Blessures

di baby80
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Oblio ***
Capitolo 2: *** Cosa si prova ad essere vivi ***
Capitolo 3: *** Danza macabra ***
Capitolo 4: *** L'ultimo passo ***
Capitolo 5: *** Rue de la Lingerie ***
Capitolo 6: *** Cantaride ***
Capitolo 7: *** Maschere ***
Capitolo 8: *** Medusa e Perseo ***
Capitolo 9: *** Cicadidae ***
Capitolo 10: *** È infatti il cuore che rende eloquenti ***
Capitolo 11: *** 27 giugno 1789 ***
Capitolo 12: *** Le voile ***



Capitolo 1
*** Oblio ***


Apro gli occhi e ciò che vedo è un soffitto così basso che pare volermi schiacciare da un momento all'altro. Lascio che le palpebre accarezzino il mio sguardo confuso, quel tanto che serve a spazzar via la nebbia dello smarrimento, e quando riporto la percezione alle mie iridi è nuovamente li, quel soffitto opprimente, madido di quella umidità che posso odorare nell'aria.
Dove mi trovo? E' giorno o notte? E perché la testa mi duole dannatamente?
Porto i palmi delle mani sul viso alla ricerca di ricordi che non mi riesce di rammentare, ma tutto quello che ottengo è il godimento della mia fronte bollente, deliziata dalla frescura delle dita.
Respiro profondamente il puzzo che aleggia nella stanza, e quando non vi è più modo di andar oltre lascio che il fiato scivoli sulle mie labbra in un soffio leggero, che muta, quasi senza averne controllo, in un ringhio di rabbia.
Punto le mani sul materasso e mi sollevo a sedere, tastando le lenzuola che posseggono il medesimo colore dei muri che mi circondano, di un giallo consunto, e mi accorgo di aver indosso gli stivali, insudiciati da della fanghiglia ancora fresca, ma d'essere orfana della giacca dell'uniforme.
Scruto l'ambiente che mi circonda alla ricerca dell'indumento mancante e di un qualunque indizio che possa venire in aiuto alla mia mente, sgombra di quella memoria che bramo più d'ogni altra cosa al mondo.
Vi è un piccolo mobiletto accanto al letto, un pezzo di poco valore, guastato dal tempo e dai tarli che vi hanno banchettato al suo interno. Una sedia con una gamba più corta rispetto alle altre tre, nell'angolo, una finestra a cui manca un una porzione di vetro, con gli scuri accostati, privi anch'essi di qualche tassello, e null'altro.
Nient'altro cattura la mia attenzione, così, ormai spazientita, conduco le gambe oltre il bordo del giaciglio e quando i piedi si posano sul pavimento percepisco al di sotto un cumulo di stoffa. Il mistero è svelato, mi chino leggermente a raccogliere la giacca perduta, che scopro bagnata, come qualsiasi cosa in questo maledetto luogo.
Impongo al mio corpo un ulteriore sforzo per trovare una posizione finalmente eretta e lasciare il tugurio in cui mi trovo, e non è impresa facile per le mie gambe malferme e per l'equilibrio che ha deciso di abbandonarmi.
Cosa diavolo mi è accaduto? Quale potente droga hanno usato per ridurmi in un tale stato? Che sia stata colpita?
Porto una mano alla testa e mi aspetto di trovarvi una ferita, una protuberanza, un dolore che possa dare una conferma alla supposizione formulata poc'anzi, ma non avverto nulla e l'ira si fa sempre più vigorosa, la sento serrarmi le viscere e farsi strada in ogni nerbo del mio essere, fino a farmi ribollire il sangue nelle vene.
Devo andarmene da questo alloggio, immediatamente. Porto un piede dinnanzi all'altro, con decisione, con la baldanza che contraddistingue il mio incidere da che ne ho memoria, incurante del tremore che striscia al di sotto dei muscoli delle mie gambe, ed è così che mi ritrovo nella stanza principale di quella che fatico a definire casa.
Scopro un locale poco più grande della camera da letto, ne osservo lo scarno arredamento e quei dettagli che mi fanno agognare la fuga, ed ancor prima che la ragione possa impartirne l'ordine, i miei piedi hanno di già compiuto i movimenti che mi stanno conducendo verso l'uscita, ma è nel tragitto che mi divide dalla porta che il mio passo colpisce qualcosa.
Un tintinnio, che ruzzola per rincorrere un suono gemello, parla al mio orecchio raccontando una ovvietà che i miei occhi non hanno bisogno di guardare, per averne conferma.
Una bottiglia di vino scadente e un calice di vetro scheggiato.
Ecco la mia droga, la rossa maliarda che da tempo immemore ha il potere di affascinare i miei sensi, carpendo ogni ombra d'intelletto, fino al completo stordimento. Una dolce morte che mai delude le proprie promesse, deliziando la lingua con il suo dolce nettare e uccidendo senza rimorso le voci che straziano l'anima, il cuore e la mente.
Debbo ammettere che questa volta pare aver svolto il proprio lavoro con lodevole dedizione, poiché sembra esservi l'oblio nella mia memoria, o forse sono io a non voler scorgere la verità? Chi può dirlo.
Arresto la mia fuga e mi seggo sulla sola poltrona che vi è nella stanza, usurata anch'essa come qualsiasi oggetto che dimora in questa abitazione, ma non m'importa, ho smesso d'essere esigente tanto tempo fa. Poggio i gomiti sulle ginocchia e lascio che i palmi avvolgano, in una delicata morsa, le tempie e il capo, mentre fisso scioccamente incantata i miei lunghi riccioli biondi ricadermi dinnanzi agli occhi. E qualcosa torna alla mente, un ricordo o l'ultima vestigia di un sogno?
Suppongo di aver paura di scoprirlo, perché ciò che la mia testa rammenta è qualcosa che spero sia soltanto la visione mostruosa di un incubo.
No non può essere vero, non può essere accaduto.

“Tradimento”
“Non devi aver paura, io ti ucciderò chiedendo perdono a Dio...”

“...non importa, tanto la mia vita è finita ormai.”

Allontano la luce dai miei occhi premendovi contro le mani, divenute gelide, come toccate dall'alito della morte. Se fossi morta e questo fosse il purgatorio?
Sorrido della mia insensatezza, da quando il comandante Oscar Francois De Jarjayes consente all'irrazionalità di prendere il sopravvento sulla ragione?
Vi è ancora, dietro questa vecchia maschera incrinata, il comandante forgiato da anni e anni di duro lavoro e regole morali?
Forse solo un lieve rimpianto, offuscato dalla consapevolezza d'essere fallibile e di compiacersene, poiché non vi è peccato nella paura, nell'errore, e nell'amore, ma solo la dimostrazione della molteplicità e la bellezza dell'animo umano.
Ho gioito di questa vittoria, ne ho pianto di felicità, eppure ora darei qualunque cosa per un istante di stordimento, baratterei qualsiasi cosa per un altro sorso di vino. Ma non mi è possibile esaudire questo desiderio, e non posso far altro che rimanere nella medesima posizione sperando, o temendo, che uno spiraglio di lucidità porti ordine dove ora vi dimora il caos.
Immobile nella mia postura seguito a velare le mie azzurre iridi con il nero dell'oscurità, la pesantezza del capo riversata sui palmi e mi par quasi di aver trovato la pace, ma è in questo momento di calma che sento una mano afferrarmi il polso, con fermezza, e l'istinto del soldato mi porta a tentare di liberarmi della presa e ad innalzare la testa, volgendo il viso verso il nemico.

“Oscar, ti senti bene? Sono stato da Bernard, possiamo contare sul suo aiuto, non vi saranno problemi per...”
ti vedo, odo la tua voce, ma credo di aver smesso di ascoltare ciò che stai dicendo.
Sento le tue dita stringere il mio polso ed ora rammento.

“André vattene via, vattente!”
“...non vi muovete perché io adesso andrò via assieme ad Oscar”

Ora ricordo ogni cosa.

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Capitolo 2
*** Cosa si prova ad essere vivi ***


Si dice che, poco prima di abbandonare il mondo terreno, tutta la propria esistenza si figuri davanti agli occhi, come un racconto del passato o uno spettacolo di commedianti.
Ne avevo letto in innumerevoli libri, ed ogni volta avevo avuto per quella fantasia un sentimento di curiosità e scetticismo, è mai possibile che un uomo in punto di morte, consapevole di avere meno di un battito di ciglia da vivere, senta il desiderio di ripercorrere ogni momento della sua stessa vita? È un'azione che si compie coscientemente oppure è l'intelletto a gettare sul cuore un tale fardello?
Furono questi i pensieri che mi riempirono la mente quando mio padre decise che era giunta l'ora di correggere l'errore che io, il figlio prediletto del generale Jarjayes, avevo osato compiere contro la famiglia Reale.
Mi parve ovvio, quindi, smentire le teorie che tendevano a romanzare l'attimo che precede la morte, poiché non vi era nulla di poetico nella venuta della dama con la falce, o quantomeno non fu così per me.
Non mi riuscì di pensare a nulla, ci provai, tentai con tutta me stessa di condurre al mio cuore anche il più piccolo granello di memoria; il volto di mia madre, il profumo dei biscotti di Nanny, il calore del sole sulle colline di Arras, ma non vi fu verso, non successe alcunché.
Credetti di aver smarrito anche l'ultimo velo di umanità, poiché mi parve che perfino il sangue avesse smesso di scorrermi nelle vece.
Cosa mi stava accadendo? Eppure un istante prima avevo supplicato il perdono, chiedendo che mi venisse risparmiata la vita, non per me stessa, certo, ma per i dodici soldati del mio reggimento, coloro che non avevano esitato a dimostrare per me la più cieca fedeltà.
Seguitai a rimanere nella medesima posizione, su di una sedia che era stata scelta per divenire il patibolo della mia esecuzione, così mi rassegnai al mio destino e in silenzio ascoltai ciò che il boia aveva da dire.

“Non posso perdonarti. E poi qualunque cosa tu facessi sarebbe inutile, quando in una famiglia notoriamente devota al Re c'è un traditore l'unica soluzione è la morte. Non devi aver paura, io ti ucciderò chiedendo perdono a Dio e poi ti seguirò.”
le parole scivolarono fuori con una pesantezza millenaria, la stessa ch'io avvertivo comprimermi l'anima e fu allora che qualcosa si sciolse dentro di me, gettandosi ai margini del mio sguardo.
Le lacrime mi bruciarono gli occhi e la loro venuta rese vacua la visione del piccolo mondo che avevo davanti, e non potei trattenere la lingua quando confessò il rispetto che nutrivo per lui, per quel genitore imperfetto e severo, ma che ancora possedeva la mia stima.
Aveva mutato la propria figura nel più spietato degli assassini, avrei dovuto odiarlo e gettargli addosso tutto il disprezzo e il rancore di un'intera vita, ma contrariamente a ciò che la ragione suggeriva, ebbi per lui un sentimento novello, e provai pena per l'uomo che, nell'antiquata posa del soldato, così difettosa quella sera come mai lo era stata, brandiva la spada in una mano malferma.

“Sarebbe la peggiore delle soluzioni, perché sarei la causa della vostra morte padre.”
parlai con franchezza permettendo al rimpianto di scivolare lungo le gote, e fu un pianto sommesso, impercettibile, così dolorosamente taciuto da sembrar fasullo.
Non fu il comandante Oscar Francois De Jarjayes a enunciare tal verbo, ma quella ragazzina lontana che tempo addietro accettò il proprio destino per compiacere colui che, nel suo animo incorrotto, era al di sopra di qualsiasi Dio, e che quella sera d'estate era riemersa per gridargli, senza urla, l'amore che non era più possibile portare in sé, e dirgli addio.
Perché ormai non vi erano più eroi da seguire.

“Non importa, tanto la mia vita è finita ormai.”
sentenziò con il pianto ad incrinargli quel timbro che alle mie orecchie era sempre stato imperioso.
Mi parve quasi di udire, tra le righe, un rimprovero per se stesso.
Dove avete sbagliato padre? È questo che vi state domandando non è vero? Io stessa potrei rivolgervi la medesima supplica, dove abbiamo sbagliato? Cosa stiamo diventando?
Placatevi padre, perdonate voi stesso, così come io sto facendo.
Non mi era possibile vederlo ma percepii un alito d'aria alle spalle, un leggero soffio che smosse i capelli e sotto i quali si infilò, per lambire il collo quel tanto da suscitarmi un mortale tremito lungo la schiena.
Ero pronta a morire.
No, in verità non lo ero affatto e maledissi la mia sete di vita perché ero certa che avrebbe combattuto fino all'ultimo respiro. Il corpo, i sensi, ogni fibra della mia persona si sarebbe aggrappata a qualunque cosa prima di arrendersi, al diavolo in persona se mi si fosse parato dinnanzi, e questo significava che, se il generale avesse sferrato il colpo con l'esitazione che un animo turbato è legittimato a provare, per me sarebbe iniziata una interminabile agonia.
Sussurrai senza voce una litania che mai nessuno avrebbe ascoltato, e desiderai l'odio di mio padre, quello che lo avrebbe condotto nel turbinio di una furia priva d'incertezza, e d'una forza tale da uccidermi senza riserve.
Colpitemi senza pietà, fatelo subito perché non sono sicura di poter oppormi ancora per molto al fuoco che m'infiamma il petto e che sta urlando di alzarmi da questa dannata sedia e cominciare a combattere.
Lo ripetei dieci, cento, mille volte, nell'attesa che la lama si poggiasse a ridosso del mio collo, gelida e incandescente al tempo stesso, ma i secondi divennero ore e le ore secoli, forse avevo perduto la cognizione del tempo, o magari, pensai, la morte si era già impossessata di me.
Poi vi fu il boato del tuono, che giunse un istante prima della pioggia, imperiosa fin dal principio e, nell'attimo che mi ci volle per serrare e riaprire le palpebre, il grande lampadario al centro della stanza prese ad oscillare, tintinnando una folle melodia, ed il velo dell'oscurità si posò leggero su ogni dove. Percepii il tipico odore delle candele spente, un'essenza di zolfo che mi condusse in certi meandri nascosti della memoria che ignorai volutamente, poiché non era quello il tempo per i sentimentalismi.
Qualcosa attirò la mia attenzione, un nuovo rumore, ed una voce che avrei potuto riconoscere senza ombra di dubbio nel pieno centro d'una folla.

“No, non lo fate!”
fu un grido poderoso e asciutto, privo d'ogni timore, quello che André condusse nella stanza.

“André ma che cosa vuoi fare? Vattene! Vattene!”
“No non me ne vado Signor Generale, non me ne vado. Non vi permetterò di uccidere Oscar!”
lui non lo avrebbe permesso!
Mai prima d'allora vi era stata una tale insolenza nei riguardi di mio padre, il fidato André eternamente garbato ed ossequioso servì, a quello che era stato il suo padrone, quel lato nascosto ed oscuro di sé contro cui mi imbattei io stessa, una sera di qualche anno addietro.
Il bagliore del lampo si infranse contro la grande vetrata donandoci quella luce che era venuta meno, là dove vi era in corso la tragedia d'un tradimento, e potei così scorgere dalla sommità della mia altezza lo scontro tra le due figure maschili che erano tutta la mia vita.
Come fu che mi ritrovai sui piedi non me lo spiegai, avevo abbandonato la seduta senza rendermene conto, ma nuovamente mi era impossibile muovere anche un singolo passo.
Immobile testimone in attesa del colpo di scena seguente, esaminai con attenzione l'alterco che stava riempendomi la vista, e mi soffermai sulle mani di André, strette attorno alle braccia del mio sicario, il viso premuto contro il suo petto, in una posa che, se la scena non fosse stata tragica, avrebbe assunto il colore della burla, ma non fu il riso ad increspare le mie labbra.

“Badate sono pronto a sparare, non vi muovete perché io adesso andrò via assieme ad Oscar.”
dichiarò André con decisione, con un tono che non avrebbe ammesso repliche, ed il mio cuore ignorò di battere e temetti si sarebbe fermato del tutto quando udii con chiarezza il suono della sicura della pistola.
Stai facendo sul serio, non è così André?

“Cosa? Tu vorresti scappare con Oscar?”
domandò mio padre con la spavalderia di chi conosce di già la replica ma, non pago di ciò, esige l'impossibile dal proprio avversario. E la risposta di André non tardò.

“Si.”
la battuta fu lapidaria nella sua brevità, eppure quella semplice affermazione ebbe il potere di colmare l'intera stanza d'una forza che io non possedevo più.

“E magari vorresti sposarla. Non è vero?”
chiese il generale abbassando gli occhi, così simili ai miei, sull'uomo che lo stava minacciando con un'arma, un uomo che probabilmente nulla più aveva da spartire con il ragazzo che aveva accolto dio solo sa quanti anni prima nella propria casa, e che scioccamente pensava di conoscere.
Ciò che sorprese me fu scoprire che, per mio padre, l'idea che André nutrisse il desiderio di sposarmi non fosse una rivelazione così sconcertante, come contrariamente lo fu per me.
Da quando, padre, covava in voi il sospetto? Quando avete capito che l'attendente era divenuto un prigioniero d'amore?
Lo avete capito prima di tutti noi, non è vero? È questo che temevate ogni qualvolta il vostro sguardo ci scopriva insieme?
Eppure è stata anche vostra la colpa, poiché voi avete deciso di metterlo al mio fianco, come un'ombra, foraggiando una complicità che ha attecchito nel profondo, contro ogni previsione.
Assorta in quel subbuglio di congetture trascurai la realtà che era pregna d'una tensione che sarebbe potuta sfociare nell'irreparabile, da un momento all'altro.

“No, sarebbe una grossa sciocchezza perché...”
cominciai ad udire quella che mi parve fin dal principio una ferma obiezione, ma il seguito sfuggì al mio orecchio, divenni sorda quando percepii le dita di André stringersi attorno al mio polso. Volsi il viso nella sua direzione e vi trovai il profilo, e mi attardai sui capelli che aveva seguitato a tagliare da che era stato costretto a reciderli per impersonare il cavaliere nero, e sul contorno del naso, la forma delle labbra e la mascella importante, ben delineata, i cui muscoli vedevo contrarsi ritmicamente, agitati dalla irrequietezza del momento.
Ti ho portato fino a questo punto?
Le ferite sono ormai aperte, possiamo fermare il sangue?
Lasciamole sanguinare.
Il sangue purifica il dolore.
È giunto il momento di alzarci e cambiare questo mondo.
Seguitai ad osservare il suo volto sussurrando quelle parole che l'anima scambiò per un infantile incantesimo, ma lui non le udii, distratto dalle urla del generale e, probabilmente, dalla paura ch'io mi potessi rifiutare di seguirlo. La presa attorno al mio polso si fece impetuosa, quasi violenta, ed anche quando iniziai ad agitare il braccio, per trovare una via di fuga, lui non abbandonò la figura di mio padre. Fu quando riuscii ad eludere la sua mano che potei scorgere finalmente il suo volto, trasfigurato da quella che mi sembrò l'espressione gemella d'una antica rabbia, ma ancora non possedevo il suo interesse.

“Mi dispiace non posso perdonarvi!”
sentenziò colui che aveva vestito ancora una volta i panni dell'ingannato.
Potei quasi vedere il respiro che oltrepassò la bocca di André, pesante come un macigno, e vi furono ancora le sue dita a rapire il mio esile polso, e la mia mano furiosa che trovava l'agio, solo per un istante, il tempo di afferrare la sua mano e intrecciare le mie dita alle sue.
Fu allora che ebbi la sua piena attenzione.

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Capitolo 3
*** Danza macabra ***


Un rumoreggiare lontano mi conduce alla realtà con una sveltezza disarmante, lasciandomi stordita e quasi senza fiato.
Fisso lo sguardo in un punto indefinito davanti a me, so d'avere gli occhi aperti ma è come se fossi divenuta cieca, perché la mente è incantata nel ricordo che da poco ho abbandonato.
Priva della vista ma non dell'udito odo il vociare delle persone che stanno vivendo al di fuori di questa casa e mi domando che ora del giorno possa mai essere, primo mattino o tardo pomeriggio? Poi qualcosa attira la mia attenzione, appagando senza ch'io l'abbia chiesto la curiosità di un istante prima. Dischiudo le labbra e volgo il capo incontro a quel suono, in un movimento quasi impercettibile che mi consente, però, di origliare la vita che c'è al di fuori di queste luride mura e che mi si presenta sotto forma di urla d'ogni genere, dalle oscenità dei pescivendoli, a quelle più delicate delle venditrici di fiori e dal vocio sommesso dei bambini che, mi pare, si stiano offrendo per chissà quale servigio.
Immagino quindi che queste altro non siano che solo le prime ore del giorno e che mi trovi, quasi con certezza, in prossimità d'un luogo di scambio, un mercato, in un quartiere di Parigi, dio solo sa quale, tra i tanti sorti negli ultimi tempi, ma non voglio soffermarmi su questo, non ora.
Mi sollevo dalla seduta con fin troppa forza da spingere la poltrona all'indietro, producendo un rumore irritante, mai quanto la sensazione che provano i miei piedi nudi a contatto con il pavimento, d'un legno grezzo e sporco da far accapponare la pelle.

“Stai bene Oscar?”
mi domanda André con un velo d'apprensione, spaventandomi a morte. Neppure rammentavo la sua presenza qui, strano, perché la sua figura è ad un soffio dalla mia.
Poggia la mano sulla mia spalla per indurmi a parlare ed io perpetuo il mio mutismo, e lui la propria verbosità, pronunciando per l'ennesima volta il mio nome.
Si sto bene André, dammi solo un istante per riordinare i pensieri, credo di aver bevuto come mai prima d'ora, durante la notte appena trascorsa, dammi un momento, te ne prego.
Innalzo il viso verso il suo, muovendo la teste su e giù un paio di volte, un segno per rassicurare la sua apprensione e mettere fine ad un interrogatorio che non ho intenzione di subire e lui pare rasserenarsi un poco, quel tanto da cancellare il contatto della sua mano e liberarmi da quella costrizione.
Mi lascio cadere sulla poltrona, ancora, soffiando fuori il respiro mentre adagio le braccia sulle gambe.

“Dove siamo?”
mormoro, seguendo con gli occhi la corsa di un piccolo scarafaggio nero, tra i pannelli di legno del pavimento.

“Siamo a Les Halles, non te lo ricordi Oscar?”
mi rispondi con l'ovvio in ogni sfumatura della voce, mentre ti sento camminare per la stanza, e nonostante non ti stia guardando comprendo i tuoi movimenti dallo scricchiolio degli scuri delle finestre che si aprono, facendo penetrare nella stanza ciò che avevo udito un attimo fa, insieme ad un olezzo nauseante, una mescolanza di profumi e odori che hanno sviluppato una fragranza mortale.
Il terrore mi si infilza nello stomaco e prego che tu non mi abbia portata dove credo potremmo essere. No André, non qui.
Il ticchettio dei tuoi stivali si fa sempre più prossimo, fino a quando anche la presenza fisica si palesa con l'immagine del tuo passo sollevato, poco prima di spingersi al suolo ed arrestare il cammino dell'insetto, poco distante dal mio piede destro.

