
senza dargli ulteriori informazioni.
Non
sapeva cosa fare con quella ragazzina!
«Quando
torna lo uccido» sibilò tra sé,
accartocciando la lettera che gli
era stata lasciata dove Lisander, con il solito imperioso modo di
fare, gli ordinava di andare a recuperare una ragazza. Una ragazza
che non aveva mai sentito nominare.
Aveva
solo una foto di lei – che non sapeva come era finita nelle
mani
del padre, ma non gli interessava – e dietro c'era scritto
solo
NYC.
Sospirò,
sedendosi sulla poltrona di fronte alla portafinestra. Gli occhi
vagavano nel buio della stanza, rischiarata di poco dalle luci della
città che filtravano attraverso la tenda sottile, ma per lui
non era
un problema l'oscurità, grazie ai suoi occhi bianchi avrebbe
visto
sempre e comunque.
Si
accese una sigaretta, per poi massaggiarsi la testa sentendo pulsare
le tempie.
Era
stanco.
Aveva
sprecato giorni cercando di rintracciare quella ragazzina –
com'è
che si chiamava? Giusto, Ophelia – sembrava introvabile! E
poi
quando l'aveva finalmente raggiunta e osservata si era reso conto di
come fosse... normale. Aveva cercato di cogliere
qualcosa in
lei, ma non aveva sentito nulla. Forse si aspettava chissà
che cosa,
specialmente da come il padre la volesse a tutti i costi e da come il
suo ragazzo – toh, che casualità! - in
verità fosse un disgustoso
Deviato mutaforma che sembrava attendere il momento giusto per
avventarsi su di lei.
C'era
qualcosa in lei, anche se ancora non sapeva cosa
esattamente.
All'improvviso
lo specchio appeso nel muro affianco alla porta si illuminò
di un
vago bagliore, attirando il suo sguardo, poi si fece come liquido e
sbucò un foglietto rettangolare che cadde a terra con un
fruscio
appena percettibile.
Con
un vago movimento della mano quel biglietto planò verso di
lui.
Lesse
le poche parole scritte con grafia frettolosa disordinata per poi
fare una smorfia.
A
Ophelia avrebbe pensato in un altro momento, ora aveva altre cose a
cui pensare.
|
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Capitolo 3 *** Capitolo tre ***
E
rieccomi qui!
Questa
volta l'attesa è stata moooooolto lunga. Poco più
di due mesi. Mi
dispiace tanto.
A
dire la verità il capitolo era quasi finito da molto tempo,
mancava
un'ultima parte, ma tra scuola, studio, scuola, studio e di nuovo
scuola, i pochi momenti liberi li passo praticamente a non far nulla
che implichi uno sforzo mentale di un certo livello. E per quanto
scrivere sia per me rilassante e piacevole, devo comunque pensare a
come sviluppare la trama.
Non
posso promettere che il prossimo capitolo arriverà a un
minor lasso
di tempo, anche se mi sto già mettendo a scrivere,
perché
quest'anno la maturità chiama e non ho esattamente una
grande
quantità di tempo libero.
Che
dire, spero che questo capitolo possa piacere, anche se non mi lascia
molto convinta.
Mi
fareste un grande piacere se lasciaste un commento, di qualsiasi
tipo, in modo da aiutarmi a migliorare o, perché no, dirmi
qualcosa
che possa farmi piacere! Non scrivo per ricevere commenti, ma ammetto
che mi farebbe piacere riceverne.
In
ogni caso, buona lettura e alla prossima!
~Sapphire_
~Dirty
Blood
Capitolo
tre
Quando
Ophelia aprì gli occhi, la prima cosa che sentì
fu un'atroce fitta
alla testa, un dolore tanto forte da farle pensare che gliela
stessero aprendo in due.
Fece
una smorfia mentre socchiudeva gli occhi, infastidita dalla luce del
sole che invadeva la stanza che non riconosceva, e lentamente si
sollevò dal letto in cui si trovava, sentendosi gli occhi
gonfi e
tutto il corpo indolenzito. Indossava ancora gli abiti del giorno
prima, non si era tolta neanche il cappotto.
Rapido
e implacabile, il ricordo della serata precedente le trafisse la
mente prima che potesse pensare a qualsiasi altra cosa: il rapimento,
i quattro sconosciuti, Mathias...
Sospirò
e si guardò intorno.
Era
in una camera da letto piuttosto ampia, in cui il letto a due piazze
su cui stava troneggiava imponente con le sue coperte verde scuro.
C'era una grande finestra dalle tende scostate da cui entrava forte
la luce del mattino, una scrivania di legno con di fronte una sedia e
un armadio chiaro. Del resto, la stanza risultava piuttosto spoglia.
Si
ritrovò a guardarsi attentamente attorno, cercando di
memorizzare
ogni minimo dettaglio.
La
sera prima non era stata molto attenta, presa com'era dall'ennesimo
attacco di pianto che l'aveva colta appena era arrivata in
quell'altro posto sconosciuto.
Claire,
d'altro canto, ce l'aveva messa tutta per tranquillizzarla, ma
Ophelia si sentiva inconsolabile in quel frangente.
Appena
sveglia, ricordava vagamente cos'era successo dopo che i tre ragazzi
se n'erano andati: Claire l'aveva trascinata via da quella stanza
soffocante per condurla attraverso un'altra porta che si apriva su un
luogo completamente diverso. Una volta oltrepassata si era trovata
nel corridoio di quella che era chiaramente una casa d'epoca.
Claire
l'aveva poi portata in quella camera da letto, facendola sedere e
lasciandola con la promessa che sarebbe tornata subito con qualcosa
di caldo per farla rilassare. Cosa inutile dato che la bionda,
poggiata appena la testolina sul cuscino, si era addormentata tra le
lacrime.
Proprio
in quel momento notò una tazza di tè nel comodino
di legno affianco
al letto, sulla quale un'abat-jour di ferro battuto poggiava spenta.
Allungò una mano per prendere la tazza, ma questa era gelida.
Ovvio,
sarà qui da tutta la notte,
pensò Ophelia, dandosi della scema.
Solo
in quel momento si accorse di non sapere che ora fosse. Beh, almeno
non aveva la preoccupazione di avvisare qualcuno su dove si trovasse.
Escluso ormai Mathias, nessuno si sarebbe fatto domande su dove si
fosse cacciata.
«Ti
sei svegliata»
La
voce di Claire la colse impreparata, facendola sobbalzare e girare di
scatto verso la porta.
La
mora sorrise, continuando a stare sulla soglia. Indossava una
minigonna a pieghe nera, una camicia bianca con le maniche arrotolate
sui gomiti e una cravatta lasciata molle azzurro cielo; sarebbe
potuta sembrare una studentessa se non fosse stato per le scarpe in
vernice nere dal tacco dodici, che le davano un tocco sexy non
appartenente di certo a un'adolescente.
A
Ophelia venne voglia di piangere al solo pensiero di come fosse
invece conciata lei.
«Già»
rispose solo la bionda, incapace di dire altro.
Il
silenzio si fece pesante e imbarazzante, ma Ophelia non sapeva cosa
dire. Aveva circa un centinaio di domande da fare, ma allo stesso
tempo aveva paura di porle.
«Ieri
non hai mangiato niente, avrai fame immagino. Vieni, andiamo a fare
colazione» la incoraggiò sorridente Claire.
Ophelia
si alzò titubante, dirigendosi verso la ragazza sempre con
più
sicurezza: d'altronde, Claire si era dimostrata la più
affidabile in
quella situazione. Tra tutti quelli che aveva
“conosciuto”, lei
era l'opzione migliore. Perciò si lasciò condurre
docile tra i vari
corridoi di quella immensa casa arredata poco ma con eleganza, in cui
i colori principali erano il bianco, il nero e il verde.
Mentre
camminava si guardava attorno con diffidenza, cercando di cogliere il
maggior numero di dettagli possibile, ma tutte le porte erano chiuse
e perciò non poté osservare niente di particolare.
«Ecco»
Claire
la ridestò dalla sua attenta osservazione del luogo per
introdurla
in una cucina dall'aria più moderna del resto della casa,
con
un'isola circondata da alti sgabelli come unico tavolo disponibile.
«Cosa
vuoi mangiare? Dolce, salato?» le chiese Claire.
Ophelia,
gli occhi fissi sull'orologio appeso alla parete, le rispose
distratta.
«Dolce»
Erano
quasi le dieci e un quarto.
Non
sapeva a che ora fosse arrivata lì la sera prima,
né a che ora si
fosse effettivamente addormentata, ipotizzava avesse dormito almeno
per dodici ore. Nonostante ciò, si sentiva ugualmente
stravolta.
«Puoi
toglierti il cappotto se vuoi»
Claire
la richiamò per la terza volta all'ordine e Ophelia si
girò verso
di lei, osservandola mentre trafficava per la cucina.
«Oh...
Sì, certo» sussurrò.
Si
levò il cappotto grigio con lentezza, poggiandolo su uno
degli
sgabelli e cercando di dare una sistemata agli abiti stropicciati: il
maglioncino blu che indossava era tutto tirato da un lato, i jeans
aderenti invece mantenevano la loro forma. Notò solo in quel
momento
di essere scalza, non ci aveva fatto caso.
«Puoi
sederti»
Anche
a quella frase, Ophelia agì come un'autonoma.
Ci
furono interi minuti di silenzio, fino a quando Claire
poggiò sul
tavolo un calice di vetro colmo di spremuta, una fetta di torta con
cioccolato e panna e una ciotola di macedonia fresca.
A
rompere la quiete fu il boato che fece il suo stomaco di fronte al
cibo: era da quanto?, venti ore che non toccava cibo? L'ultimo pasto
era stato il pranzo del giorno prima, che per di più si era
limitato
a un panino e un'insalata veloce.
Senza
pensarci troppo si buttò sul cibo quasi affogandosi dalla
voracità
con cui mangiava.
Sentì
la mora ridacchiare e arrossendo cercò di mangiare con
più calma.
«Oh,
non preoccuparti per me, mangia come ti pare» fece con un
sorriso
Claire.
Ophelia
annuì soltanto, continuando a mangiare in silenzio. Nel
frattempo
l'altra ragazza beveva del caffè appoggiata al tavolo,
rimanendo in
piedi.
«Hai
una sigaretta?» disse Ophelia improvvisamente, appena
terminò di
inghiottire anche l'ultimo boccone. Claire la guardò
sorpresa, poi
annuì.
«Prego»
fece, porgendole il pacchetto tirato fuori da una pochette che
Ophelia notò solo in quel momento.
Appena
la accese e aspirò il fumo, tossì.
Da
quanto non fumava? Tre, quattro anni? Ne aveva tredici quando aveva
provato la prima sigaretta, più tanta voglia di diventare
adulta e
bisogno di ribellarsi alle rigide regole dell'orfanotrofio. Le aveva
rubate, si ricordò, perché di certo non gliele
avrebbero mai
vendute. E poi, insieme ad alcuni compagni un po' più grandi
di lei,
aveva provato ad aspirare finendo per tossire come una dannata.
Se
lo ricordava meno acre e più buono, ma sortì
l'effetto sperato: ad
ogni boccata di fumo che rilasciava sentiva l'agitazione dentro di
lei scomparire.
Contemporaneamente,
Claire se l'accese insieme a lei.
«Dove
sono?» chiese all'improvviso Ophelia. La mora la
guardò, non
stupita dalla domanda improvvisa.
«A
casa mia e dei miei fratelli, a Manhattan. Ci abitiamo solo noi tre e
ora siamo da sole, Domi e Max non credo che torneranno per ancora un
bel po'»
Manhattan?
Come avevano fatto a passare da Brooklyn a Manhattan in un minuto, la
sera prima?
«Come
ci siamo arrivate ieri?»
Claire
fece una smorfia.
«Non
mi crederesti se te lo dicessi ora. Devo parlarti di altre cose
prima» rispose.
Ophelia
prese un'altra boccata di fumo che le schiarì la mente.
«Chi
sei tu?» chiese poi, ignorando quanto la domanda potesse
risultare
in qualche modo ridicola.
«Mi
chiamo Claire Desdemona Sangster, sono molto più vecchia di
quello
che posso sembrare e non sono quello che tu pensi»
In
pratica, oltre al nome non sapeva nulla. Ophelia inarcò un
sopracciglio.
«Non
esagerare con le informazioni» fece sarcastica. L'altra le
fece un
sorriso di scuse.
«Dirti
chi sono non farebbe altro che convincerti di essere finita in una
casa di pazzi»
Beh,
diciamo che già in parte lo credeva.
«Allora
perché non mi spieghi direttamente che cavolo succede e la
facciamo
finita?» continuò diretta Ophelia, sorprendendosi
in qualche modo
della propria fermezza nel porre quelle domande.
Claire
sospirò, spegnendo la cicca in un posacenere preso dal banco
della
cucina e massaggiandosi le tempie.
«Ecco...
Non so bene da dove partire a dire il vero. Non mi è mai
capitata
una situazione del genere e non so neanche cosa Sargas voglia che ti
dica» iniziò a tergiversare.
«Parti
dall'inizio. E poi ricordo che questo Sargas ti avesse detto di dirmi
il necessario» la mise all'angolo, ricordando con improvvisa
chiarezza le parole che il tizio moro aveva detto a Claire prima di
fuggire via.
Claire
fece l'ennesima smorfia.
«Tu
credi al sovrannaturale?»
Fino
a ieri mattina no,
si rispose la
bionda.
«Cosa
intendi?»
«Ecco...»
borbottò Claire «A creature più che
umane, che hanno poteri che
oltrepassano la vostra
“normalità”»
specificò, rimanendo
comunque vaga.
«In
un altro momento ti avrei riso in faccia. Ma dopo ieri sera, mi viene
da risponderti di sì e di ridere di me stessa»
rispose amara.
«So
che può sembrarti assurdo, ma ipotizziamo che queste
creature,
diciamo, non umane,
esistano davvero. Come la prenderesti?»
«Come
la dovrei prendere?» chiese a sua volta Ophelia.
Claire
sbuffò, passandosi una mano tra i capelli con un gesto
nervoso.
«Non
lo so» mugolò con aria sconsolata.
Ophelia
continuò a fissarla in silenzio, con una strana
curiosità che
l'attanagliava.
«Via
il dente via il dolore» esclamò all'improvviso
Claire, rianimandosi
all'improvviso e puntando lo sguardo verso l'altra ragazza che la
guardava in attesa. Un attimo dopo, gli occhi rilucevano bianchi.
«Vedi
i miei occhi? Ecco, questo è ciò che mi rende
“non solo umana”.
Come me, anche i miei fratelli, Sargas e molti altri possiedono
questo tipo di occhi, ed è ciò che ci rende
diversi. Diciamo che
abbiamo dei poteri “magici”. Questi poteri e la
nostra esistenza
è sconosciuta a tutte le persone normali, e così
deve rimanere in
quanto sarebbe un gran bel trambusto se si scoprisse la
verità» disse talmente rapida che quasi si
mangiava le parole.
«Tu,
a quanto pare, sei come noi. Sarò sincera: né io,
né Domi e Max e
nemmeno Sargas abbiamo idea su chi tu sia. Da quel che so ci
è stato
ordinato di recuperarti dal padre di Sargas, Lisander, ma nessuno sa
perché lui ti voglia. Non sappiamo neanche perché
il tuo ragazzo in
verità fosse un Deviato mutaforma, perché un
altro Deviato ti
stesse per rapire ieri pomeriggio e se non fosse che stavamo venendo
a recuperarti tu ora saresti chissà dove per
volontà di non so chi»
concluse frettolosa, con un fiume di parole che invasero la testa di
Ophelia lasciandola impassibile.
La
sua espressione non tradiva nulla a differenza della sera prima, in
cui aveva crisi isteriche ogni due minuti.
Proprio
per questo Claire la osservò dubbiosa.
«Ehi...
Tutto bene?» borbottò, avvicinandosi e puntando
gli occhi bianchi
verso la ragazza.
«Credi
che io sia pazza?» aggiunse poi, notando di non sortire alcun
effetto nella bionda. Quest'ultima la osservò come se si
fosse
appena svegliata da una trance.
«No.
Credo di essere diventata io pazza»
Già,
perché, nonostante l'assurdità di quella
situazione totalmente
ridicola, Ophelia le credeva.
In
maniera illogica e senza senso, era comunque convinta che Claire le
stesse dicendo la verità. E non solo in seguito agli occhi
bianchi o
al suo ragazzo in versione mostro spaventoso – o forse era
più
corretto Deviato mutaforma?
- semplicemente la sua parte più insensata e non coerente
con la
realtà le diceva che sì,
Claire aveva ragione.
Stava
per porre un'altra domanda finché un conato di vomito non la
costrinse a richiudere la bocca e portarsi la mano a coprirla.
Claire
le si avvicinò allarmata.
«Che
succede? Stai male?»
Ophelia
impallidì, sentendo altre fitte alla testa e il corpo scosso
da
brividi come se avesse la febbre a quaranta; iniziò a sudare
freddo.
«Credo
di dover vomitare» riuscì a malapena a sussurrare.
Claire
non le fece dire altro, la prese per mano e la trascinò per
il
corridoio, facendola entrare di volata in una stanza che si
rivelò
essere il bagno. Appena in tempo, oltretutto, in quanto Ophelia
vomitò subito l'intera colazione sul lavandino.
L'intero
corpo era scosso da brividi, si sentiva febbricitante e le facevano
male gli occhi; a porle un poco di sollievo furono le mani tiepide e
umide di Claire che le si posarono nel collo. Proprio come la sera
prima, anche in quel momento le mani della mora le infusero
benessere.
Passarono
alcuni minuti in cui i brividi cessarono, le fitte alla testa e al
corpo pure e Ophelia si diede una sciacquata alla faccia e al collo.
Sollevò
poi lo sguardo sopra il grande specchio appeso sopra il lavandino e
rabbrividì nel vedere il proprio riflesso: il viso
malaticcio, gli
occhi verdi cerchiati dal trucco nero ormai sbavato e i capelli
totalmente spettinati. Si vide anche più magra del solito.
Affianco
al suo riflesso, quello splendente di Claire la fissava preoccupata.
«Stai
meglio?»
Ophelia
fece una smorfia.
«Non
ne sono sicura» sussurrò, con in bocca un
disgustoso sapore che le
fece desiderare ardentemente uno spazzolino.
«Avanti,
siediti»
Fu
trascinata sulla tavoletta del water e costretta a sedersi, mentre
Claire si inginocchiava di fronte a lei in uno strano
deja-vù della
sera prima. Gli occhi bianchi la trafiggevano e la squadravano alla
ricerca di qualcosa.
«Non
capisco cosa tu abbia» fece dopo alcuni istanti.
«Neanche
io» rispose ironica.
«Solitamente
riesco a cogliere il malessere fisico o psicologico nelle altre
persone, ma non sto davvero riuscendo a capire cosa tu abbia»
insistette.
Ophelia
sentì un'altra fitta alla testa.
«Non
sarà nulla di che, probabilmente mi sono beccata un virus,
è da
ieri che sto male»
Claire
continuò ad osservarla, ma non disse niente. Dietro quelle
iridi
candide, Ophelia poté però scorgere un vago
sospetto che la fece
preoccupare, ma non ci poté pensare troppo in quanto un
altro conato
la costrinse a correre verso il lavandino.
Peggio
di così non può proprio andare.
Appena
mise piede al quartier generale della Fazione Bianca, Sargas
desiderò
fortemente la presenza del padre. Per poterlo sostituire, non per
altro, era chiaro.
Fece
un grande sospiro per poi inoltrarsi nella grande sala dalla forma
ellittica, all'interno della quale un uomo e una donna si stavano per
azzannare l'un l'altro.
«Vorrei
potervi dire buongiorno ma vedervi non lo rende tale» disse
il moro,
attirandosi subito gli sguardi altrui, che tacquero.
«Toh,
il ragazzino» bofonchiò infastidito l'uomo; gli
occhi bianchi
facevano contrasto con la carnagione ambrata e i dreads colorati che
aveva in testa. Come tutti coloro appartenenti alla loro
“razza”,
era bello in maniera quasi inquietante.
«Se
non mi volete qui allora andate a recuperare Lisander»
rispose a
tono Sargas, per nulla scalfito.
«Grazie
ma preferisco vedere te piuttosto che quel bastardo»
intervenne la
donna, avvicinandosi a un tavolino in cui bicchieri e alcolici quasi
traboccavano. Si versò del whisky e lo tracannò
rapida.
«Almeno
tu non pensi solo a scopare, in effetti» aggiunse l'uomo,
andandosi
a sedersi attorno al tavolo che troneggiava al centro della stanza e,
con un vago gesto della mano, facendo sì che un bicchiere e
una
bottiglia planassero nella sua direzione. Subito dopo si accese un
sigaro e iniziò ad appestare la stanza.
