Saboteur di Lechatvert (/viewuser.php?uid=453208)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** parte prima – gli scomparsi ***
Capitolo 2: *** parte seconda – controllo ***
Capitolo 3: *** parte terza – sei solo? ***
Capitolo 4: *** parte quarta – blu ***
Capitolo 5: *** parte quinta – pesi ***
Capitolo 6: *** parte sesta – silver car crash ***
Capitolo 7: *** parte settima – cambio ***
Capitolo 8: *** parte ottava – childhood's end ***
Capitolo 9: *** parte nona – savage ***
Capitolo 10: *** parte decima – paradiso ***
Capitolo 11: *** parte undicesima – game show ***
Capitolo 12: *** parte dodicesima – bugs ***
Capitolo 13: *** parte tredicesima – semplicità ***
Capitolo 14: *** parte quattordicesima – downtown ***
Capitolo 15: *** parte quindicesima – se sei solo ***
Capitolo 16: *** posludio ***
Capitolo 1 *** parte prima – gli scomparsi ***
saboteur
«Mariceli, sei
qui?»
«Sei ancora sveglio?»
«Non riesco a dormire».
«A cosa pensi?»
«A
te. Alle storie che
racconti di notte. Perché ti siedi con noi e inventi
qualcosa
per non farci avere paura».
«Le storie sono come le luci nel cielo, Cassian. Servono per
far passare la paura».
«Vorrei che mi spiegassi come fai».
«A raccontare storie?»
«A
far passare la paura».
«E perché lo vorresti sapere?»
«Perché prima il Capitano Halos mi ha detto una
cosa a cui non avevo mai pensato».
«Che ti ha detto?»
«Che non ci sarete per sempre».
Il giorno in cui Travia Chan creò il Gruppo
Resistente di
Atrivis, unendo per sempre le forze ribelli di Fest con quelle
liberatrici del
Sistema di Mantooine, noi dell’FRG ci sentimmo
inevitabilmente traditi. I
miei
due compagni di stanza (troppo taciturni perché io ne
ricordi il
nome a così tanti anni di distanza), lasciarono quella che
con solennità chiamavamo “la
Resistenza” per passare beceramente all’Impero.
«Meglio inculati la con divisa che inculati con le palle al
freddo e coi
mantooiani intorno», mi disse uno di loro poco prima di
sbattere
la porta e, passata la sorpresa di sentirgli dire più di tre
parole nella stessa frase, mi sedetti sulla mia branda a contemplare la
stanza nella sua vuota solitudine.
Quel giorno compivo sedici anni.
Ricordo che fuori nevicava, ma che stranamente non avevo freddo.
Rivivendo oggi quei momenti di completo abbandono, penso che
involontariamente mi stessi preparando ad affrontare
l’inverno
con le mie sole forze. “ Un
uomo sopravvive anche se la neve
lo
seppellisce”, mi aveva detto anni prima Travia
Chan,
mettendomi
in mano un fucile il giorno stesso in cui mio padre era stato portato
via dagli imperiali. “ Giovane
Harkor, hai molte battaglie da
vincere prima di diventare un soldato”.
Siccome a sedici anni mi reputavo molto più uomo di quanto
non
mi reputi ora, mi imposi di non lasciarmi abbattere e approfittai del
ritorno in patria della Squadriglia Anima per farmi vezzeggiare un poco
da Terras Cunha, unico amico di mio padre ancora interessato a me che
faceva pilota per conto di Travia Chan. Ufficialmente le tratte erano
commerciali; in realtà, allora come oggi, la Squadriglia
Anima di
commerciale aveva ben poco.
Quella sera, Terras Cunha mi accolse con il suo solito umore
(cioè pessimo).
Ci
incontrammo al tavolo dell’unica bettola di Fest in cui non
si
congelava per via dell’orripilante clima del mio pianeta
natale, ma finimmo con l'aver freddo lo stesso poiché
qualcuno aveva ben pensato di sfondare le finestre venti minuti dopo
l'inizio della bufera.
Trovai Cunha incredibilmente invecchiato: aveva completamente perso i
capelli, e sotto agli
occhi gli erano spuntati due pesanti aloni violacei, oltre che un fiume
di rughe sulla fronte. Mi fece un cenno
del capo quando mi vide avvicinarmi (il suo modo per farmi intendere
che era contento di vedermi in forma) e io gli sorrisi di risposta, ben
lieto di ritrovarlo, se non pimpante, almeno vivo.
«Mi hanno detto che ti sei dato una regolata»
esordì, portandosi alle labbra un bicchiere di liquore.
«Ti vedo bene, Cassian Harkor».
Mi sedetti al tavolo, ben attento a sfoggiare il blaster E-5 che ero
riuscito a rubare da un vecchio deposito di Travia Chan e che ora
portavo attaccato alla cintura. «Lo stesso per te, Terras
Cunha».
«Guardalo un po’, il figlio di Krasin. Smilzo come
lui,
avete anche lo stesso brutto naso. Che cosa combini, in questo posto di
merda?»
Alzai le spalle, dandomi le solite arie che un ragazzino pieno di
sé si dà quando si trova davanti a un adulto.
«Sopravvivo» dichiarai, orgoglioso.
Cunha alzò entrambe le sopracciglia, deciso a non scomporsi,
poi si fece subito serio. «Sta' a sentire» mi disse
a
bassa voce, scoccandomi un'occhiata circospetta.
«C’è una cosa per te. Krasin non ti
avrebbe mai
fatto crescere qui, io lo so bene. Perciò, consideralo il
mio
regalo di compleanno per te che adesso stai diventando un
uomo».
Non mi lasciai vedere entusiasta. «Spara»
brontolai. In realtà, fremevo dalla curiosità.
«Lascio la Squadriglia Anima per un po’ di tempo, e
vorrei che venissi con me».
Mi accigliai. Chi mai avrebbe potuto lasciare un gruppo così
ammirato e benvoluto in tempi così poco incoraggianti? La
Guerra
dei Cloni era finita da un pezzo, ma Fest faticava ancora a ingranare
un’economia che andasse oltre la mera sussistenza.
«A chi
ti vuoi unire?» domandai, facendomi sospettoso. Forse la
domanda giusta non era perché, ma per
cosa.
Vidi Cunha sghignazzare.
«Un mio vecchio amico mi ha chiesto un favore»
rispose,
vago. Posò il bicchiere vuoto sul tavolo, facendo cenno al
cameriere di allungargliene subito un altro. «Non ti voglio
mandare su di giri, Cassian, ma … hai mai sentito parlare
del
Capitano Halos?»
*
Ai tempi della guerra civile, Tylan Halos era stato il salvatore di
tutti quei festiani che non credevano più
nell’Impero e
che erano pronti a imbracciare un’arma per andare a
riconquistare
le proprie terre innevate. Aveva allevato orfani, scacciato imperiali,
riparato impianti di riscaldamento e combattuto battaglie che
sembravano invincibili. E, in tutto questo, era anche riuscito a
coltivare una
profonda e sincera amicizia nei confronti di Terras Cunha, notoriamente
simpatico tanto quanto un calcio negli stinchi quando per terra
c’è ghiaia.
Mio padre ammirava Tylan Halos. Prima della sua cattura, mi faceva il
suo nome quasi ogni giorno. Era stato il mio eroe per osmosi,
perché su di lui avevo sentito talmente tante storie che mi
era
praticamente impossibile non adorarlo, anche se in realtà
sul
suo conto non conoscevo che leggende.
Quel giorno appresi il primo dato di fatto su di lui: con la nascita
del Gruppo Resistente di Atrivis, Tylan Halos era stato fatto capitano.
La sua squadra, di conseguenza, si era completamente rimessa agli
ordini di Travia Chan. Come l’Anima, in un certo
senso, solo molto più conosciuta.
Cominciavo a capire come mai Terras Cunha avesse tanta fretta di
mollare i suoi compagni, ma all’epoca non ero che
all’inizio della serie di scoperte che mi convinsero in
seguito a
lasciare Fest per sempre, e mi sentivo soddisfatto anche della
più piccola deduzione.
Incontrammo il Capitano Halos nell’unico hangar di cui
disponeva
la piccola base dove risiedevo. L’Andor (il mercantile Ghtroc
720 che Halos si scarrozzava dietro da anni e che si rifiutò
sempre
di cambiare) era atterrato
lì poco prima e ci osservava in
silenzio, elegante quanto un rottame in mezzo ad altri rottami, in
attesa di essere rimesso in moto per ricevere un agognato colpo di
grazia con conseguente demolizione. Chiunque potrebbe valutare quanto
crudele sia stata la vita con quel povero mercantile il cui unico, vero
sogno era quello di farsi fare a pezzi ma a cui invece toccò
una vita lunga e piena di ruggine.
Non appena ci scorse sulla soglia, Tylan Halos ci riservò il
più caloroso dei saluti.
«Cunha, vecchio mio!» gridò dal fondo
dell’hangar, facendo sobbalzare quasi tutti i piloti intenti
a
badare ai loro veicoli. La sua voce era profonda tanto quella di uno
Wookie. «Ti sono caduti i capelli, alla
fine!»
Cunha non raccolse. «Tylan, buonasera» lo
salutò,
minimalista come al solito. «Ti ho portato quello che
cercavi».
Improvvisamente, ebbi l’impressione di essere la merce di
scambio
di una compravendita non del tutto legittima. Guardai Cunha, ma sul suo
viso c’era il vuoto. Su quello del Capitano Halos, invece,
brillava un sorriso cordiale.
«Tanto piacere!» esclamò, allungando
nella mia direzione una
grossa mano grondante olio. Io la guardai con sospetto ma mi costrinsi
a rispondere per educazione.
«Cassian Harkor».
«Lo so, lo so. Il figlio di Krasin, no?»
Mi illuminai. «Lo conoscevi?»
«Per niente, ma sono contento che tu sia qui. Cunha ti ha
già parlato del lavoretto che abbiamo da fare, no?»
Provai a rispondere che no, Cunha non mi aveva detto un bel niente, ma
il Capitano era già partito a spiegare al suo vecchio amico
come
aveva fatto a bruciare metà della fiancata destra del suo
mercantile, pregandolo di trovare un meccanico buono
abbastanza
da sostituirla in tempi brevi, anzi, brevissimi.
«Ma cosa vuoi che ti dica?» rispondeva scocciato
Cunha,
scuotendo il capo. «Questa nave fa schifo anche ai meccanici.
Compratene una nuova, pidocchio».
Mi rassegnai a guardarli in silenzio.
Tylan Halos era un uomo grande e grosso, un gigante sulla quarantina
dai capelli rossi e dalla barba poco curata. Certe sue smorfie mi
ricordavano i mantooiani, ma non scoprii mai quale fosse la sua
effettiva origine. Tylan era Tylan, non c’era altro da sapere.
Mi avvicinai all’Andor assieme a loro, osservando
l’enorme
bruciatura sulla fiancata con lo stesso sgomento con cui fissano i
resti di un incidente particolarmente facile da evitare. Che razza di
pilota
poteva aver manovrato quel mercantile in maniera così
goffa da strisciarlo contro la fusoliera di un’altra
astronave?
«Se Mari la trova messa così mi ammazza ed
è la
buona volta che me ne vado sul serio» si lamentava intanto il
Capitano Halos, distrutto. «Ti giuro che di TIE ne ho visti
volare parecchi, ma questi nuovi modelli sono tutta un’altra
storia».
Cunha annuì. «Un dito in culo con
l’unghia» ne convenne.
Tylan Halos fece spallucce. «Allora, in quanto pensi che me
la ripareranno?»
«Vola ancora?»
«Perfettamente».
«La useremo così. Ammesso che troviamo un
meccanico
a cui fare abbastanza pena – e su Fest non ce ne sono
–
andrebbe via comunque una settimana. Abbiamo una settimana?»
«No».
«E allora partiamo così».
Ormai al limite della sopportazione della mia stessa
curiosità,
mi rifeci presente con un colpo di tosse. «Scusate»
dissi,
incrociando le braccia sul petto per darmi un tono come per anni avevo
visto fare ai miei compagni nell’FRG. «Ma che avete
intenzione di fare con questo rottame?»
Il Capitano Halos fulminò Cunha con lo sguardo, ma il pilota
rispose alzando le spalle. «Lo ha detto lui che è
un
rottame, mica io» si difese. La cosa venne messa da parte e
mi
venne rinfacciata più tardi, mentre buttavo la mia roba in
quella che da lì in poi sarebbe stata la mia cabina.
«La missione è complicata» mi disse il
Capitano
Halos, mettendosi nella mia stessa posa. «Ragazzo, ne sai
qualcosa degli Scomparsi?»
Scossi il capo.
«Nemmeno io. Però so che da un giorno
all’altro evitano di
tornare a casa e svaniscono nel nulla. Da quel momento, nessuno ne sa
più niente. La famiglia li cerca, ma non
c’è
più traccia di loro. Come se non fossero mai
esistiti».
«Militari?»
«Affatto. Tutta gente normalissima».
Ripensai a mio padre, al giorno in cui era stato fatto prigioniero
durante le guerre che avevano impestato Fest quando ero bambino. Mi
chiesi se fosse stato meglio saperlo scomparso, piuttosto che
prigioniero dell’Impero. Forse era un bene che quelle persone
non
sapessero che fine avessero fatto i loro cari, che continuassero a
sperare in un loro impossibile ritorno.
Tylan Halos, intanto, andava avanti imperterrito.
«L’anno scorso, grazie a
una nostra intercettazione, siamo venuti a conoscenza del centro di
detenzione di
Rasp. Essendo così vicino all’Orlo Esterno,
abbiamo
pensato che potesse essere il luogo giusto dove iniziare a cercare gli
Scomparsi, e abbiamo inviato un agente sotto copertura per sondare il
terreno. Adesso bisogna recuperarlo».
Strappato alle mie elucubrazioni mentali, mi voltai di scatto verso il
capitano. «Il vostro agente sotto copertura è
laggiù da un anno?» chiesi,
sconvolto. Non potevo
concepire un solo giorno tra gli imperiali; un anno mi sembrava una
condanna a morte.
Tylan Halos mi rassicurò subito. «Conoscerai Mari,
è un talento naturale» rispose.
«L’appuntamento
è
sulla Luna 4 di Rasp, tra tre giorni. Arriverà con un
piccolo
plotone imperiale per verificare il funzionamento di alcuni specchi
di trasmissione. Li attaccheremo, caricheremo Mari e ripartiremo
prima che da Rasp possano anche solo pensare di rispondere al
fuoco».
Annuii. «Vi servo per coprirvi le spalle, quindi».
«Suo padre era un tiratore brillante» fece presente
Cunha.
Gonfiai il petto. «Non sono da meno» assicurai,
battendo la mano sul mio blaster rubato.
Tylan Halos mi guardò e sorrise.
«D’accordo» concesse, stringendomi di
nuovo la mano, stavolta con
più
trasporto di quando ci eravamo incontrati qualche minuto prima.
«Benvenuto a bordo, allora. Vi battezzo ufficialmente,
ragazzi:
Andor Quattro e Andor Cinque».
«E gli altri Andor chi sono?» chiesi. A sedici anni
non si può fare a meno di fare domande.
Per fortuna, Tylan Halos fu sempre paziente. «Capo Andor ce
l’hai
davanti» rispose. «Andor Due lo stiamo andando a
prendere e
Andor Tre, lui …»
Sentii Cunha sospirare. «Non dirmi che non lo hai ancora
detonato!»
Da uno degli altoparlanti dell’Andor, una voce mi fece
sobbalzare.
“Vi sento tutti e tre da quando siete venuti a constatare i
danni. Fossi in voi, non mi permetterei di fare ironia su chi
dovrà calcolare le rotte di volo per garantire il successo
dell'operazione”.
Il Capitano Halos scoppiò a ridere, Cunha roteò
gli occhi.
Poi, con il gracchiante rumore degli ammortizzatori che si abbassavano
per aprire il portellone del mercantile, una figura apparve
proprio davanti a noi.
Incuriosito, mi feci avanti e superai Cunha.
Fu la prima volta che mi trovai faccia a faccia con Kappa.
Non so con esattezza da dove sia uscita questa storia.
Prima ero al cinema, poi in lacrime, poi al cinema di nuovo, poi in
profonda pausa di riflessione con la vita ... e poi è
comparsa Saboteur.
L'idea di base è quella di scavare nel passato di Cassian,
di smascherare un po' di quelle "prigioni che si porta dentro" ( Chirrut too cool for school) con
una storia sulla sua adolescenza prima dell'Alleanza Ribelle.
Mi sono largamente
ispirata al Rebel Alliance Sourcebook, prime dieci pagine o
giù di lì. Atrvis, Fest, FRG e Travia Chan
vengono tutti da qualcosa che non mi sono inventata ma che qualcuno
prima di me ha provveduto a scrivere.
Fondamentalmente, di mio ci ho messo mezza missione e tre personaggi.
Lo so, lo so, lo so
che ci sono un sacco di cose che non tornano (tipo il cognome di
Cassian trallallà o il fatto che sia vagamente un po' troppo
presto per Kappabello) ma non agitatevi: ogni cosa, a tempo
debito, sarà spiegata. O almeno l'idea è quella.
Altro da aggiungere? Saranno in tutto dodici capitoli, uno
per ogni canzone contenuta in un album che ho scoperto pochi giorni
prima di andare al cinema a vedere Rogue One grazie a The OA, una serie
bellissima che consiglio a tutti anche se con Star Wars non c'entra 'na
ciospa. Lancio ufficialmente la gara per scoprire di che
album si
tratta (?). Perché non c'è il link nel
titolo del
capitolo. Assolutamente no.
Va bene, mi fermo.
Ringrazio chiunque abbia letto il capitolo, doppiamente chi ha letto
anche i deliri le note senza cedere alla voglia di
farmi del male fisico.
I commenti e le pedate virtuali (D:) sono ben accetti anche se vengono
assieme, magari per ripagare lo screzio vi offrirei un caffé
virtuale con biscotti virtuali (la vita è troppo agra per
caffé e biscotti veri).
L'ho finita, stavolta davvero.
Bacini bacini
Lechat vert
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Capitolo 2 *** parte seconda – controllo ***
saboteur
«Allora, da dove si
comincia?»
«A fare cosa?»
«A raccontare una storia».
«Bé, direi che su per giù il trucco sta
nell’avere il controllo».
«Della storia?»
«No, quello è impossibile. Alla fine, è
sempre la storia a controllare te».
«E allora di chi devo avere il controllo?»
«Di chi ti ascolta. Devi intrufolarti nelle loro menti con
discrezione, accarezzare i loro pensieri per invitarli a seguirti.
Raccontare è come spiare: sbirci nella testa di chi hai
davanti
per farlo venire con te».
«E come si fa?»
«Si impara col tempo, Cassian».
Generalmente, quando si incontra un compagno di vita, lo si considera
di primo acchito una gran bella seccatura.
K-2SO, allora conosciuto dal gruppo di Tylan Halos con lo sgraziato
appellativo di Kappa-e-basta, era un droide di sicurezza dei tempi
delle Guerre dei Cloni, un vecchio modello che qualcuno era stato in
grado di recuperare e riprogrammare a dovere. In altre parole: una gran
bella seccatura che cigolava sinistramente ogni qual volta pensava di
spostarsi per degnarci della sua indesiderata presenza.
Ricordo che passai i primi giorni sull’Andor a chiedermi
quale
fosse, a conti fatti, l’effettiva utilità di un
droide di
sicurezza per una banda di ribelli, senza mai riuscire a giungere a
vera una
conclusione. Dopo tanti anni con Kappa, sono convinto che la risposta
sia la più semplice: la
compagnia.
Senza Mariceli, Tylan Halos si sentiva solo. Kappa gli serviva per non
perdersi, anche se la cosa comportava la stretta vicinanza a un
soggetto scorbutico e pedante come quell’unico droide che la
squadra era riuscita a rimettere insieme.
Posso assicurare, però, che la sua presenza è
tutto
fuorché sostituibile: una volta lavorato al fianco di quel
droide, è impossibile tornare a farne senza. Dopo i viaggi
con
Halos, non l’ho visto per due anni o giù di
lì e mi
è sembrata un’eternità.
Quella notte, la prima che passai a bordo dell’Andor, Tylan
Halos
mi lasciò solo con lui. Mi dovetti sorbire un giro guidato
del
mercantile, che all’epoca mi pareva la nave più
grande
della galassia, con tanto di commenti seccati su quanto fosse sminuente
per un droide di sicurezza del suo altissimo e pregiatissimo livello
doversi occupare di un ragazzino.
«Sai, a me i ragazzini non piacciono per niente»
continuava
a ripetere. Poi, di colpo, si fermava davanti a una porta, la
spalancava e mi invitava a osservare la stanza dalla soglia.
«Questa è la sala motori», diceva,
oppure:
«Qui è dove teniamo il cibo. Non
rubarlo», o ancora:
«Gradirei che non toccassi quel pannello di controllo vocale,
ci
sono alte probabilità che tu lo rompa» (e infatti
la
settimana dopo lo distrussi senza posibilità di recupero
versandoci sopra dell’acqua bollente).
Ero a dir poco indignato del trattamento che stavo ricevendo, ma la mia
eccitazione mascherava fin troppo bene ogni sentimento negativo.
Non ero mai stato su una nave così grande.
Seppur vecchia, l’Andor disponeva di due enormi sale motori,
una
stazione di controllo computerizzato, tre camerate per
l’equipaggio, due hangar di carico e due porti di fuga
equipaggiati con navicelle armate. Era un po’ traballante (e
sono
convinto che questo fosse uno dei motivi per cui Halos la amava
così tanto), ma fu per anni la nave migliore su cui mi
capitò di imbarcarmi. Più o meno.
A seguito della nottata di esplorazione, lasciammo l’hangar
su
Fest di prima mattina, dopo che Cunha mi ebbe tirato giù
dalla
branda a calci per mandarmi a scrostare il ghiaccio dal vetro della
plancia.
«Ma non potevate tenere il riscaldamento acceso?»
mi
lagnai, tremante e con in mano nient’altro che un raschietto
elettrico.
“Tuo padre non si lamentava mai” mi fece presente
Cunha
dall’altoparlante, e questo bastò a zittirmi
definitivamente. Vivevo ancora nel suo ricordo lontano e sbiadito
dell'eroe che non mi aveva visto crescere.
Al mio rientro, venni spedito a fare da assistente di volo nella sala
comandi, dove il Capitano
Halos mi mise una coperta sulle spalle e mi porse una tazza fumante.
«Scaldati e fa’ colazione» mi disse, ma
l’occhiata devastata che gli rivolsi dovette divertirlo
parecchio, poiché scoppiò a ridere facendo
tremare
persino Kappa. «Non guardarmi così che mi sembri
un
fesso!» esclamò, portandosi una mano alla fronte.
«Sei un pezzo di ghiaccio, per la miseria! Bevi!»
E così, equipaggiato con coperta e bevanda calda, col naso
ghiacciato e le guance che bruciavano dal freddo, lasciai Fest per la
prima volta in tutta la mia brevissima esistenza.
Ricordo che Cunha e Kappa litigarono per tutto il viaggio sulle rotte,
sull’iperguida, sulla nave, sulle tempistiche … a
voler
essere oggettivi, non riesco a pensare a un argomento su cui non
litigarono. Il
Capitano Halos, chiuso in un guscio di ottimismo e spiccata voglia di
farsi gli affari suoi, continuò a ridere con
bonarietà,
mitigando di tanto in tanto l’astio con una pacca sulla
spalla o
una battuta di dubbio gusto morale. Alla fine si alzò,
sospirando, e si ritirò nella sua cabina.
Tornò poco dopo con un fucile tra le mani.
«Ehi, ragazzo» mi chiamò, facendomi
cenno di
raggiungerlo sul retro della plancia, alle spalle di Cunha e di Kappa.
Mi porse il fucile con solennità, accompagnando quel gesto
con
un sorriso gentile. «Cunha mi ha detto che ieri era il tuo
compleanno» disse.
Incredulo, presi in consegna l’arma, un fucile E-11 caricato
al plasma.
Di primo acchito, pensai che il freddo mi avesse fatto venire le
allucinazioni.
Mai, mai
avrei pensato di
poter mettere le mani su un tesoro simile. Al confronto,
l’E-5
che avevo alla cintura era un temperamatite.
«Ma …» cominciai, incredulo.
«Posso tenerlo?»
Il Capitano Halos annuì. «Non avrai pensato che ti
avrei lasciato fare scendere da questa nave con quel cosino che ti
porti appresso, no? Mica
ti mando a morire!»
Dovetti dargliene atto.
Nei due giorni seguenti, chiuso con Kappa in uno degli hangar di carico
appositamente svuotato, mi esercitai a sparare con il mio fucile nuovo
di zecca.
*
Tre giorni dopo la partenza e con non poche difficoltà a far
procedere una precaria pace tra pilota e droide, approcciammo con
soddisfazione il Sistema di Rasp.
Ancora oggi, ad anni dalla sua completa bonifica, la Luna 4
è un
luogo fin troppo caldo per chi è nato su Fest. Di natura
sono
freddoloso, amante delle giornate calde come quelle di cui godiamo su
Yavin 4, eppure mi è difficile pensare a qualcosa di
più soffocante e insopportabile del clima di quel
satellite percorso nel sottosuolo
da canali di gas rovente. Fortunatamente, la nostra sosta non
durò a lungo.
Scendemmo dall’Andor con le armi pronte a far fuoco su almeno
un
plotone di imperiali, ma ci trovammo soli con la sabbia alta fino alle
caviglie, sudati e senza un briciolo di gloria.
«Siamo nel posto giusto?» chiesi immediatamente,
preparandomi a fare fuoco su un nemico che immaginavo uscire da un
momento all’altro da dietro una delle dune di ferro che ci
circondavano su ogni fronte.
Kappa mi superò sferragliando nel deserto. «Questo
posto
è abbandonato» spiegò, pratico.
«Serviva per
inviare le trasmissioni dal Sistema di Rasp all’esterno, ma
adesso hanno costruito le stazioni direttamente sul pianeta, e gli
specchi sono diventati inutili. Se glieli rubassi, non se ne
accorgerebbero nemmeno».
Ero esasperato. «Perché devi sempre sottintendere
che sono qui per rubare?» sbottai.
«Perché dubito che quel blaster E-5 ti sia finito
in mano da solo, ad esempio».
«Kappa, chiudi la bocca» intervenne il Capitano
Halos,
portandosi in avanscoperta con circospezione. «Questo luogo
non
è di alcun interesse per l’Impero,
perciò giochiamo
con il vantaggio che non si aspettano di trovarci qui. Sono comunque
imperiali, ragazzi. Non facciamoci distrarre».
Cunha sospirò. «Io non capisco una cosa»
fece
presente. «Mariceli ti ha fatto sapere che
arriverà qui
con un controllo tecnico. Se questo posto non serve a niente, cosa
vengono a controllare?»
Il capitano alzò le spalle. «Non ne ho idea,
Cunha. I
nostri contatti non sono mai stati così stabili da potermi
spiegare tutto nel dettaglio. Dobbiamo soltanto avere
fiducia».
Mi voltai verso il nostro pilota e lo osservai a lungo. Il suo viso,
corrucciato in un’espressione strana, pareva ancora
più
scontroso del solito. Però c’era
dell’altro. Lo
capii guardandolo caricare il fucile: il suo dubbio era che fosse
un’imboscata, che Mariceli, chiunque fosse, avesse tradito il
suo
gruppo. E che, per qualche strano motivo, questi pensieri non potessero
essere espressi ad alta voce in presenza di Halos.
Setacciammo l’area, valutando dove piazzare la vedetta
(Kappa) e
dove invece posizionare i cecchini, che per l’occasione
saremo
stati io e Cunha. Halos, a detta sua, si sarebbe occupato di aprire la
via.
Le dune di ferro che si ergevano a coprire l’Andor erano
roventi,
calde abbastanza da cuocervi sopra il pranzo senza bisogno di ricorrere
alla cucina della nave. Con somma tristezza, constatai che da quelle
piccole alture si godeva della visuale migliore sui vecchi pannelli di
controllo degli specchi. Se c’era un posto in cui valeva la
pena
appostarsi, doveva essere quel forno. Sopraffatto dall’afa,
decisi di farmene una ragione.
«Andor 5 a squadra» dissi, parlando nella
trasmittente che
mi era stata data in dotazione prima di scendere a terra. «Ho
trovato la mia postazione. Attendo il segnale».
Passai un istante in silenzio accovacciato sulla duna rovente,
angosciato e sfatto dalle temperature estreme, attendendo una risposta
nel calore del mio fiato che si infrangeva sul bavero della giacca.
“Capo Andor ad Andor 5” trillò poco dopo
la voce del
Capitano Halos. “Ti vedo bene, sta’ più
indietro. Il
segnale lo darà Andor 3, per cui attenzione tutti. Siamo
nelle
tue mani, Kappa”.
Obbedii. Abbracciando il mio fucile, rotolai su me stesso, buttando il
capo indietro e sollevando il viso verso il cielo scuro che ci
sovrastava. Non c’erano luci ad illuminarlo. Tutto sembrava
in
attesa.
«Ragazzo, non ti addormentare che tra tre ore entriamo in
azione!» disse improvvisamente la
voce del Capitano Halos. Vivacemente, l’uomo sbucò
da
sotto il profilo della collina con un vecchio fucile caricato in spalla
e un altro legato a tracolla. «Cunha lo sa già,
perciò lo dico anche a te». Mi fece cenno di
raggiungerlo,
dopodiché mi indicò lo spiazzo di attracco
attorno al
quale ci eravamo disposti. «La nave sarà
là»
mi spiegò, serio. «Scenderanno Mariceli, ossia il
nostro
agente, un ingegnere, un caposquadra e un piccolo plotone di cinque
guardie armate. Io punterò all’ingegnere e al
caposquadra,
tu e Cunha dovrete stendere il plotone. Il segnale lo darà
Kappa, non ci devono essere colpi di testa. Chiaro?»
Annuii. «È come nell’FRG»
dissi, memore dei
tempi in cui i miei due compagni facevano tutto e io dovevo
semplicemente starmene da parte a fare da palo.
Il Capitano Halos sorrise. «Cunha mi ha detto che
nell’FRG
facevi quel che ti passava per la testa» rispose, risoluto.
«Non azzardarti neanche per idea. Se uno di voi muore,
moriamo
tutti. Hai la responsabilità della tua vita quanto della
mia,
non dimenticarlo. Ora, c’è un’altra cosa
che mi devi
promettere».
Lo guardai. «Che cosa, Capitano?»
«Io e Cunha non siamo bravi tiratori, quindi non potremmo
farlo
comunque. Questo sarà il tuo compito speciale, il nostro
segreto. Intesi?»
«Intesi».
Halos mi appoggiò una mano sulla spalla e
assottigliò gli
occhi grigiastri. «Se le cose andassero male e gli imperiali
dovessero riportare Mariceli sulla nave, voglio che tu provveda a non
dargliela vinta».
Faticavo a seguire il discorso. «Dovrei sparare a un
amico?» domandai. Non ero certo di quello che mi volesse dire.
Il Capitano Halos annuì. «Sarebbe fargli un
favore,
ragazzo» rispose. «Quando quelli là
capiscono che li
hai presi per i fondelli per così tanto tempo è
meglio
morirgli davanti che tornare alla base con loro».
Dall’aria contrita che assunse, capii che il suo problema non
stava tanto nel prendere la mira, quanto nel premere il grilletto.
Secondo capitolo che in realtà doveva comprendere anche un
incontro vero e proprio ma che altrimenti sarebbe diventato troppo
lungo e che quindi ho deciso di spezzare incasinando tutto come al
solito ma bene così, il lato è oscuro
(cit.)!
Dunque, dunque, dunque.
Dunque.
Io volevo ringraziare tutti per l'entusiasmo con cui avete accolto la
mia idea mentecatta ... sul serio, solitamente non mi si fila mai
nessuno quindi siete tanto tanto carini ❤
Per il resto, grazie per essere arrivati (di nuovo) fin qua. Dal
prossimo capitolo (cioé quello che doveva essere la seconda
parte di questo ma vabbé), prometto che ci sarà
molta
più azione in più, con l'entrata in campo di uno
dei
personaggi più importanti della storia. Quindi dita
incrociate,
che magari ce la fo.
Cricetini,
Lechat vert
|
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Capitolo 3 *** parte terza – sei solo? ***
saboteur
«Buongiorno».
«Buongiorno a lei!»
«Orin Halos?»
«In persona. Con chi ho il piacere?»
«Generale Davits Draven».
«Generale Draven? Ma pensa. Posso esserle utile in qualche
modo?»
«In effetti sì. Ha mai sentito parlare del
Capitano Cassian Andor?»
«Con rispetto, Generale, chiunque ne ha sentito
parlare».
«Ha lasciato una cosa per lei».
«Per me, Generale?»
«Tredici anni fa, sì. Gliel’avremmo
consegnata prima, ma non siamo mai stati in grado di
rintracciarla».
«È che mi piace farmi i fatti miei».
«Immagino abbia senso. Bé, ora è qui,
quindi …»
«Posso dare un’occhiata?»
«Prego. È il backup di una scheda madre».
«Tutto qui?»
«Ora che me lo chiede, ricordo una certa conversazione a
riguardo».
«La ascolto».
«Quando mi venne affidata, chiesi al Capitano Andor cosa
contenesse».
«E cosa le disse?»
«Disse che conteneva la verità».
Andò tutto a rotoli quando la nave imperiale capì
in
anticipo di non essere sola sulla Luna 4 e decise di fare il giro lungo
per raccattare truppe sul satellite adiacente.
Noi, che naturalmente non avevamo idea del pandemonio scatenatosi sul
fronte nemico, cademmo inesorabilmente in trappola come bambini
attirati da un pugno di dolciumi.
Fu la prima volta in cui mi trovai
vicino abbastanza ad un clone da vedere attraverso le piccole fessure
della visiera, stretto a lui in un abbraccio di lotta così
duro
da incrociare i suoi occhi spaventati tanto quanto i miei.
Fu il giorno in cui mi trovai davanti alla verità di stare
lottando contro un essere vivente e non contro un bieco ideale.
Queste sono comunque considerazioni che vennero a posteriori, anni dopo
quel
rovinoso salvataggio nel deserto. Quel giorno, provai soltanto
compiacimento.
Ma andiamo con ordine.
Un esasperante quantitativo di tempo dopo l’ora stabilita per
l’incontro, me ne stavo lì sulla cima della mia
duna con
addosso l’impressione di stare rosolando a cottura lenta,
pericolosamente vicino a provare quello che deve provare un arrosto in
forno, quando la trasmittente fece passare la metallica voce di Kappa
che, credemmo tutti, portava il messaggio della salvezza.
“Vedo navi in
avvicinamento, Tylan”.
Rotolai sulla pancia, pronto a fare fuoco non appena avessi ricevuto
l’ordine.
La voce del Capitano Halos portò il panico.
“Navi? Kappa, cosa vuol dire navi? Ce ne doveva
essere solo una!”
Non feci in tempo a realizzare di essere caduto in trappola. Come
alzai il capo per guardare attraverso il mirino del fucile, sentii un
improvviso peso all’altezza del polpaccio e, prima che
potessi
anche solo pensare di voltarmi per scrollarmi di dosso qualsiasi cosa
si stesse accanendo contro il mio stivale, venni trascinato
all’indietro, costretto ad abbandonare la mia nuovissima arma
lassù dove rimase per sempre.
Realizzai di
essere stato attaccato soltanto dopo un paio di capriole e, incapace di
ribellarmi e preda
inesorabile del panico, rotolai giù dalla duna.
Il clone che mi aveva trascinato via dalla mia postazione era ancora
saldamente attaccato alla mia gamba, ostinato nel volermi trascinare
quanto più lontano possibile dalla cima della duna.
Iniziai a dimenarmi, scalciando e graffiando l’aria con tutta
la foga che riuscii a trovarmi dentro. “ Prima missione fuori da Fest e
muoio” continuavo a pensare, ossessivo mentre mi
aggrappavo alla vita. “ No,
no, no!” E, rinunciando anche
all’ultimo grammo d’aria che avevo nei polmoni, mi
misi a gridare come uno squilibrato.
Forse grazie alla sorpresa di quell'urlo, svincolai alla presa del mio
nemico e gli rotolai
letteralmente sopra, schiacciandolo con l’esiguo peso del mio
corpo. Dimenticai di avere un blaster appeso alla
cintura e iniziai a prenderlo a pugni. Sull’elmo, sul petto
coperto di ferro, ovunque mi capitasse di arrivare a colpire prima che
lui iniziasse a rispondere. Mi ferii le nocche, ma sul momento non me
ne accorsi nemmeno.
La gloria durò poco.
Come l’uomo sotto di me capì
di avere a che fare con un ragazzino smilzo alto meno di un metro e
settanta, non si risparmiò di colpirmi.
Mi arrivò una gomitata in piena faccia che mi
riempì la
bocca del sapore ferroso del sangue, seguita immediatamente da un pugno
in pieno stomaco.
Caddi all’indietro, ruzzolando di nuovo tra la sabbia, e,
nella
disperazione, sentii chiaramente il rumore del blaster al plasma in
carica.
“ Adesso muoio”
pensai,
spalancando gli occhi in un gesto che allora mi parve di ardito
coraggio. Perché le persone morivano con gli occhi chiusi,
credevo, e tenerli aperti era come sfidare la vita.
Guardai il mio nemico dritto in faccia, aspettando il colpo che mi
avrebbe ucciso. Non provai alcun rimorso. L’unico
rimpianto che sentii
bruciarmi nel petto fu quello di non essere a casa.
Eppure mi salvai.
Un colpo di blaster seccò il clone nell’esatto
istante in cui stava per premere il grilletto, attraversandolo da parte
a parte con il lieve sibilare del plasma.
Incapace di fare altro se non guardare un uomo morire, restai immobile
dov’ero, inginocchiato tra la sabbia come una cartaccia
sgualcita.
Alla mia sinistra, malfermo sui suoi stessi passi, comparve un
ingegnere imperiale. «Sei solo?» mi chiese,
abbassando il
fucile che mi aveva appena salvato la vita. Mi raggiunse e mi porse la
mano inguantata per aiutarmi a rimettermi in piedi.
Io lo guardai a lungo, prima di accettare e appoggiarmi a lui per
ricompormi. Attraverso il suo casco integrale, sentivo il suo respiro
lento e calmo infrangersi sul metallo della visiera.
«Sono solo» mentii. «I miei compagni mi
hanno
lasciato qui tre giorni fa». Nella mia ingenuità
di
ragazzino, non mi stranì il fatto che un ingegnere avesse
appena
sparato a un soldato per salvare la vita di un perfetto sconosciuto.
“ Mi
avrà visto indifeso” pensai, e tanto
mi bastò per cercare di non far finire nei guai anche il
Capitano Halos e gli altri.
Apparentemente convinto dalla mia risposta, l'ingegnere
annuì, facendomi cenno di seguirlo. Aveva
abbassato l’arma, il che mi lasciò fantasticare su
un
possibile tentativo di rubargliela e ribaltare la situazione a mio
favore.
«Sono affamato» presi a lamentarmi, provando in
tutti i
modi di apparire quanto più abbandonato mi fosse possibile.
Considerate le condizioni in cui mi trovavo, sudato e coi calzoni pieni
di sabbia, dovetti apparire piuttosto
convincente. «E ho sete. Hai dell’acqua?»
L’ingegnere ignorò i miei tentativi di
impietosirlo.
«Hai detto che sei solo?» mi chiese, sottovoce. Il
suo tono
era rauco, secco, come se gli dolesse la gola.
Io annuii cautamente. «Ci eravamo fermati qui per
…»
“Andor 3 ad Andor 5. Nessuno ti vede più alla tua
postazione. Tylan ha detto che poteva esserti successo qualcosa, ma mi
sembra più probabile che tu te la sia data a gambe
portandoti
dietro anche il nostro fucile. Comunque, chiedo conferma della tua
effettiva incolumità. Se sei vivo, rispondi.
Grazie!”
Sgranai gli occhi e, per qualche motivo, capii che sotto al suo casco
l’ingegnere stava facendo lo stesso.
Improvvisamente, mi ricordai del mio blaster E-5. Lo sganciai dalla
cintura e lo puntai contro l’uomo, pronto a fare fuoco.
«Sono un tiratore!» lo avvertii, tremante come una
foglia
al vento. «Non posso sbagliare!»
Senza neanche degnarsi di commentare la mia infelice uscita,
l’ingegnere scosse il capo. «Aspetta,
parliamone»
rispose. Alzò le mani in segno di resa, sospirando
rumorosamente
attraverso il casco. «Ho sentito Andor 3? Quello era
Kappa?»
Sgranai di nuovo gli occhi. «Mariceli Solpea!»
gridai,
sollevato e incredulo al tempo stesso. Parlai come se conoscessi quel
nome
da tutta la vita. «Sei tu!»
Annuendo, l’ingegnere si levò il casco.
Scoprii in quel modo che Mariceli Solpea, l’agente che il
Capitano
Halos aveva mandato sotto copertura per più di un anno tra
le
fila dell’Impero nel centro di detenzione di Rasp, il
commemorato
genio che “aveva un talento naturale per quel genere di
affari” era, di fatto, una ragazza più vecchia di
me di al
massimo cinque anni (quasi nove, in realtà, ma la divisa
dell’Impero la ringiovaniva).
La fissai, inerme e con il blaster ancora alzato su di lei, incapace
per l’ennesima volta in quella giornata di esprimere un
pensiero
sensato.
Di contro, la sua testa pareva funzionare molto più
velocemente della mia.
«Quel coso lo sai usare o lo tieni al collo e
basta?» mi chiese.
Scossi il capo per destarmi dai miei stessi pensieri.
«Come?»
«La trasmittente. Tylan ti ha spiegato come si usa?»
«Io non …»
Poco diplomaticamente, mi strappò la trasmittente dal collo
e mi fece anche cadere il blaster.
«Andor 2 ad Andor 3, rispondi. Tutta la squadra è
in
pericolo. Evacuazione immediata. Ripeto: evacuazione
immediata».
Kappa non si fece attendere. “Metto in moto la nave,
Mariceli. Anche se pare proprio che tu
sia l’unica buona notizia della giornata. Hai già
incontrato Cassian? È un ladro che Tylan ha avuto la
brillante
idea di portarsi dietro”.
Ci capivo sempre meno. Stufo di avere la stessa
utilità della sabbia in cui stavo affondando, mi feci avanti
e
mi ripresi la trasmittente con un gesto secco.
«È mia» dichiarai, offeso.
Mariceli Solpea mi guardò con l'insofferenza con cui si
guarda un
bambino irriverente, ma non ribatté. Si infilò la
mano in
tasca, invece, e la estrasse per consegnarmi un disco dati.
«Come
ti chiami?» mi chiese, porgendomelo.
Io non mi mossi. «Cassian» risposi.
«Cassian Harkor».
«Bene, Harkor. Adesso tu prendi questo e corri come se ti
stessero per spellare vivo, va bene? Ho rubato un guscio di salvataggio
e rapito quel clone per arrivare fin qui e ti assicuro che
lassù saranno tutti parecchio arrabbiati. Tu datti da fare;
io ti sto
alle spalle e vedo di non farci morire». Recuperò
il
fucile sulla sua spalla e si mise a trafficare con
l’otturatore.
