Quando cantano le spade

di Francine
(/viewuser.php?uid=100)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1. Nella Biblioteca del Sacerdote ***
Capitolo 2: *** 2. Orreaga - Roncesvalles ***
Capitolo 3: *** 3. Zuppa di patate ***
Capitolo 4: *** 4. Teruel ***
Capitolo 5: *** 5. Il Mausoleo degli Amanti ***
Capitolo 6: *** 6. La Canzone del Cavaliere ***
Capitolo 7: *** 7. Determinazione ***
Capitolo 8: *** 8. Il Destino che soffia dal Mare ***



Capitolo 1
*** 1. Nella Biblioteca del Sacerdote ***


Nella biblioteca del Sacerdote
 

 
La morte di un uomo è meno affar suo che di chi gli sopravvive.
Thomas Mann





Il soffio del vento gli scompiglia leggermente i capelli, che porta legati sulla nuca in una coda morbida, fermata da un paio di matite. Sta leggendo dei vecchi documenti, le mani che sorreggono la testa affaticata e accaldata. Il bracciale, una fascia d'oro con un decoro che incornicia un rubino grosso quanto una noce, gli scivola lungo il polso; è lo stesso che ha rischiato più volte di perdere quand’era piccolo. Il suo maestro gli ha spiegato che quel monile è molto, molto prezioso. È un cimelio che apparteneva ad una sua antenata, l’ultima erede di un’importante clan del Jamir e l’ultima guerriera a vestire l’Armatura della Gru; ma oltre a questo e al suo nome – Yuzuriha – lui non sa molto altro. Quando chiedeva al suo maestro qualche dettaglio in più – se fosse bella, se fosse forte, e che fine avesse fatto – il sommo Mu sorrideva e cambiava argomento.
«Anche la tua antenata aveva il dono della telecinesi. Perché non ti alleni per diventare come lei?», gli diceva, e lui si ritrovava a far fluttuare chili di rocce ad un paio di metri d’altezza e ancor più su.
Per questo si è offerto volontario nell’impresa disperata di sistemare le carte dello studio del Sommo Sacerdote, un lavoro ingrato e polveroso che in molti hanno scansato adducendo varie scuse. Non lui; vuole trovare un dettaglio, una pista che lo conducano da lei. Attraverso i secoli e quelle pagine polverose, vergate di fretta, su carta ingiallita e inspessita dall'umidità.
«Sion dell’Ariete la conosceva molto bene», gli ha confidato una volta, tanti anni fa, il venerabile Libra.
Lui s’era fermato ai Cinque Picchi per accudire Shiryu durante la malattia, e perché Shunrei gli piaceva. Odorava di buono, di tè verde e di curry. Odorava di mamma. E un giorno, andando a portare il pranzo al vecchio Doko in meditazione davanti alla cascata del Drago, s’era fermato ad ascoltare il racconto di un altro tempo, di un altro Pegaso, di un'altra Athena e del Santo della Gru.



Il toc toc della porta lo richiama al presente. 
«Ancora al lavoro?»
Shaina è una gatta scontrosa che il tempo ha reso più malleabile. Entra sfiorando con le dita i cumuli cartacei ammonticchiati l'uno sull'altro sul pavimento, sui mobili ed i ripiani della grande libreria di noce che corre lungo tutto il perimetro dello studio del Sacerdote, occupato un tempo da Saga. Non porta più la maschera, se non in battaglia. Athena ha sciolto le sue seguaci da quel voto gravoso e, ora come ora, tutti i Saint sopravvissuti ad Ade conoscono il suo viso. Che senso avrebbe?
«Lois ti sta mettendo sotto per bene, eh?»
«Puoi dirlo. Qui dentro c'è una vera e propria bolgia!» Sbuffa, si asciuga il sudore e si sistema il bracciale. «Ma da qualche parte bisogna pur ricominciare, no? E fare ordine tra queste vecchie pratiche è pur sempre un punto di partenza.»
Lui la osserva prendere in mano un quaderno dalla copertina di pelle in cima ad una pila più stabile delle altre, e sfogliarlo velocemente.
«E vorresti passare al setaccio tutti questi documenti?», chiede alzando la testa nella sua direzione.
«Beh, sì. In parte. Piano piano, ma l'idea sarebbe quella. Per ora, sto ispezionando i documenti redatti durante la reggenza di Saga.»
«Perché proprio quelli?»
Si stringe nelle spalle. «È stato il periodo in cui si è scritto di più.» Non le confessa che se si è offerto volontario è perché vuole trovare qualcosa scritto di proprio pugno dal Sommo Sion, magari su Yuzuriha. «Dai un'occhiata», le dice invece, passandole un libro poco più grosso di un quaderno, scritto fitto fitto da una grafia spigolosa.
«Un resoconto di una missione», chiosa lei dopo aver sfogliato qualche pagina. 
«Da quel che ho potuto capire, Saga e tutti i suoi predecessori ordinavano due versioni. La prima doveva essere scritta nella lingua madre del Santo e poi tradotta in greco sulla pagina a fronte.»
«Il miglior modo per imparare una lingua è di tradurvi qualcosa partendo dalla propria lingua madre.» Shaina fa scorrere sotto il pollice destro le pagine ingiallite e porge il volume a Kiki. «È la soluzione più difficile, ma anche quella più efficace. Anche noi Santi d’Argento riportavamo le nostre missioni con il testo in greco a fronte.» Sorride. «Era un rapporto di Mask, non è vero?»
«Esatto! Parla di una missione assegnatagli più di vent'anni fa. Qualcosa legato ad una serie di omicidi avvenuti durante le notti di Luna piena, se non ho capito male.»
«Caspita!», commenta lei fissando la copertina lisa. «Quasi, quasi gli darei una sbirciatina…»
«Magari! Io faccio ancora a pugni col greco moderno. Anzi, se lo leggi e me lo riassumi, mi faresti un gran favore. Te ne sarei grato finché campo!»
«Non so come la prenderebbe Lois», ribatte Shaina, le mani sui fianchi e lo sguardo a vagare su quelle colonne instabili. «Tra noi non corre buon sangue, lo sai...»
«Prometto di essere muto come un pesce.»
«E?»
Sospira. «E di avvisarti non appena Seiya metterà piede qui al Santuario.»
«No, no, no», risponde lei, sventagliando l'indice davanti al naso di lui. «Non mi devi avvisare. Lo devi trattenere, anche colle maniere forti, fino a quando io non sarò arrivata. Intesi?»
«Intesi...»
Lei sorride e riprende in mano il libretto. «Affare fatto! Così, forse, la smetterai di restartene chiuso qui dentro come un topo di biblioteca! Che stai leggendo, ora?»
Le mostra un vero e proprio diario, bello corposo e ricco di annotazioni, segni e schizzi che il tempo ha conservato integro. Più o meno.
«È un diario di Shura di Capricornus.»
«Shura, hai detto?» Un brivido increspa le braccia di Shaina. «Te li ha dati Lois?»
«Sì, perché?», le domanda lui. «Qualcosa non va?»
La ragazza scuote la testa. «L’ultima volta che uno di questi affari è saltato fuori, è successo un casino niente male…»
Kiki si stringe nelle spalle, come a dire: normale amministrazione. «Me l'ha dato proprio lei. Dice che va catalogato con tutto il resto.»
«Di quand'è?», domanda Shaina.
«Fammi vedere… le ultime annotazioni risalgono all'Anno Sacro 232… era il 1979.»
«Io ero qui da poco più di due anni», commenta lei sbirciando la grafia nitida dell' ex Saint del Capricorno. Shaina libera una sedia da una serie di carte sparpagliate e la sistema accanto a Kiki, che le ha fatto posto mettendo in mezzo il diario. «Dai, leggilo che sono curiosa!»
Kiki si schiarisce la voce e riprende la lettura.


16 febbraio 1979
Più ci penso e più impazzisco.
Parlo di Aiolos. Ancora oggi, a sei anni di distanza, mi chiedo perché abbia deciso di rapire Athena. C'è qualcosa di strano in quello che è successo quella sera sciagurata. Qualcosa di assolutamente
folle. Il sacerdote dice che un daimon si è impossessato del cuore di Aiolos, e che lo ha spinto ad agire a quel modo. “E pensare che solo poche ore prima l'avevo nominato mio successore e tutore di Athena!”, ripete spesso il Sommo Sion e capisco bene perché non riesca a darsi pace. Gli altri Santi d’Oro erano troppo piccoli allora per poter fare qualcosa. Io stesso non ho potuto far altro che rallentare la corsa dissennata di Aiolos verso la morte. Solo Saga dei Gemelli è riuscito a combinare qualcosa di concreto. Lo trovò morto dissanguato con la bambina tra le braccia; non ebbe neanche bisogno di combattere: prese la neonata e la riconsegnò al Sacerdote, prima di tornare a monitorare i movimenti di Poseidone a capo Sunio. La delusione è talmente cocente che… che  non lo so nemmeno io. 
¡Mierda!
Ho chiesto licenza al Sacerdote, ma non me l'ha concessa. Ade può svegliarsi da un momento all'altro, e c'è sempre da considerare un eventuale ritorno di Poseidone, che grava sulle nostre teste come una spada di Damocle. Dobbiamo essere presenti al Santuario. Il Sommo Sion ne ha già concesse due deleghe: una a Mu dell'Ariete, che ripara corazze sui picchi dell'Himalaya, e l'altra a Doko di Libra, che ha ricevuto un compito importantissimo dalla dea Athena in persona, onere che non gli consente di allontanarsi dal Monte Ro in Cina.
Per me restare qui è motivo di grande insofferenza. A volte, vorrei avere anche io degli allievi da istruire, ma il Sacerdote non me ne ha ancora affidato nessuno.
Sarò troppo giovane? O, più probabilmente, il Sacerdote vorrà tenermi presso di sé? Se da un lato la cosa mi inorgoglisce, dall'altro mi secca che situazioni delicate siano affidate ad Aiolia, il fratello del traditore. Traditore… Ma si può parlare di tradimento quando si è un burattino nelle mani di un demone? Non riesco ancora a crederci, eppure, ho visto con i miei stessi occhi Aiolos fronteggiare i soldati semplici con la bambina tra le braccia, per poi scappare nel buio della notte. E adesso, Aiolia tenta di riscattare il buon nome del fratello cimentandosi in imprese disparate.



Kiki fissa Shaina perplesso. «È successo davvero
«A-ah!», annuisce lei. «Ero qui da poco e ricordo che tutte le rogne erano affidate ad Aiolia, che accettava volentieri gli incarichi più assurdi pur di allontanarsi dal Tempio. E Aiolos era nel giusto. Oltre al danno, la beffa!»
Kiki scuote la testa. Saga è stato molto scaltro ad agire in quel modo; con i Santi d’Oro poco più che bambini aveva le porte spalancate. Gli è bastato eliminare Sion, sostituirsi a lui e mettere tutti gli altri contro Aiolos. Un piano molto astuto e rischioso, ma come si dice? Fortuna audaces iuvat.
«A che pensi?», gli chiede Shaina osservando la carta ingiallita e segnata dalla grafia pesante del Capricorno.
«A che faccia avrà fatto Shura scoprendo la reale identità del Sacerdote che si era impegnato a difendere fino all'ultimo...»
«Probabilmente gli avrà dato una bella ripassata una volta arrivati dall'altra parte…»
«Dici? In effetti…»
«Io l’avrei fatto. E da quello che leggo qui, credo che Shura l’abbia pensata come me.»
Kiki annota mentalmente quella frase e riprende la lettura, gli occhi di Shaina che lo imitano subito, fermandosi qualche giorno più avanti.


25 Febbraio 1979. 
Ho ottenuto una licenza breve per tornarmene in Spagna. Sei giorni. Meglio che un calcio in bocca; speriamo che non capitino rogne.

26 Febbraio 1979
Qui tutto è come al solito. La tranquilla e rassicurante calma dei Pirenei mi fa bene. Se penso che questo mondo potrebbe crollare da un momento all'altro, mi sento spinto ad impegnarmi sempre di più. Non ricordavo quanto potesse essere morbido il mio letto dal materasso di lana. Qui mi sento a casa. Il grigio delle rocce della montagna e l'azzurro del cielo dall'abbaino sopra il letto: non c'è risveglio migliore, almeno per me! Ad Atene ho un sontuoso letto a due piazze (come se potessi portarci delle donne!)…


… e Kiki scoppia a ridere.
«Uomini…», commenta Shaina facendo spallucce.

…sotto un baldacchino foderato di stoffe pregiate. Ho cuscini di piuma d'oca, lenzuola di lino d'estate e coperte di pura lana vergine d'inverno. Ana, la mia Attendente, mi tratta come se fossi suo figlio. Eppure, la baita abbarbicata sui Pirenei e quel brontolone di Javier mi trasmettono calore di casa.
Javier, come suo solito, ha mugugnato qualcosa nel suo cantilenare madrileno: in fondo, lo so che gli fa piacere avere qualcuno con cui scambiare due parole adesso che un metro buono di neve ha ricoperto tutto quanto. Sì, certo, lui insiste nel dire che gli piace la solitudine, che nel silenzio riesce a meditare in pace, che… tutte balle! Si vede lontano un miglio che, sotto sotto, è contento che io sia qui.
Il passo è stato chiuso ad Ottobre. Adesso i Pirenei sono meta di tutti i rocciatori del versante spagnolo, ma nessuno osa avvicinarsi a questo posto. Il Picco dello Stambecco incute reverenza e un prudente senso di timore. È tuttora considerato una vetta accessibile alle aquile, tanto che non si conosce la sua altezza precisa. Fortunatamente per noi, il vicino monte Aneto calamita su di sé tutta l'attenzione dei rocciatori, lasciandoci vivere in una relativa calma. Certo, abbiamo anche noi bisogno del contatto con la 'civiltà', ed infatti scendiamo al villaggio di Orreaga-Roncesvalles una volta al mese.
Orreaga è un piccolo borgo addormentato all'ombra del picco dello Stambecco, brulicante di vita in primavera ed estate, quando le scuole di Iruña portano i ragazzi in gita sul passo di Roncisvalle e i pellegrini iniziano il Cammino di Santiago con gli zaini in spalla e le capesante che ondeggiano ad ogni passo, ma che cade letteralmente in letargo non appena scende la prima neve. La frontiera con la Francia è vicina. Mezz'ora e siamo in Aquitania. Il più vicino villaggio dall'altra parte dei Pirenei è Saint Étienne, e anche lì la vita scorre identica alla nostra, sebbene le lingue siano diverse, nonostante loro non abbiano avuto una dittatura per quarant'anni come noi, nonostante entrambi i villaggi siano animati da uno spirito di forte attaccamento alle tradizioni. La vita nelle comunità montane è questa, altro che le rivalità tra Rodrio e Sarixas! Non ci si possono permettere ripicche di sorta; quando la neve scende per metri e metri sul terreno, si deve dare per assodato l'aiuto di un altro villaggio. La rivalità è un lusso che la montagna non perdona, e anzi, fa pagare molto, molto caro.
Javier brontola dabbasso. Forse è il caso di andare a vedere che vuole!



Kiki si massaggia gli occhi. Ha passato tutto il pomeriggio tra i libri ed inizia a sentire la stanchezza. E la fame, che il suo stomaco gli ricorda con un sordo brontolio.
«Aspettami qui!», e quando Shaina ritorna, ha tra le mani un vassoio pieno di cibo: formaggio, salame da affettare e una bottiglia di vino rosso. «E pane caldo fatto in casa!», gli annuncia svelando un fagotto sotto un tovagliolo bianco.
Kiki sgombra appena la scrivania invasa da carte e libri ammonticchiati in pile instabili, e lei si siede, curiosa di sapere come prosegua il diario di Shura. È inusuale che un ragazzo di sedici anni ne abbia scritto uno; lei stessa, a quell'età, non ha mai pensato di affidare i suoi pensieri alla carta per fare chiarezza, nemmeno quando ha patito le pene dell'inferno per Seiya, indecisa se ucciderlo o amarlo. Shura, invece, ha riempito un diario con estrema frequenza, almeno a giudicare dalle date trascritte.

8 Gennaio
9 Gennaio
10 Gennaio
12 Gennaio

Toh! Era il suo compleanno!

14 Gennaio
16 Gennaio
17 Gennaio

La precisione del precedente Santo del Capricorno è sconcertante: ha annotato tutto quello che ha visto e ha fatto giorno per giorno, filtrandolo attraverso i suoi pensieri e le sue emozioni. Al punto che, se Shaina e Kiki chiudono gli occhi, sembra loro di vivere quegli avvenimenti lontani nel tempo e nello spazio insieme a Shura. Come se fossero lì. 
 

 









Note: Questa storia era già presente in archivio, ma questo storia è anche il mio personale Odi et Amo, con buona pace di Catullo.
Non riesco a rigirarla come vorrei. C'è sempre qualcosa che non gira nel verso giusto, ossia come vorrei io.
Ho provato a rigirarla, per l'ennesima volta, nella speranza che sia l'ultima. Siete autorizzati a passarmi a fil di spada, qualora io dovessi dire una tonteria tipo "Mah, questa storia non mi convince, mi sa che le rinfresco il trucco...".
Fatemi male. Malissimo.

Okada in Episode G - Assassin ci dice che il maestro di Shura è Izo, lo stesso Santo che appare in Next Dimension (e dovrà spiegarmi pure come caspita abbia fatto, ma il Okada-san gode di un credito illimitato presso la sottoscritta). Saint Seiya Omega ci dice che il suo maestro è, invece, l'improbabile Ionia.
La sottoscritta, lostcanvasiana di ferro, propende perché Shura altro non sia che la reincarnazione di El Cid del Capricorno. Da ciò, ne segue che il suo maestro non sarà né Izo, né Ionia, ma un modesto personaggio creato oramai nel 2006. Non ce la faccio a tirare un colpo di spugna, desolata.
Spero vi piaccia quanto piace a me.

Me ne frego bellamente che Shura si sia allenato sul Monte Perdido, in Navarra. Per me il suo maestro abita sempre in Navarra, ma alle pendici del Picco dello Stambecco, a due passi dal Valico di Roncisvalle, lì dove inizia il Cammino di Santiago. Non me ne voglia Okada, ma ubi maior, eccetera eccetera.

Lois è la bibliotecaria del Santuario. O meglio, è la responsabile della Biblioteca del Sacerdote. È apparsa in Quando piangono le stelle e lei e Shaina hanno avuto uno scambio di opinioni, diciamo così...  

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** 2. Orreaga - Roncesvalles ***


Orreaga - Roncesvalles
 

   
I monti sono maestri muti e fanno discepoli silenziosi.
Johann Wolfgang von Goethe
 
 




Quando la voce di Javier assomiglia in maniera inquietante ad una pentola di fagioli che borbotta sul fuoco, lui sa che non deve porre tempo in mezzo e scattare. Così abbandona la penna in mezzo al quaderno, lo chiude e si affaccia dalla balaustra che delimita il soppalco in cui si trova la sua stanza: dieci metri quadrati scarsi, roventi d’estate e freddi d’inverno, dove trovano posto un letto in ferro battuto, una sedia ed un baule malmesso, piazzato sotto l'abbaino che buca il tetto spiovente, lo stesso che lo costringe a camminare chinato per non sbattere la testa contro le travi.
Nel baule non ci sono vestiti: quelli sono stati riposti in due capienti ceste di vimini, sistemate sotto il letto. Il baule straripa di libri. Di ogni argomento e genere, tutti quelli che Javier gli ha imposto durante gli anni dell’addestramento.
«Essere un Santo non fa di te un selvaggio o un ignorante», gli ha detto, ficcandogli tra le mani un tomo erto quando un mattone. E lui non se l'è mai sentita di ribattere. Anche perché con Javier c'è poco da discutere: gli è sufficiente mezza parola per farlo filare spedito come se stesse in perenne e precario equilibrio sul filo del proverbiale rasoio, in bilico su di un baratro irto di chiodi acuminati.
Che diamine avrà, adesso?, si domanda affacciandosi nella stanza comune dove il fuoco arde allegro nel camino.
«Dicevi a me, maestro?»
«Certo che dicevo a te! Con chi pensi che stessi parlando? Da solo, come fanno i pazzi?»
Quel piccolo madrileno strafottente!
Sarà alto sì e no un metro e settanta, magro come un chiodo, le guance stranamente tonde su un volto scavato, naso adunco e con la punta rossa, mani grandi e nervose e un paio di taglienti occhi neri sotto due cespugli incolti sale e pepe che osa definire sopracciglia. C'è sempre qualcosa che non gli aggrada, che gli fa comunque storcere la bocca sottile e sfuggente. 
Vecchio scorbutico!, pensa, alzando le sopracciglia come a raccogliere un pochino di pazienza.  «Potresti ripetere?»
«Ho detto che c’è da andare a fare la spesa. E visto che mi sei piombato in casa senza avere il buon gusto di avvertire, sarai tu a scendere in paese!»
Così non dovrai uscire, vero?
Shura alza la testa e stiracchia lentamente i muscoli del collo. Pazienza. Con Javier è superflua ogni discussione, e se ne frega del fatto che l'allievo sia diventato un Santo d’Oro, mentre lui non ha mai vestito neanche uno straccio d'armatura.
«Puoi essere la dea Athena in persona, ma qui la gerarchia è sacra. Io comando e tu stai sotto. E fine delle discussioni», gli ha detto non appena ha guadagnato l'Armatura del Capricorno.
L'allievo supera il maestro, ma sempre allievo rimane, si dice Shura infilandosi gli scarponi da neve. Un po' come un figlio resterà sempre e comunque un figlio.
Recupera la sciarpa abbandonata sulla sedia, i guanti, il cappello e scende la scala a chiocciola in legno. Il piumino lo attende appeso dietro alla porta d’ingresso. Fare un salto al villaggio gli farà bene. E forse la smetterà di rimuginare su Aiolos e sui fatti di quella notte disgraziata più spesso del dovuto. E del necessario. Arriva persino a sognarsela, quella notte, attimo per attimo, con una dovizia di particolari da fare invidia ad un film. 

Fa caldo, anche se l'estate è finita. Il Silenzio del Santuario è rotto dalla voce del Sommo Sion che lancia l'allarme mentre le sirene ululano, squarciando il riposo notturno.
«Tradimento! Aiolos ha profanato il Grande Tempio e ora sta fuggendo con la bambina!»
Maite lo sveglia di soprassalto, gli occhi allargati dalla paura e la bocca socchiusa, stringendo le parole tra i denti. E quando lui le chiede: «Che è successo!», nel dialetto di Burgos, lei balbetta qualcosa che si colora del tamburellante ritmo caraibico: «Il Nobile Aiolos… ha… ha rapito l'Infante!», questo dice l’Attendente della Decima Casa, frastornata dagli avvenimenti.
Alzarsi ed indossare l’armatura è un unico gesto.
«Il Sacerdote ti vuole parlare», aggiunge la donna, torcendosi nervosamente le mani e facendosi più volte il segno della croce.
Lui scatta, che altro puoi fare quando il Sacerdote ti manda a chiamare? Così percorre le scale a due a due, superando Aquario e Pesci, ed entrando dritto di filato nella Tredicesima Casa.
Dev’essere un incubo. Un incubo impossibile, si ripete, passo dopo passo, battito dopo battito. Ma le parole del Sacerdote sono una secchiata d’acqua ghiacciata che non lascia adito a fraintendimenti.
«Aiolos ha tradito. Ha rapito Athena, per ucciderla. Fermalo, Shura.»
E lui lascia tutto, lanciandosi all'inseguimento, ignorando un Milo terrorizzato e il piccolo Aiolia con gli occhi sgranati dalla paura. Segue i rumori di lotta e le voci contrastanti dei soldati; c'è un solo modo per uscire dal Santuario senza passare per il negozio di Agathê: i monti. E quello è il suo territorio.

Eccolo, dev'essere Aiolos quella figura attorniata da un gruppo di soldati. Non indossa l'Armatura, e stringe un fagotto tra le braccia. Athena. Lui si avvicina. Deve convincerlo, deve convincerlo a desistere da quel comportamento assurdo e a tornare indietro; è ancora in tempo, e lo sa. Se c'è stato un malinteso – perché solo di malinteso può trattarsi! – il Sommo Sion sarà più che disposto a chiarirsi. Deve solo ascoltarlo, affidargli la bambina e tornare indietro. Con lui. Al Santuario. I periodi no, quelli di forte stress, capitano a tutti, sarà successo anche a lui; Aiolos avrà preso di sicuro una cantonata. Forse… forse ha frainteso, ecco, sì; ha capito male il compito che spetta al tutore di Athena. Magari deve aver pensato che fosse suo preciso compito prendere con sé la bambina, e magari la stava solo portando da un'altra parte.
Ma la risposta di Aiolos spezza ogni speranza.
Quello sguardo tranquillo è di chi sa di essere nel giusto, quel sorriso, splendente e terribile insieme, di chi non ha nulla da perdere, ma tutto da vincere. Un martire che va verso la gloria. O un suicida che vede la fine delle sue pene.
No, non c’è stato alcun malinteso.
Il suo tentativo di impedirgli di spingere oltre quella follia, il colpo dato con Excalibur alle gambe di Aiolos per fermarlo. E salvarlo, prima che sia troppo tardi. E sangue, tanto sangue cremisi che gli annebbia la vista invadendo ogni cosa, dando ad Aiolos la possibilità di svanire nel nulla.

Il risveglio è sempre brusco e accompagnato da un grido e dal guardarsi le mani, dal controllare che non vi sia sopra nemmeno una singola macchiolina di sangue. Risiedere al Santuario amplifica questo genere di sogni. Il Sacerdote ha prescritto a tutti loro dei decotti da assumere la sera per dormire otto ore filate senza pensare ad Aiolos, alla caccia all'uomo, alla delusione. E per mitigare il senso di sospetto con cui si guardano l'un con l'altro i Santi d’Oro. Si sono create delle piccole isole felici. Alleanze. Affinità elettive, le chiama il Sacerdote. Milo e Camus. Death Mask e Aphrodite. Shaka, trincerato dietro il suo algido distacco. E Aldebaran, che la saudade si mangia vivo, giorno dopo giorno.
«Chi si assomiglia, si piglia», direbbe il Sommo Sion; e al Sacerdote questa situazione va più che bene. Ha del prodigioso come tutti i Santi d’Oro facciano letteralmente a gara per essere zelantemente conformi alle Leggi del Santuario. Che lo facciano per sviare sospetti? E su cosa? Iniziano a circolare strane voci al Grande Tempio; forse, il daimon che si è impossessato di Aiolos, costringendolo a rapire la bambina, circola ancora indisturbato tra le colonne di marmo bianco?

«Tieni», e la mano di Javier entra nel suo campo visivo. «Sono solo due cose.»
Infila il piumino, stringe il nodo della sciarpa e prende la lista che Javier gli ha trascritto su un pezzo di carta con la sua grafia nitida: ce n'è abbastanza da sfamare un intero reggimento di cavalleria di ritorno da quaranta giorni passati nel deserto!
«E mi raccomando! Gauloises Blondes senza filtro!»
Sa che è perfettamente inutile ricominciare con la solfa del mens sana in corpore sano. Discutere con lui, specie se ha già deciso di fare una determinata cosa, equivale a prendere a testate un muro di cemento armato. Si caccia in tasca soldi e lista. Gli dirà che all'Emporio non erano ancora arrivate.
«E vedi di non fare il furbo! Il mese scorso Nahia ne aveva sei pacchetti, e quel tipo di sigarette le fumo solo io!»
M'ha fregato!, pensa uscendo incontro ad un refolo d'aria gelida.