“Dannati scarafaggi! Nelle camerate della caserma non facciamo che lottare contro pulci e pidocchi ed ora anche questo! Non ne posso più, davvero!”
si lamenta André, strisciando la scarpa sul tavolato nel tentativo di liberarsi dei resti della blatta.
Sollevo le gambe verso la seduta del sofà poggiando i piedi sul cuscino e lascio che la postura si porti verso il bordo, così da consentire alla schiena di adagiarsi contro lo schienale e permettermi di reclinare la testa all'indietro, stancamente. Una nuova visione si presenta al cospetto delle mie iridi, sotto forma di un soffitto ingiallito e pregno d'umidità, impreziosito di tanto in tanto da qualche ragnatela.
Rifletto sulle informazioni avute da André e sugli indizi che sono emersi, come fossero funghi, dall'ambiente circostante, e non mi rimane che giungere ad una evidente conclusione riguardante la zona che ci ospita.

“Ci troviamo nei dintorni del Mercato degli Innocenti, non è vero?”
ti chiedo, anche se conosco di già la risposta. Dove altro potrebbe esserci un tale puzzo di morte, fango ed un ventaglio così differente di individui?
E questo fastidioso rumore di morte, lo senti anche tu André? Non molto distante da qui mi sembra di udire i versi degli animali più disparati; galline, cavalli, asini e maiali. Il grugnito d'un maiale mi sta togliendo la ragione, non si può nemmeno definire un verso, no, è un lamento, un grido disperato.
Serro gli occhi sperando di cacciare dalle mie orecchie quello che da grido è mutato in un urlo soffocato, quasi gutturale, che troverà il proprio epilogo in una sola spiegazione: il povero animale è alla mercé di uno dei tanti macellai della zona e quello straziante suono altro non è che il suo ultimo istante di vita, mentre, dopo essere stato sgozzato, tenta di implorare pietà.  
Assistetti ad una scena analoga durante una vacanza estiva ad Arras, io ed André eravamo soliti perlustrare i luoghi sconosciuti della zona, che erano anche quelli a noi proibiti, e ci imbattemmo in un piccolo villaggio di contadini, molto caratteristico. Ci intrufolammo in una stalla con la speranza di trovarvi dei conigli ma ciò che ci si parò dinnanzi nulla aveva a che vedere con la delicatezza che poteva regalarci il soffice manto d'un coniglio, vi trovammo invece un grosso maiale tenuto fermo da quattro uomini, ed un altro, il quinto, gli stava di fronte con un coltello stretto nella mano destra. Non avemmo il tempo di fare alcunché, che fosse scappare o gridare il nostro sgomento, perché tutto avvenne in un battito di ciglia: l'uomo che impugnava l'arma tra le mani, con un movimento rapido, conficcò la lama nella gola dell'animale, incidendola fin dentro la carne, e quando la estrasse con essa venne fuori un fiume di sangue e da quello stesso punto anche il grido soffocato e vischioso del povero maiale.
André ed io scappammo appena riuscimmo a rinsavire e corremmo come folli senza quasi trarre respiro, ma continuavamo ad udire quel lamento, ancora e ancora, riuscimmo a farlo smettere solo tappandoci le orecchie con i palmi delle mani.
Quella scena mi colpì fin dentro l'anima ed ancora oggi è in grado di rivoltarmi lo stomaco.

“Si, Oscar. Non siamo molto distanti dal Mercato degli Innocenti e...”
confessi quasi con imbarazzo, lo sento dalla flessione che rende lievi le parole man mano che queste abbandonano la tua lingua ed ho quasi timore che perderai la voce una volta terminato il discorso, ma non ti do modo di proseguire. Mi alzo in piedi con decisione e con la medesima foga ti urto con l'intento di crearmi un varco per raggiungere la porta d'entrata.
Afferro la maniglia e compio l'esatto numero di passi che mi permette di imboccare il vicolo, incurante della ragionevolezza che, data la fanghiglia che mi sta insudiciando i piedi fin quasi alle caviglie, mi avrebbe ricordato di indossare un paio di scarpe. Osservo ogni dettaglio della via, le persone che mi cammina accanto, le insegne delle locande, i banchetti del mercato poco lontano dalla mia visuale, ma ciò che desidero sapere è dove ci troviamo con esattezza.

“Rue de la Lingerie...”
sussurro appena e comprendo d'essere finita nel pieno centro dell'inferno Parigino.
Siamo realmente qui? Nel sobborgo più disgraziato di Parigi, dove un tempo si ergeva il suo cimitero più grande?
Il cimitero, raso al suolo meno di un anno prima e rimpiazzato dall'ampliamento dei mercati, ha barattato la propria luttuosa sporcizia, fatta di liquami maleodoranti e brandelli di cadaveri, con un velo di fasullo splendore. Io stessa ho avuto per le mani i progetti di tal lavoro e fu chiaro fin dal principio che si sarebbe potuto scavare fin solo ad un certo livello, il che, per logica, spiega il motivo per cui fra queste strade aleggia il medesimo fetore d'un tempo.
Molti corpi sono ancora qui, sotto i nostri piedi, al di sotto dei rinnovati selciati.
Proprio lungo la Rue de Lingerie si ergeva uno dei muri che circondavano il camposanto, su cui vennero aggiunti in seguito degli ossari sovrastati dai charniers, degli archi che servivano a ripararli.
Mi soffermo un istante a riflettere sulla macabra ironia del caso che ci ha visti trovar rifugio, dopo essere scampati alla morte per mano di mio padre, in quella che era stata la tomba di Parigi per eccellenza.
Alla morte siamo fuggiti e nella morte ci ritroviamo. Memento mori (1), rammentava un antico affresco.
Un improvviso tremore mi solletica le braccia malgrado la calura estiva, colpa dei pensieri funesti che cerco di allontanare dalla mente, in fin dei conti sono viva, siamo vivi, ed è questo ciò che realmente ha importanza.
Ripercorro il tratto calpestato poc'anzi e li dove lo avevo lasciato vi ritrovo André, seduto sulla poltrona, a copiare la mia postura, perso anche lui in chissà quale preoccupazione. Lo intuisco dal capo abbandonato sui palmi e dalla presa delle dita tra le ciocche dei suoi capelli, che si fa più serrata di secondo in secondo.
Giungo a ridosso della seduta lasciando alle mie spalle impronte di sporcizia, delle quali non mi do pensiero, non sarà questa mia noncuranza a guastare la reputazione della casa. Blocco poi il cammino flettendo lievemente la mia figura di modo che possa trovarmi quasi allo stesso livello del volto di André e prima che l'intelletto possa farmi desistere poso la mano sul dorso della sua a testimonianza d'un affetto lontano. La conseguenza di questo mio gesto è una reazione che non avevo previsto, una debolezza che mi coglie impreparata quando dopo aver colpito la mia mano con un gesto iroso della sua, me lo ritrovo davanti, a pochi centimetri dal viso. Così vicino da percepire sulla mia bocca il calore del suo respiro.

“Non devi toccarmi Oscar.”
sputa veleno sotto mentite spoglie, quello che risponde al nome di André Grandier, ma che fatico a riconoscere.
Non devo toccarti? Per quale bizzarro motivo non dovrei farlo quando sei tu che non fai altro da quando mi sono destata in questa catapecchia? Ho intrecciato le mie dita alle tue qualche ora addietro, confermandoti che ti avrei seguito con piena fiducia e ora tu... tu mi stai dicendo, anzi me lo stai ordinando, di non toccarti.
Sono esausta ma non ho alcuna intenzione di vestire i panni della donnicciola sottomessa, perché poi mi stia paragonando ad una figura del genere non riesco a comprenderlo, sarà dipeso dalla mia decisione di seguire André, come una qualunque fanciulla seguirebbe un principe? Spazzo via questi sciocchi vaneggiamenti e sono di già pronta a sferrare il mio attacco.

“Cosa vorresti dire con...”
tento di proferire il mio disappunto, che rimane però in bilico tra la lingua e le labbra, arrestato sul nascere dalla mossa di André nell'istante in cui mi afferra per le braccia con una veemenza tale da farmi mancare un respiro.
E prima ch'io possa ribattere in qualche modo è lui ad esporre le condizioni della guerra.

“Pensavo d'essere stato sufficientemente chiaro questa notte. Sbagliavo, ma voglio essere buono e ripeterlo un'altra volta, ma bada bene che sarà l'ultima.  
Non devi toccarmi Oscar, a meno che non sia io a permetterlo.”
ascolto senza fiatare, con le labbra socchiuse e lo sguardo vacuo, mentre cerco con tutta me stessa di ritrovare il capo nel groviglio dei ricordi ma è l'ennesimo verso di un animale che ha il potere di dipanare la nebbia.
Il banale nitrito di un cavallo mi restituisce a Palazzo Jarjayes in un salto a ritroso nel tempo, tra le ombre più celate della mia anima, la dove con piena coscienza m'ero strappata di dosso il titolo nobiliare e tutte quelle definizioni che avevano fatto di me, fino ad allora, solo un nobile soldatino. Null'altro.  
Nel preciso istante in cui voltai le spalle a tutta la mia esistenza e scelsi di seguire André, trascurando ingenuamente ciò che quella mia scelta avrebbe comportato.



(1) memento mori (ricordati che devi morire) è un riferimento al significato di una antica raffigurazione, la Danza Macabra. Una delle più antiche raffigurazioni conosciute della "Danza macabra" è senza dubbio quella che venne realizzata, a Parigi, lungo una delle mura del vecchio Cimitero degli Innocenti, nel 1424.

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Capitolo 4
*** L'ultimo passo ***


Successe tutto d'improvviso, mio padre, forse accecato dal livore e dalla notte che si era introdotta nella stanza privandola perfino del più minuscolo barlume di luce, sembrò aver trovato requie, quando e per quale reale motivo accadde non potei stabilirlo, ma fu in quell'istante che io ed André attuammo la nostra fuga.
Non vi furono parole o sguardi, solo una maggiore pressione delle nostre dita e la tacita consapevolezza di dover sfruttare quella distrazione, e quando il generale si destò dal torpore puntandoci addosso il ghiaccio dei suoi occhi, la mano di André si legò se possibile ancor di più alla mia. I nostri passi si fecero impazienti ed io che fino a quel momento avevo mantenuto il mio consueto rigore, quella impassibilità che portava in me il controllo nelle situazioni più ostiche, ebbe la malaugurata idea di venir meno.
Esitai, solo un secondo, ma in quel palpito di cuore la mia figura venne rimpiazzata da un fantoccio imbottito di paglia e mi bloccai, impotente di fronte a quella disubbidienza della mia stessa carne.

“Oscar...”
un richiamo preciso quello di André che, nel sottinteso delle parole non pronunziate, m'impose di continuare a camminare ed io lo feci senza più alcun timore.
Quando fummo certi d'essere ad una distanza sufficientemente sicura voltammo le spalle a colui che sarebbe potuto diventare il nostro assassino ed una volta oltrepassata la soglia ci accorgemmo di una figura tremante e minuscola. La mia governante era scivolata al suolo, nello spiraglio che si era venuto a formare tra un battente e l'altro della grande porta di legno intarsiato della stanza, le passammo accanto e so per certo che André la vide eppure proseguì oltre come se nulla fosse ed io che ero legata a lui dovetti seguitare a copiarne i passi, ma prima di non aver più modo di farlo, mi voltai per lasciare un'ultima volta lo sguardo sulla vecchia Nanny, e lei fece lo stesso, con gli occhi colmi di lacrime e le mani premute sulla bocca, in una sorta di preghiera.
Avrei voluto rivolgerle una parola di conforto e domandarle perdono per l'affronto che io e suo nipote stavamo perpetuando nei suoi riguardi, ma in verità stavo mentendo, implicando anche lui in un peccato che soltanto io sentivo di star compiendo.
Mi augurai che lei potesse assolverci, lui, per aver offerto corpo e spirito in nome di un amore che pareva essere sbagliato al mondo intero, e me, poiché non era mai stata mia intenzione entrare così a fondo nell'anima dell'uomo che mi aveva salvato la vita, tanto da lacerarne la fibra.
Eppure era accaduto e non vi era più modo di tornare indietro.
Era tempo di andare avanti.
Ci precipitammo, quasi, lungo la scalinata al centro dell'entrata principale di palazzo Jarjayes, calpestando i gradini di marmo rosa che avevano sostenuto i nostri passi fin dall'infanzia e mi sorpresi a compiere uno sciocco gioco che ero solita fare da bambina, e mi ritrovai a contare i gradini come fosse stata la prima volta.
Cinquantotto, quello era il numero esatto, cinquantotto più uno a dire il vero, dimenticavo sempre l'ultimo scalino che stava sul fondo, quello che era venuto al mondo con un difetto d'altezza che rendeva inesistente la sua presenza, ragion per cui nessuno di noi era solito posarvi il piede al di sopra, ma quel giorno me ne rammentai e, cancellando anni di noncuranza, vi adagia il mio ultimo passo.
Corremmo poi verso la zona della servitù e proseguimmo per raggiungere le cucine, dove bloccammo il nostro incidere nel tentativo di schiudere la porta che, mai come quella sera, ci diede filo da torcere.

“Maledizione! Avevo detto a Jean-Paul di occuparsene mesi fa, ma pare proprio che abbia deciso di impiegare il tempo in chissà quale altro modo... se solo lo avessi tra le mani, io...”
le prime parole che gli sentii pronunciare da quando aveva annunciato la nostra partenza furono un fiume di rabbia che vide il proprio apice quando, abbandonata la mia mano, prese a colpire con calci e pugni il battente di legno finché non ebbe la meglio sul vecchio uscio, conquistandone finalmente l'apertura.
Lo sentii emettere un accento di soddisfazione e mi aspettai d'incontrare il suo sorriso, ma nessuna mia aspettativa venne soddisfatta, non mostrò il suo volto e neppure finse per un attimo di girare la propria figura la dove vi era la mia, semplicemente mi prese la mano e ci condusse fuori, sulla ghiaia del cortile esterno.
Uno schiaffo di vento gelido e di pioggia m'investì senza preavviso, strappandomi il fiato dai polmoni nonostante fossimo nel pieno dell'estate, le gocce di pioggia erano talmente impetuose che ebbi la sensazione mi stessero penetrando nella carne, come spilli arroventati.
Faticavo a tenere le palpebre aperte tanto era la furia del piovasco che oramai era maturato in vero e proprio acquazzone, tuttavia paradossalmente ne godetti, avevo sempre amato i repentini mutamenti del cielo estivo ed anche in quella circostanza permisi ai sensi di nutrirsene.
Serrai gli occhi e mi affidai ad André come un cieco al proprio curatore e concentrai l'attenzione sulla goccia che, dalla cima del capo scivolò sulla mia fronte, scavalcò le ciglia e terminò poi il proprio pellegrinaggio in una umida carezza lungo la gota. E come essa ne sopraggiunsero altre che assaporai dalle labbra, trovandole d'un gusto delizioso, ed altre ancora che solleticarono quel delicato lembo di pelle tra l'incavo della gola e la sinuosità che da tempo avevo smesso di mortificare, finché non vi fu più d'asciutto nemmeno un brandello di me stessa.
Il nitrito dei cavalli mi strappò alla distrazione che m'ero concessa, gettandomisi addosso con arroganza, quando arrivammo in prossimità delle scuderie. Il cavallo di André sostava all'esterno, legato alla palizzata che solitamente veniva usata dagli ospiti in visita al palazzo, il che mi fece comprendere che la sua presenza fosse nata per essere soltanto momentanea. Che avesse avuto il sentore di una sventura?

“Prendi César, e fallo il più velocemente possibile.”
ancora quel tono, urgente e profondo, mi sorprese per la sfumatura che non contemplava obiezioni, ed io non ne ebbi alcuna, procedetti verso la baracca con passo deciso e vi entrai.
Una volta all'interno presi la sella, il morso e tutto l'occorrente che mi sarebbe servito per sellare il cavallo, ma quando giunse il momento di compiere quei gesti che avevo fatto da che ero stata in grado di reggermi sulle gambe, tutto mi apparve impossibile. Le mani tremavano come foglie e seguitarono a tentennare anche quando provai a distenderle, e così anche il cuore mi si rivoltò contro accelerando i battiti al limite della follia, estirpandomi dai polmoni ogni traccia d'ossigeno. Mi sentii soffocare in un mare d'angustia, temetti che il cuore mi sarebbe scoppiato nel petto da un momento all'altro, poiché ne potevo sentire i colpi frenetici fin dentro le orecchie.

“Oscar, andiamo... cosa stai facendo? Non c'è tempo!”
la voce di André varcò la soglia delle scuderie ed ebbe lo stesso effetto d'un manrovescio in pieno volto. Sussultai e le mani fecero ciò che dovevano fare. In me difettava la calma e nello stomaco vi era ancora il tumulto dell'inquietudine, ma le dita presero a muoversi incuranti della propria fragilità, portando a termine il compito stabilito.
Uscii dalla stalla tenendo César ben stretto per le briglie e scoprii André già in groppa al suo cavallo, a malapena mi guardò, troppo occupato a sincerarsi di non aver nessuno alle calcagna ed io, per la prima volta da che avevamo eluso la prigionia del generale, mi chiesi come era possibile che lui non ci stesse tallonando come un animale furioso.

“Dobbiamo andarcene, ora. Ho sentito un rumore di zoccoli in lontananza, probabilmente all'entrata principale del palazzo, potrebbero essere notizie provenienti dalla Reggia, e sai cosa significherebbe se fossero cattive...”
la voce di André mi parve tornata quella di un tempo, confidenziale e pacata, ma con un implicito che sapeva di terrore.
Ero ben cosciente di ciò che mi sarebbe toccato se le Loro Maestà, o soltanto la Regina, avessero deciso di seguire il codice d'onore che ogni militare è chiamato a rispettare, come lo stesso è per ogni famiglia nobile di Francia.
Per me vi sarebbe stato l'arresto, il carcere, il processo militare e con un'elevata possibilità la morte.
Raccolsi la poca lucidità che mi era rimasta nella confusione della mente e poggiai un piede sulla staffa mentre con l'altro feci leva per issarmi in groppa a César, o per meglio dire tentai un'azione che non mi riuscì di assolvere appieno. Un bagliore inatteso rischiarò ogni cosa attorno a noi, come fosse stato pieno giorno e ancor prima di poter batter ciglia un tuono fragoroso, come non ne avevo mai udito, si portò via un alito di respiro.
Per la prima volta da che ne avevo ricordo ebbi la fortuna, se tale si può definire, di assistere alla venuta di un fulmine, che con chiarezza vidi originarsi da una nuvola e precipitare al suolo, penetrando con violenza un vecchio moncone di tronco che indefiniti anni addietro era stato un maestoso albero. E dalla furia di quella natività vi furono scintille e fuoco, grida lontane e attigue, io stessa ne rimasi così sgomenta da trascurare un dettaglio fondamentale: mai allentare la presa attorno alle briglie dell'animale quando attorno vi è un qualsivoglia elemento di disturbo.
Lo stivale abbandonò la staffa quando César si levò sulle zampe posteriori e persi l'appiglio attorno alle redini, le sentii scappar via in una fuga dolorosa tra la carne delle mie dita prive della protezione dei guanti, e nulla potei fare contro il terrore del mio cavallo che scappò nell'oscurità del boschetto ai confini del nostro podere.

“Maledizione! César, torna qui... torna qui bello...!”
urlai, fischiai, e quando non vi fu alcun riscontro decisi che sarei andata a riprenderlo, ma la concretezza, nella sua infinita crudeltà, mi mozzò le gambe.

“Ormai è andato, non c'è modo di ricondurlo indietro. Tornerà alle scuderie quando si sentirà al sicuro.”
tentò di quietarmi André, con scadenti risultati.

“Non lascerò César da solo in mezzo al bosco e poi ho bisogno di un cavallo, io...”
decisa a ribattere a ciò che avevo appena udito, elevai la voce di un tono superiore.

“Oscar, no. Non c'è tempo, loro non ce lo daranno. Dobbiamo andare via di qui, ora. Abbiamo un cavallo ed è più che sufficiente.”
così dicendo lui si girò appena in direzione del palazzo, indicando delle figure ignote che stavano guadagnando terreno verso di noi.
Portai la mano alla fronte, infilando le dita tra i capelli e li scostai all'indietro, in un gesto che aveva in sé tutta l'indecisione del mondo.

“Non fare la stupida Oscar, sali immediatamente su questo cavallo!”
e così dicendo André mi porse la mano, invitandomi senza troppi convenevoli a montare in sella. La ragionevolezza mi diceva di ascoltare il mio vecchio attendente, ma la fierezza mi tratteneva a terra come una mula testarda.
Ero ben conscia della gravità che pesava sulla mia schiena, anzi su quelle di entrambi, ma il soldato che ero non poteva accettare anche solo l'ipotesi di farsi condurre da un altro fantino, lo avrebbe concesso solo a fronte d'una grave menomazione fisica, un malore, e per nessun altro motivo.
Tuttalpiù avrei potuto contemplare d'esser io a scortare qualcuno su di un cavallo, come già avevo fatto nel passato con i figli delle mie sorelle e addirittura con la Regina Maria Antonietta, ma non l'opposto. Io non avevo mai cavalcato con qualcuno, mai, neppure quando fui iniziata all'arte dell'equitazione, seppur avessi da poco abbandonato la postura da quadrupede.
La pioggia non dava segni di voler cessare il proprio lacrimare e il vociare in lontananza si stava facendo sempre più prossimo, quale altra scelta avevo? Addentrarmi nel bosco e rischiare di farmi trovare da coloro che si stavano avvicinando o magari gettare alle spalle la dignità e tornare dal generale con la coda fra le gambe?
Davvero stavo mettendo in pericolo me ed André per una insensata questione d'orgoglio? Ma si trattava realmente di quello o vi era altro celato al di sotto del tremore che m'agitava il cuore?
Trassi un profondo respiro e, afferrata la sua mano, con la medesima decisione posai il piede nella staffa e mi tirai su raggiungendo infine la sella.
D'istinto portai le mani alle briglie, o quantomeno tentai di farlo, poco prima del giungere di quelle di André che si strinsero attorno al cuoio con decisione, ed io sperimentai un ignoto senso di smarrimento. Cosa avrei dovuto fare? Come avrei dovuto accomodarmi e, dove, mettere le mani? Non ebbi modo di crucciarmi molto poiché i miei interrogativi vennero ampiamente chiariti da ciò che lui fece.
Inizialmente vi fu il suono ovattato del predellino che sferzava un colpo contro il costato del cavallo e l'incitamento della voce, il cui vibrare mi si insinuò tra i capelli come uno spiffero d'aria. Poi arrivarono le sue braccia ad assediare le mie fin quasi a serrarle, per avere un maggior appiglio sulle redini, ed infine il suo corpo si lasciò andare contro il mio, spingendosi fin oltre il limite del possibile. Esalai un sospiro di stupore e m'aggrappai al pomolo del sellino, incapace di dire o fare alcunché.
André aizzò l'animale al trotto e lo condusse poi al galoppo quando oltrepassammo la cancellata di palazzo Jarjayes e per me fu tutto più chiaro, compresi la ragione di quel mio temporeggiare che nulla centrava con l'amor proprio o qualsiasi altro elevato principio morale, tutt'altro.
L'inquietudine che mi aveva tenuta immobilizzata a terra e ch'io stessa avevo scambiato per semplice testardaggine possedeva invece un volto differente, un aspetto concepito nella profondità d'una essenza primordiale, una percezione nel pieno centro delle viscere che portava su di sé un nome che fino ad allora avevo rifiutato di comprendere, ma che durante il tragitto che percorremmo dalla casa che oramai non avevamo più alcun diritto di dir nostra, alle porte di Parigi, non potei far a meno d'ascoltare.
La vicinanza di André mi turbava, ad un punto tale che mi vidi costretta ad abbassare il capo dinnanzi a quei sensi che presero a narrare la vittoria d'un desiderio che m'era strisciato al di sotto delle carne, infuocando ogni lembo di pelle.
La verità aveva vinto la guerra.
Desideravo, e quella nuova coscienza mi spaventava a morte, ma ciononostante fu la prima battaglia che amai perdere.