Sargas
lo raggiunse e si sedette su una delle altre due sedie disponibili,
accendendosi una sigaretta.
«Ho
ricevuto il tuo biglietto, Penelope, ma non ci ho capito un cazzo.
Che sta succedendo?»
La
donna rise, passandogli dietro per sedersi e scompigliandogli i
capelli con la mano coperta di anelli d'oro.
«Non
c'è molto da capire, tesoro mio. Dei Deviati pare si stiano
dando da
fare per rapire e uccidere alcuni dei nostri»
spiegò,
giocherellando con il bicchiere che si era riempita di nuovo.
Sargas
la fissò, facendo scivolare lo sguardo diventato bianco
sulla figura
sinuosa della donna, vestita con un sensuale abito color malva e i
capelli rossicci acconciati in un chignon vaporoso decorato da
piccoli cristalli. Sotto l'occhio sinistro un piccolo neo spiccava
nell'incarnato pallido.
«Non
guardarmi così, principino, potrei emozionarmi
troppo» fece con
tono soave la donna.
«Cazzo,
sei disgustosa!» berciò l'uomo.
«Ti
brucia ancora il rifiuto eh, Amadeus?» lo
punzecchiò beffarda la
donna.
L'altro
stava per rispondere, ma Sargas terminò il litigio prima che
esso
potesse iniziare.
«Lasciate
le vostre beghe da innamorati a un'altra volta, grazie. Possiamo
parlare seriamente ora?»
I
due si lanciarono un ultimo sguardo di fuoco, poi concentrarono
l'attenzione e i loro occhi bianchi sul giovane.
«Stanno
avvenendo rapimenti anche dai Neri?» chiese.
«Che
ne so, io non ci parlo più con quei bastardi, men che meno
coi
francesi» borbottò Amadeus.
Penelope
fece un vago gesto con la mano.
«È
da un bel po' che non sento nessuno di loro, non ne ho la minima
idea» rispose la donna.
«E
tu? Non hai sentito proprio nulla?»
«Credi
che mio padre abbia la voglia di informarmi di quisquilie del
genere?» iniziò sarcastico «Se anche
avesse sentito qualcosa tra
le nostre file o le loro, non si sarebbe preso la briga di venirmelo
a dire»
Amadeus
borbottò un “bastardo” a mezze labbra ma
ben udibile. Sargas,
del canto suo, non fu minimamente offeso: lui stesso considerava il
padre un bastardo, perché si sarebbe dovuto arrabbiare?
«Avete
intenzione di fare qualcosa?» domandò in direzione
dei due.
«A
dire la verità non sappiamo bene come agire. I Deviati non
sono mai
stati così aggressivi, inoltre non capita spesso di trovarne
tanto
potenti da ucciderci, invece adesso sembrano spuntare dal nulla. Non
voglio mandare alcuni dei miei senza avere prima delle informazioni
sicure, sarebbe come condannarli a morte» rispose Penelope.
«Sì,
ma come avete intenzione di trovare informazioni?»
«Abbiamo.
Cosa credi, di essere escluso? Potremmo mandare i due gemelli, tanto
non sarebbe un grande spreco» sogghignò Amadeus.
Non
fece in tempo a dire altro perché subito dopo si
immobilizzò,
improvvisamente impossibilitato dal respirare; diventò tutto
rosso
mentre scattava in piedi e si portava le mani alla gola.
«Tesoro,
raffredda i bollenti spiriti» soffiò Penelope,
imperturbata.
Ma
prima che Sargas stesso allentasse la presa, Amadeus riuscì
a
riprendere a respirare.
L'uomo
scoppiò a ridere.
«Quanto
te la prendi per i tuoi amichetti, ragazzino»
Sargas
non disse nulla, infastidito dal fatto che l'altro fosse riuscito a
liberarsi da solo. Ma effettivamente Amadeus aveva molti più
anni di
lui, e molta più esperienza; non si aspettava davvero di
riuscire a
ferirlo.
Del
resto l'uomo non se l'era seriamente presa: certo, il ragazzo aveva
tentato di ucciderlo, ma entrambi sapevano che non l'avrebbe fatto
sul serio. O, sarebbe più corretto, che ce l'avrebbe davvero
fatta.
«Credo
che la prima cosa da fare sia chiedere ai Neri se anche da loro
è
morto qualcuno. Se non è così, potremmo
già restringere il campo
su chi vorrebbe ferirci» continuò Penelope,
deviando l'attenzione
di nuovo sul nucleo del loro incontro.
«Hai
ragione» disse Sargas. I due guardarono poi Amadeus, in
attesa di un
suo responso. L'uomo annuì di malavoglia.
«Non
sarò di certo io però a contattare quei maledetti
francesi,
altrimenti è la volta buona che faccio una strage»
disse, di nuovo
incazzoso. Sargas scrollò le spalle.
«Mi
occupo io di chiedere a loro» disse.
«Io
chiederò a Milos, tu occupati di Agatha» fece
Penelope in direzione
dell'altro.
Amadeus
fece una smorfia.
«Preferisci
i francesi?» chiese Sargas ironico.
«Mi
tengo lei, grazie» rispose acido.
Penelope
sospirò.
«Bene,
appena sappiamo tutti qualcosa ci incontreremo di nuovo. Non serve
che vi dica di mettervi subito all'opera, vero?» disse con
tono
indifferente, lanciando solo uno sguardo gelido ai due uomini.
Gli
altri le restituirono lo sguardo distaccato.
«Ci
si vede» disse solo Amadeus, senza rispondere. Un attimo
dopo, era
sparito.
La
donna riprese a sorridere.
«Fai
da bravo, tesoro» gli disse, per poi lanciargli un bacio
volante e
sparire anche lei in un secondo.
Sargas
sospirò e pensò al padre.
Quando
torna lo uccido.
|
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Capitolo 4 *** Capitolo quattro ***
Ed
eccomi qui con il quarto capitolo!
Sono
passate circa due settimane, mi sembra un'attesa ragionevole questa
volta per il nuovo capitolo, almeno non sono passati due mesi come
l'ultima volta!
Che
dire, questa volta l'ispirazione mi ha permesso di scrivere
più in
fretta, anche se non sempre gli impegni me lo permettevano;
quest'ultimo dettagli l'ho ignorato fin troppo spesso in quest'ultimo
periodo, ora purtroppo però dovrò mettermi sotto
veramente con la
maturità, quindi non prometto che il prossimo capitolo
arrivi a
breve, anzi. Inoltre ho anche pubblicato una nuova long, quindi
dovrò
cercare di mediare il tempo tra questa storia e l'altra,
perciò in
qualche modo sarà anche più difficoltoso.
Nonostante
ciò, prometto che mi impegnerò il più
possibile.
Parlando
più nel dettaglio della storia, questo capitolo è
ancora piuttosto
“vago”, anche se qualcosina in più si
dice, e inoltre compaiono
nuovi personaggi. Dal prossimo capitolo si dovrebbe entrare di
più
nel vivo della storia, ma ho deciso di non affrettare le cose, quindi
vedrò dove mi porteranno le mie dita mentre scrivo. Nel
frattempo
spero che questo capitolo sia di vostro gradimento, anche
perché a
me non dispiace e non è dispiaciuto nemmeno scriverlo!
Adesso
vi lascio alla lettura, sperando appunto che vi piaccia. I commenti,
se lasciati, saranno sempre molto graditi, che siano positivi,
negativi o neutri!
Buona
lettura!
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~Dirty
Blood
Capitolo
quattro
Distesa
sullo stesso letto in cui aveva dormito la notte precedente, Ophelia
sentiva di essere appena scampata alla morte.
Pallida
come un cencio e con un mal di testa che lentamente diminuiva, aveva
passato tutto il giorno a vomiti e febbricitante; di fianco a lei,
Claire l'assisteva con la fronte corrugata e gli occhi perennemente
bianchi. Erano più di tre quarti d'ora che la guardava con
quell'aria mista tra preoccupazione e totale confusione, e Ophelia
cominciava ad aver paura per la propria salute.
Era
da ore che aveva voglia di piangere, ma si era trattenuta, non voleva
un altro attacco isterico come quello della sera prima. Non capiva
cosa le stesse succedendo, sia riguardo alla situazione in generale
che al suo stesso corpo; sembrava che il suo organismo si stesse
rivoltando all'improvviso e dovesse espellere tutto ciò che
si
potesse considerare “nocivo”.
Ma
la disperazione più grande era che si sentiva terribilmente
sola.
Certo,
ad assisterla tutto il giorno c'era stata Claire, non era stata sola
in senso letterale – però era l'intera situazione
che la faceva
sentire avvolta in una coltre di abbandono.
Non
poteva lamentarsi: non aveva mai avuto un grande interesse nel farsi
degli amici, il fatto che avesse un ragazzo era stata quasi una
casualità, o forse mero bisogno fisico. Anche se, per una
delle
poche volte nella sua vita, si era trovata veramente bene con lui.
Risultava tragicomico il fatto che fosse stato tutta una grande
messinscena, uno spettacolo allestito per...
Per
cosa, in effetti?
Cos'è
che Mathias – quella cosa
voleva davvero per lei?
Riflettendoci
in quel silenzio fastidioso, sentì un masso sul petto e un
nodo alla
gola. Si morse un labbro con tutta la forza che aveva, trattenendo in
ogni modo le lacrime.
Una
goccia però sfuggì al suo controllo e, scappando
dall'angolo
dell'occhio, percorse la tempia e si inoltrò tra i capelli.
La scia
umida la sentì bollente contro la sua pelle.
«Piangi?»
La
voce di Claire giunse lieve alle sue orecchie.
Dalla
propria posizione a pancia in su, si voltò leggermente per
guardarla
e sorrise.
Si
costrinse a inghiottire il nodo che aveva alla gola.
«No,
no. Sono solo un po' preoccupata per il mio lavoro. Sarei dovuta
entrare in turno alle otto, ma sono già passate e credo che
il mio
capo mi abbia già licenziata» parlò
sottovoce «In effetti, mi
aveva già avvisato che al prossimo ritardo avrei dovuto
trovarmi un
altro posto» rifletté.
«Dove
lavori?» chiese con sincera curiosità Claire.
Nonostante ciò,
Ophelia intuì che la ragazza stesse facendo in modo di
distrarla;
forse pensava che il dolore sarebbe passato prima.
«In
un ristorante. Faccio la cameriera» spiegò. Claire
la guardò
incuriosita.
«Come
mai non hai continuato gli studi? Insomma, voi dopo non dovreste fare
il collage?» chiese ancora.
Ophelia
sorvolò su quel “voi” che sapeva tanto
di “voi, persone
normali e senza poteri” e scrollò le spalle, o
almeno ci provò,
dato che la posizione non glielo consentiva del tutto.
«Non
sono mai stata una studentessa eccellente, o perlomeno una in grado
di guadagnarsi delle borse di studio. L'orfanotrofio, d'altro canto,
non possiede molti fondi per far studiare tutti i ragazzi,
perciò ho
deciso di cercarmi subito un lavoro» pronunciò
queste parole con
tono incolore, mostrandosi indifferente a ciò che stava
dicendo.
Non
amava parlare dell'orfanotrofio, si sentiva in qualche modo diversa
rispetto agli altri. Ogni volta, finiva sempre che gli altri la
guardavano con pietà e si prodigavano in scuse per la
mancanza di
delicatezza. Non che a lei interessassero le scuse, ovvio. Solo che
non sopportava quella situazione, per questo si pentì subito
di aver
pronunciato quelle parole.
Stava
già per ribattere a Claire di non preoccuparsi, ma la
ragazza la
stupì non accennando a niente delle tipiche frasi standard
che le
venivano propinate.
«E
ti piace?»
Ophelia
la guardò sorpresa.
«Cosa?»
«Il
tuo lavoro, dico. Ti piace?»
Ophelia
tacque per un attimo e osservò l'altra ragazza. Poi sorrise
lievemente.
«Non
particolarmente, è un lavoro come un altro per me. Mi
adeguo»
spiegò.
Claire
continuò a fissarla con quegli occhi tremendamente bianchi,
tanto
che Ophelia fu costretta a distogliere lo sguardo.
«Qual
è il verdetto?» chiese infine la bionda,
concentrando lo sguardo
sul resto della stanza. La luce del lampadario la illuminava di una
tonalità giallastra, mentre dalla finestra dalle tende
spostate si
potevano notare gli edifici illuminati della New York notturna.
«Non
lo so» il tono infastidito della mora la costrinse a girarsi
per
guardarla. La ragazza teneva un broncio insoddisfatto sul viso,
l'espressione confusa di nuovo nei suoi occhi.
«Com'è
che funziona questa cosa del riuscire a capire i problemi degli
altri?»
Claire
fece un blando sorriso.
«”Cosa”...
Beh, non so bene come spiegartelo a dire il vero. Grazie ai miei
occhi riesco a vedere, o meglio percepire, ciò che non va
nelle
altre persone. In genere malattie e simili, ma riesco ad
“analizzare”
anche le loro menti, se sono sconvolte emotivamente o una cosa del
genere. Se posso le aiuto»
La
spiegazione vaga e confusa lasciò Ophelia con un generico
interrogativo in testa, ma lasciò stare.
«Come
hai fatto con me ieri sera?» domandò la bionda,
alludendo al
momento in cui l'altra le aveva preso le mani e si era sentita
improvvisamente tranquillizzata.
Claire
annuì.
«E
come mai ora non riesci a capire cosa ho?»
L'altra
si morse un labbro, in difficoltà.
«Non
lo so. Non ne ho proprio idea. Ai miei occhi sembra che il tuo corpo
sia perfettamente in salute, noto solo il tuo turbamento. Ma non
c'è
segno della causa del malessere di oggi» spiegò
«E non capisco
neanche perché la medicina di oggi non abbia fatto effetto,
anche se
le vostre medicine non sono sempre efficaci»
Ophelia
tacque di fronte a quelle parole, non sapendo cosa dire. Le venne in
mente una domanda, ma prima che potesse porla la porta della stanza,
rigorosamente chiusa, si aprì di scatto facendola
sobbalzare.
Claire, del canto suo, sembrava aspettarsi quella entrata in scena.
«È
ancora qui?»
Dominik
parlò con un pesante fastidio nella voce, entrando per primo
con
incedere spavaldo e succeduto dal gemello, Max, che subito si
avvicinò alla malata con sguardo curioso.
«Cazzo,
che brutto aspetto» commentò proprio quest'ultimo.
Ophelia fece una
smorfia, mentre Claire si premurò di dare un forte colpo al
fratello.
«Esattamente
quello che vorrebbe sentirsi dire ogni ragazza in queste
condizioni»
commentò aspra.
«Non
mi pare non sia vero. Guardala, sembra che abbia passato tutto il
giorno a vomitare e sul punto di rimettere anche l'anima»
continuò
Max. Dietro di lui, Dominik osservò la bionda e rise di
fronte alla
sua espressione contrariata.
«Infatti
è quello che è successo» rispose
infastidita la sorella.
I
due gemelli si girarono prima verso Claire, poi, cerando quasi
conferma, verso la bionda che chiuse gli occhi in un misto di
stanchezza e esasperazione.
«Come
mai?» indagò Max.
«Non
riesco a capire. È tutto il giorno che la osservo, ma il suo
corpo
non dà segno di una causa specifica. Sembra che vada tutto
alla
perfezione»
Dominik
si avvicinò alla bionda, iniziandola a fissare con
attenzione. Un
attimo dopo, i suoi occhi castano-verdi presero la solita
tonalità
lattea. Avvicinandosi ulteriormente, Max fece la stessa cosa.
Ophelia,
sentendosi osservata in quella maniera da tre paia di occhi
paurosamente bianchi, tentò di coprirsi con la coperta fino
alla
punta dei capelli, venendo bloccata da Dominik che la scoprì.
«Ehi!»
«Silenzio»
dissero in coro i due gemelli, guardandola con uno sguardo che
Ophelia definì spiritato.
Deglutì
e rabbrividì sotto i loro occhi, finendo per chiudere i
propri in un
tentativo di nascondersi.
Circa
un minuto dopo li riaprì, in concomitanza con i due che si
allontanarono.
«Avete
trovato qualcosa?» chiese Claire.
«Niente.
Hai ragione, Cloe. Sembra che sia perfettamente in salute» le
diede
ragione Max.
Dominik
sbuffò.
«Non
sarà nulla di che. Le passerà»
mugugnò. Max inarcò un
sopracciglio.
«Non
ne sarei così sicuro. Il fatto che non ci sia segno di nulla
non mi
sembra una buona cosa» commentò.
«Ha
ragione Max, Domi» diede manforte la sorella.
Ophelia
sentì il solito nodo in gola ripresentarsi. Com'è
che parlavano di
lei come se non ci fosse?
«Posso
ricordarvi che sono qui?» sibilò.
«Non
me lo scordo, non preoccuparti» rispose velenoso Dominik.
«Quindi?»
insistette la bionda.
«Quindi
niente, direi che la cosa migliore sia comunicarlo a Sargas. Poi
vedrà lui come comportarsi» concluse Claire,
scrollando le spalle.
«Le
hai spiegato qualcosa?» chiese a quel punto Max. Claire fece
una
smorfia.
«Circa.
Non sapevo cosa dirle esattamente, e neanche come a dire il vero. Non
mi è mai capitato di dover spiegare la nostra natura ad
estranei»
«Ma
a detta di Sargas non è un'estranea»
commentò Dominik. Max fece un
cenno verso il fratello.
«In
effetti ci ha accennato al fatto che è come noi. Anche se
non riesco
a vedere nulla in lei»
«Già,
sembra quasi ci sia una barriera» commentò ancora
Dominik,
sovrappensiero.
Neanche
un secondo e i tre si guardarono l'un l'altro come se il biondo
avesse appena pronunciato chissà che parole.
«Cioè
una barriera?» sussurrò Ophelia a quel punto,
osservando come si
fossero immobilizzati in un secondo.
«Una
barriera» disse Claire.
«Una
barriera» ripeté
Dominik.
«Ovvero?»
I
tre la ignorarono.
«Potrebbe
essere...» rifletté Max, lanciando sguardi alla
bionda.
«Sì,
ma non vedo segni neanche di quella» disse a sua volta
Claire.
Dominik scrollò le spalle.
«A
seconda di colui che l'ha fatta, c'è la
possibilità che noi non
siamo in grado di percepirla» considerò.
«Quello
è vero, ma a questo punto la domanda è un'altra:
chi è la persona
così esperta, in grado di istituire una barriera
impercettibile, a
cui può interessare una tizia del genere?» chiese
Max.
«Grazie»
fece sarcastica Ophelia, lanciandogli un'occhiataccia.
Nel
frattempo però, la sua mente era un vorticare incessante.
Barriera?
Che cazzo stanno dicendo? Perché tutta questa situazione non
ha un
bell'aspetto? Perché sono finita qui? Merda.
Sentiva
il bisogno di doversene andare da lì. Le sembrava di essere
finita
in un covo di pazzi, ma era solo perché non capiva nulla di
quello
che succedeva. Aveva avuto le prove di quel
“sovrannaturale” che
caratterizzava i tre ragazzi (e non solo), e alla fine non sapeva
neanche cosa fare in quelle condizioni; stava ancora male, il mal di
pancia non cessava e la testa riprendeva a farle un male terribile.
Non sapeva neanche se sarebbe stata in grado di reggersi in piedi,
quindi andare da qualche parte era fuori discussione.
Ma
a chi avrebbe potuto chiedere aiuto? Mathias non era più
un'opzione
considerabile, con la gente dell'orfanotrofio non aveva più
rapporti
da molto tempo, le sue coinquiline se ne fregavano di lei (cosa del
tutto ricambiata, alla fine) e la stessa cosa le colleghe del lavoro
che ormai non aveva più. Non aveva altri amici, e mai le era
interessato farseli. Inoltre, non aveva idea di dove fosse finito il
suo cellulare – doveva avercelo Dominik, ma dubitava che
glielo
avrebbe restituito. E poi, appunto, chi avrebbe chiamato?
«Non
agitarti»
Le
parole di Claire la fecero sobbalzare: la ragazza la stava guardando,
la stava trapassando con quegli occhi, entrandole
dentro la
testa e percependo il suo turbamento.
«E
come faccio? Sono in una casa che non so dov'è, tranne il
fatto che
si trova a Manhattan, insieme a voi, tre persone
dagli strani
occhi multicolore che non conosco affatto, e in più mi
sembra di
star per morire. Come dovrei non agitarmi?» chiese Ophelia,
il tono
sarcastico e irritato che faceva trapelare una punta di paura.
«Beh,
c'è sempre il rischio che ti uccida in effetti»
considerò Dominik;
il tono a metà tra l'indifferente e il sarcastico fece
intuire che
stesse cercando, in qualche modo, di sciogliere la tensione di
Ophelia.
