Brotherhood

di Hikari_Sengoku
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima giornata, mattina: Zoro scopre il computer ***
Capitolo 2: *** Prima giornata, pomeriggio e sera: Carpe diem ***
Capitolo 3: *** Presentazioni ***
Capitolo 4: *** Cominciano i guai ***
Capitolo 5: *** Rivelazioni ***
Capitolo 6: *** Prima lezione: Teoria dei Warmholes ***
Capitolo 7: *** Hollow ***
Capitolo 8: *** Universi tangenti ***
Capitolo 9: *** Le figlie di Ohara ***
Capitolo 10: *** “Il mio sogno… è scrivere il mio destino!” ***
Capitolo 11: *** Verso Fukuzoo ***
Capitolo 12: *** Illusione di sicurezza ***
Capitolo 13: *** La Regina delle Sfighe e la Madre dei Cretini sono sorelle ***
Capitolo 14: *** Sogno di una settimana di torture infernali ***
Capitolo 15: *** Fuga a Marineford ***
Capitolo 16: *** Dead Awake ***
Capitolo 17: *** Hana wa sakuragi, hito wa bushi ***
Capitolo 18: *** Allenamento ***
Capitolo 19: *** Extra: Doveva essere Natale, e invece è Quaresima! ***
Capitolo 20: *** Niobis e le c aspirate (per non chiamarlo la tragedia di Cori, che va in paranoia) ***



Capitolo 1
*** Prima giornata, mattina: Zoro scopre il computer ***


 
Avvertenze prima dell’uso: Sono a conoscenza dell’usura del tema, perciò invito a critiche costruttive. La storia è unicamente ispirata all’anime per ragioni di trama. Ringrazio WillofD_04 per aver contribuito alla stesura di questa fanfic.
 
Prima giornata, mattina: Zoro scopre il computer

Era una calda mattinata di giugno, ed il sole del sabato illuminava con tutta la sua irruenza la stanza di Cori. Era uno di quei languidi sabati passati a rilassarsi dopo laa penultima, distruttiva settimana scolastica prima della maturitá. Aveva passato gli ultimi mesi a studiare in preda all’ansia, e pensava di potersi meritare un paio d’ore attaccata al computer come se non ci fosse un domani a guardare ONE PIECE. Non che fosse il suo unico interesse, ma al momento era il meno faticoso. Aveva appena finito la saga di Thriller Bark e stava cominciando a vedere proprio la prima puntata “di pausa” come le chiamava lei, quelle fuori dai grandi archi narrativi. Anche nell’anime era estate, e contrariamente a lei i pirati non avevano nessun esame da preparare, e potevano spaparanzarsi alle terme. In quell’esatto istante si stava beando della meravigliosa immagine di Zoro sotto alle cascate, quando lo schermo si oscurò all’improvviso. Uno scroscio d’acqua dietro di lei la fece sobbalzare, e quando si girò si trattenne a malapena dall’urlare. Zoro era lí, stava infradiciando il pavimento della sua stanza mezzo nudo e, cosa più importante, aveva sguainato le sue spade, berciando qualcosa come “Brook? Che cavolo sta succedendo?”.
Cori ebbe a malapena il tempo di realizzare il fatto che avesse scambiato i suoi capelli (che non erano afro, ci teneva a puntualizzare, erano cosí al naturale!) con quelli di Brook, prima di sentire le grida di sua madre dal bagno vicino alla sua camera: “Che cosa succede, Cori? C’è qualcuno lí con te?” ed il ticchettio dei suoi tacchi 12 lungo il corridoio.
“Nessuno mamma, era la televisione!” urlò lei di rimando mentre la madre spalancava la porta della sua stanza. La donna sospettosa sondò la stanza con lo sguardo felino.
“Sto solo facendo ginnastica, vedi?” sbuffò Cori infastidita lasciando sporgere solo la testa dal bordo inferiore del paravento che divideva la stanza. La donna sbuffò a sua volta delusa prima di girare i tacchi ed uscire. Cori stringeva il busto di Zoro in una Kata Gatame quasi perfetta, mentre i vestiti le si bagnavano a contatto con la  sua pelle. Sentiva distintamente una katana del ragazzo premerle sulla schiena ed il suo sguardo fulminarla. Ringraziò la sua prontezza di spirito e la “bontá” di Zoro che ancora non l’aveva spedita gambe all’aria. Si accertò che sua madre si fosse allontanata a sufficienza e lo liberò.
“Chi sei? Dove mi trovo? Dimmelo” le impose il ragazzo puntandole la spada alla gola non appena si fu alzato.
“Mi chiamo Cori. E tu stai a casa mia” un rivolo di sangue scese lungo la curva del collo “non per mia volontá” concluse lei sentendo allentare un po’ la pressione sul suo collo.
“Ah, si? E perché mi hai aggredito?” ringhiò lui in risposta.
“Non volevo che ti vedessero” borbottò la ragazza.
“Perché?” chiese Zoro. Non aveva idea di come avesse fatto ad arrivare fin lí. Un attimo prima era sotto alle cascate, l’attimo dopo lí. Forse si era addormentato, ed i gestori avevano chiesto alla ragazza di portarlo via perché non intralciasse.
Cori sospirò. Come poteva spiegargli che lui veniva da un anime/manga di successo, e che si trovava nella sua stanza senza un motivo logico? E che per di più lei non sapeva come riportarlo indietro e nessuno lo doveva vedere? Optò per un approccio cauto e semplice.
“Zoro, tu sei in un’altra dimensione” annunciò ostentando una calma che non aveva, sentendosi fra l’ansioso spinto ed il perverso, giacché lottava per non abbassare lo sguardo sui pettorali massicci, attraversati dalla lunga cicatrice.
“Eh?” fu la prevedibile risposta di uno Zoro incredulo.
“Ehm…sull’isola dove stavi c’era un portale che ti ha portato qui, e qui nessuno deve sapere chi sei perché… altrimenti ti ucciderebbero.” Mentí spudoratamente. Avrebbe potuto scrivere un libro: “Fisica relativistica spiegata ai mongoloidi e altre cazzate interdimensionali”. Avrebbe avuto un sacco di vendite.
E perché tu mi stai coprendo?” chiese lui stranito.
Cori immaginò che una risposta come ‘salvaguardo l’ordine degli universi’ fosse leggermente ridicola, cosí optò per un più candido: “Mi stai simpatico” facendo spallucce.
“Sai come faccio a tornare di lá?” chiese infine il giovane dai capelli verdi.
“Non ancora, ma posso fare qualche ricerca…” mugugnò rovistando nell’armadio. Alla fine gli lanciò una maglia bianca, dei jeans da lavoro e una parrucca nera corta e sbarazzina (augusto cimelio di cosplay passati) “…se tu starai buono e tranquillo qui e non ti farai vedere in giro” lo redarguí. Zoro soppesò per un attimo le sue nuove vesti poi si girò verso di lei. “Ok, ma sbrigati”
Cori si sorprese. Aveva accettato! Zoro aveva accettato, Zoro aveva accettato, Zoro aveva accettato… gongolò nella sua testa, andando a recuperargli un asciugamano.”Il bagno è di lá.” Gli disse indicando la porta aperta tra l’armadio e la scrivania piena di scartoffie e dischi dietro al paravento. Mentre il ragazzo si cambiava, si sbrigò a raccattare tutto ciò che poteva essere compromettente (come una serie di foto di Zoro mentre combatteva, qualche vecchia fanfiction, appunti su cose strane e soprattutto gli spoiler disseminati un po’ ovunque… si poteva proprio dire che Zoro fosse uno dei suoi personaggi preferiti, almeno finché non era lettteralmente piovuto nella sua stanza), sgombrò parte della parete dai vari foglietti e fogliacci vari per lasciare posto all’ “Area Indagine”, infine asciugò il pavimento con buona lena e si medicò il taglietto sul collo.
Quando Zoro uscí, quasi scoppiò a ridere: La maglietta gli stava strettissima! “Pure tu hai più tette di me!” ridacchiò tirandola giù. Zoro la fulminò borbottando. “Non ho tempo da perdere. Datti una mossa, testa-riccia”
“Testa-riccia ci chiami tua sorella, idiota! Spostati di lí, che mi serve il computer!” rispose Cori calciandolo via. Zoro suo malgrado si spostò in un angolo, asservando con occhio sospettoso lo strano aggeggio luminoso e borbottante che Cori aveva svegliato. Quando all’improvviso lo strano oggetto proruppe in un verso stridulo ed agghiacciante, Zoro decise che meritava la sua attenzione come potenziale minnaccia e si alzò per mettersi in posizione di difesa. Quando sullo schermo luminoso apparve un uomo biondo vestito di nero con un enorme coltello da cucina in mano appurò che quello non poteva essere che dannoso e sguainò la katana. A quel punto Cori, rendendosi conto del problema, si girò scocciata sulla sedia girevole, gli abbassò la lama prendendola con entrambe le mani e disse con tutta calma: “Quella è probabilmente una delle tue esigue possibilitá di tornare nel tuo mondo, non credo tu voglia distruggerla, primo. Secondo, se proprio ti vuoi allenare, puoi usare i mobili della stanza. Terzo… non c’è nessun terzo” si impose Cori ignorando la scarica adrenalinica che le aveva dato l’idea di poter mettere con le spalle al muro Zoro, il cacciatore di pirati. Che rinfoderò la katana nel fodero e buttandosi in un angolo borbottò qualcosa come: “Hai del sakè?”
“No”
Sarebbe stata una lunga giornata.
 







Allora, cosa ne pensate? É troppo OOC? Qualcosa non vi quadra? A voi l'ardua sentenza. Scrivete. La scadenza NON sará regolare, e la storia sará lunga.


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Capitolo 2
*** Prima giornata, pomeriggio e sera: Carpe diem ***


Prima giornata, pomeriggio e sera: Carpe diem

Dopo una lunga serie di tentativi da parte di Cori di riattivare la scansione temporale dell’episodio da cui era letteralmente piovuto Zoro, tutti infruttuosi, la ragazza si era dedicata alla ricerca di particolari ascendenze che avessero reso particolare quel giorno. Ma non c’era assolutamente NULLA. E con nulla intendeva proprio nulla. Uno stomaco brontolò. “Ehi, testa-riccia, cos’hai da mangiare qui?” si lamentò Zoro. Lo stomaco brontolò di nuovo.
Cori sorrise. “Ho capito, vado a prenderti il pranzo” si alzò, felice di sgranchirsi un po’ le gambe. “Tu aspettami qui”
Uscí di soppiatto dalla stanza. I suoi genitori raramente mangiavano a casa per pranzo, e da quando ne aveva memoria lei mangiava con suo fratello e i domestici in cucina. Quel giorno reputò saggio non lasciare troppo da solo l’alga marina, cosí quatta quatta scese le scale, sperando che Emilia non la vedesse. Entrò in cucina, che per fortuna essendo mezzogiorno era ancora vuota, e di corsa arraffò tutto il necessario per qualche panino, strappò un foglietto e vi scrisse che oggi aveva da studiare e non sarebbe scesa a mangiare, afferrò un vassoio e con la stessa fretta risalí le scale. Quando rientrò in stanza,  vide Zoro che spenzolava le gambe fuori dalla finestra e faceva la salamandra al sole cocente di quel caldo giugno. Lo vide sorridere per un istante, giusto prima che si accorgesse del suo ritorno e aprisse gli occhi scuri in un’espressione di disappunto. Il ragazzo si girò e si sedette a gambe incrociate sul pavimento non appena lei varcò la soglia.
“Tieni, carcerato, ti ho portato il rancio” disse lanciandogli il vassoio in grembo.
“Alla buon’ora” rispose lo spadaccino dedicandosi all’attento studio di una sottile fetta di prosciutto.
“Che c’è, hai deciso di diventare vegetariano tutt’a un tratto, che fai quella faccia schifata?” ribatté lei fregandogli due fette di pane, un po’ di carne e le verdure.
“ Se tu questo lo chiami pranzo…” protestò Zoro riempiendosi la bocca di cibo senza nemmeno curarsi di dargli la forma di panino prima di mangiarlo.
“Beh, non posso svaligiare il frigorifero solo per riempire il tuo smisurato stomaco, sai?” ruminò lei a bocca piena. Quando due minuti dopo il modesto pranzo finí, Cori commentò fra i denti: “Certo Rufy sará imbattibile, ma anche tu non scherzi…” portando il vassoio vuoto allo scivolo diretto in cucina. Poi aprí la bocchetta della posta aerea lí nei pressi e ci urlò dentro: “Vassoio in arrivo!”.
“Perché urli in un tubo?” chiese perplesso Zoro.
“Avverto la cucina. Una volta cose come queste venivano usate per i messaggi con la servitù o con gli altri abitanti della casa, senza che si suonassero fastidiosi campanelli. Adesso li uso soltanto io”
“Hmm. Interessante” ghignò Zoro avvicinandosi al tubo a grandi passi. Cori se ne accorse in tempo e serrò il tappo con le braccia. “Non se ne parla, vade retro” disse chiudendo il tappo con il lucchetto.
“Io torno a cercare, tu fa come ti pare” gli annunciò Cori aprendo la pagina PowerPoint della sua mappa concettuale.
“D’accordo”



Sgniick

Sgniick

Sgniick

Nel lento pomeriggio, il tempo era scandito dagli scricchiolii del suo povero letto. Nove ore. Nove lunghe ore erano passate nel lento susseguirsi dei numeri snocciolati dalla bocca di Zoro.
199999888
199999889

“Sai, credo abbiano capito tutti che sai contare” Il ragazzo la ignorò palesemente, continuando a sollevare il letto. Erano state nove ore lunghissime. Fino alle quattro Zoro si era limitato a dormire in un angolo, lasciando la stanza in un silenzio surreale mentre lei ripassava le materie d’esame. Poi il bimbo si era svegliato, e aveva cominciato a fare ginnastica, a ciclo continuo, senza interruzioni.  Non che a lei dispiacesse stare lí ad ammirarlo, ma come primo giorno di convivenza era abbastanza stressante. E poi un po’ le dispiaceva fare l’ameba computerizzata davanti a tutto quello sforzo. Alzatasi, buttò il vassoio che si era fatta portare per cena con una scusa nello scivolo, poi spalancato l’armadio estrasse il sacco a pelo e lo stuoino, e soppesandoli pensò che preferiva condividere il letto piuttosto che il suo amatissimo sacco a pelo. E poi il crocifisso non era mica appeso per sport sopra il suo letto, cosí prese il  pigiama e si diresse in bagno.
“Zoro, ti serve un pigiama?”
“No, resto con i miei vestiti”
“D’accordo”


Cinque minuti dopo, Cori usciva dal bagno. Zoro aveva finito di fare sollevamento letti, e appena la vide si mise a ridere. Ma ridere proprio di pancia.
“Non. Ridere” sibilò Cori.
“Non scherzare, sei ridicola! Come si fa a non ridere?” sghignazzò il ragazzo con le lacrime agli occhi. “Sembri un carcerato!” disse indicandola. D’accordo, mettersi il pigiama arancione era stata una pessima idea, sembrava veramente una carcerata cresciuta nei suoi vestiti. Le maniche della giacca si arrestavano venti centimetri prima del polso, per non parlare dei pantaloni. Beh, sempre meglio di quello coi gattini.
“Ringrazia che non abbia una mannaia con me, o potresti dire addio al tuo riposo notturno” rispose dunque, tirandogli un pugno in testa. “Finché non avrò risolto il problema, tu dormirai nel mio letto, si quello che hai sollevato per cinque ore di fila” Chiarí.
“E tu dove dormirai?” chiese guardandola sospettoso.
“Qui” rispose lei indicando lo stuoino e il sacco a pelo stesi per terra.
“E cosa vuoi in cambio?” borbottò Zoro memore di Nami e delle sue furberie.
“Niente. Mi va bene cosí, preferisco condividere il letto piuttosto che il sacco a pelo” ribatté lei.
“Ma è ancora presto. Vai a letto coi vecchi!” si lamentò il giovane dai capelli verdi appollaiandosi come un pappagallo sul letto.
“Liberissimo di non dormire” ribadí lei infilandosi nel sacco grigio e verde. “L’importante è che non esci in escursione nel mezzo della notte, che col senso dell’orientamento che ti ritrovi dovrei andare a cercarti in Siberia, mica no”
Zoro mise il broncio: “Guarda che sono capacissimo di trovare una strada una volta che l’ho percorsa” rispose sedendosi.
“Haha, ha detto la battuta. Buonanotte, Zoro” ribatté lei facendo il verme nel sacco a pelo per spegnere la luce.
“Buonanotte” sbadigliò Zoro appollaiandosi alla finestra.




 Il cielo era nuvoloso quella sera, e si vedeva a malapena un lucore latteo diffuso. Cori continuò a rigirarsi inutilmente nel letto, preda dei pensieri del giorno. Ricapitolando: Zoro era a casa sua per un motivo non ben specificato e lei aveva accettato di aiutarlo per non so quale derivazione dello spirito da crocerossina. Pro: Aveva Zoro (uno dei suoi idoli, uno sportivo fantastico, un cervello fine [a volte] ed un carattere niente male) a casa. Contro: Doveva evitare che i suoi genitori lo sapessero, ed in secondo luogo anche l’intero universo, pena… beh, di sicuro un gran casino. In secondo luogo aveva la maturitá, cosa che rendeva la situazione ancora più ingestibile. Soluzione: Al momento nessuna, se non un gran mal di testa. Quando si rigirò per l’ultima volta (le visioni apocalittiche fanno un brutto effetto), la stanza aveva assunto un effetto surreale. La luna la illuminava da quell’unica finestra, dipingendo nettamente l’ombra di Zoro sulle pareti. I capelli color menta avevano assunto una sfumatura argentea, ed il ghigno che il ragazzo era solito portare si era sciolto in una curva morbida, tendente verso il basso. Si era addormentato cosí, seduto sul bordo della finestra, con la spalla contro lo stipite e le ginocchia al petto, le spade al suo fianco. Un moto di curiositá attraversò Cori. Si avvicinò di soppiatto, fino ad arrivare a poca distanza da lui, e si mise ad osservarlo come un animale curioso, piegando la testa per studiarlo meglio. La curva della clavicola faceva mostra di sé dalla larga maglia che indossava, i muscoli del collo abbronzato sembravano gonfiarsi ad ogni respiro tranquillo. Le labbra sottili erano socchiuse in un sospiro dormiente. La ragazza sorrise intenerita. Un ciuffo ricadeva sugli occhi, e Cori allungò una mano per sistemarlo, forse per svegliarlo, chissá. Zoro all’improvviso la afferrò per il collo, spalancando i crudeli occhi color caffè, e strinse. “Non farti illusioni. Lo farò anch’io” ringhiò. Cori stringeva e graffiava il polso di Zoro, ma era debole come un gattino. Perché non riusciva a fare niente? Le sue gambe dov’erano? “Cosa?” rantolò paonazza, fissandolo in quei magneti scuri. “Non l’hai scordato” ghignò l’altro. “Lo rivedrai”


Cori si svegliò di soprassalto, portandosi le mani al collo tossí. Era appena l’alba. La stanza era illuminata da quel chiarore mattutino, e gli oggetti sembravano sbadigliare. Preda dei terrori notturni, la ragazza controllò in ansia la finestra, ma Zoro non c’era, dormiva nel suo letto come un angioletto. Si strofinò la faccia e andò in bagno. Sul suo collo non c’era niente.
“Solo un sogno, è stato solo un sogno” ansimò nel tentativo di convincersi.
 



In un’altra casa a pochi metri da li’, due occhi verdi si spalancarono.

 





Ed ecco qua il nuovo capitolo. Che ne pensate? Intrigante, no? Credo sia chiaro che la famiglia di Cori non sia povera in canna. Fatemi sapere cosa ne pensate. In realtá questo capitolo non era previsto, si è semplicemente scritto da solo mentre trascrivevo, e scrivo e sottoscrivo, non c'é nessuna tensione amorosa, sia chiaro ognuno lo legga come vuole. Ringrazio coloro che hanno recensito il capitolo precedente, e spero di poter mettere il prossimo al più presto. Sempre vostra,
                                                                                                                                  Hikari_Sengoku



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Capitolo 3
*** Presentazioni ***


Prima di cominciare: Molte delle scelte sulla vita di Cori sono fatte principalmente per motivi di trama. Per l’azione dovrete aspettare il prossimo capitolo. Spero non appaia tragica, perché non era il mio intento, non c’è niente di veramente tragico.



Presentazioni


Cori si guardò allo specchio, cercando i lividi purpurei sul collo, incontrando unicamente la distesa bianca e calda della sua pelle, le iridi nocciola che si riflettevano nelle pupille dilatate dallo spavento. Eppure, non poteva essere stato solo un sogno. Era tutto cosí lucido… forse si era lasciata impressionare un po’ troppo. In fondo, non aveva fatto nulla che avesse potuto provocare una reazione cosí violenta in Zoro, e lei era sicuramente in grado di difendersi nella realtá da uno strangolamento con una sola mano. Nel sogno (ancora faticava a chiamarlo cosí) era come se le sue gambe fossero scomparse, e le sue mani erano deboli come le zampine di un gattino. Ricordava di aver graffiato debolmente la mano ed il polso di Zoro. Si passò una mano sui capelli. “Meglio tornare a lavorare” mormorò buttandosi sulla scrivania. Non si sarebbe riaddormentata tanto presto, lo sapeva.


Quando Cori si svegliò, si accorse di stare nel suo letto. Eppure era sicura di essersi addormentata alla scrivania… era proprio fumata per non accorgersi che qualcuno la spostava di peso mentre dormiva, non era esattamente un peso piuma. Si tirò a sedere, si strofinò gli occhi e… Zoro era sparito. Si alzò a velocitá stratosferica e spalancò la porta, non c’era, la finestra… eccolo lí, grazie al cielo! Si scapicollò sulle scale, per poi sbattere contro…
“Gregorio!” gridò saltandogli al collo “finalmente sei tornato!”
“Ehi, piccola Cori!” rise il ragazzone stringendola a se. “sei cresciuta, lo sai?”
“È passato solo un mese! Al massimo sono ingrassata” rispose sciogliendosi dall’abbraccio.
“Mi sei mancata, piccoletta” sorrise scompigliandole i capelli “Dove andavi cosí di fretta?”
“Ehm… a trovare il mio pesco” rispose dondolando. Non era capace di mentire a Gregorio.
“Non mentirmi, ti conosco bene” la ammoní infatti il moro trentacinquenne.
“Non sei troppo grande per lei, dongiovanni?” si intromise una voce pacata. I due arrossirono all’istante.
“Vecchio, non pensavo di trovarti ancora in piedi, sai?” bofonchiò Gregorio voltandosi dall’altra parte.
“Ho 83 anni, non ho ancora un piede nella tomba” rispose sullo stesso tono il vegliardo, curvo sulle carte che frusciavano fra le sue lunghe dita ossute e i radi capelli bianchi, ondeggianti a ritmo del passo cadenzato, quasi da marcia militare. “Piuttosto, come sta tuo nonno, Cori?” chiese preoccupato il vecchio economo.
“Sembra che si sia ripreso, ma lo sai com’è fatto, quando gli manca la nonna è sempre tristissimo, poi questa settimana c’era l’anniversario… Torno a trovarlo martedí, se vuoi mi puoi accompagnare” gli rispose la ragazza.
“Io, salire su quella trappola infernale? No, no: Se lo farò, lo farò sulle mie gambe” ribatté stizzito l’uomo.
 “Non è una trappola infernale!” protestò accoratamente Cori. “È una moto!”
“Ah, vecchio Silas, certe cose non cambiano mai!” mormorò Gregorio.
“Stessa cosa” borbottò l’uomo allontanandosi. “Gregorio, per domani voglio il resoconto delle spese di giardinaggio di questo mese sulla scrivania”
“Si capo” rispose il giovane parodizzando un saluto militare.
“Piuttosto Greg, ancora non ti ho chiesto di tua madre, come sta?” chiese la ragazza fissandolo negli occhi color caffè.
“Bene, finalmente ha traslocato. Le ho di nuovo detto che poteva smettere di lavorare,  ma lei insiste…” disse mentre affiancandosi a lei con le mani in tasca cominciava a camminare lungo il giardino.
“Meglio cosí” rispose Cori, la cui visuale, ora libera, comprendeva una testa di muschio (per non dire altro) che si mimetizzava tra le poche, fitte file di alberi boscosi al margine del suo giardino.
“Non mi hai ancora risposto. Chi cerchi cosí di fretta?” chiese curioso il moro.
“Oggi è venuto un mio amico a casa e ci siamo messi a giocare a nascondino, tutto qua” ribatté sventolando una mano.
“Cori. Tu non hai amici” dichiarò a bassa voce il giovane.
“Non dirlo cosí, sembro un’asociale!” protestò Cori. Gregorio sollevò un sopracciglio. “Va bene, un pochino lo sono, lo ammetto.”
“E sentiamo, chi è questo tuo amico?” indagò.
“Cos’è, un interrogatorio? Fai le veci di mio fratello?” sputò acida la ragazza. “Sta tranquillo, appena lo trovo, lo meno e lo caccio”
“Siamo di cattivo umore oggi, eh? Vuoi che ti aiuti?” Ridacchiò.
“No, no, tranquillo, faccio da sola” ghignò scrocchiandosi le dita. “Ci vediamo dopo” lo salutò allontanandosi.
“Ok. Più tardi mi racconti cos’è successo, d’accordo?” le urlò Gregorio, ormai vicino alla sua Catapecchia, una sottospecie di baracca da pescatore all’angolo più estremo del giardino.
“D’accordo” arrossí.
“D’accordo” una seconda voce la scimmiottò dietro di lei. Zoro faceva mostra della sua prestanza emergendo a torso nudo dalle fratte.
“Tu” sibilò Cori fissando quel ghigno sarcatico con le sopracciglia aggrottate.”Hai idea del colpo che mi hai fatto prendere?”
“Che c’è? Mica potevo rimanere chiuso lí dentro in eterno!” protestò.
“E l’incognito, lo mandiamo a puttane?” si alterò la ragazza.
“Ho messo la parrucca, scema” ribatté annoiato Zoro.
“Come se non attirassi comunque l’attenzione…” mugugnò fra i denti, tirandogli un pugno di erba e terra addosso.
“Ehi, che cavolo fai?!” sbraitò il ragazzo, colto di sorpresa.
“Mi vendico” rispose serafica lei, sbattendo le mani per liberarle dalla polvere.
“Ah, si? Vediamo chi si vendica, adesso! Vieni qua , che ti seppellisco!” ruggí lui sollevando un’enorme zolla di terra.
“Non credo proprio, testa d’alga!” gli urlò lei di rimando, fuggendo fra gli alberi. Zoro ruggí ancora cercandola, e Cori ne approfittò per fregare una corda dalla Catapecchia, farne un lazo e buttarlo sopra e oltre il ramo di un albero, lasciando che ricadesse a terra fra la polvere, legò l’altra estremitá ad una pietra pesante, che mise in alto.
“Ehi, scemotto! Sono quiii!” lo richiamò vedendolo poco più in lá, e si nascose dietro un arbusto. Zoro corse verso di lei con la zolla ancora sospesa sopra la testa ed entrò nel lazo, Cori buttò giu la pietra e lui si ritrovò appeso a testa in giù, completamente sporco di terra ed erba fresca. La ragazza rotolò fuori dal nascondiglio ridendo della grossa con le lacrime agli occhi, ma Zoro non si scompose e con un taglio netto recise la corda, ricadendo a terra con le ginocchia piegate e la mano sulla katana di nuovo nel fodero.
“Sei finita, testa-riccia!” urlò di nuovo Zoro inondandola di terra. L’enorme zolla si infranse contro le sue braccia e le inondò di terra il corpo, i capelli, i vestiti, tossí poi per quella che le era entrata in gola, si stropicciò gli occhi e quando li riaprí, sentí Greg urlare: “Cori, che succede? Chi sta urlando?” i suoi passi risuonavano sul terreno ghiaioso.
“Sbrigati, nasconditi” sussurrò a Zoro spingendogli le spalle verso il basso.
“Ma perché?” protestò lui facendo resistenza.
“Puoi obbedire e basta, per questa volta?”lo supplicò Cori. Gregorio arrivò correndo con una zappa sulle spalle larghe. “Che succede? Ho sentito gridare”
“Mmm, non lo so, saranno i vicini” glissò  la ragazza appoggiandosi ad un tronco con nonchalance. Il giovane si insospettí. “Tu non me la racconti giusta” disse mettendosi a braccia conserte.
“Sta’ tranquillo, va tutto bene. Io sto bene. Di cosa ti preoccupi?” tentò di tranquillizzarlo.
“Non lo so… forse  che da quando sono arrivato continui a comportarti in modo strano? O forse perché sei sporca di terra da capo a piedi ed il giardino sembra un campo minato?” attese invano una risposta, fissandola con insistenza. Greg non le incuteva timore da molto tempo,  nonostante la sua montagna di muscoli, quindi poté tranquillamente rimandargli lo stesso sguardo, iniziando una breve lotta di volontá. Alla fine fu il giovane a cedere, e scuotendo la testa si girò per allontanarsi. “Adesso non mi va, ma ne riparleremo” le annunciò uscendo dalla breve quanto fitta boscaglia.
Zoro si alzò di fianco a lei. “Era l’ora” mugugnò osservando il tramonto ormai prossimo dietro di loro.
“Eh, si, si è fatta una certa. Rientriamo?” chiese. Zoro la seguí in silenzio affiancandola. Era passato un giorno intero da quando Zoro era piovuto nella sua stanza, il sole radente illuminava con la sua luce aranciata  i pochi alberi da frutto del giardino,  e le pareti rosate della casa si tingevano di una sfumatura viva, quasi pulsante. “Come sei arrivato qui?” la sua voce ruppe un silenzio che si era fatto surreale.
“Se lo sapessi sarei giá tornato indietro, non credi?” le rispose sarcastico, fissandola perplesso con la coda dell’occhio.
“Dicevo proprio come ti ricordi di esserci arrivato” specificò.
“Mi ricordo solo  di essere stato tirato con forza verso il basso, una forte luce ed un tunnel molto scuro. Poi sono caduto” Doveva essere  un flashback, pensò Cori guardandolo ricordare. Lui probabilmente adesso stava rivedendo esattamente ciò che aveva vissuto, ed era convinto lo stesse vedendo anche lei. Peccato che quel genere di capacitá  non esistesse nella Realtá, sarebbe stata molto utile. No, non le veniva in mente niente che avesse a che fare con tunnel bui e forti luci al momento, se non la famosa luce in fondo al tunnel quando si muore, e sinceramente dubitava fosse qualcosa di simile.
“Dai, entra” lo invitò aprendogli la porta della cucina che dava sul retro. In un’atmosfera di inaspettato rilassamento, i due fecero il tragitto in silenzio, entrando poi nella camera giá avvolta nella grigia luce crepuscolare. Nel cielo apparivano le prime stelle. Mentre attendeva che la chiamassero per la cena, Cori si avvicinò alla finestra e notò una cosa stranissima. Il cielo appariva come una membrana traslucida attraverso la quale passava la luce di stelle diverse dalle loro, più fievoli, più lontane probabilmente. All’improvviso, col favore della notte, l’aria sembrava come vibrare intorno agli oggetti, formava bizzarre figure distorte. Ma il cielo era sicuramente lo spettacolo più bizzarro. Quelle strane stelle… non le vedeva per la prima volta, ne era sicura. In un punto a qualche isolato da lí, una linea d’aria vibrava prepotentemente, turbando quella straordinaria quiete. Era come se la coperta del cielo fosse stata usurata a tal punto da lasciar intravedere le stelle di un mondo alieno.
“Ehi Zoro. Le vedi le stelle?” sussurrò al ragazzo dietro di lei, che le si affiancò con le mani nelle tasche.
“Certo, per chi mi hai preso?” protestò svogliatamente.
“Cioè, non vedi nulla di strano?” precisò, non sapendo bene in cosa sperare.
“No. Sono solo stelle diverse dalle mie” le rispose con uno strano tono, che sul momento non seppe ben identificare. Aveva una strana espressione, seria e assorta.
“Capisco” gli rispose lasciandolo solo alla finestra. Era solo nostalgia, per quanto nascosta e imperturbabile fosse la sua espressione, impenetrabile il suo cipiglio. Voleva solo tornare a “casa”, dove lui aveva un’identitá, libera da costrizioni, e soprattutto i suoi nakama ed un sogno da conquistare. Lo osservò un’ultima volta accomodarsi nell’incavo della finestra e ignorare il suo sguardo. Un giorno, forse anche domani, lei avrebbe dovuto affrontare il giusto scioglimento di questa tensione nostalgica e lasciarlo andare. Ma per adesso avrebbe fatto finta che Zoro fosse una specie di dono del cielo, esente dal dolore della separatezza del proprio cuore, o perlomeno nella giusta misura in cui sarebbe bastata lei per consolarlo, e di cui si doveva occupare. Un’impegno che era felice di prendersi. Essere utile! Non si sarebbe mai aspettata di provare cosí precocemente la nostalgia per l’addio di una persona che aveva conosciuto appena ieri. Ma era una cosa che capitava spesso. Era sempre stata cosciente della fine che ogni sua relazione umana avrebbe avuto, e ne provava la nostalgia prima ancora che questa nascesse.

 Zoro la stava cambiando e l’avrebbe cambiata, ne era certa nonostante la loro breve conoscenza, pensava sedendosi a tavola. Suo padre era giá lí, dritto come un manico di scopa, l’espressione seria e concentrata tipica dell’uomo d’affari che era. I muscoli, vestigia di un passato da guardia del corpo, tiravano le cuciture della giacca di tweed da cui lui non si divideva mai, neanche d’estate. I lineamenti erano marcati e mascolini, niente affatto ammorbiditi dall’etá (aveva 56 anni), mentre i capelli neri e brillantinati erano appena grigi sulle tempie. Il silenzio regnava sovrano in attesa di sua madre. Da molti anni il rapporto di Cori con i suoi genitori era andato deteriorandosi, logorato dalle continue assenze, dalla mancanza di comprensione, da un ambiente chiuso dalla mentalitá ristretta e bigotta e dalle regole ferree e inutili in maggior numero, se non dannose. Non  odiava i suoi genitori, provava per loro un disprezzo che non li derubava del tutto del suo affetto. Nonostante tutto, gli voleva bene. Solo , non condivideva le loro idee.

 Mentre masticava questi pensieri, arrivò sua madre in tuta da ginnastica. Da lei aveva preso il colore dei capelli, che lei portava in una treccia sfatta sulle spalle, e il colore della pelle, pallido come cera. Da entrambi il carattere. Da quando Ottavio, suo fratello, era scomparso, il silenzio a tavola era tombale ogni sera, e lei era sola sotto lo sguardo inquisitorio e accusatorio dei suoi genitori che sembravano non parlarsi più. Tra una portata e l’altra, parole vuote e prive di significato rotolavano dalla bocca severa di suo padre ("Ma non lo vedi come sei sporca? Vatti a cambiare subito!" E altro di peggio. I suoi pugni si serrarono intorno alle posate) , incontrando il totale mutismo di sua madre. Da Allora, sua madre si era semplicemente chiusa nel suo dolore, e dove prima vi era affetto, sua madre si era rivelata debole. Se suo padre un tempo era severo ma assente, da quando la sua amata moglie era caduta in depressione la sua era diventata una presenza pressante nella sua vita, e le sue pretese esagerate. Ora capiva parte del peso che Ottavio aveva dovuto sopportare, pensava mentre sua madre rovesciava violentemente un bicchiere d’acqua e si alzava dal tavolo barcollante.

“Noemi” tuonò suo padre alzando gli occhi dal piatto.
La donna si avvicinò ai corridioi.
“Noemi, non ti azzardare ad andartene! Torna qui! Ho detto torna qui!” ruggí inseguendola e bloccandole l’accesso alla porta.
“Tu… Non hai ragione! Non hai ragione! Non hai ragione! Credi di averla sempre, ma non ce l’hai! Come puoi dire una cosa del genere?” urlò sua madre singhiozzando.
“Non stiamo parlando di quello adesso, Noemi, cerca di calmarti, sei davanti alla bambina, cazzo!” urlò l’uomo rosso in volto.
“Non m’ importa! Non hai ragione!” urlò la donna fuori di se.
“Se esci da quella porta te ne torni da quella puttana di tua madre, hai capito, stronza? Ti lascio da lei, magari insieme starete meglio!” le inveí contro con cattiveria. Gli occhi di Cori si riempirono di lacrime, mentre il terrore le strozzava il respiro. Suo padre non le aveva mai tirato nemmeno uno schiaffo, ma le veniva naturale temerlo sempre. Deluderlo, il suo maggior cruccio. Disprezzarlo per la cattiveria gratuita nelle sue parole, che ben sapevano dove colpire. Non voleva piangere, non voleva piangere, non davanti a loro almeno! Prese il suo piatto e di corsa lo portò in cucina e si chiuse in bagno, dove sfogò quegli inutili singhiozzi asciutti di rabbia e frustrazione.


Mia madre era la figlia di un importante imprenditore e di una ricca modella, separati, e fin dalla nascita viveva sotto stretta sorveglianza delle guardie del corpo. Quando aveva appena diciotto anni, fuggí con la sua guardia del corpo personale, di diciotto anni più grande di lei. Era mio padre. I miei genitori si amavano alla follia. Nemmeno un anno dopo nacque mio fratello, due anni dopo l’azienda di polizia privata di mio padre spiccava il volo, creando tutti i problemi della nostra famiglia. Posso dirlo? Lo preferivo allora, quando mio padre ancora non sapeva come trattarci e si ingelosiva e mia madre non si piangeva addosso. Quando tornavamo da scuola, lei mi prendeva in braccio ridendo, e papá con un braccio sollevava lei e con l’altro mio fratello. È l’immagine più bella che io ricordi, ma è passato molto tempo, e adesso sembra solo una foto ingiallita.


Scrisse sul cellulare.
“Tesoro? Tesoro, perdonaci, non volevamo farti piangere!” la voce dolce di sua madre passò attraverso la porta.
“Cori, apri!” disse suo padre con un tono più imperativo che supplichevole.
La porta si aprí.
“Non sto piangendo!” protestò Cori mentre la madre la abbracciava. “Va tutto bene, tesoro, va tutto bene” le diceva la madre accarezzandole i capelli, ma era lei che si aggrappava. Cori la staccò delicatamente. “Va’ a letto, mamma”
Mentre la madre si allontanava, il padre la rimproverò: “Potevi anche evitare di fare quella scenata!”
“Non era una scenata!” sibilò assottigliando lo sguardo.
“Non dire bugie, Cori!” sparò il suo nome. “E non rivolgerti più a me cosí, sono stato chiaro?” le urlò.
“Cristallino” ribatté affrontando il suo sguardo. Suo padre la precedette nel corridoio: “Devi capire che mamma non sta bene, Cori” disse l’uomo con tono di sufficienza. “È cosí”
Il silenzio calò finché la luce della luna non disegnò prepotentemente il contorno della finestra sul pianerottolo.
“Vedi qualcosa di strano nelle stelle, papá?” gli chiese fermandosi nell’alone di luce.
“Non c’è niente di strano, Cori. Va’ a dormire” le rispose cupo. Le loro sagome nere si incidevano sui vetri come pupille feline.
“Ma papá…” insisté.
“Ho detto va’ a dormire” le ringhiò senza nemmeno ascoltarla.



Ancora arrabbiata, Cori entrò in stanza e lasciò il vassoio della cena sul comodino. Zoro era a farsi la doccia, e ne approfittò per farla anche lei nel bagno che dava sul corridoio e gettarsi nel sacco a pelo. Quando Zoro rientrò la trovò rivolta contro il muro, con la fodera stretta nel pugno. Urla improvvise spaccavano il silenzio in cui versava la casa. Sedendosi sul letto, il ragazzo afferrò la cornice di una foto.
“Chi è questo?” le chiese indicando la foto. Una Cori più piccola teneva per mano un ragazzo più grande, molto simile a lei.
“È mio fratello. È scomparso tre anni fa” mugugnò scorbutica.
“Eppure...” borbottò pensieroso.”Allora? Hai risolto con le tue stelle?”
“Sono sicura di averle giá viste una volta, anche se non cosí forti. Era più o meno in questo periodo…”


Io e Nadia eravamo veramente stufe di quei teppistelli che ci attaccavano ogni volta che uscivamo da scuola. Ogni volta era quella buona per far risse! Erano veramente insopportabili. Ottavio continuava a difendermi, e diceva sempre che era pericoloso attaccarli, che non avrei fatto altro che assecondarli. Ma era l’ora di finirla. Appena finita scuola io e Nadia, armate di tanto coraggio, ci dirigemmo alla base di quei cretini. Era un garage all’interno di un villino curato. Io e la mia amica cominciammo a bussare violentemente contro la saracinesca, e quando uno di quei ragazzi ci aprí, non gli demmo il tempo di parlare e avventandoci su di lui gli gridammo tutta la nostra rabbia. “Dovete smetterla!” “Siamo stufe!” “Cosa avete contro di noi?” Erano parole che si sprecavano. Mentre gli altri ci attaccavano tra le urla, un mio compagno, bocciato più volte, si erse dal groviglio di corpi stringendo il collo di Nadia col braccio, con l’altro la minacciava con un coltello.”Stupida ragazzina. Vuoi davvero saperlo? È colpa della tua famiglia. Loro sono i rivali del capo. E noi i suoi rivali li ammazziamo!” gridò eccitato. Alle urla di giubilo dei suoi compagni, seguirono quelle di sorpresa quando nella lotta (impari) si introdussero mio fratello ed un suo amico. Ci salvarono. Quando uscimmo, il suo sguardo era più affilato di mille rasoi.
“Giacomo, porta a casa Nadia, devo dare una lezione a mia sorella” ordinò cupo al suo amico. Non l’ho più rivista.
Per tutto il tragitto lo seguii senza osare alzare lo sguardo.
Mio fratello aspettò la cena per parlarmi. Mi medicai da sola quei pochi lividi e ferite che avevo. “Ti aspetto in terrazza” mi disse la sua voce funerea mentre mi passava accanto.
Salii in terrazza col magone.
“Cori” mi chiamò severo.
Avanzai verso di lui a testa bassa, ed il mio piede inciampó in un tirapugni insanguinato sopra delle bende intrise dello stesso sangue. Le fissai inorridita. Avevo causato tanta sofferenza? Ero stata cosí stupida?
Lo raggiunsi. Non mi guardava, ed io vedevo solo il suo profilo alla luce della luna.
“Cori mi hai molto deluso” disse cupamente.
“Lo so” tentai una debole scusa.
“Avrebbero potuto farti del male. Mi hai disobbedito deliberatamente, e quel che è peggio, hai messo Nadia in pericolo!”
“Io stavo solo cercando di essere coraggiosa come te!” Non volevo essere un peso.
“Ma io sono coraggioso solo quando serve. Cori! Essere coraggiosi non significa andare in cerca di guai!” mi redarguí, sorpreso e quasi sollevato.
“Ma tu non hai paura di niente?” chiesi stizzita.
“Oggi ho paura.” Lo  disse con un tono talmente cupo, mentre osservava quel cielo.
“Davvero?” gli chiesi quasi timorosa. Era raro che mio fratello ammettesse di avere paura.
“Temo di poterti perdere!” ammise sofferente.
“Allora anche tu hai paura…” lo sfottei tirandogli una spallata amichevole, cercando di risollevargli il morale. Chissá a cosa pensava.
“Hmm-hmm” annuí con aria saggia.
“La sai una cosa? Credo che quelle iene abbiano avuto una paurissima!” gli sussurrai nelle orecchie. Ottavio rise.
“Perché nessuno può permettersi di sfidare tuo fratello! Vieni qui, piccoletta!” prendendola per il collo, le strofinò le nocche sulla testa.
“No, no!”protestai divincolandomi. Lo rovesciai e cominciammo a rotolarcii sul terrazzo. “Ti prendo!” ruggii montandogli a capacecio come un koala.  Le risate si spensero nell’aria frizzantina della sera. Stesi l’uno di fianco all’altra, Ottavio mi passò un braccio dietro le spalle, e io mi ci accoccolai.
“Fratellone” lo chiamai.
“Si?”
“Siamo amici, vero?” pigolai.
“Si” Rise.
“E staremo sempre insieme vero?” gli chiesi presa all’improvviso dall’ansia.
“Cori. Lascia che ti dica una cosa. Guarda le stelle. I grandi del passato -coloro che ci hanno amato- ci guardano da quelle stelle. Perciò quando ti senti sola, ricordati che loro saranno sempre lí per guidarti. E ci sarò anch’io” Alzai lo sguardo al cielo, ma era come diverso, quasi sfocato. Non sapevo cosa stesse dicendo mio fratello, ma avrei certamente fatto tesoro di ciò che mi aveva detto.


Zoro si era addormentato, ma Cori non si arrabbiò. Ricordare ad alta voce, raccontare, le aveva reso la serenitá perduta.
“Buonanotte, Zoro”
 




E bentornati su radio Brotherhood, é la vostra Hikari che vi parla! Che ve ne pare? Scommetto che qualcuno noterá la citazione chilometrica del Re Leone! Non sará il massimo dell’originalitá, ma ci stava per rendere l’idea del loro rapporto, non mi uccidete perfavore, lo so.  Che ve ne pare? Grazie a chi ha recensito lo scorso capitolo, spero di avere presto vostre notizie! Alla prossima!



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Capitolo 4
*** Cominciano i guai ***


Prima della lettura: Spero di non essere stata scarna nelle descrizioni. Spero che Zoro sia somigliante e soprattutto non moscio o troppo taciturno. Ci ho messo tanto ad aggiornare perché non riuscivo a scrivere ciò che avevo in mente. La storia è appena incominciata! Spero che il capitolo piaccia. Recensite numerosi!


Cominciano i guai

La mattina dopo, Cori si svegliò con un mal di testa pressante, che ignorò prontamente. Era lunedí. Lunedí. Lunedí. Lunedí. L’ultimo lunedí prima degli esami, e doveva andare a scuola, sperando che Dio la salvasse da Zoro e da quegli altri cretini di teppisti. Proprio non aveva voglia di uscire dal sacco a pelo, ma si costrinse e pochi minuti dopo era pronta per andare. Era presto, erano appena le sette, e i suoi occhi si chiudevano per la stanchezza. Doveva avvertire Zoro, ma non voleva svegliarlo, era cosí carino quando non faceva l’immusonito! Non sapeva se sapesse leggere l’italiano. Di sicuro lo parlava, ma poteva anche essere un effetto collaterale del passaggio interdimensionale. Se le sue supposizioni erano esatte, in teoria dall’altra parte si doveva parlare in giapponese, ma non ne era tanto certa, e comunque di giapponese sapeva ben poco, cosí risolse per un messaggio vocale da affiancare ad uno scritto ed uscí.


Era appena finita una mattinata di merda. In classe era stata perennemente in ansia, e lei odiava stare in ansia, per le interrogazioni, le minaccie di morte, lo studio, Zoro… si, anche quel cretino, aveva paura che uscisse e si facesse notare. Per ora si era rivelato abbastanza gestibile, ma era sicura che questo aspetto circospetto e taciturno lo caratterizzasse solo in questo particolare contesto, solitario, ignoto, e anche abbastanza fastidioso, e non aveva idea di come potesse reagire sul lungo periodo. In più ci si mettevano anche i professori, con gli ultimi ripassi, le interrogazioni… Prima di superare il cancello della scuola intravide all’angolo della via quei quattro manigoldi che si ostinavano ad infastidirla a giorni alterni, uno sì e l’altro pure. Erano più grandi di lei di qualche anno. Li conosceva dai tempi delle elementari, e fin da allora erano state botte. Fortunatamente con loro non c’era il loro stupido capo, la persona che più non sopportava al mondo, o veramente avrebbe dovuto pensare che qualcuno lassù ce l’aveva con lei. Arrivò all’angolo della strada con l’umore sotto le scarpe.
“Ehi, Cori! Cos’è, non ci saluti?” la fermò uno dei fratelli.
“Perché dovrei?” mugugnò fra i denti.
“Mah, non lo so” disse quello dietro di lei afferrandola per il retro della maglia. “Forse ti converrebbe?”
Cori ringhiò, poi si abbassò di scatto, staccandosi dalla presa del ragazzo moro, poi gli tirò una craniata dritta sul mento rialzandosi.
“Ahia, ma sei impazzita?” grugní quello massaggiandosi la scucchia.
“Tanto non ti fai mai niente, di cosa ti lamenti?” sbuffò Cori alzando gli occhi al cielo mentre assorbiva e deviava con le braccia i pugni del fratello. Un altro le tirò un calcio sullo stinco. Cori ne approfittò per spostarsi dalla traiettoria dei pugni, afferrarne uno e con un Sasae-tsuri-komi Ashi buttarlo addosso al compagno, che insieme a lui rovinò al suolo. Un pugno la raggiunse sullo zigomo, infliggendole un lungo taglio con il tirapugni. Si sbilanciò all’indietro. Ahia, che male! Il quarto ragazzo la caricò e la schiacciò al suolo. Cori fece forza sulla gamba, e spingendogli la spalla lo rovesciò, beccandosi diversi schiaffi e pugni sul viso, prima che lei gli schiacciasse il braccio sinistro e lo tramortisse con una gomitata dritta in testa. L’altro ne approffittò per prenderla a calci. Cazzo, come erano appuntite quelle scarpe dritte nello stomaco! Afferrò il polpaccio del ragazzo e lo tirò a se, mentre spingendogli il piede sul ventre lo faceva cadere. Addosso a lei. Nel frattempo il primo assalitore si era ripreso e l’aveva afferrata per i capelli, estraendola da sotto il corpo del compagno.
“Non fai più tanto la sbruffona, eh?” Cori ghignò spezzandosi il labbro inferiore, prima di riempirlo di calci e pugni. Quello li parò e glieli rese in buon numero, prima che lei lo afferrasse per il collo e lo costringesse contro il muro, torcendogli i polsi fino quasi a spezzarli.
“Chi è che non fa più lo sbruffone, adesso?” lo sfotté sorridendo mentre gli spingeva il braccio contro la trachea finché non svenne. Nel mentre, dietro di lei i due superstiti la strapparono del collo del loro compare e insieme la tempestarono di pugni.
“Tanto non ti fai niente!” risero. Cori arretrò fino alla sua borsa e gliela tirò addosso, viva il peso della cultura! Ne caricò uno con il gomito, colpendolo dritto sull’orecchio. Il secondo le gettò contro la sua stessa borsa e la spinse a terra. Cori lo afferrò per la cintura e colpendolo con la parte bassa del palmo sull’orecchio lo girò sotto di se, tirandogli un calcio dritto nelle palle, si alzò e corse via prima che si rialzassero. Aveva giá perso abbastanza tempo, ed era stanchissima! Appena fu certa di essere abbastanza lontana rallentò. Dio mio, che dolore! Il petto le faceva un male boia, il taglio bruciava, e i colpi si facevano sentire. Aveva fatto bene a fuggire, non sapeva quanto ancora avrebbe potuto resistere una contro quattro!


Avvicinandosi a casa, i suoi sensi di ragno le urlavano che la giornata stava per peggiorare. Cori bussò delicatamente alla porta di servizio. Le aprí una donna di mezza etá dai capelli rossi striati di neve.
“Oh, piccola mia, come ti sei conciata?! È di nuovo colpa di quegli scimmioni, non è vero?” la accolse la donnina con tono accorato.
“E di chi può essere? È da quando avevo due anni che quei quattro non mi danno pace” Le rispose Cori entrando.
“Se solo ci fosse il signorino Ottavio…” sospirò la donna.
“Se ci fosse il signorino Ottavio io saprei comunque cavarmela da sola, Emilia. Grazie per avermi fatto entrare dal retro” La ringraziò baciandola sulla guancia. Emilia era la loro cuoca da prima che lei nascesse, e quando i loro genitori erano occupati (praticamente sempre) era lei che gli faceva da balia.
“Sbrigati, prima che tua madre ti veda!” la spinse fuori.
Cori si diresse quatta quatta in stanza, ma mentre attraversava il corridoio, suo padre le venne incontro con uno sguardo schifato.
“Li hai sistemati almeno?” borbottò osservandola da capo a piedi, soffermandosi con lo sguardo affilato sul taglio sullo zigomo.
“Si, papá” asserí lei piegando la testa in un rudimentale inchino.
“La prossima volta cerca di non arrivare alle mani, rovini l’immagine” la redarguì distogliendo lo sguardo. “Chi è quel ragazzo che è venuto stamattina? Un nuovo domestico?”
“Quale ragazzo?” chiese Cori frastornata.
“Uno dai capelli neri, la pelle abbronzata” mugugnò ancora più infastidito dalla sua inefficienza.
“Ah, credo tu stia parlando del nuovo aiuto giardiniere! Sai, ultimamente Gregorio mi parlava delle rimostranze dei vicini per le radici e i rami troppo lunghi, cosí ho pensato di chiamare qualcuno per aiutarlo…” mentí spudoratamente immaginandosi un Zoro passione giardiniere, pronto a rasare con un solo fendente i malvagi rami troppo lunghi…
“Brava figliola, ma voglio i suoi documenti sulla scrivania entro domani sera per la registrazione in busta-paga” la avvisò il padre scompigliandole i capelli, felice che sua figlia cominciasse ad interessarsi agli affari di famiglia… niente di più falso.
La ragazza si impanicò. “Ce-certo, te li farò avere il prima possibile, lascia fare a me, parlo io con Silas” si affrettò a dire allontanandosi. Era nei guai. Guai grossi. Se solo suo padre avesse parlato con il vecchio economo avrebbe scoperto la farsa e questo si che sarebbe stato un problema. Maledetto cretino! Sbatté i piedi infuriata davanti alla sua stanza, sperando di trovarlo lí. Spalancò la porta.
“Dove sei, maledetto? Dove sei?” sibilò squadrando la stanza vuota, vuota! Spalancò la finestra, ma non lo vide. Uscí a spron battuto dalla stanza e si fece tre volte il giro dei corridoi senza trovarlo. Quando sentí un urlo proveniente dalle cucine, capí di averlo trovato. A passo marziale raggiunse il corrimano e ci scivolò sopra, raggiungendo di gran carriera la stanza. “Che succede Emilia?” urlò.
“C’è un ragazzo che sta svuotando il frigorifero! Chiama Gregorio, presto!”  gridò la cuoca isterica. Davanti agli occhi di Cori si parava una scena esilarante. Zoro sostava davanti al frigorifero, con in mano metá del suo contenuto alcolico ed in bocca l’altra metá, mentre Emilia lo picchiava con una scopa.
“Via, sciò!” urlava la donna.
“Uhmm. Emilia va tutto bene, lui é Z…eno, il nuovo domestico!” disse Cori, posando le mani sulle spalle della cuoca.
“Ah, allora il padrone parlava di lui prima!” disse trascinandosela da parte. “Certo che te lo sei trovato carino, il maggiordomo!” disse facendo uno strano sorrisetto.
“Quel buzzurro non è il mio maggiordomo” le rispose fulminandolo. Poi si girò, ed afferratolo per un orecchio gridò un “Andiamo! Stupido, idiota, cretino, imbecille…” in un decrescendo lungo i corridoi.
Quando giunsero alla stanza, Cori ce lo buttò dentro che ancora beveva.
“Hai. Idea del casino che hai causato?” gli urlò passandosi le mani fra i capelli.
“Ora dove li trovo i documenti per te? Anzi, ripensandoci so dove andare a prenderli. Mi costerá un po’, però… Ahh, mi devi un sacco di favori, lo sai?” continuò a ciarlare ipernervosa, fece un grosso respiro sentendo un dolore acuto al petto. “Ahia, cazzo che male!” sibilò massaggiandosi l’addome mentre andava in bagno.
Alzò la maglietta, e stavolta i lividi erano veri, e spiccavano come un cielo stellato color prugna sul petto piatto, sulle braccia grosse, allargandosi in una serie di macchie fino alle maniglie dell’amore. Il respiro aveva cominciato ad essere doloroso. Non ci aveva fatto molto caso prima, ma ora tutti i colpi ricevuti si facevano sentire. La guancia aveva preso a pulsare dolorosamente, e Cori dovette asciugarsi una lacrima di sangue. Si medicò velocemente il taglio, poi passò al petto.. Di sicuro aveva qualche costola incrinata, e non poteva far altro che passarci una pomata, roba da una settimana.
Vide Zoro fare capolino dalla porta attraverso lo specchio. “Ehi testa-riccia. Tutto bene?” chiese il ragazzo lasciando scivolare lo sguardo sulla pelle martoriata della schiena.
“Si, tutto bene” sospirò abbassandosi la maglietta. Si passò una mano sulla faccia. “Meglio strappare il cerotto tutto insieme”
Zoro non aveva capito del tutto, ma era chiaro che la situazione non era delle più rosee per entrambi.
Cori estrasse il cellulare e cominciò a smanettare.
“Che cos’è?” le chiese il giovane perplesso.
“È una specie di lumacofono portatile” borbottò coll’umore sotto terra e portandosi l’apparecchio all’orecchio. Il cellulare squillò, storcendo in una smorfia di disgusto e fastidio il volto di Cori.
“Chi è che rompe i coglioni?”
“Indovina” si annunciò cupa come un funerale.
“Ah, ma sei la mia piccola Cori! Da quanto tempo non ci sentiamo? Cos’è, ti manco?”
“Mi devi un favore” tuonò bloccando i suoi assurdi sproloqui.
“Quindi parliamo di affari! Che cosa ti serve? Una botta di coca, eh?”
“Documenti falsi” disse lapidaria.
“Oh-oh, andiamo sul pesante! Ti costerá un bel po’, lo sai?”
“Fai il prezzo”
“300. E l’annullamento del debito”
Ci sto.” Sospirò. “Ecco le informazioni: Zeno Giordani, 21 anni, nato l’11 Novembre a Roma, alto 1,78 metri, celibe, capelli neri, occhi marroni” snocciolò velocemente.
“Residenza, la metto da te, puttanella?”
“Confido in te” sputò.
“Per quando ti serve?”
“Il prima possibile” sospirò passandosi le mani fra i capelli.
“Passa da me tra un’ora coi soldi. Ti voglio, piccola Cori!” Una smorfia più ampia di disgusto si dipinse sul suo volto.
“Sarò lì” borbottò chiudendo la telefonata.
“Che cosa hai fatto?” le chiese Zoro.
“Ti ho parato il culo, ecco cosa ho fatto” mugugnò mettendosi il giacchetto di pelle. “Ci vediamo fra un paio d’ore.” Annunciò sbattendo la porta dietro di se. Che giornata di merda! Pensò appoggiandosi al muro. I lividi li poteva facilmente ignorare, ma il petto le faceva un male boia! E oggi aveva anche judo, nooo, come avrebbe fatto a combattere o fare ginnastica in quelle condizioni?! Il maestro l’avrebbe uccisa come minimo, non era la prima volta che gli faceva questo scherzo. I suoi risparmi stavano per essere volatilizzati, puff, solo perché quel cretino aveva fatto la bravata!
Entrò a passo svelto nel garage, dove in fondo sostava la sua bellissima moto, un’Honda ST1300 nera, l’amore della sua vita. Corse ad abbracciare l’unica creatura che non l’avrebbe mai abbandonata, sciogliendo la sciarpa rosata dal motore e abbandonandola sugli scaffali del meccanico. Infilò il casco, montò in sella e partì. In realtá il covo di quei manigoldi era a meno di un chilometro di distanza, ma aveva bisogno di sfogarsi e la moto faceva al caso suo. L’aria sulla faccia, la splendida sensazione di velocitá che cancellava tutti i dolori, che bello! Pensò mentre veleggiava fra le dolci colline nei pressi di Roma, i piccoli paesi, i campi coltivati, i cavalli che nitrivano nei maneggi. Era fortunata a vivere un po’ lontana dal centro. Gli alberi creavano una splendida cupola verde sulla sua testa, mentre i sottili raggi di sole disegnavano bizzarri ghirigori ondeggianti sull’asfalto. Al suo fianco, le colline costellate di rade casette colorate sembravano schiudersi in teneri sorrisi, mentre gli alberi più vicini correvano al suo fianco in un vorticare di splendide linee verdi brillanti. Il sole le sorrideva, gli uccellini cinguettavano e Cori pensò che in fondo non era poi tutta questa gran tragedia, che le risse alla fine le piacevano, che non vedeva l’ora di andare a judo e rivedere quella sottospecie di maniaco malato mentale del suo acerrimo nemico alla fine non era gran cosa di cui preoccuparsi.



“Come non detto” mormorò in ansia di fronte alla saracinesca di quello stupido garage, mentre lo stomaco le si attorcigliava. Se c’era una cosa che odiava era proprio quella. Fece un (dolorosissimo) respiro profondo, sciolse i muscoli e con un ultimo spasmo di ribellione indurí lo sguardo, raddrizzò la schiena e alzò il cigolante sportello metallico. Il garage era gremito di gentaglia di tutti i generi, posata un po’ ovunque, sugli scaffali,appoggiata al muro, su qualche sgabello traballante. Il soffitto gocciava ritmicamente, unendosi al mormorio minaccioso di quei poco di buono, accompagnato dal dondolio dell’unica lampadina. In fondo, un ragazzo poco più grande di lei la fissava con scherno dall’alto del suo blocco di cemento armato?! Una decina di bombolette spray erano riverse ai suoi piedi, insieme ad una biondona tutta tette e culo, puah! Era più alto di lei, aveva i capelli rossicci rasati sui lati e gli occhi foschi e cupi venati di lussuria, le labbra grosse come canotti ed il naso storto da pugile.
“Gabriele” tuonò attirando la sua attenzione, stringendo i pugni lungo i fianchi.
“Oh, ma guarda chi c’è, la mia piccola Cori! Da quanto tempo non ci si vede, eh?” la sfotté avvicinandosi a lei e stringendole la bocca fra le dita. Cori non si attardò a rifilargli uno schiaffo a mano aperta sul viso. “Non mi toccare” sibilò.
 Tutti i presenti smisero di respirare. Gabrirle non era quello che si dice, una persona equilibrata. Infatti, cominciò a ridere. “Hahahaha, tu dici a me ‘non mi toccare’? Ti ricordo che ho io il coltello dalla parte del manico, piccola troietta insignificante!” la minacciò allargando le braccia ad indicare la moltitudine intorno a se, con i documenti in mano, per poi tirarle i capelli, alitandole sul viso. In un angolo i quattro dell’apocalisse di quella mattina se la ridevano.
“Ah, si? Ti ricordo che potrei sempre andare a denunciarti per quel fatterello… non credo ti convenga sai?” gli rispose suadente, senza scomporsi minimamente.
“Sempre se riesci ad uscire viva da qui…” ribatté il roscio allontanandosi. Cori sollevò un sopracciglio. Non gli conveniva affatto ucciderla. “…ma io sono un uomo d’onore, e rispetto sempre gli impegni presi. Lascia i soldi a terra” le ordinò preparandosi a lanciarle i documenti.
“Faranno bene ad essere credibili” mugugnò lei di rimando mentre li afferrava e si allontanava.
“Come, non ti fidi di me? Mi dispiace” rise il cretino spingendola con un colpo di bacino verso lo sportello. La riccia lo fulminò. “No, non mi fido di te. E ringrazio il cielo che d’ora in poi non avremo nulla da spartire l’uno con l’altra.”
“Oh, ti sbagli. Noi avremo ancora molto da spartire, mia cara” affermò stringendola con un braccio da dietro. Cori gli torse il polso finché quello non lasciò la presa. “A mai più rivederci, mio caro” se ne andò, calcando sul caro e sbattendo la saracinesca a terra. Era finita, era stato più facile delle altre volte e aveva risolto il problema, pensò stringendo i documenti fra le dita.
Ritornò a casa velocemente, lasciò i documenti sulla scrivania del padre e di gran carriera tornò in camera sua.
Zoro si stava allenando abbarbicato nell’incavo della finestra, che era evidentemente diventato il suo posto preferito.
“Ehi. Io sto andando ad allenarmi al dojo, vieni con me?” gli propose riempiendo la borsa. Se fosse anche arrivata in ritardo Angelo l’avrebbe semplicemente fucilata a vista.
“Ti alleni in un dojo? Sei una kendoka?” le chiese sorpreso, alzando lo sguardo bruno dal paesaggio fuori dalla finestra.
“No, una judoka. Però sempre meglio che allenarti qui, da solo come un appestato, no?” gli sorrise imbarazzata. Cominciava a pentirsi di averglielo proposto. Li avrebbe schiacciati.
“Vi batterei anche senza katana.”  Ghignò il ragazzo alzandosi.
“Tu prova. Ma dovrai stare alle nostre regole, quindi niente katana in assoluto” gli sorrise. Anche cosí sarebbe stata tutt’altro che facile.
“Accetto la sfida. Andiamo?” si avvicinò calcandosi la parrucca in testa.
Cori montò in sella sotto lo sguardo accigliato di Zoro.
“Hai intenzione di salire prima di domani?” gli chiese infilandosi il casco nero e lanciandogliene uno identico. Non era la prima volta che Zoro vedeva una moto. L’aveva di sicuro vista a Logue Town, in possesso di un capitano della marina, tal Smoker, quindi non capiva tutta quell’attesa per salirci sopra. Zoro montò sul sedile dietro di lei. “Faresti meglio a reggerti” lo avvisò Cori. Zoro strinse le dita intorno alla carrozzeria della moto. La ragazza fece spallucce e mise in moto. “Tu piegami la lamiera e io non avrò pace finché non ti avrò staccato tutte le unghie e i denti” gli sibilò partendo a razzo.




