Aching Soul

di WhileMyGuitarGentlyWeeps
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo I ***
Capitolo 2: *** Capitolo II ***
Capitolo 3: *** Capitolo III ***
Capitolo 4: *** Capitolo IV ***
Capitolo 5: *** Capitolo V ***
Capitolo 6: *** Capitolo VI ***
Capitolo 7: *** Capitolo VII ***
Capitolo 8: *** Capitolo VIII ***
Capitolo 9: *** Capitolo IX ***
Capitolo 10: *** Capitolo X ***
Capitolo 11: *** Capitolo XI ***
Capitolo 12: *** Capitolo XII ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Capitolo XIV ***
Capitolo 15: *** Capitolo XV ***
Capitolo 16: *** Capitolo XVI ***
Capitolo 17: *** Capitolo XVII ***
Capitolo 18: *** Capitolo XVIII ***
Capitolo 19: *** Capitolo XIX ***
Capitolo 20: *** Capitolo XX ***
Capitolo 21: *** Capitolo XXI ***
Capitolo 22: *** Capitolo XXII ***
Capitolo 23: *** Capitolo XXIII ***



Capitolo 1
*** Capitolo I ***


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I.

Era una giornata fredda, sì decisamente fredda, di metà febbraio quella in cui Joan Cameron mise piede nell’appartamento al quarto piano, il 4D, esattamente di fronte al 4C, di un piccolo palazzo in Coleridge Street, nel Queens.
La zona non era delle migliori del quartiere, ma era quanto di meglio una psicologa alle prime armi come lei potesse permettersi. Parcheggiò la sua Chevrolet lì davanti, sperando di ritrovarla la mattina successiva e trascinò le enormi valigie su per i quattro piani.
Arrivò senza fiato, la borsa scesa dalla spalla e le mani doloranti per il peso delle valigie.
Trovò la chiave al primo colpo ma, nonostante i vari tentativi la porta non si apriva.
“Niente, non funziona!” Piagnucolò. Era quella giusta, come diavolo poteva essere che la maledettissima porta non si apriva?!
“Eddai”. Tentò di rinfilarla, senza avere successo. “Ottimo”.
Chiamò il proprietario, che le disse che forse, le aveva dato la chiave di un altro appartamento. L’uomo era però fuori città e poteva portargli la chiave giusta solo il mattino successivo.
“Senta, le ho dato tre mesi di anticipo, il minimo che possa fare è darmi la chiave giusta di questo maledetto appartamento”.
Niente, non sarebbe venuto prima delle 10 del mattino dopo.
“Scherza? E secondo lei dove dovrei dormire questa notte, sotto il ponte di Brooklyn?!”. L’uomo chiuse la comunicazione. “Idiota!”
Tirò un calcio alla porta facendosi male.
“Ti spiace non strillare a quest’ora?” Era una voce alle sue spalle a parlare, la voce profonda di un uomo sulla trentina. Un bel ragazzo, i capelli neri e gli occhi chiarissimi, un lieve accenno di barba sul viso che lo rendeva più vecchio di quello che in realtà non fosse.
“Quest’ora sono le undici e…” Controllò l’orologio. “Sette minuti, mio caro. E comunque non mi sto divertendo, a quanto pare sono chiusa fuori da una casa che non ho neanche mai visto perché il padrone di casa è un idiota. Come puoi aver notato sono piuttosto irritata, quindi se potessi evirare di farmi incazzare ancora di più te ne sarei grata”.
Un sorriso si stampò sul volto del ragazzo, per nulla scalfito dal nervosismo della ragazza. Pensò che nonostante fosse isterica non fosse niente male. Era sul metro e sessantacinque, forse qualcosa in meno, snella. I ciuffi più corti di quei capelli castani e lunghi continuavano a scapparle davanti agli occhi sottili e verdi.
“Dovresti calmarti”.
Lei rise istericamente. “Sì, quando potrò entrare in casa mia mi calmerò!”
Lo sconosciuto rientrò in casa sua lasciando la porta aperta, senza aggiungere altro.
Quando ne uscì aveva qualcosa in mano, ma Joan non riuscì a vedere cosa fosse. Si avvicinò alla porta e usò ciò che aveva in mano per aprirla.
“Benvenuta a casa sua signorina”.
La ragazza era colpita, ma perplessa. “Hai appena scassinato la porta di casa mia?!”
Lui alzò le spalle come se ciò che avesse fatto fosse la cosa più normale che esista. “Non volevo sentirti strillare per tutto il giorno”.
“Ehm…Ok, grazie”.
“Quando vuoi”. Sparì dietro la porta senza dire nulla.
“Casa dolce casa”. Disse Joan sarcastica. In effetti non era male… Certo non era un attico nell’Upper East Side, ma comunque era un tetto sopra la testa. C’era una cucina abbastanza grande con un tavolo accostato alla parete, un salotto con un divano , una camera da letto luminosa senza però l’armadio, un bagno e uno sgabuzzino, che Joan pensò subito di trasformare in una piccola
cabina armadio.
Sistemò le cose e quando finì era ormai buio.
 
Un suo collega di New York, che si sarebbe trasferito in Giappone, le aveva ceduto lo studio, ma avrebbe iniziato a lavorarci solo alcuni giorni dopo.
La mattina era il suo momento preferito, amava svegliarsi presto, fare colazione e prepararsi con calma sorseggiando un caffè. Uscì appena dopo aver ricevuto le chiavi di casa dal padrone di casa, che le aveva chiesto sarcasticamente se la notte avesse dormito sotto il ponte di Brooklyn. Non ci mise molto a trovare il supermercato, tutt’altra faccenda invece era la via del ritorno. Tutte le vie le sembravano uguali e ci mise molto prima di riuscire a trovare quella giusta.
Il mattino, invece non era per niente un buon momento per Brent ‘Cult’ Jameson. Odiava sentire il suono della sveglia la mattina, doversi occupare…Bè di qualsiasi cosa lui si occupasse. Nessuno sapeva bene che lavoro facesse, se non le persone che non lui ci lavoravano, che si potevano comunque contare sulle dita di una mano.
Quella mattina doveva andare a parlare con un tizio che doveva dei soldi ad un altro tizio. Sì, faceva l’allibratore, ma anche la guardia del corpo, detective privato su chiamata e solo per una cerchia ristretta di persone e buttafuori in una discoteca di un suo amico.
 
“Ottimo, ora che ho le chiavi non le trovo”. Joan inveiva contro che chiavi disperse chissà dove nella capiente borsa.
“Possibile che sei sempre nervosa?” Era di nuovo il tizio dell’appartamento di fronte. Quel giorno però non indossava solo dei jeans morbidi e una canotta bianca, aveva una giacca di pelle nera, tenuta aperta e dei pantaloni scuri.
“Non trovo le chiavi”.
“Se vuoi posso…” Cercò di dire lui sfoderando un sorriso a mille denti.
“No, grazie, non voglio essere complice di uno scassinatore”. Rispose lei bruscamente.
“Ok”. Alzò le mani in segno di resa, ma si avvicinò e le prese le buste con la spesa.
Joan, con le mani libere poté finalmente cercare meglio le chiavi, che trovò sul fondo della borsa.
Aprì la porta e riprese le buste, ringraziando lo sconosciuto.
“Io comunque sono Joan”. Gli disse tendendogli la mano sottile dopo che l’aveva liberata dalle buste appoggiate all’entrata.
“Cult”.
Cult? Che razza di nome era? Bah…Probabilmente non era il caso di fargli notare le sue perplessità, non sarebbe stato educato e in fondo lui era stato molto gentile. Se non fosse stato per lui avrebbe dormito chissà dove.
“Bè allora ci vediamo, Joan
La ragazza si limitò ad annuire e chiudersi la porta alle spalle. Affascinante era affascinante… Gli ultimi dirimpettai che aveva avuto erano un vecchietto che si lamentava per qualsiasi cosa e sua moglie, una vecchietta simpatica e mezza sorda, quindi diciamo che le sarebbe andato bene chiunque come vicino.
Si doveva ancora abituare a quella casa, a quel letto, al divano scomodissimo, alla porta di legno verde oliva, all’aria diversa, perché sì, quando cambi città anche l’aria cambia. New York era meravigliosa, ma nulla batteva la città in cui era nata e cresciuta: Washington. Le mancavano la casa bianca, il cimitero monumentale, con tutte quelle tombe perfettamente uguali,  l’obelisco, le passeggiate notturne con David. Ah sì, David Newlin, specializzando in chirurgia e suo ex fidanzato.
Già ex… Certe cose non funzionano e basta, no? Il per sempre felici e contenti esiste solo nelle favole.
 
“Devi pagare, ok? Quella non è gente che scherza”.
“Mi mancano ancora quattrocento dollari…Un paio di settimane e li avrò tutti, digli di darmi un po’ di tempo”.
L’uomo aveva occhi supplichevoli e, nonostante Cult non l’avrebbe mai ammesso, gli faceva compassione. Gli allungò i duecento dollari che aveva nella tasca interna della giacca.
“Ora te ne mancano duecento. Hai cinque giorni, non uno di più”.
Se ne andò senza neanche guardare l’uomo, il cui sguardo era pieno di gratitudine.
Cult salì in macchina scuotendo la testa. Si guardò nello specchietto retrovisore.
“Ti stai rammollendo, Cult!”
Si tirò uno schiaffetto e ingranò la marcia.
Sulla via del ritorno incontrò la vicina di casa, quella carina, Joan, sembrava quasi persa. Si guardava intorno alla ricerca di un punto di riferimento. Perché diavolo aveva deciso di uscire a fare un giro di ricognizione?
Cult suonò il clacson e Joan sussultò, girandosi. Individuò un volto conosciuto e si avvicinò all’auto, che aveva accostato.
“Ehi, ti sei persa?”
Annuì, imbarazzata. “Volevo conoscere la zona, ma ho fallito miseramente”.
“Sali”.
Lei fu incerta, ma alla fine accettò il passaggio.
“In questa strada il sabato non si può parcheggiare, quindi ricordatelo, invece da noi fanno la pulizia delle strade il mercoledì mattina, stai attenta o ti portano via la macchina”.
Joan annuì sperando di ricordarsi tutto.
“Lì c’è una fermata della metro, tra due isolati ce n’è un’altra, che è a un solo isolato da casa nostra”.
“Ok, fermata a un isolato da casa nostra, tra due isolati”.
“Brava, mi piacciono le persone che imparano in fretta”.
“Miss, eccola alla sua residenza”. Disse poi parcheggiando dall’altra parte della strada, di fronte a casa.
“Bè grazie, è la terza volta che mi aiuti in due giorni”.
“Consideralo un benvenuto, sono un gentiluomo”.
“Non mi fido dei favori gratuiti…Diciamo che ti devo un paio di favori, ok?” Gli porse la mano, che lui strinse in una morsa calda e rassicurante. Restò per un attimo a guardarlo, aveva gli occhi così chiari che sembravano trasparenti; lui dal canto suo fece lo stesso, la ragazza aveva gli occhi espressivi, lo sguardo intenso e delle labbra perfette, carnose ma non troppo.
Fu Cult a staccarsi per primo da quel contatto privando Joan del suo calore. La ragazza scese dall’auto e fu investita da una folata di vento gelato.
Il meteo prevedeva neve nei giorni successivi, e nell’aria si sentiva già il suo profumo, quel profumo che Joan aspettava per tutto l’anno quando era piccola.
 
Cult non amava granché avere a che fare con ragazzini che non avevano l’età per ubriacarsi, che buttavano giù più drink di quanti riuscissero a contarne, ma si sentiva in dovere di aiutare Steve, l’amico di una vita, il compagno di bevute, la persona che lo accompagnava da quando aveva sette anni.
Si tolse i vestiti che aveva addosso per sostituirli con pantaloni e camicia neri e uscì di casa. Diede un’occhiata di traverso alla porta del 4D. Sembrava tutto tranquillo.
La discoteca era ancora vuota, era relativamente presto,ma dopo una mezz’ora i ragazzi iniziarono ad animare la serata.
Verso le due un ragazzo, mezzo ubriaco, forse con altro in sangue oltre all’alcool, si avvicinò a Cult, che stava vicino al bancone a controllare l’interno.
“Ehi, amico”. Gli appoggiò una mano sulla spalla. Quel contatto lo infastidì.
“Dai ragazzo, tornatene a casa a smaltire la sbornia!”
Il ragazzo, che non avrà avuto più di vent’anni. “Io non sono ubriaco”.
“Ne sono certo, ma è meglio se vai a casa”.
“Voglio divertirmi”.
“Sì, ma è meglio se lo fai fuori di qui”. Disse Cult prendendolo per il braccio, il ragazzo si dimenò ed estrasse un coltello. Cult si tirò indietro e fece un cenno a Steve, che lo raggiunse.
Quello che accadde dopo rimase confuso nella sua mente. Ci furono un susseguirsi di colpi assestati, colpi mancati, coltellate mancate…
 
Era un sogno strano quello che Joan stava facendo. Era nel mezzo di un bosco buio e camminava così lentamente da sembrare ferma e poi c’era un rumore, assordante, un rumore che rimbombava nel suo stomaco, nel cervello, nelle vene.
Si svegliò di soprassalto, i capelli davanti agli occhi, le coperte scostate. Il rumore, assordante data l’ora, era reale, o forse stava ancora sognando.
Si tirò uno schiaffetto. Era reale. Controllò l’ora: le tre del mattino. Odiava essere svegliata nel bel mezzo della notte.
Si trascinò giù dal letto controvoglia, sperando che fosse davvero un sogno, anche se il pavimento freddo le fece pensare il contrario.
“Ma lo sapete che ore sono?!” Urlò arrivando alla porta.
Chiunque fosse non smetteva di bussare, imperterrito.
“Un attimo”. Disse poi aprendo la porta.
Quando vide ciò che aveva davanti agli occhi rimase scioccata: Cult, sanguinante da un fianco, era sorretto da un ragazzo alto quanto lui, i capelli scuri e gli occhi chiari. Anche lui aveva dei segni di lotta, all’altezza dello zigomo destro.
“Ci devi aiutare”. Era lo sconosciuto a parlare.
“Io…Io non credo di poter fare nulla, posso portarvi in ospedale o chiamare un’ambulanza”.
“No…Niente ospedali”. Era Cult quella volta, la voce bassa.
“Tu sei un dottore, no?” Lo sconosciuto indicò il campanello, sopra cui c’era una targhetta con la scritta ‘Dr. Joan Cameron’.
“Sì, una psicologa”. Spiegò lei.
“Lascia perdere…Te l’ho detto che non ci avrebbe aiutati…Farò da solo”. Cult si reggeva a malapena in piedi e si teneva il fianco. Non usciva molto sangue dalla ferita, ma la camicia, nera si era quasi completamente tinta di un colore ancora più scuro.
“Non se ne parla, non ti lascerò fare il John Rambo della situazione”. Il tizio sconosciuto sembrò sorpreso dal sarcasmo della ragazza data la situazione. “Entrate”.

 
Salve!
Ho deciso di iniziare questa nuova storia presa da un raptus che rasentava la follia. Questo capitolo, così come alcuni dei prossimi, sono stati scritti di getto.

Lo ammetto, non ero sicura di pubblicarle il capitolo dando il via a una nuova storia, ma alla fine mi sono fatta convincere dalla vocina interiore che mi diceva di farlo.
Spero vivamente che commentiate. Mi farebbe immensamente piacere, davvero, sia che siano critiche positive che negative (anche quelle fanno bene!).
Per cui non siate timide/i.
A presto! : )

xx


 

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Capitolo 2
*** Capitolo II ***


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II.
 
“Portalo sul letto, seconda porta sulla destra”.
Corse in cucina, prese un ago e del filo spesso, di quello che si usa in cucina, non aveva nient’altro per cucire quella ferita.
Si spostò in bagno dove si mise un paio di guanti e disinfettò l’ago e il filo. Prese del cotone, molto cotone.
Raggiunse i due in camera. Lo sconosciuto teneva la mano di Cult. Si rivolse proprio a lui.
“Cucina, primo cassetto, ci sono delle forbici e delle garze, portamele”. Toccò la fronte di Cult. “Porta anche la bottiglia di whiskey che c’è nell’armadietto”.
C’era molto sangue per una ferita di quelle dimensioni ma non sembrava grave…
Iniziò a sbottonargli la camicia, aprendola fino in fondo e spostandola. La ferita era ben visibile, come immaginava non era grave, ma continuava ad uscire sangue.
Lo sconosciuto fu di ritorno, con tutto quello che le aveva chiesto. Appoggiò tutto sul letto, ma poi si allontanò.
“Ok, Cult, ora disinfetto la ferita. Questo non farà male, non brucerà”. Lo vide annuire lentamente.
Versò sulla ferita mezza boccetta di disinfettante, per sicurezza, poi infilò il filo nell’ago.
“Ora devi bere questo”. Gli allungò la bottiglia di whiskey. “Bevine un po’, così sentirai meno dolore”.
“Gli farà molto male, vero?”. Era di nuovo il moro a parlare, l’amico di Cult.
Annuì senza dire nulla.
“Bevi ancora, avanti”. Gli disse sfiorandogli la fronte. “Ora cerco di cucirti la ferita. Farà male”.
Cult si mosse appena, dolorante.
Joan infilò l’ago nella pelle, sperando di fare tutto nel modo giusto. Non era mai stata così nervosa. La mano tremava, ma doveva andare avanti, tentare il tutto per tutto. Il ragazzo continuava a bere grandi sorsi dalla bottiglia.
“Andrà tutto bene”. Lo diceva più per se stessa che per Cult.
Continuava a cucire i due lembi insieme fino alla fine della ferita. Non sapeva come si terminasse una cucitura del genere, quindi si limitò ad annodare il filo su se stesso sperando che durasse. Tagliò la parte in eccesso, pulì la pelle dal sangue con un batuffolo di cotone imbevuto nel disinfettante e coprì la ferita con una grande garza adesiva.
Buttò ciò che aveva usato nel cestino. Cult era nel dormiveglia, si lamentava, gli allungò un paio di antidolorifici con un po’ d’acqua.
“Non ho nulla di più forte”. Disse aiutandolo ad alzarsi leggermente per prendere quelle pillole.
“Ora riposati”.
Lo coprì con una coperta che teneva sul divano.
 
“Vieni sconosciuto, ti disinfetto quel taglio”. Lo sconosciuto aveva un piccolo taglietto accanto al sopracciglio. Nulla di grave, ma giacché aveva cucito una ferita sanguinante, tanto valeva disinfettare anche quella.
“Grazie”. Si sedette sulla sedia in cucina, mentre Joan gli passava il batuffolo imbevuto di liquido freddo sul sopracciglio. “Non solo per questo, anche per Cult”.
“E dimmi, devo andare avanti a chiamarti sconosciuto o posso sapere il tuo nome?”
Gli strappò una risata. “Steve, mi chiamo Steve”.
“Bene Steve, e dimmi perché non l’hai portato subito in ospedale?”
“Lui non ci voleva andare e poi pensavo che fosse un graffio, come al solit…”
Si rese conto di aver detto troppo.
“Come al solito?!”
Non disse nulla.
“Io devo andare, di lui ti occupi tu, vero?”
Joan si limitò ad annuire, stupita e perplessa, ma anche un po’ diffidente.
Tornò in camera, per controllare Cult che si muoveva e si lamentava bofonchiando parole senza senso, non che si aspettasse qualcosa di diverso…In fondo aveva bevuto mezza bottiglia di whisky, che sommato al dolore fisico, allo stress mentale e agli antidolorifici lo avevano messo ko.
Gli sfiorò la fronte. Niente segni di febbre, ottimo. Era soddisfatta di sé. Se l’avesse raccontato a David probabilmente non le avrebbe creduto.
D’un tratto sentì qualcosa di caldo sulla mano. Era quella di Cult, che si era svegliato.
“Ehi”. Sussurrò.
Lei si limitò a sorridere, imbarazzata dalla situazione.
“Lo sai che sei bella?” Le fece quel complimento con una tale naturalezza che quasi non sembrò reale.
“Sei mezzo ubriaco e stordito dal dolore e dalle medicine”.
“In vino veritas”.
“Devi riposarti”. Gli passò le dita sulle palpebre per spingerlo a riposarsi, invece di affaticarsi a parlare e lui sembrò darle retta, perché lasciò le sue dita e si sistemò meglio per dormire.
Sembrava quasi angelica quella posizione, nonostante i capelli scompigliati, la barba di qualche giorno, la camicia sporca di sangue e sbottonata.
Restò a guardarlo per qualche minuto, forse più di ‘qualche’, poi dopo il terso sbadiglio capì che era ora di mettersi a dormire.
Si stese sotto le coperte, sperando di non svegliare Cult che dormiva lì accanto.
“Grazie”. Era solo un sussurro, probabilmente quasi inudibile da chiunque. Joan pensò di esserselo immaginato, di stare sognando ma non era così.
Eppure aveva ancora gli occhi chiusi. Era immobile.
Spense la luce sul comodino e si sistemò le coperte. D’un tratto dal nulla le dita di Cult si aggrapparono alle sue, senza preavviso. Quel tocco le toccò le corde del cuore. Non era il vero Cult quello, ne era sicura, i ragazzi come lui non fanno cose del genere, ma nonostante ciò che pensasse non ebbe il coraggio di fare a meno di quel contatto.
 
Svegliarsi con un raggio di sole accecante in una fredda mattina d’inverno non era certo la cosa migliore.
Cult si svegliò però più per il dolore lancinante al fianco che per la luce.
Qualsiasi cosa ci fosse sotto l’enorme cerotto bianco tirava e faceva male. Era come avere un migliaio di spilli conficcati in quel punto.
Notò solo dopo un po’ che non era nel suo letto. Le lenzuola bianche profumavano di qualcosa che non era il suo profumo. Erano sporche di sangue, come la sua camicia, completamente sbottonata.
Si voltò lentamente per non aumentare il dolore.
Accanto a se dormiva Joan, la vicina, il viso girato verso di lui, la posizione rilassata e naturale, le dita della mano sinistra strette in quelle della sua mano destra. Ecco cos’era quel contatto caldo.
Si liberò subito di quel contatto e le sfiorò appena la guancia.
Lei si svegliò.
“Ehi, come ti senti?”
“Bene”. Mentì.
“Sicuro? Continuo a pensare che tu debba farti vedere da un medico vero!”.
“Non ce n’è bisogno”. Sembrò rimuginare su qualcosa, indeciso se far parlare i suoi pensieri o meno. “E com’è che una psicologa sa cucire una ferita?”
Lei alzò le spalle. “Il mio ex studia medicina, ogni tanto si allenava sulla frutta con le suture e credo di aver semplicemente memorizzato come si fa…E poi ho visto tutte le stagioni di Grey’s Anatomy”.
Lui ridacchiò. “Non mi dire che avevi un fidanzato che preferiva suturare la frutta piuttosto che divertirsi con te”.
Sì era così…Era uno dei motivi per cui Joan lo aveva lasciato, ma quello Cult non doveva saperlo.
“Bè senza frutta suturata tu saresti morto dissanguato, e poi era molto interessante”. Mentiva e Cult lo capì subito.
Sapeva leggere in quello sguardo nonostante la conoscesse da così poco.
“Noioso”.
“Smettila, tu non conosci David, lui è…”
David Newlin era tante cose…Preso da sé, un tantino egocentrico, ma grazie alla sua ambizione sarebbe arrivato lontano.
“…Noioso”. Concluse Cult per lei.
Joan sbuffò sotto lo sguardo divertito del ragazzo.
Fece per alzarsi, ma la ferita faceva troppo male. Lei si catapultò letteralmente su di lui per bloccarlo.
“Sta fermo, non sono sicura di aver fatto un buon lavoro, è meglio se non ti muovi”.
“Ho capito che ti fa piacere avermi nel tuo letto, ma vorrei farmi una doccia”.
“Bè con quella ferita è meglio se aspetti almeno ventiquattr’ore”. Lui la guardò con occhi sbarrati.
“Tranquilla, ragazzina, ho avuto momenti peggiori”.
“Lo immagino, ma non voglio averti sulla coscien…” Si bloccò all’istante ricordando le parole usate da lui poco prima. “Mi hai appena chiamata ragazzina?”
Era scocciata e la cosa divertiva Cult come poche altre cose.
Ridacchiava senza contegno, tenendosi pancia e ferita, su cui Joan avrebbe volentieri sparso sale e alcool puro per farlo smettere di ridere.
“Farò finta che non sia mai successo e che sia un postumo della sbornia”.
Si allungò verso il comodino per prendere un altro antidolorifico e dell’acqua, cose che poi passò a Cult che inghiottì le pastiglie senza neanche bere l’acqua.
“Non mi piace l’acqua, quel whisky che mi hai fatto bere era meglio”.
“Sono felice che ti sia piaciuto il regalo di mio padre da cento dollari la bottiglia”.
Cult fece solo una smorfietta, sogghignando.
“Spero di non aver detto nulla di compromettente questa notte…Ero un po’ sul rincoglionito…”
“Puoi stare tranquillo, nulla di compromettente…”
A parte il ‘lo sai che sei bella’ e il ‘grazie’, in fondo non aveva detto nulla.
D’un tratto qualcuno suonò alla porta. Strano. Bè forse era quello Steve, l’amico di Cult che voleva sapere come stava.
Joan si alzò di scatto legando i capelli in una coda bassa e andò alla porta.
Rimase quasi scioccata quando vide che alla porta c’era David, sì il David Newlin suo ex fidanzato.
Sfoggiava un sorriso smagliante, illuminato dai denti bianchissimi.
“David che diavolo ci fai qui?!”
“Pensa la sorpresa quando di ritorno dal mio stage in California ho scoperto che ti eri trasferita senza neanche avvisarmi”.
“Bè…Ecco…Io non ha avuto il tempo…E’ stata una decisione presa in fretta”.
“Allora? Non mi fai entrare?!”
“Ehm…Sì, certo, scusa”.
Sperava non andasse in camera, dove c’era un uomo mezzo nudo, ferito e sporco di sangue nel suo letto.
Le sue speranze andarono in frantumi quando Cult tossì rumorosamente, facendo insospettire David.
“C’è qualcun altro?”. Disse avvicinandosi pericolosamente alla sua stanza.
“Ecco, veramente…”
Non ebbe il tempo di formulare una frase di senso compiuto, perché David aveva già aperto la porta della stanza.
Il suo volto era a metà tra lo stupito e il curioso. Il suo sguardo saettò da Cult a Joan.
“Lui è il mio vicino, Cult, ha avuto un piccolo problema e l’ho aiutato”. Poi indicò David. “Cult, lui è David Newlin il mio…ex fidanzato”.
Cult lo salutò con un cenno della mano che spostò le coperte che a loro volta lasciarono intravedere la fasciatura.
Joan maledisse il giorno in cui aveva messo piede in quello stabile.
“Un piccolo problema”. Disse David citando le parole di Joan e indicando proprio il cerotto bianco sul fianco muscoloso di Cult.
“Sì bè era ferito, ma nulla di grave…Come puoi vedere non è un buon momento, potresti ripassare?”
“Joan, tesoro, sono uno specializzando in chirurgia, chi meglio di me può curare una ferita?”
Stava usando quel tono che Joan tanto odiava, quello da ‘per favore spostati, tu non sai nulla di medicina anche se ti fai chiamare dottoressa’, sì perché per lui la psicologia erano un mucchio di sciocchezze senza senso.
Avrebbe voluto sbattergli in faccia che se non fosse stato per lei Cult sarebbe morto dissanguato, ma non era da lei, lei era più quella del ‘basso profilo’.
Si sforzò di sorridere nonostante avesse voluto insultarlo pesantemente. In fondo si rendeva conto che ne sapeva più lui di medicina e avrebbe potuto controllare la ferita capendone sicuramente più di lei.
Mentre lei si lasciava prendere da questi ragionamenti, David si avvicinò a Cult, che sembrava diffidente.
Gli spostò la camicia e indossò dei guanti che prese in bagno, dove gli aveva indicato Joan.
Cult dal canto suo teneva gli occhi puntati su Joan, incapace di capire come una come lei resistesse nella stessa stanza di quel tizio tanto fastidioso e pieno di sé.
David tolse le benda bianca, sotto cui c’era ancora la ferita rosa, con del sangue raggrumato intorno.
“Mmm…Questa non l‘ha fatta un medico”. Disse analizzando la cucitura.
“Però non è fatta male, chi te l’ha fatta?”
Cult si limitò a indicare Joan con la testa, ma David pensò di aver capito male.
“Chi, Joan?” Rideva, ma era una risata forzata. “No, Joan non è capace neanche di cucire un bottone”.
“Bè a me non importa che non sappia cucire un bottone, mi ha salvato la vita”.
Joan rimase sorpresa da quell’affermazione, anche se non lo diede a vedere, tanto sorpresa che non si accorse nemmeno quando David e si avvicinò per schioccarle un bacio sulla tempia.
“Non posso crederci, la mia Joan che sutura…”
“Bè non ho fatto un gran lavoro, insomma non è il mio campo”.
“Sì, tesoro si vede, ma è comunque ammirevole”.
Le circondò le spalle con un braccio.
“Devi disinfettarla nei prossimi giorni e tenerla coperta. E prendi questi anti dolorifici”. Gli scarabocchiò un nome su un fogliettino che piegò e gli porse.
“Bè vado in albergo, sono ancora frastornato dal jet leg, ma questa sera ti invito a cena, voglio raccontarti della California”.
Joan si limitò ad annuire accompagnandolo alla porta.
“Ti passo a prendere alle otto”.
David la snervava. Lo conosceva da sempre. Avevano frequentato liceo e college insieme ed erano stati una coppia per tre anni, ma ad un certo punto Joan si era resa conto di quanto quella vita, quella relazione le stessero strette e lo aveva lasciato. Certo il tradimento con l’infermiera di traumatologia aveva influito non poco, ma l’avrebbe lasciato comunque, infermiera o non infermiera.
Erano rimasti in buoni rapporti, non che Joan ci tenesse molto, ma David insisteva per rimanerle amico…
“Io me ne andrei”. Cult era fermo davanti a lei, che aveva lo sguardo perso nel vuoto.
“Che diavolo ci fai in piedi, devi riposare e…”
“Sto bene, guarda”. Girò si sé stesso, fingendo che non avesse male. “Dico a Steve di prendermi le medicine così guarisco e sei contenta”.
“A me non cambia proprio niente…Fai come ti pare sei adulto e vaccinato!”
“Così disse quella che non voleva che mi cucissi da solo come Rambo”.
Quindi qualcosa della sera prima lo ricordava…
La superò e aprì la porta.
“Buona serata col tuo fidanzato, ragazzina”.
“..Ex”. Sussurrò lei quando ormai lui si era richiuso la porta alle spalle.
 
Buona sera!
Eccomi con il secondo capitolo di questa nuova storia. Come sempre mi renderete felicissima, ma proprio -issima -issima, se commenterete. Ci tengo tanto a sentire il vostro parere. Non siate timidi. Non mordo!
Prima di lasciarvi vi metto il link dell'altra mia storia, che va un po' a rilento, ma se vi va passate a dare un'occhiata. : )
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=1845498&i=1 
Grazie per aver letto, a presto! : )

xx

 

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Capitolo 3
*** Capitolo III ***


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III.
 
Alle otto meno un quarto Joan era già pronta, abito nero, calze coprenti, scarpe e borsa abbinate.
Si mise un cappotto pesante e una stola rossa e calda che usò come sciarpa, per affrontare una New York innevata e gelata.
Quando uscì dalla porta era talmente concentrata a chiuderla che quasi cacciò un urlo quando sentì una presenza alle sue spalle.
“Wow”.
Lei si limitò a sorridere non sapendo se prendere quell’affermazione come un complimento o come qualcosa di negativo.
“Spero che il tuo cavaliere sia degno di una dama così elegante”.
Sì era un complimento, velato e sincero, come poteva dedurre dal suo sorrisetto.
“Ti stai riposando, vero?” Chiese per cambiare discorso.
“Come un ragazzino”. Rispose lui ghignando.
Si accese una sigaretta. Joan neanche lo sapeva che fumasse, bè in fondo lo conosceva da così poco tempo. Due giorni, tre? Sembravano passati mesi, non solo poche ore.
“Bene, io vado”.
Lui annuì e basta, ma lei continuò a guardarlo per qualche secondo, solo una manciata, nulla di più, quasi avesse paura che quel volto corrucciato, quel ghigno fastidioso e quegli occhi trasparenti sparissero dai suoi ricordi.
 
“Cult, riporta il culo sul divano, muoviti!” Steve era un gran rompi palle, sì.
“Sto bene, non fare la fighetta”.
Steve non era convinto.
“Il piccolo Steve si sta rammollendo, ce la siamo vista peggio in molte occasioni”. Era un altro ragazzo a parlare, i capelli lunghi appena sotto l’orecchio, lisci e scuri, setosi e due begli occhi scuri.
“Dimmi, com’è la vicina? Ti prego dimmi che è figa e disinibita”.
Steve gli lanciò un cuscino. “Smettila Duck,  sei un maniaco”.
Cult si limitò ad alzare le spalle, continuando a fumare. “Non sono affari miei”.
Steve non sembrava convinto, Duck ridacchiava senza contegno mentre sorseggiava una birra.
“Dunque dunque…A cosa dobbiamo lavorare, insomma perché ci hai chiamato qui?”
Steve era impaziente di sapere i dettagli. Cult spesso si appoggiava a lui e a Duck per dei ‘lavoretti’…
“Mi servono informazioni su un certo Newlin, David Newlin”.
“Chi è?”
“Un tizio che mi irrita pesantemente, voglio tutto quello che riuscite a trovare”.
 
“…E quindi poi sono tornato e pensa il mio stupore quando i tuoi mi hanno detto che ti eri trasferita a New York”.
David aveva parlato del suo stage a Los Angeles per quasi due ore, qualsiasi cosa sarebbe stato meglio di sentirlo parlare ancora, anche ricucire Cult sarebbe stato meglio.
“Perché ti sei trasferita?”
“Mi serviva un cambiamento”.
“Avevi un buon lavoro, e tutti i tuoi amici e la tua famiglia sono a Washington, io sono a  Washington”.
“Washington non è così lontana da New York…”
“Sai cosa intendo, tesoro!”
“Senti non mi va di parlarne, puoi riaccompagnarmi a casa? Questa notte non ho dormito molto…”
“Come vuoi…” Pagò il conto e la riaccompagnò a casa senza dire nulla.
Sarebbe ritornato a casa la mattina seguente, ma Joan decise che non sarebbe andata in aeroporto per salutarlo, non ne aveva nessuna voglia.
David non capiva, non avrebbe mai capito. Non aveva neanche mai capito il suo carattere, il suo bisogno di spazio, di avere tutto sotto controllo, mantenendo un profilo basso. Lui era così diverso, così concentrato solo su se stesso, le altre persone erano mezzi per il successo. No, forse Joan non lo era, ma comunque non si sentiva più a suo agio in sua presenza da tanto tempo.
Si sedette sugli scalini di pietra che c’erano davanti al portone d’entrata. Il freddo penetrò nelle sue ossa, ma non le importava. Stava ricominciando a nevicare e c’era un non so che di magico. Forse era quell’alone attorno ai lampioni che la affascinava, o lo stare chiusi nei cappotti, il collo scaldato dalle sciarpe pesanti… Dopo ventiquattro anni ancora non riusciva a capire cosa fosse ad attrarla così tanto di quel fenomeno atmosferico.
“Joan!”. La ragazza alzò lo sguardo appena.
“Steve, ciao!”
“Sono uscito per prendere gli antidolorifici a Cult”.
“Bene, faglieli prendere mi raccomando! Fosse per lui non si curerebbe, o sbaglio?”
Rise di gusto. “Hai ragione, ma non dirglielo!”
“Allora, che ci fai qui tutta sola?”
“Pensavo e ammiravo la neve”. Disse indicando i fiocchi che scendevano lenti. “Non è rilassante?”
“Si muore di freddo, tu sei pazza”.
“Dovevo schiarirmi le idee…”
“Allora ti lascio sola… Buona notte e grazie ancora”.
“Smettila di ringraziarmi!”.
Rimase lì ancora qualche minuto, poi rientrò, facendo i quattro piani con lentezza infernale. I tacchi erano belli, ma le facevano male.
Quando arrivò al 4D e trovò le chiavi al primo tentativo quasi fece i salti di gioia.
Si buttò sul letto senza neanche cambiarsi e scivolò in un sonno profondo e sereno.
 
La mattina rimpianse di non essersi cambiata e struccata. Il mascara era leggermente colato e l’abito era stropicciato.
Si stiracchiò, indolenzita. Non vedeva l’ora di buttarsi sotto il getto caldo. Fu una doccia lunga, rilassante, necessaria. Sentire l’acqua che ti scorre sul corpo è una delle cose più belle al mondo, lava via tutto: i brutti pensieri, quelli sbagliati, quelli che non dovresti fare.
Stava ancora pensando a Washington, a quello che aveva detto David. Al solo pensiero di quell’uomo le veniva il nervoso, si chiese come avesse fatto a stare con lui per così tanto tempo.
Qualcuno bussò alla porta più volte, violentemente.
“Un attimo!”
Si avvolse in un asciugamano e tamponò i capelli per evitare si sgocciolare per tutta casa.
Quando aprì si trovò davanti Cult.
“Mi serve la tua auto!”
Joan lo guardò male, iniziando a ridere.
“Innanzitutto buongiorno, e poi scusa io dovrei prestare la mia auto a un tizio che conosco da quanto? Quattro giorni?” Continuò a ridere. “Tu sei pazzo”.
“Si tratta di una faccenda importante”.
“Che faccenda?”
Lui sbuffò spazientito. “Diamine, quanto sei pesante! Mi serve e basta”.
Lei non si mosse di un passo nonostante lui attendesse oltre la soglia con il braccio alzato per avere le chiavi.
Lei scosse la testa.
“Scordatelo!”
“E’ importante”. Tornò a ripetere lui.
Lei sbuffò rumorosamente, cercando di cacciarlo fuori di casa, senza riuscirci.
Lui teneva una mano a mezz’aria, l’altra bloccata sulla porta, che riusciva a tenere aperta senza alcuno sforzo.
“Va bene, ma torna presto e non ammaccarmela, altrimenti il taglio dell’altra sera sarà nulla in confronto a quello che ti farò”.
“Sì, sì ok…Non preoccuparti!”
Se ne andò senza neanche dir grazie.
 
“Sì ho le chiavi, ma averle è stata dura…La ragazzina è un osso duro”. Cult scatenò le risate di Duck e Steve.
Arrivarono a destinazione in men che non si dica, data la guida a dir poco folle di Cult.
Dovevano incontrare un tizio che aveva richiesto protezione, uno che era amico, di un amico di un uomo per cui Cult aveva fatto un lavoro.
“Salve”. L’uomo che aprì la porta era piccolo, grassoccio, viscido.
“E’ lei l’uomo che dobbiamo proteggere?”
L’ometto annuì senza dire nient’altro.
“Bene, pagamento in contanti e a fine lavoro lei non mi contatterà più”.
Il tizio, un uomo d’affari che aveva fatto carriera con metodi non propriamente ortodossi, era Aaron Hotchins. Tutti sapevano in che modo si era fatto strada nel mondo degli affari, ma né polizia né federali avevano prove contro di lui.
“Voi sapete chi sono, vero, insomma lo sapete che ho bisogno di discrezione?”
“Tutti sanno chi è…” Disse infastidito Steve. Quel tizio non gli piaceva neanche un po’ era lì solo per spalleggiare Cult e Duck.
“Bene, domani c’è un incontro in centro, vorrei che vi occupaste della mia sicurezza”. Disse serio. “Questo è l’anticipo, il resto lo avrete a fine lavoro, se sarò ancora vivo, ovviamente”. Concluse poi ridacchiando divertito.
Cult prese la busta, restando serio e uscì da quella casa senza neanche controllarne il contenuto.
“Lui non mi piace, Cult”.
“Lo so, Steve”. Cult continuava a guidare senza staccare gli occhi dalla strada. Si accese una sigaretta e passò il pacchetto a Duck.
“Chiamami idealista, ma non mi piace aiutare chi fa soldi in quel modo”.
“Infatti tu stai aiutando me, non lui”.
Duck sorrise, nemmeno a lui Hotchins piaceva, ma i soldi, quelli sì che gli piacevano, e poi era sempre pronto ad aiutare un amico.
Parcheggiarono di fronte al palazzo.
Joan era sul pianerottolo, in attesa che Cult tornasse. Scese le scale, impaziente e quando li vide parcheggiare si precipitò dall’altro lato della strada. Stava congelando ma non le importava.
Se solo avevano graffiato la sua Chevrolet li avrebbe presi a calci anche se erano tutti e tre più alti di lei di almeno venti centimetri.
Sì erano tre, c’era anche un tizio nuovo, coi capelli lunghi, seduto sul sedile posteriore.
Appena scesero, lei si allungò per controllare che tutto fosse a posto.
“Chi. Vi. Ha. Dato. Il. Permesso. Di. Fumare. Nella. Mia. Auto”. Tuonò rivolgendosi ai tre uomini.
Era arrabbiata e nulla di buono poteva succedere.
Cult si chiuse nelle spalle, accendendosi una nuova sigaretta. Il tizio che era seduto sul sedile posteriore, la fissava e le si avvicinò.
“Ciao”.
Lei lo guardò infastidita come a chiedere ‘e tu da dove spunti?! Chi diavolo sei?’
“Sono Ethan Duckerson, ma chiamami Duck”.
“Ehm…Ok”.
Tornò a guardare Cult, indignata.
“Non hai alcun rispetto per ciò che non è tuo!”
Lui ridacchiava. “Non ti scaldare tanto per un po’ di fumo”.
Steve lo scansò, facendosi più vicino a Joan.
“Mi dispiace per come si sono comportati, non succederà più”. Guardò Cult, poi Duck. Il primo alzò le spalle noncurante, il secondo sorrideva come un ebete.
Cult lanciò a Joan le chiavi, che non caddero a terra solo grazie ai riflessi pronti di Steve, che gliele porse gentilmente.
“Scusali, non lo fanno apposta”. Disse poi quando gli altri due erano ormai dentro al palazzo.
Joan si chiede come potessero due persone tanto diverse essere così legate, perché non poteva essere altrimenti. Steve si era affidato ad una sconosciuta per aiutare il suo amico.
E poi si vedeva dal modo in cui lo aveva rimproverato gentilmente che erano amici da molto, perché era sicura che Cult non fosse tipo da lasciarsi sottomettere facilmente.
 
Alle nove di sera qualcuno suonò il campanello, una sola volta.
“Steve, ciao. Che ci fai qui? Vuoi entrare?”
“No, devo solo chiederti un favore”.
“Dimmi tutto”.
“Ecco…Innanzitutto mi dispiace disturbarti, è che l’auto di Cult è ancora dal meccanico, così speravamo che tu ci potessi prestare la tua…”
“Ah, ecco perché sei qui. Che c’è Cult manda te perché non sa comportarsi da persona civile e chiedere civilmente un favore?”
“Lui è fatto così”.
“Bè è fatto male”. Disse lei stizzita. “E poi tu e quell’altro non ce l’avete la macchina?”
Lui scosse la testa. “Abbiamo entrambi la moto e per quello che dobbiamo fare serve un’auto”.
Lei se ne andò per un attimo scomparendo dalla sua vista. Quando tornò aveva un paio di chiavi in mano, ma non gliele diede subito.
“Niente fumo, niente cenere sui sedili e niente graffi, o me la pagherete, e tu faccia d’angelo sarai il primo!”
Lui le schioccò un bacio sulla guancia per ringraziarla e Joan non potè fare a meno di sorridere.
Steve le piaceva. A contrario di Cult, che era prepotente e maleducato, lui era un signore, diceva grazie, si scusava ed era gentile.
Lo salutò con la mano chiedendosi la porta alle spalle.
Sbuffò. Lo sapeva che non doveva totalmente fidarsi del suo vicino, lo sentiva, glielo diceva quel sesto senso che aveva sempre avuto e che l’aveva salvata da un crollo nervoso e psicologico a Washington, ma nonostante questo era affascinata da quei due, anzi quei tre. Poteva vedere una legame profondo, qualcosa che lei forse non era in grado di avere. Si rattristò a quel pensiero, che la accompagnava ormai da troppo.
 
Salve a tutti!
Ecco il terzo capitolo di Aching Soul. Lo ammetto, non ne sono del tutto soddisfatta, ma l'ho pubblicato comunque, mi sembra che manchi qualcosa, ma non so bene cosa. Boh, me ne farò una ragione sperando che piaccia a chiunque abbia la pazienza di leggerlo.
Come sempre spero in qualche commento, anche se vedo che siete timidini e non capisco se è perchè non vi piace la storia o per qualche altro motivo. Io comunque ci spero, chissà che uno di questi giorni non mi trovi una bella recensione che mi faccia ringraziare la mia testardaggine nello sperare in un feedback! : )
Non ho altro da dire, passo e chiudo e alla prossima!

xx

 

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Capitolo 4
*** Capitolo IV ***


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IV.
 
Il giorno seguente Joan si sveglio tardi, di cattivo umore, con la testa pesante. Si preparò direttamente qualcosa per il pranzo, che consumò in tutta fretta, in pensiero per la sua auto.
Era anche curiosa, però, curiosa di sapere cos’avessero i tre da fare di così importante e per cui serviva un’auto.
Accese la tv, ma non c’era nulla di interessante, così decide di uscire, respirare un po’ d’aria. Andò in centro, si era fatta spiegare la strada dalla signora del 2B.
Alcune fermate di metro dopo arrivò direttamente in centro. Si perse, questa volta in senso positivo, tra i negozi, le cui vetrine erano piene di abiti pesanti e caldi. Entrò in un paio comprando qualche maglioncino e un abito blu che aveva catturato la sua attenzione e che sarebbe stato perfetto per andare in studio, dove doveva avere un aria professionale.
Rimase a fissare per minuti interminabili le centinaia, migliaia di persone che le passavano accanto.
Quando controllò l’orologio rimase scioccata nel vedere che erano già le cinque inoltrate.
Tornò alla fermata della metro per rientrare a casa.
Davanti a casa era stata parcheggiata la sua auto. La controllò su ogni lato e quasi le venne un infarto quando notò due graffi lunghi almeno una ventina di centimetri sulla fiancata destra.
Salì furiosa per le scale, arrivando col fiatone. Buttò le borse con gli acquisti in casa, dove abbandonò anche cappotto e sciarpa e si catapultò a bussare alla porta di fronte.
Aprì Steve, un’aria mortificata sul volto.
“Cercavo proprio te! Quale parte di: niente fumo, niente cenere sui sedili e niente graffi non ti è chiara, perché posso rispiegartela!” Urlava, infuriata come non mai.
“Io…Sono mortificato”.
Lo scansò per entrare in casa.
“E tu”, disse a Cult che era voltato di spalle, “non sognarti di chiedermi un altro favore”.
Lui non si girava.
“E guardami quando ti parlo!”
Quando si voltò, Joan cambiò espressione.
“Cosa è successo?” Disse alludendo al suo occhio nero.
Lui non rispose, quindi guardò Steve, che però non disse nulla, abbassando lo sguardo.
“Cosa è successo”. La sua non era più una domanda, ma nonostante questo nessuno dei due le rispose.
“Andate al diavolo!”
Se ne andò sbattendo la porta.
 
“Forse dovremmo dirglielo, in fondo l’auto è sua ed è stata molto disponibile…”
“Piantala Steve, meno sa meglio è”.
Si buttò sul divano accendendosi una sigaretta, ne offrì una a Steve, che non fumando rifiutò come al solito.
Fece per andarsene, ma poi sembrò ricordarsi qualcosa, quindi si voltò.
“Ho controllato quel tizio, Newlin, ma non ho trovato niente. E’ nato e vive a Washington. Studia medicina, specializzazione in neurochirurgia. Fedina penale pulita”.
Cult annuì e basta.
“Ora mi vuoi dire chi è?”
“Nessuno”.
Steve scosse la testa, rassegnato e uscì dalla porta. Si ricordò di avere ancora le chiavi dell’auto di Joan, così suonò alla porta del 4D.
Quando Joan gli aprì le sorrise timidamente, sperando che potesse perdonarli.
“Ciao, ti ho riportato le chiavi dell’auto”. Disse facendole dondolare dall’indice.
“Grazie. Vuoi entrare?”
Lui annuì, entrando nell’appartamento.
“Ti posso offrire qualcosa?” Non le andava di essere maleducata e scontrosa con lui.
“No, volevo chiederti scusa”.
“Dai, siediti, non sono arrabbiata con te, o meglio, non più, almeno tu chiedi scusa”.
 Sorrise sedendosi sul divano.
“Com’è che tu e Cult siete così legati? Siete molto diversi…”
“Siamo più simili di quanto sembra…”
“Sembri un bravo ragazzo, tu”.
“Lo sono”. Disse lui mettendosi una mano sul cuore.
“E com’è che un bravo ragazzo come te non abita in una bella casa con giardino con sua moglie?”
“Forse non sono fatto per quel tipo di vita…”
Sembrava malinconico.
“Dovresti provare prima di dirlo…”
“Ci ho provato, per cinque anni, ma non è durata”.
“Mi dispiace, io…Non volevo essere invadente”.
“Non lo sei stata”. La rassicurò lui. “Avevamo vent’anni, eravamo giovani e senza pensieri, ma la amavo davvero”.
Lo poteva capire dal modo in cui parlava di lei.
“Come mai non ha funzionato?”
“Lei non accettava che fossi più presente per Cult che per lei e dopo un po’ si è stufata, soprattutto con il bambino che cresceva…”
“Hai un figlio?!” Chiese stupita Joan.
Lui sorrise annuendo e tirò fuori il portafoglio, da cui estrasse una foto di un bambino biondo, molto carino, gli occhi chiari come quelli del padre.
“Ha appena compiuto otto anni, lo abbiamo avuto quando ne avevamo solo ventidue…Bei tempi!”
“Non ti ci vedo a preparare pappe e far fare il ruttino a un bambino”.
“Rimarresti stupita!”
“E ora? Lei dov’è?”
“Vive a Brooklyn con il suo fidanzato. Stanno insieme da tre anni, è un bravo ragazzo. Ci siamo lasciati bene, insomma niente rancori, posso vedere Austin quando voglio, senza problemi e questo è l’importante”.
“E’ un bel nome, Austin intendo”.
Gli restituì la foto, sorridendo. Steve era una brava persona, era piacevole parlare con lui.
“Ora devo scappare, ci vediamo in giro”.
Lei annuì, senza smettere di sorridere.
 
