Il Fiore del Deserto

di Nightkey
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** UNO ***
Capitolo 2: *** Due ***
Capitolo 3: *** TRE ***
Capitolo 4: *** QUATTRO ***
Capitolo 5: *** CINQUE ***
Capitolo 6: *** SEI ***
Capitolo 7: *** Sette ***
Capitolo 8: *** OTTO ***
Capitolo 9: *** Nove ***



Capitolo 1
*** UNO ***


Picchiettavo le dita contro il banco. Un tic nervoso, un modo come un altro per tentare di scaricare l'ansia. Inutile dire quanto a poco servisse. Quel rumore ripetuto non riusciva a distogliere i miei pensieri da ciò che di lì a poco avrebbe dato una svolta decisiva alla mia vita. Mentalmente continuavo a ripassare le formule matematiche, i teoremi, le dimostrazioni. Ripercorrevo ogni singolo passaggio eseguito, ogni divisione e potenza. È devastante la consapevolezza di quanto peso possa avere un solo segno sbagliato. Devastante quanto irritante. Ricordavo esattamente i procedimenti e non riuscivo a smettere di ripercorrerli con la mente ancora e ancora, alla ricerca di un errore. Un piccolo sbaglio dettato dalla distrazione. Qualcosa che avrebbe posto un freno al mio sogno. 
Tirai un profondo respiro e strinsi le dita in un pugno, ponendo fine a quel picchiettio ripetuto con ritmo costante. Cercai di rassicurarmi, piuttosto sicura che quanto avessi svolto fosse giusto, almeno in buona parte. Passai in rassegna il volto degli altri ragazzi nella stanza, ognuno seduto dietro ad un banco singolo. I volti tesi e perlacei celavano malamente il loro stato d'animo. Sembravano in bilico tra l'apparire calmi e dar sfogo al loro tormento interiore.
Quell'attesa procedeva ormai da diversi estenuanti minuti. Il nervosismo era palpabile e aleggiava sui presenti, fra i banchi, come una vipera in attesa solo di assestare il colpo fatale. L'ansia toccava dei picchi allarmanti, collegando i pensieri di tutti in una sola domanda carica di speranze e di aspettative: "L'avrò superato?"
Nessuno ti prepara mai a questo momento. La preparazione riguarda il prima, riguarda il modo in cui dovrai affrontare il test d'ingresso, e riguarda il dopo, quando inizierà la vera e propria avventura nel nuovo mondo dell'Università. Ma che ne è del mentre? Pochi minuti che rappresentano un nulla nel lungo percorso della vita, ma comunque in grado di designare il tuo futuro. 
Udivo qualche mantra recitato sottovoce, in modo quasi impercettibile. "50, 50, 50". "È solo un esame, posso sempre rifarlo. È solo un esame". Si agitavano tutti, ognuno sulla propria sedia, eccezion fatta per la chioma castana alla mia sinistra. Era voltato a parlare con qualcuno seduto più in là. Quando posai gli occhi su di lui, si girò a sedere in modo corretto, come se fosse stato richiamato dal mio sguardo. I suoi lineamenti rilassati emanavano un senso di pace e tranquillità. Com'era possibile che fosse così sereno? La sua era spavalderia o semplice indifferenza? Non aveva importanza. Distolsi lo sguardo, infastidita dal modo in cui stava affrontando quell'attesa per me invece terribilmente snervante. 
Mi concentrai su un punto indefinito davanti a me, tentando invano di annullare il mondo intorno, quando sentii uno sguardo posarsi su di me. Avvertii un formicolio solleticarmi il collo e istintivamente portai una mano a coprire quell'esatto punto. Mi voltai riluttante verso la mia sinistra ancora una volta e scoprii il ragazzo di poco prima a scrutarmi dietro una spessa montatura squadrata. Un cipiglio gli corrugava la fronte questa volta, disegnando delle profonde rughe irregolari. Riuscivo a sentire le mie guance arrossarsi sempre più, imbarazzata. Il suo sguardo penetrante mi metteva a disagio, come sempre quando venivo osservata. Detestavo essere il centro d'interesse di occhi indiscreti, in particolar modo se si trattava di occhi sconosciuti ed estranei.
Mi lasciai cogliere dall'inquietudine, mentre continuava a fissarmi senza scrupoli. Forse avevo inavvertitamente strofinato troppo gli occhi e adesso il trucco aveva preso delle direzioni indesiderate? O magari la mia ansia da sé rendeva il mio volto patetico abbastanza da attirare l'attenzione?
Ma non mi trattenni troppo su quelle considerazioni, perché un mormorio si diffuse per l'aula, suggerendomi di voltarmi. Ed ecco lì un uomo sulla cinquantina dotato di grande presenza fisica, mentre varcava la soglia e si dirigeva a grandi passi verso una cattedra posta nel lato opposto della stanza. Il brusio cessò di colpo quando l'insegnante tirò fuori da una carpetta quella che aveva tutta l'aria di essere una lunga lista. Ci rivolse un sorriso fugace, forse con l'intento di alleggerire la situazione, ma la tensione non aveva mai abbandonato quei muri e adesso si faceva sentire più invadente che mai. 
Cominciai a mordermi il labbro inferiore, impaziente, mentre uno dopo l'altro gli altri ragazzi si alzavano e andavano incontro al proprio destino già scritto. Un sapore metallico e salato mi riempì la bocca. Diedi tregua al mio labbro, liberandolo dalla stretta dei miei denti. 
Avvertii un movimento alla mia sinistra, mentre il ragazzo occhialuto si alzava dalla sua sedia con un unico movimento fluido, nel sentir pronunciare il suo nome. Federico. Non riuscii a tenere a mente il cognome, sentendolo pronunciare per la prima volta in vita mia. ­­Camminava con fare lento, senza alcun accenno di fretta, curiosità o interesse. La sua aura di sfiancante tranquillità e compostezza continuò ad avvolgerlo, anche quando raccolse il foglio del suo compito dalla mano tesa dell'insegnante. Gli diede una rapida occhiata distratta, prima di poggiarlo con noncuranza sul suo banco. La sua espressione non tradiva nessuna emozione. Era difficile intuire se l'esito del test fosse positivo o meno. 
Sentii pronunciare a gran voce il mio nome e mi riscossi da quel torpore in cui ero rimasta intrappolata. Mi sollevai sulle gambe tremanti, procedendo incerta fra i banchi. Non riuscii a guardare il professore negli occhi. Temevo vi avrei scrutato la risposta alla mia domanda silenziosa prima ancora di avere fra le mani il mio compito un'ultima volta. Strinsi forte il foglio fra le mani e aspettai di essere tornata al mio posto prima di controllare il punteggio ottenuto. Mi scoprii a sperare con tutta me stessa che ce l'avessi fatta mentre voltavo il foglio. 
70. Ero dentro.
Un sorriso si fece largo sul mio volto, più ampio che mai. Un peso abbandonò le mie spalle e mi sentii finalmente libera e soddisfatta. Non riuscivo a contenere la mia euforia, avrei potuto perfino urlare di gioia. Ma cercai di mantenere un certo contegno, mentre l'insegnante distribuiva gli ultimi compiti. Scrutai la disperazione su alcuni volti, la delusione su altri e un'euforia molto simile alla mia probabilmente su altri ancora. 
Il professore si schiarì rumorosamente la voce, mentre la sua voce tornava a diffondersi per la stanza. «Avete un quarto d'ora per controllare i vostri errori. Dopodiché, per chiunque necessitasse di qualche chiarimento, io sono a vostra disposizione per ogni tipo di domanda.»
Chinai il volto sul foglio che tenevo fra le mani e ripercorsi ancora una volta quei passaggi che ormai avevo imparato a conoscere nei minimi dettagli. Perciò mi stupii quando scorsi un errore laddove credevo non ve ne fossero. Ero piuttosto sicura del procedimento che avevo eseguito e per quanto ci provassi, non riuscivo a scorgere il mio sbaglio. 
Feci per alzarmi, con l'intenzione di chiedere spiegazioni al professore, quando mi raggiunse una voce profonda e vellutata. «Hai sbagliato a derivare.»
Mi voltai in direzione della fonte. Era sempre il ragazzo occhialuto. Mi guardava con sguardo di sufficienza e mi sentii in qualche modo offesa. «No, sono abbastanza sicura della mia soluzione» risposi allora con più acidità di quanta ne avessi voluto far trapelare dalla mia voce. Inarcò un sopracciglio e mi sentii in dovere di dare una spiegazione. «Ho ripassato quei calcoli innumerevoli volte ed ogni volta portano sempre allo stesso risultato.»
Non disse nulla, raccolse semplicemente il suo test dal banco e lo affiancò al mio, sfidandomi a controllare. Confrontai i due esercizi e una profonda umiliazione rischiò di schiacciarmi sotto il suo soffocante peso quando mi resi conto dell'imprecisione dei miei calcoli. Avevo davvero sbagliato una derivata?! 
«Visto?» mi raggiunse ancora una volta la sua voce. Cominciavo a nutrire un serio fastidio nei confronti di quel suono che sottolineava la mia distrazione. 
Mormorai un «sì» a denti stretti mentre gli restituivo il test, scrutando solo allora il voto nel suo foglio. Un 94 svettava in cima alla lunga serie di esercizi, imponente nella sua importanza. Provai un impeto di invidia mista ad ammirazione. 
Allungò ancora una volta il collo per sbirciare il mio compito. «Questo poi! Non puoi davvero aver fatto un errore del genere.» Lo sentii trattenere a stento una risata.
Seguii il suo sguardo e mi accorsi della banalità dell'errore a cui si riferiva. Arrossii ancora per un nuovo tipo di imbarazzo del tutto diverso dal primo. 
«E qui perché non hai semplicemente...?» Voltai di scatto il compito, impedendogli di studiarlo ulteriormente. Era abbastanza umiliante già così.
Puntai gli occhi nei suoi, sperando che la mia espressione fosse tanto gelida quanto categorica. «Nessuno ha richiesto il tuo punto di vista mi sembra, o sbaglio?» Diedi un tono volutamente ironico sul finale, desiderando vedere disegnarsi uno sguardo colpevole sul suo volto. Ma lui si limitò a sorridermi con fare beffardo, neanche minimamente scalfito dal mio modo di fare. 
Entrambi ritornammo ad ignorarci vicendevolmente, ascoltando meccanicamente le spiegazioni del professore. Quella breve conversazione mi aveva turbata, troncando la mia euforia iniziale. Avevo commesso degli errori, era vero, ma grazie a quel punteggio avrei avuto la possibilità di colmare le mie lacune e di migliorare giorno dopo giorno. Un sorriso riaffiorò sulle mie labbra ancora una volta, scacciando via i dubbi. Quando fummo congedati, raccolsi la mia borsa da terra e corsi via. Ancora due settimane e avrei percorso quei corridoi sempre più spesso.
Una volta fuori, chiusi gli occhi e lasciai che il vento mi cullasse, tornando a respirare nuovamente da quando avevo smesso di farlo entrando in quella struttura.