 
 
 

Ehilá, eccomi qui dopo un ginocchio fracassato e prima del campo-scuola a Praga! Yuppi! Per chi volesse saperlo, qui sotto metto le definizioni delle parole straniere. Fatemi sapere cosa ne pensate! Grazie soprattutto a WillofD_04 che mi continua a recensire, spero che continuerá a interessarti! Saluti,
                                                                                                                                                                   Hikari_Sengoku
 
Sasae-tsurikomi-ashi: Trattenuta al piede e sollevata (ashi significa gamba, ma la traduzione non è letterale), conviene vederla per capirla.
Kendoka: Praticante del kendo (l’arte marziale che sfrutta le katane)
Judoka: Praticante del judo (arte marziale che sfrutta il grappling)



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Capitolo 5
*** Rivelazioni ***



 Angolo pre-lettura: Ho cominciato a scrivere questo capitolo il giorno stesso in cui ho pubblicato l’altro. È stata lunga, ma ce l’abbiamo fatta. Preparatevi, perché è un capitolo da spiegone, ma state tranquilli, i misteri non finiscono qui! Nel capitolo per evitare descrizioni lungherrime ho preferito usare termini tecnici giapponesi per quanto riguarda il judo. Per questo a fine capitolo troverete un glossario. Quello che vi consiglio però, è di andarvi a vedere i video su internet per capire meglio. Spero che comunque il capitolo sia di vostro gradimento.
 
Rivelazioni
 
Cori era partita indubbiamente di malumore quel terribile lunedì mattina, ma incredibilmente l’idea di rendere partecipe Zoro dei suoi allenamenti l’aveva resa serena. Per i primi dieci minuti. Poi aveva cominciato a zigzagare tra le vie del centro e la sua barbara coscienza l’aveva seguita, dicendole che era una pessima idea, il suo pessimo orgoglio le diceva che l’avrebbe stracciata in men che non si dica, senza avere la minima idea di cosa fosse lo judo! Dopo un lungo sospiro, Cori capì che era inutile torturarsi e parcheggiò di fronte al dojo, controllando con un’occhiata sommaria la lamiera immacolata.
“Andiamo, entra” lo chiamò introducendolo nell’ambiente arioso.
“È qui il tuo dojo? In mezzo a tutto questo caos?” chiese incredulo Zoro. Per tutte le arti marziali erano necessarie concentrazione e silenzio…
“Beh, si. Se vuoi qua puoi toglierti la parrucca” gli rispose guidandolo in un lungo corridoio bianco. “Aspettami qui, mi cambio e arrivo” gli disse lasciandolo nella bianca anticamera di una misteriosa stanza serrata da due ante d’acciaio. Le donne erano tutte uguali… pensò Zoro osservando le misteriose ante serrate.
“Eccomi qui, entriamo?” lo scosse Cori comparendo davanti a lui in judoji: Pantaloni bianchi e kimono dello stesso colore, tenuto in vita da una cintura marrone. Anche le maniche del kimono erano più corte di venti centimetri, e la rotonda testa ricciuta spuntava come un fungo sul collo imponente. I lunghi piedi distendevano le dita nelle infradito. Lo precedette nella stanza.
“È piuttosto piccolo” commentò Zoro ghignando. La stanza non era più grande di una normale aula scolastica, e come le aule scolastiche aveva un paio di finestre solo sul lato sinistro.
“Beh, è quello che passa il convento, quindi accontentati” ribatté ironica Cori camminando incontro ad un uomo sulla cinquantina, con i capelli a spazzola. Il judoji avvolgeva anche il suo corpo, tonico e muscoloso, ma la differenza era evidente, e la cintura nera ne era un chiaro segno. La ragazza gli si avvicinò e gli sussurrò all’orecchio qualcosa, prima di presentarglielo. L’uomo ribatté sorridendo, beccandosi le rimostranze acute ed incomprensibili di una Cori scandalizzata. Poi le spinse le dita sulla ferita allo zigomo, incupendosi e borbottando. Cori abbassò lo sguardo e sembrò scusarsi, poi finalmente riportò l’attenzione su Zoro.
“Maestro, lui è Zeno, un mio amico che vuole fare una lezione di prova” lo annunciò sorridendo sinistramente.
“Oh, Zeno dai capelli verde alieno! Vieni, sali pure” lo invitò l’uomo mentre una rete di rughe si piegava felicemente intorno al suo sorriso sardonico. Zoro comprese la sfida celata in quelle parole, e rispondendo al sorriso col suo ghigno, si inchinò brevemente salendo sul tatami. “Io sono Angelo, ma tu puoi chiamarmi Maestro” C’era un chiarissimo “devi”, sottinteso in quel puoi, notò lo spadaccino. Aveva appena accettato di stare alle regole del gioco. Nel mormorio del corso precedente, Cori e altri tre ragazzi si ordinarono sul fondo del tatami in ordine di cintura e di altezza. Cori era la più alta, seguita da due ragazzi con la cintura marrone come la sua e una cintura blu. Zoro, che era più alto di tutti e quattro, tentò di mettersi in cima alla fila, ma Cori lo rispedì senza tante cerimonie in fondo. D’altronde, era un senza-cintura. Il Maestro si posizionò di fronte alla capofila e con gli occhi le fece segno di iniziare dopo essersi inginocchiato.
“Seiza!” ordinò Cori stentorea, inginocchiandosi prima col sinistro e poi col destro, e gli altri la seguirono.
“Rei!” ordinò di nuovo inchinandosi, toccando il tatami con la fronte.  Le fitte si susseguivano a ritmo col respiro.
“Ritzu!” Tutti si alzarono all’ordine di Cori, prima col destro e poi col sinistro. Nel totale silenzio, il maestro batté le mani e la fila si mosse quasi in sincrono cominciando una serie di esercizi di riscaldamento. La voce di Cori scandiva il cambio degli esercizi. Inutile dire che per quanto fosse rispettoso alla disciplina, la prestanza di Zoro si manifestava con chiarezza, ed il Maestro non si risparmiava dal farglielo notare.
“Sembrate bacarozzi! Guardate Zeno, che è venuto solo oggi, è mille volte più bravo di voi!” E grazie al cavolo, c’era da dire. “A proposito, che sport facevi prima?”
“Sport?” provò a chiedere Zoro, ma Cori lo precedette: “Faceva Kendo, prima” prevenendo la sua confusione.
“L’ho chiesto a te? Ti chiami Zeno, per caso?” la rimproverò il Maestro sorridendo. Se era per questo, neanche lui si chiamava Zeno. Punte… Talloni… Accosciate… Le veniva più facile se pensava a qualcuno che odiava… Mani… Laterale… Corsa… Indietro… I polmoni amano fare la danza dell’epilettico. Il silenzio calò, mentre i ragazzi si disponevano in modo che la capofila si trovasse di fronte a loro. Dopo un’altra serie di esercizi di riscaldamento statici ed a terra, il Maestro ordinò di fare le flessioni.
“100 normali” L’animaccia sua che gli aveva chiesto di andarci pesante. Cominciò a fare le flessioni con il sudore che le colava sulla fronte e le finì che bagnava il pavimento. Scendi, inspira, risali, espira e conta. Alla novantesima le tremavano le braccia e cominciava a rallentare. “Mammolette! Ai miei tempi farne 500 era la norma!” gli urlò, seguito dall’assenso di Zoro, che senza fatica seguiva il loro ritmo. Non aveva neanche una goccia di sudore, mannaggia a lui, mentre la sua pelle scottava per la congestione! Alla centesima le braccia le tremavano tanto da doverle sciogliere, mentre quello non si disturbava nemmeno a mettersi in ginocchio. Il petto la stava uccidendo, ogni contrazione dei polmoni era un’agonia.
Ormai andavano tutti a ritmo di lumaca con l’asma (a parte Zoro, ovviamente). Bruciava d’invidia nel vedere la facilità con cui il ragazzo eseguiva gli esercizi a qualche metro da lei, il suo sghembo sorriso sdegnoso. L’ultima flessione la abbandonò sul tatami col viso congestionato dallo sforzo. Seguirono tre serie da cento di addominali, grazie al cielo aveva saltato le altre, e poi il resto della ginnastica. Altre volte erano arrivati a centoventi a tipologia, anche se attraverso un diverso tipo di sequenza. Sorvolando le cadute, ovvero la spiegazione di “un judoka deve saper cadere”, saltarono a piè pari l’Uchi Komi, ovvero gli esercizi a ripetizione e si dedicarono invece ad una spiegazione sommaria delle tecniche di gialla. Poiché era la più alta in grado, il Maestro la chiamò per scontrarsi con Zoro, che aveva avvertito del non poter usare calci e pugni.
“Le prese si chiamano Kumikata, e si chiamano destre quando la mano destra stringe il bavero sinistro dell’avversario e la sinistra la manica al di sotto del gomito destro”  Cori vide il maestro molto sollevato perché non doveva insegnare a Zoro a stringere la mano (!). Non era giusto! Era svantaggiata: Quell’idiota portava una maglietta a maniche corte!
“E adesso facciamoci un paio di grasse risate!” sorrise il maestro mettendosi da parte. Cori arrossì violentemente e si agitò sulle gambe. Il Maestro la prendeva sempre in giro perché nonostante la sua stazza, o forse proprio per quella, era sempre stata la più lenta ad apprendere e la più goffa, anche se ormai il peggio era passato. Di solito lei era l’uke dei più piccoli proprio perché li spaventava. Di sicuro non era quello il problema adesso però.
“Preparati ad essere sconfitta” ghignò capelli d’insalata. Cori poteva solo sperare nella sopravvivenza.
Il secco ordine si schiantò come un fulmine sulle pareti del dojo: “Hajime!”
Zoro non attese e le si lanciò addosso, tentando di fare l’ultima tecnica che gli avevano insegnato, l’Ippon Seoi Nage, ma caricandola si abbassò con la schiena (errore tipico), e lei ne approfittò per uscire dalla presa e tirargli un Tani Otoshi. Appena il ragazzo toccò terra Cori tentò di ingabbiarlo fra le sue gambe, ma lui la rovesciò sopra di se. Il vantaggio si era invertito: Bloccata fra le sue gambe non poteva fare granché. Infatti, Zoro non perse tempo e ruotando le gambe, la trascinò sotto di se. Lei ebbe giusto il tempo di mettersi in difesa prima che lui tentasse di tirarla su dal bavero, i lividi urlarono. Non ci riuscì, così spinse col ginocchio sulla sua gamba destra e la rovesciò con la forza bruta (è difficile che una cintura bianca in forze sfrutti lo judo per rovesciare qualcuno. È più facile che sfrutti la forza. Ora, Zoro se lo può permettere, ma basta un pari peso per bloccare ogni iniziativa). Le costole gridavano perdono. Lei per forza di cose non tentò di resistergli, anzi lo assecondò e quando lui tentò di schiacciarla di petto si alzò quel tanto che le serviva per uscire dalla presa e a sua volta tentare l’immobilizzazione con una Yoko Shio Gatame. Purtroppo nella maggior parte dei casi, l’immobilizzazione è praticamente inutile con uno piú forte, per di piú Cori aveva piú lividi che pelle. Zoro alzò il fianco lo spazio necessario per infilarle prima il ginocchio e poi il piede praticamente nell’inguine e spingerla via. Aveva il fiatone, cavolo, ed era una tortura! Poggiando tutto il peso su una gamba quando atterrò, anche i muscoli urlarono. Nel giro di pochi secondi stava comunque per attaccare. Zoro si era rialzato, quando il Maestro ordinò un “Sore Mate!” e furono costretti a tornare a posto. Cori sapeva che era solo una battaglia rimandata, esattamente come lo sguardo vittorioso di Zoro. La ragazza ebbe quasi l’impressione di veder scivolare via il poco rispetto che aveva guadagnato agli occhi del ragazzo, sostituito dallo sdegno piú totale. Che rabbia! Aveva fatto schifo! Passò il restante quarto d'ora ad arrovellarsi su quel fatto, tanto da accorgersi a malapena del Maestro che voleva fare il saluto. Uscì dal dojo piú cupa che mai, ragionando sul fatto che doveva pensarci prima di invitarlo, dato che sapeva che avrebbe fatto una figura barbina. Non era neanche lontanamente vicina al diventare una cintura nera, figuriamoci battere Zoro, che l’aveva stracciata senza katane e conoscendo a mala pena quattro tecniche! Doveva allenarsi assolutamente, e questo era imperativo. Poi come al solito si chiedeva perché, e si rispondeva che le piaceva, e che il desiderio di rivalsa bruciava. Obiettivo della sua vita: Sconosciuto. Era troppo vecchia per campare di solo judo ormai… pensò ignorando alla grande il Maestro, Zoro e tutti gli altri.
 
 
 
Quando i due uscirono, erano le otto passate e stava per iniziare il coprifuoco. Cori non aveva avuto la minima volontà di guardarsi in faccia, conscia di sembrare più un’annegata che un sano essere umano. Per di più puzzolente. No, no, non ne aveva voglia assolutamente. Stava per partire con la moto nella calda notte con Zoro a rimorchio, quando il cellulare squillò.
“Nonno, che succede?” chiese Cori allarmata.
“Eeh, eeeh, non lo so Cori, vieni qui per favore…”
“Prima dimmi cos’hai” quasi piagnucolò Cori nell’apparecchio.
“Ti prego, vieni subito… Oh, Dio mio… Lo sapevo…” La telefonata si chiuse con uno scatto secco. Cori ripose il telefono, infilo il casco ed ordinò un “Andiamo” categorico a Zoro, lanciandogli il casco.
“Non accetto ordini, di sicuro non da te. Che è successo?” fece resistenza Zoro puntando i piedi. Si era rimesso la parrucca.
“Non lo so, è questo il problema.” Ringhiò Cori frustrata. “E se tu vuoi restare qui a marcire, beh, peggio per te, ma io non voglio avere vite sulla coscienza. Parliamoci chiaro: Al momento senza il mio aiuto non hai la minima possibilità di tornare a casa, e se anche non credi che io possa esserti d’aiuto, le tue katane sono in mio possesso, almeno finché non torniamo a casa. Che decidi di fare?” L’indecisione balenò per un attimo negli occhi di Zoro. “Mostrami la strada” si decise alla fine, con uno schiocco soddisfatto della lingua. La ragazza sapeva che se avesse voluto avrebbe potuto liberarsi di lei e trovarsi da solo quelle dannate spade. Beh, magari quello no, ma sbarazzarsi di lei si. La tregua era stata sancita. Zoro salì sulla moto con l’arroganza del vincitore, Cori scosse le spalle e partì. Se lo poteva scordare che lei lo portasse subito a casa.

Cori parcheggiò di fronte al vialetto d’ingresso ricoperto di ghiaia di un piccolo villino. La casetta era avvolta nell’ombra, e solo la porta era un riquadro luminoso, dal quale emergeva la figura controluce di un vecchio molto alto, dai radi capelli bianchi e dei brillanti, quasi spaventosi, occhi verdi. Degli occhi che però Cori adorava. Smontò dalla moto e arrivo dal vecchio alla velocità della luce.
“Nonno stai bene?” gli chiese allarmata. Sul volto non c’erano segni di scontro. Il viso dell’uomo, pur sembrando la rugosa corteccia di un albero, parlava di serietà e rispetto, ma era anche un po’ imbronciato, con il labbro proteso in avanti.  Si appoggiava allo stipite della porta con le braccia incrociate sul petto.
“Ti stavo aspettando” le disse fissandola con quegli occhi liquidi e cisposi, ma vivissimi. Poi spostò lo sguardo su Zoro che era rimasto appoggiato alla moto. “Anche tu” disse fulminandolo. Un’espressione sorpresa si dipinse sui volti dei due ragazzi, che entrarono. Zoro si accostò a Cori.
“Che cosa vuole da me questo vecchio? Come fa a conoscermi?” le chiese tenendo sotto controllo con lo sguardo l’anziano uomo. Notò che nonostante l'età, non era affatto curvo. E portava per lo meno due rivoltelle, se la vista non lo ingannava.
“Questo vecchio è mio nonno, e non ho idea di cosa abbia in mente” gli sibilò lei in risposta. La casetta aveva un solo piano, e superato il vestibolo, umido, stretto e poco illuminato, si entrava in un salotto alla cui sinistra si apriva una piccola cucina rustica, e alla destra una sala da pranzo con un massiccio tavolo di legno. Da una porta aperta davanti a loro si apriva un lungo corridoio scuro.
“Nonno, mi dici che è successo?” si ripeté Cori. La faccenda non le quadrava. Era come se nel centro del salotto ci fosse una colonna d’aria calda, tremolante. Improvvisamente, senti quasi di avere la febbre. La sua pelle scottava, e gli occhi le si stavano appannando. L’anziano la osservò con quel suo sguardo arcigno mentre sollevava i polsi sottili. Sulla pelle traslucida i lividi spiccavano come macchie di pittura, ma la cosa che più sgomentò la ragazza era il coltello che suo nonno teneva in mano. Insanguinato.
“Ecco che è successo” brontolò l’uomo facendo volteggiare con un movimento abile il coltello sopra la mano destra. “Quel tuo amico, Gabriele, non è un gran che col coltello”
“Gabriele?! Che cavolo ci faceva qui?” si allarmò ancora di più la riccia. Per quale assurdo ragionamento quell’imbecille aveva provato a colpire suo nonno?
“Non ti allarmare. Non ho fatto male a nessuno. Almeno non troppo” borbottò il vecchio piantando il coltello in una tavola di legno chiaro.
“ Non era di quello che mi preoccupavo” sussurrò Cori. Aveva temuto che il nonno avesse potuto farsi male da solo. Era stato un marinaio prima della pensione ed era stato lui a spingere perché entrambi i suoi nipoti imparassero un’arte marziale, quindi non era molto sbalordita del fatto che avesse vinto contro quello sborone nullafacente di Gabriele, che si basava solo sulla prestanza fisica. Aveva la mente un po’ annebbiata.
“Che cosa c’entro io in tutta questa storia?” chiese Zoro cupo, avanzando verso l’uomo, che non si vergognò di mettere mano alla fondina dietro la schiena.
“Con calma, ragazzo, con calma. Cori, ti conviene chiamare Gregorio per farti portare le robe e avvertire a casa” Le consigliò spostandosi in cucina. “E tu. Stai lontano da mia nipote. Sono stato chiaro?” intimò l’uomo aprendo due uova per fare una frittata.
“Nessun problema” assicurò Zoro alzando un sopracciglio. La ragazza alzò gli occhi al cielo mentre telefonava.
“Greg? Sono io. Potresti portarmi le robe a casa di mio nonno?... Si, quelle lì. Prendi anche lo zaino di scuola e la borsa blu…. Te lo dico quando arrivi. Niente di cui preoccuparsi, sul serio. Ciao” il mormorio di Cori riempì la stanza. Al ragazzo non piaceva la situazione. Gli sembrava troppo tesa, strana, e quel vecchio non lo convinceva. E non aveva le katane.
“Nonno, chiama tu papà. Lo sai che a me non da retta” gli urlò dal salotto.
“Passa qua. Giuliano, figliolo!” esultò baldanzoso afferrando al volo l’apparecchio con una mano mentre con l’altra sbatteva le uova.
“Papà. Cosa vuoi?”
“Cori dormirà da me per un po’” rispose senza abbandonare il suo tono. Butta in padella, metti un po’ di mozzarella…
“Te lo puoi scordare. Cori deve studiare”
“E studierà da me, dov’è il problema?” ribatté mettendo a bollire l’acqua per la minestra.
“Te l’ha chiesto lei?” Aveva un tono pacato, minaccioso.
“No, ci ho pensato io. Le metti troppa pressione addosso! Quella povera ragazza finirà per avere un esaurimento nervoso” si lamentò tagliuzzando un pomodoro.
“Sua madre mi basta e avanza. Non ho bisogno di un altro peso morto” Il vecchio storse la bocca. Ma perché doveva avere un figlio del genere? Che aveva fatto di male, in cosa aveva mancato nell’istruirlo? Sperò che nessuno dei due ragazzi stesse ascoltando.
“Allora dimentica quello che ho detto. Cori sta da me perché mi manca tanto e voglio passare del tempo con la mia nipotina” affermò con spirito gioviale mentre faceva volteggiare la frittata sopra la testa.
“E va bene. Passamela, che la saluto” Doveva essere di buon umore.
“Cori, è per te” il nonno le lanciò il telefono.
“Si?” chiese la ragazza nervosa.
“Ciao piccola. Mi raccomando, comportati bene e studia”
“Tranquillo pa’. Stiamo solo a pochi metri di distanza, voglio solo dare il meglio di me” La tensione non accennava a scendere nella sua voce.
“E lo darai. Buona notte”
“Buona notte papà ”. La telefonata si chiuse. Zeno nel frattempo se ne stava fregando beatamente, ed aveva aperto lo scompartimento dei liquori, tirandone fuori una bottiglia di Anisetta Meletti. Strano che per le altre cose non avesse lo stesso senso d’orientamento. L’alcool lo trovava subito. La via di casa, mai. Il campanello squillò, e Cori corse fuori per aiutare Greg a scaricare la macchina.
“Grazie per avermi portato le cose” lo ringraziò abbracciando la sua borsa da ginnastica e lo zaino di scuola. Non aveva bisogno d’altro.
“Figurati. Allora, cos’è successo?” chiese curioso il giovane chiudendo il baule della vecchia macchina.
“Niente, tutto a posto.” Per un po’ il silenzio regnò. Greg la guardava in modo strano, come se le stesse dicendo addio. “Hehe, torni tu, vado io. Torno presto”
“Ci credo” rispose lui, ma non sembrava sincero. “Ti accompagno” disse dopo qualche attimo di silenzio.
I due rovesciarono le cose sulle poltrone mentre Zoro si stravaccava sul divano con la bottiglia in mano.
“Gregorio! Bentornato” lo accolse il vecchio dalla cucina.
“Signore” si inchinò il giovane.
“Allora, come va a casa? Vieni qui, così ti sento”  lo chiamò a se, per poi cominciare a parlottare. Nel frattempo Cori aprì la poltrona della sala da pranzo e il divano per la notte e apparecchiò. Le poltrone ed il divano avevano la stessa fodera fiorita su sfondo verde. Odiava i motivi floreali. Le stanze erano illuminate dalla calda luce di due lampadari di legno massiccio. I gingilli di antichi viaggi sbrilluccicavano i loro brillanti nostalgici ricordi sotto quella luce dall’aria rustica come la pesante credenza. Da piccola credeva che i vetri di quell’ingombrante mobile fossero fatti di fondi di bottiglia.
Greg si congedò con un inchino e uscì, scompigliandole i capelli. Senza neanche darle il tempo di salutarlo a dovere. Il nonno portò la frittata e la pentola con la minestra a tavola. “Mangiamo mentre vi racconto” disse mentre faceva le parti.
I ragazzi si sedettero al desco nel silenzio dei bambini che aspettano le storie. Cori, guardando le rilucenti sciabole spuntate appese incrociate sopra al camino, ebbe l’impressione che sarebbero spuntati dei corsari dalla cappa.
“Allora… cominciamo dall’inizio. Io non sono di qui. Vengo dal tuo mondo, ragazzo.” Affermò l’uomo ingollando la frittata.
Cori sbarrò gli occhi. Suo nonno veniva dall’universo di One Piece?!? Il vecchio la quietò alzando la mano.
“Le domande alla fine. Tempo fa, facevo parte degli studiosi di Ohara. Ero uno scienziato, e avevo appena creato il mio capolavoro. Dopo quattro anni di studio, con l’aiuto del mio assistente, ero riuscito a sintetizzare un siero che mi permetteva di passare da un universo all’altro. Ma il lavoro non era finito. Sperimentandolo su cavie vive, alcuni fattori del siero avevano uno strano effetto: Li bruciava dall’interno. Così, dovetti modificare il loro DNA perché fossero in grado di sintetizzare le molecole in grado di neutralizzare questi effetti. In seguito dovetti farlo anche per lo stesso siero, che per non provocare danni doveva essere prodotto dall’interno. Fu in quel periodo che scoprii che il mio assistente mi tradiva e dava le informazioni alla Marina. Tentai di estrometterlo da ogni tipo di informazione, ma senza allontanarlo per non insospettirlo. Nel frattempo avevo cominciato a provare la terapia genetica su di me, ma quel traditore voleva a tutti i costi i miei appunti, e cominciammo a litigare. Per errore nella rabbia aprii un varco e me lo trascinai dietro. Il viaggio fu tremendo, ed atterrammo ad una velocità inaudita. Non sapevo come controllarlo. La caduta mi valse un trauma cranico ed un’amnesia, oltre che varie ossa rotte, ed eravamo caduti sul morbido, per fortuna. È stato un miracolo se non ci si è spezzato l’osso del collo. Quando mi svegliai, non mi ricordavo più nulla, e accanto a me c’era Benedetta, tua nonna. È stato amore a prima vista. Ci sposammo dopo neanche un anno e dopo poco nacque tuo padre. Ho ritrovato la memoria cinque-sei anni dopo, quando il mio ex-assistente mi contattò per la prima volta. Voleva tornare indietro, a tutti i costi. Io gliel’ho sempre impedito” Aveva uno sguardo sognante mentre parlava della nonna. Nonostante tutto, e forse era merito di quella strana febbre, Cori rimase soltanto molto sorpresa, emise un paio di versi inarticolati, ma non diede di matto. Aveva una cosa come dieci miliardi di domande in testa.  Zoro aveva semplicemente continuato a mangiare come se nulla fosse.
“Quindi tu sei in grado di riportarmi indietro” lo interruppe Zoro. Cori lo fulminò.
“Io ormai sono troppo vecchio per questo genere di cose. Ma Cori può”  asserì l’anziano uomo.
“Come sarebbe a dire ‘Cori può’? Vuoi dire che anch’io posso fare salti dimensionali?” gli chiese sbalordita, nonostante la nebbia che aveva in testa. Si strofinò con due dita la pelle del ponte nasale.
“Certo. Te l’ho detto, ho dovuto fare una terapia genetica per produrre il siero. Se Gabriele mi ha attaccato, è solo perché ha capito che tu l’hai ereditato” mugugnò ingurgitando cucchiaiate di minestra.
“Ottavio lo sapeva? L’aveva ereditato anche lui?” gli chiese la ragazza. Era frastornata. Possibilità infinite si stendevano di fronte a lei, oltre ad una serie di implicazioni a cui avrebbe pensato in seguito.
“Non ho fatto in tempo a dirglielo” si incupì, gettando lo sguardo lontano da loro. Aveva un tono quasi burbero.
“Ah. Ma che c’entra Gabriele con tutta questa storia?” chiese Cori incuriosita.
“Gabriele” disse il vecchio lasciando che il sapore del caffè corretto gli ripulisse la bocca “è il figlio di quel bastardo di Kalt, il mio ex-assistente”
“È giovane per essere suo figlio. Se dici che era il tuo assistente…” suppose Cori ignorando il caffè.
“Cosa vuoi che ti dica” rispose quello facendo spallucce “la sua vita privata non è mai stata affar mio”.
“Direi che la questione è risolta” li interruppe Zoro. “Tu” disse indicando Cori “mi accompagnerai dall’altra parte, e ognuno andrà per la sua strada”
Cori s’incupì. “Non ho idea di come si faccia, e mi sembra anche una cosa abbastanza pericolosa” ribatté con una smorfia di disappunto. Possibile che quel buzzurro non avesse un minimo di tatto? Per lo meno poteva non spiattellarle in faccia tutto il disagio che provava a stare in sua compagnia, se proprio voleva spingerla a sbrigarsi a riportarlo sulla sua bagnarola.
“Non ti preoccupare Cori, ti aiuterò io a rispedirlo dov’è giusto che sia. Negli anni ho affinato la tecnica, anche se non ho più provato veri e propri viaggi inter-dimensionali. Ti insegnerò tutto quello che so” la rassicurò il vecchio alzandosi. La febbre si stava alzando, cominciava ad avere mal di testa.
“E almeno questa l’abbiamo risolta. Come risolviamo la faccenda della faida secolare?” chiese stanca massaggiandosi le tempie.
“Non preoccupiamoci di quello per adesso” disse il nonno sparecchiando. “Hai la febbre, dovresti riposare”
“Come fai a saperlo?” quasi grugnì per il dolore fisso in testa che sembrava lacerarle la pelle.
“È venuta anche a me, la prima volta che sono tornato qui. Vieni in veranda con me a prendere il the” le rispose prendendola per mano.
“E tu, insulsa creatura, cerca di mantenere un comportamento decoroso, per piacere. Non ho idea del perché tu sia qui, ma puoi star certo che cercherò di cacciarti via il prima possibile. Tu non mi piaci” ringhiò poi contro Zoro, che secondo Cori stava per scoppiare come una teiera, così intervenne prima che accadesse l’irreparabile. Estrasse le meravigliose katane dalla borsa della ginnastica e gliele diede, porgendogliele con tutt’e due le mani.
“Tieni. Spero che tu sia contento, ora” le uscì con un tono più amaro di quanto avrebbe voluto. Poi, sotto lo sguardo minaccioso e silente di Zoro, seguì docile il nonno in veranda.
“Stupida ragazzina” borbottò il giovane assicurandosi le spade al fianco.
 
Cori si buttò sulla vecchia e polverosa sdraio della nonna in veranda. Il mal di testa non la lasciava. Il nonno la raggiunse subito con una tazza di the.
“Tieni, prendi questo, ti farà stare meglio” le disse porgendogliela. Aveva un sapore amaro, dal retrogusto quasi di castagna.
Mentre il mal di testa si placava, Cori cominciò a pensare. Suo nonno veniva da ONE PIECE. Ok, questa si che era una cosa strana, ma in fin dei conti accettabile. Lui era arrivato sulla Terra grazie ad un siero che il suo corpo produce. E quella stessa capacità l’aveva anche lei. Quindi in fin dei conti, parte del suo sangue apparteneva a quel mondo. Lei poteva appartenere a quel mondo.
Fuori era sera, e la foto sul tavolino si vedeva a mala pena, cosí Cori se la avvicinò. Nella foto c’erano i suoi nonni e suo padre da bambino, in una vecchia foto d’epoca colorata. La nonna era bellissima nel suo lungo abito bianco e la morbida treccia color cioccolato posata sulla spalla. Gli occhi, che erano anche i suoi, la fissavano dolci dal vetro, mentre le fossette sul suo volto si piegavano in un sorriso. In braccio a lei c’era mio padre a quattro anni, piccolo, con i capelli neri lisciati all’indietro nella classica acconciatura a leccata di mucca ed un sorrisone felice sporco di cioccolata. E alla fine c’era il nonno, con i suoi boccoli neri e gli strabilianti, enormi occhi verdi nel viso paffuto, quasi da ragazzino, sbarbato. Portava l’uniforme della Marina Italiana. Dicevano sempre che gli assomigliava tantissimo, soprattutto per la statura, mentre le ossa grandi le aveva prese dalla nonna. Ottavio assomigliava piú alla mamma, soprattutto nei tratti allungati e angolosi del volto. Almeno da quanto si ricordava. All’improvviso, le sorse un pensiero. Magari il fatto che potesse appartenere ad un altro mondo aveva influito: Lei non aveva mai saputo cosa fare della sua vita. Sarebbe mai appartenuta ad un mondo?
“Non cominciare a crearti delle scuse. Il tuo mondo te lo crei da sola, e se non hai mai saputo cosa fare, beh, è il momento di cominciare a chiedersi il perché e cominciare a pensarci. Non scaricare le tue responsabilità sugli altri” le disse il nonno sorseggiando il suo the.
“L’ho detto ad alta voce?” rispose Cori. Il vecchio alzò le spalle. “Eri abbastanza intuibile”
“Ah” emise scostando lo sguardo. Il volto dell’anziano uomo si distese. “Allora, chi è il ragazzo che russa dietro questa porta?” chiese sorridendo.
“Si chiama Zoro, ed é… un ragazzo molto simpatico, si” per quanto suo nonno conoscesse il mondo di ONE PIECE, dubitava che sarebbe stato felice che lei avesse costantemente a fianco uno spadaccino plurilaureato in scienza delle barbarie e affini.
“Non si direbbe, sai? È piuttosto maleducato. Come mai è qui, se posso chiedere?” le chiese ancora ammiccandole con quei suoi enormi occhi verdi.
“Per sbaglio. Beh, credo sia colpa mia. Stavo guardando ONE PIECE, sai, quell’anime…” divagò ruotando la tazza fra le dita.
“Si, ho presente” ribatté il vecchio annoiato.
“Ed è comparso lui, così, dal nulla, puf!” mimò Cori con le mani.
“Puf” ripeté l’altro. “Si, immagino sia colpa tua” ammise poi.
Aggrottò le sopracciglia “Grazie per la considerazione, ora mi sento veramente rinfrancata”. La febbre stava tornando a ondate.
“Domani cominceremo a pensare a come riportarlo indietro. O forse vorresti andare con lui?” le ammiccò il nonno.
“N-no. Nonno!” si scandalizzò Cori.
“D’accordo, d’accordo. Andiamo a nanna” le disse alzandosi e porgendole la mano.
“Nonno. Ti manca mai la tua vecchia casa?” gli chiese candida, osservando la mano callosa.
“Ho imparato a farne a meno. Quando ho ricordato, c’erano cose piú importanti. La mia vecchia casa, come la chiami tu,  mi manca, ma non la rimpiango, no” il suo sguardo sembrava avere cento, mille anni in quel momento. Parlava della nonna e di papà. Ma quanto era rimasto adesso, delle ancore di allora? Poi insieme si alzarono, il momento sparì e il nonno la accompagnò alla poltrona-letto in camera da pranzo. Zoro ronfava della grossa nel divano-letto in salotto, gettato di traverso sul materasso, con la bocca spalancata e la classica bolla al naso. Le katane erano posate contro la spalliera e lanciavano tre ombre di artigli sul letto alla luce della luna. Sembrava l’ombra di una gabbia, e Cori si chiese quanto di casuale ci fosse in quella situazione.
“Aspetto che ti cambi, poi ti vengo a dare la buona notte” la interruppe il nonno.
“D’accordo” pigolò Cori attenta a non alzare troppo la voce. Quella luna era un cavolo di faro lì dentro! Poi suo nonno si ostinava a tenere quell’orrenda maschera africana proprio di fronte al letto. Non amava restare sotto gli occhi di quel malefico miscuglio fra un nigeriano e la versione drogata di Mr. Fantastic, così si affrettò ad infilarsi il pigiama. Il nonno tornò e le rimboccò le coperte.
“Yawwn… Qual è il tuo nome, nonno?” le chiese già mezzo morta, con gli occhi a mezz’asta. L’uomo sembrò pensarci un po’.
“Claw. Mi chiamavano Claw, un tempo” le rispose allontanandosi verso il corridoio oscuro. Il russare di Zoro sobbalzò per un attimo, poi si quietò di nuovo. Il rumore silenzioso della notte vuota invase la casa.
Pochi minuti e la febbre la addormentò.
 
 
 
 
 
Ed eccomi qua! Cosa ne pensate? Magari dovrei meglio caratterizzare nonno Claw? In generale, come procede la storia per voi? Zoro è ancora simile al personaggio originale? Spero di si. Grazie per coloro che recensiscono e vi aspetto numerosi. Alla prossima, e se mai non dovessi pubblicare prima degli esami, anche se ne dubito, fatemi gli auguri. Manca solo un mese! Aiuto!
 
Glossario:
Ippon Seoi Nage: Lett. Lancio sulle spalle con un solo punto d’appoggio. Appartiene alle Te Waza, tecniche di braccia. La tecnica consiste nello sbilanciare l’avversario tirandolo in avanti col braccio sinistro (quello che tiene la manica), infilare sotto l’ascella dell’avversario l’incavo del gomito e stringendo, girare (fare un tai sabaki di 180*), infilare il proprio coccige al di sotto del suo baricentro, sollevarsi e catapultarlo oltre le proprie spalle.
Tani Otoshi: Lett. Caduta nella valle. Appartiene alle Sutemi Waza, le tecniche di sacrificio. Consiste nello stendersi in perpendicolare all’avversario, trascinandolo con sé appunto “nella valle”, facendolo inciampare nella propria gamba tesa dietro di lui.
Yoko Shio Gatame: Lett. Tecnica d’immobilizzazione laterale a terra con 4 punti d’appoggio. Una volta a terra, ci si posizionerà perpendicolarmente all’avversario, con il petto sul suo petto, un braccio tra le sue gambe e uno dietro la testa che cercano di raggiungere la cintura, i piedi puntati al terreno, le gambe tese o piegate a seconda del verso in cui l’avversario tenterà di girarsi.
Hajime: Lett. Inizio, iniziare. È il comando per iniziare il combattimento.
Sore Mate: È l’ordine di fermare il combattimento, Mate significa fermo, aspettare, e detto da solo è solo uno stop temporaneo del duello.
 Seiza: È l’ordine di sedersi nel cerimoniale piú formale dell’inchino.
Rei: L’ordine di inchinarsi vero e proprio. Da solo significa solo un leggero piegamento di busto e capo l’inchino meno formale a inizio allenamento.
Ritzu: Ordine di alzarsi sempre nel cerimoniale più formale dell’inchino.
 
 


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Capitolo 6
*** Prima lezione: Teoria dei Warmholes ***


Buongiorno e benvenuti alla nuova puntata della roulette russa delle citazioni! Quale cartone animato avrò citato stavolta? Leggere per scoprire! Spero che questo nuovo capitolo sia di vostro gradimento, buona lettura!

Prima lezione: Teoria dei warmholes

Qualche tempo prima…

Zoro osservò la ragazzina allontanarsi ondeggiando lungo il corridoio, accompagnata da quel bislacco figuro di suo nonno. Mentre ingollava l’ultimo goccio d’alcool della casa, si permise di ripensare alle giornate appena trascorse, in particolar modo l’ultima. Da quel che aveva capito dai brevi, isterici dialoghi di Cori, aveva causato problemi (anche se lui non li riteneva tali) non indifferenti. Per cominciare, Cori stessa quella mattina era tornata con piú lividi che ossa, e da quel che aveva sentito ultimamente, doveva essere in parte colpa sua, almeno per il fatto che se sene fosse stato tranquillo forse nessuno lo avrebbe notato. A Zoro non piaceva avere debiti con nessuno. Poi era stato invitato in quel minuscolo dojo, dove aveva incontrato il Maestro Angelo, a suo giudizio un guerriero e un uomo di tutto rispetto. Lì aveva imparato i rudimenti di un’arte a lui quasi totalmente sconosciuta, il judo. Gran bella arte, ma non faceva per lui. Se proprio doveva combattere senza katana, preferiva di gran lunga usare il taglio delle mani, pugni e calci. Il Maestro invece era ironico, forte e severo, tutte qualità che lo rendevano assai simpatico ai suoi occhi. Cori in quei momenti gli aveva ricordato molto se stesso i suoi primissimi tempi, ancor prima che incontrasse Maestro Koshiro, quando ancora inesperto le strategie di combattimento gli si affollavano nella testa e lui non faceva in tempo a reagire nel modo giusto, per poi affidarsi alla forza bruta. Era abbastanza sicuro che ci fossero strategie ben piú efficaci di quelle che aveva usato la ragazzina per atterrarlo.
Cori rientrò e si buttò a peso morto sul letto. Il nonno si allontanò.
La luna era salita oltre la cortina di nuvole, e illuminava bene il giardino col suo latteo lucore. Zoro vide un uomo scavalcare il recinto e avvicinarsi al retro della casa. Portava sulle spalle l’enorme zaino nero e blu di Cori, e superata la prima linea di aiuole, si affrettò a lanciare lo zaino al nonno, che lo attendeva addossato alla pallida parete. Zoro assottigliò gli occhi, cercando di scorgere piú dettagli dell’uomo sconosciuto. Questi corse fuori e montò su un motorino. In quel momento si girò, rivelando di essere quello scialbo energumeno per cui la ragazzina sembrava stravedere.
“Tsk” ghignò Zoro voltandogli le spalle. Non erano certo affari suoi.



Zoro stava sognando. Stava sognando, ne era sicuro. Cioè, ne era stato sicuro fino a due secondi prima, quando quella pazza era montata sul suo letto e aveva cominciato a saltarvi sopra.
“Sveglia, sveglia, sveglia!” Ma non stava malissimo giusto il giorno prima?! Senza neanche aprire gli occhi, le afferrò il piede e tirandolo a se la fece cadere sul letto. E meno male che faceva judo!
“Ehi, brutto bastardo!” gridò tirandogli un calcio dritto nelle costole. Poi saltando di nuovo in piedi gli ricadde addosso per errore, facendo cozzare le braccia rigide contro il suo petto. “Ti ho preparato la colazione!” gli rise quasi nell’orecchio la pazza, tirandogli un pugno scherzoso dritto sullo sterno. Poi vi si appoggiò per alzarsi. Zampettò fino al bordo del letto e con un saltello scese, camminando a piedi scalzi fino in cucina. Ma che cazzo le era preso? I giorni prima tutti col muso, e adesso faceva tutta la gioviale, rideva, scherzava… così, a caso! Fino ad allora non l’aveva mai toccato volontariamente senza l’intento di picchiarlo, e adesso sorrideva, saltellava, ma che…? Canticchiava! Stava cantando, di prima mattina!
“Se cercate un fatto, io ve lo da-rò!”
Dalla cucina veniva odore di colazione. Lo stomaco brontolò.
“Gli Unni han vita corta, chi vivrà, vedrà!”
Zoro si alzò quasi di malavoglia, per poi stravaccarsi su una delle sedie intorno al tavolo. Cori gli venne incontro saltellando, portando in mano latte, pane e marmellata alle arance. Tutto aveva un’aria bucolica. Da Mulino Bianco, pensò Cori.
“Come mai quella faccia?” chiese Zoro sospettoso, con la stessa espressività facciale di uno zombie sotto morfina.
“Così, mi va. C’è bisogno di un motivo per essere felici? Ma anche se voi siete deboli, lavoreremo ancor di piú, si vedrá – l’uomo che – non sei tuuuu” il tono vivace con cui lo aveva detto sembrava proprio dire “si, c’è, ma non te lo voglio dire, ok?”. Aveva continuato a canticchiare fra i denti per tutta la colazione, sempre con quel sorriso da trecento carati sparato dritto in faccia a lui. Mentre si servivano al lauto pasto, Zoro notò un fatto assai singolare : Il nonnetto non era mai comparso quella mattina.
« Dov'è finito il vecchio? » chiese alla fine.
“Sará andato a farsi una passeggiata” fece spallucce la ragazzina. Non si era nemmeno incavolata perché aveva chiamato vecchio il nonnetto. Bah.
Quando ebbero finito, Cori posò i piatti nell’acquaio e uscì saltellando come Heidi. Ma che cavolo si era fumata? Zoro la seguì titubante in silenzio insieme alle sue katane.
“Nonno! Nonno, dove sei?” chiamò Cori.
“Sono qui!” urlò il vecchio dal giardino sul retro. Quando vi arrivarono, il nonnetto stava montando una lavagna bianca sugli infissi di una finestra. Aveva portato due vecchi banchi di scuola arrugginiti, raccattati in chissá quale discarica, davanti alla lavagna, accompagnati dalla loro degna controparte detta sedia. Il vecchio si era anche messo in ghingheri, con il vetusto completo di fustagno ed il cravattino a fantasia scozzese. Inghirlandato così, sembrava un vecchio professore in pensione, con i radi capelli bianchi pettinati ordinatamente all’indietro.
“Sedetevi pure, ragazzi, arrivo subito” gli disse il vecchio ancora girato di spalle. Nessuno dei due si arrischiò a sedersi sulla causa della morte per tetano, e non avendo effettivamente altro da fare si sedettero sul bordo dei banchi, mentre aspettavano che il vecchio gli dedicasse attenzione. Cori ne approfittò per ammirare la disposizione del piccolo giardino: La mano di Greg, che ben volentieri passava ogni tanto di lá, si faceva vedere: Il fondo era un’unica, bellissima parete di alberi di Jaracanda blu, sotto alle cui fronde crescevano arbusti di more ancora acerbe. Il resto del prato era di un bel verde uniforme, fatta accezione per la pianta di rosa tea addossata alla sedia a dondolo. Il verde era cosí uniforme che pensò di dire a Zoro che la sua testa poteva tranquillamente confondersi con l’erba, ma si trattenne. Quella mattina si era svegliata particolarmente euforica, e non le andava di litigare. Tutti i dolori erano passati insieme alla febbre, magicamente, non aveva idea del perché e nemmeno gliene importava! Era come essere sotto l’effetto di una droga.
“Vi ho chiamati qui per spiegarvi un paio di cose, ragazzi. Con tutta probabilità entro la settimana la banda di Kalt e della sua progenie ci attaccherà. Prima di allora sarà necessario riportare questa… cosa a casa sua. Se mai arrivassero qui e uccidessero uno di noi due, questo impiastro non potrebbe piú tornare indietro” che per caso il nonno non sopportasse Zoro? Doveva essere solo una sua impressione…
“Tsk. Credete che non sarei in grado di sconfiggerli? Mi basterebbe un colpo solo” ghignò Zoro facendo scattare l’impugnatura della katana.
“E a loro basterebbe un solo proiettile per far fuori noi. Non sono esattamente privi di potenzialità. Renditi conto che non sei il padreterno, piccolo pidocchio” lo denigrò il vecchio.
« Come mi hai chiamato, vecchio del cavolo? » si adirò il giovane alzandosi e portando la mano destra all’elsa della katana.
“Tu non sai chi sono io!” si intromise Cori tra i due, camuffando buffamente la voce. “Si, me lo immagino” si rivolse poi a Zoro. “Nonno, il pidocchio ha un nome. Si chiama Zoro, e ti assicuro che se anche non è infallibile, sa il fatto suo” disse poi all’anziano uomo, che lanciava fulmini dagli occhi. “Zoro, lascia che mio nonno si spieghi, sono sicura che ha altre motivazioni per cui dovremmo accelerare il passo” cercò poi di blandire Zoro, che senza guardarla sotterrò momentaneamente l'ascia di guerra.
“La verità è che è da anni che Kalt mi avvelena lentamente, e non so per quanto ancora potrò durare.” sospirò il vecchio scoprendo il braccio. Era pieno di zone purulente e rossastre, che emanavano già puzza di morte. Cori trasalí. “Il mio sangue è sempre piú infetto, e adesso che ha scoperto che anche tu hai il potere per riportarlo indietro, preme affinché io ti insegni quello che so prima di tirare le cuoia, così da poterti usare. E fidati se ti dico che di modi ne troverebbe” chiuse gli occhi riabbassando la manica sul braccio.
“E non esiste nessuna cura?” chiese Cori aggrottando le sopracciglia.
“È proprio la cura il male. Vedi, un conto è fare una terapia genetica su un paziente molto giovane, un conto è farlo su un uomo già formato. Inoltre questa terapia è molto invasiva, e piuttosto dolorosa. Tu sei il frutto di due generazioni che in qualche modo hanno cercato di metabolizzare il cambiamento, anche se tuo padre non l’ha mai manifestato. Ma io no, e avevo bisogno di farmaci che mi aiutassero a contenere gli effetti collaterali che in qualche anno mi avrebbero portato alla morte. Tuo padre parla spesso di un anno in cui mi presi una brutta malattia. Beh, non era una malattia, era proprio la terapia che mi stava uccidendo. Fu in quell’anno che Kalt mi raggiunse, proponendomi la cura. Sapevo che doveva esserci qualcosa sotto, ma accettai. Non volevo che tua nonna rimanesse vedova, con un bambino a carico facile preda di Kalt stesso.”
“Non potevi cercartela da solo, la cura?” chiese Zoro.
"Credi che non ci abbia mai pensato?! In tanti anni di ricerche, non ho mai cavato un ragno dal buco! Ho pensato anche di eliminarmi una volta che suo padre era diventato grande, quando ormai era chiaro che non avesse ereditato nessun gene, ma quando ormai pensavo fosse arrivata l’ora è nato suo fratello. Non potevo lasciarlo smarrito, senza una guida. Sapevo che i tratti somatici possono anche saltare una generazione. Non potevo permettere che Kalt gli facesse del male. Un male inutile, tra l’altro, perché senza la mia esperienza non avrebbe potuto fare nulla, e lui lo sapeva. Mi minacciava con questo. Cosí sono rimasto” rispose il vecchio, infervorandosi. Cori abbassò il capo, e stringendosi le gambe al petto appoggiò la fronte alle ginocchia. Doveva pensare. Anzi, non ci poteva pensare. Che cosa doveva fare? Suo nonno le aveva raccontato che subiva i postumi di una terapia potenzialmente mortale curandosi con del veleno, che non gli era rimasto molto tempo, e che se non si era suicidato era per lei e suo fratello. Cosa doveva fare?
“Cosa posso fare?” disse alzando la testa. Zoro al suo fianco era rimasto in silenzio.
“Ho intenzione di insegnarti quello che so. Voglio che tu possa fuggire, nel caso le cose si mettessero male. Kalt dispone di un dispositivo che gli permetterebbe di aprire un portale senza il nostro consenso, solo sfruttando il nostro DNA, ma è quasi letale per noi. Vuole sfruttare il suo legame con il nostro universo originario per tornare indietro. Lui crede sia quasi impossibile, che probabilmente morirebbe anche lui, e questo lo sa, ed è la cosa che l’ha fermato fino ad adesso” il vecchio fulminò Cori e poi Zoro. “Ma grazie alla presenza di questo elefante interdimensionale, adesso la cosa non è piú cosí infattibile!”
“Perché? Che tu mi insegni ad aprire portali non è proprio quello che vogliono loro? Non…” sgranò gli occhi, capendo che se lui non gli avesse insegnato niente, probabilmente quegli stronzi avrebbero bloccato il rifornimento della cura.
“Non converrebbe che io muoia? Magari. Ti uccideranno, Cori. Se non ti insegnerò ciò che so, ti uccideranno nel modo piú lento ed atroce possibile” sospirò il vecchio, guardandola con quegli occhi acquosi ed il broncio proteso.
Dopo un lungo silenzio, finalmente Zoro si alzò al fianco di Cori. “Cosa stiamo aspettando? Parla, vecchio. L’hai detto: Abbiamo poco tempo” disse fissandolo con quel suo sguardo fiero.
“E sia”



“Lezione n*1: Teoria dei warmholes” dopo un primo momento di agitazione, Cori si era preparata ad ascoltare, mentre Zoro sonnecchiava con un occhio solo, ascoltando si e no quello che il vecchio marinaio diceva. Vi risparmierò la pena di ascoltare una lunga lezione. Vi basti sapere che per warmhole si intende un fenomeno molto simile al buco nero. Avviene attraverso un ripiegamento dello spazio-tempo, che permette all’universo di accorciare le distanze. Esistono diversi tipi di warmhole. Quello che useremo qui è ovviamente una trasposizione narrativa, poiché la forza gravitazionale di un warmhole inghiottirebbe la terra in poco tempo. Perciò abbiamo ideato un piccolo stratagemma che ci permette di creare warmhole portatili, e soprattutto usabili, ed è il talento di questa famiglia, basato su una pseudo-teoria fisica di mia invenzione per permettere l’esistenza di questa storia. Posso sperare che all’interno della storia tutto sembri molto logico.
“Nonno, scusa se ti interrompo, ma perché prima hai detto che grazie a Zoro per Loro sarebbe piú facile arrivare dall’altra parte?” chiese Cori incuriosita.
“Il suo legame con l’altro universo è piú forte del nostro, che ormai è sbiadito, tutto qui. È solo un’ottima guida. O almeno cosí credono. In realtà all’interno del nostro corpo si autoproduce una sorta di guida, ma questo loro non lo sanno, e devono continuare a non saperlo. L’unico motivo per cui usando il loro dispositivo potrebbero morire è che è praticamente impossibile, anche per noi, gestire un atterraggio. Se ci siamo salvati anni fa è stato solo per miracolo”
Cori rimase perplessa, ma era troppo distratta per prestare attenzione alla cosa per piú di due secondi. Sembrava che la strana euforia di quel mattino non fosse ancora passata, e aveva fatto una gran fatica a seguire il discorso del nonno.
Il nonno sospirò. “E va bene, per oggi abbiamo fatto abbastanza. Domani passeremo alla pratica. Ora andiamo a mangiare” disse raccogliendo le sue cose. Il magico trio si diresse verso casa nell’afosa calura estiva. Mentre Cori li anticipava in cucina, Zoro si avvicinò al vecchio.
“Ohi, vecchio. Che ha combinato Cori? È fuori di testa” gli chiese simulando indifferenza. Aveva passato la mattinata sonnecchiando nel languore di quella calda giornata estiva, sbirciando di tanto in tanto verso quella, e non comprendendo il perché di tanta pazzia.
“ È l’effetto del varco in salotto. Rimarrà cosí per almeno un’altra oretta. E io non sono vecchio” Zoro sollevò un sopracciglio nel sentire il tono burbero del nonnetto. Quello incrociò le braccia.
Il clamore di metallo proveniente dalla cucina spezzò lo scontro di sguardi, e le risate che lo seguirono allarmarono il vecchio.
“Meglio che vada a controllare che sta combinando quella piccola pazza” esclamò iniziando a correre, seguito a ruota da Zoro, che entrato in salotto vide uno degli spettacoli piú tragicomici della sua vita.
Cori sedeva tra le pentole rovesciate, ridendo come una matta con una padella in testa. Rialzandosi sotto gli sguardi attoniti dei due uomini, si girò indifferente e con un’euforia inspiegabile cominciò a buttare ingredienti a caso in una delle poche pentole salvate.
“Oggi credo che farò digiuno. Divertiti, impiastro” gli annunciò il vecchio allontanandosi con un libro. Zoro guardò sconsolato l’orribile spettacolo culinario davanti ai suoi occhi. Quasi rimpiangeva Sanji. Quasi.




Alla fine non era stata così male. Nel bel mezzo del disastro, finalmente Cori aveva ripreso conoscenza e stava tentando di mettere insieme un pranzo commestibile, tra le risa di scherno di Zoro. Mentre l’acqua bolliva, Cori si affrettò a preparare un’amatriciana, quasi tagliandosi un dito per la rabbia, mentre Zoro rideva e lei immaginava di stargli affettando il braccio.
“Ehi, non è colpa mia! Smettila di ridere!” protestò mescolando il sugo.
“Ma come si fa? Eri veramente ridicola!” rispose Zoro ridendo, fissandola dallo stipite della porta della cucina.
“Hmmm. Proprio” mugugnò infilzando il coltello nel tagliere. Rimestò il sugo con la cucchiarola e le venne un’idea. Con circospezione si girò con la cucchiarola sporca di sugo in mano, e con nonchalance si avvicinò a lui con un inquietante sorrisone da trecento carati.
“Assaggia se ti piace” gli disse avvicinandogli la cucchiarola. Zoro, incerto, protese il viso e Cori ne approfittò per disegnargli una strisciata di sugo sulla guancia.
“Tu, brutta bastarda! Adesso te lo faccio assaggiare io!” gridò Zoro afferrando un pomodoro e spremendoglielo in faccia. Cori rise. “Ahhh, brucia agli occhi!” gridò urtando il piano cucina con la schiena. Il dolore dei lividi si propagò lungo tutta la schiena. Se ne era completamente dimenticata. Non aveva praticamente sentito piú nulla dalla sera prima. “Ahio, cacchio che male!” esclamò afferrando un canovaccio e asciugandosi la faccia. Mentre lo faceva, Zoro ne approfittò per afferrarla per il collo e strofinarle le nocche sulla testa con violenza. “Brutta stupida!” Cori si divincolò nella ferrea stretta e con un gesto sgraziato del braccio gli pulì la guancia dal sugo.
“Tu vuoi mangiare per caso? No, perché se è cosí ti conviene sparire” lo spinse via con quei gesti goffi che le erano caratteristici, poi si ributtò sulla cucina.
Una ventina di minuti dopo, stavano mangiando in silenzio di fronte a due piatti fumanti, amatriciana e pollo alla griglia, soffocando nello stesso calore delle pietanze.
“Allora, testa di finocchio, che ne pensi? Visto che sono capace a cucinare, scemo?” gli inveì contro sparecchiando.
“Ho mangiato di meglio” ammise felicemente Zoro.
“Ovvio” quasi grugnì Cori afferrando il telefono che squillava.
“Si, pa’, che c’è?” chiese accettando la chiamata.
“Cori, quel ragazzo che ho registrato l’altro giorno non si è presentato oggi. Tu ne sai qualcosa?”
“Ehm, si certo. Mi ha detto che stamattina aveva… una visita medica e che sarebbe passato nel pomeriggio per completare il suo lavoro” si inventò Cori. Aveva detto piú bugie in tre giorni che in tre mesi.
“Bene. Allora ci sentiamo stasera che adesso ho da fare, ok? A piú tardi”
“A piú tardi” salutò lei serrando il telefono tra le dita. “Houston, abbiamo un problema” annunciò a Zoro stravaccato sul divano. Zoro la guardò malissimo.
“Devi andare a potare gli alberi di casa mia”
“Te lo puoi scordare!” sbraitò quello alzandosi.
“Non ti sto proponendo una scelta. Non ho intenzione di passare altri guai a causa tua” puntò sull’approccio aggressivo, puntando i pugni sui fianchi.
“Non mi interessa” il ragazzo le diede le spalle tenendo le braccia incrociate. Però, aveva delle gran belle spalle...
“Oh, si che ti interessa. Ho io il cucchiaio dalla parte del manico, ricordi?” ghignò la balda giovane incrociando a sua volta le braccia sotto il seno inesistente.
“Ne farò a meno” mugugnò il tipo con un fare veramente infantile ed irritante, mentre teneva lo sguardo fisso fuori dalla finestra.
“Zoro caro, ti ricordo che TU mi devi uno dei favori più grandi della tua vita, quindi ora VA!” ruggì Cori buttandolo fuori di casa.
Zoro grugnì qualche imprecazione incomprensibile prima di dirigersi verso il cancello. Doveva ancora scoprire il perché le donne riuscissero ad essere cosí terrificanti, alle volte, che anche un Re del Mare si sarebbe spaventato alla loro vista… E Cori, purtroppo, era l’ultimo degli esempi, si disse pensando alle sue nakama.
“Idiota, casa mia è dall’altra parte!” gli urlò Cori dalla porta.
“Ed io come faccio a saperlo?” protestò Zoro.
“Guarda che siamo vicini, è la casa affianco” gli rispose lei indicandogliela col dito. “Vedi di non perderti anche lí. E chiedi a Greg se ti serve una mano!” lo avvertì un’ultima volta prima di sbattere la porta con un ennesimo tonfo.





Un ramo cadde vicino a Cori, che sbadigliò. Non era certo il primo, pensò girando le pagine del libro di storia. Seduta sul dondolo, si godeva beatamente la frescura dell’ombra del giardino in maniche corte e pantaloncini. I fendenti di Zoro fischiavano fra gli alberi sopra la sua testa, ed una sottile pioggia resinosa di rami le pioveva addosso a ritmo costante, tanto che era stata costretta a coprire la sdraio con una tendina, per evitare che si sporcasse il libro.
Doveva studiare, ricordò a se stessa. Era facile distrarsi a guardare Zoro, che con urli di Tarzanica memoria volteggiava fra gli alberi tirando colpi a destra e a manca con le sue katane. Ma non doveva farlo. Aveva gli esami fra una decina di giorni! Ed era in ritardissimo con lo studio, tutta colpa di quel ritardato mentale di Zoro e di quella mega massa di teppisti cretini. Però come era difficile così!

“Vabé, basta, sono tre ore che sto qui a studiare. Vado ad allenarmi un po’!” si disse ad alta voce, sperando di attrarre il ritardato sopracitato. Erano le sette passate. Non le andava di allenarsi da sola. In realtà non le andava di fare un bel niente, ma non le andava nemmeno di sembrare pigra, quindi con estrema calma raccattò un asciugamano e si diresse nella vecchia palestra di suo padre, di fianco alla veranda. Per sua grande fortuna, la parete che dava sul giardino era composta da finestre, che aprì tutte. Dall’altra parte, lo specchio le rimandava l’immagine di una tizia con la testa simile ad un fungo atomico. Pfff.
“Pfff” si sgonfiò.
“Che cos'è questo posto?” chiese Zoro facendo capolino dallo stipite della porta.
“È una palestra. Non è abbastanza ovvio?” rispose stiracchiandosi. Aveva la brutta abitudine di bighellonare prima di allenarsi.
Zoro la ignorò e sorpassandola afferrò un peso. Il più pesante.
“Ti odierò, lo sai?”






Non era minimamente al suo livello.

















Beh, che ve ne pare? La fine è un po' sospesa, ma solo per non fare una cesura troppo forte col prossimo capitolo. La teoria per cui Cori è in grado di fare ciò che è in grado di fare verrà spiegata in seguito, non vi preoccupate, solo non ve l’aspettate troppo presto. Spero di aver fatto comprendere il clima afoso in cui loro (mica io) si trovano, quando sia i pensieri che le mani non vanno oltre la bottiglia d'acqua. Spero recensiate numerosi, e ringrazio chi fino ad adesso mi ha seguita con costanza. Alla prossima!