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Capitolo 5
*** Rue de la Lingerie ***


Arrivammo a Parigi che era ormai passata la mezza e la pioggia, di grazia, sembrava averci concesso un momento di quiete dopo ore di incessante lacrimare.
In me non vi era più nulla di asciutto, i capelli mi ricadevano mollemente sul volto gocciolando perle di quel diluvio appena passato e gli indumenti che indossavo erano così profondamente zuppi da pesarmi sul corpo come se fossero stati confezionati con la pietra. Mi sentivo esausta per il viaggio ed anelavo solamente un riparo di qualunque tipo e del fuoco davanti al quale asciugarmi le vesti, ed ancora, ma forse la mia mente stava osando troppo, una tinozza dove poter lavar via il disgusto della sera appena trascorsa. Ma quando vidi dove eravamo diretti mi ricaccia nelle meningi le neonate aspirazioni.
Nel quartiere che oramai era stato varcato non solo non ci sarebbe stato un camino con del fuoco vivo al suo interno, e tanto meno una vasca per il bagno, ma dubitai perfino che avremmo trovato una casa con tutte le travi sul soffitto e quel pensiero mi fece sentire male.
Non ero mai stata una persona con la puzza sotto il naso, per il tipo di educazione che avevo ricevuto il mio carattere era stato forgiato per sopportare ogni genere di situazione, anche la più avversa, eppure mi sorpresi insofferente davanti a quella circostanza.
Lasciammo la strada principale e ci addentrammo lungo la Senna, verso una via secondaria che riconobbi immediatamente, ci trovavamo nel sobborgo di Les Halles e quel posto mi colpì da subito col fetore delle proprie interiora. Il nostro cavallo era stato invitato a seguire un movimento lento, al passo, così che ebbi modo di guardare con attenzione ciò che mi stava attorno, ero già stata in quel luogo durante una ronda giornaliera con i soldati del mio reggimento, per tenere a bada i disordini divenuti una quotidiana consuetudine  nelle strade di Parigi, tuttavia non ricordavo tutta quella bruttura.
Abbassi lo sguardo sul selciato che stavamo percorrendo e mi accorsi di quanta sporcizia e letame vi fosse al di sopra, una quantità tale da serrarmi la gola.

“Qualcuno dovrebbe occuparsi di tutta questa sporcizia.”
ritrovai le parole che durante il tragitto da palazzo Jarjayes a Parigi erano sparite. Nessuno dei due aveva aperto bocca in quelle ore, io non avevo chiesto quali sarebbero state le sue intenzioni e lui non si premurò di informarmi su alcunché.

“Tu dici, Oscar? Ho sentito dire che la nobiltà gradisce un selciato molle per le carrozze.”
mi rispose di rimando André, con un tono sprezzante della voce ed io non seppi ribattere, conscia della stupidaggine che, per i tempi che stavamo vivendo, non avrebbe dovuto neppure sfiorarmi la mente. E forse perché anch'io facevo parte di quella nobiltà che guardava ma non vedeva cosa stava accadendo al popolo francese.
Mi irrigidii, raddrizzai la schiena e nel compiere quel movimento urtai contro il torace di André, rammentando quanto poco spazio vi fosse tra di noi e, mentre cercavo di condurre la ragione al di fuori della pelle, lo sentii spingermisi addosso così strettamente da provare un senso d'oppressione. Presi in considerazione la prospettiva di scivolare io stessa più avanti, ma non vi era più neppure un lembo di seggiola da occupare, per cui rimasi immobile, attenta a respirare il più lentamente possibile poiché anche quella manovra rendeva i nostri corpi ancora più serrati.

“Dove siamo diretti? Hai intenzione di alloggiare in qualche locanda?”
domandai quasi senza averne coscienza, ferma nella medesima postura.

“Una locanda è fuori discussione, a quest'ora della notte nessun oste ci farebbe entrare, a meno che...”
sentii il soffio di quelle parole sulla guancia destra e fu un primo colpo alla mia fortezza, ma non crollai, per nulla al mondo avrei mostrato quel cedimento. Non dopo le interminabili ore di cammino, che erano state croce e delizia d'una giornata paradossale.
Era stato un viaggio difficile il nostro, perché se avevo odiato il ridestarsi della mia femminilità ancor di più avevo maledetto il suo essere uomo, che non mi diede tregua, palesandosi con prepotenza in ogni suo gesto. Quando, dopo aver messo parecchia strada tra noi e palazzo Jarjayes, allarmato forse da un rumore proveniente dalla boscaglia al margine della strada, vidi le mani di André agguantare con forza le redini e subito dopo lo sentii poggiare il petto sulla mia schiena, invitandomi senza domandarlo ad assumere una posizione prona. Quella che si prende quando si ha l'intenzione di spingere l'animale oltre il limite del galoppo. Capii subito le sue mire e non opposi resistenza, mi adattai alla sua forma e mi tenni il più stretta possibile all'estremità della sella, e prima che potessi anche solo formulare un nuovo pensiero le sue braccia mi si chiusero attorno e così pure le gambe, a ridosso delle mie cosce.
Vorrei poter raccontare, come declamerebbe un commediante, di brividi e palpiti d'amore, ma così facendo mentirei soltanto nel tentativo di occultare qualcosa di più terreno, che nulla ha da invidiare al romanticismo, ma che possiede a suo vantaggio un elemento più appagante.
Lo stomaco prese a dolermi senza strazio, come se un'invisibile mano vi fosse comparsa all'interno per agguantare le viscere, e li, in una profondità del ventre, qualcosa al suo interno si contrasse.
Una fitta, che non fu amara e neppur tenue, mi fece dono d'una movenza liquefatta che cominciò a pulsare nell'abisso del mio grembo.
Era dunque quello il piacere a cui innumerevoli poeti avevano dedicato poemi? O si trattava forse di quella bramosia che m'ero premurata di rifuggire da quando le fattezze di bambina m'avevano abbandonato?
Durante tutta la peregrinazione decisi di godere della vicinanza di colui che conoscevo da una vita intera e, sopra ogni altra cosa, mi lasciai guidare dall'ondeggiare del cavallo, così deliziosamente malevolo che mi ritrovai ad apprendere ciò che non mi era stato insegnato, rincorrendo l'andare e venire delle nostre forme, al fine di aumentare il diletto appena scoperto.

“...tutte le locande sono chiuse, perfino la taverna dei “Tre cavalieri”. Strano, solitamente c'è sempre qualcuno che tenta di portare all'interno qualche cliente...”
mi accorsi che André aveva seguitato nel chiacchierare solo quando fermò il cavallo ed io mi ridestai dalla visione dei miei pensieri. Seguii la direzione della sua mano che indicava una vecchia insegna di legno, sulla quale vi erano raffigurati tre cavalieri a cavallo e tre scheletri che stavano loro davanti, e riconobbi in quella illustrazione una leggenda medievale, quella dei Tre morti e dei tre vivi (1).
Mi sfuggì un sorriso, riflettendo sull'ennesima ironia di quella notte e provai a trovare un ordine nel garbuglio dei discorsi che, distratta, avevo ignorato.

“A meno che? A quale condizione ci si aprirebbero le porte delle taverne?”
domandai, ricordando una frase lasciata in sospeso chissà quanto tempo addietro, troppo mi venne da pensare, perché lui impiegò un'eternità per rispondere.
Ruotai il capo alla ricerca d'una replica che non voleva giungere e trovai sul volto di André un'espressione dubbiosa, le sopracciglia erano corrucciate e la bocca lievemente dischiusa, poi sembrò riaversi, come fosse stato pungolato da uno spillo.

“Se fossimo due uomini in cerca di compagnia e con del denaro sonante nelle tasche, Oscar.”
la mia curiosità fu soddisfatta più di quel che avrei voluto.

“Allora cosa stiamo aspettando? Ho del denaro e...”
proposi, decisa a porre fine al tormento che il suo corpo mi stava infliggendo.

“Non mi pare il caso Oscar. Se l'oste decidesse di aprirci le porte, e sottolineo se, non lo farebbe per alloggiare un paio di uomini per la notte. No, quel disturbo implicherebbe il pagamento di una stanza e la compagnia d'una donna. E non ci potranno essere giustificazioni per declinare l'offerta, e perdonami, ma questa notte non ho alcuna voglia di fare a botte.”
replicò prontamente, esponendo quel che sarebbe dovuto essere ovvio anche per me.
Avrei voluto trovare una soluzione ma la resa mi serrò le labbra, permettendo solo ad uno sbuffo di discorrere al mio posto.

“Non darti pensiero Oscar, c'è un posto, non molto distante da qui, dove possiamo andare.”
il tempo che impiegò a concludere la frase fu quello che ci volle per giungere a destinazione.
Terminammo il nostro cammino in Rue de la Lingerie e più precisamente in un appartamento che stava dirimpetto ad una bottega di cucitrici. Le cucitrici di bianco, enunciava l'insegna impreziosita da un bordo di pizzo finemente lavorato.
Avevo sentito parlare di quelle botteghe durante uno dei tanti discorsi che venivano pronunciati alla Reggia di Versailles, era li che le dame di compagnia, le preferite, o per meglio dire le galoppine delle virtuose nobildonne, si recavano a comperare cuffiette, scialli ed altri fronzoli alla moda. Si vociferava che le ragazze prese come apprendiste fossero rinomate per la loro bellezza e, tra le molteplici maldicenze, di non aver fama d'essere particolarmente virtuose. Mi attardai a riflettere su quel particolare così fastidiosamente futile; una donna, a cui la provvidenza ha fatto dono della bellezza, sarà irrimediabilmente destinata a perdere l'onestà e darsi al vizio?

“Hai intenzione di rimanere fuori tutta la notte?”
la voce di André, così come la sua mano che mi invitava ad entrare, mi riportarono all'afosa notte parigina.
Varcai la soglia e studiai il nuovo ambiente, che mi si mostrò da subito per quel che era; uno stanzone spoglio che, con molta probabilità, comprendeva l'intera planimetria dell'appartamento. Non vi era divisione tra quello che avrebbe dovuto essere il salotto e la cucina, riconoscibili soltanto dal mobilio differente che ne caratterizzava la funzione e, oltre la sola apertura che era priva però dei battenti d'una porta, azzardai vi fosse una camera da letto.
Malgrado la sistemazione di fortuna ringrazia il cielo d'avere un tetto sopra la testa, ma neppure quello riuscì a placare l'apprensione che mi agitava le mani.
La preoccupazione virò ai soldati della guardia, ai dodici uomini che erano ancora rinchiusi nella prigione per una scelta che, seppure presa in piena coscienza, mi pesava sul cuore come un macigno.
Non ero morta, e non sarebbero morti neppure loro poiché avrei fatto qualsiasi cosa per salvarli.
Girai i tacchi e calpestai alla rovescia i passi che avevo compiuto poco prima, pronta a lasciare quella casa per fare ciò che andava fatto.

“Oscar, dove stai andando?”
lo stupore e la stanchezza, li riconobbi già quando gli sentii articolare il mio nome.

“Devo parlare con Bernard, sono sicura che lui potrà fare qualcosa per salvare i miei soldati...”
rivelai con una determinazione tale d'essere riuscita a convincere anche me stessa.

“Domani, ci andrai domani. Forse non te ne sei accorta, ma la mezza è passata da un pezzo e sarebbe indelicato presentarsi a quest'ora alla porta di un uomo sposato.”
André aveva la capacità di smorzare qualsivoglia entusiasmo, con la delicatezza d'un pachiderma. Ma indubbiamente aveva ragione, il momento sarebbe stato inopportuno.
Non mi voltai subito, di proposito scelsi di mostrargli le spalle, perché mi terrorizzava il pensiero di vedere sul suo volto il velo del rammarico.
Bernard, che ti è così similare nelle fattezze, colui che ti ha privato della luce di un'iride, ha abbracciato l'amore ed ora può dirsi, nel bene e nel male, d'essere un uomo sposato.
E tu, vorresti la stessa cosa? È quello che vorresti per noi?
Nel pronunciare quel Noi, nel segreto della mia mente, percepii le guance ardere con prepotenza.
Trassi un respiro profondo e mi obbligai ad affrontare il suo sguardo, augurandomi che il rossore delle gote si fosse dissolto, anche se il calore al di sotto della pelle era ancora vivo.

“Credi che potrebbe esserci qualcosa da mangiare?”
chiesi per togliermi da un imbarazzo che soltanto io sapevo esistere, con un accenno di disagio per quella richiesta che mi parve fastidiosa. Vi erano questioni di vitale importanza da risolvere, come l'ira di mio padre, il destino dei miei soldati, o il fardello del tradimento Reale, ed io stavo mettendo al di sopra di ogni cosa i richiami del mio stomaco. Mi domandai con quale forza la povera gente riusciva a seguitare a vivere, ogni dannato giorno creato dal signore, con i morsi della fame.
Avrei voluto piangere, non per me stessa, ma per la disumana condizione che stava prosciugando la mia amata Parigi, ma ricacciai indietro le lacrime e tallonai André, già all'opera nella vana ricerca di viveri.
Intraprese una comica caccia al tesoro rovistando nei cassetti e nelle ante della credenza, e perfino nel comò in quella che avevo giustamente immaginato fosse la stanza da letto, ma non trovò nulla di commestibile, neppure un tozzo di pane raffermo. Scovò invece, sul fondo d'un cassone, una fornitissima riserva di vino, di mediocre qualità.

“Non è pane e formaggio, ma ci riempirà lo stomaco ugualmente.”
sentenziò André, e così dicendo afferrò una bottiglia, prese un paio di bicchieri dalla dispensa e, poggiati sul tavolo, li riempì fino all'orlo.
Si sedette su una delle sole due sedie che vi erano ai capi opposti del piccolo tavolo, invitandomi a favorire di quell'insolito desinare, spingendo il calice nella mia direzione.
Quella di ingurgitare del vino scadente a stomaco vuoto fu una pessima idea, ma l'appetito si stava facendo insopportabile e, al diavolo, persino la ragione reclamava un po' di stordimento.
Da principio ne bevvi a piccoli sorsi, per permettere alla bocca di abituarsi ad un gusto nuovo, non cattivo, quello no, ma differente. Con una punta di acredine che tanto somigliava a quella nuova vita.

“Dunque, di chi è questo appartamento?”
gli chiesi, rimanendo in piedi, addossata alla vecchia credenza praticamente vuota.

“Si potrebbe definire un appartamento d'appoggio, per quei soldati che non hanno una casa. Lo si può affittare per pochi soldi.”
rispose atono, gingillandosi col tappo di sughero della bottiglia, che correva avanti e indietro, tra le sue dita.

“E tu non ce l'hai una casa, André?”
si vestirono col presagio del dubbio, le mie parole. Temevo la verità ma nel contempo ero impaziente di conoscerla.

“Ci sono stati molti cambiamenti nella mia vita. Ed uno di questi è che non mi sento più a casa, a Palazzo Jarjayes.”
così dicendo sollevò il volto dal proprio gioco e mi guardò, come non aveva più fatto da anni. E nel suo unico occhio sano lessi qualcosa che mi straziò il cuore. E dovetti abbassare le palpebre per nascondere la vergogna.




(1) La leggenda sembra derivare da un racconto incluso nei "Dits moraux" scritto da Baudoin de Condé. Essa narra di tre giovani cavalieri durante una partita di caccia che scoprirono tre cadaveri. Essi sono atterriti da questo "specchio..", che risulta però benefico, in quanto i tre morti ammoniscono sulla vanità dei piaceri terreni. Alcune varianti aggiungono che i tre morti si rivolgono a turno ai tre cavalieri dicendo : "Io fui Papa", dice il primo ; "Io fui Cardinale", dice il secondo ; "Io fui Notaio apostolico", dice il terzo : E poi, tutti assieme :"Voi sarete come noi : potere, onore, ricchezza sono vani". I cavalieri fuggono via ma, poco dopo, essendo loro apparsa una croce, si rendono conto di aver avuto un avviso dal cielo. Spesso, nella versione italiana del soggetto, all'apparizione dei tre morti è presente anche il monaco Macario, che reca in mano un cartiglio in cui è scritto l'ammonimento "Voi sarete quel che noi siamo".
La figurazione del Camposanto di Pisa è tra le prime manifestazioni del tema nella grande arte, mentre le sculture del portale della chiesa degli Innocenti a Parigi, con il medesimo soggetto, fatte eseguire nel 1408 dal Duca di Berry, e che andarono perdute nel Seicento con la demolizione del portico, furono la rappresentazione più popolare che il Medioevo avesse avuto della Morte.

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Capitolo 6
*** Cantaride ***


Tenni gli occhi fissi sul pavimento per un tempo che mi parve infinito e li ricondussi alla giusta altezza solo quando il fluire d'un suono liquido attirò la mia attenzione e, nel seguirne la melodia, incrociai nuovamente quello sguardo che speravo essere ormai perduto.
Sostenni la sua vista fingendo indifferenza, come un perfetto soldato dinnanzi al proprio nemico, osservandolo riboccarsi l'ennesimo bicchiere di vino.

“Quindi, vivi qui ora?”
ostinata come solo io riuscivo ad essere, pretendevo una nuova risposta quando l'ultima stoccata di André ancora mi risuonava nelle orecchie, come un rumore fastidioso.

“Di tanto in tanto.”
fu la sua risposta, vaga come tutte le parole che gli avevo sentito pronunciare dall'inizio della nostra fuga.

“Capisco.”
ribattei distrattamente, allontanandomi dalla credenza per versarmi dell'altro vino, che bevvi tutto d'un fiato, ed ancora una volta copiai la medesima azione, ed una seconda, vi fu perfino una terza. La brodaglia era pessima, ma faceva il suo dovere. La fermezza dell'alcol prese a mescolarsi col sangue, al di sotto delle vene, rendendo cedevole ogni singolo muscolo del mio corpo.
Un calore improvviso mi si avvinghiò alle viscere, stordendomi. Mai bere a stomaco vuoto, sussurrai appena, ma non permisi al malessere di sopraffarmi e caparbiamente intentai una lotta contro i bottoni della giubba, nel tentativo di liberarli dalla costrizione delle asole. L'impresa si rivelò alquanto ardua, ma riuscii a portarla a termine, togliendomi di dosso l'indumento umido di pioggia e gettandolo poi a terra con noncuranza. Riservai lo stesso trattamento alla mia fedele spada, che ritrovai come sempre sul fianco sinistro. Slegai la cintura con un veloce gesto della mano e l'adagiai sul tavolo.

“Credi che la Regina...”
domandai lasciando incompiuta una frase che non aveva bisogno d'essere conclusa, poiché quel timore, che era stato lo stesso di mio padre, aveva quasi ucciso entrambi. Avrei dovuto preoccuparmi del mio destino, ma riuscivo a pensare soltanto a ciò che avevo udito un attimo prima. André aveva dimorato li, pagando del denaro ad un affittacamere come un qualsiasi soldato senza casa. Avevo affermato di capire, ma era stata solo una bieca menzogna per ignorare la verità. Non lo accettavo, perché riconoscerlo avrebbe significato affrontare quella parte di colpa che mi spettava di diritto. E, allora, non era mia intenzione farlo.

“Che differenza vuoi che faccia ora. Ti rendi conto di quello che abbiamo fatto?”
il pragmatismo di André mi colse inaspettatamente, come un manrovescio ben assestato, chiarendo che, quella scelta che per me aveva ancora l'aspetto dell'errore, era stata compiuta da entrambi. E che recriminare non ci avrebbe portato da nessuna parte.
Ero pienamente cosciente di ciò che avevamo fatto, ma in quel luogo, nella desolazione del centro di Parigi, tutto mi parve improvvisamente lontano. Perfino la sofferenza divenne quasi dolce, quasi, perché mi bastò udire un tuono solitario per ricadere nell'inquietudine di quella giornata.

“Vuoi dire che non si potrà più tornare indietro? È questo che mi stai dicendo?”
quasi mi stupii nell'udire la mia voce proferir tali parole. Dopotutto desideravo tornare a palazzo Jarjayes? Davvero ero disposta a chinare il capo dinnanzi a mio padre, dopo averlo oltraggiato? Era così forte la paura dell'ignoto, di tutto ciò che per me era sconosciuto, da superare perfino la dignità?
Non seppi, o non volli colmare quell'interrogativo e André non mi venne in aiuto. Se ne stava immobile al capo del tavolo, con la bottiglia di rosso stretta nella mano, meditabondo sul da fare, cedere all'oblio della sbronza o difendere la ragione?
Io optai per l'oscurità della mente. Tracannai l'ennesimo bicchiere di vino, tralasciando quel garbo che era stato l'orgoglio dei miei modi e per il quale avevo ricevuto complimenti e ammirazione, per abbracciare un lato decisamente più ruvido del mio essere.
Una goccia di liquido scarlatto sfuggì alla lingua, la sentii rovesciarsi all'angolo della bocca e scivolare oltre le labbra, in una corsa che avrebbe visto la propria conclusione alla fine del volto, ma ch'io bloccai con il dorso della mano.