Orreaga-Roncesvalles dorme placido in fondo alla vallata.
Se non fosse per le colonne di fumo, che s'innalzano dai comignoli in cima ai tetti, sembrerebbe un piccolo presepe in miniatura. La neve è caduta in abbondanza quest'anno e, fino al limitare dell'abitato, sarà alta cinquanta centimetri buoni. La casa di don Antoni, il maestro elementare di Auritz, è la prima che s'incontra dopo la curva con il cartello che indica la distanza da Santiago de Compostela; il suo tetto d'ardesia buca quel bianco accecante, la staccionata di legno verde andrà sistemata ad aprile e il cortile interno colle cordicelle dello stenditoio vuoto che sembrano tanti fili di ragnatela ghiacciati.
Supera altre due case, non senza aver salutato con un cenno la figlia maggiore di don Antoni, Jolanda, che l'osserva da dietro le tendine della finestra della cucina, e si ritrova nel Calle principale, che attraversa il paese da Nord a Sud e sbuca nell'unica piazza del borgo. S'intravede già la Chiesa della Collegiata, gli ostelli che accolgono i pellegrini e l'Emporio Generale di Nahia che svetta forte dei suoi due piani di mattoni giallo ocra proprio di fronte alla chiesa di san Giacomo.
Don Gaizka, il padrone sulla carta dell’unico negozio del paese, ha gestito l'Emporio fino a quando non ha deciso di averne abbastanza e di voler passare le sue mattinate a leggere il giornale, seduto sullo stesso barile di aringhe sott'olio su cui ha passato buona parte della propria infanzia. Nahia gestisce il negozio da una dozzina d'anni, dopo il matrimonio con Andeka, che si occupa dello smistamento della posta, due stanze più in là.
Il suono dei suoi passi sul selciato, coperto da un sottile strato di ghiaccio, non è passato inosservato tra i pellegrini che iniziano il Camino in quella fredda mattina d'inverno, e la notizia del suo ritorno in paese s'è sparsa per l'aria assieme all'odore della zuppa di cavolo nero dell’ostello.
Ecco perché quando il campanello dell'Emporio tintinna con voce argentina annunciando il suo ingresso, l'unica ad esserne realmente sorpresa è la piccola Alazne, appena rientrata da scuola, le calosce ancora indosso. Si volta, sgrana i suoi occhioni neri e realizza in un secondo che è tornato Ruy.
Gli corre incontro e il serio Shura ha avuto a mala pena il tempo di abbassare la sciarpa da davanti la bocca che si ritrova con la ragazzina aggrappata al suo braccio che gli strilla «Kaixo, Ruy!».
«Alazne, lascialo respirare», le dice Nahia sistemando meglio la mantella color ruggine sul suo vestito blu e andandogli incontro. Due baci sulla guancia e poi lei gli sorride, aggiungendo: «Scusala, Ruy, ma lo sai anche tu quanto ti sia affezionata!».
«Non ti preoccupare, Nahia…», le risponde liberandosi della ragazzina e carezzandole la testa castana. Ruy. Qui al villaggio continuano ad usare il suo nome di battesimo. Shura se lo lascia alle spalle non appena esce dal Santuario. E anche questo contribuisce a farlo sentire a casa. «Kaixo, chica!», risponde lui, togliendosi quella scimmietta di dosso. «Ci siamo fatte grandi, eh?»
«Come stai, ragazzo?»
Don Antso, sindaco del paese nonché proprietario dell’unico albergo – banderuola che si piega seguendo il vento più forte, per dirla con Gaizka – si avvicina, le mani a stringere i lembi del panciotto blu, con le guance rosse come al solito. Ha posato il giornale non appena l'ha visto entrare e si è avvicinato con la faccia sorridente di chi sta ripassando un discorso preparato da tempo, ma che non ha provato a sufficienza.
«Tutto bene, grazie. E voi?»

Per sua fortuna ha risposto dirigendosi verso il bancone e porgendo a Nahia la lista della spesa. Quel tranquillo «E voi?» pronunciato per squisita cortesia ed educazione, più che per un reale interesse, ha dato al sindaco la scusa per partire con un lungo comizio elettorale, più un monologo a voler essere cavillosi, sul tempo, sul clima, sull'economia che ristagna da quando a Madrid siede Juan Carlos, su una strana malattia che colpisce le bestie che si sta propagando da Saint Etienne fino oltre i Pirenei, sul fatto che il paese si sta spopolando… le solite cose, insomma.
Lui si limita ad annuire, ad intervenire con frasi di circostanza quando don Antso glielo concede – deve pur riprendere fiato – tutto preso com'è dal non smarrire il filo del discorso e dal non scoprire troppo presto una buona mano.
Nahia ci sta mettendo un po' troppo tempo, per i suoi gusti: va bene che Javier ha scritto una lista valida per restare a piedi caldi per tutto l'inverno ed oltre, ma gli sembra che la donna prenda volutamente del tempo per mettere insieme tutto quello che è scritto sul foglietto. E non vuole che questa lentezza, insolita per una persona energica come Nahia che è rimasta a lavorare fino a due ore prima di sfornare Alazne, non sia un mezzuccio per dare al sindaco il tempo necessario per entrare casualmente in argomento. E il sindaco lo trova, il momento adatto, mentre Nahia posa sul bancone carne secca e formaggio di capra.
«Adesso che sei qui devi assolutamente partecipare alla Festa di Carnevale! Si terrà domani sera, Martedì Grasso, nei locali della parrocchia. Ci saranno balli e canti, e, dulcis in fundo, l'elezione della Reginetta della Neve. Non puoi mancare, e sappi che non accetterò un no come risposta tanto facilmente.»

Ecco. Alla fine l'ha sputata fuori la proposta che Ruy rifiuta immediatamente: presentarsi alla festa con il tarlo di Aiolos che lo tormenta da un po' troppo tempo, non è la scelta migliore.
«Sono spiacente, don Antso, ma sono venuto fin quassù per sottopormi ad un allenamento intensivo. Purtroppo sono costretto, mio malgrado, a rifiutare il vostro cortese invito.»
Sente le occhiatacce che gli sta lanciando Nahia trapassargli la schiena ed aprirsi un varco nel suo petto.
«E come ti sbagli?», commenta lei, posando una scatola di fiammiferi svedesi sul bancone.
Ruy tace. Sa che a darle corda Nahia sarebbe capace di vendere congelatori agli eschimesi; non è dell’umore giusto per partecipare ad una festa. Sarà per la prossima volta, pensa, attendendo paziente che lei finisca di armeggiare con la lista della spesa.
Ma Nahia non molla.
«Guastafeste che non sei altro», gli dice, posando un paio di scatolette di carne in gelatina. Lo tratta ancora come se fosse il marmocchio pelle e ossa che è arrivato da Burgos una decina di anni fa. «E pensare che qualcuno, qui, non vedeva l'ora di farsi vedere con il suo bel costume indosso, vero Alazne?»
Questo è scorretto!, dardeggiano gli occhi di Ruy, ma Nahia prosegue come se niente fosse. Anzi, dal suo sguardo nocciola traspare la voglia di continuare la discussione, non appena don Antso avrà avuto la cortesia di togliere il disturbo.
«Ho detto di no», ribatte, col suo tono più severo, quello che fa filare dritto la marmaglia che affolla il Santuario.
Nahia gli rivolge un sorrisetto, come a dire «Ma davvero?».
Lui la ignora. Ha sentito Alazne immobilizzarsi come una statua di sale, e questo non è un bene. Non sopporta vedere una donna che piange, anche se è una bambina. Si sente impotente.
«Eddai, Ruy…», pigola la bambina.
«Alazne…» Non piangere. Non. Piangere. Nonpiangerenonpiangerenonpiangere… «Alazne, devo allenarmi. Mi dispiace», e fa un passo avanti, verso il bancone.
«Eddai….»
Ruy sbuffa. «Vedremo.» Che non è un sì, ma neppure un no. «Non ti prometto niente, ma vedremo. Ok?»
La ragazzina stringe la stoffa fredda dei suoi jeans pesanti mentre annuisce con gli occhi rossi.
«Forza, signorina. A lavarsi le mani, ché è ora di pranzo», le dice Nahia battendo le mani. Alazne tentenna. Rivolge un ultimo sguardo a Ruy, poi saluta don Antso ed infila la porta del retrobottega con le calosce indosso e lo zainetto in spalla.

Ruy attende che si spenga l'eco dei passi della ragazzina, e poi scocca un'occhiata di fuoco alla giovane donna che lo sta fronteggiando con le mani conserte.
«Non è leale ricorrere ad una bambina!», le sibila mantenendo a stento la calma. Non vuole che Alazne li senta discutere.
«Ma sentitelo un po', questa pulce! Non è leale! Con che faccia lo dici quando sei tu che ci costringi a ricorrere a certi mezzucci!», borbotta la donna mentre prende un prosciutto affumicato e ne taglia alcune fette che poi dispone dentro della carta per alimenti. «Ormai ti vediamo così di rado da non sapere più di che colore hai gli occhi! Quando sei qui, ti degni di fare un salto a prendere due cose da mangiare, e ti rintani con Javier e le capre sui monti! Non è normale, Ruy! O debbo forse pensare che Javier abbia argomenti più convincenti?»
«Che cosa?» urla, mentre per lo spavento Alazne, al piano di sopra, stringe con forza la salvietta di lino con cui si stava asciugando le mani.
Il sindaco prende la giacca, la infila e saluta frettolosamente.
«Beh, se vuoi unirti a noi, Mercedes ne sarebbe contenta! Sai dove trovarci, e spero che cambierai idea! E adesso, se volete scusarmi, la mia signora e le mie belle figliole», e calca la voce sull'ultima parola, «mi stanno aspettando per pranzare!», ed esce dalla porta senza che i due si accorgano di nulla, tutti presi come sono dalla loro discussione.
«Hai sentito bene», replica Nahia aggiungendo al cumulo della spesa di Ruy due scatolette di aringhe affumicate, piselli secchi e un pacchetto di naftalina. «Non. È. Normale!»
«Per me lo è! Ricordati che non sono un ragazzo qualsiasi, io!»
«E io insisto nel dire che non è normale! Sarai anche un Santo d’Oro, o qualsiasi altra diavoleria tu sia, non lo so e non voglio saperlo. Ma hai solo sedici anni, Ruy! Quando hai intenzione di vivere la tua gioventù? A cinquant'anni?»
«Nahia…» riesce a dire, quando vorrebbe risponderle Sarà un miracolo, arrivarci, a cinquant'anni!, ma capisce che deve ingoiare, anche se a forza, quelle parole.
«No, Ruy! Ascoltami bene tu!», lo zittisce, convinta che stia per ribatterle la solita solfa sul suo compito e quel fastidioso blablabla sul dovere che le ripete ogni volta. «Sarai anche un Santo, ma prima di tutto sei un ragazzo. Posso capire che non ti vadano le quattro oche che razzolano in paese, ma ti prego, fammi un favore: trovati una bella chica e goditi la tua gioventù!»

Nahia si è avvicinata a lui posandogli le mani sulle spalle: si è fatto grande, il bambino pelle e ossa che è apparso un bel giorno assieme a Javier. Adesso è un ragazzo alto, quasi quanto il suo Andeka, con un velo di barba sul mento e sopra le labbra. Guarda, guarda… Vorrà dire che gli regalerò un buon rasoio elettrico!, si dice mentre esamina di sfuggita il viso di Ruy, contenta di aver trovato un regalo per il suo compleanno. Se Ruy credeva che la questione fosse ormai passata in cavalleria, si sbaglia di grosso.
«Mi prometti, almeno, che ci penserai, Ruy?»
E lui, alla fine, annuisce, convinto che altrimenti lei non gli permetterà di uscire dal negozio.
«Bueno, Nahia, ci penserò, ma non ti prometto altro, può essere benissimo che mi richiamino da un momento all'altro…»
«Proprio per questo, devi approfittare di ogni momento buono per divertirti, no?»
« …e quindi non so cosa farò domani, né dove sarò», prosegue ignorando l'intervento falloso di lei. «Posso soltanto prometterti di pensarci, niente di più», conclude prendendole le mani e liberandosi le spalle.
«Più cocciuto di una capra! Tanto lo so che non verrai! Ma fallo almeno per Alazne! Adesso che sa che sei qui, vorrà assolutamente che tu vada alla festa e alla processione con lei!»
«Nahia…» L'avvisa di non ricominciare; adesso come adesso, non si tratterrebbe più, Alazne o no.
«Ok, ok! Io te l'ho detto! Ora decidi per conto tuo, ma tieni a mente che Alazne ci resterebbe male.»
«Questo è scorretto!»
«Lo so. Ma noi donne non giochiamo pulito, non te l’hanno mai detto? A proposito. È arrivato il nuovo disco di Julio Iglesias, t'interessa?»
«Julio Iglesias!? Mi hai preso per mia nonna?», ribatte, sollevato da quel cambio repentino di discorso. «Mi avessi detto l’ultimo disco degli Stones…»
«Aspetta, fammi pensare… sì, mi sembra che i Magi abbiano lasciato qualcosa per te», e Nahia sparisce sotto il bancone. Ruy sente che sta rovistando tra miliardi di cose messe da parte, e s'affaccia per vedere che stia combinando. «Ecco qua! Gaspar in persona si è raccomandato di tenerlo qui in attesa del tuo ritorno», e così dicendo gli porge un pacco dall'inconfondibile sagoma quadrata.
Ruy lo prende, se lo rigira tra le mani e lo scarta curioso; Nahia si gusta gli occhi di lui allargarsi dalla sorpresa quando scopre il viso di Mick Jagger truccato da donna.
«Some Girls!», esclama lui rigirandoselo tra le dita.
«Può andar bene? Il signore è soddisfatto?», gli chiede poco prima di ricevere un forte abbraccio ed un fraterno bacio sulla guancia.
«Eccome! Quanto ti devo per la spesa?»


La strada del ritorno è in salita. Non nevica, ma il sole è ancora troppo debole per sciogliere tutto quel bianco accecante. Nahia l'ha caricato come un somaro: tre buste, piene zeppe di scatolame e conserve, e due pacchetti che porta in una mano, traboccanti di sigarette, detersivi e altre lattine di cui ignora l'origine e lo scopo. L'unica cosa che gli preme, ora come ora, mentre il vento gli sferza la faccia, è mettere qualcosa sotto i denti: l'odore di salsiccia arrosto e zuppa di cavolo nero ed orzo gli ha smosso l'appetito. Sì, ha proprio voglia di mangiare, magari ascoltando il disco che gli ha regalato Nahia, sempre se il giradischi di Javier non sciopererà. Avanza spedito tra la neve che gli abbraccia i polpacci e che cade con tonfi attutiti dai rami stracarichi degli abeti. La baita è vicina, un chilometro al massimo; si vede già il fumo nero che si alza tra il bianco del bosco e l'azzurro pallido del cielo. Ancora due svolte e sarà a casa. Sente un odore caldo e dolce arrivare a lambirgli le narici, mentre il suo stomaco protesta non troppo gentilmente. E allora corre, alla massima velocità, con i pacchi che non si accorgono di aver percorso pochi metri a velocità curvatura.
L'odore dei fagioli cotti con aglio, rosmarino, pancetta è un richiamo a cui non riesce a resistere. 


27 Febbraio 1979. 
Martedì Grasso.
Il paese di Orreaga si è svegliato di buonora per spalare la neve caduta durante la notte. Gli uomini di don Antso coordinano i lavori: c'è chi sparge il sale grosso lungo la strada principale, chi ne sistema altro in grandi sacchi ai margini dell'asfalto, chi controlla le luci appese da un capo all'altro del Calle Sancho VII, che conduce direttamente alla Collegiata e al museo.
Quest'anno il sindaco è riuscito a mettere le mani su un lotto di dodici decorazioni luminose, a forma di stella a sei punte, che si vanta di aver acquistato ad un prezzo stracciatissimo. Forse, come sussurrano le vecchie pettegole, quelle stelle che si accendono ad intermittenza, l'una autonoma rispetto all'altra, non sono che il fondo di magazzino di uno dei tanti cugini di don Antso, il quale le ha acquistate convinto di poterle riutilizzare anche per le festività.
Il paese è in pieno fermento, la processione di questa sera è vista dalla gente di Orreaga come un'occasione per fare bisboccia assieme agli altri paesi che dormono abbarbicati sulle pendici dei Pirenei lungo l'Itinerario di Carlo Magno, e che una volta all'anno si riversano in quel borgo abitato da una manciata di anime.
Bancarelle di dolci, chincaglierie assortite, pesci in bocce di vetro e altre cianfrusaglie stazionano davanti alla chiesa di San Giacomo, in fondo al paese e alla passeggiata di mezz'ora buona che parte dalle spalle della chiesa e raggiunge Auritz più a valle.
A nord, invece, si trova il passo dove Orlando e i suoi sarebbero stati attaccati dai Baschi per vendicare il sacco di Pamplona. Baschi, non Saraceni; gli storici di mezzo mondo concordano nel definire così le popolazioni che a Roncisvalle sterminarono la retroguardia franca affidata al conte Rholand in quel 15 Agosto dell'anno del Signore 778; gli spagnoli, invece, tentennano ancora, divisi come sono tra le direttive franchiste, i cui echi difficilmente si spegneranno come un fuoco di paglia, e le rivendicazioni degli storici internazionali.

Ad Alazne, tutto questo non interessa.
Nahia ha visto che quest’oggi sua figlia è stata più assente del solito. Svagata. Lontana anni luce dalle salviette di cotone da piegare, dai compiti e da Orreaga stessa. La sua testa è stata altrove per tutto il giorno, inchiodata all'orlo e alle balze del suo vestito di taffettà azzurro. Alazne ha voluto truccarsi. L’ha quasi preteso. E a Nahia, quest’anno, ha fatto uno strano effetto passare il solito velo di cipria sul viso della sua bambina, assieme all’ombretto e ad un accenno di rossetto. S’è fatta grande. Immagina quali pensieri attraversino la testa di sua figlia, e se una parte di lei le ricorda di quando lanciava palle di neve mirando sempre e solo alla schiena di Andeka, un’altra vorrebbe che sua figlia restasse la sua bambina. Solo per un altro po’.
Nahia si stringe nelle spalle mentre osserva Alazne incontrarsi con Sokorri e dirigersi insieme verso la parrocchia. Sono le sei e mezzo e fa freddo. Un freddo cane. È stata costretta ad infagottarla nel suo piumino giallo sole, nascondendo il suo bellissimo vestito. Avrebbe tanto voluto indossare il cappotto bianco che usa la domenica per andare a messa, in modo da poter fare un'entrata degna di una vera principessa, ma Nahia è riuscita ad infilarla a forza nel piumino prima ancora che potesse aprire bocca per protestare. Si sente così scema e così ragazzina, lei lo capisce, ma sempre meglio che una polmonite coi fiocchi. 
Per fortuna, il concorso si tiene al caldo, pensa la donna. E si dice che è il caso di chiudere l’Emporio. Tanto, per stasera non verrà più nessuno. Ma quando alza gli occhi dall’orologio, lui è lì.
La guarda, imbarazzato, spostando il peso del corpo da un piede all’altro. È arrivato alla chetichella, scivolando in paese mentre tutti entravano in parrocchia per la sfilata dei costumi.
«Che ci fai tu qui?», gli chiede facendolo entrare. «Hai cambiato idea?»
«Non avresti qualcosa che mi faccia passare inosservato, per favore?», le risponde ignorando quello sguardo divertito che gli fa rimpiangere di non essersene rimasto a casa, al calduccio davanti al camino, e di aver dato retta al suo buon cuore.
Nahia ridacchia.
«Costumi della tua taglia non ne ho, avrei dovuto ordinarli a novembre. Vediamo un po' se abbiamo qualcosa per il nostro eroe!»
«Ma che hai capito? Non voglio un costume, mi basta anche un cappello», protesta, sprofondando ancor di più le mani nelle tasche sformate dei pantaloni.
«Eppure, faresti un figurone vestito come un toreador!», e prosegue a sfotterlo per un bel pezzo, fino a quando non si ricorda di quella scatola di cartone, in fondo allo scaffale. «Aspetta, forse ho qualcosa per te», gli dice salendo sulla scala.
Lui la osserva da sotto, curioso come un gatto.
«Ecco qui», dice Nahia mostrandogli una mascherina di plastica nera, utile per coprire il contorno occhi. «E attento agli uomini del Viceré, don Diego de la Vega!»


Entra in parrocchia per ultimo, nascosto tra la folla, ed esce poco prima degli altri. Attende che tutti passino, poi scende in strada. Nessuno bada a lui. Raggiunge Alazne, in coda alla processione, le passa accanto e la afferra per una spalla.
«Gabon, principessa!», la saluta, rallentando il passo e guardando davanti a sé. «Sta zitta per carità, non voglio che don Antso si accorga della mia presenza!»
«Perchè?»
«Oh, lo sai anche tu com'è fatto! Mi tratterebbe come se fossi l'attrazione principale e mi costringerebbe a sfilare accanto a sua figlia. E io Mercedes non la sopporto!»
Ad Alazne brillano gli occhi.
«Come mai?», gli domanda sottovoce, afferrando il suo braccio sinistro. «Eppure dicono che sia la ragazza più bella da qui fino a Iruña!»
«Fino a Iruña? Che esagerazione!», e Alazne fissa il suo profilo. «Che sia bella, non lo metto in dubbio, ma non la sopporto. Un'antipatia a pelle, ma non so come spiegartelo. Un mio compagno direbbe che non mi fa sangue
«Sangue
«Significa che qualcuno ti è simpatico dal primo momento che lo vedi, che crei un legame forte con quella persona, come se aveste lo stesso sangue. Capisci? E con Mercedes e la sua famiglia questo non succede.»
E io?, vorrebbe chiedergli.  Io ti sono simpatica, vero?, ma si trattiene dal porgli quella domanda inopportuna. Adesso le basta solo passeggiare con lui sotto la neve ammonticchiata ai lati del percorso.

Ruy non si sente poi così a disagio come temeva. Tutti hanno notato il suo arrivo, ma nessuno ha fatto la spia a don Antso o ai suoi uomini, e dentro di sé il giovane Capricorno ringrazia la discrezione degli abitanti di Orreaga, Auritz ed Erro che lo hanno salvato dal sindaco, il quale l'avrebbe trascinato a forza in testa al corteo.
Le maschere sfilano sotto le stelle luminose e quelle reali che bucano il cielo nere pece; è una processione curiosa quella che segue il crocifisso, don Julio e don Antso, permettendo a Zorro, la Regina Isabella, Sinbad il marinaio, Carmen e Don José e le Gitane di sfilare assieme.
«Come mai non hai partecipato alla gara di costumi? Secondo me avresti vinto...»
«Non mi andava...»
«Ma allora perché ti sei vestita e truccata?», le chiede mentre il cuore di Alazne fa le capriole. L'ha notato allora! «Donne! Siete molto più belle senza tutto quel cerone puzzolente addosso!», conclude dopo aver atteso una risposta che non arriva.
Seguono pian pianino la folla, raggiungendo la fine del sentiero tra la neve alta e l'inizio del bosco di abeti imbiancato. Il boato dei fuochi d'artificio, sparati più a monte, fa alzare la testa a tutto il paese, mentre il sindaco e la sua famiglia si pavoneggiano per la riuscita della festa.
Ruy si sente bene. Si è alzato insieme al sole ed ha passato la giornata a svolgere le mille incombenze che gli ha affidato Javier; i sogni continuano anche qui, ma è solo quando un primo fuoco esplode altissimo in cielo, in una nuvola di luce verde smeraldo, che ripensa all'amico che l'ha deluso, tradito e ingannato.
E la sua mente gli pone una domanda.

Com'è possibile che il Sommo Sion non si sia accorto di niente ed abbia scelto ugualmente Aiolos come suo successore?
 

 









Note:  ed eccoci al secondo capitolo. Mi sono presa un po' di libertà, trattandosi di un'opera di fantasia e non di un documentario di Ulisse.

Orreaga/Roncesvalles è un comune di trenta anime nella provincia della Navarra, in quella terra di confine in cui l'alloglossa basca la fa da padrona. Orrega è la prima tappa che si incontra in Spagna lungo il Cammino di Santiago, che dalla Francia porta fino a Finisterre, lungo la costa atlantica.
C'è un paese più a nord, di circa quattrocento anime, ma la prima, vera tappa dove registrarsi lungo il cammino e far mettere il primo bollino è Orreaga.

La cittadina è formata da una Collegiata, che funge anche da ostello gratuito, e un paio di alberghi. C'è poi la chiesa di San Giacomo (e come ti sbagli?) e basta. Si tratta di un borgo che vive in funzione del suo ruolo di prima tappa del Camino. Io mi sono permessa di darle una rimpolpata; magari, era un filo più abitata alla fine del franchismo, e s'è andata spopolando più tardi...

Kaixo significa "ciao" in basco, così come Gabòn significa "buonasera".

Il franchismo impose a forza l'uso del castigliano in tutte le alloglosse di Spagna, ma le differenze dialettali sono sopravvissute alla dittatura, ché, come diceva Dante, quando la mia casa va a fuoco, uso il dialetto. E considerando che il basco nemmeno fa parte della famiglia delle lingue indoeuropee, immagino che la resistenza sarà stata molto più strenua, nelle case delle persone.

Circa la storia del daimon che avrebbe preso possesso della mente di Aiolos, posso dirvi che è la scusa ufficiale che Saga, nei panni del Sommo Sion, ha rifilato a Shura. Trovate la spiegazione completa qui.

Siccome sono una cattiva persona, ho scelto Rodrigo, come nome di battesimo del nostro Capricorno. Ogni riferimento a Rodrigo Diaz de Vivar non è puramente casuale e anzi, assolutamente intenzionale. E da prima che la Shiori ci presentasse El Cid, aggiungo io.  

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** 3. Zuppa di patate ***


Zuppa di patate
 

 
Il fuoco che sembra spento spesso dorme sotto la cenere.
Pierre Corneille
 
 




Mercoledì, 28 Febbraio 1979.  

«Santa Vergine di Guadalupe...»
«...prega per noi.»

Orreaga s’è svegliato a forza, stamattina, mentre lo spazzino ripuliva le strade dalle stelle filanti e dai coriandoli che decoravano la neve come zuccherini sulla panna. Il paese s’è lavato via dalla faccia il cerone e la porporina della sera prima, e s’è portato in chiesa per la messa delle Ceneri, sonnecchiando e sbadigliando, come Endika, il chierichetto, che, ancora nel mondo dei sogni e le mani occupate a reggere l’aspersorio, spalanca la bocca e mostra alla comunità l’incisivo che ha perso giusto la sera avanti.

«San Sebastiàn...»
«...prega per noi.»

Dall'altare della parrocchia di San Giacomo, don Julio dice la Messa delle Ceneri, parlando di quanto sia effimero il mondo e le sue luccicanti lusinghe con la stessa placida calma da ormai dieci anni. E con la stessa disposizione d'animo, don Antso, il sindaco, siede in prima fila con la famiglia al gran completo parata a lutto, come se stesse assistendo al funerale di un congiunto prematuramente passato tra i più. Mercedes, incoronata Reginetta meno di dodici ora prima, sfoggia ancora la criniera riccioluta, imbiancata dalla porporina argento, sotto il velo di trina nero pece, le gambe accavallate di lato sotto la gonna.

«San Fermìn...»
«...prega per noi.»

Il momento delle ceneri arriva come una liberazione. I fedeli si alzano, ricevono la manciata di polvere grigia sul capo e il monito del sacerdote, prima di tornare a sedersi sui banchi ed attendere il «Ite, missa est», che li restituirà ai propri impegni.

«Memento homo quia pulvis es et in pulverem revertēris

Fuori pioviggina. Lieve lieve, simile a zucchero a velo, l’acqua scende sulle calli di pietra del paese, come a voler lavare via dalle anime l’euforia del Carnevale. Un arrivederci all’anno prossimo che si esaurisce pian piano, con la promessa dell’arrivo della primavera, mentre don Julio conclude la funzione e i fedeli escono alla spicciolata sul sagrato. Per scambiarsi saluti, frasi di circostanza e sorrisi sinceri come una moneta di cioccolato, prima di rincasare per il pranzo.
Don Julio esce a salutare le poche pecorelle rimaste e chiudere le porte della chiesa. E sul sagrato trova don Antso, col sorriso delle grandi occasioni, e gli occhi fissi sulle luminarie spente.