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Capitolo 7
*** Hollow ***


Hollow
 
Lo odiava. Era palese. Lo odiava nel profondo.
L’aveva umiliata fino all’inverosimile senza dire una parola! Lei non aveva superato le duecento a serie, e lui ne aveva fatti 600 nello stesso tempo.
E fosse stata la prima volta, che ancora non sai cosa aspettarti… no! Era la seconda, e si era lasciata umiliare quasi apposta. L’aveva chiamato lei, che rabbia! Cominciava a pensare di avere una passione per il masochismo.
Non era stata neanche minimamente alla sua altezza, ma come aveva solo potuto pensare di poter sfidare uno che avrebbe potuto sollevare pesi anche solo con le orecchie?!?!
Sperava solo che la giornata seguente andasse meglio. Il nonno aveva accennato qualcosa sulla pratica… l’unica cosa che poteva fare era sperare per il meglio.
 
La mattina dopo si svegliarono entrambi in un bagno di sudore. Era tardi, e si crepava di caldo. Cori si contorse ancora per qualche secondo nel letto, disfacendo ancora di piú le coperte. Alla fine si alzò e con sommo sforzo si diresse in bagno. Cinque minuti dopo, un gelido bicchiere d'acqua svegliava Zoro senza il minimo rispetto per il suo ennesimo riposino di bellezza.
“Svegliati, bellezza. È l’ora di uscire”
“Non fare la donna vissuta con me, testa-riccia” mugugnò lo spadaccino rivoltandosi nel lettone. Cori andò lí ed ancora assonnata lo scosse con tutta la forza che il cervello le permetteva di avere senza doversi svegliare del tutto. Alla fine si stancò e uscì in giardino ancora con il pigiama a bolle blu indosso.
Suo nonno, proprio come la mattina precedente, li attendeva sul retro, stavolta con uno strano costume verde e un po’ di trucco dello stesso colore sulla faccia. Un vecchio materasso sembrava attendere solo lei, steso lí all’ombra della casa.
“Devo andare a vestirmi?” biascicò assonnata la ragazza, osservando la mancanza delle trappole infernali del giorno precedente.
“No tranquilla. Anzi, piú stai comoda meglio è” le rispose gentilmente il vecchio, sorridendole dal dondolo delle rose tea.
Cori fece finta di non aver sentito il brivido di preoccupazione che per un attimo le aveva stretto lo stomaco alle parole dell’ex-marinaio. A suo parere, non poteva esserci niente di buono dietro le parole che il nonno le aveva rivolto. Mentre rimuginava sul fatto, Zoro arrivò, stropicciandosi gli occhi cisposi dal sonno ed osservando distrattamente la situazione di fronte a lui. Mentre il ragazzo dilettava il mondo con un suo sbadiglio, il nonno si alzò e si pose di fronte a loro.
“Cori, nipotina mia, stai per assistere per la prima volta all’apertura di un warmhole!” le annunciò l’uomo, ignorando palesemente lo spadaccino. “Non spaventarti. A meno che io non urli, è tutto nella norma” Ecco, dire “non spaventarti” era il modo migliore per lei di spaventare qualcuno, pensò schiacciandosi gli occhi nelle orbite dalla stanchezza (dovuta al caldo piú che altro).
“Ehi, bimbetta. Paura?” ghignò Zoro nella sua direzione.
“Ehi! Io non ho mai paura!” si pavoneggiò Cori puntando le mani sui fianchi. “E poi, bimbetta a chi? Ti ricordo che abbiamo solo un anno di differenza*!”
“Da come sei vestita, non si direbbe” rispose Zoro con estrema calma.
“Tu! …Maledetta iena!” sibilò insultandolo.
“Raffreddate i bollenti spiriti, miei adorati fanciulli. State per assistere ad uno degli spettacoli piú clamorosi dell’ultimo lustro! Ma che dico, dell’ultimo decennio! Ecco a voi… Mr. Frog, per coloro che parlano giapponese, Kaeru-san!”
Zoro sollevò un sopracciglio come a dire “questo è matto”.
“L’hai già fatto anche con papà questo scherzo, non è vero? Quando era molto piccolo. Una volta mi ha raccontato di un certo Kaeru-san che ogni tanto lo veniva a trovare…” chiese Cori, anche lei leggermente basita. Da suo nonno proprio non se l’aspettava. Di solito non era esattamente così euforico.
“Potrebbe essere possibile. Ma ora non ha importanza! Preparatevi, potrebbe tirare un po’ di vento, all’inizio” annunciò quello che adesso assomigliava piú ad un clown che al nonno di Cori. Si scrocchiò le dita.
Nel giro di due secondi l’immagine del nonno venne inghiottita, o forse ricoperta, non avrebbe saputo dirlo meglio al momento, sostituita dalla grossa sagoma muta di un uomo alto piú o meno due metri, completamente nera. Aveva contorni netti, squadrati. Le dita assomigliavano piú a degli artigli.
La sagoma infilò le dita fra due lembi d’aria, aprendoli. Con una mossa rapidissima, la sagoma nera ostruì il varco e lo richiuse, sparendo al suo interno. Al suo posto, una colonna d’aria tremolava, fremente come per una ferita. Pochi secondi dopo, un secondo varco si aprì due metri piú in là. La sagoma lo ostruì di nuovo prima di essere espulsa senza tanti complimenti. I piedi avevano creato un solco nel terreno frenando. Una volta di fronte ai due ragazzi attoniti, si fermò, torreggiando su di loro. Per un po’, l’uomo li fissò (senza effettivamente guardarli. Non aveva occhi) dalla sua ragguardevole altezza, beandosi dei loro sguardi stupefatti, e per una volta silenziosi.
Poi com’era apparsa sparì, lasciando posto a suo nonno, che sorrise.
“Cosa diavolo è successo?” chiesero in coro i due ragazzi.
“Hehehe. Ora vedrete con i vostri stessi occhi. Datemi le mani” chiese Kaeru-san, che dopo aver parlato si lasciò di nuovo avvolgere da quella sagoma nera.
“Prima tu, bimbetta” mugugnò la giovane insalata, guardando torvo l’uomo. Non si fidava di lui, ora piú di prima.
Cori afferrò la mano artigliata, esitante. Doveva dirlo, in quel momento anche lei faticava a fidarsi di suo nonno. Non ebbe nemmeno il tempo di dire a, che tutto divenne nero.
 
 
 
Zoro vide la ragazzina afferrare la mano. Appena le due mani si sfiorarono, il corpo di Cori venne ricoperto di quella misteriosa sostanza nera, e cadde a terra, ora alta piú di due metri. Di lei non era rimasta che una sagoma nera, glabra e slanciata, priva di occhi, naso e bocca. Le dita artigliate dell’uomo si strinsero intorno a quelle della nipote, per poi tirarla su, al suo fianco. L’altra mano era ancora tesa verso di lui, mentre la testa della ragazza pendeva inesorabilmente verso il basso, sovrastando di dieci centimetri buoni quella del nonno. Zoro non aveva idea di quello che stava accadendo, ma non doveva essere niente di buono se Cori aveva reagito cosí. Sguainò la katana incerto.
“Ehi. Cosa le stai facendo, vecchio?” lo minacciò. Quello sembrò ignorarlo del tutto, lasciando addirittura la mano tesa verso di lui. Zoro voleva attaccarlo, ma temeva che entrandoci in contatto attraverso la spada, quella sostanza l’avrebbe inghiottito come aveva fatto con Cori. Digrignò i denti, ringhiando, mentre la presa si stringeva intorno alla katana prima di rinfoderarla. C’era un unico modo.
Zoro afferrò la spalla di Cori, e
Tutto si fece Nero.
 
 
 
Ma non era quel nero da inchiostro, o da notte, o quello da palpebre chiuse. Era proprio il nero Nero, quello degli incubi piú profondi.
Zoro era solo, cieco, sordo, muto, privo di tatto e gusto. Solo la mano stringeva ancora qualcosa, ma non avrebbe saputo dire cosa, se non avesse saputo di aver stretto prima di sparire la spalla della ragazzina. Strinse la presa, non aveva voglia di perdersi. Abbassò l’altra mano sull’elsa delle katane, ma nonostante percepisse di stringere qualcosa, non ne sentiva l’esperienza al tatto. Percepiva anche se stesso, in piedi. Non sentiva il terreno sotto i piedi. Se era morto, l’Inferno non gli piaceva per niente. Inerme, annoiato, privo di qualsiasi genere di riferimento spaziale, si sentiva… ingabbiato. E non gli piaceva neanche un po’.
 
 
 
Cori ci mise un paio di minuti a processare la situazione. Sul momento, la mancanza di punti di riferimento l’aveva talmente spiazzata da farla cadere per terra. Non era sicura nemmeno di averla toccata, terra. Ancora incerta, si era sentita tirare su per la mano. Tenendo la testa china per concentrarsi, aveva provato ad andare a memoria. Teneva quella cosa per mano, quindi doveva trovarsi di fronte a Zoro adesso. Oddio, quanto le dava fastidio l’idea di non poter urlare (c’aveva provato, non si era sentita) o vedere qualsiasi cosa. Sperava solo che fosse temporanea, del genere che finisse nel giro di due minuti. All’improvviso, qualcosa le strinse la spalla. Avrebbe voluto scrollarsela di dosso, ma non riusciva nemmeno a sentirla, figuriamoci a stringerla. Poi sentì la presa stringersi ancora, e considerando che le stava frantumando scapola e clavicola, capì che doveva essere Zoro. Poi la cosa la tirò, lei si aggrappò a quello che sperava fosse il fianco di Zoro, ma la forza di quell’essere era tale da non lasciargli scampo. All’improvviso, sentì la sua coscienza gonfiarsi e contrarsi, al ritmo del respiro. Le sembrò di invadere uno spazio infinito, per poi tornare a rimpicciolirsi al nulla. La forza la attrasse di nuovo a se, e poco dopo sentì di nuovo di starsi espandendo e contraendo, per poi essere sputata via con forza. Due secondi dopo, la mano lasciava la presa e lei e Zoro venivano catapultati con forza sul vecchio materasso. Il fiato le si mozzò in gola, e se non fosse stato per gli anni di allenamento, il collo si sarebbe spezzato quando il corpo, rotolando, aveva poggiato completamente sulla testa. Zoro la seguiva a ruota, rotolando sopra di lei, tanto da darle una forte testata nello stomaco e l’elsa della katana spinta con forza contro l’incavo del gomito. Stesi l’uno di fianco all’altra, ripresero fiato e si bearono dei raggi del sole sulla pelle, del loro calore intenso, della luce prepotente fra le palpebre ed il rumore delle fronde degli alberi nelle orecchie. Dopo quella sorta di Inferno nero e vuoto, il giardino sul retro sembrava un paradiso.
Il vecchio si avvicinò loro, che subito scattarono in difesa, saltando in piedi sul materasso, allontanandosi.
“Ehi, ehi, ehi, calma ragazzi, non vi voglio fare del male” cercò di calmarli avvicinandosi piano piano.
“Ah, no?” ringhiò Zoro a spada sguainata.
“ Nonno, mi spieghi che cazzo è successo? Non è stata esattamente l’esperienza che mi aspettavo quando hai detto che sai creare dei warmhole. Perché non ci hai avvertito?” gli chiese quasi urlando la ragazza, ancora in difesa.
“Hehehe. Credo di essermelo dimenticato. È da qualche anno che non faccio cose del genere” ridacchiò l’altro pentito.
“Quanti?” disse Cori, con quella che sembrava piú un’affermazione che una domanda.
“Saranno una quarantina” mugugnò l’uomo. Rumore di mascelle che cadono.
“CHE COSA?” urlò lei.
 
 
Dopo una serie di improperi, minacce e spiegazioni piú o meno estorte, i ragazzi, immusoniti, si risedettero a gambe incrociate sul prato. O meglio, solo Cori sul prato, perché Zoro dopo le spiegazioni si era sommariamente disinteressato alla cosa e ne guardava indolentemente gli sviluppi dal tetto.
La ragazza fissava il nonno con lo sguardo piú accusatorio che fosse riuscita a trovare. “Spiega come si fa.”
“Come, hai fatto tutte queste storie…” cominciò il vecchio. Cori lo interruppe alzandosi e afferrandogli il polso. “Spiega. Come. Si. Fa. Punto.” Rispose categorica per poi lasciarlo. Lo sguardo dell’uomo si incupì. “Ti farò allenare con questo varco giá fatto. Io lo terrò aperto e tu proverai ad evocare quel potere”
“Fammelo riprovare” gli chiese Cori porgendogli la mano, atona. Dentro di se, si stava preparando a registrare quelle stesse sensazioni e provava a processarle per capire come fare ad evocarlo da sola. L’ex-marinaio le prese la mano ed evocò di nuovo il potere. Di nuovo, l’esperienza la schiacciò, ma non riuscì a trovare il famoso bandolo della matassa. Il potere si sciolse, ma lei ancora non ci aveva capito niente.
Strinse forte gli occhi, cercando di riportare a galla quella strana sostanza. Da quel poco che aveva sentito, era sicura di averla percepita emergere sulla sua pelle come da grosse bolle ulcerose. Tentò e ritentò, ma niente.
“Niente, non ci riesco” sospirò.
“È perché non gli dai il comando giusto. È una cosa genetica, come arricciare la lingua. Se non dai il comando giusto al tuo corpo, non si attiverà mai” le spiegò il vecchio.
“Mmm, grandioso. E come faccio a capire qual è il comando giusto?” chiese.
“Non lo so. Il corpo è il tuo.”
“Sei veramente di grande aiuto”
“Facciamo cosí. Io ti attivo il potere, tu ti eserciti a mantenerlo e ad usarlo per tutta la mattinata, ok? Poi questo pomeriggio ti faccio provare il varco” le disse. Cori sospirò.
“Se è proprio necessario”
La mano calò sulla spalla e tutto divenne di nuovo buio. Solo dopo Cori pensò che non sapeva disattivarlo, ma ora era troppo tardi. Mantenerlo, adesso che la mano del nonno si era staccata, non era difficile. Anzi. Quella sostanza tendeva ad appiccicarsi fastidiosamente alla pelle, come il petrolio alle ali di un pennuto. Incapace al momento di mettere un passo dietro l’altro, provò (piú per abitudine che per altro) a strofinarsi la faccia. Ovviamente non sentì niente, ma percepì la resistenza della testa contro le mani. A memoria, si girò verso gli alberi di fondo e si sedette, cercando di spegnere l’interruttore di quel bizzarro potere.
Dopo due ore di silenzio e cecità più che assoluta, quel posto cominciava a starle davvero stretto. Aveva camminato alla cieca in lungo ed in largo, su e giù, a destra ed a sinistra, in ogni luogo dove le testate contro i vari oggetti del giardino le permettessero di andare. Era abbastanza sicura, per il divertimento di Zoro che la stava sicuramente osservando (come poteva perdersi un momento tanto esilarante della sua vita?), di essere andata a sbattere per lo meno tre volte contro il dondolo, due contro il recinto ed una decina contro alberi e sterpaglie. E non riusciva a venirne fuori. Di aria sembrava ce ne fosse a sufficienza, ma dopo così tanto tempo cominciava a soffocare. Le sembrava addirittura di avere le febbre, anche se non poteva averne la certezza. Non ce la faceva piú. Era una situazione da incubo.
 
Zoro, dalla sua comoda postazione soprelevata aveva osservato la ragazzina (anche se adesso superava i due metri) e si era fatto grasse risate ad ogni botta che dava. Alla fine quella si era seduta e non si era piú rialzata, togliendogli il divertimento di vederla sbattere come una falena impazzita lungo tutto il giardino. Doveva ammettere che aveva avuto fegato ad aver voluto provare di nuovo quell’esperienza. Non era di sicuro da tutti resistere per due ore in quelle condizioni. Egli stesso ci avrebbe pensato due volte.
 
Il nonno tornò verso l’ora di pranzo a liberarla da quella immane tortura, e lei stava giá pensando di fracassarsi la testa contro qualcosa pur di attirare l'attenzione su di se e farsi liberare. Le posò di nuovo la mano sulla spalla e la sostanza si riassorbì all’interno del suo corpo. Morire di caldo non era mai stato così bello, e lei non si era mai sentita così viva. Zoro la osservò. Era febbricitante, la pelle era rossa e lucida e ansimava come se avesse corso per miglia, gli occhi sbarrati. L’ex-marinaio l'aiutò a rialzarsi.
“La febbre è normale, passerà nel giro di due ore. Il tuo corpo ha reagito alla mancanza di calore” le disse facendola sedere, esausta. “Ragazzi, oggi pic nic!”
Zoro saltò giù dal tetto.
Cori temeva le sue prese in giro. Non le andava di ascoltare le sue frecciatine caustiche.
“Allora? Come sono andata?” chiese Cori piú per spezzare il silenzio che per altro. “Non sono stata capace di evocarlo come di disattivarlo, non sono stata un granché”
“Per essere una frana, sei andata piuttosto bene.” Le sorrise Zoro.
Il fracasso di stoviglie cadute a terra interruppe quella che stava diventando una conversazione imbarazzante. I due accorsero. Steso bocconi fra le pentole in soggiorno, il vecchierel canuto e bianco gemeva leggermente con la bocca aperta.
“Nonno! Che hai? Che ti succede?” chiese Cori, ancora frastornata per la febbre. Con delicatezza afferrò il vecchio sotto le ascelle e lo portò sulla poltrona. Zoro si guardò intorno, temendo forse un attacco a sorpresa. Cori nel frattempo era corsa in cucina e adesso tentava di rianimare l’uomo con un bicchiere d’acqua. Quello gemette ancora, svegliandosi.
“Cori, non ti preoccupare, non è niente…” mugugnò l’uomo stringendo le labbra e alzandosi con l’aiuto di un bastone
“Come non è niente? Sei svenuto!” gli si oppose la nipote.
“Mi sembra di averti detto cosa sta succedendo o sbaglio? Smettila di andare in escandescenza” rispose l’anziano riafferrando il cestino del pranzo che era miracolosamente riuscito a salvare. Zoro con una sola occhiata si decise e se ne fece carico, lasciando la nipote ad assistere il nonno fino al giardino sul retro. Il pranzo venne consumato nel silenzio piú totale, mentre Cori rimuginava sul fatto, sentendosi fra le altre cose perfettamente inutile. Poi il vecchio si alzò e le disse che era il momento di riprovare ancora, che avrebbe aperto il varco per lei e lei ci sarebbe dovuta passare attraverso. Questa volta andò molto meglio. L’anziano uomo si era trasformato e aveva creato il varco, ostruendolo con la sua massa nera perché non facesse danni, e aveva anche attivato il potere di Cori che, sebbene ancora febbricitante, era decisa a finire quella cosa il prima possibile. A tentoni trovò il varco, chiuso dalla massa del nonno. Ci infilò un braccio all’interno, e all’improvviso la sua massa si espanse naturalmente, occupando tutta l’apertura. Una forza incredibile l’attirava dall’altra parte. Appena vi fu passata attraverso, questa si richiuse e lei venne sputata con forza dall’altra parte senza colpo ferire.  O meglio,  il colpo c’era stato, e pure bello forte, quando una volta sputata fuori si accorse di non saper frenare.
Il nonno le insegnò la differenza tra tunnel universale e multiversale , facendole sentire da vicino l’immensa energia scaturita dal warmhole in salotto, totalmente differente dal misero risucchio dell’altro. Poi tornarono in giardino e continuò a farle fare pratica con gli atterraggi, mentre Zoro si allenava ignorato da tutti. Non vedeva l’ora che quella storia avesse fine.
 
A sera, Cori era esausta, distrutta, stanchissima. Stesa sull’erba fresca, si consolò pensando che per lo meno aveva imparato a trovare da sola l’uscita dai varchi (le distanze erano diverse nel tunnel, e ci si era dovuta abituare. Più la meta era lontana, piú era veloce il passaggio), anche se era inutile se non avevi punti di riferimento, e aveva imparato a frenare. Non sapeva ancora trovare le entrate però, e non era mai riuscita ad evocare il potere da sola.
 
Dei passi si avvicinarono dalle fratte. Cori stava per chiamare Zoro, quando si rese conto che i passi non erano i suoi, e nemmeno quelli del nonno. Subito rotolò e si rimise in piedi.

“Tu?”
 
 
 
 
 
 
 
 
*Zoro ha solo un anno più di Cori perchè essendo la storia ambientata dopo la saga di Thriller Bark, Zoro ha ancora diciannove anni se non sbaglio.
Ok, questo è ufficialmente uno dei capitoli piú faticosi che io abbia mai scritto. Ho la seria impressione che il mio Zoro sia un po’ OOC. Troppo taciturno, inattivo… prometto che cambierà dai prossimi capitoli. A parte questo, che ve ne pare? Siamo solo all’inizio di una lunga epopea, miei cari lettori. Chi sará mai il Personaggio Misterioso di questo capitolo? Che ve ne pare delle capacità di Cori?  Ho descritto bene i momenti? Le critiche sono molto ben accette! Per chi ha letto o visto Bleach, il titolo sará piú che chiaro. Distrutta da caldo ed esami, la vostra
                                                       Hikari_Sengoku


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Capitolo 8
*** Universi tangenti ***


Universi tangenti

Zoro stava rilassandosi dopo una lunga seduta intensiva di allenamento, osservava dalle vetrate di quella palestra dall’odore muffito di vecchio la ragazzina stendersi esausta sull’erba fresca. Aveva tutta l’aria di un naufrago febbricitante. Fino a pochi minuti prima anche il vecchio era lí, tenacemente deciso ad insegnarle quel che sapeva, ma Cori sembrava essere una pessima allieva, tanto che calato il sole l’ex-marinaio era rientrato sospirando, borbottando qualcosa su una frittata…

D’improvviso, un’ombra emerse dietro i rovi di more. Zoro mise subito mano alle katane, ma il rumore secco del portone che veniva sbattuto sulla parete lo convinse invece a raggiungere l’ingresso, dove un uomo alto quanto il vecchio lo attendeva sulla soglia. Aveva lunghi capelli argentei raccolti in una coda bassa e due taglienti occhi castani, allungati e sfuggenti. Camicia a righe e pantaloni alla pescatora beige, intorno al polso sottile teneva un braccialetto con una piastra verdastra, alle spalle una sacca. Era pallidissimo, il volto scavato ma privo di rughe marcate.
“Claw” salutò atono.
“Raven” Ricambiò l’altro. La tensione era palpabile.
“Non credo che questo nome abbia mai avuto molto senso, non credi?”
“Non credo che tu stia qui per chiacchierare”
“No, infatti. Sono qui per tua nipote”
“Sei venuto troppo presto. Non è ancora matura”
“Non insultare la tua intelligenza, Claw. So perfettamente ciò che quella ragazzina sa e non sa. E so che per adesso non può scappare. Perciò tu aprirai il portale, lei mi porterà dall’altra parte e nessuno si farà troppo male”
“Quello che si farà male sarai tu, se non la smetti di dire stronzate” si intromise Zoro piazzandosi a katane sguainate di fronte alla reincarnazione dei fantasmi di Perona, che prontamente si sganciò il braccialetto. Una serie di ombre scure fiorirono sulla pelle nivea dell’uomo, condensandosi sulle dita. Una smorfia guastò la sua espressione serafica.
“Ombredolore” sussurrò Claw senza fare in tempo ad avvertire Zoro, che attaccò l’uomo con un Onigiri in piena regola. Il ragazzo non si aspettava di certo che Raven gli sfuggisse con il Soru e piazzandoglisi di fianco, gli poggiasse una mano sul collo. Una scarica di dolore si diffuse nel corpo dello spadaccino. Il suo corpo si ricoprì di ombre e nervature nere, costringendolo in ginocchio, ma senza un grido.
“Pecchi di superbia, ragazzo” ghignò Raven.
“Un frutto del diavolo” espirò Zoro digrignando i denti. Il dolore era insopportabile.
“Itami itami no mi, per la precisione. Ringrazia che mi servi per tornare a casa, se no saresti giá morto. E ora sta a cuccia.” Gli impose con una sonora seconda sberla sul collo. Zoro si piegò, mentre le ombre lentamente cominciavano a scivolare sul suo corpo per tornare su quello del legittimo proprietario. Poggiato contro la katana infilzata per terra, riprese fiato per quel po’ di tempo che gli servì a pensare che Cori lì fuori non era sola.

Raven prese qualcosa dalla sacca. Claw nel frattempo non era rimasto a guardare. Si era autoinflitto una ferita sulla mano e si era impiastricciato le mani col sangue per un motivo a lui sconosciuto. Nascosto dietro il tavolo rovesciato, il vecchio tentava una resistenza disperata all’assedio. Raven teneva in mano una pistola dalla bocca svasata, e minacciava l’ex-marinaio, che evidentemente non sarebbe durato a lungo.

Zoro si rialzò in piedi. Ora che sapeva ciò di cui quel tizio era capace non si sarebbe più fatto giocare come un ragazzino.

“Shishi Sonson” Zoro menò il fendente sfruttando stavolta piú accortezza per non farsi sfuggire la preda o farsi toccare, ma anche stavolta Raven svicolò. Una lunga striscia rossa colorò le vesti squarciate dalla clavicola fino giù agli addominali. L’uomo arretrò, tentando allo stesso tempo di afferrarlo. Zoro a sua volta indietreggiò, parando i colpi con le katane. Con un secondo fendente lo colpì di taglio di nuovo diagonalmente sull’addome, ma l’altro ne approfittò per afferrargli il polso. Una seconda scarica di dolore invase i pensieri dello spadaccino. L’uomo ne approfittò per sparare, pochi secondi prima che la mano gli venisse tranciata di netto da un fendente ad aria compressa. Fendente che però non fermò l’ago proiettile, che colpì in pieno la vena femorale di Claw. Nel giro di pochi secondi, tante piccole luci si diffusero lungo il sistema sanguigno del vecchio, che cadde rovinosamente dietro la barriera improvvisata. Zoro nel frattempo, liberatosi della dolorosa stretta, aveva costretto Raven in un angolo. Fu in quel momento che un bestione enorme irruppe nella sala, trascinandosi appresso il corpo esanime di un ragazzo e Cori, completamente inerte nonostante gli occhi fossero vigili.



“Tu?”
“Chi ti aspettavi, piccola puttanella? Il tuo bel spadaccino? Te lo dico fin da subito, non verrá” la freddò Gabriele, emergendo dalle fratte con le mani ben piantate nelle tasche dei pantaloni bracaloni.
“Cosa vuoi, bestiaccia?” mugugnò annoiata. “Lo so, che sei il figlio di quel pazzoide. Cosa sei venuto a fare qui?”
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. “Non voglio andare nell’altro universo. Hai due possibilità. O mi assecondi con le buone, e io ti faccio scappare, oppure lo fai con le cattive. Devo spiegarmi?”
Cori ghignò. “Sembri la parodia di un vecchio film sulla mafia. Te lo puoi scordare. Io non scappo, ne tantomeno crepo perché tu me lo ordini”
“Senti, io non ti sopporto come tu non sopporti me, ma ora devi ascoltarmi. Ti do la possibilità di fuggire da tutto questo. L’unica cosa che devi fare è accettare” disse avanzando.
“Mi dispiace” rispose cortesemente Cori, “ma non abbandonerò gli altri” “Ok, per me non è un problema. Sparisci” scandì l’altro puntandole contro una pistola e sparando. Il rinculo spostò la traiettoria, e giusto per un pelo Cori riuscì a schivare il proiettile. Un secondo colpo le sfiorò la tempia, insieme ad un ago tra le scapole. Dietro le spalle di Gabriele, un enorme essere lo tramortì con le sue enormi manone, giusto in tempo per vederla crollare faccia terra, inerme ed impossibilitata a muoversi.





Entrambi i ragazzi vennero gettati come sacchi di patate nei pressi nel corpo scosso da spasmi del vecchio. Dopo poco, le luci avevano invaso totalmente il corpo. Claw urlò, finché la sostanza nera che lui stesso aveva creato non lo inghiottì. Il forte risucchio del warmhole, nonostante fosse ostruito dalla massa espansa del nonno, destabilizzò gran parte dei presenti. Il bestione, un omone alto piú di due metri con un ridicolo pizzetto e dalle spalle grosse come cocomeri, si rivelò più intelligente del previsto, perché invece di attaccare Zoro a testa bassa afferrò con mala grazia la ragazza e stringendola a se le puntò un pugnale alla gola. Cori, ancora inebetita dalla neurotossina, faceva fatica a tenersi in piedi. Zoro era certo di poterla liberare, ma non aveva fatto i conti con Raven, che dal suo angolo sibilò un avvertimento, stringendosi al petto il moncone: “È inutile che pensi a come salvarla. Nel momento in cui Claw morirà il portale rimarrà aperto e risucchierà tutto. Se ci lasci fare, potrai tornare a casa tua. Se no, sarai destinato a morire qui, con noi. Cosa scegli?” ghignò retorico il bastardo. Zoro ringhiò. Non aveva la più pallida idea di cosa fare.
Raven non aspettò la sua risposta e parlò direttamente alla ragazza: “Tu porterai a casa me, questo bravo ragazzo e mio figlio, che tu lo voglia o no” ed ordinò al bestione di far toccare nonno e nipote. Cori riuscì a scivolare a terra e spingere via il corpo di Gabriele, ma il bestio la riprese subito. Con un ultimo calcio, Gabriele rotolò gemendo alla finestra, che spalancò. Raven e l’energumeno lo ignorarono, convinti che dovesse rimettere. Cori riuscí a guadagnare il tempo necessario per vedere Gregorio irrompere nella scena con tanto di ascia, prima di cadere nel buio profondo. In piedi, immobile di fronte alla immensa forza del warmhole, attendeva qualche segno divino che le dicesse cosa fare, perché al momento era totalmente impotente e per metà preda del panico. Pochi minuti dopo, qualcuno la caricava con uno zaino e le stringeva la spalla, spingendola dentro il buco nero.


Fu un viaggio breve e turbolento. La forza che il buco nero esercitava era immensa, e la attirò senza via di scampo. Un sottile raggio verdeazzurro era l’unica guida, quasi una linea magnetica che la attraeva da qualche parte. All'improvviso la forza si ridusse sensibilmente, fino ad invertirsi di senso e sputarla fuori. Cori tentò una frenata di emergenza, ma era veramente troppo forte per lei, che era a dir poco sfinita. Ancora ad una velocitá imponderabile, il rivestimento nero si sciolse, permettendole di vedere una vasta distesa di acqua marina, con una minuscola torre in mezzo che si avvicinava sempre di più. Stava precipitando. Stava precipitando! Nel mezzo del mare! Con la coda dell’occhio, vide Zoro fluttuare – o meglio precipitare – al suo fianco. Dall’altra parte, Gabriele piagnucolava come un vitello. Di sicuro non era quello il problema più grosso. Stavano precipitando. Senza paracadute, perché frugando ai lati dello zaino non aveva trovato leve! Si sarebbero sfracellati sull’acqua, dura come il marmo!
All’improvviso, un urlo belluino li raggiunse dalla piattaforma sospesa, un “Oooooohiiiiii!”, seguito da lunghe propaggini color carne. Le dita di Rufy, intrecciate. Zoro fu il primo a capire, girandosi di spalle e lasciandosi affondare nella rete di dita. Gabriele lo seguì e Cori ci provò. L’impatto fu meno traumatico del previsto. La rete di gomma accompagnò e frenò lentamente la caduta, impedendo al loro collo di spezzarsi. Zoro e Gabriele finirono per penzolare oltre il bordo della piattaforma, mentre lei venne lanciata ancora a velocitá considerevole dritta nella piscina. Battè la testa e per un po’ perse conoscenza. Quando riaprì gli occhi, un braccio muscoloso la tirava su, buttandola oltre il bordo. Stesa sul bordo piscina, con la testa che pulsava, vide il tremolio dell’aria intorno al varco svanire. Presa dal panico, provò ad alzarsi, ma non ci riuscì. Tutta la visuale girava come una trottola, era tutto cosí appannato…

“ohi stupido marimo, ti sei perso di nuovo?” gli berciò Sanji dal bordo piscina, fradicio per essersi immerso per recuperare Cori, stesa sul bordo piscina con una vistosa ferita sulla testa, ma (ed era proprio il caso di dirlo, fortunatamente) perlopiù illesa. La ragazzina si agitava e si contorceva, preda della disperazione, finché distrutta non si immobilizzò semicosciente, giusto in tempo per farsi lanciare da Zoro dritto in spalla a Franky diretto alla nave. Stavano fuggendo dalla torre crollante a causa di uno scontro.
“Portala sulla nave” mugugnò il ragazzo prima di lanciarsi all’attacco di un nemico sul luogo che aveva abbandonato giorni prima.
“Certo, fratello!” gli sorrise il cyborg correndo giú alla nave, sballottandola come un sacco di patate. Cominciava ad averne le tasche piene di essere sballottata ovunque da energumeni diversamente intenzionati, pensò mentre veniva depositata sotto l’albero maestro, dove rimase immobile e svenne.



Una luce, troppo brillante per essere ignorata, filtrò tra le palpebre chiuse, scaldandole. Il lieve pulsare alla testa la svegliò del tutto. Col dorso della mano sulla fronte, troppo stanca per spostarlo, o forse solo non aveva la forza morale di rimettersi a posto la spalla lussata per l’abbandono, osservò le pareti di legno dell’infermeria, sentì le bende sulla sua testa.
Profumavano di fresco. Non doveva essere passato molto tempo da quando si era fatta la ferita. Ai suoi piedi, il suo zaino da campeggio blu la aspettava immobile. Che cazzo ci faceva lì? Aveva visto il varco scomparire, senza l’ombra di suo nonno o di quello spostato di Raven. C’era solo quel fottuto imbecille di Gabriele, che con tutta la sua ingombrante tracotanza non era riuscito nemmeno a togliersi dalle palle. Anzi, ora che ci pensava, non c’era più neanche lui. E lei era bloccata in quel cavolo di universo, e non c’era modo di tornare a casa, dalla sua famiglia, e suo nonno con tutta probabilità era morto e lei non poteva farci niente, niente! Lontana dai suoi genitori, da Gregorio, e da ogni possibilità di ritrovare suo fratello, lontana da ogni rimasuglio di rapporto sociale! Non c’era neanche Angelo, o i ragazzi del corso, niente! C’era solo un mucchio di piratucoli da strapazzo che con tutta probabilità l’avrebbero mollata sulla prossima isola, sola come un cane bastardo, data la sua manifesta inutilità. Chiusa in quella stanza oscillante nel vuoto, con lo sguardo perso tra due nodi del legno, Cori si disperò, torturandosi con altri mille pensieri. Non aveva nemmeno preso il diploma. Si rimise a posto la spalla con uno schiocco doloroso, e mordendo il polso con tutta la forza che aveva, strillò, stringendo le lenzuola fra le dita, e pianse, tirando calci al materasso, tentando di sovrastare con altro dolore il dolore di aver perso tutto, ogni singola cosa o persona a cui avesse tenuto oltre quello zaino. Pianse e strillò, morse e picchiò per quelle che le sembrarono ore, soffocando singhiozzi e urla nella sua carne, martoriata e sanguinante. In silenzio, tra le lacrime, si lasciò soffocare dalla nostalgia. Con la gola ingolfata di muco, mugugnò tra le labbra, le parole di quella vecchia canzone che in qualche modo riusciva ad esprimere lei in quei momenti – quelli che Ottavio anni prima chiamava scherzosamente “momenti di depressione acuta”, che di solito duravano due tre mesi. Ne aveva avuti solo due veramente brutti (e nonostante fossero brutti erano ben lontani dalla depressione vera e propria), uno a nove anni e uno poco tempo prima che cominciasse tutto quel casino.

I’m so tired of being here

Suppressed by all my childish fears…


La cantò tutta, poi rovistando nella tasca superiore dello zaino trovò l’MP3, che fissò a ripetizione su My Immortal al massimo volume, ficcandoselo nelle orecchie nel tentativo di soffocare i pensieri. Cullata dalla musica, si addormentò.

Era uno dei suoi primi ricordi. All’epoca avrebbe avuto quattro, cinque anni forse. Emilia l’aveva accompagnata al parco, da sola perché Ottavio stava a scuola. Stava sull’altalena, quando arrivò un altro bambino ricciuto, che con la faccia cattiva la spinse giù. Cori si alzò con i pugnetti stretti ed un'espressione bellicosa. Diciamo che neanche all’epoca era tipa da stare in silenzio. Si erano tirati schiaffi e morsi. I due bambini si erano azzuffati finché le rispettive balie non erano venute a dividerli, sgridandoli per sollevarli dal pantano di polvere in cui i piccoli si rotolavano. In braccio a Emilia, con le ciocche rosse della donna strette nei pugnetti rosacei, aveva visto il bambino allontanarsi con un signore dai capelli d’argento rigati di castano. Era il primo ricordo che aveva di Gabriele.

Era piú grande, aveva sette anni. Sdraiati sul cornicione, Cori e suo fratello lasciavano penzolare i piedi nel vuoto, l’una aggrappata all’altro, fissavano il cielo nel tepore soporifero del pomeriggio estivo. Emilia gridava in giardino, cercandoli, ma i due la ignorano e restarono cosí, a dormicchiare al sole. Ottavio amava fare foto insignificanti alle piccole cose, gli piaceva mettere a fuoco. Prima una formichina, poi una graziosa erbaccia, alla fine lei, che per tutta risposta gli fregò la macchinetta e gli diede le spalle. I capelli di entrambi, ricci, lunghi, di quel caldo colore castano, si mescolarono sul cemento del terrazzo in un groviglio confuso di ricordi…

Era una calda giornata di settembre. Dopo piú di un anno di ricerche inconcludenti, Ottavio era stato dichiarato morto. La sedicenne Cori piangeva sulla lapide del fratello. Dietro di lei, suo padre stringeva fra le braccia convulse sua madre, che urlava la sua disperazione. La treccia castana sconvolta al vento e le urla ricordava di lei. Suo padre, incrinato nella sua stoica fortezza, si lasciava trasportare a sordi singhiozzi silenziosi, rivelati dal ritmico movimento delle larghe spalle. Il sole cocente ardeva la pelle riarsa, il terreno brullo, le sorde, inutili speranze. L'ariditá sulle labbra sussurrava lacrime asciutte. In ginocchio sulla tomba, una sorella piangeva il fratello, aggrappandosi a quei ricordi lontani…

Il Maestro era lí, ad aspettarla, nella palestra che aveva abbandonato due mesi prima. Arcigno, infuriato, l’aveva aggredita con forza. Dopo neanche due minuti si rotolavano a terra in una lotta molto meno disciplinata, ma di sicuro molto piú soddisfacente. Pugni, calci e morsi si susseguivano in un ritmo violento. Quando finí, Cori stesa sul tatami aveva una costola incrinata, la mascella e la spalla slogata e diversi lividi un po’ ovunque, ma per la prima volta sorrideva. Amava combattere, niente da fare. Non passò giorno da allora che Cori non si allenasse…

Greg era stato, a suo tempo, il capo di una banda di monellacci, a detta del vecchio Silas, e ogni tanto quella antica eredità ricicciava fuori come le erbacce che puntualmente estirpava. Nei giorni più afosi dell’estate romana, un’ imprecazione rada volava fra le fronde del parco, svegliando Cori sonnecchiante sul prato. Non saliva piú sul cornicione da tempo. Sorrise pensando al povero Greg, costretto a lavorare con quel caldo umido, tremendo, irrespirabile. Ondeggiando nell’aria incandescente, la figura controluce di Greg la sovrastava, facendole ombra. “Battiamo la fiacca?”




Quando si svegliò di nuovo, aveva il polso fasciato, e la benda sulla fronte era stata cambiata, anche se latente nell’aria si percepiva il puzzo della ferita in suppurazione sotto le bende.
“Ben svegliata. Ti chiami Cori, vero?” la bizzarra voce di Chopper la svegliò del tutto. Annuì, fissando la renna umanoide.
“Riesci ad alzarti?” le chiese titubante.
Cori suo malgrado sorrise. “Certo”
“Hai avuto solo un lieve trauma cranico, niente di preoccupante. Gli altri vorrebbero conoscerti, quindi appena te la senti puoi venire da noi”
“Volentieri, grazie” sospirò flebile mentre la porta si richiudeva. La ragazza si guardò allo specchio. Portava ancora il pigiama di quella mattina, e aveva i capelli più scarmigliati di sempre. Per il resto, era passabile, se non fosse stato per l’aria da morto vivente. Frugando nello zaino scoprì qualche cambio che buttò sul letto per analizzarlo in seguito, il necessaire per lavarsi, una torcia, la spiritiera, alcool, sacco a pelo, stuoino, poncho, coprizaino impermeabile, coltello a serramanico e coltellino svizzero, più un altro milione di piccole cose utili, come cordini, quaderni, penne e tanto altro. Quello zaino era una miniera d’oro, ma si sarebbe riservata il piacere di esaminarlo a fondo piú tardi. Infilò jeans, canotta ed il suo amatissimo chiodo di pelle, poi si stampò un sorriso e uscì, con il proposito di essere solare e positiva.



















Scusate l’immenso ritardo, ma ho avuto un po’da fare ultimamente. Spero che il classico risvolto della situazione non abbia deluso nessuno. Fatemi sapere cosa ve ne pare, soprattutto della scarna discussione fra Gab e Cori e di Zoro, che non ho idea di come sia venuto! Alla prossima,
Hikari_Sengoku


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Capitolo 9
*** Le figlie di Ohara ***


Le figlie di Ohara
 
Ferma davanti alla porta, col pugno sospeso per bussare, Cori si chiese per quale cavolo di motivo esitava. Doveva solo parlargli! Neanche fosse poi così difficile, da quello che finora aveva visto. Attraverso la porta, gli schiamazzi arrivavano fortissimi, totalmente ignari della sua presenza. Almeno sperava. Di passare per un’imbecille che sta ore fuori da una porta proprio non le andava, così alla fine si decise e…
La porta le arrivò in faccia, BAM! Dritta sul naso. Ad aprire (con una certa violenza tra l’altro) quella diavoleria di legno e vetro della cucina altri non era stato che uno dei più molesti, anzi il più molesto degli abitanti di quella nave, ovvero il capitano in persona. Con una mano sul naso sanguinante, Cori ricevette il baldanzoso “Oh, ciao, non ti avevo visto!” di Rufy, seguito dal cazzotto di Nami per il medesimo e dalla sollecitudine di Sanji e Chopper:
“Ti sei fatta male?”
“Fai vedere!”
A cui Cori rispose con un bassissimo e velocissimo sussurro di scuse: “Non è niente, mi esce spesso sangue dal naso, d’estate quasi ogni giorno, ormai non ci faccio più caso!”, cercando di bloccare il sangue con le dita. Per lei Sanji non si era sprecato in svenevoli complimenti, e la cosa era quasi un sollievo.
“Non sei l’unica” borbottò ironico Zoro, “vero, stupido cuoco?”
“Ce l’hai con me, marimo di merda?” Fu l’inizio di un lungo battibecco a suon di calci, pugni ed insulti di dubbio effetto.
“Perdonali, entra. Stavamo giusto per cominciare a cenare, giusto Sanji?” si intromise la roscia con un sorriso gentile.
“Certo, Mia Dea! Provvedo subito!” si alzò subito il biondo, mettendo fine alla rissa col suo tornado di cuoricini. Cori rimase a dir poco estasiata. Poi, dato che era rimasta imbambolata, fu tirata dentro da Nami stessa.
“Ti assomiglia un sacco, Brook!” disse Usopp.
“Yohohoho, è proprio vero!” rispose il diretto interessato.
“Sei la fidanzata di Zoro?” le chiese innocentemente Rufy. Lui e la sua innocenza del cavolo!
“No” categorico corale di entrambi.
“Siediti con noi, non mordiamo mica.” La invitò gentilmente Robin. “Almeno non tutti” concludendo con una delle sue lugubri frasi fuori luogo. Cori si accomodò in un angioletto della stanza, cercando di non farsi vedere, ma era un’impresa quasi impossibile.
“Allora, raccontaci un po’ di te” chiese Nami mentre Sanji serviva (rigorosamente prima le donne, e con molta più galanteria) un piatto stupendo, un tripudio di gamberi e piccoli pesci dall’aria gustosa. E poi servì la carne arrosto ai cani, meglio detti i restanti componenti maschili meno civilizzati della ciurma.
“Non c’è molto da dire. Mio nonno veniva da questo universo, e credo che Zoro vi abbia raccontato a grandi linee quello che è successo. Avevo un fratello, ho tuttora i miei genitori nell’altro universo e sono cintura marrone di judo. Stavo per fare la maturità, anche se dubito che qualcuno sappia cosa significhi qui” raccontò velocissimamente, e le domande arrivarono fin da subito.
“Perché dici che avevi un fratello?” chiese il cyborg.
“Fammi vedere quello che sai fare!” la sfidò Rufy.
“Cosa significa maturità?” chiese con la sua vocina sottile Chopper.
“Potresti spiegare meglio questo concetto degli altri universi?” domandò Robin tranquilla.
“Signorina, potrebbe mostrarmi le sue mutande?” questo credo si possa immaginare chi lo chieda.
“CHE CAVOLO C’ENTRA?” urlò Nami.
Cori, assalita dalle domande, rispose una alla volta: “Mio fratello è morto tre anni fa, d’accordo Rufy quando vuoi, ma non ti aspettare gran che, la maturità è un’esame che si fa alla fine di un corso di studi, se vuoi dopo te lo spiego Robin, ma non ti aspettare chissá che spiegazione, NO nel modo più assoluto” sperava di essersi salvata in questo modo. Quanto si sbagliava. Franky era partito per la tangente con la sua chitarra e due grossi lacrimoni. Rufy le aveva proposto di farlo subito, fermato di nuovo da Nami, Chopper si era imbambolato pensando a chissà cosa. Robin, sollievo delle sue orecchie, era l’unica ad aver accettato con un sobrio “Certamente. Se dopo ti va, ti aspetto in biblioteca”. Tutto quel chiasso era frastornante, ma dopo un po’ ci si abituava, e diventava piacevole lasciarsi andare alle chiacchiere fra una meravigliosa portata e l’altra. Nel frattempo la gozzoviglia era degenerata e si era spostata sul ponte, trascinando con se barili di sakè e birra. Nel giro di poche ore, Cori era stata coinvolta in un allegro vortice di euforia collettiva. Zoro festeggiava il ritorno sulla nave con litri e litri di sakè, Nami lo seguiva, Rufy volava da una parte all’altra della nave, tra trinchetto e albero maestro, con gli stecchini nel naso, trascinandosi dietro Usopp, Chopper e Franky, con il suo “Suuuuuuper!”. Robin sorseggiava un bicchiere di vino rosso, galantemente assistita da Sanji, mentre Brook suonava a tutta andata “Il sakè di Binks”.
Cori, per quanto apprezzasse la cosa, si sentiva un po' estranea, e non era esattamente dell’umore giusto. Non riusciva a godersela. Per niente. Mentre gli altri si dedicavano alle loro faccende, Cori raccattava stoviglie in giro, le portava nell’acquaio, buttava bottiglie vuote… non era per niente dell’umore. Era depressa, triste e sconsolata. Non le andava di festeggiare, aveva bisogno di rendersi utile. Così, mentre la festa verso le due di mattino cominciava a scemare, lei risistemava tutto. Zoro si era addormentato in un angolo con Chopper steso addosso come un peluche. Sanji lavava i piatti nell’acquaio, Robin si era giá ritirata da una mezzoretta in biblioteca, Usopp e Rufy a ritmo si trascinavano dormendo verso la stiva, o più probabilmente verso la cucina. Franky e Brook erano gli unici a canticchiare sottovoce le melodie del violino, mezzo addormentati anche loro. Nami era quasi caduta con la testa nel fuoco. Con delicatezza, per non svegliarla, la scostò dal fuoco e la prese in braccio. Pesava meno di quanto immaginasse. La ragazza ubriaca le saltò di slancio al collo, ma Cori riuscì a mantenere l’equilibrio finché con la stessa delicatezza non la scaricò a letto. Tornò sul ponte e fece lo stesso con Chopper raccogliendolo dalle ginocchia di Zoro, mentre  biascicava qualcosa a proposito di Rufy con gli stecchini nel naso… La renna era tenerissima, e sicuramente piú leggera della navigatrice, senza offesa! Stava giá tornando sul ponte quando tutta una serie di mani fiorirono dal terreno, lasciando scivolare i corpi dei compagni nelle rispettive stanze. Una di quelle appendici la invitò a salire su, dove vide in controluce la figura di Robin risaltare contro le finestre della biblioteca. Con il sottofondo dell’acciottolio dei piatti di Sanji, l’unico ancora effettivamente sveglio a livello del ponte della nave, salì fino in biblioteca, dove c’era Nico Robin ad attenderla.
“Ho pensato che ti sarebbe piaciuto fare due chiacchiere in tranquillità” esordì la mora dal lungo divano circolare.
“Riguardo cosa?” chiese Cori saltando i convenevoli.
“Soprattutto riguardo il modo in cui sei arrivata qui. In quel punto il racconto di Zoro era piuttosto lacunoso. Non mi dispiacerebbe nemmeno sapere qualcosa di più su di te” rispose la formosa donna, indagando con buona grazia nelle sue intenzioni e sulle sue capacità. Immaginò che lei in quel momento stesse facendo la parte responsabile del gruppo, indagando su di un’estranea potenzialmente pericolosa a bordo.
“Non ne ho un’idea precisa, in realtà. Mio nonno, che è colui che ha inventato questa tecnica, non mi ha spiegato come funziona. Dovresti provare a considerare l’esistenza di più universi rispetto al tuo. Io posso viaggiarci attraverso con questa tecnica. Purtroppo, io da sola non sono in grado di riprodurla per adesso, mio nonno l’ha sempre attivata per me, e non so se sarò mai in grado di farlo. Quando è attiva, perdo ogni capacità sensoriale.” Tentò di spiegare, incespicando nelle parole.
“Oh. Chi era tuo nonno, Cori? ” cambiò discorso l’archeologa con un sorriso gentile.
“Era uno studioso. Veniva da Ohara” Rispose la ragazza, conscia dell’importanza che questa informazione aveva per Robin.
“Ti ha insegnato a tradurre i Poigne Griffe?” le chiese infatti la donna, che tuttavia manteneva la sua invidiabile calma.
“No. In realtà ho scoperto questa cosa nemmeno una settimana fa” mugugnò girando lo sguardo.
Passarono le restanti ore prima dell’alba a scambiarsi cortesemente informazioni dei rispettivi luoghi d’origine davanti ad una calda tazza di thè, che Sanji aveva portato loro prima di coricarsi.
 
 
 
 
“C’è qualcosa a poppa, Rufy vieni a vedere!” urlò Usopp sporgendosi dal bordo della nave.
Cori si trovava lì presso a rendersi utile, quindi accorse, preceduta da Rufy stesso. Sul pelo dell’acqua galleggiava una massa blu elettrico. Rufy allungò il braccio e la prese, portandola su.
“Ahia, punge!” protestò lasciandola cadere. Assomigliava ad un fico d’india, ma era chiaramente un frutto del diavolo .“È un frutto del diavolo”
“Robin saprà sicuramente dirci cos’è” sorrise Rufy riafferrandolo e correndo sul ponte.
“Robin! Abbiamo trovato un frutto del diavolo!” le gridò. La donna era placidamente stesa sulla sdraio con un enorme tomo sulle ginocchia.
“Sapresti dirci cos’è?” la interrogò Usopp, mentre anche Zoro e Nami si univano all’allegra combriccola.
“Un frutto del diavolo? Chissà quanti soldi faremmo vendendolo! Dai Onee-chan, dicci cos’è!” proruppe infatti in un urlo isterico la rossa navigatrice.
“La solita tirchia capitalista” borbottarono ignorati Usopp e Zoro.
“Siete fortunati, stavo giusto consultando il catalogo” disse la mora sfogliando velocemente l’enorme libro “si chiama Itami itami no mi, e permette all’utilizzatore di procurare dolore anche fino alla morte nell’avversario. Oltre all’acqua e all’amalgatolite, ha un altro svantaggio: Il dolore viene subito cronicamente anche dall’utilizzatore del frutto” Cori trasalì. Quello era il frutto di Raven. Guardò Zoro, che annuì grave. Non aveva pensato di chiedere informazioni a Zoro riguardo la battaglia, ma sembrava fosse proprio il caso di farlo. “Zoro” lo chiamò ignorando le disquisizioni delle altre due donne sul valore di mercato del frutto. “Potresti raccontarmi cos'è successo?” Aveva paura di sentire cosa avrebbe detto Zoro, ma non per questo avrebbe deciso di ignorarlo.
“Niente di più di quanto tu non possa immaginare da sola. Raven è morto poco prima che tornassimo tutti di qua. È stato l’amico tuo a finirlo, con un colpo d’ascia dietro al collo. Poi ti ha spinto, e io e quel ragazzino imbecille ti abbiamo seguito” le rispose quasi scocciato il ragazzo dai capelli verdi.
“E il nonno?” lo interrogò Cori, ansiosa.
“Mi dispiace, ragazzina” gli rispose Zoro, mentre davanti ai suoi occhi si ripresentava l’immagine di quell’informe massa bruciata che era stata il vecchio, con gli occhi sciolti nelle orbite, i muscoli mummificati dal calore intenso tesi nell’ultimo spasimo, visibili e bruniti sotto il nero velo grasso residuo della pelle arsa, i denti digrignati e bianchi quanto le ossa del cranio per la calcinazione. Pensò di evitare alla ragazzina la pena di farle sapere che era morto dolorosamente ed in quel modo orrendo, e lei non indagò.
Cori si intristì e si allontanò, rintanandosi in infermeria. Se lo aspettava, ma era comunque triste. Si dispiaceva abbastanza, ma non era tipo da farne drammi, soprattutto conosciute le premesse. Era più tipo da tenersi tutto dentro e buttarsi in fatica e lavoro, così afferrò lo zaino e si mise a disfare quello che non aveva ancora disfatto. Nella tasca superiore, che non aveva ancora aperto, c’era il suo vecchio judoji, praticamente giallo per quanto era antico (si, antico, perché era stato di suo padre prima di lei ed era dei primi arrivati in Italia, quindi rigidissimo), il suo ferro da uncinetto, il suo quadernino con la raccolta degli anime visti e dei libri letti con le rispettive trame, un album di fotografie contenente esattamente tre foto, una Bibbia e un libretto di aforismi di Oscar Wilde (che, per inciso, lei non sopportava).
Scritto a caratteri minuti, sulla prima pagina (strappata) della Bibbia, chiaro riferimento al Tulipano nero che aveva letto di recente, una minuscola lettera la attendeva. Chi poteva, se non suo nonno, paragonarsi al vecchio Governatore della Provincia tradito dalla sua gente Cornelio de Witt, che in un ultimo slancio di generosità prima di morire tenta di salvare il nipote dalle avide grinfie del perfido antagonista Isaac Boxtel? E pensare che a lei lo stile di Dumas neanche piaceva, troppo cavalleresco, ridondante e poco attaccato alla realtà quotidiana.

Nipote mia, questo doveva essere il regalo per la tua prima comunione, ma ho preferito tenerlo per me, perché potrebbe venire il giorno in cui tu avrai molto più bisogno di questa Bibbia di oggi. Spero che quel giorno non arrivi mai, ma se dovesse arrivare, avrai bisogno di una mano pratica per superare quello che ti accadrà. Dato che con tutta probabilità sarò morto quando leggerai questa lettera, cercherò di essere il più breve possibile. Non crucciarti per me, è inutile. Conoscendoti, so che non lascerai più di poche ore alle lacrime e poi comincerai a darti da fare. Bene, comincia subito. Te lo dico fin d’ora: Tornare a casa è praticamente impossibile. Ti perderesti fra gli universi, e ti assicuro che è molto più facile finire in qualche pianeta inospitale, o nel vuoto cosmico, piuttosto che su di un pianeta abitabile. La mia è stata solo fortuna sfacciata, e se anche questa si ripresentasse, le possibilità di sopravvivere ad un atterraggio sono estremamente esigue (se stai leggendo, hai avuto veramente, con tutto rispetto, una botta di culo epica). Quindi, io ti consiglio di provare a rifarti una vita di là, proprio come ho fatto io, di trovarti nuovi sogni, nuove speranze, ma soprattutto di sopravvivere. So che il mondo di là è per certi versi più difficile di questo, ma tu queste cose le saprai. Accorgimento pratico: NON MANGIARE MAI FRUTTI DEL DIAVOLO. PER NOI SONO TOSSICI!

Cori aveva in quel momento l’espressione standard del genio della lampada in fase di shock: Piú o meno la mascella sotto le scarpe. Suo nonno aveva previsto tutto: Aveva preparato quella lettera anni prima, sicuro della possibilità di poter soccombere a Raven. Ed in più, le consigliava di arrendersi al corso degli eventi, senza nemmeno degnarsi di darle, che ne so, un libretto per le istruzioni per i suoi nuovi poteri. Aveva scelto lui per lei: Aveva deciso in anticipo che lui non poteva sopravvivere e che lei andava protetta, che era troppo debole per scegliere in quale cazzo di mondo stare, quale razza di prospettiva di vita avere (semmai lui gliene avesse attribuita una, vista la sua tendenza alle visioni apocalittiche!). Presa dalla rabbia, fu tentata di strappare la lettera, ma non lo fece. Si limitò ad eliminarla dalla sua vista, richiudendola nella Bibbia. Sfogliando le sottili pagine del Libro quasi come un’automa, cominciò a ragionare: Zoro le aveva detto che lui aveva visto morire Raven sotto i suoi occhi, finito da Greg. Che bisogno aveva il giardiniere di spingerla nel buco nero, se la minaccia era stata scampata? Una domanda destinata a rimanere insoluta, almeno per quella mattina, perché Cori abbandonò capra e cavoli sul letto e cercò di trovarsi qualcosa di meglio da fare, preda della rabbia che le faceva sbattere i piedi e le porte. Oh, insomma, mica erano morti i suoi genitori, o il suo Maestro, o il resto della gente che conosceva! Stavano semplicemente da un’altra parte, e continuavano a vivere, ed in questo caso non era nemmeno una metafora per parlare dell’aldilà, era un dato di fatto! Quindi forza e coraggio. Si ficcò le cuffiette nelle orecchie e mise la ripetizione casuale. Casuale un par di ciufoli, dato che la prima musica era “Tu vedi piú lontano di me” di Giuseppe il Re dei Sogni.
 
Il primo ad entrare dopo che Cori aveva risistemato l’infermeria fu, ovviamente, Chopper, che si portava al seguito Zoro, che come al solito per allenarsi non si era voluto tenere addosso le bende, le ferite di Thriller Bark si erano in parte riaperte, ed il piccolo medico si vedeva ogni volta costretto a ricucirlo. Ovviamente, lo shock era palese sul muso della renna, quando vide in che modo fosse stata riarredata l’infermeria. Alla parete era appesa una croce di legno spuntata dal nulla, molto grezza. A fianco al letto era nato un comodino, sempre in legno, dove erano ammucchiata una catasta di roba di vario genere, che poi era evidentemente esplosa, spargendo parte del suo contenuto tra fondo letto e testata, tra l’altro sostituita anch'essa dallo zaino messo in orizzontale (il lupo perde il pelo ma non il vizio). Cori non c’era, forse sparita di nuovo nella stiva a far danni, ma rientrò qualche secondo dopo commentando con un “Beh, che avete da guardare? Ho solo preso qualche cordino e diversi filagnotti. ‘Ste facce da pesce lesso per due legature quadre!” scusandosi poi con Chopper per il disordine.
 
 
 
Faceva freschetto, quella notte. Non sapeva come, ad un certo punto mentre stava tirando fuori la sua roba per lavarla, Brook (attraverso circonvoluzioni di cui non ricordava bene il filo), era riuscito a far finire tutto in un barile di soia, così Cori era stata costretta, causa altre mansioni e la sua voglia mancante di pulire la roba grondante soia davanti al resto della nave, a lavare la sua roba di notte. Con solo canotta e pantaloncini da lavoro indosso, ovvero le uniche cose sopravvissute, perché anche i vestiti che portava addosso, lei compresa, erano stati investiti dalla nauseante (sfido chiunque a non definirla tale mentre si è investiti dai suoi prepotenti effluvi a quel modo) sostanza. Così, in piena notte, Cori strofinava i suoi panni sull’asse immersa nel catino pieno d’acqua, sapone e soia non per forza in quest’ordine, masticando imprecazioni a spron battuto contro gente a caso. Con le dita arrossate per il lungo sfregare e la pelle d’oca sulla schiena per quel fastidioso venticello gelido, pensava che era in momenti rabbiosi come quello che riusciva a non pensare a casa sua con rammarico. Con la lingua fuori dalle labbra per la concentrazione, Cori non si accorse della camicia che le arrivò dritta in faccia. Sollevando lo sguardo, si accorse che era Zoro, sceso dal suo turno di guardia, ora rimasto in canotta, che la fissava a pochi metri di distanza, con la sua espressione seriosa.
“Grazie per avermi riportato di qua. Ti è costato parecchio. Ti devo un favore.” Le disse duro come suo solito, con la sua espressione indecifrabile.
Cori sorrise. “Grazie a te”. Era stata tentata di dire “non c’è problema”, ma il problema c’era eccome.
“Infilala, o ti prenderai un malanno” le rispose brusco Zoro allontanandosi. Cori se la mise sulle spalle e non sentì più freddo.
 
Alla fine si era addormentata accanto alla tinozza. Aveva pensato ‘solo cinque minuti’ quando si era stesa con la testa vicina al bordo per fissare quelle stelle aliene, luminosissime, che brillavano sopra la sua testa. La sensazione era la stessa: L’impressione di bellezza e impotenza di fronte a qualcosa di immenso e meraviglioso, stupendamente sconfinato, nella brezza della notte sull’erba fresca. Poi si era addormentata. Ma la cosa non aveva evidente fermato quei barbari che le avevano rovesciato con un calcio la tinozza in faccia. La camicia si era salvata, fortunatamente. Non poteva dire la stessa cosa della calotta cranica di quei due imbecilli, perché furiosa come una bestia, aveva fatto scrocchiare le nocche per farle scontrare contro il cranio bianco di Brook e la testa bacata di Rufy.
Con la testa incassata nelle spalle per la rabbia, aveva raggiunto il bagno e si era strizzata i capelli. Erano solo le sette del mattino. I capelli si erano asciugati subito, ritornando alla loro tondeggiante forma originaria, così Cori in attesa che i vestiti stesi finissero di asciugarsi,.si era infilata la camicia, un coso blu a righe verdi e maniche corte. La cosa aveva senso finché erano le nove, toh, le dieci, ma ne perdeva un sacco verso quel bollente mezzogiorno, così alla fine Cori si decise a poggiarla su una spalla. Proprio in quel momento, qualcosa cozzò contro la chiglia, proprio vicino a lei. Chopper ronfava in vedetta e sembrava non averlo visto. Era una tavola di legno, probabilmente residuo di un naufragio. Un fagotto era steso di traverso sopra. Cori corse a prendere una fune, ed assicuratala alla ringhiera, si calò a grandi balzi lungo la fiancata, posò la mano sulla schiena del fagotto. Respirava.
“Naufrago a babordo!”
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Ok, lo so che come capitolo non è un gran che, ma era necessario. Non so neanche se la lettera sia stata una grande idea. A parte questo, si accettano scommesse per il Naufrago Misterioso, che, vi anticipo, è un personaggio importante della mia storia. Non indovinerete mai, buahaha! So che in teoria adesso c'è l’arcipelago Sabaody, ma sfrutto quei pochi giorni di stacco fra le due saghe per far entrare nel vivo la mia storia. A presto, e buona estate a tutti!
                               Hikari_Sengoku
 
P.S. Ecco il glossario dei termini specifici:
Judoji: Nome specifico del kimono indossato durante la pratica del judo, già precedentemente descritto;
Legatura quadra: serve per unire due pali che si incrociano perpendicolarmente o con angolo ampio fino a 30° tra i loro assi, per informazioni più specifiche vi conviene cercare su internet, scommetto che troverete anche chi le usa, e capirete molte cose. (Io la so fare!);
Filagnotto: Nome comune per tronco di legno di grandezza medio-piccola, di solito lungo un metro, derivante dal termine filagna, ovvero tronco di medie dimensioni lungo circa tre-quattro metri, usato nelle costruzioni utilizzate da chi usa anche la legatura quadra di cui sopra😀.