«Ferma!» gridai, inorridito quando la vidi aprire
senza alcuna cura la culatta per liberarla dalla sabbia. «Non
si fa così!»
Lei mi gettò addosso un’occhiata colma
d’ira.
«Vuoi correre o no?!» gridò.
«Forza! Andate a
far partire quella maledetta nave!»
Non sapevo neanche da cosa
dovessi
correre, ma me ne feci un’idea abbastanza precisa poco dopo,
quando uno stormo di caccia TIE mi superò velocemente
mancandomi
di qualche abbondante metro per pura bontà del destino.
Terrorizzato, aumentai il passo.
Ero già a metà della duna quando il Capitano
Halos mi
venne incontro, superandomi dalla parte opposta con il fucile sotto
l’ascella. «All’Andor!»
gridò, dandomi
una manata sulla spalla che mi fece scalare il resto della salita con
la sola forza della spinta. «Forza! Io penso a
Mariceli!»
Non trovai il tempo di protestare.
Raggiunsi la nave che i motori erano già messi in moto, il
portellone quasi del tutto alzato e le ancore di gravità
ritirate da un pezzo.
«Benvenuto a bordo» mi salutò Kappa
quando mi vide
spuntare sulla plancia. «Terras, comincia pure con la
salita».
«Ma sono ancora là sotto!» gridai.
Terras premette un paio di bottoni sul tavolo di guida e mi rispose
senza neanche degnarsi di voltarsi: «Calmo, Cassian, adesso
vediamo che fare».
Sentii l’Andor alzarsi in volo. Disperato, mi appiattii
contro il
vetro, cercando con lo sguardo i nostri due compagni rimasti indietro.
«Laggiù!», gridai, indicandoli mentre
goffamente arrancavano tra la sabbia nel tentativo di tornare
da noi. «Cunha, valli a prendere!»
«Ci proviamo, Cassian. Ma, per la miseria nera e ladra, sta’ zitto».
«Non mi sembra una manovra sicura da fare»
commentò Kappa.
«Vale anche per te» rispose con diplomazia Cunha.
Si
voltò finalmente verso di me e mi fece cenno di abbandonare
la
plancia. «Va’ alla rampa e aiutali a
salire» mi
ordinò. «In fretta, su!»
Quando l’Andor atterrò su di loro, il Capitano
Halos e
Mariceli Solpea mi trovarono proprio sull’apertura della
rampa
con il braccio teso verso di loro per recuperarli tra la sabbia della
Luna 4.
Mariceli si allungò su di me e io la tirai su, portandola
definitivamente in salvo sulla nave con un gesto che mi fece cadere
seduto sul pavimento. Il Capitano Halos, facilitato dalla sua colossale
statura, ci raggiunse con un balzo agile e lesto.
«Ci stanno dietro!» gridò, fiondandosi
sulla scala
della plancia con la stessa foga di una tempesta. «Fuoco ai
motori, Cunha! Siamo di troppo!»
Con il corpo in preda ai deliri dell’adrenalina che faceva
pulsare ogni mia singola vena con un entusiasmo che non sapevo di poter
provare, mi voltai a guardare Mariceli, ancora
raggomitolata accanto a me con la mano destra artigliata attorno al mio
braccio.
Mi parve improvvisamente più adulta di quanto non avessi
notato tra la
sabbia, contrita in un’espressione di dolore sul viso pallido
e
dai lineamenti duri. Aveva una faccia come tante altre, cerchiata da
una chioma di capelli color ruggine che le cadevano disordinati sul
viso incavato di occhiaie.
«Stai bene?» le chiesi.
Lei annuì. «È la solita gran
scocciatura»
sbuffò, mollando finalmente la presa sul mio braccio per
andarsi ad asciugare le piccole lacrime di dolore che le rigavano il
volto.
Abbassando lo sguardo, capii al volo sia il motivo per cui poco prima
mi aveva
affidato il disco facendomi da copertura, sia quello per
cui il Capitano Halos era tornato indietro a prenderla.
Il suo piede destro, seppur ben stretto nello stivale, era
completamente torto verso l’interno.
Per chi come me non si ricordasse di quel maledetto farabutto
gentile e dolce
signore: il Generale Davits
Draven è codesto individuo, amato da tutti
e per niente da biasimare. *rancore mode: ON*
Capitemi, è ancora una ferita aperta. Uno non può
ordinare di sparare a Mads Mikkelsen così. Insomma.
Ordunque, finalmente un po' di scazzottoni .
Come dicevo, questa
doveva essere la seconda parte del secondo capitolo, dilungatasi a tal
punto da meritare tutto questo spazio per sé.
E niente ... ora la squadra è al completo! Andor- da-capo-a-cinque,
per ora sani e salvi. Il mood del momento è molto Mushu commosso, ma mi
darò un contegno.
Ecco finalmente i miei personalissimi ribelli! Spero che piacciano a
voi quanto sono piaciuti a me assieme a Cassian e a Kappa.
Come sempre, voglio ringraziare chi ha commentato, chi ha seguicizzato,
preferizzato, e anche chi ha letto questi primi tre capitoli. Siete
meravigliosi e questo fandom è davvero carino e coccoloso ♡
Tartarughini,
Lechat vert
|
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Capitolo 4 *** parte quarta – blu ***
saboteur
«Oggi mi sembri
più sulle tue del solito».
«È un giorno come un altro, Kappa».
«Invece c’è un’alta
probabilità che tu
ti stia logorando con i sensi di colpa. Senza offesa».
«…»
«…»
«Kappa?»
«Sì?»
«Ti avevano programmato per dire sempre quello che
pensi».
«È corretto».
«Bene. Allora pensi che sia colpa mia se non ci sono
più?»
«Penso che le loro vite avessero una probabilità
molto
alta di finire in quel modo. Li avevo avvisati della cosa, ma ne erano
già consapevoli».
«Volevano vivere».
«Ma lo volevi anche tu».
«Non c’è una ragione; è fatta
così». Cunha alzò le spalle, servendosi
del pane
fritto nel piatto appoggiato sopra al pannello dei comandi vocali e
spalmandoci sopra una salsa scura dall’aria poco
gratificante.
«Non è che qualcuno le abbia mai fatto del male,
ci
è nata e basta. Da piccola era amica di mio fratello; gli
aveva
fatto credere che se l’avesse toccato anche il suo piede
sarebbe
finito così. Era terrorizzato».
Affondando il viso nei palmi delle mani, mi ritrovai a sospirare.
Mariceli Solpea e il Capitano Halos erano spariti nella stazione
informatica non appena Cunha aveva impostato l’iperguida
seminando i TIE con il solo sfregio di un paio di colpi a
destabilizzare lo scudo, e da allora non si erano sentiti che lievi
sussurri. Parlavano di quel disco dati che mi avevano costretto a
consegnare loro non appena ci eravamo trovati fuori dai sistemi, non
avevo dubbi. E, ancora una volta, la curiosità mi stava a
dir
poco consumando.
«Quanto ci metteranno ancora?» sbuffai, infastidito
da quel continuo tagliarmi fuori da tutto.
Cunha fece spallucce e passò direttamente a ripulire il
vasetto
della salsa con il dito. «Fatti gli affari tuoi,
Cassian!»
mi ammonì. «Sei tale e quale a tuo padre,
perciò ti
dirò la stessa cosa che dicevo sempre a lui: ficca quel tuo
grosso naso da qualche altra parte. Torna a giocare col tuo
fucile».
Volsi lo sguardo altrove. Mi bruciava il petto ammetterlo, ma il fucile
era ancora un tasto dolente. Non
riuscivo a credere di essere stato così stupido da averlo
lasciato tra le dune della Luna 4 di Rasp. In compenso, mi era rimasto
il mio vecchio e ormai disdegnato blaster.
«Non capisco che abbiano tanto da discutere»
sbottai di
nuovo, incrociando le braccia sul petto. «Dovrebbero renderci
partecipi, non trovi? Mi hanno quasi sparato!»
Cunha si sporse per battermi una mano sulla spalla.
«Cassian» disse. «Ora ti dirò
una cosa che
probabilmente Tylan si vergogna troppo a dire».
Ero tutto orecchi. «Dimmi».
«Mariceli Solpea».
«Sì».
«È sua moglie».
Alzai un sopracciglio, scettico. Era veramente difficile capire quando
Cunha stava scherzando, anche perché in genere non lo faceva
mai. «Sua moglie» ripetei, quindi, circospetto. Mi
aspettavo
di essere sorpreso da un momento all’altro dalla profonda
risata
del Capitano Halos.
Cunha annuì. «Sì»
confermò, serio.
«E non la vede da un anno. Quindi sta’ buono e non
li
disturbare, eh? Trovati qualcosa da fare».
Roteai gli occhi. «Almeno mi fai pilotare?»
«Scordatelo».
«E Kappa?»
«Per la miseria, l’ho spento».
«E la nave si guida da sola?»
Con rassegnazione, Cunha scosse il capo. «Tu non ce la fai
proprio».
«A fare cosa?»
«A farti gli affari tuoi, maledizione».
Aveva ragione.
Dopo che lo lasciai da solo sulla plancia a godersi il suo pranzo della
vittoria per una fuga coi fiocchi giostrata tra gli asteroidi in
orbita, approfittai della temporanea assenza di Kappa per ficcanasare
laddove non mi era stato permesso ficcanasare la prima volta. Esplorai
completamente i porti di fuga per poi passare a una delle sale motori,
osservando attentamente tutte le interfacce attivate senza osare
neanche sfiorarle. Non riuscivo ancora a capacitarmi di trovarmi su un
mercantile di quelle dimensioni.
Passai una considerevole quantità di tempo a fissare gli
iniettori intenti a lavorare sopra ai compressori, ascoltando il loro
ronzio meccanico coperto di tanto in tanto da quello più
macchinoso delle ventole per l’energia al plasma.
All’epoca
non capivo quasi nulla di motori, né tantomeno di
mercantili, ma mi
era comunque impossibile non restarne completamente affascinato,
così attratto da quel suono sottile da voler a tutti i costi
avvicinarmi quanto più possibile per studiarlo.
Mi protesi verso un quadro di controllo, perso nei miei stessi pensieri.
«Fossi in te non lo toccherei».
Allarmato, ritrassi la mano e mi voltai verso la porta chiusa della
sala motori.
Mariceli Solpea mi fissava accanto all’interfaccia
principale, il viso pallido privo di espressione, il piede storto
appoggiato a un
bastone da passeggio. Al suo fianco, Kappa muoveva la testa a destra e
a sinistra con il solito, fastidioso rumore che emetteva quando i suoi
circuiti stavano calcolando un pensiero.
«È sicuramente venuto qui a rubare»
commentò,
rivolto a Mariceli. «Ho espresso più volte il mio
disappunto a Tylan per questo reclutamento, ma non ha voluto sentire
ragioni. Il blaster che porta al fianco: ha rubato anche
quello».
Lei alzò il capo verso Kappa, mostrandomi il lato sinistro
del
cranio completamente rasato. Dall’altra parte, invece, i
capelli
erano lunghi fin sotto alle spalle. «Va tutto bene»
disse,
voltandosi poi verso di me. «Sono sicura che Willix non
intendesse rubare niente».
Sospirai. «È
Cassian».
«Cassian, scusa». Mariceli Solpea
ondeggiò un poco,
tremolante sul suo bastone. «Kappa, ti occupi tu di quelle
diagnostiche che eravamo venuti a fare? Ho bisogno di stendermi un
poco».
«Come vuoi, Mariceli. Posso farle da solo».
«Cassian, mi accompagni?»
Colsi al volo l’occasione per non restare chiuso da solo
nella
stessa stanza con Kappa.
Educatamente, offrii il braccio a Mariceli per
permetterle di appoggiarsi a qualcosa di meno rigido di un bastone di
ferro e varcammo assieme l’uscio, ritrovandoci, porta chiusa
alle
spalle, davanti al corridoio su cui si affacciava la cabina che io e
Cunha dividevamo.
«Tylan mi ha detto che ti sei offerto da tiratore per
recuperarmi» esordì poco dopo Mariceli,
scoccandomi un
sorriso gentile. «Devo ringraziarti, allora».
Alzai le spalle. «Tu hai salvato me con quel tizio. Facciamo
che siamo pari».
La osservai.
Portava un cappotto blu dal colletto alto, una specie di
divisa militare di un esercito che non avevo mai visto, stretto in vita
da un cinturone senza armi appese. Doveva essere molto più
alta
di me, ma il piede storto la abbassava di almeno una spanna e,
nonostante la differenza di età, non mi superava che di un
paio
di dita. Le gambe, magre e lunghe, restavano leggermente piegate per
permetterle di camminare nonostante il difetto fisico.
«È sempre stato lì» mi
spiegò,
probabilmente intercettando il mio sguardo caduto senza intenzione sui
suoi stivali. Con i mesi,
imparai che a Mariceli non sfuggiva mai nulla. «Mio padre ce
l’aveva uguale. Hanno provato a rimetterlo a posto, ma non
c’è modo. Tylan dice che lo potrei sostituire con
una
protesi, ma a me piace così. Non trovi che sia
affascinante?»
Alzai le spalle. «Se lo dici tu».
«Non ti sbilanci, eh?»
Mi fermai. «Cosa?»
«Tu, intendo. Non ti sbilanci. Però ficcanasi,
dice Kappa. Sei una spia?»
«Una spia? No, io …»
Mariceli scoppiò a ridere. «Tranquillo,
scherzo» mi
disse. «Non farfugliare, sembri uno scemo. Siamo pari, no?
Non mi
devi mica una spiegazione. Lo sapevo che prima o poi Tylan avrebbe
trovato qualcun altro. Dev’essere stata dura, da solo per
così tanto tempo. Tu e Terras gli avete fatto
compagnia?»
Aprii la bocca per rispondere, ma non lo feci.
Tylan Halos era rimasto
da solo per un anno intero prima che lei tornasse da lui, e non sarei
stato io a rovinargli la copertura. Pensai che, in fondo, era solo
questione di tempo prima che Mariceli lo venisse a sapere.
E infatti avevo ragione.
*
Dormire sull’Andor era impossibile.
Di per sé, la nave traballava continuamente, alternando gli
scossoni al ciclico e insopportabile brontolio delle sale motori
costruite adiacenti alla cabina dove dormivo. Il colpo di grazia,
però, lo dava Cunha. Incapace com’era di entrare e
uscire
dalla stanza senza annunciare a tutto il mercantile i suoi bruschi
movimenti, si dava cambio con il Capitano Halos due volte a notte per
pilotare, il che frammentava il mio sonno in tanti, fastidiosi incubi
che mi vedevano o solo o morto di fame tra la neve di Fest.
Quella notte, vittima dell’adrenalina della fuga ancora in
circolo, mi rifiutai di sopportare il rumore che mi circondava e mi
obbligai a restare sveglio.
Vagai per l’Andor in cerca di un luogo in cui poter stare
solo
con me stesso, in cui valutare con lucidità ciò
che mi
era successo negli ultimi quattro giorni. Avere gente intorno mi
straniva ogni secondo di più; cominciavo a sentirmi in
gabbia.
Pensai di andare a rifugiarmi in una delle due navette di fuga,
speranzoso di non imbattermi in Kappa per non dovermi sorbire
un’altra predica sul rubare, e mi affacciai così
con
circospezione allo stanzone centrale dove si apriva la rampa di accesso
in quel momento sigillata.
Tutto taceva.
In punta di piedi, mi accinsi a superare la stazione informatica.
Mi bloccai, colpevole quanto un ladro, quando sentii alla mia destra
quello che pensai essere uno scricchiolio di passi, ma mi
tranquillizzai quasi subito.
Dalla porta spalancata della stazione proveniva un lieve suono molto
più aggradante dei rumori meccanici che solitamente
popolavano
l’Andor, un suono che anche su Fest era alquanto raro e che
con dei
passi non aveva nulla a che fare: musica.
Non riuscii a trattenermi dall’affacciarmi.
Mariceli era seduta davanti al computer centrale, una testa minuscola
dinanzi a uno schermo enorme, intenta a muovere le spalle avanti e
indietro a ritmo della musica ad alto volume che risuonava attraverso
le cuffie che portava calcate sul capo. Nel mentre, le sue dita
digitavano freneticamente sulla tastiera che avevano davanti.
Senza osare disturbarla, mi portai alle sue spalle, il naso alzato
sullo schermo che sovrastava entrambi.
Non mi illusi neanche per un istante che lei non avesse percepito la
mia presenza ma, a pensarci ad anni di distanza, credo che la porta
fosse stata lasciata aperta per me, quella notte. Come dicevo, Mariceli
non si lasciava sfuggire mai niente. Neanche le occasioni.
«Lo so che sei lì» mi disse, togliendosi
le cuffie e
voltandosi con un sorriso divertito sul viso. «Ti piace la
musica?»
Per una volta, la presi con semplicità. «Non
particolarmente» risposi. Non chiesi il permesso, ma mi
avvicinai
e presi posto accanto a lei sulla sedia libera alla sua destra.
«Che fai?»
Lei alzò le spalle. «Lavoro. Tylan russa e
… credo sia difficile
riabituarsi dopo aver dormito da sola per un anno». (Scoprii
più tardi che il problema era il sonno in sé,
visto che
Mariceli non dormiva mai).
Sfoderai un sorriso volutamente impertinente.
«Cos’è? Gli imperiali ti mettono ai
lavori forzati
se russi?»
Mariceli si finse seria, puntandomi addosso quei suoi occhi scuri
sottili come spilli. «Peggio» sussurrò,
alzando
entrambe le sopracciglia.
Non demorsi. «La morte?»
«Non ci sei nemmeno vicino».
«Un pianeta abbandonato con Cunha e le schifezze che si
mangia?»
«Che razza di sfacciato, Harkor».
Ci scambiammo una risatina divertita, poi lei si voltò di
scatto
a controllare che nessuno stesse origliando sull’uscio ancora
aperto.
«Vuoi vedere cosa c’era su quel disco che ti ho
dato?» mi chiese, poi.
Annuii, incapace di tenermi dentro la soddisfazione di essere
finalmente coinvolto in qualsiasi cosa stesse succedendo
sull’Andor. Attraverso le cuffie, la musica continuava a
coprire
i nostri sussurri.
Mariceli tornò a premere tasti. «Dopo sei mesi su
Rasp
avevo raccolto abbastanza informazioni su come funzionasse questa cosa
degli Scomparsi, anche se non riuscivo a capire cosa avessero di tanto
speciale» mi spiegò. «I miei colleghi ne
sapevano
meno di me, e fare domande stava diventando inutile, oltre che
rischioso. Così, mi sono ingegnata».
Sullo schermo apparve una lista di nomi.
«Questi sono tutti i detenuti del centro di Rasp dalla sua
apertura quindici anni fa fino al mese scorso».
Aprii la bocca, stupefatto. «Come …?»
«Li ho chiesti. Kappa non è mica il primo droide
che mi
faccio amico, cosa credi. Quelli di sicurezza li fanno tutti uguali.
Una volta che capisci come modificarne uno, gli altri vengono da soli.
Anche se poi li devi distruggere».
Ero incredulo. «Cosa te ne fai di tutti questi
nomi?»
Lei alzò le spalle e digitò ancora.
«Niente, nella
maggior parte dei casi. La metà di questa gente è
morta
molto tempo fa. Però, se applichi il filtro giusto, puoi
selezionare soltanto quelli che ti interessano. Quelli che sono stati
arrestati senza accusa apparente, per esempio».
«Gli Scomparsi».
«Esatto».
Piegai il capo di lato, impegnato a leggere i nomi che mi scivolavano
davanti. Chissà quanti di loro avevo incontrato almeno una
volta. Di gente che l’Impero si era portato via ce
n’era a
bizzeffe, su Fest.
«Aspetta» dissi d’un tratto.
«Ma se questa
gente era nel centro di detenzione … non potevi
semplicemente
incontrarla?»
«Un aiuto ingegnere tra i carcerati?» Mariceli rise
sottovoce. «Per favore. Non ho visto il blocco di detenzione
che
da lontano. E poi, non sono più su Rasp».
Mi sfuggiva l’utilità di tutta la cosa, al che
storsi il naso con disappunto.
Mariceli se ne accorse. «Ho scoperto dove li
portano»
chiarì. «Alcuni di quelli che non hanno
un capo
d’accusa che figuri nel file, dico». Si fece un
po’
più seria, liberandosi improvvisamente della leggerezza con
cui
mi aveva accolto nella stazione informatica. I suoi occhi slittarono
per l’ennesima volta da me al computer, le sue labbra si
schiusero in un sospiro che sapeva di rabbia. Il suo viso,
però,
rimase atono. «Cassian, ti farò una domanda che
forse ti
sembrerà poco delicata. Qualcuno dei tuoi parenti
è stato arrestato negli ultimi anni?»
Esitai. Erano ricordi che bruciavano ancora. Ferite aperte, fuochi
accesi.
Con uno sforzo immane, mi costrinsi ad avere fiducia.
«Sì. Lui è … stato portato
via»
risposi in un sussurro. «Protestava contro la
militarizzazione di
Fest».
Mariceli mi rivolse uno sguardo preoccupato. «Il tuo cognome
… mi aveva fatto pensare a qualcosa, ieri. Ma non ricordavo
a cosa. Ecco, guarda».
Sullo schermo apparve la copia di uno schedario imperiale.
“ KRASIN
HARKOR; fotografia assente”.
Sentii lo stomaco contorcersi nell’angoscia.
«Conosci questa persona?» insistette Mariceli.
Io annuii, ma non le risposi.
«Passò dal centro di detenzione quasi dieci anni
fa. Non
è uno degli Scomparsi, ma è stato trasferito
nello stesso
posto dove sono stati trasferiti sette di loro, quindi pensavo che
potesse
interessarti. Per il recupero».
Ero incapace di articolare una frase di senso compiuto. Temevo che, se
avessi aperto la bocca, avrei vomitato sulla tastiera del computer.
L’unica cosa a cui riuscivo a pensare era: Krasin Harkor;
fotografia assente. Krasin Harkor;
fotografia assente. Nella mia mente, lo ripetei finché non
mi riuscii più nemmeno pensarlo.
Cominciai a tremare e, non appena lo notò, Mariceli si
scostò dalla scrivania per venire in mio soccorso.
«Ehi»
sussurrò, chinando il capo per abbassarsi e guardarmi negli
occhi. «Cuore, stai bene?»
Mi accorsi di non riuscire quasi a respirare. Improvvisamente, ero
diventato un pezzo
di ghiaccio.
Mariceli mise la sua mano sulla mia e io gliela strinsi più
forte che potei.
«Non è un mio parente» sussurrai.
«Come?»
«Krasin Harkor. Non è un mio parente».
Deglutii. «È mio padre».
Va bene, tralasciando il fatto che sono al quarto capitolo su dodici e
ho già finito le idee per il titolo (:D). Tralasciando quello.
Cosine su questo capitolo. Il nome con cui Mariceli chiama Cassian,
Willix, è uno degli pseudonimi che Cassian utilizza sotto
copertura. Non credo venga detto nel film, ma ho voluto comunque
inserirlo perché devo ancora capacitarmi del fatto che il
vero nome di Cassian sia Cassian Jeron. Ma chi sano di mente
chiama un
figlio Cassian Jeron e si aspetta anche di vederlo crescere felice?
Comunque.
Sono curiosa di vedere se qualcuno ha annusato (?) quale
sarà la prossima missione. Che poi è ovvio, ma le
mie capacità di dialogo al momento sono decedute assieme a
ciò che restava della mia voce ◕‿◕ ☆ Le gioie della nnneve
(inesistente).
Chiudo e mi do ai mandarini.
Come sempre, grazie a chi legge, chi commenta, chi legge e commenta,
chi leggecommentaesegue e tutto il resto. Sono un po' ipocrita
perché parlo sempre di fare statue ma a costruire le cose ho
sempre fatto pena, ma vi prometto che mi adopererò per
mandare a ciascuno di voi un biscotto (spoiler alert: faccio pena anche
a cucinare).
Siccome
nei saluti metto sempre cose carine, questo giro metto Bodhi
perché è la cosa più carina di Rogue
One e si
merita davvero tutto l'amore che possiamo dargli,
Lechat vert
|
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Capitolo 5 *** parte quinta – pesi ***
saboteur
«Non ti affezionare
mai».
«Capitano?»
«Mi hai sentito, Cassian».
«Tu sei sposato».
«Per questo te lo sto dicendo».
«Dev’essere orribile pensare di poter perdere
qualcun altro. Se dovesse morire …»
«Non è questo».
«…»
«La morte non toglie niente».
«Non capisco».
«Sei giovane».
«Spiegami».
«Non è quando muori, che perdi una persona.
È
quando una persona capisce di essere forte abbastanza senza che ci sia
tu a difenderla. Una volta arrivati lì, è andata
per
sempre».
Quando gridava, Mariceli assomigliava in maniera quasi raccapricciante
all’allarme difettoso della nostra base su Fest.
Lo realizzai la mattina seguente, seduto al tavolo della colazione
assieme a Cunha, mentre lui si preparava una fetta di pane tostato e io
facevo i conti con una notte intera passata in bianco, chiuso nella
nostra cabina, a fissare il vuoto nel tentativo di non cedere alla
disperazione.
Sulla plancia, intanto, il Capitano Halos e sua moglie litigavano
così forte da attraversare tutto il ponte fino
all’angusta sala pasti. Un risveglio degno di un rientro in
patria glorioso, considerai. Più quella missione si
avvicinava al termine, più si allontanava da tutto quello
che avevo sempre immaginato succedere a bordo delle navi di Travia
Chan.
Ma, al momento, me ne importava davvero poco.
«Credi che sia a causa mia?» chiesi a Cunha,
preoccupato. Il Capitano Halos aveva fatto intendere con rigida
chiarezza che non mi voleva coinvolto negli affari
dell’Andor, eppure ero riuscito comunque a metterci il naso.
Il pilota alzò le spalle con aria fin troppo poco
interessata. «Io Tylan lo conosco bene» rispose,
sospirando pesantemente. «Se fosse colpa tua, saresti di
sopra a prenderti le sberle che ti meriti».
Mugugnò qualcos’altro circa la poca voglia che
aveva di tornare su Fest («ma guarda te se devo tornare a
congelarmi il culo. Era meglio se mi sparavano su Rasp»), ma
la mia attenzione si era già rivolta altrove e finii per non
sentirlo nemmeno.
Senza neanche la necessità di impegnarmi a sgattaiolare via
dalla colazione (pasto ironicamente molto sentito a bordo
dell’Andor), decisi di tornare alla cabina per dare una
sistemata alle mie cose e buttarle nella borsa preparata sul letto in
vista del nostro rientro. Feci il giro lungo, passando volutamente
sopra alla rampa d’accesso ancora sigillata, e rallentai il
passo quando fui in prossimità della scala che portava sulla
plancia.
Per origliare, non ebbi neanche bisogno di salire i pioli.
«Erano informazioni riservate, Mari. Non avevi il diritto di
sbandierarle a degli sconosciuti».
«Sconosciuti? Tylan, sei ubriaco? È il figlio!»
«Così dice lui».
«Terras lo ha visto crescere!»
Mi appoggiai al muro, in ascolto. Dunque avevo ragione: si trattava di
me. La cosa mi fece sentire importante, ma fu un pensiero di cui mi
pentii subito.
Dalla voce, il Capitano Halos sembrava furioso.
«Non ti saresti comunque dovuta prendere la
libertà di informarlo di tutto. Ha sedici anni,
maledizione!» lo sentii sbraitare.
Mariceli non era da meno. «E sta con quelli
dell’FRG da quando ne ha sei perché suo padre
è su quella lista!»
Mi balenò in mente l’idea di palesarmi per
chiarire una volta per tutte il mio misero ruolo a bordo di quel
mercantile, ma i toni mi spaventavano, costringendomi ad appiattirmi
ancora di più al muro nella speranza di non essere visto.
«È per quelli come lui che sono stata
laggiù un anno, Tylan» sbottò Mariceli,
muovendosi sulla plancia e alternando i passi al toc sordo del suo
bastone da passeggio. «Un intero anno del cazzo a sperare di
non svegliarmi morta, e l’ho fatto per loro. Domani potrebbe
essere tuo, il figlio di sedici anni con un fucile in mano in mezzo
alle dune ad aspettare una zoppa. Ci hai pensato?»
«Non possiamo comunque fare niente senza
l’approvazione di Travia Chan».
«Perché, adesso che ha riunito la flotta siamo
alle sue dipendenze? L’Andor non è
l’Anima. Quelle persone hanno bisogno di noi. So dove
sono».
«No, tu starai qui. Con noi. Con me. Agli Scomparsi
penserà qualcun altro. Cunha pilota ancora
l’Anima, posso mettere una buona parola per lui. Mi ha detto
che anche loro a bordo hanno un sabotatore».
Ricalcolai quanto più rapidamente le mie
possibilità. Se l’Andor avesse proseguito con la
missione, non avrei dovuto far altro che restare attaccato quanto
più possibile a Mariceli; se invece fosse passato tutto
nelle mani dell’Anima, allora mi sarei dovuto prodigare per
entrare nelle rare grazie di Cunha. Per una volta, mi sentivo a buon
punto con entrambe le opzioni.
Udii in quell’istante il rumore del comunicatore, segno che
avevamo abbandonato l’iperguida e che, in due ore o
poco più, saremmo atterrati su Fest.
“Base a Capo Andor, rispondi”.
Mi irrigidii; conoscevo bene quella voce. Travia Chan.
Tentennante, salii qualche piolo della scala, affacciandomi alla
plancia con metà viso e incontrando immediatamente lo
sguardo di Mariceli. Dall’espressione che le lessi sul viso,
capii che non ero il benvenuto. Rimasi comunque in ascolto, nascosto
sotto alla botola.
Il Capitano Halos esitava a rispondere alla chiamata, appoggiato con
entrambi i palmi al tavolo centrale e con lo sguardo perso nel vuoto.
Alla fine, ordinò a Kappa di stabilire il collegamento.
«Qui Capo Andor» sospirò.
«Torniamo vittoriosi e senza feriti».
“Non ne dubitavo, Capo Andor” rispose la voce di
Travia Chan. “Avete ciò che cercavate?”
Scorsi l’ologramma della donna che guidava il nostro gruppo
poco lontano da Mariceli e istintivamente mi ritrassi, spaventato
dall’idea che potesse vedermi attraverso il sensore. Non era
una persona buona con cui parlare, Travia Chan, anche se combatteva
dalla parte giusta. Ancora oggi, ne conservo ricordi contrastanti.
«Abbiamo la lista dei prigionieri» rispose
Mariceli, portandosi avanti. «E ho scoperto dove sono stati
trasferiti».
“In un anno, Solpea?”
«È venuto fuori che i sistemi informatici
imperiali non erano così permeabili quanto mi
aspettavo».
“Ci accontenteremo. Tornate a casa, Andor. Da qui in poi
procederà l’Anima”.
Il Capitano Halos annuì. «Ricevuto. Provvediamo al
rientro».
Mariceli sbottò e batté il bastone a terra.
«Con tutto il rispetto, non sono
d’accordo» si lamentò. «Sono
stata io ad occuparmi di questa operazione fin dall’inizio,
senza nulla togliere ai miei compagni. Desidero seguirla fino alla
fine».
Vi fu un istante di silenzio, rotto di tanto in tanto dal ronzio della
connessione.
“Apprezzo lo spirito di sacrificio, Solpea” rispose
Travia Chan. “Ma ti sei già esposta abbastanza. Se
qualcuno ti riconoscesse sarebbe vanificato quest’anno che
abbiamo appena passato, e tu non sei una persona che passa inosservata,
direi. Quanti zoppi si accollerebbe l’Impero? Te ne renderai
conto da sola”.
«Insisto, Travia Chan».
“La mia risposta non cambierà per un tuo
capriccio; non ho altro da aggiungere. Riportateci Terras Cunha il
prima possibile. È tutto”.
Cadde il silenzio.
Dal mio nascondiglio, vidi il Capitano Halos avvicinarsi a sua moglie
nell’esitante tentativo di abbracciarla. Lei interruppe ogni
proposito alzando la mano e allontanandosi.
«Non te la perdono, Tylan» la sentii sibilare,
gelida quanto il vento su Fest. «Se questa è
l’Andor, io me ne tiro fuori».
*
Due ore dopo, eravamo tutti e cinque sulla plancia
dell’Andor, immersi in un silenzio talmente greve da pesarmi
sulle spalle come uno zaino riempito di sassi.
Mariceli e il Capitano Halos si fissavano da una parte
all’altra della stanza, astiosi nello sguardo come fuochi
accesi, entrambi con le braccia incrociate sul petto e la bocca storta
in una smorfia che sapeva di una sfida che entrambi erano intenzionati
vincere.
Io, seduto al fianco del capitano, valutavo i danni che avrei potuto
accusare in caso di lotta fisica. In realtà, di risse ne
sapevo veramente poco, eppure sembravano tutti e due così
vicini all’arrivare alle mani che non potei fare a meno di
chiedermi quanto velocemente avrei potuto raggiungere la botola di
accesso senza prendermi almeno un pugno sul naso.
Ma siccome se c’è una cosa che ricordo bene
dell’Andor è che tutti erano talenti naturali nel
dire le cose sbagliate al momento sbagliato, quel silenzio che poi mi
ritrovai a rimpiangere venne rotto dall’individuo meno
indicato presente sulla plancia.
«Comunque, io penso che abbia ragione Mariceli».
Se gli occhi del Capitano Halos fossero stati in grado di sparare tanto
quanto lo era il suo fucile, a quest’ora di Kappa non mi
sarebbe rimasto che un ricordo sgradevole.
«Visto?» ghignò Mariceli, cogliendo la
palla al balzo per gettare altra benzina sul fuoco. «Un
droide, un’ intelligenza
artificiale creata per compensare alle mancanze di quella umana, pensa
che io abbia ragione».
Il capitano si piegò in avanti, emettendo un suono roco e
poco rassicurante.
Nello stesso momento, io mi guardai intorno alla ricerca di una via di
fuga più prossima della botola.
«Questo è troppo». Halos strinse le mani
in pugni grossi quanto la mia guancia. «Un’altra
parola e giuro che ti rinchiudo da qualche parte».
«Non c’è porta su questa nave che io non
sia in grado di buttare giù nel giro di venti minuti,
Tylan».
«Lo confermo. Tecnicamente, è stata lei a
programmare l’impianto di sicurezza».
«Kappa!»
«Lascialo in pace, sta dicendo le cose come stanno».
Il capitano scattò in piedi emettendo un ringhio di rabbia.
Temendo uno schiaffo volante, mi appiattii contro il sedile.
Mariceli sospirò. «Se Travia Chan mette le mani
sui miei file, manderà a morire sia l’Anima che
gli Scomparsi. Non sa come funzionano i centri di detenzione
imperiali» ci spiegò. «Dobbiamo entrare
senza essere visti, cercare quello che ci serve dall’interno.
L’Anima può farci da copertura per scappare, ma
dobbiamo essere lì prima».
«E come pensi di fare?» le chiese ironicamente il
Capitano Halos. «Vuoi infiltrarti di nuovo? Magari stavolta
ti porti dietro anche il ragazzino?»
«Cassian è un ladro» fece presente
Kappa. «I ladri tornano sempre utili, alla fine».
«Non sono un ladro» protestai magramente, troppo
intimorito dai toni per farmi valere come avrei voluto.
Kappa colse la palla al balzo. «Ecco qualcosa che un ladro
direbbe».
Mariceli batté il bastone sul pavimento della plancia,
richiamando l’attenzione su di sé.
«Quando sono andata su Rasp non c’era nessuna
Travia Chan o Gruppo Atrivis che tenesse»
puntualizzò, serissima. «Chi è stato a
sabotare i sistemi di trivellamento su Devon?» chiese.
«O a mandare all’aria gli interventi di bonifica su
Iridium? Salvasti dei bambini dal reclutamento forzato proprio su Fest,
Tylan. Terras era con noi quando abbiamo fatto saltare in aria la
caserma di Fodro, e abbiamo Kappa da quando rubammo armi dai magazzini
di Gibbela, permettendo a tutti i soldati della base di difendersi
durante le missioni. L’Andor non ha bisogno di Travia
Chan».
«Le cose sono cambiate molto da quando tu andasti su Rasp,
Mari».
«Oh, lo vedo bene. Un anno fa non avrei nemmeno fatto in
tempo a fomentarti, che saremmo già stati a destinazione con
un fucile in mano».
«Non sai di che parli».
«Lo so molto bene, invece. E tu lo sai quanta gente come noi
è passata per Rasp senza che potessi muovere un dito per
aiutarla? Per non espormi, per non far saltare la missione. Porca
miseria, Tylan, ti è mai passato per la testa che magari non
siamo i soli, noi di Fest? La galassia è piena di gente che
vuole far saltare in aria l’Impero!»
Ascoltavo con attenzione, facendo saettare lo sguardo dal Capitano
Halos a Mariceli come un caccia impazzito.
«Ti ho già detto di no, Mari, e te lo ha detto
anche Travia Chan. Per quanto tu ti possa dar pena, accetta che adesso
siamo sotto la sua guida. E che il capitano sono io».
Con tutta la grazia che camminare con un bastone le permetteva,
Mariceli si alzò dal suo sedile, raggiungendo il centro
della stanza per appoggiarsi al tavolo. «Sai che ti
dico?» riprese, spazientita. «Fa’ quello
che ti pare, Tylan. Con te, senza di te, io vado».
«Giuro, Mariceli, sto per perdere la pazienza».
Kappa si voltò e mi diede una lieve scossa con il braccio
proteso verso di me. «Perde la pazienza, dice»
commentò, sarcastico. «Io penso che
l’abbia già persa».
Sul più bello, quando pensavo che ormai si sarebbero presi
per i capelli da un momento all’altro, Cunha ci
degnò della sua attenzione con un sospiro quanto mai seccato.
«Tylan, stupido vecchio!» gridò,
voltandosi con aria piccata. «La tua donna ha ragione!
Ascoltala, una volta tanto. Se li attacchiamo con l’Anima,
quelli indovina in che modo fanno sparire i prigionieri se
c’è qualcosa che possiamo scoprire da
loro!»
Ancora oggi, Cunha apre bocca raramente. Quando lo fa, però,
riesce a far rigare dritto chiunque. Con Halos, poi, dava sempre il
meglio di sé.
Così, in un paio di frasi convincenti abbastanza da metterlo
con le spalle al muro, il nostro capitano si ritrovò
improvvisamente con le mani legate.
«Sia chiaro che io non ero d’accordo fin
dall’inizio» sbottò. Poi
puntò il dito contro Mariceli. «Ma è
fuori discussione che tu vada laggiù di nuovo».
Lei alzò le spalle. «Mi pare alquanto palese che
è quello che farò, invece» rispose.
«O con me o contro di me, Tyaln. Non scenderò a
compromessi. Puoi farmi da copertura, oppure puoi stare a casa ad
aspettarmi di nuovo. Questa è la mia pista».
«Almeno possiamo sapere cos’hai in mente?»
Mariceli annuì. «Scenderò
laggiù, ovviamente. Con Cassian».
Nel silenzio generale e nel vuoto in cui cadde la mia mente dopo
quell’affermazione, sentii chiaramente la mano di Kappa
raggiungermi di nuovo per chiamarmi. Mi voltai verso di lui di nuovo,
allora, fissandolo senza essere in grado di vederlo davvero.
«Prendi nota, Cassian» mi disse, annuendo a scatti.
«Questo è come si ammutina Tylan
sull’Andor. Con una zoppa e un ladro ragazzino. È
quello che facciamo sempre».
Il lavoro si sta allungando, le idee pure. Le previsioni salgono da
dodici a quattordici capitoli (la buona notizia è che
quattordici dovrebbe essere il numero defintivo, se non mi prendo la
licenza poetica di fare numero tondo e raggiungere il quindici. In ogni
caso, non di più).
Dunque, questo capitolo è stato un po' improvvisato, nel
senso che nella versione originale che avevo scritto Mariceli e Cassian
dovevano partire con tanti saluti senza convincere nessuno e ciaone.
Poi mi sono accorta che avrebbe incasinato soltanto il finale, quindi
sono ritornata sui miei passi e ho optato per una comune seppur poco
condivisa decisione. In barba al gruppo Atrivis, comunque. ( Tipo così).
I prossimi due capitoli, lo anticipo mettendo già le mani
avanti, saranno piuttosto tranquilli. Un po' perché una
buona missione ha bisogno di una buona vacanza preventiva, un po'
perché anche a me piace la pace e la sopravvivenza. Prima
della distruzione. ( Luna, questa
è per te!)
Vi saluto ringraziando e promettendo favori di natura non specificata
(?) a chiunque si fermerà a leggere, a commentare, a
insultarmi mentalmente e/o verbalmente, a chi mipiacizzerà e
via dicendo. Siete tutti space-fantastic!
Continuerò a mettere cose carine
nei saluti finché non finirò le cose carine,
Lechat vert
|
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Capitolo 6 *** parte sesta – silver car crash ***
saboteur
«Non pensi che le
somigli, Cassian?»
«Eh?»
«Lo so che lo pensi. Altrimenti non le avresti lasciato
tenere il blaster».
«Forse. Non lo so. Non ci avevo fatto caso».
«Io penso che le somigli. E anche tanto».
«…»
«È come se somigliasse a tutti quanti, non solo a
lei. Non ti sembra?»
«Un po’, sì».
«Bene».
«Tu credi che
…»
«Mi sento in dovere di avvertirti che questo ha alte
probabilità di essere un pensiero pericoloso,
Cassian».
«Perché?»
«Perché con l’Andor non è
finita bene».
L’ultima giornata di viaggio passò velocemente,
coinvolgendoci tutti attorno al tavolo centrale della plancia per un
sentito quanto agguerrito torneo di carte. Cunha mi insegnò
a
giocare d’azzardo sufficientemente bene da vincere la fondina
della pistola di Mariceli, anche se cederla le spezzò il
cuore,
credo, perché la mano dopo il Capitano Halos non solo se la
riprese, ma pensò anche di farmela pagare prosciugando
completamente le mie finanze. Alla fine, ero così disperato
che pur di restare al tavolo mi giocai anche la faccia. Letteralmente.
(«Ultimo giro, Cassian. Se vinco questa, ti fai crescere i
baffi e te li tieni finché non ti do il permesso di
rasarli!» «Ma ha sedici anni! I baffi mica gli
crescono!» «Fatti suoi.»
«Tylan! Che cattiveria! Che penserà di
noi?» «Le regole del gioco sono uguali per
tutti!»)
Di buonumore e con le tazze piene del brandy cassandraniano che il
Capitano Halos si era portato dietro per festeggiare, superammo il
grande ghiacciaio di Fest e atterrammo poco più avanti tra
le nevi dell’altopiano sotto il quale si snodava la grande
base dell’FRG dove risiedevo.
«Sosta breve!» annunciò con
pomposità Cunha, ebbro dell’alcol che si era
tracannato ma non abbastanza ubriaco da non sentire il freddo.