“Dovresti darci un taglio, Oscar.”
mormorò appena André, e quel suo riguardo mi risultò stomachevole, più del beverone che mi stava riempendo lo stomaco.
Determinata ad avere un confronto diretto con lui, compii qualche passo per raggiungere quel lato della tavolata che mi avrebbe dato modo di fronteggiarlo. Posai le mani sul pianale e mi impossessai del suo calice, dissetandomi con quel liquido che a lui non interessava più, ed una volta svuotato lo rimisi al proprio posto.
Lui non reagì in alcun modo, non tentò neppure di fermarmi, rimase seduto con lo sguardo fisso su di me. Quella sua compostezza, che rasentava la perfezione, mi irritò oltremodo e, riacquistata una posizione eretta, gli strappai la bottiglia dalla mano e mi ci attaccai.
Ingollai quel che rimaneva del contenuto e poi la lasciai cadere a terra, con aria di sfida. Ero in attesa d'una sua reazione e quando fui certa che non ci sarebbe stata alcuna replica, mi arresi, vinta dall'impossibilità di sfogare il tumulto che m'agitava i nervi.
L'ebrezza alcolica mi stava dando alla testa quasi quanto il terrore per le naturali conseguenze che, la mia scelta, avrebbe portato con sé. Potevo salvare i miei soldati, ma cosa ne sarebbe stato di me stessa? Vivevo in un mondo fatuo, nel quale ero stata privata d'ogni genere d'orpello: il nome, il rango, il titolo, una carriera, divenendo soltanto un mucchio d'ossa e di carne.
Il cuore mancò un battito a quella visione, concepita dalla sbronza ormai alle porte della lucidità, eppure, al di là dell'allucinazione, mi sentivo realmente in trappola. Come un animale selvatico imprigionata in un posto forestiero, senza via d'uscita, con un uomo che non potevo guardare, perché la sua sola presenza risvegliava quella parte di me che avevo impiegato anni a soffocare.
Presi una decisione, se dovevo fare qualcosa l'avrei fatta bene: mi diressi verso la panca che conteneva la riserva d'alcol ed agguantai una fiaschetta di quello che riconobbi essere del liquore, d'una certa qualità a dir il vero. Tolsi il tappo e ne assaporai un paio di sorsi, beandomi d'un gusto invitante e piacevolmente violento, che mi fece quasi cedere le gambe.
Sentii di aver bisogno di camminare per far defluire il sangue, girai su me stessa e mi imbattei nella figura di André, ad un palmo dalla mia.

“Hai bevuto abbastanza, dai qui!”
gli sentii dire nel momento in cui si portò via il liquore e l'ultimo velo della mia pazienza. Non persi tempo con inutili proteste verbali, mi ripresi la bottiglia con una rapida mossa e, dopo aver incollato le labbra al bordo, ne succhiai il contenuto finché mi riuscì. Fino a quando le budella non mi si contorsero.

“Tu, hai bevuto abbastanza!”
sibilai quasi a ridosso della sua bocca con lo sguardo rimpicciolito dall'ira e lo lasciai li dov'era, sorpassandolo senza più curarmene.
Ero impazzita, irrimediabilmente persa nel fumo che preannunciava il divampare di un incendio, che ne fui sicura fin dal principio, mi avrebbe trascinata in mezzo alla sventura.
Mi aggiravo nell'ambiente circostante con passo malfermo, con il collo della bottiglia stretto nella mano sinistra, impegnata ad osservare gli elementi più insignificanti che mi stavano attorno, immaginando quanti e quali individui avessero calpestato quello stesso suolo.
Qualcuno dei miei soldati? Alain? E magari delle donzelle compiacenti che...
Stroncai qualsiasi supposizione riempendomi la gola con dell'altro medicamento e ricominciai la singolare ronda.
La stanza principale era fornita di un piccolo camino, ricavato con del grezzo mattone rossastro e, sulla mensola di pietra grossolana, vi erano adagiate dei mocci di candela consumati ed un libro. Sfiorai con la punta delle dita la copertina, il bordo, l'angolo esterno, fino ad aprirlo. Ne sfogliai le prime pagine lanciando occhiate superficiali tra le scritte fitte ed ordinate, finché una leggera sottolineatura non attirò la mia curiosità.

“Trovare una forma di associazione che difenda e protegga, mediante tutta la forza comune, la persona e i beni di ciascun associato e per mezzo della quale ognuno, unendosi a tutti, non obbedisca tuttavia che a se stesso e rimanga libero come prima.” (1)

Conoscevo quel testo, così come il proprietario del volume, ma ne ebbi la conferma quando ne ispezionai il frontespizio;

André Grandier, Versailles 22 aprile 1786

Quello di apporre la firma e la data su ogni libro letto era uno dei pochi vezzi che si potevano attribuire ad André, una bizzarria che poco si confaceva con il suo stato di servo, prima, e di attendente in seguito. Per quel che mi riguardava non vi era nulla di strano, al contrario, quella premura così sentimentale lo aveva reso, da subito, affine al mio modo d'essere.
Da che ne avevo memoria era rassicurante, per me, ritrovarlo tra le facciate dei libri che tanto avevo amato.
Conforto che non provai quella notte.
Richiusi il tomo lasciandomi alle spalle il salotto, o in qualsiasi altro modo si sarebbe potuta descrivere la stanza, e mi affrettai ad irrompere nella camera da letto. Subito mi balzò agli occhi il grande talamo, con le lenzuola disordinate, i guanciali abbandonati sul fondo del materasso, e, tra una piega e l'altra d'una coperta due scatoline di latta. La prima, aperta, conteneva quello che mi parve del fattibello (2), lo identificai facilmente poiché era stato oggetto di una furiosa discussione la sera del mio ballo a Versailles, in abiti femminili. La vecchia governante scomodò tutti i santi del paradiso, e il diavolo in persona, per persuadermi a farne uso, ma fui irremovibile nel mio diniego, impedendole di usarlo.
La seconda era decisamente più consunta, ne forzai il coperchio trovando al suo interno una finissima polvere trasparente e un lembo di carta piegato, lo svolsi; Cantaridina (3), riportava la scritta, insieme alle dosi di somministrazione. La mente mi si colmò di vergognosi scenari, che mi stupii d'essere capace anche solo d'immaginare, ed un sorriso mi dischiuse le labbra. Gettai il capo all'indietro e presi a ridere come non ricordavo d'aver fatto da secoli.
Proseguii nella mia esplorazione e mi trovai dinnanzi ad un comò di poco valore, sul quale la mancanza d'una specchiera era più che evidente, al suo posto era stato poggiato un pezzo di vetro, della dimensione sufficiente a catturare uno scorcio di viso.
Il mio.
Osservai la metà del volto visibile nel sudicio specchio e nell'effige che rimandava scorsi tutti i miei dubbi.
Chi dovevo essere? Il soldato del quale era rimasta solo l'ombra o la donna dall'altra parte del cristallo?
Aprii la mano destra dentro cui vi avevo trattenuto la latta di belletto e, nella macchia colore vermiglio, vi immersi il dito, avvertendo una consistenza insolita, paragonabile alla morbidezza del velluto. Col polpastrello imbrattato disegnai il contorno delle labbra, rendendole rosse, piene.
Guardai la mia bocca riflessa nel coccio di vetro assumere un'espressione impertinente, e mi domandai se una semplice chiazza di colore potesse rendere una persona dissimile, nel fondo dell'anima, da ciò che era sempre stata.
Rispondevo ancora al nome di Oscar Francois ma qualcosa dentro di me era stato liberato, forse la colpa era da attribuire a tutto l'alcol bevuto, perché in nessun altro modo avrei potuto spiegare l'audacia che mi stava scivolando sulla pelle.
All'erede dei Jarjayes era stata concessa un'esistenza pregna di libertà, un'istruzione elevata e innumerevoli benefici, ma per quel che riguardava il cuore la prigionia era stata delle più crudeli. Come ultima figlia femmina della famiglia Jarjayes, invece, mi sarebbe stata consentita qualsiasi debolezza e persino la più odiosa delle frivolezze.
Una vertigine mi colse d'improvviso confondendomi maggiormente la mente.
Avevo bisogno di bere.
Girai i tacchi, misi un piede davanti all'altro per compiere quei passi che mi sarebbero serviti per lasciare la camera e raggiungere la cucina, ma quando arrivai all'uscita vi trovai André a bloccarne il passaggio.

“Che cosa mi nascondi?”(4)
l'inaspettato mi colse di sorpresa, come colpì anche lui. Non mi sfuggì il suo stupore quando abbassò lo sguardo sulle mie labbra.
Cosa vuoi che ti risponda André? Cosa vuoi sentirmi confessare?
Che devo convivere ogni maledetto giorno con la consapevolezza d'essere la causa di dolori, e dispiaceri, per le persone che stanno al mio fianco? Tu hai perduto un occhio, mio padre la ragione.
Cosa debbo essere, per spazzar via tutto questo strazio?

“Niente, Andrè. Ora se vuoi scusarmi, vorrei...”
non mi diede il tempo di terminare, inchiodò le mani allo stipite del varco e concluse la frase al mio posto.

“...andare a bere? Ora basta, Oscar. Credi davvero che tutta questa situazione sia complicata solo per te? Ti sei fermata a pensare, anche solo per un istante, che anch'io ho messo in gioco la mia vita?”
non vi era amarezza nella voce, delusione forse, stanchezza senza ombra di dubbio.

“Avresti dovuto lasciare che mi uccidesse.”
gli gettai addosso quel fardello con una severità che non seppi spiegarmi.

“Taci...”
sussurrò appena, mutando la sfumatura della propria tonalità. Un avvertimento a non osare oltre.

“Cosa dovrei fare ora, essere la donna che tu vuoi che sia?”
fissai i miei occhi al suo sguardo, lasciando discorrere finalmente il cuore.

“Semplicemente dire, grazie André, ti è troppo difficile?”
eluse la mia domanda offrendomene una nuova. Un gioco che mi ricordava i nostri duelli, ma dove le armi erano più letali della lama d'una spada.

“E in che modo dovrei ringraziarti André? Com è che dovrebbe ringraziare... una moglie?”
mi feci così vicina da percepire il profumo alcolico del suo respiro. Innalzai il mento per mostrare tutta la mia risolutezza.

“Ti stai comportando in modo ridicolo, Oscar.”
anche lui, se possibile, cancellò la poca distanza che vi era tra noi. Scandì quasi ogni singola parola, marcando con la promessa della furia il mio nome.

“Avresti dovuto lasciare che...”
lo sfidai, incollerita. O quantomeno ci provai, la mia mossa venne intercettata e fu lui ad attaccare me.

“Taci... taci...”
il palmo della sua mano mi sigillò le labbra, piantandomisi addosso con una tale veemenza da farmi indietreggiare, quasi perdendo l'equilibrio. Ma non successe, il suo braccio mi cinse la vita e la mano libera si puntò al centro della mia schiena, tenendomi salda e legata a lui.
Lo sentivo ringhiare contro il dorso della propria mano, ordinarmi di tacere.
Ubbidii, la mia gola divenne muta e gli arti, abbandonati mollemente lungo i fianchi, non opposero resistenza.
Poi d'improvviso mi lasciò andare, il nostro abbraccio si allentò e la mano che mi era stata premuta sul viso divenne leggera. Le dita mi percorsero la bocca e con una prepotenza inattesa si portarono via il belletto.

“Non voglio che tu sia diversa da come sei. Non mi aspetto alcun ringraziamento. Ma non provocarmi con queste sciocchezze, Oscar.”
parlò guardandomi dall'alto della sua statura, nettandosi la mano macchiata di rosso sulle braghe della divisa. E nel non detto rimasto a mezz'aria odorai l'ennesimo ammonimento.

“Cosa succederebbe se invece lo facessi...?”
bacco annunciò quella follia, ma fui io, in piena coscienza, a trasformare in gesti le parole appena pronunziate.
Sollevai la mano verso la sua fronte sfiorandola appena, infilai le dita tra le ciocche di capelli che nascondevano l'occhio ferito e li scostai. Arrestai il palmo sul capo, giusto il tempo d'un sospiro, e subito dopo lo lasciai scorrere verso il basso, dove le dita gli carezzarono con pesantezza la guancia,  ed il pollice osò inseguire le labbra, precipitando infine oltre il mento.
Dove vi era stata il tocco andò il mio volto, ricalcandone la scia, e fu così che ci ritrovammo fronte contro fronte, così vicini da poter respirare l'alito dell'altro.

“Grazie...”
sussurrai appena, ai margini della sua bocca.









(1) Il contratto sociale – Jean-Jacques Rousseau - 1762
(2) L'antenato del rossetto, una sostanza di allume, gomma arabica e insetti schiacciati.
(3) La polvere o la tintura di cantaride usata come afrodisiaco e abortivo; se assunta in forti dosi può essere letale. La sua azione vescicante e fortemente irritante dell'apparato urinario poteva provocare sicuramente un'erezione che però veniva pagata dall'utilizzatore con danni renali e purtroppo a volte anche con la morte per insufficienza renale acuta.
(4) Domanda che André rivolge ad Oscar nell'episodio 36 dell'anime.
Un ringraziamento speciale a Crissi, per avermi imboccata sulla retta via (o era la giusta...), durante una delle nostre folli conversazioni. Grazie!

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Capitolo 7
*** Maschere ***


Si, ora rammento ogni cosa e mi domando come è che non abbia ricordato tutto destandomi questa mattina, ma forse è vero quel che si dice, che la memoria cancella ciò che la mente non può sopportare. Come un dolore troppo forte.
Ed io lo sento, quel dolore, vivido come la presa delle mani di André sulle mie braccia, un'inezia paragonato alla sofferenza del cuore, della notte appena lasciata.
Lui non si mosse e non proferì verbo, quando lo ringraziai, la rabbia che lo aveva portato a bloccare la mia crudele sfida sembrava non essere mai esistita. Eppure l'avevo veduta montare nel verde del suo sguardo, bruciandolo fino a velarlo con una tonalità cupa e spaventosa, e l'avevo sentita nella sua carne, quando mi toccò come non aveva mai fatto. Nel palmo della sua mano percepii tutta la sua ambivalenza, desiderava farmi male per quel che la mia bocca, lordata dal belletto, aveva osato dire, ma al tempo stesso vi era un ardore che nulla aveva a che spartire con l'ira. Quelle dita premute sul viso e così pur il tocco della mano che m'aveva impedito di perdere l'equilibrio, narravano una storia differente. Di una brama che deve essere incatenata, per non far scempio della preda.
Amore e odio. Istinto e ragionevolezza.
Non compresi le sue ragioni, non subito almeno, mi limitai ad ascoltare le mie. Staccai la fronte dalla sua e abbassai gli occhi sulla bocca, che il mio respiro fattosi parola aveva lambito d'una gratitudine incerta, e su di essa mi persi. Ne osservai i contorni ben definiti, la forma piena, il colore, d'un rosso intenso, umido, forse a causa del vino, e mi resi conto di non averne memoria negli occhi, ma in un bacio violento e disperato. Dovetti mordermi il labbro per placare il piacere che provai, anche solo guardandolo.
Proseguii la mia esplorazione oltre il mento, dove vi era un filo di barba e giù lungo il collo, visibile solo in parte nello spazio creatosi tra un lembo e l'altro della camicia. E proprio sul tessuto di mussola posai le mani, stringendole attorno al colletto, con una flemma inattesa, imperturbabilità che mancò ad André. Il suo pomo di adamo, un particolare che, negli occhi degli individui più attenti avrebbe palesato con la propria presenza il suo essere uomo, e nella sua assenza su di me il mio essere donna, prese a muoversi su e giù, per inghiottire la sorpresa di quel mio osare.
Lasciai che le dita scivolassero verso il basso fino ai bottoni, dove cominciarono a scioglierli dalle asole, sfiorando appena la pelle del torace ogni qualvolta i lembi dell'indumento venivano disgiunti.

“Fermati.”
la sua voce arrivò quando giunsi all'altezza del ventre, dove mi arrestai, a capo chino.

“Guardami, Oscar.”
non mi allontanò, non tentò neppure di forzare quella richiesta, bastò la sua voce nuovamente altera a farmi innalzare il viso. Lo guardavo con le mani ancora aggrappate al bordo della camicia ormai quasi completamente aperta.   

“Ti sto ringraziando, permettimi di farlo...”
gli rivelai il mio intento priva di vergogna, tirai la camicia al di fuori dei pantaloni e ne forzai gli ultimi bottoni. Posai le mani sul suo addome accaldato, pelle contro pelle, e lo sentii respirare profondamente.

“Non negare che è quello che vuoi...”
lo incalzai nel tentativo di condurlo dalla mia parte, in un luogo dove eravamo già stati tanto tempo addietro, forse una vita fa.

“Credi davvero che voglia questo? Del mero appagamento della carne? Per averlo mi basterebbe attraversare la via.”
Divenni sorda alla sue parole, coscientemente decisi di ignorarle. Forse fu l'alcol a corrodere l'ultima ritrosia virginale, trasformandomi in un essere privo di coscienza, come un animale famelico che farebbe qualunque cosa pur di riempirsi lo stomaco, perché l'azione che compii di li a poco fu l'apice della follia di quella notte. Gli nascosi i miei occhi e cominciai a slacciare la cintura delle sue braghe.
Mi afferrò per le braccia prima che avessi modo di aprire la patta, mi scostò e si fece serio. Le dita m'impugnavano gli avambracci con forza, dovetti serrare le labbra per impedire la fuoriuscita di un lamento, ma non vi riuscii per molto. Mi strattonò finché sputai un alito di fiato, che fino a quel momento, testardamente, m'ero premurata di trattenere.

“Credi che mi approfitterei della situazione? Per chi mi hai preso, Oscar?”
mi urlò addosso, strattonandomi ancora, senza più alcun riguardo.

“Per un uomo che ha affermato di volermi sposare, prima ancora di domandarlo a me!”
urlai anch'io per sovrastare la sua voce, gettandogli addosso il mio sguardo più crudele. E subito me ne pentii, perché mai mi ero ritrovata nuovamente a rinfacciarglielo?

“Vuoi sposarmi, Oscar?”
mi chiese, con un sorriso pungente, prendendosi gioco di me.

“Io...”
tutto ciò che avevo avuto nella testa fino a  quel momento scomparve e la sola parola sopravvissuta  si gettò oltre le labbra, debole e priva di consistenza.

“Io... André, io... non ne posso più di sentirtelo ripete. Smettiamola di prenderci in giro, vuoi? Ho detto di volerti sposare, non perché mi aspettassi una tua risposta, ma per potermi sentire finalmente libero.”
esitò qualche secondo, staccò le mani dalle mie braccia e continuò a parlare.

“E non provare a dire che hai cercato di...”
dove non giunse la voce arrivarono i gesti, abbassò il capo e presa ad allacciare la cintura dei pantaloni.

“...solo perché hai creduto che io pretendessi qualcosa da te, dopo la confessione a tuo padre. Stai offendendo la mia intelligenza Oscar. Tutto quello che hai fatto stanotte, dalla più piccola sciocchezza, riguarda solo te. Ti amo, è vero, ma sono stanco d'essere lo sfogo per i tuoi problemi.”
ritrovò la tranquillità perduta nella pacatezza che aveva accompagnato la predica, ma che mancò nel tocco, quando, ancora una volta, mi afferrò per il braccio e mi condusse davanti al vecchio comò della camera da letto. Sistemò il pezzo di vetro di modo che mi ci potessi riflettere e lo scorcio di immagine che vidi mi squarciò il cuore.
Vedevo la mia figura ma non riuscivo a riconoscermi; i capelli in disordine mi incorniciavano il volto così pericolosamente bianco da sembrare quasi diafano, l'azzurro degli occhi, ridotti a delle fessure, mi parve pallido come quello d'uno sguardo morente. Sbattei le palpebre un paio di volte per ritrovarne la lucidità ma non ci fu mutamento, rimase la vacuità alcolica e null'altro.
Infine le labbra, che avevo ornato col colore dell'ardire, mostrarono i segni dell'oltraggio subito. Gran parte del belletto era stato rimosso dal gesto di André e il restante era sbavato lungo la guancia, a marcarne il peccato.
Per secondi che sembrarono ore progettai di fuggire da quella visione, mi sarebbe bastato muovere un passo, uno soltanto, il secondo ne avrebbe copiato la movenza e sarei stata lontano da li, ma non ne ebbi il tempo. La sua immagine comparve nel brandello di vetro e le sue mani mi si posarono addosso, in un punto tra le spalle e il collo.

“Chi sei?”
guardai le sue labbra scandire la domanda ed il suo volto addossarsi al mio, la barba mi punse la gota sinistra, ma non mi allontanai.

“Oscar.”
risposi semplicemente, come se quella richiesta fosse lecita, quando invece era ciò che più si avvicinava ad uno schiaffo.

“No, non la Oscar che conosco. Io vedo soltanto una bugiarda.”
la sua voce raggiunse una tonalità rabbiosa, pur rimanendo paradossalmente pacata. Aprii la bocca per replicare ma le sue parole precedettero il mio intento.

“Hai indossato una nuova maschera, è cambiata l'ambientazione ma la storia è la medesima. Quale ruolo avevi intenzione di interpretare questa volta? Scappare non risolverà i tuoi problemi e di certo non aiuterà la nostra situazione. Guardati... cosa ti eri messa in testa di fare? Tu non sei questa donna. Vorrei soltanto che tu fossi qui, perché ho bisogno di te.”
ascoltai senza ribattere e quasi non mi accorsi del pianto che prese a riempirmi lo sguardo. Guardai le lacrime scavalcare le ciglia e abbandonarsi sulle guance, anche lui le vide e le sentì, perché una di queste si insinuò tra la sua e la mia gota.
Avrei voluto dirgli che si sbagliava, io ero quella donna o almeno una parte di essa, nascosta sotto il cumulo di sciocchezze e esagerazioni alcoliche. E quella donna aveva una paura del diavolo, il nome, il titolo, la carriera, avevano fatto di lei la persona che era sempre stata, ma ora, denudata di tutto era soltanto una donna spaventata per aver scoperto di provare dei sentimenti che faticava a comprendere. Ma qualcosa sapevo, anch'io avevo bisogno di lui.
Elusi la sua presa e ci ritrovammo faccia a faccia, sollevai le mani e le posai sul suo volto senza alcun inganno, sperando che quel  mio gesto potesse rimpiazzare le parole che mi era impossibile pronunziare. Io c'ero, vera, reale, con tutte le mie imperfezioni, ma ero li. Per lui. Avevo scelto di seguirlo perché di nessun altra persona mi sarei potuta fidare così ciecamente, in fin dei conti aveva rischiato la vita per me, ma la verità era che non avrei potuto fare altrimenti, da quando l'amico di sempre era divenuto il mio André.
Cercai di ringraziarlo così come avrei dovuto fare fin dal principio.
Fallii su ogni fronte.

“Direi che per questa notte hai fatto fin troppe idiozie. Non devi toccarmi Oscar, non devi, a meno che non sia io a permetterlo. Sono stato abbastanza chiaro?”
neppure lui mi toccò, staccai le mani dalle sue guance e mi voltai, dandogli le spalle, augurandomi che se ne andasse in fretta.

“Vai a dormire Oscar, ne hai bisogno.”
fu tutto quello che mi disse prima di lasciare la stanza, quello che feci io fu gettarmi sul letto, incurante della sporcizia sopra di esso. Mi misi su un fianco, raggomitolata nella posizione che assumevo da bambina quando qualcosa mi turbava i pensieri, ma quella notte vi era una sofferenza diversa, un dolore che stava scavando nel profondo dell'anima.
Permisi al male di venir fuori come forse non era mai accaduto e lui violò il mio corpo con violenza. Il rimpianto per tutto quello che non avevo fatto e detto sferrò il primo colpo in pieno petto, l'impotenza per il destino dei miei soldati si scagliò come una frustata su ogni lembo di pelle, e la paura, colei che teneva i miei polsi legati con catene di ferro, mi lacerò la carne fino a dissanguarmi. Mi arresi alle lacrime e piansi sommessamente, attenta che non mi si potesse udire, poi non potei trattenermi oltre e i singulti si presero la voce.
Mi addormentai senza averne coscienza, stremata, ma nel pieno della notte qualcosa mi destò, o quantomeno mi parve, poiché non posso affermare con certezza se si trattò di un sogno o di realtà. Una lieve carezza mi si posò sulla fronte, sul capo, in una lusinga perpetua e rassicurante, ma non mi voltai e non aprii gli occhi, immaginando fosse opera di Morfeo, ma sperando con tutta me stessa che fosse la premura dell'uomo che era al mio fianco da una vita intera.

