Do you ever believe you were stuck in the sky? di Kim WinterNight (/viewuser.php?uid=96904)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Is it a joke? ***
Capitolo 2: *** Under the sofa ***
Capitolo 3: *** Who the fuck are you? ***
Capitolo 4: *** Can I help you? ***
Capitolo 5: *** Welcome to the Skye Sun Hotel! ***
Capitolo 6: *** Beach under the Sun ***
Capitolo 7: *** Fuck to Forget ***
Capitolo 8: *** Jamaican Breakfast ***
Capitolo 9: *** Groupies ***
Capitolo 10: *** Bad Ideas ***
Capitolo 11: *** Fuck N' Kill ***
Capitolo 12: *** Fyah ***
Capitolo 13: *** Rage ***
Capitolo 14: *** Feeling ***
Capitolo 15: *** Armageddon come alive! ***
Capitolo 16: *** Two Shots ***
Capitolo 17: *** Oh, what a disaster! ***
Capitolo 18: *** Must be Serious! ***
Capitolo 19: *** Dam ***
Capitolo 20: *** Tonight may be our Last ***
Capitolo 21: *** The Truth ***
Capitolo 22: *** Peace after the Storm ***
Capitolo 23: *** Hard nut to crack ***
Capitolo 24: *** Who's the Star? ***
Capitolo 25: *** Here comes the Night ***
Capitolo 26: *** Friendship is the Cure ***
Capitolo 27: *** Cheeseburger ***
Capitolo 28: *** We are so close ***
Capitolo 29: *** I just want to feel good! ***
Capitolo 30: *** Stuck in the Sky ***
Capitolo 31: *** Our mistakes ***
Capitolo 32: *** Paddleboat ***
Capitolo 33: *** Heartbeats ***
Capitolo 34: *** LOL ***
Capitolo 35: *** Taxi! ***
Capitolo 36: *** Breakdown ***
Capitolo 37: *** In my arms again ***
Capitolo 38: *** Dead Memories ***
Capitolo 39: *** Anyone ***
Capitolo 40: *** Slash! ***
Capitolo 41: *** Time is running out ***
Capitolo 42: *** Feelin' the same ***
Capitolo 43: *** Take it easy! ***
Capitolo 44: *** Back Home ***
Capitolo 45: *** LAX ***
Capitolo 46: *** You I need ***
Capitolo 47: *** This Shit ***
Capitolo 48: *** Special ***
Capitolo 49: *** On the road again! ***
Capitolo 50: *** Reunion ***
Capitolo 51: *** Storytellers ***
Capitolo 52: *** Trust? ***
Capitolo 53: *** Angels ***
Capitolo 54: *** Pre-show ***
Capitolo 55: *** Shy Guy ***
Capitolo 56: *** Ready ***
Capitolo 57: *** Love, Music, Sea ***
Capitolo 58: *** #homies ***
Capitolo 59: *** Projects ***
Capitolo 60: *** Touches ***
Capitolo 61: *** Insecure ***
Capitolo 62: *** Portrait ***
Capitolo 63: *** Happy Birthday! ***
Capitolo 64: *** Bad cold! ***
Capitolo 65: *** Leave me alone ***
Capitolo 66: *** Decisions ***
Capitolo 67: *** Everything's gonna be alright! ***
Capitolo 68: *** Psychopath ***
Capitolo 69: *** Interviews ***
Capitolo 70: *** Family ***
Capitolo 1 *** Is it a joke? ***
ReggaeFamily
Is
it a joke?
[Shavo]
Una
vacanza, ecco cosa mi serviva. Non riuscivo più a stare
rinchiuso in casa, forse stavolta avevo esagerato. Mi rendevo
perfettamente conto di dovermi muovere, ma solo l'idea di uscire nel
caos losangelino mi metteva addosso un'ansia indicibile.
Che
palle.
Mi
rigirai nel letto e chiusi gli occhi. Forse avrei dovuto alzarmi,
prepararmi un tè dai tratti giamaicani, poi prendere
qualche vestito a caso e fare una passeggiata. Sì, una
passeggiata...
Le
palpebre pesanti, ecco cosa mi fregava. C'era un meccanismo secondo
il quale io lottavo come Don Chisciotte contro i mulini a vento, e
questi mulini mi fottevano sempre. Merda.
Udii
uno squillo estremamente fastidioso e quasi gridai per lo spavento.
Chi cazzo era? Perché qualcuno suonava alla mia porta? Quando
mi trovavo in questi periodi di reclusione domestica, tutti sapevano
che avrebbero dovuto lasciarmi tranquillo.
Il
campanello suonò ancora.
Probabilmente
era un venditore porta a porta; forse avrei dovuto ricordarmi, la
prossima volta, di staccare il campanello, almeno in certi momenti...
La
persona al di sotto del mio palazzo si attaccò letteralmente
al pulsante, e allora capii di chi si trattava.
Lanciai
via le coperte, conscio che, se non avessi risposto, quel dannato
coglione non avrebbe mai smesso di suonare e avrebbe presto
cominciato a suonare anche i campanelli degli altri condomini.
Mi
precipitai vicino all'ingresso e afferrai il citofono, strappandolo
quasi dalla parete su cui era sistemato.
«Malakian,
giuro che sei morto! Che cazzo vuoi?» strillai, la voce ancora
impastata per il sonno uscì simile a quella di un orco
cattivo. Forse lo avrei spaventato, almeno un po'.
«Ritenta,
sarai più fortunato» gracchiò una voce familiare,
ma che non riconobbi come quella di Daron.
«Ah...
ehm... John?!» farfugliai.
«Già,
Daron mi ha spiegato come fare per costringerti a rispondere»
disse il batterista, utilizzando un tono innocente, per il quale
quasi scoppiai a ridere.
«Mi
ricorderò di scollegare quell'arnese infernale la prossima
volta che decido di...»
«Posso
salire o devo stare qui a fare la muffa?» mi interruppe John.
«Ah
già, okay. Sali.»
Schiacciai
il pulsante per aprire il portone d'ingresso del palazzo e socchiusi
la porta, mettendo fuori la testa e attendendo che John arrivasse.
Proprio
in quel momento, la porta di fronte alla mia si spalancò e ne
uscì una ragazza abbigliata in modo bizzarro, cosparsa di
tatuaggi e piercing, con i capelli arruffati e tinti di blu
elettrico.
«Ehi
pelatone, come te la passi? Hai deciso di uscire dal tuo antro
oscuro?» mi apostrofò la mia dirimpettaia, trascinandosi
dietro una grossa valigia.
«Abby,
è sempre un piacere vederti» replicai in tono
sarcastico. «E anche i tuoi capelli sono piacevoli da
osservare, sì.»
«Sono
sexy, ammettilo!» ammiccò.
John
ci raggiunse e strabuzzò gli occhi nel notare Abby.
«Ah
ecco perché sei uscito dalla tana» commentò la
ragazza, squadrando John da capo a piedi, in maniera del tutto
spudorata. «Per accogliere questo bel manzo! Divertitevi miei
cari, io parto.»
«Dove
saresti diretta? Un altra marcia per i diritti degli omosessuali in
crisi di peso?» la punzecchiai.
«Spiritoso
Shavy, davvero spiritoso.» Abby mi mostrò il dito medio
e si infilò nell'ascensore poco prima che questo si
richiudesse.
«Simpatica»
commentò John.
«La
lesbica più etero del mondo. Entra.»
Lasciai
passare il mio amico e richiusi la porta, per poi appoggiarmici
contro e incrociare le braccia al petto; volevo assumere un'aria
contrariata, ma mi resi presto conto che con indosso un pigiama
azzurro sformato non dovevo incutere molto timore.
Dolmayan
mi lanciò un'occhiata interrogativa, poi disse: «Piantala
di fare il cretino, Shavo. Mi offri qualcosa da bere? Sono venuto a
piedi fin qui, sono abbastanza affaticato».
«Ma
che ore sono?» domandai.
«Le
otto e un quarto» annunciò fieramente il batterista,
battendo con un dito sul suo orologio da polso.
«E
tu... tu... hai osato svegliarmi così presto? Merda,
Dolmayan!» sbottai.
«Devo
dirti una cosa. Smettila di rompere, andiamo in cucina.»
Lo
seguii controvoglia, neanche fossi io l'ospite in casa mia. Bizzarro
come possano mettersi le cose, a volte...
«Spero
per te che si tratti di qualcosa di vitale importanza»
sottolineai, decidendomi a preparare un caffè per entrambi.
Conoscevo John, non amava il tè come me, non glielo proposi
neanche.
Mentre
aspettavo che il bollitore facesse il suo dovere, recuperai il mio
materiale per prepararmi una sigaretta e vidi John roteare gli occhi
al cielo.
«Vuoi
favorire, socio?»
«Fottiti.
Ascolta, piuttosto. Ieri qualcuno ha proposto a Rick una data per
noi» mi riferì, tornando improvvisamente serio.
«Per
noi?»
«Per
i System Of A Down, Shavo.»
«Cazzo.
Dove? Quando? Devo prepararmi psicologicamente...» cominciai a
sparare a zero, facendomi subito prendere dall'ansia.
«Odadjian,
stai calmo! Se te lo dico non ci credi.» John mi sorrise.
Mi
alzai per finire di preparare il caffè e lo passai a John
senza porgergli lo zucchero, mentre io me ne versai tre bustine.
«Quello
è zucchero con caffè, Shavo!» commentò
inorridito.
«Macché.
Allora? Me lo vuoi dire o no?» lo incalzai, mescolando la
bevanda fumante con un cucchiaino.
«Al
Dodger Stadium» buttò lì lui con nonchalance.
Avevo
appena sorseggiato un po' di caffè e per poco non glielo
sputai in faccia, rischiando di soffocare. Allontanai la tazza da me
e presi a colpirmi sul petto, cercando di respirare almeno con il
naso.
John
si alzò e venne a picchiarmi sulla schiena, ridendo come un
deficiente.
«Non
mi prendere per il culo!» gli gridai contro. «Se tu e
Malakian avete deciso di farmi uno scherzo, avete sbagliato
giornata!»
«Ma
quale scherzo?! È tutto vero, Odadjian!» si difese il
batterista, tornando a sedersi di fronte a me.
Lo
guardai perplesso. Com'era possibile che noi fossimo stati invitati a
suonare nello stadio dei Dodgers? Mi sentivo male, giuro, mi stavo
sentendo realmente male. Non era possibile, era uno scherzo, sì,
doveva esserlo.
«Devi
calmarti. Non so perché ho accettato di dirtelo io, non mi
aspettavo una reazione del genere.»
«Frena,
amico. Sta' un po' zitto.»
Ripresi
a costruire la canna che avevo lasciato a metà mentre
preparavo il caffè e me la riempii per bene. Osservai il mio
astuccio e aggrottai la fronte: era ora di uscire di casa, dovevo
rifornirmi di erba.
«Quello
ti aiuta davvero a calmarti?» borbottò John, finendo di
bere il suo caffè amaro.
«Sicuro.»
Afferrai
l'accendino e lo feci scattare. Già con il primo tiro,
sentendo la gola bruciare, mi sentii subito meglio; ero in grado di
ragionare, di darmi una calmata e farmi passare quel dannato senso
d'agitazione che mi attanagliava ogni volta che capitava un fuori
programma come quello.
«Quindi,
lo hanno chiesto a Rick?» domandai dopo qualche tiro, notando
che John si avvicinava alla finestra e la socchiudeva appena.
Quell'odore lo infastidiva, ne ero cosciente, ma non potevo farci
niente.
«Sì.»
«Avrebbe
potuto proporre Shakira, no?» scherzai.
«Hanno
esplicitamente chiesto di noi.»
«Ah.»
Il
cellulare di John prese a squillare: la sua suoneria consisteva in un
esercizio eseguito da lui, in cui applicava sulla sua batteria una
roba impossibile come ritmi dispari di percussione araba. Era un
genio, questo non avrei mai potuto negarlo.
Lui
afferrò il telefono e aggrottò la fronte, poi rispose:
«Sì?».
Io
continuai a fumare tranquillamente, sentendomi decisamente meglio.
Tuttavia, ero ancora sotto shock.
«Ah,
cazzo. E adesso?» borbottò Dolmayan con sguardo
preoccupato. «Chiama un medico, no? Che cazzo ne so io?!»
Rimase in ascolto, poi riprese a parlare con fare pratico: «Va
bene, ti raggiungo. Sì, sono da Shavo. Dammi... mmh... sono a
piedi, quindi penso che ci impiegherò una cinquantina di
minuti».
Gli
lanciai un'occhiata interrogativa. Avevo come l'impressione che la
giornata fosse iniziata nel modo sbagliato.
«Okay,
a dopo. Ciao.»
John
si ficcò il cellulare in tasca e sospirò pesantemente.
«Ehi,
che c'è?» gli chiesi.
«Daron»
biascicò. «Ha un attacco di panico e Serj non riesce a
farlo uscire da sotto il suo divano, non si capisce che cazzo gli sia
preso. Dio, quel ragazzo ha seri problemi...»
«Di
nuovo?»
John
annuì.
«E
cosa ci fa a casa di Serj?» mi informai perplesso.
«Ieri
ha cenato da lui, poi a quanto pare si è ubriacato e Serj ha
deciso di lasciare che dormisse da lui. Poi stamattina...»
Annuii.
«Il solito, insomma.»
«Pare
che stessero festeggiando per questa cosa del concerto... okay,
grazie per il caffè. Poi ci aggiorniamo per questa storia, va
bene? Cazzo, devo andare» farneticò John, afferrando la
giacca e avviandosi verso l'uscita.
Lo
seguii e gli posai una mano sulla spalla, prima che potesse lasciare
il mio appartamento. Gli indicai un quadro che avevo appeso poche
settimane prima alla sinistra della porta d'ingresso.
«Un
altro regalo di Malakian Senior?» ammiccò.
«Sì.
È fantastico.»
John
sorrise brevemente, poi mi salutò con un cenno e si avviò
di corsa giù per le scale. Ci avrei scommesso che non avrebbe
preso l'ascensore.
Osservai
il quadro dai colori scuri e tetri, e mi parve di riconoscere in esso
l'animo tempestoso e tormentato di Daron; suo padre dipingeva da dio,
e con i suoi lavori riusciva a cogliere delle emozioni, a metterle su
tela e a trafiggere l'anima di un acuto e appassionato osservatore.
Qualcuno lo definiva sconclusionato, ma del resto l'arte era solo
arte, non era fatta per seguire una logica.
Mentre
mi avviavo in bagno per buttarmi sotto la doccia, fui stranamente
grato a John per aver impedito che la mia reclusione tra quelle
quattro mura proseguisse oltre.
Ciao
a tutti e grazie per aver letto questo primo capitolo.
Sono
fiera di annunciarvi che ho deciso di cominciare a pubblicare questa
long sui SOAD perché sono, per me, i migliori; non so che
dirvi, non ci posso fare niente, è così e basta.
Quest'idea
è nata quasi per caso, e mi fa piacere poter fare qualcosa per
ripopolare una categoria così tristemente scarna qui su EFP...
l'ispirazione per scrivere anch'io su questa band è nata anche
e soprattutto grazie alle storie di StormyPhoenix, di cui vi
consiglio di leggere tutto ciò che ha scritto su di loro, ma
non solo: è davvero brava e merita su tutta la linea!
Il
titolo della storia prende ispirazione dal testo di “Peephole”,
brano presente nel primo e omonimo lavoro dei SOAD. Se non la
conoscete, ascoltate un po' qui,
e preparatevi a ballare un bel valzer XD
Vi
lascio con questa domanda, la stessa che sorge alla band in questo
brano: voi, cari lettori, avete mai creduto di sporgervi nell'immenso
del cielo, di sfiorarlo con un dito?
Forse
ciò che intendono loro è ben diverso, ma io l'ho
interpretata così e vorrei sapere cosa ne pensate... :D
Grazie
a chiunque sia arrivato da queste parti, attendo i vostri commenti e
ci sentiamo al prossimo aggiornamento, che sarà giovedì
prossimo ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Under the sofa ***
ReggaeFamily
Under
the sofa
[John]
Arrivai
a casa di Serj in fretta e furia. Notai che ci avevo impiegato cinque
minuti in meno del previsto, il che mi fece piacere; in certi casi,
il tempismo era molto importante. Udii una sirena in lontananza e
sperai che il mio amico avesse chiamato l'ambulanza.
Impaziente,
schiacciai tutti i pulsanti dei campanelli e qualcuno mi aprì
il portone, così presi a salire gli scalini a tre a tre e mi
fiondai nell'appartamento di Serj non appena lui socchiuse la porta.
«Dov'è?»
chiesi subito, senza neanche salutarlo.
«Di
qua» replicò lui, facendomi strada fino al salotto. Si
trattava di una stanza accogliente e ordinata che conoscevo molto
bene.
Quando
entrai, notai subito che Angela era accucciata accanto al divano e ci
guardava sotto, con sguardo colmo di preoccupazione.
«Daron,
caro... è arrivato John, adesso vuoi uscire di lì?»
gli disse la moglie di Serj, allungando titubante una mano.
«Ciao
Angie. Ma che succede?» domandai, inginocchiandomi accanto a
lei e sbirciando sotto l'ampio divano in similpelle. Notai una figura
rannicchiata in fondo, in posizione fetale e con le braccia strette
al corpo. Tremava vistosamente e teneva gli occhi serrati.
«Non
vuole uscire di lì... non so più cosa fare»
sospirò lei, portandosi una mano sulla fronte.
Serj
ci raggiunse e fece segno ad Angela di lasciarmi solo con Daron, così
i due si avviarono verso la cucina in religioso silenzio.
«Daron»
lo chiamai. Non ottenendo risposta, capii che dovevo parlargli,
raccontargli qualcosa che potesse tranquillizzarlo e distrarlo un
po'. Mi sedetti meglio e appoggiai la schiena contro il muro. «Sai,
sono andato da Shavo. Sapessi quanto era in ansia per il concerto
allo Stadium! Ma sì, lui è fatto così, lo
sappiamo bene, no? Ha detto che non poteva crederci... e sai, avevi
ragione: mi è toccato attaccarmi al citofono per costringerlo
ad aprirmi, era in una di quelle sue fasi di reclusione totale. Penso
che quando è in certi periodi, be'... chissà se mangia.
L'ho visto un po' magro, più del solito... e poi ho conosciuto
una sua vicina di casa, una tipa singolare. Potrebbe piacerti, sai?
Peccato che sia lesbica...»
Stavo
farneticando senza fermarmi, il che mi costava una fatica enorme.
Preferivo sempre ascoltare piuttosto che parlare per ore, non ero una
persona molto espansiva, ma del resto con i ragazzi della band era
tutto un altro discorso.
Udii
un movimento al di sotto del divano e mi sporsi per controllare cosa
Daron stesse facendo: si era spostato leggermente verso il bordo e
aveva aperto appena gli occhi.
«Daron?»
lo chiamai con cautela.
Lui
stette in silenzio per un po' e io temetti che non rispondesse
neanche stavolta.
«John?»
lo sentii mormorare, il tono di voce stridulo e quasi inudibile.
«Dimmi.»
Ci
fu ancora una pausa, poi il mio amico finalmente rispose: «Jessica
si sposa».
Senza
che lui potesse vedermi, roteai gli occhi al cielo: ancora pensava
alla sua ex fidanzata storica? Era logico che una modella come
Jessica Miller si ricostruisse una vita. Certo, Daron era rimasto
scottato da tutto questo, ma possibile che stesse in quelle
condizioni per questo?
«Capisco»
sospirai. «E a te cosa importa?» buttai lì facendo
spallucce.
«Sei
un pezzo di merda. Pensavo di potermi fidare di te, Dolmayan.»
Strinsi
gli occhi per un attimo, mantenendo la calma. «Puoi fidarti di
me.»
«Allora
non fare lo stronzo.»
«Okay,
okay. Allora tra lei e Ulrich è una cosa seria»
commentai, pensando alla bizzarra accoppiata che l'ex di Daron
formava con il batterista dei Metallica, Lars Ulrich.
«Chi
lo sa? Ora so solo che non ho più alcuna speranza» disse
il chitarrista in tono piatto.
«Questo
ha fatto scattare qualcosa in te? È per questo che stai
così... male?» provai a indagare.
«Male,
ah. Bella questa!»
Sbirciai
nuovamente sotto il divano e incontrai gli occhi, ora aperti e
vigili, del mio amico.
«Vieni
fuori? Così mi racconti tutto.»
Lui
annuì leggermente e poco dopo sbucò dal suo
nascondiglio con aria circospetta, controllando che fossimo soli.
«Angie
e Serj sono in cucina, non preoccuparti. Dai, siediti e cerca di
stare tranquillo» lo esortai, alzandomi a mia volta e
lasciandomi cadere sul divano; battei sul posto accanto a me per
invitarlo a imitarmi, e infine Daron cedette e si accomodò
accanto a me.
«Perché
proprio con lui? Perché non ha pensato di tornare con me?»
domandò più a se stesso che a me.
«Questo
non lo so, amico. Non ho il potere di leggere nella mente della
gente, chiaro? Però so che tu puoi conquistare il mondo se
vuoi, puoi fare tutto quello che ti pare e puoi andare dritto per la
tua strada senza guardarti indietro. Pensa a tutto ciò che hai
passato, alle critiche ricevute per il nostro lavoro... e allora?
Niente ci ha buttato giù, o mi sbaglio?»
Lui
scrollò le spalle. «Questo è diverso.»
«Va
bene, è vero. Però tu sai di poter comandare la tua
mente, che puoi rendere tutto razionale e in tuo potere.»
«Mi
sembra impossibile. John... è stato terribile stamattina»
disse, abbassando la voce e incassando la testa tra le spalle, come
se temesse che una nuova crisi fosse in agguato di fronte a lui.
«Adesso
è passato.» Gli posai cautamente una mano sul braccio e
lui si ritrasse, come scottato. «Non ti mangio mica! Ascoltami:
è tutto a posto adesso.»
«Per
voi è facile parlare...»
«Per
noi?» chiesi sorpreso.
«Per
Serj, Angie...» accennò. «Loro non capiscono.»
«Loro
sono preoccupati per te come lo sono io. Noi tutti teniamo a te»
affermai con sicurezza.
Il
mio cellulare prese a squillare, ricordandomi che dovevo
assolutamente esercitarmi all'infinito con i ritmi dispari di
percussione araba. Ci stavo lavorando da un po', e mentre con la
darbuka mi riusciva abbastanza bene riprodurli e improvvisare, con la
batteria era un po' più complesso.
Guardai
sul display e notai che si trattava di Shavo. Che voleva adesso?
«È
Shavo» annunciai, poi risposi: «Che c'è?».
«Come
sta il mio chitarrista preferito?» domandò con
apprensione.
Aggrottai
le sopracciglia. «Perché chiami me se vuoi sapere di
Daron?»
«Vuole
sapere di me?» disse perplesso il chitarrista. «Passamelo.»
Mollai
il telefono al mio amico e mi alzai per raggiungere Serj e sua moglie
in cucina.
«Come
sta?» domandò subito Angela.
«È
uscito da sotto il divano, è già qualcosa»
risposi con un sospiro.
«Ascolta,
stavo pensando a una cosa» intervenne Serj.
«Di
che si tratta?» volli sapere, appoggiandomi con i gomiti sulla
penisola situata sulla destra della stanza.
«E
se Daron si prendesse una vacanza? Ti andrebbe di accompagnarlo e
tenerlo un po' d'occhio?» mi propose il cantante.
«Io?
Perché non tu e Angie?» chiesi perplesso.
«Non
è il momento, non possiamo spostarci da Los Angeles» mi
spiegò lui. «Ho molto da fare in questo periodo, ho
diverse serate di beneficenza a cui non posso mancare e qualche set
acustico in giro. Sono troppo impegnato.»
«Capisco.
Pensi che a lui potrebbe essere utile? Io non so se... potrei
chiedere a Shavo» riflettei. «Era rinchiuso in casa per
settimane, non potrà che fargli bene partire con Daron. Io ho
da studiare, non penso che...» continuai a borbottare.
Sentii
la mano di Serj posarsi sul mio braccio e lo guardai.
«Non
essere stupido. Parti anche tu. Staccare ti farà bene»
mi consigliò con un sorriso tranquillo stampato in viso.
Angela
mi sorrise dolcemente e annuì con convinzione. «Lo credo
anche io. Ragazzi, vi farà bene partire.»
«Daron
ha saputo di Jessica e Lars» dissi ai miei amici.
Loro
si scambiarono un'occhiata complice, poi Serj osservò: «Ci
pensa ancora, eh?».
«Già.»
Udimmo
Daron salutare Shavo e interrompere la telefonata, e poco dopo il
chitarrista entrò con disinvoltura in cucina, comportandosi
come se niente fosse accaduto.
«Tutto
okay, caro?» lo intercettò Angela.
«Certo!
C'è del bacon per caso?» domandò con noncuranza
il chitarrista.
Serj
storse il naso ed evitò di commentare, limitandosi a dare le
spalle a Daron.
«No,
lo sai che qui non girano certe cose» gli rispose pazientemente
la donna. «Se vuoi c'è del burro, un po' di marmellata
e...»
«Mi
farò un caffè.»
Serj
sospirò e si voltò verso di lui.
«Daron?
Abbiamo una sorpresa per te» annunciò in tono allegro.
L'altro
gli indirizzò un'occhiata interrogativa, senza smettere di
armeggiare con il bollitore. «Ovvero?»
«Che
ne diresti di un viaggio in Giamaica?»
Sgranai
gli occhi, ma non ebbi il coraggio di replicare o di ribellarmi,
perché sul viso del mio amico e chitarrista comparve un
sorriso a trentadue denti che illuminò perfino i suoi occhi
arrossati.
«Ecco...
partiamo insieme, ti va?» intervenni infine, capendo che ormai
non avevo vie di scampo.
«Con
te? Non ci divertiremo mai, sei troppo serio, Dolmayan.»
«Ci
sarà anche Shavo!» esclamò Angela.
«Già»
borbottai. «Dobbiamo solo convincerlo.»
«Non
sarà un problema. E... a cosa devo questa bella proposta?»
indagò Daron con curiosità.
«Una
vacanza serve a tutti voi, ragazzi» disse Serj serafico.
«A
voi no, eh?»
Angela
ridacchiò. «Non è il momento.»
Daron
fece spallucce. «Non sapete cosa vi perdete. Okay, mi faccio un
caffè e poi vediamo di trascinare Shavo fuori casa, che ne
dici Dolmayan?»
«Per
oggi penso di avergli rotto le palle abbastanza, ma quando sentirà
la parola Giamaica, sono sicuro che uscirà di lì senza
neanche pensarci» ghignai.
Speravo
seriamente che questa cosa funzionasse: non mi piaceva per niente il
fatto che Daron avesse avuto un altro attacco di panico, non era
affatto rassicurante e non volevo che si ripetesse.
Avevo
creduto fino all'ultimo che quella fase della sua vita fosse ormai
conclusa da tempo, ma evidentemente mi ero sbagliato.
Eccomi
qui con il secondo capitolo, stavolta dal POV di John. Cosa pensate
del modo in cui ho caratterizzato lui e gli altri personaggi?
Mi
dispiace di aver fatto succedere questo disastro al povero Daron, mi
auguro che la cosa non vi abbia rattristato troppo!
Aspetto
le vostre recensioni, e ringrazio chi mi ha già supportato nel
primo capitolo: Hanna, Stormy e Soul, siete fantastiche ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Who the fuck are you? ***
ReggaeFamily
Who
the fuck are you?
[Daron]
Stavo
imprecando come un ossesso contro gli automobilisti rincoglioniti che
affollavano l'autostrada. Intanto, nella mia mente lampeggiavano i
ricordi della brutta esperienza vissuta qualche giorno prima, a casa
di Serj e Angela.
Era
successo di nuovo, come cazzo era possibile? E tutto per colpa di
Jessica Miller e la sua nuova fiamma. Fantastico.
Era
stato orribile ritrovarmi fermo e terrorizzato, immobile e irrigidito
da un senso di terrore che mi aveva attanagliato la gola e mi aveva
quasi impedito di respirare. Mi ero accasciato a terra e avevo
serrato gli occhi. Poi, non so... non so minimamente come fossi
finito sotto il divano, rannicchiato e deciso a non muovermi di lì.
Anche
se ci avevo provato, non ero riuscito a spiccicare parola. Per un bel
po' il mio cervello aveva inviato dei comandi al corpo, e questo si
era rifiutato di obbedire. Anche quando John era arrivato di corsa e
aveva cercato di scuotermi, ci avevo impiegato diversi minuti prima
di riuscire a parlargli.
Come
cazzo era potuto accadere? Avrei dovuto meditare, pensare,
concentrarmi e tenere a bada l'ansia, non pensare troppo a Jessica e
Lars, dare ascolto alla parte razionale di me. Ma non ci ero
riuscito, non quel giorno.
Premetti
con forza sul clacson, mentre le auto di fronte a me non accennavano
a muoversi. A Los Angeles, dopo le cinque si scatenava l'inferno:
l'ora di punta era terribile, il traffico intenso e invalicabile.
Osservai perplesso un'auto della polizia che, con lampeggianti attivi
e sirene spiegate, riuscì in un attimo ad aprirsi un varco nel
traffico. Fui tentato di seguirla, approfittando di quel privilegio,
ma lasciai perdere.
Il
cellulare prese a squillare, ma lo ignorai e misi su un po' di musica
per evitare di concentrarmi ancora su pensieri negativi.
Le
casse dell'auto propagarono a volume altissimo All For You
degli Annihilator. Proprio quello che mi ci voleva per scaricare la
rabbia che provavo ultimamente.
Mi
misi a cantare come un forsennato, e finalmente il traffico sulla
freeway prese ad avanzare lentamente. Era già qualcosa.
Il
cellulare squillò ancora.
«Vaffanculo,
chi cazzo è?» imprecai.
Misi
in pausa il brano che stavo ascoltando e afferrai quell'aggeggio
infernale, premendo sul display per rispondere e impostai
l'altoparlante.
«Chi
è?» strillai con foga.
«I
timpani mi servono, Malakian» mi salutò una voce
familiare, che tuttavia non fui subito in grado di associare a
qualcuno in particolare.
«Non
me ne fotte. Chi parla?» ripetei.
«Sono
Lars.»
Per
poco non andai a schiantarmi contro un furgone. Inchiodai di botto e
rischiai di essere travolto da un SUV argentato. Il conducente mi
indirizzò il dito medio e mi sorpassò a tutta velocità.
«Cosa
cazzo vuoi da me?» mi rivoltai. Ero fermo in mezzo al traffico
e sapevo di star creando un casino, però in quel momento non
riuscivo a fare nient'altro che stringere convulsamente il cellulare
e serrare gli occhi.
Ulrich
ridacchiò. «Non ti incazzare, amico. Ci tenevo solo a
invitarti personalmente al mio matrimonio.»
Digrignai
i denti e osservai, senza neanche vederli, gli
automobilisti a bordo dei loro veicoli
che mi superavano e mi evitavano per miracolo, per poi imprecare
contro di me e schiacciare
sul clacson con fare contrariato.
«No,
grazie» grugnii, cercando di mantenere una calma che non ero
certo di possedere.
«Perché
no? A Jess farebbe molto piacere rivederti» disse lui in tono
mellifluo.
Quelle
parole bastarono per farmi davvero incazzare. Gli chiusi il telefono
in faccia, poi lo spensi e rialzai il volume della musica. La canzone
stava per finire, così la mandai indietro e la feci ripartire
da capo.
Dopodiché
ingranai la marcia e procedetti sulla freeway, guidando come un pazzo
e fregandomene altamente delle auto che trovavo sul mio cammino.
Una
vacanza in Giamaica mi ci voleva proprio, così decisi di
andare a casa di Shavo e cominciare a organizzare la partenza. Non ne
potevo più di tutto quello schifo: per quanto Los Angeles
fosse grande, in quel momento mi stava fottutamente stretta.
«Sì,
Malakian: partiamo presto.»
«Accendi
il computer. Cerchiamo un volo, il primo disponibile. Non me ne frega
del prezzo. Vi pago tutto io» affermai, aggirandomi con
nervosismo crescente per il salotto di Shavo.
«Anche
John parte con noi, mica possiamo prenot...»
«Ti
decidi?» strillai, parandomi di fronte a lui e sollevando
bruscamente il coperchio del portatile.
«Stai
calmo!» si ribellò il bassista, alzando le mani in segno
di resa. «Si può sapere cosa ti prende? Cos'è
tutta questa fretta?»
«Questo
posto mi ha rotto. Angie e Serj hanno ragione: una vacanza serve a
tutti e tre. Dai, cerca!» lo incitai con impazienza.
Shavo
borbottò qualcosa d'incomprensibile e prese a smanettare sulla
tastiera. Mi spostai dietro di lui e rimasi in piedi a fissare lo
schermo. Notai, poco distante sul tavolo, l'astuccio in cui
conservava l'attrezzatura per fumare, così mi allungai per
afferrarlo.
«Sì,
Daron, te la offro una» grugnì contrariato il padrone di
casa.
«Grazie.»
Aprii l'astuccio e portai fuori una cartina, poi esaminai l'erba che
Shavo doveva essersi procurato da poco. Ne feci scivolare un bel po'
sulla cartina, poi afferrai un filtrino e mi misi all'opera.
«Almeno
sii così gentile da prepararne una anche per me»
commentò il bassista.
«Ma
certo, mio dolce bassista!»
«Ecco,
ne ho trovato uno» annunciò con aria soddisfatta,
indicando lo schermo del computer.
Mi
chinai per osservare a cosa si riferiva e scoprii che il primo volo
disponibile per Kingston sarebbe partito quattro giorni dopo. «Troppo
tardi, ma purtroppo bisognerà accontentarsi» commentai.
«Almeno
avremo il tempo di fare i bagagli» borbottò Shavo con un
sospiro.
«Prenotalo
ora. Ho visto che sono rimasti solo sette posti liberi sul volo»
conclusi, per poi accostarmi alla finestra e spalancarla. Una folata
di vento tiepido mi investì, ma questo non fece che darmi
sollievo. Finii di richiudere per bene la mia canna e l'accesi, poi
tirai una lunga boccata e annuii.
«Fatto.
Sono quattrocentotrentasei dollari e novanta centesimi a testa.»
«Spero
almeno che il viaggio sia piacevole» osservai, senza smettere
di fumare. Osservai il panorama poco interessante all'esterno della
finestra: si potevano scorgere diversi palazzi grigi e anonimi
squarciare il cielo azzurrognolo e punteggiato di nubi grigiastre.
Uno spettacolo davvero raccapricciante.
Diedi
le spalle al davanzale e mi ritrovai di fronte la figura magra e
slanciata di Shavo, il quale mi sovrastava di almeno quindici
centimetri.
«Non
me l'hai preparata, tappo» mi accusò, armeggiando anche
lui con l'erba e tutto il resto.
«Già.
Mi sono scordato.»
Avevo
la testa da un'altra parte. Stavo ripensando alla squallida
telefonata di Lars Ulrich, attraverso la quale aveva provato a farmi
sentire una merda. Ci era riuscito, ma non gli avrei mai concesso di
saperlo. Era logico che non volesse realmente invitarmi a quel cazzo
di matrimonio, il suo intento era stato fin da subito quello di farmi
soffrire. Non capivo perché si accanisse tanto su di me: ormai
aveva tutto ciò che io non avevo più.
«Quindi...
partiamo per dimenticare, eh?» La voce di Shavo, per quanto
bassa, riuscì a fare breccia tra i miei pensieri e a
riportarmi alla realtà.
«A
quanto pare, sì. Ehi, anche tu hai qualcosa da dimenticare,
tutti noi ce l'abbiamo» gli feci notare.
Shavo
afferrò un cappellino da baseball che aveva abbandonato sul
tavolo e se lo mise in testa. «Hai ragione, amico.»
Un
pensiero mi colpì all'improvviso e sorrisi. «Come sta la
tua amichetta?»
«Quale
amichetta?»
Tirai
una boccata di fumo e poi presi a scimmiottare la sua vicina di casa
lesbica: «Ciao pelatone, sei sexy con quel pigiama addosso,
quand'è che mi fai diventare etero?».
Lui
sollevò gli occhi al cielo e mi lanciò un'occhiataccia.
«Abby è partita. Ti saluta, dice che aspetta te per
diventare etero.»
«Buona
idea» ammiccai.
Chiacchierammo
un po' del più e del meno, poi decisi che era arrivato il
momento di tornare a casa. Da questo punto di vista, io e Shavo
eravamo agli antipodi: lui desiderava ardentemente condurre una vita
da pantofolaio depresso, io invece bazzicavo poco a casa mia. Ero
sempre in giro, sempre attivo e alla ricerca di nuovi stimoli.
«Preparati
per la partenza, mi raccomando» lo ammonii, afferrando la
giacca e avviandomi verso la porta. «Merda! Cos'è
quest'orrore?» domandai, bloccandomi in mezzo all'ingresso.
Avevo notato, appeso alla sinistra del portone, un quadro dai tratti
familiari, che non faticai a ricollegare al mio genitore di sesso
maschile. Mi avvicinai per esaminare le iniziali riportate
sull'angolo in basso a destra della tela e annuii: V. M.
«Tuo padre me l'ha
spedito circa un mese fa. Non è carino?» mi spiegò
Shavo, raggiungendomi.
«Un amore. Il vecchio
Vartan colpisce ancora» bofonchiai.
«Dovresti esserne
orgoglioso, amico» mi suggerì saggiamente il bassista.
Feci spallucce. «A me
non regala mai un cazzo.»
«Perché sei un
figlio degenere e ingrato. Su di me sa di poter contare, adoro le sue
opere.»
Aprii di scatto la porta.
«Bene. Gli dirò di adottarti, allora.» Detto
questo, cominciai a scendere le scale e ignorai l'opportunità
di prendere l'ascensore.
Una volta in auto, imboccai
l'autostrada e notai con sollievo che il traffico si era diradato e
scorreva relativamente tranquillo sulle corsie.
Feci ripartire la musica e
mi persi tra le note di un brano piuttosto triste, ovvero Creep
dei Radiohead.
You
float like a feather In a beautiful world And I wish I was
special You're so fuckin' special
But I'm a creep, I'm a
weirdo. What the hell am I doing here? I don't belong here
Mi sentivo maledettamente
triste. Quella canzone mi rispecchiava a fondo. Possibile che mi
sentissi così male in quella città, con quelle persone
e non trovassi qualcosa a cui aggrapparmi per stare bene? Doveva
essere colpa della mia misantropia, ne ero certo; questo lato di me,
spesso, evitava che soffrissi e mi procurava una barriera, ma era
anche un limite che mi impediva di aprirmi con il prossimo, di
scaricare il mio dolore e la mia frustrazione.
Ultimamente le cose non
andavano bene neanche con la mia famiglia; inoltre, la notizia del
matrimonio mi aveva distrutto. Avrei dovuto fregarmene, ma in qualche
modo mi riusciva difficile.
Sentivo un profondo disagio
che mi scuoteva fin nel profondo, e cominciavo a dubitare che la
vacanza in Giamaica avrebbe giovato alla mia condizione attuale.
Provai a immaginare di tornare da uno strizzacervelli, ma subito
scacciai quell'idea: non mi era servito a un cazzo in passato e non
mi sarebbe servito ora.
E allora cosa dovevo fare?
Smisi di ragionare e mi
concentrai sulla guida, senza dar troppo ascolto alle canzoni che si
susseguivano nello stereo dell'auto.
Raggiunsi casa mia prima del
previsto e quasi mi precipitai all'interno; mi sentivo come mi
capitava di rado, ovvero avevo bisogno di rinchiudermi nel mio antro
oscuro, spararmi qualche video idiota e ridere fino a non poterne
più.
Stravaccato sul divano,
afferrai il cellulare ed entrai su YouTube. Cercai quell'orrenda
cover che Avril Lavigne aveva fatto della nostra Chop Suey! e
cominciai a sbellicarmi dalle risate finché non mi ritrovai
con gli occhi umidi e brucianti.
Sì, c'era sempre
qualcosa di peggio, qualcosa che mi faceva capire di non essere il
peggiore, capace di non farmi abbattere: mi sarei risollevato, in
qualche modo ce l'avrei fatta.
E mentre Avril strillava
come un'ossessa e non azzeccava neanche una parola del testo,
compresi che sarebbe stato pazzesco in Giamaica, lontano da tutto e
tutti.
Ciao
a tutti, rieccomi con il terzo capitolo! Come vi sembra procedere la
storia? Cosa ve ne pare di questa mia scelta di utilizzare un POV
diverso per ogni capitolo?
Attendo
i vostri commenti, è molto importante per me capire se sto
facendo o no qualcosa di decente...
Intanto
vi lascio qui qualche nota sul capitolo: le canzoni che Daron ha
ascoltato durante il viaggio in macchina, per esempio, qualcuno di
voi le conosce? Pensate che All
For You degli Annihilator e Creep
dei Radiohead siano adatte alla sua personalità e alla
situazione che stava vivendo sul momento? Se cliccate sui titoli,
potrete ascoltarle e darmi il vostro parere ^^
Inoltre
ho nominato una – a mio avviso – deplorevole “““cover”””
di Chop Suey! eseguita da Avril Lavigne, sentitela qui,
se volete rovinarvi l'umore XDDD
Bene,
grazie a tutti per aver letto e per la pazienza che avete nel
seguirmi e supportarmi in questa nuova avventura, alla prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Can I help you? ***
ReggaeFamily
Can
I help you?
[Leah]
Conoscevo
quel posto a memoria. Erano anni che io e la mia famiglia ci
approdavamo per le vacanze. Ogni volta che mio padre disponeva di
qualche giorno di ferie, mi trascinava lì senza nessun
preavviso.
Io,
sinceramente, mi ero rotta i coglioni. Non ne potevo più. Se
c'era qualcosa di bello nella Skye Sunset Bay, be', ormai non ero più
in grado di apprezzarlo. Dicono che avere i genitori ricchi sia
bello, che si possa fare tutto ciò che ci pare e ci piace, ma
ovviamente ci sono sempre delle eccezioni, proprio come nel mio caso.
Mio
padre, il grande Alan Moonshift, al vertice della compagnia elettrica
Moonshift & Sons di Las Vegas, era un uomo tarato, un esemplare
che considerava la Skye Sunset Bay come unica meta degna di essere
raggiunta per qualsiasi vacanza; la baia era situata a pochi
chilometri da Kingston, in Giamaica. Tuttavia, la vicinanza con la
città non influiva sul fatto che quell'anfratto di mare,
spiaggia e villaggi turistici risultasse sperduto e poco allettante.
Poteva sembrare affascinante per chi lo visitava per la prima volta,
ma a lungo andare si rivelava una noia mortale.
E
così ci eravamo andati di nuovo, nel bel mezzo della
primavera, come se niente fosse.
Alan
e la sua nuova fiamma, Medison, erano venuti a recuperarmi
all'Università e mi avevano costretto a seguirli in Giamaica.
In altre circostanze avrei rifiutato, ma mi avevano promesso una
sorpresa e io, stupida, ci avevo creduto.
E
così, mi ritrovai a essere l'unica sfigata che a ventiquattro
anni se ne va ancora in vacanza con il suo papà e la sua
amante del momento. Fantastico.
«Leah,
non fare quella faccia! Avevo già prenotato per tre, come
avrei potuto annullare tutto? E poi qui ci sono tante persone che ti
vogliono bene» mi disse Alan quando scendemmo dal taxi che ci
aveva condotto alla nostra destinazione.
«Avresti
potuto chiedermelo, magari?» commentai, incrociando le braccia
sul petto.
«Avresti
rifiutato» si giustificò.
«Appunto.
Quindi è meglio mettermi di fronte al fatto compiuto, eh
Moonshift?» feci con sarcasmo.
«Su,
non farne un dramma...»
«Sappi,
padre degenere, che questa è l'ultima volta che mi freghi»
tagliai corto, strappando il trolley dalle mani del tassista e
avviandomi impettita verso lo Skye Sun Hotel. Alloggiavamo sempre in
quel posto, non avevo certo bisogno di essere guidata da lui.
Durante
la nostra conversazione, Medison non aveva aperto bocca e questo era
stato un punto a suo favore. Rispetto alle solite tizie che mio padre
sceglieva come amanti del momento, lei era molto silenziosa e
sembrava stare al suo posto senza troppi problemi. Almeno avrebbe
evitato di crearmi ulteriori problemi.
Lo
Skye Sun Hotel era formato da quattro palazzi in stile moderno,
costruiti a ridosso di una scogliera che scendeva a picco sul mare.
Quelle bizzarre palazzine erano dipinte ognuna di un colore diverso,
tutte in tonalità calde: una era gialla, una arancione, mentre
quelle che davano le spalle allo strapiombo erano una rossa e una
bordeaux; erano collegate tra loro da una passerella in legno e
metallo, la quale poteva essere raggiunta attraverso numerose rampe
di scale situate tutto intorno alla costruzione. La hall si trovava
invece al pianterreno e consisteva in un cubo di vetro e cemento
quasi interamente ricoperto di porte che si aprivano sulle scale o
sugli ascensori panoramici che permettevano anch'essi di raggiungere
i vari piani delle palazzine contenenti le stanze. All'ultimo piano,
infine, si trovava una terrazza che metteva in comunicazione ogni
punto dello stabile, la quale ospitava un bar e una vista panoramica
mozzafiato.
Entrai
nella hall senza curarmi di chi avrei potuto travolgere, e infatti
andai quasi a sbattere contro un tizio, che subito prese a imprecare.
«Stai
calmo, amico» gli gridai contro.
Poi
sollevai lo sguardo: lo conoscevo fin troppo bene. Era un ragazzo di
circa trent'anni che lavorava in reception da qualche anno. Si
chiamava Dayanara ed era alto quasi due metri, carnagione scura e
occhi neri come la pece, così come i capelli corti e
ordinatamente pettinati, com'era obbligatorio tenerli in albergo.
Sapevo che prima di entrare a lavorare allo Skye Sun aveva dovuto
dire addio ai suoi dreadlocks.
«Ciao
Day, ah sei tu!» commentai, guardandolo dal basso del mio metro
e settanta. In confronto a lui sembravo una nana.
«Ehi
Leah, qual buon vento ti porta qui?» mi canzonò,
trascinandomi verso il bancone della reception. Nel frattempo mi
aveva tolto di mano il trolley, tipica deformazione professionale del
suo impiego.
«Oggi
conoscerai la nuova fiamma di Alan Moonshift, scommetto che sei
emozionato» sospirai, appoggiandomi con i gomiti sul bancone
nero e lucido.
«Uh,
non vedo l'ora. Quand'è che ci scambiamo il numero? Queste
improvvisate mi faranno venire un colpo prima o poi» ammiccò.
«Questa
è l'ultima volta che mi vedrai, fanciullo. Il mio vecchio mi
ha portato qui con l'inganno e...»
«Signor
Moonshift, che piacere rivederla!» strillò Dayanara non
appena notò mio padre oltrepassare le doppie porte scorrevoli
della hall.
Gli
andò incontro e io evitai di voltarmi per non dover assistere
ancora una volta a quello squallido teatrino. Decisamente, ne avevo
le palle piene.
«La
trovo proprio in forma! Qualche giorno qui le farà prendere un
bel colorito, vedrà!» continuava a fargli le fusa
Dayanara. Sapeva che tutto ciò era irritante per la
sottoscritta.
«Grazie
giovanotto, so che questo posto mi libererà la mente e mi farà
ritrovare la pace! Oh, ti presento la mia compagna, Medison»
annunciò fieramente Alan Moonshift, e io fui sul punto di
rimettere la colazione sul bancone della reception.
«Piacere
di conoscerla, signora! Prego, avvicinatevi al banco, eseguiamo
subito la registrazione e poi vi accompagnerò personalmente
nelle vostre stanze!» miagolò il receptionist,
accostandosi nuovamente a me. Senza che Alan e Medison potessero
vederlo, mi strizzò l'occhio, poi si mise al lavoro dietro il
computer.
«Day,
c'è una stanza libera nella palazzina bordeaux?»
indagai. Sapevo che mio padre adorava la suite situata al penultimo
piano della costruzione dipinta di giallo, e io volevo stare il più
lontano possibile da lui e dalla sua amante.
«Leah!
Perché sei così...» provò a dire mio
padre.
«Andiamo,
padre! Mi hai portato qui e vuoi anche scegliere dove dovrò
dormire? Ho ventiquattro anni, dannazione!» mi ribellai.
«Certo,
c'è la camera 27, una singola con vista sullo strapiombo sul
mare. Che te ne pare?»
Sorrisi
compiaciuta. «Allora è mia.» Afferrai il mio
trolley. «So come arrivarci, non c'è bisogno che mi
accompagni» aggiunsi e allungai la mano libera per fargli
capire che volevo mi consegnasse la chiave della stanza.
Dayanara
la cercò dentro un cassetto, poi me la lanciò e io la
afferrai al volo, avviandomi all'ascensore senza degnare il mio
vecchio di un saluto.
Quella
vacanza stava cominciando decisamente male. Saremmo stati in quel
posto per una settimana e io già volevo tornarmene a casa.
Quando
tornai nella hall, dopo essermi fatta una doccia ed essermi cambiata,
trovai Dayanara intento a fissare lo schermo del computer con le
sopracciglia aggrottate.
Alan
e Medison si erano volatilizzati, e non faticavo a immaginare che non
li avrei rivisti fino all'ora di cena. Erano da poco passate le sei
del pomeriggio e io mi stavo terribilmente annoiando.
«Che
fai, Day?» indagai, avvicinandomi al bancone della reception.
«Eh?
Ah, ciao. Non sei andata a fare una passeggiata? I tuoi cuccioli sono
sempre in tua attesa.»
Sorrisi.
Nei pressi dell'albergo vagavano dei gatti randagi che ormai avevo
preso l'abitudine di sfamare e di curare quando mi ritrovavo sulla
Skye Sunset Bay. Era un modo per non annoiarmi troppo, ed era strano
notare che quelle bestiole erano ancora tutte vive e più o
meno in forma. Quando ripartivo per Las Vegas, intimavo a Dayanara di
prendersene cura per me, e lui aveva sempre tenuto fede alla sua
promessa.
«Ci
andrò dopo cena» annunciai. «Tu fino a che ora
lavori?»
«Non
ne ho idea. Sto aspettando degli ospiti, sono un po' in ritardo.
Finché non arriveranno loro, non posso spostarmi, anche se il
mio orario di lavoro sarebbe dovuto finire già da dieci
minuti. Purtroppo il nuovo stagista si è infortunato e mi
tocca stare qui fino alle sette, quando Sam Skye arriverà a
darmi il cambio» mi spiegò in tono irritato il ragazzo,
poi sbuffò contrariato.
«Ehi,
hai trovato una ragazza durante la mia assenza?» lo punzecchiai
di punto in bianco.
«Nada.»
«Sfigato,
eh?» ridacchiai, guardandomi distrattamente intorno. «Poca
gente in questo periodo, non è vero?»
Dayanara
annuì. «L'albergo non è del tutto deserto, ma
quasi. Quasi tutti si sono fiondati nell'ala gialla, proprio come il
signor Moonshift. Purtroppo siamo in bassa stagione, però per
la settimana prossima ci aspetta una bella comitiva di gente che
approderà qui durante una crociera.»
«Almeno
avrai da fare» commentai.
«Spero
solo che lo stagista rientri al lavoro, altrimenti sarò nella
merda. Sam Skye sta a Kingston durante tutta la giornata, questioni
burocratiche, sai com'è.»
Scoppiai
a ridere. «Capisco bene cosa intendi, Alan Moonshift mi fa
spesso notare che lui è un uomo impegnato e con delle
responsabilità.»
Io
e Dayanara rimanemmo a fissarci per un po', poi lui domandò:
«E tu? Hai trovato l'amore?».
«Non
voglio trovarlo, Day, lo sai» risposi senza alcuna esitazione.
«Dicono
tutti così, finché poi...» Ma Dayanara non
terminò la frase, perché catturato da qualcosa alle mie
spalle. Incuriosita, mi voltai e notai che un taxi si era appena
parcheggiato di fronte all'ingresso dello Skye Sun Hotel.
Subito
il receptionist si precipitò ad accogliere i nuovi ospiti,
aiutando il tassista a trasportare i loro bagagli. Scrutai
attentamente e rimasi a bocca aperta quando riconobbi chi era appena
sceso dall'auto.
Mi
avvicinai a mia volta alle doppie porte, quel tanto che fu necessario
perché rimanessero spalancate e non si richiudessero. Avevo
imparato a stare proprio nel punto esatto in cui potevo controllare
il sensore di movimento, e questo aveva sempre fatto imbestialire Sam
Skye, vicedirettore dell'albergo.
«C'è
stato un ritardo, problemi durante l'atterraggio» stava dicendo
uno dei nuovi arrivati.
«Fottute
turbolenze, non mangerò per i prossimi dieci giorni!» si
lamentò il secondo, venendo fuori dall'auto e mostrandosi in
tutta la sua altezza. Portava un cappellino da baseball nero e
sembrava accaldato, ma soprattutto mostrava un colorito cereo e
temetti seriamente che avrebbe vomitato sul vialetto. Lo vidi
barcollare leggermente e mi decisi ad attraversare le doppie porte,
uscendo allo scoperto.
«Serve
aiuto?» mi intromisi con noncuranza, affiancando Dayanara con
un sorriso.
«Tu
non lavori qui» sibilò lui, cercando di non farsi
sentire dagli ospiti.
«Che
importa?» Feci spallucce. «Serve aiuto?» ripetei a
voce più alta.
L'attenzione
del tipo con il cappellino da baseball si concentrò su di me,
dato che gli stavo tendendo una mano, temendo che potesse rovinare a
terra.
«Dovrei...
sedermi, credo...» farfugliò lui.
Lo
afferrai per un polso e decisi di portarlo nella hall: fuori faceva
caldo, questo sicuramente non avrebbe giovato al senso di nausea che
le turbolenze e il viaggio in macchina gli avevano procurato.
«Ehi,
Leah, cosa...» sentii strillare dal receptionist.
«Day,
uno dei tuoi clienti sta male. Lo accompagno dentro. Ringraziami,
anziché rompere i coglioni, che ne dici?» lo interruppi
bruscamente, per poi infilarmi tra le doppie porte che si stavano
ancora aprendo.
Accompagnai
il malcapitato fino a un divanetto rivestito di tela rossa e lo
aiutai a sedersi.
«Cazzo...
cominciamo bene...» borbottò, prendendosi la testa tra
le mani.
«Amico,
levati quel cappellino. Non fa che peggiorare le cose, mi sa»
gli suggerii, rimanendo in piedi accanto a lui.
Annuì
e si sfilò l'oggetto, facendolo atterrare sul divano. Notai
che era completamente pelato e madido di sudore. Mi faceva pena, si
notava che stava proprio male.
Mi
accovacciai di fronte a lui e lo osservai con attenzione. «Vuoi
un po' d'acqua, eh?» proposi.
«Sarebbe
fantastico... grazie...» accettò con un filo di voce.
«Okay,
capo. Te ne procuro un po'. Ah, comunque io sono Leah, piacere»
ammiccai, poggiandogli una mano sul ginocchio.
«Shavo»
mormorò lui, lanciandomi una breve occhiata colma di
riconoscenza.
«Bene,
Shavo. Torno subito» conclusi, facendo leva sul suo ginocchio
per rimettermi in piedi.
Mentre
mi avviavo verso il bar che si trovava sul lato sinistro della hall,
notai che Dayanara stava rientrando, seguito dal tassista e dai
compagni di viaggio di Shavo.
Sapevo
esattamente chi erano quei tre ragazzi, ma per il momento decisi di
divertirmi un po': perché mai avrei dovuto cadere ai loro
piedi, dimostrando che li avevo riconosciuti e che li amavo alla
follia?
Forse
quella vacanza non sarebbe stata poi così male, in fondo.
Rieccomi
cari lettori, come state?
Cosa
ne pensate di questo nuovo personaggio? Ho inventato Leah per una
ragione ben precisa, spero che la sua caratterizzazione si sia
compresa in questo primo capitolo dedicato a lei. Come potete capire,
lei ha riconosciuto i ragazzi, ma ha deciso consapevolmente di fare
finta di niente... eheheheh, chissà perché...
Il
luogo descritto è stato interamente inventato dalla
sottoscritta, quindi non esiste. Siete riusciti a farvi un'idea di
questo Skye Sun Hotel e della Skye Sunset Bay?
Spero
che anche questo capitolo lo abbiate apprezzato, sto cercando di fare
del mio meglio per creare una storia decente :D fino a ora i capitoli
erano più che altro d'introduzione, ma vi assicuro che dai
prossimi qualcosa comincerà a muoversi :)
Inoltre
vi annuncio che d'ora in poi non ci saranno le note finali in ogni
capitolo, ma solo quando necessarie per spiegare qualcosa che ho
inserito e che potrebbe non capirsi ^^ così vi lascerò
in pace e non starò più qui a blaterare, contenti? :D
A
presto e grazie di cuore a tutti voi ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Welcome to the Skye Sun Hotel! ***
ReggaeFamily
Welcome
to the Skye Sun Hotel!
[Shavo]
Leah
era una ragazza niente male. Non potevo certo definirla di una
bellezza abbagliante, però era particolare: presentava dei
lineamenti marcati, un viso spigoloso e grandi occhi scuri. I capelli
corti e sottili le ricadevano disordinati sul capo e sfioravano
appena le spalle; di corporatura era esile, non mostrava chissà
quali forme, ma sfoggiava un look semplice e dalle tonalità
scure, nonché un atteggiamento fiero e sicuro di sé che
la rendeva intrigante.
O
almeno, quelle furono le mie prime impressioni quando la conobbi. Si
era subito offerta, notando che stavo male, ed ero certo di non aver
fatto una buona impressione su di lei. Mi ero seduto sul divanetto
della hall che ancora tremavo, sudavo freddo e mi sentivo
tremendamente spossato.
Daron
e John entrarono nell'albergo poco dopo che Leah si fu allontanata,
preceduti dal tassista e dal nervoso receptionist che ci aveva
accolto.
Il
batterista si guardò intorno e mi individuò, quindi mi
raggiunse.
«Ti
senti bene?» mi domandò con le sopracciglia aggrottate.
«Di
merda» bofonchiai. Avevo come l'impressione che tutto, intorno
a me, stesse volteggiando.
John
stava per dire qualcosa, ma proprio allora Leah si ripresentò
di fronte a me con una bottiglia d'acqua da due litri.
«Ecco
a te, Shavo... giusto? Che razza di nome è mai questo?»
blaterò, allungandomi la bottiglia.
«Sì,
giusto. È un nome armeno, ma Shavo è la forma
contratta» spiegai distrattamente, per poi tracannare diversi
sorsi d'acqua. Era fresca e dissetante, mi fece sentire subito
meglio.
«La
forma contratta di cosa?» indagò la ragazza con
curiosità, accovacciandosi nuovamente di fronte a me.
Lanciai
un'occhiata perplessa a John e lui sollevò le mani in segno di
resa, per poi allontanarsi e raggiungere Daron al banco della
reception.
«Shavarsh»
risposi infine, bevendo ancora qualche sorso.
«Capisco.
Da quelle parti avete tutti quanti dei nomi così...
singolari?» mi interrogò visibilmente divertita.
«Non
ti piace?»
Si
strinse nelle spalle. «Non saprei se mi piace o non mi piace.
So solo che non lo avevo mai sentito. A Las Vegas la gente si chiama
Jim o Tom, forse John... e Nathan, Patrick, Samuel...»
Sollevai
una mano per fermarla. «Okay, messaggio ricevuto. E comunque,
il mio amico si chiama John, ed è armeno pure lui» le
feci notare poi.
«Oddio,
adesso mi vuoi dire che tutti e tre provenite da quel posto? Gesù,
che ci fate in Giamaica?»
Sorrisi
mestamente. «Abitiamo a Los Angeles.»
Leah
roteò gli occhi al cielo. «Ripeto: che ci fate in
Giamaica?»
«Siamo
qui in vacanza, e tu? Dal Nevada ai Caraibi, mica male»
osservai, per poi alzarmi dal divano con la bottiglia in mano. La
superavo di almeno dieci o quindici centimetri, così dovetti
chinare leggermente il capo per poter studiare la sua espressione.
«La
mia storia è molto lunga e intricata» rispose evasiva.
«Fammi
un riassunto» insistetti, esibendomi in un sorriso sornione.
«Ti
basti sapere che il mio genitore di sesso maschile mi trascina qui
ogni volta che ha due giorni di ferie» disse infine.
Annuii.
«Fantastico. Ma quanti anni hai? Ancora te ne vai in vacanza
con il tuo paparino?» ammiccai.
«Non
si chiede l'età alle signore. Ti saluto, Shavarsh, è
stato un piacere. Ci si vede in giro» concluse, poi mi diede le
spalle e si diresse verso l'uscita.
«Leah!»
le gridò dietro il receptionist. «Dove vai?»
Lei
gli rivolse soltanto un cenno con la mano e uscì dall'albergo.
Leggermente
confuso e spiazzato, raggiunsi i miei amici vicino al banco della
reception.
«Si
sente bene?» si preoccupò subito il ragazzo che ci aveva
accolto.
Gli
mostrai la bottiglia d'acqua piena per metà. «Quest'acqua
è stata miracolosa» scherzai.
«Mi
dispiace di averla lasciata nelle mani di quella ragazza... lei non
lavora qui, sa. È una cliente abituale, considera questo posto
come casa sua e spesso si impiccia in cose che...» prese a
giustificarsi lui.
«Con
me è stata gentilissima. Nessun problema» lo interruppi.
«Bene.»
Il tizio ci guardò a uno a uno.
«Be'?
Ci accompagna lei alle nostre stanze o dobbiamo chiedere alla sua
amica impicciona?» sbottò Daron all'improvviso,
utilizzando un tono piuttosto indisponente e acido.
Il
receptionist sussultò e io dovetti sforzarmi in maniera
disumana per non scoppiare a ridere. «Daron, su, sii gentile»
finsi di rimproverarlo.
«Col
cazzo.»
«Oh,
be'... seguitemi, prego» farfugliò il ragazzo, facendosi
goffamente carico di alcuni dei nostri bagagli.
Daron
sbuffò e afferrò qualche altra borsa, così anche
io e John lo imitammo.
«Possibile
che in questo albergo ci sia solo tu, ragazzino?» domandò
bruscamente il chitarrista, mostrandosi profondamente irritato. In
realtà se la stava spassando alla grande, lanciava a me e John
occhiate complici e si tratteneva a sua volta per non ridere.
L'altro
trasalì e premette in fretta e furia il pulsante di chiamata
dell'ascensore. «Il fatto è che il signor Samuel Skye è
in città per alcuni affari, lo stagista è in infortunio
e io...»
«Molto
interessante, ma ti rendi conto che noi dobbiamo portarci dietro i
bagagli da soli?» sbraitò Daron.
«Ve
li avrei recapitati io più tardi, avrei fatto un secondo
viaggio, non...»
«Lasciamo
perdere» tagliò corto il mio amico, rinchiudendosi in un
silenzio carico di risentimento.
Forse
quella sua tendenza a darsi un atteggiamento antipatico e piuttosto
snob poteva sembrare fuori luogo e spesso gli avevo detto di non
esagerare, però era troppo divertente notare quanto le persone
rimanessero disarmate e disorientate da quel suo modo di comportarsi.
Non
appena l'ascensore panoramico prese a salire verso il terzo piano,
guardai fuori dal vetro e mi soffermai sul paesaggio all'esterno: il
sole del tardo pomeriggio tingeva di arancione l'acqua calma della
baia, la quale riluceva di mille riflessi multicolore. La spiaggia,
sulla destra della scogliera, sembrava cosparsa d'oro fuso e una
leggera brezza agitava le poche palme presenti lungo la costa.
Rimasi
a bocca aperta. Le foto che avevo visto su internet non rendevano
assolutamente giustizia a quel luogo magico e suggestivo.
Poco
dopo uscimmo dall'ascensore e il ragazzo ci guidò lungo un
corridoio ampio. Così come le pareti esterne della palazzina
erano dipinte di bordeaux, anche quelle interne riportavano la stessa
tonalità, così come le mattonelle che ricoprivano il
pavimento: era tutta una lucida e infinita scacchiera che alternava
il bianco alla più cupa sfumatura di rosso.
«Questa
è la stanza numero 22, la doppia» annunciò il
nostro accompagnatore.
Mi
feci subito avanti e gli sfilai di mano le chiavi. «Grazie.
John, hai tu la mia valigia.»
Il
batterista annuì e mi si accostò.
«Prego,
mi segua. La sua stanza è più in fondo.» Il
receptionist si era rivolto a Daron con timore.
Lui
non replicò e si limitò ad andargli dietro.
«Andiamo»
sospirò il batterista, e io infilai la chiave nella serratura.
Io
e John non avevamo avuto alcun problema a dividerci una stanza, ma
Daron era molto diverso da noi. A parte il fatto che era disordinato
in una maniera impressionante, diceva sempre di aver bisogno dei suoi
spazi. Aveva una personalità particolare, il chitarrista, ed
era spesso difficile capire cosa gli passasse per la testa.
Se
nel gruppo c'era qualcuno che si poteva definire estremamente chiuso
e riservato, be', quello era senz'altro Daron, anche se nessuno
avrebbe immaginato che lui fosse così; i fan e seguaci della
band, infatti, lo conoscevano come il più pazzo, il più
scatenato e il più fuori di testa della formazione. Sul palco
ne combinava davvero di tutti i colori, ma nella vita privata era
estremamente diverso, ed erano davvero poche le cose in grado di
scatenare il suo entusiasmo.
«Sei
pensieroso, bassista?» mi domandò John, riportandomi
bruscamente alla realtà. Era appena uscito dalla doccia e
stava frugando dentro la valigia alla ricerca dell'outfit perfetto.
Poi, stanco di tutto il disordine che regnava sul suo letto, cominciò
a disfare i bagagli e a sistemare ordinatamente tutti i vestiti
dentro l'armadio, senza neanche preoccuparsi di mettersi qualcosa
addosso.
«Stavo
ripensando al modo gentile e carino con cui Daron si è rivolto
al povero receptionist» sorrisi. «Ma tu sei patologico,
Johnny! Che diamine fai? Non ti vesti?»
«C'è
troppo disordine, non trovo i miei vestiti» si giustificò,
continuando a portare fuori diversi abiti dalla valigia.
«Ripeto:
sei patologico» conclusi, lanciando un'occhiata fiera al mio
bagaglio abbandonato ai piedi del letto, sul pavimento. John era
l'opposto di Daron sotto diversi punti di vista: era fin troppo
ordinato e meticoloso, colpa forse della precisione con cui sapeva di
dover suonare il suo strumento. Tutto doveva essere al suo posto,
seguire un ordine logico e preciso, così come ogni formula
matematica che si rispetti.
Dal
canto mio, mi sentivo semplicemente tra due fuochi, ma tendevo a
conciliare maggiormente con il batterista; era silenzioso, ma sapeva
sempre quando era il momento di dire la sua. Quando parlava, non era
mai per caso; era intelligente e colto, io un po' lo invidiavo per la
voracità con cui divorava un'enorme quantità di libri.
Era sicuramente un esempio da seguire e, cosa molto importante, non
era invadente o sfacciato.
«Ora
va meglio.» John pareva soddisfatto mentre osservava il suo
operato: aveva impilato con minuzia i suoi vestiti sui ripiani
dell'armadio e si era preso la libertà di occuparli tutti,
perché sapeva che io non avrei sfruttato quello spazio. Mi
conosceva fin troppo bene. A quel punto, afferrò un paio di
jeans neri e una camicia dello stesso colore e se li infilò,
poi indossò anche gli anfibi e mi lanciò un'occhiata.
«Sei
pronto?» gli chiesi.
«Sì,
possiamo andare. Ho fame» replicò, avviandosi verso la
porta.
Io
rabbrividii. Non avevo alcuna intenzione di buttare giù
qualcosa, ero ancora un po' scombussolato dal viaggio in aereo. Però
avrei comunque accompagnato i miei amici a cena, forse avrei preso
qualcosa di leggero, giusto per non farli preoccupare.
Seguii
John fino alla camera di Daron. Rimanemmo in attesa per un minuto,
poi il chitarrista venne ad aprirci. Stava in equilibrio precario sul
piede destro, mentre tentava di infilare l'altro nei pantaloni della
tuta. Aveva ancora i capelli fradici e dentro la stanza regnava un
caos apocalittico. John si astenne dal commentare quello scempio, ma
non poté evitare di sospirare.
«Sei
ancora così?! Ti dai una mossa?» esordii.
Daron
fece spallucce. «Ehi, abbiamo gli sbirri alle costole?»
«Sei
assurdo.» Alzai gli occhi al cielo. «Sbrigati, John ha
fame!» lo incitai.
«Sì,
sì...» Daron rientrò, lasciando la porta
spalancata. Pescò una maglietta a caso dalla valigia e se la
infilò, poi afferrò la felpa abbinata ai pantaloni e
mise su anche quella. Inforcò i suoi fidati Ray-Ban dalle
lenti scure e ci raggiunse in corridoio, tirandosi dietro la porta.
Solo
allora mi resi conto che ai piedi portava un paio di infradito rosse.
Scoppiai
a ridere. «Quelle dove le hai prese? Cristo, sono orribili!»
commentai, avviandomi insieme ai ragazzi verso l'ascensore.
«Siamo
in vacanza o no? Vuoi che vada in giro conciato come John?»
«Cosa
c'è che non va in John?» gli chiesi.
«Siamo
in Giamaica, cazzo, e lui va in giro con gli anfibi!» strillò,
e la sua voce acuta rimbombò per tutto il corridoio.
«E
allora?» insistetti.
«E
allora io vado in giro con le infradito rosse. Sono stilosissime»
concluse il chitarrista con aria soddisfatta.
John
premette il tasto per chiamare l'ascensore. Quando le porte si
aprirono, notai una figura all'interno.
Leah
sgusciò svelta in corridoio, riuscendo a passare tra me e
Daron.
«Guarda
un po' chi si rivede» la apostrofai con un sorriso conciliante.
«Ciao,
Shavarsh.»
Daron
sghignazzò e squadrò la ragazza da capo a piedi, poi
annuì e sollevò il pollice. «Carina la tua amica
impicciona» commentò poi, dando di gomito a John.
«Malakian,
ti giuro che...»
«Tu,
nanerottolo, non sei per niente carino. Quelle infradito sono
disdicevoli!» ribatté Leah senza scomporsi. «Be',
è stato un piacere. Ci vediamo in giro» aggiunse, poi
girò sui tacchi e si avviò lungo il corridoio.
Una
volta all'interno dell'ascensore, Daron parve riprendersi
all'improvviso e piagnucolò: «Perché ce l'avete
tutti con le mie deliziose scarpette? Non sono disdicevoli!».
John,
che lo stava fissando sbalordito, spostò l'attenzione su di me
e diede voce alla domanda che gli ronzava in testa da un po': «Com'è
che ti ha chiamato Shavarsh?».
Feci
un gesto noncurante con la mano. «Lascia perdere»
sibilai.
Leah,
in fondo, sembrava interessante. Se era riuscita a zittire Daron in
men che non si dica, doveva possedere un carattere bello tosto.
La
vacanza si faceva intrigante.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Beach under the Sun ***
ReggaeFamily
Beach
under the Sun
[John]
«Quindi
questa storia del concerto al Dodger Stadium è vera?»
domandò Shavo, lanciandomi un'occhiata dubbiosa.
«Ma
certo che lo è!» confermai.
«Ma
perché lo hanno chiesto a Rick e non a David?» indagò
ancora con le sopracciglia aggrottate.
Ero
preoccupato per lui: non aveva toccato cibo, nonostante avesse
ordinato soltanto una porzione ridotta di riso in bianco. Il viaggio
doveva avergli fatto davvero male; speravo soltanto che il giorno
dopo sarebbe riuscito a mangiare, altrimenti le cose potevano
aggravarsi.
«Chi
è David?» borbottò Daron con la faccia quasi
immersa nel suo piatto ricoperto di cibo in quantità
industriale.
«Il
nostro manager, magari?» sbottai.
«Ah,
perché, si chiama David?» ghignò Daron, poi mi
mostrò il dito medio.
«Piantatela!»
ci ammonì il bassista.
Sospirai.
«Non lo so perché lo hanno chiesto a Rick, ma prima che
Rick potesse dircelo, ha dovuto parlare con Beno. Non preoccuparti,
non è una cazzata. È una cosa seria.»
Shavo
annuì e spostò il piatto alla sua sinistra, per poi
poggiarsi con i gomiti sul tavolo. «Okay, ricevuto. Oddio...»
biascicò.
«Che
c'è?» mi allarmai.
«Ho
un'ansia...»
«Cristo,
quanto melodramma! Ehi socio, lo vuoi quel riso o no?» strepitò
Daron.
Sgranai
gli occhi: il chitarrista aveva svuotato in men che non si dica il
suo piatto e sembrava avere ancora fame. Osservai inorridito Shavo
che gli passava il suo piatto e scuoteva la testa.
«Ottima
scelta» esclamò Daron. «Il cibo non si spreca!»
«Sei
una spazzatura ambulante, cazzo» brontolai, per poi finire di
mangiare la mia insalata di pollo e patate. Avevo deciso che, per
quella sera, non avrei sperimentato dei piatti tipici giamaicani.
Avrei avuto tutto il tempo del mondo per farlo.
«Cosa
facciamo dopo cena?» farfugliò Daron, sputacchiando
chicchi di riso già masticati e spargendoli su tutto il
tavolo.
«Che
schifo! Non parlare mentre mastichi, ma sei proprio un...» mi
inalberai, notando che Shavo impallidiva e si prendeva la testa tra
le mani.
«Ma
avete sempre qualcosa da ridire, voi due? Meno male che non saremo in
camera insieme» sbuffò il chitarrista, pulendosi
maldestramente la bocca con il tovagliolo rosso che aveva alla destra
del piatto.
«Sei
disdicevole, proprio come le tue fottute infradito» lo accusò
Shavo. «Comunque, io voglio soltanto dormire. Non ho nessuna
voglia di fare niente, non ne ho proprio la forza. Quindi passo. Se
volete uscire, fatelo senza di me» annunciò, poi
sbadigliò discretamente, coprendosi la bocca con una mano.
«Oh
merda! Sono venuto in vacanza con due pensionati, che palle!»
si lamentò il chitarrista, scolandosi l'ultimo sorso di birra
che ancora stava dentro il suo bicchiere.
«Ti
prego, non esibirti in qualcosa di schifoso, per favore»
sottolineai in preda alla disperazione, guardandomi intorno e
sperando che non ruttasse come un animale.
A
quel punto notai che la nuova amica di Shavo entrava nella sala e
raggiungeva con passo lento e strascicato una coppia che già
sedeva a un tavolo poco distante dal nostro. L'uomo aveva dei tratti
che lo accomunavano alla ragazza, doveva trattarsi di suo padre,
mentre la donna era piuttosto giovane e dubitavo fortemente che si
trattasse di sua madre.
«C'è
la tua amichetta, Shavarsh» lo punzecchiò Daron,
sollevando un po' troppo la voce.
«Ascolta,
chitarrista rompicoglioni, sai che facciamo?» lo apostrofai,
decidendo di lasciare Shavo in pace per un po'. «Andiamo a fare
due passi. Voglio esplorare un po' i dintorni, e tu hai un senso
dell'orientamento migliore del mio.»
«Cosa?
Non ci penso proprio, detective Bosch» si ribellò lui,
scuotendo il capo con forza. «Io mi sa che vado a esplorare la
terrazza. O vado a cercare una sauna, una piscina... ho bisogno di
relax, visto che nessuno di voi vuole andare a divertirsi da qualche
parte. Per oggi vi perdono, ma domani non avrete scampo. Chiaro?»
«Fai
come ti pare, nanerottolo, basta che sparisci dalla circolazione»
borbottò Shavo, sbadigliando di nuovo.
«Okay,
allora andiamo. Shavo, ti accompagno in camera, non vorrei che ti
perdessi tra i corridoi... mi sembri molto confuso e stravolto...»
decisi, alzandomi e afferrando il mio amico per un braccio.
«Forse
è meglio, altrimenti lo troviamo morto in riva al mare,
divorato da uno squalo...» scherzò il chitarrista,
balzando in piedi a sua volta. «Bene, ci si vede domani, e guai
a voi se mi svegliate prima di mezzogiorno!» concluse, per poi
rivolgerci un cenno di saluto con la mano destra e avviarsi a grandi
passi fuori dal ristorante.
Io
e Shavo lo imitammo poco dopo, camminando lentamente. Mi adoperai per
sostenerlo, notando che la stanchezza si era definitivamente
impadronita di lui. Dopo essere usciti dal ristorante, ci ritrovammo
in un piccolo corridoio che, una volta percorso, ci riportò
nella hall.
Notai
il receptionist che ci aveva accolto avviarsi verso l'uscita,
salutando in maniera cortese un certo signor Skye, che doveva essere
il proprietario dell'albergo o qualcosa del genere.
«Signori,
buonasera» ci salutò quest'ultimo, indirizzandoci un
sorriso educato mentre passavamo di fronte al bancone della
reception.
«Salve»
risposi io.
«Sera...»
biascicò Shavo senza sollevare il capo. Mi sembrava di
camminare con uno zombie.
«Siete
voi a essere arrivati questo pomeriggio da Los Angeles?»
domandò ancora l'uomo, e a quel punto mi fermai.
«Sì,
siamo noi.» Annuii, sperando che smettesse di parlarci e ci
lasciasse andare. «Lei è il direttore dello Skye Sun
Hotel?» chiesi, tanto per essere un minimo educato.
«Il
vice» annunciò, poi ci raggiunse e mi porse la mano.
«Samuel Skye, piacere di conoscerla.»
«John
Dolmayan, piacere mio. Mi scuso per il mio amico Shavo Odadjian, è
molto stanco e il viaggio è stato traumatico per lui. Non ha
neanche cenato... mi scusi, lo accompagno in camera, ha bisogno di
riposo» blaterai, riprendendo a muovermi verso l'ascensore. Non
avevo nessuna voglia di intrattenermi con quel tipo, non era proprio
il momento adatto.
«Ma
certo, si figuri. Buonanotte e buona permanenza nel nostro albergo!»
esclamò infine in tono allegro, per poi tornare dietro il
bancone.
Una
volta in ascensore, ripensai all'uomo sulla quarantina che avevo
appena incontrato. C'era qualcosa che non andava in lui, ma
attualmente non ero in grado di capire cosa.
«Hai
visto quei capelli?» bofonchiò Shavo con la schiena
appoggiata contro il vetro panoramico. «Erano palesemente tinti
di biondo!» esclamò poi.
«Cazzo,
hai ragione!» A quel punto scoppiai a ridere. «Ridicolo.»
«Già...
e non so neanche come ho fatto ad accorgermene...» farfugliò
il mio amico, sbadigliando per l'ennesima volta.
Sospirai
e lo spinsi fuori dall'ascensore.
Per
evitare di ripassare per la hall e incontrare nuovamente Samuel Skye,
decisi di cercare una scorciatoia o un'uscita secondaria. Erano
soltanto le dieci di sera e non avevo niente da fare: non avevo
particolarmente sonno perché avevo dormito in aereo, però
non avevo voglia di stare con Daron a ubriacarmi nel bar sulla
terrazza o a stare a mollo in una piscina.
Non
mi restava che fare un giro e capire cosa si poteva fare di bello al
di fuori dell'albergo. Scoprii, dopo essere uscito dall'ascensore al
pianterreno, che c'era una porta di sicurezza che si affacciava verso
l'esterno. La spinsi e mi ritrovai sul lato destro dell'edificio
dipinto di bordeaux in cui alloggiavo con i miei amici. Un
marciapiede di cemento seguiva il perimetro della palazzina, mentre
un'altra passerella conduceva verso la spiaggia.
Seguii
il sentiero e a un certo punto mi trovai di fronte un cartello con su
scritto Beach under the Sun.
Era un nome singolare per
una spiaggia.
La
luna, un piccolo spicchio seminascosto da qualche nuvola passeggera,
illuminava appena la superficie del mare, la quale sembrava nera come
pece. Qualche lampione dalla luce tenue era disseminato lungo il
sentiero, ma una volta superata la passerella di legno su cui erano
sistemati, mi ritrovai immerso quasi del tutto nell'oscurità
della notte. Sul lato sinistro della piccola lingua di sabbia si
ergeva la scogliera, e in alto
intravedevo il profilo della palazzina bordeaux. Soltanto due
finestre erano illuminate, per il resto la struttura appariva buia e
quasi sinistra.
Mi avvicinai alla riva, dal
momento che l'acqua era calma e pareva quasi immobile, come se si
trattasse di un quadro posto lì per essere ammirato dai
turisti. Mi sedetti in riva, decidendo che mi sarei rilassato un po'.
Quell'atmosfera mi incuteva una calma incredibile, non avrei mai
immaginato che ciò sarebbe potuto accadere così presto.
Si trattava solo di un po' di sabbia, qualche alga sparsa qua e là
e una distesa infinita d'acqua salata che non accennava a dar segni
di vita. Eppure era tutto così bello, rilassante...
Avvertii un movimento alla
mia sinistra e mi voltai di scatto, leggermente allarmato. Notai una
figura scendere agilmente dalla scogliera e dirigersi verso la
passerella di legno, con passo spedito e qualcosa tra le mani.
Poi si fermò di botto
e parve accorgersi della mia presenza. Si voltò nella mia
direzione e notai che si trattava della nuova amica di Shavo.
«Cosa diamine fai
qui?» mi domandò, avvicinandosi di qualche passo.
«Ho fatto una
passeggiata. Non si può?» replicai con calma,
rimettendomi in piedi e scuotendomi via la sabbia dai jeans.
«Di
notte?» mi apostrofò. Camminò ancora verso di me,
poi mi superò e lasciò cadere qualcosa sulla sabbia
umida. Infine si inginocchiò sulla riva e
immerse le mani nell'acqua, sciacquandole e sfregandole tra loro.
Abbassai lo sguardo e notai
che aveva portato con sé un'enorme ciotola in plastica, che
dentro doveva aver ospitato del cibo.
«Hai rubato la cena
per caso?» scherzai, inclinando la testa di lato.
«No, erano degli
avanzi per i gatti» spiegò.
«Gatti?»
«Bado a dei gatti
randagi quando vengo qui. Altrimenti se ne occupa Dayanara, cioè...
il receptionist.»
«Ah, bello.»
«Direi» borbottò
lei, poi si allungò per afferrare la ciotola e la immerse in
acqua.
Rimasi in silenzio, non
sapevo esattamente cosa dire. Non ero un granché come
interlocutore, specialmente quando avevo a che fare con una persona
estranea.
«Non sei loquace come
Shavarsh, eh?» buttò lì la ragazza.
«Io? Eh, no... mi
dispiace» farfugliai.
«Ognuno ha il suo
carattere» disse con una scrollata di spalle. «Com'è
che ti chiami?» mi chiese poi.
«John. E tu?»
«Leah. Ah, tu sei
quello con il nome normale, okay.»
Aggrottai le sopracciglia.
«Come?»
«Niente, sono solo
cazzate.»
«Okay.»
Leah
si rimise in piedi e scrollò con forza la ciotola per
liberarla dall'acqua in eccesso, poi si voltò e mi sorrise in
maniera un po' incerta. «Okay, John... la, ehm, conversazione
è stata molto interessante. Ora vado a buttarmi a letto, ci si
vede in giro.»
Annuii e tentai di
sorriderle a mia volta. «Certo, sicuro.»
Fece per andarsene, poi ci
ripensò e si bloccò. «Come sta Shav? Si è
ripreso?» indagò.
«Insomma. Non ha
cenato e ho dovuto accompagnarlo in camera e metterlo a letto. Avevo
paura che si perdesse per l'hotel o che cadesse addormentato in
ascensore...»
Leah scosse il capo.
«Poveretto. Be', domani starà meglio. Salutalo da parte
mia e fagli tanti auguri di pronta guarigione» concluse, e
nella sua voce notai una nota di preoccupazione.
«Senz'altro»
assentii.
«Allora ciao.»
«Ciao.»
Detto questo, tornai a
sedermi sulla spiaggia e riflettei. Quella ragazza era un po' strana,
però avevo come l'impressione che tra lei e Shavo potesse
nascere qualcosa. Forse era esagerato da dire, ma era come se tra
quei due si fosse creato fin da subito un feeling particolare.
Chissà come sarebbe
andata a finire.
Dal canto mio, mi trovavo
bene in quel luogo, anche se dovevo ammettere che mi mancavano già
i miei amati strumenti musicali.
Sarei sopravvissuto senza?
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Fuck to Forget ***
ReggaeFamily
Fuck
to Forget
[Daron]
Non
appena ero arrivato sulla terrazza dello Skye Sun Hotel, avevo
immediatamente deciso che avrei trascorso lì la serata.
Da
un paio di casse situate ai lati del chiosco in legno si diffondeva
della musica reggae, e subito riconobbi dei colleghi californiani che
avevano un talento assurdo e riuscivano a fondere due generi come il
reggae e il jazz, creando un effetto devastante. Li ascoltavo sempre
quando ero in vena di farmi una canna in santa pace e andare con la
mente lontano, rilassandomi al massimo.
In
quel momento le note di Praising
dei Groundation riscaldavano l'atmosfera.
Mi accorsi subito che sulla
terrazza non c'era tanta gente: un paio di uomini d'affari
discutevano tra loro sottovoce, e sembravano due pinguini con tanto
di giacca e cravatta; una famiglia formata da padre, madre e una
bimba di circa dieci anni si godeva la vista panoramica scattando
qualche foto, mentre una donna sulla trentina stava seduta da sola al
bancone, con i piedi incastrati sulle stecche dell'alto sgabello. Mi
parve di averla già vista da qualche parte, ma non riuscivo a
capire dove.
Mi accostai al banco e la
osservai meglio, dopo aver ordinato un Blue Mountain; era bionda e
forse un po' troppo magra, abbigliata in maniera deliziosa con un
leggero abito nero che le sfiorava le ginocchia e una giacca bianca
posata sulle spalle. Era truccata e aveva scelto dei colori tenui,
tranne per il rossetto bordeaux che le colorava le labbra sottili.
Sembrava silenziosa e solitaria, e per me questo significava che
dovevo assolutamente cominciare una battuta di caccia.
Il barista mi servì
il rinomato caffè giamaicano in un'elegante tazzina bordeaux
decorata in oro, e il profumo intenso e aromatico mi colpì
immediatamente, inebriandomi e facendomi venire una gran voglia di
berlo subito. Tuttavia era decisamente troppo caldo, così
attesi qualche istante e nel frattempo notai che il barman non faceva
che spostare lo sguardo da me alla donna seduta sullo sgabello poco
distante dal mio.
«Amico, qualche
problema?» indagai, afferrando una bustina di zucchero di
canna. La strappai e rovesciai il contenuto nella tazzina, poi presi
a rimescolarlo con il cucchiaino.
«No, solo... mi sembra
di averti già visto da qualche parte» borbottò,
aggrottando le folte sopracciglia scure.
Con la coda dell'occhio
notai che la bionda accanto a me sorseggiava il suo drink e ascoltava
discretamente la nostra conversazione.
«Davvero? Strano, non
sono mai stato da queste parti. Anni fa feci un giro nella capitale,
magari ci siamo visti lì» dissi con noncuranza. Era
divertente notare che in quel posto nessuno sembrava sapere che io e
i miei amici facessimo parte di una band abbastanza famosa. In
Giamaica, evidentemente, la gente ascoltava solo reggae music.
«Non saprei... non
vado spesso a Kingston.»
«Non so cosa dirti,
amico» tagliai corto, facendo decisamente il coglione. Anche se
può sembrare strano, non amavo vantarmi di essere chissà
chi, nonostante suonassi con i SOAD da anni e anni.
A quel punto mi resi conto
che la bionda stava scendendo dallo sgabello; la tenni sott'occhio e
notai che si dirigeva verso il parapetto, probabilmente intenzionata
a godersi il panorama in pieno relax.
Allora bevvi con calma il
mio caffè e scambiai qualche chiacchiera con il barista, che
in fondo non era poi così male; mi raccontò che aveva
abbandonato la carriera musicale per finire a lavorare in quel posto.
«Che peccato, magari
eri anche bravo. Cosa suonavi?» gli domandai.
«Il basso. Il fatto è
che non volevo fare reggae, capisci? Mi piace, non dico il contrario,
ma in questo posto per emergere non puoi far altro. Pare un posto da
sogno, ma è molto chiuso mentalmente, non so se mi spiego...
provengo da un paesino di cinquemila anime, e lì tutti
ascoltano reggae oppure musica tradizionale vecchia come il mondo»
mi spiegò lui, mentre sciacquava qualche stoviglia.
«Che genere avresti
voluto fare?»
«Vado matto per il
blues» ammise con un sorriso. «Forse avrei fatto qualcosa
di jazz mischiato con il blues. Ma non reggae.»
Annuii.
«Capito. È un peccato. E non hai mai pensato di
emigrare? Magari negli States, in Europa,
o... in Brasile, per esempio, avresti potuto fare ciò che ti
pare. So che in quel paese vengono apprezzati molti artisti rock e
metal, così come in Messico...» buttai lì,
ricordandomi le magnifiche esperienze con i ragazzi, live come Rock
in Rio non potevano essere dimenticati tanto facilmente.
«Già, ma non
avevo i soldi per viaggiare. Quando sono arrivato qui, cinque o sei
anni fa, pensavo di guadagnare qualcosa per partire. Ma sono
sopraggiunti tanti problemi e allora... be', eccomi qua. Alla fine
questo lavoro mi piace.»
«Però
rimpiangerai di non esserti buttato sulla musica, scusa se te lo
dico» gli feci notare.
«Probabilmente hai
ragione» mormorò.
«Non è mai
troppo tardi, su» cercai di rassicurarlo. Mi faceva un po'
pena, poveretto. «Io ho una chitarra con me, magari uno di
questi giorni ci facciamo una suonata, ti va?» gli proposi con
entusiasmo. La musica era una delle poche cose capaci di risollevarmi
l'umore, era sempre stato così.
Il tipo sollevò il
capo e notai che i suoi occhi brillavano. «Sicuro! Ci conto
allora! Tu com'è che ti chiami?»
«Daron. E tu?»
Intanto lanciai un'occhiata alla mia preda e la trovai affacciata a
contemplare il panorama, così decisi che era giunto il momento
di farmi avanti.
«Io sono Alwan,
piacere di conoscerti. Non vedo l'ora di suonare con te, mi sembri un
tipo in gamba» rispose lui tutto contento.
Gli strinsi la mano, poi
annunciai: «Ora vado a caccia, amico. Ci si becca in giro,
okay?».
Alwan mi lanciò
un'occhiata interrogativa, poi sorrise quando accennai con il capo
alla bionda che stavo per raggiungere.
«Buona fortuna»
concluse.
Annuii e balzai giù
dallo sgabello, per poi avvicinarmi al parapetto e posizionarmi a
circa un metro dalla preda.
Lei parve non notarmi, o
forse aveva semplicemente deciso di ignorarmi. Se l'avevo inquadrata
bene, quello era un comportamento tipico del suo carattere chiuso e
riservato, ma non sarebbe stato un problema per me.
«Questa vista è
spettacolare, non è vero?» esordii, poggiandomi con le
braccia sulla balaustra in legno; assunsi una posa assorta e pensosa,
aggrottando leggermente la fronte e puntando lo sguardo dritto
davanti a me.
«Magnifica» la
sentii sussurrare appena.
«Non avevo mai visto
nulla di simile, è la prima volta che vengo qui»
proseguii. Lei rimase in silenzio, e a quel punto mi voltai nella sua
direzione. «Tu ci sei mai stata prima?»
«Mai.» La donna
spostò finalmente gli occhi su di me e mi osservò per
un po'.
«Non è una
bella coincidenza che si siamo ritrovati entrambi qui per la prima
volta?» buttai lì, indirizzandole il sorriso più
timido che riuscii a produrre.
«Suppongo
di sì.» Annuì leggermente e notai solo allora
i suoi occhi verdi, illuminati appena dalla luce soffusa che riempiva
la grande terrazza.
«Oh, che maleducato!
Non mi sono presentato, mi spiace. Molto piacere di conoscerti, io
sono Daron. Posso sapere il tuo nome?» Allungai con fare
titubante una mano nella sua direzione.
Lei la strinse e replicò:
«Piacere mio, sono Medison».
«Un nome molto bello.
Anche mia sorella si chiama Medison, sai?» inventai su due
piedi, trattenendo la sua mano nella mia. Quel contatto mi piaceva,
sì, avevo scelto bene anche stavolta.
Lei sgranò
leggermente gli occhi per la sorpresa. «Davvero?»
«Sì, anche per
me è assurdo! Quante coincidenze... o forse il destino ha
voluto quest'incontro» riflettei, guardandola negli occhi; nel
frattempo avevo preso a carezzare piano la sua mano, e lei non
sembrava intenzionata a ritrarsi da me. Stava andando tutto alla
grande.
«Io...» Medison
abbassò improvvisamente gli occhi sulle nostre mani. «Sono
qui con il mio compagno, non penso che...»
Ci avrei scommesso, una
donna come lei non sarebbe mai venuta da sola in una baia sperduta
nelle coste giamaicane.
Sospirai piano. «Qual
è il problema? Il tuo compagno non si arrabbierà se
parliamo un po' o facciamo due passi insieme. Lui dov'è ora?»
«Era molto stanco ed è
andato a letto presto.»
Che
imbecille. Medison era una preda fin troppo semplice
da conquistare. Se io fossi andato in vacanza con la mia donna, non
avrei perso tempo a dormire da solo in camera. Chissà che
razza di rammollito doveva essersi trovata.
All'improvviso un ricordo mi
colpì e rimasi per un attimo interdetto: avevo già
visto quella donna, ora ne ero certo. Era seduta in ristorante
durante la cena, in compagnia di un uomo più vecchio di lei di
almeno quindici anni. Poi i due erano stati raggiunti dalla nuova
amica di Shavo.
La questione si faceva
ancora più interessante e intrigante.
«Un vero peccato che
tu sia sola, Medison. Non penso che lui vorrebbe che ti annoiassi,
giusto? Ti tengo solo un po' di compagnia, sempre se ti va.»
Feci per ritrarre la mano, ma lei mi trattenne.
«Va bene, in fondo non
c'è niente di male, hai ragione» decise, poi allentò
la presa e infine interruppe il contatto, posando la mano sulla
balaustra.
«Magnifico. E quindi
anche tu in vacanza...»
Medison annuì. «So
che Alan, cioè, il mio compagno, viene spesso da queste parti
per le vacanze. Voleva che visitassi anch'io quest'angolo di
Paradiso» raccontò.
«Direi che ha fatto
bene. In vacanza si fanno sempre degli incontri interessanti»
osservai, cercando nuovamente il suo sguardo.
Stavolta
rimanemmo a fissarci intensamente per un tempo incalcolabile, e io
avvertivo chiara e forte la tensione sessuale farsi strada tra noi
due. Ormai ero certo che
avrei potuto fare di lei ciò che volevo, si trattava della
classica sgualdrina che, probabilmente, si era messa con un uomo
pieno di quattrini e ingenuo come un bambino.
«Medison, sono proprio
contento di aver conosciuto una creatura graziosa come te»
mormorai, facendo un passo verso di lei. Sollevai cautamente una mano
e le scostai una ciocca di capelli dorati dal viso.
Avvertii il suo respiro
accelerare per un attimo, poi mozzarsi all'improvviso. Mi afferrò
la mano con una forza che non mi sarei mai aspettato e mi fissò
per qualche istante.
«So cosa vuoi»
disse sottovoce.
«Sì?» mi
finsi sorpreso.
«Sì.»
Rafforzò la stretta sulle mie dita. «Penso che possiamo
divertirci un po'» concluse.
Sorrisi e annuii. «Allora
seguimi.»
Se non altro mi servì
per sfogarmi, quell'esperienza. Certo, non avrei mai voluto una donna
come Medison al mio fianco; era una persona poco seria, ci era voluto
ben poco per convincerla a venire a letto con me.
Devo
ammettere che ci sapeva fare, e non si preoccupò minimamente
del casino che regnava nella mia stanza. Mentre il suo Alan ronfava
beato come un vecchio in pensione, io trascorsi un bel po' di tempo a
sbattermi la sua compagna in tutti i luoghi possibili e immaginabili
della camera d'albergo, facendola miagolare come una gattina in
calore.
«Forse ora il tuo
compagno avrebbe qualcosa da ridire» commentai, una volta
consumato l'ennesimo amplesso.
Medison ansimava ancora,
rannicchiata su di me. La sua corporatura minuta metteva in evidenza
le forme appena accennate dei seni, dei fianchi e delle natiche,
facendola apparire come un bocconcino decisamente appetibile.
«È stato solo
un errore...» disse.
«Un errore, dici?»
la canzonai, sapendo perfettamente che non era vero.
«Sì, un errore»
confermò, lasciandosi cadere ancora una volta sotto di me.
«Gli errori vanno
ripetuti all'infinito per essere effettivi, lo sai?»
Poi la possedetti ancora una
volta, facendole capire che l'errore più grande sarebbe stato
rinunciare a tutto quello che io potevo darle.
Quando infine lasciò
la mia stanza, mi buttai sotto la doccia e ci rimasi per un tempo che
mi parve infinito. Avevo bisogno di lavare via il suo odore, l'odore
del sesso e, forse, la consapevolezza di averlo fatto con la speranza
di dimenticare.
La
verità era che, mentre provavo un intenso piacere in compagnia
di quella sconosciuta, ripensavo a Jessica. E solo ora mi resi conto
che ero incazzato nero con il mondo intero, con lei per aver scelto
quel pesce lesso di Lars Ulrich, con quest'ultimo per avermi
telefonato e umiliato senza alcun riguardo, con me stesso per essermi
illuso che quella vacanza mi
avrebbe aiutato.
Stavo andando sempre più
alla deriva e non sapevo come rimettermi sulla giusta rotta.
Una volta uscito dalla
doccia, gettai via lenzuola e coperte, ammucchiandole in un angolo.
Frugai nell'armadio e ne trovai delle altre, così le sistemai
un po' a caso sul materasso e mi ci lasciai cadere.
Non avrei sopportato di
dormire con quell'odore addosso.
Ehilà,
come state?
Torno
a rompere soltanto per spiegarvi una cosa e chiedervene un'altra.
Ho
nominato il Blue Mountain, quando Daron lo ordina al bar sulla
terrazza; come ho cercato di spiegare anche attraverso i suoi occhi e
i suoi sensi, si tratta di un caffè tipicamente prodotto in
Giamaica, il quale è molto rinomato e costoso, coltivato sulle
Blue Mountains giamaicane a un'altitudine rigorosamente compresa tra
i 1000 e i 2000 metri; questo viene controllato e certificato dal
governo, e infatti le piantagioni di caffè situate più
in basso danno il nome ad altre qualità meno pregiate o
comunque diverse. Pensate che la maturazione di questo tipo di caffè
può richiedere fino a dieci mesi ed è rallentata dalla
forte presenza di nebbia e precipitazioni. Ma questo è
soltanto un pregio per il Blue Mountain, è un fattore che non
fa che aumentare la sua rarità e il suo pregio ^^ io sarei
curiosissima di assaggiarlo, e voi?
La
domanda che invece vorrei porvi è: vi aspettavate un risvolto
del genere nella storia? Forse da Daron ci si poteva aspettare
qualcosa come una conquista “amorosa”, ma avreste mai
immaginato che Medison, l'amante del momento del padre di Leah,
potesse darla via così facilmente e concedersi al nostro
scapestrato chitarrista?
Attendo
il vostro parere e vi ringrazio tutti per il supporto, alla prossima
♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Jamaican Breakfast ***
ReggaeFamily
Jamaican
Breakfast
[Leah]
Mi
svegliai fin troppo presto e cercai in tutti i modi di
riaddormentarmi, ma non ebbi alcun successo.
Così
mi alzai, irritata, e mi preparai per andare in spiaggia. Mio padre e
la sua amante del momento non sarebbero scesi dalla loro camera prima
di mezzogiorno, ne ero certa, e in questo modo avrei potuto godermi
un po' di sole senza averli tra i piedi.
Mi
affacciai in corridoio con circospezione e aggrottai la fronte; era
assurdo che i tre componenti dei System Of A Down dormissero nella
mia stessa palazzina e nel mio stesso piano, se lo avessi saputo, mi
sarei fatta spedire altrove da Dayanara. Incontrare quei tre non era
nei miei programmi del momento, non dopo le urla che avevo sentito
provenire da una delle stanze durante la notte precedente. Uno di
loro doveva essersela spassata con qualche sventola giamaicana, e io
non avevo potuto evitare di sentire i loro gemiti. Possibile che
questa gente non avesse un minimo di discrezione?
Ripensai
a Shavo e al suo orribile aspetto in seguito al viaggio; lui non
poteva essere stato, anche perché John mi aveva assicurato di
averlo messo a letto. Doveva essere stato Daron, quel pazzo poteva
essere capace di qualunque cosa.
Mi
richiusi piano la porta alle spalle e mi avviai all'ascensore. Volevo
soltanto mangiare qualcosa e buttarmi in spiaggia, non avevo nessuna
voglia di pensare a niente e nessuno.
Quando
la porta dell'ascensore si aprì, mi ritrovai di fronte John
Dolmayan in tenuta da jogging.
Inclinai
la testa di lato e storsi la bocca. «Che problemi hai?»
esordii senza salutarlo.
«Buongiorno...
Leah, giusto? Non ho nessun problema» rispose senza scomporsi,
per poi fermarsi all'inizio del corridoio.
«Sono
le otto e mezza del mattino e tu sei già andato a fare
jogging. Hai qualche problema serio, amico» gli feci notare.
Poi entrai in ascensore e premetti il bottone con il numero zero.
«È
tutta salute» commentò Dolmayan in tono piatto.
«Se
lo dici tu...» Poco prima che le porte si richiudessero, mi
venne in mente una cosa e infilai un piede tra di esse per bloccarle.
«Hai già fatto colazione?» gli chiesi.
Nel
frattempo lui si era voltato e stava per avviarsi alla sua stanza, ma
al suono della mia voce si bloccò e tornò a guardarmi.
«Come? No, non ancora.»
«Se
vuoi ti aspetto e la facciamo insieme. Magari in terrazza, eh?»
gli proposi, accennando al piano superiore con un cenno del capo.
Sono
certa che sarebbe arrossito se non fosse stato tanto composto e
riservato, il suo sguardo sfuggente mi suggerì che si sentiva
in imbarazzo. «Io... vado a vedere se Shavo è sveglio,
così può venire anche lui, no?» replicò
titubante.
«Lascialo
dormire. Ehi, John, non ti mangio mica, sono solo una ragazzina»
lo canzonai, facendogli cenno di seguirmi.
Si
guardò gli abiti sportivi che indossava, che consistevano in
una t-shirt bianca e azzurra, un paio di pantaloncini abbinati e
delle scarpe da ginnastica nere; poi sollevò di nuovo gli
occhi e annuì leggermente, così gli feci spazio nel box
e premetti il tasto con il numero sette.
«Sei
sempre così timido?» gli chiesi mentre l'ascensore
saliva di tre piani.
«E
tu sei sempre così indiscreta?» contrattaccò.
Sorrisi
e sollevai il pollice della mano destra. «Touché.
Okay, mi dispiace. Ma non volevo fare colazione da sola, sai che
noia...»
«In
effetti è vero» concordò. «Volevo svegliare
Shavo proprio per questo.»
«Io
sarei stata sola piuttosto che chiamare il mio genitore e la sua
amante del momento» brontolai.
«Immagino...»
Ci
ritrovammo poco dopo sulla terrazza invasa dal sole, ombreggiata
soltanto dagli ombrelloni sparsi qua e là e dalla tettoia del
chiosco in legno. Al bancone riconobbi Alwan, il quale sobbalzò
non appena mi riconobbe e corse ad abbracciarmi con slancio.
«Leah!
Cavoli, quando sei arrivata?» esultò, sollevandomi da
terra e stringendomi forte a sé.
«Al,
mettimi giù!» risi, poi riuscii a divincolarmi e a
toccare nuovamente terra.
«Soltanto
ieri pomeriggio» risposi, risistemandomi i capelli.
«E
non sei salita neanche a salutarmi? Day ti ha visto?»
«Sì,
mi ha accolto lui. Oh, non avevo voglia di arrampicarmi fin quassù.
In ogni caso, ti presento John, un nuovo ospite dell'hotel»
sviai l'argomento, indicando il batterista con un cenno.
I
due si strinsero la mano e Alwan ci indicò un tavolino.
«Sedetevi.
Cosa vi porto?» ci chiese con un sorriso.
Io
e John ci scambiammo un'occhiata.
«John,
hai fame?» domandai con un sorrisetto malizioso.
«Un
po'...» bofonchiò lui.
«Sei
vegetariano?» indagai ancora.
«No.
Perché?»
Mi
voltai verso Alwan e gli dissi: «Allora portaci due Blue
Mountain, poi io vorrei del pane tostato con burro e marmellata
Guava, mentre direi che per quest'omone qua potresti portare una
bella fetta di Bummy».
Alwan
annuì e fece per andarsene, e allora notai le sue occhiaie e
la stanchezza impressa sul suo viso.
«Al,
hai lavorato fino a tardi ieri notte?» gli chiesi.
«Già.
Mi sono capitati due turni vicini» ammise con un sospiro.
«Cazzo,
è sempre la solita storia qui...»
Lui
fece spallucce e si allontanò verso il bancone.
Allora
notai che John mi fissava in maniera strana. «Scusa, Leah...
cosa devo mangiare a colazione?» indagò con le
sopracciglia aggrottate.
«Se
ti fidi di me, sono sicura che non te ne pentirai. Ti piace il
caffè?»
Il
batterista annuì. «Caffè nero e senza zucchero.»
«Allora
amerai il Blue Mountain. Non dirmi che non lo hai mai assaggiato!»
Scosse
il capo. «Però ne ho sentito parlare.»
«Ottimo.
Il Bummy invece è una deliziosa torta a base di manioca.
Secondo me ti piacerà anche quella. Insomma, sei qui per
mangiare le solite cose o vuoi conoscere nuovi piatti? Mi sembri un
tipo un po'...» Ci pensai su alla ricerca di una parola adatta
a definirlo.
«Un
po'?» mi incalzò, appoggiando una mano sul tavolo e
sporgendosi leggermente verso di me.
«Sei
classico, mi dai l'impressione di una persona che non ama
sperimentare» spiegai, sperando di non offenderlo. Se pensavo
alla sua musica, mi sarei rimangiata quelle parole, ma lui non poteva
sapere che lo avevo riconosciuto.
«Diciamo
che non amo i fuori programma» tagliò corto, studiandomi
con rinnovata curiosità.
«Ci
ho azzeccato. Ma dimmi, che mangiate in Armenia per colazione?»
lo punzecchiai, stiracchiandomi sulla sedia e sbadigliando
sonoramente.
«Pane
e sale» disse John.
Mi
drizzai sul posto e lo guardai con aria sconcertata, poi un leggero
sorriso gli incurvò le labbra e io scoppiai a ridere per
l'espressione estremamente buffa che aveva assunto.
Nel
frattempo Alwan tornò da noi con un vassoio tra le braccia e
l'aria sempre più stanca.
«Al,
mi preoccupi...»
«Tranquilla,
ci sono abituato. Non vedo l'ora di finire il turno, così
posso buttarmi a letto. Buon appetito ragazzi, poi fatemi sapere se
vi piace questa colazione giamaicana.»
Quando
se ne fu andato, notai John che osservava con circospezione la torta
Bummy.
«Mangia,
altrimenti deperirai» scherzai, cominciando a farcire le mie
tre fette di pane tostato.
A
fine pasto il batterista ammise che il Blue Mountain era veramente
buono, ma che la torta non lo aveva conquistato più di tanto.
«Peccato.
Però ho un'idea» dissi, finendo di mangiare.
«Cioè?»
«Facciamo
colazione insieme tutte le mattine, e io scommetto che prima o poi
troverò qualcosa che ti piacerà da morire»
proposi con entusiasmo.
Parlare
con lui era diventata ormai una sfida per me; era generalmente
taciturno e poco loquace, ma pian piano stavo riuscendo a farlo
uscire da quel suo guscio e a prendere un po' più di
confidenza con lui. Con Shavo era stato facile fin da subito, mentre
John richiedeva più pazienza e uno sforzo maggiore da parte
mia. Tuttavia non mi dispiaceva affatto, almeno avevo qualcosa da
fare e qualcuno con cui passare il tempo.
«Perché
no? Tanto sono l'unico che si sveglia presto, i ragazzi sono più
pigri...» accettò John di buon grado.
«Affare
fatto, amico!»
Mi
alzai e lo salutai con un cenno, poi gridai un «ciao» in
direzione di Alwan e tornai in ascensore. Raggiunsi nuovamente la mia
stanza e recuperai la sacca per andare in spiaggia, dopodiché
uscii in corridoio.
Proprio
in quel momento una porta si aprì e Shavo mise fuori la testa;
aveva un'aria assonnata e non sembrava essersi ripreso del tutto.
«Ciao
Shavarsh.»
Lo
notai sobbalzare al suono della mia voce, poi mi individuò a
pochi metri da lui e accennò un sorriso. «Ehi. Vai in
spiaggia?»
«Sì,
vado al Buts. Ti farebbe bene prendere un po' di sole, hai una
faccia...» commentai, osservandolo meglio.
«Al
Buts?»
«Beach
under the Sun, è la spiaggia qui di fronte, alla destra di
questa palazzina» spiegai pazientemente.
«Ah,
ecco. Prima devo cercare John, chissà dove si è
cacciato quel...»
Lo
interruppi: «Abbiamo fatto colazione insieme, sta bene e non ha
mangiato niente che potesse avvelenarlo. Be', io vado allora. Se vuoi
qualcosa, sai dove trovarmi». Detto questo, gli voltai le
spalle e camminai verso l'ascensore, per poi entrarci e dirigermi
finalmente in spiaggia.
Verso
le undici e un quarto la spiaggia era discretamente affollata. Ero
stesa sotto il sole da circa un'ora e nessuno dei ragazzi si era
ancora fatto vivo.
A
ridestarmi dal mio stato di semi-morte fu l'arrivo di un gruppo di
persone che si sistemò a qualche metro da me.
«Kelly,
Kelly, ma dove sono? Io non li vedo, secondo me te lo sei
inventato...» squittì una ragazzina dalla voce stridula.
«E
che ne so? A me hanno detto che sono qui...» rispose un'altra
voce femminile in tono brusco.
Sbirciai
in quella direzione e notai che i nuovi ospiti erano due ragazze che
dovevano avere diciassette anni accompagnate dai loro genitori. O
almeno così supposi.
«Kelly,
secondo me ti sei inventata tutto!» strillò ancora una
delle due.
«Ashley,
smetti di urlare, stai dando spettacolo» la rimproverò
quella che doveva essere sua madre.
«Mamma,
tu non capisci!» piagnucolò Ashley.
«Ash,
dai, magari stanno dormendo...» tentò di calmarla Kelly.
Mi
misi a sedere e le osservai più attentamente, anche se
mantenni comunque una certa discrezione: erano entrambe bionde, magre
e abbronzate, sembravano gemelle; ma a un esame più accurato
non lo erano affatto, e i loro capelli erano palesemente tinti.
Ashley assomigliava parecchio ai suoi genitori, mentre Kelly era
completamente diversa. Forse non erano sorelle, probabilmente la
famiglia di Ashley aveva invitato Kelly in vacanza.
«Non
è possibile, hai visto che ore sono?» strepitò
ancora Ashley.
«Ma
dai, sono delle rock star, vuoi che si alzino all'alba per fare un
favore a te?» le fece notare l'amica.
A
quel punto aggrottai le sopracciglia e tesi le orecchie per senire
meglio la loro conversazione.
«Stronza!»
strillò ancora Ashley, poi si tolse di colpo il prendisole
color crema e rimase in bikini a fissare in cagnesco la sua amica.
«Ashley,
non esprimerti in questo modo» la rimproverò suo padre,
un bell'uomo di mezza età dai capelli brizzolati.
«Ma
io...»
«Basta,
dai! Andiamo a farci il bagno, hai visto che acqua spettacolare?»
tagliò corto l'amica, per poi correre verso la rima.
Ashley
si guardò attorno un'ultima volta, poi seguì di
malavoglia Kelly. Poco dopo le due stavano starnazzando tra le onde e
io smisi presto di badare a loro.
Però
non riuscii a dimenticare ciò che aveva detto Kelly a
proposito delle rock star che non si alzano all'alba. Un dubbio prese
velocemente forma nella mia mente e rimasi a domandarmi se si
trattasse di una coincidenza oppure no.
Poi
intravidi Shavo che camminava verso la spiaggia e mi alzai di botto,
intenzionata a rimandarlo indietro il prima possibile.
Se
le intenzioni di quelle due invasate corrispondevano al mio pensiero,
dovevo assolutamente evitare che il bassista le incontrasse.
Quando
gli fui accanto, con le mie cose in mano e le infradito infilate per
metà, lo afferrai per un braccio e lo trascinai nuovamente
verso l'albergo.
«Leah,
cosa stai facendo?!» mi chiese allarmato, cercando di arrestare
la mia avanzata.
«Te
lo spiego dopo, adesso cammina!» gli intimai.
E
mentre raggiungevo a grandi passi l'ingresso laterale della palazzina
dipinta di bordeaux, mi resi conto che presto avrei dovuto
abbandonare la mia maschera e rivelare ai ragazzi che sapevo fin
troppo bene che erano tre componenti dei System Of A Down.
Cari
lettori, come va?
Vi
piace che Leah stia cercando di coinvolgere John in qualcosa come la
scoperta dei piatti tipici giamaicani? Secondo voi troverà il
modo per fargli amare qualcosa? ^^
A
proposito di questo, ho parlato della Bummy cake e ho spiegato nel
capitolo che si tratta di una torta a base di manioca, che si mangia
a colazione in Giamaica; poi ho menzionato la marmellata Guava che
Leah spalma sul suo pane tostato, molto usata e diffusa nei Caraibi
^^
Detto
questo... cosa pensate invece di questa svolta inaspettata nella
trama e di queste due nuove comparse che a quanto pare stanno
cercando proprio i nostri tre eroi?
Io
sono un po' preoccupata, soprattutto perché ora Leah dovrà
confessare loro di conoscerli... perché mai non glielo avrà
detto fin dall'inizio? Voi avete qualche idea in proposito?
Attendo,
come sempre, i vostri commenti e vi ringrazio di cuore per il
supporto :)
Alla
prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Groupies ***
ReggaeFamily
Groupies
[Shavo]
«Adesso
mi dici cosa ti è preso, Leah?» sbottai, quando ci
ritrovammo in attesa dell'ascensore.
La
ragazza si era comportata davvero in modo strano e io non riuscivo a
comprenderne il motivo; era stata lei a invitarmi in spiaggia, ma non
appena mi ero fatto vivo era scattata come una molla e mi aveva
ricacciato dentro l'albergo, guardandosi intorno con circospezione.
Ero
seriamente preoccupato, ma soprattutto mi domandavo come mai fossi in
grado di attirare a me soltanto persone svitate e mentalmente
instabili. Dovevo essere una specie di calamita, altrimenti non
sapevo che altra spiegazione darmi.
Leah,
non appena le porte si aprirono, si fiondò nel box e io la
seguii in fretta. Premette il tasto con il numero sei e io presi
seriamente ad agitarmi.
«Dove
staimo andando? E perché ti comporti così?»
strepitai, sentendomi veramente in ansia per quella strana evoluzione
dei fatti. Del resto, non conoscevo quella ragazza e lei avrebbe
potuto condurmi dove voleva, dal momento che conosceva quel posto a
memoria.
«Calmati,
Shavarsh» sospirò.
«Come
posso calmarmi?!»
«Ascolta,
è complicato...» Leah sollevò gli occhi su di me
e mi studiò per un po'. «Il Buts al momento non era...
adatto a te, ecco.»
Non
ci stavo capendo un bel niente. «Ma se mi hai detto tu di
raggiungerti laggiù!» le feci notare esasperato.
«Hai
ragione, ma poi...»
L'ascensore
si fermò e noi uscimmo, per poi ritrovarci in un piano
dell'albergo che non mi era familiare. Capii subito che in quel punto
si trovavano le piscine, le saune, il centro benessere e la palestra,
poiché mi ritrovai di fronte dei cartelli con delle
indicazioni chiare e precise scritte sopra.
«Leah,
fermati!» La afferrai per un braccio e la costrinsi a voltarsi
nella mia direzione. Eravamo a pochi passi dall'ascensore e io non
avevo intenzione di continuare a trotterellarle dietro per cercare di
estorcerle la verità.
Lei
parve preoccupata e, prima di parlare, sospirò. «La
prima cosa che devi sapere è che io...»
Ma
proprio mentre lei stava per pronunciare una frase che, ne ero certo,
sarebbe stata importante e decisiva, l'ascensore alle nostre spalle
si aprì e due ragazze ne uscirono di corsa, per poi fermarsi a
poca distanza da noi.
Erano
bionde e magre, sembravano quasi gemelle, e si scambiavano occhiate
allucinate, mentre faticavano a stare ferme. Erano in bikini e con i
piedi scalzi, e grondavano acqua.
Fissavano
me e Leah e non riuscivano a spiccicare parola.
Poi
una delle due sbottò: «Ash, hai visto? Cosa ti avevo
detto?».
«Oddio,
Kelly... avevi ragione...» balbettò l'altra, per poi
portarsi una mano alla bocca.
Le
due cominciarono a ridacchiare tra loro, senza smettere di fissarmi.
Currugai la fronte e lanciai un'occhiata interrogativa a Leah, la
quale però non si scompose e mi ignorò completamente.
Cosa le prendeva ora?
«Oddio...
tu sei... oddio!» strillò la prima, avvicinandosi
pericolosamente a me.
Indietreggiai
di un passo, in maniera istintiva, ma poi mi ricordai di dover essere
educato e di non dovermi comportare da snob, anche se avrei tanto
voluto farlo.
Leah
a quel punto scosse il capo e se ne andò, mollandomi lì
senza neanche degnarmi di un saluto. Ero sempre più confuso, e
ora dovevo avere a che fare con quelle due ragazze che avevano
evidentemente capito che ero il basista dei System Of A Down.
«Possiamo
farci un selfie?» continuò a squittire la ragazza, poi
si rese conto di non avere lo smartphone con sé e si rivoltò
contro l'amica: «Ecco, Kelly, questa è tutta colpa tua!
Hai avuto fretta e...».
«Ma
cosa stai dicendo? Se non fossimo corse fuori dall'acqua lo avremmo
perso, cretina!» la rimbeccò l'amica, puntandosi le mani
sui fianchi.
«Ma
vaffanculo, però almeno avremmo avuto un cellulare per
raccogliere le prove di questo incontro!»
Io
le ascoltavo e guardavo sconcertato.
«Pazienza,
tanto staremo qui per due giorni, no?» si mise sulla difensiva
Kelly.
«Lasciamo
perdere, sei una stupida! Oddio... e ora? Oh, Shavo, quanto sono
emozionata! Quanto ti amo!» prese a cinguettare l'altra
ragazza, avvicinandosi ancora a me.
Dovetti
fare uno sforzo abnorme per rimanere fermo dov'ero, ma soprattutto
per regalare loro un sorriso decente. Le avrei volentieri strozzate
con le mie stesse mani, ma dovevo mantenere un certo contegno.
«Non
ci posso credere, sei davvero qui, sei davvero tu! Sognavo questo
momento da tutta la vita, io ti adoro, sei tutto per me!»
«Ehi,
grazie... ehm...» biascicai in imbarazzo. Era una pazza, stavo
seriamente cominciando a preoccuparmi.
Poi
mi afferrò per le braccia e mi si premette addosso,
stringendosi a me come un'anguilla e facendo aderire i suoi seni al
mio petto e inzuppandomi tutti i vestiti d'acqua. «Oh Shavo...»
mormorava, come se io e lei stessimo facendo sesso o qualcosa del
genere.
«Ehi,
mi fa... piacere che tu apprezzi la mia... musica, ma...»
tentai di allontanarla gentilmente da me, ma lei era irremovibile.
«Shavo,
sono vergine e pronta solo per te, lo sai?» disse
all'improvviso, sollevando il viso e guardandomi con gli occhi lucidi
e sgranati.
Avevo
seriamente paura, come potevo liberarmi di quella piattola? La sua
amica intanto era impalata e ci fissava con sguardo colmo di invidia.
«Ashley,
sei proprio una zoccola» disse all'improvviso, e la mia
assalitrice si scostò per poterla incenerire con gli occhi.
«Io
sono zoccola solo perché tu non hai il coraggio di fare quello
che faccio io, Kelly» rispose Ashley con cattiveria, poi si
strinse nuovamente a me e fece strofinare il suo bacino contro il
mio. Era troppo, dovevo assolutamente liberarmi di lei, mi stava
indisponendo e avrei finto per trattarla male.
«Scusami,
Ashley, ma devo raggiungere la mia ragazza, ti spiace? Magari ci
vediamo in un altro momento e facciamo una foto, che ne dici?»
buttai lì, afferrandola per le spalle e facendola leggermente
indietreggiare.
Lei
mi gelò con un'occhiata. «Quella è la tua
ragazza?»
Allora
mi resi conto che avevo appena combinato un disastro e che avevo
coinvolto Leah in un casino che dipendeva solo da me. Ma ormai il
danno era fatto, così mi ritrovai ad annuire.
«Ma
io non sono gelosa, sai?» ritentò.
«Ma
lei sì, e io la amo, non intendo tradirla. Mi capisci, vero?»
cercai di convincerla, sentendomi sempre più esasperato.
L'unica cosa che volevo era non trovarmela più di fronte, ma
dubitavo che sarebbe stato fattibile.
«Oh,
che carino che sei, che uomo fedele e amorevole!» commentò
lei sorridendomi in maniera maliziosa. Doveva avere sì e no
diciotto anni e si comportava già come una sgualdrina piena di
esperienza. Ero basito.
«Dai,
Ash, lascialo tranquillo. Lo hai spaventato» intervenne la sua
amica con un filo di voce.
«Eppure
sul palco sembravi più intraprendente, Shavo... vedrai, ti
farò passare la voglia di desiderare quell'insignificante
ragazza con cui esci, fidati di me» affermò Ashley.
Detto
questo, afferrò Kelly per un braccio e la trascinò
nuovamente verso l'ascensore, ancheggiando in un modo che avrebbe
dovuto eccitarmi.
Ero
veramente sconvolto e non sapevo che fine avesse fatto Leah e perché
se ne fosse andata così in fretta; cominciai a cercarla e la
trovai poco dopo a bordo piscina con i piedi immersi nell'acqua. Il
luogo era praticamente deserto, evidentemente gli ospiti dell'hotel
preferivano stare in spiaggia piuttosto che rinchiudersi in quel
benessere artificiale.
«Leah,
eccoti!» esclamai, lasciandomi poi cadere accanto a lei e
immergendo a mia volta i piedi in piscina. L'acqua era tiepida e
piacevole, fu subito in grado di rinvigorirmi.
«Ehi,
Shavarsh, carine le tue nuove amiche» commentò,
lanciandomi uno sguardo in tralice.
«Chi
le conosce, sono due pazze. Mi hanno... scambiato per non so quale
celebrità, è stato orribile» mentii. Non seppi
neanche io perché, ma non volevo che Leah cambiasse la sua
opinione nei miei confronti. Se avesse scoperto che ero un musicista
abbastanza famoso e avesse guardato qualche video dei miei live,
probabilmente non mi avrebbe più rivolto la parola.
Lei
ridacchiò. «Pensa te... non potresti essere famoso
neanche se lo volessi, ma ti sei visto?» scherzò,
mollandomi una gomitata.
«Hai
ragione» concordai. Ormai avevo cominciato con il teatrino, non
potevo tirarmi indietro all'improvviso. «Ma cosa volevi dirmi
prima? E perché mi hai trascinato via dalla spiaggia in quel
modo?»
«Così.»
Scrollò le spalle e fissò lo sguardo nell'acqua. «Non
mi andava più di stare in spiaggia, troppa gente... qui è
decisamente più tranquillo. Ma se tu vuoi tornarci, fai pure.»
C'era
qualcosa di strano nelle sue parole, ma non avrei saputo dire di cosa
si trattasse.
«No,
qui va bene. In realtà stavo scendendo a cercarti, quindi non
fa differenza...» borbottai. «Ma volevi dirmi qualcosa,
prima che quelle ragazze ci interrompessero, o sbaglio?» le
chiesi.
«Ah,
sì... ho fatto colazione con John, il tuo amico dal nome
normale. Abbiamo deciso di fare colazione insieme tutte le mattine,
perché voglio trovare un cibo tipico giamaicano che lo faccia
impazzire. Che strano ragazzo, non si scompone mai, sembra sempre
triste, o forse... serio, ecco. Non parla molto.»
Riflettei
un attimo su quelle parole, poi dissi: «John è
particolare, ma è una persona fantastica, credimi. È
che ci impiega un po' a fidarsi del prossimo, e non ha certo la mia
parlantina o quella di Daron, ecco».
Leah
tornò a guardarmi e incilinò la testa di lato. «Daron
è ancora più strano. Penso che prima o poi gli ruberò
le infradito rosse che portava ieri, a lui stanno davvero male, però
sono carine» ammiccò.
Risi.
«Può sembrarti eccentrico, Daron.»
«E
non è vero?» indagò con curiosità.
Annuii.
«Diciamo che lo è, ma in realtà non ama
particolarmente stare al centro dell'attenzione. È un
controsenso, lo so, ma se potesse vivrebbe da eremita. Non che io sia
molto meglio, però lui è...»
La
ragazza si sporse verso di me e mi studiò con più
attenzione. «Tu? Eremita? Non prendermi in giro, Shavarsh.»
Mi
posai una mano sul petto, ancora coperto dalla canottiera umida in
seguito al contatto con quella specie di groupie che avevo incontrato
poco prima. «Giuro. Ci sono dei periodi in cui non esco di
casa, mi rinchiudo in me stesso e non apro a nessuno né
rispondo al telefono. Passo il tempo a dormire, pensare, dipingere,
suonare e guardare serie tv.»
«Suonare?»
«Già,
suono principalmente il basso, ma anche la chitarra, le tastiere... e
poi amo fare il dj!» spiegai con rinnovato entusiasmo. Era
bello poterle raccontare chi ero senza che lei sapesse già
ogni cosa di me e della mia vita professionale e privata.
«Caspita,
non l'avrei mai detto. Sei davvero interessante» disse Leah con
un sorriso.
«Grazie.
E tu invece? Cosa fai nella vita?» volli sapere.
«Studio
e vivo a Las Vegas. Ho un padre orribile, pochi amici... sono una
tipa abbastanza solitaria, anche se parlo un sacco. Sono
schifosamente curiosa e mi piace andare alla scoperta di nuove cose.
Amo la musica, ma sono negata per suonare qualunque strumento o per
cantare» mi raccontò, poi si sfilò il prendisole
azzurro che indossava e lo lanciò su una sdraio. Poco dopo si
immerse in piscina e aggiunse: «Vieni? Ci facciamo una
nuotata».
Annuii
e mi tolsi la canottiera, per poi lanciarla insieme al telo da mare
sulla stessa sdraio in cui giaceva il vestito di Leah. Mi immersi a
mia volta in acqua e la raggiunsi.
«Sai
nuotare, Shavarsh?» mi punzecchiò, tirandomi un calcio
sott'acqua.
«È
una sfida?»
Gli
occhi scuri di Leah incrociarono i miei, e notai che si illuminarono
al suono della parola sfida,
così mi slanciai all'improvviso nella sua direzione, cercando
di afferrarla per un braccio; lei però fu più veloce e
mi sfuggì, probabilmente si aspettava una mia mossa di quel
tipo.
Cominciammo a nuotare come
cretini per tutta la piscina, rincorrendoci a vicenda e gridandoci
contro i peggiori insulti che ci venivano in mente. Era divertente
trascorrere del tempo con quella ragazza, sapeva come prendermi e non
mi faceva sentire diverso, non mi faceva affatto sentire in imbarazzo
e, anzi, mi metteva a mio agio.
Mi
accorsi, probabilmente in ritardo, della presenza
di John e Daron a bordo piscina. I due stavano in piedi con i vestiti
addosso e osservavano me e Leah come se fossimo due alieni. Daron
aveva stampata in viso un'espressione estremamente maliziosa e teneva
in mano il suo smartphone, puntandolo contro di noi. Immaginai che ci
stesse scattando delle foto o stesse girando qualche video, così
nuotai in quella direzione e lo fulminai con lo sguardo.
«Malakian, cosa
diamine stai facendo?»
«Buongiorno pelatone,
come butta? Vedo che ti stai divertendo... io che faccio? Niente, sto
solo cercando delle prove per alimentare ciò che si dice in
giro sul tuo conto...»
Sgranai gli occhi. «Come,
scusa? Non ho capito. E smettila di fotografarmi, altrimenti ti
trascino qui dentro con cellulare e vestiti e potrai dire addio al
tuo strumento per la ricerca delle prove» lo minacciai,
allungando una mano verso la sua caviglia.
Lui saltò prontamente
all'indietro e notai che indossava nuovamente le infradito rosse. «Oh
sì, così, sorridi... sei un fotomodello» mi prese
in giro il chitarrista, continuando a scattare foto e spostandosi per
potermi riprendere da diverse angolazioni.
«Io ti ammazzo,
Malakian! Sei un uomo morto!» strillai, per poi balzare
maldestramente fuori dall'acqua e prendere a rincorrerlo.
Leah
uscì poco dopo dalla piscina e notai con la coda dell'occhio
che avvolgeva il suo telo da mare intorno
al corpo, per poi accostarsi a John e scambiare con lui delle
occhiate interrogative.
«Cos'è che si
dice in giro, razza di nanerottolo impertinente? Se ti prendo ti
affogo!» continuai a inveire, mentre Daron correva molto più
veloce di me, ridendo sguaiatamente e riempiendo l'aria con la sua
voce acuta e squillante.
«Dicono che hai una
nuova fidanzata, e che lei sia piuttosto insignificante!»
Nell'udire quelle parole mi
bloccai di botto e spalancai gli occhi.
Possibile che quelle due
groupies psicopatiche avessero già messo in giro delle voci
sul mio conto? E se così fosse, ora come potevo spiegare a
Leah che razza di casino avevo combinato?
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Bad Ideas ***
ReggaeFamily
Bad
Ideas
[John]
Rimasi
a fissare Shavo per un po', mentre eravamo seduti in ristorante e
aspettavamo di mangiare. Aveva un'espressione incredula stampata in
viso, ma a renderlo ancora più confuso era l'atteggiamento di
Daron, che non voleva raccontargli cosa ci era accaduto mentre ci
aggiravamo per l'albergo in cerca della piscina.
«John,
c'eri anche tu, no? Raccontami tutto! Questo stronzo non vuole
saperne...» si lamentò il bassista.
«Stronzo
a me? Come osi?!»
«Daron,
sta' un po' zitto, eh? Niente, abbiamo solo incontrato due... pazze»
dissi, per porre fine a quello scempio.
«Oh
no, anche voi?! Ragazzi, chi è stato a dirmi che qui saremmo
stati tranquilli e nessuno ci avrebbe importunato?» sbottò
Shavo, portandosi una mano sulla fronte e scuotendo il capo.
«Colpa
di Serj.» Daron fece spallucce e si guardò intorno alla
ricerca di un cameriere, con la solita impazienza che lo
caratterizzava.
«Gli
farò causa.»
«Dai,
non siate drastici» mi intromisi. «Sono solo due
ragazzine, cosa potranno mai farci?»
«Senti
un po', se loro diffondono la notizia che noi siamo qui, sarà
la fine, capisci? Altro che vacanza in pieno relax, diventerà
un incubo...» si agitò Shavo, rischiando di cadere dalla
sedia, tanto si muoveva e gesticolava.
«Stai
calmo» borbottò Daron, inclinando la testa di lato e
studiandolo con attenzione. «Significa che qualcuno di noi si
sacrificherà per far tenere la bocca chiusa a quelle due.»
«Cosa
intendi?» mi informai, titubante; conoscendo il chitarrista, la
sua risposta non mi sarebbe affatto piaciuta, ne ero certo.
«Be',
vogliono avere una storiella con noi, sono solo delle groupies, delle
puttanelle da quattro soldi, no? Accontentiamole a patto che stiano
mute» disse infatti Daron con estrema semplicità,
scrollando le spalle.
Prima
che potessi rispondere, Shavo balzò in piedi e gli puntò
contro un dito. «Tu sei pazzo, completamente andato. Hai
trovato qualcuno che ti ha fornito della roba pesante, vero? Perché
altrimenti non me lo spiego» ringhiò, gli occhi stretti
a fessura e il viso distorto dalla rabbia.
Certe
volte il nostro chitarrista diceva delle cazzate astronomiche, e
Shavo faticava a dargli retta o a mantenere la calma quando lo
sentiva blaterare certe fesserie.
«Ragazzi,
non litigate, per carità! Daron scherzava, non
preoccuparti...» tentai di sciogliere la tensione.
«No
che non scherzavo. Come pensi di liberartene, Dolmayan? Hai sentito
cosa hanno detto? Parli bene tu, non ti hanno neanche considerato,
mentre io me le sono ritrovate praticamente in braccio e non sapevo
come mandarle al diavolo. Non si arrenderanno, sono psicopatiche.»
«Qui
lo psicopatico sei tu! Io non farò sesso con quelle due, punto
e basta. La questione è chiusa. Se ci tieni tanto, accomodati»
concluse Shavo, per poi rimettersi a sedere.
Rimase
in silenzio per il resto del pranzo, e io non seppi proprio come
comportarmi. Daron continuò a intessere il suo folle piano,
asserendo che non sarebbe stato poi così male, che ci
sarebbero stati dei lati positivi e che a quelle ragazze sarebbe
bastata una botta e poi ci avrebbero lasciato in pace per l'eternità.
«Sono
contento che non mi vogliono» tagliai corto.
«Tu
sei uno sfigato, Dolmayan» mi punzecchiò il chitarrista,
per poi cominciare a ingozzarsi con il suo cibo rigorosamente fritto.
«Gli
sfigati siete voi. Almeno posso vivere tranquillo.»
Daron
ridacchiò. «Ma io scopo un sacco.»
«Che
spasso» commentai sarcastico.
«Sì.
Ieri notte mi sono divertito con una bella creatura, sapessi...»
mi raccontò, ammiccando.
«Non
mi interessano i dettagli, grazie.»
«Peggio
per te...»
Shavo
era palesemente incazzato e se ne andò prima che potessi
intercettarlo; una decina di minuti dopo lo seguii fuori dal
ristorante, ma di lui non c'era nessuna traccia.
Passai
per la hall e vidi che il receptionist era appena arrivato al
bancone, probabilmente pronto a cominciare il suo turno.
«Salve»
mi salutò in tono piatto.
«Salve.
Qualcosa non va?» domandai. Aveva una faccia da funerale e
sembrava avercela con il mondo intero.
«Se
trovo quelle due oche sul mio cammino, giuro che le strozzo»
sibilò, lanciando occhiate furtive tutt'attorno.
«Di
chi parla?»
Lui
sollevò lo sguardo e sospirò. «Due ospiti
dell'albergo, due ragazzine scapestrate. Hanno allagato l'ascensore
perché sono rientrate in struttura scalze e senza pensare di
asciugarsi dopo il bagno. Un disastro...»
«Mi
pare di averle viste, e in effetti erano grondanti.» Le due
groupies che avevamo incontrato in ascensore avevano creato
scompiglio anche al personale dell'albergo.
«Perché
non si estinguono?» chiese più a se stesso che a me. Poi
parve ricordarsi di qualcosa e mi fissò. «Oh, giusto!
Prima che mi dimentichi, volevo chiederle se, ecco... se il signor
Malakian ce l'ha ancora con me per la pessima accoglienza di ieri...»
Sollevai
gli occhi al cielo. «Macché. Daron è fatto così,
non dovrebbe prendere sul serio tutto ciò che blatera»
lo rassicurai.
«Oh,
be', io pensavo... okay, ricevuto. Bene, torno al lavoro, buon
pomeriggio» concluse in fretta e furia il receptionist, poi si
concentrò sullo schermo del computer e io potei dirigermi
verso l'ascensore.
Forse
Shavo era salito in terrazza a prendere un caffè...
Nonostante
gli ombrelloni disseminati ovunque, faceva un caldo terribile quel
pomeriggio. Dietro il bancone del chiosco in legno stazionava una
ragazza dall'aria annoiata, che ogni tanto lanciava occhiate sognanti
verso il mare. Doveva star desiderando di farsi un bel bagno
ristoratore, anziché starsene a cuocere a fuoco lento
nell'attesa che qualche cliente le desse qualcosa da fare.
Shavo,
tuttavia, non c'era, ma presto venni raggiunto da Leah. La ragazza
era di ritorno dalla piscina e sembrava allegra e tranquilla come
sempre.
«Ciao
John, tutto bene? I tuoi amici stanno ancora litigando?»
esordì, per poi sedersi al mio tavolo e lanciare un'occhiata
alla cameriera.
«Shavo
si è incazzato durante il pranzo, non so dove sia. Daron è
un po' stupido, a volte...»
«Povero
Shavarsh, mi pare di capire che Daron gliene combini di tutti i
colori, eh?» volle sapere.
«Indovinato.»
Leah
fece un cenno alla cameriera e lei finalmente si decise a dirigersi
verso di noi. «Era ora, scansafatiche...» borbottò
Leah.
«Salve,
cosa vi porto?» ci chiese la tipa in tono piatto.
«Ciao
Lakyta, come stai? Vedo che lavori ancora qui, nessuno ti ha ancora
scritturato per un film a Hollywood?» le si rivolse Leah, con
tono ironico e tagliente.
«Spiritosa.
Tu non hai ancora smesso di venire qui? Sei sempre con il tuo
paparino, immagino» ribatté l'altra irritata.
«Si
fa quel che si può... come va la tua relazione con Alwan?»
La
cameriera strinse i pugni e fece del suo meglio per rimanere calma.
«Stronza.»