Passarono otto giorni senza che Joan e Cult si parlassero. Poi, un giorno, uscendo vide la fiancata dell’auto tirata a lucido, i graffi spariti nel nulla.
Sperava che fosse stato Steve, ma quando glielo chiese, incrociandolo sulle scale, lui negò. Sperava perché se non fosse stato lui, sarebbe rimasta solo un’altra possibilità: Cult. Bè in effetti c’era anche la possibilità del miracolo, ma Joan a quelle cose non credeva.
Quando bussò delicatamente alla porta del 4C sperava non ci fosse nessuno. Ovviamente in casa c’era qualcuno e quel qualcuno era Cult.
“Ciao ragazzina”.
“Ciao, ehm…io…” Iniziò, ma Cult era sparito dalla sua vista, si era buttato sul divano, la sigaretta che pendeva dalle labbra. Non era abituata ad entrare in casa altrui senza essere invitata, quindi pensò di parlare da lì, alzando la voce.
“Ragazzina, vuoi entrare o aspetti l’arrivo del messia?” Gentile come al solito.
Fece un paio di passi, mettendosi accanto alla poltrona che c’era vicino al divano.
“Dicevo…Ho notato che non ci sono più quei graffi sull’auto…Quindi…Sì, bè..”
“Ah, sei qui per ringraziare!”
Maleducato!
“Sì, era la mia idea, ma ora che ci penso mi è passata la voglia, e poi come diavolo hai fatto ad avere le chiavi?!”
“Ti ricordi come ho fatto ad aprire la porta di casa tua?!”
Lei lo guardò scioccata.
“Non ho parole!”
“Che palle che sei, non ti va mai bene niente. Prima ti lamenti per i graffi e poi perché te li ho fatti mettere a posto”.
“Sì bè ci sono anche metodi più ortodossi”.
“Al diavolo i metodi ortodossi, così è più divertente!”
“Così è illegale…”
“Sei troppo rigida”.
“E’ per questo che non mi hai risposto l’altro giorno, quando ti ho chiesto cos’era successo?”
Non disse nulla, rimase a guardarla serio, la sigaretta ormai quasi completamente consumata.
“Rispondi!”
Si alzò, innervosito, anzi arrabbiato.
“Vuoi sapere cosa mi è successo? Bene, ho picchiato un tizio e lui non è stato fermo senza dire niente”.
Si avvicinava sempre di più a lei, che d’istinto indietreggiava.
“Perché?” Sussurrò Joan, non pensava nemmeno che Cult l’avesse udita.
“Perché ci siamo picchiati?”
Si avvicinò a lei di un altro passo.
“Dovevamo proteggere un tizio a un meeting e un uomo ha tentato di ucciderlo”.
“Quindi è questo che fai? Il bodyguard?”
“Io faccio tante cose”.
Lei era sempre più incuriosita, ma lui non le avrebbe detto nient’altro.
“E cos’altro fai?”
Lui ghignò, finalmente. Il suo sguardo serio e arrabbiato la stava spaventando.
“Te l’ho detto, tante cose!”
“Cosa.”
No, non era una domanda.
“Fai troppe domande ragazzina”. Gli sussurrò lui a un palmo dal viso.
Voleva altre risposte, per esempio perché era stato ferito, quella notte, o quali altri lavori facesse, ma sapeva che non le avrebbe ottenute.
Si arrese, ma solo per quel momento, non per sempre.
“Grazie per l’auto”. Sussurrò quando aveva già la mano sulla maniglia.
Lui non rispose, ma lei sapeva che l’aveva sentita e sapeva che stava sogghignando come suo solito.
 
Neanche una settimana dopo, Joan si stava preparando per il suo primo giorno di lavoro a New York. Lo studio distava un quarto d’ora di auto da casa sua.
Erano giorni che non parlava con Cult, o meglio, lo salutava quando lo incrociava sul pianerottolo o sulle scale, ma nulla di più.
La prima giornata da lavoro passò in fretta, fu tranquilla, conobbe alcuni dei pazienti del dottor Randall, lo psicologo che era partito per il Giappone.
Alcuni erano diffidenti, cambiare psicologo nel bel mezzo del proprio percorso non è il massimo, ma nel complesso era stata una giornata soddisfacente.
Quando rientrò a casa trovò Cult e Steve sul pianerottolo. C’era anche un bambino, il figlio di Steve.
“Lui è Austin, mio figlio”.
“Ciao, Austin, io sono Joan”. Rispose lei stringendogli la piccola mano.
Cult la prese per un braccio, andando verso le scale.
“Dovresti tenere Austin per un paio d’ore”.
“No, non posso”.
“Stammi a sentire, dobbiamo occuparci di una cosa importante, non possiamo portarci il bambino”.
“No, stammi tu a sentire! Ok la macchina, ma la baby sitter non la faccio. Io e i bambini non andiamo d’accordo!”
“Sei una donna e non ami i bambini?!”
“Insieme alla vagina non ti danno anche l’istinto materno, sai grande uomo?!”
Ridacchiò per quella battuta inaspettata mentre lei lo guardava in malo modo.
“Te l’ho detto è importante!”
“E’ sempre importante, ma la mia vita non ruota intorno a te e ai tuoi interessi, sai?!”
“Per favore, non sappiamo a chi altro lasciarlo”.
Joan guardò Steve che faceva ridere Austin.
“Va bene, ma non lo faccio per te”.
Andò incontro a Steve e Austin.
“Bene gnomo, sembra che starai con me per un po’ mentre Batman e Robin vanno a salvare il mondo”.
Il bambino rise. Aveva lo stesso sorriso di Steve.
“Tesoro, ora va con Joan e fai il bravo, non farla arrabbiare, perché lei è sempre gentile e se la fai arrabbiare poi non ci aiuta più”.
Austin si allungò verso il padre per abbracciarlo.
“Ciao zio Cult!” Lui rispose con un cenno.
Il bambino si diresse indeciso verso Joan, che gli stava sorridendo gentilmente.
Aprì la porta e fece entrare il bambino.
“Allora, se devi andare in bagno, è in fondo al corridoio. Hai già mangiato?”
Annuì. “Papà mi ha portato a mangiare un cheeseburger”.
“Spero almeno che fosse carne senza grassi idrogenati”.
“Senza che?!”
“Lascia perdere, ora assaggerai la mia buonissima frittata, sana e senza quelle salse piene di schifezze”.
Si mise ai fornelli.
“Cosa ci fai lì impalato?! Siediti”.
“Anche la mia mamma cucina la frittata”.
“Ah, sì?! Sono sicura che è molto buona”.
Disse lei sorridendogli. Quella strana donna piaceva ad Austin, era gentile, sorrideva molto e gli piaceva.
“Tu sei un’amica del mio papà?”
“Più o meno…”
“E sei la fidanzata dello zio Cult?”
Quasi le cadde la padella dalle mani.
“Cosa?! No, no no! Assolutamente, categoricamente no!”
Quando la frittata fu pronta la mise su un piatto per tagliala a fette. Ne porse una abbondate al bambino, che la assaggiò subito.
“Ho solo acqua, mi dispiace”.
Il bambino non disse nulla, sorrise continuando a mangiare.
Quando finirono, Joan si mise a lavare i piatti.
“Bè sei un bambino del terzo millennio, sai come si una un televisore, giusto?”
Austin annuì, sedendosi sulla poltrona e guardando dei cartoni.
Joan lo raggiunse alcuni minuti più tardi, sedendosi sul divano. Prese delle cartella di alcuni pazienti per studiarle, li avrebbe incontrati il giorno dopo.
 
 
“Joan, cosa stanno facendo papà e Cult?”
La donna alzò lo sguardo spostandosi una lunga ciocca di capelli castani.
“Stanno lavorando, devono occuparsi di una cosa importante”.
Come faceva a spiegare a quel bambino che nemmeno lei lo sapeva cosa stessero facendo?!
“Ma staranno bene, vero? Perché a volte loro tornano a casa con dei lividi…”
“Certo che staranno bene, vedrai che saranno di ritorno prima che te ne renda conto!”
Gli sorrise.
“Facciamo così, vieni a farmi compagnia sul divano, così mi spieghi questo cartone che non l’ho mai visto”.
Usò la scusa del cartone per distrarre quel bambino. Ripose le cartelline sul tavolino e fece spazio al bambino, che gli si sedette accanto iniziando a spiegargli la storia del cartone.
 
Un’ora più tardi Cult e Steve rientrarono. Erano stanchi, avevano dovuto proteggere ancora Hotchins, ma era andato tutto per il verso giusto. Avevano avuto anche dei soldi in più per avergli salvato la vita.
Steve bussò delicatamente alla porta, nel caso in cui Joan o Austin stessero dormendo.
Nessuno rispose, così riprovò. Di nuovo nulla.
“Devo preoccuparmi?” Chiese Steve.
Cult scosse la testa e in pochi secondo aprì la porta dell’appartamento, così come l’aveva aperta la prima volta, quando Joan era appena arrivata.
La scena che gli si presentò davanti intenerì Steve tanto da farlo sorridere.
Austin era accovacciato e aveva la testa appoggiata alle gambe di Joan, che invece dormiva seduta, la testa appoggiata allo schienale. Un braccio ricadeva sulle gambe, l’altro era abbandonato sul corpicino del bambino. Sembravano il ritratto della pace.
Steve si avvicinò, sollevando Austin, che non si svegliò nemmeno.
“Lo porto a casa”. Sussurrò rivolto a Cult.
L’amico annuì, guardando Steve andare via.
Si avvicinò a Joan, che dormiva rilassata. Pensò che non l’aveva mai vista tanto tranquilla, nemmeno quando le aveva dormito accanto la notte in cui l’aveva ricucito aveva quell’espressione.
Sembrava quasi stesse sorridendo, o forse era lui che se l’era immaginato.
Scacciò quei pensieri.
Le sollevò le gambe in modo la distenderla completamente sul divano e la coprì con la coperta che era stata riposta sulla poltrona.
Si soffermò ancora qualche secondo a guardarla. Sì stava sorridendo e di riflesso sorrise anche lui.

 
Eccomi con il quarto capitolo, spero come sempre che vi piaccia. Sentitevi liberi di commentare, consigliare, insultarmi...No va bè magari quello evitatelo che sono più felice...
Scherzi a parte ci terrei tanto a sapere il vostro parere. Sto lavorando ad un banner, chissà se riuscirò a finire prima la storia o il banner...Si accettano scommesse!
Passo e chiudo, a presto! :)
xx

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Capitolo 5
*** Capitolo V ***


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V.

Era in ritardo, lei Joan Cameron era in ritardo! Lei che era sempre in anticipo. Quando si era svegliata la notte prima sdraiata sul divano e senza bambino si era quasi spaventata, ma poi, la mattina seguente aveva trovato un biglietto sotto la porta. Era di Steve, che la ringraziava.
Il tizio del telegiornale annunciava una bufera di neve il giorno successivo.
Avrebbe causato gravi danni e tutti erano pregati di restare a casa. Chiamò personalmente tutti i pazienti che avrebbe dovuto ricevere il giorno seguente avvisandoli di restare a casa e spostando il loro appuntamenti quando era più comodo a loro.
Fece una serie di interminabili telefonate nella pausa pranzo, durante cui, ovviamente non pranzò.
Nel pomeriggio doveva ricevere solo tre pazienti, il che le consentì di andare a fare un po’ di spesa, dato che il frigorifero era quasi vuoto.
Quando arrivò a casa trovò Austin sul pianerottolo.
“Ciao, gnomo! Che ci fai qui?”
“Papà sta parcheggiando, siamo venuti a trovare lo zio Cult ma lui non c’è”.
“Ho capito…Vuoi aiutarmi a sistemare la spesa mentre aspetti papà?”
Lui annuì, sorridente.
“Quelli vano in frigorifero”. Disse indicandogli i due piccoli pacchetti che aveva in mano.
“Sei un bravo ometto!” Disse scompigliandogli i capelli.
D’un tratto qualcuno iniziò a suonare il campanello senza fermarsi.
“Che diamine un po’ di pazienza!”
Quando aprì si trovò davanti uno Steve spaventato.
“Steve, che succede?” Chiese allarmata.
“Austin è sparito”.
“Calmati, Steve, Austin è qui con me, mi stava aiutando a sistemare la spesa”.
“Oddio meno male”. Austin corse incontro al padre, che lo sollevò da terra facendogli fare un mezzo giro.
“Scusa, non volevo farti spaventare, ma non mi sembrava il caso di lasciarlo da solo sul pianerottolo”.
“Hai fatto bene, sono solo iperprotettivo!” Poi si rivolse al figlio. “E tu che fai? Fai l’ometto e aiuti Joan?”
Il bambino annuì ridendo.
“Zio Cult non c’è così ho aiutato zia Joan”.
La ragazza rimase di sasso quando sentì quelle parole. Non tanto per il fatto che l’avesse chiamata ‘zia’, più che altro per la tenerezza con cui lo disse. Quella parola di così poche lettere era intrisa di semplicità, la meravigliosa semplicità che solo un bambino poteva avere.
Steve abbassò lo sguardo catturando il suo. Lei gli sorrise.
“A lui non piace quasi nessuno, devi essere molto speciale”.
Lei si limitò a sorridere, leggermente imbarazzata da quel velato complimento.
 
“Bè c’è una festa e nessuno ci invita?” Era Duck a parlare.
Entrò nell’appartamento con Cult, la sigaretta stretta tra le labbra.
“Zio Duck!” Austin gli corse incontro.
“Nanerottolo, quant’era che non ti facevi vivo? Pensavo fossi scappato con qualche ballerina di lap dance”.
Joan rimase sconvolta dal modo che aveva quel tizio di interagire con un bambino di appena otto anni.
“Ciao vicina di casa!” Disse poi quando si liberò dall’abbraccio di Austin che era corso da Cult.
“Ciao Duck, vorrei ricordarti che ho un nome…”
“Certo Joan, è davvero un bellissimo nome, se mi permetti!” La sua voce era fintamente sensuale e lo sguardo terribilmente languido e ammiccante.
“Ehm…Grazie”.
Cult si sedette comodamente sul divano, sporcandolo di cenere.
“Scusa, ti spiace non riempirmi di cenere il divano?!”
Lui sogghignò, come suo solito, senza chiedere neanche scusa.
La donna, sorrise fintamente, fingendo che la cosa non fosse un problema. Più aveva a che fare con lui e più pensava che quell’uomo fosse entrato nella sua vita per irritarla.
“Sai che c’è?! Fai pure come se fossi a casa tua, anche se evidentemente non serviva che te lo dicessi…”
“Dove eravate?” Chiese Steve rivolto ai due.
“Giro di perlustrazione per domani”.
“Cosa succede domani?” Chiese Joan.
“Niente ragazzina, smettila di fare domande”.
“Devo ricordarti che siete in casa mia, a sporcare il mio divano?” Rispose lei sarcasticamente.
“C’è un pezzo grosso del governo Russo che viene in visita al governatore, dobbiamo accertarci che volo e sistemazione siano sicuri”.
Cult lo guardò male, anzi malissimo, ma Steve alzò le spalle noncurante.
“Ha ragione lei, ci fa dei favori e non le diciamo mai niente”.
“Ma domani è prevista la bufera…”
“Appunto, l’aereo arriva questa sera, dobbiamo essere sicuri che l’albergo dove alloggiano sia sicuro”.
Spiegò svogliatamente Cult, che si alzò per spegnere il mozzicone di sigaretta nel lavandino e gettarlo nella pattumiera, che trovo solo aver aperto praticamente tutte le ante in cucina.
“Arriva tra un’ora e mezza, dobbiamo muoverci”. Ordinò Cult alzandosi.
“Steve, come fai con Austin? Cioè…Se ti serve una baby sitter…Io non ho molto da fare”.
“Grazie, ma non è necessario, lo porto da sua madre”.
La ragazza annuì, leggermente dispiaciuta. Nonostante i bambini non le piacessero, Austin le era simpatico.
Cult e Duck erano già spariti oltre la soglia. Dei due solo Duck aveva salutato, come si conviene ad una persona civile.
Steve e Austin erano ormai alla porta quando il bambino lasciò la mano del padre per correre da Joan e abbracciarle le gambe.
La donna, dapprima stupita e indecisa su come comportarsi, rispose a quel contatto sfiorandogli appena i capelli.
Quel gesto le riscaldò il cuore come nulla prima d’allora.
 
La mattina successiva il cielo era bianco di neve. Ne erano caduti almeno trenta centimetri. Tutta la città era innevata e nella via non c’era anima viva.
Accese il televisore, dove un tizio in giacca e cravatta annunciava l’arrivo di una forte bufera di neve all’ora di pranzo.
Intorno alle undici qualcuno suonò ripetutamente il campanello, facendola spaventare.
“Ciao zia Joan!”
“Ciao gnomo, Steve, è successo qualcosa?”
Lui negò, ma dovette respirare a fondo un paio di volte, perché aveva il fiatone.
“Il tizio che dovevamo proteggere è rimasto bloccato in aeroporto perché i suoi non si fidavano ad attraversare la città con la bufera e poi lo hanno trasportato ad un hotel che non conosciamo”.
“Ok, qual è il problema?” Disse la donna con sguardo interrogativo mentre porgeva ad Austin un succo di frutta.
“Duck ha fatto in tempo a raggiungerlo, ma Cult no e ora è nel mezzo di una bufera che cerca di raggiungere l’hotel”.
“Ma è impazzito?! Tra non molto ci sarà una bufera fortissima, l’ho sentito alla tv”.
Lui annuì, bevendo l’acqua che Joan gli aveva dato.
“Devo andarlo a cercare, puoi tenermi Austin?”
Lei scosse la testa.
“Quel tizio è pazzo…”
Si allontanò, alla ricerca del telefono.
“Dov’è adesso?”
“Quando l’ho sentito era in metropolitana, diretto all’hotel”.
“Ok, tu stai qui, io vado a cercarlo”.
“No, non se ne parla, ci vado io”.
“Senti grande uomo, tu starai qui buono buono con tuo figlio, io andrò alla ricerca di quel pezzo di deficiente che hai la sfortuna di avere come amico”.
L’uomo la ringraziò in mille modi possibili mentre Joan si chiudeva nel cappotto e infilava le Timberland, probabilmente non perfette per quelle condizioni atmosferiche, ma unico paio di scarpe che le avrebbe tenuto abbastanza caldi e protetti i piedi.
Uscì di casa arrabbiata più che mai, inveiva contro Cult e la sua follia. Non l’avrebbe fatta una cosa del genere una come lei, uscire proprio mentre una bufera di abbatteva sulla città, ma Steve sembrava davvero spaventato.
Mandò un messaggio a Steve, a cui aveva chiesto il numero prima di uscire, per avvisarlo in caso di evenienza, chiedendogli di inviargli il numero di Cult.
Provò a chiamarlo, senza risultati, forse nella zona in cui si trovava non prendeva.
Lo maledisse di nuovo, suscitando lo sguardo di una vecchina che cercava di rientrare a casa.
Solo in quel momento si soffermò a scrutare ciò che la circondava. Tutto era coperto da un mando di sofficissima neve e la strada era pressoché deserta. Nessuno si sarebbe mai immaginato una New York così. Era la quiete prima della tempesta.
Prese la metro, che fortunatamente era ancora aperta e scese alla fermata che Steve le aveva indicato. Anche lì la città era deserta. Sperò che Cult si trovasse nei paraggi, ma non c’era nessuno. Camminò per qualche minuto alla ricerca dell’hotel che le aveva indicato Steve, ma non lo trovò. Fortunatamente trovò un signore, molto gentile, che le diede le giuste indicazioni per raggiungerlo.
Era a pochi metri dall’hotel, quando ebbe la sensazione di essere seguita. Spaventata allungò il passo, non avendo il coraggio di voltarsi.
“Ragazzina, che ci fai qui?”
La paura si trasformò in rabbia non appena capì di chi si trattava. Si voltò di scatto, l’indice puntato su di lui.
Tu, pezzo di idiota, ma lo sai che sta per arrivare una bufera o non i telegiornali non esistono nel tuo mondo non civilizzato?!”
Lui fece per parlare, ma lei non glielo permise.
“Steve era preoccupato per te, ma doveva stare con Austin, quindi sono venuta a cercarti io per insultarti da parte mia e sua”.
“Steve si preoccupa troppo…”
Si accese una sigaretta, su cui caddero alcuni fiocchi di neve, che però non la spensero.
“Gli amici lo fanno…”
Disse lei senza distogliere lo sguardo da quello di lui, meravigliosamente cristallino. Quello sguardo era capace di destabilizzarla. Non riusciva mai a capire cosa pensasse, cosa provasse. Un minuto le faceva credere di essere uno stronzo e quello dopo, con un battito di ciglia, le sembrava l’uomo migliore del mondo.
Lui si tolse quel ghigno dalla faccia per un instante solo, uno soltanto.
“Non mi piace lasciare i lavori a metà”.
“C’è Duck con il russo e se è davvero un pezzo grosso, allora avrà sicuramente una scorta armata fino ai denti, ma tu devi fare il grande uomo e affrontare le forze della natura per orgoglio personale, perché non c’è nulla di meglio che mettersi in pericolo per mister uomo vissuto!”
Ok, forse aveva usato un tono un po’ troppo teatrale, considerando che erano in mezzo alla strada, ma quel tizio si meritava una bella strigliata, che non ebbe il minimo effetto, almeno a quando Joan poté appurare. Sì, perché in realtà quella ramanzina a Cult faceva quasi piacere. Vederla così innervosita, infreddolita davanti a sé lo faceva quasi intenerire. Vederla stretta in quel cappotto proprio in quel momento, quando il vento aveva iniziato a soffiare forte contro il loro visi, gli provocò una fitta alo stomaco, ma non lo diede a vedere.
La neve iniziò a cadere più forte e i fiocchi erano più grandi. Le raffiche di vento sembravano voler tagliare il viso delle persone su cui si infrangevano.
“Andiamo all’hotel, prima che arrivi la bufera vera”.
Lei si limitò a seguirlo, senza aggiungere nulla, stando attenta a non cadere. Provò ad avvisare Steve che aveva trovato Cult, ma non c’era campo.
Quando entrarono nell’ampia hall dell’albergo di lusso, c’era un bel caldo, che contrastava vigorosamente con il gelo di fuori.
Cult fece avvisare il russo del suo arrivo, e il receptionist gli disse che era nella suite all’ultimo piano.
Presero l’ascensore e in pochi secondi arrivarono.
 
Ad aprire fu un uomo alto almeno un metro e novanta, largo almeno quattro volte Joan, pelato. Indossava un completo scuro.
“Signore aspetta solo lei, no anche signora”. Disse in un inglese imperfetto ma comprensibile.
“La signorina lavora con noi”.
Disse qualcosa in russo a quello che probabilmente era il suo capo, un uomo sulla quarantina, snello e vestito con un elegante e probabilmente molto costoso abito grigio.
“Non aveva detto di avere una collega così affascinante”. Disse l’uomo, che li invitò ad accomodarsi.
Il suo inglese era quasi perfetto. La grammatica era impeccabile e quell’accento lo rendeva molto affascinante.
“Uno dei miei uomini ha avuto un problema con il figlio, la signorina Cameron lo sostituisce”.
Il russo le si avvicinò, porgendole la mano.
“Dimitri Pavlov”.
Joan strinse la mano di quell’uomo.
“Dunque signorina Cameron…”
“Joan”. Lo corresse con un sorriso lei.
“Joan, lei fa parte della squadra di Cult?”
Lei negò. “Non proprio”.
Che squadra poi? Di cosa di occupassero non l’aveva ancora ben capito, e forse preferiva rimanere nell’ignoranza
Pavlov la osservava incuriosito.
Cult, la guardava attentamente, temendo che facesse un passo falso, cosa che invece non successe.
“Diciamo che sono più una collega occasionale…”
Cult sorrise, sicuro di non essere visto.
Si guardò attorno. C’erano tre uomini, tutti in completo nero. Dov’era Duck?
“Mi scusi signor Pavlov, dove posso trovare Duck? Dovrei parlargli”.
“E’ in un’altra stanza con uno dei miei uomini, stanno controllando la lista dei dipendenti e degli ospiti dell’albergo”.
Si voltò verso uno dei bodyguard e gli disse qualcosa, probabilmente di indicare a Cult la stanza dove erano Duck e il suo uomo.
Cult sparì dietro la porta, lanciando una fugace occhiata a Joan.
“Joan, lei è di New York?”
Scosse la testa. “Sono di Washington, mi sono trasferita da poco, in effetti”.
Giocherellava con una lunga ciocca di capelli.
“La prego si accomodi”.
Lei si sedette sull’ampio divano nero, guardando Pavlov, che era seduto su una delle due poltrone, anch’esse nere.
Aveva gli occhi blu come il mare, i capelli talmente chiari da sembrare argentati.
“Di cosa si occupa?”
“Sono una psicologa”.
“Mia sorella è psicologa in Russia”.
Joan sorrise di quella coincidenza. Pavlov ordinò qualcosa a uno dei suoi bodyguard, che uscì dalla porta velocemente. Quando vi rientrò con lui c’era anche un cameriere, che aveva con se un carrello con del tè.
Pavlov chiese alle guardie rimaste con lui di uscire, Joan lo capì solo perché l’uomo fu così gentile da tradurre per lui.
Le porse una tazza di tè caldo.
“Sono stato a Washington, è una bella città”.
“Già”. Disse Joan un po’ nostalgicamente.
“Le manca?”
“Non le si può nascondere nulla”.
L’uomo rise di gusto. Quant’era che una donna non lo faceva ridere così? Con la politica tutte le donne sono arrampicatrici sociali che usano abiti troppo succinti e profumo troppo dolce.
Joan era completamente diversa dalle donne a cui era abituato. Non era artificiale e nonostante questo era meravigliosamente composta e rilassata. Conversava con un perfetto sconosciuto, e lo faceva mettendo a proprio agio il suo interlocutore.
“Sono troppo sfacciato se la invito a cena?”
Lei rimase piacevolmente stupita.
“Io non so se sia il caso…”
“Io spero di non aver frainteso, mi sembrava di capire che lei e Cult non foste una coppia…”
Joan sorrise.
“Nessun errore signor Pavlov, è solo che…”
“Se non c’è stato nessun errore allora insisto”. Si alzò guardando oltre la finestra. Poi tornò con gli occhi su Joan. “E mi chiami Dimitri, per favore”.
Joan era combattuta, ma quell’uomo la affascinava tanto. Era…Diverso, non era solo fisicamente attraente, sembrava capace di interpretare quello che pensava, sembrava leggerle nella mente.
“Bè, a questo punto mi sembra scortese rifiutare”.
Il volto dell’uomo si  illuminò, proprio un attimo prima che Cult entrasse nella stanza.
 
Salve lettori! 
Ecco il quinto capitolo, nato dopo un travaglio non indifferente, scritto e riscritto, corretto e ricorretto. Spero vi piaccia! 
Oggi sono di poche parole, quindi, come sempre, grazie per aver letto e a presto.

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Capitolo 6
*** Capitolo VI ***


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VI.
 
“E’ tutto a posto signor Pavlov, abbiamo controllato tutto”.  Duck, spogliato degli sguardi ammiccanti, sembrava quasi professionale.
“Ciao Joan”.
Lei gli sorrise amichevolmente, sorriso che sparì quando Cult la trascinò nella stanza adiacente alla piccola sala dove era stata fino a quel momento.
“Perché devi sempre strattonarmi? Non puoi chiedere per favore? Ti avrei seguito, sai?”
“Ah sì? Pensavo iniziassi a insultarmi un’altra volta”.
Disse lui in tutta risposta usando tutto il sarcasmo di cui era capace.
“Usi il sarcasmo con me, davvero Cult?! Se ti ho insultato è perché te lo meritavi…”
“Comunque, grazie per non aver detto niente prima, sì insomma per avermi coperto con Pavlov…”
“Mi stai davvero ringraziando? Ecco perché c’è una bufera”. Disse lei sorpresa. “Questo è sarcasmo, tra parentesi”.
Dio ma perché quel minuscolo essere umano doveva farlo innervosire così tanto?! Perché non poteva starsene zitta quando le diceva qualcosa, come facevano il novanta percento delle donne che conosceva?!
“Bè, la bufera è finita, ce ne torniamo a casa”.
Lei annuì guardando fuori dalla finestra. Non nevicava più. Non si era neanche accorta della bufera che si scatenava fuori da quelle quattro mura perché era troppo occupata a parlare con Dimitri.
Quando tornarono nel salotto, Pavlov cercò lo sguardo di Joan, che saettava per la stanza.
La prese da parte, non con l’irruenza che aveva usato Cult, ma con gentilezza, educazione, scusandosi con gli altri che c’erano nella stanza.
“Domani sera, alle otto”.
Non era necessario che gli dicesse il suo indirizzo, aveva già chiesto a Peter, una delle sue guardie del corpo di procurarglielo.
 
L’aria fuori era gelida, nonostante avesse messo di nevicare. Era la quiete dopo la tempesta, una quiete meravigliosamente candida e soffice.
“La metro è chiusa, dobbiamo andare a piedi”.
Cult ruppe quel silenzio. Duck era rimasto in hotel. Erano soli, mentre camminavano in una New York quasi del tutto deserta.
Qualche danno la bufera l’aveva fatto, ma fortunatamente non era nulla di grave.
Joan annuì e basta, continuando a camminare un paio di passi dietro a lui. Cult si accese una sigaretta, ammirando il fumo che usciva dalle sue labbra.
“Hai fatto colpo sul russo, ragazzina!”
“Mi ha invitato a cena”. Gli disse di petto.
Non sapeva neanche perché gli avesse confidato quella cosa. Lui non era un amico, quindi davvero non capì perché glielo avesse detto. Detestava quell'uomo, era in grado di farla innervosire come nessun altro al mondo. Le chiedeva favori che lei non poteva non fargli, e questa sua incapacità di dirgli di no la faceva imbestialire ancora di più.
“Ottimo”.
Il suo tono di voce era piatto. Qualcosa di quell’invito a cena lo infastidiva, ma non lo avrebbe mai ammesso neanche a sé stesso.
Non si voltò nemmeno. Joan lo raggiunse, leggermente irritata. c'era qualcosa di quel ragazzo che la irritava e affascinava al tempo stesso.
“Cercavo di fare conversazione”. Dovette quasi correre per stare al suo passo.
“Possiamo parlare del tempo, se vuoi fare conversazione”.
“C’è qualcosa che ti infastidisce nel fatto che vada a cena con Pavlov?”
“Assolutamente no, ma non mi piace mischiare il lavoro con la vita privata”.
“Non sono io a lavorare per Pavlov, ma tu”. Precisò lei puntando l’indice prima sul suo petto, poi sul braccio di lui.
Lui sbuffò, come se non gli importasse della differenza.
“Ti ha mai detto nessuno che non sai fare conversazione?” Quell’uomo la esasperava.
“Su, dimmi di cosa vuoi parlare? Della situazione politica? Della moda primavera/estate? Della tua situazione sentimentale?”
Si bloccò nel mezzo della strada, costringendo lei a fare lo stesso.
“Lascia perdere!” Gli urlò lei riprendendo a camminare.
Lui la prese per un braccio, obbligandola a fermarsi nuovamente.
“No! Ora mi dici di cosa vuoi parlare!” Ordinò.
“Tu non mi obblighi a fare proprio niente, non sono Duck o Steve, a me non ordini proprio nulla!”
Cult la guardava negli occhi, quelli chiarissimi di lui si specchiavano in quelli caldi di lei.
La presa si fece più salda. Joan poteva sentire il calore della sua mano anche attraverso gli strati di tessuto che li separavano. C'era qualcosa di quel ragazzo che la irritava e affascinava al tempo stesso.
D’un tratto lui mollò la presa, senza staccare gli occhi da quelli di lei.
Si tolse la sciarpa e si avvicinò a Joan, che lo guardò titubante e diffidente.
“Stai battendo i denti, non sia mai che ti ammali e te la prendi con me”.
Le avvolse quel morbido tessuto intorno al collo. Stava per rifiutarsi, ma quella sciarpa era così calda che non ne fu capace.
In più, profumava. Profumava di Cult, profumava di tante cose.. Era qualcosa che non aveva mai sentito, dolce e al tempo stesso speziato, avvolgente.
Lui riprese a camminare, questa volta più lentamente, mentre lei si sistemò meglio quella sciarpa non sua che sembrava perfetta per il suo collo.
Camminarono per minuti interminabili senza fiatare, senza nemmeno muovere le labbra. Cult si accendeva una sigaretta dietro l’altra, Joan camminava con lo sguardo fisso a terra, osservando la neve, intatta, calpestata da lei per la prima volta.
 
“Siete tornati, finalmente! Pensavo foste morti!”
“Sei il solito melodrammatico Steve. Vieni da me, ti aggiorno”.
Steve precedette Cult nell’appartamento, mentre l’uomo osservava Joan che spettinava i capelli di Austin. Si tolse la sciarpa, porgendogliela.  
“Bè, grazie”.
“Quando vuoi, ragazzina!”
La lasciò sola sul pianerottolo, col solito ghigno sulla faccia, mentre Austin reclamava le sue attenzioni.
“Tu hai salvato zio Cult come i supereroi?”
Joan rise di gusto per l’innocenza di quel bambino.
“No, gnomo, io non sono come i supereroi, non ho i poteri”.
“Nemmeno Batman ce li ha, ma aiuta le persone! E poi papà dice che anche tu aiuti le persone, le guarisci”.
“E’ vero, ma non ci riesco sempre”.
Lui sollevò le spalle, come se per lui fosse la stessa cosa.
“Hai anche salvato zio Cult”.
“Ce l’avrebbe fatta anche da solo, gnomo”.
“Ma tu l’hai aiutato come si aiutano gli amici, l’ha detto papà”.
Rimase stupita da quante cose potesse dire quel bambino tanto mingherlino.
“Tu sei amica di papà?”
“Sì”.
“E sei amica di zio Cult?”
“Bè, non proprio…”
“Perché?”
“Ci conosciamo da poco e poi discutiamo tanto, anzi non siamo mai d’accordo su niente”.
“Ma lui ti ha dato la sua sciarpa”.
“E questo cosa c’entra? E’ stato gentile”.
Austin annuì, del tutto sicuro di quello che stava per dire.
“Quando mi piaceva Summer Rogers mamma mi ha detto che per conquistarla dovevo fare delle cose carine per lei, essere gentile”.
“Sono sicura che Cult non mi ha dato la sua sciarpa per conquistarmi”. Si abbassò per vederlo dritto in viso. “Vedi, quando si è grandi le cose sono molto più complicate di quando si è piccoli come te. Non c’è un solo significato per un gesto”.
“Forse tu non vedi il significato giusto”.
Rimase nuovamente spiazzata da quelle parole, ma decise di non ribattere, non voleva abbattere tutto l’ottimismo di quel bambino.
Steve uscì pochi minuti dopo e andò via con Austin. Joan rimase sul pianerottolo, un sorriso amaro sulle labbra.
“Che c’è ragazzina, ti sei incantata?”
Cult la prese in giro, ma non aveva la forza di ribattere, né voleva farlo, si limitò a sparire oltre la porta del suo appartamento.
 
Era tardi, irrimediabilmente tardi, doveva scegliere cosa indossare in meno di mezz’ora o sarebbe stata terribilmente in ritardo.
Dopo aver messo sotto sopra il ripostiglio trasformato in cabina armadio, finalmente trovò l’abito giusto, quello che le consentì di essere elegante senza eccedere.
Era di un bel grigio perla, le maniche a trequarti di pizzo e le sfiorava appena il ginocchio. Immancabili le calze, questa volta velate nonostante il gelo esterno. Si mise il cappotto, e nuovamente quella stola rossa che tanto le piaceva e che le aveva regalato sua nonna.
Diede una ritoccatina al rossetto rosato prima di uscire. Scese le scale stando attenta a non cadere con quei tacchi.
Sperò vivamente di non dover camminare molto. Le strade erano state ripulite, ma c’erano ancora dei mucchietti di neve qua e la e camminarci in mezzo con quelle scarpe non era il massimo.
Arrivò sul marciapiede senza problemi, stando attenta ad evitare la neve come si evita la lebbra.
Un uomo con un completo nero scese dall’auto,andandole in contro.
“Signorina Cameron, il signor Pavlov la aspetta in auto”.
Anche lui era russo, ma parlava un fluente inglese e l’accento era davvero poco marcato.
L’uomo la scortò verso una Bentley nera e le aprì lo sportello posteriore.
Un sorriso la accolse.
“Mi dispiace non essere potuto scendere personalmente, ma David è iperprotettivo”. Ridacchiò indicando l’autista, accanto a cui era seduto il tizio che aveva aperto la porta a lei e Cult il giorno precedente in albergo.
“Come sta oggi, Joan?”
“Molto bene, lei Dimitri?”
“Meglio ora che sono con lei”.
Spinse un bottone che fece salire un vetro nero dal nulla, che separava i sedili anteriori da quelli posteriori. Istintivamente Joan si guardò intorno. I vetri erano tutti scuri, meno quello posteriore, da cui notavo le luci di una macchina nera, che seguiva il loro tragitto.
“Credo che qualcuno ci stia seguendo”.
Indicò un punto imprecisato oltre il vetro posteriore.
Dimitri annuì. “E’ la mia scorta, quella russa, non hanno accettato di lasciarmi andare da solo all’appuntamento, ma non si preoccupi, non ci daranno fastidio, nessuna cena a quattro non si preoccupi”.
“Non sono preoccupata, mi dispiace solo che debba vivere in questo modo”.
L’uomo inclinò la testa, studiando Joan, che si sentiva in imbarazzo, temendo di aver detto qualcosa di sbagliato.
“Nessuno ha mai avuto il coraggio di dirmelo in faccia, finalmente ho incontrato qualcuno di abbastanza schietto da farlo”.
Lei abbassò lo sguardo, sorridendo.
“Non farlo, non abbassare lo sguardo, hai degli occhi così belli”.
“Se continua con i complimenti sarà difficile guardarla negli occhi”.
Arrivarono a destinazione in poco tempo dato lo scarso traffico. L’auto si fermò e Dimitri disse all’autista che avrebbe fatto da solo, che non serviva che si scomodasse a scendere. Lo fece in inglese, cosa che Joan apprezzò. Sembrava quasi volesse renderla partecipe anche di quel momento e non volesse farla sentire in imbarazzo per non comprendere quella lingua.
L’autista però sembrava contrariato e ribatté qualcosa in russo. Dimitri parlò a sua volta in quella lingua tanto incomprensibile e l’altro tacque.
Scese dall’auto con eleganza innata e si precipitò ad aprire lo sportello a Joan, porgendole la mano, che una volta scesa dall’auto, si affrancò al braccio. Sembrava quasi avesse paura che scappasse.
Quando Joan si voltò l’auto era sparita, ma pochi metri più indietro c’era l’altra auto parcheggiata, quella che li seguiva.
 
Cult si alzò dal letto, innervosito. Non aveva neanche voglia di dormire. Era una di quelle sere. Quelle in cui avrebbe potuto abbattere il mondo intero, quelle in cui l’Afghanistan un po’ gli mancava, perché lì non hai il tempo di pensare.
Strinse i pugni lungo i fianchi. L’unica cosa che poteva calmarlo in quelle notti era una lunga
a passeggiata per la città che non dorme mai.
Infilò la giacca. La sciarpa era abbandonata sul divano dal giorno prima.
La annusò, d’istinto. Profumava del suo profumo, così particolare e unico. Si mischiava a quello di lui, in un contrasto, una battaglia da cui nessuno sarebbe uscito vincitore.
Se la buttò addosso distrattamente e uscì di casa.
Camminò per ore per le vie di quella città meravigliosa, quella in cui era nato, in cui il padre l’aveva abbandonato, in cui sua madre l’aveva cresciuto, quella in cui aveva incontrato Steve, quando erano ancora due bambini, quella città magica dove lo aveva ritrovato.
Guardò in alto. Il cielo era coperto da grosse nuvole, ma l’aria era pura, fresca. Era l’unica cosa che potesse curarlo, in quelle notti.
Sì, perché di sfogare la sua rabbia non se ne parlava, come fai a sfogare una rabbia che ti porti dentro da anni, una rabbia che non sai neanche da dove proviene?
Camminava per il centro, gli occhi delle passanti addosso, ma non gli importava, non in quel momento. Arrivò davanti a un ristorante, il ristorante. Non sapeva cosa l’avesse condotto lì. Si piazzò dall’altra parte della strada, in piedi, appoggiato ad un lampione e si accese una sigaretta.
La fiamma gli illuminò gli occhi gelidi, più gelidi di quel vento.
Osservò per bene il ristorante sull’altro marciapiede. Joan e Pavlov erano seduti ad un tavolo troppo esposto, chiunque avrebbe potuto sparare senza mancare il bersaglio, ma forse si stava facendo troppe paranoie.
Lei rideva, rideva di gusto.
“Mia madre è inglese, è per questo che conosco questa lingua”.
“Dovevo sospettarlo, non fai neanche un errore”.
“Io parlo di me ma tu non mi dici nulla…”
Le verso nuovamente del vino, vino che iniziava a fare effetto.
“Non ho molto da dire”.
“Come hai conosciuto Cult?”
“Siamo vicini di casa”.
“E così vi siete conosciuti mentre vi prestavate sale e zucchero”.
Lei annuì, ridendo. Se solo avesse immaginato che la sua prima notte a New York l’aveva trascorsa a cucirgli una ferita probabilmente se ne sarebbe andato, o ne avrebbe riso di gusto, chissà…
Quando uscirono dal ristorante erano ormai le undici e mezza passate. Non se ne era resa neanche conto che il tempo fosse passato così in fretta.
“Vorrei offrirti una romantica passeggiata notturna ma temo che loro non ne sarebbero felici”.
Disse indicando l’auto nera parcheggiata dove Joan l’aveva vista l’ultima volta ore prima.
D’un tratto qualcosa colpì la sua attenzione. Un luccichio al di sopra delle loro teste, che proveniva dal palazzo di fronte, qualcosa che le irritava la vista.
Ci mise solo un attimo, un battito di ciglia a capire cosa fosse, un attimo in cui fece solo in tempo ad urlare: ‘giù’.
 
Salve, care!
Sesto capitolo e non so nuovamente cosa dire...Sto diventando l'autrice più noiosa di EFP, lo so. Vabbè, bando alle ciance. 
E' un capitolo un po' particolare, che ho scritto in un giorno particolare, quindi boh non so se vi piacerà o se lo riterrete noioso o brutto, fatto sta che come sempre mi piacerebbe sapere cosa ne pensate!
Dato che non so se riuscirò ad aggiornare prima del 25, colgo l'occasione per farvi gli auguri di Natale, anche se il Natale non mi piace! (Sì il mio film preferito è il Grinch, solo che lui poi diventa più buono, io mica tanto!!).
Buona serata/nottata/giornata e alla prossima! :)

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Capitolo 7
*** Capitolo VII ***


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VII.

 
Tirò Dimitri per la giacca, facendolo abbassare. Protetti da un’auto, non furono colpiti da alcuna pallottola quasi per miracolo.
Le guardie scesero all’istante dall’auto e iniziarono a sparare a loro volta.
Cult, non pensò nemmeno a quello che doveva fare. Al primo sparo ‘amico’, si precipitò dall’altra parte della strada. Aveva visto Joan sparire dietro un’auto. Quello era il suo obiettivo.
Lo raggiunse correndo.
La strada era ormai deserta, tutti erano scappati via impauriti.
Quando raggiunse Joan lei lo guardò in modo interrogativo. Lui non ci diede peso.
Gli uomini di Pavlov sopraggiunsero per portarlo via e farlo salire nella macchina che aveva accompagnato lui e Joan poche ore prima e che si era materializzata proprio in quel momento con un gran rumore di freni.
Lui urlò qualcosa in russo, qualcosa che solo i suoi uomini, irritati, capirono.
“Dobbiamo portare via anche lei” Disse col suo perfetto inglese.
Cult si era innervosito.
“Portatelo via”. Urlò con voce rabbiosa, graffiante. “Se resta qui mette tutti in pericolo! A lei penso io”.
Joan rabbrividì per il modo in cui Cult aveva pronunciato quell’ultima frase, con una possessività che non doveva, non poteva  appartenergli.
Il russo si scusò con lo sguardo, per poi voltarsi e, coperto dai suoi uomini, sparire dentro l’auto.
Joan si lasciò andare contro la portiera. Cult continuava a sparare e anche il tizio sul palazzo non sembrava voler smettere.
Un proiettile colpì il marciapiede, troppo vicino a lei. Cult le si mise davanti, coprendola completamente col suo corpo.
Joan si trovò con il viso contro il suo petto caldo. Respirava affannosamente.
Aveva finito i colpi. Si abbassò al livello della donna, per restare al coperto mentre cambiava il caricatore.
“Andrà tutto bene!”
La rassicurò a un palmo dal naso, il fiato caldo che creava una nuvola bianca davanti al viso di lei.
Poi tornò allo scoperto, senza spostarsi da quella posizione di protezione nei confronti di Joan. Sparò ancora, poi ci fu un momento di calma.
Stettero al coperto ancora un po’, non molto, poi Cult mise la testa fuori, ancora nulla. Nessuno sparo.
“Spostiamoci dietro quell’auto”. Disse indicandone una lì accanto, nera, lucidissima.
Quella dietro cui erano stati fino a quel momento era piena di colpi d’arma da fuoco.
Lei annuì. Lui le si fece vicino, la pistola in mano. Le si mise a sinistra, coprendola completamente in caso l’uomo avesse sparato ancora, cosa che accadde mentre erano a metà strada. Non potevano tornare indietro.
Cult spinse Joan in avanti, in modo che fosse coperta dalla macchina, sparò qualche colpo, poi la raggiunse.
“Tutto bene?”
Lei annuì, ma notò che del sangue usciva da sotto il cappotto. Anche lei lo notò. Non faceva male, forse per l’adrenalina che aveva in corpo.
Lui si sentì in colpa a vederla ferita, come se tutto quello che era successo fosse colpa sua.
“Sto bene, Cult!”
Un altro colpo, poi un secondo, poi più nulla.
“Devo andare su quel tetto. Tu stai qui!”.
Lei scosse la testa. Non disse una parola, mail suo sguardo bastò a far cambiare idea a Cult, era quasi in trance, lo guardava senza vederlo realmente, lo implorava silenziosamente di non lasciarla sola. E lui non lo fece. Non la lasciò.
La prese per la nuca, stringendola al petto, sempre stando all’erta, nel caso l’attentatore cercasse ancora di colpirli, ma nulla, niente spari, nessun rumore.
Con la mano libera chiamò Duck, poi Cult per avvisarli. Al tizio che aveva sparato avrebbero pensato loro, ora lui doveva pensare a Joan.
 
L’appartamento di Joan aveva un non so che di speciale. Era in pratica uguale a quello di Cult, ma a lui sembrava cento volte meglio.
Erano arrivati al palazzo in taxi, Joan faceva fatica a camminare, nella caduta aveva picchiato malamente la gamba.
Le calze erano strappate, così come il vestito, che aveva un lungo sbrego che correva lungo la gamba destra.
La donna si tolse il cappotto, non con poca fatica. Lui voleva aiutarla, ma lei insisteva dicendo che ce la faceva da sola.
Si prese del disinfettante e del cotone per pulite la ferita sul braccio.
Tornò in salotto, dove Cult la aspettava appoggiato al divano.
Lei si sedette, passandogli accanto, noncurante, e iniziò a disinfettare quella lunga ferita che occupava quasi interamente l’avambraccio, da poco sopra il polso, a poco sotto il gomito.
Faceva male.
“Lascia fare a me”. Cult aveva la voce più soffice del solito.
Joan temeva che le avrebbe fatto ancora più male, non sembrava esattamente una persona delicata, ma dovette ricredersi non appena le sfiorò il braccio con il cotone freddo.
Compieva piccoli movimenti, tamponando delicatamente la ferita.
Lei lo guardava con la testa leggermente piegata. Lui sorrideva appena, ma lei non poté accorgersene, non da quell’angolatura.
Poteva notare solo i suoi capelli scuri muoversi leggermente.
“Ecco fatto”.
Si alzò per buttare il cotone, ma tornò così velocemente che Joan pensò di esserselo immaginato.
“Andare a cena con uno che va protetto non è una cosa consigliabile, ragazzina!”
Guardava fuori dalla finestra, senza degnarla di uno sguardo.
“Te la sei vista brutta”. Continuò.
Quell’uomo aveva la capacità di farla sentire in colpa anche quando lei non faceva niente.
“Potevi morire stanotte, non ti è passato per la testa?!” 
La freddezza con cui aveva pronunciato quelle parole la ferì, le lacerò una zona non ben definita, lasciandole una strana sensazione addosso.
“Sì, Dio santissimo, mi è passato per la testa appena ho sentito il primo sparo, e anche quando quel tizio mi ha mancato di qualche centimetro”.
Urlava, spazientita, ma soprattutto impaurita. Le mani, che muoveva in aria, tremavano.
Cult le si avvicinò, lo sguardo meno duro, gli occhi penetranti come non mai.
Lei, però, si allontanò di riflesso. Scosse la testa, priva di forze.
Le lasciò un po’ di spazio, poi le si avvicinò come ci si avvicina ad un animale ferito, con cautela, pronto a rispondere ad un attacco.
Ma lei non attaccò, non ne aveva la forza, la voglia.
Lasciò che Cult la abbracciasse senza dire nulla. Inspirò il suo profumo, si aggrappò alla sua giacca, quasi non riuscisse a reggersi in piedi senza quel sostegno.
Lui le accarezzò dolcemente la schiena. Quant’era che non abbracciava qualcuno in quel modo?
Non aveva il coraggio di dire nulla, ascoltava i singhiozzi soffocati di quella donna. Le passò una mano sulla nuca, lei rabbrividì sotto il suo tocco. Sentiva caldo, anzi no, non caldo, calore. Calore che non sentiva da tanto, troppo, tempo. Calore che forse non aveva mai realmente sentito

Quando si staccarono fu quasi doloroso. Aria fredda inesistente separò i loro corpi, che aderivano così perfettamente.
La accompagnò sul divano, silenziosamente. La fece sedere, poi si soffermò a guardarla giusto il tempo di imprimere quel viso nella memoria, gli occhi gonfi e arrossati, il trucco colato, le guance rigate di nero.
Eppure era bella. Era bella di una bellezza rara, quasi austera, severa, i lineamenti forti, decisi contrastavano con quelle lacrime.
E quegli occhi, quegli occhi che si sarebbe ricordato per sempre, così meravigliosamente profondi. Quegli occhi in cui solo pochi erano riusciti a leggere. Cult era uno di quei pochi, solo che ancora non lo sapeva.
“Io vado, se hai bisogno sono dall’altra parte del corridoio”.
Lei annuì, salutandolo con la mano, debolmente. Se ne stava andando, come faceva sempre quando la situazione diventava insostenibile, quando si sentiva inutile.
Cult si chiuse la porta alle spalle, ci si appoggiò, passandosi una mano tra i capelli.
Una domanda attanagliava la sua mente: perché si era precipitato su di lei? Perché aveva pensato prima a lei che al russo?
La parte razionale del suo cervello si disse che lo aveva fatto perché il russo aveva almeno quattro uomini a proteggerlo.
Quella irrazionale gli fece notare che si sarebbe precipitato da Joan anche se il russo fosse stato senza protezione, che non avrebbe mai lasciato che le accadesse nulla di brutto. L’aveva protetta come non aveva mai fatto con nessun cliente.
Se n’era infischiato del protocollo, del ‘lascia il rifugio sicuro solo se hai copertura’.
Non gli importava se Pavlov si sarebbe incazzato perché lo aveva accusato tra le righe di essere la causa di quella sparatoria, non gli importava se Joan, una volta fatta mente locale, gli avrebbe chiesto perché lui era lì.
Quella notte non importava più nulla. 

 
Buona sera e buon anno!
Sì, lo so che è il 13 di febbraio e che non aggiorno da un po', ma purtroppo con gli esami alle porte dovevo studiare, studiare e ancora studiare.
Questo capitolo avevo iniziato a scriverlo appena dopo Natale, ma l'ho finito solo in questi giorni. Non è molto lungo ma è abbastanza 'intenso', o almeno per me lo è. :)
Spero vi piaccia e spero di aggiornare più frequentemente ora che ho dato gli esami. 
Vorrei cogliere l'occasione per ringraziare tutte voi che avete messo la storia fra le seguite, preferite e ricordate. GRAZIE, non sapete quando mi rendiate felice. 
Io non mi abbatto e continuo a sperare che prima o poi qualcuna mi dica cosa ne pensa di questa storia, sentitevi sotto pressione! Ahahah 
Buona serat/giornata e alla prossima,
xx



 

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Capitolo 8
*** Capitolo VIII ***


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VIII.
 