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Capitolo 8
*** Medusa e Perseo ***


“Pensavo d'essere stato sufficientemente chiaro questa notte. Sbagliavo, ma voglio essere buono e ripeterlo un'altra volta, ma bada bene che sarà l'ultima.  
Non devi toccarmi Oscar, a meno che non sia io a permetterlo.”

Sento le parole di André aleggiare nell'aria, ma non ho idea di quanto tempo sia trascorso da quando sono state pronunciate, ho come l'impressione che siano passati un centinaio d'anni, eppure sono ancora qui nell'appartamento di Les Halles, in Rue de la Lingerie. Onestamente preferirei essere da tutt'altra parte, dopo aver ricordato ogni più piccolo dettaglio della notte appena trascorsa. Ma non mi è possibile allontanarmi perché la sua presa attorno alle mie braccia non accenna ad allentarsi, al contrario, si sta facendo sempre più forte.
Decido di non proferir verbo, più per codardia che per riguardo nei suoi confronti, limitandomi ad acconsentire col capo, muovendolo su e giù, confermando che si, ho compreso tutto e che non vi sarà più bisogno di ripetere alcunché. Ed è in questo istante che André mi lascia libera, anch'esso senza parole.
Mi allontano lentamente voltandogli la schiena, non potrei sopportare ancora una volta il suo sguardo su di me, non ora che la memoria si è degnata di ristabilirsi nella mia mente, come una corona di spine. Seguito a trascinarmi per la stanza senza coscienza di ciò che sto facendo, forse perché non voglio ammettere quel che in realtà dovrei fare.
Dovrei scusarmi ma non me la sento, perché farlo significherebbe rendere reale il peccato di qualche ora fa. Penso bene, invece, di sistemare il disordine che la mia follia ha lasciato; raccolgo le bottiglie di vino dal pavimento, i bicchieri, perfino i cocci di vetro dell'ennesimo alcolico ingurgitato. Mi accovaccio per facilitare l'azione, raccolgo i pezzi con una mano e li poso poi nel palmo dell'altra, con indolenza, persa in pensieri complicati, così lontana dal presente da non accorgermi d'essermi ferita. Non provo dolore, come se tutto il mio essere fosse anestetizzato; il cuore, l'anima, la carne, ed è proprio quest'ultima a sanguinare. Osservo la macchia allargarsi nel centro del palmo ed un rivolo scivolare oltre il bordo e precipitare verso il suolo, seguito da altre gocce gemelle. In un istante compare una piccola pozza accanto al mio piede, dove dei minuscoli schizzi sembrano creare un disegno, sulla mattonella rotta e sudicia.

“Stai sanguinando...”  
la voce di André arriva appena al mio orecchio, la sento lontana, lieve, o forse sono io a non volerla ascoltare.
Resto immobile a guardare il liquido scarlatto che fuoriesce dal taglio e non me ne curo, ma lui non ha alcuna intenzione di fare lo stesso. Mi prende la mano per togliere le schegge di vetro, una ad una, fino ad arrivare a quella che, ora posso vedere chiaramente, è per metà conficcata nella mia pelle. La estrae con delicatezza, incurante del sangue che sta sporcandogli le dita.

“La ferita è profonda, bisogna fermare il sangue.”
così dicendo, e senza tanti complimenti, afferra il mio braccio e mi fa sollevare dalla posizione in cui mi trovo, trascinandomi con lui in direzione della cucina. Abbandona la mano offesa giusto il tempo di trovare una brocca e di riempire una bacinella d'acqua, dentro cui vi immerge un canovaccio. Ed è nuovamente al mio fianco. Sostiene il dorso della mia mano premendo sul palmo lo straccio bagnato.

“Posso fare da sola...”
rinsavisco dal torpore che s'era impossessato della mia attenzione, tornando ad essere lucida. Strappo la mano dalla presa di André, schivando il suo sguardo, e la faccio affondare nella bacinella. Posso sentire l'acqua penetrare nella carne recisa, tagliente come la lama di un coltello, e poco dopo una fitta di dolore irradiarsi fino a metà braccio. Serro le labbra fin quasi a farmi male e così pure gli occhi, nel tentativo di scacciare lo strazio che ostinatamente mi sto procurando da sola. Bella trovata Oscar. Mai gettare del liquido su una lacerazione aperta.
Riapro le palpebre e mi accorgo che l'acqua ha perduto la propria limpidezza per acquisire una tonalità più oscura, torbida, colorandosi col rosso delle mie vene.
Sollevo il braccio, rubo il cencio ad André e lo avvolgo attorno alla mano.

“Hai detto di essere stato da Bernard, in che modo può aiutarci?”
Domando sinceramente interessata, seguitando a puntare gli occhi sulla fasciatura di fortuna che già si sta macchiando.

“Radunando il maggior numero di cittadini e raggiungendo la prigione dell'abazia. Non sarà facile ma Bernard è un uomo che sa come convincere le persone.”
C'è stima nelle sue parole, nonostante l'uomo del quale sta tessendo le lodi sia lo stesso che lo ha privato della vita di un occhio. André non conosce il rancore, ha la capacità di vedere l'essenza di un individuo al di là delle apparenze. Mi piacerebbe poter essere anche solo in minima parte come lui, se così fosse non avrei alcun timore a proferire le scuse che gli debbo. Ma sono dannatamente caparbia ed orgogliosa, tanto da non aver ancora sollevato il viso. Cosa mai potrebbe succedere se lo guardassi? Verrei trasformata in pietra come coloro che incrociavano il proprio sguardo con una delle tre Gorgoni?
Sorrido ripensando alla mitologia greca che tanto ci aveva affascinato in giovane età, ed alle volte che avevamo giocato a Medusa(1) e Perseo nei giardini di Palazzo Jarjayes, facendo quasi morire di crepacuore la povera Nanny, quando giungeva il momento della decapitazione della ninfa dai capelli di serpenti.

“Oscar... hai sentito cosa ho detto?”
trovo infine il coraggio di guardarlo, con un lieve riso sulle labbra. Meravigliandomi, ancora, di come la mente abbia la capacità di riesumare certi ricordi, nelle situazioni meno opportune.

“André, ricordi quando da bambini bisticciavamo furiosamente, per decidere chi di noi due avrebbe dovuto impersonare Perseo?”
domando con una naturalezza disarmante, come se non avessimo discusso d'altro fino a quel momento. Debbo essere impazzita, non vi è altra spiegazione.

“Si... certo, lo rammento ma... sei sicura di sentirti bene Oscar?”

“Immagino di no, André.”
replico senza allontanare i miei occhi da lui, consapevole di non poter rimandare oltre l'ammissione del mio sbaglio. Anche se, davvero si è trattato di un errore?
Forse. O magari, semplicemente, è stata la sola maniera che il mio goffo cuore ha ritenuto più adatta, per spogliarsi di quel sentimento che mi toglie il fiato, e mi spaventa in egual misura.
Mostrarsi forti e risoluti davanti al nemico è una delle prime lezioni che ho imparato, quando mio padre ha cominciato a forgiare il soldato che sono diventata. Attaccare prima d'essere attaccati. Strategie efficaci in battaglia, ma non in amore. E di amore si tratta, non vi sono più dubbi.
Respiro profondamente riempiendomi i polmoni, decisa a parlare delle ore oscure che hanno mostrato una Oscar differente. Dischiudo le labbra, ma il suo nome resta prigioniero sulla lingua, come l'intento del perdono.
Udiamo bussare alla porta di già aperta e sull'uscio si palesa la figura di Bernard. Non ci vediamo dai tempi del Cavaliere Nero e in lui scorgo del cambiamento. Mi appare cresciuto, ormai un uomo.

“Bernard, ti trovo bene.”
una frase di circostanza questa mia, ma che ha in sé tutta la sincerità di un lontano rispetto. Il giovane Chatelet ha dimostrato di possedere il coraggio che solo la sete di giustizia può concepire. La sua breve carriera di ladro ha portato via qualcosa a me caro, ragion per cui ho nutrito nei suo confronti, per molto tempo, un feroce rancore. Astio che è andato diminuendo col trascorrere dei giorni, delle settimane, dei mesi, alimentato dall'apprezzamento che André, invece, aveva per lui.
Come dissi una volta, un ladro è sempre un ladro, ma adesso comprendo le cause che possono portare a tale scelta. E le motivazioni del Cavaliere Nero erano giuste, onorevoli.
Compio qualche passo per andar incontro al nostro ospite, titolo che suona insolito alle mie orecchie, ma non errato. Temo che questo alloggio diventerà la nostra casa, o sarebbe più corretto definirlo rifugio, per un po'.

“Oscar, sono felice di rivedervi dopo tutto questo tempo. Mi rammarico soltanto che sia in circostanze così poco liete.”
mi si avvicina con eleganza, porgendomi la mano. Indugio nel compiere un gesto simile, preoccupata di poterlo insudiciare con il sangue che ricopre gran parte della mia mano illesa. Ma non vi è titubanza in Bernard. Mi sorride con premura e posa le dita attorno al mio polso, stringendolo appena, in segno di saluto.

“André... incontrarci sta divenendo una bizzarra consuetudine...”
ride di gusto Bernard e con lui André, come farebbero due amici. Credo che lo siano, in fin dei conti conosco così poco le abitudini del mio vecchio attendente. Ne sarei lieta se non mi sbagliassi sulla loro amicizia.
Li osservo come non mi sono mai fermata a fare, constatando quanta somiglianza ci sia tra loro. Una similitudine così forte da annebbiare le minuzie che realmente li differenzia.

“Vogliate perdonare il disturbo, ma ho creduto vi potessero servire degli indumenti, come dire, più comuni. E del cibo. Spero di non aver fatto cosa sgradita.”

“Tutt'altro, sei stato lungimirante, le uniformi attirerebbero troppo l'attenzione. E confesso che la fame si sta facendo sentire, dopo un giorno di digiuno. Non possiamo che ringraziarti.”
parla per entrambi, André, prendendo l'involto di stoffa che Bernard gli sta porgendo e il cestino di saggina che contiene della frutta e del pane.

“Grazie, Bernard. Stai facendo più del necessario, so bene che il cibo scarseggia a Parigi e...”
vorrei proseguire dicendo che non avrebbe dovuto privarsi di tutti quei viveri per sfamare noi. Un paio di giorni di rinuncia sono una sciocchezza paragonata alla fame, vera e devastante, che aleggia per le strade di questa desolata città. Lo si può percepire chiaramente, come se la carestia avesse un corpo ed un volto, addirittura un odore. Credo di averla scorta sui volti dei bambini, nei loro occhi che appaiono smisurati, sulle gote scarne. E ancora, nel lividore degli adulti che si privano del nutrimento per cederlo ai propri figli. Ed infine, nel fetore di questo quartiere, dove la povertà e la morte possiedono lo stesso aspetto. Le sembianze d'una nobiltà cieca e sorda dinnanzi alla realtà.
Vorrei scusarmi anche per questo, ma non ne ho modo. Le parole di Bernard interrompono le mie.

“Voi avreste fatto lo stesso per me. È un piacere potervi essere d'aiuto, e d'altronde non avrei potuto fare altrimenti. Rosalie non si sarebbe data pace, e non ne avrebbe dato a me, se non fossi venuto qui, oggi.”
una risata cristallina invade Bernard, riempendomi il cuore. La piccola Rosalie, a quanto pare, è rimasta la stessa di un tempo. E l'amore che quest'uomo nutre per lei è chiaro come la luce che gli illumina lo sguardo, quando la nomina semplicemente.
Rido anch'io, sommessamente, ma l'ilarità del momento ha vita breve. Il sorriso muore rapidamente sulla bocca di Bernard, preannunciando infauste notizie.

“Non siate così affrettati con i ringraziamenti. Purtroppo non vi porto buone nuove. Al contrario. Dopo la visita di André ho contattato certe persone, ho fatto qualche domanda qua e la, con discrezione. Ma sopratutto ho rubato certi pettegolezzi, sussurrati nella convinzione di coloro che credono di non essere uditi. Vestire i panni del Cavaliere Nero mi ha insegnato a diventare invisibile in mezzo alla folla...”

“Quali sono queste cattive notizie?”
Erompe André, sollecitando Bernard a procedere con maggior prontezza. Stringe le mani in pugni, con tanta forza da tremare.

“Mi hai raccontato che, mentre stavate fuggendo da palazzo Jarjayes, vi è parso di veder giungere qualcuno. Ebbene non vi sbagliavate, era un messaggero della famiglia Reale. Stando a quanto riferiscono le voci, pare che Sua Maestà la Regina Maria Antonietta, avesse concesso il perdono ad Oscar, ma...”
prende fiato, Bernard, e la forza di dover farsi portavoce di una scomoda confessione.

“...non mi è chiaro come sia possibile, eppure in certi ambienti, tra diversi esponenti della nobiltà, si è di già saputo della vostra fuga. Vi è stata di mezzo una sola notte, ma a Versailles le maldicenze si destano ancor prima del sorgere del sole.”
l'ormai estinto Cavaliere Nero mi scruta con insistenza, in attesa d'una mia reazione. Non posso accontentarlo, poiché io per prima sto aspettando il proseguo del suo racconto.

“Mi duole dover riferire ciò... e badate che nulla vi è di certo, ma... si parla di una revocazione della grazia e di un possibile esilio, o peggio, la prigionia.”

“E di André, cosa sai?”
invoco la sentenza che potrebbe condannare colui che, di fatto, mi ha salvato la vita. Non soltanto dalla furia di mio padre, ma in mille altri modi nel corso della mia esistenza.

“Poco e nulla. Ufficialmente per lui non è stata presa alcuna decisione. In fin dei conti, in merito all'insubordinazione durante gli Stati Generali, solo voi Oscar, e i soldati che vi hanno seguita, siete implicati nel tradimento. Ma...”
la sicurezza di Bernard vacilla, così come la sua voce. Ed è proprio questa indecisione che mi fa temere il peggio.
Sposto l'attenzione delle mie iridi da lui ad André. A capo chino fissa un punto imprecisato del pavimento, il corpo poggiato pesantemente al lavatoio della cucina e le braccia incrociate contro il petto, serafico. Trovo in quella insolita tranquillità una maldestra finzione, che mi si rivela nei muscoli della mascella, che si contraggono in una cadenza ossessiva.
Cosa ti preoccupa André? La tua o la mia sorte?
Conosco di già la risposta, eppure sono così sciocca da dubitarne, in buona fede, certo. Ha sempre anteposto la mia vita alla sua e, se dovesse pagare per questo, non sarei in grado di perdonarmelo.

“...come vi ho detto poc'anzi, stanno circolando delle chiacchiere sulla vostra fuga. Quello che non sapete è che questa storia, riportata di bocca in bocca, ha oramai assunto le fattezze d'una farsa. André è stato trasformato nello scellerato servo che ha rapito la figlia del Generale Jarjayes e, in altre versioni, l'uomo perverso che ha corrotto l'ultima figlia di uno dei casati più vicini alla Famiglia Reale.”

“È una follia...”
è tutto ciò che mi riesce di dire.

“Follia? È Versailles mia cara Oscar. E voi avete la sfortuna di possedere l'intelletto e d'essere donna. Non importa cosa avete fatto, quanto sudore e sangue avete versato per diventare l'eccellente soldato che siete, al primo passo falso vi vedranno semplicemente come una dama indifesa e stupida.
Credete che se fosse stato un nobile uomo a scappare con una servetta, avrebbe suscitato tanto scalpore? No. Non si sarebbe sprecata mezza parola in tal proposito. Per un aristocratico è ritenuto normale intrattenere rapporti, di qualsiasi natura e genere, con fanciulle al proprio servizio. È accettato, come qualsivoglia altra attività ricreativa.”
la tonalità non ha mutato di volume, ma il livore che ne ha marcato i contorni, palesa il risentimento che Bernard nutre per l'aristocrazia.
Per quel che mi riguarda, se avessi dalla mia la forza necessaria e il nulla da poter perdere, passerei con la lama della mia spada tutte le malelingue che hanno osato pronunciare il mio nome. Ma non posso. Non posso perché ho qualcosa da perdere. Qualcuno che mi è caro più di me stessa, e che ho intenzione di proteggere, a qualunque costo.

“E quale sarebbe la punizione per questo crimine?”
la voce di André è fioca, calma, addirittura atona.

“Darvi una risposta è alquanto difficile. Tutto dipenderà dalla magnanimità dei sovrani, e dall'interpretazione che vorranno dare a ciò che è accaduto. Ma... tra i numerosi bisbigli ho udito parlare di: punizioni corporali, di forca, di matrimonio forzato se la fanciulla è stata disonorata e compromessa. Fino alle più becere assurdità. Io prevedo un richiamo e, alla peggio, l'allontanamento dalla guardia nazionale.”
avverto della rassicurazione nel suo discorso. Il giovane Chatelet mi afferra la mano, che ho abbandonato mollemente lungo il fianco, dimentica della ferita e della fasciatura ormai del tutto sfatta. Ed è proprio quella che lui mi avvolge intorno al palmo, indifferente al sangue che lo sta imbrattando.

“Non datevi pena. A tempo debito si deciderà come agire. Vi suggerisco la massima prudenza, promettetemi che non farete nulla di azzardato. Per qualche giorno sarebbe saggio non allontanarsi dal quartiere.”
si raccomanda ad entrambi, ma è ai miei occhi che sta parlando.

“Grazie, Bernard. Per tutto. Seguiremo il tuo consiglio, stanne pur certo.”
André pare aver ritrovato la propria calma.

“Bene, debbo lasciarvi. Verrò a portarvi dell'altro cibo quanto prima, e se ve ne saranno maggiori notizie. Ah, quasi dimenticavo, Rosalie si è assicurata che vi avrei invitati a farci visita, con la dovuta prudenza naturalmente. Le farebbe piacere rivedervi, specialmente voi Oscar, e... desidera, anzi desideriamo, presentarvi una persona. Il piccolo Francois Chatelet.”(2)
un immenso sorriso lo illumina, ed ora chiamarlo giovane Chatelet mi par irriguardoso. Ho dinnanzi un uomo, un marito e un padre. La gioia di saper lui e Rosalie genitori, mi riempie il cuore, scacciando per un istante il buio di questi ultimi giorni.
André ci raggiunge, cattura la mano di Bernard in una stretta decisa, congratulandosi e rassicurandolo che si, andremo a fargli visita. Annuisco confermando l'impegno dato. Quello soltanto, poiché non potrò mantenere la promessa di vivere i giorni a venire in attesa d'un verdetto.
Ho bisogno di conoscere il nostro destino, mio e di André, così da non sprecare ancor di più quel tempo che, in passato, ho di già gettato tra i rovi.
Guardo André senza essere vista, mentre lui e Bernard scambiano le ultime parole di commiato, ma sono impassibile ai loro discorsi. Nella mente galleggiano le immagini d'una me fanciullesca, orgogliosamente fiera per aver avuto la meglio durante una discussione col proprio migliore amico.
Lo ricordo perfettamente; sono sempre stata io ad impersonare Perseo. Ed oggi non sarà diverso.
Afferrerò il falcetto adamantino, calzerò i sandali alati ed affronterò qualsiasi creatura mitologica mi si parerà dinnanzi.
Troverò il modo di incontrare la Regina Maria Antonietta, prima che sia troppo tardi.





(1)  è una figura della mitologia greca. Insieme con Steno ed Euriale, è una delle tre Gorgoni, figlie delle divinità marine Forco e Ceto. Secondo il mito le Gorgoni avevano il potere di pietrificare chiunque avesse incrociato il loro sguardo e, delle tre, Medusa era l'unica a non essere immortale; nella maggioranza delle versioni viene decapitata da Perseo
(2) Francois Chatelet, è un personaggio immaginario e uno dei principali protagonisti della prima parte della serie manga Eroica - La gloria di Napoleone, il seguito di Lady Oscar, creato da Riyoko Ikeda 

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Capitolo 9
*** Cicadidae ***


Sono passati due giorni dalla visita di Bernard, le giornate trascorrono lente, monotone, in un susseguirsi di azioni ripetute all'infinito.
André ed io a stento ci siamo rivolti la parola, giusto qualche frase di cortesia per decidere sul da farsi in determinate situazioni; chi avrebbe dormito nella camera da letto, quale frutto mangiare all'ora del desinare, quanto pane consumare per non rischiare di rimanerne sprovvisti. Lo stretto necessario. Nulla di più oltre quello.
O almeno fino a ieri sera, quando il caldo insopportabile, il fetore del quartiere e l'immobile prigionia alla quale siamo costretti, hanno spezzato le ultime fila di una corda già logora.
Fu la mia pazienza a vacillare per prima, durante la cena, frugale come ormai di consuetudine.
Sulla tavola ciò che più abbondava era il vino, di cui vi è una smodata riserva, che colmava i bicchieri fino all'orlo, il resto del pasto era composto da un paio di pere ammaccate e da del pane raffermo. La mancanza di cibo non mi dava pensiero, l'appetito ha abbandonato il mio stomaco dalla sera della fuga, ragion per cui nutrirmi è più un obbligo che un bisogno.
Mangiai a fatica il frutto che avevo nel piatto e non provai nemmeno a fare lo stesso col tozzo di pane, che cedetti ad André senza indugio alcuno.
La sua fame, invece, sembrava non trovare pace. Comprensibile per un uomo sano e robusto.
Da principio tentò di rifiutare il mio dono, asserendo che avrei dovuto sforzarmi, rimanere in forze, e mille altre parole che non ascoltai, finché anche lui smise di ciarlare, e cedette, vinto dai morsi del languore.

“Quando credi che tornerà Bernard?”
domandai prima di portare alla bocca l'ultimo pezzo di pera, così dolce da essere quasi stomachevole. Lo masticai più del necessario, rimandando il momento in cui avrei dovuto ingoiarne il boccone. E quando infine fui costretta a farlo, sentii le interiora rivoltarsi.

“Non saprei. Quando ne avrà la possibilità, immagino. Temi che mancherà la parola data?”

“No, certo che no...”
tentennai un poco, indecisa se tacere o proseguire.

“Ma...?”
mi sollecitò André, mentre poggiava le posate nel piatto ormai vuoto, concedendomi così la sua piena attenzione.

“Non mi piace dover dipendere da qualcuno, anche per le cose più banali. Come un pasto sulla tavola.”
riuscii finalmente a dar voce all'inquietudine che mi tormentava la mente, dall'intera giornata.