«Oh,
grazie, lo prendo come un complimento. Allora, portaci due Blue
Mountain, per favore.»
L'altra
la guardò in cagnesco, poi se ne andò impettita e con
passo spedito.
«Dimmi
te questa. John, sapessi quanto è odiosa! Quando l'ho
conosciuta sembrava anche una brava ragazza, ma poi si è
dimostrata falsa e ipocrita. È andata a sbandierare ciò
che le avevo confidato e ora tutto l'hotel sa i fatti miei. Da allora
non la sopporto» mi spiegò Leah, poi sospirò e
cercò di darsi una calmata, sventolandosi una mano di fronte
al viso.
«Magari
c'è stata un'incomprensione...»
«L'unica
incomprensione ce l'ha lei al posto del cervello, fidati di me»
tagliò corto la ragazza.
«Okay,
capisco.» Annuii, per poi zittirmi non appena notai Lakyta che
tornava verso di noi.
Posò
le nostre ordinazioni sul tavolino e se ne andò senza neanche
rivolgerci un'occhiata.
«Simpatica»
osservai.
«Te
l'avevo detto.» Leah si affrettò a bere il suo caffè,
poi mi scoccò un'occhiata e annunciò: «Vado a
farmi un pisolino. Potrei ripensarci solo se incontro Shavarsh, mi
dispiace che sia incazzato e magari vuole fare due chiacchiere».
«Ne
dubito. Quando si incazza, è meglio lasciarlo in pace»
le consigliai.
«Chissà...
ora vado, ci vediamo. E se non ci incontriamo prima, ricordati del
nostro appuntamento per domani a colazione. Facciamo per le nove?»
proseguì lei come un treno in corsa.
«Va
bene.»
Annuì
e se ne andò di corsa, salutandomi con un cenno della mano
mentre le porte dell'ascensore si richiudevano.
Poco
dopo la cameriera tornò al mio tavolo per portar via le
tazzine ormai vuote e mi lanciò un'occhiata interrogativa.
«Sei un amico di quella pazza?»
Sinceramente,
il tono acido della sua voce mi indispose parecchio e mi misi
immediatamente sulla difensiva, evitando di risponderle.
«So
che lo sei, scusa tanto eh, però quella non è una
persona raccomandabile» proseguì, come se io l'avessi
incitata a farlo e non la stessi deliberatamente ignorando. «Fa
tanto la dura, ma è una stupida rammollita. Prende per il culo
me, ma non sa che prima o poi arriverà il mio momento di
gloria e andrò a Hollywood per girare un film d'azione con
Steven Seagal. È soltanto invidiosa.»
«Non
voglio essere scortese, ma non penso siano affari miei» dissi
in tono piatto, poi mi alzai con calma dalla sedia e la riaccostai al
tavolo.
«Forse
hai ragione, scusa eh, ma ogni tanto c'è bisogno di sfogarsi.»
«Già.
Grazie per il servizio al tavolo, adesso sono di fretta»
tagliai corto e mi avviai verso l'ascensore. Perché quel
dannato albergo era popolato da strani esemplari? Dove diamine ci
aveva spedito quella carogna di Serj Tankian?
Mentre
scendevo verso la hall, intenzionato a uscire per fare due passi ed
esplorare la scogliera e i dintorni del Beach under the Sun,
il mio cellulare prese a squillare, avvisandomi di una chiamata su
WhatsApp.
Fissai
lo schermo e notai che si trattava di Serj.
«Pronto,
Serj?»
«Oh,
finalmente mi ha risposto qualcuno! È da un'ora che cerco di
chiamarvi, ma che fine avete fatto?» sbottò il cantante.
«Non
so, io ho appena preso un caffè e stavo uscendo a esplorare la
zona. Shavo si è incazzato con Daron e dev'essersi rinchiuso
in camera, mentre Daron starà cercando di abbordare qualcuno
in spiaggia...» spiegai, per poi uscire dall'ascensore e
ritrovarmi nella hall dove il receptionist stava accogliendo dei
nuovi ospiti. Fortunatamente eravamo entrambi impegnati, così
riuscii a uscire dalla struttura senza dover parlare con lui.
«Ma
che ore sono lì?» mi chiese Serj stranito.
«Uhm...»
Osservai distrattamente il mio orologio da polso e mi resi conto di
non averlo ancora impostato sull'ora giamaicana. Imprecai mentalmente
e feci spallucce, affranto. «Non lo so, ecco... non ho
impostato l'orario sul mio orologio da polso» spiegai.
«Sul
cellulare dovrebbe essersi impostato in automatico, ma comunque...
perché Shavo si è incazzato con Daron? Okay, sarebbe
strano il contrario, però dev'essere capitato qualcosa di
grave, no?»
Allontanai
un attimo il cellulare dall'orecchio e controllai l'orario, poi lo
riportai all'orecchio e replicai: «Sono successe tante cose,
sapessi... ma in che razza di posto ci hai spedito? Speravamo di fare
una vacanza rilassante, e invece... ma comunque, qui sono le tre e
quaranta del pomeriggio, a Los Angeles che ore sono?».
«Mezzogiorno
e quaranta. Io e Angie stiamo per pranzare.»
«Oh.»
Sentii
Serj sorridere all'altro capo del telefono. «Adesso mi dici
cos'è successo?»
Così,
mentre passeggiavo e mi dirigevo verso la scogliera, gli raccontai
delle groupies che avevamo incontrato io e Daron in ascensore, del
disastro che avevano combinato in albergo uscendo zuppe dall'acqua
per rincorrere Shavo, del piano folle di Daron per cui il bassista si
era incazzato, e poi gli dissi di Leah che cercava in tutti i modi di
farmi chiacchierare con lei e di coinvolgermi in quella bizzarra
storia della colazione giamaicana.
«Questa
Leah pare interessante» commentò Serj infine. «Angie,
hai capito? Shavo si è già trovato una ragazza!»
gridò poi, rivolto a sua moglie.
«Ehi,
ma non è vero, lei è solo un po' esuberante, ma...
oddio, se Shavo sa che anche tu pensi questo di lui e Leah, si
incazzerà ancora di più.»
«Shavo
non si arrabbia mai con me, sarebbe stupido da parte sua. Sa che ci
sono mali peggiori nella vita, come Daron, appunto. E quindi soltanto
queste due psicopatiche vi hanno riconosciuto? Nessun altro ha fatto
intendere di sapere chi siete?» mi domandò curioso.
«No,
però ho un sospetto» azzardai.
«Un
sospetto?» ripeté Serj sbalordito.
«Già.
È come se Leah sapesse qualcosa, mi dà
quest'impressione» ammisi con semplicità, dando voce a
un pensiero che si era formato dalla sera precedente nella mia mente.
«Questa
ragazza mi sembra sempre più interessante.»
Sospirai.
«Io non riesco a inquadrarla, e tu sai quanto detesto non avere
tutto sotto controllo.»
«Rilassati,
amico. Vedrai che, se qualcosa dovesse venire a galla, succederà.
Ne sono certo. Che fate stasera, uscite?» cambiò
argomento il cantante.
«Mah,
lo spero proprio. Devo ancora parlarne con i ragazzi, tra un po'
andrò a cercarli. Serj, secondo te come dovremmo fare a
liberarci di quelle ragazzine?»
Lui
tacque per qualche secondo e io potei quasi udire gli ingranaggi del
suo cervello lavorare sodo per darmi il consiglio migliore. Infine
disse: «Perché dovreste preoccuparvi di loro? A chi
potrebbero mai dire che siete in quell'albergo? E, se pure qualcuno
dovesse scoprirlo, non riuscirebbe a raggiungervi tanto presto e non
avrebbe neanche senso volare fino in Giamaica per importunarvi».
«Sarebbe
più facile che scovarci a Los Angeles» gli feci notare.
«Vero,
però al massimo troverete qualcuno all'aeroporto che vi
aspetta per qualche foto, per il resto state tranquilli e godetevi la
vacanza. Me lo prometti?» incalzò.
Annuii
poco convinto, ma subito mi ricordai che lui non poteva vedermi e
risposi: «E va bene, ci proverò».
«Poi,
se Daron ha voglia di divertirsi con quelle ragazze, lasciateglielo
fare. La vita è la sua, ragazzi, non potete cambiarlo. Lui è
così e basta».
«Hai
assolutamente ragione.»
«Riferisci
anche a Shavo questo messaggio, ha spento il telefono o qualcosa del
genere, perché non sono riuscito a contattarlo. Mentre la
linea di Daron squilla a vuoto.»
Sorrisi
appena. «Sarà fatto. Grazie, socio, sei sempre il
migliore. Noi tutti saremmo persi senza di te, lo sai?»
«Oh,
detto da te è proprio un complimento enorme! La Giamaica sta
già facendo effetto ai tuoi sentimenti e al modo giusto di
esprimerli, corro subito a raccontarlo ad Angie!» esclamò
entusiasta il mio amico, sghignazzando come un matto.
«Oddio,
che ho detto?! Me lo rimangio subito» scherzai.
«Ormai
il danno è fatto, ora sono cazzi tuoi, Dolmayan. E sappi che
ho registrato tutto» mi canzonò a sua volta.
«Ora
hai qualcosa con cui ricattarmi, merda» borbottai.
«Già,
sei fottuto. Dai, ragazzo, ti saluto e vado a pranzo. Angie mi ha
preparato una frittata di zucchine e non vedo l'ora di fiondarmici
sopra» concluse Serj.
«Allora
corri a pranzo! Grazie della telefonata e dai un abbraccio alla tua
mogliettina da parte mia, ci sentiamo in questi giorni» lo
salutai.
Quando
misi giù, mi sentivo già meglio e proseguii a
passeggiare con la mente più leggera; nonostante ciò,
il pensiero che Leah doveva aver intuito qualcosa sull'identità
mia e dei miei amici continuò a ronzarmi tra i pensieri finché
non mi decisi a rientrare in hotel alla ricerca dei ragazzi.
Ehi
ehi, come butta?
Sono
qui per farvi un saluto veloce e per chiedervi una cosa: che ne
pensate di Lakyta, la cameriera che sembra in conflitto con la nostra
Leah?
Sono
anche curiosa di sapere cosa ne pensate di Daron e delle sue idee
bizzarre XD
Grazie
per l'affetto che mi state dimostrando, per il fatto che mi state
seguendo in quest'avventura e perché pare non vogliate
abbandonarmi... penso sia positivo :3
Alla
prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Fuck N' Kill ***
ReggaeFamily
Fuck
N' Kill
[Daron]
«Ascoltatemi
bene.»
«Siamo
qui per questo, no?»
«Già»
concordai, sollevando poi una mano. «Il problema è che
Shavo non accetterà la vostra proposta.»
«Allora
non se ne fa nulla» sbottò Ashley, accavallando le gambe
e sporgendosi verso di me. «Io voglio lui» aggiunse in
tono deciso, poi tirò una boccata dalla sua sigaretta.
«Ma
lui è impegnato, lui non è come me. Dovrete
accontentarvi» ribattei senza scompormi.
«Io
mi accontento eccome» intervenne Kelly, poggiando una mano sul
mio ginocchio e prendendo a massaggiarlo con movimenti circolari.
Scacciai
la sua mano e le lanciai un'occhiata in tralice. «Non qui e non
ora, chiaro? Stiamo discutendo per trovare un accordo, visto che la
tua amica pare pretenziosa.»
«Ashley
è una stupida» borbottò Kelly.
L'oggetto
della discussione si rivoltò contro di lei e la afferrò
per i capelli. «Prova a ripeterlo, se hai coraggio!»
strillò.
Mi
guardai intorno. Ci trovavamo a bordo piscina, la quale era come
sempre deserta, e sedevamo su delle sdraio all'ombra di alcuni
ombrelloni di paglia.
«Evitate
di dare spettacolo, potrebbe arrivare qualcuno da un momento
all'altro» dissi con calma.
Ashley
lasciò andare Kelly e mi rivolse nuovamente la sua attenzione.
«La mia richiesta è chiara: o Shavo mi scopa, o vi
sputtano su tutti i social. Ho giusto un paio di foto carine che
potrei mettere online.»
Sorrisi
divertito e mi allungai verso di lei. Afferrai il suo braccio e la
feci scivolare verso di me, dopo aver afferrato la sua sigaretta tra
due dita. Osservai l'oggetto con disgusto e lo schiacciai a terra con
un piede.
«Ascoltami,
ragazzina. Tu non preoccuparti, vedrai che ti farò dimenticare
Shavo e chiunque altro tu abbia conosciuto in vita tua»
affermai. In realtà non pensavo assolutamente quello che stavo
dicendo, ma sapevo che era il modo migliore per abbindolarla. «Lui
è tutta apparenza, non ti farà piacere starci accanto.
Anche perché, quando è innamorato, non riesce a pensare
ad altro se non alla sua dolce metà. Sarebbe un'esperienza
davvero deludente per te, bambolina. Quindi, io ti consiglio di
accontentarti del sottoscritto. Ti prometto che non te ne pentirai.
Vogliamo divertirci entrambi, dico bene?» Mentre parlavo, avevo
accostato il mio viso al suo e lasciato scivolare una mano lungo la
sua schiena.
Ashley
sgranò leggermente gli occhi e potei notare come il suo
respiro accelerava. In effetti non sarebbe stato poi così male
spassarmela con lei e la sua amica, anche e soprattutto perché
mi facevano immensamente pena e le avrei trattate come meritavano e
come volevano essere trattate, ossia come oggetti insignificanti da
usare e gettare nel sacco della spazzatura.
«Potremmo
provare, ma se non rimango contenta, sappi che tormenterò
Shavo fino alla fine dei suoi giorni. Intesi?»
Scrollai
le spalle e scoppiai a ridere, lasciando andare Ashley, che dovette
reggersi alla sdraio per non cadere con il culo a terra. Era
decisamente una psicopatica, ed ero certo che anche le stronzate che
uscivano ogni tanto dalla bocca di Kelly fossero opera sua.
«Non
rimarrai delusa, sono sicura che Daron ci farà sognare»
disse Kelly con un sorriso malizioso dipinto sul viso giovane e
assurdamente magro.
«Vedremo»
concluse Ashley.
«Stasera
io esco, quindi dovrete aspettare» le informai.
«Puoi
venire nella nostra stanza anche ora» strepitò Kelly con
impazienza.
«No,
verrà stanotte, quando rientra.»
Ridacchiai.
«Ottima idea. È la prima cosa intelligente che ti sento
dire» commentai.
«Attento
a come parli! Oh, vedrai, per te sarà l'esperienza più
bella di sempre» cinguettò Ashley con convinzione.
«Non
ne sono certo, ma per voi lo sarà di sicuro. Immagino che,
anche se siete due sgualdrine, non abbiate avuto molte esperienze
positive. Di solito quelle come voi si fanno gli sfigati. Stavolta vi
è andata proprio di culo.» Dopo aver pronunciato quelle
parole con ironia, mi alzai e le osservai dall'alto in basso. «Già,
perché dubito che siate vergini come avete detto a Shavo»
aggiunsi.
«Tu
che ne sai?!» sbottò Ashley, balzando in piedi con i
pugni stretti. Spesso si atteggiava a donna vissuta, ma non era altro
che una ragazzina stupida, immatura e irritante.
«Qual
è il numero della vostra stanza?» chiesi, cambiando
argomento.
«Ottantasei,
nella struttura dipinta di arancione» annunciò Kelly
tutta contenta. «E tu in che stanza sei?»
«Ti
piacerebbe saperlo, vero?» Feci spallucce e lanciai loro
un'ultima occhiata colma di compassione, poi mi avviai verso
l'ascensore e le lasciai lì a meditare su quanto fosse vuota e
inutile la loro scatola cranica.
Mentre
stavo per rientrare in camera, venni intercettato da John.
«Malakian!
Dov'eri finito?» mi chiese, raggiungendomi sulla soglia della
mia stanza. Spalancai la porta ed entrai, lasciandola aperta per
permettergli di seguirmi.
«In
giro qua e là...» dissi evasivo.
«Chissà
cosa stavi combinando... Serj ha provato a contattarci, a momenti ci
dava per dispersi!»
«Addirittura!»
John
aggrottò le sopracciglia. «Non fare lo spiritoso. Ti
manda i tuoi saluti e dice che se vuoi fotterti quelle due
psicopatiche, puoi farlo.»
«Ora
che mi ha dato il permesso, non mi lascerò scappare
l'occasione» ribattei con un sorrisetto enigmatico.
«Vuoi
farlo davvero?!» sbottò, e dal suo tono compresi che
forse avrei dovuto tenermi quella verità per me.
Feci
spallucce e presi a frugare tra i vestiti che avevo disseminato
ovunque nella stanza. Non risposi, detestavo quando qualcuno cercava
di dirmi cosa dovevo o non dovevo fare.
«Cristo,
Daron!» esclamò il batterista in tono disperato.
«A
te che importa, eh?» Inclinai la testa di lato e lo guardai
storto. «Piuttosto, stasera si esce?» cambiai argomento,
per poi riprendere a rovistare tra la mia roba. Non trovavo il
cellulare, eppure ero sicuro di averlo abbandonato in camera, da
qualche parte...
John
sospirò. «Io vorrei uscire, sì. Allora vado a
vedere se Shavo è ancora incazzato con te, altrimenti dovrei
uscire da solo con te e la cosa non è per niente allettante.»
Roteai
gli occhi al cielo. «Grazie infinite, tu sì che sei un
amico. No, vado io da Shavo, tu vedi se trovi il mio cellulare, eh?
Con la tua vista acuta e sensibile non dovresti avere problemi.»
Detto questo, uscii nuovamente dalla stanza e mi fiondai a bussare a
quella condivisa dai miei amici.
Avevo
fatto incazzare Shavo, ma mi avrebbe perdonato, ne ero certo. Tra noi
c'era un rapporto molto particolare, un forte legame che andava oltre
la comprensione di chiunque. Se John tentava di fare da paciere con
scarsi risultati e Serj era sempre pronto a portare fuori certe frasi
filosofiche che soltanto lui capiva e con cui sperava di risolvere
tanti dei miei problemi, Shavo era quello che mi capiva e mi
accettava senza mai propinarmi consigli inutili o dire stronzate
fuori luogo. Ovviamente tutto ciò che i miei compagni di band
facevano per starmi accanto era apprezzabile, ma il bassista era una
delle persone a me più affini.
«Dai,
Shavo! Aprimi, ti voglio bene!» strillai con voce da bambina
dell'asilo. Poi ci ripensai e, continuando a bussare con forza, presi
a imitare Ashley e il suo modo osceno di porsi: «Oh Shavo, sei
tutta la mia vita... scopami Shavo, oh!».
Proprio
in quel momento Leah sopraggiunse in corridoio e mi lanciò
un'occhiataccia. «Ma che cazzo fai? Smettila di urlare!»
sbottò.
«Shavo!
La tua ragazza insignificante mi sta molestando, dice che sei tutto
suo e che non posso averti!» proseguii, ignorandola
deliberatamente. Poi, stufo di stare fuori dalla porta, la tempestai
di pugni e gridai: «Esci di lì, cazzo!».
Notai
con la coda dell'occhio che John si era affacciato dalla mia stanza;
stava per dire qualcosa, quando la porta si aprì e io mi
ritrovai a rotolare verso l'interno. Non mi aspettavo che Shavo la
spalancasse così in fretta e finii carponi sul pavimento.
«Ma
tu hai seri problemi!» mi accusò il bassista in tono
rabbioso.
«Shavarsh,
ma che gente frequenti?» gli domandò Leah perplessa.
«Ehi!»
si difese subito John, per poi raggiungerci e tirarmi per un braccio.
Mi aiutò a rimettermi in piedi e mi piazzò il cellulare
in mano.
«Grazie,
amico, sapevo che avresti risolto il mistero del cellulare
scomparso!» esclamai, per poi gettarmi letteralmente su di lui
e abbracciarlo. Presi a sbaciucchiarlo su una guancia e lui,
inorridito, mi spinse via e prese a imprecare come non mai, pulendosi
la mia saliva dalla faccia.
«Fai
schifo, Malakian!» disse Shavo con gli occhi sgranati.
«Ce
n'è anche per te! Vieni qui!» strillai, per poi
cominciare a rincorrerlo per tutta la stanza. Alla fine lo atterrai
sul materasso e ripetei le effusioni che avevo già dedicato al
batterista.
«Aiuto,
che schifo, levati dal cazzo, Malakian!» mugolò.
«Dillo
che ti piace! Oh Shavo, sei tutta la mia vita, oh...» ripresi a
imitare Ashley, poi gli mollai una pacca sul sedere e balzai in
piedi. Feci una giravolta e mi ritrovai faccia a faccia con Leah.
«Dammi
il nome del tuo pusher» disse con nonchalance.
«Perché
mai?»
«Perché
voglio ucciderlo. Quello che assumi è pericoloso per la quiete
pubblica» replicò.
«Se
sei gelosa, posso riservarti lo stesso trattamento» la
provocai, notando che non era niente male come bocconcino.
Lei
scoppiò a ridere e poi si rivolse a Shavo, il quale si era
faticosamente rimesso in piedi: «Come stai?».
«Credo
di stare bene, anche se dopo quest'assalto non ne sono tanto sicuro»
ammise il bassista.
«Okay,
perfetto. Ragazzi, voi che fate stasera? Io pensavo di fare un giro
nella capitale, conosco un paio di posti carini. Però non
saprei con chi andarci, e Kingston non è adatta per una
giovane donzella carina come me» berciò la ragazza,
scoccandomi un'occhiata maliziosa.
«Vuoi
forse dire che dovremmo essere le tue guardie del corpo?» mi
informai.
«Mah,
se tu non vuoi uscire, puoi startene qui insieme a mio padre, la sua
amante del momento e quelle strane ragazze che hanno scambiato
Shavarsh per una rock star» ribatté lei con sufficienza.
«Uh,
compagnia interessante, ci farò un pensierino. Ma prima voglio
vedere che luoghi magici conosci nella splendida Kingston.»
«Vada
per un giro nella capitale!» esclamò Shavo entusiasta,
mentre John annuiva e sembrava rincuorato dal fatto che finalmente
avessimo preso una decisione.
«Vi
aspetto tra un'ora nella hall» concluse Leah, poi uscii dalla
stanza dei miei amici.
John
si diresse immediatamente verso il bagno, annunciando che aveva
bisogno di una doccia, così io rimasi un attimo solo con
Shavo.
«Allora?
Cosa volevi prima? Perché bussavi in quel modo?» mi
domandò, cercando qualcosa da mettersi.
«Ce
l'hai con me?» Gli posai una mano sul braccio.
Si
voltò a guardarmi. «No, però non accetterò
la tua folle idea, sappilo.»
«Tutto
sistemato, non è più un problema tuo. Ho deciso di
donarmi in sacrificio per salvare il tuo bel culetto. Ashley ha fatto
un po' di storie, ma alla fine l'ho addomesticata» gli spiegai
con un sorriso sornione.
«Fai
come vuoi, ma non coinvolgermi.»
Ci
pensai un attimo su, poi sorrisi. «Ti saresti divertito con
loro, sono le classiche ragazzine da una botta e via. Che male c'è?
Ogni tanto ci vuole.» L'espressione di Shavo rimase
impassibile, così proseguii: «Ma forse non vuoi per un
altro motivo».
Mi
indirizzò un'occhiata interrogativa e si scrollò la mia
mano di dosso.
«Mi
sa che ti piace Leah, eh? Dimmelo, perché potrei fare un
pensierino su di lei se non ti interessa» insinuai.
«Non
mi interessa, fai quello che vuoi Malakian. Ma dubito che Leah vorrà
avere a che fare con uno come te, non in quel senso almeno.»
Dal suo tono di voce intuii che stava mentendo e dovetti trattenermi
per non ridere.
«Okay,
allora ci proverò. Non amo le prede troppo facili, dopo un po'
mi annoiano, ma anche quelle servono a tappare i buchi»
farneticai, cercando una qualsiasi reazione da parte sua.
«I
tuoi discorsi farebbero impallidire un senegalese, fai proprio
schifo!» mi accusò, ma notai che nel suo tono di voce
c'era una nota di ilarità.
«Senti
un po', ma perché quella ragazza ha detto che le groupies ti
hanno scambiato per una rock star? Davvero non sa chi siamo?»
gli domandai perplesso. Mi suonava strana come cosa, ma in effetti in
quel luogo nessuno, a parte le due ragazzine bionde, ci aveva
riconosciuto o aveva dato segno di sapere qualcosa sulla nostra vera
identità. Alwan, il barista che avevo conosciuto la sera
precedente, aveva avuto l'impressione di avermi già visto da
qualche parte, ma alla fine non era arrivato alla verità.
«Leah
non sa chi sono, le ho detto io che quelle due mi hanno scambiato per
una rock star» mi confidò Shavo, distogliendo lo sguardo
da me come se la cosa gli dispiacesse. «Pensa che mi ha detto
che non potrei essere famoso neanche se lo volessi» raccontò
ancora.
«Ci
è proprio cascata... va bene, corro a prepararmi, altrimenti
la tua amica mi uccide se non arrivo in orario nella hall»
conclusi, per poi avviarmi nella mia stanza.
C'era
comunque qualcosa che non mi convinceva in tutta quella storia, avevo
la sensazione che la nuova amica di Shavo nascondesse qualcosa. Però
non volevo preoccuparmene, non erano certo affari miei.
Mi
gettai sotto la doccia e mi domandai se avessi fatto bene ad
accettare il ricatto di Ashley e Kelly. Come sarebbe andato il nostro
incontro? Sarebbe stato davvero così facile liberarmi di loro?
Fuck
N' Kill, ecco cosa risuonò
nella mia mente e fuoriuscì dalla mia bocca mentre mi
preparavo. Presi a cantare il brano che avevo composto e mai
registrato con gli Scars On Broadway.
Forse avrei fatto bene a
fotterle e poi ucciderle, anche se in senso metaforico. E subito mi
venne un'idea pazzesca, con la quale sapevo che ne sarei uscito
pulito e illeso.
Mi ritrovai a sorridere con
aria trionfante, e finalmente riconobbi la figura che mi fissava
attraverso lo specchio posto sopra il lavandino del bagno.
Ciao
belli, come state?
Be',
vi è piaciuto questo delirante capitolo? È capitato un
po' di tutto, ma del resto cosa ci si poteva aspettare da un POV
Daron? Questo “ragazzo” (?) è piuttosto
problematico, ne combina di tutti i colori e, nonostante sia in grado
di creare solo guai, alla fine tutti lo perdonano e non possono fare
a meno di venir contagiati dal suo modo di fare orribilmente e
adorabilmente stupido XD
Ora
ha un appuntamento con le groupies... io ho paura, voi? o.o
E
cosa capiterà a Kingston? Avete qualche idea in merito? Sono
curiosa di leggere le vostre congetture!
Il
motivo principale per cui ho inserito le note finali, comunque, è
per parlarvi del brano Fuck N' Kill che ho nominato verso la
fine del capitolo; si tratta davvero di una canzone che Daron ha
portato dal vivo con il progetto Scars On Broadway, ma che ahimè
non è mai stata registrata – almeno a quanto mi risulta,
dato che non la trovo da nessuna parte, ma qualcuno mi corregga se
sbaglio o se ha informazioni diverse dalle mie XD
Vi
lascio qui il link di un live, in caso qualcuno non la conosca e
voglia ascoltarla e rifarsi un po' le orecchie, anche se l'audio non
è il massimo e ho cercato il meno peggio -.- (si nota che
adoro questo pezzo, vero? *-*):
https://www.youtube.com/watch?v=9_doz5R0BZk
Be',
ora io mi chiedo... ma quand'è che la registrano? ù.ù
E
niente, vi lascio e vi ringrazio di cuore per tutto il supporto che
mi date in ogni capitolo, vi adoro :3
Alla
prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Fyah ***
ReggaeFamily
Fyah
[Leah]
Prima
di riuscire a lasciare lo Skye Sun Hotel, John dovette salire a
bussare alla porta di Daron per trascinarlo fino alla hall. Dal canto
mio, ero abbastanza irritata perché il chitarrista era in
ritardo di venticinque minuti, nonostante avesse avuto tutto il tempo
per prepararsi.
Quando
i due ci raggiunsero, io stavo passeggiando avanti e indietro di
fronte al bancone della reception, sotto lo sguardo leggermente
preoccupato di Shavo e quello divertito di Dayanara.
«Il
cretino si era addormentato» disse John con un sospiro.
«Eh?
Ditemi che non è vero» sbottai.
«Purtroppo
questi sono avvenimenti all'ordine del giorno» commentò
Shavo scuotendo il capo.
Osservai
i ragazzi: il bassista indossava una felpa grigia di una taglia in
più e dei jeans strappati, mentre ai piedi portava delle
semplici sneakers bianche; John era completamente vestito di nero con
una camicia, dei jeans e i fidati anfibi; Daron, infine, sembrava un
semaforo e attirava irrimediabilmente gli sguardi su di sé,
con indosso una felpa multicolore dalla dubbia entità, su un
paio di pantaloni rossi e un paio di scarpette in tela verde oliva.
«Tu,
pensi davvero di entrare in un locale vestito in quel modo?»
chiesi al chitarrista, aggrottando la fronte e scrutandolo meglio.
«Cosa
c'è che non va?» fece lui con semplicità.
Scossi
il capo e presi Shavo sottobraccio. «Lasciamo perdere e
andiamo. Il taxi ci aspetta qua fuori» annunciai, avviandomi
verso l'uscita. Poi mi rivolsi a Dayanara: «Day, se vuoi
raggiungerci, andiamo al Fyah».
«Okay, dipende dalla
mia stanchezza» rispose con un sorriso mesto.
Ricambiai quel gesto e uscii
dall'albergo con i ragazzi al seguito.
Il
Fyah Pub si trovava
nei pressi del centro della città; era uno di quei locali
amati dai turisti, ma popolati anche dagli abitanti di Kingston. Era
carino, completamente costruito in legno come se si trattasse di un
chiosco sulla spiaggia, e presentava due ambienti collegati da un
breve ponticello. Nella prima sala si trovava il bancone e una serie
di tavolini al coperto, mentre nella seconda stanza si trovava un
piccolo palco e qualche altro tavolo, il tutto circondato da alcune
vetrate che solitamente rimanevano aperte, poiché lo spazio
fungeva anche da sala fumatori.
Sul palco si stava esibendo
un gruppo reggae e l'atmosfera era calda e festosa.
«Niente male questo
posto!» strillò Daron nel mio orecchio, poi si allontanò
e cominciò a girovagare per il locale.
«Sembra una trottola»
osservai, dando di gomito a John.
«Uhm, lui è
sempre così.»
«Come
fate a conviverci? Siete amici da tanto?» domandai, anche se in
realtà sapevo che i componenti
del gruppo si erano per la maggior parte conosciuti ai tempi della
scuola.
«Da molti anni, e non
so come abbiamo fatto a stare appresso a quel matto per tutto questo
tempo» intervenne Shavo, per poi fare un cenno verso il
bancone. Ci avvicinammo per prendere qualcosa da bere e poi ci
dirigemmo ad ascoltare il concerto della band che si stava esibendo
nell'altra stanza.
Daron era scomparso nel
nulla e io immaginai che fosse andato alla ricerca di qualcosa da
fumare o di qualche ragazza da abbordare.
«Sono forti, vero?»
chiesi a Shavo, mentre sorseggiavo il mio drink, accennando ai
ragazzi che stavano suonando.
Lui
annuì. «Le linee di basso di Marley e della sua band
erano una forza» commentò ammirato, mentre i musicisti
eseguivano una cover molto carina di Three Little Birds del
re della musica reggae.
«Infatti molte di esse
sono utilizzate per un sacco di pezzi del new roots e di molti altri
sottogeneri» gli dissi.
«Vero. Ehi John, hai
visto che razza di batteria ha questo?» ammiccò il
bassista.
John fissava con interesse
lo strumento che Shavo gli indicava e i due presero a discutere
animatamente su cose che io non riuscivo a capire a proposito di
pezzi della batteria, modi di suonare e altri aspetti tecnici a me
ignoti.
Quando
il cantante, un tipo dai lunghissimi dread rossi,
annunciò l'inizio di Lively up yourself,
un altro brano di Marley, mi ritrovai a esultare e subito mi gettai
in mezzo alla folla che già da un po' ballava accanto al
piccolo palco su cui era situata la band.
Prima che mio padre mi
trascinasse in Giamaica per le vacanze, non mi ero mai interessata
alla musica reggae; ma da quando avevo cominciato a frequentare
quell'isola, mi ero gradualmente appassionata di quel genere e avevo
scoperto che certi brani potevano trasmettere una carica assurda.
Così mi ritrovai a
ballare e cantare a memoria per tutto il tempo.
Lively up yourself and
don't be no drag
Lively up yourself,
'cause this is the other bag
Hey, lively up yourself
and don't be no drag
You lively up yourself,
dig it, the other bag
Hey, you rock so, you
rock so, like you never did before
You dip so, you dip so,
and you can dip through my door
You come so, you come so,
oh yeah,
like I do adore you
You skank so, you skank
so, and I can assure you
Verso metà canzone mi
ritrovai a ballare come una matta accanto a Daron, che intanto
strillava in preda a chissà quale sostanza stupefacente o
alcolico, e notai che nel frattempo si era levato la felpa e,
accaldato, mostrava una semplice t-shirt bianca a maniche corte che
sembrava una maglia intima piuttosto che un capo da indossare per
uscire in un locale.
Lui non sembrava affatto
preoccupato del suo abbigliamento e prese ad agitarsi come un ossesso
sulle note della canzone.
Anche io stavo seriamente
cominciando ad avere caldo, così mi sfilai la giacca e corsi
verso Shavo. Gliela consegnai e gli feci l'occhiolino, per poi
rigettarmi nella mischia. Indossavo una semplice maglia lunga su un
paio di leggings e mi sentivo molto più leggera e pronta a
ballare ancora e ancora.
«Cazzo, sono fuori
come un balcone, ho voglia di suonare!» Daron gridò
quelle parole, per poi afferrarmi per un polso. Mi ritrovai a fare
una giravolta e a guardarlo con aria divertita.
«Non vorrai rubare il
posto a questi ragazzi, spero» lo rimproverai.
«Sì, cazzo...
voglio una chitarra!» strillò, per poi lasciarmi andare
e dirigersi a passo di marcia verso i musicisti. Mi voltai verso
Shavo e John e lanciai loro un'occhiata preoccupata, ma i due si
limitarono a sorridere con fare enigmatico e ad annuire senza
scomporsi. Possibile che fossero davvero abituati a tutto questo?
Rimasi dov'ero e fissai
allibita Daron che, durante una pausa tra una canzone e l'altra,
prese a negoziare con il chitarrista del gruppo. Pochi istanti dopo
Daron si accostò al microfono e parlò: «Ehi
ragazzi, come state? Questo posto è uno sballo, sono veramente
felice di essere qui! Che ne dite se vi suono qualcosa?».
I presenti si esibirono in
un coro di approvazione, anche se dubitavo fortemente che
comprendessero appieno ciò che stava succedendo. Qualcuno,
accanto a me, prese a strillare in maniera assordante e io temetti
davvero di perdere i timpani.
«Vi piace il rock? Oh
sì che vi piace, ne sono sicuro.» Daron sorrise con fare
enigmatico. «Sono sicuro che Bob Marley approverebbe»
concluse, poi prese a strimpellare la chitarra. Lo vidi storcere il
naso e armeggiare con le corde, finché non ottenne quel suono
che si avvicinava maggiormente al suo gusto personale.
Shavo e John mi raggiunsero,
ma io ero sempre più sconvolta da ciò che Daron stava
combinando.
«Cosa ha fumato? Ha
assunto qualcosa, altrimenti non me lo spiego» dissi in tono
leggermente preoccupato.
«Probabile. Adesso
vediamo che fa» replicò Shavo con un sorriso.
Daron si schiarì la
gola e cominciò a suonare una melodia a me non del tutto
sconosciuta, ma riuscii a capire di cosa si trattasse quando lui
cominciò a cantare. Stava eseguendo una versione di Redemption
Song dai tratti rock, ma mantenendo un andamento in levare tipico
del reggae.
Emancipate
yourselves from mental slavery None but ourselves can free our
minds Have no fear for atomic energy 'Cause none of them can
stop the time How long shall they kill our prophets While we
stand aside and look Some say it's just a part of it We've got
to fulfill the book
Won't you help to sing These songs of
freedom 'Cause all I ever have Redemption songs Redemption
songs Redemption songs
Ero seriamente sotto shock,
ma alla fine presi a cantare insieme a lui e la gente intorno a me
non fu da meno; Daron sbagliò diversi accordi, ma nessuno
sembrava badarci, e al contrario i componenti della band presero a
eseguire delle figure ritmiche per accompagnarlo e al secondo
ritornello il cantante stava già eseguendo delle armoniche
vocali per supportare il canto del nuovo arrivato.
«Questa è
magia» disse Daron al microfono, mentre improvvisava un assolo
su due piedi. «Questo è fuoco, fyah come dite voi
in Giamaica» aggiunse, poi riprese a cantare l'ultima strofa e
l'ultimo ritornello del brano.
Tutti ci ritrovammo ad
applaudire e acclamare la sua esibizione, mentre lui ringraziava il
chitarrista che gli aveva prestato il suo strumento e scendeva a
passi malfermi dal palco. Subito un gruppetto di ragazze si accostò
a lui e lo circondò, ma da quella distanza non riuscii a
sentire cosa gli stavano dicendo.
«Ha già fatto
conquiste» commentai, voltandomi verso Shavo e John. «Dio,
ma che ha fatto?» mi ritrovai a domandare più a me
stessa che a loro.
«Lui è fatto
così: quando ha voglia di suonare, niente può fermarlo»
confessò Shavo, che nel frattempo si era tolto il cappellino
da baseball che indossava e se lo sventolava di fronte per tentare di
rinfrescarsi un po'.
«Siete tutti dei
musicisti? Tu suoni il basso e tutti quegli strumenti, lui la
chitarra...» buttai lì, fingendomi sorpresa.
John sospirò e si
diresse verso Daron, annunciando che era arrivato il momento di
strapparlo via a quelle ragazze possedute dal demonio.
«Già, è
anche per questo che siamo amici» rispose Shavo con cautela.
Non ero certa che avesse
capito che io sapevo la sua identità e quella dei suoi amici,
ma in ogni caso sembrava restio a parlarmene, e forse era meglio
così. Del resto, doveva essere difficile per lui vivere ogni
giorno con persone che lo assalivano e lo trattavano da celebrità,
e non da Shavo Odadjian e basta. E non volevo essere certo io a
causargli disagio. Ero certa, in ogni caso, che le ragazze che
stavano importunando Daron lo avessero riconosciuto, e forse John
stava cercando di evitare che la cosa degenerasse.
Il gruppo riprese a suonare
solo dopo che il chitarrista ebbe nuovamente accordato il suo
strumento e poco dopo John stava trascinando Daron fuori dalla
stanza. Io e Shavo ci scambiammo un'occhiata, poi li seguimmo e ci
ritrovammo sul ponticello che collegava i due ambienti del locale.
«A quelle donzelle è
piaciuta la mia esibizione» stava blaterando Daron, tentando
invano di liberarsi dalla stretta ferrea di John.
«Non è il caso
di dare spettacolo, hai già fatto il tuo show» lo
rimproverò l'altro, e nel suo tono di voce potei udire
un'incredibile serietà.
«Su, non sgridarlo
così! Non è stato poi così male» tentò
di sdrammatizzare Shavo, posando una mano sulla spalla del
batterista.
«Già,
complimenti, hai coinvolto questa gente con un genere insolito»
commentai, scrutando il viso accaldato e stravolto di Daron.
Il chitarrista si passò
una mano sulla faccia per asciugarsi il sudore e scosse il capo con
forza, poi scoppiò a ridere sguaiatamente e si appoggiò
con un braccio sulla spalla di John, continuando a ridere come un
folle.
«Leah, andiamo a
prendergli un caffè, mi sa che si è fatto proprio
qualcosa di forte» affermò Shavo.
Annuii e lo seguii verso il
bancone.
«Mi fa un po' pena»
commentai con un mezzo sorriso.
«Lui è
particolare, bisogna avere pazienza» spiegò Shavo,
mentre eravamo in fila per ordinare.
Inclinai la testa di lato
con disappunto. «Lo giustificate sempre. In questo modo lui si
sente sempre autorizzato a fare come gli pare, e voi dovete risolvere
i suoi guai.»
«Ti ha mai detto
nessuno che parli troppo e che sei un'impicciona?» controbatté
lui, continuando a guardare dritto davanti a sé.
«Dico sempre quello
che penso, e in effetti questo mi crea non pochi problemi»
ammisi.
«Immagino. Ti conosco
da un giorno e ti sento già dare dei giudizi su di me e sui
miei amici» proseguì il bassista.
Mi sentii leggermente a
disagio, così gli afferrai il braccio per attirare la sua
attenzione e fare in modo che mi guardasse. «Sul serio ti dà
fastidio?» domandai.
Shavo rimase in silenzio per
qualche istante, poi rispose: «Non è che mi dà
fastidio, più che altro... noi ci conosciamo appena, Leah. E
tu hai un modo piuttosto singolare di approcciarti alle persone».
«Mi stai dicendo in
parole gentili che ti dà fastidio» conclusi. «Okay,
ricevuto.»
«Adesso non te la
prendere» si affrettò a dire, aggrottando la fronte.
«Macché.»
Scacciai la sua ultima frase con un cenno della mano e mi avvicinai
al bancone per ordinare un caffè espresso per Daron. Lasciai
una banconota sul bancone e mi voltai per tornare indietro.
Shavo mi sbarrava la strada.
«Non c'era bisogno che pagassi.»
«Non importa, ormai il
danno è fatto» ribattei in tono piatto.
Mentre tornavamo dai
ragazzi, mi ritrovai a riflettere su ciò che mi aveva detto:
non era la prima volta che mi si diceva di essere esuberante o
invadente, ma io non lo facevo per male. Anche con John avevo cercato
di instaurare un dialogo, perché ero fermamente convinta che
ogni persona meritasse di essere conosciuta e ascoltata. Forse
sbagliavo il modo di pormi, e questo indisponeva gli altri nei miei
confronti.
Cominciai a sentirmi in
colpa quando consegnai il caffè a Daron e lui lo bevve senza
preoccuparsi di aggiungerci dello zucchero. Fece una smorfia
piuttosto disgustata, ma riuscì miracolosamente a mandarlo giù
senza sputarcelo in faccia.
Poco dopo decidemmo di
rientrare in albergo, o meglio, i ragazzi lo decisero mentre io me ne
stavo zitta e in disparte ad ascoltare i loro discorsi.
Il viaggio in taxi fu
caratterizzato dalle cazzate di Daron, che a metà strada per
fortuna si addormentò e prese a russare sulla spalla di John.
Una volta tornati in
albergo, il chitarrista parve riprendersi di colpo e fuggì
dentro la hall blaterando qualcosa a proposito di un appuntamento a
cui non poteva mancare. Era fuori come un balcone, ne ero sempre più
convinta.
Quando entrammo in albergo,
la hall era deserta, a eccezione di un receptionist che sonnecchiava
sulla tastiera del computer. Doveva essere lo stagista di cui
Dayanara mi aveva parlato il giorno precedente, o forse un suo
sostituto.
Raggiungemmo a bordo
dell'ascensore il nostro piano e i nostri passi echeggiarono nel
corridoio deserto. Non sapevo neanche che ore fossero, il tempo
dentro il locale era volato, ne ero certa: succedeva sempre così,
sotto gli effetti del Fyah.
Dopo un saluto appena
accennato, mi avviai verso la mia stanza, ma sentii qualcuno
afferrarmi per una spalla.
«Leah...»
Sorpresa, sbattei le
palpebre e fissai i miei occhi in quelli scuri di John. Quest'ultimo
mi lasciò subito andare e abbandonò le braccia lungo i
fianchi. Mi guardai attorno e notai che Shavo era sparito, la porta
della stanza che condivideva con il batterista era socchiusa.
«Non è da me
intromettermi, anzi mi scuso, ma ho notato una certa tensione tra te
e Shavo» esordì, dopo essersi schiarito la gola. «Da
quando avete preso quel caffè, non vi siete più rivolti
la parola.»
Rimasi a fissarlo, in
attesa, senza avere la minima idea di quale piega stesse per prendere
il suo discorso.
«Ecco, spero sia tutto
a posto» concluse.
«Sono un'impicciona?»
sbottai all'improvviso. Non mi importava che Shavo potesse udirmi, mi
sentivo veramente in colpa per averlo infastidito e volevo capire se
la situazione fosse davvero così grave.
John accennò un
sorriso. «Lui ti ha detto questo?»
Annuii.
«Sei impicciona»
confermò il batterista, spiazzandomi per il modo diretto con
cui mi rispose. «Ma chi dice che questo sia un difetto?»
aggiunse poi.
«Non ne ho idea. Io
non lo faccio per offendere nessuno. Sono soltanto curiosa, forse
anche troppo, perché ci tengo a conoscere a fondo le persone»
spiegai con semplicità, senza distogliere lo sguardo da lui.
«Vedrai che tutto si
sistemerà» affermò John con calma e sicurezza.
«Shavo spesso è scostante, a volte si fa certi film
mentali... ma poi capisce, capisce sempre tutto e fin troppo bene.»
Feci un passo verso di lui.
«A te non dà fastidio che io sia così? Devi
dirmelo.»
«All'inizio un po' mi
ha spiazzato questo tuo modo di fare, ma adesso non più»
rispose lui con calma, come se gli costasse fatica pronunciare quelle
parole ed esternare così le sue emozioni.
«Per fortuna.»
Gli sorrisi. «Grazie e... be', io domani alle nove ti aspetto
in terrazza, se vuoi ancora avere a che fare con una svitata come me»
conclusi.
«Non mancherò.
Ora dormi e non pensare a Shavo, gli passerà.» Detto
questo, mi salutò con un cenno della mano e rientrò
nella sua stanza.
Quando raggiunsi la mia, ero
troppo stanca per riflettere, così mi buttai presto a letto e
sprofondai in un sonno profondo e ristoratore.
Ehilà!
Oggi
mi fermo solo per parlarvi dei brani che ho nominato nel capitolo,
perché sono certa che non abbiate voglia di leggere altre
fesserie dalla sottoscritta XD
Parto
col ricordarvi che si tratta di tre pezzi di Bob Marley, il maggior
rappresentante della musica reggae ^^
La
prima canzone, Three Little Birds, è datata 1977 e fa
parte dell'album Exodus, aprite questo link se volete sentirla
(sono certa che lo conosciate, anche se magari il titolo non vi dice
nulla ^^):
https://www.youtube.com/watch?v=LanCLS_hIo4
Il
brano che Leah e Daron ballano, Lively Up Yourself, è
forse il mio preferito in assoluto di Marley – ed è
piuttosto difficile scegliere, quindi prendete per buono il forse –
che fa parte dell'album Natty Dread del 1974, vi consiglio
caldamente di ascoltarla, dà una carica pazzesca:
https://www.youtube.com/watch?v=oyFmNPoDbDU
Infine
arriviamo a Redemption Song, anche questa sicuramente
conosciuta da tutti voi; ultima traccia di Uprising del 1980,
vi consiglio di dargli un ascolto per capire cosa Daron ha combinato
durante questa folle serata a Kingston in cui è stato
improvvisamente preso dalla voglia matta di suonare:
https://www.youtube.com/watch?v=QrY9eHkXTa4
Ultima
informazione, poi vi mollo, giuro :D
Il
termine fyah, in patois giamaicano significa letteralmente
fuoco, e si pronuncia faia; corrisponde all'inglese
fire, dato che i giamaicani devono la loro lingua a un mix di
inglese e varie lingue africane ^^
Spero
che questo viaggio in Giamaica sia di vostro gradimento e che vi stia
incuriosendo abbastanza con le informazioni che lascio disseminate
lungo la storia ;)
Alla
prossima e grazie di cuore ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Rage ***
ReggaeFamily
Rage
[Shavo]
John
aveva ragione: con Leah avevo esagerato.
Questo
fu il primo pensiero che mi assalì quella mattina, quando mi
svegliai con il viso inondato dai raggi del sole. Mi misi di scatto a
sedere e notai che il mio amico non era in camera.
Ripescai
il cellulare dalla tasca dei jeans che avevo indossato la sera prima
e constatai che erano le dieci e venti del mattino. Sbadigliai
rumorosamente e mi alzai, decidendo in quel preciso istante di andare
a fare colazione. Stavo morendo di fame e non ricordavo quando era
stata l'ultima volta in cui avevo mangiato qualcosa di veramente
sostanzioso.
Trovai
in fretta e furia un paio di calzoncini e una canottiera puliti, misi
ai piedi un paio di ciabatte nere e lasciai in fretta e furia la
stanza, con lo stomaco che brontolava. Presi l'ascensore e mi diressi
all'ultimo piano, verso la terrazza. Volevo provare anche io
l'ebbrezza di fare colazione lassù.
Quando
arrivai, notai con disappunto che le due groupies che mi avevano
importunato il giorno prima erano sedute a un tavolino e parlottavano
tra loro. Quando si accorsero di me, sollevarono appena lo sguardo,
per poi concentrarsi nuovamente su loro stesse. Possibile che Daron
fosse davvero riuscito a liberarsi di loro e a farle stare buone? Non
avevo idea di cosa avesse combinato il chitarrista, ma prima o poi
ogni cosa sarebbe venuta a galla. O meglio, l'avrei costretto a
raccontarmi tutto.
Notai
Leah e John che, appoggiati al bancone del chiosco, si intrattenevano
con il barista, un ragazzo di media statura dal viso simpatico che
pareva essere un amico della ragazza.
Mi
accostai a loro e li salutai, appoggiando i gomiti sul bancone e
sospirando. Avevo un leggere mal di testa e sentivo di avere già
troppo caldo su quella terrazza assolata.
«Questo
sole mi ucciderà» borbottai.
John
fece spallucce e disse: «Siamo ai Caraibi, che ti aspettavi?».
Il
barista scambiò qualche altra battuta con Leah, poi mi si
rivolse e mi chiese: «Cosa posso servirti?».
«Innanzitutto
un caffè bello forte, e poi...» Mi accostai a una
piccola vetrinetta in cui facevano bella mostra diverse leccornie.
«Prendo quel bignè gigante con il cioccolato»
conclusi soddisfatto.
«Hai
bisogno di addolcirti?»
Mi
voltai di scatto quando udii le parole che Leah aveva appena
pronunciato. Mi ritrovai a fissarla leggermente confuso, anche se
sapevo di doverle delle scuse o di dover almeno provare a parlarle.
«Temo
di sì» ammisi, abbassando leggermente lo sguardo.
John
si schiarì la gola e mi picchiettò sulla spalla. «Vado
a farmi un giro, stamattina non sono andato a fare jogging e mi sento
già arrugginito e pesante. Ci vediamo per pranzo?»
Annuii
distrattamente, tenendo d'occhio Leah che se ne stava appollaiata su
uno sgabello con le braccia incrociate al petto.
«Allora
a dopo» concluse John, per poi dirigersi velocemente verso le
scale. Il fatto di aver trascurato la sua corsetta mattutina metteva
in moto una sorta di nervosismo in lui, il che lo induceva a fare il
possibile per recuperare tutti i passi che aveva perso stando a letto
un po' più a lungo. Quindi evitò l'ascensore e io mi
ritrovai a domandarmi pigramente come fosse possibile che il mio
amico facesse parte della razza umana.
Il
barista mi posò di fronte il caffè e il dolce che avevo
ordinato; non sapevo cosa contenesse quel bignè, ma avevo così
tanta fame che mi ci tuffai letteralmente sopra, cominciando a
mangiare con voracità.
Notai
che Leah aggrottava la fronte e il ragazzo dietro il bancone
sorrideva leggermente.
Afferrai
un tovagliolo di carta dal contenitore che si trovava accanto alla
ciotola delle bustine di zucchero e mi pulii goffamente la bocca;
mandai giù il cibo che stavo masticando e poi farfugliai:
«Scusatemi, non so da quanto tempo non mangiavo qualcosa di
decente».
«Shavarsh,
secondo me il fuso orario ti ha fatto molto male» disse Leah.
«Potrebbe
essere come dici tu...»
«Al,
da bravo, versagli un bel bicchiere di acqua fresca, probabilmente
anche il caldo non gli fa bene» suggerì la ragazza al
barista, rivolgendomi un'occhiata preoccupata.
Al
si allontanò per eseguire la richiesta e proprio in quel
momento giunsero altri due clienti dell'albergo che intrattennero per
un po' il barista.
Ne
approfittai per parlare con Leah.
«Non
sei arrabbiata con me?» le domandai, sorseggiando lentamente il
caffè, dopo averci messo dentro quattro bustine di zucchero.
Era troppo amaro per i miei gusti.
«Un
po' sì» ammise lei, per poi sospirare. «Ma forse
sbaglio, forse hai ragione tu a dirmi che sono una ficcanaso.»
«Stronzate!»
mi affrettai a esclamare. «Non ho ragione per niente, e non
volevo dirti quelle cose ieri. Ero solo preoccupato per Daron, ero...
ero in ansia per lui. Quando non so cosa assume, cosa combina, mi
sembra di perdere il controllo. E mi sono irritato perché so
che stavi dicendo la verità. Però vedi, Leah, Daron non
è un bambino e noi non siamo i suoi genitori. Per quanto noi
possiamo preoccuparci e cercare di tenerlo d'occhio, non abbiamo il
diritto di impedirgli di agire come vuole. Altrimenti ci saremmo già
allontanati da molto tempo» spiegai, parlando in fretta e
ritrovandomi presto a gesticolare.
Leah
mi lasciò finire il discorso e rimase a riflettere in silenzio
per un attimo, poi allungò una mano e afferrò la mia.
«Mi dispiace» mormorò. «Non avrei dovuto
prendermela, certe volte sono proprio stupida. O forse lo sono
sempre, chissà... ma non immaginavo che ti sentissi così
ansioso per la situazione di ieri sera...»
Ricambiai
la sua stretta e cercai i suoi occhi. «Non importa. Tutto okay,
davvero.»
«Mi
farò gli affari miei d'ora in poi» aggiunse Leah.
«Macché.
Dopo che mi hai aiutato a non svenire e non vomitare sul tappeto
della hall, l'altro giorno, ti devo mille e più favori»
scherzai, cercando di sdrammatizzare e stemperare l'atmosfera.
Lei
sorrise e finalmente la tranquillità tornò a distendere
i tratti del suo viso. «Okay, se lo dici tu... per farmi
perdonare ho una proposta» annunciò.
«Ah
sì? Di che si tratta?» chiesi con curiosità.
«Ti
invito a pranzo in un posto carino, giù in città»
spiegò con rinnovato entusiasmo, lasciando andare la mia mano.
«Sul
serio? Solo io e te?» insinuai in tono malizioso. «Non
hai paura che ti molesti?»
Leah
saltò giù dallo sgabello e, mentre il barista tornava
da noi, esclamò: «Shavarsh, non potresti essere più
pericoloso di una farfalla variopinta!».
«Variopinta?»
Corrugai la fronte e ringraziai Al con un cenno del capo, poi
tracannai l'acqua di tutta fretta.
«Si
fa per dire» borbottò Leah evasiva.
«Okay,
mi fa piacere che tu ti fidi così tanto di me» ammisi,
sentendomi davvero compiaciuto.
Lei
mi fissò per un istante, poi ribatté: «Non sei un
cattivo ragazzo, i cattivi ragazzi non hanno il mal d'aereo».
Scoppiai
a ridere e lei mi seguì a ruota.
«Va
bene, hai vinto. Ci vediamo nella hall più tardi allora?»
proposi.
«Facciamo
a mezzogiorno, intanto mi faccio un tuffo in mare. Se vuoi venire...»
propose.
«No,
ho una faccenda da risolvere» rifiutai a malincuore,
ricordandomi che dovevo assolutamente buttare Daron giù dal
letto e scoprire cosa aveva combinato con le groupies.
«Okay!
Allora a più tardi» concluse Leah, poi salutò il
barista in tono caloroso e scappò via dalla terrazza.
«Conosci
da molto Leah?» chiesi al barista, mentre finivo di fare
colazione.
Lui
sorrise. «Da qualche anno. È una forza quella ragazza»
commentò.
«Me
ne sono accorto... sono arrivato qui l'altro giorno e già non
riesco a fare a meno di lei» mi ritrovai a dire; quando mi resi
conto di ciò che avevo appena ammesso di fronte a uno
sconosciuto, mi tappai la bocca con una mano e vidi il ragazzo
ridacchiare.
«Tranquillo,
non glielo dirò. Ma Leah fa quest'effetto sulle persone, ti
capisco bene» mi rassicurò lui. «Comunque io sono
Alwan, piacere di conoscerti. E tu sei? Com'è che ti ha
chiamato Leah?»
«Shavarsh.
È il mio nome di battesimo, ma per tutti sono Shavo. E non so
perché lei continui a usare il mio nome completo»
replicai, stringendo la mano che Alwan mi tendeva.
«Solo
lei può saperlo. Comunque, più i giorni passano, più
ho l'impressione di aver già visto te e altri due ragazzi da
qualche parte, ma non riesco a capire dove... uno era John, era prima
con Leah. È venuto qui con te?» indagò Alwan.
Annuii.
«Io sono qui con John e Daron.»
«Giusto.
Anche Daron l'ho già visto da qualche parte... non è
che siete star di Hollywood? Attori famosi?»
Risi.
«Qualcosa del genere.»
Alwan
strabuzzò gli occhi. «Sul serio? Oh, merda...»
«Stai
calmo, amico. Facciamo così: io non ti dico niente, dovrai
scoprire tu la verità su di noi» lo canzonai.
«Cazzo,
le cose si fanno serie...» bofonchiò.
«Macché.
È più facile di quanto sembra. Ehi, Alwan? Se lo
scopri, non sbandierarlo per tutto l'hotel, ti prego» aggiunsi.
«Okay,
non preoccuparti.»
Ci
stringemmo la mano come per suggellare chissà quale patto, poi
lo salutai e raggiunsi l'ascensore, pronto ad affrontare Daron.
Quando
mi trovai di fronte alla porta della stanza del chitarrista, rimasi
sorpreso nell'apprendere che Daron non stava ancora dormendo; infatti
lo sentii strimpellare la sua chitarra dalla dubbia accordatura e
intonare una melodia a me ignota.
Bussai
e attesi che venisse ad aprirmi, e quando la porta si spalancò,
il mio amico si presentò con indosso un accappatoio in spugna
celeste, un paio di boxer bianchi e le sue inseparabili infradito
rosse.
«Già
sveglio?» gli domandai, seguendolo all'interno e notando solo
allora che aveva un'aria stravolta: barcollava leggermente e sembrava
debole e sfatto, ma qualcosa mi diceva che non era stato solo ciò
che aveva assunto la sera prima a ridurlo in quelle condizioni.
«In
realtà non ho dormito» ammise infatti, indicando una
sedia su cui potevo prendere posto. In realtà anche quella
postazione, come il resto delle superfici esistenti nella stanza, era
stracolma di vestiti, ma evitai di commentare e mi ci accomodai,
sistemando qualche indumento sulla spalliera.
«Che
suonavi?» mi informai, guardandomi attorno e non riuscendo
proprio a capire come lui potesse vivere in quel casino assurdo.
«Componevo.
Quando trascorro molte ore senza chiudere occhio, il cervello si
mette stranamente in moto...» disse distrattamente,
accarezzando le corde del suo strumento, per poi riprendere a
pizzicarle.
Decisi
di arrivare dritto al punto. «Daron, cosa hai combinato la
notte scorsa? Perché non hai dormito?»
«Ho
fatto mugolare quelle due bambine. Ora non ci daranno più
fastidio» disse con estrema semplicità, senza guardarmi.
«Ashley dice che ora sono io il suo preferito» aggiunse,
anche se sinceramente c'era qualcosa che non quadrava nelle sue
parole e nel tono con cui le pronunciò. Era come se non
andasse particolarmente fiero di ciò che aveva fatto, o come
se qualcosa fosse andato storto. O forse voleva nascondermi qualche
aspetto della questione.
Mi
sporsi verso di lui con le sopracciglia leggermente inarcate. «Non
mi convinci, Malakian» affermai con calma.
«In
che senso?»
«Stai
evitando di dirmi qualcosa. Parla e non fare lo stronzo» lo
incitai senza troppi giri di parole.
Il
chitarrista sospirò e finalmente lasciò andare lo
strumento, appoggiandolo delicatamente sul letto. Si alzò e mi
fece cenno di seguirlo sul piccolo balcone di cui la sua stanza, a
differenza della nostra, disponeva. La vista era stupenda: si poteva
osservare la spiaggia alla destra della scogliera, l'immensa distesa
del mare e il susseguirsi di altre piccole spiaggette di sabbia e
ciottoli che si estendevano sulla sinistra oltre il vialetto
d'ingresso dell'hotel, intervallate da scogli più o meno
appuntiti.
«Fumiamo,
questa roba l'ho procurata ieri al locale e ti posso assicurare che è
proprio da sballo» riprese a parlare Daron, mostrandomi un
sacchetto strapieno di erba.
Strabuzzai
gli occhi. «Ne sei sicuro? Se ieri notte eri ridotto uno
schifo, non sarà mica colpa di quella merda? Cristo, sono solo
le undici del mattino!» sbottai.
«Macché,
ieri sera c'è stato qualche incidente di percorso, questa l'ho
trovata all'ultimo momento e ti posso assicurare che è buona»
ammiccò lui con disinvoltura, estraendo dall'accappatoio il
materiale per prepararsi una canna.
«Okay,
faccio un tiro da te per verificare» acconsentii. «Ma in
cambio voglio sapere i dettagli.»
«Con
calma.» Daron armeggiò ancora un po' con cartina e
filtrino, eseguendo quell'operazione con estrema calma e precisione,
il che andava in netto contrasto con il suo solito fare agitato e
frenetico. Poi richiuse il tutto con lentezza, inumidendo la cartina
con la punta della lingua e facendola aderire su se stessa. Infine mi
passò il prezioso oggetto e disse: «Accendila, io ho
qualcosa da mostrarti».
Gli
lanciai un'occhiata interrogativa e notai che estraeva, dalla tasca
sinistra dell'accappatoio, il suo cellulare. Cominciò a
pigiare sullo schermo a una velocità sorprendente, poi annuì
e infine voltò l'oggetto nella mia direzione, facendo sì
che potessi osservarne lo schermo.
Rimasi
basito da ciò che vidi e per poco non lasciai cadere ciò
che tenevo in mano. «Ma che cazzo...» balbettai. Deglutii
a fatica di fronte all'immagine che appariva sul cellulare del mio
amico e ripresi a parlare solo dopo qualche altro secondo: «Cosa
cazzo hai combinato? Perché hai una foto di quelle due...
nude?».
Daron
sorrise con fare cospiratorio e riprese a smanettare sullo
smartphone, finché non fece partire una video e me lo mostrò.
«Daron,
oh Daron... sai che non vediamo l'ora di averti dentro di noi?»
sentii dire da una delle
ragazze.
«Sì,
Kelly ha ragione! Quando arrivi?»
strepitò subito dopo l'altra.
Sullo schermo appariva una
scena piuttosto pietosa: le due ragazze erano bendate e completamente
nude, il corpo pronto ed esposto agli occhi di Daron; si tenevano per
mano e sulle labbra avevano dipinto un sorriso beato.
«La
festa è finita»
udii la voce di Daron per la prima volta all'interno del video, poi
la registrazione terminò e Daron ripose l'oggetto nella tasca
da cui lo aveva portato fuori.
Non riuscivo a parlare, non
sapevo cosa dire né cosa fare, ero semplicemente immobile,
fermo sul posto e dovevo mostrare un'espressione sconvolta.
Il chitarrista infatti mi
sfilò gentilmente la canna di mano e la accese al posto mio,
poi parlò: «Be'? Non hai niente da dire? Cosa significa
quella faccia da pesce lesso che hai?».
«Sei pazzo, Malakian?!
E poi non dovrei incazzarmi con te?» strillai d'improvviso.
Lui, colto alla sprovvista,
fece istintivamente un passo indietro e sollevò una mano come
per difendersi da un mio possibile assalto.
«No, dico, ti rendi
conto di quello che hai combinato?» proseguii, mentre la rabbia
si faceva sempre più strada dentro me.
«Almeno
non ho dovuto sbattermele!» ribatté lui, mettendosi
sulla difensiva e sfidandomi con
lo sguardo. «Tu come
avresti risolto questa faccenda, eh? Ti ho tolto dai casini, ne sei
uscito pulito e ho pensato io a tutto. Che cazzo vuoi di più?»
«Tu... cosa? Questo è
il colmo! Le hai illuse e poi...» farfugliai.
«Le ho ricattate con
quel video e quella foto. Stasera ripartiranno e proseguiranno la
loro crociera come se niente fosse mai accaduto. Problema risolto»
tagliò corto lui in tono irritato, prendendo ad aspirare
furiosamente qualche boccata di fumo.
«Pensi davvero che
sarà così facile?» chiesi soltanto, ormai
sconfitto dall'evidenza che Daron avesse combinato un altro dei suoi
disastri.
«Non lo penso, non lo
so, cazzo. Ci ho solo provato e lo spero proprio, mi davano fastidio
e ho fatto la prima cosa che mi è venuta in mente»
replicò a voce alta, poi mi diede le spalle e tornò
dentro la stanza.
«Ascolta... ti rendi
conto che è stata una cazzata, vero?» tentai di farlo
ragionare, seguendolo a ruota e notando che camminava nervosamente
avanti e indietro, divorando quasi la canna che stringeva tra le
dita.
«Vorrei solo capire
cosa cazzo avresti fatto tu, al mio posto» tuonò
incazzatissimo.
«Non
lo so, ma non avrei agito come te, questo è certo!»
gridai, tagliandogli di botto la strada e sovrastandolo di almeno
quindici centimetri; nonostante questo, potevo sentire la tensione in
lui, come se fosse in
procinto di prendermi a pugni in faccia.
«Vaffanculo Odadjian,
forse faresti meglio a farti un giro e mandare un po' a puttane il
tuo perbenismo del cazzo. Se me le fossi scopate come un animale,
avresti avuto comunque da ridire. Quindi fatti da parte e lasciami i
coglioni in pace, chiaro?» Daron sibilò quelle parole
tra i denti, sputandole come se volesse liberarsene per sempre.
«Se la pensi così,
non sarò certo io a farti cambiare idea» replicai io,
utilizzando un tono ancora più calmo e basso del suo. In
realtà l'avrei volentieri scaraventato giù dal balcone,
ma non volevo avere una vita umana sulla coscienza, non per colpa sua
e delle sue stronzate.
«Bravo, l'hai capito.
E ora vattene, sono sicuro che troverai qualcun altro da tormentare.
La tua nuova amichetta sembra non disdegnare la tua compagnia»
sputò ancora il chitarrista, aprendo di scatto la porta della
sua stanza e spingendomi fuori.
Non opposi resistenza, con
lui non si poteva ragionare, non quando era fermamente convinto di
avere ragione e di non dovere delle spiegazioni al prossimo.
Prima che sbattesse la
porta, gli lanciai un'ultima occhiata colma di risentimento. «Sta
di fatto che sei uno stronzo» conclusi, poi me ne andai verso
camera mia con l'intento di prepararmi.
Una
cosa era certa: pranzare con Leah e stare lontano
dai ragazzi per qualche ora mi avrebbe fatto bene, mi sarei distratto
e avrei evitato di pensare a tutti i casini che erano già
successi durante quella vacanza.
Ed erano trascorsi soltanto
due giorni.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Feeling ***
ReggaeFamily
Feeling
[John]
Correre
mi faceva bene, non potevo fare a meno di compiere quell'azione
almeno una volta al giorno; tuttavia, in Giamaica il caldo cominciava
a farsi sentire fin dalle prime ore dell'alba, perciò mi ero
pentito di non essermi alzato presto come al solito. Sudavo
copiosamente mentre percorrevo gli ultimi metri che mi separavano
dallo Skye Sun Hotel e non vedevo l'ora di tracannare almeno un litro
d'acqua fresca.
Mi
fermai in un punto ombreggiato da una grossa palma e presi ad
asciugarmi la fronte con un braccio, respirando affannosamente e
cercando di regolarizzare il battito cardiaco. Il mio orologio da
polso segnava le undici e quarantatré, decisamente troppo
tardi per compiere attività fisiche all'aria aperta.
Il
mio cellulare, con un susseguirsi di colpi di rullante, cassa e
crash, mi avvertì dell'arrivo di un sms. Perplesso, lo
afferrai per capire chi mai mi avesse spedito un normale messaggio
senza accedere a WhatsApp.
Si
trattava di Shavo che mi avvisava che avrebbe pranzato in città
con Leah, e mi raccontava in breve di aver litigato furiosamente con
Daron perché il chitarrista si era cacciato nei guai.
Sospirai.
Cosa poteva aver combinato stavolta il nostro amico? Era difficile
stargli appresso, per me era quasi impossibile in molte occasioni.
Risposi
con un semplice Ok poi mi racconti
e riposi il telefono nella tasca dei calzoncini. Accaldato com'ero,
decisi che dovevo assolutamente
farmi una nuotata: sarebbe stato positivo per rinfrescarmi un po' e
anche per bruciare ulteriori calorie e continuare, senza troppo
sforzo, il mio esercizio fisico giornaliero. Ogni tanto mi domandavo
come mai non avessi seguito una qualche carriera agonistica, ma poi
mi ritrovavo a comprendere che anche suonare la batteria richiedeva
un certo sforzo fisico e che comunque potevo compensare con quello
che già facevo abitualmente. La vita dello sportivo non mi
ispirava molto, era un'occupazione che non lasciava tregua e
richiedeva un allenamento costante e duro, nonché la tendenza
a essere schifosamente competitivi.
Immerso in quei pensieri,
feci qualche passo verso l'ingresso dell'albergo, ma una voce
femminile attirò la mia attenzione.
«Oh, non ci credo!»
esclamò.
Mi voltai verso il vialetto
e mi schermai gli occhi con una mano, notando una figura avvicinarsi
a me con passo spedito. Si trattava di una donna che doveva avere
all'incirca trent'anni, capelli neri e ricci a incorniciare un viso
dai lineamenti marcati; due occhi neri come pece mi scrutavano
increduli, contornati da un paio di occhiali da vista dalla sottile
montatura argentea. Indossava una camicia in jeans sbottonata su una
maglia rossa e un paio di pantaloni neri e aderenti. Era formosa, i
fianchi larghi e il seno prosperoso le davano un'aria decisamente
intrigante, almeno per il sottoscritto.
Quando mi fu accanto, notai
che era quasi più alta di me e che mi osservava attentamente,
analizzando ogni millimetro della mia persona, come se fosse alla
ricerca di qualche particolare a me ignoto. Solo allora notai che in
una mano stringeva un registratore e nell'altra un enorme block
notes.
Allarmato, sollevai una mano
e dissi: «Non rilascio dichiarazioni, non voglio che si sappia
che sono qui».
L'espressione sul viso della
giornalista cambiò: gli occhi si illuminarono divertiti,
mentre le labbra carnose si piegavano in un sorriso capace di
infuocare l'intera Giamaica.
«Non ti sputtano,
amico» ribatté, per poi riporre gli oggetti che teneva
in mano all'interno di un'enorme borsa di tela arancione. «Non
sono qui per te, però ehi, non mi aspettavo di incontrare
proprio John Dolmayan.»
Mi grattai la nuca
leggermente imbarazzato. «Non sei qui per me?»
«Macché. Un
informatore mi ha detto che qui avrei trovato Lady Gaga, ma a quanto
pare mi ha ingannato.» La donna fece spallucce. «Bastardo,
non mi fiderò più di lui. Però almeno posso
farmi un paio di giorni di ferie, fingendo di cercare Lady Gaga sotto
i sassi» ammiccò, indicando la scogliera alla nostra
destra.
«Già, non male»
commentai. «Per chi lavori?» le chiesi, sperando sul
serio che lei non ingannasse me per vendicarsi del suo informatore.
«Kingston
Times, sezione arte, musica e
spettacolo. Sono Bryah Philips, qui per servirti!» esclamò
lei, fingendo di eseguire un saluto militare. Poi mi tese la mano. «È
un piacere conoscerti, soprattutto perché non me l'aspettavo.»
«Bryah, quindi...
davvero non scriverai di avermi incontrato?» le domandai per
sicurezza, dopo aver ricambiato il suo gesto.
Scosse il capo con
decisione. «Non sei al livello di Lady Gaga, che figura ci
farei?»
Aggrottai la fronte. «Dovrei
offendermi?»
«Dipende se sei
permaloso oppure no. Però al giornale quasi nessuno sa chi
sei, al massimo possono conoscere di sfuggita Serj Tankian perché
ha collaborato con Sizzla, ma tu...» spiegò,
gesticolando energicamente.
«Okay, meglio così.
Be', scusami, adesso devo proprio prendere qualcosa da bere, ho fatto
jogging e sono abbastanza accaldato» dissi, sentendo la gola
sempre più secca.
«Ti faccio compagnia»
affermò, strizzandomi l'occhio. «Visto che ci siamo
incontrati, tanto vale approfittarne.»
Non sapevo esattamente cosa
intendesse dire con quelle parole, ma evitai di chiederglielo e
sperai che non alludesse a qualcosa di dannoso per me.
Seduti
in terrazza, con una spremuta d'arancia a testa, ci osservavamo senza
troppo pudore. Bryah era di una bellezza particolare, il suo viso era
molto espressivo e riusciva
difficilmente a nascondere delle espressioni buffe ed esageratamente
allusive.
«Adesso posso farti
qualche domanda da giornalista?» domandò all'improvviso.
«Avevi detto che...»
mi affrettai a farle notare.
Bryah scosse il capo. «Dai,
scherzo. Posso farti qualche domanda? Non pubblicherò queste
cose, te lo giuro!»
«Come posso fidarmi di
te?» Mi appoggiai meglio allo schienale della sedia e sostenni
il suo sguardo.
«Fidati e basta. Il
mondo non è pieno solo di impostori, John. Ti sembro una
malintenzionata?» mi interrogò con le folte sopracciglia
inarcate.
«Non lo so, non ti
conosco.» Mi strinsi nelle spalle e sorseggiai la mia spremuta
fresca.
«Allora ti chiederò
cose facili. È solo curiosità, non capita tutti i
giorni di incontrare una rock star in Giamaica» mi spiegò
con entusiasmo.
«Abbassa la voce»
le intimai, guardandomi attorno e notando la cameriera che si
aggirava per i tavolini a raccogliere i resti delle consumazioni di
qualche altro cliente.
Notai
allora il padre di Leah e la sua compagna avvicinarsi al bancone: lui
era vestito di tutto punto, con tanto di completo elegante dal taglio
classico color beige, una camicia candida e una cravatta senape, in
tinta con i mocassini che portava ai piedi. Non avevo idea di come
potesse andare in giro conciato in quel modo senza squagliarsi
sotto il sole cocente di mezzogiorno. La sua insignificante
accompagnatrice, invece, indossava un mini abito verde acqua e un
paio di vertiginosi sandali bianchi con il tacco a spillo.
«John?»
Sobbalzai leggermente quando
Bryah mi richiamò. Non mi ero accorto di essermi distratto
così tanto dalla nostra conversazione.
«Scusami. Cosa mi
avevi chiesto?» le domandai, tornando a concentrarmi su di lei.
«Ti ho chiesto se sei
qui da solo» ripeté.
«No, con altri due
ragazzi della band.»
I suoi occhi si accesero
ancora una volta di curiosità. «Con chi?»
La scrutai per un altro
secondo, poi decisi che per una volta potevo anche rischiare, provare
a fidarmi, saltare nel vuoto senza paracadute. «Con Shavo e
Daron.»
Bryah parve delusa. «Peccato
che non ci sia anche Serj, avrei voluto intervistarlo e saperne di
più sulla sua collaborazione con Sizzla.»
«Lui è rimasto
a Los Angeles» spiegai.
«Sai una cosa, John?
Ti confesso un segreto» disse all'improvviso, sporgendosi verso
di me con fare cospiratorio.
«Un segreto?»
Bryah annuì. «Vorrei
tanto scrivere un libro, la biografia di qualche artista famoso.»
Mi accigliai. «Davvero?
È una cosa... singolare» commentai, non sapendo bene
cosa dire.
«Non
tanto. C'è un sacco di gente che lo fa. Qualcuno
mi ha consigliato di scrivere l'ennesimo volume su Marley, ma
sinceramente non mi va. Risulterebbe una delle tante opere ripetitive
che si trovano anche nelle bancarelle di contrabbando.» Il tono
in cui mi dava queste informazioni era concitato, simbolo della
grande passione che doveva nutrire verso il suo lavoro.
«E hai rifiutato»
affermai.
«Certo che sì.
Ma scrivere un libro su di te, su di voi... quello sì che mi
piacerebbe davvero. Mi spiego: come la maggior parte dei giamaicani,
anche io sono appassionata di reggae e di tutti i suoi sottogeneri.
Vado spesso alla ricerca di artisti emergenti che possano avere un
qualche talento, mi piace il settore in cui lavoro e mi piace capire
cosa ogni musicista vuole comunicare con la sua musica. Anche se può
sembrare strano, non sempre il reggae porta con sé temi di
pace e protesta sociale, non sempre si parla d'amore e fratellanza.
C'è qualcuno che esagera, sperando che nessuno se ne accorga.»
Annuii. «Immagino.»
«Ecco, e questo mi
porta a parlare dei System Of A Down. Voi siete degli artisti proprio
particolari, che nonostante facciate musica forte, potente, trattate
dei temi che si avvicinano molto a quelli della musica giamaicana,
capisci?» Bryah, mentre parlava, aveva completamente
dimenticato di consumare la sua spremuta, la quale doveva essere
diventata ormai bollente e imbevibile.
«Sì»
assentii. «Non sei la prima che ce lo dice.»
«Vedi? Perché
evidentemente è qualcosa che si nota e che voi stessi volete
far arrivare al vostro pubblico» proseguì la donna,
sempre più eccitata. «Avete mai pensato di far uscire un
libro con la storia della band?» volle sapere poi.
«Una volta ci ho
pensato. Volevo scriverlo io, ma poi non ho mai trovato il tempo e ho
lasciato perdere» dissi con un leggero sorriso, ricordando il
periodo in cui girovagavo per casa con un taccuino in mano, provando
a costruire una scaletta di avvenimenti più o meno importanti
da riportare in un'eventuale biografia.
«Sul serio? Ti piace
scrivere?»
Feci un cenno vago con la
mano. «Macché. Amo leggere, ma per la scrittura non mi
sento portato. Preferisco le materie scientifiche.»
Bryah si strinse nelle
spalle. «Altrimenti non potresti suonare la batteria. Anche
questa è una scienza, non trovi?»
Cercai gli occhi neri e
profondi della donna che mi sedeva di fronte e fui sorpreso di notare
che fossimo sulla stessa lunghezza d'onda su diversi argomenti, primo
tra tutti, lo strumento che suonavo e la concezione matematica che ne
avevo sempre avuto.
«È proprio
quello che penso. Com'è che tu l'hai capito subito e i miei
colleghi mi prendono per il culo quando definisco la batteria come un
magico incastro di calcoli matematici?» mi ritrovai a
osservare, e nello stesso momento un sorriso spontaneo si dipinse
sulle mie labbra.
«Non lo so, sei un
ragazzo incompreso» ammiccò Bryah ricambiando il mio
sorriso con uno ancora più luminoso.
Stavo per ribattere, quando
il mio cellulare prese a squillare rumorosamente, con i suoi soliti
tempi dispari di percussione araba. Mentre lo estraevo, Bryah mi
lanciò un'occhiata sorpresa e divertita allo stesso tempo: ero
certo che mi avrebbe chiesto qualcosa anche sulla mia suoneria, ci
avrei scommesso qualunque cosa, lo leggevo nel suo sguardo
indagatore.
Si trattava di Daron.
Sospirai e mi portai lo smartphone all'orecchio sinistro. «Dimmi»
esordii.
«Dove cazzo sei?»
strillò il chitarrista. Sembrava irritato e seccato,
sicuramente stava ancora rimuginando sulla lite avuta con Shavo.
«Intanto datti una
calmata, chiaro? Sono su in terrazza. Che vuoi?» lo apostrofai
in tono secco.
«Arrivo, non muoverti
da lì» tagliò corto e chiuse la conversazione.
Fissai lo schermo del
cellulare. Ero perplesso.
«La suoneria l'hai
composta tu?»
Alzai gli occhi su Bryah e
la trovai a fissarmi con estremo interesse. La domanda che mi
aspettavo era arrivata, ed era strano come io fossi riuscito a
entrare così tanto in sintonia con quella sconosciuta in così
poco tempo.
«Già.
Si tratta di tempi dispari di percussione araba. Si usano molto in
strumenti come la darbuka, il tamburo a cornice... io ora mi sono
messo in testa di studiarli sulla batteria, è uno sfizio
personale, non penso che con i ragazzi mi servirà, mi
prenderebbero per pazzo se provassi a inserire una cosa del genere
nei nostri pezzi, però mi intriga molto studiarli. Le mie
origini sono libanesi del resto, e...»
«Ehi, calma. Non ho
capito niente!» rise Bryah, sollevando le mani in segno di
resa.
«Okay, ehm... scusa»
bofonchiai imbarazzato.
Cominciai
a spiegarle in termini più semplici che i tempi dispari
potevano essere composti da cinque, sette, undici o più colpi,
combinati in sequenze da due o tre tempi ciascuno. Si potevano
eseguire i tempi base o aggiungere un sacco di abbellimenti e
improvvisazioni, poi presi a mostrarle delle immagini da internet
degli strumenti più usati per suonarli. Nel frattempo dalle
casse posizionate ai lati del chiosco partì un brano che
riconobbi subito: si trattava di With My Own Two Hands di
Ben Harper, un pezzo dalle forti tonalità reggae e tematiche
sociali a me molto vicine.
«Questa la conosci?»
mi chiese all'improvviso Bryah. «Adoro questa canzone, e adoro
Ben Harper!» esclamò.
«Anche io!»
concordai, per l'ennesima volta mi trovai d'accordo con quella donna.
Com'era possibile? Inoltre sembrava sempre più interessata a
conoscere i segreti delle percussioni arabe, confessandomi che in
Giamaica si suonavano per lo più strumenti a percussione
africani.
Stavamo ancora scorrendo le
immagini riguardanti la darbuka egiziana su Google mentre Bryah
canticchiava il brano che amavamo entrambi, quando Daron si catapultò
da noi come una furia, scostò rumorosamente una sedia e ci si
lasciò cadere.
Non parve badare alla
persona che era con me, mi si rivolse in tono irritato e cominciò
a parlare a vanvera: «Io Shavo lo ammazzo, giuro che questa
volta non andrò a scusarmi con lui, ha superato il limite
quello stronzo! Sai che ha fatto? Mi ha insultato, mi ha detto che ho
combinato un casino, mentre io ho cercato soltanto di salvargli il
culo! È un pezzo di merda, come si permette di fare sempre
così con me? Crede forse che io sia un moccioso di quindici
anni? Se vuole un figlio da accudire, che si trovi una tizia con cui
metterlo al mondo e mi lasci i coglioni in pace, no? Ci vuole molto?
Che poi se l'è presa per una stronzata, pensa te... e io che
mi sono adoperato per allontanare quelle patetiche groupies da lui...
ma ti pare che...».
«Daron!» tuonai
all'improvviso, riuscendo finalmente a zittirlo.
Lui si guardò
intorno, sembrava quasi spaesato e confuso; mise a fuoco Bryah e
sgranò gli occhi più del normale, si portò una
mano al mento e se lo grattò, poi tornò a fissare me e
aggrottò la fronte.
«Cazzo» sibilò
tra i denti.
«Forse
è meglio che vi lasci ai vostri discorsi» intervenne
Bryah, afferrando la sua borsa e facendo
per alzarsi.
«Aspetta, prima ci
tengo a presentarti Daron, il chitarrista della band» dissi.
«Anche se non è proprio in uno dei suoi momenti
migliori, comunque è sempre così più o meno, non
farci caso» spiegai, tentando di salvare la situazione per
quanto possibile.
«E lei sarebbe...?»
domandò il mio amico. «Le hai detto chi siamo? Ma sei
pazzo? Dopo il casino con quelle tipe...»
Bryah si alzò e gli
mollò una pacca sulla spalla. «Amico, so benissimo chi
sei, non c'era bisogno che John me lo dicesse. Ma tranquillo, non
sono una groupie, ho già un compagno che mi aspetta a casa»
affermò. «Mi chiamo Bryah Philips e sono lieta di
conoscerti, ma adesso levo le tende, perché noto che sei un
attimo incazzato, non è vero?» aggiunse con un sorriso
comprensivo, per poi lanciarmi un'occhiata complice.
Non riuscii del tutto a
ricambiare quel suo gesto, perché ero rimasto sorpreso nel
sentir parlare del suo compagno. Cosa avevo sperato? Non lo sapevo,
ma sentivo di essere attratto da Bryah e forse avrei voluto provarci
con lei. Ma questa nuova consapevolezza mi tarpò
immediatamente le ali; se fossi stato Daron, probabilmente avrei
cercato comunque di portarmela a letto, ma io ero diverso da lui,
avevo una morale e seguivo quelli che erano i principi che ritenevo
più giusti e adatti per stare al mondo nel modo migliore.
«John, fatti sentire
per quella storia del libro» mi si rivolse ancora la donna,
allungandomi un biglietto da visita. Lo afferrai meccanicamente,
senza neanche guardarlo, intento com'ero a fissare lei e i suoi gesti
sinuosi e affascinanti.
Annuii distrattamente e mi
ficcai il cartoncino in tasca, mentre Daron borbottava qualcosa di
incomprensibile e Bryah controllava di non aver dimenticato nulla sul
tavolino.
«Allora vado. Buon
proseguimento e grazie per la chiacchierata, batterista. Ciao
ragazzi» concluse la giornalista, per poi voltarsi e dirigersi
all'ascensore.
Il mio amico mi fissò
stralunato, poi esclamò: «Cazzo, che donna! Te la fai,
non è vero? No, perché altrimenti ci penso io eh!».
Gli mollai un pugno sulla
spalla e scossi il capo. «Non dire cazzate. Raccontami di Shavo
e delle groupies piuttosto.»
Lui annuì. «Però
prima ho bisogno di qualcosa di forte.» Detto questo si alzò
e si diresse verso il bancone, senza aspettare che la cameriera ci
raggiungesse.
Nel
frattempo, mi ritrovai a pensare a Bryah e alla delusione che avevo
provato nell'apprendere che era una donna impegnata. Possibile che mi
fossi già fatto dei film mentali assurdi? Eppure, mentre
parlavo con lei, mi ero sentivo a mio agio, avevo avuto l'impressione
di conoscerla da sempre e di poter prevedere le sue mosse. E inoltre
avevo avvertito una certa attrazione, una tensione tra noi.
Mi risultava difficile
credere che fosse qualcosa nato soltanto da parte mia, anche se non
riuscivo a spiegarmi cosa mi portasse a formulare certe congetture.
Scossi il capo e decisi di
non pensarci più. Mi sarebbe bastato buttare via il suo
biglietto da visita e, semplicemente, dimenticarmi di averla
conosciuta.
Cari
lettori, spero stiate bene :)
Ho
deciso di aggiornare di mercoledì per un motivo ben preciso,
ovvero fare un piccolo regalo alla mia adorata Hanna :3 infatti,
dedico questo aggiornamento a lei, perché sperava di trovare
qualcuno che facesse girare la testa al caro John ;)
Be',
sono molto contenta di come sta procedendo questa storia e mi fa
piacere sapere che anche a voi questo mio progetto interessa!
Sono
qui principalmente per farvi sentire la canzone che John e Bryah
hanno ascoltato in terrazza, mentre chiacchieravano e bevevano la
loro spremuta ^^
Si
tratta di un brano di Ben Harper, ma questo già è stato
spiegato dal nostro John nel corso della narrazione, vi lascio qui il
link per l'ascolto, ve la consiglio:
https://www.youtube.com/watch?v=aEnfy9qfdaU
Per
il resto, fatemi sapere cosa ne pensate di questo nuovo personaggio,
di Bryah Philips la giornalista del Kingston Times, che non so
se esista come giornale, ma comunque mi serviva contestualizzarla in
questo modo ^^
Alla
prossima e grazie di cuore a tutti per il supporto ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 15 *** Armageddon come alive! ***
ReggaeFamily
Armageddon
come alive!
[Daron]
Dopo
aver raccontato a John tutto ciò che era successo durante la
notte e quella mattina, mi sentivo decisamente meglio. A differenza
di Shavo, il batterista riusciva ad ascoltarmi senza incazzarsi per
qualsiasi cosa dicessi, il che era piuttosto positivo.
Quando
John mi annunciò che saremmo stati da soli a pranzo e mi
informò che Shavo sarebbe stato in città con Leah,
presi a sghignazzare e mandai giù l'ultimo sorso del drink che
avevo preso poco prima. Non sapevo neanche cosa avevo bevuto, in
realtà, mi ero soltanto assicurato che fosse qualcosa di forte
per aiutarmi a parlare con John dei guai che avevo combinato. Mi era
bastato sbattere le ciglia con la cameriera e lei, dopo l'iniziale
riluttanza, era diventata docile come un agnellino.
«Te
la ridi, eh?»
Annuii.
«Secondo me tra quei due c'è qualcosa, anche se Shavarsh
nega di essere interessato a lei» esclamai. Poi mi venne in
mente una cosa e scoppiai a ridere. «Ti immagini lei, mentre
fanno sesso, gli grida Shavarsh, oh, Shavarsh, ti prego!».
«Sta' zitto! Ma sei
proprio un pezzo di merda eh» mi rimbeccò John,
guardandosi attorno. Non potei fare a meno di notare che, nonostante
mostrasse indignazione, stesse trattenendo a stento le risate.
«Ti sei immaginato la
scena, vero? Vorrei esserci, merda!» proseguii imperterrito.
«Smettila,
dai!» Ormai John stava ridendo a sua volta,
e cercò ancora di nasconderlo, portandosi una mano di fronte
alla bocca.
«Sì, insomma...
Leah non è mica male! Per il nostro pelatone va benissimo, ed
è facile immaginarli mentre fanno certe cose, no?»
ammiccai, dando un calcio a John sotto il tavolo.
«Che stronzo!»
esclamò lui, ma ormai non riusciva più a trattenersi e
scoppiò rumorosamente a ridere, facendo un baccano assurdo e
attirando l'attenzione della cameriera e di alcuni clienti.
«Ti ho fatto ridere!»
strepitai, sollevando un pugno in aria. «Cazzo, che culo!»
«Sei ignorante come
pochi, Malakian!» mi accusò, non riuscendo più a
calmarsi; si prese la testa tra le mani e respirò
profondamente con l'intento di darsi un contegno.
«Ascolta: ieri gli ho
detto che se non è interessato a Leah, ci provo io con lei!»
raccontai in tono allegro. Mi sentivo stranamente osservato, così
mi voltai di scatto verso il bancone e incrociai per un istante lo
sguardo di Medison, la sconosciuta con cui ero andato a letto la
prima sera, poco dopo essere giunto in Giamaica. Lei distolse subito
gli occhi da me e riprese a chiacchierare con un uomo di mezz'età
che doveva essere il suo compagno. Se solo avesse saputo cosa lei
aveva combinato, probabilmente l'avrebbe buttata giù dalla
terrazza.
«Ma
no, perché gli hai detto una cosa simile? Povero Shavo, ci
credo che è sempre infuriato con te!»
commentò John con disappunto.
«Volevo capire come
avrebbe reagito.»
«E cosa è
venuto fuori?» chiese il batterista con curiosità.
«Dice che posso fare
ciò che voglio, ma era chiaro che intendesse dire esattamente
il contrario» spiegai con sicurezza.
«Non vorrai davvero
provarci con Leah?» John aggrottò la fronte e tornò
completamente serio, guardandomi dritto negli occhi.
Finsi di rifletterci su e
sostenni l'espressione contrariata del mio amico, poi ridacchiai e
risposi: «Macché, ti pare? Credi davvero che io sia così
meschino?».
John alzò gli occhi
al cielo. «Con te non si può mai sapere, Malakian.»
Ci
pensai un attimo su, poi mi ricordai della donna che sedeva al tavolo
del mio amico quando ero
giunto in terrazza, così lo interrogai su di lei; venne fuori
che Bryah Philips era una giornalista che lavorava nella sezione
dedicata ad arte, musica e spettacolo del Kingston Times,
non aveva intenzione di sputtanarci al mondo intero e aveva rivelato
a John di voler scrivere la storia della nostra band e farne un libro
da pubblicare.
«Wow, che donna! Ho
visto come la guardavi, Dolmayan, sento che ti piace. Ma stai
attento: è una giornalista, e io dei giornalisti non mi fido.
Sono come gli sbirri: fingono di esserti amici e poi te la mettono
nel culo, dai retta a me!»
Mentre
continuavamo a chiacchierare del più e del meno,
ci avviammo in ristorante per il pranzo. Sinceramente stavo morendo
di fame e non ne potevo più di stare in terrazza a squagliarmi
sotto il sole come un ghiacciolo.
Una volta giunti in sala, mi
frugai nelle tasche e mi resi conto di aver dimenticato il cellulare
sul tavolino.
«Vado a riprendere il
cellulare» dissi a John, mentre lui prendeva posto a un tavolo.
«Non metterci troppo»
mi intimò.
Corsi all'ascensore e
risalii in fretta e furia sulla terrazza, ma quando raggiunsi il
tavolino che io e il mio amico avevamo occupato fino a poco prima,
del mio cellulare non c'era alcuna traccia. Mi accigliai a riflettei
un attimo: possibile che lo avessi abbandonato in camera e non me lo
fossi portato appresso fin dal principio? Eppure mi sembrava di
ricordare che...
«Ehi, cerchi questo?»
Una voce femminile interruppe i miei pensieri.
Mi voltai di scatto e mi
ritrovai di fronte alla cameriera, la quale mi sorrideva sorniona e
sventolava il mio smartphone come fosse un trofeo.
«Sì, grazie»
replicai in tono piatto, allungando la mano per farmi consegnare
l'oggetto in questione.
«Sei carino»
disse all'improvviso, facendo qualche passo verso di me. «Non
ti avevo mai visto prima da queste parti.» Mi consegnò
il cellulare e, nel farlo, indugiò con le dita sul dorso della
mia mano.
«Già»
borbottai. Sinceramente, non avevo voglia di intrattenermi con quella
tizia, non la stavo neanche guardando e non mi interessava farlo.
Avevo fame e non vedevo l'ora di ingozzarmi come se non ci fosse un
domani, per poi buttarmi a letto e dormire per dieci ore di fila.
«Comunque ti ho
segnato il mio numero di cellulare» ammiccò la ragazza.
A quel punto sollevai lo
sguardo e le lanciai un'occhiata interrogativa. «Cosa?»
«Sei carino»
ripeté. «Se non sai come divertirti, chiamami. Ti faccio
compagnia se non ho da lavorare.»
Ero basito. Non mi aveva
neanche chiesto come mi chiamavo, ma forse era meglio così.
Annuii distrattamente e strinsi più forte lo smartphone. Aveva
frugato tra le mie cose, questo mi stava facendo incazzare
moltissimo, non avrebbe potuto trovare un modo peggiore per
cominciare un rapporto con il sottoscritto. Odiavo chi invadeva in
quel modo la mia privacy, dovevo essere io a dettare le regole, non
potevo sopportare che una perfetta sconosciuta si fosse messa ad
armeggiare con il mio cellulare. Per quanto ne sapevo, avrebbe potuto
trovare qualsiasi cosa.
Allora mi ricordai del video
e della foto che avevo fatto ad Ashley e Kelly, e sentii chiaramente
il sangue defluire dal volto. Feci un passo indietro e fui sul punto
di fuggire, ma riuscii a evitarlo.
«Forse
hai da fare ora, in ogni caso il mio numero ce l'hai.» Sorrise
con fare accattivante. «Mi chiamo
Lakyta. Tu sei Daron, giusto?»
Annuii senza riuscire a
spiccicare parola, poi borbottai delle scuse e mi avviai di tutta
fretta verso l'ascensore.
Mentre scendevo nuovamente
al piano terra, cominciai a pormi una domanda: come faceva quella
sconosciuta a conoscere il mio nome? Doveva avermi riconosciuto, non
avrei saputo come altro spiegarmelo.
Ero stato taciturno durante
tutto il pranzo e avevo detto a John che ero sfinito e avevo bisogno
di una bella dormita; infatti, avevo lasciato il ristorante subito
dopo pranzo e mi ero buttato a letto. Mi ero addormentato subito,
senza più riuscire a dare spazio ai mille pensieri che mi
vorticavano per la mente.
Al mio risveglio mi accorsi
di aver dormito soltanto due ore e scesi dal letto imprecando tra i
denti, dopo aver provato a riaddormentarmi più e più
volte. Feci una doccia veloce e quest'operazione non fece altro che
ricordarmi tutto quello che era successo negli ultimi giorni. Il
viaggio in Giamaica si stava rivelando un enorme casino, non
somigliava neanche lontanamente alla vacanza rilassante che mi ero
illusoriamente aspettato.
Una
volta sceso nella hall, incrociai Shavo e Leah che rientravano
proprio in quel momento dalla capitale. Il mio amico mi ignorò
deliberatamente e io feci lo stesso, ma Leah si fermò un
attimo e mi salutò in
tono allegro.
«Daron, ciao! Hai una
faccia... che ti è successo?»
Scossi il capo ed evitai di
rispondere, non era proprio il caso di parlarne con lei, non di
fronte a Shavo che mi guardava in cagnesco.
«Stasera
torniamo al Fyah?»
propose ancora la ragazza. Probabilmente stava cercando di far
riappacificare me e il bassista, ma in questo caso non avevo alcuna
intenzione di collaborare.
Feci spallucce. «Mi sa
che passo.»
Leah roteò gli occhi
al cielo. «Avanti, ragazzi! Non fate i bambini e smettetela di
ignorarvi, mi piange il cuore a vedervi così!» sbottò
Leah, afferrando Shavo per un braccio e trascinandolo di fronte a me.
«Perché non ti
fai gli affari tuoi?» le consigliai in tono irritato.
«Perché sono
anche affari miei, chiaro? Questo sciocco non ha fatto che parlare di
te per tutto il tempo, giuro che stavo per buttarlo sotto un autobus!
Neanche foste fidanzati!» ribatté lei senza scomporsi.
Notai il viso di Shavo
infuocarsi. «Ma veramente io...»
«Che carino»
osservai con sarcasmo.
«Avanti! Sentite,
usciamo di qui. Ho visto John che passeggiava verso la scogliera, lo
raggiungiamo? Vi porto a conoscere i miei gattini, ci state?
L'importante è che la smettiate di fare gli stupidi e mi
regaliate un sorriso, dannazione!» strepitò ancora la
ragazza, trotterellando intorno a noi come una pazza.
Mi girava la testa, era
talmente esuberante che non riuscivo quasi a starle dietro. E per me
era strano, visto che in genere potevo essere molto peggio di lei.
Sospirai e appoggiai una
mano sul braccio del mio amico. «Forse è meglio se le
diamo retta, mi sta facendo venire il mal di testa» farfugliai.
«Anche a me»
disse Shavo in tono esasperato.
Ci fissammo per un secondo,
poi scoppiammo a ridere e ci scambiammo un abbraccio fraterno con
tanto di rumorose e dolorose pacche sulla schiena.
«Sei un coglione,
Shavo!» lo accusai tra le risate.
«E tu una testa di
cazzo!» mi rimbeccò a sua volta.
«Scusa per stamattina»
aggiunsi.
«Già, anche io
ho esagerato, mi dispiace. Insomma, Malakian, fai un po' come ti
pare. Non sono il tuo babysitter» concluse, battendomi con
forza sulla spalla.
«Appunto. Fregatene.»
Leah, di fronte a noi,
annuiva compiaciuta. «Bene, così mi piacete. Adesso
andiamo da John? Almeno possiamo decidere cosa fare stasera.»
Concordammo con lei e
uscimmo in fretta dall'albergo. Presto trovammo John che si dirigeva
verso la scogliera e io presi a chiamarlo ad alta voce per intimargli
di fermarsi.
Attese che lo raggiungessimo
e parve contento di notare che io e Shavo avevamo deposto l'ascia di
guerra.
«Torniamo
al Fyah stasera? Ve lo
chiedo perché Alwan, il barista che sta in terrazza, ha un
gruppo e oggi suona al locale» propose ancora Leah.
Accettammo di buon grado la
sua proposta e decidemmo di partire verso le dieci.
«Adesso andiamo a
vedere questi gatti o no?» domandai con impazienza. Da quando
aveva nominato questi misteriosi animali, in me si era accesa una
certa curiosità: amavo i gatti perché trovavo la loro
filosofia di vita piuttosto simile alla mia.
«Giusto! Seguitemi»
esclamò Leah, per poi farci strada sulla scogliera.
Ci arrampicammo lungo uno
stretto e sconnesso sentiero, graffiandoci le braccia con le pietre
appuntite e rischiando di cadere più di una volta, finché
non ci ritrovammo in una piccola radura a circa metà strada.
Mi guardai attorno e notai che da quell'angolazione si poteva
osservare la spiaggia sulla destra, e sollevando lo sguardo si
scorgeva il profilo bordeaux della palazzina in cui alloggiavamo.
«Wow» fece
Shavo, sedendosi sul bordo della piattaforma rocciosa e lasciando che
le gambe penzolassero nel vuoto. Io e John presto lo imitammo, mentre
Leah chiamava i gatti utilizzando nomignoli assurdi e
incomprensibili, cercando di convincerli a uscire allo scoperto.
«Non
si fidano di nessuno, soltanto di me e di Day» commentò,
inginocchiata alle nostre spalle, lo sguardo fisso sull'imboccatura
di una stretta insenatura che
si apriva sul crinale della montagna.
Trascorsero circa dieci
minuti, e infine Leah si arrese e si accomodò accanto a noi,
sedendosi tra Shavo e John. Osservammo in silenzio il panorama, poi
finimmo a commentare tutto ciò che stava succedendo sulla
spiaggia sotto di noi.
«Oddio!» esclamò
Leah, schermandosi gli occhi per osservare meglio qualcosa sulla
spiaggia. «Qualcuno di voi mi spiega perché Alan
Moonshift è in spiaggia con il completo elegante?»
sbottò contrariata.
«Cazzo, è
vero!» tuonò Shavo, per poi scoppiare a ridere.
«Che problemi ha?»
rincarò la ragazza, incrociando le braccia al petto. «Non
si vergogna?»
Cercai con lo sguardo il
soggetto in questione e notai che in effetti c'era un tizio
abbigliato come se fosse impegnato in un'importante riunione di
lavoro. Indossava un abito beige e mi parve di averlo già
visto da qualche parte. Spostai gli occhi sulla sua interlocutrice e
compresi che si tratta di Alan, il compagno di Medison. La donna era
stesa sotto il sole con indosso un bikini rosso fuoco, mentre lui se
ne stava appollaiato sul bordo di una sdraio.
«Pazzesco!»
commentai. «Ehi, volete sapere una cosa?»
«Cosa?» si
incuriosì subito Leah.
«Quel
tipo dovrebbe tenere d'occhio la sua amichetta,
anziché pensare solo a vestirsi come un damerino» dissi.
«Cosa intendi dire?»
insistette Leah. Doveva conoscere quell'individuo, dato che mostrava
un certo interesse per lui. Anche lui doveva essere un cliente
abituale dello Skye Sun Hotel.
Mi strinsi nelle spalle e
distolsi lo sguardo da Medison, per poi posarlo sulla mia
interlocutrice. «Be', quella donna non è molto seria,
sai? Me l'ha regalata come se fosse una caramella alla fragola»
ghignai, divertito dal ricordo di quanto fosse stato facile portarmi
a letto Medison.
Rimasi scioccato quando vidi
Leah sgranare gli occhi e spalancare la bocca, incredula, mentre
Shavo emetteva un gemito che non riuscii a interpretare.
«Che vi prende?»
chiesi allarmato.
«Cazzo...»
imprecò Shavo, serrando i pugni e scuotendo vigorosamente il
capo.
«Mi sa che stavolta
hai proprio esagerato» sussurrò John in tono apprensivo,
spostando lo sguardo da me a Leah e viceversa.
«Che cazzo vi prende?
Mi spiegate cosa...»
«Taci!» tuonò
Leah con le lacrime agli occhi. «Alan Moonshift è mio
padre.»
Torno
a rompere, scusate, ma sarò breve: volevo soltanto dirvi che
il titolo del capitolo prende spunto dal testo di Fucking
degli Scars On Broadway, progetto in cui principalmente Daron e John
si sono impegnati dopo aver preso una pausa dai SOAD ^^
Ecco
il link per l'ascolto, ditemi poi se non ci sta bene con il
casinaccio che è appena successo XD:
https://www.youtube.com/watch?v=OhPmjfSv1jw
Ora
attendo i vostri commenti, intanto statemi bene, fate i bravi e
mangiate le verdure :P
Ahahahah,
a presto ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 16 *** Two Shots ***
ReggaeFamily
Two
Shots
[Leah]
Stavo
tremando di rabbia e delusione, ma non avrei dovuto provare quelle
sensazioni nei confronti della vita di mio padre. Da quando eravamo
giunti allo Skye Sun Hotel, io e lui non eravamo quasi mai stati
insieme, così avevo evitato con estremo piacere di
intrattenermi con Medison. Quando ero giunta in quel luogo per
l'ennesima volta, avevo odiato Alan Moonshift e la sua folle idea di
una vacanza improvvisata in Giamaica, ma adesso era come se gli fossi
grata per avermi portato lì, perché avevo conosciuto i
ragazzi che mi fissavano in quel momento, mentre cercavo di reagire
alla rivelazione di Daron.
«Leah»
mi sentii chiamare da Shavo, poi avvertii la sua mano sulla mia
spalla. Mi voltai nella sua direzione, senza però riuscire a
rispondergli.
«Cazzo,
ma perché capitano tutte a me?» strillò Daron,
dandosi una manata sulla fronte. «Merda!»
«Cerchiamo
di calmarci, per favore. Siate ragionevoli» mediò John,
utilizzando il suo solito tono calmo e pratico, lo stesso di chi
sapeva esattamente come comportarsi in qualsiasi situazione.
«Tu...»
balbettai, puntando il dito contro il chitarrista. «Ti sei
scopato... la compagna di mio padre?!» esplosi, per poi
avventarmi contro di lui di scatto e senza rifletterci su neanche per
un secondo.
Qualcuno
mi afferrò per i fianchi e mi trattenne, e poco dopo mi
ritrovai con la schiena contro il petto di Shavo. Cercai di
divincolarmi, mentre imprecazioni irripetibili fuoriuscivano senza
sosta dalle mie labbra.
«Leah,
ti scongiuro, calmati» mormorò il bassista, con le
braccia strette attorno al mio corpo. Aveva utilizzato un tono di
voce morbido e leggermente venato di preoccupazione, il quale fu
capace di farmi rilassare. Smisi di agitarmi e mi abbandonai
completamente contro il corpo di Shavo.
Fissai
Daron senza sapere se essere incazzata o scoppiare a ridere in modo
isterico. Gli occhi mi si appannarono e mi ritrovai a piangere in
silenzio, incapace di fermare la discesa delle mie stesse lacrime.
«Leah,
scusami, io non lo sapevo che quel tizio fosse tuo padre! Ti giuro,
come avrei potuto immaginarlo?» attaccò Daron, per poi
protendersi verso di me e afferrare una delle mie mani. La strinse
con forza. «Non piangere, dai» aggiunse in tono
dispiaciuto. «Tuo padre ha scelto male la sua compagna. Temo di
non essere stato il primo con cui l'ha tradito.»
Shavo
allentò la stretta su di me e sollevò una mano,
scostandomi i capelli dal viso e prendendo pazientemente ad asciugare
le mie lacrime. «Su, stai tranquilla. Non puoi farti carico di
questo problema, lo capisci, vero?» disse con dolcezza.
Annuii.
Aveva ragione, tutti loro avevano ragione. Come potevo incazzarmi con
Daron se l'amante del momento di mio padre gliel'aveva data senza
scrupoli?
«Saresti
andato con lei anche se lo avessi saputo» affermai, tirando su
col naso. Notai che John si frugava in tasca, poi mi allungò
un pacchetto di fazzoletti e io rimasi a fissarlo come se mi stesse
porgendo un oggetto alieno mai visto prima.
Daron
strinse più forte la mia mano. «No, sciocca. Possibile
che abbiate davvero quest'impressione di me?» sbottò
contrariato.
«Io...
io non so più cosa pensare» ammisi in preda alla
confusione.
«Non
lo avrebbe fatto, Leah» intervenne Shavo.
Sorpresa,
sollevai il capo e cercai il suo sguardo. Forse, se era lui a dirlo,
potevo seriamente fidarmi e credere alle parole del chitarrista.
Annuii e interruppi il contatto visivo, poi affondai il viso tra le
mani e scoppiai in singhiozzi.
«Che
schifo... che donna spregevole... come lo spiego a mio padre? Cristo,
ma perché sono venuta qui?» gridai in preda alla
disperazione.
Shavo,
senza lasciarmi andare, prese ad accarezzarmi piano i capelli,
mormorando parole rassicuranti e cercando di infondermi coraggio.
«Daron,
andiamocene» sentii dire a John; poco dopo udii i loro passi
mentre si allontanavano e avvertii i sensi di colpa attanagliarmi lo
stomaco.
«Ho
combinato un casino, ora Daron ce l'ha con me...» farfugliai.
«Ma
no! Leah, perché ti preoccupi per Daron? Lui starà
bene. Dopo ciò che ha fatto, come potrebbe stare male? È
solo dispiaciuto per aver scoperto che la sua preda era sbagliata»
mi spiegò pazientemente Shavo, mentre armeggiava con qualcosa.
Mi
scostai da lui e accettai il fazzoletto che mi porgeva. Mi asciugai
il viso e soffiai il naso, vergognandomi terribilmente della mia
reazione. Cosa mi importava di Alan Moonshift e delle donnacce con
cui andava in giro? Era strano, ma provavo un certo dispiacere
nell'apprendere che Medison lo avesse tradito; in effetti Daron
poteva aver ragione anche nell'affermare che lei avesse avuto molti
amanti prima di lui. E forse anche mio padre tradiva Medison con un
sacco di donne, come potevo escluderlo? Del resto non era amore
quello che intercorreva tra loro, bensì un rapporto basato
sull'attrazione fisica da parte di Alan e sugli interessi monetari da
parte di Medison.
«Che
squallore» osservai, scuotendo con forza il capo.
«Già,
hai visto? E perché mai dovresti preoccupartene?»
ammiccò Shavo, regalandomi un sorriso luminoso.
«Hai
ragione. Che se la vedano tra loro, e sai che c'è? Non sarò
certo io a dirglielo» decisi con un'alzata di spalle.
«Ecco,
brava, così ti voglio! Tu devi pensare alla tua vita»
concordò il bassista con entusiasmo.
Era
incredibile quanto fossi grata a quel ragazzo per il modo in cui
riusciva a comprendermi e accettarmi, nonostante spesso fossi
invadente e fin troppo curiosa.
«Ehi
Shavarsh?» lo chiamai.
«Dimmi.»
«Ti
ringrazio» sussurrai, sentendomi leggermente in imbarazzo.
«E
perché dovresti? Io e te siamo amici, o sbaglio?» si
sminuì lui, inclinando la testa di lato senza smettere di
sorridere.
«Amici»
ripetei assorta. «E gli amici sanno sempre quando abbiamo
bisogno di un abbraccio.»
Shavo
annuì con convinzione. «Ma certo!»
Mi
accostai nuovamente a lui e lo strinsi forte, cercando ancora una
volta quel conforto, quella tranquillità, quel calore che
soltanto lui era riuscito a darmi poco prima.
Restammo
stretti l'uno all'altra per un po', senza dire niente, finché
non avvertii le gambe formicolare e dovetti interrompere quel
contatto per sgranchirle.
«Forse
è meglio se rientriamo e andiamo a cena» ruppe il
silenzio lui, con gli occhi fissi su di me e un'espressione
indecifrabile dipinta in viso.
Provai
disagio nell'essere osservata in quel modo da lui, così mi
alzai e annuii. «Andiamo. Stasera il Fyah
ci aspetta e io non vedo l'ora di andarci e dimenticare ogni cosa.»
Ci avviammo verso l'albergo
in silenzio, uno accanto all'altra, e io avevo come la strana
sensazione che qualcosa tra noi fosse cambiato.
Mi
diedi un'ultima occhiata allo specchio: avevo indossato un paio di
jeans attillati, una maglia rossa con lo scollo rotondo abbinata a un
paio di scarponcini dello stesso colore. Afferrai la giacca in
jeans e me la gettai sulle spalle, poi mi spruzzai una buona dose di
Chloé e uscii
finalmente dalla mia stanza. Essendo di pessimo umore, avevo deciso
di cenare in camera, non avrei potuto fingere che tutto andasse bene
di fronte a Medison e a mio padre.
Controllai l'orologio sul
cellulare: mancavano quattro minuti alle dieci.
Poco dopo mi ritrovai nella
hall e incrociai Dayanara che si preparava per andare via, dopo aver
concluso il suo turno.
«Day, ma si può
sapere che razza di orari di lavoro fai? Secondo me ti sfruttano!»
gli feci notare.
«Però mi pagano
bene e di qualcosa devo pur vivere. Non tutti hanno la fortuna di
avere Alan Moonshift come padre» ribatté.
«Sai
che fortuna! Piantala di dire stronzate, avanti! Piuttosto, vieni al
Fyah? Oggi non puoi
perderti il concerto di Alwan» cambiai argomento.
«Arrivo più
tardi, passo a casa a darmi una rinfrescata e poi vi raggiungo»
annunciò, poi mi salutò in tutta fretta e attraversò
le doppie porte.
«Ciao Leah! Sei
pronta?» esordì Shavo, mentre lui e John si fermavano
accanto a me.
«Io sì. Daron
viene o no?» chiesi, vagando con lo sguardo alla ricerca del
chitarrista. «O è in ritardo, o ce l'ha con me»
riflettei.
«È in ritardo
come sempre» disse John.
«Leah, ehi, te l'ho
già spiegato: Daron non ce l'ha con te!» esclamò
Shavo per l'ennesima volta.
Poco
dopo Daron ci raggiunse tutto contento, e subito
si avvicinò a me e mi posò le mani sulle spalle,
assumendo un'espressione tremendamente seria.
«Ho sentito dire che
qualcuno ha bisogno di divertirsi e dimenticare, stasera. Sei tu per
caso?» esordì.
Non riuscii a trattenermi e
scoppiai a ridere. «Indovinato!»
«Allora ci penso io»
affermò poi, annuendo più volte per dare enfasi alle
sue parole.
Ci avviammo al taxi
chiacchierando del più e del meno, e il viaggio fu piuttosto
piacevole e non troppo lungo.
Quando scendemmo di fronte
al locale, notai che era già gremito di gente e della musica
dancehall si udiva fino alla strada. Guidai i ragazzi all'interno e,
dopo aver preso Daron sottobraccio, gridai: «Prendiamoci
qualcosa di forte, oggi mi ci vuole proprio!».
«E ti ubriachi per
colpa mia? Avrò i rimorsi di coscienza per sempre!»
finse di piagnucolare, per poi trotterellare verso il bancone.
Anche i ragazzi ci seguirono
e ordinammo da bere. Io mi buttai subito sulla vodka lampone e
fragola, uno dei pochi alcolici che riuscivo a buttare giù
senza problemi e che, soprattutto, arrivava subito al cervello e lo
svuotava completamente.
Mandai giù la bevanda
in pochi sorsi e ne ordinai subito un'altra, sotto gli sguardi
leggermente preoccupati dei ragazzi.
«Che c'è?»
strepitai, mentre sentivo ancora la gola bruciare a causa dell'alcol
e un intenso calore avvolgermi completamente.
«Leah, sei sicura di
reggere l'alcol?» mi chiese Daron, con un bicchiere di Jack
Daniel's ancora mezzo pieno tra le mani.
«No, ma oggi me ne
fotto!» trillai, per poi trangugiare il secondo drink e
sentirmi sempre più confusa.
Mi resi conto che il gruppo
di Alwan cominciava a suonare e scesi dallo sgabello, anche se
barcollavo pericolosamente. Mi avviai verso la sala in cui si sarebbe
tenuto il concerto e mi sentii afferrare per un braccio.
Mi voltai e trovai Shavo che
mi sorrideva. «Va bene, per oggi te lo concedo. Penso io a te.»
Annuii
confusamente e mi ritrovai presto a ballare sulle note dei brani che
Alwan e i suoi amici stavano eseguendo. Il barista dello Skye Sun
Hotel suonava il basso e si occupava anche dei cori, e la loro musica
era capace di coinvolgere chiunque con un alternarsi di stop
and go, one time
e mix che rendevano il
loro genere un miscuglio perfetto tra reggae e dancehall, arricchito
anche dalla presenza in formazione di un dj.
Man mano che l'alcol agiva
su di me, mi sentivo sempre più confusa, ma anche euforica e
piena di energia, pronta a ballare tutta la notte finché non
fossi stramazzata al suolo.
A
un certo punto incontrai Dayanara, ma non riuscii
a sentire cosa mi stava dicendo, così lui si rivolse a Shavo e
io continuai ad andare a ritmo di musica. Il mio corpo si muoveva da
sé, non riuscivo a fermarmi o a guardarmi attorno, era come se
il cervello fosse spento o come
se lo avessi dimenticato da qualche parte.
Shavo non si allontanò
mai da me, e ogni tanto mi sorreggeva, sicuramente notando che non
riuscivo a stare in perfetto equilibrio; ballai un sacco, lasciandomi
invadere dai bassi regolati al massimo, mentre il mondo girava
attorno a me in un mare di colori confusi e sfumati. Riconobbi Daron
al mio fianco, anche lui si agitava a ritmo di musica.
All'improvviso, non so come
né perché, mi ritrovai a circondargli le spalle con un
braccio e a gridare a squarciagola, contagiando così tutti i
presenti che presero a fare lo stesso; era un delirio, un fottuto
casino in cui io non capivo più niente, ma mi sentivo al
sicuro perché, in un remoto angolino ancora cosciente della
mia testa, sapevo che Shavo si sarebbe preso cura di me come aveva
promesso.
Quando la band smise di
suonare, il dj continuò a mandare musica e tutti proseguimmo a
ballare e divertirci per un tempo indefinito.
«Alwan!» gridò
Daron, e poco dopo il mio amico ci raggiunse. «Ehi, amico! Non
mi avevi detto che suonavi in una band! Siete fortissimi!»
Alwan
si accostò a me e mi osservò con la preoccupazione
dipinta sul viso, ma io non ci badai
e continuai quello che stavo facendo senza più ascoltare i
loro discorsi.
Afferrai Shavo e John per
mano e li trascinai vicino alle casse che pompavano ad alto volume;
ridevo e li coinvolgevo nella mia danza convulsa, fatta di alcol e
frustrazione. Sicuramente l'effetto della vodka stava pian piano
cambiando, perché cominciavo a sentire la stanchezza, ma era
come se questa mi desse ancora più forza. Dentro mi sentivo
triste, l'euforia stava svanendo e mi veniva quasi da piangere perché
mio padre mi faceva pena, la sua compagna mi faceva schifo e la mia
vita mi faceva schifo e pena insieme perché dipendeva da un
esemplare come Alan Moonshift, che per l'ennesima volta mi aveva
piegato al suo volere.
Quando
partì un brano che adoravo di Protoje, Stylin',
impazzii letteralmente e mi catapultai addosso a Shavo, insistendo
affinché si muovesse con me a ritmo di musica.
Too
much stylin’ can’t pop no style on I, girl Young girl,
you full a too much stylin’ Can’t pop no style on I I
say you full a too much stylin’ And now my love for you is
spoiling
Mi
sembrava di notare nel suo sguardo qualcosa di strano, indecifrabile,
qualcosa che però mi spingeva irrimediabilmente a stargli
vicino e a divertirmi con lui, lasciandomi sorreggere dalle sue
braccia e illuminare dal sorriso che continuava a regalarmi,
nonostante versassi sicuramente
in uno stato pietoso.
How
many times we’ve had the same conversation? Why do you
always find a reason to lie?
Conoscevo quasi a memoria
quella canzone, era una delle mie preferite e mi sentii nuovamente
euforica, specialmente perché potevo condividere con Shavo
quel momento magico. I pensieri scorrevano fluidi a ritmo di musica,
i bassi vibravano insieme alle corde del mio cuore, gli occhi si
inumidivano nel rimirare colui che avevo di fronte.
Notai che qualcuno
consegnava a Shavo una sigaretta, ma prima che potesse portarsela
alle labbra, mi allungai di scatto e gliela strappai di mano.
Inspirai una lunga boccata di fumo e sentii i polmoni bruciare
terribilmente, mentre un gusto dolciastro invadeva le mie papille
gustative; espirai bruscamente e presi a tossire, ma non lasciai
andare lo spinello e continuai a fumare, riprendendo presto a ballare
su un pezzo di Buju Banton.
Quando restituii l'oggetto a
Shavo, lui era ancora allibito per il mio gesto e mi fissava con le
sopracciglia aggrottate.
«Scusa!» gridai,
poi scoppiai a ridere e mi spostai in cerca di Daron. Lui era un
compagno perfetto per ballare e divertirsi, perché
probabilmente era fuori di testa almeno quanto me.
Lo
trovai che parlava con due ragazze, ma non mi feci problemi a
trascinarlo via con me. Cominciammo
a ridere e gridare come non mai, attirando l'attenzione di tutti i
presenti, i quali si stavano probabilmente domandando cosa stessimo
combinando.
All'improvviso avvertii un
orribile senso di nausea, fu come se stessi soffocando e avevo
decisamente troppo caldo. Daron se ne accorse e fece un cenno a
qualcuno dietro di me.
Mi immobilizzai e mi portai
le mani alla bocca, dovevo trattenermi, non potevo vomitare lì
in mezzo alla pista. Il mondo oscillava attorno a me, facendomi quasi
perdere l'equilibrio.
Qualcuno mi afferrò
per la vita e mi condusse velocemente fuori dalla stanza, per poi
fermarsi solo quando fummo in strada, all'esterno del locale.
Stavo per vomitare, ne ero
certa, sentivo lo stomaco ribollire e fare le capriole, mentre la
nausea aumentava vertiginosamente. Tuttavia, non accadde nulla. Una
folata di aria fresca mi colpì dritta in faccia e mi fece
improvvisamente rabbrividire. Mi strinsi le braccia intorno al corpo
e riacquistai in un attimo quasi tutta la lucidità persa
durante la serata.
Shavo era in piedi di fronte
a me e mi osservava, e solo allora notai la sua espressione colma di
ansia e preoccupazione.
«Shavarsh...»
mormorai. Avevo la gola secca e sentivo la lingua pesante, non
riuscivo quasi a muoverla.
«Come stai?» mi
chiese lui.
«Ora... ora meglio, ma
ho... sete...» biascicai, passandomi una mano sul volto sudato;
mi accorsi che avevo i capelli scompigliati e alcune ciocche si erano
incollate alla pelle del viso. Dovevo essere inguardabile. Cominciai
a provare vergogna per ciò che avevo fatto, non avrei mai
dovuto scaricare la mia responsabilità su Shavo, facendolo
diventare il mio babysitter. Avevo criticato Daron per lo stesso
motivo, la sera precedente, e ora versavo nella sua stessa
condizione. Ero patetica.
Shavo si voltò verso
l'ingresso del locale e fischiò. «John, acqua per
favore!» gridò. «Adesso arrivano i rinforzi, stai
tranquilla» mi rassicurò poi.
«Mi dispiace, io... mi
sono comportata da stupida...» ammisi, mentre mi sentivo
divorare dai sensi di colpa e dalla stanchezza.
«Adesso non pensarci»
tagliò corto Shavo.
Qualche minuto dopo John e
Daron ci raggiunsero, annunciando che avevano già provveduto a
chiamare un taxi. Il batterista mi porse una bottiglia d'acqua e io
ne trangugiai parecchia, con il cuore colmo di gratitudine per le
attenzioni che quei ragazzi mi dedicavano.
«Ora andiamo» mi
incitò Shavo, prendendomi sottobraccio, mentre un taxi si
fermava a pochi metri da noi.
Una volta seduti sul sedile
posteriore dell'auto, il bassista mi fece appoggiare il capo sulla
sua spalla e io chiusi immediatamente gli occhi. Con il calore della
sua mano sulla schiena, i dialoghi a mezza voce tra i ragazzi e il
motore della macchina in sottofondo, caddi in un sonno profondo senza
neanche rendermene conto.
Sì,
sì... lo so, avevo promesso che non sarei stata a rompere in
ogni capitolo, scusatemi tanto, ma dovevo parlarvi della canzone che
Leah balla come una pazza.
Vi
lascio qui il link per l'ascolto di Stylin'
di Protoje, un artista che ultimamente sta prendendo molto piede
nella scena reggae giamaicana e non solo, io l'adoro:
https://www.youtube.com/watch?v=8loYxzB1_fg
Spero
vi piaccia, e che anche il capitolo vi sia piaciuto!
In
ogni caso fatemi sapere, non esitate a esprimere qualsiasi parere,
positivo o negativo che sia, purché sia costruttivo e mi aiuti
a capire se e cosa secondo voi potrei migliorare o far capire meglio!
Alla
prossima e grazie di cuore ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 17 *** Oh, what a disaster! ***
ReggaeFamily
Oh,
what a disaster!
[Shavo]
A
svegliarmi fu un gridolino proveniente dal letto accanto a cui ero
seduto. Sobbalzai sulla sedia e avvertii immediatamente un dolore
atroce alla schiena. Farfugliai qualche imprecazione tra i denti e
cercai di stiracchiarmi, ignorando le fitte che continuavano a
pungere come aghi la mia colonna vertebrale.
«Shavarsh,
cosa ci fai qui?!»
Leah
si mise a sedere di scatto, ma parve vacillare e si premette le mani
sulle tempie; doveva avere un forte mal di testa e sicuramente era
confusa su ciò che era accaduto la sera precedente. Non mi
sarei sorpreso di scoprire che ricordava poco e niente della nostra
uscita al Fyah.
«Ero agitato e non me
la sono sentita di lasciarti sola.» Mi portai una mano di
fronte alla bocca e sbadigliai, sentendo di essere distrutto. Mi
alzai e presi a camminare avanti e indietro per la stanza, cercando
di sgranchire il corpo e riattivare i sensi intorpiditi.
«Mi dispiace così
tanto per ieri sera...» mormorò la ragazza.
«Allora ti ricordi
tutto?» la interrogai, fermandomi ai piedi del letto.
«Purtroppo sì.
Ho fatto una figura pessima, mi vergogno. Non avrei mai dovuto
perdere il controllo» ammise in tono desolato, senza mai
incontrare il mio sguardo. Mi dispiaceva vederla in quelle
condizioni, ma la cosa peggiore era notare che non stesse sorridendo
come sempre e che si sentisse in colpa anche se non avrebbe dovuto.
«Non pensarci, è
tutto finito. Sono rimasto per assicurarmi che non stessi male
durante il sonno» le spiegai con semplicità. «Ora
stai bene?»
Lei annuì. «Ma...
hai dormito su quella sedia?» mi chiese in tono contrariato,
posando finalmente gli occhi color cioccolato su di me. Lessi
preoccupazione in quello sguardo, ma anche una valanga di sensi di
colpa.
«Sì, che sarà
mai?» sdrammatizzai con un sorriso. «Ora me ne vado,
tranquilla. Non volevo spaventarti.» Detto questo, mi avviai
verso la porta e la socchiusi. «Ci vediamo più tardi,
okay? Se hai bisogno di qualcosa, cercami. E se non trovi me, puoi
fare affidamento sui ragazzi.»
«Ehi Shavarsh!»
mi richiamò Leah, proprio mentre stavo per uscire. Mi fermai e
attesi che proseguisse. «Grazie di tutto, sei stato... un
tesoro» aggiunse infine.
Rimanemmo a guardarci per un
attimo, poi annuii e lasciai la stanza.
Mentre tornavo in camera
mia, ripensai al tempo infinito che avevo trascorso su quella sedia,
fermo e in silenzio, a osservare Leah che dormiva. Non ero riuscito a
distogliere lo sguardo finché le palpebre non erano diventate
troppo pesanti e si erano chiuse da sole.
Mentre
facevo colazione in terrazza, il cellulare squillò. La mia
suoneria consisteva in un pezzo dei Nirvana, About A Girl;
non riuscivo a immaginare qualcosa di diverso per l'avviso di
chiamata, e infatti non
cambiavo la suoneria da più di un anno.
Fui lieto di scoprire che a
chiamarmi fosse Serj, così risposi in tono allegro: «Ehi
cantante, buongiorno!».
«Ciao Shavo»
replicò lui, e nella sua voce notai ben poca allegria. Era
come se fosse preoccupato, il che fece allarmare subito anche me.
«Che succede? Perché
questo tono da funerale? Ti prego, non darmi una brutta notizia...»
Serj sospirò. «Qui
sta succedendo un casino, non puoi neanche immaginare cosa...»
Agitatissimo, cominciai a
sudare copiosamente e mi guardai attorno in cerca di un appiglio,
nonostante fossi ben cosciente di essere circondato da perfetti
sconosciuti che non avrebbero badato a me.
«Cosa è
successo? Ora mi metti ansia, merda!» strepitai con voce
stridula.
«Calmo, Shavo, stai
calmo. Respira, avanti» cercò di tranquillizzarmi il
cantante.
«No! Angie sta bene?
Tu stai bene? I tuoi genitori? Oddio, è successo qualcosa a
Beno?» presi a tempestarlo di domande, portandomi una mano alla
fronte. Sentii d'improvviso tutta la stanchezza accumulata abbattersi
addosso al mio corpo e alla mia mente, e un senso di spossatezza
generale mi invase, gettandomi nel panico più totale.
«Stiamo tutti bene»
si affrettò a rispondere Serj. «Si tratta di Daron.»
«Daron?!
Ma se è qui con noi, come può aver combinato
un casino a Los Angeles?» gli feci notare, sempre più
confuso.
Proprio in quel momento
venni raggiunto da Alwan, che teneva in mano un bicchiere d'acqua e
me lo posò di fronte, facendomi segno di bere. Mi posò
una mano sulla spalla e rimase un attimo al mio fianco, cercando di
capire cosa avessi.
«Una tizia si è
presentata al campo da basket stamattina, una ragazzina di circa
diciassette anni. Ha asserito di essere figlia di Daron»
raccontò Serj, e io potevo percepire la disperazione farsi
largo nella sua voce. «Ha detto che ha le prove per...»
«Cosa?» gridai,
posando di botto il bicchiere sul tavolino.
Alwan sobbalzò al mio
fianco e cercò il mio sguardo, mostrandosi preoccupato per la
condizione in cui versavo. Mi sentivo in colpa perché non
volevo assolutamente coinvolgere quel ragazzo in una faccenda così
complicata, soprattutto perché non lo conoscevo abbastanza. In
quel momento avrei voluto che John fosse con me, che Leah fosse con
me, persino Daron sarebbe andato bene...
«Shavo, ci sei? Stai
bene?» stava continuando a chiedermi il cantante in tono
allarmato.
«Non... non ci posso
credere» balbettai, abbandonandomi completamente contro lo
schienale della sedia.
«Non so cosa dirti»
ammise Serj. «All'inizio anche io non ci credevo, però
poi mi ha mostrato un foglio e...»
«Un foglio?»
Aggrottai la fronte e ripresi il bicchiere per sorseggiare un altro
po' d'acqua.
«Penso fosse un
certificato di nascita o qualcosa del genere.»
Tossicchiai. «E cosa
ti ha detto, poi?»
«Vuole vedere Daron e
dirglielo. Io le ho spiegato che ora Daron non è in città
e mi sono rifiutato di dirle dove si trova» proseguì
Serj. «Ma lei mi ha detto una cosa strana.»
«Ovvero?» lo
incoraggiai sempre più preoccupato.
«Dice di sapere dove
si trova.»
Sobbalzai, c'era qualcosa
che non quadrava. «Com'è possibile?» chiesi. Poi
mi venne qualcosa in mente e aggiunsi: «Come si chiama questa
fantomatica figlia di Daron?».
Alwan, ancora in piedi
accanto a me, prese a scuotere il capo e notai che si tratteneva per
non ridere. In effetti la situazione poteva sembrare piuttosto
comica, ma io al contrario provavo un disagio enorme.
«Non me lo ricordo»
rispose il cantante in tono desolato.
«Senti, se ti ricordi,
fammelo sapere» affermai.
«Tanto lei tornerà
a cercarmi, ha detto che ormai sa dove trovarmi e vuole delle
risposte. Vuole sapere qualcosa di certo. Vuole che Daron la
riconosca.»
«Ma che cazzo dice?
Merda, che casino!» bofonchiai.
«Dobbiamo mantenere la
calma. Senti, parlane con John, ma vi prego di non dire nulla a
Daron... lui è sempre così impulsivo, potrebbe andare
fuori di testa e combinare qualche casino dei suoi, capisci?»
mi ammonì ancora il mio amico.
«Certo, certo! Stai
tranquillo! Che casino, porca puttana, ma perché questo
demente deve sempre cacciarsi nei guai? Poi ci passiamo sempre
noi...» farneticai, non sapendo di preciso a chi mi stessi
rivolgendo.
«Ora calmati, dai, non
farti prendere dal panico. Ricordati che comunque sono problemi suoi,
non tuoi o miei o di John. Intesi?»
Sospirai. «Okay, ci
provo» borbottai poco convinto.
«Allora salutami i
ragazzi, poi se succede qualcosa ti aggiorno. Non pensarci troppo,
pensa a divertirti e basta!» disse ancora Serj. «A
proposito... come va con quella ragazza che hai conosciuto?» mi
chiese poi all'improvviso.
Pensai a Leah e mi ritrovai
a sorridere senza volerlo. «Eh... va bene, insomma... ci stiamo
conoscendo» risposi evasivo.
«Ti piace.»
Quella di Serj non era stato una domanda, bensì
un'affermazione; doveva aver sentito qualcosa nel mio tono di voce
che lo aveva fatto giungere a quella conclusione.
«È presto per
dirlo» tagliai corto.
«Mmh... okay, se lo
dici tu. Ma secondo me ti piace» insistette ancora il mio
amico, la voce colma di malizia.
«Vedremo. Ora devo
andare, scusa... ci sentiamo» conclusi, notando che John
avanzava verso di me per poi sedermisi di fronte.
Chiusi la conversazione e,
dopo aver appoggiato i gomiti sul tavolino, mi presi la testa tra le
mani e sospirai. «Cazzo» imprecai tra i denti.
«Ehm... ehi, amico?»
mi sentii chiamare da Alwan, il quale posò nuovamente la mano
sulla mia spalla.
Farfugliai qualcosa di
incomprensibile anche a me stesso e ascoltai distrattamente il
dialogo tra John e il barista, poi quest'ultimo si allontanò
verso il bancone.
«Che ti prende?»
chiese il batterista apprensivo.
Dopo aver riordinato un
secondo le idee, gli raccontai tutti i dettagli della telefonata con
Serj, e lui rimase in ascolto senza interrompermi; tuttavia, man mano
che apprendeva ciò che gli stavo dicendo, la sua espressione
diveniva sempre più perplessa e confusa.
«Ecco tutto»
conclusi, posando i palmi sudati delle mani sul tavolino.
«E ora che cazzo
facciamo?» sospirò John in tono esasperato.
«Ce lo teniamo per noi
e attendiamo sviluppi» dissi semplicemente.
«Che disastro»
borbottò il batterista, mentre Alwan gli serviva un caffè
fumante.
«Ragazzi, io non
voglio intromettermi, però mi è capitato di sentire
qualcosa e, be'... se avete bisogno di aiuto, potete contare su di
me» disse infine il ragazzo, poi ci sorrise e si avviò
nuovamente verso il chiosco in legno.
«Comunque, Leah come
sta?» cambiò argomento John, stanco probabilmente di
parlare di Daron e delle situazioni assurde in cui si andava a
cacciare.
«Sta bene»
risposi. Parlare di Leah mi scaldava il cuore e liberava la mia mente
dai cattivi pensieri che la affollavano in quel momento.
«Sei stato carino a
starle vicino stanotte» commentò il batterista,
indirizzandomi un sorriso appena accennato.
«Non me la sono
sentito di lasciarla sola. Era sconvolta ieri, hai notato?»
John fece spallucce. «Già,
povera Leah.»
Rimasi a fissare il mio
amico per un po', poi dissi: «Serj dice che mi piace Leah. Gli
hai raccontato tutto, scommetto».
Il batterista scosse il
capo. «Più o meno, ma ricordati che il nostro cantante
capisce sempre tutto senza che nessuno gli dica niente.»
«Questo è vero»
osservai.
«E ha ragione?»
Guardai John. «Ha
ragione?» ripetei.
«Ti piace Leah?»
mi interrogò lui.
Fissai le mie mani ancora
appoggiate sul tavolino e sospirai. «Spero non si noti troppo»
risposi mestamente.
John ridacchiò. «No,
macché!»
Continuammo a battibeccare e
lui mi prese un po' in giro, finché non fummo raggiunti da una
donna che non avevo mai visto prima: era alta, formosa e dalla
carnagione olivastra; una cascata di capelli neri e ricci le
incorniciava il viso dai lineamenti marcati e un paio di occhiali da
vista le contornavano gli occhi scuri. Si rivolse a John come se lo
conoscesse, poi mi lanciò un'occhiata e parve illuminarsi.
«Ecco il terzo membro
della band!» esclamò con un tono di voce un po' troppo
alto.
«Bryah, ti prego,
abbassa la voce» sibilò il batterista.
«Giusto, giusto,
scusate...» borbottò lei, sfoderando un sorriso luminoso
e ampio. «Mi presento: io sono Bryah Philips, sono una
giornalista, ma non ho nessuna intenzione di dire a tutto il mondo
che voi siete qui».
