Dirty Blood

di Sapphire_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo uno ***
Capitolo 2: *** Capitolo due ***
Capitolo 3: *** Capitolo tre ***
Capitolo 4: *** Capitolo quattro ***
Capitolo 5: *** Capitolo cinque ***
Capitolo 6: *** Capitolo sei ***
Capitolo 7: *** Capitolo sette ***
Capitolo 8: *** Capitolo otto ***
Capitolo 9: *** Capitolo nove ***



Capitolo 1
*** Capitolo uno ***


Buon pomeriggio a tutti!
È da un secolo che non pubblico qualcosa qui su EFP, mi mancava!
Rivelo il perché: sono una che quando scrive una storia ha bisogno di sapere tutti i dettagli prima di metterla effettivamente nera su bianco, e a causa della mia (in)costanza difficilmente arrivo a quel punto. Ho tipo un milione di storie organizzate e praticamente nessuna conclusa. Mi stavo chiedendo il perché di questa cosa, e mi sono accorta di come, a un certo punto, finisco per stancarmi e perdere la verve che mi aveva spinto a organizzarmi tutta felice.
Per questo ho voluto provare un altro metodo, uno che non usavo da quando avevo appena iniziato a scrivere - ovvero... otto anni fa? - in pratica scrivere seguendo la scia dell'ispirazione. Proprio per questo vi dico subito che la trama è ancora vaga nella mia testa, ho solo alcuni punti sicuri, ma di altro andrò dove mi porta il cuore - o meglio le mie dita. Anche il titolo d'altro canto deriva da una ispirazione momentanea, cercherò di essere fedele anche a quello.
Vi chiedo scusa in anticipo per dei (sicuri) ritardi negli aggiornamenti, ma purtroppo mi sto incamminando verso la fine del mio percorso liceale e la maturità si fa sempre più vicina, perciò non so quanto potrò dedicarmi alla storia come altre volte invece faccio. In ogni caso farò il possibile per non perdere l'ispirazione e concludere questa storia - è una sfida personale, questa!
Ringrazio in anticipo chiunque voglia leggerla e anche chi, eventualmente, mi voglia lasciare una recensione: anche il più piccolo parere (positivo o negativo che sia) mi farebbe un enorme piacere, e mi affido a voi per correggere eventuali discordanze fra i vari capitoli - starò attentissima a non commetterne, ma come ho già detto solitamente mi organizzo le cose in anticipo!
Buona lettura!

~Sapphire_





~Dirty Blood





Capitolo uno

Non sapeva come fosse finita in quella situazione. Più ci pensava, più le sembrava una situazione insensata.
Era tutto iniziato come una brutta giornata, con una perpetua nausea che non voleva abbandonarla, giramenti di testa e il buio che le compariva di fronte agli occhi, in fastidiosi flash che le facevano venire fitte alla testa, come se qualcuno la stesse ripetutamente infilzando con uno stiletto proprio alle tempie.
Si era detta che fosse una banale sindrome premestruale – anche se di solito diventava solo isterica e molto irritabile – ed era andata avanti in quella giornata orribile.
Almeno fino a quando, tornando a casa in quella buia e grigia serata invernale, dopo che il sole era già calato e New York veniva illuminata dalle luci artificiali dei locali e dei lampioni, si era ritrovata quasi rapita da qualcuno – no, qualcuno non era il termine adatto. Da uno strano essere di dubbia provenienza.
Dopo quel momento era stato solo un susseguirsi di terrore e proprio mentre stava per svenire – almeno non avrebbe dovuto sopportare mentre era cosciente un probabile stupro – era stata tirata via e costretta a correre per non si sa quanto tempo, traballante su dei tacchi che avrebbe dovuto lasciare a casa.
E ora era lì, in un sudicio vicolo che puzzava in maniera preoccupante, immobilizzata da una mano sul polso e il peso di quella persona addosso e taciuta da un'altra mano sulla bocca.
Dalla corsa e dal buio di quel vicolo non era riuscita a vedere chiaramente la persona che l'aveva costretta a quella fuga così improvvisa e confusa.
Ophelia si divincolò in preda al terrore, gli occhi verdi sbarrati e puntati su quella figura che la costringeva a stare ferma con malagrazia, riuscendo a vedere solo una massa di mossi capelli biondi.
In tutto quel trambusto, l'unica cosa a cui pensò fu che quella mattina avrebbe dovuto mangiare la torta al cioccolato e fregarsene dei brufoli che le sarebbero usciti l'indomani.
Tanto non ci arrivo a domani, pensò con una sarcastica constatazione, abbastanza inadatta a quel frangente.
Presa però ancora dallo spavento continuò a divincolarsi, senza particolare successo, finché non riuscì a mordere la mano che continuava a coprirle la bocca. Sentì il sapore ferroso del sangue che le pizzicava la lingua e il ragazzo che emise quasi un ringhio di dolore.
La mano non si spostò, ma quell'attimo di debolezza fu sufficiente per strattonare un'altra volta e avere lo spazio per allontanarsi; fu però ancora trattenuta al polso, mentre la bocca era finalmente libera.
Stava per urlare, quando il ragazzo si girò con aria irata e il fuoco negli occhi.
«Vuoi farti ammazzare? Stai ferma, cazzo!» sibilò a bassa voce.
Ophelia fu praticamente trapassata da un paio di occhi bianchi come la neve, che di certo non si aspettava di vedere.
Si stette finalmente ferma e iniziò a tremare come una foglia.
«Che succede? Chi sei tu?» pigolò spaventata, mentre sentiva le lacrime pungerle gli occhi in maniera fastidiosa.
Il ragazzo la guardò sprezzante con quegli occhi bianchi.
«Se sopravviviamo te lo dico» fece ironico.
Ophelia tacque di nuovo e cercò di ascoltare anche lei quello che provava a sentire il tizio. Ma purtroppo non udì nulla, neanche il rombo di una macchina – eh già, erano in una zona troppo sperduta anche per le auto.
«Merda!» mormorò il ragazzo, facendola sussultare. Poi si girò verso di lei.
«Ascoltami bene, idiota: noi adesso ci spostiamo
in silenzio, per questo motivo tu dovrai stare assolutamente zitta, d'accordo? E non ti conviene tentare di scappare, altrimenti ti mollo a quel bastardo che ti farà la festa e me ne laverò le mani. Sono stato chiaro?» disse a bassa voce, avvicinando il volto a quello della ragazza per farsi sentire meglio.
Ophelia non ebbe neanche la forza di rispondere, annuì a testa bassa.
«Bene» mugugnò l'altro, lanciandole un'altra occhiata di sufficienza con quegli spaventosi occhi bianchi.
Dopo che l'aria spaventata della ragazza ebbe convinto l'altro che non ci sarebbe stato nessun tentativo di fuga, con cautela uscirono dal vicolo – o, perlomeno, Ophelia fu trascinata fuori da esso, per poi iniziare di nuovo a correre su quei traballanti tacchi che le facevano cedere ancora di più le gambe.
Subito riprese a mancarle il fiato – doveva mettersi a fare un po' di esercizio fisico, non poteva rischiare di svenire per una corsa a diciannove anni – ma continuò a correre, più spaventata da cosa avrebbe potuto farle quel ragazzo piuttosto che da quello che li stava inseguendo.
Non sapeva dove stavano andando e neanche per quanto avessero corso, finché non sbucarono in una stradina e un'auto nera inchiodò di fronte a loro due, costringendoli a fermarsi bruscamente. Dal finestrino mezzo abbassato una voce risuonò chiara.
«Salite!» l'esclamazione imperiosa fece tremare Ophelia più di quanto non stesse già facendo, ma il ragazzo dagli occhi bianchi, senza sorpresa, si lanciò sulla portiera, aprendola rude e buttando tra i sedili la povera ragazza sballottata da una parte all'altra.
L'odore fresco e pungente di menta mischiata a quello più soffocante del tabacco le fece arricciare il naso, mentre un fianco iniziò a dolerle inseguito alla botta appena ricevuta.
«Parti» il ragazzo disse quello mentre entrava di volata, ma non fu necessario perché il guidatore stava già partendo in quarta, senza nemmeno aspettare che lo sportello fosse chiuso.
Ophelia si ritrovò sbalzata in avanti dal movimento improvviso e fu costretta ad appigliarsi al sedile del guidatore di fronte a sé per non farsi troppo male, ma così facendo il polso, già malandato a causa della stretta ferrea del tizio, dovette sopportare tutto il suo peso, facendola gemere di dolore.
«Ancora un po' e quel bastardo vi avrebbe preso entrambi»
La voce, con tono canzonatorio, la richiamò alla realtà e sollevò di scatto lo sguardo, finendo per fissare colui che stava a fianco del guidatore, girato verso i sedili posteriori e con un sorriso sardonico sul volto pulito e uguale a quello del ragazzo che l'aveva praticamente rapita. Al posto di un paio di occhi bianchi però, ce n'erano un paio castano-verdi che spostavano alternativamente lo sguardo da lei all'altro tizio e viceversa. Quest'ultimo si girò imbufalito verso colui che aveva parlato – la cui voce, Ophelia l'aveva riconosciuta, era quella che gli aveva ordinato di salire – e lo guardò in malo modo, mentre la ragazza si stupiva di non vedere più gli occhi bianchi, ma un paio sempre castano-verdi, uguali in tutto e per tutto a quelli del nuovo arrivato, solo con una luce incazzosa al posto di quella divertita.
«Taci idiota»
«Non trattare male Milly, Nicky» una terza voce, femminile, intervenne, rivelando la ragazza che vi era alla guida.
«Non chiamarmi Nicky!»
«Non chiamarmi Milly!»
Le due voci, uguali, risposero in sincrono, irritate.
Ophelia, ancora in una posizione scomoda, notò solo un vago movimento con la mano da parte della giovane.
«La ragazza sta bene?» continuò imperturbata la sconosciuta. Ophelia, sentendosi chiamata in causa, smise di adocchiare la strada in cui si trovavano – esattamente, dove si trovavano? - e fissò con occhi grandi e spaventati i due gemelli – sì, lo erano senza dubbio – che la osservavano.
«Sì» rispose secco quel Nicky.
«Insomma, sembra che stia per morire di infarto, ma tutto sommato non sembra messa male» fu più esauriente Milly, osservandola con curiosità.
Ophelia, sentendosi osservata, si mise lentamente seduta composta, venendo squadrata senza tregua dai due ragazzi. Cercando di evitare il loro sguardo, finì per incrociare gli occhi anch'essi castano-verdi della giovane che guidava, la quale cercava di intravederla dallo specchietto retrovisore.
Ophelia deglutì, percependo il suo gesto fin troppo rumoroso.
«Potreste spiegarmi chi diavolo siete?»
Le parole stridule uscirono prima che potesse frenare la lingua. Subito dopo si diede della stupida, pensando che se volevano quei tizi potevano benissimo ucciderla e nascondere il suo cadavere da qualche parte in cui nessuno l'avrebbe mai trovato.
Pensando a tutti i modi in cui poteva finire allegramente a far compagnia ai lombrichi sottoterra le venne un brivido di terrore e di disgusto.
I tre non sembrarono toccati dal tono che usò, a metà tra l'isterico e il minaccioso.
«L'avevo detto io che sarebbe stata una ragazzina molesta» disse con tono accusatorio sempre lo stesso Nicky, ignorandola su tutta la linea.
«Avanti Domi, non la conosci nemmeno. Non sembra male» cinguettò allegro l'altro.
«Guardala: già dalla faccia si capisce che è fastidiosa. E poi mi spiegate perché sono stato io quella a doverla recuperare? L'idiota mi ha pure morso!» continuò lamentoso quel Nicky, Domi, o come cavolo si chiamava, iniziando a sventolare la mano ferita su cui spiccavano rossastri dei segni di denti.
«Tu mi stavi quasi impedendo di respirare» intervenne furente Ophelia, stupendosi di partecipare a quella conversazione. Anche se sapeva che poteva finire in un fosso da un momento all'altro, quei tre erano talmente strani che si ritrovò a battibeccare anche lei come se non fossero dei totali sconosciuti che l'avevano appena rapita.
«Mi sono pentito di non avertelo impedito del tutto» rispose velenoso il ragazzo.
«Avanti Nicky, non essere così astioso. E non continuare a spaventarla» intervenne la ragazza, notando il pallore di Ophelia a sentire le parole di “Domi”.
«Perché invece di fare la mamma non mi spieghi perché il principino ha mandato noi a recuperarla e non ha mosso il suo regale culo? E non tentare di trovare una scusa questa volta, Claire» continuò il solito, sbuffando come una teiera.
«Ti sei risposto da solo, fratellino. È un principino, per questo manda noi cavalieri a recuperare le donzelle con cavallo, armatura e spada» ironizzò “Milly”.
«Se continua così la spada gliela ficco su per il culo»
«Va bene» interruppe subito Claire, senza spostare lo sguardo dalla strada «Rimanda il tuo adorabile turpiloqui a dopo tesoro, e dai qualche spiegazione a quella povera ragazza – a proposito, com'è che ti chiami?»
Ophelia fu ritirata dentro la conversazione con la forza.
«Ophelia» borbottò.
«Uh, che nome adorabile» rispose deliziata Claire, lanciandole un veloce sguardo dallo specchietto.
«Perché devo essere io a darle spiegazioni? Sono già stanco di tutta questa storia» rispose con voce isterica Domi.
«Dio, fratellino, sembri una donna in piena fase mestruale» fece sarcastico Milly in risposta.
«Se non la pianti finisci in strada»
«Smettetela entrambi. Cavolo, mi sembra di stare con due dodicenni invece che con due adulti» si lamentò stanca la giovane ragazza «E comunque sei tenuto a darle spiegazioni in quanto sei stato tu a trascinarla fino a qui» asserì convinta.
Domi fece una faccia sconvolta.
«Io? Io sono quello a cui dovrebbero essere date spiegazioni, dato che me ne stavo tranquillo per i fatti miei finché quel coglione non mi ha trascinato via strillando come un invasato che dovevamo andare a recuperare questa... Questa...» si interruppe, indeciso su come definirla.
Ophelia gli lanciò un'occhiata irata.
«Se voi volete darle spiegazioni bene, io non farò proprio nulla»
E con queste parole da bambino viziato, Ophelia vide il ragazzo assumere un'espressione corrucciata e incrociare le braccia in un angolo del sedile.
Sentì chiaramente Claire sospirare esausta.
«Beh, direi che a spiegarle tutto sarà direttamente Sargas, ormai non c'è più tempo» tubò allegro Milly, guardando fuori.
Proprio in quel momento Ophelia sentì l'auto accostare e il motore spegnersi.
Guardò fuori dal finestrino, cercando di riconoscere il posto, ma non riuscì a capire dove diavolo fosse finita. Fuori una sequela di edifici tutti grigi e simili tra loro rendevano la strada monotona; c'erano alcuni lampioni a illuminare la strada ma non erano sufficienti, perciò il luogo oltre a essere monotono risultava anche abbastanza lugubre e desolato.
«Dove siamo?» sussurrò, ormai certa che la stessero per trascinare nell'ennesimo vicolo, questa volta per soffocarla con una busta di plastica.
«La smetti con tutte queste domande?» berciò infastidito il solito Domi.
«Su Domi, non farti saltare le coronarie» fece con falso tono smielato il gemello, ricevendo come risposta un dito medio molto chiaro.
«Da qualche parte a New York»
Vanno pazzi per le risposte esaurienti qui, pensò sarcastica Ophelia, attenta a frenare la lingua questa volta.
«Avanti, scendete» ordinò Claire. Ophelia rimase immobile mentre il ragazzo affianco a lei apriva lo sportello e usciva. Dopo un paio di secondi, rituffò la testa bionda dentro l'auto.
«Ti sbrighi o vuoi rimanere qui tutto il giorno?» fece con tono infastidito.
La ragazza si precipitò fuori, rischiando quasi di rompersi l'osso del collo su quei maledetti tacchi e venendo investita da un venticello notturno leggero ma gelido, che la costrinse a stringersi meglio addosso il cappotto grigio scuro.
I tre non l'aspettarono, andando sicuri verso l'edificio davanti a cui si erano fermati. Ophelia si affrettò a seguirli, mantenendo una certa distanza e iniziando a frugare disperatamente nella borsa e nelle tasche, alla ricerca di qualcosa che però sembrava scomparso.
«Cerchi questo?» chiese beffardo Domi.
L'odio che cresceva nei confronti di quel ragazzo si mischiò alla disperazione che provò nel vedere il suo cellulare nelle mani dell'altro, che lo faceva dondolare incurante del rischio che potesse frantumarsi a terra.
Il telefono, la sua unica e ultima speranza di poter essere salvata da quei tre pazzi che con tutta probabilità l'avrebbero smembrata e sparso i suoi pezzetti in giro per la città – ok, forse non doveva esagerare in tal modo – comunque, il suo telefono era andato nelle mani di quel bastardo che continuava a ridersela di fronte alla reazione di Ophelia, che era sbiancata.
«Domi» lo richiamò il gemello, ridacchiando di fronte alla scena «Avanti, smetti di giocherellare con lei e muoviti a entrare. Anche tu, sbrigati»
Domi si limitò a scrollare le spalle, ancora ridendo, poi si mise il cellulare in tasca e la precedette mentre il gemello attendeva che Ophelia uscisse dalla trance in cui era entrata e camminasse. Lei, in risposta, più che camminare si trascinò verso di loro come una condannata a morte, intravedendo Claire che stava già entrando dentro l'edificio senza attenderli.
Non provava nemmeno a scappare, consapevole che sarebbero riusciti a riprenderla senza troppi sforzi, ma un lato della sua mente, non sapeva se quello più incosciente o quella più ragionevole, le diceva di correre via perché, d'altro canto, c'era qualcosa di più che strano in loro, in primis in quel diavolo di Domi che poco prima aveva gli occhi bianchi e l'attimo dopo di un normalissimo castano-verde.
In qualche modo anche la curiosità la spronò a seguirli perché si era resa conto che quei tizi non l'avevano rapita a caso, ma ero decisi a prendere proprio lei.
Arrivò di fronte all'edificio ed entrò prima di Milly, che gli apriva con galanteria la porta – certo, galanteria, per non dire “così evitiamo gesti scemi da parte tua” che sarebbe stato brutto.
Si ritrovò in una stanza di medie dimensioni, completamente spoglia; nonostante ciò il pavimento a scacchi era lindo e ci si poteva quasi specchiare. Non vi erano porte di sorta, escludendo quella da cui erano appena entrati, solo un ascensore, il cui pulsante veniva premuto più volte da Claire, rischiando di venir frantumato.
«Guarda che non arrivi prima se lo rompi» disse Domi, inarcando un sopracciglio in direzione della ragazza e poi un'occhiata di diffidenza per Ophelia, appena arrivata con l'altro gemello.
È diffidente? LUI è diffidente? Sono io qui quella che non capisce che cazzo succede, pensò isterica.
Ma non disse nulla manco questa volta e dopo pochi secondi le porte dell'ascensore si aprirono, rivelando uno spazio di tre metri per tre, ricoperto di moquette blu e con una fastidiosa canzoncina che proveniva da degli altoparlanti.
Fu spinta dentro da Milly – a quanto pare la delicatezza era qualcosa che avevano in comune i due gemelli – ma non riuscì a vedere che pulsante avesse premuto Claire, in quanto era stata relegata nell'angolo opposto e a malapena vedeva la porta coperta com'era dai due ragazzi che, notava solo ora, erano fin troppo alti.
In quei due minuti di ascensore, nel quale sentiva vagamente i due ragazzi riprendere a battibeccare come al solito, riuscì finalmente a osservare bene i tre rapitori.
I due ragazzi, due gocce d'acqua, con medesimi capelli biondi e carnagione dorata, si distinguevano fondamentalmente per il taglio di capelli, un poco diverso, e l'atteggiamento anch'esso per certi lati differente: Ophelia coglieva in Milly meno cattiveria rispetto a Domi, i cui cinque canonici minuti di incazzo sembravano non finire. Erano comunque entrambi molto alti e con un fisico che sembrava allenato, anche se non poteva vedere più di tanto dalle felpe che ambedue indossavano.
La ragazza, Claire, era alta anch'essa, con un fisico longilineo e lunghi capelli neri nei quali spiccavano ciocche verde elettrico che facevano contrasto con la carnagione dorata uguale a quella dei due.
Ophelia guardò il fisico dell'altra con una smorfia, osservando i vestiti aderenti che mettevano in evidenza la belle curve.
Ma che cazzo, pure i rapitori-modelli mi dovevano capitare, pensò sconsolata, pensando che forse aveva fatto bene a non mangiare la famosa torta al cioccolato.
La porta si aprì con un lieve suono, interrompendo le elucubrazioni di Ophelia ma non le battutine dei due.
«...avrei potuto ammazzarlo quando volevo!» berciava Domi con la perenne aria irata. L'altro rideva sarcastico.
«E perché ti sei fiondato sull'auto allora?» lo pungolava.
«Sai che ansia dovermi togliere poi il sangue dalla maglia. E poi quella tizia mi sarebbe svenuta davanti e l'avrei dovuta portare in braccio. Ma anche no»
Ophelia iniziò a sudare freddo.
Ok, l'avrebbero uccisa, lo sapeva.
«Mi state facendo venire il mal di testa, sembrate due oche starnazzanti» sibilò Claire.
«Senti chi parla» la pungolò Domi «Sei peggio di noi, sorellina»
Claire gli lanciò un'occhiataccia mentre Ophelia sobbalzava. “Sorellina”, beh, alla fine non era stupita più di tanto.
Evviva, era incappata in tre fratelli serial killer.
La paura che si era attenuata riprese a farla tremare mentre veniva condotta dai tre per corridoi, porte e scale senza un apparente ordine preciso.
Passarono di fronte a porte dalle quali si sentivano alcune voci e se Ophelia non urlò fu solo perché il solito Domi le lanciò un'occhiata lampeggiante e perché sarebbe potuta cadere dalla padella alla brace.
Quando Ophelia si iniziò ad accorgere che non c'era neanche una finestra in quel posto – erano sottoterra per caso? - si dovettero fermare di fronte all'ennesima porta. Claire non bussò nemmeno, aprì la porta senza troppi convenevoli ed entrò; i due ragazzi invece si premurarono di spingere anche questa volta Ophelia dentro.
Dopo l'ennesima spinta però Ophelia cadde come rischiava di fare da ore: un tacco le si impigliò da qualche parte e rotolò a terra con pochissima grazia, sbattendo dolorosamente un ginocchio e causando le risate incontrollate dei soliti gemelli.
Viola dalla vergogna, Ophelia si risollevò e alzando lo sguardo finì per incrociare quello di un ragazzo che, appoggiato mollemente su una scrivania, la guardava con le braccia incrociate e un sopracciglio inarcato.
«Davvero, Sargas, non capisco perché volessi assolutamente che ti portassimo questa tizia» Milly ruppe il silenzio creatosi osservando il bel ragazzo che continuava a fissare Ophelia.
Quest'ultima si sollevò traballante, non osando ricambiare lo sguardo e lanciando solo veloci occhiate di sottecchi a quel Sargas, ritrovandosi a considerare che lì sembravano tutti fatti con lo stampino. Com'era possibile che fossero tutti così belli? Si sentiva fuori luogo!
Le occhiate lanciate furono sufficienti per notare i corti capelli corvini che gli incorniciavano il volto pallido dall'espressione improvvisamente corrucciata e gli occhi blu cupo che la squadravano in maniera sfacciata dalla testa ai piedi.
Ma la sorpresa che provò in quel momento Ophelia non fu data tanto dalla bellezza del tipo, bensì dal vedere un ragazzo legato e imbavagliato su una sedia all'angolo della stanza, un ragazzo che riconobbe subito dai riccioli castani.
Sbiancò.
«Matthew?»

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Capitolo 2
*** Capitolo due ***


Salve, lettori e lettrici di EFP!
Dopo quasi due settimane di assenza, ecco il nuovo capitolo di questa mia originale. Era pronto già da alcuni giorni, ma dovevo dargli una sistemata e correggere alcune incongruenze, quindi mi ci è voluto qualche giorno in più.
Anche questo capitolo, come l'altro, non spiega granché della storia; anzi, credo che confonda ancora di più. In ogni caso tutto sarà più chiaro con il resto dei capitoli, in cui le informazioni saranno date pian piano per creare un po' di suspense.
Spero vi intrighino i personaggi e anche che non li troviate troppo banali, però li conoscerete meglio con l'andare della storia.
Ho notato che il primo capitolo non ha riscosso tanti commenti, ma in ogni caso spero che qualcuno apprezzi anche il secondo capitolo di questa storia a cui tengo particolarmente. Mi piacerebbe tanto che qualcuno mi dicesse un suo parere, qualunque esso sia, per poter migliorare o anche per spronarmi a continuare a scrivere, ma ringrazio comunque anche chi si limita soltanto a leggere!
Alla prossima!

~Sapphire

NOTE: non so se qualcuno di voi coglierà il riferimento agli occhiali di Maya*, comunque sia il nome è riferito al “velo di Maya” di Schopenhauer.





 ~Dirty Blood




Capitolo due

La situazione stava sfiorando i limiti dell'assurdo e, purtroppo, non parevano esserci miglioramenti all'orizzonte.
Va bene – più o meno – essere quasi stuprata, va bene anche essere “salvata” e portata in un luogo sconosciuto da tre pazzi con occhi multicolori, ma, davvero, perché il suo ragazzo si trovava legato e imbavagliato su una sedia, con un grosso taglio sulla fronte da cui continuava a scendere copiosamente sangue?
«Mathias?» ripeté balbettando Ophelia, per poi iniziare a tremare nuovamente terrorizzata.
«Sarebbe più corretto chiamarlo Aragorn» disse flemmatico quel ragazzo sconosciuto – pareva si chiamasse Sargas, giusto?