«Sganciamo la navetta e proseguiamo!»
Prima di lasciare l’Andor, fummo convocati per un briefing
sul ponte di salvataggio.
«Ultime cose prima della partenza»
esordì il Capitano Halos, serio come non mai in un cappotto
che lo rendeva ancora più massiccio di quanto già
non fosse. «Primo: so che stiamo andando in una prigione, ma
voglio cautela da parte di tutti voi. Non è comunque un
gioco; non voglio perdere nessuno». Mi scoccò
un’occhiata severa, sospirando con rammarico.
«Cercate di non strafare, voi due» si
raccomandò. «E soprattutto: basso profilo
finché non vengo a prendervi. Mari, ti affido anche
Kappa».
Dopo la riunione, lui e Mariceli parlarono a lungo. Lo vidi renderle la
fondina che avevo vinto e poi perso, pretendendo scherzosamente un bacio
per il favore che le aveva fatto. Si tolse la sciarpa rossa che portava
attorno al collo, poi, e gliela avvolse sulle spalle con cura. Lei lo
abbracciò in silenzio, stringendolo finché il
nostro droide non si intromise per annunciare il bisogno impellente di
mettere in moto la navetta.
Fui l’ultimo a ricevere i saluti.
«Tieni gli occhi aperti, ragazzo» mi disse il
Capitano Halos, poggiandomi una mano sulla spalla. «In alto
il nome dell’Andor».
«E non farti sparare» aggiunse Cunha. «Il
mondo a buchi non è bello».
Io annuii. Improvvisamente, mi sentivo carico. «Riporteremo a
casa mio padre, Cunha»
gli dissi.
Lui non cambiò espressione. «Va’ a
fargli vedere come sei venuto su».
Poco dopo, io, Mariceli e Kappa ci sganciammo definitivamente
dall’Andor e virammo verso sud a bordo di una delle due
navette di salvataggio.
Il piano era stato studiato per essere il più semplice
possibile. Il
capitano e Cunha avrebbero fatto ritorno alla base per consegnare i
rapporti e temporeggiare sulla partenza dell’Anima, mentre il
resto della squadra sarebbe atterrato oltre le montagne, prendendosi
una settimana per stabilire i contatti giusti e prepararsi alla
missione. L’appuntamento era a destinazione, dove io,
Mariceli e Kappa saremmo arrivati con due giorni di anticipo per
guadagnare le informazioni che ci servivano. Con l’attacco
dell’Anima, poi, il Capitano Halos ci avrebbe recuperati e
riportati a bordo.
Impossibile sbagliare, stando a come la metteva giù
Mariceli. Io passavo da momenti di pura euforia bellica a vuoti di buio
e disperazione che mi facevano tremare le gambe. Complessivamente,
però, potevo dirmi ottimista.
Quella mattina, quando mi accostai all’unico finestrino
della navetta, vidi il sole sorgere sulle grandi vallate che il
ghiaccio aveva scavato. C’erano piccole cittadine raggruppate
sui verdi pendii delle montagne, e neve sui picchi più alti
che non sembrava intenzionata a sciogliersi. Mi resi conto che per
tutta la vita avevo agognato di poter partire verso lo spazio profondo
senza realizzare che il mio pianeta non era soltanto il ghiacciaio che
ero abituato a vedere. C’erano fiumi, campi, fuochi accesi
sulle colline che si ergevano tra un passo montano e l’altro.
«È Fest?» mi lasciai sfuggire,
affascinato.
Mariceli annuì. «Non lo sapevi?»
Io scossi il capo. «Lo sapevo, ma … non lo
immaginavo, credo. È da qui che vieni?»
«No, ma figurati» Mi sorrise, facendomi cenno di
sedermi accanto a lei davanti all'interfaccia di comando. Non capii mai
quali fossero le sue origini. «Cunha ti ha insegnato a
pilotare?»
«Mi hanno fatto provare qualcosa nell’FRG. Ma
sempre con i droidi guida».
«Con i droidi, eh?» Si voltò, cercando
Kappa con lo sguardo. «Kappa, ti va di insegnare a Cassian
come si fa atterrare una navetta?»
Dal fondo dell’abitacolo, il nostro droide emise un suono
meccanico del tutto simile a un sospiro rassegnato. «Se posso
permettermi, non trovo che sia una buona idea»
commentò, avvicinandosi. «Affatto. Tylan vi ha
mandati qui per organizzare un attacco, non per schiantarvi su una
montagna».
Mariceli rise. «Quanta poca fiducia! A me Cassian sembra
proprio un ragazzo sveglio, invece». Si alzò dal
sedile, raggiungendo con la punta delle dita inguantate un paio di
bottoni sopra alla sua testa. «Ci darà grandi
soddisfazioni, vedrai».
Mi fu permesso per la prima volta di mettere mano in completa
libertà ai comandi di una navetta. Mariceli mi
osservò per tutto il tempo, ma non prese mai il controllo.
Lasciò che imparassi a virare, a perdere e riguadagnare
quota senza che la manovra appesantisse i nostri stabilizzatori. Alle
mie spalle, Kappa commentava di tanto in tanto il mio talento. Dovette
per forza dirsene sorpreso.
Sorvolavamo un nodo di vallate prive di neve quando Mariceli riprese i
comandi, poggiandomi una mano sulla spalla come a congratularsi del mio
lavoro. «Per oggi basta così» mi disse,
mite. «Dirò a Cunha di farti da
insegnante» aggiunse, dopodiché si
appropriò delle cuffie appese sopra alla postazione di
guida.
«Navetta Andor a base Halos» disse, sospirando.
«Ehilà, ehilà. Qualcuno mi riceve?
Chiedo permesso di atterrare».
Restò in attesa, gli occhi scuri puntati sul soffitto
dell’abitacolo. «Va bene, ti ricevo. Ci vediamo
sulla pista, allora. Se sto bene? Sì, certo, ma …
aspetta, aspetta. Inizio l’atterraggio. A tra
poco». Sbuffò, liberandosi dalle cuffie. Poi mi
fece l’occhiolino. «Pronto a conoscere un vero centro di
detenzione?»
Diffidente, alzai un sopracciglio. «Sarebbe?»
«Casa di Tylan».
Dal rumore che Kappa emise, capii che si trovava perfettamente
d’accordo con lei.
*
Mariceli fu la prima a scendere, aprendo la via in quella che scoprii
essere la più addestrata e micidiale resistenza in fatto di
blocco aereonavale specializzata in placcaggio: i parenti del Capitano
Halos.
Di mio, non provengo da una famiglia numerosa. Fin da che riesco a
ricordare, sono sempre stato solo con mio padre. Nessun altro.
Tuttavia, ora come all’epoca, ho sempre creduto di avere
un’idea vagamente verosimile di cosa significhi vivere
circondati da molti parenti.
Quel giorno, ogni mia convinzione venne smontata.
Il Capitano Tylan Halos (o, come mi obbligarono a chiamarlo
laggiù, Tylan) conviveva in un gruppo di tre casolari di
campagna con: madre, padre, tre figli, cinque fratelli e una sorella,
quattro cognati, undici nipoti, tre nonni e tre droidi di sicurezza
che, per puro gusto del buonsenso, non rassomigliavano a Kappa che
nell’aspetto.
All’apertura della rampa della navetta, davanti a noi
c’erano tutti e trentadue (anche i droidi).
Fu come andare al patibolo.
Ventinove persone che Mariceli non vedeva da un anno si strinsero
attorno a lei e cominciarono a chiamare il suo nome in almeno venti
toni diversi, chi con rimprovero, chi con apprensione, chi con semplice
e scontata felicità.
I tre droidi, invece, si occuparono di noi. Presero in consegna i pochi
bagagli che ci portavamo dietro, ci diedero il benvenuto e provarono a
essere cordiali con Kappa, ricevendo da lui soltanto frasi sarcastiche
sulle loro scarse abilità organizzative.
«Gente sulla pista d’atterraggio in piena
mattinata» lo sentii dire, sconfortato. «Come
spezzare le gambe a dei soldati, iniziare a bastonarli e guardarli
mentre cercano di scappare».
Non mi sentii mai coraggioso abbastanza da indagare su
quell’affermazione.
In compenso, venimmo trattati con ogni riguardo. Eravamo gli eroi che
tornavano dalla battaglia: congratulazioni da ogni dove anche se
nessuno aveva la più pallida idea di chi fossi, bambini che
mi saltellavano intorno in completa ovazione e un paio di pacche sulle
spalle che non seppi mai da parte di chi arrivarono. La madre del
Capitano Halos mi trovò un letto nello stanzone dove
dormivano gli altri ragazzi della mia età, e si
applicò personalmente per riempirmi le mani di cibo ogni
qual volta riuscivo a capitarle a tiro. («Sei secco come un
bastone» mi ripeteva all’infinito, scuotendo il
capo e obbligandomi a buttare giù un cucchiaio di minestra
dopo l’altro. «Come un bastone!»).
Per le prime tre ore che trascorremmo in quel complesso, Mariceli fu
monopolizzata dai figli del Capitano Halos. Non erano bambini suoi, mi
spiegò quella notte quando uscimmo per prendere una boccata
d’aria e di solitudine, ma di fatto era come se lo fossero.
Orin, il più grande, stava imparando a programmare soltanto
perché lei gli faceva da insegnante. Aveva undici anni,
un’età di tutto rispetto per provare a cavarsela
da solo, e, a quanto diceva, in quell’anno aveva imparato
anche a sistemare i tre droidi di cui disponeva. Mariceli mi
confidò che rivedeva in lui più se stessa che suo
padre, ma che non aveva mai trovato il modo giusto di dirglielo. O
forse non ne aveva mai sentito il bisogno, non ne era sicura.
Cenammo tutti assieme all’aperto, davanti a un fuoco che i
fratelli del Capitano Halos accesero per tenerci al caldo. Le
temperature erano più miti che sul ghiacciaio, ma si
trattava pur sempre di Fest e, nonostante il brodo di carne, nel giro
di un paio d’ore mi sentivo a dir poco congelare.
Battevo i denti quando Mariceli mi raggiunse con una tazza di liquore
bollente tra le mani e mi fece cenno di prendere la coperta che portava
sulle spalle.
«Non fare complimenti» disse, sedendosi accanto a
me. «Mi sa che ne hai più bisogno tu».
Rifiutare una coperta calda non mi era neanche vagamente passato per la
testa. Accettai senza nemmeno rispondere, troppo infreddolito per
aprire la bocca, e mi avvolsi nel tepore della lana cotta.
«Grazie» farfugliai poco dopo, guardando il mio
fiato diventare una nuvola nell’aria gelida.
Lei si portò la tazza alle labbra. «Mi
dispiace» disse, puntando gli occhi nel fuoco che bruciava a
pochi passi da noi. «Mi rendo conto è un
po’ affollato. Dovremo sopportare qualche giorno».
Io annuii. «Sai già tra quanto partirà
l’Anima?»
«Una settimana e mezzo al massimo, ma devono ancora deciderlo
con esattezza. Noi intanto dobbiamo essere pronti a partire».
«Esiste un piano per entrare?»
«Esistono degli amici, più che un piano. Kappa
può aiutarci a metterci in contatto con una mia vecchia
conoscenza, però …»
Sbuffai. «Però?»
«Non so se ci possiamo fidare».
Calò il silenzio.
«Cassian».
«Sì?»
«Ce la farò, te lo giuro. Ti porterò da
tuo padre».
La settimana dopo, imparai che se Mariceli giurava qualcosa, allora
tanto valeva mettersi l’anima in pace e aspettare che se la
prendesse. Sul momento, nutrivo soltanto la vana speranza di aver messo
la mia determinazione nelle mani giuste.
Feci per risponderle, ma la voce di Orin mi bloccò.
«Mari!» gridò, avvicinandosi e portando
con sé una squadriglia intera di bambini. «Ce
l’hai, una storia da raccontare?»
«Una storia da raccontare?» rispose lei, sgranando
gli occhi. Si fece pensierosa per un istante, poi annuì.
«Ce l’ho! Vi interessa sapere come ho piantato gli
imperiali?»
Senza che me ne rendessi conto, una folla di persone si
radunò attorno a noi. Iniziò dai bambini, dai
figli del Capitano Halos e dai suoi nipoti, dopodiché
richiamò anche gli adulti, gli anziani. Da qualche parte,
tra chi ascoltava, captai anche il ronzio degli ingranaggi di Kappa e
dei suoi simili.
«Eravamo sulla Luna 4 di Rasp. Bé, intorno alla Luna
4» cominciò Mariceli, facendo cenno a Orin di
sedersi davanti a lei. Pazientemente, iniziò a pettinargli i
capelli, passandogli lentamente le dita tra le lunghe ciocche
rossastre. «Dovevo trovarmi lì con Tylan e gli
altri, ma non c’era verso che mi facessero scendere. Allora
ci ho mandato dei vecchi droidi di sicurezza con la scusa di un
controllo della radioattività». Orin
sbuffò, al che lei si mise ad accarezzarlo con
più dolcezza. «Come speravo, i loro spettri erano
sballati, quindi i computer hanno registrato delle variazioni fuori
scala».
«Che significa?» chiese una ragazza poco
più grande di me. Quando avvertì il mio sguardo
su di lei, mi sorrise con timidezza.
Mariceli si prese del tempo per rispondere, producendo un suono basso
come a far intendere di stare pensando a una maniera semplice con cui
spiegarsi. «Diciamo che ci sono dei valori che ogni satellite
deve rispettare. Se qualcosa sfora, tocca agli ingegneri risolvere il
problema. Insomma, dovevo scendere sulla Luna 4 con pochi soldati, quel
giorno, ma l’incrociatore su cui mi trovavo era riuscito in
qualche modo a captare l’Andor. Gli stavamo letteralmente
facendo il giro intorno!» Fece una pausa per prendere un
altro sorso di liquore. «E allora pensavo, cosa potevo
fare?»
«Che hai fatto?» le chiese Orin, alzando il capo e
mostrandomi una nuvola di lentiggini a sporcargli il viso pallido da
far paura.
«Ho preso a bastonate un clone e me la sono data a gambe con
un guscio di salvataggio».
«No!»
«Già. Solo che nel panico ho anche dovuto rapirlo,
il clone. Alla fine, se sono viva è solo grazie a
Cassian».
Improvvisamente, mi ritrovai addosso trenta paia di occhi,
più sguardi di quanti ne avessi mai ricevuti in tutta la mia
vita.
Deglutii, visibilmente a disagio, e di colpo sentii le guance in
fiamme. «Veramente credo che sia successo piuttosto il
contrario» borbottai, arricciando il naso. «Sei
stata tu a sparare al clone, ricordi?»
«Ha sparato a un clone!»
Mariceli rise di cuore. «E quello avrebbe sparato a me se
non fosse stato distratto dal cecchino!»
«È un cecchino!»
Di nuovo, ero diventato l’eroe.
Mi strinsi nella mia coperta, ritraendomi mentre chiunque si avvicinava
per riempirmi ancora una volta di pacche sulle spalle. Mi arrivarono
complimenti da tutte le bocche, più vari gorgoglii ammirati
di chi mi invidiava l’abilità di saper sparare con
un fucile vero (non ebbi mai l’umiltà di
confessare di aver perso la mia prima arma vera e propria su una
stupida duna).
Alla fine, quando la folla si fu diradata, la madre del Capitano Halos
mi mise in mano una tazza di liquore fumante. «Grazie per
quello che hai fatto» mi disse, accarezzandomi il viso e
sorridendomi piena di dolcezza. «È anche grazie a
te se è a casa».
Mi voltai verso Mariceli, ancora indaffarata a fare treccine dei
disordinati capelli di Orin. Quando i nostri sguardi si incrociarono,
sollevò entrambe le sopracciglia in un’espressione
raggiante. Lasciò andare il figlio di Halos,
recuperò la tazza e la alzò sopra al capo. Io
feci lo stesso.
Davanti a uno dei cento fuochi di Fest, brindammo segretamente alla
riuscita del nostro vacillante piano.
Ecco il primo dei due capitoli introspettivi che fanno un po' da stacco
tra la "calma" dell'inizio e il disastro della fine. Che non
ho ancora
programmato nel dettaglio, ma prendiamo per buona l'idea che
sarà un disastro. Conoscendomi.
Dunque, ci saranno ancora un po' di gioie. Un po' di quel sentimento
che fa
sentire le persone a casa anche se sono dall'altra parte del mondo e
sono sole come i cani. Un po' di musica, di alcol, un po' di
giovinezza. Perché una delle cose che mi ha sempre colpito
dei
ribelli è che sono quasi tutti giovanissimi, dei ragazzi
praticamente (insomma, che mentre io sto qua a fare
l'università
alla mia età questi già pilotano un caccia!) e
allora mi
sono detta ... ma dei ragazzi, anche se costretti a vivere in un
contesto adulto, non sono alla fin fine sempre ragazzi? E ai ragazzi
non piaceva oziare, girare per i prati cantando, sfuggire alle
responsabilità? Più o meno, questo è
quello di cui
tratterà il prossimo capitolo.
Per quanto riguarda questo ... la separazione. Per una squadra,
immagino sia fonte di un'inquietudine a dir poco singolare. Vedremo,
soprattutto perché non sono ancora arrivata a scrivere il
momento in cui si ritroveranno, e ciò mi preoccupa.
Ma intanto godiamoci dei festeggiamenti.
Come sempre ma mai abbastanza, ringrazio chi ha letto, chi
leggerà in futuro (perché no?), chi si
fermerà a
commentare e chi invece dedicherà a questa storia anche solo
un
pensiero. Tante caramelline per voi <3
Gufetto feliceH,
Lechat vert
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Capitolo 7 *** parte settima – cambio ***
saboteur
«Orin Halos! Ancora
qui?»
«Generale Draven, sì. Il mio mercantile fatica a
partire. Ancora un po’ e sparisco, giuro».
«Non vedo dove sia il problema. Anzi, mi chiedevo se fosse
poi
riuscito a controllare quella scheda madre che le avevo
lasciato».
«Sono stato parecchio impegnato, in
realtà».
«Comprensibile. Mi permette di disturbarla ancora per un
po’? Mi è sorta una
curiosità».
«Ma si figuri».
«Mi stavo chiedendo … lei lo sa perché
il Capitano Andor è così famoso?»
«Bé, per la faccenda della Morte Nera, penso. Non
so, non
è che glielo si possa
chiedere».
«Intendevo prima di quello».
«Allora non ne ho idea».
«Lei lo conosceva, giusto?»
«Conoscere è una parola grossa. Eravamo ragazzini.
Litigammo perché gli rubai un paio di calzini».
«Interessante».
«Ci prendemmo per i capelli, fu alquanto spiacevole.
Comunque; diceva del Capitano
Andor?»
«Ah, già. Quando era molto giovane, prima che lo
conoscessi, salvò delle persone. Molte persone, a voler
essere
esatti».
«Non è quello che facevano tutti i ribelli?
Salvare persone e tutto il resto?»
«No, ho sbagliato termine. Lui non le salvò. Lui
… le ritrovò ».
«Dal nulla?»
«Qualcosa del genere, sì. Le chiamava gli
Scomparsi».
Su Fest, facemmo lunghe camminate.
Lentamente, senza allontanarci troppo dalla fattoria, seguivamo i
sentieri sterrati sui colli e ci perdevamo tra l’erba alta,
sedendoci quando Mariceli faticava a proseguire e passando ore al
freddo a raccontarci storie. Ricordo che congelavo, ma soffrivo di buon
grado.
Prima che ce ne potessimo accorgere, i bambini presero a seguirci.
Prendevano per mano me o Mariceli, giocavano a catturare gli insetti
che uscivano dalle tane nelle ore più calde per godere del
sole.
Scoprii che i figli di Halos ammiravano la loro matrigna tanto quanto
ammiravano lui. Si strattonavano l’un l’altro per
avere l’onore di appendersi ai baveri più lunghi
del suo cappotto, lamentandosi quando la sera lei li allontanava per
poter raccontare storie che, diceva, soltanto i grandi avevano il
permesso di sentire. Allora, davanti al fuoco e circondata soltanto da
adulti, si sfogava con timori che erano fatti di speranza, parlava dei
morti come se questi la stessero aspettando al piano di sopra per fare
una festa, ci confidava il buio ma non dimenticava mai di dipingerlo
luminoso quanto una giornata di sole.
Ogni notte, la fattoria era visitata da gente nuova. Vicini di campo,
membri del gruppo Atrivis che conoscevano gli Halos prima
dell’unificazione, ma anche amici di amici che avevano
soltanto voglia di ascoltare una storia.
Mariceli raccontava, non smetteva mai. Certe volte, sembrava aver
vissuto più avventure di un libro. E c'erano uomini, c'erano
bambini, donne, vecchi. C'erano persino i morti, attorno ai fuochi di
Fest, e tutti ascoltavano i racconti di un viaggio che era durato un
anno ma che non era ancora finito.
A chi era coraggioso, servivano a prendere sonno.
A chi combatteva da tutta la vita, servivano a far passare la paura.
E Mariceli lo sapeva.
Passarono tredici giorni e ancora non avevamo ricevuto alcuna
informazione dall’Andor. Nel bene o nel male, non sapevamo
che fine avesse fatto il Capitano Halos.
«Sta bene» mi disse una sera Mariceli, mentre in
solitaria esploravamo il crinale di una collina erbosa più
lontana delle altre. «Se fosse successo qualcosa avremmo
avuto gli imperiali qui da un pezzo».
Io stavo tirando sassolini all’aria, seguendoli con lo
sguardo mentre spiccavano il volo per poi venire inghiottici dal verde
della prateria che ricopriva il panorama. Avrei voluto provare a
colpirli con il blaster, ma l’idea di fare una figuraccia
davanti a lei mi imbarazzava soltanto sfiorandomi. «Ma non ti
ha detto che avrebbe tardato, no?» considerai. «E
se tutta la base fosse stata attaccata?»
«Sei troppo pessimista. Non sono bambini; se la base fosse
stata attaccata, ne avremmo comunque ricevuto notizia. Abbi pazienza. E
poi, se avessero fatto prigioniero Terras, ce lo avrebbero sicuramente
rispedito!»
Eppure, nonostante la risata leggera con cui accompagnò
quell’affermazione, le leggevo la mia stessa preoccupazione
negli occhi, sottile quanto le sue iridi scure ma non meno profonda,
fatta di quel silenzio in cui viveva e di tutto quel sonno a cui,
piccata, si ostinava a non concedersi.
Ci sedemmo tra l’erba, gli sguardi puntati al cielo che si
stava sporcando di notte. Abbandonati nel verde, sembravamo fantasmi.
«Quando torno qui, finisce sempre che mi manca
casa» sussurrò Mariceli, i capelli tinti di rosso
dal fuoco che brucia in cielo nelle sere d’inverno. Si
sdraiò, e io feci lo stesso. Per un istante, ci perdemmo a
guardare la notte calare. «Lo sai?» riprese in un
soffio. «Non ci sono i tramonti, da dove vengo io.
È come su Rasp. Il sole si ferma sopra al mare, non sparisce
mai del tutto. Ogni volta che lo vedo spegnersi, non posso fare a meno
a chiedermi se la mattina dopo sarò lì a vederlo
sorgere».
Le scoccai un’occhiata divertita. «Hai paura di non
vedere l’alba?» ironizzai, troppo acerbo per capire
a cosa si stesse riferendo davvero. «Sei stata un anno
nell'Impero, e hai paura del sole!»
Lei rise piano, quasi a non voler disturbare la mia
ingenuità, ma non aggiunse altro.
D’un tratto, fummo investiti dal rumore graffiante del
cinguettare di uno stormo di uccelli invisibili. Voci lontane presero
improvvisamente a rincorrersi attorno a noi, risate strozzate assieme a
un opprimente fischiare di navi immaginarie che ci sfrecciavano tra i
capelli. C’era il suono della pioggia, tra l’erba,
eppure il cielo era sereno.
Ancora oggi, lontano dal mio pianeta natale, sento di tanto in tanto la
mancanza di
quell’orchestra di suoni che dipinge Fest dei disarmanti
colori dell'aurora boreale.
Quando fu abbastanza buio da non vedere al di là del nostro
naso, il cielo si tinse di verde.
Mariceli e io ammutolimmo.
Restammo a guardare le luci nel cielo danzare lentamente sotto quel
suono che era tutto loro, incapaci di pensare, di esprimerci. La volta
divenne bianca, rosa, scarlatta; l’aria talmente densa da far
credere di
poterla afferrare con il pugno chiuso della mano.
Fummo toccati dalle voci di centinaia di spettri, accarezzati dai
pensieri che quei colori cantavano attraverso il cielo. Senza provare
ad afferrarli, li seguimmo nella loro marcia notturna, la bocca
socchiusa nello stupore e il fiato mozzato nello sgomento. Infine, ci
rendemmo conto che anche respirare era divenuto di troppo.
Durò quasi un'ora, poi tornò la notte.
L’ultimo ricordo che rimase di quel passaggio furono le linee
biancastre che chiudevano la parata con i suoni lontani di una musica
che andava svanendo.
Le luci nei cieli di Fest, inarrivabili e di una bellezza quasi
spietata, ci si erano appena spente dinanzi.
«Mio padre mi diceva sempre che porta male»
sussurrai, una volta che
fummo circondati di nuovo dall’oscurità.
«Vedere le luci spegnersi, dico».
Mariceli non rispose.
*
Due giorni dopo, ricevemmo un breve messaggio da parte del Capitano
Halos.
Tutto bene, diceva, anche se alla base erano finiti con
l’impantanarsi
in una riunione non proprio pacifica tra festiani e rappresentanti di
Mantooine, sfociata tristemente in una rissa vera e propria quando si
era cominciato a parlare di risorse belliche. Lui stesso ne
era uscito con un fiero occhio nero. Cunha, a detta sua, aveva invece
avuto la
brillante idea di restarne fuori e farsi pagare da bere dai compagni
dell’Anima.
Non riuscii a stupirmene.
“Io e Cunha partiamo con l’Andor tra cinque
giorni” si concludeva il messaggio, mostrandolo sorridente
con un livido sullo zigomo grosso tanto quanto un grosso pugno. Anche
dall’ologramma, l’ematoma faceva il suo effetto.
Notai che,
quantomeno, fare a botte sembrava avergli fatto ritrovare il buonumore.
“Ci hanno anche rifatto la fiancata!”
«La fiancata?» Mariceli alzò il capo dal
quadro circuiti spalancato di Kappa, scoccandomi un’occhiata
dubbiosa attraverso uno spesso paio di occhiali da vista.
«Che è successo alla fiancata?»
Alzai le spalle, facendo il vago. «E io che ne so?»
risposi, e tornai a guardare la plancia di comando della nostra
navetta, affrettandomi per amor di quiete a spegnere il messaggio
registrato prima che il Capitano Halos potesse peggiorare ulteriormente
la sua già precaria posizione di comando.
Era notte fonda e io e Mariceli stavamo per partire.
Sentivo le dita implorarmi di
mettere in modo e decollare immediatamente, senza attendere il permesso
di nessuno. Mi frenava soltanto la consapevolezza che la mia compagna
di avventure
condivideva la mia stessa impazienza; stava lavorando molto
più velocemente di quanto le sue stesse mani riuscissero a
fare, sbuffando di tanto in tanto quando qualcosa non le riusciva come
doveva.
«Ancora un po’, Kappa» disse, voltando lo
sguardo verso lo schermo del computer di bordo. Afferrò le
cuffie e si rimise all'opera con la sua adorata musica nelle orecchie.
Piegai il capo. «Che stai facendo?» chiesi.
Lei non diede segno di avermi sentito.
«Backup su disco esterno» mi rispose Kappa, piatto.
«E cancellazione dei dati sensibili dalla memoria
rigida».
Mariceli gli tamburellò le dita sul cranio metallico.
«Hai detto qualcosa?» chiese, togliendosi le cuffie.
«Ho detto: backup su disco eserno e cancellazione dei dati
sensibili dalla memoria rigida».
«Ah, già. Così se ti prendono, scoprono
poco. E se ti fai del male, abbiamo il disco per ripararti
come si
deve. Vecchio scavezzacollo, sei in una botte di ferro!» E
gli
colpì
scherzosamente la spalla con il cacciavite che aveva in mano.
Io annuii, appoggiandomi con aria svogliata alla parete. Con poca
convinzione, soffocai uno sbadiglio.
«Penso che dovreste dormire entrambi» ci fece
presente Kappa, strappando malamente il cacciavite dalle mani di
Mariceli e riponendolo con serietà nella cassetta ai suoi
piedi. «Con quelle occhiaie che vi ritrovate, al massimo li
spaventate, gli imperiali».
Mi passai una mano sulla faccia e sospirai. «Non lo puoi far
stare zitto, già che ci sei?» mi lamentai.
Mariceli rise, abbandonando la sua postazione e togliendosi gli
occhiali. «Sentiresti la
sua mancanza. Vero, Kappa?»
«Non ho intenzione di esprimermi mentre maneggi la mia scheda
madre, grazie».
Lavorammo fino alle prime luci del mattino, aiutati di tanto in tanto
da uno dei fratelli del capitano e da sua madre che, incapace quasi
quanto noi di chiudere occhio, continuò a portarci cibo e
liquore per tenerci al caldo.
Io mi occupai controllare l’unica mitraglia di cui la navetta
disponeva, constatando come, a conti fatti, era come se partissimo
senza neanche un coltello da carne. Ci servivano armi, blaster, fucili.
Mariceli disse che ce n’erano due nella sua stanza da
letto.
Leggero e a piedi scalzi per evitare di svegliare l’orda di
ragazzini costretti a letto di malavoglia, mi intrufolai in casa come
un ladro, scivolando al piano superiore con lo stesso rumore di un
respiro nella notte.
Nel doppiofondo dell’unico armadio della stanza in cui mi
addentrai, come da istruzioni, trovai due fucili e lo stesso blaster di
tipo A280-CFE che conservo ancora oggi. Con somma gioia, abbandonai il
mio ormai odiato E-5. Quella fu l’ultima volta in cui lo vidi.
Mi riaffacciai al corridoio carico di armi e speranzoso di non aver
svegliato nessuno, camminando speditamente verso le scale con il cuore
in gola. A ogni passo che compivo verso l’uscita e verso la
navetta, mi sentivo sempre più più
vicino alla partenza.
Era arrivato il momento, non riuscivo più a contenere la
gioia, l’agitazione, l’aspettativa, il terrore. Mi
sentivo come se avessi vissuto la mia vita soltanto per arrivare a quel
culmine, per accarezzare quello stato d’animo confuso.
Ai piedi della scale incontrai Orin Halos e quasi non lo vidi, tanto
ero concentrato sulla mia missione.
«Ehi» mi chiamò, atono. Da sotto al
cespuglio di capelli rossi che gli ricadeva sugli occhi, mi
scoccò un’occhiata seccata. «Pensavo
foste già partiti».
Non mi scomposi. «A Mariceli serviva un fucile»
risposi, risoluto.
« Uno?
Sembra che stiate andando ad attaccare una flotta intera».
«La vedo dura con due fucili e un blaster».
«Mio padre lo sa?»
Alzai le spalle. «Può darsi» risposi.
«Ma non sono affari tuoi».
Orin Halos piegò il capo di lato. «Lo state
facendo di nascosto» mi fece notare. «Tutti voi.
Anche mio padre».
Suonò come un ricatto.
«Per favore» sospirai, stringendo i denti.
«Non dirlo a nessuno e va’ a dormire. È
importante. Si tratta di mio padre».
Orin Halos non parve molto convinto. «Se ti prometto di non
dire nulla, tu prometti una cosa a
me?»
«Sentiamo».
«Non farla andare via. Mia madre se n’è
andata nello stesso modo. Quindi riportala, per favore».
In un'altra occasione, mi sarei premurato di ficcanasare in quello
spiraglio di verità che mi era appena stato offerto. Avrei
indagato con attenzione, cercando di scoprire di più sul
passato
di quella famiglia. Quella notte, invece, la mia mente era
già
in volo. «Contaci» dissi quindi, alzando le spalle,
e non
diedi poi tanta importanza alla faccenda.
Ci salutammo e tornai a bordo della navetta, mostrando con aria
vittoriosa il mio bottino.
Mariceli ne fu entusiasta. «Meglio di quanto
ricordassi!» trillò. Prese in consegna i fucili e
mi allungò l’A280. «Questo è
tuo» dichiarò, leggera.
Kappa allungò le braccia per ricevere uno dei fucili, ma
venne ignorato.
Soddisfatto di aver ricevuto l'arma che avevo adocchiato, la presi in
consegna e me la legai alla
cintura. Poi raggiunsi il mio posto alla plancia, stretto tra Mariceli
e Kappa che
intanto si era accapparrato il ruolo da copilota e ancora si lagnava di
non
aver ricevuto un blaster per difendersi («Sei un droide
imperiale! A che ti serve un fucile?» «E
tu sei un
ingegnere imperiale, ma trovo riduttivo sperare che tutti si
concentrino sul ragazzino di quindici anni in memoria dei nostri
trascorsi tra le loro fila»).
Sotto ai miei piedi, sentii chiaramente i motori iniziare a scaldarsi
per il decollo.
Ormai, cominciava ad albeggiare.
«Tutti pronti?» chiese Mariceli, indossando le
cuffie. Noi facemmo lo stesso. «Va bene, il piano
è semplice: arriveremo sul posto due giorni prima
dell’Anima, utilizzando lo scarto per raccogliere le
informazioni che ci servono prima che vadano perdute. Ricordatevi che,
se riescono a sgombrare il campo prima che l’Anima metta le
mani sugli Scomparsi, sarà come se non fossero mai esistiti.
Non ci saranno altre possibilità dal momento in cui
l’Impero capirà che ci siamo accorti di loro.
Useremo l’assalto per dileguarci. Tutto chiaro?» Ci
guardò entrambi, tirando fuori da chissà dove un
sorriso
furbo. «Se vi avanza tempo, chiamatemi Capitano
Solpea!»
«Capitano Solpea» ripeté Kappa,
scuotendo il capo. «Scordatelo».
Io usai la scusa di mettermi comodo sul sedile ed evitare di venire
coinvolto nella lite che pensavo sarebbe scoppiata di lì a
qualche minuto.
Non successe niente del genere.
Senza nessun preavviso, sentii la pesante mano di Kappa sulla mia
spalla. «Troveremo tuo padre, Cassian» mi disse,
annuendo in un frinire di ingranaggi che suonò quasi
sinistro. «Lo ha detto Mariceli».
«Capitano Solpea» lo corresse lei, ma lui le
ricambiò la cortesia dei fucili, ignorandola.
Anche se un po’ stentatamente, sorrisi.
«Grazie» risposi. «Se anche
tu sei ottimista, Kappa, non può che andare bene».
«No, ho già fornito a Mariceli ogni
probabilità calcolata sulla riuscita del suo piano.
Ottimista è una parola enorme.
Se proprio lo vuoi sapere, le statistiche che ho stilato
dicono che ...»
Decollammo.
In quel momento non lo sapevo ancora, né potevo minimamente
immaginarlo, ma quella fu l’ultima volta che vidi Fest.
Osservai il mio pianeta natale allontanarsi sempre di più da
me, mentre la navetta prendeva quota dondolando sinistramente nello
strato più sottile di atmosfera, per poi librarsi nello
spazio scuro in cui ci eravamo appena immersi.
Una volta stabilizzati, Mariceli mollò le cuffie e si
rivolse a Kappa. «Iperguida» ordinò,
seria. «Traccia la rotta».
Kappa dondolò la testa a destra e a sinistra, rassegnato.
«Non hai ancora detto per dove» le
ricordò.
«Sistema di Wobani» rispose lei, risoluta. Nei suoi
occhi, notai, sembrava essere sorto il sole. «Al Campo di
Lavoro Imperiale».
Campo di Lavoro Imperiale di Wobani. Vi dice qualcosa?
Esatto! Wobani
è proprio il pianeta da cui Jyn viene fatta scappare in
Rogue One. Non ve l'aspettavate, eh? * wink wink*
Visto che per una volta in queste note ho qualcosa di concreto da dire,
ne approfitto. La prima parte è largamente autobiografica.
Nel senso che la prima volta che mi sono trovata seduta in un prato con
un freddo ladro
ed è arrivata l'aurora boreale, mi sono
quasi messa a piangere (ma è una cosa che è
successa
anche la seconda e la terza volta, e la quarta ...). E' veramente
difficile descrivere questi colori, perché una volta che si
mettono a illuminare il cielo la mente si svuota completamente e si
è incapaci quasi di respirare. E' qualcosa di unico,
completamente diverso da quello che si vede nelle foto o nei video,
qualcosa di talmente totalizzante che sul momento non si sente bisogno
di niente. Mi auguro vivamente che qualcuno tra chi mi legge abbia
provato questa esperienza, perché mi ci sono ritrovata in
mezzo
decine e decine di volte e ne rimango sconvolta anche solo a
ricordarla.
Ecco, se d'ora in avanti dovessi consigliarvi una canzone da ascoltare
a ripetizione per quello che sta per accadere ... sarebbe questa. "Non guardaaaare, non
guardaaaare. Nient'altro che disagio ed orrore incontrerai."
Ovviamente scherzo. O forse no.
Comunque! Per concludere e non sproloquiare come al solito, volevo
ringraziare tutti voi piccole e meravigliose palline di pelo bianco (?)
che leggete, commentate, seguite, scuotete il capo con aria rassegnata
(sì, vi vedo). Siete piccoli piccoli e belli belli ❤
Cagnolini,
Lechat vert
ps: che poi
è veramente ironico mandare gif di cani quando di nickname
faccio gatto.
|
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Capitolo 8 *** parte ottava – childhood's end ***
saboteur
«Capitano
Andor!»
«Generale Draven».
«Bel lavoro, su Kafrene».
«La ringrazio».
«Ho sentito dell’informatore».
«È stato necessario».
«Comprendo. Ora, per quanto riguarda il prossimo passo, temo
ci sarà ancora bisogno di te».
«Per cosa?»
«Una missione di recupero. Jyn Erso. Mai sentita?»
«Mai, Generale».
«Preparati, si parte tra tre giorni. Stavolta scendo in campo
con voi».
«Con tutto il rispetto, Generale, mi è permessa
una domanda?»
«Certo».
«Perché io?»
«Perché andiamo su Wobani, Capitano Andor. Ho
letto che lo conosci bene, no?»
Cambiammo rotta a metà viaggio, quando ricevemmo un
messaggio dal famigerato amico che Mariceli si era vantata di avere
nella regione di Wobani. Saltò fuori che non solo il tale si
trovava su Ebra, un pianeta di estrazione mineraria nel vicinissimo
Sistema di Dousc, ma che si diceva addirittura ben contento di aiutarla
in nome dei vecchi tempi. Io e Kappa cominciammo a sentire puzza di
bruciato fin dal primo momento.
«Va tutto bene, Ebra è un posto sicuro»
ci rassicurò invece Mariceli, sorridendomi mentre con
risolutezza si agganciava alla cintura un coltello lungo quanto il suo
avambraccio. «Che c’è?» mi
chiese poi, intercettando il mio sguardo sbigottito su di lei.
«Nelle taverne di Ebra i blaster sono vietati».
Potevo forse ribattere?
Sospirando, mi infilai la giacca e alzai il cappuccio sul capo. Non
eravamo più su Fest, certo, ma dal finestrino avevo comunque
spiato un sottile strato di neve.
«Quanto ci fermeremo?» domandai.
«Devo incontrare un vecchio amico e bere qualcosa»
rispose Mariceli. «Facciamo il prima possibile, su Ebra non
vanno pazzi per i viaggiatori».
Kappa ci fece atterrare in quell’esatto momento.
«Non vi aspettate che io vi segua»
annunciò in un tono che non ammetteva repliche.
«Le bettole di Ebra? No, grazie».
Mariceli annuì e si avvolse nella sciarpa rossa di suo
marito. «In gamba, Kappa» si raccomandò.
«Quando ti chiamo, vienici a prendere in fretta». E
partì, senza neanche aspettarmi, scivolando dalla bocca
d’imbarco con una tale agilità che il bastone da
passeggio nella sua mano parve del tutto superfluo.
Riluttante, mi costrinsi a seguirla. «Temi guai?»
le chiesi, una volta uscito nel fresco clima di Ebra al calar della
sera.
Lei alzò le spalle. «Sennò
perché il coltello?»
Ammiravo e odiavo al tempo stesso la logica con cui vedeva il mondo.
“ Ma
sì”, mi dissi, roteando gli occhi.
“ Sennò
perché il coltello?”
Potrei parlare per ore dell’uomo che incontrammo quel giorno,
ma sarebbe aprire una parentesi del tutto inutile. D’altro
canto, su Tivik e la sua rete di informazioni esiste un rapporto
completo che io stesso ho redatto dopo la missione
sull’Anello di Kafrene, dove per cause di forza maggiore ho
dovuto sparargli. Lo ricorderò come un brav’uomo,
credo, anche se già all’epoca aveva le mani
invischiate in affari non troppo nobili. Affari che, però,
gli permisero di fornire a Mariceli i documenti completamente fasulli
che ci garantirono l’accesso al Campo di Lavoro di Wobani.
Dopo i primi convenevoli con cui si congratulò con Mariceli
per l’ottimo aspetto che si portava dietro nonostante la vita
su Fest, ci offrì un bicchiere di liquore in due e ci
scortò fino a un tavolo sufficientemente lontano dalla folla
per poter parlare liberamente. Ricordo che, se nel locale
l’aria era tutt’altro che fresca, intorno alla
finestra sotto la quale ci accomodammo era del tutto irrespirabile.
«Allora» esordì Tivik, riservandoci un
sorriso cordiale del tutto fittizio. «Posso sapere cosa vi
spinge a voler andare su Wobani?» Non ero un
granché nel leggere la verità sul viso degli
altri, specialmente se si trattava di estranei, eppure la delusione di
vedere Mariceli viva e vegeta era impressa sulle sue smorfie in maniera
quasi cristallina.
Ovviamente, lei non se l’era lasciato sfuggire.
«Avevo voglia di fare un giretto dall’altra parte
della barricata» spiegò, alzando le spalle.
«Il ragazzo, qui, il giovane Willix, è il mio
figliastro. Suo padre è stato mandato su Wobani qualche anno
fa e glielo voglio far incontrare».
«Il tuo figliastro?» Perplesso, Tivik
alzò un sopracciglio. «Mi avevano detto che ti eri
sposata con un contadino di Fest!»
«Qualcuno doveva pur dar da mangiare al giovane Willix, non
trovi?»
Il giovane Willix roteò gli occhi. Cominciavo a capire
perché Mariceli mi aveva voluto con sé, e
l’istinto mi diceva che mio padre c’entrava davvero
poco.
Tivik sfoderò un sorriso che mi fece intendere di non
essersi bevuto la storia neanche per scherzo, ma stette comunque al
gioco. «Sei sempre stata una pura di cuore, Mariceli
Solpea» le disse. «È anche per questo
che mi piace aiutarti».
Lei alzò gli angoli della bocca in una smorfia
insoddisfatta. «Aiutarmi» ripeté,
alludendo a chissà quale ricordo. Non scoprii mai quali
fossero i loro trascorsi.
