Sanctuary Blues

di GIXAFS
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Accolli ***
Capitolo 2: *** Passito ***



Capitolo 1
*** Accolli ***


Prologo
 
Atene, Santuario, anno 2000


Ormai non faceva più caso al silenzio innaturale presente in sala. Il Grande Sacerdote trascorreva gran parte del suo tempo a camminare su e giù per il tappeto rosso del salone, talvolta spezzava la routine andando a fare un giro in veranda o zigzagando tra le colonne in marmo del Tempio in cerca di sbreccature che non aveva ancora notato. Nei momenti di maggior noia, addirittura, cercava di farsi un preventivo mentale di quanto avrebbe dovuto spendere per le opere di restauro: erano passati più di dieci anni dall’ultima guerra sacra, il Grande Tempio e le Dodici Case dello zodiaco erano state ricostruite quasi completamente ex novo. Ma, nonostante i lavori avessero proceduto con una celerità piuttosto rara in terra ellenica, rimanevano comunque alcuni cantieri aperti qua e là, soprattutto per quanto riguardava le case del Cancro e della Vergine, ovvero quelle che avevano riportato più danni durante lo scontro con l’esercito di Ade. Per non parlare poi delle opere di rifinitura, che avrebbero richiesto più denaro e tempo del dovuto, dato non era poi tanto facile trovare dei materiali integrativi che non fossero troppo distanti dalle pietre originali di qualche migliaio di anni prima, e molte cave ovviamente nel frattempo erano state chiuse. A rallentare ulteriormente le tempistiche era il fatto che la presenza dei direttori del cantiere negli ultimi tempi si era fatta via via sempre più scarsa: erano proprio stati loro, inizialmente, a prendere in mano la situazione e ad avviare la ricostruzione del Santuario appena terminata la guerra. Ma da quando il governo greco, qualche anno prima, ebbe stanziato dei cospicui finanziamenti per favorire l’afflusso di turismo, questi colsero la palla al balzo e nel giro di pochi mesi riuscirono ad inserirsi astutamente nel mercato fino ad accaparrarsi la maggior parte degli appalti per la costruzione di case vacanza nel Dodecaneso. Si trattava di un’attività sicuramente più redditizia del recupero a gratis del Santuario, che in aggiunta non godeva nemmeno dei benefici della soprintendenza dei beni culturali come le rovine dell’Acropoli ateniese.
I due direttori erano dunque riusciti in un’escalation a dir poco miracolosa, considerando poi che si trattava di persone inizialmente prive di esperienza e nuove del settore. Ma ciò non sorprendeva affatto il Grande Sacerdote, che sapeva con chi aveva a che fare. E non si sarebbe neanche troppo sorpreso se non si fossero più fatti vivi, ora che fatturavano miliardi.
In tutti quegli anni Atena (o meglio: la giovane reincarnazione della dea, Saori Kido), era sempre rimasta a suo fianco. L’unica. Ogni tanto veniva a trovarlo il fratello insieme alla moglie, ma di tutti gli altri non aveva più avuto notizie da quel fatidico giorno in cui la grazia della dea vittoriosa su Ade e il Regno degli Inferi li aveva riportati in vita e avevano detto definitivamente addio al loro rango e alle armature. E in certi casi pure dei poteri. Lui, almeno, era stato scelto per poter vegliare sulla terra di Grecia e l’umanità insieme a quella bambina, quella donna, quella divinità per cui aveva sacrificato la vita vent’anni prima. E lei, adesso, rappresentava la colonna portante della sua nuova esistenza mentre gli altri, invece, avevano dovuto crearsi una vita nuova dal nulla. Per loro non c’era più niente per cui combattere, solo un’esistenza da riempire in qualche modo o qualche attività per tirare a campare. Li aveva visti, uno ad uno, abbandonare la propria casa per costruirsi qualcosa altrove, ad uno a uno stretto la mano in segno di saluto, con un sorriso più o meno di circostanza a seconda di quanto disagio leggesse sul volto di chi aveva davanti.
Certamente per lui era tutto molto bello: viveva a fianco della sua dea e l’amava più della sua vita. Ma in tempo di pace la noia fa presto a divenire un ospite fisso ed in un angolo non molto remoto del suo cuore avrebbe voluto scatenare una guerra con una divinità a caso dell’Olimpo solo per rivedere i compagni ancora una volta. E anche in tal caso non avrebbe potuto contare su di loro, ma su degli ipotetici successori.
Si tolse la maschera e si strappò di dosso la veste di gran sacerdote e le lanciò da una parte. Si sedette nudo sui gradini de tempio: a volte gli prendeva così quando si sentiva fortemente a disagio e non c’era Saori nei paraggi. L’abito talare era soffocante tanto quanto la maschera e non erano molte le occasioni in cui poteva concedersi il lusso di poterlo fare, tranne prima di coricarsi.  In quei momenti c’era solo la statua di Atena ad osservarlo e la pietra non ha la facoltà di commentare o scandalizzarsi, per fortuna.
Una nuvola densa di poggia e melancolia era ormai scivolata su tutta l’Acropoli. Contemplando assorto le luci della città che iniziavano ad accendersi sullo sfondo di un qualsiasi tramonto di ottobre, un quasi quarantenne Aiolos del Sagittario, l’attuale grande Sacerdote, ripercorreva con la mente la strada che per anni aveva percorso con fatica su e giù innumerevoli volte, quella che si introduceva attraverso le Dodici Case, da lungo tempo ormai vuote e illuminate solo dal bagliore di qualche fiaccola che si rifletteva su delle silenziose armature dorate senza padroni.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Capitolo 1- Accolli
 