Ma quella che voleva essere un'informazione pacifica, perlomeno da parte di lui, non fu altro che la goccia che fece definitivamente traboccare il vaso. In questo caso il vaso era Ophelia, la quale iniziò a strillare al principio di una crisi isterica.
«Si può sapere che cazzo succede?! CHI SIETE VOI? Perché ci avete portato qui? Che avete fatto al mio ragazzo?» urlò, iniziando a piangere.
Mathias iniziò a divincolarsi, cercando inutilmente di slegarsi e ottenendo solamente un violento colpo alla nuca da Milly, che lo fissava con curiosità.
«Uh, gli hai applicato un sigillo?» chiese voltandosi verso il moro e ignorando su tutta la linea la povera Ophelia che si accasciò al suolo, pallida come se stesse per svenire da un momento all'altro. Cosa molto probabile, d'altronde.
«Ovvio. Anche se non so quanto sia necessario, è così debole che mi fa ridere»
Ophelia in quel breve scambio di battute si sentì chiaramente svenire e il busto le cedette per un attimo, crollando in avanti, e si sarebbe fatta male se non fosse stato per Claire che la afferrò appena in tempo; la mora le diede qualche piccolo schiaffo sul viso, cercando di farle riprendere colore. Ophelia sentì il sangue riprende a fluire, poi continuò a piangere.
«Sargas, non credi sia il caso di dirle qualcosa? Questa poveretta fra un po' sviene seriamente» bofonchiò con aria preoccupata Claire, cercando di tirare su Ophelia e facendo ondeggiare la chioma scura sui fianchi lasciati scoperti dal top nero.
Con fatica la fece alzare in piedi, per poi trascinarla su una poltrona posta affianco alla scrivania; il corpo di Ophelia si afflosciò sulla pelle nera, i capelli lisci spettinati e gli occhi messi in ombra dalla frangia.
«Che rottura» intervenne Domi.
«Potresti non lamentarti per cinque minuti? Grazie» fece ironica Claire.
«Non lamentarmi? Sono stato trascinato in questa situazione senza neanche averlo chiesto!»
«Ti ricordo che è il tuo lavoro»
«Non mi pare che il mio lavoro sia andare a recuperare ragazzine isteriche» continuò a battibeccare Domi, mentre Milly osservava la situazione ridendo e senza preoccuparsi di nasconderlo.
«Claire, Dominik: smettete di litigare. E tu, Maximilian, invece che ridere porta gli occhiali di Maya» intervenne gelido Sargas.
A Ophelia, non ancora del tutto ripresa, sembrò che più che arrabbiato il moro fosse tremendamente annoiato dalla situazione. A malapena si accorse che Max (finalmente il nomignolo acquisiva un senso!) uscì dalla stanza con aria annoiata, lasciando il gemello a sorvegliare scazzato quello che pareva essere un vero e proprio prigioniero.
Ma la ragazza si ridestò sentendo un gemito da parte del suo ragazzo. Sollevò lo sguardo verso di lui, gli occhi che si colmavano di nuovo di lacrime osservando i riccioli scuri bagnati di sangue e gli occhi vitrei. Nonostante si fissassero negli occhi, Ophelia si accorse di non cogliere nessuna preoccupazione da parte dell'altro: la fissava con odio e, quando la ragazza balbettò il suo nome, iniziò a divincolarsi nuovamente senza successo.
Dominik, di fronte allo sguardo scioccato dell'altra, lo afferrò violentemente per i capelli e gli portò indietro la testa, facendogli torcere in malo modo il collo.
«Vedi di stare fermo, bastardo, mi stai irritando» soffiò freddo, per poi lasciarlo andare. Si guardò poi la mano, macchiata di sangue, e sbuffò infastidito.
«Che volete da noi?» sussurrò Ophelia, stremata. Le sue parole erano così basse che Dominik, dall'altra parte della stanza, a malapena la sentì.
Sargas le lanciò un'occhiata, osservando come si fosse spenta all'improvviso senza più lacrime da versare, con l'amara luce negli occhi di chi si arrende all'impossibilità di cambiare la situazione.
«Da lui niente, è solo un incidente di percorso» rispose freddo il moro. Ophelia sentì un fastidioso nodo alla gola.
«E da me?» sussurrò, temendo la risposta.
Una risposta che però non arrivò in quanto l'altro tacque, limitandosi a fare un cenno a Claire. Quest'ultima allora si avvicinò di nuovo a Ophelia, accucciandosi di fronte a lei e fissandola con i grandi occhi castano-verde; ma lo furono solo per un attimo poiché, come a causa di uno strano gioco di luci, le iridi cambiarono colore diventando bianche come la neve, distinguendosi comunque dal resto dell'occhio.
Ophelia rimase ipnotizzata da esse: fissandosi dritte l'una nello sguardo dell'altra poté osservare accuratamente quel misterioso evento che aveva colto anche in Dominik ma che aveva pensato fosse solo un'allucinazione. E per un attimo pensò che anche in quel momento si trattasse di una cosa del genere, ma tutto era troppo reale per scambiarlo per una fantasia.
Le folte ciglia nere rendevano ancora più pungenti gli occhi, che però conservavano una particolare dolcezza nello sguardo candido nel quale la pupilla nera spiccava come uno spillo.
Il viso le si addolcì ulteriormente quando sorrise e lentamente le prese le mani – era Claire ad avere le mani bollenti o erano le sue a essere fredde come il ghiaccio? - stringendole con delicatezza.
All'improvviso, Ophelia sentì il grande masso che aveva dentro di sé alleggerirsi; era sempre lì, l'ansia e la paura non scomparivano del tutto, ma la sua mente si schiarì dalla nebbia fitta che fino a un istante prima l'avvolgeva e si rilassò, osservando la situazione con lucidità. La cosa comunque non fu molto utile, perché si accorse ancora di più della gravità della situazione – lei portata lì contro la sua volontà e il suo ragazzo picchiato e legato – ma, nonostante ciò, la sensazione di calma non scomparve, come se le fosse stato fatto un incantesimo.
La porta si riaprì con uno scatto e Max tornò dentro, in mano un paio di occhiali dalle vistose lenti viola. Le consegnò a Sargas sotto lo sguardo attento di Ophelia che aveva abbandonato la sicurezza degli occhi di Claire per osservare che succedeva.
Il ragazzo le prese con delicatezza per poi avvicinarsi a Ophelia. Non si chinò come aveva fatto Claire, ma la squadrò dall'alto, e sotto il suo sguardo la ragazza si pietrificò. Visto a quella così breve distanza Ophelia riusciva ad ammirarne ancora di più la bellezza, il viso perfetto privo di sensibilità.
Si era contrapposto alla luce che proveniva dal lampadario – lì dentro non c'erano finestre ad illuminare con la luce naturale, anche se sarebbe stato inutile considerando che ormai doveva già essersi fatto buio – e così facendo aveva coperto la giovane con la propria ombra.
Si sentì completamente oscurata, e non solo dal punto di vista fisico. Sargas quasi la schiacciava con la sua presenza fastidiosamente imponente.
«Indossali» ordinò solo, porgendole gli occhiali.
Il distacco dalle mani di Claire fu quasi doloroso, ma la sensazione di calma non l'abbandonò del tutto sotto lo sguardo attento della mora.
Li prese in mano, osservandoli: avevano una montatura dorata, antica e datata dal tempo, ma sempre luccicante e le lenti, notò meglio Ophelia, variavano la sfumatura di viola a seconda della luce.
Con cautela li indossò, per poi sentirsi una stupida ad aver paura di un paio di occhiali: cosa le avrebbero potuto fare d'altronde?
All'inizio non colse alcuna differenza se non il violetto che avvolgeva ogni cosa, poi si rese conto dell'aurea bianca, quasi argentea, che si espandeva dai corpi dei quattro astanti. Ma fu altro che la spiazzò.
Un gemito strozzato le sfuggì dalla bocca, per poi coprire quest'ultima con una mano, scioccata e terrorizzata al tempo stesso.
Mathias – o almeno, quello che fino a poco prima aveva le sue sembianze – non era più lui: al suo posto vi era una strana creatura dalla pelle fatta come di cuoio, grigia e opaca. La testa completamente calva ricoperta di incisioni e simboli rossi, la bocca dalle labbra inesistenti e gli occhi completamente blu, senza iridi, pupilla o altro. Era talmente magro da sembrare uno scheletro ricoperto di sola pelle.
«Ma che cazzo...» le sfuggì, shockata all'inverosimile.
No. Non poteva essere vero. Quella cosa non poteva essere vera. Doveva star avendo le visioni, non si poteva spiegare in altro modo una cosa del genere.
«Delizioso, non trovi?»
Il tono ironico di Dominik la risvegliò dalla trance in cui era caduta e terrorizzata si tolse gli occhiali, lanciandoli via sotto lo sguardo spaventato di tutti.
Max li afferrò appena prima che si schiantassero in terra, evitando un disastro.
«Ma sei fuori di testa? Questi valgono più di te!» le sibilò proprio Max, tenendo con cautela il prezioso oggetto e allontanandosi da Ophelia come se questa potesse alzarsi all'improvviso e romperglieli apposta.
Ma la ragazza, non sentendolo nemmeno, iniziò a strillare di nuovo.
«Che cazzo era?! Che cosa è successo?! Mi avete drogata!» iniziò a blaterare partita nuovamente di testa.
«Ma perché non la sediamo?» fu l'allegra proposta che Dominik fece con sguardo disgustato.
«Sono d'accordo con lui» fece Max.
«Ma perché non siete un po' più comprensivi?» rispose a tono la sorella.
«Ma perché non state tutti zitti?» fu il glaciale commento di Sargas «Pure tu. Se non la smetti di strillare come un'invasata, Aragorn sarà l'ultima cosa di cui ti dovrai preoccupare» sibilò in direzione di Ophelia, che si sentì di nuovo svenire.
«Grazie tesoro, bell'aiuto. Io sto qui cercando di farla calmare e tu fai queste fantastiche sparate» disse acida Claire. Afferrò ancora la mani tremanti della ragazza che si sentì di nuovo tranquillizzata, anche se rimaneva comunque un fascio di nervi.
Sargas la ignorò.
«Allora...» si interruppe.
«Ophelia» gli suggerì Claire sottovoce.
«Ophelia» ripeté il moro, per nulla scalfito «Come hai appena visto, Mathias non è quello che credi. Se è per quello, nemmeno tu lo sei. Mi spiace informarti che hai vissuto tutta la vita in una bugia» iniziò.
Ophelia impallidì per l'ennesima volta.
«Ma sei un idiota? Davvero, c'è da farti un applauso per come sei bravo a interagire con le altre persone» fece sarcastica Claire. In sottofondo, i due gemelli ridevano.
«Come glielo dovrei dire, scusa?» la guardò Sargas, iniziando a spazientirsi.
«Con un po' più di tatto magari. Ops, scusa, dimenticavo che l'hai perso con la simpatia»
Sargas le lanciò uno sguardo gelido.
«E fra un po' perderò anche la pazienza» fece un sorriso glaciale e Ophelia, ancora sconvolta, pensò vagamente che quella fu la prima vera espressione che gli vide fare.
«Cosa intendi?» fece con la voce spezzata.
Nella sua testa, una parte di lei cercava di riprendere il controllo del suo corpo e delle sue emozioni.
Doveva stare calma, urlare in maniera isterica non sarebbe servito a niente; inoltre, se ci ragionava con più lucidità, quei tre non le avevano fatto del male e non sembravano decisi a farlo, nonostante le frecciatine di Dominik. Era strano e si sentiva una sciocca ingenua a pensarlo, ma forse quei tizi non erano contro di lei. In fondo avrebbero potuto ucciderla o farle del male molto prima, invece sembravano volerla in qualche modo aiutare – anche se non era sicura che Dominik fosse d'accordo.
«Intendo che non hai mai saputo la verità riguardo ciò che sei e che ti abbiamo portato qui proprio per mostrartela» continuò Sargas.
Ophelia rise acida, riprendendo piano il controllo di sé stessa.
«Uh, davvero? E cosa dovrei essere allora? Se mi dici come lui uccidetemi, non lo sopporterei» fece con velata ironia.
Ormai non considerava più quel Mathias come il suo ragazzo. Lo guardava e vedeva solo quella creatura spaventosa. Un distacco emotivo stava avvenendo in lei per farle mantenere un briciolo di sanità, come accadeva al seguito di ogni abbandono che viveva.
Si conosceva: prima prendeva la situazione sullo scherzo, poi usciva di testa, infine diventava dura come l'acciaio, impedendo a tutto e a tutti di scalfire la corazza che si creava per sopravvivere emotivamente.
«Se fossi stata come lui non saremmo venuti a cercarti o, in caso, ti avremmo ucciso subito» disse incolore Sargas.
Dentro di sé, Ophelia tirò un piccolo sospiro di sollievo.
Allora non vogliono uccidermi, pensò.
«Quindi non volete uccidermi?» cercò una conferma.
«No»
Ed ecco la prima bella notizia della giornata.
«Allora volete torturarmi?» chiese. Non sapeva come stesse riuscendo a porre quelle domande con una tranquillità del genere; fino a pochi minuti prima era in piena crisi isterica.
«Non vogliamo farti del male in nessun modo» tagliò corto Sargas, spazientito.
«Parla per te» bofonchiò Dominik nelle retrovie.
«Siamo qui per aiutarti. So che potrebbe non sembrare così, ma, davvero, non devi temerci» interloquì Claire morbida. La mora le sfiorò i capelli color miele, prendendole con delicatezza una ciocca e giocherellandoci.
«Va bene» disse solo Ophelia.
In fondo, cos'altro avrebbe potuto fare? Anche se tutta quella fosse stata una menzogna, di certo non sarebbe potuta fuggire: l'avrebbero ripresa senza il minimo sforzo e inoltre non era sicura di sapere la strada per uscire da quel labirinto.
Notò gli sguardi straniti dei quattro, ma non nessuno commentò. Era meglio che rimanesse tranquilla.
«Quindi ora che si fa?» chiese Max.
Già. Che si faceva?
«Non dovresti avvertire Lisander?» domandò Claire.
«Mio padre è a Bucarest con Morgana, non ho modo di contattarlo. Il bastardo ha lasciato me a gestire i suoi problemi» borbottò Sargas con un vago cenno in direzione di Ophelia.
Ah, quindi era pure un problema ora?
«Lasciamola da qualche parte e aspettiamo che tuo padre torni, poi se ne occuperà lui» disse Dominik.
«Allora potremmo anche aspettare in eterno» bofonchiò Claire, alzandosi ma non lasciando andare la mano di Ophelia che aveva ripreso. La bionda, del canto suo, non voleva lasciargliela: sembrava che avesse lo strano potere di tranquillizzarla.
«E lui?» chiese ancora Max, indicando invece Mathias – o Aragorn, o qualsiasi altra cosa fosse.
«Lo uccidiamo» risposero in coro gli altri tre.
Ophelia impallidì.
«Cosa?»
Sargas le lanciò un'occhiata di sufficienza.
«Beh, a patto che tu non voglia continuare a starci» disse melenso.
L'apatia sembrava averlo abbandonato, per lasciar spazio a delle emozioni più umane.
«Ma...» iniziò la ragazza «Non potete uccidere una persona!»
«Ti sembra una persona quella?»
Ophelia tacque.
«Se non è una persona, allora cos'è?» chiese.
Il silenzio cadde nella stanza.
«È lungo da spiegare» disse Sargas, e i suoi occhi aggiunsero “e io non ho voglia di spiegartelo”.
«Abbiamo tempo no?»
«No» fece secco Dominik, alzandosi di scatto.
«Se qui abbiamo finito io vado, ho una partita in sospeso con Abel e quel bastardo l'ultima volta mi ha fatto tornare in mutande, devo prendermi la rivincita» disse rapido, praticamente correndo verso la porta.
«Prima di correre via, tu e Max occupatevi di questo tizio» lo bloccò Sargas. Il biondo fece una smorfia, ma senza dire niente tornò indietro e insieme al fratello costrinse il tizio a mettersi in piedi, slegandolo dalla sedia.
Mathias cercò di fuggire, ma i due gemelli lo afferrarono per le braccia e gliele torsero, costringendolo a seguirli.
«Beh, ci si vede» disse con un sorriso Max e, senza che Dominik aggiungesse nulla, si dileguarono.
«Dove lo stanno portando?» fece preoccupata Ophelia.
«Non credo tu lo voglia sapere. E poi dimenticati di quello lì, era solo un mostro che ti stava ingannando per prenderti gli occhi» rispose Claire.
«Cosa?»
«Perfetto: Claire, occupati di lei. Portala da qualche parte, spiegale il necessario e poi domani faremo qualcosa. Ti avviso stasera» e senza aggiungere altro, anche il moro prese il volo.
«Evviva» fece sarcastica Claire, ma vedendo l'improvviso sguardo spaesato dell'altra sospirò.
«Andiamo» disse solo, e Ophelia abbassò gli occhi.
E adesso?

Abel Houbraken non era un tipo molto paziente.
Per questo quando Dominik – il caro, dolce, bastardo Dominik – arrivò dopo più di un'ora di attesa, sentì l'istinto omicida che si faceva strada in lui.
«Finalmente. Iniziavo a pensare che gli strozzini mi avessero fatto un favore e ti avessero finalmente accoppato» soffiò sarcastico.
«Muori» fu il felice augurio che gli venne di risposta.
Lo squadrò in silenzio. Beh, Domi non era di certo un tesoro di simpatia, ma doveva aver avuto una brutta giornata se si limitava a borbottargli “muori” – senza scalfirlo minimamente, ovvio – e a sedersi con malagrazia nella sedia dall'altra parte del tavolino.
Dopo un paio di secondi arrivò anche Maximilian, con il solito sorriso divertito stampato in faccia, che prese un'altra sedia e si mise a cavalcioni vicino al fratello.
«Magari un'altra volta» disse poi Abel «Deduco tu abbia avuto una bellissima giornata»
Dato che il fratello non accennava a rispondere, ma si limitava solo a fare un cenno all'uomo dietro il bancone, Max intervenne.
«Sargas ci ha spedito a recuperare una ragazzina isterica»
«Ma dai. E chi sarebbe?»
«Una da sopprimere» rispose velenoso Dominik.
«Adorabile» commentò il ragazzo.
Lanciò poi uno sguardo al locale: lo Spectrum era ancora mezzo vuoto, in fondo era ancora presto per la vita notturna tipica del posto. Si sentì perciò autorizzato a parlare senza il rischio di orecchie indiscrete, complice il fatto che gli altri giocatori dovevano ancora arrivare – com'è che tutti si stavano prendendo il brutto vizio di arrivare in ritardo? Il poker era una cosa seria!
«Non sapevo che Sargas fosse il tipo da ragazzine isteriche» continuò versandosi altro gin nel bicchiere vuoto. E tanti saluti se era a stomaco vuoto.
«Sargas è un tipo da prendere e sbattere al muro»
«Ignoralo, è arrabbiato perché ha mandato noi a recuperare i suoi affari»
«Che affari?» chiese con nonchalance.
«Cazzi nostri» rispose con la solita delicatezza Dominik, accendendosi una sigaretta e sbuffandogli il fumo in faccia. Abel scrollò le spalle, accedendosela a sua volta.
«Era solo per fare conversazione» rispose placido.
«Immagino» rispose sarcastico il biondo.
«E Amadeus come se la passa?» chiese Max.
Abel fece una smorfia sentendo nominare il suo capo.
«Lasciamo perdere, sono giunte voci di strani traffici di Omega e dei Grigi sono andati a fargli una sorpresina. Poi si è attaccato alla bottiglia e non so che fine abbia fatto»
«Ma dai, chi ha fatto la soffiata?» tubò Max, divertito al massimo.
«Che ne so, stanno sospettando di quei viscidi francesi che stanno cercando di farci lo scalpo da un po', ma non abbiamo prove» rispose Abel annoiato, senza tentare nemmeno di nascondere gli effettivi traffici del suo collega. Tanto sapeva che prima o poi sarebbe uscito fuori qualcosa, se da parte dei francesi o di altri non gliene importava. Omega gli stava pure sul cazzo.
«Rapite un francese e fatelo cantare, no? Di certo Amadeus saprà come farlo» fece ironico Max.
«Non so, non che me ne importi a dire il vero» rispose annoiato Abel.
Poi, senza dire una parola, vide Dominik attaccarsi al bicchiere e non staccarsi più.
Sorrise vedendo entrare nel locale Clay e Drake.
«Smettiamo di parlare di lavoro. Siamo qui per giocare no?»
Dominik ghignò.
«Siamo qui per farti il culo» fece melenso.
Abel rise. Beh, in fondo poteva sempre provarci.

Il suono del traffico giungeva lontano alle orecchie di Sargas Van Middlesworth.
Di lontane origini inglesi e tedesche, era l'unico discendente di Lisander Van Middlesworth, uomo dai troppi anni e dalle troppe amanti, che preferiva dedicarsi alla fidanzata di turno piuttosto che al figlio.
Ma Sargas non veniva toccato dal comportamento del padre, piuttosto era infastidito che gli avesse lasciato una patata bollente tra le mani senza dargli ulteriori informazioni.
Non sapeva cosa fare con quella ragazzina!
«Quando torna lo uccido» sibilò tra sé, accartocciando la lettera che gli era stata lasciata dove Lisander, con il solito imperioso modo di fare, gli ordinava di andare a recuperare una ragazza. Una ragazza che non aveva mai sentito nominare.
Aveva solo una foto di lei – che non sapeva come era finita nelle mani del padre, ma non gli interessava – e dietro c'era scritto solo NYC.
Sospirò, sedendosi sulla poltrona di fronte alla portafinestra. Gli occhi vagavano nel buio della stanza, rischiarata di poco dalle luci della città che filtravano attraverso la tenda sottile, ma per lui non era un problema l'oscurità, grazie ai suoi occhi bianchi avrebbe visto sempre e comunque.
Si accese una sigaretta, per poi massaggiarsi la testa sentendo pulsare le tempie.
Era stanco.
Aveva sprecato giorni cercando di rintracciare quella ragazzina – com'è che si chiamava? Giusto, Ophelia – sembrava introvabile! E poi quando l'aveva finalmente raggiunta e osservata si era reso conto di come fosse... normale. Aveva cercato di cogliere qualcosa in lei, ma non aveva sentito nulla. Forse si aspettava chissà che cosa, specialmente da come il padre la volesse a tutti i costi e da come il suo ragazzo – toh, che casualità! - in verità fosse un disgustoso Deviato mutaforma che sembrava attendere il momento giusto per avventarsi su di lei.
C'era qualcosa in lei, anche se ancora non sapeva cosa esattamente.
All'improvviso lo specchio appeso nel muro affianco alla porta si illuminò di un vago bagliore, attirando il suo sguardo, poi si fece come liquido e sbucò un foglietto rettangolare che cadde a terra con un fruscio appena percettibile.
Con un vago movimento della mano quel biglietto planò verso di lui.
Lesse le poche parole scritte con grafia frettolosa disordinata per poi fare una smorfia.
A Ophelia avrebbe pensato in un altro momento, ora aveva altre cose a cui pensare.

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Capitolo 3
*** Capitolo tre ***


E rieccomi qui!
Questa volta l'attesa è stata moooooolto lunga. Poco più di due mesi. Mi dispiace tanto.
A dire la verità il capitolo era quasi finito da molto tempo, mancava un'ultima parte, ma tra scuola, studio, scuola, studio e di nuovo scuola, i pochi momenti liberi li passo praticamente a non far nulla che implichi uno sforzo mentale di un certo livello. E per quanto scrivere sia per me rilassante e piacevole, devo comunque pensare a come sviluppare la trama.
Non posso promettere che il prossimo capitolo arriverà a un minor lasso di tempo, anche se mi sto già mettendo a scrivere, perché quest'anno la maturità chiama e non ho esattamente una grande quantità di tempo libero.
Che dire, spero che questo capitolo possa piacere, anche se non mi lascia molto convinta.
Mi fareste un grande piacere se lasciaste un commento, di qualsiasi tipo, in modo da aiutarmi a migliorare o, perché no, dirmi qualcosa che possa farmi piacere! Non scrivo per ricevere commenti, ma ammetto che mi farebbe piacere riceverne.
In ogni caso, buona lettura e alla prossima!