«Non
devi preoccuparti. I miei fratelli potrebbero sembrarti dei coglioni,
ma né loro né tanto meno io ti faremo del male.
Non posso negare
che siamo degli estranei, ma nessuno ha cattive intenzioni»
spiegò
Claire.
«Allora
perché mi avete portata qui? Perché ieri mi avete
rapita?»
La
mora fece una smorfia.
«Non
ti abbiamo propriamente rapita, dai. Volevamo solo portarti qui, solo
che è arrivato quell'altro Deviato e la cosa è un
po' sfuggita di
mano, ma non è un rapimento» specificò.
«Non
hai risposto alla mia domanda»
«Non
sappiamo bene neanche noi» intervenne Max «Abbiamo
ricevuto poche
notizie da Sargas – il ragazzo di ieri, ricordi? - ma pare
che non
sappia molto manco lui. Stava solo seguendo delle direttive»
Ophelia
perse un battito.
«Direttive?
Di chi? Chi ha voluto tutto questo?» fece con un lieve tono
isterico.
Dominik
alzò gli occhi al cielo, come se stesse in qualche modo
temendo la
crisi della sera precedente.
«Non
iniziare a strillare, idiota. È il padre di Sargas che ti ha
voluto
qui, ma ora si trova a Bucarest ed è irrintracciabile; non
sappiamo
quando tornerà, possiamo solo aspettare»
spiegò Dominik, iniziando
a spazientirsi.
«E
nel frattempo?» chiese ancora Ophelia.
«Nel
frattempo si vedrà. Prima dobbiamo vedere se riusciamo a
rimetterti
in piedi» rispose Max.
Ophelia
sospirò, mentre Claire le si avvicinò
accarezzandole la testa.
«Non
preoccuparti, andrà tutto bene»
Lo
spero.
Da
qualche parte in mezzo all'immensa zona di Brooklyn, a New York City,
Sargas stava di fronte a un grande palazzo bianco, dall'aria moderna
e con ampie vetrate che lo percorrevano per la lunghezza; alcune di
esse erano illuminate, dando l'impressione quasi di un faro che
illuminava il cielo notturno di New York.
La
sede della Fazione Nera emergeva senza alcun dubbio di più
di quella
Bianca, ma, Sargas lo sapeva, gli altri erano sempre stati in qualche
modo più esibizionisti.
Era
da dieci minuti che ciondolava lungo il marciapiede, venendo di
continuo urtato dai numerosi passanti che guardavano in malo modo il
suo sostare prolungato; ma Sargas ignorava tutti e continuava a
fissare l'entrata.
Non
è che avesse paura di entrare – non aveva paura
dei Neri,
figuriamoci – però quelle vesti ufficiali che
aveva assunto da
poco non lo avevano mai portato a interagire in quella maniera con
loro. Diciamo che aveva una blanda forma di disagio, o almeno questo
è quello che continuava a ripetersi nella sua testa per non
accettare il fatto che si sentisse intimorito dalla situazione che
gli si prospettava.
Ovviamente
sul suo volto non traspariva la minima preoccupazione,
perciò con
quella patina di totale indifferenza e stando ben attento a murare la
sua mente da eventuali spie avanzò verso la porta d'entrata.
Camminò
fino a ritrovarsi di fronte all'ingresso a vetri, soffermandosi
giusto un attimo sul riflesso della propria figura, poi
sfilò la
mano dal cappotto nero ed aprì la porta, ritrovandosi
immediatamente
in una hall illuminata a giorno da un grande lampadario appeso.
Il
pavimento di marmo era lucido, in vari angoli erano posti divanetti
con tavolini, ma a dispetto di tutto ciò non c'era nessuno
al suo
interno. L'unica altra porta, come nel caso della sede della Fazione
Bianca, era un ascensore.
Avanzò
circospetto, guardandosi attorno: sarebbe dovuto andare
all'ascensore, ma non sapeva se doveva aspettare l'arrivo di qualcuno
o altro. Aveva informato i francesi del proprio arrivo, ma non era
pervenuta risposta.
Decise
di abbandonare i vari timori e andò deciso verso
l'ascensore, ma un
istante prima che potesse premere il bottone le porte si aprirono e
Sargas si ritrovò davanti un'affascinante donna con un
seducente
sorriso dipinto sul volto.
«Ben
arrivato, tesoro»
La
voce musicale della donna non fece però distrarre Sargas
che,
notando il volto conosciuto, si rilassò e assumette il
solito volto
impassibile.
«Dominique,
quanto tempo»
Le
lanciò una vaga occhiata: era bella come sempre, come una
ninfa
uscita da un fiume. Una cascata di capelli biondo platino le arrivava
fino alla vita, con alcuni ciuffi parzialmente raccolti da una
vistosa spilla decorata con uno zaffiro. Gli occhi azzurri, cerchiati
da un trucco nero, gelavano e allo stesso tempo infuocavano coloro
che la fissavano per troppo tempo.
Ma
Sargas era impenetrabile di fronte a quel fascino, perciò
non si
lasciò incantare.
«Parecchio,
in effetti. Entri?» rispose Dominique, facendo un elegante
gesto con
la mano invitandolo dentro l'ascensore.
Il
ragazzo non disse nulla, entrò e basta, ponendosi di fianco
a lei.
«Yvonne
e Basile ti stanno aspettando, sono curiosi di sapere cosa potresti
mai volere da loro» disse ancora la donna, premendo il
pulsante 59.
Subito, l'ascensore si mise in moto e iniziò a salire.
Perché,
quei due provano alcun interesse verso altri che non siano loro
stessi?,
pensò vago, ma se lo
tenne per sé.
«Diciamo
affari» disse solo.
Dominique
gli lanciò un sorriso ammiccante.
«Sei
qui in veste ufficiale quindi»
«Già»
Sargas
non aveva particolare voglia di chiacchierare, anche se l'altra non
era dello stesso avviso. Nonostante Dominique si fosse accorta della
scarsa loquacità dell'uomo, non parve interessarsi
né tanto meno
infastidirsi; anzi, in qualche modo il suo sorriso si fece anche
più
ampio.
«E
Lisander, come se la passa? Mi pare di aver sentito che si trovi in
Europa, o sbaglio?»
Sargas
fece una smorfia impercettibile a sentire il nome del padre, ma si
limitò a scrollare le spalle.
«Credo
di sì, ma non mi interessa» fece secco, rimanendo
sul vago.
Prima
che la conversazione potesse proseguire, le porte dell'ascensore si
aprirono rivelando un lungo corridoio splendente, dal pavimento di
marmo nero con venature argentate. Su un'intera parete vi erano ampie
vetrate che si affacciavano su New York, donando una bel panorama
della città.
Ma
Sargas non diede che una leggera occhiata, seguendo Dominique la
quale, senza parlare, lo precedette per il corridoio facendogli
strada.
Pochi
minuti dopo si ritrovarono di fronte a una porta nera, nella quale
una targhetta dorata spiccava lucente. Sopra vi erano incisi due
nomi: Basile e Yvonne de La Châtre.
La
giovane bussò e attese.
Per
qualche istante non si sentì nulla, finché da
dentro non si alzò
una voce sottile.
«Avanti»
Dominique
aprì la porta, entrando per prima e impedendo la visuale a
Sargas
che dovette entrare per osservare bene il luogo.
Si
ritrovò in una stanza piuttosto buia, dal pavimento nero e
le
vetrate coperte da pesanti tende di broccato rosso; vi era
però
acceso un vistoso lampadario di vetro e cristallo che espandeva una
luce piuttosto soffusa. Al centro della stanza vi era una grande
scrivania di mogano, sulla quale scartoffie varie si trovavano in un
precario equilibrio, più due bicchieri e una bottiglia di
vino.
Sargas
non si soffermò ad osservare altri dettagli del luogo, ma
spostò lo
sguardo subito su un divano ad isola in un angolo dell'ampia stanza,
nel quale un uomo sedeva mollemente appoggiato e una donna, con
appena una vestaglia a coprirla, poggiava a sua volta su di lui.
Sargas
sentì una morsa attanagliarlo e bastò un solo
battito di ciglia
affinché i suoi occhi diventassero candidi.
Poi,
fissò gli occhi degli altri due astanti: due pozze oscure
nel bianco
del resto dell'occhio, nero sul nero delle pupille, come dei vortici
che quasi ti trascinavano al loro interno, ipnotizzavano.
I
due sorrisero e i loro occhi, se possibile, si fecero ancora
più
neri.
«Benvenuto,
piccolo Van Middlesworth» fece con un vago tono derisorio la
donna.
Dentro
di sé, Sargas mandò per l'ennesima volta il padre
al diavolo,
mentre i suoi occhi scintillarono bianchi.
Appena
mi passa tra le mani lo ammazzo.
|
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Capitolo 5 *** Capitolo cinque ***
Dopo
più di un mese di assenza, ecco qui il quinto capitolo di
Dirty
Blood!
Scusate
se non sono riuscita a pubblicare prima, ma questo mese è
stato
piuttosto intenso dal punto di vista scolastico e non avevo proprio
tempo di dedicarmi alla storia; in pratica l'ho scritto pezzettino
per pezzettino, ogni volta aggiungendo qualcosa se il tempo me lo
permetteva.
In
ogni caso, oggi sono finalmente riuscita a pubblicare, quindi spero
che l'attesa venga ripagata!
Il
capitolo è abbastanza “di passaggio”,
dal prossimo si dovrebbe
entrare più nel vivo della storia, ma in ogni caso vengono
mostrati
nuovi personaggi e viene rappresentato un po' di più il
personaggio
di Sargas, centro di questo capitolo – e personaggio che io
adoro,
personalmente!
Non
so che altro aggiungere, se non che spero di ricevere qualche
commento! Comunque sia, buona lettura a tutti!
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~Dirty
Blood
Capitolo
cinque
«Basile,
Yvonne, vi trovo bene»
Sargas
parlò con tono monocorde, continuando a fissare i due
impassibile;
dentro di sé però non era così posato.
Basile
e Yvonne de La
Châtre non erano
esattamente dei tipi convenzionali.
Provenivano da un'antica famiglia francese e continuavano a mantenere
il loro sangue di quella nazionalità, non ammettendo
relazioni con
altre persone che avrebbero potuto contaminare la loro stirpe.
Purtroppo, ciò spesso causava matrimoni interni alla loro
famiglia e
le progenie spesso si rivelavano alquanto problematiche.
Loro
stessi d'altronde erano frutto di quei matrimoni interni e il
rapporto che si era venuto a creare non era esattamente il prototipo
di una relazione tra fratello e sorella.
Per
questo Sargas li temeva: a causa del loro essere, erano
imprevedibili.
«Possiamo
dire così» ridacchiò Yvonne,
allungandosi maggiormente sul
fratello e affondando la faccia sul suo viso. La sua massa di
riccioli dorati si sparse nella camicia dell'altro, formandole
un'aureola che contrastava con i suoi occhi infernali.
«Gradisci
qualcosa?» domandò freddo Basile, facendo un cenno
verso la
bottiglia di vino abbandonata sulla scrivania; un ricciolo biondo
scuro, dai toni castani, gli scivolò sull'occhio, in parte
mascherando l'abisso.
Sargas
scrollò le spalle.
«No,
grazie. Sono venuto qui per parlare di questioni importanti»
rispose. Fece poi un cenno verso Dominique, sempre dietro di lui, che
esaminava la situazione con gli occhi azzurri che si incupivano
sempre di più; il viso le rimaneva comunque rilassato in un
sereno
sorriso.
«Vattene»
Yvonne parlò rude alla ragazza, ma questa non
sembrò farci caso.
Annuì e fece una riverenza appena accennata, per poi
andarsene senza
proferire parola.
«Prego,
siediti pure Sargas» continuò la donna, facendogli
cenno verso
un'altra poltrona presso il divano.
Questa
volta il ragazzo accettò, cercando di non risultare troppo
rigido:
non gli piaceva l'idea di stare da solo neanche con uno solo dei due,
entrambi sperava di riuscire a gestirli.
«Allora...»
lo invitò Basile, guardandolo fisso negli occhi. Dentro di
sé,
Sargas eresse un muro per la propria mente: non conosceva appieno le
loro abilità, ma meglio prevenire.
«Sono
venuto qui per alcune informazioni» iniziò serio,
spostando
alternativamente lo sguardo tra i due.
«Sarò
sintetico: alcuni della nostra Fazione sono stati uccisi da dei
Deviati, e “alcuni” sono troppi. Il fatto che dei
Deviati, che
siamo sempre stati in grado di gestire, siano riusciti ad uccidere
non uno solo, ma più dei nostri ci fa sospettare che ci sia
qualcuno
dietro le quinte, qualcuno che noi non conosciamo»
iniziò.
Yvonne
rise divertita.
«Non
potrebbe essere che siate voi a essere deboli?»
insinuò. Affianco a
lei però Basile le strinse il braccio, come per zittirla, ma
continuò a guardare l'ospite.
«Ci
state accusando?» domandò gelido.
Sargas
rabbrividì quando percepì una stretta d'acciaio
avvolgerlo.
L'atmosfera nella stanza pareva tranquilla, ma Sargas si accorse di
come i due (soprattutto l'uomo) fossero pronti ad attaccarlo in
qualsiasi momento; si chiedeva quanto l'altro si sarebbe spinto a
fargli del male: i rapporti tra le due Fazioni erano piuttosto
distesi, un attacco del genere non sarebbe stato una buona mossa da
parte loro.
Con
queste pensiero solo in parte confortante non si mise sulla
difensiva, mostrando le proprie intenzioni pacifiche.
«No»
iniziò secco «Sono venuto qui per chiedervi se
solo nella nostra
Fazione ci sono state queste morti o anche voi avete avuto delle
vittime» terminò.
Dopo
queste parole, per qualche attimo ci fu un silenzio assoluto nella
stanza; poi Yvonne si sollevò dal divano con un morbido
fruscio,
avvicinandosi alla scrivania e versandosi un'abbondante bicchiere di
vino.
«Siete
venuti solo da noi?» domandò a quel punto la
donna, alludendo non
solo a Sargas, ma al resto della sua Fazione.
«No.
Amadeus e Penelope sono andati a parlare con Milos e Agatha. Ci
aggiorneremo solo dopo aver avuto tutti e tre notizie»
rispose.
Sargas
osservò i due fratelli lanciarsi un'occhiata che non
riuscì a
interpretare, poi la donna si risedette con il bicchiere in mano,
allungando le gambe sul fratello che iniziò ad
accarezzargliele.
Quella
continua attesa stava snervando Sargas, il quale non vedeva l'ora di
andarsene da quella stanza; oltretutto, aspettare in quel modo lo
stava sfiancando: voleva avere delle dannate risposte, subito.
«Se
ci fossero state delle vittime anche da noi, cosa avreste intenzione
di fare?» chiese sempre Yvonne.
Sargas
la guardò inarcando un sopracciglio.
«Ci
concentreremmo su altri potenziali nemici»
Altro
silenzio.
«Mi
state dicendo che anche voi avete avuto dei morti?»
indagò.
Vide
la donna stringere il bicchiere tra la mano sinistra; le nocche
diventarono bianche mentre le vene sul polso si ingrossarono. Le
unghie laccate di nero luccicarono a causa della luce del lampadario,
come in risposta agli occhi dei due che si addensavano sempre di
più.
«Sì»
rispose secco Basile.
Dentro
di sé, Sargas non sapeva se essere sollevato o meno: non
essere i
soli colpiti significava avere degli alleati, ma il fatto che fossero
stati uccisi anche dei Neri aumentava la gravità della
situazione.
«Coloro
che sono stati uccisi...» si interruppe un attimo, notando
come i
due strinsero gli occhi a quelle parole «Erano dei
giovani?»
chiese, cercando di indagare.
«Cosa
vuoi insinuare? Non ci sono deboli tra noi» rispose
aggressiva
Yvonne, comprendendo subito dove il ragazzo volesse andare a parare.
«Non
intendo in quel senso. Vorrei capire se, chiunque sia a manovrare
questi Deviati, voglia puntare in alto o meno. Delle prede piccole
circoscriverebbero già la situazione»
spiegò Sargas, rimanendo
calmo.
«Cosa
vi fa pensare che ci sia qualcuno dietro le quinte? Non potrebbero
essere semplicemente dei Deviati che si sono organizzati? Infondo
siamo sempre stati in guerra con loro» domandò
Basile.
Sargas
si chiese il perché di quella domanda: Basile era
più vecchio di
lui e aveva oggettivamente una maggiore conoscenza ed esperienza, in
tutti i campi, perché porre una domanda che aveva una
risposta
ovvia?
«Mi
sembra chiaro che i Deviati, con la loro formazione e livello di
sviluppo, non sono in grado di attaccarci con questa portata.
È
ovvio che ci sia qualcuno a manovrarli, anche se non sappiamo
chi»
rispose, una lieve sfumatura perplessa nella voce.
«Mh,
non sei così stupido allora» disse solo l'uomo.
Sargas
fu sul punto di rispondergli in malo modo, ma alla fine tacque,
provocando il ghigno divertito dei due fratelli.
«Quindi?»
domandò, un poco spazientito.
«Quindi
cosa? Mi pare che tu abbia detto di essere venuto solo per porci
quella domanda, e l'hai fatto» disse atono Basile.
«Sì,
ma... Sareste disposti a condividere le informazioni e a collaborare,
in caso di necessità?»
Yvonne
rise.
«Quindi
avete bisogno di noi» ridacchiò.
Sargas
si trattenne di nuovo dallo sbottare.
«In
un certo senso. Non sappiamo con chi abbiamo a che fare, dobbiamo
essere pronti a qualsiasi possibilità» rispose
secco.
Yvonne
fece un vago gesto con la testa, come ad acconsentire, e
lasciò che
rispondesse il fratello.
«Acconsentiamo
a questa “collaborazione”» disse l'ultima
parola come se stesse
pronunciando una parola disgustosa «Vi faremo arrivare le
nostre
informazioni e attenderemo le vostre» concluse sempre gelido.
Sargas
annuì e si alzò in piedi. Voleva andarsene il
prima possibile da
lì.
«Perfetto.
Allora grazie del vostro tempo» terminò a sua
volta.
I
due fratelli non risposero e Yvonne rise di nuovo mentre tuffava il
viso nel collo di Basile, affondando tra i riccioli dell'altro che,
con un sorrisetto, iniziò ad accarezzarle i capelli.
Sargas
fece un ultimo cenno verso i due e si diresse alla porta, uscendo
senza proferire parola.
Quando
si ritrovò finalmente fuori da quella stanza la luce lo
accecò e si
ritrovò nuovamente davanti Dominique, la quale lo attendeva
in piedi
e composta. I capelli platino sembravano ancora più luminosi
di
prima e i suoi occhi ancora più accattivanti; nonostante la
presenza
dell'altro, rimanevano ostinatamente azzurri.
Sargas
la guardò con il suo sguardo ancora candido.
«Sei
rimasta ad aspettarmi» puntualizzò.
«Volevo
assicurarmi che non ti perdessi uscendo da qui» fece con un
vago
tono ironico. Sargas inarcò un sopracciglio, ma tacque e
attese che
l'altra gli facesse strada.
Durante
il tragitto di ritorno nessuno dei due parlò: Sargas era
ancora
pensieroso riguardo ciò che aveva appena appreso, la donna
invece
sembrava non aver domande da porre, come se avesse già
origliato
tutta la conversazione da fuori, cosa in parte probabile.
«Torna
presto a farmi visita, mon trésor»
disse con un dolce
sorriso Dominique, una volta che l'ascensore si aprì
permettendo a
Sargas di uscire. Lui, di risposta, le fece solo un cenno con la mano
e con il capo, per poi uscire dall'edificio.
La
stanza era in penombra come al solito mentre Sargas scriveva un
biglietto da mandare a Penelope e Amadeus. Il solo suono presente era
quello della penna che scriveva frettolosa sul foglio bianco, mentre
Sargas continuava a riflettere sulla situazione.
Appoggiò
infine la penna sulla scrivania, abbandonandosi sulla sedia e
massaggiandosi le tempie.
Quella
questione gli stava piacendo sempre meno, e non ne sapeva nemmeno lui
il perché; aveva un brutto presentimento riguardo a tutto
ciò,
anche se doveva aspettare i responsi degli altri prima di
preoccuparsi definitivamente.
Ma
era tutto effettivamente molto strano: i Deviati li attaccavano da
sempre, era una guerra nata da chissà quanto tempo prima,
nella loro
memoria si era sempre stati in lotta con loro. Ma, d'altronde, le
loro abilità non avevano mai permesso loro di uccidere in
grande
portata dato che i Mali Sanguines rimanevano
comunque più
forti. Ora che ci rifletteva, Sargas si chiedeva perché non
li
avessero mai sterminati tutti in modo tale da non doverci
più
pensare.