Atene città
 
- Apri l’antologia a pagina 394, per favore. Leggi e traduci, vediamo…dal verso 54 al 78 del proemio della Medea di Euripide. Prendi questo per coprire le note, altrimenti siamo tutti bravi.
Il professore porse un foglietto allo studente interrogato, che lo pose con cura nella parte bassa della pagina. Lo spostò, lo raddrizzò per bene più e più volte per assicurarsi di aver coperto le note come si deve, con una ripetitività di movimenti che tradivano un certo nervosismo e l’amara consapevolezza di essere totalmente impreparati.
Con voce tremante per l’ansia da prestazione, il malcapitato studente cominciò la lettura del passaggio da tradurre. Il docente si passò la mano sinistra nella folta capigliatura, selvaggia e fluente come quella di una volta, come gesto di disperazione. La pronuncia del ragazzo era disastrosa, ma non poteva fargliene una colpa se per quasi tutto il mondo il greco antico era considerata una lingua morta: solo pochi individui come lui, o magari qualche fanatico, sapevano parlarlo correntemente, dato che era la lingua utilizzata al Grande Tempio. Durante gli anni dell’università si era dovuto misurare con la realtà accademica: nessuno studio e nessun libro riportava l’esatta pronuncia che gli avevano insegnato al Santuario sin dalla tenera età, in particolare quella dell’antica Attica, la regione in cui si trova Atene. Sui testi era scritto che, per tradizione, la lingua adottata nell’insegnamento era quella di epoca alessandrina, la koinè dialektos, ma nutriva molti dubbi anche sulla veridicità della cosa. Trascorse dunque i primi periodi universitari a litigare furiosamente con i professori per questo fatto, e gli ribolliva furiosamente il sangue nel vedere quei tronfi presuntuosi convinti di essere i portatori della sacra verità, soltanto perché avevano passato gli ultimi vent’ anni della loro vita col naso incollato alle pagine ingiallite di qualche testo di linguistica. Ma lui, lui aveva vissuto un’esperienza diretta, in un certo senso. Ma un imberbe studentello, come avrebbe potuto dimostrare i fatti? Andando a dire in giro che aveva combattuto come guerriero protettore della dea Atena vestendo una pesantissima armatura dorata? Che aveva perso la vita negli Inferi per poter abbattere il muro che sbarrava l’accesso ai Campi Elisi e che era stato resuscitato in seguito dalla stessa dea?
Dopo un anno di batoste e bocciature in sequenza dovute ad un rifiuto ideologico allo studio, aveva realizzato che tutto quello che era accaduto in passato ormai faceva parte di un’altra vita, di un’altra dimensione e di un altro sé stesso. Un giorno, allora, decise di mettere da parte l’orgoglio e finalmente (ma a fatica) riuscì a focalizzarsi sul punto fondamentale: l’amore per la letteratura antica che l’aveva spinto ad intraprendere quegli studi era, tutto sommato, un buon compromesso con tutti i rospi che avrebbe dovuto mandar giù per sopravvivere in quell’ambiente.
A determinare il cambio di rotta, fu inoltre complice una dura lezione: combattere divinità indubbiamente malvagie è di gran lunga meno impegnativo della vita reale, nel suo districarsi in continue situazioni ambigue e spinose in cui si è costretti a scegliere il male minore, che ovviamente non è quasi mai così scontato. Maturata questa consapevolezza, riuscì a dare tutti gli esami in tempo e si laureò con ottimi voti con una tesi sulla poesia giambica, che gli fece guadagnare una menzione speciale come miglior lavoro di tesi di laurea dell’anno dell’Università di Atene. Cosa che risultò piuttosto inutile, visto invece della brillante carriera che si era ingenuamente aspettato di intraprendere, si era infine ritrovato ad insegnare nell’aula polverosa di un liceo, occupata da giovani pigri e annoiati e scarsamente interessati alla sua materia. Dura lex, sed lex. Ma almeno, con lo stipendio riusciva a tirare avanti.
Il ragazzino aveva smesso di leggere e si era cimentato in un pietoso tentativo di traduzione, palesemente improvvisata. Fingendo di prestare ascolto, l’insegnante unì le punte delle dita in un gesto di meditazione. Si fissò l’alone giallo da fumatore di tabacco sul dito medio della mano destra e gli venne una gran voglia di girarsi una sigaretta e fumarla alla finestra. Sfortunatamente, non gli era consentito.
Un trio di ragazzine alla sua destra chiacchieravano e ridevano dall’inizio dell’interrogazione, creando un rumore di fondo che ormai lo accompagnava da almeno mezz’ora. Dall’altra parte dell’aula, il compagno di banco dell’interrogato tentava con poca discrezione di suggerire da lontano all’amico. Se n’era accorto da un pezzo, ma il ragazzo sembrava continuare imperterrito la sua coreografia. L’istinto vagamente sadico che un tempo caratterizzava il suo stile di combattimento gli fece balenare l’idea che, una volta rimandato a posto l’interrogato con un pessimo voto, avrebbe potuto chiamare alla cattedra proprio l’amico suggeritore. Una delle poche gioie che gli aveva dato l’insegnamento era che aveva in mano un potente strumento di tortura.
Nel frattempo l’alunno si era del tutto ammutolito. Aveva delle enormi chiazze di sudore sotto le ascelle che spiccavano in maniera vistosa sulla polo grigia.
- Embè? –  domandò seccato l’insegnante, risvegliandosi di colpo dai pensieri – non vai avanti?
L’alunno lo fissò in cerca di clemenza.
- Non mi ricordo molto bene la traduzione…- mormorò ad occhi bassi.
Attese un paio di secondi prima di replicare.
- Non è che non ti ricordi, Dimitri. Non hai studiato, poche storie, quindi non mi raccontare balle, per favore. E poi, - Continuò, sventolandogli un foglio sotto il naso – Hai fatto schifo anche nell’ultima verifica. La scuola è iniziata da due settimane e già hai accumulato due insufficienze. Si parte male, molto male.-
Non gli piaceva troppo cazziare gli studenti già mortificati, né distruggerli nell’orgoglio, che tutto sommato non erano molto più giovani di lui. Nonostante tutto, la pazienza a volte si esauriva e fare la voce grossa gli dava soddisfazione.
 Dimitri aveva ascoltato la predica in un costernato silenzio, si alzò dalla cattedra per tornare al suo posto, senza dargli il tempo di finire il discorso. Quest’ultimo, tuttavia, notò che il ragazzino si sforzava a stento a contenere le lacrime, dunque preferì non aggiungere altro.
Sospirò, e nel momento in cui stava maturando l’idea di cercare tra le persone interrogate qualcuno di più preparato che potesse dargli un minimo di soddisfazione, qualcuno provvidenzialmente bussò alla porta.
- Avanti.
Una delle custodi sporse la faccia occhialuta e butterata
- Mi scusi Professor Scorpio, ma c’è una telefonata per lei- chiese timidamente
Milo Scorpio (al secolo: Milo della costellazione dello scorpione) la guardò seccato: era stato interrotto proprio sul momento di chiamare la prossima vittima.
- Sto facendo lezione, Helena. Chiunque sia, chiedi di farti lasciare il numero che poi richiamerò io appena ho finito.
- Veramente - insistette la bidella – la signora al telefono ha detto che si tratta di una cosa molto urgente e che è molto importante che lei risponda subito.
La parola “signora” lo fece sobbalzare. Il pensiero andò subito alla padrona di casa.
“Porca puttana, mi è venuta a cercare pure a lavoro per gli arretrati dell’affitto…”
- Arrivo, allora.
 Si alzò sistemandosi la giacca di velluto a coste e lanciò un’occhiata di fuoco alla classe.
- Sappiate che oggi saltiamo la spiegazione. Ho tutto il tempo di interrogare un altro paio di voi…- aggiunse con un ghigno luciferino.
Si chiuse la porta alle spalle, lasciandosi dietro un silenzio tombale. Ma tanto sapeva, dal profondo della sua esperienza, che nel breve tempo in cui avrebbe imboccato il corridoio si sarebbe scatenato un inferno di ripassi disperati all’ultimo minuto, sorteggi per scegliere chi sarebbe andato volontario e false giustificazioni con firme altrettanto false da giocare come jolly, nel caso le prime due opzioni non avessero funzionato. Si avviò al telefono gongolando per lo scompiglio creato sapendo che, indipendentemente dalla durata della telefonata, avrebbe approfittato della momentanea assenza per andare in cortile a fumare, lasciandoli bollire nell’angoscia fino al suono della campanella.
- Pronto, con chi parlo? – Chiese poggiando la cornetta all’orecchio.
- Ciao Milo, ti ricordi di me?
Con un certo sollievo capì che, per fortuna, non si trattava della padrona di casa, ma gli ci volle un po’ per capire chi ci fosse dall’altra parte del filo. Per la precisione: circa dieci secondi per riconoscerla ed altri dieci per riprendersi dallo stupore che gli fece cadere la sigaretta spenta dalle labbra.
A malapena ricordava di averci parlato qualche volta in passato, dopo dieci anni addirittura si era quasi scordato della sua esistenza. E non riusciva a capacitarsi come avesse fatto a rintracciarlo e soprattutto cosa l’aveva spinta a farlo.
- Shaina, sei tu?
 