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Capitolo 10
*** “Il mio sogno… è scrivere il mio destino!” ***


“Il mio sogno… è scrivere il mio destino!”

Con una mano, afferrò il collo del vestito, alzando la testa della piccola naufraga. Era una bambina di non più di quattro anni, dai lunghi capelli biondi. Ebbe appena il tempo di prenderla in braccio, che tre giri di braccia le si avvolsero in vita e la strattonarono su con forza. Ricadde fortunatamente in piedi.
“Ma sei scemo? Potevi farle male!” lo sgridò Cori stringendo la bimba al petto. Tremava di freddo.
“Ahhh! Qualcuno chiami il medico!” urlò Chopper in preda al panico “Oh, ma sono io il medico. Portala in infermeria, Cori” le chiese Chopper correndo a tutta andata verso l’infermeria. La ragazza lo seguì. 
Pochi minuti dopo, Chopper finiva di visitare la piccola. “Ha solo un po’ stanca, ed ha preso freddo. Non stava in acqua da piú di due ore.” Disse Chopper, guardando la bimba stesa a pancia in giù sul lettino. “L’unica cosa che non capisco sono queste ali. Non sembra aver mangiato un frutto del diavolo, eppure…” La piccola aveva infatti due belle alucce iridescenti, come quelle delle libellule, ma che scendevano lungo la schiena. “Le articolazioni che ha non le permettono di stenderle orizzontalmente e volare, al massimo può farle vibrare. Quindi non capisco” disse la vocina sottile del medico, mentre Cori passava la mano tra i capelli salati della piccola. La bambina sbattè le palpebre, rivelando due enormi occhi smeraldini. L’iride occupava tutto l’occhio, senza lasciar spazio alla sclera. La pupilla era verticale, sottile, come quella dei rettili. 
“Mamma…” mugolò la bimba spingendo la testolina contro la grande mano di Cori. 
“Mi dispiace, piccola, non sono la tua mamma. Come ti chiami?” le chiese accarezzandole ancora la testa. La bambina si alzò a sedere, strofinandosi gli occhioni.
“Lurichiyo” sussurrò triste la bimba. “Tu chi sei?”
“Mi chiamo Cori. Senti Lurichiyo, ti va di andare a fare un bel bagnetto? Così mi racconti tutto con calma” le sorrise Cori parlandole con voce dolce. “Chopper, per favore dì agli altri che la nostra piccola ospite sta con me a fare il bagno, e che appena sará pronta la potranno vedere.” Si era innamorata della bimba, era così tenera! Voleva occuparsene lei.
Chopper accettò, così Cori prese Lurichiyo per mano e la portò nel bagno, dove la aiutò a spogliarsi e prendendola sotto le ascelle la immerse nell’acqua calda. “Posso chiamarti Chiyo?”
La bimba sembrò esitare. “Ok”
“Dove sono i tuoi genitori?” le domandò mentre le insaponava i capelli. Aveva schiuma bianca ovunque, e le mani in quel covo di serpi che erano i biondi capelli della ragazzina.
“A casa. Quei signori cattivi mi hanno preso due giorni fa” le rispose Lurichiyo sull'orlo delle lacrime.
“Di sicuro ti staranno cercando” 
“Oh, sì. I miei genitori sono i genitori più bravi del mondo. Ma non possono uscire dall’isola” sospirò la bambina, che si intristì.
“E dov'è il problema? Ti riporto io dai tuoi genitori” le sorrise Cori passandole la spugna morbida sulle spalle pallide. La piccola si girò di scatto, frustandole la faccia con i lunghi capelli. “Davvero?” le chiese con gli occhi lucidi. “Me lo prometti?”
“Certo che te lo prometto. Ti riporterò a casa” le scompigliò i capelli, prima di avvolgerla in un caldo asciugamano e stropicciarla tutta. “Ora mettiti questa, che andiamo dagli altri” Le disse porgendole una canottiera bianca, che alla bambina faceva da vestito.

“Ragazzi, vi presento Lurichiyo!” esordì spalancando la porta della cucina, dove le stavano aspettando.
“Ciao Luri-chan! Io sono Nami. Loro sono Usopp, Sanji, Franky e Rufy, il Capitano. Da che isola vieni?” le chiese la navigatrice piegandosi alla sua altezza. All’appello mancavano Robin, Zoro e Brook, in altre faccende affaccendati.
“Già, già!” la esortò Rufy, tenuto ‘al guinzaglio’ da Sanji perché non si avvicinasse al pranzo che stava cucinando.
“La mia isola si chiama Fukuzoo” rispose la piccola acchiappando una delle ciocche pel di carota di Nami, che si alzò di scatto. “Ahi!”, prima di stendere sul tavolo una mappa. “Eccola! Sta vicino alla fascia di bonaccia di destra, a poche decine di miglia da qui. Ha la forma di una zampa di gallina”
“Si, si, è proprio la mia isola” ridacchiò Lurichiyo.
“Ci vorrà perlomeno una giornata prima di arrivare alla distanza minore dalla nostra rotta” replicò Nami mordendosi il labbro. “Franky, perché non porti Luri-chan a fare un giro della nave?”
“Suuuuuper-Certo!” rispose il cyborg mettendosi in posa, per poi mettersi la piccola su una spalla.
“Può venire anche Cori con noi?” chiese la bambina, che si era spaventata.
“Cori verrà tra poco, non ti preoccupare” la consolò la navigatrice.
“Ok. Cosa sei tu, grande signore?” chiese la bimba uscendo.
“Chiamami Franky, piccoletta. Io sono il super-cyborg!” le voci del colosso e della nanerottola sulla sua spalla si persero nei meandri della nave, proprio mentre entravano gli assenti.
Appena i due furono usciti, la navigatrice si accasciò sul tavolo con la testa fra le mani. “Come faremo a riportarla a casa?” piagnucolò.
Rufy gridò: “Qual'é il problema, Nami? La riaccompagnamo noi!”
“Nami-san, se lo desideri la porterò io stesso a nuoto!” vorticò il cuoco.
“Non capite! Per portarcela, dovremmo passare vicinissimo a Marineford, e poi ad Impel Down! Questa isola è praticamente una succursale di Impel Down stessa! Se ci passassimo, avremmo tutta la Marina alle costole!” urlò la roscia, spaventando Usopp.
“Potremmo usare il Submerge Shark III!” propose Usopp.
“Ci localizzerebbero all’istante” scosse la testa Nami.
“A voi sicuro. A me no. Che gli può importare alla Marina di due normali civili che tornano a casa?” si intromise a quel punto Cori.
“Sei sicura? È un grosso rischio, per una bambina che conosci a mala pena” le disse il cecchino.
“Sono sicura. In fondo qui sono solo d’intralcio, per adesso. Ma vi assicuro che mi rivedrete, appena sarò diventata forte abbastanza. Non credo che il mio destino sia quello di marcire su un’isola per il resto della mia vita” annunciò la ragazza. Ci aveva pensato, ed era decisa ad annunciarlo già da un po’. Questa era l’occasione giusta per cercare la sua strada, ormai completamente sconvolta, dove non sarebbe stata tra i piedi di nessuno. Per quanto le sarebbe piaciuto (e solo Dio sapeva quanto le sarebbe piaciuto) stare con quella meravigliosa ciurma, che era l’unica che lei conosceva un po’ in quel vasto mondo vuoto. “Il mio sogno… è scrivere il mio destino!”

Dopo questa splendida uscita, il discorso si era sciolto in un chiacchiericcio piú o meno caotico. Cori si era andata a piazzare a gambe larghe dritta davanti ai fornelli, per sbirciare l’operato del cuoco. Doveva dirlo, sarebbe stato impossibile trovare un uomo più capace di Sanji ai fornelli. Peccato che la maggior parte dei piatti fosse giapponese o al massimo francese.  La cucina francese le faceva perlopiù schifo.
“Scommetto che l’amatriciana non la sai fare” lo sfidò infatti. Là nemmeno esisteva Amatrice.
“Cos'è lamatriciana?” chiese infatti il cuoco incuriosito.
“È una ricetta delle mie parti. È pasta, ma cucinata con il pomodoro e il guanciale. Un cucchiaio d’olio, si aggiunge il guanciale e poi il sugo e si cuoce a lungo. Poi si cuoce la pasta e si mescola. È facile, ma è buonissima, e solo pochi la sanno fare veramente bene.” Pensò ad alta voce. 
“Ed io sarò fra quei pochi. Ti stupirò Cori-san. Farò la più buona amaturiciana che tu abbia mai assaggiato!” le rispose convinto il biondo, immaginando che alla giovane ospite avrebbe fatto piacere avere indietro per un po’ la sua terra.
“Si dice amatriciana! Grazie Sanji” lo ringraziò allontanandosi.

Sul ponte, Chiyo rideva, lanciata tra le sartie e la rete dell’albero maestro da Franky. Cori li raggiunse, e chiese al grosso cyborg se potesse insegnarle ad usare il Submerge Shark III.
“Certo sorella!” le rispose il ragazzo dai capelli azzurro puffo, montandosi in spalla la ridacchiante bambina bionda.
Scesero giù nella stiva, dove ad attenderli c’era un’allegra massa di cianfrusaglie più o meno bizzarramente ordinate. Franky tirò una leva interna, e fece girare l’immensa ruota interna alla nave, fino a far arrivare il settore 3 a livello piedi. 
“Ecco qui il Submerge Shark III!” disse il cyborg presentando il piccolo sottomarino a forma di squalo.
“Che bello!” esclamò avvicinandosi, innamorandosi dei sistemi di aereazione e degli armamenti, nonostante la maggior parte non fossero a vista.
“E non hai ancora visto niente” rispose il carpentiere aprendo lo sportello ermetico.
All’interno, una splendida consolle piena di pulsanti, sensori e manopole le ricordava il Nautilus del Capitano Nemo. Adorabile! Dal soffitto scendeva il visore del telescopio sottomarino, proprio davanti al sedile di guida. Franky cominciò ad illustrarle le istruzioni base di guida. Funzionava più o meno come un’automobile, mancava solo la leva del cambio, sostituita da quella dell’ancora, lunga a fianco del guidatore. Un radar mostrava la linea retta che Franky aveva impostato sul momento sulla retta disegnata da Nami. Loro erano un piccolo puntino bianco a qualche miglio di distanza. “Così saprai sempre dove ti trovi. Se mai ci fosse scarsa visibilità, attiva il sonar, ti mostrerà gli ostacoli sul monitor più grande” le spiegò.
“Grazie, Franky. Io adoro questo genere di cose!” esultò Cori abbracciandolo. Preferiva le moto, ma non credeva che avrebbe avuto problemi a divertirsi guidando un sottomarino. “È proprio super!” gli urlò quasi nelle orecchie.


Dopo il lauto pranzo, Cori si sdraiò sull’erba, godendosi il sole caldo. Forse era stata un po' affrettata nel decidere di lasciare la ciurma. Non aveva idea di cosa sarebbe potuto succedere, era completamente sola, e di certo non avrebbe potuto contare a lungo sulla compagnia di una bambina di quattro anni. Forse la cosa migliore sarebbe stata tornare indietro da loro. Il problema sarebbe stato solo posticipato: Una volta tornata sulla nave, sarebbe stata di nuovo un peso, e quella era una cosa che proprio non le andava giù.
“Sei proprio sicura?” una voce dolce, femminile, si introdusse nei suoi pensieri. Ci mise qualche secondo a riconoscere Nami che le sedeva accanto.
Assonnata per via del sole, la fissò senza rispondere, osservandone quasi con invidia le prorompenti forme a malapena contenute dal miserrimo costume. Tanto valeva andare in giro nuda. Una sorta di piccolo telecomando le ricadde sulle gambe.
“L’ha progettato Usopp. Se mai volessi tornare indietro, ti basterà premere il bottone rosso” le spiegò la ragazza stendendosi di fianco a lei sul telone. “Non ti preoccupare troppo. Ti verranno le rughe sulla fronte per lo sforzo” la rassicurò per poi tacere e godersi un caldo pomeriggio estivo sul ponte.


Niente da fare, quell’amatriciana era semplicemente deliziosa. Chiyo era già andata a nanna da un po’, e lei come Rufy non poteva fare a meno di andare a pescare con le dita nella pentola. Era semplicemente troppo buona! I ragazzi di fuori stavano portando su la legna, lei si era offerta di accendere il fuoco quindi doveva correre. Mise il foglio di giornale accartocciato un po’ al centro, fece una capannella di legnetti e con un’unica scintilla il giornale prese, i legnetti bruciarono e si poté cominciare a caricare il fuoco con legna sempre più grossa. 
“Ragazzi! Ho due canzoni!” Urlò. Tutti si accodarono alla canzone, e alla seconda strofa anche Brook e Franky partirono con la chitarra.
Kamaludu, kamaludu in blues (x3) 
oh uandasii oh uandasii oh uandasii
kamaludu in blues kamaludu in blues.

Era una di quele canzoni da urlare, per assordare i pensieri.

Behbel ina behbel ina in blues (x3)
oh uandasii oh uandasii oh uandasii
Behbel ina in blues behbel ina in blues.

Natoureja, natoureja in blues (x3)
oh uandasii oh uandasii oh uandasii
Natoureja in blues natoureja in blues.

“Un’altra, un’altra!” gridò Rufy, mentre gli altri brindavano ed esultavano per me.
“Ok, prendiamoci tutti per mano!” urlai a mia volta, e feci cominciare la Danza del Fuoco. Da un lato avevo Franky, dall’altro Usopp.

Splende il fuoco nel cerchio degli esplorator, (al cambio di verso cambiammo anche il verso della marcia)
ascoltate la voce della fiamma d'or.
(picchiammo velocemente i piedi per terra)
Sali al ciel, fiamma leggera,
del gran fuoco caldo e buon. (e cambiammo verso)
Sotto i pini o alla brughiera 
sali in alto e sali ancor. (tendemmo le braccia al massimo)
Sali in alto e sali ancor, (ci avvicinammo al fuoco, bruciando la punta delle scarpe)
fuoco dell'esplorator.

Ero un principe un giorno perfido e sleal
e spargevo d'intorno il dolore e il mal.
(partì un giro di birra)

Sali al ciel, ...

D'un gran mago l'incanto tosto mi punì
e nei tronchi di un bosco mi rinchiuse un dì. 
(Brook partì con la sua risata acuta, i denti sbatterono con un fastidioso rumore)

Sali al ciel, ...

Da quel giorno nei tronchi prigioniero io son
e costretto a soffrire freddo e solleon.
(Nami quasi si strozzò con la birra fra una risata e l’altra, gettando all'indietro la testa ramata, con gli occhi scuri brillanti di ebbrezza e felicità)

Sali al ciel, ...

Nell'ardor della fiamma mi consumo qui
e col ceppo che arde brucio anch'io ogni dì.

Sali al ciel, ...

Dal tremendo supplizio convertito son
e per l'uomo divengo fuoco caldo e buon.

Sali al ciel, ...

Sia che arda al bivacco o nel focolar
la mia anima brucia luce e caldo a dar.

Sali al ciel, ...

Nelle veglie di campo t'offro il mio calor
scaccia freddo e paura questo mio splendor
(Robin come suo solito si era messa da parte, le ammiccò mostrandole il titolo del libro che leggeva “Antologia degli alberi genealogici”, stava appuntando qualcosa a piè di pagina)

Sali al ciel, ...

Nella tua cucina l'acqua fo cantar (Sanji mi sorrise)
entro nell'officina e so lavorar (Usopp e Franky esultarono abbracciandomi ai lati)

Sali al ciel, ...

Ogni lieve favilla della fiamma d'or
Con sé porta un sogno verso il cielo a vol
(Zoro la fulminò malissimo col suo sguardo truce, e lei ne approfittò per fregargli il boccale di birra da sotto il naso. Provò a bere ma sputò, faceva schifo. Zoro rise sguaiatamente)

Sali al ciel, ...

La mia grande speranza è che un dì verrà
In cui Dio sì buono mi perdonerà
(Chopper si era beatamente addormentato con uno stecco nel naso)

Sali al ciel, ...

Oh potere salire al divin splendor
ritornare alla vita e bruciar d'amor

Sali al ciel, ...

Ma già sento che spiro state ad ascoltar
quel che ancor la mia voce vi può mormorar
(Rufy sorrise come suo solito, a trentadue denti. Un foglietto bianco bruciava nella tesa del suo cappello, mentre zampettava da una parte all’altra del fuoco, stonando)

Sali al ciel, ...

La mia grande lezione amici miei quest'è:
non si fa nulla in terra se l'ardor non c'è 

Sali al ciel, ...








Ero convinta che in qualunque isola sperduta fossi finita, finché sarei stata viva, mi avrebbero aspettato.







Lo so, sono tipo in mega ritardo e ho fatto un capitolo che dire striminzito è poco. Spero che comunque le novitá siano abbastanza da distogliere dal mio stile. Per me, la felicità è piccole cose poco descritte, il resto lo facciamo da noi. È per il dolore che ci vogliono tante parole. Per chi volesse saperlo le canzoni sono il Kamaludu in blues e la Danza del Fuoco, e sono entrambe delle canzoni/ban per iniziare il fuoco serale. Niente da fare, sono tornata da due giorni, ma sono sempre lì col cuore! Sperando che il capitolo sia gradito,
Hikari_Sengoku


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Capitolo 11
*** Verso Fukuzoo ***


Verso Fukuzoo

Penzolare da molli appendici carnose era stato solo l’inizio di una serie di disgrazie per Gabriele. Furioso e spaesato, era fuggito da quella maledetta che gli aveva rovinato la vita. 
Per finire addosso ad un uomo alto per lo meno due metri. Aveva lunghi capelli neri acconciati in una quantità infinita di trecce, così come i baffi e la barba, e vestiva come un becchino all’antica, con un grande cappello col pennacchio nero sotto braccio. L’omone aveva tuonato: “Chi osa urtarmi in questo modo?” poi l’aveva soppesato con quei suoi occhiacci neri. “Mmmh. Non male. Prendetelo!” berciò alla combriccola degli uomini intorno a lui, una massa di villici ignoranti che puzzavano uno più dell’altro di cipolla e fumo. Ebbe il tempo di girarsi, prima che tre di quei corpi grassi e sudaticci gli fossero addosso come belve feroci.
“Perché? Non ho fatto niente!” tentò di difendersi, disperato, dimenandosi nella stretta umidiccia di quei tre uomini dagli occhi porcini.
“Mi hai urtato. Sei fortunato ad avere un bel faccino e che io sia in carenza di merce, altrimenti invece di venderti ti avrei squartato” gli rispose quello che doveva essere il capitano prendendogli il mento fra pollice e indice. “Tutti alla nave, uomini! Si riparte per Sabaody!”

Il ragazzo venne gettato in malo modo sul ponte della barca, tra le risa dei marinai. “Aspetta qui, Principessa. Giusto il tempo di spiccare il volo e poi saremo tutti per te” gli annunciarono mettendolo ai ferri sul ponte.
“Maledetti bastardi! Ve la farò pagare!” urlò l’incosciente.
Risero di rimando quelli, dividendosi nei vari compiti. Terrorizzato, Gabriele strattonò e tirò. Aveva gli occhi spalancati per la paura. Ma non attese tanto, prima che il capitano tornasse. “Tempo scaduto Principessa. È arrivata l’ora del trucco!” gli annunciò l’omone aprendo le catene e trascinandoselo dietro, ignorando le sue indignate proteste ed i tentativi di fuga. “Sta buono, stupido cane” lo apostrofò l’uomo, buttandolo in una cella dove c’erano due massi di cemento.
“Legatelo” ordinò. Due uomini lo afferrarono e legarono i suoi polsi ai due blocchi, e poi le gambe a terra, gli strapparono la maglietta, scoprendogli petto e schiena.
“Vediamo… muscolatura evidente, aspetto gradevole, se non fosse per questo naso… che dici medico di bordo, glielo raddrizziamo?” rise l’uomo rivolgendosi ad un vecchio con la bocca cucita. Poi sferrò un pugno dritto sul setto nasale storto del ragazzo. “Voglio un bel lavoro, medicastro. Intanto io vado ad arroventare il marchio. Preparati, Principessa!” Gabriele gemette, e poi urlò, nell’estremo tentativo di divincolarsi. Inutile, perché il capitano ritornò, sbattendo il ferro arroventato sul pavimento a tempo. Poi senza preavviso, Il 
Dolore,
La Carne
Bruciata
Il Puzzo
Orribile
Della Pelle
Marchiata
A Vita.
Fu abbastanza da perdere i sensi, non seppe se per un minuto, un’ora o un giorno. Quando si svegliò, era stato slegato. Accanto a lui c’era solo il medico (lurido e sporco di sangue quanto il peggiore dei segaossa) ed una sguattera. Sul polpaccio della ragazza, spiccava violentemente IL marchio. Un teschio davanti a due piume incrociate, dentro un cerchio. La pelle della sua schiena tirava e bruciava, scottava e fremeva dalla voglia di vendetta. Le bende tirarono. Il ragazzo vomitò l’anima, sputò e: “
Sparisci”. Il medico comprese all’istante e se ne andò. La sguattera rimase lì a fissarlo con quell’odioso marchio. “Ho detto sparisci, stupida cagna!” urlò tirandole un secchio. Lo squittio delle suole sul pavimento bagnato di sangue non si fece attendere, seguito dall’eco del suono metallico del secchio contro la parete. E Gabriele fu solo.

La mattina dopo, la nave era avvolta dalla nebbia. La schiena bruciava ancora da impazzire, ma questo non aveva impedito ai suoi aguzzini di tirargli addosso uno straccio e rimetterlo in piedi a suon di sberle, dargli in mano uno scopettone e mandarlo a pulire il ponte insieme a quell’altra lurida stracciona. In silenzio, la ragazza puliva il ponte, cercando di stargli lontano il più possibile. Aveva provato ad avvicinarglisi, ed era stato un errore molto salato da pagare, perché era stata cacciata prima con gli insulti, e poi a suon di botte, quella stupida cagna remissiva. Dopo di che, Gabriele si era rifiutato di spostarsi dal punto in cui l’avevano lasciato quella mattina, senza che nessuno gli dicesse niente. Protetto dalla densissima nebbia, nessuno faceva caso a lui. La nave filava a gonfie vele, e si erano fatte già diverse miglia.
Era pomeriggio inoltrato, ed il ragazzo era digiuno da quasi due giorni, quando un faro illuminò il ponte. Dopo qualche minuto, un’enorme nave azzurra gli si fece incontro, ed un’uomo dalla prua gli gridò: “Chi invade le acque di Impel Down?”. Un secondo uomo gli sussurrò all’orecchio qualcosa, e l’espressione dell’uomo si raggrinzì. “Pirati! Prendeteli!”
Sulla nave pirata non c’erano più di una quindicina di anime, contando il medico, la sguattera e Gabriele stesso, e la nave in ricognizione non fece fatica a sbaragliarli. Il doppio, forse il triplo di uomini venne vomitato sul ponte della nave, e come fu, come non fu, pochi secondi dopo tutta la ciurma era in manette, compresi i prigionieri.
“Capitano Louis Cooke, detto il Marchiatore, noto schiavista, con una taglia di ben 40.000,000  berry. Deve essere il suo giorno sfortunato, Capitano Cooke, perché non solo ha preso la rotta sbagliata” un coro di risa accompagnò le parole del nerboruto marine “ma ha anche perso la sua merce. Immagino che questi due ragazzi non facciano parte della sua nobile ciurma, non è vero?” chiese retorico pizzicando con le grosse dita la guancia della ragazza e tirando uno schiaffetto a Gabriele.
“È vero, non facciamo parte della sua ciurma, Capitano!” gridò la ragazza rivolgendosi al marine. “Ci liberi, per favore!”
Il ragazzo rincarò: “Gli dia quello che si merita! È solo una sporca feccia pirata!”
Il Capitano Cooke in catene sputò, per poi ringhiare un: “Maledetti sporchi traditori!” ed una sequela di minacce ed imprecazioni che avrebbe fatto impallidire uno scaricatore di porto.
“Chiudetelo in cella.” Ordinò secco il marine, per poi rivolgersi alla sguattera mentre li liberava: “Signorina, può usare il mio bagno per ripulirsi. Entrambi sarete liberi di prendere la prima nave per dovunque vogliate andare. Siete fidanzati, o sbaglio?” chiese gentile.
Il ragazzo lo aggredì di rimando: “Io fidanzato con questo lurido cesso? Meglio la morte” il marine stupito provò a prenderlo per una spalla, ma quello si divincolò: “Non mi toccate!” per poi allontanarsi sul ponte.
“Mi scusi signorina, non mi aspettavo di certo…” tentò di scusarsi il Capitano.
“No, per carità, non si scusi, lei è stato talmente buono! La ringrazio infinitamente!” gli rispose pronta lei.
“Posso immaginare come vi abbiano trattato, se il migliore esponente dell’umanità su quella nave era quel ragazzo. Venite, vi accompagno nei miei appartamenti. Come vi chiamate, signorina?” disse l’uomo prendendola a braccetto. Aveva un simpatico pizzetto.
“Mi chiamo Tomoe Yubashiki” sussurrò intimidita la giovane, sotto gli occhi disgustati di Gabriele.
“Signorina Tomoe, sono disposto a riportarla a casa, se lo desidera” si propose il marine galante.
“Mi dispiace deluderla, Capitano, ma io non ho una casa da molto tempo ormai. Sono sola al mondo da quasi due anni, e vivevo di piccoli espedienti vagando di isola in isola prima che mi catturassero.” Pigolò la ragazza.
“Può rimanere sulla mia nave e nei miei alloggi per tutto il tempo che riterrà necessario, signorina Tomoe. Le prometto che farò tutto ciò che è in mio potere fare perché lei possa avere una vita normale, non si dovrà preoccupare di nulla”
“Capitano, lei è veramente troppo gentile. Perché fa tutto questo?” 
“Perché il suo animo gentile mi ha conquistato signorina, e vorrei avere con lei una conoscenza più approfondita”
A quel punto, Gabriele smise di ascoltare i bubbolii di quella coppia di idioti con una bella smorfia di disgusto dipinta sul volto.

Quando giunsero in vista del piccolo porto di Impel Down erano passate si e no un paio d’ore. Era un coacervo di navi della Marina. Quella su cui stavano non era neanche delle più grandi. C’era una grande agitazione al porto, sembrava che fosse arrivato da poco un acquisto molto importante per Impel Down, perché la guardia sembrava tutta in subbuglio. Il Capitano non avrebbe voluto dirlo, ma era molto felice di liberarsi del proprio carico, strano a dirsi in special modo dell’altro schiavo liberato, che anche se solo per un paio d'ore, l’aveva tediato tanto da fargli rimpiangere di non aver lasciato che la nave si perdesse nel banco di nebbia, nonostante a bordo vi fosse anche la sua nuova fiamma.
Fu anche per questo motivo che Gabriele fu quasi buttato fuori a calci dalla nave, e pregato di scegliersi in fretta la nave che l’avrebbe portato via, o sarebbero stati felici di garantirgli un posto proprio dentro la prigione. E crediamo fu sempre per lo stesso motivo che nessuno, quando Gabriele scelse una barchetta dalle modeste dimensioni, pure piuttosto malandata, si premurò di avvertirlo che quella nave portava a Fukuzoo, un’isola popolata da uno strano quanto inospitale gruppo di indigeni, che era stato trasferito lì per motivi oscuri sei anni prima, e la cui oscurità aveva fatto sorgere miti e leggende su quello strano popolo e sugli stessi motivi che aveva spinto il Governo Mondiale ad isolarli nelle vicinanze di una prigione di massima sicurezza.
Dopo un viaggio che Gabriele definì come “semplicemente schifoso”, la bagnarola lo lasciò sulla calda spiaggia arroventata dal sole dell’isola.



Alla fine, Cori si era addormentata come tutti gli altri. Quando si svegliò, aveva la testa di Nami sullo stomaco, mentre la sua era sulle gambe di Zoro, a sua volta appoggiato ad un barile, che ronfava beatamente. L’alba era prossima, ed un venticello fresco faceva venire la pelle d’oca (tranne a chi, come Brook fece notare nonostante dormisse della grossa, la pelle non ce l’ha). Così depose delicatamente la testa della Navigatrice sull’erba fresca e tornò in infermeria per farsi lo zaino. Chiyo dormiva ancora, raggomitolata nelle coperte come un gattino. Era triste, farsi lo zaino da soli senza che nessuno ti mettesse fretta. Ad una ad una, ogni cosa ritornò al suo giusto posto. Poi con pochi gesti fluidi Cori sciolse la legatura quadra della croce e si riprese il cordino. Guardò i comodini vuoti che lei stessa aveva creato con qualche legatura quadra e un paio di tavolette, e decise di lasciarli. Chiuse e strinse le clip dello stuoino e con un ultimo sguardo all’infermeria, se lo mise in spalla per depositarlo fuori, vicino all'albero maestro, poi ci si sedette contro, fissando malinconica lo spettacolo davanti a lei, illuminato dall’alba dietro di lei. Nemmeno due giorni, e già ripartiva. Un po' le dispiaceva, lasciarli così. Avrebbe voluto restare lí con loro a lungo, e poi erano gli unici che le erano rimasti. Oltre loro, non c’era nessuno lì fuori da cui tornare. E sciolta l’euforia della sera prima, quello splendido momento in cui era stata pienamente sicura di qualcosa, non era nemmeno sicura che una volta partita, loro sarebbero stati disposti a riaverla indietro. Da quel poco che sapeva del futuro di quel mondo, i prossimi tempi non sarebbero stati felicissimi per la Ciurma di Cappello di Paglia. E dulcis in fundo, un bell’attacco di nostalgia potente. Persa nei soliti, tristi pensieri, non si accorse del tempo che passava e forse si addormentò pure, perché non vide Rufy, nel pieno delle sue incontenibili forze, lanciarlesi addosso. La sua espressione era un misto di sgomento e sorpresa, prima che la sua spina dorsale si infrangesse contro l'albero maestro, mozzandole il respiro.
“Ma sei scemo? Mi hai fatto male!” protestò Cori, che non era propriamente sicura di non avere un trauma cranico.
“Scusa Cori. Fuggivo da Sanji e Nami!” rispose il ragazzo di gomma con il suo classico sorriso a trentadue denti, prima di spararsi di nuovo da qualche parte spinto dalla minaccia del Cuoco e della Navigatrice.
Si avvicinava l’ora della Partenza, così Cori decise di evitare la classica parata militare di saluti e cominciò a salutare uno per uno i ragazzi della Ciurma. Prima però doveva svegliare Lurichiyo, che dormiva ancora beata in infermeria.
“Tesoro svegliati, è ora di andare” la scosse gentilmente. Sembrava così piccola e fragile!
“Mamma?” mugulò lei di nuovo, raggomitolandosi nel lenzuolo.
“No piccola, sono Cori. Alzati, che è l’ora di tornare a casa” le faceva tanta tenerezza. La bambina si alzò stropicciandosi gli enormi occhietti smeraldini.
“Dai, vestiti, o faremo tardi. Dobbiamo salutare tutti!” la spronò mentre la aiutava a sfilarsi la sua canottiera. Dovette tagliarla ad un certo punto, perché si era incastrata con le delicatissime ali.
“Mi mancheranno un sacco, Zia Cori” sussurrò assonnata la bimba.
“E questo Zia Cori da dove esce?” chiese curiosa e felice la ragazza.
“Sei troppo grande per essere mia sorella. E poi solo le zie vogliono bene così” com’era tenera! Non aveva fatto chissà che cosa! Quella bambina le piaceva sempre di piú.
“Sono d’accordo. Che ne dici, andiamo?” le disse spupazzandola un po’.
“Sii!” rise la piccola.

“Buongiorno Cori. Dormito bene?” le chiese gentile Nico Robin dal divano che correva lungo tutta la parete interna dell’acquario.
“S-si, Robin. Sono venuta qui per ringraziarti. Mi hai raccontato di una delle mie terre d'origine, e te ne sono molto grata. Ora posso capire meglio mio nonno ed il suo popolo…” cominciò Cori, che teneva per mano la piccola Chiyo.
“Un popolo che è anche tuo, Cori-san. Sono felice di averti conosciuta. Ora posso dire di sentirmi meno… sola” era strano sentirlo dire da una componente della ciurma più unita e casinara del mondo, ma capiva il punto di vista di Robin. Anche se lontana, lei poteva dire di discendere da uno studioso di Ohara, poteva dire di far parte, in un certo senso, di quella meravigliosa stirpe di archeologi e scienziati. Ora l’archeologa poteva dire di non essere l’unica sopravvissuta, perché poteva spezzare questo fardello con lei.
“Robin-sama!” la chiamò la bambina bionda, protendendo le manine pallide. Robin la prese sulle ginocchia: “Cosa c'è, Luri-chan?”
“Ti voglio bene” disse la piccola abbracciando il collo della donna.
“Anch’io piccola. Ora va a salutare gli altri” la spronò deponendola a terra e spingendola verso Cori. Le due ragazze si sorrisero prima di dividersi. “Allora… alla prossima” la salutò.
“Alla prossima, Cori-san”

Cori e Lurichiyo scesero nella stiva, dove il carpentiere ed il cecchino stavano collaborando a qualche nuova diavoleria. Chopper li osservava con estremo interesse, e Cori si accodò. Li guardarono arrabattarsi per un paio di minuti tra enormi chiavi inglesi e altri arnesi, prima che le notassero.
“Ohi, sorelle! Arrivate giusto in tempo! È pronta!” annunciò Franky in una delle sue classiche pose.
“Cosa è pronta?” chiese la riccia incuriosita.
“La tenda! Zoro ci ha detto che preferisci combattere a mani nude” rispose il cyborg.
“Così il grande Capitano Usopp ha avuto l’Illuminazione! Con un faticoso lavoro da spia, ho notato che non avevi una tenda, e io e Franky ci siamo dati da fare e abbiamo inventato la Spider-tent, che si monta da sola, occupa pochissimo spazio ed è espandibile!” si sbrodolò Usopp, mostrandole un tubo di una trentina di centimetri, con una valvola sulla sommità e largo più o meno quanto il suo braccio. Glielo lanciarono. Non pesava più del suo stuoino.
“Grazie, mi sará veramente utile!” gioì Cori saltellando. La sua prima tenda! “Grazie Usopp!” abbracciò il cecchino, che arrossì. “Non è niente….”
Cori si staccò, per poi saltare ad abbracciare stretto Franky. “Grazie Franky! Siete dei veri amici!” disse mentre ritornava coi piedi per terra e Lurichiyo salutava il suo amico ‘gigante’ con un abbraccio da cui Cori stentò a staccarla.
“Ciao Chopper! Sei veramente un bravo medico” ok, lo ammetteva, l’aveva fatto apposta! Chopper cominciò a gongolare ondeggiando fra i ringraziamenti e gli insulti. “Ahh! ~ Adulatrice! ~ Non dire queste cose, scema!”

Cori irruppe in cucina spalancando la porta. Il cuoco, com’era giusto, stava ai fornelli, da cui proveniva un delicato profumo di limone. “Sanji! Scusa se ti disturbo, ma volevo ringraziarti per ieri, è stato davvero un gesto gentile da parte tua!”
“Non c'è di che, Cori-san. È stato un piacere! Ti devo anche ridare questi fogli, ti sono caduti dallo zaino mentre lo portavi sul ponte. Ho visto un paio di ricette interessanti e ne ho corrette un po’.” I fogli che Sanji le stava porgendo facevano parte del suo quaderno di caccia, ed altro non erano che canzonieri e ricette alla trappeur e sui bidoni.
“Grazie! Sai dove posso trovare Brook? Vorrei salutare anche lui!” gli chiese.
“Credo che tu lo possa trovare o ad allenarsi in palestra, oppure a provare il violino sul ponte” la consigliò il biondo.
“Grazie Sanji. Allora… ci vediamo!”. Nel breve attimo di silenzio che seguì, Chiyo arrossendo salutò il cuoco con la manina, e fu pizzicata sulla guancia dal ragazzo. “Ciao piccola Luri-chan! Da grande farai strage di ragazzi!” poi Sanji tornò a cucinare, e Cori e Lurichiyo andarono alla ricerca di Brook.

L’aria tagliata faceva uno strano rumore, sia che fosse tagliata da un fioretto che dalle affilate corde di un violino. Stavolta era il  violino a far vibrare l’aria in una serie di velocissimi suoni. Era un turbinio di incredibili note, straordinariamente ordinate nonostante il loro manifesto caos, che la loro stessa natura (veloci, impercettibili battiti d’ali di un colibrì) esprimeva. Era una splendida, folle danza, un po’ malinconica, ma tremendamente pulsante di vita, agonizzante, ferita, ma mai come allora viva. Contrariamente a chi la suonava, tintinnanti, candide ossa dentro ad un elegante completo d’altri tempi. Si sarebbe detto un tremendo ossimoro, se Brook non fosse stato quello che era. Quello che l’anima del musicista esprimeva era terribilmente vivo! Era disperante lutto, tremenda frustrazione, vibrante desiderio di volare alto, tornare al nido dal pozzo in cui era caduto. Si percepiva l’estraniante voglia di vivere, e la disturbante sensazione che l’essere membro della ciurma gli aveva dato, la felicità incredula di cui non riusciva ancora a credersi parte. E poi, d’improvviso finì, con le basse parole proferite dalla schioccante mascella.
Danse Macabre” furono le secche, basse parole dello scheletro. Niente di più appropriato.
“Complimenti, non molti sarebbero in grado di fare quel pezzo” si congratulò Cori mentre la bimba scivolava dietro le sue spalle, impaurita.
“La ringrazio, Cori-san. Per me è un onore sapere che la mia umile musica sia stata di vostro gradimento” le rispose cortese il vecchio gentilscheletro.
“Grazie a te. Se mai volessi dilettare la ciurma con una musica un po' più allegra, forse questo ti potrebbe essere utile, io ne ho tanti…” rispose porgendogli un suo vecchio canzoniere. C’erano tante vecchie canzoni lì che di sicuro sarebbero piaciute a dei pirati, come Il vascello fantasma, o Scouting for boys, o magari anche Vinassa! Per non parlare di Spirits, che era bella prima di Terra di betulla, la canzone che segnava la fine delle attività, il riposo dopo una lunga giornata di fatica. 
“Grazie Cori-san. Ciao, piccola Lurichiyo!” disse salutando con la mano ossuta la bimba nascosta dietro di lei. Le due si avviarono, quando Brook la fermò di nuovo. “Signorina, potrei chiederle una cortesia?”
“Si?”
“Potrebbe mostrarmi le sue mutandine?”

Le due ridiscesero sul ponte. Brook era già lí, steso con un bernoccolo in testa. Niente che non si fosse meritato. Era mattina inoltrata. Nami andava loro incontro col suo classico passo militare.
“È l'ora di andare” comprese Cori, e Nami perse parte della sua irruenza.
“Si. Il sottomarino è pronto” le disse la Navigatrice.
“Allora ci salutiamo qui. È stato un piacere conoscerti, Nami” le disse porgendogli la mano, per poi ritrarla quando vide la roscia guardarla storto. Doveva ricordarselo: La stretta di mano non era fra i saluti preferiti di quella gente. Una padella volò dietro le loro teste, al che la Navigatrice si incupì. “Ammiro la tua pazienza, sai?” le disse, e Nami le sorrise, per poi porgerle una borsetta etnica. “Per ogni evenienza”. Si vedeva che non era felice di dargliela, e apprezzò lo sforzo.
“Grazie” le rispose, per poi attirarla in un abbraccio. Insieme andarono alla scaletta, dove un sorridente Rufy le attendeva. “La prossima volta che ci vedremo sarò più forte, e avrò preso la mia vita nelle mie mani.” Sarò utile. “Degna”. “Questo è un arrivederci”
“Lo so! Perché mi hai promesso che mi farai vedere quello che sai fare!” gli rispose il ragazzo col suo classico sorriso.
“Ciao, fratellone!” Chiyo gli si appese al collo, tirandolo giù. “Ah si, nanerottola? Io sono troppo grande per essere tua sorella, e invece lui” Rufy si era infilato le dita nel naso “può essere tuo fratello? Ma io ti spupazzo!” Disse Cori riprendendosi la bambina e ‘torturandola’ di solletico. 
“Noi andiamo!” annunciò saltando nell’abitacolo con la bimba sulle spalle. Avrebbe voluto salutare Zoro, ma girando la nave non lo aveva trovato. Le dispiaceva, perché era lui quello con cui aveva passato più tempo. Almeno un abbraccio poteva permetterselo, quello scorbutico… Un tonfo la distrasse. Zoro, appeso alla scaletta di corda, pendeva giusto all’imboccatura del sottomarino. “Non mi saluti nemmeno, ragazzina?” proferì col suo solito tono ghignante.
Cori posò la bimba a terra e corse ad abbracciarlo. “Grazie di tutto”. Era leggermente commossa. Le sarebbe mancato avere a che fare con lui tutti i giorni.  Zoro imbarazzato le strinse la vita col braccio libero. “Alla fine non è stato tanto male conoscerti ragazzina.”
“Ti voglio bene anch’io Zoro” rispose dandogli un bacio sulla guancia, al che il ragazzo arrossì, seguito immediatamente da Cori, che si ritrasse. Gli porse la mano. “Ci vediamo”. I due si strinsero la mano, forte da far scricchiolar le ossa. “Puoi contarci” Era quasi una sfida a chi sarebbe andato più lontano.
Zoro risalì sul ponte, dove tutti esplosero in un “arrivederci!”, sbracciandosi. Il portellone si richiuse sopra le loro teste.
“Ok Chiyo, è l’ora di tornare a casa. I gentili passeggieri sono pregati di infilarsi le cinture, siiiii paaaarteeeee!” gridò per rianimare l'atmosfera. Si lanciò sul sedile di comando, abbassò la leva e diede gas.





Spero che il capitolo sia stato di vostro gradimento. Non è andato gran ché avanti con la storia, però spero sia stato interessante! L’unico, grande dilemma che ho avuto riguarda i saluti, soprattutto quello di Zoro, ma spero di non essere scaduta nell’OOC. Grazie per chi continua a recensire, mi è di grande sostegno e aiuto, e a chi legge! Per chi volesse saperlo, la musica che suona Brook è questa: https://m.youtube.com/watch?v=R6w_3oKsh5g . Per quanto riguarda le altre canzoni che ho citato, beh, credo che ormai sia palese: Sono una scout fiera (pure troppo) di esserlo, quindi appariranno altri piccoli cameo all’interno della mia storia, esattamente come ricorreranno le tecniche di judo, e tra un po’ anche quelle di kendo. Recensite numerosi! Alla prossima,
Hikari_Sengoku


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Capitolo 12
*** Illusione di sicurezza ***


Illusione di sicurezza

Stringere fra le mani il volante era una sensazione di paurosa euforia che non sentiva da troppo tempo. Preferiva la moto, indiscutibilmente, ma vedere il mondo attraverso il telescopio di un sottomarino era qualcosa di impagabile. La rotta era perlopiù sgombra di ostacoli, quindi a parte un paio di sterzate per evitare scogli, non aveva avuto motivo di perderla. Chiyo dormiva già da un pezzo. Con gli occhi incollati al visore, poteva osservare il mare cristallino della Grand Line. Infiniti branchi di pesci variopinti le attraversava la strada, e l’acqua era talmente cristallina da poter vedere a chilometri di distanza… Era semplicemente spettacolare. I coralli e le alghe ondeggiavano mollemente sugli scogli. Avevano colori spettacolari! Vide un'infinità di piccoli Nemo volteggiare fra gli anemoni, seguiti da qualche centinaio di piccole Dory. Un’immensa manta la sorvolò, come se stesse volando nel cielo. Era spettacolare, l’aveva già detto? All’improvviso, un’enorme ombra la oscurò. Poco dopo, un’immenso Re del Mare nuotava davanti a loro. Non li aveva notati! Era lungo 500 metri, e sembrava un’anguilla rosa, con le pinne gialle e il muso di un pesce sega. Sgusciava e scivolava nel banco di scogli sommersi alla sua sinistra. Si rese conto che Impel Down doveva essere molto vicina. Ridendo e scherzando, dovevano essersi fatte due ore di viaggio! Era l’ora di usare un po’ di discrezione, perché se l’avessero scoperti sarebbe stato difficile spiegare perché una ragazza e una bambina stessero usando il sottomarino di Cappello di Paglia. Limitò l'altezza del telescopio al minimo e cominciò a nascondersi tra gli scogli. Dopo un paio di minuti, alla sua sinistra si erse, maestosa e minacciosa, la prigione di massima sicurezza di Impel Down. Aveva merlature su tutti i livelli, e assomigliava ad una macabra torta nuziale di mattoni grigi. In cima, vedeva la piccola entrata emersa, con le minuscole chiglie delle navi della Marina, ricoperte di Amalgatolite. Intorno alla prigione come al trono di una Regina, si aggiravano i Re del Mare, ciechi alle navi che sostavano sopra alle loro teste. E in fondo Impel Down questo era, una crudele Regina adagiata sul fondo del mare, che dalla sua esclusiva posizione comandava la vita, la morte e la sanità mentale dei suoi tristi sudditi, la loro Alcatraz, la.loro Isola dei Gabbiani sottomarina, inamovibile Guardiana dell’Ordine costituito. Se non sbagliava, Ace era già lí, a marcire in una delle celle del livello 6, in attesa della triste, pregiudicata sentenza. All’improvviso, dei fari si accesero per scandagliare il fondale. Cori guidò il Submerge Shark III dietro un grosso scoglio, e attese. Un'altra manta li sorvolò di nuovo, e lei ne approfittò per piazzarglisi sotto. I fari giravano, ma nessuno li vedeva. Proseguirono il viaggio sotto alla manta per una buona mezz'ora, a passo d’uomo, o meglio dire, a passo di manta. Zigzagarono un po’ fra gli scogli, per poi incontrare una ripida scarpata. Impel Down era ancora lí, in lontananza, a fissarle con quello sguardo fosco e minaccioso e i suoi fari, otto come gli occhi di un grosso ragno troppo vecchio per muoversi, che si nascondeva dietro un basso banco di sabbia alzata, simile a nebbia lí sotto. A quanto diceva il radar di Franky, erano arrivati. Sopra quella scarpata Fukuzoo, l'isola a forma di zampa di gallina, li attendeva. Lentamente, Cori costeggiò l’isola, finché la prigione non scomparve dietro la curva del terreno. Poi cominciò a risalire. Si fermò a mezz’altezza, mandò su il telescopio. Da un lato, una cala sabbiosa spazzata dal vento, che gli impediva di vedere, dall’altra, una serie di scogli curvi, levigati tanto da avere una piccola curva interna grande abbastanza da contenere il piccolo sottomarino. Quella era decisamente la scelta più prudente. Risalirono piano, e Cori buttò l’ancora all’interno della piccola cala dello scoglio, appena della misura giusta.
“Chiyo sveglia, siamo arrivati” la chiamò mentre si infilava la muta.
“Davvero?! Siamo a casa?” chiese la piccola.
“Non ancora, ma siamo alla tua isola. Se hai fame, Sanji ci ha lasciato il bentou dietro ai sedili. Io torno fra poco, devo sistemare una cosa” continuò mentre si tirava su la strettissima muta.
“Non mi lasciare sola!” piagnucolò la bambina.
“Non ti lascio sola piccola, torno subito! Guarda, mi puoi vedere dall’oblò” le accarezzò la testolina bionda. Infilò la maschera con il boccaglio e le pinne. Non c’erano bombole, e lei non sapeva come usarle. Zampettò fino al portellone, salutò la bimba con gli occhi lucidi, e aprì. Fuori, l’aria sapeva di salsedine e vacanze, e gli unici rumori erano la risacca e lo stridio dei gabbiani, nessun suono di porto, o il suono del mare contro la chiglia di qualche nave. Il sole la stava cuocendo, così scivolò in mare, l'acqua era freschissima. Raggiunse la coda e si immerse sotto. Era stata fortunata: Era un groviglio di alghe! Riemerse, riprese fiato e ritornò sotto. Strappò le alghe e ci ricoprì il sottomarino. Si fece cinque, sei viaggi, ma alla fine sembrava solo un mucchio di verdura galleggiante. Riaprì il portellone ed entrò. Mise le provviste nello zaino, e lo zaino in un sacco di plastica pesante, chiuse il tutto con tanti giri di corda.
“Ok Chiyo, vieni qui. Devo metterti il salvagente” disse estraendo un piccolo salvagente. Aveva due aperture sulla schiena, grandi abbastanza per far passare le ali di Lurichiyo. “Quel cyborg è un genio”, pensò ad alta voce infilandoglielo. “Pronta?”
“Si!” rispose la bambina. Cori agganciò un paio di galleggianti anche al sacco, poi si piegò sulle ginocchia. “Allora monta su. Si torna a casa!” la piccola si arrampicò sulla schiena di Cori e di aggrappò al suo collo. “Lo so che sei felice Chiyo, ma cerca di non strozzarmi!”
“Scusa!” ridacchiò la bambina. Era un peso piuma! “Non ti preoccupare. Reggiti forte, non staccare mai la presa, ok?”
“Va bene” annuì. “Perfetto. Adesso possiamo andare”. La ragazza aprì il portellone e fece scivolare il sacco in acqua. Per fortuna galleggiava! Poi si lasciò scivolare a sua volta. “Mi raccomando, silenzio!” ammonì la bambina, che incrociò le ditine davanti alla bocca.
Cominciò a spingere la sacca verso riva. Doveva ammetterlo: Avere un peso sulla schiena, anche di pochi chili, mentre nuotava, era qualcosa di terribile. Menomale che aveva il boccaglio e le pinne! Le braccine di Lurichiyo la stavano un po' strozzando, ed ai tempi della scuola era sempre stata la peggiore a nuoto. E vai con la rana! Piede a martello Cori, ricordi quello che diceva sempre la professoressa? Porca miseria, che fatica! Ancora pochi metri, solo pochi metri… Manca poco, è vicina, la meta… ancora qualche bracciata…  Porca miseria, ragazzina! Non mi affondare, abbassa quella testa! Manca… poco… manca… poco… ancora un po'… una bracciata dopo l’altra…

Quando arrivò al pontile era semplicemente stremata. Non era una spiaggia, era un porto! Un porto sepolto dalla sabbia, vuoto, ma pur sempre un porto. Lanciò il sacco sulla spianata, lasciò che la piccola lo raggiungesse gattonando sulla sua testa, e poi si sedette, ansimante, sulle scalette. Era distrutta. Poteva essere un chilometro, per quanto ne sapeva lei! Era stata una impresa molto faticosa, ora doveva solo riprendere fiato… “Zia Cori, ho fame” Ti pareva. “Sei bagnata, Chiyo?”
“No” rispose. “Ok, allora prima ci cambiamo e poi si mangia. Su, togliti questo giubbotto” la esortò staccando le clip. Poi anche lei si tolse la muta e le altre cose e tolse lo zaino (fortunatamente illeso) dal sacco, che riempì con i salvagenti e la muta. Aprì le scorte. C’era cibo a sufficienza per due giorni! Cori mangiò poco: Avrebbero dovuto mettersi in marcia presto, meglio farlo a stomaco leggero. Sanji era stato previdente, aveva preparato limoni e zucchero. Gli sarebbe servito, se il posto che cercavano sarebbe stato lontano. Ora, che farsene del sacco? Era solo peso in più. Decise che appeso ad un piolo sotto al pontile nessuno si sarebbe accorto della sua esistenza. Avrebbe sempre potuto andarlo a riprendere piú tardi.
“Chiyo, sapresti dirmi da qui dove sta casa tua?” chiese.
“Dobbiamo salire sulla Montagna delle Meraviglie, questa è la Città Abbandonata!” le rispose la piccola.
“Non dirmi che dobbiamo salire fin lassù!” esclamò attonita Cori. Sopra la Città Abbandonata, c’era un grande monte arso dal sole. La bambina annuì.
“Dimmi un po', come mai la città è abbandonata?” chiese curiosa.
“Non lo so! La mamma dice che è pericoloso, quindi non ci sono mai stata” sembrava quasi felice.
“Yuppi, non sei felice? Finalmente potrai vederla” rispose lei sarcastica. Ma che cavolo! Proprio il posto pericoloso doveva beccare! Porca miseria! Si guardò intorno. Il porto era vuoto, desolato, battuto da vento e sabbia, e le povere casupole che lo sormontavano non sembravano essere da meno. La fissavano coi loro occhi vacui, ostili, pieni di polvere. Erano case di povera gente, pescatori, piccoli mercanti, case di fango secco. Tutte vuote, almeno all’apparenza. Nascondersi lì sarebbe stato facilissimo per un criminale. Porca miseria, porca miseria! Si issò in spalla lo zaino, poi si mise a livello occhi con Lurichiyo. “Chiyo, non ti devi mai allontanare da me, ok? Anzi, torna sulle mie spalle, non sono sicura” le disse fissandola nei grandi occhi rettilei. “Va bene, zia Cori”
“Brava bambina. Dai, monta a capacecio” Chiyo si sedette sulla cima dello zaino, lasciando penzolare le gambine sulle sue spalle. “Vai cavallino!” esultò.
“Stai comoda, eh? Birbante!” Cori si issò e cominciò a camminare. Nel silenzio più assoluto, attraversarono la città. Ogni tanto, inquietanti rumori turbavano la quiete di quel posto dimenticato. Quel posto era abitato, e di sicuro non da gente per bene. Ogni tanto un pianto isterico e convulso scoppiava tra le mura. Era veramente inquietante. Ad un certo punto, incrociarono una casupola con dei panni stesi alla finestra. Pensò che mimetizzarsi sarebbe stato più facile che nascondersi. I misteri più segreti sono alla luce del sole. Rubò un mantello da pellegrino ed uno scialle, lasciò tre monete d’oro in un piattino (che secondo lei erano tre volte il costo di quegli stracci). Strofinò le mani e la faccia con il freddo carbone del camino. Sembrava una vecchia gobba. Poi fece rimontare Chiyo.

 Una mano si allungò, afferrando le tre monete. Il suo possessore fuggì via in un lampo, precedendo la ragazza lungo il sentiero.

La strada era bianca, sterrata, bollente. E in salita. Troppo in salita! Ogni passo era un’agonia di sudore e fatica. Mettiamola così: Si stava allenando. Era solo un allenamento! Anzi, doveva pure allungare il passo. Forse non era stata una buona idea partire subito dopo pranzo.
“Ehi nana… raccontami un po’… della tua famiglia” le chiese per distrarsi.
“La mia mamma è bellissima, si chiama Symon. Il mio papà si chiama Lerik. Papà ha una luuunga coda verde e gli occhi come i miei, mentre mamma ha tantissime cosine viola, pure in faccia, assomiglia a una farfalla. Una volta papà mi ha portato a vedere l’Arca, è stato bellissimo!” rise la bambina.
“Davvero? E… il tuo villaggio? Ci sono… altri bambini… come te?” chiese ansimante.
“Si, siamo cinque. La mia migliore amica si chiama Kanna, ha le gambe tutte pelosine e le orecchie da asinello!” rispose Lurichiyo.
“Ah, simpatica! Raccontami… un po'… com'è fatta” Cori pensava che tutta la questione del villaggio di Lurichiyo fosse molto strana. A quanto sembrava, erano tutti mezzi-animali. Chiyo assomigliava molto ad una libellula, che in inglese era dragonfly, e guarda caso i suoi genitori assomigliavano ad una farfalla ed una lucertola. E a quanto pare la loro famiglia non era l’unica ad avere questo problema, perché non era normale che una bambina di quattro anni avesse le gambe pelose e le orecchie d’asino, a meno che non fosse la sorella perduta di Pinocchio.
“Certo! Ha i capelli marroni lunghi fino a qua, e due graaandi occhi grigi!” continuò l’abitante dei piani alti.
“Hai altri parenti?” chiese ancora Cori.
“Si, avevo uno zio. Papà lo chiama sempre ‘fratellastro’, ma non è un bel nome” la bimba storse il naso.
“E poi che fine ha fatto?” si incuriosì.
“È sparito, puff!” Chiyo sobbalzò sullo zaino.
“Puff” ripeté Cori sovrappensiero.  Erano in cammino da quasi due ore, e la vetta era ormai prossima. Durante il cammino aveva preso un ramo come bastone, e ci si issava sul sentiero, così in pendenza da sembrare una scala franata. Se si guardava indietro, vedeva la strada fatta snodarsi lungo le curve della terra, e finire poi nella cittadella, mollemente abbandonata alle pendici del monte e il mare, limpido e cristallino, di uno splendido blu. Ormai mancava forse una mezz'ora alla cima. Più si avvicinava, più vedeva due punte emergere dall’altipiano dov’era la loro meta. Un passo dopo l’altro, si avvicinavano sempre di piú, incocciate dal sole. Aveva il fiatone, il sudore le colava ovunque, credeva di puzzare più di una capra, ma era ancora molto lontana dall’essere al limite. Finalmente raggiunsero l’altipiano. Un grande arco di pietra le accoglieva. Dietro, una buona sessantina tra capanne e casette in legno occhieggiavano. Il clima era ardente alle quattro del pomeriggio, e nessuno sembrava arrischiarsi ad uscire.
“Siamo arrivati!” esultò Chiyo. Cori si inginocchiò per farla scendere, ma invece di lasciarla andare da sola, la tenne stretta a se. Era ovvio che non si fidasse a lasciarla andare sola così. “È questo il tuo villaggio?”
“Sì! Noi viviamo sulla piazza, davanti alla casa del sindaco” disse la bimba indicando una casetta un po' più grande delle altre. “Andiamo, ti accompagno” disse prendendola per mano “gli facciamo uno bello scherzetto a mamma e papà? Tu ti nascondi dietro di me, e quando hanno aperto la porta gli fai: ‘sorpresa!’, che ne dici?”
“Si!” rispose la nanetta. La piazza era in terra battuta, e ogni passo sollevava una nuvola di polvere. Arrivati alla soglia, Cori bussò tre volte col bastone. Ad aprirgli fu una ragazza sulla ventina, bassa, con una lunga massa di riccioli castani e due caldi occhi color castagna, e un ragazzo anch’egli sulla ventina, con una folta coda di capelli biondi, di poco più alto. Ma non era certo quello che aveva sconcertato Cori. La ragazza – Symon con tutta probabilità – aveva il volto deturpato, completamente ricoperto da scaglie violacee irregolari, iridescenti, simile per aspetto ad ali di farfalla. Le scaglie si allargavano oltre l’ovale del volto, creando una grottesca maschera irregolare. Strie di quelle scaglie le decoravano braccia e gambe, e aveva le unghie nere. Il compagno non era da meno: Era da lui che Chiyo aveva ereditato gli occhi. Aveva una grossa coda verde scuro, i tratti affilati e strisce squamate e verdi sulle guance e sugli arti, oltre che lunghi artigli neri.
“Desidera?” Cori si svegliò.
“Sono venuta qui per portarle un dono” simulò una voce tremolante, anziana, poi spinse Lurichiyo, che corse nelle braccia dei genitori. “Mamma! Papà!”. Il padre la prese in braccio, e i tre si strinsero in un abbraccio, scoppiando in lacrime.
“Stai bene, picchietta?” chiese il padre alla bimba, che annuì vigorosamente. La madre invece si rivolse a lei. “La ringrazio infinitamente. Non sa quanto eravamo in pena! Ormai erano dieci giorni che non la trovavamo, temevamo di averla persa per sempre. La prego entri, sarete stanca!” la accolse porgendole una sedia.
“Oh, ti prego” ribatté sciogliendo lo scialle sulla testa “Dammi del tu. Non credo di essere così anziana da meritare questo trattamento!”
Qualcuno bussò alla porta. “E ora chi è?” disse Lerik, mentre apriva la porta ad un uomo dalle grigie orecchie d’asino, le gambe girate al contrario e ricoperte di vello, crudele imitazione di un Pinocchio moderno. Se tanto dava tanto, era il padre di Kanna. Aveva un caschetto di capelli castani, ed una corta barba. “Signor sindaco!”
“Lerik, ero venuto qui per darti una buona notizia, ma vedo che tu ne hai una di gran lunga migliore! Bentornata, piccola! Kanna sará felice” disse l’uomo accarezzando la testa della bambina. Non sapeva perché, ma non le dava una grande impressione. ”Non mi prendere in giro, però! Non è certo colpa mia se la gente mi adora” Sembrava viscido, falso. “Ma vedo che avete ospiti. Penso di dovermi presentare. Io sono Jord, il sindaco. Voi siete?” Una sensazione che non smetteva di acuirsi.
“Cori, piacere.” Rispose lapidaria. Un lampo corse negli occhi dell’uomo.
“È lei che ci ha riportato Chiyo” si intromise Symon.
“Ah, bene! Un altro buon motivo per fare la festa stasera, mi raccomando, non accetterò un no come risposta” rispose quello con un grande sorriso. Falso, mugugnò. “Devo ricordarti che sei sposato e hai una figlia, Jord?” scherzò il biondo, ma il suo commento fu soffocato dall’esclamazione della moglie: “Festa? Quale festa?” 
“Era di questo che ero venuto a parlarvi. In qualità di sindaco devo darvi una splendida notizia, e quale modo migliore che darla durante una festa? Preparatevi, siete stati assegnati ai dolci! Ora scusate, ma impegni urgenti da sindaco mi chiamano!” concluse Jord aprendo la porta con fare teatrale e uscendo. Lerik si rivolse verso di lei. “Non farci caso, non è un cattivo diavolo. È solo che è sindaco solo da sei mesi e non è mai stato umile”. Symon storse il naso.
“Mmm, dobbiamo prepararci per la festa! Cori, se non ti dispiace, lascia pure il tuo bagaglio qui. Sarai nostra ospite per oggi, è il minimo che possiamo fare per sdebitarci!” la invitò la ragazza prendendo in braccio la figlia. Cori abbandonò il vecchio mantello e lo zaino. “Vieni, andiamo a prepararci!” ribadì il concetto Symon tirandola per mano.


