「Part Two」—『Masquerade — Our charade of masks』

di Black Swallowtail
(/viewuser.php?uid=840819)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I — How to break a heart. ***
Capitolo 2: *** II — A lake in her eyes. ***
Capitolo 3: *** III —Cracking the mask. ***
Capitolo 4: *** IV —Sticks and stones can break my bones. ***
Capitolo 5: *** V —Our game of masks. ***



Capitolo 1
*** I — How to break a heart. ***


I

How to break a heart.

 

Ci sono innumerevoli modi per classificare una persona. Fin dall'istante in cui il nostro sguardo si posa su qualcuno, automaticamente, la nostra mente è portata a formare un primo giudizio che, inevitabilmente, ci condurrà a credere che chiunque ci sia davanti si comporti, pensi, viva in un certo modo. In un mondo di plastica, dove il viso che mostriamo agli altri è il nostro biglietto da visita, le prime apparenze contano, l'abito fa il monaco. Coloro che dicono altrimenti, coloro che, pieni di ipocrisia, si approcciano dicendo di non avere alcun pregiudizio, mentono. Tentano di ingannare tanto il prossimo, quanto loro stessi, mentre nel frattempo il piccolo demonio del giudizio affrettato entra in loro, a volte senza che nemmeno se ne accorgano.

È normale, siamo fatti così e non c'è nulla di cui vergognarsi. Studi antropologici e sociali si sono sprecati, sulla faccenda, tentando disperatamente di trovare una giustificazione, un motivo per il quale, in un modo o nell'altro, si tende ad inquadrare un individuo basandosi su dettagli marginali, particolari che saltano all'occhio, magari senza nemmeno aver mai parlato direttamente con tale persona. È quasi spaventoso come la nostra mente, rapidamente, senza alcun ordine preciso, crei uno schema sommario, un quadro generale di una persona, che seppur erroneo è in grado di condizionare completamente il nostro rapporto con essa.

L'ho sempre trovato terribilmente affascinante. Non mi ci è voluto molto per capire che, camminando in mezzo ad una folla di uomini dalle facce grigiastre e prive di tratti, risaltare è un tratto distintivo che deve essere manipolato a proprio favore. Rimanere impresso nella mente di qualcuno, attirandone lo sguardo ed imprimendosi a fuoco nei ricordi grazie al proprio modo di fare, di essere, creare una immagine di sé costruita ad arte, proprio come quando si dipinge un quadro, è lo stratagemma per svettare sugli altri. Il modo per essere migliore degli altri.

Per questo, ci ho messo tutto me stesso. Prima, non ero che uno tra i tanti, un'ombra, pallida e fragile, non diversa da tante altre. Mi aggrappavo disperatamente all'idea che, un giorno, mi sarei potuto ricostruire, risplendere e divenire una sagoma definita, guardata con ammirazione, con invidia. Ero sicuro che la mia apparenza avrebbe surclassato tutti, che avrei avuto la mia rivalsa su coloro che mi guardavano disgustati, che ridevano di me—o che, ancora peggio, mi ignoravano. Essere invisibili, in una vita di apparenze, è la peggiore delle maledizioni, la condanna più caustica ed orribile che un uomo possa subire.

Odiavo essere inerme, essere evitato. Uno tra i tanti. Preferivo il disgusto o il disprezzo, le occhiatacce, i sussurri alle spalle; preferivo che mi odiassero e provassero ripugnanza, piuttosto che, nei loro ricordi, essere uno tra i tanti.

Ci sono state volte in cui ho urlato, contro la mia immagine riflessa nello specchio, ordinaria come tutte le altre, né più, né meno. Non mi importava di avere amici, ma solo di avere successo, di essere guardato da tutti, osservato con la reverenza che si riserva a chi si trova un gradino al di sopra degli altri.

Perciò, quando finalmente mi sono lasciato alle spalle le scuole intermedie, ho colto l'opportunità al volo. Mi sono ripromesso di non dover più guardare il mio riflesso con quella ripugnante insoddisfazione, il mio personale tarlo che mi ha divorato per così tanto tempo. Ho iniziato la mia ricostruzione, pezzo per pezzo, in modo che la mia intera figura possa essere, agli occhi di tutti, esempio, motivo di venerazione, ma anche di invidia. Sì, ho capito che non c'è altro modo, per poter divenire un qualcuno per gli altri. Per godere dei loro sguardi, del loro amore, del loro odio. L'apparenza è la mia arma. Voglio nascondere quel che ho dentro, non voglio che qualcuno veda questa meschinità strisciante e grondante, questa necessità di essere guardato.

L'apparenza è quel che conta. Non c'è altro che gli occhi altrui debbano scrutare. Per tale motivo, ho iniziato con un'attenzione quasi chirurgica a formare la mia nuova identità, a divenire una persona ambita; ho lavorato sul mio fisico e sul mio rendimento scolastico, sul mio modo di parlare, sul modo di vestire e comportarmi. I voti si sono alzati, e così le chiacchiere sulla mia intelligenza; il mio fisico si è modellato, e le occhiate d'invidia e apprezzamento hanno iniziato a seguirmi, una dopo l'altra; la mia carriera nel comitato studentesco è stata abbastanza rapida da portarmi al ruolo di tesoriere in appena qualche mese, e così sono divenuto sinonimo di integrità e affidabilità. Ho lavorato ogni giorno, ogni ora, ogni minuto, ogni istante, pur di apparire come sono ora.

Poggio la mano sul rubinetto, lasciando scorrere acqua gelida tra le mie dita, lasciando che si accumuli nei palmi delle mie mani, mandandomi leggeri brividi lungo le braccia, prima di gettarla con forza contro il viso; il freddo pungente mi aggredisce al volto, quasi come a volermi strappare via la pelle. Ancora una volta, alzo lo sguardo, verso lo specchio sporco della scuola, dove si riflette la mia sagoma ansimante, piegata sul lavello, che mi restituisce uno sguardo indecifrabile. No, non indecifrabile; sono sicuro che, se solo volessi, se solo vi guardassi meglio all'interno, lo capirei. E proprio per questo, per sfuggire alla verità, evito di guardarlo. Non voglio darle ragione. Non voglio lasciarmi influenzare dalle sue parole; ora ho tutto quello che ho sempre voluto. Ho l'ammirazione, la fama, l'invidia. Ho gli occhi che mi seguono e i sussurri che mi accompagnano. Getto ancora acqua sul mio viso, serrando le palpebre, scacciando l'immagine del ragazzo che ricambia il mio sguardo.

Deciso a non guardarlo, a non prestargli più nemmeno un secondo della mia attenzione, affondo il viso nella manica, asciugandolo rapidamente. Il rumore del getto che scivola attraverso il tubo e scroscia contro la ceramica, facendo schizzare piccole gocce fino alle mie guance.

Un mezzo sorriso si apre sul mio viso senza che me ne accorga. Non ho nulla di cui preoccuparmi, dopotutto. È solo un momento come un altro, un piccolo vacillare, che tornerà ad assestarsi, nel momento in cui ogni cosa ricomincerà a scorrere normalmente, proprio come dovrebbe. Devo dimenticare le sue parole, scrollarmele di dosso, cancellare qualsiasi cosa mi abbiano fatto. Lei, d'altronde, ha deciso di andarsene, è stata lei a separare le nostre strade a quel modo. L'invidia, la gelosia, devono averla divorata dall'interno e corrosa, non è di certo colpa mia. Non c'è modo che sia colpa mia, perché, alla fine, questo è quel che ho sempre voluto.

La porta alle mie spalle si apre con un leggero scricchiolio, facendomi irrigidire di colpo. Chiunque sia entrato, dal passo leggero ed esitante, rimane sulla porta, senza osare avvicinarsi, come in attesa di una mia reazione. Stringo le labbra, deciso a non voltarmi di scatto, come l'impulso mi ha detto di fare quando ho sentito il cigolio dei cardini, ma mi spingo a farlo con calma, quasi casualmente, come se avessi solo appena finito di lavarmi le mani o rinfrescarmi il viso e stessi accingendomi ad andarmene. In questo modo, riesco a ricompormi, a scacciare il viso e le parole che prima mi stavano tormentando, e a mettere insieme una delle mie espressioni più tranquille, per nascondere questo istante di debolezza, in cui la mia maschera, l'apparenza che ho arduamente costruito, è caduta. Non ci metto molto a capire il motivo dell'esitazione della persona sulla porta; non è la prima volta che mi ritrovo in una situazione del genere, sicuramente non sarà l'ultima, ed ogni volta ne traggo un certo piacere, quasi una sorta di lusinga. Qualcuno direbbe che in me c'è una certa vena di sadismo, ma in realtà sbaglierebbe enormemente, perché so perfettamente quanto anche questa sensazione sia artificiale.

So benissimo che la piccola ragazza che trema visibilmente di fronte a me, per quanto tenti di nasconderlo, si dichiarerà non a me, ma alla mia facciata, alla mia apparenza, alla mia reputazione. Così come la sua infatuazione è fasulla, così come l'oggetto del suo interesse è falso, allo stesso modo ogni mio sentimento a riguardo non può essere che sabbia nella bocca, asciutta e scricchiolante, forse perfino tagliente. È minuta, dai capelli così ordinatamente tagliati in modo da ricaderle simmetricamente poco al di sopra delle spalle, una frangia tenuta con cura maniacale a nasconderle parzialmente gli occhi; ogni cosa, di lei, grida di timidezza e sconforto, di un imbarazzo di fronte al mondo che mi punge come fiele.

Lo ricordo perfettamente, quell'imbarazzo. Quella sensazione di inadeguatezza. Stringo i denti, li contraggo talmente forte che, per un istante, credo di aver prodotto uno stridio udibile alla ragazza; ma anche se così fosse, mi sembra troppo presa dall'ansia per ciò che sta per fare. Con il tempo, ho imparato a riconoscere certi atteggiamenti. Ho osservato così a lungo, in silenzio, e con così tanto fervore, che alcuni comportamenti ormai sono come scritti in un piccolo manuale che tengo in un angolo del mio cervello.

“Posso aiutarti?” le chiedo, avvicinandomi abbastanza poterla toccare in viso, allungando semplicemente la mano. Il mio tono di voce è gentile, viscosamente gentile, quasi da poter sentirle mie stesse parole appiccicarsi tra di loro, in una sorta di docile incoraggiamento a questa povera, tremante ragazza. Lei annuisce, meccanicamente, il tremore delle gambe evidente, ma senza aggiungere altro, come se qualche ingranaggio si fosse inceppato. Stringo i pugni, i denti affondati nel labbro per un secondo, senza che se ne accorga, trattenendo la sensazione di rigetto che sta salendo attraverso il mio stomaco, fino alla mia bocca. Più la guardo, più desidero che sparisca, più voglio che lei, la sua tremante figura, la sua ripugnante apparenza, la sua debolezza, la sua maschera piena di graffi e brutture, se ne vada.

“Forse perché ti ricorda qualcuno, Jeiv?”

Quel suo tono di voce quasi malinconico mi irrita, ed è qui, nonostante non voglia più sentirlo. Le sue parole sono veleno. Serro i pugni, le mani nascoste nella tasca, mentre questa ragazzina continua a faticare perfino a pronunciare una sillaba.

Mi disgusta.

Mi disgusta terribilmente.

Vorrei che sparisse dalla mia vista.

Sento di nuovo il bisogno di gettarmi acqua sul viso, di strofinarlo, lavarlo con rabbia, fino a scrostare via questa sensazione agghiacciante che cresce dentro di me, che rifiuto con tutto me stesso, come si sopprime l'istinto di vomitare. Con uno sforzo quasi disumano, riesco a parlare di nuovo, piegandomi appena verso di lei, “Stai bene? Stai tremando.” Il mio tono non è così convincente come vorrei, ma lei è troppo assorbita da questo insormontabile ostacolo del parlare, per rendersi conto dell'impercettibile variazione nella mia voce.

“Sai, Jeivel...” bisbiglia, un filo di voce vibrante, pieno di esitazione, mentre il suo viso inizia a tingersi di un vago rossore, quasi una fiamma che si allunga sulle sue guance. Posso sentirne il bruciore, posso sentirne la vergogna e l'unica cosa che vorrei, ora, è potermi allontanare, smettere di guardarla, di dover sopportare questa lenta tortura, questo specchio distorto che ho davanti. “Sei sempre così gentile e—Non so come dirlo, ma...” affonda il viso nelle mani, iniziando a tremare appena. Devo sforzarmi per controllare il mio respiro, perché se lo lasciassi libero, inizierei ad ansimare.

“Tu mi piaci davvero tanto.”

Se non fossi stato così vicino a lei, probabilmente non avrei capito il significato di questo basso sussurro che ha appena emesso, quasi come togliersi un peso dal petto, perché inizia di nuovo a respirare normalmente. Si è tolta un macigno che la stava soffocando, nel confessare questi orribili, artificiosi sentimenti. Gentile, lei mi crede gentile, magari anche altruista, onesto. Integro moralmente. Mi viene da ridere ogni volta, perché persone come lei sono le peggiori. Sono le più fragili e si muovono istintivamente verso chi mostra loro un minimo di compassione per la loro situazione.

“Mi dispiace,” un sorriso di scuse si apre sul mio volto.

Come faccio a saperlo? È semplice. È terribilmente semplice, ma allo stesso tempo così nauseante e orrido che il solo pensiero è come una coltellata nell'addome, per me.

“Non riesco a guardarti.”

Io ero come lei.

“Mi disgusti.”

Tremi, piangi, arrossisci. Stai in silenzio e non parli, in disparte, ricevi solo occhiate vacue, ributtanti. La tua debole, incrinata maschera, non è nulla.

Ma sopratutto… Ah, qualcuno mi aiuti, perché, sopratutto, tu sei troppo simile a quel vecchio me che disprezzo.

Sei uno specchio distorto che sogghigna e ride, mi sbeffeggia.

Fugge piangendo, silenziosamente, nascondendosi in se stessa, senza fare rumore nemmeno nel dolore, ferita. Le mie mani tremano ed il mio respiro è pesante, come se avessi appena corso una maratona, come se fossi crollato sulle mie ginocchia deboli e incapaci di reggere il mio peso. Non so cosa ho fatto ma, per un secondo, qualcosa in me si è spezzato ed è andato in mille pezzi. La mia maschera si è spaccata e i fantasmi hanno avuto la meglio su di me. Sono sicuro che, se alzassi gli occhi, vedrei il suo viso triste riflesso nello stesso specchio sudicio dove prima ho evitato il mio. I suoi occhi sarebbero pieni di disapprovazione, di un'abissale, divorante tristezza, che mi farebbe a pezzi, mi ingloberebbe e mi costringerebbe a guardare nel passato.

Ho perso il controllo, ho spezzato un cuore—ho sfogato il disprezzo che tenevo in corpo.

Ma quell'odio, quella repulsione, non erano per lei. Erano per me.

Non riesco ad alzarmi, le gambe deboli, immobili.

Sento il corpo pesante…

Come se fosse fatto di pietra.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** II — A lake in her eyes. ***


II

A lake in her eyes.

 

Il sole del primo pomeriggio non sembra intenzionato a baciarci con i suoi raggi, preferendo, piuttosto, nascondersi dietro uno strato di nubi biancastre, che si contorcono, sospinte dal vento, mutando forma non appena distolgo lo sguardo dal loro vorticoso movimento, impercettibile dai nostri occhi. Poggiata contro il davanzale della finestra, la schiena rivolta al panorama cittadino e alla calca di studenti che tornano alle loro abitazioni, dopo aver abbandonato la scuola, alla fine dell'ennesima, monotona giornata di lezioni, seguo il preciso movimento delle dita della persona che sta seduta al centro della stanza, come isolata da un'invisibile barriera che la avvolge, la distacca da noi e da ogni cosa la circondi.

Completamente assorbita, muove agilmente i polpastrelli a danzare, ritmicamente, creando una sorta di arabesco terribilmente complicato. Nonostante i suoi movimenti possano sembrare casuali, ad un occhio non attento come il mio, so benissimo che in realtà sta seguendo con attenzione una scaletta precisa, un ordine che non si azzarderebbe mai e poi mai ad infrangere. Nel guardarla lanciarsi in un tale virtuosismo, non posso evitare di sentire, in fondo, una punta di corrosiva invidia, una sensazione che, mentre per molti risulterebbe fastidiosa, addirittura vergognosa, per me, invece, è una sorta di conquista. Dopo tanto tempo passato senza alcuna sensazione, senza provare alcunché, un guscio vuoto senza stimoli né motivazioni, perfino l'invidia verso un talento simile è qualcosa che accetto senza remore.

Seppure si sia premurata di fermare la frangia che le coprirebbe la fronte con un piccolo fermaglio nero, qualche ciocca ribelle inevitabilmente gli sfugge, tornando insistentemente al suo posto, a solleticarla; ma non sembra che la cosa la disturbi, che possa anche solo lontanamente interrompere la sua incredibile esibizione, l'impeto con il quale si è abbandonata, il trasporto con quale le mani volano di tasto in tasto, senza posa, farfalle multicolore che si lasciano alle spalle fili dorati, a formare note, stampate su uno spartito poggiato sul piccolo leggio ad altezza d'occhio. Lo sguardo scivola di riga in riga, senza una minima esitazione, senza sbagliare una nota, senza che le sue dita scivolino o i suoi polsi tremino. Eppure, nonostante la velocità, il sentimento con il quale sta suonando, il suo viso è rilassato, non teso nella concentrazione o animato dall'euforia che sta mettendo nella musica, che imprime in ogni tasto del possente pianoforte.

Mentre la musica riempie l'aria, avvolgendoci come un bozzolo, accogliendo la sua sottile figura tra le sue braccia, mi sembra di intravedere un mezzo sorriso, un piegarsi delle labbra verso l'alto, mentre, con un tocco deciso, ma mai violento, lascia vibrare le ultime corde e morire le note che ha richiamato alla vita, facendo piombare nuovamente la stanza nel silenzio.

Nessuno osa parlare, dopo questa dimostrazione. Lei si limita ad annuire e a chiudere il libro in cui sono contenuti gli spartiti, carezzandone la copertina di una particolare tinta zaffiro, e sul quale è stata inserita una targhetta con il nome della proprietaria, della pianista inseparabile che porta ovunque la sua musica, allietando le orecchie di chi, in queste ore pomeridiane, si ritrovi ad aggirarsi per i corridoi della scuola. È un nome particolare, ma decisamente adatto ad una persona che spicca tra la folla, in grado di distinguersi nettamente per il suo talento, per la sua capacità innata, a dir poco prodigiosa, di portare in vita un pianoforte.