Il risveglio fu non poco difficile per Joan, la gamba faceva male anche con il più piccolo movimento e la ferita al braccio pulsava. Scacciò malamente le coperte, avvolta nella penombra di quella stanza ancora immersa nel buio. L’alba tardava ad arrivare. Era presto anche per lei, ma stare a letto era troppo doloroso. Le era sembrato di impazzire durante tutta la notte, incapace di dormire per il dolore e lo spavento preso.
Ci mise un po’ per sedersi sul bordo del letto. Sembrava che ogni muscolo del suo corpo fosse in letargo. Si allungò verso il telefono. 5.27 AM. Lo abbandonò sul comodino e tentò di alzarsi senza poggiare troppo sulla gamba dolorante.
Raggiunse il bagno dove inghiottì un paio di antidolorifici. Si sorresse al lavandino, fissando il suo riflesso nello specchio.
Le occhiaie erano più marcate del solito, il viso pallido e gli occhi arrossati. Comunque, nulla che un po’ di trucco  non avrebbe potuto coprire.
Era quella sensazione che non riusciva a capire, a cui non riusciva a dare un nome che la tormentava. La notte precedente aveva dato la colpa alla paura, ma ora erano passate ore, non aveva più ragione di avere paura.
Una domanda le girava nella testa: perché Cult era li? Come faceva ad essere già li? Era impossibile che qualcuno lo avesse avvisato. Scosse la testa, cercando di scacciare quei pensieri, o almeno di metterli da parte per un po’.
 
Dall’altra parte del pianerottolo Cult dormiva tranquillo, la giacca abbandonata sul divano e i vestiti sparsi per il pavimento della camera. I pensieri avevano tormentato anche lui, ma alla fine aveva ceduto e si era addormentato.
Quando si svegliò erano le otto passate. C’era un sole pallido a filtrare dalle finestre. Si buttò addosso un paio di jeans e una vecchia felpa. Steve lo aveva chiamato più volte la sera prima. Lo avrebbe richiamato più tardi.
Si trovò a fissare la porta d’ingresso, chissà come stava Joan…Non glielo avrebbe chiesto, avrebbe fatto finta che la notte precedente non fosse mai successa, avrebbe sperato che lei non gli domandasse cosa ci facesse davanti a quel ristorante e se proprio glielo avesse chiesto avrebbe evitato di rispondere, come sempre.
Qualcuno bussò ripetutamente, insistentemente.
“Melody!” Disse senza celare lo stupore. “Che diavolo ci fai qui?!”
“Ma come, tesoro, non ci vediamo da una vita e l’unica cosa che sai fare è chiedermi che diavolo di faccio qui!” La voce era troppo squillante e l’entusiasmo finto ed esagerato.
Melody Harper era bella, non particolarmente acuta, ma bella, e Dio, se era brava sotto le lenzuola!
Era conosciuta da tutti nel quartiere, e non per le sue doti di conversatrice o per la sua spiccata simpatia.
Lo abbracciò e gli schioccò un bacio sulle labbra, depositandovi un fastidioso velo appiccicaticcio di lucidalabbra.
In quello stesso istante, Joan uscì dal suo appartamento.
Cult scostò Melody e la osservò per constatare che riuscisse a stare in piedi. Melody, dal canto suo, si voltò particolarmente infastidita e la fissò.
“Ehm…Buongiorno”.
Joan era visibilmente in imbarazzo, il solito tempismo!
“Ciao, ragazzina!”
Melody sbatteva gli occhi, troppo truccati, visibilmente confusa.
“Ciao, io sono Joan”.
Tese la mano a quella ragazza vestita in abiti succinti. La donna non la afferrò, ma la salutò con un cenno del capo.
“Melody”.
Era indubbiamente bella, ma il troppo trucco e l’abbronzatura finta non le rendevano giustizia. Il carré biondo le induriva i lineamenti del viso magro. Indossava dei jeans aderentissimi infilati in un paio di stivali neri dal tacco vertiginoso, che le permettevano di osservare Joan dall’alto, facilitata dal fatto che la ragazza, a causa del male alla gamba, indossava un paio di scarpe da vela, anziché delle scarpe con tacco.
Non sapendo cosa dire, Joan si voltò per chiudere la porta di casa. Stava per accennare un saluto e sparire prima che il silenzio diventasse ancora più imbarazzante, quando Melody la fermò.
“Oh ma tu sei un dottore”. Disse indicando la targhetta sopra al campanello. “Ottimo, perché ho un dolore terribile alla mano e non so proprio cosa fare”.
“Mi dispiace ma non credo di poterti aiutare, sono una psicologa”.
Melody sembrò delusa e sul suo viso apparì di nuovo un’espressione a metà tra l’annoiato e il seccato. Cult, in tutto ciò se ne stava appoggiato allo stipite, a godersi la scena con il sorriso stampato sulle labbra.
“Oh, una strizzacervelli”.
Joan aveva sempre odiato quel termine. Che diavolo significa?!
Dovette far appello a tutto il suo autocontrollo per non tirarle un sonoro schiaffo.
“Be’ non capisco perché voi strizzacervelli siate considerati dottori”.
“Perché siamo laureati, forse? O forse perché facciamo dei dottorati…”
Le si avvicinò, ignorando il dolore alla gamba. Melody fece una smorfia, come se una laurea per lei non facesse differenza.
Ma Joan non gliel’avrebbe data vinta. Eh, no! Il suo orgoglio sgomitava per uscire e farsi sentire.
“Comunque, deduco dalle macchie di tinta sul tuo polso che fai la parrucchiera, il dolore alla mano potrebbe essere un’infiammazione del tunnel carpale. Ti conviene farti vedere da un medico. Devo farti lo spelling di ‘tunnel carpale’ o pensi di farcela a ricordarlo?!”
Sorrise soddisfatta, mentre Melody tentò di avventarsi su di lei, fermata da Cult.
“Va’ in casa, subito!” Era un ordine, un ordine che Melody non discusse nonostante fosse arrabbiata.
Sparì dietro la porta, lasciando Cult e Joan da soli.
“Però, non sapevo avessi gli artigli, ragazzina”.
Nonostante la frase fosse ironica, non c’era nulla di ironico sul suo volto. Per un attimo Joan si sentì in colpa per ciò che aveva detto, si sentì inadeguata, indagata dallo sguardo di Cult che era capace di scavarla.
Ma non gliel’avrebbe data vinta!
“Insegna alla tua ragazza a tenere a freno la lingua, o la prossima volta potrei andarci anche più pesante”.
“Lei non è la mia ragazza!” Disse duro.
“Per me non fa alcuna differenza se te la scopi ogni tanto o se le hai messo un anello al dito, dille che non è il caso di insultare il lavoro altrui”.
La sua espressione si fece, se possibile, ancora più dura.
“Come credi, ma stai attenta, tu puoi anche essere brava con le parole, ma Melody è cresciuta per strada e sa come difendersi”.
“Suona come una minaccia”.
“Falla suonare come ti pare. Sto solo dicendo che la prossima volta che vi incontrerete potrei non essere presente”.
“Credi che non mi sappia difendere, Cult?” Si avvicinò, gli occhi fissi su quelli di lui. “Io me la so cavare benissimo da sola, non ho bisogno di cavalieri che appaiono nel momento del pericolo”.
Cult ebbe la strana sensazione che non si riferisse solo a quell’episodio, ma anche alla notte precedente, quasi volesse mettere in chiaro che il fatto di averla vista vulnerabile non lo autorizzava a pensare che lei fosse vulnerabile.
“Buona giornata!”
Si voltò e scese le scale. Si concesse di rallentare il passo per evitare dolore alla gamba solo quando fu certa di essere fuori dalla vista di Cult.
Si fermò fuori dal portone, appoggiata al muro, cercando di riprendere il controllo del respiro.
Dal lato opposto del marciapiede stava arrivando Steve, che sorrise a Joan non appena si accorse della sua presenza.
“Ehi, doc! Come stai? Cult mi ha detto di quello che è successo ieri sera”.
“Sì, sto bene”. Una meraviglia, pensò tra sé.
“Sicura?! Hai la faccia di un gatto a cui hanno appena schiacciato la coda”.
Joan lo guardò stranita.
“Senti, andiamo a prenderci un caffè, offro io e mi racconti perché sei così incazzata”.
 
“E’ solo che da quando mi sono trasferita qui ho ricucito uno sconosciuto nella mia camera da letto, sono stata coinvolta nella protezione di un diplomatico, ho quasi rischiato la vita e per finire ho rischiato di prendere a schiaffi quell’adorabile donna che è tanto intima con Cult”.
Steve ridacchiava, innervosendo ulteriormente Joan.
“Senti, non so cosa ci sia di divertente nel mio racconto, ma non sono in vena, quindi piantala!”
“Ok, scusa”. Nascose una risata dietro la tazza piena di caffè bollente.
“Quindi hai conosciuto Melody…”
La donna annuì, sorseggiando il cappuccino.
“Sì, bè lei non è esattamente una socievole, non le piace che qualche altra donna giri intorno a Cult”.
Joan scoppiò in una risata isterica.
“Ma ti prego! Lei mi avrebbe deliberatamente insultata perché è gelosa di me?!” Si indicò, incredula. “Per favore, falle sapere che non sono ne sarò mai in competizione con lei, può dormire sonni tranquilli”.
“Sbaglio o sei un po’ troppo sulla difensiva, doc?!” La stuzzicò il ragazzo. “Comunque, lei lo sa che con Cult non ci sarà mai nulla di serio, è per questo che si è fatta mezzo quartiere”.
“Non mi interessa, lui può fare ciò che vuole della sua vita”.
“Come vuoi, ma pensavo che non fossi una che giudica dalle apparenze, mi sembravi diversa”. Si era fatto di colpo serio.
“Infatti io non giudico dalle apparenze, ma se la sua fidanzata…Amica mi insulta e denigra il mio lavoro, allora non mi sta bene”.
“Melody è fatta così, lasciala perdere”.
“Senti, io non vengo a dire a te e Cult quello che dovete fare o non fare, gradirei che voi vi comportaste allo stesso modo”.
Steve alzò le mani in segno di resa.
“Pensavo fossimo amici”. Giocherellava con un tovagliolo di carta, senza smettere di guardarla negli occhi.
“Sì, lo pensavo anche io, ma quello che vedo è io che vi aiuto, vi presto la macchina, vi faccio da babysitter e in cambio ricevo insulti dalla vostra amichetta, e non mi è neanche concesso chiedere di avere delle risposte. Non sono un’idiota, Steve, mi rendo conto che ci sono cose che non mi dite, e solo perché faccio finta di non capire, di non vedere, non vuol dire che sia cieca o deficiente”.
“Joan….”
Lei lo fermò con una mano. “No, Steve, non venirmi a dire che lo fate per  me, per ‘proteggermi’, perché qui non siamo in una serie tv e io non sono una sedicenne in piena crisi adolescenziale! La vostra è mancanza di rispetto”.
“Mi dispiace che la vedi in questo modo”.
Si alzò e lasciò una banconota sul tavolino, l’amaro in bocca, lasciato non dal caffè ma da quella conversazione. Si allontanò a passo svelto, lasciando Joan sola.
“E’ l’unico modo in cui riesco a vederla al momento”.
Se ne andò anche lei. Sul tavolino rimase solo l’ombra del loro passaggio, un paio di tazze mezze piene con del caffè ormai freddo e una banconota infilata sotto alla zuccheriera.
 
“Melody ti ho detto che non sono dell’umore!”
“Quanto sei pesante! Una volta ti andava sempre”.
Sbuffò accendendosi una sigaretta, mentre Cult la fissava dalla poltrona.
“Non mi piace che insulti i miei vicini”.
“Ah, ho capito perché non ti va di fare sesso. E’ per la strizzacervelli”. Sputò sprezzante.
“Piantala”.
“E dimmi, sei già riuscito a infilati nelle sue mutande o è una figa di legno?”
Cult si alzò di scatto e le fu davanti con due soli lunghi passi. Le strinse un braccio facendo cadere la sigaretta sul pavimento.
“Ti ho detto di piantarla”.
“Come credi”. Ribatté lei liberandosi dalla sua presa e schiacciando la cicca abbandonata per terra.
“Una volta quelle come lei le prendevi per il culo”.
Gli si avvicinò e gli appoggiò una mano sul petto, scendendo verso il basso.
“A te non serve una come lei”.
Le sue dita si agganciarono al passante dei jeans, che cadevano morbidi sui fianchi. Risalì con l’altra mano fino a infilarsi sotto la felpa.
“Non dirmi che non ti sono mancata perché non ci credo”.
Gli sfilò la felpa, iniziano a baciargli il petto. Cult, che era rimasto impassibile fino a quel momento, le spostò le braccia con poca gentilezza e le sfilò la maglia, così aderente che quell’azione non gli fu per niente facile.
Aveva bisogno di non pensare e Melody lo sapeva. Si guardarono negli occhi per un attimo, prima che lui la sollevasse per portarla in camera. In vestiti erano ancora sparsi sul pavimento dalla notte prima.
La fece cadere sul letto, prima di toglierle i jeans a lei e a sé stesso. Le allargò le gambe e vi si posizionò in mezzo. Lasciò dei baci sul collo di Melody, per poi scendere sempre più giù, con la maestria gli garantiva il primo posto tra i preferiti della ragazza.
Si sfilò i boxer senza neanche toglierle gli slip. Si limitò a spostarglieli di fianco, penetrandola senza alcuna delicatezza, continuando a guardare altrove, senza mai incrociare gli occhi di Melody.
Spingeva con rabbia, i muscoli delle braccia contratti, le mani strette nelle lenzuola.
 
“Se sei triste sai dove trovarmi, non pretendere che sia sempre io a farmi viva”.
Gli lasciò un bacio sulla guancia, senza aspettarsi alcuna risposta, e lasciò quella casa.
Cult si buttò sul divano, ancora a petto nudo. La cicatrice della ferita ricucita da Joan era ancora ben visibile e ogni tanto faceva male, ma era solo una delle tante.
Qualcuno bussò alla porta proprio mentre si stava accendendo una sigaretta.
“Un attimo”.
Abbandonò pacchetto e accendino sul tavolino per alzarsi pigramente. Probabilmente era Steve.
“Ragazzina, che sorpresa!”
“Ehm…Ciao!”
Era decisamente imbarazzata, più per la discussione avuta poco prima che per il fatto che Cult fosse mezzo nudo. E comunque con lui era ancora arrabbiata, quindi si impose di restare concentrata e non dargli corda qualsiasi cosa lui dicesse.
“Vorrei chiederti l’indirizzo di Steve”.
Il ragazzo la guardò da capo a piedi, per poi andare a sdraiarsi sul divano.
Solo quando si voltò Joan ebbe la possibilità di scorgere un tatuaggio, una  sorta di semicerchio composto da una scritta elegante che faceva da cornice alla scapola sinistra, esattamente al di sotto di essa. The only easy day was yesterday.
“Dai entra, Melody se n’è andata, non temere”.
“Io non temo proprio nessuno!”
Accidenti, era caduta ancora in quella provocazione come una pivellina. Cult ridacchiava come se avesse davanti la cosa più divertente dell’universo.
“Ok, senti, non sono qui per discutere. Vorrei l’indirizzo di Steve, se me lo dai me ne vado subito”.
“Oh, e cosa vuoi farci con l’indirizzo di Steve?”
Il tono era ironico, ma non riuscì a nascondere una punta di fastidio mista a curiosità.
“Devo parlargli”.
“Già, sei una che parla molto, tu!”
“Chissà perché non suona come un complimento”. Disse lei, vagamente ferita dal tono di voce con cui aveva pronunciato quelle parole che, dette da uno sconosciuto non avrebbero avuto alcun effetto.
Lui si accorse del cambiamento nel suo volto. Non riusciva a dire qualcosa senza ferirla.
Si alzò e raggiunse il tavolo della cucina. Quando tornò aveva un foglietto giallo stretto tra le dita affusolate.
Glielo porse, ma quando lei fece per afferrarlo, lui lo nascose nella mano, scostando il braccio.
“Me lo dici cosa devi dirgli o è un segreto di stato?”
I suoi occhi la fissavano dall’alto, la sua figura sembrava sovrastarla, le labbra si muovevano lente e lei non riusciva a non fissarle.
“Abbiamo discusso e volevo scusarmi”.
Continuò a guardarlo, imperterrita, senza neanche sbattere le palpebre per paura di perdersi qualche suo movimento.
Era una persona così particolare, eclettica, complessa e la intrigava, non c’era nulla da fare. Era attratta da lui, ma non dal lato fisico, bè non solo, ma da quello umano, psicologico.
Lui le rivolse un sorriso sincero e allungò nuovamente il foglio verso di lei, la quale però continuò a guardarlo diffidente.
Cult sbuffò, scuotendo la testa, ma poi le prese una mano e le chiuse tra le dita quel post-it su cui aveva scarabocchiato l’indirizzo di Steve.
“Il tatuaggio”, disse Joan indicando la spalla di Cult, “sbaglio o è un motto dei navy seal?”
Sapeva di non sbagliarsi. Era stato un ex marine a darle quell’informazione quando aveva lavorato per qualche mese alla base della marina di Washington.
Cult lasciò andare la sua mano, che ricadde lungo il fianco.
“Ora non mi verrai a dire che oltre a fartela con un medico te la facevi anche con un marine”.
Un’altra provocazione, era il modo di Cult per sviare una conversazione quando non gli andava di parlare, ma quella volta Joan non sarebbe caduta nella sua trappola, non avrebbe mollato, non se ne sarebbe andata dopo averlo mandato al diavolo, di questo Cult era certo.
“Quindi è questo che sei?” Cercò il suo sguardo, ma lui glielo negò. “Sei un navy seal?”
 “Io sono tante cose, te l’ho già detto ragazzina”.
Cult abbassò finalmente lo sguardo su di lei, su quegli occhi caldi. Un giorno le avrebbe raccontato tutto, forse, ma quello non era il giorno giusto e lei non era pronta.
Joan prese coraggio e si voltò per andarsene.
“Lo ero”.
La voce di Cult sembrò riecheggiare nell’appartamento. Joan si bloccò nel mezzo della stanza. Si voltò quasi impaurita. Cult aveva il viso leggermente contratto, il pomo d’Adamo che faceva su e giù lentamente.
“Grazie”. E no, non si riferiva solo all’indirizzo.
 
Buona sera!
Ebbene sì, habemus banner! Dopo settimane di tentativi sono riuscita a crearne uno decente. Non ne sono del tutto soddisfatta ma, considerando la mia incapacità in questo genere di cose, non mi lamento! Cosa ne pensate? Ve gusta? I consigli e le critiche son sempre ben accetti!
Per quanto riguarda il capitolo, scopriamo un nuovo personaggio e anche qualche particolare in più su Cult....Che  ne dite?
Buona serata e a presto! :)

xx

 

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Capitolo 9
*** Capitolo IX ***


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IX
“Don’t give up on me now…”
 


Joan arrivò all’indirizzo segnato sul foglio poco prima delle dieci. Il sole iniziava a riscaldarsi anticipando la primavera.

Ad aprirle la porta non fu Steve, ma una donna molto bella.

“Ciao, sto cercando Steve”.

“Entra, è al telefono ma credo si liberi in fretta”.

Le fece spazio e chiuse la porta alle sue spalle. Si portò una ciocca di capelli chiari dietro l’orecchio proprio mentre entrò nella stanza Austin, trotterellando, con la giacca che strusciava per terra.
La lasciò andare non appena si accorse della presenza di Joan.

“Zia Joan!”

Le corse incontro con un sorriso a mille denti e le abbracciò le gambe.

“Ciao gnomo, come stai?”

“Ah, quindi tu sei Joan! Bè finalmente posso conoscere la zia preferita di mio figlio”.

Era stata la donna a parlare. Ma certo, come aveva fatto a non notare la somiglianza? Gli stessi lineamenti delicati, la fossetta proprio al centro del mento.

“Sono Alison”.

Le tese la mano sottile.

“Bè non credo ci sia bisogno che mi presenti”.

La donna sorrise, accentuando la luce che dava vita ai meravigliosi occhi verdi.

“Steve mi aveva detto che eri bella, ha sempre avuto buon gusto”.

Disse ridendo e indicandosi. Joan fu trasportata da quella risata così allegra, per un attimo le sembrò di conoscere quella donna da anni. Le sembrò di ridere con un’amica.

Alison le piaceva, la conosceva da pochi minuti e già le piaceva. Le trasmetteva ottimismo e voglia di vivere.

“Joan, cosa ci fai qui?”

Steve era entrato nella stanza senza fare alcun rumore, attratto dalle risate provenienti dall’entrata.

“Ciao”.

Joan era imbarazzata, non sapeva esattamente come scusarsi senza sembrare patetica.

“Tesoro, vieni andiamo via che zia Joan e papà devono parlare”.

Alison prese Austin per mano, il quale nonostante non fosse particolarmente allettato dell’idea di andarsene, la seguì senza fare storie, limitandosi a fare un cenno con la manina.
 

“Duck sbrigati, sei peggio di una donna”.

“Non rompere, lo sai che ho i miei tempi”.

Si accese una sigaretta, ignorando lo sguardo di Cult.

“Devi rilassarti, amico, sei nervoso”.

Sorrise malizioso. “Non avrai mica litigato ancora con la vicina sexy…”

“No, non ci ho litigato e poi non è sexy”.

Duck sbuffò, rilasciando fumo bianco.

“Quando discuti con lei sei sempre nervoso, dovresti scopart…”

“Duck, piantala!” Ringhiò Cult.

L’amico alzò le mani in segno di resa.

“Come ti pare, non scaldarti”.

“Possiamo andare ora o devi finire il make up?”

Tirò una pacca sulla spalla del ragazzo e aprì la porta di casa spingendolo verso l’uscita.

“Non puoi buttarmi fuori da casa mia, cazzo”. Disse tra sé mentre ormai Cult era già sulle scale.

“Stammi a sentire, dobbiamo andare a recuperare i soldi da quel tizio ad Harlem, altrimenti il Vecchio vorrà la mia testa”.

Duck sbuffò pesantemente.

“C’è qualcosa che non va?” Chiese Cult con un tono che non ammetteva repliche.

“Lo sai cosa c’è che non va. Il Vecchio non mi è mai piaciuto”.

“Non deve piacerti”.

Salì in macchina sbattendo rumorosamente lo sportello. Duck lo seguì pochi secondi dopo, la sigaretta ancora in bocca.

“Sei una contraddizione unica, amico”. Fece un ultimo tiro prima di gettare il mozzicone fuori dal finestrino.

Fermo al semaforo Cult lo fissò.

“Ma sì, dai, fai quasi ridere... Proteggi la gente un giorno e rovini la vita di  un povero spiantato il giorno dopo”.

Cult partì sgasando e Duck capì che forse aveva tirato troppo la corda, ma sapeva anche che lui non se la sarebbe presa. Erano amici da troppo tempo perché se la prendesse per una cosa del genere.

“Io non rovino la vita a nessuno, se l’è rovinata da solo, e salvo la vita alla gente perché mi pagano bene”.

Una contraddizione

“Non fare lo stronzo con me!” Disse ridendo. “Non attacca, ti conosco da troppo tempo. Salvavi vite anche quando la paga era uno schifo”.

Cult non fiatò e Duck capì che era ora di tacere e non andare oltre.
 
“Dunque…”

Imbarazzo, imbarazzo e nuovamente imbarazzo. Joan non era mai stata così imbarazzata in vita sua. In fondo conosceva Steve così poco…

“Vuoi del tè, o del caffè… Dell’acqua, sì bè , insomma, vuoi qualcosa?”

La ragazza scosse violentemente la testa, stupita dalla sua gentilezza.

“Sono qui per scusarmi”. Disse tutto d’un fiato per paura di non riuscire a far uscire un suono.

“Non sono arrabbiato”.

“Sì insomma sono imbarazzata per il mio comport…” Alzò la testa di scatto. “Aspetta…Non sei arrabbiato?”

Lo stupore si dipinse così palesemente sul suo volto che Steve non poté fare a meno di ridere.

“Pensavi davvero che me la sarei presa?”

Lei annuì arrossendo.

“Ma smettila, siamo amici e tu eri nervosa, gli amici mica si tengono il muso per così poco”.

Andò in cucina e lei lo seguì.

Amici.

“Va bene se sei un po’ nervosa, la tua vita è cambiata drasticamente e sei un po’ su di giri, è ok!”

Le passò una tazza di caffè fumante nonostante non glielo avesse chiesto.

Lei gli sorrise ringraziandolo e Steve non poté fare a meno di notare quando fosse bello il suo sorriso. Le si illuminavano persino gli occhi.

“Sono davvero dispiaciuta, ho esagerato e tu non c’entravi niente”.

“Basta con le scuse!” Soffiò sulla tazza senza smettere di guardarla negli occhi. “E comunque Melody è un po’ una stronza, quindi diciamo che capisco perché eri nervosa”.

“La conoscete da molto?”

“Praticamente da sempre, abitava in fondo alla via e siamo cresciuti insieme, io lei e Cult”.

“Quindi tu e Cult vi conoscete da una vita”.

“Sì, da sempre”.

Si vedeva che avrebbe voluto chiedere di più ma che si stava trattenendo per non risultare impicciona, o forse semplicemente per non sembrare troppo interessata.

“Guarda che se vuoi puoi chiedere, io non sono Cult, se posso ti rispondo volentieri”.

Le sorrise allusivo, ma lei fece finta di non accorgersene.

“E’ sempre stato così?”

“Così come? Così stronzo, barbaro e scostante?” Ridacchiò lui

Joan annuì, senza emettere un suono.

“Sì e no…”

Aspettò che andasse avanti, sicura che l’avrebbe fatto.

“Non ha avuto un’infanzia facile e quando è tornato dalla guerra… Bè insomma la guerra è guerra…”

“Era nei Navy Seals, questo me lo ha detto”.

“Ma allora gli hai scucito più informazioni di quanto pensassi”.

Un ghigno sarcastico gli si dipinse sul volto.

“Una sola informazione, gli ho scucito una sola informazione”. Precisò lei.

“Prima o poi ti dirà tutto”.

“Chi ti dice che io sarò disposta ad ascoltare?”

“E’ inutile che fai questo gioco con me, non mi freghi!”

“Non capisco a cosa ti riferisci”. E non era del tutto falso…

“Non arrenderti con lui, abbi pazienza e si renderà conto che sei sempre stata li”.

“Io non aspetto nessuno, tanto meno qualcuno che mi tratta in questo modo e che si approfitta della mia gentilezza”.

Steve scosse la testa, senza perdere il sorriso.

“Siete più simili di quanto pensi”.

“Oh, per favore! Non iniziare con la storia del ‘siete più simili di quanto pensi’”

Imitò la voce di Steve, suscitando nell’uomo una risata.

“Non sono portata per il ruolo della crocerossina con complesso di inferiorità a cui piacciono gli uomini che fanno gli stronzi e sperano di cambiarli e renderli uomini
migliori”.

Steve perse il sorriso, ma stette in silenzio aspettando che Joan continuasse.

“Io…C’è qualcosa di Cult che mi attrae e non mi riferisco al lato fisico…”.

Lo ammise a qualcuno che non fosse lei stessa. Grande passo avanti.

“…Ma non ho intenzione di perdere il mio tempo con un’anima tormentata. Sono psicanalista, non masochista”.

“E io lo capisco, ma da quando ci sei tu…Io gli ho visto una strana luce negli occhi”.

Lei lo guardò scettica, appoggiata al tavolo. Senza dire nulla.

“Non ti sto dicendo che è follemente innamorato di te, che vi sposerete e che farete una bella coppia di bambini…” Le fece spuntare un sorrisino. “Ti ferirà, ti tratterà male e lo manderai al diavolo decine di volte, ma alla fine vi capirete a vicenda”.

Joan era senza parole. Schiuse le labbra per provare a dire qualcosa ma non emise alcun suolo.

Era andata la per chiedere scusa e si era aperto il vaso di pandora.

“Non capisco cosa mi stai chiedendo… Perché mi hai detto queste cose?”

Finalmente aveva ritrovato la voce.

“Ti sto solo chiedendo di vedere come va”.

Joan, nuovamente senza parole si sentiva una stupida a non sapere cosa dire, per cui usò la scusa di un appuntamento per andare via.

“Ti accompagno, sono sicuro che ti fa ancora male la gamba”.

Ah, già… La gamba.

“Non è necessario, ho ancora gli antidolorifici in circolo…sto benone”.
 

“Resta in macchina”. Cult era freddo.

“Come vuoi”.

Duck non capì perché gli aveva chiesto di accompagnarlo. Solitamente quelle cose le faceva da solo. Né  lui, né Steve erano tagliati per quel tipo di cose.
Cult si allontanò con lentezza insolita, la sigaretta stretta nelle dita.

Sparì dietro una porta bianca di una casetta piccola e mezza distrutta. A Duck quella casa, quella porta bianca, ricordarono la casa in cui aveva vissuto per un po’, con i Marin. Orfano di madre e con un padre alcolizzato, aveva passato la prima infanzia con il padre, che lo picchiava ogni volta che si ubriacava, il che succedeva un giorno sì e l’altro pure.

Il giorno in cui raggiunse casa Marin quasi non gli sembrò vero. Una famiglia che lo voleva nonostante non fosse un neonato ma avesse già nove anni. Solo dopo qualche mese aveva capito che ai Marin di lui e degli altri quattro bambini che vivevano lì non importava poi molto. Ciò che importavano erano le sovvenzioni che ricevevano.
Ma comunque i Marin erano meglio dell’orfanotrofio o di suo padre. A dodici anni poi era scappato e un uomo gentile, dai tratti delicati lo aveva ospitato per la notte.
George Duckerson, da quel giorno, era diventato suo padre e Nathalie Duckerson era diventata sua madre.

Poi erano arrivati Steve e Cult, degli amici veri, dei fratelli.
 
“Bene, possiamo andare”.

Duck non si rese neanche conto che Cult era tornato.

“Com’è andata?”

“Bene”.

Aveva dei soldi in mano. Li contò. Scosse la testa e prese qualcosa dalla tasca della giacca. Altri soldi.

Duck non capì. Non subito almeno. Riuscì a capire solo quando Cult prese un paio di banconote dalla sua mazzetta per aggiungerle all’altra.

Sorrise senza farsi vedere e non disse nulla, ma d’un tratto si sentì fiero di avere un amico- un fratello- come Cult.
 
Buongiorno, o buonasera, o buona notte,
no, non sono morta o dispersa su qualche isola deserta nei Caraibi (magari, mentre scrivo piove a dirotto!). Sono stata via per tanto e mi dispiace. Mi dispiace per me e per quelle persone (poche ma buone) a cui magari questa storia piace anche. Scrivere mi mancava tanto.
Purtroppo mille cose insieme hanno creato ostacoli e sono stata lontano da questa storia per tanto, troppo tempo. 

Orari folli all'università che mi tenevano fuori casa quattordici o quindici ore, stress, stanchezza, esami, mancanza d'ispirazione, insomma...Non un granchè...
Ma sono tornata, che vi piaccia o no! :) 
Spero di trovare il tempo di pubblicare senza far passare mesi.
A presto, (per davvero, si spera!)
xx

 

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Capitolo 10
*** Capitolo X ***


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X.

 
“Take my thoughts with you and when you look behind

You will surely see a face that you recognize

You’re not alone, I’ll wait ‘till the end of time”
 



“Ciao, Joan”. Disse sornione Duck spuntandole alle spalle mentre apriva la porta.

“Ciao, Duck”. Tagliò corto lei entrando in casa, seguita da lui.

“Non mi sembra di averti invitato ad entrare”.

“Oh, avanti, ormai siamo intimi”. Ammiccò.

“Duck…Non so che strana idea tu ti sia fatto, ma…”

“…Ma lei è solo una ragazzina, certe cose non le fa”.

Cult.

Si voltò di scatto, innervosita. Cult ghignava e teneva la sigaretta tra le dita. Dio, ma quanto fumava?!

“Ciò che faccio o non faccio non credo siano affari tuoi”.

Gli rivolse un sorriso falso come Giuda e posò la borsa sul tavolo.

“Sono sicuro che Joan è molto più caliente di quello che sembra!”

Duck.

“Caliente? Ma se è fredda come un ghiacciolo!”

Cult.

“Ghiacciolo…Mmmm…Mi piace l’idea di Joan che mangia un ghiacciolo”.

Duck.

Cult rise di gusto per quel doppio senso.

“Ehm…Ehm…Scusate, sono ancora nella stanza nel caso non ve ne siate accorti!”

“Te l’avevo detto Duck, fredda come un ghiacciolo e acida come un limone”.

“E’ tutta una facciata e poi sei tu che la fai inacidire, sono sicuro che con me sarebbe docile come un cagnolino”.

“Ah, quindi per te una donna dev’essere ‘docile come un cagnolino’?”

Joan era indignata, il maschilismo era una delle poche cose che proprio non sopportava. Ed era nervosa. E li voleva fuori da casa sua. Subito.
Duck dovette capire di averla detta grossa, perché cercò subito di rimediare.

“Ma no…Cioè io scherzavo, mi piacciono quelle con temperamento”.

“Bè se vuoi fare battute maschiliste evita di farle nel mio salotto. Grazie”. E detto ciò gli indicò la porta, che lui varcò sussurrando delle scuse imbarazzato.

 
“Però…Ci sei andata giù pesante, ragazzina”.

“Oh, guarda che ce n’è anche per te se mi impegno”.

“Ma non mi dire”. Cult si fece più vicino, strafottente e bello.

Non arrenderti. Abbi pazienza. Le parole di Steve le ronzavano fastidiosamente in testa e lei cercò di non dar loro peso, ci provò con tutte le sue forze, ma alla fine si lasciò convincere e lasciò perdere.

“…Ma forse non ne ho voglia”.

“Oh, non mi dire…E da quando non hai voglia di darmi addosso?”

Chiese con noncuranza girando per il salottino, soffermandosi con lo sguardo sulle due foto che aveva messo su una mensola.

La prima era il giorno della laurea, con tanto di toga e tocco. Era in mezzo ai suoi genitori e sorrideva.
La seconda era del suo primo viaggio in Italia, legata a un periodo non facile. Non sorrideva, non era felice. Guardava il mare affacciata a una terrazza. Sembrava quasi una foto fatta da un professionista, sembrava una di quelle pose da modella che si finge nostalgica per creare un alone di mistero.

“Così sarei io a darti addosso?”

Lui non rispose, si limitò ad alzare le spalle. Non poteva vederlo in viso, ma sapeva che stava fissando quelle foto.

Cosa lo colpiva così tanto di quelle foto? Ormai le stava osservando da parecchi minuti…

“Voglio una risposta, Cult. Pensi davvero che voglia darti addosso?”

“Non so, dimmelo tu. Vuoi darmi addosso?”

Non c’era più voglia di battibeccare nella sua voce.

“Non rispondere ad una domanda con un’altra domanda. Potrei pensare che cerchi di rigirare la frittata perché non sai cosa dire”.

“Wow, questa sì che è una deduzione da vera psicologa. Sbagliata, sfortunatamente per te. Ma apprezzo il tentativo”.

Finalmente si voltò. Era pomeriggio ormai,  il sole caldo illuminava la stanza e loro due creando degli strani giochi di ombre.
Inchiodò gli occhi a quelli di lei e le si avvicinò.

Lei indietreggiò, spaventata. Poggiò eccessivamente il peso sulla gamba dolorante ed emise un gemito di dolore.

Cult le si fece accanto allarmato.

“Ti fa molto male?”

La sostenne e la accompagnò al divano, dove la aiutò a sedersi.

“Sta svanendo l’effetto degli antidolorifici”.

“Non hai risposto alla mia domanda”. Disse serio.

“Nemmeno tu”.

Cult scosse la testa, arrendendosi e si allontanò.

“Fa male, ma con gli antidolorifici passa”.

Avrebbe fatto qualsiasi cosa per tenerlo lì. Lo voleva accanto a sé, senza sapersi spiegare la ragione. Era un desiderio inconscio, per dirlo alla Freud.

“Dovresti andare da un dottore”.

“Disse quello che si è fatto ricucire da una sconosciuta pur di non andare in ospedale”.

Le alzò le gambe per permetterle di stenderle e stare più comoda.

“E poi non conosco nessun dottore qui, non voglio finire in mano a un macellaio”.

“Guarda che non siamo in un film horror”.

Joan si chiuse nelle spalle.

“Non mi fido comunque di un medico che non conosco”.

“E ti fideresti di un medico che conosco io?”

Lo guardò di sottecchi, non convinta.

“Giuro che non è un macellaio!” Disse mettendosi una mano sul cuore. “Ha curato anche me un paio di volte”.

“Va bene”.

“Ok, allora lo chiamo, tu stai ferma qui”.

Annuì senza dire nulla, colpita dalla sua gentilezza.

Le piaceva quel Cult. Quello gentile, premuroso.

Le piaceva parlare con lui in quel modo, quasi fossero due amici che si conoscono da tempo.

Le piaceva Cult.

“Bene, arriva tra poco. Siamo fortunati, era libero”.

“Ok”.

Era imbarazzata e le brontolava rumorosamente lo stomaco, il che non alleviava l’imbarazzo.

“Hai per caso fame ragazzina?”

Ridacchiò.

“Non ho mangiato a pranzo, sono stata da Steve fino a poco fa”.

“Ti preparo un panino, però non aspettarti nulla, non sono un grande chef”.

Si ritirò in cucina prima che potesse anche solo ringraziarlo.

Joan si perse nei suoi pensieri, di nuovo, fino a quando il cellulare non squillò. Lo recuperò.

“Clark! Non posso crederci!”

Clark Dempsey, meglio noto come ‘dottor Dempsey’, era lo psicanalista che le aveva ceduto lo studio e si era trasferito in Giappone.

“Ciao, Joan. Finalmente ti sento, come va allo studio?”

“Bene, non ho avuto alcun tipo di problema, tu in Giappone come ti trovi?”

“Bene, ma sfortunatamente ho brutte notizie”.

Nulla di buono iniziava con un ‘ho brutte notizie’.

“Sfortunatamente qui ci sono stati dei problemi, quindi devo tornare a New York”.

Ecco perché era una brutta notizia, perché se lui tornava lei si trovava senza lavoro.

“Capisco. E quando torneresti?”

“La settimana prossima. Ho ritenuto corretto avvisarti con un po’ di anticipo”.

“Bè ti ringrazio”.

“Capisco che sia una doccia fredda e, credimi avrei voluto che le cose andassero diversamente”.

“Lo capisco, non preoccuparti. Quando sarai di ritorno discuteremo dei dettagli, non preoccuparti”.

“Ti ringrazio e vedrai che troveremo una soluzione”.

“Certo. A settimana prossima”.

 
“Tieni”.

Cult la distorse da quella brutta notizia. Capì subito che era successo qualcosa. L’aveva sentita parlare dalla cucina e il suo tono era cambiato man mano che la conversazione continuava.

Joan prese il panino e diede un morso nonostante non avesse più fame.

“Grazie, è molto buono”.

“Sì bè c’è dentro di tutto”.

“Ma tu non mangi niente?” Chiese Joan probabilmente eccessivamente preoccupata. “Potevi servirti senza problemi”.

Non aveva più la sigaretta.

“Non preoccuparti, mangerò più tardi”.

Joan scosse la testa con disappunto, spezzò il panino in due e gli porse una metà, che lui prese sorpreso, come se avesse fatto chissà cosa.

“Perché sei così sorpreso? Credevi ti avrei lasciato morire di fame?”

Scosse la testa e morse il panino.

“E’ davvero buono, dovrei darmi alla ristorazione”.

“Non credo sia il caso, Cult, davvero. Sai fare dei panini, ma forse è meglio evitare di aprire un ristorante con un solo piatto sul menù…”

“Mi sottovaluti, ragazzina”.

Qualcuno suonò il campanello. Fu Cult ad aprire e accompagnò un uomo alto, magro, sulla cinquantina al divano.

“Salve signorina. Mi dica, dove le fa male?”

“La gamba”.

“Come si è fatta male?”

Guardò Cult per un attimo.

“Sono caduta dalle scale, non stavo guardando dove andavo e sono scivolata”.

“Va bene, Cult puoi lasciarci soli?”

“Certo, aspetto fuori dalla porta”.

“La aiuto a togliersi i pantaloni così posso controllare meglio”.

Si alzò lentamente, facendo leva sulla gamba sana e tolse i pantaloni. Il dottore si era messo un paio di guanti e una volta sdraiata, le toccò la gamba, su cui era comparso un grande livido.

“Questo le resterà per un po’, ma il dolore dovrebbe andarsene tra qualche giorno. Sta usando qualche antidolorifico?”

“Sì, ma quando passa l’effetto non riesco a muoverla”.

“Questo è normale. Metta del ghiaccio e la tenga a riposo, tra qualche giorno il dolore passerà e in un paio di settimane dovrebbe andarsene anche il livido”.

“Io domani devo andare al lavoro, non posso assentarmi”.

“Sarebbe meglio stare a casa, ma se proprio non può prenda un antidolorifico in modo da riuscire a stare in piedi e faccia meno strada a piedi possibile. Si muova poco
e cerchi di riposare la gamba il più possibile”.

“Perfetto. La ringrazio per la visita. Quanto le devo per il disturbo?”

“Non dica sciocchezze. Questo non è un disturbo. Il suo amico la fuori mi ha chiamato nel cuore della notte per cose ben peggiori”.

“Allora grazie, davvero”.

“Si riposi, mi raccomando”.

Il medico uscì e ripetè a Cult quello che aveva detto a Joan. Quando Cult rientrò Joan era già in piedi, come se il medico non le avesse detto nulla.
Era senza pantaloni e stava faticando per rimetterseli senza poggiare la gamba.

“Ma cosa fai?!”

Di spalle, Joan, non si era neanche resa conto che Cult era rientrato.

“Ma cosa fai tu! Esci! Sono mezza nuda!”

“Oh, ma finiscila! Come se non avessi mai visto una donna mezza nuda in vita mia”.

Joan era indignata, ma quando le si avvicinò per sorreggerla gli fu grata.

“Aspetta. Siediti e fai la brava”.

Lo ascoltò e aspettò che lui le infilasse i pantaloni. La aiutò ad alzarsi e la fece appoggiare a se per sollevarglieli del tutto.
Le sfiorò appena la pelle dei fianchi e Joan rabbrividì. Inalò il profumo di Cult. Immagazzinò tutto il calore che le stava trasmettendo.

“Bè, te li chiudi tu, no?! Nel senso, ce la fai, giusto?!”

Sembrava quasi imbarazzato. No, impossibile. L’imbarazzo non era nelle sue corde.

“Sì, certo”.

Si sdraiò e tirò su la zip, sorridendo, anzi ridacchiando.

Poi lo sguardo le cadde sul telefono, il che le ricordò della notizia ricevuta poco prima. E tornò seria, massaggiandosi la gamba.

“Ti prendo del ghiaccio”.

Non lo stava minimamente ascoltando.

“Come scusa?”

“Il ghiaccio. Devi metterlo sulla botta. Te lo prendo”.

“Ma io non ne ho”.

“Io sì, te lo porto subito”.

Sparì dietro la porta, giusto in tempo per permettere a Joan di evitare una crisi di nervi davanti a lui. A uno sconosciuto. No, non era più uno sconosciuto. Ma non era neanche un amico. E allora cos’era?
Perché aveva chiamato un medico? Perché le aveva alzato i pantaloni? Perché le stava prendendo del ghiaccio?

Il suo cervello era diviso tra il pensiero di Cult e quello della sua futura disoccupazione.

Cosa avrebbe fatto da sola, in una città che conosceva a malapena e senza un lavoro?
Forse l’aveva fatta troppo facile quando se n’era andata da Washington per approdare a New York.
Se non avesse avuto la certezza di un lavoro probabilmente non l’avrebbe fatto. Ora che quella certezza non ce l’aveva più cosa avrebbe fatto? Sarebbe tornata a casa con la coda tra le gambe? Sarebbe tornata alla certezza di Washington?

La porta sbatté e Cult le posò una borsa del ghiaccio sulla gamba. Era gelida e Joan rabbrividì.

Cult prese la coperta appoggiata alla spalliera del divano e gliela stese sulle gambe.
Era la stessa di quella sera, quando lei si era addormentata su quel divano, con Austin appoggiato alle sue gambe.

Si sedette dall’altra parte del divano e la guardò. Joan ebbe la sensazione che si aspettasse qualcosa da lei.

“Va tutto bene, Cult?”

Lui annuì. “Dovrei chiederlo io a te”.

“E per quale motivo?”

“Hai ricevuto quella telefonata e poi sei diventata strana”.

“Ma no, ti sbagli. Non era nulla di grave, sono solo pensierosa”.

Gli sorrise, falsa come Giuda, ma non per i motivi di prima.

“Come vuoi…”

Entrambi stettero in silenzio per diversi minuti. Cult guardava fuori dalla finestra, rilassato contro lo schienale del divano.
Lei guardava lui. Il profilo perfetto, gli zigomi definiti, la barba appena accennata sulle guance.

“Mi stai fissando, ragazzina”. 

“Ma cosa dici?! Sei nel mio campo visivo, mi spieghi come faccio a non guardarti?”

Era imbarazzata e  sperò seriamente di avere una faccia convincente. Ma tanto lui non la stava guardando.

“Tu non mi stai guardando, mi fissi!”

“Ti immagini le cose, caro!”

Finalmente voltò il viso nella sua direzione. Vide solo i suoi occhi. Blu. Non aveva mai visto degli occhi tanto profondi e blu.

Sogghignò e lasciò cadere il discorso, ma iniziò a guardarla a sua volta.
Joan si sentì a disagio. Le sembrava che le stesse scavando dentro, fino ad arrivarle all’anima. Era pericoloso stargli così vicino. Era più facile battibeccare, litigarci e mandarlo al diavolo.

Quasi preferiva mandarlo al diavolo.

“Il dottor Dempsey torna dal Giappone e dalla settimana prossima non avrò più un lavoro”.

Ottimo metodo di distrazione. Ottimo davvero.

“E cosa farai?”

Lei alzò le spalle.

“Non ne ho la minima idea”. Sbuffò sonoramente e si passo le mani sugli occhi. “Sono sola in una città che conosco appena e se non ho un lavoro non ho neanche una stabilità economica il che mi riporta a Washington e io non voglio tornare a Washington”.

“Troverai una soluzione”.

Lei sorrise, malinconica.

“Già”.

“Non sono molto bravo a consolare, mi dispiace,non so cosa dire”.

“Non devi dire niente, mi basta che resti altri cinque minuti”. Si mise a sedere nonostante le occhiatacce di Cult e scivolò accanto a lui.

Volse lo sguardo alla finestra, e subito dopo lo fece anche lui.

“Mi hai chiesto perché ero sorpreso quando mi hai dato metà del tuo panino…Bè… Era la prima  elementare e io non avevo il pranzo. Avevo fame e mi brontolava la
pancia. Steve si sedette vicino a me e mi diete metà del suo panino. Da qual giorno siamo amici”.

Sorrise. Aveva condiviso un momento importante con lei. Forse dopo quel giorno anche lei sarebbe diventata sua amica.

Capì cosa le piaceva così tanto di Cult. Non era l’aria da cattivo ragazzo, il viso perfetto o gli occhi terribilmente belli, era scoprirlo ogni giorno, racconto dopo racconto.

“Comunque non sei sola”.

Non sei sola.
 
Ciao!
E' passato tanto tempo dall'ultimo capitolo, ma non mi dilungherò in spiegazioni come avevo fatto nel capitolo precedente. Ho avuto un periodaccio e non avevo la minima ispirazione...Ho anche pensato di lasciare inconclusa questa storia, ma alla fine ho deciso che no, non avrei mollato così facilmente! Spero che almeno a qualcuna di voi questa decisione faccia piacere e soprattutto che vi piaccia il capitolo.

Se avete letto fin qui, grazie, di cuore e alla prossima!

xx

 

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Capitolo 11
*** Capitolo XI ***


XI.



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"Nessun uomo si aprirà con il proprio padrone; ma a un amico di passaggio, a chi non viene per insegnare o per comandare,
a chi non chiede niente e accetta tutto, si fanno confessioni intorno ai fuochi del bivacco,
nella condivisa solitudine del mare, nei villaggi sulle sponde del fiume, negli accampamenti circondati
dalle foreste — si fanno confessioni che non tengono conto di razza o di colore.
Un cuore parla — un altro ascolta."



 

Quando si svegliò era mattina presto, fuori era ancora buio, anche se all’orizzonte si stagliava una linea dorata, e lei era ancora stesa sul divano. Il ghiaccio era ormai sciolto da tempo e di Cult non c’era più traccia.
O meglio, non c’era alcuna traccia fisica, ma permaneva nell’aria il suo profumo, quasi fastidioso.

Non ricordava esattamente quando si fosse addormentata, ma era sicura di essere seduta e non sdraiata.
Fu nuovamente sorpresa dalla premura che Cult le aveva dimostrato nelle ultime ore. Nessuno si era mai preso cura di lei in quel modo, e questo la destabilizzava.
 Si preparò con calma per andare allo studio per gli ultimi giorni di lavoro e nell’uscire non poté fare a meno di soffermarsi con lo sguardo sulla porta di Cult, chiedendosi cosa stesse facendo in quel momento.
 
Quando rientrò a casa era tardi e strusciava i piedi sugli scalini, incapace di sollevarli a sufficienza per non fare rumore. Era arrivata al terzo piano quando le sembrò di udire una voce familiare.

No, non era possibile…

E invece sì perché, come tutti sanno, le cose negative non vengono mai da sole.

“Mamma?!”

“Tesoro, una signorina non dovrebbe strusciare i piedi in quel modo e soprattutto non dovrebbe rivolgersi a sua madre con questo tono”.

Dietro di lei c’era David, sorridente. Quel sorriso che l’aveva colpita quando si erano conosciuti, ora le dava sui nervi.

“Posso sapere cosa ci fate qui? Senza preavviso, soprattutto”.

Cercò le chiavi di casa nella confusione della borsa.

“Siamo venuti a trovarti, ovviamente, ma siamo solo di passaggio. David è stato così gentile da accompagnarmi qui”.

Mosse la mano indicando i pianerottolo, non del tutto soddisfatta.

“Certo, non è un granchè questo palazzo, come ti trovi?”

“Molto bene, a dire la verità, e anche se non è l’Upper East Side è sempre meglio che dormire sotto il ponte di Brooklyn”.

Finalmente riuscì ad aprire a porta.

“Non ho mai capito da chi tu abbia presto questo tuo sarcasmo, tesoro”.

“Non credo sia ereditario…”

La madre sbuffò, iniziando un tour per la casa, commentando tutto. Dall’arredamento alla dimensione delle finestre, non dimenticandosi di far notare quanto fosse piccola la stanza e quanto sembrasse scomodo il divano.

Quando sparì dietro la porta della camera da letto, Joan si rivolse a David.

“Dunque, qual è il vero motivo per cui siete qui?”

“Ho raccontato a tua madre di quando sono venuto a trovarti e ha ritenuto opportuno venire a dare un’occhiata”.

“Non sono una pianta a cui va data un’occhiata ogni tanto”. Disse lei sforzandosi di stare calma. “Sono adulta e vaccinata e ho imparato a prendermi cura di me da tempo!”

“Siamo tutti preoccupati per te”.

“Ma tutti chi, David?! Tu forse? Non mi sembra che fossi molto preoccupato per me quando mi tradivi. Posso capire la sua presenza qui, ma non la tua! Non fai più parte della mia vita, nel caso non si fosse capito!”

“Farò sempre parte della tua vita, Joan”.

“Ok, allora mettiamola così: non voglio che tua faccia più parte della mia vita, ci siamo intesi?!”

“Joan, tesoro, abbassa la voce. Da quando sei diventata così rumorosa?”

Sua madre non perdeva mai la pazienza, o meglio, manteneva una vena pacata perché ‘una signora certe cose non le fa’.

“Da quando mi si piomba in casa in questo modo e mi si tratta come una bambina”.

“Ma chi dice che vieni trattata come una bambina… David mi ha detto quanto fosse preoccupato per te e ho pensato di venire a trovarti”. Unì le mani e la guardò come se fosse un cucciolo abbandonato.

“Quindi David si preoccupa per me e tu accorri…Ma certo!”

Ormai non aveva più alcuna voglia di stare calma. Avrebbe volentieri lanciato qualcosa contro il muro.

“Non capisco questa tua scontrosità, tesoro”.

“Joan, calmati, tua madre è qui solo per…”

“Tu sta zitto! Non voglio che parli. Non devi neanche fiatare”.