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Capitolo 2
*** Due ***


Vagavo fra i corridoi del Politecnico di Nastrige già da ben quindici minuti abbondanti. Non sapevo esattamente dove mi trovassi, né come potessi fare a tornare sui miei passi. Ebbi più volte l'impressione di girare in tondo, senza allontanarmi mai davvero. Le pareti si ripetevano tutte uguali e la loro monotonia non giovava certo a mio favore.
Studiai ancora una volta la foto sul mio cellulare. L'avevo scattata quella stessa mattina, onde evitare di ritrovarmi esattamente in quella situazione disastrosa. Era la cartina dell'istituto che avevo trovato sulla parete accanto alla segreteria alunni. Dei tondini rossi indicavano il nome delle aule, ma servivano a ben poco visto il dedalo di corridoi in cui ero rimasta intrappolata. 
Mi maledissi per non aver dato ascolto al consiglio di mio cugino: "Esplora la struttura prima dell'inizio delle lezioni, così ti sarà più facile orientarti." Avrei dovuto farlo finché ne avessi avuto la possibilità. Avrei davvero, davvero dovuto farlo. E lo avrei fatto, se il trasferimento e tutto ciò che un cambio di città comporta non mi avessero trattenuta così tanto. Avevo rimandato l'esplorazione così tante volte che alla fine vi avevo semplicemente rinunciato. E questo era il risultato. Un pessimo, frustante risultato.
Il Politecnico era una struttura dalle dimensioni mostruose che occupava una buona porzione della città. Nulla in confronto alle altre Università, che invece si espandevano perlopiù in piccole aree del centro storico o in periferia. Le sue dimensioni imponenti erano facilmente intuibili dall'esterno, ma ciò che nascondeva all'interno era tutt'altra storia. 
La situazione era piuttosto snervante già così. E, come se non fosse bastato, non vi era nessuno che percorreva quei corridoi. Nessuno a cui poter chiedere informazioni. Nessuno che mi potesse guidare fuori da quel labirinto. 
Non andava bene, non andava affatto bene. Come primo giorno si stava dimostrando una catastrofe totale. Non era così che avevo immaginato quella prima ora della mia nuova vita. Non sarebbe dovuta andare così.
Quando vidi per circa la settima volta lo stesso calendario appeso alla parete, sentii la mia fiducia venir meno. Crollai a sedere a terra, in un angolo non troppo appartato. Fissai i numeri in grassetto sul foglio di fronte. Numeri di giorni vecchi di qualche mese. Una devastante tristezza si fece largo nella mia mente, invadente, indesiderata. Ma la lasciai comunque fare.
Mi portai le ginocchia al petto e nascosi il viso fra le mani. Sospirai rumorosamente e non ci impiegai molto, prima di ritrovarmi a fantasticare su cosa avrebbe potuto rendere peggiore quell'inizio. Probabilmente non sarei mai riuscita a venir fuori da quella situazione da sola. Non avrei trovato la mia aula. Avrei saltato la mia prima lezione. E se anche ci fossi riuscita alla fine, avrei finito con l'arrivare comunque in ritardo. Mi sarei ritrovata a strisciare fra i banchi in cerca di un posto libero, sotto gli sguardi di tutti. E i professori poi... Un brivido mi attraversò la schiena da capo a piedi. Chissà se anche loro odiavano i ritardatari quanto gli insegnanti del Liceo.
E se l'unico posto fosse stato in fondo all'aula? Non ero una tipa da primo banco, ma sedermi lontano non avrebbe favorito la mia vista e sarei finita col riuscire a copiare poco o niente dalla lavagna. Dopotutto le aule universitarie non sono esattamente come quelle del Liceo.
Tutti questi confronti col Liceo non mi avrebbero aiutato. Sentivo solo farsi strada in me un forte senso di nostalgia che non aiutava di certo. E il delirio si stava impossessando di me. 
Dovevo darmi una smossa.
Mancavano ancora quasi dieci minuti all'inizio della lezione e se mi fossi sbrigata, con un po' di fortuna, avrei potuto evitare quella catastrofe incombente che percepivo già come reale. Che mi era preso? Da quando in qua mi davo per vinta così presto? 
Mi diedi una spinta con le braccia e mi sollevai sulle punte dei piedi. Alzai la testa di scatto, fin troppo velocemente, e finii con l'urtare qualcosa di freddo e duro. Mi lasciai sfuggire un ahia a denti stretti e mi massaggiai la tempia che aveva subito l'urto.
Sollevando lo sguardo, incontrai due occhi sorpresi, quasi divertiti. «Ehi, bel colpo di testa» disse allora, ammiccando. Era un ragazzo alto e la sua pelle portava ancora il colore dell'abbronzatura estiva, segno di lunghe giornate trascorse al mare. Si stava massaggiando una tempia esattamente come me. 
«Oddio, scusami! Non volevo, non mi ero accorta di te.» Chinai la testa, frustata. Ecco cosa poteva andare peggio: dare testate a gente sconosciuta. Scossi impercettibilmente il capo. Mai porsi delle domande se non si vogliono conoscere le risposte.
«Fa', niente. Tu stai bene?» Quando tornai a guardarlo, aveva la testa inclinata, nel tentativo di scorgere la mia espressione. Il suo sorriso era tirato e sembrava essere davvero preoccupato per me.
Mi sforzai di ridere, sperando che non intuisse la falsità di quel suono. «Sì, il dolore è già passato.»
«Non mi riferivo a quello.» Il suo sguardo si fece più serio.
Lo guardai confusa, non sapendo cosa volesse sapere di preciso. 
«Poco fa non mi hai visto perché avevi il volto coperto dalle mani.» Vedendo che non accennavo a rispondere, continuò: «Mi sono solo avvicinato per assicurarmi che andasse tutto bene.» Due fossette presero vita agli angoli del sua bocca, conferendogli un aspetto giovane, più di quanto non fosse in realtà. Distolsi lo sguardo, imbarazzata e lusingata da quelle attenzioni.
«Sto bene, è solo che...» piegai le labbra in una smorfia. «Ecco, mi sono persa.»
Ridacchiò. Ma non fu una risata di derisione, quanto più di solidarietà. «Primo anno, eh?»
«Già.»
«Tranquilla, ti accompagno io.»
I miei occhi si illuminarono, rinnovati da una gioia inattesa. «Davvero?» Il mio sorriso riconoscente doveva essere eccessivo, perché rise ancora una volta. Mi stavo abituando a quel suono spensierato.
Iniziò a camminare e gli andai dietro, discostandomi di poco da lui. «Sono del terzo anno. Conosco questi corridoi quanto le tasche dei miei jeans.» Poi, rivolgendomi uno sguardo furtivo: «E ti assicuro che quelle le conosco davvero bene».
Gli sorrisi grata ancora una volta. Se fossi riuscita ad arrivare in tempo e a trovare un buon posto, avrei dovuto ringraziare solo lui.
«Io sono Dario, comunque.» Mi allungò la mano e la strinsi leggermente.
«Rebecca. Ma puoi chiamarmi Becks.»
Accelerai il passo, cercando invano di adattarlo al suo. Sembrò accorgersene, perché rallentò di colpo la sua andatura. «Come fai a sapere dove devo andare?»
«Primo giorno, primo anno. Sarete tutti nell'aula A.» Si sistemò la tracolla sulla spalla e si volse a guardarmi. «Ho indovinato?»
«Be', sì.» Feci spallucce e mi sentii rassicurata dalla sua sicurezza.
«Ogni anno è sempre la stessa storia. Fin troppo prevedibile.» Ridacchiai insieme a lui e per tutto il resto del tragitto restammo in silenzio, ognuno preso dai propri pensieri. 
Ne approfittai per scrutarlo davvero per la prima volta. I capelli del colore del grano erano lunghi e gli sfioravano appena le spalle. Arruffati com'erano, sembrava che si fosse appena alzato dal letto e non si fosse nemmeno preoccupato di guardarsi allo specchio e sistemarli. Niente male come primo risveglio. Di certo io non avrei potuto contare sullo stesso effetto della mia negligenza.
I lineamenti morbidi e delicati gli conferivano un aspetto affascinante e tenero al tempo stesso. Era bello, di una bellezza semplice e quotidiana. 
Distolsi lo sguardo e guardai dritto davanti a me. Una A in rosso spiccava in fondo al corridoio, posta esattamente sopra una porta larga e massiccia. Qualche ragazzo occupava ancora l'entrata, attendendo l'arrivo dell'insegnante prima di prendere posto. Chiacchieravano animatamente e avevano tutta l'aria di conoscersi da tempo. Mi ricordai che lì dentro nessuno mi conosceva, nessuno avrebbe saputo chi fossi. Avrei dovuto fare il possibile per integrarmi.
«Dario!» Una voce lontana ruppe il silenzio, richiamando la nostra attenzione. Ci voltammo contemporaneamente in direzione della sorgente. 
Quando vidi di chi si trattava, capii perché quel suono non mi era apparso poi così nuovo. Un ragazzo dai folti ricci castani ci stava venendo incontro, scrutandoci dietro la montatura degli occhiali. Quando ci fu vicino, avevamo ormai raggiunto l'ingresso dell'aula.
«Federico!» Dario gli batté una pacca sulle spalle. «Ehi, amico, che fine avevi fatto?»
«Ho avuto un contrattempo e...» Spostò lo sguardo su di me, accorgendosi per la prima volta della mia presenza. «Ciao.»
Gli sorrisi appena. Sarei voluta scomparire. Se l'amico gli avesse detto che mi fossi persa, avrebbe trovato un nuovo motivo per prendersi gioco di me, confermando l'idea che si era fatto della sottoscritta.
Fu proprio Dario a riprendere la parola. «Voi due vi conoscete?» Trapelava una certa meraviglia dal suo tono.
«Più o meno» rispose l'altro. Quante possibilità c'erano che capitasse anche lui nel mio corso? Evidentemente troppe. «Abbiamo fatto il test d'ingresso insieme, ma non credo che lei si ricordi di me.» Rise beffardo e mi trattenni dal lanciargli un'occhiata gelida. Come se avessi potuto dimenticare il suo tono di presunzione!
«Ottimo. Vi presento ufficialmente allora: Federico, lei è Rebecca. Rebecca, Federico.» Accompagnò le presentazioni con dei gesti alternati delle mani, come si è soliti fare. Quella situazione sembrava divertirlo per qualche motivo a me sconosciuto. Magari erano fin troppe le ragazze che aveva conosciuto e che il suo amico aveva sfacciatamente fatto irritare. 
Mi ero trattenuta fin troppo. «Io devo andare adesso.» Sarei dovuta entrare a prendere posto, altrimenti l'aiuto di Dario sarebbe servito a ben poco. Mi rivolsi a lui, cercando di far trapelare la mia gratitudine dal mio sguardo. «Grazie ancora» dissi.
«Non c'è di che.» Un sorriso sincero coinvolse anche i suoi occhi. «Buona prima lezione. Ci si vede in giro.» Agitò la mano in segno di saluto ed io risposi con un «ciao», senza sapere esattamente se fosse rivolto solo a lui o anche all'amico. 
Mi voltai e mentre varcavo la soglia sentii anche Federico salutare Dario. Lasciai che la porta si chiudesse alle mie spalle, non avendo alcuna intenzione di aspettarlo. Camminando lungo il corridoio vuoto fra i banchi, sentii poco dopo la porta aprirsi e chiudersi nuovamente mentre anche lui entrava nell'aula. 
Scrutai un posto libero in terza fila. Niente male.
Quando presi posto, due ragazze che occupavano i posti alla mia sinistra si voltarono ad osservarmi, incuriosite dal mio arrivo. 
«Ciao» dissi loro, cercando di non far trapelare il mio nervosismo.
Una delle due, quella con i capelli rossi e una spruzzata di lentiggini sulle guance e il naso, batté velocemente gli occhi, evidentemente sorpresa dal mio saluto. 
Fu l'altra a rispondere così. «Ciao a te.» Un sorriso luminoso a trentadue denti risaltò sulla sua pelle color cannella. «Io sono Cristina. E lei è Eleonora» disse poi indicando l'amica.
Risposi al sorriso, lieta della sua allegria. «Becks. Piacere di conoscervi.»
«Il piacere è nostro.» Questa volta fu Eleonora a rispondere. Fui lieta di notare che l'espressione sorpresa avesse abbandonato il suo volto. Quella sorpresa sarebbe potuta essere in realtà semplicemente un impeto di fastidio. E per quel primo giorno avrei preferito essere vista di buon occhio, piuttosto che inimicarmi i miei nuovi compagni di corso.
«Siamo davvero in molti» osservò Cristina. Per la prima volta mi guardai intorno, rimanendo sopraffatta dalla veridicità di quelle parole. Non potei fare altro che concordare. File intere di banchi erano stracolme di ragazzi, tutti intenti a chiacchierare e a tirar fuori dagli zaini o dalle borse il necessario per la lezione. Ero colpita, affascinata e terrorizzata dal grande numero di persone presenti. Non ero abituata a stare in una classe con così tanti miei coetanei. Era tutto così nuovo e sconosciuto.
Mi resi conto di essere elettrizzata da quella novità. Lì dentro, per quanto caratterialmente e fisicamente diversi, tutti condividevamo gli stessi sogni e gli stessi obiettivi. Mi lasciai travolgere dall'euforia e da un pizzico di... Cos'era? Commozione? 
Non vedevo l'ora di cominciare. Ero impaziente ed emozionata, più di quanto dessi a vedere. Ancora pochi istanti e la mia avventura avrebbe avuto inizio. E in fin dei conti, non era affatto male come inizio.

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Capitolo 3
*** TRE ***


«Avete idea di quanto mi toccherà correre per smaltire questo panino?» Eleonora accompagnò quelle parole con un mugolio di rassegnazione. Teneva fra le mani, sospeso all'altezza dei suoi occhi, un panino al pollo, di quelli serviti con tanto di lattuga, salse e tutti gli aromi del mondo. Aveva un'aria combattuta. «Forse dovrei iniziare anche con gli addominali. Ho sentito dire che quelli aiutano.» Era palese la sua lotta interiore: panino sì, panino no?
«Avresti anche potuto prendere un'insalata» le feci notare mentre addentavo il mio cheeseburger con bacon. 
Inarcò un sopracciglio con disappunto. Poi assunse un'aria corrucciata e scosse la testa con vigore. «No, sarebbe un controsenso.»
La guardai accigliata. «Cosa sarebbe un controsenso?»
«Be', venire al McDonald's e ordinare qualcosa che non sia un hamburger o delle patatine fritte.» Indicò il cibo sul nostro tavolo. Poi, spostando la mano ad indicare qualcosa fuori dal locale, continuò: «Se avessi dovuto prendere un'insalata, sarei andata nell'insalateria a mezzo chilometro da qui.»
«Bene, allora taci e mangia» ribadì Cristina facendo roteare gli occhi in modo plateale. Detestava quando Elle si soffermava così tanto sulle calorie dei cibi. 
Osservando la sua espressione, mi lasciai sfuggire una risata che coinvolse anche loro e finalmente Eleonora si decise ad addentare il suo panino ancora intatto. Non appena il pollo croccante e speziato entrò in contatto con le sue papille gustative, chiuse gli occhi per un'estasi esagerata e si sciolse sul divanetto su cui era seduta. Sembrò aver dimenticato all'improvviso quante calorie stesse divorando. Tipico di Elle.
Sentii un risucchio sordo e mi voltai a guardare Cris che teneva la cannuccia della Coca-Cola ancora fra le labbra. «Sei già al secondo panino?!» Mi guardava con gli occhi strabuzzati, sbalordita. «Non capirò mai come diamine tu faccia a mangiare così tanto e a non mettere mai peso, sul serio. Sei un bel grande mistero.»
Sollevai la spalle mentre inghiottivo il mio boccone. «Forse è arrivato il momento in cui dovrei svelarvi il mio grande segreto.» Sorseggiai la mia bibita e tornai a guardarla. «Sai? Sono una creatura disumana e immortale.» Enfatizzai volutamente quella parola. «Mangio, ma il cibo non mi serve davvero, quindi il mio organismo non lo assorbe nemmeno un po'.»
«Ah-ah. Tipo i vampiri?» 
«Tipo i vampiri» sentenziai facendole eco.
Eleonora, seduta di fronte a me, dall'altra parte del tavolo, aveva le braccia incrociate sul petto e mi osservava con sguardo truce. «Ti odio infinitamente tanto, sappilo.» Sbuffò. «Quelle calorie sono le mie nemiche giurate. E tu parteggi per il nemico.»
«Concordo con Elle» riprese la parola Cristina. «Ti odio anch'io.»
Mi portai una mano al cuore, con un atteggiamento da prima attrice. «Così mi ferite, ragazze.» Pompai il tono di voce. «Come potrei mai riconquistare la vostra simpatia?»
«Be', tanto per cominciare...» Cristina allungò un braccio e raggiunse il mio cartone mezzo vuoto di patatine. «...queste adesso le mangio io.»
«Ma sono mie!»
«Erano tue.» La guardai sbigottita. «Non avere quella faccia. Sei stata tu a chiedere come poter riconquistare la nostra simpatia.» Face spallucce e sgranocchiò una patatina dietro l'altra.
«Ma io ho ancora fame» piagnucolai come una bambina che fa i capricci.
Eleonora si allungò sul tavolo, il mento appoggiato sulle mani incrociate. «Ordinane un'altra porzione» mi sfidò.
Dopo sei interminabili ore di lezione, il mio stomaco reclamava più attenzioni del dovuto. Accolsi la sfida senza pensarci troppo su. Avevo bisogno di una rifornita riserva energetica prima di rituffarmi a capofitto sui libri. Raccolsi il portafoglio da una tasca interna della mia borsa e mi alzai per andare ad aggiungermi alla coda di persone che impegnava la cassa. Mi voltai in tempo per vedere Eleonora sollevare le braccia al cielo, esasperata, mentre mimava un «Ma dai! Sul serio?!».
Sorrisi fra me e me. Da quel primo incontro all'Università, ci eravamo viste sempre più di frequente. Pranzavamo o cenavamo perlopiù insieme ormai da circa un mese, come quel giorno. Non era poi così difficile coordinare i nostri orari, visto che frequentavamo molte volte le stesse lezioni. I nostri momenti di ritrovo erano una piacevole costante, qualcosa su cui poter contare per alleviare lo stress dovuto allo studio. 
Finalmente ricevetti la mia nuova dose di patatine con tanto di ketchup e maionese e tornai al mio posto soddisfatta. Eleonora guardava oltre la vetrina del locale con sguardo afflitto e imbronciato. Quando mi sedetti, sembrò riscuotersi. «Dobbiamo proprio fare oggi quegli esercizi?» Tornò a guardarci, oscillando con lo sguardo dall'una all'altra. «Guardate che bella giornata c'è oggi. Il sole mi sta implorando di raggiungerlo. Non vedete?»
«Tu lo vedi, Becks?» mi chiese allora Cristina.
Scrollai le spalle. «No, per nulla.» Ridacchiammo, prima che delle espressioni rassegnate increspassero i nostri volti. Elle aveva ragione. Era una giornata calda e luminosa, come non se ne vedevano da parecchio. 
«Forse sta iniziando ad implorare anche me» riprese Cristina. Avremmo preferito tutte quante restare fuori a godere di quella temperatura, ma... «Ma abbiamo un mucchio di roba da consegnare ai tutorati, ahimè» concluse poi, anticipando i miei pensieri.
Un'iniziativa che apprezzavo molto del Politecnico di Nastrige erano proprio i tutorati. Una volta a settimana ci venivano assegnati degli esercizi che noi avremmo potuto svolgere e successivamente consegnare affinché venissero corretti. Erano ottimi ed efficaci per colmare le nostre lacune, chiarire le nostre perplessità e prepararci per i futuri esami. Tuttavia in giornate come quella avremmo volentieri fatto a meno di svolgere ulteriori esercizi.
Eleonora raccolse i lunghi capelli rosso mogano in uno chignon approssimativo e iniziò a tirare fuori quaderni e penne, sparpagliandoli per tutto il tavolo. La imitai, e lo stesso fece Cristina a malincuore. 
«Con cosa cominciamo?» proruppi.
Cris tamburellò le dita sul tavolo, meditando. «Chimica? Mi sembra sia la più urgente.»
«Vada per chimica.»
«E poi, se dovessimo avere dei dubbi,» Sollevammo lo sguardo su Eleonora che mostrava un sorriso sghembo. «Becks potrebbe sempre chiedere a Dario di darci una mano» esordì allora.
Sentii il sangue affluire alle mie guance fin troppo velocemente. Bevvi un lungo sorso di Coca-Cola prima di rispondere. «No, non se ne parla.» Più di una volta Dario si era offerto di aiutarmi con lo studio, ma avevo sempre declinato gentilmente l'offerta. Non che non ne avessi bisogno in certi casi, ma la sua presenza non avrebbe fatto altro che distrarmi. E di certo questo non mi avrebbe aiutata per nulla. Preferivo incontrarlo fuori dagli orari di studio, come ad esempio fra una lezione e l'altra. 
I primi tempi ci eravamo incontrati spesso per caso nei corridoi e avevamo iniziato a scambiare brevi battute. Fin quando quegli incontri non erano diventati sempre più ricorrenti, quotidiani.
«Suvvia! Dovreste uscire voi due!» Continuava a fissarmi con i suoi occhioni verdi.
«Cris, hai una copia in più degli esercizi di mercoledì?» cambiai discorso, sperando che anche Eleonora seguisse i miei passi. Raccolsi il foglio che Cristina mi porgeva ed impugnai la penna, sul punto di trascrivere l'intestazione.
«Sei stracotta di lui, è chiaro.» Continuava a sorridere in modo fastidioso.
La guardai fisso negli occhi. «No, non è vero. Siamo solo amici.»
Agitò la mano. «Pff, è quello che dicono tutti.» 
«Forse tutti lo dicono perché lo pensano sul serio. Non ti è mai saltato in mente?»
«Non ti credo.» Si avvicinò di più, osservandomi con sguardo indagatore. «Allora forse è per il suo amico?»
Rimasi perplessa. «Quale amico?»
«Be', Federico, è ovvio. Chi altri?»
Quel nome solleticò la curiosità di Cristina, che fino a quel momento era rimasta in disparte. «Che c'entra Federico?» Mi guardò come se si aspettasse delle confessioni che non sarebbero mai arrivate. «Mi sono persa qualcosa?»
«Non guardare me.» Misi avanti i palmi delle mani, per difendermi da un'accusa sottintesa. «Sembra proprio che qui sia Elle quella a saperne più di tutte.»
«Davvero non hai mai preso in considerazione Federico?» esclamò Eleonora, incredula.
«Perché mai avrei dovuto? I nostri rapporti sono tutt'altro che buoni.» Scrollai le spalle. Ogni volta che incontravo Dario in sua compagnia, sembrava cogliere l'occasione per schernirmi con battute di scarso gusto e decisamente poco piacevoli.
«Sarà. Ma l'ho sorpreso un paio di volte a fissarti a lezione.» Strizzò gli occhi, nella speranza che la assecondassi.
«Ti sarai sbagliata.» Sbuffai. «Hai una fervida immaginazione e su questo non si discute.»
«Ma se non mi fossi sbagliata...» Sollevai una mano, stoppandola. 
«Non puoi semplicemente ignorare il fatto che sia così morbosamente affascinante» concluse Cristina al suo posto, con aria trasognante.
«Ehi, pensavo di poter almeno contare sul tuo appoggio!» la rimproverai con scarsa convinzione.
Fece spallucce. «Sorry.»
«Piuttosto,» ripresi, passando ad un argomento decisamente più importante. «Stasera a che ora ci vediamo?» Ecco, questo le avrebbe distratte per un po'.
«I giochi cominceranno alle 21.30. Credo che se vogliamo partecipare, dovremmo essere lì già un po' prima» cominciò a dire Cristina.
Fu Eleonora a concludere. «Passiamo a prenderti per le 20 meno un quarto. Che dici?»
Abitavano nello stesso appartamento insieme ad altre due ragazze del quinto anno e il loro condominio distava solo due traverse dal mio. Spesso passavano a prendermi con la macchina di Elle quando dovevamo uscire di sera. Quell'abitacolo era particolarmente invitante e confortevole.
«Va benissimo.»  Stabilito ciò, demmo un taglio alle chiacchiere e ci immergemmo nello studio pomeridiano. 