Evie Halliwell è esattamente la mia antitesi, il mio riflesso nello specchio – qualcuno che ha il suo posto, che la gente ricorda, il cui nome persiste nelle loro menti. E mentre la osservo sistemarsi i capelli leggermente scompigliati, carezzandone le ciocche e premurandosi di raccoglierli in una coda di cavallo alta, quando osservo la sua figura snella fiocamente delineata dalla luce della lampada da studio che illuminava il suo spartito, capisco anche il motivo per il quale si scolpisca nel cuore di molti. Una persona straordinaria, di una bellezza unica, quasi tormentata.

Peccato che la figura immersa nella lettura, seduta su una delle poltrone dell'aula di musica, non sia del mio stesso parere. Immune al potere della musica e alla sua bellezza, ha continuato a sfogliare il pesante tomo, stringendo le labbra di quando in quando, limitandosi ad una o due occhiate di sfuggita. Non è un atteggiamento strano, da parte sua, dopotutto: c'è un motivo preciso, per il quale ci troviamo in quest'aula, ad ascoltare Evie suonare; ed è proprio la ragione che ci ha condotto fino a qui che assorbe completamente i suoi pensieri ed i suoi sforzi. Nonostante ciò, sono sicura che, pur non mostrandolo, sia stato estremamente attento all'esibizione a cui abbiamo appena assistito, se non altro perché una musica del genere non è facilmente ignorabile.

Un talento mostruoso come quello di Evie Halliwell non può essere così facilmente messo da parte, nemmeno volendolo.

Dopo un profondo respiro, la ragazza allunga il braccio per prendere la bottiglia d'acqua poggiata ai piedi della sua sedia; con una calma quasi esasperante, lentamente, svita il tappo di plastica con uno schiocco, portandosi alla bocca la bottiglietta e assaporando una grossa sorsata, azione che coincide con il chiudersi del libro che il terzo presente stava leggendo appassionatamente.

“Le voci sono vere?” questa è la prima cosa che Evie ci chiede, dopo tutto il tempo passato ad aspettare che terminasse il suo componimento, la bottiglia di plastica nella quale si agita ancora l'acqua stretta in mano, “Sei tu l'esperto di mostri e spiriti?”

La domanda rimane in sospeso per un lungo istante, nel silenzio vibrante, terribilmente rumoroso, a confronto della dolcezza del pianoforte, che ne segue; i miei occhi cercano inevitabilmente la figura alla quale è stata posta la domanda, il ragazzo che fa scorrere la mano sul dorso del suo amato libro, sulle lettere dorate del titolo, un nome greco, dai caratteri contorti. Un voluminoso bestiario ricolmo della più vasta conoscenza del mondo sovrannaturale, delle creature invisibili all'occhio di chi non crede.

La ragazza si sporge appena, quasi a volersi avvicinare al suo interlocutore, senza tuttavia avere il coraggio di colmare la distanza, “Aidan Reiss.” conclude, con quel nome, come se non avesse bisogno di una risposta positiva; ma Aidan, senza indugiare, risponde annuendo, lo sguardo perso ad osservare non Evie Halliwell, bensì qualcosa che sembra invisibile ai miei occhi, qualcosa che solo lui è in grado di distinguere, attraverso il velo appannato della realtà razionale nella quale viviamo.

“Perché mi hai cercato?”

Un'altra domanda, questa volta molto più diretta, che va dritta al nocciolo della questione, il dubbio che ci ha tormentato dal momento in cui questa intera situazione è iniziata, ritrovandoci invischiati, senza nemmeno saperlo, in un altro caso riguardante l'occulto e le sue elusive, sfuggenti figlie.

Per qualche mese, la vita di tutti i giorni non ha subito scossoni ed ho avuto del tempo per tornare a ristabilirmi completamente, a tornare in possesso delle mie emozioni; per quanto sia ancora difficile, di tanto in tanto, tenerle sotto controllo, sono riuscita a ricostruire pezzo per pezzo una vita normale, nel quale riesco, finalmente, a camminare senza sentirmi immersa nel mare, in un mondo senza tinte, fatto di cenere e artificialità. Stando accanto ad Aidan, quella sorta di strano, indefinibile legame che abbiamo, che nessuno dei due è riuscito a, o vuole, definire, sembra avermi trascinato nel suo mondo nascosto agli occhi delle persone comuni.

Forse perché, a causa del Gatto, ne sono entrata a far parte anche io, forse perché, ovunque sia, Aidan sembra essere avvicinato da persone con problemi di questo genere, quando non è lui stesso a farlo, ma mi sono ritrovata, volente o nolente, a contatto con fenomeni paranormali di natura minore. Nulla di serio, come continuava a ripetere lui, problemi che ha risolto senza nemmeno il bisogno che lo seguissi, liquidandoli come inutili scocciature che non mi avrebbero interessato. In un certo senso, sembra essersi premurato, per quanto possibile, di tenermi lontana.

Almeno finché questa storia non è cominciata con l'arrivo di Evie Halliwell e della sua misteriosa richiesta di aiuto.

Che io sia in contatto con Aidan e che, di quando in quando, sia finita invischiata nelle sue ricerche sull'occulto è risaputo, da chi, tacitamente, è stato affetto da uno spirito o un mostro; più di una volta, qualcuno mi si è avvicinato per chiedermi aiuto, probabilmente pensando che anche io, proprio come lui, sia una esperta di strane creature e fenomeni sovrannaturali. Ogni volta, Aidan ha preso in mano la situazione, ovviamente dopo avermi lasciato disperatamente tentare di spiegare la situazione senza successo.

Ma Evie è stata l'eccezione. La maggior parte di coloro che ci chiedono aiuto, non sanno bene in cosa consista il loro problema. Spesso, sono tormentati da qualcosa senza conoscerne il motivo, o la natura del loro problema, per questo giungono da Aidan disperati, quasi supplichevoli. Lei, invece, è stata chiara – e terribilmente calma.

Seduta in un angolo della palestra, a riprendere fiato dopo la corsa impostaci, ero con la schiena poggiata contro il muro e le gambe tirate al petto, la bocca aperta in un costante, quasi annaspante, ansimare. Gocce di sudore colavano lungo il mio volto e la luce del sole, che filtrava attraverso gli ampi lucernari, batteva su di me in modo quasi beffardo, al punto che ringraziai mentalmente qualunque nuvola, in quel momento, la stesse schermando, donandomi un po' di sollievo.

Solo dopo qualche istante, un vago, delicato odore di tulipani aveva riempito le mie narici, spingendomi ad alzare la testa, rendendomi conto che non si trattava di una nuvola a proteggermi dai raggi solari, ma dalla snella figura di una ragazza, nei cui occhi chiari, puntati su di me, mi sembrava di poter intravedere petali di fiori scivolare dolcemente sull'acqua cristallina delle iridi.

“Sei Kuri Azure, giusto?” mi ha chiesto, piegando appena la testa, quasi mi stesse esaminando da cima a fondo, facendomi provare, senza una ragione particolare, se non quella di sentirmi orribilmente inferiore, oltre che spossata e sudata dopo un'ora di ginnastica, vergogna per me stessa. In quegli occhi talmente chiari da essere come specchi d'acqua, mi sentii, per un istante, imbarazzata di esserle davanti, una sensazione che mai, prima d'ora, avevo provato. Una sensazione diversa dalla semplice timidezza che conoscevo troppo bene, nei miei ricordi sbiaditi.

“Sono Evie Halliwell.” Il suo nome, per una ragione che non riuscivo a spiegarmi, mi suonò familiare, come se lo avessi già udito, in precedenza; eppure, ero sicurissima di non averla mia incontrata prima, né di aver mai scambiato anche solo una parola con lei. Una persona simile rimane impressa, nella tua mente, volente o nolente. Due occhi del genere, come in grado di sviscerarti, di farti vergognare di esserle davanti, come avrei potuto rimuoverli del tutto, pur non provando nemmeno un'emozione?

“Vorrei parlare con Aidan Reiss. Ho un problema che solo lui può risolvere.” Ha sembrato riflettere sulle sue parole per un secondo, tormentando una ciocca di capelli della sua frangia, tenuta ferma, lontana dalla fronte, da un fermaglio, di un colore quasi onice, prima di correggersi, “Una persona che conosco ha un problema. Sai, lui...” e sfoderò quel sorriso di assoluta tranquillità, di imperturbabile calma, come l'acqua dei suoi occhi, come i petali dei fiori del quale profumo era pregna, “...è stato maledetto.”

Quando ho riferito il messaggio ad Aidan, dicendogli che avrebbe voluto incontrarlo il giorno seguente, nell'aula di musica, un vago ricordo è riaffiorato nella mia mente, un manifesto sfocato, affisso in qualche bacheca, un avviso di qualche evento particolare del quale non poteva importarmi nulla, vuota com'ero. Per quanto mi sono sforzata di ricordare, non ho potuto richiamare alla memoria né il contenuto del manifesto, né chi fosse, in realtà, questa Evie Halliwell. Dal canto suo, Aidan era già preso dalle sue ipotesi, riflettendo sulla natura della maledizione, chiedendosi cosa potesse essere accaduto, ma sopratutto, come guarirla, una volta trovatane la sorgente.

Abbiamo entrambi atteso trepidanti il momento di incontrarla, per parlarle, cercare di comprendere quale fenomeno sovrannaturale si sia scatenato su di lei.

Siamo stati accolti da una melodia carezzevole, invitante come mai ho sentito prima d'ora, che ci ha preso per mano e guidato, attraverso corridoi e rampe di scale, accanto a classi vuote e a studenti in procinto di terminare le loro lezioni, verso una stanzetta nell'ala est, dalla porta aperta, in modo che le note della canzone che fuoriusciva dal pianoforte potesse giungere fino a noi.

Titubante, mi sono avvicinata alla porta, quasi impaurita di profanare un momento tanto toccante come il suonare una musica così soffice; ed è stato allora che ho intravisto la sua figura completamente abbracciata dal pianoforte, muoversi come senza peso, con il viso tuttavia sempre cristallino, senza cambiare espressione, i capelli dai riflessi castani che seguivano l'aria invisibile della canzone.

Ed ho ricordato, di colpo, ciò che era scritto su quel manifesto e chi fosse Evie Halliwell, perché il suo nome mi suonava familiare, già udito, perché, in qualche modo, sembrava conosciuta. Un talento così spiccato, un estro naturale, non possono certo passare inosservati; per quanto non sia una persona così conosciuta, è una persona che spicca e che si ricorda, non solo per il suo aspetto, ma per la sua incredibile capacità. Quel manifesto, appeso sulla bacheca scolastica, era il saggio del club di musica della scuola, dove lei ha suonato, da solista, imprimendo a fuoco la sua immagine nei ricordi degli spettatori.

Questa è la prima volta che l'ho sentita suonare. Non ha dato segno di averci visto, né quando siamo silenziosamente entrati, per non interromperla, né quando ci siamo accomodati, aspettando di poterle parlare.

Ed è stato proprio mentre la guardavo, che ho notato l'origine del suo profumo floreale. Un solitario vaso, di piccole dimensioni, nel quale stanno due tulipani, come abbandonati, malinconici, lontani l'uno dall'altro.

“Ho bisogno del tuo aiuto. Come penso tu sappia, una persona, un mio… conoscente, purtroppo, è caduto vittima di una maledizione.” Finalmente abbandona il pianoforte, per voltarsi verso di noi, le gambe accavallate, le dita che accarezzano l'orlo della gonna a scacchi, il viso che non cambia espressione, nel dare quella notizia, proprio come non ha esitato, in alcun modo, nel dirlo a me. La sua attenzione è tutta per Aidan, nei suoi occhi cristallini si specchiano quelli nerastri come inchiostro; improvvisamente molto più attento, annuisce a malapena, facendole cenno di continuare.

Le punte delle sue scarpe battono per un secondo, ritmicamente tra di loro, mentre lei si passa una mano tra i capelli, per sistemare meglio con l'elastico la coda alta, scossa da una leggera brezza che la scompiglia, facendo oscillare il piccolo nastro di carta colorata fissato su di esso. “Non so quando la maledizione ha iniziato a manifestarsi. Quel ragazzo è un testardo, pur di mantenere la sua stupida facciata, avrebbe continuato ad agonizzare. Per questo, ti ho contattato io al suo posto.”

“Si tratta di un ragazzo?” chiedo, allontanandomi dalla finestra per afferrare uno sgabello e sedermi accanto a Aidan, gli occhi di Evie che seguono ogni mio movimento. “Mi sono dimenticata di dirvelo?” appoggia il mento sul palmo della mano destra, socchiudendo appena le palpebre, un mezzo sorriso le si apre sul viso, una sorta di sogghigno di superiorità, quasi di derisione, “Si chiama Jeiv Kondras.”

“Un nome come un altro.”

Aidan mi scocca un'occhiata confusa, evidentemente del tutto ignorante su chi sia in realtà Jeiv Kondras e su quale sia il suo ruolo all'interno del comitato studentesco. È normale, dopotutto, non sono così sorpresa, dato che ha scelto di allontanarsi dal mondo di tutti i giorni, dalla nostra realtà, per lasciarsi affogare nell'occulto e nel sovrannaturale. Una sorta di fuga dalle cause ignote, che ancora non riesco a comprendere, una curiosità divorante sul motivo che possa averlo spinto ad un atto talmente estremo.

D'altra parte, nemmeno io conoscerei l'identità della nostra vittima della maledizione, se non fosse per i continui pettegolezzi che circolano in classe sul suo conto e sulle continue lodi sperticate decantate dalle sue ammiratrici, o dai sussurri invidiosi delle malelingue che sono gelose di lui. A dire la verità, per me, è solo un nome ed un ruolo: non ne conosco il volto, né il modo di essere, di fare, perché, lo ammetto, anche io sono lontana dalla realtà quanto lo è Aidan. Non importa quanto tempo possa passare, inserirsi nel mondo è qualcosa che non è mai stato nella mia natura, nel mio essere, fin dall'inizio.

“Il tesoriere.” specifico, a beneficio del mio compagno, scoccandogli un'occhiata di sottecchi. Le sue dita tamburellano contro la copertina del bestiario, impaziente. È normale, dopo tutto il tempo che ha passato, pensando e ricercando quale sorta di maleficio possa essere stato scagliato, senza venire a capo di una vera e propria risposta.

“Proprio lui. Non siamo più in buoni rapporti, da quando siamo entrati in questa scuola, ma...” scrolla le sottili spalle, rivelando ora il suo viso completamente piegato in una profonda, tremante malinconia, languida, come di chi richiama alla memoria vecchi ricordi che non riesce ad abbandonare, che conserva in un cassetto della sua memoria, con la consapevolezza di aver perduto per sempre quei momenti, di non poterli vivere mai più, “...mi è sembrato giusto cercare aiuto. Mi sono informata, ma non è stato semplice. Nessuno parla volentieri di un'esperienza con l'occulto, per paura che gli altri ridano di lui.”

“Comprensibile. D'altronde, agli occhi della gente comune, non si tratta che di superstizioni o fiabe.”

Halliwell annuisce, accarezzando i tasti centrali del pianoforte, senza voltarsi, proprio come se li avesse davanti, suonando una semplice melodia che riempia il vuoto della stanza, senza soffocare le parole, “Alla fine, sono riuscita a convincere qualcuno. Aidan Reiss, che ha risolto addirittura un problema di vampirismo, sicuramente sembrava la persona adatta a cui rivolgersi.”

“—Ayane.” sussurra tra i denti, un nome che non ho mai sentito, ma che mi fa leggermente trasalire. Mai, nemmeno una volta, in tutto questo tempo, ha accennato ad un'altra ragazza che avrebbe aiutato. Per quanto raramente parli dei problemi che ha risolto in passato, le poche volte che lo ha fatto, ha sempre avuto difficoltà nel ricordare i nomi di chi ha aiutato; eppure, questa volta, ha pronunciato quel nome immediatamente. Chi è questa Ayane? Se glielo chiedessi, probabilmente non risponderebbe, ma… “Kuri?”

“Sì, scusami.” trasalisco di colpo, irrigidendomi sulla sedia, quando mi dà un colpetto alla spalla per richiamarmi alla realtà. Mi guarda per un secondo, come a chiedersi se ci sia qualcosa che non va in me, ma devo sembrare abbastanza convincente, nel mascherare i miei dubbi, perché torna a rivolgersi ad Halliwell, “E sei venuta da me, nella speranza di poter trovare aiuto per il tuo… conoscente.”

“Spero tu sia così generoso da accettare la sua richiesta.”

La musica si spegne su un'ultima, vibrante ed acuta nota, insieme a quelle parole.

Se davvero ha fatto delle ricerche, per arrivare ad Aidan, on c'è dubbio che lei sappia benissimo come non rifiuterebbe mai qualunque genere di problema collegato con l'occulto. La sua è solo una formalità. Aidan alza gli occhi verso l'orologio a muro, appeso proprio sopra il pianoforte, senza rispondere. Le lancette segnano le tre e mezza del pomeriggio, scorrendo lentamente, quasi come se il tempo fosse diluito, picchiettando ritmicamente ad ogni passare di un secondo, di un minuto, un rumore percettibile solo nell'assoluto silenzio dell'aula.

“Me ne occuperò io.”

“Non avevo dubbi,” i suoi grandi occhi tremolano, per un istante, come se la superficie del loro lago fosse stata scossa da un petalo caduto sull'acqua cristallina, “Perché non puoi resistere al richiamo dell'occulto, non è vero?”

Una domanda senza risposta, perché Aidan è già sull'uscio dell'aula di musica, che dà le spalle alla pianista. Sembra quasi indeciso, paralizzato da quella constatazione, ma dopo un lungo istante, esce dalla stanza, senza guardarsi alle spalle, senza pronunciare una parola.

Quelle mani che liberano farfalle di suono e luce ad ogni movimento, volano di nuovo sulla tastiera, facendola cantare. Quando sono in corridoio, posso sentire di nuovo la musica risuonare, vibrante, nell'aria.

Una malinconia melodia ci accompagna fino all'ingresso della scuola.

Aidan alza gli occhi, verso l'alto, verso l'aula, verso Evie Halliwell.

Schiocca la lingua.

“—Dannatamente brava.”

Ma non so se si riferisca alla musica, o a quell'ultima domanda.

 

Jeiv Kondras risulta assente da scuola da due settimane. Prima di sparire, sembrava, per qualche ragione, più cupo del solito e a detta di molte persone, sembrava quasi faticare nel parlare, perso nei suoi pensieri per la maggior parte del tempo. Tuttavia, ha sempre mantenuto le apparenze e nessuno è riuscito a capire davvero se qualcosa non andasse; quando, poi, si è dato malato e si è chiuso in casa, tutti hanno associato quel quasi impercettibile cambiamento, quel suo comportamento così diverso dal solito, con l'influenza che lo ha costretto a letto.