“Joan, non trattare David in questo modo ingiusto!”

Joan, che camminava avanti e indietro per il salotto, si bloccò di scatto.

“Io lo starei trattando in modo ingiusto?!” Rise cinica. “Vuoi sapere perché me ne sono andata da Washington, mamma?”

La madre, che quasi stentava a riconoscere la figlia era immobile e stringeva la borsa tra le mani.

“Me ne sono andata perché ero stufa! Stufa dei pranzi in famiglia durante i quali dovevo stare attenta a non mettere neanche un quarto di gomito sul tavolo, stufa di una relazione in cui a nessuno dei due è mai importato veramente dell’altro, stufa di una vita vuota e sterile”.

La donna fece per parlare, ma Joan la bloccò con la mano.

“Il caro David, qui presente, il caro David che tu ami tanto non è preoccupato per me, non si è mai preoccupato di nulla che mi riguardasse, troppo occupato di sé stesso, dal fare la sutura perfetta, dare l’esame impeccabile. Vuoi sapere perché l’ho lasciato, mamma?”

Ormai stava urlando e nessuno sarebbe riuscito a calmarla.

“Mi tradiva. Il caro e perfetto David mi tradiva. Si scopava un’infermiera, mamma, ecco perché l’ho lasciato, non perché avessi perso il lume della ragione, ma perché mi tradiva”.

La madre non aveva parole. Era esterrefatta e se solo non fosse stata così brava a contenersi sarebbe svenuta.

“E sai come l’ho scoperto? Alla festa dell’ospedale lui si è assentato per una telefonata e quando l’ho trovato si stava sbattendo un’infermiera nello stanzino dei medici di guardia”.

Non aveva più voce.

“E tu non guardarmi in quel modo, David. Se finora sono stata zitta e non ho detto nulla l’ho fatto solo per me, perché ho ancora una dignità. Non pensare neanche solo per un momento che l’abbia fatto per te!”

David era, se possibile, più bianco della madre.

Era sempre stato amato dalla donna, che lo riteneva un uomo ambizioso, educato e con la testa sulle spalle. Era scioccato, ma mai quanto la madre di Joan.

“E se proprio vuoi saperlo, non sei così amato da tutti come credi! I tuoi compagni di corso non ti sopportano, se osservassi oltre a blaterare blaterare e blaterare te ne saresti accorto dalle loro facce annoiate. Le tue battute non fanno ridere e non sei così affascinante come credi!”

Si fermò solo in quel momento e si sentì libera. Tutte le cose che si era tenuta dentro erano uscite e lei si sentiva libera.

Sul volto di David si dipinse un’espressione sprezzante. Era stato toccato sul vivo.

“E quindi ora rinneghi Washington e ti ricostruisci una vita qui, con quell’avanzo di galera del tuo vicino di casa?”

“Quell’avanzo di galera, come lo chiami tu, ha saputo aiutarmi e supportarmi più di quanto tu abbia mai fatto nonostante per lui sia poco più di una sconosciuta”.

“Oh, sono sicuro che non sia poco più di una sconosciuta per lui, sono sicuro che vi siate già conosciuti profondamente”. Concluse allusivo.

Stava per ribattere, quando la madre rispose al posto suo.

“Non ti azzardare a parlare in questo modo a mia figlia! Non farti più vedere e sappi che se ti vedrò ancora ti prenderò personalmente a calci”.

Joan era visibilmente sconvolta dalla reazione della madre. Lei non perdeva mai il controllo, mai.

“Ora vattene e non farti vedere mai più!”

Joan gli aprì la porta, indicando il pianerottolo.

David se ne andò con la testa bassa.

La madre guardava fuori dalla finestra, respirando piano. Aveva ripreso il controllo. Si voltò verso la figlia sorridendole dolcemente.

“Bè, è meglio che vada anche io”.

Le accarezzò una guancia. Joan sapeva che la madre le voleva bene, ma spesso non riuscivano a capirsi. Anche lei le voleva bene. Era per quello che in quegli anni aveva sempre cercato di accontentarla in tutto.

“Ciao, Joan”.

“Ciao”.

Stava per uscire quando Joan la richiamò.

“Mamma!” La raggiunse sull’uscio. “Mi farebbe molto piacere se mi venissi a trovare in futuro”.

La donna sorrise felice.

“Magari prima ti faccio una telefonata”.

“Sì, forse è meglio”.
Rise e la abbracciò, accompagnandola fino sulle scale.
 
Rimase lì alcuni minuti. Sospirò passandosi una mano sul viso.

“Seratina movimentata, ragazzina?”

Cult era appoggiato allo stipite della sua porta, con indosso una camicia bianca sbottonata e dei jeans chiari.

“Non immagini quanto”. Disse entrando in casa.

Lasciò la porta aperta, in un tacito invito ad entrare. Invito che Cult non rifiutò, seguendola nell’appartamento.

Joan era già in cucina quando sentì chiudersi la porta e sorrise. Tirò fuori una bottiglia di vodka e due bicchieri.

Li riempì per metà e si sedette. Lui fece lo stesso, in silenzio.

Joan buttò giù il liquido, chiudendo gli occhi mentre le percorreva la gola lasciando una scia di bruciore.

“Però, ragazzina, non ti facevo così dura”.

Buttò giù il liquido anche lui.

Joan riempì nuovamente i bicchieri.

“Sono piena si sorprese”.

Buttò giù anche quel bicchiere, sotto gli occhi interessati e segretamente preoccupati di Cult.

Si riempì ancora il bicchiere e mentre stava per portare la bocca al bordo, Cult la fermò mettendovi la mano sopra.

“Se continui così vai in coma etilico entro dieci minuti e io non ho alcuna voglia di portarti al pronto soccorso. Ho trovato parcheggio davanti al portone e non ho intenzione di muovere la macchina fino a quando non sarò obbligato a farlo”.

Joan lo guardò negli occhi.

“Ho rischiato la vita, da settimana prossima sono senza lavoro e probabilmente finirò a vivere a Central Park e questa sera ho avuto una discussione psicologicamente distruttiva”.

Cult tolse la mano, e le fece segno di bere.

“Ho notato…”

“Ho urlato così tanto?”

“Diciamo che credo ti abbiano sentito anche nella costa occidentale…”

“Ops…”

Rise di gusto, forse anche grazie all’alcool che iniziava a fare il suo lavoro.

“Quindi non hai bisogno di un riassunto”.

Cult scosse la testa, sorseggiando la vodka. Quando svuotò il bicchiere prese la bottiglia e riempì il suo e quello di Joan, che lo alzò in un brindisi.

“Alla sfiga”.

“Oh, ma smettila. Finalmente hai chiuso con quel David, dovresti brindare a questo!”

“Non mi dire che eri geloso di David”.

“Chi, io?!” Rise. “Ma per favore! Solo che meriti di meglio”.

“Magari troverò qualcuno che sia più interessato a me che all’infermiera di turno e alle suture sulla frutta”.

“Bè, se tu non avessi guardato lui suturare banane ora sarei morto dissanguato”.

“No, te la saresti cavata comunque…”

“Forse…”

“Sai qual è la cosa peggiore?!” Non gli diede tempo di dire nulla, proseguendo con lo sguardo sul bicchiere. “Mi sono chiesta cos’avesse più di me, mi sono sentita inadeguata. Come quando mia madre dava quelle stupide festicciole e perdeva ore a mostrarmi come le figlie delle vicine fossero migliori di me”.

Era al quinto bicchiere e iniziava a straparlare.

“L’unico inadeguato è lui. E’ stato un’idiota a lasciarsi scappare una come te”.

Joan alzò lo sguardo di scatto, colpita, e sorrise a Cult. Quando beveva diventava particolarmente loquace e non sapeva ancora quanto potesse rivelare a Cult, perché più cose gli rivelava, più cresceva il loro rapporto e questo la spaventava.

Cult prese la bottiglia e si riempì il bicchiere.

“Però non capisco perché te la sei presa con tua madre, sembra ti voglia molto bene”. Indicò la foto, quella che aveva osservato per minuti interminabili il giorno prima.

“Me ne vuole, infatti, ma a volte non capisce…Rende le cose semplici così che si possano risolvere semplicemente, ma certe cose non son semplici”.

Bevve di nuovo, nonostante la testa iniziasse a girare. Sapeva che se ne sarebbe pentita il giorno dopo.

“Quando ero al primo anno di università ho avuto un brutto periodo ero molto stressata e ho avuto un esaurimento…Lei ha risolto la cosa regalandomi un biglietto per l’Italia”.

Al diavolo la loquacità. Era in ballo, tanto valeva ballare.

“E’ lì che ti hanno scattato quella foto?”

Indicò nuovamente la mensola su cui stavano le due foto.

Lei annuì, silenziosa.

“Ovviamente quel viaggio non servì a nulla, ma al mio ritorno nessuno parlava di quello era successo, tutti erano troppo interessati a sapere come fosse l’Italia, o forse fingevano per non affrontare la realtà”.
Si lasciò andare contro lo schienale della sedia, le braccia abbandonate sulle gambe.
“E tuo padre?”

“Mio padre è uno a cui va bene tutto, è un uomo buono e onesto”.

Bevvero ancora, senza parlare per un po’.

“Ma tu in casa stai sempre mezzo nudo?” Se ne uscì d’un tratto lei indicando la camicia sbottonata.

Lui non poté far a meno di ridere di gusto.
“No, è che mi prendi sempre nei momenti sbagliati…” Disse lui allusivo.
Lei scosse violentemente la testa.

“Non voglio sapere i dettagli, grazie!”

Osservò la bottiglia, che ormai era mezza vuota.

“Ero appena uscito dalla doccia, ragazzina. Possibile che pensi sempre male?”

Quello non avrebbe dovuto dirlo, perché Joan iniziò a immaginarselo sotto la doccia, la pelle accarezzata dall’acqua calda e il vapore ovunque.

Aveva decisamente bevuto troppo!

“Ragazzina, non ti starai mica facendo un film con me nudo come protagonista?”

Sgamata in pieno!

“Ma smettila! Non sei il mio tipo, comunque”. Aggiunse altezzosa.

Negare, negare anche l’evidenza, negare fino alla morte! Col cavolo che non era il so tipo! Forse non sarebbe stato il tipo della Joan di Washington, ma alla Joan newyorkese Cult piaceva sempre di più e questo, almeno a se stessa, lo doveva ammettere.

“E poi mi sembra di aver capito che tra te e Melody ci sia qualcosa…”

Negare e sviare il discorso.

Buttò giù un altro sorso. Lui alzò lo sguardo su di lei, innervosito, quasi gli desse fastidio quell’insinuazione.

“E da cosa lo avresti dedotto?”

Lei si chiuse nelle spalle, senza rispondere, ma Cult non abbassava lo sguardo e questo la metteva a disagio.

Le loro conversazioni erano piene di frasi a metà, domande senza risposta, cose non dette.

“Smettila di fissarmi in quel modo!”

“Quale modo?” L’espressione si ammorbidì e le labbra si aprirono in un sorriso.

“Quel modo da…da… maniaco!”. Biascicò lei. “Lo fai solo per non rispondere!”

Era ubriaca, era ufficiale! Fece per alzarsi, ma la testa le girò vorticosamente e perse l’equilibrio.

Cult si alzò di scatto dalla sedia per sorreggerla. I loro visi erano un davanti all’altro, i nasi quasi si sfioravano.

“Hai bevuto un po’ troppo…” Le prese il braccio e se lo passò attorno al collo per sostenerla. “Sei pur sempre una ragazzina!”

Sogghignò sornione. Profumava di pulito, di dopobarba e alcool.

“Lasciami andare, sono in grado di reggermi in piedi, e non chiamarmi più ragazzina!” Lo minacciò con  l’indice puntato al suo petto.

Fece una giravolta, per dimostrargli di essere solo leggermente brilla e non ubriaca fradicia.

E non appena si fermò la testa le girò di nuovo e quasi cadde per terra. Cult la teneva per un braccio, in una presa gentile ma salda.

“Vuoi smetterla di fare la stupida e lasciarmi fare?”

Arresa al fatto che riusciva a malapena a vederlo, si lasciò andare tra le sue braccia, sbuffando.

Lui la prese in braccio e lei gli appoggiò la testa al petto, nudo e caldo. Sentiva il cuore battergli lentamente.

“Quindi è questa la tua tecnica? Fai ubriacare le ragazze e poi le porti a letto come un vero principe azzurro senza approfittare della situazione così che si innamorino di te?”

“Chi ti ha detto che non approfitterò della situazione?” La provocò ghignando.

Erano arrivati in camera e lui la stava appoggiando sul letto.

Si sedette al suo fianco, spostandole una ciocca che, ribelle, le era scivolata sul viso.

“I principi azzurri nella realtà non esistono, ragazzina”.

Le sfiorò appena la guancia con il dorso delle dita.

“Ora dormi”.

Si alzò e fece per andarsene, ma Joan lo bloccò per un braccio.

“Puoi restare ancora un po’?”

Stupito da quella richiesta, che probabilmente non gli avrebbe fatto se fosse stata sobria, ci mise un po’ a recepire il messaggio.

Fece il giro del letto e si stese accanto a lei, a pancia in su, le braccia cacciate sotto la testa.

Lei si girò dalla sua parte.

“Non so neanche come ti chiami”.

“Ragazzina non hai bevuto così tanto da avere l’amnesia…”

“No, idiota, intendo il tuo vero nome”.

Lui sospirò. “Brent, mi chiamo Brent”.

“Brent…” Sembrò pensarci sopra come se fosse una questione di vita o di morte. “…Mi piace”.

“Bè…mi fa piacere”. Rispose lui sogghignando come suo solito, ma con le labbra velate d’imbarazzo.

“Un giorno mi dirai tutto?” Farfugliava e nel suo cervello c’era una grande confusione al momento.

“Tutto cosa? Ragazzina forse è il caso che ti metta a dormire. Inizi a dire cose senza senso!”

“Tutto, tutto. Chi sei, da dove vieni, cosa fai, tutto insomma”.

“Forse”. La guardò negli occhi. Erano lucidi d’alcool, ma erano sempre bellissimi.

“Magari mi dirai anche perché eviti sempre di rispondere alle mie domande”.

Anche lei lo stava guardando ora e lui distolse lo sguardo. Joan si fece più vicina, restando in silenzio, ma in attesa di una risposta.

“Un giorno, forse, ti dirò tutto, se tu avrai ancora voglia di ascoltare”.

“Ho sempre voglia di ascoltare”.

Ridacchiò e le rimboccò le coperte.

“Ora dormi, però”.

“Mi dispiace che David ti abbia dato del delinquente”.

‘E quindi ora rinneghi Washington e ti ricostruisci una vita qui, con quell’avanzo di galera del tuo vicino di casa?’

Era sicura che avesse sentito anche quella parte, perché stavano obiettivamente urlando durante quella lite.

“Tu pensi che io sia un delinquente?”

Lei scosse la testa, piano, perché la stanza girava.

“Bene, allora nessun problema”.

Joan non aveva parole, e non conosceva emozione o sentimento che potesse esprimere quello che provava in quel momento.

Colmò del tutto la distanza che c’era fra i loro corpi e appoggiò la testa al suo petto. Cult era sorpreso, non aveva mai dormito con una donna senza averci prima fatto sesso, e anche in quel caso cercava di svignarsela il prima possibile nel caso in cui non fosse a casa sua.

Joan, con gli occhi chiusi, stava già scivolando nel mondo dei sogni, quando Cult le avvolse la schiena con un braccio, spingendola, se possibile, ancora più vicino a
sé.

Pensò che sarebbe bastato che si addormentasse pesantemente per poi andarsene, ma dopo un’ora abbondante non aveva più voglia di andarsene, e rimase fino all’alba. 

 
Saaaalve! Buon...ehm...Anno...ehm...ehm..
Ah, come?! E' il 12 di febbraio?!?! No, ma dai!! 
Coooomunque...Tralasciando la mia necessità di tempo e di una vacanza e di smettere fialmente di studiare, eccoci con un nuovo e fumante capitolo!
Joan è brilla, ma brilla brilla, roba seria, il che mi fa capire quanto io abbia bisogno di bere per dimenticare!
Ma ovviamene a voi non interessa, e probabilmente siete anche stufe del mio abuso di punti esclamativi! 
Grazie per aver letto :) 
A presto! Vabbè, ok, la smetto di dirlo che ormai non sono più credibile...
xx

 

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Capitolo 12
*** Capitolo XII ***


XII


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XII


"I want to hide the truth
I want to shelter you
But with the beast inside
There’s nowhere we can hide"


Occhiali da sole e correttore.

…E un analgesico, magari due. Ecco cose le serviva.

Bere non era mai stata una soluzione, se non altro per le conseguenze. La testa le scoppiava, mentre si copriva con le coperte e il cuscino per impedire alla luce di arrivarle agli occhi.

Pessima idea ubriacarsi, con un mezzo sconosciuto, poi! Mezzo sconosciuto che ormai aveva lasciato il suo letto e la sua casa. Ricordava perfettamente ciò che era successo fino al terzo o quarto bicchiere, ma poi le parole si mischiavano nella testa.

Sbuffò cacciando fuori le gambe dalle coperte. Uscì da quel nascondiglio improvvisato rabbrividendo. Muovere le coperte aveva ravvivato il profumo di Cult che, durante la notte, si era annidato nel letto.

Bevve due tazze di caffè e si sentì subito meglio. Controllò anche il livido sulla gamba, che le faceva meno male rispetto agli altri giorni. Ormai era di un viola bluastro intenso. Il taglio lungo l’avambraccio si era rimarginato e ora ne rimaneva una cicatrice rosastra.

Si cacciò sotto la doccia. A mente fredda riuscì a ricostruire a grandi linee il discorso che aveva avuto con Cult nel letto.

Brent. Ma per lei sarebbe rimasto Cult, sempre e comunque. Si chiese che parte di sé le avesse mostrato la sera precedente? Cult lo scontroso o Brent il vicino premuroso? Possibile che due persone così diverse potessero albergare nella stessa persona, nella stessa anima?

Uscì dalla doccia avvolgendosi nell’asciugamano e tamponando i capelli. Era ora di prepararsi e non aveva più tempo per pensare a Cult o al suo mal di testa. Ogni volta che si preparava e andava allo studio le tornava in mente che quelli erano gli ultimi giorni di lavoro, poi dimenticava il piccolo dettaglio che riguardava la sua futura disoccupazione, dettaglio che le tornava alla mente quando rientrava a casa.
 

“Ma dov’eri ieri sera? Ti ho chiamato mille volte”.

Steve si stava servendo del caffè mentre Cult si accendeva una sigaretta.

“Non avevo il telefono con me. Avevi bisogno?”

“Sì, uno dei buttafuori si è ammalato e speravo potessi aiutarmi”.

“Questa sera ci sono, non preoccuparti”.

Rilasciò il fumo bianco nell’aria, guardando oltre la finestra.

“Sì, ma non mi hai detto dov’eri…”

“In giro, Steve, ero in giro…”

Steve non era del tutto convinto.

“Eri dal Vecchio? Sai che non serve che racconti palle. Quello non mi piace, ma la vita è tua e fai ciò che vuoi”.

Cult si voltò, innervosito.

“Non ero col Vecchio, Steve. Ero in giro, ok? Solo in giro”.

“Ehi, rilassati amico. Era solo per chiedere…Mi preoccupo per te perché sei come un fratello”.

Lo sapeva. Lo sapeva bene. Anche per lui  Steve era come un fratello. E’ che non si sentiva a suo agio a parlare della notte precedente. Per assurdo gli riusciva più facile parlare delle ragazze che si era portato a letto, o delle posizioni sessuali che amava sperimentare con Melody.

“Ero con Joan, ok?!”

Steve sembrò illuminarsi, subito interessato.

Gli raccontò a grandi linee della litigata tra Joan e David e della presenza della madre.

“…E quindi poi abbiamo parlato e lei continuava a bere. Cavolo sembra tanto minutina ma regge l’alcool  meglio di quanto pensassi…”

“E…”

“E niente, Steve, lei era ubriaca e farfugliava”.

“Non ti sarai approfittato di lei mentre era incapace di intendere e volere?!”

“Devi smetterla di guardare Law and Order come una casalinga disperata!” Lo prese in giro Cult, ma poi tornò serio. “No che non mi sono approfittato di lei! Per chi mi hai preso?!”

Steve sorrise come un bambino il giorno di Natale.

“Mi ha chiesto di restare e ho dormito da lei. Solo dormito!” Precisò, gettando la sigaretta.

“Ma allora il ghiaccio intorno al tuo cuore si sta sciogliendo. I miracoli esistono!”

Cult gli tirò una pacca sulla spalla.

“Smettila di dire stronzate e non farti strani film!”

“Oh, non fare questo gioco con me! Joan piace anche a te!”

“..Come ti pare, pensa ciò che vuoi, ma non metterle in testa strane idee”.

Steve si chiuse nelle spalle con fare innocente. Che Joan gli avesse accennato qualcosa del loro discorso?!

“Dovresti lasciarti un po’ andare…”

“Ma lasciarmi andare a cosa, Steve?! Dovrei svegliarmi un giorno e rendermi conto che sono innamorato e che voglio una casa con giardino e una staccionata bianca?”

“Dio santo, Cult, devi sempre estremizzare tutto?”

Pensò che davvero lui e Joan erano più simili di quanto entrambi realizzassero.

Cult scosse la testa, violentemente.

“Lo so che mi vuoi bene e che Joan ti piace, ma tra me e lei non succederà mai niente. Punto e chiuso il discorso”.

“Come vuoi, ma non dovresti precluderti la possibilità di essere felice per chissà poi quale motivo…”

“Certe persone sono fare per avere una famiglia, altre per stare sole, come me”.

“Devo stare solo, sono un’anima tormentata…Bla, bla, bla…Sempre la stessa storia…”

Cult gli dava nuovamente le spalle. Ma Steve non gliel’avrebbe data vinta, non quella volta. Lo afferrò per le spalle costringendolo a girarsi.

“Senti, io non so cosa sia successo in Afghanistan, e ti risparmio il ‘tu non sai cosa voglia dire’ perché, no, non lo so. Ma so cosa vuol dire soffrire”. Lo guardava negli occhi. “Ti voglio bene e non voglio vederti soffrire, voglio che tu abbia la tua possibilità e non so se Joan può essere le tua possibilità, ma lei è capace di smuoverti come nessun’altra, quindi evita di fare lo stronzo con lei”.

“Devo andare, Steve, hai finito con la ramanzina?”

“Sì, ho finito. Tanto sei la persona più testarda che conosco, quindi non ci perdo più tempo. Ora vado a prendere mio figlio”. Gli puntò contro l’indice. “Ti aspetto questa sera. Vedi di non darmi buca!”

 
“Oh, Joan! Ciao!”

“Ciao, Steve. Come va?” Chiuse velocemente la porta, avviandosi verso le scale a passo andante con l’unico scopo di evitare Cult in ogni modo possibile. Si sentiva terribilmente in imbarazzo ed era sicura che non si sarebbe mai più ubriacata in vita sua.

“Bene, ma perché corri in questo modo?” Steve la seguiva a passo normale, avendo le gambe di almeno dieci centimetri più lunghe.

“Correndo? Ma no…E’ che sono un po’ in ritardo…Tu che ci fai qui a quest’ora, piuttosto?”

“Torno dal locale, dovevo vedere Cult”.

Il solo nome di Cult la fece sobbalzare. E se per caso gli aveva detto qualcosa della notte precedente?! Oddio che imbarazzo!

Arrossì impercettibilmente, ma fortunatamente erano ormai in strada e l’aria fredda  l’aiutava.

“Scusa ora devo scappare, vado in studio in metro e sono in ritardo”.

“Ti do un passaggio, ho la macchina dall’altra parte dello strada”. Disse gentilmente indicando l’auto poco distante.

Ecco, ci mancava solo il tragitto con Steve che probabilmente avrebbe volentieri appeso degli striscioni colorati dopo aver saputo della notte passata. Oddio, detta così sembrava che fosse successo chissà cosa…

New York le avrebbe provocato una nevrosi, di quelle serie, descritte da Freud, con tanto di crisi ad arco.

D’altro canto rifiutare una proposta tanto gentile, che per di più le avrebbe evitato la ressa della metro, sembrava definitivamente fuori luogo.

“Certo, sei molto gentile”.

La scortò alla macchina , aprendole gentilmente la portiera.

“Dunque, come va la vita?” Chiese mentre inseriva la prima per uscire dal parcheggio.

“A fare il vago sei pessimo, Steve. Cosa vuoi sapere?”

Alzò un sopracciglio, mentre Steve la guardava con una strana espressione, a metà tra il finto indignato –un finto da pessimo attore- e il celato curioso -celato in maniera terribile.

“Mi offende la tua insinuazione”.

Era serio, ma gli occhi sorridevano.

“Domande dirette, Steve! Domande dirette perché abbiamo poco tempo!”

Picchiettò sull’orologio con aria di superiorità, ma le labbra erano aperte in un largo sorriso.

“Ok, Cult mi ha raccontato, ma ha sminuito la cosa, come suo solito”.

Quell’affermazione la colpì. Ha sminuito la cosa. Ma certo, cosa si aspettava, fiori e cioccolatini? Si sforzò di tornare a sorridere.

“Non c’è nulla da sminuire, perché non è successo nulla”.

Steve lanciava uno sguardo a lei e uno alla strada, piuttosto trafficata data l’ora.

“Ecco accosta lì avanti, sono arrivata”. Indicò il marciapiede.

“Io e te non abbiamo ancora finito il discorso!”

Joan scese dall’auto, ma si fermò e gli fece segno di abbassare il finestrino.

“Ho avuto una brutta serata e non mi andava di stare sola. Ed ero piuttosto brilla. Tutto qui”. Sospirò. “Cult non è alla ricerca dell’amore e io al momento ho altro a cui pensare…”

“Uffa, siete impossibili! Vieni al locale questa sera?”

La fissava con gli occhi grandi e belli.

“Contaci. Mandami l’indirizzo per messaggio”. Si voltò per entrare nel palazzo. “E grazie del passaggio!”
 

Si era cambiata in fretta e furia, sostituendo ai pantaloni eleganti un paio di jeans. Abbottonò la camicetta e ci mise sopra il cappotto. Indosso un paio di stivali bassi e perse almeno venti minuti alla ricerca delle chiavi della macchina, che erano finite chissà dove.

Sperava seriamente che non fosse un locale troppo elegante. Steve non l’aveva specificato e lei non gliel’aveva chiesto.

Le trovò nella borsa, proprio mentre qualcuno bussò rumorosamente alla porta. Solo una persona bussava invece di usare l’apposito campanello.

“Noto che non sei ancora entrato nel mondo civilizzato imparando ad usare il campanello”.

Cult sbuffò noncurante, la sigaretta cacciata tra le labbra.

“Lo sai che è vietato fumare nel palazzo, vero?”

“E credi che la cosa mi interessi perché…”

Joan fece roteare gli occhi. Se non avesse studiato la sindrome della personalità multipla avrebbe giurato che lui ne soffrisse. Invece non presentava alcun sintomo.

“E tu saresti qui perché…”

Gli fece il verso facendolo sogghignare.

“Steve mi ha detto di darti uno strappo dato che vai al locale”. Noncurante, quasi scocciato.

“Ah, sì bè immagino sia logisticamente una buona idea”. Disse sovrappensiero con Cult appoggiato allo stipite.

Rimase a guardarlo per un po’. Indossava una camicia  bianca, infilata solo per metà nei jeans  neri. Reggeva la giacca di pelle sulla spalla, tenuta con due dita. Era indubbiamente bello, e affascinante.

“Ragazzina, hai intenzione di fissarmi ancora per molto? Sai io dovrei andare…”

“Sì, scusa, stavo solo pensando…”

Scacciò chissà cosa con una mano mentre con l’altra spegneva la luce e chiudeva la porta.

L’aria era fredda e tagliente. Si chiese come facesse Cult a restare solo in camicia. L’auto era coperta da un sottile strato di brina e la notte iniziava a farsi spazio nella
città, illuminata dalle luci dei palazzi, che imponenti si stagliavano nel cielo.

Joan rabbrividì entrando in auto, sfregandosi le mani tra loro e cacciandosele nelle tasche della giacca. Cult non appena accese l’auto, ancora prima di inserire la retromarcia per uscire dal parcheggio, accese l’aria calda dirigendo il bocchettone verso di lei. Fu inondata dall’aria calda e rigenerante.

“Grazie”.

Si limitò ad alzare le spalle.

Premuroso e scostante.

Il tragitto fu silenzioso, ma non era uno di quei silenzi imbarazzanti in cui nessuno sa cosa dire. Joan si lasciò scorrere la città sotto gli occhi. La città che non dorme mai. Sembrava vero. Le luci ovunque, la gente per strada nonostante l’ora…Era meraviglioso.

Passarono davanti a Times Square. Luminosa, affollata, bellissima. Le piaceva New York. Bè, l’aveva sempre affascinata molto, ma si sa, vedere una città come turista non ha nulla a che vedere col viverci. Eppure quella era ormai casa.

Non era passato molto da quando aveva lasciato la sicurezza di Washington per la folle New York.

E non era pentita. Per niente. Era difficile e lo sarebbe stato ancora di più una volta senza lavoro, ma si conosceva bene e sapeva che nemmeno quello l’avrebbe abbattuta. Si sarebbe rimboccata le maniche, come sempre e avrebbe tirato avanti.

Cult la guardava di sottecchi, sapendo che era troppo assorta per notarlo. Era tutta presa da chissà quale pensiero. La ammirava, ma forse non gliel’avrebbe detto, in fondo a lei cosa poteva importare del suo giudizio?

La prima volta che l’aveva vista, fuori da quella porta, innervosita e sarcastica, pensava fosse solo l’ennesima ragazzina viziata che viene a New York  per cambiare vita e poi scappa poco dopo. Ma si sbagliava.

Joan era forte e coraggiosa, una che aiuta uno sconosciuto ferito. Gli faceva male vedere quegli occhi spegnersi leggermente quando la trattava con indifferenza, come sulla porta pochi minuti prima.

Avrebbe voluto essere in grado di darle di più, ma forse non ce l’avrebbe fatta. Portava dentro molte ferite. Quelle sul corpo erano guarite, ormai erano solo cicatrici, ma quelle interiori, quelle incise nell’anima se ne vanno raramente.

“Siamo arrivati”.

Parcheggiò in una piccola piazzola, davanti ad un locale che probabilmente una volta era una fabbrica. Il Morning Glory.

A Joan si illuminarono gli occhi.

“Morning glory”. Sussurrò. “Come la…”

“Sì, come la canzone degli Oasis, ragazzina”.

Cult sembrò leggerle i pensieri.

“Steve è fissato con gli Oasis”. Spiegò alzando le spalle e attraversando la strada per raggiungere il locale. Entrarono da una porta secondaria.


Il locale era bello, ampio e la musica non era la classica musica da locale. Si succedevano diverse canzoni di generi differenti, in modo da accontentare tutti.

Steve se ne stava dietro il bancone, un ciuffo di capelli che gli cadeva sulla fronte. Stava servendo una birra a un ragazzo e sorrise quando notò Joan e Cult.

Cult si servì da solo, sorseggiando una birra.

“Non sei qui per bere, fila a lavorare!” Steve lo spinse via, oltre il bancone, mentre fece accomodare Joan.

“Cosa ti posso offrire? Una birra magari…”

Joan storse il naso. “La birra non mi piace, ma se sai fare il cosmopolitan…”

“Se so fare il cosmopolitan?! E’ uno dei miei cavalli di battaglia”.

Rise mentre preparava il cocktail.  Cult era ormai chissà dove.

“Mi piace qui, è davvero bello! …E ottimo nome, adoro gli Oasis!”

“Grazie, mi fa piacere che ti piaccia. L’ho aperto con parte di un’eredità e con un po’ di risparmi…Il nome ce l’ho sempre avuto in testa…” Stava completando il cocktail.

“Ecco qui il miglior cosmopolitan che tu abbia mai provato”.

“Questo lascialo decidere a me!” Disse con aria superiore che, però, celava un sorriso.

Era decisamente buono. Uno dei migliori drink che avesse mai bevuto.

“Noi abbiamo ancora un discorso in sospeso, Joan. Non pensare che me ne sia dimenticato”.

Nel frattempo preparava altri cocktail che gli aveva richiesto una cameriera per dei clienti.

“Steve, non c’è nient’altro da dire. Per favore, non mi va di parlarne”.

Il ragazzo la guardò con quegli occhi chiari e limpidi, così simili e così diversi da quelli di Cult.

Joan gli prese la mano, non più impegnata dalle bottiglie di alcolici.  

“Steve, tu mi piaci, davvero! Sei un bravo ragazzo e nonostante ti conosca da poco so di potermi fidare di te. Ma non voglio parlarne. Preferisco archiviare il fatto e andare oltre e detto da una che per lavoro analizza ogni fatto e ogni parola è un po’ un eufemismo, ma non voglio dare troppo peso alla faccenda”.

Il ragazzo la capì. Avrebbe voluto vedere quei due testardi insieme, felici, perché Cult era un fratello e Joan gli piaceva, tanto.

“Anche tu piaci a me, J.” Le sorrise sincero. “Faccenda chiusa. Ci metto una pietra sopra. Promesso”.

Aveva una mano sotto a quella di lei e l’altra sul cuore.  Lo ringraziò silenziosamente, con lo sguardo, con un sorriso. Gli lasciò andare la mano, così che potesse tornare al lavoro.

D’un tratto Steve sorrise guardando oltre la sua spalla sinistra. D’istinto si voltò anche lei.

Alison si stava avvicinando a passo deciso e con un grande sorriso sulle labbra. I capelli chiari erano legati in una coda bassa, da cui sfuggivano alcune ciocche più corte che le sfioravano delicatamente una guancia.

Era veramente bella. Non ci si poteva stupire nel vedere un bambino bello come Austin quando si conoscevano i genitori.

“Ciao, Joan! Steve non mi aveva detto che ci saresti stata anche tu! Che bello!” 

Le baciò una guancia quasi la conoscesse da anni e salutò allo stesso modo anche Steve. Accanto a lei c’era un uomo alto, magro, i capelli biondi corti e gli occhi scuri. Aveva un bel viso e l’aria da bravo ragazzo. Totalmente diverso da Steve, fisicamente almeno.

“Lui è il mio fidanzato, Blake”.

Il ragazzo le tese la mano, sorridente.

“Joan”.

“Oh, lo so. Alison non fa altro che parlare di te da quando ti ha conosciuto, dice che lei sei stata simpatica a pelle e che finalmente ha qualcuno con cui passare il tempo”.

Alison gli diede un colpetto al braccio, affettuoso, un gesto intimo, dolce.

“Senti sono stufa di serate con soli uomini, avessi avuto almeno una figlia avrei avuto qualcuno con cui parlare di cose da donne”.

Aveva la faccia triste, ma si vedeva che fingeva.

“Tranquilla, tra un po’ sarò senza lavoro quindi potrò dedicarti tutto il tempo che vuoi”.

Gli occhi le si illuminarono come quelli di una bambina il giorno di Natale.

“Un giorno allora dobbiamo fare shopping!”

“Tutto lo shopping che vuoi! Ma dimmi, lo gnomo dove l’hai lasciato?”

“Dalla nonna, mia madre. Lei lo adora, ogni volta che glielo lascio fa i salti di gioia anche se arriva alla fine della serata stremata”.

Rise di gusto, mentre Blake e Steve parlottavano li di fianco. Sembravano seriamente amici. Era bello vederli così uniti.

Alison vide una vecchia compagna del liceo e si allontanò un attimo per salutarla. Steve era impegnato con dei clienti e Blake si guardava intorno, forse un po’ imbarazzato mentre sorseggiava una birra.

“Blake è un nome interessante, molto particolare”.

Lui le rivolse la sua attenzione. “Mia madre adorava William Blake, ma William le sembrava troppo banale, così optò per Blake”.

“Anche a me piace molto Blake, ricordo ancora quando lo studiai al liceo. Fu amore a prima vista”.

“Bè anche tu hai un nome non indifferente. Joan come Joan of Arc”.

La ragazza annuì. “A mia madre piaceva l’idea di darmi il nome di una donna forte, coraggiosa. Era indecisa tra Elizabeth e Joan…Ma ha vinto quella con problemi mentali”.

Il ragazzo rise di gusto, proprio mente Alison li raggiungeva.

“Vedi che ha conquistato anche te! Te l’avevo detto che era simpatica!”

“Sì, Ali, avevi ragione!”.

Continuarono a parlare e ridere del più e del meno per tre ore, quasi fossero amici di vecchia data che non si vedevano da tempo.

Steve appena poteva si univa a loro, mentre Cult si era fatto vedere giusto un paio di volte, ignorandoli.

Le lanciava qualche sguardo di tanto in tanto, dall’entrata del locale che stava sorvegliando.

Joan era al terzo cosmopolitan e la testa si era fatta un po’ pesante, forse perché aveva mangiato solo un panino mentre era in metro per tornare a casa. Le tornò alla mente la notte precedente. Cult nel suo letto. Il suo corpo caldo. Gli occhi lucidi. E poi niente. L’indifferenza.

Cult entrò per bere un sorso di birra. Le lanciò un’occhiata dopo aver visto il bicchiere mezzo vuoto, accostato ad altri due già svuotati. Quell’occhiata non le piacque per niente, cosa volava insinuare, cosa voleva dire?

Cult si allontanò, di nuovo. Joan si rese conto che non voleva che quella faccenda finisse sepolta chissà dove. Buttò giù l’ultimo sorso del cocktail e si alzò, senza dire nulla.
 
Salve! :)
Ebbene sì, sono stata posseduta dal demone della pubblicazione e quindi...Due capitoli in una settimana, cose mai viste!
In compenso non sono per nulla logorroica, quindi non so cos'altro aggiungere...Che tristezza infinita!
I commenti sono come sempre ben accetti, abbiate pietà di me, di Joan, di Cult e pure di Steve che è taaanto dolce.
A presto! 
xx

 

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Capitolo 13
*** Capitolo XIII ***



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"Just a kiss on your lips in the moonlight
Just a touch of the fire burning so bright
I don't want to mess this thing up
I don't want to push too far"
 


13.

L’aria era fredda e lei non aveva più la giacca, che aveva lasciato dentro. Cult era non molto distante. Camminava su e giù per quel marciapiede, la sigaretta stretta tra le dita  e lo sguardo basso.

Cosa avrebbe detto? Non lo sapeva. Avrebbe fatto la figura della ragazzina? Della stupida? Non le importava, forse anche grazie all’alcool.

Lo raggiunse proprio mentre si stava voltando dalla sua parte. Gli occhi la guardarono per attimi interminabili, come due fiumi in piena la scavarono a fondo, lasciandola senza fiato.

“Che vuoi ragazzina?”

Già, cosa voleva?

“Io…”

Non aveva più fiato. Il respiro era corto, la vista offuscata. Che diavolo le prendeva?! Lei era Joan Lauren Cameron, lei non si faceva venire un attacco di panico per un uomo! Sapeva cos’erano gli attacchi di panico, e non solo a livello teorico, purtroppo. Ne aveva sofferto tanto durante il college, ma poi, anche grazie all’aiuto di uno specialista erano passati, o meglio, era un po’ che non ne aveva uno.

Cult non capì. Joan dovette allontanarsi. L’aria satura del suo profumo le impediva di respirare. Si appoggiò al muro. Durò poco, fu un attacco più breve di quelli a cui era abituata, ma le sembrò un’eternità e quando finalmente si riprese era sudata e stanca.

Le parole di Cult le giungevano ovattate, fino a quando le orecchie tornarono a percepire i suoni normalmente.

“Ragazzina, che hai?”

Era preoccupato. Lo poteva scorgere in quel blu immenso, nelle rughette della fronte. E un pensiero la colpì come un fulmine a ciel sereno. Avrebbe voluto baciarlo. Lì.

Subito.

“Ragazzina dì qualcosa, per cortesia”. Il tono era fermo e non lasciava trasparire la preoccupazione, ma quegli occhi! Quegli occhi erano l’oceano, erano cielo e mare, calma e tempesta.

Non riusciva a parlare, presa da quei pensieri. Da quelle certezze. Un attacco di panico non era mai una cosa buona, eppure quella volta aveva portato con sé la certezza.

Cult le piaceva più di quanto aveva ammesso a sé stessa o a Steve. E non se n’era resa conto fino a quel momento.

Con lui era sempre un passo avanti e dieci indietro, ma non le importava in quel momento.

Premuroso e scostante.

“Ragazzina, vuoi rispondermi?!” Non ammetteva repliche e aveva alzato la voce

“Sto bene”. Quella costatazione le uscì come un debole suono, abbandonato nell’aria fredda. Non sapeva se fosse vero, se stesse realmente bene, ma non le importava.

“Sei sicura? Tremi e sudi, prima sembrava che non respirassi”.

“Sì, ma ora sto bene”.

La sigaretta era stata abbandonata per terra, ancora a metà e ancora accesa. La schiacciò con un gesto secco, rude, poi si sfilò la giacca e gliela appoggiò sulle spalle, finendole terribilmente vicino.

Rimase a guardarlo, mentre lui faceva lo stesso. Non era più importante quello che doveva dirgli e l’alcool sembrò non avere più alcun effetto su di lei.

“Non dovresti bere troppo”.

“Tu non dovresti fumare, e comunque non stavo bevendo troppo”.

“Lo pensavi anche l’ultima volta, e poi ti sei quasi schiantata per terra”. Sogghignava, come sempre.

“Allora te lo ricordi”.

Non fu sicura di averlo detto ad alta voce fino a quando non sentì la risposta di lui.

“Non ero io quello ubriaco”. Poi però si corresse, ironico. “Brillo, pardon!”

Joan alzò le mani in segno di resa. “Questa te la do vinta, ma solo perché non ho la forza di ribattere”.

“Cos’hai avuto prima?”

Il ghigno era scomparso e il tono era serio e neutrale, incolore. Ormai aveva capito che Cult nascondeva le emozioni dietro quegli occhi freddi e quel tono gelido. Era preoccupato.

“Niente, te l’ho detto. Sto bene”. Cercò di sorridergli risultando il più naturale possibile, ma non dovette convincerlo perché la guardò truce, gelido e imperativo.

“Ho avuto un attacco di panico, ogni tanto capita. E’ lo stress”.

Forse. In parte.

Si strinse in quella giacca troppo larga e tanto calda.  Aveva letto molto, nella sua vita. Storie di epifanie apparse dal nulla. Eccola la sua epifania. In una notte troppo fredda, col cielo limpido e un marciapiede umido.

“Perché sei uscita?”

“Ti cercavo”. Sincera e diretta. A che pro inventare una scusa?

“Perché?”

“Dimmelo tu il perché di quell’occhiata!”

Fu preso in contropiede, ma non si scompose più di tanto, indossando la maschera che lo proteggeva da qualsiasi emozione.

“L’ultima volta che hai bevuto ti sei quasi schiantata per terra”. Ripeté le parole di prima, quasi cercasse una via d’uscita facile e indolore da quella conversazione.

Joan continuava a guardarlo, imperterrita, sconvolgendolo dentro con quello sguardo così profondo da arrivargli fino al cuore. Nessuno lo aveva mai fatto sentire così.

Così esposto.

Iniziò a camminare lungo il marciapiede, accendendosi un’altra sigaretta. Di spalle a Joan potè chiudere gli occhi per un attimo, respirare a pieni polmoni. Sperava che a

Joan bastasse quella risposta, perché non aveva altro. Non sapeva spiegarsi il perché di quell’occhiata di cui non si era nemmeno reso conto.

Ma Joan non si arrese, testarda gli andò dietro, prendendolo per un braccio per farlo girare, proprio mentre si portava la sigaretta alla bocca. Le sembrò di essere un uno di quel telefilm o quei libri dove ci sono intere scene in cui i protagonisti si guardano senza dire niente. Da fuori, da spettatrice, si sarebbe data della stupida, ma ora non le importava di sembrarlo o di esserlo.

“Bravo, hai dato la risposta migliore, ora voglio quella vera però”.

Cult la osservò dall'alto del suo metro e ottanta. Lei stava immobile, con quella giacca troppo grande e quegli occhi troppo profondi.

“Smettila ragazzina, stai diventando noiosa”.

Sapeva che lo diceva solo per allontanarla, così continuò imperterrita, togliendogli la sigaretta dalla mano e gettandola a terra.

“Saresti un caso clinico perfetto per una lezione sulle barriere difensive. Quelle che innalziamo per proteggerci da eventuali traumi, sofferenze,…”

“Non fare la psicologa con me!” Gli occhi erano diventati due fessure, impercettibili.

Forse aveva tirato troppo la corda, forse avrebbe dovuto fermarsi prima, ma ormai era in ballo, tanto valeva ballare.

“E tu non fare lo stronzo con me!”

Cult inspirava ed espirava velocemente, mentre Joan tratteneva il respiro, in attesa.

“Forse non volevo che bevessi con altri, o forse stavo solo pensando ai cazzi miei e tu ti ritieni al centro del mondo”.

Un tuffo al cuore, senza motivo. Era ubriaca la notte prima con lui. Era a letto la notte prima con lui. Lo stringeva mentre dormiva. Con lui.

“Entra con me”. Sussurrò, appoggiandosi al muro. “Bevi qualcosa con me”. 

Lui la raggiunse. Appoggiò una mano proprio accanto alla sua testa. Joan si trovò a sperare ardentemente che dicesse di sì.

“Devo lavorare, ragazzina”.

Non voleva più guardarlo. Era stanca e voleva andare a casa. Solo in quel momento capì quanto fosse stata stupida.

Un passo avanti e dieci indietro.

Si allontanò, mentre Cult rimase aggrappato a quel muro. Le mani ormai strette a pungo, le nocche bianche.
 

Quando Joan rientrò si sforzò di usare il suo miglior sorriso. Le ricordò i pranzi in famiglia quando non stava bene o non aveva voglia. Sua madre la incitava sempre a sorridere nonostante tutto, anche se dentro sei triste o qualcosa non va, sorridere sempre.

Doveva ricordarsi di ringraziare sua madre perché grazie a quell’insegnamento nessuno le fece domande. Tranne Alison, che le chiese come mai indossasse una giacca da uomo.

“Ero fuori a prendere aria e dato che avevo freddo Cult me l’ha prestata”.

Il discorso morì li, nonostante l’occhiata di Steve nella sua direzione. La ignorò, fingendo di non essersene accorta.

All’interno del locale faceva caldo, ma lei non riuscì a togliersi quella giacca dalle spalle. Forse era colpa del freddo degli occhi di Cult o forse de profumo che emanava
e che le impediva di abbandonarla semplicemente su una sedia così come aveva abbandonato il suo cappotto.

Era tardi e Alison e Blake stavano tornando a casa.

“Mi scoccia molto chiedervelo, ma non è che potreste darmi un passaggio a casa?”

Alison sembrò più che felice. “Ma certo, vero Blakey?”

“Certamente, tanto non ci cambia nulla”.

Joan sorrise a entrambi grata. “Grazie, siete molto gentili”.

“Steve, tesoro, guarda che noi stiamo andando, Joan viene con noi. Ci vediamo domani”. Gli schioccò un bacio sulla guancia.

“Grazie della serata, Steve”.

“Torna quando vuoi, sei la benvenuta”:

“Tornerò solo per i tuoi meravigliosi cosmopolitan”. Lo salutò con un cenno quando oramai erano vicini all’uscita.

Si tolse la giacca di pelle controvoglia, indossando il suo cappotto che, essendo stato abbandonato per ore su una sedia, era freddo.

Sperò che Cult non fosse più all’entrata, ma che ci fosse l’altro ragazzo, quello abbronzato, super muscoloso, col tatuaggio lungo tutto il collo.

Speranza vana, perché Cult era all’entrata. Si stava sistemando la camicia, mentre faceva entrate due ragazze che lo guardavano civettuole. Le salì un conato di vomito quando lui sorrise di rimando.

“Ragazzi devo restituire la giacca a Cult”.

Loro aspettarono proprio dietro di lei e fu loro grata per quel sostegno di cui non erano consapevoli.

Cult si girò ancora prima che lo chiamasse, quasi avesse percepito la sua presenza.

Lei si limitò a porgergli la giacca, ripiegata verticalmente.

“Grazie”.

“Vai via?” Diretto e incolore.

“Già”.

“La accompagniamo noi, non preoccuparti”. Blake lo rassicurò. Joan pensò che fosse dolce da parte sua, ma a Cult non importava. Avrebbe potuto percorrere il Bronx
da sola e lui se ne sarebbe fregato. Meglio così. Si sarebbe dimenticata di quella stupida cottarella molto prima.

“La accompagno io”. Alison sgranò gli occhi, così come Joan, che, voltatasi verso Blake e Alison, si voltò nuovamente verso di lui.

“Non è necessario, per loro non è un problema e tu devi lavorare” Disse astiosa sottolineando le ultime due parole.

“Ma sì, Cult, non è davvero un problema”. Blake manteneva il tono calmo e pulito.

Cult sembrò ringhiare. “Non era una proposta”.

Era una situazione di stallo, che fu Alison a interrompere.

“Va bè, tesoro, se la vuole accompagnare Cult in fondo non c’è alcun problema, l’importante è che torni a casa sana e salva”.

Joan la guardò, implorante, ma lei le rivolse uno sguardo comprensivo. Che avesse capito qualcosa? Bè se aveva capito quella ragazza era dotata di una sensibilità e di un acume rari.

Sana e salva.

“Oh, bè come credete…” Blake era decisamente confuso, ma sorrise a Joan salutandola e rivolse un cenno gentile ma distaccato a Cult.

Alison rimase a salutare Joan con più calma. La stinse in un abbraccio caldo e profumato.

“Noi ci vedremo presto, cara la mia Joan”. Chissà perché sembrava una minaccia, ma Alison era talmente dolce che le era impossibile spaventarsi.

“Non vedo l’ora!”

La salutò ancora con un cenno della mano prima di salire in macchina, dall’altra parte della strada.
 
“Aspettami qui. Mi faccio sostituire”.

Joan annuì, priva di qualsiasi emozione. Il cielo si era annuvolato e probabilmente presto sarebbe iniziato a piovere, forse a nevicare. Era ormai primavera, ma il telegiornale aveva annunciato nuove nevicate e giorni soleggiati si alternavano a giorni grigi e freddi.

Cult fu di ritorno pochi minuti dopo. Le arrivò da dietro, appoggiandole di nuovo la giacca sulle spalle, nonostante avesse indossato la sua di giacca.

Lei tentò di ribellarsi, ma lui era più forte e forse anche più testardo. Alla fine si trovò con due giacche a tenerle caldo, ma dentro sentiva comunque freddo. Gli aveva offerto una possibilità e lui l’aveva rifiutata. Lei e la possibilità.

Attraversarono la strada e giunsero alla macchina, ricoperta da un sottile stato di ghiaccio. Appena entrati Cult si comportò come all’andata. Accese l’aria calda e lei
poté bearsene scaldando almeno l’esterno del corpo.

Cult teneva lo sguardo fisso sulla strada. Joan non potè fare a meno di guardarlo. Il profilo perfetto si stagliava nella notte, illuminato dai fari delle altre auto. La mano sinistra accarezzava il volante, mentre la destra si spostava dal cambio alla gamba –dove la appoggiava con calma- e viceversa. I muscoli delle braccia, lambiti dalla camicia candida, erano rilassati, ma pronti a guizzare ad ogni movimento.

La strada sembrava diversa rispetto all’andata. Quei palazzi, quelle vie non le sembravano quelle di prima, ma lei aveva un pessimo senso dell’orientamento, quindi poteva sbagliarsi. Lesse il nome di qualche via e fu certa di essere lontano da casa. Che Cult stesse allungando la strada apposta?

Lui sembrò leggerle il pensiero, perché si voltò nella sua direzione, impassibile, per poi tornare a fissare la strada.

“Perché hai cambiato strada?”

Lui non rispose, chiuso in un silenzio rilassato. Continuava a guardare davanti a sé, impassibile.