Tivik non fece cadere la contrattazione. «Posso farvi passare
per dei tecnici» incalzò, annuendo con
convinzione. «So che al campo hanno sempre bisogno di
personale per controllare i droidi da lavoro. Per i documenti non
è un problema, li faccio falsificare entro sera».
Mariceli incrociò le braccia sul petto. «Quanto
vuoi?»
«Il giovane Willix ha bisogno di un impiego?
Nell’Anello di Kafrene …»
«Il giovane Willix sta bene con me, grazie
comunque».
«Va bene, ho comunque in mente
qualcos’altro».
«Sentiamo».
Tivik si piegò in avanti, allontanando il suo bicchiere di
liquore. «Ho visto che lo hai già notato, ma
all’entrata ci sono tre soldati che mi stanno cercando. Se mi
fai uscire di qui e mi garantisci un passaggio sicuro fino al porto
entro notte, sono disposto a fornirti i documenti senza bisogno di
pagamento. A buon rendere, diciamo».
Istintivamente, voltai il capo alla mia sinistra. Sulla soglia, tre
soldati imperiali si stavano facendo largo tra la folla ciascuno con un
blaster in mano.
«Alla faccia dei blaster vietati su Ebra» sbottai.
«Non guardarli» sospirò Mariceli,
sorseggiando liquore dal suo bicchiere. Lo posò, poi, e con
calma si alzò dal tavolo. «Tieni
d’occhio il nostro amico, Willix» si
raccomandò. «Io vado e torno». E si
incamminò con quel suo passo tutto saltellante, con il piede
sano che si alternava al bastone per sorreggere quello che invece non
riusciva a tenere dritto nello stivale che un tempo aveva fatto parte
della sua divisa da ingegnere.
Ora. Come è risaputo da chi come me proviene dal Sistema di
Fest, ci sono pochi altri popoli nella galassia capaci di fare a botte
come un festiano e un mantooiano. Si fiutano da lontano, mi
raccontò una volta Cunha, e per qualche strano motivo
trovano immediatamente qualcosa su cui bisticciare per poi passare alle
mani. Mariceli non era festiana, ma viveva sul mio pianeta da almeno
dieci anni e l’odore doveva esserle proprio rimasto addosso,
poiché trovò da ridire dopo appena tre passi,
quando un uomo le diede volontariamente una spallata con la scusa di
dover passare.
Non so esattamente
da cosa nacque la litigata, cosa fece degenerare lo sfregio di una
spallata in una vera e propria rissa da taverna, ma assistetti con una
visuale ridicolamente chiara al momento preciso in cui Mariceli smise
di bisticciare con l’uomo e, approfittando di un momento di
distrazione, iniziò a colpirlo con il suo bastone da
passeggio talmente forte da far risuonare nel locale il rumore sordo
del ferro sulla sua schiena.
Da lì in poi, ci ritrovammo in un campo di battaglia.
Tutti i mantooiani presenti iniziarono ad accalcarsi su Mariceli, che
di contro venne difesa più che egregiamente da chi non
voleva vedere una zoppa fatta a pezzi da un branco di ubriachi.
Volarono dei bicchieri, a un certo punto, ma non capii quale fu la
coalizione che li tirò né chi venne colpito.
In pochi attimi, l’intera taverna era diventata un fronte di
guerra.
Schivando per pura fortuna due ubriachi che finirono sul nostro tavolo
nella foga della lotta, saltai via dalla sedia e afferrai Tivik per un
braccio.
«Dici che la dobbiamo aiutare?» mi chiese lui,
vago. Dubito avesse davvero intenzione di buttarsi nella mischia ma,
dopotutto, nemmeno io fremevo dalla voglia di fronteggiare un intero
squadrone di uomini a suon di pugni.
Scossi il capo. «Credo che se la caverà da
sola» mi ritrovai a dire, anche abbastanza convinto, e
assieme ce la filammo passando dal retro.
Quando, fuori dalla taverna, la vidi venirmi incontro barcollante e con
il mento vagamente nerastro, mollai il nostro amico e le corsi incontro
con preoccupazione.
«Tutto bene» rispose, alzando bonariamente una
mano. «Direi che ci siamo guadagnati i documenti».
Per puro caso, lo sguardo mi cadde sulla cintura che le stringeva in
vita il cappotto blu. «Mariceli» chiesi, titubante.
«Dov’è il coltello?»
Togliendosi la sciarpa, lei fece spallucce. «Non
so» rispose, vaga. «Mi sa che mi è
caduto».
Per una volta tanto, decisi di non ficcanasare.
*
Per non destare sospetti con la navetta, patteggiammo con Tivik
affinché ci rimediasse un landspeeder per raggiungere il
campo. Ci costò buona parte dei crediti di cui Mariceli
disponeva, ma alla fine fummo in grado di partire in tempo con la
tabella di marcia.
Non ero mai stato a bordo di uno speeder prima (su Fest fa troppo
freddo per poterli utilizzare), ma stranamente non ne serbo alcun
ricordo. Immagino di essere stato troppo terrorizzato dal rapido
avvicinarsi del posto di blocco per godermi il panorama roccioso di
Wobani: l’idea di stare per entrare in un centro imperiale
con un droide rubato, due fucili e due blaster nel bagagliaio e un
computer intero smontato e avvolto nei vestiti della nostra borsa mi
stava letteralmente uccidendo. Ingenuamente, pensavo che quello fosse
il massimo della faccia tosta con cui ci si poteva presentare sulla
linea nemica.
«Hora e Joreth Sward?»
Senza aria nei polmoni, sorrisi timidamente al soldato che stava
esaminando i nostri documenti, sperando non notasse il fatto che io e
Mariceli avevamo tante probabilità di essere fratelli quanto
uno wookie e un ebranito. A lei, invece, l’essere quanto di
più fisicamente lontano potesse essere concepibile per due
esseri umani pareva non disturbare affatto.
«Vi abbiamo riparato il droide» insistette,
entusiasta, mentre guardava il mondo attraverso un paio di lenti scure
montate su degli occhiali tondi. Si appoggiò al volante
dello landspeeder, protendendosi verso l’esterno con le
labbra piegate in un sorriso costernato. «Stamattina ci hanno
chiamati per eseguire la diagnostica a quelli che avete in
magazzino».
Impassibile, la guardia alzò un sopracciglio. «E
il droide sarebbe …?»
Alle mie spalle, sentii il guizzare dei circuiti di Kappa. Rabbrividii.
«Non parla» mi affrettai a dire, scuotendo il capo.
«Al reparto lo volevano così».
«Infastidiva tutti» mi diede manforte Mariceli. Si
strinse nella tuta verde della divisa del reparto tecnico e
schioccò la lingua sul palato. «Difetto di
fabbrica che non siamo riusciti a togliere. Numero di serie
KX-2132390».
«D’accordo. Piazzola cinque».
Fu così che entrai per la prima volta nel Campo di Lavoro di
Wobani. O almeno, nella parte del capo che era riservata al
mantenimento di detenuti. Di per sé, valutai attraversando i
grandi cancelli all’ingresso, si trattava di una
normalissima, enorme prigione.
Parcheggiamo il nostro speeder dove ci era stato indicato, occupandoci
di scaricare i bagagli prima che qualcuno venisse a farci da scorta.
«Lascia i fucili» mi ordinò Mariceli,
stringendosi in vita la stessa sciarpa rossa che le avevo visto
prendere in consegna dal Capitano Halos. Si legò i capelli
sopra al capo, arricciando il naso quando sollevò la sua
borsa. «Riesci mica a nascondere quel blaster che ti ho dato?
Giusto per evenienza».
Annuii e chiusi il mio zaino. «Non aiutare, tu!»
esclamai a Kappa, scoccandogli un’occhiata seccata mentre lui
se ne stava in piedi a osservare il panorama (a proposito: Kappa ama i
panorami, un po’ meno chi lo interrompe mentre li sta
guardando).
«Improvvisamente, ho un buon presentimento»
considerò lui, ignorandomi. «KX-2132390, che
assurdità. Se sono tutti stupidi come quello là,
abbiamo già finito di lavorare».
Mi voltai verso Mariceli, sgranando gli occhi, e lei fece spallucce.
«Che vuoi che ti dica, Joreth?» esclamò,
caricandosi lo zaino in spalla. Dal nulla, talentuosa quanto
un’attrice, tirò fuori la parlata morbida e
sinuosa degli abitanti di Coruscant. «Lo sapevamo
già che era così!»
Ci raggiunse un piccolo gruppo di imperiali, quattro assaltatori armati
più un sottufficiale in divisa ad aprire loro la strada. Il
primo pensiero che mi attraversò la mente quando li vidi
avvicinarsi a Mariceli, fu che le stavano per aprire il cranio a colpi
di blaster.
«Hora Sward?»
Il sottufficiale allungò una mano verso di lei con gelida
eleganza, scrutandola da sotto la visiera del berretto che gli copriva
il capo.
Mariceli gli rivolse un sorriso raggiante. «Ah,
sì!» trillò, ravvivandosi con un
saltello la coda in cui aveva legato i capelli.
«Sottoufficiale Kardal» si presentò
l’uomo in divisa, atono. «Siete in
anticipo.»
Il panico mi suggerì che eravamo già fin troppo
sospetti, ma mi costrinsi a pensare che anche i tecnici hanno il
diritto di arrivare in anticipo, specie il primo giorno di lavoro. O
almeno, questo è quello che penso. Non l’ho mai
scoperto; di mio, non sono il tipo di persona che arriva in anticipo.
Neanche quando si tratta di una missione.
Mariceli, comunque, non si scompose. «Siamo arrivati ieri in
città e pensavamo di sbagliare strada» si
giustificò. Si tolse il occhiali dal viso, infilandoli tra i
capelli appena sopra la fronte. «Allora»
incalzò. «Da questa parte?»
Alzò il bastone da passeggio verso l’ingresso,
facendo cenno al sottufficiale di farci strada. Mentre l’uomo
la superava, mi scoccò un’occhiata incoraggiante.
«Mi chiedevo se prima fosse possibile avere qualcosa di caldo
da bere» aggiunse poi. «Mio fratello sta
congelando. Non siamo abituati a questi climi».
Ingoiando a fatica un grosso nodo di saliva, strinsi le mani attorno
alle cinghie dello zaino e provai a imitare la sua disinvoltura
starnutendo e tirando su col naso quanto più infreddolito mi
riuscisse.
Il Sottufficiale Kardal non ne parve particolarmente toccato.
«Ah» si limitò a commentare, piegando le
labbra in una smorfia infastidita. «Sì, qualcosa
si potrà arrangiare».
Procedemmo.
Non appena fummo all’interno della struttura, parve chiaro
sia a me che a Mariceli che Wobani era un centro
all’avanguardia. Altissimi ascensori di vetro salivano e
scendevano lungo delle colonne costruite per dare decoro
all’entrata, mentre i pavimenti marmorei, affollati di
ufficiali e soldati, riflettevano con nitidezza le nostre figure. Ero
talmente affascinato da ciò che vedevo che, per un istante,
dimenticai persino la paura.
«È la prima volta che venite qui?»
incalzò Kardal, offrendosi con un po’ di impaccio
di prendere in consegna la borsa che Mariceli si tirava dietro.
Lei ignorò ogni tentativo di galanteria. «La
prima» confermò. «Il droide ce lo hanno
consegnato via posta».
«Mi è stato detto che sarete qui intorno per tre
giorni».
«Se posso essere onesta, spero di finire prima».
Il Sottoufficiale Kardal si lanciò in una risata sprezzante.
«Non è superbia, questa?»
Mariceli alzò il mento in un’espressione furba.
«Guasta?» chiese, affabile. L’accento di
Coruscant la faceva sembrare ancora più sottile del solito.
«Personalmente, cerco di farne a meno».
Ascoltavo con perplessità quel dialogo, valutando con
ammirazione le capacità di Mariceli di cui
all’epoca ero totalmente sprovvisto, quando udii chiaramente
il raccapricciante rumore degli ingranaggi di Kappa che iniziavano a
girare. Di nuovo.
Stavolta, non feci nemmeno in tempo a voltarmi.
«Ecco perché a quell’età
è ancora sottoufficiale».
Sgranai gli occhi, e così fece Mariceli. E il
sottoufficiale.
Al mio fianco, sentii chiaramente uno degli assaltatori reprimere con
scarsi risultati una risatina.
«È difettoso» provai a dire, poco
convinto.
Kardal arricciò il naso. «È
così che riparate i droidi, voialtri?»
commentò.
Mariceli lo fulminò con lo sguardo, ma non rispose.
Per l’ora successiva, nessuno tranne il Sottoufficiale Kardal
si sentì coraggioso abbastanza da dire niente.
Ciao palline di pelo invernali! Come state?
Lo so, tecnicamente Cassian non era su Wobani con Kappa per
recuperare Jyn, però io non
riesco a immaginarli separati. Mi rendo conto di avere un
grosso limite mentale, ma proprio non riesco proprio a concepire come
uno possa stare a
casa mentre l'altro va in missione. Quindi, nel mio immaginario, su
Kafrene Kappa stava aspettando Cassian alla navetta, mentre su Wobani
Cassian si era un attimo fermato a leggere un cartello
stradale probabilmente
faceva parte dell'intelligence che guidava le squadre
d'azione dalla stazione in orbita. Passatemi la licenza poetica, per me
quei due sono più sposati di Chirrut e Baze 3
(Ah, tra l'altro: qualcuno
si ricorda di Tivik?)
Okay, ordunque. Da qui in poi non si torna indietro, anche
perché ho ufficialmente passato la metà della
fanfiction,
che si concluderà quasi al 100% con il quindicesimo capitolo.
Con tanto orgoglio da parte mia, stanno per cominciare quel genere di
guai che portano ai disastri finali. Presente? Quelli che ti fanno
finire su una spiaggia con la schiena spazzata in due a guardare un
tramonto mentre il pianeta sta esplodendo e tutti i tuoi amici sono
morti. Cosucce da niente,
facilmente risolvibili. *cuore in frantumi*
Cerbiattini,
Lechat vert
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Capitolo 9 *** parte nona – savage ***
saboteur
«Pronta a
partire?»
«Più o meno. Anche se sento di non averti ancora
ringraziato abbastanza. Per la fiducia e tutto il resto».
«Se su Scarif mi copri le spalle, siamo pari».
«Mi sembra un buon compromesso».
«…»
«…»
«Jyn».
«Cassian».
«Andiamo per vincere».
«Lo so».
«Io no. Non del tutto».
«È paura, Capitano ?»
«Paura? E di cosa?»
«Non so. Di morire, forse».
«Jyn, la morte non toglie niente».
«E questa da dove salta fuori?»
«Un vecchia storia mia e di Kappa».
«Allora tienila per il viaggio di ritorno».
«Senz’altro».
Scoprimmo assieme che inimicarsi un sottoufficiale nell’arco
della prima ora di copertura poteva avere una gran quantità
di
lati positivi, specialmente se la causa del conflitto proveniva da
Kappa.
Piccato per il poco cordiale trattamento ricevuto, il Sottoufficiale
Kardal perse gran parte della giornata a star dietro al nostro droide,
dimenticandosi, nel tentativo di dimostrare chissà cosa, del
lavoro che nel frattempo svolgevamo io e Mariceli.
Ovviamente, da parte nostra non venne sollevato alcun tipo di lamentela.
«Allora» incalzò lei, mollando a terra
lo zaino che
mi aveva fatto portare per tutta la mattina e che si era ripresa da
qualche minuto. Dalla tasca della divisa, tirò fuori un
pezzo di
carta su cui lei stessa aveva scarabocchiato una piantina seguendo le
spiegazioni del Sottoufficiale Kardal. «Questo è
il
magazzino dei droidi». Puntò il dito sulla mappa,
trascinandolo lungo tutto il foglio fino a se stessa. «Alla
fine
di questo corridoio, ho visto una stazione informatica. Per entrare nel
sistema centrale mi serviranno più o meno quattro ore,
giusto
quello che serve per effettuare la diagnostica a tutti questi droidi.
Se mi fai da palo, riusciamo a fare tutto assieme dopo pranzo. Hai mai
messo le mani su un droide?»
Ben lontano dal condividere anche lontanamente il suo entusiasmo, mi
ritrovai ad annuire con il viso contorto in un sorriso di circostanza.
«Qualche volta su Fest» risposi, sincero.
«Ma non
erano come questi, per la maggior parte erano astrodroidi».
Mariceli alzò le spalle. «Fa niente. Questi non
sono complicati,
come modelli di protocollari. In realtà, mi aspettavo
qualcosa di più
avanzato. Dico, li hai visti quegli ascensori all’entrata?
Questo
posto mi pare tutto fumo».
Mi ritrovai ad appoggiarla, non perché fossi mai entrato in
altri centri imperiali e la sapessi lunga sulle tecnologie impiegate,
ma perché fino a quel momento mi era
sembrato tutto fin troppo facile. «Già, anche a
me»
ne convenni, quindi, guardandomi attorno. «Da quali
cominciamo?»
Puntavo il naso in alto, scrutando le centinaia di crani disposte sui
ganci che ci sovrastavano. Quanti occhi spenti ci stavano osservando?
Con un po’ di paranoia, mi domandai se non fosse un trucco
per
spiarci.
La verità è che tremavo ancora per
l’uscita di
Kappa con il Sottoufficiale Kardal, e non avevo il coraggio di
chiedermi cosa
esattamente
succedesse a chi veniva scoperto infiltrato all’interno di
una
base imperiale. Mariceli lo sapeva bene, ma non ebbi mai il coraggio di
domandarglielo.
D’altro canto, lei ebbe l’accortezza di non
dirmelo, lasciandomi il tempo e la responsabilità di
scoprirlo io stesso con l'esperienza.
Quando mi guardo alle spalle, provo sempre un vago senso di smarrimento
nel rendermi conto della dolcezza che mettesse in ogni suo gesto nei
miei confronti, nel riguardo che mi riservava nonostante fossimo quasi
del tutto due sconosciuti. Non so se chiamarla nostalgia o affetto; di
certo, la sua è una mancanza che si fa sentire. In questi
giorni continuo a
pensare che, se l’Andor fosse ancora in piedi, le cose
sarebbero molto diverse. Se quel giorno Mariceli fosse rimasta tra gli
ingegneri di Rasp, oggi ci sarebbe davvero la necessità di
combattere per dei piani di cui lei stessa avrebbe sentito
l’irrefutabile richiamo?
«Cominciamo dalla stazione» Sorridendomi con
dolcezza, mi
mise una mano sulla spalla e mi scosse appena. «Ti faccio
vedere
come si frega un sistema informatico, così poi lo fai da
solo».
Era un ottimismo da cui non sapevo difendermi.
Con finta disinvoltura, abbandonammo il magazzino e attraversammo il
corridoio. Superammo un plotone di assaltatori e le ginocchia presero a
tremarmi, la testa cominciò vagamente a girare, mentre
l’aria nel petto si fece improvvisamente rovente.
Con la stessa semplicità con cui si sbattono le ciglia,
Mariceli
mi batté il bastone da passeggio sullo stinco.
«Calma» sussurrò, fermandosi davanti
alla porta
della stazione informatica con la scusa di mettersi a posto il
giubbotto della divisa. «Un po’ di sfacciataggine,
forza.
Guarda che lo so che quando vuoi ne hai da vendere».
Gli assaltatori ci passarono a fianco senza degnarci di uno sguardo,
sparendo dietro l’angolo con il meccanico marciare della loro
andatura.
«A me viene sempre da ridere» mi
confidò,
aprendo lo zaino e cominciando a frugarci dentro. «Quando
passano
dritti e non sanno a chi sono vicini».
Commentai con un sorriso tirato. «Mah» borbottai.
All’epoca, non riuscivo a capacitarmi di come potesse non
essere
terrorizzata, ma ne ero a dir poco ammirato. Oggi, credo che Mariceli
avesse molta più paura di quanto non desse a vedere.
Semplicemente, era molto brava a reprimerla, a fingere che non
esistesse, a cullarsi nell’essenza della stessa illusione che
finì per portarsela via.
Lasciò che fossi io ad occuparmi della porta, appoggiandosi
al muro e restando in allerta, pronta a dare l’allarme.
Di mio, feci l’unica cosa che mio padre era stato in grado di
insegnarmi a fare decentemente: forzai la serratura. Mi tolsi due
grimaldelli dallo stivale e li infilai nel quadro elettrico,
trafficandoci attorno in silenzio mentre mi prodigavo per far saltare
il cavo giusto.
Fu talmente facile che, una volta spalancato l’uscio, mi
voltai
verso Mariceli con la faccia sgomenta di chi ha appena avuto una
fortuna sfacciata. «Davvero?» chiesi. Avevo
faticato molto di più quando uno dei miei compagni dell'FRG
si era fatto catturare e i miei compagni avevano mandato me a forzare
il luchetto della sua prigione improvvisata sul retro di una taverna.
Mariceli alzò le spalle. «Partono dal presupposto
che da una prigione la gente prova a
uscire, di solito» mi spiegò, precedendomi. Prima
di
superarmi, però, si fermò a farmi
l’occhiolino.
«Bel lavoro, Andor Cinque».
Ispirato dalla paura di farmi beccare dove non dovevo essere, montai da
solo uno degli apparecchi che ci eravamo portati dietro, una piccola
scatola di plastica dotata di schermo che collegai al computer
attraverso un cavo di ferro (ne scoprii più tardi il nome
esatto, poiché sul momento mi parve del tutto simile a un
normalissimo apparecchio di trasmissione).
«Sai a che serve?» mi chiese Mariceli, sedendosi
davanti alla tastiera e dondolando appena sulla sedia.
Io scossi il capo. «A farci entrare nel sistema, per
caso?» buttai lì.
«Genera codici d’accesso e li applica
all’username
che inserisco. In questi centri, le chiavi non sono mai personali, di
solito le decide il computer stesso al primo accesso. Se imposto questa
sull’algoritmo di Wobani e inserisco un nome, è in
grado
di garantirmi l’accesso entro quattro
ore».
Ero perplesso. All’epoca, di informatica sapevo veramente
poco.
«Conosciamo l’algoritmo di Wobani?»
indagai, dubbioso.
«È registrato nei droidi a cui dobbiamo fare la
diagnostica, ci serve solo che Kappa lo estragga. Finiamo con questo e
lo andiamo a recuperare, povero cuore» trillò lei,
trafficando felicemente con l’interfaccia del computer. Alla
fine, si ributtò lo zaino in spalla e mi fece cenno di
precederla sul corridoio. «Facciamo veloci; quel tizio con
cui
abbiamo lasciato Kappa mi mette i brividi».
“Quel tizio” avrebbe dovuto spaventarla molto di
più
di quanto non riuscì mai a fare, ma Mariceli non era tipo da
dare certe soddisfazioni tanto facilmente, soprattutto quando si
trattava dei soldati con cui aveva passato un anno della sua vita e che
per questo pensava di conoscere come le sue tasche.
Penso che fu per questo motivo che, quando aprimmo la porta del
magazzino e ci ritrovammo due fucili puntati contro, per un
momento fu come se fosse tutto nella norma.
Fu una sensazione del tutto simile a quella che si prova quando di
notte si salgono le scale contando un gradino in più; un
senso
di vuoto che parte da dentro quando il piede affonda nell'aria e sfocia
nella realizzazione, del
disappunto, nella caduta.
Quando notammo gli assaltatori e la mano del Sottufficiale Kardal
sollevata per ordinare di aprire il fuoco, sentimmo chiaramente il
tempo fermarsi.
D’istinto, come su Rasp, provai l’impulso di
chiudere gli
occhi e morire. Però non lo feci, perché Mariceli
non me lo permise.
Gridando, si portò davanti a me con le mani alzate e mi
coprì completamente con il suo corpo. «Fermi,
fermi!» supplicò. Il mio naso sbatté
contro la
stoffa ruvida dello zaino, scuotendomi come uno schiaffo e strappandomi
alla paura. «Il ragazzo non c’entra niente.
È un
orfano di Coruscant che ho usato per entrare. Non sa nemmeno tenere in
mano un blaster».
Nella confusione, quella parola risuonò nella mia mente come
un’ancora di salvezza a cui aggrapparsi.
«Lo so che non siete di Coruscant» le fece eco
Kardal,
sospirando. «Ma davvero pensavate che una zoppa passasse
inosservata? Dopo Rasp?»
Coperto da Mariceli, feci scivolare la mano nella tasca dello zaino,
tenendo l’altra sempre ben alzata per dare la parvenza di
essere
immobile. Alle sue spalle, nessuno poteva vedermi.
Afferrai il mio blaster e sentii di nuovo l’aria passare nei
polmoni. Improvvisamente, mi sentii un po’ meno morto di
prima.
Mariceli continuava a temporeggiare. «Ho già
inviato alla
base le informazioni che cercavamo» mentì, la voce
tagliente tanto quanto la lama di un coltello. L’accento,
però, era rimasto quello di Coruscant. «Se ci
uccidi ora,
non saprai nemmeno cosa stavamo cercando».
«Credo che siate voi quelli che non sanno in cosa stanno
mettendo
le mani. Siete i ribelli di Fest, no? L’Impero sa ogni cosa
di
Travia Chan e dei suoi ridicoli piani». Kardal fece una
pausa,
sospirando. «Abbiamo una rete di informatori molto
più
vasta di quanto possiate prevedere».
Mi sporsi in avanti, sbirciando il campo. Gli assaltatori attendevano
ordini, uno a destra e uno a sinistra. Kardal stava nel mezzo. Dietro
di loro, un droide di sicurezza che poteva essere Kappa come un
qualsiasi altro pezzo della stessa serie mi impediva di scorgere al di
là delle sue altissime spalle.
Non avevo la più pallida idea di come colpire tre uomini
contemporaneamente, né avevo modo di disarmarli per
permetterci
di prendere tempo.
Feci l’unica cosa che credevo avrebbe fermato me se le parti
fossero state invertite: scivolai di lato e, buttandomi sulle
ginocchia, puntai il blaster su Kardal usando vergognosamente Mariceli
come scudo con i due soldati. «Un passo e lo
ammazzo»
dichiarai, trovando non so dove la sfacciataggine di non tremare.
«Abbassate le armi».
Mariceli mi colpì la schiena con un calcio appena accennato.
«Il casco» suggerì.
«E toglietevi il casco» aggiunsi, usando molta
più
autorità di quella che possedevo. «Niente
comunicazioni».
Credo sia stato il tentativo più magro della mia intera
esistenza di provare a dare ordini a degli assaltatori, e infatti non
venni ascoltato neanche per un istante, ritrovandomi con un blaster
davanti al naso prima ancora di riuscire a finire la frase.
Quel giorno, di fronte a un uomo pronto ad abbattermi, capii
perché chiunque nell’Andor pensava che Kappa fosse
insostituibile.
Mentre sentivo il degradante ronzio delle risate dei nostri nemici
filtrato dal microfono dei caschi, mentre anche il corpo di Mariceli
attaccato al mio si irrigidiva talmente tanto da parere morto,
assistetti alla scena che più sovente associo alle mie
memorie
di quel magazzino.
Il droide alle spalle di Kardal si rivelò essere davvero
Kappa,
mostrandoci la salvezza con un unico, semplice e insolitamente morbido
gesto: alzò la mano a mezz’aria e, prima che
chiunque
potesse anche solo pensare di fermarlo, afferrò il cranio
del
sottufficiale e lo scagliò contro la parete con una forza
tale
da romperlo di netto.
Sono convinto che Kardal non si accorse nemmeno di morire. In compenso,
io sentii per mesi il rumore secco delle ossa spezzate sul cemento.
«Ora lo abbiamo ammazzato» sentii dire, mentre
raccapricciato guardavo quel corpo distrutto cadere a terra.
Poi Kappa si voltò verso l’assaltatore davanti a
me e,
mentre io mi ritrovavo per puro istinto a centrare quello che teneva
sotto tiro Mariceli, lui pensò bene di strappargli il
blaster di
mano e sparargli dritto in faccia.
Nel giro di qualche secondo ci ritrovammo in tre, da soli in mezzo a
centinaia di droidi spenti,
con due soldati morti da far sparire e un cadavere che, anche se fosse
stato ritrovato, nessuno avrebbe saputo identificare.
A stento riuscivo a distogliere lo sguardo.
Le cervella, sparse sul
pavimento fin quasi ai miei piedi, fuoriuscivano lentamente dalla
fronte completamente sfondata assieme alla più grande
quantità di sangue che avessi mai visto.
Ricordo come cercai di sentirmi inorridito senza riuscirci veramente:
anche allora, una piccola parte di me aveva già realizzato
di aver corso il rischio di finire nella stessa maniera. O lui o te, mi
sussurra da allora una voce che sento ogni qual volta mi ritrovo
davanti a un morto. Non posso fare a meno di ascoltarla, e sono sicuro
che, segretamente, Mariceli sentisse una voce molto simile alla mia.
Silenziosa e senza battere ciglio, si chinò su Kardal e
frugò nella sua giacca con la stessa naturalezza con cui
avrebbe messo mano in
quella di suo marito. «Almeno diamo un senso a questo
casino» sospirò, attenta a non sporcarsi.
«Sui
documenti scrivono l’username».
Intanto io continuavo a imparare quanto cervello
c’è nel
cranio di un uomo e qual è la sua esatta consistenza con cui
esso viene spremuto fuori dalla testa quando questa viene appiattita
contro un muro di cemento.
«È successo perché ti sei
sopravvalutata»
valutava nel frattempo Kappa, muovendosi per il magazzino accompagnato
dal suono ronzante dei suoi ingranaggi. Con la coda
dell’occhio,
notai che la sua mano grondava sangue. «Perché lo
stai
facendo, Mariceli. Ti stai sopravvalutando. E non finirà
bene,
se continui così».
Sentii un paio di mani prendermi per le spalle, e in un attimo fui
costretto a voltarmi.
«Va tutto bene, Kappa. Nessuno si è accorto di
niente». Con delicatezza, Mariceli mi sospinse
dall’altra
parte rispetto alla pozza di sangue e si mise in tasca i documenti che
aveva raccolto dal cadavere. «Adesso vedi di sbarazzarti dei
corpi».
Contrariato, il nostro droide scosse il capo. «Ricordare a me
di
sbarazzarmi dei corpi è come ricordare a Cassian di
respirare». Mi scoccò un’occhiata vuota,
emettendo
un sibilo del tutto simile a un sospiro. «Cassian, ricordati
di
respirare».
Ancora perso nelle mie considerazioni, finii per non cogliere il
sarcasmo e annuii. «Grazie, Kappa».
«Figurati».
Mariceli ci richiamò subito all’ordine.
«Va
bene, ragazzi. Ora coraggio» sbuffò, portando
entrambe le mani sui fianchi. «Riordiniamo
questo posto prima che a qualcuno salti in mente di venirci a
controllare. Abbiamo ancora un sacco di lavoro da fare». Mi
indicò i droidi, annuendo piano, poi si chinò sul
cadavere di uno degli assaltatori e rimosse il casco con un sospiro.
«Cassian, va’ a fare le diagnostiche. Qui ci arrangiamo
io e Kappa».
«Posso aiutare», mi offrii.
Lei alzò un sopracciglio. «Sai come si ripulisce
un corpo?» fece, perplessa.
Feci spallucce. «Perché, tu
sì?»
Dallo sguardo vuoto che mi lanciò compresi che quello non
era il primo cadavere che si ritrovava tra le mani.
Non fu nemmeno l’ultimo.
Questo capitolo doveva essere tipo completamente diverso e decisamente
meno violento, ma ho cambiato idea all'ultimo e ehilà.
Doveva essere tutto molto più tranquillo, ma la vita non si
può controllare come io non posso controllare quello che
scrivo,
quindi evviva!
Uhm, come commentare ancora? Passaggio delicato, inizio dei guai,
violenze varie ed eventuali, SPOILER
il prossimo capitolo sarà una cosa veramente tristissima e
vi
veranno forniti fucili per spararmi, fatene pure richiesta, sono gratis
e
lo apprezzo moltissimo (?).
Già che ci sono e non so cosa dire, avete sentito del titolo
dell'Episodio VIII? Vi piace? A me personalmente tantissimo *-* Anche
se temo per i personaggi e le loro sorti sventurate D:
Dinosaurini,
Lechat vert
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Capitolo 10 *** parte decima – paradiso ***
saboteur
«È un
suicidio».
«Scarif?»
«Siamo in venti».
«Ventuno».
«Cosa vuol dire ventuno ?»
«Te lo continui a dimenticare, ragazzo. Solpea viene con
noi».
«…»
«Accidenti a te, Cassian! Ma non ti hanno ficcato proprio
niente, in quella zucca?»
«Sono serio».
«Anche io, razza di stupido. Adesso usa la testa e non
mandarci a morire. Ce lo devi. A tutti».
«…»
«E non guardarmi così, che pari ancora un fesso
dopo dieci cazzo di anni».
«Se ci fosse il Capitano Halos, tutta questa missione non
avrebbe neanche senso di esistere».
«Eh, davvero. Se gli avessero ordinato di muovere il culo
fino a
Scarif, si sarebbe messo a ridere e avrebbe tirato fuori quella faccia
tronfia che faceva quando lo mettevano al comando. Me lo immagino
proprio:“La Morte Nera? E che sarà
mai! Non possiamo ficcarci un sasso nei propulsori e
via?”».
«E ci sarebbe pure riuscito, a farla saltare con un sasso nei
propulsori».
«Poi avrebbe tirato fuori una bottiglia di vino e si sarebbe
ubriacato, alla faccia dell’Impero».
«Già. Era un brav’uomo».
«Consolati, Cassian: lo sei anche tu».
«E poi gli dico: “Non ci posso fare niente se i
tuoi droidi
sono lenti! Prendono dal padrone!” Lui mi guarda e si fa
così rosso che pare sul punto di esplodere, alza la mano e
dice:
“Signorina Sward, lei è licenziata!»
«Ma come!»
«Te lo immagini? Licenziata da un chagrian!»
Se la ridevano tutti, approfittando della pausa di metà
pomeriggio davanti a una tazza di caffè bollente servito
assieme
a della frutta secca.
In disparte, io rimuginavo sul fatto che a Mariceli erano bastate
sì e no quattro ore e tre omicidi per farsi amico
metà
del reparto tecnico.
Seduta sul tavolo della stanza di ricreazione, agitava in aria le
braccia mentre raccontava con entusiasmo le nostre presunte avventure,
così brava nel narrarle che, per brevissimi istanti, persino
io
mi ero ritrovato a chiedermi quando esattamente
fossimo fuggiti da Foerost dopo che nostro padre mi aveva preso per i
capelli e buttato fuori di casa perché ero intenzionato a
sposarmi di nascosto. In compenso, praticamente chiunque mi guardava
con ammirazione. Mia moglie era morta, comunque, il che tra le tante
cose mi rendeva anche ufficialmente vedovo.
Cominciavo a chiedermi se Mariceli non stesse cercando di svendermi a
qualcuna delle nostre colleghe del reparto tecnico, piuttosto che
puntare al trovare informazioni sui nostri obiettivi. Ma, appresi col
tempo, anche concedersi a degli apprezzamenti fa parte della sottile
arte dell’infiltrarsi nel campo nemico.
«Hora, dov’è che siete
alloggiati?» chiese
d’un tratto uno dell’impianto di monitoraggio,
riempiendosi
la tazza con fare divertito.
Lei bevve un sorso di caffè, poi gliela sbatté
sotto il
naso con l’intenzione di farsela riempire. «A Leda,
ospiti
di amici. L’Impero ci manda di qua e di là. Che
bisogna
fare, per lavorare!»
«Ghart dell’avanzamento macchine si è
fidanzato e dà una festa, stasera. Dovreste
venire».
«Perché no?»
«Ti do l’indirizzo. Ce l’hai da
scrivere?»
«Segna pure sul braccio!»
Lo spionaggio non è altro che arte, mi disse una sera
Mariceli,
e all’epoca ne dissentii completamente. Ho imparato molto,
negli
anni che ho passato senza di lei e le sue maniere accomodanti di
insegnarmi, e alla fine mi sono costretto a darle ragione: entrare
nell’esistenza di qualcuno e accarezzarla, stuzzicarla
affinché sia pronta ad aprirsi a uno sconosciuto,
è tutta
una delicata questione di arte. E, come tutte le arti, spesso viene
dalla sofferenza.
Benché Mariceli all’epoca ne fosse già
ampiamente
consapevole, io non ne avevo neanche lontanamente idea, e continuavo
beatamente ad ignorare il muro contro il quale, di lì a
poco,
sarei andato a sbattere con la stessa violenza che quella mattina aveva
ucciso il Sottufficiale Kardal.
Successe quando tornammo alla stazione informatica dove avevamo
lasciato a Kappa il compito di fare la guardia.
«Oh, siete qui» ci disse, voltandosi dallo schermo
per
osservarci mentre ci barricavamo all’interno della stanza.
«Il computer ha finito con i dati. Siamo dentro».
Nella foga di raggiungere la tastiera, Mariceli mi spinse
così
forte da accantonarmi al muro. «Siamo dentro»
sussurrò, gli occhi scuri improvvisamente ardenti di un
fuoco
che faceva quasi paura. «Ne sei sicuro, Kappa?»
«Pensi che l’avrei detto, se non ne fossi stato
sicuro?»
«Collegati e filtra gli schedari; ti ho caricato i filtri in
memoria».
Passarono minuti interminabili.
Lo schermo dell’archivio centrale cominciò a
trasmettere
freneticamente immagini diverse, mentre file su file si aprivano
dinanzi a noi e si accavallavano gli uni sugli altri, brillando e
vibrando per richiamare la nostra attenzione.
I miei occhi scorrevano freneticamente su ognuno di loro, cercando con
disperazione l’unico che mi interessava davvero trovare.
Darsten, Corrino, Wortin, Sprax, Amavia.
Uno a uno, gli Scomparsi ci mostravano il loro volto emaciato e spento.
Mariceli li osservava in silenzio, una madre davanti ai suoi figli,
un’artista davanti alla sua ispirazione. Credo che, se non ci
fossimo stati io e Kappa, avrebbe addirittura pianto di commozione.
«Salva quei file, Kappa» comandò, gli
occhi sgranati
ancora puntati sulle informazioni degli uomini che aveva di fronte. Si
piegò in avanti, appoggiandosi al bastone, poi
tornò
dritta. «Li abbiamo trovati».
Corrugai la fronte. «Mariceli» dissi, stranito.
«Ma
… non ce ne dovevano essere solo cinque?» Capii da
solo il
mio errore. Non era solo dal Sistema di Rasp, che venivano gli
Scomparsi. L’Impero li stava mandando da tutta la galassia.
«La maggior parte è stata archiviata come
deceduta»
ci informò Kappa, scuotendo il capo meccanico. «Mi
dispiace».
Mariceli non batté ciglio. «Quanti ne
restano?»
«Qui? Nessuno».
Mi accigliai. «Come nessuno?»
«Sono stati inviati tutti presso la base di
…»
«Kessel». Mariceli si passò entrambe le
mani sul
viso, emettendo un sospiro soffuso che sapeva di dolore. Sul momento,
non ne compresi il motivo.
Oggi so che esiste un intero rapporto recuperato tra i file di Travia
Chan circa i metodi di interrogatorio e detenzione applicati su Kessel
e sulle sue miniere di Glitterstim. L’autore si firma come MS.
«Maledizione. Chi li recupera ora, su Kessel?»
Io non ero affatto convinto. «Ma perché li hanno
sposati di nuovo?»
Mariceli scosse il capo. «Non ne ho idea» rispose.
«Ma sarà il caso di scoprirlo, visto che
l’Anima sta
venendo qui per niente. Kappa, salva tutto. Anche le schede dei
deceduti».
«Me lo hai già detto».
Io mi protesi verso lo schermo.
«Cerca Krasin Harkor» sussurrai, quasi
arrampicandomi
sull’alta schiena di Kappa per avere una visuale
più
completa.
Mariceli annuì. «Proviamo».
Restammo in attesa.
Furono i dieci secondi più lunghi della mia intera
esistenza.
Sono passati dieci anni da allora, ma mi è difficile pensare
a
una manciata di istanti che sia pesata sulle mie spalle più
di
quel momento. Fu come se l’aria fosse divenuta
improvvisamente
impossibile da respirare, come se stessi annegando nelle mie stesse
aspettative.
Poi, il viso scuro di mio padre comparve sullo schermo.
«Krasin Harkor» lessi ad alta voce, il cuore che
batteva così forte da togliermi il fiato.
Lessi il suo file e fu come leggere lui stesso, come averlo
così vicino da poter sentire il suo odore.
Gli occhi mi si riempirono di lacrime e, di primo acchito, non riuscii
nemmeno a spiegarmi il perché.
Sentii la mano calda di Mariceli accarezzare la mia, il suo respiro
infrangersi improvvisamente contro la pelle del mio viso mentre mi
stringeva a sé. «Mi dispiace» la sentii
sussurrare,
prima di sentire sul capo il peso della gelida mano di Kappa.
Non capii, non finché non rialzai lo sguardo sullo schermo
per ritrovarmi davanti al viso di mio padre.
“ Krasin Harkor”,
lessi di nuovo, e improvvisamente sentii lo stomaco contorcersi in una
sensazione di vuoto. “ Deceduto”.
*
Quella sera, non andammo a nessuna festa.
Mariceli mi caricò sul nostro speeder quasi di peso,
salutando Kappa per la notte con un cenno del capo, e guidò
in silenzio fino alla navetta nascosta fuori città. Ricordo
che ascoltammo della musica.
Quella notte, si prese cura di me in una maniera che mi fece quasi male.
In silenzio, senza osare pronunciare parola, mi preparò
qualcosa da mangiare nonostante non avessi voglia nemmeno di respirare,
insistendo a gesti affinché sbocconcellassi un po’
di carne e facendomi compagnia con del pane scaldato sui circuiti
roventi del computer di bordo. Arrangiò un giaciglio di
coperte sul pavimento del ponte e mi guardò infilarmi sotto
tutti gli strati che fui in grado di accumulare, passandomi le mani tra
i capelli come giorni prima aveva fatto con Orin nello scarno tentativo
di rasserenarmi.
Di mio, non riuscivo a sopportare quell’apprensione. Le avrei
volentieri gridato in faccia che volevo soltanto stare solo, ma mi
sentivo vuoto, completamente perso, incapace persino di respirare,
figurarsi di respingere delle attenzioni non volute. Così
sopportai.
Solo un anno dopo, mi ritrovai a desiderare quelle carezze come se da
loro dipendesse la mia stessa esistenza.
Restammo zitti a lungo, interrotti soltanto dal ronzio del
riscaldamento della navetta. Poi squillò il comunicatore, e
Mariceli si alzò per andare a rispondere.
Io feci finta di mettermi a dormire.
«Tylan, stai bene?» la sentii dire.
“Perfettamente!” trillò la voce del
Capitano Halos, talmente allegra da angosciarmi ancora più
di quanto quella giornata non fosse già riuscita a fare da
sola. “Siamo in pausa rifornimenti proprio ora, non vogliamo
arrivare impreparati. Ancora un giorno e vi veniamo a
prendere!” Fece una pausa, concedendosi una risata.