 
 
 
Il nono senso di un cavaliere (ovvero il buonsenso), quella mattina gli aveva suggerito che sarebbe stata buona cosa portarsi dietro un ombrello. In effetti, appena uscito dal portone della scuola, fu colto da una di quelle piogge pesanti di fine estate. In realtà era già metà ottobre, l’estate era finita da un pezzo ma faceva ancora terribilmente caldo. Nel giro di un mese avrebbe compiuto trent’anni: una cifra scomoda, una maturità che non si sentiva di accettare e che tentava di aggirare frequentando ancora feste universitarie, dalle quali usciva il più delle volte sbronzo e talvolta così sbronzo da risvegliarsi il mattino seguente tra le lenzuola muffite di qualche studentello di lettere sedotto la notte prima. Trovava agghiacciante il pensiero che questi fanciulli potevano essere al massimo un paio di anni più grandi dei suoi studenti, il che lo riempiva di vergogna tutte le volte che se ne rendeva conto in quei mesti risvegli. La testa già appesantita per l’alcol si caricava anche del senso di colpa per aver essersi portato a letto ragazzini dalla sessualità ancora vacillante.
 Per porre fine a questo disagio, per un periodo aveva deciso di dare una svolta e cercare ambienti che poteva ritenere più consoni ad un uomo maturo ed acculturato come lui, o comunque dove l’età media fosse superiore a vent’anni: iniziò a frequentare caffè letterari e salotti, sperando che un ambiente del genere lo stimolasse più in positivo. Non gli ci volle molto per rendersi conto che la situazione era più malsana di quanto si aspettasse: quei signori (perlopiù finocchi come lui), che millantavano importanti pubblicazioni su Schiller e la poesia romantica tedesca e bevevano il tè col mignolo alzato, in realtà si trascinavano avanti in una squallida esistenza di estati di movida sfrenata ad Ibiza e Mykonos e viaggi in Brasile per assistere i bambini delle favelas, così dicevano, ma era piuttosto evidente che lo scopo ultimo era tutt’altro. Questo lo fece tornare sui propri passi e gli fece capire che, tutto sommato, svenire di tanto in tanto sul proprio vomito davanti ad un pub in realtà non era poi così degradante, e che aveva la coscienza in pace perché ogni volta si assicurava di avere a che fare con persone che avevano almeno conseguito la maggiore età. Mica come quei viscidoni vestiti in tweed.
 Questa vita gli stava bene, perché in fondo non gli permetteva di pensare a cosa si era veramente lasciato al Grande Tempio. E non intendeva la sua armatura.
Durante la telefonata, Shaina aveva insistito per vederlo di persona. Si erano dati appuntamento alle cinque di quel pomeriggio ad un bar vicino alla fermata della metro sotto il Partenone. La scuola in cui insegnava non era poi così distante e fece il tragitto a piedi sotto l’ombrello comprato a poche dracme, facendo attenzione a non bagnare eccessivamente le polacchine scamosciate nuove di pacca. La conversazione che ebbe con lei quella mattina era stata piuttosto sbrigativa e non era riuscito a cavarle fuori alcun indizio riguardo l’urgenza di quell’incontro e men che meno riusciva a spiegarsi come mai avesse accettato di vedere una persona che gli avrebbe inevitabilmente fatto riaffiorare un passato che tentava forzatamente di escludere dalla propria vita.
 
 
Dieci minuti dopo il suo arrivo, mentre stava aspettando sotto a veranda del bar, sentì una mano poggiarsi sulla spalla. Si girò e si ritrovò faccia a faccia con una donna che non aveva mai visto. Lei rispose alla sua espressione perplessa con un sorriso aperto e cordiale. Milo ci mise un po’ a connettere che quella davanti a lui era, per l’appunto, Shaina. Solo che, ora che ci pensava, quando lei era Cavaliere d’Argento era solita portare una maschera che le copriva totalmente il volto, una consuetudine per le donne guerriere. E sì, quella era la prima volta che la vedeva in viso.
La trovava sicuramente una donna molto attraente, dall’aspetto più maturo dei suoi venticinque-ventisei anni che doveva avere, forse per il taglio corto dei capelli, forse per le leggere rughe intorno agli occhi.
- Mi fa strano vederti in giacca e cravatta- esordì lei - Ma comunque non stai male.
Milo si mise a giocherellare con le basette ingrigite pensando a qualcosa di carino che avrebbe potuto dire. Di quel poco che poteva conoscere Shaina, aveva sempre apprezzato il modo di fare spesso quasi maschile e diretto, senza perdersi in inutili convenevoli. Decise di mantenere un approccio analogo e non aggiungere niente di superfluo alla conversazione.
- Beh, anche tu mi sembra te la passi bene.- rispose lui altrettanto conciso -che dici se intanto non entriamo dentro e ordiniamo qualcosa?
Tanto avevano davanti tutto il pomeriggio per raccontarsi le cose
- Volentieri!
I due si infilarono nel bar e presero posto in un tavolino vicino alla finestra, dove rimasero per un po’ a contemplare i goccioloni si stampavano ritmicamente sul vetro, senza scambiarsi una parola. Ordinarono da bere: Shaina prese un caffè, Milo un Gin Tonic.
- Non è un po’ presto per bere superalcolici? - Osservò la ragazza inclinando la testa da una parte.
- Dopo aver passato tutto il pomeriggio a correggere i compiti di una classe del secondo anno, direi che per oggi il mio l’ho fatto, e me lo merito.
La ragazza rise e ne approfittò per avviare la conversazione.
- Bella la scelta di adottare la tua costellazione come cognome.
- Sai bene che siamo tutti orfani e quindi non abbiamo mai saputo il nostro nome di famiglia. - Rispose lui - Prima che le nostre strade si dividessero, ci eravamo ripromessi che avremmo usato le nostre costellazioni guida come cognome, forse per poterci ritrovare in un futuro. Almeno, io l’ho fatto, non so poi gli altri…
- Non saprei - rifletté Shaina. - Non è stato facile trovarti, comunque. Ho dovuto chiedere informazioni all’Università. E’ stata una scelta coraggiosa quella di riprendere gli studi, lo ammetto.
Lo scorpione si sentì lusingato dell’osservazione.
- Qualcosa dovevo pur fare nella vita - gli rispose Milo alzando le spalle. - Come ben sai, dopo la guerra con Ade, tutti e dodici - anzi, tredici, se contiamo anche Kanon, il fratello di Saga- siamo stati riportati in vita da Atena e il motivo ancora mi sfugge…Forse per la distruzione dell’Inferno, chissà…Fatto sta che ci siamo risvegliati qui sulla terra vivi e vegeti e disoccupati: il prezzo della rinascita è stato rinunciare al nostro ruolo. I tempi erano cambiati e non potendo più lottare per una causa ci siamo trovati ad un bivio, ovvero rifarci una vita o trastullarci al Tempio senza uno scopo preciso. Così decisi, come alcuni di noi, di sfruttare questa seconda occasione per fare qualcosa di diverso.
- Fui più o meno uno dei primi ad andarmene: avevo sempre amato la cultura e la letteratura greca, quindi decisi di iscrivermi all’Università di Atene. Avrei voluto continuare la carriera accademica, ma le opportunità erano scarse a quei tempi avevo bisogno di soldi, quindi voilà, ho cominciato ad insegnare al liceo e ci sono rimasto.
Fece una pausa. Diede un sorso al suo cocktail e la guardò negli occhi. - Forse sono stato un po’ stronzo, ma al tempio non ci ho più rimesso piede.
- Inizialmente pensavo che tu fossi andato a studiare in Francia insieme a Camus dell’Acquario, eravate molto legati, no? - Chiese curiosa la ragazza mentre vuotava la bustina di zucchero nel caffè. - Mi avevano detto che era partito con qualcuno di voi, eravamo sicuri fossi tu.
Sentendo nominare Camus, Milo si irrigidì per un istante. Era la prima volta dopo anni che qualcuno gli chiedeva di lui e la cosa gli provocò una sensazione di stretta allo stomaco. Non era ancora riuscito capire, dopo tutto quel tempo, se il bastardo era stato il suo vecchio amico che se n’era andato per sempre, o lui che per orgoglio e gelosia che non l’aveva seguito.
- Camus sicuramente tra tutti noi era quello che aveva più chances per una carriera al di fuori del nostro paese - Le rispose Milo nel tono più neutrale possibile. - Si trasferì a Parigi per studiare fisica. Era certamente la mente più brillante di tutto il gruppo, dedicava parecchio tempo libero allo studio sin da quando era piccolo. Io invece preferivo la lettura. Ora è probabile che sia ricercatore da qualche parte, forse sempre a Parigi. - Fece un sospiro e aggiunse, digrignando i denti:- Fu Shura del Capricorno a partire con lui. Sai com’è, erano vicini di casa, poi fattacci vari che sono successi li hanno legati molto.
- Capisco. - Shaina avvertiva un certo disagio da parte dell’interlocutore.
Si scosse dai suoi turbamenti e si rivolse nuovamente alla ragazza.
- Tu invece che hai combinato in tutto questo tempo?
- Nulla di particolare rispetto a voialtri. Subito dopo la guerra decisi di prendermi una pausa e di fare una vacanza in Italia, dove sono nata.
- Ah! Non sapevo tu fossi italiana…come Deathmask del Cancro.
La ragazza arrossì e continuò, abbassando lo sguardo:- A proposito di lui, per l’appunto lo incontrai per caso durante un giro in Sicilia, ad Agrigento. Era partito per andare alla ricerca di qualche cugino che ricordava che vivesse nei paraggi. Un po’ stanca di mesi passati in solitudine, mi unii a lui nel viaggio e, da cosa nasce cosa, sai com’ è…..
Non finì la frase. Si morse il labbro e alzò di nuovo lo sguardo: - E insomma, alla fine ci stabilimmo definitivamente ad Agrigento, dove trovammo l’appoggio di qualche cugino di secondo grado di Deathmask. Siamo stati molto fortunati, sono delle persone molto gentili e disponibili, si presero la briga di prenderci a lavorare con loro per un po’.
Durante il racconto dell’ex Cavaliere d’Argento, Milo stava girando una sigaretta. Ma quando lei fece implicitamente capire di essere in rapporti intimi col suo ex compagno d’ arme, dovette momentaneamente interrompere la sua operazione
- Forse non ho capito bene, mi stai dicendo che stai insieme a quel tipo? - Chiese totalmente incredulo.
Deathmask era sempre stato - senza mezzi termini - un gran pezzo di merda. Aveva macabre attitudini, oltre che una personale idea di giustizia che divergeva non poco dal credo dei Cavalieri. Non gli era mai piaciuto e quando era piccolo si divertiva a fare il bullo con lui, Camus e gli altri più giovani. Una volta lo aveva messo nel secchio del pozzo dicendogli che voleva fargli provare un gioco divertente. Lo calò giù e lo lasciò lì al buio e immerso nell’acqua stagnante per tutto il giorno, quando fu recuperato dal Grande Sacerdote di allora era ancora terribilmente impaurito e se la fece sotto davanti a tutti. Un’ umiliazione che si è portato dietro per tutta la vita, seguita dal rimpianto di non essersi mai vendicato. L’unico dei piccoli con cui non si era mai accanito era Shaka di Virgo, quello lì a sei anni aveva già dei poteri spaventosi. Solo una volta il bastardo del Cancro gli rubò la merenda e scomparve misteriosamente per una settimana. Riapparve dal nulla nella Terza Casa nella vasca da bagno di Saga, mentre quello si stava lavando, visibilmente traumatizzato. Nessuno ha mai saputo dove Shaka l’avesse spedito e Deathmask non volle mai affrontare l’argomento. Fatto sta che non si azzardò più a fargli dispetti.
La prima volta che morì, per mano di Shiryu il Dragone (e piuttosto ingloriosamente), Milo reagì alla notizia con totale indifferenza. In quel momento non riusciva proprio a capacitarsi come una donna intelligente, forte e determinata come Shaina fosse finita con un soggetto del genere.
 - Sì, lo so cosa stai pensando - mise le mani avanti la ragazza – In passato ha certamente fatto cose orribili ed è quello che è, ma io ho avuto modo di conoscere una persona migliore di quello che mi aspettassi. La guerra l’ha cambiato molto, più di quanto pensi. In ogni caso, ci siamo lasciati da ormai un paio di anni.
- Ah, mi spiace…
Dato che Shaina non si accingeva a proseguire il racconto, Milo dedusse che sarebbe stato meglio cambiare argomento: - Ora sei qui in vacanza o ti sei ristabilita da poco?
- Beh, dopo la fine della nostra relazione, feci lo zaino e ripartii. Avevo finalmente la scusa per lasciarmi alle spalle un posto che non sentivo come mio. Ho girato per tutta l’Italia per qualche mese, cercando un luogo dove stabilirmi. In realtà, mi resi conto che Atene mi mancava, e parecchio: era la casa, i ricordi, le battaglie, la vita e gli amici…sono tornata qua per ritrovare quello che veramente mi stava a cuore e mi dava un motivo per vivere. Aiolos e Atena mi hanno accolto a braccia aperte e dato l’opportunità di allenare le giovani leve. Qualcuno dovrà pure addestrare i nuovi Cavalieri, no?
- Capisco. Fumi?-  Le chiese lui indicando la busta di tabacco.
- No, mi dispiace. Ma se vuoi uscire a fumare non farti problemi, nel frattempo ne approfitto per andare in bagno.
Milo prese congedo dalla compagna e uscì dal bar. Accendendo la sigaretta osservò dalla vetrata Shaina che si dirigeva verso la porta del bagno. Quella ragazza gli aveva suscitato delle strane sensazioni: nostalgia forse, o curiosità. Stranamente non aveva finto interesse mentre gli raccontava della sua vita, cosa che gli accadeva spesso durante le conversazioni. La vita era già abbastanza noiosa di suo e le vite degli altri per lui lo erano ancora di più. Ma c’era qualcosa che andava oltre il semplice interesse umano che lui aveva trovato in quei penetranti occhi color verde bosco: dopo anni avvertiva per la prima volta un legame nascosto, un eco nostalgico che li accomunava, una complicità che raramente riusciva ad avere con qualcuno. Era forse il brivido e i ricordi dei tempi che furono che stavano tornando a galla? Aveva il timore che tutto questo prendesse il sopravvento e si sentì tentato di piantarla lì e andarsene via, senza nemmeno pagare, anzi, avrebbe dovuto pagare lei, lui avrebbe fatto la figura dello stronzo maleducato e lei non l’avrebbe più cercato. Sì, poteva essere un buon piano per risparmiarsi delle seccature. Ma ancora non aveva la minima idea del perché di quell’incontro e moriva dalla curiosità, sicuramente non per fare una passeggiata nel viale dei ricordi.
 