«Bella festa, ieri sera, eh, don Julio? Anche quest’anno abbiamo fatto baldoria, vero? Con queste belle decorazioni, poi…»
«Peccato solo, don Antso, che dovrete riporle sino all'Assunzione.»
«E perché mai? Tra quaranta giorni, a Pasqua, le mie stelle illumineranno il Calle e la piazza della Collegiata!»
Le tue stelle? «Vorreste mettere le vostre stelle a sei punte per onorare la Resurrezione di Nostro Signore?», domanda retoricamente il parroco con un sorriso indecifrabile.
«Beh, comunque sia», replica il sindaco, «potremmo usarle per le altre feste comandate: San Sebastian, il Carnevale, l'Assunzione, e il Santo Natale!»
Don Julio incrocia le mani e fissa un punto indefinito di fronte a sé. «Anche questo è vero. Speriamo solo che il tetto ed il campanile della chiesa reggano, per allora…»
Don Antso si cava dalla tasca della giacca di color can che fugge sporco, un fazzoletto, dall'intricata greca ornamentale, e vi tossicchia dentro. 
«Bella festa ieri sera, eh? E la mia Mercedes! Ah, incoronata Reginetta delle Nevi, come le sue sorelle prima di lei!», svia goffamente il discorso. «Ma non si preoccupi, don Julio, nonostante tutto è lo stesso tanto seria e posata! Mercedes!»
Don Antso la chiama con un cenno della mano, e la figlia lascia il capannello di amiche adoranti, disposte attorno a lei come le api attorno ad una rosa, e lo raggiunge in un ticchettio sordo di sottofondo, pronta a farsi ammirare. «Don Julio… Bellissimo sermone.»
«Grazie», ribatte il sacerdote.
«Eccola qui, la mia Mercedes!» Don Antso deve aver giudicato pericoloso ed imbarazzante il silenzio in cui sono piombati, quindi fa quel che gli riesce meglio: riempie l’aria di parole e lodi sperticate. «Spero di poter concedere presto la sua mano ad un giovane valente ed importante! Bella brava e giudiziosa! E tanto, tanto devota al Sacro Cuore...»
«Davvero?», chiede don Julio inarcando un sopracciglio. «Eppure questa è la casa del Signore, non il circo equestre. Mercedes, non credi che avresti dovuto lavarti il viso e i capelli prima di entrare in chiesa?»

Don Antso sbianca e Mercedes diventa livida sotto il fard in crema color pesca con cui ha illuminato le gote rotondette – quanto basta per le Ceneri; la ragazza balbetta delle scuse e se ne torna, a passi rapidi e nervosi, dalle sue amiche, le quali non si sono perse una sola sillaba di quanto le ha detto il prete, è pronta a giocarcisi la testa. Don Antso tenta di reprimere un moto di stizza con un sorriso conciliante. Non può certo mandare il prete a quel paese, non in pubblico, almeno.

«Suvvia, don Julio... Chiuda un occhio. Sa, i giovani...»
«Sono stato giovane anch'io, don Antso, e ho avuto una sorella dell'età di Mercedes prima che la guerra civile me la portasse via.»
«Oh, don Julio, lo sappiamo! Abbiamo anche noi i nostri morti, sa? Tutta la Spagna ricorda lo strazio che colpì la vicina Gernika! Tanta bella e operosa gioventù euskal trucidata in appena quattro ore di bombardamenti. Tutte quelle persone spazzate via dai tedeschi in una sola mattinata! Che perdita! Che tragedia! E pensare che invece… certa gente...»
«Certa gente, don Antso?»
«Certa. Gente, don Julio.» Qui ti volevo, mio caro.
«E chi sarebbe, questa gente, don Antso?»
«Oh, avanti! Lo sapete bene di chi parlo! Di quei due!», e sputa per terra. «Javier e Rodrigo, che vivono sui monti alla stregua di due selvaggi! Sì, due senzadio che si fanno vivi al villaggio solo... Scommetto che non si sono neanche fatti vedere per le Ceneri...»
Don Julio sorride. Affabile.
«Vi sbagliate, don Antso. Erano presenti, invece. Hanno ascoltato tutta la messa in piedi, dietro la colonna dell'acquasantiera, proprio accanto al confessionale. E hanno ricevuto per ultimi le ceneri sul capo. Come disse Nostro Signore, Beati gli ultimi, perché saranno i primi
«Questa è bella! E da dove sarebbero usciti, don Julio? Io ho salutato tutto il paese, ma non li ho visti!»
Ti sei gonfiato come un tacchino, vorrai dire!, pensa il sacerdote prima di rispondere: «Sono passati dalla canonica.» Don Julio sorride, schermandosi gli occhi nerissimi con il dorso della mano. «Sembra che stia per riprendere a piovere. Sarà meglio che io avvisi Lupe di non stendere il bucato, prima che sia troppo tardi. Se mi vuole scusare, don Antso...,» e rientra in chiesa senza attendere la replica del sindaco, avendo cura di chiudersi le porte dietro le spalle.

Borioso fanfarone!, pensa don Julio segnandosi e dirigendosi in canonica. 
Signore, perdonami! Tanta bella e operosa gioventù euskal trucidata dai tedeschi! Signore mio!! Ma chi li ha chiamati i tedeschi, il tuo amato Generalissimo o mio nonno? Con quale coraggio parla di Guernica, quando la Navarra appoggiò direttamente Franco? Che faccia di bronzo! E si permette anche di sputare sentenze su... Oh, Buon Dio, perdonami!

Don Julio è un tipo fumantino. Non ama chi giudica i libri dalla copertina, e men che meno sopporta chi pavoneggia i propri meriti come il fariseo della parabola evangelica. Ha questo vizio fin dai tempi del Seminario a Cadice, ed è per questo che lo hanno spedito sui monti, in una sperduta parrocchia dei Pirenei della Navarra, al confine con la Francia, dove il controllo dei Caudillos era più forte e, di conseguenza, più gestibile lui, il Prete Rosso.
Si sfila la stola e la posa sul tavolo della canonica. Sta per piovere, stavolta sul serio; in questo il suo ginocchio sinistro non sbaglia mai. Devo avvisare Lupe, si dice entrando in canonica alla ricerca della perpetua. La trova in cucina, seduta al tavolo a pelare patate, il grembiule bianco sempre lindo ed immacolato come la sua anima.

«Sta per piovere. Per davvero», le dice sedendosi davanti al camino acceso.
«Ho già sistemato il bucato al coperto», lo rassicura il donnone dalle guance rubiconde posando l'ennesima patata in un bacile pieno d'acqua, assieme alle sue sorelle. «Immagino che don Antso si sarà fermato a parlare delle sue belle luci, vero?»
«Sai anche tu com'è fatto quell'uomo.» Parla solo per spargere zizzania e dire male di chi non la pensa come lui...
«Immagino che se la sia presa con quel povero ragazzo, vero?»
«Lupe, lo sai cosa penso di chi ha la lingua lunga!»
«Sì, lo so, che farebbe meglio ad usarla per pregare invece che per spettegolare!», ribatte la donna posando il coltello sul tavolo. «Ma quell'uomo farebbe perdere la pazienza anche a San Francesco! Tratta tutti come se fossero dei pezzenti, specie, poi, se non gli obbediscono come cagnolini! E quel mio povero ragazzo!»

Lupe si alza e toglie il coperchio da una pentola che borbotta. Come lei, pensa don Julio.
«La sapete anche voi la storia, no? In un primo momento non ha perso tempo a denunciare Javier ai Caudillos quando è tornato da Burgos insieme a Ruy. Quel disgraziato ha rapito quel bambino! Non ci credo che l'abbia adottato! È mio preciso dovere denunciare il fatto all'Autorità! Che cosa accadrebbe se si venisse a sapere che abbiamo coperto un ladro di bambini?», e don Julio pensa che la sua perpetua abbia un dono particolare per le imitazioni.
«Berciava giorno e notte, ma da Madrid non è mai giunta risposta. E allora li ha denunciati perché non adempivano agli obblighi civili, e anche quella volta, nessuna risposta. E allora è partito personalmente per Madrid, ma solo per tornare con un pugno di mosche in mano! Da allora è tutto preso ad ingraziarsi Javier e Ruy, salvo insultarli quando vede che non riesce a portarli in alcun modo dalla sua parte, adesso che la musica è cambiata! E lui crede che basti una sottana per farli fessi! Sono delle teste pensanti, quei due, due chiodi che spuntano dalla trave!»
Tuffa le patate nell'acqua bollente, aggiunge sedano, sale, due foglie d'alloro e rimesta il tutto.
«E tutto perché pensano, Signore Onnipotente! Io quell'uomo non lo capirò mai e poi mai! Per lui è sufficiente mostrare una bella facciata, come quelle sue figliole vanitose, e fregarsene di avere un cuore nero come il carbone. Ah, se pensa che Ruy sia così scemo da cadere nella trappola che gli sta preparando, si sbaglia di grosso, parola mia...», e Lupe parte per la tangente, borbottando come una pentola piena zeppa di fagioli dimenticata sul fuoco.

Don Julio sorride. Non se la sente di riprenderla, perché in fondo Lupe ha ragione: Ruy è uno spirito libero, una sorta di capra testarda, difficile da domare ma con un gran cuore. Ricorda ancora come solo un paio di inverni prima abbia attraversato il Passo del Puerto de Ibañeta per andare a cercare il medico dall'altra parte dei Pirenei per far nascere la piccola Elbira.
«Javier protegge il villaggio», gli ha confidato Lupe una decina di anni prima, quando giunse qui da Sangüesa, e sembra che da quando è tornato da Burgos con il piccolo Ruy, si sia visto con maggior frequenza al villaggio. Non gli ha mai chiesto quale legame vi sia tra lui e il piccolo burgales compito che ha cresciuto tra allenamenti e studio. È stato Javier in persona a confidarglielo, quando, la primavera di tre anni prima, è entrato in chiesa, si è inginocchiato al confessionale d'acero e ha cominciato a raccontargli tutto pronunciando la formula: «Mi perdoni, padre, poiché ho molto peccato...».
E così, ha sentito passo passo la storia dell'istruttore della piscina Arcobaleno che ha ricevuto l'ordine, avallato dal governo franchista, di prelevare il piccolo Rodrigo Menendez Pidal dall'Orfanotrofio della Pietà di Burgos e di portarlo sui Pirenei. Perché? Semplice, gli aveva detto Javier nel suo monologo: per farlo diventare Santo di Athena. Santo di Athena... già, è così che si fanno chiamare, mentre tutta Orreaga parla di loro come degli Uomini della Montagna, appellativo decisamente meno altisonante e pomposo.

Athena.

La dea greca per eccellenza, la Mente opposta alla Furia di Ares. A detta di Javier è rinata, materializzandosi ai piedi della sua statua al Santuario. 
Nemmeno lui sa come, ha vinto l'impulso di sbatterlo fuori dalla chiesa a calci. Javier è sempre stato solito a lasciarsi andare a simili confidenze, e Julio è arrivato a concludere che, forse, il detto "Le vie del Signore sono infinite" implichi anche l'esistenza di forze altre, che l'uomo, nella sua limitata visione delle cose, si spiega come meglio riesce. Athena o no, sapere che al mondo vi sono altre forze che vegliano sugli uomini e li proteggono dal male è sempre un gran sollievo. Così come è un sollievo, per lui, il ritorno di Ruy a casa. Ieri pomeriggio, subito dopo pranzo, è salito alla baita a salutare Javier e il suo allievo. Il ragazzo, però, gli ha dato da pensare. Quando Javier ha raccontato le ultime nuove del Santuario, si è incupito.
E quando stamattina, ha paragonato Aiolos, il traditore, a Giuda Iscariota, il volto del giovanotto si è addirittura rabbuiato, prima di uscire fuori balbettando una scusa qualsiasi.
«Aiolos era il suo modello», gli ha confidato Javier accompagnandolo per un tratto di strada. «Ed il fatto che sia stato proprio il suo idolo a compiere un'azione tanto bieca lo ha sconvolto. Anche perché...» e Javier è rimasto zitto per il tempo di un Pater Noster, le mani in tasca a cercarsi le parole giuste da dire, per poi concludere: «Aiolos... è come se l'avesse ucciso lui.».

Don Julio prende la copia di El Pais e la scorre velocemente prima di appallottolarla e di gettarla nel fuoco. Povero ragazzo, si dice ripensando alla sua espressione, solitaria e assente accanto all'acquasantiera, mentre versava le ceneri sulla testa di Javier e ripeteva la formula rituale. Forse, se si confessasse, si alleggerirebbe la coscienza, ma le confessioni non si possono estorcere. E dal canto suo, che cosa gli direbbe? Avallare un omicidio, seppur giustificato dal dover salvare una bambina? E come? Per prassi, Ruy avrebbe dovuto recarsi al più vicino posto di polizia e costituirsi. Costituirsi... Già, e che cosa gli avrebbe raccontato? «Salve, sono un Santo di Athena e ho ammazzato un mio compagno d'arme perché ribelle per la Legge del Santuario»?
Vorrebbe aiutare Ruy, lo vorrebbe sul serio; ma non sa come fare.
«La zuppa di patate sarà pronta per questa sera. Per pranzo volete dei piselli in umido?»
Julio scuote la testa. 
«No, grazie. Io a pranzo digiuno. Mangerò stasera. Abbiamo ospiti?»
«Due senzadio che si avvicinano alla mensa del Signore...», ridacchia Lupe asciugandosi le mani sul grembiule.


I bucaneve fanno capolino ai lati delle rocce, e non si distinguerebbero dallo sfondo immacolato se non fosse per lo stelo sottile che oscilla al vento.
Ha smesso di piovere. L'inverno è ormai alla fine. E Javier è decisamente soddisfatto: è andato a messa, ha preso le ceneri e ha fatto il suo dovere da buon cristiano. Le verdure sfrigolano allegre nella padella di ferro pesante. L'aspetto sembra buono, così come l'odore, decisamente invitante.
Oggi a pranzo si terranno leggeri. Mal che vada, si strafogheranno a cena dal prete: donna Lupe è famosa in tutto il villaggio per essere la Regina dell'arrosto di montone con le patate. Alloro, salvia, rosmarino e quell'ingrediente segreto per cui la carne è così dannatamente sugosa e morbida, da sciogliersi sulla lingua, e le sue patate arrosto sono l’invidia di tutte le massaie del paese. 
E col freddo che fa, ci sarà anche la zuppa di patate e panna acida. 
Javier si lecca i baffi mentre dà una voce al suo allievo – «È pronto!» - e sistema le porzioni nei piatti.
Ruy entra con una catasta di legna da gettare nel camino, la posa accanto ai due ceppi rimasti e si accomoda al suo posto.
Il pranzo viene consumato in silenzio. Javier, con il tempo, è diventato ancora più orso e ancora più falco. Ha capito che Ruy ha qualcosa da chiedergli, un rospo grosso come una casa che non va né su né giù, ma non gli sembra propenso a vuotare il sacco. Non ancora, almeno. Forse non è riuscito a mettere bene in chiaro la natura del problema, forse non reputa semplicemente che sia il caso di parlarne, ma Javier è pronto a giocarsi le palle scommettendo tutto il piatto su di un solo nome: Aiolos. Tanto per cambiare.
Ruy addenta di malavoglia una forchettata dopo l'altra, lo sguardo basso sul piatto.
E io mi sarei fatto un mazzo tanto per ottenere questo risultato?, si chiede Javier servendosi un'altra porzione abbondante. Ruy continua a piluccare le verdure nel piatto e si alza solo quando Javier dà segno di aver finito di pranzare. 
«I piatti toccano a te. E vedi di non romperli, come tuo solito!»
Ruy si muove come un automa, svuota i piatti nella pattumiera e li poggia nell'acquaio assieme alle altre stoviglie. Javier si accomoda davanti al fuoco e sbuccia un mandarino, gettandone le bucce nel fuoco crepitante. Fissa la schiena del suo allievo mentre lava le stoviglie soprappensiero. E ha la piena certezza che la testa di Ruy sia un coacervo di emozioni e sentimenti contrastanti.

Javier non sbaglia. Ruy sperava di trovare un angolo di pace in Spagna, ma è cascato male, come direbbe Mask. Andava tutto a meraviglia fino a stamattina, quando don Julio ha paragonato Aiolos a Giuda. E la notte scorsa gli incubi sono ripresi, con la scena biblica dell'Ultima Cena, con tutti i Gold Saint attorno al Grande Sacerdote. E Aiolos, che entra con due figure nere, strappa Athena dalle braccia del sacerdote e la consegna a quei due ceffi. S'è svegliato madido di sudore, il fiato corto e non è più riuscito ad addormentarsi, tanto che durante la messa del mattino gli occhi gli si stavano chiudendo una mezza dozzina di volte. E quel paragone disgraziato ha ripreso a rimbombargli nel cervello.

Sicché, questo Aiolos sarebbe un po' come il nostro Giuda…
Sicché, questo Aiolos sarebbe un po' come il nostro Giuda…
Sicché, questo Aiolos sarebbe un po' come il nostro Giuda…


«Basta!», urla scagliando un piatto contro il muro. «Basta!», prosegue prendendosi la testa tra le mani e continuando ad implorare. «Basta! Basta! Basta…»
Javier non sa cosa fare. Per la seconda volta in vita sua pensa di avere le mani legate, anche se i suoi polsi sono fisicamente liberi. Non di nuovo!, pensa l'uomo avvicinandosi al suo allievo e raccogliendo i cocci dal pavimento di assi. 

Sei anni prima, a settembre, Ruy si era recato al Santuario per rendere omaggio alla reincarnata Athena. E al suo ritorno, a novembre, era trasfigurato. Gli aveva raccontato di Aiolos, del suo tradimento, di come il Sacerdote avesse chiesto a lui, sì, proprio a colui che più lo teneva in considerazione, di farlo a pezzi. E l'aveva colpito, Ruy. Per salvare Athena in fasce, che sarebbe stata presa in consegna da Saga di Gemini, per consegnarla al Sacerdote prima di sparire nel nulla. Aiolos era scappato con la bambina tra le braccia, in una scia di sangue cremisi. Quali che fossero i suoi motivi, Ruy avrebbe dovuto coinvolgere gli altri suoi compagni e non agire da solo, finendo per creare ancora più casino.
Ma Javier non trova il coraggio di commentare.
Può dirgli «Hai fatto l'unica cosa che c'era da fare»?
Lo sa da sé, è per questo che sta ancora così male, dopo tutto questo tempo.
«Se hai così tante energie da sprecare, fila a smaltirle fuori», gli consiglia indicando la porta con un cenno delle spalle e gettando i piatti rotti nell'immondizia. Ruy si allontana dall’acquaio balbettando delle scuse ingolfate e infila la porta di casa senza preoccuparsi di richiudersela alle spalle.
Sì, Javier ha ragione, un po’ di sano esercizio gli schiarirà le idee. E così Ruy corre, salta, sfodera Excalibur e la cala su tutto ciò che il suo sguardo incontra, ancora e ancora e ancora, fino ad averne le spalle indolenzite, il polso che protesta di dolore e il fiato corto.
Crolla in ginocchio, spossato. La neve è fredda e soffice quando vi atterra sopra. È così stanco che crolla addormentato. E rivive la stessa scena, con gran dovizia di particolari.

Luce soffusa. Pareti spoglie, ma accoglienti, intonacate di un caldo arancio. Una tavolata rettangolare coperta da una tovaglia di lino candido.
Pesci arrostiti. Salsa di cetriolo e yogurt. Pane caldo di forno. Uva. E vino rosso in caraffe di terracotta panciuta.
Al centro della tavolata, occupata solo da un lato, il Sommo Sion, con la tunica delle grandi occasioni, la stola in lamina d'oro, la collana di giada e rubini. Alla sua destra, Saga di Gemini con indosso la sua scintillante armatura: l'uomo inviato dal Cielo, il dio incarnato, come lo chiama la gente di Rodrio. Intorno a loro, gli altri Gold Saint: Milo insieme a quello scorbutico di Camus, Aiolia sempre allegro, Aphrodite che rimira la propria avvenenza sul dorso di un cucchiaio, Mask che ha alzato il gomito, Aldebaran che ride e scherza come al solito, Shaka seduto composto alla sua destra, gli occhi sempre chiusi, e Aiolos, alla sinistra del Sacerdote, mentre Mu parlotta in fondo alla tavolata con un uomo che non ha mai visto, ma che suppone essere il Nobile Libra. Doko del Monte Lu. 
Sarà questione di un attimo, ma gli sembra che il Sagittario ricambi allegro il suo sguardo e poi fissi con odio la bambina che ride tra le braccia del Sacerdote.
È bella, dall’incarnato rosa e gli occhi nerissimi, le mani paffutelle attratte dalla collana lucente del Sommo Sion e dai capelli lunghi di Saga.
«Brindiamo alla nostra Dea!», propone il Sommo Sion mentre leva il calice ed affida la bambina ad Aiolos, sancendone la patria potestà ed il passaggio di consegne. Il viso di Aiolos, da sereno e disteso, cambia: aggrotta le sopracciglia non appena le sue dita entrano in contatto con la pelle delicata della bambina, contrae il volto e scurisce la propria espressione. Con un balzo scavalca il tavolo, la neonata che comincia a piangere spaventata, e fissa i suoi compagni, rimasti basiti da quell'atteggiamento.
«Aiolos, che modi sono questi? Così facendo spaventerai la bambina!», lo rimprovera Sion per sondare le sue intenzioni.
La risata di Aiolos è un suono stridulo che gela il sangue nelle vene.
«Questa bambina è un demone! E voi, la vezzeggiate come se fosse Athena?», urla il Sagittario scandalizzato, e alzando la neonata sopra la sua testa fa segno di volerla gettare nel camino scoppiettante.
«Fermo Aiolos!», gli urla il Sacerdote protendendo una mano davanti a sé. Aiolos non risponde e si lancia fuori dalla stanza, la bambina stretta al petto, mentre gli altri Saint restano pietrificati a fissarlo che si allontana nella notte.
«Shura! Vai e salva Athena! Sei l'unico che può farlo, perché sei l'unico a cui la Dea ha donato la Sacra Excalibur!» Ed è a queste parole che lui scatta in piedi, ma i suoi piedi si sbloccano quando Sion aggiunge: «Uccidi il traditore!».

Si sveglia di soprassalto, ansimando, il sudore che gli cola sul viso e sul collo mentre cerca avido quanta più aria i suoi polmoni riescano a trovare. 
Boccheggia, come se fosse una carpa appena pescata che si chiede dove diamine sia finita tutta l'acqua dello stagno. Riconosce la mansarda in cui Javier lo ha sistemato anni prima, il lucernario da cui filtra la luce rossa del tramonto, la cassa dell'armatura, la sua sacca da viaggio e la scala a chiocciola da cui sbuca la testa di Javier.
Come ci sono arrivato?
«Tutto bene?»
Si porta una mano sugli occhi e si lascia cadere di peso sul materasso imbottito di lana.
«Certo che ne hai messi su, di chili! Ho faticato come un dannato per riportati indietro», butta lì il suo maestro sedendosi sullo scrigno del Capricorno. «Hai mormorato per tutto il tempo, sai che allegria? Eppure non hai mangiato tanto da avere gli incubi…»
«Magari fossero incubi», gli confida decidendosi a chiedere un parere.
Prima non l'ha mai fatto. Crede che il Sacerdote parli direttamente per bocca di Athena. E se un uomo così mite e pacato come Sion ha deciso la pena capitale per Aiolos, forse le sue colpe devono essere gravi.
Forse.
Quell'innocua congiunzione gli ha aperto un mare di interrogativi e dubbi, e ha fatto crollare con solo cinque lettere buona parte delle certezze che nutriva nel Santuario e nelle sue regole. Parlarne con Javier gli farà bene, e se non altro lo aiuterà a schiarirsi le idee.


Annoda la sciarpa intorno al collo e calza per bene i guanti imbottiti in tinta. Fuori ha ripreso a nevicare e loro devono arrivare al villaggio in perfetto orario. Meglio avvicinarsi e meglio farlo ben coperti.
«Sei pronto, moccioso? Sei più lento di una donna! Piantala di farti bello, per i miracoli devi andare a Lourdes!», gli dà una voce Javier con le mani sui fianchi e le chiavi della baita che tintinnano. Ruy fa capolino dalla mansarda, la testa all'ingiù.
«Arrivo, arrivo!», e ritrae il capo. Quando scende, è pronto di tutto punto, sciarpa e guanti inclusi. E ha un'espressione meno grave di prima. Sfogarsi gli ha fatto bene, se non altro si è tolto un macigno dallo stomaco.
Anche perché se l'avessi portato da don Julio in quelle condizioni, Lupe mi avrebbe cavato gli occhi, pensa il madrileno.
«Era ora!»
Javier per parte sua non ha potuto che avallare le decisioni prese da Sion: rapire Athena non è un'azione che si può facilmente perdonare. Il Sacerdote ha agito nel giusto, su questo c'è poco da discutere. C'è da chiedersi, gli ha detto Javier, quali siano stati i motivi che abbiano spinto Aiolos ad un gesto tanto assurdo, piuttosto che lambiccarsi il cervello sul modus operandi del Sommo Sacerdote.
«Questa, almeno, è la via più semplice. E siccome non ho sufficienti elementi in mano, mi vieto e ti vieto di addentrarci in quella più difficile», ha aggiunto il madrileno prima di lasciarlo da solo a solo con i suoi pensieri.
Finirò per impazzire!, pensa Ruy uscendo per primo. Fa freddo. Il suo alito caldo condensa in nuvolette di fumo che vanno dileguandosi verso l'alto, mentre Javier combatte con la serratura difettosa della baita.
E pensa che, se non fosse stato per quell'incidente aveva spezzato la sua esistenza tranquilla, adesso se ne starebbe al caldo, a Burgos, assieme ai suoi genitori. Ma invece, per un assurdo capriccio del destino, il treno su cui viaggiava con la sua famiglia era deragliato e lui era rimasto da solo.
E siccome era troppo chiuso e schivo, suor Bertilla l'aveva iscritto ad un corso di nuoto, dove aveva incontrato un atletico ragazzo di venticinque anni che vi lavorava come istruttore. Javier. Che una bella domenica di fine estate si era presentato all'orfanotrofio e l'aveva portato via con sé.
«Avanti, la strada è lunga», dice Javier. «Mettiamoci in cammino.»


Don Julio li aspetta sprofondato nella lettura e nella sedia a dondolo davanti al caminetto. Donna Lupe, indossato un grembiule ancora più candido e con delle applicazioni di pizzo di Fiandra che faceva parte di un lenzuolo del suo corredo mai utilizzato, prende loro i cappotti e li appende nello stenditoio dopo aver tolto loro la neve dalle spalle.
«Che tempaccio! Vi ho preparato i letti. Non penserete di tornarvene indietro con questa neve, vero?», bofonchia dopo essere rientrata in cucina ed aver preso il paiolo direttamente dal fuoco giulivo.
«Lupe, non cominciare a borbottare se non vuoi che i nostri ospiti scappino a gambe levate», le dice don Julio facendo loro posto accanto al fuoco. 
«Davvero? E io metterò una pentola del mio famoso arrosto alla finestra. Voglio proprio vedere se questo giovanotto non si presenta!», ribatte scompigliando i capelli di Ruy con una mano che sa di terra, sole e lavori di casa. «Guardalo qua, Madre Santa! Tutto pelle e ossa! Ma ti danno da mangiare a sufficienza, quei barbari?»
«Lupe, mi duole contraddirti, ma i greci sono tutto tranne che barbari!», la riprende don Julio versando da bere a Javier.
«Oh, al diavolo!», prosegue la donna prendendo il piatto del madrileno e riempiendolo di zuppa di patate. «Barbari o non barbari so solo che questo mio povero ragazzo si sta sciupando sempre di più», conclude versando un porzione doppia di zuppa a Ruy.
«Fosse per te, dovrebbe essere pingue come un maialino da fare arrosto!», le risponde Javier sedendosi a tavola e fregandosi le mani mentre annusa l'odore squisito delle patate che legano con il rosmarino. «Il signorino è un Santo di Athena, Lupe, ricordatelo bene…»
«Ecco, appunto!», e anche Lupe si siede dopo aver servito tutti i commensali. «Ti pare logico che un ragazzino di appena sedici anni passi così il suo tempo? Ti pare giusto? Dovrebbe andare a scuola, come tutti i ragazzi della sua età!»
È una congiura?, pensa Ruy osservando la zuppa che promette di essere tanto rovente ed altrettanto gustosa. E l’arrosto di montone con le patate ha un profumo che arriva a solleticargli l’acquolina con tutto che il forno è chiuso.
«Guarda che Ruy non è un selvaggio! Donna Nahia non ti ha detto che le ho sempre ordinato i libri di testo su cui farlo studiare? O forse, quella pettegola ha omesso questo piccolissimo particolare? No, aspetta, togli pure il forse
«Non è la stessa cosa, e lo sai! Ruy ha bisogno di…»
« Donna Lupe, grazie, ma la mia vita è questa e io sto bene così. Sul serio…»
«Ruy…»
La donna lo guarda perplessa: davvero non vorrebbe passare il suo tempo con gli altri ragazzi della sua età o correre appresso alle gonnelle? Passi la scuola, non ha mai visto un solo ragazzo andarci volentieri, in tutti i suoi cinquant'anni portati egregiamente. Non scherziamo! Tutti quanti preferiscono divertirsi i compagnia degli amici, a cominciare dai nipoti di sua sorella Anna, che vivono a Iruña e pensano esclusivamente ai festeggiamenti per San Firmino. 
Possibile che Ruy non sia interessato ai divertimenti?
Non diciamo sciocchezze! Avrà detto così per non avere grane con Javier. Madrileno maledetto! Ma non sia detto che Maria Lupe Sanchez Mendoza si arrenda e getti la spugna!, pensa osservando quanto quel ragazzino sia cresciuto.