“Andiamo Oscar, hai sempre dipeso da qualcuno. La differenza è che a palazzo Jarjayes vi erano pietanze in abbondanza, ragion per cui non hai mai dovuto attendere per averle.”

“È vero, sono cresciuta con uno stuolo di servitori pronti a fare qualunque cosa al mio posto, ma ti sbagli, non è l'impazienza che mi turba.”
ribattei con una insolita tranquillità, che forse avrei dovuto temere, come la quiete prima del giungere della tempesta. E la reazione di André a quelle parole non fece altro che accrescere la mia ira. Mi guardò come era solito fare un tempo, con la medesima sfrontatezza della nostra gioventù; le mani sotto al mento, un sopracciglio inarcato e un mezzo sorriso pronto a schernire senza suono ciò che avevo asserito un istante prima.
Odiavo quello sguardo che era capace di pungolarmi la dove sapeva esservi già un prurito, così da condurmi al tormento. E quella bocca priva di riso, di verbo, eppure colma di sfida, nella propria sfacciata curvatura.

“Non sopporto che il mio destino sia nelle mani di qualcun altro! E si, mi sento in gabbia!”
confessai infine, battendo il pugno sulla tavola. Le posate tintinnarono nei piatti ed il vino prese ad ondeggiare pericolosamente all'interno dei bicchieri. La tempesta era dunque arrivata, ed ebbi paura di non poterla placare.
Presi un lungo respiro e parlai prima che potesse farlo André, perché se solo ne avesse avuto la possibilità mi avrebbe ferita come solo lui era capace. Scoprendo il motivo di quella mia irrequietezza. Una verità che avrebbe fatto male ad entrambi.
Decisi invece di accampare delle futili scuse, a discolpa di quel mio comportamento. Tutto pur di non confessare che si, sapere la mia esistenza in mani altrui aveva agitato i miei nervi, ma ciò che davvero mi turbava era l'incognita sul destino di André.
Ancora una volta, seppur involontariamente, stavo mettendo in pericolo la sua vita.
Il suo amore era così dannatamente forte da diventare cieco dinnanzi al rischio. E il mio amore? Era amore quello che credevo di provare per il compagno di una vita? Ebbi dei dubbi quella sera.
Il pensiero di dover restare un altro giorno in quell'appartamento con André mi spaventava da morire, così, allo stesso modo, immaginare d'essere distanti.
La sua presenza risultava quasi opprimente, al limite del fastidio, ma il saperlo lontano mi straziava le viscere.
Cosa mi stava succedendo? Quale follia si era impossessata della mia mente? Perché solo con la pazzia potevo dare un senso a quel delirio.
Ero terrorizzata all'idea di averlo vicino e al tempo stesso di non averlo accanto.
Mi portai il pugno serrato alla fronte, socchiudendo appena gli occhi, nella speranza di ricondurre in me un briciolo di buonsenso. Non vi riuscii. L'insensatezza o forse l'istinto di sopravvivenza, lasciò scorrere sulla lingua parole senza coscienza, concepite col preciso intento di sviare il discorso appena sfiorato.

“Perdonami non era mia intenzione alzare la voce, ma sono così stanca... Se solo potessi farmi un bagno, e togliermi di dosso la puzza di questo quartiere!”
l'insofferenza stava mutando ogni aspetto di me. Quasi non riconobbi la mia voce pronunciare quel lamento, così come il gesticolare delle mani, stizzito e frenetico.
Avrei voluto riacquistare il controllo, ma avevo ormai superato il limite di guardia, oltrepassando il confine del ciò che è buona creanza fare, e dire, e ciò che non lo è.
Ma in fin dei conti perché mai avrei dovuto preoccuparmi di mantenere una buona condotta, in quel luogo dimenticato da Dio? Sentii di poter essere inopportuna, fallibile e addirittura sciocca. Mi permisi d'essere indolente.

“Mi rincresce ricordarti che in questa parte di Parigi le case non hanno una camera da bagno, ma qualche volta anche i soldati desiderano darsi una ripulita. Nella corte interna c'è una tinozza, di solito è lì che ci si lava...”
mi informò André, con una insolita inclinazione della voce, indicando la piccola porta accanto al lavatoio della cucina.
Gli occhi seguirono il cenno della sua mano e le gambe ne calpestarono l'invisibile percorso, raggiungendo il cortile che aveva le dimensioni d'un salone dei palazzi nobiliari. E quel luogo, seppur all'aperto, mi fece sentire nuovamente in trappola. O forse ero io stessa, prigioniera della mia mente.
Osservai le mura delle abitazioni confinanti il nostro appartamento, molte delle quali non avevano scuri alle finestre, ma dei lembi di tessuto sgualcito e quella che mi parve semplice carta, unta da ciò che immaginai olio.
Il cielo si era già fatto scuro, illuminato soltanto dalla luna, piena, velata dalla calura di giugno.

“Quello è stato fatto per le signore che frequentano la casa...”
André si palesò d'improvviso alle mie spalle. Ciò di cui mi mise a conoscenza era una sorta di paravento. La costruzione era rozza, approssimativa, ma somigliante all'idea che doveva replicare; su degli uncini, alle pareti laterali di un angolo, era stata fissata una corda. Sulla quale, a sua volta, vi era agganciato alla bene e meglio un vecchio lenzuolo.

“L'acqua la si prende da quel piccolo pozzo, lo vedi? Laggiù, accanto al cumulo di legna. Sotto al lavatoio c'è un pezzo di sapone da bucato e una grossa pentola, per riscaldare l'acqua. Ma con questo caldo non credo sia necessario.”
la sua voce lieve giunse al mio orecchio con chiarezza, elencando semplici istruzioni come fosse stato un comando. Come io avrei fatto con i miei soldati.
Mi resi conto di quanta poca conoscenza avessi del mondo reale, o per meglio dire, d'una realtà dove come dicevano i latini Mater artium necessitas, “la necessità è la madre delle abilità”.
Ed io avevo molto da imparare.
Mi girai per ritrovare il viso di André, compii l'azione nello stesso momento in cui lui lasciò fuoriuscire un respiro dalle proprie labbra. Lo sentii posarmisi sulla gota, sulla bocca. Un alito caldo che assurdamente mi fece rabbrividire, intirizzendo ogni frammento di carne.
Sollevai lo sguardo per incontrare il suo, comprendendo ancor più chiaramente la diversità tra le nostre altezze. Priva degli stivali il divario tra di noi era più che evidente.
Provai uno strano senso di fragilità.

“Se tutto questo non ha avvilito il tuo desiderio di lavarti, io toglierei il disturbo. Sarò qui fuori a fare due passi lungo la via.”
così dicendo sparì nell'oscurità dell'appartamento, ed io rimasi li immobile, con la sola compagnia della luna e del calore estivo. O almeno così sperai.
Mi armai di buona volontà, decisa a vivere appieno la nuova condizione di cui ormai facevo parte. Seguii le direttive di André alla lettera, come si confaceva ad un perfetto soldato; presi il pentolone di rame dalla cucina e lo riempii con l'acqua che raccolsi dal pozzo in cortile. Poi mi diressi verso quella che sarebbe diventata la mia stanza da bagno, che consisteva semplicemente in una tinozza di legno ormai gonfio e scheggiato, grande a malapena per contenere un bambino.
Osservai il catino tentando di capire in quale modo avrei dovuto usarlo, finché non giunsi ad una scomoda soluzione. In piedi, il solo modo per farlo sarebbe stato stando in piedi. Esattamente come un cavallo, pensai.
Sollevai la pentola e ne versai il contenuto nella tinozza, quasi fino al bordo e controllai di avere tutto il necessario; sapone, straccio ed una ciotola. Non mi restava altro da fare se non togliermi gli abiti di dosso.

“È una follia. A Nanny verrebbe un colpo se mi vedesse ora...”
parlai ad alta voce, strappandomi un lieve riso al pensiero della mia vecchia governante. Lei che si era sempre premurata di mantenere la più rigida riservatezza attorno alla mia stanza da bagno. A nessuno era permesso entrarvi in mia presenza, all'infuori della sua persona.
Lei e il dottor Lasonne erano i soli ad aver veduto la mia vera natura, senza abiti, così come ero venuta al mondo.
Mentivo. Persino i miei pensieri mentivano. Qualcun altro aveva scorto senza consenso un briciolo della donna che ero, in un istante che rovesciò tutto, in me e nel mondo che avevo conosciuto fino a quel momento.
Scacciai quelle immagini e mi liberai degli indumenti, in fretta, senza indugio alcuno.
Infilai un piede dopo l'altro nel bacile, dentro l'acqua fredda che mi bloccò il fiato nel petto, ma fu un fastidio passeggero. Non trascorse molto tempo che inizia a bearmi di quella liquida frescura.
Mi impratichii velocemente, alternando un gesto dopo l'altro; insaponavo la pezza, la passavo sul corpo, tra i capelli, raccoglievo l'acqua con la scodella e la versavo la dove vi era la schiuma, sciacquando via la sporcizia e il malumore di quei giorni.
Gettai la testa all'indietro e lasciai scorrere l'ultimo fiotto di acqua sul capo, seguendo con i sensi il suo intero percorso lungo i capelli, la base della schiena, le gambe, per arrivare ancora una volta la dove era partita.
Guardai la mia figura con gli occhi della notte, trovandola uguale nella forma, e differente nel profondo. Forse fu la fresca umidità sulla pelle ad ingannarmi, o magari il profumo di pulito, ma in quell'ora sconosciuta della sera, mi sentii calma e libera da ogni preoccupazione.
Scordai mio padre, le conseguenze della fuga, i soldati rinchiusi nella prigione e perfino André.
C'ero solo io, esposta, indifesa, eppure forte come non sentivo d'essere da tempo.
Uscii dalla tinozza, spostai i capelli su di un lato e li strinsi ripetutamente tra le mani, liberandoli dall'acqua in eccesso, per poi ricondurli all'indietro, contro la schiena.
Non mi rivestii subito, preferendo il gaudio che, il mio corpo imperlato di minuscolo gocce d'acqua mi concesse con l'aiuto d'una lieve brezza, alla rassicurante difesa degli indumenti.
Il silenzio di quel luogo era quasi irreale, così dissimile dalla confusione che vi era nel quartiere a qualsiasi ora del giorno e della notte. Solo di tanto in tanto udivo del vociare, lontano, ovattato, proveniente dal davanti della casa.
Un frastuono improvvisò spezzò l'idillio, un gatto nella sua folle corsa urtò il cumulo di legname, facendo rovinare a terra un numero imprecisato di ciocchi. Mi parve il caso allora di ritornare in me, indossai i calzoni, la camicia, e fu poco prima di iniziare ad occuparmi dei suoi lacci che mi accorsi d'essere osservata.
Da una delle finestre d'un appartamento ad un piano superiore rispetto al nostro, scorsi una figura, nascosta tra il tendaggio logoro e l'oscurità della stanza. Da principio ne fui scossa, il rigido soldato che ero stata e che ancora risiedeva in minima parte in me si irrigidì, ma la donna che ero prese il sopravvento.
Abbassai la testa e i capelli mi celarono il viso, mentre le dita presero ad accostare i lembi della camicia e legarne i lacci, con estrema lentezza.
Permisi a quella misteriosa figura di guardarmi, priva di colpa e di vergogna, cominciando ad accettare finalmente la mia nuova pelle.
Quando rientrai in casa fui accolta dalla confusione della strada, nonostante l'ora tarda il sobborgo era più vivo che mai. Il caldo rendeva difficile poter dormire, i bambini diventavano irrequieti e i giovani smaniavano per qualche momento con i compagni o con qualche amore. Perfino chi era costretto a destarsi all'alba per cominciare il lavoro preferiva rubare qualche ora al sonno e concederne di più alla letizia.
La porta d'ingresso era aperta completamente, ecco spiegato il suono così nitido della via. Sull'uscio riconobbi la figura di André, di spalle, e poco distante quella di una donna. Lo vedevo gesticolare, come era solito fare quando si affaccendava a narrare un fatto, lo udii persino ridere e così anche la fanciulla che gli stava dinnanzi.
Camminai a piedi nudi per raggiungere l'entrata, con passo leggero ma deciso, e quando fui ad una distanza ragionevole non potei fare a meno di posare gli occhi sulla donna che avevo solo intravisto da lontano.

“Madame...”
mi rivolsi a lei con un saluto incerto, ignorando la sua età, la sua condizione, anche se mi parve giovane, ma avrebbe potuto essere maritata, per quel che ne potevo sapere.
Di rimando alla mia attenzione, mi rivolse un sorriso, un lieve cenno della testa e un semplice buonasera.
Era piuttosto minuta, di media altezza, i capelli castani raccolti in una acconciatura elaborata. Indossava un abito azzurro chiaro e un grembiale di ottima fattura, con bordi di quello che sembrava pizzo pregiato. Avevo già veduto qualcosa di simile, a Versailles si, sicuramente. Ma non mi riuscì di ricordare altro.

“Ho terminato, se vuoi...”
dissi ad André, accordandogli il permesso di rientrare. Si girò con indolenza, perso nel divertente cicalio intrapreso con quella sua spettatrice. Mi infastidii, ma non lo diedi a vedere.

“Oscar... si, certo... arrivo tra un attimo...”
si limitò a dire con il riso tra le parole. Poi vi fu un mutamento inatteso in lui, quando infine focalizzò il suo sguardo su di me.
Il sorriso gli abbandonò le labbra restituendo al suo volto la serietà degli ultimi giorni, e non potrei affermarlo con certezza, ma sembrò smettere di respirare.
Percepii addosso l'attenzione del suo unico occhio, posarmisi sul viso, lungo il collo, e giù verso la camicia. Non capii. Non subito almeno.
Abbassai il mio stesso sguardo e vidi ciò che lui aveva scorto; i miei lunghi riccioli stavano gocciolando piccole scie d'acqua, bagnando la stoffa sulla quale erano poggiati. Le macchie umide avevano reso trasparente l'indumento, rendendo esplicita la presenza della pelle nuda al di sotto.
Inspirai ma il fiato decise di non oltrepassare la gola, lasciandomi senza aria. Tentai l'impossibile e ritornai in me, mi congedai velocemente augurando la buonanotte ad André e alla sua compagnia.

“Buonanotte Monsieur...”
porse a sua volta i propri saluti rivolgendomisi al maschile, con tono flebile, la fanciulla di cui ignoravo il nome. Mi voltai in fretta, constatando che André era stato il solo a notare l'inconveniente della casacca.
Quella notte dormii poco e male.
Quando André rientrò ero di già a letto, le braccia incrociate sotto la testa e le palpebre sbarrare ad osservare il nulla. Lui si attardò in cucina per riordinare la dove avevamo cenato, ma qualcosa non andava. Vi era della tensione in ciò che stava facendo, le stoviglie sbattevano una contro l'altra, le sedie brontolavano trascinate senza riguardo sul pavimento.
Mi domandai quale fosse la causa di quella che aveva tutto l'aria d'essere rabbia, forse l'aver interrotto la conversazione con la donna senza nome? O semplicemente la mia presenza?
Appoggia il braccio sugli occhi, premendo così forte da procurarmi dolore, ma cos'altro avrei potuto fare per cacciare quelle parole che avevano preso a sussurrarmi alle orecchie?
Se solo mi fosse riuscito di dormire.
Maledissi la notte, falsamente silenziosa e maliarda, capace di sedurre con i dubbi più subdoli.
Tentai di ignorarla ma non fui abbastanza determinata. Ero oramai corrotta dalle tenebre e dalla sua nenia che quasi mi condusse alla pazzia.
Chi era quella fanciulla? A lei apparteneva il fattibello che trovai in quella stessa camera la sera della fuga? Era lei una delle donne per le quali era stato allestito il paravento nella corte?
La mente prese a figurarsi scenari torbidi ed immorali, i cui protagonisti erano André e la dolce ragazza minuta.
Ebbi voglia di piangere, ma ricacciai indietro le lacrime, provando a focalizzare l'attenzione su altro. Il frinire d'una cicala(1) venne in mio aiuto. Serrai gli occhi e ne ascoltai il suono, convincendomi che fosse un segno, una profezia; la cicala vive una sola estate, ma le sue larve rinascono in quella successiva direttamente dalla terra, facendo di essa il simbolo della resurrezione. O quantomeno era ciò che avevo imparato, nei miti e nelle leggende legati a quel piccolo insetto(2), e quella notte volli aggrapparmi ad una favola per placare il cuore.
Mi destai che era ancora scuro, udii i rintocchi di Notre-Dame, cinque, come le ore di quel nuovo giorno. Si dice che il sonno è portatore di buoni consigli, e se così fu, io non gli diedi ascolto.
La calma della sera precedente era ormai un fantasma lontano, come aprii gli occhi tutte le preoccupazioni tornarono a farmi visita. Il destino dei miei soldati e sopra ogni altra cosa, André.
Uscii dall'appartamento con gli stivali stretti contro il petto, li calzai solo quando mi trovai sul selciato della strada. Presi il nostro unico cavallo e lo spinsi al galoppo.
Dovevo raggiungere Versailles il più velocemente possibile.


Sono arrivata alla Reggia da pochi minuti e mi pare d'esservi stata lontana per anni. Il paesaggio è immutato eppure fatico a riconoscerlo, sarà per l'assenza di luce o per la fitta bruma che proviene dal terreno, ma provo una sinistra sensazione. Come se lo scenario che ho dinnanzi fosse il presagio di un imminente futuro. Il solo pensiero mi mette i brividi.
Smonto da cavallo e, dal cortile Reale, raggiungo l'ampio vestibolo ornato di colonne con molta facilità. A quest'ora del mattino chi risiede a Versailles è ancora nel pieno del riposo, ragion per cui la mia presenza è come quella d'uno spettro.
Cammino fino alla grande porta che vi è sulla destra e che conduce là dove desidero andare; alla Cappella Reale.
Marcio lungo la navata, calpestando il pavimento di marmo con passo quasi inconsistente, così da non farmi udire. Ma son certa che lei non mi sentirebbe nemmeno se entrassi qui dentro in sella ad un cavallo.
Ed eccola la, inginocchiata ai piedi dell'altare dedicato a San Luigi, col capo chino e le mani giunte in preghiera.
Sapevo che l'avrei trovata qui, sola, lontano dal chiasso della Reggia. Non è trascorso molto tempo dalla morte del piccolo Luis Joseph(3) e da allora la nostra Regina si raccoglie in preghiera, ancor prima del giungere dell'alba.
Dovrei onorare questo suo intimo momento col Signore, ma non posso attendere, la vita non può farlo.
Compio gli ultimi passi che mi distanziano da Maria Antonietta e seppure senza rumore lei percepisce la mia presenza.

“Oscar... siete voi...”
lo stupore ha alzato il tono della sua voce, facendo riecheggiare il mio nome tra le volte della chiesa. Prima ch'io posso fare anche solo un cenno, la vedo alzarsi dalla propria posizione ed avanzare nella mia direzione. Ed io mi ritrovo a prostrarmi dinnanzi alla sua figura.

“Alzatevi, non è il caso. In questo luogo io non sono nessuno. Dio è il solo davanti al quale doversi inchinare.”
ed io obbedisco, come ho sempre fatto.

“Oscar sono stata in pena per voi. Cosa vi è accaduto? Dove siete stata?”
è sempre bellissima la mia Regina, ma le ferite della vita le hanno lasciato dei profondi segni sul volto, ed una stanchezza che ha spento il bagliore che le illuminava lo sguardo.
Mi domando quante lacrime abbia dovuto mascherare col sorriso e le sciocche chiacchiere, e quante ancora ha versato, nella solitudine della propria anima.
Il cuore mi si stringe in una morsa feroce, immaginando il vuoto che sta riempiendo quello di questa piccola donna, che ha sulle spalle il destino d'un intero paese.
E se tutto ciò non bastasse, vi è anche la preoccupazione per me, che l'ha sinceramente angustiata. È facile comprenderlo dall'urgenza delle parole che ha liberato poc'anzi.
Vorrei poterla confortare ma prima di trovare il coraggio, è nuovamente lei a parlare.

“Oscar, perché siete fuggita? Ditemi la verità, ve ne prego.”
si avvicina con sveltezza, prende le mie mani e le stringe forte tra le sue. Dovrei rispondere alla supplica della mia sovrana, ma la sua richiesta è una farsa. Concepita da qualcuno che crede di conoscerne già la replica. Allora perché inscenare questa pantomima?
Cosa vorrebbe sentirsi dire? Che non è possibile vivere senza il proprio cuore e il mio è dove vi è lui, André.
Mi sciolgo dalla costrizione della sua presa, delicatamente.

“Datemi la punizione che ritenete più giusta, ma non domandatemi nulla.”
affermo risoluta, pronta a sacrificare me stessa per salvare colui che possiede una sola ed unica colpa. Amarmi.



(1) Cicadidae

(2) Questa interpretazione è una delle mie preferite: Platone, nel dialogo Fedro, espone il mito delle cicale, secondo cui esse sarebbero nate, per mano divina, dalla metamorfosi di antichi artisti, specie nel campo musicale e dell'eloquenza, che avevano smesso di mangiare e accoppiarsi per amore della propria disciplina.

(3)  4 giugno 1789 muore Louis Joseph Francois Xavier, conte di Viennois, all'età di 7 anni.

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Capitolo 10
*** È infatti il cuore che rende eloquenti ***


È infatti il cuore che rende eloquenti



Le parole pronunziate poc'anzi sembrano riecheggiare ancora all'interno della cappella, su, lungo le colonne di pietra bianca, attraverso l'alto matroneo, fino a giungere al soffitto a volte della navata centrale. Ed è li, tra i colori dell'affresco ove il Padreterno annuncia la venuta del Messia(1), che le odo morire. Precipitano giù come gocce, piccole perle silenziose prive di consistenza, così vuote da mutare in lievi spifferi che mi sfiorano le gote come lacrime invisibili.
Attendo che la donna che ho di fronte emetta la propria sentenza, che sia buona o cattiva poco importa, purché qualcosa si decida.

“Avevo già preso la mia decisione, Oscar. Un messaggero si è recato da voi quelle sera stessa, per comunicarvi il mio perdono. Ma il giorno seguente vostro padre, il generale Jarjayes, ha chiesto udienza.”
la replica alla mia richiesta d'una qualsivoglia penitenza, giunge come un fulmine a ciel sereno, rivelando una scomoda verità.

“Mio padre...?”
i polmoni cercano aria, ma invece di trarne a sé, lasciano fuoriuscire quel poco che ancora vi è al loro interno. E col respiro anche le parole sfuggono alle mie labbra. Così misere che io stessa fatico a sentirle.

“Ho creduto volesse porgere la propria gratitudine per la grazia concessavi, ma vi era dell'altro. Con lo strazio nel cuore ha confessato di non sapere dove foste andata, né se sareste mai tornata. E che la colpa era soltanto sua.”

“Dunque, vi ha raccontato ogni cosa...”
distolgo lo sguardo da Maria Antonietta, distratta da uno spicchio di luce che è penetrato all'interno della chiesa buia. Si sta facendo giorno e col sole, tra poco, comincerà la consueta frenesia del luogo.
Ho premura di portare a termine questo incontro, come in egual modo desidero abbandonare questo posto.