Joan sbuffò, imprecando mentalmente. Maledetto il giorno in cui l’aveva soccorso. Cult ignorò la passeggera, rimanendo immobile, svoltando a destra, poi a sinistra.
Sembrava non sapesse nemmeno lui dove stava andando.

Joan tamburellava con le dita sulla gamba, innervosita.

“Senti, quello offeso non dovresti essere tu…Quindi dimmi subito perché hai cambiato strada!” Gridò stizzita da quella situazione. “Dove diavolo stiamo andando?!”

“A casa”.

“E dobbiamo passare per tutta la città per arrivarci?”

Cult ghignò, presuntuoso.

“Ok, fammi scendere”. Ma lui la ignorò e questo la innervosiva ancora di più.

Erano in una zona lontana da qualsiasi posto lei conoscesse, ormai.

“Ho detto fammi scendere!” Ormai urlava arrabbiata. Ma lui non dava segno di vita. Respirava lentamente, il petto che saliva e scendeva a ritmo regolare.

Joan tentò di aprire la portiera, ma era bloccata. Maledetto! Maledetto lui e la sua follia. Maledetta lei stessa che era così idiota da accettare qualsiasi cosa facesse.

Gli diede una spinta, non forte, ma aveva bisogno di scuoterlo, di ottenere la sua attenzione.

“Forse non hai capito che non sto scherzando, Cult…Ferma questa cazzo di macchina e fammi scendere!”

Un’altra spinta, che lo distrasse rischiando di farli finire fuori strada.

“Vuoi farci fare un incidente?!” Era freddo, calmo e questo non faceva altro che alimentare la rabbia di Joan.

“Meglio all’ospedale che in questa macchina con te!”

Si fermò in un vicolo, di botto, tanto che Joan quasi sbattè la testa contro il finestrino. Aprì la portiera e uscì, senza richiuderla. Borbottava qualcosa.

Cult la seguiva a passo svelto.

“Se non la smetti di borbottare attirerai qualche malintenzionato”.

“Bene, magari me lo può dare lui un passaggio!”

“Fermati, santo Dio!”

La prese per un braccio, facendola voltare. Finalmente poteva di nuovo guardare quegli occhi caldi. Era arrabbiata, innervosita, borbottava e i capelli le volavano davanti alla faccia, ed era bellissima.

“Lasciami subito!”

Lui la lasciò andare e solo in quel momento Joan si rese conto di quanto voleva un contatto con lui. Soffriva per uno sconosciuto. Era stata rifiutata da uno sconosciuto.

Era furiosa. E ferita.

Gli occhi le pizzicavano, ma col cavolo che avrebbe pianto davanti a lui! Aveva provato sensazioni strane quella notte e si era comportata in modi che non erano per niente da lei, ma non avrebbe pianto davanti a lui.

Voleva fare il duro? Bene, l’avrebbe trattato nello stesso modo.

“Ma si può sapere cosa vuoi? No perché sta diventando fastidiosa questa situazione…”

Lui guardava oltre mentre lei cercava quelle pozze blu.

Guardami. Avanti guardami.

Basta. Di possibilità gliene aveva date due in una sera, ne aveva abbastanza. Si incamminò lungo il marciapiede.

Un barbone ubriaco che parlava da solo le si avvicinò.

“Ci faranno del male, tutti loro ci faranno del male!”

“Sì, bè tutti gli esseri umani fanno del male, mettiti in fila per i reclami”.

E passò oltre. Cult la guardò allontanarsi, fiera e decisa nonostante non sapesse dove andare. Salì in macchina, fece inversione e la raggiunse, sbarrandole la strada con l’auto.

“Guarda che chiamo la polizia se non la smetti. Mi hai stufato Cult!”

Cercò di andare oltre, ma lui le si parò davanti.

“Non ho nulla da offrirti”.

Joan alzò lo sguardo.

“Non ti ho chiesto nulla”.

Finalmente i loro occhi si incontrarono. E fu guerra. L’oceano di Cult si scontrò con il fuoco di Joan.

“Appunto. Non mi hai chiesto nulla”.

“Ok...Mi sono persa!”

Cult sorrise. Aveva il sorriso più bello del mondo. Avrebbe dovuto sorridere di più.

“Mi hai salvato la vita e…”

“Anche tu l’hai salvata a me, quindi siamo pari”.

“Sì, ma…”

“Ma…?”

Cult sfuggì al suo sguardo.

“Basta cose non dette, basta frasi a metà, Cult. Per favore. Mi viene il mal di testa a cercare di capire cosa pensi”.

“Non so nemmeno io cosa devo dire, cosa devo fare. La verità è che sei piombata nella mia vita  e io non so cosa fare”.

Non suonava come qualcosa di positivo.

“Ho un caratteraccio e vivo solo per me stesso eppure tu non ti dai per vinta. Lasci sempre una porta aperta per me”.

Questo suonava decisamente meglio, ma era ancora confusa.

“Eri solo una ragazzina che mi dava sui nervi…E ora so solo che qualcosa è cambiato”.

Joan fece per parlare, ma lui non gliene diede il tempo.

“Non farmi domande perché non saprei risponderti e ti arrabbieresti e…Io non voglio che ti arrabbi. Non ora, non oggi. Domani potrai mandarmi al diavolo, ma ora potresti solo salire in macchina e lasciare che ti accompagni a casa?”

Senza dire nulla, stupita e confusa, si avviò alla macchina, su cui salì con calma, quasi fosse in slow motion.

Cult prese posto alla sua sinistra, in silenzio. Aveva il volto disteso, quasi si fosse liberato da un peso.

Se non altro non era l’unica confusa riguardo le proprie sensazioni…

Il tragitto verso casa fu silenzioso, eppure era un silenzio meraviglioso, in cui si potevano sentire mille rumori. Il respiro regolare di Cult, il rumore delle marce cambiate, della freccia, del motore che rombava sotto di loro.

Arrivarono a casa in fretta, solo pochi minuti.

Joan varcò il portone del palazzo per prima. Salì le scale con Cult che la distanziava di un paio di gradini, ma non si voltò mai.

Quando ormai aveva messo piede sul pianerottolo di casa si sentì trascinata indietro, inebetita.

E Cult la baciò. La baciò come nessuno l’aveva mai baciata. E lei realizzò che avrebbe voluto essere baciata così tutti i giorni. Le strinse la vita mentre la faceva
indietreggiare a toccare il muro. La sua lingua le sfiorò le labbra e lì crollò il muro di autodifesa, quello che le aveva fatto appoggiare le mani sul petto di lui, ad allontanarlo. Si trovò a ricambiare quel bacio senza nemmeno rendersene conto. Il cuore le batteva forte e la testa pulsava.

Sì alzò sulle punte per arrivare ai suoi capelli, in cui infilò entrambe le mani. La giacca, ancora appoggiata alle spalle, cadde rovinosamente per terra mentre loro bacini si scontrarono violentemente, bisognosi di contatto.

Era la sensazione più bella che avesse mai provato. Aveva baciato diversi uomini, ma nulla era paragonabile a quello. Era un bacio pieno di tutto quello che si erano detti e ancor di più di quello che non si erano detti. Gli accarezzò le braccia, percependo i muscoli nascosti dalla camicia, mentre lui le sfiorava appena i fianchi.

Poi la bolla di sapone si ruppe, quando il telefono di Cult squillò. Sussurrò qualcosa mentre si staccava dalle labbra di lei per rispondere.

“Sì, no…Lo so Steve”.

Era bellissimo. Il viso perfetto, gli occhi liquidi e i capelli corvini spettinati.

“Sì. Arrivo. Dammi dieci minuti”.

Chiuse la comunicazione.

“Devo scappare”. Disse abbassandosi per riprendere la giacca.

Joan, incapace di parlare si limitò ad annuire. Cult rimase a guardarla per qualche secondo. Era bellissima, le guance arrossate, gli occhi profondi e languidi. Sorrideva appena.

“Ciao, ragazzina”.

“Ciao”. 
 
Oh yes, oh yes, mie care!
Che dite, un bell'alleluia ci sta tutto, o sbaglio?
Anche se non è tutto oro quel che luccica...e con questi due è difficile fare piani...
Maaaa comunque, vi auguro buona serata e grazie per aver letto anche questo capitolo :)
xx 

 

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Capitolo 14
*** Capitolo XIV ***


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14.


Erano passati due giorni da quel bacio e di Cult non c’era stata neanche l’ombra. Erano le sei di sera di lunedì e Joan stava per lasciare definitivamente lo studio. Solo due mesi  e mezzo di lavoro. Il più breve della sua vita, beh a parte quello in quella caffetteria vicino al campus: lì era durata un mese …

Il primo giorno che aveva messo piedi li dentro era spaventata e si sentiva persa. Quante cose erano cambiate in solo due mesi e mezzo, quante ne erano successe! Si guardò intorno, mentre raccoglieva le sue cose. L’attestato di laurea incorniciato, quei pochi libri che si era portata per averli sottomano, qualche penna, fogli, documenti. Stava tutto in una di quelle scatole che si vedono sempre nei film quando qualcuno viene licenziato.

Clark le aveva telefonato il giorno prima. Era rientrato in mattinata e si era preso qualche ora di riposo, ma da martedì avrebbe ripreso il lavoro allo studio.
Le aveva detto che avrebbero continuato a collaborare, che l’avrebbe chiamata quando avesse avuto bisogno di lei. Era stato gentile, disponibile, come sempre, ma questo non cambiava il fatto che fosse senza lavoro.
Sapeva da giorni che sarebbe rimasta disoccupata presto, ma solo ora se ne rendeva conto, con quella scatola tra le mani, le chiavi dello studio in cima a tutto il resto.

Era stato bello, ma come tutte le cose doveva finire e quella era la fine. Lanciò una rapida ultima occhiata e chiuse la porta, lasciandosi alle spalle quell’esperienza, senza voltarsi indietro.
 
Quella sera sarebbe andata al Morning Glory aveva voglia di vedere Steve  e sapeva che anche Alison sarebbe andata.

“Sei sola sta volta…”

“Sì, Blake aveva da fare con dei colleghi, meglio per me. Serata tra sole donne!”

“Mi sento escluso”. Si intromise Steve mentre serviva i loro drinks.

Le ragazze risero di gusto.

“Steve mi ha detto del tuo lavoro”.

“Già, da oggi sono ufficialmente disoccupata”.

“Cavolo non ci voleva! Hai già trovato una soluzione?”

Joan scosse la testa bevendo un altro sorso di cosmopolitan.

“Ho provato a contattare un paio di ospedali, ma non hanno posti vacanti. Clark ha chiesto ad alcuni colleghi ma a nessuno serve aiuto”.

“Accidenti, che sfortuna!”

“Già, e come se non bastasse tra poco è inizio mese e devo pagare l’affitto altrimenti quello stronzo mi lascia in mezzo a una strada”.

“Non hai nessuno a cui chiedere aiuto, magari economico?”

“No e non voglio farlo. Me la caverò. Ho dei soldi investiti, nel caso fosse necessario preleverò quelli e nel frattempo spero di trovare un lavoro”.

Sapeva che se solo avesse chiesto aiuto ai suoi genitori, loro l’avrebbero aiutata senza pensarci due volte, ma non voleva arrivare a quello. Si era trasferita a New York per sua scelta e anche se sarebbe stata dura avrebbe continuato a farcela da sola.

Quando Alison si allontanò per andare in bagno, Joan si avvicinò a Steve per chiedergli notizie di Cult.

“E’ via per un paio di giorni, dovrebbe tornare domani in giornata. Pensavo ti avesse avvisato”.

“Sì figurati, quello non mi avviserebbe neanche se fosse in punto di morte”.

Sospirò rumorosamente.

Un passo avanti e dieci indietro.

In quei giorni si era sentita sollevata ogni volta che aveva varcato la porta del palazzo senza incrociarlo, ma ogni volta che metteva piede sul pianerottolo di casa non poteva fare a meno di ripensare a quel bacio.
 

Passarono giorni, settimane da quella notte. Steve era andato a trovarla un paio di volte, mentre Joan era chiusa in casa alla ricerca di un lavoro. Oramai aveva abbandonato l’idea di trovare lavoro come psicoterapeuta, quindi provò a cercare qualche associazione che facesse al caso suo, ma anche lì fu un buco nell’acqua.

Era un giovedì pomeriggio, quando stufa e stanca, uscì per una passeggiata. L’aria fresca le avrebbe fatto bene. Era fine aprile e, nonostante l’aria fosse ancora fredda, c’era un bel sole che scioglieva i residui di neve.
Stette in giro tutto il pomeriggio. Girò per il centro, poi si sedette su una panchina di Central Park e si alzò solo quando ebbe troppo freddo per restare ancora ferma.

Andò a prendere Alison all’uscita dal lavoro, alle cinque. Faceva la segretaria in uno studio di avvocati.

“Ciao Joan! Che bello vederti!” Ciò che le piaceva di Alison era il suo buonumore, sempre e comunque. Era per quello che aveva voglia di vederla, perché le trasmetteva allegria e sicurezza.

“Ciao Alison! Mi chiedevo se ti andasse di bere qualcosa insieme e magari fare due chiacchiere”.

Alison guardò l’orologio. “Accidenti ora devo andare a prendere Austin da mia madre, ma perché non vieni con me? Le due chiacchiere le facciamo comunque”.

“Ma certo, perché no…E’ una vita che non vedo quello gnomo”.

Arrivarono a casa di sua madre poco dopo. Ad aprire fu una signora alta e magra, con un viso dolce  e due bellissimi occhi verdi, e dietro di lei un ometto vestito di tutto punto e sporco di cioccolato agli angoli della bocca. Sorrise a trentadue denti quando la vide e le saltò subito in braccio, salvo poi allontanarsi per andare a giocare.

“Joan lei è mia madre. Mamma, lei è la famosa Joan di cui tutti parliamo”.

“La tua fama ti precede Joan, è un piacere conoscerti. Perché non vi fermate per un tè?”

Rimasero da Lidia -la madre di Alison- fino alle sei quando, dopo essersi congedate, una volta fuori dal piccolo palazzo di separarono. Alison abitava a un paio di isolati e sarebbe andata a piedi, mentre a Joan toccavano varie fermate di metro.

Fu fortunata e trovò posto da sedersi. Si lasciò cullare dal rumore del treno in movimento fino a quando non arrivò a destinazione.

Davanti al portone, preso da una discussione al telefono, c’era Cult. Gli passò accanto, ma sapeva che non l’avrebbe evitato, non così spudoratamente.

Cult si accorse della sua presenza solo quando concluse la chiamata.

“Ciao ragazzina”.

“Ciao. Sei tornato…”

Ma no? Ma dai? Osservazione davvero acuta!

Lui sorrise appena. “Così sembrerebbe”.

“E posso chiederti dove sei stato o è una di quelle cose che se me le dici poi devi uccidermi?”

“Chicago”.

Conciso.

“E ci sei andato per…”

Voleva scucirgli il maggior numeri di informazioni possibili.

Lui rise di gusto, lasciandola interdetta.

“Non ti arrendi mai, eh?”

“La mia è solo sincera curiosità…”

Fece la gnorri, mentre gli fissava le labbra, carnose e morbide. Deglutì a fatica e indietreggiò di un passo.

“Ho incontrato Pavlov. Sarà in città tra qualche giorno e gli serve protezione”.

Pavlov. Dimitri Pavlov. L’ultima volta che si erano visti Joan gli aveva salvato la vita e poi Cult l’aveva salvata a lei. Ne avevano fata di strada da allora!  Ancora non si spiegava come avesse fatto a comparire al momento più opportuno, ma probabilmente quella sarebbe rimasta una delle tante domande senza risposta.

“Bè, portagli i miei saluti quando lo vedi. Io ora devo rientrare tu che fai, sali?”

“No, devo raggiungere Steve. Non vai al Morning Glory oggi?”

Lei scosse la testa. “Non sono dell’umore, ma salutami Steve”.

Si voltò per entrare nel palazzo quando Cult la chiamò.

“Senti, ragazzina, mi scoccia non poco chiedertelo, ma…”

“Ma…” Rimase in attesa, per secondi interminabili.

“Pavlov ha richiesto la tua presenza. Io gliel’ho detto che non lavori con noi, ma lui ha insistito”. Era nervoso, anzi innervosito, probabilmente da quella richiesta.

“Ovviamente la decisione è tua…Se non vuoi gli dico che hai altro da fare, che non…”

Non gli diede il tempo di finire. “Ci sto, di cosa si tratta?”

Cult era a metà tra il deluso e il sorpreso. Cosa gli passava per la testa in quel preciso istante?

“Dimitri è un uomo simpatico, mi fa piacere rivederlo…” Si sentì in dovere di giustificare la sua decisione, chissà perché.

Forse perché Cult l’aveva ignorata per due settimane, sparito chissà dove. Era rientrato  il giorno che le aveva comunicato Steve, lo aveva sentito aprire la porta, ma poi era sparito ancora. E ora se ne stavano lì, a parlare come due vecchi amici come se due settimane prima non fosse successo nulla.

“Ottimo allora. Ti farò sapere i dettagli”.

Sparì senza salutare, senza aggiungere nulla.
 

Il giorno dopo Steve suonò verso le dieci del mattino, le portava informazioni sulla ‘faccenda Pavlov’. Joan dovette ammettere un pizzico di delusione e fastidio alla scoperta che non era Cult a portarle quelle informazioni.

“Allora Pavlov atterra domani sera, ma non è questa la parte che ti riguarda…Ciò che ti riguarda è il ballo al Plaza, dopodomani sera”.

“Ah, però…Mi va di lusso!”

“Eh già! L’ambasciatore russo a New York ha organizzato un ballo a cui parteciperanno vari politici e uomini di spicco del Paese e non solo e Pavlov ha richiesto la tua
presenza, come ti ha accennato Cult”.

Anche il solo nome la faceva sobbalzare. Annuì, mentre le Steve le dava i dettagli.

“Quindi tu verrai là con Pavlov, che ha insistito per venirti a prendere, mentre io, Cult e Duck saremo già la”.

“Perfetto. Spero solo che non cerchino di ammazzarlo anche questa volta, o mi verranno i capelli bianchi sul serio”.

Fece ridere Steve, che però si era realmente preoccupato quando Cult gli aveva detto della sparatoria.

“Non ti chiedo se hai un abito adatto, perché vuoi donne avete sempre tutto per tutte le occasioni anche se dite che non avete mai nulla da mettervi!”

Aveva decisamente un abito adeguato, mai indossato, regalo di sua madre di un paio d’anni prima.
 

La fatidica serata era arrivata. Erano le otto eventi ed era perfettamente in orario. L’abito era bellissimo e le cadeva meglio di quanto pensasse. L’aveva indossato una sola volta, nel salotto di casa, dopo che sua madre aveva insistito per vederglielo addosso.

Era un lungo abito blu notte, monospalla. Il corpetto era aderente e liscissimo, mentre la gonna era più ampia e formava delle pieghe. L’unica spalla era decorata da pietre dorate che donavano luce  senza involgarire il tutto. Infilò i sandali, anch’essi dorati, di Jimmy Choo. Ebbene sì, aveva una grande debolezza: le scarpe. E le borse, e gli abiti, e i gioielli. Il primo passo è ammettere il problema.
Non erano le scarpe più comode che avesse, ma erano bellissime. Aveva raccolto i capelli in uno chignon basso ed morbido, con dei ciuffi che sfuggivano all’acconciatura sfiorandole il viso.

Si diede un’ultima occhiata nello specchio prima di indossare il cappotto e uscire di casa.

L’auto nera di Pavlov era già giù ad aspettarla. L’autista le aprì la portiera e finalmente incontrò il volto di Dimitri.

“Joan, che bello vederti”.

Era molto elegante nel suo smoking nero.

“Anche a me fa piacere, Dimitri”.

Gli sorrise leggermente imbarazzata, mentre l’auto partiva.

“Ho insistito molto per venirti a prendere di persona. Volevo avere modo di scusarmi per ciò che è successo l’ultima volta…”

“Dimitri, tu non hai colpe e alla fine nessuno si è fatto male ed è questo l’importante”.

“Sei una persona molto comprensiva, chiunque ti sia amico è molto fortunato”.

Era talmente colpita e imbarazzata da quel complimento che nemmeno si accorse che ormai erano davanti al Plaza. Era bellissimo, come nei film e anche di più.

Si avviarono all’entrata insieme, per poi andare nella sala adibita al ricevimento. All’entrata c’era una signora che controllava gli inviti e prendeva i cappotti.
Era una bella sala, decorata con mobili e lampadari stupendi e riccamente decorati.

“Credo che Cult e gli altri ci aspettino da quella parte”.

Indicò l’altro lato della stanza. E aveva ragione. Proprio nel puntò da lui indicato c’erano Cult, Steve e Duck, uno più bello dell’altro, impeccabili nei loro vestiti eleganti.
Ma era Cult l’unico che riusciva a vedere mentre si avvicinavano. L’abito nero gli stava da Dio, persino il farfallino, che aveva sempre trovato un po’ insulso, su di lui risultava sexy.

Cult dovette mantenere un grande autocontrollo quando vide Joan. Duck e Steve dicevano quanto fosse bella e elegante, ma lui non si scompose. All’esterno perlomeno. Era oggettivamente bella e elegante, ogni giorno, che si vestisse per andare al lavoro o per fare la spesa, ma quella sera era magnifica.
L’acconciatura le donava un’aria regale e quell’abito era semplicemente fatto per lei. Era radiosa e bellissima.

Avrebbe voluto trascinarla via, impedire a chiunque di guardarla, portarla in giro per la città, ovunque lei volesse, ma via di lì.

“Bene, Cult, come siamo messi?”

Steve dovette dargli una spintarella per farlo concentrare.

“Tutto bene, signore, tutto sicuro. Si goda la serata”. Fortunatamente Duck rispose al suo posto.

“Bene allora. Joan vado a prendere dello champagne. Aspettami qui”.

Joan sorrise, imbarazzata.

“Joan sei bellissima”. Solo quando Pavlov si fu allontanato Steve si avvicinò per farle i complimenti, facendole fare una giravolta.

“Steve ha ragione, sei proprio uno schianto…Se mi permetti…” Duck sembrava quasi imbarazzato. “Sì ecco, io…Non vorrei che tu fossi ancora arrabbiata per quella faccenda…”

“E come potrei, Duck, sei cosi adorabilmente insopportabile”. Lo interruppe lei alzando gli occhi al cielo.

Duck sembrò davvero sollevato perché gli occhi gli si illuminarono come quelli di un bambino.

Cult stava immobile, a guardarla, con un’espressione indifferente dipinta sul viso.

“Cult, io e te dobbiamo ancora controllare una cosa o sbaglio?” Steve parlava allusivo.

“Ma cosa dici?!” Non lo guardava, troppo occupato a fulminare Pavlov che era di ritorno con due flute di champagne in mano.

Duck sembrò capire prima di Cult.

“Ma sì, Cult, quelle cose di cui Steve e io ti abbiamo parlato, che volevi controllare di persona…”

Cult continuava a non capire, ma si lasciò trascinare fuori dalla sala da Steve.

“Si può sapere che diavolo ti prende?”

“A me, Cult? Non sono io quello che incenerisce Pavlov con lo sguardo!”

“Non capisco a cosa ti riferisci, Steve”.

“A questo” Steve assunse la stessa espressione che Cult aveva poco prima, facendolo ridere.

“Guarda che ti sbagli”.

Steve non parlò, ma lo guardò con aria si sufficienza.

“Ok lui non mi piace ma questo non importa”.

“E non ti piace a prescindere o perché a lui piace Joan?”

“Steve, ancora con questa storia?!”

“Sì, finchè non mi dici cosa ti succede”.

Cult si allontanò ulteriormente dalla sala, togliendo finalmente la maschera di indifferenza. Sospirò pesantemente.

“Senti… Siamo amici da sempre, di me ti potrai sempre fidare. Qualsiasi cosa succeda, io…”

“L’ho baciata”.

Ecco l’aveva detto. Aveva cercato di non pensarci per giorni, lavorando giorno e notte, tenendosi impegnato il più possibile.

“Tu l’hai, cosa?!”

“Sono sicuro che tu abbia capito benissimo”.

“Non so se essere stupito, felice o entrambi…Insomma non ci speravo più”.

Poi ci pensò meglio.

“Aspetta, aspetta, aspetta! Tu l’hai baciata e poi l’hai ignorata per giorni, anzi per settimane come è tipico tuo?!”

Cult annuì, serio.

“E allora non hai alcun diritto di essere incazzato né con lei né con Pavlov”. Questa volta Steve era serio come poche volte nella sua vita. “Joan mi piace, Cult! E’ una
ragazza sveglia e intelligente e nonostante sappia che non si farà trattare male da te so anche che le piaci, che lei lo ammetta o meno…Quindi decidi: o la tratti col rispetto che merita o la lasci perdere”.

Mise una mano sulla spalla di Cult.

“Perché se lei si fa prendere dalla situazione ci si troverà immersa prima che se ne renda conto e quando tu le volterai le spalle senza motivo lei soffrirà”.

“Steve, senti…”

“No, Cult, stammi tu a sentire. Non puoi vivere solo per te stesso, pensando che gli altri si adeguino. Lo so che è dura lasciar andare qualcuno a cui siamo legati…” E lui lo sapeva bene! “…Ma forse dovresti pensare alle conseguenze delle tue azioni. Lei non è Melody. Non tornerà da te ogni volta anche se la tratti male. Lei non è una botta e via”.

E detto ciò tornò nella sala.

Joan e Dimitri ballavano al centro della sala, allegri.

“Non ballavo da una vita”. Ammise Joan. “Sono arrugginita”.

“Di solito nemmeno io ballo. Queste feste mi annoiano a morte, ma oggi ho una partner speciale”.

“Se non la smetti coi complimenti mi monterò la testa…”

Spostò il viso, mascherando il rossore della guance. E incontrò Cult, o meglio, i suoi occhi. Due pozze blu, che risaltavano grazie alle luci chiare della sala.

La guardava. La osservava. La scrutava. Di tutti gli occhi presenti nella sala, molti dei quali l’avevano osservata per diversi minuti, gli unici che voleva addosso erano i suoi. E li ebbe fino a quando lui non si recò sul terrazzino adiacente al salone.

“Dimitri, scusa ho bisogno di un po’ d’aria, tutto questo ballo mi ha fatto venire caldo”.

Lui le sorrise. “Ti concedo solo cinque minuti, però, altrimenti mi toccherà parlare con questi uomini noiosi”.

Lei rise di rimando. “Prometto che verrò  a salvarti appena mi sarò ripresa”.

Si allontanò, diretta verso il balconcino.

Cult le dava le spalle e stava fumando. Joan sorrise senza neanche rendersene conto.

“Siamo piuttosto in alto, eh?”

Cult di voltò di scatto, per poi tornare a guardare la città. Joan gli si affiancò, silenziosa.

“Dovresti rientrare, fa freddo qui fuori”.

Ecco, quell’affermazione era paragonabile ad un ‘fa freddo oggi, vero?’ oppure ‘dicono che verrà a piovere, speriamo torni presto il sole”.

“Ok, questa volta perché mi tieni il muso?”

“Come scusa?” Spense la sigaretta nell’apposito portacenere.

“Ma sì, con te va bene per un po’, poi per chissà quale oscuro motivo, ti viene il broncio e mi guardi come se fossi una persona orribile. Se almeno capissi il perché mi metterei il cuore in pace”.

Lui alzò le spalle, indifferente.

“E’ per Dimitri?”

Per un attimo sperò dicesse di sì. Da quando lo conosceva sperava molto di più di quanto facesse a Washington.

“No, Joan, non è per Pavlov, ho altro per la testa…”

Rabbrividì quando pronunciò il suo nome. L’aveva sempre chiamata ragazzina e la cosa le aveva sempre dato fastidio, ma in quel momento avrebbe dato di tutto per essere chiamata in quel modo, perché per quanto il suo nome suonasse bene detto da lui, il suo tono non le piaceva affatto.
Lui si tolse la giacca e fece per mettergliela sulla spalle, ma lei indietreggiò, lo sguardo improvvisamente freddo come il ghiaccio.

“Non preoccuparti, ora rientro, tieniti la tua stupidissima giacca e vai al diavolo!”
 

Quando rientrò sbatté contro Duck, che le chiese cosa ci fosse che non andava.

“Balla con me!”

Duck, stranito, rise. “No, ecco…Io non so proprio ballare, ma il signor Pavlov è molto bravo, forse dovresti aspettare…”

Ma non finì la frase, perché una lacrima solcò la guancia di Joan. E fu così che Duck si ritrovò a ballare a lato della pista, un po’ fuori tempo.

“Va tutto bene?”

Joan annuì. “Sì, è solo che se avessi aspettato Pavlov lui mi avrebbe fatto domande e io non ho voglia di rispondere”.

Duck le strinse la mano, sorridendole. Lo aveva giudicato male. Facevo lo strafottente, il simpaticone della situazione, ma era un bravo ragazzo.

“Bè doc, finalmente ti lasci toccare da me!”

Joan rise di gusto, ma solo perché sapeva che scherzava e che lo faceva par farla sorridere. Infatti, la sua mano non scese mai al di sotto della schiena, mentre l’altra
le sfiorava appena la mano.

Il tempo passò in fretta e Dimitri si offrì di riaccompagnarla a casa, ma Joan  insistette.

“Tu alloggi qui, è già assurdo che mi sia venuto a prendere non accetto un passaggio a casa per poi farti tornare indietro”.

“Ma Joan, lascia almeno che il mio autista di accompagni”.

“Ti ringrazio ma credo che quel poverino ormai stia dormendo e non chiuderei occhio sapendo che gli ho rovinato il sonno”.

Dimitri sorrise di quella accortezza. “Ma allora chi ti accompagnerà?”

“Prenderò un taxi”. Lo rassicurò.

“Sarei più sicuro se ti accompagnasse Cult”.

“Non si preoccupi, signore, ci penso io”. Cult spuntò da chissà dove, proprio alle spalle di Joan.

Pavlov sorrise, elegante. “Bene, allora buona notte e grazie per la compagnia, Joan. Spero che avremo occasione di rivederci”.

Le prese la mano per sfiorarne appena il dorso con le labbra.

“A presto Dimitri”.

Lasciò Cult e Pavlov a parlare e si recò a recuperare il cappotto.

Cercò un taxi in strada, ma non ne passava nessuno libero. Non aveva detto nulla a Dimitri, per non farlo preoccupare, ma col cavolo che sarebbe andata a casa con
Cult! Piuttosto se la sarebbe fatta a piedi su un paio di scarpe troppo alte e troppo aperte per quella notte primaverile ma ancora fredda.

Iniziò a camminare lungo il marciapiede, sperando di trovare presto un taxi libero, quando fu raggiunta da Cult.

“Guarda che la mia auto è parcheggiata dall’altra parte”.

Lei non lo guardò nemmeno, cercando invano di bloccare un taxi con un gesto della mano.

“Bene, buon per te!”

Cult le si fece vicino, camminandole accanto.

“Mi sembrava chiaro che ti avrei riaccompagnato io… Anche Pavlov sembrava d’accordo”.

“Bè, non mi sembra di aver detto che sarei venuta con te!”

“Non hai detto neanche il contrario”.

Joan non accennava a fermarsi, e nemmeno Cult.

“Dai non fare la ragazzina e andiamo a casa”.

A quell’affermazione si infuriò. Se solo avesse avuto un oggetto contundente, glielo avrebbe sbattuto in testa senza pensarci due volte. Si bloccò voltandosi verso di lui
con uno scatto nervoso.

“Ora basta! Non fare tu il ragazzino. Non ti ho mandato al diavolo perché non avevo nessun altro argomento di conversazione. L’ho fatto perché sono stufa e arrabbiata. E se non ho detto niente davanti a Pavlov è solo perché se avessi insistito con la storia del taxi lui avrebbe insistito ancora di più con la faccenda dell’accompagnarmi a casa e io voglio stare sola!”

Scandì con precisione le ultime tre parole, facendo in modo che gli entrassero in testa.

Finalmente un taxi si liberò poco più avanti. Senza aggiungere niente vi salì, senza guardarsi indietro.

Solo nel taxi si concesse di far scendere una lacrima che, solitaria, si infranse su quel meraviglioso vestito.


Sì, mie care. E' esattamente come sembra: questo è un nuovo capitolo! Spero tanto vi piaccia, come sempre.
Io sono mi sto sciogliendo per il caldo e ho perso quasi tutti i neuroni a causa di una della piaghe d'Egitto: la sessione estiva. 
Come?! Nell'antico Egitto non esisteva la sessione estiva?? E avevano anche il coraggio di lamentarsi per quattro cavallette?!
Bah...Comunque divago un sacco, come mio solito. Fatemi sapere e mi raccomando: mantenetevi fresche e ben idratate!
A presto (se, vabbè...Non ci crede più nessuno!!),

xx

 

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Capitolo 15
*** Capitolo XV ***



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15.



"Voglio lasciarmi andare, 
voglio farmi catturare, 
rinunciare ai miei punti di riferimento, 
sgusciar fuori dalla persona che sono, 
abbandonarmi tutto alle spalle, come un serpente che si libera della sua vecchia pelle"



 
Maggio iniziò col sole e un tepore meraviglioso. La neve era ormai sciolta e la natura si stava risvegliando negli angoli verdi della città.

“Quindi, parlando di cose serie, cosa succede tra te e Cult?”

Alison le stava davanti, erano sedute ad un tavolino di Starbucks, in quella mattina tiepida e soleggiata. A Joan andò di traverso il caffè e iniziò a tossire.

“Ma…Cioè…A cosa ti riferisci?”

“Oh, avanti, non sono mica nata ieri! Le occhiatine, lui che ti presta la giacca…C’è qualcosa che bolle in pentola!”

Joan sbuffò, ma si arrese presto al fatto che Alison avesse capito tutto, così le raccontò del bacio, del fatto che l’avesse ignorata per giorni e della serata del ricevimento. Alla fine le aveva anche raccontato di David, del perché aveva lasciato Washington e finalmente sentì di avere un’amica, una vera. Non che a Washington non avesse amici, ma nessuno a cui fosse particolarmente legata…Erano più conoscenti, che amici.

Alison era ormai un’amica. Si erano viste molte volte e parlavano di tutto, ma era la prima volta che andavano sul personale.

“Se vuoi la mia opinione, Cult a te tiene molto è solo che non è abituato a legarsi alle persone…E’ così legato a Duck e Steve solo perché si conoscono da una vita e perché insieme ne hanno passate tante”.

Joan si passò una mano tra i capelli e si lasciò andare contro lo schienale della sedia.

“Sono stata con Steve per anni, e nonostante sapessi che mi amava non poteva far a meno di aiutare Cult, sempre e comunque e io non me la sono sentita di avercela con lui…E’ un bravo ragazzo e ama Austin più della sua vita, ma certe persone sono legate indissolubilmente e io ho dovuto accettarlo. Cult è una persona complicata, lo conosco da anni e ad oggi non posso dire di conoscerlo veramente”.

“Diciamo che complicato è riduttivo”.

Alison rise, sorseggiando il cappuccino.

“Mandalo al diavolo se se lo merita, ma sappi che è una bella persona, in grado di dare molto!”

“A volte penso che in lui ci siano due persone, una scontrosa e una premurosa e quando esce la sua parte migliore, quella peggiore prende il sopravvento per proteggerlo”.

“E’ uno che ha sofferto molto…”

Joan sembrò interessata a quel discorso, ma come temeva, Alison non aggiunse altro, mordendosi il labbro per essersi lasciata sfuggire un po’ troppo.

“…Comunque non ho ancora un lavoro…” Disse Joan per spezzare il silenzio.

“Oh, Joan, mi dispiace così tanto. Ti sei trasferita qui sicura di un lavoro e ora non ce l’hai più…Il mondo è ingiusto”.

Mise il broncio come una bambina e Joan si lasciò scappare una risata.

“Ho anche cercato lavori che non c’entrano nulla con la psicologia, ma niente…Apparentemente sono troppo qualificata per fare la commessa o qualsiasi altro lavoro”.

“Vedrai che troverai qualcosa, insomma, tu sei una donna bella e intelligente e vedrai che troverai il lavoro giusto!”

Joan adorava il suo ottimismo. Era così incoraggiante che avrebbe creduto a qualsiasi cose le avesse detto. Alison era la persona che avrebbe voluto essere. Ottimista e sempre di buon umore. Era una bella persona e passare il tempo con lei le faceva dimenticare qualsiasi problema.

Alison tirò fuori il telefono per controllare l’ora.

“Oh accidenti, devo già andare al lavoro. Che noia”. Sbuffò sonoramente buttando giù l’ultimo sorso di cappuccino e si alzò sorridendo a Joan. “Ci vediamo presto, magari domani faccio un salto al Moring Glory, fammi sapere se ci sei, così ci vediamo”.

“Certo. Io rimango ancora un po’, è la cosa positiva del non avere un lavoro…”

Assunse un’aria imbronciata, ma fingeva. Si sporse verso Alison per schioccarle un bacio sulla guancia.

“Ciao, ci sentiamo presto!”

Joan annuì. “Buon lavoro!”

Rimase lì ancora un po’, a guardare le persone che passeggiavano o quelle che correvano da una parte all’altra. Era una cosa che faceva da sempre, sedersi e osservare gli altri, immaginare cosa pensassero, cosa stessero andando a fare, da chi corressero.

Lo sguardo le cadde su una coppia che camminava mano nella mano. La ragazza non era particolarmente alta e aveva i capelli scuri, mentre lui era alto, i capelli spettinati e corvini che ondeggiavano al vento. Le sorrideva spostandole una ciocca dal viso.

Per un attimo, uno soltanto, immaginò lei e Cult in quella situazione. Non era mai stata amante delle manifestazioni d’affetto di quel tipo. Camminare mano nella mano era una cosa che non aveva mai fatto, neanche quand’era al liceo. Eppure, per un attimo immaginò lei e Cult stretti mano nella mano, a guardare una vetrina.

Scosse la testa, scacciando quel pensiero e tornò a sorseggiare il caffè, che oramai era solo leggermente tiepido.

Con Cult non sarebbe mai stata così, non sarebbe mai successo altro. Si diede della stupida. Forse conoscere qualcuno l’avrebbe aiutata, o forse avrebbe cercato in qualsiasi uomo quegli occhi chiari, quei lineamenti forti e decisi, quelle labbra carnose, che diventavano ancora più belle quando si aprivano in un sorriso.

Si alzò abbandonando gli ultimi sorsi di caffè nel contenitore e iniziò a camminare a passo svelto, sperando che camminare l’aiutasse a non pensare.
 

Prese la metro e poche fermate dopo si ritrovò al Morning Glory. Si ricordava che Steve le aveva detto che sarebbe stato al locale tutto il giorno per i preparativi di una festa di compleanno.

Bussò alla porta producendo un fastidioso suono metallico e si trovò davanti uno Steve sorridente e accaldato.

“Joan, che bello vederti!”

“Ciao, come va? Non avevo nulla da fare e ho pensato di venire ad aiutarti…Spero non ti dispiaccia!”

“Scherzi? Siamo solo io e Angela e siamo indietrissimo! Entra!”

“Potresti aiutare Angela a spostare i divanetti nella saletta? E’ da quella parte”.

Steve le indicò una saletta protetta da delle tende scure poco distante dal bancone.

Joan annuì togliendosi la giacca e posandola sul bancone. Raggiunse Angela dove le aveva indicato Steve e la trovò indaffarata a spostare tavolini e divanetti.

“Ciao Joan, che ci fai qui?”

“Aiuto”. Si mise dall’altra parte del divano e lo spinse, mentre Angela spostava un tavolino basso.

Angela era una ragazza minuta, non molto alta, di origine ispanica. La madre era messicana e il padre americano.

Spostarono tutto ciò che andava spostato e un’ora dopo avevano finito ed erano stremate.

“Oddio, che fatica”. Joan si era tolta anche il maglioncino e si era legata i capelli, che le andavano davanti agli occhi impedendole di vedere.

“Già, dovevano esserci anche gli altri ma Caroline ha la febbre e Marcus è a prendere da mangiare per questa sera.

“Insomma, la mia forza possente vi ha salvato…”

Angela rise di gusto.

“Mi dispiace un po’ lasciare questo locale…”

Joan la guardò, stupita. “Ma come?! Te ne vai?”

“Sì, Steve non te l’ha detto? Vado in Oregon col mio fidanzato”.

“Ah, le cose si fanno serie”.

“Sì, bè, me lo ha chiesto e non ho nulla che mi trattenga qui, quindi mi sono detta: perché no?!”

“Hai fatto bene, cambiare aria è bello! Te lo dice una che ci è passata…”

“Ti ammiro molto, sai…” Le confessò quasi sussurrando.

Joan era sorpresa da quelle parole. Conosceva Angela da poco, ma era una ragazza dolce e gentile, molto riservata ma estremamente disponibile.

“Sì, insomma, sei venuta qui da sola, senza conoscere nessuno, hai iniziato una nuova vita. Io non so se avrei avuto il coraggio di andarmene se non avessi avuto il
mio fidanzato…” Era lievemente imbarazzata, le guance imporporate più per quella rivelazione che per lo sforzo fatto. “Ci tenevo solo a fartelo sapere, ecco…”

“Grazie, Angela. Sono sicura che ti troverai benissimo in Oregon e sappi che voglio essere invitata al matrimonio!”

Quella conversazione fu interrotta da Steve che si complimentava per la loro velocità. Aveva in mano tovagliolini e piattini, che sistemò su un tavolo dall’altra parte della piccola sala.

“Io faccio una pausa fidanzato”. Disse Angela agitando il telefono che teneva in mano.

Steve stava per andarsene quando Joan lo fermò.

“Steve posso parlarti un attimo?”

“Certo”. Aveva un tono incerto, quasi si aspettasse brutte notizie.

“Senti, Angela mi ha detto che si trasferisce…”

“Sì, pensavo di avertelo detto,ma mi dev’essere sfuggito”.

“Sì, ma non è questo il punto…Io mi chiedevo…Sì, insomma, mi chiedevo se potessi prendere il suo posto”.

Steve rise di gusto, come se avesse detto la barzelletta più divertente del mondo.

“No, scusa, perché ridi? Cos’ho detto di così divertente?!” Chiese Joan un po’ irritata.

“No, niente, è che pensavo scherzassi. Sì, io non ti ci vedo a fare la cameriera, tutto qui…”

“Steve ho bisogno di un lavoro, mi sono laureata col massimo dei voti, penso di essere in grado si fare la cameriera!”

“Non ho detto che non ne saresti in grado, è solo che sei laureata in psicologia, insomma, hai studiato tanto per questo e non voglio che tu ti arrenda…”

Joan sorrise. Steve era sempre gentile e premuroso e lei ormai gli voleva bene.

“Senti…La situazione è questa: sono senza lavoro e nonostante tutti mi rincuorino dicendo che ne troverò presto uno, temo che non sarà così”. Abbassò lo sguardo, intristita. “Hai ragione, ho studiato tanto, mi sono impegnata e sono felice di quello che ho ottenuto, ma le ho provate tutte: studi privati, ospedali, organizzazioni, ho persino contattato i miei professori all’università e nessuno ha bisogno di me…Ho anche cercato un lavoro non attinente con la psicologia e mi è stato detto che una laureata è troppo qualificata”.

Prese la mano di Steve tra le sue, cercando il suo sguardo.

“Sei la mia ultima spiaggia, Steve. Dammi una chance, e se fallirò potrai cacciarmi a calci, non ti chiederò una seconda possibilità!”

Steve sorrise, intenerito.

“Va bene! Incomincia sta sera, ok? Caroline è ammalata e ci sarà un sacco di gente”.

“Davvero?” Lo abbracciò con slancio, rischiando di farlo sbilanciare. “Grazie, Steve!”

“Guarda che non riceverai un trattamento di favore! Presentati alle nove”.

“Ci sarò”.

“Orai vai a casa a riposarti, questa sera lavorerai molto. Ah, ultima cosa: la divisa è composta da camicia bianca e pantaloni scuri, sono sicuro che nel tuo guardaroba enorme hai qualcosa del genere!”

Lei gli fece la linguaccia, poi recuperò la giacca e fece per uscire, ma fu rincorsa da Steve.

“Aspetta Joan, quasi dimenticavo. Ho una busta per te”.

Prese una busta giallognola da sotto il bancone e gliela porse.

“Cos’è?”

“Me l’ha data Cult, mi ha chiesto di dartela perché lui è impegnato”.

Sì, impegnato ad evitarla!
...Anche se, a dire il vero, era più lei quella che controllava dallo spioncino che lui non fosse nei paraggi prima di uscire.

Alzò le spalle e si sedette su uno degli sgabelli per aprirla. Quasi cadde dalla sedia quando vide il contenuto.

Soldi. Molti soldi.

Li contò velocemente. Mille dollari, in banconote di piccolo taglio.

Non capiva. Decisamente non capiva.

“Scusa Steve, tu sai cosa vogliano dire questi?”

Gli sventolò sotto il naso i soldi, mentre lui era intento a sistemare dei bicchieri. Steve alzò le spalle, distogliendo lo sguardo.

Sapeva più di quanto volesse dire.

“Steve, guarda che non me ne vado finchè non ti decidi a dirmi perché Cult mi vuole dare mille dollari”.

“Oh d’accordo”. Disse sbuffando. “Sono per Pavlov”.

“Ah, bene, quindi vengo pagata per fare l’accompagnatrice…Di male in peggio!”

Steve scosse violentemente la testa. “Ma no…Pavlov ha voluto noi solo perché c’eri tu, e quindi Cult ha ritenuto opportuno darti una parte del guadagno”.

“Io non li voglio i suoi soldi”.

“Tecnicamente sono di Pavlov, non suoi...”

Joan lo fulminò con lo sguardo.

“Steve non sono in vena di battute. Posso sapere dov’è Cult ora?”

“Io non saprei, potrebbe essere ovunque per quanto ne so…”

Era un’altra bugia…Steve era trasparente e non sapeva mentire.

Joan scese violentemente dallo sgabello.

“Ora tu mi dirai dov’è il tuo amichetto e non ho bisogno di minacciarti perché so che mi vuoi bene e che mi dirai dove diamine è!”

Steve sembrava combattuto, ma poi si rassegnò. “A casa…”

“Grazie, sei un amico! Ci vediamo questa sera, alle otto, hai detto?” Era una sorta di domanda retorica, perché quando finì di porla era ormai già sulla porta.

“Alle nove”. Le urlò lui per essere sicuro lo sentisse anche da fuori.

 
Arrivò al 4B quasi un’ora dopo. Suonò il campanello incessantemente.

Da dietro la porta di sentivano strani rumori, ma lei continuò a tenere  l’indice sul campanello, imperterrita.

“Ma che diamine, un po’ di pazienza! Neanche gli sbirri sono così rompicoglio…”

Ma non finì la frase, perché quando si trovò di fronte Joan era stupito. L’aveva evitata per giorni, seguendo il consiglio di Steve, ma ora che ce l’aveva davanti, i capelli legati in una coda morbida e la giacca tenuta aperta, si rese conto di quanto gli fosse mancata.

Si fece da parte e Joan non aspettò neanche che la invitasse a entrare. Si piazzò al centro del piccolo salotto e tirò fuori la busta dalla borsa.

Le era venuto un infarto ogni volta che qualcuno l’aveva urtata per strada e in metro aveva tenuto la borsa così stretta sotto il braccio che aveva i muscoli doloranti.

“Questi cosa sono?”

“Soldi, ragazzina, cosa vuoi che siano, patatine fritte?!” Ghignò, come suo solito, ma lei non aveva voglia di scherzare.

“Non sono qui per scherzare”.

Lui la ignorò, andando in cucina per versarsi del whisky nonostante l’ora. Le indicò la bottiglia, in un tacito invito a servirsi, ma questa volta fu lei a ignorare lui.

“Non voglio i tuoi soldi”. Disse sbattendo la busta sul tavolo. Era aperta e, di conseguenza, alcune banconote uscirono e si sparsero sul tavolo.

“Non sono miei, sono di Pavlov”.

Dio, ma lui e Steve ragionavano insieme?!

“Sì, questa l’ho già sentita, ma non mi interessa chi li abbia prelevati. Non li voglio neanche se sono del presidente Obama”.

“Pavlov ha accettato di lavorare con noi solo se ci fossi stata anche tu. Se tu non avessi accettato , noi non avremmo visto una lira, quindi ti spetta una parte. Accettala e falla finita di fare l’orgogliosa!”

“Io non faccio l’orgogliosa, vi ho aiutato perché mi faceva piacere rivedere Dimitri”. Urlò . “Non sono un’accompagnatrice!

 “Ti sevo ricordare che sei senza lavoro e quei soldi ti servono o da grande donna di mondo hai trovato un pozzo di petrolio sotto il pavimento?”

Lei sbuffò stizzita. Era sfiancante litigare con lui. Ma le era mancato. Tanto.

“Non sono affari tuoi come mi mantengo, di certo non accetterò i tuoi soldi”.

“Ah quindi è questo il punto…Se i soldi te i avesse dati Dimitri li avresti accettati,..”

“Cosa stai insinuando, Cult?”

Lui alzò le spalle. Era geloso, ma non l’avrebbe mai ammesso. Era dannatamente geloso perché Pavlov aveva potuto ballare e ridere con lei, mentre lui aveva dovuto allontanarla, e odiava il fatto che fosse solo colpa sua e del suo caratteraccio.

“Non insinuo niente”.

“Ottimo, perché non ne hai alcun diritto”. Si era avvicinata senza rendersene conto e quando lui alzò il braccio per buttar giù l’ultimo sorso di whisky, fu inondata dal suo
profumo.

Indietreggiò d’istinto, incapace di stargli troppo vicino, e gli voltò le spalle. Di fronte alla cucina c’era la camera da letto e lei non potè fare a meno di dare un’occhiata. Il letto era completamente disfatto, le lenzuola erano per terra e un cuscino giaceva abbandonato ai piedi del comodino.

Ecco perché aveva i capelli così scompigliati, ecco perché aveva quel viso così rilassato e gli occhi lucidi. Aveva appena fatto sesso. In quel letto. Pochi minuti prima che lei arrivasse. Un conato di vomito le impedì di respirare per un secondo, ma poi tornò in se.

Non avrebbe permesso a un uomo di ferirla. Dio, quanto si sentiva stupida! Nemmeno una ragazzina avrebbe avuto una reazione simile…

Si slegò i capelli, improvvisamente tutto le dava fastidio.

“Tutto bene?”

La sua voce era vicina, calda e avvolgente. Lei si limitò ad annuire, incapace di parlare.

Quando si voltò se lo trovò troppo vicino e indietreggiò di alcuni passi. Lui capì che non voleva la sua vicinanza.

Si avvicinò al tavolo e raccolse la banconote, rimettendole nella busta. Gliela porse tenendola per un lato, volendo evitare ogni qualsiasi contatto.

“Prendili”. Spinse la busta contro il suo braccio. “Per favore”.

Joan voleva uscire da quell’appartamento e sapeva che l’unico modo era accettare quel denaro, quindi prese la busta e se ne andò, senza dire una parola.
 

Alle otto e mezza era già al Morning Glory. Aveva passato fuori il resto della giornata. Sapere che Cult era dall’altra parte del pianerottolo le aveva reso impossibile restare in casa, perciò era entrata nell’appartamento solo per lasciare i soldi e prendere una camicetta bianca e un paio di jeans scuri. Se li era cacciati in borsa, sicura che sarebbe rientrata a casa solo la notte.

Aveva vagato per la città. Era il lato positivo del non avere un lavoro. Aveva scoperto luoghi meravigliosi, posti poco turistici, locali pieni di fascino e scorci da fotografare. In quelle settimane aveva riempito la galleria del telefono di foto di New York.

“Sei in anticipo!” Steve la accolse con un grande sorriso, mentre Angela rientrava nel locale col telefono in mano.

“Joan, che bello che lavoreremo insieme anche se solo per pochi giorni!”

Avevano chiacchierato per un po’, mentre Steve le spiegava come funzionava.