Ci stringemmo la mano e lei
mi raccontò che era giunta allo Skye Sun Hotel in seguito a
una soffiata secondo la quale avrebbe dovuto scovare Lady Gaga in
questo angolo di paradiso; l'informazione si era rivelata infruttuosa
e così aveva deciso di rimanere comunque a trascorrere qualche
giorno di ferie. Il giorno prima si era imbattuta in John e, dopo
averlo riconosciuto, i due avevano fatto amicizia e lei gli aveva
rivelato che le sarebbe piaciuto scrivere la biografia della nostra
band.
«Caspita, che storia
avvincente!» esclamai.
«Vero?» scherzò
Bryah.
Proprio in quel momento
anche Leah giunse in terrazza e ci raggiunse: sembrava essersi
ripresa completamente ed era luminosa e radiosa come al solito, il
che non poté che rincuorarmi e farmi dimenticare del tutto gli
avvenimenti negativi di poco prima.
«Buongiorno ragazzi!»
esordì la ragazza, poi picchiettò sulla spalla di John
e gli lanciò un'occhiata desolata. «Scusa se stamattina
non mi sono presentata al nostro solito appuntamento, ero veramente a
pezzi» spiegò.
John le strinse brevemente
la mano e le regalò un piccolo sorriso. «Non importa,
recupereremo. Anche io sono sceso dal letto piuttosto tardi
stamattina.»
Leah sospirò e parve
tranquillizzarsi, poi si accomodò accanto a me e prese a
studiare Bryah Philips che ancora stava in piedi vicino al
batterista.
«Leah, ti presento
Bryah. Lei è una giornalista» annunciò il mio
amico, indicando la sua nuova conoscenza.
«Piacere di
conoscerti, Bryah! Hai un nome bellissimo!» esclamò Leah
con entusiasmo, protendendosi per stringerle la mano.
«Anche il tuo non è
male, sorella» ammiccò la donna con un enorme sorriso,
ricambiando il gesto di Leah.
«Sentite»
intervenni. «Perché noi quattro non ce ne andiamo a
pranzo in città? Ieri Leah mi ha portato in un posto
magnifico.»
«Dove lo hai portato?»
volle sapere Bryah.
«Siamo stati da
Health Inna Roots, lo conosci?»
«Ma certo! Si mangia
bene lì! Io ci sto!» accettò volentieri il mio
invito Bryah, strizzandomi l'occhio.
Io e John ci scambiammo
un'occhiata perplessa.
«Lo diciamo a Daron?»
chiese il batterista.
«Tu che ne pensi?»
feci io.
Poco dopo ci ritrovammo a
scuotere il capo contemporaneamente.
«Non se lo merita»
sghignazzai.
«Ci odierà»
commentò John.
«Siete cattivi! Che vi
ha fatto?» interloquì Leah.
«Sapessi...»
borbottai in risposta.
Lei mi studiò per un
attimo e compresi immediatamente che probabilmente aveva carpito un
certo malessere in me; tuttavia ero grato al fatto che avremmo
trascorso del tempo con John e la sua nuova amica, almeno avrei
potuto evitare le domande di Leah per qualche ora ancora.
Ci alzammo dal tavolino e,
dopo aver salutato Alwan, ci dirigemmo verso l'ascensore,
chiacchierando del più e del meno. Quando la porta
dell'ascensore si aprì, ci ritrovammo di fronte a Daron che ne
usciva.
Si fermò di botto e
ci studiò uno a uno, aggrottando la fronte e incrociando le
braccia al petto.
«Dove credete di
andare?» ci apostrofò con un sorrisetto enigmatico.
«Andiamo a pranzo
fuori, perché?» ribatté Leah senza scomporsi,
fronteggiandolo con estrema sicurezza di sé.
«E mi lasciate qui?»
Daron prese a dondolare con il capo a destra e a sinistre, poi sbuffò
rumorosamente.
«Oggi sì»
disse ancora Leah.
Il chitarrista le fece una
linguaccia e le scompigliò i capelli con un gesto rapido e
inaspettato. «Non fare tanto la dura con me, marmocchia. Vedo
che oggi stai bene, eh?»
Leah lo schiaffeggiò
sulla mano. «Sto benissimo, grazie.»
«Per stavolta vi
perdono» concluse Daron. «Ma solo perché non ho
voglia di uscire.»
«Meno male!»
commentò Bryah, fingendosi preoccupata. Lei e Leah si
scambiarono un'occhiata complice e scoppiarono a ridere all'unisono.
Sottobraccio, si infilarono in ascensore e ci incitarono a seguirle.
«Ciao amico, divertiti
qui tutto solo» salutai il chitarrista.
Lui sollevò il dito
medio nella mia direzione. «Troverò compagnia, non
temere.»
Sperai seriamente che con
quelle parole non intendesse farmi capire che voleva andare alla
ricerca di una compagnia femminile. A quel pensiero mi tornò
in mente la mia conversazione con Serj, ma subito posai lo sguardo su
Leah e la mia mente si svuotò nuovamente.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 18 *** Must be Serious! ***
ReggaeFamily
Must
be Serious!
[John]
Mentre
aspettavamo un taxi, presi Bryah da parte e feci in modo che Leah non
potesse udire la nostra conversazione. Per fortuna lei e Shavo
stavano ridendo e scherzando tra loro e parvero non badare troppo a
noi.
«Bryah,
senti... Leah non sa che io e i miei amici facciamo parte di una band
famosa» esordii a bassa voce.
La
giornalista inarcò le sopracciglia. «Davvero?»
Annuii.
«Già. Cerca di non farglielo sapere, eh?»
aggiunsi.
«Come
vuoi. Ma sei sicuro?» indagò Bryah con fare
cospiratorio.
«Di
cosa?»
«Del
fatto che Leah non vi abbia riconosciuto» spiegò
pazientemente la donna.
Mi
guardai attorno e sospirai. «In realtà qualche sospetto
ce l'ho.»
Bryah
schioccò le dita e sghignazzò. «Beccato. Be', ci
penso io, non preoccuparti.»
Stavo
per ribattere, quando Shavo ci richiamò e notai che un'auto si
era fermata all'ingresso del vialetto.
Quando
salii a bordo del taxi, non avevo la minima idea di cosa Bryah
volesse fare, ma mi sentivo un poco agitato perché speravo che
non rivelasse troppi dettagli a Leah.
Health
Inna Roots, meglio conosciuto
con l'acronimo HIR,
era un locale carino e accogliente: si trattava di un chiosco sulla
spiaggia, una struttura articolata su due piani interamente costruita
in legno chiaro; Leah e Shavo ci trascinarono al piano superiore, il
quale era interamente ricoperto di vetrate che permettevano di
mangiare con una visuale pazzesca sull'oceano. Le grandi finestre
erano quasi tutte aperte e lasciavano che una forte e tiepida brezza
dal profumo salmastro allietasse la permanenza dei clienti.
Una
volta seduti a un tavolo posto accanto a una delle tante vetrate,
prendemmo a esaminare il menu. Aggrottai le sopracciglia,
domandandomi cosa avrei potuto mangiare. Forse rice and
peas poteva essere accettabile,
in fondo si trattava soltanto di riso e fagioli. Niente di
complicato.
Le pietanze avevano dei nomi
che non riuscivo a comprendere e non avrei saputo proprio cosa
scegliere. Leah se ne accorse e mi lanciò un sorrisetto:
sedeva di fronte a me e mi osservava da un po', come se si aspettasse
qualcosa che io non riuscivo a cogliere.
«Che c'è, John?
Non sai cosa mangiare?» mi punzecchiò divertita.
«Sì che lo
so... prendo il riso con i fagioli» affermai.
«Ma
John, il rice and peas non
ti basterà! Al massimo puoi ordinarlo come contorno» mi
fece notare Bryah, scambiando un'occhiata divertita con Leah.
«Dovresti
prendere qualcos'altro. Io mi tuffo sul pesce oggi, questo profumo di
mare mi mette di buonumore! Quando mangiamo allo Skye Sun Hotel,
siamo sempre rinchiusi in ristorante... non è la stessa cosa»
borbottò Shavo, indicando una pietanza sul menu che portava il
nome di pesce escovitch.
«Vuoi davvero mangiare
del pesce marinato nel succo di lime? Ma che roba è? Non mi
ispira affatto...» bofonchiai, scuotendo leggermente il capo.
«Oh, andiamo! Devo
pregarti anche oggi di provare qualcosa di diverso?» mi
stuzzicò ancora Leah, incrociando le braccia al petto.
«Non stiamo facendo
colazione, ora il nostro patto non è valido»
sottolineai.
«Non fare tante
storie» intervenne Bryah. «Ti consiglio qualcosa io.
Pesce o carne?»
La osservai dubbioso.
«Pesce?» azzardai.
«Se sei diffidente,
puoi provare a prendere del pesce fritto e, magari, sperimentare sul
contorno. Che ne pensi?» proseguì Bryah.
Annuii. «Forse.»
«Allora... che ne dici
di pesce fritto, riso e banane verdi?» propose la donna.
Mi accigliai. «Verdi,
hai detto?»
«John, cazzo! Vuoi
sperimentare o no?» si inalberò Leah, mollandomi un
calcio sotto il tavolo.
«Ahi.»
«Ordinerò io
per te» decise Bryah, chiudendo di scatto il menu e richiamando
l'attenzione di un cameriere.
Circa mezzora dopo, mi
ritrovai a gustare il mio pesce fritto aromatizzato con un sacco di
spezie e peperoncino, contornato da riso e banane verdi.
L'accostamento era piuttosto strano, ma il mix di sapori riuscì
a convincermi e mi ritrovai a finire il mio pasto prima di quanto
immaginassi.
Leah e Bryah si scambiarono
un'occhiata complice.
«Qui il cinque,
sorella!» strillò la giornalista.
«Siamo
un'ottima squadra, sista!»
esultò l'altra.
«Siete un po' matte
voi due» disse Shavo, finendo di mangiare a sua volta.
«Cosa facciamo
adesso?» domandò Leah, scrutando al di là della
vetrata.
«Una passeggiata?»
proposi, sentendo la necessità di sgranchirmi le gambe e
scaldare i muscoli. Poteva sembrare assurdo, ma stavo risentendo
tantissimo del fatto di non poter suonare la batteria.
«Ma non ti stanchi mai
di essere in perenne movimento? Io vorrei buttarmi in spiaggia e
dormire...» si lamentò subito Shavo.
«Hai sonno?» si
preoccupò Leah, posando gli occhi scuri sul mio amico. Era
sempre più palese, almeno ai miei occhi, che tra quei due ci
fosse del tenero, o almeno che qualcosa stesse pian piano prendendo
forma. Qualcosa di bello, di forte, di inspiegabile.
«Eh, un po'»
replicò il bassista, grattandosi dietro l'orecchio destro.
«Colpa mia! Non
avresti dovuto dormire su quella sedia.»
«Infatti non ci ho
dormito, ero sveglio per quasi tutto il tempo» ammise ancora
Shavo, sorridendo mestamente alla sua interlocutrice.
«Sei uno sconsiderato,
Shavarsh!» lo rimproverò lei con disappunto.
A quel punto mi venne
spontaneo chiedere: «Com'è che non ti incazzi con Leah
per come ti si rivolge?».
Tre paia di occhi si
posarono su di me, ma non mi scomposi e sostenni le loro occhiate
indagatrici.
«Perché
dovrebbe incazzarsi con me?» chiese infine Leah, mossa dalla
sua solita e implacabile curiosità.
«Lui odia essere
chiamato Shavarsh» precisai, godendomi l'espressione del
bassista che si riempiva d'imbarazzo.
«Sul serio?»
strepitò Leah. «Non è possibile!»
«Possibilissimo»
confermai.
«Ma sei uno stronzo,
Dolmayan!» mi accusò l'oggetto della discussione.
«Così impari a
contraddirmi quando ho voglia di fare due passi, razza di bradipo»
controbattei, indirizzandogli un sorrisetto divertito.
«Questa poi!»
Ormai Leah stava ridendo e non riusciva più a trattenersi. Si
allungò verso Shavo e gli posò una mano sul braccio.
«Davvero lo odi?»
«Abbastanza»
borbottò lui, senza sollevare lo sguardo su di lei.
«Mi dispiace.»
«Macché...»
fece il bassista con noncuranza.
«Mi sa che non gli dà
poi così tanto fastidio» intervenne Bryah, strizzandomi
l'occhio.
«Per farmi perdonare,
ti offro un gelato! Ci stai?» propose Leah, senza staccare gli
occhi dalla figura di Shavo.
Lui la guardò in viso
e sorrise. «Ottima idea! E poi andiamo in spiaggia a dormire?»
«Ma certo che sì!»
Io e Bryah ci guardammo
perplessi.
«Gelato per tutti
allora!» affermò la giornalista, poi tutti insieme ci
dirigemmo a pagare il conto.
Mi voltai a guardare Leah e
Bryah. «Ragazze, possiamo offrirvi noi il pranzo?»
«Non se ne parla!»
negò con sicurezza Bryah. «Siamo nel Medioevo per caso?»
«Appunto.
E poi Shavarsh... ops, ehm... lui
me l'ha offerto anche ieri. Quindi non esiste!» si fece avanti
la più giovane, dando di gomito al bassista.
«Ma...» provai a
protestare.
«Niente ma, John!»
Le due si avvicinarono al
bancone e, dopo aver battibeccato tra loro per almeno dieci minuti,
Bryah ebbe la meglio e offrì il pranzo a tutti, asserendo che
eravamo suoi ospiti perché lei era l'unica a essere
giamaicana.
Non sapevo su quali
fondamenta basasse quel ragionamento bizzarro, tuttavia decisi di non
contraddirla e la seguii all'esterno, dove Leah e Shavo ci
aspettavano.
«Gelato!»
gridarono come bambini, indicando un chiosco sulla spiaggia a pochi
metri da noi.
Sospirai. Mi sembrava di
essere in vacanza con dei figli adottivi, e meno male che Daron non
era nei paraggi!
Trascorsi il pomeriggio a
passeggiare con Bryah, mentre Leah e Shavo se ne stavano stravaccati
in riva al mare.
Io e la giornalista
chiacchierammo un sacco, ma io provavo molto disagio; da quando avevo
scoperto che aveva un compagno, non riuscivo più a essere
spontaneo come all'inizio. Tra noi si era creata una sintonia
incredibile, e questo perdurava nonostante io mi comportassi in
maniera leggermente fredda e distaccata. Possibile che soltanto io
avvertissi quella tensione tra di noi?
Mentre viaggiavamo verso
l'albergo, stanchi ma felici, Leah prese a raccontare che aveva
cantato la ninna nanna a Shavo e che lui si era addormentato come un
bambino con la faccia nella sabbia.
«Ma perché oggi
ce l'avete tutti con me?» protestò il bassista
contrariato.
«Andiamo, non
prendertela! E poi ha anche sbavato!» proseguì Leah
imperterrita.
«Leah, sei terribile!»
strillò Bryah, per poi scoppiare a ridere e rovesciare la
testa all'indietro. Rimasi incantato dal profilo del suo volto, dai
capelli ricci e ribelli che le carezzavano il collo, dalla maglia
azzurra che aderiva perfettamente alla rotondità delle sue
forme...
«E posso continuare a
chiamarlo Shavarsh, sapete? Mi sento fortunata!»
La voce di Leah mi riportò
alla realtà e mi accorsi solo in quel momento che stavo
sorridendo come un idiota. Dove stava andando a finire la mia
serietà? Quel fottuto viaggio in Giamaica mi stava consumando
i neuroni.
«Prima o poi ti
strangolo, Leah Moonshift!» borbottò Shavo, scuotendo il
capo con fare esasperato.
«Io pensavo che
soltanto Daron sbavasse nel sonno» osservai.
«Cazzo, smettetela!»
si lagnò ancora il bassista.
«Ti vogliamo bene, non
fare così» lo rassicurò Leah in tono ironico,
accarezzandogli la schiena.
Tra quei due era davvero
cambiato qualcosa, ne ero certo. E forse neanche loro se n'erano
accorti, forse non riuscivano a capirlo, ma era come se cercassero un
perenne contatto fisico, come se non potessero stare lontani neanche
per un secondo.
Era buffo, però ero
proprio contento per Shavo: almeno lui avrebbe potuto concludere
qualcosa, a differenza mia.
Una volta in albergo, Bryah
mi sussurrò: «Vado a sondare il terreno con Leah».
«Cosa intendi fare?»
mi preoccupai.
«Sono una giornalista.
Fidati di me» disse soltanto, poi si avvicinò all'altra
ragazze e le propose di andare in spiaggia insieme.
Così le due si
accordarono per ritrovarsi nella hall poco dopo e si avviarono verso
le loro stanze.
Anche io e Shavo salimmo al
terzo piano insieme a Leah, godendoci lo spettacolo che si estendeva
sotto di noi; l'ascensore panoramico riusciva sempre a incantarmi,
era impossibile distogliere lo sguardo dalla spiaggia dorata e
dall'infinità del mare.
«Voi venite con noi in
spiaggia?» ci chiese Leah, fermandosi di fronte alla porta
della sua stanza.
Declinammo l'invito e ci
accordammo per vederci più tardi.
«Oggi non usciamo,
vero? Io sono distrutto» mormorò Shavo, sbadigliando
rumorosamente.
«Come volete»
disse Leah. «Tu sicuramente non vai da nessuna parte. Direi che
possiamo starcene belli e tranquilli in terrazza.»
«Concordo»
affermai.
«Allora è
deciso. A dopo, belli! Fate i bravi!» ci salutò Leah,
passando distrattamente una mano sul braccio di Shavo.
Una volta rimasti soli in
corridoio, decidemmo di andare a controllare che Daron fosse ancora
vivo.
Ci aprì, mostrandosi
piuttosto stralunato: indossava una camicia hawaiana troppo larga su
un paio di bermuda verde militare. Era scalzo e teneva tra le dita
uno spinello.
«Qualcosa non va?»
gli domandò Shavo, spingendolo dentro, dato che il chitarrista
non accennava a spostarsi.
«Direi di no... ehi,
state invadendo la mia privacy!» ringhiò Daron poco
convinto.
«Che casino questa
stanza!» mi lasciai sfuggire, tappandomi teatralmente gli occhi
con le mani.
«Fatti i cazzi tuoi,
Dolmayan.»
Il bassista si fermò
accanto alla portafinestra che conduceva al piccolo balcone di cui la
camera disponeva. «Sei di malumore» constatò con
cautela, studiando i movimenti nervosi del nostro amico.
«E allora?»
esplose Daron, serrando la mano libera e premendosela sulla fronte.
«Cosa è
successo?» gli chiesi, posandogli gentilmente una mano sulla
spalla. Avvertivo chiaramente la tensione in lui, tremava e riusciva
a stento a stare fermo.
«Non è successo
un cazzo, okay?» sbottò il chitarrista, scrollandosi le
mie dita di dosso.
«Okay, Johnny,
lasciamolo in pace. Ma, ehi, Daron... se hai voglia di sfogarti ci
puoi chiamare, lo sai, vero?» si arrese Shavo. Doveva essere
piuttosto stanco e non aveva molta voglia di discutere o insistere
con Daron.
«Sì, sì...»
«Stasera non usciamo,
ci troviamo tutti in terrazza anche con Bryah e Leah. Vieni anche
tu?» domandai, sperando che quella notizia gli facesse piacere.
Il chitarrista scrollò
le spalle. «Non so» si limitò a replicare in tono
piatto.
«Ricevuto, ce ne
andiamo» concluse infine il bassista, afferrandomi per un
braccio e trascinandomi via.
Avrei giurato che Daron,
poco prima di sbatterci la porta in faccia, stesse trattenendo a
stento le lacrime. Quel ragazzo mi preoccupava sempre più e
non sempre sapevo come prenderlo.
Una volta in camera nostra,
Shavo si buttò sul letto e sbadigliò per l'ennesima
volta.
«Hai dormito in
spiaggia e hai ancora sonno?» lo punzecchiai. Mi posizionai in
piedi di fronte all'armadio ed esaminai i miei indumenti alla ricerca
di qualcosa da indossare dopo la doccia.
«Ho dormito
pochissimo» ammise il mio amico, mettendosi su un fianco e
socchiudendo gli occhi.
Rimasi un attimo in
silenzio, poi osservai: «Tu e Leah state bene insieme. Noto una
buona intesa tra voi due».
Il bassista riaprì di
scatto gli occhi e tossicchiò. «Ma su, non esagerare...»
minimizzò. «Piuttosto, tu vorresti farti la giornalista,
non è così?» insinuò.
«Ha un compagno»
gli feci notare.
«Ah sì? E che
importa?»
«Smetti di parlare
come Daron» lo rimbeccai.
Shavo rise. «Dai,
siamo in vacanza. Ti dovrai pur divertire, no?»
«Mi sto divertendo.»
Ci fissammo per un po', e
anche se non ci scambiammo delle altre parole, sapevo che Shavo
riusciva a leggere nei miei occhi e a capire che in realtà ero
un po' deluso. In certi momenti mi veniva quasi voglia di comportarmi
come il nostro screanzato chitarrista, ma subito dopo i sensi di
colpa mi invadevano e me lo impedivano categoricamente.
Sorrisi debolmente al mio
amico e mi infilai in bagno. Dovevo ragionare in modo razionale e non
farmi turbare troppo da ciò che mi stava capitando durante
quella strana vacanza: avevo dei progetti da tenere a mente, dovevo
continuare a studiare quei ritmi dispari sulla batteria e poi ci
sarebbe stato il concerto al Dodger Stadium.
La mia vita sarebbe andata
avanti a prescindere, anzi, era già andata avanti ancor prima
che potessi viverla.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 19 *** Dam ***
ReggaeFamily
Dam
[Daron]
«Hai
frugato nel mio cellulare.»
«No.»
«No?
E allora come hai fatto a segnare il tuo numero nella mia rubrica?»
«Segnare
un numero non vuol dire frugarti il cellulare, bello.»
«Per
me vuol dire proprio questo.»
«Non
te la prendere, dai...»
«Me
la sono già presa. Odio chi invade la mia privacy.»
«Dovresti
impostare il blocco sulla schermata iniziale allora.»
«Se
il cellulare è senza blocco, non significa che chiunque possa
ficcare il naso nelle mie cose.»
«Già,
le tue cose... quelle cose porno che ci sono dentro, ecco cosa ti
preoccupa, Daron.»
«Non
gridare.»
«Scusa,
amico. Non te le ho cancellate, tranquillo.»
«Sei
una stronzetta.»
«E
tu sei terribilmente sexy.»
«Questo
cosa c'entrava?»
«Facciamo
un patto: ci divertiamo insieme e io farò finta di non aver
conservato una copia di quei video sul mio cellulare. Ho riconosciuto
quelle ragazze, sono state ospiti qui in albergo nei giorni scorsi.»
«Mi
stai ricattando? Stai davvero osando fare una cosa del genere? E dopo
aver invaso la mia sfera privata, per giunta...»
«Prendila
come vuoi. È solo un'idea.»
«Bastarda.»
«Sarà
divertente sentire i tuoi insulti quando saremo soli e ti farò
impazzire.»
«Non
se ne parla.»
«Pensaci.
Ti conviene.»
Ero incazzato come una iena.
Prima di tutto, lo ero con me stesso per la mia solita sbadataggine,
per aver dimenticato il cellulare in giro, lasciandolo alla portata
di chiunque; se non ci fossero state le immagini compromettenti che
ritraevano Ashley e Kelly, forse non mi sarebbe importato nulla. Ma
ora ero nella merda fino al collo. Ed ero infuriato anche con quella
cameriera impicciona che ora voleva fottermi, sotto tutti i punti di
vista.
Come riuscissi a cacciarmi
sempre in situazioni del cazzo, proprio non me lo sapevo spiegare.
Da quando avevo incontrato
Lakyta, poche ore prima, non ero più riuscito a darmi pace:
non facevo che domandarmi se accettare o meno la sua proposta, anche
perché stavolta non mi sarei potuto tirare indietro com'era
capitato con le due groupies. Probabilmente Lakyta si comportava in
quel modo con più di un cliente, forse era abituata ad
abbordare gli uomini in quel modo, sentendosi frustrata per il lavoro
che svolgeva. Avevo sentito dire che aspirava a diventare un'attrice
e trasferirsi a Hollywood, quindi era palese che avesse qualche
problema di autostima se ancora sfaccendava dietro il bancone di un
bar.
Se c'era una cosa che mi era
chiara, da quando ero arrivato allo Skye Sun Hotel, era che il
personale veniva indubbiamente sfruttato: lo avevo capito trovando
spesso Alwan in terrazza a tutte le ore del giorno, così come
il povero receptionist che avevo maltrattato non appena avevo messo
piede in albergo. Anche per Lakyta doveva essere lo stesso, ecco
perché cercava in tutti i modi di crearsi un diversivo. In
fondo, molto in fondo, la capivo.
A niente era servito il
tentativo di Shavo e John che, di ritorno dalla città, erano
passati a trovarmi e si erano accorti del mio malumore; avevano
provato a fare breccia nella mia rabbia, ma li avevo cacciati via in
malo modo. Ero fortunato ad averli come amici, perché loro
difficilmente si incazzavano con me se li trattavo male e mi chiudevo
in me stesso. Se la prendevano maggiormente per i guai che combinavo,
ma quella era tutta un'altra storia.
Durante il pomeriggio, dopo
aver saltato il pranzo, ero rimasto in camera a fumare e suonare come
un ossesso, finendo sempre sulle stesse note: quelle di Dam.
Ora quel brano non mi
lasciava più in pace, mi tormentava anche mentre costringevo
me stesso a uscire da quell'antro infernale in cerca di cibo; era
quasi ora di cena, ma io stavo svenendo dalla fame e non avrei
aspettato oltre.
Evitai di salire in
terrazza, non volevo incontrare nuovamente Lakyta. Mi diressi invece
nel bar al piano terra: esso sorgeva poco distante dal ristorante,
era piccolo e accogliente, dipinto nelle varie tonalità del
rosso che caratterizzavano le palazzine dell'hotel; era punteggiato
da qualche tavolino all'interno, ma la maggior parte dei posti a
sedere si trovava in una piccola veranda sull'esterno, la quale
affacciava direttamente sulla spiaggia privata che Leah chiamava
Buts. Sul bancone, un cartello annunciava che era possibile affittare
dei pedalò o delle piccole imbarcazioni per fare una bella
gita sull'oceano.
Mi accostai in fretta e
furia al barista, un uomo sulla quarantina, scuro di pelle, alto e
massiccio.
«Potrei avere uno
yogurt?» domandai senza preamboli, sentendo lo stomaco
brontolare sonoramente.
«Salve» mi
apostrofò lui in tono ironico. «Come, prego?»
Sollevai gli occhi al cielo.
«Già, salve. Vorrei uno yogurt.»
«Che gusto
preferisce?» si informò allora lui, indirizzandomi un
sorrisetto compiaciuto.
Stavo per rispondergli in
modo sgarbato, ma venni distratto da due figure che facevano il loro
ingresso nel bar e si accostavano al bancone. Si trattava di Leah e
Bryah, la giornalista che John aveva adocchiato. O forse era meglio
dire che lei aveva adocchiato il batterista? Non ne avevo idea.
«Ciao Daron!» mi
salutò allegramente Leah, picchiettandomi sulla spalla. «Cos'è
quella faccia da funerale?»
Scossi il capo e tornai a
concentrarmi sul barista, il quale mi fissava con aria spazientita e
tamburellava con due dita sul bancone.
«Cocco e ananas»
bofonchiai.
«Gradisce dei cereali
o della granella di nocciola?» indagò ancora il barista,
voltandosi verso un enorme frigorifero che stazionava alle sue
spalle.
«Entrambi»
confermai.
«Hai fame, eh?»
interloquì Leah.
«Non ho pranzato»
spiegai in tono piatto.
«Mi sa che è un
brutto segno, amico» fece la giornalista, per poi scoppiare a
ridere seguita dall'altra ragazza.
Le osservai perplesso.
Quelle due erano già diventate amiche? Certo che ce ne avevano
messo poco di tempo...
il tipo dietro il bancone
posò la mia ordinazione sul ripiano in legno chiaro. «Prego»
concluse, per poi rivolgersi alle due ragazze: «Cosa posso
servirvi, signorine?».
Smisi di ascoltare i loro
discorsi, afferrai l'enorme tazza di plastica stracolma di yogurt,
cereali e granella di nocciola e uscii sulla veranda. Mi guardai
intorno e decisi di sedermi a un tavolino appartato, in modo da poter
mangiare in pace e rimanere per i fatti miei.
Trovai un posto dietro un
separé in bambù e mi sistemai comodo, osservando con
soddisfazione la mia merenda. Afferrai il cucchiaino e cominciai ad
abbuffarmi, senza più preoccuparmi di guardarmi intorno o di
riflettere su ciò che mi aveva tolto l'appetito.
Poco dopo, notai con la coda
dell'occhio Leah e Bryah sedersi dall'altra parte del separé;
evidentemente non mi avevano notato, poiché erano impegnate a
non lasciar sciogliere il loro gelato e a parlare tra loro.
Senza smettere di mangiare,
mi ritrovai ad ascoltare la loro conversazione.
«Sai, mi dispiace
dover ripartire presto per la città» stava dicendo la
giornalista.
«Anche a me dispiace.
Però puoi tornare a trovarci quando vuoi, non sei lontana!»
le fece notare la più giovane.
«Hai ragione. In
effetti mi dispiacerebbe non continuare a conoscere te e i
ragazzi...»
«Sei dolce, Bryah. Ma,
senti, lo so che sono indiscreta, infatti molte persone non riescono
a sopportarmi per questo... ma qualcuno di loro ti piace? Ho notato
un certo feeling con John...»
Mi venne da ridere: Leah era
sempre la solita, non sarebbe mai cambiata. Un po' mi assomigliava,
perché era sempre indiscreta, ma odiava che gli altri lo
fossero con lei.
La giornalista ridacchiò.
«Potresti fare il mio mestiere, sei audace e sfacciata, e
questo potrebbe esserti molto utile. Comunque ho un compagno, John
non mi piace, non in quel senso almeno. Lo trovo interessante, tutto
qui. Mi ha spiegato un sacco di cose interessanti sugli strumenti che
suona...»
«Davvero? Io non so
tanto di lui, è una persona molto riservata. Cerco in tutti i
modi di parlare con lui, ma si apre difficilmente con chi non
conosce» ammise Leah.
«Anche con me ha
parlato poco, non pensare... ma a te non sembra di aver già
visto questi ragazzi da qualche parte?» chiese all'improvviso
Bryah.
Drizzai maggiormente le
orecchie e rimasi con il cucchiaino pieno di yogurt a mezz'aria,
finendo per farlo sgocciolare sul tavolo. Non capivo dove la
giornalista volesse andare a parare.
«Ecco...» Leah
rifletté un attimo prima di proseguire. «In realtà...
in che senso?»
«Dai Leah, ho capito
che sai chi sono questi ragazzi» insistette Bryah.
La prima impressione che
avevo avuto su quella donna non si era rivelata errata: stava
cercando di metterci nella merda, rivelando a Leah qualcosa che lei
non sapeva.
«Okay.» La più
giovane sospirò. «So chi sono, lo ammetto. Li ho
riconosciuti fin dal primo momento, ma...»
Mi venne subito l'impulso di
alzarmi e raggiungerle. Non potevo credere alle mie orecchie: se mi
aspettavo che la giornalista fosse sleale nei confronti di John, mai
avrei immaginato che Leah stesse mentendo spudoratamente fin dal
principio. Tuttavia, mi costrinsi a rimanere seduto e feci di tutto
per calmarmi e non agire in maniera impulsiva.
La cosa che mi faceva
innervosire maggiormente era che Shavo si stesse evidentemente
invaghendo di quella ragazza, la stessa che ora stava ammettendo di
sapere esattamente che io e i miei amici fossimo parte dei System Of
A Down, la stessa che sembrava non sapere nulla in proposito e che
aveva finto di credere che le groupies avessero scambiato Shavo per
una rock star.
Ma forse anche noi stavamo
sbagliando qualcosa: le stavamo mentendo, o stavamo soltanto
omettendo un piccolo dettaglio sulla nostra vita professionale? Era
così importante che lei sapesse chi eravamo? Forse per me non
lo era, ma per Shavo? Non ci capivo più un cazzo, seriamente.
Ma la domanda principale
era: perché quella vacanza teoricamente rilassante si stava
trasformando sempre più in uno sfacelo?
«Ma...?» Bryah
incalzò Leah.
«Non mi è
sembrato opportuno dirglielo. Insomma, immagino che siano venuti qui
per trascorrere una bella vacanza in pieno relax, non per essere
perseguitati da fan deficienti ed esaltati.»
La giornalista sospirò.
«Pensi che il vostro rapporto non sarebbe diventato così
forte se tu...»
Leah la interruppe: «Esatto.
Forse loro non si sarebbero mai fidati di me, mi avrebbero
considerato una fan come tante altre, come quelle che li hanno
importunati qui in albergo».
«E forse Shavo non si
sarebbe legato a te, non è vero?» insinuò ancora
la giamaicana, utilizzando un tono malizioso.
«Io... già,
ecco... ma io non avrei mai pensato che con Shavo...» balbettò
Leah, e per una volta rimase quasi senza parole.
«Chi è il tuo
preferito?» volle sapere l'altra.
«Musicalmente, dici?
Be', ecco... mi ha sempre ispirato molto Serj, ma lui non c'è...»
Non riuscivo più ad
ascoltare quelle cazzate. Possibile che Leah stesse usando noi, e
soprattutto Shavo, per arrivare al nostro cantante? Non volevo
crederci, non poteva essere.
«Tankian è un
genio indiscusso, ma io propendo sempre per il batterista. Sarà
che il suo strumento mi ha sempre affascinato» commentò
la giornalista.
«Ma Bryah... ora come
faccio? Ci pensavo da un po', sai... come faccio a dirgli che so chi
sono?»
«Perché
dovresti dirglielo? Secondo me lo hanno capito. Ti rivelo un segreto:
John ha qualche sospetto in merito.»
Leah rispose dopo qualche
secondo. «Merda! Ma io non vorrei che loro pensassero... non
vorrei che Shavo...» Si interruppe.
«Hai perso la testa
per il bassista, eh?» la punzecchiò l'altra, per poi
ridacchiare.
«Non voglio deluderlo,
tutto qui» concluse Leah. «Ma non parliamone più,
mi viene il malumore al solo pensiero che... senti, andiamo? Sono
stanca di stare seduta qui» aggiunse, alzandosi di scatto dalla
sedia.
Io sollevai a mia volta lo
sguardo e proprio in quel momento i nostri occhi si incrociarono. La
ragazza rimase pietrificata, poi afferrò bruscamente il
braccio di Bryah e la trascinò verso l'interno. Non so cosa
esattamente avesse percepito in me, ma sicuramente aveva capito che
avevo scoperto il suo piccolo segreto.
E ora, cosa potevo fare? Si
era aggiunto un altro problema all'infinita lista di quelli già
esistenti.
Cazzo.
L'atmosfera in terrazza era
rilassata, contrariamente a quanto mi sarei aspettato: sedevamo tutti
insieme intorno a un tavolino e chiacchieravamo tranquillamente.
Io ero pensieroso e non
partecipavo più di tanto alle conversazioni, anche perché
ero intento a osservare Leah che evitava accuratamente di rivolgermi
qualsiasi tipo di attenzione.
Feci scattare l'accendino e
riaccesi la canna che stringevo tra le dita; la riportai alle labbra
e aspirai, poi notai che Alwan si avvicinava a noi per chiederci se
volessimo bere qualcos'altro. Avevamo già fatto un giro di
drink e a me non dispiacque affatto ordinarne un altro.
«Vodka liscia?
Sicuro?» mi domandò il barista, strizzandomi l'occhio.
«Sicurissimo»
confermai.
«Senti, qui ci si
annoia... non è che ti va di portare su la chitarra?» mi
propose all'improvviso il ragazzo, indirizzandomi un sorriso
complice.
«Perché no?
Oggi ho una voglia matta di suonare, non immagini neanche quanta...»
ammisi, per poi ricambiare il sorriso e alzarmi. «Grazie,
amico, non potevi farmi una proposta migliore.»
«Ma figurati! Vorrei
poter suonare con te, ma purtroppo devo lavorare...»
Intanto la stecca che tenevo
tra le dita si era nuovamente spenta, così feci scattare
ancora l'accendino e presi un'altra boccata. «Peccato. Sarà
per la prossima, non mancherà occasione.» Dopodiché
mi avvicinai a Shavo e gli porsi la canna. «Vado a prendere la
chitarra, finiscila tu se vuoi.»
«La chitarra?»
esclamarono in coro Bryah e Leah.
Annuii e mi avviai verso
l'ascensore. Nel giro di dieci minuti fui di ritorno, tenendo in mano
una chitarra acustica che mi ero portato dietro da Los Angeles. Avevo
evitato di portarmi appresso i miei gioiellini preferiti per evitare
che si rovinassero, potevo accontentarmi di quell'oggetto per un po'.
«Ho qui un jack! La
vuoi amplificare?» accorse subito Alwan, stringendo tra le mani
un cavo nero.
«Se non abbiamo un
microfono, non penso sia sensato» commentai.
«Un
microfono... no, niente da fare. Allora dovrai un
po' sgolarti» rispose il barista desolato.
«Nessun problema, lo
faccio sempre» scherzai.
Lui posizionò uno
sgabello poco distante dal bancone e mi fece segno di accomodarmi;
poi notai che armeggiava ancora dietro la sua postazione e ne uscì
con uno djambé tra le mani. «Ho solo questo, non ho
altri strumenti» annunciò.
Notai che John si alzava di
tutta fretta dalla sedia e ci raggiungeva con gli occhi che
brillavano. «Quello è mio!» esclamò tutto
contento.
«Sbaglio o stiamo
allestendo un set acustico?» feci notare al batterista, mentre
Alwan portava uno sgabello anche per lui.
«Io faccio il video!»
strillò Shavo con il suo cellulare in mano.
Scambiai un'occhiata con
John e presi a strimpellare distrattamente, per poi ritrovarmi a
riprodurre le stesse note che mi avevano angosciato durante tutto il
pomeriggio.
Allora John prese a
picchiare con le dita sul tamburo che aveva posizionato tra le sue
cosce, andando a ritmo e annuendo tra sé; doveva aver
riconosciuto il brano che stavo suonando.
Poco dopo, con gli occhi
fissi sulle corde della chitarra, intonai:
Dam
you
Stay
away from me
I
got a disease
Everyone
is sleeping
Sollevai un attimo lo
sguardo e notai che diverse persone mi ascoltavano e assistevano alla
nostra esecuzione con curiosità e interesse: c'erano Leah e
Bryah che ci fissavano incantate, c'era Medison che mi sorrideva
appena dal fondo della terrazza, c'era Alwan che annuiva mentre si
aggirava per i tavoli, e c'erano diversi clienti che sembravano
apprezzare ciò che io e John stavamo facendo.
Ripresi a cantare:
I
hate you
For
putting faith in me
For
putting faith in me
Everyone
is sleeping
E proseguii a ripetere
all'infinito le ultime tre parole, improvvisando un assolo e notando
che John ci prendeva la mano con quel tamburo africano, come se si
trovasse magicamente nel suo elemento e non riuscisse più a
staccare le mani dalla pelle dello djambé.
«Siete forti! Ma
adesso fate qualcosa di più allegro, dai!» ci incitò
Shavo, senza smettere di filmare.
A quel punto John cominciò
a eseguire un ritmo incalzante e allegro, che spingeva i presenti a
muoversi a tempo; poco dopo presi ad accompagnarlo con il mio
strumento, eseguendo un ritmo in levare.
Notai Leah che si alzava e
trascinava Bryah con sé. Le due si avvicinarono a noi e
presero a ballare a ritmo di musica, agitando le braccia e gridando
come pazze. Mi ritrovai a cantare un famoso brano di Marley di cui
non riuscivo momentaneamente a ricordare il titolo, ma le parole
erano chiare e limpide nella mia mente.
Hey,
mister music, sure sounds good to me I can't refuse it, what to be
got to be Feel like dancing, dance 'cause we are free Feel like
dancing, come dance with me
Fu bello notare che tutti
ballassero e cantassero con noi, e anch'io mi ritrovai in piedi a
pascolare per la terrazza con la chitarra in braccio e un sorriso
compiaciuto stampato sul viso.
Per quella sera volevo
dimenticare, e non c'era niente che potesse realizzare quel mio
desiderio se non la musica, la mia chitarra, la mia voce che intonava
note.
Non mi preoccupai di
stonare, di suonare bene, di fare ciò che un buon musicista
avrebbe dovuto fare, ciò che John stava facendo; no, smisi di
pensare e mossi le dita sulle corde, facendole vibrare insieme alle
mie corde vocali e a quelle emozioni che solo la musica sapeva darmi.
Ero talmente preso da ciò
che stavo facendo e dall'atmosfera che si era creata, che non mi
curai di star sorridendo a Leah come se non avessi scoperto le sue
menzogne.
Quella sera dimenticai, mi
persi tra le note e avrei voluto non ritrovarmi mai più.
Carissimi
lettori, rieccomi con un nuovo capitolo!
Cosa
ne pensate di questi sviluppi della trama?
Ma
sono qui per fare, come sempre, delle piccole annotazioni sul
capitolo.
Se
qualcuno non sa cos'è lo djambé, ovvero il tamburo che
John si ritrova a suonare durante questa bizzarra jam session molto
improvvisata, date un'occhiata alle immagini su Google e sono certa
che capirete subito di che si tratta ^^ è una bellissima
percussione africana che ci stava proprio bene con l'atmosfera della
serata!
Passando
ai brani citati...
Dam
è qualcosa di molto particolare e struggente – a mio
parere – che mi fa sempre pensare all'animo tormentato del
nostro caro chitarrista; vi lascio qui il link per l'ascolto:
https://www.youtube.com/watch?v=dKHF-5nPcOs
Non
so se il testo sia giusto, capirete da voi che non si capisce molto
bene cosa dice Daron in questa canzone, ma cercando su internet ho
trovato varie versioni... qualcuno di voi – tipo Stormy –
mi sa dire quale sia il testo esatto? :D merci!
Poi,
la canzone di Bob Marley che Daron canta è Roots,
Rock, Reggae; ecco il link:
https://www.youtube.com/watch?v=MJB5L9F05tc
Spero
vi piaccia anche questo brano ^^
Bene,
vi saluto e vi ringrazio di cuore, come sempre, per tutto il sostegno
che mi state dando :3
Alla
prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 20 *** Tonight may be our Last ***
ReggaeFamily
Tonight
may be our Last
[Leah]
«Una
gita in pedalò?»
«Sì.
Che c'è di male?»
«Shavarsh,
finiresti per sentirti male...»
«Ma
il mare è piatto come una tavola! Dai, Leah!»
Io
e Shavo ci trovavamo in terrazza; da poco si era conclusa la folle
serata durante la quale Daron e John avevano suonato per un tempo
indefinito e tutti noi avevamo ballato e cantato con loro. Era stato
bello, mi aveva permesso di liberare la mente da tutto ciò che
mi stava capitando.
Mi
sentivo fottutamente in colpa per un sacco di motivi: avevo rivelato
a Bryah di sapere che Shavo e i suoi amici facevano parte di una band
famosa, ma tutto si era aggravato quando mi ero accorta che Daron
aveva ascoltato la nostra conversazione.
Ora
non riuscivo a sostenere lo sguardo del bassista che in quel momento,
in piedi di fronte a me, cercava di trasmettermi un entusiasmo che io
non riuscivo a provare.
«Vedremo
domani. Può essere che si alzi il vento e...» replicai
ancora, distratta dai mille pensieri che mi vorticavano in mente.
«Non
hai voglia di vivere, ragazza mia! Sei ancora fusa dalla sbronza di
ieri sera?» mi apostrofò ancora lui, appoggiandosi con i
gomiti sulla balaustra.
Scossi
lentamente il capo e mi soffermai a osservare Shavo: portava un
cappellino da baseball nero a ombreggiare il viso disteso in
un'espressione serena; il suo profilo si stagliava nella
semioscurità, e soltanto i suoi occhi scuri brillavano ed
erano capaci di scaldarmi il cuore. Mi resi conto che lui si fidava
di me, che aveva fatto già tanto per aiutarmi e per farmi
sentire a mio agio, nonostante ci conoscessimo da quattro giorni
soltanto.
All'improvviso
avrei voluto scappare, correre via e scendere le scale, poi
rifugiarmi dai miei gatti e lasciare che fossero loro a consolarmi e
a essere gli unici testimoni delle lacrime che trattenevo a stento.
Per contro, avrei voluto gridare tutta la verità e liberarmi
da quel peso che mi gravava sul cuore. Perché avevo deciso di
mentire? La verità era che non avrei mai immaginato si creasse
un rapporto così forte e intenso con quei ragazzi, ma
soprattutto non avrei scommesso un centesimo sul fatto che mi sarei
sentita irrimediabilmente calamitata verso il bassista.
Quest'ultimo
si accorse del mio sguardo e si voltò a osservarmi, senza
smettere di sorridere.
«Che
succede? Sei silenziosa...» commentò, sollevando una
mano e sfiorando appena i miei capelli con le dita.
Mi
ritrovai a rabbrividire e scossi il capo. «Ma niente... non c'è
niente che non va» mormorai.
«Leah,
ho imparato in poco tempo a conoscerti, almeno un po' e... sento che
c'è qualcosa che ti preoccupa. Si tratta di tuo padre?»
Shavo mi scostò delicatamente una ciocca di capelli dal viso e
rimase a guardarmi con attenzione.
Lo
sentivo così vicino a me e sentivo che avrei voluto scappare e
gettarmi tra le sue braccia contemporaneamente. Era qualcosa di
pazzesco, indescrivibile, terribile.
«È
tutto okay. Davvero! Se domani vuoi andare in pedalò, ci
andremo» tagliai corto, indietreggiando appena per evitare che
continuasse a toccarmi. Mi sentivo in subbuglio e non potevo
approfittare di quella situazione, non prima di avergli detto la
verità. Ed era questo il problema: come potevo fare?
Maledizione!
«Ma
forse non sarà possibile» osservò il bassista,
aggrottando le sopracciglia e scrutando l'orizzonte alle mie spalle.
Mi
voltai e seguii il suo sguardo, notando che in lontananza delle
strane luci lampeggiavano. Udii dei rombi distanti, e compresi a cosa
lui stesse alludendo. «Temporale in arrivo» borbottai.
«A
quanto pare... spero solo che non sia troppo violento» rifletté
Shavo.
«Hai
paura?» gli chiesi, riportando la mia attenzione su di lui.
«Non
io» ammise. «John.»
Rimasi
basita e sgranai gli occhi. «John ha... paura del temporale?!
Assurdo!» Scoppiai improvvisamente a ridere e mi beccai
un'occhiataccia dal mio interlocutore.
«Non
c'è niente da ridere, Leah» disse serio.
Mi
zittii immediatamente. «Scusa, sono sempre la solita! Okay, ma
com'è possibile? John è un omone grande e grosso e ha
paura del temporale?»
«Gli
dà la sensazione di perdere il controllo. Sa che le calamità
naturali non si possono tenere a bada come vorrebbe. Gli viene
l'ansia e rimane fermo e zitto finché non passa, cercando di
nascondere la sua paura e chiudendosi in se stesso.»
«Ma
voi ovviamente lo sapete, a voi non può nasconderlo»
commentai.
Shavo
annuì. «Però è terribile vederlo in quelle
condizioni. Trema e sembra totalmente diverso da com'è di
solito. Immagino che si sforzi un sacco per non nascondersi da
qualche parte come un bambino.»
«Addirittura?
Povero John, mi dispiace...» sussurrai costernata. Non avrei
mai immaginato qualcosa del genere, sul serio, ero piuttosto
sconvolta.
«Già.»
MI
accostai a Shavo e cercai nuovamente un contatto con lui, afferrando
la sua mano e stringendola forte. «Andrà tutto bene. Se
diluvia, possiamo cercare di distrarre John in qualche modo. Puoi
venire a svegliarmi a qualsiasi ora della notte e ti prometto che
troveremo una soluzione. Va bene?»
Shavo
mi guardò intensamente negli occhi ed ebbi più volte
l'impulso di distogliere lo sguardo, ma mi costrinsi a sostenerlo per
evitare che mi considerasse una stupida.
«Grazie»
disse infine.
«Per
cosa?»
«Potresti
fregartene, potresti pensare solo a te stessa, potresti... oh, non
so. Invece sei sempre qui, sei sempre pronta ad aiutarci.»
Mentre parlava, Shavo intensificò la stretta sulla mia mano e
mi trasse più vicino a sé, senza neanche accorgersene.
«Perché lo fai?» mi chiese a bruciapelo.
Avvertivo
il calore del suo corpo, l'odore che emanava mischiarsi a un leggero
aroma di marijuana, le sue dita sulle mie. Era qualcosa che mi stava
mandando in tilt, e anche io mi sentivo come John in quel momento:
era come se stessi perdendo il controllo, ma non ero certa che quella
sensazione mi piacesse.
«Mi
va di farlo, siete dei bravi ragazzi» risposi sincera.
Shavo
sorrise e lasciò andare la mia mano, come se si fosse
improvvisamente accorto della nostra vicinanza e temesse di darmi
fastidio.
«Mi
fa piacere che tu lo pensi» concluse.
Intanto
i rombi dei tuoni si facevano sempre più vicini, così
il bassista decise di tornare in camera sua e raggiungere John, in
modo da essere presente in caso di necessità.
Ci
separammo fuori dalla porta della sua stanza, ma prima di andarmene
dissi: «Svegliami se ti serve aiuto».
Lui
si accostò a me e mi sorprese, regalandomi un breve abbraccio
che fu comunque capace di mozzarmi il fiato. «Certo. Grazie
ancora Leah.»
Prima
che potessi decidere se ricambiare o meno il suo gesto, lui mi lasciò
andare e rientrò in camera sua.
Rimasi
impalata per un attimo, ma subito dopo i sensi di colpa mi trafissero
il petto. Stavo cominciando a trovare pesante e insostenibile quella
situazione, sentivo sempre più la necessità di parlare
chiaramente con i ragazzi e spiegare loro cosa mi aveva portato a
fingere di non averli riconosciuti.
Anche
perché Daron non avrebbe tenuto la bocca chiusa per sempre, ne
ero quasi certa.
Mi
risvegliai bruscamente nel bel mezzo del temporale, ma mi accorsi
solo dopo qualche minuto che qualcuno bussava insistentemente alla
mia porta. Afferrai il cellulare e controllai l'orario: erano da poco
passate le tre del mattino e compresi di aver dormito a occhio e
croce un'ora e mezza. Fantastico.
Un
lampo illuminò a giorno la mia stanza, creando un effetto
spettrale che faceva pensare a un vecchio film horror in bianco e
nero; poi il rombo assordante del tuono squarciò l'aria e fu
immediatamente seguito da altri tre colpi alla mia porta.
Scesi
dal letto, accorgendomi di essere completamente sudata a causa
dell'afa che ristagnava nella mia stanza. Allora mi ricordai di ciò
che avevo promesso a Shavo e mi precipitai ad aprire, immaginando che
lui avesse bisogno di me.
Improvvisamente
lucida, spalancai la porta e mi ritrovai di fronte Daron.
«Cosa
vuoi?» lo apostrofai, asciugandomi il sudore dal viso.
«Mi
manda Shavo» replicò senza scomporsi. «Dice che
dovresti raggiungerlo. Non so perché abbia chiesto di te, ma
siamo già in una situazione del cazzo e...»
«Mi
ha raccontato di John» lo informai.
«Ah.»
Il chitarrista sospirò appena. «Sai un po' troppe cose,
ragazzina.»
«Daron...»
«Non
mi piace come ti stai comportando. Hai intenzione di mentire ancora?»
proseguì imperterrito.
«Ti
prego, possiamo parlarne domani?» lo implorai, richiudendomi la
porta alle spalle. Non mi ero neanche preoccupata di indossare un
paio di pantofole e mi accorsi troppo tardi di avere addosso soltanto
una canottiera e un paio di shorts striminziti.
«Voglio
solo che tu sia sincera con Shavo» affermò Daron,
ignorando la mia richiesta.
«Ma
io...»
«Di
me me ne fotto, posso passarci sopra. Un po' ti capisco, io e te ci
assomigliamo. Ma Shavo è diverso, è sensibile... ora si
fida di te, cerca di non deluderlo. Parlagli al più presto»
aggiunse ancora.
Stavo
per ribattere, quando dalla stanza di Shavo e John si udì un
grido.
«John!»
strillò il bassista.
Senza
pensarci due volte, ci affrettammo a raggiungere i ragazzi.
Quando
misi piede nella camera, notai che Shavo era inginocchiato sul letto
di John e lo scuoteva per le spalle; il batterista, tuttavia, era
immobile e non sembrava volergli rispondere.
Il
rombo di un altro tuono riecheggiò nel silenzio della notte e
vidi che il batterista sobbalzava, per poi riprendere a tremare. Era
seduto con la schiena contro il muro e stringeva tra le dita il bordo
del lenzuolo. Immaginai che stesse compiendo uno sforzo enorme su se
stesso per non cedere al panico e per controllare il più
possibile le sensazioni negative che il temporale gli provocava.
«Ehi
ragazzi!» esclamai, fingendomi tranquilla e allegra. «Chi
di voi ha voglia di fare un po' di casino? Quest'albergo è una
noia... sapete una cosa? In camera ho uno stereo portatile, lo
sistemiamo qui da voi e facciamo baldoria! Io non ho sonno!»
proseguii, sperando che la mia idea venisse apprezzata.
«Sul
serio?» strepitò Daron in tono complice, decidendo di
deporre per il momento l'ascia di guerra. «Corri a prenderlo!»
mi incoraggiò.
«E
tu perché non vai a chiamare Bryah? So che domani riparte per
la città, vorrà divertirsi quest'ultima notte!»
consigliai al chitarrista, per poi dargli il numero della stanza
della giornalista e spedirlo alla sua ricerca.
Shavo
mi fissava interdetto, con una mano ancora posata sulla spalla
tremante di John. «Potrebbero cacciarci?»
«Macché!
Prendo lo stereo e... ehi, avete qualcosa da bere e da mangiare nel
mini bar? Io mi porto appresso anche ciò che c'è nella
mia stanza. Se poi non ci basta, posso scendere al bar a trafugare
qualcos'altro!» continuai a blaterare, avviandomi rumorosamente
in camera mia per recuperare i beni di cui disponevo.
Quando
tornai, notai che Shavo armeggiava con il suo cellulare.
«Colleghiamolo allo stereo, ho un programma per ascoltare
musica che dovrebbe fare al caso nostro» annunciò,
finalmente contagiato dall'entusiasmo generale.
Gli
consegnai lo stereo portatile e posai gli snack e le bottiglie del
mini bar accanto al televisore.
John,
intanto, ci scrutava con un'espressione indecifrabile, come se si
domandasse cosa diamine stessimo combinando.
Poco
dopo Daron tornò da noi, seguito da un'assonnata ma sorridente
Bryah; era davvero bellissima con indosso una camicia da notte
azzurra che le accarezzava appena le ginocchia e i capelli arruffati
che sembravano quasi un cespuglio sulla sua testa. Un po' la
invidiavo, perché lei era una di quelle donne che potevano
risultare sexy senza compiere alcuno sforzo. Io, al contrario, dovevo
avere un aspetto orribile.
John,
alla vista della giornalista, sgranò appena gli occhi e cercò
di darsi un ulteriore contegno. Lei lo notò e lo raggiunse,
sedendosi accanto a lui e prendendo a parlargli in tono concitato.
Probabilmente Daron le aveva accennato la situazione in cui ci
trovavamo.
«Dai!
Metti qualcosa di forte o stiamo qui a girarci i pollici?»
incitai il bassista, affiancandolo e osservandolo armeggiare con il
mio stereo.
Lui
annuì e poco dopo dalle casse si diffuse un famoso brano dei
The Darkness. «Può andare?»
«Sei
un genio, questa è divertentissima!» strillai, poi
cominciai a ballare e gridare come una pazza, muovendomi a tempo
sulle note di Everybody Have A Good Time.
It’s
time to make, a brand new start Take off your thinking, gotta
listen to your heart Everybody have a good time Everybody have
a crush, alright Everybody have a good time For tonight may be
our last, alright
Mi precipitai da Bryah e la
trascinai con me, sotto lo sguardo divertito di John; il batterista
sembrava essersi un attimo ripreso e osservava con interesse le
cretinate che stavamo combinando.
Daron diede il via a un coro
da stadio pazzesco sul ritornello della canzone e Shavo ispezionò
il frigorifero della stanza, portando fuori altre bevande più
o meno alcoliche e altro cibo spazzatura.
Si
mise ad aprire tutte le confezioni di cibo e ce le distribuì
come fossimo mendicanti; mangiammo e ridemmo,
sputacchiando il cibo ovunque e trasformando la stanza in una
porcilaia. Anche John presto si unì a noi: prese da bere e da
mangiare, e su un pezzo degli Offspring notai che accennava qualche
passo di danza.
«Shavo,
metti Come Out And Play
degli Offspring!» gridai, mandando giù una manciata di
patatine alla paprika.
Quando il brano partì,
mi misi a saltellare sul posto e lasciai cadere quasi tutta
l'aranciata mista a whisky presente nel mio bicchiere.
Hey
man you talkin' back to me? Take him out You gotta keep 'em
separated Hey man you disrespecting me? Take him out You
gotta keep 'em separated Hey don't pay no mind You're under 18
you won't be doing any time Hey come out and play
«Leah! Hai fatto un
casino!» esclamò John, che finalmente sembrava non
badare più al temporale e si divertiva con noi.
In effetti, nessuno udiva
più quei rombi fastidiosi, nessuno si curava dello scrosciare
della pioggia, nessuno si preoccupava dei lampi e del maltempo;
eravamo assorbiti dalla musica, dall'alcol, dal cibo e dalle nostre
grida.
Daron accese una canna e
cominciò a passarcela, ma solo io e Shavo accettammo. Non era
mia abitudine fumare, ma ogni tanto mi capitava di farlo. In
Giamaica, poi, si creava un'atmosfera secondo la quale mi era quasi
impossibile evitare di sentire quel sapore dolciastro e quel bruciore
alla gola e ai polmoni, seguiti poi da una sensazione di benessere
interiore che mi rendeva allegra e spensierata.
«Com'è che
ascolti musica rock, Leah? Io pensavo che ci andassi giù
pesante solo con il reggae» mi interrogò John, in un
momento in cui mi posizionai di fronte a lui e ballai come una scema,
regalandogli delle espressioni il più buffe possibili.
«Il mio primo amore è
il rock. Ho scoperto la bellezza del reggae solo da quando vengo in
vacanza qui con Alan Moonshift» raccontai, presa
dall'entusiasmo e contenta che il batterista si fosse calmato e
stesse partecipando attivamente al divertimento generale.
«Sul serio? E quali
sono i tuoi gruppi preferiti?» indagò John con un mezzo
sorriso, per poi sorseggiare dal suo bicchiere.
«Vado matta per gli
Offspring, ma adoro anche i Limp Bizkit e i Rage Against The
Machine!»
«Ottimi gusti!»
concordò lui, per poi annuire.
«Dai Leah! Cosa metto
adesso?» mi gridò Shavo dall'altra parte della stanza.
Quando lo osservai, notai
che barcollava leggermente e non riusciva a smettere di ridere. Daron
era più o meno nelle sue stesse condizioni, e riusciva a
stento a costruire l'ennesima sigaretta a base di marijuana.
Ci pensai su e mi venne
un'idea. «Aspetta, vengo io a scegliere qualcosa!»
affermai, raggiungendo la postazione in cui si trovava lo stereo.
«Daron, ti aiuto io...
stai spargendo tutta l'erba in giro, che coglione!» gridò
il bassista, e i due presero a battibeccare tra loro.
Cercai lo sguardo di Bryah,
la quale se la rideva in un angolo con in mano un bicchiere di succo
d'arancia. Mi aveva rivelato di essere astemia e io ero contenta per
lei, perché l'alcol non sempre portava a qualcosa di buono.
Poi feci partire un brano, e
tutti i presenti si immobilizzarono all'improvviso e mi fissarono
interdetti, smettendo di compiere qualunque cosa e troncando ogni
conversazione.
Cari
ragazzi miei, come butta?
Torno
a rompere dopo... be', dopo Il Concerto dei System Of A Down, dopo
l'esperienza più bella ed emozionante della mia vita; vi
assicuro che sono stata a diversi concerti, anche di artisti
piuttosto famosi e veramente bravi, ma i SOAD sono stati per me la
perfezione, hanno fatto sì che per la prima volta trascorressi
quasi tutto il live in lacrime... ora capisco cosa prova chi racconta
che ha passato tutto il tempo di uno spettacolo con le lacrime agli
occhi e la voce tremante, incapace anche di cantare tutte le
canzoni... ora sì, lo so anche io cosa vuol dire.
Lo
so e non lo saprei descrivere, lo so e allo stesso tempo ho come
l'impressione di non averlo realmente vissuto.
Ho
realizzato il mio più grande sogno a livello musicale e non
riesco ancora a realizzarlo. È grave?
Ora
la smetto, promesso, passo alle note sul capitolo ^^
Parliamo
subito dei brani che ho inserito nel capitolo, entrambi dalle
sonorità molto allegre, anche se il secondo ha un testo non
proprio festoso e leggero come il primo.
Ecco
a voi il link per l'ascolto di Everybody Have A Good Time
dei The Darkness, che a me piace un sacco e mi mette moltissima
carica e allegria addosso:
https://www.youtube.com/watch?v=ManSxjZKgTk
Anche
il titolo del capitolo è preso dal testo di questa canzone,
spero che l'abbiate trovato attinente :3
Mentre
qui trovate la canzone Come Out And Play degli Offspring, vi
consiglio caldamente di ascoltarla perché ha un giro di basso
pazzesco e poi è bella e basta:
https://www.youtube.com/watch?v=1jOk8dk-qaU
Bene,
ora vi chiedo: che brano avrà scelto di mettere Leah? Avete
qualche idea?
Io
non vedo l'ora di aggiornare, vi ho lasciato sulle spine e anche io
sono sulle spine in effetti XD
Alla
prossima e grazie di cuore a tutti, come sempre le vostre recensioni
mi rendono felice ♥
PS:
Prima
di smettere di rompervi, devo assolutamente dedicare questo
aggiornamento a Soul e Stormy, le quali sicuramente possono capire
come mi sento in questo momento post-concerto e come mi sentivo prima
e durante il tutto...
Sono
sconvolta, ma non potrei essere più felice di così.
Ancora mi si inumidiscono gli occhi al solo ricordo...
Certo,
loro non lo sapranno mai, ma i primi che devo ringraziare sono
proprio loro: Shavo, Daron, John e Serj.
Miti
indiscussi da sempre e per sempre ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 21 *** The Truth ***
ReggaeFamily
The
Truth
[Shavo]
I
went out on a date, With a girl, a bit late, She had so many
friends, Gliding through many hands. I brought my pogo
stick, Just to show her a trick, She had so many
friends, Gliding through many hands.
Ero sinceramente basito.
Mentre quelle note e quelle parole esplodevano dallo stereo portatile
di Leah, avvertii come la sensazione di tornare improvvisamente
lucido; avevo bevuto e fumato abbastanza per quella sera, e questo mi
aveva leggermente mandato fuori dai binari.
Ma in quel momento fu come
se tutto fosse passato, svanito, dissolto nel nulla. Leah aveva
scelto un brano dei System Of A Down e ci sorrideva compiaciuta,
rimanendo in piedi con il mio cellulare ancora in mano.
Daron fu il primo a reagire,
precipitandosi da Leah e gridando: «Ma che fai?!».
«Vi dico la verità.
È questo che volevi, no?» replicò Leah con
semplicità, evitando però di sollevare lo sguardo su di
me. Stringeva il mio cellulare e alcune ciocche di capelli le
ricadevano sul viso; con addosso solo una canottiera e dei
pantaloncini sembrava estremamente fragile, come se all'improvviso
avesse perso la sicurezza che ostentava di solito e che fin da subito
mi aveva colpito.
«Ma non era questo il
momento!» la rimproverò Daron, poi fece scattare
l'accendino e aspirò una lunga boccata di fumo, dopo aver
acceso la sua canna.
«Perché no?
Prima o poi doveva succedere» insistette la ragazza.
Bryah e John erano immobili
e si scambiavano delle occhiate perplesse, mentre Bounce
proseguiva a risuonare dalle casse dello stereo.
«Tu... tu lo sapevi?»
fu tutto ciò che riuscii a dire, puntando lo sguardo sul
chitarrista.
«L'ho scoperto questo
pomeriggio. L'ho sentita che parlava con Bryah al bar di sotto»
spiegò Daron, poi si strinse nelle spalle e strappò lo
smartphone dalle mani di Leah.
«Potevi farti gli
affari tuoi, eh? Dov'eri? Non ti abbiamo visto!» si intromise
Bryah, facendo qualche passo avanti.
«Io l'ho visto, ma
ormai era troppo tardi» ammise l'altra ragazza.
«Cazzo!» esplose
Daron. «Potevi aspettare a domani, no? Ci stavamo divertendo!»
«Possiamo continuare a
divertirci, chi dice il contrario?» lo contraddisse Leah.
Io non sapevo esattamente
come mi sentivo. Da un lato era come se me lo fossi aspettato e
temuto fin da subito, dall'altro ero deluso perché avevo
creduto che Leah non sapesse niente della nostra vita professionale;
perché non mi aveva detto la verità fin dall'inizio?
Non riuscivo a crederci. Anche stavolta mi ero fidato della persona
sbagliata, e rendermene conto mi fece davvero male.
«Perché?»
chiesi, avvicinandomi rapidamente a lei. «Perché?»
ripetei, afferrandola per un polso in modo da scuoterla e attirare la
sua attenzione.
«A quanto pare il suo
preferito è Serj. Scommetto che vuole arrivare a lui tramite
noi, non è vero Leah?» interloquì Daron in tono
maligno.
«Smettila subito! Ma
perché ti inventi certe cazzate?» si rivoltò
Bryah, piazzandosi di fronte a lui e fronteggiandolo con uno sguardo
di fuoco.
«L'ha detto lei»
chiarì il chitarrista.
«Stronzate. Non è
vero!» sbottò Leah, divincolandosi dalla mia presa e
scagliandosi improvvisamente, come una furia, contro Daron. Lo
spintonò e lo fece andare a sbattere contro il mobile su cui
stazionava il televisore. «Sei uno stronzo, Daron Malakian, lo
sai? Un emerito pezzo di merda!» lo accusò con ferocia,
con il viso a pochi centimetri dal suo, gli occhi due tizzoni ardenti
di rabbia.
Proprio in quel momento la
canzone terminò e nella stanza calò un silenzio di
tomba. Era come se anche il temporale si fosse calmato, come se tutto
si fosse zittito per dar spazio alla lite che si stava svolgendo
nella nostra camera.
«Ragazzi, cercate di
calmarvi.» John parlò per la prima volta e si accostò
a Leah, la afferrò gentilmente per un braccio e la fece
indietreggiare in modo che Daron fosse di nuovo libero di muoversi.
«Okay, stop.
Smettetela di strillare» convenne Bryah, incenerendo il
chitarrista con lo sguardo, per poi studiare il corpo tremante di
Leah. «Amica, sei proprio nella merda ora, ma forse possiamo
parlarne domani con più calma, che ne dici?» le si
rivolse, posandole una mano sulla spalla.
Ma io non volevo né
potevo aspettare, volevo chiarezza e la volevo subito, non me ne
fregava un cazzo di che ore fossero, del casino che avremmo fatto e
del fatto che qualcuno potesse lamentarsi degli schiamazzi che
provenivano dal nostro piano.
«Scusa Bryah, ma Leah
ora viene con me e mi racconta quest'avvincente storia, sono proprio
curioso» affermai, per poi stringere il polso della ragazza e
trascinarla con me fuori dalla stanza, nonostante qualcuno stesse
tentando di protestare.
Leah, al contrario, non
oppose resistenza e mi seguì in silenzio lungo il corridoio.
Raggiunsi in fretta la porta di sicurezza che conduceva alle scale
antincendio e la aprii, ritrovandomi all'aria aperta. Faceva un caldo
bestiale, ma la pioggia, come sospettavo, aveva cessato di cadere e
una pressante umidità mi faceva quasi perdere il fiato.
«Allora?»
incalzai immediatamente, voltandomi a guardare Leah che era rimasta
in piedi sulla soglia.
La ragazza stentava a
guardarmi in volto e questo non mi piaceva per niente.
«Che c'è? Hai
perso tutta la tua sfacciataggine adesso? Non mi dire!»
commentai in tono ironico, incrociando le braccia al petto e
sospirando pesantemente.
«Mi sento davvero una
merda, Shavarsh.»
«E smettila di
chiamarmi in quel modo! Spiegami chi ti credi di essere per avermi
mentito in questo modo squallido, per esserti avvicinata a me con
l'inganno, per aver creduto che non fosse importante dirmi la verità
fin da subito!» esplosi, senza staccare gli occhi da lei, in
cerca di una qualche reazione o di una qualche risposta che lei non
si decideva a darmi.
«Anche tu mi hai
mentito!» mi accusò all'improvviso, sollevando di scatto
il viso e trafiggendomi con i suoi grandi occhi color cioccolato. «E
io sapevo che stavi mentendo, ma non me la sono presa. No, capisci?
Perché pensavo che forse ti andasse meglio stare tranquillo
durante questa vacanza, anziché avere a che fare con i soliti
fan invadenti!» puntualizzò, prendendo a gesticolare.
La osservai meglio e solo
allora notai che era scalza. Forse avrei dovuto scegliere un altro
luogo in cui parlare con lei, ma in quel momento non mi importava
affatto.
«E tu cosa avresti
fatto di diverso dalle altre fan esaltate?» la accusai in tono
aspro.
«Cosa stai dicendo?»
«Quello che hai
sentito. Tu sei stata anche peggio di loro.» Quelle parole
stridettero anche nella mia stessa gola, per Leah dovevano essere
come rasoi affilati che si conficcavano nel suo cuore. Era quello che
volevo, desideravo ferirla e farla sentire come mi sentivo io in
quell'esatto istante.
«È davvero
questo che pensi di me?» mi domandò in tono estremamente
serio, senza scomporsi troppo.
«Il tuo comportamento
mi ha portato a questa conclusione, sì» confermai a
malincuore. Ammettere che ero rimasto profondamente deluso non mi
faceva piacere, ma non avrei neanche potuto negare l'evidenza.
«Non volevo creare
problemi. Ho pensato fin da subito che... che voi ragazzi foste qui
per rilassarvi. E se...» Leah sospirò e deglutì
prima di proseguire. «Se io ti avessi fatto capire la verità,
per te non sarebbe cambiato niente? Mi avresti visto con gli stessi
occhi? Avresti riposto in me la stessa fiducia? No, Shavo. Perché
ai fan è concesso fare una foto insieme a voi, non conoscervi
fino in fondo. Nessuno di loro sa come siete in realtà,
nessuno di loro può capire che siete dei ragazzi come tanti,
che hanno solo avuto la fortuna di coronare un sogno. Tu non me lo
avresti permesso, non avresti lasciato che ti conoscessi. Io volevo
essere per te, e anche per Daron e John, solo e soltanto Leah. Non
volevo passare per una delle tante ammiratrici o per una groupie
fuori di testa.» Si interruppe per riprendere fiato e posò
con cautela i suoi occhi sui miei. «E se tu non mi hai detto
cosa fai nella vita, il motivo mi pare sia lo stesso. Non è
così? Tu volevi essere Shavo e basta, volevi essere una
persona comune una volta tanto. Il fatto che io conoscessi la verità
non cambia le cose. Perché dovrebbe cambiarle adesso?»
«Avresti dovuto
dirmelo» insistetti.
«E allora non saremmo
qui ora. Non staremmo parlando, non ci staremmo divertendo insieme,
non...» Fece un'altra pausa, poi avanzò di qualche passo
verso di me. Posò con delicatezza una mano sul mio braccio e
sollevò il viso per potermi guardare meglio. «Non ci
sarebbe questo tra noi. Lo senti anche tu?»
Sapevo benissimo a cosa si
riferiva, ma improvvisamente non mi andava più di darle
ragione. D'un tratto era come se fossi spaventato da tutto: dalla
nostra differenza di età, dalla nostra vita che non poteva
coincidere in nessun modo, dalla nostra distanza geografica, dalla
possibilità che lei continuasse a mentirmi... ero atterrito,
totalmente terrorizzato.
Avrei voluto agire con la
freddezza di Daron e spingerla via, avrei voluto possedere la
razionalità di John e dirle che tra noi non c'era proprio un
bel niente, avrei perfino voluto intavolare uno dei discorsi
filosofici di Serj e riempirle la testa di cazzate fino ad annoiarla
a morte e spingerla a piantarmi in asso; eppure agii come Shavo
Odadjian, rimasi fermo e lasciai che le sue dita mi carezzassero
piano il braccio, lasciai che Leah mi scrutasse nel profondo e
comprendesse da sola, senza che le rispondessi, che anche io sentivo
le sue stesse sensazioni, che anche io non avrei voluto rovinare
quello strano rapporto che si era creato tra noi in così poco
tempo.
«Di cosa hai paura?»
volle sapere la ragazza, cercando la mia mano per poi stringerla.
«Dovresti chiedermi di
cosa non ho paura» dissi.
«Shavo... mi sento
veramente uno schifo, ma ti prego, ti prego... non avercela
con me.»
«Non sono un
ragazzino, odio queste cose. Odio i giochetti, gli intrighi...»
Leah sospirò. «Ti
capisco. So che ho sbagliato, ma io credevo... volevo soltanto
trascorrere una vacanza diversa, trovare qualcuno che mi facesse
compagnia. Non volevo venire qui, tu lo sai. Mi annoio sempre in
questo dannato albergo. Mio padre se la spassa con le sue amanti del
momento, mentre io gironzolo annoiata per l'hotel in cerca di
qualcosa da fare... è vero, conosco tutti, ma ognuno è
impegnato nel suo lavoro e i clienti di questo posto sono tutti
terribilmente noiosi come mio padre. Invece voi... non appena vi ho
visto, ho capito che sarebbe stato divertente, ecco tutto.»
Rimasi a riflettere per un
po', e mi resi conto che non ce l'avevo realmente con Leah, che la
delusione era qualcosa che sarebbe passata, perché potevo
percepire la sincerità delle sue parole. Stava parlando con il
cuore in mano, stava dicendo la verità.
«Hai ragione»
ammisi. «Anche io volevo, per una volta, essere Shavo e basta.»
«Lo avevo capito.»
Leah sorrise e posò anche l'altra mano sulla mia,
racchiudendola in un abbraccio che mi commosse profondamente. «E
per me è stato davvero un onore conoscerti. Non perché
suoni in una band che amo, ma perché sei una persona splendida
e questo l'ho capito fin da subito. Ti ho incontrato in un momento di
debolezza, un momento in cui stavi male, e subito mi è stato
chiaro che avrei avuto a che fare con una persona totalmente diversa
da quella che ho sempre intravisto sul palco, nei video che ho
guardato su internet...»
Mi venne spontaneo
sorridere. «Non sei mai stata a un nostro concerto?»
«Mai. Però
contavo di farlo, prima o poi. Aspettavo che veniste a Las Vegas. Il
problema è che nessuno vorrebbe venirci con me. Se ci andassi
da sola, scommetto che non ne uscirei viva» scherzò
Leah, mentre il suo viso affilato si distendeva e lasciava spazio a
un sorriso divertito. «Ma per ora posso accontentarmi del set
acustico di Daron e John» aggiunse.
Un lampo improvviso ci
inondò di luce, seguito poco dopo da un breve ma rumoroso
tuono.
«Ricomincerà a
piovere» borbottai, scrutando il cielo scuro e cupo che,
coperto completamente di nubi nere, non lasciava intravedere neanche
la luna. L'unica fonte luminosa di cui disponevamo era la tenue luce
che filtrava dal corridoio.
«John» mormorò
Leah, lanciando un'occhiata all'interno della struttura.
Poco dopo udimmo della
musica riecheggiare e rimbalzare fino a noi, così dedussi che
forse Daron stava cercando ancora una volta di distrarre il
batterista dall'imminente temporale che minacciava di abbattersi
nuovamente sulla baia.
«Starà bene»
commentai con un sorriso. «Daron e Bryah hanno sicuramente
capito il meccanismo.»
Leah ridacchiò appena
e tornò a rivolgermi la sua attenzione. «Non ce l'hai
con me? Sei sicuro? Senti, se posso fare qualcosa per farmi
perdonare, sono disponibile! Ai tuoi ordini!»
Scossi il capo e allargai
appena le braccia. «Vieni qui» dissi. «Altrimenti
non ti perdono» aggiunsi in tono scherzoso.
Leah scoppiò a ridere
e si fiondò tra le mie braccia, nascondendo il viso nella mia
spalle e soffocando maldestramente le risate. «Che cretino! Ti
approfitti di me!» farfugliò.
La strinsi forte a me e
smisi di pensare a qualsiasi cosa che non fosse lei, il suo corpo
contro il mio e il suo profumo inebriante che sapeva di salsedine e
vaniglia. Inspirai a fondo e posai la guancia contro la sua nuca,
sentendomi in qualche modo completo e al sicuro.
Non avevo più paura,
era scomparsa senza che neanche me ne accorgessi.
All'improvviso qualche
goccia cominciò a bagnarmi la testa e il viso. «Piove»
mormorai.
Leah, con le mani premute
contro la mia schiena, non accennò a muoversi. «È
vero» commentò.
«Vuoi rientrare? Sei
anche scalza, potresti ammalarti» osservai in tono apprensivo.
«Ma smettila. Sto così
bene, perché dovrei tornare dentro?» mi canzonò,
sollevando il viso per cercare il mio sguardo. «Sei un essere
troppo ansioso, Shavarsh» aggiunse.
«Il mio nome di
battesimo ti piace proprio, eh?» notai con disappunto.
«È
affascinante, non ti sembra?»
«Proprio per niente.
Shavo è più corto, più pratico... più
facile» chiarii con convinzione.
Leah sbuffò. «Che
rompicoglioni!» mi accusò.
«Scusa eh... è
vero!»
«No.» Lei,
all'improvviso, si accostò al mio viso e posò le sue
labbra sulle mie, in un gesto rapido e sfuggente. Subito si scostò
e mi fissò in cerca di una mia reazione. «Allora? È
questo che ti serve per farti smettere di dire cazzate?» mi
punzecchiò.
Effettivamente ero rimasto
interdetto e non avevo saputo né come ribattere né come
reagire, anche perché non ne avevo avuto il tempo.
«Hai una faccia...»
ridacchiò Leah, sollevando una mano per posarla sulla mia
guancia.
Intanto continuava a
piovere, le gocce si facevano sempre più grosse e fitte; ormai
eravamo bagnati fradici, ma questo sembrava non importarci
minimamente. Faceva caldo e quella bizzarra doccia notturna non
poteva essere più gradita.
«Mi prendi sempre in
giro» borbottai.
«Non è vero, è
che hai una faccia da scemo! Scusa per il bacio, non pensavo ti
avrebbe fatto quest'effetto devastante» sghignazzò Leah,
posando nuovamente la guancia contro la mia spalla e facendosi ancora
più vicina a me.
«Ehi!»
protestai. Sciolsi l'abbraccio e le presi il viso tra le mani. «Forse
è sbagliato, ma non posso evitarlo» ammisi, per poi
baciare Leah con cautela, facendo aderire le nostre labbra e
assaporando le sue con calma. Il suo sapore si mescolava con quello
dell'acqua piovana che cadeva torrenziale su di noi.
Mi scostai lentamente da lei
e rimasi a guardarla negli occhi, senza riuscire a capire fino in
fondo ciò che avevo appena fatto. Leah aveva dato inizio a
quella danza tra noi, ma io avevo risposto e ora non potevo tirarmi
indietro. E non volevo farlo.
«Sbagliato?» mi
apostrofò con un sorriso compiaciuto.
«Dici di no?»
«Mmh, vediamo...
riproviamoci, magari stavolta sarà sbagliato» concluse
la ragazza, avventandosi nuovamente sulle mie labbra e
mordicchiandole appena, per poi insistere per approfondire quel
contatto.
Mi ritrovai a stringerla con
più forza, avvertendo la necessità di averla ancora più
vicina, anche se non ero certo che ciò fosse possibile.
Tra un lampo che illuminava
le nostre figure avvinghiate, un tuono che ci faceva sobbalzare
appena e lo scrosciare incessante della pioggia che picchiava su di
noi, ci estraniammo dalla realtà e non badammo al tempo che
passava, alla notte che si faceva sempre più buia e cupa, ai
nostri amici che forse si domandavano che fine avevamo fatto.
Avevamo parlato di verità,
della nostra verità, e ora quella verità ci aveva unito
e reso inspiegabilmente inseparabili.
Le
note di oggi saranno un po' particolari, cari lettori ^^
Partiamo
da un link:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3380229&i=1
Non
è un link a YouTube, direte; e infatti non lo è,
oggi vi voglio parlare di una poesia, una poesia bellissima che ho
trovato molto affine a questo mio capitolo.
La
cosa curiosa è che ho letto questa poesia proprio il giorno
dopo aver scritto questo capitolo, come potrete dedurre anche dalla
mia recensione a essa; allora mi sono detta che dovevo ASSOLUTAMENTE
chiedere all'autore, il gentilerrimo KUBA, se potessi mettere voi a
conoscenza di questo suo scritto.
Leggetelo
e ditemi se anche voi notate qualche somiglianza con il momento
magico tra Leah e Shavo ♥.♥
Ringrazio
infinitamente KUBA per avermi permesso di citarlo qui nelle note,
sono rimasta veramente colpita dal fatto che io e lui abbiamo avuto,
a distanza di tempo e senza saperlo, la stessa idea su un momento tra
due persone che si sentono molto vicine tra loro :3
E
non è ancora finita qui, vi riporto qui sotto un altro link:
http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3620289&i=1
Un
altro link che non è di YouTube, ridirete :D
Stavolta
si tratta di una mia storia, che è strettamente correlata a
questa faccenda di John che ha la fobia per il tempoarale; infatti,
avevo trattato questa sua particolarità – cosa che mi
sono immaginata eh, non vi sto dicendo che è vero, tranquilli
– in un'altra mia storia, ovvero la OS che vi ho linkato sopra!
Se
vi va dateci un'occhiata, anche se so per certo che alcuni di voi
l'hanno già letta e recensita :'D ragazzi, vi ricordavate di
questa faccenda?
Il
fatto è che mi piaceva troppo collegare così queste
storie perché, come qualcuno mi ha fatto notare nelle
recensioni al capitolo precedente, è come se così io vi
facessi capire che per me i ragazzi sono caratterizzati nello stesso
modo, qualunque storia io scriva. Spero che l'idea vi sia piaciuta :3
Bene,
aspetto i vostri commenti e non esitate anche a lasciare un parere
alla poesia di KUBA, su, fate i bravi, va bene? Ci conto ♥
A
presto e grazie di cuore, come sempre, siete speciali per me ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 22 *** Peace after the Storm ***
ReggaeFamily
Peace
after the Storm
[John]
Al
mio risveglio mi ritrovai nel bel mezzo di un casino pazzesco: il mio
letto sembrava un'isola intatta, circondata da un mare di spazzatura
e macchie sospette sul pavimento; lattine, bottiglie e bicchieri
erano disseminati per la camera inondata dai raggi del sole.
Il
temporale sembrava ormai un miraggio, lo stesso che mi aveva messo in
agitazione qualche ora prima si era volatilizzato nel nulla e mi
venne il dubbio di non averlo per caso sognato; ma le immagini della
nottata appena trascorsa erano chiare e limpide nella mia mente, e a
dimostrarlo c'era anche il disastro che i ragazzi avevano combinato
in camera mia e di Shavo.
Vagai
con lo sguardo per la stanza e notai due fatti preoccupanti: per
prima cosa, la porta era spalancata e non riuscivo a capire come
fosse possibile; in secondo luogo, Daron si era addormentato per
terra, accanto al mobile del televisore: era rannicchiato su se
stesso e aveva la faccia rivolta verso il muro. Ispezionai il letto
di Shavo e mi sorpresi nel notare che era vuoto. Mi alzai e andai a
controllare in bagno, ma neanche lì c'era traccia del
bassista; anche Leah e Bryah erano sparite, forse erano tornate nelle
loro stanze a un certo punto della notte...
Poi
mi ricordai, all'improvviso, del momento in cui il mio amico aveva
insistito per conoscere la verità da Leah e l'aveva trascinata
fuori dalla stanza; da allora non si erano più visti ed
effettivamente mi ero chiesto cosa avessero di così tanto
elaborato da dirsi per sparire così a lungo.
Mi
accostai a Daron e lo scossi con forza per svegliarlo. «Malakian,
perché cazzo ti sei addormentato per terra?» lo
apostrofai.
Lui
borbottò qualcosa di incomprensibile e si agitò come un
pazzo, per poi aprire gli occhi di botto e voltarsi nella mia
direzione. Sbadigliò rumorosamente e notai che aveva
un'espressione piuttosto stravolta.
«Ma
che cazzo ne so? Sono indolenzito dalla testa ai piedi, merda...»
farfugliò, mettendosi faticosamente a sedere. Si guardò
intorno con fare frenetico, poi si alzò e barcollò
pericolosamente sul posto, mentre si allungava verso il mobile per
afferrare qualcosa.
«Non
hai altro a cui pensare, eh?» lo punzecchiai, osservando il suo
occorrente per costruirsi una bella dose di erba di buon mattino.
«Che
vuoi?» si limitò a replicare, poi si avvicinò
alla finestra e la spalancò, inspirando profondamente mentre
armeggiava sapientemente con la cartina e la marijuana che ci stava
mettendo dentro.
«Sono
stravolto» ammisi.
«Il
temporale è passato, non preoccuparti» commentò
il chitarrista con noncuranza, ma nelle sue parole sentivo di poter
trovare conforto, perché lui, a dispetto di quanto potesse
sembrare, si preoccupava molto per le persone a cui teneva davvero.
«Già,
meno male. Sai per caso che fine ha fatto Shavo?» gli domandai,
mentre notavo che si frugava nelle tasche dei pantaloni della tuta.
Sbuffò
contrariato e si voltò a ispezionare la stanza. «Mi
passi l'accendino? Comunque, no, sarà rimasto con Leah...»
insinuò in tono divertito.
Afferrai
l'oggetto richiesto dal mobile e glielo lanciai. Daron non riuscì
ad afferrarlo al volo e imprecò tra i denti, si chinò a
raccoglierlo e poi mi incenerì con lo sguardo.
«Be'?
Solo l'erba fa rivivere i tuoi sensi intorpiditi? Sei proprio messo
male, amico!» lo canzonai, dirigendomi verso il bagno. Nel
tragitto, mi fermai a controllare il mio cellulare e notai che erano
quasi le undici del mattino.
«Pensa
per te, santarellino» bofonchiò il chitarrista con la
sigaretta tra le labbra, poi fece scattare l'accendino e un istante
dopo il familiare profumo dolce e intenso della marijuana si diffuse
nella stanza.
«Anche
oggi niente corsa mattutina» mi lamentai, entrando in bagno e
lasciando la porta aperta. Mi gettai con la faccia sotto il rubinetto
e lasciai che l'acqua gelida mi rinfrescasse le idee.
«Che
palle. Sei venuto in vacanza o ti stai preparando per la maratona
verso Santa Monica Beach?» gridò il mio amico dall'altra
stanza.
«A
quella ho già partecipato, stronzetto!» esclamai.
«Ma
devi allenarti per l'anno prossimo!»
«Non
prendermi per il culo!» strillai, per poi scoppiare a ridere.
Mi accostai alla porta e la richiusi, dopo aver spedito Daron al
diavolo.
Dopo
essermi lavato e preparato, uscii di tutta fretta dalla camera,
lasciando il chitarrista che ancora fumava e scrutava il panorama
fuori dalla finestra.
Per
prima cosa, dovevo trovare Shavo e capire cosa avesse combinato
durante la notte; notai che la porta della stanza di Leah era aperta,
proprio come la nostra, così mi avviai in quella direzione. La
nottata era stata devastante per tutti, evidentemente, perché
nessuno si era preoccupato di chiudersi in camera e preservare la sua
privacy. Quando giunsi sulla soglia, rimasi immobile a osservare la
scena che mi si presentava davanti agli occhi: Leah e Shavo erano
abbandonati sul letto della ragazza, uno accanto all'altra, e
dormivano profondamente. Il bassista lasciava penzolare un braccio
dal materasso, mentre Leah gli circondava il petto con un braccio e
riposava con la testa contro la schiena di lui.
Mi
ritrovai a sorridere come un bambino, erano davvero carini insieme, e
chissà che tra loro non fosse successo qualcosa durante quel
temporale pazzesco.
La
cosa che mi fece maggiormente piacere fu constatare che probabilmente
si erano chiariti e non avevano trascorso il loro tempo a litigare
senza risolvere niente. Annuii tra me e me e richiusi piano la porta,
per evitare che qualcuno li disturbasse. Se Daron li avesse sorpresi
a dormire insieme, avrebbe preso a gridare e li avrebbe risvegliati
bruscamente, cominciando immediatamente a dire stronzate su
stronzate, come soltanto lui sapeva fare.
Mi
affacciai nuovamente in camera mia. «Tu vieni a fare colazione
o ti basta quella roba per sfamarti?» volli sapere dal
chitarrista.
«No,
questa roba mi fa venire ancora più fame. Andiamo!»
esclamò allegro.
Lo
osservai: indossava una t-shirt spiegazzata arancione fluo e i
pantaloni grigi della tuta, era scalzo e i suoi capelli si mostravano
in un groviglio incomprensibile.
«Pensi
di farti vedere in giro con me in quelle condizioni? Almeno lavati la
faccia!» dissi contrariato.
«Nessuno
ti ha mai detto che sei una piattola, Dolmayan? Lasciami un po' in
pace!»
Dopo
qualche minuto in cui battibeccammo, riuscii a convincerlo a lavarsi
il viso e a indossare un paio delle mie scarpe.
Ci
dirigemmo verso l'ascensore e Daron domandò: «Hai
trovato Shavo?».
«No»
mentii. «Starà bene, sa badare a se stesso, a differenza
tua» lo canzonai, mollandogli una gomitata nelle costole.
«Mi
fai male!» si lagnò.
«Ma
sta' zitto, te lo meriti!» affermai.
«Perché
mi odi, Johnny?» cantilenò, mentre salivamo in
ascensore. Mi si accostò e mi rivolse un'occhiata da cane
bastonato, atteggiando le labbra a un broncio piuttosto patetico e
buffo.
Non
potei evitare di sorridere. «Fatti un esame di coscienza e poi
ne riparliamo.»
«Ma
non è giusto!»
«Oh,
sì invece!»
Le
nostre risate si persero nell'aria quando ci ritrovammo sulla
terrazza. La giornata sembrava piuttosto limpida e del temporale non
c'era più alcuna traccia.
Mi
sentivo decisamente meglio.
Mi
rigirai il biglietto tra le dita, poi mi decisi a prendere il
cellulare. Posai entrambi gli oggetti sul tavolino e, dopo aver
intrecciato le mani sotto il mento, li studiai con estrema
concentrazione.
Ero
certo che Bryah fosse tornata in città, e questa
consapevolezza mi faceva sentire uno strano vuoto all'altezza del
petto; non sapevo se l'avrei rivista, ma non volevo rischiare. Avevo
riflettuto molto, mentre tutti si divertivano e cercavano di
distrarmi dal temporale, su ciò che avrei voluto dalla
giornalista, ed ero giunto alla conclusione di non voler stare con le
mani in mano. In effetti, non era un problema mio il fatto che Bryah
avesse un compagno, anche perché probabilmente non l'avrei mai
più rivista in seguito a quella vacanza. Certo, lei aveva più
volte affermato di voler lavorare su una biografia del mio gruppo, ma
dubitavo fortemente che la cosa fosse possibile.
Sbloccai
il cellulare e, preso da un impulso quasi incontrollabile, composi il
numero della donna che mi stava dannando l'anima in quegli ultimi
giorni; prima di far partire la chiamata, lo salvai in rubrica e
accartocciai in un gesto teso il suo biglietto da visita.
Portai
lo smartphone all'orecchio e udii i primi squilli. Forse non avrebbe
risposto, forse non avrebbe dato ascolto a nessuna delle mie
stronzate, forse si era già dimenticata di avermi consegnato
quel cartoncino con su scritto il suo numero di cellulare.
Quando
Bryah rispose, sobbalzai leggermente ed espirai all'improvviso,
rendendomi conto di aver trattenuto il fiato fino a quell'esatto
istante.
«Bryah
Philips» esordì lei in tono professionale.
Mi
schiarii la gola e affermai: «Sono John. John Dolmayan».
«John,
ehi! Ciao! Come ti senti stamattina? Io sono già in ufficio da
un paio d'ore e sto schiattando dal sonno, però mi sono
divertita con voi, sul serio!» replicò con entusiasmo
Bryah, e potei quasi immaginarla con un sorriso luminoso a
incresparle le labbra carnose e dal profilo perfetto.
«Sto
meglio, grazie. Sono un po' sconvolto dal sonno, però è
tutto sotto controllo, finalmente» la rassicurai, sentendomi
improvvisamente più sereno. Parlare con lei mi rilassava e
svuotava la mia mente da pensieri cupi e malinconici.
«Sono
contenta! Nel pomeriggio devo uscire per un servizio, non so se ce la
farò. Vorrei soltanto dormire» scherzò.
«A
chi lo dici... Bryah, ascolta...» Deglutii e puntai lo sguardo
sul biglietto da visita accartocciato sul palmo della mia mano
destra.
«Dimmi
tutto!» mi incoraggiò.
«Ci
rivediamo?» buttai lì, tentando di non utilizzare un
tono di voce troppo serio.
«E
me lo chiedi? È ovvio! Ho un'idea: perché questo
pomeriggio non venite tutti in città? Verso le sei dovrei
riuscire a liberarmi e ho in mente di portarvi in un posto
fantastico. Potresti proporlo tu ai ragazzi da parte mia?» La
donna sembrava veramente felice all'idea di trascorrere ancora del
tempo con me e i miei amici, ma questo non mi aiutava a capire se il
suo interesse si limitasse alla comitiva in generale o se celasse
qualche tipo di riguardo nei miei confronti.
«Direi
che si può fare. Dove ci incontriamo?» domandai.
«Nei
pressi del Fyah, poi da lì
vi scorto io a zonzo per la città. D'accordo?»
«D'accordo»
confermai. «Parlo con i ragazzi e ti faccio sapere.»
Bryah ridacchiò.
«Accetteranno, vedrai. Okay, devo andare, ci aggiorniamo più
tardi. Scrivimi su WhatsApp!» concluse, poi mi salutò di
tutta fretta e pose fine alla telefonata.
Mi ritrovai a sorridere tra
me: il primo passo era stato fatto, ora dovevo soltanto trovare il
coraggio per continuare su quella strada disseminata di sensi di
colpa e infiniti dubbi.
La cameriera che era di
turno in terrazza quella mattina mi si accostò e sorrise
brevemente, poi raccolse la tazza da cui avevo bevuto il mio caffè
amaro e forte.
«Daron come sta?»
mi chiese all'improvviso, spiazzandomi e costringendomi così a
dedicarle maggiore attenzione.
Mi strinsi nelle spalle.
«Sta bene.»
«E dov'è? Prima
mi è sembrato di vederlo, ma ora è sparito...»
indagò ancora la ragazza.
«Ha ricevuto una
chiamata importante» tagliai corto. Non capivo minimamente dove
volesse andare a parare.
«Oh, immagino.»
La cameriera ghignò. «Puoi dargli un messaggio da parte
mia?»
Mi limitai a fissarla senza
replicare. Era una persona piuttosto strana, non mi era facile
inquadrarla.
«Digli che Lakyta deve
parlargli perché non c'è più tempo» spiegò
con calma, poi mi sorrise freddamente e se ne andò
ancheggiando, senza più degnarmi di alcuna attenzione.
Sospirai e mi alzai,
scuotendo appena il capo. In questo albergo lavoravano dei personaggi
piuttosto singolari, ed era come se io e i miei amici li
calamitassimo irrimediabilmente. Ero certo che, in ogni caso, Daron
ne avesse combinato un'altra delle sue, coinvolgendo quella cameriera
in qualche faccenda a me ignota e a cui non mi andava di pensare.
Mi
diressi giù per le scale, intenzionato a raggiungere
la hall. Una volta al piano terra, notai che al bancone della
reception c'era Dayanara, il quale era intento a parlare con una
coppia di clienti. Insieme ai due coniugi, un ragazzo sui sedici anni
se ne stava imbronciato in un angolo: era completamente vestito di
nero, aveva i capelli lunghi e ribelli sugli occhi e indossava una
felpa dei Carcass.
Aggrottai la fronte: come
poteva andare in giro con una felpa a maniche lunghe? Faceva un caldo
bestiale e anch'io mi ero ormai convinto di dover usare delle
ciabatte da spiaggia per evitare di morire a causa dell'afa che
impregnava la baia, specialmente in seguito alla perturbazione della
notte precedente.
L'adolescente ascoltava
della musica con gli auricolari e ogni tanto muoveva la testa a
tempo, facendo ondeggiare la chioma crespa. Sollevò per un
attimo lo sguardo dal suo cellulare e mi notò. Lo vidi
sbiancare per un attimo, poi si strappò via le cuffiette e
rimase a fissarmi con la bocca semiaperta.
«Ma che cazzo...?»
balbettò.
Mi strinsi nelle spalle e
lanciai un'occhiata al receptionist, sperando che si decidesse a
registrare i nuovi arrivati, in modo che potessi liberarmi al più
presto di quel ragazzino che mi aveva evidentemente riconosciuto.
«Ehi,
ma tu sei il batterista dei System!» esclamò, facendo
qualche passo verso di me. «Non è possibile, ma cosa
cazzo ci fai in Giamaica?» proseguì,
per poi cominciare a sghignazzare.
Lo fissai con aria
perplessa, senza però prendermi il disturbo di rispondergli,
altrimenti sarei potuto risultare scortese e non volevo.
«Merda! Non ci credo!
Ehi, possiamo fare una foto?» insistette imperterrito il
sedicenne, sventolando il suo I-Phone come fosse un'arma.
Ero piuttosto irritato,
tuttavia annuii e mi sforzai di regalargli un debole sorriso. «Va
bene» acconsentii.
«Grande! Che gran
botta di culo ho avuto, eh? Aspetta, facciamo un selfie...»
strepitò il ragazzo, piazzandosi al mio fianco. Mi si accostò
e sollevò il cellulare di fronte a noi; io rimasi praticamente
impassibile mentre lui si esibiva in espressioni da duro e mostrava
le corna alla telecamera.
«Grazie, amico! Ehi,
sono emozionato!» blaterò ancora lui, osservando lo
schermo del telefono con aria soddisfatta.
«Grazie a te»
risposi in tono piatto, sperando ardentemente che i miei colleghi non
spuntassero nella hall proprio in quel momento.
«La pubblico subito su
facebook!»
Sospirai. «Puoi
evitarlo, per cortesia? Non è ufficiale che mi trovo in questo
albergo» chiarii.
«Non lo scrivo dove
sono, tranquillo» ammiccò ancora, per poi strizzarmi
l'occhio.
Mi costrinsi a non sollevare
gli occhi al cielo e mi accostai finalmente a Dayanara, mentre i
genitori del mio fan gli intimavano di seguirli verso l'ascensore.
«Perché
arrivano tutti qui?» chiesi più a me stesso che al
receptionist, appoggiandomi con i gomiti sul bancone e sospirando.
Lui rise. «Ah, be'!
Siete delle rock star, dovete aspettarvi questo e altro!»
commentò divertito.
«Speravo che non
venissimo riconosciuti, invece anche la tua amica Leah lo sa
perfettamente. Glielo hai detto tu?» indagai, studiando il
ragazzo di fronte a me, il quale mostrava un'aria piuttosto stanca.
«No, io e Leah non
abbiamo parlato di voi. Non sapevo niente di questa storia. Comunque,
in cosa posso esserle utile?»
Sorrisi appena. «Andiamo,
non mi dare del lei, mi fai sentire anziano. Volevo solo chiederti di
mandare qualcuno su in camera mia e di Shavo, stanotte abbiamo
combinato un bel casino e quella stanza ha bisogno di una pulita.
Tranquillo, non abbiamo rotto nulla» spiegai.
Dayanara annuì. «Ho
sentito dire dallo stagista che stanotte qualcuno ha fatto casino al
terzo piano, ma quel babbeo non è stato in grado di capire in
quale palazzina fosse successo» borbottò.
«Mi scuso a nome di
tutti noi, non volevamo arrecare disturbo.»
Il receptionist fece un
gesto noncurante con la mano. «Tanto io non c'ero, non mi
importa. Bene, chiamo subito una cameriera e la mando nella vostra
stanza.»
Lo
ringraziai e mi allontanai. Intravidi Daron che stazionava
addossato al bancone del bar e decisi di
raggiungerlo. Fortunatamente il sedicenne che mi aveva fermato poco
prima non pareva averlo notato.
Mentre mi incamminavo, mi
ritrovai a chiedermi come sarebbe andata a finire tutta quella
vacanza, ma soprattutto mi domandai cosa ancora sarebbe potuto
succedere. Non ne avevo idea, ma sentivo che l'apparente quiete dopo
la tempesta non sarebbe durata a lungo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 23 *** Hard nut to crack ***
ReggaeFamily
Hard
nut to crack
[Daron]
Eravamo
pronti a partire per la città e aspettavamo il taxi. Erano le
sei del pomeriggio e l'aria si era inspiegabilmente rinfrescata, così
avevo indossato una felpa un po' più pesante e avevo infilato
ai piedi un paio di sneakers. Non mi ero preoccupato di cambiarmi i
pantaloni della tuta che indossavo dalla notte precedente, non avevo
avuto voglia di cercare qualcos'altro in mezzo al caos della mia
stanza.
Ero
nervoso. John mi aveva riferito un messaggio equivoco da parte di
Lakyta e questo mi aveva messo irrimediabilmente di malumore; inoltre
Leah ce l'aveva evidentemente con me, perché da quando eravamo
scesi nella hall non si era degnata di rivolgermi nessun tipo di
attenzione, limitandosi a scherzare con Shavo e John. Avevo detto
qualcosa di sbagliato, lo sapevo, e sicuramente avevo capito male ciò
che avevo ascoltato seduto dietro il separé di bambù.
Sospirai
e feci scattare l'accendino, poi inspirai una lunga boccata di fumo e
scrutai la strada in cerca dell'auto che ci avrebbe condotto nella
capitale. Forse avrei dovuto parlare con Leah, forse avrei dovuto
scusarmi... già, forse.
Non
capivo come mi fosse saltato in mente di insinuare che lei aspirasse
ad arrivare a Serj usando noi come le pedine di chissà quale
gioco; ogni tanto avevo la
tendenza a farmi dei film mentali assurdi, ma questo probabilmente
dipendeva dalla mia totale sfiducia nel genere umano. Faticavo a
fidarmi di me stesso, come potevo credere nel prossimo con tanta
facilità?
Afferrai il cellulare e mi
decisi a risolvere almeno uno dei miei problemi, o almeno a provarci.
Scrissi qualche parola e
inviai il messaggio su WhatsApp al numero di Lakyta.
John
mi ha riferito
Mentre aspettavo una sua
risposta, notai che nella foto del suo profilo c'era un'immagine di
lei e Alwan che mostravano il cartellino di riconoscimento dello Skye
Sun Hotel.
Finalmente
ti sei fatto vivo! Dobbiamo parlare al più presto ;)
Ora
non posso, sto andando in città
Stasera
sono libera, possiamo incontrarci quando rientri.
È
proprio necessario?
Certo!
:D ci vediamo al Buts? Avvisami quando rientri e io mi faccio trovare
lì.
Stavo per rispondere quando
lei scrisse ancora:
A
qualsiasi ora, non ti preoccupare.
Sospirai
e riposi il cellulare, accorgendomi che il nostro
taxi era arrivato. Mi avvicinai ai ragazzi e mi infilai sul sedile
posteriore, ritrovandomi proprio accanto a Leah. La ragazza, infatti,
sedeva tra me e Shavo, mentre John si era accomodato sul sedile del
passeggero accanto all'autista.
«Dove vi porto?»
chiese l'uomo in tono allegro.
«Al
Fyah» rispose
Leah, poi mi indirizzò un'occhiata di fuoco e si voltò
verso Shavo, ignorandomi deliberatamente.
L'avevo combinata grossa,
cazzo. Tra me e Leah si era scatenata fin da subito una sorta di
diatriba silenziosa, che ogni tanto sfociava in piccoli scontri e
battibecchi; tuttavia riuscivamo anche a divertirci insieme e spesso
eravamo sulla stessa lunghezza d'onda, ma il fatto di assomigliarci
un po' troppo ci portava irrimediabilmente a scontrarci.
Estrassi dalla tasca della
felpa un paio di auricolari e li infilai alle orecchie, decidendo che
non era certo quello il momento di parlare con la ragazza; collegai
le cuffie al cellulare e aprii un'applicazione che mi permetteva di
ascoltare tutta la musica che volevo senza essere collegato a una
rete internet.
Forse può sembrare da
pazzi, ma mi ritrovai a scegliere l'album dei miei Scars On Broadway
come colonna sonora di quel viaggio che somigliava tanto al tragitto
verso il patibolo; o forse era il mio umore nero a farmelo percepire
in quel modo.
Mentre la mia stessa voce
graffiava le mie orecchie, presi a osservare distrattamente ciò
che si svolgeva intorno a me: Leah rideva con il corpo completamente
abbandonato sullo schienale del sedile, mentre Shavo le raccontava
qualcosa; il bassista era rivolto verso di lei e teneva una mano
sulla coscia della ragazza, mentre puntava i suoi occhi sul viso di
lei e sembrava non riuscire a distoglierli.
Tra quei due era successo
qualcosa, era palese. A dispetto di quanto avessi erroneamente
affermato la notte precedente, ero contento per loro, notavo che
formavano una bella coppia, ma soprattutto immaginavo che Shavo
avesse bisogno di qualcuno come Leah che gli tenesse testa e lo
trascinasse fuori dalle sue insicurezze infondate.
Sul
sedili anteriori, con mia grande sorpresa, John stava intrattenendo
una conversazione con l'autista; misi per un attimo in pausa Funny
e appresi che stavano parlando di musica e, nello specifico, dello
strumento tanto amato dal mio amico. Ci avrei scommesso: John
riusciva a essere loquace quando si trovava nel suo elemento
naturale.
Ripresi
ad ascoltare la mia musica e proseguii finché non ci
ritrovammo di fronte al Fyah,
interrompendomi nel bel mezzo di They Say
per scendere dall'auto. Il pub che avevamo frequentato
per due notti di fila, alla luce del giorno, sembrava un comune bar
frequentato da persone giovani, ma si mostrava molto tranquillo e
poco rumoroso, diversamente da come lo avevo conosciuto
nei giorni precedenti.
Bryah stazionava accanto
all'ingresso e sembrava estremamente luminosa e piena di energie,
nonostante avesse trascorso la notte in bianco proprio come tutti
noi.
«Ciao ragazzi! Siete
pronti per la gita che ho organizzato per voi?» ci accolse la
giornalista, sorridendoci e accostandosi a noi. Scompigliò i
capelli a Leah e posò spudoratamente gli occhi su lei e Shavo;
seguii il suo sguardo e notai le dita intrecciate dei due, così
mi ritrovai a sghignazzare e indirizzai a John un sorrisetto
malizioso.
Lui mi si avvicinò e
mi mollò una gomitata. «Comportati bene. E vedi di
scusarti con Leah.»
«Ne abbiamo già
parlato. Lo farò» tagliai corto, senza smettere di
esaminare il contatto che si era creato tra il bassista e la nostra
nuova amica.
«Andiamo?» Bryah
prese me e John sottobraccio e ci incitò a camminare. «Come
state? Siete stanchi?» domandò.
«Un po'. Tutta colpa
di questo rammollito» borbottai scherzosamente, strizzando
l'occhio al batterista.
«Sei così
stronzo, Malakian...» mi accusò contrariato.
«Ma dai, povero John!
Ognuno di noi ha le sue debolezze, altrimenti non saremmo umani.»
Bryan mi pizzicò il braccio. «Tu non hai paura di
niente?»
Ridacchiai
e scossi il capo. «No, perché io non sono umano. Vi
trovate di fronte a un'entità superiore, vedete di portare
rispetto e chinarvi per baciare
i miei profumatissimi e graziosi piedini!» cantilenai,
costruendo sul momento un atteggiamento altezzoso.
Bryah mi lasciò
andare e mi mollò una forte pacca sulla schiena. «Che
imbecille!» esclamò.
«Come osi offendere la
mia magnificenza?»
«Sì, è
proprio un caso perso» commentò John, scoccando
un'occhiata complice alla giornalista.
«Vi pentirete di
avermi provocato!» li minacciai, sollevando un pugno e
guardandoli con finta aria minacciosa.
«Che paura! John,
proteggimi.» Bryah si strinse al braccio del batterista e finse
di essere atterrita, ma io notai che questo a John provocò un
effetto devastante; doveva essere difficile per lui averla così
vicina e non poter fare ciò che avrebbe voluto. Infatti, aveva
assunto un'espressione indecifrabile, che però mi suggeriva un
certo disagio nel trovarsi in quella situazione apparentemente
stupida e banale.
Mi
ritrovai a chiedermi pigramente perché i miei amici si fossero
interessati a qualcuno, mentre io continuavo a seminare casini su
casini e tutte le creature di sesso femminile con cui avevo avuto a
che fare finora si erano dimostrate delle sgualdrine e niente più.
In ogni caso, dubitavo che Bryah volesse qualcosa da John, visto che
mi era parso di capire che
non era interessata a lui in quel senso.
Ma la vita era una puttana, chi poteva sapere come stavano realmente
le cose?
Poco
dopo Bryah si avvicinò a Shavo e Leah, così io
presi a sghignazzare in direzione del batterista.
«La smetti?» si
rivoltò lui.
«Oh
andiamo! Sembri un adolescente in preda agli ormoni, che
carino!» strepitai.
«E poi mi chiedi
perché ti odio?» ribatté con un sospiro.
«Già, proprio
non me lo spiego. Ehi, John?» lo chiamai.
«Che vuoi ancora?»
«Attento a Bryah. Non
sono sicuro che voglia da te qualcosa in più... mi capisci,
vero?» dissi con noncuranza, non sapendo come altro fargli
arrivare il concetto. Non ero molto bravo in queste cose.
«Fai anche il saggio
adesso? Non mi dire!»
Mi strinsi nelle spalle.
«Sono serio. Per una volta che provo a...»
John si bloccò per un
istante e mi studiò, portandosi istintivamente una mano al
mento. «Grazie, amico. Ma forse è un po' tardi per stare
attento...»
«Sei già un
caso così grave?» chiesi, aggrottando la fronte.
«Spero di no, ma...»
«Cazzo, ci mancava
anche questa!» esclamai. Sbuffando, lo afferrai per un braccio
e lo trascinai vicino agli altri. Non volevo più parlare di
queste cose, volevo soltanto divertirmi un po', per poi trovare un
momento per parlare con Leah.
Dopodiché
saremmo tornati in albergo e avrei incontrato Lakyta. Forse avrei
risolto tutti i miei problemi
in un colpo solo.
Ci fermammo solo dopo una
decina di minuti, ma Bryah fischiò contrariata e ci rivolse
un'occhiata desolata.
Sollevai lo sguardo e notai
che ci trovavamo proprio di fronte al Bob Marley Museum; ne fui certo
perché ogni tanto avevo scorto delle foto su internet, ma
questo fatto mi fu ancora più chiaro poiché alla
sommità del cancello che delimitava la vecchia casa di Marley
vi era un ritratto del cantante giamaicano. Notai che ai lati
dell'inferriata sorgevano due colonne dipinte in verde, giallo e
rosso, in ricordo dei colori della bandiera etiope. All'interno
scorsi soltanto il tetto dell'abitazione, nascosto da una fitta
vegetazione.
«Ma è chiuso!»
esclamò Leah, mentre John si accostava a un cartello affisso
sulla cancellata.
«Qui dice che l'ultima
visita disponibile comincia alle quattro del pomeriggio. Siamo
arrivati un po' tardi, ora sono le diciannove e tredici»
commentò il batterista.
«Oh no! Ragazzi, mi
dispiace... avrei voluto farvi una bella sorpresa, invece...»
borbottò Bryah in tono deluso, spostando lo sguardo
alternativamente dal cancello alle nostre facce.
«Tranquilla, torneremo
domani» disse Shavo con un sorriso.
«Io durante il giorno
non sono mai libera, che razza di orari fanno in questo posto?»
protestò la giornalista.
«Non importa. Possiamo
tornarci da soli, anche perché io sono molto curioso»
affermai in tono allegro.
«Io ci sono già
stata ed è bellissimo» spiegò Leah. «Vale
la pena di tornarci domani. Grazie lo stesso Bryah, è stato un
pensiero molto carino da parte tua!»
«E adesso che
facciamo?» ci chiese ancora la giamaicana.
«Andiamo a mangiare?»
saltai su.
«Non pensi ad altro
tu, eh?» brontolò John.
«Esattamente.»
«Che ne dite di
tornare all'HIR?» propose Leah.
«Che sarebbe?»
domandai io perplesso.
La ragazza mi ignorò
e fu Bryah a spiegarmi che si trattava di un posto in cui si mangiava
molto bene in cui lei e i ragazzi avevano pranzato il giorno
precedente, poi mi assicurò che ne sarei stato entusiasta.
«Per me l'importante è
mangiare» proclamai.
Riprendemmo a camminare e io
decisi che non potevo più aspettare: dovevo parlare con Leah,
non sopportavo che continuasse a ignorarmi in quel modo.
Mi accostai a lei, che
intanto camminava accanto a Bryah e chiacchierava allegramente con
lei, e la toccai sulla spalla.
La ragazza si voltò e
il sorriso abbandonò subito le sue labbra. «Che vuoi?»
mi apostrofò.
Shavo e John camminavano
qualche passo indietro e parvero non accorgersi di nulla, poiché
discutevano animatamente di qualcosa che non riuscivo ad afferrare.
«Voglio parlarti»
chiarii.
«Non abbiamo molto da
dirci, Malakian» tagliò corto.
Mi fermai e la costrinsi a
fare lo stesso. Bryah, notando che avevamo bisogno di un attimo per
discutere, si accostò al resto del gruppo e prese a distrarre
i miei amici, parlando a raffica e attirando completamente la loro
attenzione.
«Dai Leah, non fare la
stronza.»
«Forse mi hai
scambiato per te stesso» replicò all'istante.
«Sì, forse, ma
voglio solo scusarmi per ciò che ho detto. Ho capito male ciò
che tu e Bryah vi stavate dicendo» ammisi con non poca fatica,
distogliendo lo sguardo da lei.
Leah riprese a camminare e
io la affiancai subito. «Tu spari troppe stronzate senza
riflettere» mi accusò.
«Non posso negarlo.»
«E speri sempre che
tutti ci passino sopra come se niente fosse. Ma io non mi chiamo né
John e né Shavo. Hai portato fuori un'accusa molto grave nei
miei confronti» proseguì la ragazza, utilizzando un tono
pregno di delusione che mi fece sentire veramente in colpa.
«No, Leah, il fatto è
che...»
«Il fatto è che
non dovevi dirlo, punto.» Si strinse nelle spalle. «Sono
delusa» aggiunse.
«Me ne sono accorto.»
Sospirai. «Posso fare qualcosa per recuperare? Insomma, vuoi
ignorarmi ed essere incazzata con me per tutta la vacanza?»
Leah rimase in silenzio per
un po', poi rispose: «Perché no? Non ho ancora tanto
tempo da trascorrere in Giamaica. Tra tre giorni torno a casa».
Detto questo, sollevò
gli occhi su di me e per un attimo i nostri sguardi si incrociarono:
lessi malinconia nelle sue iridi color cioccolato, ed ero certo che
io sarei stato l'unico a non mancarle neanche un po'. Avevo sbagliato
tutto con Leah, a partire dall'essermi scopato la sua attuale
matrigna fino ad arrivare alle accuse infondate che le avevo rivolto
la notte precedente.
«Come vuoi» mi
arresi, fermandomi e lasciando che lei continuasse a camminare.
Raggiunse il resto del gruppo e continuò a ignorarmi, mentre
io mi sentivo un vero pezzo di merda.
Non avevo risolto niente,
proprio niente, ma perché sapevo soltanto cacciarmi nei
casini? La mia schifosa sfiducia nel genere umano mi metteva sempre
nella merda, anche quando non era necessario né motivato.
«Ehi ragazzi! Ho
trovato qualcosa da fare dopo cena!» strillò
all'improvviso Bryah, accostandosi alla vetrina di un negozio.
Tutti ci radunammo intorno a
lei e, dopo aver seguito il suo sguardo, notammo che stava esaminando
una locandina affissa al centro della vetrina: questa era piccola e
spoglia, decisamente poco visibile agli occhi dei passanti.
«Burton Selecta»
lessi perplesso.
«Sì. Qui dice
che questo tizio stasera sarà al Network Jamaica con
Eek-A-Mouse e Barrington Levy. Li conoscete?» ci spiegò
Bryah con un sorriso enorme.
«Forse» commentò
Shavo.
«Oh, vi dico già
che sono fortissimi! Sapete che Eek-A-Mouse ha collaborato con una
band metal?» proseguì la giornalista.
«Non mi dire!»
esclamai divertito.
«Sì, con i
P.O.D., nell'album Satellite; penserete che sia una follia, ma
solo un uomo come lui poteva arrivare a tanto.»
Aggrottai la fronte. «Non
mi suona del tutto nuova questa storia...» riflettei.
«Se vi va, dopo
andiamo a sentirli» concluse Bryah in tono concitato.
Accettammo di buon grado,
tanto non avevamo niente di meglio da fare. Riprendemmo a camminare
verso il locale in cui avremmo cenato e mi ritrovai a chiedermi che
razza di svitato potesse celarsi dietro il nome di Eek-A-Mouse. Ero
piuttosto curioso.
A un tratto scorsi un
negozio di strumenti musicali e mi si illuminarono gli occhi.
«Guardate!»
strillai, fiondandomi di fronte all'ingresso del locale.
«Stiamo per chiudere»
tuonò un uomo grande e grosso che stazionava vicino alla
porta.
«Posso dare solo
un'occhiata? Faccio in fretta!» lo implorai, sentendomi come un
bambino che entra in un negozio di giocattoli.
Nonostante il proprietario
stesse brontolando, mi infilai all'interno e cominciai a gironzolare,
scrutando con attenzione tutto ciò che si trovava là
dentro; fui colpito dalla consapevolezza di trovarmi in un negozio
incentrato sulle percussioni e allora strillai: «Dolmayan!
Entra!».
Il batterista mi raggiunse e
notai che era rimasto incantate come me da quell'angolo di paradiso;
cominciò a esaminare tutto ciò che lo circondava, poi
si piazzò di fronte a un espositore di strumenti in miniatura
e prese a borbottare tra sé come se stesse commentando
un'opera d'arte.
«Sei impazzito?»
lo canzonai.
«Questa è una
meraviglia, oh, il mio mondo! Ho deciso cosa farò domani:
passerò tutta la giornata qui dentro, potrei morire!»
sentenziò con un tono di voce da pazzo invasato che raramente
gli avevo sentito utilizzare.
«Merda»
bofonchiai.
«Zitto! Ecco, questo
lo regalo a Bryah, hai visto? Non è un amore?» cinguettò
ancora John, prendendo delicatamente tra le mani la miniatura di una
darbuka.
«A Bryah? E a me non
regali niente?» mi lamentai.
«A te questo!»
disse soddisfatto, sollevando un mini triangolo. «Sei
fastidioso proprio come questo grazioso strumento.»
«Che pezzente...»
Avvistai un altro espositore
che presentava i modellini da collezione di altri strumenti vari e mi
avvicinai; fui felicissimo di trovare un sacco di piccole chitarre e
lo guardai con attenzione. Ne afferrai una che assomigliava molto
alla mia Gibson e sorrisi.
Dopo dieci minuti in cui il
proprietario del negozio ci rincorse per il locale intimandoci di
fare in fretta, uscimmo nuovamente alla luce dell'imbrunire. John
aveva comprato praticamente di tutto, mentre io stringevo in mano un
sacchetto contenente solo un oggetto.
Mi accostai a Leah e mi
piazzai proprio di fronte a lei, in mezzo al marciapiede.
«Cosa stai facendo?»
mi chiese con espressione confusa.
Estrassi dal sacchetto un
portachiavi a forma di chitarra e glielo sventolai di fronte agli
occhi. «Questo è il mio regalo per farmi perdonare.
Vengo in pace, oh mia signora! Ti prego di accettare questo umile
oggetto da questo testa di cazzo che ti sta di fronte» declamai
in tono solenne, ostentando un'espressione molto seria.
Lei sgranò gli occhi,
si voltò verso Shavo e i due si scambiarono un'occhiata
interrogativa, poi la ragazza tornò a guardarmi.
«Dai» mormorai
con un sorriso. «Lo prendi o no? Mi fa male il braccio a furia
di tenerlo sospeso di fronte alla tua faccia!» aggiunsi.
Leah cercò in tutti i
modi di rimanere seria, ma notai che tratteneva a stento le risate;
quando non ce la fece più, scoppiò a ridere e rovesciò
la testa all'indietro. Allungò una mano e mi strappò il
portachiavi dalle dita, per poi prendere a esaminarlo con attenzione.
«Ma è
bellissimo» commentò estasiata.
«La mia chitarra è
molto simile a quella» spiegai.
Leah sollevò gli
occhi e incrociò i miei. «Sei veramente terribile, Daron
Malakian.»
«Me lo dicono in
molti» dissi mestamente.
La ragazza mi sorrise e si
protese verso di me per lasciarmi un rapido bacio sulla guancia.
«Grazie, non avresti potuto farmi un regalo più bello.»
Poi si accostò a Shavo e gli mostrò l'oggetto. «Hai
visto che bello?» continuava a ripetere.
«Malakian, e io cosa
le regalo?» mi apostrofò il bassista con un sorrisetto.
«Regalale il tuo
cuore» sghignazzai, per poi scompigliare i capelli di Leah, la
quale mi incenerì con lo sguardo e mi mollò una
gomitata.
Risi. «Pace?»
«Neanche per sogno.
Va' al diavolo» ribatté fingendosi ancora offesa.
«Lo prendo come un sì»
conclusi.
A quel punto Bryah ci
richiamò e tutti insieme riprendemmo a camminare verso il
luogo dove avremmo finalmente cenato.
Stavo morendo di fame, e il
fatto di aver chiarito le cose con Leah non fece che accentuare
quella mia condizione.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 24 *** Who's the Star? ***
ReggaeFamily
Who's
the Star?
[Leah]
«Io
sono il topo, capite? E un topo può cambiare stile in
qualsiasi momento.»
Quella fu la prima frase che
Eek-A-Mouse pronunciò quando si ritrovò di fronte al
microfono.
Io
e i ragazzi eravamo arrivati poco prima che il live cominciasse, dato
che ci eravamo trattenuti all'Health Inna Roots
a chiacchierare. Ero rimasta molto contenta del modo che Daron aveva
scelto per scusarsi con me. Era stato originale e carino, ma
soprattutto avevo compreso la sincerità nei suoi gesti.
Una volta giunti al locale
in cui si sarebbe svolto lo showcase dei due cantanti giamaicani,
eravamo andati a prendere qualcosa da bere e poi ci eravamo
avvicinati al piccolo palco improvvisato; ero stata da subito molto
curiosa di assistere a quel concerto, anche perché conoscevo
gli artisti in questione e non avevo mai avuto occasione di sentirli
cantare dal vivo.
«Ma che dice? Il
topo?» gridò Shavo accanto a me, lanciando un'occhiata
al giamaicano sul palco.
«Eek-A-Mouse
significa Eek è il topo»
gli spiegai con un sorriso.
«Completamente folle!»
commentò il bassista.
Daron
mi affiancò e mi prese sottobraccio, per poi trascinarmi
ancora più vicino al palco. Sapevo che voleva divertirsi e
ballare come sempre, ormai avevo imparato a capire che c'erano dei
momenti in cui il chitarrista non desiderava altro che svuotare
la mente e darsi alla pazza gioia, proprio come la sottoscritta; era
sorprendente quanto ci somigliassimo sotto quel punto di vista.
Fece scattare l'accendino e
si accese la sua solita sigaretta a base di erba, poi ne aspirò
qualche boccata e me la porse. La accettai e ne presi un tiro, poi
gliela restituii e dissi: «Magari dopo ne vorrò ancora».
Daron annuì e
continuò a fumare con calma, poi fummo investiti dalla voce di
Eek-A-Mouse che riprendeva a parlare con estrema flemma, strascicando
le parole e annunciando che presto sarebbe arrivato il suo collega
Barrington Levy; dopodiché prese a idolatrare il dj che
intanto continuava a mandare dei pezzi reggae in vinile. Ogni tanto
accennava una sorta di nenia con la voce, un marchio del suo modo di
cantare.
Era veramente divertente
quell'uomo, doveva avere una personalità interessante ed
eclettica, si trattava certamente di un vero e proprio personaggio.
Inoltre, aveva un aspetto
singolare: era spaventosamente alto, probabilmente più di
Shavo, sfoggiava una buffa barba riccia e un cappello di paglia, il
tutto su un viso dall'aria simpatica che raramente rimaneva privo di
un sorriso, seppur appena accennato.
Poco dopo l'altro artista
che avrebbe diviso il palco con lui lo raggiunse, quasi di corsa, e
gli circondò le spalle con un braccio con fare fraterno e
affettuoso. Barrington Levy doveva avere a occhio e croce una decina
d'anni in più del suo collega, aveva la carnagione leggermente
più scura rispetto a Eek, il viso tondo e il naso grande gli
conferivano un'aria simpatica e serena, accentuata anche dalla
completa assenza di capelli.
Daron sghignazzò e mi
mollò una gomitata. «Non sembra Shavo da vecchio?»
Scoppiai a ridere. «Sei
davvero uno stronzo!»
«Avanti, gli somiglia,
non puoi negarmelo!» insistette il chitarrista.
«Taci!»
I due cantanti presero a
parlottare tra loro al microfono, inscenando una sorta di dialogo
tragicomico che stava scatenando l'ilarità e l'ammirazione di
tutti i presenti.
«Hai visto, Mickey
Mouse, quanta gente c'è qui? E non sono qui per te, pensa!»
lo canzonò Barrington Levy.
«Caspita, hai ragione!
Perché i topi ballano quando il gatto non c'è»
blaterò l'altro con un'alzata di spalle, il tono di voce quasi
piatto e inespressivo. «E voi, pochi topolini presenti, siete
pronti a ballare prima che arrivi il micio?» si rivolse al
pubblico, per poi esibirsi in uno strano verso che doveva simulare un
miagolio. Il tutto, ovviamente, con estrema serietà e con un
atteggiamento quasi svogliato. Questo non faceva che accrescere il
divertimento generale.
Io e Daron ci guardammo e
scoppiammo a ridere.
«Quest'uomo è
un fottuto genio!» strepitò il chitarrista con
entusiasmo, continuando a fumare beatamente.
Anche i due cantanti presero
ad accendere i loro spliff, felici e contenti, poi il selecta mandò
la prima base e il primo a cantare fu Eek-A-Mouse.
I due si alternarono al
microfono per almeno un'ora e mezza, trascinandoci e facendoci
ballare, nonostante spesso mi ritrovassi a pensare che Eek avesse
un'infinita discografia di brani molto simili tra loro e con la quasi
totale assenza di testi di senso compiuto. Era un mito perché
aveva spinto la sua musica e ottenuto rispetto e successo nella scena
reggae, pur non facendo niente di davvero sensato o complicato.
Andai
fuori di testa quando Barrington Levy eseguì Here I
Come, così mi precipitai
da Shavo e lo costrinsi a venire vicino al palco con me e Daron.
Presi a cantare come una
pazza e alla fine i due si unirono a me, mentre ci tenevamo a
braccetto l'un l'altro e sgambettavamo a destra e sinistra.
I'm
broad, I'm broad, I'm broader than Broadway Yes I'm broad, I'm
broad, I'm broader than Broadway
«Questa canzone è
fatta apposta per te, Malakian!» gli fece notare Shavo, mentre
muoveva la testa a tempo e seguendo il ritmo incessante e
meraviglioso del basso, strumento che nel reggae era più che
fondamentale.
«Cazzo, sì! Oh,
questi due sono fantastici!» continuò a idolatrarli il
chitarrista, senza smettere di agitarsi come un ossesso.
John
e Bryah si accostarono a noi per chiederci se volessimo qualcosa da
bere, poi si avviarono al bancone e subito dopo Eek-A-Mouse eseguì
un brano fantastico intitolato Sensee Party,
per cui impazzii nuovamente e lasciai andare i miei amici, prendendo
a muovermi come non mai.
Daron, preso dal tema della
canzone, si accese nuovamente la sua canna e me la passò;
fumai, poi sollevai le braccia al cielo e gridai fino a perdere la
voce, ancheggiando e cantando a squarciagola.
All
day, all night in da party, Ev'ryone smokin' sensemila. Dey me
sight in anada corner, De natty dread 'im jus' a rock wid him
dawta.
«Leah, sei impazzita!»
gridò Daron al mio fianco.
«Come si può
non impazzire per questo?» gli feci notare.
Shavo mi afferrò per
i fianchi e si sistemò dietro di me, muovendosi a tempo e
facendo aderire il suo petto contro la mia schiena; era piacevole
stare così con lui, ma ovviamente quel momento non durò
a lungo perché il richiamo delle vibrazioni dei bassi mi portò
a staccarmi nuovamente da lui e riprendere la mia danza febbrile.
Gli strizzai l'occhio e mi
fermai soltanto per baciarlo brevemente sulle labbra, così
scatenai l'entusiasmo di Daron che prese a fischiare e strillare come
un deficiente, mollando vigorose pacche sulla schiena al suo amico e
scompigliandomi ripetutamente i capelli.
«Imbecille!» lo
accusò Shavo, scacciandolo via da sé; Daron tuttavia
non si allontanò e continuò a importunarlo, finché
il bassista non si stancò e gli mollò uno scappellotto,
facendolo piegare in avanti e schiattare quasi per le risate.
«Che diamine state
combinando?» domandò John, di ritorno dal bar.
Smisi di ballare solo per
sorseggiare un po' del drink che Bryah mi passò, poi ripresi a
estraniarmi e immergermi nel mio mondo fatto di bassi, grida e
vibrazioni profonde come le emozioni che stavo provando in quel
momento.
Doveva essere circa l'una
del mattino quando lo showcase si concluse; il selecta, in ogni caso,
non smise di mandare delle tracce che intrattennero il pubblico
ancora un po'.
«È stato
pazzesco, non trovate?» interrogai i miei amici, muovendomi
leggermente a tempo su un vecchio classico degli Israel Vibration.
«Io ve l'avevo detto»
affermò Bryah con un sorriso enorme a incurvarle le labbra
carnose.
«Già, avevi
ragione, sorella!» esclamò Daron, cercando di far
funzionare l'accendino; questo evidentemente aveva deciso di
abbandonarlo proprio in quell'istante, poiché il chitarrista
prese a imprecare rumorosamente.
«Sei l'uomo che non
deve chiedere mai, Malakian?» lo apostrofò Shavo,
allungandogli il suo Zippo.
«Simpaticone»
borbottò l'altro, strappandogli l'oggetto dalle mani e
accendendosi la sigaretta magica.
«Non ringraziarmi, non
ce n'è bisogno, è un piacere prestarti il mio
accendino» disse il bassista aggrottando la fronte.
«Daron dice che tu
sarai come Barrington Levy, un giorno!» esclamai, decidendo di
aggiungere sale alla ferita.
«Cosa? Come osi!»
«Oddio, è
vero!» esclamò John, poi scoppiò improvvisamente
a ridere e io lo osservai sorpresa.
«L'unica differenza è
che Shavo non è scuro di pelle!» fece notare Bryah.
«Però, in effetti...»
«Shavarsh è una
mozzarellina, non è sceso in spiaggia neanche una volta da
quando lo conosco» commentai divertita.
«Andate tutti a farvi
fottere!» si rivoltò il bassista, incrociando le braccia
al petto.
«La verità fa
male, eh?» sghignazzò Daron.
Shavo stava per ribattere,
quando un chiacchiericcio concitato ci distrasse; mi voltai verso il
palco e notai che diverse persone circondavano i due cantanti e
chiedevano loro di fare qualche foto o di firmare oggetti e parti del
corpo di varie entità.
Ma notai che Eek puntava lo
sguardo nella nostra direzione e mi accigliai.
«Scusate, signore e
signori, ma adesso io e il mio collega Topolino dobbiamo salutare
degli amici. Siete stati molto gentili a venire qui» sentii
gridare da Barrington Levy.
I due salutarono i loro
ammiratori e si diressero a passo spedito verso di noi, senza
smettere di sorridere.
Eek si piazzò di
fronte a Daron e accennò una riverenza, per poi offrirgli il
suo spliff di erba in segno di pace e fratellanza. «Mio caro
amico, ti prego di accettare questo in nome della fratellanza che
unisce noi tutti. Del resto, siamo tutti dei topi e dobbiamo stare in
pace tra noi, contro il sistema offensivo di Babilonia!».
Daron strabuzzò gli
occhi ed ebbi quasi paura che gli uscissero dalle orbite. «Amico,
quanto hai fumato?» esordì il chitarrista.
«Abbastanza, ma tu mi
sembri ancora attaccato alle cose materiali della vita... devi
integrare la pianta santa nella tua esistenza, che cresce sulla tomba
di Re Salomone...»
«Eek, insomma, così
lo spaventi! Fatti un attimo da parte, su! Piacere di conoscervi, il
mio nome è Barrington, spero proprio che la nostra esibizione
sia stata di vostro gradimento!» esclamò l'altro,
porgendo gentilmente la mano a Daron, per poi tenderla anche al resto
del gruppo.
Tutti ci presentammo e
Barrington proseguì: «Il mio caro Eek mi ha confidato
che voi tre siete dei musicisti da lui molto stimati. Mi dispiace, ma
io non penso di conoscere la vostra musica. In ogni caso, sono
onorato».
Il suo collega tossicchiò
e gli picchiettò sulla spalla. «Dici tante di quelle
cazzate, Barry! Ragazzi, voi siete una guida per me, la vostra musica
è fonte di ispirazione, anche se sono più vecchio e ho
cominciato a fare musica da molto tempo! Sapete, avrei sempre voluto
fare qualcosa di rock o metal, ma capite bene che in Giamaica questi
generi non vanno... c'è stato un periodo in cui, discostandomi
troppo dal reggae, ho perso l'approvazione di un sacco di persone che
prima mi apprezzavano. Jah mi perdonerà, ma io non posso fare
a meno di ascoltare il vostro genere e quello di tanti altri gruppi
come voi» blaterò, gesticolando energicamente e
sorridendo sempre più, il che faceva però a cazzotti
con il suo tono costantemente flemmatico. «Ma che maleducato!
Non mi sono presentato: il mio nome è Joseph Ripton Hylton,
Eek per gli amici, quindi anche per voi!»
Gli stringemmo la mano, ma
tutti eravamo piuttosto confusi e spaesati dall'esuberanza di quei
due; era come se, nonostante avessero sicuramente passato i
cinquant'anni, avessero molte più energie di noi.
«Dov'è il
vostro talentuoso cantante, miei cari?» volle sapere Eek.
«Serj è rimasto
a Los Angeles con sua moglie. Non è potuto venire»
spiegò Shavo.
«Oh, che peccato!
Ragazzi miei, io e Barry abbiamo un regalo per voi!» disse
all'improvviso Eek, poi si rivolse al collega e aggiunse: «Vai
di là a prendere qualche disco o qualche vinile, così
potranno portarne qualche copia anche a Serj Tankian».
Barrington annuì ed
eseguì un finto saluto militare, poi si allontanò e si
diresse verso la postazione di Burton Selecta.
«Eek, posso farti una
domanda?» mi feci avanti, veramente curiosa. Quell'uomo era
assurdamente stravagante e mi faceva sbellicare dal ridere perché
era un controsenso deambulante: sembrava sfoggiare sempre un
atteggiamento serio, ma ovviamente non ci voleva molto per capire che
era totalmente l'opposto.
«Ma certo signorina,
dimmi tutto!» accettò di buon grado, prendendo la mia
mano tra le sue e guardandomi negli occhi.
«Perché hai
scelto un nome d'arte del genere?» domandai, sempre curiosa e
affascinata dai nomi altrui. Era un mio debole, non potevo farci
niente.
«Oh, è
semplice. Eek era il nome di un cavallo da corsa su cui scommettevo
un tempo; lui perdeva sempre, sai? Così un giorno evitai le
scommesse, e indovina un po' cosa accadde?» mi interrogò
in tono ilare, senza però scomporsi troppo.
«Che cosa?»
«Eek vinse! E così,
non so, mi sono sentito ispirato! Poi, be'... sono il topo perché
i topi possono essere volubili, cambiare stile in ogni istante della
loro vita, possono sorprenderti. Sono interessanti, anche se nessuno
bada a loro» spiegò ancora con fare concitato, annuendo
ripetutamente per dare senso alle sue parole. Per la prima volta si
stava mostrando veramente entusiasta, il che era grave, visto che
stava dicendo delle cose completamente a sproposito e quasi del tutte
privo di logica.
«Oh.» Piegai la
testa di lato e notai che Bryah si era avvicinata a noi e se la
rideva sotto i baffi. «Interessante.»
«Stai pensando che io
sia pazzo» affermò il giamaicano.
Scossi il capo. «Penso
che tu sia un genio» ammisi con sincerità.
La giornalista intervenne e
chiese a Eek se potesse parlare nel Kingston Times della
serata appena trascorsa. Allora il cantante parve illuminarsi e i due
cominciarono a chiacchierare animatamente.
Poco dopo Barrington tornò
da noi e prese a distribuire CD e vinili a tutti, neanche fosse il
rappresentante di un ente di beneficenza.
«Ma noi vogliamo gli
autografi!» esclamò Daron, ammirando i suoi nuovi
tesori.