A Nastrige si potevano contare numerose piazze, alcune minuscole, altre di notevole estensione. La più grande e famosa era senza dubbio Piazza del Giglio, dove si affacciava la maestosa Cattedrale della città. Quella sera le sue guglie svettavano nel cielo notturno terso e limpido. Uno spicchio di luna era ben visibile e si rifletteva sui mosaici delle finestre, creando una danza di luci e di colori. 
La piazza era gremita di gente, universitari e non. Ogni metro era addobbato per la festa d'inaugurazione dell'anno accademico con vari striscioni e stand. Erano stati perfino montati dei palchi preceduti da diverse file di sedie, sulle quali era possibile accomodarsi per assistere alle gare. In molti erano ancora impegnati ad aggiungere dei ritocchi finali, incerti sui risultati ottenuti. 
Ogni stand era adibito ad un diverso gioco culturale, sfide con in palio piccoli premi. 
Qua e là erano sparse delle casse. Da alcune proveniva una musica leggera, da sottofondo, mentre da altre irrompeva la voce degli organizzatori che invogliavano a prendere parte ai giochi, utilizzando le loro doti di buon oratori.
Eleonora mi posò una mano sul braccio, richiamando la mia attenzione. «Becks, io e Cris andiamo a dare i nomi di tutte e tre al capannello di organizzazione» disse indicando un capannone in fondo, sulla destra.
«Vado a prendere posto allora» le sorrisi in modo affabile e mi allontanai, perdendole presto di vista. Mi feci spazio nella calca, fin quando non scorsi uno stand di logica, occupato ancora da pochi ragazzi. Tutte e tre eravamo delle grandi amanti dei puzzle, dei rompicapi e, più in generale, di tutti quei giochini in cui occorreva inventare, trovare o immaginare la via più semplice per giungere alla conclusione.
Sarebbe andato più che bene per noi. Mi avvicinai al palco, prendendo posto in una delle sedie già predisposte, osservando i giocatori che si sarebbero rivelati essere i nostri avversari. Ero così presa ad osservare con curiosità gli organizzatori che discutevano fra di loro sul palco, che non mi accorsi nemmeno che il posto dietro di me fosse stato occupato.
«Ciao» mi raggiunse una voce profonda e allegra alle mie spalle. Sussultai sulla sedia, sorpresa e spaurita.
«Ma che...» Mi voltai ed incontrai un Federico gioioso, fin troppo divertito dalla mia reazione. «Non puoi sbucare dal nulla alle spalle della gente!» 
La mascella volitiva si contrasse mentre tratteneva una risata. Giocò con il sottile strato di barba che gli increspava il mento. «So di avere molto più fascino di un fantasma, ma non credevo che potessimo avere lo stesso effetto sulle ragazze.» 
Lo guardai corrucciata, mentre tornavo a rivolgergli le spalle. «Che ci fai qui?»
«Quanta aggressività.» Digrignò i denti, imitando il ruggito di un leone. «Ho bisogno di te.»
«L'Apocalisse è alle porte o cos'altro? Perché non riesco a trovare un motivo per cui tu debba avere bisogno di me.»
Sbuffò sonoramente. «Ehi, peperino, questa situazione non fa impazzire nemmeno me. Quindi adesso fa' silenzio e stammi a sentire.» Ecco che tornava il tono categorico. Sentii le sue mani poggiarsi sulle mie spalle, mentre con i pollici disegnava dei cerchi sulle scapole. Dei brividi si irraggiarono dai punti in cui le sue mani toccavano la mia pelle a tutto il corpo, come delle leggere scariche elettriche. Avvicinò il suo volto al mio, la guancia quasi a sfiorare la mia. Riuscivo a sentirne la barba ispida che mi graffiava col tuo tocco leggero. «Dovevo partecipare a questo gioco con Dario, ma lui non può più venire.» Un momento di pausa, poi continuò: «Ha delegato te. Ha detto che saresti stata un'ottima compagna.»
Sentii sorgere in me un impeto di furia. Dario sapeva quanto poco andassi d'accordo col suo amico, quanto detestassi il modo in cui mi guardava. Perché allora mi aveva messa in questa situazione? Mi voltai a guardare Federico mentre rispondevo. «Mi spiace, ma sono già impegnata. Le mie amiche stanno...»
Puntò i suoi occhi scuri nei miei. «È un gioco di coppia e voi siete in tre.» Aprii bocca per controbattere, sapendo dove voleva arrivare, ma mi precedette. «Se tu giocassi con me, non credo che per loro sarebbe un problema.» 
Per una frazione di secondo mi lasciai impietosire dal suo sguardo di silenziosa supplica. Un tempo non abbastanza corto perché lui non se ne accorgesse. «Vado a iscriverci» disse così alzandosi di colpo e avanzando a passo spedito verso il lato sinistro del palco.
«Cosa? Aspetta, io...» farfugliai prima di rendermi conto che con quel baccano non mi avrebbe sentita. Era già troppo lontano. E anche se avesse sentito, avrebbe comunque fatto di testa sua.
Era inutile.
Eravamo solo io e lui. 

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Capitolo 4
*** QUATTRO ***


Rimasi paralizzata sul posto, in piedi, con un braccio teso nella sua direzione. Come se con quel semplice gesto avessi potuto raggiungerlo, afferrarlo, impedirgli di compiere ciò che aveva appena detto. E probabilmente già fatto. Gli alberi e le sedie intorno divennero una massa indistinta, mentre i miei occhi riuscivano a mettere a fuoco solo la sagoma ormai lontana di Federico. Lo vedevo parlare con qualcuno sotto un tendone, chinato in avanti per riuscire a farsi sentire distintamente. Mi assillava il pensiero, la consapevolezza che quella serata fosse ormai stata rovinata da quello sconvolgimento inatteso. L'idea di dover gareggiare con lui mi provocava un fastidio viscerale e tremendamente sconfortante. Ero andata ai giochi per gareggiare insieme alle ragazze. Eravamo un gruppo vincente noi. Con Federico i miei piani di serata divertente sarebbero definitivamente andati in fumo. Non osavo immaginare quali altri modi avrebbe trovato per farsi beffe di me. «Terra chiama Rebecca.» Quelle parole mi giunsero distanti e mi accorsi per la prima volta della mano sventolata davanti ai miei occhi. «Becks, ci sei?» Cris mi afferrò per le spalle e mi fece voltare verso di lei. Incontrai i suoi occhi di cioccolato fuso, lievemente inquieti per la mia reazione. «Sì, scusa, ero distratta.» Mi volsi a guardare Eleonora al suo fianco. Un cipiglio le increspava la fronte e mi scrutò attentamente. «Tutto bene? Sembri...» Cosa? «infuriata.» Be', non aveva tutti i torti. «Tutto bene?» mi chiese allora Cristina. No che non andava bene. Dario mi aveva messa in un bel casino. Avrei dovuto gareggiare con il più irritante dei suoi amici e questo era al di fuori dei miei programmi per quella sera. «Non ne sono del tutto sicura» mugugnai. «Ecco, ho incontr-» «Buonasera, ragazze.» Federico comparve al mio fianco, troncando a metà le mie parole. Sventolava con la mano destra due targhette con dei nomi, come se si volesse fare aria per rinfrescarsi. Cosa alquanto improbabile visto il clima fresco di quella serata. Sorrise maliziosamente voltandosi a guardarmi solo per un breve istante, prima di riprendere a parlare. «Questa sera Rebecca gareggerà con me.» Poi, fingendo una preoccupata cortesia: «Per voi non è un problema, giusto?» Guardai le ragazze, negli occhi una silenziosa supplica. Mimai con la bocca una sola parola: «Aiutatemi.» Le vidi scambiarsi uno sguardo complice, mentre giungevano alle stessa conclusione. Poi Elle proruppe in un: «Nient'affatto. È tutta tua.» «Vinceremo questo gioco anche senza di lei» sentenziò Cristina con impeto scherzoso. Strabuzzai gli occhi per la sorpresa. Forse avrei dovuto aspettarmi quel risultato dopo la conversazione di quel pomeriggio, ma avevo comunque sperato che mi avrebbero tirato fuori da quella sgradevole situazione. Federico in fondo poteva anche decidere di partecipare solo a giochi individuali e stare alla larga da me. Sarebbe stata un'alternativa decisamente più piacevole. «Perfetto. Andiamo?» Continuava a sorridere con sguardo ammaliante ed era perfettamente conscio della reazione che aveva sulle ragazze. Cris ed Elle gli sorridevano di rimando, estasiate. Forse avremmo potuto fare a cambio ora che ci pensavo. No. Lo sguardo di sfida negli occhi di Federico mi fece ricredere immediatamente. Sapeva quanto ciò mi frustasse. Si aspettava che rinunciassi. Probabilmente ci sperava persino. Quindi anch'io avrei potuto dargli del filo da torcere se avessi voluto. Bene, forse quella serata sarei riuscita perfino a divertirmi un po'. Sorrisi fra me e me con aria cospiratrice, ma solo per un istante. Poi ripresi la mia espressione grave e diedi un ultimo furioso sguardo furtivo a quelle che avevo considerato mie amiche fino ad un momento prima. Superai Federico dandogli volutamente una spallata, sperando che ciò lo infastidisse, e proseguii dritto in direzione del palco. Mi si affiancò pochi secondi dopo. «Quanta fretta» disse con tono lascivo. Perché le sue parole sembravano avere sempre dei sottintesi? Lo ignorai. «Sceglierò io il nome della squadra.» «Troppo tardi.» Mi voltai a guardarlo, pronta a ribattere. Ma mi prese una mano e vi poggiò sopra qualcosa di fresco. Era il cartoncino con il mio nome e sopra quello della squadra. Era troppo tardi sul serio quindi. «Al capannone volevano sapere subito tutti i dati. Niente ripensamenti» sembrò volersi giustificare. Sbuffai contrariata. «Be', avresti potuto aspettarmi.» «Hai letto il nome? Non è affatto male.» Lessi il nome sul cartoncino. Team Ginestra. «Allora?» Sollevai gli occhi fino ad incontrare i suoi, animati da una paziente curiosità. Ginestra. Il fiore del deserto cantato da uno dei miei poeti preferiti. Scelta bizzarra. «Come mai questo nome?» Si passò la mano libera fra i ricci, scompigliandoli. Poi si guardò intorno, improvvisamente a disagio, prima di tornare ad assumere l'espressione indifferente di sempre. Scrollò le spalle, continuando a guardare davanti a sé. «Non c'è davvero un motivo. Mi piace e basta.» Non era davvero una risposta, ma poteva andare. «Sai come funziona il gioco?» domandò. «Sì.» Fui improvvisamente grata a me stessa per aver fatto le dovute ricerche al riguardo. «Nella prima parte del gioco avremo delle domande a cui rispondere e solo un massimo di tre minuti per farlo. Nella seconda parte invece ci saranno dati dei problemi di logica matematica e noi dovremo risolverne il più possibile nel poco tempo a nostra disposizione.» Aveva annuito per tutto il tempo, confermando le mie parole. «Brava bimba. Hai studiato la lezione.» Sorrise beffardo, guardandomi con la coda dell'occhio. «Okay. Punto 1: non chiamarmi mai più così. Mai.» Gli lanciai un'occhiataccia in tralice. «Punto 2: vuoi vincere o perdere?» Inarcò un sopracciglio. «È una domanda retorica?» «Ti servirà un'alleata preparata che ha studiato la lezione se vorrai vincere.» Lo guardai con arroganza, mentre si limitava a fare spallucce. «Solo cerca di non farmi fare brutta figura.» «E come potrei?» «Sbagliando.» Mi arrestai di colpo e lui mi imitò. Non poteva sottovalutarmi così, non era suo diritto. Ero senza ombra di dubbio migliore dell'idea che si era fatto di me. «Forse faresti meglio a cercarti un'altra compagna di squadra.» Gli puntai un dito contro, puntellandolo sul suo petto. «Sei ancora in tempo, sai?» Mi voltai di tre quarti e feci per andarmene, ma qualcosa mi trattenne. «Preferisco te.» Sentivo le sue dita strette intorno al mio braccio. Un tocco leggero e per nulla violento. «Perché?» risposi spazientita. Sollevò improvvisamente i suoi occhi e li puntò nei miei. Non erano poi così scuri come mi erano sembrati poco prima. Sotto la fievole luce che proveniva dal palco, mi accorsi del loro vero colore: una foresta sembrava circondare le pupille. E senza gli occhiali a fungere da schermo, dello smeraldo scuro sembrava essersi sciolto nelle iridi. Doveva portare le lenti a contatto. Non vi avevo neppure fatto caso. «Perché Dario si fida di te. Ed io mi fido delle scelte di Dario.» Allungò una mano per raccogliere una ciocca ribelle dei miei capelli e la rimise al suo posto, dietro l'orecchio sinistro. Il suo indice mi sfiorò la guancia, incerto. Vidi qualcosa guizzare nei suoi occhi, ma durò troppo poco perché riuscissi ad identificare di cosa si trattasse. Mi scostai appena e lui fece ricadere la mano lungo il fianco. «Be', avrei di gran lunga preferito averti come avversario e ridere della tua sconfitta.» «Quindi tu credi che mi avresti sconfitto.» Non era una domanda, quanto più una constatazione. «No.» Reclinai appena il capo. «Io sono sicura di questo.» Mi guardò incredulo e divertito. «Per colpa tua e di Dario invece dovrò rimandare la mia vittoria. A meno che...» «Cosa?» Finsi di rimuginarci su e sfoderai un'espressione seria. «Potrei sempre boicottare questa sfida e farti perdere.» Mi diede una leggera gomitata e trattenni una risata. Lui invece rise. E non si trattava del solito ghigno, della solita risata di scherno. Era un suono vero. Limpido e spontaneo. «Non oseresti.» «Eccome invece! Ma non stasera. Questa sera ho un conto in sospeso con Cristina ed Eleonora.» Ripresi a camminare e lo stesso fece Federico, rimanendo qualche passo indietro. «Avrei vinto sul serio contro di te» insistetti. «Credo che non lo scopriremo mai.» Prendemmo posto sul palco, accanto ad una coppia ad un tavolino intenta a chiacchierare in modo fitto e concitato. Incrociai ancora una volta il suo sguardo, scoprendomi a studiare i suoi occhi tenebrosi. Si diceva che gli occhi fossero lo specchio dell'anima. E se era davvero così, in quel momento Federico mi apparse tutt'altro che la persona serena che dava l'impressione di essere. «Stai bene?» La domanda mi sorse spontanea. Un riflesso dei miei pensieri. Distolse lo sguardo soffermandosi su qualcos'altro poco lontano. Di nuovo mi diede l'impressione di essere a disagio. «Sta per cominciare. Sei pronta?» Aveva volutamente ignorato la mia domanda. Lasciai correre e proprio allora vidi Cris ed Elle sedersi due tavoli dopo di noi. «Sono pronta.» Dopo le dovute premesse, il presentatore della gara, un professore del dipartimento di matematica, fece un breve conto alla rovescia, giusto per dare un tocco di elettrizzante attesa. Tre, due, uno. E via. Sentii l'adrenalina impossessarsi di me mentre osservavo la foto in bianco e nero mostrata dall'insegnante. Incominciò a recitare così: «Io non ho né fratelli né sorelle, ma il padre di quest'uomo» disse indicando la persona raffigurata «è il figlio di mio padre. Chi è costui?» Con la coda dell'occhio vidi Federico scarabocchiare l'indovinello su un foglio di carta. Disegnò un schizzo di albero genealogico dove inserì i dati a nostra disposizione. Seguii il suo ragionamento, intervenendo ogni volta che non ero d'accordo. Nel giro di appena un minuto, giungemmo entrambi alla stessa conclusione. «È suo figlio» proclamò Federico, indicando il professore. Lui sorrise, soddisfatto. «Esattooo!» tuonò a gran voce. Uno scroscio di applausi ci investì e mi dette grinta. Avevamo conquistato un punto. Riprese subito a parlare, senza darci tregua. «Prossima domanda: sapreste indovinare cos'è questa cosa che si trova verso la fine di primavera, ad inizio estate e a metà inverno?» Ricordavo di aver letto una volta un indovinello molto simile. Dovevo semplicemente analizzare singolarmente le parole e non ciò che esse indicavano. Mi sarebbe bastato studiare la loro struttura. Ripetei a mente le parole dell'insegnate. Si trova verso la fine di primavera. La chiave della soluzione doveva essere nascosta nella parola "primavera", ne ero certa. Cosa aveva in comune con le altre parole della frase? Mi ritrovai a mordicchiare nervosamente il cappuccio della penna, fin quando la risposta non mi fu chiara. Ad inizio estate e a metà inverno. Ma certo! Quello che stavo cercando era una vocale, una semplice vocale. Primavera. Estate. Inverno. «La lettera "e"» dissi trionfante. «Ottimo lavoro» mi sussurrò Federico con tono sommesso. «Ci hai messo meno di me.» Il presentatore confermò la mia risposta. «Il Team Ginestra guadagna ben due punti.» Poi, rivolgendosi agli altri concorrenti: «Ragazzi, avete degli avversari agguerriti. Fatevi valere, su!» Proseguimmo a questo ritmo per altri venti minuti. Gli indovinelli si fecero sempre più intricati man mano che la gara avanzava e più volte non riuscimmo a giungere alla conclusione, neppure confrontando le nostre idee, che perlopiù erano contrastanti. I concorrenti, rinvigoriti dall'esortazione del professore, erano animati da un'energia del tutto nuova che permise loro di guadagnare parecchi punti. Mantenere il nostro piccolo vantaggio iniziale non fu affatto semplice come previsto. Tuttavia, alla fine del primo turno, eravamo secondi in classifica, mentre Cris ed Elle occupavano la posizione sotto di noi, con un solo punto di distacco. Ci vennero concessi appena cinque minuti di pausa, durante i quali Federico si allontanò senza specificare dove. Rimasi seduta al mio posto, pensando a tutto e a niente. I secondi passarono e divennero minuti. Fin quando il presentatore non riprese il gelato in mano, pronto a dare avvio alla seconda parte della sfida. La sedia accanto a me si mosse, distraendomi. «Appena in tempo» dissi rivolta a Federico. Mi porse una striscia di caramella gommosa. Esaminai l'arcobaleno zuccheroso che stringeva fra le dita, poi sollevai lo sguardo su di lui inarcando un sopracciglio. «Sei andato a comprare delle caramelle?» «Che c'è di male?» Agitò la caramella ancora una volta. «Allora, la vuoi o no?» Gliela strappai di mano senza farmelo ripetere una terza volta. «Ovvio che sì.» Ne morsi una buona parte con un solo morso e sentii lo sguardo compiaciuto di Federico su di me. Il secondo turno fu più difficile del primo. Il livello di difficoltà dei quesiti era aumentato e la tensione era tornata ad aleggiare fra i presenti, più invadente di prima. Ci venne consegnato un foglio per coppia e potemmo girarlo per osservarne il contenuto solo una volta che il professore ebbe dato il secondo via. Avevamo un massimo di quindici minuti. Avrebbe vinto chi fosse riuscito a svolgere in modo più completo e ottimale i tre problemi. Federico lesse il primo rompicapo ad alta voce. «Mario organizza la festa di laurea per il nipote Maurizio. Poiché tre studenti si sono imbucati alla festa senza essere stati invitati, Mario teme di non avere abbastanza spumante. Per risolvere l'inconveniente, decide di riempire i bicchieri con i fondi avanzati. Se per riempire un bicchiere necessita di tre fondi, sapendo che i fondi avanzati nei bicchieri sono sempre uguali e che in origine i bicchieri pieni erano 20, sapreste dire quanti bicchieri in più riesce a fare nonno Mario?» «Questo è il mio campo.» Federico sorrise, elettrizzato. «Lascia fare a me. Tu vai avanti con un altro.» Non protestai. Il tempo stringeva e dividere il lavoro avrebbe semplificato in parte il gioco. Lessi a mezza voce il testo del secondo problema. «La seguente espressione dà come risultato 2: |+|=|| Sapreste ottenere come risultato 139 scostando una sola asticella? Potete spostare qualunque asticella, compresa quella del + e quella dell'=.» Presi un foglio e cominciai a scarabocchiare. C'erano innumerevoli modi in cui avrei potuto ridisporre quelle asticelle, ma solo uno mi avrebbe portato alla soluzione. Cominciai con combinazioni semplici, giusto per tastare il campo prima di immettermi nel vero gioco. Quali numeri mi sarebbero serviti per ottenere il numero 139? Dannazione, quei tentativi erano tutti vani. A meno che...