“Dunque, apriamo alle nove e mezza e chiudiamo alle tre dal lunedì al giovedì, mentre venerdì, sabato e domenica chiudiamo alle quattro”.

Joan non si sarebbe adattata facilmente a lavorare di notte e dormire di giorno. Lei adorava svegliarsi presto, fare colazione con calma leggendo il giornale o controllando le mail. Non si sarebbe adeguata facilmente a quella nuova vita, ma non lo diede a vedere.

“Perfetto, sono nata per vivere di notte!”

“Ottimo. Servire ai tavoli non è difficile, non preoccuparti. Prendi le ordinazioni, me le consegni e le porti al tavolo. Lineare”.

“Steve, sta tranquillo, ho passato l’esame di neuroscienze, penso di farcela a portare dei cocktail…”

Steve rise scompigliandole i capelli, cosa che la fece sbuffare rumorosamente.

Dall’entrata secondaria entrò il buttafuori che stava all’ingresso e che Joan aveva capito essere Marcus.

“Marcus, lei è Joan, lavorerà con noi quando Angela andrà via e per ora sostituisce Caroline”.

“Ciao, è un piacere conoscerti!”

Marcus era un bel ragazzo, alto un buon metro e novanta, la carnagione abbronzata, probabilmente artificialmente. Aveva un tatuaggio tribale che gli abbracciava il lato destro del collo, ma non era l’unico, un’ancora spuntava dalla camicia, incisa all’interno del polso.

“Bè, io vado a cambiarmi”. Indossava ancora gli abiti di quella mattina e dato che mancavano pochi minuti all’apertura andò in bagno per sostituire i jeans chiari con quelli neri e la camicia a fiori con quella bianca, un po’ stropicciata per essere stata tutto il pomeriggio nella borsa.

Aveva ancora ai piedi le converse nere. Bè se non altro non doveva indossare i tacchi…

Si guardò nello specchio del bagno, si osservò, si scrutò. Aveva paura, come quel giorno di metà febbraio quando aveva preso l’aereo per New York. Aveva paura ma si sarebbe lasciata andare, avrebbe abbracciato quel nuovo inizio.

Inspirò sonoramente, svuotando poi i polmoni lentamente, come se l’aria che avesse a disposizione fosse limitata, e tornò nella sala. Marcus era sparito, probabilmente era all’entrata, sua postazione, mentre Angela e Steve erano dietro al bancone.

La musica era stata accesa e i primi clienti entravano e alcuni si accomodarono ai tavolini mentre altri al bancone.

“Ok, Angela prende quel tavolo, tu prendi quell’altro”. Steve indicò a Joan il tavolo a cui recarsi e le diede una pacca d’incoraggiamento. “Vai e torna vincitrice”.

E così fece. I ragazzi avevano appena appoggiato la carta con l’elenco dei cocktail.

“Ciao ragazzi, avete già deciso?”

Sfoggiò uno dei suoi migliori sorrisi cercando di nascondere il nervosismo. Non aveva mai fatto quel tipo di lavoro, o meglio…Lo aveva fatto per solo un mese, in una caffetteria vicino al campus.

Si era fissata che voleva un lavoro, più per dimostrare a sua madre che era in grado di mantenersi, almeno in parte, che per altro. Aveva retto un mese, ma poi l’avevano cacciata dopo che aveva risposto a tono a un maschilista retrogrado che faceva discorsi degni di un verme.

“Io prendo una birra media chiara”. Disse un ragazzo moro, probabilmente da poco in età legale per bere.

Joan annotò la sua ordinazione, a cui aggiunse quella dei suoi amici: un cuba libre, un virgin mojito e un cosmopolitan.

Si diresse da Steve vittoriosa.

“Una media chiara, un virgin mojito, un cuba libre e uno dei tuoi fantastici cosmopolitan”.

“Arrivano subito”.

Nel frattempo prese altre ordinazioni e la serata proseguì senza problemi fino alla prima pausa, che si prese attorno all’una.

Il locale era pieno e faceva caldo. Le serviva aria e dato che Angela riusciva a gestire bene la situazione, lei si prese una breve pausa. Uscì e si stiracchiò per bene. Era un lavoro stancante per una che era abituata a far lavorare più il cervello e la lingua che le gambe.

Fu allora che un odore, un profumo familiare, la avvolse facendole venire i brividi.
 
Ehi Ehi Ehi! Salve!
Questo capitolo arriva fresco fresco di domenica, come la Pasqua, l'Angelus in San Pietro e la colazione alle due del pomeriggio!
Come mi era stato fatto notare, nell'ultimo capitolo Joan era un po' giù di tono, ma ora si è ripresa alla grande a mio parere. Voi che dite? La promuoviamo o la rimandiamo a settembre? 
A presto,

xx

 

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Capitolo 16
*** Capitolo XVI ***


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16.
 
"There’s a game that I played
There are rules I had to break
There’s mistake that are made"
 


“Ragazzina non dovresti vestirti in quel modo, non vorrei essere il poveraccio che ti scambia per una cameriera…”

Joan si voltò di scatto, seria. E fu quasi folgorata. Non riusciva ad abituarsi alla sua bellezza, non c’era niente da fare…
Ma comunque cercò di darsi un contegno.

“Si dà il caso che io sono una cameriera del Morning Glory!” Disse lei fiera.

Cult scoppiò a ridere così forte che Joan temette cadesse per terra.

Oddio, quant’era odioso!!

“Sono felice di farti divertire così tanto!” 

Cult si bloccò di colpo.

“Stai dicendo che non era una battuta?!”

Joan scosse la testa, scocciata, mentre Cult la fissava, incredulo.

“Sai com’è, non sono fortunata come te che hai mille lavori”.

“Uh, sei nervosetta oggi…”

“Sono sempre nervosa quando sei nei paraggi”.

Sembravano tornati all’inizio, dove tutto era cominciato. Su quel pianerottolo a metà febbraio. Sembrava passata una vita.

“Quindi ora sarebbe colpa mia…Non è che sei in crisi d’astinenza da rapporti sessuali?”

Ma che diavolo?!

Joan, scioccata, rimase a bocca aperta. Ma poi la rabbia ebbe il sopravvento. L’immagine del suo letto sfatto, dei suoi occhi lucidi di sesso pervasero la sua mente.

“Sì beh, sai com’è, io ho altro a cui pensare, non come qualcuno…”

“Che fai ragazzina, mi spii?”

Le si avvicinò pericolosamente, inondandola col suo profumo.

“No, mio caro, ma o hai il sonno molto irrequieto o ci hai dato dentro su quel letto…” Inchiodò gli occhi a quelli di lui, spavalda. “Buon per te, comunque!”

Illusione di trasparenza. Primo anno, esame di psicologia sociale col professor Cohen. Illusione che i nostri sentimenti nascosti siano più visibili di quanto in realtà siano.

Ecco, lei invece si trovava nella situazione opposta. Sapeva di essere brava a celare i suoi sentimenti, in fondo l’aveva fatto con David per molto, ma con Cult tutto sembrava essere messo in discussione.  L’illusione di trasparenza l’aveva sempre protetta. Ogni volta che era preoccupata si diceva ‘tranquilla, loro non lo capiranno’.

Ora non sapeva più nulla. Aveva paura che Cult percepisse la sua gelosia, la rabbia.

Ma se anche lui si accorse di qualcosa, non le disse nulla.

“Devo rientrare”. E scappò, scappò da quelle pozze ghiacciate.

 
La nottata proseguì tranquilla, fino alle due passate, quando entrò un uomo strano, un tizio sulla cinquantina, i capelli leggermente lunghi e un ghigno per nulla promettente sul viso.

Si sedette a un tavolo appartato con tre uomini, tra i venticinque e i trent’anni. Joan si diresse al loro tavolo, non sentendo Steve che le diceva di lasciar fare a lui.

“Buona sera, cosa posso portarvi?”

L’uomo, quello sulla cinquantina, le rivolse un sorriso viscido e fastidioso.

“Sbaglio o non ti ho mai vista prima?”

“Sì, infatti, sono nuova. Avete già deciso cosa prendere o vi lascio ancora qualche minuto?”

“Un Bourbon liscio per me e tre birre medie chiare per i miei ragazzi”.

Non si toglieva quel sorriso fastidiosissimo dalla faccia e Joan si sentì a disagio. “Arrivano subito”.

“Steve, un bourbon liscio e tre media chiare”.

Steve preparò quello che Joan gli aveva chiesto, tenendo un occhi sui bicchieri e uno sull’uomo seduto al tavolo.

“Perché li guardi in quel modo, Steve? Non piacciono nemmeno a me, ma così dai nell’occhio”. Rise, ma Steve era serio.

“Non dargli troppo confidenza, ok?”

“Ok, ma…Li conosci?”

“Più o meno, tu stagli il più lontano possibile, J”.

Lei annuì, poco convinta, con le ordinazioni sul vassoio. Quando arrivò al tavolo aveva quattro paia d’occhi addosso.

“Ecco le vostre ordinazioni. Il Bourbon”. E quell’uomo la squadrò da capo a piedi, senza togliersi quel sorrisetto dalle labbra. “E le birre”.

Due dei ragazzi si somigliavano abbastanza. Avevano entrambi i lineamenti marcati, gli occhi chiari e i capelli castani. Il terzo aveva lo sguardo perso, gli occhi azzurro cielo e i capelli chiari. Aveva un occhio nero, che probabilmente si era fatto di recente.

“Non ti ho mai visto qui”. L’uomo sorseggiò il bourbon.

“Gliel’ho detto, ho iniziato a lavorare da poco”. E se ne andò.

Quell’uomo di sicuro non le piaceva. Le faceva scorrere brividi gelati lungo il corpo e non le tolse gli occhi di dosso un attimo.

Rimasero lì fino alla chiusura. Ordinarono un secondo giro, che Joan portò defilandosi in fretta.

Scorse Cult all’entrata, ma i loro occhi non si incrociarono mai.

Erano le tre passate e l’unico tavolo a cui era rimasto qualcuno era quello con lo strano uomo e i tre ragazzi, che lei dedusse essere i suoi scagnozzi, o almeno ne
avevano tutta l’aria.

Era ora di chiudere e quei quattro non sembravano volersene andare.

“Angela, quando qualcuno si ferma oltre l’orario di chiusura, voi cosa fate?”

La ragazza alzò gli occhi dal tavolo che stava pulendo.

“Solitamente gli chiediamo di andare via perché stiamo chiudendo, ma forse è meglio che lasci fare a Steve o Cult, o Marcus”.

Ma lei da indipendente qual’era, doveva fare da sola come sempre.

“Oh, non disturbiamoli, penso di potercela fare da sola”.

Angela, non convinta, rimase a guardare mentre Joan si allontanava, pronta a chiamare Steve nel caso ne avesse avuto bisogno.

“Signori, mi dispiace ma stiamo per chiudere, devo chiedervi di andarvene”.

Sorrise, cercando di sembrare il più gentile possibile.

“Perché non ti siedi con noi?”

“Guardi, mi dispiace davvero molto insistere, ma dobbiamo chiudere”.

“Solo cinque minuti, avanti, cinque minuti non  cambiano nulla, o sbaglio?” L’uomo si massaggiò il mento pensieroso. “Mi sfugge il tuo nome…”

Joan sospirò, ma cercò di mantenere la calma.

“Mi scusi ma la sua insistenza sta diventando un po’ fastidiosa, per favore, lasci il locale. Dobbiamo chiudere”.

In quello stesso istante Steve e Cult entrarono nel locale, avvicinandosi al tavolo.

E i tre ragazzi risposero alzandosi di scatto.

“Dai ragazzi, non esageriamo, ok? Il locale deve chiudere e voi dovete andarvene”.

Steve era calmo ma la vena sul collo pulsava. Cult era alle sue spalle, i pugni chiusi.

“Steve, ho sempre ammirato il tuo autocontrollo, tipico del bravo ragazzo, padre di famiglia”.

“Senti, non so perché tu e i tuoi scagnozzi siate qui, ma vi chiedo gentilmente di andarvene”.

“Altrimenti cosa fate tu e il tuo amichetto?” Era stato uno dei due mori a parlare, con voce sprezzante.

“Senti, non vogliamo problemi”. Steve cercava di trattenere Cult, che moriva dalla voglia di tirargli un pugno e si vedeva.

Joan si trovava in mezzo a quella situazione non sapendo cosa fare o dire.

Il ragazzo moro fece il giro del tavolo, arrivando vicino a Cult.

“Parlano tanto di te, ma non capisco cos’hai di speciale…”

“Cult si è solo un po’ rammollito”. Era l’altro moro a parlare.

Joan non capiva, era confusa e le tempie le pulsavano.

Cult si fece più vicino al ragazzo.

“Io quelli come te li mettevo al tappeto in cinque minuti, ecco perché parlano di me! E ora sparisci!”

Stava facendo di tutto per trattenersi. Le nocche erano bianche e le vene sulle braccia fremevano e sembravano voler uscire.

Prima che chiunque potesse rendersene conto lo sconosciuto, quello che aveva provocato Cult, sferrò un pugno colpendolo allo zigomo.
Joan tremò, spaventata. Non aveva mai assistito a una rissa e quello aveva tutta l’aria di essere l’inizio di un incontro di pugilato senza ring.
Cult incassò il colpo senza batter ciglio e fece per avventarsi si di lui, ma Steve lo trattenne.

“Non ne vale la pena Cult”. Era stata Joan a parlare, con un filo di voce.

“Ma sì, ascoltala, che magari poi ti ricompensa per aver fatto il bravo ragazzo…” Quella battuta fece ridere l’altro moro, mentre il biondo restava in piedi, ma immobile e serio.

Cult si slacciò dalla presa di Steve e gli assestò un pugno allo stomaco, seguito da uno al fianco. L’altro rispose con un colpo al labbro, che gli fece fuoriuscire del sangue.

“Ora basta!” Ordinò con freddezza quello che ormai Joan aveva identificato come il capo.

Si voltò verso la ragazza, con un gran sorriso sulle labbra.

“Mi dispiace per il suo comportamento, lo hanno allevato i lupi!” Lasciò una banconota da cinquanta dollari sul tavolo. “Tieni pure il resto”.

Si alzò lentamente, facendo un cenno ai ragazzi che erano con lui.

“Steve mi scuso anche con te penserai che non conosciamo le buone maniere”. Era gentile, ma si capiva che lo faceva apposta, che non era sincero. “E per quanto riguarda te, Cult, hai ancora dei riflessi niente male, se ti va di ricordare i vecchi tempi sai dove trovarmi!”

 
“Prima serata movimentata, eh?!”

Steve le circondò le spalle con un braccio.  Lei annuì.

“Bè, considerati assunta”.

Joan sorrise, illuminandosi. “Davvero?”

“Sì, sei stata bravissima. Veloce, ordinazioni giuste al tavolo giusto, nessun bicchiere rotto…Ma non entusiasmarti troppo, la paga non è un granchè”.

“Va bene così, Steve, …e grazie, davvero!”

“Ci vediamo domani”. La salutò andando alla macchina, mentre lei raggiungeva la sua.

Cult era sparito chissà dove. Avrebbe voluto chiedergli come stava, perché conosceva quel tizio.

Arrivò a casa in fretta, ormai aveva imparato le scorciatoie per arrivare a casa prima e quando arrivò sul pianerottolo vi trovò Cult, intento ad aprire la porta.

“Stai bene?” Chiese lui, ancora di spalle.

“Non dovrei essere io a chiederlo a te?”

Finalmente si voltò rivelandole quel viso bellissimo anche con un livido sotto l’occhio e con un labbro gonfio.

“Io ci sono abituato, tu non sembri tipo da rissa…”

“E infatti odio la violenza, preferisco le parole, possono fare più male dei pugni”.

Cult colse una frecciatina, ma forse era solo la sua immaginazione.

“L’hai già disinfettato?” Chiese lei indicando il labbro.

“Oh, non ce n’è bisogno, me la sono vista peggio”.

“Ne sono sicura, ma se vuoi posso aiutarti io…”

Lui accettò, senza fiatare, accostandosi a lei mentre apriva la porta. Abbandonò tutto sul divano e prese disinfettante e cotone.

Iniziò a passargli il batuffolo di cotone imbevuto sulla piccola ferita, togliendo il sangue raggrumato.

“Sembra che noi due siamo capaci solo di litigare e medicarci le ferite…”

Sembrava più una considerazione tra sé e sé quella di Cult, che una vera e propria affermazione, ma le arrivò dritta al cuore.

“Bè tu non hai certo una vita noiosa”.

Lui si strinse nelle spalle, passando la lingua sul labbro superiore, provocando in Joan una vampata al basso ventre. Ma che diavolo le succedeva? Nemmeno una quindicenne avrebbe avuto quella reazione.

Si distrasse andando a buttare il cotone e riuscendo a respirare.

Prese una busta di surgelati e gliela posò delicatamente sullo zigomo livido scusandosi per il fatto che non avesse del ghiaccio vero e proprio e lo fece sedere sul divano. Si sedette anche lei, ma a debita distanza, onde evitare l’autocombustione.

“Com’è che conoscevi quei tizi?”

“Li conosco e basta”.

“Ah, già dimenticavo che tu non parli della tua vita, o del tuo lavoro, o di qualsiasi cosa ti riguardi”.

Sbuffò sonoramente facendolo sorridere. Era adorabile quando faceva così, e lei nemmeno se ne rendeva conto.

“Ma possibile che mi trovi così divertente?!”

“Mi piace quando sei innervosita!”

“Ottimo, perché tu hai il potere di farmi innervosire come nessuno prima d’ora”. Solo dopo aver detto quella frase si rese conto del significato delle sue parole.

Come nessuno prima d’ora.

Quell’affermazione sembrò farlo vacillare, ma fu solo un attimo.

“Prima di arruolarmi ero un ragazzino senza soldi e l’unica cosa che sapevo fare era picchiare”.

Joan stette in silenzio, aspettando che proseguisse, impaziente di scucirgli il maggior numero di informazioni possibili.

“Una sera un tizio mi ha parlato di quest’uomo che organizzava incontri clandestini e mi ha detto che si poteva guadagnare bene, così sono andato dove mi aveva indicato e quello è stato il giorno che ho incontrato il Vecchio”.

“Il Vecchio è quello strano tizio del locale?”

Lui annuì, facendo una smorfia perché lo zigomo faceva male.

“E’ per quello che eri famoso?”

“Te l’ho detto era l’unica cosa che sapessi fare”. Ci pensò su. “Bè quello e conquistare la ragazze, ma fare il gigolò non faceva per un ragazzino rissoso e privo di qualsiasi classe”.

Joan era assorta, sarebbe rimasta ore ad ascoltarlo. Si passò una mano tra i capelli, avvicinandosi leggermente, bisognosa della sua vicinanza.

“E poi?”

“E poi cosa, ragazzina?”

“Eri un navy seal, non penso tu lo sia diventato dalla notte alla mattina..”

Cult ridacchiò, cacciando la testa indietro e fissando il soffitto.

“Una sera un marine mi ha messo al tappeto. Ero ridotto male e lui mi ha detto che avevo la stoffa per diventare qualcosa di meglio di un pugile clandestino”. Inspirò forte, mentre Joan tratteneva il respiro, terrorizzata che, se solo si fosse lasciata sfuggire un suono, lui avrebbe smesso di raccontare. “Così ha messo una buona parola per me e mi sono arruolato in marina. Ero bravo e mi hanno notato, così sono entrato nei Seal. Tutto qui…”

Finalmente tornò a posare gli occhi su di lei. Due fiumi in piena che niente e nessuno è in grado di contenere.

“Ma poi sei tornato”.

“Quattro anni fa”. Sospirò stanco, ma non era una stanchezza fisica e chiunque se ne sarebbe accorto.

“Come mai sei tornato se eri così bravo?”

Lui alzò le spalle, e una strana ombra gli velò gli occhi. “Non è tutto oro quel che luccica”.

Joan sembrava non capire.

“Hai presente il film ‘L’avvocato del diavolo’?”

Lei annuì, confusa.

“Lui ha tutto, ma vende la sua anima al diavolo”. Spiegò con calma, il viso rilassato. “Ti danno una carriera, medaglie, ti fanno notare quanto sei valoroso, ma tu devi dare qualcosa in cambio”.

Le sembrava di percepire a sua sofferenza, il suo dolore inespresso.

Quando aveva deciso di fare la psicologa temeva che non sarebbe stata brava a causa della sua scarsa capacità empatica. Quando qualcuno soffriva, piangeva, lei era in imbarazzo, incapace di fare qualsiasi cosa.

In quel momento le sembrava di soffrire come soffriva lui. Sentiva il vuoto dentro.

Voleva sapere di più, volevo chiedere, ma aveva paura di allontanarlo.

“Vedo le rotelline girare, ragazzina. Cosa vuoi sapere?”

“Niente”. Lei si chiuse nelle spalle.

“Non raccontarmi le bugie, ragazzina! Sputa il rospo!”

Lei scosse la testa.

“Non mi dire che una psicologa ha paura delle risposte che potrebbe ottenere…”

“Parlano dei navy seal come di persone senza scrupoli…”

“Vuoi sapere se sono un uomo spietato?” La guardava con un’intensità tale da farla avvampare.

Non sapeva cosa rispondere. Ogni volta che aveva una conversazione con lui non sapeva mai che piega avrebbe preso il discorso, sa avrebbe finito per mandarlo al diavolo o per affezionarsi a lui ancora di più.

“Pensi che lo sia?”

Lei scosse la testa. “No, nonostante quello che vuoi far credere. Mi hai salvato la vita quando non era tuo compito farlo, mi hai aiutato quando neanche mi conoscevi. Una persona spietata non fa queste cose”.

Cult era colpito e ammise, almeno a sé stesso, che sentirle dire quelle parole lo faceva sentire vivo come non gli succedeva da tempo.

“…Comunque non ti dirò quello che ho fatto o come l’ho fatto, devi farti bastare quello che mi hai scucito”.

“Perché?”

“Non sono cose di cui vado fiero”.

“Pensi che ti giudicherei?”

“Non lo so, ma meglio evitare l’evitabile, no?”

“Ora salvi vite..Hai qualcosa da farti perdonare?”

Lui scosse la testa. “E’ solo un lavoro come un altro…”. La fissò, lo sguardo assottigliato. “Ora vai a dormire, altrimenti mi incolperai per le tue occhiaie domani”.
 
Ma buonasera! 
Questo capitolo è stato un parto gemellare...No, davvero! Mi era preso il blocco dello scrittore e mi è passato solo pochi giorni fa, quindi eccomi qui!
Che ne dite? Cosa ne pensate di questo Vecchio? E del nuovo lavoro di Joan? 
Chissà che questo vento di ispirazione (che sembra il nome di una soap brasiliana di quart'ordine) non porti con se altri capitoli.
Grazie per aver letto e alla prossima!

xx

 

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Capitolo 17
*** Capitolo XVII ***


17.

‘Cause you’re all I need
 

Era una settimana che Joan lavorava al locale di Steve. Del Vecchio non c’era stata più traccia, così come dei suoi scagnozzi. Cult l’aveva solo incrociato un paio di volte sul pianerottolo e al locale, ma si erano a malapena salutati.

Angela aveva smesso di lavorare, ma in compenso aveva conosciuto Caroline, l’altra cameriera. Era una alta alta e magra magra, con un viso spigoloso ma armonioso e ricci capelli castani. Era l’opposto di Joan, insomma.

“Joan, vado in pausa. Ho l’ordinazione del tavolo vicino al bancone, ci pensi tu?”

Joan le sorrise, annuendo.

“Steve l’ordinazione di Caroline per il tavolo vicino al bancone?”

“Arriva subito”.

Portò la media chiara al tavolo, talmente concentrata che solo ad un passo dalla persona che aveva fatto l’ordinazione si accorse che lei quel ragazzo lo aveva già visto da qualche parte. Già, ma dove?

Era biondo, gli occhi lucidi e chiarissimi. Sbarbato e bello. Ma certo! Era uno dei tre ragazzi che avevano accompagnato il Vecchio la settimana prima.

“Ecco la tua ordinazione”. Gli poggiò la birra su tavolo sbattendola leggermente, senza nemmeno rendersene conto.

“Grazie”. Lui cercava il suo sguardo, ma lei glielo negò, tornando da dove era venuta.

Passò almeno un’ora a fissarla, cosa che a lei dette particolarmente fastidio. All’ennesimo incrocio di sguardi Joan si diresse verso il suo tavolo.

“Senti potresti evitare di fissarmi? Sei abbastanza irritante!”

Lui sorrise, ma non con fare arrogante, ma come se fosse realmente divertito.

“Beh, che hai da ridere?!”

“Lo sapevo che avevi temperamento!”

“Oh, questo non è nulla! Se vuoi evitare di conoscere la mia ira funesta smettila!”

Lui continuava a ridere, per nulla scalfito da quelle minacce, mentre lei tornò al suo lavoro.
 

Il resto della serata passò tranquilla.

“Ciao ragazzi, ci vediamo domani”. Disse Joan recuperando dallo spogliatoio le sue cose.

Uscendo si sgranchì il collo, rilassando le spalle.

“Stanca?”

Quasi le venne un infarto dallo spavento. Si voltò di scatto, spaventata.

Era di nuovo il ragazzo biondo di poche ore prima.

“No ma dico, sei impazzito?!”

Lui rise, di nuovo.

“Non volevo”. Alzò le mani, in segno di resa.

“Beh, se non volevi spaventarmi potevi evitare di arrivarmi alle spalle in quel modo!” Disse lei sarcastica, incamminandosi.

Lui la seguì.

“Ma sei forse uno stalker?” Disse Joan irritata, voltandosi nuovamente di scatto.

“Direi di no…”

“Ma mi stai seguendo… Puoi smetterla?” Lo fissò, serissima.

“No… Non credo la smetterò”. Disse lui con una naturalezza quasi imbarazzante. “E’ notte e non credo sia il caso che tu te ne vada in giro da sola”.

“Beh, si da il caso che sia in macchina”. Indicò la sua auto, dall’altra parte della strada. “Quindi, a meno che Jack lo squartatore non sia nascosto dietro quel cassonetto, per stasera sono salva”.

“Vorrà dire che ti accompagno alla macchina, sai Jack potrebbe essere nascosto sotto un’auto, o in un tombino”.

Joan lo guardò come si guarda uno strano animale mitologico. C’era da dire che era carino, aveva un bel sorriso, quindi sorrise di rimando e riprese a camminare, certa che lui l’avrebbe seguita.

Dopo pochi passi arrivarono all’auto.

“Sana e salva!” Disse Joan cercando le chiavi.

“Beh, sono un ottimo bodyguard, diciamocelo!”

Lei sorrise.

“Sono Huck”. Le tese la mano.

Lei la strinse. “Joan”.

“Vorrei invitarti ad uscire, Joan”.

Lei, stupita, scosse la testa.

“No, guarda non credo che…” Alzò lo sguardo incrociando quello di lui, intristito.

“Non mi guardare con quella faccia da cane bastonato!”

“E tu non rifiutarmi!”

Joan scosse la testa, allibita. “Io non ti conosco nemmeno!”

“Beh, se mai uscirai con me mai mi conoscerai!” Disse lui sicuro. “E poi sono uno che prende queste cose seriamente, non vorrai mica essere la causa della mia depressione?!”

Lei si trovò a sorridere sotto i baffi, divertita dal suo comportamento.

“Domani è il mio giorno libero”.

“Mi stai concedendo un appuntamento?”

Scosse la testa. “Beh potremmo trovarci nello stesso posto alla stessa ora…”

“Facciamo qui?”

“Nel parcheggio?!” Lo prese in giro lei. “Alternativo!”

Lui rise. “O forse non ti va di stare nel posto dove lavori…”

“No, va benissimo qui. Alle nove?” Propose lei salendo in macchina.

“Alle nove”. Confermò Huck chiudendole la portiera.

 
“Tu sei pazza a venire qui anche nel tuo giorno libero. Conoscendo Steve ti farà servire qualche tavolo!” Caroline rimproverò Joan, ma poi sembrò ripensarci. “Aspetta
un po’…Sei tutta elegante e hai il rossetto rosso! E’ un appuntamento!”

Aveva gli occhi a cuore, probabilmente stava già pensando a cosa indossare al matrimonio di Joan e del suo misterioso accompagnatore.

“Chi è?! Chi è?! Dai dimmi chi è!!”

Si comportava come una bambina, ma Joan la trovava decisamente tenera.

“Non è nulla di serio, so a malapena come si chiama, quindi smettila di immaginarmi con l’abito bianco!”

“Lo conosco?” Chiese ammiccando.

Joan alzò le spalle. “Viene qui a volte, quindi è possibile che tu lo abbia visto”

Proprio in quel momento dall’entrata principale entrò Huck, stretto in una giacca di pelle nera che faceva risaltare i suoi occhi chiari, visibilissimi nonostante la poca luce. Era fermo pochi passi oltre la porta e si guardava intorno.

Joan gli sorrise agitando la mano e lui rispose con un gesto distratto e cercò di avvicinarsi facendo lo slalom tra le persone.

“Ah, è lui il tuo appuntamento…” L’entusiasmo che coloriva la voce di Caroline fino a un momento prima era sparito.

“Sì, perché?”

Caroline si allontanò, proprio un attimo prima che Huck raggiungesse Joan.

“Ciao”.

Joan scacciò i pensieri causati dall’affermazione di Caroline e gli sorrise. Si sedettero a lato del bancone.

“Steve puoi farci un Cosmopolitan e una media chiara?”

Steve annuì, guardando fisso Huck.

Joan percepiva astio che non capiva, e questo la indispose, ma Huck era carino e gentile. Le rivolgeva grandi sorrisi.

Stavano parlando del più e del meno quando Huck ricevette una telefonata e uscì per rispondere.

“E dove vi sareste conosciuti?”

Steve era spuntato dal nulla spaventando Joan. “Ehm…Qui, ieri sera…”

Non sembrava per niente convinto. “Quindi ora esci con uno che conosci da nemmeno ventiquattro ore?”

Joan lo guardò esterrefatta. “Farò finta di non aver sentito questa domanda che ritengo estremamente offensiva in quanto non sono affari tuoi da quanto conosco le persone con cui esco”.

“Senti, non è che io dubiti del tuo giudizio…E’ lui che non mi piace! E soprattutto non mi piace la gente che frequenta!”

“Beh non è un tuo problema dato che non sei tu quello che deve frequentare!”

“Joan, non prenderla male, dai, è che…”

Joan alzò una mano, a fermarlo. “No, stammi a sentire Steve! Ho aiutato Cult dopo che lo conoscevo da poche ore, vi ho aperto le porte di casa mia senza neanche sapere chi foste, vi ho aiutato senza chiedere nulla in cambio, quindi non ti permetto di mettere in dubbio la mia capacità di giudizio e le mie decisioni”.

Huck aveva ripreso posto al suo fianco, stupito. “Tutto bene?”

Steve lo fulminò. “Non è nulla che ti riguardi”.

“Invece lo riguarda eccome, siccome è il mio appuntamento”. Chiarì Joan alzandosi. “E tu, Steve, hai passato il limite!”

“Senti, Joan, forse è meglio che vada”. Huck, visibilmente dispiaciuto, le si rivolse con voce calma e bassa.

“No, forse è meglio se ce ne andiamo entrambi, non è stata una grande idea venire qui nel mio giorno libero”.

 
“Tutto bene?” Chiese Huck dopo diversi minuti di silenzio.

Avevano camminato per una decina di minuti. Huck la aveva seguita dopo che lei si era diretta a passo deciso lontana dal locale, era stato in silenzio, rispettando i suoi tempi.

Joan si bloccò nel mezzo del marciapiede.

Annuì, sorridendogli. “Meglio”.

“Mi dispiace per quello che è successo”.

“Non è assolutamente colpa tua!”


“Sì, ma avrei dovuto immaginare di non essere il benvenuto dopo quella sera col Vecchio”.

“Non sei tu quello che ha iniziato quella zuffa da liceali in piena crisi ormonale”.

Lui si lasciò scappare una risata. “Quel ragazzo che ha colpito Cult è molto giovane, è una testa calda e non sa tenere la bocca chiusa”.

“E immagino che il Vecchio lo sapesse benissimo, ma mi sembra il tipo di persona che ama una buona lite tra prime donne”.

Huck alzò le mani, annuendo. “Sei sveglia”.

“Beh era piuttosto chiaro… Avrebbe potuto trattenere quel ragazzo, che gli obbedisce come un bravo cane da combattimento, ma non lo ha fatto”.

“Lui non ti piace…”

Joan alzò le spalle. “Non è mia abitudine giudicare senza conoscere, ma in linea di massima e persone come lui non mi piacciono”.

“Come sei arrivata al Morning Glory?”

Aveva strategicamente cambiato discorso, proprio come faceva sempre Cult. Che fosse qualcosa che il Vecchio insegnava a tutti i suoi ‘allievi’?

Gli raccontò la sua storia e lui stette in silenzio, ad ascoltare come un bambino.

“Wow! E quindi sei una psicologa…”

“Lo ero…Chissà se tornerò ad esserlo…”

“Sembri una determinata, sono sicuro che ce la farai!”

Joan alzò lo sguardo, colpita dalla sua gentilezza. Si schiarì la voce, imbarazzata.

“Beh, e tu?”

“Io cosa?”

“Cosa fai? Nella vita, intendo…”

Lui abbassò lo sguardo, cambiando espressione. Joan sbuffò.

“Fammi indovinare: fai un po’ di tutto, ma non puoi dirmelo…”

Huck finalmente incrociò il sguardo  e la guardò come a dire ‘E tu come fai a saperlo?’

Joan rise, ma era una risata amara. “E ti pareva…” Sussurrò.

Appena si staccava da Cult si imbatteva nella sua copia bionda e civilizzata.

“Che c’è che non va?” Huck non capiva.

“Niente, è che mi sembra una storia già sentita, mi sa che ho la calamita”.

Lui le si avvicinò. “Beh, puoi sempre conoscermi meglio…” Sorrise sornione.

“Sì, beh ci ho già provato una volta…No, ma dico, da queste parti va ancora di moda il bad boy misterioso?”

“Non ho idea di cosa tu stai parlando ma mi piace”. Disse lui. “ Mi fai ridere”.

“Questa non è esattamente nella top five delle cose da dire a una ragazza per conquistarla”. Ribattè lei stuzzicandolo.

“Quindi deduco che ho una possibilità di conquistarti”. Ammiccò.

“Tu deduci un po’ troppe cose”.

Si trovarono d’un tratto estremamente vicini, solo per pochi secondi, poi Joan si ritrasse.

“Beh, forse è meglio se torniamo indietro, abbiamo fatto un sacco di strada”.

Si voltò, tornando da dove erano venuti. Era stata bene con Huck, le piaceva parlargli, le piaceva che lui la ascoltasse, che fosse gentile e al tempo stesso la stuzzicasse.

Non potè fare a meno di confrontarlo con Cult, l’unico uomo che l’avesse attratta o almeno sentimentalmente interessata da quando era arrivata a New York. Huck era misterioso, sì, ma anche naturale, genuino, uno di quelli col viso pulito. Cult era duro, in tutto, nel modo di parlare, nel modo di guardare, nel modo di entrarti dentro e lasciarti senza fiato.

Amava parlare con Cult, amava averci a che fare, amava scoprire piccoli pezzi di lui, faticosamente, ma con Huck era stato così facile…

Era come camminare lentamente dopo avere corso la maratona, con le gambe doloranti e i muscoli a pezzi. Ecco, lei era così: dolorante.

Si voltò di scatto verso Huck, che le stava di fianco. Forse Huck era tutto ciò di cui aveva bisogno in quel momento.

“E sentiamo…Se volessi conoscerti meglio cosa dovrei fare?”

Il ragazzo, incredulo, la fissò in silenzio per qualche secondo.

“Beh, dovresti accettare un invito a pranzo domani”.

Joan allungo la mano nella sua direzione. “Andata”. Huck afferrò la sua mano, stringendola piano.

Si prese qualche minuto per guardarla negli occhi, mentre lei cercava di sfuggire alla presa. La avvicinò ancora di più, abbassando il viso per poterla guardare negli occhi.

Inaspettatamente fu lei a fare la prima mossa. Gli sfiorò appena il viso, prima di lasciargli un bacio sulle labbra, salvo poi ritrarsi.

“Se mi dai il tuo telefono ti lascio il mio numero”.

Huck, stupito, ebbe bisogno di un paio di minuti per capire cosa fosse  successo. “Come?”

“Se mi dai il tuo telefono ti  lascio il mio numero, sempre se l’invito per domani è ancora valido”. Disse Joan scandendo bene le parole.

“Ah, sì, certo!”
 
Nessun miraggio! Dopo qualcosa come seimila anni Joan è tornata e non è sola, come avete potuto notare!
...Cult per il momento è ad un corso di buone maniere...
...Forse...
:)

 

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Capitolo 18
*** Capitolo XVIII ***


18.


“E quindi ti sei diplomato con un anno d’anticipo!” Joan era decisamente stupita e questo faceva ridere terribilmente Huck.

“Ebbene sì, insomma lo so che non si direbbe…”

Joan si mosse sulla sedia. “Non volevo offenderti, è che… Insomma ora potresti essere un ingegnere, un professore o un medico, e invece…”

“Invece?” La guardò da dietro il bicchiere di birra da cui stava  bevve un sorso.

Joan non voleva spingersi troppo oltre, non voleva prendersi la libertà di esprimere giudizi ad alta voce su qualcuno che conosceva a malapena.

“Dai, mi interessa la tua opinione, e poi non sono un tipo permaloso!” Sorrise, mettendo in mostra i denti bianchi.

“E’che… lavorare per un mezzo delinquente non mi sembra all’altezza di una persona intelligente come te, tutto qui”.

“Wow, sei schietta!” Disse lui serio, mangiando un raviolo.

“Ecco, lo sapevo che ti saresti offeso”. Rispose lei mettendo il broncio.

Lui allungò la mano sul tavolo, incontrando quella di lei.

“Non mi sono offeso”. Sorrise. “Ho fatto una scelta pratica, la mia famiglia non è ricca… Qualche guadagno in più ci avrebbe fatto comodo e le università non sono proprio a buon mercato”.

“Cosa avresti voluto fare?”

“In che senso?”

“Nella vita… Fai finta di essere di nuovo bambino e dimmi cosa vorresti fare da grande”.

“Oddio, non lo so… Se avessi cinque anni probabilmente di direi l’astronauta!”

Joan rise. “Sono seria!”

Le lasciò andare la mano e diventò serio anche lui.

“Mio padre era poliziotto, credo che l’uniforme mi sarebbe stata bene…”

“Lo credo anche io…” Rispose lei sorridendo. “…Non è mai troppo tardi!”

Lui la guardò diritto negli occhi, tradendo un velo di amarezza.

“O magari diventerò presidente degli Stati Uniti”.

“Beh, in quel caso tienimi in considerazione come vice!”

“..O come First Lady…”

Quell’affermazione spiazzò Joan, che abbassò lo sguardo.

“Cavolo, ho un appuntamento tra poco, non mi ero accorto che fosse così tardi. Mi spiace ma devo accompagnarti subito”.

Joan scosse la testa. “Non serve, posso prendere un taxi”.

Huck insistette per accompagnarla a casa. Si fermarono al portone.

“Beh grazie per il pranzo”.

“Grazie a te per la compagnia”.

Joan gli sorrise, ma fu distratta da una figura che apparve alle spalle di Huck.

“Ciao Cult”. Disse la ragazza, imbarazzata come se fosse stata colta a fare qualcosa di sbagliato.

Lui rispose con un cenno.

“Ehi amico, come va?” Huck gli sorrise, ma Cult fece solo un cenno con la testa, passando oltre.

“Non credo di stargli particolarmente simpatico… Una volta gli piacevo, chissà cosa gli prende!”

“Vallo a capire…” Sussurrò Joan.

“Come?”

Lei scosse la testa. “No, niente… Allora, buon lavoro”. Disse facendo per entrare nel palazzo.

Lui la bloccò, attirandola a sé per darle un bacio, delicato e gentile.

“Ciao”.
 

Era stanca, aveva sonno e voleva dormire un po’ prima di andare al lavoro, ma non ci riusciva. Huck le piaceva, davvero, e quel bacio, inaspettato, le era piaciuto, ma non aveva potuto evitare di paragonarlo a quello che le aveva dato Cult, poco tempo prima a pochi metri da dove si trovava ora.

“Sei in ritardo, Joan, sbrigati!”

Caroline strillava mentre si aggiustava la camicetta.

“Lo so, c’era traffico”.

“Stai bene? Sei uno straccio!”

Joan alzò lo sguardo dalla borsa, in cui aveva cacciato la posta recuperata prima di uscire.

“Sì, Caroline, grazie per farmi notare che sto uno schifo”.

“Ma no… Non stai uno schifo, sembri solo stanca”.

Non era stanca, era preoccupata, ma non aveva voglia di parlare dei suoi problemi.

“Senti, mi dai cinque minuti? Ho bisogno di rinfrescarmi”.

Caroline le sorrise dolcemente, uscendo dallo spogliatoio.

Joan si sedette sulla panchina, tirando fuori la posta. Una delle buste conteneva il suo estratto conto. Il conto era in rosso e dopo pochi giorni avrebbe dovuto pagare
l’affitto.

Qualcuno bussò alla porta, distraendola.

“Tutto bene? Caroline dice che non stai bene?” Era Steve, che rimase sulla soglia, l’aria preoccupata.

Joan apprezzava che si preoccupasse, ma era ancora arrabbiata con lui. “Caroline esagera, ho solo dormito male! Ora arrivo!”

Si alzò, infilando malamente la busta nella borsa, lasciandola aperta e penzolante sulla panchina.

Si fermò sulla porta, aspettando che Steve la facesse passare. Lui si scansò appena, lasciandole libero il passaggio.

Sbatté contro Cult, che stava entrando nello spogliatoio in quel momento, ma lo ignorò, continuando per la sua strada.

“Che le prende?”  Chiese a Steve.

Lui alzò le spalle. “Credo ce l’abbia ancora con me per quello che le ho detto riguardo Huck”.

“Le passerà”.
 

La serata procedeva tranquilla e Cult si prese una pausa. Andò nello spogliatoio a prendere un pacchetto nuovo di sigarette, ma quello cadde per terra.

“Cristo…”

Si abbassò per prenderlo imprecando e proprio accanto al pacchetto trovò una busta bianca. La raccolse e, vedendo che sbucava un foglio, lo prese per leggerlo.

“Ma che diavolo stai facendo?”

Joan irruppe nella stanza, strappandogli di mano la busta.

“Ti metti anche a frugare tra le mie cose adesso?!” Era arrabbiatissima, lo avrebbe picchiato. Ma come si permetteva?!

Lui alzò le mani, in segno di resa. “Calmati ragazzina, era per terra e non sapevo cosa fosse, l’ho aperta per quello!”

Joan sbuffò. “Quindi il fatto che non ci fosse scritto il tuo nome non ti ha fatto pensare che forse non era il caso di ficcare il naso?!”

“Te l’ho detto, non sapevo cosa fosse!”

“Sì, come ti pare!”

Cacciò la busta nuovamente in borsa, assicurandosi di chiudere quest’ultima. Cult rimase qualche secondo ad osservarla.

“Tutto bene?” Chiese morbido.

“Alla grande!” Rispose secca lei.

“Steve pensa che tu ce l’abbia ancora con lui!”

“E infatti è così!” Chiarì Joan.

“Quindi quella non centra niente”. Indicò la borsa con la testa.

“Non sono affari tuoi!”

Lui annuì, lento.

“E’ preoccupato per te”.

“Beh, forse dovrebbe imparare anche lui a farsi gli affari suoi!”

Cult faceva fatica a riconoscerla, era diversa, quasi come se nulla le importasse.

“Ora se non ti dispiace devo andare a lavorare”.

Fece per uscire, ma lui la bloccò, prendendola per un polso.

“Senti, non so cosa ti stia passando per la testa… Se vuoi prenditela con me, perché sono uno stronzo, perché mi facci gli affari degli altri, o per il motivo che ti pare, tanto ne troverai uno, ne sono sicuro… Ma Steve è un bravo ragazzo e se si impiccia lo fa solo perché ti vuole bene!”

Joan era colpita dalle sue parole, ma non voleva cedere. Lo guardò negli occhi blu e cristallini per qualche interminabile secondo.

“Lo so che mi vuole bene, ma a me Huck piace e non mi interessa se a voi non va a genio. Dovrete abituarvi a vederlo spesso”. Si slacciò dalla sua presa, andandosene.

 
“Ciao”. Huck le apparve alle spalle ad un’ora dalla chiusura, sorridente.

“Ciao. Dopo vorrei parlarti, ti va di aspettarmi o hai da fare?” Urlava, cercando di sovrastare la musica.

“No, ti aspetto”.

Gli portò una birra media, chiara, come sempre.

Alla fine del turno era esausta. Aveva dormito poco e male e quella busta nella borsa sembrava avere vita propria e lottare per liberarsi dalla presa della cerniera.

Uscì guardandosi intorno per cercare Huck, che le apparse alle spalle schioccandole un bacio sulla guancia.

“Ma allora è un vizio farmi prendere un infarto!”

Huck rise. “Di cosa dovevi parlarmi?”

“Di lei”. Disse Joan, puntando dritto alla Chevrolet Malibu del ’72.

“Mmm… Ti serve un meccanico?”

Lei sorrise, scuotendo la testa. “Devo venderla, ma non conosco nessuno e ho pensato che magari tu conoscessi qualcuno a cui potesse interessare…”

“No, e perché? E’ un gioiellino!”

Lei sospirò. “Sì, ma a New York non te ne fai nulla di un’auto, sono solo spese”

“Sì, ma vendere una macchina così è un insulto! Non farlo!”

“Non lo farei se non dovessi, ma ho bisogno di liquidi, quindi se puoi farmi questo favore…”

“Ah, cavolo! Se solo avessi un po’ di contanti la prenderei io, ma purtroppo sono a secco”. Sembrava seriamente dispiaciuto. “Comunque tranquilla, ci penso io. Passo da te nel pomeriggio e ti dico se sono riuscito a piazzarla, ok?”

“Grazie”. Rispose lei grata, baciandolo dolcemente.

“Ora vai a casa però, sembri stanca”.

Lei annuì, salendo in macchina.

 
“Dunque, ho trovato un tizio che vorrebbe la macchina, cercava di abbassare il prezzo che gli ho proposto, ma sono riuscito a trovare un buon accordo con la scusa che è un’auto tenuta benissimo”.

“Ottimo! Quanto potrebbe darmi?”

“Diecimila”.

“Ne vale almeno il doppio… Ma va bene, basta che siano contanti”. 

“Certo, per quello  non c’è problema… Ma sei sicura? Sono sicuro che avrai molti ricordi di quell’auto”.

“Sicurissima, è solo un’auto”. Gli prese la mano. “Grazie”.

“Beh…Dovevo provare a dissuaderti, ma vedo che sei sicura. Lui è disposto a prenderla anche domani. Gliela porto io e torno cosi soldi”.

“Perfetto”.

Huck guardò l’orologio. “Ora devo scappare. Ci sentiamo domani, ok?”

Le lacrime iniziarono a rigarle i viso non appena chiuse la porta di casa. Quella non era solo una macchina per lei, significava tante cose, se n’era presa cura, era l’unica cosa che la legava alla sua vecchia vita.

Si lasciò scivolare lungo la porta, incapace di sorreggersi, incapace di smettere di piangere, di trattenere quelle lacrime che scalpitavano per uscire da mesi. Rimase in quella posizione per un paio d’ore almeno, rannicchiata con le gambe al petto e la testa nascosta tra le mani. Ormai era sera e doveva andare al lavoro, quindi si alzò lentamente, quasi la scena fosse al rallentatore, e si cambiò.

Quando uscì di casa, sul pianerottolo incontrò Cult.

“Ciao, ragazzina!”

Joan rispose con un cenno, cercando di nascondere il viso e gli occhi arrossati dietro i capelli.

Lui le si avvicinò, cauto, squadrandola, fino a quando lei non alzò il viso. Scorse subito il viso stanco e gli occhi terribilmente rossi.

“Cos’è successo?”

“Niente”. Disse lei, cercando di oltrepassarlo senza riuscirci.

Lui la bloccò col suo corpo.

“Sto bene, devo solo andare a lavorare”. Cult però non sembrava convinto.

Riaprì la porta di casa sua, bloccandosi sulla soglia e facendo cenno a Joan di entrare.

Lei, inaspettatamente, lo ascoltò.

“Cosa c’è che non va? E’ per quella busta di ieri?”

Scosse la testa e una lacrima le rigò di nuovo il viso pallido.

“E allora cosa c’è che non va? Huck?”

Lei negò, di nuovo.

“Non ho più soldi e devo pagare l’affitto”.

“Beh, certo non è una gran cosa, ma non mi sembra il caso di disperarsi. I soldi posso darteli io!”

Le si avvicinò, abbassandosi alla sua altezza per fare in modo che lei lo guardasse.

“No… Io…No grazie! Non è il caso…”

“E’ solo un prestito, puoi restituirmelo con calma!”

“Ho già trovato una soluzione, non preoccuparti!”

Cult si sedette sul bordo del divano sgangherato. “E sarebbe?”

Joan, titubante, si sedette sulla poltrona di fianco al divano. “Vendo la mia auto”.

Dirlo ad alta voce era più difficile di quanto pensasse. Fu come se una coltellata le trafiggesse il cuore.

“Sei pazza?!”

“E’ solo una macchina!”

“Se è solo una stupida macchina perché mi hai urlato dietro quando te l’ho rigata appena sei arrivata?!”

Non era per niente convinto dalle parole della ragazza.

“Perché sì, nemmeno mi conoscevi e mi hai rigato la macchina, dopo che ti avevo detto di fare attenzione!”

“…Quindi è solo un’auto…”

Lei annuì, scacciando una lacrima.

Cult rimase in silenzio alcuni secondi, aspettando che fosse lei a parlare. Joan continuava a guardare per terra, sperando che lui la smettesse di fissarla.

Passarono minuti interminabili.

“Ok. Hai vinto! Non è solo una macchina, ma tanto non importa, quindi è inutile parlarne!”

Gesticolava e lo faceva solo in due casi: quando era arrabbiata o quando era nervosa.

“E’ per questo che piangevi prima?”

Annuì.

“Quando ero piccola guardavo vecchi film con mio padre e un giorno abbiamo visto questo stupidissimo film in cui una donna se ne andava dalla città a bordo di un’auto bellissima, lucida… Aveva i finestrini abbassati e la musica al massimo… E io, che ero solo una bambina, pensavo fosse la cosa più bella del mondo”. Deglutì, cercando di cacciar giù il nodo che aveva in gola. “Sono andata avanti per giorni a parlare di quella dannatissima macchina, così mio padre mi disse che per i diciotto anni me ne avrebbe comprata una uguale”.

Cult ascoltava in silenzio. Era come se le parti si fossero invertite, solitamente era lei quella che ascoltava senza nemmeno fiatare.

“Io ovviamente me n’ero completamente dimenticata, ma il giorno del mio diciottesimo compleanno mio papà mi svegliò e mi portò in strada e… e…Proprio davanti a casa c’era questa Chevrolet Malibu bellissima, lucida come quella del film, con un grosso fiocco rosso sul tettuccio”.

Si alzò, andando alla finestra, guardando fuori ma non vedendo realmente nulla.

“Sono andata in giro tutta la mattina su quell’auto con mio padre, coi finestrini abbassati e la musica al massimo e quello stupido fiocco sul tettuccio. Mi sentivo davvero invincibile…”

Aveva ricominciato a piangere senza neanche accorgersene.

“Ho capito cosa fosse l’amore su quell’auto”. Guardò Cult, che si alzò, senza però avvicinarsi troppo. “Stavo con Simon Cromwell e una sera mi arriva una sua chiamata e lui tutto agitato mi dice che è rimasto senza benzina. Ho guidato per venti miglia per andarlo a prendere e nel tragitto mi sono resa conto di amarlo”.