Spense il mozzicone su uno stipite della porta del bar e lo gettò a terra, spesso e volentieri i posaceneri sono considerati oggetti indispensabili. Shaina se ne stava immobile a osservare fuori dalla finestra, il gomito appoggiato sul tavolo e la mano che sorreggeva la tazzina vuota.
- Ascoltami - Lo precedette lei poggiando la tazzina sul piattino. -Sarà meglio che mi sbrighi a dirti tutto, non voglio portarti via troppo tempo.
Milo drizzò la schiena: era tutto orecchie.
-Sarò breve: in realtà, sono qui per conto di Marin. Te la ricordi?
Annuì
-Ecco, lei e Aiolia del Leone si sono sposati qualche anno fa e adesso vivono qualche chilometro fuori da Atene. Vengono spesso a trovare Aiolos e mi hanno ospitato per i primi tempi in cui ero tornata qui.
-Negli ultimi mesi, però, notai che Aiolia si faceva vivo sempre più di rado finché un giorno, Marin non è venuta a trovarmi e mi ha detto che…che - Si interruppe, il tempo di prendere un respiro molto profondo: - Insomma, gli è stato diagnosticato un cancro allo stomaco. Una forma fulminante già in metastasi, i medici dicono che nella migliore delle ipotesi gli rimane un anno di vita.
Milo rimase a fissare stordito il centrotavola, cercando di rielaborare quello che gli era appena stato detto.
- Cazzo. – Fu tutto quello che riuscì a dire. - Dove posso andare a trovarlo? – Aggiunse dopo qualche attimo di silenzio.
-Dopo una prima degenza all’ospedale, e poi un periodo a casa, ha deciso di trasferirsi da suo fratello Aiolos al Santuario. Non lo vedo nemmeno io da mesi, riesco a malapena ad incrociare Marin ogni tanto, e nemmeno lei se la passa bene.
La giovane si asciugò una lacrima. Era sollevata di avergliene finalmente parlato, ma non bastava ad alleviare l’oppressione che si sentiva nel petto. Allungò una mano e prese quella di Milo. Lo guardò dritto negli occhi:
- Il motivo per cui ti ho chiamato è che in realtà Aiolia vorrebbe vedervi per l’ultima volta.
- Certo, certo - la tranquillizzò a sua volta stringendole la mano che aveva posato sulla sua - Uno di questi giorni, durante le ore di buco a scuola posso fare un salto là-
- Non sarà così semplice. Vi vuole vedere tutti insieme. O niente.
 