Le persone scelgono di vedere quel che, in realtà, vorrebbero fosse la realtà, non dandosi pena di cercare più a fondo, di scavare oltre la superficie, perché ciò richiederebbe fatica; ma, sopratutto, a volte si scoprono cose che ribaltano completamente il modo di vedere una persona. È meglio, quindi, rimanersene in disparte, limitarsi ad accontentarsi di quella spiegazione che più fa comodo udire.

Nessuno andrebbe mai a pensare che la causa dell'assenza del tesoriere, sia dovuta ad una maledizione, nemmeno nel più improbabile dei casi. Il sovrannaturale è inconcepibile, ai loro occhi, quindi la spiegazione più ragionevole, più comoda e razionale, è quella di un comune malanno.

L'unico modo per incontrarlo, di conseguenza, è andare a casa sua. Evie è stata così previdente da lasciare, nella mia borsa, un biglietto con l'indirizzo, un quartiere non così lontano dalla scuola, abbastanza vicino da poter essere raggiunto in una mezz'ora, camminando ad una velocità ragionevole. Aidan vuole vederlo il prima possibile, per cui, senza perdere tempo, ci siamo incamminati non appena abbiamo lasciato la scuola; mentre uscivamo dal cortile, verso i cancelli principali, ho sentito ancora una volta la vaga melodia suonata dal pianoforte dell'aula di musica. Non so se anche lui l'abbia udita, ma ha evitato di fare altri commenti, limitandosi a sistemare il bestiario e ad incamminarsi per la strada deserta.

Per qualche motivo, il suo confronto con Evie lo ha lasciato turbato. Non è qualcosa che affiora in superficie, ma più dal suo modo di camminare, un passo nervoso, incedente, e dalla sua foga nel gettarsi all'azione. Ormai, ho seguito diversi casi che coinvolgono spiriti e mostri, affiancandolo per tacito accordo: lui non mi ha mai chiesto di accompagnarlo in una delle sue indagini sulle deformazioni più oscure ed insolite della realtà, io non gli ho mai chiesto il permesso di seguirlo o di aiutarlo. Semplicemente, entrambi ricordiamo il patto che ci lega, la promessa che ci congiunge come un filo che si stringe attorno alle nostre dita; per cui, è naturale che io gli sia accanto, come aiutante o anche solo spettatrice, ogni volta.

Lui è stato il primo a chiamarmi per nome, ed è lui che mi ha ricordato, mi ricorda ancora ora, strappatami dai giorni grigi e in cui ero poco più che un fantasma. Per questa ragione, credo che tra noi ci sia un legame forte, inscindibile, ma che non riesco ancora a definire del tutto.

Quando ho sentito pronunciare il nome di quella ragazza, sottovoce, in un respiro come strappato violentemente dal suo petto, in me è scattato qualcosa. Una sensazione pungente ed amarognola, che non riesco a distinguere, ma che mi ha punzecchiato, mi ha scosso, per un singolo istante – e negli occhi di Evie Halliwell, ho notato un piccolo movimento, come se avesse perfettamente capito, come se avesse visto attraverso di me.

Non ho il coraggio di chiedere chi sia questa Ayane. Per quanto una parte di me voglia conoscere questa storia, capire chi sia questa ragazza che lui ancora ricorda, mi sento allo stesso tempo incapace di sollevare l'argomento. Sarebbe strano farlo, perché dovrebbe importarmi di una persona qualsiasi, di cui ricorda il nome?

—Forse mi sentivo speciale? Forse credevo di essere l'unica di cui serbasse il nome?

Fortunatamente, il filo di quei pensieri viene nettamente e bruscamente tranciato da Aidan stesso, che si ferma di colpo, facendomi sbattere contro la sua spalle barcollare all'indietro, rimanendo in bilico per qualche istante sui talloni e minacciando di cadere sull'asfalto consunto.

“Cosa succed—” Schiocco la lingua, irritata, per chiedere spiegazioni, ma mi interrompe con un cenno del capo, “Siamo arrivati. Questo è l'indirizzo.” Ripiega con cura il biglietto, infilandoselo in tasca, senza accennare di suonare il campanello, rimanendo semplicemente fermo di fronte al cancello.

Non si tratta di una casa diversa dalle altre che la circondano. Un'abitazione piuttosto anonima, dal cancelletto d'ingresso in ferro battuto, semplice e senza alcuna particolare decorazione, accanto al quale è affissa una targhetta, proprio sopra la cassetta della posta, che riporta il nome della famiglia Kondras. L'intera casa non sembra avere nulla di speciale, nulla che la contraddistingua, facendola ricadere in un banale anonimato; l'intonaco bianco senza nessuna macchia particolare, ma un po' sbiadito dalle intemperie, il giardino perfettamente curato, ma di piccole dimensioni e senza nemmeno un tocco personale, tutto sembra gridare alla mediocrità.

“E pensare che la abita uno dei ragazzi più in vista della nostra scuola.” dico, suonando il campanello, che emette un breve, secco squillo di cortesia, aspettando poi che venga aperto. Non dobbiamo attendere che qualche minuto perché si attivi il citofono ed una voce terribilmente debole, fievole, esca dall'altoparlante.

“Sì?”

“Mh, siamo Kuri Azure e...”

“Aidan Reiss,” termina lui al mio posto, facendomi cenno gentilmente di spostarmi per lasciarlo parlare, “So della maledizione.”

Il silenzio piomba dall'altra parte del citofono, rotto solo dal basso bisbigliare elettronico della cornetta alzata, un'esitazione che si prolunga per un lungo istante, proprio come è stato per me, per i tanti altri che Aidan ha messo di fronte alla dura realtà. Nessuno accenna a continuare il discorso, sfioro cautamente la spalla di Aidan, come a chiedergli spiegazioni, ma lui mi fa cenno di aspettare.

“Ho la situazione sotto controllo,” mi bisbiglia, proprio mentre il nostro interlocutore senza volto sembra riuscire a mettere insieme una risposta faticosa, dal tono impastato, come se si stesse sforzando, “Non so di cosa tu stia parlando.”

“Me ne ha parlato Evie Halliwell. Sono qui perché vuole che io ti aiuti.”

“Evie..?” il suo tono sorpreso mi prende alla sprovvista. Lo sentiamo sospirare a fondo, prima di arrendersi con un semplice, “Entrate.” Il cancello scatta, aprendosi, e spingendolo gentilmente, ci lascia entrare nel giardino. Me lo chiudo alle spalle con un leggero tonfo ferreo, mentre ci avviciniamo all'uscio, stando bene attenti a non calpestare l'erba tagliata con grande precisione, quasi maniacale. La porta è socchiusa, lasciando uno spiraglio sufficiente a farci entrare, a farci sgattaiolare nel corridoio, dove una figura vagamente familiare aspetta seduta su un piccolo sgabello pieghevole, con lo sguardo smarrito, ma allo stesso tempo guardingo.

Non so esattamente che aspetto abbia una persona piagata da una maledizione, ma Jeiv Kondras non mi sembra presentare alcun evidente segno di una piaga di natura sovrannaturale; certo, questo non vuol dire nulla, dopotutto nemmeno io ero fisicamente diversa dal solito, eppure la sua voce era così debole, che credevo di trovarlo spossato. Invece, sembra perfettamente in salute e non divorato da un maleficio.

“Vi ha mandati lei?” il suo tono ha un ché di sorpreso, ma anche quasi pieno di disprezzo, mentre ci pone la domanda in un soffio, mordendosi il labbro nervosamente, “Non le parlo da anni, eppure...” scuote la testa, come a scacciare via quei pensieri, ed invitandoci nel salotto, “Accomodatevi. Preparo del tè.”

Ci accompagna fino alla sala, con un passo leggermente barcollante, muovendo rigidamente le gambe, quasi sia impedito da delle pastoie; Aidan schiude appena le labbra, prendendo un profondo respiro, alla vista di quei movimenti impacciati, ma si trattiene dal dire alcunché. Jeiv, con la sua andatura impettita, come se trascinasse le gambe rigide, sparisce attraverso la porta che collega la cucina alla stanza, chiudendola cautamente, e lasciandoci soli a riflettere. Aidan mi scocca un'occhiata, come a chiedermi conferma di un presentimento, quasi in attesa che sia io a dirlo al posto suo.

“Non sembrava… maledetto, vero?” “Dopotutto, da come ne aveva parlato Halliwell, lo immaginavo preda di un sortilegio mortale. Eppure...”

Aidan scuote la testa, “Anche a me, in apparenza, è sembrato stesse bene. Troppo bene. Eppure, i suoi movimenti sono rigidi. Come se il suo corpo fosse fatto di pietra.”

“Lo hai pensato anche tu? Cammina in modo fin troppo innaturale. È impossibile non notarlo.”

Senza rispondere, estrae il suo voluminoso tomo, iniziando a sfogliarlo febbrilmente, voltando le pagine con un fruscio sommesso, alla ricerca di qualcosa che mi sfugge, la soluzione che sembra aver compreso di colpo. Ogni foglio ingiallito e consunto dal troppo uso scorre di fronte ai miei occhi con il testo terribilmente fitto, vergato a mano in caratteri gotici, spesso interrotto da illustrazioni per la maggior parte grottesche e ributtanti, ma a volte anche terribilmente accurate, realistiche fino all'ultimo dettaglio.

Lo scorrere frenetico si ferma di colpo, su un capitolo che non sembra così diverso dagli altri, se non per l'illustrazione, che appare molto più normale delle altre apparse di sfuggita durante la ricerca; un piccolo serpente, di pochi centimetri, forse una quindicina, ad occhio e croce, dai grandi occhi e da una grande, elaborata macchia bianca al centro della testa squamosa. Un rettile come tanti, tanto da sembrare finito per sbaglio in questo bestiario.

Il mio sguardo lanciato di sottecchi deve bastare a far capire ad Aidan il mio scetticismo, perché mi passa il libro, in modo che io possa faticosamente leggere i caratteri gotici, senza troppo successo. Mi si avvicina, il dito che scorre di riga in riga, leggendo la descrizione della creatura, “Il re dei serpenti, così denominato dalla macchia sul capo che ricorda una corona. Nasce da un uovo di gallo morente, covato da un rospo o un serpente velenoso, ed impiega sette anni a schiudersi. Il suo respiro uccide le piante e crea il deserto, il suo sguardo incenerisce, il suo veleno uccide immediatamente chiunque ne venga a contatto. Ma se distillato—”

Ora ha tutto senso. Il suo modo di muoversi, così rigido e forzato, come se trascinasse il suo corpo, il fatto che, ad una occhiata sommaria, appaia completamente in salute. In realtà, qualcosa nel suo corpo sta mutando, lentamente, divorato da una maledizione orribile, una tortura orribile come mai ho sentito.

Un rumore di tazze infrante, un gemito soffocato ed un'imprecazione trattenuta tra i denti ci interrompono di colpo. Aidan si alza lentamente in piedi, aprendo la porta della cucina con la massima calma, mentre io, dalla sua spalla, riesco solo ad intravedere Jeiv Kondras sdraiato a terra, circondato da cocci e tè rovesciato, ad inumidire il pavimento, le gambe che appaiono rigide, completamente immobili, così come la spalla, che si rifiuta di muoversi, per quanto lui annaspi e tenti di torcerla.

“Oh, una situazione davvero pessima.” Aidan si piega su di lui, battendo con le nocche contro la spalla, producendo un suono agghiacciante; il sordo tonfo di qualcosa che colpisce un materiale roccioso e duro, come marmo o ardesia. O pietra. Carne contro pietra. “Sembra che qualcuno ti abbia maledetto utilizzando del veleno distillato. Qualcuno ti odia. Ti odia abbastanza da voler farti morire, ma non così poco da darti una fine rapida.”

Il re dei serpenti, animale talmente raro da essere quasi unico, una delle creature più pericolose di tutte.

“Veleno distillato di basilisco.” preciso, con un filo di voce.

“Aiutami a portarlo di là, Kuri.” Aidan si inginocchia accanto a lui, lasciandosi sfuggire un profondo respiro di stanchezza, “Dobbiamo fare la solita, lunga chiacchierata.”

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** III —Cracking the mask. ***


III

Cracking the mask.

 

Non è semplice introdurre qualcuno in un mondo che sfugge alla logica e al senso comune. L'unico modo per farlo è, ovviamente, provarlo sulla propria pelle, entrarvi in contatto direttamente. Effettivamente, in questo caso specifico, la mia è una scelta di parole piuttosto infelice, considerando lo stato pietoso in cui versa Jeiv, rigidamente poggiato contro il divano del suo soggiorno, le braccia abbandonate lungo i fianchi, immobili, come se fossero strette all'interno di uno spesso strato di gesso.

A quanto pare, la pietrificazione indotta tramite l'instillazione di veleno non è qualcosa che si presenti in maniera così palese e, anzi non comportando una calcificazione della carne, è essenzialmente invisibile all'occhio, ma Aidan non si è ancora spiegato, limitandosi a dare questa scarna risposta alle proteste del tesoriere.

Ne sono rimasta sorpresa io per prima, che già immaginavo il suo corpo trasformarsi lentamente in una statua dura e gelida; in realtà, arrotolata la manica della sua maglietta fino alla spalla, sul punto in cui Aidan lo ha toccato per controllare il propagarsi del veleno, non ho visto nulla di fuori dal normale. Invece di intravedere i primi sintomi di quella che mi sarei aspettata pietrificazione della carne, mi sono trovata davanti semplicemente la sua pelle, senza alcuna particolare irregolarità, ase non fosse per l'impossibilità di muovere liberamente l'arto, come bloccato da pastoie invisibili.

Nonostante ciò, Aidan ha annunciato che la sua ipotesi si è rivelata azzeccata, qualcosa di cui non c'è molto da gioire, considerando che la maledizione gettata su di lui nella forma di veleno è già ad uno stato abbastanza avanzato, quanto meno a giudicare dalle sue parole.

Lo abbiamo dovuto trascinare faticosamente attraverso la cucina, visto che, a quanto pare, anche le sue gambe stanno iniziando a mostrare segni di una sorta di paralisi inspiegabile, sbocciata in lui come un virus che si è propagato per tutto il corpo, debilitandolo lentamente, con sempre maggiore ferocia, fino ad impedirgli di vivere la sua vita normalmente, a costringerlo a ritirarsi dalla scuola con la scusa di una malattia. Ormai, stando a quanto ci ha detto, sono già dieci giorni che il degrado del suo corpo sta avanzando.

Allora, Aidan ha iniziato la “solita, lunga chiacchierata”. Proprio come ha fatto con me, ha proceduto, passo per passo, a strappare l'invisibile velo dagli occhi di Kondras, parlandogli del mondo invisibile all'occhio razionale, di mostri e maledizioni, di bestiari latini e medievali, di un intero universo andato perduto con il progresso della scienza e con l'affermarsi della ragione. Gli ha rivelato come la realtà tutt'attorno non sia solo quella che percepiamo – e quando, infine, è arrivato alla maledizione, Jeiv, rimasto in silenzio, fino a quel momento, ha protestato.

“Questa storia della maledizione, non riesco a crederci del tutto.”

“Ti capisco...” annuisco, prendendo la parola prima che potesse intervenire Aidan, soffocando una sua eventuale risposta sarcastica o saccente, “Anche io non ero del tutto convinta. Ma ci sono cose che non possono essere spiegate in altro modo.”

“Non so cosa mi stia accadendo...” mugugna dopo qualche istante di riflessione, la sua voce, decisamente più calma di quando gli abbiamo rivelato che era caduto vittima di una maledizione, sembra ancora faticare ad uscire dalla gola, “I medici non hanno alcuna spiegazione. Dicono si tratti di un blocco psicologico e che non c'è nulla che non va, in me. Eppure, è come se fossi—”

“Pietrificato?” lo anticipa con tranquillità Aidan, sistemandosi un ciuffo ribelle che gli solletica gli occhi, senza distogliere lo sguardo dal viso del nostro interlocutore, “Sì, è così. In te, non c'è nulla che non vada, da un punto di vista scientifico o medico. D'altronde, come può una macchina trovare qualcosa che non può rilevare?”

Per quanto possa suonare strano, è un ragionamento piuttosto sensato. Le strumentazioni mediche e scientifiche rilevano ciò che rientra nel campo della razionalità e dell'esperienza umana, i mali ed i fenomeni calcolabili dall'intelletto; per questo, qualcosa che non rientri in questi campi, non può di certo essere individuata o misurata. All'occhio medico, non essendoci nulla di insolito, deve trattarsi di un problema psicologico—

L'espressione di Jeiv si distorce, assumendo un accenno di incredulità, in risposta alle parole di Aidan, “Quindi si tratta davvero di una maledizione? La magia è un'invenzione, qualcosa che leggi nei libri, non è possibile.”

“Evie Halliwell non la pensa così.”

Per un secondo, il viso del ragazzo sembra quasi spezzarsi, lasciando crollare una maschera di compostezza che ha tenuto fino ad ora, e rivelando, al di sotto, una piega irriconoscibile, come se avesse cambiato faccia, come se, per lo spazio di un battito di ciglia, davanti ai miei occhi, sia comparsa un'altra persona. Le sue labbra si serrano, arricciandosi, mentre getta uno sguardo indecifrabile ad Aidan, uno sguardo attraverso il quale non riesco a scorgere nulla, attraverso il quale non traspare alcuna emozione – come una torbida palude di acqua stagnante e scura, che nasconde il suo fondale.

Non risponde alla provocazione, non muove un solo muscolo, rimanendo incredibilmente controllato, nonostante un attimo fa mi sia sembrato di intravedere qualcosa che decisamente non corrisponde all'immagine che tutti conoscono del tesoriere, asso nello sport, genio scolastico che è Jeiv Kondras.

Aidan apre il suo bestiario sulla pagina che mi ha mostrato poco prima che fossimo interrotti dal fracasso in cucina e dai sintomi della maledizione. Le lettere gotiche, di solito così serrate ed indecifrabili, sono piuttosto chiare tuttavia nel titolo del capitolo, mostrando, di volta in volta, l'essere nel quale ci si è imbattuti – il Re dei Serpenti, quella piccola lucertola dalla voglia bianca conosciuta come Basilisco. Lo sguardo della vittima della maledizione si inchioda proprio sull'illustrazione dell'animale, ma non sembra avere alcuna reazione particolare, come se non l'abbia mai visto.

Pieno di esitazione, con un tono quasi arrendevole nella voce, sospira profondamente, “Ammettiamo… Ah, non posso crederci, ma ammettiamo che sia così, che sia stato davvero maledetto.” Le dita della sua mano destra, ancora non catturate dalla fossilizzazione invisibile all'occhio, tamburellano nervosamente contro il bracciolo, mentre parla, come se si stesse sforzando , “Di cosa si tratta?”