“Là come vanno le cose?”
«È complicato. Li hanno mandati tutti su Kessel,
ma stiamo ancora cercando informazioni. Direi che l’Anima
può darsi alla pazza gioia a buttare giù questo
posto, quando arriva».
“Splendido, splendido. Cunha sta origliando e l’ho
visto sorridere, quindi prepariamoci a un cataclisma. Ah, ora mi
offende perché ho di nuovo sbagliato l’atterraggio
con l’Andor. Cunha, levati di mezzo! Sto parlando con
… per la miseria, ancora una parola e ti strappo quei tre
capelli che ti sono rimasti in testa, chiaro? Ma tu guarda. Dicevo? Ah,
giusto. Il ragazzo?”
Rabbrividii.
«Forse è meglio parlarne un’altra volta,
Tylan. Non ha avuto una bella giornata».
“Sta bene?”
«Sì, è solo … lascia stare.
Si è messo a letto, non lo voglio svegliare. Domani facciamo
il punto della situazione e ne parliamo».
“Come vuoi, Mari. Allora buonanotte. Da
lì sembri un sole”.
«Ti aspetto».
Quando la comunicazione si scollegò, udii il fruscio delle
coperte che venivano spostate. Senza che potessi in alcun modo
lamentarmene, Mariceli si coricò accanto a me, distante
abbastanza da non sfiorarmi nemmeno per errore, eppure vicina tanto da
permettermi di percepire chiaramente il suo respiro
nell’aria.
Attese a lungo prima di parlare.
«Pensavo che magari domani puoi restare qui» mi
disse. «Al centro dirò che sei stato male durante
la notte».
Non risposi.
Lei fu paziente.
«D’accordo, adesso ho qualcosa da dirti»
mi confidò, sospirando. «Ma deve restare un
segreto tra me e te. Non lo sa nemmeno Tylan, perciò
ascoltami bene. Te la senti?»
Non mi lasciò neanche il tempo di annuire, né di
prepararmi in alcun modo a quello che stavo per apprendere.
Borbottò qualche parola che non riuscii a comprendere, poi
sputò tutto con una sola frase che fu come una secchiata
d’acqua sulla schiena.
«Su Rasp c’è la mia famiglia».
Sentii il sangue raggelarsi nelle vene.
Quasi all’unisono, entrambi bisognosi di guardarci in faccia,
riemergemmo dalle coperte e ci scambiammo un’occhiata vuota.
Con il capo libero e le guance arrossate dal caldo che saliva dal
pavimento, ci guardammo a lungo in silenzio, i visi atoni, gli occhi
che facevano rimbalzare tra di noi il senso di smarrimento che ci
accumunava.
«La tua famiglia è su Rasp» dissi,
cauto. «Prigioniera».
Mariceli scosse lentamente il capo, ma parlò senza vergogna.
«Oh, no. Stanno tutti benissimo. Mio fratello è
militare». Fece una pausa in cui si lasciò
sfuggire un sorriso intenerito. «Ha avuto una figlia, la
quinta, e l’ha chiamata come me».
«È un sabotatore?»
«No, Cassian. Lui è … solo un uomo. Si
arruolò che ero una bambina, non lo vedevo da tanto
tempo».
Continuavo a non capire. Quella storia. La tranquillità con
la quale la raccontava. Il perché
me la stesse raccontando.
Mariceli colse il mio smarrimento e mi venne incontro. «Mio
padre fu giustiziato come sovversivo» spiegò,
paziente. «Mio fratello aveva una moglie, un figlio in
arrivo. Si arruolò per non avere ulteriori problemi con gli
imperiali».
«Come mai non andasti con loro?»
«Perché per me c’erano sempre stati
altri progetti. Mio padre voleva che imparassi a riparare i sistemi di
sicurezza come lui, e io volevo lo stesso. Quando mio fratello mi
annunciò che ci saremmo arruolati assieme, gli risi in
faccia. “Io faccio quello che voglio”, gli dissi, e
mi rifiutai anche solo di uscire di casa. Mio padre era un radicale,
sai. Aveva fatto un buon lavoro per farmi venir su in maniera simile.
Ah, ero una bella testa calda». A lei scappò una
risatina, io fui quasi tentato di cederle un sorriso. «Ad
ogni modo. Ero furiosa, e me ne andai da casa poco dopo, imbarcandomi
per Fest perché era il passaggio che costava di meno. Ero
così offesa per le decisioni di Molan che non pensai nemmeno
a dirgli addio».
«Quanti anni avevi?»
«Quando andai su Fest a fare la fame? Quattordici».
Mariceli era sempre stata una persona difficile; buona al comando,
quasi impossibile da comandare. Lo realizzai in quel momento. A volte,
mi chiedo se in altre circostanze saremmo mai stati in grado di andare
d’accordo.
«Perché tuo fratello non torna?» le
chiesi, scuotendo appena il capo. «Se fossi tu a
spiegarglielo, il Capitano Halos …»
«Mah, credo che tutto sommato Rasp gli piaccia. Ha degli
amici, un’altra moglie. Quel posto somiglia a casa nostra,
come potrei chiedergli di cambiare?»
«Bé, tu lo hai fatto. E anche io».
Mariceli sospirò. «Cambiare è molto
più facile quando si ha la tua età» mi
disse. «Quando si arriva ad avere una famiglia, ci si ferma e
non si va più avanti. Guarda Tylan: potevamo fare grandi
cose, invece sono dovuta andare su Rasp da sola. Fest lo ha
ingabbiato».
Trasalii, improvvisamente colto da un dubbio.
«Mariceli» feci, titubante.
«Perché me lo stai dicendo?»
«Cosa?»
«Tutta questa cosa di Rasp».
Lei alzò gli angoli delle labbra in un sorriso colmo di
tristezza.
«Per metterti in guardia».
«Da cosa?»
«Io avevo una scelta: potevo restare su Rasp e vivere per
sempre con il nome falso che mi avevano dato, con i miei nipoti, ma
sono tornata. E vuoi sapere perché?»
Alzò le spalle, poi si tirò la coperta fino al
mento. «Perché l’Andor non ti lascia mai
andare via, non del tutto. E te lo sto dicendo perché ora
tocca a te scegliere. Tylan non ti caccerà di certo, ma la
galassia è grande».
Allora non colsi appieno ciò che stava cercando di dirmi.
Nella mia ottica, anche se non ci avevo ancora pensato, mi consideravo
a tutti gli effetti un membro dell’Andor, un nuovo compagno
un po’ acerbo, forse, ma pur sempre uno di loro. Non avevo
neanche preso in considerazione il fatto che avevo una galassia in cui
trovare un posto dove stare, perché inconsciamente davo per
scontato che fosse l’Andor, il mio posto.
Seppur con la buona intenzione di spingermi a cercare ciò a
cui veramente ambivo, invece, Mariceli aveva appena rimescolato le
carte, lasciandomi davanti a un tavolo bianco, una pagina immacolata su
cui più tardi avrei tracciato la nostra rotta.
«Vorrei che non fosse morto» mi sfuggì
dalle labbra, mentre rabbuiandomi mi raggomitolavo su me stesso.
Mariceli annuì. «Anche io vorrei che mio padre non
fosse morto» sussurrò, assumendo la mia stessa
posa.
«Quanti ce ne sono, là fuori?»
«Di uomini?»
«Di padri, e di figli».
«Centinaia, credo. Forse migliaia addirittura».
Chiusi gli occhi e li sentii bagnarsi di lacrime, ma mi sforzai di non
cedere alla tristezza. Centinaia di padri, di figli lasciati soli a
fare i soldati a sei anni per crescere nell’angoscia
dell’incertezza, nel gelo di un ghiacciaio, nella solitudine
di essere sempre l’ombra di qualcun altro. E io,
improvvisamente, non ero più uno di loro.
«Andiamo su Kessel» sussurrai, rialzandomi
improvvisamente e passandomi le mani sul viso per ricompormi.
Mariceli si voltò a guardarmi, appoggiando una guancia
contro il muro. «Su Kessel è impossibile
infiltrarsi, cuore» sospirò. «Questo
è un paradiso, rispetto a quel posto».
Io non me la sentii di demordere. «Stai scegliendo di nuovo
l’Andor?»
Mi arrivò un soffio di fiato caldo sulla fronte, un sommesso
ruggito che sapeva di rabbia. Pensai che mi avrebbe rimproverato,
invece soffocò una risatina.
«Sfacciato, Harkor».
Calò il silenzio.
Io mi rimisi sotto le coperte e tentai di chiudere gli occhi senza
ricordare di nuovo quelle tre parole messe in fila. Krasin Harkor, deceduto.
La voce di Mariceli mi raggiunse morbida quanto una carezza.
«Bel lavoro, con il blaster» mi disse.
Sospirai. «Non lo so ancora usare bene».
«Sulla Luna 4 mi hai gridato che non so smontare i
fucili».
«Bé, è vero».
«Mi insegni?»
Mi voltai a guardarla, lanciandole un’occhiata stranamente
serena. Dentro quella navetta, mi sentii improvvisamente al sicuro.
«D’accordo» acconsentii, annuendo
cautamente. «Ora?»
Lei si allungò sul pavimento, recuperando il blaster che di
solito portava legato alla sua cintura e che non avevo ancora avuto
occasione di esaminare da vicino, dopodiché mi fece segno di
uscire dalle coperte e recuperare il mio.
«Il primo che devi togliere è il mirino»
le spiegai, mostrandole il procedimento sul mio stesso CFE. Il
procedimento di base mi era stato spiegato dai miei compagni su Fest,
ma avevo imparato da tempo a fare le cose a modo mio per accorciare i
tempi. «Molti staccano prima l’accoppiatore rotante
per togliere peso, ma fossi in te non lo farei». Le indicai
la parte centrale del blaster. Lei mi seguiva con attenzione.
«Vedi quello? È l’alimentatore al
plasma, di solito è il primo che butto, perché la
maggior parte delle volte è quello che muore per primo. Te
ne tieni uno nella giacca e lo cambi al volo, così. Il tuo
blaster è da distanza breve, quindi lascerei perdere il
mirino, carica solo la mano. Oh, e quando lo rimonti, ricordati della
sicura».
Mariceli eseguiva i miei ordini in attento silenzio, muovendo piano le
mani sulla sua arma e maneggiandola con estrema cautela.
Impiegò minuti interi per un’operazione che io
svolgevo con la stessa naturalezza di un respiro, ma non mi azzardai a
correggerla. Dopotutto, con me lei era stata sempre paziente e
accomodante.
Quando ebbe finito, rimase a osservare la sua opera con aria indecisa.
«Va bene, ci sto» sussurrò, alzando gli
occhi su di me e porgendomi il blaster goffamente rimontato.
«Domani finiamo con questo posto, poi avvertiamo Tylan e
facciamo rotta su Kessel».
È difficile ricordarla senza lo sguardo deciso con cui mi
osservò quella notte. La determinazione di cui ardeva la
illuminava.
Lo so, lo so, lo so.
Ci ho messo un sacco. Potete uccidermi, avete il permesso. Quello che
è successo è che mi hanno riempita di
lavoro fino
alle punte dei capelli ho deciso di punto in bianco di
cambiare un paio
di cose e insomma, mi sono persa per strada. Però si tratta
di una parentesi che si apre e chiude qui, con qualche ripercussione
nel capitolo finale che a questo punto dovrò modificare *sob
sob*
E nulla, si chiudono porte, si aprono portoni. Problemi si risolvono,
problemi sorgono.
Ormai ne sono certa, per cui lo annuncio: i prossimi cinque capitoli
saranno gli ultimi, la storia è stata già scritta
per cui ... non so, tra poco sarete liberi (?). Intanto potete subirvi
godervi un po' di salti nel passato, un po' di rivelazioni, un po' di
tutto insomma, anche se questo giro non ci sono state crani spezzati.
Recupererò.
AH! Prima di eclissarmi e tornare nell'antro oscuro ... ho fatto delle
ricerche e ho scoperto che non solo il
caffè esiste ed è ampiamente diffuso
nell'universo di Star Wars (ma non avevo dubbi, chi è che
tira su una ribellione senza il caffè?), ma addirittura
l'Imperatore Palpatine ne possiede una piantagione privata! Insomma,
mille motivi per appoggiare l'Impero e le sue piantagioni di caffeina.
*wink*
Ho finito davvero.
Come sempre, ringrazio i lettori (silenziosi e non), gli affezionati e
quelli che invece passano di qui per caso. Mi dispiace per voi.
Polli che guidano,
Lechat vert
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Capitolo 11 *** parte undicesima – game show ***
saboteur
«Generale
Draven».
«Orin Halos».
«Ho guardato nella scheda che mi ha dato. Credo la dovrebbe
riavere».
«Ma il Capitano Andor la lasciò a lei».
«Sì, per raccontarmi come andarono le cose con mio
padre e mia madre».
«Sono confuso».
«Bé, non la mia madre-madre, la seconda moglie di
mio
padre. Si prendeva cura di noi. Quando scomparve ero un ragazzino, mi
dissero che quel genere di cose capitavano spesso a chi ficcava il naso
nelle faccende imperiali».
«E che motivo aveva il Capitano Andor di raccontarle qualcosa
sulla sua matrigna? Erano passati dieci anni da quando vi eravate visti
l’ultima volta, no?»
«Sì, bé, non credo serva una buona
ragione per
ricordare qualcuno. Mi hanno detto che era diventato un uomo abbastanza
tormentato; avrà voluto liberarsi di qualche peso per
ricominciare da capo».
«Questo non spiega ancora perché vuole che sia io
ad avere la scheda madre».
«Perché Cassian Andor non ha messo queste
informazioni su una memoria a caso. A modo suo, ha saputo far
sopravvivere la sua squadra».
«Vuole dire …?»
«La scheda, sì. L’avevo montata su un
droide
protocollare a caso, ma ha iniziato subito a mettere le cose in
chiaro».
«E allora?»
«Dopo che mi ha raccontato la verità, sono stato
io a
dovergli dire come sono andate le cose dal momento in cui il Capitano
Andor fece il backup della scheda».
«Gli mancava il pezzo finale. Scarif. Quando morirono
tutti».
«Già, e quando gli ho riferito come sono andate le
cose lo sa che cosa mi ha chiesto?»
«Cosa le ha chiesto?»
«Di rimuoverlo e non attivarlo mai più. Senza
Andor, non aveva più senso restare».
Quella mattina, mi svegliai con in bocca il sapore asciutto della carne
che avevo mangiato la sera prima.
Mariceli era rannicchiata sul sedile di pilotaggio, gli occhi stanchi
proiettati verso il nulla che albeggiava, le labbra sottili schiuse in
un’espressione vuota. Sorseggiava del vino bollente avvolta
in
una coperta per tenersi al caldo. Aveva le cuffie calcate sulle
orecchie, la musica alta che ascoltava quando pensava, e quando la vidi
non potei fare a meno di chiedermi se non fosse a me, che stesse
pensando con così tanta intensità da corrugare la
fronte
dinanzi al niente.
Non lo seppi mai.
Come mi sedetti accanto a lei, si sfilò le cuffie dal capo e
mi scoccò un’occhiata incerta.
«Va tutto bene?» le chiesi, sprofondando nel sedile
del copilota.
Annuì. «Aspettavo l’alba»
rispose.
Abbassò il capo e tutti i capelli la seguirono in un
movimento
fluido che le coprì il viso. «Ma mi sa che oggi ci
conviene andare prima; siamo indietro con le diagnostiche».
Per l’ultima volta, nel cortile della sede centrale del Campo
di
Lavoro di Wobani, Mariceli e io diventammo rispettivamente Hora e
Joreth Sward.
Già di prima mattina, fummo raggiunti al magazzino da un
paio
dei colleghi con cui ci eravamo intrattenuti il primo giorno di lavoro
e, tra un rimprovero e l’altro per non esserci fatti vedere
la
sera prima, ricevemmo alcune informazioni che spazzarono via quel vago
senso d’inquietudine che le mattinate gelide come quella
mettono
addosso.
«Hanno scoperto che c’era una talpa tra gli
ufficiali» ci confidò uno dei tecnici informatici,
scuotendo il capo con desolazione. «Ieri è sparito
un
sottufficiale. Kardal, non so se l’avete mai sentito
nominare.
Mentre mi facevano indagare sul suo conto, ho scoperto che ha passato
tutto il pomeriggio a ficcanasare tra i file dei detenuti. Ve lo dico
io: quello là era una spia di chissà chi che
adesso se
l’è data a gambe dopo aver trovato quello che gli
serviva.
La sicurezza qui fa schifo».
Seppur continuando a lavorare, io e Mariceli ci scambiammo
un’occhiata d’intesa.
«In effetti era parecchio strano, quel Kardal»
buttai
lì, sbirciando all’interno del corpo aperto
dell’astrodroide di cui ci stavamo occupando. «Te
lo
ricordi, Hora? Continuava a blaterare di quei tali … come si
chiamavano? Darsten, Corrino, Worti … una cosa del
genere».
Darsten, Corrino, Wortin, Sprax, Amavia. Sognai quei nomi per anni e
ancora oggi non fatico di certo a ricordarli. Ironicamente, di Wobani
mi sono rimasti impressi nella testa più i morti dei vivi.
Mariceli mi resse il gioco con una maestria che le ho invidiato per
tutta la vita. «Ah, già» rispose,
facendo spallucce.
Portava ancora gli occhiali dalle lenti scure sul capo, e se li
abbassò sul viso per ammiccare un poco e strappare una
risatina
al nostro collega mentre si apprestava a recuperare un paio di cavi da
saldare. «Tra una lamentela e l’altra al reparto
informatico, diceva anche qualcosa del genere».
«Stronzate» sbottò il nostro amico, a
dir poco
indignato. «Siamo stati noi del tecnico a mettere a posto
quei
file. Era tutto caricato in rete, e proprio Kardal ci fece togliere
praticamente qualsiasi dettaglio dai file informatici per archiviare
tutto con gli effetti personali nel vecchio magazzino del Settore 2.
Ordini dall’alto, ci disse. Sicuro lo avrà fatto
per
approfittarsene».
Mariceli smise di lavorare per un istante, arricciando il naso in una
smorfia compiaciuta che però non andò
più in
là della sciarpa rossa che portava stretta al collo.
«È sempre la stessa storia» riprese il
nostro amico,
e stavolta voltò i tacchi per lasciarci lavorare in pace.
«Quaggiù si infiltra qualcuno, e sono costretti a
muovere
tutte quelle persone da qualche altra parte prima che qualcuno le
trovi».
Improvvisamente, senza che dovessimo neanche faticare a comprenderlo,
ci fu chiaro perché gli Scomparsi erano stati trasferiti da
Rasp
a Wobani e poi da Wobani a Kessel.
Qualcuno li stava cercando, e quel qualcuno non eravamo soltanto noi.
*
«Sei sicura?»
«A-ah».
«Davvero?»
«Sì».
«Azzardarsi a fare una mossa simile – solo
perché te lo ha detto Cassian, tra l’altro
– abbassa di molto le nostre possibilità di
riuscita, spero tu te ne renda conto. Tylan non sarebbe
d’accordo».
«Kappa, dacci un taglio».
«Aspetta, io credo che Kappa abbia ragione».
«Ti ci metti pure tu?»
«Ho un pessimo presentimento».
«Kappa!»
Mariceli aveva un blaster appeso alla cintura e la sciarpa rossa del
Capitano Halos legata intorno al braccio. Pur mantenendo una certa
eleganza nei movimenti, senza il suo bastone trascinava un
po’ la gamba malata, costringendoci a procedere con
un’andatura più lenta di quella che io e Kappa
avremmo sostenuto.
Aveva sospirato di dolore per un’ora intera, chiusa nel
magazzino, ma era riuscita a stringere talmente tanto lo stivale
attorno al piede da farlo sembrare quasi del tutto dritto. Dentro ci
aveva messo anche un cacciavite per tenerlo in posa e almeno cinque
fascette da cavi per fissarlo alla caviglia, ma era un dettaglio di cui
soltanto io ero a conoscenza. Dall’esterno, la differenza con
la gamba sana era impercettibile.
Su Rasp non ero riuscito ad accorgermene per via del trambusto; ora che
la vedevo sotto le luci elettriche del corridoio, però, non
potevo sfuggirle: Mariceli Solpea in uniforme imperiale incuteva molto
più timore di un assaltatore. Con i capelli raccolti sotto
al berretto e il viso pulito dalla polvere del magazzino, pareva
sì incredibilmente più giovane, ma
l’espressione che aveva da quando si era messa quella divisa
era dura, risentita.
Era diventata un’altra persona.
«Ingegnere informatico Lethro Duine, numero identificativo
quarantadue-quarantaquattro-sedicizeronove»
esordì, fermandosi dinanzi all’uomo di guardia
alla porta d’accesso al Settore 2.
Io, che tecnicamente ero ancora Joreth Sward, mi misi ben composto
accanto a lei senza osare respirare. Alla mia sinistra, Kappa ronzava
calcolando chissà quali pensieri.
L’uomo alla guardiola assottigliò lo sguardo sul
gruppo che gli si era appena presentato davanti. Un ingegnere, un
tecnico informatico e un droide di sicurezza. Chissà cosa
pensava di noi. «4244 non era il prefisso di Rasp?»
chiese, battendo le dita sulla tastiera del suo computer.
Mariceli annuì. «Sono stata su Rasp fino alla
settimana scorsa. L’identificativo nuovo deve ancora
arrivare».
«Infatti non è nei sistemi».
«Ovvio che non è nei sistemi»
sbottò Kappa, muovendosi lentamente. «Ti ha detto
che non ha ancora l’identificativo nuovo».
Mariceli alzò le spalle. «Lo hai
sentito» rispose, sospirando rumorosamente così da
far sentire bene la sua esasperazione. «Me lo hanno rifilato
perché dicono che quelli di Rasp lavorano poco. Per favore,
fammi passare così la smette di rompere. Il ragazzo, qui,
lavora con me nel Settore 5. I suoi documenti dovrebbero essere in
regola».
Riuscimmo a convincerlo.
Come previsto dal nostro precario piano – prodotto
all’ultimo minuto tra un droide in diagnostica e
l’altro – il Settore 2 del Centro di Detenzione di
Wobani non era altro che un unico, enorme archivio fisico. È
probabile che, dalla nostra prima visita, tutto sia stato
rivoluzionato: all’epoca si trattava di scaffali e scaffali
di contenitori recanti ciascuno il numero identificativo di un
prigioniero, colonne intere di ricordi catalogati con minuzia che si
perdevano negli altissimi soffitti di tre enormi saloni. Angosciante.
Ricordo che, mentre io procedevo nel vuoto delle mie considerazioni,
Mariceli osservava quelle scatole con lo stesso sguardo che aveva
rivolto a suo marito durante la loro litigata a bordo
dell’Andor. Per un istante, fu come se le volesse prendere a
pedate una per una, decisa a scoprire cosa contenesse ciascuna di loro
per farsi raccontare ogni più piccolo segreto.
«Kappa, al computer» ordinò, tenendo il
naso puntato verso l’alto come se avesse già
trovato il suo obiettivo tra le migliaia di contenitori che ci
osservavano in silenzio. «Darsten, Corrino, Wortin, Sprax,
Amavia. Per cominciare». Buttò a terra lo zaino
che si era portata dietro e si mise con tranquillità a
montare il fucile nella maniera che le avevo insegnato la notte prima.
«Che fai?!» esclamai, strabuzzando gli occhi. Mi
guardai intorno, spaventatissimo, incapace di tranquillizzarmi anche
quando realizzai che eravamo soli.
Lei si tolse il berretto, lo lanciò via con fare sprezzante,
e nel mentre mi scoccò un’occhiata severa.
«Cosa pensi che succederà quando quel tizio
chiamerà l’ufficio e scoprirà che
Lethro Duine ha dirottato un guscio di salvataggio e ucciso un
assaltatore?» chiese, retorica. «Il Sottufficiale
ci ha messo mezza giornata per smascherarci. Direi che questo giro
abbiamo un quarto d’ora al massimo».
«Lo sai» fece Kappa, obbediente come sempre anche
se non meno polemico. «Sono davvero curioso di sapere come
progetti di uscire da qui».
«Ci inventeremo qualcosa».
«Detesto ripetermi, ma trovo che …»
Mi intromisi con uno sbuffo. «Lasciala stare,
Kappa» commentai, alzando le spalle. Mollai il mio zaino a
terra mi agganciai il blaster alla cintura. «Pensiamo a fare
veloci e a trovare un’uscita prima che quegli altri trovino
noi».
Mariceli annuì. «Mi sembra un buon
piano».
C’era un gancio automatico che si occupava di andare a
recuperare i contenitori più distanti, mentre per quelli ad
altezza uomo era stato costruito un corrimano al quale ci si poteva
appoggiare. Decisi di cominciare a sfogliare qualche documento
accessibile senza bisogno di Kappa, tanto per tenermi lontano dagli
altri miei due compagni che intanto avevano ricominciato a battibeccare.
Ebbi una fortuna quasi sfacciata: dopo soltanto una ventina di
nominativi, capitai davanti al contenitore di un certo Eboi Sprax.
«Darsten, Corrino, Wortin, Sprax,
Amavia» ripetei, quasi ipnotizzato, mentre estraevo la
scatola dalla sua colonna. «Ho trovato Sprax!»
Accanto a Kappa, Mariceli stava agitando in aria un fascicolo.
«Io ho Corrino. Vediamo cosa ci hanno lasciato».
La scatola era piena delle cose che un uomo ha addosso quando
l’Impero lo cattura. Indumenti sporchi di terra, un berretto
di lana, il mazzo di chiavi della casa a cui non aveva mai fatto
ritorno … mi chiesi se anche nella scatola di mio padre ci
fossero oggetti simili. Per quanto mi sforzavo, non riuscivo a
ricordare cos’aveva con sé il giorno in cui
scomparve.
A fatica ingoiai un nodo di lacrime e mi costrinsi ad andare avanti.
Sotto alla camicia logora di Sprax, trovai un taccuino.
«Strano» mormorai, sfogliandolo.
«Mariceli, guarda: c’è lo stesso numero
ripetuto su ogni pagina». Era una sequenza a sei cifre
seguita dalla lettera A rovesciata, una specie di intestazione lasciata
sul margine. «Dici che può voler dire
qualcosa?»
Lei corrugò la fronte. «Aspetta,
aspetta» rispose, aprendo il fascicolo che aveva appena
richiuso. «Guarda qui». Mi allungò
l’immagine di un cadavere disteso su quello che pareva essere
un tavolo autoptico.
Istintivamente, mi ritrassi. In mente mi era tornata la faccia
distrutta di Kardal; nelle narici, invece, era tornato
l’odore ferroso del sangue che insudiciava il muro e le mani
di Kappa. Ancora oggi trovo strano come la vista di
quell’uomo appena ucciso non mi scosse mai così
tanto come il suo stesso ricordo.
«La clavicola» sbottò Mariceli.
«Guarda la
clavicola».
Dovetti costringermi, ma il ribrezzo lasciò immediatamente
il posto allo stupore. Lungo la spalla, allineati verso l'interno del
petto, erano stati tatuati dei numeri seguiti dallo stesso simbolo del
taccuino.
«Sei cifre» sussurrai, illuminandomi.
«L’identificativo di un corpo?»
«No, direi che questo qui Corrino se l’è
fatto da solo. Guarda come è incerto il tratto».
Ci voltammo verso Kappa e recuperammo la terza scatola appena posata a
pochi passi da noi dal braccio meccanico.
«Amavia» annunciò Mariceli. Dalla foga,
per poco non strappò il coperchio.
Stavolta, le cifre erano state incise sulla protesi meccanica di un
anulare. Sei piccoli numeri sempre diversi e quel segno alla fine.
«È un codice» dissi, affascinato.
«Ma come hanno fatto gli imperiali a non
accorgersene?»
Mariceli ripose la protesi nel suo contenitore. «Oh, se ne
sono accorti eccome» rispose. «Ma non è
un codice. È un messaggio». Si portò
entrambe le mani al viso, stringendolo piano mentre dondolava
leggermente negli stivali alti della divisa. «Che
stupida» sussurrò. «Non sono ribelli,
sono messaggeri. E qualcuno li sta cercando. Ma per cosa?»
Già, per cosa? Quello era il pezzo mancante, la chiave senza
la quale ci era impossibile leggere l’intera opera.
Mi sforzai di pensare.
Persone diverse, provenienti da pianeti diversi e che con tutta
probabilità non avevano mai avuto alcun contatto tra loro,
portavano addosso un messaggio in codice. Codici diversi, in
realtà, il che lasciava presumere che si trattasse di
messaggi diversi. Potevamo tradurli? Il fatto che l’Impero si
fosse preso la briga di trasferire dei semplici uomini su Kessel mi
faceva credere che nemmeno i crittografi di Wobani fossero riusciti a
dare un senso a quei numeri. Però, se si davano tanta pena,
dovevano per forza avere un’idea abbastanza precisa di chi
fosse il mandante.
Mi accorsi che mancava la parte più importante.
C’era il messaggio, il mittente, il messaggero …
ma dov’era il destinatario?
«Se fossi un imperiale e intercettassi un messaggio
importante» dissi, cercando l’attenzione di
Mariceli. «Andrei a chiedere spiegazioni direttamente a chi
questo messaggio lo deve ricevere, no?»
Lei annuì. «Ha senso» rispose.
«Ma forse non conoscono la sua posizione».
«In quel caso sarebbe bastato seguire chi portava questo
codice addosso, no? Ne hanno trovati a decine» Avevo in mente
un’idea ben precisa di quello che avevamo trovato, anche se
non ero del tutto certo fosse un’intuizione legittima.
«E se non esistesse, un destinatario? O meglio, se non ne
esistesse uno nello specifico?»
«Che intendi?»
«Propaganda. Su Fest ce n’è ovunque per
convincere la gente a seguire l’Impero. Pensaci: è
evidente che abbiano un’idea più o meno precisa di
chi è il mittente, c’è il messaggero
… ma nessuno ad aspettarlo, perché non
è un messaggio per una sola persona. È un
messaggio per chiunque sia disposto a leggerlo. È per questo
che li vogliono fermare. Perché portano propaganda contro di
loro in tutta la galassia».
Mariceli sgranò gli occhi scuri. «Oh,
Cassian» sussurrò. Poi mi posò una mano
sulla spalla. «Questa propaganda deve dire qualcosa di
veramente pericoloso se si impegnano così tanto per
distruggerla».
Dallo sguardo che ci scambiammo, capii che entrambi non vedevamo
l’ora di scoprire cosa avevamo tra le mani, il che poteva
avvenire soltanto in un caso: Kessel.
Presi la fotografia del cadavere e la misi nel taccuino. Quello sarebbe
stato il nostro unico bottino. «Andiamo?» chiesi, e
Mariceli annuì.
Riprese il fucile e iniziò a smontarlo con fare leggero,
avvicinandosi alla porta a piccoli passi. «Hai visto,
Kappa?» disse, sospirando. «Facciamo in tempo ad
andarcene via tutti interi».
Come si dice? La fortuna aiuta gli audaci. Già al tempo
stentavo a crederci, ma il bello di essere ragazzi è quello
di riuscire ad avere fiducia in un disegno più grande anche
quando si sta con l’acqua alla gola.
In un certo senso, Mariceli mi insegnò che la fortuna aiuta
chi le pare e piace, indipendentemente dal coraggio che qualcuno
può mettere in ciò che fa. Lei, per esempio, di
coraggio ne ebbe sempre da vendere.
Coraggio solo secondo alcuni, certo. Kappa la chiama ancora
presunzione. Io credo che un sangue freddo del genere dovesse per forza
di cose venire da una qualche consapevolezza alla quale nessuno osa
aspirare. Era come se sapesse cosa c’è oltre al
buio, come se l’idea di morire non fosse in fin dei conti
peggiore di tante altre. Forse aveva semplicemente imparato ad
accettare che ogni cosa ha una fine.
In quel momento, però, credo fosse troppo impegnata ad
autocelebrarsi per tenerne conto.
Con l’ultimo pezzo del suo fucile ancora in mano e con un
sorriso a dir poco compiaciuto stampato sul viso, premette il tasto
d’apertura della porta. Non credo si aspettasse davvero di tornare
fino allo speeder senza problemi, tuttavia ritrovarsi di colpo senza i
comandi dell’uscio dovette coglierla parecchio di sorpresa,
poiché prima di attaccarsi all’interfono la vidi
arretrare con un balzo spaventato. La porta non si apriva.
«Problemi nel Settore 2» sospirò,
scoccandomi un’occhiata nervosa mentre parlava a chiunque
fosse in ascolto dall’altra parte. «Siamo rimasti
chiusi dentro, l’interfaccia non risponde ai
comandi».
La voce che ci rispose fu quella dello stesso uomo in divisa che ci
aveva garantito l’accesso. Nel momento in cui lo realizzai,
capii di essere finito in trappola.
«Ho controllato» blaterava intanto la guardia.
«Pare che Lethro Duine abbia fatto un po’ di danni
al centro di Rasp, prima di andarsene. Ho avvertito la
sicurezza».
Scoccai a Kappa un’occhiata preoccupata, lui rispose
scuotendo il capo. “Io lo avevo detto” mi disse il
suo sguardo, e per la seconda volta da quando eravamo arrivati
là quella mattina mi ritrovai ad appoggiarlo.
Mariceli sospirò rumorosamente.
«Ti sei fatta beccare due giorni su due»
le fece prontamente presente Kappa. «Le
possibilità che tutta questa storia vada
…»
Lei lo interruppe con un gesto secco della mano. « Ventinove percento»
sibilò.
«Non sarei così drastico, questo posto ha degli
ottimi condotti di aerazione che sono troppo diramati per essere tenuti
sotto controllo».
Io e Mariceli ci guardammo con fare titubante. Nessuno di noi pareva
molto attratto dall’idea, ma contro la morte
c’è poco da fare gli schizzinosi.
A convincerci del tutto, fu il vociare dei soldati dall’altra
parte della porta.
«Fossi in voi me ne andrei» ci avvertì
Kappa.
Staccai il blaster dalla cintura e lo portai all’altezza del
viso, pronto a prendere la mira. Mariceli si infilò la canna
del fucile nella cintura e impugnò l’arma che
portava legata in vita.
«Kappa, copertura. Cassian, tu apri la strada, io ti faccio
da spalla. Al mio tre».
Sentii con una chiarezza fin troppo lucida il guizzare dei circuiti
della porta, la quale si aprì poco dopo quasi a
rallentatore, permettendomi di studiare le dieci figure bianche che si
riversarono all’interno degli archivi.
«Kappa, quando hai tempo!» sbottò
Mariceli, ordinandomi nello stesso momento di retrocedere con un secco
gesto del braccio. Si buttò dietro il tavolo dei comandi del
braccio meccanico e iniziò a sparare con talmente tanta foga
che dubito avesse un obiettivo preciso. «Forza!»
Trovarmi nel bel mezzo di una sparatoria mi ricordò le luci
di Fest. Il fischiante rumore dei colpi al plasma mi saettava intorno
come tante urla soffuse nell’aria, mentre quanto
più velocemente possibile retrocedevo rispondendo ai colpi
tra un passo e l’altro.
In fondo alla stanza c’era la grata dei condotti di
aerazione, un angusto passaggio rettangolare che affogava nel buio. La
feci saltare con un colpo di blaster e mi ci infilai dentro quasi di
peso, utilizzando il muro stesso come protezione. Poi liberai Mariceli
dell’impiccio di due assaltatori che le stavano rendendo
impossibile la fuga.
«Via libera!» gridai, preparandomi a farle posto.
Con le mani tastai il ferro gelido che mi circondava. I condotti
andavano avanti per un paio di braccia al massimo; dall’aria
fredda che mi investì, immaginai che da qualche parte
davanti a me ci fosse una voragine.
Mariceli mi spostò con una manata in faccia, buttandomi in
avanti a prendendo la mia stessa posizione sul bordo.
«Kappa!» gridò, sparando a un bersaglio
che non vidi. Poi si voltò verso di me e mi
strappò il blaster di mano. «Dammi questo
coso!»
Mi riaffacciai al buco, controllando quello che ormai era diventato un
vero e proprio campo di battaglia.
Erano rimasti soltanto tre assaltatori, ma quanto sarebbe
passato prima della seconda ondata? Magari sarebbe stata ancora
più numerosa.
Intanto, Kappa teneva duro mentre i colpi di blaster che riceveva
rendevano i suoi movimenti sempre più scattanti.
Guardai Mariceli e le vidi il fuoco negli occhi.
«Posso prenderli» mi offrii, protendendomi
sfacciatamente verso di lei con la mano aperta a reclamare il mio
blaster.
«No, ormai è andato. Non potrebbe comunque
scendere quaggiù, è troppo grosso. Maledetto
Tylan che deve sempre esagerare anche con i droidi».
«Ma … conosce la rotta!» protestai.
«Se lo prendono, Fest …» Istintivamente,
il mio pensiero andò alla famiglia del Capitano Halos.
«Mariceli, ridammi il blaster!» urlai.
Lei mi scoccò un’occhiata impregnata di una calma
che mi fece raggelare il sangue nelle vene. « Lo so»
rispose, abbassando di colpo la voce. Mi allontanò con uno
spintone che mi fece cadere di schiena sul ferro, poi si
appoggiò all’apertura per prendere la mira.
Non provai più nemmeno a oppormi.
«In gamba, Andor Tre».
Aprì il fuoco.
Attraverso le grate che mi ritrovai di fronte, vidi Kappa morire per la
prima volta.
Buongiorno a tutti! Come va?
Credo che questo sia uno dei capitoli più lunghi che ho
fatto fino ad ora ... *piena fase di negazione per quello che ha scritto
poco sopra*.
Insomma niente ho trovato queste immagini davvero carinissimeh uno due :D
Nulla, non so davvero come scusarmi. Non lo so e basta.
Fruste e schiaffi gratis sono disponibili sulla destra, veramente mi
rimetto a voi per la mia punizione.
Uhm, nel prossimo capitolo torna una vecchia conoscenza :D *ci mette le
pezze*
Paperelle (le avevo già messe?
Sono così dolci<3),
Lechat vert
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Capitolo 12 *** parte dodicesima – bugs ***
saboteur
«Ehi, muso lungo.
Ripensamenti? Ormai siamo quasi fuori dall’iperguida,
è un po’ tardi per farsi prendere dal
panico».
«…»
«Cassian?»
«Jyn. Scusa, mi ero distratto».
«Che stai guardando?»
«Quel tizio laggiù con la stampella. Vicino a
Calfor».
«Ci ho parlato prima, pare uno a posto. Quindi?»
«No, niente. È solo che ha un che di
familiare».
«Probabilmente perché avete avuto degli
screzi».
«Come?»
«Parole sue».
«Ti ha detto il nome?»
«Uhm, ha detto di chiamarsi Sward».
«…»
«Cassian?»
«…»
«Cassian, stiamo uscendo dall’iperguida.
È ora».
«Sì … arrivo».
Calò una notte in cui morirono molte persone.
Hora e Joreth Sward per primi, dimenticati da chiunque dopo che si
scoprirono essere identità fittizie. Morì anche
l’Ingegnere Lethro Duine. Morì Willix.
Morì Kappa. In qualche strana maniera, morimmo anche io e
Mariceli.
Fu come se tutta la sicurezza che avevo guadagnato in quei giorni fosse
stata gettata alle fiamme. Mi sentivo di nuovo solo, infreddolito.
Abbandonato.
Mariceli era talmente presa a salvare la pelle a entrambi che di colpo
era come se non esistessi.
Mai come in quel momento sarei voluto tornare su Fest, sopportare di
buon grado il gelo e fingere che niente di tutto quello fosse mai
accaduto. Continuare a credere che mio padre fosse vivo da qualche
parte, un prigioniero che un giorno potevo sperare di liberare.
Invece non avevo più niente.
Trascorremmo la sera nascosti come bestie, strisciando quanto
più silenziosi possibile da un condotto di aerazione
all’altro, l’orecchio sempre teso per cercare di
capire quale fosse la situazione sul fronte nemico.
Kappa aveva ragione: la rete dei condotti era troppo estesa per essere
controllata, e d’altronde tracciare un nostro papabile
percorso era a dir poco impossibile. Così, anche se
impiegammo un po’ ad accorgercene, decisero di eliminarci
alla stessa maniera dei parassiti.
Cominciò tutto dalla paura.
Realizzai all’improvviso, mentre a carponi procedevo
nell’oscurità, che non avevo alcuna garanzia di
uscirne vivo. Nessuno mi aveva mai assicurato la salvezza ed ero stato
io stesso a liquidare ogni dubbio con l’enorme fiducia che
nutrivo nei confronti nell’Andor, per altro infondata visto
che a stento ne conoscevo l’equipaggio. Era stato un salto
nel vuoto, e stavo per cadere.
Di colpo, la prospettiva di morire mi martellò nel petto
assieme al mio cuore impazzito, obbligandomi a fermarmi nel mezzo di un
condotto con la testa che girava e i polmoni che non riuscivano
più a darmi abbastanza aria per permettermi di restare
lucido.
Cominciai a iperventilare e, nella foga di cercare aria, mi portai
istintivamente le mani al collo affondando le dita nella pelle tesa.
Mariceli fu tempestiva. Raggiungendomi, mi circondò il capo
con il braccio, quasi obbligandomi a restare fermo. «Che
succede?» sussurrò, stringendosi piano a me. Era
fredda come il ghiaccio; istintivamente pensai che fosse già
morta.
«È un attacco di panico» mi sforzai di
rispondere, deglutendo a fatica mentre sentivo il torace contrarsi con
forza ai tentativi del fiato di fuoriuscire e costringermi a tossire.
Improvvisamente, mi appiattii al suolo con addosso la sensazione di
stare precipitando. «A volte ne ho. Sto bene. Non
fermiamoci».
Non era un attacco di panico, lo sapevo fin dall’inizio. Gli
attacchi di panico non mi avevano mai portato le vertigini, ma sul
momento diedi la colpa alla situazione ben più tragica di
quelle che mi ero ritrovato ad affrontare prima di allora.
Non avevo ancora idea della freddezza che l’Impero mette
nell’eliminare i problemi.
Mariceli cominciò ad accusare i primi sintomi non appena
sbucammo in un canale verticale simile a quello che avevamo usato per
lasciare il Settore 2, una specie di colonna di ferro che saliva fino
al tetto per permettere al reparto tecnico di occuparsi dei guasti.
Eravamo aggrappati alla scaletta per la manutenzione, entrambi
così deboli che guardandomi indietro mi chiedo come facemmo
a non renderci immediatamente conto di ciò che ci stava
succedendo.
Già da una manciata di minuti sentivo la voce di mio padre,
continuamente sovrapposta a quella del Sottufficiale Kardal, di Kappa,
di Tivik. Come se tutta quella storia fosse diventata
un’unica, grande pena da sopportare.
«Non ce la faccio» sussurrai, a un passo dal
mollare la presa sulla scaletta e lasciarmi cadere nel vuoto. Non
riuscivo più quasi a distinguere dove finissero le mie mani
e dove cominciasse il ferro.