«Certamente, sarà
un piacere per noi!» accettò Barrington.
John, in tutto ciò,
era rimasto in disparte e si godeva la scena con un mezzo sorriso,
così lo raggiunsi e lo presi sottobraccio. «Tutto bene?»
gli chiesi.
«Certo. Questi due
sono fottutamente folli.»
«Macché,
scherzi?»
«Ehi, foto di gruppo!»
strillò Bryah, battendo le mani per attirare l'attenzione di
tutti.
Daron si esibì in una
smorfia contrariata e borbottò: «La scatto io, va
bene?».
«Direi di no, mio
caro! Voglio una foto ricordo con tutti voi. Già devo
rinunciare a Serj...» Eek lo afferrò gentilmente per un
braccio e lo tirò accanto a sé, per poi scoppiare a
ridere nel notare la faccia del chitarrista che si era
improvvisamente rabbuiata. Era buffo notare che tra i due dovevano
esserci almeno venti centimetri di differenza e che il chitarrista
raggiungeva appena la spalla di Eek con il suo metro e settanta
appena accennato. In effetti, anche io mi sentivo piuttosto bassa in
confronto a quel colosso.
«Non sono fotogenico»
protestò ancora Daron.
«Neanche io! Dai,
ragazzo mio, ci sono dei mali peggiori nella vita, non farne una
tragedia!» sdrammatizzò Eek, per poi strizzargli
l'occhio e fare cenno a un cameriere di passaggio.
Questo si avvicinò.
«Cosa posso portarle, signore?»
«Giovanotto, dovresti
scattare qualche foto a me e Barry insieme a questi tre ragazzoni!»
Il giovane cameriere dai
lunghi dreadlocks neri annuì. «Ma certamente!»
«Potrebbe farlo una di
noi due, no?» osservò Bryah.
«Ma no, dolcezza, voi
due fate la foto con noi!» ci ordinò Barrington tutto
contento, appostandosi alla sinistra di Daron.
Il chitarrista sembrava
veramente un topo in gabbia e io mi domandai perché fosse così
restio a fare una stupida fotografia.
Io e Bryah ci lanciammo
un'occhiata, poi prendemmo Shavo e John sottobraccio e tutti ci
preparammo per sorridere alla fotocamera del cellulare di Eek; per
far sì che Daron smettesse di fare il broncio, i due cantanti
presero a fargli il solletico e lui infine scoppiò a ridere
come un matto.
Le foto uscirono veramente
bene, anche e soprattutto perché tutti noi avevamo delle facce
epiche e impagabili. Eek ci inviò tutti gli scatti con il
bluetooth e poi i cinque musicisti diedero vita a una cosa assurda,
una scena a cui non avrei mai immaginato di assistere: cominciarono a
fare un giro d'autografi, scambiandosi vinili e CD, e alla fine non
si capiva più chi avesse già firmato e chi no. Tutti
ridevamo come matti e continuammo a chiacchierare per un tempo che mi
parve infinito.
«Adesso dobbiamo
proprio andare!» esclamò a un certo puntò
Barrington, mentre Eek si accendeva l'ennesima canna e non smetteva
più di sghignazzare con Daron.
«Peccato»
commentò John, che intanto si era leggermente aperto alla
conversazione e ci stava evidentemente prendendo gusto.
«Magari ci rivediamo
in giro» disse Bryah.
«Non venite in
California?» fece Shavo.
«Possiamo organizzare
qualcosa, perché no?» si eccitò subito Eek con
gli occhi che brillavano.
«Allora rimaniamo in
contatto» propose il bassista.
Ci fu uno scambio di numeri
di cellulare, poi una serie di saluti allegri fatti di abbracci
fraterni, strette di mano e pacche sulle spalle, infine i due
cantanti si allontanarono e poco dopo li vedemmo lasciare il locale,
intercettati da qualche altro fan che chiedeva loro qualche scatto.
«Sono simpatici»
commentò infine John.
«Sul serio, sono fuori
di testa!» convenne Daron.
Rimanemmo a chiacchierare
per un altro po' dopo aver chiamato un taxi, poi tornammo all'esterno
per aspettare l'auto.
«Allora, ragazzi... è
stata una bellissima serata, vi ringrazio molto per essere venuti
qui. E scusatemi ancora per l'inconveniente del museo...» Bryah
pronunciò quelle parole poco prima di lasciarci.
«Torni a piedi? Non
sarà mica pericoloso?» si preoccupò John.
«No, tranquillo. Abito
qua vicino. Ci sentiamo domani per organizzare qualcosa? Dovrebbe
essere libero anche Benton, il mio compagno, così ve lo faccio
conoscere! Che ne pensate?» proseguì la giornalista con
entusiasmo, facendo oscillare i suoi folti capelli ricci e scuri.
Notai che John serrava le
labbra, evitando di commentare e di guardarla in viso.
«Sì, certo»
accettò Daron a nome di tutti noi.
Anche se mi dispiaceva per
il batterista, come avremmo potuto rifiutare la proposta della nostra
amica?
«Allora a domani!»
concluse lei, poi ci salutò con un cenno e si avviò
lungo il marciapiede ancora popolato da diverse persone.
Poco dopo il taxi si fermò
di fronte a noi e ci affrettammo a salire a bordo; Daron insistette
per stare sul sedile anteriore e si allungò su di esso,
sbadigliando rumorosamente. Io mi ritrovai su quello posteriore tra
Shavo e John, e sentii la stanchezza cominciare a invadermi tutto il
corpo.
Shavo prese una delle mie
mani e intrecciò le sue dita alle mie, per poi carezzare con
dolcezza la pelle del dorso. Era bello, rilassante, magico, averlo
accanto e sentirlo tanto vicino attraverso quei piccoli gesti.
Ripensai al nostro risveglio
di quella mattina e sorrisi, ma poi notai che John osservava con
sguardo assorto e malinconico l'oscurità della notte oltre il
finestrino. Mi voltai verso Shavo e lo trovai appisolato con la
fronte contro il vetro, così riportai l'attenzione sul
batterista e gli toccai appena la spalla.
Lui si voltò e i
nostri occhi si incrociarono nella penombra.
«Domani facciamo
colazione insieme?» gli proposi con un sorriso.
Lui annuì. «Certo,
va bene.»
«Allora è
deciso.»
«Sì.»
«John, ascolta...»
«Dimmi.»
«Ti vedo molto giù
di morale» ammisi. «Domani ne parliamo?»
Il batterista stette in
silenzio per un po', riflettendo sulla mia proposta, infine rispose:
«Forse».
«È già
qualcosa» commentai.
Il resto del viaggio
trascorse in silenzio, ma io ero certa di voler provare ad aiutare
John, anche se non insistetti oltre con le mie domande e con la mia
solita sfacciataggine.
Dovevo saper aspettare,
aspettare soltanto che passasse la notte.
Ciao
a tutti, come procede? Vi sta piacendo questa storia? ;) io mi
diverto un sacco a scriverla! *-*
Vi
starete chiedendo perché ho saltato l'aggiornamento di
settimana scorsa, e io sono qui per spiegarvelo. Le ragioni sono due:
Dovevo
pubblicare una OS scritta a quattro mani con Soul, una cosuccia
divertente che, se vi va, potete andare a leggere. Non vi anticipo
nulla, vi dico solo che si chiama “Oh, quasi me ne
dimenticavo!” ;)
Be',
ragazzi... ho assistito proprio giovedì al mio primo live di
Eek-A-Mouse!!!! Quando ho scritto questo capitolo, ancora non sapevo
che sarebbe successo... ma poi l'ho scoperto e ho deciso che sarebbe
stato carino aspettare di vederlo dal vivo per capire se ci avevo
azzeccato o se sarebbe stato necessario aggiungere qualche dettaglio
su di lui! E, be', è stato fantastico, proprio come ha
raccontato la nostra Leah! Eek è proprio così:
flemmatico, sembra non avere neanche voglia di vivere, però i
suoi brani fanno ridere proprio per questo, e io lo adoro proprio
per questo! Sono cose nonsense, testi quasi inesistenti ed
estremamente ripetitivi, ma non per questo noiosi. Dal vivo fa
ballare e cantare, è proprio un personaggio, una specie di
pagliaccio XD
Ma
bando alle ciance: non sono qui per fare la recensione al live di Eek
(anche se ancora non mi sembra vero o.o), bensì per parlarvi
dei pezzi che i nostri eroi si sono divertiti a ballare durante
quest'altra bella serata; il primo è un brano di Barrington
Levy, appunto, ecco a voi il link per l'ascolto a Here I Come:
https://www.youtube.com/watch?v=clCAfLfPWM4
Poi
c'è Sensee Party del nostro folle Eek-A-Mouse, sentite
un po' qui:
https://www.youtube.com/watch?v=kXFV_anPVLw
Immaginatevi
i ragazzi che ballano e fanno i cori da stadio su queste cose,
ahahahah, troppo divertente come scenetta da immaginare, soprattutto
dopo averne vissuto diverse simili al concerto di Eek! Pura magia, ve
l'assicuro! :3
Cosa
ve ne pare di questo incontro tra musicisti famosi? Vi confesso che è
proprio vero: Eek ha collaborato con i P.O.D., quindi è
sinceramente interessato anche al metal e al rock, nonostante possa
sembrare difficile da immaginare! Il pezzo si chiama Ridiculous ed
è presente nell'album Satellite dei P.O.D., appunto; io
vi consiglio di ascoltare questa canzone, è una bellissima
follia:
https://www.youtube.com/watch?v=ajm1Qx9duSQ
Bene,
spero che questa piccola follia continui a piacervi, e ditemi...
secondo voi chi è la vera star della serata? I due cantanti
giamaicani o i ragazzi dei SOAD che sono stati da Eek idolatrati?
Io
non so scegliere, ecco perché ho messo quel titolo al capitolo
:D
Scusate
se stavolta mi sono dilungata fin troppo, ma era necessario (almeno
credo, ahahah)!
Grazie
di cuore a tutti e alla prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 25 *** Here comes the Night ***
ReggaeFamily
Here
comes the Night
[Shavo]
«Andiamo
al Buts?» mi chiese Leah all'improvviso.
Aggrottai
le sopracciglia. «Adesso?»
«Sì,
perché no?»
«Forse
perché sono le due del mattino e domani dobbiamo alzarci
presto per andare in città a visitare quel museo, ricordi?»
le feci notare con le idee sempre più confuse. Quella ragazza
mi avrebbe fatto perdere il senno prima o poi.
«E
allora? Oh, Shavarsh! Immagina quanto sarà romantico: io e te,
noi due soli soletti, sulla spiaggia, due cuori e una coperta...»
blaterò con pungente ironia nella voce, mentre percorreva la
mia spalla con una mano.
«Ma
non era due cuori e una capanna?»
«Se hai voglia di
costruire un riparo per la notte, fai pure. Io mi accontento di una
coperta che ho adocchiato nel mio armadio» borbottò
Leah.
Sospirai. Perché mi
ero preso una sbandata per una ragazza così simile a Daron?
Certe volte aveva delle idee assurde, faticavo già a starle
dietro.
«Allora
ci diamo una mossa?» strepitò ancora lei, strattonandomi
leggermente per un braccio. «O vuoi lasciare che io vada laggiù
tutta sola, in balia degli agenti atmosferici e delle intemperie
della notte?»
«Se qualcuno volesse
aggredirti, desisterebbe subito perché gli riempiresti la
testa di fesserie» ribattei con finto tono irritato.
«Che stronzo!»
Mi guardai attorno: nella
hall, oltre a noi due, c'era soltanto lo stagista che si stava
probabilmente intrattenendo con un videogioco sul computer. Riportai
gli occhi su quelli vispi e luminosi di Leah, poi annuii lentamente e
mi lasciai sfuggire un sospiro rassegnato.
«Oh, ti adoro!»
Leah mi abbracciò di slancio, poi mi lasciò andare e si
precipitò a recuperare la coperta che ci avrebbe tenuto
compagnia al Buts. Non ero certo di come sarebbero andate le cose,
probabilmente saremmo morti assiderati, o forse ci saremo beccati un
malanno. Eppure la faccenda si faceva intrigante: io e Leah da soli
sulla spiaggia, sotto la luna, con il fruscio delle onde e tutto il
resto...
Scossi il capo e cercai di
darmi un contegno. Fortunatamente i miei amici si erano dileguati in
fretta e furia, non appena eravamo rientrati dalla capitale in
seguito al concerto di quei due pazzi: John aveva asserito di essere
molto stanco, mentre Daron aveva borbottato qualcosa a proposito di
una faccenda da risolvere. Il chitarrista era sempre nei casini,
ancor più da quando eravamo giunti in Giamaica.
Sobbalzai
leggermente quando Leah si materializzò nuovamente al mio
fianco; aveva un sorriso
enorme e stringeva tra le mani una grande coperta in lana che doveva
pesare almeno un quintale.
«Se morirò
stanotte, dovrei almeno lasciare un testamento» commentai,
mentre ci avviavamo verso l'uscita laterale situata ai piedi della
palazzina dipinta di bordeaux.
«Quanto sei tragico!
Allora il tuo basso lo lasci a me?» cinguettò la ragazza
in tono allegro.
«Quale dei tanti?»
«Il più bello e
il più costoso.» Mi indirizzò un ghigno. «Così
potrò rivenderlo e farmi un sacco di soldi!»
«Che donna venale!»
la accusai scherzosamente.
Quando giungemmo alla fine
della passerella in legno che conduceva sulla spiaggia, ci guardammo
intorno e Leah indicò verso la scogliera.
«Saliamo nel punto
panoramico dell'altro giorno!» esclamò.
«Cosa? Ci romperemo
l'osso del collo, non si vede niente qui!» protestai.
«Shavarsh, ti hanno
mai detto che sei ipocondriaco?» mi ignorò, avviandosi a
passo spedito verso la parete rocciosa che si stagliava
nell'oscurità.
La seguii in fretta.
«Qualche volta me lo dicono, sì. Ma la mia è solo
prudenza!»
Leah
si arrestò di botto, e per un attimo temetti che avesse scorto
qualcosa tra le ombre; fui costretto
a ricredermi quando si voltò verso di me, mi sorrise con fare
condiscendente e poi si allungò per baciarmi. Rimanemmo
sospesi in quell'attimo per pochi secondi, infine la ragazza staccò
le sue labbra delle mie e mormorò: «Adesso stai zitto,
cammina e basta».
Fui costretto a obbedire,
anche perché Leah prese la mia mano e mi guidò
sapientemente lungo il ripido sentiero che conduceva alla piattaforma
che affacciava direttamente sul Buts.
«Forse riusciremo a
salutare i gatti oggi, mi sa che l'altra volta Daron li ha
spaventati» disse Leah, una volta raggiunta la nostra meta.
«Probabile!»
«Hai visto, Shavarsh?
Non ti sei fatto male, siamo entrambi sani e salvi!» mi prese
in giro all'improvviso, mentre gironzolava per la piccola
piattaforma. Non appena avvistò un punto che le parve
abbastanza comodo per noi due, stese l'enorme coperta e ci si
inginocchiò sopra, lanciandomi un'occhiata per incitarmi a
fare lo stesso.
«Simpaticona. E se
fosse andata diversamente?» la punzecchiai, affrettandomi a
raggiungerla.
«Non rompere. Vieni
qui.» Leah batté sulla coperta accanto a sé, poi
si ricordò di qualcosa e cominciò a richiamare i suoi
amati gatti.
«Ma che nomi sono?»
chiesi perplesso.
«Che
hanno di male i nomi dei miei tesori? Il più vecchio si chiama
Beasty, non ti piace? E Fake non è delizioso?» Leah era
eccitata come non mai per le
stupidaggini che stava dicendo.
Scoppiai a ridere. «Che
stupida che sei! Il mio preferito è Rasta» commentai.
«Rasta si chiama così
perché ha il pelo molto lungo e folto. Per questo gli si
creano dei dreadlocks naturali» spiegò con orgoglio la
ragazza.
Incredulo, notai che un
gatto era finalmente uscito dall'insenatura sulla roccia e mi
scrutava con occhi gialli e indagatori che brillavano nell'ombra.
«Fake, ma ciao!»
saltò su Leah, allungandosi verso il gatto completamente nero
per accarezzarlo. «Shavarsh, gli piaci. Se ti osserva e non
scappa, significa che gli stai simpatico. Avvicinati» mi
incoraggiò Leah.
Mi inginocchiai sulla
coperta e mi accostai a lei, strisciando lentamente per non
spaventare la bellissima creatura che avevo di fronte. Daron sarebbe
impazzito per quel gatto, ne ero certo: adorava quegli animali, ma i
gatti neri erano senza dubbio i suoi preferiti.
Allungai una mano con
cautela e carezzai delicatamente il pelo nero e lucido di Fake,
trovandolo incredibilmente morbido e pulito. «È molto
curato per essere un randagio» osservai con ammirazione.
«Questi cuccioli si
lavano più di te, mio caro!» mi sfotté Leah.
«E tu che ne sai?»
ribattei, lanciandole un'occhiata in tralice.
Leah
scosse la testa e, all'improvviso, mi spinse all'indietro,
facendomi cadere con la schiena sulla coperta. Fake fu spaventato da
quel movimento brusco e si dileguò come un fulmine all'interno
della sua amata cuccia naturale dalle pareti di pietra.
«Ma che fai? Il tuo
micio si è spaventato a causa tua!»
Leah si chinò su di
me per far sì che i nostri occhi si incrociassero. Rimase in
silenzio per un po', scrutandomi nel profondo e con estrema serietà.
«Sai che c'è?
Non m'importa» sussurrò.
Feci per afferrarla per le
spalle e attirarla a me, quando lei si rimise a sedere e frugò
nella sua borsa. Ne estrasse un barattolo di disinfettante e se ne
versò un po' sulle mani, poi me lo passò e ridacchiò.
«I gatti sono
meravigliosi, ma bisogna sempre pulirsi le mani dopo averli toccati»
spiegò in fretta, strofinandosi forte i palmi per pulirli a
fondo.
La imitai e per qualche
secondo ci dedicammo a quell'operazione. Poi Leah ripose il
disinfettante in borsa e la vidi rabbrividire all'improvviso.
«Adesso basta, ho
freddo» dichiarò, stendendosi sulla coperta accanto a
me. Si mise su un fianco e mi si accostò, poi afferrò
un lembo della coperta e la sistemò su di noi. Feci lo stesso
con il lembo opposto e in un attimo ci ritrovammo avvolti nella lana
come se insieme formassimo un unico bozzolo.
«Ora
va meglio?» chiesi, mettendomi a mia volta su
un fianco e abbracciando Leah.
«Decisamente.»
La ragazza si stiracchiò tra le mie braccia e sbadigliò.
«Meno male che hai accettato di venire qui con me.»
«Che avrei potuto
fare? Mi hai praticamente obbligato» scherzai, baciandole
delicatamente la fronte.
«Sei proprio senza
speranze...»
«Colpa tua che mi fai
quest'effetto» la accusai, per poi ridacchiare.
Leah sbuffò e mi
voltò le spalle. «Ora sono offesa.»
La strinsi forte e feci
aderire la sua schiena al mio petto, lasciandole leggeri baci sui
capelli, fino a raggiungere la pelle dietro il suo orecchio sinistro.
Sospirò e si premette
maggiormente contro il mio corpo. «Così però non
vale, Shavarsh» mormorò.
«Ah no?»
Sorrisi. «Il mio nome ha un suono davvero bello se sei tu a
pronunciarlo. Non l'avrei mai detto» ammisi.
Lei rise e si voltò
di nuovo nella mia direzione, posandomi una mano sulla guancia. «E
io non avrei mai creduto che un ragazzaccio come te potesse rivelarsi
così sdolcinato.»
«Ehi!»
Leah
posò le sue labbra sulle mie e pose fine a quel botta e
risposta, baciandomi con dolcezza e trasporto allo stesso tempo,
insistendo subito per approfondire quel contatto; accettai di buon
grado e la presi tra le braccia, facendo combaciare perfettamente i
nostri corpi e sentendo di stare davvero
bene in sua compagnia. L'avevo conosciuta da poco, eppure era come se
fossero trascorsi secoli da quel primo, disastroso incontro.
Quando ci separammo per
riprendere fiato, poggiai la fronte contro la sua e dissi: «Qualcosa
mi fa pensare che tu abbia dormito altre volte quassù. Dico
bene?».
Leah mi regalò un
sorriso che riuscii appena a scorgere nell'oscurità della
notte. «Lo faccio sempre quando sono qui con Alan e le sue
amanti del momento. Mi rilassa.»
Avevo un po' di timore a
porle quella domanda, ma mi imposi di non essere sciocco e domandai:
«Sei sempre stata sola qui?».
La ragazza scoppiò
improvvisamente a ridere e mi mollò un leggero pugno sul
petto. «Sei geloso, eh? Oddio, questa è bella!»
«Non è
divertente» le feci notare, sentendomi leggermente in
imbarazzo.
«Okay, okay! Scusa, è
che hai fatto una faccia...» Leah tornò seria. «No,
sono sempre stata qui con i miei gatti.»
«Allora mi sento
fortunato!» esclamai in tono allegro, in modo da sminuire la
mia domanda di poco prima. Dentro, tuttavia, mi sentivo rincuorato
dal fatto che quel momento apparentemente banale che stavamo
condividendo, fosse in realtà qualcosa di speciale e unico per
entrambi.
«Certo,
devi sentirti privilegiato!» chiarì lei, conferendo alla
sua voce un che di altezzoso che mi
fece scoppiare a ridere.
Poco dopo tornammo in
silenzio. Proprio quando stavo per romperlo, un grido stridulo
proveniente dalla spiaggia sotto di noi ci fece sobbalzare. Rimanemmo
immobili a fissarci, tendendo le orecchie per capire cosa stesse
succedendo.
Riconobbi due voci: una
maschile e una femminile. Discutevano tra loro con fare concitato, e
impiegai davvero poco a comprendere che si trattava di Daron. Il
chitarrista era in compagnia di una ragazza.
Ma cosa ci faceva al Buts in
piena notte?! Probabilmente se il mio amico avesse visto me e Leah in
quel momento, si sarebbe posto la stessa identica domanda e avrebbe
commentato dicendo che avremmo potuto anche starcene belli e
tranquilli in albergo. E forse non avrebbe avuto tutti i torti, ma
non stavo poi così male su quella scogliera, avvolto in una
coperta con Leah tra le braccia.
«Ma questa è la
voce di Lakyta» sibilò la ragazza accanto a me,
aggrottando la fronte con fare contrariato.
«Lakyta?» chiesi
perplesso.
«La cameriera che
lavora su in terrazza» rispose Leah.
«Stiamo a sentire cosa
hanno da dirsi» ghignai, mentre ci scambiavamo un'occhiata
complice colma di malizia.
«... Daron, insomma!
Cosa ti costa?» stava dicendo la cameriera.
Nonostante cercassi di
concentrarmi, mi fu impossibile capire cosa stesse dicendo il
chitarrista: tendeva a mangiarsi la maggior parte delle parole e
parlava a voce troppo bassa per essere udita chiaramente.
«È solo sesso!»
strillò ancora Lakyta. «Chissà quante donne ti
sei fottuto, ora vuoi rifiutare proprio me?»
Leah cominciò a
sghignazzare e affondò la faccia nella coperta per evitare di
fare rumore. «Che squallida!» continuava a ripetere.
L'interlocutrice di Daron
gridò: «Allora?! Dai, Daron! Neanche questo ti fa
effetto, eh?».
Chiusi gli occhi come se
temessi di ritrovarmi improvvisamente di fronte la scena
raccapricciante che sicuramente si stava svolgendo sulla spiaggia.
Avvertii Leah che appoggiava la testa contro la mia spalla, e
rimanemmo in silenzio ad ascoltare ancora.
«Mi spoglio e tu
rimani lì a sorridere come un idiota?» si rivoltò
per l'ennesima volta Lakyta, squarciando il silenzio della notte con
la sua voce estremamente stridula e fastidiosa.
Improvvisamente calò
una quiete assoluta e io riaprii gli occhi, leggermente confuso. Se
n'erano forse andati?
Leah ridacchiò.
«Adesso vado a dare un'occhiata» disse con aria
terribilmente maliziosa, per poi sgusciare via dalla coperta e
avviarsi carponi verso il bordo della piccola piattaforma su cui ci
trovavamo.
Stranito, la seguii, morso
dalla curiosità e dal fatto che Leah fosse assolutamente fuori
di testa e facesse tutto ciò che io non avrei mai fatto.
Quando ci affacciammo per
sbirciare, rimanemmo estremamente basiti dalla scena che si presentò
ai nostri occhi: la cameriera, completamente nuda, era inginocchiata
ai piedi di Daron e gli stava facendo un servizietto in cui, ne ero
certo, doveva avere molta esperienza. Il chitarrista sussultava
appena, e a un tratto lo sentì commentare con voce rotta:
«Almeno ti rendi utile e stai zitta».
Trascinai Leah verso la
coperta e, incapaci di trattenerci, scoppiammo a ridere, soffocandoci
quasi con la faccia contro il tessuto ispido. Non ci potevo credere,
Daron ne aveva combinato un'altra delle sue! E non capivo perché
proprio lì, proprio quella notte, sotto i nostri occhi e alla
portata delle nostre orecchie.
Quelle erano scene che
soltanto a me poteva capitare di assistere, ma era come se la
vicinanza di Leah accentuasse lo svolgersi di situazioni piuttosto
surreali e incredibili.
Quando riuscimmo a
riprenderci dal momento divertente che la scena in spiaggia aveva
scatenato, rimanemmo stesi sulla coperta per riprendere fiato.
«Mi fa male la pancia
a furia di ridere, cazzo!» esclamò Leah.
«A chi lo dici! Che
schifo, penso che mi rimarrà impressa per sempre, che trauma!»
concordai ancora con il fiatone.
Poco dopo ci avvolgemmo
nuovamente nella coperta, sfiniti. Chissà quanto tempo era
passato da quando ci eravamo recati lassù...
«Shavarsh?» mi
chiamò Leah con un filo di voce.
«Dimmi.»
«Adesso possiamo
dormire? Ti va?»
«Certo, sono
stanchissimo» accettai di buon grado.
«Però imposto
la sveglia del cellulare, altrimenti potremmo rischiare di non
alzarci domani mattina. Inoltre, potremmo prenderci un'insolazione,
dato che siamo ai Caraibi e il sole...»
Le feci il solletico sul
collo. «Chi è l'ipocondriaco ora?» la interruppi
con un sorriso.
«Smettila!» Leah
impostò la sveglia e buttò nuovamente il suo telefono
in borsa, poi si accoccolò al mio fianco e chiuse gli occhi.
Mi chinai su di lei e la
baciai lentamente sulle palpebre, per poi cercare le sue labbra per
un ultimo bacio prima di dormire. «Sogni d'oro, Leah»
dissi infine.
Lei allungò una mano
e tracciò con le dita, senza aprire gli occhi, il profilo
della mia mascella. «Sogni d'oro, ragazzaccio» biascicò.
Poco dopo si addormentò,
mentre io dovetti attendere ancora un po' prima di seguirla nel mondo
dei sogni. Mi chiesi se Daron e Lakyta se ne fossero andati, cosa
avesse spinto il chitarrista ad avere a che fare con quella ragazza,
cosa sapesse lei sul conto del mio amico...
Prima
di scivolare nel sonno, un ricordo mi colpì. Immagini
nitide del mattino precedente, quando io e Leah ci eravamo
risvegliati insieme per la prima volta.
«Shavarsh,
svegliati! Stai per cadere dal letto!» aveva strillato Leah.
Mi
ero riscosso in fretta e avevo aperto gli occhi, ritrovandomi con il
viso a pochi centimetri dal pavimento. «Cazzo» avevo
imprecato, cercando di farmi spazio sul materasso.
Leah
mi teneva stretto, ma sicuramente dovevo essere troppo pesante perché
lei riuscisse a sorreggermi.
«Sei
troppo buffo!» aveva sghignazzato, per poi farmi il solletico
sotto le ascelle.
Nel
tentativo di ribellarmi, avevo preso a oscillare pericolosamente sul
bordo del materasso. All'improvviso mi ero ritrovato a rotolare giù,
per poi finire carponi sul tappeto.
Leah
era scoppiata a ridere e non riusciva più a smettere.
«Bellissima, avrei dovuto fare una ripresa! Perché non
ho mai la fotocamera pronta quando serve?» aveva continuato a
prendermi in giro.
«Non
è divertente! Che risveglio del cazzo» avevo borbottato
in tono contrariato, mettendomi faticosamente a sedere.
Leah
si era messa nuovamente su un fianco, facendo incrociare così
i nostri sguardi. «Buongiorno, Shavarsh!»
«Buongiorno
un cazzo, Leah Moonshift! Adesso me la paghi!»
Così
avevo dato il via a un assalto fatto di solletico, cuscinate e baci
rubati.
Era
stato un risveglio meravigliosamente di merda.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 26 *** Friendship is the Cure ***
ReggaeFamily
Friendship
is the Cure
[John]
Guardai
l'orologio: erano le nove e undici minuti. Sollevai lo sguardo in
direzione dell'ascensore e proprio in quel momento Leah sgusciò
fuori dalle doppie porte scorrevoli, indirizzandomi un sorriso
luminoso.
Sorrisi
a mia volta nel notare il suo aspetto: aveva i capelli leggermente
arruffati, era vestita come la sera precedente e i suoi abiti erano
spiegazzati; tuttavia, non sembrava essere a disagio per la sua
condizione e mi raggiunse in fretta, salutandomi con entusiasmo.
«Scusa
il ritardo, il fatto è che io e Shavarsh abbiamo dormito al
Buts!» esclamò poi, sedendosi di fronte a me.
Sgranai
leggermente gli occhi. «Oh» mormorai.
«John,
non sentirti imbarazzato, su! Non è successo niente di
scandaloso.» Leah posò i gomiti sul tavolo e intrecciò
le mani sotto il mento. «Il fatto è che io sono abituata
a dormire laggiù almeno per una notte durante le mie vacanze
qui. Stavolta ho proposto al tuo amico di farmi compagnia, tutto qui»
minimizzò, per poi strizzarmi l'occhio.
«Ecco,
ora è tutto più chiaro» commentai, sentendomi
ancora in imbarazzo. L'esuberanza di Leah era spiazzante, certe volte
non riuscivo proprio a replicare a ciò che lei diceva con
tanta naturalezza.
La
ragazza lanciò un'occhiata verso il bancone, poi prese a
ridacchiare.
«Che
succede?» domandai perplesso.
«Vedi
quella ragazza?» sibilò Leah in tono malizioso.
«La
cameriera? È un po' strana. A volte...» Mi interruppi
per schiarirmi leggermente la gola. «A volte attacca bottone e
dice delle cose strane.»
«Vuoi
ridere?» mi domandò ancora la ragazza di fronte a me.
Annuii.
«Stanotte
Lakyta era al Buts. Indovina con chi?» raccontò allora
Leah.
Aggrottai
la fronte. «Non lo so, con chi?»
Fece
spallucce. «Il tuo amico dongiovanni» ammise infine, per
poi riprendere a sghignazzare rumorosamente.
Mi
sporsi leggermente verso di lei. «Con Daron?»
«Già,
si sono divertiti un sacco quei due! O almeno credo» insinuò
ancora, facendo segno alla cameriera di avvicinarsi.
«Cosa
intendi?» chiesi.
«Lakyta
ha fatto divertire il nostro chitarrista, ti lascio immaginare
come... ti dico solo che Daron a un certo punto le ha detto: almeno
ti rendi utile e stai zitta»
blaterò ancora la mia interlocutrice.
Le
toccai la mano per farla tacere, dato che l'oggetto del nostro
discorso era ormai vicinissima a noi. Dal canto mio, ero seriamente
sconvolto: possibile che
Daron non riuscisse a rimanere fuori dai guai neanche per un istante?
Anziché andare a dormire, anche la notte scorsa aveva seminato
casini in giro per l'hotel. Sperai che questo non avesse delle
ripercussioni su nessuno di noi, anche se mi risultava piuttosto
difficile da credere.
«Ciao Lakyta,
buongiorno! Ti vedo un po' sconvolta, stai bene? O devo chiamare
un'ambulanza?» esordì Leah con pungente ironia.
Lanciai un'occhiata alla
cameriera: aveva cercato di coprire le occhiaie con un'abbondante
dose di trucco, ma il caldo che ristagnava sulla terrazza metteva a
rischio l'arduo lavoro che aveva dovuto fare per applicarlo; aveva
un'espressione stanca, provata, e non sembrava molto contenta di
vedere Leah e di dover parlare con lei.
«Non ti riguarda il
mio stato di salute» ribatté infatti in tono irritato,
poi si voltò e mi chiese: «Cosa posso portarti?».
«Un Blue Mountain
e...» Mi interruppi per rifletterci sopra, ma non potei
concludere la frase.
«Portagli un po' di
polenta con latte di cocco» intervenne Leah, indirizzandomi un
ghigno divertito.
«Cosa?» sbottai.
«Devi assaggiare di
tutto, ricordi il nostro patto?» mi apostrofò la
ragazza. «Lakyta, una porzione anche per me» aggiunse
poi, rivolta alla cameriera. «E a me puoi portare anche un buon
tè alle erbe.»
Lakyta la guardò in
cagnesco. «Decidi tu per lui?» sbottò infine.
«A te che importa?
Pensa a fare il tuo lavoro» tagliò corto Leah, smettendo
di badare a lei e tornando a fissarmi. «E quindi ieri sera sono
stata al Buts» ripeté, mentre ancora la cameriera non se
n'era andata.
Notai Lakyta sgranare gli
occhi, per poi dirigersi in tutta fretta verso il chiosco in legno.
«Sei tremenda, Leah»
commentai.
«Ne sono consapevole,
e ne vado anche fiera. Ma non siamo qui per parlare di me, non è
vero?» mi punzecchiò, poggiandomi una mano sul braccio.
Tornai improvvisamente serio
e abbassai leggermente il capo. «Non ti ho assicurato niente»
le feci notare.
«Lo so, e non ti devi
sentire obbligato. Guardami» mi incoraggiò poi.
Incrociai nuovamente il suo
sguardo e rimasi a fissarla per un po', studiando la sua espressione
tremendamente seria. L'ilarità era completamente scomparsa e
ora Leah sembrava completamente diversa, come se non avesse più
alcuna intenzione di dire sciocchezze e provasse un reale interesse
per il mio stato d'animo un po' malinconico.
«John, parlarne ti fa
bene. Forse noi due non ci conosciamo abbastanza, ma mi pare di
capire che tu non ti sia confidato neanche con i tuoi amici. E questo
non è positivo. Tutto ciò che ci teniamo dentro finisce
per indebolirci.»
Mi ritrovai ad annuire senza
neanche accorgermene. «Ma non è facile per me, non ho
quel tipo di carattere» ribattei con calma.
«L'ho capito. Però
ho capito anche che c'è qualcosa che non va con Bryah. Forse
lei ti interessa, ma vedi, lei ha un compagno. Non dovresti perdere
il sorriso per una persona che non può ricambiarti» mi
consigliò la ragazza in tono apprensivo.
«Forse parli così
perché sei stata fortunata» commentai.
Scosse energicamente il
capo. «Ma no! Io non la chiamerei fortuna, ma sintonia.
Compatibilità. Non lo so neanche io, John. Io e Shavarsh
stiamo semplicemente bene insieme.»
«Ma questo non basta
per mettere su una relazione» la contraddissi.
«Ehi, ehi! Una
relazione? Aspetta a chiamarla così!» Leah sorrise
appena. «Tra meno di tre giorni vado via di qui. Non so se lo
rivedrò» ammise in tono triste, distogliendo gli occhi
dai miei.
Mi dispiaceva notare la
malinconia che scaturiva dalla consapevolezza di ciò che
sarebbe potuto succedere di lì a pochi giorni. «Dai,
Leah, non dire così. Tra voi è diverso, ma io e
Bryah...»
«Diverso da cosa?»
Alzò gli occhi al cielo. «Sei troppo romantico!»
Proprio in quel momento
Lakyta tornò con la nostra colazione e la appoggiò sul
tavolino senza degnarci di uno sguardo né di una parola.
Osservai
la mia polenta e storsi le labbra. «Oddio, devo davvero
assaggiarla?»
Leah si chinò sul suo
piatto e annusò, per poi annuire soddisfatta. «Certo. Ha
un profumo delizioso!» esclamò.
Sospirai e afferrai la
forchetta, cominciando a spostare il cibo da una parte all'altra del
piatto, senza decidermi a portarmene un po' alla bocca. «Posso
farcela...» mormorai.
La mia amica scoppiò
a ridere. «Sei un caso perso! Dai, mangia, non morirai per un
po' di polenta giamaicana!»
Alla fine riuscii ad
assaggiare la mia colazione e rimasi sorpreso nel trovarla gradevole
da gustare; c'era un contrasto interessante tra la farina di mais, il
latte di cocco e una punta leggermente salata che rendeva il tutto
molto particolare e piuttosto gustoso.
«Non male!»
affermai.
«Evviva!»
strillò Leah, lanciando un pugno in aria e agitandosi sulla
sedia. «Sono contenta che ti piaccia, lo sapevo!»
«È più
buono di quella torta del primo giorno» spiegai, per poi
continuare a mangiare.
«Anche io lo
preferisco» confermò.
Consumammo il nostro pasto
in silenzio, poi Leah tornò sull'argomento che stavamo
affrontando prima dell'arrivo di Lakyta.
«Comunque, lascia
perdere Bryah, se vuoi un consiglio spassionato. Lei si trova bene
con te, davvero, ma non in quel senso.»
Sospirai. «A volte
invidio Daron. Lui se ne frega e riesce sempre a conquistare le donne
che vuole» borbottai.
«Non invidiarlo, per
carità! Non credere che lui stia bene a livello psicologico.
Sono sicura che sia proprio il contrario. Lo vedo molto strano, cerca
sempre di non dare a vedere le sue emozioni, ma lo fa in quel modo...
quel modo... non so, ha un modo tutto suo di comportarsi, che però
finisce per evidenziare ancor più il suo malessere interiore.
O almeno è quello che ho capito io di lui» osservò
la ragazza, sorseggiando un po' del suo tè.
«Non hai tutti i
torti. Però lui si diverte. Sta bene solo quando è in
mezzo ai casini che lui stesso si crea. E ha un'esistenza
movimentata, molto più della mia» replicai in tono
sconsolato.
«Dai, John»
mormorò Leah, afferrando all'improvviso la mia mano. «Non
mi piace vederti così. Siamo tutti in vacanza, cerchiamo di
divertirci e basta.»
Restammo a fissarci per
alcuni secondi in silenzio, e in quel lasso di tempo compresi che
forse quella ragazza aveva ragione, forse dovevo soltanto lasciare
che le cose accadessero, smettere di pensare negativo e lasciar
perdere le intenzioni serie che avevo con Bryah; ero attratto da lei,
certo, ma non potevo obbligarla a provare la stessa attrazione nei
miei confronti.
Stavo
per ringraziare Leah, quando il mio cellulare prese a squillare
rumorosamente nella tasca dei miei
pantaloni. Lo estrassi e scorsi il nome di Serj nello schermo.
«Ciao, cantante»
esordii.
«Ciao, batterista.
Perché questo tono da funerale?» mi chiese subito il mio
amico, capendo al volo che c'era qualcosa che non andava.
«Ma niente di grave. A
Los Angeles tutto bene?» cambiai argomento, sperando che non
tornasse a interrogarmi sul mio stato d'animo.
«Insomma. Ti chiamavo
per aggiornarti sulla questione della presunta figlia di Daron»
mi spiegò Serj in tono estremamente serio.
«Oh no, che altro è
successo?» mi preoccupai subito.
«La ragazza ieri è
tornata al campo da basket. Speravo quasi di non vederla più,
ma ovviamente mi sbagliavo. Sembra proprio sicura di ciò che
afferma. Ha detto che vuole sapere entro domani quando potrà
incontrare Daron a Los Angeles» raccontò con
rassegnazione il cantante.
«Merda, e adesso?»
sbottai.
Leah mi guardò con
aria interrogativa e io sollevai una mano per farle segno di
aspettare, poi mi appoggiai con la schiena contro la spalliera della
sedia e attesi che Serj proseguisse.
«E adesso dovreste
decidere quando rientrare» disse soltanto.
«Ma perché
dobbiamo dipendere dal volere di una psicopatica qualsiasi? Secondo
me non è vero che lei... insomma, hai capito» mi
inalberai, prendendo a gesticolare.
«Ha detto che
altrimenti metterà di mezzo gli avvocati e quelle stronzate
lì» bofonchiò il mio amico. Sentivo che era
dispiaciuto di non poterci aiutare in qualche altro modo, tuttavia mi
chiedevo come potesse essere così calmo ritrovandosi in una
situazione come quella.
Mi battei una mano sulla
fronte. «Ci mancava solo questa!» esclamai esasperato.
«Cerca di stare
tranquillo. Parla con Shavo e decidete insieme come fare, però
dovete farmi sapere entro stasera. Lei domani tornerà e vuole
delle risposte» spiegò ancora il cantante in tono
pratico.
«E a Daron chi lo
dice?» domandai spazientito.
«Glielo diremo quando
sarete nuovamente in città» affermò con
sicurezza.
«Va bene...»
mormorai.
«Dai, John! Ora non
pensarci troppo, ricordati che sono pur sempre problemi di Daron, non
nostri. Quando lui incontrerà la ragazza, se la sbrigherà
da solo e noi ce ne tireremo fuori» cercò di
rassicurarmi Serj.
«Speriamo. Allora
parlo con Shavo e ti faccio sapere più tardi» tagliai
corto, poi ci salutammo e riattaccai con l'ennesimo sospiro
rassegnato.
«Ho una domanda»
disse subito Leah.
«No, ti prego...»
«Ascolta! Non so cosa
sia successo, ma rispondi a questo: sei ancora invidioso di Daron?»
La fissai per un attimo, poi
sorrisi leggermente. «No, non più.»
«Ecco, vedi? Meglio
essere te che essere lui!» concluse con una scrollata di
spalle.
«Giusto»
confermai.
Prima che Serj mi
telefonasse, mi ero quasi dimenticato che anche a Los Angeles c'erano
dei problemi da risolvere, causati da qualche cazzata che il
chitarrista aveva combinato. Non si riusciva mai a stare tranquilli.
Mi sarebbe piaciuto dare ragione a Serj e fregarmene, ma per il
momento la questione riguardava anche e soprattutto noi, dato che
Daron ancora non sapeva niente.
«John?» mi
richiamò Leah, strappandomi ai miei pensieri.
«Sì»
risposi distrattamente.
«Andiamo a prepararci.
Abbiamo la visita al museo alle undici» mi ricordò,
alzandosi e afferrando la sua borsa.
Annuii e la seguii verso
l'ascensore, senza smettere di rimuginare su tutti i casini che mi
affollavano la mente. Certe volte pensavo troppo, questo non era
certo un bene per me. Avrei voluto essere più spensierato, ma
mi risultava troppo difficile.
Quando io e Leah giungemmo
al nostro piano, notammo che la porta della stanza di Daron era
aperta e ci scambiammo un'occhiata interrogativa.
Il chitarrista stava
cantando a squarciagola e strimpellava la chitarra, mentre un intenso
odore di marijuana impregnava tutto il corridoio.
Leah
si avviò a passo di marcia in quella direzione e si affacciò
nella sua stanza, per poi fischiare in modo
da richiamare la sua attenzione. «Buongiorno! Siamo di
buonumore, Malakian?».
La raggiunsi e gettai
un'occhiata all'interno della camera, notando che era sempre più
incasinata e invivibile. Storsi il naso e alzai gli occhi al cielo.
«Ehilà,
ragazzi!» ci salutò Daron in tono allegro. «Come
butta? Avete fatto colazione?»
«Certo. Tu, piuttosto,
hai intenzione di arrivare in ritardo anche alla visita al museo?»
lo punzecchiai.
«Ma no, però
avevo voglia di cantare e suonare, oggi sono contento!»
strepitò, aggirandosi per la stanza come una trottola con la
chitarra in mano. Poco dopo riprese a cantare:
I
believe in a thing called love,
just
listen to the rhythm of my heart,
there's
a cnance we could make it now,
we'll
be rocking 'till the sun goes down,
I
believe in a thing called love!
Oooh!
Guitar!
«Oddio, smettila! Sei
troppo stridulo!» strillò Leah, tappandosi le orecchie
con le mani.
Io non potei fare a meno di
scoppiare a ridere, liberandomi finalmente di un po' di tensione;
mentre Daron cantava e suonava gli accordi tutti sbagliati, si
muoveva come il cantante dei The Darkness e faceva delle mosse
davvero raccapriccianti, fingendo infine di avere un rapporto
sessuale con la chitarra.
«Cos'è tutto
questo casino?»
Shavo era apparso alle
nostre spalle e aveva gridato quella domanda, per poi fermarsi a
fissare con un'espressione indecifrabile le prodezze del nostro
amico.
Sospirai. «Daron è
già fuori di testa da ora, io ho paura che ci faccia sfigurare
al museo» borbottai.
Il chitarrista ci ignorava e
continuava a ballare per tutta la camera, agitandosi come un ossesso;
allora notai che indossava soltanto un paio di boxer neri e una
maglia color senape, mentre i piedi erano fedelmente infilati nelle
solite infradito rosse che facevano a pugni con tutto il resto.
«Daron, vestiti!»
gli ordinò Shavo, coprendo gli occhi di Leah con le mani.
«Ehi! Ormai è
troppo tardi, Shavarsh, la tua fidanzata ha già
ammirato abbastanza le mie graziose mutandine!» gridò il
chitarrista con una sonora risata.
Il bassista gli si avventò
contro e lo scaraventò sul letto. «Non provare mai più
a chiamarmi in quel modo!»
Daron si rannicchiò
sul materasso e si strinse la chitarra contro il corpo. «Chitarra,
proteggimi, zio Shavo si è arrabbiato e ora mi picchia»
piagnucolò.
«Sei un coglione!»
esclamai, non riuscendo più a trattenermi dal ridere.
Leah mi seguì a ruota
e si accostò a Shavo per trascinarlo via. «Ma lascialo
tranquillo, dai! Ti ricordo che ieri notte abbiamo assistito a
qualcosa di peggio!» esclamò poi con noncuranza. Poi
parve accorgersi di ciò che aveva detto e si bloccò in
mezzo alla stanza, lanciando un'occhiata dispiaciuta al bassista.
«Ops» bofonchiò.
«Raccontatelo anche a
noi! Che avete visto ieri notte?» strepitò Daron,
balzando giù dal letto e piazzandosi di fronte ai due.
«Leah, non sai tenere
la bocca chiusa, eh? Cazzo!» sbottò Shavo.
«Che segreti
nascondete?» insistette ancora il chitarrista, sollevando
ancora la voce.
«Non strillare,
deficiente!» lo zittì Leah, mollandogli un pugno sul
braccio. «E se proprio ci tieni a saperlo, io e Shavarsh
abbiamo visto te e quella sgualdrina di Lakyta giù al Buts!»
Daron indietreggiò di
un passo e inclinò la testa di lato. «Oh.» Prese a
sghignazzare. «Piaciuto lo spettacolo? Non smetteva più
di urlare, così ho dovuto mett...»
«Okay, basta! Non ci
interessa! Voi due» tagliò corto Shavo, indicando poi
Daron e Leah. «Andate a prepararvi, altrimenti faremo tardi.»
«Già, giusto!»
saltò su la ragazza, per poi sgusciare fuori dalla stanza del
chitarrista e avviarsi alla sua.
Io mi rivolsi a Shavo.
«Andiamo ad aspettarli da qualche parte?» proposi,
cercando una scusa per rimanere solo con lui e affrontare la
questione di cui avevo parlato con Serj poco prima.
«Sì. Io devo
fare colazione» affermò il bassista, mentre Daron
frugava tra i suoi vestiti alla ricerca di qualcosa da mettersi.
«Ma ci conviene andare
al bar di sotto se non vuoi incontrare la cameriera che Daron ha
allietato la notte scorsa» suggerii con un mezzo sorriso.
«Spiritoso, Dolmayan,
davvero! Ma vi giuro, se non glielo avessi messo in bocca, non
l'avrebbe smessa di...»
«Cazzo, stai zitto!»
tuonò Shavo, poi mi afferrò per un braccio e mi
trascinò in corridoio, sbattendo la porta per non sentire più
le cazzate del nostro amico.
Tuttavia, una frase giunse
ancora alle nostre orecchie: «Siete invidiosi, ammettetelo!».
Sospirammo e ci affrettammo
a raggiungere l'ascensore.
Eheheheheh,
le cose sembrano complicarsi sempre più, non è vero?
Cari
lettori, spero che questa storia continui a piacervi! :3
Sono
qui per lasciarvi il link della canzone che Daron stava strillando in
maniera stridula (non si può dire che stesse cantando XD)
quando Leah e John sono tornati al terzo piano. Si tratta di I
believe in a thing called love dei The Darkness, un brano davvero
molto energico e allegro, sentite un po' qua:
https://www.youtube.com/watch?v=tKjZuykKY1I
Grazie
a tutti, come sempre, per il supporto: senza di voi non saprei
proprio come fare :3
Alla
prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 27 *** Cheeseburger ***
ReggaeFamily
Cheeseburger
[Daron]
«Adesso
mi lascerai in pace?»
Lakyta
tossicchiò e si accostò alla riva, immergendo la faccia
nell'acqua salata. «Uhm...» bofonchiò.
«Rispondi»
le ordinai in tono piatto.
«Sì»
mormorò, dopo essersi sciacquata la bocca. Si voltò
verso di me, rimanendo però accovacciata in riva. «Anche
se io avrei voluto dell'altro, Daron.»
Sbuffai.
«Non mi va.»
«L'unico
a godere sei stato tu.»
Le
sorrisi indolente. «Non sei contenta di esserti resa utile per
una volta?»
Lakyta
mi fulminò con un'occhiata e replicò: «Stronzo».
Mi
chinai accanto ai suoi vestiti, dal momento che lei era ancora nuda,
e frugai nelle tasche dei suoi jeans.
«Cosa
fai?!» strillò all'improvviso la ragazza, mettendosi di
scatto in piedi.
«Eccolo»
sussurrai tra me e me. «Adesso vediamo un po'...»
«Daron,
molla il mio cellulare!» si infuriò ancora la ragazza,
raggiungendomi a grandi falcate.
Imprecai,
notando che lo smartphone aveva un codice di blocco. Alzai gli occhi
sulla ragazza di fronte a me e non mi soffermai minimamente sulle sue
forme, sulla sua nudità e sul fatto che fosse indubbiamente
attraente. Afferrai i suoi abiti e allungai il cellulare nella sua
direzione. «Adesso sblocca quest'affare, altrimenti questi li
prendo io» dissi in tono deciso, per poi mettermi in piedi e
sventolare i suoi vestiti.
«Come
ti permetti?»
«Tu
hai qualcosa che mi appartiene e te lo sei preso senza permesso. Fa'
come ti dico» ripresi senza scompormi.
Lakyta
sospirò e afferrò il dispositivo per sbloccarlo.
Glielo
strappai immediatamente di mano e cominciai a frugare tre le immagini
e i video presenti in galleria. Trovai ciò che cercavo, senza
badare alle altre foto che erano state salvate. Per evitare di
dimenticare qualcosa, selezionai tutti gli elementi e li eliminai in
blocco, finché la galleria non fu completamente vuota.
Controllai anche nell'archivio per accertarmi che non fosse rimasta
traccia delle foto e dei video che ritraevano le due groupies che
avevo incontrato qualche giorno prima, dopodiché riconsegnai
il cellulare alla sua proprietaria e sorrisi soddisfatto.
«Adesso
si ragiona» affermai.
Lakyta
controllò il suo smmartphone e lanciò un grido. «Ma
sei impazzito?! Hai cancellato tutto! Qui dentro c'erano tutte le
foto con Alwan! Sei veramente un pezzo di...»
«Ah,
lascia stare. Potrai rifarle quelle dannate foto» borbottai,
dandole le spalle.
«Mi
sono pentita di averti fatto quel...»
«Ormai
è troppo tardi, troietta. Spiegalo al tuo Alwan ora, io me ne
vado a dormire.» Voltai leggermente la testa di lato per
lanciarle un'ultima occhiata piena di compassione. «Ti saluto,
dolcezza. Grazie per la piacevole serata.» Detto questo, mi
avviai verso la passerella di legno che conduceva alla palazzina
dipinta in bordeaux.
Dopo aver raccontato ciò
che era capitato la sera prima, mi sentii subito più leggero.
John, Shavo e Leah mi fissavano con occhi e bocca spalancati,
palesemente increduli.
«Sono contento che
Bryah sia al lavoro» borbottò infine il batterista,
scuotendo appena il capo.
Eravamo usciti da poco dal
museo di Bob Marley, ma io non avevo prestato granché
attenzione a ciò che avevamo visitato; per la testa avevo
tutt'altro, e sinceramente avevo voglia di stare all'aria aperta, di
fumare e di mangiare un triplo cheeseburger.
Quando infine ci eravamo
ritrovati di fronte al cancello, dopo la visita guidata attraverso la
vita del re della reggae music, Leah aveva cominciato a insistere per
saperne di più sul mio incontro ravvicinato con Lakyta, così
avevo finito per vuotare il sacco.
«Quella è
davvero una schifosa!» esclamò Leah. «Corre dietro
ad Al da un sacco di tempo, e ora che ha fatto? Oddio che squallore!
Ha fiutato l'odore della sua amata Hollywood, te lo dico io!»
esclamò la ragazza in tono ironico.
«Ah sì?»
feci leggermente perplesso.
«Già, lo sai,
no? Vuole diventare un'attrice hollywoodiana per fare dei film con
Seagal, ti rendi conto? È per questo che ti ha adescato!»
Shavo aggrottò la
fronte. «Dici che l'ha riconosciuto come il chitarrista dei
System?» domandò.
«Può essere. O
magari l'ha scoperto in qualche modo» rifletté Leah.
«Arriverebbe a tanto?»
si intromise John con fare incredulo.
«Lei? Oh sì,
infatti io non la sopporto! Da quando la conosco, desidera di
sbattersi Alwan, ma lui non sembra molto interessato a lei. Per
questo va in cerca di qualcuno che lo faccia ingelosire, o in
alternativa aspetta un talent scout che la porti con sé a
Hollywood» raccontò la nostra amica indignata.
Scoppiai a ridere.
«Incredibile!»
Shavo, intanto, sembrava
assorto in chissà quali pensieri, e notai che aveva avvolto le
spalle di Leah con un braccio; quel gesto mi fece capire più
di quanto lui volesse in realtà comunicare: teneva a quella
ragazza da poco conosciuta e sperava che lei non fosse assolutamente
come la sgualdrina di cui stavamo parlando. Sorrisi tra me e me,
comprendendo che il mio amico si era preso proprio una bella
sbandata. Da un lato ero felice per lui, ma dall'altro temevo che
potesse soffrire per l'imminente partenza della sua nuova fiamma.
Feci scattare l'accendino e
mi accesi la canna che avevo appena finito di preparare, poi feci per
dire qualcosa, ma proprio in quel momento un enorme gruppo di ragazzi
e ragazze, in compagnia di un paio di adulti, uscì dal museo
starnazzando; doveva trattarsi di una scolaresca in gita nella
capitale, poiché solo gli studenti potevano essere in grado di
combinare tutto quel casino.
Alcune ragazzine si
bloccarono all'improvviso a pochi metri da noi e presero a parlottare
tra loro, rivolgendoci occhiate interrogative e perplesse; qualcuna
prese a ridacchiare e una cominciò a squittire come un
topolino in fuga.
«Oh no» sentii
mormorare John.
Quando compresi cosa stava
per succedere, era ormai troppo tardi: alcune studentesse
trascinarono un paio di loro compagni di classe verso me e i miei
amici, continuando a borbottare cose incomprensibili.
«Be'?» esordii,
osservandoli con diffidenza. «Se volete un tiro di erba, avete
sbagliato persona» aggiunsi.
«Oddio!» strillò
una ragazza dalla carnagione scura con i capelli tinti di biondo
platino. «Voi siete tre dei System Of A Down?!»
«Sì, e allora?
Voi chi sareste, di grazia?» domandai spazientito. Avevo una
fame assurda e zero voglia di parlare con fan invasati.
«Io mi chiamo Lyla,
lei è Janine e lei invece è Etana!» strillò
la bionda, che a quanto pare era la più audace della comitiva.
«Invece, lui è il mio ragazzo, Sam, e quello lì
si chiama Adrian. È un vero piacere conoscervi! Possiamo fare
una foto tutti insieme? Ce la può scattare lei?»
proseguì la ragazza, indicando poi Leah.
Quest'ultima si fece avanti
e sorrise ironica. «Ah, ma certo! Tanto io non sono famosa,
eh?» commentò in tono pungente.
La bionda si zittì
per un attimo, così il suo ragazzo si fece avanti: era carino,
aveva i capelli lunghi e ricci ed era vestito di nero, con una maglia
dei Red Hot Chili Peppers a completare l'opera. «Scusateci, sul
serio. Lyla a volte è un po' invadente.»
Evitai di commentare, e fu
Shavo a salvare la situazione. «Nessun problema ragazzi! Il
piacere è tutto nostro. Io sono Shavo! Come state? Siete qui
in gita scolastica?»
Io e Leah ci scambiammo
un'occhiata divertita e prendemmo a sghignazzare.
«Piantatela» ci
rimproverò John in un sussurro.
«Quanto sei gentile!»
commentò un'altra ragazza, stringendo la mano al bassista.
Sembrava essere rimasta folgorata dal fascino e dalla gentilezza del
mio amico, così mi accostai maggiormente a Leah e cominciai a
prenderla in giro.
«Attenta, la ragazzina
potrebbe rubartelo» bisbigliai, dandole di gomito.
«Ma figurati, hai
visto che faccia da schiaffi?» scherzò lei, rivolgendomi
un sorriso divertito.
«Ma è
affascinante, non trovi?»
Leah fece spallucce. «Come
un calcio nelle parti basse, sì.» Poi si accostò
a Shavo e gli posò una mano sul braccio. «Shavarsh,
facciamo questa foto o no?»
I cinque fan rimasero
basiti.
«Shav... cosa?!»
sbottò Lyla confusa.
«Su, bambolina, non
fare così, è soltanto un nome. Chi mi dà un
cellulare? Scattiamo questa fotografia, altrimenti si fa notte e io
comincio ad avere fame» blaterò Leah, aggirandosi tra i
ragazzi con il braccio proteso ad afferrare il primo smartphone
utile.
«Certo, certo»
borbottò il fidanzato della bionda, consegnando il suo Iphone
a Leah.
«Grazie! Su, mettetevi
in posa!» ci esortò la ragazza, utilizzando un tono
divertito e profondamente ironico.
Sbuffai rumorosamente e
guardai John. «Dobbiamo proprio? Non ci pagano neanche!»
brontolai.
«Daron!»
Sobbalzai nell'udire una
voce acuta e squillante penetrarmi il timpano destro, così mi
voltai accigliato e mi ritrovai faccia a faccia con la terza ragazza
che Lyla ci aveva presentato. Mi sorrideva con fare ammiccante e
sbatteva ripetutamente le ciglia impiastricciate di mascara.
«Io sono Etana, vorrei
chiederti un favore» farfugliò in preda all'imbarazzo.
Le rivolsi un mezzo sorriso.
«Se posso...»
«Possiamo fare una
foto solo io e te?» mi chiese in tono incerto. Improvvisamente
aveva abbassato la voce, come se si vergognasse di ciò che
stava dicendo e non volesse farsi sentire dai suoi amici.
Sollevai gli occhi al cielo.
«Ah, capisco.»
Etana indietreggiò
leggermente. «Se ti scoccia, io... scusa, non volevo...»
si scusò mortificata, portandosi una mano alla bocca e
scuotendo appena il capo. I suoi sottili e corti dreadlocks
ondeggiarono. Scorsi l'ombra di un tatuaggio sul suo polso destro e
decisi che, in fondo, quella povera ragazzina mi piaceva. Non
sembrava poi tanto oca come Lyla, anche se sinceramente non mi andava
di fare tutte quelle foto.
«Dai» le
concessi. «Scherzavo. Si può fare» aggiunsi
accondiscendente.
Etana mi guardò
dubbiosa per un po', poi estrasse il suo cellulare e prese ad
armeggiarci, ma venne interrotta da Leah che ci incitava a unirci al
gruppo per la fotografia tutti insieme.
Ci accostammo agli altri ed
Etana posò titubante una mano sulla mia spalla. Era divertente
notare quanto fosse imbarazzata dalla mia presenza, così,
preso da un improvvisa voglia di spassarmela un po', le circondai la
vita con le braccia e la trassi più vicina a me, posando il
mento sulla sua nuca.
La sentii sussultare e
tremare leggermente. Rimase rigida tra le mie braccia durante la
serie di scatti che Leah si adoperò a realizzare e io dovetti
trattenermi per non ridere.
La fotografa si accorse di
ciò che stavo facendo e sospirò appena, incenerendomi
con lo sguardo.
«Gridate tutti
cheeseburger!» strillai all'improvviso, facendo
sobbalzare la ragazza e il resto del gruppo.
«Daron!» sbraitò
John, posizionato proprio accanto a me. Mi mollò uno
scappellotto e proseguì a imprecare per alcuni istanti.
Finalmente la sessione
fotografica terminò e un professore richiamò i cinque
ragazzi, incitandoli a raggiungere il resto del gruppo.
«Dai, la vuoi o no
questa foto con me?» scherzai, passando le dita tra i capelli
intrecciati di Etana.
Lei sgranò gli occhi
pesantemente truccati e annuì appena, senza però
ritrarsi dal mio tocco. Sicuramente stava sognando di essere
l'oggetto dei miei desideri, ma del resto mi stavo comportando
proprio da idiota in quel momento, la stavo trattando in maniera
diversa rispetto al resto dei suoi amici.
La ragazza riprese ad
armeggiare con il suo cellulare e impostò la fotocamera per un
selfie. La attirai accanto a me e, proprio quando stava per premere
sullo schermo per scattare la foto, mi chinai a baciarla sulla
guancia, poi la lasciai immediatamente andare e infilai le mani in
tasca.
«Grazie piccola, è
stato un piacere» mormorai in tono accattivante, poi mi avviai
verso i miei amici che intanto avevano appena salutato gli amici di
Etana e mi guardavano allibiti.
«Che c'è?»
domandai con un'alzata di spalle.
«Sei veramente
terribile!» mi apostrofò Shavo.
Mi voltai a osservare Etana
e la trovai ancora impalata a fissare lo schermo del suo smartphone
con gli occhi leggermente lucidi. Poco dopo Lyla la raggiunse e la
trascinò verso i loro compagni di classe.
Ridacchiai. «Io?
Quella ragazzina voleva fare una foto solo con me, che ci posso
fare?»
«Com'è che non
l'hai mandata al diavolo?»
«Shavo ha ragione. E
poi, com'è che hai detto prima? Nessuno ti paga per queste
cose!» affermò John sghignazzando.
«Simpatici, siete i
migliori amici di sempre» bofonchiai.
«Ma sta' zitto! L'hai
fatta annegare nel suo stesso imbarazzo» mi rimbeccò
Leah, spintonandomi all'improvviso.
«Ehi!» strillai,
per poi afferrarla e cominciare a farle il solletico.
«Lasciami! Che
stupido!» si ribellò ridendo sguaiatamente.
«Daron Malakian,
lasciala subito andare!» tuonò Shavo, venendo in
soccorso a Leah e trascinandola via dalle mie grinfie.
«Oddio Shavarsh!»
esclamò Leah, poi tutti insieme scoppiammo a ridere senza
riuscire a smettere.
«Lascia subito andare
la mia donna!» scimmiottai il bassista, mentre ero piegato su
me stesso dal troppo ridere.
«Non è...
divertente...» farfugliò il mio amico.
«Epica, questa è
stata epica!» esclamò John, che intanto si teneva la
pancia per l'intensa ondata di risa.
«Stiamo dando
spettacolo, ma è stato troppo forte! Ah Shavarsh, ecco perché
ti adoro!» strepitò Leah, gettandosi sul mio amico e
riempiendogli il viso di baci.
«Non vale! Sono
geloso!» finsi di infuriarmi, poi mi affrettai a imitare i
gesti della ragazza, spingendola via e gettandomi a mia volta su
Shavo.
«Malakian, che
schifo!» gridò lui, cercando di spingermi via.
John, intanto, si era
appoggiato alla parete e non riusciva più a riprendermi,
mentre i passanti ci lanciavano occhiate inorridite e scuotevano il
capo indignati.
«Vi prego, basta,
potrei morire!» ci implorò il batterista, mentre Leah mi
tempestava di pugni per rivendicare Shavo.
Infine riuscimmo a calmarci
e rimanemmo per un po' a riprendere fiato, ma ogni tanto qualcuno
riprendeva a sghignazzare.
«Okay, ragazzi, basta
davvero! Sto morendo di fame!» disse Leah, battendo le mani.
«A chi lo dici... ehi,
laggiù c'è un Mc Donald's! Ci andiamo? Ho voglia di
sbranare tre o quattro cheeseburger di fila!» strillai
entusiasta.
«Siamo in Giamaica e
tu vuoi mangiare cibo spazzatura?» mi chiese Leah contrariata.
«Stavolta sono
d'accordo con Daron. Sono stanco di assaggiare pietanze nuove, per
una volta voglio mangiare qualcosa che conosco, per quanto schifoso
possa essere quello pseudo-cibo!» mi spalleggiò John
annuendo vigorosamente.
«Già»
commentò Shavo. «I ragazzi non hanno tutti i torti...»
«E poi John stasera
deve affrontare una situazione difficile, ha bisogno di calorie e
carboidrati!» rincarai, lanciando un'occhiata complice al
batterista.
«Eh?» fece
Shavo.
«Ricordate? Oggi Bryah
ci presenterà il suo compagno» spiegai con semplicità.
«Daron, chiudi quella
cazzo di bocca!» mi ordinò John con rabbia.
«Sei proprio
insensibile, chitarrista.» Leah si accostò a John e lo
prese sottobraccio. «Su, lascialo perdere. Sai che facciamo?
Dopo pranzo ci rifugiamo in quel negozio di strumenti musicali che
abbiamo scovato ieri, ci stai? Così non ci pensi troppo»
lo rassicurò con dolcezza.
A volte ero proprio un
cretino. Mi resi conto che Shavo era proprio fortunato ad aver
trovato una persona come Leah, e anche John era fortunata ad averla
come amica. Dal canto mio, non ero ancora riuscito a creare un
rapporto decente con lei: non facevamo che battibeccare e urlarci
contro, o in alternativa trascorrevamo dei momenti divertenti e folli
insieme. Per il resto, non si era instaurato un rapporto
confidenziale tra noi; la cosa non mi sorprendeva più di
tanto, specialmente perché io ero come ero e faticavo ad
avvicinarmi alle persone che non conoscevo abbastanza.
«Andiamo?» La
ragazza mi riportò alla realtà, tirandomi una ciocca di
capelli.
Annuii in silenzio e mi
immersi nei miei pensieri, seguendo svogliatamente i miei amici.
Improvvisamente non avevo più così tanta fame e mi
tornò in mente il motivo principale per cui avevo deciso di
partire per quella vacanza: volevo cercare di non pensare al
matrimonio tra Jessica e Lars, ma soprattutto volevo liberare la
mente e stare un po' tranquillo.
Peccato che, da quando mi
trovavo in quel luogo, le cose non avevano fatto che peggiorare. Non
ero riuscito a instaurare un buon rapporto con nessuno, mentre John e
Shavo avevano fatto amicizia e il bassista aveva trovato addirittura
una ragazza che gli piaceva e che sembrava ricambiare il suo
interesse.
E io? Io avevo collezionato
avventure spiacevoli, conosciuto donne spregevoli che non erano
neanche degne di questo nome, combinato casini e creato un sacco di
problemi ai miei compagni d'avventura.
Una volta giunti al fast
food, smisi di pensare e mi strafogai di cibo di merda, senza però
scambiare neanche una parola con il resto del gruppo.
Ero improvvisamente
diventato di umore nero.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 28 *** We are so close ***
ReggaeFamily
We
are so close
[Leah]
Osservavo
Daron mangiare e mi domandavo cosa gli fosse successo; poco prima di
andare a pranzo era allegro e scherzava con tutti noi, si comportava
in modo spontaneo e non faceva che sorridere. Poi, d'un tratto, si
era incupito e aveva smesso di rivolgerci la parola, limitandosi ad
abbuffarsi con gli occhi fissi sul suo vassoio.
«Daron?»
lo chiamai, allungando una mano attraverso il tavolo per posarla sul
suo braccio.
Notai
che Shavo mi lanciava un'occhiata ammonitrice, così ricambiai
con una interrogativa.
Daron
si scrollò la mia mano di dosso e mi ignorò
deliberatamente, così compresi che forse il bassista voleva
farmi capire che non era proprio il caso di disturbare il chitarrista
in quel momento.
Sospirai.
Cosa gli era preso ora?
«Mi
accompagni a fumare?» mi sussurrò Shavo all'orecchio.
Annuii
e lo seguii all'esterno del Mc Donald's, felice di poter uscire
finalmente all'aria aperta; il puzzo insopportabile di fritto mi
stava facendo impazzire, senza contare che sentivo di avere ancora
più fame di prima, dopo aver preso soltanto una porzione di
pseudo-patatine fritte.
Shavo
si accovacciò su un muretto che delimitava un'aiuola accanto
ai parcheggi e si frugò in tasca, estraendo un pacchetto di
sigarette. Ne prese una e mi lanciò un'occhiata. «Vuoi
stare in piedi a guardarmi?» domandò in tono scherzoso.
«Mi
siedo solo se mi lasci un tiro» ribattei con un sorriso.
«Aggiudicato.
Ora vieni qui» mi esortò, posandomi una mano sul
ginocchio.
Mi
posizionai accanto a lui e mi appoggiai con la testa alla sua spalla,
socchiudendo gli occhi.
«Ehi»
sussurrò, avvolgendomi i fianchi con un braccio. «Tutto
bene?»
«Sì.
Ma Daron cos'ha?» chiesi con un pizzico di preoccupazione.
Shavo
aspirò dalla sua sigaretta. «Allora è questo che
ti tormenta» commentò con noncuranza. «Ma non
dovresti preoccuparti troppo, sai? Lui è fatto così, è
volubile, instabile, scostante...»
«Però...»
attaccai.
«Sul
serio, Leah. Devi lasciarlo in pace, prima o poi gli passa»
tentò di rassicurarmi.
«Se
lo dici tu...»
Shavo
tossicchiò, poi mi porse la sigaretta. «Se vuoi puoi
finirla, non mi va più.»
Aggrottai
le sopracciglia e mi voltai a osservarlo. «Sei voluto uscire a
fumare e la tua sigaretta non è neanche a metà. Che
succede?» gli chiesi in tono sospettoso, sfilandogli l'oggetto
dalle dita e portandomelo alle labbra. Ne presi due tiri, poi lo
gettai a terra.
«Non
fumo spesso di questa roba, solo ogni tanto» spiegò,
riponendo il pacchetto di sigarette in tasca. «In realtà
volevo parlarti di una cosa.»
Annuii.
«Dimmi tutto, però non farmi preoccupare» lo
incoraggiai, intrecciando le mie dita alle sue e sostenendo il suo
sguardo. Nei suoi occhi scuri scorsi un velo di tristezza che non mi
piacque particolarmente.
«Il
fatto è che...» Sospirò e abbassò
leggermente il capo. La visiera del cappellino che indossava adombrò
parte del suo viso e io non riuscii più a leggere con
chiarezza la sua espressione. «È successo un casino.»
«Che
cosa?»
«Serj
ha avuto a che fare con una ragazza che dice di essere figlia di
Daron. Noi non sappiamo che fare, ma a lui non abbiamo ancora detto
niente. Il problema è che questa tizia ha detto a Serj che
vuole sapere quando torneremo a Los Angeles perché vuole
incontrare suo padre, così
io e John dobbiamo decidere la data di rientro. Questa tizia dice di
sapere dove siamo, io penso che... ho un sospetto, potrebbe
trattarsi...»
«Di una di quelle due
groupies che vi hanno importunato giorni fa?» lo interruppi
allibita.
Shavo annuì. «Esatto.
O di una di loro, o di qualcuno che è stato mandato da loro
per...» Scosse il capo. «Un casino, Leah, credimi.»
«Cazzo»
imprecai, serrando una mano a pugno. «Quel ragazzo è
davvero problematico.»
«Lo so» ammise
mestamente il bassista.
Gli posai una mano sulla
spalla. «Dai, stai tranquillo. Tu e John che avete deciso?»
«Quando rientriamo in
albergo devo controllare gli orari dei voli.»
Improvvisamente mi resi
conto che io e lui ci saremmo presto separati e una sensazione di
disagio si impossessò del mio petto. Era strano, era come se
qualcosa si stesse pian piano congelando, come se si fosse creato
improvvisamente uno spazio vuoto e freddo all'altezza del cuore.
«Shavarsh»
mormorai, immersa in tristi pensieri.
«Anche tu devi partire
tra pochi giorni» affermò lui in tono ovvio.
«Già.»
Rimanemmo in silenzio, poi
fui presa da un forte moto di ribellione e mi alzai di scatto dal
muretto. «Non dobbiamo pensarci!» affermai. «Vivremo
questi giorni senza riflettere e pensare al futuro, sei d'accordo?»
esplosi con entusiasmo, afferrando Shavo per le mani e costringendolo
ad alzarsi. «Smettiamo di essere tristi, ragazzaccio mio.
Dobbiamo ancora andare in pedalò, ricordi?»
Il suo viso si illuminò
di un improvviso sorriso e mi prese tra le braccia, attirandomi a sé
e tenendomi stretta. Poco dopo prese a dondolare a destra e sinistra,
facendomi venire da ridere.
«Che
fai?» farfugliai, con la faccia affondata tra le pieghe della
sua maglietta dei Motörhead.
«Niente, faccio il
cretino...»
«No,
tu sei un cretino, è
diverso!» lo accusai, stringendomi forte a lui.
«Allora
perché mi stai così vicino?» mi punzecchiò,
arruffandomi i capelli.
«Perché sono
stanca e avevo bisogno di qualcuno che fungesse da bastone della mia
vecchiaia» mentii spudoratamente, facendogli il solletico su un
fianco.
«Ti approfitti di me!»
mi accusò.
Proprio in quel momento
Daron e John ci raggiunsero e il batterista ci sorrise. «Ehi
piccioncini, vi va un gelato?»
Io e Shavo ci voltammo
appena a guardarli, poi sciogliemmo l'abbraccio e mi accostai ai due
ragazzi. «Qualcuno dovrebbe prenderne uno gigante per
rallegrarsi» dissi, rivolgendomi a Daron che ancora se ne stava
imbronciato in un angolo.
«Che vuoi da me?»
bofonchiò il chitarrista, mentre si preparava una sigaretta a
base di erba con movimenti meccanici.
«Voglio un sorriso per
la stampa!» affermai, piazzandomi proprio di fronte a lui e
scuotendolo appena per le spalle.
«Sei una piattola,
ragazzina.»
«E tu non sei da meno!
Dai, Daron, non fare così. So che ti mancherò quando
questa vacanza finirà, però non c'è bisogno di
pensarci proprio ora» blaterai, trotterellandogli intorno.
Shavo e John si scambiavano
occhiate interrogative e perplesse, trattenendosi appena per non
scoppiare a ridere.
«Uff, la smetti?»
sbottò il chitarrista esasperato.
«No, finché non
reagisci non ti lascio in pace!»
Daron si soffermò a
osservarmi con sguardo assorto, poi sospirò e non riuscì
più a evitare che le sue labbra si incurvassero in un sorriso.
«Sei tremenda» commentò.
«Oh, ce l'ho fatta!
Hai vinto un premio per questo sorriso!» gridai, alzando le
braccia al cielo con entusiasmo. «Ti meriti un gelato con tutti
i gusti che vuoi, senza limiti.»
Daron allungò una
mano verso di me. «Affare fatto.»
«Leah, ti sei messa
nei pasticci con questa promessa» mi fece notare Shavo;
sembrava piacevolmente sorpreso dal fatto che fossi riuscita a far
sciogliere la tensione in Daron.
«Non importa, non
voglio che qui ci siano delle persone tristi e depresse! Siamo in
Giamaica, in vacanza, dobbiamo sorridere e fregarcene di tutto il
resto!» esclamai con convinzione.
«Ora smettila di
blaterare e offrimi quel dannato gelato» strepitò Daron,
afferrandomi per un braccio e trascinandomi alla ricerca di una
gelateria.
Quando la trovammo, poco
prima di entrare, Shavo mi trattenne per un istante sulla soglia; si
chinò su di me e mi baciò brevemente sulle labbra, poi
mi sorrise e disse: «Sei stata meravigliosa con Daron. Non so
come tu abbia fatto, ma grazie».
Scossi il capo e gli diedi
una leggera spinta, per poi raggiungere il resto del gruppo
all'interno del negozio.
Trascorremmo gran parte del
pomeriggio all'interno del negozio di strumenti musicali; John prese
a svaligiarlo senza rimedio, comprando piccole percussioni e
miniature di vari strumenti da regalare a questo o quell'amico. I
ragazzi comprarono qualcosa anche per Serj e per sua moglie,
divertendosi a sguazzare in mezzo a tutti i bellissimi oggetti
esposti. Dal canto mio, comprai qualcosa per alcune mie colleghe
dell'università, poi mi trovai di fronte a un dilemma: volevo
fare un regalo a Shavo, ma cosa potevo donargli?
Trovai addirittura qualcosa
per Daron – ovvero una chitarra come quella che lui aveva
regalato a me il giorno precedente –, e un portachiavi a forma
di rullante della batteria per John. Mi pareva scontato cercare una
piccola miniatura di basso per Shavo, così mi aggirai con
nervosismo per il punto vendita, incapace di decidermi. Intercettai
John chino su una serie di djambé di varie dimensioni e mi
accostai a lui per chiedergli un consiglio.
«Cosa regalo a Shavo?»
esordii, dando un piccolo colpo sulla pelle chiara di un tamburo.
John si mise nuovamente in
posizione eretta e mi scrutò pensieroso. «Uhm, bella
domanda.»
«Mi aiuti?»
Il batterista sospirò.
«Volentieri, ma non so neanche io da dove cominciare. Che ne
dici di...» Si guardò intorno alla ricerca di qualcosa
da propormi. «Vediamo...»
«Ehilà,
guardate che ho scovato!» strillò Daron all'improvviso,
comparendo di fronte a noi con qualcosa tra le mani.
«Ma è
perfetto!» esultai, strappandogli un volume rilegato in pelle
dalle mani.
«Ladra, ridammelo!»
si lagnò lui, allungandosi verso di me.
«Anche secondo me è
perfetto» confermò John, esaminando con interesse il
libro rilegato in pelle nera che tenevo in mano. Si trattava di
un'antologia che esaminava l'evoluzione della musica reggae in
Giamaica e la sua diffusione in tutto il mondo, attraverso un esame
accurato su tutti gli artisti che avevano contribuito alla sua
nascita e crescita. Mi piaceva perché non si limitava a
parlare di Bob Marley come unica icona di quel genere musicale, ma si
riferiva a tantissime figure che, in un modo o nell'altro, avevano
contribuito a rendere il reggae ciò che era poi diventato.
«Che te ne fai?»
chiese Daron curioso.
«Lo regalo a Shavo»
mormorai.
Il chitarrista sorrise
malizioso. «Le cose si fanno serie!» commentò.
«Sta' zitto.»
John mi sfilò
delicatamente il libro dalle mani e prese a sfogliarlo lentamente,
facendo attenzione a non rovinarlo. «Ehi, ci sono anche loro!»
esclamò all'improvviso.
Io e Daron ci sporgemmo a
controllare a cosa si riferisse e prendemmo a sghignazzare.
«Eek e Barrington!»
dissi entusiasta.
«Qui dice che
Barrington è più giovane di Eek, non l'avrei mai detto!
Io pensavo...» osservai, leggendo l'anno di nascita dei due
artisti giamaicani che, neanche a farlo apposta, erano stati
sistemati in due pagine affiancate.
John annuì. «Invece
Eek è nato nel 1957, mentre Barrington nel '64.»
«Arriva il bassista»
sibilò Daron; John mi riconsegnò il libro e io mi
affrettai a dirigermi verso la cassa per pagare ciò che avevo
scelto.
Quando
tornammo all'esterno, ci dirigemmo in fretta verso il Fyah,
dove avevamo deciso di incontrarci con Bryah e il suo compagno per
poi andare a cena da qualche parte.
Una volta arrivati a
destinazione, prendemmo a chiacchierare del più e del meno,
finché la giornalista non ci raggiunse con aria stravolta. Era
sola e sembrava stanca e sconvolta da qualcosa.
Nessuno le chiese come mai
fosse sola, senza il suo compagno, ma io immaginai che fosse capitato
qualcosa tra i due. Decidemmo di andare a mangiare qualcosa sulla
spiaggia e Bryah ci promise di portarci in un buon posto.
Mentre ci avviavamo verso il
lungomare, mi accostai alla giornalista e la presi sottobraccio,
rivolgendole un sorriso. «Bryah, tutto bene?» le
domandai.
«Insomma...»
Sospirò appena. «Non sto molto bene oggi, ma non volevo
darvi buca.»
«Se
ti va, puoi parlarne con me» le proposi, sentendomi
un po' triste per il suo stato d'animo. Da quando l'avevo conosciuta,
Bryah era sempre stata allegra e restia a mostrare troppe emozioni
negative; era una di quelle persone che parevano star sempre bene,
come se la negatività non fosse qualcosa da loro conosciuta.
«Ho litigato con il
mio uomo.» Lo disse senza esitazione, con un'alzata di spalle.
«Cose che succedono.»
«Cavoli, mi dispiace»
mormorai.
«Con lui è
sempre così. Abbiamo entrambi un carattere forte. Ci
scontriamo spesso. Forse siamo un po' troppo esuberanti»
raccontò con un mezzo sorriso.
«Vi tenete testa a
vicenda allora.»
«Molte persone mi
dicono che dovrei stare con una persona più tranquilla, capace
di farmi calmare un po'.»
Risi. «Oh Bryah, tu
sei perfetta così.»
«Tu dici? Benton dice
che dovrei darmi una calmata. Mi ha detto che non riesce più a
starmi appresso» spiegò con una leggera punta di
delusione nella voce. «Ma, Leah, chi ti ama dovrebbe accettarti
per come sei.»
«Già, ma chi ti
ama dovrebbe anche trovare un modo per stare con te nonostante tutto.
Quando lui ha deciso di stare con te, sapeva a cosa sarebbe andato
incontro?» le chiesi.
«Certo. Mi sono sempre
mostrata così come mi vedi, sono sempre stata me stessa»
affermò la giornalista.
«Allora è
strano questo Benton!»
Bryah fece spallucce. «Se
mi vuole, sa dove trovarmi. Altrimenti, be', affari suoi.»
Le battei una mano sulla
spalla. «Giusto, sorella!» concordai con una risatina.
Poco prima di giungere al
locale in cui avremmo cenato, raggiunsi John e gli mollai una
gomitata ammiccante. «Ehi, batterista, ho una buona notizia per
te!»
Lui mi lanciò
un'occhiata interrogativa. «Ovvero?»
«Bryah ha litigato con
il suo compagno.» Ridacchiai. «Io te l'ho detto, poi vedi
tu. Non fraintendermi, io non voglio creare problemi, ma mi dispiace
da morire che tu non possa avere un'occasione con la nostra bella
giornalista.»
«Ma Leah, io non penso
che sia il caso di...»
«Riflettici un po':
potresti non rivederla mai più, però lei ti piace. Se
non ci provi, vivrai con il rimpianto e ti domanderai per sempre cosa
sarebbe successo se...»
John sollevò una mano
per arrestare il mio blaterare. «Okay, ci penserò, ma
non ti prometto niente.»
Gli indirizzai un occhiolino
e annuii, poi mi avvicinai a Shavo e gli presi la mano.
«Che combini?»
mi chiese con sospetto.
«Niente»
sghignazzai.
«Leah...»
«Su, Shavarsh, tu non
ce li vedi bene insieme?» insinuai, accennando a John e Bryah
che avevano preso a scambiare qualche parola.
Daron mi sentì e
scoppiò a ridere. «Io sì!»
«Non abbiamo chiesto
il tuo parere» lo rimbeccò Shavo.
«Antipatico, allora io
mi offendo e non ti parlo più!»
«Ragazzi, smettetela,
dai! Comunque, io spero che tra quei due succeda qualcosa. Sono
troppo carini!» cinguettai.
«Concordo.»
«Voi due avete seri
problemi» osservò il bassista esasperato. «Ma la
cosa più grave è che vi assomigliate così
tanto... non è che siete fratello e sorella e non lo sapete?»
Io e Daron ci scambiammo
un'occhiata schifata e scuotemmo energicamente il capo.
«Non dire cazzate,
Odadjian!» esclamò il chitarrista.
«Appunto, io non
vorrei mai un fratello come lui!» mi ribellai.
Tutti e tre scoppiammo a
ridere e seguimmo John e Bryah all'interno di un chiosco.
Stavo davvero bene con quei
ragazzi, mi sentivo a mio agio e mi dispiaceva un sacco che il nostro
tempo insieme stesse per terminare.
Mentre ci avviavamo a
occupare un tavolo, osservai Shavo e il mio cuore si riempì di
un intenso calore, alimentato dal suo sorriso, dai suoi occhi scuri e
profondi e dalle nostre dita ancora intrecciate.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 29 *** I just want to feel good! ***
ReggaeFamily
I
just want to feel good!
[Shavo]
«Sapete
cosa ho voglia di fare?» domandò dopo cena Bryah,
palesemente brilla.
Lanciai
un'occhiata a John, il quale intanto la osservava leggermente
preoccupato.
«Sentiamo!»
la incoraggiò Leah, posandole una mano sulla spalla.
«Quel
cretino di Ben non mi ha chiamato e io...» biascicò la
giornalista. «Vorrei venire allo Skye Sun con voi»
proferì infine, scolandosi il contenuto rimanente del suo
bicchiere di vino.
«Bryah»
la chiamò John. «Tu non eri... astemia?»
«Ah,
già.» La giornalista ridacchiò. «Lo ero.»
«C'è
sempre una prima volta» commentò Daron, il quale
giocherellava con gli avanzi del cibo presenti sul suo piatto.
«Daron,
piantala!» esclamai esasperato, mollandogli un calcio sotto il
tavolo.
Il
chitarrista si irrigidì e imprecò rumorosamente,
spingendo il piatto al centro del tavolo. «Sei un bastardo,
Odadjian.»
«Grazie
tesoro» lo canzonai.
«Ragazzi,
chiamo un taxi e ci facciamo accompagnare in hotel» affermò
John con fare pratico. «Shavo, andiamo un attimo fuori?»
mi propose poi.
Mi
alzai e, dopo aver passato le dita tra i capelli di Leah, seguii il
mio amico all'esterno del chiosco. Ci trovammo con i piedi affondati
sulla sabbia e io, mentre il batterista telefonava, mi preparai con
calma una sigaretta a base di erba.
«Il
taxi sarà qui a momenti» mi informò John mentre
riponeva il cellulare in tasca.
«Okay.
John, ho parlato con Leah» raccontai leggermente imbarazzato.
«Lei
che ne pensa?»
Scrollai
le spalle. «Dice che non dovremmo pensare al dopo, ma goderci
questi giorni insieme e basta.»
«Possiamo
cercare un volo che parta dopo che lei se ne sarà andata. Non
mi sembra il caso di rovinarci troppo la vacanza, non ho voglia di
tornare a Los Angeles prima del tempo solo per colpa di una... non so
neanche come definirla.»
«Certo,
hai ragione» concordai, aspirando una boccata di fumo con fare
assorto.
«Ti
mancherà, eh, bassista?» fece John.
Allungai
la canna verso di lui e lui la afferrò, esaminandola per un
attimo. Mi guardò pensieroso. «Se Bryah non è più
astemia, io posso concedermi un tiro di questa roba. In fondo sono in
Giamaica anch'io» rifletté, portandosi infine l'oggetto
alle labbra. Aspirò brevemente, poi me lo restituì
tossicchiando appena.
«Sei
un rammollito» lo presi in giro.
«Pensa
per te» replicò fintamente irritato. «Dai,
sbrigati a fumare.»
Annuii.
«John, ascolta... dovresti prenderti cura della giornalista
stasera. La vedo messa male» gli consigliai apprensivo.
«Meno
male che viene in hotel con noi. In quelle condizioni non sarebbe in
grado di fare due passi da sola» convenne il batterista con un
sospiro.
«Poveretta
però...»
John
accennò un sorriso. «Sai che Leah mi ha consigliato di
provarci con lei, ora che ha litigato con il suo compagno?»
«La
devo sgridare! Che razza di consigli sono?»
«Eh,
non...»
John
non fece in tempo a concludere la frase, poiché fummo
interrotti dalle grida chiassose dei nostri amici che uscivano dal
locale; Bryah camminava strascicando i piedi a terra, mentre Leah e
Daron la sostenevano, posizionati ai due lati della giornalista.
«Hai
pagato anche a pranzo, Daron!» strillò Leah.
«E
a te che importa? Tu mi hai offerto il gelato millegusti!»
ribatté il chitarrista senza scomporsi.
«La
mia testa... non gridate, oh...» bofonchiò Bryah,
portandosi maldestramente una mano sulla fronte. Così facendo
rischiò seriamente di cadere, ma fortunatamente John accorse
in suo soccorso e la strappò dalle grinfie dei due litiganti.
«Non
c'entra niente, la cosa non è paragonabile!» rincarò
Leah, piazzandosi di fronte al chitarrista con le mani sui fianchi.
«Oh,
che rottura. Quand'è che ti spegni?»
«Senti
chi parla!»
«Ragazzi,
chiudete la bocca o vi butto in mare!» sbottai, mettendomi tra
i due e fulminandoli entrambi con lo sguardo.
Poco
dopo il nostro taxi arrivò. John aiutò Bryah a
sistemarsi sull'ultimo sedile dell'auto a sette posti che ci aveva
raggiunto, poi si accomodò accanto a lei e prese a parlarle
per evitare che pensasse troppo a un probabile attacco di nausea.
Daron
si sistemò accanto all'autista, mentre io e Leah ci
accomodammo sui posti rimanenti.
Durante
il viaggio Bryah rimase abbastanza tranquilla, ma il suo stato
d'animo non era per niente felice; a un certo punto prese a
lamentarsi per ciò che il suo compagno le aveva combinato, per
la sua infelicità, per la sua insoddisfazione e per un sacco
di altre cose.
Quando
arrivammo in albergo, ci riunimmo tutti in camera mia e di John. Il
batterista fece stendere la giornalista sul suo letto e si appollaiò
sul bordo del materasso.
«Direi
che possiamo ospitarla qui» dissi. «Io posso dormire
sulla poltrona.»
Leah
trotterellò accanto a me e mi abbracciò da dietro. «Tu
dormi con me» sussurrò, in modo che soltanto io potessi
udirla.
Daron
intanto armeggiava con una buona dose di erba, preparandosi una bomba
degna di questo nome. Fece scattare l'accendino e se la accese, poi
si accostò alla finestra e la aprì.
«Grazie,
Malakian» borbottò John, sistemando una coperta sul
corpo tremante di Bryah.
Lei
sbadigliò appena e socchiuse gli occhi. «Ehi ragazzi,
scusatemi tanto...» bisbigliò.
John
si chinò su di lei e scosse il capo. «Siamo tuoi amici,
non ti avremmo mai abbandonato al tuo destino» la rassicurò,
sistemandole meglio il cuscino sotto la testa.
«John...»
La giornalista si accoccolò su se stessa e immerse quasi la
faccia nel guanciale. «Qui è pieno del tuo odore.»
Spalancai
la bocca e notai che il mio amico arrossiva appena, portandosi una
mano dietro l'orecchio con imbarazzo. «Uhm, sì?»
«Già»
confermò lei in tono sommesso.
Leah
cercò il mio sguardo. «Che ti avevo detto? Sono troppo
carini insieme!» sibilò con entusiasmo.
«Ehi,
Leah, Shavo!» strillò all'improvviso Daron.
«Che
c'è?» domandai.
«Avete
voglia di fare un giro? Sono solo le undici e mezza, magari in
terrazza c'è qualcosa, un po' di musica...»
Proprio
in quel momento udimmo un vociare in corridoio, così il
chitarrista si affacciò a controllare cosa stesse succedendo,
seguito poi da me e Leah.
Trovammo
Alwan, Lakyta e Dayanara che si dirigevano verso la nostra stanza,
parlando tra loro.
Rimasi
piuttosto sorpreso di vedere quei tre insieme, per giunta non
impegnati nel loro lavoro.
«E
voi che ci fate qui?» esordì Leah, raggiungendoli in
fretta.
«Vi
stavamo cercando!» spiegò Alwan. «Venite in
terrazza?»
«Ci
stavamo giusto pensando» borbottò Daron in tono
annoiato, senza smettere di fumare.
Lakyta
gli lanciò un'occhiataccia e si strinse al braccio di Alwan,
ignorandolo deliberatamente.
«Non
avete da lavorare?» mi informai perplesso.
«Giù
alla reception c'è lo stagista che fa il turno di notte. Alwan
e Lakyta hanno la serata libera. Una volta a settimana sta Cornia al
bar in terrazza» ci informò Dayanara con un sorriso
luminoso.
«Allora
veniamo volentieri! Chi è Cornia?» chiese Leah curiosa,
prendendo la mia mano.
«Un
ragazzino che lavora qui per tappare i buchi, sai com'è»
ammiccò Alwan, senza lasciarsi sfuggire il gesto della ragazza
nei miei confronti.
«Aspettate
qui, chiedo a John e Bryah se vogliono venire, anche se...» li
interruppi, per poi rientrare in camera mia.
«Chi
ci cerca?» si informò subito John.
«Ci
sono Alwan, Lakyta e Dayanara che hanno chiesto se ci va di andare
con loro in terrazza. Voi venite?»
Bryah
si mise faticosamente a sedere e si appoggiò con la schiena
alla spalliera del letto. «Oddio, gira tutto...»
«Perché
non sei rimasta distesa?» si preoccupò subito il
batterista. «Mi sa che noi rimaniamo qui, Shavo» aggiunse
poi.
«Forse
è il caso. Ehi Bryah, non farlo dannare e stai a letto. Hai
proprio una brutta cera, bella mia» commentai, esaminando il
viso stravolto della giornalista.
«Cavoli,
mi dispiace. John, ti sto dando noia, non è vero? Se vuoi
andare in terrazza...»
John
scosse il capo con decisione. «Non se ne parla. Rimango qui con
te.»
«Okay,
ragazzi, allora ci vediamo più tardi» conclusi, per poi
uscire dalla stanza e richiudermi la porta alle spalle.
Dopodiché
mi diressi insieme agli altri verso l'ascensore.
«Piacere,
io sono Cornia! Ah... cazzo, ma tu sei Daron Malakian dei System Of A
Down?!» esordì il giovane cameriere che si era appena
avvicinato al nostro tavolo per prendere le ordinazioni.
«Oh,
merda! Ecco, ora ho capito chi siete!» saltò su Alwan,
battendo una mano sulla spalla di Daron.
Io
e il chitarrista ci scambiammo un'occhiata perplessa, mentre Leah
scoppiava a ridere fragorosamente.
«Beccati»
sghignazzò Dayanara in tono malizioso.
Alwan
si mise in piedi e cominciò a gironzolare intorno al tavolo,
prendendosi la testa tra le mani. «Cazzo, come ho fatto a non
capirlo prima? Oddio...»
«Al,
riprenditi!» lo interruppe Leah, afferrandolo per un gomito e
obbligandolo ad arrestarsi.
«Già,
amico. Grazie a lui hai risolto il mistero» commentai,
accennando al giovane cameriere che intanto si era piantato di fianco
a Daron e parlava in maniera concitata; era elettrizzato e incredulo,
sembrava che stesse avendo a che fare con una divinità scesa
in Terra.
«Merda...»
bofonchiò ancora Alwan, scrutandomi con attenzione.
«Dai,
sono solo una persona» gli dissi, sentendomi leggermente in
imbarazzo.
«Ma
io... io... suono il basso in maniera schifosa, e mi sono pure
esibito di fronte a te... che figura del cazzo, ora andrò a
buttarmi dal parapetto!» blaterò il ragazzo,
divincolandosi dalla presa di Leah.
«Amore,
cosa stai facendo? Io non ho capito niente...» intervenne a
sproposito Lakyta, prendendogli la mano e attirandolo accanto a sé.
«Amore?!»
sbottò Leah divertita. «Ehi, Laky, da quando è
che state insieme?»
«Non
stiamo insieme» chiarì immediatamente Alwan. Poi sorrise
brevemente alla ragazza e le spiegò: «Ho solo scoperto
che ho avuto a che fare con uno dei miei bassisti preferiti senza
rendermene conto. Tutto qui».
Lakyta
rimase sorpresa. «Quindi questi qui sono musicisti famosi?»
chiese confusa.
«Eh
già» dissi io.
«Ehi,
amico, hai visto che c'è anche Shavo? Non dirmi che non l'hai
riconosciuto» sentii dire a Daron in tono esasperato.
«Ah,
wow! Ehi, piacere, io sono Cornia! Ma come cazzo è possibile
che voi due siete finiti in questo postaccio?» mi apostrofò
il cameriere, raggiungendomi in fretta per poi stringermi la mano.
«E
ti dirò di più: anche John, il batterista, è qui
con noi.»
Cornia
strabuzzò gli occhi. «Dove? Dove? Se lo sa mio fratello,
mi spacca il culo! Glielo devo dire assolutamente, vorrà un
autografo di Dolmayan!»
«Vedi
di non spargere troppo la voce, okay?» lo ammonii.
«Certo,
certo!» Il cameriere si voltò verso Lakyta e le lanciò
un'occhiata di fuoco. «Dolcezza, come stai? Cosa posso
portarti?» le domandò, chinandosi per posarle un leggero
bacio sulla fronte.
«Ti
ho già detto che non sei il mio tipo, Cornia! Lasciami in
pace!» strillò lei contrariata.
«Oh,
avanti, non fare la difficile» tagliò corto lui con un
sorriso furbo sulle labbra sottili.
Era
carino, socievole e intraprendente quel ragazzo, sicuramente avrebbe
potuto conquistare facilmente un'infinità di fanciulle, eppure
sembrava interessato alla più riprovevole di tutte.
«Stammi
alla larga» grugnì Lakyta, ignorandolo, mentre
concentrava il suo sguardo sulle proprie unghie laccate di verde.
Cornia
si chinò a sussurrarle qualcosa all'orecchio, poi sghignazzò
tra sé, mentre lei borbottava qualcosa che non riuscii a
comprendere.
Infine
prese le ordinazioni e si avviò allegramente verso il bancone.
«Però,
ragazzi, ci sono un sacco di musicisti tra noi e ancora non abbiamo
suonato tutti insieme!» si lamentò Alwan, lasciandosi
cadere accanto a Daron.
«Già,
te l'avevo promesso, è vero!» esclamò il
chitarrista, giocherellando con l'accendino.
«Ma
ora John non c'è» sottolineai.
«Però
un'occasione come questa potrebbe non ripresentarsi più. Noi
abbiamo sempre da lavorare, che palle!»
«Qui
ci sfruttano» commentò Dayanara, facendo l'occhiolino a
Leah.
«Vero!
Io organizzerei una protesta!» esclamò la ragazza
accanto a me.
«Ma
tu non sai mai stare zitta?» la rimbeccò Lakyta,
improvvisamente interessata alla conversazione.
«Laky,
sta' calma. Che ti ho fatto di male?» ghignò l'altra con
pungente ironia.
«Esisti
e vieni qui a distruggere la mia vita ogni tanto, ecco cosa hai
fatto!» rispose la cameriera, scattando in avanti.
«Andiamo,
tesoro, chiudi quella tua bella boccuccia. Non è il momento di
litigare, non trovi? Siamo tra amici.» Leah si sporse verso di
lei e abbassò la voce. «C'è anche il tuo adorato
Alwan, non vorrai fare una brutta figura con lui, vero?»
«Tu
sei veramente...»
«E
pensa un po'» proseguì Leah, battendo una mano sul mio
ginocchio. «Lui, Daron e John vengono da un posto che a te
piace tanto, indovina?»
«Cosa
stai dicendo?»
«Già,
arrivano proprio da Los Angeles, dove c'è la tua amata
Hollywood» sganciò la bomba Leah, poi tornò ad
appoggiarsi con la schiena alla sedia e si godette la faccia
stralunata e profondamente incredula della sua interlocutrice.
Notai
Lakyta fissarmi interdetta, per poi voltare il capo in direzione di
Daron e fissare intensamente anche lui, mentre con una mano si
tastava il petto all'altezza del cuore, neanche temesse di star per
avere un infarto.
Mollai
una leggera gomitata a Leah. «Sei incredibile» le dissi.
«Sì,
lo so» ridacchiò.
«Dai!
Suoniamo o no?» strepitò ancora Alwan, per poi
rimettersi in piedi. «Corro a prendere il basso, poi c'è
lo djambé là dietro, e... Daron, hai la chitarra, la
vai a prendere?»
«Sicuro!
Corro, capo!» scattò subito il mio amico, dirigendosi di
fretta verso l'ascensore.
Dal
canto mio, mi ritrovai con il tamburo tra le mani senza sapere
neanche perché.
«Shavo,
tanto lo sai suonare!» mi incoraggiò Alwan.
«Insomma...»
«Non
ci credo, tu sai suonare qualunque cosa!»
Fissai
lo djambé con aria perplessa. Volevano davvero farmi fare una
figura di merda? Non ero affatto bravo con gli strumenti a
percussione, anche se qualcuno mi aveva fatto notare che spesso
tendevo a battere sulle corde del mio basso come se tra le mani
stringessi un qualche tamburo.
«Dai,
fregatene, andrà tutto bene. Pensa a divertirti» mi
incoraggiò Leah, facendomi l'occhiolino e preparandosi a
filmare tutto con il suo cellulare.
Noi
musicisti ci sistemammo vicino al chiosco in legno, per somma gioia
di Cornia e, dopo aver posizionato delle sedie, Alwan e Daron mi
lanciarono un'occhiata.
«Non
ditemi che devo iniziare io! Non sono mica John...» mi
lamentai.
«Avanti,
amico, non rompere i coglioni e dacci un ritmo» gridò
Daron, mentre l'altro ragazzo annuiva.
Sospirai
e presi a battere sulla pelle chiara dello strumento; inizialmente mi
parve di star facendo qualcosa di molto sconclusionato, ma poco dopo
mi accorsi che Daron e Alwan si accodarono a me, così compresi
di essere almeno in grado di fare da metronomo per quella bizzarra
esibizione.
Alla
fine, non so come né perché, Daron prese a cantare a
squarciagola una vecchia canzone degli AC/DC e io scoppiai a ridere
per il modo orribile in cui stava eseguendo il brano; rischiai più
volte di perdere il tempo, ma alla fine venne fuori qualcosa di
decente.
Mi
accorsi che Alwan era abbastanza emozionato, ma infine riuscì
a lasciarsi andare e a un certo punto prese a passeggiare di fronte a
noi con il basso a tracolla, lanciando sorrisi a tutti i presenti e
muovendosi appena a un ritmo che solo lui riusciva a percepire
all'interno del suo corpo.
«Bravi!»
strillò Leah, appoggiando il cellulare sul tavolino per poter
applaudire. Anche Lakyta e Cornia si unirono a lei, strillando come
pazzi e incitandoci a continuare.
Mi
dispiacque che John non fosse con noi, sicuramente si sarebbe
divertito e avrebbe preso la palla al balzo per suonare. In cuor mio,
tuttavia, sperai che si stesse intrattenendo piacevolmente con Bryah,
chissà che quel momento da soli non portasse a una svolta nel
loro rapporto.
Proseguimmo
a suonare e cantare per un sacco di tempo, poi rimanemmo ancora un
po' appoggiati al bancone a chiacchierare animatamente. Cornia
continuava a provarci spudoratamente con Lakyta, così io e
Leah cominciammo a pensare che non avrebbe impiegato molto a
conquistarla, nonostante lei si mostrasse sempre molto interessata ad
Alwan e cercasse in tutti i modi di ignorarlo.
Verso
l'una e mezza cominciammo a risentire della stanchezza, così
Leah mi propose di scendere in camera. Salutammo tutti con calore e
ci avviammo all'ascensore, lasciando Daron a fare casino con Alwan e
Dayanara.
«Bella
serata, non me lo sarei mai aspettato» commentai, mentre
l'ascensore si muoveva verso il terzo piano della palazzina dipinta
in bordeaux.
«Sì,
sul serio. Sei stato bravo con quello djambé» si
complimentò Leah compiaciuta, abbracciandomi.
«Ho
fatto schifo, però non importa. Tutti si sono divertiti.»
Leah
si staccò da me e mi guardò con rimprovero. «Ho
fatto il video. Domani lo mostrerò a John e sarà lui a
dire se hai fatto schifo oppure no, visto che io non me ne intendo»
decise.
Le
doppie porte del box si spalancarono e noi trotterellammo nel
corridoio, continuando a battibeccare a bassa voce, finché non
raggiungemmo la stanza della ragazza.
Una
volta all'interno, Leah sbadigliò e si lasciò cadere
sul letto. «Non ho voglia di cambiarmi» biascicò.
«Cambiarti?
E che bisogno c'è?» le chiesi divertito, raggiungendola.
Mi sedetti sul bordo del letto e presi a slacciare la cinghia dei
sandali che indossava, per poi sfilarglieli e farli ricadere ai piedi
del letto. «Così può andare» commentai.
Mi
sentii abbracciare da dietro e il calore del corpo di Leah fece
aumentare immediatamente i miei battiti cardiaci.
«Sei
pronto?» bisbigliò, per poi posare le labbra dietro il
mio orecchio.
Rabbrividii
e non mi mossi. «Per cosa?»
«Per
dormire con me» rispose con voce roca.
«Dormire?»
Leah
ridacchiò e il suo respirò mi carezzo la nuca. «Se
hai qualche altro programma, possiamo parlarne.»
Mi
voltai di scatto verso di lei e la spinsi sul materasso. La sovrastai
e mi chinai a baciarla. «Oppure potremmo soltanto stare zitti»
proposi in tono ammiccante.
Leah
soffocò una risata e mi attirò a sé,
permettendomi di avere tutto il suo corpo premuto contro il mio.
Restammo
a baciarci e accarezzarci per un po', ma poi ci rendemmo conto di
essere troppo stanchi per pensare, per muoverci e per fare qualunque
altra cosa avessimo intenzione di fare.
Con
dolcezza avevamo finito per sfilarci i vestiti a vicenda, e ora
giacevamo abbracciati tra le lenzuola senza compiere nessun gesto
equivoco.
Leah
mi carezzava piano la schiena e io rabbrividivo appena, mentre io
tenevo il suo corpo magro contro il mio e lasciavo che il profumo
della sua pelle mi inebriasse.
Ci
addormentammo senza neanche rendercene conto, intrecciati l'uno
all'altra.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 30 *** Stuck in the Sky ***
ReggaeFamily
Stuck
in the Sky
[John]
Ero
preso da un passaggio clou del libro che stavo leggendo: c'era Harry
Bosch, il detective creato da Michael Connelly, che si stava
dirigendo a Beachwood Canyon per cercare un cadavere; il suo destino
era in mano a un detenuto di nome Raynard Waits che aveva confessato
alla polizia di Los Angeles di sapere dove si trovava il corpo di una
ragazza scomparsa tanti anni prima. Mi sentivo in ansia per
l'operazione che il detective stava per compiere, affiancato e
scortato da un sacco di esponenti delle forze dell'ordine, e questo
succedeva sempre quando leggevo un libro di Connelly; lui era
particolare, riusciva a insinuare sentimenti incredibili in me,
proprio perché non sapevo mai che aspettarmi.
Ero
talmente immerso nella lettura che mi accorsi appena del risveglio di
Bryah, così quando sbadigliò, sobbalzai e rischiai di
cadere dal bordo del letto su cui ancora stavo appollaiato.
«John?»
mi chiamò. «Ti ho spaventato?»
Raccolsi
il segnalibro che era caduto a terra e lo infilai tra le pagine del
volume, sentendomi leggermente a disagio perché non ero
riuscito a concludere la pagina che avevo da poco iniziato.
«Come
stai?» le domandai, sollevando lo sguardo su di lei e notando
che si metteva a sedere con la schiena contro la spalliera del letto.
Diedi un'occhiata al mio orologio da polso e notai che era l'una
passata. «Forse avrei dovuto spegnere la luce, almeno avresti
continuato a dormire...» mormorai.
«Macché.
Che leggi?» volle sapere Bryah, indicando il tascabile che
ancora stringevo tra le mani.
«Echo
Park di Michael Connelly»
risposi, mostrandole la copertina.
«Un poliziesco? Tu?
Non me lo sarei mai aspettato!» commentò sorpresa.
«Io leggo un sacco, e
leggo davvero qualsiasi cosa. Poi queste storie sono ambientate nella
mia città, me la mostrano com'è e come neanche io la
conosco. Sono fenomenali, lui è fenomenale» spiegai in
tono concitato.
«Capisco. Ehi, mi
sorprendi sempre, batterista» osservò Bryah, per poi
scendere con cautela dal letto.
«Dove vai?»
chiesi subito allarmato.
«In bagno. O vuoi che
me la faccia addosso sul tuo letto?» replicò con
noncuranza, camminando poi verso la stanza adiacente, a piedi scalzi.
Mi sentii avvampare un poco
e mi diedi del cretino. Certo, Bryah era esuberante, non si metteva
problemi a dire ciò che pensava o che provava, era come se
fosse una versione di Leah più grande di età, anche se
leggermente meno invadente.
Sorrisi
a quel pensiero, rendendomi conto che in fondo
Leah non era poi così male; lei e Shavo formavano proprio una
coppia carina, e lei era una brava ragazza, una persona di cui
potersi fidare, che era in qualche modo riuscita a penetrare nella
mia timidezza e si era messa a mia disposizione come
amica, finendo per aiutarmi più e più volte, nonostante
io mi mostrassi spesso restio e taciturno. Con me non si era mai
arresa, cercando degli espedienti come quello della colazione insieme
per avere a che fare con me, per portarmi fuori dal mio guscio e
farmi sentire a mio agio.
Era una persona unica e,
nonostante fosse giovane, non sembrava una ragazzina sciocca e
sprovveduta; con il suo modo di fare intraprendente e spudorato,
sapeva sempre come venir fuori dalle situazioni difficili, riusciva
ad affrontare qualsiasi cosa con il sorriso sulle labbra e non
drammatizzava troppo sui suoi guai.
Bryah un po' le somigliava,
ma avevo come l'impressione che fosse più fragile, come se la
sua esistenza si basasse su poche certezze e rischiasse di caderle
addosso da un momento all'altro. E questo instillava in me il bisogno
e la voglia di proteggerla.
A questo pensavo mentre lei
era in bagno, così mi sorprese completamente immerso in
riflessioni che non poteva immaginare; mi posò una mano sulla
spalla e io sollevai lo sguardo per posarlo su di lei.
«Che succede?»
mi chiese leggermente preoccupata. «È quella telefonata
che hai fatto prima ad averti sconvolto tanto?»
Sorrisi appena. «Ecco...»
balbettai.
«Se
non vuoi parlarne, non c'è problema.» Bryah si sedette
accanto a me e si passò le mani tra i folti e ricci capelli
corvini per cercare di sistemarli un
po'. «Ma ti vedo più chiuso del solito, il che è
un brutto segno.»
«Mi dispiace»
riuscii a dire soltanto, incapace di portar fuori le mille
preoccupazioni che mi martellavano nel cervello.
Io e Serj avevamo discusso
per un po'; la partenza infine era stata prenotata per tre giorni
dopo, e questo significava che Shavo si sarebbe presto separato da
Leah e che io non sarei riuscito a concludere niente con Bryah, e
inoltre non l'avrei mai più rivista dopo quella vacanza. Mi
sembrava ingiusto dover abbandonare così presto la Giamaica
per colpa di una ragazzina capricciosa che andava in giro a dire di
essere figlia di Daron, anche perché stentavo a crederci e non
mi sembrava verosimile.
«John.»
Guardai Bryah ed ebbi una
tremenda voglia di abbracciarla e tenerla stretta a me. Stavo
impazzendo, me ne rendevo conto, ma non riuscivo quasi a controllarmi
e sentivo il cuore accelerare i suoi battiti in maniera irregolare.
Dovevo calmarmi, respirare, ragionare in maniera razionale e
ripetermi che lei non sarebbe mai stata mia in nessun caso. Dovevo
farmene una ragione.
«Sei così
triste» commentò Bryah, inclinando leggermente la testa
di lato.
«Tra tre giorni me ne
vado» buttai lì, giusto per tenermi impegnato e non
rimanere incastrato nei miei pensieri.
«Come? Di già?»
Annuii. «Non possiamo
stare qui per sempre, dobbiamo prepararci per un importante concerto»
spiegai, portando fuori una verità parziale.
«Certo, avete da
lavorare. Di che concerto si tratta?»
Le raccontai della data al
Dodger Stadium e Bryah parve incredula, ma si mostrò anche
molto entusiasta.
«Mi piacerebbe venire
da voi a fare un servizio per il giornale dove racconto questo grande
evento! Che dici, si potrebbe fare?» propose eccitata.
Il mio cuore perse un
battito e dovetti far leva su tutto il mio autocontrollo per non
esultare come un idiota. «Penso di sì» dissi con
calma. «Ma pensi che te lo lascerebbero fare? Questo non
avverrà in Giamaica, quindi potrebbe risultare fuori luogo.»
«No invece! Una volta
all'anno vengo incaricata di cercare un evento importante in giro per
il mondo e vengo spedita a fare un reportage; l'anno scorso sono
stata in Spagna, da non crederci!» mi raccontò Bryah
allegra.
«In Spagna?» MI
sporsi leggermente verso di lei, curioso di conoscere un altro
dettaglio della sua vita.
«Già. In
estate, a Benicasim, si tiene un importantissimo festival di musica
reggae, il Rototom Sunsplash. Un sacco di artisti veramente
importanti si esibiscono ogni anno sul palco del Rototom e...»
«Rototom»
riflettei assorto. «Nome interessante. C'è
un particolare tamburo della batteria che si chiama così.»
Bryah scoppiò a
ridere. «Oddio, ma sei senza speranze tu! Pensi solo alla tua
batteria, eh?» mi canzonò.
«Ma no, io non uso
abitualmente quel tipo di tom, è solo che...» presi a
giustificarmi.
«Sì, sì,
tutte scuse, Dolmayan!» tagliò corto Bryah, mollandomi
una leggera gomitata.
«Dai, racconta. Hai
intervistato qualche artista famoso al Rototom Sunsplash?» le
domandai con un sorriso.
«Vediamo... ho avuto
l'onore di intervistare Alpha Blondy e ho rubato due minuti anche a
Max Romeo...»
Strabuzzai gli occhi. «Alpha
Blondy?» chiesi allibito.
«Già, proprio
lui. Lo adoro, sai? È un artista pazzesco, ma soprattutto è
una persona tanto carina...»
Ero senza parole. «Mio
padre me lo ha fatto ascoltare e conoscere, sai? Anche io lo apprezzo
molto in effetti...» le confessai.
«Ma
la cosa più bella è stata assistere a tutti quei
concerti pazzeschi... ho visto Alborosie, Protoje, Morgan Heritage,
Marcia Griffiths, Steel Pulse, Michael
Rose... e tantissimi altri! Tu dirai: “Ma qui in Giamaica
faranno un sacco di concerti del genere”, però ti
assicuro che l'atmosfera del Rototom è qualcosa di magico! Poi
l'Europa è un altro mondo, la Spagna è magica e io ci
riandrei anche ora!»
proseguì Bryah con la nostalgia nello sguardo. «Ah, e ho
visto suonare anche il nostro amico Barrington! Ti giuro che ciò
a cui abbiamo assistito l'altro giorno non è paragonabile alla
bellezza dei live al Rototom Sunsplash!» concluse con gli occhi
che brillavano.
«Da come ne parli, mi
viene voglia di andarci...»
Bryah annuì
vigorosamente. «Dovresti. E sono certa che piacerebbe
tantissimo anche ai tuoi amici.»
Sorrisi. «A Daron di
sicuro.»
«Si fuma un sacco
laggiù» disse con una risatina maliziosa.
«Allora se voglio
convincerlo ad accompagnarmi, glielo dirò» proferii.
«Forse non ti conviene
portartelo appresso» scherzò Bryah.
«Forse hai ragione!»
Lei mi guardò negli
occhi e si fece improvvisamente seria. «Comunque mi piacerebbe
molto venire a scrivere un pezzo sul vostro concerto» ripeté.
«Allora per noi sarà
un piacere averti nella Città degli Angeli» scherzai,
tenendo i miei occhi fissi sui suoi.
«E sappi che io voglio
scrivere il vostro libro.»
Rimasi un attimo sorpreso.
«Quindi sei seria?»
«Ma certo! E tu sei
uno sciocco» mi accusò con un sorriso malizioso.
«Non pensavo che...»
«Tu pensi troppo, mio
caro batterista. Scommetto che ti fai un sacco di film mentali...»
commentò Bryah.
«Io?» Mi puntai
il dito al petto e scossi leggermente il capo.
«John» sospirò
all'improvviso.
«Che c'è?»
le chiesi.
Bryah si sporse
improvvisamente verso di me e mi baciò. Premette con forza le
sue labbra sulle mie e io mi immobilizzai.
Dovetti far leva su tutta la
forza di volontà di cui disponevo per indietreggiare
leggermente sul letto e staccarmi da lei, mentre un'ondata di
desiderio mi invadeva completamente. A causa di quel movimento
azzardato, barcollai per un istante sul bordo del materasso e in un
attimo mi ritrovai per terra.
Bryah mi fissò
perplessa, inclinando il capo verso sinistra, poi scoppiò a
ridere e si lasciò cadere all'indietro, producendo un baccano
assurdo.
Mi sentii tremendamente in
imbarazzo per essere caduto come un idiota, ma la cosa peggiore fu
accorgermi che lei mi aveva appena baciato e io non avevo saputo come
comportarmi. Non aspettavo altro dal primo istante in cui l'avevo
vista, ma in qualche modo stavo pensando al fatto che lei avesse una
relazione; poco importava se adesso lei e il suo compagno avevano
litigato, ero sicuro che si trattasse di un'incomprensione passeggera
e che presto avrebbero chiarito le cose.
«Oh, John! Sei proprio
un caso perso» mi disse per l'ennesima volta, per poi mettersi
su un fianco e lanciarmi un'occhiata interrogativa.
Mi trovavo ancora seduto sul
tappeto e mi limitavo a guardarla senza sapere bene cosa fare, ma lei
non sembrava tanto preoccupata quanto me, anzi, era come se si
sentisse a suo agio.
«Bryah, non credo
che...»
«Perché non
stacchi quel dannato cervello per un attimo, eh?» Bryah mi pose
quella domanda mentre scivolava giù dal letto e mi raggiungeva
sul pavimento; si accostò a me e pose il suo bel viso a pochi
centimetri dal mio. «Non ce la fai proprio?» sussurrò.
Ero seriamente in tilt,
ragion per cui mi ritrovai ad agire ancor prima di rendermene
realmente conto: attirai il corpo formoso e caldo di Bryah contro il
mio e tornai a baciarla come lei aveva fatto con me poco prima, senza
riuscire a frenare le mie mani che percorrevano bramose i suoi
fianchi. Lei si aggrappò a me con forza, facendomi capire che
voleva starmi il più vicino possibile e che non intendeva più
permettermi di ripensarci.
«Adesso si ragiona,
batterista» mormorò, mordicchiandomi il labbro
inferiore. «Sei dannatamente irresistibile, lo sai?»
Non fui capace di replicare,
la afferrai per i fianchi e lei si posizionò più
comoda, a cavalcioni su di me. Ci baciammo con un trasporto
indescrivibile, rendendo quel contatto sempre più profondo e
intimo. Mi sentivo come bloccato in un angolo di paradiso,
improvvisamente non ero più in grado di ragionare o di
prendere decisioni sensate e razionali: esisteva solo Bryah, la sua
pelle bruna, il suo calore, il suo profumo esotico e la
consapevolezza di averla così vicina, di sentirla quasi mia.
Era scattata così,
quella scintilla, era stato inevitabile, e io non avevo potuto
fermarla, non avevo potuto fermarmi e ancora non ci riuscivo.
Ci trovammo sul letto senza
vestiti, avvinghiati e affamati l'uno dell'altra, a rotolarci sul
tappeto senza preoccuparci di niente che non fosse il prenderci cura
del nostro piacere crescente.
Io mi occupai di lei,
tenendola stretta, e lei fece lo stesso con me, con passione e
dolcezza.
Ci trovammo a fare l'amore
come se fosse qualcosa che ci era stato destinato, come se non
potessimo farne a meno e ci sentissimo completi soltanto ora, in
quell'istante, bloccati in alto, nel cielo.
«Ti ho desiderato dal
primo istante» mi disse Bryah, la voce spezzata dal piacere.
Non le risposi, ma aumentai
la stretta su di lei, e lei comprese che anche per me era stato lo
stesso; sperai che non se la prendesse con me per la mia incapacità
di articolare delle parole o delle frasi sensate, ma ero talmente
preso da ciò che mi stava capitando, dal mio cuore impazzito,
dal mio corpo in fiamme...
Era indescrivibile, era
bellissimo, era semplicemente appagante sotto tutti i punti di vista.
Giacemmo abbracciati per un
tempo indefinito, accarezzandoci e impegnandoci a regolarizzare il
nostro respiro.
Solo allora mi resi
veramente conto di quanto era appena capitato e il mio cervello tornò
a mettersi in moto; mi immobilizzai e avvertii chiaramente un'ondata
di sensazioni negative invadermi, conferirmi un gelo improvviso e
straziante. Avevo sbagliato tutto, non avrei mai dovuto concedermi
quel momento con Bryah, no, non mi sarei dovuto lasciare andare così
tanto. Cazzo, ero bruscamente tornato con i piedi per terra dopo aver
trascorso un momento di sospensione, di completo blackout mentale.
«John, per favore,
smettila di rimuginare» disse Bryah all'improvviso, posandomi
una mano sul petto e carezzando piano la mia pelle.
Sospirai appena e socchiusi
gli occhi, senza però replicare.
«Me ne sono accorta
dalla tua espressione e dal modo in cui ti sei improvvisamente
irrigidito. Cosa c'è?» insistette lei, sollevandosi su
un gomito per potermi scrutare meglio.
«Mi dispiace per
questo, non avrei dovuto lasciarmi prendere così...»
dissi mortificato.
«Perché?»
«Hai una relazione.»
«Oh John, sei un così
caro ragazzo. Sai una cosa? A Ben non importerebbe niente. È
stato lui il primo a tradirmi» mi raccontò con una
leggera punta di risentimento nella voce.
La fissai negli occhi, ero
allibito. «Lo hai fatto per ripicca nei suoi confronti? Era
solo questo il punto?» domandai, sentendomi ferito e deluso.
Non riuscivo a credere a ciò che stavo ascoltando.
«Vedi che sei
sciocco?» Bryah sospirò e si lasciò andare con il
capo sul mio petto, avvolgendomi in un abbraccio. «No, questo
non c'entra. Tu mi piaci, te l'ho detto. Mi sono sentita attratta da
te fin da subito, quando qualche giorno fa ti ho incontrato per caso
all'ingresso dell'albergo. È solo che...» Si interruppe
e io le posai una mano sui capelli, infilando le dita tra i suoi
ricci ribelli e morbidi. «Non volevo ammetterlo, non potevo. Ho
pensato a Benton, ho pensato al fatto che l'ho perdonato per avermi
tradito, ma... ho fatto di tutto per far funzionare le cose con lui,
ma la verità è che io di lui non riesco a fidarmi più.
Forse non lo amo più, o forse lo amo, ma questo non c'entra
niente con la fiducia. Sono due cose diverse.»
«Ne sei certa?»
«Sì. Il
problema è che io con te mi trovo bene, è nata una
sintonia pazzesca, non riuscivo a crederci nemmeno io... e poi oggi,
be', oggi non ho saputo resisterti. John, senti, dovrei essere io a
scusarmi con te, non il contrario. Quindi tu devi smettere di pensare
negativo, devi smetterla di sentirti in colpa.» Bryah si
allungò verso di me e mi lasciò un bacio a fior di
labbra. «Non hai sbagliato niente, sei stato fantastico.»
Non ne ero per niente
convinto, ma decisi di non contraddirla; al momento ero troppo stanco
per continuare a pensare a qualsiasi cosa, perciò lasciai
semplicemente che lei si rannicchiasse contro di me e si appisolasse,
mentre io tiravo su le lenzuola e le avvolgevo attorno ai nostri
corpi nudi.
Mentre Bryah dormiva, io
rimasi sveglio, la mente vuota e il cuore che non accennava a
diminuire i suoi battiti. Mi sentivo scosso, spossato, alla deriva.
L'angolo di cielo in cui mi
ero rintanato poco prima, solo un lontano miraggio.
Cari
lettori, come state?
Avete
visto che è successo al nostro John? Chi l'avrebbe mai detto
che avrebbe “concluso” prima di Shavo? XD ahahahahah!
A
parte queste sciocchezze, sono qui per le solite note sul capitolo:
vi confermo che il Rototom Sunsplash esiste e che alla sottoscritta
piacerebbe un CASINO andarci, quindi ho pensato di inserirlo nei
racconti di Bryah, provando a immaginare l'atmosfera che la nostra
giornalista ci ha trovato :3
Poi,
per quanto riguarda il libro che John stava leggendo – e
sappiate che morivo dalla voglia di inserire questa scena per il
nostro batterista, credetemi ♥ –, si tratta di un
romanzo bellissimo di Michael Connelly, che in Italia è stato
pubblicato con il titolo Il cerchio del lupo; ho voluto
inserirlo con il titolo originale perché, boh, mi sembrava più
attinente con la storia ^^ sono scema, sì, ditemelo pure! Vi
dico anche che da questo romanzo, e da altri due, è stata
tratta la prima stagione di Bosch, la serie TV creata e basata
appunto sul detective Bosch :3 vi consiglio di guardarla o di leggere
i suoi libri, sono per la maggior parte ambientati a Los Angeles,
anzi a Hollywood, perciò... *-*
Ultima
cosa, ma non in ordine d'importanza, in questo capitolo ho scelto un
titolo che a sua volta fa parte del titolo della storia (che giro di
parole e di titoli XD), tratto appunto dalla magnifica Peephole
dei nostri adorati ragazzi **
Detto
questo vi saluto e vi ringrazio per tutto ciò che state
facendo per me, per il supporto e per le bellissime recensioni che mi
lasciate!
Alla
prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 31 *** Our mistakes ***
ReggaeFamily
Our
mistakes
[Daron]
Era
un rumore assordante, indistinto, fastidioso, insopportabile. Mi
strappò dal sonno e mi fece imprecare di primo mattino, senza
ritegno.
Allora
capii che si trattava del mio cellulare che squillava
insistentemente. Rotolai sul materasso e lo afferrai, intenzionato a
lanciarlo dall'altra parte della stanza in modo che smettesse di
trapanarmi il cervello. Ma proprio in quel momento lui smise di
squillare e nella mia stanza calò nuovamente il silenzio.
Mi
misi a sedere e mi strofinai gli occhi, per poi aprirli e venir
accecato dal sole. La giornata era decisamente cominciata nel modo
sbagliato.
Osservai
lo schermo del mio cellulare e appresi che avevo ricevuto una
telefonata da parte di Jessica. Perplesso, avvertii il cuore battere
all'impazzata, accelerando in maniera irrefrenabile. Perché la
mia ex mi aveva telefonato? Ero riuscito a non pensare troppo a lei e
al suo imminente matrimonio, ma ora lei era tornata alla carica.
Sbuffando,
lasciai il telefono sul materasso e mi alzai. Non avevo nessuna
voglia di richiamarla o di trascorrere il mio tempo ad attendere che
lei si decidesse a telefonarmi di nuovo; non avevo idea di che ore
fossero, ma mi preoccupai soltanto di uscire da quella claustrofobica
stanza il prima possibile.
Mi
precipitai in corridoio e mi guardai attorno. C'era silenzio, ma nel
tendere l'orecchio mi parve di udire delle risate provenienti dalla
stanza di Leah. Mi venne voglia di andare a romperle un po' le
scatole, giusto per distrarmi, così mi accostai alla porta e
presi a bussare con insistenza.
«Leah?
Sei lì?» cantilenai.
Ci
fu una pausa, poi un grido squarciò l'aria.
«Malakian!
Vattene subito!» strillò Shavo.
Ecco,
forse avevo interrotto qualcosa, ma la cosa mi stava divertendo fin
troppo, così ripresi a pestare sulla porta. «Dai, non
fate i timidi, lasciatemi entrare! Che ne dite di una cosa a tre?»
«Daron
Vartan Malakian!» tuonò ancora il bassista, mentre Leah
scoppiava a ridere rumorosamente.
Rimasi
incollato alla porta e poco dopo cominciai a cantare una canzone a
caso.
You
keep on shouting,
you
keep on shouting,
I
wanna rock and roll all nite
and
party every day!
Qualche secondo dopo, Leah
si materializzò sulla soglia e mi spintonò con forza,
fingendosi arrabbiata; infatti nel suo viso potevo leggere un estremo
divertimento, ma soprattutto notai che si era avvolta in un lenzuolo
e immaginai che fosse senza vestiti. Forse ero arrivato proprio nel
momento sbagliato.
«Sparisci» mi
liquidò la ragazza, incenerendomi con un'occhiata.
«Perché non mi
volete?» mi lamentai.
«Vai a importunare
qualcun altro» concluse, per poi sbattermi la porta in faccia e
lasciarmi in corridoio come un allocco.
«Ve la farò
pagare!» minacciai, per poi voltarmi e dirigermi verso la
stanza di John. Il batterista sarebbe stato sicuramente più
comprensivo e accomodante nei miei confronti.
Proprio in quel momento la
porta si spalancò e io, senza pensarci due volte, mi fiondai
all'interno, spingendo il mio amico dentro la stanza. Poco dopo mi
accorsi che, però, non era stato John ad accogliermi: Bryah,
con addosso solo una maglia di John, mi fissava interdetta con le
mani protese in avanti nell'atto di proteggersi.
A quel punto mi guardai
intorno e notai che il letto del batterista era sfatto, un libro
giaceva sul tappeto accanto a quello di Shavo, rimasto intatto, e
alcuni vestiti erano disseminati sul pavimento.
Inclinai la testa di lato e
tornai a guardare la giornalista. «Ah, merda» borbottai.
«Daron?! Oddio,
vattene!» sibilò Bryah.
«Dov'è John?»
Il batterista comparve
proprio in quel momento sulla soglia del bagno, con indosso soltanto
i boxer. Mi individuò subito e trattenne il fiato, incapace di
reagire. A differenza di Shavo, per lui era più difficile
agire d'istinto e dirmene quattro senza pensarci due volte.
«Daron, fai il
bravo... noi dovremmo, ehm... prepararci per... la colazione...
potresti...?» balbettò John in estremo imbarazzo.
«E non lo cacci fuori
a calci nel culo?»
Udii appena quelle parole, e
subito dopo venni attaccato da dietro; Shavo mi fu addosso e mi
afferrò per la maglia, trascinandomi subito fuori dalla
stanza. Mollò un calcio alla porta e questa si richiuse alle
nostre spalle, sbattendo con forza e producendo un tonfo assordante.
Il bassista era incazzato
nero, questo era ben comprensibile.
«Stammi a sentire»
esordì Shavo, afferrandomi per le spalle e guardandomi in
faccia. «Oggi stai esagerando di buon mattino, questo non mi
piace. Non ho voglia di scherzare.»
«Ehi, Shavarsh,
sei incazzato perché sei andato in bianco e te la prendi con
me?» lo apostrofai senza scompormi troppo.
Il bassista mi sbatté
contro la parete alle mie spalle e io mi sentii percorrere da un
lancinante dolore alla nuca. «Malakian, non sto scherzando.
Oggi non ho voglia di giocare con te, chiaro?»
Era stato chiaro, sapevo
quando Shavo non riusciva a controllarsi quando si svegliava di
malumore o quando lo facevo incazzare troppo. Me lo scrollai di dosso
e mi divincolai dalla sua presa, sgusciando verso la mia stanza.
«Okay, ricevuto. Però
datti una calmata» dissi in tono piatto.
«Io? Vedi di stare
tranquillo tu, Malakian.»
Una volta giunto di fronte
alla porta di camera mia, mi voltai nuovamente verso di lui e rimasi
a fissarlo in silenzio per un po', poi d'un tratto dissi: «Jess
mi ha chiamato».
Shavo sbuffò. «E
allora?»
Feci spallucce. «Non
ho risposto, non ho fatto in tempo.»
«Il tuo problema è
che non sai come gestirti. E quindi riversi tutto sugli altri»
mi accusò il bassista in tono duro.
Proprio in quel momento Leah
fece capolino dalla sua stanza. «Shavarsh? Ti sei incazzato
proprio tanto allora...» osservò.
«Leah, non
intrometterti» gracchiò lui senza neanche guardarla.
Lei ammutolì,
spiazzata. Forse non si aspettava un trattamento così duro da
parte del bassista, ma del resto lo conosceva poco e non lo aveva
ancora visto seriamente in collera.
«Non trattarla così»
mormorai. «Non per colpa mia.»
Quella situazione stava
diventando assurda, ero già sfinito e proprio in quell'istante
sentii nuovamente il mio cellulare che squillava.
«Okay, io vado in
terrazza a fare colazione, chi mi ama mi segua!» finse di
sdrammatizzare Leah, ma notai chiaramente un'espressione leggermente
delusa farsi largo sul suo volto. Si avviò in fretta verso
l'ascensore e, a sua volta, non degnò Shavo di uno sguardo. Se
l'era forse presa? E perché quella mattina tutti ci eravamo
svegliati con la luna storta e con una voglia assurda di litigare? Il
malumore stava formando una sorta di reazione a catena generale.
Sospirai e rientrai in
camera, lasciando la porta aperta. Raggiunsi il cellulare ancora
abbandonato sul letto e risposi, preparandomi all'ennesima lite di
quella mattina.
«Jess» esordii
in tono annoiato.
«Buongiorno Daron, ti
disturbo per caso?» rispose in tono professionale la mia ex.
Sembrava una segretaria che contatta qualcuno per un colloquio di
lavoro.
«Macché»
biascicai. «Perché mi chiami?»
«Volevo scusarmi per
la telefonata che Lars ti ha fatto qualche settimana fa. Non era sua
intenzione...»
«Ah no? Non voleva
invitarmi al vostro matrimonio quindi? Be', meglio così direi.
Non sarei venuto comunque.» Mentre parlavo, notai Shavo che
entrava in camera mia e si fermava a pochi passi dalla soglia.
«No, be'... l'invito è
sempre valido, ovviamente. Daron, tu sai che per me sei importante,
lo sarai sempre.»
Scoppiai a ridere. «Questa
è bella. Ehi Jess, tanti saluti al tuo Lars, e sappi che
questa chiamata ti costerà un patrimonio. Sono in Giamaica.»
Lei emise un gridolino di
sorpresa. «E che ci fai?»
«Che domande! Me la
spasso. Ti saluto, buona fortuna per le nozze e buona vita.»
Interruppi la conversazione e ributtai il cellulare sul letto, per
poi stringere a pugno la mano destra e fissarla con furia.
«Come attore non sei
male» osservò il bassista. «Ma Jessica ti conosce.
Sa bene che le hai mentito.»
«Ora sei tu a farmi
incazzare.»
Io e Shavo ci guardammo per
un po' in cagnesco, poi lui disse: «È perché non
abbiamo ancora fumato e mangiato».
Mi ritrovai pienamente
d'accordo con lui e annuii. «Giusto. Allora che aspettiamo?
Andiamo in terrazza, e nel frattempo io preparo un po' di erba per la
colazione.»
«Oggi quindi si mangia
vegetariano?» sghignazzò Shavo.
Gli battei amichevolmente
sulla spalla. «E tu vedi di scusarti con Leah, l'hai trattata
davvero di merda prima.»
Lui sospirò. «Sbaglio
sempre tutto con quella ragazza.»
Mentre ci avviavamo verso
l'ascensore, gli diedi una spallata. «Macché, sei
perfetto così. Siete bellissimi insieme!»
«Ma sentilo! Stai
diventando romantico o sbaglio?» mi punzecchiò Shavo con
un sorriso malizioso.
«Non sia mai!»
Mentre aspettavamo che le
porte si aprissero, fummo raggiunti da John e Bryah che ridevano tra
loro.
«Scusate per
stamattina» attaccai subito. «Sono desolato, ma per me
oggi la giornata è cominciata proprio male» continuai a
blaterare, fiondandomi poi dentro il box.
Bryah e John si scambiarono
un'occhiata.
«Jessica l'ha
chiamato» spiegò Shavo.
«Chi è
Jessica?» volle sapere subito la giornalista.
«Jessica Miller. La
mia ex» spiegai.
«Oh giusto! Sei stato
per un bel po' di anni con lei, eh?»
«Purtroppo sì»
bofonchiai, guardando distrattamente fuori dall'ascensore panoramico.
«E che voleva?»
mi interrogò John.
«Scusarsi perché
Lars mi ha chiamato e mi ha invitato gentilmente al loro
fottuto matrimonio. Ma ora non parliamone. Ditemi solo che accettate
le mie scuse.» Tornai a guardare alternativamente John e Bryah,
tendendo loro una mano.
Loro posarono le loro dita
sulle mie e sorrisero.
Una domanda mi attraversò
la mente e non riuscii a trattenermi. «Bryah, ma tu non avevi
un compagno?»
Lei si irrigidì sul
posto e si appiattì contro la parete metallica dell'ascensore,
mentre Shavo mi tappava la bocca con una mano e digrignava i denti.
John mi rivolse un'occhiata glaciale, una di quelle che raramente
portava fuori.