“Non vedo pietrificazione. Eppure, quando lo hai toccato, quel suono era roccioso,” gli faccio eco, scoccando uno sguardo dubbioso ad Aidan, “Hai detto anche tu che si tratta di questo.”

Aidan poggia il tomo con un tonfo sul tavolino da caffè che divide il divano dalle nostre poltrone, in modo che la pagina del Basilisco sia sotto ai nostri occhi e che quelle pupille giallastre da rettile ricambino il nostro sguardo, prima di parlare, “Non sempre le informazioni riportate nei bestiari sono del tutto accurate. Dopotutto, si trattava dello studio di animali insoliti, spesso rari, per cui le voci che circolavano su di loro erano esagerate e distorte, a volte vere e proprie invenzioni. In particolare, gli studi sul Basilisco sono stati innumerevoli e spesso in disaccordo,” scrolla le spalle, “Non posso di certo biasimare questi studiosi per non aver avuto il coraggio di approcciare una delle bestie più pericolose sulla Terra. Comunque, in questo caso, è un errore di interpretazione.”

“Vuoi dire che il Basilisco non pietrifica davvero le vittime con il suo veleno?”

Scuote la testa, “No, certo che no. Tuttavia, la pietrificazione non è così distante da quel che accade davvero...” Il suo indice si poggia sul mio braccio, facendomi irrigidire per un istante, mentre scorre sulla mia pelle lattea, seguendo la linea del muscolo, “Il veleno cementifica i muscoli. È come se, improvvisamente, si formasse uno strato che li blocchi, rendendoli, effettivamente, rigidi come pietra. Il risultato è lo stesso e la durezza non è così dissimile.”

“Quindi, vuol dire che...” il tono di Kondras si incrina per un secondo, riempendosi di terrore, non appena Aidan stringe il mio avambraccio, senza particolare forza, ma tenendolo immobile come se fosse costretto.

“Sì, se non spezzeremo la maledizione che permette al veleno di propagarsi dentro di te, morirai. Il tuo cuore si calcificherà.”

Sarebbe stato meglio avere un po' più di tatto, ma la situazione sembra essere fin troppo grave, e se questo servirà a convincerlo a lasciare che Aidan si occupi di lui, allora ben venga. Però, per qualche ragione, sento come se qualcosa non andasse. Forse, è il tono di Aidan, così risoluto e trepidante, forse è la sua espressione, completamente diversa dalle altre volte, del tutto distante da quella che ricordo quando mi ha aiutato, forse è per quella frase che ha pronunciato sottovoce, prima di uscire dall'atrio principale della scuola—Ma mi sembra che questa, per lui, non sia un'offerta di aiuto, un'occasione per strappare qualcuno dalle fauci del mondo occulto, di mostri e spiriti.

Sembra più una sfida, una disperata sfida a quella pianista che ci ha ingaggiati.

Una sfida che non riesco a comprendere del tutto.

“Non ho molta scelta, vero?” Jeiv storce le labbra, gettando un'occhiata ad Aidan, un lungo scambio di sguardi che sembra, di nuovo, far tremolare leggermente qualcosa dentro di lui, come se le torbide acque del suo sporco lago si stessero agitando, appena sotto la superficie, “Devo fidarmi di te.”

“Oh, non di me,” Aidan chiude il libro di scatto, lasciando che la figura del Basilico scompaia, tornando a rintanarsi tra le pagine mangiate dal tempo e ingiallite dall'uso, “Ma di Evie Halliwell.” Termina con una nota tagliente che vibra nell'aria per qualche istante, prima di sparire in un soffio. Mi sembra quasi di poter sentire i denti del tesoriere stridere tra di loro, e la sua faccia accartocciarsi, quasi a minacciare di spaccarsi e lasciare intravedere nuovamente quell'espressione che non gli appartiene, diversa.

“C'è gente che avrebbe una qualche particolare ragione per lanciarti contro una maledizione, per caso?”

“Che domanda sarebbe, questa?”

Riconosco che sembra piuttosto vaga. Prima di tutto, Jeiv Kondras è l'oggetto dell'invidia di molte persone, a scuola; il suo successo in ogni cosa che fa, basta a suscitare l'ira di molti, ma quante persone sono in grado di lanciare una maledizione? Il mondo dell'occulto è ambito di pochi e la maggior parte di coloro che vi entrano in contatto, lo fanno solo perché afflitti da cause esterne. Ricercare il modo di lanciare una maledizione è qualcosa di estremamente complicato.

“Conosci qualcuno in grado di lanciare una maledizione?” chiedo, a mia volta, nella speranza di restringere il campo, ma Aidan scuote la testa, “In realtà, sarebbe difficile prepararne una, bisognerebbe dedicarsi all'apprendimento delle arti occulte per molto tempo, anche anni.”

“Sopratutto, chiunque l'abbia fatto, ha avuto bisogno di veleno distillato di Basilisco, no?” aggiungo, “Non è una cosa facile da reperire.”

“Basta chiedere a qualcuno che si intende di occultismo, come me.”

“Ce ne sono altri?”

Il mio tono sorpreso fa alzare un sopracciglio ad Aidan, come se non comprendesse la mia reazione, “Non te lo avevo detto? D'altra parte, è impossibile pensare che non ci siano altri interessati all'occulto e che si dedichino a studiarlo. E da quanto ne so, nessuno di loro è nel nostro quartiere; chiunque abbia lanciato la maledizione, si è premurato di andare a chiedere una dose del veleno a qualcuno che non sono io.”

Quindi, chiunque abbia preparato il maleficio, pur conoscendo Aidan e la sua passione per questo mondo invisibile, probabilmente sicuro che non avrebbe mai avuto la sua collaborazione, ha voluto procurarsi il veleno rivolgendosi a qualcun altro. Si tratta di una persona che ci conosce e che odia Jeiv Kondras, forse la sua perfezione, la sua inavvicinabilità. Di conseguenza, è naturale pensare che frequenti la nostra stessa scuola.

I motivi per odiare Jeiv Kondras sono innumerevoli, certo. Ma possibile che l'invidia possa trasformarsi in un odio tanto rabbioso e feroce, da desiderare una morte, lenta e dolorosa, che divori e debiliti il corpo, che lo condanni a soffrire e a sfaldarsi, incapace di reagire?

“Forse… Forse c'è una persona.”

La nota nella sua voce ha una piega insolita, quasi disgustata, come se stesse immaginando qualcosa di ripugnante, talmente rivoltante da risultargli insopportabile. I suoi occhi fangosi si abbassano, evitando di incrociare i miei o quelli di Aidan…

Quasi voglia nascondere qualcosa. Nascondersi da noi, che lo guardiamo, che lo ascoltiamo, mentre sussurra un nome a mezza voce.

“Una ragazza mi si è dichiarata.”

“Congratulazioni, allora, pensavo ci fossi abituato.” Il sarcasmo non sembra intaccarlo, non sfiora nemmeno le sue orecchie, la testa ancora bassa, le mani che faticosamente si poggiano sul volto, a nasconderlo, a schermarlo dal resto del mondo.

Mi intrometto, dando un colpetto alla spalla di Aidan, bloccando eventuali altri commenti pungenti, “Sospetti di lei? L'hai solo respinta, dopotutto.”

Alza il viso. Nonostante la mano lo nasconda del tutto, riesco ad intravedere l'occhio destro, che trema, agitato, ribollendo del fango che emerge dalla superficie. Un occhio che non sembra il suo, che ha perso più della calma, ma l'intera identità.

“Le ho detto che mi disgustava.”

Normalmente, non penserei nemmeno alla remota possibilità che una cosa del genere possa giustificare una maledizione, sopratutto di questo genere. Ma il disgusto nella sua voce è qualcosa di talmente tagliente, che non fatico a credere quanto distruttivo sia stato per quella ragazza sentirsi schiacciare così. Forse è perché ho passato così tanto tempo priva di emozioni, eppure non riesco a spiegarmi il motivo di questa repulsione così intensa, qualcosa che sconfina quasi nell'odio, radicata e velenosa. Aidan coglie il dubbio nei miei occhi e si limita ad annuire. Non possiamo fare molto altro, dopotutto.

“Va bene. Come si chiama la ragazza?”

“Rui. Rui Miviel.”

Quando ci chiudiamo la porta alle spalle, Aidan si ferma un attimo sull'uscio, le mani in tasca, a guardare la figura che, ora in piedi, di fronte ad uno specchio, trema leggermente, respirando faticosamente, come se si stesse perdendo lì dentro.

Senza una parola, chiude la porta con un rumore secco, passandomi accanto, la ghiaia che scricchiola sotto le sue scarpe. Il vento inizia a soffiare, scompigliandomi i capelli, agitandoli dolcemente secondo il movimento dell'aria; il sole ormai è quasi sparito all'orizzonte, il cielo sfuma dal colore rossastro del tramonto, fiamme cremisi e punte rosate che vengono divorate dal blu scuro, sempre più torbido, più profondo, fino a divenire nero come catrame, nel suo punto più alto. Una cupola multicolore, crepuscolare, l'ora più favorevole all'occulto, alle creature invisibili, agli spiriti e ai mostri.

Sul volto di Aidan, non vedo alcuna preoccupazione, alcun dubbio. Solo quell'indefinita luce negli occhi che ha avuto per tutto il tempo. Non riesco a togliermi dalla testa le sue parole, quando siamo usciti dalla scuola, non riesco a cancellare gli sguardi che ha lanciato ad Evie Halliwell.

Le parole che lei gli ha detto con una calma cristallina, ma che hanno colpito un bersaglio invisibile. Che hanno fatto nascere un dolore nel mio petto.

“Non puoi resistere al richiamo dell'occulto, non è vero?”

Molto spesso, mi sono fermata a riflettere su cosa muova Aidan Reiss, cosa lo abbia spinto a sprofondare in questo mondo così nebuloso e distorto, al confine estremo con la coscienza e la mente umana. L'ho seguito per diverso tempo, nelle sue richieste, nelle sue investigazioni e nei suoi studi, e tuttavia non sono riuscita a decifrarlo in alcun modo.

Una cosa che io non ho capito.

Aidan non riesce a resistere al richiamo dell'occulto.

Ora mi sembra più chiaro, qualcosa che è sempre stato davanti ai miei occhi. Non riesce a sfuggirne alla presa. Come se grazie ad esso, potesse fuggire da qualcosa, potesse trovare conforto. Come se fosse il suo unico scopo nella vita. Qualunque cosa gli sia accaduta, ha scavato un solco in lui, una ferita che lo ha fatto fuggire dal mondo. La stessa ferita che ho subito anche io.

Quando certi pensieri mi aggrediscono, richiamo alla memoria quella notte, nel parco giochi abbandonato e un lieve tepore mi tranquillizza. Se lui ricorda me, mi sono detta, io dovrò ricordare lui. È naturale che sia così.

Eppure, nonostante tutto questo—Non sono riuscita a rendermene conto. A capire cosa passi dentro di lui.

“Tutto bene?” mi chiede, voltandosi appena verso di me, ancora immobile ad osservare le figure delle case controluce, come a voler cercare qualcosa, nel cielo crepuscolare. Mi irrigidisco di colpo, quasi avesse rotto una sorta di sospensione, il filo dei miei pensieri; staccando gli occhi dall'orizzonte, annuisco con poca convinzione, avvicinandomi a lui che aspetta sul cancello del giardino, mentre controlla qualcosa sul cellulare.

Non so come esprimere questa sensazione in fondo allo stomaco, non so come dirgli che mi dispiace non averlo capito prima, che noi, dopotutto, siamo legati da un filo invisibile. Respiro a fondo, scacciandola, ricacciandola indietro, dove non posso sentirla; nonostante non mi riesca ancora bene, reprimere le mie emozioni, non è il momento per lasciare che mi laceri. Un giorno—un giorno dovrò parlarne con lui. Chiedergli cosa gli è successo, chi è Ayane… Chi è Aidan Reiss.

“Rui Miviel. Ha la nostra stessa età, ma frequenta una classe differente.” Mi accoglie mostrandomi la foto della ragazza sull'annuario scolastico dell'anno precedente, aperto dal sito web della scuola, una ricerca di un paio di minuti è stata più che sufficiente. La foto non ha nulla di strano, sembra una ragazza come le altre; nulla, in lei, fa presagire qualcosa di disgustoso o ripugnante come traspariva dalle parole e dal tono di Jeiv. È semplicemente una delle tante ragazze che, preso il coraggio a due mani, si è fatta avanti ma è stata respinta.

Gli porgo il telefono, “Dobbiamo parlarci domani.”

“Non abbiamo molto tempo. A giudicare dal suo stato attuale, al nostro tesoriere mancano due o tre giorni, prima di essere ridotto ad un rigido manichino.”

“Pensi davvero che sia stata lei?” chiedo, mentre ci dirigiamo verso la pensilina, di un vago colorito rossiccio, scolorito dalla pioggia, dall'altra parte della strada, in attesa che passi l'autobus per tornare a casa. La panchina su cui siamo seduti è gelida ed un po' arrugginita, ma riusciamo a starci comunque, seppure lui stia seduto quasi in bilico sul bordo, per lasciarmi un po' di spazio.

“In realtà, no. Ma non abbiamo altre ipotesi e, a sentire lui, sembra che la maledizione si sia manifestata qualche giorno dopo.”

Il silenzio cala su di noi, stretti su questa minuscola panca, così vicini che le nostre spalle si toccano, ognuno immerso nei propri pensieri. Nessun rumore sembra voler infrangere l'atmosfera quasi surreale di questa strada avvolta nella semioscurità, ma ancora rischiarata debolmente dalla luce del tramonto ormai prossimo allo spegnersi. Non ci sono altre persone, oltre a noi, che passeggino sui marciapiedi o che si intravedano nelle case, solo queste villette a schiera che ci circondano, attraverso le cui tende, non riesco nemmeno a scorgere le ombre delle persone che le abitano.

È come se fossimo completamente soli, lontano da tutti, in questa via dove neanche una macchina calca la strada, dove nessun uccello cinguetta, nessun cane abbaia.

Penso che, forse, questo è il momento giusto. Forse questo è il momento di porgli quella domanda, di chiedergli anche solo qualcosa su quel che è accaduto prima di conoscermi. Non l'ho mai fatto, e lui non ha mai accennato a fatti specifici… A persone che ricordasse.

Ma il nome di quella ragazza, in qualche modo, ha come premuto un interruttore in lui, ha richiamato alla memoria un ricordo di qualche genere.

—Mi vergogno ad aver solo pensato di essere l'unica, in lui, ad essere ricordata. Allo stesso tempo, quella sensazione in fondo allo stomaco continua a grattare ed artigliare, a sbocciare in me, a mettere radici e rampicanti che si allungano e mi pungono.

Voglio sapere chi è la ragazza di nome Ayane, cos'è accaduto tra di loro. Forse, se lo facessi, mi sentirei meglio. Questa sensazione sparirebbe, mi lascerebbe in pace. Non so darle un nome, perché è indefinita e terribilmente nebulosa, ma è lì, che si agita in questi momenti, quando mi sento illusa per aver creduto, aver sperato, di essere in primo piano.

Ora, che siamo così sospesi, lontani dal mondo, posso chiederlo?

Ora, che il buio della sera ci ha avvolti, che siamo illuminati a malapena da un lampione stanco, posso chiederlo?

Ora, che non possiamo vederci in viso, che non noterà la mia espressione accartocciarsi, posso chiederlo?

“—Chi è Ayane?”

Una domanda, poco più di un soffio di vento, divorata dall'oscurità nel momento stesso in cui esce dalle mie labbra. Due fanali in fondo alla strada ed il sussultare di un rumore mi avvertono che l'autobus si avvicina, come una sorta di segno. Mi alzo in piedi di scatto, nascondendomi ancora di più nel buio, lontana dalla luce del lampione, più per scappare da Aidan, che ha alzato la testa, che per salire dalle porte aperte.

Non so se abbia udito la mia domanda. Guardandolo dal finestrino, non riesco a vedere il suo volto.

Riesco solo a vedere una strada illuminata dalle luci delle case, le ombre delle persone dietro alle finestre, la gente che passeggia per i marciapiedi, le macchine che sfrecciano per la strada.

Ed una figura solitaria, in piedi sotto alla luce esitante di un vecchio lampione, accanto alla fermata di un autobus, che si allontana dopo essersi guardata alle spalle un'ultima volta.

 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** IV —Sticks and stones can break my bones. ***


IV

Sticks and stones can break my bones.

 

Il disgusto è il senso di repulsione che si prova verso un qualcosa, o in questo caso un qualcuno, di particolarmente grottesco o insopportabile, al punto da risultare intollerabile all'occhio. Solitamente, non è una parola che venga utilizzato nei riguardi di una persona, a meno che non nasconda qualcosa, un motivo che va oltre l'aspetto fisico. È difficile arrivare a provare disgusto per qualcuno solo per via del suo aspetto; e si tratta di un caso estremo, dire in faccia ad una persona che la sua presenza è, per noi, ributtante.

Mentre mi rigiro tra le coperte, con la luce del primo mattino che entra pigramente attraverso le serrande chiuse, pochi raggi slavati in cui balla lentamente il pulviscolo dorato, il filo dei miei pensieri si aggroviglia attorno a questo singolare problema, la cui responsabilità è ricaduta sulle nostre spalle. Un problema terribilmente grave, che si avvicina alla morte, decisamente peggiore di qualsiasi altro fenomeno sovrannaturale che ho avuto la possibilità di osservare, attraverso le lenti sfocate dei miei occhi appena abituati alla nuova realtà.

Rimugino tanto intensamente, perché non riesco a dormire e perché, piuttosto che farmi del male, piuttosto che lasciare a briglia sciolta i miei pensieri verso emozioni che ancora, a volte, mi sembrano estranee, preferisco concentrarmi sul problema più immediato. Mi ripeto, mentalmente, che prima è necessario mettere a posto i tasselli di questo puzzle scombinato, risolvere questo rompicapo, e poi di pensare egoisticamente a me stessa.

Perciò, fuggo dalle domande, dai pensieri e dai ricordi più scomodi e pungenti, talmente brucianti ed instabili che rischiano di inumidirmi gli occhi. Mi sento ancora inadeguata ed incapace di controllare le mie reazioni ed i miei sentimenti; per quanto tenti di nasconderlo, mi sento fragile e ho paura di crollare su me stessa come un castello di carte. E la mia unica sicurezza, il mio unico appiglio, mi sembra ora meno solido di prima. E quindi, fuggo dai dubbi e dalle paure, immergendomi completamente in questo mare di pensieri, così che il suono lì fuori, al di sopra della superficie, non mi giunga che attutito, lontano, un rumore di fondo a malapena udibile.