“Mi rincresce doverlo dire, ma ciò che mi ha confidato vostro padre è giunto alle orecchie di tutta Versailles e del Re in persona. Si stanno valutando le possibili conseguenze.”
vorrei chiedere quale versione della realtà, dopo essere passata di bocca in bocca, sia infine arrivata alla maestosa Versailles. Posso solo immaginare quali infamie possano essere state sputate sulla storia d'origine; certamente tutti i pettegolezzi che negli anni trascorsi alla Reggia sono stati mormorati alle mie spalle.

“Sua Maestà il Re non ha preso bene tale notizia, o per meglio dire, non lo hanno fatto coloro che stanno al suo fianco. La Francia sta attraversando un momento difficile e mostrarsi troppo magnanimi sarebbe sintomo di debolezza. A maggior ragione se la persona a cui si sta concedendo la grazia per l'ennesima volta, commette un nuovo errore. Sarò franca con voi, mia cara amica, potrò ben poco per placare il vostro castigo.”

“Non mi importa quale decisione prenderanno nei miei riguardi, non ho paura di affrontare il plotone di esecuzione. Ma... cosa succederà ad André?”
mi muovo verso Maria Antonietta, compiendo il numero di passi necessari a fronteggiarla. La supero in altezza di una spanna, il che mi mette in una posizione di superiorità.
Sono consapevole dell'insania di questo mio gesto, solo uno stolto oserebbe anche solo immaginare di tener testa ad un sovrano, ma il buon senso mi è d'ostacolo.
Il tempo mi è nemico e la ragione, la diplomazia, il servilismo, principi nobili e sicuri, nulla servirebbero al mio scopo. Se non a dilatare quella che è di già un'agonia.
Pretendo delle risposte, ora, subito e voglio che lei lo comprenda molto chiaramente.

“Oscar, voi...”
il mio intento non ha l'esisto sperato. Nello sguardo della mia Regina tutto vi è fuorché il turbamento che speravo di provocare.
Mi guarda con uno stupore gentile, dal basso verso l'alto, e per la seconda volta da quando ho messo piede nella cappella, mi cattura le mani tra le sue.
Tento di sfuggire al suo appiglio ma lei non si fa sorprendere, seguita a trattenere le mie dita nella sua presa, con una forza inaspettata. Ed io vorrei soltanto dirle che non ho bisogno di quelle sciocchezze da donnicciole, e neppure dell'intonazione che ha preso la sua voce, così melensa da far venire il voltastomaco.
Oscar, voi... io cosa? Cosa volete dire?
 
“Posso fare in modo che vi possiate sposare, se solo voi lo desiderate...”
la stretta delle sue mani si fa più lieve, ma non si scioglie, muta in una carezza perpetua che mi confonde. Tanto quanto l'espressione che ha negli occhi, una mescolanza di euforia e pena, mentre il nulla lasciato a mezz'aria tra la lingua e le labbra, racconta più delle parole che le ho sentito sillabare.
A quanto pare anche lei ha fantasticato di tanto in tanto sulla mia esistenza, allestendo scenari alternativi rispetto all'algida vita che ho condotto nei panni dell'erede del casato De Jarjayes.
Ma la commedia che si è figurata nella mente nulla ha di che spartire con ciò che è accaduto, e forse in fondo anche lei ne è consapevole. Perché nell'azzurro delle sue iridi riconosco la compassione di chi sa che, se anche vi fosse amore tra l'aristocratica ed il servo, la storia prenderebbe irrimediabilmente le fattezze di un dramma.

“No, io... io desidero soltanto che lui non venga punito in alcun modo.”
ribatto eludendo il nome di colui che nessuna delle due pare voler pronunciare, d'altronde non ve ne sarebbe motivo, la sua presenza, già così, pesa su di noi come un macigno. Io stessa ne sono sopraffatta e dio solo sa quanto abbia tentato di ignorarlo, con ogni mezzo a mia disposizione; il rigore del soldato, la disciplina, il pragmatismo. Nulla è servito. Lui ha la capacità di sedurre qualsiasi mio pensiero, riflessione, ricordo, tutto ciò che gli è estraneo, di modo che la mia attenzione volga nuovamente alla sua persona.

“Capisco, ma temo di non potervi accontentare. Il fatto si è già saputo. La prigionia sarà la pena minore per un tale reato.”
Maria Antonietta evita il mio sguardo come una ladra scoperta a rubare, lei che con un sol gesto potrebbe mandare a morte me e l'intera Francia, teme il mio giudizio per una scelta che oramai non è più di sua spettanza.

“Reato? Noi...”
nulla posso per fermare la collera che m'infiamma le membra, l'assecondo permettendole di fuggire dalle labbra e mostrare il proprio sdegno con la voce. D'un tono che rasenta il grido.

“Non ci sarà alcun Voi, Oscar. La colpa ricadrà interamente su André. Siete stata capitano delle guardie reali, comandante dei soldati della guardia, ma per gli uomini di questo mondo, in una simile situazione, siete soltanto una donna indifesa.”
allontano le mani dalle sue e non vi sono ostacoli nella fuga. Mi lascia andare. Qualcosa si è è rotto tra di noi, qualcosa che va al di là della nostra ventennale amicizia.
Siamo simili e diverse. Uguali nella natura del nostro sesso, nei nobili natali che ci hanno viste venire al mondo, e in alcune emarginazioni riservate a questa condizione, eppur dissimili nella strada che abbiamo deciso di percorrere in quest'epoca oscura.
Lei ha scelto il dovere, io, forse per la prima volta, il cuore.

“Maledizione...”
la protesta mi sgorga dalla gola come un conato, ed ha il sapore dell'imprecazione più feroce, anche se per rispetto verso colei che abita con me questo santuario, arresto la furia che mi ribolle al di sotto delle vene.
Sento su di me l'attenzione d'ogni statua, affresco, quadro, presente in questo sacrario. Le pupille dei santi, degli angeli, di Dio e della Vergine, mi puntano addosso come rovi di spine sulla pelle.
Null'altro ho da domandare o discorrere, ragion per cui è ormai giunto il momento di congedarmi. Mi inchino dinnanzi a sua grazia, col capo chino e la mano sul cuore.

“Vi ringrazio per tutto ciò che avete fatto per me e vi supplico di non tormentarvi se nulla potrete per noi. La mia stima nei vostri riguardi rimarrà immutata. Mi auguro di poterci rivedere un giorno.”
affermo con l'affetto in ogni parola proferita e con una melanconia che mi brucia gli occhi, scortando le lacrime ai margini delle ciglia. Ho il presentimento che questo sarà il nostro ultimo incontro. Un addio.
Ne sono talmente addolorata da dimenticarmi d'essere ancora inginocchiata, me ne rammento quando un tocco deciso sulle braccia mi invita ad alzarmi da terra. Sollevo il viso e vi trovo la mia Regina, al mio medesimo livello, come forse non si è mai trovata a stare.
Riacquisto la mia posizione eretta e l'inaspettato mi sorprende ancora una volta regalandomi l'abbraccio serrato di Maria Antonietta. Mi tiene contro di sé con una tale urgenza da farmi mancare il fiato, i palmi premono sulla mia schiena come a voler oltrepassarmi le carni. Finché uno di questi si dilegua per raggiungere il capo, dove le dita mi impugnano i capelli.

“Vi voglio bene mia cara ed unica amica. Siete stata il punto fermo di questa mia esistenza incerta, in un paese straniero, e credetemi quando vi dico che vi porterò sempre nel cuore. Abbiate cura di voi stessa e... Oscar, avete la possibilità di cambiare la vostra vita, non sprecatela.”
mi confida in un sussurro sommesso lasciandomi sbigottita, ma abbastanza attenta da copiare il suo stesso comportamento.
L'abbraccio che ci unisce non ha ruoli, titoli, etichette, gerarchie, nulla di tutto ciò, è unicamente il saluto tra due donne con lo stesso cuore.
Percepisco il pianto caldo della Regina bagnarmi la guancia e parte del collo, anche il mio volto è umido della stessa tristezza.
Piangiamo, ridiamo, tardando il momento dell'abbandono e quando troviamo la forza di dividerci non vi sono parole. Mi allontano voltandole le spalle, lasciandola dietro di me, insieme ad un passato che, seppure non rinnegato, d'ora in avanti non farà più parte di me.


Accedo in Rue de la Lingerie col giungere delle sera, ho rallentato il mio ritorno di proposito, attardandomi sulla strada che da Versailles porta nel centro di Parigi.
Avevo bisogno di qualche istante di pace, soltanto io e il silenzio dei campi di cui potrei tratteggiare ogni singolo filo d'erba.
Ma il posto al quale ho concesso la maggior parte del tempo è stato Palazzo Jarjayes, si, proprio così. Dopo aver fermato Cèsar a ridosso del muretto che circonda l'appezzamento di famiglia, ho osservato la vita che ha seguitato a proseguire nonostante la mia assenza. L'andirivieni dei lavoranti negli agri coltivati, il viavai della servitù, e in quel susseguirsi di individui è comparsa la vecchia Nanny, indaffarata come al solito. Prima d'essere colta dalla nostalgia ho ripensato alle parole di Maria Antonietta e riprendere il cammino per Les Halles è stata la conseguenza naturale delle ragioni del cuore.
Ora non mi resta che recuperare un po' del vecchio coraggio per affrontare il disappunto che mi accoglierà non appena oltrepasserò l'uscio dell'appartamento.
Traggo un lungo respiro e sono dentro.
Nella cucina trovo André e Bernard occupati a conversare tra loro.

“Bernard, mi fa piacere rivederti.”
mi ritrovo a dire, forse per anticipare il richiamo che mi aspetto da Andrè per essermi allontanata senza dire una parola. Ma da lui non scaturisce neppure un fiato, si limita a guardarmi con fastidio.

“È lo stesso per me. Ma avrei preferito che non ti fossi allontanata, Oscar.”
è Bernard a rimproverarmi, ma poco importa. Non voglio giustificarmi in alcun modo, questa mia disobbedienza andava fatta.

“Vi ho portato del cibo e con esso, purtroppo, delle novità che non vi piaceranno.”
mi avvicino ai due. Ora siamo tutti e tre attorno al tavolo, in piedi, in allerta.

“Ho avuto modo di trovarmi a Palazzo Reale, nel salotto che il Duca d'Orleans mette a disposizione per i giovani giornalisti, scrittori, politici e, tra un discorso liberale e filosofico, ho carpito qualche informazione proveniente da Versailles.”

“Dunque, cosa hai scoperto?”
lo sollecito con calma, camuffando l'agitazione.

“Ebbene, ho saputo che Oscar sarà destituita dalla carica di comandante dei soldati della guardia. È André quello che potrebbe avere la peggio, il male minore è il carcere. In alternativa, e a quanto pare l'ipotesi più accreditata, pare essere la forca. Innumerevoli persone hanno messo in dubbio il suo gesto, bollandolo come rapimento, e se la nobildonna è stata irretita o addirittura compromessa, non vi è altra alternativa che quella. Senza dimenticare che ha minacciato con una pistola il suo vecchio padrone, nonché aristocratico. Purtroppo la Regina non ha più alcuna voce in merito, il Re, sotto stretto consiglio di chi gli sta accanto, crede che sia giusto punire in modo esemplare un'azione del genere, per dare una sorta di esempio.”
le orecchie hanno cominciato a fischiare dopo aver udito la parola “forca” ed ora le gambe hanno preso a tremare. Non voglio credere a nulla di tutto quello che ho sentito.

“L'unica soluzione è scappare.”
è la voce di André che riconduce in me l'udito.

“Non posso lasciare Parigi. Ci sono i miei soldati da portare in salvo.”
manifesto la mia posizione, ferma, dando per scontato che nella sua fuga fosse contemplata anche la mia presenza.

“Se sarà necessario andrò via da solo.”
annuncia infine André, con una fermezza che non include obiezioni. Mi sento mancare, l'aria mi si blocca in gola, soffocandomi come una mano serrata attorno al collo.

“Sposiamoci.”
dico a voce alta, puntando i palmi delle mani sul tavolo, attirando su di me l'attenzione di entrambi.





(1) Ad opera di Antoine Coypel, pittore e decoratore francese. La sua opera più rappresentativa è stata appunto la decorazione del soffitto della cappella di Versailles, terminata nel 1716 e realizzata in chiaro stile barocco romano. 

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Capitolo 11
*** 27 giugno 1789 ***


Sono trascorsi solo una manciata di secondi da quando la mia lingua ha pronunciato parole che mai avrei immaginato di proferire a voce alta, e in presenza di qualcuno. Il tempo pare essere trascorso più velocemente, trasformando i secondi in ore, dilatando così la sconsideratezza del mio gesto.
Ma non vi è modo di tornare indietro, quel che è fatto è fatto, e sopratutto quel che è detto è detto. Consapevolmente o meno, poco importa, non posso far altro che affrontarne le conseguenze e, a giudicare dall'espressione sui volti dei due uomini attorno a questo tavolo, non avrò da loro alcun sconto della pena.

“Prego?”
è André il prima ad interrogarmi, col tono di chi è certo d'aver compreso male, tradito forse dal proprio udito.

“Sposiamoci.”
ripeto con maggior sicurezza, innalzando il livello della voce così da rendere più chiara la mia intenzione.

“Stai scherzando...”
posa il suo unico occhio sano su di me, distrattamente, accennando la promessa d'un sorriso nella speranza di vederne uno simile sulle mie labbra. Poi, ormai certo di non trovare sul mio volto alcun segno di scherno, rivolge l'attenzione a Bernard.

“Non dice sul serio...”
l'estinto cavaliere nero rifugge lo sguardo di André per ricercare il mio, e quella spiegazione che non tardo a concedere ad entrambi.

“Vogliono incarcerare un servo che ha irretito una nobile, forse addirittura compromessa. Noi gli daremo un uomo che ha sposato un'aristocratica, col suo pieno consenso. A quel punto non potranno far nulla. O quantomeno è ciò che spero.”
mi ritrovo ad esporre il piano con il medesimo tono e gli stessi modi che userei con i soldati del mio reggimento.

“È una buona idea. Oscar ha ragione. Si, potrebbe funzionare.”
il giovane Chatelet da prova del proprio assenso annuendo con fermezza alla prospettiva d'un inusuale sposalizio, con l'entusiasmo che manca a noi due, incerti sposi.
Seguita poi a dire, col piglio del giornalista e del trascinatore quale è.

“Il matrimonio morganatico(1), più comunemente detto matrimonio segreto, è contratto tra persone di ranghi differenti e...”

“No.”
il diniego forte e perentorio di André irrompe nella stanza con una tonalità gelida, che non ammette repliche.

“André, cerca d'essere ragionevole. Questo tipo di matrimonio verrà riconosciuto come tale, dalla chiesa e dall'aristocrazia. In alcuni paesi d'Europa è un'opzione a cui molti reali e nobili sono ricorsi per i più svariati motivi, come ad esempio...”
il proposito d'una discussione ha esistenza breve, freddato sul nascere da uno strano malgarbo.

“Conosco la definizione di matrimonio morganatico.”
così, con una frase apparentemente innocua, André interrompe e zittisce il buon Bernard e qualsiasi opera di convincimento. Ne cancella la presenza.
Non esiste altro all'infuori di noi due, in questa malridotta cucina, in Rue de la Lingerie e nell'intera Parigi.

“E se nonostante tutto perdessi il tuo titolo e ciò che ti spetta di diritto? Hai pensato a questo?”
Mi raggiunge con un paio di falcate e mi osserva dall'alto, palesando la rabbia che ha di già preso ad agitargli i movimenti. Non mi faccio intimorire, sostengo la sua vista e compio io stessa il passo che mi avvicina maggiormente alla sua persona.

“Non mi importa. Immagino di averlo perduto quando ho preso la decisione di scappare da palazzo Jarjayes. E ad ogni modo, credo di non averne più bisogno.”
affermo con sincerità, dipanando di un poco la confusione che da giorni m'avvolge la ragione.

“Non cambierà nulla. Servirà soltanto ad evitarti la prigione o qualcosa di peggio...”
tento di rassicurare André per quel che mi è possibile, immaginando che tutto desideri, ora, fuorché avermi come sposa. Il suo volto si incupisce d'improvviso, come se il velo dell'oscurità gli si fosse chiuso attorno. Dalla mia gola fugge quello che sarebbe dovuto essere un respiro, ma che, superate le labbra, ha preso le sembianze d'un lamento.
Vorrei essere per lui una sorta di conforto, più che mai in questa difficile ora, ma sembra ch'io sia capace solamente di procurargli dolore.
Quante ferite sono state cucite con le fila del mio nome?

“André perdonami, ma non è tempo d'essere lezioso. Non si prospettano per te molte alternative, se non quella d'un matrimonio che ti salverebbe il deretano, domando scusa Oscar. O la galera, ovvero l'anticamera della morte. A te la scelta, amico.”

“Potrei sempre fuggire in un altro paese...”
le parole che udiamo paiono reali, risolute. Lo sarebbero maggiormente se il resto di lui possedesse la stessa determinazione, invece sono proprio i suoi gesti frenetici a tradirlo.

“Certamente, ma sei pronto ad abbandonare ogni cosa? Perché forse non ti è chiaro che, una volta fuggito non potrai più tornare indietro.”
La voce di Bernard mi risulta sgradevole, come mai era stata, neppure in passato quando vestiva le sembianze del cavaliere nero. Ricacciargli in gola le frasi formulate poc'anzi è ciò che più desidero in questo istante. Nonostante sappia che la fuga, forse, sarebbe la soluzione più sensata.
Basterebbe un semplice mio gesto, una parola, per liberare André dal futuro funesto che sta parandoglisi dinnanzi.
La mia vita è legata ad un cappio sottile, ma così crudele che mi spezzerebbe il collo col leggero sussurro della sua voce, se la sua decisione sarà quella che non voglio udire.
Deglutisco a fatica come se vi fosse davvero qualcosa a premermi sul gozzo. E prego, supplico, imploro un qualsiasi Dio, che lui non voglia andarsene veramente.
Ma se così fosse, poco potrei per impedirglielo. E tremo al sol pensiero che lui esca da questo appartamento, per scomparire nel nulla.

“Immagino di non aver altra scelta. Ora, se volete scusarmi.”
così dicendo, con una freddezza che difficilmente può essere spiegata a parole, André si congeda da noi e raggiunge velocemente la porta. Oltrepassa la soglia chiudendosi il battente alle spalle, lasciando qui il silenzio più rumoroso ch'io abbia mai sentito. Eppure, nonostante l'incertezza di questo suo abbandono  io ritorno a respirare, inalando aria con ingordigia.
Per lui forse vi sarà una speranza.



I giorni a seguire furono il purgatorio in terra. La presenza di André in casa era mutevole, un andare e venire privo di logica; trascorreva le ore del giorno addormentato sulla vecchia poltrona del salotto e quelle notturne a vagare dio solo sa dove, come un moderno vampiro ridestato dal calar delle tenebre.
Non tentai neppure di conversare con lui o provare a chiedere in che modo impiegasse il suo tempo per le vie di Les Halles, fu difficile, ma convenni con me stessa che quella fosse la strategia più appropriata per mantenere il quieto vivere.
Prudenza che è servita a giungere fino ad oggi, 26 giugno 1789.
È venerdì, un giorno come un altro d'un mese di giugno tra i più torridi che la mia mente riesce a ricordare, e come ogni sera mi ritrovo a desinare da sola. André è ancora sopito. Osservo la sua figura allungata con indolenza sulla poltrona; il capo leggermente reclinato oltre il bordo dello schienale, i capelli mossi, liberi dall'abituale posizione, lasciano esposta quella porzione di volto che da tempo viene celata. La cicatrice segna con prepotenza la metà esatta del suo occhio morto, ma non è quella a turbarmi, bensì i solchi scuri che spiccano al di sotto delle palpebre serrate.
Inevitabilmente mi domando cosa possa aver causato tal lividore, provocando i pensieri più torbidi.
L'alcol? Una donna compiacente? O semplicemente il tormento?
Avvicino il viso al suo per cercare una risposta e mi rendo conto che quello è il solo contatto che posso concedermi; vegliare il suo sonno, respirare il profumo della sua pelle, rubare ciò che prima mi era concesso senza riserve.
Sciocca, ripeto come una cantilena, una sciocca che non sapeva quale fortuna avesse tra le mani fino a qualche giorno addietro. Una sciocca che ora non ha altro che un mucchio di mosche morte tra le dita.
Colpi decisi alla porta mi trascinano lontano dai miei contorti ragionamenti. Raggiungo il rumore e la voce di Bernard precede qualsiasi mia azione. Entra annunciando la sua venuta e nel medesimo momento anche André si desta.
Quello che è divenuto il nostro ambasciatore porta con sé delle buone nuove. Dopo tanto ricercare pare aver trovato un prete disposto a sposarci dal giorno alla notte, senza troppe domande.
Il tempo a nostra disposizione è un'illusione, la priorità su qualunque altra cosa è diventare marito e moglie il prima possibile. Ne va della vita di André e di quella dei miei soldati, ragion per cui le condizioni dello sposalizio sono più che ottimali.
La cerimonia verrà celebrata questa sera, poco prima della mezzanotte, così da non incorrere in presenze scomode all'interno della chiesa.

“Io e Rosalie vi attenderemo alla Chiesa di San Rocco, in rue Saint-Honoré, prima della mezza. Siate puntuali.”
annuiamo col capo alle indicazioni di Bernard, muti davanti al destino al quale stiamo andando incontro. E con lo stesso silenzio attraversiamo le vie chiassose del quartiere, André mi precede di qualche passo ed io calpesto il suo cammino, a testa bassa, immersa nei dubbi più scuri.
Mancano ormai una dozzina di minuti al nuovo giorno quando ci troviamo davanti un imponente edificio, troppa opulenza per questo genere di faubourg, e li, sui primi gradini della chiesa vi sono Bernard e Rosalie.
La piccola Rosalie mi viene incontro con grazia, con quelle movenze che l'hanno resa donna in questi anni di lontananza, prende le mie mani tra le sue prima di abbandonarsi ad un abbraccio così stretto da bloccarmi il respiro.

“Madamigella Oscar... oh, Madamigella Oscar...”
ripete con commozione, ma priva di lacrime.

“Rosalie, sono felice di rivederti. Ti trovo bene, sei diventata una magnifica donna e, a quanto mi hanno detto, una madre.”
le sussurro appena dopo averla stretta a me. Sorridiamo entrambe, sinceramente liete di esserci ritrovate nella titubanza di quest'epoca.