Avevo sbagliato ancora,
cazzo. Era tutta colpa di Jessica e del fatto che mi avesse svegliato
bruscamente per un motivo stupido e insensato.
Rimasi in silenzio e poco
dopo Shavo mi lasciò andare. Si accostò a Bryah, che
osservava un punto indistinto al di fuori dell'ascensore, e le posò
delicatamente una mano sulla spalla.
Le porte si aprirono e noi
fummo costretti a uscire sulla terrazza panoramica.
Individuai subito Leah che
parlava animatamente con Alwan, appoggiata al bancone del chiosco,
così diedi di gomito a Shavo e sussurrai: «Vai, noi ti
aspettiamo a un tavolo».
Lui seguì il mio
sguardo e annuì, poi prese a camminare verso la ragazza.
Io seguii in silenzio Bryah
e John fino a un tavolo, poi mi lasciai cadere su una sedia e mi
presi la testa tra le mani. «Cazzo» imprecai tra i denti.
«Daron?» mi
chiamò Bryah sottovoce.
La guardai e notai che
sorrideva appena. «Non importa, io... tu hai ragione. Ho
combinato un casino. John non se lo meritava e...»
MI guardai attorno in cerca
del batterista e notai che era sparito.
«È andato al
bagno» disse la giornalista, indicando un punto alle mie spalle
dove, probabilmente, dovevano trovarsi le toilettes della terrazza.
«Comunque... ho sbagliato tutto. Adesso non so come fare.»
Sorrisi amaramente. «Quanto
ti capisco. A me succede sempre, tutti i giorni, di sbagliare. Oggi,
per esempio, sto sbagliando tutto e non sono sveglio da neanche
un'ora... è grave.»
«Già.»
Bryah intrecciò le mani sotto il mento e sospirò.
«Siamo due casi persi, eh? Tu come fai di solito per
rimediare?»
«A volte chiedo scusa,
a volte invece sono troppo orgoglioso e cerco di ingraziarmi gli
altri in qualche modo bizzarro, sperando di risultare simpatico... ma
non dare retta ai miei metodi, non sempre sono efficaci»
raccontai.
«Leah mi ha raccontato
che le hai regalato un portachiavi per farti perdonare. Sei stato
carino.»
Scossi il capo. «Sono
solo e soltanto un idiota, fidati.»
«Macché. Pensa
a ciò che ho fatto io...»
Lanciai un'occhiata alle mie
spalle e notai che John usciva proprio in quel momento dal bagno,
così mi affrettai a sussurrare a Bryah: «Parlagli. Cerca
di farlo sfogare. Qualunque sia la tua decisione».
Lei annuì. «Grazie.»
Ridacchiai. «Allora
oggi non ho sbagliato proprio tutto.»
John tornò da noi e
io presi ad armeggiare con un po' d'erba, una cartina e un filtrino,
ascoltando distrattamente i loro discorsi. Poco dopo anche Leah e
Shavo ci raggiunsero.
«Ragazzi, questo
pomeriggio andiamo in pedalò?» esordì la ragazza,
sedendosi accanto a me e posandomi di fronte una tazza di caffè
fumante.
«Ehi, ti hanno assunto
come cameriera? Attenta che questi ti sfruttano» scherzai,
arruffandole i capelli per ringraziarla di quel gesto carino.
«Pedalò? Siete
antiquati, perché non facciamo canoa?» sghignazzò
Bryah.
«Tu non lavori oggi?»
le chiese Leah.
«Ho mandato tutti al
diavolo. Avevo bisogno di un giorno di svago.»
«Perché
dovremmo essere antiquati?» la apostrofò Shavo, posando
a sua volta una tazza di caffè di fronte al batterista.
«Bryah, cosa prendi? Qualcosa da mangiare?»
«Ehi, facciamo
lavorare un po' Al!» strillò Leah, poi si voltò
in direzione del chiosco e fischiò per richiamare l'attenzione
del cameriere.
«Siete antiquati e
anche noiosi. Dovete fare qualcosa di più pericoloso! Siete o
no delle rockstar?»
Shavo si grattò il
mento. «Uhm, tu dici?»
«Io sono solo un
batterista, non una rockstar» intervenne John.
«Senti un po',
ragazzina, non sono mica una capra! Che cazzo di modo è per
chiamare qualcuno che è qui per guadagnarsi il pane?»
sbraitò scherzosamente Alwan, giungendo proprio in quel
momento al nostro tavolo.
«Ma sta' zitto,
scansafatiche!» lo accusò Leah, mollandogli una
gomitata.
«Ma tu, John, sei un
caso perso. Non c'entri niente con il discorso delle cose
spericolate» stava dicendo Bryah intanto.
Io assistevo a quella scena
sempre più confuso, non riuscendo bene a seguire le varie
conversazioni che si stavano svolgendo attorno a me.
Finalmente Alwan riuscì
a prendere le ordinazioni e tutti ci ritrovammo seduti attorno al
tavolino, in attesa che lui tornasse.
Nel frattempo avevo acceso
la mia canna e la offrii al resto del gruppo, ma solo Shavo accettò
e ne prese un paio di tiri.
«Ragazzi»
attirai la loro attenzione. «Ma, non ho capito... in pedalò
ci andiamo o no?»
Tutti scoppiarono a ridere
perché me n'ero uscito con quella domanda totalmente a
sproposito, e alla fine li seguii a ruota, rendendomi conto che una
bella risata mi ci voleva proprio.
«Ma sì,
andiamoci» decise John. «Da quando siamo qui, non sono
ancora stato al mare. È grave. Volevo farmi una nuotata un
giorno, ma poi una certa giornalista si è messa nel mio
cammino e...»
Bryah sghignazzò.
«Oggi devi nuotare come una sirenetta! Ehi, ma quindi niente
canottaggio acrobatico?» si lamentò.
«Che cazzo è il
canottaggio acrobatico?» sbottai.
«Non lo so»
replicò la giornalista in tono ilare.
Continuammo a chiacchierare
e scherzare tra noi anche durante la colazione.
Forse la giornata era
cominciata male, ma avevo come l'impressione che da quel momento in
poi sarebbe soltanto migliorata, poiché ognuno di noi aveva
deposto l'ascia di guerra e aveva smesso di pensare a tutti i suoi
fottutissimi errori.
Ecco,
e secondo voi cos'è il canottaggio acrobatico? Vi giuro che
non so se esiste e da dove me lo sono portato fuori XD
Ma
bando alle ciance, come butta fratelli e sorelle? *si atteggia a
rapper/gangster in the ghetto* X'D
Sì,
oggi sono deficiente, vabbè ma mica solo oggi, direte voi...
Comunque...
sono qui per una veloce nota sul capitolo: Daron, quando è
andato a importunare Shavo e Leah (-.-”), stava cantando Rock
& Roll All Nite dei Kiss, potete solo immaginare che scenetta
raccapricciante, contando che si era svegliato da dieci minuti,
forse... XD
Vi
lascio qui il link per l'ascolto di questo brano, in modo che
possiate immaginarlo cantato dal nostro chitarrista con la voce di
Maria De Filippi:
https://www.youtube.com/watch?v=EFMD7Usflbg
Okay,
visto che ho detto abbastanza fesserie anche stavolta, vi saluto e
ringrazio per il continuo supporto – e sopporto (si può
dire? XD) – che mi date, siete immensi :3
Alla
prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 32 *** Paddleboat ***
ReggaeFamily
Paddleboat
[Leah]
«Alwan,
scusa, devo parlare con Leah.»
«Nessun
problema, per te io farei qualsiasi cosa, Shavo!» esclamò
Alwan, mettendosi scherzosamente sull'attenti. Poi ci sorrise e si
allontanò per andare a prendere un'ordinazione.
Io
mi voltai e guardai il bassista con aria interrogativa. «Che ti
prende oggi?» gli chiesi.
«Mi
dispiace molto per prima, ero nervoso e...»
Sollevai
una mano e la sventolai in aria con noncuranza. «Perché
ti scusi sempre per tutto? Shavarsh, davvero, non importa.»
Il
bassista mi posò le mani sulle spalle e cercò il mio
sguardo. Incrociare i suoi occhi scuri mi fece sentire
improvvisamente angosciata, perché vi lessi tristezza e una
marea di sensi di colpa.
«Me
la sono presa con te, quindi mi devo scusare.»
«No,
è che io mi sono impicciata, come sempre. Non riesco mai a
farmi gli affari miei» borbottai.
Shavo
mi regalò un dolce sorriso e mi carezzò appena una
guancia. «Sei proprio incorreggibile. Ed è per questo
che con te mi trovo così bene.»
«Ecco,
ora non cominciare a fare lo sdolcinato... per prima, comunque, non
importa! Ora basta, okay?» lo rassicurai, regalandogli un breve
abbraccio. «Adesso andiamo dai ragazzi e proponiamo anche a
loro una bella gita in pedalò! Che ne dici?»
Shavo
strabuzzò appena gli occhi. «Io pensavo che sarebbe
stato qualcosa di romantico, solo io e te...» Mi afferrò
per la vita e mi attirò a sé, ridacchiando.
«Romantico?!
Piuttosto la morte!» esclamai indignata.
«Oddio,
ma...» Shavo si staccò da me e mi guardò con aria
improvvisamente seria. «Mi sembra di frequentare Daron, aiuto!»
Si portò le mani sulla faccia e scosse il capo.
Gli
mollai un pugno sul petto e richiamai l'attenzione di Alwan. «Quanto
sei cretino, Shavarsh.»
«Per
fortuna l'hai presa bene!»
Gli
regalai una linguaccia e compresi che tra noi si stava instaurando un
rapporto sempre più confidenziale e delizioso.
Mentre ripensavo agli
avvenimenti di quella mattina, sentivo di adorare sempre più
il bassista, il che mi elettrizzava e mi faceva un po' paura allo
stesso tempo. Ma accanto a lui mi sentivo spensierata e tranquilla,
non riuscivo ad abbandonarmi a cattivi pensieri.
Con Shavo era così e
basta.
Spostai lo sguardo su Bryah
e John, i quali si limitavano a scambiarsi qualche occhiata e a
sorridersi di tanto in tanto, e mi resi conto che l'attrazione che
intercorreva tra quei due era quasi palpabile.
Shavo, al mio fianco,
sbuffò. Si guardò attorno e sbuffò ancora. «Ma
che fine ha fatto quel demente di Daron? È già in
ritardo di un quarto d'ora» brontolò.
«Si sarà
addormentato come al solito» borbottai.
«Se lo prendo, lo
butto dalla scogliera...» proseguì il bassista,
accennando alla nostra sinistra, dove il promontorio si mostrava in
tutto il suo splendore e si lasciava ricadere a capofitto sull'acqua
calma e splendente, inondata dai raggi del sole del primo pomeriggio.
«Eccolo!»
esclamò Bryah.
Ci voltammo verso il bar e
notammo il chitarrista che passeggiava tranquillamente verso di noi,
senza minimamente preoccuparsi di essere in ritardo e di averci fatto
aspettare per circa venti minuti.
«Datti una mossa,
marmocchio!» tuonò Shavo in tono minaccioso.
Lo afferrai per un braccio.
«Stai calmo, non ricominciare» sibilai.
Il bassista posò i
suoi occhi scuri su di me e mi studiò per un attimo, poi
sorrise e annuì appena. «Hai ragione» ammise. Si
sistemò il cappellino da baseball sulla testa e tornò a
osservare Daron.
«Ciao a tutti! Come
state?» esordì l'ultimo arrivato, sorridendo
maliziosamente in direzione di John e Bryah.
«Andiamo, Miriam ci
aspetta laggiù» dissi, indicando il lato destro della
spiaggia, il quale era adibito a ospitare pedalò, gommoni e
altre piccole imbarcazioni di cui i clienti dell'albergo potevano
usufruire con un piccolo extra.
Ci incamminammo in quella
direzione e intravidi colei che doveva essere Miriam, ovvero la
bagnina e responsabile della gestione di quell'area. Non la
conoscevo, avevo soltanto seguito i consigli e le indicazioni di
Dayanara.
Miriam era una bellissima
ragazza dal corpo atletico e dalla pelle abbronzata. Aveva i capelli
castani legati in una coda di cavallo e i lineamenti del suo viso
erano dolci e suggerivano una personalità timida e
intelligente. Non so perché ebbi quell'impressione di lei,
però avevo come la certezza che fosse una ragazza tranquilla,
poco espansiva e ben diversa sia da me che da Bryah.
«Ciao ragazzi,
Dayanara mi ha chiamato per avvisarmi che sareste arrivati. È
un piacere conoscervi, io sono Miriam» esordì la bagnina
in tono professionale, regalandoci un sorriso appena accennato.
Daron si fece subito avanti
e si prodigò in un maldestro baciamano. Sicuramente stava già
elaborando il modo per conquistare la preda appena avvistata. «Io
sono Daron, incantato di fare la tua conoscenza, creatura
celestiale!» esclamò.
Miriam arrossì
violentemente e si schiarì la gola. «Piacere mio,
ehm...»
«Io sono Leah,
piacere! Loro sono Bryah, Shavo e John. Per noi ci vuole un pedalò
bello resistente, ho paura che Daron si metta a combinare guai e
finiamo tutti in acqua!» mi intromisi, spintonando il
chitarrista e mollandogli una gomitata sulle costole.
«Ehm... va bene,
ecco... seguitemi, la vostra imbarcazione è già
pronta!» tagliò corto la ragazza, facendoci strada tra
una marea di pedalò di varie dimensioni. Si fermò
accanto a uno di colore azzurro elettrico e vi poggiò una
mano, per poi voltarsi nella nostra direzione per assicurarsi che
tutti l'avessimo seguita. «È lui» affermò
infine, come se stesse parlando di un essere vivente.
«Grazie Miriam, molto
gentile» le disse Shavo.
«Sapete come
funziona?» si informò la bagnina.
«Più o meno»
risposi. «Ci sono andata una volta con Day, ma non ricordo
tutto...»
Miriam ci spiegò come
guidarlo e ci indicò i limiti oltre i quali non dovevamo
spingerci, contrassegnati in mare da una scia di boe colorate.
«Tu non vieni con
noi?» le domandò Daron speranzoso, regalandole uno
sguardo da cucciolo desideroso di coccole.
John gli mollò una
possente pacca sulla spalla e lo spinse contro il pedalò.
«Sali a bordo e piantala» disse soltanto.
«Vi guarderò
dalla torretta, se c'è qualche problema, lo noterò. In
ogni caso, vi consegno questa bandiera rossa da sventolare in caso vi
troviate in difficoltà e abbiate bisogno del mio intervento»
concluse Miriam, porgendomi un pezzo di stoffa rosso fuoco.
Lo misi con cura nella mia
borsa e seguii i ragazzi sul pedalò. Miriam ci aiutò a
spingerlo in acqua e ci augurò una buona navigazione.
«Visto che hai fatto
lo stupido cascamorto, il primo a pedalare sarai tu» disse
Shavo a Daron, indicandogli uno dei posti muniti di pedali.
«Io? Ma no, che
palle...»
«Non lamentarti, un
po' di esercizio fisico non può che farti bene» lo
esortò John, accomodandosi sul posto accanto a lui e
sistemandosi in fretta con i piedi sui pedali.
Io e Bryah ci scambiammo
un'occhiata divertita e ridacchiammo.
Daron borbottò
qualcosa di incomprensibile e si lasciò cadere sul sedile in
plastica.
«Su, così
Miriam vedrà che sei un vero uomo e cadrà ai tuoi
piedi» lo canzonai, battendogli affettuosamente un colpetto
sulla nuca.
«Come no...»
commentò Shavo.
In poco tempo, dopo qualche
litigio e varie incomprensioni, John riuscì a spiegare a Daron
come fare per guidare il pedalò e i due riuscirono a trovare
il ritmo giusto. Per lo sforzò della pedalata – che
riguardava specialmente il pigro chitarrista – in pochi minuti
entrambi lanciarono via la maglia e si ritrovarono a petto nudo.
Mi ritrovai a sorridere nel
notare la netta differenza tra il torace tonico e allenato del
batterista, sicuramente molto più abituato a stare all'aria
aperta e alle attività sportive, rispetto a quello pallido e
meno muscoloso del suo collega, il quale sudava copiosamente e
sbuffava dal naso senza mai smettere di lamentarsi per lo
sfruttamento che stava subendo.
«Bryah, che ne dici di
fare un tuffo dal pedalò?» proposi alla giornalista,
mentre mi sfilavo i vestiti. Rimasi in costume mi godetti la brezza
tiepida e il sole che accarezzavano piano la mia pelle.
Mi sentii osservata e mi
voltai a guardare Shavo, trovandolo con gli occhi su di me. Seguiva
il profilo del mio corpo con calma e, per un solo istante, avvertii
un leggero imbarazzo farsi strada dentro me; non mi aveva mai
guardato così di fronte a tutti, era una sensazione strana,
indescrivibile.
«Dici sul serio?»
richiamò la mia attenzione Bryah.
Mi strinsi nelle spalle. «Ma
certo, sarà un'emozione unica» confermai, ricordando del
mio tuffo con Dayanara, risalente ad almeno tre o quattro anni prima.
«Uhm, ma...»
«E se vi fate male?»
saltò su Shavo, che era seduto in cima allo scivolo presente
sul pedalò. «Forse dovreste scendere da qui, non sarebbe
più...»
Mi arrampicai su per i
gradini e lo raggiunsi in un attimo. Incollai le mie labbra alle sue,
poi tornai giù e, senza pensarci due volte, mi gettai in
acqua.
Qualcuno gridò e
qualcun altro rise, ma io venni catturata dal mio tuffo e non mi
preoccupai di niente. Il mare mi accolse e mi risucchiò per un
attimo al suo interno, per poi lasciarmi riemergere poco dopo. La
temperatura dell'acqua era perfetta e non soffrii assolutamente il
freddo.
«Ehi, chi viene? Mi
lasciate qui da sola?» gridai in direzione dei miei amici, per
poi dirigermi a nuoto accanto alla nostra imbarcazione.
Shavo era sceso dallo
scivolo e si era sporto per assicurarsi che stessi bene. «Sei
pazza? Ho perso almeno dieci anni di vita!» gridò in
tono apprensivo.
Osservando meglio il suo
viso, notai che era tremendamente pallido e mi sentii immensamente in
colpa, oltre che presa da un moto di tenerezza nei suoi confronti.
Era un ragazzo veramente dolce e sensibile, fin troppo per una fuori
di testa come me.
Improvvisamente notai che
Daron e John avevano cominciato a fare i cretini e stavano facendo di
tutto per far sbandare il pedalò. Bryah si aggrappò
saldamente allo scivolo e rivolse ai due occhiate preoccupate.
«Che cazzo fate?»
sbraitò Shavo, senza riuscire ad alzarsi e allontanarsi dal
bordo dell'imbarcazione. «Smettetela, ma che vi prende? John,
almeno tu sii ragionevole!»
Scoppiai a ridere e mi
immersi nuovamente in acqua per poi allontanarmi un po' da loro.
Quando riemersi, Shavo stava ancora gridando e Bryah sembrava un po'
in ansia.
«Ragazzi, dai, fate i
bravi» disse la giornalista, mentre batterista e chitarrista
non accennavano a smettere di fare i cretini.
«Oddio, non credo di
stare molto bene... piantatela, cazzo!» tuonò ancora il
bassista in preda alla disperazione.
«Che stupidi che
siete!» intervenni.
Daron e John, intanto, non
facevano che insultarsi a vicenda, ignorando deliberatamente le
proteste di Shavo e Bryah; il pedalò continuava a sbandare e
ad agitarsi, così immaginai che trovarsi là sopra non
doveva essere per niente bello per Shavo.
Leggermene allarmata, nuotai
fino a trovarmi al lato del pedalò, dalla parte di John.
«Ragazzi, adesso basta!» tentai di richiamare la loro
attenzione.
Daron, all'improvviso, si
mise in piedi sul sedile e spalancò le braccia, rimanendo in
bilico e oscillando allo stesso ritmo dell'imbarcazione. «Miriam,
lo faccio per te!» strillò, poi fece leva sulle gambe e
si tuffò di faccia, producendo un suono acuto e una serie di
schizzi che raggiunse anche gli altri presenti sul pedalò.
Questo, di conseguenza, prese a dondolare ancora di più a
causa del contrappeso mancante e Shavo soffocò
un'imprecazione.
«Daron, ma sei proprio
coglione! Non devi abbandonare così la guida del pedalò!»
lo rimproverò John, senza però trattenere una risata.
Nuotai in fretta verso il
lato opposto e salii a bordo per poter sostituire Daron che ancora
sguazzava contento come un bambino all'acqua park.
«Che idiota, spero che
Miriam ti rifiuti malamente» dissi al chitarrista, appoggiando
i piedi sui pedali.
Lanciai un'occhiata alle mie
spalle e notai che Shavo si massaggiava lo stomaco; era sempre più
pallido e temetti seriamente che avrebbe vomitato da un momento
all'altro.
Bryah gli si avvicinò
e cercò di tranquillizzarlo, mentre io e John ci occupavamo di
rimettere in sesto l'equilibro del pedalò.
«Oh no, cazzo!»
gridò all'improvviso Daron, precipitandosi verso di noi e
risalendo a bordo in tutta fretta. Si appoggiò allo scivolo e,
con il fiatone, si frugò nella tasca del costume.
Rimanemmo tutti con il fiato
sospeso finché non ci accorgemmo che il chitarrista aveva
estratto il suo smartphone e lo fissava con gli occhi sgranati,
tentando invano di riaccenderlo.
«Ops» ridacchiò
John.
Scambiai un'occhiata con
lui, poi scoppiammo a ridere, seguiti improvvisamente da Bryah e
Shavo. Dal troppo ridere, persi il controllo dei pedali, così
tornammo nuovamente a oscillare. Tuttavia, non riuscivo minimamente a
controllarmi, anche perché Daron aveva cominciato a imprecare
e bestemmiare come non mai, blaterando a proposito di foto e video
che erano andati irrimediabilmente persi.
Improvvisamente udii Shavo
che smetteva di ridere. Fece appena in tempo a sporgersi nuovamente
oltre il bordo del pedalò, poi fu invaso da un conato di
vomito. Questo, tuttavia, non gli impedì di continuare a
ridere come un matto.
Preoccupata, saltai su per
raggiungerlo, ma questo non fece che peggiorare la situazione sul
pedalò; Bryah si offrì di darmi il cambio e prese il
mio posto sul sedile, così procedetti a tentoni verso Shavo,
cercando di non scivolare.
Nessuno di noi riusciva a
smettere di ridere, perché Daron era incazzato come una belva
e stava inventando nuovi insulti rivolti all'intero creato, e in ogni
caso la risata ormai era diventata troppo contagiosa e incontenibile.
Riuscii ad accostarmi a
Shavo, il quale rideva e vomitava a intermittenza o in contemporanea,
rischiando quasi di soffocare, ma incapace di arrestare almeno una
delle due azioni che stava compiendo. Mi gettai su di lui, avevo le
lacrime agli occhi e i crampi allo stomaco per il troppo ridere, ma
cercai di rassicurarlo come meglio mi riuscì. Gli tolsi il
cappellino che era rimasto miracolosamente sulla sua testa, poi gli
accarezzai il viso e provai a parlargli in tono tranquillizzante.
«Cazzo, che schifo»
commentò John, lanciando un'occhiata all'acqua in cui Shavo
stava riversando il suo pranzo quasi intatto. «Giusto, abbiamo
mangiato riso, e poi... uh, ma quello è un pezzo di carne...
ora vomito anche io, merda!» proseguì il batterista, per
poi distogliere lo sguardo e scuotere il capo disgustato.
Daron intanto sembrava aver
terminato gli improperi di sua conoscenza e aveva cominciato a
biascicare qualcosa di incomprensibile, fissando senza tregua il
cellulare ormai inutilizzabile.
Shavo tossì e rigettò
un'ultima volta, poi riuscì a smettere di ridere e si
abbandonò completamente contro il pavimento del pedalò,
respirando affannosamente.
Stremati, riuscimmo tutti a
riprenderci e rimanemmo in silenzio per un po', accompagnati solo
dall'incessante borbottare del chitarrista.
Notai che qualcuno si
avvicinava a noi a bordo di un gommone a motore e riconobbi subito
Miriam, la quale ci scrutava con aria preoccupata.
«Ragazzi, oddio, state
bene?» ci chiese subito, raggiungendoci in fretta.
«Insomma...»
commentai, lanciando un'occhiata al viso stremato di Shavo.
Daron, preso da un
improvviso moto di rabbia, schizzò verso Miriam e temetti che
le sarebbe saltato addosso; invece saltò sul gommone e le
ordinò: «Riportami subito a riva, cazzo!».
Lei rimase spiazzata e mi
lanciò un'occhiata leggermente allarmata. Poi si schiarì
la gola e, ignorando le parole del ragazzo, disse: «Forse è
meglio se prendo il ragazzo e lo riporto a riva, mentre voi rientrate
con calma». Indicò Shavo con un cenno del capo.
«Certo, grazie Miriam»
risposi in tono gentile. «Ehi, Shavarsh, dai... ti riportiamo
sulla terraferma, contento?» mi rivolsi poi al bassista,
aiutandolo ad alzarsi.
Lui annuì e mi si
aggrappò addosso, tremando come una foglia. «Vieni anche
tu?» balbettò.
Lanciai un'occhiata a Bryah
e John e sorrisi. «Certo, andiamo.»
Costrinsi Daron ad aiutarmi
con Shavo, poi Miriam ripartì verso la riva, dopo essersi
assicurata che i due avessero la situazione sotto controllo.
E, mentre sentivo Shavo
tremare contro il mio corpo, ogni tanto mi veniva ancora da ridere
per la scena apocalittica di poco prima.
«Certe cose possono
succedere solo a noi» osservai.
Shavo non disse nulla,
mentre Daron scosse il capo.
«Questo posto è
maledetto, ne sono certo...»
Miriam rise appena.
«Maledetto» ripeté in tono ironico, senza
distogliere lo sguardo dall'acqua.
«Sì, creatura
celestiale, è maledetto. Da quando sono arrivato in questo
dannato luogo, sono capitate soltanto disgrazie» borbottò
il chitarrista.
«Non dargli retta, è
che Daron se le va a cercare» lo smontai.
«Vaffanculo, Leah!»
«Sì, anche io
ti voglio bene, ma non essere così sdolcinato» lo
punzecchiai ancora.
Notai che Miriam aveva
lanciato una veloce occhiata al chitarrista e sorrisi. Daron era
senza speranze, ma riusciva sempre, in qualche modo, a conquistare il
cuore di tutti.
E forse nemmeno lui ne era
pienamente consapevole.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 33 *** Heartbeats ***
ReggaeFamily
Heartbeats
[Shavo]
«Come
ti senti, Shavarsh?»
«Come
se qualcuno avesse scatenato la Terza Guerra Mondiale nel mio
stomaco» bofonchiai.
Ero
steso sul letto, in camera mia e di John, mentre Leah se ne stava
appollaiata sul bordo del materasso e mi carezzava piano il viso.
Tenevo gli occhi chiusi, perché ogni volta che li aprivo mi
sembrava di stare ancora sul pedalò che oscillava
pericolosamente.
«Oddio,
ogni tanto mi viene ancora da ridere...» farfugliò la
ragazza, portandosi una mano davanti alla bocca per cercare di
mascherare l'ilarità.
«Vi
siete divertiti alle mie spalle.»
«Ma
no, alle spalle di Daron in primis.»
Quando
udii il nome del mio amico, mi girai su un fianco e socchiusi appena
gli occhi, trovando di fronte a me il viso sereno di Leah.
«Ora
Daron ha perso quei video...» osservai.
«Quei
video?» chiese lei perplessa.
Mi
premetti una mano sugli occhi e sospirai. «Sto davvero male,
cazzo. Che vacanza di merda, da quando ho messo piede in aereo, le
cose sono precipitate.»
«Ehi!»
Leah mi picchiettò sul braccio. «Questo cosa significa?
Potrei offendermi!» aggiunse. «E di quali video parli?»
«Non
importa. No, Leah, è ovvio che tu non c'entri con tutto questo
casino, però...» Sospirai ancora. «Il fatto è
che questa dovrebbe essere una vacanza rilassante, invece è
uno sfacelo. Perché?» blaterai.
«È
che sei un ragazzo sfortunato» rifletté Leah facendo
spallucce. «Per prima cosa, mi hai conosciuto. Ti basta come
evento disastroso?» mi punzecchiò in tono ironico.
La
afferrai improvvisamente per i polsi e la trascinai sul letto con me.
«Smettila, non è vero. Tu sei l'unica cosa positiva in
tutto questo.»
«Direi
di no. Hai visitato il museo di Marley, hai visto un concerto di
Eek-A-Mouse e Barrington Levy, hai fatto un giro in pedalò,
hai dormito sotto le stelle, hai suonato uno djambé, hai
partecipato a un party improvvisato in piena notte... queste sono
delle cose davvero belle, no?»
«Uhm...»
Affondai il viso tra i suoi capelli. «Non è importante
tutto ciò, proprio no» mormorai, stringendola a me per
far sì che il suo corpo mi scaldasse.
Nonostante
le temperature fossero abbastanza alte, io mi sentivo debole e ogni
tanto venivo scosso da brividi di freddo improvvisi.
«Shavarsh,
hai la febbre?» Leah si allungò per posare le sue labbra
sulla mia fronte, poi sgranò leggermente gli occhi. «Sei
bollente! Forse dovrei cercare un termometro...» prese ad
agitarsi.
«No,
rimani qui.» La tenni stretta e mi sistemai meglio sul letto,
sentendomi improvvisamente stanco.
«Dormi
un po' allora» sussurrò Leah, posando la testa sul mio
petto.
«Tu
però non andartene.»
«Ma
no, Shavarsh, sono qui» mi assicurò, intrecciando le sue
gambe alle mie.
Persi
velocemente i sensi, non riuscii più a tenere gli occhi
socchiusi e la mente lucida, sprofondai semplicemente in un sonno
profondo.
Quando
mi risvegliai, il sole tingeva di arancione i contorni dei mobili e
le pareti della stanza.
Leah
era affacciata alla finestra e il suo profilo si stagliava contro le
luci del tramonto, facendola apparire ai miei occhi quasi come una
figura eterea, impalpabile, bellissima.
Rimasi
a osservarla e scrutai il modo in cui scacciava le ciocche scure dal
viso, mentre il vento le scompigliava; mi concentrai sui suoi gesti
precisi mentre si portava una bottiglietta d'acqua alle labbra,
mentre contemplava il panorama e un'espressione assorta le si
dipingeva sul viso spigoloso, mentre sorrideva appena per qualcosa
che aveva scorto sul vialetto d'ingresso dell'hotel.
«Leah?
Succede qualcosa di divertente là fuori?» le chiesi con
un sorriso.
Lei
sobbalzò leggermente e si voltò a guardarmi; in quel
momento una folata di vento fece sì che i capelli le
ricadessero sul viso e nascondessero i suoi occhi alla mia vista.
«Come
stai?» volle sapere subito, passandosi entrambe le mani sul
viso per ricacciare indietro le ciocche.
«Sto
meglio, ma tu non hai mantenuto la promessa» le feci notare.
Leah
aggrottò leggermente la fronte. «Quale promessa?»
Battei
appena sul materasso accanto a me. «Avevi detto che saresti
stata qui.»
Scosse
appena il capo e sorrise. «Giuro che avevo troppo caldo, dovevi
avere la febbre, eri un termosifone umano!» spiegò.
«Sai,
mi sento molto meglio ora. Sicuramente ero debole. Ehi, sai dove sono
gli altri?» domandai, mettendomi a sedere e sfregandomi le mani
sulle braccia.
«No.
Daron è corso in camera sua, mentre John e Bryah... sai che
c'è? Quei due...» Leah abbassò la voce e fece
qualche passo nella mia direzione.
«Quei
due?»
«Vorrei
tanto che stessero insieme, sono così carini!» sbottò
all'improvviso, per poi gettarsi su di me.
Ricaddi
bruscamente con la schiena sul materasso e mi ritrovai il corpo magro
di Leah premuto contro, il suo viso a pochi millimetri dal mio.
«E
noi? Noi non siamo carini?» scherzai, accarezzandole i capelli.
«Come
faccio a saperlo? Io sono bellissima, tu un po' meno...» mi
prese in giro.
«Ah
sì? Ma sentila! Allora allontanati dal brutto anatroccolo se
hai il coraggio!» la sfidai in tono fintamente serio.
Leah
sbuffò. «No, il brutto anatroccolo è troppo
comodo come materasso» commentò, spalmandosi meglio su
di me.
«Che
opportunista! Non ti voglio più, vattene.»
«Spiacente,
troppo tardi.» Leah posò le sue labbra sulle mie. «Sei
un ragazzaccio imbecille.»
«Addirittura?
Continui a insultarmi?»
«Certo
che sì! È troppo divertente» proferì in
tono solenne, solleticandomi il collo con le dita.
La
afferrai per i polsi, fulmineo, e in un attimo invertii le posizioni,
facendola stendere sotto di me. Intrecciai le mie dita alle sue e la
guardai intensamente negli occhi. «E ora?»
«E
ora?» Ridacchiò. «Che aspetti a baciarmi?»
Adoravo
il suo modo di fare, la sua spontaneità, il fatto che fosse
spudorata e riuscisse sempre a dire ciò che le passava per la
mente. Adoravo la sua audacia, il modo semplice e ovvio con cui mi si
rivolgeva, la sua ironia pungente e le mille sfaccettature della sua
sensualità, quella sensualità che mi faceva impazzire e
mi mozzava il respiro: Leah non la ostentava e forse non ne era
neanche consapevole, ma c'era, era lì e mi attirava
inesorabilmente, sempre più vicino a lei.
Così
non riuscii a trattenermi e mi avventai sulle sue labbra, facendole
mie e cercando di trasmettere, attraverso quel gesto, tutte le
emozioni tumultuose che mi scuotevano in quel momento.
Leah
si aggrappò alle mie spalle e ricambiò i miei baci con
ardore, quasi con un trasporto maggiore del mio, travolgente,
impetuoso. In un attimo avvertii le sue mani che esploravano il mio
corpo, che lo stringevano al suo e che stimolavano un'infinità
di sensazioni estremamente piacevoli.
Sospirai
quando Leah mi sfilò la maglia e sfiorò appena il mio
petto con le dita, fu un tocco delicato e morbido, ma fu in grado di
inondarmi completamente di desiderio.
All'improvviso
si staccò da me e mi guardò negli occhi.
«Che
c'è?» mormorai.
«Sei
dolce» disse soltanto.
«Io?»
mi schernii.
«Sì,
tu. Dolce e bellissimo.»
Rimasi
sorpreso e mi sentii improvvisamente in imbarazzo. «Ma che
dici? Poco fa ero il brutto anatroccolo, e ora...»
«Ho
cambiato idea» butto lì, per poi cercare nuovamente le
mie labbra.
La
consapevolezza di cosa sarebbe potuto succedere di lì a poco
mi colpì improvvisamente, facendomi provare un po' d'ansia.
Non sapevo se fossi abbastanza per Leah, se lei avrebbe accettato il
mio modo di farla mia, non avevo minimamente idea di come avrebbe
pensato o di come avrebbe reagito.
«Shavarsh,
sei pensieroso... ti prego, rilassati» disse lei; era come se
mi avesse letto nel pensiero, il che mi fece sorridere appena.
«Abbiamo
una bella intesa, già sei in grado di leggere nella mia mente»
osservai, mentre facevo scivolare le mani sul tessuto morbido della
canottiera di Leah, per poi sfilargliela e lasciarla cadere sul
tappeto accanto al letto.
«Sì.
E immagino che ti stai preoccupando per niente, vero?»
Fissai
Leah negli occhi e li trovai leggermente lucidi, segno che anche lei,
come me, provava quel desiderio bruciante e incontrollabile.
«Forse...»
Leah
mi regalò un sorriso dolce e senza alcuna traccia della sua
solita ironia. «Ti va di prenderti cura di me?» chiese
all'improvviso, spiazzandomi completamente.
«Mi
piacerebbe molto provarci, ma non so se sono all'altezza»
ammisi.
«Io
mi fido di te, dovresti imparare anche tu a fidarti di te stesso.
Provaci ora» mi incoraggiò, per poi afferrare la mia
mano e posarla sul suo ventre morbido e liscio. La guidò fino
al bordo dei suoi pantaloncini, infine ripeté: «Provaci,
andrà tutto bene».
Annuii
appena e, lentamente, finii di spogliarla, così come lei fece
con me. Ci ritrovammo senza vestiti proprio come era successo la
notte precedente, ma in quel momento non avevamo sonno, non eravamo
stanchi e sapevamo bene quale fosse il nostro desiderio comune.
Leah
lasciò che le baciassi il collo, che lambissi la pelle dei
suoi seni e delle sue spalle. Lasciò che la accarezzassi con
calma, senza fretta, nel modo in cui ero sempre stato abituato a
fare.
Lei
fece lo stesso con me, riempiendo il mio corpo di stimoli, lasciando
scie di baci ovunque, ubriacandomi con il suo calore e il suo
temperamento.
Io
ero più delicato e me la prendevo comoda, mentre Leah era
impetuosa e passionale; riuscivamo a completarci, perché lei
faceva in modo che mi sentissi a mio agio, mentre io mi dedicavo al
suo piacere con tranquillità.
Mi
piaceva quel modo che avevamo inconsapevolmente trovato per stare
insieme.
A
un certo punto Leah mi afferrò il viso tra le mani e posò
la fronte contro la mia. «Sei pronto?»
«Sì.
Leah, tu...»
«Io
lo sono. Su, ragazzaccio, vediamo che sai fare» concluse, per
poi inarcarsi contro di me.
La
vista mi si annebbiò per un attimo, tutto in me era preda del
desiderio, tutti i miei sensi inebriati dal profumo e dal calore
della donna che stringevo tra le braccia.
Senza
staccare gli occhi dai suoi, lasciai che Leah mi accogliesse dentro
sé, con calma e con delicatezza.
Si
lasciò sfuggire un sospiro e si ancorò alle mie spalle,
per poi avventarsi sulle mie labbra e stravolgerle di baci ardenti,
mentre si muoveva appena sotto di me e spingeva il suo bacino contro
il mio.
Interruppe
presto quel contatto e mi tirò ancora più vicino a sé;
era come se stessi per soffocare, ma era bellissimo, non sapevo più
neanche come descrivere le mie sensazioni. Leah affondò il
viso contro la mia spalla e mugolò, mentre io aumentavo il
ritmo delle mie spinte e la tenevo saldamente per i fianchi.
«Leah...»
riuscii a chiamarla, anche se il piacere che provavo aumentava
vertiginosamente e mi risultava davvero difficile ragionare o
formulare pensieri e frasi di senso compiuto.
Lei
non rispose, sentivo solo il suo respiro rovente sulla mia pelle, il
che non fece che accrescere maggiormente il mix di emozioni che mi
stava travolgendo.
«Leah...»
biascicai ancora.
Lei
rovesciò la testa all'indietro e serrò gli occhi.
«Cosa... Shavarsh, cosa...» riuscì solo ad
articolare, tra un sospiro e l'altro.
Mi
ritrovai a sorridere nell'udire il mio nome pronunciato con
difficoltà, con voce roca e lettere strascicate. «Era
questo che volevo» mormorai appena, rendendomi conto di quanto
mi avesse eccitato il suo gesto apparentemente banale.
Ci
stringemmo maggiormente l'uno all'altra, finché Leah non emise
un lungo gemito e si immobilizzò d'improvviso, irrigidendosi
sotto di me. Poco dopo anche io fui scosso da un violento orgasmo e
mi sentii invadere da un calore pazzesco, mentre tutto il mio mondo
si sgretolava in un solo istante, per poi ricomporsi lentamente.
Mi
separai da Leah e rotolai su un fianco, respirando affannosamente.
Premetti la fronte contro la parete che fiancheggiava il letto e
trovai estremamente confortante quel contatto fresco e ristoratore.
Lei
mi si accostò nuovamente e mi abbracciò da dietro,
intrecciando le sue dita alle mie. Le nostre mani ricaddero sul mio
ventre e i nostri respiri tornarono regolari dopo qualche minuto.
«Pazzesco»
fu la prima cosa che riuscii a dire.
«Sono
d'accordo, ragazzaccio» commentò Leah, con la guancia
premuta contro la mia schiena.
Mi
feci immediatamente serio e sospirai appena, ringraziando mentalmente
la posizione che avevamo assunto che impediva a Leah di scrutare la
mia espressione.
Tuttavia,
mi sarei dovuto aspettare che lei capisse al volo il leggero
mutamento del mio umore. «Shavarsh, cosa c'è?»
chiese infatti.
«Ma
niente» tagliai corto.
«Non
mi prendi in giro, bassista!» Leah, all'improvviso, si mise a
cavalcioni su di me e prese a farmi il solletico ovunque.
Non
riuscii a trattenere le risate e scoppiai a ridere, dimenandomi come
un matto per sfuggire alle sue mani che si intrufolavano in ogni
parte del mio corpo.
«Se
vuoi che la smetta, tu piantala di farti i film mentali e stai
tranquillo. A te la scelta» esclamò in tono solenne.
«Okay,
okay! Va bene, però... ti prego, smettila!» la implorai.
Leah
smise subito di torturarmi e si chinò per guardarmi dritto
negli occhi. «Allora, la finisci? Shavarsh, sei stato...
aspetta, devo trovare la parola giusta. Fenomenale, fantastico,
eccellente. No, pazzesco. Ecco, sul serio, sei stato pazzesco. Perché
dovresti preoccuparti?»
«È
che sono un po' preoccupato, a volte... a volte mi sembra di non
essere abbastanza, di non dare abbastanza. Mi succede in un sacco di
occasioni, anche se cerco di controllarmi e di fare il possibile per
non farmi prendere dall'ansia di non riuscire a compiere il mio
dovere» spiegai, sorprendendomi anche di me stesso.
«Questo
l'ho capito, ma io sono davvero felice, lo sai? Sto bene, tu mi hai
fatto stare bene e mi fai stare bene sempre. Senza di te questa
vacanza sarebbe stata una noia mortale. Devi capire, Shavarsh, che tu
riesci a dare agli altri più di quanto immagini. Tu oggi mi
hai dato tanto, sei stato dolce e tenero, sei stato perfetto. Perché
non mi credi?»
Un
sorriso incontrollabile si era allargato sul mio viso man mano che
Leah parlava. «Ti credo, va bene. Ma anche questo fa parte del
mio carattere, devi capire che...»
Lei
scosse il capo e mi regalò un bacio sul naso, per poi
ridacchiare. «È anche per questo che ti adoro, sai? Più
ti conosco e più mi piaci.»
«E
non sono più il brutto anatroccolo?» scherzai.
Leah
si accoccolò sul mio petto e prese ad accarezzarne la pelle
con movimenti lenti e delicati. «Sei il brutto anatroccolo più
bello che io abbia mai visto.»
Scoppiai
a ridere e avvolsi il suo corpo tra le braccia, regalandole a mia
volta dolci carezze.
Il
silenzio che si impossessò di noi non fu imbarazzante, riuscì
invece a farmi sentire Leah ancora più vicina.
Ora
lei si era spinta oltre, stava pericolosamente raggiungendo il mio
cuore.
O
forse lo aveva già preso con sé e lo teneva incastrato
accanto al suo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 34 *** LOL ***
ReggaeFamily
LOL
[John]
«Possiamo
rimanere ancora un po' in acqua, se ti va» proposi a Bryah,
lanciandole una veloce occhiata.
Entrambi
ci eravamo voltati verso la riva per seguire con lo sguardo il
gommone con cui la bagnina aveva prelevato i nostri amici; per Shavo
quella gita in pedalò si era rivelata una vera e propria
tortura, ero contento che Miriam fosse accorsa e avesse subito capito
la situazione.
Bryah
ridacchiò. «Perché no?»
Mi
girai nella sua direzione e trovai i suoi occhi su di me. Mi sentii
leggermente a disagio, poiché le immagini di ciò che
era accaduto tra noi la sera precedente lampeggiavano nella mia mente
e mi tormentavano. Ero ben consapevole del fatto che tra noi non
potesse esistere un futuro, ma non sapevo se questo fatto mi ferisse
o meno.
«Ho
un'idea migliore però» osservò lei
all'improvviso, battendo con una mano sulla plastica azzurra del
pedalò. «Riportiamo quest'affare in riva e facciamoci un
bagno come si deve, ci stai?» mi propose, allungando una mano
verso di me.
Gliela
strinsi e suggellammo quel bizzarro accordo. Riprendemmo a pedalare,
cambiando rotta e dirigendoci verso la riva, lasciandoci così
le boe alle spalle.
Miriam
ci vide arrivare e fece qualche passo dentro l'acqua per venirci
incontro; quando fummo abbastanza vicini a lei, afferrò il
bordo del pedalò e lo trascinò con forza sulla sabbia
umida.
«Saltate
giù!» ci incitò.
«Aspetta,
ti aiuto» mi proposi, scendendo in fretta dal mezzo.
Miriam
scosse il capo e mi sorrise. «Fossero tutti così
gentili... in questo posto viene un sacco di gente ricca che però
se la tira un sacco e non si sognerebbe mai di darmi una mano con
questi lavori stancanti»
raccontò. Mi dava l'impressione che si fosse rilassata da
quando Daron non era più nei paraggi, il che mi fece venire in
mente che il chitarrista era sempre in grado di mettere a disagio le
persone, specialmente quelle di sesso femminile.
«Che persone noiose e
snob» osservò Bryah, scendendo a sua volta dal pedalò
e recuperando la sua borsa. «Su John, aiutiamola! Non
sopporterei di passare per una ricca signora con la puzza sotto il
naso» aggiunse in tono schifato, compiendo un brusco gesto con
la mano come se volesse respingere un insetto fastidioso.
Spingemmo il pedalò
sulla piccola lingua di sabbia e lo sistemammo con Miriam accanto
agli altri. Lei ci ringraziò e ci augurò un buon
proseguimento di giornata, allontanandosi in fretta verso la sua
postazione di vedetta.
Io e Bryah ci incamminammo
verso la spiaggia, quasi del tutto occupata dai clienti dell'albergo;
ci sistemammo in un angolino rimasto libero, appoggiammo le nostre
cose sulla sabbia e ci sfilammo i vestiti.
L'occhio
mi cadde sul corpo bruno e formoso di Bryah,
la quale aveva indossato un bel costume intero color porpora. Rimasi
per un attimo incantato da lei, dai suoi gesti e dal modo in cui si
legava frettolosamente i capelli con un grosso elastico multicolore.
«Batterista, che ti
prende? Sei pronto a perdere la gara di nuoto con la sottoscritta?»
mi punzecchiò la giornalista, strizzandomi l'occhio.
«Non sapevo che
avremmo fatto una gara» commentai perplesso, piombando
bruscamente giù dalle nuvole.
«L'ho appena deciso»
affermò in tono solenne.
«Cosa si vince?»
domandai curioso, sentendo improvvisamente la mia tensione
sciogliersi sotto il suo sguardo caldo.
«Chi perde offre il
gelato!» strillò lei all'improvviso, per poi partire di
corsa verso la riva.
La seguii con qualche
secondo di ritardo, ma alla fine ci tuffammo contemporaneamente in
acqua, schizzando senza ritegno i bagnanti che se ne stavano
tranquilli a cercare di bagnarsi il meno possibile per scongiurare i
brividi di freddo che percorrevano la loro pelle.
Uno strillo mi raggiunse non
appena riemersi dall'acqua: vidi una ragazza rivolgere il suo sguardo
verso me e Bryah, gesticolando come una pazza e agitando le braccia
in modo scoordinato e piuttosto ridicolo.
«Che le prende?»
borbottò Bryah, riemergendo a sua volta.
«Non lo...»
«Ma siete impazziti?
Che modi sono questi? Mi avete completamente bagnato!» ci
sbraitò contro. «Ho i capelli tutti bagnati adesso, mi
ero fatta la piastra prima di scendere in spiaggia! E il trucco?! Me
lo avete rovinato, ora il mascara è tutto sbavato, ne sono
sicura! Siete degli incivili!» proseguì imperterrita,
indietreggiando verso la riva come se uno squalo stesse per morderle
una caviglia.
Io e Bryah ci scambiammo
un'occhiata interrogativa e scoppiammo a ridere.
«Ridete pure! Razza di
imbecilli!» continuò a insultarci la tizia, tornando
impettita verso la sua sdraio. Smisi di prestarle attenzione e
continuai per un po' a sbellicarmi dalle risate insieme a Bryah.
«Si è truccata
per venire in spiaggia? Che problemi ha?»
«Non lo so, sono cose
che non capirò mai. Non sono una donna» replicai,
cercando di riprendermi dal momento ilare che avevamo appena vissuto.
«Ehi! Non offendermi,
io non farei mai come lei!» Bryah si finse offesa per un
attimo, poi con uno scatto si tuffò di nuovo. Quando riemerse
gridò: «La sfida ha inizio, battimi se ci riesci! Chi
arriva per ultimo alla boa arancione è uno sfigato e dovrà
pagare due mega gelati con tutti i gusti del mondo!».
Senza
più pensare a nulla, la seguii e mi sentii immediatamente a
mio agio nel nuotare e fare un po'
di esercizio fisico. Era una sensazione bellissima, rigenerante e,
soprattutto, in grado di liberare la mente da qualsiasi pensiero.
«Sto per morire!»
si lamentò Bryah, abbandonata sul suo telo; aveva ancora il
fiatone per la nuotata e si massaggiava le gambe indolenzite.
«Esagerata... io sono
attivo come non mai!» esclamai, sentendo il mio corpo al
massimo della forma. Ero leggermente stanco, ma mi sentivo davvero
bene ed ero contento di aver finalmente approfittato di quello
splendido mare.
«Ho perso miseramente»
mugugnò. «Contro di te non ho speranze.»
Sorrisi. «Sarò
clemente. Se ti fa stare meglio, non dovrai offrirmi il gelato»
tentai di rassicurarla, accovacciandomi di fronte a lei.
Bryah allungò di
scatto il braccio e mi diede una spinta, così persi
l'equilibrio e caddi all'indietro, finendo con il culo sulla sabbia.
«Sei un rammollito, devi rivendicare la tua vincita!» mi
schernì, ridendo fragorosamente.
«D'accordo, l'hai
voluto tu!» ribattei risoluto, poi mi rimisi in piedi. La
sollevai di peso dall'asciugamano e lei, sorpresa, non poté
che aggrapparsi alle mie spalle. Mi avviai tranquillamente verso la
riva e presi a fischiettare fingendo di star trasportando un pacco
postale.
«No, John, mettimi
giù! Ma che fai?» protestò Bryah, prendendo a
dimenarsi come una matta.
«Non fare tante
storie. Meriti una punizione» borbottai, trattenendo a stento
le risate. In realtà, dentro di me sentivo una forte emozione
nell'avere il suo corpo tra le braccia e sentire il suo peso mettere
alla prova i muscoli delle mie braccia. Era una sensazione
incredibilmente bella e dolce, non sapevo neanche spiegarmi come ciò
fosse possibile.
Raggiunsi l'acqua e Bryah
ormai rideva senza ritegno, mollandomi ripetuti pugni sulla schiena e
sulle spalle.
«No, dai, ti prego!
Scusa, scusa, scusa! Non lo farò mai più, ma non
buttarmi in acqua, ormai mi ero quasi asciugata del tutto!» mi
implorò, stringendosi più forte a me per evitare che la
lasciassi cadere.
Sussultai appena
nell'avvertire i suoi seni sfregare sul mio petto. Dovevo darmi una
calmata e riprendere il controllo di me, così decisi di darle
tregua e le feci poggiare i piedi a terra, mollando la presa sui suoi
fianchi.
«Vedi che sei un
rammollito?» mi punzecchiò ancora.
A quel punto le feci lo
sgambetto e lei piombò in acqua di schiena, schizzando tutto
intorno a sé. Lanciò un grido poco prima di finire con
la testa sommersa, poi cominciò a tossire perché
dell'acqua era finita nella sua bocca.
Io rimasi impassibile con le
braccia incrociate al petto, fissando la scena con le sopracciglia
aggrottate, nonostante dentro me sentissi l'enorme bisogno di ridere
come non mai. «Chi sarebbe il rammollito?» la sfidai.
Bryah si sollevò e si
rimise in piedi, tirandosi indietro i capelli che intanto si erano
slegati. «Ritiro ciò che ho detto. Ma così sei
stronzo eh» bofonchiò, avviandosi nuovamente verso il
suo telo da mare.
«E tu sei incoerente.
Non ti va bene niente!» conclusi, lasciandomi finalmente andare
a una sonora risata.
Lei sbuffò e scosse
il capo, poi mi mollò un pugno sul braccio e annunciò:
«Asciughiamoci in fretta, ho voglia di un gelato!».
Annuii. Era bello stare con
lei, mi trovavo a mio agio e sentivo un'enorme complicità con
lei, la quale cresceva minuto dopo minuto.
E non sapevo se esserne
contento o fottutamente spaventato.
«Posso offrire io?»
«John, avevamo un
patto, non ricominciare!»
«Non mi importa»
affermai con un sorriso.
Io e Bryah avevamo consumato
un enorme gelato al bar che si trovava al piano terra dell'albergo,
il quale si affacciava direttamente sulla spiaggia. Ora ci trovavamo
al bancone, dopo aver finito, e io volevo che quella consumazione
fosse segnata sul mio conto, non sul suo.
«Ma perché? Per
una volta fammi fare l'uomo» mi prese in giro.
Il barista, un tipo poco
amichevole che doveva avere una quarantina d'anni, aspettava
impaziente che noi prendessimo una decisione.
«Non se ne parla»
ribattei.
«Invece sì!
Segni pure sul conto di Bryah Philips, prego» tagliò
corto, per poi spingermi verso l'uscita del bar, senza lasciarmi
alcuna opportunità di replica.
«Bryah, perché
sei così testarda?»
«Perché avevamo
un accordo e io rispetto la parola data. Non farne un dramma,
Dolmayan» mi spiegò con semplicità, mentre ci
incamminavamo verso la hall.
Trovammo Dayanara che si
preparava per andarsene: il ragazzo aveva un'aria stanca, tuttavia
cercava di non darlo a vedere. Notai che una cliente dell'albergo lo
stava importunando e non sembrava aver capito che il suo turno era
finito e che avrebbe dovuto rivolgersi allo stagista che già
stazionava dietro il computer.
Bryah mi diede di gomito.
«L'hai riconosciuta?» bisbigliò.
Aguzzai la vista e mi resi
conto di chi si trattava, così mi portai una mano sulla fronte
con fare esasperato.
«Mi ascolta o no?! In
questo albergo avete degli ospiti incivili e maleducati, state pur
certi che non la passerete liscia!» prese a sbraitare la tizia
che io e Bryah avevamo accidentalmente schizzato quando ci eravamo
tuffati.
«Signorina, cerchi di
calmarsi, la prego... si sarà sicuramente trattato di un
malinteso» tentò di farla ragionare Dayanara, mentre
raccoglieva quelle che dovevano essere le chiavi della sua macchina.
«Un malinteso, eh?
Quei due pezzenti mi hanno completamente inzuppato d'acqua, senza
neanche scusarsi con me! Si rende conto di che razza di gente
ospitate qui? Voglio parlare con il direttore, lei è un
incompetente!» tuonò infine la pazza, posando le mani
sui fianchi stretti. Mi sembrava quasi di vedere del fumo uscire
dalle sue orecchie.
«Il direttore non può
riceverla, attualmente non è in albergo, sono spiacente»
rispose Dayanara pacato, utilizzando un tono di voce professionale e
ignorando magistralmente l'insulto che gli era stato appena rivolto.
Bryah sospirò e si
avvicinò ai due. Non avevo idea di quali fossero le sue
intenzioni, tuttavia la seguii per non lasciare che affrontasse da
sola la situazione.
«Smetta subito di
prendersela con questo ragazzo. È fortunata che lui sia una
persona civile e non le abbia detto ciò che si meriterebbe di
sentire! Accusa noi di essere degli incivili, ma lei non si sta
comportando diversamente, a quanto pare» intervenne Bryah,
piazzandosi di fronte alla cretina.
«Ecco, vede di chi
parlavo?» squittì ancora la ragazza. La osservai meglio
e notai che doveva avere più o meno l'età di Leah,
aveva i capelli biondi palesemente tinti e schifosamente lisci, era
perfettamente truccata e aveva il tipico aspetto di una Barbie.
«Vuole delle scuse per
qualcosa che non abbiamo compiuto volontariamente e che non è
certo una tragedia! Ebbene, ci scusi, bambolina di plastica, non
volevamo arrecare disturbo a quei suoi bei capelli e a quel suo bel
faccino! Adesso lei però si scusi con Dayanara» proseguì
Bryah, utilizzando un tono che non ammetteva repliche.
«Ma come si permette?!
Vada al diavolo! E lei, razza di idiota, mi prepari subito il conto!
Non rimarrò in questo luogo squallido un minuto di più!»
gridò isterica, per poi avviarsi in tutta fretta verso
l'ascensore che conduceva alla palazzina dipinta di giallo.
Dayanara sospirò.
«Grazie, signorina Philips, ma sono talmente abituato a gente
come quella... per favore, Markus, puoi preparare il conto a quella
tizia? Il marito si chiama... ehm... non ricordo...» Si portò
una mano dietro la nuca e la massaggiò. «Evans, Alfred
Evans, ecco.»
«Sei sfinito,
Dayanara. Vai a riposare, su» gli consigliai, posandogli una
mano sulla spalla.
Lui mi rivolse un debole
sorriso. «Grazie, John. Non vedo l'ora di buttarmi a letto.
Vorrei dormire per cent'anni...»
«Immagino»
commentai dispiaciuto. «E scusa se hai dovuto sopportare le
grida di quella matta per colpa nostra» aggiunsi.
«Ma ti pare... ci
vediamo, ragazzi, buona serata» concluse, avviandosi in fretta
verso le doppie porte scorrevoli.
Proprio in quel momento fece
il suo ingresso il ragazzo che avevo incontrato due giorni prima
nella hall: per l'occasione, indossava una felpa dei Mayhem e si era
messo in testa un paio di enormi cuffie da studio, le quali
ricadevano come un cerchietto sulla sua testa e appiattivano i suoi
capelli solo nel punto in cui stazionavano, lasciando che il resto
della sua chioma ne fuoriuscisse scompostamente.
«Andiamo, altrimenti
quello mi chiede un altro selfie» dissi in fretta, afferrando
Bryah per un braccio e trascinandola verso l'ascensore della
palazzina bordeaux.
«Un tuo fan?»
domandò, mentre attendevamo che la porta si aprisse.
«Non sa neanche come
mi chiamo, però ha ben pensato di chiedermi una foto e
caricarla subito sui social» spiegai contrariato.
«Che esemplare!»
«È solo un
ragazzino» tagliai corto, per poi entrare in ascensore.
All'improvviso mi venne in
mente qualcosa e mi voltai di scatto verso Bryah. «Ehi, com'è
possibile che tu abbia tutto il necessario per il mare? Ieri sei
tornata in albergo con noi e non avevi...»
Lei rise. «Oh, John!
Mi fai morire dal ridere!»
«Perché mai?»
«Davvero non sai che
qui allo Skye Sun Hotel c'è un piccolo punto vendita dove
poter acquistare dell'attrezzatura per la spiaggia in caso
d'emergenza?» se ne uscì lei con noncuranza, facendo
spallucce.
«Cosa?! No, non ne
avevo idea... ma...» Sospirai. «Questo posto non finirà
mai di sorprendermi» borbottai confuso.
«Ehi John!» mi
richiamò, per poi avvicinarsi a me e cercare il mio sguardo.
«Sei troppo buono e ingenuo» commentò,
sorridendomi con una punta di dolcezza che mi fece sussultare
interiormente.
Poco prima che l'ascensore
si fermasse al terzo piano, la spinsi contro la parete metallica del
box e mi fiondai sulle sue labbra, preda di un improvviso e
incontrollabile impulso.
In un attimo ci eravamo
ritrovati avvinghiati, io le mordicchiavo il labbro inferiore e la
stringevo per la vita, mentre lei aveva affondato le mani sulla mia
schiena e mi premeva contro di sé, lasciandosi baciare.
Non ci rendemmo neanche
conto che le doppie porte si erano aperte, finché una voce
familiare non ci riportò bruscamente alla realtà e ci
costrinse a staccarci l'uno dall'altra.
«Ehi, se volete la mia
camera è libera» esordì Daron in tono pungente.
Gli rivolsi un'occhiataccia
e lo spinsi da parte mentre uscivo dall'ascensore. «Piantala,
idiota» bofonchiai imbarazzato.
«Ciao Daron! Dove stai
andando?» gli chiese invece Bryah, la quale non sembrava
particolarmente turbata dal fatto che il chitarrista ci avesse
sorpresi a essere così vicini.
«Devo trovarmi un
nuovo cellulare. Che casino... cazzo, non ci voleva...» rispose
lui in tono seccato.
«Capisco. Ma, ehi!
Aspetta, io a casa ne ho uno da poterti dare. Quando tornerai a Los
Angeles, potrai comprarne uno nuovo, se il mio ti fa schifo»
gli disse la giornalista, afferrandolo per un polso prima che potesse
entrare nel box.
«Sei sicura? Non è
un problema, faccio un salto in città, qualcosa posso trovarlo
di sicuro...»
Lei scosse il capo. «No,
davvero. Si tratta di un iPhone. È successo che me l'hanno
regalato allo scorso compleanno, sono stati tanto carini con me, però
io sono abituata con il mio cellulare. Ho anche provato a usarlo, ma
proprio non mi ci trovo. Se vuoi te lo regalo» gli propose con
entusiasmo.
«Vuoi regalarmi un
iPhone? Sei pazza per caso?» sbottò il chitarrista
sorpreso.
«Sì, perché?
A te serve, a me no. Semplice.»
Daron la guardò negli
occhi per un po', poi si fiondò ad abbracciarla. «Cristo,
mi salvi la vita!» strillò.
«Macché salvare
la vita! Ehi, mi stritoli!» rise lei, ricambiando per un attimo
il gesto del chitarrista, per poi spingerlo via.
«Siete tutti acidi,
nessuno apprezza i miei gesti d'affetto» si lamentò.
«Ma piantala,
Malakian. Piuttosto, dove sono Leah e Shavo?» intervenni.
«Chi lo sa... io
dormivo fino a poco fa» mi informò. «Be',
troviamoli e vediamo se il nostro bassista si è ripreso, poi
decidiamo cosa fare stasera» propose poi, lanciando un'occhiata
al corridoio che conduceva alle nostre stanze.
Annuii e tutti e tre ci
avviammo verso la mia stanza, immaginando che Shavo potesse trovarsi
lì.
«Ehi» sghignazzò
Daron. «Bussiamo prima di entrare, non si sa mai!»
sibilò, mollandomi una gomitata nelle costole.
«Vacci piano! E
smettila di fare l'idiota...»
Daron si piazzò di
fronte alla porta e prese a battere con forza i pugni sulla
superficie, per poi gridare: «Ehi, piccioncini, possiamo
entrare o state facendo qualcosa di scabroso?».
«Oddio, Daron, non
gridare!» lo apostrofai.
Bryah scoppiò a
ridere e lo spinse via. «Sei sempre il solito indelicato, eh?»
«Daron, sappi che stai
rischiando di morire giovane...» sentii gridare da Shavo; poco
dopo la porta si aprì e il bassista si materializzò
sulla soglia.
Sembrava stare molto meglio
rispetto a qualche ora prima, ero contento che si fosse ripreso in
fretta.
Leah apparve dietro di lui,
dopo essere uscita dal bagno, e sgusciò in corridoio,
guardandosi attorno. Dopo aver individuato Daron, partì
immediatamente al suo inseguimento, gridando: «Vieni qui,
screanzato!».
Lui si mise immediatamente a
correre e i due presero a correre lungo tutto il corridoio, avanti e
indietro, facendo un baccano assurdo e lanciandosi contro scarpe e
indumenti per dare più enfasi alla loro scherzosa lite.
«Ti ammazzo! Come ti
permetti di insinuare certe cose, eh? Sei geloso?» lo canzonò
Leah, sfilandosi uno dei suoi sandali, per poi scagliarlo contro il
chitarrista.
Daron lo schivò per
un pelo e scoppiò a ridere, poi si strappò via la
t-shirt, la appallottolò e rispose all'attacco di lei,
colpendola in pieno viso. «Io? Geloso? Continua a sognare,
mostriciattolo!»
Leah imprecò e
riprese a inseguirlo, finché non riuscì a bloccarlo
contro la porta della sua stanza. Lo tempestò di pugni alla
cieca, per poi tirargli con forza i capelli; infine gli mollò
uno schiaffo e indietreggiò soddisfatta. «Così
impari, pezzente» concluse.
«Non rispondo ai tuoi
attacchi solo perché sei una donna e io sono un gentiluomo dai
sani principi!» ribatté Daron, massaggiandosi la
guancia.
«Ti sta bene»
disse Shavo.
Leah lo raggiunse e i due si
scambiarono un cinque in segno di vittoria, per poi scoppiare a
ridere.
«E comunque la tua
maglietta puzza!» gridò Leah in direzione del
chitarrista.
«Bugiarda!»
«Dai ragazzi, che
facciamo stasera?» intervenni, cercando di capire quale sarebbe
stato il nostro futuro.
«Prima recuperiamo il
cellulare per Daron, poi vediamo. Preparatevi, così poi
passiamo a casa mia e anche io posso cambiarmi» suggerì
Bryah. «Spero solo non ci sia Benton...» aggiunse.
Il mio cuore perse un
battito e improvvisamente la realtà mi piombò
nuovamente addosso, schiacciandomi con il suo insopportabile peso.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 35 *** Taxi! ***
ReggaeFamily
Taxi!
[Daron]
«Il
taxi non arriva più?!» sbottai, mentre facevo scattare
l'accendino per l'ennesima volta. Tirai una lunga boccata di fumo e
lo sbuffai dal naso.
«Non
capisco...» bofonchiò John, aggrottando la fronte.
Osservava confuso il suo cellulare e lanciava occhiate verso il
sentiero che l'auto avrebbe dovuto percorrere per arrivare allo Skye
Sun Hotel.
«Eppure
Dayanara l'ha chiamato di fronte a noi...» commentò
Leah, guardandosi attorno spaesata.
Nonostante
il sole ormai stesse scomparendo dal cielo, faceva ancora molto
caldo, così Shavo si sfilò il cappellino e prese a
usarlo a mo' di ventaglio, sbuffando per la troppa afa che impregnava
l'aria.
«Che
sfiga!» ridacchiò Bryah.
Leah
alzò gli occhi al cielo e rientrò a passo di marcia
nella hall dell'albergo, sicuramente intenzionata a sollecitare
l'arrivo del nostro taxi.
Bryah,
intanto, prese a camminare avanti e indietro con le braccia
incrociate al petto; John distolse gli occhi dal cellulare e la seguì
con lo sguardo. Mi parve di notare un velo di preoccupazione in quei
due, doveva trattarsi di qualcosa legato al probabile incontro con il
compagno della giornalista.
Shavo
si affacciò nella hall e io rimasi fermo in mezzo al vialetto,
con la canna di nuovo spenta e una confusione incredibile in testa.
Aver
ricevuto notizie da parte di Jessica mi aveva scombussolato, non
potevo certo negarlo; tuttavia stavo cercando di non pensarci troppo,
nonostante mi risultasse piuttosto difficile. Ero sinceramente
contrariato dal fatto che stesse riuscendo, ancora una volta, a
rovinarmi la vita.
Lei
e le sue stronzate su Lars, sul matrimonio con lui, sul fatto che per
lei fossi davvero importante... non volevo saperne, avrei voluto
evitare di risponderle, ma la conoscevo troppo bene e sapevo che
avrebbe continuato a insistere.
Jessica
Miller era così: andava avanti per sfinimento, uccideva la
pazienza altrui a furia di tormentare il prossimo e di angosciarlo
con la sua ossessiva determinazione. E avevo come l'impressione che
con me non avesse ancora finito.
A
distogliermi da quei pensieri fu la ricomparsa di Leah e Shavo che
battibeccavano.
«Io
te l'ho detto, ma tu non mi hai ascoltato!» stava dicendo lei
in tono seccato.
«Scusa
se volevo rendermi utile!» si giustificò lui.
Leah
prese a gesticolare furiosamente. «Il tuo concetto di renderti
utile significa trattare male il
povero Dayanara?!» obiettò ancora la ragazza.
«Non
l'ho trattato male, ho solo espresso la mia opinione... secondo me
prima non aveva telefonato per prenotare il nostro taxi! Se penso una
cosa non posso dirla?»
«C'è modo e
modo, poveretto!»
Mi scappò un piccolo
sorriso e scambiai una rapida occhiata con il batterista, il quale
non si era lasciato sfuggire nulla ed esibiva una delle sue solite
espressioni serie e indecifrabili. Bryah, accanto a lui, si era
fermata e sorrideva appena nell'osservare la scenetta tra Leah e
Shavo.
«Gli chiederò
scusa più tardi... non l'ho fatto mica per offenderlo, gli ho
solo detto cosa pensavo» borbottò il bassista.
Era arrivato il momento in
cui si rendeva conto di aver esagerato e doveva ammetterlo a se
stesso, lo conoscevo troppo bene e sapevo che presto avrebbe
cominciato seriamente a sentirsi in colpa.
«Dai, Leah, lascialo
in pace. Sono sicuro che Dayanara non si sia incazzato» cercai
di sdrammatizzare.
«Però ha
esagerato.»
Sospirai. «Sei
assurda, ragazza mia.»
Leah stava per ribattere,
quando John intervenne: «Il taxi sta arrivando. Ora smettetela
di litigare come bambini, va bene? Fate i bravi».
Tutti ci voltammo verso
l'imboccatura del vialetto e notammo un'auto bianca in avvicinamento;
questa mostrava in cima un cartellino con su scritto TAXI. Eravamo
già pronti a salire a bordo, quando ci rendemmo conto che la
macchina in questione aveva solo quattro posti liberi.
«Scusate, ma quello è
il nostro?» chiese Bryah perplessa.
«Io vado in braccio a
John» sghignazzai.
«Sogna» ribatté
prontamente il batterista.
«Shavo, chiedigli se è
il nostro taxi!» esclamò Leah.
Il bassista si accostò
all'auto, dal lato del guidatore, e cominciò a parlare con
l'autista. Notai l'uomo scuotere il capo, così sospirai e mi
riaccesi la canna.
«Non è per noi»
ci informò Shavo, tornando rapidamente da noi.
«Cazzo»
imprecai.
«Io però...»
Shavo si tolse e rimise il cappellino con fare nervoso. Si guardò
attorno, poi proseguì: «Mi sa che vado a scusarmi con
Dayanara...»
John sospirò. «Lo
sapevo.»
«Anche io»
aggiunsi in tono ironico, sollevando il pollice in direzione del
batterista.
«Puoi farlo anche
dopo» gli consigliò Leah.
«Sei una
contraddizione che deambula, Leah Moonshift!» esclamò il
bassista confuso.
Intanto notai una figura
femminile uscire dall'hotel. Si avvicinò a passo spedito al
taxi e, poco prima di salire a bordo, si voltò a guardarci.
«Ciao» ci salutò
Miriam, la bagnina che ci aveva aiutato con il pedalò.
Le indirizzai un sorrisetto
enigmatico e subito distolsi lo sguardo, fissandolo altrove. Quella
ragazza era davvero bella, non mi sarebbe dispiaciuto conoscerla
meglio sotto diversi punti di vista.
«Ciao Miriam!»
gridò Leah con entusiasmo.
La bagnina salì a
bordo del taxi e l'auto ripartì immediatamente. Rimanemmo
ancora una volta in attesa.
«Siamo proprio una
banda di sfigati. Avremmo dovuto specificare al tassista che siamo
delle celebrità» blaterai.
«Celebrità?!
Quali celebrità?!» scherzò Bryah, fingendo di
prendere in mano un'immaginaria macchina fotografica.
«Scherza, scherza...
tanto...» stava dicendo Shavo, quando a un certo punto qualcuno
ci interruppe.
«Ecco, questa sì
che si chiama gran bella botta di culo!» esclamò una
voce maschile.
Mi voltai verso l'ingresso
dell'albergo e mi ritrovai di fronte una ragazzino che doveva avere
circa diciotto anni; aveva dei capelli lunghi e ribelli ed era
vestito completamente di nero. Sfoggiava una felpa degli Slayer che
mi metteva caldo solo a guardarla e ci puntava con lo sguardo neanche
fossimo insetti da studiare al microscopio.
«Ecco, appunto, volevo
dire proprio questo...» borbottò il bassista in tono
esasperato.
«Voi siete quelli dei
System, finalmente vi ho trovato tutti! L'altro giorno ho incontrato
solo lui» proseguì il ragazzino, additando John.
Quest'ultimo aveva
incrociato le braccia al petto e notai che stava trattenendo uno
sbuffo. «Già» commentò in tono piatto.
«Quelli
dei System hanno un nome, non lo
sapevi, amico?» scherzò Shavo, anche se io sentivo
chiaramente che non era
particolarmente divertito. Lo vedevo nervoso e la cosa non mi
piaceva.
«Ehi, io sono Daron,
cosa ti serve?» mi feci avanti, facendo nuovamente scattare
l'accendino. Feci un tiro dalla mia canna e mi accorsi che il
ragazzino la stava puntando con occhi famelici. «Eh no, questa
non posso dartela. Ma se vuoi posso autografarti le chiappe, eh?»
Lui sorrise appena, a
disagio, poi estrasse il suo smartphone. «Mi basterebbe anche
una foto» mormorò.
«Solo una foto? Ti
facevo più caparbio, amico. Ti piacciono gli Slayer? Ci vanno
giù pesante, vero? Già!» continuai a farneticare.
Stavo cominciando a divertirmi, mi piaceva mettere a disagio i fan
ridicoli come lui.
«Sì, ci puoi
contare! Mi piacciono eccome!» confermò il moccioso,
continuando a brandire il suo cellulare come un'arma.
«Sono contento! Allora
se vuoi ti saluto il caro Tom Araya, ne sarà felicissimo»
inventai sul momento, trattenendo a stento le risate. Intanto notai
con la coda dell'occhio che anche per i miei amici stava divenendo
difficile trattenersi dal ridere, così aggiunsi: «Dai,
John! Shavo! Non fate gli orsi e mettiamoci tutti in posa per una
bella foto con questo simpatico ragazzo! Com'è che ti chiami,
fratello? Dai il cellulare a quella ragazza, ci pensa lei a
scattare!». Feci l'occhiolino a Leah e lei annuì appena.
Intuii che aveva qualcosa in mente e attesi di scoprire di cosa si
trattasse.
«Mi chiamo Brandon»
disse il tizio. Sembrava un po' confuso e intontito dal mio tanto
parlare, ed era proprio ciò a cui volevo arrivare.
«Dai ragazzi, venite
qui!» strillai verso i miei colleghi, accostandomi apposta
all'orecchio di Brandon. Quest'ultimo fece un balzo indietro e
imprecò tra i denti.
John e Shavo si scambiarono
un'occhiata interrogativa, poi ci raggiunsero e tutti insieme ci
mettemmo in posa per una foto. Io circondai le spalle del fan con un
braccio e strinsi un po' troppo forte, godendomi il suo crescente
disagio. Gli stava bene, mi aveva trovato in un momento poco propizio
per i rapporti interpersonali.
Leah si avvicinò a
lui e afferrò il cellulare, poi si allontanò di nuovo e
scattò qualche foto.
Mi staccai bruscamente da
Brandon e gli battei forte sulla spalla, facendo sì che si
piegasse leggermente in avanti per il dolore. «Brandon, è
stato un piacere. Vedi di fare il bravo, chiaro? Ci si vede in
giro!».
Leah gli restituì lo
smartphone e tutti lo salutammo velocemente, allontanandoci da lui.
La nostra fotografa
d'eccezione ridacchiò. «Gli ho fatto proprio un bello
scherzetto» disse, prendendo Shavo sottobraccio.
«Cioè?»
volli sapere.
«In pratica...»
«Ragazzi!»
strillò all'improvviso qualcuno. Riconobbi quella voce
femminile e stridula anche senza voltarmi.
«Lakyta» sospirò
Leah.
«Ma quando cazzo
arriva il taxi?» si spazientì Shavo, scuotendo il capo.
«Non so, ma è
strano...» disse John perplesso.
«Ragazzi, aspettate!
Sentite, Day mi ha detto che sta per arrivare un taxi che vi porterà
in città. Posso unirmi a voi?» ci chiese Lakyta,
piazzandosi di fronte a noi per evitare che continuassimo a
ignorarla.
«Cosa?! Scordatelo!»
sbottò Leah, freddandola con un'occhiataccia.
«Non decidi da sola!»
la fronteggiò l'altra, piantandosi le mani sui fianchi.
«Dai Leah, non fare
così...» ridacchiai, accostandomi a lei e posandole una
mano sulla spalla. «Non ci costa niente, giusto?»
Leah si voltò a
scrutarmi con fare preoccupato. «Che cazzo dici?»
Le strinsi appena la spalla
e le strizzai brevemente l'occhio. «Dico che possiamo anche
essere gentili per una volta.»
Leah parve capire che avevo
in mente qualcosa e che l'avrei aiutata come lei aveva aiutato me
poco prima. «E va bene» concesse, per poi rivolgersi
nuovamente a Lakyta.
«Allora posso unirmi a
voi, perfetto. Meno male che c'è Daron, altrimenti tu ti
comporteresti da acida quale sei da sempre» sputò la
barista nei confronti di Leah, per poi voltarle le spalle. Prese a
frugare nella sua borsa e ne estrasse un piccolo kit per il trucco
con tanto di specchietto.
«Vedrai quanto ti
divertirai» sghignazzai a bassa voce, dando di gomito a Leah.
«E tu che hai fatto con Brandon?»
«Forse ci siamo!»
esclamò Bryah, individuando un'auto in avvicinamento.
Stavolta era davvero giunto
il nostro taxi, così ci avvicinammo in fretta e io feci in
modo di accomodarmi sui sedili posteriori con Lakyta, pronto a
divertirmi un po'.
Quando stavamo per partire,
notai che Brandon stava sbraitando e abbassai il finestrino per
capire cosa stesse dicendo. Ci additava con la mano destra, mentre
nella sinistra stringeva convulsamente il cellulare.
«Bastardi, siete dei
bastardi!» continuava a gridare.
Fischiai nella sua
direzione. «Che succede, amico?»
«Che succede?! Quella
cretina della vostra amica non ha scattato nessuna foto!»
strillò il ragazzino.
La consapevolezza di ciò
che Leah aveva combinato mi colpì, così non riuscii a
trattenere le risate. «È perfetto così!»
conclusi, per poi risollevare il vetro.
Tutti gli altri presero a
ridere insieme a me, complimentandosi con Leah per la sua trovata.
Lakyta, dal canto suo, rimase in silenzio finché non smettemmo
di sghignazzare.
«Io
non lo trovo divertente» commentò poi, totalmente a
sproposito e senza che nessuno la interpellasse. «Come al
solito è stata maleducata e
antipatica, pensa te che novità!» aggiunse acida.
«Tesoro, nessuno ha
chiesto il tuo parere» tagliò corto Leah, per poi
cominciare a parlottare con Shavo e Bryah che occupavano i sedili
davanti ai nostri.
John, come suo solito, stava
intrattenendo una conversazione con il conducente. Il batterista era
sempre il solito, riusciva a chiacchierare con chiunque, pur
rimanendo sempre sul vago e mantenendo il suo atteggiamento pacato e
al limite della timidezza.
Mi voltai completamente
verso Lakyta e mi sporsi verso di lei, cercando il suo sguardo. «Ehi
dolcezza, come va? I video sono ricomparsi sul tuo cellulare?»
bisbigliai con ironia.
«Spiritoso»
disse irritata.
«Oh andiamo, non
possiamo fare pace?» le proposi, allungando una mano fino a
sfiorarle un ginocchio. Indossava un vestito piuttosto corto che
lasciava poco all'immaginazione, perciò non mi fu difficile
far entrare in contatto la mia mano con la pelle nuda delle sue
gambe.
«Fare pace con te?»
si rivoltò, scacciando senza troppa convinzione le mie dita.
«Certo. Con chi
altrimenti? Avanti! Ci tengo troppo» mentii spudoratamente,
tornando all'attacco. Stavolta afferrai la sua mano e la strinsi con
forza, costringendola ad accostarsi leggermente a me.
«Daron... piantala»
mormorò senza alcuna convinzione.
«Lo vuoi anche tu,
vero? Ci divertiamo un po' insieme, che ne pensi? Su, non fare la
difficile. Tra pochi giorni ripartirò, non ci vedremo mai
più... tu non sei triste?»
«Non direi... però...»
Sorrisi. «Oh, dai, lo
so che ne hai voglia. L'altro giorno, in spiaggia, mi sono divertito
solo io. Non è giusto, accidenti a me!» finsi di
schernirmi, battendomi teatralmente una mano sulla fronte.
Lakyta mi fissò
dubbiosa, poi si divincolò dalla mia stretta. Pensavo che si
sarebbe ritratta ancora una volta, invece fece scivolare le dita sul
mio petto e lo carezzò attraverso la stoffa della maglia.
«Cominciamo a
ragionare» commentai, per poi scostarmi bruscamente da lei. «Ma
non ora» aggiunsi secco.
Mi sistemai comodo sul
sedile, dal lato opposto al suo, portai fuori i miei auricolari e li
infilai alle orecchie senza neanche degnarla di un'occhiata. Li
collegai al cellulare e misi su un po' di musica a caso, senza badare
troppo a ciò che stavo ascoltando.
Con la coda dell'occhio
notai che la ragazza non fece che fissarmi durante tutto il tragitto,
mentre la sua espressione si faceva sempre più confusa e
perplessa. Con lei non avevo ancora finito, il mio divertimento era
appena all'inizio.
«Quanto
le dobbiamo?» chiesi al tassista, quando ci fermammo nei pressi
del Fyah; Kingston era
piena di vita, i locali pullulavano di gente e molte persone
erano a caccia di un buon posto dove cenare. Dovevano essere
all'incirca le otto di sera e anch'io cominciavo ad avere una certa
fame.
«Sono settantasei
dollari e ventisei centesimi» disse l'uomo.
Mi frugai in tasca e
sollevai lo sguardo su Lakyta. «Merda, ho lasciato il
portafoglio in albergo! Ragazzi, ci pensate voi?» interrogai i
miei amici. Quando incrociai il loro sguardo, strizzai leggermente
l'occhio sinistro e sperai che mi reggessero il gioco.
«Io non ho abbastanza
contanti e mi servono per la cena» dichiarò Bryah,
fingendo di guardare dentro il suo borsellino viola.
«Shavo, dovevi portare
tu la carta di credito stasera. Ce l'hai, vero?» si informò
John con voce studiatamente preoccupata.
«Io?! Ma dico, sei
scemo? Dovevi prenderla tu!» si rivoltò il bassista con
rabbia.
«Ora non litigate, vi
prego! Cerchiamo piuttosto di trovare una soluzione» finse di
interloquire Leah.
«Appunto, cerchiamo
una soluzione. Tu che dici, eh?» inveii contro di lei.
«Io sono a secco, mio
padre non ha sganciato niente oggi. Shavo mi aveva assicurato che ci
avrebbe pensato lui per stasera...»
«E allora?» fece
John desolato. «Ci scusi, non ci voleva proprio questo
inconveniente...»
Quasi
contemporaneamente, tutti ci voltammo a guardare Lakyta. Lei si
ritrasse contro il sedile, trovandosi improvvisamente al centro
dell'attenzione generale.
«Ehm... Laky, tesoro,
mi dispiace per prima. So che sono un disastro» cinguettò
Leah. «Ma... potresti pagare tu? Non sappiamo proprio come
fare.»
«Già, sul
serio. Fortunatamente per il rientro posso pagare io il taxi ai
ragazzi, dobbiamo giusto passare a casa mia...» rincarò
Bryah in tono dispiaciuto.
«Poi te li
restituiamo, promesso» aggiunsi a mia volta, rivolgendole
un'occhiata accattivante. Le posai nuovamente una mano sulla coscia e
la accarezzai piano, sentendola rabbrividire sotto il mio tocco.
«Va bene... sì»
accettò.
«Grazie. Ti ripagherò
a dovere, non dubitarne» conclusi, per poi scendere in tutta
fretta dall'auto.
I miei amici fecero lo
stesso e in fretta e furia ci dirigemmo a piedi verso casa di Bryah,
lasciando Lakyta a vedersela con il tassista.
In questo modo evitammo che
potesse seguirci. Una volta svoltato l'angolo, scoppiammo tutti a
ridere come matti.
«Daron, Leah: oggi vi
siete superati!» esclamò Bryah.
Io e Leah battemmo il cinque
e ci circondammo le spalle a vicenda.
«Siamo una forza!»
strillai.
«Non glieli
restituiremo mai» concluse Leah.
«Ehi,
giù le mani, Malakian!» mi ammonì scherzosamente
Shavo, afferrando Leah per i fianchi
e stringendola da dietro. «Lascia che anche io mi complimenti
con lei per la sua genialità» aggiunse poi, cominciando
a farle il solletico.
«Shavarsh, piantala!
Che idiota!» si divincolò la ragazza, continuando a
ridere.
«Dai, andiamo!
Recuperiamo questo dannato cellulare per Daron e poi gettiamoci su
qualcosa da mangiare, sto morendo di fame!» esclamò John
con un sorrisetto ammiccante.
«Agli ordini, capo!»
acconsentimmo in coro.
Riprendemmo a camminare e le
nostre risate si persero tra la folla e il baccano dei numerosi
locali di Kingston.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 36 *** Breakdown ***
ReggaeFamily
Breakdown
[Leah]
L'abitazione
di Bryah era deserta, evidentemente il suo ragazzo non c'era. Mi
guardai attorno ed esaminai l'ambiente non molto ampio in cui la
giornalista ci aveva condotto: ci trovavamo in un piccolo ingresso
che presentava pareti color pesca e qualche pianta finta sparsa qua e
là. Individuai un portachiavi a forma di gatto nero sul muro e
alcuni piccoli quadri che rappresentavano diverse razze di felino.
«Ti
piacciono i gatti, eh?» commentai, rivolgendo un enorme sorriso
alla giornalista.
«Già.
Solo che lui è
allergico e non ho mai potuto prenderne uno, da quando abito qui. Ma
almeno mi rifaccio gli occhi con i quadri e altri oggetti che
rappresentano il mio animale preferito» spiegò lei,
facendoci strada attraverso una delle porte in legno scuro che
affacciavano sull'ingresso.
Daron si infilò in
fretta davanti a me, così rischiai di andare a sbattergli
contro.
«Sei cretino?!»
lo apostrofai, spintonandolo con forza.
«Avevo fretta...»
borbottò.
Ridacchiai. «Ma di
cosa?»
«Aveva fretta di
andare al diavolo» commentò Shavo, posandomi
delicatamente una mano sulla schiena.
«Odadjian, taci»
si rivoltò il chitarrista in tono irritato.
«Siete
proprio dei bambini... dai, sedetevi! Cosa vi offro? Vediamo cosa c'è
in frigo...» disse Bryah, indicandoci le sedie in ferro battuto
che stavano intorno a un
tavolo tondo dello stesso materiale. Lei intanto si piazzò di
fronte al frigorifero e ne spalancò lo sportello, scrutando al
suo interno con la fronte corrugata.
Daron corse a sedersi e
appoggiò i gomiti sulla superficie di fronte a sé,
prendendo a scandagliare i numerosi quadri che ritraevano gatti di
ogni colore, dimensione e razza, messi in tantissime posizioni
diverse. «Wow» commentò con ammirazione.
«Ora so cosa
regalargli per il compleanno» sghignazzò John, dando di
gomito a Shavo.
«Un gatto?»
chiesi io perplessa.
«No, un quadro come
questi» mi rispose John sottovoce.
«Non sparlate di lui,
guardate che si incazza» ci avvertì scherzosamente il
bassista.
«Allora? Mi ascoltate
o no? Ho detto che c'è solo una birra, mezza bottiglia di
succo alla banana – certo, non so da quanto è qui dentro
– e poi... dell'acqua.» Bryah sospirò e richiuse
il frigorifero. «Sono desolata di non potervi offrire di
meglio» aggiunse.
«Ma va'! Ci va
benissimo un bicchiere d'acqua fresca, grazie» la rassicurò
Daron gentilmente, strizzandole l'occhio.
Lei si allungò verso
di lui e gli batté sulla testa come se si stesse rivolgendo a
un cane. «Chitarrista, non fare il cascamorto con me, non
attacca» lo apostrofò con nonchalance. «A
proposito... quand'è che ci provi con la bagnina?»
Tutti scoppiammo a ridere e
ci sistemammo sulle sedie attorno al tavolo. Queste, però, non
bastarono per tutti, così Shavo si accomodò sul
bracciolo del divano che era addossato alla parete che ospitava anche
il piano cottura.
«Shavo, siediti sulla
sedia, ma che fai?» lo rimproverò la padrona di casa,
mentre prendeva dei bicchieri dalla credenza.
«E tu dove ti metti
altrimenti? Sto comodo così» la rassicurò il
bassista con un'alzata di spalle.
Mi voltai a guardarlo e
rimasi per un istante incantata dal suo modo dolce di sorridere: il
suo viso magro assumeva un'aria leggermente buffa che faceva
tenerezza, facendo sì che si intravedessero appena delle
deliziose fossette agli angoli della bocca. Indossava uno dei suoi
soliti cappellini da baseball e degli abiti semplici e un po' larghi,
che non aderivano affatto al suo fisico asciutto. In quel momento mi
venne un'incredibile voglia di abbracciarlo, non sapevo spiegarmi
neanche il perché, ma quel ragazzo sapeva sempre trasmettermi
delle sensazioni positive e colme di dolcezza, una dolcezza quasi
commovente e a cui non ero minimamente abituata.
Rischiai
seriamente che i miei occhi si inumidissero,
poiché in quel momento mi venne in mente la freddezza di colui
che, anagraficamente parlando, era mio padre; Alan Moonshift non si
era mai sprecato in carezze e abbracci, lui era sempre stato soltanto
un affarista per me, un imprenditore,
una macchina per fare soldi. Neanche le sue numerose amanti erano
state in grado di scalfire quella corazza di indifferenza, quel suo
modo calcolato e studiato di porsi, anche con la sua stessa figlia.
Da quando eravamo arrivati
in Giamaica, lo avevo evitato come la peste e lui aveva fatto lo
stesso con me, lasciandomi in pace. Sapeva che non avrei retto
un'intera settimana con lui e Medison, ne era consapevole anche se
cercava di fingere che la nostra fosse una situazione normale, una
famiglia normale.
Distolsi lo sguardo da Shavo
e lo abbassai sul tavolo di fronte a me; volevo dare a tutti
l'impressione di star studiando i ghirigori scolpiti sul ferro
battuto, anche se in realtà mi sentivo improvvisamente vuota e
triste. Tuttavia, non era da me mostrarlo, né tanto meno
lasciarmi prendere dallo sconforto. Inoltre, io e Shavo non eravamo
soli, non mi sarei mai permessa di correre ad abbracciarlo come una
stupida di fronte a tutti, solo perché mi ero lasciata
prendere da quell'improvvisa e insensata malinconia.
«Grazie, quest'acqua è
buonissima» esclamò Daron all'improvviso, utilizzando un
tono tremendamente ironico.
«Ma piantala, sei
proprio un idiota. L'acqua è solo acqua» tagliò
corto Bryah.
«Non
è vero, mi pare quasi di sentire un retrogusto di vodka... che
delizia!» proseguì il chitarrista, scolandosi in fretta
e furia il resto del liquido
presente nel suo bicchiere.
Avvertii una mano posarsi
sul mio braccio e mi voltai, sorpresa. Shavo mi osservava con
attenzione e pareva leggermente preoccupato.
«Che succede?»
mormorò.
«Niente di che, stai
tranquillo» risposi con poca convinzione.
«Ne vuoi parlare?»
indagò. Ovviamente non mi aveva creduto, c'era da
aspettarselo.
«Non ora.»
«Va bene, ma ora cerca
di sorridere. Dai» mi incoraggiò, cercando la mia mano
per poi stringerla. I suoi occhi scuri e caldi nei miei non fecero
altro che accrescere il desiderio di sentirmi stringere da lui e
nascondermi in quell'attimo di sicurezza, uno dei tanti che solo lui
sapeva darmi.
«Grazie»
sussurrai, regalandogli un debole sorriso. Non volevo si preoccupasse
per me, non era il caso.
«Vado a cercare il
cellulare. Ah! Leah, scusa, non ti ho versato l'acqua, che stupida!»
saltò su Bryah, allungando una mano verso la bottiglia.
Immediatamente prima che
potesse raggiungerla, il batterista allungò la sua e le loro
dita si sfiorarono. Li notai sollevare contemporaneamente lo sguardo
l'uno sull'altra.
«Ci penso io» le
disse John con calma, senza scomporsi troppo.
Lei annuì e lasciò
la stanza.
John mi verso l'acqua in un
bicchiere pulito e me lo passò.
«Daron, ne vuoi
ancora?» chiese poi al chitarrista.
«Mmh... forse...»
«Cosa vuol dire forse?
O sì o no, decidi» lo incoraggiò il batterista.
«Mmh...»
Daron non fece in tempo a
continuare che un rumore ptoveniente dall'ingresso risuonò
nell'aria.
La serratura scattò,
poi una voce maschile si fece largo nel silenzio che era calato tra
noi: «Tesoro? Sei tornata?».
Mi pietrificai sul posto e
lanciai un'occhiata preoccupata a John, il quale era diventato di un
colorito cadaverico e teneva la bottiglia dell'acqua a mezz'aria;
questa prese a tremare leggermente nella sua mano e la plastica
produsse un leggero scricchiolio sotto la pressione esagerata delle
sue dita.
Mi voltai leggermente verso
Shavo e lo interrogai con gli occhi; lui scosse appena il capo e
fissò lo sguardo sulla soglia della cucina. Mi domandai se
Bryah si fosse resa conto che il suo compagno era tornato a casa.
«Merda» imprecò
Daron tra i denti, a bassa voce, osservando a sua volta il rettangolo
della porta, che attualmente era spalancata.
«Bryah? Tesoro?»
Il portoncino d'ingresso si richiuse e dei passi avanzarono verso la
cucina.
D'istinto, senza pensarci
due volte, mi alzai di scatto e raggiunsi la soglia, poggiando una
mano sullo stipite.
Di fronte mi trovai un uomo
dalla carnagione olivastra, ben piazzato e tremendamente muscoloso;
aveva diversi tatuaggi sulle braccia, portava i dreadlocks piuttosto
corti e sottili e i suoi occhi neri scintillarono non appena mi ebbe
individuato.
«E tu chi saresti?»
mi apostrofò in tono irritato e perplesso.
Allungai una mano verso di
lui. «Piacere, sono Leah, una nuova amica di Bryah. Tu devi
essere Ben, giusto?»
«Benton»
bofonchiò. «Non ho mai sentito parlare di te»
aggiunse con le folte sopracciglia aggrottate.
«Io e Bryah ci
conosciamo da poco. Ehm... sono qui con degli amici, te li presento,
vuoi? Bryah è andata al bagno» mi inventai sul momento,
facendo cenno verso l'interno della cucina.
«Amici? Quali amici?»
si insospettì subito il nuovo arrivato; si precipitò
all'interno della stanza e quasi mi travolse per quanta foga impiegò
nel compiere quel gesto.
Mi voltai su me stessa e
notai Benton che guardava in cagnesco i tre componenti dei System. «E
voi chi cazzo siete?» ruggì.
«Ehi, Benton, sono
solo degli amici. Dei miei amici.» Mi accostai a Shavo e gli
posai una mano sulla spalla sinistra. «Lui è Shavo, il
mio ragazzo. Loro sono Daron e John, loro tre sono come fratelli.
Capisci, non potevo lasciarli in albergo, così Bryah mi ha
detto che non ci sarebbero stati problemi nel portarli qui con noi»
spiegai. «Ma ce ne andiamo presto, non ti preoccupare.»
Il primo ad aprir bocca fu
Daron: «Piacere di conoscerti, amico. Scusa se abbiamo invaso
casa tua».
Benton si concentrò
su di lui e io potei tirare per un attimo il fiato. Stavo cercando di
mettere quel tizio a suo agio ed evitare che si ponesse troppi
interrogativi o pensasse che Bryah avesse chissà quali
rapporti con qualcuno dei ragazzi.
Mi voltai a scrutare Shavo e
lo trovai con gli occhi su di me; aveva un'espressione strana dipinta
in viso, aveva gli occhi leggermente sgranati e la bocca semiaperta.
Sussultai appena e inclinai la testa di lato.
«Forse ho esagerato a
dire che sei il mio ragazzo, vero?» bisbigliai.
«Un po'...»
ammise.
«Scusa»
borbottai, sentendomi un poco in colpa per averlo messo in imbarazzo.
Non avrei voluto, ero partita con l'intenzione di tranquillizzare il
compagno di Bryah, ma avevo commesso un piccolo sbaglio.
Spostai la mano dalla sua
spalla e la lasciai ricadere lungo il mio fianco, poi distolsi gli
occhi da lui e li posai su Daron e Benton.
Quest'ultimo sembrava aver
preso in simpatia il chitarrista e i due chiacchieravano come se
fossero due amici di vecchia data.
«Ho fatto dei lavori
di ristrutturazione al museo di Marley» stava raccontando il
padrone di casa. «È stato un buon lavoro, mi hanno
pagato bene.»
«Immagino, quel posto
è spettacolare» concordò Daron.
Poco dopo Bryah piombò
nella stanza; stringeva in mano una scatola a forma di
parallelepipedo e sembrava mortificata per averci abbandonato così
a lungo.
«Eccomi! Ah, Ben,
ciao! Vedo che hai già conosciuto i miei nuovi amici»
esordì la giornalista, accostandosi al suo compagno.
Mi concentrai su John e lo
trovai con gli occhi fissi sulla bottiglia dell'acqua; nel frattempo
l'aveva appoggiata nuovamente sul tavolo e aveva smesso di dedicare
la sua attenzione a qualsiasi oggetto o persona. Sentivo che
probabilmente era tremendamente a disagio, avrei voluto aiutarlo,
fare qualcosa per lui, ma come potevo?
Sinceramente mi sentivo
stretta in quella piccola cucina, sentivo improvvisamente il bisogno
di respirare un bel po' d'aria, così mi accostai al batterista
e gli chiesi: «Andiamo fuori? Ho bisogno di aria».
John si riscosse da quella
sorta di trance e annuì, per poi alzarsi e seguirmi
all'esterno. Nessuno osò fermarci, probabilmente sia Daron che
Shavo avevano capito quali erano le mie intenzioni, anche se forse
nessuno di loro intuiva che anche io mi sentivo poco bene.
«Ho combinato un
casino» sbottò John, non appena si richiuse il
portoncino alle spalle.
L'abitazione di Bryah
affacciava direttamente su una stretta stradina, la quale distava
qualche centinaio di metri dalla via in cui era situato il Fyah.
John prese a camminare
avanti e indietro, le braccia incrociate al petto e i lineamenti del
viso duri e contratti in una smorfia di risentimento e dolore verso
se stesso.
«Anche io»
ammisi, piazzandomi di fronte a lui per arrestare i suoi movimenti
nervosi.
«Non direi»
obiettò.
«Ho detto che Shavo è
il mio ragazzo» ribattei a mia volta. «Ho esagerato e lui
me l'ha detto.»
«Shavo è uno
sciocco.»
«Non lo è, sono
io a esserlo. Oggi c'è qualcosa che non va, mi sento...
John?»
Il batterista aveva lasciato
ricadere le braccia lungo i fianchi e mi fissava, in attesa che
proseguissi.
«Io e Shavo abbiamo
fatto l'amore.»
Lui sbatté le
sopracciglia e rimase immobile.
«Non so perché
l'ho detto, ma... mi sento davvero strana, è come se... è
cambiato qualcosa, John. E non parlo della parte fisica, non parlo
di... cazzo, perché non trovo le parole?»
John sospirò
leggermente e mi posò le mani sulle spalle. «Respira»
mormorò con calma.
Solo in quel momento mi resi
conto di essere tremendamente agitata, di star trattenendo il fiato e
di star perdendo il controllo su me stessa. Questo non mi piaceva
affatto, stavo combinando un disastro.
Seguii il consiglio di John
e mi sentii immediatamente meglio; inspirai ed espirai più
volte, poi mi portai una mano sulla bocca e soffocai uno stupido
singhiozzo che si era fatto largo a partire dal mio petto.
«Leah... ehi, su...
ragazza mia, non fare così» tentò di rassicurarmi
il batterista. Mi afferrò per un braccio e prese a passeggiare
lentamente lungo la via. «Se hai bisogno di sfogarti, io ci
sono.»
«Sono un casino,
sapevo che sarei rimasta fregata» piagnucolai tra le
lacrime, tirando su con il naso. «John, scusami, scusami
tanto...»
«Non ti devi scusare.»
Mi fermai di botto e scossi
con forza il capo, asciugandomi furiosamente le lacrime. «Basta,
diamoci un taglio» affermai con rabbia.
«Il casino lo abbiamo
fatto entrambi. Non avrei mai dovuto cedere a Bryah, non sapendo
che...» John s'interruppe e si portò una mano sulla
fronte, un gesto controllato che tuttavia esprimeva tutta la sua
disperazione.
«Accidenti a noi!»
Strinsi le mani a pugno e mi morsi convulsamente il labbro inferiore.
Dovevo controllarmi, dovevo tornare a essere padrona di me stessa e
di ciò che mi stava capitando.
«Leah.»
«John.»
«Siamo spacciati»
mormorò lui.
Sorrisi appena. «Sei
davvero sicuro che Shavo sia uno sciocco?» gli domandai.
«Ma certo. Vedrai che
già si sente in colpa per ciò che ti ha detto» mi
assicurò, ricambiando il mio gesto.
«Lo spero...»
«Scusatemi, scusatemi
davvero per Benton, lui... io speravo che non ci fosse, invece...»
Eravamo appena usciti da un
locale poco distante dal Fyah e Bryah non faceva che scusarsi
per ciò che era capitato con il suo compagno; non era certo
colpa sua, avevamo provato a dirglielo, ma lei non riusciva a darsi
pace.
Quella giornata era stata
terribile un po' per tutti, tra alti e bassi ne stavamo uscendo tutti
sconfitti e sfiniti.
«Io sto morendo di
sonno» sbadigliò rumorosamente Daron. «Oggi è
stata una tortura!»
Sospirai. «Anche io»
concordai senza troppa convinzione.
La cena era stata per lo più
silenziosa e io mi sentivo veramente giù di morale; parlare
con John mi aveva aiutato a stare un po' meglio, ma in linea di
massima ero davvero malinconica e non avevo più voglia di fare
niente. Improvvisamente mi sentivo troppo simile a Daron, il che era
inquietante.
«Torniamo in albergo?»
propose John in tono piatto.
Bryah si appese
letteralmente al suo braccio. «Di già? No, ragazzi,
dai...» provò a convincerci.
John si scostò
gentilmente da lei ed estrasse il suo cellulare dalla tasca. «Chiamo
un taxi» annunciò, ignorando deliberatamente le proteste
della giornalista. Si allontanò di qualche metro da noi e si
portò l'apparecchio all'orecchio.
«Ce l'ha con me?»
chiese lei a nessuno in particolare.
«Ce l'ha con se
stesso» disse Shavo.
Gli lanciai appena
un'occhiata, ma non mi avvicinai a lui e non intervenni nel discorso;
da quando avevo fatto quella figura di merda, non avevo più
avuto il coraggio di comportarmi spontaneamente con il bassista. Ero
di umore nero e non riuscivo a essere la Leah di sempre.
«Ma tu, mia cara, sei
un po' stronza» sbottò Daron all'improvviso, piazzandosi
di fronte alla giornalista con le braccia incrociate sul petto.
Lei sbuffò. «Scusa?»
«Hai capito bene. Ti
stai comportando male con John, ne abbiamo parlato. Hai ammesso di
star sbagliando, eppure non fai che commettere sempre gli stessi
errori» la accusò il chitarrista senza giri di parole.
«Ti fai i cazzi
tuoi?!» esplose lei irritata.
«No, perché
John è mio amico. Io mi preoccupo per lui» sottolineò
Daron con estrema sicurezza e serietà.
«Ma questi non sono
affari tuoi, fatti da parte e pensa alle cazzate che fai tu!»
«Le cazzate che faccio
io non nuociono alle persone che amo.»
«Ragazzi, piantatela»
mi lamentai, portandomi le mani a tapparmi le orecchie. «Vi
prego!»
«No, Leah! Lui si è
messo in mezzo e...»
«E lei sta facendo
soffrire John» aggiunse il chitarrista.
«Vi prego!»
gridai. «Basta! Possibile che tutti abbiate tanta voglia di
litigare? Che vi prende oggi? Cosa cazzo vi prende? Non ne posso più,
sono stanca, stanca, stanca...» blaterai, serrando ancora una
volta i pugni e avvertendo nuovamente le lacrime che pungevano agli
angoli degli occhi.
Tutti mi fissavano allibiti,
anche John che da poco era tornato da noi dopo aver telefonato alla
compagnia di taxi.
«Leah, ma cosa ti
succede?» mi si rivolse Bryah; sembrava essere più
scossa rispetto al resto del gruppo.
«Io... io non lo so»
farfugliai, mentre le lacrime cominciavano a tradirmi e si
riversavano senza tregua lungo le mie guance.
Shavo si mosse in fretta, mi
raggiunse in un attimo e mi strinse in un abbraccio caldo e
rassicurante, il quale non fece che amplificare ulteriormente le
sensazioni che stavo provando. Mi aggrappai con forza alla sua
t-shirt e mi lasciai andare a un pianto disperato e implacabile.
Finalmente mi trovavo nel posto che da ore avevo desiderato, nel
luogo che mi rendeva sicura e che mi faceva sperare di non star
vivendo soltanto un sogno.
La verità era che, da
quando io e Shavo eravamo stati insieme quel pomeriggio, qualcosa in
me si era spezzato, qualcosa come delle invisibili barriere che
avevano resistito fino a quel momento, per poi cedere e lasciarsi
travolgere dalle sensazioni che solo quel bastardo del mio cuore
sapeva farmi provare.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 37 *** In my arms again ***
In
my arms again
[Shavo]
La
tenevo stretta a me e non volevo che si allontanasse; faceva caldo,
veramente troppo per i miei gusti, ma non potevo permettere che Leah
mi stesse lontano.
L'andamento
costante e tranquillo del taxi cullava il suo pianto, che ormai si
era quasi del tutto placato, anche se ogni tanto udivo ancora dei
singhiozzi scuotere il corpo esile e minuto della ragazza. Si era
rannicchiata contro di me e da quel momento non aveva più
osato compiere alcun movimento né pronunciare una singola
parola.
Io,
intanto, le accarezzavo i capelli e la schiena senza sosta, facendole
capire che ero lì unicamente per starle accanto.
Dentro,
mi sentivo in colpa e sapevo che quel suo crollo emotivo era stato
causato anche da me, dal fatto che l'avessi rimproverata per avermi
definito il suo ragazzo. Perché lo avevo fatto, maledizione?
Che mi era preso? Ero rimasto sorpreso dalle sue parole, questo era
vero, ma non avrei dovuto agire in maniera tanto impulsiva e
indelicata.
«Oggi
è stato un delirio» commentò Daron, rigirandosi
tra le mani l'iPhone che Bryah gli aveva regalato.
«Intanto
tu hai un nuovo telefono, Malakian. Il più fortunato sei stato
tu» borbottò John; era palesemente di malumore e
stentava a nasconderlo.
«Me
l'ha regalato anche se l'ho trattata male. Sono decisamente
fortunato» concordò il chitarrista.
«Che
diamine hai combinato?» volle sapere John.
«L'ho
accusata di essere una stronza nei tuoi confronti» raccontò
l'altro con semplicità.
Il
batterista si irrigidì sul sedile anteriore e si voltò
verso Daron. «Perché lo hai fatto?»
Il
chitarrista si strinse nelle spalle. «Non sopporto chi fa
soffrire le persone a cui tengo, lo sai.»
Leah
si agitò tra le mie braccia e tirò su col naso,
sollevando il capo. Osservò Daron per un po', poi si schiarì
la gola e disse: «Bryah non voleva far soffrire John».
«Non
voleva, ma lo ha fatto e lo sta facendo tuttora.» Daron indicò
con un cenno il nostro amico. «Guardalo. È distrutto da
tutta questa situazione.» Sospirò. «Tu non lo
conosci abbastanza.»
«Lo
capisco, ma... ah, lascia stare» si arrese la ragazza, tornando
a nascondere il viso nel mio petto. «Oggi non ne faccio una
giusta» bofonchiò.
«Sta'
zitta» la rimproverai sottovoce, tirandole appena una ciocca di
capelli.
Il
viaggio proseguì in silenzio, ognuno di noi rimase immerso nei
propri pensieri e non rivolse la parola agli altri.
Avevamo
decisamente bisogno di una bella dormita.
«Adesso
andiamo a riposarci, ne abbiamo davvero bisogno» mormorai a
Leah.
Una
volta scesi dal taxi, mi ero rifiutato di lasciarla camminare sulle
sue gambe, così avevo insistito per tenerla tra le braccia e
non avevo ammesso repliche. Avvertivo tutta la sua fragilità e
non me la sentivo di abbandonarla in quel momento.
«Posso
camminare, Shavarsh...» provò a protestare ancora.
«No
che non puoi.» Entrai nella hall e attesi che Daron e John
richiedessero le nostre chiavi allo stagista che, come al solito,
stava facendo il turno di notte con la faccia attaccata allo schermo
del computer; nel frattempo mi diressi verso l'ascensore e riuscii a
richiamarlo, compiendo una strana manovra con il braccio, evitando
però che Leah sgusciasse via dal mio abbraccio.
Daron
e John ci raggiunsero poco dopo. Stavano battibeccando, ancora.
«Adesso come faccio
con lei? Sai, forse è meglio che neanche la riveda, tanto tra
poco ripartiremo e potrò dimenticarmi di tutto questo»
stava dicendo John.
«Meglio perderla che
trovarla una come lei. Può essere una buona amica, questo non
lo metto in dubbio, però per il resto sarebbe meglio lasciar
perdere. E poi, Dolmayan, tu non sei fatto per queste cose.»
«Quali cose?»
«Per una botta e
via... non sei quel tipo di persona» spiegò Daron.
Nel frattempo l'ascensore si
aprì e noi riuscimmo a incastrarci all'interno del box; il
batterista premette il pulsante numero tre, poi si rivolse di nuovo a
Daron.
«Meglio così,
evito di cacciarmi nei guai in cui ti cacci tu ogni giorno.»
«Non mi sembra che tu
sia messo molto bene attualmente, caro amico mio» lo
contraddisse il chitarrista, per poi sbadigliare ancora.
«Questo non c'entra
niente! Ah, Malakian, taci! Così non mi aiuti.»
«Io ho solo provato a
fare qualcosa per te, sei solo un fottuto ingrato!» sbottò
l'altro con rabbia.
«Hai usato il modo
peggiore.»
Leah sospirò e si
divincolò dalla mia presa; si mise in piedi accanto a me, ma
rimase ugualmente appoggiata al mio corpo e lasciò che le
circondassi la vita con le braccia.
«Ragazzi»
esordì. «Vi prego»
aggiunse.
John e Daron si voltarono a
guardarla, ma proprio in quel momento le doppie porte dell'ascensore
si aprirono e fummo costretti a riversarci nel corridoio dall'ormai
familiare pavimento a scacchi bianchi e bordeaux.
«Facciamo pace? Tutti
quanti, avanti» riprese Leah, spostando lo sguardo su di noi.
«Oggi è stata dura per tutti, però adesso basta.
Per favore.»
Scambiai qualche occhiata
con John e Daron, rendendomi conto che anche loro avevano voglia di
stare tranquilli e di non preoccuparsi più di niente.
«Me lo date o no un
abbraccio?» ci incoraggiò ancora la ragazza.
Mi
accostai a lei e lanciai un'occhiata ai miei amici.
«Allora?»
Chitarrista e batterista ci
raggiunsero e tutti insieme ci stringemmo in un abbraccio di gruppo.
«Non fate più i
cretini, chiaro? Abbiamo così poco tempo da trascorrere
insieme e io vi voglio così tanto bene...» disse Leah
con estrema sincerità. «Mi mancherete un sacco, razza di
idioti!» aggiunse con la voce rotta dal pianto.
«Che sdolcinata»
si lamentò Daron, divincolandosi per primo dall'abbraccio.
«E tu sei un orso»
lo accusò lei.
Sciogliemmo l'abbraccio e
scoppiammo tutti e quattro a ridere.
«Maledizione! Siamo
proprio stanchi, eh?» disse John tra le risate.
«Abbastanza!»
confermò il chitarrista. «Perciò, cari amici
miei, io vi lascio e mi butto a letto! Arrangiatevi!» concluse,
per poi avviarsi di tutta fretta verso la sua camera.
«Buonanotte Daron,
spero di non sentirti russare!» gli gridai contro.
«E tu prenditi cura di
quella ragazza, altrimenti mi muore di crepacuore» concluse
lui, per poi sparire dal corridoio.
«Shavo, resta con lei»
disse John con un sorriso che aveva una nota di amarezza al suo
interno. «Almeno tu che puoi» concluse, per poi darci le
spalle e andare via a sua volta.
Scambiai
un'occhiata con Leah e fui certo che entrambi fossimo in pensiero per
il batterista; a entrambi dispiaceva notare quanto fosse triste e
sconsolato per tutta la
situazione che si era creata con Bryah. Lei aveva deciso di non
tornare con noi in albergo, e forse con quel gesto aveva
definitivamente chiuso con John e aveva posto fine alla loro piccola
avventura.
Il mio amico ne era uscito
palesemente distrutto, nonostante cercasse di nasconderlo e tenerlo
per sé; era un uomo molto razionale, ma non per questo poco
incline a provare sentimenti o emozioni in grado di scuoterlo nel
profondo. Sicuramente si era affezionato molto alla giornalista, era
rimasto colpito e incantato da lei. Il fatto che tra loro fosse
successo qualcosa non aveva fatto altro che accentuare ciò che
provava per lei.
Forse non era amore, anzi,
sicuramente non lo era, non ancora almeno; ma avevo come
l'impressione che per John lo sarebbe diventato, se solo avesse avuto
l'opportunità di conoscere meglio quella donna e di costruire
qualcosa di serio e duraturo con lei.
Invece si era arreso,
rassegnato, aveva smesso di sperarci e io potevo capirlo perché
lo conoscevo e sapevo benissimo qual era il suo modo di ragionare.
Per lui era stato un terribile errore cedere alla passione che lo
aveva unito a Bryah, e ora ne stava pagando le conseguenze
all'interno della sua mente che non smetteva mai di lavorare.
«Povero John, non è
giusto che lui debba soffrire tanto» ruppe il silenzio Leah.
Annuii. «Già.»
Lei mi prese la mano e i
nostri sguardi si incrociarono.
«Andiamo, Shavarsh.»
«Stare con te è
stata una delle emozioni più forti della mia vita, credimi.
Anche se sembro una ragazza esuberante, espansiva e fuori di testa,
la mia vita è piuttosto ordinaria. Non è mai successo
niente di che, non ho mai commesso chissà quali pazzie. Ho
sofferto molto quando i miei si sono separati, ma il punto non è
neanche questo. Mio padre ha cominciato a portarsi a casa un sacco di
donne, a fare un po' come gli pareva, senza dare peso a me. Ha sempre
pensato solo ai suoi stupidi affari e alle sue stupide amanti del
momento; così io mi sono ritrovata a dovermela cavare da sola,
non avevo più uno straccio di punto di riferimento.»
Sospirai. «Con quale
coraggio ti ha abbandonato così?»
Leah
rise con pungente ironia. «Infatti è sempre stato un
codardo, non ha proprio nessun coraggio per fare alcunché. Io
lo tratto sempre con freddezza e insofferenza, ma dentro di me ci
soffro terribilmente. Shavarsh.» Sospirò a sua volta.
«Non mi ha mai abbracciato, non si è mai preoccupato
di farmi un complimento o di farmi capire in qualche modo che teneva
a me. Fortunatamente non sono mai stata una persona che si piange
addosso, ho sempre proseguito per la mia strada. Però a volte
è dura capire di essere sola.
Di non avere una famiglia.»
Mi misi su un fianco e la
attirai a me, tenendola il più vicino possibile. «Non è
giusto.»
«Lo so, ma è
così. Lui non ha mai fatto ciò che stai facendo tu. Non
so cosa significa sentirsi davvero apprezzata da qualcuno, non so
cosa vuol dire essere ascoltata e compresa» ammise. «Non
che io non abbia degli amici, questo non posso dirlo. Però
loro non sono mai arrivati fino in fondo, non hanno mai approfondito
la mia conoscenza, forse per discrezione o perché convinti che
io stessi sempre bene, che la mia esuberanza e la mia solarità
non nascondessero qualcosa di più. Non gliene faccio una
colpa, sia chiaro, sono io stessa a non riuscire sempre ad aprirmi
come vorrei.»
Il cuore mi esplose nel
petto a causa della consapevolezza che con me fosse tutto diverso. «E
io? Io cos'ho in più di loro? È così facile
capirti, apprezzarti... adorarti...» ammisi con estrema
spontaneità, senza avvertire il minimo imbarazzo.
«Esagerato!
Tu... ecco, il tuo problema è che sei diverso dal resto del
mondo, sei una persona sensibile e umana, non so se mi spiego. Tu e i
ragazzi siete davvero forti, siete uniti tra voi e riuscite
comunque a mettere a proprio agio chi vi conosce.» Leah sorrise
e mi lasciò un piccolo bacio sulla spalla. «Sai,
Shavarsh, se penso a te, quasi non riesco a credere che tu sia
davvero quel pazzo che sul palco fa headbanging come un invasato
e suona divinamente il basso. Per me è impossibile
crederci.»
Scoppiai a ridere. «E
questo cosa c'entrava?» la punzecchiai.
«C'entrava eccome! Sei
un idiota, io stavo cercando di essere seria e tu...»
Allungai una mano e la posai
sotto il suo mento, per poi sollevarlo e costringerla a guardarmi
negli occhi. Nella stanza penetrava solo un leggero barlume di luce
proveniente da un qualche lampione posto all'esterno dell'hotel, ma
io riuscivo a scorgere ugualmente la sua espressione mortalmente
seria.
«Perdonami»
mormorai. «Ogni tanto agisco senza pensare, ci sono dei momenti
in cui mi prenderei a pugni da solo. A proposito, scusami per come ti
ho trattato a casa di Bryah. Non volevo, sono solo rimasto sorpreso.»
«Sorpreso...
piacevolmente?» indagò.
«Direi di sì.
Forse è presto per dirlo, cioè, per affermare che...
che stiamo insieme, ma io con te mi trovo bene ed è questo che
conta. Non so come andranno le cose, Leah, sarà sicuramente
difficile. Ma se mi sono avvicinato a te in questo modo, se ho
permesso che ciò accadesse, sappi che non ho nessuna
intenzione di abbandonarti.» Distolsi lo sguardo e mi sforzai
di esprimere ciò che stavo pensando. «Non vorrei mai che
tu mi odiassi come odi tuo padre.»
La ragazza si gettò
letteralmente su di me e prese a riempirmi il viso di baci, mentre
calde lacrime scorrevano per l'ennesima volta sulle sue guance.
«Ehi, che ho fatto di
male per meritarmi tutto questo?» scherzai, fingendo di volermi
ritrarre dal suo assalto.
«Spiritoso! Shavarsh,
sei davvero molto spiritoso» finse di offendersi.
Le presi il viso tra le
mani. «Ripetilo.»
Mi lanciò un'occhiata
perplessa. «Che cosa?»
«Il mio nome.»
«Sbaglio o qualcuno si
sta abituando un po' troppo a certe cose?» mi prese in giro,
allungandosi per baciarmi sulle labbra. «Shavarsh. Perché
ti piace tanto?»
Mi strinsi nelle spalle.
«Solo quando lo dici tu.»
«Ruffiano.»
«Ehi! Ma non va mai
bene niente» mi lamentai.
«Sì che va
bene» sussurrò lei, carezzandomi il petto con
delicatezza. «Va decisamente bene» proseguì,
spostando le mani sulle mie spalle e facendole scorrere lungo le
braccia.
Sentivo un desiderio
bruciante farsi largo dentro me, avevo decisamente voglia di fare
l'amore con lei, nonostante la stanchezza e l'estenuante giornata che
avevamo trascorso.
Leah mi guardò negli
occhi. «Prima di approfittarmi di te, vorrei dirti un'altra
cosa.»
«Certo» la
incoraggiai. «Tutto quello che vuoi.»
Mi
afferrò le mani e le strinse tra le sue, distogliendo lo
sguardo. «Dopo aver fatto l'amore con te, questo pomeriggio, ho
sentito come se qualcosa fosse cambiato. Mi sento diversa, è
come se ora mi rendessi conto
di tante cose, come se
sapessi davvero cosa
sei per me, cosa è successo, cosa mi ha portato fin qui. È
una cosa strana, Shavarsh, lo so. Mi prenderai sicuramente per pazza,
ma ho avuto tante conferme oggi.» Tornò a concentrarsi
su di me e a cercare i miei occhi. «Una di queste è che
sto davvero bene con te. Sotto tutti i punti di vista, anche quando
mi fai incazzare, quando sei paranoico, sei insicuro... quando fai lo
stupido, quando ti incazzi senza motivo, quando battibecchi con Daron
come un matto per motivi stupidi... sto bene con te anche quando mi
dici ciò che pensi, anche se lo fai con poca delicatezza e
d'impulso. Io non sono tanto diversa, non trovi? Tra le mie qualità
non c'è il tatto, questo si è capito. Sto bene con te
perché sei sincero, e sappi che non c'entra niente il fatto
che tu mi abbia nascosto chi sei. In quel caso anche io ho commesso
un errore, ma tutti e due lo abbiamo fatto a fin di bene. Non
volevamo ferirci, io non volevo ferirti e tu non volevi fare del male
a me. L'ho capito. E ti adoro, ti adoro per come sei, perché
in una settimana ti ho conosciuto davvero perché ti sei
lasciato conoscere. In una settimana mi sono aperta come non mai con
te, ho lasciato che le mie barriere crollassero e che tu invadessi il
mio cuore e i miei pensieri. È una cosa pazzesca, Shavarsh.
Pazzesca.»
Ci riflettei su e mi
ritrovai d'accordo con lei su tutta la linea, aveva espresso
esattamente ciò che anche io pensavo, dalla prima all'ultima
parola.
«Lo
penso anche io. Sono convinto che ci siano tante
cose che ancora non sappiamo l'uno dell'altra, ma è anche vero
che siamo a conoscenza di ciò che ci basta, per il momento.
Non mi sono nascosto, non ho celato i miei difetti perché con
te è stato tutto molto spontaneo, era come se ci conoscessimo
da sempre.» Sorrisi. «Ecco, queste sono quelle cazzate
che appaiono nei libri o che la gente dice nei film, ora divento
patetico!»
Leah ridacchiò.
«Schifosamente patetico.»
La attirai al petto e lei fu
ben felice di sistemarsi su di me.
«Ora approfittati di
me» conclusi, mordicchiandole il lobo dell'orecchio destro.
«Con estremo piacere,
Shavarsh» disse.
Poi prese a spogliarmi con
estrema lentezza.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 38 *** Dead Memories ***
ReggaeFamily
Dead
Memories
[John]
Il
sonno non ne voleva sapere di travolgermi, nonostante cercassi di
imporre a me stesso un po' di riposo. Ne avevo bisogno, mi sentivo
sfinito sotto tutti i punti di vista e non ne potevo più di
pensare e pensare e pensare senza sosta.
Dopo
essermi rigirato all'infinito sul letto, mi misi a sedere e mi presi
la testa tra le mani. Dovevo uscire da quella stanza e fare due
passi, non riuscivo a stare fermo, tanta era l'inquietudine che
avvertivo in quel momento.
Sospirai
e mi mossi nell'oscurità, afferrando i primi vestiti che
furono alla mia portata e infilandoli velocemente. Misi ai piedi un
paio di infradito e recuperai le chiavi della stanza. Lasciai il
cellulare sul comodino, sospirai ancora una volta e uscii in
corridoio.
I
faretti posizionati al centro del soffitto illuminavano flebilmente
il pavimento lucido; nessuno, oltre me, sembrava popolare l'albergo a
quell'ora della notte, visto il profondo silenzio che aleggiava
tutt'intorno. Avvertii, in sottofondo, lo sciabordare lontano delle
onde e un leggero russare che doveva provenire da una delle stanze in
cui riposavano i miei amici.
Richiusi
piano la porta alle mie spalle e mi avviai verso l'ascensore, deciso
però a prendere le scale che si trovavano alla sinistra del
box. Inizialmente pensai di scendere di sotto, ma poi cambiai idea e
cominciai a salire.
Volevo
raggiungere la terrazza, certo che lassù non avrei trovato
nessuno. Dovevano essere almeno le quattro del mattino, ma non potevo
esserne sicuro, poiché avevo lasciato anche l'orologio da
polso in camera.
Quando
giunsi alla mia meta, l'ambiente mi parve deserto come me
l'aspettavo. Il chiosco in legno era chiuso e vuoto, le sedie
impilate le une sulle altre e riposte in un angolo; i tavoli erano
spogli e gli ombrelloni ripiegati troneggiavano come sinistri
spaventapasseri.
Mi
accostai a una delle pile di sedie e ne estrassi una, per poi
portarla poco distante dal parapetto. Mi ci sedetti sopra e inspirai
profondamente, lasciando che il profumo salmastro proveniente dal
mare impregnasse i miei polmoni e liberasse la mia mente dai cattivi
pensieri che la affollavano.
La
solitudine, il silenzio e la tranquillità di quel luogo mi
facevano bene all'anima, anche se quest'ultima era attualmente in
condizioni pietose.
Chiusi
gli occhi e mi lasciai trascinare dai miei cupi pensieri. Con Bryah
era andata male, decisamente male, ed era tutta colpa mia. Non avrei
mai dovuto cedere, non avrei mai dovuto permetterle di entrare così
tanto a contatto con me. Il fatto che fossimo stati insieme a livello
fisico per me significava molto di più, non era stata solo una
scopata come tante. Daron aveva ragione a dire che non ero proprio
adatto alle avventure di una notte, soprattutto perché, fin da
subito, la giornalista per me era stata più di una donna
qualunque. Avevo capito fin dal principio che non mi sarebbe bastato
portarmela a letto per sentirmi appagato, c'era stata fin da subito
una complicità diversa, qualcosa che andava a toccare la parte
psicologica e mentale del mio essere.
Qualcosa
mi sfiorò la spalla e sobbalzai per la sorpresa, voltandomi di
scatto. Mi ritrovai di fronte una figura non troppo familiare che mi
fissava con gli occhi lucidi e arrossati dal pianto.
«Ciao»
mormorò la ragazza di fronte a me. «Ah, sei tu...»
«Lakyta?»
mi sorpresi, sbattendo appena le ciglia.
«Già»
sospirò.
«Cosa
fai qui?»
Si
strinse nelle spalle. «Potrei farti la stessa domanda.»
Annuii
appena, ritrovandomi a darle mentalmente ragione. «Non riuscivo
a dormire.»
«Neanche
io.»
La
scrutai per un attimo, poi feci un cenno con la mano verso la pila di
sedie. «Siediti qui.»
«Va
bene.»
Mentre
lei si dirigeva a prendere una sedia in plastica, mi domandai cosa mi
avesse spinto a invitarla accanto a me. Poco prima avrei voluto
evitare di parlare con chiunque, mentre ora non avevo più
tanta voglia di stare da solo a rimuginare. Avrei volentieri
svegliato Leah, con lei si era instaurato un buon rapporto, ma ero
certo che l'avrei strappata dalle braccia di Shavo e non volevo
rovinare i loro ultimi momenti insieme.
Ormai
la partenza della ragazza si avvicinava, così come la nostra,
ma lei sarebbe andata via soltanto poche ore dopo.
Il
tempo era volato per tutti e anche noi avremmo dovuto affrontare la
realtà, una volta tornati a Los Angeles.
Lakyta
appoggiò la sedia di fianco alla mia e ci si lasciò
cadere sopra a peso morto, tirando un lungo sospiro. Sembrava una
persona completamente diversa dal solito, preda di sensazioni
negative in grado di tormentarla. Non era truccata, non indossava
degli abiti appariscenti e provocanti come suo solito e pareva una
ragazza molto semplice e a modo.
«Hai
pianto» osservai in tono piatto, tornando a fissare la
superficie infinita e scura dell'oceano.
«Mi
va tutto male» biascicò. «Ed è tutta colpa
mia.»
«A
chi lo dici.»
«Ho
bevuto un sacco... non sto per niente bene e ho già vomitato
tre volte. Sono uno straccio» raccontò con una punta di
disperazione nella voce roca e tremante.
«È
normale che tu stia così.»
«Mi
sono sentita ferita, mi sono sentita uno schifo quando... temo di
essere confusa.»
«Confusa»
ripetei.
«Sì.
Sono innamorata di Alwan da un sacco di tempo, ma lui... lui è
uno stronzo. Non bada a me, per lui sono solo un'amica. Cornia mi
dice di lasciarlo perdere, eppure io non so come fare.» Lakyta
si interruppe a causa di un singhiozzo. «E ho sbagliato tutto
anche con Daron.»
«Non
fare caso a Daron, lui non conta.»
«Conta
per me. Ho perso la dignità un sacco di volte. Vorrei solo
scappare di qui, vorrei una vita diversa, migliore.» La sentii
tirare su con il naso. «Mia madre era un'attrice, sai? Non è
mai arrivata a Hollywood, non ha mai raggiunto delle mete davvero
importanti, ma per me era la migliore. Mi ripeteva sempre che un vero
attore può essere considerato tale solo se riesce a fare il
suo lavoro nel modo migliore, con professionalità e serietà.
Mi ripeteva sempre che non era fondamentale raggiungere la vetta il
più in fretta possibile, ma nel modo migliore.»
Rimasi
in silenzio ad ascoltare la sua storia, incapace di trovare qualcosa
da commentare.
«L'avevano
scritturata per una piccola parte, sei anni fa. Eravamo tutti in
fibrillazione e ci stavamo preparando per partire a Hollywood,
finalmente. Sarebbe stata la coronazione di tantissimi sogni per lei
e per me, ma anche per mio padre che non desiderava altro se non la
sua felicità. La adorava, per lui era come una divinità
da venerare in ogni momento della sua esistenza.» Fece un'altra
pausa, con la coda dell'occhio la vidi che si asciugava le lacrime
con le dita. «Poi... lei e mio padre uscirono per festeggiare,
una sera, e... e non tornarono più. La polizia mi chiamò
e mi disse che non ce l'avevano fatta, che avevano avuto un incidente
e che io ero rimasta da sola.»
«È
terribile» mormorai, sentendo qualcosa di molto simile alla
commozione farsi largo dentro me. Cercai di non darlo a vedere e
tenni gli occhi fissi all'orizzonte.
«Da
allora sono cambiata. Sono diventata una cattiva persona, qualcuno
che mi disgusta ma di cui non riesco a fare a meno per sopravvivere
senza soffrire come un cane.»
«Mio
padre era un sassofonista abbastanza noto nel panorama jazz degli
anni Settanta.» Non sapevo cosa mi stesse prendendo, ma non
riuscii più a fermarmi, pur consapevole che non avrei mai più
avuto un momento di confidenza con quella ragazza che per me non
significava niente. «All'inizio non abitavamo in America, ma in
Libano. E io ho sempre avuto una predisposizione per la musica.»
«Eri
piccolo allora?»
«Abitavamo
a Beirut, la capitale. Non ricordo come si stava laggiù.»
«A
Beirut?»
Sorrisi
appena, un sorriso amaro e impercettibile. «Sono nato laggiù,
i miei genitori sono armeni, ma abitavano in Libano. C'era la
guerra.»
«Oh»
sussurrò Lakyta. «La guerra. Spero che...»
«Non
ricordo niente della mia vita in Libano» mentii. «Ricordo
solo che volevo suonare la batteria fin da sempre, ma mio padre non
era d'accordo.»
«Perché
mai? Suppongo tu sia bravo, se fai parte di una band famosa.»
Una
sensazione di vertigine al centro del petto mi costrinse a sospirare
prima di poter continuare. «Lui avrebbe voluto che seguissi le
sue orme. Mi ha fatto conoscere e apprezzare il jazz, questo glielo
devo. Ma non posso dimenticare le liti durante quegli anni in cui lui
non voleva accettare la mia passione. Pensa che andavo a suonare la
batteria di nascosto, da un amico.»
Lakyta
scosse il capo. «Non capisco perché te lo volesse
impedire. Ognuno deve essere libero di inseguire i suoi sogni!»
affermò con sicurezza.
«Hai
ragione, ma lui non la pensava così. Col tempo è
riuscito a farsene una ragione, ma non saprei dirti se l'abbia
accettato davvero.» Dovetti far leva su tutta la mia forza
interiore per non lasciarmi sfuggire le lacrime che pungevano agli
angoli degli occhi. Serrai appena i pugni e stetti immobile a fissare
dritto di fronte a me, mentre i ricordi legati ai dissapori con mio
padre scorrevano nella mia mente.
«Io
lo spero, ma... mi dispiace.» La ragazza si portò una
mano di fronte alla bocca e non osò proferire altro. Sembrava
turbata, come se riuscisse in qualche modo a comprendere la mia
situazione.
Rimanemmo
in silenzio per un po', poi decisi di rompere il silenzio. «Non
preoccuparti, ormai io sono contento e soddisfatto della mia vita. Ho
una carriera che mi dà da vivere, che mi rende davvero in pace
con me stesso. Se mio padre non è d'accordo, ormai è
troppo tardi perché io torni indietro.» Sorrisi appena.
«La
vita è ingiusta» commentò la cameriera, lasciando
ricadere le mani in grembo.
I
nostri sguardi si incrociarono.
«Però
noi non possiamo permettere che abbia la meglio su di noi»
affermai con calma. «Se è partire a Hollywood quello che
vuoi, puoi farlo. Stai lavorando qui, puoi mettere da parte i soldi
che ti servono e prenotare il volo. Costa un po', ma sono certo che
prima o poi racimolerai la somma che ti serve. Ci vuole
perseveranza.»
«Tu
dici?»
«Certamente.
E quando approderai dalle mie parti, allora dovrai solo cercare me e
i ragazzi. Ti daremo una mano se ne avrai bisogno.»
Lakyta
inclinò la testa di lato e sorrise tristemente. «Non
succederà mai. E poi nessuno vuole avere a che fare con me.
Daron mi odia per ciò che ho fatto, Shavo sicuramente ha avuto
una cattiva impressione di me, anche perché io e Leah non
andiamo d'accordo.»
«Non
essere sciocca. I miei amici sono persone mature e comprensive, anche
se a volte può non sembrare.»
Lei
scosse appena il capo. «Non saprei.»
«Promettimi
che ci proverai» aggiunsi.
«Va
bene.»
Mi
alzai. «Allora buona fortuna.»
Lei
mi seguì con lo sguardo mentre riponevo la sedia al suo posto.
«Anche a te» concluse, rimanendo ferma dov'era.
Mentre
tornavo alla mia stanza, mi ritrovai a chiedermi cosa fosse successo
e perché io e Lakyta avessimo intrattenuto quella
conversazione assurda e tremendamente triste. Stranamente mi sentivo
meglio, più leggero e improvvisamente stanco. Forse ora sarei
riuscito a dormire.
Ma
dovetti ricredermi non appena misi piede nel corridoio del mio piano:
c'era qualcosa che non andava, anche se inizialmente non compresi di
cosa si trattasse.
Solo
quando fui quasi giunto di fronte alla porta della mia stanza, mi
accorsi della figura che se ne stava rannicchiata sul pavimento, la
schiena contro il legno scuro dell'uscio e lo sguardo perso nel
vuoto.
«Bryah!»
sibilai, chinandomi di fronte a lei. «Bryah, che fai qui? Hai
un aspetto orribile, che succede?» domandai in preda
all'agitazione. La esaminai velocemente con lo sguardo e notai il suo
viso gonfio e stranamente provato.
Un
sospetto prese a farsi largo in me e una sensazione sgradevole e
terribilmente spaventosa mi invase, facendomi tremare le mani.
«Come
sei arrivata qui?» insistetti, mentre la mia voce saliva sempre
più di tonalità e la preoccupazione si aggrappava con
forza alla bocca del mio stomaco.
«Io...
i-io... John... oddio!» Si portò le mani sul viso e lo
nascose tra di esse, scuotendo con forza il capo.
Mi
frugai in tasca e raccolsi le chiavi della mia stanza; mi allungai
per aprire la porta, poi mi chinai nuovamente su Bryah e la presi tra
le braccia, sollevandola dal pavimento e trasportandola dentro.
Richiusi
l'uscio con un calcio e adagiai con delicatezza il corpo tremante
della giornalista sul mio letto; nonostante mi costasse fatica starle
accanto senza provare dolore, in quel momento non volevo pensare a me
stesso e alle cazzate che mi vorticavano in mente.
Un'occhiata
veloce al comodino, sul quale riposava il mio orologio da polso, mi
fece scoprire che erano le quattro e cinquantatré del mattino.
Bryah,
nel frattempo, si rannicchiò su se stessa e nascose il viso
sul cuscino, poi il suo corpo venne scosso dai singhiozzi e io mi
sentii morire dentro nel trovarla in quelle condizioni.
Scalciai
via le infradito e mi stesi accanto a lei; avvolsi il suo corpo tra
le braccia, stringendola da dietro, e feci aderire la sua schiena
contro il mio petto. La cullai in silenzio, senza osare proferire
alcunché, volevo che fosse lei a raccontarmi cosa le fosse
successo, nonostante un sospetto terribile si materializzava sempre
più nei miei pensieri.
«Benton
si è arrabbiato quando... io, John, gli ho detto la verità,
gli ho detto che io e te... in realtà non gliel'ho proprio
detto, ma... gli ho detto che forse la nostra relazione non può
continuare, che qualcosa si è spezzato già da tempo, ma
lui...»