Non ero per nulla certa della mia soluzione, ma era comunque l'unica plausibile. La trascrissi sul foglio con la consegna. Notai che Federico, nel frattempo, era passato al terzo ed ultimo problema. Non feci in tempo a leggerlo, che la voce del presentatore ruppe il silenzio. «Tempo scaduto! Giù le penne.»
Mollai la mia sul banco, frustrata. Avevo perso troppo tempo. 
Potevo solo sperare che anche gli altri si fossero trovati nelle nostre stesse difficoltà.

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Capitolo 5
*** CINQUE ***


«Avevi promesso di non sabotare la mia vittoria almeno per questa volta» disse Federico, seccato, mentre abbandonava la sua postazione. «Sì, infatti.» Lo precedevo di qualche passo, giù dal palco. La folla si stava disperdendo in quell'angolo della piazza, mentre volti sconosciuti accorrevano per iscriversi ad un nuovo turno di gara. «Ma abbiamo perso.» «Non vorrai insinuare che...» Mi voltai a guardarlo, cercando di intuire i suoi pensieri. «Tu stai insinuando che ci ho fatto perdere di proposito?» Scrollò le spalle. «Non è così?» Strabuzzai gli occhi. «No! Certo che no. Volevo vincere tanto quanto te.» Mi lanciò un'occhiata di sottecchi, incerto se credermi o meno. Assunsi la miglior espressione da innocente di cui era fornito il mio repertorio facciale. Non sapevo se fossi del tutto innocente o meno, ma di certo non si era trattato di un'azione premeditata. Semplicemente non eravamo stati abbastanza veloci. Ci eravamo soffermati più a lungo del necessario su alcuni calcoli. E il risultato non era stato sufficiente. Forse, se avessimo lavorato in coppia come avremmo dovuto fare e come avevano abilmente fatto Cristina ed Eleonora, non avremmo perso. «Bene.» Sospirò profondamente. «Ti concedo il beneficio del dubbio.» «Sai perfettamente che st-» «Forse» mi interruppe. Fece spallucce e sorrise scaltro. Poi, prima che avessi il tempo di elaborare una risposta convincente, si chinò su di me. «Ti credo.» Era abbastanza vicino da riuscire a sentirne il respiro sul volto, caldo e pesante. «Ma adoro vederti andare in escandescenza.» La sua vicinanza mi impediva di vedere altro che non fossero i suoi occhi. Li vidi incurvarsi agli angoli, accompagnati probabilmente da un sorriso che coinvolse anche le labbra. Feci per spingere sul suo petto cercando di allontanarlo da me, ma i suoi riflessi furono impeccabili. Intercettò le mie mani, avvolgendo le sue dita intorno ai miei polsi sottili. Opposi resistenza fin quando non mi lasciò andare. Sogghignò. Ricambiai il suo sguardo divertito con uno carico di rabbia. Sul suo viso si ridipinse l'espressione altezzosa che avevo scorto in lui fin dal nostro primo incontro. La stessa espressione che puntualmente continuava ad irritarmi. «Devo andare, ma è stato bello giocare con te.» Sorrise ancora, beffardo, quindi mi diede le spalle e si incamminò nella direzione opposta allo stand. «Becks!» mi sentii chiamare da un punto indefinito e scorsi le sagome di Eleonora e Cristina attraversare il prato di gran carriera. Quando mi voltai nuovamente per rispondere a Federico, lui non c'era più. Mi sollevai sulle punte dei piedi, cercando invano di ottenere una visuale migliore, ma niente. Si era dileguato tra la calca. Scossi la testa e cacciai via il ricordo di Federico e del suo umore altalenante. Il suo comportamento mi confondeva. «Abbiamo vinto!» trillò Elle, euforica e con un ampio sorriso radioso. Mi mostrò la sua coccarda blu con un grosso numero uno posto al centro, in evidenza, e Cris la imitò. Risposi di rimando al suo sorriso, non riuscendo a rimanerne immune. Poi continuò a dire: «Queste invece sono tue e di Federico.» Mi porse un altro paio di coccarde e le afferrai. Erano rosse, più piccole, e questa volta il numero in grassetto era un tre. «A proposito, che fine ha fatto?» Scossi il capo. «Non ha importanza.» E non ne aveva sul serio. Per quel giorno ne avevo avuto abbastanza della sua fastidiosa presenza. Presi le ragazze a braccetto, una per ogni lato, e le trascinai con me. «Su, la notte è giovane» dissi muovendo i primi passi con loro al mio fianco. «C'è ancora tempo ed io pretendo una rivincita.» Tum,tum, tum. Il suono della pioggia che picchiettava sul vetro delle finestre attirò la mia attenzione. Nel silenzio dell'aula studio universitaria, quel leggero rumore riempiva l'ambiente, diffondendo la sua eco in ogni angolo della stanza, fra gli scaffali e fra i banchi, incurante del suo peso. Guardai ammaliata le gocce muoversi con movimenti fluidi, scivolando dolcemente lungo la superficie trasparente del vetro. Al suono ripetuto della pioggia, si alternava l'impetuoso fischiare del vento. Guardai oltre il vetro e scorsi cumuli di foglie sollevarsi in aria ad ogni nuova raffica, investendo i passanti che invano tentavano di evitarle. Sorrisi in modo quasi impercettibile. Avevo sempre trovato del fascino nel clima autunnale. E nella pioggia. Il rumore rassicurante che essa creava fungeva da balsamo sul mio umore instabile. Mi rilassava, scacciando via i pensieri superflui e indesiderati. Mi dava modo di concentrarmi e mi cullava nella sua dolce melodia. Plop, plop, plop. "Un sottospazio vettoriale è una struttura algebrica dotata di due operazioni..." Con la coda dell'occhio sbirciai il testo di Geometria1 aperto sul tavolo. Controllai se stessi recitando correttamente la definizione, poi continuai imperterrita, finché non sentii la testa riempirsi di formule e definizioni di ogni tipo. «Ehi» sussurrò una voce vicino a me. La riconobbi immediatamente. Dario mi guardava dall'alto, leggermente chinato in avanti. Incontrai i suoi occhi del colore del mare in burrasca e sorrisi di rimando. In qualche modo erano in sintonia col tempo che infuriava fuori da quelle mura. «Posso sedermi?» «Certo.» Scivolai sulla panca, cedendogli quello che era stato il mio posto. Si tolse il berretto di cotone blu, scompigliandosi i capelli biondi con una mano. Lunghe ciocche dorate gli ricaddero sugli occhi. Stetti per fare una battuta sull'inadeguatezza di quel berretto con il maltempo esterno, ma decisi di cambiare idea. «Ora buca?» domandai. Annuì, tirando fuori i suoi libri. «Ho saputo della catastrofica sconfitta che avete subito tu e Federico.» «Già» sbuffai. «Cris ed Elle hanno continuato a vantarsi della loro vittoria per tutta la serata» mugolai. «Ed io che pensavo di aver designato un'ottima delegata.» Increspò le sue labbra con un'espressione di finta delusione. Poi, notando la mia espressione imbronciata, scoppiò a ridere. «A proposito, perché me? Non avresti potuto scegliere qualcun altro?» «È andata così male con Federico?» «No, però sai perfettamente che non andiamo molto d'accordo.» «Dagli tempo. Non è affatto male quando impari a conoscerlo.» Sembrava convinto delle sue parole, quindi preferii non insistere. In quel momento mi ricordai della coccarda. La tirai fuori dalla borsa e la porsi a Dario. Lui mi guardò con sguardo interrogativo. «È di Federico. Potresti dargliela per favore?» «Perché non l'hai fatto tu? Siete nello stesso corso.» «In realtà non viene a lezione da giorni.» Scrollai le spalle e la misi sul ridere. «Credo l'abbia presa proprio male questa sconfitta.» Avevo immaginato che la battuta avrebbe perlomeno fatto sorridere Dario, ma non fu quello che accadde. Borbottò un «mmh», poi iniziò a scribacchiare delle formule di fisica sul suo quaderno, confrontandosi col testo. «Credo che sia andato invece a trovare la sorella a Roma. Lo fa spesso, sparisce senza dirmi nulla. E inoltre non è il tipo che se la prende per queste cose.» Girò una pagina del libro e aggiunse: «Tornerà presto.» Parlava dell'amico come se fossero molto più legati di quanto dessero a vedere. «Da quanto vi conoscete? Tu e Federico intendo.» Dario tamburellò le dita nervosamente contro il banco, poi tagliò l'equazione che aveva appena scritto. «Più o meno da tre anni. Abbiamo iniziato il Politecnico insieme.» Lo guardai incerta. «Ma frequenta il primo anno...» Mi guardò di sottecchi, soppesando le parole. «Ha abbandonato per un po' l'Università a causa della sorella. Hanno avuto... dei problemi.» Quelle parole rimasero sospese fra noi, mescolandosi al silenzio dell'aula. La mia mente tentava di dare loro una spiegazione, senza riuscire a giungere ad una reale conclusione. Non aggiunse altro e non volli insistere con domande invadenti. Quella conversazione sembrava averlo rattristito, perciò decisi di cambiare argomento. «Io e le ragazze stiamo organizzando una giornata fuori città per questo fine settimana.» Avvampai per un attimo, ripensando alle parole di Elle riguardo l'invitare Dario. «Ti va di venire?» Si voltò a guardarmi e la preoccupazione sembrò finalmente abbandonare il suo volto. Un ampio sorriso prese vita sul suo viso e mi sentii rassicurata dalla sua reazione. «Certo che sì» disse allora. Gli sorrisi entusiasta.