~Sapphire_





~Dirty Blood




Capitolo tre

Quando Ophelia aprì gli occhi, la prima cosa che sentì fu un'atroce fitta alla testa, un dolore tanto forte da farle pensare che gliela stessero aprendo in due.
Fece una smorfia mentre socchiudeva gli occhi, infastidita dalla luce del sole che invadeva la stanza che non riconosceva, e lentamente si sollevò dal letto in cui si trovava, sentendosi gli occhi gonfi e tutto il corpo indolenzito. Indossava ancora gli abiti del giorno prima, non si era tolta neanche il cappotto.
Rapido e implacabile, il ricordo della serata precedente le trafisse la mente prima che potesse pensare a qualsiasi altra cosa: il rapimento, i quattro sconosciuti, Mathias...
Sospirò e si guardò intorno.
Era in una camera da letto piuttosto ampia, in cui il letto a due piazze su cui stava troneggiava imponente con le sue coperte verde scuro. C'era una grande finestra dalle tende scostate da cui entrava forte la luce del mattino, una scrivania di legno con di fronte una sedia e un armadio chiaro. Del resto, la stanza risultava piuttosto spoglia.
Si ritrovò a guardarsi attentamente attorno, cercando di memorizzare ogni minimo dettaglio.
La sera prima non era stata molto attenta, presa com'era dall'ennesimo attacco di pianto che l'aveva colta appena era arrivata in quell'altro posto sconosciuto.
Claire, d'altro canto, ce l'aveva messa tutta per tranquillizzarla, ma Ophelia si sentiva inconsolabile in quel frangente.
Appena sveglia, ricordava vagamente cos'era successo dopo che i tre ragazzi se n'erano andati: Claire l'aveva trascinata via da quella stanza soffocante per condurla attraverso un'altra porta che si apriva su un luogo completamente diverso. Una volta oltrepassata si era trovata nel corridoio di quella che era chiaramente una casa d'epoca.
Claire l'aveva poi portata in quella camera da letto, facendola sedere e lasciandola con la promessa che sarebbe tornata subito con qualcosa di caldo per farla rilassare. Cosa inutile dato che la bionda, poggiata appena la testolina sul cuscino, si era addormentata tra le lacrime.
Proprio in quel momento notò una tazza di tè nel comodino di legno affianco al letto, sulla quale un'abat-jour di ferro battuto poggiava spenta. Allungò una mano per prendere la tazza, ma questa era gelida.
Ovvio, sarà qui da tutta la notte, pensò Ophelia, dandosi della scema.
Solo in quel momento si accorse di non sapere che ora fosse. Beh, almeno non aveva la preoccupazione di avvisare qualcuno su dove si trovasse. Escluso ormai Mathias, nessuno si sarebbe fatto domande su dove si fosse cacciata.
«Ti sei svegliata»
La voce di Claire la colse impreparata, facendola sobbalzare e girare di scatto verso la porta.
La mora sorrise, continuando a stare sulla soglia. Indossava una minigonna a pieghe nera, una camicia bianca con le maniche arrotolate sui gomiti e una cravatta lasciata molle azzurro cielo; sarebbe potuta sembrare una studentessa se non fosse stato per le scarpe in vernice nere dal tacco dodici, che le davano un tocco sexy non appartenente di certo a un'adolescente.
A Ophelia venne voglia di piangere al solo pensiero di come fosse invece conciata lei.
«Già» rispose solo la bionda, incapace di dire altro.
Il silenzio si fece pesante e imbarazzante, ma Ophelia non sapeva cosa dire. Aveva circa un centinaio di domande da fare, ma allo stesso tempo aveva paura di porle.
«Ieri non hai mangiato niente, avrai fame immagino. Vieni, andiamo a fare colazione» la incoraggiò sorridente Claire.
Ophelia si alzò titubante, dirigendosi verso la ragazza sempre con più sicurezza: d'altronde, Claire si era dimostrata la più affidabile in quella situazione. Tra tutti quelli che aveva “conosciuto”, lei era l'opzione migliore. Perciò si lasciò condurre docile tra i vari corridoi di quella immensa casa arredata poco ma con eleganza, in cui i colori principali erano il bianco, il nero e il verde.
Mentre camminava si guardava attorno con diffidenza, cercando di cogliere il maggior numero di dettagli possibile, ma tutte le porte erano chiuse e perciò non poté osservare niente di particolare.
«Ecco»
Claire la ridestò dalla sua attenta osservazione del luogo per introdurla in una cucina dall'aria più moderna del resto della casa, con un'isola circondata da alti sgabelli come unico tavolo disponibile.
«Cosa vuoi mangiare? Dolce, salato?» le chiese Claire.
Ophelia, gli occhi fissi sull'orologio appeso alla parete, le rispose distratta.
«Dolce»
Erano quasi le dieci e un quarto.
Non sapeva a che ora fosse arrivata lì la sera prima, né a che ora si fosse effettivamente addormentata, ipotizzava avesse dormito almeno per dodici ore. Nonostante ciò, si sentiva ugualmente stravolta.
«Puoi toglierti il cappotto se vuoi»
Claire la richiamò per la terza volta all'ordine e Ophelia si girò verso di lei, osservandola mentre trafficava per la cucina.
«Oh... Sì, certo» sussurrò.
Si levò il cappotto grigio con lentezza, poggiandolo su uno degli sgabelli e cercando di dare una sistemata agli abiti stropicciati: il maglioncino blu che indossava era tutto tirato da un lato, i jeans aderenti invece mantenevano la loro forma. Notò solo in quel momento di essere scalza, non ci aveva fatto caso.
«Puoi sederti»
Anche a quella frase, Ophelia agì come un'autonoma.
Ci furono interi minuti di silenzio, fino a quando Claire poggiò sul tavolo un calice di vetro colmo di spremuta, una fetta di torta con cioccolato e panna e una ciotola di macedonia fresca.
A rompere la quiete fu il boato che fece il suo stomaco di fronte al cibo: era da quanto?, venti ore che non toccava cibo? L'ultimo pasto era stato il pranzo del giorno prima, che per di più si era limitato a un panino e un'insalata veloce.
Senza pensarci troppo si buttò sul cibo quasi affogandosi dalla voracità con cui mangiava.
Sentì la mora ridacchiare e arrossendo cercò di mangiare con più calma.
«Oh, non preoccuparti per me, mangia come ti pare» fece con un sorriso Claire.
Ophelia annuì soltanto, continuando a mangiare in silenzio. Nel frattempo l'altra ragazza beveva del caffè appoggiata al tavolo, rimanendo in piedi.
«Hai una sigaretta?» disse Ophelia improvvisamente, appena terminò di inghiottire anche l'ultimo boccone. Claire la guardò sorpresa, poi annuì.
«Prego» fece, porgendole il pacchetto tirato fuori da una pochette che Ophelia notò solo in quel momento.
Appena la accese e aspirò il fumo, tossì.
Da quanto non fumava? Tre, quattro anni? Ne aveva tredici quando aveva provato la prima sigaretta, più tanta voglia di diventare adulta e bisogno di ribellarsi alle rigide regole dell'orfanotrofio. Le aveva rubate, si ricordò, perché di certo non gliele avrebbero mai vendute. E poi, insieme ad alcuni compagni un po' più grandi di lei, aveva provato ad aspirare finendo per tossire come una dannata.
Se lo ricordava meno acre e più buono, ma sortì l'effetto sperato: ad ogni boccata di fumo che rilasciava sentiva l'agitazione dentro di lei scomparire.
Contemporaneamente, Claire se l'accese insieme a lei.
«Dove sono?» chiese all'improvviso Ophelia. La mora la guardò, non stupita dalla domanda improvvisa.
«A casa mia e dei miei fratelli, a Manhattan. Ci abitiamo solo noi tre e ora siamo da sole, Domi e Max non credo che torneranno per ancora un bel po'»
Manhattan? Come avevano fatto a passare da Brooklyn a Manhattan in un minuto, la sera prima?
«Come ci siamo arrivate ieri?»
Claire fece una smorfia.
«Non mi crederesti se te lo dicessi ora. Devo parlarti di altre cose prima» rispose.
Ophelia prese un'altra boccata di fumo che le schiarì la mente.
«Chi sei tu?» chiese poi, ignorando quanto la domanda potesse risultare in qualche modo ridicola.
«Mi chiamo Claire Desdemona Sangster, sono molto più vecchia di quello che posso sembrare e non sono quello che tu pensi»
In pratica, oltre al nome non sapeva nulla. Ophelia inarcò un sopracciglio.
«Non esagerare con le informazioni» fece sarcastica. L'altra le fece un sorriso di scuse.
«Dirti chi sono non farebbe altro che convincerti di essere finita in una casa di pazzi»
Beh, diciamo che già in parte lo credeva.
«Allora perché non mi spieghi direttamente che cavolo succede e la facciamo finita?» continuò diretta Ophelia, sorprendendosi in qualche modo della propria fermezza nel porre quelle domande.
Claire sospirò, spegnendo la cicca in un posacenere preso dal banco della cucina e massaggiandosi le tempie.
«Ecco... Non so bene da dove partire a dire il vero. Non mi è mai capitata una situazione del genere e non so neanche cosa Sargas voglia che ti dica» iniziò a tergiversare.
«Parti dall'inizio. E poi ricordo che questo Sargas ti avesse detto di dirmi il necessario» la mise all'angolo, ricordando con improvvisa chiarezza le parole che il tizio moro aveva detto a Claire prima di fuggire via.
Claire fece l'ennesima smorfia.
«Tu credi al sovrannaturale?»
Fino a ieri mattina no, si rispose la bionda.
«Cosa intendi?»
«Ecco...» borbottò Claire «A creature più che umane, che hanno poteri che oltrepassano la vostra “normalità”» specificò, rimanendo comunque vaga.
«In un altro momento ti avrei riso in faccia. Ma dopo ieri sera, mi viene da risponderti di sì e di ridere di me stessa» rispose amara.
«So che può sembrarti assurdo, ma ipotizziamo che queste creature, diciamo, non umane, esistano davvero. Come la prenderesti?»
«Come la dovrei prendere?» chiese a sua volta Ophelia.
Claire sbuffò, passandosi una mano tra i capelli con un gesto nervoso.
«Non lo so» mugolò con aria sconsolata.
Ophelia continuò a fissarla in silenzio, con una strana curiosità che l'attanagliava.
«Via il dente via il dolore» esclamò all'improvviso Claire, rianimandosi all'improvviso e puntando lo sguardo verso l'altra ragazza che la guardava in attesa. Un attimo dopo, gli occhi rilucevano bianchi.
«Vedi i miei occhi? Ecco, questo è ciò che mi rende “non solo umana”. Come me, anche i miei fratelli, Sargas e molti altri possiedono questo tipo di occhi, ed è ciò che ci rende diversi. Diciamo che abbiamo dei poteri “magici”. Questi poteri e la nostra esistenza è sconosciuta a tutte le persone normali, e così deve rimanere in quanto sarebbe un gran bel trambusto se si scoprisse la verità» disse talmente rapida che quasi si mangiava le parole.
«Tu, a quanto pare, sei come noi. Sarò sincera: né io, né Domi e Max e nemmeno Sargas abbiamo idea su chi tu sia. Da quel che so ci è stato ordinato di recuperarti dal padre di Sargas, Lisander, ma nessuno sa perché lui ti voglia. Non sappiamo neanche perché il tuo ragazzo in verità fosse un Deviato mutaforma, perché un altro Deviato ti stesse per rapire ieri pomeriggio e se non fosse che stavamo venendo a recuperarti tu ora saresti chissà dove per volontà di non so chi» concluse frettolosa, con un fiume di parole che invasero la testa di Ophelia lasciandola impassibile.
La sua espressione non tradiva nulla a differenza della sera prima, in cui aveva crisi isteriche ogni due minuti.
Proprio per questo Claire la osservò dubbiosa.
«Ehi... Tutto bene?» borbottò, avvicinandosi e puntando gli occhi bianchi verso la ragazza.
«Credi che io sia pazza?» aggiunse poi, notando di non sortire alcun effetto nella bionda. Quest'ultima la osservò come se si fosse appena svegliata da una trance.
«No. Credo di essere diventata io pazza»
Già, perché, nonostante l'assurdità di quella situazione totalmente ridicola, Ophelia le credeva.
In maniera illogica e senza senso, era comunque convinta che Claire le stesse dicendo la verità. E non solo in seguito agli occhi bianchi o al suo ragazzo in versione mostro spaventoso – o forse era più corretto
Deviato mutaforma? - semplicemente la sua parte più insensata e non coerente con la realtà le diceva che sì, Claire aveva ragione.
Stava per porre un'altra domanda finché un conato di vomito non la costrinse a richiudere la bocca e portarsi la mano a coprirla.
Claire le si avvicinò allarmata.
«Che succede? Stai male?»
Ophelia impallidì, sentendo altre fitte alla testa e il corpo scosso da brividi come se avesse la febbre a quaranta; iniziò a sudare freddo.
«Credo di dover vomitare» riuscì a malapena a sussurrare.
Claire non le fece dire altro, la prese per mano e la trascinò per il corridoio, facendola entrare di volata in una stanza che si rivelò essere il bagno. Appena in tempo, oltretutto, in quanto Ophelia vomitò subito l'intera colazione sul lavandino.
L'intero corpo era scosso da brividi, si sentiva febbricitante e le facevano male gli occhi; a porle un poco di sollievo furono le mani tiepide e umide di Claire che le si posarono nel collo. Proprio come la sera prima, anche in quel momento le mani della mora le infusero benessere.
Passarono alcuni minuti in cui i brividi cessarono, le fitte alla testa e al corpo pure e Ophelia si diede una sciacquata alla faccia e al collo.
Sollevò poi lo sguardo sopra il grande specchio appeso sopra il lavandino e rabbrividì nel vedere il proprio riflesso: il viso malaticcio, gli occhi verdi cerchiati dal trucco nero ormai sbavato e i capelli totalmente spettinati. Si vide anche più magra del solito.
Affianco al suo riflesso, quello splendente di Claire la fissava preoccupata.
«Stai meglio?»
Ophelia fece una smorfia.
«Non ne sono sicura» sussurrò, con in bocca un disgustoso sapore che le fece desiderare ardentemente uno spazzolino.
«Avanti, siediti»
Fu trascinata sulla tavoletta del water e costretta a sedersi, mentre Claire si inginocchiava di fronte a lei in uno strano deja-vù della sera prima. Gli occhi bianchi la trafiggevano e la squadravano alla ricerca di qualcosa.
«Non capisco cosa tu abbia» fece dopo alcuni istanti.
«Neanche io» rispose ironica.
«Solitamente riesco a cogliere il malessere fisico o psicologico nelle altre persone, ma non sto davvero riuscendo a capire cosa tu abbia» insistette.
Ophelia sentì un'altra fitta alla testa.
«Non sarà nulla di che, probabilmente mi sono beccata un virus, è da ieri che sto male»
Claire continuò ad osservarla, ma non disse niente. Dietro quelle iridi candide, Ophelia poté però scorgere un vago sospetto che la fece preoccupare, ma non ci poté pensare troppo in quanto un altro conato la costrinse a correre verso il lavandino.
Peggio di così non può proprio andare.

Appena mise piede al quartier generale della Fazione Bianca, Sargas desiderò fortemente la presenza del padre. Per poterlo sostituire, non per altro, era chiaro.
Fece un grande sospiro per poi inoltrarsi nella grande sala dalla forma ellittica, all'interno della quale un uomo e una donna si stavano per azzannare l'un l'altro.
«Vorrei potervi dire buongiorno ma vedervi non lo rende tale» disse il moro, attirandosi subito gli sguardi altrui, che tacquero.
«Toh, il ragazzino» bofonchiò infastidito l'uomo; gli occhi bianchi facevano contrasto con la carnagione ambrata e i dreads colorati che aveva in testa. Come tutti coloro appartenenti alla loro “razza”, era bello in maniera quasi inquietante.
«Se non mi volete qui allora andate a recuperare Lisander» rispose a tono Sargas, per nulla scalfito.
«Grazie ma preferisco vedere te piuttosto che quel bastardo» intervenne la donna, avvicinandosi a un tavolino in cui bicchieri e alcolici quasi traboccavano. Si versò del whisky e lo tracannò rapida.
«Almeno tu non pensi solo a scopare, in effetti» aggiunse l'uomo, andandosi a sedersi attorno al tavolo che troneggiava al centro della stanza e, con un vago gesto della mano, facendo sì che un bicchiere e una bottiglia planassero nella sua direzione. Subito dopo si accese un sigaro e iniziò ad appestare la stanza.
Sargas lo raggiunse e si sedette su una delle altre due sedie disponibili, accendendosi una sigaretta.
«Ho ricevuto il tuo biglietto, Penelope, ma non ci ho capito un cazzo. Che sta succedendo?»
La donna rise, passandogli dietro per sedersi e scompigliandogli i capelli con la mano coperta di anelli d'oro.
«Non c'è molto da capire, tesoro mio. Dei Deviati pare si stiano dando da fare per rapire e uccidere alcuni dei nostri» spiegò, giocherellando con il bicchiere che si era riempita di nuovo.
Sargas la fissò, facendo scivolare lo sguardo diventato bianco sulla figura sinuosa della donna, vestita con un sensuale abito color malva e i capelli rossicci acconciati in un chignon vaporoso decorato da piccoli cristalli. Sotto l'occhio sinistro un piccolo neo spiccava nell'incarnato pallido.
«Non guardarmi così, principino, potrei emozionarmi troppo» fece con tono soave la donna.
«Cazzo, sei disgustosa!» berciò l'uomo.
«Ti brucia ancora il rifiuto eh, Amadeus?» lo punzecchiò beffarda la donna.
L'altro stava per rispondere, ma Sargas terminò il litigio prima che esso potesse iniziare.
«Lasciate le vostre beghe da innamorati a un'altra volta, grazie. Possiamo parlare seriamente ora?»
I due si lanciarono un ultimo sguardo di fuoco, poi concentrarono l'attenzione e i loro occhi bianchi sul giovane.
«Stanno avvenendo rapimenti anche dai Neri?» chiese.
«Che ne so, io non ci parlo più con quei bastardi, men che meno coi francesi» borbottò Amadeus.
Penelope fece un vago gesto con la mano.
«È da un bel po' che non sento nessuno di loro, non ne ho la minima idea» rispose la donna.
«E tu? Non hai sentito proprio nulla?»
«Credi che mio padre abbia la voglia di informarmi di quisquilie del genere?» iniziò sarcastico «Se anche avesse sentito qualcosa tra le nostre file o le loro, non si sarebbe preso la briga di venirmelo a dire»
Amadeus borbottò un “bastardo” a mezze labbra ma ben udibile. Sargas, del canto suo, non fu minimamente offeso: lui stesso considerava il padre un bastardo, perché si sarebbe dovuto arrabbiare?
«Avete intenzione di fare qualcosa?» domandò in direzione dei due.
«A dire la verità non sappiamo bene come agire. I Deviati non sono mai stati così aggressivi, inoltre non capita spesso di trovarne tanto potenti da ucciderci, invece adesso sembrano spuntare dal nulla. Non voglio mandare alcuni dei miei senza avere prima delle informazioni sicure, sarebbe come condannarli a morte» rispose Penelope.
«Sì, ma come avete intenzione di trovare informazioni?»
«Abbiamo. Cosa credi, di essere escluso? Potremmo mandare i due gemelli, tanto non sarebbe un grande spreco» sogghignò Amadeus.
Non fece in tempo a dire altro perché subito dopo si immobilizzò, improvvisamente impossibilitato dal respirare; diventò tutto rosso mentre scattava in piedi e si portava le mani alla gola.
«Tesoro, raffredda i bollenti spiriti» soffiò Penelope, imperturbata.
Ma prima che Sargas stesso allentasse la presa, Amadeus riuscì a riprendere a respirare.
L'uomo scoppiò a ridere.
«Quanto te la prendi per i tuoi amichetti, ragazzino»
Sargas non disse nulla, infastidito dal fatto che l'altro fosse riuscito a liberarsi da solo. Ma effettivamente Amadeus aveva molti più anni di lui, e molta più esperienza; non si aspettava davvero di riuscire a ferirlo.
Del resto l'uomo non se l'era seriamente presa: certo, il ragazzo aveva tentato di ucciderlo, ma entrambi sapevano che non l'avrebbe fatto sul serio. O, sarebbe più corretto, che ce l'avrebbe davvero fatta.
«Credo che la prima cosa da fare sia chiedere ai Neri se anche da loro è morto qualcuno. Se non è così, potremmo già restringere il campo su chi vorrebbe ferirci» continuò Penelope, deviando l'attenzione di nuovo sul nucleo del loro incontro.
«Hai ragione» disse Sargas. I due guardarono poi Amadeus, in attesa di un suo responso. L'uomo annuì di malavoglia.
«Non sarò di certo io però a contattare quei maledetti francesi, altrimenti è la volta buona che faccio una strage» disse, di nuovo incazzoso. Sargas scrollò le spalle.
«Mi occupo io di chiedere a loro» disse.
«Io chiederò a Milos, tu occupati di Agatha» fece Penelope in direzione dell'altro.
Amadeus fece una smorfia.
«Preferisci i francesi?» chiese Sargas ironico.
«Mi tengo lei, grazie» rispose acido.
Penelope sospirò.
«Bene, appena sappiamo tutti qualcosa ci incontreremo di nuovo. Non serve che vi dica di mettervi subito all'opera, vero?» disse con tono indifferente, lanciando solo uno sguardo gelido ai due uomini.
Gli altri le restituirono lo sguardo distaccato.
«Ci si vede» disse solo Amadeus, senza rispondere. Un attimo dopo, era sparito.
La donna riprese a sorridere.
«Fai da bravo, tesoro» gli disse, per poi lanciargli un bacio volante e sparire anche lei in un secondo.
Sargas sospirò e pensò al padre.
Quando torna lo uccido.

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Capitolo 4
*** Capitolo quattro ***


Ed eccomi qui con il quarto capitolo!
Sono passate circa due settimane, mi sembra un'attesa ragionevole questa volta per il nuovo capitolo, almeno non sono passati due mesi come l'ultima volta!
Che dire, questa volta l'ispirazione mi ha permesso di scrivere più in fretta, anche se non sempre gli impegni me lo permettevano; quest'ultimo dettagli l'ho ignorato fin troppo spesso in quest'ultimo periodo, ora purtroppo però dovrò mettermi sotto veramente con la maturità, quindi non prometto che il prossimo capitolo arrivi a breve, anzi. Inoltre ho anche pubblicato una nuova long, quindi dovrò cercare di mediare il tempo tra questa storia e l'altra, perciò in qualche modo sarà anche più difficoltoso.
Nonostante ciò, prometto che mi impegnerò il più possibile.
Parlando più nel dettaglio della storia, questo capitolo è ancora piuttosto “vago”, anche se qualcosina in più si dice, e inoltre compaiono nuovi personaggi. Dal prossimo capitolo si dovrebbe entrare di più nel vivo della storia, ma ho deciso di non affrettare le cose, quindi vedrò dove mi porteranno le mie dita mentre scrivo. Nel frattempo spero che questo capitolo sia di vostro gradimento, anche perché a me non dispiace e non è dispiaciuto nemmeno scriverlo!
Adesso vi lascio alla lettura, sperando appunto che vi piaccia. I commenti, se lasciati, saranno sempre molto graditi, che siano positivi, negativi o neutri!
Buona lettura!
Un abbraccio,

~Sapphire_





~Dirty Blood





Capitolo quattro

Distesa sullo stesso letto in cui aveva dormito la notte precedente, Ophelia sentiva di essere appena scampata alla morte.
Pallida come un cencio e con un mal di testa che lentamente diminuiva, aveva passato tutto il giorno a vomiti e febbricitante; di fianco a lei, Claire l'assisteva con la fronte corrugata e gli occhi perennemente bianchi. Erano più di tre quarti d'ora che la guardava con quell'aria mista tra preoccupazione e totale confusione, e Ophelia cominciava ad aver paura per la propria salute.
Era da ore che aveva voglia di piangere, ma si era trattenuta, non voleva un altro attacco isterico come quello della sera prima. Non capiva cosa le stesse succedendo, sia riguardo alla situazione in generale che al suo stesso corpo; sembrava che il suo organismo si stesse rivoltando all'improvviso e dovesse espellere tutto ciò che si potesse considerare “nocivo”.
Ma la disperazione più grande era che si sentiva terribilmente sola.
Certo, ad assisterla tutto il giorno c'era stata Claire, non era stata sola in senso letterale – però era l'intera situazione che la faceva sentire avvolta in una coltre di abbandono.
Non poteva lamentarsi: non aveva mai avuto un grande interesse nel farsi degli amici, il fatto che avesse un ragazzo era stata quasi una casualità, o forse mero bisogno fisico. Anche se, per una delle poche volte nella sua vita, si era trovata veramente bene con lui. Risultava tragicomico il fatto che fosse stato tutta una grande messinscena, uno spettacolo allestito per...
Per cosa, in effetti?
Cos'è che Mathias – quella cosa voleva davvero per lei?
Riflettendoci in quel silenzio fastidioso, sentì un masso sul petto e un nodo alla gola. Si morse un labbro con tutta la forza che aveva, trattenendo in ogni modo le lacrime.
Una goccia però sfuggì al suo controllo e, scappando dall'angolo dell'occhio, percorse la tempia e si inoltrò tra i capelli. La scia umida la sentì bollente contro la sua pelle.
«Piangi?»
La voce di Claire giunse lieve alle sue orecchie.
Dalla propria posizione a pancia in su, si voltò leggermente per guardarla e sorrise.
Si costrinse a inghiottire il nodo che aveva alla gola.
«No, no. Sono solo un po' preoccupata per il mio lavoro. Sarei dovuta entrare in turno alle otto, ma sono già passate e credo che il mio capo mi abbia già licenziata» parlò sottovoce «In effetti, mi aveva già avvisato che al prossimo ritardo avrei dovuto trovarmi un altro posto» rifletté.
«Dove lavori?» chiese con sincera curiosità Claire. Nonostante ciò, Ophelia intuì che la ragazza stesse facendo in modo di distrarla; forse pensava che il dolore sarebbe passato prima.
«In un ristorante. Faccio la cameriera» spiegò. Claire la guardò incuriosita.
«Come mai non hai continuato gli studi? Insomma, voi dopo non dovreste fare il collage?» chiese ancora.
Ophelia sorvolò su quel “voi” che sapeva tanto di “voi, persone normali e senza poteri” e scrollò le spalle, o almeno ci provò, dato che la posizione non glielo consentiva del tutto.
«Non sono mai stata una studentessa eccellente, o perlomeno una in grado di guadagnarsi delle borse di studio. L'orfanotrofio, d'altro canto, non possiede molti fondi per far studiare tutti i ragazzi, perciò ho deciso di cercarmi subito un lavoro» pronunciò queste parole con tono incolore, mostrandosi indifferente a ciò che stava dicendo.
Non amava parlare dell'orfanotrofio, si sentiva in qualche modo diversa rispetto agli altri. Ogni volta, finiva sempre che gli altri la guardavano con pietà e si prodigavano in scuse per la mancanza di delicatezza. Non che a lei interessassero le scuse, ovvio. Solo che non sopportava quella situazione, per questo si pentì subito di aver pronunciato quelle parole.
Stava già per ribattere a Claire di non preoccuparsi, ma la ragazza la stupì non accennando a niente delle tipiche frasi standard che le venivano propinate.
«E ti piace?»
Ophelia la guardò sorpresa.
«Cosa?»
«Il tuo lavoro, dico. Ti piace?»
Ophelia tacque per un attimo e osservò l'altra ragazza. Poi sorrise lievemente.
«Non particolarmente, è un lavoro come un altro per me. Mi adeguo» spiegò.