Rafforzai
la stretta sui suoi fianchi e appoggiai il mento sulla sua nuca,
serrando con forza i denti per evitare di digrignarli. Non volevo
ascoltare ciò che stava per dirmi, ma sapevo di doverlo fare.
«Mi
ha mollato un ceffone, poi un altro, poi... lui mi ha... picchiato.»
Fu
una pugnalata al petto, un fendente che raggiunse con furia il mio
cuore e lo tagliuzzò in mille pezzi sanguinanti. Dovetti
concentrarmi sui muscoli del mio corpo per non irrigidirli e per non
stritolare troppo forte quello di Bryah. Era difficile, la rabbia mi
stava accecando i sensi, ottenebrava ogni fibra del mio essere e mi
mandava quasi in un mondo parallelo dove la ragione non esisteva.
«Io...
non ho potuto fare altro che scappare, avevo paura, John. Non era mai
arrivato a tanto, non so cosa gli sia preso. Ho lasciato tutto a
casa, sono corsa fuori e ho cercato un taxi. Non so quanto ho
camminato, non so quanto tempo è trascorso prima che lo
trovassi... ho visto il Fyah,
forse ho preso lì il taxi, ma... ero così
confusa...»
«Basta
così» dissi bruscamente. Mi allontanai da lei, poi la
costrinsi a voltarsi nella mia direzione e la avvolsi nuovamente in
un abbraccio, premendo con forza le labbra sulla sua fronte sudata.
«Adesso sei al sicuro. Brava, hai fatto bene a venire qui. Oh
Bryah...» La voce mi si spezzò e qualche lacrima scivolò
sulle mie guance. Sollevai una mano per asciugare quelle gocce salate
e ribelli, ma lei la afferrò e prese a stringerla con forza.
«Non
ce l'hai con me? Ti ho fatto soffrire, lo so... ma io volevo solo...
volevo chiarire le cose con Benton prima di parlare con te»
farfugliò confusamente.
«Non
dire niente, ti prego.» Sospirai brevemente. «Abbracciami»
mi lasciai sfuggire.
Lei
annuì e si strinse forte al mio corpo, lasciando che il
contatto tra noi si intensificasse.
Ero
profondamente amareggiato e, mentre ripensavo a ciò che avevo
raccontato a Lakyta, mi venne in mente che, se non fossi diventato il
batterista dei System Of A Down, allora non sarei stato in quella
stanza d'albergo in Giamaica, non avrei potuto stringere Bryah a me e
non avrei potuto proteggerla.
Ero
certo che Benton, prima o poi, avrebbe comunque agito in quel modo
nei confronti della giornalista o di qualche altra donna; questo non
faceva che accrescere la mia rabbia e il mio risentimento nei
confronti di quell'essere immondo e schifoso.
«John,
non piangere per me» mormorò Bryah, il viso immerso
nella mia t-shirt.
Sospirai.
Non sapevo neanche io perché stessi piangendo, non avevo idea
di come fare per fermarmi e volevo soltanto scomparire.
«Andrà
bene, vedrai» tentai di rassicurarla.
«Sì,
andrà bene» confermò debolmente.
Non
chiudemmo occhio, rimanemmo soltanto immobili a fissare l'oscurità
che, pian piano, cedeva il posto all'alba di un nuovo giorno.
Ciao
a tutti, per me non è facile scrivere queste note dopo un
capitolo tanto triste e doloroso. Probabilmente mi odierete perché
faccio capitare sempre le cose peggiori a John, ma come vedete qui si
scoprono delle informazioni in più su di lui, su Bryah e anche
su Lakyta.
A
proposito di quest'ultima: cosa ne pensate? Non ho raccontato la sua
storia per cercare di renderla più simpatica a voi o a me –
io comunque non la reggo a prescindere XD – ma solo perché
cercavo qualcuno con cui John potesse sfogarsi un po'. Forse non è
stata la persona giusta, forse vi aspettavate che fosse Leah a
trovarlo sulla terrazza, ma nella vita capitano anche di queste
stranezze.
A
chi non è mai capitato di confidarsi, magari per una sola
volta, con una persona che si era sempre detestata o ignorata? A me è
successo e, pur rimanendo un caso isolato, è qualcosa che mi è
rimasto impresso proprio per la sua stranezza e assurdità ^^
la vita gioca strani scherzi, non trovate?
La
storia che John ha raccontato a Lakyta, invece, è qualcosa che
ho letto su internet, o almeno in parte: se non ho capito male, suo
padre non era troppo d'accordo, inizialmente, affinché
suonasse la batteria; non so se sia del tutto vera come cosa, per
questo ho bisogno del vostro aiuto: chi sa qualcosa di più
preciso, può dirmelo?
Se
la storia non dovesse essere vera, be', non importa; l'ho trovata
funzionale alla trama e in ogni caso volevo che John la portasse
fuori. Diciamo che se non gli è mai successo nulla del genere,
meglio per lui, sarei molto più sollevata perché è
qualcosa di poco piacevole non trovare l'approvazione dei propri cari
per ciò che si ama fare :/
Cosa
pensate invece di Bryah e di ciò che le è successo con
Benton? Vi aspettavate qualcosa del genere?
Sono
curiosa di leggere i vostri commenti, mi scuso ancora per il capitolo
per niente allegro e vi ringrazio tutti perché, dopo trentotto
capitoli, siete ancora qui a sostenermi! Vi adoro :3
Alla
prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 39 *** Anyone ***
ReggaeFamily
Anyone
[Daron]
Notte.
Uno
dei momenti in cui chiunque trova riposo, si rasserena e si abbandona
a un rassicurante abbraccio.
Ma
io non ero chiunque.
Era
buffo rendersi conto che, da quando ero partito per la Giamaica, non
avevo dormito bene neanche per una notte; era sempre successo
qualcosa, qualcuno aveva intralciato il mio cammino, oppure la mia
stessa mente mi aveva giocato brutti scherzi. Come in quell'istante.
La
cosa più sorprendente, però, fu notare che la mia non
era stata l'unica anima inquieta nell'hotel: mentre mi affacciavo
sulla terrazza panoramica, mi resi conto che due figure familiari
erano sedute accanto al parapetto e fissavano l'oceano oltre la
balaustra. Riconobbi John e Lakyta, il che mi fece aggrottare le
sopracciglia. Non capivo perché due persone così
diverse si stessero tenendo compagnia, ma decisi che non mi
importava. Se non potevo stare da solo lassù, avrei trovato un
altro luogo in cui rifugiarmi.
Per
evitare di fare rumore, ridiscesi a piedi, evitando per la prima
volta di prendere l'ascensore; ero inquieto e non mi andava di
rinchiudermi in quel box che, in quel momento, mi sembrava angusto e
claustrofobico.
Mi
ritrovai al piano terra e lanciai un'occhiata nella hall, notando che
lo stagista si intratteneva come al solito dietro il computer. Non
avevo voglia di averci a che fare, anche se dubitavo fortemente che
avremmo parlato.
Uscii
dalla porta laterale che mi avrebbe condotto, attraverso un sentiero,
direttamente al Buts; ero certo che la spiaggia fosse deserta,
rimaneva abbastanza isolata dal resto dell'albergo e risultava
piuttosto inquietante di notte, quasi del tutto priva di
illuminazione e con l'imponente profilo della scogliere che si
stagliava, nero pece, nel cielo dello stesso colore. Il contrasto era
quasi impercettibile, ma dopo un po' gli occhi si abituavano a quella
condizione e allora l'atmosfera si creava da sé. A me piaceva,
non potevo negarlo, ma forse gli ospiti ricchi e altezzosi dello Skye
Sun Hotel la pensavano diversamente.
Rimasi
in piedi sulla sabbia, assaporando il profumo salmastro che una
leggera brezza trasportava dal mare; quest'ultimo produceva uno
sciabordio rassicurante, mi faceva stare subito meglio al solo
udirlo.
Avevo
voglia di tuffarmi, non faceva freddo. Avevo voglia di abbandonarmi
alle onde leggere e schiumose, senza più lasciar spazio al
turbinio dei miei cupi pensieri.
Perché,
nonostante avessi tutto, mi sentivo insoddisfatto e incompleto;
chiunque avrebbe apertamente riso se avesse solo sbirciato tra i miei
pensieri, sicuramente sarei stato deriso per il male insensato che
sentivo dentro. Ma non potevo farci nulla, semplicemente non ero
abbastanza forte per stare davvero bene.
Mi
mancavano cose futili, forse, mi mancava qualcosa di simile
all'affetto, all'amore; o forse mi sentivo uno stupido fallito perché
nei rapporti umani ero una frana e non riuscivo a portar fuori il
meglio di me, se questo meglio esisteva
davvero.
Sì, volevo tuffarmi.
Un'occhiata in giro mi confermò che ero solo. Una condizione a
cui ero abituato, in effetti.
Cominciai a spogliarmi con
calma, ma poi avvertii una certa urgenza farsi largo dentro me, così
finii per strapparmi letteralmente gli abiti di dosso,
maldestramente.
Abbandonai i vestiti in
mezzo alla spiaggia e mi avviai quasi di corsa verso la riva,
completamente nudo, completamente libero.
L'acqua era insolitamente
tiepida, cullata dal silenzio avvolgente della notte. Inizialmente
fui scosso da profondi brividi, ma decisi di non badarci troppo e mi
tuffai senza riguardo nell'oceano, lasciandomi risucchiare da quella
distesa infinita. Riemersi e scossi il capo, scrollandomi di dosso
l'acqua in eccesso. Una profonda sensazione di calma si impossessò
di me, tutti i nodi che stringevano il mio stomaco si sciolsero in un
baleno e io mi sentii leggero, quasi potessi fluttuare per sempre su
quelle gocce salate, salate come le lacrime che stavano pian piano
abbandonando i miei occhi.
Solo
in quel momento potevo sfogarmi davvero, me ne resi conto, perché
nessuno poteva vedermi, nessuno poteva rendersi conto di ciò
che mi stava succedendo.
Nuotai in fretta e furia verso la riva, mi inginocchiai sul
bagnasciuga e gridai a pieni polmoni, dando fondo a tutto il fiato
che avevo in gola. Mi presi la testa tra le mani, mentre il mio
lamento si faceva più basso e regolare. Non sapevo cosa mi
stesse prendendo, però era bello, era liberatorio, era
stupefacente.
Mi sollevai di botto e corsi
nuovamente incontro alle onde, lasciando che ancora una volta mi
stringessero tra le loro sinuose braccia. E gridai ancora e ancora,
ogni volta che riemergevo dovevo farlo, ne sentivo la necessità
anche se la gola bruciava e gli occhi con lei, a causa delle lacrime
e dell'acqua.
Il sale mi bagnava da fuori
e fuoriusciva da me, era una sensazione purificante, un dolore
necessario e colmo di aspettative, di momenti migliori.
Mi voltai verso la scogliera
e fu allora che la vidi: una figura se ne stava seduta sulla
piattaforma che Leah ci aveva mostrato giorni prima, i piedi che
penzolavano nel vuoto e l'attenzione rivolta nella mia direzione.
Mi sentii a disagio,
vulnerabile, improvvisamente avrei voluto scappare, andarmene, non
sapevo chi potesse aver sentito e visto il mio sfogo; forse avrei
dovuto controllare meglio, fare un giro, ispezionare ogni angolo
della piccola spiaggia.
Le
lacrime appannavano i miei occhi e mi impedivano di comprendere di
chi si trattasse o se fosse qualcuno di mia conoscenza. Forse avrei
potuto uscire dall'acqua, ma
ero completamente nudo, non mi andava di mostrarmi in quello stato a
uno sconosciuto.
Poco dopo la figura sollevò
una mano in cenno di saluto e una voce arrivò alle mie
orecchie, nonostante fosse lontana e sopraffatta dal fruscio delle
onde: «Daron?».
Riconobbi subito
quell'inflessione, quel tono un po' ironico e divertito che ormai
avevo imparato a conoscere.
Sospirai. «Leah?! Che
fai lì?»
«Raggiungimi e te lo
dico!» mi incoraggiò.
Feci una smorfia
contrariata. «Ho lasciato i vestiti in spiaggia!» gridai
di rimando.
«Non ti guarderò,
giuro! Mi tappo gli occhi!» mi assicurò; la vidi
sollevare le braccia e posarsi le mani sul viso.
Sorrisi appena e nuotai
verso la riva, rapido; corsi verso i miei vestiti e indossai i boxer
e la t-shirt, poi mi accorsi che probabilmente avrei dovuto aspettare
per mettere il resto, ero fradicio e non avevo con me un telo da mare
per assorbire l'acqua in eccesso.
Infilai le mie fidate
infradito rosse ai piedi e mi avviai in direzione della scogliera per
raggiungere Leah, cercando di non vergognarmi troppo di essere senza
pantaloni. La brezza era tiepida e avrebbe impiegato poco ad
asciugare le mie mutande.
Risalii lungo lo stretto e
tortuoso sentiero che conduceva alla piattaforma, facendo attenzione
a non scivolare a causa delle ciabatte e dei piedi ancora umidi.
Leah mi aspettava seduta
laddove l'avevo intravista poco prima, non sembrava essersi mossa di
un millimetro: teneva lo sguardo fisso sull'oceano e non osò
lanciare nessuna occhiata al mio blando abbigliamento.
«Ehi, ma quello è...»
commentai a voce bassa, accorgendomi solo in quel momento, dopo
essermi accostato di più a lei, che in grembo teneva un gatto.
Era piuttosto grande e peloso, nero come la pece, e pareva davvero
tranquillo e in pace sulle sue ginocchia. Lei lo accarezzava
distrattamente e lui faceva le fusa.
«Si tratta di un
essere vivente, Daron, un felino per la precisione. Mai sentito
nominare?» scherzò Leah.
Mi sedetti accanto a lei e
tossicchiai. La gola ancora mi doleva per le grida che avevo lanciato
poco prima, gesto per il quale ora mi sentivo tremendamente stupido.
Me ne vergognavo perché probabilmente la ragazza vi aveva
assistito e non sarebbe mai dovuto succedere.
Mi schiarii ancora una volta
la gola, poi attaccai: «Mi dispiace per quello che hai visto. E
sentito. È stato un errore, sono desolato».
Lei ridacchiò e si
strinse nelle spalle. «Scherzi, vero? Come potevi sapere che
ero quassù? Prima ero sdraiata.» Indicò alle sue
spalle e io intravidi qualcosa di simile a un telo da mare o a una
coperta. «Poi ho sentito le tue grida e... mi sono spaventata.
Così mi sono alzata e ho controllato cosa stesse succedendo.»
S'interruppe per un istante e la vidi rabbrividire leggermente. «Ho
avuto paura, sembrava... c'era tanta sofferenza, Daron, nella tua
voce.»
Lo sapevo, me ne rendevo
conto e mi sarei sorpreso del contrario. Ma questo sarebbe dovuto
rimanere un fatto tra me e me, nessuno avrebbe dovuto entrare in
merito alla questione.
«Ordinaria
amministrazione» bofonchiai.
«Chitarrista, che ti
prende? Ehi, ascolta... mi rendo conto che io e te siamo un po' come
un cane e un gatto, o qualcosa del genere, hai capito. Abbiamo
cominciato fin da subito a battibeccare per qualsiasi cosa, però
siamo anche in grado di andare d'accordo, non è vero? Siamo un
po' simili, per certi versi ci somigliamo fin troppo.» Sorrise
tra sé. «Shavarsh a volte mi dice che gli sembra di star
frequentando te.»
«Inquietante»
osservai perplesso. «Spero tu sia una persona migliore,
altrimenti povero Shavo!» A quel punto mi venne in mente una
cosa e le domandai: «Non dovresti essere con lui ora? Cosa fai
qui fuori? Accarezzi un gatto anziché prenderti cura del tuo
uomo».
«Il mio uomo»
ripeté Leah assorta, poi aggrottò le sopracciglia e
sollevò delicatamente l'animale dalle sue gambe. Con
noncuranza lo posò al suo fianco, nel piccolo spazio che era
rimasto tra noi due, e prese a spazzolarsi i pantaloni della tuta con
entrambe le mani.
«Non è così?»
insistetti.
«Non lo so. So solo
che tra poche ore devo tornare in quella fogna di Las Vegas e non ho
idea di quanto rivedrò Shavarsh. E, se vuoi sapere come mi
sento, la risposta è: incazzata.»
«Incazzata?» Ero
confuso.
«Sì,
incazzata.» Sospirò brevemente e prese a frugare in
borsa, per poi portare fuori un flacone di disinfettante. Se ne versò
una generosa dose sulle mani e cominciò a pulirle con cura,
per poi fare lo stesso con le braccia e con i pantaloni. «Daron,
sai cosa penso?»
«No» ammisi
sempre più interdetto.
«Penso di essermi
innamorata.»
«Cazzo.»
«Appunto. Pensa te in
che casino mi sono cacciata. E adesso?»
Leah sollevò per la
prima volta gli occhi su di me e i nostri sguardi si incrociarono.
Rimanemmo a fissarci per un po'. Notai che nel suo sguardo c'era una
leggera nota di disperazione, ma nel complesso sembrava essere molto
più felice, completa e soddisfatta di me.
Mi schiarii nuovamente la
gola. «Non credo si tratti di un casino, Leah.»
Inclinò la testa di
lato. «Ah no? E cosa sarebbe?»
«È bello,
soprattutto se è Shavo l'oggetto dei tuoi sentimenti. Lui è
davvero un ragazzo d'oro, te lo posso assicurare. Se ti fossi
innamorata di me, be', avrei cominciato seriamente a preoccuparmi e
probabilmente ti avrei spinto al suicidio.» Sorrisi con
amarezza, rendendomi conto ancora una volta di quanto la mia vita
sociale facesse schifo.
«Perché mai?»
domandò semplicemente.
«Sono un disastro, è
risaputo. Non so come i ragazzi possano ancora sopportarmi. Hai visto
anche tu che riesco a combinare solo casini, a provarci con le donne
sbagliate... e alla fine chiunque riesce a raggirarmi, anche se non
sembra. La mia ex mi dà il tormento, insiste perché io
sia presente al suo matrimonio con il suo nuovo tipo. Hai presente la
coppia rock dell'anno? Lars Ulrich e Jessica Miller...»
Leah sbuffò. «Certo
che ho presente, e... ma che razza di gente frequenti, Malakian?
Quella è... non voglio essere cattiva, però...»
Sollevai una mano per
arrestare le sue giustificazioni. «Qualunque cosa tu stessi per
dire, hai ragione e non devi scusarti. Mi sono reso conto anch'io di
che razza di donna fosse Jessica. Peccato che io abbia sprecato sette
anni della mia vita per stare con lei.»
«Andiamo, non essere
così duro con te stesso. Dagli errori che hai commesso non
puoi che trarre giovamento.»
«Io sono diabolico,
perché continuo a sbagliare all'infinito e non capisco mai un
cazzo. Leah, sono una cattiva persona, e ora capisco perché
sono l'unico con cui non hai stretto amicizia. Non ci somigliamo così
tanto, vedi? Tu sei solare, allegra, simpatica, riesci a farti amare
da tutti... io sono il tuo opposto.»
Lei a quel punto mi posò
una mano sulla spalla. «Non dire cazzate e smettila di fare la
vittima. Se sei così, sei così, okay. Ma non è
detto che questa condizione debba durare per sempre, chiaro? Puoi
sempre cambiare, migliorare te stesso, se davvero lo vuoi. Daron,
tutti sono delle cattive persone se decidono di esserlo. È più
difficile essere buoni. Le persone come Shavarsh sono da ammirare,
oppure quelle come John... loro riescono a essere buoni, si impegnano
per riuscirci al meglio. Io e te, invece, combiniamo sempre un sacco
di guai e siamo esuberanti, disturbanti per il prossimo, spesso
facciamo solo danni. Ma non per questo meritiamo di essere odiati,
perché se vogliamo possiamo sempre darci un taglio, possimo
far forza su noi stessi e tirare il freno a mano. E questo lo dico
perché ho conosciuto Shavarsh e lui me lo sta insegnando, lo
sta facendo davvero.» Fece una pausa e sospirò. «Forse
è anche per questo che sto perdendo la testa per lui.»
«Sei una ragazza
stupenda, lui non potrebbe meritare di meglio» dissi sincero,
stringendole la mano.
«Vedi? Chi l'ha detto
che io e te non siamo amici? Sei così testardo e sciocco,
Daron... se non fossi arrivato qui, se tu non avessi gridato in quel
modo... io sarei rimasta da sola con il gatto tra le braccia e la
mente occupata dalla malinconia. Invece ho parlato con te e ora mi
sento meglio.»
«Sul serio?»
Leah annuì. «Puoi
contarci. Ma tu? Perché soffri tanto?»
«Tante cose.»
Sospirai e, dopo aver constatato che i miei boxer erano ormai
asciutti, mi infilai in fretta i bermuda. Cominciavo a sentire un po'
di fresco.
«Per esempio?»
«I rapporti
interpersonali vanno male, così come quelli con mio padre. Non
andiamo molto d'accordo ultimamente, forse non è mai corso
buon sangue tra di noi.»
Leah mi guardò
sorpresa. «Io pensavo che tra voi ci fosse un buon
affiatamento. So che ha creato anche le copertine di due album dei
System. Sbaglio?»
«Non sbagli. Ma quello
era un buon momento, uno dei pochi. Non so, siamo sempre in
contrasto, lui dice che sono uno scapestrato e che a trentotto anni
non ho ancora messo la testa a posto. Io non so cosa dirgli, so che
ha ragione ma allo stesso tempo mi sento smarrito.» Feci
spallucce. «È tutto un disastro, come ti dicevo.»
La ragazza scosse il capo e
sbuffò contrariata. «Ah, i padri, che bella categoria!
Sai che ti dico? Ho trovato un altro punto su cui ci somigliamo.»
Ripensai alla reazione di
Leah quando aveva scoperto che la compagna di suo padre l'aveva
tradito con me, e mi ricordai anche dei quei momenti in cui lei aveva
accennato ai loro problemi, al fatto che lo considerasse un essere a
lei quasi estraneo, un uomo d'affari senza nessun riguardo nei suoi
confronti.
«Merda»
osservai. «Hai ragione!»
Leah rise brevemente, una
risata amara e priva di gioia. «Due casi persi, eh?»
«Ma tu hai trovato
l'amore. Hai trovato Shavo. Sono certo che con lui potrai costruire
qualcosa di buono, Leah.»
«Ho trovato l'amore,
ma anche l'amicizia. Perché lui è un amico, prima di
tutto; e poi ci siete voi: tu con le tue controversie e il tuo
carattere scostante, John con la sua timidezza quasi morbosa e la sua
razionalità al limite della patologia, Bryah con la sua
fragilità e voglia di vivere... e poi c'è Dayanara.
Forse stavolta gli darò il mio numero» concluse con
dolcezza.
Compresi che forse non ero
l'unico a essermi sempre sentito solo, anche Leah aveva sofferto per
cose non troppo diverse dalle mie; alla fine ci eravamo incontrati e
avevamo messo a confronto le nostre storie, trovandoci a provare le
stesse sensazioni.
Lei aveva trovato degli
amici e un uomo che la faceva stare bene, forse anche per me sarebbe
giunto quel momento prima o poi. Dovevo, forse, solo aprire il mio
cuore e piantarla di essere così burbero e asociale.
«Miriam è
carina. Com'è che non ci hai ancora provato? Dico sul serio.»
Scrollai il capo. «Non
è qui che devo cercare la pace. Fuggire dalla mia solita vita
non mi servirà a risolvere i miei problemi.»
Leah tacque per qualche
istante, poi concordò: «Penso tu abbia ragione».
Ci scambiammo un'ultima
occhiata eloquente, consapevoli di aver appena instaurato un legame
forte, strano, ma che già era in grado di scaldare una piccola
parte del mio cuore.
«Torno dal mio
uomo, tu che fai?» disse infine Leah, richiudendo la sua
borsa. Si mise in piedi e mi osservò dall'alto in basso.
«Rimango ancora un po'
qui. Guarda» mormorai, indicandole le mie ginocchia.
Leah notò il
batuffolo di pelo che si era accoccolato su di esse e rimase
sinceramente sorpresa. «Gli sei simpatico» commentò.
«Come si chiama?»
volli sapere.
«Non ha un nome»
ammise lei leggermente dispiaciuta. «Puoi sceglierlo tu, se
vuoi.»
«Grazie»
sussurrai, prendendo ad accarezzare delicatamente la piccola
creatura.
«Grazie a te,
chitarrista. A domani.»
Sorrisi. «A domani.»
Leah se ne andò
silenziosamente e io rimasi immobile a cullare il gatto, il quale
aveva cominciato a fare le fusa.
«Il tuo nome sarà
Night» decisi, rivolgendomi al mio nuovo amico. Lui si sistemò
meglio sulle mie ginocchia e io dedussi che probabilmente doveva aver
apprezzato il suo stupendo appellativo.
Notte.
Uno
dei momenti in cui chiunque trova riposo, si rasserena e si abbandona
a un rassicurante abbraccio.
Anche
io, ora, potevo essere chiunque.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 40 *** Slash! ***
Slash!
[Leah]
Guardarlo
dormire era bello, non potevo negarlo; Shavo si rilassava
completamente durante il sonno, si abbandonava contro il materasso e
lasciava che la sua testa affondasse nel cuscino. Il suo corpo era in
pieno relax, non c'era un muscolo teso né il remoto segno che
suggerisse la presenza di incubi durante il suo quieto riposare.
Dal
canto mio, non avevo assolutamente chiuso occhio: dopo essermi
abbandonata tra le sue braccia per un intenso prenderci cura l'uno
dell'altra, avevo trascorso un po' di tempo distesa accanto a lui, le
braccia lungo i fianchi e lo sguardo perso nel vuoto. Difficilmente
mi lasciavo prendere dall'ansia, ma in quel caso era tutto diverso:
sarei ripartita tra poche ore, non avevo minimamente preparato i
bagagli né mi ero preparata psicologicamente per essere
strappata così in fretta a quel sogno da poco cominciato.
Avevo
ripensato a tutto ciò che aveva portato me e Shavo ad
avvicinarci, ai casini che erano successi, alle bugie a fin di bene,
al nostro rapporto che in pochi giorni era diventato così
forte... mi sembrava essere passata un'eternità.
Inoltre,
mi sarebbe mancato anche John e quella nostra bizzarra amicizia, mi
sarebbe mancato Daron e le sue fesserie, mi sarebbe mancata Bryah e
la sua fragilità quasi sempre celata sotto una cortina di
positività.
Mi
sarebbe mancato l'albergo, Dayanara, Alwan, Cornia e perfino quella
stupida di Lakyta.
Prima
di quell'ultima settimana, lo Skye Sun Hotel non mi aveva mai fatto
quell'effetto devastante; non mi ci ero mai affezionata tanto,
nonostante lo conoscessi da anni e mio padre si ostinasse a
portarmici con ossessiva costanza. Per me era sempre stata sempre una
parentesi noiosa e disturbante, mentre ora avevo riscoperto quel
luogo, rivalutandolo come la culla dei miei più dolci ricordi.
Infine
mi ero arresa ad alzarmi, facendo attenzione affinché Shavo
non si svegliasse, ed ero uscita a fare due passi; i miei piedi mi
avevano condotto inevitabilmente nel mio rifugio, l'angolo che fin da
subito avevo sentito mio e su cui mi ero arrampicata per sgombrare la
mente e dimenticarmi della presenza di mio padre e del motivo per cui
mi avesse trascinato per l'ennesima volta in vacanza con sé e
le sue amanti del momento.
Quella
volta, invece, la scogliera era stato il posto che avevo condiviso
per la prima volta con delle persone speciali, ovvero i ragazzi dei
System.
Seduta
con i piedi a penzoloni nel vuoto, non mi ero accorta di Daron finché
lui non aveva cominciato a gridare. Era stato straziante ascoltare
quei lamenti, il cuore mi si era accartocciato nel petto e mi era
parso di avvertire a mia volta quel dolore che non conosceva davvero
le sue origini.
Poi
mi ero stancata, non potendone più di quella sofferenza
travolgente, e avevo attirato la sua attenzione, facendo il possibile
perché non si accorgesse di quanto stessi male. In quel
momento non aveva bisogno di vedermi più triste e abbattuta di
lui, necessitava della Leah di sempre, quella solare e allegra che
sminuiva anche le situazioni più drammatiche e che cercava di
essere il più concreta possibile.
Avevamo
parlato un sacco, ero stata molto contenta che lui si fosse aperto
con me e io avevo fatto lo stesso con lui; ero stata sincera nel
dirgli come mi sentivo per la partenza imminente, non avevo potuto
negare i miei sentimenti.
Ero
arrivata alla conclusione che Daron fosse davvero un ragazzo
tormentato, che soffrisse per delle motivazioni simili a quelle per
cui soffrivo anch'io, ma che spesso trovasse difficile affrontare il
suo stesso dolore. Semplicemente, non sapeva come fare: temeva di
confidarsi con gli altri, ma allo stesso tempo sapeva benissimo di
non potersi tenere tutto dentro, altrimenti sarebbe esploso.
Era
una situazione piuttosto complicata la sua, ed ero certa che
nascondesse tanti demoni dentro di sé e che forse non sarei
mai riuscita a conoscerli tutti. Tuttavia, potevo dire che forse
eravamo diventati un poco amici, anche se era complicato definire
quello strano legame tra noi.
Nel
tornare in camera da Shavo, avevo rimuginato su tutto e niente, ma
quando poi avevo messo nuovamente piede nella stanza, mi ero fermata
a osservare il bassista immerso nel sonno e una strana pace si era
impossessata di me.
Mi
ero seduta su una poltroncina situata accanto al letto e, dopo aver
gettato un'occhiata all'orologio ed essermi resa conto che erano
quasi le cinque del mattino, mi ero limitata a osservarlo senza più
pensare a niente.
Quando
cominciai a intravedere le prime luci dell'alba attraverso le spesse
tende, decisi di mettermi all'opera.
Sempre
nel più assoluto silenzio, preparai i miei bagagli e lasciai
fuori delle valigie solo il minimo indispensabile, compreso il libro
che avevo comprato per Shavo al negozio di strumenti musicali giù
in città.
Sospirai
brevemente nel rendermi conto che erano da poco passate le sei e che
il tempo, inesorabile, trascorreva senza che io potessi fermarlo.
Un
bisbiglio raggiunse le mie orecchie, trasportato dalla brezza che
s'infiltrava dalla finestra socchiusa; qualcuno, nella camera sotto
la mia, stava parlottando e doveva trovarsi fuori in balcone.
La
curiosità prese il sopravvento e mi ritrovai ad avventurarmi
oltre la portafinestra, raggiungendo il piccolo terrazzo, pronta a
scoprire di chi si trattasse.
Mi
affacciai di soppiatto dalla balaustra e osservai di sotto.
Notai
subito la figura familiare di Alwan che, con indosso soltanto un paio
di slip grigi, stava appoggiato con i gomiti alla ringhiera in legno.
Subito
mi venne in mente che avrei potuto salutarlo, anche se non avevo idea
di cosa stesse combinando in una delle stanze destinate agli ospiti
dell'albergo; stavo per aprire bocca, decisa a farlo spaventare un
po', quando riuscii a cogliere l'inflessione di un'altra voce
familiare.
Così
mi immobilizzai, completamene sotto shock, mentre una conversazione
prendeva forma e mi raggiungeva, risultando fin troppo chiara e
comprensibile alle mie orecchie.
«Dai,
alla fine ci è andata bene...»
«Se
ci scoprono, cacciano entrambi, lo sai.»
«Sì,
me ne rendo conto. Però ci è andata bene.»
«Alwan,
tu sei poco professionale, cazzo.»
«Ah,
ed è un difetto? Non ne avevo idea.»
«Non
è un difetto, è solo... rischioso non esserlo.»
«E
tu, Dayanara, lo sei troppo. Anche questo potrebbe crearci dei guai.»
Ero
senza fiato, stavo seriamente rischiando di svenire. Di cosa stavano
parlando quei due? Perché erano insieme in una delle camere
degli ospiti? Che cosa stavano combinando? Mi venne in mente che si
fossero cacciati in qualche guaio, che qualcosa di negativo fosse
capitato ai miei amici, ma c'era comunque qualcosa che non quadrava.
Incapace
di staccare gli occhi dalla figura di Alwan, poiché quella di
Dayanara non poteva rientrare nel mio campo visivo, rimasi ancora lì,
immobile, cercando di capirci qualcosa.
«Day,
vieni qui. Non fare quella faccia, andiamo» incalzò
Alwan con un tono di voce insolitamente dolce e caldo.
Il
mio stupore raggiunse le stelle quando anche Dayanara mi fu visibile,
questo perché si avvicinò ad Alwan e i due si strinsero
in un abbraccio che di amichevole aveva ben poco.
E
allora, quando vidi che il receptionist era completamente nudo,
serrai gli occhi e soffocai un grido, rientrando in fretta e furia
dentro la mia stanza e sbattendo la portafinestra con forza.
Mi
appoggiai con il corpo contro il vetro fresco e respirai a fondo,
cercando di calmarmi e non dare di matto.
Probabilmente
avevo fatto un casino assurdo, poiché notai che Shavo si era
svegliato e aveva socchiuso appena un occhio, tentando di tornare
alla realtà dopo il riposo.
«Leah?»
biascicò. Mi individuò, e la mia espressione sconvolta
dovette allarmarlo, poiché si svegliò completamente e
si mise a sedere di scatto. «Ehi, che c'è? Che succede?»
Scossi
il capo e mi avvicinai a lui, lasciandomi cadere sul materasso.
«Sapessi...»
Shavo
si allungò verso di me e mi circondò i fianchi con le
sue braccia, attirandomi accanto a sé. La mia schiena aderì
al suo petto nudo e il calore del suo corpo ebbe l'incredibile potere
di tranquillizzarmi all'istante. Non ero agitata, né
disgustata, avevo soltanto bisogno di un attimo per assimilare quella
novità che non mi sarei mai aspettata.
«Dimmelo,
ancora non sono in grado di leggerti nella mente» mormorò
lui, appoggiando la sua guancia contro la mia.
Inclinai
la testa all'indietro per permettergli di baciarmi il collo, poi
sospirai. «Dopo la notte insonne che ho trascorso, c'è
stato il colpo di grazia, Shavarsh.»
Lui
ridacchiò, facendomi rabbrividire leggermente per il suo fiato
caldo sulla pelle sensibile della mia spalla.
Sollevai
una mano e gli tirai leggermente la treccina che pendeva dal suo
mento. «Idiota. Indovina chi è gay?»
Shavo
sussultò e si immobilizzò, riflettendo sulle mie
parole. «Non saprei. Ma questo che c'entra? Non ci sto capendo
nulla...»
Mi
scostai gentilmente da lui per potermi voltare e incrociare il suo
sguardo perplesso. Sorrisi appena. «Indovina.»
«Leah,
non lo so...» Si grattò il collo alla base dell'orecchio
con fare pensoso.
«Sei
un caso perso, neanche ci provi a indovinare!» Mi allungai
verso di lui e gli mordicchiai leggermente il punto che fino a poco
prima stava tormentando con le unghie.
«Me
lo dici? Non abbiamo tutto il tempo del mondo» si spazientì
il bassista, bloccandomi i polsi con una mano. Mi tenne accanto a sé,
i nostri volti a poca distanza l'uno dall'altro.
«Okay,
okay! Alwan» proclamai.
«Come?!
Mi prendi in giro!» Shavo mi spinse via e si mise in piedi,
stiracchiandosi per poi sbadigliare rumorosamente. Mosse qualche
passo verso il bagno.
«Ehi,
dove vai?» protestai.
«A
lavarmi la faccia. Se vuoi raccontarmi questa tua avvincente
scoperta, puoi seguirmi.»
Alzai
gli occhi al cielo e trotterellai verso il bagno, fermandomi sulla
soglia. Lui era di fronte al lavandino e aveva appena aperto il
rubinetto, lasciando che l'acqua scorresse e divenisse tiepida.
«Allora?»
mi incitò, lanciandomi un'occhiata attraverso lo specchio.
«Non
sto scherzando, Shavarsh. Alwan è omosessuale. E io, be', non
ne sapevo nulla. Sono sconcertata.»
«E
sentiamo: come lo avresti scoperto? Stanotte, in preda al
sonnambulismo?» mi schernì, per poi buttarsi con la
testa sotto il getto dell'acqua.
«Spiritoso.
No, e so anche chi è il suo compagno.»
Shavo
tossicchiò. «Non mi dire!» farfugliò, le
sue parole confuse dall'incessante scorrere dell'acqua sul suo viso.
«Perché
non mi credi? Sei proprio un ragazzaccio di poca fede.»
Sbuffai. «Sta con Dayanara, comunque» proseguii.
Stavolta,
il bassista scoppiò fragorosamente a ridere e chiuse in fretta
e furia il rubinetto, per poi afferrare un asciugamano e tamponare la
sua pelle fradicia. «Certo, certo... come no...»
Sospirai.
«Li ho visti poco fa, Shavo! Erano nella stanza qui sotto,
insieme, praticamente erano nudi e si sono anche abbracciati. Ecco
perché ero così sconvolta quando sono rientrata!»
sbottai infine.
Lui
mi osservò con serietà. «Se mi hai chiamato
Shavo, dev'essere vero. Caspita!»
«Ah,
ma vaffanculo!» esclamai, lasciando il bagno per poi
riaccostarmi a una delle poltroncine in cui avevo lasciato il regalo
per lui.
Non
vedevo l'ora di darglielo, nonostante ancora dovessi riprendermi da
quanto avevo appena appreso. Tuttavia, ero contenta che Alwan e
Dayanara avessero una relazione; ripensandoci, ora molte tessere del
puzzle apparivano incastrate perfettamente. Alwan non aveva mai dato
adito alle avances di Lakyta, non aveva neanche provato a
frequentarla o a divertirsi un po' con lei. Si spiegava perfettamente
anche l'ostinazione di Dayanara nel non voler trovare una ragazza:
avevo scherzato diverse volte su questo argomento, ma mai avrei
immaginato che il motivo fosse questo. Ora tutto era più che
chiaro.
E,
riflettendoci un po', dovevo ammettere che erano proprio carini
insieme, anche se ancora mi faceva strano immaginare due dei miei
amici di vecchia data impegnati in una relazione amorosa. Ma
probabilmente mi sarei sorpresa maggiormente se Alwan avesse scelto
di stare con Lakyta.
Shavo
si trattenne per qualche altro istante in bagno, poi mi raggiunse e
interruppe il filo dei miei pensieri, posandomi un leggero bacio sui
capelli.
«E
quello cos'è?» volle sapere, avvistando il pacchetto che
stringevo tra le mani.
Quando
ero andata a pagare il libro, mi ero fatta consegnare un foglio di
carta blu scuro con disegnate sopra delle note musicali colorate,
decidendo di preparare io stessa il pacchetto; non volevo che Shavo
si accorgesse di nulla.
«È
un regalo, non vedi?» lo punzecchiai.
«Per
me?» domandò perplesso.
«No,
per John» dissi con estrema serietà.
«Ah.»
Mi
strinsi nelle spalle, poi cercai il suo sguardo e gli tesi il
pacchetto. «Sciocco, certo che è per te» lo
rassicurai infine, sorridendo come una scema, intenerita dalla sua
espressione vagamente delusa.
A
quel punto i suoi occhi si illuminarono. «Ma... scherzavo!
Cioè, se è per John... mica mi offendo...»
«Uff,
Shavarsh! Prendi o no questo dannato regalo? Sei proprio ingenuo!»
lo canzonai, mettendogli in mano l'oggetto.
Lui
lo afferrò con riluttanza e prese a mormorare qualcosa di
incomprensibile.
«Cosa
stai dicendo?» gli chiesi. «Forse è meglio se ti
siedi, mi sembri un tantino emozionato, eh?» Lo afferrai per un
polso e lo trascinai sul letto. «Ecco, respira, avanti!»
«Mi
prendi in giro, ma io sono davvero... Leah, non c'era bisogno di...»
Esasperata,
lo zittii con un bacio e lo avvolsi tra le braccia, ridacchiando.
«Sei troppo dolce per me, per colpa tua mi sto rammollendo.»
Shavo
scartò con cura il mio regalo, stando attento a non rompere la
carta.
«La
carta non fa parte del regalo, potresti strapparla per fare prima»
gli consigliai.
«No,
invece mi piace e la voglio conservare» affermò.
Quando
finalmente si ritrovò tra le mani il volume sulla storia del
reggae, cominciò a sfogliarlo con un entusiasmo assurdo,
accertandosi che fosse reale e non solo un miraggio.
«Ehi,
stai bene? Se avessi saputo che avresti reagito così, avrei
evitato di regalarti un libro. Avrei optato, uhm... per una
calamita.» Risi. «No, ci sono! Una cartolina con la foto
del Buts, che ne dici? Sarebbe stato perfetto!»
«Leah?»
mi richiamò, il suo tono si era fatto improvvisamente serio.
Smisi
di sghignazzare e sollevai lo sguardo per incontrare il suo. «Che
c'è? Non ti piace?» mi preoccupai.
Scosse
il capo. Appoggiò il libro aperto sulla prima pagina sulle sue
ginocchia e mi prese il viso tra le mani. «Sul serio pensi ciò
che hai scritto qui?»
Caddi
letteralmente dalle nuvole e mi ritrovai ad avvampare come mai prima
di allora. Forse perché non era mio solito agire in quel modo,
avevo dimenticato di aver annotato una piccola dedica sulla prima
pagina del volume. Non ero brava a esprimere i miei sentimenti, ma mi
ero sentita di scrivere quelle poche parole sul mio regalo per lui.
«Posso
chiederti di leggerle a voce alta?» mi chiese, notando la mia
espressione imbarazzata.
Io
avevo un modo tutto mio di raccontare le mie sensazioni, invece
quella volta avevo fatto qualcosa di anomalo e la cosa mi stava
gettando in un mare di agitazione e disagio che difficilmente avevo
provato durante la mia breve vita.
«Le
hai lette, no? Che bisogno c'è? Non è proprio il
caso...»
«Invece
sì che lo è.» Mi sorrise con dolcezza e mi
carezzò appena una guancia. «Fallo per il tuo Shavarsh,
coraggio!» scherzò per cercare, probabilmente, di
stemperare un po' la tensione che scorgeva in me.
«Questo
è un colpo basso...» borbottai, per poi rubargli il
libro e piazzarlo di fronte alla mia faccia. «Devo proprio?»
mi lamentai.
«Ti
tocca» confermò, poi si accostò a me e mi
abbracciò, nascondendo il viso nell'incavo della mia spalla.
«Ti ascolto, piccoletta.»
Il
mio cuore fece un balzo insolito all'interno del petto e il respiro
accelerò leggermente. Mi schiarii la gola e ripercorsi con gli
occhi le lettere che io stessa, il giorno prima, avevo tracciato
sulla carta bianca con inchiostro nero.
Sì,
pensavo davvero ciò che avevo scritto, quelle frasi erano
partite dal mio cuore e non avevo saputo fermarle. Volevo che lui ne
fosse a conoscenza e che non la dimenticasse.
«Shavarsh...»
cominciai con titubanza. «Hai rubato un pezzo di me.»
Feci una piccola pausa e lui non osò interrompermi. «Ora
sei parte del mio cuore, sei importante. Già ti adoro.»
Sentii il mio viso andare a fuoco. «Leah» conclusi, per
poi portarmi una mano sulla guancia e rendermi conto che la mia pelle
era umida e i miei occhi si erano appannati per via di lacrime
traditrici, lacrime di commozione e di malinconica consapevolezza.
«Grazie»
sussurrò Shavo, tenendomi stretta a sé. «Grazie
davvero.»
Rimanemmo
abbracciati per un tempo che mi parve incalcolabile, entrambi immersi
nei nostri pensieri e nelle nostre silenziose lacrime.
Le
familiari note di Dreadlock Holiday
mi accolsero quando io e Shavo giungemmo in terrazza per la
colazione. Avevo trascurato per qualche giorno il mio patto con John,
ma per quell'ultimo giorno non avrei disertato. Sarebbe stato un modo
carino per salutarlo.
Il batterista, nonostante
fossero solo le otto e mezza, era già seduto a un tavolino e
mi aspettava. Quando notò che ero con Shavo, annuì e
sorrise.
Solo
allora mi accorsi che Bryah era in sua compagnia
e che entrambi avevano dipinta in viso un'espressione terribilmente
preoccupata e stanca; la carnagione olivastra di Bryah nascondeva un
poco le sue occhiaie, ma in John queste erano ben definite e
allarmanti.
«Bryah? Come mai sei
qui?» esordii, dopo averli salutati ed essermi seduta su una
sedia libera accanto alla giornalista.
«Buongiorno Leah. È...
una storia complicata, non mi va di parlarne ora» tagliò
corto, tenendo lo sguardo fisso sul caffè che non aveva osato
toccare.
«Oddio, oggi riparto e
mi porto appresso queste preoccupazioni... ragazzi, vi prego...»
li implorai, spostando lo sguardo da Bryah a John e viceversa.
Nessuno poté
ribattere perché Alwan ci raggiunse. «Ciao a tutti!
Leah, Shavo... cosa vi porto?» ci domandò in tono
allegro.
Improvvisamente mi ricordai
di ciò che avevo visto quella mattina ed esclamai: «Non
so, vengo al banco a vedere cosa c'è di buono da mangiare!
Shavarsh, tu cosa vuoi?».
«Uhm... un caffè
e poi scegli tu, qualcosa che abbia molto cioccolato» proferì,
intento a scambiarsi occhiate enigmatiche con John.
Mi alzai e seguì
Alwan verso il chiosco.
«Ehm... Al?» lo
richiamai.
Lui si voltò a
lanciarmi un'occhiata interrogativa.
«Oggi riparto»
lo informai con una nota malinconica nella voce.
«Di già?»
protestò.
«Sì.»
Annuii. «Ma stavolta ci teniamo in contatto, va bene?»
tentai di rassicurare lui, anche se cercavo di farlo più che
altro con me stessa.
«Era ora! Vedo che hai
smesso di essere la solita Leah mezzo misantropa che si dimentica di
avere degli amici in Giamaica!» esclamò con entusiasmo,
strizzandomi l'occhio.
Intanto stavo osservando
distrattamente la vetrina che conteneva deliziosi dolci, indecisa su
cosa scegliere. «Forse. Dev'essere colpa di quel ragazzaccio.»
«L'amore può
cambiarti la vita» commentò, sciacquando qualche
stoviglia, dopo essere tornato dietro il bancone.
«E tu? Hai trovato
l'amore, non è vero?» buttai lì, adocchiando un
bignè al cioccolato che sarebbe sicuramente piaciuto a Shavo.
«Ecco... bella
domanda.»
«Ehi, Al... vi ho
visto stamattina» gli confessai infine.
Lui rimase in silenzio per
un po'. «Come...?»
«Eravate nella stanza
sotto la mia, mi sono affacciata al bancone perché ho sentito
delle voci e...» Mi strinsi nelle spalle. «Ricordati il
caffè per Shavo e poi mi dai due di questi bignè al
cioccolato. Io voglio un Blue Mountain bello forte.»
«Non siamo stati
attenti, Day aveva ragione. Ops.»
«A
me non importa, non lo dirò a nessuno e comunque non credo ci
sia qualcosa di male. Confesso
che non me l'aspettavo e sono rimasta un attimo sconcertata, ma
poi... sì, credo che sia meglio se voi state insieme. Siete
carini, perfetti direi!» Alzai gli occhi su di lui e sorrisi
con sincerità. «Da quanto tempo va avanti?» volli
sapere.
«Quasi sei mesi. Ed è
magnifico, Leah. Io non sono mai stato meglio. Non pensavo che
potesse esistere qualcosa di tanto intenso e rassicurante... forse
non dovrei dirtelo, io non so neanche se tu sei d'accordo, se ti dà
fastidio...»
«Ma per chi mi hai
preso? Dai, vieni qui che ti do un abbraccio!» esclamai,
incitandolo a raggiungermi oltre il bancone.
Ci stringemmo in un
abbraccio e io mormorai: «Prendetevi cura l'uno dell'altro, ma
soprattutto dei vostri sentimenti. È una cosa bellissima e
merita di essere vissuta al meglio. Sono fiera di voi e felice per
questo vostro legame».
Lui ridacchiò.
«Allora dopo vai a trovare Day e congratulati con lui. Io non
ho dubbi, ma lui è un po' insicuro e ha paura che il nostro
rapporto possa essere scoperto e comprometta il nostro lavoro qui
all'hotel.»
«Il solito razionale!
Lo strapazzo un po' io, non temere! Dai, torno dagli altri, mi porti
tu le ordinazioni?» conclusi.
Lui annuì e aggiunse:
«Grazie, davvero».
Stavo per ribattere quando
un urlo stridulo proveniente dal nostro tavolo si levò
nell'aria e mi fece sussultare.
Mi voltai in quella
direzione e rimasi di sasso.
Ehilà!
Ce l'ho fatta a tornare!!!!
Mi
è mancato un sacco pubblicare questa storia, maledetta
connessione ù.ù
Prima
di passare alle note sul capitolo, ho un annuncio da fare: tenete
d'occhio la categoria dei nostri amati System, perché per il
giorno di Natale ho preparato un bel regalino per voi! :D
Per
il resto, non voglio disturbarvi con i miei sproloqui... anche perché
in questo capitolo abbiamo visto degli sviluppi interessanti,
specialmente per i nostri cari Alwan e Dayanara *___*
Sono
qui per parlarvi, comunque, della canzone che accoglie Shavo e Leah
quando arrivano in terrazza per la colazione, ovvero Dreadlock
Holiday dei 10cc, una canzone che ha rappresentato tantissimi
momenti della mia infanzia e che conosco da tantissimi anni!
Ecco
a voi il link, nel caso voleste ascoltarla (io ve lo consiglio perché
parla dell'amore per il reggae e per la Giamaica, molto in linea con
questa storia):
https://www.youtube.com/watch?v=fUNTk5xsxk4
Detto
questo... aspetto i vostri commenti ed eventuali scleri sulla notizia
della nuova coppia slash – vi chiedevate perché avessi
dato questo bizzarro titolo al capitolo, eh? :P
Alla
prossima e grazie di cuore a tutti voi ♥
Buone
Feste!!!!!!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 41 *** Time is running out ***
Time
is running out
[Shavo]
Bryah
era terrorizzata, sembrava avesse visto un fantasma e il suo colorito
era divenuto insolitamente pallido.
«Merda»
borbottai, spostando lo sguardo sulla figura che, a passo spedito, si
stava avvicinando al nostro tavolo.
La
giornalista, di riflesso, si fece piccola sulla sedia e si strinse le
ginocchia al petto, nascondendo il viso tra le mani. Per la prima
volta la vidi veramente spaventata, fragile, incredibilmente diversa
dal solito.
John
era serissimo e fissava, senza scomporsi, il visitatore indesiderato
che intano si era fermato di fronte al tavolo e aveva spostato
bruscamente la sedia che Leah aveva lasciato libera.
«Benton,
ti prego...» piagnucolò la giornalista, scossa da
profondi brividi e singhiozzi.
«Puttana,
lo sapevo! Sei tornata da questo coglione, eh? Andiamo a casa,
subito!» sbraitò il compagno di Bryah, allungando una
mano verso di lei.
Con
uno scatto fulmineo, John fu in piedi e bloccò la mossa di
Benton, senza troppi sforzi. «Fermo» ringhiò a
bassa voce, in un tono talmente minaccioso che mi fece quasi
rabbrividire.
Nel
frattempo, Leah ci raggiunse e si piazzò di fronte al nuovo
arrivato. «Scusa? Per quale motivo avresti spostato la mia
sedia?» esordì in tono irritato.
Il
tizio fu costretto a indietreggiare, poiché Leah stava
prepotentemente riposizionando l'oggetto che le era stato sottratto.
«Stai
importunando i miei amici? Senti, io non so cosa hai fatto, ma da
come ha reagito Bryah, mi pare di capire che non gradisca affatto la
tua presenza» sentenziò ancora lei, mettendosi a sedere
con noncuranza. «Sparisci» gli ordinò.
«Non
prendo ordini da un'altra puttanella come lei, chiaro? Viene con me,
avete capito? Voi non decidete un cazzo» tuonò ancora
Benton.
A
quel punto avvertii una sensazione di rabbia cieca e implacabile, mi
avventai contro di lui e, nonostante fossi nettamente più
magro rispetto a lui, riuscii a farlo indietreggiare di diversi
passi, dopo avergli mollato un pugno in faccia.
«Smettila
di offendere queste donne, pezzo di merda» gli sputai in
faccia.
Poco
dopo, qualcuno mi afferrò per un braccio e mi trascinò
nuovamente vicino al tavolo; poi, John si frappose tra me e Benton e
rivolse a quest'ultimo un'occhiata truce. Era parecchio incazzato,
decisamente, me ne accorgevo perché, anche se in maniera
impercettibile, i suoi muscoli fremevano e guizzavano per lo sforzo
che stava compiendo nel mantenere un minimo di calma.
Leah
mi circondò il torace con le braccia e mi si strinse addosso.
«Non farlo mai più, hai capito? Ma sei diventato pazzo?
Quello è un armadio!» sibilò in preda
all'agitazione.
«Hai
sentito come vi ha chiamato?! Me ne fotto, Leah, di ciò che
potrebbe farmi! Lasciami andare, io lo scaravento di sotto, giuro!»
Lei
rafforzò la stretta su di me e mi costrinse a indietreggiare
ancora. «Ho detto di calmarti, Shavo» disse con fermezza,
utilizzando un tono che non ammetteva repliche.
Benton,
intanto, stava continuando a sbraitare e poco dopo un Dayanara
trafelato apparve in terrazza e si accostò all'ospite
indesiderato.
«Mi
scusi, le avevo detto che non poteva entrare in albergo senza
l'autorizzazione del direttore. La invito ad andarsene» proferì
il receptionist in tono calmo e professionale.
«Vaffanculo,
faccio come mi pare. Sono venuto a riprendermi la mia donna»
ribatté con rabbia il tizio, facendo nuovamente qualche passo
avanti verso Bryah.
A
questo punto la giornalista parve riscuotersi e si alzò di
scatto dalla sedia. «Stammi lontano! Non ti permetterò
mai più di mettermi le mani addosso, schifosa bestia!»
strillò in preda alla disperazione, nascondendosi dietro a
John. «Ti denuncio, mi hai rovinato la vita!»
«Puttana,
non dire cazzate, sei falsa più di Giuda! Ti inventi le cose,
sei pazza!» la accusò ancora Benton.
«Il
pazzo sei tu, fatti curare da uno bravo!» replicò Leah,
senza però allentare la stretta su di me.
Dovevo
essere completamente rosso e sudato per via della rabbia crescente,
non riuscivo quasi a controllarmi e stavo tremando, mentre le mani mi
prudevano per la voglia quasi viscerale di ammazzarlo di botte.
«Signore,
glielo dico per l'ultima volta: o lascia questo albergo in questo
istante o chiamo la polizia. Ma forse per lei non farà alcuna
differenza, visto che mi pare di capire che in ogni caso trascorrerà
del tempo in centrale o, peggio, in gattabuia. A lei la scelta. Vuole
accelerare il processo? Io le consiglio di godersi i suoi ultimi
istanti di libertà.» Il modo professionale con il quale
Dayanara si rivolgeva a quel brutto ceffo, mantenendo la calma in
maniera quasi assoluta ed evitando di dare di matto, era qualcosa che
non potevo che ammirare.
«Me
ne vado, ma sappiate che non è finita qui! Tanto ti troverò,
non ti libererai di me tanto facilmente, sappilo!» strillò
Benton, poi fece per andarsene.
All'ultimo
momento si voltò di scatto verso John e riuscì quasi a
colpirlo con un ceffone, ma il batterista bloccò ancora una
volta il suo attacco e gli diede una spallata, scaraventandolo
all'indietro.
Benton
ruzzolò a terra e fu quasi sul punto di sbattere la testa
contro la balaustra della terrazza. Si ricompose fin troppo presto e
prese a marciare giù dalle scale, bestemmiando a voce alta e
pestando i piedi come un bambino che fa i capricci.
Decisamente
patetico, ridicolo e raccapricciante.
«John...»
Bryah posò una mano tremante sulla schiena del batterista.
Lui
si voltò e la attirò a sé, stringendola con
forza in un abbraccio e cullandola con dolcezza; aveva un fare
protettivo nei confronti della giornalista, come se lei fosse la cosa
più preziosa che conoscesse.
Io,
intanto, mi stavo pian piano calmando e poco dopo smisi di tremare.
Leah allentò la stretta, ma non mi lasciò completamente
andare.
«Scusate,
corro ad assicurarmi che se ne vada!» esclamò Dayanara,
partendo all'inseguimento dell'intruso.
Alwan
si accostò a noi, agitatissimo. «Oddio, ragazzi... state
bene?» Notai che lanciava furtive occhiate verso le scale,
sicuramente era in ansia per Dayanara, il che mi fece quasi sorridere
tra me e me.
«Sì,
stiamo bene! Per fortuna quel coglione se n'è andato, ma
vedrete che non la passerà liscia!» esclamò Leah,
posandogli una mano sul braccio. «Piuttosto, Day è stato
formidabile! Ma come fa?»
«Già,
io sono subito partito in quarta... mi dispiace, scusatemi»
ammisi con dispiacere, riconoscendo di essermi lasciato un po' troppo
trasportare dalla rabbia.
«È
che tu sei passionale, Shavarsh!» mi canzonò Leah,
sollevandosi sulle punte per baciarmi sulla guancia. «Però
mi hai fatto preoccupare, cretino!»
Intanto,
notai che John aveva fatto riaccomodare Bryah su una sedia e stava
facendo cenno ad Alwan di avvicinarsi.
«Dimmi,
John!» esclamò il barista, accostandosi in fretta a lui.
«Le
puoi preparare una buona tisana o una camomilla? Fai tu, mi fido di
te. L'importante è che la aiuti a stare meglio.»
«Certo,
non preoccuparti! Mi converrà prenderne una anch'io, questa
faccenda mi ha fatto accapponare la pelle... ma che voleva quello
stronzo?»
«Rompere
le palle» tagliò corto John, accarezzando i capelli di
Bryah, la quale aveva posato la testa contro il suo torace; il
batterista era ancora in piedi a fianco alla sedia su cui lei si era
abbandonata, e non sembrava intenzionato a spostarsi.
«Ora
ti preparo qualcosa di rilassante, stai tranquilla» assicurò
il barista, partendo in fretta e furia dietro il bancone.
Sospirai
e Leah fece lo stesso, poi tornammo a sederci intorno al tavolo.
«Che
casino» mormorai.
«Bryah,
tesoro... devi fargliela pagare» disse Leah, posando una mano
sul ginocchio della giornalista. «Devi denunciarlo.»
Le
due si fissarono per un po', infine Bryah annuì. «Mi ha
picchiato. Ecco perché sono qui. Sono tornata da John a bordo
di un taxi, stanotte... io...»
Rabbrividii
per il disgusto che quelle parole mi provocarono. «Inconcepibile!»
sbottai.
«Non
ti lasceremo sola» affermò Leah, poi all'improvviso si
rabbuiò. «Io oggi devo ripartire. Cazzo, come facciamo?»
Bryah
parve atterrita nell'udire quelle parole. «Io... non lo so»
ammise con l'angoscia a impregnarle la voce.
John
si irrigidì al suo fianco e scosse appena il capo. Cercò
il mio sguardo e ci fissammo intensamente per alcuni secondi.
Sapevo
a cosa stava pensando, sapevo cos'aveva in mente ed ero consapevole
che io avrei fatto lo stesso; il mio amico non voleva abbandonare
quella donna, non in un momento così difficile. Leah sarebbe
ripartita tra poche ore, io e i ragazzi il giorno seguente; a quel
punto lei sarebbe rimasta da sola a combattere contro qualcosa che
non sapeva affrontare, contro una bestia che si era illusa di amare e
che credeva l'amasse.
E
John, ne ero certo, non l'avrebbe permesso.
«Vuoi
restare?» gli chiesi infine; il mio fu soltanto un sussurro, le
mie labbra si mossero in maniera impercettibile, ma lui comprese e,
senza esitare, annuì.
Aveva
preso la sua decisione. Forse si sarebbe trattenuto per qualche
giorno soltanto, ma in ogni caso sarebbe rientrato a Los Angeles
appena possibile, non ci avrebbe abbandonato.
In
quel momento, semplicemente, aveva un'altra priorità a cui
pensare.
«Non
preoccuparti, Leah. Starò io con lei» proferì il
batterista in tono rassicurante, una nota di dolcezza a impregnare la
sua voce.
Poco
dopo, Alwan arrivò con la tisana per Bryah.
Io
e Leah ci scambiammo un'occhiata.
«Shavarsh,
andiamo a vedere come sta Day? Voglio accertarmi che abbia mandato
via quel verme» mi propose la ragazza.
Annuii.
«Andiamo.»
Salutammo
Alwan e gli promettemmo che avremmo controllato che Dayanara fosse
sano e salvo. Lui ci ringraziò con un dolce sorriso e io fui
certo che tenesse davvero al receptionist, che tra loro ci fosse
qualcosa di speciale.
Eppure,
se non si conosceva la verità su di loro, non ci si accorgeva
di niente. Erano dannatamente discreti e terribilmente attenti a non
far trapelare niente che potesse in qualche modo comprometterli.
Mentre
io e Leah eravamo in ascensore, sospirai. «Però non è
giusto che debbano nascondersi» riflettei.
Lei
distolse lo sguardo dal panorama oltre il vetro e mi scrutò.
«Intendi Al e Day? Già, è un vero schifo»
concordò in tono dispiaciuto.
«Ma
ti rendi conto? Non dico che debbano ostentare chissà quali
effusioni in pubblico, quello non lo facciamo neanche noi due, ma...
insomma, devono praticamente ignorarsi» mi infervorai,
gesticolando con indignazione.
«Ecco,
appunto. Arriverà mai l'uguaglianza anche per gli
omosessuali?» mi chiese con fare dubbioso.
«Non
lo so, ma sarebbe anche ora.»
il
nostro discorso si interruppe quando le doppie porte dell'ascensore
si aprirono.
Fortunatamente,
Dayanara ci aveva rassicurato sul fatto che Benton avesse lasciato
l'albergo.
Quando
Leah gli aveva confidato che sapeva della sua relazione con Alwan,
lui inizialmente era impallidito leggermente, poi era diventato
completamente rosso e per la prima volta l'avevo visto in preda
all'imbarazzo.
«Non
lo diremo a nessuno, se è questo che ti preoccupa» gli
aveva assicurato Leah.
Lui
aveva scosso il capo e aveva sorriso appena. «Questo lo so. Non
dubito di te, Leah.»
«E
allora? Noi siamo felicissimi per voi, chiaro? Non penserai mica che
ci dia fastidio o altre cretinate del genere, vero?»
«No,
no... è che... non me l'aspettavo. Ve lo ha detto lui?»
«No,
vi ho visti.»
Allora
Leah gli aveva raccontato cos'era accaduto quella mattina e il
receptionist era divenuto di un acceso bordeaux, quasi viola, in
tinta con la palazzina in cui alloggiavamo.
«Su,
Day! Non fare così, sei uno sciocco! Vieni qui» lo aveva
apostrofato la ragazza, trascinandolo via dal banco della reception e
stringendolo in un abbraccio. «Sai una cosa? Oggi riparto, ma
stavolta non sparirò. Non dopo aver saputo questa super
notizia! Voglio che mi teniate aggiornata su tutti i dettagli, anche
quelli più scabrosi!» aveva sghignazzato.
Dayanara
l'aveva lasciata andare e io le avevo tappato la bocca, accusandola
di essere sempre la solita indiscreta e impicciona.
«Sai
che non te li racconterò mai, vero?» aveva concluso il
receptionist, per poi annotare il suo numero di cellulare, indirizzo
e-mail e altre informazioni su un post-it verde. Si era allungato poi
verso Leah e glielo aveva appiccicato scherzosamente sulla fronte,
per poi esclamare: «Fanne buon uso!».
Poco
dopo era tornato al suo lavoro, riprendendo il suo atteggiamento
professionale e cortese. Lo ammiravo davvero tanto, la mia stima nei
suoi confronti cresceva sempre più.
Mentre
ci dirigevamo verso l'ascensore, fummo intercettati da un uomo alto e
abbigliato in maniera elegante in compagnia di una donna piuttosto
insignificante.
Riconobbi
a malapena il padre di Leah e dedussi che quella tizia dovesse essere
la sua amante del momento.
«Leah,
ti cercavo! Ho provato diverse volte a chiamare al numero della tua
stanza o al tuo cellulare, ma...»
«Il
cellulare l'ho spento prima di partire e non so neanche dove sia.
Come vedi, non sono in camera. Come avrei potuto rispondere?»
lo rimbrottò subito lei, incrociando le braccia al petto.
«Fammi capire... dopo una settimana ti sei ricordato che
esisto?»
«Non
fare così, su. Oggi dobbiamo partire, ricordi?» le si
rivolse lui in tono piatto, ignorando completamente la mia presenza.
Per quanto lo riguardava, potevo essere anche un soprammobile o parte
della tappezzeria.
«Come
potrei dimenticarmene?» sbuffò lei. «A che ora
andiamo via di qui?» si informò.
«Il
taxi ci viene a prendere alle quattro del pomeriggio. Partiremo con
il volo notturno e domattina saremo già a Las Vegas.»
Leah
annuì. «Okay, ci vediamo alle quattro nella hall»
concluse freddamente, poi fece per dirigersi verso l'ascensore.
Alan
Moonshift non ribatté, mi lanciò un'occhiata senza
realmente vedermi, e si lasciò trascinare da Medison verso il
bar.
Io
raggiunsi Leah e scossi il capo. «Però, sono cresciuti
un sacco di iceberg intorno a voi» scherzai.
«Io
te l'ho detto che è un essere inutile» tagliò
corto, mentre entrava in ascensore. «Che ore sono?»
Estrassi
il cellulare dalla tasca dei pantaloni e controllai sul display. «Le
undici meno venti.»
Leah
sorrise e mi attirò a sé, baciandomi sensualmente sulle
labbra. «Abbiamo ancora un po' di tempo per noi» mormorò
in tono malizioso.
Immediatamente
la temperatura all'interno del box aumentò di diversi gradi e
il mio corpo reagì senza controllo a quelle parole e al tono
con cui le aveva pronunciate.
Cominciammo
a baciarci mentre ancora eravamo in ascensore, e raggiungemmo a
tentoni la stanza di Leah, senza curarci che qualcuno potesse
vederci. Per un istante mi ritrovai a chiedermi se Daron stesse
ancora dormendo, ma poi Leah mi trascinò dentro la stanza e
cominciò a spogliarmi prima ancora che potessimo raggiungere
il letto.
«E
questo che significa?» ansimai contro il suo orecchio,
stringendo con forza i suoi fianchi tra le mani.
«Significa
che ti voglio qui e ora, ragazzaccio» rispose Leah, liberandosi
in fretta dei miei vestiti.
La
feci stendere sotto di me e finii a mia volta di spogliarla,
soffermandomi a osservare il suo corpo magro e spigoloso, quel corpo
che mi faceva impazzire perché sapeva essere allo stesso tempo
caldo, accogliente e morbido.
«E
poi? Che altro significa?» Volevo sentirla parlare, dire delle
cose come aveva fatto qualche ora prima quando aveva letto quelle
poche parole scritte sulla prima pagina del libro che mi aveva
regalato.
«Significa...»
Si interruppe per sospirare, dal momento che le mie mani stavano
scendendo lungo il suo corpo e la carezzavano con delicatezza e
desiderio. «Che mi mancherai, cazzo, mi mancherai troppo»
ammise con la voce rotta dall'emozione.
Notai,
guardandola in viso, che i suoi occhi si erano inumiditi e che
sicuramente i suoi pensieri si stavano facendo malinconici.
«No,
adesso non essere triste. Adesso non è ancora arrivato il
momento» mormorai, chinandomi per baciarla sulla fronte e sugli
occhi, sulle guance e sul mento. «Adesso voglio che tu sia
felice e che sorrida.»
Leah
mi attirò con forza a sé e mi strinse fino a togliermi
quasi il respiro. Prese a riempirmi il viso e le spalle di baci,
sembrava non averne mai abbastanza della nostra vicinanza e di
quell'unione; poi si inarcò contro di me per farmi capire che
mi desiderava e non voleva più aspettare.
Le
afferrai con delicatezza il viso tra le mani e, mentre mi facevo
lentamente spazio in lei, non staccai neanche per un istante i miei
occhi dai suoi. Ancora piangeva, ma non sembrava triste. Forse si
sentiva come me, completa, appagata, in un angolo di paradiso.
Eravamo
insieme, in alto, sempre più su, mentre il tempo trascorreva
inesorabile e per noi si stava pian piano esaurendo quello da
trascorrere insieme.
Facemmo
l'amore finché non fummo troppo stanchi per muoverci, ma mai
ci allontanammo l'uno dall'altra; tenni Leah tra le braccia e la
accarezzai per un tempo infinito, le sussurrai che sarebbe andato
tutto bene e che per noi quello era solo l'inizio.
«Leah?»
la chiamai a un certo punto, lanciando un'occhiata al display del mio
cellulare per controllare l'orario: erano le 14:26.
«Sì?»
Sollevò appena una mano e prese a lisciare con delicatezza il
mio singolare pizzetto.
«Hai
mai creduto di essere bloccata nel cielo?»
le domandai.
Lei
ci rifletté un attimo, poi sorrise. «Peephole»
sentenziò.
«Mi hai scoperto. Ma
la domanda era seria» le dissi, sollevando il suo mento con due
dita affinché i nostri occhi si incrociassero.
Leah aggrottò
leggermente la fronte. «Che domande fai, Shavarsh?»
«Non sei per niente
romantica. Dio, ma dimmi te in che guaio mi sono cacciato...»
borbottai, fingendomi contrariato all'idea di avere un qualche legame
con lei.
Leah si sollevò sui
gomiti e fece in modo di osservarmi meglio. «Scusa. Mi rendo
conto che a volte rovino tutto... tu sai come sono fatta, ormai l'hai
capito.»
«Sì, te l'ho
chiesto apposta» le feci notare in tono divertito.
«Che bastardo! Allora,
per ripicca, ti dimostrerò che anche io posso essere
romantica, dolce, anzi... sdolcinata!»
«Oddio, ho creato la
reincarnazione di Frankestein...»
«Taci!»
Leah si inginocchiò di fronte a me sul materasso e prese a
scandagliare ogni centimetro del mio corpo con sguardo attento.
«Vediamo... sì, Shavarsh,
una volta ho creduto di essere bloccata lassù, nell'immensa
distesa blu...» Si interruppe. «Vuoi sapere la mia
storia?»
«Sentiamo» le
concessi, curioso dalla scenetta che stava mettendo in atto.
«Un giorno incontrai
un bassista. Sai, lui era proprio carino, no... era tenero, molto
dolce, troppo per una come me. Lui mi colpì perché
quando lo conobbi stava male. Questo mi permise di conoscerlo durante
uno dei suoi momenti peggiori, uno di quelli schifosi in cui uno
vorrebbe soltanto essere da solo ed evitare che gli altri notino le
sue debolezze. Ma lui mi colpì. Col tempo imparai a cogliere
la sua vera bellezza, il suo essere una persona fantastica, una
persona dolce e passionale, impulsiva, ipocondriaca, riflessiva... a
volte questo bassista mi appariva come un controsenso deambulante, se
devo essere sincera.»
Ridacchiai. «Controsenso
deambulante, mi piace.»
«Sì,
era proprio così. Ma soprattutto, era sincero. Mi mentii una
volta, ma anche io lo feci con lui. Eravamo due stupidi, lo ammetto,
ma quell'episodio ci permise di avvicinarci e conoscerci meglio. Lui
era famoso, sai? Ma se lo si conosceva, si capiva che non si era mai
montato la testa e che non temeva di mostrarsi per ciò che era
realmente, per le sue insicurezze e dubbi, per le sue debolezze e
passioni, per i suoi difetti... capisci, è stata una persona
genuina fin da subito. E io,
che sono come sono, come avrei potuto non rimanerne ammaliata?»
Ormai mi ero fatto serio e
ascoltavo con attenzione le sue parole. Sentivo che quello era un
momento importante, un'occasione che non si sarebbe ripresentata
tanto presto.
«Così mi rubò
il cuore e, forse, io lo rubai a lui. Non lo posso sapere con
certezza, ma ci speravo tanto. Allora ci avvicinammo ancora di più,
come per magia mi ritrovai a poterlo quasi considerare il mio
compagno. E poi, be'... Shavarsh, sapessi quant'era bello togliergli
i vestiti e ammirare quel suo corpo magro e così simile al
mio! Sapessi quant'era bello baciarlo ovunque e fare l'amore con lui,
sentendolo reagire a ogni mio gesto... e sì, allora mi sentii
bloccata nel cielo, anche se sapevo che presto quella forza magica
che mi tratteneva in alto si sarebbe esaurita e io sarei caduta
precipitosamente, sbattendo la faccia al suolo.»
Senza rendermene conto,
avevo preso le sue mani tra le mie e il mio cuore stava sussultando
rumorosamente dentro il petto. Aveva detto un sacco di cose
bellissime, aveva parlato di noi e aveva riassunto in poche parole
ciò che avevamo vissuto fino a quel momento.
«Leah...»
«Dimmi.»
«Sono le tre e sei
minuti.»
Si chinò su di me e
mi baciò. «Abbiamo ancora tempo, ne abbiamo ancora...»
Facemmo l'amore per l'ultima
volta e la finimmo a piangere entrambi come bambini, finché il
tempo a nostra disposizione non si consumò del tutto.
Alle quattro meno dieci
uscimmo dalla sua stanza e andammo a cercare i ragazzi.
Mancavano cinque minuti alla
sua partenza quando, tutti insieme, raggiungemmo la hall.
Ciao
a tutti, miei cari lettori ^^
Lo
so, lo so... mi odiate, non è vero?
Questo
capitolo è così triste che quasi mi veniva da piangere
mentre lo scrivevo ç___ç
Non
è giusto!!!!
Okay,
mi contengo, sono una figura poco professionale e certamente non
assomiglio a Dayanara XD
Be',
ma sono qui per parlarvi del titolo del capitolo, ovvero Time
is running out; forse qualcuno
di voi conosce una canzone dei Muse che porta questo titolo, e in
effetti non sarebbe male abbinarla al capitolo in questione; in
maniera più generica, volevo si capisse che il tempo per Leah
e Shavo era davvero agli sgoccioli, anche se mi è costato
parecchio doverlo ammettere anche a me stessa :'(
Poi...
la frase che ho messo in corsivo, quella che Shavo rivolge a Leah
sotto forma di domanda, è più o meno la traduzione del
titolo dell'intera long; pensavo fosse carino inserirla nel corso
della storia, specialmente a
questo punto cruciale della faccenda ^^
Per
il resto, aspetto i vostri commenti e spero non abbiate rischiato di
piangere come la sottoscritta. Spero di non aver esagerato con il
monologo di Leah, ma era anche un modo per riassumere l'evoluzione
del suo rapporto con il suo Shavarsh *-* (sto di nuovo shippando come
una demente, SCUSATE!!!!)
Grazie
di cuore a tutti voi che ancora mi seguite, alla prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 42 *** Feelin' the same ***
Feelin'
the same
[John]
Salutare
Leah non fu facile per nessuno di noi, ma Shavo ne rimase ancor più
scosso; c'era da aspettarselo, tra lui e la ragazza era nato un
rapporto che pareva quasi indissolubile, in poco tempo si erano
legati l'uno all'altra e avevano imparato a volersi bene come se
stessero insieme da una vita.
Anche
io mi ero affezionato a lei, era diventata una buona amica in un
tempo estremamente breve, il che mi aveva sorpreso e fatto piacere
allo stesso tempo. Non era da me concedere la mia fiducia e aprirmi
in quel modo con chi conoscevo appena, perciò non avevo la
minima idea di come tutto questo fosse stato possibile. Mi ero
semplicemente lasciato trascinare dal suo entusiasmo, dalla sua
solarità e dal suo carattere aperto ed esuberante, in netto
contrasto con il mio.
Il
momento più difficile si verificò quando Leah consegnò
a Daron e me dei piccoli sacchetti di carta azzurra. «È
un pensierino per voi, un ricordo di me» disse, la voce
leggermente incrinata per via delle emozioni che stava provando.
Shavo
se ne stava da una parte con lo sguardo perso nel vuoto, cercando di
non dar troppo a vedere la sua malinconia.
Io
rimasi basito e afferrai il mio regalo con cautela, non sapendo se là
dentro ci fosse qualcosa di delicato.
«Cosa?
Leah, non dovevi!» sbottò il chitarrista, strappando in
fretta e furia la carta. Quando si ritrovò tra le mani un
portachiavi identico a quello che lui aveva regalato a Leah in segno
di pace, sollevò lo sguardo e lo posò su di lei. «Oh»
fece soltanto.
«Ti
piace?»
Daron
spalancò le braccia e corse ad abbracciarla. «Sciocca!
Oddio, grazie! Mi ricorderà te in ogni momento della mia vita,
hai scelto il regalo perfetto!» strepitò, mentre la
stritolava. «Anche se non dovevi» chiarì,
lasciandola andare.
«Certo
che dovevo!» Lei si voltò verso di me. «John, non
lo apri?»
Mi
riscossi leggermente e scartai lentamente il mio regalo, ritrovandomi
tra le dita un portachiavi a forma di rullante.
«Che
ne dici?»
«È
bellissimo» mormorai. Ero profondamente commosso, nonostante
riuscissi a stento a dimostrarlo. «Leah, grazie!»
«Mi
dai un abbraccio, batterista? Chissà se ci rivedremo entro
questa vita!» esclamò, accostandosi a me.
Ci
stringemmo in un forte abbraccio e Leah sussurrò: «Grazie
di tutto. E, John, prenditi cura di Shavo. Sono già in ansia
per lui».
«E
tu abbi cura di te, okay?»
Lei
si allontanò da me e annuì. «Ci proverò.»
«Devi
riuscirci, non solo provarci.»
«D'accordo,
d'accordo... e tu bada a Bryah, so che con te è in buone
mani.»
Lanciai
un'occhiata alla giornalista che se ne stava in disparte; non aveva
un'espressione particolarmente felice, e io potevo capire benissimo a
cosa stesse pensando. Da quel momento in poi avrebbe dovuto
combattere contro Benton, ma io non l'avrei abbandonata.
Attirai
la sua attenzione e le feci cenno di avvicinarsi. Leah le andò
incontro e le due si strinsero in un abbraccio colmo di affetto.
«Mi
mancherai tanto, ma so che John si prenderà cura di te e
quindi sono tranquilla. Sii forte, Bryah, perché so che ne sei
in grado» disse Leah.
Bryah
scoppiò a piangere e io la raggiunsi, prendendola tra le
braccia e facendo sì che potesse nascondere il viso sulla mia
spalla. «Avanti, va tutto bene. Non piangere, coraggio, non sei
sola» la rassicurai.
Leah
la accarezzò su un braccio e le regalò un bacio sulla
guancia. «Per qualsiasi cosa, io ci sono. Mi dispiace solo
di...»
«Leah,
andiamo?»
La
ragazza sussultò e si voltò in direzione di suo padre:
abbigliato come un damerino, era già nei pressi delle doppie
porte che conducevano al vialetto d'ingresso dello Skye Sun Hotel e
attendeva che sua figlia lo raggiungesse.
«Comincia
ad andare, arrivo subito» rispose lei freddamente.
«Non
impiegarci troppo, d'accordo? L'aereo non ci aspetta.»
«Non
avere paura, non te lo farò perdere quello stupido aereo»
sputò tra i denti, poi voltò le spalle all'uomo e si
accostò a Shavo.
Quest'ultimo
scosse il capo, portandosi una mano alla fronte. «Detesto gli
addii» ammise.
«Non
è un addio, Shavarsh!» si affrettò a contraddirlo
lei, tentando di abbracciarlo.
«Per
il momento non sappiamo quando potremo rivederci, Leah.»
«Lo
so, però... però succederà e... lo so, lo so che
è difficile, cazzo. Però non possiamo arrenderci,
capisci? Ne abbiamo già parlato!» insistette la ragazza,
riuscendo a intrappolarlo tra le sue braccia. «Non fare così,
mi fai stare in pensiero.»
Il
bassista scrollò le spalle. «Che importa?»
«Shavarsh!»
Daron
li raggiunse e batté con forza sul braccio di lui. «Smetti
di fare lo stronzo o devo riempirti di ceffoni?» intervenne.
Forse
avrebbe dovuto evitare, ma quelle sue parole furono in grado di
riscuotere il bassista. Shavo, infatti, lanciò un'occhiata
prima a Daron poi a Leah, infine si lasciò stringere dalla
ragazza e ricambiò il suo abbraccio.
«Scusami...»
sussurrò con voce rotta.
Distolsi
lo sguardo perché mi si stava formando un nodo in gola e non
riuscivo quasi a controllare le mille emozioni che stavo provando.
Mentre io, seppur nella sfortuna, avevo ancora un po' di tempo da
trascorrere con Bryah; il mio amico era costretto a separarsi in quel
preciso momento dalla persona che gli aveva rubato il cuore.
Era
tutto tremendamente triste, ma questa era la vita. Non potevamo che
accettarla e affrontarla a testa alta.
Bryah
si mosse leggermente tra le mie braccia e io posai lo sguardo sul suo
viso: si era scostata da me e mi fissava con un'espressione
indecifrabile.
«Va
meglio?» le chiesi, sistemandole delicatamente i capelli dietro
le orecchie.
«Un
po'... mi dispiace, non faccio che piangere e comportarmi come una
bambina. Tu... dovresti abbandonarmi, sai? Ti creo soltanto dei
problemi.»
Sospirai.
«Non farmi arrabbiare, Bryah.»
Lei
si esibì in un'espressione leggermente allarmata.
«Ehi,
stai tranquilla. Non starai pensando...»
«Se
ti arrabbi potresti... fare come lui?»
mi chiese atterrita.
«Cosa? No, non
pensarci neanche! Però non sopporto che tu dica sciocchezze.
Come potrei abbandonarti in un momento del genere?» mi
affrettai a spiegarle.
«Io... è che...
tu hai una vita, vedi... tutti se ne vanno da qui, perché la
Giamaica è un posto magnifico per i turisti, un posto che
tutti lasciano con un bel ricordo e a cui aspirano quando sono
sommersi dalla quotidianità. Ma alla fine questo posto è
come tutti gli altri, con una quantità di brutture e persone
orribili che...»
La fissai confuso. «Questo
con me cosa ha a che fare?»
Bryah
si schiarì la gola e stava per ribattere, quando
un grido concitato ci strappò a quella conversazione e attirò
inevitabilmente la nostra attenzione.
«Leah!»
strillarono in coro Dayanara, Alwan e Cornia, correndo verso la
ragazza in partenza.
Lei sciolse l'abbraccio da
Shavo e fu sommersa dai tre ragazzi, i quali la intrappolarono in un
intreccio infernale e presero a farle le feste come dei bravi
cagnolini.
Mi ritrovai a sorridere e
feci cenno a Bryah di osservare quella scena.
«Meno male che sei
ancora qui!» esclamò Alwan, baciandola sulla guancia.
«Pensavamo di non
rivederti... ci siamo fatti una corsa pazzesca giù per le
scale!» aggiunse Cornia con entusiasmo, annuendo come per
enfatizzare le sue parole.
«Ragazzi, mi sa che
tra poco Leah smette di respirare se non la lasciamo andare»
fece notare Dayanara, mollando la presa.
«Ecco, bravo, tu sì
che mi capisci...» boccheggiò Leah, barcollando
leggermente quando i suoi amici la lasciarono andare. «Siete
matti?»
«È probabile»
commentò il receptionist.
«Tu chiudi il becco,
ti stavi lagnando più di noi due messi insieme per la partenza
di Leah! Ora fai il finto tonto, eh?» lo apostrofò
subito Cornia.
«Piantatela!
Ragazzi, devo andare. Vi ringrazio per essere venuti a salutarmi, sul
serio. Mi mancherete...» Leah, improvvisamente, scoppiò
a piangere e Shavo la raggiunse in un attimo, posandole
le mani sulle spalle.
«Se piangi tu, è
la fine» osservò il bassista.
Gli lanciai un'occhiata e mi
accorsi che aveva gli occhi lucidi e profondamente tristi.
«Abbiate cura di voi,
amici miei» disse Leah tra i singhiozzi. «E ora
lasciatemi andare, non sopporto più questa tristezza e se
rimango un altro secondo qui, rischio di non riuscire a prendere quel
maledetto aereo...»
Fece un ultimo giro di baci
e abbracci tra tutti noi, poi saluto Shavo con un lungo bacio e
scappò fuori dalla hall.
Lasciò dietro di sé
un gelo e un vuoto che sarebbe stato difficile colmare.
Mentre frugavo nella mia
mente alla ricerca di qualcosa da dire, mi accorsi che accanto agli
ascensori stazionava Lakyta; non sapevo da quanto tempo fosse lì
e non mi ero reso conto del suo arrivo. Non sapevo cosa stesse
combinando, ma pareva tranquilla e rilassata, forse soddisfatta di
essersi liberata di Leah. Loro due non erano mai andate d'accordo, ma
non capivo che gusto provasse nell'assistere ai nostri saluti.
Quasi
avevo scordato di aver parlato con lei la notte precedente,
confidandole cose che probabilmente non avrei dovuto e che avrei
fatto meglio a tenere per me.
Eppure, era sembrata ben diversa dalla solita ragazza superficiale e
insignificante che faceva la cameriera al bar sulla terrazza dello
Skye Sun Hotel e che aspettava che qualcuno scoprisse il suo talento
da attrice e la portasse con
sé a Hollywood.
Io, francamente, non capivo
cosa la affascinasse di quel luogo. Non aveva niente di speciale, era
un posto qualunque e viverci non era poi così emozionante,
anzi; spesso creava disagi per gli spostamenti, vista la grande
quantità di turismo e di popolazione presente in quella
particolare zona di Los Angeles.
Lakyta, tuttavia, non poteva
sapere tutte queste cose, proprio perché non ci era mai stata.
Mi riscossi da quei pensieri
e mi ricordai che io e Bryah avevamo una conversazione in sospeso.
«Bryah, ti va qualcosa
di fresco? Andiamo su in terrazza?» le proposi, carezzandole
piano la schiena.
Lei annuì ed entrambi
lanciammo un'occhiata interrogativa ad Alwan, il quale ancora si
intratteneva con Cornia e Dayanara. Nel frattempo, anche Lakyta li
aveva raggiunti e si era appesa letteralmente al braccio di Alwan.
Notai che Shavo alzava gli
occhi al cielo e si avviava con passo lento e strascicato verso
l'ascensore.
«Malakian, seguilo e
cerca di confortarlo» sibilai in direzione del chitarrista.
«Io?» se ne uscì
quest'ultimo, puntandosi un dito sul petto.
«Non mi sembra che ci
siano dei tuoi parenti in questo albergo» tagliai corto.
«Okay,
ma non ti assicuro nulla. Shavo non vuole mai stare con me, dice che
gli rompo i coglioni e non
sono comprensivo.»
«Non è che
abbia tutti i torti» osservai.
«Vaffanculo,
Dolmayan!» Daron partì all'inseguimento del bassista e
gli si appiccicò letteralmente addosso, cercando subito di
attaccare bottone e di aprire un discorso che non avesse a che fare
con Leah.
Sospirai e mi accostai ad
Alwan. «Ehi, io e Bryah vorremmo andare su in terrazza a
prendere qualcosa. Sei di turno?»
«John! Cazzo, hai
ragione, devo tornare immediatamente al lavoro! Andiamo, spero non
siano arrivati dei clienti nel frattempo. A dopo, scansafatiche»
salutò il barista, rivolta al resto del gruppo, per poi
dirigersi verso l'ascensore con noi al seguito.
«Shavo dove si è
cacciato?» volle sapere Alwan.
«Non ne ho idea, ma ho
mandato Daron con lui.»
Alwan sorrise ironico.
«Siamo fottuti.»
Annuii. «Speriamo non
fino in fondo.»
«Bryah, voglio che tu
sappia una cosa. Io non sono come Benton.»
Forse ero stato freddo,
brusco o inopportuno, ma lei aveva messo in dubbio la mia correttezza
e il mio rispetto verso il prossimo. Certo, non l'aveva fatto con
cattive intenzioni e sicuramente non avrebbe voluto ferirmi, eppure
l'aveva fatto.
«Mi dispiace di... io
non intendevo...»
«Ci
tengo solo a chiarire questa cosa» la interruppi. «Non
sono mai stato quel tipo di esemplare.»
«John, lo so! È
che... sono ancora scossa, ho paura e... in ogni momento mi sembra di
sentire ancora i suoi colpi, il dolore, la rabbia nei suoi insulti, i
suoi grugniti...» Si agitò sulla sedia e si portò
le mani al viso, coprendosi gli occhi e scuotendo vigorosamente il
capo. «È un inferno! Anche se Benton finirà
dentro, ormai mi ha rovinato la vita, lo capisci? Non potrò
più cancellare questi ricordi!»
Ci trovavamo sulla terrazza
e avevamo appena finito di bere un tè freddo. Spostai i nostri
bicchieri di lato e mi allungai sul tavolino per afferrare con
delicatezza i suoi polsi.
«Lo capisco. E non lo
posso sopportare. Ma dobbiamo lottare in ogni caso, non la passerà
liscia.» Sospirai appena. «Andiamo al commissariato? Ti
accompagno io. Non ti lascio sola, starò con te e ti sosterrò
fin quando ne avrai bisogno.» Feci una pausa. «Ti va?»
La sentii tremare sotto il
mio tocco. «Non ne sono più tanto sicura...»
«Coraggio»
insistetti. «È la nostra
battaglia, la dobbiamo vincere a tutti i costi.»
Nel frattempo, Alwan si
accostò al nostro tavolo con discrezione e ritirò i
nostri bicchieri ormai vuoti.
«Va tutto bene,
ragazzi?» ci domandò, notando le nostre espressioni
serie e preoccupate.
«Potrebbe andare
meglio» borbottò Bryah.
Il
ragazzo abbandonò il vassoio su un tavolo vuoto,
poi afferrò una sedia e la posizionò proprio accanto a
Bryah.
Lei si voltò a
osservarlo con aria spaesata.
Alwan sospirò. «Ti
capisco, Bryah. Io e te non ci conosciamo, me ne rendo conto, non
dovrei neanche permettermi di parlare con te e di entrare così
nella tua vita. Ma ti capisco davvero, perché anche io ho
subito qualcosa di simile.»
Io e lei ci scambiammo
un'occhiata interrogativa.
Alwan sorrise tristemente.
«Già.» Fece una pausa piuttosto lunga, poi riprese
a parlare. «Se vuoi, Bryah, posso raccontarti la mia
esperienza.»
«Io non... non devi
sentirti...» balbettò lei.
Feci per alzarmi,
immaginando che il ragazzo non gradisse condividere la sua storia
anche con me, ma lui mi trattenne poggiandomi una mano sul braccio.
«Puoi restare, John»
mi disse.
Annuii e cercai, in ogni
caso, di restare in disparte e di non interferire nella loro
conversazione; non avevo nessuna intenzione di essere d'intralcio,
ero una persona piuttosto discreta e sapevo farmi gli affari miei.
«Te
la faccio breve: quando mio padre ha scoperto che le mie tendenze
sessuali non erano quelle da lui ritenute normali,
io ero ancora un ragazzino. Frequentavo
i primi anni del liceo, stavo
attraversando una fase piuttosto difficile.»
Bryah strabuzzò gli
occhi. «Tu sei...?»
«Gay,
omosessuale. Esatto. Possibile che nessuno di voi se ne sia reso
conto?» Alwan mi lanciò
un rapido sguardo.
Scossi il capo, ero
sinceramente sorpreso. «Non se n'è accorta neanche
Lakyta, come potremmo averci fatto caso noi? Sei molto discreto»
gli feci notare.
«Lakyta, già.
Prima o poi dovrò dirle che non potrà mai esserci
niente tra noi... ma, tornando a noi, quando lui lo scoprì,
andò in bestia. Questa storia sembra un po' banale, sembra una
di quelle che si sentono in giro quando si parla di coming out e
altre cose del genere. Ma è la verità, è
successo anche a me di non essere accettato dalla mia famiglia. Mia
madre già lo sapeva, l'aveva capito anche senza che io glielo
confidassi. E lei mi ha sempre amato nonostante tutto, ma mio
padre...»
«Mi dispiace tanto»
sussurrò Bryah.
Alwan parve ignorare le sue
parole e concluse la sua triste storia: «Per un po' di tempo mi
riempì di botte quasi ogni sera. Non so come ho fatto a
sopravvivere, ho ancora qualche cicatrice sparsa per il corpo. Mia
madre si nascondeva dietro il divano e non faceva che piangere e
urlare. Ancora oggi sento quelle grida nella mia mente, a volte mi
sveglio durante la notte in preda al panico e mi sembra di
impazzire... sono trascorsi anni, ormai, ma questi avvenimenti sono
indelebili».
Bryah piangeva in silenzio,
rendendosi conto che Alwan provava le sue stesse sensazioni e poteva
realmente comprenderla.
Mi
allungai per posare una mano sulla spalla di Alwan. Ci fissammo in
silenzio per un po', poi trovai
il coraggio di porgli la domanda che avevo in mente. «Di lui
che ne è stato?»
«Una sera mia madre
provò a difendermi e lui osò alzare le mani anche su di
lei. È stato a quel punto che ho sentito di aver toccato il
fondo, e allora decisi di denunciarlo. È ancora dentro e dovrà
scontare ancora qualche anno. Mia madre vive con mia zia, lei se ne
prende cura e cerca in tutti i modi di ridarle una vita decorosa, ma
io so che lei non è più la stessa. A volte si immagina
delle cose, si dimentica i nostri nomi...» Alwan si portò
una mano sugli occhi e asciugò qualche lacrima che si era
affacciata da essi, minacciando di rigargli il viso. «Non è
più la stessa, lui ha rovinato la vita a entrambi.»
Bryah, di slancio, si gettò
su di lui e lo strinse in un abbraccio colmo di affetto e
comprensione. «È terribile!» singhiozzò.
Dal canto mio, non sapevo
bene cosa fare, così mi limitai a lasciare delle piccole
pacche sulla spalla del ragazzo, il quale sembrava profondamente
scosso nell'aver riesumato quei brutti ricordi.
«Per questo, Bryah,
devi andare a denunciarlo» disse Alwan con convinzione. «Dopo
andrà meglio.»
«Lo penso anche io»
concordai, mettendomi in piedi e facendo il giro del tavolo per poter
raggiungere Bryah. «Io sarò con te, lo giuro» le
dissi, accovacciandomi accanto a lei.
Alwan
sorrise prima a me, poi a lei. «Quando si trova l'amore, tutto
diventa più dolce. Accanto alla persona
amata tutto sembra svanire.»
Dopodiché, il ragazzo
si accorse che erano giunti dei clienti sulla terrazza e si alzò,
rimise a posto la sedia e ci salutò, indossando nuovamente la
sua maschera di professionalità.
Mentre io e Bryah ci
dirigevamo all'ascensore, ebbi come l'impressione che l'amore di cui
Alwan aveva parlato poco prima aveva salvato anche lui dai suoi
demoni.
E io? Sarei stato in grado
di fare lo stesso con Bryah?
|
Ritorna all'indice
Capitolo 43 *** Take it easy! ***
Take
it easy!
[Daron]
Entrai
con cautela nello studio, richiudendomi la porta alle spalle senza
lasciare che sbattesse.
«Salve,
signor Malakian. Si accomodi, la prego» mi accolse un uomo
sulla sessantina, dalla corporatura massiccia e la pelle olivastra.
Mostrava una folta chioma di capelli brizzolati, ordinatamente
portati all'indietro dall'utilizzo di una generosa dose di gel.
Indossava un paio di occhiali che dovevano risalire al paleolitico
con la montatura di corno e le lenti a mezzaluna, i quali conferivano
al suo viso rotondetto un aspetto piuttosto inquietante e quasi
fiabesco. Era un miscuglio tra una qualsiasi fattucchiera delle
favole Disney e un buttafuori fallito.
Gli
regalai un leggero inchino e mi misi a sedere sulla poltrona situata
di fronte alla sua immensa scrivania in legno pregiato. Avevo quasi
il timore di insozzarla se avessi posato un solo dito su quel ripiano
lucido e immacolato.
«Signore,
mi dispiace di averla disturbata, ma sono qui per chiederle un grosso
favore.»
L'uomo
intrecciò le mani sulla scrivania e si sporse verso di me,
scrutandomi con un paio di occhi neri e attenti. «Prima, vorrei
sapere se si sta trovando bene nel nostro albergo. La vacanza è
di suo gradimento?»
Annuii.
«Certamente, mi trovo benissimo. La ringrazio e le faccio i
miei complimenti per come gestisce quest'angolo di paradiso.»
Stavo facendo un po' il leccaculo, ma del resto avevo un piano in
mente e dovevo assolutamente rientrare nelle grazie del direttore.
«Signor Skye, per evitare di rubarle altro tempo, arriverò
dritto al punto: io e i miei amici domani lasceremo l'albergo e
torneremo a Los Angeles. Mi piacerebbe, perciò, trascorrere la
mia ultima sera in Giamaica in compagnia di alcuni dei suoi
dipendenti. Ho stretto un buon rapporto con qualcuno che lavora per
lei, e mi chiedevo se lei potesse concedermeli soltanto
per oggi.»
Markus Skye sorrise
affabile. «Capisco. Di chi stiamo parlando?» volle
sapere, aprendo le mani sulla scrivania e posando i palmi sul
ripiano.
«Si tratta di
Dayanara, Alwan, Cornia, Lakyta e Miriam.»
L'uomo parve sorpreso. «Noto
con piacere che i miei ragazzi sono riusciti a conquistare la sua
fiducia, signor Malakian. Questo non può che rendermi felice.»
Markus Skye fece una pausa e rifletté per un attimo tra sé
e sé. «Non dovrebbero esserci problemi. Cornia, Miriam e
Alwan stasera sono liberi. Vedrò di far sostituire Lakyta e
Dayanara. Inoltre, farò in modo che i loro turni domani
comincino più tardi del solito, visto che lei mi diceva che si
tratta della vostra ultima sera qui. Orghanizzerete una festa?»
Annuì e parve preso anche lui dall'entusiasmo della mia idea.
«Se vi serve, posso mettervi a disposizione la piscina per
stasera, oppure potreste organizzare un falò nella nostra
spiaggia privata.»
Sgranai gli occhi e fissai
incredulo Markus Skye. «Dice sul serio?»
«Ma certo!»
E da quel momento in poi mi
ritrovai a organizzare un'assurda festa a sorpresa per tutti i miei
amici insieme al direttore dello Skye Sun Hotel.
Ero seriamente senza parole.
«Non ne ho voglia,
Malakian, non rompere i coglioni...»
Shavo si rigirò sul
letto e mi diede le spalle, appoggiando la fronte contro la parete.
Sembrava più morto che vivo, pareva quasi un malato terminale
e non aveva alcuna intenzione di alzarsi dal letto.
«Non puoi stare a
digiuno, se Leah lo scopre uccide prima me, poi John e infine te.
Andiamo, alzati e non fare tante storie!» lo incoraggiai,
afferrandolo per una spalla e spingendolo avanti e indietro con
l'intento di provocare una qualche reazione da parte sua.
«Mi fai venire il mal
di mare, piantala!» protestò debolmente.
«Non se ne parla!
Alzati!»
«Ho detto di no,
cazzo!»
Sbuffai. Erano ormai le nove
di sera e io ne avevo abbastanza. «Okay, l'hai voluto tu»
proclamai, uscendo a passo di marcia dalla sua stanza.
John e Bryah ci aspettavano
in corridoio, ma vedendomi tornare da solo, mi lanciarono un'occhiata
interrogativa.
«Non ne vuole sapere,
eh?» fece il batterista.
«Esatto. Per questo mi
serve il tuo aiuto.»
Lui mi guardò con
fare dubbioso. «Cos'hai in mente?»
«Io lo prendo per le
braccia, tu per le gambe, e lo buttiamo giù da quel cazzo di
letto! Ormai il materasso ha preso la sua forma e sembra quasi la sua
bara!» affermai, afferrando John per un braccio.
«Ma che cazzo dici?
Non possiamo...»
«Sì, invece!»
Spinsi John dentro la stanza. «Bryah, tu chiudi la porta poi,
d'accordo?»
Lei sorrise debolmente, ma
parve divertita da ciò che avevo in mente e ci seguì,
per poi fermarsi sulla soglia.
«Avanti, Dolmayan,
all'opera!» strillai, accostandomi nuovamente al sepolcro di
Shavo.
John sospirò. «Che
mi fai fare, Malakian?»
«È per una
buona causa. Non ti lamentare, su!»
Prima che il bassista
potesse protestare o rendersi conto di cosa stava succedendo, io lo
afferrai per le braccia e John si occupò delle sue gambe. Con
fatica lo sollevammo dal materasso e a quel punto lui prese a gridare
per lo spavento e a imprecare contro di noi.
«Cazzi tuoi, Odadjian!
Se ti fossi alzato da solo, non saremmo mai arrivati a questo. Dio,
pesi un quintale!» esclamai, eseguendo una manovra stranissima
per evitare di rompermi la schiena.
«Pezzi
di merda, mettetemi giù e lasciatemi in pace! Me la pagherete
molto cara, giuro! Merda, siete proprio due coglioni!»
sbraitava Shavo, e nel frattempo noi riuscimmo miracolosamente a
uscire dalla stanza senza che
nessuno si facesse male.
Bryah richiuse la porta e
scosse il capo. «Oddio, siete completamente folli! Lasciatelo,
poverino!»
«Non se ne parla»
affermai, proseguendo lentamente verso l'ascensore.
«Basta, mettetemi giù,
aiuto! Giuro su Leah che se mi mettete giù, vi seguirò
ovunque vogliate, ma per pietà...»
«Ha detto che giura su
Leah. Lasciamolo andare» mi suggerì John con un
sorrisetto.
«Sicuro che non abbia
incrociato le dita?» scherzai.
John posò lentamente
le gambe di Shavo sul pavimento a scacchi bianchi e bordeaux; io, a
quel punto, lasciai andare di botto le sue braccia e il bassista
rovinò a terra con un tonfo.
«Malakian, io ti
ammazzo, ma che cazzo hai al posto del cervello?!» strillò
il bassista, rotolando su un fianco e tentando di massaggiarsi la
schiena.
Mi accovacciai di fronte a
lui e mi chinai a guardarlo negli occhi. «Oh, finalmente
reagisci. Sembrava ti fossi trasformato in un bambolotto gonfiabile.»
Shavo si esibì in un
grido rabbioso e mi assaltò. Rotolammo sul pavimento,
azzuffandoci come pazzi, e la finimmo a sbellicarci dalle risate come
non facevamo da un po'.
Anche
John e Bryah, assistendo alla scenetta raccapricciante, erano
scoppiati a ridere. Il batterista
si era dovuto appoggiare alla parete e produceva delle risate
sguaiate che poco si addicevano al suo solito essere, mentre Bryah
pareva indecisa se sbellicarsi per la nostra performance o per quella
del batterista.
«Mi fa male lo
stomaco... oddio, non ridevo così tanto da una vita...»
farfugliò John, tentando di darsi un contegno.
«Ci credo, farti
ridere è sempre così difficile» lo canzonai,
rimettendomi in piedi. Poi tesi una mano a Shavo e anche lui si alzò,
per poi sistemarsi gli abiti spiegazzati.
«Ragazzi, ma...»
Il bassista si guardò i piedi. «Sono scalzo!»
Sospirai. «Merda, non
ci avevo pensato. John, recuperagli un paio di scarpe, ho paura che
se rientra in quella stanza, potrebbe rigettarsi a letto e i nostri
sforzi risulterebbero vani.»
Il batterista alzò
gli occhi al cielo. «Sono capitato in un manicomio»
bofonchiò, avviandosi verso la porta della sua stanza.
Quando giungemmo finalmente
alla spiaggia, il resto della comitiva era già lì.
Alwan, Dayanara e Cornia
cercavano di accendere uno straccio di fuoco, mentre Lakyta e Miriam
li osservavano con fare dubbioso.
«Ragazzi,
secondo me non ce la farete mai. Forza, levatevi. Tanti anni
trascorsi a sfacchinare ai campi scout mi avranno pur insegnato
qualcosa» intervenne Miriam, guardando i tre con compassione.
«Se una donna riesce
ad accendere il fuoco meglio di me, mi butto in mare completamente
vestito!» esclamò Cornia contrariato.
«Ricordati di ciò
che hai appena detto» lo avvertì Miriam, armeggiando con
legnetti, carbone e fiammiferi.
«Ehilà!»
li salutai io, adocchiando la mia chitarra in un angolo piuttosto
distante dalla zona del falò. Avevo provveduto a consegnarla a
Dayanara in modo che la portasse con sé in spiaggia, dal
momento che sapevo di dover badare a Shavo e di doverlo trascinare
giù dal letto.
«Ce l'avete fatta,
finalmente!» esclamò Alwan tutto contento.
«Colpa mia»
borbottò Shavo con sguardo basso.
«Macché, stai
tranquillo!» Alwan gli si avvicinò e gli batté
amichevolmente sulla spalla. «Va un po' meglio?»
«Insomma...»
«Cazzo, non ci credo!»
sbottò Cornia all'improvviso.
Tutti ci voltammo nella sua
direzione. Miriam gli sorrideva trionfante, mentre una bella fiamma
scoppiettante riscaldava l'atmosfera, mentre lui se ne stava
imbronciato con le sopracciglia aggrottate e le braccia incrociate al
petto.
«Sei o no un uomo
d'onore? Devi mantenere la parola data» intervenne Dayanara
divertito.
«Che intendi?»
«Devi
buttarti in acqua con i vestiti addosso. L'hai detto
tu, ricordi?» rincarò Miriam, stiracchiandosi.
Lakyta ridacchiò.
«Ben ti sta, cascamorto! E così sottovaluti le donne,
eh?»
«Con te, bellezza,
faccio i conti dopo.» Cornia cercò sostegno nel resto
del gruppo, ma noi facemmo finta di nulla e così si ritrovò
a sospirare. «Devo farlo davvero?»
«No» dissi,
mentre lanciavo un'occhiata a John. «Ti ci portiamo noi.»
Io e il batterista partimmo
all'inseguimento. Cornia ci sfuggì solo per pochi metri, poi
lo agguantammo e lo sollevammo da terra, trasportandolo senza troppa
fatica verso la riva.
«No, ho il cellulare
in tasca, aspettate!» squittì il ragazzo in preda
all'agitazione.
«Lo prendo io!»
si offrì Alwan, poi ci raggiunse e frugò nelle tasche
di Cornia. Recuperò l'oggetto e lo ripose al sicuro in una
delle sue tasche. «Ora potete andare!» affermò.
Io e John ci scambiammo
un'ultima occhiata, poi percorremmo gli ultimi metri che ci
separavano dalla riva.
«Contiamo fino a tre,
va bene?» sghignazzai.
«Uno!» cominciò
John.
Insieme facemmo sì
che il corpo di Cornia oscillasse avanti e indietro.
«Cazzo, aiuto!»
protestò il malcapitato.
«Due!» strillai.
Lo
facemmo oscillare ancora un paio di volte, poi insieme gridammo:
«Tre!». Subito dopo, mandammo il corpo di Cornia
pericolosamente indietro, per
poi sospingerlo in avanti e lasciarlo andare.
Il ragazzo piombò in
acqua producendo un baccano infernale e prese a starnazzare
rumorosamente, lagnandosi per il freddo e per un sacco di altre cose.
Intanto, tutti quanti
ridevamo come esaltati, rotolandoci sulla sabbia e lanciando grida
disumane che, se qualcuno ci avesse visto dall'esterno, avrebbe
potuto scambiare per quelle di soggetti mentalmente instabili e
prossimi alla psichiatria.
Trascorsero diversi minuti
prima che potessimo riprenderci almeno un po'. Ormai eravamo buttati
sulla sabbia e ne eravamo quasi del tutto ricoperti, ma le nostre
risate erano state estremamente contagiose e non sapevamo come darci
una calmata.
«Vi prego, mi farete
morire giovane se continuate di questo passo!» disse Miriam con
le lacrime agli occhi per il troppo ridere. Era inginocchiata a terra
e spostava lo sguardo su di noi, tentando di respirare regolarmente.
«Muoio di freddo...
brutti bastardi...» farfugliò Cornia, stringendosi
invano le braccia attorno al corpo. «Laky, tesoro, perché
non vieni qui a scaldarmi un po'?»
«Scordatelo!»
fece lei acida, senza però distogliere lo sguardo dalla figura
di lui; notai che osservava con molta attenzione gli abiti che,
fradici, aderivano perfettamente al corpo del ragazzo,
lasciando ben poco all'immaginazione.
«Qui gatta ci cova»
sussurrai, dando di gomito a Shavo.
«Eh?» fece lui,
cadendo dalle nuvole.
«Lakyta e Cornia.
Osservali e poi dimmi se non ho ragione.»
Shavo mi guardò
stralunato e mormorò: «Pensavo le piacesse Alwan».
Risi. «Chi non le
piace?»
Intanto, Miriam si era
alzata e si era diretta a recuperare un fagotto che aveva abbandonato
nei pressi della mia chitarra. «Chi ha fame? Il signor Markus
Skye mi ha consegnato personalmente questo cesto pieno di leccornie
da condividere con voi.»
«Sul serio?»
saltai su, aiutandola a trasportare l'oggetto.
«Non occorre, Daron.
Sono una scout veterana, ricordi?» fece lei, distogliendo lo
sguardo da me e lanciando un piccolo calcio ai danni di Cornia.
«Spiritosa. Faremo i
conti, prima o poi, vedrai...»
«Che paura! La
prossima volta stai più attento a ciò che dici, perché
finisce sempre che ti si ritorce contro...»
Tutti ridemmo, poi ci
sistemammo in cerchio attorno all'enorme cestino. Il fuoco, alle mie
spalle, scoppiettava e ardeva tranquillo, rischiarando i volti dei
miei amici.
Miriam
si sbarazzò del panno che avvolgeva il cestino e lo adagiò
a terra, utilizzandolo come tovaglia improvvisata. All'interno del
contenitore in vimini erano
presenti focacce, panini, tramezzini e stuzzichini di tutti i tipi,
oltre ad alcune bottiglie di bevande alcoliche e non.
«Vodka!»
strillai, accarezzando la bottiglia come se si trattasse del più
prezioso dei tesori.
«Giù le mani,
adesso dobbiamo mangiare! Alla sbronza pensiamo dopo» proclamò
Alwan, offrendosi per distribuire qualcosa da mangiare a tutti noi.
Mangiammo un sacco e
chiacchierammo il doppio, godendoci l'aria fresca della sera in
contrasto con il calore prodotto dal falò. Cornia si era
sistemato accanto al fuoco e si era presto asciugato quasi del tutto,
evitando così di beccarsi una congestione o un raffreddore.
«Se mi ammalo so a chi
dare la colpa» borbottò.
«Hai visto, Cornia?
Anche i System te la mettono nel culo...» lo punzecchiai,
lanciandogli addosso un pezzetto di pane.
«Attenti, potrebbe
mettere in giro delle pessime voci su di voi» osservò
Lakyta, mangiucchiando un sandwich senza davvero gustarlo.
«Ehi! Ma per chi mi
hai preso?» protestò Cornia, fingendosi offeso. «Dovrai
farti perdonare, dolcezza.»
«Continua a
sognare...»
«Poveretto,
tutti ce l'avete con lui» si fece sentire Shavo, che intanto
non aveva parlato granché. Ero contento che le risate di poco
prima avessero contagiato anche lui, non sopportavo di vederlo
abbattuto. Potevo capire che Leah gli mancasse, ma
non doveva lasciarsi buttare giù da questa situazione.
«Ecco, Shavo,
difendimi!»
«Ma piantala, sei un
deficiente!» lo apostrofò Alwan, ingozzandosi con degli
spiedini.
«Comunque, ragazzi...
noi domani ce ne andiamo. È per questo che ho voluto
organizzare questo raduno di pazzi» dissi, facendomi un po'
serio. «Non sono un tipo sdolcinato e non so neanche fare
discorsi strappalacrime, ma con tutti voi mi sono trovato bene. Tutto
qui.» Mi alzai. «Vi suono qualcosa, eh?» proposi,
andando a recuperare la mia chitarra classica.
La portai fuori dalla
custodia e tornai ad accomodarmi al mio posto.
«Che dolce»
disse Lakyta, utilizzando un tono colmo di sincerità e privo
di malizia.
«Anche lui ha un
cuore» spiegò John con un mezzo sorriso.
Bryah, al suo fianco,
assisteva alle nostre conversazioni quasi completamente in silenzio;
ogni tanto notavo che lanciava delle occhiate ad Alwan e lui le
sorrideva con fare rassicurante. Sembrava abbastanza tranquilla per
il momento, ma sicuramente non era più la stessa ragazza
spumeggiante e allegra che avevamo conosciuto nei giorni precedenti.
Ciò che era successo con quell'energumeno del suo ex compagno
l'aveva cambiata, rendendola più taciturna e chiusa. O forse,
semplicemente, era ancora troppo presto perché riprendesse a
sorridere come sempre.
Mi schiarii la gola.
«Allora... chi canta con me?»
«Che canzone vuoi
fare?» mi domandò Miriam.
«Siccome quelle dei
System sono sconosciute dalla metà dei presenti, mentre
l'altra metà le conosce fin troppo bene e potrebbe vomitare
nell'udirle ancora, accetto richieste.»
Si diffusero delle risatine
generali, poi Alwan propose di suonare qualcosa di Bob Marley.
«Vediamo...»
Cominciai a strimpellare e mi trovai a suonare Sun is
shining.
«Ma
è triste, no! Prova con...» Alwan si bloccò e
rifletté per un attimo, poi schioccò le dita. «Ci
sono! Conosci Sunshine Reggae
dei Laid Back?»
«Daron,
quella che fa: Sunshine, sunshine reggae, don't worry,
don't hurry, take it easy!»
mi suggerì Miriam con entusiasmo.
«Ah, sì!
Allora, però, cantatela con me!»
Così, prendemmo a
intonare il brano, ma la maggior parte di noi si inventò gran
parte del testo e finimmo per fare un minestrone assurdo e,
inevitabilmente, a ridere come cretini.
«Qualcosa che
conosciamo meglio?» propose Dayanara.
«Non
lo so... Mad World?»
proposi.
«Ma che palle!»
si lamentò Lakyta.
«Allora?»
«Smells like teen
spirit!» gridò all'improvviso Shavo.
Tutti scoppiammo a ridere e
prendemmo a cantare tutti in coro.
Load
up on guns Bring your friends It's fun to lose and to
pretend She's overboard, self assured Oh no I know, a dirty
word
Hello, hello, hello, how
low
Hello, hello, hello, how
low
Hello, hello, hello, how
low Hello, hello, hello...
Poi ci preparammo per il
gran ritornello, parve quasi che stessimo prendendo la rincorsa e
quindi esplodemmo in un grido all'unisono.
With
the lights out, it's less dangerous Here we are now, entertain
us I feel stupid and contagious Here we are now, entertain us A
mulatto, an Albino A mosquito, my libido, yeah!
Andammo avanti per un po',
tra le risate e le grida di tutti.
A una certa ora cominciammo
anche a bere e l'atmosfera si riscaldò parecchio.
Notai che Shavo ci stava
andando giù pesante, John tentava di evitare che Bryah si
prendesse un'altra sbronza, Alwan rideva come una iena mentre
Dayanara cercava invano di strappargli la bottiglia dalle mani.
Lakyta, invece, era completamente sobria e sorseggiava appena dal suo
bicchiere. Miriam aveva bevuto qualcosa, ma non sembrava apprezzare
particolarmente quel tipo di alcolici.
Io bevevo e fumavo senza
ritegno, continuando però a strimpellare distrattamente la mia
chitarra. Stavo bene, mi sentivo tranquillo e mi godevo in pace la
serata che stavo condividendo con i miei amici.
Non so che ore fossero
quando decisi di avventurarmi su per la scogliera con l'intenzione di
portare un po' di avanzi ai gatti di Leah; Shavo cercò di
biascicare qualcosa e di seguirmi, ma ordinai a John di trattenerlo e
mi incamminai per conto mio.
Poco dopo, mi accorsi che
qualcuno mi seguiva e appurai che si trattava di Miriam.
«Non vorrei che
ruzzolassi giù dal sentiero» si giustificò,
accennando alla stretta stradina che avrei percorso di lì a
poco.
«Reggo bene l'alcol,
mia cara.»
«Non si sa mai. E poi
sono curiosa di vedere questi famosi gatti. Non sapevo della loro
esistenza» ammise con un leggero sorriso.
Camminammo in silenzio
finché non ci trovammo sull'ormai familiare piattaforma che
Leah mi aveva fatto scoprire.
«Dove sono?» mi
interrogò Miriam, guardandosi intorno.
«Non usciranno dal
loro nascondiglio finché rimarremo qui. Forse solo Night
potrebbe uscire a salutarmi, io e lui siamo diventati amici la notte
scorsa...» blaterai, chinandomi per sistemare il cibo in un
angolo piuttosto riparato.
«Non sapevo andassi in
giro di notte per fare amicizia con gli animali» commentò
in tono leggermente sorpreso.
«Non è una mia
abitudine, però a volte mi capita» scherzai.
«Sei un personaggio
singolare.»
Mi voltai a guardarla e le
indirizzai un sorriso ammiccante. «Me lo dicono in molti.»
Rimanemmo a fissarci per
qualche istante, studiandoci con attenzione e curiosità, poi
qualcosa scattò in me e mi costrinse a compiere alcuni passi
nella sua direzione.
Senza neanche rendermene
conto, la spinsi contro la parete rocciosa alle sue spalle e, dopo
averla afferrata per un braccio, premetti il mio corpo contro il suo
e la intrappolai in un bacio inaspettato per entrambi.
Assaporai le sue labbra
morbide e mi beai del suo delizioso sapore; Miriam parve volermi
respingere, ma poi cedette al mio assalto e schiuse appena le labbra
per permettermi di approfondire il nostro contatto.
Ci baciammo con foga per un
tempo che non fui in grado di calcolare, poi lei portò le sue
mani al mio petto e mi allontanò da sé.
Cercai il suo sguardo,
mentre sentivo il mio corpo infuocato da quanto era appena successo e
il respiro irregolare scuotermi in un miscuglio di emozioni e
desiderio bruciante.
«Miriam, scusami, non
so che mi è preso...» attaccai, tenendo una mano
poggiata accanto alla sua testa, sulla parete rocciosa.
«Hai detto che reggi
bene l'alcol, ma a me non sembra» commentò con
disappunto, divincolandosi da me e scostandosi di lato.
«Non l'ho fatto perché
sono ubriaco!» dissi.
«Ah no?» Fece
spallucce. «Allora domani mattina ti aspetto in spiaggia,
vediamo se ti comporti allo stesso modo.»
«Non capisco perché
fai così. Mi è sembrato che ti piacesse baciarmi...»
Feci un passo verso di lei e allungai una mano per cercare di
sfiorarle il braccio.
Lei indietreggiò
ancora. «Giù le mani. Potrebbe anche essermi piaciuto,
ma questo non cambia le cose.» Sorrise. «Torniamo dagli
altri e dimentichiamoci di questa faccenda.»
Scossi il capo. «Domani
ti dimostrerò che non è stato l'alcol a farmi agire
così.»
Miriam si strinse ancora una
volta nelle spalle e si incamminò giù dalla scogliera
senza voltarsi indietro.
Ciao
a tutti, come butta?
Eheheheh...
ieri, contagiata dall'Alzheiner aka Sindrome di Soul, mi sono
dimenticata che era giovedì e che avrei dovuto aggiornare ^^”
Ma
comuuuunque...
Eheheheheh,
vi aspettavate quest'ultimo colpo di scena da parte del nostro
chitarrista? E il rifiuto di Miriam?
Daron
è proprio uno sfigato, ahahahahah XD
Ma
bando alle ciance, sono qui per parlarvi delle canzoni che ho
nominato nel capitolo.
La
prima è Sun is shining di Bob Marley, ora capirete che
è un po' malinconica come canzone da falò:
https://www.youtube.com/watch?v=QQQpkll5aoA
Poi
ho nominato Sunshine Reggae dei Laid Back, diciamo che qui si
comincia a ragionare, voi che dite? Da questo brano ho preso
ispirazione per il titolo del capitolo, volevo si respirasse
l'atmosfera del take it easy, falla facile, non farne un dramma!
Arrivato il messaggio? Anche se Daron, certe volte, tende a farla
troppo facile, eh?
Comunque,
sentite un po' qui:
https://www.youtube.com/watch?v=bNowU63PF5E
Il
terzo brano da me citato è Mad World, canzone
famosissima dei Tears For Fears, ma eseguita da un sacco di altre
persone; qui dobbiamo dare ragione a Lakyta sul che palle, non
è un brano propriamente da falò:
https://www.youtube.com/watch?v=SFsHSHE-iJQ
E
infine, la meravigliosa Smells like teen spirit dei Nirvana;
sicuramente la conoscete tutti, ma io la linko lo stesso, non si sa
mai che qualcuno possa avere un vuoto di memoria o semplicemente
voglia ascoltarla mentre scrive la recensione per questo DISASTROSO
capitolo:
https://www.youtube.com/watch?v=hTWKbfoikeg
Che
poi, non è neanche detto che voi vogliate recensire,
ahahahahah XD
Ho
fatto capitare diverse cosette piuttosto comiche – almeno per
me che le ho scritte e mi sono divertita a torturare un po' Shavo e
Cornia – e poi ho volute dare un po' di pepe verso la fine...
Spero
vi sia piaciuto, in ogni caso ringrazio tutti voi e vi do
appuntamento al prossimo aggiornamento ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 44 *** Back Home ***
Back
Home
[Leah]
Fissavo
la rivista che stringevo tra le mani, ma era come se non la vedessi
neanche; c'erano immagini colorate, modelle bellissime su pagine
patinate, interviste mozzafiato, ma niente riusciva a catturare il
mio interesse.
Medison,
al mio fianco, sembrava invece essere veramente interessata alla
medesima rivista: la sfogliava lentamente e ogni tanto si soffermava
a leggere qualche articolo su come mantenere giovane la pelle o su
come compiere una prodigiosa manicure senza spendere un patrimonio
dall'estetista.
Quando
notai una figura familiare che sorrideva sul giornale, lo stomaco mi
si rivoltò. Anziché cercare lo stesso articolo sul
volume che avevo sulle ginocchia, strappai a Medison la sua copia e
scrutai la donna che occupava un'intera pagina con una sua foto a
mezzo busto.
«Ehi!»
protestò Medison, sporgendosi verso di me per osservare cosa
avesse attirato tanto la mia attenzione.
«È
proprio una zoccola» bofonchiai, restituendole l'oggetto in
maniera piuttosto brusca.
«Jessica
Miller è bellissima. Come puoi dire una cosa del genere se non
la conosci?» se ne uscì Medison, lanciandomi
un'occhiataccia.
«Oh,
giusto, dimenticavo che tra colleghe ci si difende...» Mi
pentii per un istante di aver pronunciato quelle parole, ma poi mi
ricordai che cosa aveva combinato quella donna ai danni di mio padre
e mi strinsi nelle spalle.
La
verità era che il viaggio in aereo mi stava destabilizzando,
stava durando troppo e io non ne potevo più. Inoltre, mi ero
ritrovata seduta accanto all'amante del momento di mio padre, mentre
lui era stato catapultato chissà dove a bordo del volo verso
Las Vegas.
«Cosa
ti viene in mente, ragazzina?» squittì Medison,
chiudendo di scatto il giornale.
Sorrisi
appena. «Siete state addirittura con lo stesso uomo. Sei
emozionata?» le feci notare senza mettermi troppi problemi.
«Quel...
quel... lui... te l'ha...?» balbettò lei, impallidendo
tremendamente.
«L'ho
scoperto, Daron non me l'ha detto» sottolineai, sentendomi in
dovere di difendere il mio amico.
«Santo
cielo!» sibilò, portandosi una mano al petto. «Abbassa
la voce, per favore...»
«Mio
padre se lo merita, sai?» aggiunsi, stiracchiandomi sul sedile.
Proprio
in quel momento una hostess stava percorrendo il corridoio centrale
dell'aereo e chiedeva ai passeggeri di approfittare delle leccornie
offerte dalla compagnia.
La
fermai e le sorrisi. «Posso avere del caffè espresso?»
domandai.
«Certo,
penso non ci siano problemi... qualcosa da mangiare?»
Mi
sporsi dal sedile e afferrai un pacco di patatine a caso. «Prendo
queste.»
«Bene.
Sono cinque dollari.»
Sussultai
interiormente. Mangiare in aereo si rivelava sempre un furto. Porsi i
soldi alla hostess e tornai a rilassarmi sul sedile, ignorando
completamente Medison.
«Lei,
signora? Prende qualcosa?» le si rivolse la hostess.
«No,
grazie» bofonchiò l'amante di mio padre.
«Sei
a dieta? Su chi devi fare colpo, eh?» la punzecchiai.
«Non
essere stupida, Leah» si offese lei, incrociando le braccia al
petto.
«Oh,
andiamo! Perché vuoi negare la verità?»
Medison
sbuffò. «Non sto negando niente. Tu... non dirai niente
ad Alan, vero?» mi chiese con cautela.
«Ah,
ecco qual era il problema. Be', devo pensarci. A volte è
divertente notare quanto la gente ama autodistruggersi»
commentai.
«Non
essere cattiva!»
«Cattiva?
Sono realista.» Sospirai. «Tu sei solo uno degli ennesimi
diversivi di Alan Moonshift. Cerca di accettarlo, e approfittane
finché puoi. Chissà se lui ha adocchiato la prossima
preda in Giamaica...»
Medison
mi afferrò per un polso e mi conficcò le unghie nella
pelle. «Sta' zitta» sputò tra i denti.
Mi
divincolai dalla sua presa e la fulminai con lo sguardo. «Non
osare toccarmi.»
«Però
quello stecchino senza capelli poteva toccarti, eh? Te la sei
spassata peggio di me e hai il coraggio di giudicarmi? Tu non sai
niente della vita. Le vere donne, quelle in cui credi tu, non
esistono. Esistono soltanto persone furbe come me e ingenue come te.»
Annuì come per dare enfasi alle stupidaggini che stava
dicendo. «Così gira il mondo, mia cara. E scommetto che
ora credi di esserti innamorata di
quel tizio, eh?»
Riuscii a mantenere una
calma incredibile. Prima che potessi ribattere, la hostess tornò
da me e mi consegnò il mio caffè espresso. Non appena
se ne fu andata, rivolsi un'occhiata glaciale a Medison.
«Non intendo parlare
di Shavo con te, mi hai capito?»
Lei rise e tornò a
concentrarsi sull'articolo che declamava le grandi qualità di
Jessica Miller e il suo imminente matrimonio con Lars Ulrich.
«Lei sì che è
una donna intelligente e intraprendente. Tu hai accalappiato quel
musicista squattrinato e non sei stata neanche in grado di puntare
più in alto» commentò dopo un po'.
Evitai di rispondere e mi
infilai le cuffie alle orecchie. Ne avevo abbastanza di ascoltare le
baggianate che quell'essere immondo portava fuori, spacciandole per
perle di saggezza che soltanto lei era in grado di cogliere.
Mi ritrovai, senza neanche
accorgermene, ad ascoltare ossessivamente alcune canzoni dei System
in cui potevo sentire chiaramente la presenza del basso di Shavo. Ero
incantata, ma avvertivo anche un profondo vuoto dentro me. Chissà
se sarei riuscita a riprendere a vivere come se niente fosse
accaduto.
Il tempo si consumò
abbastanza lentamente e, quando infine atterrammo a Las Vegas, mi
misi in piedi a fatica e feci in modo di allontanarmi da Medison il
prima possibile.
Purtroppo, mi ritrovai a
rincontrarla nella zona del ritiro bagagli, dove anche mio padre si
era recato.
«Com'è andato
il viaggio?» ci interrogò Alan Moonshift, senza essere
realmente interessato; già era al lavoro con il suo BlackBerry
e smanettava come un pazzo, visto che sarebbe tornato in azienda
soltanto poche ore dopo.
«Una favola»
brontolai, afferrando la mia valigia al volo e sollevandola con forza
dal nastro trasportatore.
Medison non aprì
bocca e attese che fosse lui a ritirare il suo bagaglio.
Mi facevano decisamente
pena.
«Voglio tornare subito
all'università» chiarii, mentre ci avviavamo a prendere
un taxi.
«Perché tu e
Meddie non ve ne andate un po' in giro a fare shopping?»
propose distrattamente Alan Moonshift.
«Cosa? Neanche morta!
Ho da studiare, non posso perdere tempo. E poi odio fare shopping»
tagliai corto.
«Io ho un appuntamento
dalla parrucchiera, tesoro» cinguettò Medison,
fissandosi le unghie.
«Ah» fu tutto
ciò che l'uomo fu in grado di dire.
Non
aprimmo bocca per quasi tutto il tragitto in taxi. L'unico a non
smettere di parlare fu mio padre, impegnato in milioni di
conversazioni telefoniche
impossibili da decifrare.
«Sì, Aston,
devi prendere in considerazione quelle azioni... no, investi e te ne
lavi le mani, poi pensa a tutto Maurice... macché! Cazzo, se
te lo dico è perché... ah, sì? Allora prenotami
un posto, non posso perdermelo... Nicole hai detto? Interessante! Sì,
sì, sta bene... sicuramente sì... aspetta, mi sta
chiamando Maurice, a dopo... Maurice? Aston è quasi cotto a
puntino, preparati... la partita dei Dodgers? Vediamo...»
Smisi di ascoltarlo e
avvistai l'ampio viale che portava alla residenza in cui si trovavano
gli appartamenti di gran parte degli studenti del mio corso.
Molti allievi
dell'università di Paradise vivevano all'interno del campus,
ma io non avevo mai tollerato di avere qualcuno che controllasse la
mia stanza o che dettasse legge su ciò che potevo o non potevo
fare.
Così, avevo cercato
delle compagne di stanza e mi ero trasferita in quel residence,
trovandomi molto più a mio agio.
«Prego, mi lasci qui»
dissi al tassista, quando fu quasi di fronte al viale d'ingresso.
L'uomo mi aiutò a
scaricare i bagagli e mi salutò. Mi avviai senza neanche
rivolgere l'attenzione ad Alan Moonshift e la sua amante del momento.
Ero furiosa e, cosa più
importante, mi mancava Shavo.
«Sono tornata in
patria!»
Il mio grido si diffuse
nella stanza, che mi parve essere deserta.
Poi, uno strillo acuto si
levò dal bagno, seguito poi da una sonora risata.
Corsi verso il bagno e
spalancai la porta, trovandomi di fronte una scena alquanto comica:
Samantha se ne stava seduta sul coperchio del water con le gambe
completamente divaricate, mentre una trafelata Shelley stava per
strappare in maniera alquanto sadica una quantità infinita di
peli dal suo inguine.
Samantha scattò in
piedi e barcollò pericolosamente. «Leah, non è
come credi...» farfugliò.
«Sta' ferma!»
gracchiò Shelley, spingendola nuovamente al suo posto. Senza
darle tregua, allargò nuovamente le sue cosce e strappò
con estrema rapidità la striscia di garza impregnata di cera
bollente.
Dalla gola di Samantha si
levò un gemito strozzato e la ragazza roteò gli occhi
al cielo, mentre si asciugava qualche lacrima che aveva preso a
rigarle le guance.
«Che scenetta
meravigliosa» esclamai. «Mi eravate mancate più di
quanto immaginassi.»
Shelley aveva finito di fare
la ceretta a Samantha da almeno mezzora e tutte e tre ci eravamo
sedute attorno al tavolo situato accanto al piano cottura della
nostra stanza. Mi guardai attorno e respirai a fondo l'atmosfera che
casa mia mi conferiva.
«Allora? Com'è
andata?» volle sapere Shelley, sistemando una ciocca bionda
dietro l'orecchio sinistro.
Sorseggiai un po' d'acqua
dal mio bicchiere e sorrisi. «La Giamaica è sempre la
Giamaica.»
«Non fare la furba,
amica. Quel messaggio che mi hai mandato giorni fa non lasciava
spazio a interpretazioni...» insinuò Samantha, la quale
sembrava essersi ripresa dalla tortura che aveva subito.
«Quale messaggio?»
Shelley batté una
mano sul tavolo. «Sei incredibile!» esclamò,
mollandomi un calcio sotto il tavolo.
Osservai le mie compagne di
stanza: non potevano essere più diverse da me, ma anche tra
loro non avevano granché in comune.
Shelley era bionda e con un
fisico perfetto. Oltre allo studio, stava cercando di sfondare nel
mondo della moda, in campo stilistico. Spesso le era stato
consigliato di mettersi in gioco come fotomodella, ma la ragazza era
molto timida e riservata, nonostante tutti la etichettassero come la
classica Barbie californiana. Infatti, proveniva dalle coste di San
Francisco ed era una surfista eccezionale, nonostante non se ne
vantasse e non avesse mai preso la cosa sul serio.
Samantha, invece, era una
ragazza corpulenta ed esuberante, una lesbica delle più
tenaci, dalla carnagione scura, i capelli corvini e le idee più
chiare di un semplice calcolo matematico. Faceva parte di diverse
associazioni che combattevano per i diritti e l'uguaglianza degli
omosessuali, non aveva nessun problema a mettersi in gioco e a
esporsi per dar voce a ciò in cui credeva. Il suo obiettivo
nella vita era diventare un chirurgo e stava facendo di tutto per
perseguire le sue aspirazioni.
«Parla, donna!»
proclamò Samantha, additandomi con finto fare solenne.
Sospirai. «E va bene!»
«Chi è che ti
ha fatto impazzire nella patria del reggae?» domandò
allora Shelley, scarabocchiando qualcosa su un blocco da disegno.
«Si chiama Shavo»
dissi con cautela.
«Proprio Shavo?»
mi chiese Samantha perplessa.
«In realtà si
chiama Shavarsh, all'anagrafe, ma soltanto io posso chiamarlo così.
Se lo fa qualcun altro, si incazza.»
Shelley lasciò andare
la matita e batté le mani. «Siamo già a questo
punto?! Devo assolutamente disegnare l'abito per il tuo matrimonio,
posso?»
Sollevai gli occhi al cielo.
«Ehi, vacci piano!»
«Prima devi disegnare
il mio» le fece notare Samantha, pizzicandole un braccio.
«Ah, già!»
Shelley si batté una mano sulla fronte. «Però...
tu e lui state insieme?» indagò ancora, indirizzandomi
un sorriso luminoso a trentadue denti.
Mi strinsi nelle spalle.
«Suppongo di sì.»
«Ecco un altro motivo
per essere lesbica: tra donne è sempre tutto fin troppo
chiaro. O si sta insieme o non si sta insieme. Niente da supporre,
solo tanto buon sesso da consumare in maniera più o meno
romantica.»
La bionda si tappò
teatralmente le orecchie. «Questi sono discorsi vietati alle
ragazze innocenti come me!»
«Allora, vogliamo
smetterla? Non vi racconto niente, se non state zitte» le
minacciai.
«È colpa sua,
dice un sacco di porcherie!»
«Andiamo, Leah, va'
avanti e non badare a questa biondina sprovveduta» tagliò
corto Samantha.
«Ehi!» protestò
l'altra.
«Silenzio in aula!»
Afferrai il mio bicchiere ormai vuoto e lo sbattei sul tavolo a mo'
di martelletto da giudice. «Dicevo... sì, stiamo
insieme, anche se lui vive a Los Angeles ed è una rockstar.»
Shelley strabuzzò i
grandi occhi nocciola. «Cosa?»
«Già, suona il
basso in una band piuttosto famosa» raccontai. Quelle parole,
pronunciate ad alta voce e all'interno della mia stanza a Paradise,
suonavano tanto assurde quanto irreali. Sortirono in me l'effetto di
una secchiata d'acqua gelida che mi fece risvegliare da una fase di
trance in cui non mi ero resa conto di aver aver vissuto fino a quel
momento.
Samantha si esibì in
un fischio d'approvazione. «Hai visto la nostra Leah? Parte per
una settimana e perde la ragione per un musicista famoso!»
commentò.
«Cazzo»
imprecai. «Solo ora mi rendo conto che è tutto vero.»
«Sul serio? Ma questo
tizio è molto famoso?» chiese Shelley, afferrando
nuovamente la matita. Ne osservò la punta ormai consumata e si
alzò per andare a temperarla.
«Abbastanza.»
Utilizzando il mio
cellulare, entrai su internet e cercai alcune foto di Shavo e dei
ragazzi. Spiegai alle mie compagne di stanza che uno dei membri della
band non era stato in Giamaica e che avevo stretto amicizia anche con
il batterista e il chitarrista. Mostrai loro delle foto prese da
Google, poi entrai nella galleria del mio telefono e permisi loro di
osservare i pochi scatti che avevo eseguito durante la vacanza. Non
amavo particolarmente fotografare qualsiasi cosa, anche se poi mi
piaceva conservare le fotografie come dei ricordi importantissimi.
«Leah... sul serio ti
sei innamorata proprio di lui?» si indignò
Samantha, scrutando con occhio critico il volto di Shavo.
«Cosa c'è che
non va?» le domandai.
«Senti, io sono
lesbica, non è che me ne intendo, ma è piuttosto
bruttino il ragazzo... quanti anni ha?»
«Sam, sei proprio una
stronza! Via, Leah, non darle retta, Shavo è carino!»
cercò di rimediare Shelley, utilizzando un tono dolce e venato
da una traccia di dispiacere.
«Shy, non mi offendo.
Sono abituata alle cazzate che dice Sam, non preoccuparti. Ehi, pensa
alle tizie che ti porti a letto» rimbeccai Samantha. «Shavo
è attraente e sexy, non dire mai più cattiverie sul suo
conto. E poi... è il ragazzo più dolce che io abbia mai
conosciuto, è veramente tenero e, be', fin troppo romantico
per una come me.»