Sorride. Ricorda ancora la prima volta in cui ha visto Rodrigo. 
Javier era tornato da Burgos, con un bambino di sei, sette anni al massimo, che si guardava intorno con gli occhi sgranati dalla paura, le mani serrate entrambe al polso di Javier. Di quel bimbo, che don Iñaki, il predecessore di don Julio, aveva fatto dormire con lei per calmarlo un poco, non era rimasto più niente; forse il colore dei capelli poteva essere lo stesso: corti, scarmigliati dalla brillantina e disposti in tante piccole ciocche disordinate, come se si fosse appena alzato dal letto. Gli occhi si sono assottigliati crescendo, ma lo sguardo tagliente è rimasto, così come l'espressione, spesso beffarda, con cui scruta don Antso e quelle smielate delle sue figliole.
Lupe osserva con gusto e soddisfazione quel giovane lupo spelacchiato spazzolare la razione doppia di zuppa e anche quella di arrosto con le patate. Il sacerdote guarda Ruy mangiare la cena che la sua premurosa perpetua ha preparato apposta per lui.
«Barbari o no, scommetto che te la sogni una cena così ad Atene, vero Ruy?», commenta Lupe facendo la ruota come un pavone.
Sempre la solita!, pensa don Julio bevendo un altro bicchiere d'acqua, ma lascia correre. E gli viene da sorridere al pensiero che quel monello goloso di marmellata di prugne sia diventato un ragazzo. E stia per diventare un uomo.
Lupe si alza per servire la frutta e mentre la crostata di pere sta per fare il suo ingresso trionfale sulla tavola, la porta della canonica si spalanca in un turbinio di neve che si spande con prepotenza sul pavimento, accompagnando i passi del nuovo arrivato.
È coperto da un tabarro grigio scuro, mucchietti di neve sulle testa e le spalle, una sciarpa ruggine a lasciare scoperti solo due penetranti occhi nerissimi. Chiude a fatica la porta, spingendo indietro l'uscio con il proprio peso; quindi resta con le mani appoggiate sul legno ad ansimare, come se avesse la febbre alta. Javier si alza, imitato da Ruy, mentre don Julio se ne resta con il bicchiere a mezz'aria, perplesso, a fissare il nuovo arrivato. Questi, terminato di ansimare, abbassa la sciarpa zuppa di neve da sopra la testa e si volta verso gli altri.
«Roke!» Don Julio lo riconosce. «Che succede?»
«Scusatemi per l'intrusione poco ortodossa e per l'ora tarda, don Julio», si giustifica l'uomo tenendo la sciarpa tra le mani callose, «ma don Antso mi ha mandato a cercare Javier.».
«È successo qualcosa?», chiede il sacerdote, mentre Javier inarca un sopracciglio: l'ultima volta che è stato chiamato dagli abitanti del villaggio è stato quando il farmacista aveva avuto bisogno di alcuni medicinali per curare la bronchite del vecchio don Gaizka, lo scorso Dicembre. E se non fosse stato per don Julio che aveva deciso di fottersene dell'autorità di don Antso, il padre di Nahia se ne sarebbe andato al Creatore insieme a Santa Lucia.
«Sono arrivati due forestieri al villaggio», spiega Roke mentre Lupe gli toglie di dosso il tabarro madido di neve e lo fa accomodare davanti al fuoco. «Pazzesco. Quei due si sono spinti fino al passo, ma non hanno trovato Javier e quindi hanno pensato bene di scendere a cercarlo in paese. Solo che…»
«Solo che… cosa?», lo incalza Javier mentre Roke beve un bel bicchiere di vino rosso. Avere a che fare con don Antso è come scoprire un nido di vespe nel solaio, una di quelle seccature che è bene risolvere in fretta.
«Solo che», riprende asciugandosi la bocca con la manica della giacchetta di velluto marrone, parecchio seccato per quell'interruzione, «quegli stranieri cercavano di te e… Lupe, ma hai fatto l'arrosto? Me ne daresti una bella porzione? Sto morendo di fame! Stavo appunto per mettermi a cenare quando don Antso mi ha spedito a cercare Javier, e sai che fa male bere a stomaco vuoto…».
«Ma se te ne stai attaccato al collo della bottiglia da quando apri gli occhi a quando non li richiudi!», ribatte la donna posando di malagrazia un piatto riempito con un paio di scodellate rase sotto il muso di Roke. «Eccoti lo stufato. E adesso finisci il tuo racconto!»
«Che modi!», si lamenta lui. «Un galantuomo che lavora tutto il santo giorno e che esce con questo tempaccio solo per cercare… costui… non merita maggior rispetto ed educazione?», aggiunge scoccando un'occhiata loquace a Javier.
«Rubagalline dei miei stivali!», sbotta Lupe manifestando una gran voglia di lisciargli il pelo a colpi di matterello. «Con quale coraggio osi definire te stesso un galantuomo? Ci vuole proprio una faccia di bronzo come la tua per osare dire che lavori tutto il santo giorno! Se non gli leccassi gli stivali di quel furfante matricolato di don Antso, staresti ancora ad elemosinare un sorso di vino all'osteria!»
«Lupe!», tuona don Julio. «Adesso basta! Ricordati dove ti trovi!»
«Adesso basta un accidente!», interviene Roke alzando se stesso e la voce ingrassata e arrochita dal fumo. «La signora ha offeso un pubblico ufficiale facente funzioni e veci del pubblico amministratore…»
«Qual è il problema?» interviene Javier posando una mano sulla spalla destra dell'uomo e invitandolo gentilmente a sedersi così come si era alzato. «Non hai svolto alcuna funzione dato che non hai riferito il messaggio per intero, Roke. E se il problema è il tuo onore, porta a termine la tua mansione ed usciamo fuori. Soddisferò ogni tua richiesta di riscatto battendomi con te. Da uomo a uomo.»
Il viso di Roke passa dal rosso pompeiano, al viola scuro, al verde bile; le labbra gli tremano dalla rabbia, ma non osa staccare gli occhi da quelli intensi di Javier, ben sapendo che uscirebbe malconcio da uno scontro contro quel tipo.
«Avanti, Roke… Chi stanno cercando quei due forestieri? Il sottoscritto e…?»
«Un certo Shura. Tu lo conosci?»


 
 

 









Note:  terzo capitolo, giusto in tempo per il Mercoledì delle Ceneri.
Oggi le note sono parecchie, quindi mettiamoci sotto!

Memento homo quia pulvis es et in pulverem revertēris (Gen. 3, 19)
«
Ricorda, uomo, che polvere sei e che polvere ritornerai.»
È la formula con cui il sacerdote posa le ceneri sulla testa del fedele. Ho pensato che in Spagna, freschi freschi dall'uscita dalla dittatura certe usanze, come le formule in latino, fossero dure a morire.

Gernika: meglio nota come Guernica, immortalata da Pablo Picasso nella tela omonima, fu una città scelta come teatro del primo bombardamento a tappeto di un centro civile per piegare le sacche di resistenza durante la guerra civile, nel tardo pomeriggio del 27 Aprile 1937.

Euskal è il termine che i Baschi utilizzano tanto per indicare la propria lingua, quanto la propria appartenenza al popolo basco. Euskadi significa Terra dei Baschi.

Francisco Franco è passato alla storia come Il Generalissimo.

La Navarra, schieratasi con Franco e il suo desiderio di nazionalismo, tagliò di fatto il collegamento tra i Paesi Baschi e gli alleati repubblicani della Catalogna.

Caudillo è l'equivalente spagnolo dei termini Duce e Führer. Deriva dal latino caput, testa, ed indica il capo militare. Francisco Franco fu Caudillo de España, por gracia de Dios, dal 1936 sino all'anno della sua morte, nel 1975. Il termine, usato durante il XIX secolo nell'America Latina, designava i leader populisti che basavano il proprio consenso sul culto della propria persona. Peron, l'altro grande dittatore fascista del XX secolo, in Argentina, volle evitare il termine caudillo, preferendogli l'anglismo lider.

Avevo dato a Ruy una sorella minore, Raquel, che non mi sono fatta scrupoli a cancellare con un colpo di spugna. Troppo piagnisteo scoccia. E siccome io scrivo prima per me stessa, e poi per i cari Quattro Gatti che mi seguono, ho sforbiciato di brutto questo capitolo che minacciava di diventare ingestibile.
La solitudine dei figli unici colpisce ancora. E io vi invidio da morire, sappiatelo!!

El Burgales Compito è l'appellativo di Álvar Fáñez de Minaya, luogotenente e amico del Cid Campeador. E non ce l'ho fatta a resistere oltre: il cognome di Ruy è lo stesso del grande storico e filologo spagnolo Ramón Menéndez Pidal, curatore, tra le altre cose, della prima edizione critica del Cantar de mio Cid e di una serie di articoli, sempre sul Cantar, scritti tra il 1908 e il 1919.
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** 4. Teruel ***


Teruel
 

 
In Spagna, i morti sono più vivi che i morti di qualsiasi altro paese del mondo.
Federico García Lorca
 
 




Hernán Lorca Cuarón e Gregorio Romera Navarro si fissano, seduti l’uno di rimpetto all’altro, mentre il treno parte dalla stazione di El Portillo in direzione di Teruel.
Solo due giorni prima se ne stavano al caldo, a curare i giardini che costeggiano il Viale della Civetta, quello che attraversa tutto il Santuario da nord a sud, congiungendo il retrobottega di Agathê all'Arena dei tornei. L'alloro che delinea il viale in composte siepi quadrate è cresciuto oltre misura e Gerasimos, il giardiniere ufficiale del Santuario, ha chiesto loro una mano nel lavoro di potatura. Tuttavia, prima ancora che Gerasimos inserisse i loro nomi nella lista, l'Ufficio per le Relazioni ha diramato una convocazione ufficiale per quei due latini che avevano tentato di diventare Saint una buona dozzina di anni addietro. E così Hernán, nato a Ibiza, e Gregorio, originario della sterminata Pampa argentina, hanno fatto armi e bagagli e sono volati alla volta dei Pirenei, sulle tracce del venerabile Shura di Capricornus. Sapevano che fosse giovane, sapevano che fosse un tipo taciturno, ma l'incontro è stato ugualmente lontano da ogni loro aspettativa.
E questo spaventapasseri sarebbe un Santo d’Oro?, si è chiesto Hernán, un po’ deluso, non appena Ruy è apparso in casa di don Antso, la giacca indossata distrattamente e la sciarpa gettata di malavoglia sul collo magro. Un ragazzino di sedici anni, ad essere di manica larga, capelli corti e ribelli, sguardo tagliente e modi silenziosi. Li ha ascoltati piazzando i suoi occhi – affilati come quelli delle aquile – su di loro, limitandosi a dei cenni del capo ogni tanto per far capire che aveva compreso il messaggio del Gran Sacerdote. E poi ha detto «Andiamo.», con una solennità nello sguardo che ha fatto tremare i polsi dei due uomini.
Il paesaggio dell'Aragona scorre monotono e brullo attraverso il finestrino. Man mano che il treno lascia Saragozza sembra di dirigersi verso una terra sempre più disabitata e riarsa, almeno d'estate. Stiamo andando verso la terra del diavolo, si dice il povero Hernán, abituato a passare in maniche corte buona parte dell'anno. Si stringe nel cappotto verde bottiglia. E poi osserva il riflesso del venerabile Shura sul vetro sporco del finestrino. Rodrigo, come lo chiamano tutti al villaggio, è sprofondato contro lo schienale del sedile, le mani intrecciate in grembo, lo sguardo a rincorrere il dettagliato dossier che Hernán e Gregorio gli hanno consegnato. E il treno prosegue la sua corsa a passo di lumaca verso Teruel e verso la Cappella degli Amanti.


Tutti gli abitanti di Teruel sono assiepati per metà all'imbocco del Viadotto che collega il borgo medievale alla città nuova, mentre l'altra metà è raggruppata oltre le transenne che delimitano Plaza Mercedes, gli occhi fissi all'acquedotto che punta verso Tarragona. Le torri mudejar, che svettano sul colle dove si concentra la città vecchia, contribuiscono a dare al paesaggio, delimitato da esigue parti di mura di cinta, un aspetto lunare e onirico. Una città fantasma. E cosa c'è di più desolato di una città fantasma posta sulla sommità di una valle al centro di una terra deserta?
Un paesaggio da incubo, di quelli che infiammavano Dalì e che scorrevano nelle liriche disperate di Federico García Lorca.
Shura si fa largo tra la folla, assiepata e tenuta indietro dalla camicie verdi della Guardia Civil, protetto da una cappa color terra bagnata che lo riveste da capo a piedi, lasciando scoperto solo il viso. Gli è sufficiente mostrare il documento rilasciato dal Santuario che Hernán custodisce gelosamente nello zaino, perché gli consentano di attraversare il Viadotto.
«È solo un ragazzino! Cosa può fare?», borbotta qualcuno alle sue spalle, mentre lui avanza e supera le transenne.
Sciocchezze!, pensa osservando una città onirica stagliarsi contro un cielo grigio che promette neve. L'alito si condensa in leggero vapore mentre lascia vagare lo sguardo alla ricerca del suo obbiettivo. La Cappella degli Amanti è ben visibile dal Viadotto, leggermente spostata sulla destra, a segnalare la contigua chiesa di San Pedro.
Che si siano rintanati lì dentro?, si chiede avanzando lungo Calle San Andreas sotto l'eco dei suoi stessi passi. 


Tap, tap, tap.


Né un cane, né un gatto per le strade della città vecchia. E questo non gli piace.
Tuttavia, nessun edificio sembra essere stato intaccato, almeno recentemente. All'incrocio con Calle Abadia, il Mausoleo. Che invece di avere il tetto imbiancato di neve e il marciapiede di pietra velato da un sottile strato di ghiaccio, è avviluppato in un intrico di rovi rigogliosi su cui fanno bella mostra di sé dei teneri boccioli di rosa. Rossi come il sangue.
Chiude gli occhi e si concentra: sì, nel Mausoleo c'è qualcuno, ma non sembra avere intenzioni ostili. Vuole solo essere lasciato in pace, ma, per come si sono messe le cose, Shura dubita che potrà esaudire questa richiesta.
Fissa la porta d'accesso alla cappella, leggermente aperta dagli arbusti che si sono insinuati all'interno dell'edificio. Sembra, a detta di Hernán – Gregorio parla poco e si liscia sempre la barba folta – che tre giorni prima, due fidanzati prossimi alle nozze, Isabel Rodriguez Pereira e Juan Diego Peñareal Mendoza, si siano recati al Mausoleo degli Amanti per pregare davanti alle tombe dei due sfortunati ed avere la benedizione di quegli infelici che portavano i loro stessi nomi. Come se un Romeo e una Giulietta dei nostri giorni si recassero in pellegrinaggio sotto al balcone di Verona.
Non riesce a vederci nient'altro che del macabro in tutto ciò, ma non si fa domande e prosegue a ricordare le informazioni presenti nel rapporto che ha ricevuto.
Mentre i due fidanzati erano in raccoglimento davanti ai corpi di don Diego e donna Isabel, le due salme – e ricorda di essere rabbrividito arrivato a quel punto – hanno improvvisamente preso vita, scoperchiando le bare, alzandosi e protendendosi verso i due.
Data l'ora, fuori tempo massimo per le visite, nella Cappella erano presenti solo i due fidanzati e l'aiutante di don Ramiro, don Jaime, che li aveva fatti entrare di straforo. Quando le rose fresche, che i ragazzi avevano donato agli Amanti, hanno iniziato ad attorcigliarsi ai polsi di Isabel, don Jaime è stato sbalzato fuori dalla Cappella dal semplice movimento del dito della salma dello sfortunato don Diego.
«…e le porte si sono chiuse imprigionando i due fidanzati dentro al Mausoleo», sussurra Shura fissando il doppio battente di bronzo rinforzato.
L'unico che ne sa qualcosa sulla morte è Death Mask, mentre l'esperto di fiori è Aphrodite di Pisces.
Intuisce che i due Amanti della Leggenda si siano rianimati, ma non azzarda ad indovinare la sorte dei due ragazzi. 
Poveretti, gli viene da pensare.
Ha provato ad immaginare la scena man mano che leggeva il rapporto. Lei, con i capelli lisci e scuri, la gonna lunga e gli occhi neri. Lui, più alto, pizzetto e camicia sportiva. Sono arrivati con il treno, sono scesi alla stazione e si sono incamminati per la Scalinata. Magari hanno anche scattato delle fotografie con il panorama brullo sullo sfondo. Sono arrivati fuori tempo massimo. Don Jaime si sarà mosso a pietà e li avrà accompagnati per una visita lampo. E poi…


E ora?, si chiede Ruy fissando la costruzione. Gli ordini del Santuario sono chiari: riportare l'ordine in città. La Guardia Civil ha provato di tutto per rompere i rovi che si sono avviluppati attorno al Mausoleo e che minacciano di inglobare gli edifici circostanti. Fuoco, seghe elettriche, acido, diserbante. Niente di tutto questo è riuscito a debellare la pianta maligna che, anzi, come veniva intaccata, sembrava gemere e respingeva con furia e sdegno gli assalitori.
Un soldato giace in un letto d'ospedale con tre costole rotte in seguito all'impatto con il muro della vicina chiesa di San Pedro: un ramo, più grosso degli altri, lo ha sollevato e sbattuto con violenza contro i mattoni ocra fino a quando non l'ha lasciato cadere a terra mezzo morto.
Sono senzienti, recita una nota del Santuario, ma Shura non è riuscito a capire fino a che punto. L'ufficiale della Guardia Civil ha tenuto lontani i cittadini e ha evacuato la zona del Centro Storico, come da ordini di re Juan Carlos in persona, ma non gli ha saputo dire altro, quel pupazzo in grigio-verde, tutto fiero delle sue mostrine.
Pazienza, mi arrangerò, pensa girando attorno all'edificio con circospezione. Si sente osservato, ma non riesce a credere che sia la pianta a tenere d'occhio le sue mosse. 
Non può essere! Gli arbusti, con le spine che brillano di luce sinistra sotto il cielo grigio, sembrano sempre orientati secondo i suoi passi. Non devo lasciarmi suggestionare! Anche le rose di Aphrodite sembrano vive, eppure sono statiche come tutte le rose!
«Ehi, signore!»
Adesso parlano?, si chiede sbattendo gli occhi perplesso.
«Sono qui!»
È una voce umana quella che lo sta chiamando. Alle sue spalle. In alto. 
Leggermente spostato sulla sinistra. Eccolo! È un bambino, sette anni al massimo, che lo sta osservando da una finestra al terzo piano di un palazzo che si affaccia sul Calle immediatamente alle spalle del Mausoleo. Riesce a vedergli bene solo la parte superiore del viso, il collo tirato come se lo stesse osservando in punta di piedi.
«Che fai lì? Perché non sei con gli altri?» gli chiede tornando a guardare la pianta.
«Mia nonna e mia sorella sono ammalate», gli risponde il ragazzino. «Tu chi sei? E che fai qui? Attento, ché quel coso è pericoloso!»


Vorrebbe rispondergli che è venuto a salvarli, ma la pianta non gliene dà il tempo: un ramo schizza nella sua direzione e s'incastra alle sue spalle. Il bambino lancia un urlo vedendo la cappa scura sventolare appesa al muro sotto la sua finestra, come se qualcuno l’avesse stesa ad asciugare. È solo un attimo: una figura dorata atterra sul ramo vivente, un braccio piegato a difendere il viso come fosse una spada affilata.
«Sei vivo!?», trilla il ragazzino tutto eccitato, puntellandosi con i gomiti per vedere meglio lo straniero rivestito d'oro.
«Ragazzino!», gli intima Shura tenendo d'occhio il ramo. «Chiudi le imposte non appena sarò passato. Chiaro?»
«Sì!», risponde il ragazzino entusiasta.
Il Capricorno spicca un salto, rimbalzando a destra e a manca sui muri dei palazzi che si affacciano su quel tratto di Calle Bartolomé Esteban, mentre la sacra lama di Excalibur si abbatte di taglio sul roseto quiescente.
Shura piega le caviglie sullo stabile preda dei rovi e balza in direzione dell'unica finestra non sprangata di tutta la città vecchia. Atterra su un pavimento piastrellato ad esagoni rossi e neri, tra polvere e colpi di tosse grassa.
«Che stai aspettando? Chiudi quelle imposte!», grida al ragazzino che è rimasto a fissarlo a bocca spalancata in piedi su di una cassetta di plastica rovesciata, di quelle che si usano per contenere le bottiglie. Il piccolo sembra riaversi, ma quando fa per voltarsi ed eseguire il comando, il ramo entra dalla finestra e gli sfiora le tempie, facendolo cadere a terra. Non è lui l'obbiettivo, ma il polso destro del Capricorno. 
«Sta giù!», urla il guerriero, mentre Excalibur si sfoga contro il ramo, riducendolo in tanti piccoli segmenti che avvizziscono a contatto con il pavimento. Il rovo si ritira spargendo schizzi di clorofilla come se fosse un maiale sgozzato e Ruy scatta a chiudere le imposte sotto gli occhi increduli del piccolo.
«Quel… quel pezzo!», mormora il ragazzino indietreggiando sul sedere mentre indica allo straniero che gli è atterrato in casa, e che sta serrando le imposte, un troncone più robusto degli altri che si sta agitando sul pavimento come se fosse la coda di una lucertola staccata di fresco.
Shura prende il pezzo di ramo e lo getta nella stufa a legna che sonnecchia in fondo alla stanza, avendo cura di chiudere lo sportellino d'acciaio. Il fuoco crepita e scoppietta come se il moncone si stesse lamentando, come se fossero i gemiti di una persona arsa viva. Un minuto scarso, poi tutto tace. Ruy riprende a respirare e si volta verso il giovane ospite, trovandolo seduto sul pavimento, le gambe addormentate davanti a lui.
«Scusami per l'intrusione», gli dice mentre si avvicina per sincerarsi della salute di quel monello. «Tutto bene?»
Lo vede annuire mentre continua a fissarlo con gli occhi sgranati e bocca spalancata. Otto anni a voler essere generosi, capelli ricci addormentati su una testa grande, occhi nerissimi sotto due sopracciglia folte, camicia a scacchi bianchi e neri che sporge da un pullover a rombi bordeaux e bianchi, pantaloni di velluto a costine sabbia e calzini spaiati ai piedi, uno rosso e l'altro a righe verdi e nere. 
S'è vestito al buio?, si chiede tra sé e sé: forse lo stato di completa anarchia in cui versa la casa può essere una giustificazione per quell'abbigliamento da clown.
«Come ti chiami?», gli domanda sedendosi sui talloni.
«Cri… Cristobal…», risponde il clown deglutendo per poter parlare. «E tu?»
«Puoi chiamarmi Ruy», replica togliendosi il diadema. «Ti va di raccontarmi che è successo?»


Ha approfittato della ritirata del nemico per capirci qualcosa. Mentre il ragazzino è sceso in cantina a prendere altra legna da mettere nella stufa, Shura si è avvicinato all'imposta e attraverso le fessure del legno ha spiato i movimenti del roseto, che si è ritirato dentro il Mausoleo. Detesta gli imprevisti, specie dopo aver letto ventidue pagine dettagliate di resoconto.
«Cerchiamo di non svegliare Monserrat e la nonna», gli ha ripetuto Cristobal fino allo sfinimento, dimenticando di tenere bassa la voce mentre gli raccontava la sua versione su quando sta accadendo in città.
Le cose non sono andate esattamente come ha riferito la Guardia Civil.
Tanto per cambiare.
Isabel e Diego si sono fermati a Teruel perché la lancetta del radiatore non segnalava il riscaldamento dell'acqua. Così la fiammante automobile di Diego è sbottata in una nuvola di vapore alla periferia sud della città. Hanno lasciato la vettura alle costose cure di Pepe, il meccanico che staziona nella prima strada a destra come si entra in città, e si sono avventurati per il borgo vecchio maledicendo ogni ciottolo che calpestavano ed incontravano sul loro cammino.
Si sono fermati a mangiare proprio nel ristorante sotto casa di Cristobal, lo stesso dove lavora di tanto in tanto sua sorella, e dove serve ai tavoli il suo fidanzato, Luis, amico fraterno di Pepe. Rifocillati – e spennati a dovere – i due, nel loro tamburellante accento di Madrid, hanno chiesto quali fossero le attrazioni in quel posto arroccato sul cucuzzolo di un colle al centro di una valle provata dal freddo d'inverno e dalla siccità d'estate.
«Beh, potreste visitare la Cappella degli Amanti!», ha proposto loro Luis prima di andare a chiamare Cristobal perché li accompagnasse proprio in fondo alla strada e mettesse una buona parola con don Ramiro. «Cristobal! Posa la palla e accompagna i signori al mausoleo!», gli aveva gridato prima che quei due antipatici uscissero dal ristorante e lo squadrassero da sotto in su.
Don Ramiro non c'era e don Jaime, sempre estremamente gentile – «anche con chi non se lo merita», come afferma a più riprese Cristobal – li ha fatti entrare mentre lui se ne tornava a casa chiamato dalla nonna alla finestra.
Ricorda solo che è salito in casa, si è lavato le mani e si è messo a tavola assieme alla nonna, perché sua sorella era a letto con la febbre dal giorno prima, e poi ha sentito solo un gran botto e tanta calca per la strada.
Vedere non ha visto niente: la nonna lo ha allontanato dalla finestra e ha chiuso le imposte mentre si segnava e invocava il nome della Madonna. Dopo dieci minuti, il silenzio. 
Il giorno dopo i pompieri si sono messi al lavoro, sotto lo sguardo attento e vigile della Guardia Civil, per sradicare le rose attorno all'isolato che comprende la chiesa, il Mausoleo, il ristorante ed un paio di palazzine a tre piani.
Il giorno successivo ancora, vista l'impossibilità di riportare all’ordine il Borgo Vecchio, la Guardia Civil è passata per le strade costringendo gli abitanti ad abbandonare le case per un paio di giorni. Cristobal ha fatto orecchie da mercante, con la sorella e la nonna allettate e febbricitanti, e i gendarmi sono andati oltre.
«E questo è quanto», termina il ragazzino posando due scodelle spaiate sull'unica tovaglia pulita.
Cristobal vive da solo con sua nonna Ines e sua sorella Montserrat, di ventidue anni. Suo padre lavora in un ufficio comunale a Saragozza e torna a casa solo il venerdì sera, per ripartire la domenica dopo le sei di pomeriggio. In settembre sua sorella dovrebbe sposare Luis, l'eroico fidanzato che se l'è data a gambe levate – senza passare a vedere se stavano bene, «o anche solo a salutare!», rincara la dose Cristobal armeggiando con una scatoletta di fagioli in scatola, mentre Ruy non ha perso d'occhio il Mausoleo.
«Cristobal…», chiama una voce di carta frusciante da un'altra stanza.
«S’è svegliata. Arrivo, nonna», risponde il bambino trotterellando fuori dalla cucina.
Ruy ne approfitta per prendere una sedia ed accomodarsi alla finestra, tra il clang dell'armatura: le giunture della gamba sinistra sono da far stringere e deve passare la cera lucidante e la polvere di orikalkos sui bracciali. Cristobal rientra poco dopo, prendendolo per mano e dicendogli: «La nonna ti vuole conoscere.».