Cult fece un altro passo verso di lei, raggiungendola accanto alla finestra.

“Ho fatto il mio primo incidente con quell’auto… Ero terrorizzata dalla reazione di mio padre, avevo paura che si sarebbe arrabbiato tantissimo, così ho aspettato quasi un’ora prima di chiamarlo e…” La voce le si ruppe. “Quando è arrivato l’unica cosa che ha fatto è stato abbracciarmi, non ha neanche guardato l’auto, non gli importava di niente se non che io stessi bene e…”

Alzò lo sguardo, finalmente, incontrando quello di Cult.

“Significa molto per me quell’auto”.

Lui le sfiorò appena i viso, avvicinandosi per abbracciarla. Joan si lasciò andare contro il suo petto, bagnandogli la camicia. Era tanto che non aveva un contatto con lui, ma era esattamente come lo ricordava: caldo e accogliente.

Si staccarono solo dopo diversi minuti, in cui lui la tenne stretta a se, cullandola tra le sue braccia.

“Ora chiamo Steve, è meglio se non vai a lavorare sta sera”. Le tolse una lacrima da sotto l’occhio sol dorso della mano, delicato.

Joan si allontanò, sistemandosi la camicetta. “Già, perché sono ricca e non ho bisogno d lavorare…” Disse sarcastica.

“Steve capirà…”

“Sto bene, Cult, davvero”. Gli appoggiò una mano sul braccio, sorridendogli sincera.

“Come vuoi…”

Joan si passò una mano sotto gli occhi. “Non è che…Potresti accompagnarmi tu. Preferisco non guidare più quell’auto”.

“Certo”.
 

“Dunque hai deciso…Sei sicura”.

Huck cercava di convincerla fino all’ultimo a non vendere l’auto, ma Joan era convinta.

“Sicurissima”. Disse allungandogli le chiavi.

“Ok, allora te la svuoto e ti porto i soldi più tardi…”

“Perfetto!” Faceva fatica a sorridere, a sembrare felice, soddisfatta. “Huck, senti, vorrei davvero ringraziarti per quello che stai facendo, sei…”

“Non mi devi ringraziare”.

“Insisto. Domani ti preparo la cena, non accetto un rifiuto!”

“Beh, una cena non si rifiuta mai!”

Joan abbassò lo sguardo. “L’unico problema è che alle nove devo essere al lavoro, quindi solitamente mangio alle sei, massimo sei e mezza”.

“Bene, vorrà dire che a pranzo mangerò alle undici, così avrò lo stomaco ben vuoto”.

Apprezzava il suo spirito, lo apprezzava davvero.

“Ottimo allora a domani”.

“A domani”. Rispose Huck lasciandole un bacio sulle labbra.
 
Buonsera e betrovate!
Cult è tornato sfavillante come non mai e ovviamente ha discusso con Joan, perchè, voglio dire, why not?
Joan prende una decisione drastica e dolorosa, quindi la perdoniamo per averlo trattato male. Siate clementi!
Comunque, parlando di cose serie, mi sto per laureare (Yup!) e avrò un po' più di tempo libero, quindi spero di riuscire ad aggiornare con maggiore regolarità.
Come sempre, spero che il capitolo vi sia piaciuto!
A presto!


 

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Capitolo 19
*** Capitolo XIX ***


19
 
“So close no matter how far
Couldn't be much more from the heart
Forever trusting who we are
And nothing else matters” 


Il campanello di Joan suonò alle sei precise.

“Arrivo!” Abbandonò mestoli e cucchiai e corse ad aprire la porta.

“Ciao! Scusa, non ho tempo di fare la padrona di casa, ho i soufflé nel forno e se non li controllo si ammosciano”.

Huck alzò un sopracciglio, sogghignando. “Ho portato del vino, se mi dai un apribottiglie te ne verso un po’, i soufflé mi sembreranno perfetti!”

“E’ nel secondo cassetto, i bicchieri sono sul tavolo”. Disse Joan distrattamente, mescolando la pasta.

“Spero ti piacciano pasta e zucchine, perché erano le uniche cose che avevo in casa, quindi…” Si passò una mano tra i capelli, nervosa. “Sì, lo so che non è il massimo invitare a cena qualcuno e avere il frigo vuoto, ma…”

Lui la zittì, poggiandole un dito sulle labbra.

“Non è per la cena che sono venuto qui…” Disse malizioso.

“Ah no?! E io che mi ero anche impegnata…” Rispose lei, altrettanto maliziosamente.

Huck la baciò, impetuosamente. Le sue labbra erano calde e morbide, il tocco sui suoi fianchi delicato, insicuro. Joan indietreggiò fino a toccare il muro, lasciandosi completamente trasportare da quel bacio.

Aveva deciso di non pensare, perché quando pensava troppo finiva col rimaner fregata ed era stufa!

Si distaccò da Huck, giusto per riprendere fiato. “Aspetta… Devo togliere i soufflé dal fuoco, altrimenti si bruciano”.

Lui la lascò andare, seguendo però i suoi movimenti. I soufflé erano veramente bruttini.

“Meno male che non sei qui per mangiare, perché non credo siano venuto buoni”. Si riavvicinò a Huck, riprendendo a baciarlo e spingendolo fuori dalla cucina, verso la camera da letto. Huck la lasciò fare; assecondando i suoi movimenti le tolse il maglione.

Joan rabbrividì, ma si concentrò sulla t-shirt di lui per togliergliela, gettandola a terra con un gesto secco.

Finalmente sentì sotto di sé la consistenza morbida del materasso. Le sfuggì un gemito quando Huck scese a baciarle il collo, il ventre, per poi abbassarsi sui jeans per sbottonarli e sfilarglieli.

Un flash le fece tornare alla mente quando la gamba le faceva male a seguito della caduta la sera dell’attentato a Pavlov e Cult aveva insistito per farla vedere da un medico. Era stato lui ad aiutarla a rivestirsi, alzandole i jeans e sfiorandole appena le gambe.

Chiuse gli occhi, scuotendo la testa per scacciare quel pensiero e quando li riaprì Huck era già senza pantaloni, sopra di lei, intendo a baciarle il collo. Si aggrappò alle sue spalle quando le sfilò il reggiseno. La sua pelle fu percorsa da impercettibili scosse quando percepì il tessuto allentarsi, così come rabbrividì quando anche il tessuto degli slip scomparì, finendo a terra con gli altri indumenti.

Era come se fosse distaccata dal suo corpo, provava piacere, ma al tempo stesso era come se vivesse quell’esperienza da esterna.

I baci di Huck, le sue spinte, le sue carezze erano piacevoli, ma la sua testa era vuota, libera, incapace di godersi il momento. Si sentiva ubriaca, senza aver bevuto, in balia di una qualche sostanza che non aveva assunto.

Quando riprese coscienza del suo corpo sentiva il peso del corpo di Huck sul suo. Si sentì in colpa, senza capirne il motivo e automaticamente accarezzò i capelli del ragazzo.

Huck alzò appena il viso, sorridendole. Scivolò di fianco a lei, accogliendola tra le sue braccia.

Solo dopo alcuni minuti eterni passati in quella posizione, a Joan cadde l’occhio sull’orologio del ragazzo. Erano le 20.35.

“Oddio è tardissimo! Devo andare a lavorare, con la metrò non arriverò mai in tempo”.

Si alzò cercando sul pavimento il suo intimo, mentre anche Huck cercava i suoi boxer, poi sparì in corridoio, dove trovò altri indumenti.

“Stai tranquilla ti accompagno io, faremo molto prima!”

Joan gli sorrise, mentre saltellava per infilare i jeans e recuperava la borsa col cambio.

 
La città era intasata, ci volle il doppio del tempo normale per arrivare al Morning Glory.

“Che fine avevi fatto! Ero preoccupato!”

“Lo so, scusa, c’era traffico…Ora vado a cambiarmi, altrimenti perdo altro tempo”. Schioccò un bacio sulle labbra a Huck, per poi sparire tra la folla.

“E’ colpa mia se ha fatto tardi, l’ho trattenuta e…”

“Nessun problema…” Disse Steve, con un sorriso tirato stampato sulle labbra.

Huck era stupito. Capiva di non andargli a genio, ma almeno provava a essere gentile.

“Tu non è che mi vada proprio a genio… Ma Joan sembra molto felice, e io le voglio bene, quindi diciamo che mi stai un po’ più simpatico…” Lo guardò dall’alto in basso. “Ma trattala bene, altrimenti ti spezzo tutte le ossa, a una a una!”

“Anche io tengo molto a Joan, Steve, e mi fa piacere quello che hai detto… Grazie”.

Huck sparì nella notte e al suo posto apparve Cult.

“E’ arrivata?”

Steve annuì, serio. “Tu hai risolto quella faccenda?”

“Sì, tutto a posto”.

“Ottimo. Per quanto riguarda Huck, hai scoperto che lavori fa per il Vecchio?”

“Credo abbia preso il mio posto…”

“Beh, mi sa che dovremo farcelo andare a genio, finchè esce con Joan”.

“Dici che hanno intenzioni serie?” Cult era infastidito, nonostante lo nascondesse benissimo.

“Non lo so, ma di sicuro hanno intenzioni…”

“Steve, servirebbe la tua presenza, c’è un tizio che chiede di te!”

Joan si materializzò alle loro spalle, cambiata e con il vassoio in mano. Steve andò al bancone, lasciando Cult e Joan da soli.

“Tutto bene?” Chiese il ragazzo guardandosi intorno.

“Sì, grazie ancora per ieri sera”. Rispose lei abbassando lo sguardo.

“Smettila di ringraziarmi”. Disse lui accendendosi una sigaretta. “Quindi tu e Huck avete intenzioni serie o…”

Faceva il vago, ma sperava fortemente che lei dicesse di no.

Joan era imbarazzata, Cult non era esattamente la persona con cui avrebbe volentieri parlato della sua vita sentimentale. “Mmm.. No, cioè, non lo so… Ci conosciamo da poco”.

La ragazza fu salvata in corner da Caroline, che era uscita per chiamarla e lasciò Cult lì fuori, che fumava pensieroso.

 
La serata stava passando relativamente tranquilla, quando dal nulla apparve Cult, che si faceva malamente spazio tra la folla, richiamando l’attenzione di Steve.

“Steve devo andare, Duck è stato ferito e è al pronto soccorso”. Aveva il respiro affannato.

“Cosa?! Com’è possibile?!...Come sta? Cosa è successo?”

“Non lo so, stava sorvegliando quel tizio ad Harlem e l’hanno ferito, ora vado!”

Joan, che era vicino al bancone , si avvicinò, sconvolta, senza proferire parola.

“Vengo con te, Joan qui ti occupi tu di tutto?”

Lei annuì meccanicamente, ma fu Caroline a riportarlo alla realtà. “Cult tu sei l’unico qui che sa fare i cocktail, forse è meglio se chiudi direttamente, perché senza di te le persone berranno solo acqua e birra…”

“Merda!”

“Vado da solo, appena so qualcosa ti chiamo, tieni d’occhio il telefono”.

“Vengo io con te!” Propose Joan, d’impulso. “…Se vuoi…” Aggiunse poi, abbassando lo sguardo.

Steve era sollevato, voleva che qualcuno stesse vicino a Cult.

Cult annuì, uscendo a grandi falcate dal locale.

La sua guida non era mai stata esattamente quello che si definisce ‘tranquilla’, ma quella sera sembrava un pazzo: scartava le macchine come fossero palline di carta e passava col rosso, rischiando di fare qualche incidente.

“Cult lungi da me fare la rompiscatole in questo momento, ma se vuoi arrivare vivo in ospedale devi rallentare”.

Lui, però, non la ascoltò, tirando dritto e scartando l’ennesima auto.

Arrivarono in ospedale in tempo record e dopo aver abbandonato la macchina in malo modo corsero al pronto soccorso.

“Sto cercando Ethan Duckerson, è stato portato qui d’urgenza, era ferito”.

L’infermiera, calma, chiese ulteriori informazioni, che Cult non aveva.

“Aspetti, controllo l’elenco dei nuovi immessi”. Passò al setaccio dei fogli, tornando poi su Cult. “Sì, c’è un Ethan Duckerson, è arrivato una mezz’ora fa con una ferita da taglio”.

“E come sta?”

La donna alzò lo sguardo. “Lei è un parente?”

Lui scosse la testa. “Sono un amico, un caro amico”.

“Allora mi dispiace ma non posso dirle nulla di più”.

Cult stava perdendo la pazienza. “Ma mi prende per il culo?! E’ morto o vivo, è grave?! Mi dica qualcosa, cazzo!”

“Capisco la situazione, ma per legge non posso riferirle alcuna informazione! Mi dispiace”. Sembrava realmente dispiaciuta, ma Cult non la prese bene.

Si allontanò e tirò un pugno al muro. Joan, che fino a quel momento era rimasta in disparte in religioso silenzio,tremò, ma rimase lontana. Sentì l’infermiera parlare di chiamare la sicurezza, ma Cult ormai era già in fondo al corridoio.

Si sentiva impotente e voleva fare qualcosa, per Cult, ma anche per sé perché in quei mesi aveva imparato ad apprezzare Duck.

Si avvicinò all’infermiera. “Senta, mi scusi per il mio amico, è molto preoccupato”.

“Me ne rendo conto, ma io sto solo seguendo la procedura”.

“E io lo capisco, davvero! Ma se potesse almeno dirci sue condizioni, se è grave o meno…”

“Senta, signorina, a me dispiace davvero per lei e per il suo amico, ma non così tanto da rischiare il posto”.

Niente, era irremovibile. Serviva qualcosa che la facesse cedere, anche se questo voleva dire mentire.

“Ok, io… Ecco mi vergogno un po’ ma a questo punto è il caso di dire la verità. Ethan non è un amico per me, è l’uomo che amo, quindi se lei potesse fare uno strappo alla regola”.

La donna sembrò ammorbidirsi, ma non era ancora convinta, così Joan rincarò: “Ecco…Io sono fidanzata, ma mi sono innamorata di lui e ora non immagino la mia vita senza di lui… La prego!”

“E va bene, ma che rimanga tra noi”.

Si guardò in giro, mentre Joan le sorrideva grata. “E’ in sala operatoria, ha perso molto sangue ma si riprenderà. L’operazione dovrebbe finire tra una mezz’ora”.

“Grazie!”

 
“Allora è qui che ti sei nascosto!”

Aveva girato a vuoto tutto l’ospedale, raggiungendo alla fine la cappella. Era vuota e buia.

Cult si voltò. “Come hai fatto a trovarmi?”

“Ho fatto il tour di tutti i piani…”

Joan si sedette accanto a lui, sulla panca lucida..

“Volevo stare da solo”.

Aveva il volto stanco, le mani abbandonate sulle gambe, la voce roca e calma.

“Lo so, ma ti ho cercato perché ho buone notizie: Duck è in sala operatoria, ha perso molto sangue ma l’infermiera dice che si riprenderà!” Glielo disse col sorriso sulle labbra, ma lui non la degnò di uno sguardo.

“Bene”. Disse annuendo.

Joan non capiva. Non era minimamente toccato da quella notizia. Aveva imparato a conoscere Cult, a capire che nascondeva bene le sue emozioni, ma la sua reazione, ora, le sembrava assurda.

“Bene?! Un minuto fa stavi per spaccare il muro  perché nessuno voleva darti sue notizie e ora che ti dico che starà bene l’unica cosa che sai dire è ‘bene’ ?!”

“Cosa vuoi che ti dica?! Grazie?!” La guardò sprezzante. “Beh, grazie tante, ora puoi anche andare”.

Le indicò la porta, senza nemmeno guardarla.

Joan aprì la bocca, salvo poi richiuderla. Si sentiva stupida e non lo capiva.

“Sei… Sei proprio uno stronzo!” Urlò la ragazza, alzandosi di scatto. “Tranquillo ti lascio con la tua costante disperazione, vado da Duck, sai, quando si è spaventati è bello avere facce amiche vicine!”


Duck aveva gli occhi chiusi, sembrava sereno. Probabilmente era sedato. Joan aveva insistito per vederlo nonostante l’infermiera dicesse che probabilmente non si sarebbe svegliato prima di qualche ora.

Gli si avvicinò, prendendogli la mano.

“Sono morto e sono in paradiso?” Duck si era svegliato, parlava piano, a stento, ma vederlo sorridere nel dolore era bello.

“No, credo che in paradiso ci sarebbe qualcuno di meglio…”

“Non sottovalutarti così!” Si mosse sul posto, facendo una smorfia di dolore.

Joan si allungò per sistemargli il cuscino. “Devi stare attento a muoverti, non vorrai riaprire la ferita!”

“No, grazie, ha fatto schifo già la prima volta…”

“E’ tutto finito, ora starai meglio”.

Gli accarezzò il viso, delicata, mentre continuava a stringergli la mano.

“Mi fa male, Joan”.

“Ora chiamo un’infermiera, vediamo se possono darti altri sedativi, ok?” Fece per voltarsi, ma la presa di Duck si fece più salda. Sembrava terribilmente spaventato. “Non lasciarmi da solo”.

Joan, intenerita da quell’esternazione, sorrise. “Guarda che non mi intenerisci solo perché sei in ospedale…” Ma poi si fece seria. “Cerco un’infermiera, poi giuro che torno!”

Duck, convinto la lasciò andare, vedendola poi tornare alcuni minuti dopo con un’infermiera piccoletta di mezza età.

“Vediamo come va questo ragazzone! Cosa c’è che non va, splendore?”

“Mi fa male, e ho sete”.

“Per la sete, prendi questo”. L’infermiera gli porse un bicchiere mettendoci dentro dell’acqua e una cannuccia. “Ma bevi piano! E per il male ora ti do altri antidolorifici”.

Duck, calmo come non mai, beveva lentamente, mentre l’infermiera gli somministrava un’altra soluzione. Una volta finito si avvicinò a Joan.

“Senti, lui ora dormirà sicuramente, quindi forse è meglio se vai a casa a riposarti”.

“Preferirei restare finchè non arrivano i suoi amici, non mi va di lasciarlo solo”.

“Ah…Hai proprio una brava fidanzata, splendore!” Concluse sognante uscendo dalla stanza.

Duck, che sembrò  risvegliarsi, spalancò gli occhi. “Come mai lei pensa che tu sia la mia fidanzata e tu non l’hai corretta?!”

Era tornato il suo sguardo sveglio e divertito e Joan capì che il peggio era passato.

“Quando starai meglio te lo spiegherò”.

“So già che mi piacerà un sacco questa storia”.

“E io so che mi pentirò di essere stata così avventata…” Gli passò nuovamente una mano sul viso. “Ora dormi”.

Quando fu certa che Duck si era addormentato si mise sulla poltroncina di fianco al letto.

 
Cult aveva percorso il corridoio almeno dieci volte prima di decidersi ad entrare in quella stanza. Aveva avuto seriamente paura per Duck. Vederlo in quel letto gli fece venire un tuffo al cuore, ma se non altro ora stava bene.

Joan dormiva sulla poltroncina, con la testa appoggiata al braccio, in una posizione sicuramente molto scomoda.

Prese la coperta piegata ai piedi del letto e gliela mise addosso, ma lei si svegliò subito, raddrizzandosi.

“Ehi!” Cult si scansò, con la coperta ancora in mano.

Lei si alzò, senza guardarlo. “Vedo che ti hanno fatto passare…”

“Sì, io… Ho fatto gli occhi dolci a un’infermiera giovane…”

Joan alzò gli occhi al cielo. “Ottimo, allora se ci sei qui tu io posso anche andare”.

“Aspetta. Puoi restare, se vuoi…”

“L’infermiera ha detto che Duck dormirà per le prossime ore, sono rimasta solo perché non volevo fosse solo nel caso si svegliasse, ma visto che ora ci sei tu… Non vedo il motivo di restare qui in due”. Sputò quelle parole come se fossero le più difficili della sua vita. Odiava essere dura con lui, odiava essere arrabbiata con lui. “Se si sveglia digli che torno a trovarlo domani”.

Prese la sua borsa e, senza aspettare che Cult le rispondesse e uscì dalla stanza.

Cult guardò Duck, che dormiva profondamente, poi guardò Joan allontanarsi. Ripeté quell’azione un altro paio di volte, per poi correre fuori dalla stanza, per raggiungere la ragazza. Lei, però, era già sparita.

Corse per il corridoio, prendendo la scale, fino all’uscita. Quasi sbatté contro le porte scorrevoli dell’entrata perché non voleva fermarsi.

Si guardò intorno, ma non la vedeva, cercava di riconoscere tra i numerosi passanti il suo viso, ma senza successo. E poi, finalmente, la vide, di spalle, lontana pochi
passi. La rincorse e le prese un polso, bloccandola.

Joan sussultò, rischiando di andare a sbattere contro un’ambulanza.

“Ma sei impazzito?!”

“Mi dispiace”. Disse lui col fiatone, continuando a stringerle il polso.

“Ehm… Ok, ora puoi anche lasciarmi…” Si sentiva a disagio.

“Sì, ma non mi riferivo al fatto che ti ho fatto spaventare…” Cercò i suoi occhi e, quando finalmente li incontrò, si trovò a sorridere senza alcun motivo. “Mi riferivo a prima…”

“Ah…”

“Io… Mi sentivo in colpa… Stasera dovevo andare con Duck, ma lui ha detto che poteva fare da solo e io…”

La voce gli si ruppe. Joan dimenticò all’istante la discussione di poco prima. Vederlo così distrutto, stanco, la uccise.

“Non è colpa tua... “

“Sì, invece! Se fossi stato con lui non sarebbe successo!” Era arrabbiato, urlava, e i capelli, leggermente lunghi, erano mossi dal vento estivo.

“Oppure sarebbe stato ferito comunque, o sareste stati feriti entrambi…” Cercò di calmarlo. “Non puoi saperlo, Cult. Non sei Dio, non disponi di ciò che succede, quindi smettila di sentirti responsabile per qualsiasi cosa succede alla persone a cui tieni!”

Non sembrava convinto.

“Le cose brutte succedono e basta e tu, che ti piaccia o meno, non puoi farci niente! L’importante è che Duck ora stia bene”.

Abbassò lo sguardo, mentre tirava calci al vuoto.

“Io…” Alzò una mano, così vicina al volto di Joan che poteva quasi sembrare un accenno di carezza. Ma la fece ricadere lungo il fianco, a peso morto.

Fu Joan ad avvicinarsi a lui. “Va tutto bene, Duck sta bene”. Si avvicinò ancora, abbracciandolo.

Era la prima volta che era lei a consolare lui, ed era la prima volta che Cult si lasciava consolare in quel modo.

“Va tutto bene, Cult”. Continuava a stringerlo a sé, in un momento magico. “Andrà tutto bene”.

Era come se nient’altro esistesse. Il mondo continuava a girare, le sirene della ambulanze continuavano a suonare, le persone a camminare, ma loro erano lì, immobili.
 
Questo è probabilmente il mio capitolo preferito fino ad ora. Ho gli occhi a cuoricino e stop, non ci posso fare niente!
Spero piaccia anche a voi come piace a me :)

A presto! 

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Capitolo 20
*** Capitolo XX ***


20.

 
"Ah, per me, dico, datemi la guerra!

È meglio cento volte della pace, come il giorno è migliore della notte;

la guerra è cosa viva, movimento, è vispa, ha voce, è piena di sorprese".


 
 
“Ti accompagno a casa”. Disse Cult deciso, staccandosi dall’abbraccio.

Joan scosse la testa. “Non serve, ho chiamato un taxi, arriverà tra poco…”

Proprio in quel momento il taxi entrò nel suo campo visivo. “Ecco, dev’essere quello!” Alzò un braccio, facendo un cenno all’autista per fargli capire che era stato lei a chiamarlo.

“Salutami Duck e vai a riposarti appena Steve viene a darti il cambio”. Disse poi premurosa, allungandosi per dargli un bacio sulla guancia resa ruvida dalla barba.

Lui sorrise annuendo e la guardò andar via per poi tornare da Duck.

Joan, una volta in taxi, si rese conto di quanto era stanca. Guardò  l’orologio, erano le quattro e mezza di mattina. Il cielo iniziava a rischiararsi e le stelle erano meno brillanti.

Appoggiò la testa al finestrino, non accorgendosi del telefono che vibrava nelle sue mani. Si accorse della chiamata solo quando ormai aveva smesso i suonare.

Una chiamata persa. Era Huck.

Compose subito il suo numero. Lui rispose al secondo squillo. “Ehi, finalmente, ero preoccupato!”

“Ciao, sì, scusa non sentivo il telefono… E’ stata una nottataccia”.

“Lo so, Steve mi ha detto quello che è successo a Duck, come sta?”

“Meglio, lo hanno operato e ora si sta riprendendo”.

“E tu come stai?”

La ragazza sospirò. “Stanca”.

“Dove sei adesso?”

“In taxi, tra poco sarò a casa. Anzi, senti, possiamo sentirci più tardi? Sono veramente distrutta”.

“Certo. A dopo”.

Joan sorrise riattaccando e tornando alla posizione di prima, lasciando che la città scorresse sotto i suoi occhi.

“Eccoci signorina”.

Porse i soldi al tassista e si trascinò giù dall’auto, raggiungendo il portone. Fece i quattro piani di scale lentamente, trascinando i piedi come se fossero stati mattoni.

Rimase piacevolmente sorpresa quando, arrivata all’ultima rampa, scorse Huck, seduto sull’ultimo scalino, che la guardava sorridente.

“E tu che ci fai qui?”

“Beh… Mi sono reso conto di non averti dato i soldi della vendita dell’auto”. Disse alzandosi. “Ero venuto al locale, ma Steve mi ha raccontato quello che è successo e prima mi sembravi un po’ giù, quindi ho pensato che non era il caso di lasciarti sola”.

Joan sorrise, intenerita da quel comportamento. Non disse nulla, ma aprì la porta e gli lasciò libero accesso.

Huck le prese la borsa dalla spalla, appoggiandola sul divano e la abbracciò da dietro, baciandole il collo delicatamente. Camminarono insieme verso la camera. Joan sgattaiolò in bagno per lavarsi il viso e cambiarsi, mentre Huck la aspettò in camera.

Lo raggiunse velocemente, era talmente stanca che l’unica cosa che voleva era dormire. Si stese sul letto, mentre Huck la guardava, ancora in piedi.

“Che fai lì impalato, dormi che è tardi”. Gli disse indicandogli il letto.

Si mise accanto a lei, vicinissimo, ma lasciando ancora un po’ di spazio per non invadere il suo di spazio. Fu Joan ad avvicinarsi, accoccolandosi sul suo fianco, e poggiando la testa sul suo petto.

“Buonanotte”.

“Buonanotte, Joan”.

 
Qualche giorno dopo Duck venne finalmente dimesso dall’ospedale. A dire il vero già il giorno dopo il suo ricovero insisteva per uscire, dicendo che stava benissimo, ma poi aveva incontrato un’infermiera che “era uno schianto”, quindi si sarebbe volentieri fatto pugnalare a giorni alterni pur di vederla.

“Sì, ma Joan, per te avrò sempre tempo!”

“Non avevo dubbi Duck, ma non preoccuparti, capisco di doverti lasciar andare… Sii felice…”

Duck rise. “Non sono io ad aver detto all’infermiera di essere il tuo fidanzato”.

“Dovevate proprio raccontarglielo, vero?!” Disse sarcastica rivolta a Cult e Steve, che alzarono le spalle.

“Tesoro, lo capisco, sono un tipo niente male!” Le passò un braccio intorno alla vita, facilitato dal fatto che fosse seduto sulla sedia a rotelle e Joan gli fosse
esattamente accanto.

Joan gli spostò il braccio. “Duck ti conviene smetterla, a meno che tu non voglia rimanere qui con la tua infermiera preferita qualche altro giorno”.

“Non devi essere gelosa, Joan… Ce n’è per tutti”.

“Basta, ci perdo le speranze!”

Si allontanò, agitando le braccia sconsolata, ma ridendo.

“Forza, in piedi grande uomo, ti porto a casa”.

Steve aiutò Duck ad alzarsi, mentre il ragazzo continuava a confabulare cose su Joan e sull’infermiera.

“Joan, tu vai con Cult?”

La ragazza annuì, leggermente imbarazzata. Non erano più stati da soli dalla sera del ricovero di Duck.

Seguì Cult nel parcheggio, senza proferire parola, pensando ad argomenti neutri di cui parlare lungo il tragitto.

Il caldo, magari, o le vacanze! Chissà se Cult ci andava in vacanza… Chissà se preferiva il mare o la montagna…

Lo conosceva da diversi mesi, sapeva cose profonde di lui, del suo passato, lo aveva aiutato, lui le aveva salvato la vita, eppure sapeva così poco di lui…

“Ragazzina siamo arrivati”. Disse ad un tratto fermando Joan, che stava proseguendo, persa nei suoi pensieri.

“Ah…Sì…”

La guardò dubbioso. “Ma dove hai la testa?”

Lei però non rispose, non lo aveva sentito perché era già entrata nell’auto.

Quando ci entrò anche lui Joan non gli diede neanche il tempo di mettere in moto. “Preferisci il mare o la montagna?”

Lui, stranito, la guardò perplesso. “Come?”

“Preferisci il mare o la montagna?” Ripetè lei come se fosse una cosa normale.

“Ma che ti prende?!”

“Niente, rispondi e basta!” Disse decisa, mentre Cult continuava ad essere perplesso.

“Il mare.. Ora mi dici perché fai domande a caso su cose a caso?”

“Così…”

“No ma dico, sei impazzita?”

“Volevo saperlo, tutto qui!”

“Sì ma perché?!”

Lei si chiuse nelle spalle. “Ti conosco da un po’ e nonostante abbiamo condiviso dei momenti difficili non so nulla di te…” Si voltò dall’altra parte, imbarazzata. “Tutto qui…”

Lui sorrise e mise in moto.

“Mi piace il mare, però mi piace anche la montagna, in inverno, quando sei in mezzo al nulla e c’è talmente tanto silenzio che ti sembra di essere l’unico sopravvissuto all’apocalisse”. Sorrise sospirando, come se quelle parole fossero legate a qualche bel ricordo.

Joan, che si era girata verso di lui, lo fissava interessata, curiosa di sapere di più. “E poi…?”

Lui sogghignò, continuando a guardare la strada. “Poi cosa?”

“Cos’altro di piace?”

“Oh… Beh…Un sacco di cose…”

“Tipo?!”

“Non so… Tipo il basket, anche se non ci so giocare… Ci ho provato quando era piccolo, ma nessuno mi voleva mai nella sua squadra, ero negato. L’unico che mi sceglieva sempre era Steve, ma nemmeno lui era un granchè”. Concluse ridendo.

Anche Joan sorrideva, immaginandosi un piccolo Cult che correva dietro ad una palla che aveva perso pochi secondi prima.

“A volte ti invidio… Tu e Steve siete così legati, sareste disposti a fare qualsiasi cosa l’uno per l’altro…” Sospirò. “Io un amico così non ce l’ho mai avuto… Ogni tanto lo avrei voluto…”

“Non è mai troppo tardi…” Cult si voltò verso di lei, un sorriso genuino sulle labbra e le braccia tese sul voltante.

“Sì, ma non è la stessa cosa. Crescere insieme è un’altra cosa… Si fanno le stesse esperienze, si litiga e poi ci si riappacifica perché nonostante tutto quella persona è quella su cui punteresti tutto, quella che vorresti al tuo fianco se ci fosse l’apocalisse, o un’invasione di zombie…”

Cult sogghignò, sollevato che Joan non si fosse rattristata troppo.

“Beh, comunque, il mio gusto di gelato preferito è il caffè e la mia pizza preferita è quella col salame piccante”.

“Come sei scontato! E’ ovvio che la tua pizza preferita è quella col salame piccante, sei il prototipo di mangiatore di salame piccante!”

“Ah, davvero?! E sentiamo, ragazzina, qual è la tua preferita?” Chiese sarcastico.

“Quella classica, pomodoro e mozzarella, ma con vero pomodoro e vera mozzarella, all’italiana, con basilico fresco, magari, e non origano!”

“Ci avrei scommesso… Scegli il tipo classico, ma poi vuoi cose super sofisticate…”

“Ma smettila, mangiatore di salame piccante!” Gli tirò un buffetto sul braccio e finirono occhi negli occhi, finalmente, dopo tanto tempo.

Quant’era che non parlavano così spensieratamente? Forse non l’avevano neanche mai fatto. Era bello. Era bello scherzare con lui, conoscere nuove e scherzare come se si conoscessero da una vita.

L’atmosfera si raffreddò quando arrivarono davanti al loro palazzo e videro Huck, che aspettava appoggiato al muro.

“Beh, il tuo cavaliere è già qui…”

Joan aprì la bocca, ma poi si rese conto di non aver nulla da dire e la richiuse, abbassando lo sguardo.

Aspettò che Cult parcheggiasse ed uscì dalla macchina velocemente, andando incontro a Huck, che la aspettava sorridente.

“Ciao, come stai?” Le chiese schioccandole un bacio sulle labbra.

“Bene…” Disse lei imbarazzata per la presenza di Cult a pochi passi da loro.

“Ciao Cult, come va?”

“Alla grande”. Beh, se non altro, adesso rispondeva alle domande di Huck con delle vere e proprie frasi e non con cenni e mugolii.

“E Duck? Joan mi ha detto che è stato dimesso oggi”.

“Sta benone anche lui… Beh ora devo andare!”

Passò accanto a Joan e si fermò ad un palmo dal suo naso. “E comunque, tu sei il genere di persona su cui io punterei tutto!”

Sparì talmente in fretta che Joan non ebbe neanche il tempo di rendersi conto di quello che Cult le aveva detto.

Fu la voce di Huck a farla riprendere. “Cos’era quello?”

“Quello cosa?”

Huck la guardò alzando un sopracciglio. “Quella frase, e soprattutto perché te l’ha detta a un centimetro dalla faccia?!”

Era geloso? “Ma non era nulla… Dai, è Cult, lo sai che è strano...”

Huck, però, non sembrava per niente convinto e Joan lo notò.

“Dai, non sarai mica geloso… Di Cult, poi?!” Si sforzò di ridere e sorridere  mentre lo abbracciava, forse cercando di convincere più sé stessa che Huck con quelle parole.

 
“Cosa ci fai ancora così?” Alison era decisamente spazientita, ma Joan non ne capiva il motivo.

Si guardò. Effettivamente la sua tuta non era esattamente elegante…

“Beh non pensavo che per guardare la tv servisse l’abito lungo!”

Alison spalancò gli occhi. “No, ma dico, ti sei dimenticata che oggi c’è la festa per il compleanno di  Cult?”

Joan, stupita, sgranò gli occhi a sua volta. “E io come avrei fatto a saperlo, scusa?!”

“Ma smettila, te l’ho detto sicuramente…” Fece una finta faccia convinta non essendo, effettivamente, convinta di aver detto a Joan di quell’avvenimento.

“Guarda che ti sbagli!”

Alison agitò una mano davanti agli occhi di Joan. “Oh, beh, pazienza. Ora lo sai!”

“Sì…ma non credo sia una buona idea, dai Ali, non mi va!”

“Stammi a sentire Joan”. Disse facendosi seria e minacciosa. “Ora ti metterai qualcosa di decente e verrai di la, ci siamo capite?!”

Joan, vagamente spaventata dal suo tono, indietreggiò annuendo, mentre Alison, soddisfatta e con un gran sorriso sulle labbra, si voltava per andare nell’appartamento di Cult.

Joan si presentò dall’altra parte del pianerottolo una decina di minuti dopo, con una bottiglia di vino in mano. Bussò, incerta, un paio di volte e ad aprirle fu Austin, le cui labbra si aprirono in un grande sorriso.

“Joan!” I suoi occhi luccicavano dalla gioia.

“Ciao, gnomo, come stai?!”

Lui nemmeno rispose, la trascinò in casa per farle vedere i suoi disegni.

“Steve dove ha messo quelle birre…” Cult entrò nel salottino guardandosi in giro, fino a quando non vide Joan.

Sembrava stupito.

Joan si alzò da terra, con grande disappunto di Austin, e allungò a Cult la bottiglia. “Auguri!”  Disse sorridendo forzatamente, sentendo gli sguardi di Steve e Alison addosso.

“Grazie”. Lui prese la bottiglia, guardandola. “Però, roba di classe!”

“Sì, beh… Se avessi saputo che era il tuo compleanno ti avrei comprato qualcosa, ma quella era l’unica cosa che avevo in casa…”

Cult rise, appoggiando la bottiglia sul tavolo.

Proprio in quel momento qualcuno bussò nuovamente. Si sentivano delle risate provenire da dietro la porta.

Era Duck, che ormai camminava agilmente con le stampelle. Purtroppo, però, non era solo: con lui c’era Melody, l’adorabile Melody, accompagnata da un’altra ragazza, una morettina non molto alta che cercava di stare in bilico su dei tacchi troppo sottili e troppo alti per lei.

“Oh, ci sei anche tu…” Disse con aria di sufficienza Melody non appena scorse Joan.

“Melody, è un piacere rivederti”. Sì, certo, come no!

“Angie, lei è la strizzacervelli di cui ti parlavo…O forse non è più il caso che ti chiami così… Ora non fai mica la cameriera?”

Joan si sforzò di sorridere, senza dar peso alle sue parole. “Ciao, sono Joan”.

Angie, però, aveva la stessa vena simpatica di Melody, infatti guardò strafottente la mano di Joan, senza stringerla, e si diresse al divano, dove si sedette quasi in braccio a Duck.

Joan tornò a sedersi per terra con Austin, che era più che felice, mentre Alison la guardò dispiaciuta mimando un ‘mi dispiace’.

Dalla sua posizione poteva vedere benissimo Cult, che si era seduto in poltrona e chiacchierava con Steve e Duck, il quale si destreggiava tra lui e Angie.

Era rilassato. Stringeva una birra in una mano e una sigaretta tra le dita dell’altra. Indossava una maglia grigia, che faceva risaltare i muscoli eleganti delle braccia. La barba era di media lunghezza, proprio come piaceva a Joan e gli occhi sembravano più chiari del solito.

Era bello, lo era sempre stato e lei non lo poteva negare, così come non poteva negare la sottile vena di gelosia che l’attraversò quando Melody andò a sedersi sul bracciolo della sua poltrona. Gli accarezzava i capelli e sogghignava a qualsiasi cosa lui dicesse, gettando la testa indietro così violentemente che Joan temeva le si sarebbe spezzato il collo.

Cercava di concentrarsi su Austin che le mostrava tutti i disegni e la invitava a disegnare dinosauri con li, ma con la coda dell’occhio continuava a guardare loro due. 
E la cosa che più le dava fastidio non erano le carezze di Melody o il fatto che Cult la lasciasse fare, ma il fatto stesso che quella situazione le desse fastidio. Non era mai stata particolarmente gelosa di nessuno e il fatto che lo fosse di un uomo che non era nemmeno il suo fidanzato la infastidiva terribilmente.

“Beh, siccome Joan ha deciso di alzare il livello dei festeggiamenti con quest’ottima bottiglia di vino, direi di fare un brindisi al festeggiato”. Disse Steve ad un certo punto e facendo per alzarsi per andare ad aprire la bottiglia.

Joan, però, lo fermò. “Aspetta, ci penso io se mi dici dov’è il cavatappi”. Voleva uscire da quella stanza, almeno per qualche minuto; doveva riprendere fiato.

Cult lo precedette nella risposta. “Secondo cassetto vicino al frigorifero”.

Joan lasciò la stanza frugò nel secondo cassetto, non individuando però il cavatappi. Passò allora ad ispezionare il primo cassetto, non trovando ciò che cercava, ma trovando qualcosa di più interessante.

In fondo al cassetto, in un angolo, c’era una catenina d’oro visibilmente rotta con un ciondolo appeso. Lo avvicinò al viso per esaminarlo meglio.

Proprio in quel momento entrò Cult nella cucina. “Ecco perché ci stavi mettendo così tanto!”

Joan sussultò, abbassando il braccio e stringendo la catenina. “No, scusa, non stavo ficcanasando! E’ che nel secondo cassetto il cavatappi non c’era e quindi l’ho cercato nel primo, ma non c’era nemmeno lì, però ho trovato questa,” alzò la mano, mostrando la catenina, “e la stavo solo guardando per capire cosa raffigurasse…” Abbassò lo sguardo, imbarazzata. “Scusa…”

Cult si avvicinò, frugando nel terzo cassetto e trovando il cavatappi. “E’ Sant’Anna, la protettrice delle madri…” Spiegò mentre apriva la bottiglia. “Anna era la madre di Maria, lo sapevi?”

Joan scosse la testa, senza guardarlo, ma osservando la medaglietta dorata.

“Era di mia madre”.

“Oh…” Joan si sentì incredibilmente stupida. Disse quell’ ‘oh’, come se solo in quel momento si fosse resa conto che anche Cult, come tutti, aveva dei genitori. “E lei dov’è?”

“E’ morta”. Rispose lui asciutto, senza togliere gli occhi dalla bottiglia.

Fu lei ad alzarli per prima.

‘Brava Joan, di bene in meglio’, pensò.

La ragazza si schiarì la voce. “Scusa…” Sussurrò mortificata.

Cult, intuendo il suo imbarazzo, le sorrise. “Tranquilla, è successo una vita fa…”

“Quella è l’unico regalo che quello stronzo di mio padre le abbia mai fatto…” Continuò amaramente, sputando quelle parole.

Joan si appoggiò al mobile, continuando a guardarlo negli occhi. “Non avete un buon rapporto?”

Lui scosse la testa. “Abbiamo smesso di avere un buon rapporto quando ha iniziato a mettere le mani addosso a mia madre…”

Joan, sconvolta e dispiaciuta, gli mise una mano sulla spalla. “Mi dispiace tanto, Cult, io non volevo essere invadente…”

Lui le sorrise amaramente, sfiorandole appena il viso col dorso delle dita. “Tranquilla, va tutto bene!” Sospirò. “Ora però torniamo di là…”

Uscì dalla stanza e Joan lo seguì subito dopo aver rimesso al suo posto la catenina.

Dopo qualche ora la situazione sembrava tornata quella dell’inizio del pomeriggio: Joan che dava retta ad Austin e chiacchierava con Alison e Steve, Duck e Angie che sembravano incapaci di staccarsi per prendere fiato e Melody che si strusciava su Cult.

Joan continuava a buttare l’occhio su di loro di tanto in tanto e ad un certo punto Melody se ne accorse.

“C’è qualche problema?” Chiese rivolta a Joan, la quale la guardò come se non sapesse di cosa stava parlando. “Sì sto parlando con te, non fare la santarellina come tuo solito!”

Joan sospirò sonoramente. “Guarda che non so a cosa tu ti riferisca…”

“Oh, ma davvero?! Non fare la finta tonta, è da quando sono arrivata che mi guardi male!”

“Ti sbagli, non vedo perché dovrei guardarti male…”

Melody si era alzata e la sua faccia non preannunciava niente di buono. Duck, aiutato da Angie, era uscito di casa, fingendo di aver male al fianco. Alison era preoccupata. Aveva visto Melody brilla e arrabbiata prima di quel giorno e la situazione non era finita bene.

Austin, addormentato sul divano, si era svegliato e Steve insistette per accompagnare lui e Alison a casa. Quest’ultima, però, non era d’accordo, perché era preoccupata per Joan e non voleva lasciarla da sola. Steve, però, la rassicurò ricordandole la presenza di Cult.

Lui non avrebbe mai permesso che Melody facesse qualcosa a Joan. Alison, alla fine, si lasciò convincere e salutò Joan con un abbraccio, sussurrandole di andarsene al più presto.

Non appena la porta si chiuse, Joan si alzò. “Beh, meglio che vada anche io, sono sicura che preferite restare soli”.

Fece per andarsene ma Melody glielo impedì, avvicinandosi pericolosamente, ridendo. “Allora è questo il tuo problema…” Si voltò verso Cult, indicando Joan. “La figa di legno è gelosa”.

Joan alzò un sopracciglio. Non sopportava quella situazione, voleva fare la diplomatica, come era solita fare, ed evitare discussioni, ma Melody era alla ricerca dello scontro e per quando Joan lo volesse evitare, ormai era piuttosto difficile resistere alla suo provocazioni.

“Sei ubriaca. Siediti, calmati e poi ti porto a casa”. Fu Cult ad intervenire, proprio mentre Joan stava per risponderle a tono.

Melody, però, non lo ascoltò. “Tanto lui non ci starà mai, a lui le fighe di legno non piacciono!”

Joan, nuovamente, non rispose a questa provocazione.

“Ma come, solo qualche mese fa rispondevi a tono e ora te ne stai zitta… Sei passata dalle stelle alle stalle e non fai più la saputella sul piedistallo, eh? Non ti credi più migliore di me!”

Joan non riuscì più a trattenersi. “Sai qual è la differenza tra me e te, Melody?! Io sono consapevole di chi sono. Che faccia la psicologa o la cameriera, io so quanto valgo. Tu, invece, rimani un’ignorante ragazzina capricciosa e insicura che sa solo usare il proprio corpo per attirare l’attenzione e questo magari ti spinge anche a credere che gli altri ti apprezzino realmente, ma la verità è che sei solo ridicola!”

Melody, infuriata, fu davanti a Joan in un paio di lunghe falcate, nonostante i tacchi alti. Sovrastava la ragazza di diversi centimetri, ma questo non intimorì Joan, la quale continuò a guardarla negli occhi, ma si rese conto che Melody era terribilmente ubriaca e , probabilmente, non rispondeva delle sue azioni. O meglio, era sicura che quelle cose le pensasse veramente, ma era altrettanto certa che, se fosse stata sobria, sarebbe stata in grado di darsi un contegno.

Cult osservava la scena, pronto a intervenire in caso di bisogno, ma sapeva benissimo che Joan si sapeva difendere e una parte di lui voleva vedere fino a dove si sarebbe spinta quella ragazzina.

“Ma come ti permetti? Chi cazzo pensi di essere?!” Melody urlava a pochi centimetri dalla faccia di Joan che fece un passo indietro.

Guardò Cult. “Credo sia meglio che tu riaccompagni a casa Melody”

La ragazza, infastidita dall’atteggiamento di Melody, tentò di ribellarsi, ma trovò Cult alla sua destra che cercava di condurla verso la porta. Anche Joan uscì, senza salutare Cult.
 

Il giorno dopo Cult rientrò solo nel pomeriggio. Joan aveva aspettato tutto il giorno che rientrasse. Era corsa alla porta ogni volta che sentiva un rumore, sperando che fosse il ragazzo e si era quasi rassegnata.

Uscì proprio mentre Cult stava aprendo la porta di casa sua.

“Ciao!”

Il ragazzo si voltò facendole un cenno ed entrando in casa. Non la invitò ad entrare, non la salutò nemmeno, semplicemente lasciò la porta aperta e si accese una sigaretta.

“Ehm… Posso entrare?”

Di nuovo lui si limitò ad un cenno, senza proferire parola, aspirando e soffiando fuori fumo.

“Sei tornato tardi…” Disse, cercando di smorzare l’imbarazzo che provava. Aveva notato che indossava la stessa maglia grigia del giorno precedente. Nella sua mente si fece spazio l’immagine di lui e Melody, avvinghiati. La scacciò, concentrandosi sui lenti movimenti del suo interlocutore.

‘Magari ora ti dice che è stato da Steve, o da Duck, o semplicemente in giro’ Pensò.

“Sì, ero da Melody”.

“Oh…” Di nuovo quella vena di gelosia la colse impreparata. Si sentì stupida e fuori posto. Voleva scappare e nascondersi.

“Sì, beh, lei era abbastanza agitata”. Si sedette in poltrona, senza smettere di guardare Joan che, invece, aveva abbassato lo sguardo. “Non credi di avere un po’ esagerato?”

A quelle parole Joan sembrò svegliarsi. Col cavolo che se ne sarebbe andata, lo avrebbe insultato pesantemente!

“Coma, scusa?!” Disse stizzita, mentre Cult rimaneva calmo con la sigaretta stretta fra indice e medio. “Dimmi che ho sentito male!”

Lui scosse la testa, aspettando una sua reazione. Sembrava estremamente prevedibile, eppure era così imprevedibile da lasciarlo ogni volta senza fiato.

“E’ stata lei ad iniziare. Lei mi ha insultato non appena ha messo piede in questa stanza!” Gesticolava, come sempre quand’era nervosa. “Io ho cercato di trattenermi, di non rispondere alla sue provocazioni e lei…”

Cult la fermò, non dandole tempo di terminare la frase. “Lei è un’impulsiva che fa andare la bocca senza pensare, da te… Sì, da te mi aspettavo qualcosa di più che una pessima analisi psicologica usata per insultare”.

Joan si sentì ferita. Arrabbiata e ferita. Sapeva che lui e Melody si conoscevano da anni e non pretendeva che la difendesse, sapeva cavarsela da sola, ma sperava che almeno fosse obiettivo nel giudicare la situazione. E invece no.

Da qualunque parte la si guardasse lei era la cattiva della situazione.

“E certo, perché io sono quella buona, quella che fa favori, che è sempre disponibile, che fa la babysitter, l’infermiera, l’amicona…” Gli sputò quelle parole dritto in faccia. “Beh, sappi che mi sono stufata del tuo atteggiamento e anche di quella stronza della tua fidanzatina. Anzi, quando la vedi dille pure che la figa di legno preferisce non discutere, ma quando lo fa non va tanto per il sottile e quello di ieri non era niente!”

Si voltò per andarsene, ma poi l’oggetto nella sua mano destra le ricordò il motivo per cui era andata lì.

“Ah, questo è per te”. Disse lanciandogli la scatolina che lui prese al volo. “Tanti auguri!” Disse sarcasticamente uscendo da quella casa sbattendo la porta.

Sbattè anche quella di casa sua. Era talmente arrabbiata che ormai non sentiva neanche più la delusione, delusione che sarebbe riemersa più tardi, una volta svanita la rabbia, e che l’avrebbe fatta piangere dal nervoso.

Andò in cucina per versarsi un bicchiere d’acqua, ma proprio mentre stava per prendere il bicchiere, qualcuno bussò alla sua porta. C’era solo una persona che bussava in quel modo.

Decise di ignorarlo, versandosi l’acqua. La porta veniva, nel frattempo, massacrata e Joan temette per un attimo che potesse rompersi.

“Ragazzina apri o butto giù la porta”.

Il problema era semplice: loro erano rabbia e delusione, erano un vortice doloroso.

Erano guerra.

E non potevano essere niente di diverso. Ma, nonostante tutto, erano perfetti nel litigio, nella guerra, erano perfetti negli scambi di battute, quasi avessero un copione ed erano perfetti negli sguardi, che sembravano in grado di intercettarsi ed agganciarsi.

Erano guerra anche quando non litigavano.
 
Buongiorno!
Oddio, ma quante ne succedono in questo capitolo?! Beh, c'è tanta carne al fuoco...
Questo e il prossimo capitolo rappresentano un po' un punto di svolta, se sia positivo o negativo lo lascio decidere a voi!
A presto!


 

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Capitolo 21
*** Capitolo XXI ***


21.
"That's me in the corner
That's me in the spotlight
Losing my religion
Trying to keep up with you
And I don't know if I can do it
Oh no I've said too much
I haven't said enough"


 

“Cosa vuoi?” Aprì la porta quel tanto che bastava per vedere chi era, ma si rifiutò di aprirla completamente. Voleva che fosse chiara la sua rabbia e soprattutto voleva fosse chiaro che lei non lo voleva lì.

Le mise la scatolina davanti agli occhi.

Joan non avrebbe fatto il primo passo, non quella volta. Si limitò ad alzare le spalle, noncurante.

“Perché?”

“Perché cosa?”

“Perché questo!” Mosse l’oggetto davanti al suo naso.

“Beh era il tuo compleanno, no?!”

Cult abbassò lo sguardo, per la prima volta Joan ebbe l’impressione che si stesse arrendendo. Estrasse il contenuto dalla piccola scatola. Fece penzolare la catenina d’oro, sottile e luccicante dalle dita.