Non credeva di aver mai provato niente di più piacevole di quel laghetto termale. Era – credeva – una delle cose più belle che la vita potesse riservarle. Aveva polvere anche in posti che non credeva di avere quando era arrivata, impastata a litri di sudore. E non poteva esistere niente di più bello.
“Allora, raccontami un po’ di te” una voce si intromise nel suo dormiveglia. Era Symon.
“Non c'è molto da dire. Mi chiamo Cori, ho diciotto anni. Avevo un fratello, morto. Un nonno, morto anche lui. E due genitori, dispersi. O meglio, sono io quella dispersa al momento” mugugnò. “Parlami di te, piuttosto, del villaggio. Sono curiosa”
“Parli del nostro strano aspetto, vero?” rispose mesta la ragazza, pettinando i capelli di Lurichiyo. “Anche su di me non c'è molto da dire. Mi chiamo Symon, ho ventidue anni e la mia vita era normale fino a sei anni fa, quando una terribile epidemia ha colpito il nostro villaggio. Prima vivevamo su un’altra isola. I medici della Marina ci davano per spacciati, così hanno lasciato che un loro collega provasse su di noi una cura sperimentale, o almeno così hanno detto. Ricordo il suo ghigno, e del gas, tanto gas. E occhi gialli. Dopo sei mesi di dolore crudele, meno della metà si sono alzati così dai loro letti, tutti con modifiche che li rendevano più deboli di quanto non fossero prima. Non era affatto una cura, e l’epidemia soltanto una copertura, perché in realtà la ‘cura’ era stata inoculata a tutto il villaggio attraverso il vaccino pochi giorni prima che l’epidemia si scatenasse. Ovviamente il Governo Mondiale non poteva lasciarci a piede libero, così ci ha relegati su Fukuzoo, dopo averlo sgombrato dei suoi precedenti abitanti, creando un mito su di noi. Al momento siamo circa centocinquanta, ma abbiamo solo cinque bambini sotto ai sei anni in tutto il villaggio. Ricordo che all’epoca ero già fidanzata con Lerik. Abbiamo avuto Chiyo due anni dopo, è stato un vero miracolo” sorrise alla fine Symon. Era un racconto molto triste.
“Scusa, mi dispiace, non dovevo chiedertelo” si scusò Cori. Le dispiaceva veramente.
“Non ti preoccupare, sono curiosa anch’io, voglio sapere cosa ti ha portato fin qui, e come hai fatto a salvare la mia bambina” ribatté tranquilla lei, coccolando la bambina sul suo petto, che ascoltava in silenzio.
“La nave su cui l’avevano portata era naufragata, l’abbiamo raccolta e curata. Questa mattina siamo partiti con un sottomarino e siamo arrivati alla Città Abbandonata qui sotto. Poi l’ho presa sulle spalle e me la sono fatta a piedi” disse fiera.
“A piedi da lì sotto con quello zaino sotto al sole? Ci vuole coraggio.” Symon sgranò gli occhi. “ Poi in questi boschi e nella Città abitano gli Alienati”
“Cosa sono gli Alienati?” un brivido corse lungo la schiena. Non sembrava una bella parola.
“Alcuni di noi sono impazziti e vivono come animali nei boschi o nelle case abbandonate. Sono i reietti della nostra società” le spiego gentilmente l’altra insaponando per bene la piccola.
“Oh. Ehm, ok.” sospirò imbarazzata Cori.
“Ma non parliamo di queste cose. A me per esempio piacciono molto le feste, a te?” cambiò gentilmente discorso Symon, notando il suo imbarazzo.
“A me non tanto. Ma quelle di paese si, mi hanno sempre divertito” sorrise.
“Senti, ti va di aiutarmi col dolce?” le chiese. Lurichiyo protestò: “Hei! Quello è il mio lavoro!”
“Lo so picchietta, ma abbiamo poco tempo. Poi dopo sarai la prima ad assaggiarla, d’accordo? Allora?” la consolò la madre. “Va bene” brontolò la bambina.
“Allora andiamo a vestirci. Non ti preoccupare se non hai vestiti eleganti, Cori” Symon si alzò con la bimba in braccio e tornò in casa. Cori sospirò. Cosa le avrebbe prospettato il futuro?

Una mezz'oretta dopo, Cori e Symon erano in cucina per cercare di mettere insieme qualcosa. “Che ne pensi di una torta all’ananas? Ne dovrei avere un po’ sciroppato in dispensa.”
“Penso che sia una buona idea”

Era l’inizio della fine! Quando uscirono dalla cucina c’era più farina addosso a loro che sulla torta, e i vicini erano venuti giá più volte a bussare per la cagnara che stavano facendo. Non rideva così da un secolo! Era tutto cominciato con un’innocua spruzzata di farina, ed era degenerata nel caos più assoluto.
“Neanche Lurichiyo fa così casino” si introdusse Lerik con un sorriso. Symon si girò, in trappola fra le sue braccia, ma qualsiasi protesta venne soffocata da un bacio. “Mi piaci con tutta questa farina addosso” disse malizioso. Symon si girò verso di lei in imbarazzo e Cori finse di vomitare. Sy rise e lanciò un pugno di farina in faccia al marito per togliersi dall’imbarazzante situazione. “Anche tu mi piaci molto con la farina adosso!”
Mancava poco più di un’ora alla festa, e Lurichiyo e la sua famiglia scesero in piazza per lasciare che la bambina e Kanna, la sua migliore amica, si incontrassero. Appena scesi in piazza, un piccolo tornado piagnucolante aveva stritolato la nanetta al grido disperato di: “Chiyo!!”, contraccambiato subito da un “Kanna!!”. Era proprio come gliel’aveva descritta: Una bambina dalle gambe caprine ricoperte di vello scuro e due simpatiche orecchie da asino, con due grandi occhioni grigi pieni di lacrime e una bella capigliatura castana. Non lontano da lì, una donna piuttosto alta guardava distrattamente la scena, forse più presa dalle sue unghie che da altro. Aveva anche lei le gambe caprine, ma ricoperte di vello nero pece. Aveva lunghi capelli biondi, lisci, e due piccoli occhietti grigi, dal taglio morbido. Una folta coda nera sbatteva sui suoi fianchi per scacciare le mosche. Dalla vita in giù era più simile ad un cavallo che ad un essere umano. Aveva una strana macchia di pelo bianco in mezzo alla fronte, ed un paio di orecchie elfiche di un rosa molto carico, simile al colore del tessuto cicatriziale, solcato da piccole cicatrici da taglio. “Lei chi è?” chiese a Sy.
“É Gretel, la compagna del sindaco e la madre di Kanna. Povera bambina, per ritrovarsi una madre così…” Le rispose con una smorfia di disprezzo Sy.
“Perché?” chiese incuriosita.
“Kanna è nata per sbaglio, ne lei ne suo padre l’hanno mai voluta. La abbandonano spesso a se stessa. Quando possiamo, ce ne occupiamo noi. È una bambina dolcissima, anche se purtroppo non è molto intelligente. Un altro buon motivo per allontanarla, per i suoi genitori” sorrise malinconica Sy.
“Capisco. Non ami molto il sindaco e sua moglie, non è così?” indagò Cori.
“Una volta eravamo amici, tempo fa. Poi è arrivata quella sottospecie di sanguisuga e Jord è lentamente sparito” rispose l’altra ammiccando un sorriso divertito al marito alla parola ‘sanguisuga’.
“È proprio una brutta cosa” disse tanto per dire.
“Giá giá” Sy si stava deconcentrando.
“Vado a dare una sistemata alle mie cose” annunciò tornando nella casa.


Per la festa tutto il villaggio si era dato da fare: La piazza, prima una landa desolata e polverosa, si era trasformata in una gioiosa riunione di tavoli, striscioni, musica e danze. Tre tavoli erano imbanditi con ogni ben di Dio: Dolci (tra cui la loro torta meravigliosamente sbilenca), primi e secondi piatti dall’aria appetitosa, un maiale con una mela in bocca grosso quanto un piccolo bue. Cori aveva attratto non pochi sguardi scortesi e qualche ingiuria, ma niente di grave. Nel complesso, era un’allegra festa di paese. La ragazza stava raccontando a Lurichiyo che il suo nome era quello di una graziosa principessa bambina, quando il sindaco salì sul palco e richiese l’attenzione di tutti.
“Cari concittadini, sono qui per ben piú di una semplice comunicazione di servizio. Innanzitutto voglio ringraziare la nostra ospite, che ha riportato fra noi la piccola Lurichiyo.” Gli applausi furono pochi e molto contenuti, mosci. “Ma soprattutto, sono qui per annunciarvi ciò che aspettiamo da ben sei anni: Il nostro riscatto! Domani, una delegazione andrà ad Impel Down per discutere con un pezzo grosso della Marina, che speriamo ci darà cure e libertà! Per questa delegazione avrò bisogno di Lerik, per la sua conoscenza delle scartoffie del vecchio Governo, e di Uhrog, per la navigazione. Non fare quella faccia Uhrog, lo so che peschi nonostante il divieto. Ho bisogno poi di altri sei uomini qui e adesso per portare sulla nave ciò che ci servirà e domani come equipaggio, qui c’è una lista con gli idonei. Per tutti gli altri, preparatevi ad armare l’Arca, perché quando torneremo, saremo liberi!” un’acclamazione corale fuoriuscì dalle bocche di tutti i presenti: Gente che esultava, si abbracciava… “Una sola cosa vi chiedo: Questa sera avremo bisogno della piazza per raccogliere il necessario, quindi sono costretto a chiedervi di continuare la festa nelle vostre case, o nei bar, ma di lasciare libere le strade”. Symon e Lerik si guardavano increduli. Cori era sinceramente felice per loro. La gente nell’euforia generale abbandonò in fretta e furia la piazza, tranne i membri dell’equipaggio e Symon con la bimba addormentata in braccio, che sussurrò al marito: “Io vengo con te. Non è pericoloso per me, e non ti lascio solo” con un tono che perentorio era dire poco. Lerik protestò per un po’, ma alla fine si arrese. Jord, dopo aver parlottato con gli uomini dell’equipaggio, si diresse verso di loro: “Lerik, va pure a casa con la tua famiglia, per adesso non c'è bisogno di te qui, presentati domani con le scartoffie” gli disse posandogli una mano sulla spalla. Cori fece per seguirli, ma il sindaco la fermò: “Signorina Cori, vorrei discutere due paroline con lei, stia tranquilla, solo cinque minuti”. La sensazione di viscidume ritornò prepotente. Quel Jord non le piaceva affatto.
“Eccomi” lo raggiunse lapidaria.
 Jord sorrise enigmatico. “Ragazzi, è il vostro turno” disse facendo segno agli uomini dietro di lui.
Un uomo dalle mani a tenaglia la attaccò frontalmente, costringendola ad arretrare. Fece giusto in tempo ad evitare uno sgambetto, e stava per urlare, quando una massa gelatinosa le ostruì la bocca. Un uomo dal volto simile a quello di un uomo pesce le aveva sputato addosso. Non provò nemmeno a liberare la bocca, provò a scappare. Una contro sei era veramente troppo, ma gli uomini si erano stretti intorno a lei, impedendole di fuggire. Provò a sfondare la barricata buttandone uno a terra con un Morote Gari, ma due corna le si infilarono nella schiena, facendola cadere in avanti. Un laccio si strinse intorno alla sua gola e la tirò su. Le aveva chiuso la trachea, porca puttana, la stava soffocando! Qualcuno la teneva sollevata da terra. Cori si agitava inutilmente, cercando disperatamente di staccare il laccio dalla sua gola. Il viso divenne paonazzo, mentre le lacrime le ostruivano la vista ed il dolore diventava insopportabile. Con la vista offuscata, vide una massa di ricci e due brutti occhiacci che conosceva fin troppo bene. Tentò di liberarsi più forte, provò a spingere verso il basso, ma inutilmente. I suoi calci all’aria si facevano sempre più deboli, mentre la vista la abbandonava. Il dolore era veramente diventato insopportabile, ma mai quanto la voglia di respirare.
“Ci rivediamo, bastardina” fu l’ultima cosa che sentì prima di svenire.






Glossario:
Morote Gari: Tecnica appartenente alle Te-Waza, ovvero tecniche di braccia. Dopo aver sbilanciato l’avversario, Tori (colui che compie la tecnica) afferra da dietro le gambe di Uke (colui che subisce la tecnica), e lo fa cadere sulla schiena.

 Ed eccomi qua con questo nuovo capitolo, creato apposta per introdurre Symon e la sua famiglia, che ve ne pare? Si, è un capitolo un po’ narcisista in effetti. Immagino che si capisca chi è il personaggio di fine capitolo, no? Spero che il primo capitolo senza personaggi originali sia piaciuto, entro uno, forse due capitoli dovrebbero tornare, comunque. Grazie a chi recensisce e a chi segue in silenzio, è veramente importante per me il vostro giudizio! Inoltre, quest'oggi, 2 settembre 2017, io compio 18 anni! Evviva! Sia lode all’eroe trionfatore (citando il Genio). Alla prossima,
Hikari_Sengoku


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Capitolo 13
*** La Regina delle Sfighe e la Madre dei Cretini sono sorelle ***


La Regina delle Sfighe e la Madre dei Cretini sono sorelle
 
Qualcosa sbatté ripetutamente contro la chiglia della nave. Usopp corse a vedere. “Ehi, ragazzi! È il Submerge Shark III!”
“È vuoto” constatò Robin ad una prima occhiata.
“Si, ma cosa può essere successo? È in uno stato pietoso!” chiese Sanji preoccupato. Il Submerge Shark III non mancava di ammaccature, e sembrava star lí lí per collassare. Aveva alghe appese un po’ ovunque, e tutti i vetri rotti. Sembrava reduce di uno scontro impari. Franky forzò il portello. “Qui manca l’attrezzatura!” mugugnò notando che non c’erano segni di effrazione.
“Spero che Cori stia bene…” sospirò triste e incerta Nami. Zoro la guardò storto. “È stata lei a scegliere di andare, e sapeva di andare incontro al pericolo. Tutto ciò che può essere successo, non è affar nostro, almeno per ora”. Nami fece per ribattere infuriata, sostenuta da Usopp e Chopper, ma Rufy la fermò. “Zoro ha ragione. Abbiamo fatto una promessa, e sono sicuro che la manterrà. Dobbiamo rispettarla”
“Yohohoho! È il prezzo della libertà e della volontà che si guadagnerà con le sue mani!” si introdusse Brook. “Non ci sará niente di più bello, dopo” sussurrò poi sotto voce.
 
Uno dopo essere svenuto penserebbe di svegliarsi piano, magari prendendo conoscenza lentamente. Invece Cori si svegliò di botto, senza nessun intermezzo tra sonno e veglia. All’improvviso, aprì gli occhi. Sentiva un lieve bruciore alla schiena, e la gola in fiamme. Si guardò intorno. Aveva le mani ai ceppi. La rabbia la assalì. Digrignò i denti e strinse i pugni. Una mano fresca si posò fra le sue spalle.
“Stai ferma, o non ti riesco a medicare” disse la voce materna di Sy. Cori rilasciò i pugni. Era in una gabbia, una cazzo di gabbia! Una macchia rossa si allargava sul pavimento. Sentiva la schiena nuda, e le esili mani di Sy che le fasciavano la parte bassa, dove le corna l’avevano colpita. Sentiva il freddo polveroso del tavolaccio su cui era stesa a pancia in giù sul petto e sull’addome. “Mi dispiace Cori. Se solo potessi, ti salverei, ma non posso. È così ingiusto… Tu sei innocente!” recriminò la ragazza mentre stringeva le ultime fasce. Cori si girò piano, schiarendosi la voce roca per il soffocamento nonostante il pressante dolore alla gola, e le strinse una mano. “Non ti preoccupare, non è colpa tua” le disse guardandola negli occhi, ma lei non sostenne il suo sguardo. “Se solo potessi fare qualcosa…” mugugnò triste Sy.
“Sei con me, è giá tanto. Perché sono qui?” chiese mettendosi a sedere e infilandosi uno straccetto grigio. Symon era seduta di fianco a lei, e non la guardava. “Jord crede che consegnandoti ci lasceranno liberi. La Marina ti cerca Cori!” alzò la voce alzando finalmente lo sguardo su di lei.
“Chi ve l’ha detto?” ringhiò Cori.
Sono stato io”
Disse una voce conosciuta. Una voce che portava con sé una massa di ricci rossicci e un paio di  occhi foschi, pieni di rabbia.
“Gabriele” espirò fra i denti, per poi alzarsi in piedi e guaire, quando i ceppi ai polsi e le caviglie la fermarono ad un metro dalla grata. Ringhiò.
“Aaaah, siamo aggressivi oggi, gattina.” Ghignò il mostriciattolo. “ Tu sparisci” ordinò rivolgendosi a Symon, che osservava la scena con gli occhi spalancati. “Non ti preoccupare Sy, vai. Faccio solo due chiacchiere con Mr. Simpatia qua” tentò di tranquillizzarla. Sy obbedì in silenzio, superò le grate e sparì su per le scale che erano l’unica fonte di luce.
“Perché?” borbottò brusca Cori. Gabriele si esibì in una smorfia: “E me lo chiedi pure?! Tu e quel mucchio di cenere di tuo fratello mi avete rovinato la vita! Se non foste mai nati mio padre mi avrebbe lasciato in pace. Invece mi ha cresciuto perché lo aiutassi a tornare in questa fogna, mi ha tolto mia madre e come ultima beffa è riuscito a buttarmi in questo schifo. Mentre tu te la spassavi con il tuo spadaccino” Cori la prese come un’offesa personale “io ho passato l’inferno!” le urlò in faccia. “È l’ora di vendicarsi” rise.
“Come?” ringhiò di nuovo spingendo contro le catene. Sentiva i pugni formicolare chiusi per la voglia di picchiarlo. Aveva sete di sangue.
“Io so tutto del progetto Venom. È bastata una letterina per risvegliare gli interessi!” spalancò le braccia ridendo. ”Ti prenderanno, e ti distruggeranno pezzo a pezzo” sibilò sorridendole in faccia. Cori tentava di liberarsi. Spingeva, tirava, ma era tutto inutile. “Ma non lo vedi quanto sei patetica?”
“Mai quanto te!” sibilò fissandolo con rabbia. Il volto di Gabriele si indurì. “Ci vediamo su, Cori” sputò con disprezzo, per poi tornare di sopra.
Era sola, in una gabbia sul fondo di una nave, destinata al martirio in una prigione di massima sicurezza. Poteva andare peggio di così?
 
Adesso capiva gli animali in gabbia. Era lì dentro da un paio d’ore, ma le sembravano secoli. Dopo aver fatto un centinaio di volte il giro della cella, alla fine si era seduta per terra e aveva atteso. Forse era rassegnazione. O magari non aveva compreso la situazione in cui si trovava. Sapeva solo che dentro di lei c’era un pericoloso mare in bonaccia. Tutto calmo. Con lo sguardo fisso, vedeva e non vedeva le intercapedini fra le assi della parete, i nodi del legno, i chiodi. Masticava la rabbia, questo sì. Era incazzata nera, ma era una rabbia che non arrivava fino in fondo. Era anche tremendamente triste, ma anche questa sensazione non superava un certo livello. Pensava ai suoi genitori, che non l’avrebbero più rivista, al suo Maestro, che nonostante tutto le voleva bene e che ora probabilmente la credeva morta ammazzata da qualche parte, e a tutti gli altri. Era triste. Ma non abbastanza da agitare la calma piatta dentro di lei. Jord scese le scale con quattro marine al seguito. Aveva le tasche vuote.
“È lei. Non lasciatele spazio, è abbastanza brava nel corpo a corpo, potrebbe riuscire a buttarsi” la indicò. I marine aprirono la gabbia e la costrinsero ad avvicinarsi tirando al massimo i ceppi, in modo che non potesse combattere. Prima di scioglierle i ceppi, la ammanettarono. Manette di amalgatolite, ma lei non aveva mangiato nessun frutto del diavolo. Salirono sul ponte. Cori non attese oltre, cominciò a dimenarsi come un’anguilla, tentando di colpire i marine con le manette, un blocco unico di pietra. Niente da fare, i marine erano in estrema superiorità numerica e sguainate le sciabole la costrinsero in ginocchio davanti ad un vecchio dai lunghi baffi grigi e gli occhi nascosti dalle sopracciglia cispose, ed una donna alta, arcigna. Aveva i capelli biondi tenuti su da due affilate bacchette d’argento.
“È lei?” emise gelida la donna, fissandola dall’alto del suo tacco 15 e della sua immensa mole di superbia.
“Straordinario, un esemplare femmina! Credi che ci permetterà di studiarla, o reagirà come l’altro soggetto?” chiese allegro il vecchio battendo le lunghe mani ossute, dalle vene sporgenti.
“Considerata la familiarità, non mi arrischierei nemmeno a provare a trattarla civilmente. Bestie come queste tendono a mordere la mano che li nutre” disse lugubre la ripugnante scienziata. Cori, disgustata, le sputò in faccia. Una smorfia di disgusto si dipinse sull’algido viso della donna, che si pulì con un fazzoletto che poi gettò a terra, calpestandolo mentre si girava. “Dottor Kopechy, proceda con il test, poi la porti a battesimo e infine giù al Dipartimento di Sanità della Prigione. Ordinerò che venga preparato il tavolo operatorio.” Ridacchiò la bastarda, abbandonando il compagno. Questi ridendo sinceramente divertito sotto i lunghi baffoni, si avvicinò a lei e con un movimento secco le posò sul dorso della mano un oggetto circolare. La pelle bruciò all’istante, e Cori urlò stringendo il braccio al petto. Una bruciatura tonda faceva mostra di se alla base della mano. Il vecchio ridendo sommessamente indicò la via della prigione. I marine cominciarono a pungolarla e spingerla sull’altra nave, e poi sulla piattaforma di cemento. Davanti a lei, con un lugubre clangore, si spalancavano le porte dell’Inferno. Dietro di lei, sentiva le urla di Lurichiyo allontanarsi sempre di più. Circondata da un plotone di marine, era inutile ribellarsi. Sguardo alto, testa fiera… non si sarebbe piegata, né ora, né mai.
 
“Hihihihihi, seguimi ragazzo!” ordinò ridacchiando il vecchio rivolgendosi a Gabriele, che da un angolo si godeva la scena.
“Cosa? E perché?” chiese infastidito.
“Ma è ovvio! Nel caso qualcosa andasse storto, la tua presenza sará una garanzia più che sufficiente per le tue parole menzognere! Non ti preoccupare, ti metteremo negli alloggi degli ufficiali. Certo, dovrai condividere la stanza, ma sará sicuramente un soggiorno migliore del suo, hihihihihi” ridacchiò lo scienziato indicando Cori che, a testa alta, oltrepassava le fatali porte.
“E se non obbedissi?” ringhiò il ragazzo.
“Allora dovresti seguirmi con la forza, hihihihihihi!” Quella risata cominciava a dargli sui nervi, pensò mentre i marine gli facevano formazione intorno.
“D'accordo idioti. Eccomi” si arrese mentre veniva portato via.
 
Il silenzio era rotto solo dalle grida disperate dei prigionieri. Alla fine, l’impianto strutturale della prigione non era male, anzi, assomigliava al castello di Spoleto (anche se quello non era nemmeno lontanamente così vasto e pericoloso), e a lei era sempre piaciuto. I marine spinsero Cori fin nella Sala delle Perquisizioni, poi non trovando niente, scesero col montacarichi fin giù al quarto livello, dove ad attenderla c’era un calderone pieno di acqua bollente. Ti prego solo pochi secondi, ti prego solo pochi secondi. I marines la insalamarono per bene e la appesero sopra al calderone. Giá solo a quella distanza scottava. Cori strinse gli occhi, serrò la bocca, e sperò soltanto che finisse in fretta. I pensieri si annullarono per quel
Misero
Infinito
Istante
In cui si trovò sott’acqua. Era completamente ustionata dove non c’erano le corde, scottava da morire. La sciolsero e la buttarono a terra come un fantoccio, per poi rialzarla prendendola da sotto le ascelle, ma Cori, orgogliosa, si divincolò, mentre miracolosamente sentiva che la lana e lo scarpone avevano salvato i suoi piedi. Dopo un paio di barcollanti passi, i marine la ripresero di nuovo. Camminare era faticoso, tutto il corpo pulsava e bruciava da impazzire. Tutto il suo corpo fumava. Ogni passo era dolore. Scesero ancora col montacarichi, e poi attraversarono tutto il sesto livello, senza pause, senza tregua. Sentiva gli occhi di quei potenti detenuti addosso, i loro sguardi pieni di pietá, o solo di rancore, nel vederla procedere con la testa china e i capelli gocciolanti, la bocca contratta in una smorfia. Ma non poteva cadere, avrebbe fatto più male. Alla fine vide un cartello: Dipartimento di Sanità. Oltre, le celle erano completamente piastrellate di bianco, ma non diversamente pulite. Solo più vuote. In fondo al corridoio, le porte aperte di una sala operatoria, forse mai utilizzata per scopi medici.  I marines ce la buttarono sopra in malo modo, e poi la bloccarono perché non potesse scappare. Delle manette le ancorarono mani e piedi alla tavola. Inutili, fievoli proteste del suo corpo, delle proteste che sembravano più gemiti che urla, mentre sbatteva invano i polsi e le caviglie doloranti contro il freddo acciaio. La scienziata si infilò il guanto di lattice con uno schiocco gommoso.
“Siamo pronti?” emise gelida ai marine, che risposero con un secco “Sissignora!”. Poi scese con le labbra sottili a livello dell’orecchio di Cori: “Se fino adesso hai creduto di provare dolore, era soltanto un’anticamera di questo. Considerala come una piccola vendetta personale.” Ghignò. Sentì i sottili capelli biondo grano solleticarle la guancia. Girò la testa e con i denti li tirò.
“Ah! Ma avrai ancora poco da ribellarti!”  disse la donna strappando la ciocca dai denti di Cori. “Dottor Kopechy, porti il macchinario!” urlò. Con pochi colpi di rasoio tagliò i capelli di Cori dal lato sinistro, mentre un marine le bloccava la testa. Poi, con il bisturi fece sei piccoli taglietti lungo la curva dietro l’orecchio, da sopra fin dietro. Un fiume di sangue si versò sul tavolo, impregnando gli abiti e bagnando il pavimento. Ma la donna li ignorò, continuando a scavare dentro i tagli, procurando continue, dolorose fitte. Cori non voleva darle la gratificazione di sentirla urlare, e si morse la lingua fino a farsene uscire il sangue. Poi finalmente il bisturi si staccò, provocando un’ondata di sollievo. “Il vero dolore arriva adesso” sussurrò la dottoressa, infilandole senza avvertire uno spinotto (o così sembrava) nei tagli. Il dolore era
Insostenibile.
Qualcosa le stava tagliando il cervello, bruciando i nervi.
Urlò, e così ancora ogni singola volta, tanto che l’intero livello giurò di aver sentito le urla di un demone incatenato nelle profondità della prigione, bramoso del loro sangue. Non riusciva a respirare dal dolore! Ad un certo punto, il mondo era dolore. Sentiva di viaggiare avanti ed indietro tra sonno e veglia, e ogni volta che si svegliava era più terribile della precedente. Urlò e urlò, finché non venne assordata dalle sue stese urla. Non sentiva nient’altro che le spine che le tagliavano i nervi, uno ad uno, pezzo a pezzo finché non le parve di sparire dietro quell’immane massa di dolore. Cori non esisteva più, schiacciata da quella massa. Era solo
Pulsante
Orribile
Tremendo
Dolore.
La portarono via che era a malapena cosciente per provare sollievo. Le ammanettarono le mani ‘ad angelo’, e poi i piedi. Accanto a lei, solo il borbottante rumore del macchinario che le succhiava via le forze come una tenia.  Poi svenne.
 
 
In quel posto mancava completamente la concezione del tempo. Non si capiva nemmeno se era giorno o notte. Era solo un’eterna notte buia. Quindi non mentiva quando diceva che si era svegliata di notte. La prima cosa che aveva sentito era una dolorosa fitta quando aveva alzato la testa, che partiva dalla curva dell’orecchio. Le ustioni non facevano più troppo male, erano solo gonfie e rossastre. Poi aveva provato a sgranchirsi, ma ogni movimento era lento e terribilmente stancante. Anche solo sgranchire le spalle le distruggeva la testa e la lasciava sfinita. Con questo andazzo, avrebbe di nuovo finito per lussarsi le spalle. Il ticchettio dei tacchi della dottoressa risuonò lungo il corridoio, seguito dai passi soffocati del vecchio. La cella si aprì con un clangore metallico. Nel totale silenzio, i due scienziati armeggiarono col macchinario, poi con lo stesso oggetto circolare con cui era stata ustionata il giorno prima, le procurarono un’altra ustione poco più sopra. Sentì il sangue ribollire nelle vene e scaldarsi. Dalla bocca fuoriuscì uno sbocco di fumo, ma si trattenne stringendo i denti. Non avrebbe rivelato il suo potere. Impassibile, la dottoressa sfoderò una frusta e la colpì due volte sul petto. Cori gemette. Il sangue impiastrò subito le vesti logore e lerce.
A quel punto, la donna si avvicinò: “Il dottor Kopechy verrà ogni giorno per testare la tua reazione. Spero che sarai gentile con lui, in fondo è stato il capo laboratorio di tuo nonno. Se opporrai resistenza, lui mi chiamerà ed io aumenterò le torture. Pensa bene a ciò che vuoi fare, Esperimento 01.” Ghignò allontanandosi. Cori cominciò a guardarsi intorno. Attaccati agli spinotti nella sua testa c’erano lunghi tubicini rosati, che finivano in un macchinario alto un metro, lampeggiante e borbottante come le migliori macchine. Ogni movimento era una dolorosissima fitta alla testa, che spesso le faceva perdere l’orientamento. Una delle frustate aveva colpito dritto sulle costole mobili di destra, l’altra poco piú in basso a sinistra. Il sangue scorreva copioso ed aveva già imbrattato le bende sull’addome. Ogni respiro era doloroso come se avesse ingoiato spilli e questi stessero uscendo dalla ferita, che di per se sentiva poco. Stava perdendo le forze ogni secondo di piú. Fra pochi giorni, andando avanti con quell’andazzo, non sarebbe più riuscita nemmeno ad alzare la testa. Una volta che il ticchettio dei tacchi di quella disgraziata maledetta si fu disperso, una voce attraversò l’aria polverosa tra la sua cella e quella di fronte, una voce sibilante, giovane, ma non acuta.
“Ehi, stai bene?”
Cori a mala pena sollevò lo sguardo, stirando le labbra in un mezzo ghigno che scopriva i denti. Attaccato alle sbarre della cella di fronte alla sua, sulle prime intravide solo una sagoma fumosa, che poi prese via via corpo. Era un ragazzo, forse della sua stessa età. Era a torso nudo, e dalla vita in giù il suo corpo era sostituito da una lunga coda serpentina dai riflessi di malachite. Anche lungo il corpo asciutto vi erano rade strisce squamate. Attorno al collo aveva un grosso collare fluorescente, con un lucchetto. Il volto, invece, era prevalentemente intatto: Bei tratti affilati, una sottile bocca disegnata, quasi femminea, ed una folta coda alta di capelli corvini. Ma la cosa che più la attirò furono gli occhi: Due pietre smeraldine prive di sclera, solcate dalla pupilla rettilea.
“Sei il fratellastro di Lerik, non è vero?” gli chiese con la voce roca e graffiante per il troppo uso.
“Fratello, se permetti. Non credo che dopo tutto quello che ha fatto per me non si consideri ancora mio fratello. Ma se lo conosci, credo che tu giá lo sappia” le rispose dolcemente, avvicinandosi ancora di piú alle sbarre.
“In realtà lo conosco poco. Ho salvato Lurichiyo naufraga qualche giorno fa e l’ho riportata a casa, tutto qua.” Rispose lenta scrutando una macchia scura che il ragazzo aveva a livello del cuore, a sinistra. Assomigliava ad un Jolly Roger che aveva giá visto, ma non ricordava bene quale…
“Come sta ora?” chiese sollecito lo zio.
“Bene” rispose sintetica, concentrandosi sul misterioso simbolo, simile ad uno smile.
“Scusami, non mi sono presentato. Mi chiamo Bashe” si presentò con un inchino.
“Cori, piacere” Entrambi scoppiarono in una risatina secca e scoppiettante, che terminò per Cori con una dolorosa fitta ed uno sbocco di sangue. Aveva finalmente riconosciuto la macchia: Era il Jolly Roger di Trafalgar Law.
“Tu come mai sei qui?” chiese Cori curiosa, graffiando ancora la gola, strofinando piano i polsi ustionati nelle manette.
“Faccio parte dei pirati Heart, e sono quello che sono. Il primo mi è valso la cattura, il secondo la stanza VIP.” Ridacchiò roteando gli occhi. “Tu invece?”
“Sono capace di teletrasportarmi e di fare qualche altro scherzetto, tipo isolare ciò che tocco dal mondo esterno” ribatté roteando gli occhi a sua volta. Gli spettacolari occhi di Bashe si illuminarono immediatamente.
“Davvero? Sembra fichissimo” sembrava solo un ragazzino eccitato, più che un membro della ciurma di una delle più note Supernove, in quel momento.
“Si, soprattutto quando non sai come cacchio usarlo e finisci per marcire sul fondo di una prigione con due simpatici sadici sega-ossa per compagnia.” Ridacchiò, tossicchiando sangue in giro. Dire una frase così lunga tutta d’un fiato era stata un’impresa.
“Ti stai dimenticando di me. Io compenso tutte le fatiche e il dolore” cercò di consolarla sorridendo.
“Hai ragione, scusa” balbettò tossendo. Parlare stava veramente diventando troppo difficile. Le piaghe cominciavano a bruciare, e anche la testa non voleva smettere di pulsare e trasmettere fitte estremamente dolorose, da perdere l’orientamento. In più, la pelle intorno alle ferite sulla sua schiena tirava incredibilmente, aggiungendo altra pena.
“Secondo te, cosa mi faranno domani?” sospirò penosamente. Bashe continuava ad ondeggiare dietro le sbarre, fissandola preoccupato, cercando di mantenere un contatto visivo.
“Non lo so, giriamo la ruota della fortuna?” rispose ancora più incerto. Cori si sentiva la testa estremamente pesante, ma non doveva dormire…
“Ti prego, se vuoi, continua a parlare” lo pregò alzando penosamente lo sguardo su di lui. Bashe sembrava spaventato. All’improvviso, una nebbiolina nera invase il suo campo visivo.
“Ce-certo. Però devi ascoltarmi, che poi dopo ti interrogo”
 
La prima serata passò così, con Cori distrutta che ascoltava le chiacchiere allegre di Bashe. Quello che Cori non sapeva, e che aveva spaventato il ragazzo, era che la sua pelle stava fumando, ed era lucida di sudore, finché ad un certo punto l’atmosfera si era raffreddata e la ragazza era caduta in un sonno profondo. La giovane mezza-serpe aveva provato subito simpatia per la poverina della cella di fronte, che sembrava stare lì per puro caso, ed avendo da sempre un carattere solare e aperto, aveva subito provato ad intavolare una conversazione. Per la prima decina di frasi era andata bene, poi Cori aveva cominciato a stare un po’ male e lui aveva assolto felice al compito assegnatogli: Non era uno di quelli a cui si secca la lingua facilmente, e voleva sinceramente aiutarla. Così aveva cominciato parlando di quello che era successo al villaggio sei anni prima, quando quel losco figuro li aveva trasformati in mezze bestie, e lui aveva solo dodici anni e aveva perso il padre e la madre, che condivideva con Lerik, e il fratellastro l’aveva ‘adottato’. Diceva che all’inizio Lerik non lo poteva vedere ma che grazie all’aiuto di quella santa donna di sua moglie alla fine i suoi sforzi per avvicinarlo avevano dato frutto. Fin da piccolo era sempre stato l’anima della festa, e quando era nata Lurichiyo era stato eletto come babysitter ufficiale dalla piccola, che lo adorava. In paese, non molti lo vedevano di buon occhio per via dell’aspetto ingannatore: Una favola metropolitana che aveva preso piede nel villaggio sosteneva che la trasformazione avesse tirato fuori il vero io delle persone, ma allora c’era da chiedersi perché Gretel non si fosse trasformata in una vipera, invece che in una mezza-giumenta (anche se la trasformazione non era stata clemente con lei). Ma quelli erano pfui! Dettagli. Sei mesi prima, la ciurma di Traffy aveva subito un dirottamento per seguire uno dei cuori di cui il Capitano sembrava avere bisogno, ed erano curiosamente sbarcati sulla loro isola in cerca di rifornimenti. Un’occasione d’oro per lui che voleva fare il pirata da sempre! Così zitto zitto, forse grazie alle sue doti fisiche particolari, era riuscito a farsi accettare ed era fuggito, cosa di cui adesso si rammaricava un tantino, perché ripensandoci ora capisce Lerik e avrebbe voluto dargli più fiducia. Era stato affibbiato alle macchine perché aveva un discreto livello da carpentiere. Giusto tre giorni prima, all’arrivo su Sabaody, era stato prima scambiato per un FUG, uno schiavo fuggitivo, poi era stato riconosciuto, e da allora le cose erano andate a scatafascio. Fino al giorno prima, era lui la cavia preferita di quella bionda infame. Dopo poco quest'ultima affermazione, Cori si era addormentata, perdendosi un’interessante disquisizione sulla crudeltà di quell’essere inumano. Bashe se ne accorse, e sorridendo sussurrò per lei ‘una notte serena ed un riposo tranquillo”.
 
Era di nuovo appesa a quelle maledette manette, ma la stanza sembrava essersi dissolta in un nero uniforme. Davanti a lei c’era un ragazzo, i cui lineamenti erano un curioso miscuglio. Sembrava che le sue sembianze si modificassero continuamente, come un corso d'acqua, ma che la sua essenza rimanesse sempre la stessa. Ogni tanto appariva una zazzera verde, un’altra volta bizzarri occhi smeraldini, ancora poi un paio di piccoli occhi castani e capelli riccissimi. Rimaneva in silenzio di fronte a lei, nel buio più totale. Le sue labbra non si muovevano, ma diverse voci, disperatamente non in sincrono, attraversavano l’aria:
Lasciati andaaaare” sussurravano le voci sibilanti. “Sai di poterlo fare” sembravano quasi dolci.
“No” rispose decisa.
Peeerchéééééé?” piansero. “Ti farà maaleeeee!” gridarono acute da spezzare i timpani. La creatura di fronte a lei si mosse, portandosi a quattro zampe, avvicinandosi a lei, spalancò una bocca grottesca, larga quanto il suo viso, come se fosse stata tagliata, scoppiando in un urlo, o forse uno stridio, che la mandò nel panico, era quanto di piú orribile potesse immaginare. Irti denti aguzzi facevano da contorno ad un maleodorante buco nero. Improvvisamente, diventò grande il doppio, il triplo di lei e oscurò ogni visuale. Ne percepiva l’alito pestilenziale, ne vedeva la bava violacea, quasi sanguigna, gocciare sul pavimento incandescente e sfrigolare. Nonostante tutto, le sue sembianze continuavano a confondersi, creando un caos psichedelico che cominciò ad avvolgerla nel suo vortice pauroso di immagini e colori e forme completamente privo di senso.
Fallooooooooo! Fallooooooo! FALLOOOOOOOOOO!” urlavano le voci sempre piú acute, finché tutto non venne avvolto dalle fiamme e dopo interminabili istanti, venne inghiottito.
 
Doveva proprio smetterla di mangiare pesante la sera.
 
 
 
 
Ehilà, bella gente! Questo, vi avverto, è solo l’inizio di un paio di capitoli che scadranno veramente nell’horror! Le cose peggioreranno, anche gli incubi. Che ne pensate del mio piccolo Bashe? A parte questo, spero che anche questa parentesi della mia storia possa piacervi nonostante i toni splatter, non durerà in eterno. Grazie a chi recensisce, fa davvero un lavoro gradito! A presto,
Hikari_Sengoku


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Capitolo 14
*** Sogno di una settimana di torture infernali ***


Sogno di una settimana di torture infernali 

Era stata una lunga notte, la prima notte in cella, ma se avesse potuto, a posteriori Cori avrebbe preferito che durasse ancora un po’. La noia e il dolore, il dolore e la noia. Le piaghe avevano cominciato presto a pulsare, ed il respiro, profondo, impediva loro di smettere di sanguinare, facevano male ma erano sopportabili. Il dolore più acuto era dato dalla testa, che non perdeva occasione per ricordargli ad ogni movimento la sua dolorosissima presenza, che se fosse servito a qualcosa Cori avrebbe voluto raggomitolarsi e piangere dal dolore. Faceva male! Bashe dormiva nella cella di fronte, raggomitolato nella sua lunga coda serpentina come in un bozzolo, ne sentiva il tenue russare. Si guardò intorno: Pallide mattonelle su pallide mattonelle, le sbarre, la luce azzurrina della sala operatoria. I tubi che aveva attaccati alla testa sembravano delle sanguisughe, o delle tenie. Sentiva che la divoravano dall’interno, e aveva fame, quella vera, non il languorino prima di pranzo. Per far passare il tempo canticchiava. Tutte musiche tristi. Il mattino arrivò con il vecchio che caracollava per i corridoi con quel suo bizzarro oggetto circolare in mano. Con la chiave, aprì la cella e vi entrò. Cori tentò di ritrarsi, ma era inutile: L’uomo la marchiò di nuovo sul braccio, attendendo la sua reazione. La ragazza sentì il braccio andare a fuoco, un fuoco che si espanse ovunque, ma resistette, stringendo i denti, alla nebbia nerastra che tentava di avvolgerla. Il vecchio osservata la sua reazione se ne andò ridacchiando. Cori si piegò in avanti e vomitò l’anima. L’odore penetrante del vomito misto alla bile e al sangue le fece sentire male ancora di più. Non avrebbe saputo dire quanto aveva aspettato in preda ai conati e alla febbre, ma era stato un tempo lunghissimo. La donna, col suo rigido chignon di capelli biondi fece la sua comparsa, ordinando di ripulire lo scempio e di permettere alla prigioniera di liberare gli intestini. Poi fece il suo teatrale trionfo facendo schioccare la frusta e tintinnare gli strumenti. Prima la frustò, aprendo nuove ferite sul torso, urlandole: “Stupida cagna! Ti ostini a trattenerti, ma io saprò bene farti liberare!”.  Poi, vedendo il sangue colare dalla bocca tumefatta, aveva sghignazzato, godendosi i guaiti di dolore di Cori. Alla fine si era seduta ai suoi piedi, e con pochi rapidi movimenti le aveva scuoiato le piante. Con un coltello aveva inciso un solco sopra il tallone sinistro, leccandosi le labbra alle sue urla, e aveva continuato finché sulla pianta non si lesse la parola ‘FECCIA’, beandosi di ogni suo lamento, ignorando i suoi vani tentativi di ribellione. Aveva afferrato il piede destro e aveva inciso, solco per solco, con un godimento che rasentava l’erotismo, la parola ‘SCHIAVA’. 
“Vediamo se sarai più ragionevole domani” sghignazzò la donna girandosi.
“Non basta un giorno di freddo per gelare un fiume profondo” sentenziò Cori con la voce roca. La donna si sbatté le sbarre dietro di se, sparendo infuriata nel corridoio. Un fugace applauso scoppiò nell’aria, era Bashe.
“Sei un genio! Sei stata grande con quella frase!” gioì. Cori sospirò, buttando la testa all’indietro. Nonostante la sfrontatezza dell'ultima frase, era distrutta, ricoperta di sangue e ferite.  In realtà le frustate, passato il bruciore del momento, si erano stabilizzate in un dolore continuo altalenante col respiro, e a poco a poco ci si stava abituando. I piedi bruciavano, e non riusciva a muoverli senza gridare, ma la testa, sempre la testa, non le dava tregua. Aveva la febbre e la vista appannata, ma non abbastanza da non vedere Bashe che tentava di consolarla. Gli sorrise debolmente prima di addormentarsi.


 Quando si svegliò non doveva essere passati molto tempo. La dottoressa inveiva contro il baffuto assistente: “Siete uno sciocco dottor Kopechy! Ve l’ho detto, se affretteremo il processo non ne avremo che benefici! Invece lei no, vuole studiare la cavia! Cosa vuole che sia un piccolo sacrificio, in confronto all’evoluzione scientifica! Non vuole capire che se riusciamo nell’intento, quella ragazzina saccente non ci servirà più! Pensate che risvolti avrebbe una scoperta del genere per la battaglia di Marineford mettendo in campo quest’arma! E saremmo stati noi a scoprirla, potremmo addirittura superare quel vecchio pallone gonfiato di Vegapunk!!” Cori era sicura che Miss Scopa nel sedere stesse gonfiando un po’ la cosa, perché il teletrasporto era figo si, ma ci voleva allenamento e non era poi così potente! Poi al primo impatto era pure dannoso. Quella era solo una sadica rompiballe, e basta. Altro che scienza. "Quella piccola imbecille, non fa altro che darmi rogne!" Il vecchio provò una debole resistenza, "Ma é solo una povera ragazza innocente, si tratta pur sempre della nipote di un mio caro collaboratore!" ma venne in breve sconfitto e umiliato da quella pazza isterica bipolare.
"Stupidi idioti!" Imprecò fra i denti, progettando la prossima provocazione. Quella donnaccia poteva pure scordarsi che sarebbe rimasta in silenzio! Porca miseria che male i piedi! Bruciavano da impazzire. Li mise bene in equilibrio sulla base dei talloni perché non toccassero terra e bruciassero ancora di più.
"Ti fanno molto male?” chiese Bashe preoccupato.
“Eh, un po’” espirò sofferente osservando le nuove ferite, pulsanti blocchi di dolore rosso sulla pelle appesa sulle costole visibili, il ventre gonfio per il poco cibo straziato da altre bollenti frustate grondanti sangue sugli abiti lerci e strappati, che lasciavano alla vista di tutti (quelle poche guardie di ronda, i due bastardi e, ahilei, Bashe) il corpo smagrito e penosamente martoriato, la pelle floscia sul petto, le gambe nervose ricoperte di sangue a tal punto da nascondere le ferite vere e proprie, e i piedi, massacrati, infamati, appendici rossastre ed inutilizzabili. Quei maledetti tubi sembravano accelerare il metabolismo ad un livello insostenibile per l’organismo. Assomigliava vagamente al Gear Second di Rufy per i sintomi, la pelle fumante e rossa, ma per il resto sembrava solo distruggerla dall’interno. Lei non era mica fatta di gomma!
“Tu… non mi hai detto ancora come…?” chiese al ragazzo con un gesto allusivo della mano per indicare come sarebbe finita.
“Non lo so. Credo che avremo lo stesso destino” le rispose mogio di nuovo con il volto affilato fra le sbarre.
“Intendi ammazzato di botte e dimenticato sul fondo di una prigione? Beh, dai, possiamo farci compagnia” gli sorrise debolmente. “Quando ero ancora nel mio mondo, amavo leggere e scrivere storielle. Era divertente” disse sovrappensiero.
“A me piaceva stare a guardare il cielo e immaginare di navigare col vento fra i capelli. Vedevo il mare, azzurro e bellissimo, ce l’avevo lì, e alla fine quando ho avuto l’occasione l’ho preso. Non credo di essere mai stato più sicuro di una mia scelta che quando sono entrato a far parte dei Pirati Heart.” Raccontò nostalgico.  
“In effetti, con un Capitano così un pensierino ce lo farei pure io!” ammiccò, e Bashe rise. “Non ti manca mai la tua famiglia?”
“Tanto, soprattutto adesso. Ma mi vogliono bene, e un giorno o l’altro capiranno le mie scelte”  scosse la testa, triste “mi manca mio fratello”
“Fidati, nessuno come me ti può capire. Anch’io avevo un fratello” sorrise.
“Avevi? Cosa gli è successo?” chiese increspando la fronte.
“È sparito, da un giorno all’altro. Sono tre anni che è scomparso. Ma ti assicuro che mi manca ancora come il primo giorno.” Scosse malinconicamente la testa.
“Io ho conosciuto mio fratello il giorno che siamo rimasti orfani. Io vivevo con mia madre, e quando lei morì a causa della terapia, Lerik mi prese con se. È vero, non siamo del tutto fratelli, abbiamo in comune solo la mamma, ma Lerik diceva sempre che l’avevo conquistato alla fine. Lo assediavo tutti i giorni, gli facevo la posta al lavoro, costringevo quel Dolcecuore della sua ragazza a preparare un posto anche per me a tavola. Una notte, spostai la brandina in camera sua, quando avevo ancora gli incubi. Dopo quell’episodio non mi allontanò più. Ah, sono anche il Babysitter Ufficiale e il gioco preferito di Lurichiyo. Si divertiva a truccarmi e pettinarmi i capelli. Credo che un giorno abbia preso ispirazione dal coinquilino dei piani alti, quel Buggy”. Cori si sforzò di non ridere.
“Invece io e mio fratello da piccoli giocavamo alla lotta, a nascondino, ad acchiapparella... Sempre con Emilia, la balia. L’abbiamo fatta impazzire, quella povera donna!” tossicchiò qualche risata ripensando al vecchio sgabuzzino delle scope dove finivano per addormentarsi insieme.
“E i vostri genitori?” chiese curioso Bashe.
“Non ci consideravano molto in genere, erano spesso in viaggio, e Ottavio, che era il più grande, doveva essere sempre all’altezza delle loro aspettative. Un compito che ha lasciato in eredità a me. Prima che sparisse, mia madre era molto più felice, affettuosa quelle poche volte che li vedevamo. L’ultima volta che l’ho vista, gridava come una pazza, e io non ho potuto fare niente per lei. In realtà, gli voglio molto bene, solo che sono lontani per me. In fondo, mi hanno dato tutto, e a modo loro ci volevano bene” ammise alla fine Cori. Era servito dividersi da loro per sempre per capirlo?
“Mi dispiace” proferì il ragazzo.
“Non dispiacerti, non è niente di trascendentale. Come vedi, non ho turbe psichiche e sono sana come un pesce. Beh, più o meno” si corresse vedendo il sopracciglio del moro alzarsi.
Continuarono a chiacchierare del più e del meno (il tuo animale preferito, il colore, discussioni filosofiche sulla reciproca istruzione, una parola che per metà degli onepieceiani corrisponde a leggere, scrivere e far di conto) ancora per una mezz’oretta, poi finirono per tacere di nuovo, sfiniti dalla fame. I loro stomaci brontolavano a fasi alterne.
“Ah, ho faaame!” esplose Bashe.
“A chi lo dici! Mi mangerei un bue, ora come ora” gli diede ragione Cori.
“Secondo te, una scopa ed un mucchio di polvere possono avere un buon sapore? No , perché la prossima volta che passano potrei decidere di azzannarli” propose il ragazzo.
“Non sprecare così le tue ganasce. Di sicuro sono acidi come limoni” sghignazzò Cori appoggiando la testa al muro. Aveva un forte mal di testa e i conati di vomito, ma non aveva nulla da rigettare, e tutto quel rumore cominciava a darle fastidio. “Senti, ti dispiace se ne riparliamo domattina? Sono stanca”
“No, no, fai pure, dormi.”


Forse aveva sognato, dato che l’aveva sentito dopo un po’, o forse no, ma ad un certo punto, non avrebbe saputo dire quale, Bashe aveva iniziato a cantare. Forse lo faceva per farsi coraggio, non ne aveva idea, ma stava cantando una ninna nanna. Aveva una voce fresca, un po’ sibilante, e allungava molto le sillabe mantenendo un tono pacato. C’era silenzio intorno, come se il mondo si fosse fermato per ascoltare l’incanto del serpente.
Notte
è notte oramai…
tardi
è tardi lo sai
dorme il cane
dorme il gatto
e nell’ acqua i pesci rossi sbadigliano
notte
di stelle verrà
notte
serena sarà
tutti sotto le lenzuola
e non vola una parola
In punta di piedi si và
tutti dormono già
dormono pesi e città
alberi e nuvole angeli e favole
notte
di sogni sarà
notte
un mistero che va
per le strade tutto tace
peri il mondo una speranza di pace chissà
In punta di piedi si và
tutti dormono già
dormono paesi e città
alberi e nuvole angeli e favole.
Notte
è notte oramai
tardi
è tardi lo sai
l’ora della buona notte
nelle case grandi
e in quelle più piccole va.

Cori non aveva avuto il coraggio di addormentarsi durante la canzone, ma appena questa finì chiuse gli occhi. Era stata una delle più belle ninna nanne che avesse mai sentito, la faceva sentire al caldo, al sicuro,  a casa.


“Hihihihihihi!” Risata da Cavallo avanzò nel corridoio con il suo solito passo strascicato. Cori alzò gli occhi al cielo e strinse i denti, subendo di nuovo il supplizio infernale. Come il giorno prima, nel vederla trattenere strenuamente la cosa, se ne andò via ridacchiando. Cori avesse potuto gli avrebbe strappato quella sua linguaccia. Due ore dopo, fisso, arrivò la biondona.
“Allora? Ci arrendiamo?” chiese aprendo con un cigolio sinistro la cella, portandosi dietro un carrello metallico.
“Mai” la seccò Cori fissandola dritto in quei minuscoli occhietti da topo.
“Mi hai stancata ragazzina.” Proruppe la donna portandole un bisturi alla gola. “Arrenditi, o saranno guai!” le sibilò in faccia, mentre un rivolo di sangue correva giù lungo il collo, imbrattandola ancora di più.
Impassibile, Cori le rispose come si era preparata: “Per quanto il vento ululi forte, una montagna non può inchinarsi ad esso”, girando il collo contro il bisturi, che approfondì il taglio. La faccia di quella donna si contrasse in una smorfia di disappunto.
“Siamo spavalde oggi, eh? Non ci è bastata la lezione di ieri, Esperimento 01?” la minacciò sfiorandole la pelle del lobo col coltello. Cori non raccolse la provocazione, ma stette stoicamente in silenzio, fissando quella donna di malaffare nei suoi occhiacci rapaci. La bionda si era leccata le labbra, e con lenti, lentissimi movimenti aveva cominciato a scarnificarla intorno ai tubi-sanguisuga, provocandole un dolore inimmaginabile, da arrivare alla pazzia. La sadica donna scavava nel suo cranio come in una coppetta da gelato ghiacciata, lentamente, ma con perizia, le aveva messo a nudo l’osso in qualche caso, raschiava con metodo, aprendo una grossa piaga intorno all’orecchio, dolorosa come poco al mondo, le provocava fitte infernali e triplicava il dolore giá di per se stesso insostenibile degli spinotti. Poi aveva abbandonato il bisturi e si era data alla frusta. Bashe era rimasto lí a guardare - sotto la perenne minaccia del telecomando se avesse osato intromettersi – la poverina che si dimenava inutilmente sotto le mani rapaci della sua aguzzina, pronta a carpire da ogni suo movimento un indizio che potesse esserle utile.  Da allora, Cori era rimasta in silenzio tutto il giorno, alternando fasi quasi lucide a deliri e sonno. Spesso proruppeva in urla improvvise e strazianti, o risa isteriche che finivano in sbocchi di sangue. Bashe tentò inutilmente di calmarla, provò addirittura a cantare la Canzone della Buonanotte, ma Cori sembrava sorda. 
Da allora, ogni mattina, quando il vecchio arrivava, Cori si rintanava nel suo angolo, guardandolo con occhi che ogni giorno perdevano qualcosa di umano. Il tanfo si era fatto insostenibile, misto fra la sporcizia ed il sudore che le catene le impedivano di tergersi e l’orribile fetore delle ferite purulente e infettate, dai bordi neri di immondizia incrostata e siero rappreso, rossi e gonfi di pus, aperte e rosse di sangue vivo e secco incrostato anch’esso sulla pelle pallida, quasi traslucida. Se ne vedeva l’orribile interno della pelle trasudante liquidi puzzolenti, i muscoli, la carne viva e pulsante. Il vecchio sembrava non accorgersene, quando entrando ogni mattina nella cella la marchiava con quell’oggetto, creandole una nuova macchia scura sul braccio, in linea retta con le altre, attendendo una sua reazione. Ma Cori tendeva tutti i muscoli allo spasimo, mordeva le labbra a sangue, ma non demordeva. La sua pelle diventava lucida e rossa e cominciava a fumare, i muscoli ribollivano, ma lei resisteva. La febbre la assaliva per la maggior parte del tempo, impedendo ogni sorta di dialogo, ed era anche per questo che i rari momenti di lucidità di Cori erano come perle da custodire e sfruttare gelosamente. Molte volte Bashe tentava di rincuorare la sfortunata compagna, prendendosi sempre più spesso ringhi o guaiti, piuttosto che vere risposte. Il dolore la stava trasformando in una belva selvatica. Le spalle, perennemente appese, avevano finito per lussarsi, e Cori era costretta a farle schioccare sempre piú spesso, ma quello era il male minore. I piedi si erano ricoperti di uno strato di sporcizia e siero, sanguinavano perennemente e procuravano un dolore immane, ma niente di paragonabile alla pelle scarnificata del cranio nelle vicinanze di quelle appendici demoniache. I nervi, giá saturi di dolore per quelle cacchio di spine, semplicemente impazzivano, provocando un dolore incredibile, che le faceva perdere i sensi più volte. Anche quella era infettata, e pulsava, cozzando crudelmente con quelle cose succhia-vita. I primi due giorni erano stati un vero inferno, e a mala pena era riuscita a comprendere ciò che Bashe diceva, infastidita dal rumore insopportabile della sua voce che rimbombava nel suo cervello. Provava prurito ovunque. 
La tortura si era trasformata in un assedio, e quella disgraziata stava tuttora provando a prenderla per fame. Erano tre giorni che Cori non riceveva nemmeno quel tozzo di pane secco e quel po’ d’acqua che le buttavano una volta al giorno in cella, come se stessero buttando il cibo al cane rognoso. Bashe gliene lanciava metà del suo imbevuto d’acqua, ma più i giorni passavano, meno Cori era capace di allungarsi per prenderlo, e a poco a poco perdeva anche la forza e la voglia di masticarlo, mentre stretto fra le ginocchia lo dilaniava a morsi peggio di una belva. Spesso era dopo l’unico pasto che Cori riprendeva le forze sufficienti per sostenere un dialogo. Alla fine avevano sviluppato una sorta di cameratismo da cella, dato che erano gli unici nel Dipartimento.
La sera, Cori piangeva, in silenzio. Pregava il Signore che il suo supplizio finisse presto,di dargli la forza di sostenere il peso delle torture, e ai Santi Martiri di prestarle la loro forza, perché non sapeva quanto sarebbe durata. Questo le dava un po' di conforto e la forza di andare avanti ogni mattina, e nonostante tutto non smetteva di credere. Forse per altri era un misero metodo consolatorio, ma lei ci credeva davvero.


L’Idea venne a Bashe all’alba del quarto giorno di fame. Il sesto livello era in subbuglio: Guardie e carcerati parlavano di un intruso, e nessuno faceva caso a loro, che in confronto alla potenza di quella gente erano bruscolini. Si mormorava che persino Magellan stesse entrando in campo! Il ragazzo chiamò Cori e le spiegò: C’era un livello nascosto sopra le loro teste. Se fossero riusciti a scappare approfittando della confusione, si sarebbero potuti rifugiare lì. Sapeva che nel Dipartimento c’era una rampa di scale che portava su al quinto livello, ma che nessuno usava mai. Approfittando della sua nuova forma, sarebbero passati direttamente all’interno della rampa, sorpassando i due dottori pazzi e fuggendo al livello 5. Da lì, sarebbero dovuti riuscire a raggiungere il livello 5 ½ in qualche modo. Non importava come, ma non gli interessava, volevano solo fuggire da lì sotto. Gli unici problemi erano le catene di Cori e il suo collare esplosivo (per lui era facile liberarsi anche delle catene più strette, così avevano ripiegato su questo espediente di fortuna piuttosto degradante). Il ragazzo chiese a Cori se nella sua altra forma sarebbe stata in grado di spezzare le catene, arrivare fino a lui e isolare il collare mentre andavano fuori giusto il tempo perché il collare stesso esplodesse, ma la ragazza non sapeva come attivarlo. Di sicuro non poteva lasciarlo attivare al controllo del mattino! Così la mezza-serpe le propose di rubare il marchio. Il vecchio non era sveglio, e la dottoressa sarebbe arrivata per le torture solo due ore dopo, come al solito.
Puntuale come al solito, l’anziano scienziato strascicò i piedi fino alla cella di Cori e l’aprì con un lento cigolio. Nella mano protesa teneva il marchio. La ragazza, per non insospettirlo, protestò debolmente. Nel momento in cui l’oggetto stava per toccare la pelle, Cori si girò e morse con tutta la forza che aveva la mano ossuta del vecchio fino a far scricchiolare le ossa e sentire il sangue in bocca. Sentiva la sua pelle sottile lacerarsi come una stoffa sotto i suoi denti, sapeva di vecchio, di polvere. Dopo un grido acuto, l’anziano lasciò cadere l’oggetto. Cori strinse ancora un po' per convincerlo ad andarsene, calciandolo. Alla fine l’anziano scienziato corse via urlando. Con le ginocchia, si avvicinò il marchio e lo pestò con la gamba. Il bruciore era intenso. La pelle, il sangue cominciò a ribollire, ma Cori non si trattenne stavolta. La pelle si ricoprì all’istante di uno strato di sostanza nera. La sua mole si ingrossò a tal punto da spezzare le manette. Bashe osservò il fenomeno ad occhi sgranati. In pochissimo tempo, Cori si era trasformata in un gigante da due metri e passa. La creatura si alzò faticosamente e con tre lentissimi passi raggiunse le sbarre. La sostanza le permetteva di non sentire dolore, ma la stanchezza c’era tutta, ed era pressante. Non si accorse nemmeno di aver oltrepassato le sbarre se non per un forte risucchio. Il ragazzo dall’altra parte la vide stringersi ed allungarsi nella fessura. Cori allungò le mani, e dopo poco incontrò una resistenza. Era il collare di Bashe, che si era girato. Cori non attese oltre: Sapeva perfettamente dov’erano quelle scale.  Con la mano, tastò il nulla, finché non sentì una piega, che aprì. Riempì di nuovo la fessura, e in pochi istanti un forte risucchio la ributtò dall’altra parte. Il collare a cui era attaccata sparì sotto le sue dita. Sbatté la testa contro qualcosa, si abbassò e continuò a camminare per pochi secondi, finché non cadde distesa per terra, mentre la sostanza la abbandonava. Bashe, finalmente libero, la prese sulle spalle, e lei agganciò gli arti magri e doloranti al corpo asciutto del ragazzo. C’era una cosa positiva: Anche il dolore alla testa l’aveva abbandonata, ma non c’era più niente che le impedisse di addormentarsi. Appesa nervosamente al corpo della mezza-serpe, salirono una cinquantina di scalini prima che davanti a loro si aprisse una botola. Ci misero per lo meno una mezz’ora, perché nemmeno Bashe era tanto in forma e doveva fermarsi per riprendere le forze. Spesso cadeva con le mani sui gradini, sorreggendosi a braccia. Cori voleva scendere, davvero, ma ogni volta che scivolava dalla sua schiena e pregava Bashe di lasciarla lì, che poteva venire a prenderla più tardi con qualcuno, lui tenacemente la riprendeva sulle spalle e ricominciava a strisciare. Aprirono la botola:  Un vento gelido li ghiacciò. Il livello era ricoperto di neve, che turbinava anche sulle loro teste! Il freddo era intenso, insopportabile per loro che erano praticamente nudi. Le dita e la punta del naso stavano tingendosi di un’accesa sfumatura rossastra, che presto si sarebbe trasformata in un bel blu cobalto se non si fossero sbrigati. Cori, intirizzita dal freddo, si stringeva alla schiena di Bashe, gelida come il ghiaccio. Il ragazzo ansimava nuvolette congelate di vapore, che si condensavano sulle labbra e sul mento in un sottile strato di ghiaccio. 
“Ci sei?” le chiese. Cori mugugnò qualcosa, ma non riusciva a parlare. Osservava la piatta landa desolata in cerca di qualcosa. In fondo, lontano, vedeva delle celle, e ancora più in là cime innevate di alberi. Qualcosa le diceva che era quello il posto dove dovevano andare. Bashe cominciò ad arrancare sul terreno gelato, scivolando sul ghiaccio con le sue lunghe spire. Di quel passo, non sarebbero arrivati mai. Il ghiaccio entrava loro fin nelle ossa, intirizziva i loro muscoli, gelava i loro pensieri al punto che dopo pochi minuti non facevano che ripetersi in un loop infinito: “Ancora un passo, ce la posso fare, resisti, la meta è lì…”. Ma la meta non era mai lì, era sempre un passo avanti su quel terreno ostile, dove rimbombavano i ringhi dei lupi. Stavano congelando, non ce l’avrebbero mai fatta. Ogni volta che la coda strisciava sul piano irto di schegge dolorose, sentiva il freddo bloccargli ogni cosa. Il suo stesso sangue serpentino si ribellava, ad ogni passo imponeva al corpo, perdendo, la resa. 