«Vi completate»
osservò Shelly con lo sguardo sognante.
«Ma guarda come ti
brillano gli occhi... oddio, se anche un'acida come te si è
innamorata, questo mondo non ha più alcuna speranza»
borbottò la corvina, mangiucchiandosi un'unghia con l'intento
di limarla.
«Quanti anni ha?»
ripeté Shelley, sempre più curiosa.
Sospirai appena. «Ne
ha parecchi in più di me» dissi con calma.
«Avrà al
massimo trent'anni...» suppose Shelley.
«Macché!
Secondo me ne ha più di quaranta» la contraddisse
Samantha.
«Trentanove»
buttai lì. Era incredibile quanta differenza ci fosse tra noi,
e quanto poco sentissi quell'abisso di quindici anni.
«Oh, cristo! Ti sei
messa con un vecchio!» strillò Samantha, alzandosi. «Io
ora devo andare, ma giuro che sono veramente basita, Leah Moonshift!»
proclamò.
Mi alzai a mia volta e corsi
ad abbracciarla. «MI sei mancata anche tu, Sammy!»
«Piantala subito di
chiamarmi in quel modo!» Mi spinse via in maniera brusca e si
diresse verso la sua stanza, indirizzandomi una linguaccia. «Ho
da fare, esco con alcuni colleghi dell'associazione universitaria. Ma
con te non ho finito.»
«Comincio a tremare di
paura!» la sfottei.
Quando Samantha se ne fu
andata, mi battei una mano sulla fronte, ricordandomi che avevo
comprato un piccolo souvenir anche per lei e mi ero scordata di
consegnarglielo.
Intanto, frugai in borsa e
tirai fuori ciò che avevo comprato per Shelley. Le tesi il
pacchetto e le sorrisi. «Questo è per te. Aprilo.»
Lei accettò il regalo
con aria sorpresa. «Non c'era bisogno, Leah! Sei sempre la
solita!» Lo scartò e tirò fuori un album che
raccoglieva i migliori lavori stilistici realizzati sull'isola
giamaicana.
Osservai la sua faccia
diventare rossa, per poi impallidire di botto. Le lacrime velarono
subito i suoi occhi e scoppiò a piangere come una bambina.
«Oh, Leah! Ma questo è...»
Mi accostai a lei e la
abbracciai. «Su, non piangere, Shy. Questo ti dimostra quanto
vali, quanto credo in te e quanto sono convinta che prima o poi anche
tu apparirai in uno di questi book con le tue stupende creazioni.
Leggi la dedica, coraggio.»
Shelley tirò su col
naso e io le procurai un fazzoletto. Si asciugò le lacrime e
poi si schiarì la gola. «Per la mia stilista preferita,
colei che ha una bacchetta magica al posto della matita. Anche tu,
prima o poi, proverai l'emozione di essere bloccata nel cielo. Tua,
Leah» recitò, poi riprese a singhiozzare in preda a una
profonda emozione. «Oddio...»
«Andiamo, così
fai commuovere pure me. Sono felice che ti piaccia» le dissi,
accarezzandole i capelli. «Su, ora raccontami perché
stavi facendo tu la ceretta a Sam.»
Shelley mi guardò
perplessa, poi scoppiò a ridere. «Ha un appuntamento
galante stasera» mi confidò.
«Ho paura per la
povera vittima» scherzai.
«E tu? Mi racconti o
no di Shavo?»
Annuii e cominciai a
raccontarle della mia avventura in Giamaica, di come inizialmente
avessi finto di non aver riconosciuto i ragazzi dei System, di come
poi tutto fosse venuto a galla, delle peripezie che ci erano
capitate. Le spiegai come io e Shavo ci eravamo avvicinati, di quando
avevo scoperto che Daron si era portato a letto l'amante del momento
di mio padre, di quanto fosse stato divertente trascorrere il tempo
con quei matti e di quanto tutto questo mi mancasse. Le parlai di
Bryah e della sua situazione complicata, di Dayanara e Alwan, di
Lakyta e di Cornia, fino a ripercorrere gli aneddoti divertenti e gli
incontri con i fan esaltati che i ragazzi avevano incontrato sul loro
cammino.
Erano successe così
tante cose che mi sembrava impossibile averle vissute davvero; mi
sembrava trascorsa un'eternità da quando ero partita
controvoglia per raggiungere lo Skye Sun Hotel per l'ennesima volta
durante la mia breve vita. E ora rimpiangevo di non essere più
laggiù, a godermi semplicemente i caldi abbracci di Shavo, le
cretinate di Daron, i silenzi rivelatori di John, la fragilità
di Bryah, l'incoerenza di Lakyta, la timidezza di Dayanara,
l'esuberanza di Alwan... tutto questo mi mancava in maniera viscerale
e, mentre lo raccontavo a Shelley, mi si formò un groppo in
gola e dovetti far leva su tutta la mia forza interiore per
ricacciare le lacrime che minacciavano di inondare i miei occhi.
«Tutto sommato sei
felice» disse infine Shelley, dopo avermi soppesato con cura.
Annuii. «Sì»
ammisi. «Anche se so che d'ora in poi sarà molto
difficile, soprattutto per quanto riguarda la mia relazione
con Shavo. Solo ora potremo capire se ne vale la pena.»
«Io credo di sì.
Ho notato, dal tuo racconto, che entrambi tenete molto a questa cosa.
Insomma, siete abbastanza adulti da poterla gestire.»
«Credi che la
differenza d'età che c'è tra noi possa diventare un
problema?» le domandai.
Shelley mordicchiò
per un po' la matita che ancora teneva in mano, riflettendo su ciò
che le avevo chiesto. «No. Avete due vite completamente diverse
a prescindere dall'età. Se deve funzionare, funzionerà
in ogni caso. Anzi, sai che ti dico? Se lui fosse più giovane,
secondo me potresti avere più problemi.»
Aggrottai le sopracciglia.
«Cosa intendi dire?»
«Se lui fosse un
nostro coetaneo o addirittura più piccolo di te, credo sarebbe
più soggetto alle tentazioni di groupies o altre tizie che lo
seguono nel suo percorso da musicista. Invece, hai visto che anche in
Giamaica non ha dato corda a quelle due pazze?» spiegò
la mia amica.
Ci pensai un attimo su e
annuii. «Mi fido di lui.»
«Ecco, allora metà
del lavoro è già stato fatto» mi rassicurò.
«Stai tranquilla. Vivi le cose come vengono e non porti troppi
problemi. Sono certa che andrà bene.»
«E poi Las Vegas e Los
Angeles non sono così lontane...»
Shelley sorrise. «Esatto!»
Chiacchierammo ancora un
po', poi decisi di adoperarmi per disfare i bagagli e fare una
lavatrice. Prima di mettermi all'opera, ripresi il cellulare e trovai
alcuni messaggi vocali di Shavo. Mi sedetti sul bordo del letto e,
dopo aver infilato gli auricolari, li ascoltai.
Leah,
va tutto bene? Sei arrivata a Las Vegas? Com'è andato il
viaggio? Spero che tuo padre non ti abbia disturbato... mi manchi
già, dannazione!
Ieri
sera Daron ha organizzato una festa per tutti noi. C'eravamo proprio
tutti, comprese Lakyta e Miriam! Ci siamo divertiti, ma ora ho un mal
di testa terribile... ho esagerato con l'alcol... non ho fatto che
pensare a te...
Sento
che qualcosa non va, è come se... come se sia successo
qualcosa che non ricordo bene... devo chiedere a John, lui ricorda
sempre tutto. Forse è il caso che mi metta a preparare i
bagagli, alle sette meno venti di stasera abbiamo l'aereo...
Mentre parlava, non faceva
che sbadigliare. Controllai l'orario in cui me li aveva mandati: li
avevo ricevuti verso le nove e mezza del mattino, il che significava
che in Giamaica erano già le undici e mezza. Sorrisi e
ascoltai l'ultimo messaggio.
Appena
arrivo a Los Angeles, mi organizzo e corro da te. Mi manchi da
impazzire, Leah.
Fu un tuffo al cuore sentire
quelle parole. Dovetti inspirare ed espirare un paio di volte per
potermi calmare e riprendere fiato, poi risposi anch'io con un
messaggio vocale, cercando di non dare a vedere la malinconia che mi
aveva pervaso dall'istante esatto in cui ero salita in taxi per
lasciare lo Skye Sun Hotel.
Gli raccontai brevemente di
Medison e delle sue massime spicce in riferimento a Jessica Miller,
poi gli parlai di Samantha e Shelley e lo incitai a darsi una mossa
per preparare le valigie.
Infine feci una breve pausa,
sospirai e conclusi: «Se non corri tu da me, succederà
il contrario, Shavarsh».
Dopo aver inviato, presi a
piangere in silenzio e, senza rendermene conto, mi addormentai senza
più pensare alle valigie da svuotare e ai panni che avevo da
lavare.
Ero sfinita e infinitamente
triste.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 45 *** LAX ***
ReggaeFamily
LAX
[Shavo]
John
non faceva che sghignazzare, mentre mi raccontava ciò che era
accaduto la sera prima. E più lui parlava, più i
ricordi si materializzavano nuovamente nella mia mente.
Daron,
invece, non si era ancora fatto vivo, così io e il batterista
avevamo deciso comunque di andare a pranzo senza aspettarlo.
Stavo
per intimare a John di smetterla con quell'ilarità non
richiesta, quando About A Girl
mi informò che qualcuno mi stava chiamando sul cellulare.
Dubitavo fortemente che si
trattasse di Leah, anche se ci speravo parecchio. Come sospettavo,
non era lei, bensì Serj.
«Oh, Serj! Dimmi»
esordii controvoglia, poggiando il gomito del braccio destro sul
tavolo e portandomi lo smartphone all'orecchio.
«Ciao, Shavo. Che
succede? Ti sento un po' di malumore...»
«Ma niente. Perché
mi chiami?» volli sapere, per niente intenzionato a parlare di
quanto Leah mi mancasse.
«Volevo solo sapere se
devo venire a prendervi al LAX» mi spiegò il cantante in
tono pacato, evitando di insistere sul mio stato d'animo.
Pensai al casino che si
agitava in quel dannato aeroporto e mi venne in mente che forse
sarebbe stato meglio che io e Daron prendessimo un taxi.
«Sei diventato pazzo?
Hai idea del casino che troveresti? Prendiamo un taxi, tranquillo»
gli risposi.
John mi lanciò
un'occhiata ammonitrice, forse voleva farmi notare che mi stavo
rivolgendo a Serj in un modo troppo brusco e sgarbato. Il cantante
non mi aveva fatto niente di male, riflettei, dovevo smetterla di
trattarlo in quel modo.
«Grazie lo stesso,
amico. Hai avuto un pensiero carino» aggiunsi, sentendomi
sempre più in colpa per il mio atteggiamento indisponente.
«Me lo passi?»
mi chiese John.
Gli porsi il cellulare e,
mentre lui discorreva con Serj sul traffico infernale che vorticava
attorno all'aeroporto più importante di Los Angeles –
comunemente denominato LAX dai cittadini abituali –, io mi
immersi nei ricordi legati alla sera precedente e mi sentii
inghiottire da una caterva di sensi di colpa.
L'aria
si era rinfrescata, ma io morivo di caldo.
Bevevo
senza ritegno e avvertivo una leggera nausea scandagliare le mie
viscere; nonostante ciò, non mi fermai. Volevo annebbiare il
ricordo di Leah, volevo dimenticarmi che lei non c'era.
Tutto
intorno a me vorticava e le voci si confondevano in un guazzabuglio
di sussurri e strilli acuti, risate e grida isteriche.
Ero
buttato sulla sabbia, la sentivo penetrare in ogni anfratto, ne ero
completamente ricoperto.
Avevo
perso la cognizione del tempo, così come il senso della
ragione.
A
un tratto mi alzai e barcollai verso la riva, volevo bagnarmi il
volto, stavo impazzendo per via del caldo. Era colpa dell'alcol.
Mi
trascinai verso il bagnasciuga e mi lasciai cadere in ginocchio,
immergendo la faccia nell'acqua. Boccheggiai e tossii come un matto,
rimettendomi poi a sedere. Poco dopo, scivolai con la schiena contro
la sabbia umida e chiusi gli occhi.
«Portatemi
un'altra birra» biascicai.
Poco
dopo, qualcuno venne a sedersi accanto a me. Ci misi un po' a capire
di chi si trattasse.
Riuscii
a socchiudere gli occhi e misi faticosamente a fuoco la figura di
Lakyta. La ragazza mi sorrideva con malizia e mi porgeva un bicchiere
stracolmo.
«Hai
sete, Shavarsh?» mi domandò con dolcezza.
«Ho
caldo... e voglio bere...» farfugliai.
«Mettiti
seduto, da bravo.»
Riuscii
a obbedire dopo qualche tentativo. Poco dopo le strappai il bicchiere
di mano e lo tracannai senza neanche rendermi conto di cosa stessi
bevendo.
«Era
solo acqua, tesoro» mi rassicurò Lakyta. «Se non
reintegri un po' di liquidi sani, finirai per disidratarti.»
«Liquidi
sani... che cazzo significa?»
Lei
sorrise. «Non importa. Perché non ti distrai un po', eh?
Ti vedo molto triste...»
«Non
mi posso distrarre...»
«E
perché no?» Lakyta si sporse verso di me e mi appoggiò
una mano sulla coscia. «Posso aiutarti se vuoi, sarà un
nostro segreto.» Prese a percorrere lentamente il mio interno
coscia con dita esperte, risalendo sempre più su verso luoghi
che non avrebbe dovuto esplorare né in quel momento né
mai.
Stavo
per ribattere, per dirle che doveva smetterla, quando un conato di
vomito mi sorprese e mi risalì fino alla gola. Senza poter
fare nient'altro, mi ritrovai a riversare il contenuto del mio
stomaco su Lakyta.
Un
grido acuto e stridulo si levò dalla gola della ragazza, la
quale non riuscì a muoversi poiché mi ero chinato in
avanti e avevo afferrato con forza il suo braccio.
Dopodiché,
mi sentii decisamente meglio.
«Tieni.»
La voce di John mi riscosse
dai miei pensieri. Posai lo sguardo su di lui e notai che mi porgeva
il mio cellulare.
«Ah, grazie»
borbottai, rimettendo a posto l'apparecchio. «Serj che dice?»
«Che è
preoccupato per te e che preferirebbe andarti a prendere
all'aeroporto. Dice che non si fida molto di Daron» raccontò
il batterista.
«Fa bene...» Mi
premetti le mani sulle tempie. «Cazzo, sto di merda.»
«Non oso immaginare
quanto sarà divertente il tuo viaggio in aereo» commentò
John, riprendendo a esaminare il menu che il ristorante dello Skye
Sun Hotel offriva.
«Non mi ci fare
pensare! E ieri ho combinato un bel casino...»
John sorrise appena.
«Macché. Non hai permesso a Lakyta di fare niente. Stai
tranquillo.»
«Però mi ha
messo le mani addosso...»
John chiuse di scatto il
menu, lanciò un'occhiata al suo orologio da polso e si alzò.
«Smettila di farti le seghe mentali. Io vado a vedere se Bryah
si è svegliata e se ha voglia di venire a pranzo, tu ordina
qualcosa anche per me, okay? Non piatti strani, mi raccomando»
concluse, per poi avviarsi fuori dalla grande sala.
Sospirai a presi a
scandagliare con poco interesse il menu che John aveva abbandonato
sul tavolo. Stavo per fare cenno a un cameriere affinché si
avvicinasse, quando Daron mi raggiunse.
Sembrava contento e
decisamente di buonumore, tanto che mi regalò un abbraccio
fraterno e mi batté con forza su una spalla.
«Malakian, per
favore... ho mal di testa» borbottai.
«Su con la vita! Ehi,
ma cos'è quell'espressione da zombie?» indagò,
scrutandomi con più attenzione.
«La tua idea di
invitare Lakyta al falò di ieri è stata a dir poco
riprovevole» sibilai tra i denti.
«Riprovevole.
Shavo, mi stai diventando aulico, dev'essere l'assenza di una certa
ragazzina piuttosto rachitica ed esuberante.»
«Chiudi il becco.»
«Che antipatico! Che
ha combinato la cameriera più zoccola del pianeta?» mi
chiese, rubandomi il menu per dargli un'occhiata.
«Ci ha provato con me.
Ha la stoffa per venire a Hollywood, ma non in ambito
cinematografico...» gracchiai.
«Guadagnerebbe un
patrimonio per le strade più famose della nostra adorata
cittadina» ironizzò il chitarrista. «Oggi voglio
mangiare del riso! Tu ne vuoi?»
«Fa lo stesso...»
Daron gettò
un'occhiata alla sedia vuota accanto alla mia. «Com'è
che John è in ritardo?»
«Te lo sei perso per
un pelo. Era qui fino a dieci minuti fa, è andato da Bryah...»
Il chitarrista si rabbuiò.
«Brutta storia, quella della giornalista» osservò.
«Già.»
«Odadjian, la smetti o
no di rispondermi a monosillabi?» mi rimproverò in tono
allegro. «Coraggio! Non sei contento di aver risposto alle
avances di quella gatta morta con tutto ciò che avevi dentro
di te? È stato uno scambio profondo» proseguì
con estrema ironia.
«Sì, con tutta
la mia anima» convenni, per poi ritrovarmi a sorridere. «In
effetti... ben le sta.»
«Appunto! Di che ti
preoccupi? Se lo raccontiamo a Leah, scommetto che non smette di
ridere per una settimana intera!»
Gli mollai un pugno sul
braccio. «Non pensarci neanche. Non devi dirglielo.»
Lui sbuffò. «Che
palle, Shavo! Perché vuoi nasconderglielo? Non hai fatto
niente di male, okay? Se lei dovesse scoprirlo in seguito, si
incazzerebbe come una iena e ti manderebbe al diavolo. Vuoi
commettere nuovamente l'errore di mentirle in maniera
ingiustificata?»
Ci pensai un po' su e
sospirai. «Forse hai ragione, però non vorrei ferirla»
ammisi.
«Ferire le persone è
all'ordine del giorno. L'importante è essere sinceri e
coscienziosi.» Daron mi sorrise con fare ammiccante. «Non
la ferirai, tranquillo! Oh, ecco Johnny!» saltò su poi,
sbracciandosi come un ossesso per salutare il batterista.
Incontrai lo sguardo di John
e mi parve preoccupato. Era da solo, Bryah non era in sua compagnia.
Mi accigliai. «Perché
non è scesa?» gli chiesi, non appena il mio amico si
sedette a tavola.
«Dice di non sentirsi
molto bene. Le gira la testa e non ha fame...»
«Non va bene così,
cazzo» sbottò Daron. «John, meno male che rimani
con lei, altrimenti non so come potrebbe sopravvivere, poveretta...»
«Già, Daron ha
ragione. Sei un eroe» dissi a John con ammirazione.
Il nostro amico negò
con un cenno della mano. «Non siate sciocchi, non sono affatto
un eroe. Faccio quel che devo, quel che è giusto e che mi
sento» minimizzò.
«Be', allora?
Ordiniamo qualcosa da mangiare o volete che diventi cannibale e
sbrani voi due in un sol boccone?» sbottò Daron,
sventolando il menu.
Io e John ci scambiammo
un'occhiata e scoppiammo a ridere.
«Mi raccomando,
abbiate cura l'uno dell'altro, altrimenti Serj se la prenderà
con me» concluse John, mentre io e Daron ci sistemavamo meglio
sul sedile posteriore di un taxi che ci avrebbe portato
all'aeroporto.
Poco prima di lasciare
l'albergo, avevamo salutato Dayanara, Alwan e Miriam. Di Cornia e
Lakyta non c'era stata traccia, sospettavo che quei due si fossero
appartati da qualche parte per consumare l'evidente attrazione che
intercorreva tra i loro corpi giovani e aitanti.
Mi sentivo triste all'idea
di abbandonare la Giamaica, ma sicuramente anche sapere che John
sarebbe rimasto lì un po' mi inquietava. Lui e Serj erano i
due membri della band che riuscivano in qualche modo a tener testa
alle cazzate di Daron e al mio modo impulsivo di agire, ma senza uno
dei due nei paraggi non sapevo come sarebbero andate le cose.
Daron, inoltre, una volta
rientrato a Los Angeles, avrebbe dovuto scoprire il motivo che ci
aveva spinto a partire così in fretta e io non osavo
immaginare come sarebbero andate le cose. Il chitarrista, spesso,
tendeva a chiudersi in se stesso quando c'erano dei grossi problemi
da risolvere, e nella maggior parte dei casi soltanto John era in
grado di riscuoterlo. Sapeva come prenderlo, sapeva quando parlargli
e cosa dirgli. Io, al contrario, ero più propenso a incazzarmi
e prenderlo con le maniere forti, mentre Serj pareva troppo buono e
condiscendente nei suoi confronti, come se temesse di ferirlo o di
indisporlo fino a indurlo a una totale chiusura nel suo abisso di
rabbia.
«Johnny, fai il bravo
e pensa a riguardarti. Ricordati di fare ginnastica tutti i giorni e
di mangiare le verdure» recitò Daron, pizzicando il
braccio del batterista.
«Che spiritoso. Non
combinare casini in mia assenza, altrimenti prendo il primo volo per
Los Angeles e ti gonfio di botte» lo minacciò John in
quella che considerai una via di mezzo tra un tono serio e uno
divertito.
«Agli ordini!»
Io e John ci scambiammo
un'occhiata complice. Ero certo che stessimo pensando alla stessa
cosa, ovvero a quanto Daron avrebbe dato di matto quando avrebbe
scoperto la faccenda della ragazza che diceva di essere sua figlia.
In quel momento desiderai che il batterista salisse su quel fottuto
aereo con noi, ma sapevo che non era possibile.
«Saluta tanto Bryah»
conclusi.
John annuì e ci
rivolse un ultimo cenno di saluto.
«Possiamo andare»
comunicai al tassista.
Poco dopo, il veicolo si
allontanò dal vialetto d'accesso allo Skye Sun Hotel.
«Me lo dici o no?»
«Daron, ti ho detto
che non posso. Ne parliamo a casa.»
«Sei uno stronzo.
Prima accenni a qualcosa, poi ritiri tutto e mi lasci sulle spine.
Bell'amico di merda.»
«Grazie, ricambio il
complimento con la stessa enfasi.»
«Pezzente.»
«Altrettanto.»
Sospirai. Daron, da quando
eravamo partiti per Los Angeles, non faceva che parlare a vanvera.
Avrei voluto dormire durante il viaggio, invece lui insistette per
estorcermi informazioni che, al momento, non potevo dargli.
Avevo commesso il madornale
errore di dirgli che, una volta giunti da Serj, avremmo dovuto
discutere di una questione piuttosto urgente e importante, e da
allora non mi aveva dato tregua.
«Dai, me lo dici?»
Sbuffai sonoramente. «È
inutile che insisti, tanto non ti dirò una sola parola.
Perché, anziché rompere i coglioni, non mi racconti
perché stamattina eri così allegro? Sei arrivato a
pranzo con un sorriso da ebete stampato in faccia» cambiai
argomento.
«Eh no, dev'essere uno
scambio equo, altrimenti non se ne fa nulla.»
Sbuffai ancora. «Fa'
come ti pare...»
Rimanemmo in silenzio, ma
quell'idillio durò fin troppo poco per i miei gusti.
«Se proprio ci tieni a
saperlo...» azzardò il chitarrista, afferrando
distrattamente una rivista che il personale dell'aereo aveva
incastrato in uno scomparto del sedile di fronte al suo.
Il giornale gli scivolò
di mano e si aprì su una pagina a caso, atterrando sul
tavolino che il chitarrista aveva precedentemente abbassato per
poterci poggiare i gomiti.
Notai che il suo volto
impallidiva vistosamente e mi sporsi nella sua direzione per cercare
di capire cosa avesse creato una tale reazione in lui. Sulla pagina
sinistra della rivista, sorridente e bella come non era mai stata in
realtà, la modella Jessica Miller occupava gran parte dello
spazio con una foto a mezzo busto. I capelli erano mossi e lunghi, il
viso magro e smunto ricoperto da tonnellate di trucco, le labbra
dipinte di rosso fuoco e gli occhi contornati di nero erano
atteggiati in modo da conferirle un'aria accattivante e superba.
Mi si rivoltò lo
stomaco. «Orribile» mi lasciai sfuggire.
Daron richiuse con forza la
rivista e la lasciò cadere a terra, calpestandola con i piedi.
Non aprì più
bocca, neanche dopo essere tornato dal bagno. Mi resi conto che aveva
pianto soltanto quando catturai per un istante il suo sguardo, ma il
chitarrista si premurò immediatamente di nasconderlo. Si
infilò le cuffie alle orecchie e trascorse il resto del
viaggio immerso in se stesso.
Non avevo proprio idea di
come avremmo potuto parlargli della sua presunta figlia, non era
proprio il momento.
Riuscii a dormire per circa
un'ora, il che mi restituì più energie di quante me ne
aspettassi.
Quando scesi dall'aereo,
ebbi come l'impressione di poter affrontare qualunque avversità
si presentasse sul mio cammino.
«Oddio, l'apocalisse!»
sbottò Daron, mentre ci immergevamo nella baraonda
rappresentata dal LAX e dai suoi innumerevoli passeggeri. Mi sentivo
confuso ogni volta che mi ritrovavo in quel luogo, dal momento che il
nostro aeroporto internazionale era uno dei più caotici che
avessi mai visto.
Mi guardai attorno,
spaesato. Avevo viaggiato innumerevoli volte ed ero stato al LAX più
di quanto non avessi frequentato casa mia, ma ogni volta era
difficile non perdere l'orientamento.
Riuscimmo maldestramente a
recarci all'area del ritiro bagagli e ci infilammo tra la folla,
beccandoci imprecazioni e insulti da una massa informe di persone.
Una volta recuperate le
nostre valigie, eravamo pronti a partire alla ricerca di un taxi,
quando qualcosa attirò la nostra attenzione.
Qualcuno, a pochi metri da
noi, reggeva in mano un cartello bianco che recava la scritta:
DARON
Ci scambiammo un'occhiata
interrogativa, per poi posare nuovamente lo sguardo sulla figura
femminile che stava immobile con il foglio rettangolare in mano e si
guardava attorno con circospezione.
«Cosa significa?»
fece Daron perplesso.
Un bruttissimo presentimento
si fece largo in me, ma non riuscii ad aprir bocca, poiché il
chitarrista si era già messo in marcia verso la sconosciuta.
Lo seguii con rassegnazione,
portandomi dietro i bagagli e una spropositata dose di ansia.
«Scusa, cerchi me?»
esordì Daron, piazzandosi proprio di fronte a lei.
La ragazza lasciò
scivolare il cartello e sorrise a trentadue denti. I suoi occhi
brillavano ed erano sgranati a causa dell'incredulità.
«Sei... sei davvero
tu? Daron?» balbettò la tizia, portandosi una mano
all'altezza del cuore.
Lui si strinse nelle spalle.
«Sì. E tu chi saresti?» le domandò.
Lei fece un passo avanti.
«Sono tua figlia.»
Daron impallidì come
un cencio.
«Cazzo»
imprecai.
La ragazza scoppiò a
piangere e si gettò di slancio tra le sue braccia.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 46 *** You I need ***
ReggaeFamily
You
I need
[John]
«E
adesso?»
Mi
voltai verso Bryah e la scrutai, trovando un'espressione leggermente
confusa dipinta sul suo bel viso.
«E
adesso...» riflettei. Mi portai una mano sul mento e cercai
qualcosa di sensato da dire. Daron e Shavo erano partiti da poco e
io ero rimasto da solo con Bryah, indeciso sul da farsi.
Il
giorno prima eravamo stati al commissariato. Ci era voluto molto
impegno per convincere Bryah a parlare; anche una volta raggiunta la
stazione di polizia, lei aveva opposto un po' di resistenza, ma poi
aveva compreso appieno la situazione drammatica in cui si trovava.
Ripensare
a quei momenti mi metteva addosso non poca ansia, ma ero certo che
lei avesse fatto la cosa giusta.
«Signorina
Philips, mi dica tutto. So che è difficile, il signor Dolmayan
mi ha accennato qualcosa, ma ovviamente devo sentire la sua versione
dei fatti, che sicuramente sarà più completa. Lei
capisce, vero?» esordì il poliziotto corpulento che
sedeva dietro la scrivania. Aveva di fronte a sé un taccuino
con una penna, e aveva appena acceso un registratore. Voleva essere
certo di non perdere nessuna delle informazioni che Bryah gli avrebbe
comunicato. Mi aveva spiegato che, per esperienza, sapeva che le
vittime di violenza erano restie a parlare più di una volta.
«Certo,
capisco... ma per me è molto difficile.»
«Lo
so, me ne rendo perfettamente conto. Mi dica, innanzitutto, in che
rapporti è con Benton McGregor?» le domandò
l'uomo, rivolgendole un'occhiata benevola.
Bryah
esitò per un istante. «Prima di... insomma, eravamo
fidanzati» rispose poi con un filo di voce.
«Certo.
Il signor McGregor aveva mai alzato le mani su di lei prima d'ora?»
proseguì il poliziotto.
Bryah
tacque per almeno un minuto. Io, seduto al suo fianco su una
scomodissima sedia di legno, le posai una mano sul braccio e glielo
strinsi leggermente.
Infine
lei annuì. «Solo una volta, ma io non ci ho fatto caso.»
«Mi
racconti» la incoraggiò l'uomo, afferrando la penna.
«Una
volta siamo usciti. Ci siamo recato al Fyah, un locale poco distante
da casa nostra. Era il compleanno di un suo amico, ci aveva invitato
là a bere qualcosa per festeggiare. Ci siamo divertiti, mi
creda. Abbiamo ballato e io non ho bevuto, perché sono... ero
astemia. Benton, invece, lui beveva, ma non esagerava. Quel giorno
non ha fatto eccezione. Solo che, quando siamo rientrati a casa, mi
ha accusato di aver ballato in maniera equivoca con un ragazzo. Ha
detto che qualcuno gli aveva riferito questa notizia e così...
mentre cercavo di fargli capire che non era assolutamente vero, lui
ha dato di matto e mi ha mollato un ceffone. Ma poi si è
subito reso conto di aver esagerato e mi ha chiesto scusa, mi ha
abbracciato e...» Bryah si interruppe e si portò
entrambe le mani sul viso.
«Signorina
Philips, lei gli ha creduto. Ha creduto alle sue scuse, non è
così?»
Bryah
annuì lentamente. «Purtroppo sì. E non avrei
dovuto. Non avrei dovuto neanche... concedermi a lui, dopo...
oddio...»
Si
stava agitando, e anche io sentivo una rabbia indicibile stringermi
il petto e ribollirmi nelle vene. Tuttavia, mantenni la calma e,
quando lei cercò il mio sguardo, le sorrisi appena e tentai di
infonderle più sicurezza possibile. Non volevo rovinare tutto,
avrei avuto modo di sfogarmi in un altro momento.
«Vada
avanti. Mi racconti cos'è successo due sere fa» la
esortò il poliziotto, scribacchiando sul suo taccuino.
«Va
bene.» Bryah sospirò, potevo quasi immaginarla mentre
prendeva il coraggio tra le mani e lo spingeva verso l'esterno,
pronta a combattere quella terribile battaglia. Avrei voluto
abbracciarla forte e proteggerla finché ne avessi avuto
l'occasione, ma ora dovevo lasciare che parlasse e non si lasciasse
influenzare dalla mia presenza.
La
giornalista sospirò ancora e poi riprese a parlare: «Sono
stata con John. Ho tradito Benton, ma lui non lo sa. Il punto è
che... sentivo che le cose con il mio compagno non funzionavano già
da tempo. Dopo l'episodio che le ho raccontato prima, be', non mi
sono più sentita del tutto al sicuro con Benton. A me stessa
raccontavo delle grosse frottole, mi dicevo che un errore del genere
poteva capitare, che sicuramente sarebbe stato un caso isolato... ma
sicuramente sentivo nel profondo che il nostro rapporto si era
spezzato irrimediabilmente. Quando sono rientrata a casa con John e i
suoi amici, due sere fa, speravo che Benton non ci fosse.
Inizialmente, infatti, la casa era deserta. Dovevo soltanto cercare
un cellulare da regalare a uno di loro, visto che il suo è
caduto in acqua ed era inutilizzabile. Solo che nel frattempo lui è
arrivato e... ho temuto il peggio».
«In
che senso?» volle sapere l'agente.
«Conosco
bene Benton. Quando ha visto tutta quella gente dentro casa nostra,
si è incazzato parecchio. Loro hanno provato a rabbonirlo, ma
io sapevo di dover rimanere con lui per dargli delle spiegazioni. Ho
finto che andasse tutto bene, ma dentro di me mi sentivo morire
perché...» Gli occhi le si velarono di lacrime, ma lei
le trattenne. Mi lanciò un'occhiata colma di rabbia verso se
stessa e non riuscì a proseguire.
«Capisco,
perché sentiva di far soffrire il signor Dolmayan. È
corretto?» la aiutò il poliziotto.
Bryah
assentì. «Solo che... quando io e Benton siamo rimasti
soli, lui ha cominciato a farmi un sacco di domande. Era chiaramente
arrabbiato, sospettava qualcosa. Devo aver detto, a un certo punto,
una frase che deve avergli dato le conferme che cercava. Così...
ha cominciato a picchiarmi, a insultarmi, a...» Si interruppe e
strinse i pugni. «Mi ha fatto male, molto male... allora ho
capito, mentre cercavo invano di difendermi, che le cose sarebbero
andate sempre peggio. Mi sono ricordata della sua gelosia e del suo
schiaffo il giorno del compleanno del suo amico. Ho ricollegato
tutto, e ho pensato subito che non volevo più stare lì
con lui. Ho deciso, quasi senza rendermene conto, che non sarei
diventata una delle tante vittime di violenza che non riescono a
riemergere da quell'orribile tunnel. E ho sentito di potercela fare
perché John era in Giamaica. Forse non mi avrebbe accolto a
braccia aperte, dopo ciò che gli avevo fatto, ma ci speravo.
Era il mio unico appiglio.»
«Allora
cosa ha fatto?»
«Ho
lasciato che si sfogasse. Quando ormai non aveva più voglia di
prendersela con me, ho aspettato che il dolore passasse, che
diminuisse almeno un po'... non ricordo bene cosa ho fatto, so solo
che a un certo punto sono uscita di casa. Non avevo con me neanche il
cellulare, neanche le chiavi, neanche dei vestiti, niente... ho preso
un taxi nei pressi del Fyah, era tarda notte. Non ho idea di che ore
fossero, so solo che mi sono accasciata sul sedile posteriore
dell'auto e sono riuscita a malapena a dare all'autista il nome
dell'albergo.»
«In
quale albergo si è fatta accompagnare?» domandò
l'agente, pronto ad annotare nuove informazioni sul blocco di fronte
a sé.
«Lo
Skye Sun Hotel, dove John e i suoi amici hanno alloggiato durante la
loro vacanza in Giamaica. Quando sono arrivata, qualcuno mi ha
aiutato a raggiungere la stanza di John, ma lui non c'era. Sono
rimasta fuori ad aspettarlo, non avevo più la forza di
muovermi.»
«Ricorda
chi l'ha aiutata?»
Bryah
scosse il capo. «No, ma suppongo si trattasse dello stagista
che fa il turno di notte all'hotel, anche se non ne sono certa.»
Il
poliziotto annuì assorto. «Immagino non sia in grado di
descrivermi l'autista che l'ha accompagnata in taxi o di ricordare la
targa o il numero dell'auto» commentò con fare retorico.
«No,
mi dispiace.»
«Lei
è il signor McGregor stavate insieme da molto tempo?»
cambiò argomento lui, posando gli occhi scuri su Bryah.
«Circa...
due anni e mezzo, mi pare. E lui mi ha tradito molte volte. Io l'ho
sempre perdonato, ho sempre creduto alle sue stronzate. Mi perdoni
per il termine, ma è vero. Mi ha mentito senza ritegno, e
quando ha sospettato che io lo avessi imitato, è impazzito per
la troppa gelosia.»
L'agente
annuì ancora, poi spostò gli occhi su di me. «Signor
Dolmayan, mi racconti come ha trovato la signorina Philips. Perché
non si trovava nella sua stanza d'albergo?»
Mi
schiarii appena la gola. «Non riuscivo a dormire, così
sono stato per un po' sulla terrazza panoramica dell'albergo. Quando
sono ridisceso, l'ho trovata rannicchiata di fronte alla porta della
mia stanza. In realtà, ho condiviso la camera con il mio
collega e amico Shavo Odadjian, ma lui non ha dormito là
durante quella notte, ecco perché Bryah non ha trovato nessuno
ad accoglierla.»
«Capisco.
Si è accorto che qualcosa non andava?» mi chiese ancora
il poliziotto.
«Certamente.
Bryah era sconvolta. E aveva il viso gonfio, l'espressione smarrita e
colma di disperazione. L'ho fatta entrare in camera e le ho chiesto
cosa fosse successo. Mi ha detto qualcosa, ma era troppo scossa per
parlare con lucidità.»
L'uomo
sospirò appena. «Capisco. Bene, signorina Philips, devo
chiederle un'ultima cosa: un operatore dovrà scattarle delle
foto, non ci vorrà molto. Serviranno come prove per inchiodare
quel bastardo. Mi rendo conto che per lei deve essere uno sforzo
insopportabile, ma vedrà che questo servirà davvero.»
Bryah
annuì, sembrava già più sicura di sé,
come se parlare con quel poliziotto le fosse servito per rendersi
conto di ciò che le era successo e per capire quanto fosse
importante non arrendersi.
«Ora
non ho più paura, farò ciò che è
necessario» affermò infine, afferrando la mia mano per
poi stringerla con forza.
Era stato difficile, per
Bryah, struccarsi e spogliarsi, mostrando i lividi e le abrasioni che
Benton le aveva inferto. Io ero rimasto fuori, avevo molta paura di
scoprire cosa realmente quel bastardo le avesse fatto.
E ora, nel ripensarci, mi
sentivo invadere da una rabbia straziante.
«John, a cosa pensi?»
Mi riscossi in fretta e
tornai a fissare Bryah. «Penso a tutto questo. E penso che non
voglio più pensarci.» La presi per mano. «Andiamo
in camera mia.»
Lei concordò con un
breve cenno del capo e ci avviammo nuovamente all'interno
dell'albergo. Dayanara se ne stava dietro il banco della reception e
armeggiava con il computer, sbuffando rumorosamente.
Quando passammo di fronte
alla sua postazione, mi fermai un istante. «Che succede?»
gli chiesi.
Il receptionist scrollò
le spalle. «Quell'incompetente di Markus ha combinato un casino
con il computer. Dev'esserci entrato un virus o qualcosa del genere,
è lentissimo e non funziona come dovrebbe. Se almeno il
tecnico si decidesse ad arrivare!» mi spiegò il ragazzo.
«Lo stagista, intendi?
Ho notato che non fa che giocare al pc quando si trova qui»
commentai.
«Proprio lui. Che
rottura, ci mancava solo questa...» bofonchiò lui,
passandosi una mano sul viso stravolto dalla stanchezza.
Proprio in quel momento,
qualcuno fece il suo ingresso nella hall e si precipitò
accanto al banco. «Ciao a tutti!» strillò Cornia,
sorridendoci a trentadue denti. «Ehi, Day, perché hai
quella faccia?»
«Problemi con il
computer, colpa di Markus» rispose il receptionist in tono
piatto.
«Fa' vedere» si
offrì subito il barista, aggirando il banco e posizionandosi
accanto a Dayanara.
«Sei sicuro? Ho
chiamato il tecnico, dovrebbe arrivare a momenti... ci manca solo che
tu combini qualche altro disastro!»
Cornia gli lanciò
un'occhiataccia e prese a smanettare velocemente sulla tastiera,
ignorando completamente la presenza del mouse. «Hai un tecnico
qui e ne chiami un altro che ti farà spendere una fortuna? Sei
proprio un deficiente» lo accusò, sorridendo con fare
malizioso.
Rimanemmo tutti a fissarlo
e, cinque minuti dopo, Cornia esclamò: «Et voilà!
Mi devi un caffè, genio».
Dayanara fissò
attonito lo schermo del computer e ammutolì.
«Telefona al tuo
tecnico e digli che non serve più che sprechi il suo tempo e
arrivi fin qui» sbuffò ancora il barista,
stiracchiandosi.
«Come hai fatto?»
protestò Dayanara. «Perché tu ci riesci e io no?»
«Perché io sono
più intelligente di te» si pavoneggiò Cornia.
«Ti ricordo che non
hai saputo accendere il fuoco ieri sera» intervenni in tono
scherzoso.
Cornia mi indirizzò
una linguaccia. «Però Lakyta me l'ha data, quindi sono
in vantaggio in ogni caso» spiegò con orgoglio.
«Sapessi che
vantaggio...» bofonchiò Dayanara, alzando gli occhi al
cielo, mentre Bryah ridacchiava e io rimanevo basito da quella
rivelazione. Possibile che quella ragazza non avesse uno straccio di
dignità?
«Sei geloso,
Dayanara?» lo apostrofò il barista.
«Neanche un po'»
proferì l'altro con estrema serietà.
Qualche cliente fece il suo
ingresso nella hall, così io e Bryah decidemmo di lasciare
Dayanara al suo lavoro e ci dirigemmo verso gli ascensori, seguiti da
un allegro e soddisfatto Cornia.
«Ora vado a trovarla.
Non ne ho avuto abbastanza, sapete?» ci disse il ragazzo,
infilandosi nel box con impazienza.
«Interessante»
borbottai.
«Ma insomma! Perché
in questo posto siete tutti così seri? E fatevi una cazzo di
risata, ogni tanto! Il sesso è una cosa normale e bellissima,
specialmente quando si tratta di ragazze esperte e avvenenti come
Lakyta...» continuò a blaterare.
Io e Bryah ci scambiammo
un'occhiata confusa, poi scoppiammo a ridere.
«Oh, ecco! Così
va meglio! Quindi, ragazzi miei, dateci dentro, eh? La vita è
una sola!» strepitò ancora.
«Piantala!»
farfugliai, sentendomi in imbarazzo.
«Che impertinente! Che
ti importa di noi?» lo punzecchiò Bryah, e in quel
momento riconobbi un'ombra della donna esuberante e allegra che avevo
conosciuto e per cui avevo perso la testa.
«Era solo un
consiglio!»
«Grazie, ci penseremo
su» lo rimbeccò ancora lei, scoccandogli un sorriso
malizioso. «Ma in cambio, tieniti per te i dettagli scabrosi
delle tue avventure con Lakyta. Ci stai?»
«Che ragazzi pudici
che siete! Ah, non esiste più la gioventù di una
volta...» Cornia scosse il capo, fingendosi indignato.
Mi ricordava molto Daron
quando si comportava così. A quel punto pensai al chitarrista:
chissà come sarebbe andato il viaggio, chissà quando
avrebbe scoperto dell'esistenza di una sua potenziale figlia, chissà
come avrebbe reagito...
E Shavo? Ce l'avrebbe fatta
a riprendersi dalla separazione con Leah? Mi sentivo in pensiero per
i miei amici, ma soprattutto in colpa nei confronti di Serj che
avrebbe dovuto badare a entrambi durante la mia assenza.
Fortunatamente aveva accanto a sé quella santa donna di
Angela, lei che riusciva sempre a fare da mamma un po' a tutti noi e
riusciva quasi sempre a badare a Daron e Shavo senza troppi problemi.
«Ciao Cornia» lo
liquidò Bryah quando le doppie porte dell'ascensore si
schiusero e noi giungemmo finalmente al terzo piano.
«Sì, ciao
ragazzi...» replicò in un borbottio il barista,
improvvisamente assorto in chissà quali pensieri.
Mentre procedevo verso la
mia stanza, aggrottai la fronte. «Quel ragazzo è strano»
riflettei.
«Un po', ma è
simpatico. Mi è sembrato di vedere... Daron.»
Mi voltai verso di lei. «Ho
pensato la stessa cosa.»
Bryah si strinse nelle
spalle. «Ma Daron è insuperabile» concluse con
sottile ironia.
«Esatto.» Aprii
la porta e le feci cenno di entrare. «Accomodati, questa ora è
anche camera tua.»
Lei parve leggermente
indecisa, come se all'improvviso si sentisse timida all'idea di
occupare quello spazio in cui, fino a quel momento, si era sentita
un'ospite.
La afferrai delicatamente
per mano e la guidai all'interno, per poi richiudermi la porta alle
spalle.
Io e lei ci fissammo per un
lungo istante.
«Eccoci.» Bryah
sospirò. «John, non so da dove cominciare.»
«In che senso?»
«La mia vita ora è
finita. Non so se voglio rimanere in Giamaica, non so se questo luogo
mi appartiene ancora» mi spiegò in tono malinconico.
«Non devi lasciare che
questa storia di Benton ti rovini tutto. Hai un lavoro che ti piace
al Kingston Times e sicuramente hai delle persone a cui vuoi
bene, qui. Inoltre, hai conosciuto nuovi amici durante questi ultimi
tempi, no? Tu e Alwan avete scoperto di avere qualcosa in comune, e
poi...» Non sapevo se continuare, mi resi conto di non sapere
molte cose su Bryah. «La tua famiglia ti mancherebbe molto.»
Lei mi rivolse un sorriso
dolce e triste. «Su questo hai ragione. I miei genitori
adottivi sarebbero l'unica ragione per cui potrei decidere di
restare, ma non vorrei mai crear loro dei guai. Non gli ho detto
niente di Benton, non devono saperlo.»
«Capisco»
farfugliai, abbassando lo sguardo sulle mie scarpe. Improvvisamente
gli anfibi neri che indossavo erano diventati così
interessanti...
«John?» mi
richiamò lei. «Non ti avevo detto che sono stata
adottata, vero?»
Scossi appena il capo.
«Non è un
trauma per me. L'ho sempre saputo e sono felice così. Non mi è
mai importato conoscere i miei veri genitori. Per me è come se
loro non esistessero, perché da mamma e papà ho
ricevuto tutto l'amore possibile.» Sospirò. «Spesso
i genitori biologici non riescono ad amare i loro figli. Mi ritengo
fortunata.»
Quanto ero d'accordo con
lei. Il rapporto che avevo con mio padre, da sempre, era stato
tormentato e colmo di ben poco affetto. C'erano sempre state
incomprensioni tra noi, lui avrebbe voluto qualcosa di diverso da me,
era rimasto deluso in più occasioni e non aveva cambiato idea
quando si era reso conto che suo figlio era diventato un batterista
piuttosto conosciuto.
«Allora non puoi
andartene» le dissi, sollevando nuovamente lo sguardo su di
lei.
La trovai a pochi centimetri
da me, indecisa se toccarmi oppure no. Probabilmente era rimasta
impressionata dalla mia reazione.
«Non lo so, John.»
Lascio cadere le braccia lungo i fianchi. «Sono decisioni
difficili.»
«Non devi per forza
prendere adesso una simile decisione. Prenditi un po' di tempo per
te, per riflettere...»
Bryah annuì. «Hai
ragione.» Mi regalò un sorriso luminoso. «Pensi
che un viaggio a Los Angeles potrebbe aiutarmi?»
Spiazzato da quella domanda,
rimasi immobile e incapace di rispondere, mentre avvertivo un piccolo
sorriso accarezzarmi le labbra.
«Suppongo che quel
sorriso valga più di un milione di parole, vero?» mi
chiese, accostandosi finalmente a me. Mi abbracciò con forza e
nascose il viso sul mio petto.
«Indovinato. Sei
sicura di voler venire?» le domandai, ricambiando la sua
stretta.
«Sicurissima.
Dopodiché, sono certa che saprò decidere cosa fare
della mia vita. Mi farà bene cambiare aria, come a voi ragazzi
ha fatto bene venire qui. Almeno spero.»
Posai due dita sotto il suo
mento e la costrinsi a sollevare il viso. «Per me è
stato molto utile» confermai, per poi catturare le sue labbra
in un delicato bacio.
La prima volta in cui
avevamo fatto l'amore, tutto era stato frenetico e quasi
incontrollabile. I nostri gesti si erano rivelati nervosi e
impetuosi, tant'era stata la foga con cui avevamo desiderato di
spogliarci e unirci l'uno all'altra in quella stretta fatale.
Stavolta, invece, tutto si
rivelò più lento e cadenzato, guidato dalla
consapevolezza che pian piano era nata e cresciuta tra noi. Evitai di
soffermarmi troppo sui lividi che ancora cospargevano il corpo di
Bryah, sapevo che non le avrebbe fatto piacere.
A un certo punto, mentre
facevo per sfilarle i leggeri pantaloni in cotone verde militare, lei
si irrigidì impercettibilmente. Forse sperava che non me ne
accorgessi, ma io notai subito quel cambiamento e mi arrestai di
colpo.
«Che fai, John?»
sospirò, carezzandomi con estrema lentezza il torace.
«Se non te la senti,
me lo devi dire» mormorai, cercando il suo sguardo.
«No, ma che dici?»
«Ho notato come hai
reagito. Ehi, non mentirmi.»
Bryah sospirò appena
e mi attirò a sé, stringendomi con forza. «Non
mento. Voglio stare con te, adesso. Capito? È vero ciò
che mi hai detto prima, sai?»
La baciai sul collo,
lentamente, poi sussurrai: «Cosa?».
«Lui non può
rovinarmi la vita, non lascerò che mi rovini tutto questo.
John, adesso smetti di pensare e di preoccuparti. Continua a
spogliarmi.»
Sorrisi sulla sua pelle
calda e bruna, beandomi ancora del suo sapore delizioso e
indescrivibile.
Finii di spogliarla in pochi
istanti, poi la tenni stretta con fare protettivo, mentre la baciavo
sulla fronte e la facevo mia.
Fu bello prendersi cura
l'uno dell'altra senza fretta, senza paura, senza ripensamenti. Fu
appagante, davvero, ancor più perfetto della prima volta.
In quel caso fui davvero
convinto che non avrei più abbandonato l'angolino di cielo in
cui Bryah mi aveva spinto. L'avrei aiutata in ogni modo a ricostruire
la sua vita, e se lei lo avesse voluto, le sarei stato accanto e
l'avrei sostenuta ogni volta che avesse rischiato di cadere.
Sentivo di doverlo e volerlo
fare, mi sentivo legato a quella donna, lei che si era affidata a me
fin dal primo istante, colei in cui ero riuscito a riporre la mia
fiducia fin da subito, colei che mi aveva rubato il cuore ancor prima
che me ne rendessi conto.
«Sì, John,
verrò a Los Angeles. Magari, mentre penso a cosa fare, potrei
cominciare a lavorare sul libro che voglio scrivere sui System. Che
ne pensi?» mi propose Bryah, stiracchiandosi tra le mie
braccia.
Io, che stavo gradualmente
riprendendo a respirare regolarmente, ridacchiai. «Davvero vuoi
scrivere quel libro? Non guadagnerai un centesimo. La mia band non è
poi così amata...»
Lei sbadigliò e si
rannicchiò contro il mio petto. «Non dire sciocchezze.
Siete fantastici e avete un sacco di fan in tutto il mondo. Diventerò
ricca sfondata e allora mi prenderò gioco di te.»
«Affare fatto»
mi arresi, massaggiandomi un occhio. Avevo decisamente bisogno di
dormire, ma ancora non avevamo cenato.
«Sei stanco?»
«Abbastanza. Ma ho
anche fame.»
«Anch'io. E se
ordinassimo qualcosa e la mangiassimo qui?» propose Bryah,
quasi mi leggesse nel pensiero.
«Ci sto»
affermai.
Proprio mentre mi allungavo
verso il comodino per ordinare la nostra cena, il mio cellulare prese
a squillare con i soliti tempi dispari di batteria. Sbuffai e mi resi
conto che mi sarei dovuto alzare, poiché lo avevo abbandonato
nella tasca dei jeans che giacevano a qualche metro dal letto.
«Ordino io la cena, tu
rispondi al cellulare. Potrebbe essere importante.»
Mi alzai controvoglia e
ripescai il telefono. Proprio quando stavo per rispondere,
apprendendo che si trattava di Serj, la chiamata cessò.
Imprecai e, dirigendomi in bagno, ricomposi il numero e aspettai che
il cantante mi rispondesse.
«John!» esordì
lui. Era agitato, insolitamente agitato.
«Cosa succede?»
gli chiesi subito.
«Un disastro»
sospirò. «Un fottuto disastro.»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 47 *** This Shit ***
ReggaeFamily
This
Shit
[Daron]
Occhi
scuri, dal taglio vagamente orientale, grandi ed espressivi. Labbra
sottili, carnagione pallida e un naso a patata leggermente grande per
il suo viso magro. Era carina.
La
spinsi via, con noncuranza, e scrollai il capo con indignazione. Mi
stava prendendo per il culo, era palese.
Shavo
era pallido in viso e stringeva convulsamente l'impugnatura del suo
bagaglio. Spostava freneticamente lo sguardo da me alla ragazzina e
sembrava molto preoccupato e agitato per quella situazione. In
un'altra occasione sarebbe scoppiato a ridere e avrebbe buttato lì
qualche battuta a proposito della solita fan esaltata che cercava
soltanto un modo per entrare nella mia vita, ma stavolta sembrava non
avere nessuna intenzione di scherzare o ironizzare sull'accaduto.
Perché?
«Shavo, che succede?»
gli chiesi, lanciandogli un'occhiataccia. «Che ti prende?»
«Perché mi
tratti così?» intervenne la ragazza, facendo nuovamente
un passo verso di me.
Istintivamente,
indietreggiai. «Ti prego di andartene e lasciarci in pace. Non
abbiamo tempo per chiacchierare, sarà per un'altra volta»
le dissi freddamente.
«Ma io non voglio
andarmene! Devi ascoltarmi, io sono tua figlia!» protestò
ancora lei.
Stavo seriamente cominciando
ad alterarmi. Sbuffai e la fissai con sguardo tagliente. «Si
può sapere cos'è questa storia? Con quale coraggio ti
presenti in aeroporto e ti inventi di essere mia figlia? Io non ho
mai messo incinta nessuno, è chiaro?»
«Be', a quanto pare
non è così.»
«Senti, ragazzina, io
sono buono e caro, ma non farmi incazzare.»
Shavo si schiarì la
gola. «Daron, forse...» cominciò.
Mi voltai verso di lui e lo
squadrai con disapprovazione. «Ti ci metti anche tu adesso?!
C'è qualcosa che sai e non mi hai detto?»
Il bassista sospirò e
abbassò il capo con fare mesto. «Dico solo che dovresti
dare ascolto a questa ragazza.»
Stavo seriamente per
scagliarmi contro di lui e riempirlo di pugni, quando una voce
familiare giunse alle mie orecchie.
Intravidi Serj alle spalle
di Shavo che, trafelato, si avvicinava a noi a grandi falcate.
«Ragazzi!» ci salutò, tremendamente allarmato.
«Serj! Ti avevamo
detto che avremmo preso un taxi, perché sei venuto fin qui?»
lo apostrofai, ancora più confuso di quanto già non
fossi.
Il cantante posò gli
occhi sulla ragazza che diceva di essere mia figlia e si lasciò
sfuggire un sospiro. «Ti avevo detto di non farlo. Hai rovinato
tutto.»
Questo era troppo.
«Che cazzo significa?!
Perché tutti conoscete questa tizia e io non so niente di
tutta questa fottuta messinscena? Guardate che se è uno
scherzo, non mi fa ridere e non mi sto divertendo. Quindi, per
favore, piantatela di sparare cazzate. O avete deciso di farmi girare
i coglioni più del solito?» abbaiai infuriato.
«Daron» cercò
di tranquillizzarmi Serj. «Non sono cazzate. O meglio, lei
sostiene di essere tua figlia e mi ha mostrato un documento che lo
attesta. Se se l'è inventato o ne ha fabbricato uno falso,
be', noi non possiamo dimostrarlo.» Il cantante sospirò.
«Volevamo aspettare che voi rientraste per dirtelo con calma,
ma lei ha affrettato le cose.»
Mi stavano decisamente
prendendo per il culo, ne ero sempre più convinto. Non tanto
perché le loro espressioni tradissero un qualche scherzo in
atto, ma perché ritenevo che fosse matematicamente impossibile
che quella ragazzina fosse sangue del mio sangue.
Alzai gli occhi al cielo e
imprecai ad alta voce. «Andate tutti al diavolo, io me ne vado.
Sono stanco di sentire queste fesserie. Vi saluto.»
Senza attendere che mi
rispondessero, mi avviai velocemente verso l'uscita del LAX, travolto
da un flusso infinito di folla e di pensieri che combattevano per
emergere e distruggere le mie certezze.
Quando ero quasi riuscito a
oltrepassare le porte che mi avrebbero condotto all'esterno, i miei
dubbi ebbero la meglio e cominciai a chiedermi quale delle donne con
cui ero stato potesse essere la madre di quella ragazzina. Riflettei
sul fatto che non potesse avere più di diciotto anni, e
ripensai a ciò che avevo combinato diciotto anni prima. Dovevo
avere più o meno vent'anni, quindi i fatti si sarebbero dovuti
svolgere nel 1995.
Scossi il capo. Forse ero
stato davvero scapestrato all'epoca, nel periodo in cui le prime
radici dei System prendevano forma con il nome Soil. Però
nessuna donna era mai venuta a rivendicare dei soldi o dei diritti su
un figlio con me concepito. Se tutto questo fosse stato vero, perché
la madre di quella ragazza non si era fatta avanti prima? Avrebbe
potuto ottenere un sacco di soldi da me, visto e considerato che con
il tempo ero diventato un chitarrista abbastanza famoso e avevo
guadagnato un bel gruzzoletto grazie alla mia musica.
C'era qualcosa che non
quadrava.
Mentre una leggera fitta
alla tempia preannunciava l'imminente comparsa di una forte
emicrania, mi misi in fila per prendere un taxi. Volevo soltanto
tornarmene a casa e non pensare più a niente. Doveva trattarsi
di uno scherzo di cattivo gusto, sì, decisamente.
«Perché non mi
dai una possibilità? Ti racconterò ogni cosa.»
Sobbalzai e mi voltai verso
destra. La ragazzina mi aveva raggiunto e mi rivolgeva un debole
sorriso.
«Ti ho detto di
lasciarmi in pace» tagliai corto.
«So che ti stai
ponendo mille dubbi e domande. Si vede dalla tua faccia. Ma se mi
ascolti, prometto di chiarire ogni cosa. Davvero.»
La squadrai con diffidenza,
ma qualcosa di remoto mi suggeriva che forse avrei potuto almeno
darle l'opportunità di parlare e spiegare le sue ragioni.
Dopodiché, nessuno mi avrebbe impedito di scacciarla e
intimarle di non avvicinarsi mai più a me.
«Sali in taxi. Ho fame
e voglio andare a mangiare qualcosa. Vieni con me, mi dici cosa vuoi
e poi sparisci. Intesi?» le concessi in tono piatto.
«Okay, affare fatto.»
Avevo evitato di passare a
casa a lasciare i miei bagagli, non volevo che quella tizia sapesse
dove abitavo. Così, mi ero portato appresso tutti i miei averi
e sembravo davvero un venditore ambulante: una grossa valigia piena
di vestiti ed effetti personali, la mia chitarra classica chiusa in
una custodia nera e imbottita, uno zaino con all'interno il
cellulare, i soldi, le carte di credito e tutto ciò di cui
potevo necessitare con urgenza, e in più una giacca che mi
penzolava dal braccio destro. Ero stato indeciso se metterla in
valigia o indossarla, poiché ogni tanto una brezza piuttosto
fresca si infiltrava tra i miei vestiti leggeri e mi faceva
rabbrividire.
Ero tornato a Los Angeles e
avevo riconosciuto subito la mia città e il suo clima.
Avevo indicato al tassista
di portarci in un locale rustico e tranquillo situato in una traversa
di Sunset Boulevard; non frequentavo spesso quel posto, ma
sostanzialmente mi piaceva e faceva sì che la ragazzina non
venisse a conoscenza di quali erano i luoghi abituali da me
frequentati. Volevo evitare il più possibile che si
infiltrasse nella mia vita contro la mia volontà.
«È carino qui»
commentò lei, guardandosi attorno. Osservandola meglio, notai
che indossava degli abiti semplici ma alla moda. Non era
appariscente, però aveva gusto e uno stile tutto suo.
«Non male»
borbottai.
«Grazie per avermi
dato questa possibilità. Comunque, mi chiamo Layla»
proseguì.
«Layla» ripetei
lentamente.
«Sì. Daron,
ascolta... ti starai chiedendo chi è mia madre e come sono
arrivata fino a te.»
Annuii, mentre avvistavo un
cameriere che si avvicinava con i nostri panini fumanti posati su un
vassoio. Io avevo anche ordinato una birra e Layla un succo di
frutta.
«Lei si chiama
Dolores» mi spiegò Layla. «Forse non ti dice
niente il suo nome. Mi ha raccontato che vi frequentavate in un
locale, quasi vent'anni fa. Tu andavi a suonare lì, ci andavi
spesso. Era una bettola che dava la possibilità alle band
emergenti di farsi conoscere. Mamma mi raccontava che non vi pagavano
quasi mai, ma voi non smettevate di frequentare quel posto perché
avevate fiducia nel futuro e nel fatto che qualcuno prima o poi vi
avrebbe scoperto.» Layla sorrise con leggera amarezza. «Glielo
dicevi sempre.»
«Non conosco nessuna
Dolores» le feci notare in tono leggermente seccato.
«Si faceva chiamare
Dolly. Era una cameriera.»
Qualcosa scattò
dentro di me, un ricordo forse, qualcosa di sbiadito ma familiare.
«All'epoca era
fidanzata con il gestore del locale, Chuck. Ma poi un giorno ha perso
la testa per te e...»
Smisi di ascoltarla,
improvvisamente immerso in un mare di ricordi e immagini sfocate. Non
avevo ancora toccato né la birra né il panino.
«Lei
è Dolly, la mia donna.»
«Ehi
Chuckie, tienila d'occhio.»
«Daron...
è un bel nome, il tuo.»
«Grazie,
Dolly.»
«Vorrei
lasciare Chuck, credimi. Ma lui mi dà da lavorare, non navigo
nell'oro. Ho bisogno di soldi. Però con te sto meglio.»
«Certo,
capisco. Non importa.»
«Fare
sesso con te è come fare un viaggio sulla luna.»
«Lo
so, me lo dicono in molte.»
«Stronzo.
Ti amo.»
«Non
dovresti, Dolly.»
«Non
verrò più al locale. È meglio che smettiamo di
frequentarci, se Chuckie ti scopre, perderai il lavoro.»
«Forse
hai ragione tu...»
«Daron?»
Mi riscossi e mi ritrovai a
fissare una Dolly leggermente più magra e meno formosa, ma
altrettanto bella. I suoi tratti leggermente orientali le conferivano
un tocco ancora più affascinante e particolare.
Ma
non poteva essere mia figlia.
«Questo non significa
che tu sia mia figlia» le feci notare. «Sicuramente è
Chuckie tuo padre.»
«Mamma è sicura
che sia tu, invece» affermò ancora Layla, addentando il
suo panino.
Io guardai il mio. Mi era
passata la fame, sinceramente sentivo lo stomaco chiuso e in
subbuglio.
«Non può
dimostrarlo, e finché non potrà, io me ne lavo le
mani.» Mi alzai e cominciai a raccattare le mie cose. Salutai
qualcuno che conoscevo con un cenno del capo e mi voltai per l'ultima
volta verso Layla. «Pago io ciò che hai ordinato, non
preoccuparti. Be', salutami tanto Dolly e dille di prendersi cura di
sé.»
Pagai il conto e mi diressi
velocemente verso l'uscita, deciso a dimenticare al più presto
quella storia assurda.
«Esigo delle
spiegazioni» abbaiai, non appena Serj ebbe aperto la porta di
casa sua.
Piombai all'interno con
furia e mi guardai intorno, per poi dirigermi a passo di marcia verso
il salotto. All'interno trovai Shavo e Angela, i quali mi rivolsero
occhiate preoccupate e colme d'ansia.
Nell'aria si diffondeva un
buonissimo odore di cibo, simbolo che i padroni di casa stavano
preparando qualcosa da mangiare. Era molto tardi: me ne resi conto
adocchiando un orologio da parete che segnava quasi le due e mezza
del mattino.
Il cantante ci raggiunse e
rimase sulla soglia, osservandomi. Mi ero piazzato al centro del
salotto e fumavo di rabbia.
«Pensavo che fossi
andato a casa a dormire» commentò Serj.
«Ho mangiato qualcosa
con quella ragazza e ho ascoltato ciò che aveva da dirmi. Ma
no, non sono andato a casa a dormire e non ho nemmeno mangiato. Sono
incazzato e non ho voglia di scherzare. Adesso voi mi raccontate
tutto e la piantate di raccontare balle.»
Il cantante sospirò e
andò ad accomodarsi su una poltrona. «Certo. Siediti e
ascoltami, allora.»
Rimasi in piedi e lo fissai
in attesa che parlasse.
«Mentre eravate in
vacanza, quella ragazza mi ha raggiunto al campo da basket. Non
chiedermi come abbia fatto a trovarmi, non lo so. Sta di fatto che si
è presentata da me dicendomi di essere tua figlia. Io ho
reagito in malo modo e le ho intimato di andarsene. Ha continuato a
insistere e, quando ho minacciato di chiamare qualcuno che la
allontanasse e le impedisse di tornare, lei ha portato fuori una
storia assurda. Ha detto di avere un documento che attestava la tua
paternità nei suoi confronti. A quel punto sono rimasto
confuso e, dopo averla invitata ancora una volta a lasciarmi in pace,
lei mi ha dato ascolto e se n'è andata. Speravo che quello
rimanesse un fatto isolato, ma ne ho comunque parlato con John e
Shavo per chiedere loro consiglio e informarli di quanto stava
succedendo qui in città.»
«Quindi John e questo
stronzo lo sapevano e non mi hanno detto niente?!» sbottai,
additando Shavo.
«Ehi!» protestò
lui. «Vedi di moderare i termini. Tutti noi abbiamo agito nel
tuo interesse e volevamo evitare di aggravare la tua situazione. Ti
sei forse dimenticato il motivo principale per cui siamo partiti in
Giamaica?»
«Non cominciate a
litigare, per favore» intervenne Angela per la prima volta.
La fissai per qualche
istante, poi posai nuovamente lo sguardo su Serj. «E allora?
Avete deciso che la cosa non mi riguardava?»
«Abbiamo pensato che
fosse meglio dirtelo una volta terminata la vacanza, anche perché
a primo impatto la cosa non era poi così grave. Solo che poi
lei è tornata.»
«Si chiama Layla»
lo informai.
«Ah. Sì, Layla
è tornata a trovarmi al campo e si è portata appresso
un foglio, il certificato di cui mi aveva parlato durante il nostro
primo incontro. A quel punto sono rimasto davvero sbalordito e ho
temuto che questa storia potesse crearti dei problemi. Poco dopo, mi
ha dato un ultimatum: ha detto che sapeva dov'eri, ma voleva sapere
quando saresti tornato. Se non le avessi assicurato una data, ha
minacciato che avrebbe messo in mezzo degli avvocati e ti avrebbe
trascinato a Los Angeles a qualunque costo e al più presto»
mi spiegò Serj con rammarico.
«Cosa?! È
questo il motivo per cui avete affrettato così tanto la
partenza e per cui John e Shavo hanno prenotato il viaggio di rientro
con tanta fretta e senza consultarmi?» chiesi con fare
retorico. La risposta era ovvia, ma mi sembrava tutto troppo assurdo
per essere reale.
Il bassista annuì e
si alzò, per poi avvicinarsi a me e posarmi una mano sulla
spalla. «Fratello, mi dispiace, ma è andata così.
Volevamo dirtelo con calma una volta rientrati, prendendo il discorso
nella dovuta maniera, ma poi la ragazza si è presentata in
aeroporto e nessuno di noi poteva prevederlo.»
Mi scansai da lui e lo
fissai in cagnesco. «Ma davvero?»
Serj si schiarì la
gola e notai che Angela gli stringeva una mano, come se volesse
dargli coraggio e sicurezza in un momento per lui difficile.
«In realtà io
sapevo che Layla stava andando in aeroporto» confessò il
cantante.
«Come sarebbe a dire?»
esplosi.
«Che cosa?!»
sbottò il bassista confuso.
«Non lo sapevo con
certezza, diciamo che l'ho sospettato. Quando è tornata per la
terza volta al campo e io le ho comunicato il giorno in cui sareste
rientrati, ha detto che non vedeva l'ora e che avrebbe voluto
accogliere suo padre nel migliore dei modi. Io lì per lì
non ci ho fatto caso, ma ci ho ripensato quando era già troppo
tardi e ho capito che probabilmente si sarebbe piazzata in aeroporto
ad aspettarti.»
«E non ce l'hai
detto?» protestai ancora.
«Ho provato a
chiamarvi, ma avevate il cellulare spento per via del volo. Poi ho
chiamato John e l'ho detto a lui, e anche lui mi ha detto che in
effetti era plausibile la mia idea. E purtroppo si è
avverata.» Scosse il capo. «Mi dispiace.»
Mi portai le mani alle
tempie e le premetti con forza. Le pulsazioni erano aumentate
vertiginosamente e mi sentivo stanco e spossato. «È
tutto un fottuto casino» farfugliai.
«Sì, Daron.
Cosa pensi di fare adesso?» fece Shavo, tornando a stravaccarsi
sul divano.
«Non faccio niente.
Layla non mi ha mostrato nessun foglio e secondo me non può
dimostrare che sono suo padre.»
Riassunsi ai presenti la
storia di Dolly e della sua relazione con Chuck. Shavo e Serj
ricordavano quel periodo e anche a loro era vagamente familiare la
mia situazione con quella cameriera.
«Oltretutto siamo
sempre stati attenti, quindi escludo che lei possa essere rimasta
incinta di me» conclusi risoluto.
«Daron, però...
e se Layla fosse tua figlia?» azzardò Angela in tono
dolce e cauto.
Scambiai un'occhiata con lei
e sospirai.
«Non penso lo sia,
quindi non prendo neanche in considerazione questa eventualità.»
Il mal di testa stava
prendendo il sopravvento e ormai stava finendo di annientare le mie
ultime forze. Tornai verso l'ingresso, dove avevo abbandonato i miei
bagagli. Frugai nello zaino e portai fuori il materiale per
costruirmi una delle mie solite sigarette a base di erba.
Raggiunsi il terrazzo
anteriore dell'appartamento di Serj e mi chiusi fuori per fumare in
santa pace e prendere aria. La brezza fresca della notte mi aiutò
subito a schiarirmi le idee, ma l'emicrania sarebbe stata difficile
da combattere. Sapevo che avrei dovuto dormire per almeno dieci ore
di fila.
Nonostante tutto, la vacanza
era stata stancante, anzi, sfiancante per me. Non avevo dormito
granché, mi ero cacciato nei guai e le cose erano andate
tendenzialmente male sotto tutti i punti di vista.
E
pensare che ero partito per distrarmi e divertirmi.
Un ricordo positivo colpì
la mia mente e mi distrasse momentaneamente dai cupi pensieri che
sempre più mi avvolgevano.
«Cosa
ci fai qui? Sto lavorando, Daron.»
«Ti
sei già dimenticata di ciò che è successo ieri
sera?»
«No,
io no. Tu avevi bevuto un po' troppo, è strano che te lo
ricordi.»
«Ti
ho detto che reggo bene l'alcol. Mi hai sottovalutato.»
«Non
mi hai detto cosa ci fai qui.»
«Devo
seriamente rinfrescarti la memoria, Miriam?»
«Su
cosa?»
«In
poche parole, sono tornato per baciarti di nuovo.»
Sorrisi, malinconico.
L'avevo baciata e lei non mi aveva respinto, proprio come la sera
prima.
Ma tutto era durato poco.
Miriam mi aveva detto che era stato un piacere conoscermi, ci eravamo
salutati e io avevo deciso di custodire quei pochi e preziosi attimi
come un tesoro.
Ma anche in quel caso, tutto
era finito e io ero piombato nuovamente in me stesso e nella mia
realtà piena di casini.
Sospirai appena e finii di
fumare con calma. Pensai a Leah e alla sua esuberanza. Certo che in
quel momento mi avrebbe fatto piacere che lei fosse lì a
tirarmi su di morale.
Rientrai in casa e sentii i
miei amici chiacchierare sommessamente in salotto, mentre mangiavano
qualcosa. Io ancora non avevo fame, tutta quella storia mi aveva
scombussolato in maniera esponenziale.
Raggiunse nuovamente il mio
zaino e lo aprii in cerca del cellulare. L'iPhone nuovo di zecca che
Bryah mi aveva regalato era stipato in una tasca. Lo estrassi e
dovetti armeggiarci parecchio prima di riuscire anche solo a
rimuovere la schermata di blocco. Quell'aggeggio era ancora un
mistero per me, specialmente perché io e la tecnologia eravamo
acerrimi nemici.
Riuscii, miracolosamente, a
scrivere un SMS e a spedirlo correttamente.
Ehi,
come te la passi? Qui è tutto un casino, mi servirebbe proprio
un po' di sano divertimento... be', se per caso vuoi raccontarmi
qualcosa, puoi chiamarmi. Quando hai tempo. Ciao amica!
Leah probabilmente stava
dormendo, ma non importava.
Solo per il fatto di averle
scritto mi sentivo meglio.
Shavo si affacciò
dalla porta del salotto. «Tutto bene?»
«Sì, certo.»
«Vuoi mangiare
qualcosa?»
«No» rifiutai,
afferrando i miei bagagli. «Me ne torno a casa.»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 48 *** Special ***
ReggaeFamily
Special
[Serj]
Mi
presi la testa tra le mani. La situazione era molto critica, e io non
sapevo bene come affrontarla.
«A
quanto pare quella ragazza non mentiva» commentò Angela,
mostrando un'espressione preoccupata e ansiosa. Lei era fatta così,
riusciva sempre a preoccuparsi per tutti come fossero suoi figli.
Sorrisi
tra me e me. Mia moglie aveva un nome degno della sua persona,
l'avevo sempre pensato.
Da
quando i ragazzi erano tornati dalla Giamaica e io ero piombato al
LAX tentando di evitare il peggio, erano trascorsi un paio di giorni
e non avevo più avuto notizie di Daron. La cosa mi gettava nel
panico più totale, non tanto perché fossimo abituati a
vederci e sentirci tutti i giorni, ma perché non mi aveva
risposto neanche una volta al telefono. Ero indeciso se correre a
casa sua, ma conoscendolo, la cosa non sarebbe servita più di
tanto.
Mia
moglie era stesa sul letto accanto a me e teneva un libro tra le
mani, ma aveva smesso di prestarvi attenzione quando l'avevo
raggiunta. Avevamo cominciato a esaminare la situazione di Daron e di
sua figlia, dopo che avevo provato per l'ennesima volta a
telefonargli senza alcun successo.
«Serj,
per favore... devi cercare di stare tranquillo» mi suggerì
Angela, posandomi una mano sul braccio.
Mi
girai su un fianco e studiai nella penombra il suo viso contratto
dalla preoccupazione, che tuttavia non perdeva la sua bellezza.
Angela
sospirò brevemente. «Anche io sono in ansia per quel
ragazzo, ma noi non possiamo fare niente per lui. Dev'essere lui a
sbrigarsela, è grande e deve prendere da sé le sue
decisioni.»
Aveva
ragione da vendere, ma per me Daron era come un fratello e non potevo
evitare di sentirmi in pena per lui. Stavolta gli era capitato
qualcosa che lui non aveva cercato, si era ritrovato dentro un guaio
in cui non si era cacciato da sé, come spesso capitava.
«Lo
so» ammisi, allungando una mano per carezzarle piano il viso.
«Sai sempre qual è la cosa giusta da fare, Angie.»
«Anche
tu, è che certe volte non te ne rendi conto» mi disse,
poi posò il libro sul comodino e mi si accoccolò
accanto.
La
strinsi a me e mi sentii subito meglio. Avere una persona come lei al
proprio fianco era un toccasana per chiunque, ma erano in pochi ad
avere la mia stessa fortuna. Angela era speciale, era la mia ancora
di salvezza in qualsiasi situazione, sempre pronta a ricordarmi che
io potevo contare non solo su di lei, ma anche su me stesso, sulla
mia mente pensante e sui sentimenti che sapevo provare.
Angela
ridacchiò. «È buffo immaginare che Daron possa
fare il padre» commentò, posando una mano sul mio petto.
«Hai
ragione, è per questo che sono preoccupato» scherzai,
baciando lievemente i suoi capelli.
«Siamo
cattivi con lui!»
«Se
non mette la testa a posto, non possiamo pensarla diversamente»
ribattei.
Ci
fissammo per un po', occhi negli occhi. Era bello starsene così,
ad ascoltare il silenzio che ci avvolgeva, intervallato soltanto dai
rumori lontani e ovattati della città.
Angela
mi baciò con trasporto e immediatamente capimmo che stavamo
condividendo lo stesso desiderio.
«Basta
parlare di Daron» mormorai, mentre cominciavo a spogliarla con
calma e dedizione.
Il
sole filtrava dalla grande vetrata del soggiorno. Ero intento a
dipingere, non lo facevo da tempo, troppo per i miei gusti. Studiavo
concentrato i colori a mia disposizione; volevo scegliere qualcosa di
allegro, volevo creare il dipinto perfetto. Lo avevo promesso ad
Angela già da un po', dal momento che lei aveva espresso il
desiderio di appendere una mia opera in salotto. La cosa mi
lusingava, ma non mi ritenevo tanto meritevole di una tale scelta.
«Potremmo
acquistare qualcosa di Clint, sarebbe perfetto» avevo cercato
di convincerla, ma lei era scoppiata a ridere e aveva asserito di
preferire me a quegli artisti tanto famosi.
«Almeno
avremo qualcosa di originale e unica al mondo» mi aveva
spiegato con orgoglio.
E
io avevo promesso di fare del mio meglio, anche se l'avevo avvertita
che avrebbe dovuto attendere che l'ispirazione facesse capolino in
me.
Quella
mattina, dopo che lei era uscita per delle commissioni, avevo deciso
di provarci. I miei occhi, tuttavia, si posavano soltanto su tonalità
scure e cupe, cercando l'opposto di ciò che avrei realmente
voluto fare.
Il
campanello trillò e mi fece sobbalzare mentre mi accingevo a
sistemare un vinile di Neil Young sulla piastra del giradischi.
Che
Angela fosse già tornata a casa? Ne dubitavo, anche perché
era solita aprire con le sue chiavi. Non avrebbe mai suonato il
campanello.
Mi
avviai al citofono e schiacciai il pulsante che avrebbe attivato il
microfono. «Sì?» risposi con diffidenza.
Recentemente qualche fan aveva scovato il mio appartamento a Los
Angeles e provava ad accamparsi sotto il mio palazzo in cerca di foto
e autografi.
«Hai
appena visto un fantasma, Tankian?» rispose una voce acuta,
espandendosi dal piccolo altoparlante del citofono.
«Daron?
Cosa ci fai qui?» sbottai, mentre tiravo un lungo sospiro di
sollievo interiore.
«Se
mi apri e mi porti una ciotola di croccantini, te lo dico»
scherzò senza troppo entusiasmo.
Schiacciai
il pulsante di apertura del portone del palazzo e mi affacciai sul
pianerottolo in attesa che salisse.
Il
chitarrista apparve poco dopo, fuoriuscendo dall'ascensore. Mi
rivolse un breve sorriso e si infilò in casa mia, per poi
guardarsi attorno in cerca di qualcosa a me ignoto.
«Be'?»
fece, lanciandomi un'occhiataccia.
«Che
vuoi?»
«Dove
sono i miei croccantini?»
Gli
mollai una spallata e richiusi la porta. «Vai in soggiorno,
stavo per mettere sul piatto Harvest.»
Daron si addentrò nel
mio appartamento, ma si bloccò quando notò che avevo
sistemato una tela sul cavalletto. «Ecco perché stavi
per ascoltare Neil Young» commentò, per poi stravaccarsi
sul divano.
Tornai al giradischi e
sistemai la puntina al suo posto, poi la magia ebbe inizio e il
fantastico fruscio esplose nell'aria, seguito dalla sottile voce e la
magistrale chitarra di Neil Young.
«Adoro tutto questo»
sospirò il chitarrista.
«Come stai?» gli
chiesi, sedendomi nuovamente di fronte alla tela ancora bianca.
«Me la cavo, amico.
Non c'è male.»
«Devo crederti?»
Daron fece spallucce e mi
fissò. «Perché non dovresti?» ribatté
in tono piatto.
«Perché
ti conosco» gli feci notare. Ed era vero, il mio amico stava
chiaramente cercando di nascondermi qualcosa, ma se era venuto a casa
mia c'era sicuramente un
motivo ben preciso.
«Mi offri qualcosa?»
cambiò bruscamente argomento lui, frugandosi in tasca. Ne
estrasse il suo solito materiale per costruire le sue amate sigarette
a base di erba e prese ad armeggiarci con noncuranza.
«Non ho granché
a disposizione, Angela è andata a fare la spesa» gli
dissi. Mi alzai e mi diressi in cucina; dopo aver aperto il
frigorifero, gridai: «Sei fortunato, ho qui una birra».
«Non mi va»
rifiutò Daron.
«Allora ti dovrai
accontentare del succo d'ananas.»
«Perfetto.»
Portai fuori la bottiglia di
plastica dal frigo e la posai sulla penisola. Raccattai due bicchieri
e li riempii, per poi tornare in soggiorno. Trovai Daron seduto al
mio posto di fronte alla tela e gli lanciai un'occhiata stranita.
«Cosa pensavi di
dipingere?» volle sapere, dopo aver sorseggiato dal suo
bicchiere.
Io, in piedi accanto a lui,
fissavo il contenuto del mio senza neanche vederlo, incantato in me
stesso.
«Facciamo che te lo
dico solo se tu prima mi racconti perché sei qui» buttai
lì, per poi decidermi ad assaggiare il succo d'ananas. Era
freddo e dissetante, perfetto per le temperature già tiepide
di fine maggio.
«Sei furbo.»
«Tu no, non mi
freghi.»
Ci scambiammo un'occhiata e
Daron sospirò.
«Ci ho pensato molto,
e...» cominciò, per poi arrestarsi di colpo.
Probabilmente stava cercando le parole più adatte per
spiegarsi. «Ho deciso che potrei anche rivederla.»
«Chi?» chiesi.
«Dolly.»
Sussultai leggermente e
posai il bicchiere sul tavolino posto di fronte al divano. «Perché?»
«Perché... non
so, forse... non lo so, Serj. Così.»
Fissai il mio amico. Ero
basito, non mi sarei mai aspettato una decisione simile da parte sua.
Avrei creduto che non volesse più saperne di tutta quella
faccenda, ma forse mi ero sbagliato sul suo conto. Per la prima volta
mi resi conto che forse Daron aveva riflettuto davvero sulla sua vita
e il suo futuro, ed era giunto alla conclusione che avrebbe dovuto
prendersi le sue responsabilità con quella che appariva
chiaramente come sua figlia.
«Forse è la
scelta giusta» concordai cautamente, temendo che potesse di
colpo cambiare idea.
«Solo che non so come
trovarla. Layla ha seguito alla lettera il mio ordine ed è
sparita. Certo, non sa dove abito, ma avrebbe saputo come trovarmi.»
«In effetti è
vero» riflettei. «Potresti aspettare.»
«Potrei, ma odio
doverlo fare. Che cazzo di casino è mai questo?» sbottò
all'improvviso, stringendo con più forza il suo bicchiere.
Stavo
per ribattere, quando un trillo scomposto e polifonico perforò
l'aria, sovrastando addirittura il povero
Neil Young che cantava Old Man.
«Che roba è?»
mi lasciai sfuggire, non riconoscendo in quel suono fastidioso la
suoneria del mio cellulare.
«È il mio
aggeggio infernale» borbottò Daron, portando fuori un
enorme iPhone dalla tasca dei jeans neri che indossava. Lo fissò
spaesato e lo sfiorò goffamente, temendo di combinare qualche
casino.
«Dovrei aver
risposto... credo...» farfugliò, fissando lo schermo.
Poi se lo portò all'orecchio. «Ho risposto? Leah, mi
senti?»
Dovetti trattenermi per non
ridergli in faccia, così ne approfittai per recuperare il mio
bicchiere e mi spostai. Presi a sghignazzare tra me e me, quel
ragazzo era davvero una frana con la tecnologia, specialmente da
quando aveva ricevuto in regalo quel cellulare. Per quanto
utilizzasse poco e niente apparecchi tecnologici in generale, con il
suo vecchio telefono se la cavava abbastanza bene, mentre con
l'iPhone le cose non sembravano essere per niente facili per lui.
«Quale
messaggio? No, non faccio il finto tono... ah, quello! Mah, niente di
che, solo... lo so, lo so, grazie, signorina Moonshift, non sapevo
lei fosse diventata la mia psicologa... okay, va bene, la smetto,
però adesso sono con Serj, non posso stare al telefono,
possiamo sentirci dopo? Sì, te lo giuro, ti chiamo! No, non
sparisco, che palle che sei! Ma non ti basta importunare Shavo?!»
A questo punto Daron scoppiò a ridere. «Sapevo che
te la saresti presa, che permalosa!» Lo vidi arrossire. «Mmh,
sì... mi hai fatto ridere, è vero... grazie. Okay,
Leah, ti devo lasciare. A più tardi, e giuro che ti richiamo.
Sì, vai al diavolo anche tu.»
Attesi che il chitarrista
armeggiasse con il cellulare per chiudere la chiamata e riporlo in
tasca, prima di parlare. «Vi volete bene, eh?»
«Da morire» fece
lui con sarcasmo.
«Anche se fingi, non
mi freghi, te l'ho già detto. Tieni a quella ragazza, si nota
tantissimo.»
Lui sgranò gli occhi.
«Non pensare male!» si affrettò a mettere le mani
avanti.
«Macché, non ho
pensato a niente. Dico solo che tieni molto a lei, alla sua amicizia.
So bene che è impegnata.»
«Devi conoscerla»
si arrese, addolcendo improvvisamente il tono della sua voce. «Leah
è speciale.»
Io e Daron trascorremmo un
po' di tempo a chiacchierare del più e del meno, evitando di
tornare sull'argomento Layla.
Quando lui se ne andò,
mi rimisi a sedere di fronte alla tela ed ebbi un'improvvisa
illuminazione. Volevo creare qualcosa che ricordasse le persone
speciali, persone come mia moglie, i miei amici e quella ragazza che
aveva rubato il cuore a Shavo e non solo.
Mentre aspettavo che la
prima stesura della mia opera asciugasse, ricevetti una telefonata da
John.
«Giamaicano, come te
la passi?» esordii, portandomi il telefono all'orecchio.
«Ehi! Qui tutto okay,
ma a breve non sarò più giamaicano.»
Aggrottai la fronte. «Cosa
significa?»
«Ti ho chiamato per
questo. Ho appena prenotato il viaggio di ritorno.»
Mi ritrovai a sorridere.
«Sul serio?» Poi mi venne in mente la situazione in cui
John si trovava e mi rabbuiai. «E lascerai Bryah laggiù?»
gli domandai.
«No, lei verrà
con me» mi spiegò John con ovvietà, come se
quell'informazione fosse scontata.
Stavolta strabuzzai gli
occhi. «Come? Davvero avete deciso di... andrete a vivere
insieme? Non ti pare avventato?» mi allarmai subito.
«Con calma, Serj, stai
tranquillo. Bryah ha qualche soldo da parte, non vuole assolutamente
trasferirsi da me. Vuole soltanto andarsene di qui e ricominciare da
capo.»
Nel frattempo, Angela
rientrò in casa e si affacciò in soggiorno. Trovandomi
al telefono, si limitò a farmi un cenno con la mano e si
diresse in cucina a posare la spesa.
«Okay, capisco. Vuole
cercarsi un lavoro qui?»
John si schiarì la
voce, poi rispose: «Più o meno. Per il momento ha la
possibilità di mantenersi per un periodo, poi si vedrà.»
Speravo
davvero che le cose andassero bene per John e per quella donna.
Nonostante si conoscessero da poco, avevano dovuto affrontare una
delle situazioni più difficili e dolorose. Il loro legame era
divenuto fin da subito molto stretto, ma non sapevo se questo fosse
un bene o un male per loro.
«Okay, ho capito.»
«Vorrei fare una
sorpresa a Daron e Shavo. Che ne dici se organizzassimo una cena da
voi? Ovviamente prenderemo una pizza, non voglio assolutamente che tu
e Angie vi mettiate ai fornelli...» mi propose il batterista.
«Si può fare,
in questo modo potremo conoscere Bryah» accettai di buon grado.
«Esatto. Il nostro
volo sarà dopodomani, dovremo imbarcarci all'alba, ma non
importa. Per cena saremo in città.»
Concordammo gli ultimi
dettagli e poi ci salutammo.
Quando misi giù,
Angela mi raggiunse. «Era Johnny?» chiese.
«Sì.» Le
raccontai ciò che il batterista mi aveva riferito e le spiegai
della sorpresa per Daron e Shavo.
«Ottima idea, sono
curiosa di conoscere la famosa Bryah» esultò mia moglie,
poi si accostò a me e osservò la tela dipinta. «Oh»
si lasciò sfuggire.
La abbracciai da dietro e la
feci sedere sulle mie ginocchia, avvolgendole la vita con entrambe le
braccia. «Ti piace? È solo il primo abbozzo, ma...»
«Già
me lo immagino appeso sopra il divano... è stupendo.»
Angela afferrò una delle mie mani e se la
portò alle labbra per baciarla. «Ha già un
titolo?»
«Si
chiama Special»
risposi subito, sicuro della mia scelta.
«E a cosa si ispira?»
indagò ancora mia moglie, esaminando l'esplosione di arancioni
e rossi che formavano l'astrattismo della mia opera.
«Alle persone
speciali. Ci ho pensato e ho capito che ognuno di noi è
circondato da persone speciali, deve soltanto avere il coraggio di
cercarle e tenerle strette. Per me le persone speciali sono poche, ma
davvero preziose. Tu lo sei, Angie. I ragazzi lo sono. E... oggi è
venuto Daron a trovarmi.»
«Davvero?»
«Sì. Mi ha
detto che ci ha pensato e vuole rivedere Dolly, la madre di sua
figlia.»
Angela trattenne il fiato,
poi espirò bruscamente. «Wow.»
«Già, non me
l'aspettavo, proprio come te. Mentre era qui l'ha chiamato Leah e io
mi sono accorto che i due sono molto legati, parlo di amicizia
ovviamente. Gliel'ho fatto notare e lui mi ha detto qualcosa che mi
ha ispirato per dipingere.»
Angela ridacchiò.
«Cioè?»
«Ha detto che dovrei
conoscerla perché è speciale» raccontai. «Ha
usato un tono così dolce e sincero che mi ha scaldato il
cuore.»
Mia
moglie si voltò di lato e cercò il mio sguardo,
circondandomi il collo con le braccia. «Sei un uomo romantico,
signor Tankian, anche se ti costa ammetterlo»
mi punzecchiò, chinandosi per baciarmi sulle labbra.
«Solo quando è
necessario» sussurrai, per poi approfondire il nostro contatto.
La amavo più che mai ed ero sempre più orgoglioso e
felice di averla al mio fianco.
Cari
lettori, ma ciao! ^^
Probabilmente
ieri vi siete chiesti perché non ho aggiornato, ma a tutto c'è
un perché; ho deciso, infatti, di aggiornare oggi perché
una certa Soul mi ha fatto notare che oggi la mia long sui System
compie un anno!!!! Ebbene sì, esattamente un anno fa, mettevo
su EFP il primo capitolo di questo folle progetto; ero spaventata,
non sapevo cosa ne sarebbe uscito fuori, non sapevo se avrei trovato
dei lettori e se la mia storia avrebbe preso la forma che desideravo.
Quindi,
quale modo migliore per festeggiare, se non ringraziando tutti voi e
regalandovi questo capitolo per il compleanno di Do you ever
believe you were stuck in the sky?
Ne
approfitto per dedicare questo capitolo a Selene, visto che il pov è
stato di Serj, e io so quando lei lo adori :D
È
stata un po' una coincidenza avere questo capitolo da pubblicare
proprio oggi; lo avevo già scritto, e avevo anche già
deciso il titolo, quindi diciamo che il destino ha voluto che per un
giorno speciale ci voleva un capitolo speciale, dal pov speciale e
dal titolo speciale :3
Sto
vaneggiando, scusate :P
Eheheheheh,
un pov Serj, dicevo... non ve lo aspettavate, eh? Sì, lo so,
lo so... sarebbe dovuto toccare a Leah, ma avevo proprio voglia e
bisogno di inserire un punto di vista del nostro amato cantante; era
utile per spiegare certe cose della trama, per mettere su ciò
che saranno gli avvenimenti dei prossimi capitoli e per creare una
certa atmosfera...
Ma
non posso spiegarvi altro, per ora. E tranquilli: non ho dimenticato
la mitica Leah! Come vedete, anche qui è apparsa, anche se
indirettamente. Che ne pensate del suo legame con Daron? A me questi
due come amici piacciono troppo, si nota? :D
Allora
John tornerà dalla Giamaica con Bryah, e ora anche Serj e
Angela lo sanno...
Mentre
attendo i vostri commenti, vi spiego un paio di cose sul vinile
citato durante il capitolo: si tratta, appunto, di Harvest
di Neil Young, datato 1972; il brano Old Man
è veramente molto bello e suggestivo, vi lascio qui il link
per ascoltarlo e farvi
un'idea di che musica ho scelto per Serj che dipinge **:
https://www.youtube.com/watch?v=An2a1_Do_fc
Che
ve ne pare? :3
Grazie,
come sempre, per il supporto e per essere ancora qui a recensire
questa storia folle, siete unici **
Alla
prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 49 *** On the road again! ***
ReggaeFamily
On
the road again!
[Leah]
«Sono
sicura, Daron.»
«Non
è che...»
«No,
ti dico che va bene così. Ho già organizzato tutto. Tu,
piuttosto, parlami della questione che ti affligge» cambiai
argomento, fissando assorta la valigia aperta posizionata sopra il
mio letto.
«Non
è che mi affligga, solo... mi sento strano» borbottò
il mio amico.
«Insomma,
parla! Se ti tieni tutto dentro, non starai meglio» lo
rimproverai, avviandomi verso l'armadio.
«Potremmo
parlarne quando ci vediamo?»
«Intanto
non siamo insieme e quindi puoi accennarmi qual è il problema.
Non fare il furbo, Malakian» ribattei in tono secco.
«Che
palle, perché siamo diventati amici noi due? Ancora non mi
sono chiare le dinamiche...»
Sorrisi.
«Perché quei cretini dei tuoi colleghi di band non sanno
prendersi cura di te» scherzai, mentre aprivo le ante del
mobile di fronte a me.
«Leah,
credo di avere una figlia. Ma tu questo lo sai già, vero?»
Ridacchiai.
«Me l'hanno accennato, in effetti.»
«Ero
l'unico a non sapere un cazzo finché non sono atterrato a Los
Angeles, eh?» sbottò con rabbia.
«Non
fare lo stupido. Tutti hanno atteso il momento giusto per il tuo
bene» cercai di tranquillizzarlo. «Ma questo non c'entra
niente adesso! Okay, hai una figlia, cioè... dovresti avere
una figlia, e...?»
«La
ragazza mi ha raccontato una storia piuttosto verosimile. Si chiama
Layla ed è la figlia di una mia vecchia amante, una donna che
frequentavo quando ancora non ero conosciuto... si chiama Dolly,
Dolores.»
Aggrottai
la fronte. «E tu le credi? Chi ti dice che questa Dolores non
abbia concepito la marmocchia con qualcun altro in quello stesso
periodo?» gli suggerii, piuttosto scettica sulla questione.
Tutto questo puzzava terribilmente.
«Non
posso saperlo, ma i modi per scoprirlo esistono. Intanto, stavo
pensando di...» Daron si interruppe e sospirò. «Di
rivedere Dolly, ma non so come rintracciarla. Layla è
scomparsa da quando le ho detto di non farsi più vedere.»
«Obbediente,
eh? Secondo me tornerà all'attacco, vedrai. Non disperare, ha
fatto un casino per arrivare fino a te, e tu ora credi davvero che si
fermerà soltanto perché gliel'hai detto? Non essere
ingenuo, chitarrista» lo avvertii, immaginando che quella
ragazza stesse tramando qualcosa per fregarlo. Forse ero troppo
cinica e sospettosa, ma questa faccenda mi piaceva sempre meno.
«Vedremo...
non posso fare niente per ora, è Layla ad avermi in pugno»
ammise in tono colmo di amarezza e rassegnazione.
«Quando
arrivo alla stazione, mi vieni a prendere? Ci sarà un'amica
con me, non potremo parlare subito di questa faccenda, ma ti prometto
fin da ora che troverò del tempo per te. Voglio cercare di
aiutarti, sul serio» gli dissi, prendendo a rovistare
nell'armadio.
Erano
trascorsi solo pochi giorni da quando ero tornata a casa, ma già
avevo deciso di ripartire. Stavolta non avrei dovuto sottostare ai
tempi di quella piattola di Alan Moonshift e della sua amante del
momento. Avrei preso un treno e fatto una sorpresa a Shavo e a tutti
quanti, servendomi dell'aiuto di Daron.
Samantha
sarebbe venuta con me, non si era lasciata scappare l'occasione per
fare un viaggetto in mia compagnia.
«Daron?»
richiamai il mio amico.
«Dimmi.»
«Hai
prenotato quel bed & breakfast come mi avevi detto?»
indagai.
«Certo,
non preoccuparti» mi rassicurò.
«Okay,
perfetto. Finisco di fare i bagagli e buttò Sam giù dal
letto, ci sentiamo più tardi. Grazie ancora e sappi che puoi
chiamarmi e cercarmi quando vuoi, quando hai bisogno di sfogarti...
insomma, lo sai» conclusi.
«Certo,
certo... ehm, grazie, Leah...» farfugliò.
Non
vedevo l'ora di riabbracciarlo.
Io
e Samantha eravamo salite da poco su un treno ad alta velocità
che ci avrebbe portato dritte a Los Angeles, quando il mio cellulare
squillò. Era Shavo.
«Ehi!»
esordii.
«Ciao.
Che combini?» mi chiese in tono dolce.
Fissai
Samantha e lei mi rivolse un occhiolino. «Sono sul bus... sto
andando all'università» mentii. «E tu?»
Shavo
sospirò. «Volevo andare in studio a provare, anche se
John non c'è, ma Daron è irraggiungibile e Serj ha da
fare. Pensavo di andarci da solo, ma non so. Rimarrò a casa,
posso suonare anche qui.»
Se
avesse saputo che in circa due ore sarei stata a Los Angeles,
sicuramente sarebbe impazzito. Ma non potevo dirglielo, anche se
morivo dalla voglia di farlo.
Era
quasi mezzogiorno e il sole filtrava dai finestrini sporchi del
treno. Mi sentivo elettrizzata, era come se non vedessi i ragazzi da
una vita e la loro mancanza si stava facendo insopportabile.
Samantha
tossicchiò, indicando con un gesto un controllore che aveva
appena fatto il suo ingresso nel vagone in cui ci trovavamo.
«Shavarsh,
devo andare, sono arrivata alla mia fermata» mormorai,
rovistando in borsa alla ricerca del mio biglietto.
«Va
bene.»
«Ti
chiamo più tardi, ragazzaccio. Ciao e suona tanto» lo
salutai, per poi interrompere la conversazione.
Poco
dopo, il bassista mi inviò un messaggio su WhatsApp.
Volevo
solo dirti che stasera Serj ci ha invitato a cena da lui, se non
rispondo è per questo motivo. Mi manchi terribilmente, Leah...
Sei
sempre il solito sdolcinato, Shavarsh. Anche tu mi manchi, lo sai...
ci vedremo presto!
Se
avesse saputo la verità...
Il
sole pomeridiano picchiava sulla nostra testa quando io e Samantha
scendemmo dal treno. La stazione era caotica e impercorribile, fummo
costrette ad aspettare che la folla sciamasse via prima di poterci
dirigere verso l'uscita.
«Sai
che non ero mai stata a Los Angeles?» disse Samantha,
trascinandosi dietro il suo trolley.
«Vedi,
sono o non sono una vera amica? Ti faccio vivere nuove esperienze
ogni giorno!» scherzai, camminando accanto a lei.
«Solo
perché stai con quel tizio strano dal nome strano»
borbottò lei, fissando spudoratamente il fondoschiena di una
bionda alta e formosa.
«Sei
disgustosa, smettila di fissare la gente!» ridacchiai, dandole
di gomito. «E non dire cazzate, Shavo non è un tipo
strano.»
«Se
sta con te, lo è di sicuro» mi apostrofò ancora
la mia amica, pizzicandomi un braccio.
«Taci,
strega! Oh, ma Daron dove si è cacciato?» sbuffai,
afferrando il cellulare. Prima che il chitarrista potesse
rispondermi, dovetti attendere parecchio e temetti che non riuscisse
ad armeggiare con quel dannato iPhone che Bryah gli aveva regalato.
«Ehi!
Sono imbottigliato nel traffico, cazzo» strillò lui.
«E
io che mi lamento di Vegas... okay, ti aspettiamo proprio di fronte
all'ingresso principale.»
«D'accordo,
ciao.»
Guardai
Samantha. «Secondo me Daron ci proverà con te»
buttai lì, giusto per prenderla un po' in giro.
La
ragazza storse il naso e sbuffò sonoramente. «Dovrò
mettere le cose in chiaro fin da subito» affermò.
«Non
essere cattiva con lui, è carino» la punzecchiai.
«Non
ha un paio di tette prosperose, quindi non è carino»
ribatté con disgusto, socchiudendo appena i suoi occhi scuri.
Era davvero bella, molti uomini avevano provato a conquistarla, ed
erano rimasti tremendamente delusi nell'apprendere che una ragazza
così formosa ed esuberante non avesse alcun interesse per
l'universo maschile.
Risi.
«Sei sempre la solita.»
Samantha
mi si affiancò e appoggiò la schiena al muro in cemento
che si stagliava alle nostre spalle. Si accese una sigaretta e
osservò l'intenso traffico del pomeriggio losangelino.
«Possibile che tu non abbia conosciuto nessuna lesbica in
Giamaica? Cazzo, è frustrante!» sbottò.
«No,
solo due ragazzi gay. E non sapevo che lo fossero, nonostante li
conoscessi già da tempo» riflettei, sentendomi ancora
stranita dalla bravura con cui Alwan e Dayanara avevano nascosto la
loro relazione anche ai miei attentissimi occhi.
«Che
sfiga» bofonchiò Samantha, e proprio in quel momento
avvistai Daron. Aveva parcheggiato il suo SUV nero in doppia fila e
rischiava di beccarsi una multa per divieto di sosta e intralcio del
traffico.
Afferrai
la mia amica per un polso e mi affrettai a raggiungerlo. Volevo
evitare di procurargli guai fin da subito, anche perché il
chitarrista era talmente bravo a cacciarsi nei casini più
bizzarri, che non volevo certo declassarlo.
Daron
scese dall'auto per aiutarci a caricare i bagagli nel cofano e io
volai ad abbracciarlo.
«Amico,
come stai?» esordii, stringendolo forte.
Lui
ricambiò, anche se inizialmente notai una certa titubanza nel
suo atteggiamento. Non si aspettava un tale slancio da parte mia,
probabilmente.
«Mi
stai strozzando, quindi non credo di stare molto bene...»
farfugliò.
Lo
lasciai andare e gli presentai velocemente Samantha; come avevo
immaginato, lui eseguì una rapida ma accurata radiografia
della mia amica e si esibì in un sorrisetto sghembo di cui non
doveva essersi reso conto.
Salimmo
a bordo della sua auto e Daron si infiltrò nel traffico,
cercando di non farsi tamponare da un autobus di passaggio.
«Ehi,
vuoi farci morire?!» gridò Samantha, spalmandosi sul
sedile posteriore.
«Bellezza,
calmati. Non permetterò che ti succeda qualcosa di male»
cercò di tranquillizzarla Daron, utilizzando un tono
malizioso.
«Mettiamo
le cose in chiaro, maschione: a me piacciono le ragazze. Quindi puoi
evitare di perdere tempo e di lanciarmi occhiate languide, con me non
attacca» tagliò corto Samantha, per poi immergersi in un
silenzio che non ammetteva repliche.
Io,
seduta accanto a Daron sul sedile del passeggero, lo fissai e notai
la sua espressione mutare: i suoi lineamenti si indurirono e un
leggero rossore comparve sulle sue guance. Se avesse avuto la barba,
probabilmente non me ne sarei accorta, ma la sua pelle era
chiaramente visibile. Non potei scorgere il suo sguardo, dal momento
che i suoi occhi erano coperti da un paio di occhiali da sole, ma
immaginavo che fosse rimasto basito da quella scoperta.
«Sam,
sei tremenda» dissi alla mia amica, poi presi ad armeggiare con
l'autoradio di Daron. «Che c'è qui dentro?» gli
domandai.
«Non
ho messo su un disco, se vuoi puoi cercare qualcosa alla radio»
spiegò il chitarrista, concentrandosi completamente sulla
strada.
Trascorse
qualche minuto prima che riuscissi a capire come funzionava
quell'aggeggio, ma poi ci riuscii e cominciai a fare zapping in
radio.
Trovai
Girls just wanna have fun di
Cindy Lauper e la lasciai.
«Ottima scelta!»
approvò Daron, agitandosi istintivamente sul sedile nel
tentativo di ballare.
«Adoro questo pezzo!»
strepitò Samantha, affacciandosi tra i due sedili anteriori e
posandomi una mano sulla spalla.
«Almeno su questo
andiamo d'accordo» commentò il chitarrista.
«A quanto pare... ma
non illuderti, pidocchio.»
E così i due presero
a battibeccare. Sospettavo che sarebbero andati veramente d'accordo,
specialmente perché tra loro le cose erano state chiare,
schiette e sincere fin dal principio. C'erano le basi per un bel
rapporto.
Mi concentrai sul caos
cittadino fuori dal finestrino e mi ritrovai a riflettere sul mio
imminente incontro con Shavo. Mi mancava tantissimo, ma non mi ero
minimamente preparata a rivederlo e a stare nuovamente con lui. Erano
trascorsi davvero pochissimi giorni da quando ci eravamo lasciati, ma
a me sembrava essere trascorsa un'eternità. Era buffo rendersi
conto di quanto il tempo potesse dilatarsi e sembrare a volte lento e
a volte troppo rapido nel suo scorrere incessante.
«Ci accompagni al bed
& breakfast?» domandai a Daron.
«No, ti porto dal
bassista. Sei qui per questo, no?»
Sgranai gli occhi. «Subito?»
chiesi.
«Certo. Che fai,
diventi improvvisamente timida?» mi punzecchiò,
ridacchiando.
«Stronzo. Non me
l'avevi detto!»
Annuì. «L'ho
fatto apposta, amica.»
«Lo vedi che sei un
pidocchio? Questo è un colpo basso, non si tratta così
una donna» borbottò Samantha, picchiettandogli sulla
spalla.
«Ma sta' zitta, tu che
ne sai di come un uomo deve trattare una donna?» ribatté
lui.
«Lo so più di
te!»
«Neanche per idea!»
Alzai gli occhi al cielo e
intervenni: «Fate silenzio, mando un messaggio vocale a Shavo.
Guai a voi se ridete».
Aprii la conversazione con
il bassista su WhatsApp e premetti sul comando per registrare.
«Shavarsh, sono stanchissima e ho ancora una lezione
all'università. A te come va?»
Inviai e poi comunicai ai
ragazzi che avevo fatto.
Daron e Samantha scoppiarono
a ridere fragorosamente.
«Lo freghi come vuoi»
commentò il chitarrista.
«Vedi che ha un nome
strano?!» mi fece notare la mia amica.
Scossi il capo. Questi due
erano incorreggibili, non mi stavano affatto aiutando a rilassarmi.
Daron fu costretto a
spingermi fuori dall'ascensore quando raggiungemmo il piano in cui
era situato l'appartamento di Shavo.
Il chitarrista, per far sì
che potessi entrare nello stabile senza che il mio ragazzo lo
sapesse, aveva suonato a qualche altro campanello finché
qualcuno non ci aveva fatto la grazia di aprire.
Sul pianerottolo, trovammo
una ragazza piuttosto bizzarra che, piazzata di fronte alla porta di
un appartamento, se ne stava inginocchiata a frugare all'interno di
una grossa borsa dipinta con tutti i colori dell'arcobaleno.
Lei, non appena si accorse
di noi, sollevò il capo e ci squadrò con aria scettica.
«Siete voi che avete suonato a tutti i campanelli dello
stabile?» gracchiò irritata.
La osservai meglio. I suoi
capelli erano tinti di blu elettrico, il viso cosparso di trucco e
reso pallido da un'eccessiva dose di fondotinta, gli occhi verdi e
taglienti leggermente socchiusi e puntati su di noi.
Samantha, al mio fianco, si
irrigidì leggermente.
Mentre Daron si prendeva le
sue responsabilità, ammettendo di essere stato lui l'artefice
di tutto quel disastro, la mia amica sussurrò al mio orecchio:
«Sento profumo di lesbica».
Alzai gli occhi al cielo e
avanzai verso la tizia dai capelli blu. «Sono qui per fare una
sorpresa a Shavo, non sa che sono qui» spiegai.
«Oh,
il pelatone! Giusto, dovrebbe essere rinchiuso in casa come al
solito. Anzi, devo chiedergli di darmi una mano. Gli ho fatto una
copia delle mie chiavi di casa perché spesso le perdo, sai
com'è...» ammiccò quella, sorridendo e parendo
un po' più cordiale rispetto al primo istante in cui ci aveva
notato.
«Ma pensa te»
bofonchiai, per nulla interessata a tutte quelle chiacchiere.
«Bussiamo e facciamola
finita» venne in mio soccorso Daron, trascinandomi di fronte
alla porta situata alla sinistra dell'ascensore. «Ora te la
devi cavare da sola, amica» mi disse, facendosi tremendamente
serio.
Sospirai e, tremando
leggermente, chiusi la mano a pugno e picchiettai con le nocche sul
legno scuro e pesante.
Calò il silenzio
attorno a me, e notai che Daron, Samantha e la tizia dai capelli blu
si erano ritirati in un angolo per concedermi un po' di privacy. La
cosa, anziché tranquillizzarmi, mi agitò ulteriormente.
E non riuscivo a capire perché mi sentissi così in
ansia; si trattava soltanto di Shavo, cosa mi stava succedendo?
Non feci in tempo a trovare
nessuna risposta alle mie infinite domande, poiché la porta si
aprì e lui apparve in controluce. Aveva uno sguardo stralunato
e malinconico, che mutò non appena mi riconobbe. Divenne colmo
di incredulità. Istintivamente si stropicciò gli occhi
come se temesse di scacciare un'allucinazione.
Volai tra le sue braccia e
lo travolsi letteralmente, sentendo ogni ansia e tensione sciogliersi
e abbandonare il mio corpo. Barcollammo pericolosamente, tenendoci
stretti l'uno all'altra.
«Cazzo,
ma cosa...» farfugliava in continuazione Shavo,
percorrendo i miei capelli e il mio viso con le mani.
«Sono qui»
sussurrai, poi mi misi in punta di piedi e lo baciai sulle labbra,
sentendo subito le sensazioni familiari che mi erano visceralmente
mancate. Non riuscivo ancora a capire come avessi potuto trascorrere
delle giornate intere senza poterlo toccare.
Qualcuno, alle nostre
spalle, si schiarì la gola e noi ci voltammo di scatto,
spaventati. Mi ero completamente dimenticata che non eravamo soli.
«Scusate,
piccioncini... Shavy,
sono rimasta chiusa fuori. Mi dai le chiavi?» Era stata la
tizia dai capelli blu a parlare e il bassista impiegò qualche
istante per registrare ciò che lei gli aveva appena chiesto.
Dopodiché, senza
lasciarmi andare, si allungò dietro la porta e sfilò un
mazzo di chiavi da un chiodino piantato sulla parete. Tese il braccio
destro verso la sua vicina di casa e sospirò.
«Grazie, Shavy, sei un
angelo. Sono contenta che tu abbia trovato un'amichetta con cui
spassartela» cinguettò la tizia, strappandogli le chiavi
dalle mani.
«Abby, non essere
sgradevole come sempre. Sparisci» la scacciò Shavo,
evidentemente annoiato dall'atteggiamento di quella stramba ragazza.
Lanciai
un'occhiata a Daron e Samantha che ridacchiavano tra loro, ma poi
Shavo mi trascinò dentro casa e chiuse la porta senza
lasciarmi il tempo di
protestare.
«Ma Shavarsh, i
ragazzi...»
Lui mi baciò con
impeto, spingendomi contro il legno della porta. «Non me ne
frega niente» mormorò nel tono più sensuale che
gli avessi mai sentito.
I suoi occhi erano
infuocati, lucidi, accesi dello stesso desiderio che stava scavando
rovente all'interno e all'esterno del mio corpo.
Eravamo nuovamente insieme e
io non riuscivo a crederci, mi sembrava tutto surreale.
Non mi guardai attorno, non
ebbi il tempo di esaminare l'appartamento in cui mi trovavo, riuscivo
soltanto a scorgere il viso di Shavo nella penombra, a sentire le sue
mani che mi stringevano e che gettavano via i miei vestiti.
Ci ritrovammo nella sua
stanza, non sapevo neanche come ci fossimo arrivati.
Mi fece stendere sul letto e
si arrampicò su di me, baciandomi ovunque. Non riuscivo quasi
a respirare per l'intensità di ciò che stavo provando,
non riuscivo quasi a capire dove terminasse il mio corpo e
cominciasse il suo.
Lo sentivo parte di me,
parte di ogni mia fibra. Era rovente su di me, dentro di me; e io mi
aggrappavo con forza alle sue spalle, rotolai con lui tra le lenzuola
e divenni sua come mai lo ero stata da quando ci eravamo conosciuti.
Chi
diceva che fare l'amore dopo essere stati lontani per un po' era
qualcosa di esplosivo e indescrivibilmente bello, aveva capito tutto
della vita.
Dovetti soffocare un gemito
strozzato quando raggiunsi l'apice del piacere e mi inarcai contro il
suo corpo magro e tonico; in un istante di vaga lucidità avevo
quasi paura che i nostri amici potessero sentirci, dal pianerottolo.
Non sapevo neanche se fossero ancora là fuori.
Mentre cercavo di riprendere
fiato e stringevo con forza Shavo tra le braccia, mi venne in mente
che avevo lasciato Samantha in balia di Daron. Certo, lei sapeva
cavarsela, sapeva certamente tenergli testa, ma non mi ero comportata
nel modo migliore nei confronti della mia amica.
«Leah, ehi.»
Shavo mi accarezzavo il viso e mi guardava negli occhi. Dovevo avere
un'espressione assorta. «Va tutto bene?» mi chiese con
una punta d'ansia nella voce.
«Ma certo che va tutto
bene» risposi con sicurezza, posandogli un bacio sulla spalla.
«Pensavo soltanto al fatto che ho abbandonato Sam con quel
cretino di Daron» gli dissi.
Shavo scoppiò a
ridere e mi tenne ancora più stretta. «Ti ho detto che
non me ne frega niente» ripeté, poi tornò a
baciarmi teneramente sulle labbra. «Io non ti lascio più»
aggiunse con estrema dolcezza.
«Ti ricordo che devi
andare a cena da Serj» lo punzecchiai, accarezzandogli la
schiena.
«Cazzo.»
Mi fissò. «Dobbiamo
andare a cena da Serj» mi corresse.
«Che
cosa? Non posso piombare lì all'improvviso, lui
neanche mi conosce» protestai.
«Lo avviso io.»
Shavo lanciò un'occhiata alla sveglia posta sul comodino e
sbuffò. «Okay, corro a chiamarlo. Se vuoi, puoi usare la
doccia.» Mi baciò sulla fronte e scese dal letto,
cercando qualcosa da mettersi addosso.
Sapevo di dovermi alzare, di
dovermi rivestire e di dover uscire sul pianerottolo a prendere la
mia valigia, ma attualmente non ne avevo voglia.
Era così bello stare
tra le lenzuola a fissare il soffitto, mentre il profumo penetrante
di Shavo mi invadeva le narici e scavava in ogni parte di me.
Adesso stavo bene, adesso
sapevo di amarlo.
Ehilà!
Eheheheh,
vi aspettavate che Leah corresse a Los Angeles a bordo di un treno
per raggiungere nuovamente Shavo e il resto della comitiva?
Io
aspetto solo i vostri commenti e non dico nient'altro, sono qui solo
per linkarvi la canzone che Leah, Daron e Samantha ascoltano in
macchina. Adoro questo pezzo, adoro l'energia e la voce di Cindy
Lauper, e voi?
Sentite
un po':
https://www.youtube.com/watch?v=PIb6AZdTr-A
Grazie
davvero per essere ancora qui a leggere le mie follie, spero che la
storia continui a piacervi ^^
Alla
prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 50 *** Reunion ***
ReggaeFamily
Reunion
[Shavo]
Quando
io e Leah uscimmo dal mio appartamento, non trovammo nessuno sul
pianerottolo. Sentendo un baccano incredibile provenire da casa di
Abby, ci rendemmo conto che la sua porta era spalancata e ci
lanciammo un'occhiata interrogativa.
«Che
stanno combinando là dentro?» domandò Leah.
Alzai
le spalle e la seguii mentre si dirigeva all'interno
dell'appartamento di fronte al mio, senza preoccuparsi di bussare o
di annunciarsi. Era da un po' che non mettevo piede in quel posto, e
notai con disappunto che la mia dirimpettaia aveva nuovamente
cambiato la maggior parte dei mobili: aveva il vizio di partecipare a
un sacco di aste, durante le quali vendeva e comprava una marea di
cose inutili da lei ritenute meravigliose.
«Che
succede qui?» strillò Leah, raggiungendo la soglia della
cucina. Si bloccò di colpo e io fui costretto ad arrestare i
miei passi di conseguenza.
Sbalordito,
fissai la scena che si presentava di fronte ai miei occhi: Daron,
Abby e l'amica di Leah se ne stavano tutti e tre seduti attorno al
tavolo e sorseggiavano tè bollente, ridendo come tre cretini e
scherzando tra loro come fossero vecchi amici. Era piuttosto
raccapricciante, soprattutto perché le tre personalità
dei presenti facevano a pugni tra loro, stipate in quella minuscola
stanza.
«Ce
l'avete fatta, piccioncini?» cinguettò Abby, lanciandomi
un'occhiata colma di malizia.
«Com'è
che ti chiami?» la apostrofò Leah.
«Abby.»
«Senti,
Abby... evita di fare battutine, okay? Piuttosto, voi che avete
combinato?» tagliò corto la mia ragazza, entrando con
disinvoltura in cucina e a accostandosi alla sua amica. Poi si voltò
nella mia direzione. «Shavarsh, comunque... lei è
Samantha, la mia coinquilina nonché amica» mi spiegò,
posando una mano sulla spalla della ragazza corpulenta che sedeva
scompostamente accanto a Daron.
Lei
si alzò e si avvicinò a me. Inclinò la testa di
lato e mi studiò per un attimo, mentre mi tendeva una mano.
«Io sono Sam, non provare neanche a chiamarmi Samantha,
altrimenti ti strappo quell'assurdo pizzetto che ti ritrovi» mi
si rivolse con impeto.
«È
un piacere anche per me, sono Shavo» risposi con un sorriso.
«Ma
sì, non sei poi così male come pensavo» aggiunse
poi.
«Daron?
Alzati, dai! Serj ci aspetta a cena da lui» stava dicendo
intanto Leah, picchiettando sulla spalla del chitarrista.
«Grazie»
borbottai, non riuscendo bene a interpretare le parole di quella
ragazza.
La
padrona di casa mi fissò. «Ehi, Shavy, stai bene? Hai
una faccia...»
Sbuffai.
«Piantala con quel nomignolo» la rimbeccai.
«E
com'è che questa qui può chiamarti come vuole?»
protestò Abby, additando sfacciatamente Leah.
«Fatti
gli affari tuoi» risposi irritato. Abby sapeva essere veramente
antipatica quando ci si metteva, specialmente quando c'era qualcuno
di fronte a cui potesse mettermi in ridicolo. Non sapevo perché
si comportasse in quel modo, ma non avevo nessuna voglia di starla a
sentire. La mia testa era un vero casino in quel momento: da un lato
ero ancora scombussolato per l'improvvisa comparsa di Leah a casa
mia, ma dall'altro lato non sapevo come comportarmi. Mi era tornato
in mente lo spiacevole avvenimento con Lakyta durante l'ultima sera
in Giamaica, e ancora non avevo trovato il coraggio di dirlo alla mia
ragazza.
«Andiamo»
concluse Daron, abbagliando Abby con un sorriso smagliante. «Ciao,
ragazza strana» la salutò.
«Com'è
che mi sono persa un personaggio come te?» fece lei.
«Non
passo spesso da queste parti» spiegò il mio amico,
fingendosi disinteressato.
«Ehi,
pidocchio! Smettila di provarci anche con i pali» lo rimbeccò
allora Samantha, utilizzando un tono stizzito.
«Poverino,
lascialo fare» lo difese ironicamente Abby. Non sapevo cosa
stesse tramando quella cretina, ma sinceramente dubitavo che avrebbe
mai potuto soddisfare il mio amico. Non andava a sbandierare la cosa
ai quattro venti, ma io sapevo che era lesbica, nonostante a volte si
esibisse in commenti piuttosto volgari nei confronti di esseri di
sesso maschile.
Abby
ci accompagnò alla porta e, prima che noi potessimo andar via,
afferrò Daron per un braccio e lo trattenne, baciandolo sulla
guancia con tanto di schiocco. «Ciao, a presto, bel ragazzo»
gli disse.
Il
chitarrista rimase basito e non aprì bocca finché non
ci trovammo in strada.
«Prendo
la mia macchina» dissi, afferrando la mano di Leah.
«Ho
capito, andate pure. Mi sacrifico e rischio la vita in auto con
questo pidocchio» disse Samantha, mollando una possente
gomitata a Daron.
«Sei
sicura?» si preoccupò Leah.
«Ma
certo, so badare a me stessa. Se muoio in un incidente, tanto è
colpa sua» affermò la corvina con decisione.
«Se
non la smetti di fare la stronza, ti lascio in mezzo all'autostrada e
sono cazzi tuoi» sbottò Daron.
I
due camminarono fianco a fianco, continuando a battibeccare
animatamente; stavano facendo un baccano impossibile, le loro voci
rimbombavano tra gli alti palazzi del quartiere e io ero sempre più
incredulo.
«Che
roba» commentai, conducendo Leah verso il posto auto a me
riservato nel garage del palazzo.
«Hai
visto? Sono già amici per la pelle» scherzò lei,
saltellando accanto a me.
Mentre
mi frugavo in tasca alla ricerca delle chiavi, lei mi afferrò
per la vita e mi attirò a sé, premendo il suo corpo al
mio. Rimasi senza fiato quando mi resi conto che mi stava baciando.
«Ehi»
sussurrai, quando si staccò da me.
«Mi
sei fottutamente mancato. È incredibile» ammise,
tenendomi stretto a sé.
Risi.
«E sarei io a essere sdolcinato?»
Mi
spinse via. «Vaffanculo!»
Una
volta saliti a bordo della mia auto, accesi lo stereo e lasciai
scorrere un album che raccoglieva i maggiori successi dei Cypress
Hill.
Leah
sembrava essere diventata improvvisamente pensierosa; se ne stava
abbandonata sul sedile con un'espressione assorta, fissando un punto
a me ignoto oltre il parabrezza. Forse era concentrata sulla musica,
o forse c'era qualche altro problema che la affliggeva.
Mi
sentii subito in ansia. Avrei voluto dirle di Lakyta, ma avevo paura
che non fosse il momento opportuno. Forse non stava bene, forse aveva
litigato ancora una volta con suo padre o con la sua attuale
matrigna. Forse ce l'aveva con me perché non ero corso a Las
Vegas come le avevo promesso, forse...
«Leah,
va... va tutto bene?» balbettai, avvertendo l'agitazione
strozzarmi la gola.
Lei
si voltò a guardarmi e sorrise. «Stai tranquillo, sto
bene. Stavo solo pensando al fatto che tra poco conoscerò
Serj. Mi sento strana, in ansia...»
«Che
cosa?» Ero senza parole. Era solo questo?
«Stavi già
pensando al peggio, eh? Ti agiti troppo, Shavarsh. E comunque, sì,
è così. Non te la prendere, ma sai bene che lui è
sempre stato il mio preferito della band. E poi... il modo in cui ho
conosciuto voi è stato imprevisto, quest'incontro invece... è
diverso, capisci?» mi spiegò, gesticolando furiosamente.
Fissai la strada e il
traffico di fronte a me. «Ah» feci soltanto.
«Sei arrabbiato?»
mi chiese, posandomi una mano sul braccio.
Non risposi, non sapevo se
avessi un motivo valido per prendermela. Leah mi aveva detto che Serj
era sempre stato il suo preferito dei System, ma stava parlando
soltanto del lato artistico. Dovevo capirlo, nonostante questa
consapevolezza mi mettesse piuttosto a disagio.
«Non essere sciocco.
Sai di cosa sto parlando.»
Certo che lo sapevo, ma la
verità era che stavo cercando il modo per dirle ciò che
dovevo. Stavo impazzendo, detestavo nasconderle qualcosa di così
stupido. Io non avevo fatto niente di male, aveva ragione Daron.
«Scusa, lo so... devo
dirti una cosa.»
Leah si fece mortalmente
seria. «Che succede?»
Sospirai. «Mi sento in
colpa per una cosa che è successa durante l'ultima sera in
Giamaica, quando tu non c'eri più. Ma non credo... Daron dice
che non devo sentirmi in colpa, ma...»
Mi strinse forte il braccio.
«Calmati e parla chiaramente» mi incitò.
«Okay, Leah. Ero
ubriaco, ricordi? Il giorno dopo non ero certo di ciò che
fosse accaduto e mi sentivo strano, ma poi ho parlato con John e
Daron e loro mi hanno detto che Lakyta ci ha provato con me.»
Leah conficcò le
unghie nella mia carne. «Quella puttana» ringhiò,
per poi lasciarmi andare di botto e incrociare le braccia al petto.
«E allora?»
Avrei voluto frenare,
parcheggiare alla meglio e prenderla tra le braccia, tranquillizzarla
e dirle che non doveva preoccuparsi. Deglutii a fatica e mi costrinsi
a restare concentrato sulla guida.
«Il punto è
che... be', le ho vomitato addosso. E basta, questo è tutto»
conclusi con un filo di voce.
Calò
il silenzio, tutto ciò che si udiva all'interno dell'abitacolo
era la voce acuta e ritmata di B-Real mentre si esibiva in una strofa
di Insane in the brain.
Leah espirò
all'improvviso, poi scoppiò fragorosamente a ridere,
spalmandosi scompostamente sul sedile. «Cristo, avrei voluto
assistere a questa scena epica! Shavarsh, sei il mio mito!»
esclamò concitata, battendo le mani sulle sue cosce mentre
sghignazzava.
Le lanciai un'occhiata
stranita. «Sul serio non ce l'hai con me?»
Dopo essersi ripresa, si
sporse per lasciarmi un rapido bacio sulla guancia. «Sei sempre
il solito sciocco.»
«Perché?»
«Perché
sì. Mi spieghi come potrei incazzarmi con te?
È tutta colpa di quella sgualdrina, ma ha avuto ciò che
si meritava.»
Annuii. «Sì, è
vero.»
Leah sbuffò. «Sai
cosa penso? Secondo me, dopo aver scoperto chi sei e dove vivi,
voleva provare a conquistarti per poter volare a Hollywood e coronare
il suo sogno da attrice fallita. È e sarà sempre e
soltanto un'arrampicatrice sociale. Ogni volta che una star di
Hollywood approda allo Skye Sun Hotel, lei cerca di conquistarla e di
lavorarsela con la speranza di poter raggiungere i suoi scopi. È
disgustosa.»
«Prima o poi ci
riuscirà, abbindolerà qualcuno e diventerà
un'attrice famosissima. E allora tu sarai invidiosa di lei»
scherzai, mentre mi fermavo a un semaforo rosso.
«Come no, e andrò
a implorare perdono ai suoi piedi» commentò Leah in tono
acido.
«La odi così
tanto?»
«Diciamo che mi dà
il voltastomaco» spiegò con estrema schiettezza.
Mi sporsi verso di lei e le
presi il viso tra le mani, per poi posare le mie labbra sulle sue. Le
lasciai un rapido bacio e tornai in fretta a tenere d'occhio la luce
rosso acceso del semaforo.
«E questo che vuol
dire?» mi chiese.
«Volevo darti coraggio
per l'incontro con Serj» risposi con un sorrisetto.
«Cazzo, quasi me ne
dimenticavo!» strillò.
Daron
e Samantha ci aspettavano di fronte al portone.
Sembravano aver instaurato una provvisoria tregua, poiché
chiacchieravano tranquillamente. La ragazza fumava una sigaretta con
un'eleganza che faceva a pugni col suo temperamento, mentre Daron si
costruiva una stecca di erba.
«Eccoci! Amico, ci
offri un tiro, vero?» esordì Leah, affiancando subito il
chitarrista.
Lui non la guardò,
tenendo gli occhi fissi su ciò che stava facendo. «Non
dovresti fumare a stomaco vuoto, non sei abituata» le
consigliò.
«Quante cazzate dici?
Comunque, ne ho bisogno. Tra poco conoscerò Serj, devo
rilassarmi. Cazzo, sto tremando come una bambina!» bofonchiò
lei in risposta, portandosi le mani di fronte agli occhi per
guardarle mentre fremevano senza che potesse controllarle.
La raggiunsi e gliele
strinsi forte. «Su, che sarà mai? È soltanto
Serj» tentai di tranquillizzarla.
«Non immagini quanta
ansia aveva prima di arrivare a casa tua» intervenne Samantha.
«Ehi! Sei una pessima
amica, perché mi sputtani così?» si rivoltò
Leah.
«Dico il vero, ragazza
mia» si giustificò l'altra.
«Confermo»
gracchiò Daron.
Leah sbuffò e gli
strappò di mano la canna appena preparata. «Dammi un
accendino, Malakian, anziché dire stronzate» tagliò
corto.
Lui ridacchiò e le
porse uno zippo nero lucente. «Prego, signorina.»
Leah
fece qualche tiro, poi restituì l'oggetto al chitarrista.
«Okay, ora va un pochino meglio» ammise, per poi
accoccolarsi al mio fianco e chiudere gli occhi. «Posso
farcela» sussurrò.
«Non ti avevo mai
visto così agitata» le dissi, tenendola stretta al mio
fianco.
«Mi succede raramente»
si lasciò sfuggire.
Quando
Daron finì di fumare, suonò il campanello
corrispondente all'appartamento di Serj e poco dopo il portone si
aprì emettendo un secco click.
Prendemmo l'ascensore e Leah
si spiaccicò contro la parete metallica, chiudendosi in un
silenzio assoluto. Sembrava non stesse quasi respirando.
Quando fuoriuscimmo
dall'angusta cabina, Serj era in piedi sulla soglia del suo
appartamento e ci sorrideva bonariamente, tenendoci aperta la porta.
«Ciao cantante»
esordii. Afferrai Leah per un polso e dovetti trascinarmela dietro.
Mi fermai con lei di fronte al padrone di casa e proseguii: «Ti
presento una tua grandissima ammiratrice. Lei è Leah. Leah,
ehi, respira, coraggio... lui è Serj, è un essere umano
come tutti noi, non ti farà del male» tentai di
sdrammatizzare, sentendola rigida come un palo accanto a me.
«Oh, okay, ehm... sto
bene, certo. Scusa, sì... piacere, io sono Leah, è...
un piacere conoscerti» balbettò, sollevando
meccanicamente un braccio per stringere la mano che Serj le tendeva.
«Faccio
ancora quest'effetto alle donne? Wow» commentò
scherzosamente il cantante, e con quelle parole fece scoppiare a
ridere la mia ragazza.
«Cosa sentono le mie
orecchie?» Angela comparve dietro di lui e sbirciò in
direzione di Leah. «Oh, ciao! Tu devi essere la famosa Leah. Mi
sembri un po' pallida, ti porto qualcosa da bere?»
«Ora le passa, non
preoccuparti» intervenni, guidando Leah dentro l'appartamento
del mio amico.
«Finalmente vi siete
sradicati dall'ingresso, pensavamo di dover fare la muffa sul
pianerottolo» si lamentò Daron, correndo dentro e
buttandosi sul divano del salotto. «Divano dolce divano, mi eri
mancato.»
«Pidocchio, sei un
fottuto maleducato!» sbraitò Samantha, gli occhi
fiammeggianti puntati su di lui.
«Pensa per te, non ti
sei neanche presentata ai padroni di casa» replicò lui
in tono piatto.
Samantha divenne furiosa, ma
si trattenne nel rendersi conto che Daron aveva ragione. Si accostò
a Serj e Angela e si scusò ripetutamente.
«Leah mi ha parlato
molto di lei, Serj. Dice che è un cantante molto bravo e
famoso, io... mi sento un po' sciocca, non avevo mai sentito parlare
di lei, ma fa lo stesso, non è vero?» blaterava Samantha
con le mani sui fianchi larghi.
«Ma certo, cara, non
preoccuparti, Serj non si offende» la tranquillizzò
Angela. «Hai dei capelli bellissimi, sai?»
«La ringrazio»
borbottò l'altra.
«Oh,
non darci del lei, avanti» la rimproverò il mio amico,
per poi rivolgere un sorriso in direzione di Leah.
«Non startene qui
impalata, coraggio» le sussurrai all'orecchio, spingendola
leggermente verso di lui.
«Serj, scusami per
prima» cominciò lei. Gli spiegò brevemente la sua
situazione e il suo disagio, e finalmente riuscì a sciogliersi
e a comportarsi come suo solito.
Tirai un sospiro di
sollievo. Se anche Leah fosse diventata ansiosa come me, chi avrebbe
aiutato chi?
Udimmo suonare il
campanello.
«Oh, dev'essere il
fattorino che porta le nostre pizze» commentò Angela,
avviandosi verso la porta.
Io intanto chiacchieravo con
Serj, Samantha e Leah.
«Leah, non hai portato
qualcosa da fargli autografare?»
«Sam, non essere
sciocca, andiamo! Non era proprio il caso, e poi quando sono partita
non avrei mai immaginato di...» Si bloccò e rivolse a
Serj un sorriso imbarazzato.
«Allora dobbiamo
rimediare» affermò il cantante, guardandosi attorno.
«Dovrei avere qualcosa su cui scribacchiare una dedica.»
«Ma non è
necessario, davvero!» strepitò la mia ragazza,
lanciandomi un'occhiata in cerca di sostegno.
«Lascialo
fare, sta' zitta» dissi invece, ricambiando con un sorriso
enorme. Ero contento che Leah
stesse vivendo un'emozione così forte e un'esperienza per lei
unica. Potevo capire come si sentiva, non doveva vergognarsene.
Mentre Serj stava per dire
qualcosa, Angela tornò in salotto. Non era sola.
«Ehilà!»
Mi voltai e sgranai gli
occhi.
«Che cazzo ci fate voi
qui?!» strillò Daron, balzando in piedi dal divano.
John e Bryah ci sorridevano
radiosi, uno accanto all'altra. Lei era stretta al suo braccio e
pareva un po' imbarazzata nel trovarsi in presenza di persone che non
conosceva.
«Sorpresa!»
esclamò il batterista.
Leah emise un gridolino e si
gettò letteralmente sui nuovi arrivati. «Ragazzi,
oddio!» Strinse entrambi in un abbraccio.
John la guardò dritto
negli occhi ed esclamò: «Sei anche tu qui! È
assurdo!».
«Già»
fece lei, mostrandosi estremamente felice per aver ritrovato anche il
resto della comitiva.
Ci furono varie
presentazioni tra coloro che ancora non si conoscevano, e poi Angela
annunciò che presto sarebbe davvero arrivato un fattorino a
consegnare le nostre pizze. Nel frattempo, lei e Serj ci offrirono un
aperitivo.
«Ragazzi, io...»
Leah si guardava attorno incredula. «Oggi mi state uccidendo a
furia di scaricarmi addosso vagonate di emozioni» ammise.
Notai
che aveva gli occhi lucidi e che faticava a nascondere
ciò che stava provando.
«Abbiamo un sacco di
cose da raccontarci» osservò John.
«C'è tempo»
gli feci notare.
«Per prima cosa,
dovete raccontarci tutto ciò che avete fatto in Giamaica»
strepitò Angela, seduta sul seggiolino del pianoforte di Serj.
«Oddio, dobbiamo
davvero? Io non parlo» bofonchiò Daron, sorseggiando dal
suo bicchiere.
«Invece comincerai
proprio tu, amico» lo incoraggiò Leah, che intanto si
era nettamente rilassata.
«Prima di tutto, ho
una questione in sospeso con la mia ospite speciale» intervenne
Serj, per poi alzarsi dal divano. Daron gli fece lo sgambetto e
sghignazzò, mentre Samantha gli abbaiava contro insulti
irripetibili.
Leah sussultò e
osservò il cantante con timore. «Che vuoi fare? Ti ho
detto che non è necessario!» tentò di fermarlo.
Serj si accostò a uno
scaffale su cui erano riposti diversi dischi e libri; afferrò
un piccolo volume e lo sfogliò velocemente. «Okay»
disse soltanto.
«Che cos'è?»
domandò flebilmente Leah.
Lui non rispose e frugò
in un cassetto, dal quale poco dopo estrasse una penna. Si
inginocchiò di fronte alla ragazza e le sorrise con estrema
dolcezza.
Leah afferrò la mia
mano e la stritolò.
«Questa è la
mia prima raccolta di poesie, ho ancora qualche copia a disposizione.
Mi piacerebbe regalartela, ma solo se ti va e se mi prometti di non
protestare ancora.»
Leah impallidì e
fissò il libro che lui teneva tra le mani. «È uno
scherzo, vero?»
«No, affatto. Ora ti
scrivo una dedica e siamo a posto.»