“Desolato di dover interrompere questo momento, ma dobbiamo andare.”
Bernard ci fa strada verso il lato esterno della chiesa, in rue Saint-Roch, a quanto pare per certe particolari situazioni, si sceglie una via più discreta per accedervi.
Veniamo accolti da una piacevole frescura, in contrasto col calore che sta soffocando la città, e dall'oscurità che caratterizza ogni luogo di culto, spezzata da qualche flebile fiamma di candela.
Ed è proprio la luce d'un moccio di candela a mostrare al mio sguardo, in una nicchia accanto al piccolo altare, la raffigurazione d'un cristo morente, che viene deposto a terra da un paio di uomini. L'immagine meno indicata per il giubilo che dovrebbe esservi per un matrimonio. Ma d'altronde questo sarà soltanto una farsa.

“I due giovani si avvicinino.”
dal centro del transetto(2) la voce del curato, rigorosa, echeggia lungo le navate.
André ed io ci muoviamo con malcelata titubanza.

“Uscite di qui! Subito!”
il tono rigido del prete ha preso un'inflessione differente, passando dall'ira alle urla. Ci blocchiamo interdetti, senza sapere quale sia la nostra colpa.

“Sono stufo di voi soldati. Non fate altro che entrare nella casa del Signore e prendervi gioco di me. Dove credete di essere, eh? Andate a divertirvi in qualcuno di quei bordelli che tanto vi piace frequentare. Ed ora sparite. Fuori di qui! Malnati!”
la rabbia del sacerdote si fa sempre più prepotente, quanto a noi non ci riesce di comprendere la colpa che ci viene attribuita.

“Monsieur Marduel, vi prego... noi non...”
Bernard si fa voce dei nostri dubbi.

“Voi non...? Cosa avevate in mente di fare giovanotto, prendere per il naso un vecchio parroco facendomi celebrare un matrimonio tra due uomini? Qui non si fanno queste cose. No.”
e così fu svelato il mistero di tanto astio. I miei abiti maschili, come è naturale che sia, hanno tratto in inganno gli occhi del povero prete, pensando che ci stessimo burlando di lui o ancor peggio, che fossimo un gruppo di depravati.
Che questo sia il segno che il matrimonio non si debba fare? Da quando il mio intelletto cede alle lusinghe della superstizione?
Non è tempo di badare a certe sciocchezze, decido invece di raggiungere Monsieur Marduel per mettere fine alle supposizioni.

“Non c'è in noi nessuna intenzione di prendere in giro voi e questo luogo. Indosso questi abiti da uomo, ma io sono una donna. Donna dalla nascita. E voi dovete assolutamente sposarci questa notte.”
i miei modi inizialmente pacati hanno assunto l'algido piglio del comando con l'epilogo della frase, più per paura di perdere quest'unica occasione di salvare André, che per l'abitudine all'autorità.

“Perché avete così tanta urgenza di contrarre matrimonio? C'è di mezzo un figlio bastardo?”
la carità cristiana di quest'uomo deve essersi perduta molti anni addietro, poiché in lui non vi è più nemmeno un granello della compassione che dovrebbe essere innata in un servo di Dio.
Eppure non vi do peso, non posso permettermi il lusso di farlo in questo momento.

“È questione di vita o di morte.”
sto quasi supplicando.

“Siete entrata qui mascherata da uomo e di già questo è un oltraggio al luogo che state occupando. E poi... se c'è un bastardo fuori dal matrimonio... No no no...”
la mia pazienza sta venendo meno, i palmi delle mani hanno preso a formicolare pericolosamente, ma il buon senso deve avere la meglio. Per ora.
L'individuo che veste i panni di un uomo di chiesa somiglia ad uno dei commedianti che ho veduto a teatro innumerevoli volte, ma ancora di più mi rammenta un figuro ambiguo e di dubbia moralità; il cardinale di Rohan.
Infilo la mano nella tasca delle braghe e afferro qualcosa che tengo con me dal giorno della fuga da palazzo Jarjayes, qualcosa che sapevo mi sarebbe tornata utile, come merce di scambio.
Afferro la mano del parroco e vi poso al centro la croce dell'ordine di San Luigi(3). All'uomo basta una sola occhiata per riconoscere il valore di tale oggetto e sul volto gli si dipinge un sorriso colmo di dolcezza e benevolenza.
Ci invita ad attendere qualche minuto, giusto il tempo di prendere il necessario per la funzione e di li a poco saremo maritati.
Il rintocco delle campane di Notre-Dame annuncia il nascere di un nuovo giorno. Il 27 giugno 1789.
Il giorno in cui diventerò la moglie di André Grandier.  









(1) Un matrimonio morganatico è un tipo di matrimonio che può essere contratto in alcune nazioni, solitamente tra persone di diverso rango sociale (unebenbürtig in tedesco), che impedisce il passaggio alla moglie dei titoli e dei privilegi del marito.
L'equivalente francese era detto matrimonio segreto.

(2) Il transetto, negli edifici di culto cristiani, corrisponde a un corpo architettonico che interseca perpendicolarmente all'altezza del presbiterio la navata centrale o tutte le navate. Ha in genere la stessa altezza della navata centrale e può essere diviso a sua volta in più navate (solitamente tre). Il nome deriva dal latino trans (oltre) e saeptum (recinto): con ciò s'intende indicare il braccio che interseca trasversalmente quello longitudinale della basilica cristiana, ai due terzi o al termine dello stesso, costituendo così simbolicamente la forma di una croce.

(3) Presumibilmente quella croce che Oscar si strappa dalla giacca dell'uniforme, dopo che il principe di Lambesc, comandante dei Royal Allemand, le chiede grado e titolo. Lei risponde:
“Il mio nome è Oscar Francois, ora io non ho più grado ne titolo.”
https://it.wikipedia.org/wiki/Ordine_di_San_Luigi#/media/File:Ordre_de_Saint-Louis_GTColl.jpg

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Capitolo 12
*** Le voile ***


Il fumo di candela è ciò che maggiormente mi ricorderà questo giorno negli anni a venire. Quello e il suono sordo delle dita di André che battono freneticamente sulla sua gamba, senza un istante di tregua.
Guardo il vecchio parroco che, lasciata la sacrestia, si aggira per la chiesa con fare furtivo per spegnere i ceri che fino a qualche istante fa illuminavano questo luogo. Luce di cui ora non vi è più bisogno, perché mai sprecare tale illuminazione per un matrimonio come il nostro? Un'unione di poco conto a quanto sembra, tanto da non meritar nemmeno il chiarore d'una manciata di mocci.
E ancora una volta la mia mente viene rapita da futili distrazioni, come il ciarlare della vita al di là di queste mura, che posseggono l'abilità di proteggersi dalla calura estiva, ma non dagli istinti umani. Che si fanno udire con le risate dei soldati, in cerca d'un frammento di requie negli angoli delle strade, dove le dame con le mantelle rosse(1) concedono quel calore che manca loro da tempo.
Mi sorprendo che vi siano questi sciocchi pensieri a riempirmi la testa, quando invece dovrei trovarvi differenti e più ragionevoli timori, ma se così fosse, se ascoltassi le reali inquietudini dell'anima, forse sarei già fuggita.
Questo matrimonio è uno sbaglio, lo so, ne ho coscienza fin dal principio. Se fossi meno caparbia e l'orgoglio cessasse di scorrermi nelle vene, con molta probabilità racconterei finalmente la verità.
Sono un falso, un impostore, la più spietata delle mentitrici, la peggiore delle commedianti. Si, dico il vero, è così dannatamente ingannevole il cuore da avermi persuaso a tal punto da convincermi che, questo insano sposalizio, fosse un gesto caritatevole. La sola ed unica speranza per veder salva la vita di colui che ho di più caro.
Balle. Sono una sporca bugiarda. Lasciare Parigi, quella sarebbe stata la soluzione migliore per André, per se stesso, per evitare una probabile sentenza di morte e per sperare in un futuro migliore. Futuro che il mio egoismo gli sta negando.
Inspiro profondamente l'aria stantia che aleggia in questo angolo della chiesa, una mescolanza di pungente odore di zolfo, d'incenso, e di quel sentore di marcio che proviene dai vasi ricolmi di fiori ai piedi degli altari. Sono così belli in apparenza, rigogliosi di fogliame e dai colori brillanti, ma al di sotto, l'acqua guastata dall'inganno dell'estate, sarà la loro più crudele assassina.
Sento lo stomaco rivoltarmisi, ho sempre odiato il puzzo di marciume, così simile all'olezzo che è presenza costante nei cimiteri, quando le carcasse cominciano ad andare in putrefazione.
Sorrido senza movimento, le labbra restano immobili, pensando che la morte e tutto ciò che ad essa è accomunato, non ha fatto altro che rincorrerci da quando siamo scappati da palazzo Jarjayes.
Poso lo sguardo nella direzione del mio futuro sposo, sul suo profilo perfetto. Ha il capo lievemente abbassato, i muscoli della mascella si contraggono in un chiaro segno di irrequietezza e l'occhio sano corre sul pavimento del sagrato. Le dita hanno smesso di martellare contro la gamba ed è ora il piede destro a dar sfogo al proprio nervosismo, accanendosi sulla macchia d'una mattonella.
Prego Dio, qui dove forse potrà udirmi con maggior chiarezza, di darmi la forza per cessare questa follia. Cosa potrei offrire all'uomo che persino oggi mi è accanto, così come è stato da vent'anni a questa parte; la vita? Quale vita sarebbe accanto a me, io, un essere che è donna e uomo e che non è né l'una né l'altro. Un soldato che ha perduto il proprio coraggio e una fanciulla che diffida del proprio cuore.
In quale dannazione ci sto trascinando, André?
Sono ora le mie mani a tremare, premo con forza i pugni, per annientare questa loro debolezza. Stringo senza controllo spingendo le unghie nella carne dei palmi. Non provo dolore, al contrario, il male fisico sembra lenire la sofferenza della mente.
Mormoro un'implorazione al Signore, un segno che mi induca a metter fine a tutto ciò. Ma vi è solo quiete; le statue dei santi, con le loro bocche mute e gli occhi vitrei, sono immutabili nella propria rigidità. Non verrà alcun segno. E quand'anche scendesse qui dinnanzi il padreterno, negherei la sua presenza.
Falserei la mia supplica, fingendo di non averla mia pronunziata e maledirei il buonsenso perché nella sua saggezza condurrebbe André via con sé. E la sua dipartita mi dilanierebbe più della morte.
Saperlo lontano, sciolto da ogni vincolo col passato, libero di crearsi una nuova esistenza e...

“Dovremmo cominciare. L'ora si è fatta tarda e l'età non mi consente più di rubare ore al riposo. Voi comprenderete vero?”
il curato cancella il brusio dei miei tormenti con la propria voce stridula e oltremodo fastidiosa, ma efficace nel ricondurmi al presente.
Non è più possibile tornare indietro, non dopo aver rovesciato il cielo e la terra per arrivare sino a questo punto. Gli sguardi di tutti i presenti mi puntano addosso, ognuno con delle aspettative differenti. Rosalie, Bernard, André, persino l'officiante di questo matrimonio pretende ch'io porti a termine ciò per cui ho implorato.
E così sia.
Annuisco col capo, lievemente, acconsentendo che il rito abbia inizio.

“Avvicinatevi e porgetemi la mano destra.”
entrambi posiamo la mano su quella del prete, con l'incertezza di chi è all'oscuro di ciò che sta per accadere. Ho presenziato a molti matrimoni a Versailles, compresi quelli delle mie sorelle, ma a quanto pare mai così attentamente da rammentarne i passaggi.
Monsieur Marduel congiunge le nostre mani tra le sue, assicurandosi che la stretta sia ben salda, per poi abbandonarle e depositare su di esse un velo leggero. (2)

“André e... e...”
il parroco si schiarisce la voce, palesemente a disagio, quasi infastidito. Se per la propria dimenticanza o per l'inconsueta situazione, non è dato saperlo, ma è evidente ad ognuno dei presenti l'imbarazzo che è calata sulle nostre teste.

“Come avete detto di chiamarvi, mia cara?”
il tono assume un'intonazione differente, quasi ilare, sul giungere delle ultime parole. Non vi do peso, ignorando il sottinteso che da sempre ha accompagnato la pronunzia della mia nomea, ma qualcuno al contrario pare esserne seccato. Il dorso della mano di André, al di sotto del mio palmo, è un tremolio di nervi che si contraggono con veemenza.

“Oscar. Oscar Francois.”
replico alla domanda con fierezza e con la medesima naturalezza che ciascuno dovrebbe avere sulla lingua, enunciando il proprio nome. E con la stessa semplicità mi ritrovo a serrare le dita attorno alla mano dell'uomo che mi è al fianco, con fare leggero, come una carezza che col medesimo gesto vuole rassicurare, e trattenere la furia che sta per venire alla luce. Il tutto nascosto al di sotto del velo di tessuto che copre le nostre destre, nessuno sa, nessuno può vedere quale battaglia sta compiendosi sulla nostra pelle. E nei nostri cuori.

“Oscar e André siete venuti a celebrare il matrimonio senza alcuna costrizione, in piena libertà e consapevoli del significato della vostra decisione?”
mai domanda potrebbe essere più incomoda di questa. Potrei riderne, se non fosse tutto così dannatamente crudele. Ricaccio in gola una risata amara, obbligandomi a non sollevare mai lo sguardo, così da non dover incontrare quello di colui che a breve diverrà mio consorte.
Eppure giungerà il momento che mi vedrà obbligata a farlo, e sarà nel verde del suo unico occhio che vi leggerò il mio peccato. Ho creduto, con la scelta del matrimonio, di preservare André dalla detenzione, ma col mio gesto lo condurrò in una analoga prigionia. Forse addirittura peggiore.
In questo tempo che sta mutando verso un'era di cambiamento, io mi ritrovo a commettere i medesimi errori, legando a me qualcuno alla stregua d'uno schiavo.
Cosa ti sto facendo André? A te, che ci vorresti tutti liberi e uguali, sciolti d'ogni costrizione.
Debbo trovare il coraggio di interrompere questo inganno. Ora, ritroverò il suono della ragione che ti renderà salvo.

“Si.”
è invece la voce di André a precedere la mia. L'affermazione irrompe nella chiesa spezzandone il silenzio, il vigore del tono è tale da risonare con violenza contro la navata, concependo un eco che pare non debba più aver fine.
D'istinto sollevo la testa per scrutare il suo viso, sul quale mi auguro di trovarvi il vero, ma la mia preghiera non trova accoglimento. Nell'istante in cui io ho innalzato il mento, il suo ha compiuto il movimento opposto, celando ai miei occhi l'obiettività del suo volto.
Come potrò comprendere la natura dell'affermazione appena pronunziata?
Un colpo di tosse secco incalza la mia replica. Il parroco ha premura di vederci fuori dalla sua dimora ed oramai non ha più cura di farne mistero.

“Si.”
rispondo indecisa come forse non lo sono mai stata in tutta la mia esistenza.   

“André, vuoi accogliere Oscar come tua sposa nel Signore, promettendo di esserle fedele sempre,
nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarla e onorarla tutti i giorni della tua vita? Se dunque questo è tuo desiderio, ripeti dopo di me; con la grazia di Dio, lo voglio.”
guardo Monsieur Marduel, le sue labbra sottili, bagnate da un ammasso di bava agli angoli della bocca, scandire la formula come un censore enuncerebbe una sentenza di morte.

“Sì, con la grazia di Dio, lo voglio.”
la sua voce, inflessibile e piacevole come quella d'un tempo andato, precede qualsiasi intento. Il mio cuore accelera il proprio pulsare e poi pare arrestarsi d'improvviso. Sono sopraffatta, ma possiedo ancora quel frantume di lucidità che mi permette di intravedere André.
Vedo in lui l'amore e l'odio, con una nitidezza che colpisce con spietata ferocia. Mi guarda, per un tempo così effimero da essere più breve d'un colpo di ciglia. Ma in quel fuggevole istante, il suo struggimento e la sua collera, riescono a penetrarmi fin nel profondo dell'anima, macchiandomi le guance d'un casto rossore.
Mi ami ancora André? Oppure la brama che mi par di scorgere, altro non è che voglia di farmi male? È così, non è vero? Vorresti afferrarmi per le braccia e premervi attorno le dita, fino a sentire la carne deformarsi sotto di esse. E scuotermi, una, due, mille volte, alla ricerca di un po' di quel buonsenso perduto e di quella umanità che mi terrorizza più degli inferi.
Oh, ne avresti tutte le ragioni, caro André.
Dovresti farlo.
Fallo, te ne prego. Liberami da me stessa. E poi scappa il più lontano possibile, senza mai guardarti alle spalle.

“Oscar, vuoi accogliere André come tuo sposo nel Signore, promettendo di essergli fedele sempre, nella gioia e nel dolore, nella salute e nella malattia, e di amarlo e onorarlo tutti i giorni della tua vita?”
no, come potrei pensare di eguagliare anche solo in parte l'amore che André mi ha donato da sempre. Io che di amore so poco e nulla. Ed è amore ciò che provo per lui o soltanto smania di possesso?
Sciocca, ecco cosa sono. Una stupida che ha creduto di poter rammendare un'armatura con un filo di seta.
Dischiudo le labbra. La lingua genera parole mute, lievi come un sospiro. Esito e, ancora prima di decidere, la mia mano destra si sta di già muovendo, per sciogliersi dall'unione con quella di André.
E il dorso della sua, al di sotto del mio palmo, ruota su se stessa per impedirmi di andar via. Le dita mi afferrano il polso, fermando la ritirata. Clandestini al di sotto del velo di tessuto.
Non vi è clemenza sulla sua bocca, come non c'è nel verde della sua iride, eppure la presa seguita nella propria mira.

“Sì, con la grazia di Dio, lo voglio.”
mormoro con un filo di voce, così sottile che anch'io fatico ad udire me stessa.

“Il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe, il Dio che nel paradiso ha unito Adamo ed Eva confermi in Cristo il consenso che avete manifestato davanti alla Chiesa e vi sostenga con la sua benedizione.
L’uomo non osi separare ciò che Dio unisce.
Amen.”
Il prete allarga le braccia e solleva le mani su di noi, benedicendo il novello giuramento, con ben poca convinzione. Poco male, poiché l'intera situazione ha il peso d'una pantomima.

“Signore, benedici e santifica l'amore di questi sposi:
l’anello che porteranno come simbolo di fedeltà li richiami continuamente al vicendevole amore.
Per Cristo nostro Signore.”
così annunciando, il parroco svela le nostre destre lasciando cadere a terra il tessuto che le aveva tenute al riparo dagli occhi dei presenti. Le dita di André serrano ancora il mio polso, con uguale tempra di un respiro fa. L'unico impiccio ora, è che lo spettacolo è alla mercé d'ogni partecipante alla funzione.
Non odo commento alcuno, tuttavia le opinioni di ciascuno sono su di noi pesanti come macigni.

“Perdonate André, l'anello...”
Non esiste anello, nessuno di noi si è preso il fastidio di occuparsi di quel dettaglio. André slega la mia mano, cercando nei miei occhi la soluzione ch'io non posso dargli.
Che sia l'ennesimo sentore che l'unione non debba essere condotta al termine? Se solo Dio volesse dispensarmi da un tale fardello, sarebbe per me una benedizione.
Un rumore di passi alle mie spalle attira la nostra attenzione, volgo verso il fondo della cappella dove vedo la figura di Rosalie camminare con discrezione e, una volta giunta a pochi passi dalla mia persona, avvicinare le labbra ad un soffio dal mio orecchio.

“Una dimenticanza imperdonabile, Oscar. Scusate. Prendete il mio anello, ve ne prego.”
sussurra la giovane Rosalie sfilandosi il piccolo cerchio dorato dal dito.

“No, non posso accettare la tua fede nuziale.”
con ritrovata risolutezza tento di declinare l'offerta.

“Oscar, questo anello serve più a voi che a me. Non ho bisogno di un gioiello per manifestare l'unione tra me e Bernard. Voi invece si.”
così dicendo, perentoria come mai l'ho udita fino ad oggi, afferra la mia mano posandovi la fede al centro del palmo.
Immediatamente compio una mossa gemella, passando ad André l'oggetto che sancirà questo legame. Ed io mendico, priva di parola, una qualsivoglia indicazione su ciò che dovrei fare. Ad ogni modo è André a condurre la partita, dolcemente agguanta la mia mano sinistra, infilandomi senza alcun impedimento la fede al dito.
Traggo un lungo e pesante sospiro.

“Fratelli e sorelle, invochiamo su questi sposi la benedizione di Dio:
egli, che oggi li ricolma di grazia con il sacramento del Matrimonio, li accompagni sempre con la sua protezione.”
Percepisco la consacrazione di Monsieur Marduel, ma la sola parola che riesco a comprendere è “sposi”. Siamo due sposi, io e André, marito e moglie.
I polmoni divengono pietre al di sotto del petto. Voglio respirare ma non c'è più aria in gola.

“Il Signore Gesù, che santificò le nozze di Cana, benedica voi, i vostri parenti e i vostri amici.
E su voi tutti, che avete partecipato a questa liturgia nuziale, scenda la benedizione di Dio onnipotente, Padre e Figlio e Spirito Santo.
Amen.”
Con voci differenti pronunziamo la risposta alla benedizione. Io stessa ottengo un sibilo di fiato dal torace, quel tanto che mi è concesso per ribattere alla fine della funzione.
Quel che fatto è fatto, non vi sarà più modo di tornare indietro.
Così sia.

“André, figliolo. Ora puoi baciare la sposa.”
il curato annuncia questo ultimo e inaspettato passo degli sponsali, con un malsano prurito nella voce.
Nessuno di noi era pronto a questa incombenza, lo si evince dallo stupore sul viso dei testimoni, così come deve essere sul mio. André è il solo ad essere impassibile.
Con una calma innaturale procede nella mia direzione, spoglio d'espressione, indecifrabile. Disgiungo la bocca per convenire con lui sulla sciocchezza di tale pretesa, ma non ne ho modo. André, oramai a poca distanza, mi prende il viso tra le mani e, sulle mie labbra innocentemente accessibili, vi preme le sue. Che sono umide, sfrontate, torride come questa notte d'estate.
È un bacio furioso il suo, paragonabile a quello d'una notte di un'altra vita.
Al silenzio si aggiunge altro silenzio, parrebbe impossibile ma così è. C'è solo il fluire del sangue che mi pulsa nelle tempie e il suono umido delle nostre bocche, nel momento in cui lui abbandona le mie labbra.

“Hai ottenuto ciò che volevi, ma neppure immagini le conseguenze che avrà questa tua decisione.”
mormora un attimo prima di allontanarsi da me, come se nulla fosse accaduto.





(1) La mantella rossa era un segno distintivo del mestiere della meretrice, nella Francia del XVII secolo.

(2) Nel nord della Francia, in Inghilterra, in Irlanda, in Danimarca per tutto il medioevo durante la solenne benedizione un grande drappo nuziale (pallium, pannum, mappa, linteus) è tenuto da due o quattro persone sul capo degli sposi, a significare che ambedue costituiscono la Chiesa sposa di Cristo. Nella Francia meridionale, nella Spagna, in molte regioni dell'Italia un velo più leggero (velum, velamen, stola) è posto sul capo della sposa e sulle spalle dello sposo, o anche sul capo o sulle spalle di ambedue.
In Francia nel secolo XVIII la velatio nuptialis è ancora relativamente comune. 

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