Lo segue docilmente, pregando che il roseto non decida di attaccare proprio in quel momento, e passa lungo un corridoio buio su cui si affacciano ritratti e fotografie di visi curiosi che sembrano non perdersi ogni suo passo. Cristobal lo fa entrare nella stanza dove nonna Ines lo aspetta sotto una spessa coltre di coperte e copertine ammonticchiate su una donna infagottata in un pigiama pesante, sotto una mantella di lana nera lavorata ai ferri e una cuffia che non trattiene alcuni ciuffi ribelli color argento.
Sembra la nonna della favole, quella di Cappuccetto Rosso che dorme tutto il giorno nella casetta nel cuore del bosco, pensa Ruy avvicinandosi al letto in ferro battuto sotto lo sguardo azzurro di nonna Ines.
«Saresti tu lo straniero che ha salvato mio nipote?»
Annuisce, mentre Cristobal gli avvicina una sedia robusta e Ines lo scruta a lungo, come se volesse leggere l'anima dell'ombra che vede davanti a sé. «Dimmi, sei forse uno di quei Santi? Quelli delle leggende?»
«Ma signora, lei come…?», domanda perplesso: com'è possibile che questa donna sia a conoscenza del Santuario, luogo segretissimo ai comuni mortali?
«Eh, eh, eh…», ridacchia la vecchina con la sua vocina sottile mostrando due candide fila di denti che annoverano un paio di defezioni. «Mia nonna mi raccontava la leggenda dei Santi per farmi addormentare la sera. La nostra Spagna è sempre stata benedetta dalla presenza di validi eroi, primo fra tutti quello che abitava a Nord, sui Pirenei, la cui spada non sbagliava mai.»
Ruy sussulta dentro di sé, sforzandosi di restare impassibile. La cui spada non sbagliava mai.
«E io che pensavo che fossero delle fiabe, delle fole per passare le sere di neve, come la storia di Santiago Matamoros che da solo sgominava orde intere di mussulmani, lui, uno dei dodici Apostoli di Nostro Signore! Mia nonna aveva ragione, è tutto vero, che bellezza!», prosegue la donna adagiandosi sulla torre di guanciali alle sue spalle. «Dimmi, ragazzo… come ti chiami? Dal tuo accento sembra che tu provenga da Nord.»
«Il mio nome celeste è Shura di Capricornus, signora. Ma voi potete chiamarmi Rodrigo.»
«In buon'ora cingeste la vostra spada…»
«Voi mi onorate signora. Tuttavia…», e racconta alla donna per sommi capi cos'è successo in città durante l'ultima settimana.
«Madre santissima!», commenta Ines segnandosi man mano che il Santo prosegue il racconto. «Gli Amanti si sono dunque risvegliati? Vergine santa, proteggici tu!»


Gli Amanti si sono risvegliati?! Lo ha detto come se fosse una possibilità, per quanto remota; una di quelle affidate alle leggende, il colpo di coda.  
«Donna Ines dovete abbandonare la vostra casa al più presto. Non so che cosa potrebbe accadere se il rovo decidesse di menar fendenti fino a quando non avesse distrutto tutti i palazzi e le torri di Teruel.»
«È davvero così pericoloso?», gli chiede Cristobal, il quale non si è perso una sola parola dell’intero racconto.
«Fila a vedere come sta tua sorella, piuttosto!», e Ines lo spedisce fuori della stanza tra i borbottii del ragazzino.
«Donna Ines, sono serio. Dovete andarvene», riprende Ruy con fare deciso. «E al più presto.»
«E come? Io sono debole, non riesco ad alzarmi. E mia nipote ha la febbre alta. Possiamo solo aspettare e avere fiducia in te. Adesso che tu sei qui, non abbiamo nulla da temere…», e la vecchina scivola nel sonno.
Ruy scuote la testa e abbandona di gran carriera la stanza. Lasciarli lì? Sciocchezze! È semplicemente folle!
Se la ragazza è in grado di camminare, li porterò oltre il ponte e mi darò alla pazza gioia con quella pianta troppo cresciuta. Non posso mettere a repentaglio le vite dei civili, non me lo perdonerei mai!
Sorpassa le fotografie degli avi che lo fissano appesi alle pareti buie del corridoio e rientra in cucina dove l'attende uno sconsolato Cristobal, le braccia incrociate sotto il mento.
«Tua sorella?»
«Ha il viso pieno di macchie rosse…», risponde a mezza bocca scalciando i piedi in aria.
«Rosse?», domanda Ruy. «Di che forma sono?»
«Piccolissime. E la febbre non scende.»
«Cazzo! Cazzo! Cazzo!», impreca Ruy ricordando che solo due anni prima tutta Orreaga è stata flagellata da un'epidemia di scarlattina. «Devo fare una telefonata!», e Cristobal lo accompagna in corridoio dove riposa un vecchio telefono a disco in bachelite grigia rivestito di stoffa a fiorellini gialli, sotto la faccia schifata di zia Erminia.
Com'è il numero…? Ah, sì…, e fa girare il disco nella speranza che Lupe sia in canonica. «Lupe?», esclama quando la donna risponde.
«Lupacchiotto, sei tu? Come stai?»
«Stammi bene a sentire…», e le descrive per filo e per segno le condizioni in cui versa Montserrat.
«Eh sì, è proprio scarlattina…», sentenzia la donna. «Hai chiamato un medico? Tienila al caldo e falle scendere la febbre, capito? E… Ruy?»
«Sì?»
«Torna presto!»
Sorride. «D'accordo. Risolvo questa grana e torno.»
Riaggancia e chiede a Cristobal di cercargli il numero del medico.
«Se ne sarà andato anche lui…», fa spallucce il ragazzino. E Ruy sa che ha ragione.
«Prendi l'elenco telefonico. Ne hai uno in casa, vero?»


È nervoso, nonostante la fredda calma che lo contraddistingue; ha una missione da compiere e Javier gli ha inculcato l'idea di risolvere al più presto gli incarichi. La Giustizia non va mai fatta attendere, è il motto preferito del suo maestro e lui lo segue alla lettera, o almeno ci prova, visto che questa missione si sta rivelando più rognosa del previsto. Gli imprevisti non sono mai positivi. Mai.
Cristobal gli porge una vecchia rubrica con dei cavalieri dorati; alla O di ospedale trova mezza dozzina di numeri. Decide di chiamare la Guardia Medica, compone il numero e prega che qualcuno risponda dall'altro capo. 
Clac, trr, clac, trr, clac, trr… e finalmente sente una voce con cui parlare: «Guardia medica, prego?».
«Buongiorno, mi trovo in Calle Esteban e ho una ragazza con la febbre alta e il corpo ricoperto da macchie rosse. Che devo fare?»
La voce dall'altra parte gli dice di attendere e gli passa un medico al quale ricapitola al situazione.
«Sì,  potrebbe essere scarlattina», è la diagnosi che fanno dall'altra parte del cavo. Potrebbe? «Ti mando qualcuno. Dove sei?»
Ruy sogghigna. «Calle. Bartolomé. Estéban», risponde, scandendo l’indirizzo. «Alla Cappella degli Amanti»
E la voce dall’altra parte replica esattamente come si aspettava avrebbe fatto: «Ah. Ho capito. Non possiamo venire. Devi portarla da un medico. Subito. Va bene anche il posto di blocco all’entrata della città, ma tu sbrigati.».
«Non ci siamo capiti: ha un febbrone da cavallo!», protesta Ruy perplesso. Ma come, si chiede, ho sempre saputo che non si deve prendere freddo quando si ha la febbre alta per non peggiorare la situazione?
«Appunto per questo!», ribatte il medico. «Devo prescriverle delle medicine, ma non posso fare nulla se non la visito e se non vedo con questi occhi se si tratta effettivamente di scarlattina. E se ti fossi sbagliato e io le prescrivessi tutt'altro?»
Ruy appoggia la testa al muro coperto da una bizzarra carta da parati a fiori gialli su fondo verde bottiglia ed inizia a dare delle testate sempre più forti, mentre dall'altra parte si sente chiedere: «Pronto? Pronto? Ci sei ancora?».
«Dottore, quanto tempo ho per portarle la ragazza in ospedale?»
«Prima lo fai, meglio è. Io allerto il Pronto Soccorso, ma per amor del Cielo, spicciati!»
Attacca e si passa una mano sul viso; la pianta gli sta concedendo un po' troppo tempo per riorganizzarsi e tutto ciò è strano. Troppo strano. E troppo bello per essere vero. Per quel che ne sa, può sfondare le imposte da un momento all'altro e lui non ha tempo, maledizione, per giocare al dottore.
«Tua sorella è in condizioni di parlare?», chiede a Cristobal, che fa cenno di no con la testa. «Portami lo stesso da lei.»


Montserrat riposa due stanze più in là della foto di zia Erminia. Una cascata di boccoli neri si è impadronita del cuscino, candido contro la pelle olivastra di lei ricoperta da delle macchioline rosso scuro. Respira con la bocca, le labbra screpolate e spaccate da tanti tagli verticali. Quattro giorni fa stava preparando la cena quando si è sentita poco bene e si è messa a letto con un febbrone da cavallo. Non si è più alzata. Per quel che ne può sapere lui, potrebbe trattarsi del normale decorso della malattia, come potrebbe essere già troppo tardi. 
Montserrat dorme, gli occhi chiusi e le ciglia nerissime che proiettano un'ombra lunga sul viso. Deve portarla in ospedale, ma dai rumori che sente provenire da fuori, sa che il roseto non glielo permetterà.
Perfetto!, si dice mentre decide di prendere il toro per le corna. Priorità: abbattere il roseto, salvare i due fidanzati e portare Montserrat in ospedale.
Adesso Rodrigo sorride, perché sa cosa fare.
«Cristobal, io esco. Chiudi bene le finestre dietro di me.»


 
 

 









Note:  il quarto capitolo, a sorpresa, di sabato sera!

Teruel e il Mausoleo dei due Amanti esistono davvero. Anzi, Teruel è addirittura la capitale dell'omonima provincia, nella comunità autonoma dell'Aragona.
Il mausoleo è una Cappella annessa alla Chiesa di San Pedro. Qui si possono visitare le tombe in marmo dei due sfortunati amanti, le cui statue si tengono per la mano.

Mudejar, dall’arabo Mudajjan, che significa “reso domestico”. è un termine che si riferisce a quegli arabi cui fu consentito di rimanere in Spagna dopo la Reconquista (1492), e la conseguente conversione (forzata) al cattolicesimo. L’arte mudejar è quella arabeggiante che definisce Toledo, Siviglia e Saragozza.

La Guardia Civil, detta La Benemerita, è una forza di gendarmeria e polizia spagnola.

«Ya, Campeador, en buena çinxiestes espada!», Cantar de mio ÇidCantar PrimeroDestierro del Çid, 4, 41

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** 5. Il Mausoleo degli Amanti ***


Il Mausoleo degli Amanti
 

 
Noi cammineremo insieme, la mano nella mano, anche nel regno delle ombre.
Thomas Mann
 




Il groviglio di rovi sembra riposare attorno alla sagoma del Mausoleo. Sembra. Il ramo che ha attaccato il Capricorno osserva curioso la finestra attraverso la quale è sparito quel moscerino dorato. Visto dall’alto, assomiglia ad un gatto che piantona la buca in cui si è nascosto il topo, pensa Ruy mentre segue i movimenti del ramo spinoso attraverso le fessure degli scuri della stanza di Montserrat. 
Il ramo bussa contro il legno. Deve uscire da quella casa prima che l’arbusto decida di sfondare imposte e vetri ed intrufolarsi in cucina. Gli ha concesso quasi un’ora di tregua, passata a rimarginare i rami tranciati dalla Sacra Spada. O, più probabilmente, ad elaborare una strategia. I movimenti del roseto hanno un che di animalesco e istintuale, come se fosse una bestia in caccia, uno di quei mostri tentacolari che popolano i romanzi di Lovecraft.
Deve uscire da lì. E subito. È rischioso, ma ha un piano: attaccare il mostro dall’alto, sviando così la sua attenzione dall’appartamento della famiglia di Cristobal. Forse è l’unica cosa da fare per godere dell’effetto sorpresa. Di sicuro il roveto si aspetta che apra una delle tre finestre che si affacciano sul Calle Estéban ed esca da lì. A quel punto, la pianta tenterebbe di caricarlo con un ramo, provando a ghermirlo e ad aprirsi un passaggio all’interno della casa. Ed è una cortesia che non può farle.

Non concederle alcun quartiere, si ripete facendosi spiegare da Cristobal come raggiungere il tetto e come aprire il lucernaio.
«Chiudi bene tutto e stai lontano da porte e finestre! E tieni al sicuro tua nonna e tua sorella.»
«E se le portassi vicino alla porta di casa?»
«Assolutamente no!», lo fulmina con gli occhi. «Potrebbe decidere di attaccarvi su due fronti, passando per il portone del palazzo e sfondando la porta d’ingresso! Fai come ti dico e… tieni, prendi questa!» gli passa un’accetta scovata in un armadio all’ingresso.
Cristobal fissa il proprio riflesso sulla lama un po’ arrugginita.
«Usala solo se quel coso ti dovesse attaccare e io non riuscissi ad arrivare subito.»
«Aspetto due minuti?»
«Due minuti un corno! Tu chiamami, urla Ruy!!, capito?, a pieni polmoni e se non arrivo subito…», calca la voce sull’ultima parola, «devi difenderti con questa!».
Cristobal sente le mani stringersi attorno al manico dell’accetta sotto le dita dello strano ragazzo che gli è piombato in cucina.
«Sono stato chiaro?» Cristobal annuisce «Perfetto, io vado allora! A dopo!», e scivola via oltre la porta di casa che il bambino richiude. A doppia mandata.

Sale le scale di corsa, i gradini di marmo bianco sfiorati dai suoi passi veloci che sollevano un sottile strato di polvere.
La porta del solaio si apre sotto un paio di fendenti ben assestati; sfonda il legno verde ed entra in una stanza con il soffitto spiovente e delle vasche per lavare i panni. I fili a cui appendere il bucato sostengono delle lenzuola stese ad asciugare da qualche giorno, mentre un rubinetto goccia in una fontana di pietra allineata con le consorelle lungo la parete sud dell’edificio.
Trova il lucernaio con la chiusura difettosa sopra la terza fontana a destra, come gli ha spiegato Cristobal. Solleva la finestra dai cardini e l’appoggia a terra, lontano dalle altre. Il vento freddo gli bacia la pelle e s’insinua fin sotto l’armatura. Il Sole sta tramontando e fra poco scenderà la notte.
Ecco, si sporge dalla fessura e fissa i tetti di Teruel al crepuscolo, le torri mudejar che svettano contro il cielo violaceo. Tenendosi ben saldo, esce fuori e risale sul tetto dalle tegole ocra, strisciando per non farsi vedere dal roseto. La pianta, che nei due minuti in cui è salito sul tetto è rimasta a fissare la finestra della cucina, sembra non essersi accorta di nulla.
Il roseto ha sfondato tutte le finestre del Mausoleo costruendo delle complesse inferriate vegetali che proteggono il sonno dei due Amanti.
Mi spiace rompervi le uova nel paniere, ma ho un ordine di Athena. E delle persone da portare in ospedale, pensa spiccando un salto in alto nel cielo e sguainando Excalibur.

Il primo affondo penetra nel morbido della pianta.
La Sacra Lama trancia un tratto consistente del ramo principale quello che stava ispezionando con curiosità le finestre di Calle Esteban, ramo che si accascia al suolo contorcendosi e schizzando clorofilla verde scuro sui palazzi e sul selciato, come una testa decapitata che irrora di sangue il corpo decollato. Gli altri rami tentano invano di avvolgere la figura, l’ombra dorata che li sta massacrando senza posa.
Destra, sinistra, in alto, in basso.
Stoccata di prima, seconda, ottava.
Shura taglia lo spazio davanti a sé seguendo delle linee rette che si intersecano tra loro. Spazio in ascissa e tempo in ordinata, come gli ha inculcato Javier durante l’addestramento. 
Colpire prima che il nemico se ne possa rendere conto.
Finta, affondo, botta dritta, flèche.
Non dargli requie, non concedergli quartiere.
Fouet. Finta. Affondo.
Non tirare le cose per le lunghe: ci si stanca e si fornisce al nemico del tempo prezioso, tempo in cui lui può riorganizzarsi.
Botta secca. Finta. Fendente di seconda.
Precisione e rapidità. Come gli stambecchi. Saltano sulle rocce aguzze atterrando precisamente, nel punto in cui i loro occhi attenti hanno scovato un luogo ideale per i loro zoccoli. Non esiste un luogo inaccessibile agli stambecchi. Saltano, dando poderosi slanci con le zampe robuste e muscolose, vincendo con la potenza la forza di gravità che li ancora al terreno.
La vera forza di Shura non è nel braccio affilato, ma nelle gambe con cui compie dei balzi che hanno del prodigioso. E tagliano anch’esse. Javier gli ha insegnato a troncare la materia in due prima con le gambe e poi, solo all’ultimo, con le mani. Mani che adesso hanno tagliato buona parte del rovo che si è steso sulla cappella. È quasi fatta, pensa Shura quando vede i rami vibrare e poi strisciare all’indietro, cercando scampo dentro la costruzione.
«Merda!» impreca tagliando ancora qualche pezzo di rovo che cade al suolo contorcendosi: non può permettere alla pianta di riorganizzarsi, sarebbe la fine. Insegue il nemico che s’insinua dietro il portone rinforzato, lasciato socchiuso come se lo stesse invitando ad entrare.
È come tuffarsi nella bocca spalancata del lupo, si dice Shura mordendosi il labbro inferiore prima di scoccare uno sguardo alle finestre di Cristobal. Avviene tutto in un lampo: un ramo, sottile ed irto di spine, gli si avvolge attorno alle caviglie, gliele serra e lo strattona all’interno, mentre la porta pesante si chiude con un tonfo che echeggia per le calli del Borgo Vecchio.


Hernán e Gregorio si fissano l’un l’altro non appena sentono il ton di bronzo portato dal vento che soffia per le strade deserte.
«Che cosa pensi sia successo?», chiede Hernán all’altro, che ha preso a lisciarsi il barbone da frate cappuccino con maggior frequenza e minor cura.
«Ma cosa vuoi sia successo?», domanda a sua volta Gregorio dando aria alle corde vocali. «Qualcuno ha chiuso un portone. Probabilmente, il nobile Shura ne avrà trovato uno aperto ed ha pensato fosse il caso di accostarlo.»
Hernán decide di lasciar perdere quel dialogo tra pazzi e si rivolge al pupazzo in grigio-verde che ha più galloni sul petto. «Mi scusi, avete sgombrato tutto il borgo? Casa per casa?», chiede timidamente l’uomo di Ibiza all’ufficiale che lo fissa con disprezzo e alterigia.
«Lei lo sa chi sono io? Io sono Esteban Pérez García, comandante del 4° Battaglione Stella delle Asturie di stanza presso…», e il militare continua a sciorinare tutte le sue cariche in un rosario che fa saltare la mosca al naso del mite Hernán.
«Signor Pérez García… a me non interessa conoscere quali siano le sue mansioni o i suoi gradi per intero. Lo vede questo?», prosegue l’uomo cavando dalla sacca una copia del documento mostrato in precedenza. «Voi dovete fornire collaborazione totale, al nostro signore e a noi. Ordini di Sua Maestà Re Juan Carlos I. È scritto qui, vede?»

L’ufficiale freme. Ha voglia di prendere il collo secco di quell’uomo e farlo scricchiolare sotto le sue dita, lentamente, ma sa che non può torcergli nemmeno un capello. Non davanti a dei testimoni, almeno. 
Grugnisce qualcosa ad un suo sottoposto e si allontana, rientrando nel blindato grigio-verde su cui è installata un’antenna per le radio-comunicazioni. Hernán fissa il nuovo arrivato: statura media, corporatura robusta, baffetti neri e volto sudato.
«Sergente Jesús José García Real», si presenta sbattendo i talloni fra loro. «In cosa posso esservi utile?»
«Vorremmo sapere se avete fatto evacuare tutto il borgo», ripete Hernán. «Abbiamo sentito…»
«Attenda solo un istante!», e il sergente García trotterella via come se fosse un picchio di legno. Dieci minuti dopo, l’uomo riappare con un foglio di carta piegato in quattro, il fisico che barcolla sui piedini da fata che Madre Natura gli ha donato. 
Sembra uscito da un quadro di Botero, pensa Gregorio lisciandosi la barba e attorcigliandone la punta attorno all’indice destro.
«Manca la famiglia Gómez Hidalgo», ammette García. «Sono tre persone: la nonna e due nipoti. Quando siamo passati a rastrellare casa per casa non li abbiamo trovati e abbiamo pensato fossero partiti.»
Rastrellare?, commenta Hernán tra sé e sé prima di rispondere: «Sa, credo che li abbia trovati il nostro signore…», sotto lo sguardo dubbioso di Gregorio.
Speriamo bene!, pensa l’argentino lisciandosi il barbone.


L’interno della cappella è oscurato. I vetri, invasi dai rovi senzienti, lasciano filtrare flebili scie di luce, del tutto insufficienti per potersi muovere senza sbattere in ogni dove. Riconosce le sagome delle candele votive disposte lungo i muri e sul fondo, davanti alle nicchie in cui, solitamente, sono ospitati i cadaveri dei due Amanti.
Contro cosa ho sbattuto?, si chiede tastando il pavimento ed incontrando dei cocci umidi. Vetri, a giudicare da come tagliano facilmente i suoi polpastrelli. 
C’è puzzo di muffa, di acqua stagnante, lo stesso identico odore che aleggia nei cimiteri e nei vivai. Incontra anche qualche fiore, margherite forse, grandi e provate dalla forza che ha sconquassato la Cappella pochi giorni prima. E il Mausoleo non sembra trovarsi in condizioni migliori. 
Riconosce varie forme davanti a sé, come sagome accatastate l’una sull’altra a formare un groviglio pulsante.  Shura decide di temporeggiare quel tanto che gli consentirà di capire il da farsi. Il ramo è ancora attorcigliato intorno alle sue caviglie, orientate verso l’ammasso centrale, la testa piegata a destra, a stretto contatto con candele votive spente e vetri rotti.

Montserrat e Cristobal sono ancora in casa, percepisce la loro presenza esattamente dove li ha lasciati. Chiamare Hernán e Gregorio per chieder loro di portarli in ospedale è fuori discussione. I rami potrebbero decidere di attaccare anche loro. 
Meglio non rischiare, decide saggiando con le gambe la stretta della pianta. La morsa si serra fin quasi a triturargli le ossa. Se non avessi l’armatura sarei diventato zoppo, commenta stringendo denti e pugni mentre cerca di rizzarsi in piedi. Il groviglio sembra aumentare le pulsazioni e muoversi verso di lui. 
Jabba the Hutt, ecco cosa gli ricorda l’ammasso vegetale non appena acquista un aspetto vagamente umanoide. O quasi.
Lo fissa. Sì, quei rami ammassati l’uno sull’altro a formare una grottesca creatura lo stanno fissando come una fiera farebbe con la preda terrorizzata prima di balzargli alla gola.
Non mi piace per niente, si dice Shura espandendo il cosmo dorato, che rischiara il buio della cappella.
Cose da fare oggi: debellare la minaccia dei rami e portare Montserrat in ospedale.
E ho perso fin troppo tempo!, decide rompendo la stretta che gli serrava i polsi con la semplice apertura delle braccia. Un secondo netto, e Shura di Capricornus è nuovamente in piedi, ritto con la luce del Cosmo che risplende contro la cupa oscurità della cappella. Come un faro che illumina la via ai naviganti.
L’ammasso aggrovigliato sembra sorridere, ammesso che sia tra le sue facoltà.
«Non so chi tu sia, né perché ti sia destato, ma adesso è ora di smetterla!», e Ruy pone la Sacra Spada di taglio davanti al viso. «Ho una ragazza da portare in ospedale!», e la lama che riposa nel suo braccio fende l’aria e sconquassa i rami che la creatura gli invia contro a tutta velocità, sempre di più, sempre più veloce. 
Devo farmi più vicino, si dice avanzando pian piano verso la creatura; rotti tutti i tentacoli, dovrebbe avere il tempo sufficiente per menare un paio di fendenti ben assestati ed uccidere il mostro.
Ma i tentacoli non si rompono; non tutti almeno: come ne cade uno, se riforma subito un altro.
Come i denti degli squali o le teste dell’Idra!,  pensa Shura, sporco di clorofilla da capo a piedi. Il mantello sta sventolando appeso al muro della casa di Cristobal.
Quale attacco porterà la pianta? Attaccherà da destra o da sinistra? E sarà un attacco singolo o multiplo, su due fronti o su uno solo?
Pensa, Ruy, pensa!, si dice mentre esamina con la mente tutti i movimenti fatti da quell’essere bizzarro durante gli scontri precedenti. È senziente, anche se i suoi attacchi sembrerebbero volti ad difendere qualcosa, più che ad attaccare lui.
Non vuole che io vada oltre la soglia della cappella: ma allora perché farmi entrare di peso?
Shura fissa il roveto e non sa cosa rispondersi. Deve ritrovare i due fidanzati, sempre che non sia troppo tardi.

Un ramo scatta nella sua direzione, e la Sacra Excalibur lo taglia come se fosse carta. Il Cosmo di Capricornus arde costante, senza picchi estremi.
Non sono venuto qui per fare giardinaggio!
I rami cadono sotto i colpi di Excalibur, contorcendosi sul pavimento.
Avanza piano, verso il centro dell’ammasso che si dilata e contrae, come un enorme cuore vegetale.
Ecco!
Ecco, lo vede! Vede il punto debole di quell’intrico di rovi, una specie di foro, di spazio tra un ramo e l’altro, come la maglia allentata di un pullover ai ferri. Ed è lì che Excalibur colpirà.
Salta verso l’alto, caricando il braccio, e la lama scende di fendente a tagliare in due l’ammasso verde, come se fosse un coltello riscaldato alle prese con un panetto di burro.
Il rovo esplode.
Shura fa appena in tempo a pararsi il viso con le braccia e a scartare indietro. Il mostro vegetale si dimena frustando l’aria con i rovi come se fossero delle braccia. Non emette un lamento, ma si agita come fosse un essere vivente a cui hanno tagliato in due il busto.
Un ultimo movimento, un guizzo disperato, e il roveto collassa su se stesso.
Tutto qui?, si chiede Ruy pulendosi alla bell’e meglio la clorofilla dal viso. Possibile che bastassero solo dei colpi ben assestati per risolvere la questione?
Shura non si fida. Resta a fissare la forma vegetale, ormai ridotta in poltiglia putrescente, da cui cola del liquido verde scuro denso come sangue. Non si muove, e questo non è necessariamente un buon segno: i suoi sensi abituati al combattimento gli urlano di non fidarsi delle apparenze, che il nemico è ancora lì dentro. Che non è finita. E infatti, il groviglio si disperde, come se l’acqua contenuta al suo interno fuoriuscisse per intero, spandendosi sul pavimento scuro del Mausoleo.
Il mostro si scioglie, come cera al fuoco, colando fino al portone in fondo alla stanza. I rovi che infestavano le finestre cadono a terra, liberando i vetri da cui filtra la luce delle stelle e dei lampioni già accesi sul Calle: poco, ma sempre meglio del buio innaturale in cui era costretto a muoversi prima.
È così che vedono i ciechi?, si chiede osservando con sollievo la luce argentata illuminare l’ambiente.
E quel che vede gli fa gelare il sangue nelle vene.