Abbassando lo sguardo più per stanchezza che per
preoccupazione, notai che anche Mariceli procedeva alla cieca. Pallida
come un morto e madida di sudore, sembrava sul punto di mollare quasi
più di me.
Ci fermammo su una piattaforma fatta di quadri elettrici, lasciando
andare la scala con così tanta spinta che per poco non
cademmo entrambi di sotto.
«Saliamo in alto» sussurrò Mariceli,
tirandosi in piedi fino all’unica interfaccia digitale sopra
ai cavi a vista. Provò a digitare qualche cifra sullo
schermo, ma il tentativo non sembrò dare risultati.
«Cassian» sussurrò allora, chinandosi in
avanti e sputando un grumo di sangue. «Va’ in alto;
ci stanno avvelenando».
Formonitrile.
Lo scoprii anni dopo, quando con Kappa feci saltare i magazzini di un
centro agricolo imperiale. Su Wobani, combattevano gli infiltrati
facendo passare nelle condutture del gas antiparassitario. Inodore,
poco costoso, basato sulla stessa formula delle pillole che oggigiorno
l’Alleanza Ribelle fornisce ai suoi agenti sotto copertura
per prevenire le torture con il suicidio. Immagino che se in
quell’occasione riuscimmo a farla franca fu meramente per la
mia prontezza di spirito.
Con la mente annebbiata dal veleno, mi chiesi se saremmo morti
lì, ingabbiati in un tubo di ferro pieno di gas, senza che
nessuno si preoccupasse di venire a recuperare i nostri corpi.
L’idea del mio cadavere marcio e sciolto dal tempo mi
provocò un conato di vomito che soffocai a fatica.
“Dobbiamo uscire da qui” pensai, trovando nella mia
sola ostinazione l’energia per non lasciarmi andare.
Imparai in quel momento che non è immaginare di morire, a
motivare gli uomini. È immaginarsi morti.
Con intraprendenza, strappai una manica della divisa e me la arrotolai
intorno al viso, stretta abbastanza da rendermi difficile persino
parlare. Mariceli fece lo stesso con la sua sciarpa.
«Vedi di starmi dietro» mi raccomandai.
L’idea di lasciarla là non mi sfiorò
nemmeno per errore.
Talvolta mi chiedo cosa sia cambiato da allora, cosa mi abbia portato
dall’idealismo dell’eroe alla freddezza di un
soldato. Si cresce, si cambia, si vedono gli amici morire nella stessa
maniera dei nemici. Mentirei se negassi di aver passato momenti in cui
vita e morte si sono sovrapposti così sinuosamente da
sembrarmi indistinguibili. Ciò che vedevo a sedici anni
è molto diverso da ciò che vedo a ventisei.
Ad ogni modo.
Ritrovando quell’ultimo barlume di energia che ancora
possedevamo, riuscimmo in qualche modo a trascinarsi fino al livello
superiore.
Sfondai una botola appena fummo nel Settore 8 e sbucai con Mariceli
all’interno di uno spogliatoio. Assieme bloccammo la grata
con degli asciugamani, dopodiché la fissammo di nuovo,
piazzandoci davanti un armadio pesante abbastanza da premerla contro la
parete. Pregammo affinché quella riparazione improvvisata
bastasse per non intossicare tutto il corridoio; non avevamo veramente
la forza di fare di più.
Passammo un tempo indefinito a crogiolarci nella frescura di
un’aria che ci sembrava finalmente pulita e fresca, tossendo
e sputando di tanto in tanto nodi di saliva insanguinata. Difficilmente
mi sono trovato ad apprezzare una superficie orizzontale come feci in
quel momento ma, nonostante tutto, sapevo che quella sensazione
improvvisa di pace non sarebbe durata che il tempo di riprenderci.
Imploravo il mio stesso corpo di alzarsi, quando Mariceli
trovò non so dove la forza di alzare il braccio e stringermi
la mano.
«Non è tutti i giorni così»
mi assicurò. Anche con la bocca sporca di sangue sapeva
sempre trovare qualcosa di incoraggiante da dire.
Di mio, non riuscii a fare altro che ad annuire.
«Sì, lo immaginavo».
Dopodiché, credo, perdemmo i sensi entrambi e ci concedemmo
finalmente un po’ di riposo.
Non so se fu il gas, la congestione, la paura, oppure un tentativo
disperato della mia mente di tirarmi fuori dai guai, ma sognai di avere
dei figli. Sei, tutti diversi, alcuni persino più vecchi di
me. Mi correvano incontro, tirandomi per le maniche della giacca,
ricombinandosi sempre in linee diverse, in disegni fatti di persone in
cui anche io ero coinvolto. Solo che ogni volta i miei figli cambiavano
e io restavo lo stesso.
Di colpo, seppur sognando, realizzai di aver afferrato la soluzione.
Aprii gli occhi lentamente, destato dall’improvvisa
realizzazione di essere rimasto in bella vista in uno spogliatoio
imperiale quando probabilmente mezzo pianeta ci stava dando la caccia.
A pochi passi da me, seduta per terra con una bottiglia in mano,
Mariceli mi rivolse un sorriso caldo. «Vuoi acqua?»
mi chiese. Aveva un panno avvolto attorno al capo che gocciolava sul
pavimento. «Di là c’è un
lavandino».
Il fatto che avesse trovato da bere mi sembrò la notizia
migliore degli ultimi due giorni.
Mi avvicinai cautamente, ben lontano dal provare ad alzarmi in piedi, e
appoggiai la schiena al muro. Mi girava ancora la testa.
Mariceli versò dell’acqua su un asciugamano e me
lo avvolse attorno al capo per far passare lo stordimento del gas.
«Ho capito» sussurrai, tirandola per la manica
della divisa e costringendola a guardarmi mentre tiravo fuori il
taccuino. «I messaggi. Sono coordinate radio»
spiegai. «Guarda questi numeri, pensali come delle persone in
fila che si muovono. Ogni volta che cambiano posizione la sequenza
cambia, ma il contenuto rimane sempre lo stesso».
Lei corrugò la fronte. Lentamente, si passò la
lingua sulle labbra. Poi affondò il viso nella manica della
giacca e sputò del sangue. «Sono i risultati di un
algoritmo» mormorò, affaticata. «Per
calcolare delle coordinate che cambiano in base al luogo da cui ci si
vuole connettere. Il
messaggio è uno solo».
«Esatto, ed ecco perché l’Impero non lo
riesce a decifrare: non c’è proprio niente da
decifrare. Basta connettersi alle coordinate giuste e il messaggio
è accessibile a chiunque».
«Allora perché tutta questa segretezza?»
«Deve esserci qualcosa che non capiscono sull’unica
cosa che non cambia mai: la A rovesciata».
Mariceli mi osservò tutto il tempo, attenta alla mia
spiegazione quasi pendesse dalle mie labbra. Alla fine, alzò
la mano e me la poggiò sul capo, scompigliandomi
giocosamente i capelli in un gesto debole ma colmo d’affetto.
«Lo vedi che avevo ragione?» sbuffò, e
mi sorrise. «Sei proprio un ragazzo sveglio. Dovrebbero
metterti nell’intelligence. Ci sai fare».
Alzai le spalle. La verità era che esprimere due soli
concetti mi aveva fatto tornare le vertigini, se mai se
n’erano andate.
Ci riappisolammo entrambi dopo aver collocato una fila di armadietti di
ferro lontani abbastanza al muro per farci un po’ di spazio
dietro di essi. Se qualcuno fosse entrato per un’occhiata
veloce, pensavamo, non avrebbe notato la differenza.
Non avevamo idea se fosse notte o giorno, se qualcuno là
fuori ci stesse ancora cercando, se l’allarme fuggitivi fosse
cessato. Continuavamo a svegliarci e a riaddormentarci mentre, tutto
intorno a noi e vestito di una semplicità disarmante,
c’era soltanto il silenzio.
Imparai ad avere pazienza, e Mariceli mi insegnò a far
passare il tempo senza che il tempo si prendesse gioco della mia mente
più di quanto l’essere quasi morto soffocato da un
insetticida non avesse già fatto.
Pochi ci credono, ma il lavoro di una spia consiste principalmente
nello stare seduti in una stanza vuota ad aspettare
l’occasione giusta (o che il corpo si purifichi da solo da un
tentato avvelenamento). In quei casi, è essenziale trovare
qualcosa che tenga i pensieri lontani, perché perdersi nel
vuoto è questione di pochissime distrazioni.
Ogni spia ha il suo metodo. Di mio, ho notato che quando mi ritrovo in
attesa smonto e rimonto il mio blaster, assicurandomi con una minuzia
quasi esasperante che ogni cosa sia al posto giusto.
Mariceli inventava storie.
Mi raccontò della nostra salvezza in almeno cinque modi
diversi, accarezzandomi piano il capo come su Fest faceva con Orin e
guardando il vuoto che ci circondava. Di tanto in tanto beveva
dell’acqua e si portava le mani sul viso, asciugandosi un
rivolo di sangue che le scendeva dal naso. Il mio corpo, molto meno
delicato del suo, pareva deciso a sbarazzarsi delle tossine
costringendomi a vomitare fino alla bile.
Non so quanto passò prima che entrambi ci sentissimo
vagamente liberi dai danni che quella fuga ci aveva causato. Io fui
abbastanza rapido a riprendermi; Mariceli, anche dopo ore,
continuò a faticare a respirare.
«Sull’Andor decifreremo
l’algoritmo» mi stava promettendo in quel momento,
arricciando attorno all’indice una ciocca dei miei capelli
mentre io smontavo il mio blaster. «Ti insegnerò a
usare il computer della stazione. Vedrai, è così
facile …»
Io continuavo a crederci. Anche dopo, quando ci ritrovammo a correre
coperti di sangue dai piedi fino al capo; anche quando scomparve, anche
quando mi ritrovai da solo. Ci credetti per anni. Mi piacerebbe poter
confessare di non aver mai smesso di aspettarla, ma sarebbe una bugia;
accantonarla divenne vitale nell’esatto momento in cui mi
nominarono capitano. Perché Mariceli Solpea era un fantasma,
e i capitani non vivono di fantasmi.
«Sai» mi disse, prendendo una delle mie ciocche
più lunghe e tirandola lievemente per intrecciarla ad
un’altra. «Quando andremo su Kessel, potremmo anche
fare il giro lungo per tornare. Conosci Ulmatra? Sleheyron?»
Scossi il capo.
«Pianeti pullulanti di Hutt. Molto pericolosi, non ne hai
neanche idea».
«Più pericolosi di provare a farsi uccidere qui
sotto?».
Mariceli rise. «Facciamo così»
sussurrò, passando a tormentare un’altra ciocca.
«Ti porto su Sleheyron e ti sfido a toccare un
Hutt».
«E se lo faccio?»
«Non lo farai».
«Me se lo faccio?»
«Se lo fai, ti ridò la mia fondina e
…»
Il segnale acustico delle comunicazioni interne la interruppe.
Tendemmo l’orecchio, improvvisamente ammutoliti.
Da qualche parte sul corridoio, risuonò la voce metallica di
un altoparlante.
“ Comunicazione
interna: richiesta assistenza sul mercantile Freighter numero 720 per
ispezione del carico confiscato. La squadra tecnica è
pregata di radunarsi immediatamente al ponte 25. Ripeto: la squadra
tecnica è pregata di radunarsi immediatamente al ponte 25”.
Io e Mariceli ci guardammo negli occhi.
Sentire una voce amica in un momento buio è una ventata
d’aria fresca nei polmoni, uno schiaffo in pieno viso quando
ormai si è convinti di non provare più niente.
«È …» feci io, sgomento.
Marceli annuì, incapace di trattenere un sorriso colmo di
gioia.
Non potevano poi esserci troppi mercantili Freighter numero 720,
specialmente su Wobani.
«… Tylan».
*
La via più sicura per riuscire a raggiungere il ponte 25
senza imprevisti erano i condotti, ma fu un’opzione che
entrambi decidemmo di scartare senza neanche la pena di consultarci.
Passarono anni prima che qualcuno riuscisse a farmi infilare di nuovo
volontariamente e con cognizione di causa all’interno di quei
tubi, e non ne serbo affatto un bel ricordo.
Respinti i condotti, quindi, l’unica cosa che ci
restò fu la rassegnazione di dover uscire dal nostro
nascondiglio e tornare a respirare come due impiegati imperiali
qualunque. Rubammo delle divise da inservienti dallo spogliatoio,
quindi, e ci caricammo fucile e blaster sotto alle giacche.
Piccoli quanto pugni, strisciammo letteralmente tra i corridoi deserti
dell’area dove eravamo capitati, procedendo con lentezza e
tenendo lo sguardo sempre ben fisso sui nostri stivali quelle poche
volte che incrociavamo qualcuno.
Mariceli faticava a starmi dietro. Quando aveva provato a farsi passare
da ingegnere per accedere ai dati, aveva dovuto lasciare il bastone da
passeggio tra le nostre cose al magazzino dei droidi e, evidentemente,
camminare per ore su quel piede storto stava cominciando a dolerle
parecchio. Tutta la faccenda della fuga e del gas, poi, non doveva
averle giovato affatto.
Ci fermammo un paio di volte a farle prendere fiato, ma lei per prima
era ansiosa di raggiungere il Capitano Halos e finì per
procedere spedita e zoppicante mentre a fatica tratteneva i piccoli
versi di dolore che ogni tanto le sfuggivano dalle labbra serrate.
Ci unimmo sfacciatamente a un piccolo gruppo di inservienti diretto
chissà dove, sfruttando i loro lasciapassare per superare le
guardie che controllavano le circolazioni tra un settore e
l’altro. Quando, alla fine, arrivammo fino
all’agognato ponte 25, entrambi avevamo
l’impressione di esserci fatti praticamente più o
meno tutto il centro di detenzione a piedi.
Improvvisammo l’ordine di pulire gli scafi di alcuni caccia
TIE posteggiati sul lato destro dell’hangar, spostandoci in
religioso silenzio tra la folla di assaltatori in partenza e qualche
ufficiale che controllava il traffico dall’alto.
Era la prima volta che vedevo un TIE da così vicino, e fu
più o meno l’unica in cui riuscii a toccarlo senza
farmi sparare addosso.
«Rubiamone uno» sussurrai a Mariceli, mentre con
uno straccio fingevo di impegnarmi nel ripulire i residui della polvere
di un meteorite. «Possiamo scappare».
Lei mi scoccò un’occhiata severa. «Non
essere stupido» mi rispose, scuotendo il capo. «Non
hanno né lo scudo né l’iperguida, dove
vuoi andarci?»
Restammo in attesa, anche se non avevamo idea di cosa.
L’Andor era posteggiato in fondo al ponte, un barlume di
salvezza nell’ansia che mi coglieva ogni volta che mi fermavo
abbastanza a lungo da realizzare che ci trovavamo nel bel mezzo di un
porto imperiale con la misera difesa di due blaster e un fucile a
coprirci le spalle. Mariceli lavorava in silenzio, senza darmi speranze
né brutte notizie. Di tanto in tanto, la sorprendevo a
sbirciare l’Andor, ma non c’erano movimenti degni
di nota, perciò si costringeva sempre a scuotere il capo e
tornare al lavoro.
«Che stanno facendo?» trovai il coraggio di
chiederle a un certo punto mentre, TIE dopo TIE, ci avvicinavamo sempre
più al nostro mercantile.
Lei alzò le spalle. «L’Andor
è autorizzato al trasporto di ortaggi» rispose,
sbuffando. «Immagino l’abbiano beccato a
contrabbandare qualcos’altro. Lo aveva già fatto
su Rasp per venirmi a trovare. Poi si è ricordato che i
contrabbandieri non si fanno attraccare allo stesso porto degli
ingegneri». Sospirò a fondo, buttando lo straccio
a terra. «Razza di stupido, Tylan».
Io ero dubbioso. «Ma così non si fa
arrestare?»
«Non si fa trovare a bordo. Atterra su qualche luna, poi fa
una soffiata agli imperiali. Intanto si chiude in stiva e aspetta di
essere requisito».
Pensai che non suonava come un gran piano, ma dopotutto noi eravamo
stati in grado di farci scoprire da Kardal dopo neanche dieci ore di
lavoro, per non parlare della nostra fuga disastrosa che per poco non
ci aveva uccisi, quindi forse non avevo il diritto di lamentarmi.
Fintanto che il Capitano Halos fosse stato in grado di portarci via da
lì, ero ben pronto ad accettare qualunque condizione.
Mi ero appena arrampicato fino alla cima dell’ala destra di
uno dei caccia TIE per tenere controllata la situazione
dall’alto, quando un ufficiale si avvicinò con le
braccia incrociate dietro alla schiena. Stavo ancora dando prova delle
mie limitate capacità di pulizia, il che mi teneva impegnato
abbastanza da non parlare, ma fiutai comunque guai.
«Ne arriva uno» dissi, una volta che mi fui calato
a terra con la scusa di cambiarmi i guanti.
Mariceli mi fece cenno di essersene accorta. «Faccio
io» rispose. «Tu nasconditi e preparati a
correre».
Io annuii e mi voltai a guardare il porto. Tra noi e l’Andor
c’erano sì e no trecento metri. Con un
po’ di fortuna e un po’ di confusione, sarei potuto
arrivare alla rampa d’accesso senza essere visto da nessuno
anche se, me ne rendevo conto, questo avrebbe voluto dire abbandonare
Mariceli. Se poi a bordo avessi trovato degli assaltatori, le
possibilità di riuscita si sarebbero praticamente azzerate.
No, “correre” era decisamente un piano da mettere
da parte.
Fortuna che ci bastò vedere l’ufficiale
avvicinarsi per perdere ogni timore.
«Mariceli» dissi, quando l’uomo che ci
stava raggiungendo fu abbastanza vicino da poter distinguere con
chiarezza la sua chioma rossastra. «Il Capitano Halos si
è tagliato la barba?»
«Così pare». Lei alzò le
spalle con indifferenza, ma glielo si leggeva negli occhi che faticava
a reprimere l’impulso di corrergli incontro.
In divisa da ufficiale imperiale, il Capitano Halos ci si
accostò con un sospiro, curandosi di tenere il tono quanto
più basso gli fosse possibile per non destare sospetti.
«Siete interi tutti e due, che sollievo»
commentò, rivolgendoci un sorrisetto contento.
«Sbaglio o sembrate un po’ strapazzati?»
Per non farlo andare di matto lì sul ponte, evitammo di
dirgli che avevamo rischiato di morire praticamente dal momento in cui
avevamo messo piede al centro.
«Ci siamo dati da fare» sospirò
Mariceli, tenendosi sul vago.
«Ah, lo immagino bene; parlano di voi persino nei cessi.
Coraggio; vi riporto a casa».
“Casa” non suonò come Fest,
suonò come l’Andor. Improvvisamente, ricordai il
discorso sulla navetta, e mi ritrovai a sbuffare. Avevo fatto la mia
scelta senza neanche rendermene conto.
Rivolgendomi un sorriso gentile, Mariceli mi passò un
braccio attorno alle spalle. «L’avevo detto a
Kappa» disse, improvvisamente allegra. «Che questo
qua è un ragazzo sveglio. È stato una meraviglia
di compagno».
«A proposito di Kappa». Il Capitano Halos si
guardò intorno, dubbioso. «Dove l’avete
mollato? Mi aspettavo di vederlo sbucare da qualche parte per
lamentarsi di voi due, invece non si è ancora fatto
vivo».
«Abbiamo avuto dei problemi» feci io, dispiaciuto,
anticipando Mariceli nelle scuse.
Lei parve molo meno mortificata di me, anche se non penso fosse del
tutto indifferente. «Abbiamo dovuto abbatterlo».
«Accidenti a voi, Mari. Povero Kappa!»
«Tylan, non c’era altra maniera!»
Il capitano le rivolse un sorriso che sapeva di comprensione.
«D’accordo, l’importante è che
voi due stiate bene». Mi poggiò una mano sul capo
e me lo piegò scherzosamente in avanti, impiegando un
po’ troppa forza per il mio corpo che ancora combatteva le
tossine del gas. Per poco non gli vomitai sui piedi.
«All’Andor, allora. Già che siete
conciati così, gli date una bella pulita in vista della
partenza. L’Anima dovrebbe essere qui a momenti».
Malessere a parte, mi vedevo già al sicuro a bordo della
nostra nave e, ingenuamente, non vedevo l’ora di tornare a
dormire con il rumore di Cunha che dava costante prova della sua
incapacità a muoversi silenziosamente. Quei pochi giorni di
lontananza dall’Andor mi avevano fatto sentire la mancanza di
quello che fino all’ultimo mi aveva fatto soffocare, eppure
non c’era niente che agognassi di più, niente che
oggi non scambierei con la scelta di poter continuare a sentirmi
oppresso a bordo di quel vecchio mercantile.
Se potessi tornare indietro, non esiterei un istante e li metterei
tutti in guardia: inutile tentare su Wobani, inutile darsi tanta pena.
Credo sopporterei un’esistenza intera a sentirmi strozzato se
questo potrebbe cancellare quello che seguì
l’arrivo del Capitano Halos al centro.
Erano le ultime ore di vita dell’Andor, e cominciarono
nell’esatto momento in cui Mariceli si scostò da
me per raggiungere suo marito e prenderlo per la manica della giacca.
«Aspetta, Tylan! Non possiamo ancora tornare a
casa!»
Il Capitan Halos la guardò, circospetto, arricciando appena
il naso. «Che succede, Mari?»
«Gli Scomparsi. Sono stati uccisi … ma erano
messaggeri, avevano un codice, e ce ne sono altri là fuori.
Avevo salvato i dati su Kappa per sperare di tirarne fuori qualcosa.
Sappiamo che ce ne sono ancora e che sono su Kessel. Se non prendiamo
quelle informazioni, non c’è speranza di
recuperarli».
Sul momento, appoggiarla mi parve la scelta più giusta.
«Il Sottufficiale Kardal diceva che ce ne sono in tutta la
galassia» confermai quindi, annuendo. «Su Kessel
potrebbero essercene a centinaia».
Il Capitano Halos ci ascoltò con attenzione. «Non
se ne parla» sospirò alla fine, scuotendo il capo.
«Siete pallidi come cadaveri, avete bisogno di
riposo».
Peccato che né io né Mariceli fossimo arrivati
fin lì per prendere ordini.
Mentre lei si impuntò sostenendo di sapere esattamente i
mezzi di tortura adoperati su Kessel, io decisi di vuotare il sacco su
quello che ci era successo fino a quel momento.
«Abbiamo rotto la testa a un ufficiale» sbottai,
sforzandomi di non far tremare la voce. «Ci siamo dovuti
togliere il suo cervello dai vestiti, letteralmente. Poi ci hanno
avvelenato con del gas, lei ha sputato sangue fino a un’ora
fa e io ho passato la notte a vomitare. In tutto questo abbiamo anche
sparato a Kappa». Fui obbligato a fermarmi, poiché
avevo parlato senza neanche respirare e mi sentivo vagamente sul punto
di soffocare. «Mariceli ha ragione: se adesso andiamo via e
basta, sarà stato tutto per niente».
Mi ritrovai una mano sulla spalla, mentre il Capitano Halos mi guardava
con l’espressione più esasperata che ebbi mai
occasione di vedere addosso a un festiano. Difficile dire dove finisse
la preoccupazione per noi e dove iniziasse la rabbia.
Mariceli, ovviamente, scelse di rincarare la dose.
«Tylan» la sentii dire. «Senza quei nomi,
io non vengo a casa».
Ci volle una bella faccia tosta per aggiungere un: «neanche
io», soprattutto contando che la mano del Capitano Halos era
ancora chiusa sulla mia spalla con una presa tanto forte che gli
sarebbe bastato ritrarla per staccarmela di netto.
Non ci fu violenza.
Ricevemmo soltanto un’occhiata esausta, dopodiché
venni lasciato libero.
Da come il capitano mi guardò, credo di avergli ricordato
qualcuno in particolare, anche se non seppi mai chi. Si rivolse a sua
moglie con una scrollata di spalle, ma gettò definitivamente
la spugna. «Ricordati che era un ragazzo ubbidiente, prima di
incontrare te» le disse.
Mariceli tirò fuori un sorrisetto che seppe di
soddisfazione. «Quindi è un
sì?»
«C’è una stazione informatica, qua
sopra. Da dove vi ho mandato il messaggio. Se vi ci porto, avete
un’ora scarsa per recuperare quello che vi serve, poi si
parte. Ci state?»
Io e Mariceli ci scambiammo un’occhiata carica di entusiasmo.
«Ci stiamo» rispose lei. «E poi torniamo
a casa».
Dopo tutta quella fuga continua, eravamo convinti di essere
indistruttibili.
Prima di tutto, due giorni fa ho avuto la grande fortuna di tenere in
mano una blatta gigante ed è stata la cosa più
emozionante che mi sia mai capitata negli ultimi mesi (non ho una vita
molto movimentata), quindi parlare di insetticida per tutto il capitolo
mi ha fatta sentire molto vicina a quella meraviglia. Seriamente, era
grande come
la mia mano. Adoro.
Poi, mi piacerebbe aprire anche una piccola parentesi sul formonitrile,
meglio conosciuto come acido prussico, meglio conosciuto come acido
cianidrico (non il cianurico, che invece crea un po' più di
problemi). Oltre che essere un acido naturalmente presente nello
spazio, è alla base della produzione di numerosi insetticidi
e materiali plastici. Benché l'esposizione prolungata sia
fatale (con l'uso di prussico puro bastano 15 minuti), l'intossicazione
da formonitrile è una delle poche che il corpo
può gestire da solo (aiuta la caffeina, dicono). Segni
distintivi (così se ne rimanete vittima sapete cosa vi sta
succedendo): ansia, mal di testa, vertigini, vista annebbiata, sangue
dal naso e in bocca. Più vicini alla morte si arriva,
più frequenti saranno le convulsioni e le
difficoltà respiratorie.
In realtà, ha effetti molto meno devastanti da quelli
decantati in questo capitolo: il prussico è molto
più leggero dell'aria, infatti, e riesce a fare danni seri
soltanto in ambienti chiusi ermeticamente (insomma, già un
condotto sufficientemente alto dotato di grate potrebbe fare miracoli).
Mi sono concessa la licenza che, agli occhi delle vittime, qualsiasi
incidente tende a parere più grave di quanto non sia in
realtà.
Basta, ho finito con la mia lezione di chimica improvvisata. Si
ringraziano i colleghi di chimica dei quali sto imparando ad avere
paura per la lucidità con cui rispondono a certe domande (in
particolare il fatto che sappiano dove recuperare dell'acido
potenzialmente letale mi fa riflettere a fondo sul valore delle mie
amicizie).
E niente, è tornato Halos. Siete contentiiii?
Io sì. Perché è la metafora della mia
vita: tante buone idee che nessuno ascolta.
Uh, e tra poco arriverà anche l'Anima! E manca sempre meno.
Niente, lo sapevo che avrei detto che sarebbero stati sicuramente 15
capitoli, ma alla fine saranno 15 più un epilogo.
Così, perché ho voluto allungare il brodo e
prendermela con calma. Spero di aver veramente finito di aggiungere
cose, anche perché ero partita dall'idea di dodici parti e
... vabbé.
Mi eclisso; è meglio.
Ornitorico (sto finendo le idee),
Lechat vert
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Capitolo 13 *** parte tredicesima – semplicità ***
saboteur
«“Quel
coso lo sai usare o lo tieni al collo e basta? ”, ma davvero? Disse
sul serio così?»
«Oh, sì. E poi mi strappò la
trasmittente di mano e
mi guardò come se fossi completamente stupido».
«Ah, quello sguardo me lo ricordo bene. Con il sopracciglio
alzato e il capo piegato in avanti, eh?»
«Che memoria».
«E chi se lo scorda. Quando le dicevo che doveva decidersi a
fare dei figli mi guardava nella stessa maniera».
«Non so perché non ne avessero; il Capitano Halos
era davvero un brav’uomo».
«Una volta glielo chiesi».
«E …?»
«Mi rispose che non era la guerra giusta per mettere al mondo
dei
bambini, che aveva cose più importanti da fare. In
realtà, credo ne volesse. Amava stare in mezzo ai ragazzini.
Solo che aveva paura».
«Non la abbiamo tutti?»
«Sei saggio per avere l’età che hai, te
l’hanno mai detto?»
«Saggio? No, mai. Però mi hanno dato del
ficcanaso. Credo
che per entrambe le cose il merito sia anche un po’
suo».
«No, non direi».
«Come no?»
«Ficcanaso, può darsi. Ma Mariceli non
è mai stata una ragazza saggia».
«Forse
ho imparato dai suoi errori».
Mi sono reso conto di non essere in grado di contare le persone che ho
visto morire. Nemici, amici, in un certo senso fratelli; uomini e donne
del tutto scomparsi per uno sparo, per uno scontro. Molte volte, dopo
che io stesso avevo premuto il grilletto.
Mariceli diceva che ogni morte rimane sulle spalle di chi vi assiste,
ma non è del tutto vero. Ogni morte che ho visto
è stata diversa, peculiare nel modo in cui è
rimasta a volteggiarmi attorno, eppure sempre fatta di una
semplicità disarmante. Il cranio distrutto del Sottufficiale
Kardal rimase nei miei sogni finché non recuperai un corpo
fatto più a pezzi del suo, mentre le decine e decine di
assaltatori a cui sparai non mi sono rimaste addosso che con il freddo
ricordo del bianco delle loro armature. Muoiono loro, moriamo noi. A un
certo punto diventa difficile affezionarsi alla vita, ed è
una cosa che a Mariceli ho sempre invidiato: dove io ho costruito
barriere, lei aveva aperto orizzonti. Ci amava tutti e lo faceva con
tutta se stessa, senza paura di perderci ma anzi traendo da
quell’affetto l’ardore con cui combatteva.
Per anni ho pensato che fosse qualcosa che sarebbe arrivato con
l’esperienza. Sbagliavo.
Se c’è una cosa che con assoluta sicurezza posso
affermare, è che quel giorno a salvarci fu
l’assoluta complicità che legava Mariceli al
Capitano Halos, una linea sottile fatta di fiducia, di comprensione, in
un certo senso anche di guerra.
Parevano un unico corpo; uno le braccia, l’altra la mente.
Fino a quel momento, non avuto modo di notarlo: quando Mariceli sentiva
uno scricchiolio fuori posto, subito scattava anche suo marito. Quando
era lui, a sussultare, senza battere ciglio lei portava una mano sotto
alla giacca per afferrare il fucile. Quante dovevano averne passate,
per riuscire a condividere tutti e cinque i loro sensi? Non ho mai
trovato nessuno in grado di rispondere a questa domanda.
Raggiungere la stazione informatica fu una vera e propria passeggiata:
procedere alle spalle di un ufficiale imperiale imponente come il
Capitano Halos ci teneva lontani anche dalle occhiate dubbiose di chi
si rendeva conto di non averci mai visti nei dintorni. Dopotutto, chi
mai si sarebbe messo contro a un uomo che per grazia e statura
ricordava in tutto e per tutto uno Wookie?
Ancora una volta, godemmo di una fortuna quasi sfacciata:
all’interno della stazione trovammo al lavoro un solo tecnico
informatico, piccolo e sperduto di fronte allo schermo principale quasi
fosse lui stesso nel bel mezzo di un’azione di spionaggio.
Fummo quasi dispiaciuti di puntargli contro i nostri blaster, ma
nessuno di noi era in vena di patteggiamenti. Dopotutto, avevamo i
minuti contati.
«Va bene, facciamo che tu non avverti la sicurezza e noi non
ti facciamo saltare la testa» sospirò il Capitano
Halos, tecnico sotto tiro, mentre con un frettoloso cenno del capo mi
incaricava di bloccare le entrate. «Per la miseria, speravo
di trovare un droide di sicurezza qua intorno e invece
niente!»
Mariceli gli passò accanto e gli posò un fugace
bacio all’altezza della scapola. «Ne troveremo un
altro anche più bello, vedrai» lo
rassicurò, mettendogli in mano il suo fucile.
«Intanto non impigrirti. Le credenziali di accesso che ho
sono sicuramente state bloccate; me ne servono di nuove».
Certo, non avere Kappa ad aiutare con i computer rischiava di
rallentarci più del previsto. Username e password del
Sottufficiale Kardal erano stati disattivati dopo la sua scomparsa e,
visto che eravamo sprovvisti dello zaino in cui Mariceli teneva i suoi
strumenti, fummo costretti a ripiegare sull'unica persona in grado di
fornirci dei dati d’accesso puliti.
Il tecnico.
Cadendo completamente dalle nuvole, scoprii che il Capitano Halos
possedeva un’altra nobile caratteristica in comune con gli
Wookie: anche se molto meno manesco degli abitanti di Kashyyyk, non era
però più diplomatico di nessuno di loro.
Dalla porta lo vidi invitare il nostro prigioniero a sedersi, mentre
lui faceva lo stesso con un sospiro colmo di rammarico. Si tolse il
berretto della divisa, dopodiché si passò
lentamente una mano sul viso sbarbato.
«Come ti chiami?» chiese, morbido, una mano ad
accarezzare il fucile come se fosse un animale da compagnia.
L’altro per poco non gli svenne davanti; era pallido come uno
spettro. «De … Desh Leandar, Signore.»
«Va bene, va bene. Lasciamo stare le formalità,
niente Signore: io sono Tylan. Hai dei figli, Dessh?»
«Tre».
«Tre? Ma pensa. Quanti anni?»
«Il maggiore ne ha dodici».
Annuendo, il Capitano Halos passò un dito sulla canna del
suo blaster. «Anche io ne ho tre, su per giù direi
che sono anche della stessa età» rispose,
sorridendo più a se stesso che all’uomo che aveva
davanti. «Immagino siano adorabili; i miei lo sono davvero
molto». Fece una pausa, utilizzandola per trarre un sospiro
colmo di nostalgia. «Dessh, devi sapere che sto passando
tutta questa nostra conversazione alla nostra base in orbita. A
quest’ora probabilmente avranno già trovato
l’esatta ubicazione dei tuoi figli. Ora, puoi aiutarci con il
computer e goderti a posteriori la nostra protezione – molto
accorata, devo dire. Nessuno se ne è mai lamentato
– oppure continuare a stare zitto e morire assieme a me. Nel
secondo caso, sono convinto che i miei figli adoreranno affogare
i tuoi per vendetta.» Sorrise appena, allargando le labbra in
una smorfia che mi gelò letteralmente il sangue nelle vene.
«Orin in particolare è un nuotatore davvero molto
in gamba».
Lasciai la mia postazione alla porta e raggiunsi titubante Mariceli.
«Fa sempre così?» sussurrai, atterrito.
Lei incrociò le braccia all’altezza del petto e si
appoggiò all’interfaccia dei comandi.
«Io l’ho detto, che su Fest è un uomo
sprecato».
Per quello che vale: lo era davvero.
Impiegammo poco più di quelle minacce per convincere Dessh
Leandar a darci ciò di cui avevamo bisogno e, nel giro dei
diciassette minuti che gli imperiali si presero per rendersi conto che
una delle loro preziosissime basi computerizzate era stata presa
d’assalto, Mariceli e io ci adoperammo su più
fronti: io mi occupavo di copiare i file dei detenuti inviati su
Kessel, lei di calcolare l’algoritmo del messaggio.
«Quanto tempo abbiamo?» chiesi, armeggiando con la
scheda di memoria di un droide protocollare che avevamo recuperato
lungo la via.
Mariceli non staccò neanche gli occhi dallo schermo.
«Prima che notino un accesso non autorizzato ai dati
sensibili dei prigionieri? Se ne sono già accorti di
certo». Attese che finissi di collegare la memoria al
computer, dopodiché riprese a sfogliare le varie schermate
che aveva aperto davanti a sé. «Vediamo che si
può fare da qui, intanto» mormorò.
«Tylan, siamo in contatto con l’Anima?»
Il Capitano Halos si staccò la trasmittente dal collo e
gliela lanciò. «Di’ loro di darsi una
mossa».
«Andor Due ad Anima. C’è qualcuno
là fuori?»
Ricordo pochi uomini entusiasti di bombardare una prigione come quelli
che ci risposero quel giorno.
“Anima Sette ad Andor Due, ti ricevo forte e chiaro e a
volume anche alto. Ci siamo persi Anima Diciannove, credo si sia
addormentato da qualche parte”.
“Anima Sette, non mi sono addormentato proprio da nessuna
parte!”
“Qui Anima Dodici. Io e Otto siamo pronti a scendere da est,
aspettiamo il vostro via”.
Mollando momentaneamente il computer ai suoi calcoli, raggiunsi un
vecchio tavolo e lo spinsi contro la porta assieme alle sedie.
Nell’FRG ci avevano insegnato a fare delle gran belle
barricate. «Ma quanti sono nell’Anima?»
chiesi.
Mariceli scosse il capo. «Troppi, credimi. Anima Sette, Otto,
Dodici e Diciannove: vi invio una piantina del centro. Siamo sul ponte
venticinque, adesso faccio anche in modo di abbassare gli scudi. Mentre
fate a pezzi questo posto, qualcuno di voi ci viene a fare da
copertura? Se l’Andor fa i capricci, restiamo tutti
qui».
“Andor Quattro ad Andor Due, vengo a salvarti io”.
Sentire la voce di Cunha fu anche più bello di sentire
quella del Capitano Halos, e mi strappò un sorriso
soddisfatto. Per qualche strana ragione (strana davvero, visto il suo
pessimo carattere), mise tutti di buonumore. Mariceli per prima.
«Se lo dici con quel tono, Andor Quattro, non so davvero cosa
aspettarmi» lo prese in giro, scoccandomi
un’occhiata divertita. «Occhio che
c’è qui anche mio marito».
Il Capitano Halos alzò le spalle con fare leggero.
«Andiamo Mari, ti pare il momento?»
brontolò, scuotendo il capo. «Non davanti a
Dessh!»
Per un brevissimo, inafferrabile istante fu come se ci trovassimo su
Fest e stessimo cenando attorno al fuoco con la famiglia del Capitano
Halos a riempirci i piatti di minestra. Credo che quella fu
l’unica risata che mi concessi per molto tempo, se non
addirittura l’ultima che riuscii a tirare fuori senza
l’oppressione della paura.
Durò poco, comunque; Mariceli ci interruppe con un lesto
movimento della mano e portò l’attenzione di tutti
sullo schermo del computer.
«Ho l’algoritmo» ci disse, gli occhi
sbarrati sullo schermo che ci sovrastava. «Se inserisco le
coordinate, posso farlo partire».
Il Capitano Halos alzò le spalle. «Avanti,
Sole» la incoraggiò. «A parte Cunha, non
stiamo aspettando altro».
Trepidante d’attesa, scoccai a Mariceli un’occhiata
divertita. « Sole?»
Lei si soffiò una ciocca di capelli lontana dal viso.
«Finirai col diventare come lui» mi
avvertì, puntandomi il dito contro.
«Sta’ molto attento, ragazzino».
Non ricordo con esattezza le parole dell’ologramma che venne
proiettato subito dopo quella velata minaccia, ma ho la prima frase
fissata nella mia testa come se da essa fosse dipeso ciò che
sono diventato.
Ho esatta memoria della slanciata figura del Generale Draven
così com’era dieci anni fa, avvolto in un lungo
mantello di lana e con il cappello calcato sul viso, mentre dice:
“ A chiunque in
ascolto: benvenuti in Quantificatore”; quella fu
la prima volta che lo vidi, anche se per incontrarlo di persona
impiegai qualche altro anno.
Quantificatore.
Ci lasciò tutti di stucco.
Più o meno, il messaggio procedeva così:
“Sono il Maggiore Davits Draven, capo della Squadriglia
Prime. L’anno corrente è il 3266 secondo il
Calendario Lothaliano, e i confini dell’Impero si sono
attualmente allargati fino a Jelucan. A fronte di ciò, si
consideri questo messaggio una chiamata alle armi”.
Interrompendo per un istante il mio lavoro, scambiai con Mariceli
un’occhiata interdetta. «Sono ribelli»
sussurrai.
«Questi sono ribelli per davvero»
s’intromise il Capitano Halos. «La Squadriglia
Prime ha dalla sua i pezzi grossi del Senato Galattico».
Mariceli annuì. «Ecco perché non
vogliono che il messaggio si sparga. Se non li possono distruggere,
almeno sperano di farli stare zitti».
Draven non aveva ancora finito.
“L’appello non è rivolto a chi
è disposto a dare la vita, ma a chi vuole dedicare il
proprio onore a una causa più grande. A chiunque ponga la
libertà come fine ultimo della sua stessa esistenza, noi
tendiamo la mano. La Squadriglia Prima non è la sola a
resistere, ma è ad oggi la più grande: chiamiamo
a raduno tutti gli squadroni armati e i singoli combattenti che
ricordano ancora la gloria della vecchia galassia, che vogliono ancora
ristabilire l’ordine e la giustizia. Per combattere e opporsi
agli usurpatori, con qualsiasi mezzo a nostra disposizione”.
Seguì un minuto di silenzio, dopodiché
l’ologramma ripartì da capo.
«Non siamo soli, te l’avevo detto»
sussurrò Mariceli, voltandosi lentamente verso suo marito.
«Sono tanti, vogliono riunirsi. Potremmo
…»
Dall’occhiata che lui le lanciò, capimmo entrambi
che quello non era il momento di parlarne.
«Prima dobbiamo pensare a Fest» lo sentimmo dire,
severo. «I prigionieri che cercavi sono morti; abbiamo fatto
anche troppo».
Vidi Mariceli sul chiaro punto di scoppiare, e provai nei suoi
confronti l’empatia più grande che riuscii mai a
provare per un altro essere umano. Perché ero arrivato fino
a quel punto assieme a lei, perché eravamo quasi morti
entrambi per quelle persone e ora eravamo lì, avevamo
risolto tutto quello che c’era da risolvere (o almeno, questo
era quello che credevo). Non poteva finire così.
Eppure, in qualche strana maniera, compresi anche il Capitano Halos e
il suo bisogno di riportarci tutti a casa. Come se salvarci ne andasse
della sua stessa sanità mentale.
Decisi di rimandare ogni decisione al momento in cui saremmo stati
tutti e tre sani e salvi a bordo del nostro mercantile, preferibilmente
molto lontani da Wobani.
«Mi serve un’altra scheda di memoria»
buttai lì allora, estraendo quella su cui il computer aveva
appena finito di copiare buona parte dei dati e infilandomela in tasca.
«Qualcuno ne ha una?»
Con un cenno del capo come apprezzamento del mio sforzo di mantenere la
pace, il Capitano Halos annuì. «Ho una copia di
Kappa in tasca; vienila a prendere».
Kappa. L’immagine del suo corpo metallico che si accasciava a
terra sotto ai colpi dei blaster provenienti dai due fronti diversi
della stessa battaglia mi fece esitare.
«Coraggio».
Titubante, lasciai la mia postazione ed obbedii. Non avevo idea di
quante copie di quel droide ci fossero in giro per l’Andor,
ma credo che questa sia una delle tante stranezze a cui avevo in un
certo modo imparato a sottostare, poiché era più
probabile vedere il Capitano Halos senza un’arma che senza il
suo amato droide in tasca. Dopotutto, portarmi dietro una scheda madre
di Kappa è un’abitudine che ha finito col tornarmi
utile in svariate occasioni.