Claire continuò a fissarla con quegli occhi tremendamente bianchi, tanto che Ophelia fu costretta a distogliere lo sguardo.
«Qual è il verdetto?» chiese infine la bionda, concentrando lo sguardo sul resto della stanza. La luce del lampadario la illuminava di una tonalità giallastra, mentre dalla finestra dalle tende spostate si potevano notare gli edifici illuminati della New York notturna.
«Non lo so» il tono infastidito della mora la costrinse a girarsi per guardarla. La ragazza teneva un broncio insoddisfatto sul viso, l'espressione confusa di nuovo nei suoi occhi.
«Com'è che funziona questa cosa del riuscire a capire i problemi degli altri?»
Claire fece un blando sorriso.
«”Cosa”... Beh, non so bene come spiegartelo a dire il vero. Grazie ai miei occhi riesco a vedere, o meglio percepire, ciò che non va nelle altre persone. In genere malattie e simili, ma riesco ad “analizzare” anche le loro menti, se sono sconvolte emotivamente o una cosa del genere. Se posso le aiuto»
La spiegazione vaga e confusa lasciò Ophelia con un generico interrogativo in testa, ma lasciò stare.
«Come hai fatto con me ieri sera?» domandò la bionda, alludendo al momento in cui l'altra le aveva preso le mani e si era sentita improvvisamente tranquillizzata.
Claire annuì.
«E come mai ora non riesci a capire cosa ho?»
L'altra si morse un labbro, in difficoltà.
«Non lo so. Non ne ho proprio idea. Ai miei occhi sembra che il tuo corpo sia perfettamente in salute, noto solo il tuo turbamento. Ma non c'è segno della causa del malessere di oggi» spiegò «E non capisco neanche perché la medicina di oggi non abbia fatto effetto, anche se le vostre medicine non sono sempre efficaci»
Ophelia tacque di fronte a quelle parole, non sapendo cosa dire. Le venne in mente una domanda, ma prima che potesse porla la porta della stanza, rigorosamente chiusa, si aprì di scatto facendola sobbalzare. Claire, del canto suo, sembrava aspettarsi quella entrata in scena.
«È ancora qui?»
Dominik parlò con un pesante fastidio nella voce, entrando per primo con incedere spavaldo e succeduto dal gemello, Max, che subito si avvicinò alla malata con sguardo curioso.
«Cazzo, che brutto aspetto» commentò proprio quest'ultimo. Ophelia fece una smorfia, mentre Claire si premurò di dare un forte colpo al fratello.
«Esattamente quello che vorrebbe sentirsi dire ogni ragazza in queste condizioni» commentò aspra.
«Non mi pare non sia vero. Guardala, sembra che abbia passato tutto il giorno a vomitare e sul punto di rimettere anche l'anima» continuò Max. Dietro di lui, Dominik osservò la bionda e rise di fronte alla sua espressione contrariata.
«Infatti è quello che è successo» rispose infastidita la sorella.
I due gemelli si girarono prima verso Claire, poi, cerando quasi conferma, verso la bionda che chiuse gli occhi in un misto di stanchezza e esasperazione.
«Come mai?» indagò Max.
«Non riesco a capire. È tutto il giorno che la osservo, ma il suo corpo non dà segno di una causa specifica. Sembra che vada tutto alla perfezione»
Dominik si avvicinò alla bionda, iniziandola a fissare con attenzione. Un attimo dopo, i suoi occhi castano-verdi presero la solita tonalità lattea. Avvicinandosi ulteriormente, Max fece la stessa cosa.
Ophelia, sentendosi osservata in quella maniera da tre paia di occhi paurosamente bianchi, tentò di coprirsi con la coperta fino alla punta dei capelli, venendo bloccata da Dominik che la scoprì.
«Ehi!»
«Silenzio» dissero in coro i due gemelli, guardandola con uno sguardo che Ophelia definì spiritato.
Deglutì e rabbrividì sotto i loro occhi, finendo per chiudere i propri in un tentativo di nascondersi.
Circa un minuto dopo li riaprì, in concomitanza con i due che si allontanarono.
«Avete trovato qualcosa?» chiese Claire.
«Niente. Hai ragione, Cloe. Sembra che sia perfettamente in salute» le diede ragione Max.
Dominik sbuffò.
«Non sarà nulla di che. Le passerà» mugugnò. Max inarcò un sopracciglio.
«Non ne sarei così sicuro. Il fatto che non ci sia segno di nulla non mi sembra una buona cosa» commentò.
«Ha ragione Max, Domi» diede manforte la sorella.
Ophelia sentì il solito nodo in gola ripresentarsi. Com'è che parlavano di lei come se non ci fosse?
«Posso ricordarvi che sono qui?» sibilò.
«Non me lo scordo, non preoccuparti» rispose velenoso Dominik.
«Quindi?» insistette la bionda.
«Quindi niente, direi che la cosa migliore sia comunicarlo a Sargas. Poi vedrà lui come comportarsi» concluse Claire, scrollando le spalle.
«Le hai spiegato qualcosa?» chiese a quel punto Max. Claire fece una smorfia.
«Circa. Non sapevo cosa dirle esattamente, e neanche come a dire il vero. Non mi è mai capitato di dover spiegare la nostra natura ad estranei»
«Ma a detta di Sargas non è un'estranea» commentò Dominik. Max fece un cenno verso il fratello.
«In effetti ci ha accennato al fatto che è come noi. Anche se non riesco a vedere nulla in lei»
«Già, sembra quasi ci sia una barriera» commentò ancora Dominik, sovrappensiero.
Neanche un secondo e i tre si guardarono l'un l'altro come se il biondo avesse appena pronunciato chissà che parole.
«Cioè una barriera?» sussurrò Ophelia a quel punto, osservando come si fossero immobilizzati in un secondo.
«Una barriera» disse Claire.
«Una barriera» ripeté Dominik.
«Ovvero?»
I tre la ignorarono.
«Potrebbe essere...» rifletté Max, lanciando sguardi alla bionda.
«Sì, ma non vedo segni neanche di quella» disse a sua volta Claire. Dominik scrollò le spalle.
«A seconda di colui che l'ha fatta, c'è la possibilità che noi non siamo in grado di percepirla» considerò.
«Quello è vero, ma a questo punto la domanda è un'altra: chi è la persona così esperta, in grado di istituire una barriera impercettibile, a cui può interessare una tizia del genere?» chiese Max.
«Grazie» fece sarcastica Ophelia, lanciandogli un'occhiataccia.
Nel frattempo però, la sua mente era un vorticare incessante.
Barriera? Che cazzo stanno dicendo? Perché tutta questa situazione non ha un bell'aspetto? Perché sono finita qui? Merda.
Sentiva il bisogno di doversene andare da lì. Le sembrava di essere finita in un covo di pazzi, ma era solo perché non capiva nulla di quello che succedeva. Aveva avuto le prove di quel “sovrannaturale” che caratterizzava i tre ragazzi (e non solo), e alla fine non sapeva neanche cosa fare in quelle condizioni; stava ancora male, il mal di pancia non cessava e la testa riprendeva a farle un male terribile. Non sapeva neanche se sarebbe stata in grado di reggersi in piedi, quindi andare da qualche parte era fuori discussione.
Ma a chi avrebbe potuto chiedere aiuto? Mathias non era più un'opzione considerabile, con la gente dell'orfanotrofio non aveva più rapporti da molto tempo, le sue coinquiline se ne fregavano di lei (cosa del tutto ricambiata, alla fine) e la stessa cosa le colleghe del lavoro che ormai non aveva più. Non aveva altri amici, e mai le era interessato farseli. Inoltre, non aveva idea di dove fosse finito il suo cellulare – doveva avercelo Dominik, ma dubitava che glielo avrebbe restituito. E poi, appunto, chi avrebbe chiamato?
«Non agitarti»
Le parole di Claire la fecero sobbalzare: la ragazza la stava guardando, la stava trapassando con quegli occhi, entrandole dentro la testa e percependo il suo turbamento.
«E come faccio? Sono in una casa che non so dov'è, tranne il fatto che si trova a Manhattan, insieme a voi, tre persone dagli strani occhi multicolore che non conosco affatto, e in più mi sembra di star per morire. Come dovrei non agitarmi?» chiese Ophelia, il tono sarcastico e irritato che faceva trapelare una punta di paura.
«Beh, c'è sempre il rischio che ti uccida in effetti» considerò Dominik; il tono a metà tra l'indifferente e il sarcastico fece intuire che stesse cercando, in qualche modo, di sciogliere la tensione di Ophelia.
«Non devi preoccuparti. I miei fratelli potrebbero sembrarti dei coglioni, ma né loro né tanto meno io ti faremo del male. Non posso negare che siamo degli estranei, ma nessuno ha cattive intenzioni» spiegò Claire.
«Allora perché mi avete portata qui? Perché ieri mi avete rapita?»
La mora fece una smorfia.
«Non ti abbiamo propriamente rapita, dai. Volevamo solo portarti qui, solo che è arrivato quell'altro Deviato e la cosa è un po' sfuggita di mano, ma non è un rapimento» specificò.
«Non hai risposto alla mia domanda»
«Non sappiamo bene neanche noi» intervenne Max «Abbiamo ricevuto poche notizie da Sargas – il ragazzo di ieri, ricordi? - ma pare che non sappia molto manco lui. Stava solo seguendo delle direttive»
Ophelia perse un battito.
«Direttive? Di chi? Chi ha voluto tutto questo?» fece con un lieve tono isterico.
Dominik alzò gli occhi al cielo, come se stesse in qualche modo temendo la crisi della sera precedente.
«Non iniziare a strillare, idiota. È il padre di Sargas che ti ha voluto qui, ma ora si trova a Bucarest ed è irrintracciabile; non sappiamo quando tornerà, possiamo solo aspettare» spiegò Dominik, iniziando a spazientirsi.
«E nel frattempo?» chiese ancora Ophelia.
«Nel frattempo si vedrà. Prima dobbiamo vedere se riusciamo a rimetterti in piedi» rispose Max.
Ophelia sospirò, mentre Claire le si avvicinò accarezzandole la testa.
«Non preoccuparti, andrà tutto bene»
Lo spero.

Da qualche parte in mezzo all'immensa zona di Brooklyn, a New York City, Sargas stava di fronte a un grande palazzo bianco, dall'aria moderna e con ampie vetrate che lo percorrevano per la lunghezza; alcune di esse erano illuminate, dando l'impressione quasi di un faro che illuminava il cielo notturno di New York.
La sede della Fazione Nera emergeva senza alcun dubbio di più di quella Bianca, ma, Sargas lo sapeva, gli altri erano sempre stati in qualche modo più esibizionisti.
Era da dieci minuti che ciondolava lungo il marciapiede, venendo di continuo urtato dai numerosi passanti che guardavano in malo modo il suo sostare prolungato; ma Sargas ignorava tutti e continuava a fissare l'entrata.
Non è che avesse paura di entrare – non aveva paura dei Neri, figuriamoci – però quelle vesti ufficiali che aveva assunto da poco non lo avevano mai portato a interagire in quella maniera con loro. Diciamo che aveva una blanda forma di disagio, o almeno questo è quello che continuava a ripetersi nella sua testa per non accettare il fatto che si sentisse intimorito dalla situazione che gli si prospettava.
Ovviamente sul suo volto non traspariva la minima preoccupazione, perciò con quella patina di totale indifferenza e stando ben attento a murare la sua mente da eventuali spie avanzò verso la porta d'entrata.
Camminò fino a ritrovarsi di fronte all'ingresso a vetri, soffermandosi giusto un attimo sul riflesso della propria figura, poi sfilò la mano dal cappotto nero ed aprì la porta, ritrovandosi immediatamente in una hall illuminata a giorno da un grande lampadario appeso.
Il pavimento di marmo era lucido, in vari angoli erano posti divanetti con tavolini, ma a dispetto di tutto ciò non c'era nessuno al suo interno. L'unica altra porta, come nel caso della sede della Fazione Bianca, era un ascensore.
Avanzò circospetto, guardandosi attorno: sarebbe dovuto andare all'ascensore, ma non sapeva se doveva aspettare l'arrivo di qualcuno o altro. Aveva informato i francesi del proprio arrivo, ma non era pervenuta risposta.
Decise di abbandonare i vari timori e andò deciso verso l'ascensore, ma un istante prima che potesse premere il bottone le porte si aprirono e Sargas si ritrovò davanti un'affascinante donna con un seducente sorriso dipinto sul volto.
«Ben arrivato, tesoro»
La voce musicale della donna non fece però distrarre Sargas che, notando il volto conosciuto, si rilassò e assumette il solito volto impassibile.
«Dominique, quanto tempo»
Le lanciò una vaga occhiata: era bella come sempre, come una ninfa uscita da un fiume. Una cascata di capelli biondo platino le arrivava fino alla vita, con alcuni ciuffi parzialmente raccolti da una vistosa spilla decorata con uno zaffiro. Gli occhi azzurri, cerchiati da un trucco nero, gelavano e allo stesso tempo infuocavano coloro che la fissavano per troppo tempo.
Ma Sargas era impenetrabile di fronte a quel fascino, perciò non si lasciò incantare.
«Parecchio, in effetti. Entri?» rispose Dominique, facendo un elegante gesto con la mano invitandolo dentro l'ascensore.
Il ragazzo non disse nulla, entrò e basta, ponendosi di fianco a lei.
«Yvonne e Basile ti stanno aspettando, sono curiosi di sapere cosa potresti mai volere da loro» disse ancora la donna, premendo il pulsante 59. Subito, l'ascensore si mise in moto e iniziò a salire.
Perché, quei due provano alcun interesse verso altri che non siano loro stessi?, pensò vago, ma se lo tenne per sé.
«Diciamo
affari» disse solo.
Dominique gli lanciò un sorriso ammiccante.
«Sei qui in veste ufficiale quindi»
«Già»
Sargas non aveva particolare voglia di chiacchierare, anche se l'altra non era dello stesso avviso. Nonostante Dominique si fosse accorta della scarsa loquacità dell'uomo, non parve interessarsi né tanto meno infastidirsi; anzi, in qualche modo il suo sorriso si fece anche più ampio.
«E Lisander, come se la passa? Mi pare di aver sentito che si trovi in Europa, o sbaglio?»
Sargas fece una smorfia impercettibile a sentire il nome del padre, ma si limitò a scrollare le spalle.
«Credo di sì, ma non mi interessa» fece secco, rimanendo sul vago.
Prima che la conversazione potesse proseguire, le porte dell'ascensore si aprirono rivelando un lungo corridoio splendente, dal pavimento di marmo nero con venature argentate. Su un'intera parete vi erano ampie vetrate che si affacciavano su New York, donando una bel panorama della città.
Ma Sargas non diede che una leggera occhiata, seguendo Dominique la quale, senza parlare, lo precedette per il corridoio facendogli strada.
Pochi minuti dopo si ritrovarono di fronte a una porta nera, nella quale una targhetta dorata spiccava lucente. Sopra vi erano incisi due nomi: Basile e Yvonne de La Châtre.
La giovane bussò e attese.
Per qualche istante non si sentì nulla, finché da dentro non si alzò una voce sottile.
«Avanti»
Dominique aprì la porta, entrando per prima e impedendo la visuale a Sargas che dovette entrare per osservare bene il luogo.
Si ritrovò in una stanza piuttosto buia, dal pavimento nero e le vetrate coperte da pesanti tende di broccato rosso; vi era però acceso un vistoso lampadario di vetro e cristallo che espandeva una luce piuttosto soffusa. Al centro della stanza vi era una grande scrivania di mogano, sulla quale scartoffie varie si trovavano in un precario equilibrio, più due bicchieri e una bottiglia di vino.
Sargas non si soffermò ad osservare altri dettagli del luogo, ma spostò lo sguardo subito su un divano ad isola in un angolo dell'ampia stanza, nel quale un uomo sedeva mollemente appoggiato e una donna, con appena una vestaglia a coprirla, poggiava a sua volta su di lui.
Sargas sentì una morsa attanagliarlo e bastò un solo battito di ciglia affinché i suoi occhi diventassero candidi.
Poi, fissò gli occhi degli altri due astanti: due pozze oscure nel bianco del resto dell'occhio, nero sul nero delle pupille, come dei vortici che quasi ti trascinavano al loro interno, ipnotizzavano.
I due sorrisero e i loro occhi, se possibile, si fecero ancora più neri.
«Benvenuto, piccolo Van Middlesworth» fece con un vago tono derisorio la donna.
Dentro di sé, Sargas mandò per l'ennesima volta il padre al diavolo, mentre i suoi occhi scintillarono bianchi.
Appena mi passa tra le mani lo ammazzo.

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Capitolo 5
*** Capitolo cinque ***


Dopo più di un mese di assenza, ecco qui il quinto capitolo di Dirty Blood!
Scusate se non sono riuscita a pubblicare prima, ma questo mese è stato piuttosto intenso dal punto di vista scolastico e non avevo proprio tempo di dedicarmi alla storia; in pratica l'ho scritto pezzettino per pezzettino, ogni volta aggiungendo qualcosa se il tempo me lo permetteva.
In ogni caso, oggi sono finalmente riuscita a pubblicare, quindi spero che l'attesa venga ripagata!
Il capitolo è abbastanza “di passaggio”, dal prossimo si dovrebbe entrare più nel vivo della storia, ma in ogni caso vengono mostrati nuovi personaggi e viene rappresentato un po' di più il personaggio di Sargas, centro di questo capitolo – e personaggio che io adoro, personalmente!
Non so che altro aggiungere, se non che spero di ricevere qualche commento! Comunque sia, buona lettura a tutti!
Un abbraccio,

~Sapphire_






~Dirty Blood



Capitolo cinque

«Basile, Yvonne, vi trovo bene»
Sargas parlò con tono monocorde, continuando a fissare i due impassibile; dentro di sé però non era così posato.
Basile e Yvonne de La Châtre non erano esattamente dei tipi convenzionali. Provenivano da un'antica famiglia francese e continuavano a mantenere il loro sangue di quella nazionalità, non ammettendo relazioni con altre persone che avrebbero potuto contaminare la loro stirpe. Purtroppo, ciò spesso causava matrimoni interni alla loro famiglia e le progenie spesso si rivelavano alquanto problematiche.
Loro stessi d'altronde erano frutto di quei matrimoni interni e il rapporto che si era venuto a creare non era esattamente il prototipo di una relazione tra fratello e sorella.
Per questo Sargas li temeva: a causa del loro essere, erano imprevedibili.
«Possiamo dire così» ridacchiò Yvonne, allungandosi maggiormente sul fratello e affondando la faccia sul suo viso. La sua massa di riccioli dorati si sparse nella camicia dell'altro, formandole un'aureola che contrastava con i suoi occhi infernali.
«Gradisci qualcosa?» domandò freddo Basile, facendo un cenno verso la bottiglia di vino abbandonata sulla scrivania; un ricciolo biondo scuro, dai toni castani, gli scivolò sull'occhio, in parte mascherando l'abisso.

Sargas scrollò le spalle.
«No, grazie. Sono venuto qui per parlare di questioni importanti» rispose. Fece poi un cenno verso Dominique, sempre dietro di lui, che esaminava la situazione con gli occhi azzurri che si incupivano sempre di più; il viso le rimaneva comunque rilassato in un sereno sorriso.
«Vattene» Yvonne parlò rude alla ragazza, ma questa non sembrò farci caso. Annuì e fece una riverenza appena accennata, per poi andarsene senza proferire parola.
«Prego, siediti pure Sargas» continuò la donna, facendogli cenno verso un'altra poltrona presso il divano.
Questa volta il ragazzo accettò, cercando di non risultare troppo rigido: non gli piaceva l'idea di stare da solo neanche con uno solo dei due, entrambi sperava di riuscire a gestirli.
«Allora...» lo invitò Basile, guardandolo fisso negli occhi. Dentro di sé, Sargas eresse un muro per la propria mente: non conosceva appieno le loro abilità, ma meglio prevenire.
«Sono venuto qui per alcune informazioni» iniziò serio, spostando alternativamente lo sguardo tra i due.
«Sarò sintetico: alcuni della nostra Fazione sono stati uccisi da dei Deviati, e “alcuni” sono troppi. Il fatto che dei Deviati, che siamo sempre stati in grado di gestire, siano riusciti ad uccidere non uno solo, ma più dei nostri ci fa sospettare che ci sia qualcuno dietro le quinte, qualcuno che noi non conosciamo» iniziò.
Yvonne rise divertita.
«Non potrebbe essere che siate voi a essere deboli?» insinuò. Affianco a lei però Basile le strinse il braccio, come per zittirla, ma continuò a guardare l'ospite.
«Ci state accusando?» domandò gelido.
Sargas rabbrividì quando percepì una stretta d'acciaio avvolgerlo. L'atmosfera nella stanza pareva tranquilla, ma Sargas si accorse di come i due (soprattutto l'uomo) fossero pronti ad attaccarlo in qualsiasi momento; si chiedeva quanto l'altro si sarebbe spinto a fargli del male: i rapporti tra le due Fazioni erano piuttosto distesi, un attacco del genere non sarebbe stato una buona mossa da parte loro.
Con queste pensiero solo in parte confortante non si mise sulla difensiva, mostrando le proprie intenzioni pacifiche.
«No» iniziò secco «Sono venuto qui per chiedervi se solo nella nostra Fazione ci sono state queste morti o anche voi avete avuto delle vittime» terminò.
Dopo queste parole, per qualche attimo ci fu un silenzio assoluto nella stanza; poi Yvonne si sollevò dal divano con un morbido fruscio, avvicinandosi alla scrivania e versandosi un'abbondante bicchiere di vino.
«Siete venuti solo da noi?» domandò a quel punto la donna, alludendo non solo a Sargas, ma al resto della sua Fazione.
«No. Amadeus e Penelope sono andati a parlare con Milos e Agatha. Ci aggiorneremo solo dopo aver avuto tutti e tre notizie» rispose.
Sargas osservò i due fratelli lanciarsi un'occhiata che non riuscì a interpretare, poi la donna si risedette con il bicchiere in mano, allungando le gambe sul fratello che iniziò ad accarezzargliele.
Quella continua attesa stava snervando Sargas, il quale non vedeva l'ora di andarsene da quella stanza; oltretutto, aspettare in quel modo lo stava sfiancando: voleva avere delle dannate risposte, subito.
«Se ci fossero state delle vittime anche da noi, cosa avreste intenzione di fare?» chiese sempre Yvonne.
Sargas la guardò inarcando un sopracciglio.
«Ci concentreremmo su altri potenziali nemici»
Altro silenzio.
«Mi state dicendo che anche voi avete avuto dei morti?» indagò.
Vide la donna stringere il bicchiere tra la mano sinistra; le nocche diventarono bianche mentre le vene sul polso si ingrossarono. Le unghie laccate di nero luccicarono a causa della luce del lampadario, come in risposta agli occhi dei due che si addensavano sempre di più.
«Sì» rispose secco Basile.
Dentro di sé, Sargas non sapeva se essere sollevato o meno: non essere i soli colpiti significava avere degli alleati, ma il fatto che fossero stati uccisi anche dei Neri aumentava la gravità della situazione.
«Coloro che sono stati uccisi...» si interruppe un attimo, notando come i due strinsero gli occhi a quelle parole «Erano dei giovani?» chiese, cercando di indagare.
«Cosa vuoi insinuare? Non ci sono deboli tra noi» rispose aggressiva Yvonne, comprendendo subito dove il ragazzo volesse andare a parare.
«Non intendo in quel senso. Vorrei capire se, chiunque sia a manovrare questi Deviati, voglia puntare in alto o meno. Delle prede piccole circoscriverebbero già la situazione» spiegò Sargas, rimanendo calmo.
«Cosa vi fa pensare che ci sia qualcuno dietro le quinte? Non potrebbero essere semplicemente dei Deviati che si sono organizzati? Infondo siamo sempre stati in guerra con loro» domandò Basile.
Sargas si chiese il perché di quella domanda: Basile era più vecchio di lui e aveva oggettivamente una maggiore conoscenza ed esperienza, in tutti i campi, perché porre una domanda che aveva una risposta ovvia?
«Mi sembra chiaro che i Deviati, con la loro formazione e livello di sviluppo, non sono in grado di attaccarci con questa portata. È ovvio che ci sia qualcuno a manovrarli, anche se non sappiamo chi» rispose, una lieve sfumatura perplessa nella voce.
«Mh, non sei così stupido allora» disse solo l'uomo.
Sargas fu sul punto di rispondergli in malo modo, ma alla fine tacque, provocando il ghigno divertito dei due fratelli.
«Quindi?» domandò, un poco spazientito.
«Quindi cosa? Mi pare che tu abbia detto di essere venuto solo per porci quella domanda, e l'hai fatto» disse atono Basile.
«Sì, ma... Sareste disposti a condividere le informazioni e a collaborare, in caso di necessità?»
Yvonne rise.
«Quindi avete bisogno di noi» ridacchiò.
Sargas si trattenne di nuovo dallo sbottare.
«In un certo senso. Non sappiamo con chi abbiamo a che fare, dobbiamo essere pronti a qualsiasi possibilità» rispose secco.
Yvonne fece un vago gesto con la testa, come ad acconsentire, e lasciò che rispondesse il fratello.
«Acconsentiamo a questa “collaborazione”» disse l'ultima parola come se stesse pronunciando una parola disgustosa «Vi faremo arrivare le nostre informazioni e attenderemo le vostre» concluse sempre gelido.
Sargas annuì e si alzò in piedi. Voleva andarsene il prima possibile da lì.
«Perfetto. Allora grazie del vostro tempo» terminò a sua volta.
I due fratelli non risposero e Yvonne rise di nuovo mentre tuffava il viso nel collo di Basile, affondando tra i riccioli dell'altro che, con un sorrisetto, iniziò ad accarezzarle i capelli.
Sargas fece un ultimo cenno verso i due e si diresse alla porta, uscendo senza proferire parola.
Quando si ritrovò finalmente fuori da quella stanza la luce lo accecò e si ritrovò nuovamente davanti Dominique, la quale lo attendeva in piedi e composta. I capelli platino sembravano ancora più luminosi di prima e i suoi occhi ancora più accattivanti; nonostante la presenza dell'altro, rimanevano ostinatamente azzurri.
Sargas la guardò con il suo sguardo ancora candido.
«Sei rimasta ad aspettarmi» puntualizzò.
«Volevo assicurarmi che non ti perdessi uscendo da qui» fece con un vago tono ironico. Sargas inarcò un sopracciglio, ma tacque e attese che l'altra gli facesse strada.
Durante il tragitto di ritorno nessuno dei due parlò: Sargas era ancora pensieroso riguardo ciò che aveva appena appreso, la donna invece sembrava non aver domande da porre, come se avesse già origliato tutta la conversazione da fuori, cosa in parte probabile.
«Torna presto a farmi visita, mon trésor» disse con un dolce sorriso Dominique, una volta che l'ascensore si aprì permettendo a Sargas di uscire. Lui, di risposta, le fece solo un cenno con la mano e con il capo, per poi uscire dall'edificio.