Tra gli ex voto sparpagliati sul pavimento, candele cadute e statue esplose in cocci ovunque, Shura nota due figure emergere alle spalle del groviglio di rovi che si sta disfacendo da sé.
Restano in piedi, la figura più massiccia a proteggere la più esile; che siano Isabel e Diego?, si chiede Ruy avanzando lentamente, le mani lungo il busto pronte a scattare.
«Non abbiate timore! Sono venuto per aiutarvi!», dice loro con voce ferma e sicura: non immagina come potrebbero reagire, né che paura abbiano provato. Meglio andarci con i piedi di piombo. Le ombre non si muovono, sente solo singhiozzare e riconosce l’inconfondibile brillare di una lama.
Avanza e la spada si alza a difendere chi la impugna, mentre i singhiozzi aumentano. Che sia Isabel? E Diego? Che fine ha fatto?
«Isabel? Sei tu, Isabel?», domanda a voce alta, cercando di coprire i rumori di lei. La figura annuisce titubante, mentre l’altra la spinge all’indietro e parte all'attacco.
Shura lo scarta all’ultimo per poterlo vedere bene in viso. È giovane. Venticinque anni al massimo. Indossa una corazza panciuta che gli copre solo il busto. Le mani sono protette da guanti d’arme e le gambe sono racchiuse dentro un paio di schinieri malandati.
La spada è ben bilanciata e proporzionata, e il filo è fatto di recente: frutto dei mastri spadai di Toledo, ci scommette la testa.
L’uomo lo supera e gli si piazza alle spalle: Shura ruota il busto quel tanto che occorre per fronteggiare il nemico faccia a faccia. La spada si alza di scatto, brilla all’incontro con la luce della luna e cade giù. Si ferma solo quando incontra sulla sua strada la mano destra di Shura che la ferma, e i due si fissano occhi negli occhi.
Lo sguardo dell’altro è un fuoco castagna che vorrebbe incenerirlo all’istante. Prova a spingere la spada contro il guanto d’arme dorato: ha una forza bestiale, superiore alle umane possibilità.
Che sia posseduto?,  pensa il Capricorno sostenendo una pressione che, se non fosse per l’armatura e l’addestramento solerte a cui l’ha sottoposto Javier, gli avrebbe fatto volar via il polso, spezzandolo in mille frammenti.
L’altro digrigna i denti e lui decide che ha perso fin troppo tempo a giocare; spinge indietro la spada brandita dal nemico e sferra un paio di affondi con Excalibur, tanto per saggiare le capacità dell’avversario.
«Chi sei tu?» gli chiede fissandolo dritto negli occhi. L’altro non risponde, persistendo a fissarlo truce, la spada in pugno. «Sei forse Diego Peñareal Mendoza?»

L’uomo sbatte le palpebre un paio di volte, come se una luce avesse colpito i suoi occhi e poi più nulla. Shura sente dei movimenti alle sue spalle; si volta un secondo, giusto il tempo per vedere una donna, i lunghi capelli d’ebano raccolti in complicate trecce, portarsi le mani al viso e gridare: «Diego! No!», prima che la lama impugnata dall’altro fischi vicinissima al suo orecchio.
«Merda!» impreca il giovane Capricorno scartando di lato, mentre il nemico lancia fendenti a tutto spiano nel tentativo di colpirlo. Rotola di fianco, sulle candele rovesciate e i cocci rotti, fino a raggiungere il muro che dà sull’entrata del mausoleo. Poi si gira. E salta.
Compie un balzo a parabola e all’apice esatto ruota su se stesso, portandosi oltre le spalle dell’avversario. Insinua i piedi sotto le braccia del nemico e poi il Jumping Stone scatena tutto il suo potere. Shura ruota nuovamente ed atterra, sapendo che il nemico giace riverso alle sue spalle.
Come potrebbe essere altrimenti? Il suo colpo consente di provare come se si fosse una pietra che, cadendo nel vuoto, rimbalza da una roccia all’altra. Il Capricorno è saltato e il masso sotto di lui si è sgretolato.

Lancia un’occhiata al nemico, e lo trova ben saldo sui piedi. «Ma come…?», si domanda stupito, fissando l’altro che mostra un sorriso ironico sulle labbra sottili. «Che prodigio è mai questo?»
Chi è quell’uomo per rialzarsi incolume dopo aver assaggiato il Jumping Stone?
«Diego! Adesso basta, per l’amor del Cielo!»
La donna dai capelli agghindati con perle e nastri dorati lo implora, le braccia strette e le mani serrate attorno ad un fazzoletto celeste.
«Taci, Isabel!», tuona lui con voce cavernosa.
«Sei tu Diego Peñareal Mendoza, sì o no?», insiste Shura cercando di venire a capo di quella faccenda.
«No», risponde la voce con un ché di sdegnato. «Come osi paragonarmi a quell’imbelle?»
«Chi sei, allora?»
«Chi sono io? Ma come? Entri nella mia tomba e non sai il mio nome?», lo schernisce, prima di concedersi una grassa risata. «Io sono Juan Diego Martinez de Mancilla, lo sfortunato Amante di Teruel.»
«Sei morto più di sei secoli fa», ribatte Shura, «devo credere che ti sei risvegliato e che il tuo corpo si sia sanato per magia?».
 «Nossignore! Nossignore!», tuona don Diego. «Quest’ammasso di carne e umori non è che un prestito, un alloggio temporaneo per il mio spirito. Ben altre fattezze ebbi a possedere in vita! Alto, spalle larghe e solide, mani grandi e abili a maneggiare le spade. Viso maschio, occhi intelligenti; questo era Juan Diego Martinez de Mancilla, devoto figlio e tenero innamorato della bellissima Isabel de Segura.»
«E a chi appartiene il corpo che stai occupando?», insiste il Capricorno senza distogliere lo sguardo dal guerriero medievale.
«È il mio, in attesa di prenderne uno più giovane e sano.»
«Quello di quel ragazzo che hai…»
Diego lo interrompe. «Quello stupido, sciocco pusillanime! Uno stolto che era entrato in questo luogo per litigare con la sua fidanzata. Litigare! Dinnanzi a noi, che morimmo per dolore e tenerezza l’uno dell’altra; noi che non abbiam potuto vivere e godere il nostro amore! E loro si sono concessi il lusso di dileggiarsi ed insultarsi dinnanzi alle nostre tombe!» Diego fa una pausa, come se volesse riprendere fiato per placare l’ira che gli sconvolge il petto. «Avevano bisogno di una lezione e noi gliel’abbiamo impartita! Sta’ pur tranquillo, donzello: il mondo non rimpiangerà gente di tale sorta!»
«Bene. Ora immagino che li lascerete liberi.»
«Stai scherzando, non è vero donzello? Non tediarmi con queste celie! Non vedi che son desto? Non vedi che posseggo un corpo giovane e non corrotto dal tempo in cui prendere dimora? Non ho alcun’intenzione di lasciarmi sfuggire quest’opportunità!»
«Chi vi ha destato? Lo sapete, almeno?»
Diego ride. «No, non so il suo nome. E non m’interessa, se non per ringraziarlo di questa nuova vita.» 
«Vita? La vita è una e una sola, e non può essere riprodotta!», tuona Rodrigo e la sua voce riempie la cappella, coprendo il singhiozzare della donna. «Per questo motivo è così preziosa! Lo capite? Se la vostra…»

La spada di Diego indica con un guizzo il petto di Shura.
«Taci, donzello…», e la lama s’illumina di sinistri bagliori, come se fosse viva e avesse sete di bere il suo sangue. Il Capricorno si chiede su che basi poggi questa sua convinzione, ma non riesce a rispondere: lui sente il desiderio quasi animale di quell’acciaio che vuole passare carni, muscoli, vene e ossa del forestiero che si trova di fronte.
«Diego, basta!», lo implora la ragazza con gli occhi ricolmi di lacrime.
«Isabel, che dici? Suvvia, non aver paura e fidati di me!», le risponde don Diego scattando in avanti e alzando la spada per colpire quel moscerino d’oro che è penetrato nel loro rifugio. Shura di Capricornus fa appena in tempo a scansarsi; l’attacco portato da Diego trancia a metà l’unico supporto rimasto in piedi su cui erano disposte alcune candele ormai consumate. Al contatto con il legno, la lama si è illuminata di una soffusa luce cremisi, che si è fatto più intenso man mano che la spada si apriva un varco.
Cosa ha animato questi esseri? Chi?, si chiede Shura smarcandosi elegantemente dal nemico. E deve trovare una soluzione: gli spiriti sono quelli degli amanti, ma i corpi tra breve no; i corpi che occuperanno, appartengono ad una coppia litigiosa del Ventesimo secolo, con la sola colpa di essere capitata nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Devo liberarli… Ma come?, si domanda passando ad un vaglio veloce la figura del nemico: a prima vista sembra un avversario di poco conto facilmente soggiogabile con un paio di colpi ben piazzati. E allora perché si è rialzato dal Jumping Stone come se niente fosse?

Diffida delle soluzioni troppo facili, sono le più pericolose!, gli ha sempre raccomandato Javier durante l’addestramento. Desiste dal portargli un attacco diretto, e gli gira attorno, cercando di evitare i colpi che si fanno sempre più vicini e decisi. Dove sono i due ragazzi?
Non può continuare così, si dice trovando rifugio dietro una panca rovesciata. Forse una soluzione c’è. La spada. Deve mirare alla spada che Diego stringe tra le braccia e farla andare in mille pezzi; o quanto meno, fargliela cadere a terra. Poi lo stordirà, ma prima deve disarmarlo, e renderlo meno pericoloso.
La Giustizia non tentenna! Athena guiderà la mia mano!
Spazio in ascissa, tempo in ordinata e la Sacra Spada taglia ortogonalmente tutto ciò che incontra sulla sua strada. Rodrigo espande il Cosmo e un chiarore dorato si spande nel Mausoleo vincendo le tenebre della sera di Teruel.
Don Diego grida, mentre la spada che stringeva con forza gli cade di mano e scivola sul pavimento lontano da lui.
«Diego!», gli fa eco Isabel, sovrastando le grida straziate dell’amato, la mani contratte sul volto e gli occhi neri sgranati dal terrore.
Quando Shura abbassa il braccio destro, il corpo di Diego è a terra, privo di sensi.
«Diego! Diego!», urla Isabel accorrendo, prendendolo in grembo e dandogli dei buffetti sul viso per farlo destare. «Diego!», e la sua voce si diffonde per le vie del borgo vecchio come il lamento stridulo di una strega portato dal vento gelido. Shura si ripara le orecchie con le mani, voltandosi verso la donna, dall’altro capo dell’ambiente. I capelli scarmigliati di Isabel le ricadono sul viso e sul collo in ciocche scomposte quando rialza il viso e sibila un «maledetto!» che gelerebbe anche il sole di Agosto.

«Che tu sia maledetto!», urla lei raccogliendo la spada, e l’arma, al contatto con le dita sottili della donna, si illumina di bagliori rosso bordeaux. Comprende, allora, che è l’odio e il rancore a muovere le mosse di quegli spiriti. Chi li ha risvegliati deve aver sentito la frustrazione di don Diego al vedere come due fidanzati sprecassero il loro tempo, mentre lui era costretto a dormire un sonno eterno accanto alla donna amata.
Shura alza il braccio destro ed espande il Cosmo.
Isabel stringe la guardia e gli lancia uno sguardo in cui racchiude tutto il suo livore. Bellissima, pensa Ruy, rendendosi conto di quanto sia folle quell’annotazione ora che è in gioco una posta così alta.
Isabel sorride, le labbra rosse che s’incurvano all’insù, e scatta in avanti, verso di lui. Si muove come se sapesse che quel ragazzo non la colpirà, limitandosi a difendersi; ed infatti, il Sacro Capricorno tiene la posizione, pur costretto a voltarsi per tenere sotto controllo i movimenti di Isabel. E lei, dopo tre o quattro affondi sgraziati, il peso della spada a sbilanciarla, si concede una risatina sommessa.
È troppo tardi quando Shura si accorge che Diego si è alzato.

«Pensavi sul serio che sarebbe stato così semplice, donzello?»
 Gli occhi di don Diego ardono di rabbia. Lo vuole schiacciare, come se fosse una mosca fastidiosa, che di quello che danno il tormento ronzandoci attorno in estate, e che riescono sempre a fuggire.
Shura carica il colpo, chiedendosi cosa abbia in mente di fare. Adesso dovrebbe urlare, dire qualcosa che suoni come «Adesso ti faccio vedere io!», o qualcosa di simile.
Invece no.
Diego si limita ad alzare il braccio e a sorridere.
Un sibilo alle sue spalle, ma è troppo tardi: qualcosa gli afferra braccia e gambe prima di inglobarlo dentro di sé.
Prova a lottare. A tenere la testa lontana da quella gelatina umida e calda che gli sta aderendo addosso come fosse fango liquido. Tutto inutile.


 
 

 









Note:  quinto capitolo, di giovedì, come un bel piatto di gnocchi al sugo!
Mudejar, dall’arabo Mudajjan, che significa “reso domestico” è un aggettivo che si riferisce agli arabi cui fu consentito di rimanere in Spagna dopo la Reconquista (1492), e la conseguente conversione (coatta) al cattolicesimo. L’arte mudejar è quella arabeggiante che definisce Toledo, Siviglia e Saragozza.

Il picchio di legno è un gioco di strada di una volta. A Roma il picchio è una trottola da lancio, in legno, con delle scanalature lungo il corpo, attorno al quale si arrotolava una corda. Per maggiori informazioni, potete dare un'occhiata qui.
Sì, Il sergente García è una fusione tra il Sergente García di Zorro e Chico di Zagor.

Gli Amanti di Teruel è una leggenda della città di Teruel che vede per protagonista lo sfortunato amore tra Isabel de Segura e Juan de Marcilla (che durante il Siglo de Oro è stato ribattezzato con il nome più caliente di Diego). Perché vi pare a voi che la Spagna si sarebbe lasciata scappare l'occasione di avere un'autoctona coppia à la Tristano e Isotta? Essù...

Donzello, che ci crediate o no, è un termine che esiste per davvero. Recita la Treccani: "dal provenz. donzel, lat. *dom(ĭ)nĭcĕllus, dim. di domĭnus, «signore»,  In particolare erano così detti i giovinetti nobili che si apprestavano a diventare cavalieri e destinati in genere a far corte, in qualità di paggi, a re, cavalieri, baroni; sicché il nome assunse poi il significato generico di domestico d’un signore (o anche d’un magistrato) e quello di usciere del municipio."
Ovviamente, Diego lo intende nel significato originale del termine, apprendista cavaliere. E se sia per scherno nei confronti di Shura, o per la giovane età di Ruy, io questo non lo so...

Una buona base per capire come si tira di scherma, mi viene da un romanzo di Arturo Pérez-Reverte, Il maestro di Scherma (Marco Tropea Editore, Milano, 1999), consigliatissimo per avere un'idea di come si impugna una spada. È più tecnico de Il Capitano Alatriste, e quindi fornisce, en passant, qualche nozione in più.
Diciamo che sto ancora cercando di capire quali siano le esatte posizioni (Prima e Ottava sono posizioni basse, Terza e Quinta, invece, alte), ma la lettura di quel romanzo mi ha aperto un mondo.

Jabba the Hutt appare in tutta la sua magnifica lardosità solo in Il Ritorno dello Jedi (1983) anche se è citato nei due film precedenti [Guerre Stellari (1977) e L'Impero colpisce ancora (1980)]. Mi sono presa comunque questa libertà poetica (???) perché l'altro possibile paragone con il roveto senziente sarebbero state le creature uscite dalla mente malata e distorta del Solitario di Providence, H.P. Lovecraft (cosa che Shura, in effetti, fa), di cui in questi giorni ricorre l'ottantesimo anniversario della sua morte. Ma inserire Dagon, Cthulhu e qualsiasi altra cosa che fosse incommensurabilmente, indescrivibilmetne, ineffabilmente, oniricamente straniante - qualcosa che la mente umana rifugge, nascondendosi nelle pietose braccia distorte della Follia - mi avrebbe costretto a rendere Shura qualcosa di più di un lettore distratto, ed è una cosa che mi sono imposta di non fare. Sì, non mi piace Lovecraft e la sua prosa bizantina; inoltre, la Capra è già contorta di suo, non mettiamo altro pathos sul fuoco!!

In tutto ciò, ho aperto una pagina Facebook dedicata a quest'account.
Non sono un animale tecnologico, quanto un vetusto rudere analogico; ma, semmai usaste Facebook, semmai foste incuriositi, e semmai vorreste tenervi aggiornati, fate pure un salto a trovarmi (qui). Vi aspetto, non siate timidi!!  

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** 6. La Canzone del Cavaliere ***


La Canzone del Cavaliere
 

 
Cordova.
Lontana e sola.
Puledra nera, luna grande,
e olive nella mia bisaccia.
(Federico García Lorca, Canzone del Cavaliere, 1918)





Chi è stato ad un passo dall’annegare è pronto a sottoscrivere col proprio sangue che la presenza dell’acqua nelle vie respiratorie brucia quanto e più del sale sulle ferite aperte.
Se non stesse annegando, Rodrigo concorderebbe anche se non è esattamente acqua quella che lo sta soffocando. Si porta le mani alla gola, d’istinto; ha tenuto la bocca chiusa, l’assalto del fango gli ha spalancato le labbra ed è corso ad occupare ogni spazio della trachea, e poi giù, fino ai polmoni.
Il Capricorno si dimena, contorce la coda, rotola sul pavimento della cappella, la bava alla bocca e gli occhi spalancati che non vedono altro che un velo denso, nero, che sembra quasi volersi sostituire al suo corpo.
È freddo, lo sente evaporare a contatto con la pelle che, invece, ribolle.
Vorrebbe poter vomitare fuori tutto, ma la bocca è tenuta aperta dal fango e il movimento di discesa è più forte di lui. Spinge, spinge, spinge. Esofago, stomaco, narici, orecchie. La sostanza gli preclude ogni contatto con l’esterno, e lui teme che voglia arrivargli dritta al cervello, lasciandosi dietro una scia di bruciature sulla carne viva.
Persino Excalibur è inutile.
Morirò così?, si chiede mentre l’onda verde si richiude su di lui.
Buio.


Il battito del cuore gli arriva lontano, attutito, come quando da bambino aveva l’otite e Lupe gli infilava un batuffolo intriso di olio tiepido nell’orecchio malato. Ora si sommano anche delle voci, lontane, come un televisore lasciato acceso nella stanza accanto. Il suono è familiare anche se fatica a capire cosa stia succedendo, o di cosa stiano parlando.
«Infilzalo con la spada! Passalo da parte a parte, come un tordo!»
Diego. E Isabel. Parlano di lui. Parlano di eliminarlo. È Isabel ad aizzare il suo compagno. È furiosa. Cieca di rabbia. Vuole annientarlo ora che è inerme, ora che non può più torcere un solo capello al suo Diego.
«Portiamole la sua testa», propone, con voce sibilante.
Portiamole. Una donna, pensa Rodrigo. Apre gli occhi. È in una bolla, davanti ai suoi due nemici, e la membrana che lo separa dall’esterno sembra curiosamente proteggerlo dai suoi carcerieri. 
Diego lo fissa come farebbe con un ragno che ha costruito la propria tela a ridosso di un mobile pregiato. Il viso di Isabel è una maschera di livore, le unghie lunghe che assomigliano agli artigli di una pantera che non chiede altro che di ghermirlo e dilaniarlo.
Vogliono la sua testa per farne omaggio a colei che li ha riportati in vita. Ma di chi si tratta? E Diego, non aveva forse detto di non conoscere il loro, se così si può chiamare, benefattore?
Rodrigo spera con tutto se stesso di essere incappato nei classici cattivi da operetta, quelli che svelano il loro piano geniale e diabolico all’eroe in catene, convinti della sua eterna e prossima disfatta.
«Ne sarà lieta… », insiste Isabel, alimentando le speranze di Rodrigo.
«Può essere», le concede Diego, ben intenzionato a non sbottonarsi troppo. «Tuttavia, non sappiamo se egli accetterà, se incontreremo il suo favore.»
Egli? Ma non si trattava di una donna?
L’opzione «vecchio scienziato pazzo che rivela il piano all’eroe» non è praticabile. Può solo attendere che gli si avvicinino quel tanto che basta e tentare una sortita. 
Il fango pulsa, come a voler attirare la sua attenzione. 
Buio.


C’è un ragazzo che cammina per strada. È a Teruel, ma in un altro quando
Medioevo?, si chiede Ruy.
Il ragazzo passeggia sotto un palazzo. Gli pare di averlo visto strada facendo. No. L’ha scorto quand’è salito sul tetto della casa di Crostobal e ha visto una torretta brillare gialla nel tramonto, la stessa verso cui il ragazzo lancia ogni tanto un’occhiata distratta.
Poi Ruy vede una mano sporgersi e lanciare qualcosa che il ragazzo raccoglie all’istante e protegge nella cintura. Quindi scappa via, come se avesse il diavolo alle calcagna.
Buio.


Altra scena, stesso ragazzo, qualche anno più tardi. È in chiesa. Accanto a lui, un prete. Gli parla fitto fitto, come se gli stesse dando dei consigli. Lui annuisce, ma il suo sguardo è altrove. Alla statua della madonna. C’è una ragazza inginocchiata davanti a lei. Trecce nere e abito color corda, la ragazza prega e depone un garofano bianco ai piedi della statua benedicente. Accanto a lei, un donnone grosso e lucido come una palla di sego che si guarda intorno preoccupata. Fa finta di non vedere, ma si è accorta di chi sta osservando la sua padroncina, la quale ricambia con fugaci sguardi con la coda dell’occhio.
La ragazza si segna, si alza ed esce dalla chiesa.
Il ragazzo guarda il prete.
«So che è una pazzia, don Jaime, ma lo farò lo stesso.»
Buio.


Il ragazzo di prima. In un palazzo di arricchiti. Mercanti, forse. Lui e la sua famiglia, invece, hanno la dignità dei nobili decaduti. Seduto su una specie di scranno c’è un uomo con un gran naso e una folta barba a chiazze nera e a chiazze bianca. 
Alla sua destra, la moglie. Giovane. Bella. Ingioiellata come una statua da portare in processione. A sinistra, dei ragazzi poco più grandi del nobile decaduto, i figli del padrone di casa, a giudicare dalla somiglianza. In fondo, la ragazza che Rodrigo ha già visto in chiesa e, dietro di lei, il donnone vestito di arancio.
«E sia, acconsento», dice il vecchio. 
Il volto del ragazzo si illumina, come quello di lei.
«Tuttavia, don Diego», dice ancora l’uomo alzando una mano per frenare quella gioia, «devo chiedervi di dimostrarvi degno di mia figlia.».
«Chiedete pure, don de Segura.»
L’uomo sorride compiaciuto, mentre osserva il ragazzo cadere nella sua rete.
«Partirete alla ventura. Diverrete cavaliere sul campo servendo la mia casa. Vi chiedo di impegnare così i cinque anni che mancano a Isabel per poter diventare la vostra sposa.»
«Attenderò», risponde il giovane, ben sapendo in cuor suo che avrebbe incontrato degli ostacoli. Cinque anni.
Il vecchio sorride e a Rodrigo sembra che stia per calare una pugnalata in pieno petto al ragazzo.
Buio.


Alba.
Diego è a cavallo. Alle sue spalle un altro ragazzo, poco più anziano di lui. Jorge Mendoza de Carrion. Assapora questo nome. Sa di viscido. Isabel si avvicina e lega una manica del suo abito alla lancia. È azzurra, di stoffa leggera e lui vi vede sorgere un’aurora calda attraverso.
Buio.


Sole alto.
Fragor di battaglia e clangor di spade. Urla. Odore di morte, vita, merda, sangue e sabbia. Terra. Nella bocca, sulle mani, negli occhi. Il sole infuoca le armature e riverbera dalle lame. 
Jorge combatte accanto a Diego. La bandiera con la mezzaluna sventola nel cielo. Scimitarre. Urla moresche. Picche che s’infrangono contro gli scudi e cavalli veloci.
Il destriero di Diego è ferito all’addome da un fante nemico. S’impenna e cerca la salvezza nella fuga, portandosi dietro il cavaliere. La sella cede.
Jorge vede sparire il suo compagno, trascinato via nella polvere.
Buio.


Il fuoco del camino.
Una lettera che brucia.
Il riflesso delle fiamme su un diaspro rosso.
Buio.


È sera.
Il donnone passa il pettine tra i capelli lisci della sua madonnina. È stanca. Ha passato un altro giorno a ricamare il suo corredo. Sei mesi. Tra sei mesi la sua bambolina diventerà una sposa. Se ne andrà. E lei? Cosa farà lei?
Il donnone ricaccia indietro le lacrime. Non vuole guastarle questo momento, e Isabel è troppo stanca per accorgersene.
Bussano alla porta. Il donnone è perplessa. Chi sarà mai?
Entra la matrigna. Furente. I capelli sciolti oltre le spalle e le labbra serrate.
«Vestiti e scendi. Ora», e sparisce giù per le scale.
Isabel trema. «Diego! È successo qualcosa a Diego!», e si veste il più veloce possibile.
Esce. Il donnone resta con la spazzola in mano. Si avvicina alla porta e alla tromba delle scale, col cuore in gola. Sente Isabel gridare.
«Diego! Diego! Diego!!»
La spazzola cade a terra.
Buio.


Le fiamme del camino.
Una lettera che brucia.
Il riflesso del fuoco su un diaspro rosso.
Buio.


L’Autunno ha deciso di presentarsi in anticipo, quest’anno. Nei campi i contadini seminano grano e segale, piantano gli spauracchi per tener lontani gli uccelli, alcuni ritardatari arano al passo dei buoi.
Rodrigo vede lo stesso ragazzo cavalcare al passo in direzione di Teruel e delle sue torri. Ha il viso stanco, la barba sfatta e i segni della malattia si notano insieme alla magrezza. Una spada pende al suo fianco. È di buona fattura, lo si intuisce dall’elsa su cui spicca uno smeraldo grande quanto una noce. Opera dei mastri spadai di Toledo.
Il ragazzo in armatura conduce il cavallo al passo, nonostante la sete e la voglia di arrivare che gli fa torturare le redini tra indice e pollice della mano destra, la sinistra sul pomolo della sella.
La bestia è stanca. Ha galoppato da Toledo sino a Teruel in soli due giorni, rispetto ai quattro che s’impiegano in media. Soste a pranzo e per dormire, quando l’animale cadeva stanco morto al suolo. Non ha sufficiente moneta per cambiare cavallo alle stazioni di posta, e il rischio che la bestia muoia per lo sforzo è alto; tuttavia, sarà lui a morire se non avrà rivisto la sua Isabel. La pelle morbida, gli occhi neri, le spalle tonde, il seno florido…
Quante volte la mano di Diego aveva viaggiato lenta, inseguendo un fantasma?
Sorride al pensiero che presto, molto presto sarà la sua sposa, in carne, sangue e umori. L’abito della festa, la Chiesa, il pranzo con i parenti e vino rosso a litri. E aringhe sotto sale, e agnello alla burgalese, anatre ripiene di pesci, uva, mele arrosto e miele caramellato. E la faccia di don Jaime. Sarà lui a sposarli, lui che non credeva possibile che il vecchio gufo desse il consenso, lui che gli consigliava di lasciar stare.
Ha faticato, ma ne è valsa la pena. I Mori al sud, i predoni lungo la costa, i Baschi al Nord e vassalli turbolenti ad Est. È un cavaliere, ora. Armato e addobbato nientemeno che dal duca Ramiro di Toledo. È sopravvissuto alla peste. 
Il suo unico rimpianto è di aver perso Jorge nella battaglia. Gli hanno detto che è morto, calpestato dai destrieri arabi, e lui ha giurato che chiamerà il suo primo figlio maschio come il suo fido scudiero.
Io per te e tu per me.
Un carro alle sue spalle. Botti di vino grosse come cristiani e un ragazzetto rubicondo a cassetta. La strada è stretta. Gli chiede se può fargli la cortesia di lasciarlo passare. Dice che aspettano il vino per una festa. Una grande festa, e il cavaliere si domanda se, per caso, non siano già stati informati del suo ritorno a casa. Ma in che modo, se è partito subito dopo la sua investitura a cavaliere ed ha galoppato più veloce del vento?
«Che si festeggia?», chiede al ragazzotto.
«Un matrimonio», risponde questi e nella testa di Diego, come in quella di Rodrigo che osserva la scena, scatta qualcosa.
«Di chi?», domanda ancora il cavaliere. 
Il ragazzotto è stranito. Che importa a quel cencioso guerriero di chi sia la festa? Non penserà certo d’imbucarsi e gozzovigliare a spese altrui? Meglio non dire nulla, e non perdere tempo in ciance inutili, altrimenti il padrone gliele suonerà di santa ragione col bastio, come ai somari.
«Di qualcuno.»
«Rispondi, o non ti lascio passare», replica Diego minaccioso, così minaccioso che il ragazzotto trema tutto e dimentica i suoi propositi di poco prima.
«Don Jorge Mendoza de Carrion impalma donna Isabel de Segura.»
Buio.