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Capitolo 6
*** SEI ***


Delle note che già conoscevo iniziarono a riempire l'abitacolo con il loro andamento melodioso, mentre un basso elettrico sembrava voler scandire il tempo. Cominciai a battere le mani sul sedile del passeggero di fronte a me, seguendo l'andamento incalzante della canzone. «Servirebbe avere occhi profondi, grandi come due pozzi neri, per buttarci dentro quello che vedi e pure l'amore che non cedi.» Io, Cris ed Elle intonavamo quelle parole cercando di imitare al meglio la voce profonda di Emma che fuoriusciva dalle casse dell'auto. Mi sarebbe piaciuto poter dire che dall'unione delle nostre voci ne fosse uscito un suono dolce, incantevole, proprio come quello delle sirene, ma la realtà era ben diversa. Nessuna delle tre era intonata, né si sforzò di esserlo quando incominciarono le note alte e dovemmo dare sfogo alla nostra indole di cantanti in disgrazia. Ci limitavamo ad urlare a squarciagola, liberando la nostra voce nel silenzio di quella mattinata fresca e silenziosa. Scorsi dal finestrino retrovisore le smorfie disgustate di Luca, mentre tentava invano di annullare quel rumore stridulo e terribilmente stonato. Probabilmente, se non fosse stato costretto alla guida, avrebbe già indossato delle cuffiette per salvaguardare i suoi poveri timpani. Ma noi continuammo a cantare, ne sentivamo il bisogno. Era catartico. E sapevamo che in fondo quella di Luca era solo una messinscena e che in realtà si stava divertendo anche lui. Notai solo allora che anche le ragazze stavano battendo le mani: Cris sul sedile di Luca, Elle sul cruscotto. Mi accorsi che lanciava spesso delle occhiate al suo compagno di viaggio. Sapevamo che Elle avesse un ragazzo, ma non ne aveva mai parlato molto, tenendo per sé quella relazione. Eppure, quando le avevamo proposto di chiedergli di unirsi a noi per quella giornata tra amici, ne era rimasta entusiasta. Non aveva esitato e con un largo sorriso a trentadue denti si era allontanata mentre cercava in rubrica il numero di Luca per avvisarlo della novità. Lo avevamo conosciuto ufficialmente solo un paio di sere prima ed Elle ne aveva approfittato per dare un po' a tutti noi la possibilità di conoscere un altro aspetto di sé. Aveva chiacchierato tutto il tempo, sorridendo con occhi carichi di gioia fra le braccia di Luca. Tuttavia non era stato imbarazzante stare con loro, ed io e Cris eravamo rimaste piacevolmente sorprese dal fascino e dall'affabilità di quello sconosciuto. La sua tranquillità era compensata dalla costante allegria di Elle ed erano come legati da un gancio che li rendeva un tutt'uno. Stavano insieme ormai da tre anni e mi sembrò fantastico vedere quanto affiatamento vi fosse fra loro nonostante fosse passato tanto tempo dal loro primo incontro. Negli ultimi due giorni ero rimasta spesso a casa delle ragazze e, nonostante Luca fosse andato via per mezza giornata insieme ad Elle per andare a trovare dei parenti fuori città, avevamo avuto modo di socializzare e di conoscere qualcosa l'uno dell'altra. Era un anno più grande di noi e frequentava i corsi di Economia Aziendale in una città del centro Italia che distava circa quattro ore da Nastrige. Era la prima volta che veniva a vedere la città vera e propria e ne era rimasto piuttosto affascinato, nonostante le sue modeste dimensioni. D'altronde, le piccole città nascondono sempre un loro fascino velato. Basta saper guardare oltre e non lasciarsi ingannare dall'apparenza. Non per nulla Nastrige era una delle città universitarie più apprezzate dagli studenti italiani. Elle, seduta davanti a me, pronunciò le ultime strofe con più foga del solito, avvicinandosi al suo ragazzo in modo provocatorio. «Come fai tu lo sai a restare in superficie e non sprofondi mai.» Lui ridacchiò, senza tuttavia unirsi al nostro coro. «E non sprofondi mai» ripetemmo allora tutte insieme ad Emma, in sincrono, chiudendo con soddisfazione la canzone. «Adoro questa canzone!» cinguettò Eleonora non appena il presentatore radiofonico iniziò a parlare introducendo la canzone successiva. «Che ne dici di abbassare il volume della musica però adesso?» la supplicò Luca. «Non riesco a concentrarmi sulla guida.» Lei ci pensò su. Probabilmente non credette alla storia de la-musica-mi-disturba, ma si allungò comunque sul sedile. Gli posò un piccolo bacio sulla guancia e tornò a sedersi correttamente prima di abbassare il volume. «Solo per questa volta.» «Ah, sì?» ridacchiò lui. «Sì, perché la prossima canzone non so esattamente a quanti secoli fa risalga.» «È di un paio di anni fa, scema» la rimproverò Cristina, infastidita. «E, per la cronaca, io la adoro.» Rivolse una smorfia con tanto di linguaccia all'amica, ma non insistette sul volume. Avevamo già dato tutte noi stesse per quel brano. Luca sembrò tirare un sospiro di sollievo e notai le sue spalle rilassarsi, assumendo una posa più sciolta. «Chi si è occupato della spesa?» disse allora, probabilmente per evitare che Cris ed Elle cambiassero idea sul cantare. Sogghignai, divertita da quella reazione. «Io.» Cris tirò fuori dalla borsa una lunga lista scritta a penna. Ne sbirciai il contenuto da dietro una spalla, appoggiandomi a lei. «Quanti pacchi di patatine hai comprato?» le chiesi. «Quattro pacchi formato maxi.» «Ma sono troppo pochi!» mugugnò Elle, lanciando un'occhiata preoccupata a Cris. Questa si sentì in dovere di giustificarsi: «Gli amici di Dario hanno insistito nel prendere più birre.» Si strinse nelle spalle. «Ho dovuto eliminare qualcosa per far tornare i conti. O le patatine o la carne.» «Che carne?» «Pancetta, salsiccia e bistecche.» Da davanti, si sentii un borbottio d'apprezzamento provenire da Luca. «Hai comprato anche delle salse?» mi intromisi io. «Niente salse.» «Dei contorni?» Intuii la sua risposta prima ancora che aprisse bocca. Sembrava in difficoltà. «Non bastavano i soldi.» «Quindi, ricapitolando, abbiamo solo quattro pacchi di patatine, un paio di chili di carne e sicuramente più birre di quante ne occorrano?» «Ho preso anche dei salatini e arachidi salati» aggiunse frettolosamente Cris. Mi sentii rincuorata da quelle ultime parole. «Avresti dovuto comprare meno birre e non dar retta alle richieste di quei tipi» la biasimò in tono bonario Eleonora. «Volevo cercare di accontentare tutti» borbottò l'altra. Non aveva senso discutere su quel che oramai era già stato fatto. «Almeno abbiamo i panini.» Sospirai. «Potremmo accompagnarti io ed Elle la prossima volta a fare la spesa» proseguì Luca. La testa di Eleonora fece capolino dal suo sedile. «È vero, in tre ci si regola meglio.» Sbadigliai, assonnata. La sveglia prematura faceva sentire le sue conseguenze. «Ci sarà sempre qualcuno a cui non andrà bene qualcosa» sentenziai. «È inevitabile.» Elle riprese la parola: «Da bere non ci sono sole le birre, giusto?» Lanciò un'occhiata di sbieco a Cristina, con un'espressione minacciosa. «Giusto» rispose l'altra, seccata. «So che detesti la birra, quindi ho preso anche acqua e Coca-Cola.» Poi, facendo una smorfia, aggiunse: «Ho dovuto risparmiare anche su queste però.» «Ottimo, baderò a nascondere la mia reliquia allora» disse Eleonora alludendo all'acqua. Si lasciò scivolare sul sedile e smise di fare domande. Luca ingranò la marcia e premette il piede sul pedale dell'acceleratore. «Quanto manca ancora, Cris?» «Massimo dieci minuti e arriveremo al ritrovo.» Mi dissociai dalla conversazione e non ascoltai il resto della chiacchierata. Mi accoccolai sul sedile e guardai le immagini scorrere veloci fuori dal finestrino. Il terreno era in salita e riuscivo già a intravedere una curva molto stretta a breve distanza. Le stradine sdruccevoli erano fiancheggiate dal verde della natura. Ad alberi folti e frondosi, se ne alternavano altri spogli, carichi di foglie sul punto di cadere. Le stagioni a Nastrige avevano un fascino singolare e, allo stesso tempo, tradizionale. Avevo sempre abitato in una città dal clima mite, in cui il tempo e quindi la natura non avevano mai davvero seguito il reale corso del tempo. Lì invece il mondo si evolveva con una certa linearità, mostrando paesaggi e panorami nuovi ogni mese. E nonostante quel giorno non fossimo che in una piccola città della provincia, le abitudini rimanevano invariate. La vista dalla cima della salita era straordinaria e vidi finalmente il lago di cui mi aveva parlato precedentemente Cristina. Si stagliava per diverse decine di metri sia in lunghezza che in larghezza, attorniato da un fitto boschetto. Sorrisi di fronte a quel panorama, mentre sentivo aumentare in me le aspettative per quella giornata e il desiderio di ritrovarmi avvolta da tutto quel fascino naturale. Percepii l'auto rallentare e Luca svoltò a destra, fermandosi davanti ad un bar. «Siamo arrivati» disse. Abbassai il finestrino e mi sporsi leggermente oltre, alla ricerca di qualche volto conosciuto. Osservai ogni passante con sguardo indagatore, fin quando non scorsi una chioma dorata nascosta da un gruppo vicino a noi. «Anche loro sono qui» comunicai. «Andiamo.» Raggiungemmo Dario mentre era chinato da fuori a sistemare qualcosa in macchina. «Ehi» lo chiamai, attirando la sua attenzione. Lui si voltò di scatto, mollando quello che teneva fra le mani, e si tirò su. «Rebecca!» mi salutò. Sentii Eleonora raggiungermi al mio fianco, mentre salutava Dario col suo sorriso gentile. «I tuoi amici sono qui?» Annuì, indicando una vecchia Punto blu posteggiata sul margine opposto. «Venite!» chiamò i suoi amici a gran voce. Tre ragazzi si avvicinarono, mentre sospendevano la loro conversazione. Dario li presentò ad uno ad uno, indicandoli di volta in volta. Il primo, Nino, era poco più alto di me. Indossava una felpa leggera col cappuccio e dei jeans sgualciti. Ci sorrideva in modo gioioso, spontaneo e qualcosa in lui mi spingeva a desiderare di diventare sua amica. Il moro con i rasta si chiamava invece Carlo. La camicia a quadrettoni blu e grigi gli aderiva perfettamente al busto, delineandone le forme sottostanti. I suo occhi ci passarono in rassegna uno alla volta, per soffermarsi infine su Cristina. Mi sembrò che le stesse sorridendo con fare seducente, fin quando lei non decise di distogliere lo sguardo, imbarazzata. La guardai incuriosita e Cris avvampò all'istante. Ridacchiai, prima di concentrarmi su Dario che mi presentava il suo terzo ed ultimo amico. «E lui è Davide» concluse. Mi allungò una mano ed io la strinsi educatamente. I suoi capelli erano di un biondo platino quasi innaturale, difficile da incontrare normalmente. Il suo sorriso scaltro e gli occhi grigio antracite gli conferivano un aspetto affascinante che non mi lasciò del tutto indifferente. Poi fu il turno delle nostre di presentazioni, ma quando stetti per chiedere a Dario del viaggio e di quanta strada ancora vi fosse da fare, fui distratta da una voce poco lontana. O meglio, da due voci. «Cris!» Due ragazze perfettamente identiche la stavano chiamando. Si avvicinarono abbozzando una corsetta, mentre Cristina andava loro incontro. «Ragazze, mi siete mancate tantissimo!» Al contrario di me ed Elle, Cris non era una fuorisede. Abitava ad un'ora e mezzo di treno da Nastrige e, onde evitare di dover viaggiare ogni giorno, aveva preferito prendere un appartamento in città. Quelle due ragazze erano le sue migliori amiche del Liceo, ma con l'inizio dell'Università si erano perse di vista, senza mai allontanarsi davvero del tutto. Cristina ci aveva parlato di loro sempre con tono carico di affetto e nostalgia, raccontandoci di tanto in tanto degli aneddoti sulla loro amicizia. Dopo che si furono abbracciate con grande impeto, Cristina le portò da noi. «Ragazzi,» disse «loro sono Silvia e Giulia.» Le scrutai scrupolosamente, cercando di individuare un segno, un piccolo dettaglio che mi avrebbe potuto dare modo di distinguerle. Ma fu invano. Erano due gocce d'acqua. Mi riscossi, sperando che non si fossero accorte del mio sguardo insistente. «Siamo tutti? Che ne dite di partire prima che si faccia tardi? Abbiamo ancora quasi un'ora di viaggio.» Fu Dario a rispondermi: «Aspetta, manca ancora una persona.» Mi guardò e fece spallucce di fonte alla mia espressione confusa. «Deve essere al bagno. Soffre di mal d'auto.» Fu allora che lo vidi. Capelli ricci, spessa montatura nera, sorriso beffardo. Federico. «Scusate il ritardo» proferì. Era uscito da una porta laterale del bar e con poche falcate aveva raggiunto il nostro gruppo. Fissai il mio sguardo infastidito su Dario, ignorando le risatine civettuole delle gemelle che constatavano quanto fosse carino il nuovo arrivato. Dario non si voltò nemmeno nella mia direzione e rimasi frustata dalla nuova svolta che aveva preso la giornata. Avrei dovuto immaginare che avrebbe invitato anche Federico, ma non potevo prendermela adesso, ormai era troppo tardi. Notai che Federico aveva posato proprio in quell'istante il suo sguardo intenso su di me e gli sorrisi leggermente, muovendo appena la mano. Magari quella sarebbe stata la volta buona per seguire il suggerimento di Dario, per dargli una chance. Forse in fondo non era così male. O forse sì. Feci una smorfia al pensiero di lui tutto il giorno a pochi metri da me. Poi notai la sua mano. Della garza avvolgeva il palmo in una striscia compatta, coprendo quella che doveva essere una ferita non da poco. «Tutto bene, amico?» domandò Nino a Federico, dandogli una pacca sulle spalle. «Ce la fai a resistere ancora un po'?» «Certo.» L'altro gli sorrise con fare rassicurante. «Preferisci guidare tu?» Vidi Federico irrigidirsi. Le mani ebbero un leggero tremore, gli occhi si spensero. Un'espressione di panico gli deturpò il volto, ma durò troppo poco e non lo conoscevo abbastanza bene per poterne essere del tutto certa. Poi sospirò e riassunse la solita aria spensierata. «No, ce la faccio.» «Sicuro?» Lui annuì. «Okay, allora andiamo.» Federico incontrò i miei occhi e distolsi immediatamente lo sguardo. Non volevo sapesse che avessi origliato la loro conversazione. C'era qualcosa di sottinteso nelle loro battute. Qualcosa che sapevo non mi riguardava. Salii nuovamente sul sedile del passeggero e richiusi lo sportello con un rumore sordo.