A
distoglierlo da quei pensieri fu il bussare che lo colse leggermente
alla sprovvista.
«Avanti»
La
porta si aprì lenta e il ragazzo riconobbe subito la
familiare
figura di Claire.
«Ehi,
ti disturbo?» domandò la mora, entrando nella
stanza.
«Non
preoccuparti» rispose solo lui «Che ci fai
qui?»
Claire
scrollò le spalle.
«Riguarda
Ophelia» spiegò.
Sargas
fece una smorfia involontaria.
«Giusto.
Mi stavo dimenticando di lei» borbottò tra
sé. Claire lo guardò
dubbiosa, osservandolo preoccupata.
«Cos'è
successo?» domandò però Sargas,
impedendo alla giovane di porre
qualsiasi domanda.
Claire
accettò quel cambio di argomento e rispose.
«Sta
male. Molto male. Ho controllato non solo io, ma anche Domi e Max, e
non sembra abbia nulla che non va. Sembrano sintomi di un'influenza,
con vomiti, mal di testa, mal di stomaco e così via... Ma
non
percepiamo nulla di tutto ciò. È
strano» spiegò.
Sargas
la fissò negli occhi.
«Avete
qualche idea?»
«A
dire il vero ci è venuta in mente solo una cosa»
«Sarebbe?»
«Una
barriera» rispose secca.
Sargas
tacque.
Una
barriera... Beh, effettivamente era possibile. Poteva mascherare
totalmente l'origine dei mali, se ben fatta.
«Però
non ne siete sicuri» considerò.
«Esatto.
Dovremmo renderci conto della sua presenza, ma non cogliamo niente di
niente» spiegò ancora Claire.
Sargas
scrollò le spalle, per poi alzarsi e afferrare le sigarette
abbandonate sul letto della propria stanza. Se ne accese una e volute
di fumo iniziarono a invadere la stanza.
«Secondo
chi l'ha creata, c'è la possibilità che sia
impercettibile a voi.
Ma neanche a me è parso di notarla e se c'è
effettivamente una
barriera, chi l'ha fatta deve essere di sicuro molto forte e
abile»
«È
quello che stavamo pensando anche noi. Ma finché non abbiamo
la
certezza che sia una barriera, non possiamo avanzare grandi
ipotesi»
Sargas
annuì concorde.
«Dove
l'hai portata?»
«A
casa. Non sapevo altri posti in cui avrei potuto lasciarla senza far
nascere domande di altri»
Sargas
annuì di nuovo. Aspirò una nuova boccata di fumo.
«Domani
manderò qualcuno a esaminarla, nel frattempo cercate solo di
farla
stare meglio» concluse, risedendosi.
Claire
annuì.
Per
qualche secondo ci fu silenzio.
«Non
sembri stare granché bene» disse infine la
ragazza. Sargas la
guardò, notando subito i suoi occhi bianchi.
«Non
usare i tuoi poteri con me, Claire» disse secco, una punta di
fastidio nel suo tono.
La
ragazza lo guardò contrita.
«Potrei
aiutarti»
«Non
elimineresti il problema e per ora non c'è bisogno che tu ne
sia a
conoscenza» fece risoluto.
Claire
sembrò sul punto di dire qualcosa, ma alla fine non lo fece.
Abbassò
lo sguardo.
«Come
preferisci»
«Ora
torna a casa e informami se ci sono novità»
La
mora annuì secca.
«Puoi
andare»
Claire
non disse nulla, si limitò ad uscire veloce dalla stanza,
lasciandosi dietro un Sargas dallo sguardo indifferente.
Quando
si ritrovò di nuovo da solo, sospirò.
Ecco,
aveva un nuovo problema a cui pensare, un'altra patata bollente
sempre lasciatagli dal padre.
Gli
dispiaceva per come aveva trattato Claire, non se lo meritava, ma era
l'unico modo per farla desistere in fretta da qualsiasi desiderio da
crocerossina che le venisse in testa. Meglio non far preoccupare gli
altri, almeno per ora, di quello che stava succedendo; li avrebbe
resi partecipi a tempo debito.
In
ogni caso, rimaneva la questione di quella Ophelia: se era vera
l'idea di quella barriera, si chiede chi avesse particolare interesse
in quella ragazza che sembrava completamente normale – e
anche un
po' isterica, a dire il vero. Non sembrava possedere
potenzialità di
sorta, ma non poteva escludere nulla in quel momento per questo
avrebbe mandato uno specialista in barriere e sigilli a controllarla.
Prese
un altro foglio, rimandando per un attimo il biglietto per Penelope e
Amadeus, e afferrò la penna.
La
strinse, pensando a chi avrebbe dovuto scrivere.
Sperava
solo che avrebbe acconsentito alla richiesta.
|
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Capitolo 6 *** Capitolo sei ***
Buon
pomeriggio a tutti!
Ecco
a voi il sesto capitolo di Dirty Blood...
Allora,
da questo capitolo si inizia a capire qualcosa in più, in
parte
anche la causa del malessere di Ophelia anche se più che
altro si
capisce che c'è qualcosa di nascosto in lei, e Claire, i
gemelli e
Sargas dovranno ingegnarsi per capire effettivamente cosa.
Viene inoltre presentato un nuovo personaggio, come vedrete sin dalle
prime righe, che credo sarà molto importante per la storia,
o
perlomeno per alcuni aspetti di essa, tra cui le dinamiche fra i vari
personaggi.
Anche
alla fine compariranno due nuovi personaggi che spero di riuscire ad
approfondire di più nel corso dei vari capitoli.
Comunque
sia, spero che questo capitolo sia di vostro gradimento!
Avviso
già da ora che per le prossime due settimane non ci saranno
aggiornamenti (o comunque sarà molto difficile che ce ne
siano)
perché sarò al mare e lì la
connessione è quasi un miraggio. Mi
metterò di impegno però per scrivere il prima
possibile il settimo
capitolo.
Adesso
vi lascio alla lettura, sperando in qualche vostro commento!
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~Dirty
Blood
Capitolo
sei
Angelica
rilesse per l'ennesima volta il biglietto, ormai stropicciato dalle
troppe volte in cui l'aveva torturato e tentato di buttarlo –
puntualmente andava a recuperarlo ogni volta, odiandosi per la
propria debolezza.
Smettila
di comportarti come una bambina e fai il tuo dovere,
si disse nella sua testa.
Ma
il fatto era che non riusciva a spegnere quell'immane desiderio di
rimandare il biglietto dal deficiente che gliel'aveva spedito con
allegato un bel “vaffanculo”.
«Maledetto
Sargas» borbottò a voce bassa, per poi decidersi e
suonare il
campanello della casa dei fratelli Sangster. Dopo una snervante e fin
troppo lunga attesa, acuita dall'essere nervosa di suo, la porta si
aprì rivelando una figura conosciuta.
«Angelica!»
Claire
la guardò sbalordita.
«Ehi,
Claire» fece con un tiepido sorriso «Posso
entrare?»
Dopo
un breve attimo di incertezza l'altra la ragazza si scostò
dalla
porta.
«Sì,
certo, entra pure!»
Angelica
entrò all'interno della casa, conoscendola già.
«Ti
ha mandato lui?»
La
domanda arrivò alle orecchie di Angelica, un poco persa nei
suoi
pensieri, e sentendo le parole dell'altra fece una smorfia.
«Sì,
mi ha mandato Sargas» fece secca «Allora,
dov'è questa ragazza?»
domandò, cambiando argomento in maniera repentina. Angelica
vide
l'altra annuire, come se avesse compreso che la ragazza non volesse
parlare del moro.
«È
in camera, vieni»
Angelica
seguì l'altra per il lungo andito fino ad arrivare a una
stanza
piuttosto spoglia, all'interno della quale, su un grande letto, stava
una giovane ragazza dai capelli biondo miele.
Angelica
la osservò critica: pallida, profonde e violacee occhiaie,
respiro
affannato. Non le servivano i suoi poteri per comprendere che quella
non stesse affatto bene.
«Ehi,
Ophelia, sei sveglia?» Claire chiamò la bionda che
subito aprì gli
occhi, puntando lo sguardo verde dapprima sulla mora, poi su quella
che per lei era una sconosciuta. Angelica contraccambiò lo
sguardo,
osservandola diffidente.
Quindi
era per questa ragazza che Sargas l'aveva chiamata? Chi era? E,
soprattutto, chi era per lui?
«Sì,
sono sveglia» la voce flebile della ragazza emerse dalle
coperte
sotto cui era, facendo quindi avvicinare le due ragazze.
«Chi
sei tu?» quella ragazza, Ophelia, si rivolse direttamente
verso
Angelica, la quale la osservò un poco spiazzata dalla
domanda così
diretta.
«Mi
chiamo Angelica, sono qui per visitarti» rispose.
La
ragazza annuì, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa
iniziò a
tossire convulsamente.
«Vedi?
Sta male, eppure non sembra abbia alcunché. Stavamo
ipotizzando una
barriera, non so se te l'ha detto...» spiegò
Claire, e Angelica
notò l'accuratezza con cui evitò di pronunciare
il nome di Sargas.
«Sì,
me l'ha detto. Ma voi non avete trovato nulla, no?»
«Questo
è vero, infatti ci stiamo rivolgendo ad una
specialista» concordò
Claire, facendo un cenno in direzione proprio di Angelica. Questa
annuì.
Un
battito di ciglia e i suoi occhi diventarono bianchi.
«Dio,
avvisatemi prima di farlo, è spaventoso»
mugugnò la ragazza a
letto.
Angelica
la guardò lievemente sbalordita: aveva interpretato male, o
quella
ragazza non era abituata ai loro occhi? Ciò significava che
fosse...
normale?
Lanciò
uno sguardo poco convinto a Claire, la quale sfuggì ai suoi
occhi,
ma decise comunque di esaminare la bionda. Si avvicinò di
più a
lei, scostandole le coperte in modo tale da osservarle il corpo
interamente; Ophelia rabbrividì, ma non si
lamentò.
Lasciò
scivolare i propri occhi lungo la figura dell'altra, cercando di
cogliere prima di tutto segnali di qualsiasi tipo di malattia che
avrebbe potuto affliggere la povera ragazza: nulla, la sua aurea era
perfetta, vivace e brillante, tranne alcune zone più agitate
dovute
all'ansia che la avvolgeva.
«Hai
ragione, non ci sono segni di malattia» disse in direzione di
Claire; l'altra annuì, rimanendo in silenzio e attendendo il
resto
dell'esame.
Angelica
continuò a osservarla: questa volta, però,
dovette concentrarsi
molto di più. Sentì distintamente la massa di
potere che si
riversava nei propri occhi; percepì il calore che aumentava
in essi,
come se pian piano stessero diventando dei carboni ardenti.
Tutto
si fece più intenso sotto il suo sguardo candido: le auree
delle due
persone nella stanza divennero così luminose da diventare
quasi
fastidiose e ogni loro piccola sfumatura o leggero cambiamento
risultavano chiari e lampanti. Il resto della stanza appariva avvolto
da una vaga nebbia luminescente e ogni minimo spostamento, anche
quello della tenda o dell'aria a causa del respiro delle due
ragazze, provocava un conseguente movimento in quella nebbia bianca.
Posò
il proprio sguardo verso la figura di Ophelia, concentrandosi in
maniera tale che tutto il resto della stanza scomparve: erano solo
lei e quel corpo immobile, covo di qualcosa che doveva ancora
scoprire.
La
fissò per alcuni minuti, ma nulla parve uscire allo scoperto.
«Vedi
qualcosa?»
La
voce di Claire le giunse lontana e quasi indistinta, deconcentrandola
un poco. Fece un gesto per zittirla, per poi ritornare alla sua
osservazione.
Nulla.
È strano. Ormai dovrebbe apparirmi qualcosa.
Si
morse un labbro, confusa.
Era
quasi impossibile una cosa del genere; non le veniva in mente nessuno
che potesse applicare una barriera di quella portata –
perché
ormai ne era praticamente certa, era una barriera a nascondere
l'origine del malessere di quella ragazza.
«Forse...»
sussurrò, sovrappensiero.
Le
venne un'idea e sospirò infastidita dal doverla mettere in
atto.
La
massa di forza che aveva concentrato totalmente sui suoi occhi si
spezzò in due, spostandosi lentamente verso il centro della
fronte,
in corrispondenza del terzo occhio. Le costò una fatica
immane e una
concentrazione tale che dovette ringraziare la propria forza mentale
per non svenire – ma, in fondo, proprio per le sue grandi
capacità
era diventata una specialista del terzo occhio nonostante la giovane
età.
La
nuova prospettiva si aprì e le diede un nuovo punto di
vista. A quel
punto la vide.
Era
come una sottile pellicola azzurrina, che avvolgeva il corpo di
Ophelia impalpabile come l'aria; era così sottile e ben
nascosta che
le costò un ulteriore sforzo metterla bene a fuoco.
Eccola.
La barriera.
Vedendola,
un'atroce consapevolezza si fece strada in lei.
Possibile
che...
Allungò
una mano mentre le punte delle dita si illuminavano come le code
delle lucciole e, cercando di comprendere la forza di quella
barriera, tentò di sfiorarla.
Peccato
che, appena la toccò, un dolore – come una scarica
elettrica, ma
molto più forte – le trafisse il braccio per poi
percorrerla lungo
il corpo.
E
gridò.
Ophelia
sobbalzò vedendo quella ragazza – giusto, Angelica
– gridare
così all'improvviso.
Si
alzò di scatto e, così facendo, un'acuta fitta di
dolore la fece
gemere, ma nonostante ciò si costrinse ad allontanarsi dalla
ragazza, spaventata.
Angelica
si accasciò a terra, i capelli rossi che le finirono sul
viso
nascondendo i suoi occhi, e venne immediatamente soccorsa da Claire
che cercò di tirarla sul letto.
Che
diavolo stava succedendo? Perché le sue mani brillavano in
quel
modo? E, soprattutto, perché si era messa a gridare dopo
averla a
malapena sfiorata?
«Angelica!
Angelica, che cosa è successo?»
La
voce di Claire la riportò alla realtà,
allontanandola da quel fiume
di domande che le scorreva in testa.
«Maledizione...»
Angelica masticò fra le labbra quella singola parola,
riprendendosi
e cercando di rimettersi in piedi.
Ophelia
notò che i suoi occhi non erano più bianchi,
bensì del loro colore
originale, un castano scuro che davano una sfumatura fiera e in parte
aggressiva a quella ragazza che – a Ophelia doleva ammetterlo
–
era bella proprio come Claire.
«Che
cos'è successo?» osò infine chiedere la
bionda, arretrando
ulteriormente lungo il letto; ignorò il dolore al costato
che quello
spostamento le provocò.
«Vorrei
saperlo anche io» disse lugubre la rossa.
«Cosa
intendi?» intervenne Claire.
«Intendo»
iniziò Angelica, finalmente in grado di stare in piedi da
sola «che,
anche se non so per quale motivo, questa ragazza ha una barriera
fatta maledettamente bene. Per anche solo notarla ho dovuto ricorrere
al terzo occhio e, appena ho cercato di toccarla per capire come
fosse fatta, mi ha dato una fottuta scarica elettrica»
sibilò.
Allora
era vero. Le era stata messa una barriera.
Ophelia
iniziò a ridere.
Ok,
tutto questo non può essere. Una barriera? Ma stiamo
scherzando?
Credevo fosse solo un modo per prendermi in giro, eppure... Che
diavolo sta succedendo? Perché non ho più il
controllo della mia
vita?
Le
altre due ragazze la fissarono perplesse, ma Ophelia le
ignorò. Era
troppo presa dal constatare cosa le stesse succedendo per poter
notare come stesse facendo la figura della pazza.
Insomma,
non che gliene fregasse molto, sia chiaro, solo che aveva
già dato
una pessima mostra di sé la prima sera, quando aveva avuto
un
attacco isterico in pieno stile, e qualcosa le diceva che gliene
stava per venire un altro.
Si
costrinse a prendere respiri profondi, cercando di riprendere il
controllo di sé, e in parte riuscì nel proprio
intento.
«Si
può fare qualcosa?» riuscì solo a dire,
alla fine.
Angelica
la guardò dubbiosa.
«Non
lo so, che io ricordi non mi è mai capitata una cosa del
genere,
devo consultare dei libri e forse anche qualcuno più
preparato di me
in materia»
«Capisco»
mormorò Ophelia «Ma qualcosa l'avrai pur vista,
no?» insistette.
Voleva
capirci qualcosa, anche se in un frangente del genere non sapeva se
ci sarebbe riuscita.
Vide
la rossa lanciare uno sguardo a Claire in una muta domanda.
«Rispondi.
Non mi interessa se Claire non vuole che io lo sappia, è il
mio
corpo» fece improvvisamente aggressiva.
«Ho
visto una barriera del quinto tipo»
«Uh,
ora capisco tutto» fece sarcastica la bionda. Angelica
sollevò gli
occhi al cielo e a Ophelia venne voglia di insultarla.
Lei
alzava gli
occhi al cielo? E
Ophelia cosa avrebbe dovuto fare, allora? Buttarsi direttamente dal
balcone?
«Ci
sono fondamentalmente cinque tipi di barriere: la prima, quella
mentale, che impedisce che vengano letti i propri pensieri; il
secondo tipo, comunemente chiamato sigillo, che confina tutti i
poteri di una persona; il terzo tipo, quello fisico, che immobilizza
totalmente il corpo; poi la quarta barriera, quella della coscienza,
che ti rinchiude nella tua stessa mente per renderti una marionetta
nelle mani degli altri. E infine il quinto tipo, detto anche
“velo
nascosto”, che occulta totalmente tutto ciò che si
vuole su una
persona: che essi siano altri sigilli, o marchi, o magie di
deperimento. Tutto» spiegò con una strana lentezza
Angelica.
Quelle
informazioni – le prime concrete che le venissero fornite, si
rese
conto – dilagarono nella mente di Ophelia, la quale le mise
al
sicuro nella propria memoria concentrandosi sull'ultima elencata.
Un
“velo nascosto”? Se non fosse che mi trovo in
questa situazione,
mi metterei a ridere. Che nome ridicolo,
pensò.
«E
quindi?» chiese ancora, volendo sapere dell'altro.
«Quindi
è una barriera fatta così bene che non so proprio
chi potrebbe
averla fatta» concluse la rossa.
Ophelia
tacque pensierosa.
«Potrebbe
essere...» si fermò, cercando di focalizzare il
nome «...Lisander?»
fece con tono interrogativo, dubbiosa del nome. In fondo, non era
stato lui a volerla lì? Era l'unica opzione fattibile che le
venisse
in mente.
Vide
subito Angelica gelarsi e stringere le labbra, quasi rifiutandosi di
rispondere.
«Assolutamente
no!» intervenne rapida Claire, facendo distogliere lo sguardo
della
bionda dall'altra.
Ophelia
lanciò un ultimo sguardo alla rossa, esitante, poi si
concentrò su
Claire.
«Perché?»
«Beh,
senza nulla togliere alle straordinarie abilità di
Lisander... Come
forse hai notato, diciamo che ognuno di noi è specializzato
in
qualche cosa. Angelica è una specialista di barriere e
tecniche di
guarigione, per questo lei, a differenza nostra, è stata in
grado di
comprendere ciò che avevi. Lisander non è un
esperto in questi
campi, perciò è molto difficile – direi
praticamente impossibile
– che sia stato in grado di fare una barriera del genere in
modo
così perfetto, rendendola del tutto invisibile»
spiegò Claire
paziente.
Ophelia
annuì, la confusione che iniziava a farsi strada nella sua
mente.
Non
sapeva ancora praticamente nulla di loro e della loro natura,
ma già quelle scarse informazioni che stava ricevendo le
bastavano
per farle venire mal di testa; oltretutto il suo malessere non
aiutava.
Come
richiamato alla mente, le fitte allo stomaco ripresero quasi
più
forti di prima, costringendo la bionda a piegarsi in due nel vano
tentativo di attenuare il dolore.
«Ophelia...»
sussurrò Claire, avvicinandosi a lei, gli occhi che
diventavano
bianchi mentre tentava in qualche modo di alleviarle le sofferenze.
«Io
vado. Cercherò delle informazioni su questo tipo di barriere
e su
come scioglierle, così magari riusciremo ad arrivare alla
fonte del
problema» disse all'improvviso Angelica, improvvisamente
scossa
dall'umore nero in cui sembrava piombata un momento prima.
Ophelia
non la guardò e non le disse nulla, troppo occupata a
cercare di
contenere il proprio dolore.
Per
questo non vide le due ragazze uscire dalla stanza, lasciandola da
sola e dolorante, di nuovo rannicchiata tra le coperte che le davano
un confortante calore. Ma ancora persa nei proprio pensieri.