La stanza era in penombra come al solito mentre Sargas scriveva un biglietto da mandare a Penelope e Amadeus. Il solo suono presente era quello della penna che scriveva frettolosa sul foglio bianco, mentre Sargas continuava a riflettere sulla situazione.
Appoggiò infine la penna sulla scrivania, abbandonandosi sulla sedia e massaggiandosi le tempie.
Quella questione gli stava piacendo sempre meno, e non ne sapeva nemmeno lui il perché; aveva un brutto presentimento riguardo a tutto ciò, anche se doveva aspettare i responsi degli altri prima di preoccuparsi definitivamente.
Ma era tutto effettivamente molto strano: i Deviati li attaccavano da sempre, era una guerra nata da chissà quanto tempo prima, nella loro memoria si era sempre stati in lotta con loro. Ma, d'altronde, le loro abilità non avevano mai permesso loro di uccidere in grande portata dato che i Mali Sanguines rimanevano comunque più forti. Ora che ci rifletteva, Sargas si chiedeva perché non li avessero mai sterminati tutti in modo tale da non doverci più pensare.
A distoglierlo da quei pensieri fu il bussare che lo colse leggermente alla sprovvista.
«Avanti»
La porta si aprì lenta e il ragazzo riconobbe subito la familiare figura di Claire.
«Ehi, ti disturbo?» domandò la mora, entrando nella stanza.
«Non preoccuparti» rispose solo lui «Che ci fai qui?»
Claire scrollò le spalle.
«Riguarda Ophelia» spiegò.
Sargas fece una smorfia involontaria.
«Giusto. Mi stavo dimenticando di lei» borbottò tra sé. Claire lo guardò dubbiosa, osservandolo preoccupata.
«Cos'è successo?» domandò però Sargas, impedendo alla giovane di porre qualsiasi domanda.
Claire accettò quel cambio di argomento e rispose.
«Sta male. Molto male. Ho controllato non solo io, ma anche Domi e Max, e non sembra abbia nulla che non va. Sembrano sintomi di un'influenza, con vomiti, mal di testa, mal di stomaco e così via... Ma non percepiamo nulla di tutto ciò. È strano» spiegò.
Sargas la fissò negli occhi.
«Avete qualche idea?»
«A dire il vero ci è venuta in mente solo una cosa»
«Sarebbe?»
«Una barriera» rispose secca.
Sargas tacque.
Una barriera... Beh, effettivamente era possibile. Poteva mascherare totalmente l'origine dei mali, se ben fatta.
«Però non ne siete sicuri» considerò.
«Esatto. Dovremmo renderci conto della sua presenza, ma non cogliamo niente di niente» spiegò ancora Claire.
Sargas scrollò le spalle, per poi alzarsi e afferrare le sigarette abbandonate sul letto della propria stanza. Se ne accese una e volute di fumo iniziarono a invadere la stanza.
«Secondo chi l'ha creata, c'è la possibilità che sia impercettibile a voi. Ma neanche a me è parso di notarla e se c'è effettivamente una barriera, chi l'ha fatta deve essere di sicuro molto forte e abile»
«È quello che stavamo pensando anche noi. Ma finché non abbiamo la certezza che sia una barriera, non possiamo avanzare grandi ipotesi»
Sargas annuì concorde.
«Dove l'hai portata?»
«A casa. Non sapevo altri posti in cui avrei potuto lasciarla senza far nascere domande di altri»
Sargas annuì di nuovo. Aspirò una nuova boccata di fumo.
«Domani manderò qualcuno a esaminarla, nel frattempo cercate solo di farla stare meglio» concluse, risedendosi.
Claire annuì.
Per qualche secondo ci fu silenzio.
«Non sembri stare granché bene» disse infine la ragazza. Sargas la guardò, notando subito i suoi occhi bianchi.
«Non usare i tuoi poteri con me, Claire» disse secco, una punta di fastidio nel suo tono.
La ragazza lo guardò contrita.
«Potrei aiutarti»
«Non elimineresti il problema e per ora non c'è bisogno che tu ne sia a conoscenza» fece risoluto.
Claire sembrò sul punto di dire qualcosa, ma alla fine non lo fece. Abbassò lo sguardo.
«Come preferisci»
«Ora torna a casa e informami se ci sono novità»
La mora annuì secca.
«Puoi andare»
Claire non disse nulla, si limitò ad uscire veloce dalla stanza, lasciandosi dietro un Sargas dallo sguardo indifferente.
Quando si ritrovò di nuovo da solo, sospirò.
Ecco, aveva un nuovo problema a cui pensare, un'altra patata bollente sempre lasciatagli dal padre.
Gli dispiaceva per come aveva trattato Claire, non se lo meritava, ma era l'unico modo per farla desistere in fretta da qualsiasi desiderio da crocerossina che le venisse in testa. Meglio non far preoccupare gli altri, almeno per ora, di quello che stava succedendo; li avrebbe resi partecipi a tempo debito.
In ogni caso, rimaneva la questione di quella Ophelia: se era vera l'idea di quella barriera, si chiede chi avesse particolare interesse in quella ragazza che sembrava completamente normale – e anche un po' isterica, a dire il vero. Non sembrava possedere potenzialità di sorta, ma non poteva escludere nulla in quel momento per questo avrebbe mandato uno specialista in barriere e sigilli a controllarla.
Prese un altro foglio, rimandando per un attimo il biglietto per Penelope e Amadeus, e afferrò la penna.
La strinse, pensando a chi avrebbe dovuto scrivere.
Sperava solo che avrebbe acconsentito alla richiesta.

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Capitolo 6
*** Capitolo sei ***


Buon pomeriggio a tutti!
Ecco a voi il sesto capitolo di Dirty Blood...
Allora, da questo capitolo si inizia a capire qualcosa in più, in parte anche la causa del malessere di Ophelia anche se più che altro si capisce che c'è qualcosa di nascosto in lei, e Claire, i gemelli e Sargas dovranno ingegnarsi per capire effettivamente
cosa. Viene inoltre presentato un nuovo personaggio, come vedrete sin dalle prime righe, che credo sarà molto importante per la storia, o perlomeno per alcuni aspetti di essa, tra cui le dinamiche fra i vari personaggi.
Anche alla fine compariranno due nuovi personaggi che spero di riuscire ad approfondire di più nel corso dei vari capitoli.
Comunque sia, spero che questo capitolo sia di vostro gradimento!
Avviso già da ora che per le prossime due settimane non ci saranno aggiornamenti (o comunque sarà molto difficile che ce ne siano) perché sarò al mare e lì la connessione è quasi un miraggio. Mi metterò di impegno però per scrivere il prima possibile il settimo capitolo.
Adesso vi lascio alla lettura, sperando in qualche vostro commento!
Un abbraccio,

~Sapphire_





~Dirty Blood



Capitolo sei

Angelica rilesse per l'ennesima volta il biglietto, ormai stropicciato dalle troppe volte in cui l'aveva torturato e tentato di buttarlo – puntualmente andava a recuperarlo ogni volta, odiandosi per la propria debolezza.
Smettila di comportarti come una bambina e fai il tuo dovere, si disse nella sua testa.
Ma il fatto era che non riusciva a spegnere quell'immane desiderio di rimandare il biglietto dal deficiente che gliel'aveva spedito con allegato un bel “vaffanculo”.
«Maledetto Sargas» borbottò a voce bassa, per poi decidersi e suonare il campanello della casa dei fratelli Sangster. Dopo una snervante e fin troppo lunga attesa, acuita dall'essere nervosa di suo, la porta si aprì rivelando una figura conosciuta.
«Angelica!»

Claire la guardò sbalordita.
«Ehi, Claire» fece con un tiepido sorriso «Posso entrare?»
Dopo un breve attimo di incertezza l'altra la ragazza si scostò dalla porta.
«Sì, certo, entra pure!»
Angelica entrò all'interno della casa, conoscendola già.
«Ti ha mandato lui?»
La domanda arrivò alle orecchie di Angelica, un poco persa nei suoi pensieri, e sentendo le parole dell'altra fece una smorfia.
«Sì, mi ha mandato Sargas» fece secca «Allora, dov'è questa ragazza?» domandò, cambiando argomento in maniera repentina. Angelica vide l'altra annuire, come se avesse compreso che la ragazza non volesse parlare del moro.
«È in camera, vieni»
Angelica seguì l'altra per il lungo andito fino ad arrivare a una stanza piuttosto spoglia, all'interno della quale, su un grande letto, stava una giovane ragazza dai capelli biondo miele.
Angelica la osservò critica: pallida, profonde e violacee occhiaie, respiro affannato. Non le servivano i suoi poteri per comprendere che quella non stesse affatto bene.
«Ehi, Ophelia, sei sveglia?» Claire chiamò la bionda che subito aprì gli occhi, puntando lo sguardo verde dapprima sulla mora, poi su quella che per lei era una sconosciuta. Angelica contraccambiò lo sguardo, osservandola diffidente.
Quindi era per questa ragazza che Sargas l'aveva chiamata? Chi era? E, soprattutto, chi era per lui?
«Sì, sono sveglia» la voce flebile della ragazza emerse dalle coperte sotto cui era, facendo quindi avvicinare le due ragazze.
«Chi sei tu?» quella ragazza, Ophelia, si rivolse direttamente verso Angelica, la quale la osservò un poco spiazzata dalla domanda così diretta.
«Mi chiamo Angelica, sono qui per visitarti» rispose.
La ragazza annuì, ma prima che potesse dire qualsiasi cosa iniziò a tossire convulsamente.
«Vedi? Sta male, eppure non sembra abbia alcunché. Stavamo ipotizzando una barriera, non so se te l'ha detto...» spiegò Claire, e Angelica notò l'accuratezza con cui evitò di pronunciare il nome di Sargas.
«Sì, me l'ha detto. Ma voi non avete trovato nulla, no?»
«Questo è vero, infatti ci stiamo rivolgendo ad una specialista» concordò Claire, facendo un cenno in direzione proprio di Angelica. Questa annuì.
Un battito di ciglia e i suoi occhi diventarono bianchi.
«Dio, avvisatemi prima di farlo, è spaventoso» mugugnò la ragazza a letto.
Angelica la guardò lievemente sbalordita: aveva interpretato male, o quella ragazza non era abituata ai loro occhi? Ciò significava che fosse... normale?
Lanciò uno sguardo poco convinto a Claire, la quale sfuggì ai suoi occhi, ma decise comunque di esaminare la bionda. Si avvicinò di più a lei, scostandole le coperte in modo tale da osservarle il corpo interamente; Ophelia rabbrividì, ma non si lamentò.
Lasciò scivolare i propri occhi lungo la figura dell'altra, cercando di cogliere prima di tutto segnali di qualsiasi tipo di malattia che avrebbe potuto affliggere la povera ragazza: nulla, la sua aurea era perfetta, vivace e brillante, tranne alcune zone più agitate dovute all'ansia che la avvolgeva.
«Hai ragione, non ci sono segni di malattia» disse in direzione di Claire; l'altra annuì, rimanendo in silenzio e attendendo il resto dell'esame.
Angelica continuò a osservarla: questa volta, però, dovette concentrarsi molto di più. Sentì distintamente la massa di potere che si riversava nei propri occhi; percepì il calore che aumentava in essi, come se pian piano stessero diventando dei carboni ardenti.
Tutto si fece più intenso sotto il suo sguardo candido: le auree delle due persone nella stanza divennero così luminose da diventare quasi fastidiose e ogni loro piccola sfumatura o leggero cambiamento risultavano chiari e lampanti. Il resto della stanza appariva avvolto da una vaga nebbia luminescente e ogni minimo spostamento, anche quello della tenda o dell'aria a causa del respiro delle due ragazze, provocava un conseguente movimento in quella nebbia bianca.
Posò il proprio sguardo verso la figura di Ophelia, concentrandosi in maniera tale che tutto il resto della stanza scomparve: erano solo lei e quel corpo immobile, covo di qualcosa che doveva ancora scoprire.
La fissò per alcuni minuti, ma nulla parve uscire allo scoperto.
«Vedi qualcosa?»
La voce di Claire le giunse lontana e quasi indistinta, deconcentrandola un poco. Fece un gesto per zittirla, per poi ritornare alla sua osservazione.
Nulla. È strano. Ormai dovrebbe apparirmi qualcosa.
Si morse un labbro, confusa.
Era quasi impossibile una cosa del genere; non le veniva in mente nessuno che potesse applicare una barriera di quella portata – perché ormai ne era praticamente certa, era una barriera a nascondere l'origine del malessere di quella ragazza.
«Forse...» sussurrò, sovrappensiero.
Le venne un'idea e sospirò infastidita dal doverla mettere in atto.
La massa di forza che aveva concentrato totalmente sui suoi occhi si spezzò in due, spostandosi lentamente verso il centro della fronte, in corrispondenza del terzo occhio. Le costò una fatica immane e una concentrazione tale che dovette ringraziare la propria forza mentale per non svenire – ma, in fondo, proprio per le sue grandi capacità era diventata una specialista del terzo occhio nonostante la giovane età.
La nuova prospettiva si aprì e le diede un nuovo punto di vista. A quel punto la vide.
Era come una sottile pellicola azzurrina, che avvolgeva il corpo di Ophelia impalpabile come l'aria; era così sottile e ben nascosta che le costò un ulteriore sforzo metterla bene a fuoco.
Eccola. La barriera.
Vedendola, un'atroce consapevolezza si fece strada in lei.
Possibile che...
Allungò una mano mentre le punte delle dita si illuminavano come le code delle lucciole e, cercando di comprendere la forza di quella barriera, tentò di sfiorarla.
Peccato che, appena la toccò, un dolore – come una scarica elettrica, ma molto più forte – le trafisse il braccio per poi percorrerla lungo il corpo.
E gridò.

Ophelia sobbalzò vedendo quella ragazza – giusto, Angelica – gridare così all'improvviso.
Si alzò di scatto e, così facendo, un'acuta fitta di dolore la fece gemere, ma nonostante ciò si costrinse ad allontanarsi dalla ragazza, spaventata.
Angelica si accasciò a terra, i capelli rossi che le finirono sul viso nascondendo i suoi occhi, e venne immediatamente soccorsa da Claire che cercò di tirarla sul letto.
Che diavolo stava succedendo? Perché le sue mani brillavano in quel modo? E, soprattutto, perché si era messa a gridare dopo averla a malapena sfiorata?
«Angelica! Angelica, che cosa è successo?»
La voce di Claire la riportò alla realtà, allontanandola da quel fiume di domande che le scorreva in testa.
«Maledizione...» Angelica masticò fra le labbra quella singola parola, riprendendosi e cercando di rimettersi in piedi.
Ophelia notò che i suoi occhi non erano più bianchi, bensì del loro colore originale, un castano scuro che davano una sfumatura fiera e in parte aggressiva a quella ragazza che – a Ophelia doleva ammetterlo – era bella proprio come Claire.
«Che cos'è successo?» osò infine chiedere la bionda, arretrando ulteriormente lungo il letto; ignorò il dolore al costato che quello spostamento le provocò.
«Vorrei saperlo anche io» disse lugubre la rossa.
«Cosa intendi?» intervenne Claire.
«Intendo» iniziò Angelica, finalmente in grado di stare in piedi da sola «che, anche se non so per quale motivo, questa ragazza ha una barriera fatta maledettamente bene. Per anche solo notarla ho dovuto ricorrere al terzo occhio e, appena ho cercato di toccarla per capire come fosse fatta, mi ha dato una fottuta scarica elettrica» sibilò.
Allora era vero. Le era stata messa una barriera.
Ophelia iniziò a ridere.
Ok, tutto questo non può essere. Una barriera? Ma stiamo scherzando? Credevo fosse solo un modo per prendermi in giro, eppure... Che diavolo sta succedendo? Perché non ho più il controllo della mia vita?
Le altre due ragazze la fissarono perplesse, ma Ophelia le ignorò. Era troppo presa dal constatare cosa le stesse succedendo per poter notare come stesse facendo la figura della pazza.
Insomma, non che gliene fregasse molto, sia chiaro, solo che aveva già dato una pessima mostra di sé la prima sera, quando aveva avuto un attacco isterico in pieno stile, e qualcosa le diceva che gliene stava per venire un altro.
Si costrinse a prendere respiri profondi, cercando di riprendere il controllo di sé, e in parte riuscì nel proprio intento.
«Si può fare qualcosa?» riuscì solo a dire, alla fine.
Angelica la guardò dubbiosa.
«Non lo so, che io ricordi non mi è mai capitata una cosa del genere, devo consultare dei libri e forse anche qualcuno più preparato di me in materia»
«Capisco» mormorò Ophelia «Ma qualcosa l'avrai pur vista, no?» insistette.
Voleva capirci qualcosa, anche se in un frangente del genere non sapeva se ci sarebbe riuscita.
Vide la rossa lanciare uno sguardo a Claire in una muta domanda.
«Rispondi. Non mi interessa se Claire non vuole che io lo sappia, è il mio corpo» fece improvvisamente aggressiva.
«Ho visto una barriera del quinto tipo»
«Uh, ora capisco tutto» fece sarcastica la bionda. Angelica sollevò gli occhi al cielo e a Ophelia venne voglia di insultarla.
Lei alzava gli occhi al cielo? E Ophelia cosa avrebbe dovuto fare, allora? Buttarsi direttamente dal balcone?
«Ci sono fondamentalmente cinque tipi di barriere: la prima, quella mentale, che impedisce che vengano letti i propri pensieri; il secondo tipo, comunemente chiamato sigillo, che confina tutti i poteri di una persona; il terzo tipo, quello fisico, che immobilizza totalmente il corpo; poi la quarta barriera, quella della coscienza, che ti rinchiude nella tua stessa mente per renderti una marionetta nelle mani degli altri. E infine il quinto tipo, detto anche “velo nascosto”, che occulta totalmente tutto ciò che si vuole su una persona: che essi siano altri sigilli, o marchi, o magie di deperimento. Tutto» spiegò con una strana lentezza Angelica.
Quelle informazioni – le prime concrete che le venissero fornite, si rese conto – dilagarono nella mente di Ophelia, la quale le mise al sicuro nella propria memoria concentrandosi sull'ultima elencata.
Un “velo nascosto”? Se non fosse che mi trovo in questa situazione, mi metterei a ridere. Che nome ridicolo, pensò.
«E quindi?» chiese ancora, volendo sapere dell'altro.
«Quindi è una barriera fatta così bene che non so proprio chi potrebbe averla fatta» concluse la rossa.
Ophelia tacque pensierosa.
«Potrebbe essere...» si fermò, cercando di focalizzare il nome «...Lisander?» fece con tono interrogativo, dubbiosa del nome. In fondo, non era stato lui a volerla lì? Era l'unica opzione fattibile che le venisse in mente.
Vide subito Angelica gelarsi e stringere le labbra, quasi rifiutandosi di rispondere.
«Assolutamente no!» intervenne rapida Claire, facendo distogliere lo sguardo della bionda dall'altra.
Ophelia lanciò un ultimo sguardo alla rossa, esitante, poi si concentrò su Claire.
«Perché?»
«Beh, senza nulla togliere alle straordinarie abilità di Lisander... Come forse hai notato, diciamo che ognuno di noi è specializzato in qualche cosa. Angelica è una specialista di barriere e tecniche di guarigione, per questo lei, a differenza nostra, è stata in grado di comprendere ciò che avevi. Lisander non è un esperto in questi campi, perciò è molto difficile – direi praticamente impossibile – che sia stato in grado di fare una barriera del genere in modo così perfetto, rendendola del tutto invisibile» spiegò Claire paziente.
Ophelia annuì, la confusione che iniziava a farsi strada nella sua mente.
Non sapeva ancora praticamente nulla di loro e della loro natura, ma già quelle scarse informazioni che stava ricevendo le bastavano per farle venire mal di testa; oltretutto il suo malessere non aiutava.
Come richiamato alla mente, le fitte allo stomaco ripresero quasi più forti di prima, costringendo la bionda a piegarsi in due nel vano tentativo di attenuare il dolore.
«Ophelia...» sussurrò Claire, avvicinandosi a lei, gli occhi che diventavano bianchi mentre tentava in qualche modo di alleviarle le sofferenze.
«Io vado. Cercherò delle informazioni su questo tipo di barriere e su come scioglierle, così magari riusciremo ad arrivare alla fonte del problema» disse all'improvviso Angelica, improvvisamente scossa dall'umore nero in cui sembrava piombata un momento prima.
Ophelia non la guardò e non le disse nulla, troppo occupata a cercare di contenere il proprio dolore.
Per questo non vide le due ragazze uscire dalla stanza, lasciandola da sola e dolorante, di nuovo rannicchiata tra le coperte che le davano un confortante calore. Ma ancora persa nei proprio pensieri.