Jeiv Kondras è una persona decisamente diversa da quanto la immaginassi. È come se si sforzasse di mostrarsi agli altri sempre perfetto ed intoccabile, ma di fronte a noi, di tanto in tanto, sono riuscita a cogliere un fremito, nella sua espressione, quasi come si fosse aperta una vistosa crepa attraverso il suo viso per qualche istante, rivelando, attraverso i suoi occhi, la sua espressione, una persona diversa dall'ammirevole studente che conoscono tutti. Ma ancora più di questo, sono state le sue parole, il modo con il quale ci ha parlato della ragazza verso la quale ha indirizzato i nostri blandi sospetti – e mi sono chiesta, come potrebbe una persona provare disgusto per un'altra, senza averla conosciuta sufficientemente da intravederne gli aspetti peggiori della personalità.

Il disgusto è ben più intenso dell'odio. Si può odiare una persona, ma sopportarne la vista ed il pensiero; dopotutto, per odiare, è necessario avere costantemente un'immagine ben chiara, nella mente, che rimane lì ad alimentare il disprezzo gorgogliante.

Provare disgusto è qualcosa di più intenso, una sensazione talmente divorante e ricolma di ributtante ripugnanza, che anche solo il pensiero di quella persona è insopportabile. Non è possibile provare qualcosa di simile semplicemente per via dell'aspetto fisico e Rui Miviel, almeno nella foto dell'annuario, mi è sembrata una ragazza ordinaria, non diversa da me o da tante altre. Eppure, nonostante questo, il tono di Jeiv era inequivocabile, i suoi occhi sono completamente mutati, come se il nostro interlocutore fosse cambiato, nel momento in cui ci ha detto il suo nome, in cui ha visto la sua foto.

Prova repulsione per quella ragazza... Ma per quale motivo, uno come lui, noto per la sua disponibilità, per la sua capacità, intelligenza, dovrebbe farlo?

Quello sguardo che ho sfiorato, non era lo sguardo di Jeiv Kondras, lo studente modello. Si trattava di una persona del tutto diversa, nascosta, che non avrei mai sospettato poter esistere, sotto a quella facciata. Come se—

Una vibrazione interrompe il filo dei miei pensieri, un rumore breve e secco, che si esaurisce dopo un attimo, sicuramente proveniente dal cellulare lasciato sul comodino. Allungo la mano attraverso le coperte, osando esporre solo le dita al freddo che regna nella stanza, al di fuori del rassicurante calore del letto, afferrando il telefono e, socchiudendo gli occhi, per ripararmi dalla intensa luce dello schermo, apro il messaggio senza bisogno di guardarne il mittente. C'è solo una persona, dopotutto, che mi abbia mai scritto un messaggio.

Mi alzo faticosamente dal letto, riponendo il telefono al suo posto; stringendomi nelle spalle, per resistere all'improvvisa vampa di brividi che si allunga sulla mia pelle, mi avvicino alla finestra, poggiandomi contro il davanzale, salutando silenziosamente il sole del primo mattino. Non ci rimane molto tempo, due o tre giorni al massimo, ha detto Aidan, per cui non possiamo perdere tempo. Dovrei sentirmi più preoccupata, ed invece, l'unica cosa a cui riesco a pensare, è un nome associato ad un volto sconosciuto, che per quanto tenti di allontanare, torna sempre ad infastidirmi con la sua presenza, con quella domanda senza risposta. Di cui non ho voluto sentire la risposta. Una parte di me ha inequivocabilmente paura di sentire quelle parole che temo potrebbero uscire dalla sua bocca; ma senza sapere, sarò tormentata per sempre da questo fantasma?

Aidan è di fronte al cancello che mi aspetta, scorrendo attentamente la stessa pagina di annuario di ieri, soffermandosi, ogni tanto, su una foto diversa. È come se tornasse, come un chiodo fisso, alla stessa immagine, dopo averne viste una o due, rimanendo a guardarla con intensità insolita, assorbito da essa, per qualche istante, prima di continuare a scorrere. Riesco ad intravedere appena la sagoma della ragazza nella foto ma, in quell'unico istante che il mio occhio coglie, sono sicura di non aver intravisto Rui Miviel, ma un'altra persona. Mordendomi appena il labbro inferiore, mi chiudo il cancello alle spalle, salutandolo con un tono di voce simile ad un bisbiglio, esitante; dopo la domanda che gli ho posto ieri, non sono sicura di come comportarmi, con lui, sopratutto dopo essere fuggita ancora prima che lui potesse rispondermi.

Non appena sente lo sbattere ferreo della serratura del cancello, ripone rapidamente il cellulare, lasciandoselo scivolare in tasca. Per un secondo, il suo sguardo sembra quasi volermi trapassare da parte a parte, indagare ogni singolo centimetro del mio viso, con una tale intensità da farmi sbocciare un leggero rossore sulle guance. Storce appena la bocca.

“Hai dormito male?”

Rimango in silenzio, paralizzata da quella domanda inaspettata. Ero più preparata ad un riferimento a ieri sera, non a qualcosa di così... normale. Così normale da essere insolito. Apro la bocca senza troppa sicurezza, ma non sono sicura di riuscire a fidarmi della mia voce, quindi preferisco scuotere la testa. Aidan scrolla le spalle e mi fa cenno di seguirlo, senza aggiungere nulla, lo sguardo perso, gli occhi puntati davanti a sé, senza riuscire a vedere davvero la strada che stiamo percorrendo, immerso in una riflessione criptica.

“Ho scoperto di che genere di maledizione si tratta. Ha come catalizzatore un semplice foglio di carta sul quale viene incisa una formula. È spiegato in un libro che ho letto ieri...” dà un colpetto al cellulare, “E che ho fotografato appositamente.”

Mi sento impacciata. Non mi era mai accaduto prima, con lui. Non avevo mai dubitato delle parole da rivolgergli. Non mi sono mai sentita così... Lontana. Forse sto inutilmente complicando la situazione e mi sto nuovamente stringendo le mie stesse catene attorno ai polsi; ma il pensiero di non riuscire a comunicare con lui, mi dà una sensazione strana. Quasi paurosa. Riesco a mormorare una domanda impacciata, solo raccogliendo la mia poca determinazione, “Perché stiamo uscendo così presto?”

“Rui Miviel arriva sempre prima a scuola degli altri,” esordisce, con un'urgenza nella voce proporzionale alla velocità del suo passo, “E se vogliamo parlarle il prima possibile, dobbiamo sbrigarci. La situazione di...” mi lancia una rapida occhiata di sottecchi, come a chiedermi silenziosamente aiuto.

“Jeiv Kondras.” completo al suo posto, affiancandolo, mentre attraversiamo l'ennesima stradina di quartiere, senza una sola voce ad infastidirla, senza alcun suono a contaminarla, al di là del nostro scalpiccio e dello sporadico rombare di qualche macchina. L'ora preferita di Aidan, quella in cui giorno e notte si fondono e sfumano l'uno nell'altro.

“Sì, proprio lui. La sua situazione sta peggiorando. La maledizione progredisce a vista d'occhio.”

“Possibile sia peggiorato così tanto, nel corso di una notte?”

Aidan scrolla le spalle, “Non so cosa provochi il peggiorare di questo maleficio, ma di qualunque cosa si tratti, non ci lascia molto tempo.”

Osservandolo per un secondo, effettivamente mi sorprendo di non averlo capito prima. Non lo ha mai fatto per gli altri, dopotutto. Anche ora, la sua urgenza, questo suo voler aiutare una persona di cui non ricorda nemmeno il nome, non è un'opera di altruismo, ma di estremo egoismo. Qualcosa che compie per se stesso. Avrei dovuto capirlo prima, che ciò che fa, è tutto per se stesso, perché non riesce a stare lontano dall'occulto.

Nemmeno in una situazione come questa.

Nell'atrio, ci sono solo una manciata di studenti arrivati con largo anticipo, per ripararsi dal freddo o magari per scappare in biblioteca, nel tentativo di studiare all'ultimo minuto, o affollando i due distributori automatici di bevande calde, uno di fronte all'altro, sui due lati opposti del corridoio. Un gruppetto se ne sta a chiacchierare a bassa voce, attorno alla macchinetta di destra, che emette un basso sibilare meccanico; quando il grugnito meccanico cessa, l'aroma ed il tepore del caffè sfiorano le nostre narici, ed il loro brusio riempie le orecchie, mentre li superiamo. Aidan, senza una parola, avvertendo la mia confusione, indirizza il mio sguardo verso l'altro distributore, il più isolato e meno utilizzato; davanti alla macchinetta, completamente sola nel corridoio vuoto, sta una figura stretta in una ampia sciarpa che le avvolge il viso, nascosto già da un paio di grandi occhiali dalla montatura semplice che le conferiscono una sorta di aria d'ingenuità. I suoi occhi, attraverso le lenti, sono così grandi e nervosi, come se scrutassero con sorpresa ogni cosa sul quale si posino, e per questo sente il bisogno di tenerli nascosti al di sotto di una frangia ordinata e perfettamente simmetrica.

Riesco a riconoscerla nonostante metà del suo volto sia riparato dalla sciarpa, perché la sua immagine mi è pulsata nella testa per tutta la notte, mentre riflettevo disperatamente per distrarmi da altri pensieri velenosi. Una ragazza timida, insicura, che si nasconde dal mondo, che preferisce allontanarsi; che si sente inadeguata ed imbarazzata, al punto da schermare perfino i suoi occhi. Che arrossisce quando nota che vi avviciniamo, quasi posso intravederla tremare, stringere le labbra, capendo che stiamo venendo a parlarle.

Per quanto i suoi occhi siano rifugiati sotto i suoi capelli, non posso fare a meno di avvertire un tremolio in essi, come se si fossero sbarrati di colpo, nel riconoscere la figura che accompagno, la persona che ha fama di conoscitore dell'occulto, per coloro che sono disposti a crederci, a prestare orecchio alle dicerie, senza metterle da parte come stupidaggini e fantasie insensate. Conosce Aidan, sena alcun dubbio.

“Lo so.” mi anticipa lui, quando sto per farglielo notare, annuendo seccamente. Sembra sorpreso, addirittura avverto del disappunto, nel suo tono di solito così neutro, nel rendersi conto di aver sbagliato il suo giudizio. Quindi, quella di Rui non è un'ipotesi del tutto insensata, un vicolo cieco come credevamo, come era convinto fino ad un attimo fa Aidan.

Possibile che una ragazza come lei, che sembra così impacciata, così minuta ed esile, che fugge dal mondo delle altre persone, abbia lanciato una maledizione mortale, solo perché è stata respinta ed insultata?

Non c'è nulla di disgustoso, in lei, è il primo, spontaneo pensiero che sento spuntare in me nel momento in cui Aidan le si avvicina, senza che lei osi alzare lo sguardo, le guance arrossate e la mano che tamburella nervosamente contro il display elettronico sul quale lampeggia la scritta “Selezionare una bevanda”. Nessuno parla, come se l'aria fosse immobile ed il mondo congelato, in fremente attesa di qualcosa.

Dall'aula di musica, le note liquide di un pianoforte, come acqua che scorre, gocciolando, di roccia in roccia, accompagnano ogni movimento, ogni singolo passo, che muoviamo mentre le arriviamo accanto, mentre lei nervosamente continua a non staccare gli occhi dallo scorrere esitante delle lettere sullo schermo del distributore, dalla monotona frase che la invita a scegliere, a premere un pulsante.

“Dodici,” esordisce Aidan, facendo sgusciare la mano sul tastierino numerico e selezionando una bevanda al posto della ragazza, nonostante la mia protesta, “Il cappuccino è l'unica cosa decente che fa questo distributore. Ma tu lo sai meglio di me.”

Con un tonfo di plastica su plastica, un bicchierino viene fatto scivolare sulle estremità di un artiglio, che lo tiene fermo il tempo necessario a far colare al suo interno una miscela di un liquame nerastro e biancastro, formando una schiuma grigiastra, dall'aspetto tutt'altro che invitante, ma nonostante ciò, Rui lo afferra con le dita esitanti, soffocando un'esclamazione quando il calore della bevanda le solletica i polpastrelli. Lo beve senza ancora osare incrociare il mio sguardo, o quello di Aidan, a piccoli sorsi nervosi.

“Sai perché sono qui, no?” Lo studioso dell'occulto estrae lo smartphone dalla tasca, scorrendo per un istante la galleria di immagini piuttosto scarna sotto ai miei occhi, fino a trovare la foto, scattata direttamente da un libro antiquato, anch'esso fitto di caratteri gotici, il cui titolo recita semplicemente Maledictio. Il colore scompare lentamente dalla carnagione già pallida della ragazza, fino a lasciare un pallore cinereo, di gesso, gli occhi che si posano esitanti sullo schermo, poi su Aidan, a mostrare, attraverso di essi, un panico che la sta lacerando. Una paura che la fa a pezzi dall'interno. La sua bocca, tremante, si apre per parlare, senza che ne esca alcun suono, per cui la richiude immediatamente, mentre qualcosa di lucido inizia a colarle lungo la guancia, cadendo con un gocciolio nel liquido scuro che regge in mano.

Lacrime salate, nel caffè amaro.

“Mi dispiace...” sussurra, senza muoversi, senza nemmeno osare portarsi le mani al viso per asciugare il pianto, “Mi dispiace...” singhiozza, scuotendo appena la testa, il respiro incerto, come se ogni boccata costasse una fatica indicibile, “Mi dispiace...” mormora, con una voce che è ancora meno di un sussurro, meno di un mugolare ferito, “...Non volevo fare nulla di male.”

Senza lasciare quel cappuccino torbido, crolla in ginocchio, quasi schiacciata dal peso delle parole di Aidan, dai nostri sguardi che le ricadono addosso.

“Non volevo fare nulla di male...” scuote la testa, “Ma quella lettera... Quella lettera...”

Mi inginocchio accanto a lei, stringendole le spalle minute, e la sento trasalire al contatto fisico, ma senza opporsi, lasciando che il mio abbraccio impacciato la consoli. Forse, se qualcuno lo avesse fatto prima, non sarebbe accaduto.

Forse se qualcuno lo avesse fatto con me, non mi sarei sentita tanto vuota.

Non provo compassione o empatia, per lei. Il mio è solo un riflesso inconscio.

Per un istante, in Rui, ho visto un'altra ragazza in lacrime, che singhiozzava da sola, in un luogo buio, sola.

“Accompagniamola su quella panchina. Dobbiamo parlare.”

Senza aggiungere altro, Aidan si piega su di lei, tenendola in piedi, aiutandola a camminare sulle gambe tremanti ed improvvisamente deboli, prive di forza. Singhiozza ancora, sottovoce, gli occhiali appannati che velano gli occhi ricolmi di lacrime.

E, beffardamente, Evie Halliwell, dall'aula di musica, continua a suonare quella sua canzone struggente, come un pianto malinconico, stridente rispetto a quello di pentimento della ragazza al mio fianco.

Alla fine, non ci eravamo sbagliati. Rui Miviel, dall'aria così innocente ed insospettabile, sospinta da chissà quale veleno, ha maledetto Jeiv Kondras. Ha parlato di una lettera, ed è proprio questa che , calmati i singhiozzi, cerca frugando nella sua borsa, tirandone fuori un modesto biglietto, in una bustina aperta con cura, senza strapparne la carta. Aidan la prende dai piccoli, deboli palmi, sfiorandone appena la pelle, e ne estrae il pezzo di carta all'interno.

Un vago, delicato odore di tulipani riempie le mie narici, spingendomi ad abbassare la testa, che tenevo alta, puntata verso la porta della classe da cui sgorga la musica, come un ruscello che si allontani da un lago, attirando la mia attenzione sulla lettera di colore lilla pastello, la fonte dell'aroma così morbido e tenue da sfiorare appena le narici.

Aidan aggrotta la fronte, mentre legge rapidamente il contenuto della missiva, e le sue dita si stringono attorno agli angoli del foglio, stropicciandoli appena, con una sorta di frustrazione, o di disappunto, che ho visto raramente mostrarsi nelle sue azioni. Me la porge, senza una parola, voltandosi invece verso Rui, che, pur avendo soffocato il rumore del pianto, continua a lacrimare dagli occhi arrossati e ricolmi di pentimento. Pieni di paura.

La calligrafia della lettera è estremamente elegante e piena di svolazzi, come se fosse stata scritta da un esperto di calligrafia, e per questo irriconoscibile. Nessuno scriverebbe in questo modo normalmente, si tratta quasi di uno sbeffeggio, una risata alla scrittura dai caratteri spigolosi e gotici di Aidan, questa così morbida e sinuosa, come uno specchio che rifletta l'opposto di ciò che ha davanti.

Mi basta leggere le prime righe per capire di cosa si tratta. Non sono un'esperta di maledizioni o veleni sovrannaturali, ma non ci vuole un profondo conoscitore come Aidan per riconoscerne uno, quando lo si ha davanti. È un dettagliato procedimento su come scagliare un maleficio utilizzando del veleno di basilisco come elemento primo. Una maledizione piuttosto complessa, ma spiegata con una precisione tale da risultare comprensibile ed attuabile da chiunque, perfino da chi non abbia passato del tempo a studiare l'occultismo e la magia. Una trascrizione parziale della pagina fotografata da Aidan.

“Tutto è iniziato il giorno dopo essere stata respinta da Jeiv. Nel mio armadietto, ho trovato una lettera come quella, con la stessa calligrafia. Era una lettera consolatoria, piena di calore e comprensione. Leggerla mi ha fatto stare meglio, mi ha aiutato a mitigare il dolore. Ogni giorno, sono arrivate nuove lettere in cui mi consolava...” si porta una mano alla bocca, come a voler soffocare le sue stesse parole, “E mi ha convinta a eseguire quella maledizione. Ho bruciato tutte le lettere, come mi ha chiesto, tranne questa.”

“Quindi ti sei fidata di una persona che non hai mai visto ed hai maledetto una persona condannandola a morire?” La campanella infrange l'atmosfera di sospensione in cui eravamo immersi. Aidan scuote la testa, rassegnato, facendomi cenno di seguirlo, alzandosi in piedi.

“Non lo sapevo!” l'urlo che esce dalla gola di Rui è disperato, “Non sapevo cosa sarebbe accaduto. Non credevo... Non appena ha smesso di venire a scuola, io ho saputo che era colpa mia, ma non volevo! Non volevo!” Mentre ci allontaniamo nel corridoio, la sento continuare ad implorare e piangere, ma non ho il coraggio di voltarmi, di guardarla mentre si accartoccia e crolla. Non ho nemmeno la forza di consolarla. È stato un suo errore, dopotutto... Non c'è perdono né consolazione, per queste cose.

Facciamo le nostre scelte e ne accettiamo le conseguenze. E prima o poi, in modi che non possiamo prevedere, queste tornano da noi.

Ora, sia Jeiv che Rui lo sanno bene.