«Mai
pensato di cambiare sigari?»
Abel
Houbraken si poggiò allo stipite della porta, una smorfia
disgustata
stampata in faccia a causa dell'olezzo spaventoso sparso nell'aria.
«Non
capisci un cazzo» replicò annoiato Amadeus,
lanciando un'occhiata
al proprio sottoposto e continuando ad aspirare quell'orribile
sigaro.
Abel
alzò gli occhi al cielo: che non gli venissero toccate
quelle
schifezze! Chiunque non le apprezzasse – ovvero tutti
– finivano
per essere degli ignoranti con dei gusti di merda. Testuali parole
dello stesso Amadeus.
«Dove
sono Drake e Clay?» domandò poi l'uomo abbandonato
sulla poltrona.
Abel
mosse qualche passo verso la stanza, le mani in tasca mentre cercava
di respirare il meno possibile.
«Stanno
arrivando, credo li abbia fermati Omega» spiegò
sedendosi.
Amadeus
fecce una smorfia.
«E
ora che ha combinato quel coglione?» berciò,
aspirando una sana
boccata di sigaro.
«Non
ne ho idea, ma l'ultima volta che l'ho visto stava leccando il culo
un po' a tutti affinché lo coprissero o qualcosa del genere.
Non
l'ho ascoltato» rispose annoiato.
Amadeus
annuì, spostando poi l'attenzione su dei fogli poggiati
sulla
propria scrivania; iniziò a leggerli ignorando Abel.
Quest'ultimo
guardò di sottecchi l'uomo, continuando a tacere.
«Se
devi dire qualcosa, fallo e smettila di guardarmi in quel modo
inquietante» disse infine l'altro.
Abel
allora puntò sfacciatamente i propri occhi grigi su di lui.
«Ci
hai chiamato per parlarci di Bram, Tyson e Reid?» chiese
allora.
Amadeus
alzò lo sguardo verso di lui; i suoi occhi, privi del bianco
che
contraddistingueva la loro razza, erano castani.
«Cosa
te lo fa pensare?»
Abel
ghignò.
«Forse
il fatto che ti sei incontrato con gli altri due Master e poi sei
andato a parlare con uno della Fazione Nera?»
domandò retorico.
Amadeus
inarcò un sopracciglio.
«Sei
ben informato» considerò.
«Sei
tu che mi hai insegnato a esserlo» rispose mellifluo.
E
in effetti era vero: era stato il suo Master a renderlo uno
specialista dello spionaggio, non doveva di certo meravigliarsi che
fosse a conoscenza di ogni suo singolo spostamento.
Amadeus
sorrise sardonico.
«Questo
è vero» considerò «Sai
qualcos'altro?» chiese.
«Chiacchiere
qua e là...» fece vago, non rispondendo
chiaramente.
Prima
che l'altro potesse fare altre domande, sull'uscio della porta
arrivarono altri due ragazzi.
«Siamo
in ritardo?» domandò Drake, entrando con le mani
in tasca e
guardandosi attorno. Dietro di lui Clay lo seguiva e sbadigliava.
«Come
sempre» rispose pungente Amadeus, mentre Abel guardava
scettico i
loro vestiti disordinati.
Quando
la smetteranno di infilarsi negli sgabuzzini per scopare?,
pensò annoiato, ma tacque.
Notò
però che Clay aveva percepito i suoi pensieri quando gli
venne
lanciata un'occhiata raggelante, che però non gli fece
né caldo né
freddo; gli sorrise candido.
«Qualche
problema?» fece angelico.
«Sì,
la tua testa» rispose Clay, infastidito.
Abel
si limitò a scrollare le spalle, ridendo tra sé.
«Se
avete finito di chiacchierare magari posso dirvi il motivo per cui vi
ho chiamati qui» li richiamò con fastidio Amadeus.
I
tre si voltarono in contemporanea verso il loro Master,
improvvisamente attenti; ad un cenno di quest'ultimo, la porta si
chiuse con un sonoro schiocco.
«Bram,
Tyson e Reid sono morti» fece secco.
Abel
sbadigliò annoiato guadagnandosi un'occhiata da Drake e Clay.
«Abbiamo
saputo» disse solo Clay, iniziando a giocherellare con la
collana
che gli sbucava dalla camicia.
Amadeus
lasciò scorrere lo sguardo su ciascuno di loro.
«Immagino
abbiate saputo che sono stati dei Deviati ad ucciderli»
continuò.
Gli
altri annuirono, cambiando istintivamente il colore dei loro occhi
che divennero bianchi.
«L'altro
giorno mi sono incontrato con Penelope e...» si interruppe,
un
attimo confuso, poi sbuffò «...e Sargas, che sta
sostituendo
Lisander. Abbiamo deciso di consultarci con i Master della Fazione
Nera per vedere se anche loro aveva subito degli attacchi»
«E
avete scoperto che anche loro hanno avuto dei morti tra le loro
file»
terminò per lui Abel.
Sapeva
già buona parte della storia, anche se quest'ultimo
dettaglio lo
aveva saputo soltanto da pochissimi giorni: era riuscito a captare
qualche informazione da dei Grigi, anche se non era riuscito a
capirci di più. Sapeva che a breve Amadeus li avrebbe
chiamati a
rapporto, sapeva anche quale sarebbe stato il loro compito.
«Quindi
ci hai chiamato per investigare?» domandò Drake,
passandosi una
mano tra i capelli mogano, leggermente più chiari della rada
barba
che gli copriva il viso.
«Esatto»
confermò l'uomo, aspirando dal sigaro che ad Abel parve
infinito. Ma
per quanto doveva continuare ad appestare la stanza?
«Perché
non l'hai fatto prima?» chiese Clay, abbandonandosi su
un'altra
sedia e facendo sobbalzare i capelli biondi raccolti in un codino.
«Dovevo
parlarne con gli altri Master. Oltretutto, pare che Sargas non ne
fosse nemmeno a conoscenza, nella loro gens
non ci sono stati morti, quindi dovevo metterlo al corrente»
spiegò.
«E
nella gens di Penelope?» domandò sempre Clay.
«Ne
sono morti quattro» disse freddo Amadeus.
L'occhiata
che fece, nonostante i dreads e l'aria da perenne scazzato che si
ritrovata, gli diede una strana aurea che ricordò ad Abel il
motivo
per cui lui era il Master della loro gens.
Abel
vide Drake che stringeva i pugni.
Tre,
due, uno...
«Quei
schifosi bastardi» sibilò il ragazzo, sbattendo il
pugno sulla
scrivania del capo.
Abel
gli lanciò un'occhiata di sufficienza.
«Datti
una calmata Drake, conserva l'istinto omicida per un altro
momento»
fece annoiato.
Drake
gli lanciò un'occhiata obliqua.
«Come
cazzo fai a essere sempre così fottutamente
calmo?» sibilò
pesantemente infastidito.
Abel
sorrise sarcastico.
«Ma
io mi incazzo qualche volta, sai? Solo per le cose importanti
però,
come il poker, quando finisce l'alcol...» iniziò
ad elencare. Clay
gli lanciò un'occhiataccia, ma avrebbe continuato se non
fosse che
Amadeus intervenne.
«Calmate
il pollaio, idioti» disse «Vi sto dando un ordine:
non mi interessa
dove andiate o cosa facciate, portatemi tutte le informazioni che
potete. E so che voi farete un bel lavoro, vero?»
I
tre ragazzi sorrisero beffardi.
Beh,
non erano il miglior team di spionaggio della Fazione Bianca senza un
motivo, no?
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Capitolo sette ***
Buongiorno
a tutti!
Dopo
praticamente un mese di assenza ho finalmente pronto il settimo
capitolo.
Sarò
sincera: non ho scritto nulla per tutto questo tempo, l'ispirazione
mi è venuta solo in questi ultimi giorni in cui sono
riuscita a
creare il nuovo capitolo, anche se la parte centrale del testo l'ho
riscritta più di una volta perché non mi piaceva
– e non che ora
mi convinca tanto, ma ho trattato un “argomento”
che non sono
solita trattare quindi non so ancora bene come dispiegare la cosa
(sì
sono vaga, ma lo faccio apposta per non spoilerare nulla). Data
questa indecisione da parte mia mi piacerebbe che qualcuno esprimesse
il proprio parere su questo capitolo, perché non so
esattamente dove
devo migliorare anche se so che ce n'è bisogno! Ringrazio
anticipatamente chiunque venga incontro alla mia richiesta!
Comunque
in questa storia si entra un po' più nel vivo della storia
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~Dirty
Blood
Capitolo
sette
Quel
tè faceva schifo.
Ophelia
storse la bocca assaggiandolo, per poi poggiare la tazza sul tavolo e
allontanarla di poco da sé; allungò una mano sui
biscotti
dall'aspetto invitante e ne assaggiò uno. Anche quello
faceva
schifo.
A
onor del vero, né il tè né i biscotti
erano disgustosi,
semplicemente Ophelia aveva una nausea tale che ogni cosa che
mangiava le risultava indigesta, costringendola a mangiare a forza
perlomeno per non morire di fame.
Guardò
il suo triste pranzo – mangiare qualcosa di più
pesante non le
sembrava il caso, dato che continuava a vomitare – e
sospirò nel
silenzio della cucina dei Sangster.
Era
stata lasciata sola quel giorno, non sapeva cosa i tre fratelli
avessero da fare di così importante ma qualsiasi cosa fosse
li aveva
costretti a mollarla lì da sola, cosa rara dato che c'era
sempre
qualcuno assieme a lei; non sapeva se fosse per evitare che fuggisse
o altro, comunque sia la controllavano sempre.
In
ogni caso, lei non sarebbe fuggita: dove sarebbe andata? A chi
avrebbe chiesto aiuto? Chi le avrebbe creduto?
Non
c'era risposta a quelle domande, la sua unica possibilità
era di
stare lì; inoltre era talmente dolorante e stanca che non
credeva
che fosse stata in grado di andare lontano. Gli altri la trattavano
bene, non aveva molti motivi per voler fuggire, anche se la
situazione continuava a essere assurda all'inverosimile.
Sentì
un crampo alla pancia e fece una smorfia: le sembrava di stare meglio
quel giorno, ma ogni momento era buono per una fitta improvvisa che
le faceva storcere la bocca.
Si
stropicciò chi occhi e si strinse di più nella
felpa che le era
stata prestata – una morbida, calda e blu elettrico, che a
quanto
pare apparteneva a Claire anche se la stupiva che la ragazza
possedesse un indumento del genere – poi si costrinse a
prendere
qualche sorso di tè e sbocconcellare il biscotto.
Il
silenzio era assoluto in casa, d'altronde c'era solo lei,
perciò il
boato che arrivò all'improvviso la fece quasi urlare.
Si
alzò di scatto, sentendo ulteriore fracasso e dei passi nel
corridoio; si guardò intorno spaventata, non sapendo che
fare.
Oddio.
Oddio. Cazzo. Che sta succedendo?,
pensò in preda alla paura.
I
passi continuavano insieme a porte che si aprivano bruscamente e
parole urlate che però non riuscì a capire. Fece
appena in tempo a
lanciarsi dietro una poltrona che dava le spalle alla finestra prima
che la porta si aprì con uno schiocco secco facendola
sussultare. Si
portò una mano alla bocca, costringendosi a non fare un
fiato.
Le
parve che il cuore le stesse per uscire fuori dal petto e si
rannicchiò pregando di non essere vista.
«È
qui»
Gli
occhi le si appannarono di lacrime sentendo quella voce maschile
invadere la stanza. Era terrorizzata.
Non
poté fare nulla però: rimase semplicemente
immobile e in silenzio,
ma subito dopo la poltrona venne scaraventata lontano lasciandola
scoperta.
Di
fronte a lei un uomo e una donna la guardavano con soddisfazione; in
quei pochi secondi riuscì a stamparsi in testa il loro
aspetto:
l'uomo era alto all'inverosimile, raggiungeva di sicuro i due metri,
e i lineamenti duri erano incorniciati da folti capelli castani e
occhi altrettanto scuri. La donna invece era sottile come un giunco,
con lunghi capelli ramati e occhi scuri.
«Sembra
terrorizzata» disse con un sorriso la donna. L'altro non le
rispose,
continuando a fissare Ophelia.
La
bionda tentò di allontanarsi, inutilmente in quella
situazione, ma
una fitta al petto la bloccò sul posto; un gemito strozzato
le uscì
dalla bocca mentre il dolore si diffondeva fino ad arrivare alla
testa, lasciandola senza fiato.
Chiuse
gli occhi dalla sofferenza ma come li riaprì tutto
sembrò diverso e
riguardando i due tizi lanciò un urlo.
Le
figure di poco prima non c'erano più: al loro posto vi era
un essere
ugualmente grande e grosso ma con la pelle a striature marroni, i
capelli che parevano dei rovi e un paio di occhi grigio pietra, privi
di pupilla; affianco a lui, una donna dalla pelle venata di nero, i
capelli in fiamme e gli occhi altrettanto infuocati.
«Oddio...»
riuscì a mormorare Ophelia, sentendo il suo corpo, la sua
mente,
tutto in lei crollare.
Le
due figure sorrisero inquietanti, e così facendo la donna
mise in
mostra dei denti aguzzi.
«Pare
che ci veda» disse sempre la donna, spostandosi i capelli con
una
mano e provocando scintille.
Ophelia
non seppe neanche come fece, neanche da dove trovò la forza:
si alzò
e cercò di aggirarli per scappare.
Ovviamente
la cosa non poteva funzionare, poiché fu subito presa dalla
donna
per il braccio e ciò la costrinse a fermarsi bruscamente,
facendola
cadere. Lì dove era stata afferrata sentì la
pelle bruciare come su
dei carboni ardenti e un disgustoso odore di carne bruciata si
diffuse nell'aria.
Ophelia
urlò.
«Andiamo,
non voglio fare tardi» disse poi l'uomo, avvicinandosi alla
bionda e
strappandola via alla donna. Non che fosse molto meglio, ma almeno il
suo braccio smise di venir bruciato.
Ormai
Ophelia non capiva più nulla: venne presa in braccio dal
tizio e non
tentò neanche di divincolarsi, l'adrenalina del momento
prima già
scomparsa del tutto e solo la confusione, il dolore e la stanchezza
la accompagnavano.
Non
protestò, non si mosse tra le braccia di quell'uomo che la
sollevava
senza sforzo alcuno, trasportandola per il corridoio mentre l'altra
li seguiva.
Con
la testa ciondolante, Ophelia riusciva a vedere la donna dietro di
lei che le faceva le smorfie come una bambina. Mentre sbatteva le
palpebre, l'aspetto normale che aveva visto all'inizio si
sovrapponeva alla nuova figura, come se fosse stata sotto l'effetto
di qualche droga.
Si
rese conto di essere fuori a causa dell'aria fredda che le punse il
viso come mille aghi, dandole sollievo al braccio a cui era stata
afferrata.
La
sua mente si stava ormai spegnendo, Ophelia sapeva che non poteva
fare nulla in quella situazione e se si fosse ribellata ulteriormente
sarebbe probabilmente morta. Ma, anche volendo, non aveva
più forze.
Credeva
di stare andando incontro a morte certa e nella sua testa annebbiata
c'era solo un vago interrogativo: perché
io?
La
domanda però era molto probabilmente destinata a rimanere
priva di
risposta, anche perché Ophelia percepì un
improvviso cambiamento
della situazione.
L'uomo
– o l'essere, o quello che era – si
fermò di scatto, iniziando a
stringerla con maggiore fermezza mentre si voltava verso la donna.
«Attenta!»
sibilò l'uomo.
«Lo
so» sentì la donna rispondere.
Un
secondo dopo la bionda venne scaraventata a terra, sul cemento duro,
e la spalla su cui cadde dovette sopportare tutto il peso del corpo.
Ophelia
gridò ancora.
Tentò
poi di sollevarsi, cercando di capire cosa stesse succedendo: l'uomo
che la reggeva si trovava a un paio di metri di distanza da lei, un
braccio squarciato da cui usciva un vischioso liquido grigio. Tentava
di alzarsi con la gamba che zoppicava, mentre più avanti la
donna
era circondata dalle fiamme.
Poco
più in là e con le mani da cui spuntavano fili
luminosi stava un
ragazzo.
La
cosa assurda che Ophelia notò era che, in tutto quel casino,
la
gente in strada non notava nulla e continuava a camminare
indisturbata.
Si
rannicchiò spaventata, non sapendo che fare e sentendo le
lacrime
bagnarle le guance.
«Non
mi sembra gentile da parte vostra portare via in quel modo una
ragazza, non credete?» disse il ragazzo che, Ophelia
notò solo in
quel momento, aveva gli occhi bianchi.
La
donna non rispose: semplicemente alzò un braccio in
direzione del
ragazzo e le fiamme si spostarono con lei, diramandosi come in un
incendio.
Il
fuoco esplose in quel breve spazio, avvolgendo non solo lo
sconosciuto ma anche lo sguardo di Ophelia che si ritrovò a
guardare
ipnotizzata le fiamme scarlatte da cui scaturivano scintille. La
bionda però non notò, a differenza della donna, i
fili luminosi che
si innalzavano sull'incendio di fronte alla casa, leggeri come l'aria
mentre si allungavano come tentacoli sull'essere.
Ophelia
riuscì a spostare finalmente gli occhi dal fuoco notando
come la
donna si fosse allontanata di scatto ma, subito dopo, vide il suo
braccio piegarsi in un movimento innaturale e uno schiocco secco
risuonò.
La
donna ringhiò di dolore e sollevò l'altro braccio
per aumentare le
fiamme: cosa inutile dato che anche l'altro si spezzò con un
altro
secco rumore, mentre i tentacoli luminosi le controllavano il corpo
come una marionetta.
Quegli
stessi fili accorsero da lei, legandosi alle sue gambe, al suo petto,
alle sue braccia, e la fecero alzare; Ophelia si sentì come
se
qualcuno la stesse tirando per gli arti, costringendola a camminare:
non poteva divincolarsi, perciò si ritrovò vicino
allo sconosciuto
che con l'altra mano cercava di tenere a bada le fiamme.
«Stai
dietro di me» le disse secco, poi spostò lo
sguardo verso i due
tizi che non sembravano voler gettare la spugna e scappare –
forse
forti della loro maggioranza numerica.
In
ogni caso la bionda non se lo fece ripetere due volte: dati gli occhi
era abbastanza sicura che quel tizio fosse un amico di Claire e dei
gemelli, inoltre l'aveva allontanata dalle grinfie di quei mostri ed
era già un punto a suo favore. Se le avesse fatto cessare
quel
dolore insopportabile al braccio l'avrebbe sposato in quell'esatto
momento, per com'era in quella situazione.
Da
quella postazione riusciva a vedere poco e niente: notava solo il
ragazzo muovere le dita come un marionettista e i fili luminosi con
lui. Le fiamme, anche se diminuite, ostruivano comunque in parte la
vista – almeno per Ophelia – e alla ragazza
sembrava che il
ragazzo si muovesse alla cieca.
All'improvviso
notò una cosa.
«Le
fiamme ci stanno circondando!» strillò spaventata.
Il
ragazzo le lanciò uno sguardo.
«Lo
so» disse solo con una smorfia.
Un
vago gesto del ragazzo e i fili scomparvero dalle sue dita mentre in
qualche modo cercava di domare le fiamme: queste però non
scomparivano mai del tutto, si allontanavano e si riavvicinavano
continuamente, in una continua lotta tra lo sconosciuto e la donna
che Ophelia intravedeva tra le fiamme.
Una
violenta fiammata si avvicinò alla bionda e il ragazzo
riuscì ad
afferrarla per miracolo prima che il fuoco potesse raggiungerla.
«Merda»
biascicò lo sconosciuto, mentre Ophelia, incapace di fare o
dire
altro, si stringeva a lui terrorizzata.
«Cosa
facciamo?» domandò poi con la voce rotta dai
singhiozzi che si
facevano strada in lei.
«La
domanda di riserva?» replicò sarcastico lui.
Ophelia
spostò lo sguardo dalle fiamme che li circondavano per
guardare il
ragazzo: i capelli castano scuro, illuminati dalle fiamme, rilucevano
di riflessi rossastri e la pelle scura era bollente al tatto sempre a
causa del fuoco.
«Non
hai idee?» insistette, non sapendo cos'altro dire.
Il
ragazzo non le rispose poiché una sfera spuntò
dalle fiamme
tentando di colpirli: riuscì appena ad alzare una mano per
bloccarla
anche se Ophelia non sapeva esattamente come; semplicemente, la sfera
sembrò incontrare un muro invisibile per poi venire
rispedita
indietro tra il fuoco.
«Non
so quanto riuscirò a resistere con questi due»
disse
improvvisamente il giovane, mantenendo comunque gli occhi puntati
alla situazione attorno a lui e muovendo le mani in un vano tentativo
di domare il fuoco, cosa che risultava sempre più difficile
ad ogni
secondo che passava.