«Mai pensato di cambiare sigari?»
Abel Houbraken si poggiò allo stipite della porta, una smorfia disgustata stampata in faccia a causa dell'olezzo spaventoso sparso nell'aria.
«Non capisci un cazzo» replicò annoiato Amadeus, lanciando un'occhiata al proprio sottoposto e continuando ad aspirare quell'orribile sigaro.
Abel alzò gli occhi al cielo: che non gli venissero toccate quelle schifezze! Chiunque non le apprezzasse – ovvero tutti – finivano per essere degli ignoranti con dei gusti di merda. Testuali parole dello stesso Amadeus.
«Dove sono Drake e Clay?» domandò poi l'uomo abbandonato sulla poltrona.
Abel mosse qualche passo verso la stanza, le mani in tasca mentre cercava di respirare il meno possibile.
«Stanno arrivando, credo li abbia fermati Omega» spiegò sedendosi.
Amadeus fecce una smorfia.
«E ora che ha combinato quel coglione?» berciò, aspirando una sana boccata di sigaro.
«Non ne ho idea, ma l'ultima volta che l'ho visto stava leccando il culo un po' a tutti affinché lo coprissero o qualcosa del genere. Non l'ho ascoltato» rispose annoiato.
Amadeus annuì, spostando poi l'attenzione su dei fogli poggiati sulla propria scrivania; iniziò a leggerli ignorando Abel. Quest'ultimo guardò di sottecchi l'uomo, continuando a tacere.
«Se devi dire qualcosa, fallo e smettila di guardarmi in quel modo inquietante» disse infine l'altro.
Abel allora puntò sfacciatamente i propri occhi grigi su di lui.
«Ci hai chiamato per parlarci di Bram, Tyson e Reid?» chiese allora.
Amadeus alzò lo sguardo verso di lui; i suoi occhi, privi del bianco che contraddistingueva la loro razza, erano castani.
«Cosa te lo fa pensare?»
Abel ghignò.
«Forse il fatto che ti sei incontrato con gli altri due Master e poi sei andato a parlare con uno della Fazione Nera?» domandò retorico.
Amadeus inarcò un sopracciglio.
«Sei ben informato» considerò.
«Sei tu che mi hai insegnato a esserlo» rispose mellifluo.
E in effetti era vero: era stato il suo Master a renderlo uno specialista dello spionaggio, non doveva di certo meravigliarsi che fosse a conoscenza di ogni suo singolo spostamento.
Amadeus sorrise sardonico.
«Questo è vero» considerò «Sai qualcos'altro?» chiese.
«Chiacchiere qua e là...» fece vago, non rispondendo chiaramente.
Prima che l'altro potesse fare altre domande, sull'uscio della porta arrivarono altri due ragazzi.
«Siamo in ritardo?» domandò Drake, entrando con le mani in tasca e guardandosi attorno. Dietro di lui Clay lo seguiva e sbadigliava.
«Come sempre» rispose pungente Amadeus, mentre Abel guardava scettico i loro vestiti disordinati.
Quando la smetteranno di infilarsi negli sgabuzzini per scopare?, pensò annoiato, ma tacque.
Notò però che Clay aveva percepito i suoi pensieri quando gli venne lanciata un'occhiata raggelante, che però non gli fece né caldo né freddo; gli sorrise candido.
«Qualche problema?» fece angelico.
«Sì, la tua testa» rispose Clay, infastidito.
Abel si limitò a scrollare le spalle, ridendo tra sé.
«Se avete finito di chiacchierare magari posso dirvi il motivo per cui vi ho chiamati qui» li richiamò con fastidio Amadeus.
I tre si voltarono in contemporanea verso il loro Master, improvvisamente attenti; ad un cenno di quest'ultimo, la porta si chiuse con un sonoro schiocco.
«Bram, Tyson e Reid sono morti» fece secco.
Abel sbadigliò annoiato guadagnandosi un'occhiata da Drake e Clay.
«Abbiamo saputo» disse solo Clay, iniziando a giocherellare con la collana che gli sbucava dalla camicia.
Amadeus lasciò scorrere lo sguardo su ciascuno di loro.
«Immagino abbiate saputo che sono stati dei Deviati ad ucciderli» continuò.
Gli altri annuirono, cambiando istintivamente il colore dei loro occhi che divennero bianchi.
«L'altro giorno mi sono incontrato con Penelope e...» si interruppe, un attimo confuso, poi sbuffò «...e Sargas, che sta sostituendo Lisander. Abbiamo deciso di consultarci con i Master della Fazione Nera per vedere se anche loro aveva subito degli attacchi»
«E avete scoperto che anche loro hanno avuto dei morti tra le loro file» terminò per lui Abel.
Sapeva già buona parte della storia, anche se quest'ultimo dettaglio lo aveva saputo soltanto da pochissimi giorni: era riuscito a captare qualche informazione da dei Grigi, anche se non era riuscito a capirci di più. Sapeva che a breve Amadeus li avrebbe chiamati a rapporto, sapeva anche quale sarebbe stato il loro compito.
«Quindi ci hai chiamato per investigare?» domandò Drake, passandosi una mano tra i capelli mogano, leggermente più chiari della rada barba che gli copriva il viso.
«Esatto» confermò l'uomo, aspirando dal sigaro che ad Abel parve infinito. Ma per quanto doveva continuare ad appestare la stanza?
«Perché non l'hai fatto prima?» chiese Clay, abbandonandosi su un'altra sedia e facendo sobbalzare i capelli biondi raccolti in un codino.
«Dovevo parlarne con gli altri Master. Oltretutto, pare che Sargas non ne fosse nemmeno a conoscenza, nella loro gens non ci sono stati morti, quindi dovevo metterlo al corrente» spiegò.
«E nella gens di Penelope?» domandò sempre Clay.
«Ne sono morti quattro» disse freddo Amadeus.
L'occhiata che fece, nonostante i dreads e l'aria da perenne scazzato che si ritrovata, gli diede una strana aurea che ricordò ad Abel il motivo per cui lui era il Master della loro gens.
Abel vide Drake che stringeva i pugni.
Tre, due, uno...
«Quei schifosi bastardi» sibilò il ragazzo, sbattendo il pugno sulla scrivania del capo.
Abel gli lanciò un'occhiata di sufficienza.
«Datti una calmata Drake, conserva l'istinto omicida per un altro momento» fece annoiato.
Drake gli lanciò un'occhiata obliqua.
«Come cazzo fai a essere sempre così fottutamente calmo?» sibilò pesantemente infastidito.
Abel sorrise sarcastico.
«Ma io mi incazzo qualche volta, sai? Solo per le cose importanti però, come il poker, quando finisce l'alcol...» iniziò ad elencare. Clay gli lanciò un'occhiataccia, ma avrebbe continuato se non fosse che Amadeus intervenne.
«Calmate il pollaio, idioti» disse «Vi sto dando un ordine: non mi interessa dove andiate o cosa facciate, portatemi tutte le informazioni che potete. E so che voi farete un bel lavoro, vero?»
I tre ragazzi sorrisero beffardi.
Beh, non erano il miglior team di spionaggio della Fazione Bianca senza un motivo, no?

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Capitolo 7
*** Capitolo sette ***


Buongiorno a tutti!
Dopo praticamente un mese di assenza ho finalmente pronto il settimo capitolo.
Sarò sincera: non ho scritto nulla per tutto questo tempo, l'ispirazione mi è venuta solo in questi ultimi giorni in cui sono riuscita a creare il nuovo capitolo, anche se la parte centrale del testo l'ho riscritta più di una volta perché non mi piaceva – e non che ora mi convinca tanto, ma ho trattato un “argomento” che non sono solita trattare quindi non so ancora bene come dispiegare la cosa (sì sono vaga, ma lo faccio apposta per non spoilerare nulla). Data questa indecisione da parte mia mi piacerebbe che qualcuno esprimesse il proprio parere su questo capitolo, perché non so esattamente dove devo migliorare anche se so che ce n'è bisogno! Ringrazio anticipatamente chiunque venga incontro alla mia richiesta!
Comunque in questa storia si entra un po' più nel vivo della storia
Un abbraccio,

~Sapphire_






~Dirty Blood




Capitolo sette

Quel tè faceva schifo.
Ophelia storse la bocca assaggiandolo, per poi poggiare la tazza sul tavolo e allontanarla di poco da sé; allungò una mano sui biscotti dall'aspetto invitante e ne assaggiò uno. Anche quello faceva schifo.
A onor del vero, né il tè né i biscotti erano disgustosi, semplicemente Ophelia aveva una nausea tale che ogni cosa che mangiava le risultava indigesta, costringendola a mangiare a forza perlomeno per non morire di fame.
Guardò il suo triste pranzo – mangiare qualcosa di più pesante non le sembrava il caso, dato che continuava a vomitare – e sospirò nel silenzio della cucina dei Sangster.
Era stata lasciata sola quel giorno, non sapeva cosa i tre fratelli avessero da fare di così importante ma qualsiasi cosa fosse li aveva costretti a mollarla lì da sola, cosa rara dato che c'era sempre qualcuno assieme a lei; non sapeva se fosse per evitare che fuggisse o altro, comunque sia la controllavano sempre.
In ogni caso, lei non sarebbe fuggita: dove sarebbe andata? A chi avrebbe chiesto aiuto? Chi le avrebbe creduto?
Non c'era risposta a quelle domande, la sua unica possibilità era di stare lì; inoltre era talmente dolorante e stanca che non credeva che fosse stata in grado di andare lontano. Gli altri la trattavano bene, non aveva molti motivi per voler fuggire, anche se la situazione continuava a essere assurda all'inverosimile.
Sentì un crampo alla pancia e fece una smorfia: le sembrava di stare meglio quel giorno, ma ogni momento era buono per una fitta improvvisa che le faceva storcere la bocca.
Si stropicciò chi occhi e si strinse di più nella felpa che le era stata prestata – una morbida, calda e blu elettrico, che a quanto pare apparteneva a Claire anche se la stupiva che la ragazza possedesse un indumento del genere – poi si costrinse a prendere qualche sorso di tè e sbocconcellare il biscotto.
Il silenzio era assoluto in casa, d'altronde c'era solo lei, perciò il boato che arrivò all'improvviso la fece quasi urlare.
Si alzò di scatto, sentendo ulteriore fracasso e dei passi nel corridoio; si guardò intorno spaventata, non sapendo che fare.
Oddio. Oddio. Cazzo. Che sta succedendo?, pensò in preda alla paura.
I passi continuavano insieme a porte che si aprivano bruscamente e parole urlate che però non riuscì a capire. Fece appena in tempo a lanciarsi dietro una poltrona che dava le spalle alla finestra prima che la porta si aprì con uno schiocco secco facendola sussultare. Si portò una mano alla bocca, costringendosi a non fare un fiato.
Le parve che il cuore le stesse per uscire fuori dal petto e si rannicchiò pregando di non essere vista.

«È qui»
Gli occhi le si appannarono di lacrime sentendo quella voce maschile invadere la stanza. Era terrorizzata.
Non poté fare nulla però: rimase semplicemente immobile e in silenzio, ma subito dopo la poltrona venne scaraventata lontano lasciandola scoperta.
Di fronte a lei un uomo e una donna la guardavano con soddisfazione; in quei pochi secondi riuscì a stamparsi in testa il loro aspetto: l'uomo era alto all'inverosimile, raggiungeva di sicuro i due metri, e i lineamenti duri erano incorniciati da folti capelli castani e occhi altrettanto scuri. La donna invece era sottile come un giunco, con lunghi capelli ramati e occhi scuri.
«Sembra terrorizzata» disse con un sorriso la donna. L'altro non le rispose, continuando a fissare Ophelia.
La bionda tentò di allontanarsi, inutilmente in quella situazione, ma una fitta al petto la bloccò sul posto; un gemito strozzato le uscì dalla bocca mentre il dolore si diffondeva fino ad arrivare alla testa, lasciandola senza fiato.
Chiuse gli occhi dalla sofferenza ma come li riaprì tutto sembrò diverso e riguardando i due tizi lanciò un urlo.
Le figure di poco prima non c'erano più: al loro posto vi era un essere ugualmente grande e grosso ma con la pelle a striature marroni, i capelli che parevano dei rovi e un paio di occhi grigio pietra, privi di pupilla; affianco a lui, una donna dalla pelle venata di nero, i capelli in fiamme e gli occhi altrettanto infuocati.
«Oddio...» riuscì a mormorare Ophelia, sentendo il suo corpo, la sua mente, tutto in lei crollare.
Le due figure sorrisero inquietanti, e così facendo la donna mise in mostra dei denti aguzzi.
«Pare che ci veda» disse sempre la donna, spostandosi i capelli con una mano e provocando scintille.
Ophelia non seppe neanche come fece, neanche da dove trovò la forza: si alzò e cercò di aggirarli per scappare.
Ovviamente la cosa non poteva funzionare, poiché fu subito presa dalla donna per il braccio e ciò la costrinse a fermarsi bruscamente, facendola cadere. Lì dove era stata afferrata sentì la pelle bruciare come su dei carboni ardenti e un disgustoso odore di carne bruciata si diffuse nell'aria.
Ophelia urlò.
«Andiamo, non voglio fare tardi» disse poi l'uomo, avvicinandosi alla bionda e strappandola via alla donna. Non che fosse molto meglio, ma almeno il suo braccio smise di venir bruciato.
Ormai Ophelia non capiva più nulla: venne presa in braccio dal tizio e non tentò neanche di divincolarsi, l'adrenalina del momento prima già scomparsa del tutto e solo la confusione, il dolore e la stanchezza la accompagnavano.
Non protestò, non si mosse tra le braccia di quell'uomo che la sollevava senza sforzo alcuno, trasportandola per il corridoio mentre l'altra li seguiva.
Con la testa ciondolante, Ophelia riusciva a vedere la donna dietro di lei che le faceva le smorfie come una bambina. Mentre sbatteva le palpebre, l'aspetto normale che aveva visto all'inizio si sovrapponeva alla nuova figura, come se fosse stata sotto l'effetto di qualche droga.
Si rese conto di essere fuori a causa dell'aria fredda che le punse il viso come mille aghi, dandole sollievo al braccio a cui era stata afferrata.
La sua mente si stava ormai spegnendo, Ophelia sapeva che non poteva fare nulla in quella situazione e se si fosse ribellata ulteriormente sarebbe probabilmente morta. Ma, anche volendo, non aveva più forze.
Credeva di stare andando incontro a morte certa e nella sua testa annebbiata c'era solo un vago interrogativo:
perché io?
La domanda però era molto probabilmente destinata a rimanere priva di risposta, anche perché Ophelia percepì un improvviso cambiamento della situazione.
L'uomo – o l'essere, o quello che era – si fermò di scatto, iniziando a stringerla con maggiore fermezza mentre si voltava verso la donna.
«Attenta!» sibilò l'uomo.
«Lo so» sentì la donna rispondere.
Un secondo dopo la bionda venne scaraventata a terra, sul cemento duro, e la spalla su cui cadde dovette sopportare tutto il peso del corpo.
Ophelia gridò ancora.
Tentò poi di sollevarsi, cercando di capire cosa stesse succedendo: l'uomo che la reggeva si trovava a un paio di metri di distanza da lei, un braccio squarciato da cui usciva un vischioso liquido grigio. Tentava di alzarsi con la gamba che zoppicava, mentre più avanti la donna era circondata dalle fiamme.
Poco più in là e con le mani da cui spuntavano fili luminosi stava un ragazzo.
La cosa assurda che Ophelia notò era che, in tutto quel casino, la gente in strada non notava nulla e continuava a camminare indisturbata.
Si rannicchiò spaventata, non sapendo che fare e sentendo le lacrime bagnarle le guance.
«Non mi sembra gentile da parte vostra portare via in quel modo una ragazza, non credete?» disse il ragazzo che, Ophelia notò solo in quel momento, aveva gli occhi bianchi.
La donna non rispose: semplicemente alzò un braccio in direzione del ragazzo e le fiamme si spostarono con lei, diramandosi come in un incendio.
Il fuoco esplose in quel breve spazio, avvolgendo non solo lo sconosciuto ma anche lo sguardo di Ophelia che si ritrovò a guardare ipnotizzata le fiamme scarlatte da cui scaturivano scintille. La bionda però non notò, a differenza della donna, i fili luminosi che si innalzavano sull'incendio di fronte alla casa, leggeri come l'aria mentre si allungavano come tentacoli sull'essere.
Ophelia riuscì a spostare finalmente gli occhi dal fuoco notando come la donna si fosse allontanata di scatto ma, subito dopo, vide il suo braccio piegarsi in un movimento innaturale e uno schiocco secco risuonò.
La donna ringhiò di dolore e sollevò l'altro braccio per aumentare le fiamme: cosa inutile dato che anche l'altro si spezzò con un altro secco rumore, mentre i tentacoli luminosi le controllavano il corpo come una marionetta.
Quegli stessi fili accorsero da lei, legandosi alle sue gambe, al suo petto, alle sue braccia, e la fecero alzare; Ophelia si sentì come se qualcuno la stesse tirando per gli arti, costringendola a camminare: non poteva divincolarsi, perciò si ritrovò vicino allo sconosciuto che con l'altra mano cercava di tenere a bada le fiamme.
«Stai dietro di me» le disse secco, poi spostò lo sguardo verso i due tizi che non sembravano voler gettare la spugna e scappare – forse forti della loro maggioranza numerica.
In ogni caso la bionda non se lo fece ripetere due volte: dati gli occhi era abbastanza sicura che quel tizio fosse un amico di Claire e dei gemelli, inoltre l'aveva allontanata dalle grinfie di quei mostri ed era già un punto a suo favore. Se le avesse fatto cessare quel dolore insopportabile al braccio l'avrebbe sposato in quell'esatto momento, per com'era in quella situazione.
Da quella postazione riusciva a vedere poco e niente: notava solo il ragazzo muovere le dita come un marionettista e i fili luminosi con lui. Le fiamme, anche se diminuite, ostruivano comunque in parte la vista – almeno per Ophelia – e alla ragazza sembrava che il ragazzo si muovesse alla cieca.
All'improvviso notò una cosa.
«Le fiamme ci stanno circondando!» strillò spaventata.
Il ragazzo le lanciò uno sguardo.
«Lo so» disse solo con una smorfia.
Un vago gesto del ragazzo e i fili scomparvero dalle sue dita mentre in qualche modo cercava di domare le fiamme: queste però non scomparivano mai del tutto, si allontanavano e si riavvicinavano continuamente, in una continua lotta tra lo sconosciuto e la donna che Ophelia intravedeva tra le fiamme.
Una violenta fiammata si avvicinò alla bionda e il ragazzo riuscì ad afferrarla per miracolo prima che il fuoco potesse raggiungerla.
«Merda» biascicò lo sconosciuto, mentre Ophelia, incapace di fare o dire altro, si stringeva a lui terrorizzata.
«Cosa facciamo?» domandò poi con la voce rotta dai singhiozzi che si facevano strada in lei.
«La domanda di riserva?» replicò sarcastico lui.
Ophelia spostò lo sguardo dalle fiamme che li circondavano per guardare il ragazzo: i capelli castano scuro, illuminati dalle fiamme, rilucevano di riflessi rossastri e la pelle scura era bollente al tatto sempre a causa del fuoco.
«Non hai idee?» insistette, non sapendo cos'altro dire.
Il ragazzo non le rispose poiché una sfera spuntò dalle fiamme tentando di colpirli: riuscì appena ad alzare una mano per bloccarla anche se Ophelia non sapeva esattamente come; semplicemente, la sfera sembrò incontrare un muro invisibile per poi venire rispedita indietro tra il fuoco.
«Non so quanto riuscirò a resistere con questi due» disse improvvisamente il giovane, mantenendo comunque gli occhi puntati alla situazione attorno a lui e muovendo le mani in un vano tentativo di domare il fuoco, cosa che risultava sempre più difficile ad ogni secondo che passava.
Ophelia tremò.
«E quindi?» balbettò.
Il ragazzo fece un profondo respiro.
«Quindi scappiamo. Spero che tu sia forte di stomaco» rispose lanciandole un vago sorriso.
Ophelia sbiancò.

E ora che vuole fare?, pensò spaventata.
Non ci fu altro tempo per ulteriori riflessioni: il ragazzo l'afferrò a sé, stringendola tra le braccia, la bionda si ritrovò con il viso affondato tra il giubbotto nero dello sconosciuto.
Lo sentì bisbigliare qualcosa mentre le fiamme, ormai abbandonate al loro destino, erano libere di avvicinarsi a loro e di divorarli vivi.
Non ci fu però il tempo: appena prima che il fuoco potesse avvolgerli del tutto Ophelia si sentì tirare via violentemente per le gambe, e poi tutto divenne nero.


Un botto assordante e Sargas si alzò di scatto dalla scrivania, gli occhi che in un secondo diventavano bianchi.
Nel suo ufficio – o meglio, quello del padre – nella sede della Fazione Bianca caddero in mezzo al pavimento due figure aggrovigliate, provocando un sonoro tonfo e dei gemiti doloranti.
«Ma che diavolo...» borbottò tra sé, prima di capire a chi appartenessero le due figure.
«Beal, che cazzo sta succedendo?» tuonò irritato, lasciando perdere i fogli che fino a poco prima si apprestava a leggere e avvicinandosi al giovane e a Ophelia, che rimaneva sdraiata sul pavimento con gli occhi semiaperti e l'aria sconvolta; con un'occhiata più attenta notò il braccio destro, nel quale la felpa era stata praticamente sciolta, dove spiccava nella pelle chiara l'impronta di una mano formata dalla carne bruciata.
«Due bastardi Deviati la stavano rapendo» biascicò Beal, mettendosi seduto e tenendosi la testa tra le mani. Sembrava fosse in procinto di vomitare.
«Ti sei
strappato?» domandò, anche se sapeva già la risposta: dalla sua faccia disgustata e l'aria devastata di Ophelia – anche se di sicuro non solo per quello – sembrava proprio che si fossero appena strappati.
«A te che sembra?» disse sarcastico il ragazzo.
Sargas fece una smorfia.

Ci mancava solo questa, pensò guardando la bionda e ignorando bellamente il suo sottoposto.
«Ce la fai ad alzarti?» domandò a Beal, facendo tornare i proprio occhi normali dopo essersi reso conto che non c'era alcun pericolo.
L'altro gli lanciò un'occhiata scettica, poi si alzò e si tolse il giubbotto nero bruciacchiato in più punti.
Sargas nel frattempo sbuffò guardando la bionda.
Com'è che quella ragazza gli stava portando un sacco di casini? Era già in una situazione di merda a causa del padre, delle morti nella Fazione Bianca e del tentativo di collaborazione con quella Nera. Sembrava una mina vagante portatagli solo per creargli ulteriori problemi.
Nonostante questo però la guardò e vide com'era distrutta; notò gli occhi chiusi anche se era cosciente – la vedeva respirare affannosamente e tremare, e in qualsiasi caso non avrebbe ingannato lui – e dalle ciglia scappavano delle lacrime che lasciavano una scia pulita nel viso annerito da quella che sembrava cenere.
Notò di sfuggita Beal che si buttava sulla poltrona con uno sbuffo esausto e a quel movimento la ragazza socchiuse gli occhi per guardarsi intorno; incrociandosi con Sargas serrò di scatto le palpebre, come spaventata o in imbarazzo.
Il ragazzo sospirò.
«Chiama Claire e falla venire qui» disse poi in direzione di Beal.
Nel frattempo si inginocchiò al lato di Ophelia e passò un braccio sotto le gambe e sulle spalle, per poi prenderla in braccio e adagiarla con delicatezza sul divanetto posizionato all'angolo della stanza.
«È fuori con Max e Nick. Li hai mandati tu, non ricordi?» fece Beal, mentre gli occhi passavano dal bianco perlaceo a un più normale nocciola chiaro.
Sargas alzò gli occhi al cielo.

Ha ragione.
«Allora chiama Louise e falla venire qui subito» ordinò perentorio in direzione del ragazzo; notò distratto l'altro lanciargli uno sguardo scocciato, ma non si lamentò e dopo essersi alzato uscì dall'ufficio.
«Ti fa molto male?» disse con voce bassa.
Vide gli occhi di Ophelia tremare, ma poi la ragazza si decise ad aprirli e li puntò sui suoi. Si ritrovò a fissare un paio di occhi verdi dalla tonalità particolarmente scura in quel momento, arrossati dalle lacrime e con una confusione e paura tali che Sargas si trovò a disagio.
«Perché mi sta succedendo tutto questo?» sussurrò.

Perché ci sta succedendo tutto questo?”
Sargas si costrinse a eliminare quel ricordo dalla testa, cercando di focalizzarsi solo e soltanto sulla ragazza che lo guardava con quell'aria così sperduta.
«Non lo so» sussurrò a sua volta.
In qualche modo aveva paura di spaventarla ancora di più di quanto già non fosse.
Vide quegli occhi verdi ricoprirsi di un velo di lacrime.
«Non so perché mio padre mi ha mandato a cercarti» continuò, cercando di darle un qualche tipo di risposta, anche se non le stava comunque dicendo nulla.
Voleva mantenersi freddo come faceva di solito, ma a vederla così terrorizzata non riusciva ad essere gelido come suo solito. Non poteva.
«Non so neanche perché hanno tentato di rapirti oggi, non ce lo aspettavamo» continuò fissandola.
Una lacrima sfuggì alla ragazza che spostò velocemente lo sguardo, vergognandosi della propria reazione.
In un altro frangente Sargas avrebbe guardato con sufficienza coloro che reagivano in quel modo, ma a farlo ora si sarebbe sentito un bastardo.
«Io non capisco. Sono stanca di tutto questo, non capisco cosa mi stia succedendo, perché fa così tanto male... Vorrei solo che tutto ritornasse com'era prima» sussurrò la bionda, deglutendo rumorosamente.
«Non si può» rispose Sargas implacabile.
Non voleva essere uno stronzo, ma quella era la verità: non poteva rispedirla indietro come se nulla fosse successo, soprattutto ora che sapevano fosse in pericolo; se non fosse rimasta con loro non sarebbe durata un giorno.
«Perché?»
«Perché moriresti. Non so chi e per quale motivo, ma qualcuno ti vuole. E pare pronto a farti del male per averti»
Ophelia sospirò esausta.
«E quando potrò avere qualche risposta?» chiese a bassa voce.
«Non so neanche questo. Ci sono anche altre cose a cui pensare, ma farò il possibile per farti avere delle risposte» disse.
D'altro canto, le risposte le voleva anche a lui, anche a costo di far tornare il padre da ovunque fosse.
Allungò una mano e gliela mise sulla fronte: era bollente.
«Ora riposa, hai bisogno di recuperare energie. Ci occuperemo noi di te» mormorò.
Ophelia annuì e basta, lasciando andare la testa all'indietro e chiudendo gli occhi.
Sargas si alzò.

Devo fare qualcosa.