 
Durante tutto il tragitto di ritorno a casa, saltando di pozzanghera in pozzanghera, lo scorpione ebbe modo di meditare su quello che si erano detti.
Lei gli aveva chiesto disperatamente di contattare in qualche modo Camus e all’occorrenza anche Shura per riferire la notizia, ma lui non aveva la più pallida idea di come fare. E soprattutto, non voleva farlo. Fino a qual momento sapeva solo che il vecchio amico se n’era andato a Parigi a studiare dieci anni prima e a parte un e frettoloso saluto alla sua partenza dalla Grecia, reso laconico e triste dal fatto che le loro strade si sarebbero definitivamente divise, avevano totalmente perso i contatti. Ma ad innervosirlo era anche tutto quel mistero che circondava la condizione di Aiolia e gli sfuggiva il motivo per cui si era tanto impuntato a voler vedere i suoi compagni per forza tutti insieme, sapendo anche lui che sarebbe stato quasi impossibile: Tutti, più o meno, era spariti dalla circolazione. Ma la sensazione della morte imminente, che normalmente accompagna un malato terminale, porta spesso a elaborare pensieri e desideri incomprensibili per quelli che non si trovano nella sua condizione, specie per un individuo egocentrico e scarsamente empatico come Milo. Borbottando come una teiera, infilò le chiavi nella toppa ed entrò in casa, chiudendosi dietro alle spalle il carico di preoccupazioni che gli si era piantato davanti in blocco.
L’indomani avrebbe fugato ogni dubbio e suo malgrado decise di affidarsi alla tecnologia. Durante una pausa tra una spiegazione su Senofonte e un compito a sorpresa su Demostene (ebbene sì: decise di esorcizzare la frustrazione scaricandola sgli alunni), scese in aula professori dove erano presenti un paio di computer collegati ad una rete ethernet. Shaina gli aveva suggerito di tentare una ricerca su internet, almeno poteva essere un inizio.
Aprì Internet Explorer e digitò “Camus Aquarius” ed attese senza troppe speranze. Ed invece fu fortunato: lo trovò subito. Scorrendo i primi risultati ritrovò sulla pagina di un noto centro di ricerca della Francia del sud. Non viveva più a Parigi, a quanto pareva. Sul sito era presente la sua schedae una foto: i capelli che aveva tagliato corti incorniciavano ancora un viso fresco e pulito, non aveva un capello bianco né una ruga. “Che stronzo, si è mantenuto meglio di me. Sempre che la foto sia recente. Magari si tinge i capelli…”. Accanto c’era scritto Director Scientist e una serie di sigle e parole a lui incomprensibili; l’inglese di Milo era molto basic, il linguaggio scientifico, invece, andava del tutto al di là della sua comprensione. Da quel Director Scientist e un Low Temperature infilato nella descrizione del laboratorio in cui lavorava dedusse che, a quanto pare, aveva fatto carriera e che per ironia della sorte le energie fredde erano rimaste una costante nella sua vita. C’era anche un numero di telefono, che si appuntò su un post-it. I recenti avvenimenti e la facilità con ci aveva reperito quelle informazioni gli fecero pensare che l’Universo intero si era messo in moto per convincerlo a regolare dei conti che aveva tenuto in sospeso per troppo tempo. Maledisse quel giorno, maledisse Shaina e la malattia Aiolia, gli toccava fare quella telefonata. Ma di certo non si sarebbe mai sognato di contattare Shura, quell’ingrato compito non voleva accollarselo.
 

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Capitolo 2
*** Passito ***


Salve a tutti! Approfitto di questo spazio per ringraziarvi per le recensioni e dire che ho fatto qualche modifica di poco conto al primo capitolo...spero di continuare a produrre con questa rapidità!
 