Ophelia
tremò.
«E
quindi?» balbettò.
Il
ragazzo fece un profondo respiro.
«Quindi
scappiamo. Spero che tu sia forte di stomaco» rispose
lanciandole un
vago sorriso.
Ophelia
sbiancò.
E
ora che vuole fare?,
pensò spaventata.
Non
ci fu altro tempo per ulteriori riflessioni: il ragazzo
l'afferrò a
sé, stringendola tra le braccia, la bionda si
ritrovò con il viso
affondato tra il giubbotto nero dello sconosciuto.
Lo
sentì bisbigliare qualcosa mentre le fiamme, ormai
abbandonate al
loro destino, erano libere di avvicinarsi a loro e di divorarli vivi.
Non
ci fu però il tempo: appena prima che il fuoco potesse
avvolgerli
del tutto Ophelia si sentì tirare via violentemente per le
gambe, e
poi tutto divenne nero.
Un
botto assordante e Sargas si alzò di scatto dalla scrivania,
gli
occhi che in un secondo diventavano bianchi.
Nel
suo ufficio – o meglio, quello del padre – nella
sede della
Fazione Bianca caddero in mezzo al pavimento due figure
aggrovigliate, provocando un sonoro tonfo e dei gemiti doloranti.
«Ma
che diavolo...» borbottò tra sé, prima
di capire a chi
appartenessero le due figure.
«Beal,
che cazzo sta succedendo?» tuonò irritato,
lasciando perdere i
fogli che fino a poco prima si apprestava a leggere e avvicinandosi
al giovane e a Ophelia, che rimaneva sdraiata sul pavimento con gli
occhi semiaperti e l'aria sconvolta; con un'occhiata più
attenta
notò il braccio destro, nel quale la felpa era stata
praticamente
sciolta, dove spiccava nella pelle chiara l'impronta di una mano
formata dalla carne bruciata.
«Due
bastardi Deviati la stavano rapendo» biascicò
Beal, mettendosi
seduto e tenendosi la testa tra le mani. Sembrava fosse in procinto
di vomitare.
«Ti
sei strappato?»
domandò, anche se sapeva già la risposta: dalla
sua faccia
disgustata e l'aria devastata di Ophelia – anche se di sicuro
non
solo per quello – sembrava proprio che si fossero appena strappati.
«A
te che sembra?» disse sarcastico il ragazzo.
Sargas
fece una smorfia.
Ci
mancava solo questa,
pensò guardando la bionda e ignorando bellamente il suo
sottoposto.
«Ce
la fai ad alzarti?» domandò a Beal, facendo
tornare i proprio occhi
normali dopo essersi reso conto che non c'era alcun pericolo.
L'altro
gli lanciò un'occhiata scettica, poi si alzò e si
tolse il
giubbotto nero bruciacchiato in più punti.
Sargas
nel frattempo sbuffò guardando la bionda.
Com'è
che quella ragazza gli stava portando un sacco di casini? Era
già in
una situazione di merda a causa del padre, delle morti nella Fazione
Bianca e del tentativo di collaborazione con quella Nera. Sembrava
una mina vagante portatagli solo per creargli ulteriori problemi.
Nonostante
questo però la guardò e vide com'era distrutta;
notò gli occhi
chiusi anche se era cosciente – la vedeva respirare
affannosamente
e tremare, e in qualsiasi caso non avrebbe ingannato lui – e
dalle
ciglia scappavano delle lacrime che lasciavano una scia pulita nel
viso annerito da quella che sembrava cenere.
Notò
di sfuggita Beal che si buttava sulla poltrona con uno sbuffo esausto
e a quel movimento la ragazza socchiuse gli occhi per guardarsi
intorno; incrociandosi con Sargas serrò di scatto le
palpebre, come
spaventata o in imbarazzo.
Il
ragazzo sospirò.
«Chiama
Claire e falla venire qui» disse poi in direzione di Beal.
Nel
frattempo si inginocchiò al lato di Ophelia e
passò un braccio
sotto le gambe e sulle spalle, per poi prenderla in braccio e
adagiarla con delicatezza sul divanetto posizionato all'angolo della
stanza.
«È
fuori con Max e Nick. Li hai mandati tu, non ricordi?» fece
Beal,
mentre gli occhi passavano dal bianco perlaceo a un più
normale
nocciola chiaro.
Sargas
alzò gli occhi al cielo.
Ha
ragione.
«Allora
chiama Louise e falla venire qui subito» ordinò
perentorio in
direzione del ragazzo; notò distratto l'altro lanciargli uno
sguardo
scocciato, ma non si lamentò e dopo essersi alzato
uscì
dall'ufficio.
«Ti
fa molto male?» disse con voce bassa.
Vide
gli occhi di Ophelia tremare, ma poi la ragazza si decise ad aprirli
e li puntò sui suoi. Si ritrovò a fissare un paio
di occhi verdi
dalla tonalità particolarmente scura in quel momento,
arrossati
dalle lacrime e con una confusione e paura tali che Sargas si
trovò
a disagio.
«Perché
mi sta succedendo tutto questo?» sussurrò.
“Perché
ci sta succedendo tutto questo?”
Sargas
si costrinse a eliminare quel ricordo dalla testa, cercando di
focalizzarsi solo e soltanto sulla ragazza che lo guardava con
quell'aria così sperduta.
«Non
lo so» sussurrò a sua volta.
In
qualche modo aveva paura di spaventarla ancora di più di
quanto già
non fosse.
Vide
quegli occhi verdi ricoprirsi di un velo di lacrime.
«Non
so perché mio padre mi ha mandato a cercarti»
continuò, cercando
di darle un qualche tipo di risposta, anche se non le stava comunque
dicendo nulla.
Voleva
mantenersi freddo come faceva di solito, ma a vederla così
terrorizzata non riusciva ad essere gelido come suo solito. Non
poteva.
«Non
so neanche perché hanno tentato di rapirti oggi, non ce lo
aspettavamo» continuò fissandola.
Una
lacrima sfuggì alla ragazza che spostò
velocemente lo sguardo,
vergognandosi della propria reazione.
In
un altro frangente Sargas avrebbe guardato con sufficienza coloro che
reagivano in quel modo, ma a farlo ora si sarebbe sentito un
bastardo.
«Io
non capisco. Sono stanca di tutto questo, non capisco cosa mi stia
succedendo, perché fa così tanto male... Vorrei
solo che tutto
ritornasse com'era prima» sussurrò la bionda,
deglutendo
rumorosamente.
«Non
si può» rispose Sargas implacabile.
Non
voleva essere uno stronzo, ma quella era la verità: non
poteva
rispedirla indietro come se nulla fosse successo, soprattutto ora che
sapevano fosse in pericolo; se non fosse rimasta con loro non sarebbe
durata un giorno.
«Perché?»
«Perché
moriresti. Non so chi e per quale motivo, ma qualcuno ti vuole. E
pare pronto a farti del male per averti»
Ophelia
sospirò esausta.
«E
quando potrò avere qualche risposta?» chiese a
bassa voce.
«Non
so neanche questo. Ci sono anche altre cose a cui pensare, ma
farò
il possibile per farti avere delle risposte» disse.
D'altro
canto, le risposte le voleva anche a lui, anche a costo di far
tornare il padre da ovunque fosse.
Allungò
una mano e gliela mise sulla fronte: era bollente.
«Ora
riposa, hai bisogno di recuperare energie. Ci occuperemo noi di
te»
mormorò.
Ophelia
annuì e basta, lasciando andare la testa all'indietro e
chiudendo
gli occhi.
Sargas
si alzò.
Devo
fare qualcosa.
«Circe,
hai notato i suoi occhi?»
La
donna dai capelli in fiamme alzò lo sguardo verso il proprio
compagno, osservandolo mentre curava il suo squarcio al braccio.
Il
suo viso era una maschera di ghiaccio.
«Sì»
|
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Capitolo 8 *** Capitolo otto ***
Salve
a tutti!
Sì,
lo so, l'ultimo capitolo risale al 28 agosto dell'anno scorso, e
siamo a febbraio... Me ne rendo conto, ma ho delle reali motivazioni
a mia discolpa! È il mio primo anno di
università, mi sono
trasferita e nei primi mesi non ho avuto molto tempo per dedicarmi
alla scrittura: era presa ad abituarmi a questa nuova vita, con le
nuove persone che sto conoscendo (sì, vorrei farmi una vita
sociale), e tra lezioni ed esami vari non ho avuto il minimo tempo
per scrivere; oltretutto per più di un mese sono stata senza
computer, dato che mi si è rotto lo schermo e l'ho dovuto
mandare a
riparare. E poi, ultima cosa, non avevo ispirazione, e se manca
quella posso avere anche tutto il tempo del mondo, ma non riesco a
scrivere – immagino voi possiate capire.
Comunque
sia ora sono qui, con questo capitolo un po' di passaggio, questo
è
vero, dove ho messo un po' di altra carne al fuoco, ma il prossimo
dovrei già iniziare a dare qualche nuova spiegazione
– e dovrebbe
essere anche più attivo. Scusate se la storia ci mette tanto
a
procedere, ma non mi piace far avvenire tutto in fretta e furia solo
per rendere la storia movimentata, se poi manca di realismo (e ok,
è
una sovrannaturale quindi il realismo è relativo, ma
insomma, mi
avete capito).
Spero
che questo capitolo vi piaccia, cercherò di scrivere il
prossimo il
prima possibile!
Buona
lettura.
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~Dirty
Blood
Capitolo
otto
Claire
aprì la porta facendola sbattere violentemente e producendo
così un
suono secco e forte che attirò gli sguardi degli astanti.
«Cos'è
successo?»
esclamò rapida, per
poi concedersi un attimo per guardarsi attorno; mentre il cuore le
batteva rapido e il petto le si alzava e abbassava altrettanto
frenetico in cerca di ossigeno, si spostò con una mano le
ciocche di
capelli che le erano scivolate sugli occhi e osservò meglio
la
situazione.
Stesa
sul divano e con l'aria che dire malconcia era un eufemismo stava
Ophelia, i cui occhi verdi si erano aperti all'arrivo della stessa
Claire. Accucciata di fronte a lei c'era una ragazza dai folti ricci
castano-dorati tenuti insieme da una pinza azzurro fosforescente.
Louise,
pensò seccata Claire, per poi spostare lo sguardo su Beal,
abbandonato sulla poltrona con gli occhi chiusi, e Sargas, in piedi
appoggiato alla scrivania.
«Potresti
evitare di urlare? Ho un mal di testa che mi sta uccidendo»
bofonchiò Beal mantenendo le palpebre serrate.
Claire
lo fissò attentamente, facendo scattare i suoi occhi che
cambiarono
colore.
L'aura
di Beal era poco vivida e un po' traballante, come se cercasse di
stabilizzarsi; spostando gli occhi su quella di Ophelia notò
che la
situazione era uguale.
«Vi
siete strappati?»
domandò stupita.
«Sì»
rispose per loro Sargas.
«Io
sto cercando di risolvere la situazione, se fate silenzio sarei
più
concentrata»
disse all'improvviso Louise con tono seccato.
Solo
un'occhiata gelida di Sargas impedì a Claire di replicare.
Stupida
idiota,
pensò infastidita la
mora.
Dei
passi veloci per il corridoio preannunciarono l'entrata di Dominik e
Max, che entrarono un minuto dopo; il respiro un po' corto dimostrava
la loro fretta, anche se non come Claire.
Anche
i due gemelli squadrarono la situazione.
«Che
è successo?»
«Perché
la nostra casa è praticamente distrutta?»
Maximilian
e Dominik parlarono in sincrono, mostrando le due diverse
preoccupazioni che li affliggevano.
«Siete
passati a casa, quindi» osservò Sargas retorico,
ignorando le
parole di Louise.
«Sì»
rispose Max, mentre la sorella annuiva e Dominik era impegnato a
guardare infastidito Louise che, accucciata e di schiena, esaminava
Ophelia.
«Hanno
fatto molti danni?» domandò il ragazzo.
Claire
ripensò alla propria casa: l'entrata era completamente
andata, così
come buona parte del corridoio; quasi tutte le porte erano sfondate e
molte stanze erano distrutte, ma il maggior problema era la cucina,
che era ancora in fiamme quando i tre fratelli erano tornati.
«Direi
di sì» rispose con una smorfia.
«Mi
spiace»
La
voce sottile di Ophelia giunse alle orecchie di Claire che la
guardò.
«Non
dispiacerti, non è colpa tua» rispose la mora;
notando come Dominik
fosse in procinto di manifestare il proprio disaccordo con
ciò che
aveva appena detto la sorella, si affrettò a lanciargli
un'occhiataccia. Per una volta, Dominik le diede ascolto.
«Potreste
esattamente dirci cos'è successo?» intervenne nel
silenzio Max che,
come il gemello e la sorella, aveva ancora le idee confuse.
«Non
ho intenzione di spiegare tutto da capo» bofonchiò
Beal, sempre
sprofondando nella poltrona e con gli occhi chiusi.
Gli
occhi di Max si spostarono su Sargas, in attesa, e così fece
Claire
dopo aver intravisto il braccio bruciato di Ophelia.
«Due
deviati sono entrati in casa vostra alla ricerca di Ophelia, la
stavano rapendo se non che l'arrivo di Beal l'ha impedito. Sono stati
costretti a strapparsi per riuscire a non morire»
«Due
Deviati?»
«Che
ci faceva lì Beal?»
Le
voci con le rispettive domande di Claire e Dominik si sovrapposero.
La ragazza lo guardò.
«Sono
stata io a chiedergli di andare a controllare che fosse tutto a
posto, ero preoccupata per Ophelia» spiegò Claire,
mordendosi un
labbro preoccupata.
«E
con buone ragioni. Se non l'avessi fatto ora avremmo un problema
ancora più grande» disse infastidito Sargas.
«Ma
siete riusciti a identificare i due Deviati?» insistette
Claire.
Sargas scosse la testa.
«Quel
che è certo è che non erano due normali Deviati.
Erano troppo
potenti» sibilò Beal, intervenendo nella
conversazione.
Claire
notò come la sua aurea fosse più stabile rispetto
a prima.
«Questo
è poco ma sicuro, queste ferite non sono leggere»
intervenne anche
Louise, alzandosi dalla sua posizione accucciata di fronte a Ophelia.
Si
voltò verso di loro, gli occhi bianchi che tornavano
castani, e si
sciolse i capelli massaggiandosi la testa. Lanciò poi
un'occhiata di
malcelato disgusto in direzione dei gemelli e una di sufficienza a
Claire.
Quanto
ti spaccherei quel bel faccino...,
pensò rabbiosa la ragazza, ma si costrinse a tacere.
«Allora?»
domandò Sargas. Louise fece una smorfia.
«Tutto
in questa ragazza è un casino» iniziò,
ignorando il fatto che la
ragazza in questione la stesse ascoltando come tutti gli altri
«Ma
da dove è uscita fuori?» chiese poi, sospettosa.
Claire
notò Sargas irrigidirsi, ma la sua espressione rimaneva
impassibile.
«Lunga
storia» tagliò corto Sargas, deludendo Claire che
avrebbe voluto
sentire un più secco “fatti i cazzi
tuoi”.
«Continua»
la esortò nuovamente il ragazzo.
Louise
prima gli lanciò un'occhiata ancora più dubbiosa,
ma rispose
comunque.
«La
sua aurea è sconvolta dallo strappo, ma questo è
normale. Quello
che invece non è normale è il resto. Non capisco
cosa non va,
sembra ci sia un sigillo, ma non riesco a percepirlo e questo
è
ancora più strano. Il suo corpo sembra stia rigettando
qualcosa, e
anche in questo caso non capisco cosa»
spiegò piuttosto confusa Louise.
Insomma,
non ha capito un cazzo,
pensò aspra Claire, tenendo il pensiero tra sé ma
scambiandosi un
eloquente sguardo con i fratelli.
«Quindi
non hai trovato nulla» commentò Sargas, con
un'occhiata
infastidita.
«Non
guardarmi così!» replicò subito la
riccia «Non mi avete spiegato
un bel niente, cosa avrei dovuto trovare?»
«Lascia
stare» tagliò corto di nuovo il ragazzo. Louise
aprì la bocca per
protestare, ma subito dopo la richiuse, rinunciando.
Claire
sorrise tra sé; per quando Louise fosse sfacciata, non si
prendeva
troppo spesso la libertà di contraddire Sargas: per quanto
giovane e
temporaneo, era comunque il master della gens.
«Bene,
se è così allora io vado» fece secca la
riccia. Non attese
risposta e, dopo un cenno a Sargas e a Beal, che non la vide
perché
aveva sempre gli occhi chiusi, se ne andò chiudendosi la
porta alle
spalle.
«Testa
di cazzo» bofonchiò Dominik appena la ragazza
scomparve.
«Grazie
del commento, ora però dobbiamo concentrarci e decidere cosa
fare»
iniziò Sargas «Claire, controlla anche tu Ophelia
e vedi cosa puoi
fare. Beal, tu ti sei ripreso?»
«Più
o meno» biascicò il ragazzo, aprendo finalmente
gli occhi.
«Bene,
allora alzati e seguimi. Dominik, Max, venito anche voi»
disse
Sargas.
Claire,
già vicina a Ophelia, li guardò in tralice
sentendosi esclusa.
«Dove
andate?» domandò.
«A
casa vostra, spero di trovare qualche tipo di traccia»
spiegò il
moro.
«Non
sarebbe allora il caso di chiamare anche Benjamin?»
domandò Max.
Sargas
scosse la testa.
«Finché
non abbiamo qualche informazione in più riguardo questa
situazione,
è meglio non coinvolgere altre persone. Sanno qualcosa
già Angelica
e Louise, e anche Beal ormai, non voglio che la notizia di Ophelia
corra troppo» spiegò.
«Smettetela
di parlare di me come io che non ci sia» protestò
la ragazza.
Claire
vide Sargas sospirare e, dopo aver ricevuto una significativa
occhiata dal giovane, i quattro uscirono con un breve saluto.
Rimaste
sole, Claire si permise di lanciare un'attenta occhiata a Ophelia:
era palida come ormai da giorni, i capelli scaramigliati e sporchi, i
vestiti con qualche strappo e cenere qua e là e il braccio
destro
con l'impronta bruciata di una mano.
«Per
prima cosa occupiamoci di questo, eh?» fece retorica Claire,
prendendo con delicatezza il braccio dell'altra mentre la sua mano
iniziava a brillare di una luce fioca.
Ophelia
annuì.
Claire
notò la sua strana silenziosità e, indecisa se
assecondarla o meno,
parlò.
«Ti
sei spaventata molto?» chiese.
Gli
occhi di Ophelia si fecero lucidi.
«Dei
mostri sono entrati in casa e hanno tentato di rapirmi, sono stata
trascinata via da un tizio che mi ha fatto sentire com se fossi stata
su delle montagne russe per un settimana senza mai fermarmi e per
l'ennesima volta una persona dice che non sa cosa non vada in me. Non
sono assolutamente spaventata»
Riconoscendo
il sarcasmo, Claire tirò un sospiro di sollievo dentro di
sé: se
riusciva a essere in qualche modo ironica la situazione non era
così
irrecuperabile.
«Beh,
dai, hanno tentato di rapirti, dovresti considerarti una persona
importante» tentò di ironizzare a sua volta Claire.
Sono
una stupida,
pensò appena vide una lacrima scendere sulla guancia di
Ophelia.
«Scusa...»
«Non
devi scusarti» la frenò subito Ophelia, girandosi
e puntando gli
occhi verdi sui suoi. Claire si sentì a disagio sotto quello
sguardo
triste che faceva a pugni con il sorriso tiepido che le illuminava un
poco il volto.
«Tu
non hai colpa di quello che sta succedendo. Stai anche cercando di
aiutarmi» continuò la bionda.
A
quelle parole Claire ricambiò il sorriso triste.
«Beh,
non sto facendo un buon lavoro» disse, per poi sfuggire allo
sguardo
dell'altra e concentrarsi sulla ferita; anche se lentamente, grazie
ai suoi poteri stava migliorando.
«Va
bene così» la sentì rispondere.
Claire
tacque.
No,
non va bene per niente.
Appena
mise piede nella casa distrutta, Sargas sbuffò pesantemente.
Ma
quando finirà tutto questo?,
pensò.
Se
da un lato avrebbe voluto non rivedere più il padre,
dall'altra non
vedeva l'ora che tornasse e riprendesse le redini di tutto quel
casino. Non è che non gli piacesse il ruolo di leader, ma si
stava tutto facendo così complicato, ed era diventato master
da solo un
anno – ovvero da quando il padre era sparito, lasciandogli un
bigliettino con su scritto “Congratulazioni! Sei appena
diventato
il nuovo master!” che sapeva tanto di presa per il culo.