Aidan rimane silenzioso per tutto il resto della mattina, affogando nei suoi pensieri e, per quanto tenti di parlargli, non sembra riservarmi più di una o due parole in risposta. C'è qualcuno che ha manipolato l'ingenuità e la solitudine di Rui, spingendola ad una vendetta apparentemente senza alcuno scopo. Qualcuno che conosce i punti deboli delle persone, che sa bene come muovere una persona, che riesce a vedere attraverso di essa. Qualcuno che si è rivolto al mondo del sovrannaturale, sfuggendo alla realtà come noi.

Chiunque sia in grado di comprendere una persona superandone l'aspetto e la maschera che indossa, è in grado di muovere gli altri a suo piacimento. È in grado di capire la vera natura delle persone, quando gli altri, che gli stanno accanto, non possono fare altrettanto, per quanto lo vogliano. Aidan è una di queste persone?

O anche la sua, alla fine, è solo una maschera, per rifugiarsi lontano dal mondo che lo disgusta?

Una maschera è quello che vogliamo mostrare agli altri, per nascondere quello che davvero si muove in noi. A volte, per nasconderlo perfino a noi stessi, perché ammetterlo sarebbe ancora più insopportabile che sentirlo incosciamente. Credo di capire perché Jeiv Kondras provi disgusto per Rui Miviel, non per il suo aspetto, non per la sua proposta, non per qualcosa che ha fatto, ma semplicemente per ciò che è. Per quel che rappresenta per lui; ed è per tale ragione, che mi è sembrato di scorgere un'altra persona, in lui. No, non un'altra persona, ma il vero se stesso, che abilmente tiene segregato al di là dell'identità che si è costruito, soffocando quel che era prima.

Rui Miviel lo disgusta, perché gli ricorda se stesso.

Alla fine delle lezioni, la musica del pianoforte è ancora udibile. Come un armonioso richiamo che sembra sospingerci, si avvicina e lenisce il nostro dolore, la nostra delusione, la nostra preoccupazione. Ma questa musica, in questo momento, alle orecchie di Aidan, suona come un avvertimento, qualcosa di beffardo, di sogghignante.

Di fronte al cancello di uscita, nel cortile, si volta a guardare la finestra aperta che dà sull'aula di musica, quasi sperasse di scorgere per un istante la figura di Evie Halliwell piegata sul pianoforte, immersa nell'esecuzione, come una ninfa, una creatura non di questo mondo, in quella stanza che appare come separata dalla nostra realtà.

Quante cose ti turbano, Aidan?

Mi fermo al suo fianco, azzardando a sfiorare piena di esitazione appena la sua spalla, “Stai bene?”

“Sì. Sì, certo. Stavo solo pensando...” sussurra con voce assente, “Non importa.”

A me importa.

Vorrei riuscire a dirlo, ma la mia bocca mi tradisce, la mia voce non vuole uscire.

A me importa sapere cosa pensi.

A me importa sapere cosa ti tormenta.

“—Va bene.”

Non è questo che avrei voluto dire. Forse non è nemmeno questo che lui vorrebbe sentirsi dire.

La mia mano sfiora appena il suo gomito, in un debole contatto, flebile, forse appena percepibile, un calore così lontano che dai miei polpastrelli raggiunge appena la sua pelle. Si ferma, le spalle che si abbassano, come se un peso fosse stato momentaneamente sollevato da esse.

Vorrei parlare, ma non riesco a dire nulla. Improvvisamente, anche solo pronunciare una parola è diventata un'impresa impossibile.

Solo una frase, è questo che mi basterebbe.

Ma è lui a riempire quel vuoto che si è creato, a colmare quel silenzio che non riesco più a rompere. Senza che si volti, mi sussurra, talmente piano che il vento minaccia di portare via le sue parole, “Quando tutto sarà finito... Ti risponderò. Ti dirò chi è Ayane.”

Stringo più forte la sua manica.

“Sì.”

Soffia un venticello che porta con sé le note dall'aula di musica.

Note e—un vago odore di tulipano.

 

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** V —Our game of masks. ***


V

Our game of masks.

 

La data che compare sullo schermo pallidamente illuminato del cellulare sembra quasi sbeffeggiarmi, mentre, seduta contro la finestra, la fronte poggiata contro il vetro gelido, lascio che i miei pensieri vaghino a briglia sciolta, per evitare di concentrarmi sulla ben più spaventosa realtà, fuggire da essa, chiudere gli occhi nella speranza che questo problema sparisca, che il suo peso venga sollevato dalle mie spalle.

Ma non importa quanto io tenti di distogliere la mia attenzione, quanto provi ad affogarmi nel sonno, mi ritrovo sola, raggomitolata tra le coperte, ad osservare il buio assoluto, preda delle mie preoccupazioni e delle mie paure, senza poter sfuggire. Sono alla mercé di me stessa, e non basta che le coperte mi stringano per trovare conforto e rifugio. C'è stato un tempo in cui mi sarebbe bastato correre tra le braccia del sonno per trovare sollievo, quando ancora questo letto era un rifugio dal mondo esterno e dalla sua insensibilità, dal suo divorante grigiore che mi ha afferrato, avviluppandomi nei suoi tentacoli viscosi, risucchiando via la mia identità e le mie emozioni.

Ora, invece, è un lusso che non posso più permettermi. Neppure una fugace sensazione di tranquillità mi è concessa. L'inerzia, il semplice rimanere sdraiata, con gli occhi chiusi e il respiro pesante, è un invito ai pensieri più cupi e alle preoccupazioni a venire a tormentarmi, a divorarmi . Per questo, in punta di piedi, tenendo la coperta ben stretta attorno al corpo, ho provato a cercare un disperato aiuto in quel cielo a cui tante volte mi sono rivolta. Nei momenti di maggiore tensione, in cui ogni cosa sembrava crollare, o quando non riuscivo più a sentire nemmeno una scintilla di sentimento rifulgere in me, mi sono sempre lasciata inghiottire dall'infinita distesa di stelle che trapuntano l'aria notturna.

Forse perché mi rendo conto di quanto piccoli siano i miei problemi, di fronte a quella immensità, o forse perché, più semplicemente, quella incredibile vastità non cambia mai, come un punto fisso immobile, familiare, a cui aggrapparmi, ma riesco in qualche modo a provare un po' di sollievo, accoccolandomi contro la finestra. I pensieri sfuggono tra le mie dita e, per qualche minuto, posso concedermi il lusso di non riflettere, di non tormentarmi, e rimanere assorta nel vago, profondo nulla fatto di luci bianche. È quella sorta di conforto che ognuno trova in qualcosa di apparentemente poca importanza, di scontato – e cosa c'è di più scontato del cielo, che sta sopra le nostre teste, qualunque cosa accada?

Eppure, questa volta i miei pensieri sono troppo feroci per trovare sollievo, per scappare da me e lasciarmi sola, completamente sola, anche solo per un istante. E la colpa è di quella data beffarda, quella sentenza di morte che pende sulla testa di Jeiv Kondras, la responsabilità che pesa sulle nostre spalle. Per qualche motivo, è come se solo ora, di fronte al tempo che fugge inesorabilmente da noi, capissi quanto sia davvero grave la situazione, di cosa ci sia davvero in gioco – una vita che dipende da noi, dalle nostre capacità. Non possiamo permetterci di fallire, significherebbe lasciare morire una persona, di cui noi siamo gli unici alleati.

Mi ritrovo a pensare a Aidan e quante persone nella stessa situazione, in bilico tra la vita e la morte, siano venute a chiedergli disperatamente aiuto. Quante volte avrà sentito questa responsabilità soffocarlo? Quante notti insonni avrà passato riflettendo sulla sua incapacità, sulla sua piccolezza? Quante volte avrà osservato il cielo in cerca di risposte, senza trovarne?

Quante volte avrà chiesto aiuto a qualcuno?

Mi sono chiesta innumerevoli volte quanti mostri, quali spiriti, Aidan abbia affrontato, quante persone gli debbano la vita, quante volte abbia rischiato la sua. Dev'essere stata davvero dura, per lui, vivere ogni giorno con un nuovo peso da sopportare, camminare su una strada irta di difficoltà, senza mai guardarsi attorno – sempre in solitudine, sempre senza mai parlare con qualcuno di qualunque cosa si agiti dentro di lui. È normale, dopotutto, per chi è fuggito dalla realtà, per rifugiarsi in questo mondo invisibile all'occhio di chi non crede, essere chiuso in se stesso. Eppure, credo che Aidan sia ancora più solo di chiunque altro, non come se non potesse mostrare ciò che pensa o ciò che prova, ma piuttosto come se non lo volesse.

Perfino ora, ridotti come siamo con le spalle al muro, ad un solo giorno dalla linea tracciata approssimativamente prima che la maledizione si compia del tutto, non ha voluto nemmeno per un secondo parlare dei suoi dubbi o delle sue paure. Per quanto tenti di nasconderlo, a volte è come se riuscissi ad intravedere qualcosa, nei suoi comportamenti, nei suoi silenzi, nelle sue reazioni improvvise; un lato di sé che è nascosto da pesanti tendaggi, come da una tela di un teatro, dietro alla quale si esibisce un rabbioso spettacolo di cui riesco a catturare solo qualche battuta, qualche vago movimento, senza riuscire a comprenderlo del tutto. Il nostro è un gioco di maschere, di dissimulazioni, dove ognuno si nasconde dietro parole e gesti, dove ci si parla solo a metà, senza riuscire a dire tutto quel che si vorrebbe. Vorrei trovare la forza di dirgli tutto, di parlargli della mia preoccupazione, del mio terrore, della mia insicurezza; della mia incapacità di aiutarlo, nonostante il mio desiderio di farlo.

Se lui ha aiutato me, se lui mi ha teso la mano, nel momento in cui ormai ero rassegnata al nulla, all'abbandono, ad una vita senza sapore e senza sentimento, perché io non riesco a fare altrettanto? Mi sento terribilmente debole. Terribilmente inutile. Schiacciata da eventi che vanno oltre le mie capacità, come se fossi finita nel mezzo di una tempesta, e la corrente violenta mi trascinasse senza che io possa fare nulla. Ho paura di fallire, e che tutto vada in rovina; ho paura di quello che Aidan potrebbe dirmi riguardo ad Ayane, ma non riesco a sopportare l'idea di non sapere; ma sopratutto, ho paura che il mondo mi divori ancora, che tutto si spezzi e vada in frantumi. Ho paura di rimanere di nuovo completamente sola.

Ho capito come Jeiv Kondras non indossi che una maschera e che, chiunque ci sia lì sotto, è probabilmente completamente diverso dalla persona che appare all'esterno, quell'esempio di perfezione, una figura costruita ad arte, che tuttavia trema e si incrina, in alcuni momenti, rivelando frammenti al di sotto di essa, piccole espressioni, parole tremolanti, di chi è veramente. Ed è stata proprio la sua maschera ad attirare su di lui una maledizione mortale, un maleficio talmente distorto e vendicativo, sadico nella sua lenta, inarrestabile punizione. Il tempo che ci rimane è poco, eppure non siamo ancora riusciti a capire chi possa aver mosso questa maledizione contro di lui.

Quindi, per scappare da questi pensieri soffocanti, mi rifugio lontano da me stessa. Non riesco a trovare conforto, forse perché non sono più capace di allontanare i pensieri o di dominare nel modo adatto i moti del mio animo, dopo tutto questo tempo; mi ritrovo semplicemente con le ginocchia raccolte al petto e la coperta stretta attorno alla vita ad osservare le poche luci della città, esattamente come durante la notte in cui ho affrontato il Gatto, in cui ho accettato me stessa e il terrore del mondo all'esterno. Ci sono volte in cui, per quanto lo si desideri, non si riesce a dimenticare ogni cosa e provare un po' di pace. E la fioca luce del cellulare che stringo nella mia mano, quel riflesso languido che si riflette biancastro sul mio volto, me lo ricorda. Non abbiamo tempo per scappare.

Perciò, non mi resta che stringere i denti e fare quel che posso, per aiutare Aidan a sostenere questo peso, a trovare una soluzione, ancora una volta. Combatterà fino alla fine, senza chiedere mai, nemmeno per un secondo, il mio supporto. Io credo davvero al filo rosso che ci lega, sono convinta che esista e che tutto quello che ci è accaduto, che ci ha fatto incontrare, in qualche modo, non sia solo una coincidenza, il prodotto del caso; dopotutto, in un mondo di maledizioni, di mostri, spiriti e occultismo, perché non dovrebbe esistere qualcosa di così banale come il destino, come un legame invisibile, ma inscindibile, tra due persone?

Per tutto questo tempo, il mio polpastrello ha esitato a premere l'icona della cornetta verde accanto al numero, sotto al nome registrato nella rubrica, come congelato, incapace di arrivare allo schermo, sfiorandone appena la superficie. Ho esitato a lungo, chiedendomi se fosse il caso di comporre quel numero, cosa dirgli, se riuscissi a chiamarlo; magari, in questo momento è immerso in una ricerca incessante di una soluzione e la mia chiamata lo disturberebbe solamente.

Da quel che riesco a ricordare, sono sempre stata sola. Non è qualcosa che ho scelto io, ma è accaduto per caso; ed ora, che finalmente mi trovo accanto a qualcuno, è come se una parte di me esitasse. Con la sagoma della città di cui si intravedono solo sparute luci, locali ancora aperti, nonostante l'ora, o vecchi lampioni stanchi e rotti, ancora le parole di Evie Halliwell risuonano nella mia testa come una lontana eco.

“Non puoi resistere al richiamo dell'occulto, non è vero?”

Lascio che il telefono scivoli via dalla mia mano, che cada con un leggero tonfo lontano dalle dita. Ho forse creduto di poterlo capire, per un momento, ma ancora non ne sono in grado. È ancora così distante, da me, che lo spazio tra noi sembra incolmabile. Camminiamo l'uno accanto all'altra, ma è come se non ci toccassimo, se ci attraversassimo. Ognuno di noi ha paura—

Ha paura di togliere la sua maschera e aprire il suo cuore all'altro. Ha paura di mostrarsi del tutto per quel che è. Anche se lui è riuscito a capirmi, è riuscito ad aiutarmi, a starmi vicino, io non ne sono in grado. Io non riesco a vedere attraverso la pesante tela che nasconde il conflitto dentro di lui.

Io non sono di certo Ayane. Un nome, senza volto, senza storia, che appare tuttavia come un fantasma che lo segue ancora.

Quando tutto questo sarà finito...

Il suo nome, il suo numero, mi appaiono sfocati, come coperti da un velo che offuschi la mia vista. Sento il calore di qualcosa che scivola silenzioso lungo le mie guance e non c'è bisogno di toccare il viso, per capire che le lacrime lo stiano rigando.

Apro la finestra, spingendo le ante verso l'esterno, lascio che l'aria notturna entri nella stanza, sfiorandomi il viso con le sue dita, mandandomi brividi di freddo lungo il corpo, attraverso la coperta, il pigiama, increspando la mia pelle. Nonostante questo, sporgendomi sul davanzale con tutte le mie forze, mi spingo in avanti, verso l'esterno, la mano tesa verso il cielo irraggiungibile, cerco di afferrare un filo invisibile che si allunga dal mio dito verso l'ignoto, ovunque sia lui. Ovunque, in questa città di buio, luci sporche e tremolanti, di silenzio, di spiriti, di mostri, di solitudine, ovunque egli sia, spero mi senta.

Spero riesca ad udire mentre lo chiamo, silenziosamente, con tutto il fiato dei miei polmoni.

Afferro il telefono, stringendolo con tutta la mia forza, guardando il suo numero. Il suo nome. E, con una esitazione che ancora mi scivola lentamente attraverso, sparendo nella notte per qualche istante, riesco a scrivere, velocemente, un messaggio, accompagnata dal rumore dei tasti, un breve risuonare ogni volta che le mie dita sfiorano la tastiera sullo schermo.

È un messaggio breve, l'unico che sono riuscita a mandargli, forse privo di significato, per lui. Forse si tratta più di un capriccio, di una speranza infantile, di un desiderio espresso al cielo notturno che per tanto tempo è stato il mio rifugio. So che in questo mondo sovrannaturale, nascosto agli occhi di tutti, che è divenuto il nostro luogo sicuro, dove scappare dalle grinfie della realtà insensibile, rabbiosa, tagliente, gelida, i desideri possono divenire realtà; io, più di tutti, dovrei sapere quanto sia possibile che un grido senza parole possa essere percepito da qualcuno, se lo si vuole abbastanza.

Non è così folle, quindi, credere che il nostro legame, il nostro filo, ci stringa e ci vincoli.

Quindi, non posso fare a meno di chiedermi...

“Riesci a sentirmi, anche da qui?”

Riesci a sentirmi, attraverso quelle mura che ti sei alzato attorno?

Riesci a sentirmi, anche se la mia voce è così fievole, da non uscire dalle mie labbra?

Riesci a sentirmi, nonostante non riesca a dire quel che penso, quel che sento?

—Sarebbe così stupido sperare in qualcosa del genere, in mezzo a tutta questa disperazione?

Raggomitola nel letto, tremando ancora per il freddo, anche se quei pensieri velenosi che mi divorano e mi logorano sono ancora qui, non mi resta che soffocare le mie lacrime nel cuscino. La gola mi fa male, e i brividi attraversano ancora la mia pelle, le mie guance sono ancora umide.

Ci rimane solo un giorno. Ventiquattro ore mi dividono dalla verità, dal palcoscenico di Aidan, dalla sua maschera, dai suoi pensieri vorticosi.

Il destino, se davvero esiste, è stato davvero beffardo, con noi.

Uniti da un filo, ma incapaci di vederlo.

Entrambi danneggiati, entrambi difettosi, entrambi fuggiti.

Riusciremo mai a ripararci?

Mi chiedo se riuscirò mai a fare in modo che sia lui a poggiarsi su di me, e che non sia solo io a sorreggermi sulla sua spalla. Con quest'ultimo pensiero che scivola lontano da me, e le ultime lacrime che si asciugano, con un'immagine sfocata di una ragazza che non riesco a vedere, che non riesco a riconoscere, ma che sembra oscurarmi con la sua figura, osservo la prima alba sorgere sulla città ed il nuovo, ultimo giorno iniziare.

Se fosse una domenica come le altre, Aidan non mi aspetterebbe di fronte al cancello come durante le mattinate dei giorni di scuola, ma oggi dobbiamo sfruttare tutto il tempo rimasto a nostra disposizione. Non possiamo permetterci di sprecare nemmeno un secondo, non ora che la maledizione sta inesorabilmente divorando Jeiv dall'interno, calcificandolo lentamente. Ieri, sulla strada del ritorno, ci siamo fermati presso casa sua, per controllare la situazione che si è rivelata tutt'altro che buona. Contro ogni ottimistica speranza, ma esattamente secondo le fatalistiche previsioni dell'esperto dell'occulto, il suo corpo si è irrigidito al punto da impedirgli di muoversi. Le braccia sono inerti, lungo i fianchi, ed anche le gambe se ne stanno immobilizzate, come fossero strette da dei lacci invisibili.