Capitolo 2- Passito
 
Campagna, poco fuori da Atene
 
Nonostante il terreno fosse ancora impregnato della pioggia dal giorno prima, fortunatamente nelle ultime ventiquattr’ore non era caduta nemmeno una goccia d’acqua. Era appena iniziato il periodo delle grandi raccolte, perdere i giorni a causa del maltempo avrebbe potuto creare qualche problema a livello di tempistiche e comunque la pioggia che batte incessantemente su schiene, gambe e teste, impregna i vestiti e fa scivolare piedi e attrezzi, non rende più piacevoli i lavori pesanti. Il sole si era quasi del tutto nascosto dietro le colline e le ombre si erano allungate fino ad inghiottire i pochi angoli luminosi rimasti. Il contadino decise che era arrivato il momento di caricare gli ultimi secchi colmi di olive e le reti da raccolta sul furgoncino; quell’annata sembrava piuttosto soddisfacente: gli ulivi erano più carichi rispetto agli anni prima, il che era buon segno, perché voleva dire che la mosca, l’insetto che danneggiava quelle piante e ne limitava la produzione, quell’anno aveva fatto meno danni. Forse avrebbe potuto permettersi un trattore nuovo, chissà.
Salì sul furgoncino insieme agli altri due braccianti e si diressero verso l’azienda. Il veicolo procedeva sballottando sullo sterrato e attraverso il parabrezza vedeva il cielo a strisce che gli ballava davanti, facendogli venire quasi il mal di mare. Arrivarono nello spiazzo del parcheggio e notò, con sua somma gioia, che i faretti del cortile fortunatamente erano stati accesi: sua moglie, santa donna! Avrebbe evitato di trasportare le casse di olive brancolando nel buio.
Fece uscire a fatica la mastodontica corporatura dalla vettura e, prima di aprire il bagagliaio, volse lo sguardo giù dal vialetto che, proseguendo, tagliava a metà i vigneti e scendeva ripidamente in direzione del paese. La vista da quel punto era mozzafiato: nelle giornate più terse era possibile persino scorgere il mare e il Porto del Pireo che si affacciava su di esso. Seguendo la striscia arancione nel cielo che via via si faceva più viola, si accorse di una sagoma che risaliva lentamente il vialetto.
Nonostante la distanza che li separava e l’ombra serale che uniformava il colore della figura in un collettivo grigio-bluastro, non ci mise molto a riconoscere l’andatura lenta e flemmatica dell’individuo che gli si stava avvicinando. Anche l’informe sacca che soleva portarsi dietro ogni qualvolta veniva da quelle parti.
Il corpulento contadino poggiò a terra le casse le olive e aprì un sorriso da un orecchio all’altro, in direzione del viandante:
- Te la sei fatta a piedi dal Jamir? E’ lunga eh, ecco perché mi sembri così sconvolto. Vedendoti da lontano, almeno - si rivolse a lui in tono canzonatorio. – Sei fortunato, che abbiamo cominciato a raccogliere da un paio di giorni, a questo giro l’annata è in anticipo.
L’altro non rispose finché non arrivò, stremato, proprio di fronte all’amico.
- Sono talmente fuori allenamento che mi sono teletrasportato nel posto sbagliato. Ho dovuto camminare dalla periferia di Atene fino a qui, pur di non cedere ai mezzi pubblici….
Detto questo, il viandante scaraventò per terra la sacca e fissò l’amico negli occhi, in silenzio, le mani sui fianchi. Dopo un po’ scoppiarono a ridere in simultanea e venne strizzato in un abbraccio che lo sollevò da terra e lo fece dondolare a mezz’aria.
- Mu dell’Ariete, vecchia canaglia! Aspetto questo periodo dell’anno solo per vederti rispuntare!
- Aldebaran del Toro! Quanto mi mancava farti stritolare da te…- Bofonchiò il tibetano stretto nella morsa di affetto.
Aldebaran ripose l’amico sulla terraferma e lo lasciò respirare un po’. Aveva il fiatone da soffocamento, risate e stanchezza.
- Che si dice sulle montagne tibetane? - gli chiese, mentre risollevava le casse di olive - Guarda caso che stasera a mia moglie è presa la fase creativa e sta cucinando per un esercito. Stamattina è passato il cacciatore a portarci della selvaggina ed è probabile che per cena ci sia del cinghiale - gli fece, strizzando l’occhiolino.
A sentir nominare la parola cinghiale, Mu si ricordò che erano diverse ore che non metteva qualcosa sullo stomaco.
- Sulle montagne tibetane? Nulla di particolare, come al solito. Yak, poca gente, qualche passatempo per tenermi occupato. – gli rispose raccogliendo la sacca.- Vuoi una mano a trasportare le olive, Aldo?
- Ma stai fermo! - e gli diede una pacca sulla schiena che lo spinse in avanti un paio di metri in un colpo solo.
S’incamminarono in silenzio verso la casa colonica in cui Aldebaran abitava con la famiglia e teneva l’azienda agricola. Era un grande edificio in pietra del dodicesimo secolo, passata di mano in mano nelle varie generazioni contadine, che Aldebaran aveva ereditato dal proprietario precedente, un anziano agricoltore per il quale aveva cominciato a lavorare come mezzadro subito dopo aver lasciato il Tempio. Era dotata di un grande porticato, dove spesso organizzava grigliate quando aveva degli invitati o semplicemente cenava con tutta la famiglia in primavera e in estate, ovviamente dopo aver acceso zampironi ovunque e tenendo l’Autan a portata di mano. C’era anche una dépendence, dove teneva gli attrezzi e dove i ragazzi amavano talvolta giocare.
Mu inspirò a fondo l’aria umida e sempre stranamente familiare che caratterizzava quel posto, così diversa da quella del Jamir. Forse il momento che preferiva in tutto l’anno era proprio quello: il dolce passaggio dall’estate all’autunno, in cui i paesaggi si tingevano di svariati colori. Dove il rosso delle foglie cadute contrastava con il verde dei prati e degli alberi che ancora non ingiallivano. Proprio durante quest’esplosione di bellezza, che precedeva il torpore invernale, a Mu piaceva tornare in Grecia e restare da Aldebaran per un periodo di uno-due mesi e si offriva di dargli una mano durante la raccolta delle olive e la vendemmia. Ormai erano anni che rispettavano questa tradizione e verso metà ottobre piombava puntualmente a casa del vecchio commilitone senza nemmeno un preavviso, cosa che in ogni caso non era abituato a fare. Appena si avvicinarono all’uscio, una donna alta e snella aprì la porta e Mu fu travolto da una valanga di pelo e due ragazzini sdentati al seguito.
- Mu!!!!!!! - gridarono in coro quest’ultimi precipitandosi ad abbracciarlo.
- Piano, fiano figlioli! Sono già in difficoltà con la bestia in questo momento- si rivolse loro Mu, che in quel momento tentava di domare un quintale di San Bernardo che gli si era buttato addosso alzandosi sulle zampe posteriori.
- Orione, ‘sta buono! E anche voi due mostriciattoli lasciate prima fargli mettere un piede in casa - urlò la donna che gli aveva aperto la porta per richiamare all’ordine cane e figli, che altro non era che la moglie di Aldebaran. Questi, sorridendo con un misto di dolcezza e divertimento per la situazione, le si avvicinò e le stampò teneramente un bacio sulle labbra.
- Hai visto chi c’è? Scusami se abbiamo fatto tardi per la cena…
- Non ti preoccupare, le pentole sono ancora sul fuoco. - Rispose al Toro mentre si dirigeva a salutare Mu, che nel frattempo era riuscito a liberarsi del cane.
- Bentornato! - gli disse abbracciandolo.
- Grazie, Andria.  
Nel frattempo Sakis, il più piccolo dei due figli, gli si era avvinghiato alla gamba mentre Themis, il maggiore, lo abbracciava da dietro affondando la faccia nella sua schiena.
Mu aveva quasi le vertigini per tutto quel contatto umano, abituato com’era alla vita da eremita che faceva sul Jamir. Ma gli venne spontaneo accarezzare la testa del piccolo Sakis, che lo osservava con i due occhioni scuri spalancati e un pollice in bocca. Sia lui che il fratello avevano un forte debole per lui: in parte a causa di loro padre, che quando li metteva a letto, invece delle fiabe convenzionali, gli narrava le loro gesta e scorribande di gioventù, in parte perché Mu, nel tempo libero, gli insegnava a fare lavoretti di bricolage ed ogni sorta di artigianeria.
- Se per il momento mi lasciate, vi posso dare i regali che vi ho portato dal Jamir.
- Sììììì!!!! - risposero in coro i bambini esaltati, allontanandosi immediatamente.
Mu si chinò per aprire la sacca, finché non fu attraversato da un pensiero fulminante.
- Kiki è in casa? - Domandò a bruciapelo.
Andria e Aldebaran si guardarono per mezzo secondo a vicenda prima di rispondergli.
- Kiki quest’anno ha iniziato l’Università, non so se ti ricordi. Si è da poco trasferito in città. Comunque ogni domenica viene a trovarci, quindi non ti preoccupare, lo vedrai presto.- Lo rassicurò Andria.
- Ah, bene. -
Mu rimase perplesso per la notizia e indeciso se sentirsi deluso di non poterlo vedere o fiero di lui, di quel ragazzino che aveva cresciuto e con cui aveva condiviso una buona e significativa parte della vita.
- Vieni amico, ti accompagno nella tu stanza. - irruppe Aldebaran nei suoi pensieri - Mettiti comodo, se vuoi puoi farti una doccia. Fai come fossi a casa tua, non importa che te lo dica! - E si accinse ad accompagnarlo su per le scale.
Per tutto il tempo del soggiorno, Mu avrebbe dormito in mansarda, come da tradizione. Nei giorni più caldi, lassù l’aria diventava pesante e talmente densa di polvere quasi da rimanerci soffocati, ma a lui non importava: gli bastava tenere la finestra spalancata durante la giornata per poi riaccostarla la sera. La finestra era, appunto, il dettaglio che gli faceva apprezzare quella stanza: era incassata nel sottotetto proprio sopra il letto così, quando era disteso a pancia all’insù, si ritrovava faccia a faccia con il cielo. In qualche modo amava quel cantuccio, perché era piccolo e discreto e lo faceva sentire a suo agio. Posò la sua roba per terra e si distese sul duro materasso e, con un piacevole ronzio in testa e la sensazione di rilassamento che cominciava a fluire in ogni parte del corpo, chiuse gli occhi e si distaccò da tutto.
 