«Circe, hai notato i suoi occhi?»
La donna dai capelli in fiamme alzò lo sguardo verso il proprio compagno, osservandolo mentre curava il suo squarcio al braccio.
Il suo viso era una maschera di ghiaccio.
«
»

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Capitolo 8
*** Capitolo otto ***


Salve a tutti!
Sì, lo so, l'ultimo capitolo risale al 28 agosto dell'anno scorso, e siamo a febbraio... Me ne rendo conto, ma ho delle reali motivazioni a mia discolpa! È il mio primo anno di università, mi sono trasferita e nei primi mesi non ho avuto molto tempo per dedicarmi alla scrittura: era presa ad abituarmi a questa nuova vita, con le nuove persone che sto conoscendo (sì, vorrei farmi una vita sociale), e tra lezioni ed esami vari non ho avuto il minimo tempo per scrivere; oltretutto per più di un mese sono stata senza computer, dato che mi si è rotto lo schermo e l'ho dovuto mandare a riparare. E poi, ultima cosa, non avevo ispirazione, e se manca quella posso avere anche tutto il tempo del mondo, ma non riesco a scrivere – immagino voi possiate capire.
Comunque sia ora sono qui, con questo capitolo un po' di passaggio, questo è vero, dove ho messo un po' di altra carne al fuoco, ma il prossimo dovrei già iniziare a dare qualche nuova spiegazione – e dovrebbe essere anche più attivo. Scusate se la storia ci mette tanto a procedere, ma non mi piace far avvenire tutto in fretta e furia solo per rendere la storia movimentata, se poi manca di realismo (e ok, è una sovrannaturale quindi il realismo è relativo, ma insomma, mi avete capito).
Spero che questo capitolo vi piaccia, cercherò di scrivere il prossimo il prima possibile!
Buona lettura.
Un abbraccio,

~Sapphire_






~Dirty Blood




Capitolo otto

Claire aprì la porta facendola sbattere violentemente e producendo così un suono secco e forte che attirò gli sguardi degli astanti.
«Cos'è successo?» esclamò rapida, per poi concedersi un attimo per guardarsi attorno; mentre il cuore le batteva rapido e il petto le si alzava e abbassava altrettanto frenetico in cerca di ossigeno, si spostò con una mano le ciocche di capelli che le erano scivolate sugli occhi e osservò meglio la situazione.
Stesa sul divano e con l'aria che dire malconcia era un eufemismo stava Ophelia, i cui occhi verdi si erano aperti all'arrivo della stessa Claire. Accucciata di fronte a lei c'era una ragazza dai folti ricci castano-dorati tenuti insieme da una pinza azzurro fosforescente.
Louise, pensò seccata Claire, per poi spostare lo sguardo su Beal, abbandonato sulla poltrona con gli occhi chiusi, e Sargas, in piedi appoggiato alla scrivania.
«Potresti evitare di urlare? Ho un mal di testa che mi sta uccidendo» bofonchiò Beal mantenendo le palpebre serrate.
Claire lo fissò attentamente, facendo scattare i suoi occhi che cambiarono colore.
L'aura di Beal era poco vivida e un po' traballante, come se cercasse di stabilizzarsi; spostando gli occhi su quella di Ophelia notò che la situazione era uguale.
«Vi siete strappati?» domandò stupita.
«» rispose per loro Sargas.
«Io sto cercando di risolvere la situazione, se fate silenzio sarei più concentrata» disse all'improvviso Louise con tono seccato.
Solo un'occhiata gelida di Sargas impedì a Claire di replicare.
Stupida idiota, pensò infastidita la mora.
Dei passi veloci per il corridoio preannunciarono l'entrata di Dominik e Max, che entrarono un minuto dopo; il respiro un po' corto dimostrava la loro fretta, anche se non come Claire.
Anche i due gemelli squadrarono la situazione.
«Che è successo?»
«Perché la nostra casa è praticamente distrutta?»
Maximilian e Dominik parlarono in sincrono, mostrando le due diverse preoccupazioni che li affliggevano.
«Siete passati a casa, quindi» osservò Sargas retorico, ignorando le parole di Louise.
«Sì» rispose Max, mentre la sorella annuiva e Dominik era impegnato a guardare infastidito Louise che, accucciata e di schiena, esaminava Ophelia.
«Hanno fatto molti danni?» domandò il ragazzo.
Claire ripensò alla propria casa: l'entrata era completamente andata, così come buona parte del corridoio; quasi tutte le porte erano sfondate e molte stanze erano distrutte, ma il maggior problema era la cucina, che era ancora in fiamme quando i tre fratelli erano tornati.
«Direi di sì» rispose con una smorfia.
«Mi spiace»
La voce sottile di Ophelia giunse alle orecchie di Claire che la guardò.
«Non dispiacerti, non è colpa tua» rispose la mora; notando come Dominik fosse in procinto di manifestare il proprio disaccordo con ciò che aveva appena detto la sorella, si affrettò a lanciargli un'occhiataccia. Per una volta, Dominik le diede ascolto.
«Potreste esattamente dirci cos'è successo?» intervenne nel silenzio Max che, come il gemello e la sorella, aveva ancora le idee confuse.
«Non ho intenzione di spiegare tutto da capo» bofonchiò Beal, sempre sprofondando nella poltrona e con gli occhi chiusi.
Gli occhi di Max si spostarono su Sargas, in attesa, e così fece Claire dopo aver intravisto il braccio bruciato di Ophelia.
«Due deviati sono entrati in casa vostra alla ricerca di Ophelia, la stavano rapendo se non che l'arrivo di Beal l'ha impedito. Sono stati costretti a strapparsi per riuscire a non morire»
«Due Deviati?»
«Che ci faceva lì Beal?»
Le voci con le rispettive domande di Claire e Dominik si sovrapposero. La ragazza lo guardò.
«Sono stata io a chiedergli di andare a controllare che fosse tutto a posto, ero preoccupata per Ophelia» spiegò Claire, mordendosi un labbro preoccupata.
«E con buone ragioni. Se non l'avessi fatto ora avremmo un problema ancora più grande» disse infastidito Sargas.
«Ma siete riusciti a identificare i due Deviati?» insistette Claire. Sargas scosse la testa.
«Quel che è certo è che non erano due normali Deviati. Erano troppo potenti» sibilò Beal, intervenendo nella conversazione.
Claire notò come la sua aurea fosse più stabile rispetto a prima.
«Questo è poco ma sicuro, queste ferite non sono leggere» intervenne anche Louise, alzandosi dalla sua posizione accucciata di fronte a Ophelia.
Si voltò verso di loro, gli occhi bianchi che tornavano castani, e si sciolse i capelli massaggiandosi la testa. Lanciò poi un'occhiata di malcelato disgusto in direzione dei gemelli e una di sufficienza a Claire.
Quanto ti spaccherei quel bel faccino..., pensò rabbiosa la ragazza, ma si costrinse a tacere.
«Allora?» domandò Sargas. Louise fece una smorfia.
«Tutto in questa ragazza è un casino» iniziò, ignorando il fatto che la ragazza in questione la stesse ascoltando come tutti gli altri «Ma da dove è uscita fuori?» chiese poi, sospettosa.
Claire notò Sargas irrigidirsi, ma la sua espressione rimaneva impassibile.
«Lunga storia» tagliò corto Sargas, deludendo Claire che avrebbe voluto sentire un più secco “fatti i cazzi tuoi”.
«Continua» la esortò nuovamente il ragazzo.
Louise prima gli lanciò un'occhiata ancora più dubbiosa, ma rispose comunque.
«La sua aurea è sconvolta dallo strappo, ma questo è normale. Quello che invece non è normale è il resto. Non capisco cosa non va, sembra ci sia un sigillo, ma non riesco a percepirlo e questo è ancora più strano. Il suo corpo sembra stia rigettando qualcosa, e anche in questo caso non capisco
cosa» spiegò piuttosto confusa Louise.
Insomma, non ha capito un cazzo, pensò aspra Claire, tenendo il pensiero tra sé ma scambiandosi un eloquente sguardo con i fratelli.
«Quindi non hai trovato nulla» commentò Sargas, con un'occhiata infastidita.
«Non guardarmi così!» replicò subito la riccia «Non mi avete spiegato un bel niente, cosa avrei dovuto trovare?»
«Lascia stare» tagliò corto di nuovo il ragazzo. Louise aprì la bocca per protestare, ma subito dopo la richiuse, rinunciando.
Claire sorrise tra sé; per quando Louise fosse sfacciata, non si prendeva troppo spesso la libertà di contraddire Sargas: per quanto giovane e temporaneo, era comunque il master della gens.
«Bene, se è così allora io vado» fece secca la riccia. Non attese risposta e, dopo un cenno a Sargas e a Beal, che non la vide perché aveva sempre gli occhi chiusi, se ne andò chiudendosi la porta alle spalle.
«Testa di cazzo» bofonchiò Dominik appena la ragazza scomparve.
«Grazie del commento, ora però dobbiamo concentrarci e decidere cosa fare» iniziò Sargas «Claire, controlla anche tu Ophelia e vedi cosa puoi fare. Beal, tu ti sei ripreso?»
«Più o meno» biascicò il ragazzo, aprendo finalmente gli occhi.
«Bene, allora alzati e seguimi. Dominik, Max, venito anche voi» disse Sargas.
Claire, già vicina a Ophelia, li guardò in tralice sentendosi esclusa.
«Dove andate?» domandò.
«A casa vostra, spero di trovare qualche tipo di traccia» spiegò il moro.
«Non sarebbe allora il caso di chiamare anche Benjamin?» domandò Max.
Sargas scosse la testa.
«Finché non abbiamo qualche informazione in più riguardo questa situazione, è meglio non coinvolgere altre persone. Sanno qualcosa già Angelica e Louise, e anche Beal ormai, non voglio che la notizia di Ophelia corra troppo» spiegò.
«Smettetela di parlare di me come io che non ci sia» protestò la ragazza.
Claire vide Sargas sospirare e, dopo aver ricevuto una significativa occhiata dal giovane, i quattro uscirono con un breve saluto.
Rimaste sole, Claire si permise di lanciare un'attenta occhiata a Ophelia: era palida come ormai da giorni, i capelli scaramigliati e sporchi, i vestiti con qualche strappo e cenere qua e là e il braccio destro con l'impronta bruciata di una mano.
«Per prima cosa occupiamoci di questo, eh?» fece retorica Claire, prendendo con delicatezza il braccio dell'altra mentre la sua mano iniziava a brillare di una luce fioca.
Ophelia annuì.
Claire notò la sua strana silenziosità e, indecisa se assecondarla o meno, parlò.
«Ti sei spaventata molto?» chiese.
Gli occhi di Ophelia si fecero lucidi.
«Dei mostri sono entrati in casa e hanno tentato di rapirmi, sono stata trascinata via da un tizio che mi ha fatto sentire com se fossi stata su delle montagne russe per un settimana senza mai fermarmi e per l'ennesima volta una persona dice che non sa cosa non vada in me. Non sono assolutamente spaventata»
Riconoscendo il sarcasmo, Claire tirò un sospiro di sollievo dentro di sé: se riusciva a essere in qualche modo ironica la situazione non era così irrecuperabile.
«Beh, dai, hanno tentato di rapirti, dovresti considerarti una persona importante» tentò di ironizzare a sua volta Claire.

Sono una stupida, pensò appena vide una lacrima scendere sulla guancia di Ophelia.
«Scusa...»
«Non devi scusarti» la frenò subito Ophelia, girandosi e puntando gli occhi verdi sui suoi. Claire si sentì a disagio sotto quello sguardo triste che faceva a pugni con il sorriso tiepido che le illuminava un poco il volto.
«Tu non hai colpa di quello che sta succedendo. Stai anche cercando di aiutarmi» continuò la bionda.
A quelle parole Claire ricambiò il sorriso triste.
«Beh, non sto facendo un buon lavoro» disse, per poi sfuggire allo sguardo dell'altra e concentrarsi sulla ferita; anche se lentamente, grazie ai suoi poteri stava migliorando.
«Va bene così» la sentì rispondere.
Claire tacque.
No, non va bene per niente.

Appena mise piede nella casa distrutta, Sargas sbuffò pesantemente.
Ma quando finirà tutto questo?, pensò.
Se da un lato avrebbe voluto non rivedere più il padre, dall'altra non vedeva l'ora che tornasse e riprendesse le redini di tutto quel casino. Non è che non gli piacesse il ruolo di leader, ma si stava tutto facendo così complicato, ed era diventato master da solo un anno – ovvero da quando il padre era sparito, lasciandogli un bigliettino con su scritto “Congratulazioni! Sei appena diventato il nuovo master!” che sapeva tanto di presa per il culo.
Se per un attimo gli era balenata in testa l'idea di trovarlo solo per il puro gusto di prenderlo a pugni, poi aveva deciso di sfruttare l'occasione e godersi quella sorta di “vacanza” senza il padre come costante nella sua vita – beh, credeva fosse una passeggiata fare il master: incontrarsi di tanto in tanto con gli altri della fazione, scambiare qualche convenevole con i Neri, controllare che nessuno della propria gens creasse troppi problemi e tanti saluti.
Di sicuro, era così prima che se ne andasse quell'idiota. Invece ora era sparito e gli aveva lasciato quella patata bollente di Ophelia, le cui (inesistenti) indicazioni gli erano state lasciate in un grazioso allegato al biglietto di auguri.

«Beh, vediamola così: adesso avete una vista a 360 gradi» intervenne Beal sarcastico.
Sargas si girò appena per vedere l'occhiata scontrosa che gli lanciavano i due gemelli, ma prima che qualcuno potesse replicare in qualche modo decise di intervenire.

Evitiamo discussioni inutili, pensò tra sé.
«Controllate tutta la casa e vedete se trovate qualcosa che potrebbe esserci utile. Sbrigatevi, la zona è ancora a rischio e potremmo trovarci brutte sorprese se rimaniamo troppo in giro» tagliò corto con tono secco.
Gli altri tre non risposero: fecero solo un vago cenno con la testa prima di inoltrarsi all'interno della casa e andare nelle diverse stanze, saltellando sui vari detriti sparsi per il pavimento.
Sargas rimase ancora fuori, osservando la strada: ovviamente nessuno si accorgeva di nulla. Di sicuro gli Occultori avevano fatto un bel lavoro in quel caso, ma non si sentiva sicuro – meglio evitare qualsiasi rischio, non voleva trovarsi umani a gironzolare troppo vicino a quella zona.
Gli occhi gli diventarono bianchi in un istante mentre sollevava la mano destra di fronte a sé, il palmo aperto e rivolto verso l'esterno; nel medio, sotto la luce del sole che lo colpiva in pieno, un anello con uno smeraldo incastonato faceva bella mostra di sé.
Chiuse piano la mano, facendo convergere le punte delle dita, mentre una brillante fiamma bianca veniva a crearsi, guizzante e colma di scintille. Aprì di scatto la mano, e la fiamma si spense all'improvviso, mentre per un attimo il mondo rallentava e Sargas riusciva a vedere i singoli granelli di polvere fluttuare nell'aria.
Appena prima che il tempo continuasse a riprendere il suo solito scorrere vide in lontananza una figura nera, coperta con un cappuccio, dritta verso di lui. Ma, prima che potesse fare qualsiasi cosa, la figura scomparse e tutto tornò come un secondo prima.

Dobbiamo sbrigarci, pensò Sargas. Aveva avuto un leggero dubbio su quella figura – possibile che...? - ma meglio non rischiare.
Si fece anche lui strada nel corridoio, buttando l'occhio sulle prime stanze e vedendo i tre ragazzi indaffarati alla ricerca di qualcosa –
qualcosa perché non sapevano neanche loro cosa stessero effettivamente cercando, andavano a tentoni; entrò nella prima stanza vuota che vide, la mente ancora concentrata su ciò che era appena successo, la convinzione che si faceva sempre più strada in lui – ma che ci faceva uno di loro lì? Che si facessero gli affari loro.
Mentre scorreva gli occhi sulla stanza – pareva essere un piccolo studio con una libreria e una poltrona – poco concentrato su ciò che faceva, un urlo lo fece distrarre.

«Sargas, Beal, Domi! Venite qui!»
La voce di Max lo riportò alla realtà, costringendolo ad andare rapido nella cucina che, poté appurare, era la stanza maggiormente distrutta.
La finestra, con le tende scostate, faceva entrare la luce all'interno e perciò era tutto illuminato a giorno: la poltrona scaraventata da un lato, il tavolo a pezzi, una tazza e resti di biscotti per terra – una colazione bruscamente interrotta, suppose; c'erano poche gocce di sangue nel pavimento, di sicuro di Ophelia.
Ma Max era concentrato su altro: era in piedi, immobile, come in trance. I suoi occhi bianchi fissavano il vuoto mentre la mano sfiorava quel piccolo grumo grigio a mezz'aria, che Sargas e gli altri erano in grado di vedere solo grazie ai loro poteri.

«Un ricordo» disse all'improvviso Dominik, spiazzato, entrando subito dopo di lui seguito da Beal.
«È di...» disse solo Sargas.
«
Ophelia» rispose Max, sempre con gli occhi vacui.
«Un ricordo» fece all'improvviso Beal «Un ricordo
espulso. Mi potete spiegare come quella tizia, che a detta vostra è priva di poteri e assolutamente inutile, è riuscita a eliminare un ricordo dalla sua testa?» fece.
Priva di poteri? Inutile?, pensò un poco stordito Sargas, Direi proprio che non è la definizione adatta.
«Sarebbe interessante capirlo» rispose però.
Un attimo dopo Max tornava tra di loro, gli occhi che rimettevano a fuoco la stanza e anche gli altri astanti.
«Non è piacevole, ve lo dico subito» disse con una smorfia.
«Perché?» fece Beal.
«Non so come abbia fatto a espellere il ricordo, ma sono sicura di una cosa: non l'ha fatto consapevolmente. Sembra che, in un qualche strano modo, se lo sia strappato dalla testa e l'abbia piantato qui» spiegò.
«Com'è possibile?» domandò Dominik, confuso.
Sargas fissò quel grumo grigio che non si spostava di un millimetro, pensando.
«Ci sono casi» iniziò, dopo un paio di secondi «in cui i ricordi espulsi non sono volontari. Vengono creati a causa di un'esperienza traumatica; sei spaventato, stai lottano, la mente cerca di eliminare tutte quelle brutte sensazioni in questo modo. È un processo automatico per proteggere la propria mente. Per questo di solito è piuttosto turbolento» spiegò, attirandosi le occhiate degli altri tre.
«Quindi è stata una consa inconscia» intervenne Beal.
«Pare di sì»
«E allora mi spieghi come ha fatto Ophelia, se
in teoria è priva di poteri?»
Sargas si morse un labbro.
Non era più sicuro, a quel punto, che Ophelia fosse priva di poteri. Ciò avrebbe spiegato prima di tutto quel ricordo, secondo il motivo per cui qualcuno la cercava, terzo il sigillo che le era stato imposto – di sicuro era quello che impediva ai poteri di manifestarsi, ma evidentemente le era stato applicato quando era piccola, altrimenti non si spiegava la sua assoluta confusione riguardo il loro mondo – e, se le era stato messo da piccola, di sicuro era qualcuno così bravo da creare una barriera perfetta e durevole nel tempo. Gli veniva in mente solo un nome, ma aveva bisogno del padre per esserne certo, cosa che in quel momento non era possibile.
Comunque fosse, decise di tenere i dubbi per sé.
«Non lo so» disse soltanto «Ne so quanto voi di questa storia, perciò ci devo lavorare per avere qualche informazione certa» continuò.
«Ora però dobbiamo andare, non possiamo rimanere qui per troppo tempo – mi è sembrato di vedere qualcuno fuori, vorrei evitare di venire attaccato. Max, occupati di prendere il ricordo – delicatamente, non voglio che sia rovinato. Torniamo alla sede» concluse infine.
Aveva mille dubbi, e avrebbe fatto in modo di risolverne almeno uno.

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Capitolo 9
*** Capitolo nove ***


Salve a tutti!
Eccomi qui, a più di un mese di distanza ma comunque prima di quanto vi ho fatto aspettare l'ultima volta. Che dire, sono sempre abbastanza occupata con l'università e l'ispirazione va e viene, cerco di approfittarne appena posso!
Questo nuovo capitolo è discretamente lungo e ci sono anche alcune spiegazioni che – spero – possano aiutarvi a capire meglio com'è strutturata la “gerarchia” della storia. Di altro non c'è molta azione, ma spero che vi possa piacere comunque.
Detto questo, vi lascio al capitolo, augurandovi una buona lettura e chiedendovi gentilmente se potreste lasciare dei commenti alla storia, positivi o negativi che siano, per capire quali sono i punti da migliorare!
Un abbraccio,