Ogni suo sforzo, ha prodotto solo un'enorme fatica che lo ha lasciato spossato e un movimento minimo, di qualche millimetro, a testimoniare che la pietrificazione si è estesa e radicata, ma non completamente. Manca poco perché arrivi al suo cuore e lo uccida. Questa volta, non si tratta di un gioco o di un passatempo, ma di salvare una vita. Kondras non è riuscito a parlare molto, ma mentre Aidan camminava per la stanza, toccando foto, fogli sparsi ed altri effetti personali, forse nel tentativo di raccogliere indizi, io l'ho sentito mormorare qualcosa.

La sua voce era flebile, per cui mi sono dovuta avvicinare, per sentirlo; farfugliava di una ragazza, di qualcosa che le aveva detto, di un rapporto spezzato, quasi come se stesse delirando. Non sono riuscita a comprendere esattamente quel che affiorava dalle sue labbra, ma credo di aver afferrato il senso generale: un litigio con una persona che prima doveva essergli stata cara, a causa di un cambiamento. Forse è stata proprio questa frase a far scattare in me l'interruttore, a confermare un dubbio che ho avuto su di lui fin dal primo momento in cui abbiamo parlato faccia a faccia.

Ora sono sicura che Jeiv Kondras indossi una maschera, che giochi continuamente con gli altri, manipolando il suo modo di comportarsi, di parlare, di apparire, per mostrarsi agli occhi del mondo sotto una luce diversa. Una maschera indecifrabile, per chi non lo abbia conosciuto prima del suo cambiamento. Per questo, il litigio è scoppiato tra lui e la misteriosa ragazza che conosceva prima di divenire il popolare, eccellente studente modello; ma non è semplice nascondere quel che si è veramente. Quando ha parlato di Rui Miviel, l'ho intravisto, il suo vero volto – distorto dal disgusto per quella ragazza, per ciò che lei rappresenta.

Forse, in qualche modo, lei gli ricorda il suo passato, il suo modo di essere che tenta di nascondere, perfino a se stesso, nel tentativo di convincersi di essere davvero diventato lo studente modello che tutti credono.

Ripongo lo spazzolino da denti, lasciando che l'acqua gelida invada la mia bocca, prima di sputare la schiuma del dentifricio nel lavandino. Asciugandomi le labbra con il dorso della mano, osservo la stanca, provata immagine riflessa della ragazza minuta che sta in piedi lì davanti. La mia immagine. La personalità è qualcosa di terribilmente difficile da modificare e, in un certo senso, per quanto ci si provi, per quanto lo si desideri, qualcosa in noi non cambia mai. Sarebbe innaturale, d'altronde, riuscire a cambiare così radicalmente noi stessi, quel che siamo. Se modificassi il mio comportamento a tal punto, se indossassi una maschera con tanta convinzione, senza mai rimuoverla... alla fine, riuscirei davvero a riconoscere me stessa? Sarei ancora io, o solo una distorta immagine della vera Kuri?

Sono ancora assorta in queste riflessioni, quando il campanello infrange il filo dei miei pensieri, riportandomi bruscamente alla cruda, tragica realtà, con tutto il suo peso e la responsabilità che abbiamo preso su di noi. Dandomi un colpetto su entrambe le guance, in un impeto di determinazione che, gradualmente, attecchisce in me, prometto a me stessa di non crollare. Di essere abbastanza forte da permettere ad Aidan di sorreggersi su di me e di togliersi la maschera che nasconde il suo vero volto. Ci vorrà del tempo, ma—è qualcosa che sono sicura di voler fare.

In piedi sull'uscio del portone, assorbito completamente dallo schermo del suo cellulare, al punto da non notare immediatamente la porta aperta e la mia figura che lo sta squadrando, Aidan tamburella nervosamente l'indice contro lo schermo, scorrendo ogni qualche secondo qualche lista a me ignota. Devo schiarirmi la voce due o tre volte, prima che decida di riporre il telefono nella tasca e mi saluti rapidamente con un cenno del capo, sgusciando sotto al mio braccio teso a bloccare il suo passaggio.

“So che ormai sei abituato a questa casa, ma...” La mia protesta viene zittita da qualche vaga scusa, e dopotutto non abbiamo tempo per discutere scherzosamente, per cui non mi resta che chiudermi alle spalle la porta di casa e, con una preoccupazione che spero non traspaia troppo sul mio viso, sedermi sul divano, di fronte a lui. Mentre passo dietro di lui, riesco a gettare una rapida occhiata sopra alla sua spalla, rendendomi conto che il documento che ha attirato la sua morbosa attenzione, non è altro che l'annuario scolastico, ormai ridotto alle ultime pagine, segno che deve averlo consultato ben prima di arrivare questa mattina.

Osservandolo bene, non è difficile riconoscere il segno della mancanza di sonno sul suo volto, le occhiaie che iniziano a farsi sempre più evidenti, lo sguardo meno luminoso del solito, seppure infaticabile, nel leggere febbrilmente ogni riga, nell'esaminare ogni foto. Dagli indizi che abbiamo raccolto, per ora, sembra che l'anonimo burattinaio alle spalle di Rui, nonché il fautore della maledizione, non sia altro che uno studente della nostra accademia. A giudicare da alcune caratteristiche della lettera, potrebbe trattarsi di una donna, ma potrebbe anche essere un modo per trarre in inganno Miviel, un modo per sviare eventuali sospetti come noi. Siamo al punto di partenza, incapaci di riuscire a trovare una pista che riesca a farci intravedere la soluzione.

“Non hai dormito?” chiedo, senza riuscire a nascondere una punta di preoccupazione nella mia voce, mentre mi dirigo verso la cucina, dove il bollitore del tè ha iniziato ad emettere un acuto fischio, segno che l'acqua è abbastanza calda. Con la teiera bollente in mano, verso un po' del liquido dorato in due semplici tazze, senza decorazioni particolari, al di là di qualche triste, sbiadito fiore che un tempo rifulgeva di blu turchese o di sfumature arancioni, ma che ora si è ingrigito. Forse è per via dell'atmosfera pesante che si respira in quest'ultimo giorno, ma quando mi porto alla bocca la tazza, ritraendo rapidamente la labbra per evitare di ustionarmi, quelle poche gocce di tè che scorrono nella mia gola, mi sembrano insapori, quasi viscose, come se stessero per incastrarsi nel palato e soffocarmi.

Aidan, senza emettere un sospiro o senza mostrare alcuna rassegnazione se non digrignando appena i denti dietro alle labbra serrate, afferra la tazza che gli ho poggiato di fronte, giocherellando con il cucchiaino al suo interno, senza accennare a bere nemmeno un sorso.

“Nemmeno tu.” La sua voce suona stanca, provata quanto le ombre che si addensano attorno al suo viso; ma quelle nei suoi occhi, non sono dovute alla spossatezza. Sono altre ombre, troppo profonde e torbide perché io possa comprenderle. Abbastanza scure da fondersi con la sua iride.

Vorrei fargli molte domande. Ma tutta la mia flebile determinazione, tutte le mie riflessioni, ogni cosa viene divorato dalla paura e dall'ansia di sbagliare. Di infliggergli più dolore, di apparire insopportabile, o fastidiosa. Sono così patetica, da temere di poter essere sostituita, scacciata, fatta sparire. Ho paura di ferirlo di nuovo, chiedendogli quali pensieri, quali ricordi lo stiano tormentando ora. “Troppi pensieri...” sussurro di rimando, ma non so se sia una risposta, o semplicemente una constatazione. Il calore del tè sparisce nel momento in cui entra nella mia bocca. Mi sembra sia gelido, pungente come l'acqua del rubinetto, e che goccioli melmoso dentro di me, insapore, come cenere che riempia la mia bocca.

“Sono rimasto sveglio tutta la notte. Ho guardato tutto l'annuario, ma non so cosa cercare. Siamo in un vicolo cieco, senza alcuna via d'uscita.” Poggia la tazza sul tavolo, senza prenderne nemmeno un sorso, tornando con la mano al suo cellulare e, sbloccandolo con qualche rapido movimento, inizia a far scorrere nuovamente nomi e foto sotto il suo sguardo, senza cercare qualcuno o qualcosa, “Chiunque abbia manipolato Rui Miviel, e l'abbia costretta a incidere il nome della vittima, è rimasto anonimo. Perfino il talismano di carta sul quale è stato scritto il nome di Jeiv Kondras, è stato lasciato in una busta chiusa, accanto alla macchinetta, in un luogo abbastanza affollato e dove è facile confondersi.”

Ogni cosa è stata calcolata nei minimi dettagli. Nessun indizio tangibile è stato lasciato indietro, perché noi potessimo raccoglierlo. È ovvio che chiunque si sia dato così tanto da fare per mettere in piedi questo complicato teatro, abbia previsto che, in qualche modo, saremmo rimasti coinvolti. “Chiunque abbia preparato questa sciarada, aveva già previsto le nostre mosse...” mormoro a denti stretti. Aidan annuisce, sovrappensiero, la guancia poggiata contro le nocche, come se stesse riflettendo su qualcosa di estremamente complicato, il suo sguardo perso, al di là della mia spalla, verso qualcosa che non riesco a vedere, che solo lui riesce a comprendere.

I nostri occhi si incontrano, sfiorandosi appena, per un singolo istante, e quella tempesta di scivolose ombre che scuriscono il suo sguardo sembra quasi volermi divorare. Ho paura di sbagliare, ma allo stesso tempo, voglio poterlo aiutare. Come lui ha fatto con me.

“Hai detto... una sciarada?”

Un problema di difficile soluzione. Un gioco enigmistico, dove a partire da più elementi o da definizioni generiche, se ne traduce un altro, che li collega e li unisce. In breve, tutti gli elementi necessari a comporre un'unica, nuova parola. Un complesso, contorto meccanismo per arrovellare, confondere e mettere alla prova la mente e la capacità di ragionamento, la bravura nel collegare i dettagli per riportarli ad un'unica immagine.

“—Possibile?” si alza in piedi di scatto, la presa sul cellulare improvvisamente più violenta, la fronte si aggrotta in un'espressione quasi rabbiosa. Confusa, provo a chiedere cosa stia accadendo, cosa abbia capito, ma mi fa cenno di aspettare, mentre, rapidamente, compone un numero sulla tastiera delle chiamate; il suo dito, tuttavia, esita prima di premere il pulsante della chiamata, come se, fino all'ultimo istante, il dubbio lo stesse divorando. Come se, per qualche ragione, non volesse chiamare quel numero, non volesse dare ascolto a quell'improvvisa illuminazione che lo ha colpito.

In piedi con la luce del mattino che illumina la sua sagoma, ma che evita di rischiarare il suo viso esitante, un ribollire di ira e conflitto, mi sento così lontana da lui. Ma, allo stesso tempo, mi rendo conto di essere la persona che gli sia più vicina.

So che non può essere molto, per te, Aidan. Forse non sono nulla di speciale – anzi, sono sicura di non esserlo mai stato per nessuno. Ma con te, per qualche motivo, sento che è diverso; sento la nostra promessa ancora vivida, dentro di te. E sento che, se non ti aiutassi questa volta, me ne pentirei. Ti lascerei completamente solo.

Per cui, anche se per poco, anche se solo per un istante—

Senza alzare gli occhi sul suo viso, combattendo contro gli impulsi di fuggire, di rimanere immobile come una statua, stringo appena il suo mignolo, intrecciandolo con il mio. Il dito a cui è legato il nostro filo. Non riesco a vedere la sua espressione.

—Lascia che io ti sia di aiuto.

La sua presa si fa improvvisamente più forte, più sicura e devo combattere con tutta me stessa per non trasalire. È possibile che, in qualche modo, io ti possa aiutare. Non so se ne sono in grado, non so se sono abbastanza speciale, abbastanza capace, da poterti supportare. Non mi resta che accettare la verità, riconoscere di essere troppo debole per riuscire ad osservare attraverso la tua maschera. Ma finché ti ricorderai di me, sono sicura che non mi romperò.

Per questo motivo... “Sono qui per sorreggerti un po'.”

Il telefono squilla, monotono, per alcuni secondi. Uno, due, tre suoni regolari, ad indicare la chiamata in corso, ma senza alcuna risposta. L'intero mondo attorno a noi mi sembra congelato, immobile, grigiastro. Quasi irreale. Sembra quasi divenuto più gelido. È tutto sospeso, in silenziosa attesa, proprio come lo siamo noi. Il tempo continua a scorrere, solo perché una lancetta batte, in lontananza, dall'altra parte della sala, che sembra distare milioni di chilometri, o solo un passo.

Dall'altra parte della linea, qualcuno risponde.

“Oh, ce l'hai fatta. Mi stavo preoccupando.”

Una voce femminile che sembra quasi il gocciolare dell'acqua sulla superficie di un lago, accompagnata da una tenue musica in sottofondo, una superba melodia che accompagna ogni parola, come le onde che si increspano e si allungano dalla goccia caduta.

Una voce tanto chiara, così tranquilla, come il risuonare cristallino di una nota nell'aria.

La canzone si spegne insieme alla sua domanda.

“Sei sorpreso?”

Questa volta, il tono è più tagliente, colmo di derisione, così diverso da quello precedente da farmi credere che una nuova persona ne abbia preso il posto. O che, semplicemente, si sia tolta la sua maschera, rivelando la sua vera, distorta natura.

La voce è di una persona che entrambi conosciamo bene. Dopotutto, quante volte l'ho sentita risuonare nella mia testa, ancora ed ancora?

“Mentirei se dicessi di non esserlo.” Aidan fatica a trovare le parole, “Sono terribilmente deluso.”

“E per quale motivo? Perché ti sei lasciato leggere così facilmente da me, al punto da prevedere ogni tua azione...” come tanti gentili aghi che scavano nella carne e pungono, dolcemente, solleticando con il loro dolore tanto piacevole, “...O perché sono stata fin troppo brava a disseminare gli indizi, e nonostante ciò, tu non sei riuscito a capirlo prima?”

“Potrei esserlo perché hai manipolato delle persone per i tuoi scopi distorti.”

Una risata di vetro e rose scivola dalle labbra dell'interlocutrice, una risposta più che sufficiente, che mi fa irrigidire le spalle, mi fa rabbrividire. La presa di Aidan si fa più forte, e vedo il suo viso corrucciarsi, quasi mutare in un'espressione di rabbia e disgusto, all'udire la risposta che la ragazza gli dà con il suo tono tranquillo, senza traccia di superiorità. Il tono di chi è sicuro delle proprie capacità e non ha bisogno di rimarcarlo. Il tono di chi è rimasto a guardare uno spettacolo teatrale approntato nei minimi dettagli con la soddisfazione di vederlo svolgersi proprio come lo ha scritto.

“Siamo troppo simili perché tu possa pensarlo. È quello che fai anche tu, o sbaglio?” Sospira, suonando un'unica, stanca nota, dalla quale inizia a far uscire una nuova melodia, di crescente intensità, come i rami che si allungano da una corteccia, sempre più complessa, sempre più intricata.

“Dopotutto, l'ho capito fin dall'inizio...” la posso quasi intravedere incurvare le labbra in quel sorriso privo di malizia, incorniciato da quei capelli così perfetti, come cenere che si sia posata sulla sua testa, portando con sé piccole, morenti braci, spente nei suoi occhi.

Nel lago dei suoi occhi.

“...Che avresti fatto qualsiasi cosa. Non per salvare qualcuno, ma solo per te stesso. Sapevo che non avresti mai resistito al richiamo dell'occulto.”

E con quelle parole, con quell'ultima nota, Evie Halliwell conclude la chiamata, lasciandoci inermi, di fronte a due tazze di tè gelide.

Due attori inconsapevoli in una distorta mascherata.

 

Per qualche ragione, Evie Halliwell ama i tramonti. Forse è per via della loro luce rossastra che accende il cielo e lo illumina di passione, la stessa che muove le sue dita sulla tastiera del pianoforte, in intricate ragnatele di note, così viscose da catturare non solo l'orecchio, ma anche la mente di chi ascolta; non è un caso, dopotutto, se il giorno in cui l'abbiamo vista suonare per la prima volta, l'aula di musica fosse invasa dall'arancio sbiadito dei primi attimi di stanchezza del sole, che si rifletteva in una miriade di riflessi ambrati e cremisi sui suoi capelli scompigliati. Forse è perché, in quel bagno di braci, la sua figura così tormentata, che si muove elegantemente sul pianoforte, riesce ad imprimersi ardentemente nei ricordi di tutti.

Fatto sta che, mentre attraversiamo le vie della città, della zona residenziale limitrofa all'edificio scolastico, ci troviamo ancora una volta al limitare del giorno, quando le strade non sono animate da altro rumore all'infuori dello scalpiccio dei nostri stessi passi; nemmeno una macchina ci sfreccia accanto, perdendosi in qualcuna delle stradine secondarie che si snodano tra i complessi di appartamenti o le villette a schiera, poste l'una accanto all'altra quasi come in una successione di fotocopie dall'aria artificiale.

Ancora mi risulta difficile credere che Evie Halliwell ci abbia manipolato, abbia tirato le fila di questa intera vicenda, facendoci muovere secondo uno schema già predisposto; abbiamo recitato una parte che ha minuziosamente scritto per noi, passo per passo, senza rendercene conto, senza nemmeno intravedere la verità. Ammaliati dalla sua musica, l'abbiamo seguita accecati, senza mai, nemmeno per un istante, credere che potesse esserci lei dietro alla maledizione che sta divorando lentamente Jeiv. Eppure, dopo averci sospinto all'azione, ha sparso accuratamente degli indizi che ci permettessero, in qualche modo, di risalire a lei – e noi, ciechi, ce li siamo lasciati sfuggire.

La maschera che Evie ha indossato davanti a noi, così criptica, impossibile da decifrare, ci ha impedito di scorgere le sue vere intenzioni; ed allo stesso tempo, lei è stata capace di osservare attraverso di noi, di notare le crepe che attraversano i nostri visi, di comprenderci e di muovere le nostre azioni, proprio come ha fatto con Rui Miviel. Sapeva che quella ragazza debole, ferita avrebbe obbedito a chiunque le avesse offerto una spalla su cui piangere; sapeva che Aidan, attirato morbosamente dall'occulto, tormentato da un vecchio ricordo del passato avvolto nell'ombra, si sarebbe gettato a capofitto in questa situazione, come ha fatto per ogni altro problema che ha risolto; ha capito quanto io sia fragile, quanto il mio animo sia insicuro, ma anche avrei ragionato disperatamente su ogni sua parola, finché non fossi riuscita a far scoccare una scintilla, un'intuizione.