Erano forse cinquecento metri più in là, quando videro una casupola bianca. Era piccola, con delle feritoie, e… si muoveva! All’inizio non si capiva bene, ma sembrava proprio che si muovesse! Si avvicinarono di gran trotto. Si, era proprio una casetta di cera, con sotto due paia di piedi che camminavano. Un centinaio di metri dietro, un branco di lupi correva per raggiungerli. Bashe si buttò dietro un cumolo di neve, vedendo i lupi bianchi accerchiare la casupola e penetrarla scavando sotto il pavimento. Due detenuti – Buggy il Clown e Mr.3 – corsero fuori, abbandonando la casetta.
“Ehi Cori, che ne dici? Tanto quei due idioti si sono tirati appresso tutti i lupi” le chiese indicandole il riparo. Cori annuì debolmente sulla sua spalla. “Almeno finché non siamo arrivati al bosco. Là potremo trovarci un rifugio migliore, e si spera anche un passaggio”
Per Cori era avvilente stare sulle spalle di Bashe, tanto più che ora sentivano meno il freddo. Insomma, possibile che non fosse nemmeno in grado di reggersi in piedi?! Era davvero così debole?! Beh, in effetti camminare su quei piedi probabilmente li avrebbe solo rallentati, ma Bashe, denutrito com’era, non avrebbe potuto sostenere a lungo da solo il suo peso e quello della casa di cera, lo sentiva ansimare e sbuffare sotto di lei. Grasso che colava se teneva cinque minuti, non gliene dava di più.
“Bashe” sussurrò nel suo orecchio “non possiamo andare avanti così, sono troppo pesante, non dureremo cinque minuti! “ lo ammonì. Il moro sospirò, fermandosi. “E cosa proponi? Non sei in grado di camminare. Non abbiamo un posto dove stare!” Bashe riprese il cammino, piano, piano…
Voce di uomo che grida nel deserto, un okama gridava la sua disperazione qualche centinaio di metri più in là, per le condizioni in cui versava lo sfortunato amico…




Ok, mi rendo conto che questo capitolo è particolarmente fine a se stesso, e che a parte le torture c'è poco altro, ma mi dispiaceva farle passare velocemente!  Insomma, ho fatto passare una bella settimana d'inferno a Cori, ma spero di farmi perdonare, prima o poi. Cosa pensate del capitolo? Troppe descrizioni, troppe poche, dovevo studiarlo di più? Immagino che capire cosa accadrà non sia difficile, almeno per adesso. Spero che qualcuno abbia riconosciuto la Canzone della Buonanotte di Sonia di Super3! Dio, che bei ricordi! Grazie a chi continua a recensire, è un onore ricevere i vostri giudizi! A presto!
Hikari _Sengoku 


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Capitolo 15
*** Fuga a Marineford ***


Fuga a Marineford


Arrancavano lentamente nella neve, che turbinava gelida sui loro corpi praticamente nudi alle intemperie. Era poco meno di un’ora che stavano lì, e Cori sapeva che Bashe non poteva resistere ancora a lungo in quelle condizioni. Le punte delle mani e dei piedi stavano diventando di un bel blu cobalto, mentre il ragazzo si trascinava esausto nella neve ghiacciata e dura con la coda quasi inerte. Per pura fortuna si erano imbattuti in una casupola mobile di cera, che li proteggeva un minimo, ma che non avrebbe potuto salvarli dalla morte per assideramento o fame. In lontananza, sentivano distintamente il latrato aggressivo dei lupi bianchi a guardia del livello. Erano tutti assembrati in circolo, quasi in attesa del loro turno di spezzare le ossa al povero malcapitato, e ululavano terribilmente, scuotendo l’animo giá instabile dei due ragazzi. Le loro fauci stavano presumibilmente colando sangue sulla coltre immacolata e assassina. I loro occhiacci carichi di rabbia sembravano ciechi ad ogni altra cosa. Il loro candido pelo elogiava la loro crudele superiorità su quelle insignificanti creature rosacee, vulnerabili e prive di qualsiasi difesa. Una sembrò saltare per azzannare alla gola di un uomo massiccio. Da lontano, vedevano soltanto un’alta figura a torso nudo. Non avevano idea del perché quell’uomo fosse in grado di rimanere in piedi in quelle condizioni, ma si batteva sempre più disperatamente coi famelici lupi. Quando erano a poche decine di metri, l’uomo – che si accorsero essere pesantemente truccato – indossava una maglia di denso sangue scuro, mentre con secchi calci abbatteva i lupi in estrema superiorità numerica, gridando di dolore ad ogni morso che le crudeli bestie gli infliggevano.
Cori lo riconobbe e sussurrò nell’orecchio di Bashe: “Quello è Mr.2 della Baroque Works!”.
“E cosa ci fa qui?” tossì la mezza-serpe. Ma Cori non gli rispose, perché di fianco a Mr. 2 si era alzata con grande sforzo la sagoma di un ragazzo. Era curvo e macilento, con una zazzera di capelli neri striati di ghiaccio e sangue gelato, ma Cori l’avrebbe riconosciuto ovunque. Era Rufy! Storto, debole, ricoperto di veleno, ma vivo. Non si sarebbe aspettata di rivederlo tanto presto, e di sicuro non in quelle condizioni. Lo sentì sussurrare qualcosa di impercettibile, e poi urlare con tutta l’aria che doveva essergli rimasta nei polmoni: “STATE LONTANI DA BON-CHAN!”. Un’onda improvvisa li travolse con una potenza spaventosa, come se una mazza di metallo fosse stata calata da un gigante sul loro petto, tanto che smisero di respirare e rimasero immobili, attoniti, mentre qualche goccia di sangue cadeva dalla bocca di Cori spinta da un conato di vomito. Poi, in un solo tonfo, Rufy e i due ragazzi esausti crollarono a terra con la faccia nella neve.


Quando si svegliò, la prima cosa che sentì fu il sollievo del calore delle coperte. Poi vide sopra di lei la faccia stanca ma felice di Bashe, che la rassicurò con poche parole festose: “L’abbiamo trovato! Ce l’abbiamo fatta!” strozzate dall’euforia. Girò gli occhi. La stanza era avvolta in una cortina di fumo di sigaro, e nella nebbia si aggiravano poche figure, strane e allampanate. Sembrava che il locale fosse stato abbandonato di fretta dopo una festa: Sul pavimento dove era sdraiata avvolta nelle coperte vi erano i resti di un festino: Bottiglie vuote, bicchieri accartocciati, festoni strappati, stelle filanti e coriandoli luminosi. Sul fondo, si intuiva la forma di un palco con lunghi drappi porpora, abbandonato anch’esso, poi banconi del bar, tavolini, sediole… si sentivano anche deboli alcune voci acclamanti: “Tieni duro!”, dicevano. Non appena provò a muoversi , un milione di spillettate la trafissero mentre il sangue tornava in circolo. Gemette. Le ferite ripresero a bruciare. Chiese a Bashe: “Dov'è Cappello di Paglia?”.
Bashe sembrò esitare: “Si sta riprendendo, almeno spero. È chiuso da dieci ore in una stanza, dove sta guarendo grazie agli ormoni di Iva”.
“Lo immaginavo” sospirò issandosi sui gomiti. Non poteva fare di più: Le piaghe sul petto trasformavano ogni movimento in agonia. All’improvviso le voci tacquero, sostituite dopo pochi secondi da un poderoso urlo: “CIBO!!!” e da esclamazioni festose. Una quantità spropositata di gente attraversò la sala, irrompendo nelle cucine e trafugando il trafugabile e anche l’intrafugabile. Bashe e Cori si appiattirono sulla parete, sperando di non venire schiacciati. Bashe le spiegò che gli abitanti di quel piano erano tutti Trans-formati, e che anche se erano disposti ad ospitarli non sembravano particolarmente interessati ad offrire loro un’assicurazione sanitaria a titolo gratuito. Uno di loro gli aveva risposto con sufficienza che se cercavano un’ente di beneficienza avevano sbagliato posto. Le rivelò che erano stati Iva ed il suo vice Inazuma a salvarli da morte certa, probabilmente perché si trovavano vicini ai due eroi di Impel Down, e che Bashe aveva pensato bene di rendersi invisibile agli occhi del temibile Regino di Kamabakka nascondendosi con lei in un angolino buio della stanza dove tutti, troppo concentrati su Cappello di Paglia, avevano finito per dimenticarsi di loro… Ahi, che male! Pensò ricadendo nelle coperte, stanca. Non aveva forze, ma la sola idea di mangiare le dava il voltastomaco.
“Ehi, tutto bene?” le chiese Bashe preoccupato. Intorno a loro, enormi quantità di cibo venivano fatte sparire a gran velocitá. Cori lo guardò senza vederlo. Il suo sguardo era spento, stanco.
Affianco a Bashe apparve all'improvviso la grossa testa di un donnone sui quarant’anni. Sul collo massiccio vi era un volto dai tratti marcati, con un accenno di baffetti. Aveva gli zigomi molto pronunciati e la bocca piccola, una fessura scura di rossetto viola. Gli occhi erano straordinariamente grandi, quasi parodici, di un azzurro così piatto da sembrare dipinto, con lunghe ciglia dritte e nere. I capelli, stopposi fili di paglia contornavano il viso squadrato raccolti in uno chignon disordinato da lavoro. Indosso portava un grambiale, che copriva con maestria le zampogne pelose che aveva al posto delle gambe, e due grossi guanti pesanti da lavoro, di dura pelle.
“Come sta la tua amica? Vedo che si è svegliata!” tuonò il suo vocione baritonale.
“Si Anja, si è svegliata. Cori, ti presento Anja, il mio vecchio compagno di cella!” sorrise Bashe. Cori accennò un saluto.
Un signore molto distinto (non fosse stato che gli mancavano i pantaloni) spalancò la porta urlando: “Ragazzi, che fate ancora qui? Si è svegliato!”. Anja lo guardò di sottecchi e poi propose loro: “Ragazzi aspettatemi qui, vi ci porto io. Non vorrete mica perdervi l’evento dell’anno?” ammiccò correndo via. Cori notò solo allora delle grosse scaglie ossee sulla sua schiena, come enormi denti aguzzi e neri che spuntavano dalla sua spina dorsale. Ed ecco spiegato perché stava al Dipartimento!
Il donnone tornò di corsa con una cesta vuota sulle spalle. L’ex-carcerato li afferrò sotto braccio e corse verso l’evento dell’anno che gridava “SONO TORNATO!”. Quando arrivarono, Ivankov era in preda allo shock per aver scoperto che Rufy era il figlio di Dragon.
Anja smontò. Cori non era in grado di muovere un muscolo, e anche Bashe sembrava esausto, anche se meno di prima. Mentre Iva urlava ai quattro venti la sua volontà di salvare Ace e fuggire da Impel Down, Rufy li vide, e corse verso di loro.
“Cori!!!” urlò col suo stridulo tono di voce.
“Si, sono io” rispose lei fissandolo dal pavimento.
“È strano vederti qui!” esclamò quasi pensando a voce alta il giovane Capitano.
“In effetti, non era esattamente quello che intendevo quando ho detto che volevo scrivere il mio destino!” commentò amara.
“Se Chopper fosse qui ti potrebbe aiutare” borbottò il Capitano osservando il deplorevole stato in cui versava.
“Non preoccuparti, adesso non ha importanza, devi salvare tuo fratello. Vai!” lo spinse via. Parlargli le dava uno strano fastidio. Sapeva già che Ace sarebbe morto, ma non poteva certo dirglielo!
“Mi occupo io di loro, figlio di Dragon” intervenne Anja. Rufy la scrutò per qualche istante, poi esplose in un: “Ci pensi tu, allora! Ci vediamo!” e corse via. Iva divise la sua gente tra chi sarebbe rimasto e chi avrebbe tentato la fuga, Anja era tra loro e aveva promesso di aiutarli. Attesero tanto tempo da sembrare infinito, finché non udirono lo scalpiccio delle ciabatte di Rufy, i tacchi di Iva e le scarpe piatte di Inazuma rimbombare lungo le scale, insieme ad un fruscio di sabbia e ad un altro scalpiccio. Tutti si riversarono sulle scale, dando il via ad una folle corsa per la vita. Anja, caricateseli come sacchi di patate, diede gas e partì come un razzo. “Stringetevi forte!” urlò.
Bashe le urlò a sua volta nelle orecchie “Grazie!”, ma dovette ripeterlo piú volte, e alla fine il donnone rispose stizzoso: “Non farmi perdere tempo!”.






Qualche tempo dopo, tutti riposavano esausti sul ponte della nave rubata alla Marina. Cori e Bashe in particolare facevano di tutto per essere confusi con l’impiantito del ponte. Anja si era subito ripresa dalla fatica e ora faceva parte dell’equipaggio attivo della nave, pur promettendo ai suoi amici di aiutarli almeno all’arrivo a Marineford, per il resto non poteva promettere. Bashe aveva l’unica speranza che il suo Capitano, per caso o per interesse, bazzicasse la zona e potesse in qualche modo prestargli soccorso, perché per quanto gli dispiacesse ammetterlo, nelle condizioni fisiche attuali e con un peso morto a rimorchio, non sarebbe stato in grado né di sostenere quanto di evitare una battaglia di qualsiasi entità. Purtroppo il suo, per il momento, altro non era che un vago desiderio, per il quale la sua mente aveva già previsto l’esito: Una disgraziata, perfida sconfitta nella quale lui non avrebbe avuto voce in capitolo.
Rufy, che durante tutto il viaggio era stato assorto nella contemplazione di passate avventure, scese ad un tratto dalla polena della nave e si sedette affianco a Cori contro l’albero maestro. La ragazza dormiva, ma appena sentì il tonfo di un corpo affianco al suo, aprì di uno spiraglio le palpebre, dando modo al bizzarro ragazzo di rivolgerle un gaio saluto: “Ehi, Cori! Come mai sei qui?”
“Sono finita prigioniera un po’ di tempo fa, uno del villaggio di Lurichiyo mi ha tradito.” Ricordò con una smorfia. “Ti presento Bashe, che mi ha aiutato a fuggire” continuò indicando il giovane addormentato al suo fianco, tutto raggomitolato nelle sue spire come un bambino nella culla. “Ah, e grazie per averci salvato” gli disse poi quasi sovrappensiero.
Rufy si aprì in uno dei suoi classici sorrisi a trentadue denti, rispondendole con la sua nota stridula: “Non sono stato io. È stata Iva-chan!”, memore della traversata a bordo della gonfia chioma viola.
Un gelo improvviso ghiacciò l’aria, e con orrore gli astanti si resero conto che i marosi erano diventati un unico blocco di ghiaccio in foggia d’onda, sulla cui cresta giaceva immobile la nave. Per diversi minuti fu lo sgomento a far da padrone, ma ben presto l’ingegno dei neopromossi comandanti della nave diede i suoi buoni frutti, e con un ultimo sforzo la nave venne spinta nel baratro, con gran dispiacere del restante equipaggio. Tutti infatti gridarono, chi in preda al terrore, chi all’eccitazione. Cori e Bashe scivolarono lungo il ponte della nave, sbatterono contro la ringhiera di legno e caddero nel vuoto, privi di ogni genere di appiglio. Davanti a loro, una vasta distesa di ghiaccio disseminata di uomini simili a formiche, dietro, il cielo azzurro e la nave in caduta libera. Furono istanti infiniti, prima che la grossa mano di Anja li afferrasse entrambi e li stringesse al suo petto, dando la schiena al buco nel ghiaccio. L’impatto fu violento, ma Anja fece loro da scudo, e riemersero, senza fiato ma anche senza danni evidenti, dall’acqua gelida.


Nuotarono fino alla banchina di ghiaccio e si issarono a fatica. L’unica speranza di salvezza era barricarsi nelle retrovie delle navi alleate di Barbabianca, anche se pure quella opzione avrebbe potuto rivelarsi molto pericolosa. Anja si sfilò i grezzi guanti e le enormi zattere piatte che aveva ai piedi, dando mostra di quattro splendide appendici nere e artigliate d’acciaio. La pelle era cuoio nero, e le unghie si allungavano in artigli anche sulla falangetta, quasi come una corazza. Tutte le ossa erano affilate come stiletti, e sporgevano dalla spessa pelle nera. Con un singulto, anche la schiena cominciò a mutare, allungandosi e storcendosi nella sinuosa curva di un dorso animale, allungando, rompendo e scurendo la pelle sotto gli abiti stracciati. Anche le articolazioni si erano storte, costringendola in una posizione semi-piegata.
Bashe e Cori storsero il volto in un’espressione orripilata e compassionevole insieme. “Che cos'è, un frutto del diavolo?” esclamò il ragazzo.
La voce fuoriuscì distorta dalla bocca di Anja piegata in una smorfia di dolore: “No” ghignò amaramente. “Questo è permanente”. Poi, con un guaito sofferente, aveva allungato di nuovo la schiena, assomigliando ad una triste sfinge priva di ali, mentre gli stopposi capelli biondi ricadevano ai lati del volto vitreo, quasi immobile. “Salite su. Scappiamo” aveva detto, con la voce spezzata.
I ragazzi, in rispettoso silenzio, obbedirono, montando sul dorso a malapena coperto dai brandelli di abito che ancora le pendevano dal corpo. Sotto, la pelle era spessa, liscia e nera, come quella delle mani. I due attaccarono il ventre al dorso solido della bestia, che partì. Lo stomaco sobbalzava ad ogni balzo che la sfinge compiva per atterrare i nemici con una zampata. La traversata durò meno di quanto si sarebbero potuti aspettare, perché nel giro di due minuti avevano addosso la quantità di marine necessari per mandare tutti e tre all’altro mondo. Anja si scrollò di dosso i due ragazzi, sovrastando con tutta la sua statura quel plotone di mantelli bianco-azzurri. Con due zampate la bestia si liberò delle prime due ondate d’attacco, ma non riuscì a schivare il proiettile del bazooka, che la colpì alla spalla. Indietreggiò di due passi tremuli, artigliandosi la spalla ferita e ruggendo di dolore, mentre i corpi dei marine cadevano loro addosso, macigni di carne e sangue. Presto sulle schiene di Bashe e Cori apparve un’allegra montagnola, che li schiacciò. I due sulle prime non capirono il comportamento di Anja, ma poi compresero: Malaticci com’erano, nessuno si sarebbe preso la briga di andare a controllare se erano effettivamente morti. Tristi, si abbandonarono sul ghiaccio gelido, lasciando solo gli occhi aperti sullo strazio che avevano davanti. Anja con un balzo formidabile agguantò un marine e con un morso gli tranciò la carotide, poi si avventò sul seguente, e poi su quello dopo ancora, in un vortice di sangue e brandelli di carne. Il secondo venne sgozzato, il terzo aperto come una trota, al quarto si riaprì la fontanella in uno schizzo di sangue misto a materia cerebrale sui capelli neri. Il quinto si fece esplodere sullo stomaco di Anja, che con l’ennesimo ruggito si chinò su se stessa. Con la forza della disperazione, l’enorme bestia caricò il resto del plotone, finché una katana non la attraversò da parte a parte lo stomaco, uscendo dalla schiena con uno strappo ed uno schiocco. Anja sputò sangue, mentre la sua espressione si congelava in un’indifferenza stranamente piena di ferocia. I capelli, quasi bianchi, sfiorarono il pavimento di ghiaccio, poi il marine estrasse la spada con lo stesso schiocco, più viscido, le ginocchia dell’ex-carcerato si piegarono, e con una lentezza assurda il pesante corpo ricadde sul mare ghiacciato. Il marine diede una scossa alla katana, liberandola da parte del sangue in una pozza vermiglia a pochi passi da loro. Era di un rosso vivo. L’uomo non si soffermò neanche per un istante a guardare la montagnola dei suoi deboli sottoposti, e si allontanò arcigno, inseguito da un leccapiedi che continuava a gridargli dietro “Capitano! Capitano!”, che Cori non si sarebbe sorpresa di sentire l’uomo dire: “Si, Spugna?”, per poi piegare il braccio e mostrare l’uncino d’argento, anzi d’oro per l’occasione. Ma fu la sensazione di un momento, perché Anja rantolò, scavando lunghi solchi nel ghiaccio. Vomitò sangue mettendosi carponi. Con uno sguardo vitreo, immobile, indifferente, li fissava da sopra la spalla. Nonostante ogni espressione fosse scivolata via dal suo volto e si fosse infranta al suolo come una maschera di vetro, i due ragazzi ebbero l’impressione di vedere le labbra viola tendersi sui denti. Con estrema lentezza, Anja si girò verso di loro, si allungò, finché non cadde distesa. Attorno al suo corpo si allargò una chiazza rossa. I suoi occhi piansero un’unica lacrima di sangue, e si chiusero. Bashe scoppiò in un pianto convulso, Cori sentiva il suo petto contrarsi, vide il suo braccio soffocare i singhiozzi. Il ragazzo cominciò a battere i pugni sul ghiaccio e a dire frasi interrotte dal pianto: “Non è giusto… non è giusto… perché… maledetto!...”. Sulle guancie di Cori non c’era una lacrima. Non era mai stata una da pianto, e aveva già dato tutte le sue lacrime. Afferrò delicatamente il pugno di Bashe, che la fissò con gli occhi gonfi e rossi di pianto. La ragazza aveva la faccia contratta. Il mento era teso all’indietro, quasi per controllare il pianto, così come le palpebre, ma i suoi denti erano scoperti in un ringhio silenzioso. Strappò il mantello ad un giovane marine con pochi gesti decisi, e lo indossò insieme al berretto. Bashe la imitò in silenzio, sciogliendosi i capelli sulle spalle e sul viso, per nascondere gli occhi. Cori vedeva solo il profilo aguzzo, pallido e tremulo del suo mento dietro la cortina d’ebano.
Non conosceva Anja da abbastanza tempo per provare tanto dolore. Sentiva un forte bisogno di rivalsa, e un’immensa rabbia che le saliva su dallo stomaco. Quei bastardi infami! Li avevano assaliti, quando era chiaro che Anja non aveva nessuna cattiva intenzione nei loro confronti! Stava solo portando due feriti! Ma anche se l’avesse gridato, pensò, non sarebbe cambiato nulla. Erano crimini di guerra, a chi mai poteva interessare della morte di un innocente sul campo di battaglia? Lì si muore e basta, e non ha importanza da che parte tu sia, anche se non stai da nessuna parte. Ok, magari erano tutti e tre filopirateria, ma non stavano combattendo! Ma poi, a chi voleva darla a bere? Era solo incazzata a bestia perché qualcuno aveva ucciso Anja sotto i suoi occhi. “Dobbiamo seppellirla” gracchiò Bashe.
Si trascinarono con le braccia fuori dal cumulo di cadaveri e moribondi. Coprirono Anja con un mantello, avvolgendoglielo intorno al corpo come i pirati un tempo facevano con le amache quando moriva un membro dell’equipaggio. Rovesciarono il corpo sulla schiena, con delicatezza lo composero e chiusero le estremità in un nodo, inserendo il proiettile del bazooka sotto i suoi piedi. Strisciarono tirando il corpo per qualche metro, ma capirono di non poter andare aventi. Un Pacifista aveva esploso un colpo di fronte a loro. Una pioggia di sangue e brandelli di carne cadde loro addosso, e adesso piangevano anche loro lacrime vermiglie. Un piede cadde sopra la testa di Cori, una katana con il braccio ancora attaccato quasi mozzò la punta della coda di Bashe. I due si guardarono attorno, orripilati. Ormai mancava una cinquantina di metri all’entrata della baia, ma sembrava se possibile più lontana di prima. Cori era di nuovo esausta, sentiva i morsi della fame da giorni e non riusciva a stare in piedi. Le faceva male tutto, ogni singolo centimetro quadrato di pelle. Ansimò con la fronte sul ghiaccio freddo. Bashe le passò una mano sulla schiena e si rimisero a strisciare, ma la strada era irta di punte di ghiaccio e altri ostacoli. Quei cinquanta metri sembravano non passare mai. All’improvviso, il ghiaccio cominciò a sciogliersi in un brodo caldo. Dai confini della baia si ersero alte barriere d’acciaio impenetrabili, mentre l’unico ghiaccio apparentemente solido sembrava rimanere solo affianco adesso. Il corpo scivolò nell’acqua e scomparve. Cori fece il segno della Croce e mormorò l’Eterno Riposo, poi ripartirono mentre mancava l’appiglio sotto di loro. Quanto erano lunghi cinquanta metri sulle braccia! “Ce la fai?” le chiese. Annuì soltanto in risposta, troppo stanca per aprire bocca. “Vuoi salire sulla mia schiena? Se andiamo lenti, ce la faccio” miagolò. Cori stavolta scosse la testa, anche se il suo corpo sembrava urlare il contrario. Ma non era il momento per appoggiarsi e piangersi addosso.


Dopo tante fatiche, arrivarono alla fine alla banchina intatta, accostandosi alla sparuta truppa di Buggy il Clown che andava giusto sciogliendosi. Dall’altra parte, Oars si risvegliava, e con un ultimo colpo di reni portava la sostituta della Moby Dick sulla piazza.
Erano allo stremo. Davanti agli occhi volteggiavano senza troppi problemi frotte di puntini neri. Le grida invasero ogni anfratto della base, e il loro eco riverberò a lungo nelle orecchie, finché un urlo spaventoso non fece ribollire la pelle di Cori come se fosse acqua per la pasta. Emanava un calore tremendo. Un’ondata di potere puro li travolse, avvolgendo Cori nell’ombra. Il suo corpo esplose in una compatta colonna nera che saliva fino al cielo. Quando si diradò, Bashe notò che la sostanza che ricopriva Cori come petrolio adesso era uno strato sottile, e mostrava in pieno l’orrore di quella scena. La ragazza era in ginocchio, quasi incatramata in quel buio solidificato, aveva la testa rivoltata all’indietro, e la bocca spalancata in un grido silenzioso e irreale che faceva vibrare l’aria.


Poi le dita si mossero piano piano. La mezza-serpe non era sicura che fosse Cori a muoverle. Infatti, il cervello di lei aveva avuto un black-out per lo shock, ma questo lui non poteva saperlo. Dopo istanti infiniti, la bocca si richiuse e la testa si ripiegò.
Lei non si era quasi accorta di quel che era successo. Nel momento in cui era esplosa, la sua coscienza era stata proiettata in alto, senza preavviso, provocando uno shock non indifferente. Al ritorno, e menomale che c’era stato un ritorno, ci era voluto un po’ per riprendere il controllo di un corpo debilitato. Quando aprì gli occhi, dapprima fu assalita da una miriade di immagini, poi la vista cominciò a stabilizzarsi. Cori, dentro la corazza, vedeva distintamente una miriade di sagome colorate più o meno accese. Accanto a lei c’era il verde di Bashe, una nota lieve, quasi delicata, un po’vacillante. Più in là, le sagome marroncine, grigie degli ex-carcerati, tra cui spiccava l’azzurro carta da zucchero di Buggy, poco vivido ma vivace. Molto lontano, vedeva lampi di tutti i colori. Il naso era assalito da una quantità di odori tale da darle la nausea. Sentiva l’odore di erba bagnata di Bashe, il bizzarro odore di zucchero filato di Buggy coperto da quelli più o meno forti dei suoi compagni: Cacao, caffè, cannella, metallo riscaldato, legno vecchio, cuoio fresco… uno sopra l’altro, facevano a botte nel suo cervello, che non riusciva a processarli tutti. Fuori da quegli odori e da quelle luci, non c’era niente. Il buio più totale. E sembrava che comunque quella capacità trascendesse ad un altro livello rispetto a quella macchia oscura, come se fosse il suo spirito a percepirle, e non i suoi occhi, ciechi come quelli di un gattino cresciuto al buio.
Spinse lo “Sguardo”, quella straordinaria percezione che adesso sembrava possedere, lontano, verso il patibolo. Sopportare tutti quegli odori stava diventando un’impresa molto ardua, ma lì, in lontananza, erano cinque le luci più brillanti: Quella gialla accesa di Kizaru (nessun altro poteva essere così veloce), quella rossa carminio di Akainu (la stazza di quella bestia si notava a chilometri di distanza), quella di un tenue color lavanda, quasi bianco, di Aokiji dalla parte dei cattivi, il rosso veneziano di Rufy con le sue buone fiammate incostanti e quella bianca traslucida, quasi gonfia, di Barbabianca dalla parte dei buoni. Le altre, seppur potenti, non attiravano l'attenzione quanto le loro. Finalmente, il lampo di un’assurda aura bicolore (si mescolava in curiose volute di fumo bianco e arabeschi aranciati) sembrò svoltare la situazione. L’aura gonfiata, quasi troppo gonfia per sembrare vera, di Garp fece la sua imponente comparsa con il suo rancoroso bordeaux, ma con uno sbuffo quasi ridicolo, si ridusse ad una triste luminescenza sul fondo della piazza. La brillante sagoma di Rufy arrivò in cima, dando un’allegra fiammata. Dopo poco, si riaccese quella che fino ad allora non era stata che una fiammella: Le fiamme vive, di un acceso arancio, dell’aura di Ace, che esplose in un eccesso di libertà (fin da lì poteva sentire l’odore dei falò nella notte). Le due sagome fiammanti si lanciarono in una corsa contro il tempo, e, ahiloro, la nera signora di Samarcanda. Cori giá lo sapeva, ma trattenne comunque il respiro quando il braccio carminio di Akainu attraversò come burro la sagoma di fiamme arancioni di Ace.


E il mondo stette a guardare.


Vedere una persona reale morire sotto i tuoi occhi è completamente diverso dall’assistere alla morte di un personaggio. La vera morte ti scuote nel profondo, ti toglie l’appiglio, e saperlo non cambia le cose. É… scioccante. Non puoi far altro che restare a guardare, mentre Ace ‘Pugno di fuoco’ muore, come fanno tutti i fuochi: Raffreddandosi lentamente. E non ti frega delle incongruenze (cacchio, ma quando mai s’è visto il magma che spegne il fuoco!), ne del mondo intorno a te, e rimani a guardare l’uomo che muore. Lo vedi soffiare nell’orecchio del fratello le sue ultime parole, anche se non lo puoi sentire, in realtà non sai neanche se stia parlando, lo immagini. Lo vedi spegnersi con un ultimo guizzo, e sparisce, per sempre.


La sagoma di Rufy si immobilizzò, il suo odore (caucciù, misto a qualcosa di indecifrabile) all'improvviso scomparve. Tutte le luci degli altri corpi svanirono davanti alla rabbia infinita, bianca traslucida di Shirohige che sembra invadere il mondo, penetrare nelle sue pieghe e spaccarlo. Lo vide infilarsi nelle crepe dell’aria e aprirle, mentre un fortissimo odore d’ozono invadeva l’aria, tanto forte da indurle conati di vomito. Ma non era abbastanza. La sagoma carminio di Akainu sparì nel baratro, ma subito si presentò ai suoi occhi una nuova minaccia. Sul patibolo si stagliava, come un sole in eclissi, Marshall D. Teach. Di lui si vedeva solo il contorno, un alone luminoso intorno al suo cuore nero, di fianco a lui quella marmaglia di traditori che si ostinava a chiamare ciurma. Quella bestia infame! Avevano ragione a dire che era diverso: Non aveva odore, e quando con quelle sue luride manacce afferrò Barbabianca, anche il penetrante odore di ozono svanì, insieme all’enorme aura. Gli infami seguaci di Barbanera crivellarono di colpi l’enorme corpo. La luce di Edward Newgate si era spenta per sempre, il suo corpo profanato. L’aura bianca intorno a Teach si allargò, mentre con pochi colpi delle mani riapriva quei varchi che Barbabianca aveva creato. Mentre Sengoku il Buddha si allargava in un’ampia massa dorata, Akainu si dava da fare per diventare il Marine più odiato dell’intera Grand Line e Aokiji e Kizaru decidevano di comune accordo di sterminare ciò che i Dalek non avevano giá sterminato, Cori, o meglio, ciò che la rivestiva, cominciò a dare segni di instabilità, ribollendo e ritirandosi. Cori rimase per qualche attimo immobile, con la testa piegata all’indietro e la bocca di nuovo spalancata per respirare, prima di riprendere totale coscienza del suo corpo. Come se qualcuno stesse alzando l’audio, la bolla di silenzio che l’aveva avvolta si spezzò, rivelando l’orrore e lo strazio al di fuori. L’accanimento con cui i Marine davano la caccia ai pirati inermi, le loro grida di giubilo, le mani lorde di sangue e le migliaia di corpi riversi a terra. Ognuno di loro aveva una famiglia dalla quale non sarebbe più tornato. L’orrore… non era nemmeno più il tempo di pensare per parole. Morte. Orrore. Aiuto. Qualcuno mi aiuti. Che cacchio sta succedendo? Sono bloccata. Qui tutti muoiono e io sono bloccata. Bashe si accorse dello stato di shock in cui versava e la scosse.
“Ehi. Ehi, Cori, sveglia! Dobbiamo andarcene! Presto, ora che si è aperto il varco!” gridò osservando l’enorme spaccatura nelle mura. Sosteneva Cori tenendosi il suo braccio sulle spalle. Vide un marine sfrecciargli di fianco. “Ehi tu! Aiutami!” gli ordinò.
“Subito Maggiore!” accorse il Marine sostenendo la ragazza dall’altra parte. Sembrava a malapena cosciente di quello che stava facendo, fissava la baia con gli occhi vuoti. Quando arrivarono al mare, dai flutti fece la sua comparsa lo yellow submarine di Trafalgar Law. Bashe gioì e si liberò dell’altro marine, e appena fu fuori tiro liberò entrambi dai mantelli e dai berretti della Marina, si sbracciò per farsi notare dal suo Capitano. Le sue preghiere erano state esaudite! Erano salvi! Dalla fine della corta banchina di ghiaccio bastavano appena una decina di metri al sottomarino. Si tuffò nelle gelide acque, portandosi appresso Cori. Lui, appartenendo allo stadio evolutivo tra l’essere umano ed il rettile, non aveva alcun problema con le temperature, e al contrario di quello che molti pensavano, le sconvenienti modifiche genetiche non impedivano loro di nuotare! Appena furono in acqua, sentirono Law emanare un paio di ordini secchi, e due loro compagni scesero alla chetichella dal sottomarino e li recuperarono. Quando ricaddero sul ponte metallico, Bashe provò a parlargli (“Capitano!”), ma lui lo bloccò all’istante. “Ci sarà tempo dopo per le spiegazioni. Portateli dentro!”. Quelli furono gli ultimi momenti che la coscienza del ragazzo, tenuta su fino ad allora dall’adrenalina, fu in grado di registrare. Poi fu il buio.












Ehilà, mi scuso per il ritardo, ma ho finalmente iniziato l'università, e l'orario è una specie di incubo. Trentadue ore! Ma bando alle ciance, mi piacerebbe sapere come vi è parso questo capitolo. Siamo ormai alla fine del mio slancio sadico, quindi ho cercato di ricompormi. Mentre scrivevo il capitolo (adesso, tra l'altro, sto vedendo per la prima volta la serie di Marineford, quindi vi lascio immaginare) ascoltavo in continuazione questa canzone (https://m.youtube.com/watch?v=izQAo6gh5Fs), e devo dire che mi ha aiutato un sacco, dopo la trentesima volta che la ascoltavo. Come vi è sembrata Anja? Un po' raffazzonata, forse? Di sicuro la fuga apparrà molto fortunata, e magari un po' incongruente con le condizioni fisiche dei due evasi (sono abbastanza sicura che non ci siano incongruenze con la storia, invece, ci sono stata particolarmente attenta). Ditemi cosa ne pensate, sono aperta alle critiche, tanto più che dal prossimo capitolo comincerà quella che penso sia per adesso la parte più interessante della mia storia, se sarò capace di raccontarla. Grazie per l'attenzione che continuate a dedicarmi! Sempre Vostra,
Hikari_Sengoku


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Capitolo 16
*** Dead Awake ***


Dead Awake
 
Gabriele odiava l’allegra famigliola felice. Da quando era stato trasferito negli alloggi del Capitano Hatsuharu Hasegawa, alias il galante coglione che aveva salvato lui e quella piagnucolante gatta morta, Tomoe, non aveva dovuto far altro che subire le loro smancerie, dato che per il momento erano coinquilini. Quell’insopportabile smorfiosetta aveva accettato pure con troppa gioia l’invito del Capitano, e ora regnava incontrastata nel cuore del nerboruto marine e nel minuscolo appartamento che, suo malgrado, erano costretti a condividere. Quell’uomo si era pure messo in testa di volerlo addestrare. Un giorno era arrivato da lui, tutto impettito come una gallina, e gli aveva detto che ormai ciò che era successo era tutto acqua passata e che lui sarebbe stato felice di addestrare il suo “primo allievo!”, sghignazzando e sridacchiando all’idea. Lui sulle prime l’aveva poco elegantemente mandato a quel paese con un bel dito medio, finché nel pomeriggio non se l'era di nuovo trovato fra i piedi mentre sfogava la sua rabbia sul salottino. Quello, con fare sapiente, lo aveva fermato con una mano sul braccio, poi d’improvviso gli aveva tirato i capelli e ringhiando lo aveva sfidato a sfogare la sua rabbia con lui. Inutile dire che aveva accettato, e si era ritrovato poi a fare i conti con la sua inevitabile sconfitta, che aveva dato fuoco al suo sangue e l’aveva spinto giorno dopo giorno a cercare quell’uomo. Tomoe, con sua grande soddisfazione, continuava ad evitarlo il più possibile, anche se questo non la salvava dai suoi improperi e dalle sue crudeli battutacce. Con un’ostinazione che raramente aveva pari, passava ore intere a sbattere il grugno contro Hatsuharu. Alla fine, ammise, ci stava prendendo gusto. Gli piaceva sentire dissolversi l’insicurezza sotto la spacconeria, strato dopo strato. Non che per questo amasse essere sottoposto a quella specie di gallina tronfia e alla sua insignificante amante, oltre che a quella specie di medicastro dai lunghi baffi che veniva a fargli visita ogni giorno in concomitanza con la sua voglia di uccidere. Ovvero ogni mattina al risveglio. Cominciava quasi ad abituarsi all’idea che avrebbe potuto considerare di farsi presentare da Capitan Gallina per l’addestramento ufficiale da marine, quando gli giunse la Notizia, la Fuga da Impel Down. Tutto cominciò ad andare a scatafascio. Un manipolo di marine entrò nell’appartamento sfondando la porta e urlando. Capitan Gallina lo tirò via, salendo sul davanzale della finestra e issandosi sul tetto. Gabriele lo seguì, poi si buttarono insieme sulle tegole.
“Cosa hai combinato?” lo incalzò il marine.
“Io non c’entro. È quella bastarda, è scappata di prigione!” imprecò.
“La ragazza per cui stai qui? È riuscita a scappare con Mugiwara no Rufy?” per tutta risposta il ragazzo tirò un pugno, spaccando una tegola.
“Ohi, Gab, tranquillo. Ti tiro fuori io da questo pasticcio, non c'è bisogno di agitarsi. Tu devi solo promettermi che il tuo cammino per l’inferno sará lastricato di buone intenzioni. Entrerai nella Marina, solo così potrò aiutarti” gli disse diventando di colpo serio. Ad un tratto, un nodo gli aveva stretto lo stomaco: Nonostante i suoi modi a dir poco barbari ed i suoi meschini pensieri, si era affezionato a quel ragazzaccio di borgata, e non avrebbe voluto perderlo per una delle sue ostinate convinzioni da mulo. Dal canto suo, Gabriele non era affatto uno stupido.
“Finirò nella merda prima di subito…” borbottò, lasciando che Hatsuharu lo sollevasse e lo portasse di sotto.
 
Si risvegliò di soprassalto, facendo schizzare a mille l’elettrocardiogramma e squillare come un pazzo il campanello di allarme. Le sue iridi nocciola si strinsero alla luce fredda e improvvisa del faretto sopra di lei. Si agitò, scuotendo debolmente gli arti addormentati e alzando con un grosso sforzo la testa dal cuscino, per poi farla ricadere. Passato il primo, sconvolgente momento di stupore, si rilassò. Era nel sottomarino dei Pirati Heart, era al caldo e al sicuro. Era sorprendente quanto tutto il resto svanisse, di fronte all’impossibilità di sopperire a questi bisogni primari. Sentiva una sorta di torpore in tutto il corpo, e aveva i muscoli così indolenziti da farla desistere da ogni velleità di muoversi. Di fronte a lei un letto vuoto, sul quale era ancora impressa l’orma del corpo che vi aveva riposato. Le lenzuola erano scomposte come i resti di un’esplosione intorno al lettuccio da ospedale. L’unico rumore che sentiva era il ritmico bip dei macchinari intorno a lei, prima che in quel surreale silenzio irrompessero i veloci passetti di due pirati, seguiti dal flemmatico passo del loro Capitano. Ovviamente, non poteva non riconoscerlo: Trafalgar D. Water Law, detto Traffy, Capitano dei Pirati Heart e alleato di Rufy. Ma ad una piú attenta seconda occhiata, notò anche che era stanchissimo. Le occhiaie che di norma sfoggiava erano di un brutto colore verdastro, gonfie e pesanti, e anche il colorito non era dei migliori. Portava indosso un camice da chirurgo. Cori lo scrutò, indecisa su cosa aspettarsi da lui, mentre i due ragazzi si affaccendavano intorno a lei, uno porgendole qualche sorso d’acqua che la ragazza prontamente rifiutò con un conato. Le erano sempre piaciuti gli esami medici, per lei erano divertenti, quindi non aveva problemi di sorta nel vedere gli aghi nella sua pelle o i lividi lasciati dall’elettrocardiografo. Si accorse di avere almeno cinque sei fori abbandonati tra le mani e i gomiti di entrambe le braccia. L’avevano cambiata: Indosso portava una camiciola da ospedale, che lasciava ben in vista i nervosi fasci muscolari delle gambe.
“Mi avevano riferito delle tue strane condizioni, Cori-ya, ma devo ammettere di essere stato troppo occupato per interessarmene fino ad adesso” esordì il chirurgo avvicinandosi e ruotandole con gesto clinico la testa dal lato destro, quello che fino a poco tempo prima era stato roso dalla macchina. Cori capì solo allora cosa mancava: I suoi capelli! Non ne sentiva piú il peso e la morbidezza dietro la testa. Uno dei due pirati si rese conto del suo turbamento e si scostò per concederle libero sguardo ad un piccolo specchio. La sua testa adesso assomigliava a quella del protagonista di One Punch Man, e Cori avrebbe giurato di averla vista luccicare. Dal lato sinistro, facevano bella mostra di se le cicatrici color magenta che circondavano irregolari l’orecchio, insieme ai sei piccoli fori degli spinotti. Senza capelli, la nuova magrezza del suo viso era ancora più evidente, e gli occhi sembravano enormi e luminosi nelle orbite.
“Se te lo stai chiedendo, ti sono stati rasati i capelli per facilitare lo studio delle tue condizioni fisiche. Anche se piú probabilmente è stato a causa dei parassiti che li abitavano” ghignò il moro. Cori alzò gli occhi al cielo. “Sai com'è, non è che in prigione abbiano questo granché di servizio clienti” gracchiò sarcastica. Aveva la gola secchissima.
Traffy la ignorò. “Sembra che i miei compagni abbiano riscontrato una serie di anomalie nel tuo stato fisico. Questi fori che hai nel cranio… non sono sevizie casuali. E anche la colonna nera apparsa per qualche secondo a Marineford era opera tua, anche se indirettamente, a quanto dice Bashe in questo rapporto” disse indicando i fogli che aveva in mano.  ‘Ti volevano studiare. Mi sai dire perché, Cori-ya?” le chiese poggiando le mani sull’estremità metallica del letto e appoggiandovi sopra il mento. Aveva come l’impressione che Bashe avesse già riferito quanto sapeva.
“Mi sai dire perché ti interessa, Trafalgar Law? Credo tu sappia perfettamente che non sono in grado di gestirlo, quindi perché me lo chiedi?” forse era stata una pessima idea sfotterlo. Decisamente una pessima idea.
“Perché mi interessa non ti riguarda. Ora che hai finito di sfogare la tua frustrazione repressa, gradirei che mi raccontassi ciò che desidero sapere” ribatté prontamente il giovane moro, inchiodandole quel suo sguardo d’acciaio negli occhi.
“E va bene” ringhiò Cori, raccontandogli nel modo più caustico e asettico che conosceva le poche nozioni sicure che sapeva. In fondo, che importava? Non era mica un Segreto di Stato. Il ragazzo sembrò riflettere profondamente per un paio di minuti, prima di proferire di nuovo parola.
“Sarebbe interessante se sapessi dominare questa… capacità. In mancanza d'altro, per adesso potremo studiare le tue analisi, anche quelle rivelano molte cose. Ad esempio, il collegamento fra il tuo stato emotivo e la manifestazione della tua capacità. Anche questi sei fori sembrano interessanti” masticò Law, girandole di nuovo la testa. “Sei un caso clinico curioso, Cori-ya, e mi piacerebbe studiarti più nel dettaglio, ma nonostante le apparenze non sono un ente filantropico, e quindi ti chiedo semplicemente quanto sei disposta a promettermi in cambio del mio aiuto”. Il bello era che Trafalgar contava davvero di avere una risposta gentile e pacata mentre con quella lunga mano fredda le rigirava la testa in ogni angolazione e si divertiva ad usare quei suoi strumentini per essere sicuro che, che ne so, non fosse diventata sorda nell’intervallo fra una parola e l’altra o chissà cosa! Ma in fondo la richiesta non era così assurda. Insomma, Traffy l’aveva curata sicuramente per il legame che aveva col suo compagno, non certo per un improvviso desiderio di fare nuova zavorra per il suo sottomarino giá fin troppo affollato.
“’Ti devo un favore’ non è abbastanza vero?” chiese Cori. Con tutta la buona volontà, e per quanto Law fosse il sogno segreto di tante ragazze (non che lei non ci avesse fatto un pensierino), aveva altre priorità al momento piuttosto che chiudersi in un cassone di metallo dal colore dall’indubbio uso mimetico.
“’Ho un debito con te’, è piú appropriato. Quando ce ne sarà il bisogno, saprai esattamente cosa fare, va bene?” voleva proprio marcare il divario fra loro due, eh? Ma evidentemente non aveva le idee chiare, altrimenti le avrebbe dato un compito preciso. O forse voleva aspettare che maturasse la sua capacità. In ogni caso, era sempre meglio che perdere tempo in giro per imbarcazioni alternative subacquee, così accettò.
“D’accordo, mi arrendo. Ma voglio l’esclusiva sulle scoperte che farai. Vorrei essere la prima a sapere ciò che mi riguarda, almeno finché sarò a portata di orecchio” puntualizzò Cori gracchiando. Si sentiva molto stupida a credersi tanto superiore, sapendo che in realtà pochi esseri potevano essere più in basso di lei nella catena alimentare che comprendeva Law come erede di Simba nel grande Cerchio della Vita, per cui noi alla fine diventiamo cibo per antilopi. In quel caso, riteneva di essere l’antilope, se non l’erba. “Pensi di…” cominciò a dire, ma all'improvviso la testa ricadde sul cuscino e Cori svenne. Traffy all’inizio ne fu sorpreso, poi si rese conto che Cori era svenuta nel momento in cui lui aveva fatto pressione sul secondo foro sopra al lobo, una scoperta interessante. Bashe entrò in quel momento e chiese perplesso cosa fosse successo. Law diede una risposta evasiva e uscì, aggrottando le sopracciglia quando avvertì un campanello dalla sala di comando.
Bashe si era ripreso già poche ore dopo il salvataggio, e adesso ciondolava in giro per il sottomarino con indosso una camiciola da ospedale che gli lasciava scoperta la schiena e una flebo attaccata al braccio. Avrebbe dovuto attendere un nuovo approdo per procurarsi un nuovo nastro o un nuovo elastico per capelli, quindi li teneva sciolti sulle spalle come una cascata nera. Aveva una frangia lunghissima, che gli superava di gran lunga gli occhi e che lui si ostinava a scostare ignorando i tentativi dell’unica donna della ciurma di dargli un paio di malefiche mollette. Era smagrito, e questo gli dava un pallido aspetto spettrale mentre si aggirava senza meta negli asettici corridoi. Ma era felice. Felice di essere tornato a casa, con i suoi compagni e la sua nuova amica, di essere sano e salvo in un bel posto caldo, e questo lo rendeva irrequieto.  Quando vide il suo capitano dare l’ordine di risalire non resistette e corse subito sul ponte secondario, ansioso di rivedere il mare, e magari qualcosa di interessante.
E infatti qualcosa di interessante c’era. Le navi della Principessa Serpente e di Emporio Ivankov avevano accostato il sottomarino, lasciando che la donna più bella del mondo scendesse sul loro ponte principale e berciasse come un aquilotto tutte le sue pretese. Poi arrivò quel testardo uomo-pesce, Jimbee, che diede il via alla sua ennesima crociata per il bene di Rufy, mostrando le sue innumerevoli ferite ed il suo ineguagliabile desiderio di assolvere al compito designatogli dal compianto Hiken no Ace. Bashe seguì con scarso interesse i loro discorsi infarciti di vibrante pathos finché intravvide in lontananza una grande imbarcazione dalle sponde alte, con una velatura ridotta, tutta tirata a lucido, probabilmente nuova di zecca. Li raggiungevano da dietro, lenti a causa della loro ingombrante mole, ma la prima cosa che Bashe riuscì a scorgere sul loro alto ponte erano due esili figurette. La prima era una bambina dalla lunga capigliatura bionda, che si sporgeva dalla prua come per vedere meglio. L’altra era una ragazza bassa, che la teneva stretta per la vita per timore di perderla, avvolta da una nube turbinante di lunghi ricci castani. Non era possibile! Non potevano essere loro! Per nessuna ragione il Governo Mondiale avrebbe permesso loro di viaggiare liberi allo sguardo del mondo, di raccontare la loro storia. A meno che…
Le navi dei pirati erano appena salpate. “Capitano!” gridò, “Nave a poppa!”. Law con un balzo salì sul ponte secondario e osservò. Appena furono a portata di sguardo, si rese subito conto di chi erano.
“Capitano, posso avere il permesso di parlare alla mia famiglia? È tanto tempo che non li vedo…” mugolò Bashe con il suo sguardo da cane bastonato.
“Cinque minuti, non di più” concesse il ragazzo, che ben sapeva quanto la famiglia fosse importante per il suo compagno. Bashe fece segno alla nave di fermarsi, e presto sul ponte del sottomarino c’era la famiglia al completo. Law scrutò con sommo disinteresse i loro animaleschi attributi. Dopo un momento di imbarazzante silenzio, Symon si gettò su Bashe, abbracciandolo stretto quanto più poteva.
“Bashe! Sei tutto intero! Temevamo potesse esserti accaduto qualcosa di male…” esplose con la voce carica di emozione, facendo un cenno di ringraziamento a Law.
“Non a lungo, se continui a stringermi così, Sy…” tossicchiò rosso come un peperone mentre le dava gentili pacche sulla spalla. Appena la ragazza si fu staccata fu la volta di Lerik. Con lo sguardo torvo, gli si avvicinò e gli tirò uno schiaffone a mano aperta sul viso. Bashe girò la testa, troppo scioccato per reagire, ed il fratellastro lo strinse forte, in silenzio. Chiyo si avvicinò allo zio con circospezione, osservando con attenzione i grandi, verdi occhi familiari. Appena si fu ripreso, il ragazzo distolse lo sguardo vergognoso dal fratello e chiamò la bambina: “Vieni Chiyo! Sono io, lo zio Bashe, non mi vuoi venire in braccio?”
La bimba si avvicinò piano piano, e alla fine strinse le braccine grassocce intorno alle sue gambe, fissandolo dal basso con i suoi occhioni. Lo zio la prese in braccio e la coccolò mentre i due genitori parlavano.
“Siamo stati tanto in pensiero per te. Perché non ci hai detto niente?” chiese Sy, appoggiata dal marito silenzioso.
“Avevo paura che mi fermaste, che non lo  avresti accettato” rispose, passando direttamente a parlare col suo biondo fratello. I due si guardarono. Anche adesso avrebbero voluto fermarlo. Tacquero. “Ma ora che stiamo di nuovo insieme é tutto risolto, no?”. Il silenzio era imbarazzante.
“Fratellino… no, niente. vienici a trovare qualche volta, se puoi” sospirò Lerik dandogli le spalle. Symon prese tra le braccia Lurichiyo e si avviarono alla nave. Bashe voleva trattenerli, così sparò la prima cosa che gli venne in mente: “In prigione ho conosciuto una ragazza. Si chiama Cori. Dice di conoscere Lurichiyo.” la famiglia si bloccò, e Symon lo guardò con tanto d’occhi. “Come sta?”
“Beh, si sta riprendendo. Sta qui con noi nel sottomarino” rispose sommesso.
“La possiamo vedere?” chiese la ragazza esitando, strisciando lo sguardo implorante verso Law.
“La bambina no” rispose Law categorico. Doveva smetterla di essere così indulgente, dovevano reimmergersi in fretta, ma per questa volta lasciò correre. Lerik prese in braccio la figlia. “Resto io con lei, andate”.
Mentre si allontanavano, sentirono la piccola chiedere al padre: “Perché non posso vedere anch’io la zia Cori?”
 
Law, Symon e Bashe si addentrarono nei corridoi, prima di entrare in una piccola stanzetta con due letti da ospedale. Quello a destra era vuoto e scomposto, l’altro conteneva Cori, smagrita e nervosa, ma viva. il petto si alzava e si abbassava sotto la copertina azzurra, mentre la testa era girata sul lato destro, mostrando tutto l’orrore di quelle cicatrici. Sy la guardò con le lacrime agli occhi, con la punta delle dita ambrate ne accarezzò la pelle magenta intorno all’orecchio.
 “È in coma?” chiese con la voce tremolante.
Il Capitano ripensò a quello che era accaduto poco tempo prima. “No”.
“E dove andrà quando starà bene?” chiese ansiosa.
“Dove le pare” borbottò in risposta.
“Potremmo portarla con noi. Può viaggiare?” Law si chiese perché quella ragazza volesse curare una quasi sconosciuta. Bashe invece comprese che era il senso di colpa a guidare le azioni della cognata, in modo da permetterle di avere una buona convalescenza, e nel caso un posto dove stare.
“Avete i macchinari necessari per mantenerla?” le rispose omettendo una risposta affermativa.
“Oh, sì. Stiamo su una nave arca, non è un problema. Dovremo solo mentire sul nome” assicurò Sy.
“Allora è tutta vostra” disse con un gesto della mano. Diede una voce, e due pirati staccarono il letto dall’ancoraggio e cominciarono a portarlo sul ponte. Bashe e Symon li precedettero, e con l’aiuto di Lerik issarono la barella sul ponte della nave arca. Il ragazzo ancora convalescente con un balzo ridiscese sul sottomarino, evitando per un pelo di essere issato a bordo anche lui, e con la mano salutò la sua famiglia che si allontanava. Anche se un po’ gli sarebbe mancata, era felice che fosse la famiglia di suo fratello ad occuparsi di lei, ed era ancora più felice di averli rivisti.
 
Cori si svegliò, ma credeva di star sognando, perché sopra di lei c’era il volto iridescente di Symon, dove la luce balenava come sui giocarelli per neonati. Gli occhi castani, liquidi, studiavano il suo volto con attenzione, e si illuminarono quando si accorse che era sveglia.
“Sei sveglia!” gridò infatti.
“Che è successo?” chiese con una smorfia, tirandosi su sui gomiti.
“Ti abbiamo portato sulla nave arca” le rispose mentre le porgeva un bicchiere d’acqua.
“Nave arca?” chiese bevendo un sorso. Appena l’ebbe ingoiato le salì la nausea, ma la trattenne. Il suo stomaco non era più abituato.
“Il Governo Mondiale ha deciso di trasferirci”. Disse mentre si affaccendava intorno ad un vassoio.
“Ah. E io?” domandò confusa. Non aveva nemmeno salutato Bashe...
“Il Capitano Law ci ha dato il permesso di portarti qui, gliel’ho chiesto io. Così starai più tranquilla” rispose mentre le si avvicinava con un piatto di brodo caldo.
“Gabriele non è più con voi? E Jord?”
“Non ti preoccupare. Quel cattivo ragazzo se n'è andato insieme a te, e Jord non ha idea che tu sia qui. La gente malata non gli piace, fa di tutto per non avvicinarsi a quest’ala della nave. Purtroppo abbiamo più malati di quanti dovremmo, e non abbiamo letti per tutti, mi dispiace” si scusò mentre le avvicinava un bel cucchiaio. Notò di essere stesa su un semplice futon. “Ora apri la bocca”. Cori obbedì, ma appena chiuse la bocca intorno al cucchiaio sentì la nausea montarle potente. La sola idea di mangiare le dava il voltastomaco. Si forzò ad ingoiare il brodo, ma subito vomitò. Symon era stata abbastanza previdente da metterle una bacinella affianco. Notò anche che diversamente dall’ultima volta che l’aveva vista, teneva i capelli stretti in uno chignon, indossava un sobrio abito nero dal colletto rigido e teneva vicino a se una lunga valigetta altrettanto nera.
“Stavi per andare a lavorare?” chiese.
“Purtroppo sì.” Sospirò. “Oggi è morto un altro dei nostri. Io… preparo le esequie” spiegò, quasi vergognandosi.
“Mi dispiace…” soffiò Cori, tendendole le braccia.
“Non preoccuparti, va bene. Ormai ci ho fatto l’abitudine”. Ma l’espressione sul suo viso diceva tutto il contrario. Cori le strinse una mano in segno di solidarietà. “Chiamo Lurichiyo per farti fare un po’ di compagnia” si girò per alzarsi.
“Aspetta! Fasciami la testa prima, non vorrei che si impressionasse!” la richiamò trattenendola per un braccio. Sy, con infinita pazienza, raccolse le bende e con pochi, morbidi movimenti avvolse le candide strisce di cotone intorno alla sua testa, coprendo lo scempio magenta vicino all’orecchio.
“Così va bene?” le sorrise.
“Benissimo”. Symon si allontanò a passo svelto.
Una decina di minuti dopo, Lurichiyo la placcò con tutta la potenza delle sue gambine cicciotte. “Zia Cori!”, gridò inondandola delle sue belle onde bionde. Mentre ancora si stringeva a lei, Cori notò, nascosti dietro un paio di sacchi imballati, un paio di curiosi occhi grigi e due tenere orecchiette da mulo.
“Ehi” la chiamò, ma la creatura si ritrasse. “Vieni qui, non avere paura. Non ti faccio niente”, allungò una mano verso di lei. La bambina uscì, impaurita. Era una creaturina piccola, più minuta di Chiyo, ma con un visetto tondo, occupato da due grandi occhioni grigi sopra ad un nasino ed una boccuccia rosea. Una lunga, folta chioma scomposta di capelli castani faceva da allegro contorno. Le gambe erano ritorte e pelose, e la sua corporatura assomigliava a quella di un antico fauno. Aveva poi questo paio di orecchie pelosine e soffici! Con calma, allungò la mano perché ci prendesse confidenza, poi lentamente la accarezzò. La piccola spalancò ancora di più gli occhioni e immerse il visino nella grande mano bianca di Cori, scuotendolo come se fosse un uccellino intento a lavarsi.
“Significa che gli stai simpatica” le sussurrò Chiyo all’orecchio, poi scese dal suo braccio e prese per mano l’altra bambina. “Giochiamo a prendere il tè!”
 
Quando Symon ritornò, credeva che avrebbe trovato un paio di bambine che strapazzavano una povera ragazza ferita. Si ritrovò invece a far visita a tre anziane signore, un po’ bizzarre sicuramente, che sorseggiavano con il mignolino alzato delle splendide tazzine di tè immaginario. Avevano rimediato qualche asciugamano variopinto e Cori doveva averlo acconciato perché sembrasse un cappello. Era abbastanza sicura che l’elegante copricapo rosa che portava la dama bionda appartenesse al suo necessaire da viaggio.
“Mi dispiace interrompervi, mie signore, ma è giunta l’ora del pranzo” le richiamò afferrando entrambe per la collottola.
“No, mamma!” protestò la ragazzina, mentre la sua compagna si esprimeva in un potente Spaccatimpani. I cappelli ritornarono asciugamani, le tazzine si volatilizzarono e le anziane signore tornarono ad essere due bambine urlanti ed una ragazza sorridente su un futon. Quando Sy tornò, più tardi, la prima cosa che disse fu: “Dovrei affidartele più spesso, si sono divertite un sacco e hanno fatto meno casino del solito”.
“Quando vuoi” ribatté lei, accomodandosi a gambe incrociate. Teneva gli occhi fissi nei suoi e sorrideva.
“Sicura che non ti diano fastidio?” chiese premurosa l’altra, portandosi la lunga chioma folta su una spalla.
“Mi fanno compagnia”. Cori alzò le spalle con una smorfia. Bastava guardarsi intorno: quel grande salone, che nel progetto avrebbe dovuto essere una sala comune, ospitava invece due fitte file di malati lamentosi e urlanti, che facevano ancora più impressione ogni qual volta dalle coperte emergeva una coda squamata o delle zampe palmate. D’un tratto qualcosa cominciò a sbattere furiosamente sotto il pavimento, accompagnato da urla disumane. Un drappello di uomini corazzati le oltrepassò di corsa, e dopo poco alle urla si sostituirono i gemiti ed i rumori di lotta.
“Cosa succede?” chiese Cori.
“Sono gli Alienati che danno del loro meglio” rispose Sy, preoccupata. “È da quando siamo partiti che danno di matto così”.
Poco dopo il drappello ritornò dalle viscere della nave, un po' scorticati ma interi. Tra gli uomini di punta c’era Lerik, che appena le vide si allungò verso di loro e strinse la moglie a sé con un braccio solo. “Ehi, tesoro. Come sta andando?”
“Bene, amore” ridacchiò lei schioccandogli un bacio sulla guancia leggermente squamata. “Allora, com'è andata?” gli chiese poi corrugando la fronte in mille scagliette di luce.
“Bene, ma abbiamo dovuto di nuovo usare il gas soporifero, non c'è niente da fare” rispose con un bacio sulla tempia e strofinandole con tenerezza la spalla.
“Aspetta, che ti disinfetto” gli prese il mento fra due dita e con delicatezza tamponò le escoriazioni sul viso e poi sul braccio. L’intensità dei loro sguardi era quasi dolorosa. “Sei stata a lavoro. Va tutto bene?” le chiese lui premuroso, sciogliendole la stretta crocchia sulla nuca. Symon scosse la testa, liberando la folta capigliatura. “Non ti preoccupare. Torniamo in cabina, ti va?” arrossì, o meglio, avviolò quando il marito tentò di baciarla davanti a lei. Cori sorrise intenerita. Era come guardare un vecchio film romantico.
“Scommetto che a Cori non interessa se ci baciamo davanti a lei, non è vero?” ghignò malizioso Lerik.
“Oh, no, siete così carini!” proferì con nonchalance. Symon la fulminò con lo sguardo, per poi passare ad un'espressione da Gatto con gli Stivali. Carini e coccolosi ragazzi, carini e coccolosi. Lerik rise, poi si alzò tirandosi dietro Sy e le diede un bacio a schiocco che la fece diventare più viola di quanto giá non fosse.
“Ciao Cori!” la salutò, accompagnato dal balbettante saluto di Sy: “Ci-ciao!”
Cori scoppiò a ridere. “Ciao Sy! Lerik!”.
Fu un momento, forse perché era ancora lontana dalla guarigione, perché aveva tutte quelle bende addosso (era praticamente una mummia dal bacino in su, e da quando si era svegliata non aveva mai nemmeno provato a posare un piede), o perché aveva la pelle gialla, quasi itterica per i lividi, ma fu grata per quel momento. Quando Sy e le bambine non c’erano si sentiva sola, e non faceva che rimandare il pensiero a ciò che aveva subito, e la nostalgia di casa, la nostalgia di suo fratello la soffocava. Spesso pensava al freddo della prigione, alla fame, al dolore continuo, quasi come la nenia di una vecchia, alla tortura di quei tubi spinti dentro il suo cervello. Si stringeva nella coperta, tremava. Il salone era troppo ampio, disperdeva facilmente il calore, o forse era lei che sentiva freddo, non ne aveva idea. Aveva paura di addormentarsi per sognare quell’incubo, ma in ogni movimento che percepiva con la coda dell’occhio rivedeva l’ombra della massa impazzita, mostruosa fuori dalla sua cella, nel soffio di una coda bionda il volto deformato dall’ira di quella donna. Teneva le spalle spinte contro la parete, e ringraziava Sy per averle procurato un cantuccio all’angolo, dove poteva rifugiarsi e rigirarsi. Osservava la massa delirante dei malati e si rintanava nel suo angoletto. Ad una certa un medico e due infermiere spensero tutte le lucerne, lasciando tutti al buio.  Se prima Cori aveva aborrito la massa di malati, ora se ne sentiva rincuorata. Affrontare il buio da sola sarebbe andato oltre le sue attuali facoltà di sopportazione. Nonostante questo, impiegò davvero tanto tempo ad addormentarsi, ed il suo fu un sonno agitato e intermittente, durante il quale si svegliava in preda al terrore di incubi la cui memoria svaniva entro pochi minuti, lasciando solo la strisciante sensazione di paura che scivolava, umida, negli interstizi che la realtà lasciava alla sua immaginazione. Le ombre si riempivano di mostri e voci sussurranti, si sentiva chiamare di continuo. Gli abiti in fondo al letto si trasformavano in un pallido cadavere, rigonfio e bluastro, con la bocca lorda di sangue, le ombre sulle pareti, appena visibili nella penombra, nei movimenti convulsi e sincopati di un essere pauroso. Nelle macchie umide del soffitto rivedeva due occhi che la fissavano, imputandole una colpa, le facevano paura, non aveva il coraggio di girarsi. Come quando era piccola, si ricoprì dalla punta dei piedi fino agli occhi con la coperta, per non vedere più nulla, ma appena lo fece si sentì soffocare, finché non cadde, poco prima dell’alba, in un sonno profondo.
 