~Sapphire_






~Dirty Blood



Capitolo nove

Ophelia era sveglia da più di un'ora, eppure non accennava ad alzarsi. Non aveva la voglia, a dire il vero.
Si sentiva il corpo completamente indolenzito dal giorno prima e, anche se la ferita al braccio era migliorata tantissimo grazie al prezioso aiuto di Claire, il ricordo del dolore provato il giorno prima, e il terrore che lo accompagnava, le faceva desiderare di stare in quella coltre di coperte per sempre.
Sarebbe stato tutto più semplice: non avrebbe dovuto preoccuparsi di nulla, si sarebbe nascosta al mondo intero, i problemi sarebbero scomparsi.
No, non era vero. I problemi si sarebbero ingigantiti se non fosse stata loro prestata la giusta attenzione.
Sospirò a quel pensiero.
Il giorno prima, alla fine, non aveva più visto Sargas, Max, Beal o Dominik. Erano andati in quella casa sperando di trovare qualcosa di utile e aveva passato la sera prima a chiedersi se avessero ottenuto quello che volevano. Il fatto che non si fossero presentati da lei la lasciava spiazzata: non le avevano detto nulla perché non c'era nulla da dire? O perché quello che avevano scoperto era troppo importante? O forse non sentivano il bisogno di comunicarle informazioni riguardanti lei.
Sbuffò.
Da un certo punto di vista odiava gli uomini come Sargas: i capi, i leader, che sembrano non aver bisogno di chiedere niente a nessuno, che davano ordini che ovviamente sarebbero stati eseguiti. E, anche se aveva mostrato alcuni lampi di gentilezza, anche con lei sembrava avesse intenzione di comportarsi da “padrone”. Di certo non sarebbe stato lei a cambiare il suo modo di fare, quello era ovvio, e non era nemmeno intenzionata a farlo; solo che non voleva essere trattata come una bambina, sballottata da una parte all'altra secondo un'idea, una strategia ben piantata nella testa di quel ragazzo – sempre che avesse una strategia, quello era ovvio.
Anche se, rifletté, non aveva potuto granché ribellarsi in quegli ultimi giorni: i dolori erano troppo atroci per consentirle di fare alcunché, e da un lato ringraziava che la stessero aiutando in quella maniera, anche se non sapeva il motivo.
Insomma, aveva un totale casino in testa.
Si sollevò dal letto di scatto, rimanendo seduta.
A quanto pare, c'erano delle camere da letto in quella sorta di quartier generale in cui tutti si incontravano – credeva che anche Claire, Dominik e Max avessero dormito lì, ma non ne aveva la certezza.
La sera prima Claire l'aveva portata in quella stanza in gran segreto, tutto il tempo guardinga e con gli occhi bianchi, spaventata dall'idea che qualcuno le notasse – o meglio, che notasse Ophelia stessa.
Non capiva perché la stessero tenendo nascosta in quel modo, ma non protestava: evidentemente, c'era un preciso motivo. Era ovvio però che non si sarebbe accontentata di quella giustificazione ancora per molto: avrebbe chiesto ben presto i motivi di tutti quei sotterfugi, insieme ovviamente a delle spiegazioni riguardo tutto il resto. Sperava che, finalmente, le potessero dare qualche informazione in più.
Tutto sommato, quella mattina stava meglio. Era da un bel po' di tempo che non dormiva così bene – temeva che il suo sonno sarebbe stato popolato da incubi di ogni sorta, invece era stato tranquillo e senza sogni.
Credeva che Claire le avesse messo qualcosa nel tè prima di andare a dormire – ma non aveva intenzione di protestare, le era stato più che d'aiuto.
Dopo questi vari pensieri si decise ad alzarsi.
Scese dal letto con lentezza – era pur sempre indolenzita – tentando di tirarsi giù e coprirsi meglio con quella felpa enorme che Claire le aveva portato, grigia e calda; molto probabilmente era di uno dei fratelli, ma non le importava. I suoi vestiti – anzi, sarebbe stato più corretto dire i vestiti di Claire – erano ormai da buttare in seguito alle varie ferite del giorno precedente.
Aveva i piedi scalzi, e questi, a contatto con il pavimento gelido, le diedero un brivido che le corse per tutta la schiena, scuotendola per un attimo.
La stanza era quasi del tutto buia, appena uno spiraglio faceva filtrare un poco di luce; in quel raggio vedeva dei minuscoli e solitari granelli di polvere danzare nell'aria, immersi nel silenzio.
Le faceva quasi strano la presenza di una finestra, considerando che in tutte le stanze precedenti in cui era stata di quel posto ne sembravano prive – come se fossero sottoterra, cosa che aveva già ipotizzato da un po'. Evidentemente, però, avevano anche delle stanze allo “scoperto”.
Si avvicinò proprio alla finestra, scostando di poco la tenda; ciò fece entrare più luce nella stanza, rischiarandola: era una semplicissima camera da letto composta da quest'ultimo, un comodino, una scrivania con una sedia e una grande cassettiera di legno. Le suonava strano una camera del genere – così banale e semplice – in quel posto che ricordava più un covo – e lei non si immaginava camere da letto in un covo.
Fuori dalla finestra, New York era viva come sempre: non sapeva che ore fossero, ma probabilmente delle ore di punta considerando il traffico per strada. Si trovava discretamente in alto, ma non abbastanza da non avere la vista impedita dagli edifici che la circondavano.
Lasciò per un attimo vagare lo sguardo per strada, dove i passanti, simili a formiche, si davano un gran da fare per andare da una parte all'altra; poi si scostò dalla finestra, gli occhi abituati al buio che le stavano lacrimando.
Non sapeva che fare: aveva paura di uscire, non per chissà quale motivo, solo che Claire l'aveva portata lì dentro così nascosta che ora lei stessa, senza sapere perché, aveva paura di essere vista.
Poi, di certo, non le sembrava molto adatto mettersi a vagare per un edificio sconosciuto con solo una maxi felpa che le arrivava più o meno al ginocchio, senza scarpe, pantaloni, o calze.
Si guardò intorno, mordendosi un labbro.
Cosa faceva? Aspettava lì che qualcuno arrivasse?
Si sedette sul letto, decisa ad attendere l'arrivo di qualcuno. Cinque secondi e si alzò.
No, non sarebbe stata lì ad aspettare. Aveva atteso fin troppo in quegli ultimi giorni, rimanendo con le mani in mano tutto il tempo e lasciando che gli altri facessero le cose per lei – e sì, stava male, quello era vero, ma ne aveva abbastanza.
Sarò cauta, pensò. Poi si guardò i piedi: no, non le erano spuntate improvvisamente delle calze o delle scarpe, era sempre con i piedi nudi.
Ecco, quello la frenava un po'. Decise però che non le importava e si avvicinò alla porta, socchiudendola pian piano.
Per un attimo, il fatto che fosse aperta la stupì. Credeva, anche se non sapeva nemmeno lei il perché, che avrebbe trovato la porta chiusa a chiave; il fatto che così non fosse lo interpretò come un invito – o, perlomeno, un non-divieto – ad uscire.
Il corridoio aveva un lucido pavimento bianco e delle sporadiche finestre che facevano entrare fin troppa luce; la sera prima non aveva dato un'attenta occhiata al posto, presa com'era dal far piano e camminare il più velocemente possibile – più che altro, veniva continuamente trascinata da Claire senza la minima pietà per i dolori che la trafiggevano.
Si chiuse delicatamente la porta dietro, attenta a non fare rumore, e si inoltrò nel corridoio in cui vigeva uno strano silenzio che aveva paura di rompere.
Era prevalentemente spoglio se non per alcuni quadri appesi qua e là, rappresentanti principalmente nature morte e paesaggi; c'erano poi diverse porte uguali proprio a quella da cui era uscita lei, che le fecero presumere altre stanze simili a quella. Ipotizzò che quel piano fosse, come dire, riservato a dei pernottamenti saltuari di coloro che lavoravano in quell'edificio – lavoravano, o qualsiasi altra cosa facessero.
Arrivò alla fine del corridoio e si fermò di fronte all'ascensore. No, non era il caso di prenderlo: sarebbe stato più semplice beccarla e non avrebbe potuto nascondersi da nessuna parte; decise di fare le scale proprio come aveva fatto il giorno prima con Claire.
Quanti piani ho fatto ieri?, pensò.
Non ricordava, ma di sicuro parecchi. Era arrivata a quel piano senza il minimo fiato.
Beh, o scendo o ritorno in camera, e dato che non voglio ritornare in camera...
Iniziò a scendere le scale, dapprima lentamente, timorosa e cercando di fare più silenzio possibile, poi prese sicurezza e prese velocità; scendere, d'altronde, era molto meno faticoso e i suoi piedi scalzi non facevano chissà quanto rumore – che poi, il giorno prima aveva delle scarpe, chissà dove le aveva portate Claire. Di sicuro aveva buttato pure quelle.
Scese gli innumerevoli scalini per vari minuti, fermandosi saltuariamente ad alcuni pianerottoli da cui si inoltravano vari corridoi. A un certo punto non vide più finestre e ipotizzò di aver già superato il livello col terreno; lo prese come un buon segno, considerando che ricordava l'ufficio di Sargas proprio in quello spazio sottoterra – sempre se fosse
effettivamente sottoterra.
Da quel punto in poi però non sapeva più quando fermarsi; scese per cui un altro paio di rampe di scale e si fermò.
Ora come ora un piano vale l'altro, pensò vaga. Non si ricordava quale fosse quello giusto, ovvio che tutti i piani fossero uguali.
Il fatto che non avesse incontrato nessuno le aveva messo paura: era stata fin troppo fortunata, in quel momento qualcosa le diceva che non poteva sperarci ancora.
Faccio sempre in tempo a correre fino alle scale, considerò. Ma il suo pensiero aveva, in una certa misura, una sfumatura disperata.
Ma, in fondo, era arrivata fin lì. Tornare indietro non le sarebbe servito a niente, tanto valeva andare avanti. Con queste convinzioni in testa – motivi con cui giustificava una scelta prettamente emozionale – avanzò nel corridoio.
C'era un grande silenzio, come in tutto il resto dell'edificio – era quasi inquietante, le veniva da chiedersi se ci fosse davvero qualcuno o fosse disabitato – e questo la consolò: significava che, molto probabilmente, non c'era nessuno. Allo stesso tempo però la preoccupava l'idea che fosse deserto. Alla fine era uscita per cercare Claire o chi per lei.
Ho fatto una stronzata, considerò.
In quel momento si rese conto che sì, non era stata una bella idea: mettersi a vagare in un edificio che non conosceva alla ricerca di persone che non aveva la minima idea di dove fossero – e anche se fossero lì, in quel momento – rischiando di incontrare persone che, da quel che aveva capito, non avrebbero dovuto vederla.
Complimenti Ophelia alla tua enorme capacità di individuare sempre l'idea più stupida, pensò ironica.
Ed eccola, la ciliegina sulla torta.
Una porta che si apriva lentamente e, dopo tanto tempo di silenzio assoluto, le prime voci.
Le si gelò il sangue nelle vene.
Merda.
Ecco, doveva fare qualcosa.
In quei pochi secondi di completa immobilità sentì una voce maschile e una femminile parlare – ovviamente non le riconobbe.
«...nascondendo fin troppo. Ovviamente i master sono bravi a nascondere le cose, ma neanche i loro sottoposti vogliono scucire qualche informazione»
La voce maschile.
«Siamo l'ultima ruota del carro, che ti aspetti? E poi ne abbiamo già parlato: se non vogliono dirci nulla avranno i loro motivi – e poi credo che si aspettino che, in qualche modo, ne siamo già venuti a conoscenza. Delle morti non passano così inosservate»
La voce femminile.
«Sei troppo credulona, Laurel. Dovresti darti una svegliata»
«Pensa per te, idiota»
Ecco, un altro passo e l'avrebbero vista.
Si girò veloce, pronta a correre verso le scale, e avrebbe lanciato un urlo apocalittico se una mano non le si fosse poggiata rapida sulla bocca, impedendole di proferire parola.
Sargas, di fronte a lei, la fulminò con lo sguardo; ma fu solo un attimo, considerando che la trascinò con violenza verso l'ascensore a pochi passi da lì. Quello si aprì istantaneamente tanto da far chiedere a Ophelia quando il ragazzo lo avesse chiamato, ma venne brutalmente spinta dentro e messa in un angolo.
«Signore»
Sargas, che stava per entrare con lei in ascensore, si fermò. Le lanciò un'occhiata gelida, mimando con la bocca una parola.
Zitta.
Si voltò verso le stesse voci che stavano parlando poco prima, che in quel “signore” avevano inserito rispetto, timore e imbarazzo.
«Laurel, Blaze» disse il ragazzo.
Schiacciata sulla parete, Ophelia non poteva vedere i volti degli altri due, ma vedeva chiaramente la figura imponente di Sargas che era posizionato in modo tale da coprire quasi tutta l'entrata e, ovviamente, lei.
«Come sta?»
La voce maschile – Blaze, evidentemente – rivolse la domanda a Sargas in un tono referente che fece quasi ridere Ophelia. Trovava strano il porsi in quella maniera rispettosa verso il ragazzo, considerando anche il tono familiare con cui Claire e gli altri gli rivolgevano.
«A meraviglia» fece gelido il moro.
Ci fu un silenzio che Ophelia percepì come imbarazzato – perlomeno da parte dei due, le sembrava strana anche solo l'idea che Sargas si potesse trovare in qualche modo imbarazzato; non le sembrava proprio il tipo che si lasciasse mettere a disagio da qualcuno, anzi, era più il tipo che si divertiva a farlo con gli altri.
«Noi, ecco...» la donna iniziò a parlare con tono incerto, come che non sapesse cosa dire.
Probabilmente aveva paura che Sargas avesse sentito il discorso di poco prima, o almeno così ipotizzò Ophelia; da quel che aveva capito stavano protestando sui loro master – i loro capi, come Sargas? – ed essere colti in flagrante in quel modo non era esattamente l'ideale.
Fu però proprio Sargas a togliere i due dall'impiccio, ignorando totalmente il discorso che stavano facendo – forse non li aveva sentiti, ma Ophelia dubitava fosse così: se si trovava dietro di lei, evidentemente l'aveva notata da abbastanza tempo per ascoltare le stesse parole che aveva sentito lei.
Comunque fosse, il fatto di eliminare la loro attenzione dall'ascensore – o, meglio, da chi si trovava dentro l'ascensore – era più preminente rispetto al resto.
«Voi dovreste fare le scale» disse lapidario Sargas, terminando in qualche modo la frase iniziata da quella Laurel.
Un attimo di silenzio in cui Ophelia percepì quasi un lieve stupore.
«Emh, sì, certo» intervenne a quel punto l'uomo.
Ophelia non li vide, ma sentì i loro passi allontanarsi verso le scale e inoltrarsi in esse.
Sospirò.
Scampata per poco, pensò sollevata.
Quando vide Sargas voltarsi verso di lei, gli occhi che mandavano scintille, rabbrividì.
O forse no.
Il ragazzo si girò e premette un pulsante dell'ascensore a cui però Ophelia non fece caso, troppo impegnata com'era a evitare lo sguardo dell'altro. Un secondo dopo e l'ascensore partì.
Ora mi ammazza, pensò vaga.
«Sei forse uscita di testa?» l'apostrofò il moro con tono gelido. Un vaga sfumatura di rabbia trapelò anche se tentava di nasconderla.
Ophelia chinò il capo, in imbarazzo.
«Nessuno mi ha detto di non uscire dalla stanza» obiettò, prendendo più coraggio e alzando lo sguardo verso l'altro.
Incontrò i suoi occhi blu cupo che sembravano volessero farle del male.
«Credevo fosse abbastanza chiaro dai discorsi di ieri che nessuno dovesse venire a conoscenza della tua presenza qui. O forse sei troppo stupida per capire un concetto così semplice?» le disse sprezzante.
Ophelia sentì l'imbarazzo piombarle addosso, ma allo stesso tempo si infuriò a sentire quelle parole che le erano state rivolte in un modo così duro.
Presa dalla rabbia, lo guardò gelida.
«O forse siete voi che mancate assolutamente di tatto o qualsivoglia sentimento vagamente umano. Dopo giorni in cui mi sballottate da una parte all'altra, trattandomi come una bambola e parlando di me come se io non ci fossi, mi mollate in una stanza senza darmi uno straccio di spiegazione, senza dirmi nemmeno “per favore, Ophelia, rimani qui mentre noi non ci siamo, grazie”. Mi trattate come se io non abbia una testa mia con cui pensare!»
Sargas la guardò senza mutare il suo sguardo gelido. Poi spostò lo sguardo e la squadrò, notando solo in quel momento come fosse vestita. Sotto quegli occhi, Ophelia arrossì di nuovo in imbarazzo.
«Hai ragione» rispose il moro.
Eh?, pensò stupita Ophelia. Ecco, non era la risposta che si aspettava.
«Certo che ho ragione» rispose però, con uno sguardo di sufficienza, di nuovo dimentica dei suoi vestiti – o della loro mancanza, in una certa misura.
Come disse questa frase l'ascensore si fermò e si aprì su un corridoio uguale al precedente – ecco perché quel posto era un labirinto, era tutto così dannatamente uguale – sempre senza finestre.
«Vieni» disse Sargas, anticipandola e facendole strada nel corridoio.
Ophelia lo seguì in silenzio. Avrebbe voluto fare l'offesa e non seguirlo, ma sarebbe stato un comportamento infantile e per nulla utile.
Il ragazzo la portò all'interno di una stanza che si rivelò essere l'ufficio del giorno prima.
Tutto era perfettamente lindo e in ordine; Sargas, o chi per lui, doveva aver dato una sistemata per eliminare il sangue che aveva sparso per la stanza il giorno prima.
«Siediti pure, avviserò Claire che sei qui» le disse poi.
Ophelia, sempre in silenzio, si sedette sul medesimo divanetto del giorno prima.
Si guardò intorno, percependo quel silenzio con un vago fastidio – o meglio, imbarazzo. Non si trovava a suo agio in una stanza da sola con lui, non per chissà quale motivo, solo che non si trovava così in confidenza da poter assaporare un tranquillo silenzio tra di loro. Non lo guardava, ma lo sentiva scrivere qualcosa su un foglio.
«Hai ragione»
Sargas parlò all'improvviso, quasi spaventandola, ripetendo le stesse parole che aveva detto poco prima in ascensore. Lei si limitò a guardarlo; era seduto nella poltrona di fronte alla scrivania, non stava più scrivendo. Si era lasciato andare sullo schienale e aveva un'aria stanca; in quel momento le sembrò che fosse più vecchio di quello che il suo aspetto lasciava credere.
«Non ti abbiamo detto nulla, non ti ho detto nulla, proprio perché, come ti avevo già spiegato, siamo noi i primi a essere confusi su tutta questa storia» iniziò «Stiamo indagando e siamo ancora confusi, preferisco spiegarti le cose per bene piuttosto che dirti le cose a piccoli pezzi, magari confondendoti anche di più. Ma capisco anche che tutto questo silenzio da parte nostra ti dia fastidio – lo darebbe anche a me, in effetti. Cercherò di spiegarti il meglio che posso, anche se ho alcune domande da farti» disse Sargas.
Ophelia lo guardò.
«Non voglio fare la ragazzina, l'infantile, pestando i piedi perché voglio sapere le cose per un capriccio personale. Solo che credo mi siano dovute delle spiegazioni, dato che sono stata tirata dentro in questa storia senza la mia volontà» spiegò a sua volta.
«Che genere di domande?» aggiunse poi.
Sargas la guardò e Ophelia, incontrando i suoi occhi blu, considerò che facevano meno paura senza quel bianco accecante.
«Sul tuo passato»
La ragazza si immobilizzò.
«Perché?» fece gelida.
Odiava parlare del suo passato.
Non c'era nulla di interessante su di esso, e neanche di allegro. Non aveva avuto un'infanzia felice, l'orfanotrofio non era un posto che offriva il necessario amore di cui aveva bisogno un bambino. Non era mai riuscita a stringere dei veri legami in quel posto – come da nessun'altra parte, d'altronde – e aver passato gran parte della vita lì le ricordava in maniera dolorosa che era stata abbandonata da coloro che avrebbero dovuto prendersi cura di lei, amarla.
«Crediamo che chi ti sta cercando sappia qualcosa su di te che noi non sappiamo, qualcosa di sicuro relativo al tuo passato. Vorremmo avere delle risposte e possiamo averle solo da te» disse Sargas.
Ma Ophelia sapeva che il ragazzo aveva notato il suo cambiamento di tono; la guardava non più con indifferenza, ma neanche con preoccupazione. Era più uno sguardo confuso.
«Se è proprio necessario, risponderò a queste domande. In fondo, rientra anche nei miei interessi» concluse la bionda.
Sargas annuì semplicemente, senza prolungare ulteriormente l'argomento.
«Comunque sia, non credo che ora sia il momento adatto per queste domande. Forse è il caso che tu ti vesta» le disse, lanciandole uno sguardo con un vago sorrisetto.
Ophelia annuì.
Già, si stava dimenticando la sua mise.
Si tirò giù la felpa, cercando di coprirsi meglio – non che non fosse abbastanza lunga, ma era un vano tentativo per sentirsi più al sicuro.
«Aspetta qui finché non arriva Claire, poi ti porterà in stanza e magari andrai a mangiare qualcosa. È da ieri che sei a stomaco vuoto, no?»
Ophelia si morse un labbro. In effetti aveva una fame tremenda, ma per tutto il tempo aveva cercato di non pensarci – stava per essere beccata, le sue priorità erano all'improvviso cambiate.
«Va bene» acconsentì.
Mentre il silenzio riprendeva a regnare in quella stanza, Ophelia osservò Sargas alle prese con fogli vari che spostava da una parte all'altra dopo una vaga occhiata. In quel momento, le tornò in mente una cosa.
«Senti...» lo richiamò. Il moro alzò lo sguardo verso di lei, in attesa.
«Poco fa, prima che arrivassi tu – cioè, non so se tu ci fossi o meno, eri dietro di me e quindi non ti potevo vedere. Comunque sia, i due tizi che mi stavano per vedere, ho sentito che stavano parlando di alcuni morti. Che succede?» domandò.
Non era una cosa fondamentale per la sua esistenza, lo sapeva, ma l'argomento l'aveva incuriosita – e anch piuttosto preoccupata – e dato che era lì ed era già coinvolta in tutto quel mondo, tanto valeva sapere le cose fino in fondo, no?
«Non credo che questo sia qualcosa che ti riguardi. Ergo, puoi sopravvivere anche senza saperlo» fece Sargas, un sorriso sarcasticamente mellifluo che gli spuntava in volto.
Ophelia alzò gli occhi al cielo. Sapeva già quale sarebbe stata la risposta, eppure ci aveva provato comunque; e non era neanche intenzionata a lasciar perdere la cosa in quel modo.
«Beh, ormai sono già invischiata in tutto questo. Perché ora non posso sapere ciò che vi riguarda?» insistette.
Sargas, che aveva riportato gli occhi sui suoi documenti, rialzò lo sguardo un poco irritato.
«Non ti piace proprio farti gli affari tuoi, eh?» domandò.
«Allo stesso modo in cui a te piace avere dei segreti, suppongo» rispose a tono Ophelia.
Ora che stava meglio, pareva aver riacquisito il suo solito temperamento testardo e combattivo.
«E se te lo dicessi, cosa mi daresti in cambio?»
La domanda colse Ophelia impreparata. Sargas la guardava con uno strano sorriso sul volto, uno che non gli aveva mai visto; era colmo di insinuazioni e le venne da arrossire, ma si costrinse a rimanere indifferente.
«Uno schiaffo credo che potrebbe essere sufficiente, ma se insisti potrei dartene anche due» rispose.
Sargas scoppiò a ridere e Ophelia rimase più che spiazzata.
Vederlo così rilassato, per un momento, le fece chiedere perché non si sciogliesse di più anche negli altri momenti.
La sua risata ha un bel suono, si ritrovò a pensare, e le venne spontaneo sorridere a sua volta.
Credevo non fossi in grado di rispondermi una cosa del genere. Credevo di farti paura» disse Sargas all'improvviso.
Ophelia scrollò le spalle.
«Beh, quando sei serio e gelido me ne fai, lo devo ammettere. Ma ora mi sembri tranquillo, non mi spaventi» rispose semplicemente.
Sargas la fissò senza dire nulla, solo con un vago sorriso che ancora gli aleggiava sul volto.
«Comunque non credere che mi sia dimenticata della domanda che ti ho fatto. Allora, qual è la risposta?»
Sargas alzò gli occhi al cielo – un gesto che, insieme alla risata del momento prima, lo rese molto più umano agli occhi della bionda.
«Non so neanche perché te lo sto dicendo, o forse lo faccio solo perché credo sia il momento di darti qualche spiegazione» iniziò il moro, ma poi riprese a parlare «Ci sono state delle uccisioni tra le nostre file. E quando dico nostre, non intendo solo io e il mio gruppo. Non credo che tu lo sappia, ma io in pratica solo il master di questa gens, il capo in poche parole-»
«L'avevo immaginato» lo interruppe con tono ironico Ophelia. Lui la guardò infastidito dall'essere interrotto, ma riprese poi a parlare.
«Non sono l'unico master, ce ne sono altri due oltre a me. E questo, solo nella Fazione Bianca» spiegò Sargas.
Ophelia sentì come un campanello nella sua testa: la curiosità che emergeva in lei.
«Fazione Bianca?» ripeté.
Sargas la guardò con un'aria dubbiosa – forse non sapeva se fosse giusto dirglielo o meno, e Ophelia tacque, spaventata dal dire qualcosa che avrebbe potuto far cambiare idea al ragazzo.
«Non ci siamo solo noi» disse all'improvviso il moro. Evidentemente aveva deciso di spiegare per bene la situazione «C'è anche la Fazione Nera, che è diversa da noi per qualcosa che immagino tu possa facilmente intuire»
«Gli occhi» rispose all'implicita domanda. Sargas annuì.
«Esatto. Non sono dei nostri nemici, ma neanche propriamente degli amici. Chiamiamoli rivali, ecco. Ognuno si occupa delle proprie cose in privato, ci sono degli scambi di convenevoli ogni tanto, ma niente di che. Viviamo due vite separate» spiegò. La bionda annuì.
La spiegazione la prendeva così tanto che si dimenticò anche della fame che la stava tormentando; oltretutto, finalmente qualcuno si degnava di darle uno straccio di spiegazione dato che fino a quel momento si sentiva una cieca lasciata allo sbando in un'autostrada.
«Ci sono stati dei morti, ti dicevo. Non solo nella Fazione Bianca, ma anche in quella Nera»
«Quindi loro sono automaticamente esclusi dalla lista dei colpevoli» si intromise Ophelia.
L'altro annuì.
«Sì. Certo, sarebbe stato strano che fossero stati loro ad assassinare alcuni dei nostri – questo avrebbe significato guerra, sai, e non conviene a noi quanto a loro – però c'era sempre la minima possibilità, quindi abbiamo indagato e pare che loro siano nella nostra stessa situazione»
Ophelia annuì, ma poi si fece pensierosa.
«E allora chi potrebbe essere stato?»
Sargas si lasciò andare nella sua poltrona.
«C'è solo una possibilità che pare essere la più concreta, anche se allo stesso tempo è parecchio strana»
La bionda lo guardò curiosa.
«I Deviati»
Le venne automatico trattenere il respiro a quella parola.
I Deviati, in quel momento, erano per lei coloro che avevano distrutto la sua vita serena trascinandola in quel mondo che avrebbe volentieri continuato ad ignorare.
Pensò a Mathias, già nel dimenticatoio, e a come fosse mostruoso dietro la maschera da semplice ragazzo.
E pensare che ci ho anche fatto sesso, rabbrividì a quel pensiero e le venne un brivido di disgusto.
«Comunque sia non capisco una cosa: perché loro non potrebbero essere i colpevoli?»
La domanda le sorse quasi inaspettata.
«Perché sono deboli. Ci sono sempre stati sin da quando esistiamo anche noi. Ci sono state volte in cui hanno tentato di prendere il potere su di noi, ma siamo sempre stati più forti di loro e, proprio per questo, nessuno si è mai preso la briga di sterminarli completamente. Abbiamo sempre lasciato che esistessero, che vagassero per la terra senza un preciso scopo. Ora invece pare abbiano ucciso vari di noi, e questo è strano: non potrebbero avere la forza necessaria, o almeno questo era quello che si pensava fino a poco tempo fa» concluse Sargas.
Ophelia tacque pensierosa, poi però le venne in mente una cosa.
«Non per offendere i vostri valorosi guerrieri» iniziò, con una vaga aria sarcastica che le fece guadagnare un'occhiataccia dal moro «Però, ecco, i due che hanno tentato di rapirmi non mi sembravano così debolucci eh. Anche l'altro ragazzo – Beal, mi pare – con due di loro è stato costretto a scappare. O magari ricordo male io, però mi sembra proprio così» fece convinta.
Sargas la guardò sconvolto.
«Sono un idiota» sibilò.
Ophelia lo guardò confusa: che gli prendeva all'improvviso? Cosa aveva detto di così sconvolgente?
«Su questo potremmo discuterne a lungo, ma perché dici così?» chiese, corrugando le sopracciglia e creando una sottile ruga sulla fronte.
«I Deviati che hanno cercato di rapirti...» iniziò lui, gli occhi illuminati.
«Sì, quindi?»
«Loro non erano normali. Erano più potenti dei soliti Deviati. Dei tipi come loro avrebbero potuto uccidere alcuni dei nostri, ciò significa che le due cose sono collegate» spiegò rapido Sargas.
Mentre diceva quelle parole, Ophelia lo osservò prendere un biglietto candido dal disordine di quella scrivania e scrivergli qualcosa sopra in maniera frettolosa.
Lo osservava dubbiosa: in un momento del genere non le sembrava nemmeno lui.
«Quindi coloro che vogliono qualcosa da me potrebbero essere legati a coloro che stanno uccidendo alcuni come voi?» sintetizzò.
Sargas finì di scrivere sul bigliettino e abbandonò la penna sul tavolo.
«Esatto» disse solo.
Ophelia lo fissò mentre lo vedeva avvicinarsi allo specchio appeso alla parete, perfettamente pulito e con una cornice che sembrava fatta d'argento; guardò il ragazzo che sfiorava delicato la superficie riflettente e sobbalzò quando vide questa diventare liquida.
Il ragazzo lasciò andare il bigliettino nello specchio e questo lo assorbì in silenzio, per poi ritornare solido come prima.
Mi chiedo perché io mi stupisca ancora di cose del genere, pensò ironica.
«Che cosa hai appena fatto?» domandò poi.
Sargas sorrise.
«Ho mandato un messaggio agli altri master della mia Fazione. Se è davvero come penso e le cose sono legate – cosa che credo – dovrai andare a cambiarti: ti porterò dagli altri master»
Ophelia sospirò.
Forse avrei preferito continuare a rimanere nella mia ignoranza.

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