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Capitolo 7
*** Sette ***


La casa di villeggiatura di Cris si trovava in un piccolo paesino al confine della provincia situato ai piedi di due ripidi monti. Accerchiato da boschi su due fronti, le abitazioni risultavano immerse totalmente nel verde, circondate da grandi fusti d'alberi dalla chioma autunnale. L'edera cresceva insinuandosi fra le crepe, espandendosi imperterrita come un manto protettivo. Ebbi l'impressione di essere stata catapultata in un paesaggio artistico, dove ogni dettaglio celava una cromia, un gioco di luci e ombre prestabilito. La compostezza bucolica sposava in modo idilliaco l'intricato disegno delle fronde che ci sovrastavano e lasciavano appena trapassare i tenui raggi del sole. 
Volteggiai un'ultima volta su me stessa, prima di abbassare lo sguardo ed incamminarmi verso l'entrata. La casa, come le precedenti che avevo osservato ammaliata durante il viaggio, aveva un aspetto lontanamente gotico. Costruita interamente in pietra e legno, nascondeva malamente la sua antica età. All'interno, constava in tutto di cinque stanze: un minuscolo ma confortevole bagno, due camere da letto, una cucina moderna che sembrava andare contro le regole del resto dell'abitazione, e un accogliente salotto, forse la stanza più spaziosa. Abbandonammo tutti i nostri zaini e le nostre borse nel salotto alla meno peggio, prima di dirigerci in cucina e distribuire i compiti.
«Qualche volontario che vuole occuparsi del barbecue?» ci chiese Dario, mentre iniziava ad uscire il contenuto dai sacchetti della spesa.
Carlo raccolse quattro bottiglie di birra con una sola mano e le distribuì in frigo. Si allungò sull'amico per prenderne delle altre. «Lo chiedi anche?» domandò a Dario in tono scettico.
L'altro si limitò a guardarsi intorno, ma vedendo che nessun altro si faceva avanti, continuò: «Be', era giusto chiedere.»
«Lascia fare a me.» Carlo si batté un pugno sul petto, ammiccando. Chiuse il frigorifero con un colpo secco dopo averlo riempito quasi del tutto, poi raccolse i rasta in una coda bassa con l'elastico che portava al polso e svoltò le maniche della camicia tirandole su fin quasi ai gomiti. «Vado a mettermi al lavoro.»
«Aspetta» lo chiamò Cristina da un'altra stanza. Sbucò fuori da una delle camere da letto, indaffarata con dei sacchetti alti la metà di lei e terribilmente impolverati. «Non sai dove cercare, ti aiuto io.»
Carlo prese i suoi sacchetti sollevandoli senza fatica e Cris ne sembrò sollevata. «Faccia pure strada, padrona di casa.» Le sorrise amabilmente, lasciando che lei lo superasse.
«Noi possiamo occuparci di condire la carne» suggerì una delle due gemelle, quella con la felpa verde. «Sappiamo dove Cris tiene l'occorrente.»
Luca si appoggiò al ripiano della cucina affiancandosi a Dario. «D'accordo» disse. Indicò un grosso sacco azzurro posto sul tavolo. «Occorrono solo un paio di persone che si occupino di tagliare i panini e di preparare le bruschette, mentre gli altri vanno a raccogliere la legna per il camino.»
Sorrisi e scossi la testa. Sapevo cosa stava cercando di dire. «Io ed Elle possiamo occuparci dei panini e delle bruschette» dichiarai. «Voi andate pure a cercare la legna.» Con la mano feci loro segno di andare via, mentre i ragazzi sorridevano trepidanti all'idea di incamminarsi nel bosco.
Sulla soglia, Dario di arrestò, ricordandosi improvvisamente di qualcosa. «Nino,» chiamò l'amico. «Puoi andare a dare un'occhiata a Federico prima? È in bagno.»
Lanciai uno sguardo preoccupato a Dario, mentre Nino si allontanava bofonchiando qualcosa tra sé e sé. Sembrava essere molto teso, ma ricambiò comunque la mia espressione con un sorriso, mimando con le labbra le parole "starà bene". Annuii, ma non riuscii comunque ad allontanare il ricordo del viso perlaceo di Federico che si precipitava fuori dall'auto. Il viaggio non doveva essere stato affatto facile per lui.
«Sta bene» gridò Nino, mentre percorreva a grandi falcate il corridoio. «Possiamo andare.»
Li osservammo uscire, poi anch'io ed Elle ci allontanammo dalla cucina cedendola alle gemelle. Portammo il sacchetto azzurro con noi fuori, nella veranda retrostante l'abitazione, e organizzammo il lavoro su un lungo tavolo dove probabilmente avremmo pranzato successivamente. 
«Peccato, sarei voluta andare anch'io nel bosco» sbuffò Eleonora.
Sorrisi, cedendole un coltello. «Vorresti dirmi che non trovi dell'avventura nel tagliare la mollica?»
«Avrei potuto divertirmi un mondo là fuori.» Un solco prese vita fra le sue sopracciglia, mentre iniziava a tagliare il primo panino. La imitai, mentre provavo ad immaginare i ragazzi là fuori. Il bosco non presentava dei sentieri, per cui non si sarebbero potuti allontanare più di tanto e sicuramente non avrebbero potuto perdere di vista la casa. O si sarebbero persi.
«Non andranno molto lontano.» Le diedi un colpo d'anca. «Fidati, non ti perdi molto.»
Mi sorrise grata, poi sentii la sua vocina diventare quasi stridula. «Becks, guarda!» Sollevai lo sguardo seguendo il suo, e vidi nell'angolo opposto della veranda Carlo e Cristina armeggiare con la carbonella mentre ridevano di gusto. «Girati!»
Sollevai un sopracciglio, interrogativa. «Devo guardare o no?»
«Sì che devi, ma non adesso.» Mi coprì la visuale col suo esile corpo, poi sorrise elettrizzata. «Hai notato Carlo?» mi sussurrò. 
«Guarda che non ci sentono, puoi parlare normalmente» le sussurrai di rimando io, imitandola ironicamente.
Mantenne il tono di voce invariato, ignorandomi. «Stava divorando Cristina con gli occhi al parcheggio e adesso questo. Credo proprio che le piaccia.»
«Lo credo anch'io.» Ridacchiai. «Adesso posso guardare?»
«Sì, sì.»
«E prima non potevo esattamente perché...?»
«Perché mi ero appena voltata io.» Sbuffò, puntando i suoi occhioni verdi nei miei. «Avrebbero potuto pensare che stessimo parlando di loro se li avessimo guardati contemporaneamente.»
La guardai basita. «Ma noi stavamo parlando di loro. E stiamo continuando a farlo.»
Lei afferrò due panini, ignorandomi ancora una volta. «Ora.»
Scossi la testa. «Sei strana, sai?» Mi voltai finalmente ad osservare i due ragazzi. Li vedevo parlare, gesticolare animatamente e ridere per delle battute sconosciute. Si conoscevano da poco, ma sembravano già andare d'accordo.
Elle mi fissò, tentando di scorgere il loro riflesso nei miei occhi o di interpretare semplicemente la mia espressione. Ma non avrei potuto escludere del tutto la prima opzione se si trattava di lei.
«Cris ha trovato la sua anima gemella» cantilenò, scuotendo la chioma rossa. 
Decisi di dare una pausa alla mia mano indolenzita e le passai gli ultimi panini. «Corri troppo con la fantasia, Elle.» Non trovavo nulla di strano nei loro gesti. Si comportavano esattamente come due amici. Come me e Dario.
«Sul serio non lo riesci a vedere?» Scrollò le spalle, esasperata. 
«Vedere cosa? Un prossima proposta di matrimonio o siamo già arrivati al momento delle nozze?»
Mi guardò contrariata. «Non sei per nulla divertente.»
«Pazienza.» Feci spallucce, poi finsi di essere interessata ad una mollichina rimasta sul tavolo e iniziai a giocarci. Cercai di trattenere una risata, ma non ci riuscii ed Elle ne rimase coinvolta. 
«Comunque lui è stracotto di lei. È stato un colpo di fulmine, è chiaro.» Adesso la sua espressione si era addolcita e aveva assunto un'aria sognante. «Per certi versi mi ricorda l'inizio della mia storia con Luca.» 
Prendemmo due sedie e vi ci sedemmo. Avremmo dovuto aspettare le gemelle e i loro condimenti per poter procedere con le bruschette. «Come vi siete conosciuti? Tu e Luca intendo.»
«Eravamo entrambi al Liceo.» Le si accese una strana luce negli occhi, poi continuò: «Come ogni giorno, anche quella mattina avevo preso il mio latte macchiato alla macchinetta della scuola. Stavo scendendo le scale, ma al momento di svoltare in una nuova rampa, mi sono imbattuta in lui. Ed è stato un putiferio.» Ridacchiò al ricordo e si soffermò a guardare qualcosa lontano da noi, tuffandosi nel mondo dei ricordi. «Il latte macchiato mi si rovesciò addosso, macchiando la mia maglietta in un modo che non passava esattamente inosservato. Ed eravamo solo ad inizio giornata, non era ancora suonata la campanella della prima ora. Ero furiosa e terribilmente in imbarazzo.» Scosse la testa, tornando a guardarmi. «Poi incontrai i suoi occhi cerulei e tutto il discorsetto che mi ero preparata mentalmente svanì di colpo. Le parole mi morirono in bocca.»
«E dopo?» la esortai a continuare.
Lei si strinse nelle spalle e intrecciò le mani. «Dopo lui si scusò. Non diventammo subito amici, ma incominciai ad incontrarlo sempre più spesso nella sala delle macchinette. Ogni mattina allo stesso orario lui era lì.» Mi rivolse uno sguardo furbo prima di continuare. «In seguito mi confessò che lo faceva di proposito: sperava di vedermi.»
«Vi incontravate e basta? Non parlavate?»
«No, non le prime volte almeno.» Cambiò posizione sulla sedia, intrecciando le esili gambe sotto di sé. «Pian piano però iniziò a parlarmi e be', diventammo amici alla fine. Iniziammo a frequentarci, senza tuttavia oltrepassare mai il confine limite che separa l'amicizia da qualcosa che va oltre. Fin quando una sera non capii che quel rapporto non mi bastava.» Si interruppe per un istante prima di proseguire. «Volevo confessargli i miei sentimenti, desideravo non essere per lui una semplice amica. Volevo essere di più.»
«E se lui non avesse provato gli stessi sentimenti per te?»
«Semplice, non mi sarei arresa.» Mi sorrise determinata. «Mi sarei rialzata e avrei lottato per il suo cuore.»
Non avevo mai pensato ad Eleonora come ad una persona così ostinata, ma mi stavo ricredendo. «La sua risposta?» la incitai, incuriosita.
«Prima ancora che avessi il tempo di dire o fare qualcosa, lui mi aveva baciata.»
Mi ritrovai a sorridere per dei ricordi che non mi appartenevano. C'era qualcosa di magico nella concezione dell'amore di Eleonora. Qualcosa a cui io non avevo mai davvero creduto e che non riuscivo a concepire come reale. Eppure l'amore che legava Elle e Luca era reale e su questo non potevo avere da ridire in alcun modo. 
«Magari un giorno anche Dario guarderà te come io guardo Luca» riprese a parlare.
Le diedi uno schiaffo su una gamba e lei strillò un "ahi" decisamente esagerato. «Basta con questa storia» sbuffai. Scoppiò a ridere e le lanciai un'occhiataccia in tralice.
«Elle, Becks!» Cristina ci stava chiamando. «Ci serve la carne. A che punto siete?»
«Vado a chiamare le gemelle!» le urlai di rimando.
«Chiedi anche se il condimento delle bruschette è pronto» mi ricordò Eleonora. Annuii e mi alzai di malavoglia, incamminandomi verso la cucina.
Una volta arrivata, chiesi senza sapere esattamente a chi mi stessi rivolgendo: «Ehm, Giulia?» La ragazza con la felpa verde si voltò. Ottimo, la gemella con la felpa blu doveva essere Silvia allora. Avevo appena trovato un modo per distinguerle, sempre se non avessi scordato chi indossava cosa. «Cristina vuole portata la carne se siete pronte.»
«Sì, andiamo» mi rispose Giulia portando con sé un grosso contenitore pieno di carne, mentre la sorella prendeva dal tavolo una ciotola con del pomodorino accuratamente condito. Le lasciai andare avanti e una scia di profumino invitante invase il corridoio, lasciando traccia di sé. Sentii la mia pancia brontolare e solo allora mi resi conto di quanto fossi affamata. Mi portai istintivamente una mano alla bocca dello stomaco e cominciai a massaggiarlo lentamente in modo circolare, mentre attraversavo il soggiorno per tornare in veranda.
«Mal di pancia?» Sul divano, sdraiato e con un braccio sulla fronte, c'era Federico che mi osservava da dietro le sue grosse lenti.
«N-no, ho solo fame» balbettai, colta alla sprovvista. Avevo dimenticato che non fosse andato nel bosco con gli altri e non mi aspettavo di vederlo lì. «Tu stai bene?»
Si tolse gli occhiali e li poggiò su un mobile posto accanto al divano. Iniziò a sfregare freneticamente le mani lungo i lati del naso, fino agli occhi. «Più o meno.»
«Hai bisogno di qualcosa? Un panno freddo magari?» Per quanto a volte lo detestassi, vederlo in quello stato pietoso mi stringeva il cuore.
«No, sto bene, Chika.»
Mugolai infastidita. «Ti avevo già detto di non usare certi nomignoli con me. Li detesto.» In tutta riposta, lui ridacchiò di gusto. Allontanò le mani dal volto, scoprendo il colorito perlaceo che non lo aveva ancora abbandonato. Poi ritrasse le gambe, si mise a sedere e finalmente sollevò lo sguardo su di me. «Posso farti una domanda?» chiesi istintivamente. C'era una questione che mi tormentava sin da quando lo avevo visto quella mattina.
Lui inclinò la testa di lato, confuso da quella mia improvvisa curiosità. Socchiuse gli occhi scrutandomi minuziosamente prima di rispondermi. «Cosa vuoi sapere?»
Indicai la sua mano fasciata. Federico la sollevò, portandola all'altezza dei suoi occhi. «Che ti è successo alla mano?»
«Mi sono fatto male quando sono andato a trovare mia sorella» disse noncurante.
«Nulla di grave?» gli chiesi allora quasi in un bisbiglio.
Lui si limitò a scuotere la testa. Chiuse la mano a pugno e la riaprì. Ripeté quel gesto un paio di volte, per dimostrarmi che non ci fosse nulla di rotto e che il dolore fosse tranquillamente sopportabile. «Visto?» 
Decisi di credergli ed annuii.
Allungò una mano e prese gli occhiali per appenderli poi allo scollo della maglia. Si alzò dal divano e di colpo mi fu vicino. Passandomi accanto, mi poggiò una mano sulla schiena. Sentii la pelle formicolare al suo tocco, le terminazioni nervose risvegliarsi all'improvviso. «Vado a vedere se qualcuno ha bisogno di aiuto.» E se ne andò.