 
Ovunque si girasse non vedeva che blu: Fra cielo e mare non c'era che una sottile linea. Il mare era in bonaccia, e non vi era sole, solo un’azzurro uniforme, slavato. Lei era lì, nel mezzo del nulla, immersa in quella infinita distesa d’acqua. All’improvviso, qualcosa le solleticò la pianta. Appena abbassò lo sguardo, una chela le agguantò la caviglia e la trascinò sott’acqua. Odiava andare in apnea. Cominciò a scendere, i timpani urlarono di dolore mentre i polmoni cominciavano a collassare. Scalciò, più forte che poteva, ma quella cosa non la lasciava. Annaspò, la bocca si aprì automaticamente per respirare e inghiottì l’acqua, direttamente nei polmoni. Cercò di nuotare in senso contrario, ma più la trascinava giù più faceva male. I timpani stavano per spaccarsi, la vista cominciò ad offuscarsi e il dolore al petto diventava insostenibile. Poco prima di svenire vide una grande mano protendersi verso di lei, ma per quanto potesse sforzarsi non riusciva a raggiungerla.
 
Aveva di nuovo fra i sei e gli otto anni. Stava dormendo, lo sentiva, intrappolata nel corpo della se stessa più piccola, percepiva le sue sensazioni in un angolo della sua testa. All'improvviso, esplosero, invadendo completamente i suoi pensieri, catapultandola al posto della bambina che era stata. Era sveglia, aveva gli occhi aperti, ma non riusciva a muoversi. Sapeva di avere le mani, le braccia, le gambe, lo sentiva ad un livello profondo, ma non le percepiva! Sentiva solo amplificata la coperta contro la guancia schiacciataci pesantemente sopra, provò a muovere il braccio, ma non lo vedeva ne lo sentiva muoversi. Provò a gridare aiuto, ma le labbra erano serrate, e la sua gola non emetteva alcun suono, non si contraeva. Il panico le chiuse la gola, mentre il terrore atavico, quello di non potersi difendere, la attanagliò, la morse con violenza, schiacciandole lo sterno. Sentiva nelle orecchie il rombo del sangue amplificato e distorto, e delle voci, delle parole prive di senso. Vedeva la sua stanza, ma era strana, distorta, oscura. Vedeva lunghe, alte ombre strinare le pareti,  avvicinarsi a lei, sentiva il loro soffio gelido sulla pelle. Provò a muovere le dita, e sentì finalmente i polpastrelli vibrare sotto lo sforzo immane che stava facendo per muoverli. Pensò intensamente: Devo svegliarmi, devo svegliarmi… E finalmente riuscì a urlare. O meglio, emise un lungo verso roco, inarticolato, che le sfuggì dalle labbra appena socchiuse. Pochi secondi dopo, la porta si spalancò di colpo. Doveva aver urlato piú forte di quanto non avesse sentito. Un Ottavio di dieci anni corse nella stanza, i suoi passi rimbombavano nella testa della piccola Cori mentre lo vedeva avanzare con la coda dell'occhio, sfigurato da quella strana distorsione. Appena la afferrò per le braccia, tutti i muscoli gridarono come per un crampo, ma riuscì finalmente a muoverli. Una lacrima le sfuggì, e il fratello spaventato la abbracciò stretta. Le stava dicendo qualcosa, ma non lo sentiva, percepiva solo le sue labbra muoversi. La stanza tornò normale, smise di essere spaventosa. Nello stesso istante in cui finalmente riuscì a percepire il sollievo – suo e della se stessa del passato – nell’avere il fratello affianco, nel sentire di nuovo il suo calore, tutto si sciolse in un brodo caldo e azzurrognolo.
 
Si svegliò, ma fu come se non fosse mai successo, perché l’incubo non era finito. Il panico la morse. Era di nuovo bloccata, con il petto schiacciato dalle bende, e non riusciva a muoversi. Solo gli occhi ruotavano impazziti nel vedere il salone piegarsi e incurvarsi su di lei, le ombre allungarsi, e di nuovo il sangue nelle orecchie. C’era qualcuno, nell’ombra, lo percepiva ergersi minaccioso, era lì, anche se non riusciva a vederlo. Non sentiva niente, era tutto ovattato. Avrebbe voluto respirare più forte, ma non poteva, si sentiva soffocare, non riusciva a muoversi, era tutto bloccato, no, no, no, no… il panico. Sentiva i nervi urlare, ordinare ai muscoli immobili e contratti di muoversi, sentiva la mascella stridere di dolore, le tempie scoppiare, finché riuscì a socchiudere i denti e ad urlare, per un tempo che le parve infinito, nel silenzio della nave addormentata.
 
 
 
 
 
 
 
 
Ehm ehm, eccomi qui! Scusate per il ritardo, ma vi assicuro che la parte su Law (di cui tuttora non sono molto convinta) è stata un vero parto. Allora, come vi è sembrato questo nuovo capitolo? Come potete vedere, ho messo la parola fine al mio slancio sadico, ma non per questo posso eliminarne le conseguenze! Quindi ecco a voi questo fantastico capitolo, che tiene il piede in due staffe tra Marineford e… beh, il resto della storia. Il fenomeno descritto nell’ultima parte esiste davvero, non è un effetto post-Haki o altre cose (almeno nella realtà, nella mia storia chi lo può sapere?), si chiama paralisi del sonno, e i suoi sintomi sono allucinazioni visive, uditive e tattili, paralisi muscolare, incapacità di parlare e stato di ansia e terrore provocato dai problemi respiratori e dalle allucinazioni di cui sopra. Dura al massimo due minuti e avviene nella fase di transizione tra sonno e veglia, coinvolge spesso, ma non esclusivamente, persone sotto stress o in stato d’ansia ed è spesso associato alla narcolessia. Mi è venuto in mente perché anche a me capita frequentemente, e vi assicuro che non è una bella sensazione, ma voglio chiarire che il motivo per cui Cori ne è afflitta e il fatto che lo sia non è in nessun modo legato, almeno in questo caso, ad un parallelismo tra me e lei, o almeno non nella sua parte più importante. Spero di aver scritto cosa gradita, mi auguro recensiate numerosi, alla prossima,
Hikari_Sengoku
 
P.S. Ringrazio chi mi recensisce abitualmente, che è per me grande fonte di gioia e che mi aiuta a migliorare (in un futuro lontano, quando farò la revisione):
WillofD_04
Elgas,
E tutti coloro che hanno recensito saltuariamente. Le critiche sono importanti!


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Capitolo 17
*** Hana wa sakuragi, hito wa bushi ***


Hana wa Sakuragi, hito wa bushi
 
 
Cori
 
Cori
 
Cori
 
Sentiva la voce di suo fratello rimbombare mentre i medici correvano, ma la crisi era passata. Era rimasta solo quell’eco inquietante, lì, sul fondo della sua coscienza, che attendeva in silenzio che i medici classificassero la sua crisi ed il successivo mutismo come Crisi post-traumatica da stress. Non appena fu sola, si rannicchiò su se stessa. Si sentiva sola come non mai, e triste, e l’unico posto dove sperava di stare erano le braccia di suo fratello, anche con 50 gradi all’ombra e le salamandre cotte sulle pietre del giardino, purché fossero di nuovo insieme. La nostalgia la assalì potente. Le mancavano Emilia, con i suoi capelli pel di carota spruzzati da che ne aveva memoria di neve, il Maestro, Greg, per quanto potesse essere strano, i suoi genitori, cui voleva bene comunque, e il nonno! Il nonno che comunque non avrebbe mai più rivisto. Non ce la faceva più, pianse. Schiacciò la faccia sul cuscino e soffocò i singhiozzi.
Quando Sy scese giú quella mattina la trovò così. Aveva saputo dai medici cosa era successo. Si sedette di fianco a lei, mentre il Reparto si svegliava dopo un’altra agonizzante notte. Altre tre morti, ma potevano aspettare il sole alto. Prese una coperta e se la strinse addosso per metà, e in silenzio offrì l’altra metà alla ragazza spezzata ai suoi piedi, accogliendola delicatamente nel suo magro abbraccio. Nonostante tutto, Cori ancora si forzava a non appoggiarsi a lei, neanche con la testa, cosí Sy se la spinse piano sulla spalla, accarezzando la pelle liscia del cranio sotto le dita, sfiorandole la curva del naso, le guance morbide, i cerchi delle orbite, tratteggiando i lineamenti con le lunghe unghie nere. Accostò le labbra alla sua testa e sussurrò: “Me lo vuoi raccontare?”
Cori rimase in silenzio. Sy le prese una mano, e se la rigirò, massaggiandola. Era bianca come il latte, con le unghie e la pelle intorno tutte smangiucchiate. “Mani grandi, da pianista, e calde.” Ma Cori era già di per se un termosifone. “ Da chi le hai prese?”
Cori mugugnò un po' prima di rispondere: “Da mia madre, ma lei le ha più piccole. È mio padre che ce l’ha grandi. E se le smangiucchia”.
“E gli occhi?” la spinse a parlare Sy, vedendo quanto l’argomento facesse presa sulla ragazza.
“Sempre da mia  madre. Anche mio fratello li aveva così, ma più piccoli, come nostro padre” borbottò raccogliendosi.
“Senti Cori, io non posso essere tuo fratello, o tuo padre, o tua madre, ma posso essere tua amica. Per questo ti chiedo di farti aiutare. Non tenerti tutto dentro. Se vuoi, ci mettiamo qui e parliamo, di qualsiasi cosa. Ti dedico tutta la mattina se vuoi! Ma per favore, fammi entrare. Permettimi di ripagare il mio debito” la pregò.
“Gli amici sono i fratelli che scegli di avere. Non ti comprerò con la gratitudine, ti conquisterò.” Disse guardandola fisso negli occhi con le sopracciglia aggrottate, stringendole la mano abbronzata nella sua. “Mi fido di te”
Sy annuì, presa. Poi si riscosse. “Allora, raccontami tutto!”
“Sono nata un lontano giorno del 1999…”
“Non così tutto, scema!”
 
Dopo due lunghe settimane nel ventre della nave, Cori cominciava a sentire i morsi della noia. Symon le aveva fortunatamente reso lo zaino che adesso era il suo cuscino, ma non era più abbastanza per allontanare il tedio di quelle lunghe ore. Era perennemente sotto antidolorifici, una cosa che sballava un po’ il suo equilibrio ma le permetteva di avere pensieri lucidi per tutto il tempo. Nel giro di due settimane, di quelle crisi paralizzanti ne aveva avute sei, tutt’e sei terrificanti e distruttive, ma alla fine stava entrando nella routine, anche se ormai il suo sonno rimaneva intermittente e disturbato anche da incubi. Ogni volta abbracciava lo zaino per cercare conforto nel suo odore affumicato, nella foto che il nonno le aveva lasciato. Non aveva più pianto. Stava male, questo è vero, ma stava riuscendo lentamente a riprendere coscienza di ogni parte del proprio corpo, e anche la religione le dava grande conforto. Le piaghe cucite tendevano e tiravano, risanandosi velocemente, tanto che in due settimane gli ematomi erano scomparsi e le ferite pulite, e a far male erano i punti. Quelle ai piedi erano rognose, bastava un movimento per aprirle e non le permettevano di muoversi. Sy le era stata vicina per tutto il tempo, e l’aveva consolata durante i momenti più deprimenti, quando le mancava la sua famiglia e si chiedeva che fine avessero fatto, se sua madre avesse resistito. Era un pensiero ricorrente, un loop che occupava gran parte delle sue noiose giornate. Odiava non avere nulla da fare. Quella mattina, l’alba aveva portato la cessazione del rollio e del beccheggio della barca, facendo risuonare il rumore della risacca all’interno della nave. Verso mezzogiorno, Lerik, Sy e Lurichiyo scesero insieme nel Reparto con una sedia a rotelle. A Cori sembrava di vivere in loro funzione, e non le piaceva molto come cosa.
“Siamo arrivati!” Le annunciò la piccola Chiyo abbracciandola. Lerik si avvicinò con le braccia protese.
“Che c'è?” chiese Cori confusa.
“Ti do una mano a salire” le rispose l’uomo.
 “No, no, ci penso da sola. Lurichiyo, scendi” ordinò, poi messasi in ginocchio si issò a forza di braccia ai braccioli della sedia, spostò una mano sul bracciolo opposto e si girò, portando anche l’altro braccio dall’altra parte. “Visto?” Sy alzò gli occhi al cielo, ma si mise dietro di lei a spingerla. Lurichiyo risalì sulle sue ginocchia.
“Allora, com'è fuori?” curiosò la ragazza.
“”Per adesso, abbiamo visto solo la spiaggia alla quale siamo approdati. C’è un faro in cima all’isola, dove vivono due marine con un telegrafo. La chiamano Erenajima, o Isola di Erena. Il nostro villaggio si troverà a mezza costa sul monte del faro, al lato sud dell’isola. A est l'isola ha una propaggine che si allunga degradando in mare per circa una sessantina di chilometri.“ spiegò Lerik. “Sará un bel posto per vivere. Spero.”
Uscirono all'aria aperta, su una spiaggia dalla sabbia fine e dorata. Davanti a loro si stagliava un alto monte ricoperto da un fitto bosco. Alzando lo sguardo si poteva vedere l’altissima torre del faro brillare in pieno sole. L’aria sapeva di sale, di mare, e del polline del sottobosco in fiore. Solo un sottile sentiero in terra battuta attraversava il bosco, inerpicandosi su per la montagna, passando per una cresta larga a mezzacosta, il luogo dove sarebbe sorto il villaggio. Dietro di loro, dalla nave scese anche un plotone di carpentieri al servizio della Marina, che montate le proprie cose su un carro, li precedette lungo il sentiero. La carovana degli uomini-bestia si mise in marcia, con a rimorchio carri che a Cori ricordavano quelli che aveva visto nei documentari sulla peste, pieni di creature agonizzanti e morenti. Lei era stata messa a cassetta di uno di quei carri, dove si teneva stretta il suo zaino, ed era straziante. Per quanto poteva, si sporgeva sul cassone scoperto, dando da bere ai poveri malati dalla sua borraccia e cercando di aiutarli un po’, ma sembravano già avere un piede nella tomba, non provavano nemmeno a vederla. Erano tutti orribilmente mutati e deformi. In ceppi dietro i carri, scortati da un ulteriore plotone di marine, c’era una folla dall’aspetto e dall’andatura neanche lontanamente umana. Camminavano perlopiù carponi, completamente disinteressati alle incitazioni dei marine, si comportavano come gli animali di cui il corpo aveva preso la forma. Raschiavano il terreno col le dita arcuate e ricurve, annusavano, si azzuffano, lasciando sugli avversari i marchi dei loro morsi sanguigni. Erano lerci, zozzi, e puzzavano tremendamente, una massa cenciosa e ululante, che se solo avessero avuto dono della parola le avrebbe ricordato la Corte dei Miracoli. Impiegarono un’intera giornata alla velocità della carovana per raggiungere la cresta, dove i carpentieri si erano già dati da fare, poiché era piena degli scheletri di legno novello delle loro future case. Gli Alienati vennero chiusi in un serraglio per la notte, mentre il paese si divideva in tante tende appena fuori dal nuovo paese. L’accampamento aveva un’aria da Far West, si respirava l’aria dei film di Bud Spencer e Terence Hill, satura degli odori delle cucine e del fumo dei fuochi. Cori era stata fatta smontare, e ora era di nuovo seduta sul vecchio futon dentro alla tenda della famiglia di Lurichiyo, dove l’avevano mollata per andare a cucinare. Cominciava veramente a scocciarsi di non poter camminare. Le ferite al torso ormai erano diventate cicatrici rossastre e pulsanti, non sanguinavano più, e la testa non le faceva più male da parecchio, quindi mancavano solo i piedi, delicati e sottoposti a perenni pressioni, e le cui piaghe si riaprivano molto più facilmente. Provò a posare il piede, ma una fitta dolorosa si propagò lungo tutto il polpaccio. Prese le bende che avrebbero dovuto sostituire quelle vecchie (teneva solo i piedi fasciati, per far seccare meglio le piaghe ora che avevano smesso di sanguinare), e le strinse intorno al piede sopra le altre, creando un cuscinetto. Finalmente, posando il piede sentì solo un lieve fastidio e un formicolio. Si alzò in piedi sul futon, barcollando si appoggiò al palo della tenda. Da lì poteva vedere fuori. Era il crepuscolo, e davanti alla tenda Sy, Lerik e la bambina erano seduti intorno al fuoco. La sensazione era come quella di quando da piccola, camminando a piedi scalzi, per non sentire il pavimento freddo sollevava le piante dei piedi, tenendo però il tallone e le punte raggrinzite bene a terra. Sy vide uno spettro all’angolo della sua visuale e si spaventò. In effetti, in quel momento Cori aveva l’aspetto di uno spettro, cerea come una statua, con gli occhi brillanti di braci incastonati nella testa smagrita e deturpata dall’orribile cicatrice sembrava un novello fantasma dell’Opera, con gli abiti neri nel buio della notte, e le braccia e le gambe che sembravano troppo lunghe per le maniche, quasi ci fosse cresciuta dentro e la miseria l’avesse costretta a rimanere nella sua sgraziata figura oblunga, quasi troppo massiccia per la testa nuda. Poi la mora capì di non stare di fronte ad un fantasma e si alzò di scatto per andare da lei.
“Cori! Che fai fuori dal letto? Dovresti riposare!” protestò infatti spingendole le mani sulle spalle per farla tornare giù. Aveva dimenticato quanto Cori potesse essere imponente. La superava di due buone teste, e aveva spalle molto più larghe della maggior parte degli uomini del villaggio. In confronto a Cori, erano un popolo di Pigmei. La riccia la prese delicatamente per un polso con la mano libera.
 “Non preoccuparti. Non vedevo l’ora di cominciare a camminare!” Le brillavano gli occhi dalla gioia. Finalmente poteva camminare! Non ne poteva più. Euforica, posò il piede sulla nuda terra, ma una fitta la costrinse a ritornare sui suoi passi. Il futon era morbido, più di un tatami, il terreno no, ed era pieno di asperità. Il suo volto si contrasse in una smorfia.
“Te l’avevo detto! È ancora troppo presto” la rimproverò riuscendo finalmente a mandarla seduta sul letto. Cori si prese il piede fra le mani soffiandoci sopra per alleviare il bruciore e togliere i sassolini.
“Non è presto, le servono delle scarpe” borbottò Lerik dal fuoco, infastidito dalla fuga della moglie. Cori fissò Sy di sottecchi. Si stava mordendo il labbro, staccando piccole scagliette iridescenti dalla pelle vicina, e guardava alla sua scarsella con uno sguardo triste. Senza farsi notare, Cori prese una manciata di berry dalla borsetta etnica di Nami e glieli porse. Sy la guardò con tanto d’occhi. “Ma… sono troppi! Con questi ce ne fai tre di paia di scarpe!”
“È giusto così. State facendo tanto per me, dovrò pur ripagarvi in qualche modo” le rispose sfuggendo il suo sguardo.
“Grazie” disse Sy mortificata, raccogliendo le monete nella scarsella. “Hai fame?”
“No, non preoccuparti. Vado a dormire” le rispose sbadigliando, e accoccolandosi nelle coperte posò la testa sullo zaino, sistemò bene la camicia di Zoro che usava come cuscino e si addormentò.
 
Era di nuovo avvolta nel buio più totale, intorno vedeva solo forme confuse e ondeggianti, i vaghi profili degli altri. Aveva la testa così pigiata sullo zaino da farsi male, e sentiva un punto di fuoco incastonato nel cranio. Era l’ennesimo incubo che faceva da quando si era svegliata sull’Arca? O forse non stava dormendo. Alzando la testa vide la luce della luna illuminare con candidi nastri la terra. Tutto era immerso in una grigia atmosfera, che spegneva i colori. Si buttò la camicia sulle spalle e attratta dalla luce strisciò carponi fino al centro della radura delle tende, sedendosi a gambe incrociate, sola sotto gli occhi di Dio. Faceva freddo, ma non tanto da fermarla. Si stese nell’erba bagnata, fissando la luna piena, che con la sua luce oscurava le stelle. Era immensa nel cielo, un globo latteo butterato che attirava tutti gli sguardi. Faceva freddo, e i brividi la scuotevano, ma non voleva tornare indietro. Da quanto tempo non vedeva la luna? Era bellissima, e bianca. Usando la camicia come coperta, inspirò il profumo di Zoro ancora forte. Aveva veramente un buonissimo odore, e per un po’ si cullò nel ricordo di quella nottata sulla Sunny. Faceva freddo. Posò il lato sinistro della testa sull’erba. Il fresco raffreddò la pelle bollente, provocandole un sollievo che non ricordava di desiderare. Tremava ancora, continuamente, ma non voleva tornare indietro. Ricordava che un giorno lei e Ottavio si erano addormentati fuori dalla tenda, una notte in giardino, e lui era vicino al fuoco, con la testa poggiata sulla sua coscia, e lei non riusciva proprio a dormire dal freddo e tremava tutta come un terremoto. Ottavio si era svegliato, chiedendole se aveva freddo, ma lei aveva continuato a negare, dicendo che tremava perché le aveva bloccato il sangue. Non si era nemmeno spostato. Non voleva che si svegliasse e magari decidesse di tornare in tenda. Le piaceva dormire vicino a lui, anche se il fratello aveva avuto la lungimiranza di portarsi il sacco a pelo e lei no. Si sentiva un po’ come allora, a tremare dal freddo senza poter dormire, ma con la sua dolorosa assenza, con solo la camicia di Zoro a farle compagnia.  Il punto di fuoco nel suo cervello si acuì, esplose dietro al lobo, al sesto buco dello spinotto. Tremò ancora più violentemente per il freddo, spingendo ancora di più la testa nel terreno soffice, quasi potesse soffocare il dolore. Percepiva intorno a se la contrazione dello spazio, le pieghe nell’aria,  le deboli aure del villaggio danzare e muoversi, contrarsi insieme ai loro sogni, ondeggiare e intrecciarsi, sollevarsi dal corpo, libere dal loro vincolo. Passò la nottata così, tremando, saltando da un pensiero a un ricordo, finché all’alba il sole non riscaldò la terra e Cori, stremata, si addormentò.
 
Quando la piccola Lurichiyo si svegliò in braccio al padre aveva una gran sete, così quatta quatta sgusciò fuori dalla stretta paterna e corse fuori dalla tenda, o almeno ci provò, perché la madre la riprese per la collottola e la tenne stretta a se. La bambina cominciò subito a protestare, dimenandosi e lamentandosi. “Tua figlia è sveglia” mugugnò Sy al marito accanto a se.
“Lo sai che prima dell’alba è tua figlia” borbottò Lerik in risposta, girandosi e stringendo con un solo braccio moglie e figlia, ma vide anche qualcosa che sperava, nel suo innocente desiderio di crogiolarsi nel letto ancora per un paio d’ore, di non vedere ancora per un po’, ovvero il futon di Cori vuoto. Per diversi minuti fu tentato di girarsi dall’altra parte e tornare a dormire, ma alla fine il dovere vinse, e dando un bacio sulla fronte della moglie disse: “Amore, abbiamo un problema”.
 
Purtroppo per lei, qualcuno si era svegliato prima di Lurichiyo, e parlottava con un marine al margine della piazza, senza nemmeno osare avvicinarsi al fagotto addormentato al centro della radura.
“Una bestia é fuggita dal serraglio. Ci prepariamo a  riprenderla, passo” comunicò il marine al lumacofono.
“Mandiamo subito rinforzi, passo e chiudo” rispose il capo del plotone sbadigliando nel microfono.
Prima che l’irreparabile potesse accadere, Sy corse davanti a Cori e fermò i marine. “Non è niente! È della mia famiglia!”
“Ah, si? E da dove l’avete raccattato, questo barbone?” chiese il soldato pungolando Cori con una picca, senza svegliarla. “Perché dorme in mezzo alla piazza?”
“L’abbiamo presa a servizio.” Al villaggio era una cosa normale: Le famiglie più ricche prendevano a servizio anche interi gruppi famigliari in cambio di vitto e alloggio, anche se coloro in grado di farlo si contavano sulle dita di una mano, ma mai nessuno aveva preso a servizio una straniera. “È solo una poverina, una naufraga. Non farà del male a nessuno. È la sua prima notte al villaggio, dovete capirla” li pregò.
“La legge è chiara. Gli stranieri colti in flagrante nell’avere contatto col vostro popolo sono condannati alla morte” ghignò il marine, felice di potersi vendicare dell’essere stato svegliato all’alba.
“Non se decidono di non abbandonare l’isola. Garantisco io per lei” asserì Lerik ergendosi in tutta la sua altezza. “Sono il Capo delle Guardie, e dopo il Sindaco sono quello che conta di più qui intorno. Tutti mi conoscono, e sanno che mantengo quello che prometto” fece schioccare la coda sul terreno con un morbido tonfo.
“Come se comandare un branco di bifolchi avesse chissà che importanza” si lagnò il marine sputando a terra. “Tsk, e va bene. Può rimanere. Ma sia chiaro: Se dovesse anche solo decidere di farsi una nuotatina nell’oceano, per lei sarà finita. Uomini, potete tornare a dormire, non c'è niente da vedere. Tzè, che bestie…” brontolò il marine allontanandosi. Tutta la famiglia tirò un sospiro di sollievo. Sy scosse delicatamente Cori.
“Ehi… Che succede?” chiese la ragazza assonnata, stropicciandosi gli occhi.
“Succede che sei una stupida!” la aggredì Lerik con uno scappellotto. “Noi ti accogliamo, mia moglie si fa in quattro per te! E tu, invece di essere riconoscente, ti cacci in un guaio dopo l’altro!” il biondo respirò profondamente, smise di urlare. “ Non ti voglio cacciare via, ma devi capire che se vuoi stare con noi ci sono delle regole da rispettare.” Cori abbassò gli occhi, contrita. “Non puoi fare come ti pare, e sperare di risolvere tutto con una scusa e qualche moneta”. Restarono in silenzio per cinque minuti buoni, Cori ancora seduta a terra e Lerik immobile che con una mano bloccava Symon e Chiyo, pronte a protestare.
“Ora andiamo. Ti procurerò delle scarpe, così che tu non debba uscire fuori carponi la notte, Signorina Sonnambula” sorrise sarcastico Lerik, tendendole la mano. Cori la prese, mentre da una parte e dall’altra i due coniugi la aiutavano a raggiungere la tenda.
 
 
NewsCoo dei Pirati Heart, inoltrata richiesta di novità al soggetto clinico n*…,
Cortesemente esaurire il più chiaramente possibile via rapporto epistolare le informazioni richieste sullo stato di salute del soggetto, eventuali scoperte sull’utilizzo del potere dello stesso, eventuale risveglio di capacità e modalità di esso, in una logica di sincerità utile a entrambe le parti. Vi è inoltre concesso intrattenere un rapporto epistolare con il carpentiere di bordo, Bashe, attraverso i rapporti.
 

Rapporto n*1
Caro Law,
Egregio Capitano,
CHE PIZZA COME SI COMINCIA UN RAPPORTO
Caro Law,
Gli ultimi due mesi sono stati molto impegnativi, e la ripresa lunga e dolorosa. Dopo due settimane, la Nave Arca ci ha sbarcati su di un nuovo isolotto sperduto, Erenajima, dove il villaggio ha finito di insediarsi in una settimana. In tutto questo tempo, le ferite sul torso sono gradualmente guarite, e ora ne rimane solo la cicatrice, un po’  sottile ma chiusa grazie ai punti. Le ferite che ci hanno messo di più a rimarginarsi sono state quelle sotto le piante dei piedi, che tengo ancora bendate. Lerik, il fratellastro di Bashe, mi ha procurato delle scarpe particolari che mi permettono di camminare senza problemi e i medici dicono che presto non ne avrò più bisogno. Le ferite alla testa hanno dato una sola volta segni di squilibrio: Sembra che il sesto buco provochi una febbre molto alta, con un graduale assottigliamento fra lo stato normale e quello Nero, e ho un po’ paura a verificare gli esiti degli altri in un villaggio senza condizioni di sicurezza. Durante questi due mesi ho subito anche più volte a settimana delle paralisi del sonno, ma non credo sia dovuto solo al periodo difficile che ho vissuto in prigione.
Ti prego di riferire a Bashe quanto sto per scrivere. Qui al villaggio va tutto bene. Io vivo insieme alla sua famiglia, e faccio per loro i lavori pesanti: Lerik, da quando il plotone di marine ha abbandonato l’isola, è spesso occupato ad allontanare gli Alienati, e Symon soffre di una grave forma di osteoporosi che le impedisce di farli. Io sono felice, aiutarli mi fa sentire bene. Lurichiyo è meravigliosa, la adoro, è un vero tesoro, e cresce che è una bellezza. Mi manca un po’, sai, la libertà, ma avevo veramente bisogno di riposo. Ora, vivendo con loro, mi rendo conto di quanto mi sia mancata una routine familiare, svegliarsi la mattina, andare a prendere un otre d’acqua, fare legna, occuparsi di Chiyo quando i genitori sono entrambi occupati. Sembra che anche Chiyo abbia una forma precoce di osteoporosi, appena all’inizio, ma proprio per questo non la posso mai perdere di vista. Non riesco a credere di poter tornare a camminare, a muovermi, a portare pesi, ad avere di nuovo il controllo dei miei muscoli!  Al villaggio non sono ben vista. Per fortuna, il mio aspetto è anche quello che li tiene a bada. Quella pazza di Gretel ha provato a picchiarmi, ma io le ho restituito prontamente pan per focaccia (un buffetto, niente di che). L’avessi mai fatto! Quella donna potrebbe tranquillamente sostituire le sirene da ambulanza. Poi è arrivato Jord, ma non si è minimamente arrischiato ad avvicinarsi. Comincio a capire come si sentiva il Fantasma dell’Opera. Qui tutti mi vedono come un mostro da evitare, e da cacciare se possibile, ma hanno paura di me come se fossi una maledizione, intangibile e inevitabile, e forse è vero. Mi temono, come se fossi un demone incatenato da Lerik, o votato al loro servizio da un contratto, che non attende altro che una debolezza o una scadenza per divorarli nel sonno e poi violare i loro sogni e ucciderli di terrore. Forse più il Gobbo di Notre-Dame, che il Fantasma. Più crudezza, più violenza, meno poesia, meno musica.


Estratto dalla lettera spedita da Cori il giorno stesso dell’arrivo del Newscoo.

 
Cori stava tornando dalla foresta con un carico di legna fra le braccia, quando vide un gran fermento nella piazza del villaggio. Un carro era fermo nel mezzo, carico di fiori fino a strariparne. L’odore che ne proveniva era talmente intenso da risultare nauseante. Tutto il villaggio era accorso, incuriosito dal primo mercante che varcava le loro porte. Un mercante straniero. Le donne e i bambini odoravano i fiori, gli uomini osservavano un po’ da lontano. Il carro doveva essere arrivato poco dopo che era entrata nel bosco, se le guardie avevano già permesso agli altri di avvicinarsi. Le poche anziane sfregavano fra le mani nodose i gambi, trasformandoli in poltiglia verde, per poi avvicinarla a naso e bocca, saggiandone con gli artigli la consistenza, per verificare con quest’ultima prova l’innocenza del mercante. I bambini correvano tra le cassette scaricate vicino al carro, rubando alcuni fiorellini e impigliandosene altri tra i capelli e i vestiti, mentre le madri combattute dividevano la loro attenzione tra i ragazzini e le cassette piene, osservando fameliche i petali delicati, le sfumature di ogni colore dell’iride e le forme più variegate, attratte inesorabilmente dalla loro bellezza. Sembrava la classica scena di mercato, nonostante tutto. Davanti alla merce c’erano un uomo e una ragazza. L’uomo era più massiccio che alto, probabilmente era più basso di Cori di qualche centimetro. Aveva la pelle abbronzata dal sole, e nonostante fosse vestito da contadino, tutto in lui, dal modo di muoversi allo sguardo, mostrava una sicurezza in se stesso maturata dopo un lungo lavoro, una forza, o un potere, fuori dal comune. Aveva gli occhi dello stesso azzurro del suo Maestro, che potevano gareggiare con quelli di Terence Hill, e in mezzo a tutti quegli sguardi bruni e alla sua pelle erano come magneti. Aveva i capelli rasati a spazzola, e una rete di morbide rughe intorno agli occhi. La ragazza al suo fianco aveva un’età indefinita tra i sedici e i vent’anni. Aveva un’espressione apatica, con un sorriso lieve stampato sulla faccia, che inquietava sotto il suo grande sguardo castano, quasi bovino, tanto che nessuno si avvicinava a lei. Il volto, piccolo rispetto ai grandi occhi, era incorniciato da lisci capelli castani lunghi fino alle spalle, tutti ordinatamente raccolti da mollettine, ovviamente.  Stava di fianco al carro, risistemando le sue composizioni e curando i fiori come una maestrina cura i bambini dell’asilo. Al contrario del suo compagno, invece di vesti da contadina portava un kimono viola prugna lungo fino ai piedi, con un largo obi rosso che ogni volta che si girava Cori temeva potesse falcidiare qualcuno con il suo enorme fiocco, deludendola ogni volta, perché la ragazza sembrava una ballerina nata. I suoi movimenti erano aggrazziatissimi, ma lenti, come se viaggiasse ad una velocitá diversa dal mondo intorno a lei. Era una creatura inquietante, lontana dal mondo circostante, quasi facesse universo a se stante. Quando Cori passò dietro alla massa di gente, osservando con interesse i meravigliosi fiori, all ‘improvviso il silenzio calò sulla piazza. Cori era concentrata a guardare il carro, ostinata a decifrare i servizi proposti, la vendita dei fiori, la possibilità di avvalersi di un’esperta di Ikebana...
La folla la fissava come un sol uomo mentre il mercante dagli occhi azzurri le veniva incontro con in una mano un garofano rosso e nell’altra un ramo fiorito di ciliegio. Nessuno capiva perché il mercante dovesse parlare, ne tantomeno offrire dei fiori alla serva del Capo delle Guardie. Cori si fermò, drizzando la schiena e fissando l’uomo che le veniva incontro. “Allora, bella ragazza.” esordì l’uomo. “Quale vuoi?”. Risolini diffusi attraversarono la piazza. Credevano tutti che il mercante la stesse prendendo in giro. Chiamare bella ragazza quella sottospecie di mostriciattolo ripugnante, quello spettro pallido che con il suo terribile aspetto popolava gli incubi dei bambini? Ma Cori non li ascoltava nemmeno. Lasciò la legna a terra.
 
 
E prese il ramo di ciliegio.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Buon Natale, Buon anno e buona Epifania a tutti voi! Innanzitutto, vi avviso: Durante queste Feste avevo programmato un capitolo Extra, un po’ come la tredicesima, ma purtroppo non sono andata abbastanza avanti con la storia da poterlo inserire. Lo inserirò probabilmente fra uno, forse due mesi, addirittura, forse, persino insieme al prossimo capitolo. Probabilmente, il contenuto di questo capitolo vi sarà un po’ oscuro, specie a chi non conosce il linguaggio dei fiori e/o il giapponese. La traduzione del titolo, anche se spero che l’abbiate giá cercata per conto vostro, è: “Tra i fiori il ciliegio, tra gli uomini il guerriero”, e non me la sono inventata io, è scritta sul retro della cintura del mio Maestro di Judo, e credo sia una specie di motto. E giá con questo la storia dovrebbe cominciare a chiarirsi. Inoltre, mentre alcuni dei significati del garofano rosso sono auguri di buona guarigione, rispetto e lutto, dall’altra il ramo di ciliegio rappresenta le arti marziali. Qualunque fosse stata la scelta quindi, Cori non sarebbe stata biasimata, e la scelta è stata dunque legata solo ai suoi sentimenti in proposito. Cosa abbia scelto, lo vedrete nel prossimo capitolo! Al rapporto volevo mettere un carattere molto più corsivo, ma la cosa non è andata. Grazie per tutti coloro che seguono con lungimiranza la mia storia, vi auguro splendide Feste! Alla prossima,
Hikari_Sengoku


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Capitolo 18
*** Allenamento ***


Allenamento


Cori stava radunando le sue cose in tutta fretta davanti alla famiglia riunita, schierata per salutarla. Si accorse di non aver mai usato il sacco a pelo durante tutto il tempo in cui era stata lì. Aveva spiegato a Sy che doveva andare, che era necessario, anzi, che lei voleva andare, che lo riteneva quasi un dovere dopo aver fatto la sua scelta. Era vero, erano stati due mesi di convalescenza piacevoli, insieme ad una famiglia di amici, ma sapeva di essere, o di voler essere, forse, qualcosa di diverso. Non era nata per chiudersi in un’isola, per essere prigioniera. Lei era libera, a prescindere! E per quanto amasse stare con gli amici, amava avere la libertà di scelta. Questo non impediva ad una strisciante sensazione di disagio di sibilarle nella testa, come se in qualche modo stesse facendo la scelta sbagliata, quasi stesse peccando di superbia nel credersi così importante, all'Interno di se stessa e degli altri, o di non considerare affatto gli altri di fronte alla sua decisione. Temeva di essere sbagliata, perché dopo tutto non si sentiva male andandosene. Era il senso di colpa che la faceva star male, perché sapeva di comportarsi da ingrata nel suo cuore, da bugiarda, perché fino ad allora si era giurata che avrebbe potuto dar la vita per gli amici, e ora li abbandonava senza troppo rimorso. Si grattò senza troppa decisione la pelle liscia del cranio, dipingendo strisce rossastre con le unghie, fermandosi per un solo istante mentre si alzava per stringere bene la sacca principale dello zaino, poi riprese, chiudendo le clip. Si gettò sulle spalle il mantello che Sy aveva voluto a tutti i costi che si comprasse un mese prima, quando aveva cominciato ad andare a fare commissioni per il paese, in modo da potersi nascondere a suo piacimento dagli sguardi crudeli del villaggio, e si avvicinò lo zaino con la cinghia di tessuto grigio sul retro, appena sopra gli spallacci. Si girò verso i suoi amici, tutti compresi in quell’atmosfera da addio. In silenzio, abbracciò stretta Sy, affondando il viso nelle pieghe morbide degli abiti sopra la spalla, con gli occhi gonfi di lacrime, le mani esili della ragazza sulla sua schiena e la sua lunga chioma castana libera al vento, le disse ‘Ti voglio bene’. Poi aveva stretto a se Lurichiyo, sussurrandole che sarebbe tornata. Alla fine strinse la mano a Lerik, con una leggera increspatura delle palpebre che tradiva il suo sorriso impassibile. Tirò su e mise lo zaino, si avviò verso le porte del villaggio. Ad un chilometro da lì la attendevano. La famiglia la seguì per un pezzo, poi si fermò, e mentre lei riprendeva il cammino, girandosi appena aggirata la sommità della collina, li vide sorridere un’ultima volta prima che venissero inghiottiti dalla gobba verde giù dalla quale scendeva il sentiero. Poco più in là, il carretto che cercava costeggiava lentamente la foresta. La ragazza si diede tutto il tempo per raggiungerli, non volendo arrivare triste. Si accostò alla cassetta, richiamando l’attenzione del Maestro con una bussata.
“Eccomi!” si annunciò.
“Mi chiedevo quando ci avresti raggiunto. Slega il cavallo e portalo dietro” le ordinò l’uomo, senza nemmeno guardarla. Cori obbedì diligentemente, portando il robusto cavallo baio dietro il carretto dei fiori e legandolo alla sbarra posteriore. Poi tornò davanti.
“Ora mettiti al suo posto e tira”. Cori lo guardò stortissima, ma l’uomo non le permise di dar fiato alla bocca. “Me l’hai detto tu, no? Vuoi diventare più forte o sbaglio?” La giovane tirò su le aste e se le issò sulle spalle, consegnando lo zaino all’uomo.
Il carretto cigolò in una maniera spaventosa al primo tiro, poi Cori vinse l’attrito statico e cominciò a solcare il sentiero e a sudare copiosamente mentre tirava il carro. Si chiese come mai fosse così pesante se sopra c’erano solo due persone e tanti fiori, che non pesano tantissimo. Schiacciava i piedi nel terriccio molle ad ogni passo per darsi la spinta. Ringraziò che quel trabiccolo avesse le ruote, mentre tirava e strattonava le aste per accelerare e liberarle dal terreno in eccesso. Il viaggio durò un giorno intero compresa una lunga pausa pranzo, e alle 21 erano arrivati, preceduti due ore prima dalla ragazza misteriosa che damblè era scesa dal carro e si era incamminata da sola nel bosco. L’uomo le ordinò di girare a sinistra ad una svolta e si ritrovarono in un vasto prato fiorito, dove alla sua destra c’era una bassa e larga casa di legno giapponese, affiancata da una piccola serra. Una lanterna fuori la porta e la luce di quella che presumibilmente era la cucina illuminavano l’ambiente, il resto era avvolto dalla luce della luna e circondato dai lumicini delle lucciole. Ricordò che una volta uno di quegli insetti si era spaccato a metà nella sua mano. Smontò, e con le gambe che tremavano prese la sua roba, seguendolo in casa, lasciando le sue scarpe affianco ai tabi del Sensei. Finalmente l’uomo si degnò di rivolgerle la parola: “Complimenti per lo sforzo, bella ragazza! Adesso possiamo presentarci. Io sono Sensei Tenshi, e lei è Mitsuru, la mia assistente!” La ragazza si inchinò educatamente.
“Io sono Cori” rispose stremata la ragazza appoggiandosi allo stipite della porta. Il Sensei la superò, aprendo la porta di quello che sembrava uno stanzino delle scope appena liberato, largo un metro e mezzo e lungo due, giusto lo spazio per stendere uno stuoino e mettere lo zaino di traverso come cuscino. Un finestrino 50 x 50 occhieggiava a circa 1,70 metri d’altezza. “Questa sarà la tua stanza per tutto il tempo che starai qui. Domani Mitsuru ti assegnerà i compiti domestici e comincerai l’allenamento, ma oggi puoi stare tranquilla. Avrai un giorno libero ogni due mesi”. Le disse il Sensei lasciando che sistemasse la sua roba. Cori si rincantucciò nel suo bugigattolo, pronta giá a tirar fuori la sua spiritiera, ma l’uomo la chiamò: “Vieni a mangiare con noi, bella ragazza!” la esortò. Ancora quel nomignolo! Cosa poteva mai trovarci di bello in lei? Si chiese scuotendo la testa e raggiungendoli. Osservò il Sensei e Mitsuru ringraziare con le mani giunte per il cibo e li imitò, prima di fiondarsi sulle bacchette. La sua attenzione mentre mangiava venne catturata dalla ragazza al suo fianco. Al contrario del Sensei, che sferrava occhiate sornione ogni due per tre da sopra il bordo della sua ciotola, Mitsuru appariva lontanissima. Piluccava con disinteresse il cibo nel piatto, ma senza giocarci. Si limitava a fissare lo sguardo bovino e languido in un punto imprecisato fra il suo piatto e la lampada sopra il tavolo e a mantenere un’espressione che nemmeno Ulquiorra o Kristen Stewart avrebbero potuto far di meglio, tant’era inespressiva. Anzi, più che inespressiva, sembrava concentrata su tutt’altro.
Si risvegliò solo a fine pasto, quando il Sensei le strinse piano il braccio e le disse che avevano finito, grazie, allora lei si alzò e in totale silenzio tolse le stoviglie e andò in cucina. Cori la fissò stranita, prima che il Sensei attirasse la sua attenzione.
“Non fissarla troppo, la metti a disagio” la redarguì. “Comunque, parlando di cose serie, adesso dimmi chi sei. Le cose importanti, non quanti anni hai o il giorno in cui hai perso l’ultimo dente da latte, per favore”
“Ok. Allora…” e così raccontò a grandi linee la sua storia, omettendo il fatto di venire da un altro mondo, ovviamente. Il Sensei la ascoltò tenendo la guancia premuta su un pugno, poi sbadigliò. “Va bene, per oggi basta, va a dormire. La sveglia è alle cinque” ed entrò in una stanza che dava sul piccolo corridoio che portava in sala.
Cori si ritirò nel suo antro, addormentandosi quasi subito.


La prima mattina in un posto nuovo è sempre qualcosa di molto particolare. Si respira nell’aria l’idea di ignoto, il fresco profumo dell’ignoranza, e la luce è più luminosa, fredda, in un certo senso. Quella mattina non fece eccezione. Mitsuru si palesò davanti all’uscio del suo personale sgabuzzino alle cinque in punto, dedicandole un fievole “Ohayo, Cori-san”, dopo il quale la strana ragazza, giá vestita di tutto punto, girò i tacchi e si rintanò in cucina. Cori rimase frastornata per un attimo, rigirandosi nell’ora caldo sacco a pelo. L’escursione termica doveva essere ingente, giudicò sfiorando appena con la punta delle dita gli abiti lasciati fuori la sera prima. Erano gelati. Ciò non toglieva che doveva comunque uscire, quindi si fece forza e si alzò sulle ginocchia (sempre dentro al sacco a pelo) e tirò fuori prima le braccia, poi il busto, spogliandosi della maglia del pigiama e rimanendo in canottiera. Così si diresse all’acquaio e si lavò, sentendo sulla pelle la piacevole frescura del primo mattino e poi il gelo rinvigorente dell’acqua da lavaggio.
Dopo dieci minuti era già vestita con i suoi abiti da lavoro al cospetto di Mitsuru, che in un tono pacatissimo le spiegò : « Il vostro compito sarà di assistermi nei lavori pesanti. Preferisco spiegarveli durante la giornata, se non vi é di troppo disturbo » La ragazza le arrivava giusto ad altezza occhi, sui quali lei non alzava mai quel vuoto sguardo castano.
“Nessun problema. Cosa devo fare?” le chiese a sua volta, cercando di carpire i segreti di quella strana ragazza fuori dal tempo.
“Intanto potete andare a prendere l’acqua alla Fonte. Scendete giù dal Crepaccio e costeggiate il Muro di More” le rispose indicandole la direzione, dalla parte opposta della casa. Cori obbedì, caricandosi sulle spalle due grossi otri in terracotta, trovandosi davanti una ripida scesa di una decina di metri, dalla quale una grossa roccia era franata qualche metro più in la. La grigia roccia era avvolta nei rovi. La ragazza la costeggiò, finchè scendendo ancora di un paio di metri vide una polla d’acqua grande abbastanza perché vi potesse pascolare una mucca alla volta, che sgorgava da sotto la roccia, e che vi aveva creato nel tempo una minuscola insenatura per topi e scavato un anfratto tale da poter contenere appena la sua borraccia, se non la tana di uno di quei pelosi mostriciattoli. Piano piano gli otri si riempirono, e Cori salì su, arrancando un po’ sulla salita con tutto quel peso. Il Sensei era sveglio, e la attendeva all’ingresso a braccia incrociate. Cori lo sorpassò in silenzio, salutandolo con un gesto del capo, depose gli otri all’entrata sul retro, quella della cucina, e poi tornò a presentarsi al suo cospetto.
“Ben svegliata!” la salutò schernendola e ridendo di lei con quegli occhi spalancati “Dai lombrico, cominciamo con un po’ di ginnastica, fammi vedere che sai fare” la invitò col braccio a cominciare a correre.


Era in momenti come quelli che la sua vena acida faceva a cazzotti per risalire dal suo essere blando e deforme, dalla sua palude depressiva di mancanza di autostima e voglia di fare il cosplay del Fantasma dell'Opera, tanto le potenzialità le aveva. Quando finiva per fare un allenamento che le distruggeva i polmoni ogni singolo giorno impedendole una conversazione compiuta preferibilmente non composta di grugniti e imprecazioni di dubbio gusto, a cui il Sensei prontamente ribatteva con una bastonata sulle dita o un commento sagace, seguito poi da una propria rovinosa caduta. Quando – testuali parole – qualche centinaio di flessioni non faranno di te qualcosa di superiore ad un verme! – con successiva morte apparente della protagonista. O quando, inevitabilmente, finiva per compiere un triplo carpiato sul collo prima di crollare, per l’ennesima volta, a terra, con un’espressione da opossum ‘se ti fingi morto, non ti vede’. E quello che era peggio, era che in realtà quello non era altro che l’anticamera del vero e proprio allenamento, quello per sviluppare i suoi sedicenti poteri! Perché se non hai un corpo forte, come pretendi di poterlo reggere? Nel momento in cui si allenava avrebbe potuto rispondere con una variabilità di volgari argomentazioni a dir poco sorprendente, ma doveva ammettere che il Sensei aveva pur sempre ragione. E quando, arrivati a fine giornata, Mitsuru li attendeva a bordo campo con il kit del pronto soccorso (per lei) e un asciugamano (per il Sensei), doveva ammettere di provare una certa soddisfazione nell’ammirare i propri progressi. Peccato questi sembrassero estendersi poco e niente alla strategia di combattimento. In queste peculiari situazioni si sarebbe potuto mettere come simpatico sottofondo musicale la theme song dell’allenamento di Rocky mentre sullo sfondo cartonato di una giornata al tramonto – perché l’ambientazione è importante – i due si scontravano con raggi fotonici d’ira tattici. E così lo scontro cominciava, con quello che l’uomo definiva un ‘balletto degno di un elefante’, per cui lei si ostinava a spingere e tirare l’avversario senza un motivo preciso, compiendo circonvoluzioni uniche per destreggiarsi tra i piedi del Sensei che attentavano alla sua vita. A quel punto le opzioni erano due: O l’uomo con un Ko Soto Gake la buttava giù come una pera cotta, rovinandole poi sopra con la delicatezza di un rinoceronte e braccandola con una furiosa lotta greco romana che lo vedeva sempre tristemente vincitore (nonostante a sua detta Cori fosse fisicamente più forte di lui), oppure decideva di voler giocare, conducendo un attacco palesemente finto, un O Soto Gari. A quel punto, Cori ribatteva con un O Soto Gari a sua volta, finendo per sbilanciarsi e cadere. Di nuovo. Ovviamente, le variazioni sul tema erano innumerevoli. In particolare, la lotta a terra era la sua preferita. In ginocchio, nessuna tecnica fino all’immobilizzazione… a quel punto, con una velocitá degna di Bolt, per lei era già pronto un soffocamento coi fiocchi. Iiih, la rabbia.
Rabbia che andava velocemente sbollendo a sera, quando, come ogni allegre famigliola del Mulino Bianco che si rispetti, cenavano tutti e tre insieme scambiandosi opinioni sulla giornata appena trascorsa. O meglio, il Sensei esprimeva sarcastici commenti sui suoi movimenti da orso e sulla sua resistenza da verme, il tutto condito con una gran varietà di metafore di rara simpatia e dolci ricordi di variabile violenza. Cori aveva a malapena la forza di buttarsi a peso morto sul sacco a pelo e addormentarsi così, salvo poi risvegliarsi un’ora dopo in preda ai tremori del freddo. Era così stanca la sera da non avere nemmeno la forza di pensare, mentre il suo corpo sfogava la fatica in una serie di brividi liberatori. Mitsuru la salutava col suo classico sorriso assente, le veniva risposto con un grugnito molto espressivo e la cosa finiva lì. Almeno fino alla mattina dopo, quando tutto ricominciava. Ogni tanto poi, il Maestro si adoperava in rari slanci di fantasia, inventandosi bizzarri allenamenti. Da quando aveva sgranato lavanda per dodici ore di fila, sia Cori che il suo naso non erano stati più gli stessi, e la ragazza aveva sviluppato un’avversione per il violaceo fiore che sfiorava il ridicolo. Per non parlare delle scampagnate nei boschi alla Hercules per debellare la piaga degli Alienati. Da sola. Praticamente a suon di sberle. Piccolo inciso: Gli Alienati erano creature più bestiali a volte degli animali stessi, possedevano una straordinaria propensione per la strategia di caccia ed erano tutti ugualmente orrendi, se possibile ancor più di quei disgraziati del villaggio, per quanto le loro fattezze non fossero diverse dalle loro. Erano in tutto e per tutto simili alle bestie cui somigliavano, a volte in modo alquanto grottesco. Insomma, era già tanto se tornava indietro intera, sempre premurandosi prima che quei mezzi-scemi subissero un trattamento adeguato alla loro molesta presenza. Non che non le facessero pena, quei poveracci, ma non se la sentiva di affrontare un lungo discorso da terapia di gruppo con un branco di creature inumane che in lei vedeva una bistecca con le gambe, aveva già abbastanza gente a considerarla alla stregua di carne da frollare, grazie.
Un mese dopo l’inizio di questo stremante allenamento, il Sensei la chiamò al suo cospetto: “Mi è tornato in mente quello che mi hai detto tempo fa. Mostrami quello che sai fare, bella ragazza!” le chiese con un sorriso sardonico.
Cori protestò, dando un'occhiata al posto in cui si trovava per imprimerselo bene nella memoria: Il solito largo campo , pieno di pietre e altri inciampi. Un percorso a ostacoli. Ormai sapeva come ‘accendersi’, l’aveva capito quella sera in cui per un incidente aveva quasi rischiato la pelle. Pigiando il sesto foro che aveva in testa, automaticamente il suo corpo sviluppava una gran febbre, che a sua volta aiutava la genesi di quella sostanza nera. Sperava un giorno di poterlo controllare senza quell’espediente, perché non era esattamente comodissimo.
“Oh, non ha importanza. Mi hai detto tu che quando ti adformenti torni normale, no?” Le rispose tranquillo, sollevando un sopracciglio con scetticismo.
“Come se fosse facile” borbottò la ragazza in risposta.
“Al massimo sverrai, su! Mostrami quello che sai fare” la spronò l’uomo battendo un paio di volte le mani. Al massimo sverrai, certo, è una cosa da niente! Cori concentrò tutta se stessa, lasciando che la febbre la conducesse alla fonte del proprio potere, qualcosa che bruciava nelle sue cellule, lasciando che questo emergesse con le classiche e rapidissime bolle ulcerose sulla sua pelle. Quando la sua visuale si fece completamente nera, la prima (e anche unica) cosa che vide fu l’aura luminosissima del Sensei, una sagoma brillante di un celeste chiarissimo, più o meno dello stesso colore del cielo in prossimità del sole, e un fortissimo odore di borotalco, che le fece venire voglia di starnutire. Il Sensei si stava muovendo, probabilmente anche parlando, anche se lei non lo poteva sentire. Di nuovo le crollò addosso quella sensazione claustrofobica che accompagnava la trasformazione, quella cosa pesante che improvvisamente la schiacciava al suolo, e che paradossalmente, oltre all’aura del Sensei, era l’unica cosa che le garantisse ancora la sua esistenza. Al contrario della prima volta, stavolta fu più facile processare la situazione, soprattutto ora che non era più totalmente cieca. Quando, guardandosi incontro, si accorse che il Sensei si era seduto, vi si avvicinò e lo toccò, propagando l’appiccicosa sostanza anche sul suo corpo. L’uomo sussultò un istante, prima di scomparire dalla sua visuale. Ora percepiva soltanto la sua presenza sotto le dita, ma la sua aura si era improvvisamente spenta. Cori lasciò di scatto la sua spalla, e l’aura tornò a brillare. Evidentemente, la sostanza come per lei stessa accecava la sua Percezione. Infatti, lei non poteva vedersi, ne sentire il proprio odore. Il Sensei si rialzò in piedi di colpo, Cori barcollò in risposta e cadde all’indietro. Non si sarebbe detto, ma quella roba pesava.

Non c’era molto da fare, se non potevi vedere o sentire nulla. Una volta che avevi analizzato le poche forme di vita aventi un briciolo di senno nel raggio di chilometri, era la noia a farla da padrone. Oltre che un pressante senso di inquietudine e il desiderio al momento inesaudibile di strapparsi quella roba di dosso. Non. La. Sopportava. Avrebbe sbattuto la testa al muro, se avesse potuto vederne uno. Per un breve periodo di tempo si era divertita – craniate contro mura e stipiti a parte – ad osservare le fluttuazioni emotive delle aure del Sensei e Mitsuru, seguendoli come un’ombra, ma alla fine si era stancata pure di quello. Mitsuru era di uno spento giallo senape, e emanava un odore lieve lieve, quasi impercettibile, di metallo incandescente, ma era talmente volatile e inconsistente che per sentirlo doveva prestarci attenzione. Aveva preferito seguire lei, al posto del Sensei, ma la ragazza non si era minimamente scomposta, almeno da quello che lei vedeva, e aveva continuato a fare i suoi lavori di casa ignorandola. Solo quando per errore Cori aveva inavvertitamente (lei non se n’era nemmeno accorta, ma aveva subito ricollegato la sua reazione) spostato un oggetto, la sua aura si era come compattata, illuminandosi violentemente, mentre il sentore incandescente del metallo le aveva invaso le narici accompagnato da un chiaro messaggio di allarme. Aveva preferito defilarsi, a quel punto, ma erano ormai al tramonto e nessuna lampadina si era accesa nel suo cervello illuminando un’esistenza altrimenti grigia, o per meglio dire nera, e lei era rimasta così per dodici lunghissime ore. Alla fine, presa dalla disperazione, si tastò la testa alla ricerca dei pulsanti della plancia di comando del proprio corpo, toccò il primo. Immediatamente, la sua massa si espanse a dismisura, la sentiva raggiungere un raggio di chilometri, le tirava il petto quasi come se volesse strapparlo. Dall’altra parte, la forza peso esercitata sul suo corpo era immensa, sentiva le costole scricchiolare, mentre il fiato spariva e la vita le faceva ciao ciao con la manina. Con tutto il suo cuore, mentre veniva pressata, cercò di contenersi, perché sentiva che se non l’avesse fatto avrebbe potuto inghiottire il mondo. Strinse i pugni, mentre la sfera immensa intorno al suo corpo sussultava e si contraeva. L’immenso sforzo mentale che stava facendo era estenuante, ma Cori si costrinse a retrocedere, e quasi avesse fatto scattare un interruttore la massa si ritirò con un sol colpo, abbandonando anche lei, agonizzante sul terreno.
A quelli che la videro da fuori apparve un’enorme sfera nera che divorava tutto nel raggio di due chilometri, lasciando terra bruciata intorno, o meglio congelata. Tutto intorno a lei era ghiacciato, freddo e immobile. Doveva ringraziare di essersi inoltrata a lungo nei campi, perché altrimenti avrebbe ucciso sicuramente il Sensei e Mitsuru. Ora, invece, tutta la vegetazione era improvvisamente gelata dall’interno, ricoprendosi di un velo di brina data dall’umidità dell’aria, che era improvvisamente ripiombata dove prima c’era la sfera. Gli animali erano tutti morti, il raccolto distrutto ed il freddo innaturale che permeava l’aria la ghiacciava fin nelle ossa, nonostante la febbre che le era tornata. Diede uno sbocco di sangue, doveva essersi incrinata più di una costola. Piano piano, tutto il mondo riprese calore, mentre la brina sciogliendosi colava, lasciando ampie lacrime su ogni cosa, di un nero necrotico e improvviso, affiancato a strisce azzurre. Chissà se un giorno quel terreno sarebbe tornato a fiorire. Per il momento, Cori si limitò a rannicchiarsi in posizione fetale e svenire.