Andai dal Capitano Halos e lui si abbassò appena per
permettermi di raggiungere la tasca interna della giacca.
«Non ti azzardare a formattarla» mi
avvertì comunque, serissimo.
Io annuii. «Ci provo».
Mi diressi verso Mariceli, dando le spalle al Capitano e allontanandomi
di qualche passo. In una mano stringevo la scheda, nell’altra
il mio blaster.
Con l’esplosione che seguì, mi caddero entrambi.
Tremò tutto di colpo, per un istante la stanza
sembrò piegarsi all’urto della detonazione e,
prima che potessi anche solo accorgermi di cosa mi stesse succedendo
intorno, mi ritrovai rannicchiato sotto a un tavolo a tenermi la testa
tra le mani.
Sentii Mariceli urlare, udii con chiarezza il rumore di uno sparo
nell’aria, poi per un istante tutto fu buio.
Quando tornò la corrente, il Capitano Halos era accanto a me.
«Stai bene?» mi chiese, passandosi la mano su un
taglio che gli apriva la guancia sbarbata.
Io annuii, abbassando lo sguardo per constatare i danni. La scheda di
memoria era accanto a me; il blaster, invece, era nel bel mezzo della
stanza, distante tre metri da dove mi trovavo e irraggiungibile senza
uscire dal mio precario nascondiglio.
«Che succede?» pigolai, sperduto.
«Mi sa che ci hanno trovati».
Alzando il capo per mettere a fuoco la stanza da quella nuova
prospettiva, mi resi il conto del fatto che avere gli imperiali sul
corridoio intenti a provare a far saltare in aria una porta di ferro
non era la cosa peggiore che stava per accadere.
Accanto alla parete, il nostro prigioniero procedeva spedito verso il
pannello di controllo con in mano lo stesso fucile che fino a poco
prima l’aveva tenuto inchiodato al muro. Aveva Mariceli sotto
tiro.
«Imperiali, tipico» sbottò il Capitano
Halos, impassibile. «La porta resisterà ancora un
po’. Solo che non ho idea di come uscirne». Siccome
non risposi, seguì il mio sguardo fino a Dessh.
Udii chiaramente il suo cuore fermarsi.
«D’accordo» sussurrò, la voce
stozzata e il fiato corto. «Adesso apri bene le orecchie e
fai quello che ti dico io, d’accordo?»
Io fissavo Mariceli, rannicchiata sotto una scrivania alla nostra
destra, mentre il tecnico la raggiungeva con il fucile puntato sulla
sua faccia. Parlava, credo. Non riuscivo a sentire altro che il fischio
della detonazione e la voce profonda del Capitano Halos.
«Ragazzo, forza. Sveglia».
Mi costrinsi a rimanere ancorato alla realtà. «Ci
sono» sussurrai.
Halos indicò il mio blaster con un cenno del capo.
«Hai un colpo» mi avvertì.
Io annuii. «Me lo farò bastare».
Successe tutto tanto velocemente che è quasi impossibile
ricordarlo.
Agile come un caccia in volo, il Capitano Halos sgusciò
fuori dal nostro nascondiglio e saltò addosso a Dessh con la
stessa furia di una battaglia intera.
Io feci lo stesso, ma scivolai fino al blaster e me lo premetti sul
petto con tutta la forza che sentivo attraversarmi il corpo. Mi buttai
sulle ginocchia, smettendo persino di respirare, e mi morsi le labbra
con così tanta disperazione che in bocca sentii il sapore
del sangue.
Partirono due colpi nello stesso istante.
Dessh cadde in avanti e il capitano sotto di lui, ma non ebbi il tempo
di constatare i danni.
Ci fu un’altra esplosione.
«Buttano giù la porta!» gridai, balzando
in avanti con il blaster pronto a sparare di nuovo. Dal nulla, sentivo
talmente tanta adrenalina scorrermi nel sangue da farmi girare la
testa. Quella porta sarebbe stata la nostra salvezza, decisi, e in quel
momento ero più deciso che mai a farmi strada con qualsiasi
arma mi sarebbe capitata tra le mani.
Poi Mariceli urlò.
Continuo a risentire quel grido, ogni giorno, ogni volta che ripenso a
Wobani. Sono passati dieci anni, eppure è ancora nella mia
testa, il lamento di morte più straziante che abbia mai
sentito. Fu talmente forte da coprire la raffica di laser che
colpì l’uscio ormai precario dietro al quale ci
nascondevamo.
Quando mi voltai con l’orrore negli occhi, la trovai
inginocchiata a terra, in lacrime, la bocca sporca di sangue, piegata
sul pavimento con le mani aperte davanti a sé.
Pensai di averla colpita per errore, ma poi mi ricordai del corpo di
Dessh che si accasciava a terra.
Turbato, abbandonai la difensiva e saltai oltre il tavolo che mi
copriva la vista.
Al fianco di Mariceli, attaccato alle sue cosce, c’era il
cadavere di Dessh.
Davanti a lei, dove le sue mani affondavano nella morbida stoffa di una
divisa sgualcita, c’era quello del Capitano Halos.
Tutto ciò è sofferenza e credetemi che mi
dispiace davvero tanto.
Al punto di aver messo qualche scenetta un pelo più carina e
rassicurante all'inizio, anche se ora mi rendo conto di aver soltanto
peggiorato le cose.
Quando ho immaginato questa scena la prima volta, Tylan Halos doveva
essere un personaggio del tutto diverso. Spiacevole, prima di tutto.
Invece è venuta fuori anche una bella persona e onestamente
non so più dove nascondermi.
Ad ogni modo, ormai manca solo uno scatto per concludere anche la
storia del messaggio. Si è scoperto che cos'è,
cosa dice ... però, anche se nessuno nella storia se
n'è ancora comprensibilmente reso conto, manca forse il
pezzo più importante. Arriverà anche quello.
Ormai siamo agli sgoccioli.
E, uhm, arrivata a questo punto penso di poter dichiarare con tutta la
sincerità l'amore per il gruppo di lettori e scrittori di
questo fandom ☆ Spero vi rendiate conto di essere una perla rara,
perché lo siete e anche tanto. Insomma, e adesso
chi vi lascia più se mi permetterete di sopravvivere a
questo colpo basso?
Procioni Panda minori (grazie HopeToSave ;D),
Lechat vert
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Capitolo 14 *** parte quattordicesima – downtown ***
saboteur
«E la fine?»
«La fine è una brutta faccenda».
«Ma è quella che tutti aspettano».
«Per questo è la più difficile. Evitala
finché puoi, Cassian».
«Ma perché?»
«Perché dopo una storia ce
n’è
un’altra; morto un narratore, se ne fa subito uno nuovo. Non
c’è mai fine, né pace. Anche dopo un
eroe, ne viene
sempre un altro».
«E allora quando finisce?»
«Cassian».
«Mariceli. Dimmi quando finisce».
«Va’ a dormire, dai».
«Avanti!»
«Con se stessi, Cassian. Finisce tutto con quello. Dopo se
stessi, c’è solo il buio».
Ci trovarono così. Un ragazzino con un blaster in mano e gli
occhi gonfi di lacrime e una zoppa che teneva tra le braccia il
cadavere di suo marito gridando talmente forte da coprire persino il
rumore dei fucili che sparavano per farsi strada attraverso
l’uscio bloccato.
Non ebbero il cuore di ucciderci.
Sei assaltatori e un ufficiale rimasero impietriti in un silenzio quasi
religioso ad osservarci, incapaci di farsi avanti mentre Mariceli
ripuliva il viso del Capitano Halos con le mani sporche dello stesso
sangue che si ostinava a tossire, disegnando sulla sua pelle macchie
scure che gli facevano da barba.
Non so dire per quanto tempo tutto rimase immobile. Io che guardavo il
vuoto, i nostri nemici che osservavano la scena con addosso lo strazio
della morte … l’unica a muoversi fu sempre e solo
Mariceli. Piangeva, gridava, chiamava suo marito.
Lui non le rispondeva.
Ogni giorno ringrazio di non essere mai stato protagonista di un
momento del genere. Ci sono state tante persone, nella mia vita, tante
presenze, tante occasioni … ogni volta che si avvicinavano a
essere anche solo vagamente quello che il Capitano Halos rappresentava
per Mariceli, non sono mai riuscito ad andare avanti. Contrappongo
continuamente me stesso a quelle grida, il bisogno di calore al sangue
sul viso, la brezza dell’affetto allo sparo, alla morte.
Il giorno in cui compresi quanto forte può essere il legame
tra due persone, fu anche quello in cui lo vidi spezzarsi, ed
è qualcosa che non sono mai stato in grado di dimenticare.
Certo non fu una lezione che Mariceli volle darmi, ma fu una di quelle
che imparai con più dedizione.
Ne appresi un’altra altrettanto importante di lì a
qualche minuto, ma non potevo ancora sapere a che cosa stavo andando
incontro. Continuavo a chiedermi: “ è così che
muore un eroe?”, senza riuscire veramente a
immaginarmi cosa ci sarebbe toccato ora che eravamo praticamente con le
spalle al muro.
Feci la cosa che mi sembrò più giusta, e
ricambiai un favore.
Lentamente, posando il mio blaster a terra con una naturalezza quasi
disarmante, raggiunsi Mariceli e mi inginocchiai accanto a lei. Non
dissi niente, ma scambiai con l’ufficiale imperiale
un’occhiata eloquente che implorava del tempo. Quando la
richiesta fu accordata da un cenno del capo, alzai le braccia e le usai
per circondare le spalle di Mariceli.
«Va tutto bene» sussurrai, accarezzandole i capelli
mentre la sentivo tremare contro la mia spalla. «Dobbiamo
ancora andare su Kessel».
Quel giorno, ero pronto a morire con lei.
Per tutto il tempo tenni gli occhi ben aperti, deciso a guardare in
faccia l’uomo che mi avrebbe sparato. Un ultimo, strozzato
gesto di coraggio. Sentivo di aver fatto abbastanza; non avevo idea di
cosa ancora mi aspettasse fuori da Wobani.
Per fortuna, l’Anima me ne diede un assaggio con un raffica
di colpi che fece tremare le pareti e il pavimento.
“Andor Quattro a chiunque sia in ascolto” si
palesò la cupa voce di Cunha, riprodotta a scatti dalla
trasmittente nella tasca di Mariceli. “Ragazzi, non vi sento
più. Datemi una mano a tirarvi fuori”.
All’improvviso, un allarme cominciò a risuonare
attraverso gli altoparlanti. Wobani era ufficialmente sotto attacco e,
assieme ai caccia della Squadriglia Anima, per noi arrivò
anche la speranza.
Mariceli fu la prima ad accoglierla dentro di sé, ritrovando
in fondo al baratro della morte un barlume a cui aggrapparsi con tutte
le sue forze. Mentre mi abbracciava, fece scivolare la mano lungo il
mio fianco, superando la mia coscia per arrivare a sfiorare il fucile
che il cadavere di Dessh stringeva ancora tra le mani. «Ce la
fai a prendere il blaster?» sussurrò, poi
un’altra raffica di colpi fece tremare l’edificio.
Io annuii contro la sua pelle. «Quando vuoi».
Non dovemmo neanche guardarci in faccia per metterci
d’accordo.
Approfittando di una scossa data dai colpi dei caccia, Mariceli
scivolò a terra e recuperò lo stesso fucile che
aveva ucciso suo marito. Sdraiata e tirandosi addosso Dessh per usarlo
come scudo, sparò a raffica sopra le nostre teste.
L’intera stazione si spense nel buio dei neon distrutti, e io
ne approfittai per recuperare il mio blaster e per ripararmi dietro a
un tavolo.
Piovve vetro.
«Qui Andor Due. Andor Quattro, rispondi» sentii da
lontano, e lo presi come un invito a darmi da fare. Mi misi comodo
dietro la mia copertura e iniziai a sparare seguendo
l’istinto. L’FRG insegnava molto bene ai suoi
cecchini a sparare al buio; dopotutto, Fest è sempre stato
un pianeta tutt’altro che soleggiato.
“Andor Quattro a rapporto”.
«Ti confermo la nostra posizione, ho abbassato gli scudi. Io
e Andor Cinque saremo in posizione il prima possibile».
“Ricevuto, Andor Due. Ci vediamo là.
Chiudo”.
Uccisi cinque uomini con molta più facilità di
quanto, due giorni prima, non ne avessi ucciso uno soltanto. La
disperazione gioca brutti scherzi all’istinto.
Alla penombra del computer ancora acceso, spiai Mariceli sparare
all’ultimo assaltatore rimasto in piedi.
All’ufficiale, invece, toccarono così tanti colpi
di fucile che avvicinandomi a stento riuscii a comprendere di stare
guardando un essere umano.
Mariceli non batté ciglio. Per l’ennesima volta
guardò un uomo morire, dopodiché
abbassò l’arma e si rimise a digitare sulla
tastiera.
«Che fai?!» le gridai, sconcertato. Volevo soltanto
andarmene.
«Vieni qui, svelto» mi sentii rispondere, invece,
secco. «Sto cercando di bloccare le porte per isolare il
ponte. Passami la scheda di Kappa».
Anche se titubante, obbedii. «Salvi
l’algoritmo?» chiesi.
Mariceli annuì.
Investiti da una strana sensazione di onnipotenza (o di disperazione,
ma a quel punto chi poteva essere in grado di distinguere dove finisse
una e cominciasse l’altra?), ci bardammo a vicenda dentro i
busti delle armature nemiche, sistemandoci spallaci e avambracci prima
di affacciarci al corridoio. Mariceli con il suo fucile, io con il mio
blaster. Rubammo anche le chiavi di accesso da ciò che
restava dell’ufficiale nel caso ne avessimo bisogno
più avanti.
Prima di lasciare la stazione, rivolgemmo l’ultimo saluto al
Capitano Halos.
Mentre io restavo in disparte a fissare quel corpo che fino
all’ultimo aveva combattuto, Mariceli gli si
inginocchiò accanto, guardandolo come se insistere
l’avrebbe riportato indietro. Si chinò su di lui e
gli baciò piano la fronte, sussurrandogli parole che non fui
in grado di cogliere. Lentamente gli prese le mani, se le
portò al petto. Pregò persino, credo.
Ciò che la ferì di più fu la fretta
con cui dovette fare ogni cosa. Come si fa a dire addio al compagno di
una vita in una manciata di secondi, consapevole di poter essere
scoperti da un momento all’altro? Mariceli fu costretta ad
abbandonare il cadavere di suo marito laddove lui stesso era morto, e
non ebbe nemmeno la grazia di lasciarlo andare con il tempo di cui
aveva bisogno.
Ma era proprio quello, il problema. Non avevamo tempo.
Distoglierla dalla sua veglia mi fece sentire un mostro.
«Mariceli» sussurrai, coprendomi il viso con il
casco per impedirle di vedere quanto disperso fossi.
«Dobbiamo andare».
Lei annuì e fece lo stesso. Invece che raccontarci cosa
stavamo attraversando, decidemmo di nascondercelo a vicenda sotto il
ferro duro di un’armatura. Credevamo che, non parlandone,
alla fine sarebbe sparito.
Scendendo verso l’hangar, ci imbattemmo soltanto in un
ridotto plotone di giovani cadetti. Eravamo pronti a fare fuoco e a
vendere cara la pelle, ma non dovemmo accopparne che uno
poiché tutti gli altri si facessero da parte in preda al
panico. Passando loro accanto, incrociai gli occhi dell’unico
che si tolse il casco per soccorrere il compagno caduto. Era persino
più giovane di me.
Arrivammo alle porte dell’hangar con il cuore in gola.
Mariceli a stento camminava, poggiandosi quando poteva alle pareti. Non
smetteva di tossire e, se possibile, era diventata ancora
più pallida di quanto già non fosse.
Formonitrile. Se il corpo non è in grado di espellerlo da
solo, resta in circolo per ore, per giorni. La morte sopraggiunge
improvvisamente e, nella maggior parte dei casi, senza
possibilità di recupero. Ma di questo non avevo idea.
«Saranno tutti di là ad aspettarci»
soffiò Mariceli, togliendosi il casco soltanto per scoccarmi
un’occhiata così dannatamente seria che ancora
oggi mi impartisce disciplina. Mi guardò con occhi scuri da
animale notturno, due piccoli spettri tondi decisi a non perdersi nella
paura.
Portai la canna del blaster al viso, battendola piano sulla superficie
del casco. «Prendo la destra» le dissi, voltandomi.
«Io la sinistra».
Sentii la sua schiena contro la mia, un peso inaspettatamente caldo che
in qualche maniera mi rassicurò.
Coraggiosi come soldati, aprimmo le porte.
Chi mai sarebbe sopravvissuto? Per tutto il tempo in cui sparai a
raffica sulla fila di assaltatori che ci presentò dinanzi,
non feci che immaginare i nostri corpi a terra. Gridavo per sfogare la
rabbia di morire a sedici anni dopo averne vissuti dieci in solitudine,
per la frustrazione di aver visto i miei compagni cadermi davanti, per
la paura di avere davanti un futuro che era soltanto polvere. A
quell’età, bisogna fare rumore per tutto.
Facemmo il possibile, poi ci riparammo dietro le ali di un grosso TIE.
«Ho il fucile surriscaldato» annunciò
Mariceli, sospirando. «Coprimi le spalle; cambio
l’accoppiatore».
«Lo sai fare?»
«Sì, se me lo hai insegnato bene».
Le diedi fiducia.
Mi arrampicai a metà ala, sporgendomi quello che mi bastava
per avere una visuale sufficientemente buona da mostrarmi la nostra
fine ormai imminente: eravamo circondati da una decina di assaltatori
almeno, tutti quanti armati e ben decisi a conquistare terreno. Alla
mia destra, oltre l’imbocco dell’hangar, sorgeva il
sole più luminoso che avessi mai visto nascere.
Impiegai un istante a rendermi conto che non poteva essere
l’alba e che quel cerchio luminoso che ci stava venendo
incontro non era una stella. Affatto.
«Vai via! Via, via!» gridai, saltando a terra con
gli occhi sgranati.
Mariceli mi guardò, allarmata, ma non le diedi il tempo di
aprire bocca. La afferrai per la divisa che aveva addosso e la
trascinai letteralmente a ridosso della parete, correndo a perdifiato
con quel poco di forza che mi era rimasta in corpo.
Voltandomi, scoccai un’ultima occhiata al caccia che ci aveva
fatto da riparo, uno dei TIE nuovi che Cunha e il Capitano Halos tanto
detestavano. Ce n’era una fila intera.
Dovevano detestarli davvero, quei caccia, poiché quando
l’ala-Y recante i colori della Squadriglia Anima fece breccia
sul ponte per andare a schiantarsi in fondo all’hangar, il
suo pilota si assicurò di centrare tutti i TIE posteggiati,
distruggendoli uno dopo l’altro con una minuzia che ebbe
dell’iconico.
L’esplosione che ne seguì investì
completamente la fila di assaltatori pronta a fare fuoco su di noi, ma
non mancò di colpire anche me e Mariceli, sollevandoci da
terra e buttandoci del tutto contro la parete alle nostre spalle.
Per qualche istante, feci fatica a distinguere le ombre degli oggetti
davanti a me. Vidi fiamme e fumo finché Cunha non mi
tirò su da terra con la stessa facilità con cui
avrebbe raccolto un tozzo di pane, strappandomi il casco probabilmente
per assicurarsi di non avermi spaccato la testa.
«Dannati ala-Y, bagnarole da mentecatti» lo sentii
brontolare, guardandolo con aria smarrita mentre si occupava anche di
Mariceli. «Tu!» le gridò, scuotendola.
Lei fissava il vuoto con un rivolo di sangue che
dall’attaccatura dei capelli le scendeva fino alla guancia.
«Non avevi detto di aver abbassato gli scudi?»
Lei si ridestò appena. «Ci sono gli scudi
alzati?» chiese, boccheggiante. «Hai attraversato
degli scudi alzati?»
«E non è stato affatto divertente».
Notai in quel momento che la divisa di Cunha era praticamente sul punto
di prendere fuoco, bruciacchiata dalla cinta in giù e con il
fumo che si levava dalle spalle per via del calore accumulato durante
l’accelerazione. Aveva un taglio che gli apriva letteralmente
la guancia, lasciando un piccolo lembo di pelle a penzolargli fin quasi
al mento. Eppure non batteva ciglio.
Sospirando, portò la mano sul casco, collegandosi alla
trasmittente. «Anima Tre a gruppo, il mio caccia è
a terra; io sto bene. Ho ritrovato l’Andor. Ora li carico
sulla prima navetta che trovo e li riporto a casa. Ci rivediamo
direttamente là, chiudo». Ci scoccò
un’occhiata spenta, annuendo. «Tutti interi,
pulcini?»
“Interi” era veramente un azzardo.
Scossi il capo. «Il Capitano Halos è
…»
Mariceli sollevò di scatto il mento. «Tylan non ce
l’ha fatta» tagliò corto, ridestandosi.
«Ci ha salvato la vita».
Lentamente, Cunha si passò una mano sulla barba lasciata
scoperta dal casco da pilota. «Capisco»
sussurrò, senza distogliere lo sguardo. Sono piuttosto
convinto che quel giorno gli si spezzò il cuore.
«Bé, allora forza. Troviamo un passaggio e
buttiamolo giù, questo posto di merda».
«C’è l’Andor» dissi
io, convinto. «Lo abbiamo visto prima».
Cunha arricciò il naso. «L’Andor non va
bene» rispose. «A stento ce l’ha fatta
l’Ala-Y, a passare gli scudi. Un mercantile senza
accelerazione? Sarebbe un suicidio».
Mariceli era silenziosa. Ricordo che le misi una mano sulla spalla
perché ero preoccupato che l’esplosione
l’avesse ferita più di quanto il suo corpo
già debole potesse sopportare, ma non avevo capito niente.
Aveva semplicemente iniziato a pensare a una via di fuga alternativa
dal momento esatto in cui Cunha le aveva fatto notare che gli scudi non
erano stati abbassati, e non parlò fino a che non
riuscì a trovare una spiegazione sensata a quella sua
mancanza. Non se ne capacitava, credo. Dopotutto, è qualcosa
in cui abbiamo finito col somigliarci molto: non amiamo sbagliare.
«È uno scudo magnetico anti-evasione»
annunciò, il corpo improvvisamente rigido come se si
trovasse nel bel mezzo di una qualche rivelazione.
«È per questo che sei riuscito a entrare, Terras.
Perché serve a tenere la gente dentro».
Cunha alzò le spalle. «Lo sai togliere?»
«Ho le credenziali, posso farlo. Però
…»
Mi ritrovai a digrignare i denti. «Non sono
automatici» sussurrai. Non so neanche come facevo a saperlo;
credo glielo lessi semplicemente negli occhi.
«Serve che qualcuno li tenga disattivati manualmente,
sì».
Alcuni anni dopo, quando mi trovavo nel Settore di Carvandir per un
reclutamento, fui avvicinato da una ragazza che aveva gli stessi occhi
di Mariceli. Piccoli, scuri, arrabbiati. In un certo senso soli.
«Anche io volevo fare la ribelle» mi disse, la mano
stretta attorno a un coltello da cucina mentre io la guardavo con il
blaster pronto a sparare. «Ma non lo sopporto».
«Che cosa?» le chiesi io. Lei fece spallucce.
«Quel momento in cui capisci che qualcuno sta per
morire».
E come biasimarla? È il momento peggiore della vita di ogni
uomo e solitamente, per disgrazia o per benvolere della sorte, arriva
per tutti nello stesso momento.
Ci si accorge assieme di stare per morire, ci si accorge assieme di
quando è tempo di dare gli addii. Solo, non si è
mai veramente pronti ad accettarlo.
Quel giorno, sul ponte venticinque del Centro di Detenzione di Wobani,
per istanti interminabili sentii il vuoto scoppiarmi nel petto.
Lo sentii io, lo sentì Cunha, lo sentì
soprattutto Mariceli. E, assieme al vuoto, tutti trovammo la stessa
consapevolezza a bruciarci la carne: serviva qualcuno che tenesse
disattivati gli scudi e quel qualcuno doveva essere lei.
Perché Mariceli era zoppa, rotta, strappata,
perché Cunha pilotava caccia con la furia di una tempesta e
io avevo sedici anni, e le persone sono convinte che a sedici anni i
ragazzini non debbano morire.
Lo sapevamo tutti, eppure tentai di ribellarmi.
«Lo faccio io» mi offrii, quasi incapace di
respirare. «Di corsa. Sono veloce. Spiegami come si
fa».
Mariceli mi guardò, silenziosa, e mi consegnò la
scheda di memoria. «Conservala con le altre» mi
ordinò. «Ricordati che c’è
gente viva, lì sopra. E che ha bisogno di aiuto».
Non demorsi. «Dobbiamo andare su Kessel».
«Tu andrai su Kessel. Ti guarderò da
qui».
Cunha si sporse a prenderla per una spalla.
«Mariceli» le disse, obbligato dal momento che per
vera volontà di rassicurarla in qualche modo. «Tuo
marito ne sarebbe stato orgoglioso».
Lei rise appena. «Vorrai dire furibondo». Si tolse
il fucile dalla spalla e glielo mise in mano con un sospiro rassegnato.
«Rivedetele, queste armi. Si surriscaldano troppo
facilmente».
Lui annuì con un cenno del capo. «Lo
farò presente».
«Terras. Falli saltare in aria per me e per Tylan».
«Ci puoi contare».
«E salutami tuo fratello».
Fu la prima volta in cui vidi Cunha sorridere di cuore.
«Sarà fatto».
In quel preciso istante, quando realizzai che anche il nostro pilota
aveva accettato la realtà dei fatti con una
semplicità spiazzante, entrai in piena fase di negazione.
Guardandomi indietro, mi rendo conto che non fu facile per nessuno di
noi. Cunha era determinato a portare l’Andor fuori di
lì, in qualche modo, Mariceli a salvare il salvabile. Capii
molti anni dopo quanta paura avesse in quel momento, quanto le
tremassero la mani mentre mi stringeva. Sul momento, vedevo soltanto la
mia disperazione.
Ero sul punto di mettermi a gridare, talmente pieno di frustrazione da
sentirmi scoppiare, quando mi abbracciò.
«Andiamo, sii ragionevole» sussurrò,
accarezzandomi i capelli come aveva fatto quella sera in cui avevo
detto addio a mio padre. «Non arriverei comunque
all’Andor in tempo, con questo piede».
A fatica, ingoiai un nodo di lacrime. «Non so cosa
fare» confessai, stringendomi a lei nella speranza di non
lasciarla andare.
«Cerca quelle persone, finisci di decifrare il messaggio. Ci
sono giorni migliori che devono arrivare, in qualche modo li guarderemo
assieme. Se adesso io resto qui, questo me lo devi» Aveva gli
occhi che brillavano di fiducia.
Io annuii, e per un attimo ci illudemmo assieme. «Ci
rivedremo» sussurrai. Forse lo stavo dicendo a me stesso.
«Passerò a trovarti. Ti ricordi quello che ti ha
detto Tylan?»
Me lo ricordavo benissimo. Come dimenticarlo? Era il nostro segreto.
“ Sarebbe
fargli un favore”.
Non so dove trovai la forza di risponderle. «Me lo
ricordo».
«Ma certo. Sei un ragazzino sveglio, te l’ho
già detto ».
L’ultima volta che la vidi in faccia fu con il bacio che mi
posò sulla fronte.
Zoppicante, si avviò debolmente verso la stazione di comando
dell’ingresso, una piccola piattaforma rialzata accessibile
dall’hangar o dall’ingresso principale, in quel
momento sbarrato completamente dai resti dell’ala-Y che Cunha
ci aveva buttato addosso. Però lo sapevamo tutti che era
questione di minuti prima che i padroni di casa trovassero il modo di
accedere all’hangar. Da una parte o dall’altra,
avrebbero trovato una parete da buttare giù a forza di
detonazioni.
«Sta’ pronto» mi disse Cunha, tirandomi
per una spalla mentre ci incamminavamo speditamente verso
l’Andor. «Abbiamo mezzo minuto da quando abbassa lo
scudo».
Voltarmi e seguirlo fu un gesto che mi gettò sulle spalle
più fantasmi di una guerra intera.
A bordo, tutto era esattamente come l’avevo lasciato quando
ero partito alla volta di quella parte di Fest che mi era allora
sconosciuta. Per un solo secondo, fu come tornare al giorno in cui vi
ero salito per la prima volta, alla fiancata bruciata, a Kappa che mi
dava del ladro. Solo che stavolta facevo da secondo pilota.
“Andor Due ai restanti” ci chiamò la
voce Mariceli, bassa e tremante attraverso le cuffie della plancia.
“Preparate i motori, tra poco saremo pronti”.
Strinsi la scheda di Kappa come fosse luce nella disperazione della
notte. In quel momento, decisi che, se quel dolore che mi bruciava nel
petto fosse rimasto con me tutta la vita, allora l’avrei
portato con la consapevolezza di esserne l’artefice.
«Aspetta» dissi, deglutendo a fatica.
«Devo fare ancora una cosa. Apri il portellone».
Cunha mi scoccò la stessa occhiata che avrebbe scoccato ad
un pazzo. «Tu sei sotto shock»
considerò, senza neanche degnarsi di rispondermi.
«Sta’ seduto buono e fermo».
Ostinato, balzai in piedi. «Apri quel maledetto
portellone!» gridai, furioso.
“Andor Quattro e Cinque, pronti al decollo. Scudi abbassati
in venti secondi”.
Cunha lasciò che il suo sguardo cadesse nel vuoto.
«Vedi di non farti del male» sussurrò.
Abbandonai la plancia e scesi di sotto asciugandomi le lacrime contro
la manica della divisa. Non so dire quando avessi iniziato a piangere,
non ne ho ricordo.
Il conto alla rovescia partì dagli altoparlanti del ponte,
rimbombando in tutto l’hangar nella voce metallica di un uomo.
Tremante, mi inginocchiai a terra, strisciando piano sul portellone
finché non raggiunsi una vista abbastanza chiara dello
spazio sottostante. Ormai l’Andor doveva trovarsi a otto o
nove dieci metri d’altezza. Davanti a me, Mariceli non era
che una sagoma in lontananza.
Non troppo distante, comunque.
«È farle un favore» mi ripetei, ed
è ciò che continuo a ripetermi ogni giorno, ogni
notte, ogni volta che incrocio il mio stesso sguardo allo specchio.
“ …
Dieci, nove …”
Sotto di me, sentii chiaramente i motori dell’Andor
prepararsi a partire alla massima potenza. Pregai con tutto me stesso
di non venire scaraventato di sotto, poi mi costrinsi a prendere la
mira.
Un favore.
Un favore. Anche se
muoio, sarà stato un favore.
“ …
Quattro, tre …”
«È un favore».
Si era legata la sciarpa rossa del Capitano Halos in fronte, un punto
colorato in mezzo al grigio dell’hangar. Un segnale, un
invito, un bersaglio.
Scelse anche come morire.
L'irreparabile.
Alla fine, in un modo o nell'altro, doveva succedere.
Mi sento un po' in colpa perché, visto quello che
è
successo nel capitolo precedente, è veramente una sofferenza
dietro l'altra, ma non c'era davvero niente da raccontare nel mezzo,
quindi ... mi dispiace.
Più o meno, la storia è finita.
Ci saranno altri due capitoli, o meglio: un capitolo conclusivo, il
prossimo, in cui ci sarnano sia nuove conoscenze che ritorni, e un
epilogo, un modo diverso di vedere la storia, un cambio di prospettiva
(insomma: uno sfizio che mi sono voluta togliere).
Non c'è molto altro da aggiungere; le morti dei personaggi
mi
lasciano sempre addosso un certo senso di vuoto e di mancanza che
impiego sempre un po' a processare. Anche se questo non mi salva dal
scriverle.
Barbagianni,
Lechat vert
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Capitolo 15 *** parte quindicesima – se sei solo ***
saboteur
«Non ci
vorrà molto».
«Lo so, Cassian. Non è la prima volta che mi viene
fatto un backup».
«Va bene, allora … registra questo messaggio, per
favore».
«Per chi?»
«Non l’ho ancora deciso. Tu fallo».
«Va bene».
«Dunque … ah, sì. Ci sei,
Kappa?»
«Quando vuoi».
«Il giorno in cui Travia Chan creò il Gruppo
Resistente di
Atrivis, unendo per sempre le forze ribelli di Fest con quelle
liberatrici del Sistema di Mantooine, noi dell’FRG ci
sentimmo
inevitabilmente traditi. I miei due compagni di stanza (troppo
taciturni perché io ne ricordi il nome a così
tanti anni
di distanza), lasciarono quella che con solennità chiamavamo
“la Resistenza” per passare beceramente
all’Impero.
«Meglio inculati la divisa che inculati con le palle al
freddo e
coi mantooiani intorno», mi disse uno di loro poco prima di
sbattere la porta e, passata la sorpresa di sentirgli dire
più
di tre parole nella stessa frase, mi sedetti sulla mia branda a
contemplare la stanza nella sua vuota solitudine.
Quel giorno compivo sedici anni».
Come finire una storia che di per sé è
già finita? Successero così tante cose, dopo quel
giorno, e non ne ricordo nessuna con piacere.
La Squadriglia Anima e il Mercantile Andor atterrarono due giorni dopo
su Fedje, un pianeta del Sistema di Atrivis su cui Travia Chan non era
ancora arrivata a spadroneggiare dopo aver allargato gli orizzonti del
suo gruppo di ribelli. La incontrammo non appena arrivati e
riuscì con una buona dose di talento a deludere le
aspettative di tutti: era più interessata ai miei resoconti
che a quelli dell’Anima, ma sospetto ancora oggi che
l’unico motivo del suo entusiasmo nel vedermi vivo e vegeto
fosse la possibilità di spiattellarmi in faccia quanto
ingenua fosse stata Mariceli a credere di poter giocare con
l’Impero una seconda volta dopo essere stata graziata dalla
sorte la prima.
Non risposi che a poche domande, poi mi chiusi in un silenzio che
durò anni.
«È sconvolto» mi difese Cunha, seppur
poco convinto lui stesso. «È un ragazzo».
«Un ragazzo che spara e va in guerra come tutti
noi» lo riprese Travia Chan, impassibile. «Non vedo
alcuna differenza tra te e lui, Anima Tre, se non nel fatto che a
differenza sua tu segui i miei ordini».
Fu l’ultima volta in cui ebbi a che fare con il Gruppo di
Atrivis, Travia Chan e tutti gli ex membri dell’FRG.
L’Andor atterrò su Fedje danneggiato dalla fuga e
dalla missione e, così come me, da lì non si
mosse per molto tempo.
Con il nome di Aach Zanedi e dei documenti falsi che mi procurai con
alcuni dei crediti che trovai nascosti sulla nave, riuscii ad
accaparrarmi un lavoro come assemblatore presso le Industrie Arakyd,
dove imparai a montare e smontare droidi con la stessa
velocità con cui al mattino mi alzavo dalla branda per
sfuggire agli incubi.
Ricordo che passai mesi dormendo a stento cinque ore a notte. Se non
erano gli incubi, a svegliarmi, era il rumore del bastone di Mariceli
che batteva contro i pavimenti metallici della navetta. Se non era il
bastone, era la risata del Capitano Halos. A volte credevo di vederli,
di sentire le loro mani sulle mie spalle, le loro dita tra i capelli.
La cosa che faceva più male era il mutismo con cui si
dileguavano quando mi chiedevo se fossero reali.
Alternando le allucinazioni al lavoro, tiravo avanti. Di tanto in
tanto, Cunha passava a trovarmi e mi portava notizie da Fest. A casa
del Capitano Halos insistevano affinché andassi a stare da
loro, ma sentivo di non avere nemmeno il coraggio di guardarli in
faccia. Ancora oggi, continuo a fuggire.
Avrei potuto andare avanti così fino al giorno in cui avrei
delirato completamente, diventando incapace di distinguere dove
cominciava l’allucinazione e dove invece finiva la
realtà, ma ci si mise di mezzo l’Impero. O meglio,
ci si mise di mezzo l’unico imperiale che all’epoca
avesse una vaga idea della mia esistenza.
«Aach Zanedi?»
Ricorderò sempre l’ultima volta in cui ebbi la
grazia di sentirmi chiamare in quel modo senza sussultare in preda al
terrore di essere stato scoperto. Immagino che non avessi davvero
niente di cui avere paura, quel giorno, perché ero un
ragazzo come tanti altri che tentava con scarso successo di riparare il
motore del vecchio rottame su cui abitava.
Prima di voltarmi posai la saldatrice, togliendomi il casco e balzando
giù dall’ala sinistra dell’Andor.
«Sì?» chiesi.
L’ufficiale che mi ritrovai a due spanne dal naso
piegò gli angoli della bocca in un sorriso cordiale, di cui
diffidai immediatamente. «Finalmente, maledizione, eccoti
qui» commentò, sospirando. Poi alzò di
colpo gli occhi sulla nave. «Non parte
più?»
«È vecchia; qualcuno l’ha mollata qui
perché fa più danni che altro».
Sbottonai la giacca che avevo addosso, l’unica tra quelle del
Capitano Halos che riuscissi a indossare senza dovermi perdere nelle
spalle ampissime. «Posso esserle utile?» chiesi.
Forzai un sorriso, obbligandomi ad apparire cordiale. Avevo smesso da
un po’ di andare a cercare problemi, anche se in qualche modo
mi ci ritrovavo sempre in mezzo.
«Molto utile, in effetti, ma non qui». Con un cenno
del capo, l’ufficiale mi indicò i soldati che
componevano la sua scorta, tre assaltatori armati intenti a controllare
la nave. «Troviamo un posto tranquillo dove parlare con
calma».
Corrugai la fronte, portando istintivamente la mano alla cintura. Oltre
il tessuto della giacca aperta sul petto, sentii chiaramente
l’impugnatura del mio blaster.
L’ufficiale se ne accorse e soffocò ogni mio
intento con un severo cenno del capo. “ Non devi per forza morire oggi”
mi dissero i suoi occhi neri, colmi di una freddezza che sul momento
non mi sembrò del tutto estranea.
Deglutii. «Possiamo andare dentro» proposi.
«Mi sembra un’ottima idea».
Stavo pianificando di scappare non appena la situazione avrebbe preso
una brutta piega (ed ero certo che l’avrebbe presa presto,
ammesso che non l’avesse già fatto), ma dovetti
abbandonare ogni speranza di fuga. Come salimmo sul portellone
dell’Andor, il droide di sicurezza che accompagnava gli
assaltatori si staccò dal gruppo e ci raggiunse,
obbligandomi a constatare con rammarico che la sua stazza era
più che sufficiente a mozzarmi un braccio.
«Questo è K-2SO» mi disse
l’ufficiale, precedendomi. «Ignoralo e ti
ignorerà».
Dubbioso, rimasi a guardare il droide. «Ciao,
K-2SO» tentai.
Lui si chinò appena. «Buongiorno, Aach
Zanedi».
Si riconosce subito un compagno di vita, quando lo si incontra, anche
se all’inizio lo si scambia quasi sicuramente per una gran
seccatura.
Passai tutto il tragitto dal portellone alla stazione informatica ad
escogitare una maniera sufficientemente efficace di saltargli addosso e
strappargli la scheda madre prima che lui potesse strappare un
qualsiasi arto a me. Non mi venne in mente niente di buono,
perciò mi costrinsi a comportarmi bene e a sperare, visto
che la speranza era tutto ciò che mi era rimasto.
Quando varcai la soglia della stazione e mi ritrovai davanti a
quell’uomo seduto al computer con le mani già
impegnate a tentare l’accesso ai dati della nave, per un
brevissimo istante ebbi la netta sensazione di aver perso anche quella.
«Magari posso aiutare a trovare quello che sta
cercando» buttai lì, imponendomi risolutezza.
L’uomo si voltò e mi guardò con
sufficienza, alzando con noncuranza un sopracciglio come a voler
sottolineare il suo scetticismo. «Non
c’è nessun Zanedi» disse, con una
semplicità che mi colpì forte quanto uno
schiaffo. Dopodiché, tornò ad occuparsi del
computer. «Ma questo lo sapevo già,
perché stavo cercando Willix».
Restai immobile, completamente congelato.
Lui piegò il capo, mostrandomi una piccola cicatrice
all’altezza delle labbra. «No?» chiese,
in un tono lieve che però non riuscii a percepire come
rassicurante. «Allora Joreth Sward».
Seppur nel panico, finsi indifferenza. «Il mio nome
è Aach Zanedi».
L’ufficiale alzò le spalle e si voltò
nuovamente. «K-2SO, resta di guardia fuori dalla stazione,
facci parlare da soli» sospirò, togliendosi il
berretto.
Con un ronzio d’assenso, il droide obbedì e
andò a piantarsi sul ponte.
Io mi ostinavo a non muovere un muscolo.
«Va bene, ricominciamo» mi concesse con un sospiro
l’ufficiale, invitandomi ad avvicinarmi. «Dando per
assodato che Aach Zanedi non esisteva fino a un anno fa, sto cercando
un tale di nome Willix che si faceva chiamare Joreth Sward».
Avevo la faccia ancora sporca di grasso da macchine per cui, credo,
riuscii a nascondere sufficientemente bene la paura che mi fece
impallidire. «Io mi chiamo Aach Zanedi» dissi e, in
quel momento, implorai me stesso di dimenticare la verità. Aach Zanedi,
continuavo a pensare. Come se ripetermi quel nome potesse in qualche
modo cancellare quello vero. Aach
Zanedi, ti chiami Aach Zanedi, sei orfano e questo mercantile lo hai
trovato abbandonato.
Non potevo prevedere ciò che seguì.
L’uomo evitò di rispondere, togliendo le mani
dalla tastiera del computer e poggiandosele in grembo. Poi, sbuffando,
si piegò su se stesso e batté le nocche sulla
gamba destra, all’altezza della tibia.
Nella stazione risuonò il rumore metallico di una protesi.
«È nuova» mi spiegò, alzando
le spalle. «Faccio fatica ad abituarmi e me la devono
cambiare minimo due volte l’anno. Giuro, è
l’ultima volta che ci metto mano».
Allungò un braccio nella mia direzione, poi mi sorrise di
nuovo. «Presumo che tu abbia già sentito qualche
storia su di me. Tenente Molan Solpea, molto piacere».
Sentire quel cognome pronunciato per la prima volta dopo mesi non dalla
mia stessa voce ma da quella di qualcun altro, rese tutto quello avevo
passato un po’ più reale e vicino di quanto non lo
fosse stato nella mia solitudine.
Ebbi la chiara sensazione di sentire i miei organi collassare uno dopo
l’altro, ma fu un malessere che non durò che un
istante, subito sostituito dallo sgomento, dalla sorpresa, da una paura
ancora più grande di quella che avevo avuto addosso fino a
quel momento.
Sprofondai sull’unica sedia che trovai, respirando a fondo un
paio di volte prima di riuscire a mettere assieme una domanda sensata,
una tra le migliaia che la mia testa gridava: «Come mi hai
trovato?»