“Non avresti dovuto”.

“Ormai l’ho fatto”. Si schiarì la voce, improvvisamente priva della forza che sentiva di avere solo pochi attimi prima. “E poi il tuo ciondolo è così bello… E’ un peccato
che tu non lo possa indossare per colpa di una catenina rotta”.

Cult alzò finalmente lo sguardo. Con una manata aprì la porta e subito dopo afferrò la sua vita, stringendola a sé.

Joan, scioccata, tentò di indietreggiare, ma la presa del ragazzo era troppo ferma sul suo fianco destro.

Le loro fronti si sfioravano, i loro respiri si incontrarono, spezzati e caldi.

“Mi dispiace”. Sussurrò lui, gli occhi improvvisamente più scuri fissi in quelli caldi di lei.

Joan boccheggiò, non riuscendo ad emettere alcun suono. Non si sarebbe mai aspettata un atteggiamento del genere da lui.

Cult con un calcio secco chiuse la porta, senza staccarsi da lei. Appoggiò sul tavolino l’oggetto che teneva in mano e finalmente potè cingerle la vita con entrambe le mani. La spinse delicatamente contro il muro, appoggiando una delle mani alla parete, mentre l’altra rimaneva salda sul fianco.

Joan era interdetta, non sapeva come comportarsi, non sapeva cosa voleva, chi voleva.

La parte razionale del suo cervello, quella che ci teneva alla sua sanità, la spinse a pensare a Huck, che rappresentava la calma, la tranquillità; quella irrazionale, invece, le diceva di spegnere il cervello definitivamente e non pensare a nulla.

“Smettila di pensare, ragazzina”. Sussurrò Cult al suo orecchio, la voce roca e calma. Quando lei lo guardò stupita lui sogghignò. “Vedo le rotelline girare”.

Le sfiorò appena il viso, con una delicatezza che non pensava gli appartenesse.

“Io…” Iniziò lei, ma lui non le diede tempo di dire nulla, tappando la sua bocca con un bacio.

Fu meglio del primo, o forse no, forse era semplicemente più preparata. Era come se conoscesse bene quelle labbra, come se sapesse quale inclinazione fosse necessaria per incastrare la sua bocca a quella di lui.

Era caldo e umido. La sua lingua era morbida e si adeguò perfettamente a quella di lei.

Joan infilò una mano nei capelli, mentre l’altra era sul petto, all’altezza del cuore che pompava velocemente. Cult spostò la mano dal fianco alla schiena di Joan, oltrepassando la sottile maglietta e facendo sì che la ragazza fosse percorsa da mille brividi.

Con Huck non era successo: era stato dolce, sì, ma quei brividi, così forti, così decisi, lei li aveva provati solo con Cult e ormai non c’era motivo di negarlo.

Huck.

Un campanello d’allarme le si accese in quell’angolo razionale che era rimasto.

Si staccò da Cult che, perplesso, ritirò la mano, quasi fosse scottato. Le mai di lei erano ora entrambe sul petto di lui.

“Non posso, mi dispiace”. Era così difficile dire quelle parole. Si sentiva stupida e incoerente, ma era semplicemente confusa. Confusa dai mille segnali contrastanti di Cult e da quella nuova presenza nella sua vita, che sembrava aver portato tranquillità.

Cult indietreggiò impercettibilmente. “E’ per Huck? E’ perché state insieme?”

Joan, imbarazzata, scosse la testa. Cult, però, voleva capire. “E allora qual è il problema?”

La ragazza stette in silenzio, incapace di dar voce ai suoi pensieri.

“Joan…” La incitò lui.

Odiava quando la chiamava Joan. All’inizio odiava in fatto che la chiamasse ‘ragazzina’, ma ora era l’unico modo in cui voleva essere chiamata da lui.

“Io sono confusa…” Sussurrò. La voce era talmente bassa e impaurita che non le sembrò possibile fosse proprio la sua.

“Non capisco…” Cult, immobile davanti a lei, continuava a guardarla, mentre lei fissava il vuoto.

“Io… Tu mi piaci, Cult, davvero… M-ma non penso di farcela coi tuoi continui cambi di umore, di idea, io…” Prese un respiro, ormai a corto d’ossigeno. “Io non posso,
capisci?! Non posso fare questo”. Indicò il loro corpi, finalmente guardando il suo interlocutore negli occhi. “Non posso perché finirei con l’innamorarmi seriamente di te e non voglio soffrire, sono stanca di soffrire…”

Cult, sorpreso dalla crudezza e dalla verità di quelle parole, indietreggiò di un paio di passi. Ormai era vicino alla porta.

“Capisco… E Huck?”

“Huck non c’entra, Cult… Siamo io e te!” Spiegò con la voce che tremava. “Tu cosa provi per me? Cosa sono io per te?”

Cult non parlò, incapace di dar voce ai propri sentimenti, incapace di spiegare cosa provava perché nemmeno lui era in grado di etichettarlo.

Joan scacciò nervosamente una lacrima. “Ecco, appunto…” Sospirò. “Forse dovremmo semplicemente essere amici… Quando non litighiamo e ci aiutiamo a vicenda funzioniamo bene”.

Dì di no. Dì che non è questo che vuoi. Dì che sono pazza!

Lui annuì. Non era ciò che avrebbe voluto da lei, ma poteva accontentarsi. Lui non poteva darle ciò di cui lei aveva bisogno, quindi la soluzione proposta da Joan era la migliore.

“Mi sembra un’ottima idea”. Concluse con voce priva di ogni intonazione.

“Ottimo”. Disse Joan di rimando, trattenendo le lacrime a fatica. Prese la scatolina con la collanina e gliela porse.

Lui la prese, sorridendo malinconico e lasciò l’appartamento.

Solo in quel momento Joan si lasciò andare ad un pianto nervoso, seduta per terra e con la schiena appoggiata al muro.

 
“No ma dico, Cult, ti dispiacerebbe ascoltarmi?”

Cult, con lo sguardo perso oltre la finestra annuì, totalmente distratto.

“Ok, quindi arriviamo lì e facciamo lo scambio, poi scappiamo a Rio de Janeiro e apriamo un chiringito sulla spiaggia, poi magari possiamo anche preparare hamburger, oppure imparerò finalmente a giocare a calcio e diventerò pallone d’oro..”

“Ma che cazzo stai dicendo?!”

“Ah, finalmente sei tornato sul pianeta Terra!”

“Ci sono sempre stato!” Ribattè Cult versandosi del whiskey.

“Sì… Certo…” Steve gli si avvicinò circospetto e indagatore. “Tutto bene?”

Cult buttò giù il liquido ambrato in un solo grande sorso. “Certo, perché dovrebbe esserci qualche problema?!”

Steve alzò le spalle, continuando a osservarlo guardingo. “Ho parlato per almeno dieci minuti e sono sicuro che tu non stessi ascoltando, per cui mi piacerebbe sapere per quale motivo ho appena buttato dieci minuti della mia vita…”

Cult, col bicchiere di nuovo pieno e una sigaretta stretta fra indice e medio, si sedette, guardando l’amico dritto negli occhi. “Ero solo sovrappensiero, stavo pensando alla scambio di stasera, tutto qui!”

Steve non era per niente soddisfatto, conosceva Cult meglio di quanto lui conoscesse se stesso e aveva capito che c’era qualcosa che non andava.

“Come vuoi… Quando fai così non c’è verso di farti parlare, quindi non ci perdo neanche tempo. L’importante è che tu sia pronto per lo scambio di stasera, non voglio che qualcun altro finisca al pronto soccorso”.

Cult ghignò. “Non preoccuparti, stasera filerà tutto liscio. Dì a Bolton che andrà tutto come da piani”.

Steve guardò Cult, ormai senza speranze. “Il tizio si chiama Barton, non Bolton!”

Cult, noncurante, alzò le spalle. “E’ lo stesso, l’importante è che almeno lui paghi subito, non come l’altro a cui ho dovuto fare due visitine…”

“Ok. Ti passo a prendere io!” Steve uscì dall’appartamento, salutando l’amico con un cenno.

 
Cult era appena uscito dalla doccia quando qualcuno bussò alla sua porta. Si trovò inconsciamente a sperare che fosse Joan e questa speranza lo fece tentennare, prima di aprire la porta.

La persona che si trovò davanti, però, non era Joan.

“Melody cosa diavolo ci fai qui?!”

La ragazza si fece spazio nella stanza, senza togliere gli occhi dal petto nudo e bagnato del ragazzo.

“Beh…” Disse sensuale sedendosi sul bracciolo del divano e accavallando le gambe. “Sei stato così gentile a riaccompagnarmi a casa ieri e io non ti ho neanche ringraziato…”

“Prego!” Disse Cult sbrigativo, tenendo ben aperta la porta per farle capire che non era la benvenuta. “Ora scusa ma vado di fretta, devi andartene!”

Melody si rabbuiò. Scavallò le gambe e lo guardò imbronciata. “Ma come?! Io sono venuta fin qui apposta per te…”

“Beh hai fatto tanta strada per niente”. Concluse lui impassibile.

Melody si sentì ferita, non c’era più alcuna traccia di sensualità o spavalderia nel suo sguardo. Era delusa.

“Bene…Allora è proprio vero quello che ha detto Joan, mi rendo ridicola e basta!” Urlò. “Sempre a tornare da te con la coda tra le gambe e tu mai una volta che mi tratti bene!”

Era la prima volta che parlava di Joan usando il suo nome e non i soliti ‘figa di legno’ o ‘strizzacervelli’.

Cult si rese conto di essere stato, probabilmente, eccessivamente insensibile e quindi addolcì il tono: “Senti, Melody, forse sono stato un po’ brusco, ma ho davvero da
fare questa sera…”

“No, non è per stasera. E’ per tutte le volte in cui mi hai trattato di merda! Credi davvero che io non provi nulla?!” La voce si era abbassata drasticamente. “Ci conosciamo da una vita, mi piaci da quando avevamo dieci anni, ma evidentemente io non piaccio a te!”

“Ma no, non è questo è che…”

“E che non ti piaccio nel modo in cui tu piaci a me… Io per te sono solo una con cui divertirsi e fino ad ora ho pensato che potevo farmelo bastare ma non è così!”

Cult fece per parlare, ma lei lo bloccò alzando una mano. “Non voglio più accontentarmi, Cult… E se questo vuol dire dirti addio, allora…” Scacciò malamente una lacrima che, solitaria, si era avventurata sulla sua guancia. “Addio!”

Si alzò e a testa alta uscì dall’appartamento, senza voltarsi indietro. Cult gettò la testa all’indietro, sospirando sonoramente. Si voltò per chiudere la porta proprio nello stesso momento in cui Joan stava per uscire di casa per andare al lavoro.

I loro sguardi si incrociarono per un millesimo di secondo e questo bastò ad incatenarli per alcuni secondi. Joan non potè fare a meno di notare il ciondolo luccicare sulla pelle umida del petto di lui, mentre Cult si soffermò sul ciuffo che, ribelle, sfuggiva alla coda circondandole la guancia destra.

“Ciao”.

“Ciao”.

 
L’aria era afosa e l’umidità doveva essere almeno all’80%. Fortunatamente i treni della metro erano più freschi e il viaggio fu almeno vagamente confortevole.

Una volta al locale cercò Steve, ma non lo trovò da nessuna parte. Credendo che fosse stranamente in ritardo sistemò alcuni bicchieri in attesa dell’arrivo dei clienti. Qualche minuto dopo entrò nel locale Duck, ancora con le stampelle, ma che camminava decisamente meglio rispetto ai giorni precedenti.

“Ciao Duck! Se cerchi Steve non è ancora arrivato!”

“Lo so”. Rispose lui sorridente appoggiando le stampelle ala parete e andando dietro il bancone. “Questa sera è impegnato con Cult, ha preso il mio posto siccome sono ancora convalescente. Comunque lo sostituisco io, so che non vedevi l’ora di passare la notte con me”. Concluse ammiccando.

“Preferirei passarla non lavorando, ma non si può avere tutto dalla vita…” Disse lei alzando gli occhi al cielo.

Si voltò, recuperando un blocchetto per le ordinazioni e fece per metterselo nella tasca posteriore quando qualcosa o meglio, qualcuno, attirò la sua attenzione.

“Oh no…” Esclamò tra sé e sé quando si accorse che Melody le stava andando incontro. Si guardò in giro e notò la desolazione intorno a lei: Duck era sparito chissà dove, Caroline non era ancora arrivato e lei era sola con la sua peggiore nemica.
 
Buonsera!
Capitolo fresco fresco, non particolarmente lungo, ma che è un po' la continuazione e conclusione del precedente e che segna anche una sorta di svolta, capirete bene il perchè...
Spero di non aver deluso/fatto arrabbiare nessun sostenitore dei Joalt, che poi sarebbe il nome della ship Joan-Cult, che ho inventato io perchè creare ship va tanto di moda e volevo sentirmi al passo coi tempi! ;)
Prima di lasciarvi vorrei fare un appunto sulla frase iniziale perchè mai prima d'ora avevo trovato una frase che fosse così calzante per un capitolo: sembra che quelle parole siano proprio scritte per questo capitolo (seee, magari!) e hanno anche ispirato il dialogo tra Joan e Cult. Credo che la conoscano tutti perchè è un pezzo di storia della musica, ma in caso contrario si tratta di Losing my religion, dei REM. Ascoltatela se non la conoscete e riascoltatela se la conoscete già, perchè fa bene all'anima!
A presto!
xx

 

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Capitolo 22
*** Capitolo XXII ***


22.
 
"Beauty queen of only eighteen
she had some trouble with herself
He was always there to help her
she always belonged to someone else"


 
“Se stai cercando Cult mi spiace ma questa sera non c’è!” Disse secca concentrandosi sul blocchetto che teneva tra le mani, senza neanche guardare la sua interlocutrice.

“Lo so, stavo cercando te”

Questo sì che era curioso. Joan alzò lo sguardo, diffidente e rimase meravigliata quando notò che in Melody non c’era traccia di scherno o strafottenza. I trucco che le contornava gli occhi era sbavato e colato fino agli zigomi, alti e definiti.

“Oh…”

“Senti lo so che non mi sono comportata bene con te… Io… Sì, insomma, volevo chiederti scusa!”

Joan strabuzzò gli occhi, incredula. Quella donna non poteva essere la stessa che l’aveva insultata solo ventiquattro ore prima, non poteva essere la stessa che l’aveva odiata fin dal primo momento.

“Non capisco, ma grazie… Credo”. Affermò confusa, ancora poco convinta dalle parole di Melody.

“Pensavo che tu fossi una mia nemica, pensavo che volessi portarmelo via…” Abbassò lo sguardo, affranta.

“Io non…” Joan non sapeva cosa dire, era talmente esterrefatta da quelle parole che si trovava a subire passivamente quella situazione.

“La verità è che avevi ragione… Ho sempre usato il mio corpo per avere quello che volevo, perché mi è sempre bastato… Gli uomini che frequento io vedono una bella ragazza e non pensano che abbia un cervello, dei sentimenti, quindi non ho mai avuto bisogno di usarli…”

“Senti Melody, mi dispiace per quello che ho detto ieri, non mi sarei dovuta permettere…”

“E invece hai fatto bene, mi serviva qualcuno che mi spingesse ad aprire gli occhi, a farlo davvero, però!” Sospirò, passandosi le dita allungate sotto gli occhi e fissando il trucco colato che si era trasferito sui suoi polpastrelli. “Cult mi è sempre piaciuto, e mi sono autoconvinta che fosse colpa tua se lui mi considerava solo un passatempo, ma la verità è che il nemico non sei mai stato tu. Il nemico era lui!”

Non poteva credere a quelle parole, a quella resa. Quella donna non sembrava che una pallida copia della Melody che aveva conosciuto lei. Quella donna poteva quasi piacerle, anzi, poteva sicuramente piacerle.

“Senti, Joan, io non sono nessuno e non è che abbia fatto molto per starti simpatica, ma vorrei darti un consiglio siccome conosco Cult da tanto tempo: non aspettarti
niente da lui, non aspettarti una dichiarazione d’amore, rose rosse e cioccolatini perché lui non farà niente di tutto ciò. Lui non ne è capace, il suo percorso di autodistruzione è iniziato un bel pezzo fa…”

Joan la fermò. “No senti, hai frainteso… Tra me e Cult non c’è nulla!”

“Oh, ma ti prego! Ho visto il modo in cui lo guardi e soprattutto ho visto il modo in cui lui guarda te…Ma, come stavo dicendo, il suo percorso di autodistruzione è iniziato un bel pezzo fa e tu non puoi fare nulla per fermarlo, l’unica cosa che puoi fare è cercare di essere il più lontano possibile quando esploderà”.

Scioccata dalle parole di Melody, Joan si sentì le gambe molli.

“Io non capisco… Perché mi stai dicendo queste cose?!”

Melody sospirò, stringendo i manici della borsetta che teneva stretta davanti a sé. “Non lo so… Forse per scusarmi del mio comportamento, forse per vendicarmi di Cult o forse perché vorrei evitarti le sofferenze che ho provato io…”

Era vera. Joan aveva sempre giudicato Melody come una donna superficiale e finta e invece di rese conto che nessuno le aveva mai parlato così direttamente, nessuno era mai stato così vero in vita sua.

“Grazie, Melody!” Si limitò a dire, sorridendo.

La donna ricambiò quel sorriso, pronta ad andarsene. “Grazie a te! …E se mai ti venisse voglia di farti biondo platino sai dove trovarmi!”

Alison entrò nel locale, che nel frattempo aveva aperto, proprio in quel momento. Guardò Melody andar via, facendo una strana smorfia non appena l’ebbe superata. Si avvicinò a Joan, preoccupata, e le prese il viso fra le mani. Glielo girò a destra, poi a sinistra, poi ispezionò il corpo.

“Mmm… Nessun segno di lotta… Molto bene”. Era seria, ma quella frase suonava talmente ridicola che Joan scoppiò a ridere, infastidendo Alison.

“E ora che hai da ridere?! Un secondo fa sembrava che ti avessero ammazzato il gatto e ora ridi della mia preoccupazione”.

Joan, che un po’ si sentiva in colpa, le schioccò un bacio sulla guancia, promettendo che le avrebbe raccontato tutto quello che era successo in quella giornata assurda se avesse aspettato la sua prima pausa.

Dopo aver servito diversi clienti e pulito alcuni tavoli la ragazza poté finalmente prendersi una pausa, autorizzata da Duck che tra un cocktail da preparare e una birra spillata flirtava spudoratamente con tutte le clienti. Si sedette al tavolo di Alison, sospirando stanca, ma la donna non le diede tempo di riprendere fiato.

“Non sei qui per riposarti, racconta!” Ordinò con tono dittatoriale.

E così Joan le raccontò tutto nei minimi dettagli: del bacio di Cult, della discussione e delle parole di Melody.

“Oh. Cazzo!” Esordì Alison, buttando giù una buona sorsata di birra. “E io che mi lamento di avere giornate movimentate quando devo dividere due bambini che si picchiano al parco…”

Quella donna era semplicemente comica, guai a dirglielo, ma aveva una naturale vena comica che riusciva a far tornare di buonumore chiunque e ogni volta che le parlava capiva come Steve avesse fatto a innamorarsene.

“Sono così confusa!” Disse Joan in preda allo sconforto, sbuffando sonoramente.

Alison le appoggiò una mano sul braccio. “Lo so tesoro, ma hai fatto la cosa giusta! Non vuoi soffrire e se conosco Cult come credo rispetterà la tua decisione!”

“Perché se ho fatto la scelta giusta allora mi sento così da schifo?!”

“Semplicemente perché a te Cult piace e rinunciare a lui non sarà facile!”

Joan buttò la testa indietro, passandosi le mani nei capelli.

“E Huck? Cosa faccio con Huck?! Lui mi piace, è divertente e mi trasmette calma, ma non è come Cult, con Cult mi vengono i brividi anche solo con uno sguardo, mentre con Huck… Ah, con Huck non lo so!”

“Senti, Joan, prova a vedere come va! Magari scopri che anche Huck ti fa venire i brividi, oppure tra qualche settimana ti accorgerai che non è così e allora là fuori prima o poi troverai qualcuno che ti fa battere il cuore!”

Joan, ancora in preda allo sconforto non sembrava assolutamente rassicurata.

“Quando io e Steve ci siamo lasciati è stata dura, io lo amavo ancora e tanto, ma mi sono resa conto che volevo qualcosa di diverso per me e mio figlio, volevo stabilità e tranquillità che Steve non poteva darmi. Ho pianto, ho pianto così tanto che non avevo più lacrime, pensavo che non avrei amato più… Ma poi ho incontrato Blake e mi sono resa conto che mi sbagliavo: non avrei mai più amato come avevo amato Steve, ma questo non significava che non potevo amare diversamente”. Disse queste cose sorridendo, credendo fermamente nelle sue parole. “Amare Blake è amare la calma, la tranquillità, le domeniche al parco… L’amore è amore, ma possiamo amare tanto e in modo diverso… Forse Cult è l’amore della tua vita, come Steve era il mio, ma forse non è quello giusto”.

Allibita da tanta sincerità a apertura Joan si trovò a mandare via una lacrima che, silenziosa, si era posizionata all’angolo esterno del suo occhio.

“Grazie, Alison, di tutto! Di preoccuparti per la mia salute, di sostenermi… Di essere l’amica che non ho mai avuto”.

“Io ci sono, quando hai bisogno. Ora però devo tornare a casa dai miei uomini!” Disse controllando l’orologio e baciando la guancia di Joan prima di lasciare il locale.

 
Erano passati alcuni giorni e la situazione era tranquilla: Cult e Joan avevano mantenuto rapporti amichevoli, come si erano ripromessi e il loro ‘rapporto’, qualunque cosa fosse, sembrava finalmente pacifica.

Era ormai luglio inoltrato, il sole splendeva nel cielo fino a tarda sera e, nonostante afa e umidità fossero insopportabili, la città era bellissima. Era sabato e Joan era stata invitata da Alison ad una giornata al mare, ci sarebbero stati anche Blake e Austin, ovviamente, e Steve, Cult e Duck.

Joan dovette ammettere che l’idea di vedere Cult mezzo nudo non la dispiaceva per niente, ma fece di tutto per respingere quell’interesse.

Alison le aveva proposto di invitare anche Huck e, sebbene lei fosse particolarmente titubante in merito, decise di parlargli di quella giornata e lui accetto l’invito dicendo che li avrebbe raggiunti lì in tarda mattinata.

Anche la situazione con Huck sembrava tranquilla, si erano visti diverse volte, ma Joan insisteva ancora per non etichettare il loro rapporto.

“Allora?! Sbrigati!!” Alison, dittatoriale come sempre, urlava nel mezzo del salottino mentre Joan recuperava le ultime cose in camera.

“Arrivo, Ali, smettila di strillare come un’aquila!”

La donna sbuffò sonoramente, picchiettando col piede sul pavimento e ricevendo in tutta risposta un’occhiataccia da Joan.

“Eccomi, sono pronta”.

Aveva indossato una maglietta larga e dei pantaloncini, di quelli in finto effetto pizzo che teneva per situazioni come quella, e sotto un semplicissimo costume nero. Proprio nel momento in cui stava per chiudere la porta, con Alison impaziente alle spalle, Cult fece capolino sul pianerottolo.

“Oh, meno male ti sei sbrigato!” Disse Alison.

“Ma non la smetti mai di comportarti da Adolf Hitler dei nani?!” Rispose lui ghignando e tirandole un buffetto sulla testa, suscitando l’ira di Alison che gli tirò un pugno sul braccio.

“Tu accompagnerai Joan e stai attento, perché ti tengo d’occhio!” Disse imbronciata, gli occhi ridotti a due fessure.

Chiaramente non faceva paura a nessuno, anzi, faceva piuttosto ridere, sembrava uno di quei buffi cartoni animati giapponesi ed era adorabile.

Joan sapeva benissimo quanto lei e Cult si volessero bene, quindi si godette la scena ridacchiando, nonostante fosse abbastanza preoccupata per il viaggio in auto. Di cosa avrebbero parlato?! Dalla loro discussione non avevano più parlato, non veramente, almeno: si erano limitati a veloci scambi di battute sul pianerottolo o al lavoro, ma nulla di più.

Alison volò giù dalle scale raggiungendo l’auto con Blake al volante e Austin che dormiva sul seggiolino nel sedile posteriore. Joan, invece, seguì silenziosamente Cult che andava alla sua di auto, parcheggiata pochi metri oltre il portone.

Il viaggio non durò moltissimo, la strada era praticamente deserta grazie all’orario, ma sembrò durare molto di più a causa del silenzio imbarazzante che riempiva l’abitacolo. Gli unici rumori erano quello della radio e quello del motore.

Quando arrivarono trovarono ad aspettarli Steve e Duck che, essendo arrivati in moto, avevano guadagnato diversi minuti.

Duck, che ormai aveva abbandonato le stampelle, era già a petto nudo e fissava tutte le ragazze che passavano facendo loro i raggi x. La ferita era a quel punto solo una cicatrice rosata.

Joan dovette ammettere che aveva un fisico niente male, ma che fosse un bel ragazzo non lo aveva mai negato. Duck, non appena la vide, le corse incontro, sorridendo sornione.

“Sono sicuro che dopo avermi visto a petto nudo cadrai ai miei piedi!” Ammiccò.

Joan alzò gli occhi al cielo, ormai abituata a quel tipo di comportamento. “Duck per farmi cadere ai tuoi piedi dovresti smettere di voler spogliare ogni singolo essere umano di sesso femminile che vedi…”

Duck, per niente abbattuto da quella frase, si allontanò urlando che l’avrebbe fatta ricredere.

Austin, Alison e Blake si erano già sistemati in un angolo vicino al bagnasciuga, ma leggermente isolato dalla zona più affollata della spiaggia. Steve e Cult parlottavano di chissà cosa mentre seguivano gli altri e Joan stava in fondo, inspirando a pieni polmoni l’aria salina e rigenerante.

Stese il suo asciugamano e non ebbe neanche il tempo di spogliarsi che subito Austin reclamò la sua attenzione: voleva che lo aiutasse a costruire un castello, uno enorme, per la precisione.

Nonostante sua madre avesse insistito affinché il bambino lasciasse in pace Joan, lui si era impuntato dicendo che avrebbe costruito il castello solo ed esclusivamente con lei. La ragazza, dal canto suo, era ben felice di non dover restare troppo vicino a Cult mezzo nudo e di poter posticipare il momento in cui si sarebbe spogliata, attirando le battutine di Duck.

Austin aveva sicuramente preso la vena da comandante d’esercito della madre, perché dirigeva i lavori come il migliore dei capocantieri e nella sua testa aveva un progetto tutto suo che probabilmente somigliava alla reggia di Versailles.

Era passata una buona mezz’ora e il castello era a buon punto quando Steve e Cult si avvicinarono al bagnasciuga, pronti a fare il bagno. Rimase sorpresa dal fisico asciutto e scolpito di Steve, che aveva sollevato Austin e stava per buttarlo in acqua, ma fu su quello di Cult che si soffermò: ogni volta si stupiva di come quelle forme potessero essere così armoniose e naturali. Fortunatamente indossava degli occhiali scuri ed evitò l’imbarazzo di essere sorpresa a fissargli gli addominali.

“Hai intenzione di rimanere bardata tutto il giorno, ragazzina?” Chiese col ghigno sulle labbra.

Joan si alzò, togliendosi la sabbia dalle gambe. “No, ero impegnata ai lavori di bassa manovalanza”. Chiarì seria indicando la torre che aveva fatto. Era storta, ma in fondo non era male.

Cult guardò il punto dove indicava lei e rise. “Meno male che non fai il muratore altrimenti le case crollerebbero alla prima folata di vento”.

Lei lo guardò imbronciata, voltandosi e dirigendosi all’asciugamano per spogliarsi. Si tolse i pantaloncini e la maglietta appoggiandoli, sovrappensiero, sulla borsa. Un fischio attirò la sua attenzione: Duck la stava squadrando dalla testa ai piedi, avvicinandosi.

“Lo sapevo che eri piena di sorprese”.

Joan, imbarazzata, abbassò lo sguardo. “Smettila di urlare, Duck, stai facendo girare tutti”.

“Sì, ma lei è tutta mia”. Urlò rivolto alle persone che gli stavano vicine. Poi le si avvicinò, circondandole le spalle con un braccio. “Andiamo a fare un bagno”. Disse allusivo.

Lei si defilò. “Mmm.. No, grazie! Penso che aspetterò un po’”.

Fece per allontanarsi, ma fu trascinata indietro da Duck che la prese in braccio.

“Duck lasciami!” Urlò lei, immaginando già che volesse lanciarla poco delicatamente in acqua. Duck, ridacchiando, continuò a correre verso il bagnasciuga. “Duck, lasciami o ti faccio tornare in ospedal…Aiuto!”

Quel grido fu soffocato dall’acqua, che le entrò prepotentemente in bocca. Riemerse alcuni secondi dopo, coi capelli appiccicati alla faccia e le risate di Duck e Cult che le arrivavano ovattate. Si passò le mani sugli occhi, che pizzicavano a causa dell’acqua salata e li guardò infuriata.

“Me la pagherete! Ah, se me la pagherete!” Urlò schizzando acqua nella loro direzione, senza scalfirli minimamente.

Duck, la sollevò di nuovo, pronto a gettarla un’altra volta in acqua. Joan fece affidamento su Steve, che non si sarebbe mai messo contro di lei. “Steve, amico mio, aiutami!” Gli urlò implorante.

Steve li guardò, guardò il figlio che rideva e propose di lanciare Austin, il quale si sarebbe divertito molto di più. Duck, però, non si fece convincere. “Non preoccuparti ometto, il prossimo sei tu, ma prima lanciamo la zia Joan”. Aveva una strana nota di sadismo nella voce che la fece preoccupare terribilmente.

Ormai non si ribellò neanche più. Incrociò le braccia e aspettò che il ragazzo la lanciasse. Finì sott’acqua, dove rimase alcuni secondi, fino a quando una mano non afferrò il suo polso per tirarla su.

Pensando che fosse Duck iniziò a dimenarsi insultandolo. A grande sorpresa, però, si accorse che non era lui ma Cult, che la teneva salda. “Ragazzina volevi morirci lì sotto? Ti sono spuntate le branchie?!”

 “Guarda che so nuotare!” Rispose lei liberandosi dalla sua presa. “Non vorrai dirmi che hai paura che mi succeda qualcosa?” Disse provocatrice.

Per la prima volta Cult rimase senza parole, col suo polso ancora tra le mani e senza quel sorrisetto fastidioso sulle labbra.

“Ora, se per favore vuoi lasciarmi, vorrei far una nuotata fino a là”. Disse indicando un punto non ben precisato. “Posso, oppure devi controllare che non ci siano squali
nelle vicinanze?”

Cosa le desse quella sicurezza non lo sapeva, ma tanto valeva sfruttare il momento…

Lui la lasciò andare e la guardò allontanarsi, per poi concentrarsi su Austin che pretendeva di essere lanciato anche da lui.

 
Joan si prese un po’ di tempo per stare da sola, fece qualche bracciata, tanto da allontanarsi dalla folla e rimase a galla, immobile per qualche minuto. Adorava farlo: l’acqua, che le copriva le orecchie, ovattava i suoni e il sole sembrava così vicino.

Tornò alla realtà solo quando un pallone atterrò vicino a lei, schizzandole il viso e decise di tornare a riva. Tornò indietro fino a pochi metri dal bagnasciuga, dove Austin stava ancora giocando con Cult, rimasto solo col bambino.

Aveva approfittato del fatto che Austin voleva rimanere ancora a giocare, ma in realtà voleva controllare che Joan non affogasse da qualche parte in mezzo all’oceano.

“Zia Joan, guarda come mi tuffo”. Disse il bambino tirando il braccio di Cult per farsi prendere in braccio. Il ragazzo lo fece e lo lanciò in aria, facendo attenzione che non rimanesse troppo tempo sott’acqua.

Il bambino, pochi secondi dopo riemerse, tutto felice, chiedendo com’era andato.

“Sei stato bravissimo, ora però usciamo, dai”. Gli porse la mano, che Austin prese tra la sua, piccola.

Joan si sedette sull’asciugamano, strizzando i capelli per togliere l’acqua in eccesso. I suoi occhi erano fissi sull’acqua, dalla quale emerse Cult, che attirò gli sguardi di mezza spiaggia. Lo guardavano le ragazze, ma anche le madri e persino le nonne.

Beh, a dire il vero, non guardarlo era difficile: tutto bagnato era una visione celestiale, sembrava un modello appena uscito da una pubblicità di un profumo. Quando lui si avvicinò Joan poté scorgere la cicatrice di quella ferita che li aveva fatti conoscere e si trovò a sorridere senza rendersene conto.

Huck, che era arrivato da poco, le si avvicinò alle spalle,coprendole gli occhi e facendola sussultare. Joan si voltò, sorridendo non appena vide di chi si trattava. “Ciao”.

“Ciao”. Rispose lui baciandola. “Come va?”

“Bene. Ho costruito una torre storta e sono stata buttata in acqua, ripetutamente”. Disse fingendo serietà.

“Mmm..ottimo, vedo che non ti sei annoiata”.

Si tolse la maglia, rivelando un fisico asciutto e tonico, certo, non paragonabile a quello di Cult, ma Huck si difendeva bene.

“Non ho l’asciugamano, che ne dici di ospitarmi sul tuo..” Disse sedendosi dietro di lei, baciandole il collo scoperto.

Le allungò anche un pacchetto, contenente un panino. “Ti ho anche portato il pranzo”.

“Sei proprio un angelo”. Disse scartando il pacchetto e iniziando a mangiare.

Cult prese un asciugamano, che ovviamente aveva portato l’organizzatissima Alison, e si sdraiò a mezzo metro da loro, imbarazzando Joan non poco.

“Ehi Cult, come va?”

“Bene, tu?” Chiese senza guardarlo negli occhi.

“Benone, grazie…”

Ottimo, bella conversazione.

“Ho saputo che era il tuo compleanno un paio di settimane fa… Auguri, anche se in ritardo!”

Se non altro Huck ci stava provando…

Cult, finalmente, alzò la testa, concentrandosi sul suo interlocutore. “Grazie”. Disse secco, alzandosi per tornare in acqua.

Ahia…C’era qualcosa che non andava…
 

Il pomeriggio trascorse tranquillo, Cult non tornò a sedersi vicino a Joan e Huck, e quest’ultimo andò via prima, chiedendo ad Alison se potevano accompagnare loro Joan.

Le schioccò un bacio sulle labbra promettendole che il giorno seguente sarebbe passato de lei. Quando venne sera si prepararono per andare via e Alison, dittatoriale come sempre, chiamò Cult a rapporto.

“Accompagni tu Joan?”

Lui fece solo un cenno, avviandosi verso l’auto senza aspettare nessuno.

Joan fece per raggiungerlo, ma Alison la bloccò. “Ferma lì! Che è successo?” Chiese come se stesse facendo il terzo grado a un terrorista.

Joan alzò le spalle. “Giuro che sta volta non ne ho idea! Stava parlando con Huck come se niente fosse e poi ha preso e se n’è andato, senza dire niente!”

Alison alzò gli occhi al cielo. “Chi lo capisce è bravo… Bah… Ora vai, altrimenti è capace che ti lascia qui!”

La ragazza annuì, si chinò per salutare Austin e, dopo aver salutato tutti, camminò a grandi falcate verso Cult, che la aspettava appoggiato all’auto, con gli occhi di alcune ragazze addosso.

Quando la vide avvicinarsi salì in macchina, mettendo in moto. Partì senza neanche dare il tempo a Joan di mettersi la cintura e guadagnandosi un’occhiataccia.

Il traffico era maggiore rispetto all’andata e Cult sembrava spazientito. Imprecava contro gli automobilisti anche quando non ce n’era motivo e Joan non capiva. Lo scrutava con la coda dell’occhio, nascosta dietro gli occhiali da sole. Stringeva il volante con la mano sinistra, mentre la destra rimaneva fissa sul cambio.

“Qual è il problema?” Chiese Joan ad un tratto, con voce flebile, ma che nel silenzio dell’abitacolo sembrò altissima.

Cult si voltò, inserendo la terza. “Le persone che non sanno guidare dovrebbero stare a casa…”

La ragazza annuì, togliendosi gli occhiali da sole. “Preferisci che faccia finta di credere che il problema sia questo, oppure mi dici qual è il reale problema?”

Colpito da quella schiettezza, la fissò per un istante, per poi tornare a concentrarsi sulla strada. Rimase in silenzio per un paio di minuti, durante i quali Joan rimase in attesa, senza distogliere lo sguardo.

“Hai raccontato a Huck solo del mio compleanno o anche di quello che è successo dopo?!”

Joan, stupita da quella domanda, rimase senza parole per un periodo indefinito di tempo. Balbettò, poi finalmente, riuscì a ritrovare la parola. “Come scusa?”

“Ma sì, siccome gli racconti tutto, mi chiedevo se gli avessi detto davvero tutto..”

Era cattivo, forse non era sua intenzione esserlo, ma la sua voce tradiva risentimento.

Joan, però, non era in vena di litigi. “Perché devi sempre fare così?” Sussurrò. “Gli ho semplicemente detto che era il tuo compleanno perché mi ha chiesto cosa avessi fatto quel giorno. E no, non gli ho detto ‘anche quello che è successo dopo’, perché è una cosa tra te e me e non c’entra nessun altro!”

Non c’entra nessun altro.

“Sai… se non ti conoscessi direi che sei geloso…” Azzardò lei.

Cult continuò a guardare la strada, ma sentiva benissimo le sue parole e Joan lo sapeva, perché ormai lo conosceva davvero bene.

“Hai ragione, ho esagerato. Me la prendo per delle stronzate, ma non preoccuparti, abbiamo fatto un patto e ho intenzione di mantenerlo”.

Sembrava sincero, eppure c’era qualcosa che non la convinceva.

Un patto.
 
Salve!
Domani finiscono le mie vacanze e torno alla routine, quindi ho pensato di festeggiare con un bel capitolo! La prima parte chiude un po' il 'cerchio' con i due capitoli precedenti, mentre la seconda l'ho scritta perchè sti poveracci tra tresche, lavori loschi e coltellate non hanno mai un attimo di riposo e quindi perchè non una bella giornata al mare?! ;)
Come sempre mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate quindi, se vi va, lasciate un commento :)
A presto!

 

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Capitolo 23
*** Capitolo XXIII ***


23.
 

"I nostri genitori ci amano perché siamo i loro figli, e questo è un fatto inalterabile,
di modo che noi ci sentiamo più sicuri con loro che con chiunque altro.
Nei momenti felici ciò può sembrare poco importante,
ma nei momenti tristi questo affetto offre una consolazione e una sicurezza che non si trovano altrove."
 


“Sì mamma, sì, te l’ho detto!” Joan allontanò il telefono dall’orecchio, sbuffando.

“Non sbuffare Joan”. La rimproverò la madre dall’altro capo del telefono. “Se non ti fa piacere vedere me e tuo padre dopo tutti questi mesi basta dirlo…”

Far leva sul suo senso di colpa era l’arma preferita da quella donna.

“Ma no, mamma, mi fa piacere vedervi, non vedo l’ora!”

I suoi genitori sarebbero arrivati il giorno seguente e si sarebbero trattenuti per un paio di giorni prima di andare in Florida.

“Sì, ok, vi aspetto qui allora!”

Il giorno seguente svegliarsi presto fu un’impresa: la notte prima aveva avuto il turno al locale e aveva dormito solo quattro ore. Era distrutta, ma doveva uscire per fare la spesa e doveva preparare qualcosa per quella sera.

I suoi genitori sarebbero arrivati nel tardo pomeriggio e lei voleva fargli trovare qualcosa di buono per cena.

Aveva chiesto a Steve due serate libere, promettendo di lavorare nelle serate libere delle due settimane successive.

Preparò della pasta al forno e ebbe anche il tempo di fare una torta, quella alle mele, che era la preferita di suo padre.

Alle 18 arrivarono i suoi genitori privi delle valige, che avevano lasciato in hotel, ma con le mani cariche di sacchetti contenti pasticcini e un pacchetto da parte della nonna di Joan che conteneva nell’ordine: una sciarpa, un maglione in lana, uno in cotone e una coperta.

Joan sorrise di quella premura, abbracciando stretta il padre e la madre. “Com’è andato il volo?”

“Poteva andare meglio!” Disse la madre, nota per non esser mai contenta di nulla. Il padre sorrise bonariamente alla figlia, che alzò gli occhi per la frase della madre.
Erano ancora sull’uscio quando uscì Cult dal suo appartamento. La sua attenzione fu attirata sulle tre figure dall’altra parte del pianerottolo.

“Buonasera!” Salutò, voltandosi per chiudere la porta.

“Ciao!” Disse Joan, rivolgendosi poi ai genitori. “Ehm… Lui è Cult, il mio vicino di casa!”

Il ragazzo si avvicinò allungando la mano verso il padre di Joan, che la strinse sorridendo. “Che nome interessante. Io sono Paul!”

Cult poi si rivolse alla madre, sorridendo sornione. La madre di Joan sorrise a sua volta. “Ho sentito parlare di lei…” Disse stringendogli la mano. “Sono Eleonore, è un piacere conoscere finalmente un amico di mia figlia”.

Joan abbassò lo sguardo imbarazzata, proprio mentre Cult le lanciò un’occhiata di traverso.

“Senta ma perché non si ferma a cena con noi, Joan ci stava giusto dicendo che ha preparato la pasta al forno e la torta di mele”.

Joan quasi soffocò. “M-mamma, sono sicura che Cult abbia altri impegni”.

“A dire il vero no…”

“Ottimo, allora entriamo”. Disse il padre.

L’ultima ad entrare fu Joan, ancora sconvolta. Mentre i suoi genitori erano in salotto lei, cono una scusa, chiese a Cult di seguirla in cucina.

“Senti… Mi devi fare un favore!”

“Cosa mi dai in cambio?!” Chiese allusivo ammiccando.

Lei gli lanciò un guanto da forno. “Sono seria!” Controllò che i genitori fossero ancora in salotto. “Sì, ecco…I miei non sanno che ora faccio la cameriera, anzi, non sanno nemmeno che non faccio più la psicologa, quindi se tu potessi essere così gentile da non dirglielo io te ne sarei molto grata…”

“Mmm..” Disse lui, rubando un maccherone dalla teglia. “E perché non glielo hai detto?”

Prese Joan in contropiede. “Beh…Non c’è stata occasione”.

“Sono mesi ormai che lavori al Morning Glory e vuoi farmi credere che non c’è mai stata occasione per dirglielo”.

Ok, effettivamente lei non ci aveva neanche provato a trovare il momento giusto per lanciare quella bomba…

“Va bene, non ho avuto il coraggio. Ci ho provato, giuro!”. Disse mettendosi una mano sul petto. “Ma non ce l’ho fatta. Tu non conosci mia madre, è capace di farne una tragedia!”

“Tesoro manca molto?!” La donna in questione sbucò in cucina, annusando l’aria. “Oh, c’è pronto, ottimo! Caro vieni, c’è pronto”.

Joan iniziò a servire e la serata trascorse tranquilla, senza che nessuno accennasse al suo lavoro, il che era una grande vittoria..

“Ah, Joan, a proposito. Ho incontrato Clark, mi ha detto che è tornato a New York, come mai non ce l’hai detto?”

Il padre si riferiva a Clark Dempsey, lo psicologo che aveva lasciato il suo studio a Joan quando era arrivata a New York, salvo poi tornare e lasciarla senza lavoro.

“Ehm… Pensavo di averlo fatto”.

“Mi ha detto che gli dispiace non averti potuto aiutare a  trovare un altro lavoro… Non ci hai detto nemmeno questo!”

“Ehm…” Non sapeva come uscirne. Era nella merda fino al collo e stava lentamente sprofondando.

“Joan, questa torta è davvero buona! Devi assolutamente farla per il compleanno di Steve!” Il compleanno di Steve era in marzo, quindi mancava ancora una vita ma non sapeva cos’altro dire per distogliere l’attenzione da quell’argomento.

“Sì, la farò sicuramente”. Rispose Joan, grata a Cult per aver cercato di distrarre il padre, ma sicura che quel tentativo non sarebbe bastato.

“Hai trovato lavoro in un altro studio? E in poco tempo…” Disse la madre.

Joan scosse la testa, arrendendosi al fatto che avrebbe dovuto vuotare il sacco. “No, mamma, non ho trovato lavoro in un altro studio…”

“E dove allora?” Chiese il padre, mangiando un altro boccone di torta.

Joan cercò lo sguardo di Cult, che era già su di lei, dispiaciuto. “In un locale di un amico…” Sussurrò.

“Non capisco…” Disse la madre guardando il marito, che invece aveva capito benissimo.

Joan prese coraggio. “Faccio la cameriera in un locale”.

“Come, prego?” Chiese la madre allibita.

“Hai capito bene, faccio la cameriera in un locale! Porto birre, cocktail…”

“Dimmi che è una di quelle tue strane battute che non fanno ridere nessuno, Joan!”

Lei scosse la testa. “Mi dispiace…”

“E da quanto va avanti questa assurdità?”

“Da qualche mese”.

“Qualche mese? Qualche… Oddio, non posso crederci!” Si rivolse poi al marito. “E tu non dici niente? Tua figlia ti dice che fa la cameriera e tu non dici niente?!”

Il padre era serafico, come sempre, ma il suo sguardo tradiva delusione. “Lasciala parlare, tesoro, lascia che Joan ci spieghi”.

“Dempsey è tornato dal Giappone molto prima del previsto e io mi sono trovata senza lavoro, ho chiesto in giro, ovunque, ma nessuno assumeva una psicologa e…” Una lacrima le solcò il viso. “Non avevo altra scelta, è l’unico lavoro che ho trovato”.

“Ma perché non ce l’hai detto?” Chiese  il padre.

“Volevo farlo, ma ho avuto paura”.

“Di cosa?”

“Di deludervi… Volevo farcela da sola, volevo che foste fieri di me e invece…” Ormai stava piangendo. “Mi dispiace”. Abbassò lo sguardo.

“Forse questo ti farà capire che un aiuto ti serve…” Intervenne sua madre.

“Non tornerò a Washington, se è quello che stai suggerendo!” Disse alzando la voce. “La mia vita ora è qui, mamma, che ti piaccia o no e l’importante è che riesca a mantenermi…”

“No, Joan, l’importante non è che tu riesca a mantenerti, l’importante è che tu faccia il lavoro per cui tu hai studiato, per cui abbiamo pagato i tuoi studi!”

“Il fatto che ora faccia la cameriera non vuol dire che la mia laurea non vale più niente o che non tornerò a fare la psicologa, è solo una cosa temporanea…”

“Temporanea, certo…”

“Vedi perché non volevo dirvelo?!” Urlò rivolta al padre. “Qualsiasi cosa io faccia in questa maledettissima città non andrà mai bene per te, vero mamma? Tu mi vuoi a Washington, dove puoi controllarmi e dove tutto è già programmato! Io non voglio tornare a Washington, qui sto bene, finalmente, mi sento libera e sono felice. Non tornerei a Washington neanche se dovessi fare la cameriera per il resto della mia vita!”

Con le lacrime agli occhi si alzò e uscì di casa, sbattendo la porta dietro di sé.

La madre era allibita, il padre più che altro preoccupato e Cult, che fino a quel momento era rimasto immobile sulla sedia, in religioso silenzio, si alzò.

“Senta, io non sono nessuno, ma credo di conoscere sua figlia abbastanza bene ormai…” Disse rivolto a Eleonore. “L’unica ragione per cui non ve l’ha detto è perché aveva paura di deludervi e lei non si merita la vostra delusione”.

“Scusi ma non credo che conosca mia figlia meglio di come la conosco io”. La madre, spazientita, tamburellava sul tavolo.

“No, sicuramente no, ma io l’ho conosciuta in un momento difficile: si è trasferita in una città senza conoscere nessuno, ha perso il lavoro, ma invece che tornare a casa, sconfitta, si è rimboccata le maniche e se ne è cercata un altro. Forse non è un lavoro alla sua altezza, anzi sicuramente merita di meglio, ma merita anche la vostra ammirazione, perché in questi mesi ce l’ha fatta da sola, senza chiedere niente a nessuno!”

“Le sue parole solo lodevoli, ma ora, se non le dispiace, andrei a cercare mia figlia”. Disse la donna alzandosi.

“Aspetta!” Disse Paul, bloccando la moglie. “Forse è meglio se le lasciamo un po’ di spazio. Torniamo in albergo”.

La donna non sembrava per niente d’accordo, ma alla fine si lasciò convincere.

Prima di uscire il padre di Joan si rivolse a Cult. “Vai a cercarla per favore e dille che mi dispiace!”

Cult, in tutta risposta, annuì serio.
 

Joan camminava ormai da alcuni minuti. Uscire da sola a quell’ora, senza portarsi dietro nulla, era stata un’idea idiota, ma quella cucina era diventata troppo piccola.
L’aria calda le soffiava leggera sul viso e asciugava le lacrime che continuavano a scorrere sul viso. Alzò gli occhi, non sapeva bene dove fosse, nonostante abitasse a New York da diversi mesi, quella città rimaneva un mistero. Fuori dal portone aveva girato a destra, poi a sinistra… No! A destra, poi ancora a destra e poi a sinistra e poi… Poi era andata diritta e ora si trova va lì, in una strada che non conosceva, senza punti di riferimento e senza cellulare o soldi per un taxi.

Si sedette sul bordo del marciapiede, sconsolata. Le mancava giusto di essere aggredita: quella di che sarebbe stata un’ottima conclusione per quella giornata di merda. Guardava fisso un tombino a pochi passi da lei.

D’un tratto percepì qualcuno alle sue spalle. Per un attimo le si fermò il cuore.

“Guarda che ho fatto un corso di autodifesa!” Disse per niente minacciosa, voltandosi.

“Sei piena di sorprese, ragazzina!” Disse Cult ridacchiando.

“Ma sei impazzito?!?! Stavo per morire di paura!”

Il ragazzo continuò a ridacchiare.

“E comunque come hai fatto a trovarmi? Mi hai messo un gps?!”

“Non ti sei resa conto che sei a neanche cento metri dal nostro palazzo, vero?!” Chiese indicando alla sua destra.

“Ma no!” Disse lei convinta, alzandosi. “Sono andata dritta, poi a destra, poi a sinistra, no, prima sinistra, poi destra… Oh beh chissene frega!” Concluse tornando a sedersi.

“Tuo padre mi ha chiesto di venire a cercarti”.

Joan non disse nulla, incrociando le braccia e appoggiandole alle ginocchia. Cult prese posto al suo fianco, scrutandola.

“Come stai?”

“Benone!” Disse lei sarcastica. “Mia madre stava per avere un infarto e mio padre era deluso come mai prima d’ora… Grande serata, direi!”

“Erano solo scioccati, gli passerà presto!”

“Non so…” Disse lei sconsolata. “Sta volta l’ho fatta grossa”.

“Non sei più una bambina, hai avuto un problema e lo hai risolto come potevi, come un’adulta! Dovresti essere fiera di te e dovrebbero esserlo anche loro!” Ribattè lui serio. Il suo viso, nella penombra della notte, era ancora più bello, con gli occhi chiari che riflettevano la luce del lampione e la pelle, ormai leggermente ambrata che contrastava con quell’azzurro limpido.

“Ora andiamo a casa, avanti!”

Lei scosse la testa, convinta, tornando a fissare l’altro lato della strada.

“Guarda che i tuoi sono tornati in hotel, potrete chiarirvi domani… Con calma…” La rassicurò, restando però fermo dov’era, sicuro che anche con quelle parole lei non si sarebbe mossa.

“Possiamo restare qui ancora un po’?” Sussurrò appoggiando la testa sulla spalla di lui. “Solo cinque minuti”.

“Certo, tutto il tempo che vuoi”.

"Questo silenzio che determina il confine tra i miei dubbi e la realtà"


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