Come di consueto, durante la cena dominavano il caos e l’allegria. Andria, che durante il pasto sedeva capotavola per poter fare avanti e indietro in cucina più agilmente e avere la situazione sotto controllo, aveva cucinato uno squisito stufato di cinghiale alle olive, accompagnato da insalata greca e patate al forno. Sedendo accanto all’ancora spaesato Mu, un incontenibilmente allegro e molesto Aldebaran gli riempiva di continuo il bicchiere del loro vino. Se inizialmente il tibetano si sentiva un po’ a disagio in quella convivialità a cui non era più abituato, dopo il secondo bicchiere non faceva più caso alle sonore pacche sulla schiena che gli venivano rifilati da Aldebaran o agli schiamazzi dei piccoli per richiamare la sua attenzione. Anzi, alla fine si aggiunse persino lui alla battaglia all’ultimo sangue tra i due, che consisteva nel lanciarsi addosso molliche e briciole di pane, che inevitabilmente degenerò quando il piccolo Sakis ebbe la brillante idea di usare le olive come proiettili. Il tutto avvenne tra le grasse risate di Aldebaran e sotto lo sguardo di finto rimprovero della madre, che in quel momento stava portando in tavola un tiramisù. Richiamato dalla confusione e dalle briciole di pane cascate ovunque nei pressi del tavolo, Orione ne approfittò per infilarsi sotto di esso e fare l’aspirapolvere, per poi accucciarsi con tutta la sua massa sui piedi dei commensali.
Con le pance piene e l’aria soddisfatta, i tre adulti rimasero a chiacchierare, finché Andria non decise di portare a letto i piccoli.
-Voi due non fate troppo tardi che domani vi butto giù dal letto presto. - Si raccomandò con i due amici. Prima di congedarsi, diede un bacio sulla fronte ad Aldebaran.
- E se uscite fuori, ricordati poi di spegnere le luci del vialetto.
Rimasti soli, Aldebaran cacciò fuori due bicchierini dalla credenza e prese una bottiglia da una mensola.
- Andiamo in veranda, ti va?
- Perché no…- rispose l’altro.
Usciti fuori, l’ex cavaliere del Toro aveva appena poggiato liquore e bicchieri sul tavolo che cambiò subito idea.
- Aspetta - disse riprendendo le cose dal tavolo - ti porto in un posto in cui non sei mai stato.
Mu, incuriosito dalla proposta e già un po’ alticcio, seguì l’amico che si stava inerpicando con gradi falcate per una piccola salita che partiva da dietro all’edificio. Arrivati in cima, Aldebaran si sedette su un muretto in cemento che dava su un pendio. Da quanto la luna era grande e luminosa, quella sera riusciva a vedere i campi che si stendevano verso il basso e il recinto delle mucche. Dai bagliori poco più lontani era possibile tracciare la posizione dei paesi che si stendevano a valle. Volgendo lo sguardo ancora più lontano, le luci si addensavano sempre di più fino a generare una chiazza luminosa: era Atene, che faceva sentire la propria presenza anche di notte.
- L’anno scorso questo non c’era- Osservò Mu indicando il muretto e sedendosi a sua volta accanto all’amico.
- Infatti l’ho costruito sei mesi fa. Stava venendo giù il terrapieno e così l’ho messo come contrafforte.
- Geniale. Tutto sommato è anche un bel punto panoramico.
- Esatto! - Assentì Aldebaran mentre versava dell’Ouzo nei bicchierini. – Nelle serate come queste è l’ideale. E Andria ci viene a fumare di nascosto, l’ho vista più volte ma non le ho mai detto nulla.
Mu ridacchiò e diede un sorso al distillato all’anice. Dopo tanti anni non aveva ancora capito se il gusto gli piaceva o no. Fatto sta che dopo i primi sorsi qualche smorfia gli veniva naturale farla, ma poi ci si abituava.
- Ti vedo in gran forma, Aldebaran. E anche Andria, e i piccoli sono cresciuti tantissimo. Siete davvero una bella famiglia.
Il grosso amico sorrise soddisfatto mentre infilava del tabacco nella pipa che aveva tirato fuori dal taschino della camicia a quadri.
- In effetti, per te che vieni qui una volta all’anno, i cambiamenti sono più evidenti. - Ammise -E comunque è una gran fatica, anche se sembra che le cose vadano meglio.
- In che senso?
- Beh, tanto per cominciare - esordì Aldo mettendosi la pipa in bocca e accendendola - abbiamo problemi economici non indifferenti: da quando abbiamo introdotto l’allevamento delle vacche siamo andati solo in perdita. E’ stata un’idea mia, perché ci vedevo un investimento a lungo termine, mentre Andria si era sempre opposta all’idea e non ho voluto darle retta.
- Ma non è lei che in realtà dirige l’azienda?
- Sì, infatti- spiegò - ma lei mi ha lasciato fare perché sapeva di aver ragione e non vedeva l’ora di dirmi: “Te l’avevo detto”. Scherzi a parte, è una donna veramente capace e con un gran cervello, ma nonostante questo, non ama comandare a bacchetta e alcune decisioni le lascia a me, anche se spesso si rivelano sbagliate. Ora vediamo un po’ come evolve la situazione, se lasciar perdere le vacche o vedere se ne esce fuori un qualche profitto. Mi rincuora comunque il fatto che le olive promettono bene. Così magari possiamo pensare a comprare qualche attrezzo nuovo...
Indicò poi uno spiazzo poco sotto di loro - E sai che pensavo di fare? Pensavo di costruire una serra, così lei potrà dedicarsi alle piante anche d’inverno. Vedessi che bel cespuglio di ortensie è riuscita a crescere la scorsa primavera!
Un gatto comparve da dietro un albero e saltò sul muretto. Si mosse sinuosamente e, stiracchiandosi di tanto in tanto, si avvicinò a Mu e si accovacciò accanto a lui, che cominciò a grattarlo dietro alle orecchie.
- In effetti le vostre piante sono molto curate. - Osservò distrattamente, concentrato più sulle fusa del micio.
- A proposito, questa te la devo raccontare - scattò all’improvviso Aldebaran, battendo una manona sulla coscia dell’amico e facendo scappare il gatto - L’altro giorno stavo sfogliando una rivista di giardinaggio che mia moglie aveva lasciato in bagno. Guarda caso, mi cade l’occhio su un articolo in cui veniva intervistato un floral designer ovvero, da quel che ho capito, un tipo che fa composizioni artistiche con i fiori o piante, di fama internazionale…indovina un po’ di chi parlavano?
- Visto che la nostra cerchia di conoscenze comuni è piuttosto esigua e si parla di fiori, per associazione direi Aphrodite dei Pesci.
- Bingo! Leggendo un po’ qua e là, mi è parso di capire che adesso vive in Olanda e che si occupi prevalentemente di allestimenti per matrimoni... Ma chi l’avrebbe mai detto! A volteci penso, e mi chiedo che fine abbiano fatto i nostri compagni...- disse Aldebaran ed accompagnò quest’ultima considerazione con delle boccate di fumo.
- Appunto, io invece ti devo raccontare questa - fece Mu picchiettandolo con l’indice sul braccio. – E, fidati, si tratta di una cosa davvero strana.
Il Toro inclinò la testa da una parte in segno di ascolto.
- Una sera, circa un paio di mesi fa, mi trovavo al Jamir in attesa di farmi un tè, dopo aver passato una giornata sfiancante al pascolo con gli yak. Ad un certo punto, sento bussare alla porta. - Fece una breve pausa e guardò l’altro negli occhi: - Ora, converrai con me che sentir bussare alla mia porta non è proprio un fenomeno usuale.
Aldebaran annuì. In effetti, su uno sperone di roccia a 5000 metri di altezza nel cuore dell’Himalaya, anche i testimoni di Geova si guarderebbero bene dal fare visite.
- Apro la porta e mi trovo davanti un tale di età indefinita, con il volto scavato, capelli lunghi e sporchi, barba fino all’ombelico, in camicia e pantaloni di lino e senza scarpe. Senza scarpe! Non so se mi spiego…
- Sì, sì ho capito. Ma insomma, e chi era?
- Mi ci è voluto un po’ per riconoscerlo. Era Shaka, il nostro Shaka!
Aldebaran strabuzzò gli occhi per la sorpresa:- Ma che dici! Che era venuto a fare?
- Questo non lo saprei dire nemmeno ora. Visita di cortesia, mi dice. Sono rimasto sulla soglia della porta a fissarlo imbambolato per un lasso di tempo interminabile. Non puoi capire, è diventato una persona completamente diversa!
- Vabbè, in dieci anni le persone cambiano, un po’ invecchiano anche. A parte te, Mu, che sei sempre uguale. E anch’io. Anzi, porto meglio i trent’anni di come portavo i venti - Aggiunse poi con una risata.