Se
per un attimo gli era balenata in testa l'idea di trovarlo solo per
il puro gusto di prenderlo a pugni, poi aveva deciso di sfruttare
l'occasione e godersi quella sorta di “vacanza”
senza il padre
come costante nella sua vita – beh, credeva fosse una
passeggiata
fare il master: incontrarsi di tanto in tanto con gli altri della
fazione, scambiare qualche convenevole con i Neri, controllare che
nessuno della propria gens creasse troppi problemi e tanti saluti.
Di
sicuro, era così prima che se ne andasse quell'idiota.
Invece ora
era sparito e gli aveva lasciato quella patata bollente di Ophelia,
le cui (inesistenti) indicazioni gli erano state lasciate in un
grazioso allegato al biglietto di auguri.
«Beh,
vediamola così: adesso avete una vista a 360 gradi»
intervenne Beal sarcastico.
Sargas
si girò appena per vedere l'occhiata scontrosa che gli
lanciavano i
due gemelli, ma prima che qualcuno potesse replicare in qualche modo
decise di intervenire.
Evitiamo
discussioni inutili,
pensò tra
sé.
«Controllate
tutta la casa e vedete se trovate qualcosa che potrebbe esserci
utile. Sbrigatevi, la zona è ancora a rischio e potremmo
trovarci
brutte sorprese se rimaniamo troppo in giro»
tagliò corto con tono secco.
Gli
altri tre non risposero: fecero solo un vago cenno con la testa prima
di inoltrarsi all'interno della casa e andare nelle diverse stanze,
saltellando sui vari detriti sparsi per il pavimento.
Sargas
rimase ancora fuori, osservando la strada: ovviamente nessuno si
accorgeva di nulla. Di sicuro gli Occultori avevano fatto un bel
lavoro in quel caso, ma non si sentiva sicuro – meglio
evitare
qualsiasi rischio, non voleva trovarsi umani a gironzolare troppo
vicino a quella zona.
Gli
occhi gli diventarono bianchi in un istante mentre sollevava la mano
destra di fronte a sé, il palmo aperto e rivolto verso
l'esterno;
nel medio, sotto la luce del sole che lo colpiva in pieno, un anello
con uno smeraldo incastonato faceva bella mostra di sé.
Chiuse
piano la mano, facendo convergere le punte delle dita, mentre una
brillante fiamma bianca veniva a crearsi, guizzante e colma di
scintille. Aprì di scatto la mano, e la fiamma si spense
all'improvviso, mentre per un attimo il mondo rallentava e Sargas
riusciva a vedere i singoli granelli di polvere fluttuare nell'aria.
Appena
prima che il tempo continuasse a riprendere il suo solito scorrere
vide in lontananza una figura nera, coperta con un cappuccio, dritta
verso di lui. Ma, prima che potesse fare qualsiasi cosa, la figura
scomparse e tutto tornò come un secondo prima.
Dobbiamo
sbrigarci,
pensò Sargas. Aveva
avuto un leggero dubbio su quella figura – possibile che...?
- ma
meglio non rischiare.
Si
fece anche lui strada nel corridoio, buttando l'occhio sulle prime
stanze e vedendo i tre ragazzi indaffarati alla ricerca di qualcosa
–
qualcosa perché non
sapevano neanche loro cosa stessero effettivamente cercando, andavano
a tentoni; entrò nella prima stanza vuota che vide, la mente
ancora
concentrata su ciò che era appena successo, la convinzione
che si
faceva sempre più strada in lui – ma che ci faceva
uno di loro lì?
Che si facessero gli affari loro.
Mentre
scorreva gli occhi sulla stanza – pareva essere un piccolo
studio
con una libreria e una poltrona – poco concentrato su
ciò che
faceva, un urlo lo fece distrarre.
«Sargas,
Beal, Domi! Venite qui!»
La
voce di Max lo riportò alla realtà,
costringendolo ad andare rapido
nella cucina che, poté appurare, era la stanza maggiormente
distrutta.
La
finestra, con le tende scostate, faceva entrare la luce all'interno e
perciò era tutto illuminato a giorno: la poltrona
scaraventata da un
lato, il tavolo a pezzi, una tazza e resti di biscotti per terra
–
una colazione bruscamente interrotta, suppose; c'erano poche gocce di
sangue nel pavimento, di sicuro di Ophelia.
Ma
Max era concentrato su altro: era in piedi, immobile, come in trance.
I suoi occhi bianchi fissavano il vuoto mentre la mano sfiorava quel
piccolo grumo grigio a mezz'aria, che Sargas e gli altri erano in
grado di vedere solo grazie ai loro poteri.
«Un
ricordo»
disse all'improvviso Dominik, spiazzato, entrando subito dopo di lui
seguito da Beal.
«È
di...» disse solo Sargas.
«Ophelia»
rispose Max, sempre con gli occhi vacui.
«Un
ricordo» fece all'improvviso Beal «Un ricordo espulso.
Mi potete spiegare come quella tizia, che a detta vostra è
priva di
poteri e assolutamente inutile, è riuscita a eliminare un
ricordo
dalla sua testa?» fece.
Priva
di poteri? Inutile?,
pensò un poco stordito Sargas, Direi
proprio che non è la definizione adatta.
«Sarebbe
interessante capirlo» rispose però.
Un
attimo dopo Max tornava tra di loro, gli occhi che rimettevano a
fuoco la stanza e anche gli altri astanti.
«Non
è piacevole, ve lo dico subito» disse con una
smorfia.
«Perché?»
fece Beal.
«Non
so come abbia fatto a espellere il ricordo, ma sono sicura di una
cosa: non l'ha fatto consapevolmente. Sembra che, in un qualche
strano modo, se lo sia strappato dalla testa e l'abbia piantato
qui»
spiegò.
«Com'è
possibile?» domandò Dominik, confuso.
Sargas
fissò quel grumo grigio che non si spostava di un
millimetro,
pensando.
«Ci
sono casi» iniziò, dopo un paio di secondi
«in cui i ricordi
espulsi non sono volontari. Vengono creati a causa di un'esperienza
traumatica; sei spaventato, stai lottano, la mente cerca di eliminare
tutte quelle brutte sensazioni in questo modo. È un processo
automatico per proteggere la propria mente. Per questo di solito
è
piuttosto turbolento» spiegò, attirandosi le
occhiate degli altri
tre.
«Quindi
è stata una consa inconscia» intervenne Beal.
«Pare
di sì»
«E
allora mi spieghi come ha fatto Ophelia, se in
teoria
è priva di poteri?»
Sargas
si morse un labbro.
Non
era più sicuro, a quel punto, che Ophelia fosse priva di
poteri. Ciò
avrebbe spiegato prima di tutto quel ricordo, secondo il motivo per
cui qualcuno la cercava, terzo il sigillo che le era stato imposto
–
di sicuro era quello che impediva ai poteri di manifestarsi, ma
evidentemente le era stato applicato quando era piccola, altrimenti
non si spiegava la sua assoluta confusione riguardo il loro mondo
–
e, se le era stato messo da piccola, di sicuro era qualcuno
così
bravo da creare una barriera perfetta e durevole nel tempo. Gli
veniva in mente solo un nome, ma aveva bisogno del padre per esserne
certo, cosa che in quel momento non era possibile.
Comunque
fosse, decise di tenere i dubbi per sé.
«Non
lo so» disse soltanto «Ne so quanto voi di questa
storia, perciò
ci devo lavorare per avere qualche informazione certa»
continuò.
«Ora
però dobbiamo andare, non possiamo rimanere qui per troppo
tempo –
mi è sembrato di vedere qualcuno fuori, vorrei evitare di
venire
attaccato. Max, occupati di prendere il ricordo –
delicatamente,
non voglio che sia rovinato. Torniamo alla sede» concluse
infine.
Aveva
mille dubbi, e avrebbe fatto in modo di risolverne almeno uno.
|
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Capitolo 9 *** Capitolo nove ***
Salve
a tutti!
Eccomi
qui, a più di un mese di distanza ma comunque prima di
quanto vi ho
fatto aspettare l'ultima volta. Che dire, sono sempre abbastanza
occupata con l'università e l'ispirazione va e viene, cerco
di
approfittarne appena posso!
Questo
nuovo capitolo è discretamente lungo e ci sono anche alcune
spiegazioni che – spero – possano aiutarvi a capire
meglio com'è
strutturata la “gerarchia” della storia. Di altro
non c'è molta
azione, ma spero che vi possa piacere comunque.
Detto
questo, vi lascio al capitolo, augurandovi una buona lettura e
chiedendovi gentilmente se potreste lasciare dei commenti alla
storia, positivi o negativi che siano, per capire quali sono i punti
da migliorare!
Un
abbraccio,
~Sapphire_
~Dirty
Blood
Capitolo
nove
Ophelia
era sveglia da più di un'ora, eppure non accennava ad
alzarsi. Non
aveva la voglia, a dire il vero.
Si
sentiva il corpo completamente indolenzito dal giorno prima e, anche
se la ferita al braccio era migliorata tantissimo grazie al prezioso
aiuto di Claire, il ricordo del dolore provato il giorno prima, e il
terrore che lo accompagnava, le faceva desiderare di stare in quella
coltre di coperte per sempre.
Sarebbe
stato tutto più semplice: non avrebbe dovuto preoccuparsi di
nulla,
si sarebbe nascosta al mondo intero, i problemi sarebbero scomparsi.
No,
non era vero. I problemi si sarebbero ingigantiti se non fosse stata
loro prestata la giusta attenzione.
Sospirò
a quel pensiero.
Il
giorno prima, alla fine, non aveva più visto Sargas, Max,
Beal o
Dominik. Erano andati in quella casa sperando di trovare qualcosa di
utile e aveva passato la sera prima a chiedersi se avessero ottenuto
quello che volevano. Il fatto che non si fossero presentati da lei la
lasciava spiazzata: non le avevano detto nulla perché non
c'era
nulla da dire? O perché quello che avevano scoperto era
troppo
importante? O forse non sentivano il bisogno di comunicarle
informazioni riguardanti lei.
Sbuffò.
Da
un certo punto di vista odiava gli uomini come Sargas: i capi, i
leader, che sembrano non aver bisogno di chiedere niente a nessuno,
che davano ordini che ovviamente sarebbero stati eseguiti. E, anche
se aveva mostrato alcuni lampi di gentilezza, anche con lei sembrava
avesse intenzione di comportarsi da “padrone”. Di
certo non
sarebbe stato lei a cambiare il suo modo di fare, quello era ovvio, e
non era nemmeno intenzionata a farlo; solo che non voleva essere
trattata come una bambina, sballottata da una parte all'altra secondo
un'idea, una strategia ben piantata nella testa di quel ragazzo
–
sempre che avesse una strategia, quello era ovvio.
Anche
se, rifletté, non aveva potuto granché ribellarsi
in quegli ultimi
giorni: i dolori erano troppo atroci per consentirle di fare
alcunché, e da un lato ringraziava che la stessero aiutando
in
quella maniera, anche se non sapeva il motivo.
Insomma,
aveva un totale casino in testa.
Si
sollevò dal letto di scatto, rimanendo seduta.
A
quanto pare, c'erano delle camere da letto in quella sorta di
quartier generale in cui tutti si incontravano – credeva che
anche
Claire, Dominik e Max avessero dormito lì, ma non ne aveva
la
certezza.
La
sera prima Claire l'aveva portata in quella stanza in gran segreto,
tutto il tempo guardinga e con gli occhi bianchi, spaventata
dall'idea che qualcuno le notasse – o meglio, che notasse
Ophelia
stessa.
Non
capiva perché la stessero tenendo nascosta in quel modo, ma
non
protestava: evidentemente, c'era un preciso motivo. Era ovvio
però
che non si sarebbe accontentata di quella giustificazione ancora per
molto: avrebbe chiesto ben presto i motivi di tutti quei sotterfugi,
insieme ovviamente a delle spiegazioni riguardo tutto il resto.
Sperava che, finalmente, le potessero dare qualche informazione in
più.
Tutto
sommato, quella mattina stava meglio. Era da un bel po' di tempo che
non dormiva così bene – temeva che il suo sonno
sarebbe stato
popolato da incubi di ogni sorta, invece era stato tranquillo e senza
sogni.
Credeva
che Claire le avesse messo qualcosa nel tè prima di andare a
dormire
– ma non aveva intenzione di protestare, le era stato
più che
d'aiuto.
Dopo
questi vari pensieri si decise ad alzarsi.
Scese
dal letto con lentezza – era pur sempre indolenzita
– tentando di
tirarsi giù e coprirsi meglio con quella felpa enorme che
Claire le
aveva portato, grigia e calda; molto probabilmente era di uno dei
fratelli, ma non le importava. I suoi vestiti – anzi, sarebbe
stato
più corretto dire i vestiti di Claire
– erano ormai da buttare in seguito alle varie ferite del
giorno
precedente.
Aveva
i piedi scalzi, e questi, a contatto con il pavimento gelido, le
diedero un brivido che le corse per tutta la schiena, scuotendola per
un attimo.
La
stanza era quasi del tutto buia, appena uno spiraglio faceva filtrare
un poco di luce; in quel raggio vedeva dei minuscoli e solitari
granelli di polvere danzare nell'aria, immersi nel silenzio.
Le
faceva quasi strano la presenza di una finestra, considerando che in
tutte le stanze precedenti in cui era stata di quel posto ne
sembravano prive – come se fossero sottoterra, cosa che aveva
già
ipotizzato da un po'. Evidentemente, però, avevano anche
delle
stanze allo “scoperto”.
Si
avvicinò proprio alla finestra, scostando di poco la tenda;
ciò
fece entrare più luce nella stanza, rischiarandola: era una
semplicissima camera da letto composta da quest'ultimo, un comodino,
una scrivania con una sedia e una grande cassettiera di legno. Le
suonava strano una camera del genere – così banale
e semplice –
in quel posto che ricordava più un covo – e lei
non si immaginava
camere da letto in un covo.
Fuori
dalla finestra, New York era viva come sempre: non sapeva che ore
fossero, ma probabilmente delle ore di punta considerando il traffico
per strada. Si trovava discretamente in alto, ma non abbastanza da
non avere la vista impedita dagli edifici che la circondavano.
Lasciò
per un attimo vagare lo sguardo per strada, dove i passanti, simili a
formiche, si davano un gran da fare per andare da una parte
all'altra; poi si scostò dalla finestra, gli occhi abituati
al buio
che le stavano lacrimando.
Non
sapeva che fare: aveva paura di uscire, non per chissà quale
motivo,
solo che Claire l'aveva portata lì dentro così
nascosta che ora lei
stessa, senza sapere perché, aveva paura di essere vista.
Poi,
di certo, non le sembrava molto adatto mettersi a vagare per un
edificio sconosciuto con solo una maxi felpa che le arrivava
più o
meno al ginocchio, senza scarpe, pantaloni, o calze.
Si
guardò intorno, mordendosi un labbro.
Cosa
faceva? Aspettava lì che qualcuno arrivasse?
Si
sedette sul letto, decisa ad attendere l'arrivo di qualcuno. Cinque
secondi e si alzò.
No,
non sarebbe stata lì ad aspettare. Aveva atteso fin troppo
in quegli
ultimi giorni, rimanendo con le mani in mano tutto il tempo e
lasciando che gli altri facessero le cose per lei – e
sì, stava
male, quello era vero, ma ne aveva abbastanza.
Sarò
cauta,
pensò. Poi si guardò i
piedi: no, non le erano spuntate improvvisamente delle calze o delle
scarpe, era sempre con i piedi nudi.
Ecco,
quello la frenava un po'. Decise però che non le importava e
si
avvicinò alla porta, socchiudendola pian piano.
Per
un attimo, il fatto che fosse aperta la stupì. Credeva,
anche se non
sapeva nemmeno lei il perché, che avrebbe trovato la porta
chiusa a
chiave; il fatto che così non fosse lo interpretò
come un invito –
o, perlomeno, un non-divieto
– ad uscire.
Il
corridoio aveva un lucido pavimento bianco e delle sporadiche
finestre che facevano entrare fin troppa luce; la sera prima non
aveva dato un'attenta occhiata al posto, presa com'era dal far piano
e camminare il più velocemente possibile –
più che altro, veniva
continuamente trascinata da Claire senza la minima pietà per
i
dolori che la trafiggevano.
Si
chiuse delicatamente la porta dietro, attenta a non fare rumore, e si
inoltrò nel corridoio in cui vigeva uno strano silenzio che
aveva
paura di rompere.
Era
prevalentemente spoglio se non per alcuni quadri appesi qua e
là,
rappresentanti principalmente nature morte e paesaggi; c'erano poi
diverse porte uguali proprio a quella da cui era uscita lei, che le
fecero presumere altre stanze simili a quella. Ipotizzò che
quel
piano fosse, come dire, riservato a dei pernottamenti saltuari di
coloro che lavoravano in quell'edificio – lavoravano, o
qualsiasi
altra cosa facessero.
Arrivò
alla fine del corridoio e si fermò di fronte all'ascensore.
No, non
era il caso di prenderlo: sarebbe stato più semplice
beccarla e non
avrebbe potuto nascondersi da nessuna parte; decise di fare le scale
proprio come aveva fatto il giorno prima con Claire.
Quanti
piani ho fatto ieri?,
pensò.
Non
ricordava, ma di sicuro parecchi. Era arrivata a quel piano senza il
minimo fiato.
Beh,
o scendo o ritorno in camera, e dato che non voglio ritornare in
camera...
Iniziò
a scendere le scale, dapprima lentamente, timorosa e cercando di fare
più silenzio possibile, poi prese sicurezza e prese
velocità;
scendere, d'altronde, era molto meno faticoso e i suoi piedi scalzi
non facevano chissà quanto rumore – che poi, il
giorno prima aveva
delle scarpe, chissà dove le aveva portate Claire. Di sicuro
aveva
buttato pure quelle.
Scese
gli innumerevoli scalini per vari minuti, fermandosi saltuariamente
ad alcuni pianerottoli da cui si inoltravano vari corridoi. A un
certo punto non vide più finestre e ipotizzò di
aver già superato
il livello col terreno; lo prese come un buon segno, considerando che
ricordava l'ufficio di Sargas proprio in quello spazio sottoterra
–
sempre se fosse effettivamente
sottoterra.
Da
quel punto in poi però non sapeva più quando
fermarsi; scese per
cui un altro paio di rampe di scale e si fermò.
Ora
come ora un piano vale l'altro,
pensò vaga. Non si ricordava quale fosse quello giusto,
ovvio che
tutti i piani fossero uguali.
Il
fatto che non avesse incontrato nessuno le aveva messo paura: era
stata fin troppo fortunata, in quel momento qualcosa le diceva che
non poteva sperarci ancora.
Faccio
sempre in tempo a correre fino alle scale,
considerò. Ma il suo pensiero aveva, in una certa misura,
una
sfumatura disperata.
Ma,
in fondo, era arrivata fin lì. Tornare indietro non le
sarebbe
servito a niente, tanto valeva andare avanti. Con queste convinzioni
in testa – motivi con cui giustificava una scelta prettamente
emozionale – avanzò nel corridoio.
C'era
un grande silenzio, come in tutto il resto dell'edificio –
era
quasi inquietante, le veniva da chiedersi se ci fosse davvero
qualcuno o fosse disabitato – e questo la consolò:
significava
che, molto probabilmente, non c'era nessuno. Allo stesso tempo
però
la preoccupava l'idea che fosse deserto. Alla fine era uscita per
cercare Claire o chi per lei.
Ho
fatto una stronzata,
considerò.
In
quel momento si rese conto che sì, non era stata una bella
idea:
mettersi a vagare in un edificio che non conosceva alla ricerca di
persone che non aveva la minima idea di dove fossero – e
anche se
fossero lì, in quel momento – rischiando di
incontrare persone
che, da quel che aveva capito, non avrebbero dovuto vederla.
Complimenti
Ophelia alla tua enorme capacità di individuare sempre
l'idea più
stupida,
pensò ironica.
Ed
eccola, la ciliegina sulla torta.
Una
porta che si apriva lentamente e, dopo tanto tempo di silenzio
assoluto, le prime voci.
Le
si gelò il sangue nelle vene.
Merda.
Ecco,
doveva fare qualcosa.
In
quei pochi secondi di completa immobilità sentì
una voce maschile e
una femminile parlare – ovviamente non le riconobbe.
«...nascondendo
fin troppo. Ovviamente i master sono bravi a nascondere le cose, ma
neanche i loro sottoposti vogliono scucire qualche informazione»
La
voce maschile.