Si svegliò una settimana dopo, avvolta nel suo sacco a pelo, di nuovo con l’inquietante sensazione di essere paralizzata, di star soffocando. Stavolta chiuse gli occhi, nonostante il peso sul suo petto le ricordasse in modo orribile ciò che era accaduto, mentre nelle orecchie risuonava dieci volte più potente il battito cardiaco. La crisi passò, e la ragazza li riaprì di nuovo, fissando lo sguardo lacrimoso sul soffitto. Mitsuru la raggiunse poco dopo con un brodo caldo che le ficcò a viva forza in gola, con una veemenza che tradiva una grande irritazione. Passarono due ore prima che il Sensei facesse capolino. “Come stai, bella ragazza?”
“Uno schifo” ribatté lei sincera.
“Riesci a spiegarmi quello che è successo?” le chiese, più pacato del solito mentre si sedeva a gambe incrociate affianco al suo stuoino. Cori spiegò a grandi linee quello che era accaduto, e il Sensei rimase pensieroso. “Secondo me, potremmo prenderlo come suggerimento. Forse non è il caso di usare questo genere di mezzi, ma tu stessa hai detto che quando hai provato a ritirarti il tuo corpo ha reagito di conseguenza e ti ha obbedito. È deciso, la prossima volta tenteremo in questo modo” decise tutto da solo, sbattendosi una mano sulla coscia in segno di conferma e rialzandosi.
“In questo modo come?” chiese lei perplessa e un po’ spaventata. Non le sembrava un gran ché come idea, avrebbero potuto provocare una catastrofe.
“Proverai ad espanderti. Stavolta senza usare bottoni magici per favore, ma credo che questa possa essere la strada giusta per controllare meglio il tuo potere” si spiegò il Sensei uscendo. Ah-ah. Proverai ad espanderti. Facile come bere un bicchier d’acqua. Sì, appesi a testa in giù su uno stagno pieno di alligatori per il mignolo del piede sinistro, con una scimmia che rosica la corda. Ah, e la minaccia di una catastrofe a livello planetario sospesa sopra la testa come una spada di Damocle. Grande idea, complimenti, geniale proprio, perché non ci aveva mai pensato prima? Ah, già, perché era terribilmente pericoloso.
Cori rimase a fissare il soffitto a lungo. Cosa diamine le avevano fatto?! Stava per creare una catastrofe di dimensioni epocali! Avrebbe potuto uccidere tutte le persone nel raggio di chilometri, e tutto questo per un esperimento! Ma porca la miseria, perché? Volevano usarla come arma di distruzione di massa?! Cosa diavolo volevano che facesse? Cosa aveva fatto di male per meritarsi tutto questo? Che rabbia!




Sy era un po’ triste da quando la sua amica se n’era andata. Chiyo aveva pianto un po’, ma alla fine era tornata ai suoi giochi con Kanna, e Lerik era stato richiamato al lavoro, quindi lei doveva stare a casa a controllare le bimbe e andare avanti col suo lavoro di cucito, se le riusciva. Non le era mai piaciuto cucire, ma da sei anni era una necessità. Non le era mai piaciuto?! Lo odiava a morte, ecco la verità. Pensò sbuffando e lasciando cadere il calzino sformato sulle ginocchia, quando sentì una melodia esitante penetrare il suo malumore. Era Chiyo che cantava una delle strambe canzoni di Cori, Corri Indiano, storpiando le frasi . Che cosa poteva mai essere un indiano? Cori aveva provato a spiegarglielo, ma come per molte altre cose si era dimenticata. Le ritornò subito il sorriso e riprese a sferruzzare, mentre le bimbe non si facevano problemi a confondere tranquillamente frasi o intere strofe di canzoni, creando bizzarri miscugli come Cavaliere io sarò, ricordo quel tempo quando ero bambino e Colore del Sole, bisogna fare presto c'è la colazione! Totalmente prive di senso.




Cori continuò a lamentarsi incessantemente per tutto il viaggio d’andata, aveva ancora le costole rotte e di avallare quella tremenda idea proprio non le andava. Il Sensei la stava praticamente trascinando alla baia. La prima scusa era che dovessero ‘fare pratica’, cosa che lei aborriva nel profondo, quella più veritiera era che i marine, visto il fattaccio, sarebbero venuti prima di subito per un’ispezione, quindi l’uomo le aveva ordinato di fare i bagagli e ora la stava portando sulla spiaggia, dove non c’era rischio di far male a nessuno e dove nessuno sarebbe mai venuto a cercarla. Cori era tornata sul luogo del misfatto una volta, e l’aveva trovato – con sua somma sorpresa – pieno di fiori e piante rigogliosissime, come se nulla fosse accaduto, e questo versava a loro vantaggio. Era stato allora che aveva scoperto che Mitsuru aveva mangiato un frutto del diavolo, il Tango Tango no mi, che le permetteva di dare una forte importanza alle parole, specie ai verbi. Gli ordini che dava erano legge, almeno i più semplici. Era bastato ordinare al terreno di ‘accelerare’, e che lei attivasse il suo potere, perché tutto rinascesse e tornasse vivo e vegeto. Gliel’aveva mostrato poco prima di andare: Aveva visto un ramo particolarmente carico sulla sua testa, gli aveva ordinato di spezzarsi e subito dopo di bloccarsi, quello si era appena illuminato di quello spento giallo senape e aveva obbedito, sospendendosi a mezz’aria. Nello stesso istante, anche lei era stata avvolta dalla stessa luce soffusa, e i suoi occhi si era illuminati dall’interno. Si trattava di un potere limitato alle singole parole, non ad ordini complessi, ma anche fosse stato illimitato, vista la loquacità della sua detentrice potevano star sicuri che non sarebbe mai andata oltre una secca parola d’ordine.
“Starai qui per un po’, almeno il tempo necessario perché tu sappia controllarti” la avvertì il Sensei, mostrandole la baia: Era una piccola caletta nascosta, con una barchetta minuscola portata in secca sulla sabbia fine. Tutto intorno c’era una fitta foresta scura, incombente e un po’ inquietante, mentre il mare era di un azzurro cristallino, che all’orizzonte quasi si confondeva col cielo. Dando un’occhiata più attenta, si avvide che in lontananza c’era un’isola. Si portò la mano sulla fronte a visiera e aggrottò le sopracciglia, tentando di vederla meglio.
“Quella è l’isola di Kayou Ushi” la informò l’uomo “è l’isola più vicina alla nostra. Prima che chiudessero le frontiere ci andavamo abbastanza spesso” sentiva forse una nota nostalgica nella sua voce? Magari ci aveva lasciato qualcuno di importante, su quell’isola. Cori si accorse di non avergli mai chiesto come mai a loro fosse stato permesso di rimanere sull’isola, considerando che erano del tutto umani.
“Sensei, come mai vi hanno lasciato su quest’isola?” chiese curiosa, spostando lo sguardo sull’uomo al suo fianco. Non dava l’idea di essere un criminale. Certo, era massiccio, e lei stessa aveva saggiato la sua forza, ma si comportava sempre in modo molto pacifico, e a parte i loro allenamenti non faceva male a una mosca. Non aveva segni particolari, aveva un volto disteso, solcato appena da una rete di rughe leggere, due occhi azzurri brillanti e vivaci, senza ombre. Avevano combattuto abbastanza insieme perché lei sapesse che non aveva cicatrici di sorta, anche se le dita dei piedi erano tutte storte, dovevano essersi rotte più di una volta, ma si trattava di una cosa più che normale per un maestro di arti marziali. Checché ne sapesse, aveva l’Haki della percezione, ma questo non bastava a fare di lui un criminale quanto un potenziale e utile alleato.
“Niente di importante, bella ragazza, pensa al tuo allenamento piuttosto” rispose sridacchiando il Sensei, eludendo la risposta senza nasconderlo e girando i tacchi per tornare su. “A domani, mi raccomando!” la salutò, lasciandola sola con il suo zaino. Beh, per lo meno era un bel posto!

Cara Sy,
Spero fortemente ti stia andando tutto bene. Qui in quest’angolo sperduto nella Contea del Nulla sta andando tutto benissimo, non devi preoccuparti: Quella sfera nera che è comparsa l'altro giorno era opera mia, e per fortuna ero abbastanza lontana da non far male a nessuno. Io sto bene. L'allenamento è pesante, ma sto sopravvivendo. Puoi stare tranquilla: Non mi hanno uccisa e la mia mano non sta scrivendo da sola tagliata in pezzi sul fondo di un bagagliaio. Come sta la piccola Chiyo? E Lerik, state tutti bene? I tuoi dolori sono passati? Purtroppo non posso darti nessun sostegno da questa distanza, ma sappi che sono lì con te. Gli Alienati sono ancora così insistenti? Da noi hanno smesso di attaccarci da un po’. Scusa per tutte queste domande, ma voglio sapere. Cosa hanno detto al villaggio, dopo la mia scomparsa? Se vengo a sapere che hai portato dei pesi da sola ti vengo a cercare a casa. Per un po’ di tempo mi toccherà stare sulla baia, i marine mi stanno cercando, ma alla fine la cosa non mi dispiace, il posto è bello e ho molta libertà di movimento.







































Spero che il capitolo non appaia frettoloso, vi assicuro che era programmato, ma l’ispirazione va e viene e sembra proprio che dovrò attendere un nuovo capitolo per farmi valere. La maggior parte di voi starà pensando che io sia autolesionista (cosa che fortunatamente non sono), o che qualcuno mi stesse prendendo a badilate sul collo mentre scrivevo, visti i dialoghi a singhiozzo e le scene scritte un po’ così…. Ma spero piaccia comunque. Buona notizia, questa volta capitolo extra! L’avevo programmato per Natale, ma ho dovuto procrastinarlo perché all’epoca non avevo raggiunto un livello della storia sufficiente. Vi anticipo già da ora che dopo questa parentesi comparirà un nuovo magico personaggio, come se non ce ne fossero già abbastanza, e la scena potrebbe farsi un pochino più felice, finalmente. Ringrazio coloro che mi recensiscono con costanza, alla prossima,
Hikari_Sengoku


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Capitolo 19
*** Extra: Doveva essere Natale, e invece è Quaresima! ***


Attenzione: il capitolo vero e proprio è quello precedente, sono stati pubblicati assieme!




Extra: Doveva essere Natale, e invece è Quaresima!






Cori si svegliò nel vecchio futon consapevole che l’aria era diversa. C’era come un odore di neve fantasma che permeava l’aria in quelle prime ore mattutine, quando la luce entra radente da sotto l’uscio con il suo pallido lucore invernale. Quasi per istinto, afferrò il suo vecchio MP3, che non aveva mai avuto il coraggio di tarare alla giusta data, e guardò lo schermo. Nel suo mondo, era appena cominciato il 24 dicembre, e lei, troppo presa dal nuovo mondo in cui abitava, dove le festività non avevano una data fissa e universale, aveva dimenticato l’Avvento. Promise a se stessa che per l’anno nuovo avrebbe fatto un calendario comparato, sapendo giá che prima della prossima uscita non avrebbe fatto un bel niente. Ma ormai la frittata era fatta, e tanto valeva fare il possibile. Si inginocchiò davanti al crocifisso e pregò a lungo. Quando uscì sciabattando dalla stanza, si rese conto che l’odore di neve non era affatto fantasma: La vallata era coperta da una bianca, soffice coltre. Sarebbe stato il suo primo bianco Natale! Tutta baldanzosa, si vestì e uscì con l’otre dell’acqua. Aveva tanti regali da fare, e non sapeva da cosa cominciare! Pensò che per il Sensei e Mitsuru avrebbe preparato una bella festa di Natale. Prima però, avrebbe dovuto preparare il resto. Cosa avrebbe potuto fare per gli altri? Se avesse cominciato adesso per le dieci, al passaggio del NewsCoo, avrebbe avuto una cofana di biscotti alla cannella. Ora mancavano solo Greg, il Maestro e suoi genitori. Persa nei suoi pensieri, si inoltrò nel bosco fino alla Parete di Rovi di More, scese giú alla Fonte e riempì l'otre. Mentre aspettava, ragionò sulla cosa. Pensò e scartò qualcosa come un migliaio di proposte, prima di arrivare a quella definitiva: Non potendo tornare lei da loro, sarebbero venuti loro da lei! Ormai aveva imparato a memoria le proprietà dei fiori più famosi, non sarebbe stato difficile portare un frammento dei suoi ricordi (quasi della loro essenza) all'interno di uno di quei fiori, in modo che ogni volta che ne avrebbe guardato uno, avrebbe pensato a loro. Si caricò l’otre sulle spalle, e come ogni mattina si diresse verso la casa. Le piaceva questo nuovo rituale di quotidianità che aveva instaurato, per quanto potesse essere faticoso, la faceva sentire a casa. Arrivata in cima alla Scesa delle Liane, posò l’otre e si guardò intorno. Mitsuru entro un’ora si sarebbe alzata per cominciare la giornata salutando i suoi fiori, il Sensei l’avrebbe seguita a breve con il suo rito mattutino, per poi reclamare la sua colazione, ma ora la bassa casa di legno dormiva ancora, ignara di ciò che era successo nella notte, adagiandola in una nuvola bianca. Cori riprese il cammino, raggiunse la spoglia cucina e lasciò l’otre, chiudendosi la porta alle spalle e avvertendo con un cartello che per quella giornata e la seguente la cucina era off limits, poi uscì dalla porta sul retro e attraversò la neve che arrivava ai ginocchi, portandosi dietro la pala. Spalò la neve tra la porta e lo sportello della serra, poi vi entrò, rubando quattro talee: Dittamo, per suo padre. Bardana, per sua madre. Geranio rosso, per Greg. Un ramo di ciliegio in fiore, per il Maestro. Poi tornò di corsa nella sua stanza, e lasciò le piantine sul davanzale della finestra. Aveva poco tempo, prima che cominciassero a svegliarsi. Scaldò il latte e preparò generose razioni di miele e marmellata di rose, poi si chiuse in cucina e cominciò a pasticciare con l’impasto dei biscotti, finché dal forno non uscirono delle informi patacche dall’odore stranamente gradevole. Il Sensei, messo di buon umore dalla colazione, le permise di prendersi la sua bimestrale giornata di pausa. Impacchettò il tutto e cinque minuti dopo il dispaccio era in zampa al NewsCoo. Ma la sua giornata era appena cominciata.


Erano passati sei mesi dal fatidico giorno in cui nella casa del vecchio si era scatenata la battaglia, e la villetta giaceva abbandonata nel freddo, secco clima invernale di Roma. Greg, bagaglio in mano, aprì la porta cigolante, lasciando che il vento muovesse le tende. Al centro del salone, una macchia nera restava a monito per chiunque avesse osato avventurarvisi. La solitudine era nell’aria come qualcosa di palpabile. Greg, nonostante i suoi trascorsi, non si era mai considerato un assassino, ma fino a quel 24 dicembre non era mai entrato nella casa, limitandosi a curarne il giardino. Non superò la soglia. Osservò la polvere ricoprire ogni cosa, e planare giù dai mobili in morbidi riccioli. La lampadina non si accendeva più. La fotografia di famiglia giaceva abbandonata, riversa sul tavolino, anch’essa tanto ricoperta di polvere da rendere difficile riconoscerne i volti. Greg doveva partire, tornare dalla madre per la Cena della Vigilia, avrebbe perso il treno, non poteva rimanere lì, ma quella casa possedeva una sorta di magnetismo. Estrasse il ramo di quercia dalla bisaccia delle semenze e lo depose davanti all’entrata. Uscì e se ne andò, lasciando che la porta sbattesse aperta al vento.
Gregorio guardò inorridito quello che aveva fatto. La sua amica era sparita, il suo mentore ucciso, e c’era un uomo morto con un’ascia nel collo ai suoi piedi. Quasi in stato di shock, trascinò il corpo di Raven nel cassone del furgone, mise in moto e guidò lontano, fino ad un campo incolto dove lo seppellì, poi buttò la copertura di cartone del furgone e tornò. Sembrare sconvolti quando avrebbe dato la notizia non sarebbe stato difficile, era già sconvolto di suo.


Signore! Signore!” Giuliano De Santis alzò la testa dai documenti della sua impresa, alle grida disperate del giardiniere, che spalancò le porte dello studio di slancio gridando: “Vostro padre! Vostra figlia! Una tragedia!”. Si alzò di scatto. “Cosa è successo?”
Non lo so, venga a vedere!” piagnucolò il servo. Giuliano corse giù e senza pensare spalancò le porte della sua vecchia casa. L’odore di bruciato gli fece lacrimare gli occhi. O almeno così si disse, nel vedere lo scempio. “Dov'è Cori?”
Signore…” tentò Gregorio. Il padrone sembrava un gigante infuriato.
Dov'è mia figlia?!” urlò con rabbia, mentre il suo volto si contraeva in un’espressione angosciosa.
Mi dispiace, signore”
L’uomo si strinse la testa fra le mani, mentre le lacrime gli rigavano il viso. Urlò. Poi con un balzo e una bracciata scaraventò a terra tutti i vecchi ninnoli sui mobili, un servizio di calici di vetro sul tavolo, per poi ricadere in ginocchio accanto al corpo distrutto del padre, schiacciandosi gli occhi nelle orbite, come mille volte Greg aveva visto fare a Cori.
Vada via!!!” gridò l’uomo in lacrime. E Greg obbedì.


Quando lo disse alla moglie, sapeva di star caricando un peso di troppo – il peso della Verità – sulle sue fragili spalle, e che di nuovo lei – colei che aveva a lungo amato – non lo avrebbe retto, scaricandogli addosso la sua isteria, la sua pazzia, ma reggere da solo il peso di quel dolore era veramente troppo per lui. Uno ad uno, lo stavano abbandonando tutti, sua madre, suo figlio, sua moglie, suo padre e sua figlia, la più piccola, quella che ancora provava a sorridergli, a renderlo fiero, lui lo sapeva, con tutte le sue forze, per sopperire alla mancanza del maggiore, e che lui invece aveva caricato di tutte le sue insicurezze, del suo dolore. Non era stato un buon padre, se ne rendeva conto ora, mentre stringeva a se la donna a cui doveva tutto, sua moglie, accasciata fra le sue braccia dopo un lungo pianto, forse la prima volta che si stringevano dopo tre anni. Se ne rendeva conto ora, che apriva la porta comunicante fra le camere dei suoi figli, e vedeva la polvere contagiare, come una malattia, la stanza della sua bambina, piena di tante cose che non si era dato la pena di conoscere, e che invece ora gli facevano capire quanto di sua figlia avesse perso. Le sembrava di vederla ancora lì, con la testa china sui libri, e stavolta avrebbe voluto accarezzarle la tonda testa ricciuta, e farsi abbracciare, perché sentiva che senza di lei era come vivere senza un braccio, o una gamba. Storpio come giá era da tre anni, non avrebbe dovuto far differenza, invece era un dolore cronico, perenne, che lo divorava come un lento tumore. Suo padre – colui che per tanto tempo aveva ignorato – l’aveva avvertito, ma lui, sciocco, non gli aveva dato ascolto. Ed ora era solo con il monito dei suoi errori, la donna che aveva amato che lo tormentava, come il più crudele degli aguzzini, con la sua debolezza. Ma in fondo, cosa l’aveva affascinato di lei, se non quella leggiadria da farfalla, quella leggerezza che lui non aveva mai posseduto, se non quando non aveva ancora memoria del suo passato?


Gregorio non voleva avere la serata libera, ma purtroppo capitava, il giorno dei funerali del padre e della figlia del padrone, nonché sua amica. Greg non ci era andato, almeno non ufficialmente. Non se l’era sentita. Sapeva che Cori poteva essere morta il secondo stesso in cui era sparita quanto poteva essere ancora viva. Era come un gatto di Schrödinger, e finché non avesse aperto la scatola (o il gatto ne fosse saltato fuori) non l’avrebbe potuto sapere, e credeva che il vecchio Claw avrebbe capito. Così, come tutti gli uomini in serata libera sulla via della depressione, entrò in un bar, ma al primo sorso alcolico che bevve gli salì la nausea. Continuò a bere, sbronzandosi.
Stava per andarsene, quando il Maestro di judo di Cori si sedette di fianco a lui e chiese un bicchiere di latte caldo. Sapeva che era lui, l’aveva visto al funerale giusto quella mattina, nascosto fra gli alberi, mentre seguiva curvo tutta la cerimonia, finché non aveva lasciato un ramo di ciliegio fiorito sulla tomba vuota di Cori, della ragazzina che aveva visto crescere più di quanto non avesse fatto suo padre.
Ehi, bel ragazzo. Come mai qui tutto solo?” gli chiese sarcastico, ma senza ombra di un sorriso. Greg borbottò qualcosa in risposta, il Maestro giocherellò un po’ col suo latte, prima di girarsi di nuovo verso di lui, deciso sparato. “Senti, dimmi la verità. Cosa è successo veramente a Cori?”
Se anche glielo dicessi, non mi crederebbe.” Biascicò.
Se mai ci provi, mai lo potrai sapere” lo incalzò posandogli quella pesantissima mano sulla spalla, come un macigno.
È andata. Sparita. Finita in un’altra dimensione” rise ubriaco. “ Potrebbe essere morta come viva, o essere entrambi, le possibilità sono infinite”. Il Maestro si accigliò.
In che modo? Racconta tutto dall’inizio”. Non aveva intenzione di fermarsi alla classica rapina finita male. La casa era intera, e solo uno dei corpi era stato ritrovato. Avevano trovato macchie di sangue sul pavimento, ma sembrava che appena avessero provato ad analizzarlo, quello si fosse dissolto nel nulla, sparito. Lo stesso giorno era scomparso anche un altro uomo, antico rivale del nonno di Cori, di cui si ignorava la fine, insieme al figlio (un lombrico disonorevole, una specie di mostriciattolo). Non poteva essere tutto casuale, e lui non si sarebbe arreso, avrebbe cercato la Verità finché avesse avuto il senno per farlo.
C’era… un ragazzo. Zeno, mi pare. È cominciato tutto con lui. È comparso a casa nostra una mattina, mandato da Cori, ma credo che c’era da prima. Poi il vecchio l’ha chiamata, e poi ha chiamato me. Non capivo perché, credevo che volesse farle… una sorpresa. Poi è arrivato uno stronzo, che ha preso e lo ha ucciso con uno strano aggeggio, ma io ho ucciso lui, l’uomo con una mano sola, poi è tutto confuso, ricordo solo di essere svenuto. Mi sono svegliato, e ho trovato questo.” Disse indicando un taccuino di pelle marrone che si portava appresso da allora “e questo” si sganciò un braccialetto con una piastra verdastra e glielo lanciò. L’uomo lo prese al volo. “Prendili, tutti e due. Non li voglio più, li so a memoria”
Grazie. Stammi bene” e sparì. O forse fu solo Greg che si addormentò.


Dopo mesi di studio, Angelo non era ancora venuto a capo di niente. Il taccuino era colmo di formule matematiche incomprensibili, e solo una cosa sembrava essere chiara: Dovunque potesse essere finita la sua allieva era un luogo impossibile da raggiungere. In cima alle pagine ingiallite c’erano una serie di quesiti alcuni barrati, altri no. Erano tutti incentrati sulla teoria dei warmholes.
Cori e il Maestro non avevano mai passato una Vigilia insieme: Per il dojo era vacanza, e lui in genere la passava con la moglie e i due figli, che era esattamente il programma del prossimo pomeriggio. Quella mattina però aveva altri programmi. Erano mesi che organizzava questa cosa non perfettamente legale. La Vigilia tutti i servitori di casa De Santis avrebbero avuto la giornata libera tranne la vecchia Emilia, e il sistema di allarme si era provvidenzialmente rotto grazie ad uno dei ragazzi del corso che era stato a lungo in coppia con Cori, il suo uke preferito, o meglio, quello che lui le aveva affibbiato (anche se avevano ruoli variabili, lui era di cintura inferiore). In livrea da cameriere, si intrufolò nel giardino scavalcando la ringhiera dietro la parete di alberi ed entrò dalla porta della cucina che Emilia teneva sempre aperta per Cori dai tempi delle prime zuffe, e che lui sapeva non era più riuscita a chiudere. Come tutti gli antichi palazzi nobiliari, anche casa De Santis aveva corridoi interni per i servitori, anche se non più utilizzati da molto tempo. Aprì la piccola porticina a scomparsa e si addentrò nei corridoi scuri. Si stava rivelando più facile del previsto. Facile entrare in una casa quando ne conoscevi a memoria la pianta (tutto merito di Cori che fin da piccola lo assillava sulle sue ‘scoperte’ in giro per la casa. L’aveva accompagnata piú volte a casa quando si era fatta male sul serio durante una delle sue baruffe e aveva insistito per allenarsi lo stesso, e visto che Emilia a casa non c’era dato che in genere tornava molto più tardi, aveva dovuto arrabattarsi lui con i medicamenti. Un pastrocchio, ma la ragazzina era riuscita a raccontargli praticamente tutto). Si intrufolò nella stanza. Sapeva di chiuso, dopo sei mesi. La prima cosa che fece fu aprire i cassetti, da cui spuntarono una serie di immagini di un viso a lui conosciuto. Zeno. Doveva immaginarlo che quel ragazzo nascondeva qualcosa. Forse nemmeno si chiamava Zeno. Erano tutti disegni di lui, che combatteva, che parlava, che faceva qualsiasi cosa. Ma non era il solo. C’erano per lo meno un’altra ventina di personaggi, lì dentro, probabilmente molti di più sparsi nei vari cassetti. Cori stava indagando su questa gente. Perché? Era chiaro: Si trattava di personaggi di manga e anime. Ma c’erano dei personaggi di un autore in particolare (si riconosceva dal tratto) che erano invece studiati, analizzati, intere schede sul mondo d’ambientazione, sulla linea temporale… la data sulle stampe era sempre successiva al 6 giugno. Sentì la porta sbattere al piano di sotto, e capì di avere poco tempo. Rimise tutto a posto in un lampo e corse via per le scale. Rimase bloccato dietro la porta a scomparsa della cucina finché Emilia non si decise ad andare ad imboccare la signora, poi fuggì via di corsa, scavalcò la ringhiera e se ne andò.


Quando il Sensei e Mitsuru tornarono dai loro lavori era già sera inoltrata, e Cori aveva avuto tutto il tempo per decorare la casa col vischio e qualche Stella di Natale. Aveva imbandito una grande tavola con tutto il ben di Dio che era riuscita a cucinare, tutto rigorosamente a base di pesce. Era uscita fuori a pescare una grassa anguilla, ma invece di marinarla l’aveva cotta al forno, poi l’aveva fatta seguire dagli spaghetti ai gamberetti di fiume, tutto immerso in una distesa di verdure cotte. Ok, le verdure erano un po’ troppo cotte, e il pesce non assomigliava neanche lontanamente a quello che Emilia le aveva preparato solo l’anno scorso, e la cucina era già tanto se era ancora in piedi, ma era comunque una splendida cena! Il Sensei si fermò stupefatto sulla soglia. “E questo cos'è?”. Mitsuru come suo solito non emise verbo, ma rimase a guardare la scena con i suoi grandi occhi bovini.
“È il mio regalo per Natale!” esclamò Cori accendendo le candele e portando in tavola i portatovaglioli a forma di angioletto. “In questo giorno, nel mio mondo, è nato Gesù, il Figlio di Dio, e noi sulla Terra ci scambiamo i regali per tradizione!”
“La tua isola deve essere certamente alquanto bizzarra, se per onorare la nascita del Figlio del vostro Dio, vi scambiate doni!” commentò il Sensei.
“Oh, ma il Natale non è solo quello! Il Natale è un modo di vivere, con gioia ma anche con attenzione presso coloro che ci stanno affianco. I regali sono una cosa secondaria. Io li faccio per far sapere a chi mi sta vicino quanto gli voglio bene, non per ricevere qualcosa in cambio. Almeno, non solo, perché averne uno indietro è come essere ricambiati” gli sorrise e li invitò a sedersi. Passarono una serata tranquilla, dove Mitsuru per la prima volta non condivideva il peso dei suoi ‘doveri’ con lei, con se stessa o col Sensei, il Sensei rilassava quel suo grande viso pieno di rughe dolci nonostante il rigore, quello sguardo ceruleo che tante volte gli aveva ricordato il suo Maestro, la voce tonante, finché non si addormentò. Cori, non il Sensei. E la mattina dopo fu felice di svegliarsi in una calda coperta, al mattino del suo Bianco Natale, e ringraziò il Bambinello per averle ricordato la gioia, per averle riportato una casa, almeno per un po’.


Quando nel cielo di Roma cadde il primo fiocco di neve, Noemi De Santis parlò al marito per la prima volta dopo sei mesi. “I bambini guardano la stessa neve”. Giuliano era contentissimo. Le fece avere il più bel Natale dopo anni, solo per vederla migliorare. Sua moglie, o quel che ne restava, quel fragile involucro, era tutto ciò che gli rimaneva, e aveva imparato a sue spese a coltivare le cose importanti, a non lasciarsele sfuggire dalle mani. A piccoli passi, come in una riabilitazione, stava reimparando ad amare. Dapprima, passava ogni giorno delle ore vicino alla moglie, a volte con il lavoro, a volte la guardava semplicemente muoversi nel suo piccolo mondo chiuso, in quell’acquario dove lui non poteva immergersi. Poi, piano piano, aveva cominciato a parlarle, di ogni cosa, a portarle lui i pasti, ad imboccarla e a starle vicino. Nonostante ciò, era difficile ripudiare anni di amarezza, che ritornavano a sotterrarlo con una vanga. La vedeva lì, distante e pure vicinissima, tanto da poterla toccare. Ma era una statua di vetro, un simulacro. La sua anima era volata via, o forse lottava per uscire dalla fossa in cui era stata spinta dalla morte dei figli, ma non era lì. Non era lì quel suo vispo sguardo castano di cui si era innamorato, quella ragazza che vedendolo sempre imbronciato gli aveva tirato su gli angoli della bocca e sorridendogli gli aveva parlato, in quell’afoso pomeriggio, quella ragazza che lo baciava sulle punte dei piedi, quasi pregando che il suo grande corpo la proteggesse, la stringesse come non aveva mai desiderato con nessuno. Quella giovane donna che aveva stretto a sé il giorno che avevano deciso di fuggire e lei si era fatta la treccia di Raperonzolo. Poteva sentire ancora quelle sue bianche, lunghe mani sugli avambracci, quelle sue labbra avide e pallide contro le sue, ma erano passati i secoli da allora, erano nati i loro bambini, e com’erano nati da loro orgoglio e gioia erano morti, costringendoli a fronteggiare realtà che avevano attentato, quasi riuscendoci, a dividerli. Ma non avrebbe permesso alla Nera Signora di prendersi anche lei, gliel’avrebbe strappata dalle grinfie, l’avrebbe stretta a se. Fu per questo, quando la mattina di quel 25 dicembre Noemi parlò per la prima volta, che Giuliano diede una gran festa per lei. Per un breve istante l’aveva strappata alla sua bolla. Forse ci sarebbe riuscito ancora, pensò stringendola a sé, seduta sulle sue gambe. Niente poteva di più, pensò guardando le vecchie tegole sul caminetto. Niente che non fosse già stato inghiottito dalla terra.


























































Ed ecco qua il mio extra, spero piaccia anche a chi la religione proprio non la può vedere. Stavolta ho inserito accenni più grandi alla fede di Cori, perché mi sembra ingiusto che nella maggior parte delle storie sia un fattore sottovalutato, anche se io non lo approfondisco molto come aspetto. Spero vi piaccia, ce l’ho in cantina da Natale! Alla prossima,
Hikari_Sengoku
Piccolo dizionario di linguaggio dei fiori: Dittamo: Amore dormiente; Bardana: Non mi toccare; Geranio Rosso: Amicizia e conforto, consolazione.


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Capitolo 20
*** Niobis e le c aspirate (per non chiamarlo la tragedia di Cori, che va in paranoia) ***


Avviso pre-lettura: Alcune delle espressioni di Cori di questo capitolo potrebbero contenere forti invettive contro caratteristiche proprie dell’accento toscano. A scanso di equivoci, io non ho nessuna forma di razzismo contro i toscani, anzi, ho conosciuto persone bellissime, fantastiche, spettacolari, stra-fanta-mega-ultra-ecc.ecc. gentili, simpatiche e quant'altro, e sono fiera di averle conosciute, che sono toscane, questo personaggio si ispira semplicemente ad una persona reale, di cui ho voluto prendere anche il dialetto. Io e questa persona non abbiamo alcun genere di rapporto conflittuale, ma spero vivamente, per la scena finale, che non legga mai questa storia, perché sarebbe causa non indifferente di disagi. Quindi Capo Clan, se stai leggendo smetti subito! O almeno, fermati prima, perché vi assicuro che l’ho fatto solo per motivi di trama...
 
Niobis e le c aspirate (per non chiamarlo tragedia di Cori, che va in paranoia)
 
Come era stato pronosticato, pochi giorni dopo la famosa esplosione un gruppo di marine e scienziati fece la sua comparsa sulla scena, rivoltando come un calzino la zona incriminata e interrogando a tutto spiano la popolazione del luogo, il Sensei e Mitsuru compresi. Fortunatamente, Cori non si trovava nelle vicinanze al momento, e quando i marine chiesero di lei tutti furono concordi nel dire che il giorno precedente si trovava in visita al villaggio, e che nessuno l’aveva vista perché era passata in controra, e quindi all’ora X doveva essere ancora sulla via del ritorno, ben lontana dal campo, su cui comunque era stato possibile trovare poco e niente, visto il tempestivo intervento di Mitsuru. Vane furono anche le parole che i militari usarono per convincere il maestro a consegnare l’allieva per un controllo, in quanto la giovane si trovava a far ricerche su un fiore rarissimo, che l’aveva portata dall’altra parte dell’isola, e che purtroppamente l’avrebbe tenuta impegnata a lungo in una foresta terribilmente intricata e difficile da esplorare, e che in fondo loro cosa se ne facevano di un povero sgorbio deforme? Chiaramente non poteva essere lei ad aver causato il fattaccio! Insomma, la diplomazia la fece da padrone, o almeno si immagina fosse diplomazia, dato che quando all’Ispettore chiesero cosa gli fosse successo all’occhio, lui rispose ‘niente…’ mentre tremava, sicuramente dal freddo, sai quanti danni provoca l’ipotermia…
Comunque, in un modo o nell’altro, in un paio di mesi la cosa sarebbe passata in cavalleria, soprattutto grazie ai grandi eventi che scuotevano la Rotta Maggiore, quindi l’unica cosa che Cori avesse da fare era attendere ed allenarsi. Spostata la location, il succo del discorso non cambiava poi tanto, no? E invece no, perché il Sensei pensò bene, memore delle nuove scoperte, di inaugurare un nuovo tipo di allenamento, che comprendeva lei, Mitsuru e diversi traumi cranici, che davano un tocco di colore ad un’esistenza altrimenti nera, insomma, notte in tenda, niente fuoco, luci o quant’altro, niente canti, suoni, risate… un po’ una noia, no? Quindi aggiungiamo un altro po’ di rosso, che il rosso non deve mancare mai in ogni storia che si rispetti. Cominciò tutto col Sensei che un bel mattino bussò alla sua tenda con un: “Avanti, sorgi e brilla bella addormentata, avanti hop hop hop!”, con un tono che più che ricordarle Mushu le ricordava il gran calcio che aveva dato all’ultima persona che aveva osato svegliarla in modo così brioso, o peggio, con una canzone! Quando riemerse dalle sacre coltri del suo sacco a pelo e spinse la testa fuori dall’entrata della sua bellissima tenda (quant’era bella, tutta bianca, splendente, pulita! Non doveva nemmeno lavarla, o montarla, o stenderla per non farla ammuffire, che delizia!) , la scena che le si presentò davanti era un po’ diversa dal solito: Innanzitutto era l’alba, e da quando si era trasferita il Sensei non era mai arrivato prima delle sette. Poi c’era Mitsuru, che la accoglieva con la sua espressività da premio Oscar, tutta imbacuccata nel suo kimono più pesante, un aggeggio di panno rigorosamente viola ed il già noto Fiocco Falcidiante rosso, praticamente uguale alla prima volta che l’aveva vista, con quel paio di treccine fatte con un nastro rosso ai lati del viso, i capelli castani rigorosamente pettinati e lo sguardo che illuminava più di mille soli solo a tenere gli occhi chiusi. Il Sensei, come al solito, ghignava, giá pronto ad una delle sue malefatte. Avrebbe finito per inciderselo nella coscienza, quel ghigno malefico. Si ritirò nella sua tenda, afferrò i primi vestiti a tiro che non somigliassero ad un imbarazzante pigiama con i gattini color puffo con la nausea, e si ripresentò fuori con gli occhi a saracinesca e l’alito di un camionista alcolizzato. Perché il Sensei sembrava così felice, a quell’ora infame? “Ah, ecco la mia bella ragazza, sei più brutta del solito, stamattina”
“Perde un po’ di significato, se lo dici tutti i giorni” biascicò assonnata in risposta, stirandosi tutti i muscoli con perizia ed estrema lentezza. Il Sensei, ovviamente la ignorò. “Vieni, vieni bella ragazza, oggi combatterai con Mitsuru, non sei contenta?” chiese retorico invitandola a confrontarsi con la giovane.
“E in che modo questo dovrebbe aiutare a controllarmi?”
“Vedrai, vedrai che ti sarà utile, ti sbatterà per bene come, hai presente, le bistecche? Quelle vanno sbattute per farle diventare moorbide morbide. Poi scommetto che ci riuscirai”
“Perché ho come l’impressione che andrà a finire peggio del solito?”
Perché sarebbe proprio finita peggio del solito. Mitsuru era fondamentalmente imbattibile, almeno per lei. Innanzitutto Cori, con tutto l’allenamento che aveva fatto, aveva ancora qualche problema a gestire le distanze, tanto che spesso e volentieri abbatteva gli alberi con una testata, o magari si dimenticava in toto della loro esistenza, finendo per farci un delizioso ballo a due. Per fortuna aveva quella specie di corazza! Che comunque non le aveva evitato di finire ko innumerevoli volte. Ormai, i loro scontri stavano diventando uno sketch comico. Lei che si buttava a capofitto tipo razzo su Mitsuru, che nel migliore dei casi brillava sussurrando un ‘rallenta’ bloccando il suo slancio, nel peggiore deviava semplicemente il suo colpo facendola andare a sbattere più o meno ovunque. Per gli spettatori la scena appariva più o meno così: La baia con il mare cristallino, gli alberi a far da contorno, la sabbia bianchissima e Mitsuru immobile al centro di questo scenario idilliaco, con lo sguardo perso nel vuoto, completamente atono. Ogni tanto, nella visuale appariva una macchia nera dalla forma vagamente umana, che poi scompariva un istante dopo per ritrovarsi di fronte a Mitsuru, che impassibile la cacciava via con una misera parolina. Altre volte, quella stessa macchia finiva per schiantarsi un po’ ovunque, creando crateri intorno all’altra ragazza, che rimaneva invece totalmente impassibile, illuminandosi appena di quel giallo senape, che era l’unica cosa che le splendeva negli occhi. Se era in vena di scherzi, le lanciava addosso gli oggetti, noci di cocco, interi alberi, anche la sua stessa tenda (cosa per cui Cori aveva protestato a lungo). Tendeva la mano e per lei il gioco era fatto, e per Cori l’unica cosa che cambiava era che con l’Haki intuiva le sue mosse poco prima che le facesse. Vedeva la sua sagoma spenta compattarsi e brillare, come un’esplosivo, mentre l’odore di metallo incandescente permeava l’aria, tanto che quando in un modo o nell’altro Cori riusciva finalmente a spegnersi (i casi erano due, o sveniva o si addormentava, e il Sensei aveva una spiccata predilezione per il primo), si aspettava sempre di ritrovarsi su di un lago di vetro, speranza prontamente spenta dalla cruda realtà dei fatti. Ovviamente, la speranza di schivare i colpi era ancora inferiore. Era un po’ come giocare a palle di neve: Lei immobile che faceva da bersaglio. In questo caso, non era immobile ma il risultato era lo stesso, le sembrava di giocare a palla avvelenata, tanto che lei i proiettili li vedeva solo come contorni luminescenti.
Il giorno in cui riuscì a riassorbire il proprio potere era cominciato come un giorno qualsiasi, gli uccellini cinguettavano, il sole brillava, il Sensei berciava, e Cori era tanto felice di starsi facendo ammazzare, invece di trovarsi ad un comodo (si fa per dire, quella roba è un attentato alla colonna vertebrale) sgabello universitario. Era la ventordicesima (si, ventordicesima, se avete problemi con il ventordici sono fatti vostri) volta che si lanciava a scheggia sull’obiettivo, quella scialba ragazzina. Fu a quel punto che successe una cosa imprevedibile: Il Sensei chiamò Mitsuru, distraendola. Cori sentì che qualcosa non quadrava, il suo Haki non percepiva nessun attacco, nessuna mutazione, si stava lanciando a corpo perso contro una persona indifesa, porca, porca porca miseria, non sarebbe mai riuscita a deviare ad una velocitá simile, l’impatto sarebbe stato fatale! Doveva fermarsi, diminuire la velocitá… Fu a quel punto che sentì le parole del Sensei: Usiamo quella Tecnica. E Cori la usò. Per un solo, misero istante il mondo smise di girare, quando Cori si trovava a pochi metri da lei, immobile, protesa con il braccio nella sua direzione, immaginò che quella forza che la tirava fosse in realtà un vento, che la spogliava di quella sostanza…
E capitombolò a terra come una pera cotta, ad una velocitá fuori dal normale che quasi le spezzò il collo. Grazie Maestro! Pensò Cori rotolando come una trottola impazzita. Finché finalmente non giacque, in stile stella marina, e dopo un momento di surreale silenzio, scoppiò a ridere. Ce l’aveva fatta! Ce l’aveva fatta…
 
 
 
 Il giorno in cui Niobis arrivò era una fredda, assolata giornata invernale. Costui era un giovane maestro, poco più che ventenne. Aveva una folta chioma castana, e due grandi e penetranti occhi dello stesso colore, barba e baffi corti e curati. Sopra due sopracciglia dritte e folte c’era una fronte alta e spesso corrugata, sotto invece vi era un naso importante, un po’ a patata, e due labbra carnose. Vestiva semplicemente, con un kimono di bassa fattura di un simpatico color verde ramarro, e ai piedi portava i tabi. Si incamminò ciabattando nei suoi legnosi calzari dalla piccola cala in cui era approdato, a largo dal porto del nuovo villaggio dal quale aveva fatto attenzione a non farsi avvistare, e risalì il monte, fino ad arrivare alla Svolta a Sinistra. Niobis la prese, e gli apparve un paesaggio bucolico: La casa immersa nel silenzio della valle addormentata e l’odore della terra rivoltata e morbida. Nel campo vi era un’unica figura con indosso un ampio mantello, stava arando un campo vicino alla serra. La figura incappucciata non era altri che Cori, ma Niobis non poteva saperlo. La figura, sentendolo avvicinarsi a bordo campo sollevò la testa, spogliandola del cappuccio, e si appoggiò alla zappa. Al giovane apparve una pallida testa calva, con uno sfregio magenta intorno all’orecchio. Lo affascinò la nobiltà di quei lineamenti, che non erano belli: L’assenza dei capelli marcava un profilo severo per la piega di occhi e bocca, ma dolce nelle morbide forme del naso simile al suo, della forma del viso e della curva delle labbra. Un viso controverso, interessante, ma avrebbe lasciato a dopo i suoi studi di fisiognomica. “Ehi, tu! Mi sai dire dove posso trovare Sensei Tenshi?” gli urlò.
“Mi segua” gli rispose quello, dirigendosi a passi lunghi ed energici verso il granaio sul retro, con lo svolazzante mantello al seguito. Mentre andavano, gli chiese: “Chi siete?”
“Ma home, non mi rihonosci? Ma qui mi honoscono tutti! Io sono Niobis, il migliore allievo del tuo maestro” si presentò, seguendola senza sforzo. Era un bel ragazzo. Modesto, sicuramente, pensò guardando quel volto sorridente. Non che un bel ragazzo non potesse essere anche bugiardo, ovviamente. Anzi.
 Bussarono. “Sensei, qui c'è qualcuno che la cerca. Dice di chiamarsi Niobis” gli disse attraverso la porta. Il fienile era più alto della casa, quasi immerso nella selva, ed era più simile ad un magazzino che ad altro.
“Ah, Niobis! Vieni, bel ragazzo!” sentirono attraverso la porta. Il giovane entrò, la ragazza stava già per andarsene quando il Sensei la chiamò: “Entra, Cori, e chiudi la porta”. Lei obbedì, entrando nella stanza centrale, satura di profumi di erbe messe a seccare. C’erano alti fasci di lavanda che le facevano montare la nausea. Il Sensei era al centro, il giovane si posizionò di fronte a lui e Cori in mezzo, vicino il più possibile alla porta.
“Allora bel ragazzo, dimmi: Come vanno gli affari giù all’isola di Kaiyou Ushi? Scommetto che lì non hai mai visto una bella ragazza come questa!” gli chiese, strizzando la guancia di Cori tra due dita e ammiccandogli divertito davanti allo sguardo omicida di lei.
“Quale bella ragazza? Voglio honoscerla, assolutamente! Dov’è?...” chiese subito acceso Niobis, girandosi tutto per guardare in giro, per poi accorgersi di lei. “Ah. No, scherzavo, so che tu sei una ragazza!” Ah-ah. E lei ci doveva credere.
Il Sensei rise, appoggiato ad un fascio di erbe. “E come mai sei venuto?” chiese, con un sorriso accennato sulle labbra. Sembrava veramente contento, un’espressione che raramente aveva visto sul volto del Sensei.
“Sono venuto a vedere home te la passavi, vecchio. Era da tanto che non prendevi un allievo, vedo che hai fatto begli acquisti!” rispose, scoccando un’allegra occhiata di scuse a Cori, che non ricambiò, aggrottando la fronte. Pensava forse che il Sensei l’avesse comprata in un negozio di souvenir?
“È vero. Quanto resterai?” chiese diretto l’uomo, incrociando le grosse braccia pelose. Sembrava sperare davvero che Occhi di Volpe restasse a lungo, doveva tenerci molto a quel ragazzo.
“Mah, pensavo tipo un paio di giorni, se non è un problema, ovviamente!” ridacchiò l’altro.
“Bene, mi aiuterai con questo lombrico allora” sogghignò il Sensei tirandole una fortissima pacca sulle spalle.
“Certo, hosa deve fare?” disse, rivolgendole uno sguardo limpido.
“Abbiamo un problema, ti faccio vedere. Trasformati, Cori” ordinò il Sensei, spostando con un braccio Niobis lontano dai pilastri e dalle cataste di erbe.
Cori si concentrò: stirò le braccia, chiuse gli occhi, la pelle cominciò a fumare, e immediatamente si ricoprì della ribollente sostanza nera.
“Che troio!” esclamò stupito il maestro. “Cioè, è forte!” si corresse correndole davanti. Allungò la mano per provare a toccarla, ma lei arretrò con un passo rigido. Sembrava un’enorme statua in ombra, nonostante la luce entrasse luminosa e radente da un finestrone. La luce non riverberava ne si rifletteva su quella strana superficie compatta. Il maestro si fermò, in piedi di fronte a lei, osservandola attentamente.
Il Sensei fece un cenno, e Cori si lanciò all’attacco, e sfruttando il proprio potere sui varchi dimensionali lo travolse. Il maestro non se l’aspettava, ma appena fu a terra contrattaccò, o almeno ci provò, perché afferrò il suo avambraccio con la destra e si ritrovò subito nel buio. Lasciò di scatto il braccio e tutto tornò normale. Il giovane la guardò confuso mentre lo sovrastava, bloccandolo steso a terra con una grande mano artigliata premuta sull’addome coperto dal kimono. Era inquietante: Muta, nera ed enorme, un incubo, un demone seduto sul suo petto. “Va bene, ora puoi lasciarmi” ma la ragazza non obbedì, ne diede segno di averlo sentito. “Ehi, mi senti? Ho detto che puoi lasciarmi andare!” le urlò. Provò anche a spintonarla col braccio, ma lei sembrava non farci minimamente caso. Il Sensei fece un cenno e Cori lo lasciò andare, rimettendosi in piedi. Era rigida e immobile.
“Ma mi vede?” chiese confuso il giovane, passando una mano davanti alla testa di lei. Cori afferrò al volo la manica del kimono, che per come la vedeva lei apparteneva ad un’aura frizzante color ruggine, con un odore di… assomigliava un sacco all’odore di alcuni detersivi profumati per il bucato, un’odore molto, come dire, maschile, anche se indubbiamente buono.
“Non ti può vedere ne sentire, ma ti Percepisce. Non ti può obbedire, non ti sente!” precisò il Sensei, liberando la manica dell’ex-allievo dalla stretta di Cori, il cui braccio tornò immobile lungo il fianco. Il petto della creatura si alzava e si abbassava velocemente, affannato.
“E allora home hai fatto ad ordinarle di staccarsi?” chiese lui, fissandola sospettoso.
“Ahhh, ma allora non mi ascolti quando parlo! Te l’ho detto: Percepisce le nostre aure!” rispose finto scocciato l’altro.
“E allora qual è il problema? Non riesce a tornare normale?”
“No. C’abbiamo messo parecchio, ma alla fine qualcosa di buono questo lombrico lo sa fare. Il problema è che in questa forma non può sapere cosa succede intorno. Voglio che riesca a controllarlo, che si trasformi solo in parte” disse l’uomo, passandosi una mano fra i capelli a spazzola.
“Hapisco. Beh, possiamo sempre provare! Dille di tornare normale!”
“Ah, certo. Prendila!” ordinò al giovane. Il Sensei fece segno di fermarsi, e Cori lasciò le nuove sembianze per ondeggiare e successivamente cadere febbricitante fra le braccia di un esterrefatto Niobis, che la sorresse prontamente, tenendola con un braccio dietro la schiena e facendole posare la testa sulla spalla. Il respiro bollente di lei finiva nell’incavo della clavicola. “Ha la febbre altissima!” constatò premendo le labbra sulla fronte della ragazza. “Bisogna portarla subito a letto!”
 “Non farci caso, finisce sempre così quando si trasforma per poco tempo. Dalle qualche minuto e tornerà a posto” proferì quasi con nonchalance il Sensei mentre usciva dal fienile. Niobis lo guardò, nuovamente esterrefatto. Si sedette piano piano a terra, portando con se la ragazza che tremava tutta, aveva gli occhi lucidi e assenti, ma si tirò su il cappuccio e si strinse nel mantello, facendo leva sul suo petto per rimettersi in piedi barcollando. Niobis non voleva che si sforzasse, la prese per le spalle fermandola. “Ehi, tu! Fermati un attimo, non ti senti bene!”. Lei le scosse debolmente e mormorò: “Tranquillo, va tutto bene. Ora passa”, poi si girò e continuò a seguire il Sensei fuori. Il ragazzo la seguì, non sapendo bene che fare.
Il Sensei e Cori si fermarono in mezzo alla spianata. Lei si sedette a gambe incrociate a riprendere fiato, mentre l’altro chiamava Niobis: “Dai, sali! Che c'è, c’hai paura?”
“Eh, no!” Il ragazzo corse, per mettersi di fronte a Cori e posando un ginocchio a terra, porgerle la mano. “Sihura che non ti serva una mano?”
Ma Cori alzò lo sguardo, ora più limpido, e gli sorrise: “No, grazie, faccio da me!” gli dice, scoprendosi la testa e rialzandosi in piedi. La sua pelle era tornata normale, e anche se aveva un po' di mal di testa, sembrava aver avuto una ripresa formidabile.
“Ok. Ora Cori innescherà la trasformazione e vedremo quanto tempo impiegherà a cadere come una pera cotta”
Cori si allontanò dai due, e stavolta sfiorò appena, occludendolo, il sesto foro sulla sua testa. Immediatamente, il suo corpo cominciò a fumare e riscaldarsi, assumendo un’insana colorazione rossastra e ricoprendosi di un velo di sudore che andava via via evaporando. Proprio come tanti mesi prima, resistette all’impulso di liberare ciò che spingeva per fuoriuscire dalle sue membra, senza riuscire a soffocarlo. Sentiva un forte peso gravare direttamente sulle sue ossa, mentre un velo nero cominciava ad offuscarle la vista. Provò a resistere, spalancò gli occhi, fissando lo sguardo sui due uomini davanti a lei, ma la vista si stava facendo confusa, non riusciva a controllare lo sguardo su niente…
 
 
Il Sensei osservò per l’ennesima volta la sua allieva tentare di resistere al forte impulso che ogni volta riusciva a sopraffarla, la vide piegare la schiena, mentre i suoi occhi si spalancavano in un’espressione quasi spaventata, attonita, almeno finché non vide un velo nero oscurare i suoi occhi, coprendone lentamente la visuale, e con essa tutte le mucose, lingua, bocca, naso, tutto, molto lentamente, controllato a fatica dalla ragazza che ansimava sempre più nel tentativo di resistere in quella che sembrava un’impresa improba.
Fu a quel punto che Niobis scattò. Il Sensei sapeva che l’avrebbe fatto, era noto per questi suoi slanci, ma non immaginava nemmeno quello che stava per fare. Se solo l’avesse saputo, l’avrebbe fermato, perché non poteva proprio venirne niente di buono. Eppure doveva saperlo, che gli sarebbe venuto in mente, era stato proprio lui a insegnarglielo! Sapeva che in realtà era l’unica cosa giusta da fare per velocizzare il processo, ma per la sanità mentale sua e di Mitsuru mai avrebbe messo in atto un piano simile.
Niobis corse, quasi fosse inseguito da un migliaio di creditori richiedenti la sua testa su un vassoio d’argento, allungò le braccia e con una forza inaudita…
Baciò Cori! Si, la baciò sulle labbra, spingendoci contro le sue con forza, stringendo nelle mani le braccia della ragazza come se volesse strappargliele, guardandola con gli occhi spalancati. Ovviamente Cori non si fece scrupoli, e dopo un primo momento di stupore, invece di respingerlo normalmente, approfittò del suo stesso slancio per afferrargli la spalla con il braccio sinistro e catapultarlo lontano con un Tomoe-nage* in piena regola, assicurandosi che il piede non stesse sugli addominali ma ben più giù. Il Sensei non poté far altro che ridere. Cori si rialzò subito in piedi, pulendosi le labbra col braccio destro, fissando con profondo astio il ragazzo di già in piedi anche lui, che invece rideva. “Non farlo mai più!” Solo allora si accorse di vederci benissimo, e che il braccio sinistro, quello che aveva usato per catapultare Niobis, era molto più pesante dell’altro, e ricoperto di quell’orribile sostanza che lei aveva visto solo un’altra  volta addosso a suo nonno. Era tre, quattro volte l’altro, gonfio e insensibile, tanto che oltre il gomito lei lo percepiva come un arto fantasma. Le dita erano artigliate, si accorse flettendole con un po’ di fatica. Percepiva solo molto bruciore all’attaccatura col braccio, e odore di carne cotta, non molto piacevole, ma non dolore. La luce non sfiorava nemmeno la cosa, lasciandolo di un nero uniforme e compatto, senza nessuna increspatura o particolare forma che non appartenesse alla sagoma del braccio all’interno.
“Ce l’ho fatta!” rise Niobis, osservando il suo braccio. “C’è voluto poco, visto?” si vantò avvicinandosi a lunghi passi.
 “Non ti avvicinare!” ringhiò la ragazza spostando di nuovo lo sguardo su di lui. Era una cosa che la mandava in bestia. Era il suo primo bacio, porca miseria! E poi, come aveva osato, senza alcun permesso? Si strofinò furiosamente la manica sulla bocca. Bleah! Sapeva di comportarsi in maniera infantile ma che schifo!
“Ma dai, non dirmi che non ti è piaciuto!” la prese in giro il ragazzo, al che Cori lo fulminò, decidendo alla fine di ritirare il proprio potere e allontanarsi dalla scena a passo di marcia, con tutta l’aria di una che avrebbe potuto spaccarti il muso da un momento all’altro, seguita dal suo svolazzante mantello e una bella nube temporalesca sulla testa calva. I due uomini rimasero con aria stoica in cima alla spianata, fissandola andare via.
“Non ha gradito” commentò il Sensei incrociando le braccia al petto villoso.
“No, direi proprio di no” rispose a sua volta Niobis, grattandosi con fare nervoso la testa e assumendo un’espressione fra il divertito ed il perplesso.
“Complimenti, anche se non vorrei essere al tuo posto! È stata una grande idea” l’uomo si complimentò con lui, assestandogli una forte pacca sulla spalla.
 
Cori arrivò all’acquaio dietro la casa con un diavolo per capello (si fa per dire), la fronte contratta dall’ira, le mani strette a pugno e una scia di orme calcate dietro di lei per quanto aveva pestato i piedi. Si scoprì il braccio incriminato, immergendolo poi di botto nell’acqua gelida, sospirò di sollievo: Il braccio era gonfio e ustionato, di un bel rosso acceso, con una scia sanguinolenta e piena di vesciche lungo la linea di stacco. Al diavolo l’allenamento! Al diavolo tutti! Col cavolo che sarebbe tornata lissù finché ci fosse stato quel bellimbusto, era fortemente tentata di prendere le sue cose e dormire all’addiaccio quella notte.
L’acqua, increspata dall’immersione del braccio si distese, permettendole di vedere il proprio riflesso, che Cori studiò con animosità, nell’ansia di vederci una diversità, nel capirci finalmente qualcosa. Non si soffermò affatto sulle labbra, quei due pallidi pezzi di carne che morse fino a farli sparire dentro la bocca, sentiva ancora la pressione di quelle dello sporco traditore, e non voleva pensarci ancora o sarebbe tornata su a pestarlo male male malissimo. Ricordava com’era pochi mesi prima, il viso tondo e roseo, la capigliatura riccissima, e ancora stentava a riconoscersi. Ogni tanto si passava le dita sulla testa distrattamente, aspettandosi di incontrare la morbida resistenza dei capelli e non trovando nulla se non lo spessore delle cicatrici. Il volto si era affilato, senza tuttavia diventare aguzzo. Sembrava solo più maturo e aveva perso ogni traccia di rossori puerili, diventando di un pallido bianco uniforme, anemico. La mascella si era definita, dando quasi un’impressione quadrata al viso che comunque rimaneva largo. Il naso a patata dava un’importante mostra di se al centro di un viso che bello non era mai stato ritenuto, sotto ad un paio d’occhi nocciola perennemente seri o annoiati con le palpebre spesso a mezz’asta, che però non le conferivano per fortuna un aspetto languido, grazie probabilmente alle folte sopracciglia scure sotto cui si trovavano, che le davano un’aria decisa e spesso contrariata. Si passò la destra sul viso, schiacciandosi l’occhio nell’orbita, sfatta, mentre muoveva il braccio sinistro nell’acqua per muoverla e raffreddarsi ulteriormente il braccio. Perché?! Ok che ci era riuscita, ma insomma! Provò a calmarsi, facendo lunghi respiri e gettando la testa all’indietro. Qualcuno avrebbe dovuto donare il pensiero razionale a quell’uomo. E probabilmente anche a lei stessa, dato che in mente le stavano passando una dozzina di scherzi puerili e prettamente stupidi con cui rendergli la vita impossibile, ora che con quel gesto cretino aveva minato mesi di allenamento sulla propria autostima. Senza alcun motivo, poi. Aveva voglia di prenderlo a schiaffi a due a due finché non diventavano dispari, e niente fortunatamente, o sfortunatamente, dipendeva dai punti di vista, le impediva di farlo.
“Stai. Lontano” impose, quando dei passi si avvicinarono alla sua postazione, senza nemmeno girarsi.
“Ma dai, Cori – Cori, giusto?-  lo sai che l’ho fatto solo per l’allenamento!” si lamentò il giovane sciabattando vicino alla sua postazione. Quale masochistico motivo l’aveva spinto a cercare la morte direttamente nella tana del leone?
“E ‘sti gran cazzi non ce lo aggiungi? Sparisci” diventava volgare quando era profondamente irritata. Aggrottò le sopracciglia, dandogli solo una fugace occhiata astiosa, mentre rigirava il braccio nell’acqua fredda, ignorandolo quanto più possibile. Non aveva la minima voglia di affrontare una conversazione civile con quell’individuo, che sembrava comunque immune alle sue male parole. Poteva avere tutte le ragioni del mondo, lei non l’avrebbe ascoltato, quel fatto la irritava ad un livello più profondo della normale razionalità, per la quale avrebbe dovuto semplicemente gioire di essere riuscita nell’intento.
“Ma perché fai così?” lo sentì pestare i piedi dietro di lei. “Ti ho fatto un favore!” si lagnò. Non poteva dargli torto. Ciò non toglieva che lo volesse fuori dai piedi prima di subito, nell’immediato proprio. “Mi da fastidio, ok? Lasciami rodere in pace per conto mio, per favore” Lo avvisò, regalandogli anche un bel sorriso tirato come gentile invito a togliersi dalle scatole, tendendo gli angoli della bocca il più possibile sui denti scoperti, che sembrava volesse azzannarlo, prima di tornare a guardare il proprio braccio con ostinazione. Ora era di un rosso uniforme, color aragosta, e le dita e il gomito cominciavano a far fatica a piegarsi, mentre il bracciale di vesciche che aveva poco più su del gomito sanguinava e si gonfiava, spaccandosi e vuotandosi del pus in esse contenuto, una visione abbastanza raccapricciante e piuttosto dolorosa.
“Non dirmi che era il tuo primo bacio” proferì la voce di Niobis con tono saputo. Poteva giá immaginarlo incrociare le braccia sul petto. Sì, era il mio primo bacio, problemi? Fatti i cavoli tuoi, spocchioso arrogante babbeo, nessuno ti ha chiesto niente, tanto meno un discorso terapico per conciliare ipotetiche divergenze, vai a fare i tuoi test psicologici con qualcun altro! Tanto lo so che mi stai testando, si vede lontano un miglio, e no, mio caro, io non sono così stoica da accettare un bacio per amore della scienza! Quindi fammi il piacere e torna ad aspirare le tue dannatissime c lontano da me! “Anche se fosse non sono affaracci tuoi” protestò la ragazza scuotendo la testa enfaticamente, dandogli ancora le spalle.
“Beh, direi che sono eccome affaracci miei, dato che te l’ho dato io” rispose con un tono quasi orgoglioso il giovane, che Cori avrebbe solo voluto avere la sua testa per usarla come punching ball.  “Vuoi una medaglia? Mi sembra chiaro che non sono felice di vederti, quindi potresti fare un favore al mondo e al tuo orgoglio e andartene prima che ti spacchi il muso?” ringhiò Cori stringendo il pugno libero.
“Sei manesca” commentò Niobis con tono improvvisamente calmo, anche se evidentemente divertito. Mai detto il contrario, anzi, sempre ammesso. Cori era manesca, era un dato di fatto, e non si faceva premura a nasconderlo. “Sai che novità. Credo che le tue parti basse ricordino benissimo l’ultima volta che sono stata manesca” Anche con troppa veemenza.
Il ragazzo rise come se avesse fatto una gran battuta. “Haha, dai! Che ti ho fatto di male per meritarmi questo?” Uno sguardo bruciante lo perforò da parte a parte, mentre un demone furioso prese il posto di Cori, che agli occhi del giovane si trasformò in un mostro di tre metri d’altezza, dagli occhi fiammeggianti e la voce cupa come un tuono: “Non vuoi saperlo. Ora sparisci, prima che con le tue ossa ci faccia stuzzicadenti!” lo minacciò, alzando su di lui il braccio libero. “Va bene, va bene, alzo le mani, ma non finisce qui!” si arrese finalmente, alzando sul serio le mani e arretrando senza mostrarle mai le spalle, come si fa con le bestie feroci.
“Grazie!” gli urlò dietro, prima di testare di nuovo la mobilità del proprio braccio. Pulsava, faceva male e le impediva la metá dei movimenti. Geniale, un’altra cosa su cui lavorare. Che noia… Di una cosa era certa, non si sarebbe fatta baciare ancora, cascasse il mondo lei quell’individuo non voleva vederlo nemmeno in cartolina.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
Buonasera, signori e signore, graditissimi ospiti e quant'altro, questo capitolo era programmato da un’eternità, per questo lo pubblico velocemente. Spero non appaia frettoloso, è solo l’inizio dell’approfondimento che farò su Mitsuru, su Cori e la sua evoluzione, e ahimè anche su quel pazzoide di Niobis, che fortunatamente ci importunerà per poco con la sua molesta presenza. Alla prossima,
Hikari_Sengoku
 


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