- Insomma - Proseguì Mu - senza attendere alcun invito, entra in casa con molta nonchalance e si siede al mio tavolo, con una bella aria beata stampata in faccia.
- Minchia. Ma insomma, che avete fatto?
- Abbiamo preso un tè, ovviamente. Lui mi ha un po’ raccontato della sua vita, io della mia. E’ tornato nel suo paese e si dà da fare per varie ONLUS per migliorare le condizioni di vita e cercare di garantire un futuro ai giovani delle caste più basse. Mi ha parlato un po’ della realtà con cui convive e deve essere spaventoso sperimentarlo in prima persona. Credo il suo precoce invecchiamento sia una conseguenza della miseria e della disperazione con deve confrontarsi ogni maledetto giorno…
- L’India è un paese con un tasso di povertà e delinquenza elevatissimi, deve essere tosta, sì!. - Commentò Aldebaran scuotendo la testa - Che grand’uomo però, come d’altronde lo è sempre stato. Magari potrebbe diventare un nuovo Gandhi.
- Chi, scusa? - Chiese Mu perplesso
- Lascia stare...
- Era e forse è ancora l’uomo più vicino agli dei, ma i dico in tutta franchezza che mi è sembrato un po’ partito di testa. Partito forse è esagerato, ma diciamo meno lucido di quanto ricordavo. Alla fine non è rimasto che mezz’ora: finito il tè, nonostante gli avessi chiesto di rimanere per cena, si alza per andare via. Ma nel momento di salutarci, prima di chiudere la porta dietro le spalle, si gira e mi fa: “Ci vediamo ad Atene”. Non faccio in tempo a rincorrerlo, che è già sparito!
A sentire quest’ultima parte del racconto, Aldebaran aggrottò la fronte e rimase a riflettere:
- Aspetta un attimo…- mormorò – Eppure, questo mi fa venire in mente che dovevo dirti una cosa…
Entrambi restarono in silenzio per qualche minuto. Una brezza leggera scompigliava la lunga chioma di Mu e increspava le spirali di fumo della pipa di Aldebaran, diffondendo un forte odore di tabacco da pipa, terra bagnata e bestiame. Mu alzò gli occhi al cielo in cerca di qualche stella, ma c’era un velo rosaceo che, a parte Venere, copriva tutto il resto come un enorme tappeto di ovatta. Abbandonò dunque la ricerca e finì di bere l’ultimo goccio di Ouzo rimasto nel bicchierino.
- Tu sei felice, Aldebaran?
- Io? Beh - rispose il Toro un po’ preso alla sprovvista dalla domanda – Ti posso dire intanto questo: la vita agreste è difficile, davvero. Ma per quanto spaccarsi la schiena sette giorni su sette dall’alba al tramonto, non potersi permettere nemmeno un giorno di riposo e vivere con le risorse al limite del sostentamento familiare sia una vera e propria sfida …No, tutto questo non mi fa rimpiangere gli anni al Tempio. Non che li stia rinnegando, intendiamoci, probabilmente se dovessi tornare in vita ancora una volta - ma spero di no- lo rifarei. E’ che qui ho come trovato la mia dimensione, sia reale che affettiva. Tutto qui, ma credo sia la cosa fondamentale.
Mentre Aldebaran esprimeva il suo punto di vista, delle lucciole in quel momento erano passate davanti a Mu, che ne aveva catturata una e la teneva delicatamente nel pugno semi aperto per non farle del male, ma nemmeno farla fuggire. L’altro lo guardò e subito intuì i pensieri del tibetano:
- Conosco questo sguardo. So cosa ti passa per la testa. - gli sussurrò amorevolmente, catturando la sua attenzione - Mettiti l’animo in pace: portarlo qui sette anni fa è stata la cosa migliore che tu potessi fare per lui.
- In realtà, sono tutt’ora angosciato dall’idea che possa pensare che l’abbia abbandonato… che non potendolo più addestrare come Cavaliere d’Oro non avessi più interesse a tenerlo con me...-
- Porca miseria, Mu! - esclamò l’altro, interrompendolo - Non è possibile che ancora continui a crogiolarti per questa cosa! Eppure, in tutti questi anni ha dimostrato di sapersela cavare bene, ha scoperto la passione per lo studio ed ora si è iscritto a Medicina. Ha un futuro brillante davanti a lui, stanne certo. Il problema sei tu, caro mio. - Gli fece in tono di rimprovero, puntandogli il grosso indice contro - Hai passato troppo tempo isolato da tutti e dal mondo. Ti avevo chiesto di rimanere con me, ricordi? Potevamo avviare un’attività insieme e non separarti da Kiki. Invece no, hai voluto fare il solito bastian contrario e ti sei ritirato nelle tue amate montagne insieme ad un bagaglio di paranoie, che col passare del tempo si sono ingigantite. Non puoi rimanere là per sempre tra gli yak e i cadaveri degli alpinisti!
- Ma lo sai qual è il mio problema! – Sbottò Mu, infastidito dalla predica, ma allo stesso tempo sentendo che la ragione si stava sbilanciando pericolosamente dalla parte dell’amico – Non riesco ad integrarmi con la civiltà, mi sentirei fuori luogo e inadatto, qui. E cosa potrei fare, poi? Non c’è posto per me.
- Amico mio, sei una persona dai mille talenti, qualcosa da fare te la troviamo in qualche modo. Ma se questo passo ancora non ti decidi a farlo, come puoi essere sicuro che andrà male? Devi cercare di essere più intraprendente, che diamine! E più lasci passare il tempo, più questo cambiamento ti sarà difficile.
Quest’ultimo, infine, poggiò le manone possenti sulle spalle dello sconsolato commilitone e lo guardò dritto negli occhi: - Pensaci. Hai tutto il tempo in cui starai qui per prendere una decisione.
Mu annuì con poca convinzione arricciando il labbro inferiore, ma la presenza del vecchio compagno, in qualche modo, gli alleviava la pesantezza nello stomaco che si era formata in quel momento. Rimaneva sempre sorpreso nel pensare come loro due, nonostante i caratteri diametralmente opposti, ovvero lui introverso e riflessivo e bonario e gioviale Aldebaran, dopo tanti anni il loro legame fosse ancora così tanto profondo. Si erano conosciuti da piccoli, si erano frequentati inizialmente come vicini di casa al Tempio, divennero inseparabili nella vita e nelle battaglie. E quanto aveva sofferto Mu quando aveva rinvenuto il corpo senza vita dell’amico nella casa del Toro, dopo lo scontro con uno specter, mai più gli era capitato nella vita. Eccetto quando aveva dovuto lasciare in Grecia il piccolo Kiki, forse.
Il tibetano, con la testa lievemente pulsante per il turbamento emozionale, scese dal muretto per sgranchirsi le gambe che, dopo essere stato seduto nella stessa posizione per un tempo indefinito, gli si era addormentato un piede.
Aldebaran lo seguì a ruota, sparecchiando il muretto da bicchierini e bottiglia di liquore ormai vuota, e una volta raggiunto gli passò un braccio intorno alle spalle.
- Sta’ tranquillo - lo rassicurò scompigliandogli capelli - Che una soluzione la trovi. E comunque, mi è tornato in mente quello che dovevo dirti. C’è da vergognarsi a scordarsi una cosa del genere…-
- Ovvero?
- E’ una cosa che riguarda un nostro vecchio compagno. E’ una storia un po’ lunga, forse è meglio fare prima un salto in cantina, ti racconto tutto davanti ad un altro bicchierino. - Disse Aldebaran avviandosi verso l’edificio.
- Ma…è tardi…
Ma l’altro ormai era in fondo alla discesa e non colse minimamente l’obiezione che partiva dall’alto. Aldebaran lo attendeva davanti ad una porticina di legno, che sospinse appena Mu lo raggiunse. Scesero qualche gradino fino ad arrivare ad uno stanzone -la cantina, per l’appunto - con soffitto a volta in mattoni e delle enormi botti di rovere in fila al centro della stanza. L’ex cavaliere del toro si diresse verso un armadio di legno massiccio in cui erano accumulate bottiglie di ogni genere con sopra variabili spessori di polvere e ne scelse una, che mostrò a Mu.
- Non si dovrebbe scendere di gradazione, ma questo devi assolutamente assaggiarlo!
Mu squadrò sospettoso la bottiglia: - Che diavolo è?
- Passito di Pantelleria, regalo di un amico- rispose, stappando la bottiglia con aria soddisfatta. - Prego, annusa…
- Aldebaran, domattina dobbiamo svegliarci presto e io sono stanco morto. Raccontami quello che mi devi raccontare, ma beviamolo domani, dai…
- Per noi magari può suonare un po’ strano, ma sai come si dice? Si vive una volta sola!
E si versò il passito nel bicchiere.
 
 
 
 
 
 
 


 
 

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