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Capitolo 8
*** OTTO ***


«A tavola!»
sentii chiamare dalla veranda. Uscii stringendomi nella giacca, mentre si alzava una leggera brezza. Fuori, Carlo brandiva con temerarietà il suo forchettone mentre rigirava ancora le ultime strisce di pancetta sulla griglia rovente. Continuava a chiamare a gran voce i ragazzi dispersi per la casa, mentre gli altri gli giravano intorno nel tentativo di aiutarlo. Vidi Federico avvicinarglisi con una nuova teglia pronta per essere riempita di carne arrostita e Davide prendere il posto di Carlo per spegnere il carbone ardente. Le gemelle mi passarono davanti con dei mini vassoi strapieni di bruschette e li andarono a disporre sul tavolo, sorridendo soddisfatte per le espressioni compiaciute sul volto dei ragazzi che ne avevano apprezzato l'odore invitante.
«Ehi, che fine avevi fatto?» Eleonora mi raggiunse con una ciotola per mano, entrambe contenenti salatini vari. Raccolsi due arachidi e li sgranocchiai prima di rispondere. «Ho incontrato Federico in salotto e mi sono fermata a chiedergli come stesse.» Stetti per prendere una nocciolina, ma Elle allontanò la ciotola di proposito. Le lanciai uno sguardo contrariato. «Questo perché mi hai lasciato da sola con le bruschette e le gemelle.»
«Ma le ragazze sembrano simpatiche.»
«Ecco...» Arricciò il naso. «Non sono esattamente il mio tipo ideale di amiche.» Strano, non era da lei non apprezzare la gente in generale. Poi però ripensai a quel primo giorno all'Università e allo sguardo che mi aveva rivolto in un primo momento. Era reticente con chi ancora non conosceva, occorreva che le persone le dessero il tempo necessario per farsi apprezzare, per cui non badai alla sua avversione. Andò a posare le due ciotole sul tavolo ed io presi posto accanto a Dario.
«Sto morendo di fame» gli dissi a denti stretti.
«Siamo in due.» Mi sorrise con fare solidale, poi mi passò un panino. «Carlo, questa carne quando arriva?»
«Sta arrivando!» In poco tempo tutti i posti intorno al tavolo furono occupati, con Nino a capotavola e le gemelle alla mia destra che continuavano a chiacchierare animatamente con Federico, il quale sembrava essersi ormai del tutto ripreso e stuzzicava le ragazze con stupide battutine per farle ridere. Mi trovai a domandarmi cosa ci trovassero in lui per esserne così tanto attratte.
«Buon appetito, gente!» esclamò Cris sollevando un panino già imbottito. Le rispondemmo tutti in sincrono e, ad ogni nuovo boccone, sentivo il mio stomaco acquietarsi.
«Non mi hai mai detto com'è che vi siete conosciuti voi due, Dario.» Nino ci guardava sinceramente incuriosito, spostando lo sguardo dall'uno all'altra. Risi al ricordo del nostro primo incontro, ripensando a quanto mi fossi abbattuta prima di scontrarmi con lui. Dario mi guardò e mise su un'espressione offesa.
«Stai ridendo sul serio?»
«Be', è stato un incontro da non poter dimenticare.» Additai il suo petto, trattenendo un nuovo flusso di risate per l'espressione sciocca che aveva dipinta in volto. «Questo non puoi negarlo.»
Socchiuse gli occhi, guardandomi dall'alto. «No, hai ragione, sento ancora dolore per quella testata.» Poi si lasciò sfuggire un sorriso e raccontò dell'inizio della nostra amicizia a Nino, che era rimasto ad ascoltarci senza riuscire a capire. Sorvolò sulle condizioni in cui mi aveva trovata, sulla mia rassegnazione, e gliene fui profondamente grata. Poi fu il turno di Elle e Cris di parlare del nostro primo incontro. Rivedere quelle immagini e riportare a galla quei ricordi fu molto più che piacevole. Fu magnifico. Ogni giornata di quegli ultimi due mesi sapeva di tutti loro e ripercorrere quelle ultime settimane insieme mi fece realizzare quanto fossi stata sciocca a preoccuparmi per tutta l'estate di quello che avrei dovuto affrontare. Adoravo i miei studi universitari, sebbene a volte, per il troppo studio, rischiassi delle crisi isteriche e l'ansia tornasse a far capolino soffocandomi sotto il suo devastante peso. Inoltre, nonostante sentissi costantemente la mancanza della mia famiglia troppo lontana da me, adoravo anche quei momenti trascorsi così, senza preoccupazioni, senza ansie, ma con una grande voglia di essere semplicemente me stessa. Mi resi conto di essere felice della svolta che aveva preso la mia vita e quella rivelazione mi strappò un sorriso che non riuscii ad abbandonare per tutta la durata del pranzo. Dopo un momento di pausa, Dario si schiarì rumorosamente la voce. Tutti ci voltammo automaticamente a guardarlo, allontanando i nostri piatti ormai vuoti da un bel po' e abbandonandoci sulle sedie. Si alzò in piedi per attirare ulteriormente la nostra attenzione, poi disse: «Signore e signori, è ora di giocare.»
Giocare?! Dall'altro lato del tavolo, anche Davide si alzò in piedi, imitando l'amico.
«Sono d'accordo.» Sparì dentro casa e, quando ne uscì, stringeva in una mano un sacchetto di tessuto. Lanciai un'occhiata confusa a Cristina e, in tutta risposta, lei scrollò le spalle, ignara quanto me di quell'iniziativa. Davide scosse il sacchetto, guardandoci. «Allora? Chi vuole pescare?»
«Di che si tratta?» Era stata la gemella con la felpa blu a parlare, Silvia. Mmh, non male l'idea di associare i nomi al colore delle felpe. Agitò ancora una volta il sacchetto prima di rispondere.
«Qui dentro ci sono sei foglietti e in ognuno di essi ho scritto uno dei giochi che facevamo da bambini. Dovremo semplicemente sorteggiarne uno.» Scambiai un'altra occhiata con Cristina, questa volta di incredulità. Non mi convinceva la proposta di voler giocare ad uno di quei giochi che un tempo mi facevano impazzire di gioia ma che avevo col tempo accantonato. Doveva esserci dell'altro sotto e i miei pensieri furono confermati qualche istante dopo.
«Il gioco sorteggiato subirà delle varianti però.» Davide riprese a parlare e tornai a poggiare il mio sguardo su di lui, curiosa di saperne di più. «Che genere di varianti?» intervenni. Lui ricambiò il mio sguardo e un sorriso scaltro gli increspò le labbra. «Sta ad ognuno di noi deciderlo. Direi che lo scopriremo a gioco iniziato.» La sua risposta vaga non mi soddisfò per nulla. Osservai Nino avvicinarglisi e infilare una mano nel sacchetto dell'amico. Ne estrasse un biglietto e dopo averlo letto, con fare plateale, dichiarò: «Si gioca a nascondino.» «Nascondino? Seriamente?!» Silvia incrociò le braccia sul petto, assumendo un'espressione corrucciata. Brontolò qualcosa alla sorella, di cui riuscii a cogliere solo un "non ci sto".
Federico intervenne, pulendosi le lenti degli occhiali con un angolino della maglia: «Andiamo, sarà divertente!» «Federico ha ragione» sottolineò Davide. «Non ve ne pentirete.»
«E se invece andassimo al lago?» suggerì Cristina. In risposta, si sentì un vociare confuso e indistinto fra coloro che volevano seguire Cris e coloro che invece erano d'accordo con Davide. Non saremmo mai arrivati ad una decisione in quel modo. «Che dite di metterla ai voti?» Quasi urlai per riuscire a farmi sentire sopra quel caos frenetico. Dieci paia di occhi si voltarono nella mia direzione, riflettendo sulla mia proposta. Per quanto mi riguardava, sarebbe stato indifferente, anche se avrei preferito fare entrambe le cose. Avevamo a disposizione ancora un intero pomeriggio e tutti i modi del mondo per poterlo impegnare. «Allora? Che ne pensate?» Vidi Carlo sussurrare qualcosa all'orecchio di Dario e ritrarsi subito indietro. L'amico annuì, per poi rivolgersi a me: «Non occorre, andremo al lago, affare fatto.» Davide sollevò le braccia al cielo, imprecando a denti stretti. «Scherzi? Ma se prima volev-» Dario scosse le spalle con indifferenza.
«Ho cambiato idea. Potremo sempre giocare una volta tornati, no?»
«Sono d'accordo con Dario. Vada per il lago» sentii dire a Federico, mentre anche il resto dei ragazzi gli faceva eco. Davide rimase spiazzato per l'improvviso disertamento dei compagni. Frustato, si lasciò trascinare in casa da Carlo. «Accompagnami a prendere lo zaino, su.» Nino e Luca li seguirono a ruota e quando ritornarono ognuno di loro portava uno zaino in spalla. Mi chiesi perché mai ne avessero bisogno per una semplice breve gita al lago. «Aspettate, abbiamo un problema, me ne ero dimenticata.» Cristina si dondolava sul posto, improvvisamente turbata da qualcosa. «Vale a dire?» domandò Elle.
«Il bosco manca di sentieri da poter seguire.» Cris ci rifletté su. «Avremo bisogno di qualcosa per segnare il cammino.» «Ho io la soluzione.» Nino frugò nel suo zaino e ne tirò fuori un coltellino da scout. «Con questo posso lasciare un segno di riconoscimento sui tronchi degli alberi man mano che avanziamo.» Vidi Elle contrarre improvvisamente le labbra, contrariata. «Saranno dei taglietti piccoli e leggeri spero, vero?» Da quando la conoscevo, aveva sempre dimostrato di essere molto sensibile alla salvaguardia della natura e quella proposta doveva infastidirla parecchio, ma cercò di non darlo molto a vedere. Una volta che Nino l'ebbe rassicurata, ci mettemmo in cammino. Per tutto il tragitto dalla casa di Cris al lago, tenni d'occhio Nino e il suo coltellino. Cercavo di memorizzare al meglio gli alberi su cui incideva, studiandone la forma, la posizione e lo spazio intorno. Dubitavo che quei semplici segni ci avrebbero aiutati sulla via del ritorno, quindi avevo bisogno di un'ulteriore garanzia che non ci saremmo persi. Scrutavo minuziosamente ogni particolare, ogni dettaglio che avrei potuto facilmente memorizzare. Nel mentre ne approfittavo per godere di quel meraviglioso squarcio di natura. Mi ritrovai ad immergermi in quel paesaggio selvaggio, indomato, ammirandone il fitto sottobosco e ascoltandone ogni suono e cercando al contempo di indovinarne la provenienza. Mi sarebbe piaciuto goderne appieno, ma le voci dietro di me intaccavano quella quiete altrimenti paradisiaca. Sentivo le ragazze chiacchierare animatamente e raccontare aneddoti del loro periodo liceale. Sebbene a diversi metri di distanza, le loro voci mi giungevano chiaramente e riuscii a catturare squarci della loro conversazione. Udii Cristina raccontare ad Elle di come avesse conosciuto le due gemelle e di come, dopo essersi ritrovate a collaborare per uno stesso progetto di scienze, fossero diventate inseparabili nonostante l'iniziale astio reciproco. Sorrisi immaginando tutte loro come delle quattordicenni alla presa con calcoli del tutto nuovi. Per un momento mi ritrovai a chiedermi se anche a me sarebbe potuta succedere una cosa del genere con Federico. Era vero, non andavamo affatto d'accordo. Eppure le parole di Dario continuavano a ronzarmi in mente. "Non è affatto male quando impari a conoscerlo." Saremmo davvero potuti diventare amici se gliene avessi dato la possibilità? In fondo sapevo che non fosse un cattivo ragazzo, ma c'era qualcosa nel modo in cui parlava, in cui si atteggiava, che mi spingeva ad allontanarlo da me. «Guardate!» La voce di Silvia richiamò la mia attenzione. Cercai con lo sguardo il punto da lei indicato e quando capii a cosa si riferisse, mi lasciai sfuggire un "wow" silenzioso, meravigliata. A soli pochi metri di distanza, sulla nostra destra, la superficie cristallina del lago scintillava sotto i tenui raggi del sole, increspandosi di tanto in tanto per dei movimenti subacquei. Delle ninfee decoravano lo specchio d'acqua distribuendosi in modo casuale, attorniate da delle libellule svolazzanti. Corsi alla sponda, inginocchiandomi sui ciottoli lisci e levigati dalle acque dolci. Sotto il mio riflesso, scorsi un pesciolino avvicinarsi al pietrisco e poi tornare nuovamente indietro con i suoi movimenti fluidi. Sorrisi estasiata. Non avevo mai visto un lago, non da vicino perlomeno. «Ti piace?» domandò Cris, inginocchiandosi al mio fianco. Annuii, senza tuttavia riuscire a distogliere lo sguardo da tutto quello splendore naturale. «Luca, vieni a farmi una foto!» sentii gridare Elle da qualche parte alle mie spalle. «Luca?» Quando non ricevette risposta, aggiunse: «Aspettate... dove sono finiti i ragazzi?» Mi sollevai sulle ginocchia fino a tirarmi su del tutto. Mi guardai intorno, notando che effettivamente nessuno di loro era con noi. Vedevo Elle, Cris e le due gemelle, ma dei ragazzi non c'era traccia. Che fine avevano fatto? Erano rimasti nel bosco? Non mi ero neppure accorta che non ci avessero seguite fino alla sponda del lago. Stetti per avvicinarmi ad Elle, quando qualcosa di freddo mi colpì la nuca. Un colpo troppo rapido per riuscire a percepirlo in tempo. In pochi istanti mi ritrovai la schiena percorsa da flutti d'acqua gelida, mentre dei brividi di freddo mi percorrevano espandendosi ovunque. Spostai i capelli inumiditi che si erano appiccicati alla pelle, solo per riuscire a recuperare un residuo di gomma rimasto appeso alla nuca. Era della gomma di palloncino. Non feci in tempo a realizzare cosa stesse accadendo, che vidi le ragazze venir bombardate da una raffica di gavettoni. «Maledetti» dissi digrignando i denti. Ecco che fine avevano fatto i ragazzi.
«Cosa sta succedendo?» sentii gridare ad una delle gemelle, senza riuscire a distinguere di chi si trattasse. Ero troppo concentrata ad osservare gli alberi frondosi del bosco dinanzi a noi.
«Attenzione!» Da dietro un tronco massiccio uscì Davide. Aveva una bandana da pirata legata sulla fronte con un grosso nodo e in una mano teneva un gavettone dall'aria minacciosa. «Che il nascondino abbia inizio!» In quel momento una tempesta di gavettoni minacciò di finirci addosso. Scattai in avanti, ruzzolando di lato e provando a correre verso il bosco. Quella zona era troppo scoperta e avrebbe giocato unicamente a nostro sfavore. Avevamo bisogno di nasconderci dietro i fusti degli alberi per poter scansare la nuova raffica. Elle mi seguì, incespicando sulle foglie bagnate e rischiando per ben due volte di scivolare sul terriccio umido. Un altro palloncino mi colpì, questa volta sul busto, bagnando la mia giacca ormai fradicia. «Ecco quali erano le loro varianti» sussurrai infastidita ad Elle. Teneva il mio passo, proprio dietro di me. Mi lanciò uno sguardo determinato, prima di iniziare a fare uno slalom tra i vari alberi, senza allontanarsi eccessivamente dal lago. Capii la sua intenzione e la seguii sorridendo. Zigzagando in quel modo, le probabilità che riuscissero a colpirci diminuivano drasticamente. E quella tecnica funzionò, fin quando non inciampai su qualcosa e quasi finii con la faccia nel fango. «Merda.» Riuscii a evitare per un pelo l'impatto, aggrappandomi ad un ramo basso. «Becks, hai trovato un loro zaino!» strillò Eleonora. Quindi era lo zaino il qualcosa in cui ero incappata. «Già, era tutto calcolato» bofonchiai sarcastica. «Passamelo, dai.»
Stetti per afferrarlo, quando ci raggiunse una voce dall'alto. «Ehi, che diamine state facendo? Quello è mio.» Sollevai lo sguardo e vidi un Carlo tutto indaffarato con i suoi gavettoni, arrampicato proprio sull'albero sopra di noi. Percepii dei passi frenetici avvicinarsi a noi e automaticamente il mio corpo si contrasse per la tensione nell'attesa di un nuovo attacco. Quando finalmente le vidi farsi largo fra le fronde basse, mi rilassai. Cristina, Silvia e Giulia erano proprio davanti a noi, con i vestiti completamente inzuppati e i capelli disordinatamente legati sul capo. «Abbiamo sentito la voce di Elle e siamo corse subito qui.» Cris aveva il fiatone e si piegò sulle gambe per riprendere fiato. «Ci eravamo inoltrate troppo nel bosco e i ragazzi ci hanno facilmente individuato.»
«Posate immediatamente quello zaino o giuro che farete una doccia fredda di gavettoni proprio adesso!» La voce di Carlo ci raggiunse nuovamente, più indignata che mai. Cris e le gemelle sollevarono lo sguardo, poi tornarono a guardarci. «Wow, la stanno prendendo sul serio» disse allora Giulia inarcando un sopracciglio. Continuai quello che avevo iniziato prima dell'interruzione: afferrai lo zaino e, come previsto, trovai l'interno stracolmo di gavettoni. Ne tirai fuori parecchi alla volta, distribuendoli alle ragazze, fin quando nello zaino non rimasero altro che stupide cianfrusaglie. Mi tolsi la giacca ormai inzuppata e me la strinsi intorno alla vita, riempiendo il cappuccio della mia dose di armi. «Ecco, adesso si gioca in due.» Un sorriso furbo e determinato prese vita sul mio volto, mentre anche le ragazze si preparavano a giocare. Poi, rivolgendomi ancora a Carlo: «Tieniti pure lo zaino!» Lo abbandonai ai piedi dell'albero e mi allontanai in fretta, seguita dalle ragazze. Due gavettoni quasi riuscirono a raggiungerci, mentre sentivo Carlo continuare a gridarci contro, infuriato. «Siamo in netto svantaggio, loro hanno ancora tre zaini» osservò Silvia. Cris le diede una gomitata scherzosa, sorridendole scaltra. «Ce li faremo bastare.» Ci fermammo in una zona appartata e nascosta, al limite del bosco. «Ho un'idea» disse Elle. «Siamo in svantaggio, è vero, ma anche noi possiamo adottare le nostre varianti, no?» Un ghigno si disegnò sul suo volto e in quel momento capii che il suo piano sarebbe stato grandioso. «Dobbiamo farli uscire allo scoperto e spingerli verso il lago.» Annuii. Avrebbe potuto funzionare. «Okay, ci proveremo.» Vidi la determinazione anche sul volto delle altre e, dopo aver acconsentito al piano, ci sparpagliammo. Elle scomparve dietro un arbusto e le gemelle avanzarono caute, ritornando nel fitto del bosco. Restavamo solo io e Cris. «Nessuna pietà» le dissi scherzando. Le allungai un pugnetto e lei ricambiò, facendo combaciare le sue nocche con le mie. «Nessuna pietà.» Rispose al mio sorriso, dopodiché si dileguò anche lei, sparendo dalla mia vista. Mi incamminai verso il confine del bosco con passo felpato, ben attenta a non far rumore nel calpestare le foglie e a non inciampare. Sentii delle risate provenire da un punto non troppo lontano. Erano i ragazzi, dovevano avere colpito qualcuno. Tesi le orecchie nel tentativo di riuscire a individuarne la fonte, lasciando che i miei sensi mi guidassero. Ad un tratto vidi Nino, accovacciato su un grosso ramo di un imponente albero. Mi chiesi se tutti i ragazzi fossero arrampicati da qualche parte e se quella fosse la loro strategia d'attacco. Da quella posizione era impossibile che riuscisse a scorgermi, nascosta com'ero dietro due tronchi ravvicinati, ma anche le mie possibilità di farlo cadere nel lago da lì erano pari a zero. Tuttavia avrei sempre potuto distrarlo facendogli terminare le munizioni, per poi bersagliarlo io stessa. Sì, quella era un'idea fattibile. Girai intorno ai miei due alberi, stando sempre ben attenta a non farmi notare. Mi accucciai dietro ad un cespuglio compatto e presi la mira. Tirai il gavettone nello stesso momento in cui uno colpì me. Distratta da quell'improvviso attacco, il mio palloncino si afflosciò contro la corteccia, richiamando l'attenzione di Nino. Ma non me ne preoccupai, perché non feci in tempo a riprendermi, che ne sentii arrivare degli altri. Provai a coprirmi il volto con un braccio, mentre con l'altro raccolsi uno dei miei gavettoni e lo lancia senza sapere esattamente dove stessi mirando. Intravidi due corpi avvicinarmisi, uno distante, l'altro fin troppo vicino al punto in cui mi trovavo. Quando riacquistai finalmente il pieno controllo della mia vista, riuscii a distinguere un paio di occhi verdi che ben si armonizzavano con la natura circostante. Poi udii la sua voce: «Dovresti prendere meglio la mira, Chika.»