Il vescovo, braccia alzate e il bastone dorato tra le mani, benedice gli sposi seduti a tavola.
Irrompe un cavallo nel giardino del palazzo. Tutti si voltano. I «Chi è? Chi è?» si rincorrono tra i tavoli. Un cavaliere. Armato. E male in arnese. Il cavallo stramazza a terra, bava alla bocca. Il cavaliere avanza verso gli sposi, barcollando. Si alzano i parenti.
«Diego!», grida Isabel.
Lo ha riconosciuto. In cuor suo sapeva che non poteva essere morto, non lui, non il suo Diego.
Joaquin, il fratello maggiore della sposa, interviene. Sono tutti felici di saperlo sano e salvo, anche se la sua faccia esprime l’esatto contrario. Batte le mani e chiede che si porti un piatto anche per il figliuol prodigo.
Diego grida. Non vuole mangiare né bere, vuole solo sapere perché la sua promessa sia andata in sposa al suo scudiero.
«Vi credevamo morto», risponde Joaquin tranquillo, mentre pensa che il suo fresco cognato non è neppure in grado di recidere per bene le corregge di una sella.
«Sono vivo!», urla disperato Diego.
Capisce che è tardi, che non hanno alcuna intenzione di annullare il matrimonio e che la ragione della sua vita appartiene adesso ad un altro. Le menzogne di Jorge, il fedele scudiero e amico che avrebbe dovuto vigilare sulla sua condotta; è tornato a casa con i suoi onori e le sue lettere ed è diventato un cavaliere.
Armerà il suo braccio. La sua famiglia sarà con lui, il duca Ramiro gli darà la sua protezione.
«Ho mandato delle missive…»
«Mai ricevute», afferma don José de Segura nascondendo le mani.
Interviene il vescovo. È saggio che Diego rinunci. È solo. Suo padre non ha retto alla notizia ed è morto. La madre ha raggiunto la sorella ad Ávila e suo fratello ha seguito re Sancho nella Crociata per liberare il Santo Sepolcro. Lui è solo. E loro sono tanti.
E il vescovo gli fa capire che non gli offrirà mai il suo appoggio.
Isabel è davanti a lui, vicina e lontana allo stesso tempo, come può esserlo una donna in un dipinto.
Non sarà mai sua.
«Un bacio. Solo un bacio.»
Implora. Lui, ventesimo pretendente al trono di Castiglia, implora un suo vassallo di concedergli quello che gli spetterebbe di diritto. Il mondo va alla rovescia.
Jorge, la serpe in seno, gli nega anche quel gesto di carità.
«Se acconsentissi, avallerei la mia malafede. Mi dispiace, don Diego, ma non è possibile. Ne va del mio onore.»
Il suo cuore si spacca.
Esce dal giardino, la testa bassa, senza dar peso ai commenti degli invitati. Chi sono loro per giudicarlo? Che vogliono da lui quelle sanguisughe buone solo ad ingozzarsi alle spalle altrui e a fare numero agli occhi dei poveri?
Il cavallo è morto. Diego lo supera, esce dal cortile del palazzo e si trova puntati addosso gli occhi dei passanti che l’hanno visto sfrecciare per le calli di pietra come fosse uno dei Cavalieri dell’Apocalisse.
«Largo, largo! Fate largo!»
È arrivato un carro. Botti grosse come un cristiano. A cassetta un ragazzetto rubicondo. Dice se lo fa passare anche lui. Dice che deve consegnare il vino per la festa.
La festa. Già. Il matrimonio.
Isabel.
Isabel s’è sposata…
Isabel…
Il sole è caldo sulla sua testa.
Isabel…
Cade al suolo, il cuore spaccato in due come una mela.
Buio.


La camera da letto.
Il donnone pettina Isabel. La sposa è vestita a lutto. Più che una persona sembra un automa, di quelli che si incontrano nei racconti che i saltimbanchi tengono durante le feste in piazza. Il donnone si chiede come si possa darle torto. Diego è morto, e lei con lui. È riuscita ad ottenere di occuparsi del funerale del suo amato promesso sposo.
«Il rifiuto di quest’uomo ha ucciso don Diego, il mio legittimo promesso sposo. Pretendo di occuparmi almeno della sua salma, prima che costui mi sfiori!», e anche la sua matrigna ha dovuto cedere.
La balia sa che in tutta quella brutta faccenda c’è lo zampino di donna Cristina, parente di Jorge, e si chiede se davvero l’ambizione e i soldi possano giustificare ogni azione. Quella donna non ha cuore, pensa, ma d’altro canto donna Cristina ha mai accostato al proprio seno la sua creatura, quella che ha avuto da don José – da don Joaquin – la primavera scorsa? 
Non sono più madre io, di lei?
«Balia Gonzala?»
«Sì, madonnina?»
«Stringete di più le trecce.»
«Ma, madonnina…»
«Stringete le trecce», e Isabel precipita nuovamente nel suo mutismo.
Gonzala ha paura, ma esegue lo stesso il desiderio della sua piccina. Le forcine fissano la chioma in una stretta acconciatura, e lei si alza, esangue. Vorrebbe consigliarle del bistro che le ravvivi un po’ l’incarnato, ma sta andando ad un funerale, non ad un ballo.
Isabel esce dalla stanza, testa ritta e sguardo assente, come una statua.
«Addio, balia», le dice con un sorriso spento, poi è fuori con un solo passo.
E Gonzala ha paura.
Buio.


La chiesa è deserta.
I parenti di don Diego sono stati avvisati, ma non arriveranno che a cose fatte. E il morto non può più aspettare. Isabel segue la bara dalla prima fila del corteo. È stanca. Ha vegliato il suo promesso e pianto tutte le sue lacrime. Il corteo entra in chiesa. Gli uomini depongono la bara ai piedi dell’altare illuminato da mille candele. Fanno per richiuderla ad un gesto di don Jaime, quando Isabel li ferma.
«Aspettate», dice loro deponendo una corona di garofani bianchi sul petto di Diego. «Lasciate che lo saluti per l’ultima volta», e si china su di lui.
Le sue labbra sono così fredde e il suo cuore si ferma in quell’istante. 
Crack.
Buio.


Continua a chiedersi il perché di quelle visioni. Cosa sono? Sogni? Ricordi? Frammenti del passato di Diego e Isabel? Ma perché vogliono fargli conoscere la loro storia? Per distrarlo? Per impedirgli di liberarsi?
Non ti muove a compassione il nostro fato?
Una voce. Uomo e donna insieme. 
Chi sarà?, pensa.
Non hai pietà per il nostro amore? A che è servito vivere? Perché nascere, allora, se non c’è una seconda opportunità?
Sa che non può perdere tempo a rispondere a quella voce. Sa che deve ricreare la genesi di una stella dentro di sé. E c’è solo un modo per farlo: porsi la domanda con cui Javier lo assillava durante l’addestramento. 
Perché sono nato, io?
«Se non trovi una risposta soddisfacente, fai pure fagotto e tornatene a casa tua», aggiungeva brusco accendendosi una delle sue sigarette senza filtro.
Quella domanda arrivava sempre nel momento più strambo della giornata. Si sarebbe aspettato che gliela ponesse durante l’allenamento quotidiano, o che costituisse il materiale su cui far lavorare il cervello durante le ore passate sulle rocce aguzze a meditare. Qualcosa simile a Chi siamo?Dove andiamo?, Da dove veniamo?, eccetera, eccetera, che lui si era effettivamente chiesto guardando un punto indefinito nel cielo terso e chiaro che spuntava da oltre i denti aguzzi dei Pirenei.
E invece no.

Javier è stato un maestro sui generis anche in quello. Lo riempiva di esercizi su esercizi, piegamenti sulle gambe appeso per i piedi ad un ramo a strapiombo sulle gole buie e senza fondo, gli faceva trascinare cataste di legna legate alla schiena nella neve alta un metro e mezzo abbondante, e mille e mille flessioni sul pavimento di assi di quercia, con Javier intento a leggere il giornale comodamente sdraiato sulla sua schiena.
Poi, quando il cervello dell’apprendista spegneva ogni interruttore e il suo corpo andava avanti in automatico, il maestro, zac, gli poneva quella domanda, affilata come un colpo di fendente.
«Ti chiedi mai perché sei nato, Ruy?»
Oh se se l’era chiesto! Così come s’era chiesto tante altre cose: perché proprio lui era rimasto orfano? Perché non l’avevano lasciato assieme a Burgos? Perché Javier l’aveva portato lassù sulle montagne grigie, tra mucche placide e capre dalle corna aguzze?
Non aveva mai trovato un risposta diversa dal boh? che gli faceva alzare le spalle e riprendere le normali attività. Non sapeva il perché, sapeva solo di essere stato clamorosamente sfortunato e che, forse, le cose potevano soltanto migliorare. Forse: non se la sentiva ancora di scartare l’opzione scavare dopo aver toccato il fondo.

La prima volta che Javier gli aveva fatto quella domanda, lui ricorda di aver risposto alzando le spalle, come a dire: «non lo so e nemmeno me ne importa».
Allora, il maestro si era alzato dalla poltrona accanto al camino spento, aveva lasciato da parte il camoscio che stava intagliando in un ciocco di legno che aveva attirato la sua simpatia, gli aveva preso il mento tra indice e pollice della mano sinistra e aveva sibilato: «Trova una risposta convincente, oppure fai fagotto.». Ed era serio.
«Diventare un santo di Athena?» aveva risposto, buttandosi nel vuoto. E gli era andata bene.
Javier aveva fatto una smorfia simile ad un sorriso e gli aveva lasciato la faccia.
«Può essere un inizio», e l’aveva lasciato in pace per quasi tre mesi buoni.
Poi, in una sera di fine novembre, mentre la cena era pronta in tavola, le patate stavano finendo di cuocersi sotto la brace e lui stava per portare alla bocca la prima cucchiaiata di minestra, zac, Javier gli aveva chiesto con voce flautata: «Ti chiedi mai perché sei nato? Qual è il tuo scopo, a questo mondo?».
E anche lì, stessa pantomima, lui che rispondeva con un’espressione insicura e Javier che gli indicava la porta.
Alla fine aveva compreso e che razza di gioco stesse giocando il suo maestro. C’erano due scopi in ballo: il primo era quello di far crescere in lui la consapevolezza di ciò che stava facendo, di fargli comprendere che c’erano dei motivi dietro tutti quegli allenamenti al limite del sadico cui si sottoponeva ogni santo giorno, piovesse, nevicasse o cascasse il mondo; il secondo scopo era quello di farlo abituare a vedere le cose da diversi punti di vista, ad ampliare le prospettive, ad avere diverse angolazioni. E insegnargli a trovare di conseguenza nuove soluzioni.
Aveva smesso di tormentarlo quando aveva finalmente risposto, sbottando: «Per quale altro motivo vuoi che sia nato? Perché sono un Santo di Athena, no? E perché sono l’unico e il solo cui la dea possa affidare Excalibur».
Javier aveva sorriso soddisfatto e non aveva commentato oltre.

Sono un Santo di Athena e sono l’unico cui la dea abbia potuto affidare Excalibur.

No, non è ammissibile morire così, non ora, non adesso, non in questo modo.
Il suo Cosmo riluce nel buio in cui è immerso, lo può veder brillare anche ad occhi chiusi lungo la sua pelle, le braccia, le gambe, i capelli, il diadema con le corna ritorte verso l’alto, il giaco e gli schinieri. È oro, oro puro, dai bagliori caldi e attraenti.
Non può morire, non adesso, non può lasciarsi sconfiggere da due morti che si sono rianimati; Ade, il nemico contro cui Athena si batterà, sta per rinascere a nuova vita e ci sarà bisogno di tutti i Santi devoti alla dea. E adesso ci sono degli innocenti da salvare, prima che sia troppo tardi.
Mio Cosmo, compi il miracolo ancora una volta.
L’energia di Shura si concentra tutta in un raggio dorato che fora la bolla e schizza in alto, oltre i tetti e il cielo, oltre l’atmosfera, sino alla Costellazione del Capricorno. Le stelle entrano in risonanza con quel Cosmo e lo deflettono indietro, verso la Terra e quel figlio che ha bisogno di aiuto. Deneb Algedi risponde all’appello, anni luce più in basso, e riversa su di lui una pioggia d’oro e potere che scende turbinando verso quel puntolino azzurro.


Le persone ammassate oltre il posto di blocco hanno sentito solo un gran fracasso provenire dal cuore della vecchia Teruel, seguito da un luce dorata che splendeva e rischiarava la notte salendo verso il cielo, prima di sparire oltre le nubi. Tra la gente che si segna, tra chi si perde a fissare quello strano fuoco d’artificio, e chi suda freddo, Hernán si volta verso Gregorio.
«Cosa pensi sia successo?»
«E chi lo sa? Chi ci capisce più niente?», risponde questi torcendo con più forza il barbone da cappuccino.
«Ma potrebbe essere? Sì, insomma, potrebbe darsi che…?», insiste l’uomo tornando ad osservare la sagoma della torre della chiesa di San Pedro. «Che succederebbe, allora?»
«Non lo so!», l’interrompe Gregorio, livido in viso. «Non. Lo. So. Dobbiamo soltanto aver fiducia in lui. L’ha scelto il Sacerdote, che sa il fatto suo, e anche se le apparenze possono ingannare, sono sicuro che il nobile Shura abbia più frecce al suo arco di quelle che noi possiamo immaginare. Quindi, stai calmo e goditi lo spettacolo.»
«Ma c’è un ragazzino di sedici anni laggiù! Come puoi dirmi di starmene zitto e buono a guardare?», sbotta Hernán del tutto dimentico del sergente García che fissa entrambi stupefatto, asciugandosi il sudore dalla fronte.
«Senti amico», gli risponde Gregorio mettendogli una mano sulla spalla. «Quel ragazzino di sedici anni è un Santo d’Oro, non una mezza cartuccia come te e me. Se non ce la fa lui…»
Pausa.
«Se non ce la fa lui?»
«Allora, è arrivata l’Apocalisse.»
Hernán fissa gli occhi decisi del compagno e dal suo tono di voce comprende che deve fidarsi. Deve rimettere tutta la sua esistenza e il suo futuro nelle mani di uno sbarbatello col vizio di parlar poco e con un pesante accento del nord.
«Siamo venuti qui per dare una speranza a queste persone. Sai dirmi cosa accadrebbe se ci lasciassimo andare e perdessimo la calma? Eh? Te lo dico io, sarebbe il panico», prosegue Gregorio digrignando i denti ad ogni parola. «Quindi fammi un favore: calmati e stai buono. E aspetta il ritorno del nobile Shura.»
Gregorio si allontana, le mani nelle tasche del cappotto, verso il sergente García, che sembra avere l’aria più stralunata del solito.
«Che accade?»
Hernán lo sente rivolgersi al suo compagno, con gli occhi dilatati dalla paura di non capire che stia avvenendo attorno a lui e ai suoi piedini da fata.
Gregorio mormora qualche scusa poco convincente ed Hernán si guarda intorno: i curiosi che erano presenti al momento del loro arrivo sono dimezzati non appena è calata la sera. Gli irriducibili piantonano le transenne di legno sfidando la Guardia Civil in un gioco di sguardi poco rassicurante. Una donna, settant’anni sulle spalle curve, se ne sta imbacuccata e seduta sulla sua sedia di vimini a fissare lo spettacolo di luce che si accende e spegne in mille bagliori dorati. Tutte le sue cose sono ammassate accanto alla sua sedia, dal televisore alla radio, alle pentole alla fotografia del suo matrimonio che tiene in grembo.
Non vorrai distruggere le speranze di tutte queste persone, vero Hernán? E allora, calmati, respira a pieni polmoni e pazienta, si dice tornando a fissare la torre della chiesa di S. Pedro. Anzi, una cosa che può fare c’è: aiutare il giovane Shura con il suo Cosmo. 
Almeno questo.
 


 
 

 









Note:  note ridotte all'osso, quest'oggi. Ho anticipato l'aggiornamento di un paio di giorni, perché i miei tempi stanno diventando sempre più instabili e incerti, sicché avevo un attimo di tempo e ne ho approfittato, infischiandomene del mio essere una procrastinatrice indeffessa quale io sono.

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** 7. Determinazione ***


Determinazione
 

 
 
Nel regno delle idee tutto dipende dall’entusiasmo,
nel mondo reale tutto si basa sulla perseveranza.

(Johann Wolfgang von Goethe)





Lo squarcio della bolla avviene con un'esplosione che chiazza i muri della cappella di una sostanza appiccicosa e verdastra, e quel che era penetrato nei suoi polmoni Ruy lo scaccia con un colpo di tosse. 
L'Armatura è macchiata di una resina melmosa, ma nulla che non si possa togliere con un po' di acqua saponata, olio di gomito e polvere di oricalco. I cocci sotto i suoi piedi scricchiolano nella notte silenziosa.
Respira a fatica, ingoiando quanta più aria i suoi polmoni riescono a contenere e la rilascia quasi subito. È in piedi, il braccio destro davanti al viso a chiudere la guardia, le ginocchia leggermente flesse.
Don Diego e donna Isabel lo fissano adirati, la spada che brilla truce nell'oscurità della Cappella. Hanno perso tutto quello che avevano di umano: i capelli di lei, dapprima sistemati in complicate trecce oltre le spalle, vagano sciolti come onde grigie in un mare in tempesta. Spettrale è il solo aggettivo che trova per descrivere quei due. Le lunghe unghie di Isabel, ricurve ed acuminate, brillano quando un raggio di luna le illumina, pentendosene subito dopo, così come avviene per i denti di Don Diego che spuntano da sotto la barba sfatta, e sembrano chiamare con insistenza il sangue che scorre nelle vene del giovane Capricorno.

«Sei ancora vivo, dunque, donzello», commenta il cavaliere con la voce cavernosa, mentre mille falene escono dalla sua barba e si diffondono nell'aria, svolazzando fino al soffitto e sparendo nelle ombre. 
«Vivo e vegeto», replica Shura facendo scivolare in avanti la gamba sinistra. «Mi duole ricordarvi che i morti siete voi.»
«Siamo tornati a nuova vita», insiste l'altro mettendosi davanti alla sua amata.
«I morti risorgeranno nel giorno del Giudizio, don Diego, non prima», risponde, pronto a scattare.
«Vorrà dire che noi saremo l'eccezione che conferma la regola.»
«Non credo sarà possibile, don Diego. Almeno non fintantoché io sarò in vita.» 
Nessuno dei due si muove. Il pietrisco smosso durante la prima fase della battaglia ha creato un alone persistente ed una debole concentrazione di pulviscolo che gli alita intorno alle gambe. E la luce lunare non aiuta a rendere nitido un panorama che sembra uscito dalle visioni oniriche di uno schiavo dell'assenzio.
Shura è in piedi, ben saldo sulle gambe, e il suo avversario, un romantico cavaliere di ventura, gli rivolge la spada contro, attendendo una sua carica per poterlo infilzare come un tordo da fare allo spiedo.
È ferito dalla testa ai piedi, il corpo marcito che secerne un umore nero e denso che forma delle chiazze solide sul pavimento dissestato, come fosse la cera sciolta e rappresa delle candele.
Ansima don Diego, mentre con gli occhi neri e ardenti fissa il giovane che l'ha sfidato e che rischia di mandare in fumo il suo sogno.

Arrenditi, non puoi sconfiggermi, sembrano gridargli gli occhi del Capricorno. È una gara di volontà quella che si sta combattendo nella cappella degli Amanti di Teruel.
Determinazione.
Desiderio di piegare il destino alla propria volontà di potenza.
Vivere una felicità negata.
Assolvere il proprio compito.
Aspirazioni che cozzano l'una contro l'altra, come due pianeti che collidono e si annientano. Come quando le zolle della Terra si urtano tra di loro, generando i terremoti. La Terra. Madre, fertile, solida, tranquilla Terra che se ne resta quieta sotto i piedi degli uomini. È lei l'elemento più distruttivo che esista.
Non il Fuoco, che arde luminoso e che palesa chiaramente il suo potere.
Non l'Aria, che permette la vita, ma che quando spira troppo forte scoperchia le case.
Non l'umile Acqua capace di rompere gli argini più alti e resistenti con un solo, furioso impeto.
La Terra è l'elemento che cela in sé il più alto grado di distruzione. L'uomo sembra ignorare che sotto i propri piedi esista un mondo di roccia fusa che ribolle, pulsa e mangia se stessa per ricreare nuova terra.
E lui, Shura, il giovane Capricorno, appartiene alla Terra. Cardinale di Terra.
Quando il Sole esce dalla Nona Casa ed approda alla Decima, nascono l'Inverno e l'ultima Triplicità dello Zodiaco, il cui potere inimmaginabile è condensato nel suo braccio destro, capace di fendere la Terra stessa con un colpo solo, come fosse carta contro il Fuoco, sabbia contro l'Aria, sale contro l'Acqua.
La Terra trema e il braccio sinistro di don Diego si sgretola sotto i colpi dell'avversario, cadendo e disperdendosi come fosse cenere. Il dolore di Isabel, che soffre per i colpi inferti al suo amato, riempie la Cappella con grida disarticolate che nulla più hanno d'umano e s'invola su per l'aria della notte.
Ma non basta ancora. Don Diego, mutilato, resiste in piedi, aggrappandosi con le unghie e con i denti a quella speranza che si va assottigliando sempre di più.
Devo distruggere la fonte del loro potere. Ma quale sarà?, si chiede il Capricorno alzando Excalibur per parare un affondo del nemico. La spada di don Diego pulsa. E lui capisce. È quell'oggetto a dare forza al cavaliere, è quella che gli permette di camminare e di rigenerare il proprio corpo.

«Maledetto moccioso!» ringhia don Diego mentre dal busto spunta un nuovo braccio, rinascendo come la coda di una lucertola.
«Rassegnatevi. Non posso permettervi di proseguire oltre. Ho tentato di farvi ragionare, ma non è stato sufficiente. Assumetevi le vostre responsabilità.»
«Taci! Io non sono ancora sconfitto! Ho battuto predoni, mori, pirati e cavalieri ben più forti di te! Ho piegato persino la morte pur di riabbracciare la mia amata Isabel! Come potrei soccombere di fronte ad un ragazzino disarmato?»
«Non c'è peggior cieco di chi non vuol vedere», replica Shura con gli occhi incollati alla spada dell'avversario. «Nel mio braccio riposa la Sacra Spada, dono di Athena. Il mio braccio è la mia arma. Il mio braccio è Excalibur.»

Scalza l'avversario che perde l'equilibrio e il Capricorno scatta tagliando lo spazio davanti a sé in blocchi quadrati. E come con il roseto, la Sacra Spada cala inesorabile su tutto ciò che trova sul proprio cammino: suppellettili, fiori, ex voto rimasti intatti, candele e i corpi dei due amanti fin quando non incontra la spada di don Diego.
Excalibur si alza, i muscoli si tendono e il Cosmo si concentra lungo il filo immaginario della spada che dorme nel suo braccio destro. Carne e sangue diventano acciaio temprato che si abbassa veloce a colpire l'arma tra le mani deformate di don Diego.
Un lampo di luce, il pavimento segnato dalla corsa di Excalibur brilla d'oro e la spada del cavaliere di ventura va in mille pezzi. Don Diego esplode in mille pezzi, mentre Isabel non può far altro che abbracciare quel che resta del suo amato prima di cadere a terra e diventare cenere insieme a lui. Tutto tace.
Possibile?, si chiede non essendo abituato alle cose troppo semplici.
Per aspera ad astra, ripeteva Javier durante l'addestramento, e lui resta vigile per qualche momento a fissare la cenere ammonticchiata dove erano fino a pochi istanti prima i due Amanti.
«Polvere sei e polvere ritornerai», mormora il ragazzo, prima d'ispezionare la Cappella: è ridotta ad un campo di battaglia, un ammasso di rovine sbatacchiate qua e là.
Nessun segno dei due Amanti, né della pianta che ha cinto per giorni l'assedio al Mausoleo, ma solo un mare di terra e cenere, come se non fossero mai esistiti. Cerca in giro le tracce dei due fidanzati rapiti dalla pianta e li trova in un angolo, sepolti dai detriti di varia natura. 
Respirano. Lei è pallida da far spavento, le labbra secche e il vestito stracciato, le calze con una vistosa smagliatura e le scarpe perse chissà dove. Lui sembra riaversi per primo, ma cade svenuto subito dopo aver trovato lei con lo sguardo. Respira a fatica, ma gli sembra che stiano bene.
Dovrò fare più di un viaggio, pensa prendendo con delicatezza la ragazza tra le braccia.
Fuori, il bubbolio di un tuono.


È uno spettacolo curioso ed insolito quello cui assiste la frangia estrema degli irriducibili abitanti di Teruel, mentre la pioggia scroscia dal cielo come se fosse una liberazione.
«L'incubo è finito!», sembra canticchiare tutta quell'acqua che si riversa sulle teste degli abitanti della città.
Il sergente García è il primo a notare la figura nera che emerge dalla foschia.
«Madre Santa!», esclama segnandosi ed indicando qualcosa con le sue dita grassocce. «Guardate! Laggiù!»
Hernán e Gregorio avanzano con delle coperte tra le mani dopo aver riconosciuto il Santo della Decima Casa.
«Come state?», chiedono riparando entrambi.
«Bene. Stanchi, ma bene. Allertate il Pronto Soccorso che mandino un'ambulanza in Calle Bartolomé Esteban numero 19. Torno subito», e affida loro la ragazza dopo averla imbacuccata per bene.
«Dove andate?», gli urla dietro Gregorio, senza ottenere altra risposta che lo scroscio della pioggia.
«Via, sbrighiamoci. A stare sotto quest'acqua si prenderà un malanno, e poi dobbiamo mandare un'ambulanza in… in… Calle…»
«Calle Bartolomé Esteban numero 19. Forza, forza, forza!», completa Gregorio e Hernán lo segue con la ragazza infagottata, le gambe che spuntano dall'orlo della coperta.
Il militari li guardano perplessi. Nessuno ha mosso un dito quando i due uomini, protetti da un paio di cappe grigio scuro come se fossero due membri di un ordine monastico, hanno superato con un salto atletico le barricate e sono corsi verso la figura cornuta che era appena apparsa. Ora, però, li tengono sotto tiro, pronti a premere il grilletto ad un cenno del loro comandante. 
«Abbiamo la ragazza!», urla Gregorio perché la sua voce non sia coperta dallo scroscio dell'acqua. «Chiamate un'ambulanza!»
Il comandante fa segno di abbassare le armi. «E il ragazzo dov'è?», domanda con un tono ancor più gelido dell'acqua che li sta penetrando fin nel midollo.
«Non saprei. Credo che forse il nostro signore sia andato a prenderlo. Abbiamo…»
«Forse? Lei crede che forse il vostro signore sia andato a prenderlo? Non è sufficiente un semplice forse per far muovere i miei uomini come se fossero i vostri burattini.»
«Non ha sentito?», gli domanda Hernán mentre il suo compagno affida Isabel ad un soldato. «Il nostro signore è tornato indietro. Forse il fidanzato di questa ragazza è ancora lì, ma quello che importa…»
«È che io non muoverò un solo dito per voi sin quando la missione non sarà completata fino in fondo», sibila il pupazzo in verde, tutto gongolante delle mostrine che sfoggia sul petto.
Gregorio sta per dare aria alle corde vocali per produrre una risposta estremamente sgradevole, quando qualcuno alle sue spalle lo precede.
«Missione compiuta, Comandante», e Shura affida Diego alle braccia di Gregorio. «E adesso vuol chiamare le due ambulanze che mi occorrono?».
«Due?»
«Sì. Due.»
Rodrigo si avvicina e fissa i suoi occhi in quelli del militare.
«Una dovrà andare in Calle Bartolomè Esteban, al numero 19. Troveranno un'anziana allettata con l'influenza, ed un bambino di dieci anni», spiega con il tono di chi sta per perdere la pazienza e vuole che gli altri se ne accorgano. «La seconda, invece, dovrà venire qua con un medico a bordo ed il necessario per curare una ragazza malata di scarlattina che sto per andare a prendere. Subito. Non vorrei che quelle tre persone morissero perché la Guardia Civil non si è dimostrata efficiente e non ha sgombrato del tutto l'area in questione, lasciando dei civili in una zona pericolosa. Sarebbe seccante, lei non trova?»
Il Comandante digrigna i denti e tace.
«Chiami le ambulanze e faccia sgomberare le transenne. Io sarò di ritorno prima di subito», e scatta verso il borgo vecchio, mentre un sorriso soddisfatto si dipinge sui volti di Hernán e Gregorio.
«Sergente García!», urla istericamente l'uomo prima di andarsene ed affidare al suo sottoposto boteriano quegli strani personaggi che gli hanno tolto le castagne dal fuoco.
«La prego, chiami due ambulanze…», e l'ometto annuisce da sotto il suo ombrello nero mentre Gregorio ripete gli ordini di Shura.
«Subito, subito! Rodriguez, avverti l'ospedale. Muñoz, prendi tre uomini e smonta le barricate», e se ne va spronando i soldati e assegnando loro le mansioni. 
«Sta a vedere che è davvero finita?», dice Hernán sollevato, mentre la pioggia gli rimbalza addosso.
«Sarà veramente finita quando il nobile Shura sarà tornato, avrà stilato il rapporto per il Sacerdote e tu ed io ce ne staremo al caldo al Santuario.»
«E all'asciutto…», aggiunge Hernán osservando la pioggia cadere. Né lui, né Gregorio si sono accorti che c'è qualcun altro che ha rivolto il suo naso al cielo, qualcuno che ha osservato tutta la scena dall'alto dei tetti, e che adesso tiene gli occhi incollati sulla formica d'oro che sta correndo veloce per le strade di Teruel con una gamba rotta. 