Tuttavia, la vera domanda che ora mi sta tormentando, è il motivo delle sue azioni. Non riesco a vedere l'insieme dell'enorme disegno di cui facciamo parte, non riesco a comprendere perché ci abbia chiesto di indagare sul maleficio che lei stessa ha preparato, né perché desideri così ardentemente far soffrire Jeiv Kondras, perché lo voglia vedere morto e sofferente, la sua volontà incrinata, la sua maschera in pezzi.

Prima di dirigerci verso l'edificio scolastico poco prima del tramonto, come ci ha indicato Evie con un messaggio, ci siamo recati a casa del tesoriere. La persona con cui ci siamo ritrovati a parlare, non era più nemmeno lontanamente simile allo studente modello che abbiamo conosciuto solo un paio di giorni fa. Immobilizzato e con il respiro pesante, è soltanto a mugugnare qualche frase incomprensibile, ma piena di un lancinante rimorso. La pietrificazione si è estesa per tutto il corpo ad una velocità decisamente superiore a quanto stimato inizialmente da Aidan.

Senza che nessuno di noi sia riuscito a pronunciare una parola, ce ne siamo andati il più velocemente possibile. Da quando la voce di Evie lo ha provocato, mostrandogli in quale modo si sia presa gioco di lui, di me, di tutte le persone che sono finite ammaliate dal suo profumo, dalle sue note, dalla sua tormentata, irraggiungibile personalità, qualcosa in lui si è spezzato, qualcosa che non riesco a comprendere. Ed ora che ci ritroviamo davanti ai cancelli della scuola, socchiusi, come ad attendere il nostro arrivo, ora che lo guardo mentre se ne sta immobile, indeciso sul da farsi, divorato e lacerato dai suoi tormenti e dai suoi fantasmi, mi sento più impotente che mai.

Le vicende sovrannaturali e distorte che ci hanno avvicinato e sospinto fino a questo punto, ci hanno lasciato feriti e dubbiosi, rabbiosi ed impauriti; in questo momento, non riesco a fare altro, se non avvicinarmi a lui e sfiorargli la spalla con la mia mano, piena di esitazione. Non riesco a fare altro, se non stringere con tutta la mia debolezza le nostre dita, intrecciando i nostri fili cremisi e sperare che possa, in qualche modo, sentirmi.

Sentirmi come ha fatto quando non avevo una bocca per parlare, né parole da offrire.

“Ha lasciato il cancello aperto, proprio come ci ha detto...” dico, mentre varchiamo l'ingresso e passiamo per il cortile esterno, le suole delle nostre scarpe che producono un basso scalpiccio quando colpiscono le mattonelle, l'unico rumore che rompe la quiete altrimenti assoluta. Trasmette una strana sensazione, vedere la scuola così deserta, assolutamente silenziosa, quasi come se le fosse stata strappata via la vita ad un corpo, lasciandone solo uno scheletro di acciaio e cemento che si staglia, incolore e squadrato contro il rossore sanguigno, il giallo dorato, il rosato sempre più vago e nebuloso, allungando la sua ombra su di noi.

“Dev'essere un privilegio dovuto ai suoi meriti musicali” risponde Aidan a mezza voce, spingendo l'ingresso principale che, docilmente, si apre con uno scatto, lasciandoci entrare all'interno senza opporre alcuna resistenza; proprio nel momento in cui la porta si chiude alle nostre spalle e ci ritroviamo in quel silenzio spettrale che ci ha accolto si dissolve, come quando si apre la tela del palcoscenico e la musica inizia a volteggiare nell'aria, allungando la sua mano invisibile.

“Dannatamente brava...”

Ripete quelle parole senza un segno di rabbia, senza nemmeno digrignare i denti o aggrottando le sopracciglia. Sento la sua presa, attorno alle mie dita, farsi un po' più forte, come a controllare che io sia ancora qui, alle sue spalle, mentre fa un profondo sospiro. I nostri occhi vengono guidati verso l'alto, verso l'aula dalla quale fluisce la melodia, come da una cascata invitante che si riversa sull'atrio, amplificando il tono, rendendolo, paradossalmente, più elegante, più armonico, quasi virtuosistico, a voler sfoggiare tutta la sua abilità. Attraverso il suo linguaggio prediletto, attraverso la musica che sgorga dalle sue dita, sta tirando giocosamente le nostre fila ancora una volta.

Senza mostrare alcuna esitazione, Aidan muove un passo in avanti, verso la scalinata. Solo la mia mano lo trattiene, lo accompagna mentre sale le scale. Più ci avviciniamo a quella porta, più mi sembra che la melodia si faccia contorta, convulsa. Sempre più passionale, sempre più soffocante, ad incitare ogni nuovo passo, mentre percorriamo il corridoio verso l'aula di musica, l'unica dalla porta aperta, l'unica dalla quale la canzone ci chiama.

Il corridoio non mi è mai sembrato così lungo. È come se il tempo e lo spazio fossero distorti, come se ogni passo sembrasse allontanarci, piuttosto che avvicinarci.

Non riesco a togliermi dalla testa tutte queste domande vorticanti che mi hanno tormentato, fin da quando la pianista non si è rivelata come proprio l'artefice della maledizione. Se proprio lei ha imparato il maleficio, se proprio lei si è immersa nell'occulto, vuol dire che è fuggita dalla realtà; vuol dire che il mondo è stato crudele anche con lei. Evie Halliwell stava forse davvero indossando una maschera, nel momento in cui ci ha parlato, quando ci ha soggiogato con le sue parole, ci ha attirati al centro del suo piano e ci ha assegnato la nostra distorta parte. Una persona come Evie Halliwell, una persona così tormentata, così subdola, così meschina, così corrotta – com'è possibile che abbia un lago tanto chiaro, tanto splendente negli occhi?

L'aula di musica è esattamente come l'abbiamo lasciata, immutata perfino nella disposizione degli strumenti, inutilizzati, ricoperti di polvere. Nemmeno la poltrona dove Aidan si era seduto è stata spostata, come se nemmeno un attimo sia passato da quando ce ne siamo andati da qui. Nemmeno la snella figura che muove elegantemente le dita sul pianoforte sembra essersi mai mossa, come se avesse continuato a suonare ininterrottamente, oscillando leggermente la testa a seguire le note che si alzano e spirano in aria, gli occhi persi ad osservare qualcosa di invisibile, che il mio sguardo non riesce a vedere. Aidan mi fa cenno di non interromperla, di rimanere sulla soglia della stanza, a osservare la coda di cavallo che si agita seguendo i movimenti della musicista, lasciandosi dietro un fioco bagliore, come scintille, come note che brucino quando richiamate dalla pressione della tastiera.

Evie Halliwell è esattamente la mia antitesi – qualcuno che ha il suo posto, che la gente ricorda, il cui nome persiste nelle loro menti. E mentre la guardo sistemarsi i capelli leggermente scompigliati, carezzandone le ciocche e premurandosi di raccoglierli in una coda di cavallo alta, quando osservo la sua figura snella fiocamente delineata dalla luce della lampada da studio che illumina il suo spartito, capisco anche il motivo per il quale si scolpisce nel cuore di molti. Una persona straordinaria, di una bellezza unica, quasi tormentata.

Solo ora mi rendo conto di quanto la invidi, di quanta potenza emetta la sua figura. È come se si stesse consumando e morendo, avvolta nel bozzolo della sua musica, mentre guarda dall'esterno un mondo che trova ripugnante e scialbo. Un mondo che, ai suoi occhi, non è altro che una mascherata insensata, che provoca repulsione. Evie Halliwell non porta nessuna maschera—Perché lei è in grado di riconoscerle tutte. Ad una persona come lei, non serve fingere, per trascinare ed incantare, per mostrarsi ed affermarsi sul mondo. Per questo, è stata in grado di ingannare Aidan: perché Evie Halliwell non si cura degli altri, ma si preoccupa di conoscerli, ad una sola occhiata.

Le note finali della canzone muoiono, e lei le accompagna con un ultimo movimento della testa, che la lascia immobile, congelata in quel singolo momento, lontana dal mondo per un solo istante.

Ed è Aidan a farla tornare alla realtà battendo appena le mani, senza troppo entusiasmo, avvicinandosi alla snella, eterea figura. Voltandosi verso di lui, le gambe accavallate e le labbra incurvate in un sorriso talmente sincero da ferire, china scherzosamente la testa, come farebbe di fronte ad un grande pubblico, sussurrando ringraziamenti ed elargendo frammenti delle sue occhiate, attraverso quei capelli scompigliati. Ogni volta, il torbido inchiostro di Aidan, si specchia con il cristallino di Evie.

Ogni volta, lei sorride, e lui applaude.

Lentamente, l'applaudire di Aidan si spegne, lasciando la stanza nel silenzio. Una leggera brezza primaverile, ancora gelida, nonostante la stagione, solleva dei petali estirpati dai fiori di chissà quale aiuola, facendo oscillare le sottili tende semitrasparenti, che ondeggiano ritmicamente a quel soffio, proprio mentre Evie, allungata la mano verso lo spartito, rimasto chiuso fino a quel momento, lo inizia a sfogliare languidamente. Una ad una, scorre le note con il polpastrello, seguendone il posizionamento sul pentagramma, amorevolmente e con una familiarità tiepida, come se stesse accarezzando qualcosa di delicato, di estremamente caro.

“Ti è piaciuta?” mormora, senza alzare gli occhi dalle sue amate note musicali, voltando una pagina con un fruscio sottile, quasi un sussurro, “Sonata al Chiaro di Luna. Proprio come quella notte.”

Aidan non reagisce a quelle parole. “Hai ragione. Proprio come quella notte...” Non trasalisce, non digrigna i denti, si limita a socchiudere gli occhi e ad annuire, poggiando la mano sulla propria spalla, come se volesse massaggiare una vecchia ferita, “Quell'applauso non era solo per la canzone. Ti sei informata bene. Hai preparato tutto a lungo, nei minimi dettagli.”

Evie poggia la guancia contro la mano, “Ti ringrazio. Ho preparato questa commedia nei più piccoli particolari.”

“Ci hai lasciato indietro abbastanza indizi per ricondurci a te. Li hai sparsi con tanta attenzione, sicura che li avremmo trovati, che mi sento sconfitto per non essermene accorto prima.” Unisce le punte delle dita di fronte ai suoi occhi, le labbra che scandiscono ogni parola, ogni singolo frammento che, unito agli altri, ha formato la figura di Evie Halliwell. Qualcuno che vuole vendicarsi su Jeiv Kondras da molto tempo, abbastanza da preparare il rituale per la maledizione. Qualcuno che frequenta la nostra scuola. Qualcuno in grado di manipolare gli altri. Qualcuno che conosce l'occulto, che sapeva bene che Aidan non l'avrebbe aiutato a procurarsi del veleno di Basilisco; ma che, al contrario, avrebbe aiutato Jeiv Kondras. Qualcuno che lascia un vago odore di tulipano ovunque vada.

“Tuttavia, c'è qualcosa che non sono riuscito a capire. Ci ho riflettuto, senza riuscire ad arrivare ad una risposta.” Di fronte a me, come se il tempo fosse rallentato di colpo, Aidan abbassa leggermente la testa, come ad ammettere la sua sconfitta, “Perché tutto questo? Perché ci hai indirizzato sulle tue stesse tracce, ci hai messo nella condizione di poterti scoprire?”

La pianista non risponde immediatamente, ma si concede un secondo per incurvare le labbra nell'ombra di un sorriso, poco più che una leggera risata che scivola attraverso la bocca socchiusa. Poggia lo spartito al suo posto, con estrema delicatezza, senza distogliere lo sguardo da noi, con un'espressione che non tradisce alcuna soddisfazione. D'altra parte, a lei non è mai importata l'opinione altrui; distaccata dal mondo, in grado di comprendere le persone e ciò che nascondono, per lei non ha alcun valore vincere o perdere – perché l'esito era stato scritto fin dall'inizio.

Ma credo di aver capito il motivo che l'abbia spinta a ricorrere alla maledizione. Un motivo talmente umano, che Aidan non deve aver preso in considerazione, avendola spogliata di ogni cosa, per innalzarla su un piedistallo, tanto sopra di lui.

Si tratta di una ragione così banale, ma allo stesso così violenta, così comprensibile, che mi sento una sciocca per non averci pensato prima. Per quanto sia così lontana, da me, è un'emozione talmente corrosiva a cui nemmeno lei è riuscita a resistere.

“—L'hai fatto per vendetta?” sussurro, mordendomi appena il labbro inferiore. Con la coda nell'occhio, intravedo le labbra di Evie Halliwell serrarsi di colpo, senza tuttavia perdere il sorriso indecifrabile che le distorce il viso, rendendolo criptico, in quella sua espressione quasi malinconica, “Ti sei voluta vendicare di Jeiv, perché si è allontanato da te?”

“Non si è trattato di vendetta.” Scuote la testa, con decisione, come a scacciare quel pensiero dalla sua testa, come a respingere la mia velenosa accusa, “No, non è stato assolutamente per quello. Puoi anche non credermi, ma...” I suoi occhi sfuggono i nostri visi, abbassandosi ad osservare il pavimento, mentre, dalla sua bocca, la voce si riduce a poco più che un flebile sussurro, “...Non ho mai avuto intenzione di ucciderlo. La maledizione non era altro che un modo per fargli capire, per mostrargli cosa stesse diventando. Te ne sarai accorto, Aidan,” tocca appena la piccola strisciolina di carta che pende dall'elastico per i capelli, il semplice legaccio che li tiene nella sua coda di cavallo, l'acconciatura delle sue canzoni, delle sue suonate, del suo pianoforte, “Ma si tratta di una maledizione che progredisce solo rispondendo ad una determinata azione. Ogni volta che Jeiv si è mostrato diverso da ciò che è veramente, ogni volta che ha mentito, il veleno ha agito più in fretta. Prima ancora che lui stesso se ne rendesse conto, era degenerato oltre il punto di non ritorno. Ma avevo bisogno che fosse credibile – se mi fossi rivelata, se avessi strappato il biglietto senza fargli percepire un vero pericolo, non avrebbe mai capito. Aveva bisogno di sentirsi davvero minacciato. Per questo, dovevate inseguire una figura misteriosa, qualcuno che avesse preparato una maledizione appositamente per colpirlo.”

Aidan stringe i pugni, “Quindi, si sta uccidendo da solo... Ogni volta che, di fronte a noi, ha mantenuto la sua maschera, non ha fatto che peggiorare la sua situazione.”

“Non potevo sopportarlo. Non potevo sopportare che quell'idiota si fosse ridotto in quel modo. Continuava a non capire, continuava a volere gli sguardi degli altri. Non sopportava di essere uno tra i tanti, non sopportava di essere invisibile.”

Il suo tono di voce inizia gradualmente a cambiare, ad incrinarsi, a farsi più disperato, più concitato. Non avrei mai creduto che, al di sotto di quella maschera, potesse esserci qualcosa di tanto fragile. Non avrei mai creduto di vedere Evie Halliwell portarsi le mani al viso, nasconderlo dal resto del mondo, mentre dalla sua bocca le parole fluiscono come un torrente, mentre qualcosa, in lei, inizia a spaccarsi.

“Quell'idiota, non mi ha mai ascoltato. Ho tentato in ogni modo di convincerlo, di mostrargli cosa stesse facendo. Come se stesse cambiando, si se stesse soffocando, solo per essere apprezzato, invidiato, osservato dalle altre persone. Ogni giorno, ogni giorno l'ho osservato marcire sempre di più e distorcersi, fino a divenire un'altra persona.”

Le sue esili spalle tremano. La sua voce inizia ad affievolirsi.

“Quel ragazzo a cui sono stata a fianco per anni è scomparso. Alla fine, ogni contatto tra di noi si è reciso. E nonostante tutto, fino all'ultimo, ho continuato a dirgli di non indossare quella maschera. Io lo conoscevo... Sapevo che avrebbe finito per odiare se stesso. So bene che non riesce nemmeno a guardarsi allo specchio, perché ripudia se stesso, perché ha paura di ricordare com'era prima. Com'è ancora.”

Quando si toglie le mani dal viso, i suoi occhi sono umidi di lacrime che scorrono, lentamente, lungo le guance. Due solitarie gocce, in cui si riflette la luce del tramonto.

In questo momento, circondata dalla luce del tramonto, con gli occhi pieni di lacrime, senza più alcuna maschera a coprirla, Evie Halliwell non è nulla più che una pallida figura disperata e tormentata, divorata dal rimorso, impaurita dal mondo. Così fragile da potersi rompere al tocco. Così effimera, da sparire insieme alle sue note, con lo spegnersi del sole rossastro.

“—Se solo fossi riuscita a fargli capire... che io l'ho sempre guardato. Che io sono sempre stata al suo fianco. Ed invece, sono rimasta distante.” Con un unico, fluido gesto, libera i suoi capelli dall'elastico, lasciandoli ricadere liberi sulle spalle. Tra le dita, il pezzo di carta sul quale posso intravedere un nome – Jeiviel Kondras. “Come sempre, sono rimasta lontana, fino alla fine. Finché non è stato troppo tardi.”

La pianista tende la mano, offrendoci quella minuscola strisciolina strappata da un quaderno, nel quale è contenuto il destino di Jeiv, la sua maledizione, “Prendetelo. È quello che volevo, fin dall'inizio.”

Aidan le si avvicina, senza esitazione, sollevando delicatamente il biglietto. Non posso vedere la sua espressione, mentre guarda Evie Halliwell negli occhi, mentre, l'uno davanti all'altra, senza che nessuno indossi alcuna maschera, si scambiano, per la prima volta, una vera occhiata. Il nero inchiostro, nel lago cristallino.

Di fronte a lei, con un unico, lento movimento, Aidan strappa il pezzo di carta e, senza che nessuno aggiunga una parola, abbandoniamo l'aula di musica. Sull'uscio, tuttavia, Aidan si ferma per un istante, le mani affondante nelle tasche, il viso nascosto da un'ombra che non riesco a scrutare.

“Non smettere di suonare, per favore.”

Mentre ci allontaniamo dal corridoio, mi sembra di sentire un disperato singhiozzare.

Alla fine di questo spettacolo, Evie Halliwell aveva scritto già che si sarebbe spezzata. Che avrebbe affrontato quel suo senso di colpa.

Forse, per tutto questo tempo, la sua musica ha sostituito le sue parole.

Dopotutto, quella sua maschera così perfetta, così distante, non poteva essere vista da nessuno.

Per questo—

Mi chiedo se le maschere che indossiamo corrispondano al buio che sentiamo.

 

 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3640697