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Capitolo 9
*** Nove ***


Una scarica di adrenalina attraversò il mio corpo. Mi sentii come se fossi stata appena colpita da un fulmine e la sua elettricità si stesse propagando nella mie vene, conferendomi maggior energia e velocità. Focalizzai la mia attenzione su Federico e sul suo ghigno divertito a pochi passi da me. Agii d'istinto e raccolsi un altro gavettone dal mio zaino di fortuna. Lo sferrai nella sua direzione con tutta la forza che mi ritrovai in corpo, questa volta centrando il bersaglio. Servirono a ben poco i suoi ottimi riflessi che gli suggerirono di accovacciarsi al suolo. La traiettoria parabolica del mio determinato, seppur debole, lancio difatti lo colpì ugualmente all'altezza delle spalle, inumidendogli i ricci castani e riempiendo le lenti degli occhiali di innumerevoli gocce d'acqua. 
Non ne sembrò particolarmente lieto, così cacciò gli occhiali in tasca e sollevò il suo sguardo irato su di me. «Questa te la farò pagare, promesso.»
Le mie labbra si distesero in un sorriso provocatore. «Provaci.»
I suoi occhi brillarono di un che di divertito ed eccitato dalla sfida. «Non vedo l'ora.» E si scagliò nella mia direzione.
Senza alcun indugio, spronai le mie gambe a correre, ampliando le falcate più di quanto mi fossi mai sforzata di fare. Non ero mai stata una ragazza da jogging e sicuramente la corsa non era il mio punto forte. Eppure sentivo ancora i riverberi del fulmine farsi largo in me, prendendo vita e agevolandomi in quella fuga. Quando una fitta al fianco iniziò a farsi sentire con tutta la sua prepotenza, decisi che a quel punto correre non sarebbe servito più a molto. Mi appiattii contro il tronco di un arbusto, in silenzio e in attesa. Il mio corpo sembrò esser grato di quella momentanea quiete e ne approfittò per riprendersi, fin quando il dolore non scemò del tutto. 
Dopo diversi istanti, Federico ancora non mi aveva raggiunta. Strano, visto che era solo qualche decina di metri dietro di me. Poi udii la sua voce e tutto fu più chiaro: «Non mi troverai mai. Questo lo sai, vero?» 
Si era nascosto anche lui, tuttavia... be', mossa davvero stupida la sua. Sorrisi fra me e me, consapevole di essere tornata in vantaggio. Per quanto potesse essere stato bravo a nascondersi, avrei potuto tranquillamente seguire la sua voce e rintracciarlo. E la voce, ne ero sicura, era venuta da sinistra. Sbirciai da dietro il fusto contro cui mi ero appiattita e intravvidi un suo braccio sporgere da un tronco poco lontano da me. Doveva essersi nascosto anche lui, come me, dietro quell'imponente tronco. Raccolsi un palloncino, prima di richiamare la sua attenzione a gran voce. Come previsto, si girò nella mia direzione e riuscii a centrare in pieno il suo volto, con un'abilità che non sapevo di possedere fino ad allora. 
«Questo è per il gavettone di prima!» urlai mentre il colpo andava a segno.
Sembrò disorientato da quell'improvviso attacco, poi iniziò a reagire. Mi sporsi per un nuovo lancio, ma lui fu più svelto di me e il suo gavettone mi colpì ad una gamba. «Ho un po' di gavettoni da vendicare anch'io, sai?» mi giunse la sua voce mentre si riparava nuovamente dalla mia traiettoria. 
«Oh, be', se la mettiamo così...» Mi spostai ad un tronco vicino, cosicché la sua figura mi risultò ben visibile anche da nascosta. Gli lanciai un nuovo palloncino, questa volta colpendo di striscio solo il suo gomito. «Questo era per aver riso dei miei errori del test!»
Fui raggiunta dalla sua risata bassa e mi sentii punta sul vivo. «Ma dai, te ne ricordi ancora? Seriamente?»
Tirai fuori il capo e vidi che anche lui aveva fatto lo stesso. Sollevai le spalle e aprii le braccia, spazientita. «Sì! Ci sono rimasta parecchio male.» Gli lanciai un altro gavettone, questa volta più per la frustrazione che per il gioco, ma lo mancai.
«Stavo scherzando, non puoi essertela presa sul serio!» Sgranò gli occhi, ma il sorriso divertito non lo aveva ancora abbandonato.
«Be', non sei stato molto divertente.» Assottigliai gli occhi e mi riparai nuovamente dietro al mio fusto.
La sua voce mi raggiunse subito dopo, con un'affermazione inaspettata: «Tu mi fissavi. Come la mettiamo?»
Non resistetti alla tentazione e uscii metà corpo ancora una volta allo scoperto. Un'espressione disgustata e sbigottita prese vita sul mio volto sentendo quelle parole. «Scusa?»
«Ah, le ragazze di oggi! Nessun pudore!» mi provocò. 
«Eri tu a fissare me in quel modo dannatamente irritante!»
Fece spallucce, scuotendo le spalle. «Avevi attirato la mia attenzione e il tuo viso mi era familiare.» Poi, notando il mio sguardo interrogativo, aggiunse: «Non ero rimasto ammaliato dalla tua bellezza o roba del genere, Chika. Non illuderti.» Concluse la frase ammiccando, così gli tirai un nuovo gavettone in pieno volto, giusto per il gusto di eliminare quel ghigno divertito che ancora non lo aveva abbandonato.
«Che mi dici allora della gara di logica?» lo provocai ancora, riportando a galla vecchi ricordi. 
Sembrò confuso da quello slittamento temporale. «Cosa?» Inarcò un sopracciglio, fastidiosamente divertito da quella situazione. «Ho urtato i tuoi sentimenti anche in quell'occasione?»
«Tu non hai urtato i miei sentimenti, okay?» risposi, irritata. «La gente non urta i miei sentimenti. La gente mi irrita, il che è diverso.» 
«Quindi io ti irrito» concluse, meditabondo, mentre con il pollice e l'indice accarezzava la barbetta sul mento. «Be', me ne ricorderò la prossima volta che avrò intenzione di offrirti delle caramelle.» Qualcosa, forse un cambiamento nella mia espressione, gli fece poi aggiungere: «Ah-ah, eccolo lì. Il tuo punto debole sono le caramelle quindi.»
«Di che parli?» chiesi, confusa.
«Parlo della delusione che si è dipinta sul tuo volto non appena ho nominato le caramelle.» Approfittò della mia momentanea distrazione per riprendere il gioco. Un gavettone mi colpì al petto e ne tirai un altro fuori a mia volta. 
«Tutti amano le caramelle, ed io più di tutti, sì.» Sferrai il mio colpo, centrando il mio bersaglio all'altezza del mento che poco prima aveva accarezzato.
Una smorfia gli increspò i lineamenti per quel nuovo afflusso di acqua. «Ti deve piacere proprio la mia faccia per mirare sempre a quella.» Mi sorrise, inclinando le labbra in un sorriso sghembo che normalmente avrei trovato attraente in un altro contesto e su un altro soggetto. Ma sul volto di Federico non fece altro che incrementare ancora di più il mio astio nei suoi confronti.
Mi nascosi dietro al mio tronco, quando fui distratta da una chioma bionda e scombinata che si intravvedeva da un cespuglio sulla mia destra, circa sei tronchi dopo il mio. La chioma si sollevò per mirare a qualcuno nella direzione opposta e lo vidi: Dario, con gli occhi socchiusi per la concentrazione e il busto inarcato in avanti, era pronto a sganciare la sua bomba a mano. Sperai che la mia buona mira non mi avesse di nuovo abbandonato e raccolsi un gavettone. Me ne restavano ancora solo un paio, quindi errori di lancio non erano consentiti. Lo tirai con incredibile attenzione e funzionò. In tempo di niente la plastica rosa del palloncino aderì ai capelli crespi esattamente sul capo, mentre dei flutti d'acqua gli scorrevano ai lati del volto. Saltellai sul posto, presa dall'euforia del mio momento di gloria. 
Poi Dario mi vide ed uscì allo scoperto con uno sguardo che oscillava fra il divertito e l'irato. «Come hai osato colpirmi alle spalle?»
«Senti da che pulpito viene la predica!» gli strillai di rimando. «Credi non sappia che eri insieme a Federico quando mi avete colpito con quel gavettone poco fa?» Incrociai le braccia al petto, sperando che quella posizione mi conferisse una certa aria da dura. Poi lo vidi avanzare nella mia direzione, così mi accovacciai di colpo e ruzzolai fino a raggiungere un basso e fitto cespuglio. Realizzai che i cespugli stavano diventando il nostro terreno di difesa, mentre gli alberi quello di attacco.
«Fatti vedere, sei sleale!» mi raggiunse la voce di Dario. Lo intravvidi da uno spiraglio fra le foglie, mentre si guardava intorno alla mia ricerca, fino a raggiungere il punto in cui prima si trovava Federico. Aspetta, che fine aveva fatto Federico? Era lì fin quando... Di colpo sentii delle mani poggiarsi sulle mie spalle. Mi tirarono su, svelando al biondo la mia posizione. 
«Dario» riconobbi la sua voce inconfondibile, perché velata sempre da dell'ironia, alle mie spalle. «Adesso è tutta tua.»
L'altro sorrise soddisfatto vedendomi indifesa, stretta in una morsa dalle braccia possenti di Federico. «Grazie, amico.»
«Sì, grazie tante, amico» gli feci eco, caricando di sdegno l'ultima parola. Mi divincolai per quanto possibile, ma il suo petto premeva contro la mia schiena impedendomi ogni movimento azzardato. «Dannazione, lasciami andare!»
Sentii il suo respiro caldo solleticarmi la pelle sensibile del collo quando parlò di nuovo, questa volta sussurrandomi ad un orecchio. «E adesso dimmi: da uno a dieci quanto sono irritante in questo momento?»
«Non credi sia troppo ristretta come scala?» dissi, facendo leva sulle sue braccia tese a bloccare le mie dietro la schiena.
«Sì, hai ragione.» Lo sentii ridere e mi lasciai sfuggire anch'io una risata, seppure tentassi ancora di fare la dura. «Dario, adesso!»
«No!»
Ma ormai era troppo tardi. Il gavettone mi inzuppò la maglia e l'impatto fece cadere per terra i miei ultimi due palloncini. Li guardai ruzzolare via, facendosi strada nel terriccio leggermente in discesa. Le risate dei ragazzi mi riempirono le orecchie e sembrarono non voler finire più. Approfittai della temporanea distrazione del mio rapitore per pestargli il piede, ma lui non batté ciglio. E se sentì dolore, sicuramente non lo diede a vedere. Fece scivolare le mani lungo i miei fianchi, stringendomi poi alla vita e mi sollevò di colpo, in modo che i miei piedi non potessero più toccare terra. 
«E adesso come farai, Chika?» mi schernì. 
Ritornai indietro con la mente ad una calda serata estiva di quando avevo appena dieci anni. Stavo giocando con dei miei amici ad un gioco appena inventato. Ognuno di noi indossava un cappellino e l'obiettivo del gioco era proprio rubare i cappellini della squadra avversaria. Io capitanavo la squadra delle bambine e ci trovavamo in netto svantaggio rispetto alla squadra dei maschi. In quanto leader, continuavo ad incitare le mie compagne di squadra a non arrendersi e seguitavo ad elaborare sempre nuove strategie di attacco. La mia euforia nel gioco mi accompagnava sin da sempre e mi aveva sempre aiutato ad essere abile, quanto a divertirmi. Ai tempi ero rimasta da sola contro la mia cotta infantile ed altri due bambini. Avevo i loro cappellini, ma ero in trappola: loro volevano il mio. Così, quando riuscirono finalmente ad ottenerlo, mi sedetti a terra e finsi di stare per piangere. In quel modo speravo di riuscire a convincerli a restituirmi ciò che era mio, facendo leva sul loro senso di colpa e sul mio sguardo triste. E così era stato.
Tornata al presente, realizzai che, se avessi smesso di scalciare e di dimenarmi, le vie d'uscita da quella situazione, per come la vedevo io, sarebbero state due: nel migliore dei casi, uno dei due ragazzi alla fine avrebbe provato compassione per me, non gioendo più nel vedermi reagire, e a quel punto mi avrebbero lasciata andare, cosicché io potessi rubare le loro munizioni e correre a nascondermi nel bosco, questa volta con maggior cura; nel peggiore dei casi, avrebbero continuato a bersagliarmi di gavettoni, fin quando le loro munizioni non fossero terminate e il gioco finito.
Ma, ad essere sincera, non mi entusiasmava nessuna delle due opzioni. Eppure, mi sembrava di non avere altra scelta, finché qualcosa non attirò la mia attenzione. Un urlo ci costrinse a voltarci, mentre sembrava aumentare nella nostra direzione sempre più, secondo dopo secondo. Vedemmo Davide farsi largo fra le basse fronde e raggiungerci correndo, con le braccia allargate e le labbra schiuse in un grido. La bandana gli era scivolata giù dalla fronte fino al collo e gli abiti sporchi di terriccio umido suggerivano che fosse caduto almeno una volta. Ci superò ancora travolto nella sua frenesia e, solo dopo qualche istante, riuscii finalmente a capire da cosa stesse scappando, o meglio da chi. Le gemelle emersero da tutto quel verde naturale, continuando a lanciare gavettoni davanti a sé. Si erano dipinte in volto delle spesse strisce nere nello stesso modo in cui si vede fare in alcuni film d'azione, e quei segni sembravano conferire loro un'aria minacciosa e aggressiva, in netto contrasto con l'aspetto angelico che davano loro i tratti delicati del volto e i capelli biondi, ora raccolti alla rinfusa. Non appena si accorsero di me, Federico e Dario, si arrestarono di colpo e iniziarono a bersagliare i ragazzi. 
Sentii Federico imprecare dietro di me, mentre finalmente si decideva a lasciarmi andare a causa dei continui afflussi d'acqua senza tregua. «Dario, andiamo!» lo sentii gridare all'amico. Entrambi si dileguarono, tentando invano un ultimo contrattacco, fin quando non seguirono le orme di Davide e non riuscii più a vederli.
«Grazie dell'aiuto, ragazze» dissi sorridendo con gratitudine. Un starnuto mi scosse e mi strinsi le braccia al petto.
«Ricordi il piano di Eleonora?» mi chiese la gemella con la felpa verde, Giulia. Annuii. 
«Ottimo, è arrivato il momento, dobbiamo andare verso il lago» concluse la sorella. Mi cedettero qualche gavettone, mentre avanzavamo fra i rami spezzati e i bassi cespugli. Recuperammo Cris, che si era avventata contro Carlo, e poi ancora Elle e Luca. I due litigavano selvaggiamente, ignorando la battaglia d'acqua che si stava svolgendo intorno a loro: Elle con i capelli rossi gonfi di nodi che la facevano somigliare ad una leonessa sul punto di attaccare; Luca sporco di fango fin sopra le ginocchia. Mi chiesi come avessero fatto a ridursi in quello stato selvaggio.
«Ehi, Elle» la chiamai. Lei si voltò immediatamente nella mia direzione, ignorando Luca che cercava di farle cambiare idea su qualcosa che, a quanto pareva, era stato il centro della loro discussione. «Al lago!» aggiunsi poi. Colsi una scintilla radiosa nei suoi occhi e, ricordandosi del suo stesso piano, ci raggiunse di corsa. 
Cristina le tolse una foglia autunnale dalla chioma aggrovigliata, poi: «Stavate litigando sul serio voi due?»
«Sì, qualcosa del genere.» Scosse le spalle, sorridendo per alleggerire la situazione. «Non era nulla di che. Andiamo, c'è una questione più importante da risolvere adesso.»
Fu la prima a muoversi e tutte le andammo dietro, ma, una volta giunte al lago, i ragazzi ci ignorarono, intenti com'erano a prepararsi per un tuffo nel lago, mettendo da parte i vestiti superflui. 
«Be', ci stanno facilitando il gioco buttandosi da soli in acqua» proruppe Silvia, interrompendo il silenzio del gruppo. Magari si erano semplicemente stancati di giocare e avevano deciso di chiudere così in bellezza. Tipico dei ragazzi.
Poi però successe qualcosa che non avevamo previsto. I ragazzi fecero dietrofront e corsero nella nostra direzione, incuranti dei gavettoni che iniziammo a lanciare contro di loro, intuendo le loro intenzioni nient'affatto benevole. Ma ormai era troppo tardi ed eravamo diventate delle pedine nelle mani della squadra vincente. Ci afferrarono, una a testa, caricandoci in spalla come se nulla fosse, mentre Nino gestiva il tutto da un punto indefinito vicino alla sponda. Lo sentii gridare e i ragazzi corsero verso il lago e noi con loro. Battei i pugni contro la schiena di Dario, sentendomi ridicola per quel comportamento infantile, ma con la vana speranza che alla fine si stancasse e mi lasciasse andare. 
Poi successe: si tuffarono nel lago. L'acqua gelida mi penetrò fin dentro le ossa, intorpidendo i miei muscoli. Scalciai per liberarmi dalla forte presa di Dario che ancora mi sovrastava quasi per intero e, quando finalmente riaffiorai in superficie, l'aria fresca di montagna mi fece battere forte i denti. Vidi il volto sorridente di Dario proprio di fronte a me e non riuscii a resistere alla tentazione. Mi avvinghiai a lui e feci pressione sul suo capo tenendolo sott'acqua per qualche istante. 
«Sei un bastardo» gli dissi quando lo feci riemergere.
Dario mi rivolse un sorriso a trentadue denti, di quelli che ti danno motivo di sorridere a tua volta. «Un bastardo a cui vuoi bene» mi rispose allora, ridendo di gusto.
«Questo non è vero e lo sai.» Risi anch'io insieme agli altri ragazzi e l'aria si riempì delle nostre risate, mentre il sole tramontava sulla linea dell'orizzonte, diffondendo ovunque il suo alone rossiccio e la superficie del lago brillava dei nostri riflessi purpurei.
Quando il sole scomparve alla nostra vista, ci trascinammo fuori dall'acqua, fino allo strato di ciottoli che circondava il lago. Riuscimmo a distinguere senza troppa difficoltà i segni lasciati da Nino sui tronchi all'andata, ma, a causa della stanchezza, impiegammo comunque quasi il doppio del tempo necessario per tornare a casa.
Carlo, Luca e Dario si occuparono di accendere il camino con la legna raccolta ad inizio giornata e finalmente il calore iniziò a sciogliere i corpi gelidi. Cristina recuperò diverse coperte e tovaglie dai vecchi cassettoni delle camere da letto, in modo tale che ognuno di noi avesse qualcosa di concreto con cui asciugarsi in attesa che il calore del fuoco riscaldasse l'ambiente. Sgranocchiammo i resti del pranzo, ma nessuno aveva davvero fame, così, una volta asciutti, decidemmo di salire in terrazza.
Spegnemmo le luci della casa, in modo tale che l'unica illuminazione provenisse da un lampione lontano, in strada, oscurato in buona parte dall'abitazione stessa. Presi posto accanto a Cris e ci sdraiammo su un telo steso per terra. Anche gli altri fecero lo stesso e per un po' ognuno restò da solo con i propri pensieri, contemplando il meraviglioso cielo puntellato di stelle luminose. Cercai di distinguere le due costellazioni del Piccolo Carro e del Grande Carro, perdendomi in quell'intricata rete stellata. 
Poi la vibrazione insistente del cellulare di qualcuno ci scosse da quel torpore, appena in tempo per vedere il volto di Federico illuminato dalla luce del display mentre leggeva il nome di chi lo stesse chiamando. «Scusate.» Si tirò su di colpo e si allontanò abbastanza da rendere privata la conversazione.
«Allora, alla fine ve l'abbiamo fatta pagare» proruppe Davide rivolgendosi alle gemelle.
Giulia ridacchiò, tirando una ciocca di capelli dietro l'orecchio destro. «Possiamo dire che ne siamo usciti tutti vincitori, sì.»
Elle, sdraiata accanto a Cris dal lato opposto, si sollevò sui gomiti. «A proposito, come diamine avete fatto quelle strisce sulle guance? Non sarà stato vero fango spero.»
Le due bionde risero di gusto, poi Silvia le rispose: «No, certo che no. Mi sono solo ritrovata un matitone per gli occhi in tasca e ne abbiamo fatto un uso alternativo.»
Sorrisi al ricordo di loro due che, come due guerriere della foresta, giungevano in mio soccorso. «Be', peccato, il fango sarebbe stato più d'effetto» dissi con un pizzico di delusione nella voce.
In quel momento Federico ci raggiunse di nuovo, cacciando il cellulare in tasca. 
«Allora, chi era?» gli chiese Carlo con sincero interesse.
«Il mio medico.» Fece spallucce e tornò a sedersi sul muretto. «Voleva sapere della mano.»
Era tardi per una chiamata del medico e tutti sembravano esserne consapevoli, ma nessuno obiettò la sua risposta. Perlopiù la mano stava benissimo, tanto da essere riuscito senza difficoltà a sollevarmi da terra nel bosco quello stesso pomeriggio. Ma chiunque fosse stato al telefono, Federico non voleva si sapesse, così tornammo a parlare del nascondino ancora per ore, fin quando gli sbadigli non iniziarono a sostituirsi alle parole. 
Prima le gemelle, poi anche Carlo, Davide e Dario scesero al piano inferiore, preparandosi ad una breve notte di sonno: ancora un paio di orette e sarebbe stata l'alba.
«Becks, scendiamo anche noi?» mi chiese Cristina, accanto a me. Mi volsi verso di lei e, in tutta risposta, sbadigliai. «Elle, tu?»
La rossa era raggomitolata fra le braccia di Luca, beata in quella culla personale. «Resto ancora un po' io.» Le sorrisi e spinsi Cristina verso le scale. 
«Aspetta, devo recuperare le coperte prima.»
«Okay, ti aspetto.» Mi avvicinai al muretto cui erano appoggiati Nino e Federico in un irreale silenzio, mentre ancora ammiravano le stelle nel cielo terso. 
«Per quanto mi riguarda, nulla so con certezza.» Federico ruppe il silenzio con la sua voce bassa e calda al tempo stesso. «Ma la vista delle stelle mi fa sognare.» Mi voltai automaticamente nella sua direzione e lo vidi appoggiare il mento sulle mani incrociate, mentre il suo sguardo si perdeva chissà dove nell'infinità di quel cielo notturno. 
«Potrei rubarti questa frase, sai?»
Quando si volse a guardarmi, mi sorrise. «Be', in realtà lo ha già fatto Van Gogh.»
«Oh.» Sorrisi, sorpresa dalla citazione. «Ora si spiega tutto.» 
Con gli occhi ancora puntati nei miei, fu sul punto di dire qualcosa, ma Cristina tornò con le braccia stracolme di coperte e mi tirò per un braccio, invogliandomi a seguirla. 
«Okay, devo andare. Buonanotte.»
Continuò a guardarmi, senza dir nulla. Poi, quando fui sul punto di scendere le scale: «'Notte, Chika.» Ma non c'era nulla di ironico nel suo tono.

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