«Siamo
l'ultima ruota del carro, che ti aspetti? E poi ne abbiamo
già
parlato: se non vogliono dirci nulla avranno i loro motivi –
e poi
credo che si aspettino che, in qualche modo, ne siamo già
venuti a
conoscenza. Delle morti non passano così
inosservate»
La
voce femminile.
«Sei
troppo credulona, Laurel. Dovresti darti una svegliata»
«Pensa
per te, idiota»
Ecco,
un altro passo e l'avrebbero vista.
Si
girò veloce, pronta a correre verso le scale, e avrebbe
lanciato un
urlo apocalittico se una mano non le si fosse poggiata rapida sulla
bocca, impedendole di proferire parola.
Sargas,
di fronte a lei, la fulminò con lo sguardo; ma fu solo un
attimo,
considerando che la trascinò con violenza verso l'ascensore
a pochi
passi da lì. Quello si aprì istantaneamente tanto
da far chiedere a
Ophelia quando il ragazzo lo avesse chiamato, ma venne brutalmente
spinta dentro e messa in un angolo.
«Signore»
Sargas,
che stava per entrare con lei in ascensore, si fermò. Le
lanciò
un'occhiata gelida, mimando con la bocca una parola.
Zitta.
Si
voltò verso le stesse voci che stavano parlando poco prima,
che in
quel “signore” avevano inserito rispetto, timore e
imbarazzo.
«Laurel,
Blaze» disse il ragazzo.
Schiacciata
sulla parete, Ophelia non poteva vedere i volti degli altri due, ma
vedeva chiaramente la figura imponente di Sargas che era posizionato
in modo tale da coprire quasi tutta l'entrata e, ovviamente, lei.
«Come
sta?»
La
voce maschile – Blaze, evidentemente – rivolse la
domanda a
Sargas in un tono referente che fece quasi ridere Ophelia. Trovava
strano il porsi in quella maniera rispettosa verso il ragazzo,
considerando anche il tono familiare con cui Claire e gli altri gli
rivolgevano.
«A
meraviglia» fece gelido il moro.
Ci
fu un silenzio che Ophelia percepì come imbarazzato
– perlomeno da
parte dei due, le sembrava strana anche solo l'idea che Sargas si
potesse trovare in qualche modo imbarazzato; non le sembrava proprio
il tipo che si lasciasse mettere a disagio da qualcuno, anzi, era
più
il tipo che si divertiva a farlo con gli altri.
«Noi,
ecco...» la donna iniziò a parlare con tono
incerto, come che non
sapesse cosa dire.
Probabilmente
aveva paura che Sargas avesse sentito il discorso di poco prima, o
almeno così ipotizzò Ophelia; da quel che aveva
capito stavano
protestando sui loro master
– i loro capi, come Sargas? – ed essere colti in
flagrante in
quel modo non era esattamente l'ideale.
Fu
però proprio Sargas a togliere i due dall'impiccio,
ignorando
totalmente il discorso che stavano facendo – forse non li
aveva
sentiti, ma Ophelia dubitava fosse così: se si trovava
dietro di
lei, evidentemente l'aveva notata da abbastanza tempo per ascoltare
le stesse parole che aveva sentito lei.
Comunque
fosse, il fatto di eliminare la loro attenzione dall'ascensore
– o,
meglio, da chi
si trovava dentro l'ascensore – era più preminente
rispetto al
resto.
«Voi
dovreste fare le scale» disse lapidario Sargas, terminando in
qualche modo la frase iniziata da quella Laurel.
Un
attimo di silenzio in cui Ophelia percepì quasi un lieve
stupore.
«Emh,
sì, certo» intervenne a quel punto l'uomo.
Ophelia
non li vide, ma sentì i loro passi allontanarsi verso le
scale e
inoltrarsi in esse.
Sospirò.
Scampata
per poco,
pensò sollevata.
Quando
vide Sargas voltarsi verso di lei, gli occhi che mandavano scintille,
rabbrividì.
O
forse no.
Il
ragazzo si girò e premette un pulsante dell'ascensore a cui
però
Ophelia non fece caso, troppo impegnata com'era a evitare lo sguardo
dell'altro. Un secondo dopo e l'ascensore partì.
Ora
mi ammazza,
pensò vaga.
«Sei
forse uscita di testa?» l'apostrofò il moro con
tono gelido. Un
vaga sfumatura di rabbia trapelò anche se tentava di
nasconderla.
Ophelia
chinò il capo, in imbarazzo.
«Nessuno
mi ha detto di non uscire dalla stanza» obiettò,
prendendo più
coraggio e alzando lo sguardo verso l'altro.
Incontrò
i suoi occhi blu cupo che sembravano volessero farle del male.
«Credevo
fosse abbastanza chiaro dai discorsi di ieri che nessuno dovesse
venire a conoscenza della tua presenza qui. O forse sei troppo
stupida per capire un concetto così semplice?» le
disse sprezzante.
Ophelia
sentì l'imbarazzo piombarle addosso, ma allo stesso tempo si
infuriò
a sentire quelle parole che le erano state rivolte in un modo
così
duro.
Presa
dalla rabbia, lo guardò gelida.
«O
forse siete voi che mancate assolutamente di tatto o qualsivoglia
sentimento vagamente umano. Dopo giorni in cui mi sballottate da una
parte all'altra, trattandomi come una bambola e parlando di me come
se io non ci fossi, mi mollate in una stanza senza darmi uno straccio
di spiegazione, senza dirmi nemmeno “per favore, Ophelia,
rimani
qui mentre noi non ci siamo, grazie”. Mi trattate come se io
non
abbia una testa mia con cui pensare!»
Sargas
la guardò senza mutare il suo sguardo gelido. Poi
spostò lo sguardo
e la squadrò, notando solo in quel momento come fosse
vestita. Sotto
quegli occhi, Ophelia arrossì di nuovo in imbarazzo.
«Hai
ragione» rispose il moro.
Eh?,
pensò stupita Ophelia. Ecco, non era la risposta che si
aspettava.
«Certo
che ho ragione» rispose però, con uno sguardo di
sufficienza, di
nuovo dimentica dei suoi vestiti – o della loro mancanza, in
una
certa misura.
Come
disse questa frase l'ascensore si fermò e si aprì
su un corridoio
uguale al precedente – ecco perché quel posto era
un labirinto,
era tutto così dannatamente uguale
– sempre senza finestre.
«Vieni»
disse Sargas, anticipandola e facendole strada nel corridoio.
Ophelia
lo seguì in silenzio. Avrebbe voluto fare l'offesa e non
seguirlo,
ma sarebbe stato un comportamento infantile e per nulla utile.
Il
ragazzo la portò all'interno di una stanza che si
rivelò essere
l'ufficio del giorno prima.
Tutto
era perfettamente lindo e in ordine; Sargas, o chi per lui, doveva
aver dato una sistemata per eliminare il sangue che aveva sparso per
la stanza il giorno prima.
«Siediti
pure, avviserò Claire che sei qui» le disse poi.
Ophelia,
sempre in silenzio, si sedette sul medesimo divanetto del giorno
prima.
Si
guardò intorno, percependo quel silenzio con un vago
fastidio – o
meglio, imbarazzo. Non si trovava a suo agio in una stanza da sola
con lui, non per chissà quale motivo, solo che non si
trovava così
in confidenza da poter assaporare un tranquillo silenzio tra di loro.
Non lo guardava, ma lo sentiva scrivere qualcosa su un foglio.
«Hai
ragione»
Sargas
parlò all'improvviso, quasi spaventandola, ripetendo le
stesse
parole che aveva detto poco prima in ascensore. Lei si
limitò a
guardarlo; era seduto nella poltrona di fronte alla scrivania, non
stava più scrivendo. Si era lasciato andare sullo schienale
e aveva
un'aria stanca; in quel momento le sembrò che fosse
più vecchio di
quello che il suo aspetto lasciava credere.
«Non
ti abbiamo detto nulla, non
ti ho detto nulla,
proprio perché, come ti avevo già spiegato, siamo
noi i primi a
essere confusi su tutta questa storia» iniziò
«Stiamo indagando e
siamo ancora confusi, preferisco spiegarti le cose per bene piuttosto
che dirti le cose a piccoli pezzi, magari confondendoti anche di
più.
Ma capisco anche che tutto questo silenzio da parte nostra ti dia
fastidio – lo darebbe anche a me, in effetti.
Cercherò di
spiegarti il meglio che posso, anche se ho alcune domande da
farti»
disse Sargas.
Ophelia
lo guardò.
«Non
voglio fare la ragazzina, l'infantile, pestando i piedi
perché
voglio sapere le cose per un capriccio personale. Solo che credo mi
siano dovute delle spiegazioni, dato che sono stata tirata dentro in
questa storia senza la mia volontà»
spiegò a sua volta.
«Che
genere di domande?» aggiunse poi.
Sargas
la guardò e Ophelia, incontrando i suoi occhi blu,
considerò che
facevano meno paura senza quel bianco accecante.
«Sul
tuo passato»
La
ragazza si immobilizzò.
«Perché?»
fece gelida.
Odiava
parlare del suo passato.
Non
c'era nulla di interessante su di esso, e neanche di allegro. Non
aveva avuto un'infanzia felice, l'orfanotrofio non era un posto che
offriva il necessario amore di cui aveva bisogno un bambino. Non era
mai riuscita a stringere dei veri legami in quel posto – come
da
nessun'altra parte, d'altronde – e aver passato gran parte
della
vita lì le ricordava in maniera dolorosa che era stata
abbandonata
da coloro che avrebbero dovuto prendersi cura di lei, amarla.
«Crediamo
che chi ti sta cercando sappia qualcosa su di te che noi non
sappiamo, qualcosa di sicuro relativo al tuo passato. Vorremmo avere
delle risposte e possiamo averle solo da te» disse Sargas.
Ma
Ophelia sapeva che il ragazzo aveva notato il suo cambiamento di
tono; la guardava non più con indifferenza, ma neanche con
preoccupazione. Era più uno sguardo confuso.
«Se
è proprio necessario, risponderò a queste
domande. In fondo,
rientra anche nei miei interessi» concluse la bionda.
Sargas
annuì semplicemente, senza prolungare ulteriormente
l'argomento.
«Comunque
sia, non credo che ora sia il momento adatto per queste domande.
Forse è il caso che tu ti vesta» le disse,
lanciandole uno sguardo
con un vago sorrisetto.
Ophelia
annuì.
Già,
si stava dimenticando la sua mise.
Si
tirò giù la felpa, cercando di coprirsi meglio
– non che non
fosse abbastanza lunga, ma era un vano tentativo per sentirsi
più al
sicuro.
«Aspetta
qui finché non arriva Claire, poi ti porterà in
stanza e magari
andrai a mangiare qualcosa. È da ieri che sei a stomaco
vuoto, no?»
Ophelia
si morse un labbro. In effetti aveva una fame tremenda, ma per tutto
il tempo aveva cercato di non pensarci – stava per essere
beccata,
le sue priorità erano all'improvviso cambiate.
«Va
bene» acconsentì.
Mentre
il silenzio riprendeva a regnare in quella stanza, Ophelia
osservò
Sargas alle prese con fogli vari che spostava da una parte all'altra
dopo una vaga occhiata. In quel momento, le tornò in mente
una cosa.
«Senti...»
lo richiamò. Il moro alzò lo sguardo verso di
lei, in attesa.
«Poco
fa, prima che arrivassi tu – cioè, non so se tu ci
fossi o meno,
eri dietro di me e quindi non ti potevo vedere. Comunque sia, i due
tizi che mi stavano per vedere, ho sentito che stavano parlando di
alcuni morti. Che succede?» domandò.
Non
era una cosa fondamentale per la sua esistenza, lo sapeva, ma
l'argomento l'aveva incuriosita – e anch piuttosto
preoccupata –
e dato che era lì ed era già coinvolta in tutto
quel mondo, tanto
valeva sapere le cose fino in fondo, no?
«Non
credo che questo sia qualcosa che ti riguardi. Ergo, puoi
sopravvivere anche senza saperlo» fece Sargas, un sorriso
sarcasticamente mellifluo che gli spuntava in volto.
Ophelia
alzò gli occhi al cielo. Sapeva già quale sarebbe
stata la
risposta, eppure ci aveva provato comunque; e non era neanche
intenzionata a lasciar perdere la cosa in quel modo.
«Beh,
ormai sono già invischiata in tutto questo.
Perché ora non posso
sapere ciò che vi riguarda?» insistette.
Sargas,
che aveva riportato gli occhi sui suoi documenti, rialzò lo
sguardo
un poco irritato.
«Non
ti piace proprio farti gli affari tuoi, eh?»
domandò.
«Allo
stesso modo in cui a te piace avere dei segreti, suppongo»
rispose a
tono Ophelia.
Ora
che stava meglio, pareva aver riacquisito il suo solito temperamento
testardo e combattivo.
«E
se te lo dicessi, cosa mi daresti in cambio?»
La
domanda colse Ophelia impreparata. Sargas la guardava con uno strano
sorriso sul volto, uno che non gli aveva mai visto; era colmo di
insinuazioni e le venne da arrossire, ma si costrinse a rimanere
indifferente.
«Uno
schiaffo credo che potrebbe essere sufficiente, ma se insisti potrei
dartene anche due» rispose.
Sargas
scoppiò a ridere e Ophelia rimase più che
spiazzata.
Vederlo
così rilassato, per un momento, le fece chiedere
perché non si
sciogliesse di più anche negli altri momenti.
La
sua risata ha un bel suono,
si
ritrovò a pensare, e le venne spontaneo sorridere a sua
volta.
Credevo
non fossi in grado di rispondermi una cosa del genere. Credevo di
farti paura» disse Sargas all'improvviso.
Ophelia
scrollò le spalle.
«Beh,
quando sei serio e gelido me ne fai, lo devo ammettere. Ma ora mi
sembri tranquillo, non mi spaventi» rispose semplicemente.
Sargas
la fissò senza dire nulla, solo con un vago sorriso che
ancora gli
aleggiava sul volto.
«Comunque
non credere che mi sia dimenticata della domanda che ti ho fatto.
Allora, qual è la risposta?»
Sargas
alzò gli occhi al cielo – un gesto che, insieme
alla risata del
momento prima, lo rese molto più umano agli occhi della
bionda.
«Non
so neanche perché te lo sto dicendo, o forse lo faccio solo
perché
credo sia il momento di darti qualche spiegazione»
iniziò il moro,
ma poi riprese a parlare «Ci sono state delle uccisioni tra
le
nostre file. E quando dico nostre, non intendo solo io e il mio
gruppo. Non credo che tu lo sappia, ma io in pratica solo il master
di questa gens, il capo in poche parole-»
«L'avevo
immaginato» lo interruppe con tono ironico Ophelia. Lui la
guardò
infastidito dall'essere interrotto, ma riprese poi a parlare.
«Non
sono l'unico master, ce ne sono altri due oltre a me. E questo, solo
nella Fazione Bianca» spiegò Sargas.
Ophelia
sentì come un campanello nella sua testa: la
curiosità che emergeva
in lei.
«Fazione
Bianca?» ripeté.
Sargas
la guardò con un'aria dubbiosa – forse non sapeva
se fosse giusto
dirglielo o meno, e Ophelia tacque, spaventata dal dire qualcosa che
avrebbe potuto far cambiare idea al ragazzo.
«Non
ci siamo solo noi» disse all'improvviso il moro.
Evidentemente aveva
deciso di spiegare per bene la situazione «C'è
anche la Fazione
Nera, che è diversa da noi per qualcosa che immagino tu
possa
facilmente intuire»
«Gli
occhi» rispose all'implicita domanda. Sargas annuì.
«Esatto.
Non sono dei nostri nemici, ma neanche propriamente degli amici.
Chiamiamoli rivali,
ecco. Ognuno si occupa delle proprie cose in privato, ci sono degli
scambi di convenevoli ogni tanto, ma niente di che. Viviamo due vite
separate» spiegò. La bionda annuì.
La
spiegazione la prendeva così tanto che si
dimenticò anche della
fame che la stava tormentando; oltretutto, finalmente qualcuno si
degnava di darle uno straccio di spiegazione dato che fino a quel
momento si sentiva una cieca lasciata allo sbando in un'autostrada.
«Ci
sono stati dei morti, ti dicevo. Non solo nella Fazione Bianca, ma
anche in quella Nera»
«Quindi
loro sono automaticamente esclusi dalla lista dei colpevoli»
si
intromise Ophelia.
L'altro
annuì.
«Sì.
Certo, sarebbe stato strano che fossero stati loro ad assassinare
alcuni dei nostri – questo avrebbe significato guerra, sai, e
non
conviene a noi quanto a loro – però c'era sempre
la minima
possibilità, quindi abbiamo indagato e pare che loro siano
nella
nostra stessa situazione»
Ophelia
annuì, ma poi si fece pensierosa.
«E
allora chi potrebbe essere stato?»
Sargas
si lasciò andare nella sua poltrona.
«C'è
solo una possibilità che pare essere la più
concreta, anche se allo
stesso tempo è parecchio strana»
La
bionda lo guardò curiosa.
«I
Deviati»
Le
venne automatico trattenere il respiro a quella parola.
I
Deviati, in quel momento, erano per lei coloro che avevano distrutto
la sua vita serena trascinandola in quel mondo che avrebbe volentieri
continuato ad ignorare.
Pensò
a Mathias, già nel dimenticatoio, e a come fosse mostruoso
dietro la
maschera da semplice ragazzo.
E
pensare che ci ho anche fatto sesso,
rabbrividì a quel pensiero e le venne un brivido di disgusto.
«Comunque
sia non capisco una cosa: perché loro non potrebbero essere
i
colpevoli?»
La
domanda le sorse quasi inaspettata.
«Perché
sono deboli. Ci sono sempre stati sin da quando esistiamo anche noi.
Ci sono state volte in cui hanno tentato di prendere il potere su di
noi, ma siamo sempre stati più forti di loro e, proprio per
questo,
nessuno si è mai preso la briga di sterminarli
completamente.
Abbiamo sempre lasciato che esistessero, che vagassero per la terra
senza un preciso scopo. Ora invece pare abbiano ucciso vari di noi, e
questo è strano: non potrebbero avere la forza necessaria, o
almeno
questo era quello che si pensava fino a poco tempo fa»
concluse
Sargas.
Ophelia
tacque pensierosa, poi però le venne in mente una cosa.
«Non
per offendere i vostri valorosi guerrieri» iniziò,
con una vaga
aria sarcastica che le fece guadagnare un'occhiataccia dal moro
«Però, ecco, i due che hanno tentato di rapirmi
non mi sembravano
così debolucci eh. Anche l'altro ragazzo – Beal,
mi pare – con
due di loro è stato costretto a scappare. O magari ricordo
male io,
però mi sembra proprio così» fece
convinta.
Sargas
la guardò sconvolto.
«Sono
un idiota» sibilò.
Ophelia
lo guardò confusa: che gli prendeva all'improvviso? Cosa
aveva detto
di così sconvolgente?
«Su
questo potremmo discuterne a lungo, ma perché dici
così?» chiese,
corrugando le sopracciglia e creando una sottile ruga sulla fronte.
«I
Deviati che hanno cercato di rapirti...» iniziò
lui, gli occhi
illuminati.
«Sì,
quindi?»
«Loro
non erano normali. Erano più potenti dei soliti Deviati. Dei
tipi
come loro avrebbero potuto uccidere alcuni dei nostri, ciò
significa
che le due cose sono collegate» spiegò rapido
Sargas.
Mentre
diceva quelle parole, Ophelia lo osservò prendere un
biglietto
candido dal disordine di quella scrivania e scrivergli qualcosa sopra
in maniera frettolosa.
Lo
osservava dubbiosa: in un momento del genere non le sembrava nemmeno
lui.
«Quindi
coloro che vogliono qualcosa da me potrebbero essere legati a coloro
che stanno uccidendo alcuni come voi?» sintetizzò.
Sargas
finì di scrivere sul bigliettino e abbandonò la
penna sul tavolo.
«Esatto»
disse solo.
Ophelia
lo fissò mentre lo vedeva avvicinarsi allo specchio appeso
alla
parete, perfettamente pulito e con una cornice che sembrava fatta
d'argento; guardò il ragazzo che sfiorava delicato la
superficie
riflettente e sobbalzò quando vide questa diventare liquida.
Il
ragazzo lasciò andare il bigliettino nello specchio e questo
lo
assorbì in silenzio, per poi ritornare solido come prima.
Mi
chiedo perché io mi stupisca ancora di cose del genere,
pensò ironica.
«Che
cosa hai appena fatto?» domandò poi.
Sargas
sorrise.
«Ho
mandato un messaggio agli altri master della mia Fazione. Se
è
davvero come penso e le cose sono legate – cosa che credo
–
dovrai andare a cambiarti: ti porterò dagli altri
master»
Ophelia
sospirò.
Forse
avrei preferito continuare a rimanere nella mia ignoranza.
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