 
 

 









Note:  Torno dopo un periodo di forte stress. Mi scuso per essere sparita, ma noi paguri campiamo così: ci rintaniamo nella conchiglia quando soffiano i marosi e rimettiamo fuori le chele se e quando la brezza accarezza la spiaggia.

Capitolo più breve, ma le descrizioni pedisseque dei combattimenti mi annoiano da morire. "Colpì lì", "Ferì là", "Rispose facendo questo e quello". No, dai. C'è un mondo intero che ci aspetta e la vita è troppo breve per perderci appresso a queste cose, no?

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** 8. Il Destino che soffia dal Mare ***


Il destino che soffia dal Mare
 

 
Coincidenza è il modo di Dio di restare anonimo.
(Albert Einstein)








Ha ricomposto la frattura grazie al suo Cosmo. Interessante…

Osserva la città fantasma da sopra i tetti delle case abbandonate, la cappa nera che danza pigra e molle nel vento della sera.
Un tempo, quelli come lui punivano gli umani per i peccati commessi con l'unico salario possibile: la morte. Bastava schioccare le dita, o anche solo pensare al supplizio scelto, e l'umanità assaporava sulla propria pelle cosa comportasse l'aver sfidato un dio.
L'acqua era il suo strumento. Quando la sua volontà decideva di mostrare quanto profondo, quanto micidiale fosse il suo potere, lui allargava le braccia e la morte giungeva attraverso il vortice azzurro che nasceva davanti a lui e univa le terre, sommergendole. Allora si godeva lo spettacolo dei flutti che ruotavano con forza e sradicavano qualsiasi oggetto incontrassero sulla loro strada.
Ha sempre trovato una certa vena di poesia nell'acqua che scorre tumultuosa, marosa quasi, quando, dopo aver rotto gli argini, è ansiosa di occupare tutto lo spazio possibile, e poi distendersi, placida, a riflettere il colore del cielo e parlare con lui in un muto gioco di sguardi.
Calma. Serenità. Quiete. Arresa.

«Io non ti capisco.»
Lei è appollaiata con grazia su un comignolo, accanto a un nido di cicogna.
«Non mi aspettavo altro, da te.»
«Grazie. Molto gentile. Molto educato.» Lei si finge offesa, mentre il vento, che adesso ha preso a spirare dai monti, resta impigliato nei suoi riccioli azzurri. «Sei sempre stato un misantropo, ma negli ultimi tempi sei peggiorato…»
«Dici?»
«Sì.»

Il vento gonfia il suo mantello nero e si permette di carezzargli gentile i capelli.
Lei dondola la gamba destra, accavallata sulla gemella, e descrive un cerchio in aria con la punta del piede. I calzari d'oro, intrecciati tra di loro, riposano appesi alla sua spalla nuda. 
Non è abituata a camminare per le strade degli uomini, e quelle calzature, dono di un vecchio amante rapito dalle nebbie del tempo, le piacciono solo come orpello che slanci le sue lunghe gambe e renda desiderabili i suoi piedi magri e affusolati.
Lui torna a guardare la formica d'oro sfrecciare per le calli deserte.
«Vuoi che ci pensi io?», gli chiede sussurrando con quel tono basso che gli piaceva tanto. Funziona sempre, e la sua natura capricciosa è stanca di aspettare su di un tetto, come i gatti.
Lui tace.
«Avanti… Per una come me, sarà un giochetto aver ragione di quel marmocchio», prosegue lei, affastellando i suoi capelli sopra la testa, mentre inarca sensuale la schiena. «Scommetto tutte le dracme che vuoi che quel ragazzo non ha mai sfiorato la pelle candida di una donna.»
Lui si volta, le regala un'occhiataccia delle sue, quindi le dice: «Hai già svolto il tuo compito, mia cara. Ora lasciami pensare.».
«Quindi, dovevo solo soffiare su di un rovo?», gli domanda sbattendo le palpebre.
«Sì», e lui sprofonda di nuovo nel silenzio.
Lei sembra delusa. I capelli ricadono morbidi sulla schiena e le mani bianche scendono sui mattoni sotto di lei.
«E va bene. Tu piombi sulla mia isola, mi costringi a seguirti fin quassù, lontana giorni e giorni dalla mia sabbia e dalla mia grotta, solo per giocare al giardiniere?», domanda lei mentre il cielo si oscura sopra le loro teste. «Dimmi che è uno scherzo.»
Lui tace. La tua isola?, pensa, tenendo per sé quella recriminazione.
«Adesso basta! Adesso tu…»
«Adesso io, cosa?», ringhia lui, mentre il suo Cosmo ribolle.
«Tu parli!», strilla lei. Poi inspira ed espira un paio di volte e prosegue: «Non credere di poter fare la voce grossa con me. Tu sarai anche più nobile per nascita, però…».
«Però, cosa?», domanda lui, gli occhi simili a due fessure.
«Però il tuo potere non è più lo stesso, mio caro. È diminuito, e anche di molto da quando la gente non ti onora più come una volta. O sbaglio?»
Lui freme. Ha la mascella che gli trema dalla rabbia, ma la tiene serrata, così come i pugni, abbandonati lungo il corpo.
Lei sa di averlo punto sul vivo.
«Bei tempi, quando organizzavano processioni e feste in nostro onore, vero?»

Lui non ha dimenticato quei momenti. I popoli che si affacciavano sul Mediterraneo mettevano un bue su di una zattera, o in tempi più antichi ancora una vergine, e l'affidavano al mare, che spingeva l'imbarcazione al largo, fin quando lui non faceva lo sforzo di allungare una mano e di nutrirsi di quel sangue e della loro devozione. Poi erano arrivati gli invasori dalle steppe fredde, e il suo nome era stato relegato a quello dello spauracchio, da temere e sedare con scongiuri, sputi e supertstizioni.
«Ricordi?»
«Ricordo…», replica lui. «Così come ricordo che un giorno trovai te, tremante e impaurita sulla zattera, e che decisi di renderti ciò che sei adesso.»
«È vero…», conferma lei guardandosi i palmi. «Sarei dovuta morire, eppure la mia volontà mi costringeva a tenermi alle corde con tutta la forza che avevo.»
Poi chiude gli occhi e resta in silenzio, lasciandosi cullare dal passato.
«Ammettilo. Hai avuto paura di me…»
«Presuntuosa…», le risponde tornando a guardare la formica extra-large. Corre. È veloce, quasi quanto la luce. Ma che cos'è la luce per un dio?
«Perdonami…», gli soffia la voce di lei all'orecchio, mentre le sue braccia gli cingono spalle e testa. Quando si è avvicinata tanto?, si domanda lui, stupito di non averla sentita muoversi. «Se non era perché morivi dalla voglia di rivedermi, e magari di rivangare i bei tempi andati, per quale motivo sei venuto a cercarmi? Cosa vuoi da me?»
«Farti assistere ad un mio esperimento.»
«Un esperimento?»
«Sì. Gli esseri umani ne fanno di continuo. Ho voluto vedere come avrebbero reagito gli dei ad un pericolo reale…»
«Gli dei? »

Lei gli ride contro il collo, con quel suono argentino d'acqua che zampilla da una fonte. Lui odia che lo si prenda in giro, ma era da molto, molto tempo che non la sentiva contro di sé.
«Gli dei?», ripete scompigliandogli la chioma. «Cosa avrebbero potuto fare se sono caduti in disgrazia anche loro, con l'avvento dell'Uno e Trino?»
«Tu dici?»
Lo guarda come se avesse pronunciato una bestemmia.
«Io dico?», scatta allontanandosi da lui. «Guardati intorno. Non vedi tutte quelle torri e tutti quei campanili che si stagliano contro il cielo? Per chi pensi siano stati eretti quei luoghi di potere?»
«Sono vuoti.»
«Come?»
«Non vorrai farmi credere che non te ne sei accorta, mia cara?» Adesso è il suo, di tono, ad essere canzonatorio. Non ridi più? «Non ti sei accorta che le chiese sono solo casse di risonanza di cetre dalle corde logore?»
Lei fa un paio di passi indietro, verso il comignolo, le gambe ben dritte sul tetto di ardesia ancora calda.
«Casse di risonanza… Appunto. L'Uno e Trino è stato molto astuto.»
«Ne convengo», risponde lui. «Una cassa di risonanza alta e ricurva, e sembrerà che la devozione di uno si decuplichi all'infinito. Tuttavia…»
«Tuttavia questo non è che un mezzuccio, per usare un'espressione dei mortali?»
«Non avrei saputo dirlo meglio. Tuttavia, questo mezzuccio, come lo chiami tu, non è rivolto ai suoi fedeli, quanto a noi. Ci ha mostrato di quanta devozione goda il suo culto. Io intendevo altro…»
«Ossia?»
«Il suo potere. È scisso in miriadi di altre entità, mia cara. E questo significa una cosa sola.»
«Maggiori possibilità di arricchire le entrate?», propone lei poco persuasa.
«Errore», risponde lui. «Ad un primo sguardo, l'idea che ne si ricava è senza dubbio che la scissione conferisca una maggiore forza. Tuttavia, questo principio sarebbe valido solo se le entità minori non avessero acquisito una propria personalità, e non si fossero ritagliate, nel cuore dei fedeli, uno spazio quasi superiore a quello dell'Uno e Trino. Lo pseudopodo s'è scisso dall'ameba, parafrasando qualcuno…»
«E tu pensi…»
«Lo penso», conferma lui, le braccia lungo il busto e i capelli che si lasciano accarezzare dal vento come la brezza del primo mattino che increspa la superficie del mare.

Quello era il loro segnale convenuto. Lei scendeva alla spiaggia di sabbia rosa dal suo palazzo di corallo e calcedonio, mentre lui emergeva dall'acqua e le veniva incontro. E si amavano così, sulla rena calda, il suono della risacca nelle orecchie e il cielo come spettatore.
Lui l'aveva incoronata a sua regina, padrona di un regno di eterna primavera, ma un brutto giorno la zattera con il sacrificio non era più arrivata.
Erano sorti loro, gli dei olimpici, e mentre lui cercava di comprendere perché mai la devozione degli uomini s'era rivolta a divinità che si azzuffavano tra loro come gatti di strada, un altro uomo, un mortale, era sbarcato sulla sua isola di fronte alle Colonne d'Ercole.
Bello. Astuto. Spalle forti abbronzate dal sole e naso fiero. Un aedo di nome Omero. 
E lei se n'era invaghita e ascoltava stretta al suo petto le storie che lui le cantava al ritmo della sua cetra. La dea fanciulla e guerriera, che odiava i maschi ma che amava il suo prediletto eroe scampato ad Ilio, bello, forte e astuto come il cantore greco che si univa a lei nelle notti di luna.
E lui, un dio vecchio quasi quanto il mondo, era stato rimpiazzato da un misero mortale. La rabbia per quel tradimento era stata ampiamente ricompensata quando un giorno il cantore era salito sulla sua barca ed aveva seguito gli occhi scintillanti della Fanciulla, lasciandola da sola.
E forse, l'antico rancore verso Parthenos avrebbe potuto unire i due ex-amanti contro un nemico comune.

No, Ponto. Non andrà come vuoi tu. E lo sai, starà pensando lei, tornando ad accoccolarsi sul comignolo. Può sentire la sua voce riempire l'aria immota della sera. Lo ha capito da come muove i fianchi, le spalle, dal dondolio delle sue caviglie.
«Il mondo ha bisogno del politeismo, mia cara», prosegue lui guardando le calli addormentate.  «Gli angeli e i santi sono oggetto di culto. La verità, mia adorata, è che gli uomini vogliono una rete di sottodivinità che li rassicuri. Dimmi: questa coesistenza di un Dio che definisce se stesso Uno e Trino, ma che tuttavia ammette la presenza di culti legati ai suoi servi e seguaci, non assomiglia forse alla nostra realtà, con Tyke arbitro supremo delle nostre fortune, e gli dei e i semidei a decidere dei destini degli uomini?»
Lei tace. Inutile negare l'evidenza. L'uomo non fa che riprodurre il noto nell'ignoto, anche quando sceglie, per stanchezza o curiosità, altre forme di devozione come quelle che profumano del caldo Vento del deserto. 
Quello che lui ha in mente è lampante, chiaro come il sole che si specchia sul mare della sua isola. La domanda, però, è un'altra: lei che cosa farà? Lo seguirà in quella che sembra una nostalgica impresa senza speranza, oppure se ne resterà in disparte, come fa da più di due millenni?
Lui la guarda. E aspetta una sua risposta. Manca solo la domanda.
«Cosa farai, Calypso? Verrai con me? Assisterai al trionfo dei Titani?»
«I… i Titani?», domanda lei a bocca aperta. Eppure avrebbe dovuto immaginarselo. Che senso ha sostituire il Dio Uno e Trino con il pantheon olimpico in cui lui non è che un ricordo lontano?
Annuisce. «Voglio liberarli dalle prigioni del Tartaro. Voglio che il Tempo sia sciolto dalle catene in cui lo imprigionò il Padre.»
«Ma perché? Perché? Vuoi armare una guerra tra il Tempo e la sua discendenza? È una guerra fratricida, scellerata…»
«Il Padre ha ancora le mani lorde del sangue che lo generò!»
«Così come il Tempo ha le mani lorde di quello del Cielo», replica lei incrociando braccia e gambe. «Coraggio, Ponto. A me puoi dirlo. Cos'altro c'è in ballo?»
«Sei sempre stata molto intuitiva, mia cara…», commenta lui sorridendo. «Voglio dare corpo alla Profezia.»
«Non intenderai?», domanda lei sgranando gli occhi.
Lui si volta, i capelli blu profondo increspati sulla fronte.
«Sì, lo voglio.»
«Tu devi essere impazzito», commenta lei fissandolo. Ha gli occhi spalancati, la bocca socchiusa dallo stupore. «Non comprendi che uccidere il Tempo porterà solo disgrazie?»
«Che altro potrebbe esserci di peggio?», domanda lui all'aria. «Il Cielo è quasi sparito nell'etere, la Terra, la Notte e il Sonno sopravvivono a stento nelle parole. Io stesso ho emesso quella profezia, all'alba dei tempi, e io stesso ho visto chiaramente che accadrà. Sarà un mortale a fermare per sempre il Tempo.»
Ma non capisci che eliminare lo scorrere del tempo allontanerà per sempre gli uomini dagli dei?, vorrebbe gridargli in faccia. «Un uomo?», chiede, invece.
«Sì. Un servo della Fanciulla.»
«Fammi indovinare: lo stesso che sta correndo come una formica operosa per le strade di pietra?»
«Non so. Ancora il futuro non mi è chiaro. Però… potrebbe essere, perché no?», osserva rivolgendole uno sguardo sicuro. Troppo. «Verrai con me, Calypso?»
Lei scuote i riccioli di mare.
«No, Ponto. Le guerre non mi attirano.»
«Giusto. Ti attirano i guerrieri...»
Touché, pensa lei. «Tuttavia, queste guerre non mi donerebbero più potere di quanto io ne ottenga attraverso il ricordo. Sono una ninfa, Ponto. Cosa cambierebbe per me? Nulla, e il prezzo da pagare, nel caso le cose non andassero come tu hai predetto, è troppo alto.»
«E se tu divenissi una dea?», propone lui.
Lei ride di cuore. «Ti ringrazio dell'offerta, ma non mi attira. Gli uomini stanno salendo a fatica la scala evolutiva, e il gradino che ci interessa è alle loro spalle da tempo. Il passato non ritorna, Ponto. Non ci saranno più fanciulle e buoi alla deriva su delle zattere che porterai nelle profondità marine. Devi avere pazienza. C'è chi pronostica un nuovo avvento della nostra realtà, ma non sarà come prima. L'Era dei Pesci è terminata, forse quella dell'Acquario ci darà qualcosa, forse no. Chi può dirlo?»
«Dunque non verrai?», ma la sua è più una constatazione che una domanda vera e propria.
«Non verrò. Fino a quando il mio nome sarà ricordato e letto da qualcuno, io avrò trovato quel tanto che basta per sopravvivere al tempo nel tempo.»
«Un palliativo», commenta lui. È una nota di compassione quella che gli sale a colorargli la voce?
«Forse hai ragione tu. Io, però, lo vedo un modo come un altro per ottenere nettare e ambrosia, come una volta. Essere dei personaggi letterari è stupefacente. Ti assicura una devozione costante. Dovresti chiedere ad una delle Muse che ispiri un qualche artista in tuo favore…»
«Il Sommo Ponto che mendica quanto gli è dovuto?»
Ha parlato con il solito tono di voce, ma lei sa che, in tempi ormai remoti, quella proposta le sarebbe costata assai cara.
«Sempre meglio che spendere energie in una guerra senza futuro », replica lei ravviandosi i boccoli oltre le spalle. «Ma d'altro canto, se sei contento tu…»
Restano in silenzio. Lei vorrebbe parlargli, dirgli che se solo fosse un po' meno altezzoso potrebbe ottenere molto più potere di quanto spera di ricavare da quest'impresa. Il Padre, la Madre, il Citaredo e gli altri dei non mantengono un livello costante di potere grazie allo studio dei classici? Se avessero dovuto contare esclusivamente sul culto dei fedeli, sarebbero stati spazzati via come foglie secche già nel secondo secolo dopo Cristo.
«Cosa pensi siano questi culti che stanno sorgendo come focolai per gli dei, se non dei palliativi? Potenti, ne convengo, ma inutili, a lungo termine…»
Ponto tace. Si è chiuso nel suo mutismo e scruta l'orizzonte, preso dalle sue macchinazioni. Non c'è più spazio per lei ora che gli ha detto che non lo seguirà, ora che non è interessata al suo giocattolo.
Il passato non ritorna, e lui si è allontanato da lei molto, molto tempo prima dello sbarco di Omero sulla sabbia rosa, quando il mondo era giovane e inesperto.
«S'è fatto tardi, e Ogigia è lontana…», dice lei prendendo commiato. Raccoglie i sandali e si avvia verso il bordo del tetto in punta dei piedi.
Silenzio.
«Che Tyke ti sia propizia», gli augura prima di saltare nella sua bolla e allontanarsi verso Sud. Buona fortuna, Ponto. Ne avrai bisogno.

Calypso sparisce, portata via da un soffio di vento. Anche a lei basta e avanza la forza necessaria a sopravvivere sui propri possedimenti, relegata in un angolo di pace.
Anche lei, come le altre.
Circe abita tra le colonne del tempio di Giove Anxur, e l'amore sprigionato dai ragazzi che la sera divengono una cosa sola nei dintorni delle bianche colonne, è un ottimo modo per ottenere ancora una volta il potere. Lei non si muoverà. Non è interessata al mondo.
«Che vada pure tutto in malora», gli ha risposto sgranando un grappolo d'uva ed offrendogli un acino d'oro. «Il mondo è impazzito, e adesso come adesso sarebbe solo un lavoro abnorme rimetterlo in piedi. No, grazie. Ma grazie del pensiero.»
La sognante Nausicaä dalle bianche braccia se ne sta confinata sul mare attorno alla Grecia in attesa del ritorno dell’uomo che attraversò quello stagno, trasformata nel dolce meltèmi che accarezza le onde sulla battigia. Parlare con lei, è come pretendere di rinchiudere il vento in un orcio forato.
Se Calypso l'ha seguito è stato solo per curiosità, ma poi, quando ha intravisto la reale portata del suo piano, i suoi piedini deliziosi hanno fatto marcia indietro.
Nessuna di loro vuole condividere il suo sogno. Vogliono che resti solo suo.
Risvegliare i Titani. Risvegliare Chronos. E poi permettere che il Tempo sia annientato. Uccidere il suo corpo mortale e la sua anima divina con la Dunamis che lui stesso fornirà all'Uomo della Disgrazia.
Resterà da solo? E sia. È pronto ad affrontarne le conseguenze. E a vincere. Da solo.

Come primo tentativo non c'è male. Può resuscitare i morti e dar loro una vita autonoma.
Il rimorso farà il resto.
Questi ultimi due sono i migliori creati sinora. Hanno un paio di difetti da eliminare, ma nel complesso, e in attesa di risvegliare i Titani, vanno più che bene. Occorre sviare le attenzioni dalle sue mosse. La Fanciulla e i suoi seguaci sono ancora occupati a non fidarsi l'uno dell'altro. Saga ha sbaragliato anche le sue più rosee previsioni. È bastato soffiare su quel piccolo nucleo che dormiva all'interno del suo cuore e far sì che esplodesse quando più faceva comodo a lui, e stare a guardare.
Bisogna, tuttavia, tenere impegnati i guerrieri della Fanciulla. Dare loro qualche attività da monitorare, possibilmente ai quattro angoli del mondo. Raccontargli mezze verità e sviare i loro cervellini adolescenti dal filo della realtà.
E se anche dovessero subodorare che c'è qualcosa di grosso che bolle in pentola, poco male. Nessuno di loro, forse neppure lo stesso Saga, riuscirà a scoprire quali siano le carte in suo possesso. E quando calerà gli assi, sarà troppo tardi.

«Mio signore, avete forse intenzione di eliminare quell'uomo?» domanda l'uomo ammantato che se ne sta in ginocchio ai suoi piedi.
«Uomo? Quello? È solo un ragazzino. Uno stupido, sentimentale ragazzino che sta correndo per strada…» Sorride, e lo squarcio bianco si fa più allungato. «Lasciamolo stare. Se lo colpissi potrei annientarlo, e questo metterebbe in allarme il Santuario. È eccessivo, non trovi anche tu, per quella che doveva essere una prova?»
«Una prova, mio signore?», domanda l'uomo.
«Esattamente», risponde Ponto, deliziato dal fatto che il suo servitore finga di non aver ascoltato la conversazione appena avuta con Calypso. «Se quel ragazzo ha battuto i miei fantocci non è certo stato per merito suo, quanto perché essi erano troppo deboli. Tutto qui. Ora posso apportare tutte le modifiche del caso.»
Apre e chiude le mani, inguainate dalla pelle nera.
«Non lo credevo possibile, pur tuttavia è stato… interessante, assistere a questo scontro. Istruttivo.»
Ponto posa nuovamente lo sguardo sul Viadotto, dove la gente ha ripreso ad ammassarsi, felice dell'avvenuta liberazione della loro città, e poi torna ad osservare la formica d'oro correre su e giù per le strade.
«Tuttavia, quell'uomo ha osato ostacolare il volere di un dio. Forse, sarebbe equo che io lo punissi, dopotutto…» dice Ponto stringendo in un crac di pelle la mano destra.
La formica attraversa di nuovo le strade deserte con un fagotto tra le braccia. È stanca. Povera, povera formichina. 
Ha lottato tanto. Ha corso tanto.
Ha utilizzato tutto il suo potere; troppo, considerato che tiene insieme la frattura alla gamba sinistra tramite il suo Cosmo.
È giusto che si riposi. E lui, magnanimo, provvede.
Gli basta sorridere.


Ha rassicurato Cristobal che i soccorsi sarebbero arrivati in un'ora al massimo. Lo ha aiutato a preparare una borsa di biancheria per Montserrat, per la nonna e qualcosa anche per lui.
«Non si sa mai», gli ha detto, aggiungendo che la zona dovrà essere bonificata da squadre specializzate.
«Evviva!», ha strillato il ragazzino saltellando per la cucina. «Per un po' niente scuola!», ed è corso a prendere tutto quello che gli chiedeva quello straniero vestito con un'armatura d'oro.
Lui ha sorriso, ha ordinato a Cristobal di attendere l'ambulanza e di non uscire prima del tempo, e ha imbacuccato Montserrat in un paio di coperte pesanti.
L'ha issata tra le braccia stanche e via, verso il posto di blocco, pregando che l'ambulanza fosse già arrivata.
Montserrat scotta. Tanto. Spera che non sia troppo tardi. Il Viadotto è vicino, vede già le luci dell'ambulanza, quando sente un Cosmo, ampio, potente, straordinario, profondo come gli abissi oceanici sovrastarlo.
Esplode alle sue spalle, lontano, in alto, ma non fa in tempo a percepire chiaramente il punto d'origine.
È solo un attimo. Poi qualcosa lo colpisce alle spalle con una forza tale che il suo piccolo cuore umano si ferma per un istante.
   


 
 

 









Note:  Ci si ferma per riprendere fiato, per schiacchiare un pisolino, o solo per bere un bicchiere d'acqua fresca. Un attimino, che vuoi che sia. Il tempo d'un caffè, di una sigaretta, o di un ghiacciolo - io prendo quelli al tamarindo. Così, per dire.
Ma poi, dopo che ti sei guardata attorno - quando hai raccolto lo zucchero dal fondo della tazzina, hai schiacciato il mozzicone nel posacenere o ti sei inzaccherata per benino le dita col ghiacciolo semisciolto - scopri che tu sei rimasta ferma, ma il tempo no. Il tempo col cazzo che è rimasto ad aspettarti. E tu, scorata e seccata, sbuffando, ti tiri su le maniche, inforchi gli occhiali da sole, e ti rimetti in moto. Ché a star fermi c'è solo da prendere fregature.

In questo capitolo ci sono un po' di note sparse. A dirla tutta, occorrerebbe un capitolo solo per le note.
Proviamoci lo stesso, nella speranza di non ammorbare troppo i Quattro Gatti che hanno avuto il coraggio di arrivare fin qui.

La colpa dell'intero capitolo è del verbo latino cŏlĕre, di Cesare Pavese e dei suoi Dialoghi con Leucò (L'Isola) in cui Calypso dice ad Odisseo che si diventa eterni solo quando ci si ferma e si sprofonda nell'eternità.

Iniziamo dal principio.
Cŏlo (cŏlis, colui, cultum, cŏlĕre) è un verbo latino che indicava, allo stesso tempo, la cura dei campi e il culto degli dei. Da questo verbo deriva la parola culto, oggi forse un po' desueta, ma che spiega benissimo come i latini intendessero l'occuparsi dei sacri offici: gli dei si curano giorno per giorno esattamente come si fa con i campi e gli orticelli. Perché, altrimenti, gli dei potrebbero non prenderla benissimo. E, in questa visione agreste delle cose del mondo, terreno e divino, serpeggiava l'intima convinzione che gli dei, se non ascoltati, potessero seccarsi, come piantine di rucola a cui non abbiamo dato l'acqua necessaria.
Un po' quello che è successo con Ponto.

Ponto è uno dei vecchi dei di cui parla Pavese per bocca di Calipso. Pontos (Il Passaggio) è la personificazione maschile del Mare, prima che Poseidone entrasse a far parte del pantheon olimpico come fratello di Zeus, e reclamasse il dominio sulla distesa scintillante.
Poseidone arriva in Grecia assieme a Demetra, in un momento successivo, sopravanzando i vecchi dei, personificazioni della natura circostante. In Episode G è proprio Ponto a tramare contro gli dei "invasori", potremmo dire.

Per il resto, si tratta di mie personalissime visioni, senza alcuna pretesa. Ma vien da sé che il culto del dio Uno e Trino ha subito diversi adattamenti, nel corso dei secoli. Perché l'uomo continua a ripercorrere, sempre e comunque, la strada che conosce.

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=3637095