Molan Solpea mi osservò con quella che credo fosse
curiosità, una luce sinistra nel nero dei suoi occhi piccoli
e tondi. «Ho tirato a indovinare che fossi uno senza un posto
dove andare» rispose. «E che saresti rimasto sulla
nave».
Sbuffai. «Come hai trovato la nave, allora».
Lui quasi si offese. «Per favore. Mia sorella non ha mai
mosso un dito senza che io lo venissi a sapere. Ho seguito questo
mercantile ovunque. Su Devon, su Iridium, su Fodro, Gibbela
… persino su Wobani, in un certo senso ero con
voi».
Mi rabbuiai, e lui lo notò immediatamente.
Provò a rimediare.
«Siamo una famiglia di sabotatori, noi Solpea. Spie, ladri,
informatici … brutta gente, dico davvero»
raccontò, forzando un sorriso che gli appiattì le
labbra in un’espressione innaturale. «Ma oggi sono
venuto a porgerti le mie scuse. L’ho tenuta
d’occhio, ma non è bastato. Sarei dovuto essere
lì con voi».
Sentii i polmoni smettere di dare aria al resto del corpo, e mi
costrinsi a scuotere il capo. «No, non è
vero» mi ritrovai a rispondere. Quella su Wobani era una
questione di Mariceli e Mariceli soltanto; io stesso non ero stato che
un ospite, un testimone, anche se alla fine ero diventato un carnefice.
Mi sentii pervadere dallo stesso senso di vuoto che mi prende ancora
oggi quando ripenso alle mie dita che premono un grilletto. Su ogni
uomo trovo una giustificazione, un appiglio a cui ancorarmi per non
cadere vittima dei sensi di colpa. Con Mariceli continuavo a ripetermi
di averle fatto un favore, ma era una scusa che aveva smesso di
funzionare da tempo.
Seppur nel mio malessere o forse proprio per quello, fu
l’unica volta in cui mi trovai accanto a un ufficiale in
divisa imperiale senza la sensazione di essere a un passo dalla fine.
Era un uomo che aveva seguito in silenzio sua sorella per tutta la
vita, che a modo suo l’aveva protetta, che aveva avuto tutti
i mezzi per sventare decine di colpi ribelli ma non l’aveva
mai fatto. Forse, mi dissi, era un uomo buono.
«Vorrei che mi parlassi di lei».
Molan Solpea si accigliò. «Di mia
sorella?» Sono convinto che nemmeno lui riuscisse ancora a
pronunciare il suo nome.
«Sì, per favore».
Vorrei poter dire molte cose del Tenente Molan Solpea. Di come mi
aiutò a combattere i miei fantasmi, ad esempio. O ancora di
come lasciò l’Impero e si unì a me, di
come assieme rimettemmo assieme l’Andor che ormai aveva
smesso di volare e ci unimmo all’Alleanza Ribelle. Immagino
fossi ancora troppo ingenuo per comprendere il vero motivo della sua
comparsa; mentre lo ascoltavo parlare di Mariceli con la voce incrinata
dalla nostalgia, a stento faticavo a considerarlo un nemico.
Fu così che raggirò ogni mia barriera, con la
stessa tecnica che Mariceli mi aveva insegnato su Wobani:
provò a diventare mio amico.
«Non ci parlammo per due anni» mi
raccontò, perso in una malinconia che credo non facesse
fatica a provare. «Quando scoprii che era finita su Fest
… avrei voluto radere al suolo il pianeta intero, credo. Mi
importava solo di averla a casa».
«Non volle venire?»
«La trovai in una cucina a preparare da mangiare con dei
bambini. Piangevano tutti. Una donna li radunò
nell’angolo, contro l’armadio, e ordinò
loro di guardare il muro. Credeva fossi venuto per ucciderle entrambe.
Mia sorella invece non batté ciglio. Raccolse il coltello da
carne e me lo puntò contro senza neanche degnarsi di
scomporsi. Sul momento, pensai che fosse uguale a nostra madre.
“Vattene e non azzardarti mai più a farti vedere
da queste parti” mi disse, e intanto continuava a farmi
indietreggiare con in mano uno stupido coltello sporco di grasso.
“Qui comando io, e se non te ne vai questo te lo pianto in
mezzo agli occhi”. E all’epoca avrei anche potuto
dimostrare facilmente che quel casale era un covo di ribelli festiani,
ma come fai a covare rancore quando la stessa bambina a cui hai
insegnato a camminare ti minaccia senza neanche dare segni di rimorso?
Cos’eravamo diventati, pensai. Sembravamo davvero una ribelle
e un imperiale».
Non mi mossi dalla sedia, completamente rapito. C’era
così tanto che volevo sapere.
«Ma lei non mi ha mai parlato di te come un
pericolo» sottolineai, stranito.
Molan Solpea accennò un sorriso. «Non lo
sono» rispose. «Non per mia volontà,
almeno. Ho sempre saputo di mia sorella e non l’ho mai
denunciata, nonostante quel giorno. Ma era arrabbiata con me, lo
comprendo. È uno screzio che nessuno dei due ha mai
dimenticato: per tutto questo tempo, non abbiamo fatto altro che
lasciarci soli a vicenda. Però ci volevamo bene».
«Non credo lei si sentisse abbandonata da te».
«Forse quando è morta lo ha pensato».
Forse lo pensò davvero. Chi può dirlo? Kappa una
volta ha calcolato che l’ultimo pensiero più
comune tra gli uomini morenti ha alte probabilità di essere
riservato alla famiglia, ma non mi sono mai trovato
d’accordo. Se dovessi essere io, a morire, a chi penserei?
Inoltre, dubito che Molan Solpea potrebbe mai ritrovarsi nella
situazione di dover scegliere a chi rivolgere il suo ultimo saluto. In
tutte le occasioni in cui ci incontrammo negli anni successivi,
sembrò più intenzionato a tenersi cara la vita
che a pregare i suoi morti. Ma che a differenza di Mariceli non fosse
un uomo dedito a un ideale lo avevo capito dalla prima storia che lei
mi raccontò di lui; quelle che ebbi a seguire non furono che
conferme. In fin dei conti, non ebbi mai difficoltà a
convincermi del fatto che con Mariceli avesse poco o niente a che fare.
Se da una parte la solitudine rende ingenui, dall’altra
insegna anche a fiutare il pericolo. Non mi fidavo del Tenente Solpea,
non del tutto almeno, anche se sentivo di non essere dinanzi a un
nemico. Lo guardavo raccontare di sua sorella in un modo goffo che non
c’entrava niente con la maniera suadente che aveva lei di
confidare i suoi segreti a chi era disposto ad ascoltarli, e intanto
sentivo nella mente le sue parole: “ Si arruolò per non
avere ulteriori problemi con gli imperiali”.
Non so esattamente quando iniziai a sentirmi in trappola. Molan Solpea
non disse niente di particolare, non si mosse quasi dalla sua sedia.
Eppure all’improvviso qualcosa in lui mi mise in guardia.
Lo pensai con una calma che a posteriori mi sconvolse: “ se non voleva problemi con gli
imperiali quando lasciò che sua sorella crescesse da sola su
Fest, perché ora è qui e non mi ha semplicemente
arrestato?”
Non ho mai creduto nella redenzione; non in quella di un vile, ad ogni
modo.
Lentamente, allungai il braccio verso il pannello di controllo
informatico e sganciai la sicura del sistema di sicurezza.
Molan Solpea mi lasciò fare, e così sigillai ogni
uscita. Il portellone della navetta, la botola della plancia, la porta
della stazione informatica. K-2SO rimase fuori.
«Il sistema lo ha progettato lei» spiegai, teso.
«È a prova di droide».
Molan mi sorrise. «Io li so risolvere in fretta, i sistemi di
sicurezza di mia sorella» rispose. «E, nel caso ti
fosse venuta in mente qualche idea sconsiderata: ho un
blaster».
«Anche io ho un blaster».
«Bisognerebbe vedere chi è più
veloce».
Nella paura, soffocai una risata. «No, non serve. Non avresti
i riflessi abbastanza pronti». Presi una pausa, imponendomi
la calma. Incredibilmente, non lo trovai affatto difficile.
«Non sei in veste ufficiale, altrimenti avresti
più uomini e non saremmo qui da soli. Però di
fatto dei soldati ci sono, non sei venuto su Fedje per delle scuse,
quindi … cos’è che vuoi?»
chiesi, serio.
Molan Solpea non batté ciglio, ma glielo lessi in faccia che
non si aspettava tanta schiettezza. Segretamente, me ne rallegrai.
Giocò al mio stesso gioco, e per una volta fu diretto.
«Voglio che tu ti costituisca» mi disse,
schioccando piano la lingua sul palato. «L’Impero
ha riconosciuto mia sorella, e adesso sta indagando su di me. Mio padre
sovversivo, lei una ribelle che è rimasta su Rasp per un
anno fingendosi un ingegnere … ci hanno messo poco fare due
più due».
Non gli permisi di riprendere il controllo.
«Non mi posso costituire» sussurrai, stringendo i
denti. «Non ho fatto niente».
Lo vidi sospirare, afflitto.
«Senti» disse.
«Com’è che ti devo chiamare? Willix?
Joreth?»
«Aach andrà benissimo».
«D’accordo, Aach sia. La situazione è
questa, Aach:
non hai nessuno. Vivi su un vecchio mercantile che non vola
più, alla fabbrica mi hanno detto che non hai famiglia, in
più mia sorella non mi ha mai parlato di te, quindi la butto
lì: probabilmente ti avrà raccolto per
strada». Rimasi in silenzio, il che dovette farlo sentire in
diritto di continuare. «Io ho cinque figlie, la
più piccola ha appena compiuto un anno. Per tenerle al
sicuro, ho davvero
bisogno che l’Impero chiuda l’indagine su mia
sorella, e lo può fare soltanto se ritroverà il
ragazzo che si era portata dietro su Wobani».
Non riuscii a trovare la forza di ribattere, non subito. Ero spiazzato:
come poteva un tale codardo avere a che fare con la stessa donna che
aveva sfidato un impero intero senza mai concedersi il lusso di tremare?
Molan Solpea sospirò pesantemente. «Non
è facile, lo so» concluse. «Ma sono
cinque bambine che cresceranno senza nessuno. Tu lo dovresti capire
meglio di chiunque altro, Aach».
Lo capivo benissimo, per questo per un istante mi convinse a pensare di
costituirmi sul serio. Pensai che, in fin dei conti, Mariceli amava suo
fratello e le sue nipoti, che per loro avrebbe voluto il meglio. Ora
che non c’era lei, a proteggerle, ora che il loro padre si
era dimostrato così codardo, forse dovevo esserci io.
Non so bene cosa mi fece esitare. Egoismo, paura, forse la repulsione
che provai per quel fratello che non era affatto come me
l’ero immaginato. Però non riuscii a dire di
sì. Avevo ancora delle cose da fare, anche se fino a quel
momento mi ero scavato uno spazio che mi scusasse a non farle.
Mi resi conto che, attraversato il punto che stavo per attraversare,
non mi sarei mai più potuto guardare indietro.
«Mariceli» risposi, scoprendo quanto doloroso fosse
pronunciare quel nome. «Ha lasciato delle cose».
Era una bugia bella e buona, ma sperai che il grasso coprisse la mia
incapacità di mascherare la tristezza. «Se mi devo
costituire, vorrei che le avessi tu».
Molan Solpea sollevò un sopracciglio. «Delle
cose?»
Annuii. «Ci teneva che restassero in famiglia».
«D’accordo, voglio crederti».
Non mi credette neanche per un istante, ne sono convinto. Io stesso non
avrei mai creduto a una scusa simile. Eppure sono questi, i compromessi
a cui si scende quando si perde qualcuno: si abbassa ogni difesa nella
speranza di ritrovarlo. Io l’avevo fatto fidandomi di lui,
lui lo stava facendo fidandosi di me. In quel momento, eravamo
spaventosamente simili.
Per questo fu un po’ più facile colpirlo.
Mi voltai con la scusa di fargli strada, respirando a fondo mentre gli
occhi vagavano nella stanza alla ricerca di qualcosa di
sufficientemente pesante. La protesi gli dava fastidio,
perciò non poteva avere dei riflessi più pronti
dei miei.
Avevamo quasi raggiunto la porta quando notai l’estintore
appeso al muro. Sicuramente non avrebbe mai più spento
incendi, valutai, e con tutta la forza che avevo nelle braccia lo
strappai dal suo supporto e lo gettai sulla gamba di Molan Solpea con
l’intenzione di sfondarla.
Piegato su se stesso in un goffo tentativo di ammortizzare il colpo,
lui provò a raggiungere il blaster che portava legato alla
cintura, ma fu troppo lento.
Fargli del male fu come punire me stesso per qualcosa di cui mi sentivo
colpevole.
Mirai volutamente al ginocchio. Avrei potuto colpirlo alla protesi, lo
avrebbe ugualmente tenuto a terra. Però con il tempo capii
che non avevo altro modo di liberarmi: io avevo sofferto, Mariceli
aveva sofferto, il Capitano Halos aveva sofferto. Ora toccava a lui.
Come sparai, si contorse con un grugnito di dolore, il suo blaster
ormai abbandonato accanto al fianco. «K-2SO!»
gridò, mentre le sue mani annaspavano cercando
l’arma che mi premurai di allontanare con un calcio.
«Dà l’allarme! Butta giù
questa porta!»
Alle mie spalle, sentii il tonfo di un corpo contro l’uscio
sbarrato.
Puntai il blaster contro il viso di Molan Solpea e lo guardai
dall’alto, senza nemmeno permettermi di respirare.
«Di’ al droide di fermarsi» gli intimai.
«O ti uccido qui».
Lui mi fulminò con l’odio acceso dei suoi occhi
neri, rantolante al suolo mentre il droide provava a sfondare la porta.
«Se muoio io, muori anche tu» mi ricordò.
Ne ero consapevole; non volevo neanche sapere cosa mi avrebbero fatto
gli assaltatori che in quel momento probabilmente stavano facendo
saltare il portellone. Tuttavia, non mi importava. «Io non ho
nessuno» risposi, lucido. «Tu hai cinque figlie.
Hai detto che l’Impero sospetta di te, no? Immagina cosa
farebbe loro se non dovessi tornare».
Non so se sarei mai riuscito a ucciderlo davvero. Di certo, dovetti
sembrare molto convincente.
«Di’ al droide di andare nella navetta di sicurezza
e mettersi in ibernazione» dissi di nuovo, affilato, freddo.
Molan Solpea emise l’ennesimo grugnito dolorante, ma alla
fine cedette. «K-2SO» sospirò,
sconfitto. «Stand-by e navetta d’emergenza.
Ora».
Sentimmo gli ingranaggi del droide ronzare, dopodiché
l’unico rumore fu quello dei suoi pesanti passi allontanarsi
sul ponte della nave.
Trassi un sospiro di sollievo.
«E adesso dove te ne vuoi andare?» mi chiese il
Tenente, interrompendo il muto compiacimento della mia vittoria con una
risatina che sapeva di sarcasmo. «Su Fest a fare il
ribelle?»
Per una volta, non riuscì a spiazzarmi con una domanda messa
lì apposta per cogliermi di sorpresa.
«Sono affari miei» ribattei, poi scoccai
un’occhiata la computer che ci sovrastava. Quanti dati
pericolosi c’erano, lì sopra? Sicuramente
c’erano tracciate le rotte di Fest. Dubitavo che Malon Solpea
le avrebbe utilizzarle per un attacco, ma c’era pur sempre
l’Impero di mezzo … dopotutto, come avrebbe
giustificato l’essersi lasciato mettere i piedi in testa da
un ragazzo? Senza contare che avrebbe dovuto fornire spiegazioni del
perché fosse andato a ficcanasare su Fedje, e che denunciare
l’Andor sarebbe stata la scelta più ovvia da parte
sua per non incorrere in un richiamo.
Nel dubbio, raccolsi il suo stesso blaster da terra e feci scattare la
modalità stordimento.
«Mi dispiace» dissi, guardandolo mentre prendevo la
mira. Altra menzogna: non mi dispiaceva per niente.
Lui, intanto, si teneva ancora la gamba. «Mi hai
già fatto
del male abbastanza per farlo sembrare un attacco»
sbottò. «Mi toglieranno comunque dalla lista dei
sospetti anche senza lo stordimento, grazie tante».
«Sì, io intanto li avrò dietro per
giorni» risposi, sospirando. «Grazie tante a
te».
Mentre sparavo, nelle orecchie sentii chiaramente la risata del
Capitano Halos. Immaginai che, se fosse stata lì, Mariceli
ne sarebbe stata un po’ meno soddisfatta.
Lasciai Fedje così, a bordo di una navetta di salvataggio
dopo aver formattato il computer di bordo e con un droide spento in un
angolo ponte. Alle mie spalle rimase il mercantile e il Tenente Solpea
con una gamba da far operare. Fu fedele a ciò che mi disse,
però: non vi mise più mano e, tutte le volte che
mi capitò di rivederlo, fu in compagnia di una stampella.
È strano quanto poco riesca a ricondurlo a Mariceli: i figli
del Capitano Halos si assomigliavano tutti, in un modo o
nell’altro; Mariceli e Malon, invece, non avevano che gli
occhi dello stesso colore.
*
Per far perdere le mie tracce, utilizzai tutta l’energia
immagazzinata nei motori e mi allontanai quanto più
possibile da Fedje. In solitudine, atterrai su Codia, uno dei tanti
pianeti sabbiosi attorno alla zona di Jedha, e la prima cosa che feci
fu quella di trovare la maniera più scaltra di liberarmi
della navetta senza rimanere abbandonato in mezzo al deserto. Certo,
non era qualcosa che potessi fare da solo.
Smontare il modello KX di Malon Solpea per infilarci dentro la scheda
madre del Capitano Halos e fare in modo che funzionasse fu una gran
lunga seccatura, ma a conti fatti ne valse la pena. Non ricordo gioia
più grande di vedere quei due occhi biancastri illuminarsi e
scrutarmi con diffidenza, né un senso di sollievo
più forte di quello che provai guardando quel corpo
meccanico muoversi lentamente sul pavimento della navetta.
«C’è del lavoro da fare» fu la
prima cosa che mi disse Kappa. Poi mi raccolse letteralmente da terra
assieme agli attrezzi che avevo in mano e si sedette al sedile di
pilotaggio con la schiena ancora aperta in un continuo guizzare di cavi
e ingranaggi. «Andiamo, Cassian. Tylan ci starà
aspettando. Sei sempre in ritardo».
Impiegai quasi tutta la sera a spiegargli come fossero andate le cose.
Ogni volta che glielo ripetevo, lui entrava in negazione. Mi
ricordò più un essere umano che un droide, e
forse fu per questo che mi affezionai così tanto a lui da
non gettare la spugna e insistere sul mio racconto.
Alla fine, dopo molta pazienza, parve comprendere.
«Dunque hai abbandonato l’Andor»
considerò, atono. Stringeva ancora le mani attorno al
volante.
Annuii. «Non avevo altro modo, e poi erano anni che Molan
Solpea l’aveva tracciato. Mi dispiace».
Lo sentii emettere un suono del tutto simile a un sospiro.
«Va bene così, me lo aspettavo che avresti fatto
qualcosa di stupido, prima o poi. Ora non abbiamo più un
posto dove tornare».
Deglutii. «Non è vero».
«Non penso che l’ottimismo possa aiutare».
«No, dico … abbiamo trovato qualcosa, su
Wobani».
«Ah sì?» Gli ingranaggi di Kappa
guizzarono di nuovo. «E cosa avreste trovato, su
Wobani?»
Mi strinsi nelle spalle. «Un’offerta di aiuto,
vedila così». Avevo un’idea molto
precisa di cosa avessimo tra le mani, anche se non immaginavo
minimamente che cosa poi saremmo diventati.
«Sei un tipo davvero imprevedibile per la tua età,
Cassian. Spero tu te ne renda conto».
Contando che Kappa non è un tipo da fare complimenti se non
in caso di stretta necessità, a ripensarci mi sento alquanto
onorato.
Assieme, risolvemmo Quantificatore,
il codice che mi portavo dietro da mesi e che aveva messo radici tanto
profonde nella mia mente da prendersi anche i miei sogni. Mi ero
chiesto per notti intere: “ se non ci sono riusciti i
crittografi imperiali, a comprenderlo, come posso riuscirci io?”,
e in un certo senso fu quella stessa riflessione a farmi capire. Non
c’era niente da decifrare, niente da sognare di notte.
«Il simbolo alla fine dei numeri quantifica la
funzione» spiegai a Kappa, al quale avevo affidato il compito
di occuparsi dei calcoli. «Si leggono le cifre partendo da
destra, e si inseriscono nell’algoritmo originale come
risultato. Poi si ricalcola al contrario».
«Io penso …» Gli ingranaggi di Kappa
guizzarono in suono del tutto simile alla stizza di chi ha sempre avuto
la soluzione sotto al naso ma non è mai stato in grado di
coglierla. «… Penso che sia una maniera
esageratamente semplice di risolvere la cosa, Cassian. Se fosse come
dici tu, l’Impero avrebbe il 100% delle
possibilità di rintracciare il segnale».
Strano a dirsi: mi era mancato.
«Infatti l’Impero lo ha rintracciato»
risposi. «Ma deve esserci qualche sistema
dall’altra parte che filtra i collegamenti e rifiuta quelli
provenienti da indirizzi ufficiali».
«E il codice da decifrare sarebbe solo una falsa pista per
far passare inosservati i filtri?»
«Si può fare?»
«Nella tua testa pare di sì».
Avevo ragione, anche se non mi è consentito rivelarne i
particolari. In generale, tutto Quantificatore ha lavorato per anni
grazie al fatto che le forze imperiali sottovalutavano quelle ribelli.
Se solo fossero stati più cauti, su Wobani,
l’Alleanza stessa forse non sarebbe mai riuscita a nascere.
“Qui Quantificatore”.
La voce che si diffuse quella notte nella navetta non era quella del
Generale Draven, ma le somigliava moltissimo.
Trattenni il fiato, stringendo le mani attorno al microfono
dell’interfono come se il metallo fosse la mia salvezza. Lo
era, in un certo senso, perché il precario equilibrio che mi
ero costruito di Fedje era stato distrutto del tutto. «Parla
la navetta Andor» risposi, boccheggiante. Per un attimo,
dimenticai ogni cosa. «Cassian, sono Cassian».
Il segnale era debole, continuamente interrotto dai fischi di
un’altra trasmissione che tendeva a sovrapporsi alla nostra.
La voce esitò un poco, fischiando nell’interfono.
“Andor … Cassian?” chiese.
Mi voltai a guardare K-2SO, in piedi al mio fianco con le braccia molli
in attesa di ordini. Io e un droide di sicurezza, tutto quello che era
rimasto della stessa Squadriglia Andor che un tempo aveva combattuto
per Fest. Mi feci un po’ più vicino al
comunicatore della plancia. Moriva un eroe, ne nasceva uno nuovo.
«Cassian Andor, confermo. Ho sentito il vostro messaggio, e
so dove sono i vostri compagni che me lo hanno portato».
“Comunica la tua posizione, Cassian Andor. Ti veniamo a
prendere”.
«Potrei avere qualche imperiale alle calcagna, probabilmente
ci hanno tracciati».
“Mantieni un basso profilo e il collegamento radio; al resto
pensiamo noi. Per ora chiudo”.
Io e Kappa ci scambiammo un’occhiata riluttante.
«Dobbiamo disfarci di questa navetta» dissi.
Lui annuì. «Lo avevo capito da solo, ma grazie
della precisazione».
Entrambi restii, abbandonammo l’Andor e ci affacciammo al
freddo deserto di Codia. Era notte fonda, una di quelle ventose e
gelide in cui il cielo parla.
Mi vestii con tutto quello che riuscii mettermi addosso, compreso
quell’enorme giaccone che aveva addosso il pungente odore del
Capitano Halos e che avevo usato fino a quel momento su Fedje. Con lo
zaino in spalla e Kappa al mio fianco, mi arrampicai sulla cima di una
duna. Da lì, guardammo l’Andor bruciare
nell’esplosione causata dal tubo del riscaldamento che
avevamo spezzato prima di metterci in cammino.
Seppur da lontano, quell’ultimo fuoco di Fest mi tenne al
caldo.
Ero di nuovo in fuga, di nuovo braccato, di nuovo all’erta.
Solo che stavolta avevo Kappa, e la sola consapevolezza di non stare
combattendo una guerra da solo aveva spazzato via ogni angoscia.
«Sembri una brava persona, Cassian» mi disse lui,
una volta che entrambi ci fummo ritrovati con la sabbia fin dentro
l’anima.
Mi accigliai. «Grazie, Kappa» dissi di rimando.
«Anche tu sembri un bravo droide».
Per un istante, ci limitammo a guardare
l’immensità del cielo che ci sovrastava. Vidi una
stella cadente, credo. Forse fu solo un’impressione, eppure
sperai che qualcuno, da là sopra, ci stesse osservando in
silenzio.
«Sarai anche un buon amico, Kappa» sussurrai, senza
pensarci, rapito dal vuoto che circondava entrambi.
«Oh, grazie.» Nonostante il vento, sentii i suoi
ingranaggi ronzare. «Anche tu sarai un buon amico,
Cassian».
E poi facemmo grandi cose, Kappa ed io, e molte furono per la
Ribellione, altre per Fest, pochissime per noi stessi. Ma non ci
separammo mai più.
In fin dei conti, Mariceli aveva ragione: non sono mai riuscito a
liberarmi dell’Andor, anche se forse la mia fu una scelta
più che una condanna.
La verità è che quel giorno, quando compii sedici
anni e Cunha mi reclutò per andare su Rasp, credetti di aver
trovato una famiglia. Lo credetti quando passammo la serata a bere e a
giocare a carte, quando Mariceli mi permise di pilotare, quando
spendemmo notti intere a raccontarci storie, quando guardammo assieme
le luci nel cielo spegnersi. Quando su Wobani divenni Willix, poi
Joreth, e poi improvvisamente mi ritrovai ad essere Aach.
Erano la mia famiglia, e Kappa era stato il primo ad andarsene.
Però fu anche il primo a tornare.
Lo so, lo so, lo so, lo
so ci
ho messo tipo tantissimo e mi scuso veramente tanto. Però ho
una
buona scusante: ieri ho discusso la tesi e fino a stamattina ho avuto
la testa su un altro
pianeta. Ho davvero rischiato di inserire pezzi del discorso finale
nella
fanfiction, ero a tanto così perché ormai me la
stavo
sognando, quella benedetta tesi. Ma sono viva, quindi yey :D
E ora che dire? Ho finito di raccontare, stavolta sul serio. La storia
è finita. Insomma, finita finita
proprio no, perché la vita è andata avanti per
chi scrive e anche per chi è scritto. Malon Solpea
è lì proprio per questo:
concludere un arco di vita per aprirne un altro, quello della
Ribellione vera e propria.
Penso di aver finito, da aggiungere resta davvero poco.
Al prossimo e ultimo capitolo, vi abbraccerò e
coccolerò tutti come si deve. Quindi preparate la tenerezza.
BB8 in mezzo ai pulcini INSOMMA,
Lechat vert
PS: mi sono dimenticata
di scriverlo, ma la parte finale di questo capitolo si rifà
a questa bellissima fanart che ho
trovato tempo fa su Tumblr e per cui ancora piango. E niente, piangete
con me!
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Capitolo 16 *** posludio ***
saboteur
«Generale Draven, si
è già occupato del fascicolo?»
«Sarà pronto entro sera».
«Si assicuri di non dimenticarne nemmeno uno. Sono i nostri
salvatori; la storia non li dovrà dimenticare».
«Tutti segnati, ho già avvisato i familiari. Lo sa
che la maggior parte dei loro cari era sollevata?»
«Sollevata?»
«Sostengono che morendo abbiano saldato il loro debito con il
Capitano Andor».
«Non sono sicura di seguire il discorso».
«Yosh Calfor, Farsin Kappehl, Jav Mefran e Serchill Rostok:
erano
tutti nostri messaggeri con Quantificatore. Quelli che il Capitano
Andor salvò da Kessel quando entrò
nell’Alleanza.
C’è anche qualche membro della vecchia Squadriglia
Anima».
«Lo hanno seguito tutti?»
«Sì, più qualche altro pazzo che hanno
recuperato su Jedha».
«Altri membri noti?»
«Bé, Jyn Erso, ovviamente e … ora che
me lo fa notare, qualcosa non torna».
«Cosa?»
«Prima di decollare, hanno fatto testamento e ce lo hanno
fatto
trovare archiviato nel database. È firmato da tutti loro,
è così che li abbiamo rintracciati».
«E quindi?»
«La nave era per venti persone al massimo, invece sono stati
registrati ventuno nominativi».
«Chi manca all’appello, Generale Draven?»
«Qualcuno che si firma MS».
La morte era blu e sapeva di lana.
Quando il Capitano Andor aprì gli occhi, convinto di essersi
rotto l’osso del collo dopo essere precipitato per almeno
cinque metri nello strapiombo dell’archivio informatico, si
stupì di sentirsi dolorante e confuso, ma non da solo.
Qualcuno, non ricordava chi, un giorno gli aveva detto che quando si
moriva toccava farlo da soli. Invece c’era un respiro,
accanto al suo, caldo tanto quanto un fuoco e rassicurante come quello
di una madre.
Dolorante, si scostò piano da quel blu, portandosi in
ginocchio sulla gelida grata di ferro mentre a poco a poco i sensi
tornavano a funzionare.
«Avevo paura che non ti saresti svegliato in tempo».
Scarif era pieno di voci che non ci dovevano essere; spettri, in un
certo senso, ricordi, considerazioni lontane, uomini e donne che erano
rimasti indietro.
Realizzandolo, Cassian si passò la mano sul viso, pulendosi
la guancia da un rivolo di sangue fresco che colava dalla tempia. Aveva
battuto la testa? Nonostante fosse molto probabile, non riusciva a
ricordarlo.
Però vedeva i fantasmi.
«Cassian, andiamo!»
Mariceli aveva i capelli lunghi color della ruggine, il cappotto blu
con il colletto alto, il bastone di ferro poggiato in grembo.
Cos’altro? Cassian pensò che fosse invecchiata
parecchio, ma non riuscì ad esprimerlo a parole. Non
riuscì a fare altro se non osservarla alzarsi in piedi e
protendersi verso il niente che la sovrastava, pallida quanto un
cadavere e con la sciarpa rossa di suo marito stretta attorno al collo
come un cappio.
«Una bella caduta» constatò, piegando il
capo di lato. Sul suo viso apparve un sorriso tagliente quanto una
lama. «Qualcosa di rotto, Andor Cinque?»
Gli scoccò un’occhiata delle sue, una di quelle
colme di furbizia che facevano tornare la speranza anche ai disperati,
poi gli tese la mano per aiutarlo ad alzarsi.
«Coraggio. Per una volta, non sei da solo».
Per Cassian fu come precipitare di nuovo.
«Jyn» sussurrò, sgranando gli occhi e
mancando un respiro.
Mariceli annuì. «Oh, sì»
sussurrò. «Che meraviglia di ragazza».
Batté il bastone a terra, generando un toc che
risuonò dal fondo dello stanzone fino in cima al soffitto
appena visibile nell’oscurità. «Sai, ti
ho osservato» fece, guardandolo rialzarsi a fatica. Lo
aiutò, poi, appoggiandosi piano alla sua schiena e
affondando appena le dita nella stoffa della giacca in un abbraccio
goffo che sapeva di rassegnazione. «Tutto questo tempo, da
quando sei atterrato su Scarif».
Cassian non rispose, ma la raccolse da terra con la facilità
con cui avrebbe raccolto della polvere. In un certo senso lo era,
pensò. Polvere.
Se la caricò sulle spalle in un movimento così
lieve che per un momento credette di immaginarlo.
«Andiamo» le disse, sbuffando. «Non ho
tempo».
Mariceli era leggera, più leggera di quella volta in cui si
era appoggiata a lui mentre piangeva sul cadavere di suo marito.
Però era anche più fredda, più irreale.
Scalando quella torre infinita che si ritrovava a fissare dal basso,
Cassian pensò di aver raccolto l’ennesimo fantasma.
In equilibrio con i piedi piantati tra i dischi rigidi
dell’archivio, si stirò per raggiungere un
appiglio lontano abbastanza da farlo procedere, e digrignò i
denti in un’improvvisa fitta di dolore.
Senza accennare nemmeno un respiro, Mariceli gli accarezzò
il capo. «Te lo avevo detto che l’Andor non ti
avrebbe mai lasciato andare» rispose, poi sbuffò.
«Lassù, Cassian, andiamo. A fare queste cose eri
più bravo di me».
Per un istante si annullò, divenendo così leggera
sulle sue spalle da sembrare svanita nel buio, poi tornò a
tirargli scherzosamente i capelli. Svanì soltanto il tempo
di lasciarlo muoversi con libertà.
«Lo sapevo che ce l’avresti fatta, lo sai? Lo
dicevo tutto il tempo» commentò. «Tylan
era scettico, credo ce l’abbia con te perché mi
hai sparato, ma io insistevo: “sta’ a guardare,
adesso ce la fa. Quello gliel’ho insegnato io, stupido
vecchio!” Sono contenta di vederti qui».
Cassian non le rispose, deciso a proseguire. Pensava, ponderava nella
sua mente che quella che aveva sulle spalle non era altro che
un’allucinazione. Era lui stesso, in un certo senso, che
aspettava di sentirsi dire qualcosa. Ma cos’aveva da
confessare a se stesso, adesso che era sfuggito alla morte?
Sulla cima, il portellone della ventola sopra le loro teste si
aprì e la luce illuminò di vita il viso di
Mariceli. Sotto alle rughe leggere che le piegavano le labbra, si
accesero di colpo tutti i fuochi di Fest a cui lei aveva raccontato una
storia.
Forse non voleva sentirsi dire nulla, forse era lì per il
magro compiacimento di qualcuno che provasse orgoglio per lui.
Nell’Alleanza, di ammirazione Cassian ne aveva ricevuta
parecchia; però la fiducia disinteressata di
un’amica gliel’aveva data soltanto Mariceli.
Sempre più debole, si issò lentamente sopra
quell’ultimo ostacolo, alzando il naso sulla botola per poi
voltare il capo quel poco che il dolore gli permetteva. «Li
ho fatti morire tutti» sibilò, la voce
improvvisamente roca, colma di rabbia.
Mariceli lo guardò con gli occhi colmi di pazienza.
«Lo so» rispose, assottigliando su di lui il suo
sguardo scuro che brillava sempre come una battaglia. «Ma non
è quello che hai sempre fatto? Io e Tylan siamo morti con
te, e non siamo neanche stati i primi». Si addolcì
di colpo, sorridendogli con semplicità. «E invece,
lo sai? Potrei morire ancora cento volte per vederti fare quello che
hai fatto» disse, sul viso neanche un’ombra di
rimorso. «Lo hai visto come combattono gli uomini che ti
hanno seguito, Cassian».
«Cunha è tra loro».
«Cunha ha dato retta a un solo capitano, nella sua vita. Ma
per la miseria, non è mai stato Tylan. Va’ avanti,
non hai tutto il giorno».
Assieme si tirarono oltre la botola, piegandosi sul metallo gelido
della grata che la teneva ferma per riprendere fiato.
Se mai Cassian aveva dubitato di poter raggiungere la cima, ora ne era
quasi del tutto certo che avrebbe riperso i sensi prima di vedere il
cielo. Ammesso che li avesse mai riacquistati, naturalmente. Gli
sembrava tutto così vago, attorno a lui, da sembrare quasi
un sogno. Forse era ancora sul fondo in preda ai deliri
dell’agonia.
«Ascolta, c’è una cosa»
boccheggiò, portandosi una mano al petto. Sentiva lo sterno
premere contro i polmoni, un senso di oppressione che gli rendeva
difficile persino respirare. «C’era anche uno
Sward, sulla navetta. Uno Sward zoppo».
Rannicchiata sul ferro, Mariceli sussultò.
«Molan?» chiese, schiudendo le labbra in
un’espressione atterrita.
« Doveva
essere lui».
«Azzardato».
«Una volta mi disse di averti sempre seguita».
«Sì, potrebbe anche essere una cosa da Molan. E
forse ha seguito anche te ed è per questo che è
qui. Per rimediare».
«Avrei preferito vederlo su Wobani».
«Accontentati, io avrei preferito che non gli avessi sfondato
una gamba con un estintore».
Si scambiarono un’occhiata fatta di parole, e in un istante
Cassian si sentì coinvolto di nuovo in quella
complicità che avevano costruito assieme dieci anni prima,
quella maniera un po’ sfacciata che avevano di guardarsi e
con cui decidevano la prossima mossa senza nemmeno aver bisogno di
aprir bocca.
Salirono lentamente quel che mancava per raggiungere il cielo, lui
sputando nodi di sangue man mano che sentiva le forze abbandonarlo,
Mariceli standogli appresso, paziente, lieve come la brezza estiva su
Fest. Un paio di volte lo sfiorò, e di nuovo fu come
toccarla davvero, come avere addosso il suo corpo piccolo e leggero,
fatto di tutti gli odori e i rumori delle sue storie. Gli tendeva la
mano e lo tirava su quella scala a pioli che era l’ultimo
passo per arrivare alla vetta, l’ultima fatica per rivedere
la fine.
Infine, uscirono alla luce del giorno.
«C’è qualcosa di oscuro che si
avvicina» gli disse lei, prendendolo per mano quando furono
in piedi sulla cima della stazione. «Devi
sbrigarti».
«Se fossi stata viva, a quest’ora non ci sarebbe
niente».
Quasi si offese. «Se fossi stata viva, senti un
po’, a quest’ora saresti morto tu»
sbuffò, battendo a terra il bastone. «Guarda che
hai del lavoro da fare!»
Sulla piattaforma stava bruciando anche il cielo. C’erano
caccia ribelli che inseguivano bombardieri imperiali che a loro volta
attaccavano altri ribelli, un girotondo fatto di spari che da terra non
era mai sembrato così bello.
Era l’ennesima battaglia, quella, anzi: era
l’ennesima guerra. E Cassian realizzò di essere in
piedi nel cuore di una rivoluzione, una bandiera in mezzo a tante altre
bandiere. Forse la sua era quella più sgualcita, ma era
anche quella che si ergeva più in alto. Era la chiave, la
soluzione, la risposta. Dipendevano tutti da lui e da Jyn.
«Devo andare da solo» considerò,
lasciando andare la mano di Mariceli per la prima volta senza che gli
venisse strappata via a forza. «È la mia
guerra».
Lei gli porse il suo blaster e annuì.
«Va’ a far vedere come si comporta un
capitano» rispose, indicando l’aria aperta che li
circondava.
«Ci rivedremo. Quando sarà finita, saremo di nuovo
assieme».
Mariceli scosse il capo. «Cuore, io e Tylan abbiamo avuto
gente intorno per tutta la vita. Lasciaci da soli, adesso che abbiamo
l’eternità. So che sarai in buona
compagnia». Gli sorrise con la stessa grazia dei raggi del
sole sulla sua pelle, puntando il bastone per terra in un gesto che
lasciava trapelare un po’ di imbarazzo. «Guarda che
io lo dicevo, che mi avresti dato grandi soddisfazioni».
Cassian scosse il capo e chiuse gli occhi. Si sentiva spezzato.
«Dicesti che avremo guardato assieme giorni
migliori», sussurrò.
«Lo stiamo facendo, proprio ora» gli rispose
Mariceli. «E siete stati voi a portarli».
«Ci rivedremo».
«Passerò a trovarti».
«Porta il Capitano Halos».
Mariceli lo guardò, per un istante i suoi occhi si bagnarono
di lacrime, ma non pianse. Dopotutto, pensò Cassian, aveva
avuto anni interi per farlo. Quello era il momento degli addii, non
delle debolezze. Si drizzò semplicemente sul suo bastone da
passeggio, allora, esile nel suo cappotto blu e con i capelli color
ruggine rasati da un lato.
«Siamo tutti fieri di te» sussurrò,
annuendo piano.
«Lo spero».
Si abbracciarono un’ultima volta, silenziosi.
«Forza, vai» gli sussurrò poi lei,
sospirando contro la sua pelle. «E tagliati i baffi. Tylan
dice di no, ma il permesso te lo do io».
Lui la strinse un po’ più forte, muovendo il
braccio che le circondava le spalle. «Avrei voluto dirti
addio».
La sentì sussultare, tremare forse.
«In gamba, Andor Cinque. Io addio non l’ho detto
nemmeno a mio marito».
E di colpo non fu che fumo negli occhi e consapevolezza di aver fatto
pace con i fantasmi. Sembrava polvere e lo divenne davvero, sabbia
scura fatta di ricordi che ormai sbiadivano mentre il vento se li
portava via assieme alla guerra.
Era sparita, stavolta per sempre.
Non gli era rimasto che il blaster tra le mani.
Poco dopo, quando lui e Jyn si sedettero sulla spiaggia ad aspettare la
fine, realizzò che la morte gli faceva molta meno paura di
quanto non avesse mai pensato. Stretto nell’ultimo, umano
calore di un abbraccio, ricordò di quando non era
nient’altro che un ragazzino che si ostinava a tenere gli
occhi aperti quando si trovava davanti a un blaster.
Pensò d’un tratto a Kappa, a Bodhi, a Chirrut e a
Baze, e all’improvviso non ebbe più paura.
Quella volta soltanto, allora, si concesse di morire con gli occhi
chiusi.
Fine, stavolta per davvero.
Ieri sono stata proclamata dottoressa, oggi concludo anche la
fanfiction (a proposito: se qualcuno di voi ieri pomeriggio a Bologna
è stato fermato da un pilota ribelle ubriaco che implorava
di aiutarlo a distruggere la Morte Nera, con tutta
probabilità quel pilota ero io, seguita da un gruppo di
amici più o meno benvolenti nei miei confronti. Scusate).
Comunque. Qui siamo tutti scrittori, perciò credo sia
superfluo dire quanto una storia - per quanto breve - possa lasciare
dentro, quante soddisfazioni possa dare, quante insicurezze, quanti
dubbi, quante serate davanti allo schermo di un computer a buttare
giù frasi che nella maggior parte dei casi finiscono
cancellate dieci ore dopo. Eppure si è sempre pronti a
lavorare a questi piccoli progetti con un entusiasmo che forse andrebbe
applicato altrove.
Insomma, tutto questo giro di parole per dire che sebbene Saboteur sia
stato un lavoro breve, un lampo, starci dietro è stato un
piacere reso ancora più bello da tutte le persone che se ne
sono interessate. Oltre alle recensioni, le chiacchierate via
messaggio, le fanfiction che ho letto in questa sezione mentre
pubblicavo che sono state delle scoperte preziosissime, le meravigliose
parole di tutti voi. Insomma, sono stati due (tre?) mesi davvero
piacevoli, ed è tutto merito vostro ♡
Per cui: grazie a tutti, anche a chi arriverà a lavoro
concluso.
Sappiate che questo fandom è sempre qualcosa di sublime in
cui
sbirciare.
Lemurelli,
Lechat vert
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