Ridacchiai. «Leah,
ricordati di respirare» le suggerii.
«Stupido»
borbottò, mollando la mia mano.
Serj chiuse il libro e
glielo ficcò in mano. «È tuo» concluse.
Leah sembrava aver paura a
sfiorare quell'oggetto. «Non so cosa dire, solo... grazie,
grazie davvero, è un regalo bellissimo.» Sospettavo che
stesse per scoppiare a piangere e sapevo che non avrebbe sopportato
che ciò accadesse.
«Dammi un abbraccio,
ammiratrice speciale» la incoraggiò il cantante,
attirandola a sé in una stretta affettuosa.
Leah ricambiò con
slanciò e notai qualche lacrima scivolare giù dai suoi
occhi. Avrei voluto trascinarla accanto a me e riempire il suo viso
di baci.
Vederla così felice
mi scaldò il cuore, mi fece provare un sentimento caldo e
rassicurante. Capii che volevo soltanto stare con lei, saperla al
sicuro e colma di gioia.
Avrei voluto gridarle che
l'amavo, ma non potevo. Non in quel momento. Non ancora.
Rieccomi!
Rompo
un attimo con le note solo per lasciarvi il link della canzone dei
Cypress Hill che Shavo e Leah ascoltano in macchina, ecco a voi:
https://www.youtube.com/watch?v=RijB8wnJCN0
Poteva
Shavo non ascoltare i suoi cari amici B-Real & company?
Ahahahahah XD
Per
il resto, attendo i vostri commenti su questo capitolo... fatemi
sapere se secondo voi si stanno creando dei legami interessanti tra
questa banda di matti, sono curiosissima :D
Grazie
a tutti, come sempre, per essere ancora qui... siamo arrivati a
cinquanta capitoli, vi rendete conto? *___*
Okay,
la pianto di vaneggiare, alla prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 51 *** Storytellers ***
ReggaeFamily
Storytellers
[John]
«È
stato un disastro fin da subito. Shavo ha sofferto il mal d'aereo a
causa delle turbolenze. All'andata ho seriamente pensato che avrebbe
vomitato addosso a me» bofonchiò Daron, scoccando
un'occhiata sprezzante in direzione del bassista.
Quest'ultimo
fece spallucce. «Non ci posso fare niente. Ora che mi ci fai
pensare, non mi sarei dovuto trattenere» ghignò, per poi
addentare una fetta della sua pizza.
«Ci
credete se vi dico che non mi siete mancati?» borbottai,
appollaiato sullo sgabello del pianoforte di Serj.
«Dolmayan,
non intrometterti! Queste sono questioni da uomini!» strillò
il chitarrista, assumendo un atteggiamento da gangster fallito. Avrei
voluto ribattere, ma mi limitai a sghignazzare.
«Possiamo
andare avanti con la narrazione?» si spazientì Leah,
mollando un calcio a Daron.
Eravamo
sparpagliati nel salotto di Serj con i cartoni delle pizze posati
sulle ginocchia o per terra di fronte a noi. Leah sedeva sul tappeto
tra Daron e Samantha, mentre Shavo se ne stava stravaccato sul divano
alle loro spalle, accanto a Serj. Angela era appollaiata sul
bracciolo e si guardava intorno con aria divertita.
«Continua
tu, mostriciattolo.» Daron apostrofò Leah in quel modo,
e io temetti seriamente che la ragazza potesse saltargli addosso e
riempirlo di botte. Magari l'avesse fatto, ci sarebbe stato da
divertirsi.
Leah
alzò gli occhi al cielo e scosse il capo. «Quindi,
potete immaginare quanto mi sono preoccupata quando ho visto questo
ragazzo entrare nella hall dell'albergo: era pallido, sembrava stare
parecchio male. Ovviamente l'ho riconosciuto subito, così come
ho riconosciuto loro due» raccontò, accennando prima al
bassista, poi a me e Daron.
«Sapevi
chi erano e non lo hai dato a vedere, dico bene?» intervenne
Angela, per poi mordicchiare un pezzo della sua pizza.
«Già.
Non volevo essere ignorata o vista come una fan qualsiasi, se capisci
cosa intendo. Tu vivi con Serj da tanto tempo e immagino abbiate
spesso a che fare con fan psicopatici che vi fermano in giro o si
appostano nei luoghi che frequentate.»
L'altra
annuì.
«Ho
fin da subito intuito che i ragazzi avessero scelto quel luogo
tranquillo per poter trascorrere una vacanza in totale relax, senza
essere riconosciuti e importunati. Peccato che poi le cose siano
andate diversamente.» A quelle parole, Leah sghignazzò e
si allungò verso Shavo per tirare la stoffa dei suoi
pantaloni. «Vero, Shavarsh?»
Quello
si riscosse, doveva essere assorto nell'ascoltare il racconto della
ragazza; si protese in avanti e immerse le dita tra i capelli di lei,
scompigliandoli. «MI ha ingannato, capite? Mi ha fatto credere
che non mi conoscesse. È una cattiva persona, non fidatevi mai
di lei!» scherzò.
Leah
se lo scrollò di dosso e ridacchiò. «In ogni
caso, l'ho soccorso mentre stava per vomitare. Per fortuna si è
ripreso, anche se ha trascorso il resto della giornata in camera sua»
proseguì.
«Che
rammollito» commentai. Avevo già finito di mangiare da
un po' e mi limitavo a osservare i miei amici. Bryah, accovacciata ai
miei piedi, doveva ancora mangiare metà della sua pizza.
«Senti
chi parla» gracchiò il bassista, lanciandomi
un'occhiataccia.
«E
poi?» domandò Angela, sempre più curiosa di
conoscere tutti i dettagli.
Le
sorrisi. «Poi io e Leah ci siamo ritrovati a fare colazione
insieme la mattina seguente. Mi ha adescato sulla spiaggia e mi ha
costretto a mettere in pratica questo rituale» spiegai in tono
divertito, ricordando quanto avessi trovato singolare il fatto che
quella ragazza fosse andata in spiaggia di notte, soltanto per
sfamare dei gatti randagi.
«Ehi!
Io stavo accudendo i miei gattini, che vuoi? Sei arrivato a
importunarmi, dovevi pagare pegno! Comunque, sì, è
andata più o meno così: ho visto quest'uomo tutto
triste e solo, pensavo addirittura fosse muto. Volevo conoscerlo
meglio, così gli ho proposto di vederci la mattina seguente e
tutte le successive. Certo, ci sono stati degli imprevisti, ma per
qualche giorno siamo riusciti a fare colazione insieme.»
Daron
si agitò sul tappeto. «Ragazzi, quella sera io ho avuto
un incontro ravvicinato con una pollastra niente male» si
intromise, trangugiando della birra dal suo bicchiere.
«Oh
sì, con l'amante di mio padre. Che pollastra meravigliosa,
amico. Avresti potuto scegliere qualcosa di meglio, lasciatelo dire»
lo rimbeccò Leah, utilizzando un tono sprezzante e colmo di
disgusto.
«Senti,
Medison era una preda facile e io volevo divertirmi un po'. Shavo
stava morendo nel suo letto, John se n'è andato chissà
dove, a fare l'archeologo esploratore... cosa avrei dovuto fare?»
saltò su il chitarrista, tirandole una ciocca di capelli.
«Ahi,
ma sei cretino?! Okay, comunque, questo depravato si è scopato
la tipa di mio padre. Quando l'ho scoperto, qualche giorno dopo, ho
reagito malissimo. Ma poi mi sono detta che non me ne importava
niente, che mio padre se lo merita» tagliò corto Leah,
facendo chiaramente intendere di voler cambiare argomento.
«Sappiate
che questa ragazza è riuscita a farmi aprire e parlare dopo
poco tempo, è incredibile» andai in suo soccorso,
lanciandole una breve occhiata.
Lei
mi regalò un sorriso colmo di gratitudine e si posò una
mano sul petto. «Per me è stato un onore, signor
Dolmayan» scherzò. All'improvviso spalancò gli
occhi. «Ehi, comunque non è vero che ti ho adescato io
in spiaggia! Sei stato tu a propormi di fare colazione con te,
ricordi? Ci siamo incontrati quando stavi rientrando dalla tua folle
corsa mattutina» blaterò.
«Hai
ragione, è vero! Be', volevo far credere a tutti che sei una
persona orribile, ma non ci sono riuscito» mormorai, fingendomi
sconsolato.
Bryah
scoppiò a ridere e mi mollò una gomitata sulla gamba.
«Non sei credibile» mi schernì.
«Poi
è successo un disastro, il primo tra i tanti» biascicò
Shavo, giocherellando con un fazzoletto di carta che teneva tra le
mani.
«Oh,
arriva la parte interessante allora!» squittì Samantha;
aveva appena finito di mangiare e si era messa più comoda sul
tappeto, incrociando le gambe e inclinando la testa di lato per poter
ascoltare con più attenzione.
«Che
cosa è successo?» chiese Serj, scambiando un'occhiata
con Shavo.
«Leah
si è accorta che c'erano delle nostre fan in spiaggia. Il
problema è che l'area privata dell'albergo era piuttosto
piccola, non saremmo potuti andare lontano» raccontò il
bassista.
«Delle
fan?»
«Angie,
erano delle aspiranti gruopies! Due pazze fuori di testa, innamorate
di lui» spiegai, indicando Shavo. Era una storia assurda,
eppure ci era capitata
davvero.
«Oddio! E com'è
andata a finire?» volle sapere la moglie di Serj.
«Io ho cercato di
evitare che Shavo le incontrasse. Le ho sentite parlare in spiaggia,
mentre lo aspettavo. Quando ho visto che si stava avvicinando, mi
sono alzata di tutta fretta e l'ho trascinato nuovamente verso
l'albergo, accampando una scusa. Peccato che le due pazze si siano
accorte di lui, perché hanno cominciato a seguirci senza
neanche asciugarsi né rivestirsi dopo il bagno. Non lo
sapevamo, finché non ce le siamo ritrovate di fronte al piano
delle piscine. Com'è che si chiamavano? Katy e...»
Shavo scosse il capo. «Forse
Kelly? Ma l'altro nome non me lo ricordo. Sta di fatto che mi hanno
trovato e hanno cominciato a strillare, farmi proposte indecenti,
toccarmi in maniera eloquente, pretendere foto insieme a me... e lì
ho rischiato che Leah scoprisse chi ero. Sì, perché con
i ragazzi eravamo d'accordo che non avremmo rivelato la nostra
identità a nessuno. Sarebbe stato meglio così, finché
qualcuno non ci avesse riconosciuto.»
«Allora me la sono
svignata» proseguì Leah, ridacchiando a quel ricordo.
«Me ne sono andata in piscina e l'ho lasciato con quelle due
pazze.»
«E
io ho detto loro che era la mia ragazza» aggiunse il bassista,
carezzando distrattamente i capelli di lei; poi un ricordo dovette
attraversargli la mente d'improvviso, perché fece una smorfia
e aggiunse: «Una delle
due mi ha detto che era vergine e pronta solo per
me».
Tutti scoppiammo a ridere,
mentre Leah fingeva di vomitare sul cartone della sua pizza ormai
vuoto.
«Chi ci crede?»
bofonchiò Daron. «Erano due puttanelle da quattro
soldi.»
«Pidocchio, tu ne sai
qualcosa, eh?» lo punzecchiò Samantha, lanciandogli
contro il suo tovagliolo di carta.
«Non sono andato a
letto con quelle due, erano due bambine. Ammetto di averci pensato,
ma poi mi sono detto che sarebbe stato più interessante
giocarci un po' e procurarmi qualcosa con cui ricattarle per far sì
che tenessero la bocca chiusa. Ha funzionato, e loro non sanno che
quel video è andato perso quando mi sono buttato in mare dal
pedalò con il cellulare in tasca» raccontò il
chitarrista, mostrandosi pienamente soddisfatto di sé.
«Non ricordarmi quel
fottuto giorno in pedalò, ho la nausea solo a ripensarci»
bofonchiò il bassista.
Scoppiai a ridere al ricordo
di Shavo che vomitava in mare, sporgendosi oltre il bordo del pedalò,
mentre Daron imprecava in tutte le lingue del mondo per il disastro
appena accaduto con il suo cellulare. Si era trattato di un bel
casino, non riuscivo ancora a rendermi conto di quante cose
epicamente raccapriccianti ci erano capitate durante la nostra
vacanza in Giamaica.
«Daron,
sei sempre il solito. Possibile che tu debba necessariamente metterti
nei guai?» lo rimproverò
Serj, nonostante fosse divertito dall'intera situazione.
«Che è successo
in pedalò?» chiese Samantha. «Leah non mi ha
raccontato tutto!»
«Sei scappata quando
stavo per farlo. Shelley lo sa perché è rimasta ad
ascoltarmi» la apostrofò la sua amica, indirizzandole
una linguaccia.
«Antipatica! Avevo un
appuntamento, lo sai!»
«È successo che
questi due cretini hanno cominciato a far oscillare il pedalò
e il povero Shavo è stato assalito dalla nausea»
raccontò Bryah, indicando me e Daron. «Ha rimesso il
pranzo e la colazione, e forse anche qualcos'altro» aggiunse in
tono disgustato.
«Che stronzi!»
esclamò Serj. «Eppure lo sapete che Shavo soffre di
certe cose.»
«Era troppo
divertente» ghignò Daron.
«Concordo»
aggiunsi.
«Piantatela. Stavo
davvero male» si lamentò il bassista, portandosi una
mano alla fronte. «Che incubo!»
«Non
pensarci. Pensa a quanto ci siamo divertiti durante la vacanza. Il
Fyah, per esempio, è
stato un bel luogo dove trascorrere qualche serata» disse Leah,
appoggiando la schiena contro le gambe del bassista. Si strinse le
ginocchia al petto e sorrise a Daron. «Tu hai rischiato che
tutti scoprissero chi sei, eh Malakian?»
«Avevo
una fottuta voglia di suonare e l'ho fatto. Ho cantato qualcosa di
Bob Marley, mica sono andato a pescare dalla nostra discografia»
si difese il chitarrista,
lasciandosi cadere prono sul tappeto.
«Serj, hai visto cosa
ci siamo persi?» fece Angela, posando una mano sulla spalla di
suo marito.
«La prossima volta
andremo in vacanza tutti insieme» proclamò il cantante,
annuendo per dare enfasi alle sue parole.
«Ci sto!»
esclamò Daron, allungando una mano. Accidentalmente questa
andò a finire sulla coscia di Samantha, la quale subito la
schiaffeggiò e prese a inveire sottovoce contro il
chitarrista.
Ridacchiai e scesi dallo
sgabello, accomodandomi accanto a Bryah. Le circondai le spalle con
un braccio e la attirai più vicino a me.
«Vi siete dimenticati
del concerto di Eek e Barry?» saltò su Shavo, sorridendo
nel ripensare a quell'avvenimento.
«Chi sarebbero?»
domandò Angela.
Allora Daron cominciò
a raccontare di come avevamo scoperto del concerto, del nostro arrivo
al locale e di quanto ci fossimo divertiti durante lo show; poi
spiegò com'era avvenuto l'incontro con i due artisti
giamaicani e come i due, specialmente Eek, fossero onorati dalla
nostra presenza. Infine Shavo mostrò a Serj, Angela e Samantha
le foto che avevamo fatto con quei due matti.
«Che roba! Ragazzi,
certe cose possono capitare solo a voi! Ehi, ma guarda quant'è
alto Eek! Shavo, ti supera di gran lunga» commentò Serj,
esaminando lo schermo del cellulare che il bassista gli aveva porto.
«Già. È
completamente fuori di testa» ridacchiò il bassista.
«Molto più di me.»
«Avrei qualche dubbio
in merito» lo schernì Leah.
«Anche io»
concordò Daron.
«Andate al diavolo!»
strepitò Shavo.
Riflettei per un istante,
poi intervenni: «Ora che ci penso, non vi abbiamo raccontato
come abbiamo conosciuto Bryah».
La diretta interessata parve
leggermente imbarazzata all'idea di essere al centro dell'attenzione.
«Giusto! Diteci tutto»
ci incoraggiò Angela, restituendo il cellulare a Shavo.
Stavo per aprir bocca,
quando il campanello suonò e noi tutti sobbalzammo.
«Chi sarà mai?»
si chiese Angela, mentre si alzava dalla sua postazione sul bracciolo
del divano. Si avviò verso l'ingresso e rispose al citofono.
Rimanemmo in silenzio,
cercando di carpire qualche parola della sua conversazione attraverso
il citofono.
«Ah ciao Sako! Ma
certo, entrate pure!» la sentimmo esclamare.
«Sako?» strillò
Daron, rimettendosi a sedere. «Quel bastardo mi mancava!»
esclamò, per poi alzarsi dal tappeto e correre verso
l'ingresso.
Bryah si voltò a
guardarmi. «Chi arriva?» mi chiese sottovoce.
«Sako
è un carissimo amico di tutti noi, nonché mio fedele
tecnico della batteria. Ti piacerà» le spiegai, mentre
riflettevo sul fatto che fosse una bella
coincidenza che il ragazzo fosse arrivato proprio in quel momento.
Sarebbe stato contento di trovarci tutti lì riuniti.
«Angie! Ciao, come va?
Siamo passati dopo essere stati a cena dai miei, ma... Malakian, mi
strozzi! Che cazzo fai? Sei impazzito?»
Quelle parole giunsero forti
e chiare alle nostre orecchie, facendoci scoppiare a ridere.
«Karaian, vieni qui!»
strillò il chitarrista. Poco dopo Sako entrò in salotto
come un fulmine, seguito da un divertito Daron.
«Stai alla larga da
me!» sbraitò il nuovo arrivato, correndo a ripararsi
dietro il divano su cui sedevano Serj e Shavo.
Solo in quel momento si rese
conto che nella stanza erano presenti delle persone che non
conosceva, così avvampò d'improvviso e rimase immobile
con gli occhi fissi su di me.
Daron, intanto, aveva
sospirato e si era buttato nuovamente sul tappeto, borbottando
qualcosa a proposito del fatto che Sako fosse noioso e non
ricambiasse il suo sincero affetto.
Poco dopo, Angela tornò
in salotto in compagnia di una ragazza che riconobbi subito: si
trattava di Mayda, la fidanzata di Sako. Era come la ricordavo:
esile, pallida, dai lineamenti dolci e i lunghi capelli
immancabilmente legati in una coda di cavallo. Era vestita
completamente di nero, indossava un giubbotto in pelle e dei jeans
strappati, mentre i piedi portava degli anfibi.
Nel
rendersi conto che si trovava in compagnia di persone
che non conosceva, la sua reazione non fu dissimile da quella del suo
ragazzo: sgranò appena gli occhi scuri leggermente truccati e
si sistemò imbarazzata gli occhiali sul naso.
«Ehi, Mayda! Come va?»
mi rivolsi a lei, alzandomi con l'intenzione di toglierla d'impiccio.
La raggiunsi e le regalai un breve abbraccio. Era talmente magra e
minuta che temetti di poterle fare del male.
Lei mi sorrise e fece un
cenno di saluto anche a Serj e Shavo.
«Vieni, ti presento
Bryah» le dissi, avvicinandomi nuovamente al pianoforte.
Intanto, la giornalista giamaicana si era messa in piedi e osservava
incuriosita la ragazza che aveva di fronte.
«Io sono Bryah, molto
piacere. Sono arrivata solo oggi a Los Angeles e non conosco nessuno»
spiegò, a sua volta leggermente imbarazzata.
«Mi chiamo Mayda,
piacere mio. Voi state insieme?» ci chiese, osservando
alternativamente me e Bryah.
Quest'ultima annuì e
sorrise. «Ci siamo conosciuti in Giamaica e John mi è
stato molto vicino.»
Mayda ricambiò il
sorriso, poi si voltò a cercare Sako con lo sguardo. «Ehi,
non essere maleducato. Vieni qui» lo apostrofò.
Il mio amico si mosse e
abbandonò la sua postazione dietro il divano; intorno a noi
tutti continuavano a chiacchierare e scherzare tra loro, ma poco dopo
Serj cercò di attirare l'attenzione di tutti per fare le
presentazioni.
«Sako, Mayda... lei è
Leah, la ragazza di Shavo. Lei invece è Samantha, un'amica di
Leah. Infine c'è Bryah, giornalista giamaicana che vorrebbe
scrivere un libro sui System e compagna del nostro John. Ragazze,
quel cretino è Sako, il nostro amico e tecnico della batteria,
mentre lei è Mayda, la sua fidanzata» spiegò il
cantante in tono allegro, indicando alternativamente le varie persone
che stava citando.
Ci fu un giro di strette di
mano e l'atmosfera divenne ancora più allegra. Leah prese
subito in simpatia Mayda e la costrinse a sedersi accanto a lei. La
cosa non mi sorprese, dal momento che riusciva ad andare d'accordo
con tutti e a fare amicizia molto facilmente.
Mayda parve leggermente
intimorita dall'esuberanza di Leah, ma presto mi resi conto che la
sua tensione svaniva, lasciando il posto a sonore risate, battute e
sguardi complici.
Sako si sedette sullo
sgabello del pianoforte e prese a importunarmi, blaterando a
proposito del fatto che non gli avessi ancora raccontato niente del
viaggio in Giamaica.
«Stavamo proprio
parlando di questo, sei arrivato tardi» lo schernì,
mentre Bryah ridacchiava.
«Che stronzo. Se
continui così, mi licenzio e dovrai cercarti un altro servo
della gleba disposto a rispondere a tutti i tuoi capricci» mi
minacciò lui in tono divertito.
«Me la caverò»
dissi, ostentando indifferenza e cercando di non scoppiare a ridere.
Ci fu un momento in cui
riassumemmo brevemente ciò di cui avevamo parlato fino a quel
momento, rendendo partecipi anche Sako e Mayda delle nostre avventure
sull'isola caraibica.
«Leah, come hai fatto
a fingere di non conoscerli? Io sarei svenuta nel giro di mezzo
secondo!» esclamò la ragazza di Sako, guardando l'altra
con ammirazione.
«Non è stato
difficile, anche e soprattutto perché loro volevano rimanere
nell'ombra, volevano essere visti e trattati come persone comuni.»
«Io non ce l'avrei mai
fatta. Quando li ho visti per la prima volta dal vivo, ho creduto di
perdere la vita. Poi è successa una cosa assurda: Sako è
venuto a salvarmi mentre ero intrappolata tra la folla, mi ha
letteralmente trascinato oltre la transenna e mi ha portato con se a
lato del palco. Ho perso almeno dieci anni di vita nel trovarmi così
vicino a loro, pensa che poi John mi ha regalato le sue bacchette!»
sproloquiò Mayda, facendo ridere tutti quanti. Ricordavo
ancora quel giorno, durante il quale non avrei mai immaginato che
quella ragazza potesse realmente diventare la compagna fissa di Sako.
Serj, nel frattempo, aveva
consegnato al mio tecnico e alla sua ragazza una lattina di birra
ciascuno, per poi tornare sul divano accanto a Shavo.
«Che storia assurda!
Ma voi vi conoscevate già?» chiese Leah curiosa.
«Ci
seguivamo sui social, diciamo che gli avevo detto
che sarei stata presente a quel concerto» spiegò
l'altra, per poi ridacchiare. «Non riuscivo a crederci.»
Leah le spiegò che le
era successo di sentirsi in ansia quando, poche ore prima, si era
ritrovata di fronte a Serj, il suo mito assoluto fin da quando aveva
conosciuto i System.
«Oh, andiamo! Non
esagerare» borbottò il cantante, grattandosi il mento.
«Non l'avevo mai vista
così agitata prima» confermò Shavo, battendo
affettuosamente sulla spalla della ragazza.
«Ehi!»
intervenne Angela. «Ancora non ci avete detto com'è
avvenuto l'incontro con Bryah!» esclamò.
Ci scambiammo delle occhiate
confuse, poi scoppiammo a ridere.
Prima di cominciare a
parlare, mi soffermai a osservare per un istante il viso della
giornalista che mi aveva rubato il cuore: ero felice che avesse
deciso di seguirmi a Los Angeles, ed ero entusiasta all'idea che
avesse fatto una buona impressione su tutti i miei amici. Era lontana
da casa sua, ma sperai comunque che si sentisse a suo agio e che
quell'atmosfera fosse in grado di scaldarle il cuore e l'anima,
allontanando dai suoi pensieri le immagini negative e dolorose.
Mi rivolse un caldo e dolce
sorriso, e allora compresi che stava bene e che era pronta per
riprendere in mano la sua vita.
Ehi,
ehi!
Eheheheh,
come va?
Vi
svelo un segreto: ho scritto questo capitolo solo ieri, perché
purtroppo ho finito i capitoli che erano già pronti. Ho dovuto
concentrarmi su un altro progetto che non ha a che fare con EFP, ma
morivo dalla voglia di scrivere di questi ragazzi e avevo già
in mente varie scene, perciò mi sono messa d'impegno e ho
buttato giù questo capitolo ;)
Ma
ditemi un po'... qualcuno di voi per caso si ricorda di Mayda?
Qualcuno di voi ha per caso avuto l'impressione di averla già
vista – o forse, meglio dire, letta – da qualche parte?
Io
non vi dico niente, vediamo se qualcuno di voi indovina :D
Nel
prossimo capitolo vi dirò se avete azzeccato oppure no, o
comunque vi spiegherò ogni cosa. Ma ora sono curiosa di
scoprire se la vostra memoria vi assiste e se sono riuscita a
imprimere questo personaggio nei vostri ricordi :3
Bene,
vi ringrazio di cuore per essere qui, per il supporto e per l'affetto
che traspare da ogni vostra recensione!
Alla
prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 52 *** Trust? ***
ReggaeFamily
Trust?
[Daron]
Mi
guardai intorno e mi resi conto che io e Samantha eravamo gli unici a
non formare una coppia; da quando l'avevo incontrata poche ore prima,
avevo desiderato di conoscerla meglio in quel senso,
visto quanto era attraente. Tuttavia, mi ero dovuto arrendere fin dal
principio: era lesbica e aveva già messo gli occhi addosso
alla dirimpettaia di Shavo.
Ero uno sfigato, su questo
non c'erano dubbi.
«Bryah mi ha
riconosciuto subito» stava dicendo John. La sua voce aveva
assunto un'inflessione dolce, era chiaramente innamorato pazzo di
quella giornalista.
«Certo, conosco bene
la vostra band. In realtà ero andata allo Skye Sun Hotel in
cerca di Lady Gaga, un mio informatore mi aveva detto che l'avrei
trovata e avrei potuto scrivere un buon articolo!» spiegò
Bryah, scatenando le risate dei presenti.
«Lady Gaga non c'era?»
saltò su Samantha, la quale sembrava piuttosto interessata
alla cosa.
«Macché. Gli
unici VIP eravamo noi, bellezza» la punzecchiai, soffermandomi
a studiare il suo viso. La carnagione scura e i lineamenti marcati le
conferivano un'aria dannatamente attraente, ma la cosa che mi mandava
letteralmente fuori di testa erano le sue labbra carnose: sembravano
talmente morbide che avrei voluto baciarle in qualsiasi momento. E
quegli occhi neri e penetranti, i capelli mossi e corvini, il corpo
formoso e sinuoso...
Scossi
il capo e notai che lei mi inceneriva con lo sguardo.
«Razza di pervertito,
smettila di fissarmi così. Ci manca soltanto che cominci a
sbavare» mi apostrofò, incurvando le labbra in una
smorfia disgustata.
«Mi dimentico che non
ti piacciono i ragazzi» bofonchiai, cambiando posizione. Ero
rimasto prono sul tappeto fino a quel momento, così mi misi
supino e incrociai le braccia sotto la nuca; in questo modo potei
evitare di scandagliare Samantha con lo sguardo e il mio corpo
avrebbe smesso di reagire in maniera inopportuna.
Sentii Mayda soffocare una
risata. «Il solito temerario, eh?» scherzò.
«È soltanto uno
stupido pidocchio» sibilò l'amica di Leah.
«Ragazze, io sono qui
e vi sento» feci notare loro, per niente offeso da quelle
parole. Mi stavo divertendo un sacco a mettere Samantha in
difficoltà.
Tornai a prestare attenzione
al racconto di John, curioso di avere maggiori informazioni sul suo
incontro con Bryah. Ad attirare nuovamente la mia attenzione fu il
sentir pronunciare il mio nome dal batterista.
«Daron è
arrivato da noi, era incazzato come una furia. Con Shavo»
sghignazzò John.
«Strano, non me
l'aspettavo» fece Serj in tono ironico.
Lanciai
un'occhiata alla mia sinistra e notai che Shavo si agitava sul
divano. «Ehi! È scientificamente
provato che quando io e Daron litighiamo, tanto ho ragione io»
gracchiò.
«Taci, non sai quello
che dici» lo contraddissi, ridacchiando con fare divertito.
«Insomma, ha
interrotto il nostro incontro romantico» intervenne Bryah.
«Macché
romantico e romantico, Dolmayan ci è rimasto malissimo quando
ha scoperto che eri impegnata» buttai lì, socchiudendo
gli occhi.
«Pensa per te. Almeno
lui ha trovato una brava persona con cui trascorrere il tempo, mentre
tu hai combinato soltanto casini e non sei riuscito ad avere a che
fare con una ragazza decente» mi disse Shavo, prendendo a
sghignazzare insieme e Leah e qualcun altro.
Mi misi a sedere e lo
guardai in faccia, poi piegai la testa di lato e appoggiai il mento
sul palmo della mano destra. «Io e Miriam ci siamo baciati»
confessai all'improvviso.
«Chi è Miriam?»
domandò Angela, la quale pareva estremamente curiosa di
conoscere ogni dettaglio del nostro viaggio.
Shavo sgranò gli
occhi, poi scosse il capo e rise. «Sei prevedibile, l'avevo già
capito» fece beffardo.
«Pure io»
concordò Leah, allungandosi per mollarmi un pugno sul braccio.
«Ah, la bagnina ha
deciso di farsi baciare da te? L'avrai costretta, immagino»
commentò John, mentre Bryah se la rideva.
«Ce l'avete con me?»
domandai perplesso, guardandomi attorno.
«No, Daron, è
che noi tutti ti conosciamo fin troppo bene» mi rassicurò
Serj in tono bonario.
«Io lo conosco da
questo pomeriggio e ho già capito tutto» bofonchiò
Samantha.
Sbuffai, fingendomi offeso.
«Allora me ne vado a fumare» tagliai corto, per poi
alzarmi dal tappeto e frugarmi in tasca.
Sako mi imitò e si
mise in piedi. «Vengo con te! Shavo, tu che fai?»
Il bassista sbadigliò
e decise di seguirci sul terrazzo.
Ci dirigemmo all'esterno,
chiacchierando del più e del meno. Presi a costruire una
stecca di erba e lasciai che quell'operazione mi assorbisse
completamente.
«Allora siete contenti
di questo viaggio? Non sapete quanto vi invidio!» fece Sako,
appoggiandosi con i gomiti sulla balaustra.
Lanciai un'occhiata alla
città immersa nella notte, alle luci multicolore che la
riempivano e la rendevano affascinante e suggestiva. Forse quelle
luci e quell'atmosfera non potevano essere paragonate a quelle di Las
Vegas, ma a me non era mai dispiaciuto il luogo in cui ero nato e in
cui abitavo.
«Contentissimi. Ah,
Karaian, non sai cosa ti sei perso!» Shavo mi batté
sulla spalla. «Per esempio, avresti potuto assistere a una
scena epica: Daron che si faceva fare un servizietto da una barista
che sogna di venire a Hollywood e fare l'attrice» sghignazzò,
dandomi di gomito con fare ammiccante.
«Non era necessario
dirglielo» grugnii, finendo di chiudere la sigaretta.
Sako scoppiò a ridere
e immerse il viso tra le mani. «Questa è bella, avrei
voluto esserci!»
Proprio in quel momento,
Leah fece irruzione nella piccola terrazza. «Ehi! Volevate
fumare senza di me?» ci rimproverò. Poi il suo sguardo
si posò su di me. «E tu cos'hai? Perché quella
faccia?» mi domandò, per poi raggiungermi e
scompigliarmi affettuosamente i capelli.
«Stavo giusto dicendo
a Sako che lo abbiamo visto mentre si divertiva con Lakyta»
spiegò Shavo, allungandosi verso di me. Fulmineo, mi strappò
di mano la stecca d'erba e la accese senza perdere altro tempo.
Leah sghignazzò. «È
stato epico e raccapricciante» commentò.
«Che stronzi»
borbottai.
«Sei stato tu il primo
a vantartene. Ora non puoi tirarti indietro» mi fece notare il
bassista, aspirando per la seconda volta dalla sigaretta che avevo
preparato.
Sako gliela prese di mano e
fece lo stesso, tenendo lo sguardo su di me.
Mi lasciai sfuggire un
sorrisetto. «E va bene. Sì, l'ho fatto per una giusta
causa, ecco. Quella stronza ha frugato nel mio cellulare e ha copiato
il video che ho fatto a quelle due ragazzine. Voleva ricattarmi, ma
sono riuscito a scampare il pericolo.» Feci una pausa per
afferrare la canna e fare un tiro. «Me la cavo sempre, anche se
voi non avete fiducia in me» aggiunsi.
Leah scrollò le
spalle. «Già, trovi sempre dei modi originali per
cavartela» gracchiò.
«Come fai a cacciarti
sempre in casini del genere?» mi chiese Sako, nonostante la
domanda fosse chiaramente retorica.
«Ho dimenticato il
telefono in terrazza e non avevo impostato un codice di blocco. Si
chiama così? Io non me ne intendo di certe cose, lo sai.
Insomma, la barista l'ha trovato e ha ben pensato di frugarlo,
trovando ciò che non avrebbe dovuto. Alla fine sono riuscito a
cancellare tutto ciò che c'era sul suo smartphone, senza
eccezioni.»
«E quella strega si è
incazzata perché aveva in memoria un sacco di foto con il suo
amato Alwan» intervenne Leah, alzando gli occhi al cielo.
«Amica, vuoi fumare?»
le chiesi.
Lei annuì e accettò
la sigaretta, portandola distrattamente alle labbra.
Sako intanto stava
ridacchiando e non riusciva a smettere, avevo l'impressione che nella
sua mente si stessero ricreando le scene che gli stavamo raccontando.
«Ma poi, senti
questa!» Shavo circondò le spalle del nostro amico con
un braccio. «Daron le ha detto qualcosa del tipo fai questo,
almeno stai zitta! Io stavo per svenire dalle risate!»
Il tecnico della batteria
scoppiò in una fragorosa risata e si lasciò cadere
contro la balaustra, facendo un baccano assurdo tra risa stridenti e
colpi di tosse. «Sei un grande, Malakian! Ti stimo! Ma ehi, voi
due! Come avete fatto ad assistere a questa scena?»
Allora Leah gli spiegò
della scogliera, di com'era fatta e del luogo che lei aveva trovato,
dei gatti selvatici che albergavano sulla piattaforma e all'interno
delle intercapedini, e poi gli spiegò che lei e Shavo erano
andati lassù per una notte sotto le stelle, ma che tutto il
romanticismo era stato distrutto dalle grida mie e di Lakyta.
«Romanticismo? Tu
parli di romanticismo?» la punzecchiai, facendole la
linguaccia.
«Lui è
romantico» fece la ragazza, indicando Shavo con un cenno del
capo.
«Tu no, quindi non
puoi dare la colpa a me» ribattei.
«Che fortuna! Ah,
aspetta... Shavo, cosa stavi dicendo prima a proposito della festa
notturna?» chiese Sako, posando lo sguardo sul bassista.
Alzai gli occhi al cielo.
«Ah! Non so come sia possibile che non ci abbiano buttato fuori
dall'hotel!» commentai.
«Tutta colpa del tuo
capo» prese a raccontare Shavo. «Ha cominciato a piovere,
si è scatenato un bel temporale.»
«Giusto, immagino che
Johnny se la stesse facendo in mano» disse l'altro.
«Già. Allora ho
pensato di chiamare Daron e Leah per cercare di distrarlo, e poi
abbiamo tirato giù dal letto anche Bryah. Ci siamo riuniti
nella nostra stanza, muniti di cibo spazzatura e alcolici. Abbiamo
messo su un piccolo impianto stereo e io ho sacrificato il mio
cellulare per poter mandare un po' di musica.» Shavo si
interruppe e ridacchiò. «Oddio, dirlo ad alta voce mi fa
uno strano effetto. Sul serio lo abbiamo fatto? Un casino come quello
non lo abbiamo mai fatto neanche durante gli anni più
scatenati della nostra carriera.»
«Sì che lo
abbiamo fatto, è che tu eri troppo ubriaco e non te lo
ricordi» lo contraddissi, mollandogli un pugno sul braccio.
«Ma che ore erano?»
volle sapere Sako, spostando lo sguardo alternativamente su noi due.
«Forse le tre o le
quattro. Non ricordo» rispose Leah. «So solo che dormivo,
ma all'improvviso mi sono svegliata perché questo stronzo
stava bussando così forte alla mia porta e ho avuto paura che
la buttasse giù.»
«Mi ha mandato lui a
chiamarti!» borbottai, indicando il suo ragazzo.
«Comunque abbiamo
messo su la musica, abbiamo ballato, gridato, bevuto, mangiato... una
festa improvvisata, ma è stato bellissimo! John si è
distratto, dopo un po' non ci pensava più» spiegò
la ragazza, ignorando le mie proteste.
«Fottuti geni!»
esclamò il tecnico della batteria, incrociando le braccia sul
petto. «Vi odio perché avete vissuto queste cose e io
non c'ero» si lamentò per l'ennesima volta.
«Peggio per te»
lo schernii, accostandomi a lui per importunarlo un po'. Lo strinsi
in un abbraccio e rafforzai sempre più la presa.
«Non respiro, ah,
dannato coglione! Spostati!» protestò, cercando di
divincolarsi dalle mie grinfie.
«Ti voglio bene, mi
sei mancato!» feci mellifluo, per poi stampargli un rumoroso e
umido bacio sulla guancia.
Sako mi spinse via e si
sporse oltre la balaustra, fingendo di vomitare, mentre si strofinava
con forza la guancia nell'intento di pulirla. «Fai schifo!»
strillò.
Mi appoggiai con la schiena
al parapetto e sospirai. «Poi io e Leah abbiamo litigato.»
«Ah, già!
Perché io ho messo Bounce, volevo finalmente far capire
ai ragazzi che sapevo chi erano. E Daron l'ha presa malissimo, perché
nel pomeriggio mi ha sentito parlare con Bryah e ha frainteso le mie
parole. Era convinta che io avessi finto di non sapere chi fossero
per poter arrivare a Serj, visto che è sempre stato il mio
preferito della band. Che ignorante.»
Le rivolsi un'occhiata
divertita. «Però mi sono fatto perdonare quando ti ho
regalato quel portachiavi» commentai.
«Siete assurdi, certe
cose possono capitare solo a voi, sul serio! Sono sempre più
triste all'idea di non esserci stato» ammise Sako in tono
sconsolato.
Shavo si accostò a
Leah e la abbracciò da dietro, appoggiando il mento sulla nuca
della ragazza. «Quella sera ci siamo detti tutto ciò che
non ci eravamo mai detti e ci siamo baciati per la prima volta»
raccontò con aria sognante, gli occhi leggermente socchiusi e
l'espressione da ebete.
Lei scoppiò a ridere.
«Ecco, vedete quanto è rammollito? Insomma, Shavarsh,
non credo che a Sako importi tutto questo!» squittì. Mi
accorsi che la cosa l'aveva messa in imbarazzo.
Cercai di venire in suo
aiuto. «Ah, è cotto a puntino, eh? Karaian, guarda
quanto è sdolcinato!» esclamai, battendo una mano sulla
spalla del bassista.
«Piantatela! Io me ne
torno dentro» brontolò il bassista lasciando andare
Leah, per poi avviarsi all'interno.
Lei rise e lo seguì,
senza però smettere di prenderlo in giro. Le loro voci
divennero soltanto un brusio confuso che si mischiò a quello
già esistente in salotto. Riusciva a sovrastarlo soltanto la
risata tonante di Serj, il quale doveva essere divertito per qualche
battuta o per qualcosa che qualcuno gli stava raccontando.
Io e Sako ci scambiammo
un'occhiata.
«E tu? Non hai trovato
la tua Leah?» mi domandò all'improvviso.
«No, come c'era da
aspettarsi. Karaian, non sono fatto per certe cose, lo sai.»
Lui sospirò. «Anche
io la pensavo così, finché la vita non è stata
clemente con me e mi ha portato Mayda. Non si può mai sapere,
Daron. L'amore non è una cosa per cui si è portati
oppure no, non è come la matematica o la medicina. Non so se
mi spiego.»
Lo fissai perplesso. «Sì
che lo è. Se io non riesco ad aprirmi e rendermi appetibile
per qualcuno, rimarrò solo. È il mio destino.»
Il mio amico scosse il capo
con fare deciso. «Cambierai idea, vedrai.» Detto questo,
mi sorrise e rientrò in casa, lasciandomi solo sul terrazzo.
Ripensai a tutte le
esperienze negative che avevo avuto, mi venne in mente Jessica e i
recenti avvenimenti che riguardavano lei e quell'imbecille di Lars
Ulrich. Scacciai quei ricordi dalla mente e mi concentrai su un altro
problema che mi stava assillando ultimamente: Layla. Non sapevo se
fosse o meno mia figlia, ma il mio rapporto con sua madre non potevo
negarlo. Eravamo stati insieme e io non riuscivo a ricordare tutti i
dettagli. Erano passati tanti anni, avevo quasi rimosso ogni cosa
dalla memoria, ma tutto era tornato a galla quando quella ragazza mi
aveva accolto all'aeroporto e aveva così sconvolto la mia vita
e le mie certezze.
Proprio ora che avrei voluto
saperne di più, lei si era dissolta nel nulla e non era più
tornata a cercarmi. Mi venne in mente che probabilmente non sapeva
come trovarmi, non aveva visto dove abitavo, non glielo avevo
permesso. Però Serj aveva ragione: avrebbe potuto tornare al
campo da basket e cercare di parlare con lui; se non lo avesse
trovato, avrebbe potuto chiedere di lui e in ogni caso il mio amico
ne avrebbe saputo qualcosa.
Invece c'era stato soltanto
silenzio in quei giorni, il che non faceva che gettarmi nella
confusione più totale. Non sapevo cosa fare, come agire, se ci
fosse veramente qualcosa che potessi fare, o se ne valesse realmente
la pena.
Qualcuno si stagliò
sulla soglia della terrazza e io sobbalzai; ero talmente immerso nei
miei pensieri che non mi ero accorto dell'arrivo di Samantha.
La ragazza mi raggiunse
accanto alla balaustra e si accese una sigaretta, per poi lanciarmi
una breve occhiata.
«Non sapevo che tu
fumassi» commentai.
«Solo sigarette»
rispose distrattamente. «E tu?»
«Solo erba.»
Scrollò le spalle.
«L'ho provata ma non mi va. Mi dà troppo alla testa»
spiegò.
Annuii. Era come se in quel
momento, immersi nell'oscurità della notte, avessimo perso
improvvisamente l'entusiasmo nel punzecchiarci e nello scambiarci
battute.
Provai a frugare nella mia
mente in cerca di qualcosa da dire. «Ah, allora... ti piace
Abby, eh?» me ne uscii, affondando le mani nelle tasche dei
pantaloni.
«Oh sì!
Abbastanza.»
«Già, si nota»
commentai.
Rimanemmo in silenzio,
improvvisamente incapaci di intrattenere una conversazione. Non
sapevo cosa fosse successo, ma immaginai che dipendesse dalla forte
attrazione che provavo nei suoi confronti. Evitai accuratamente di
osservarla.
«Mi dispiace di non
poter ricambiare il tuo interesse» disse Samantha
all'improvviso, voltandosi nella mia direzione.
Sollevai lo sguardo e la
osservai in silenzio, sentendomi a disagio nell'udire quelle parole.
«A parte gli scherzi,
dico davvero. Mi dispiace, ma non posso farci niente.»
Annuii. «Certo.»
Riflettei un attimo, poi sorrisi e aggiunsi: «Se ti piacessero
i ragazzi, non è detto che ricambieresti il mio interesse.»
«Ma sì, tutte
le donne vorrebbero stare con te! Anche se sei un pidocchio, hai il
tuo fascino» ammiccò, picchiettandomi sulla spalla.
Risi. «Grazie per il
complimento, ma non credo sia così.»
Samantha tornò seria.
Finì di fumare, poi frugò nella sua borsa e ne estrasse
un portacenere portatile. Schiacciò la cicca contro il
coperchio in metallo, poi la ripose insieme alle altre dentro il
contenitore. Richiuse l'oggetto con uno scatto e lo gettò
nuovamente in borsa.
«Non essere così
negativo, andiamo. Lascia soltanto che le persone ti conoscano, solo
così potranno davvero apprezzarti. Non sei una persona così
malvagia, non lo credo affatto. Leah mi ha parlato bene di te, ti
adora.»
«In amicizia tutti mi
adorano» le feci notare con amarezza.
«E allora? Anche per
me è così, sono single esattamente quanto te.
Evidentemente per noi non è ancora arrivata la persona
giusta.»
«Sono troppo
incasinato per poter trovare l'amore. Ho tante cose da risolvere
prima di lasciare che una persona si metta in mezzo alla mia vita»
spiegai con fermezza.
«Forse è vero,
forse no. Chissà» tagliò corto.
Decidemmo di rientrare in
casa, e quando misi nuovamente piede in salotto mi sentivo più
leggero.
Non avevo idea del perché
sia Sako che Samantha avessero tanta fiducia in me, visto che i fatti
concreti non mi avevano dimostrato niente di ciò che loro
avevano affermato. Avevo molti dubbi sulla mia vita passata e futura,
ma mi sentii meglio all'idea che qualcuno nutrisse delle speranze al
posto mio.
Ero confuso e non sapevo
come sarebbe andata a finire la faccenda con Layla, ma in quel
momento smisi di pensarci e tornai a immergermi completamente nelle
risate e nei racconti della mia piccola, grande, meravigliosa
famiglia.
Ehilà,
buon giovedì a tutti ^^
Sono
qui per svelarvi chi è Mayda, la ragazza che è apparsa
nello scorso capitolo in compagnia di Sako: si tratta di un
personaggio che è apparso nella mia One Shot intitolata
Chakatagir, ma se per caso qualcuno di voi non l'ha letta ed è
curioso di saperne di più, lascio qui il link alla storia:
https://efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3704918&i=1
Bene,
detto questo, vi saluto e spero che anche questo capitolo sia stato
di vostro gradimento ^^
Attendo
come sempre il vostro parere, che per me è importantissimo!
Alla
prossima e grazie di tutto ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 53 *** Angels ***
ReggaeFamily
Angels
[Leah]
Io
e Samantha eravamo a Los Angeles da due giorni e io mi stavo
innamorando perdutamente di quella città. Ancor prima che me
ne rendessi conto, avevo deciso che quel luogo mi avrebbe accolto una
volta conclusi i miei studi, qualsiasi cosa avrei deciso di fare.
Questo sarebbe accaduto a prescindere da tutto, a prescindere da come
sarebbero andate le cose con Shavo.
Lanciai
uno sguardo al bassista. Eravamo sulle scale mobili, in uscita dal
cinema. Avevamo convinto Daron e Samantha a venire con noi, Shavo
aveva voluto assolutamente guardare Beneath,
un film horror dove un gruppo di adolescenti veniva attaccato da una
strana creatura marina simile a un pesce gatto. Personalmente l'avevo
trovato noioso e molto simile a tanti altri, ma il mio ragazzo era
euforico e sembrava avesse scoperto il nuovo capolavoro del secolo.
«Faceva pietà»
commentò Daron, sbadigliando per l'ennesima volta. Il
chitarrista non aveva fatto che strafogarsi di pop corn, annoiato
almeno quanto me.
«No
dai, era carino! Io sono stata in ansia per tutto il tempo»
intervenne Samantha, stringendosi le braccia attorno al corpo. Si
comportava come se ancora si
trovasse dentro la sala del cinema e le scene del film si stessero
ancora svolgendo di fronte ai suoi occhi.
«Non ha fatto che
tremare e mugolare» la punzecchiò Daron. Poi sogghignò
e le diede di gomito. «In altre circostanze mi sarei divertito
a consolarti, bellezza» aggiunse.
Samantha alzò gli
occhi al cielo e saltò a terra, essendo la prima della fila a
dover scendere dalle scale mobili.
Afferrai la mano di Shavo e
me lo trascinai dietro. «Invece questo qui era tutto preso dal
film» sbuffai, lanciando un'occhiata veloce al bassista.
«Mi è piaciuto
tantissimo, oh, che bomba!» esclamò lui, per poi
stringersi nelle spalle e rivolgermi un sorriso luminoso e ampio.
«Sei senza speranze,
faceva proprio schifo. A un certo punto mi sono appisolata»
raccontai.
«Tu non capisci
l'arte» blaterò Shavo.
«Come
no. Io avrei voluto vedere Aftershock,
ma tu hai detto che quello è troppo drammatico. Sei una
femminuccia, Shavarsh. Almeno si basa su una storia vera»
ribattei con convinzione, camminando verso l'uscita della struttura.
Il cinema si trovava
all'interno di un grande centro commerciale, un luogo affollato e
ampio, con profumava di cibo spazzatura e puzzava di umanità.
«Io
invece avrei guardato volentieri quella commedia del centro anziani»
borbottò Daron, prendendo sottobraccio Samantha e spingendola
verso l'uscita.
«Anche
quello dev'essere carino. Si chiama 3 Geezers!»
esclamai.
«Ho proposto io di
venire al cinema, quindi era logico che avrei scelto io cosa
guardare. Fatevene una ragione» gracchiò il bassista in
tono solenne.
Scoppiammo tutti a ridere e
finalmente ci ritrovammo all'aria aperta. Erano quasi le otto di
sera, ma l'aria non si era ancora rinfrescata. Ormai eravamo a fine
maggio e il caldo sarebbe andato sempre crescendo. Tuttavia, non mi
sentivo soffocare come quando mi trovavo a Las Vegas; il fatto che la
mia città natale fosse così vicina al deserto rendeva
il clima particolarmente invivibile in molti periodi dell'anno.
Mentre cercavamo l'auto di
Daron nell'immenso parcheggio, notai un ragazzo sui vent'anni che ci
fissava. Tentai di non badarci troppo, ma sentivo il suo sguardo
addosso e la cosa mi infastidiva.
Poco dopo, il giovane prese
a camminare verso di noi e ci venne dietro, poi lo sentii chiamare a
gran voce: «Shavo? Shavo!».
Il bassista si bloccò
all'improvviso e si voltò nella sua direzione senza lasciar
andare la mia mano. Anche Daron e Samantha si fermarono e rimasero in
piedi qualche metro dietro di noi.
Il
ragazzo ci raggiunse, così potei osservarlo meglio: era alto
circa un metro e ottanta, portava i capelli rasati ai due lati della
testa e nel mezzo sfoggiava una cresta verde fluorescente;
contrariamente a quanto mi aspettassi, non mostrava
di possedere piercing e tatuaggi, il suo viso appariva sottile e dai
lineamenti piuttosto delicati, accentuati dalla totale assenza di
barba, baffi e pizzetto.
«Ciao. Cosa posso fare
per te?» gli domandò Shavo, regalandogli un sorriso.
«Scusa se ti disturbo,
davvero, ma quando ti ho visto... ti ho riconosciuto subito, sai, per
il pizzetto» spiegò tutto agitato il tizio, gesticolando
e mostrando di essere piuttosto timido e a disagio.
«Ma certo, questo
affare mi tradisce sempre! Come ti chiami, amico?» proseguì
il bassista.
A quel punto gli lasciai la
mano e mi feci leggermente da parte, raggiungendo Daron e Samantha.
«Non mi ha
riconosciuto» sibilò il chitarrista, mettendosi di
spalle con discrezione, con la scusa di costruirsi una sigaretta.
«Se rimani così,
dubito che si renderà conto che ci sei anche tu. Però
sembra tranquillo, dai. Sei proprio un orso» lo punzecchiai.
«Pidocchio antipatico»
sentenziò Samantha, lanciando un'occhiata dispiaciuta in
direzione di Shavo e del suo fan.
«Bene, Steve, certo
che facciamo una foto!» sentii dire al mio ragazzo.
Osservai Steve portar fuori
il suo cellulare, poi si bloccò e si guardò attorno.
«Cosa c'è che
non va, amico?» gli chiese Shavo in tono tranquillo.
«Sono una frana con i
selfie... non è che qualcuno...» Il suo sguardo incrociò
quello di Samantha. «Signorina, mi scusi, può scattare
lei la foto?» la apostrofò timidamente.
Lei si sciolse in un caldo
sorriso, nel quale però mi parve di scorgere qualcosa di
strano. Le mie supposizioni divennero realtà quando la sentii
parlare.
«Certo, ci penso io.
Ehi, Daron, perché non ti avvicini anche tu? Magari il ragazzo
vuole conoscerti» disse infatti la mia amica a voce alta.
Osservai prima il
chitarrista, il quale sbiancò per un istante e fu costretto a
lasciar perdere la preparazione della sua stecca di erba; poi lanciai
un'occhiata a Steve e mi resi conto che i suoi occhi si erano
sgranati per la sorpresa.
Samantha afferrò
Daron per un braccio e lo trascinò con sé, continuando
a blaterare: «Non ti eri accorto di lui, vero? Sai com'è
fatto, a volte è un po' acido. Ma eccolo qui, ti presento
Daron, il chitarrista della band».
Ridacchiando, mi accostai
anche io agli altri e continuai a godermi la scena.
«Daron, che piacere!
Ho riconosciuto Shavo, ma non ti avevo proprio visto! Che fortuna!»
esclamò Steve tutto contento.
Mi
accorsi solo in quel momento che una mezza dozzina di persone si era
radunata poco distante da noi: tutti tenevano gli occhi puntati sui
due componenti dei System e stringevano in mano fotocamere e
cellulari, attendendo pazientemente di
poter chiedere loro una foto.
«Shavarsh, ce ne sono
altri» mormorai, accostandomi con discrezione a lui.
Intanto Daron era ammutolito
e la sua espressione si era fatta di pietra; non mutò neanche
quando Steve si accostò timidamente a lui per fare la foto, né
quando Samantha gli intimò di sorridere e di smetterla di
essere così burbero e intrattabile.
Sapevo benissimo che la mia
amica stava sbagliando; forse io e Daron non ci conoscevamo da una
vita, ma avevo imparato a capire quando era il caso di lasciarlo in
pace e di non forzare la mano. Quel giorno era stato particolarmente
silenzioso e si era annoiato durante il film, inoltre aveva cercato
di evitare che Steve lo vedesse, segno che non aveva nessuna voglia
di avere a che fare con fan e ammiratori. Invece ora si ritrovava a
dover soddisfare non solo uno, ma diversi seguaci che si erano
accorti della presenza di due musicisti dei System Of A Down nel
parcheggio di quel centro commerciale situato poco distante da Van
Nuys, a Los Angeles.
Decisi di intervenire, non
potevo sopportare che Daron stesse così male. Lo vedevo
terribilmente a disagio e la cosa non mi piaceva per niente.
«Daron, scusa, mi
accompagni a comprare qualcosa da mangiare? Credo di avere un calo di
zuccheri» feci, poco prima che Samantha scattasse l'ennesima
foto a lui, Shavo e Steve.
«Ma Leah, è con
i suoi fan! Non puoi aspettare?» saltò su la mia amica.
La incenerii con lo sguardo
e afferrai Daron per il gomito, trascinandolo via senza badare alle
proteste di Samantha e degli altri ragazzi che avrebbero voluto avere
a che fare con lui.
«Mi dispiace tanto per
Sam. Dopo le parlo e sistemo le cose» dissi al mio amico,
rientrando nel centro commerciale.
Daron si guardò
intorno in cerca di una panchina e, dopo averne individuato una
libera, si diresse subito in quella direzione con me al seguito.
«Non preoccuparti,
posso parlare io con Samantha» rispose in tono piatto.
Ci sedemmo su una scomoda
tavola di legno levigato, sorretta da una struttura in ferro e priva
di schienale. Mi voltai subito in cerca degli occhi del chitarrista e
li trovai cupi, assorti in chissà quali pensieri.
«Daron, mi dispiace.
Davvero» ripetei, non sapendo assolutamente cos'altro dire.
«Non importa. Forse ha
pure ragione. Sono sempre così acido con i miei fan...»
Scossi il capo. «No!
Non è sempre così, non essere sciocco e non dare retta
a ciò che ti dice Sam. Lei spesso esagera, la conosco bene e
so che è fatta così. È una ragazza orgogliosa,
non ammetterà mai di aver sbagliato. Ma credo che si sia già
resa conto di aver commesso un errore» lo rassicurai.
Daron
si piegò in avanti e appoggiò le braccia sulle
ginocchia, lasciando penzolare le mani di fronte a sé. «Leah,
perché mi piacciono sempre le persone
sbagliate?» mi domandò all'improvviso.
Rimasi spiazzata, ma provai
anche un moto di tenerezza nei confronti del mio amico. Allungai una
mano e gliela posai sulla spalla.
«Dico sul serio»
aggiunse.
«La vita è una
bastarda, ecco perché. Credi che a me non sia capitato? Senti
questa.»
Lui mi lanciò
un'occhiata e annuì. «Racconta.»
Mi sistemai meglio al suo
fianco e cominciai a raccontare: «Qualche anno fa ho conosciuto
un ragazzo. Frequentava il mio stesso liceo, ma era più
piccolo di me di un anno. Si chiamava Morgan ed era veramente
intrigante. Lo trovavo divertente, dolce, carino, attraente. Mi ero
presa una bella sbandata per lui, non facevo che parlare di lui,
pensare a lui, sognare lui... era diventata una vera e propria
ossessione. Il fatto che lui frequentasse il mio stesso gruppo di
amici non ha facilitato le cose: lo vedevo tutti i giorni, uscivamo
insieme e trascorrevamo un sacco di tempo insieme. Parlavamo un
sacco, ridevamo, ci divertivamo e avevamo molte cose in comune. Più
il tempo passava, più il mio interesse per lui cresceva».
Daron mi osservò con
aria perplessa. «Poi cos'è successo? Gli hai chiesto di
uscire?» volle sapere.
«Oh,
no! Pensi davvero che io fossi così allora? Ti sbagli. Ero una
ragazza molto timida e riservata, ho dovuto lavorare molto su me
stessa per diventare così espansiva e aperta. Il college mi ha
aiutato molto in questo. Sta di fatto che all'epoca ero
quasi del tutto incapace di prendere iniziative. Capitò che un
giorno dovevamo uscire in quattro, ma due dei nostri amici ebbero
un'accesa discussione per telefono e si rifiutarono di incontrarsi.
Avevamo già organizzato tutto, così io e Morgan
decidemmo di uscire lo stesso, anche se eravamo rimasti soli. Non
immagini quanto fossi emozionata, non facevo che pensarci, sperando
che succedesse qualcosa tra noi.»
«E allora?»
Sospirai. «Uscimmo. Io
avevo appena litigato con mio padre, ero incazzata come una belva ed
ero molto triste. Morgan fu dolcissimo, mi consolò e si prese
cura di me, abbracciandomi e coccolandomi. E allora mi sentii in
dovere di ringraziarlo, trovai il coraggio per fargli capire quanto
mi piaceva. Lo baciai.»
Daron a quel punto mi fissò
negli occhi, facendosi sempre più curioso. «E...?»
«E lui ricambiò
per un istante, poi si bloccò e si scostò con
delicatezza. Fu dolce, certo, sono stata fortunata da quel punto di
vista. Ma mi disse che era confuso, che stava attraversando una fase
difficile della sua vita e non sapeva se fosse interessato alle
ragazze.»
«Merda!» esclamò
Daron, portandosi una mano alla fronte.
«Già.
Ho sofferto tantissimo. Però non potevo farci niente. In
seguito ho scoperto che Morgan usciva con una ragazza, ma qualche
mese dopo venne fuori che era stata tutta una copertura per
nascondere la sua relazione
con un universitario che aveva conosciuto su internet. Poi ho perso
le sue tracce, non ho idea di che fine abbia fatto. Ma all'epoca
soffrii tantissimo e mi domandai anch'io ciò che ti stai
domandando tu: perché dovevo sempre perdere la testa per le
persone sbagliate?» conclusi.
Daron sospirò. «A
te è successo solo una volta» commentò.
«Ah, no!» Presi
a raccontargli altre disavventure della mia vita sentimentale: gli
parlai di quella volta in cui un ragazzo si mise con me per via di
una scommessa, di quando mi ero innamorata di un mio professore
universitario e di come lui mi avesse lasciato intendere che la cosa
fosse reciproca senza che poi il tutto avesse un seguito; gli parlai
di Jordan, il ragazzino di seconda media a cui avevo dato il mio
primo bacio e di quanto fossi stata una frana. Raccontai a Daron un
sacco di cose, per poi giungere alla relazione più complicata
che avevo vissuto.
«Lui
era tre anni più grande di me. Ero in prima liceo, lui in
terza. Aveva ripetuto la seconda. Si chiamava Michael ed era
bellissimo, muscoloso e simpatico. Mi aveva messo gli occhi addosso,
ma si comportava da prepotente con me. Solo ora mi rendo conto che
somigliava terribilmente a mio padre negli atteggiamenti. Per fartela
breve, uscimmo insieme per qualche mese, poi scoprii che mi tradiva
con un sacco di altre ragazze. E addirittura si divertiva a fare
sesso di gruppo. Era un
porco. E io ho perso la verginità con quel porco.»
Digrignai i denti e spostai lo sguardo da Daron a un punto indefinito
di fronte a me.
Il chitarrista mi si accostò
e mi circondò le spalle con un braccio. «Ehi, va tutto
bene. Non devi fartene una colpa. Tu tenevi a lui, ti fidavi di lui.
È stato lui a comportarsi male con te» tentò di
rassicurarmi, facendomi posare la testa sulla sua spalla.
Il vociferare delle persone
presenti nel centro commerciale e il loro viavai fu in grado di
rendere l'atmosfera stranamente intima; sentivo di potermi sfogare
con Daron nonostante non fossimo soli e tutt'intorno a noi si
stessero srotolando centinaia di vite diverse.
«Avrei voluto fosse
diverso, avrei preferito aspettare. È andata meglio con un
altro ragazzo, ma alla fine ci siamo lasciati perché io non
ero realmente interessata a lui a livello sentimentale.»
«Pensa al presente»
mi suggerì il chitarrista, accarezzandomi distrattamente la
spalla.
«Sì, hai
ragione. Ma volevo farti capire che non devi preoccuparti, che tutti
prima o poi si innamorano della persona sbagliata. Sam è
lesbica, non potrebbe mai succedere qualcosa tra voi. Ma sono certa
che presto troverai una persona che possa ricambiarti come meriti»
affermai, scostandomi da lui per poi abbracciarlo. Gli battei
affettuosamente sulla schiena e aggiunsi: «Coraggio, andrà
tutto bene. Basta non avere fretta».
«È come dici
tu, ma ci sono delle volte in cui mi sento proprio a terra»
mormorò il chitarrista sciogliendo l'abbraccio.
«Ti capisco e mi
dispiace.»
«Ci sono tante cose
che non vanno in me. Ora che ripenso a come mi sono comportato con
quei ragazzi là fuori, mi viene il voltastomaco. Sono
disgustoso certe volte. Perché non riesco a cambiare questo
atteggiamento? Eppure a volte le cose vanno diversamente, a volte...»
Lo interruppi: «Può
capitare a tutti di avere una giornata no. E poi ognuno ha il proprio
carattere».
Daron scosse il capo e si
alzò di scatto. «Dai, torniamo dagli altri»
affermò con decisione.
Lo osservai dal basso,
leggermente allarmata e preoccupata da quel suo comportamento. «Che
vuoi fare?» gli chiesi, per poi rimettermi in piedi a mia
volta.
Lui mi rivolse un sorriso
luminoso e riconoscente. «Parlare con te mi ha fatto bene,
amica» ammise, per poi sporgersi verso di me e lasciarmi un
breve bacio sulla guancia.
Poi si voltò e si
avviò nuovamente verso l'uscita. Rimasi immobile per un attimo
a osservare la sua figura avvolta in un paio di jeans scuri e in una
leggera felpa nera e rossa. Non avevo idea di cosa gli passasse per
la mente, ma decisi di raggiungerlo e scoprirlo.
Una
volta tornati nel parcheggio, diedi un'occhiata allo schermo del mio
cellulare e mi resi conto che doveva
essere trascorsa quasi un'ora da quando io e Daron ci eravamo
dileguati all'interno dell'edificio.
Rimasi molto sorpresa quando
scorsi Shavo e Samantha che, appoggiati all'auto di Daron,
chiacchieravano e ridevano in compagnia di Steve e di altre due
persone. Si trattava di un ragazzo e una ragazza che dovevano aver
riconosciuto il bassista dei System e che poi si erano fermati a
parlare con lui.
Io e Daron li raggiungemmo
velocemente e io notai che il chitarrista si era palesemente
rilassato.
«Leah!» Shavo mi
venne incontro non appena si accorse di me. Mi prese tra le braccia e
mi chiese in tono allarmato se andasse tutto bene.
«Ah Shavarsh, sei
sempre il solito sciocco. Certo che va tutto bene» risposi in
tono divertito, strizzandogli l'occhio e facendo un cenno in
direzione di Daron.
Il bassista sospirò e
mi portò con sé accanto all'auto, poi picchiettò
sulla spalla di Steve e annunciò: «Come ti dicevo, lei è
la mia ragazza».
Mi sentii avvampare
violentemente e non riuscii a far altro che sorridere al ragazzo.
Lui ricambiò, poi
esclamò: «La famosa Leah! Shavo e Samantha non hanno
fatto altro che parlare di te per tutto il tempo!».
«Esagerati»
borbottai imbarazzata.
«Ciao,
io sono Jennifer. Lui è mio fratello Nathan» intervenne
la ragazza mora e piccoletta che si stava
intrattenendo con il mio ragazzo e la mia amica.
«Piacere di
conoscervi.»
«Ragazzi, scusatemi
per prima» disse Daron, dopo aver stretto la mano ai tre
giovani. «Non sapevo...»
«È colpa mia se
Daron è dovuto scappare, non mi sentivo bene e lui se n'era
accorto. Era preoccupato per me, è un amico molto premuroso»
lo interruppi, sorridendogli con fare riconoscente.
«Ma figurati, non c'è
problema» commentò Nathan; era piccoletto quanto sua
sorella ed era piuttosto robusto, aveva un viso simpatico e dei
capelli biondi e ricci che gli conferivano un'aria da angioletto del
presepe che faceva tenerezza.
«Facciamo un po' di
foto? Ora che Leah sta bene, posso finalmente sorridere»
scherzò il chitarrista, accostandosi a Steve e ai due
fratelli.
Notai che Jennifer e Steve
si sistemarono vicini, e subito cominciai a sghignazzare con
Samantha, immaginando che tra loro potesse nascere qualcosa di
romantico e dolce.
«Guarda che carini!»
bisbigliai all'orecchio della mia amica, mentre lei scattava alcune
foto ai musicisti dei System e ai loro fan.
Lei ridacchiò e fece
fatica a tenere fermo il braccio. «Sì, che meravigliosa
coppietta» cinguettò con un filo di voce.
«Ehi, voi due! Che
avete da ridere?» ci apostrofò Shavo.
«Shavarsh, taci e
mettiti in posa! E sorridi, smettila di fare quella faccia da
gangster fallito!» strillai.
I tre giovani scoppiarono a
ridere e Samantha cominciò a scattare a raffica, riprendendo
sorrisi spontanei e smorfie contrariate da parte del mio ragazzo.
Daron si stava divertendo e intanto faceva il cascamorto con
Jennifer. Mi accorsi che lo faceva apposta per vedere come avrebbe
reagito Nathan, ma anche per capire se Steve fosse interessato a
quella ragazza.
«Siete simpatici»
disse il chitarrista una volta terminato il momento delle foto.
«Grazie, anche tu!»
rispose Jennifer, guardandolo con gli occhi luminosi e colmi di
ammirazione.
«Avete già
preso i biglietti per il nostro concerto allo stadio dei Dodgers?»
volle sapere Shavo.
«Noi sì! Che
bella location, ragazzi! Sarete emozionati all'idea di suonare là
dentro» replicò Nathan allegro.
«Io non sono riuscito
a prendere il biglietto, cazzo» borbottò Steve con fare
contrariato.
Mentre Shavo chiacchierava
con Nathan a proposito del luogo del loro prossimo spettacolo, Daron
si accostò a Steve.
«Come mai?» gli
chiese in tono dispiaciuto.
Il ragazzo, imbarazzato, si
grattò la nuca e distolse lo sguardo.
«Okay, non importa il
motivo. Bisogna fare qualcosa» aggiunse il chitarrista con fare
deciso.
Steve
alzò di scatto la testa e lo fissò con aria perplessa.
«Che cosa dici?»
Spostai lo sguardo dall'uno
all'altro, non sapendo cosa aspettarmi dal mio amico. Anche Samantha
parve incuriosita dalla cosa e attese di saperne di più.
«Shavo! Ehi,
Odadjian!» strillò Daron.
Il bassista sobbalzò
e si voltò a lanciargli un'occhiataccia. «Che hai da
gridare?» sbottò.
«Steve non ha il
biglietto per il concerto» spiegò. «Dobbiamo fare
qualcosa.»
Shavo aggrottò la
fronte, riflettendo per un attimo sulla questione, poi schioccò
le dita e annuì. «Ci sono. Steve, amico, dammi il tuo
nominativo. Tu stai tranquillo, quando arrivi all'ingresso dai il tuo
nome all'impiegato ed entri. Non ci sarà nessun problema, te
lo assicuro. Ci penso io.»
Steve sbiancò, poi
avvampò, poi assunse un colorito che era a metà strada
tra l'una e l'altra cosa. Si dovette appoggiare con una mano al SUV
nero di Daron per non perdere l'equilibrio.
«Stai bene?» gli
chiesi. Potevo immaginare come dovesse sentirsi in quel momento, ma
forse non ero in grado di comprenderlo fino in fondo.
Jennifer e Nathan
ammutolirono e tennero gli occhi fissi su Shavo, palesemente
increduli.
«Ehi, ragazzi! Che
succede?» fece Daron in tono allegro.
«Siete
impazziti?!» squittì all'improvviso Steve, per poi
gettarsi letteralmente addosso al bassista e stritolarlo in un
abbraccio. «Oh, merda! Merda! Merda!» continuava a
ripetere. I suoi occhi si erano
riempiti di lacrime e lui non riuscì a controllarle.
«Ehi, che sarà
mai!» minimizzò il bassista, ridendo e picchiettando
affettuosamente sulla schiena del ragazzo.
Per la gioia che stava
provando, Steve lasciò andare Shavo e si precipitò ad
abbracciarci tutti, a uno a uno. «Siete degli angeli! Vi amo
tutti!» strillò.
Scoppiammo tutti a ridere,
poi Shavo ricordò a Steve che doveva dargli il suo nominativo.
Samantha portò fuori un bloc notes dalla sua enorme borsa e
strappò un foglio, per poi consegnarlo a Shavo insieme a una
penna blu.
Il bassista segnò i
dati di Steve e pretese di avere anche quelli di Nathan e Jennifer.
«Perché?»
chiese la ragazza perplessa.
«Dopo il live passate
a salutarci nel backstage» disse semplicemente il mio ragazzo,
per poi stringersi nelle spalle e restituire la penna a Samantha.
Ripiegò il foglietto e lo ripose con cura nella tasca dei suoi
jeans.
«Cosa?!»
sbottarono all'unisono i tre ragazzi, sempre più increduli.
Daron regalò un
abbraccio a ognuno di loro, poi concluse: «Noi adesso andiamo.
Ma ci conto, voglio trovarvi nel backstage».
«Sì, cazzo!»
esultò Nathan.
«Ci saremo!»
assicurò Jennifer in tono sognante.
«Ragazzi, grazie
ancora, davvero... io...»
Shavo
mollò una pacca sulla schiena di Steve e gli sussurrò
qualcosa all'orecchio. Vidi il ragazzo avvampare, poi scoppiò
a ridere e salutò calorosamente il bassista.
Mentre prendevamo posto in
macchina, notai che i tre ragazzi non si erano ancora salutati e che
sembravano apprezzare particolarmente la compagnia gli uni degli
altri.
Seduta sul sedile posteriore
in compagnia di Samantha, mi sporsi in avanti e domandai: «Shavarsh,
cosa hai sussurrato a Steve?».
Il bassista ridacchiò.
«Gli ho detto di darci dentro con Jennifer» rispose.
Risi. «Lo sapevo!»
«Speriamo sia così»
esalò Samantha con un sospiro fintamente drammatico. Poi si
raddrizzò sul sedile e batté le mani. «Ehi,
ragazzi?»
«Che c'è?»
fece Daron.
«Posso venire anche io
al vostro concerto? Non ho fatto in tempo a prendere il biglietto»
chiese la mia amica, ostentando un tono di voce fintamente
imbarazzato.
Shavo scoppiò a
ridere e si allungò sul sedile. «Scema. Se non ci sei
tu, Leah con chi starà?»
Io incrociai le braccia al
petto e gli lanciai una linguaccia attraverso lo specchietto. «E
chi ti dice che io voglia venire al vostro stupido concerto?»
scherzai.
«Vaffanculo!»
sbottò Daron, per poi accendere la radio.
Trascorremmo
il resto del viaggio tra le risate, cantando tutte le canzoni che
capitavano; passammo da Elton
John a Rihanna, da Katy Perry ai Creedence Clearwater Revival,
trovando perfino un brano di Bruce Springsteen che cercammo di
decifrare in quanto, nonostante cantasse in inglese, si mangiava metà
delle parole e comprendere i suoi testi risultava sempre molto
difficile.
Fu una bellissima serata.
Andai a dormire con il sorriso sulle labbra e il cuore leggero;
nonostante mi trovassi in un bed & breakfast di poche pretese, mi
sentii felice e completa. Ero nel luogo in cui volevo essere e sapevo
che il giorno seguente avrei potuto stringere ancora il mio amato
bassista tra le braccia e trascorrere del tempo con lui e con il
resto della mia nuova famiglia.
Carissimi
lettori, sono qui per scusarmi se il capitolo risulta più
lungo del solito, ma non mi andava proprio di dividerlo ^^
No,
scherzi a parte, scrivo queste brevi note giusto per farvi sapere che
i film citati nella prima parte del capitolo sono veramente usciti
nel mese di maggio 2013, periodo in cui è ambientata questa
storia. Mi sono documentata e mi sono lasciata ispirare delle trame;
ho optato per Beneath
perché mi sembrava un film molto adatto a Shavo, secondo me
lui andrebbe a sprecare i suoi soldi al cinema per vedere certe robe
XD
Che
ve ne pare? Avete visto cos'hanno combinato i nostri due eroi con
quei tre fan? E soprattutto con il povero Steve, che fin da subito mi
è stato simpatico e ho voluto fargli vivere un'esperienza
speciale :3
Ora
la smetto, attendo i vostri commenti e intanto vi do appuntamento al
prossimo capitolo e vi ringrazio per tutto l'affettuoso sostegno che
costantemente mi date!
A
presto ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 54 *** Pre-show ***
ReggaeFamily
Pre-show
[Shavo]
Me
ne stavo appollaiato sul bracciolo di un divanetto situato nel
backstage; questo era stato allestito negli spogliatoi del Dodger
Stadium, uno dei più importanti complessi sportivi della
città. Noi dei System eravamo eccitatissimi all'idea di
suonare in quel luogo, ci eravamo preparati alla grande e avevamo
atteso quell'evento con trepidazione.
La
vacanza in Giamaica era stata una breve e piacevole distrazione, ma
subito dopo avevamo dovuto darci da fare e metterci al lavoro. Non
appena anche John era rientrato dall'isola caraibica insieme alla sua
nuova compagna, ci eravamo chiusi in sala prove e avevamo avuto ben
poco tempo per tutto il resto. Ci eravamo lasciati assorbire
completamente dai nostri strumenti e dai nostri brani, lasciando
fuori qualsiasi altra cosa.
Avevo
temuto che Leah se la prendesse con me, che mi avrebbe accusato di
trascurarla per il mio lavoro, ma come al solito mi ero dovuto
ricredere e avevo capito che con lei non dovevo temere, perché
era conscia di avere una relazione con un musicista e la cosa
sembrava non crearle alcun tipo di problema.
In
quel momento si aggirava per il backstage con aria eccitata,
sgranocchiando qualcosa che aveva pescato da un tavolino imbandito;
avevamo organizzato una specie di banchetto, il quale si arricchiva
ogni volta che qualcuno metteva piede nella stanza principale. Ognuno
portava qualcosa da bere e da mangiare, e il nostro momento prima del
live stava diventando una sorta di festa di compleanno mal assortita.
«Quante
volte devo dirti che sarebbe meglio non mangiare prima del concerto?»
sbottò improvvisamente Serj, apostrofando Daron mentre il
chitarrista rovistava sul tavolino e raccattava dolcetti e altre
prelibatezze.
«Non
rompere» sbuffò l'altro, ficcandosi in bocca una pralina
sferica completamente ricoperta di cioccolato. «Buono!»
biascicò a bocca piena, senza preoccuparsi di pulirsi il muso.
«Daron!
Sei un irresponsabile!» tuonò ancora Serj.
In
quel momento John entrò nella stanza e si guardò
attorno, poi raggiunse il tavolino e raccattò una pizzetta.
«Perché
lui può? Perché non gli rompi i coglioni?»
gracchiò il chitarrista, indicando l'ultimo arrivato.
«Lui
è un batterista, non deve cantare! Oddio, non vorrai davvero
mandare giù quel tortino
alle noci? Ti prego!» proseguì il cantante, portandosi
le mani alla testa con fare disperato.
Era
una scena che avevo vissuto un sacco di volte, ma era sempre come se
si trattasse della prima; mi
divertivo un sacco e mi godevo quei battibecchi con un sorriso
ironico stampato in viso. Tutto ciò mi aiutava a rilassarmi e
a scaricare un po' di tensione. Mi sentivo come se io non fossi parte
della band e potessi estraniarmi del tutto dalla situazione che mi
aspettava, come se stessi assistendo alla scena comica di una soap
opera di quart'ordine e sapessi che quella non era la realtà.
Forse ero strano, ma la cosa mi confortava e non riuscivo bene a
comprendere perché.
«Che importanza ha?
Una cosa vale l'altra» minimizzò il chitarrista,
addentando famelico il dolcetto che teneva nella mano sinistra.
«No, no! Non è
così! Prima di cantare, dovresti evitare gli zuccheri, la
frutta secca... ti impasta le corde vocali! E tu che non usi nessuna
tecnica per cantare sei ancora più a rischio! Daron, vuoi
darmi retta?»
John a quel puntò
finì di mangiare la sua pizzetta e fece spallucce. «Ehi
Serj, di che ti preoccupi? Daron fa schifo in ogni caso, anche se
rimanesse a digiuno e si spremesse un limone in bocca prima di
cantare, sai, per idratare bene le sue povere corde vocali...»
commentò, ostentando indifferenza e lanciando una breve
occhiata al chitarrista.
Quest'ultimo rischiò
di strozzarsi e divenne paonazzo per la rabbia, per poi cominciare a
tossicchiare ripetutamente. Qualcosa doveva essergli andato di
traverso.
A quel punto scoppiai a
ridere e sollevai una mano per far capire a John che volevo dargli il
cinque, anche se non avevo voglia di alzarmi. Lui fece qualche passo
verso di me e mi accontentò, per poi ridacchiare.
«Bastardi!»
farfugliò Daron; ormai i suoi occhi lacrimavano copiosamente e
il suo colorito non accennava a tornare di una tonalità
normale.
A quel punto Leah lo
raggiunse e prese a picchiargli con forza sulla schiena. «Dai,
respira. Che combini, amico?» gli si rivolse con una vena di
preoccupazione nella voce.
Ogni volta che li vedevo
così vicini, mi chiedevo come potessi non provare neanche un
pizzico di gelosia. Forse non era normale come cosa, ma sentivo di
potermi fidare completamente di entrambi e non nutrivo alcun dubbio
sul fatto che il loro fosse solo un bellissimo rapporto di amicizia.
«Questi stronzi...»
bofonchiò ancora in difficoltà.
Leah lo spinse verso il
divanetto e lui si lasciò cadere a poca distanza da me, per
poi accettare il bicchiere che Serj gli porgeva.
«Bevi un po' d'acqua,
ti farà bene. Hai fatto un casino anche stavolta, lo sai?»
lo rimbrottò ancora, per poi sospirare pesantemente.
«Ah, lasciami in pace.
Cazzo.»
L'atmosfera
era cambiata, me ne resi improvvisamente conto dal tono duro e
irritato che Daron aveva appena utilizzato; così lanciai
un'occhiata a Serj e gli feci capire che forse era meglio
se si fosse allontanato un attimo dalla stanza.
Lui scosse il capo e uscì.
Sapevo che era contrariato, ma non era il caso di creare ulteriori
tensioni prima del concerto.
Poco dopo qualcuno
picchiettò sullo stipite della porta, poi Mayda fece il suo
ingresso nel backstage.
«Leah! Quando sei
arrivata?» domandò la ragazza di Sako.
L'altra si voltò
nella sua direzione e corse ad abbracciarla. «Ehi! Sono
arrivata questa mattina, fino a ieri stavo studiando per un test. La
prossima settimana mi tocca!» spiegò la mia ragazza in
tono allegro.
«Andrà bene,
vedrai!» la rassicurò Mayda. «Tu sei in gamba!»
Poi si voltò verso di noi e inclinò il capo di lato,
notando l'espressione accigliata di Daron. «Che ti prende,
Daron? Sako mi ha mandato a cercarti, vieni?» gli si rivolse.
«No» replicò
lui seccamente, senza neanche degnarla di uno sguardo.
«Fa' come vuoi, ho
capito.» Mayda sollevò le mani in segno di resa, poi si
avviò nuovamente verso la porta. Poco prima di uscire, però,
si bloccò di scatto e indietreggiò. «E voi chi
siete?» sbottò allarmata.
L'attenzione di tutti si
concentrò sulla soglia, sulla quale poco dopo comparvero tre
figure accaldate e visibilmente spaesate.
Riconobbi
subito i tre ragazzi che avevamo conosciuto
nel parcheggio del centro commerciale qualche mese prima, non tanto
perché mi fossero rimasti impressi i loro volti, ma perché
non potevano essere che loro. Inoltre, la cresta verde fluorescente
di Steve era inconfondibile.
Mi alzai finalmente dalla
mia postazione e mi sciolsi in un sorriso, andando loro incontro e
facendogli cenno di accomodarsi.
«Oh, ma siete venuti
davvero!» esultò Leah, riconoscendo a sua volta i tre
nuovi arrivati.
«Buonasera»
esalò Steve, per poi grattarsi una tempia con fare
imbarazzato. Spostava freneticamente lo sguardo da un punto all'altro
della stanza, come se non sapesse esattamente dove posarlo per non
risultare invadente.
Notai che Nathan, il biondo
dall'aria simpatica, aveva adocchiato John ed era impallidito come un
cencio.
«Nat, che fai? Ehi,
stai bene?» si preoccupò sua sorella, afferrandolo per
un braccio.
«Ragazzi! Sono
contentissimo che siate venuti!» esclamai, cercando di
stemperare l'atmosfera.
«E loro chi sono?»
chiese John, osservando i tre con curiosità.
«Sono
quei tre ragazzi che abbiamo conosciuto fuori dal centro commerciale.
Ricordi che te ne ho parlato?» gli spiegai, dandogli di gomito.
Forse mi ero dimenticato di dirglielo, ma volevo che fosse gentile
con i nostri ospiti e non li trattasse con diffidenza. Non che avessi
dubbi sul buon senso e sull'educazione
del batterista, ma volevo essere certo che capisse.
«Giusto! Be', ciao,
piacere. Io sono John» si fece avanti il mio amico, tendendo la
mano a Steve.
Il ragazzo sorrise e notai i
suoi occhi inumidirsi leggermente. Forse si stava rendendo conto solo
in quel momento di trovarsi nel backstage di una delle sue band
preferite, ma a me faceva uno strano effetto pensare che qualcuno si
potesse emozionare così tanto all'idea di starci vicino.
Eravamo solo delle persone, ma qualcuno una volta mi disse che
avevamo avuto la fortuna di riuscire a creare musica in grado di
emozionare chi la ascolta e di raggiungere così il cuore del
pubblico. Forse era questo a renderci così speciali per i
nostri ammiratori, anche se personalmente non mi sentivo superiore a
qualcun altro. Ero soltanto Shavo Odadjian.
«Io sono Steve. Lei è
Jennifer, lui è Nathan... credo che... Nat, stai male?»
balbettò il ragazzo dall'acconciatura punk.
«Colpa di John»
sogghignò sua sorella. «È un piacere conoscerti.
Mio fratello solitamente è più loquace, molto più
loquace, ed è anche meno pallido e sudaticcio, già...
solo che, be', ecco...» Si interruppe e indirizzò un
sorriso luminoso al batterista. «Tu sei il suo mito, non so se
mi spie...»
«Jennifer!»
strillò Nathan, conficcando le sue unghie nel braccio della
ragazza.
«Ahi, sei scemo? Mi
fai male! Dico solo...»
John
scosse il capo e ridacchiò. «Siete dolcissimi. Nathan,
mi fa piacere sapere che in qualche modo io rappresenti
un'ispirazione per te, ma credo proprio ci siano tanti altri
batteristi validi nella scena musicale.» Si strinse nelle
spalle. «Non faccio niente di speciale, cerco solo di
esprimermi attraverso lo strumento che più amo.»
Nathan
espirò bruscamente e lanciò al batterista un'occhiata
difficile da decifrare, poi sbottò all'improvviso: «Cazzo,
ma che dici? Non fai niente di speciale?
Fai solo cose
mostruosamente belle, sai, tu giochi con quella fottuta batteria e
giochi con il mio cuore ogni volta che ti ascolto! Puoi prendermi per
pazzo, ma io ti amo fottutamente, John Dolmayan!».
Ebbi paura che John si
ritraesse e che fosse stato spaventato dalle parole di quel ragazzo,
ma la reazione del mio amico mi sorprese non poco: lo vidi fissare
per qualche istante il suo ammiratore, poi scoppiò a ridere e
si accostò al ragazzo. Gli circondò le spalle con fare
amichevole e gli scompigliò affettuosamente i capelli già
tremendamente arruffati.
«Che carini! Dobbiamo
immortalare questo momento» affermai, estraendo subito il mio
cellulare.
Leah si accostò a me
e mi circondò la vita con le braccia, appoggiando il capo
sulla mia spalla. «Anziché scattare foto a quei
poveretti, perché non ne facciamo una insieme?» mi
propose in tono divertito.
«Aspetta.»
Scattai qualche foto a John e ai nostri tre
ospiti, poi impostai la fotocamera interna e mi misi in posa.
Quando stavo per scattare,
Leah mugugnò e sbuffò. «Smettila di fare quella
faccia da duro e sii te stesso. Ti riesce tanto difficile?» mi
apostrofò.
«Quale faccia?»
Mi solleticò un
fianco. «Fai un sorriso, Shavarsh.»
Ridacchiai e presi a
scattare un sacco di foto estremamente insensate e buffe.
«Così mi
piaci!» rise Leah, allungandosi per baciarmi sulla guancia.
Daron parve riscuotersi dal
suo torpore e scattò in piedi, deciso a mangiare
qualcos'altro, giusto per dimostrare che non avrebbe permesso a Serj
di decidere al posto suo. Solo in quel momento i tre fan si accorsero
della sua presenza.
«Daron! Ciao, come
va?» lo salutò allegra Jennifer, sollevando una mano e
rivolgendogli un cenno.
Lui non mutò
espressione e si accostò al tavolino, ignorandola
deliberatamente. Stavo per rimbeccarlo, quando lui afferrò un
vassoio stracolmo di tortini alle noci e si voltò in direzione
dei nostri ospiti. «Ehi, ne volete un po'? Sono deliziosi»
domandò con noncuranza.
E la tensione generale si
sciolse, dando il via a un momento molto disteso e rilassante,
soprattutto per noi musicisti.
«Quanto manca?»
domandai, mentre cominciavo ad agitarmi.
Leah
mi prese la mano e la strinse forte. «Non cominciare»
mi rimproverò, cercando il mio sguardo.
«Quanto manca?»
ripetei, guardandomi intorno con l'ansia che pian piano mi
attanagliava la bocca dello stomaco.
«Circa quaranta
minuti» cinguettò Daron, che ormai sembrava essersi
ripreso dal suo momento buio e chiacchierava con Steve a proposito di
gruppi indie rock anni Novanta.
«Merda!»
brontolai.
«Shavarsh, smettila!
Andiamo, che ti prende?» Leah mi si piazzò davanti e mi
afferrò le mani, stringendole tra le sue. «Hai suonato
così tante volte dal vivo...» mi fece notare.
«Ho bisogno di
prendere aria, vieni» decisi, conducendola fuori dal backstage.
Riflettei per un attimo su dove potessi andare, poi optai per il
retro degli spogliatoi. Ormai tutto il pubblico doveva essere entrato
nello stadio e non avrei incontrato fan in cerca di foto e autografi.
Non appena ci ritrovammo in
un angolo appartato, presi a costruirmi una stecca di erba ed evitai
di guardare la mia ragazza negli occhi.
La sentii ridacchiare.
«Senti questo boato? Tutti aspettano voi. Oddio, è
fantastico. Io non so come mi sentirei se...»
«Così non mi
aiuti» tagliai corto. Le mani mi tremavano e tentai di
controllarmi, concentrandomi su ciò che stavo facendo.
«Scusami.
Ma che succede? Perché hai tanta ansia? Sei il migliore, di
cosa ti preoccupi?» Leah mi
si accostò e mi abbracciò. «Coraggio, sono qui»
mormorò, accarezzandomi un braccio con dolcezza.
«Già, è
proprio questo il problema. Non ho mai suonato per te» ammisi
mestamente.
«Oh, non essere
sciocco!» esclamò.
Finii di preparare la mia
sigaretta, poi la riposi nella tasca dei jeans e mi voltai verso
Leah. Le presi il viso tra le mani e cercai i suoi occhi, trovandoli
caldi e rassicuranti come sempre.
«Su, andrà
bene. Io credo in te» affermò, stringendo tra le dita la
stoffa della mia maglia.
«Leah»
sussurrai. «Ti ho mai detto che ti amo?» buttai lì.
Lei rimase sorpresa dalle
mie parole e sgranò gli occhi, inclinando leggermente la testa
di lato. Non aprì bocca e rimase immobile a fissarmi con
un'espressione che trovai difficile da decifrare.
«Ti ho spaventato?»
aggiunsi, avvertendo una certa agitazione planare sulle mie certezze.
«No» mormorò.
«Ma... trovo difficile credere che qualcuno... ah, lascia
stare.» Provò a divincolarsi dalla mia stretta e
distolse lo sguardo, lasciando che alcune ciocche ricadessero sul suo
viso e adombrassero i suoi occhi.
Non le permisi di sfuggirmi
e la costrinsi a guardarmi, sollevandole il mento con un dito. «Ora
ti stai comportando tu da sciocca.»
Leah sospirò e
sorrise imbarazzata. «Il fatto è che... non me
l'aspettavo, non ora.»
«Avevo
queste parole incastrate nel mio cuore da troppo
tempo. Ho capito, no, ho sentito che...» Mi interruppi per
trovare i termini giusti da utilizzare. «Ho sentito che dovevo
dirtelo prima di suonare. Sto già meglio. È la prima
volta che suono di fronte a te, non voglio deluderti. Però, se
andrà male, be'... almeno sai che questo ragazzo insicuro e
imbranato ti ama, se tu...»
Leah scoppiò a
ridere, ma qualche lacrima scivolò sulle sue guance. Mi si
gettò addosso e mi baciò con trasporto, lasciando che
il suo corpo si adattasse perfettamente al mio e che il sapore di
quelle gocce salate si unisse al nostro bacio, rendendolo ancora più
intimo e speciale.
«Shavarsh!»
esclamò, per poi staccarsi da me. «E io? Te l'ho mai
detto?» domandò.
«Be', no...»
biascicai.
Fece spallucce. «Sai
quanto ho aspettato questo momento? Mi sembrava sempre che non fosse
il caso, avevo l'impressione di essere fuori luogo o di sbagliare a
esprimermi. Non sono fatta per queste cose, insomma, lo sai.»
Ci fissammo per un attimo,
poi scoppiammo a ridere e tornammo a baciarci con dolcezza.
«Siamo due piaghe, te
ne rendi conto?» le feci notare.
«Parla per te!»
mi rimbeccò, fingendosi offesa.
«Ti amo»
ripetei, accarezzandole piano il viso e i capelli.
«Ma
sì, anche io ti amo. Ma solo un po'.» Rise e giocherellò
con il mio pizzetto, tirandolo leggermente. «Però adesso
basta, non diventare sdolcinato.
E guai a te se me lo ripeti ogni due minuti, potrei vomitare!»
Ripresi la stecca di erba
dalla tasca, ripescai anche l'accendino, e diedi il via alla magia.
«Va bene»
aggiunsi, dopo qualche tiro. «Ti amo.»
«Shavo!» strillò
lei, mollandomi una gomitata e allontanandosi da me.
«Se mi tratti così,
non ti lascio fumare.»
«Tanto non mi va.»
Rimanemmo in silenzio finché
non terminai la canna.
«Andiamo, ti
aspettano.»
La spinsi verso l'ingresso e
continuai a ripeterle quanto l'amavo, scatenando la sua ira e le sue
proteste.
«Finalmente, ma dove
ti eri cacciato?» tuonò Serj non appena rientrai nella
stanza principale del backstage.
«Tra cinque minuti
tocca a noi» mi spiegò John con calma.
Notai che nella stanza erano
rimasti soltanto i componenti della band, ma poco dopo sopraggiunse
Bryah.
«Ehi, siete pronti?
Ah, Leah, cercavo proprio te! Vieni con me? Di là ci sono
anche Mayda e Angela!» esordì la giornalista.
La
mia ragazza annuì e si voltò verso di me. Mi strinse in
un ultimo abbraccio e mi mollò una discreta pacca sul sedere,
poi sussurrò al mio orecchio: «Mi raccomando, distruggi
quel basso. Quando sarai tutto sudato e stanco, voglio spogliarti
e fare l'amore con te».
MI scostò subito da
me e mi fece una linguaccia, per poi raggiungere Bryah e uscire con
lei dalla stanza.
Rimasi imbambolato a fissare
il vuoto, tentando di assorbire quelle parole. Di certo non mi
avrebbero aiutato.
Mentre lasciavo il backstage
in compagnia dei miei compagni di band, notai una certa agitazione in
fondo al corridoio e mi fermai per un istante a controllare cosa
stesse succedendo.
I ragazzi non parvero far
caso a me e proseguirono, spintonandosi e regalandosi spallate e
insulti giocosi.
«Stronzi, guai a voi
se mi fate ridere! Se vado fuori tempo io, siamo fottuti»
sentii dire al batterista.
«No, macché.
Rideremo solo quando Daron sembrerà una gallina strozzata
mentre canta» commentò Serj.
«O
quando il grande Serj Tankian sbaglierà il testo di qualche
canzone... qualcosa tipo i-E-A-I-A-I-O»
ghignò Daron.
Intanto io scrutavo in fondo
al corridoio, dove notai la figura corpulenta e imponente di un
roadie. Discuteva animatamente con un suo collega e con qualcun
altro; da quella distanza riuscii a udire una voce femminile, ma non
fui in grado di vedere in viso la persona a cui appartenesse.
Poi
qualcuno spinse con forza il roadie e lo fece indietreggiare di un
passo, giusto il tanto che mi permise
di avere una fuggevole visione della ragazza che litigava con i due
uomini.
Mi voltai verso i miei
amici. Per fortuna erano già andati avanti e non si accorsero
di nulla, il che mi rassicurò almeno un po'.
Decisi di tenere per me
quella scoperta e cercai di non mostrarmi turbato agli occhi dei miei
amici. Eppure, dentro mi sentivo inquieto.
Sperai vivamente che quei
due roadie riuscissero a mandarla via, altrimenti l'umore generale
avrebbe rischiato ancora una volta di precipitare.
Scossi il capo e raggiunsi i
miei amici, decidendo di concentrarmi sul concerto e su ciò
che Leah avrebbe voluto da me una volta sceso dal palco.
Mi unii ai ragazzi per un
abbraccio di gruppo, poi cominciammo a salire sul palco e la
dimensione della mia ansia crebbe all'infinito, per poi sciogliersi
non appena fui raggiunto dal rassicurante e meraviglioso calore del
mio pubblico.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 55 *** Shy Guy ***
ReggaeFamily
Shy
Guy
[John]
Fissai
Daron mentre, accompagnato solo dalla sua chitarra, cantava l'intro
di Soldier Side; ero pronto a
dare il via allo show e a cominciare con Prison Song.
Pregustai quella bellissima
sensazione di quando battevo il primo colpo su piatti e tamburi, poi
tutto intorno a me si faceva silenzioso. L'unico suono che si udiva
era solo il boato infernale dei fan che mi incitavano a proseguire.
Daron finì di cantare
e io diedi il tempo con due colpi sul charleston socchiuso, poi
battei quel primo colpo e la magia ebbe inizio.
Chiusi per un attimo gli
occhi e, con le bacchette a mezz'aria, mi godetti il calore del
pubblico e le voci quasi disperate che mi pregavano di andare avanti.
Mi piaceva lasciarli in sospeso per un po', abituati com'erano alla
canzone registrata su disco che aveva un tempo e della pause ben
definiti.
Infine mi decisi e
proseguii, avvertendo i miei colleghi con quattro colpi sul
charleston che precedettero i successivi sul resto dei tamburi, i
quali vennero accompagnati anche da chitarra e basso.
Poi
Serj sibilò al microfono: «They're trying to
build a prison».
Ci fu un'altra pausa e io la
prolungai il più possibile, godendo ancora del frastuono degli
spettatori e notando quanto i miei amici fossero concentrati.
Notai
Sako che ascoltava con attenzione dal lato del
palco, cercando di capire se i suoni del mio strumento fossero
perfetti come sempre. Era un collaboratore eccezionale, mi fidavo
ciecamente di lui e non avevo alcun dubbio che il suo lavoro fosse
impeccabile come al solito.
Prima di riprendere a
suonare, scorsi Leah, Angela, Bryah e Mayda accanto al tecnico della
batteria. Eravamo al completo, ora ne ero certo e potevo partire e
caricarmi come una macchina da guerra, catapultandomi finalmente
nella mia dimensione naturale.
Altri quattro colpi sul
piatto socchiuso per staccare il tempo, e mi immersi completamente
nella mia musica.
Per me era diventato
automatico giocare con il mio strumento, un po' come guidare l'auto;
improvvisavo, regalavo colpi inaspettati ai tamburi e mi burlavo dei
pedali di cassa e charleston come se fossero dei giocattoli. Non mi
fermavo, andavo avanti concentrato senza che niente potesse
distogliermi dalla mia occupazione.
Un po' come Serj faceva con
la sua voce. Gli piaceva giocarci, renderla più o meno
potente, gorgheggiare, maneggiarla e modellarla come fosse argilla.
Lo stimavo parecchio, anche se forse non glielo avevo mai detto, ciò
che riusciva a fare era incredibile.
Shavo
pareva leggermente teso, ma suonò comunque da dio, senza
perdere neanche per un istante la sua concentrazione e precisione; la
batteria e il basso erano strumenti che dovevano essere
perfettamente sintonizzati, e io mi trovavo davvero bene a lavorare
con lui. Insieme riuscivamo a creare un tappeto ritmico e sonoro che
riusciva a mantenere in piedi il resto degli strumenti. Non avevamo
mai avuto un chitarrista ritmico, quindi Daron aveva sempre dovuto
destreggiarsi a ricoprire sia quel ruolo che quello di chitarrista
solista.
Non era mai stato un
problema, poiché Serj era un polistrumentista pazzesco e
riusciva ad adattarsi con destrezza al pianoforte, la chitarra, le
percussioni. In questo modo riuscivamo a regalare uno show completo
ai nostri fan, senza bisogno di assumere dei turnisti né
perdere a livello qualitativo.
Forse era strano, ma mi
piaceva riflettere mentre suonavo, mi permetteva di essere ancora più
concentrato sul mio lavoro e mi rilassava parecchio.
I
brani scorrevano in piena fluidità, io ero completamente a mio
agio e suonavo senza tensione né rigidità. Quando mi
capitava di riascoltare o rivedere qualche stralcio dei nostri live,
mi rendevo conto che il risultato era proprio quello a cui aspiravo:
uno spettatore doveva assistere a uno spettacolo mozzafiato, durante
il quale io mi sentivo in
obbligo di dare il doppio del massimo. Ma chi stava tra il pubblico
doveva avere l'impressione che ciò che facevo fosse semplice e
rilassante, che ogni brano – per quanto caratterizzato da un
ritmo serrato e incalzante – fosse
un gioco da ragazzi e che ogni suono scivolasse fluido durante tutta
l'esecuzione.
Mi vennero in mente alcuni
batteristi che, per quanto provvisti di tecnica e talento, facevano
venire l'ansia soltanto a sentirli; era palese quanto fossero rigidi
e quanto dovessero riflettere su ciò che facevano, anziché
lasciar fluire ogni colpo come se i loro arti fossero di gelatina.
Io volevo essere l'opposto,
volevo proprio che i miei arti si svuotassero di ossa e muscoli e
trasmettessero morbidezza anche in brani dalle tinte profondamente
heavy metal.
All'improvviso,
mentre cominciavamo a suonare Lonely Day,
mi ricordai della discussione che Daron e Serj avevano avuto nel
backstage; ascoltando il chitarrista cantare, mi resi conto che
avrebbe realmente dovuto curare maggiormente la sua voce, seguendo
perlomeno i consigli del cantante principale.
Tra tutti noi, Daron era
sempre il più rilassato, anche questo non sempre era simbolo
di precisione e accuratezza durante l'esecuzione; mi dispiaceva
rendermene conto, dal momento che sapevo bene quanto il mio amico
fosse talentuoso e quali fossero le sue reali potenzialità.
Quando
giungemmo a Toxicity,
fui cosciente che il concerto
stava per volgere al termine. Mi divertii moltissimo a suonare quel
brano, succedeva sempre così. Era pazzesco pensare che quella
fosse proprio la nostra musica e che non stessi soltanto eseguendo
una cover.
Passai
senza alcuna difficoltà all'ultima canzone in scaletta, che
come da tradizione era Sugar.
Quando Serj nominò
Sako all'inizio della seconda strofa, sollevai un attimo lo sguardo e
lanciai un'occhiata al mio tecnico; lui rise e si esibì in un
piccolo e teatrale inchino, come se volesse dimostrarci quanto fosse
onorato di essere finito in uno dei nostri brani più famosi.
Poi tutto si concluse.
Raggiunsi Sako e cominciai a raccogliere dalle sue mani i souvenir
che avrei lanciato tra il pubblico, ovvero diverse bacchette e
qualche pelle dei miei tamburi.
«Sei stato fenomenale,
mi tremano le gambe» gridò Leah alle sue spalle,
sollevando una mano nella mia direzione.
Prima di dirigermi verso il
centro del palco, dal quale i miei colleghi erano già
scomparsi, incrociai gli occhi scuri di Bryah e mi resi conti che
erano pieni di lacrime. Avrei voluto raggiungerla e stringerla subito
tra le braccia, ma mi costrinsi a finire ciò che stavo
facendo.
Mi avviai a passo svelto in
direzione del pubblico, fermandomi a poca distanza dal bordo della
piattaforma. Mi godetti per qualche istante il calore dei presenti
che invadeva lo stadio dei Dodgers in ogni sua parte, scandagliando
distrattamente la folla con gli occhi.
Era
bellissimo, amavo quelle emozioni che solo suonare dal vivo mi faceva
provare. Mi sentivo completo, totalmente immerso nel mio elemento.
Avrei voluto che quella magia non finisse mai, eppure
eravamo giunti al capolinea anche quel giorno e io dovevo ringraziare
degnamente i presenti, regalando loro qualcosa di mio.
Cominciai a lanciare tra la
folla le bacchette e le pelli che Sako mi aveva dato, accogliendo con
immensa gioia l'ovazione dei miei ammiratori. Quell'atmosfera fu
capace di scaldarmi il cuore e solo allora mi resi conto che tutto
ciò mi era terribilmente mancato.
Dopo aver regalato l'ultimo
oggetto al mio pubblico, mi accostai al microfono che Serj aveva
abbandonato sull'asta. «Grazie Los Angeles, grazie di cuore. Ci
avete riempito di gioia, grazie mille» dissi con un po'
d'imbarazzo, ma sentendo che era realmente ciò che il mio
cuore mi suggeriva di fare.
Mi allontanai a fatica dal
palco, avvolto ancora una volta da quella malinconia dolce e
rassicurante che seguiva la fine di ogni nostro spettacolo.
Bryah, senza neanche
appoggiare la sua macchina fotografica, mi corse incontro e mi
strinse in un abbraccio. Tentai di protestare, facendole intendere
che ero sudato, ma lei sembrò non curarsene affatto; premette
il suo corpo contro il mio e mi baciò con trasporto, facendo
sobbalzare il cuore nel mio petto.
Tenendola stretta per la
vita, le sfilai l'oggetto delicato di mano e mi chinai sul tavolino
per posarlo con attenzione. Non volevo assolutamente che l'impeto del
momento procurasse dei danni all'attrezzatura che usava per lavoro.
Bryah, infatti, aveva
cominciato da poco a lavorare in un piccolo giornale della città,
niente a che vedere con il Times o altre testate
particolarmente importanti; a lei non interessava, voleva soltanto
avere qualche soldo per mantenersi e si rifiutava categoricamente di
farsi mantenere da me. Era ancora in prova, ma il reportage del
nostro concerto e una piccola intervista che le avevo concesso
avrebbero fatto capire ai suoi datori di lavoro qual era il suo
potenziale. Speravo di poterla aiutare a dimostrare quanto valeva.
«Il giornale prenderà
il volo!» affermò, tornando a stringersi a me. «Grazie
alla postazione privilegiata che mi avete concesso, sono riuscita a
fare delle foto spettacolari.»
Ridacchiai. «Per le
foto non sarebbe stato un problema, avrei potuto chiedere a Greg di
farti avere qualche scatto» la rassicurai.
Bryah scosse il capo. «È
una soddisfazione molto più grande essere riuscita a fare
tutto da sola» spiegò con entusiasmo.
Mi chinai sulle sue labbra e
le baciai lentamente, sentendole morbide e delicate sotto le mie. Poi
mi scostai e sospirai. «Devo assolutamente fare una doccia»
mormorai.
«Forse hai ragione.
Puzzi un sacco» mi canzonò in tono ilare.
«Stavo per proporti di
venire con me, ma ci ho ripensato» finsi di offendermi,
lasciandola andare. Mi passai le mani sui capelli zuppi di sudore e
mi allungai sul tavolino a prendere una bottiglia d'acqua.
«Vorrà dire che
ti seguirò anche se non mi inviti» decise, per poi
carezzarmi il fianco destro. Si allontanò per rimettere a
posto la macchina fotografica e io trangugiai metà del
contenuto della bottiglia.
A quel punto fui raggiunto
da Shavo, il quale mi si rivolse tutto agitato, guardandosi intorno
con circospezione. «Cazzo, John, è successo un casino»
sibilò.
«Che tipo di casino?»
gli chiesi.
«Ho visto...» SI
passò le mani sul volto e sospirò. «Prima di
salire sul palco, ho visto la figlia di Daron. Cioè, insomma,
quella ragazza che dice di essere sua figlia. Litigava con un paio di
roadie, sicuramente stava cercando di entrare nel backstage. In giro
non c'è, ma potrebbe essersi appostata all'esterno.»
Annuii. Questo poteva
significare soltanto una cosa: voleva riavvicinarsi a Daron, ma non
riuscivo a capire perché avesse deciso di rovinare proprio
quella serata. Il concerto era andato bene, eravamo tutti
euforici e non vedevamo l'ora di continuare a festeggiare altrove. Un
problema come questo non ci voleva proprio.
«Che facciamo?»
mi chiese Shavo.
Sospirai. «Senti, io
ora faccio una doccia e Bryah viene con me. Tu fai come ti pare, sono
stanco di dover risolvere i problemi di tutti. Dillo a Daron, poi
sarà lui a sbrigarsela.» Feci spallucce. Mi costò
parecchio rispondergli in quel modo, ma non volevo che la mia serata
venisse mandata a puttane per un motivo del genere.
Shavo spalancò gli
occhi e mi fissò con aria confusa, poi mi mollò una
pacca sulla spalla e sorrise. «Dacci dentro» sussurrò
ammiccante.
Non risposi e raggiunsi
Bryah sulla soglia, dopo aver recuperato la sacca dove custodivo
l'occorrente per la doccia e dei vestiti puliti.
Avvolsi la vita della mia
compagna con un braccio e mi avviai verso i bagni degli spogliatoi.
Non avevo intenzione di fare qualcosa di particolare con Bryah,
desideravo soltanto stare solo con lei e godermi un momento di relax
dopo il concerto.
«Che cosa voleva
Shavo? L'ho visto agitato» mi domandò la giornalista,
quando fummo abbastanza lontani dalla stanza principale del
backstage.
«Dice di aver visto la
presunta figlia di Daron nei paraggi e non sapeva che fare. Io gli ho
detto che per stasera non mi importa. Sono stufo di fare da baby
sitter a Daron, sul serio. Gli voglio bene, se lui fosse veramente in
difficoltà non ci penserei due volte ad aiutarlo, ma queste
sono cose che può benissimo gestire per conto suo. Deve
imparare ad affrontare le situazioni che la vita gli pone di fronte.»
Mi bloccai quando mi resi conto che forse avevo esagerato, che mi ero
sfogato con Bryah e stavo inevitabilmente rovinando l'atmosfera.
Lei si fermò sulla
soglia del bagno e si voltò a cercare il mio sguardo.
«Dovresti sfogarti più spesso, ti fa bene.» Mi
lasciò un bacio a fior di labbra. «Adoro quando sei così
passionale!» esclamò in tono divertito, per poi fuggire
all'interno della stanza.
Rimasi sbalordito per un
attimo, poi la seguì all'interno e mi chiusi la porta alle
spalle. Abbandonai la sacca sul pavimento e presi a correrle dietro.
Come due bambini, giocammo e ci rincorremmo per qualche minuto, poi
Bryah mi bloccò all'interno di un box doccia e mi fissò
con gli occhi lucidi e le labbra socchiuse. Si reggeva con una mano
alla parete piastrellata, mentre teneva l'altra premuta contro il mio
torace.
«Adesso sei mio
prigioniero» affermò. «E posso fare di te ciò
che voglio.» Si accostò a me e mi sfilò con
decisione la t-shirt, lasciandomi a torso nudo. Indietreggiò
di un passo e mi scrutò con espressione estasiata.
Avrei voluto strapparle di
dosso quel leggero vestito azzurro e fare l'amore con lei, ma sapevo
che non era possibile. Bryah non aveva portato con sé un
cambio, perciò sarebbe stato un disastro ricomporsi in
quell'occasione.
«Sai, John, non puzzi
poi così tanto.»
Sgranai gli occhi nel notare
che si sfilava l'abito che indossava. Lo osservò per un
istante, poi fece spallucce e continuò a spogliarsi con
noncuranza, finché non rimase completamente nuda, fatta
eccezione per i sandali bassi ai suoi piedi.
«Bryah, cosa fai?»
I pantaloni mi parvero improvvisamente troppo stretti, mi sentii
invadere da un intenso e bruciante calore che si diffuse rapidamente
in tutto il corpo. I miei occhi percorsero increduli i seni bruni e
abbondanti, i fianchi larghi e morbidi, poi tornarono a concentrarsi
sul suo viso.
Mi sorrise maliziosa.
«Ricordi? Ho detto che sarei stata qui con te. Credi davvero
che sarei stata a guardare? Sei uno sciocco.» Sparì per
un attimo dalla mia vista, poi ricomparve dopo aver posato i suoi
abiti.
«Vieni qui» le
ordinai a bassa voce.
Lei non ci pensò due
volte e mi si avvinghiò contro, facendo sì che la mia
schiena aderisse contro le piastrelle fredde e i suoi seni si
schiantassero sul mio torace.
Non riuscivo più a
resistere, così la baciai con forza, tenendola ferma contro di
me, mentre l'erezione premeva con disperazione contro il tessuto che
la teneva ancora prigioniera.
Bryah inclinò la
testa all'indietro e mi offrì il collo, così mi ci
avventai mentre le mie mani si serravano sui suoi glutei morbidi.
Ansimando, mi staccai a
fatica da lei e la guardai negli occhi. «Non ne posso più,
devo togliermi questa roba» biascicai, accennando con il mento
ai pantaloni.
«Mi dispiace. Ci penso
io» rispose lei con dolcezza, riempiendomi il viso di baci. Le
sue mani armeggiarono con la chiusura dei miei pantaloni, per poi
tirarli giù con un movimento rapido che già mi fece
stare meglio. Poi afferrò l'elastico dei boxer neri e
finalmente mi liberò definitivamente da quell'insopportabile
prigionia.
Mi lanciò un'occhiata
e, dopo avermi dato una pacca sul fianco, si chinò a
sussurrarmi all'orecchio: «Prendimi. Adesso».
Da quel momento in poi persi
completamente la lucidità e non riuscii a far altro che
seguire il mio istinto e i suggerimenti del mio corpo infuocato e
destabilizzato dal desiderio.
L'acqua scorreva
ristoratrice sul mio corpo, mentre udivo Bryah canticchiare di fronte
allo specchio.
«Per fortuna sono
riuscita a fare la doccia senza bagnarmi i capelli» commentò
a un certo punto.
Sorrisi e ripensai a quanto
era appena successo. Io stesso avevo pensato che non avremmo dovuto
fare l'amore in quell'occasione, convinto che sarebbe stato difficile
per lei ricomporsi. Ma la mia compagna si era rivelata molto più
audace di me, il che non mi era affatto dispiaciuto. Mi rimproverava
spesso perché faticavo a lasciarmi andare, ma ultimamente mi
stavo rendendo conto che mi piaceva rischiare ogni tanto. Con lei
sapevo di poterlo fare, non mi sentivo mai sbagliato e non avevo
paura di sperimentare o di dire ciò che mi passava per la
testa. Era stato così fin da subito, avevamo trovato una
sintonia pazzesca fin dal primo istante in cui ci eravamo incontrati
nel vialetto dello Skye Sun Hotel; avevamo trascorso momenti
difficili, e questi ci erano serviti per rafforzare il nostro legame
e per comprendere che c'era qualcosa di speciale tra noi.
Bryah ricominciò a
canticchiare, era in fissa con il ritornello di Soldier Side e
non faceva che intonarlo a bassa voce. Forse sperava che non la
udissi, ma io mi godevo quel momento e riflettevo sul fatto che fosse
più brava di Daron a cantare.
Poi mi venne in mente il
momento in cui, poco prima, mi aveva confessato i suoi sentimenti. In
lacrime tra le mie braccia, aveva premuto il viso sul mio petto e lo
aveva riempito di piccoli baci.
Avevamo appena finito di
fare l'amore e io cercavo ancora di riprendere fiato, quando lei
aveva sollevato il viso e mi aveva guardato negli occhi. Le lacrime
rigavano silenziose le sue guance, e io avevo capito che non erano
lacrime di dolore o sofferenza, bensì di gioia. Quando eravamo
in intimità capitava spesso che Bryah, travolta dall'emozione,
scoppiasse a piangere. Mi ero abituato a quel suo modo di fare, anche
se un po' mi sentivo a disagio e temevo che quelle lacrime potessero
rappresentare qualcos'altro. Le prime volte mi ero spaventato
parecchio, avevo temuto di averle fatto male e mi ero sentito
sprofondare nella disperazione. Poi lei mi aveva spiegato come
stavano le cose, mi aveva rassicurato e mi aveva confessato che anche
per lei era una novità. «È che sei così
dolce» commentava spesso.
E quel giorno non fece
eccezione. Mi aveva fissato con intensità e aveva sussurrato:
«John, ti amo da sempre».
Io non avevo saputo come
replicare, ma lei l'aveva capito e mi aveva abbracciato con
tenerezza, accarezzandomi i capelli e la schiena.
«John?» mi
richiamò Bryah, picchiettando sul pannello di plastica che
circondava il box doccia per due dei suoi quattro lati.
Mi riscossi e finii di
sciacquarmi, poi chiusi l'acqua e aprii leggermente l'anta scorrevole
della doccia. «Mi passi il telo?» le chiesi, senza
trovare il coraggio di incontrare il suo sguardo.
Lei annuì e mi porse
ciò che le avevo chiesto, per poi darmi le spalle e riprendere
a sistemarsi il trucco di fronte allo specchio.
Richiusi l'anta della doccia
e cominciai ad asciugarmi con cura. Forse se le avessi parlato senza
che lei potesse guardarmi, le cose sarebbero andate meglio.
Sospirai. «Ehi,
Bryah?»
«Sì?»
«Mi dispiace per
prima, insomma. Non ho saputo rispondere a... a quello che mi hai
detto» incespicai tra le mie stesse parole, sentendomi
avvampare per l'imbarazzo e l'inadeguatezza che stavo provando in
quel momento.
«A cosa ti riferisci?»
volle sapere. Si era accostata al box doccia, potevo scorgere la sua
figura sfocata oltre il pannello satinato.
«Be', a quando mi hai
confessato... a quando mi hai detto cosa provi per me»
mormorai.
Lei ridacchiò. «Oh,
John! Di che ti preoccupi? Io ho capito, non c'è bisogno che
ti scusi o che tu risponda. Ho capito.»
Mi irrigidii leggermente.
«Che cosa hai capito?»
«Che mi ami»
rispose con semplicità, appoggiando una mano sul pannello di
plastica.
Espirai bruscamente e
continuai a tamponare il mio corpo umido con il telo in spugna. «Già»
sussurrai. «Hai capito bene.»
«Allora perché
ti scusi?»
Scossi il capo. «Vorrei
riuscire... non lo so nemmeno io.»
Bryah sbuffò.
«Vorresti dirmelo? Ma è una cosa banale. Io mi sono
sentita banale quando l'ho detto, però me lo sentivo e l'ho
fatto. Ma tu me lo dimostri.» Socchiuse l'anta del box doccia e
fece in modo che i nostri sguardi si incontrassero. «Ti sei
preso cura di me fin da subito, non ti sei lasciato spaventare dai
miei problemi e mi hai protetto e tenuto al sicuro come nessun altro
aveva mai fatto. Se questo non è amore, allora cos'è?»
Avvampai ancora una volta,
ma mi costrinsi a non distogliere lo sguardo. Aveva ragione, lo
sapevo bene, così annuii e mi accostai a lei. Spinsi
completamente il pannello di lato e cercai le labbra della mia
compagna, baciandole con delicatezza.
«Sì, è
amore» confermò, per poi regalarmi un meraviglioso
sorriso e lasciarmi un buffetto sulla guancia. «C'è una
canzone che mi fa pensare a te» disse poi, indietreggiando per
permettermi di uscire finalmente dal box.
Cominciai a rivestirmi in
fretta, poi le lanciai un'occhiata interrogativa. «Ah sì?»
feci curioso.
«Sì. Si chiama
Shy Guy, è di Diana King» spiegò con un
sorrisetto malizioso.
«L'ho già
sentita nominare, ma ora non mi viene in mente. Me la canti?»
proposi, infilando una felpa nera.
«Cantare? Ma scherzi?
Sono stonata e poi...»
«Non sei stonata. Ti
ho sentito prima mentre canticchiavi Soldier Side, sei più
intonata di Daron» la contraddissi, strizzandole l'occhio.
Bryah sospirò, poi
annuì. «E va bene. Ma solo un pezzetto, però
sappi che mi vergogno.»
Scossi il capo e rimasi in
attesa.
I
don't want a fly guy
I
just want a shy guy
That's
what I want
Si interruppe e rise. Anche
io ridacchiai.
«Tutto qui?» la
punzecchiai.
«No, aspetta... c'è
un'altra parte interessante!»
E riprese a cantare.
But
I don't want somebody
Who's
loving everybody
I
need a shy guy
He's
the kinda guy
Who'll
only be mine
Si bloccò, ormai
rideva apertamente. «Il testo è quasi tutto in patois
giamaicano, ma hai capito il senso, no?» buttò lì.
Scoppiai a ridere a mia
volta e la attirai in un abbraccio. «Certo che ho capito»
soffiai sulle sue labbra. «Spero di essere all'altezza del
ragazzo timido che tanto desideri.»
Bryah rise ancora e mi baciò
sulla guancia. «Forza, shy guy, raggiungiamo il resto
della banda e andiamo a festeggiare questo magnifico concerto!»
concluse.
Poi insieme lasciammo il
bagno dopo esserci fermati là dentro per un tempo
incalcolabile. Qualunque cosa mi aspettasse di ritorno nel backstage,
non avrebbe potuto rovinare il mio umore e in ogni caso ero pronto ad
affrontarla.
Oooh,
cari lettori!
Questo
capitolo è un po' lunghetto, vero?
Ma
non mi andava di interromperlo sul più bello, volevo che tutte
queste idee rientrassero in un solo aggiornamento. Volevo parlare un
po' del concerto, ma mi andava anche di dare spazio a un momento
intimo tra John e Bryah; questi due ne hanno passato tante, è
giusto che si godano anche un po' di relax, non siete d'accordo anche
voi? ;)
E
volevo anche inserire quest'ultima parte in cui Bryah rivelava a John
i suoi sentimenti e gli dedicava questa meravigliosa canzone di Diana
King! *-* Vi devo confessare una cosa: da quando ho conosciuto
questo brano, il che è avvenuto dopo che avevo cominciato a
scrivere questa storia, ho subito pensato che si sposasse
perfettamente con il nostro batterista preferito! Allora ho subito
deciso che prima o poi Bryah l'avrebbe portata fuori, e finalmente
c'è stata l'occasione :3
Vi
lascio qui il link, questa canzone è stupenda e secondo me
dovete sentirla assolutamente (soprattutto Carmensita, non so perché
ma mi fa pensare a te e secondo me ti piace :D):
https://www.youtube.com/watch?v=szjaHbjhauk
Grazie
a tutti per essere ancora qui, aspetto come sempre i vostri commenti
e vi sono infinitamente grata per il supporto e l'affetto che mi
dimostrate in continuazione!
Alla
prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 56 *** Ready ***
ReggaeFamily
Ready
[Daron]
«Shavarsh,
sei proprio un fallito!»
«Ehi!
Perché?»
«Dovresti
evitare di cantare, sai?»
«Come
ti permetti? Antipatica!»
«No,
dico sul serio! O cerchi di migliorare un po' quel growl, oppure
secondo me dovresti evitare!»
Buttato
su una poltroncina rossa, mi godevo la scena tremendamente comica che
si stava svolgendo tra Shavo e Leah.
La
ragazza stava in piedi di fronte al bassista, mentre lui se ne stava
stravaccato sul divano e la osservava dal basso con espressione
accigliata.
Sollevai
il pollice in direzione di Leah e ridacchiai. «Brava, amica!
Diglielo! Qui tutti se la prendono con me, ma in realtà c'è
chi è più fallito del sottoscritto» commentai in
tono ironico.
Lei
mi scrutò per un attimo, poi inclinò il capo di lato e
replicò: «Tra i due non so chi sia il peggiore,
credimi».
«Leah,
sei cattiva!» intervenne Mayda, mentre Sako al suo fianco se la
rideva senza ritegno.
Shavo
incrociò le braccia al petto e io feci lo stesso; entrambi
fissammo Leah in cagnesco, senza preoccuparci di metterla in
soggezione.
Lei
non si scompose e si strinse nelle spalle. «Dico solo ciò
che penso. Povero Serj.»
Il
cantante si ridestò dalla momentanea catarsi in cui era
rovinato; sollevò lo sguardo su Leah e la fissò con
perplessità. Stava per dire qualcosa, quando un baccano
infernale si propagò per il corridoio e invase inevitabilmente
la stanza principale del backstage in cui ci trovavamo.
Poco
dopo fecero il loro ingresso nella stanza un gruppo di persone;
l'amalgamarsi di esemplari completamente diversi tra loro mi fece
sorridere.
Notai
i ragazzi che io e Shavo avevamo conosciuto fuori dal centro
commerciale qualche tempo prima, poi riconobbi il fratello del
bassista e la sua compagna, alcuni musicisti che erano amici della
nostra band da una vita e altra gente che ci seguiva abitualmente
quando gironzolavamo in tour per gli States.
«Siete
stati grandi!» strillò Tim Commerford, abbracciandoci a
uno a uno. Il bassista degli Audioslave si guardò intorno, poi
esclamò: «Dov'è quel pezzo di merda del vostro
batterista? Brad, tu sei un incapace in confronto!». Diede di
gomito al suo amico e collega.
«Se
è per questo, anche Shavo è più bravo di te»
lo punzecchiò Brad Wilk.
Tim
C rifletté un attimo, poi scoppiò a ridere
sguaiatamente ed esclamò: «Allora dobbiamo ritirarci
entrambi dalle scene!».
«Per
fortuna Morello supera di gran lunga Daron» intervenne la
cognata di Shavo, strizzandomi l'occhio.
«Spiritosa»
borbottai.
Notai
che Leah, Steve, Jennifer e Nathan si erano raggruppati in disparte,
come se improvvisamente fossero intimoriti dalla presenza di tante
persone famose tutte nello stesso luogo.
Mi
alzai dalla poltrona e Tim C ne approfittò subito per rubarmi
il posto, sbadigliando rumorosamente.
Mi
accostai a Leah e cominciai a tormentarla. «Amica, che succede?
Te la stai facendo addosso solo perché ci sono dei VIP in
circolazione? Oh, guarda! Conosci Chino Moreno? Te lo presento se
vuoi!»
«Chiudi
il becco, altrimenti comincerò a chiamarti pidocchio anch'io!»
mi apostrofò irritata.
«Daron,
ma quello è il fratello di Serj?» sibilò Nathan,
dandomi di gomito.
Mi
voltai e mi accorsi che anche Sevag aveva fatto il suo ingresso nel
backstage. Annuii e sorrisi al biondino.
«Cazzo...»
Steve si grattò la nuca.
Seguendo
il suo sguardo notai che stava osservando con estrema ammirazione
l'imponente figura di Tim C che stazionava sulla poltrona che avevo
occupato io poco prima.
Feci
spallucce e risi. «State tranquilli, il gigante buono non vi
mangia» dissi.
Nella
stanza c'era un casino infernale ed era difficile seguire le varie
conversazioni che si stavano svolgendo; a un certo punto anche John e
Bryah si unirono alla combriccola, così ci furono altri giri
di saluti e strette di mano.
«È
permesso?» Una voce squillante riuscì a sovrastare per
un istante il vociare concitato dei presenti, poi una figura
femminile fece il suo ingresso e si fermò di botto al centro
della stanza.
Avvertii
immediatamente il sangue abbandonare il mio viso e raggelarsi nelle
vene. Mi immobilizzai sul posto e mi aggrappai al braccio di Leah.
La
mia amica mi scrutò con aria preoccupata, poi spostò
gli occhi sulla nuova arrivata e corrugò la fronte. «E
quella chi è?» sussurrò.
«Layla»
riuscii soltanto a mormorare.
Leah
comprese all'istante la portata della mia rivelazione; mi si accostò
e cercò di tranquillizzarmi: «Dai, non fare quella
faccia. Volevi rivederla, me l'hai detto tu».
«Ma
non pensavo che lei... non ero pronto a rivederla proprio oggi»
balbettai.
La maggior parte dei
presenti ignorò la ragazza, ma notai che John se n'era
accorto. Si trovava dal lato opposto della stanza e stazionava
accanto a Shavo. Mi lanciò un'occhiata colma di dispiacere,
poi diede di gomito al bassista e scosse appena il capo.
La ragazza mi sorrise e si
avvicinò subito a me. «Finalmente ti ho trovato!»
esclamò. Ebbi l'impressione che volesse abbracciarmi, ma per
fortuna si trattenne.
I suoi occhi si posarono su
Leah e il suo sguardo si fece indagatore.
«Ehi,
ragazzina! Non farti strane idee, non sono la sua fidanzata»
esordì bruscamente la mia amica, rivolgendosi
a lei in maniera sfrontata e senza porsi alcun tipo di limite.
Layla chinò il capo e
mormorò delle scuse appena comprensibili.
«Layla, ciao» la
salutai, fulminando la mia amica con una breve occhiata in tralice.
«Come sei entrata?» le chiesi, nonostante la cosa non mi
importasse più di tanto.
«Be'... possiamo
parlare un attimo?»
Annuii appena, deciso a
chiarire una volta per tutte la situazione con quella ragazza. Ci
avevo riflettuto parecchio durante quei mesi, e ormai avevo capito
che desideravo andare fino in fondo. Avrei potuto incontrare Dolly e
pretendere delle spiegazioni, fare un test del DNA, fare qualsiasi
cosa per capire se ero davvero il genitore di Layla.
La giovane sorrise appena,
poi si incamminò verso l'esterno e io la seguii.
Prima di lasciare il
backstage lanciai un'occhiata rassicurante a John e Shavo, certo che
fossero in apprensione per me. Ma ora sapevo che loro non avrebbero
potuto aiutarmi, dovevo affrontare da solo quel problema.
Passammo accanto ad alcuni
roadie. Uno di loro, Garreth, mi intercettò e mi posò
una mano sul braccio.
«Ho sbagliato a farla
passare?» mi chiese con apprensione.
«No,
ma la prossima volta vieni a chiamarmi prima di
prendere qualsiasi decisione. D'accordo?» replicai in tono
piatto.
«Certo, scusami.»
Mollai una pacca sul suo
braccio muscoloso e gli regalai un debole sorriso. «Tranquillo,
amico.»
Layla si fermò nei
pressi dell'uscita che si riversava a lato del palco. Lo stadio si
era ormai svuotato e si udiva soltanto uno strano silenzio.
«Dove vuoi andare?»
le chiesi.
Lei mi guardò
mortificata. «Daron, c'è una persona che vorrebbe
vederti» ammise in un sussurro.
Avrei dovuto insultarla e
arrabbiarmi, ma non reagii affatto così. Compresi
immediatamente che era venuta in compagnia di sua madre, il che
stranamente non mi turbò più di tanto. Mi sentivo
insolitamente pronto ad affrontare quell'incontro, ci avevo
riflettuto così tanto da divenire quasi impaziente all'idea
che quel momento giungesse.
«Dolly?» chiesi,
tanto per avere conferma dei miei sospetti.
Layla annuì con
titubanza. «Non ti arrabbiare, ti prego!» mi supplicò.
Scossi il capo. «Andiamo»
affermai.
A lato del gigantesco palco,
una figura femminile sedeva sui gradini laterali. Eravamo ancora
distanti da lei, così riuscii a scorgere soltanto la sua folta
chioma bionda e riccia spiccare nella penombra.
Quando
fummo a pochi metri da lei, tuttavia, scorsi perfettamente gli occhi
scuri che tanto mi avevano fatto impazzire. La pelle chiara di Dolly
era invecchiata e provata
dalle esperienze che aveva fatto nel corso degli anni, ma rimaneva
sempre luminosa e quasi del tutto priva di rughe. I capelli erano
diversi, ma sapevo che aveva sempre amato sperimentare con le tinte.
All'epoca in cui la frequentavo, la sua chioma era di un bellissimo
castano scuro, proprio come quello di sua figlia. Probabilmente era
quello il suo colore naturale.
Non appena si accorse di
noi, la donna si mise in piedi e allora notai che indossava un paio
di jeans e una maglia bianca con un'enorme stampa sul davanti. Ai
piedi portava un paio di sandali dal tacco basso dello stesso colore.
Era veramente bellissima, proprio come la ricordavo. Il mio cuore
perse un battito e fui improvvisamente catapultato nel passato.
Se Layla non fosse stata con
noi, avrei potuto credere di trovarmi ancora una volta nel passato,
precisamente durante l'unica sera in cui io e Dolly riuscimmo ad
avere un vero e proprio appuntamento.
«È
una fortuna che Chuckie sia fuori città.»
«Dovrebbe
dispiacerti.»
«Sai
che voglio lasciarlo, non essere sciocco.»
«Dove
vuoi andare?»
«Non
lo so, Daron. Non importa.»
«Ti
va di fare una passeggiata sulla spiaggia?»
«Perché
no? Con Chuck non ci sono mai stata.»
«Il
tramonto è un momento sospeso tra fantasia e realtà,
non credi?»
«Forse
sì, Dolly, forse sì.»
«Continua
ad abbracciarmi, ti prego.»
«Vorrei
toglierti quella maglia bianca e fare l'amore con te qui e adesso.»
«Ah,
Daron. Non è prudente.»
«Ed
è proprio per questo che lo desidero.»
«Una
serata meravigliosa come questa non la dimenticherò mai.»
«Neanche
io, Dolly.»
«Ti
amo, Daron.»
«Non
dovresti.»
Tornai bruscamente alla
realtà quando Dolly mi rivolse la parola. Il timbro della sua
voce era cambiato, era più maturo e profondo rispetto a
vent'anni prima.
«Ciao Daron, sei
proprio tu?» esordì la donna, scrutandomi attentamente
con i suoi occhi stretti.
«Dolly»
mormorai.
Di slancio mi si gettò
addosso e mi strinse in un forte abbraccio, premendo il suo corpo
formoso contro il mio.
Fui
invaso da altri ricordi, e non potei far altro che ricambiare quel
gesto. La nostra relazione non si era conclusa con una brusca
rottura, ma avevamo semplicemente deciso che fosse meglio troncarla.
Lei aveva bisogno di soldi e
non poteva lasciare Chuckie, e così scegliemmo semplicemente
di non vederci più, nonostante fossimo palesemente presi l'uno
dall'altra.
Neanche in quel momento
potei affermare che fossi innamorato di Dolly all'epoca, ma
sicuramente a lei mi aveva legato un forte sentimento senza nome.
Quando ci eravamo separati avevo sofferto e per un po' non ero stato
in grado di perdonarmi per averla lasciata andare. Mi ero detto che
avrei potuto offrirle il mio aiuto per cercare un lavoro, ma la
verità era che a quei tempi ero un vero egoista e la mia mente
era quasi completamente concentrata sui miei progetti con la band.
«Siete così
carini insieme» commentò Layla.
Nell'udire quelle parole,
entrambi avvampammo e interrompemmo con imbarazzo l'abbraccio.
«Layla, tesoro, non
essere sciocca» la rimproverò bonariamente Dolly.
«Perché non mi
hai cercato prima?» chiesi alla donna che avevo di fronte,
senza riuscire a distogliere gli occhi dai suoi.
«Io... non mi sembrava
opportuno. Ho seguito con molto interesse la tua carriera, sai?
Vedevo quanto stavi diventando famoso e temevo di incasinarti la
vita. Daron, devi sapere che non ho mai smesso di amarti. Mai.»
Distolsi
lo sguardo, improvvisamente preda di un profondo imbarazzo. Non
trovavo molto adatto affrontare quel tipo di discorso di fronte a sua
figlia. Lanciai un'occhiata
alla ragazzina e notai che si era allontanata e armeggiava con il suo
cellulare.
«Sul serio, Daron.
Avrei voluto lasciarti in pace, ma poi Layla mi ha fatto un sacco di
domande su di te e ha deciso che voleva conoscerti. Come potevo
impedirglielo? Ho provato a dissuaderla, ma non ha funzionato. È
molto testarda, proprio come te.»
Affondai le mani nelle
tasche dei jeans e fissai le punte delle mie scarpe da ginnastica.
«Sei certa che lei sia mia figlia?» chiesi in un
sussurro.
«Lo so e basta. Io e
Chuck non stavamo insieme da un bel po'» rispose.
«Chi mi assicura che
tu non sia andata con qualcun altro?» aggiunsi in tono un po'
troppo tagliente. Tuttavia non me ne pentii, non poteva pretendere
che le credessi sulla parola e che prendessi tutto ciò che mi
stava raccontando per oro colato. Non avevo le prove delle sue
parole, perciò era lecito che avessi i miei dubbi.
«Hai una così
bassa opinione di me» commentò Dolly. Era palesemente
irritata dalla mia insinuazione, probabilmente l'avevo ferita, ma era
giusto che le ponessi quelle domande. Dovevo sapere la verità.
Sollevai
nuovamente il capo e la fronteggiai con strafottenza. «Magari
vuoi approfittare di me e della mia fama. Come posso sapere che non è
così? Hai deciso di troncare con me perché ti servivano
soldi e ti faceva comodo stare con Chuckie.
Io all'epoca ero un buono a nulla, un musicista senza né arte
né parte. E adesso guarda dove sono arrivato.»
Dolly indietreggiò di
un passo e scosse la testa. «Ma che cazzo dici?»
«Dico quello che
penso. Insomma, è trascorsa una vita, io sono cambiato e anche
tu. Come posso fidarmi ancora di te?» La afferrai per un
braccio e la costrinsi a guardarmi in faccia. «Dolly, si può
sapere cosa vuoi da me?»
Lei si divincolò
dalla mia presa e frugò in borsa, per poi estrarre un
pacchetto di sigarette. Ne prese una e la accese, poi si voltò
in direzione di Layla e le mostrò il pacchetto. La ragazza era
al telefono a diversi metri da noi; scosse il capo e rifiutò
l'offerta di sua madre.
«Daron, voglio solo
che mia figlia abbia un padre. Se lo merita. Puoi ignorare me, ma non
lei. Per favore. Non voglio stravolgerti la vita, ma...»
«Lo
hai già fatto. Lo avete già
fatto» la interruppi.
«Lo so, ma è
giusto che Layla abbia una figura maschile al suo fianco. Una figura
di riferimento. Sai, io e Chuck ci siamo lasciati dopo neanche un
anno. Dopo che te ne sei andato e sei sparito dalla mia vita, le cose
non hanno fatto che peggiorare. E quando ho scoperto di essere
incinta ho deciso di troncare la relazione con lui. Non volevo che
interferisse, non era la persona giusta per Layla.»
Non
risposi, non avevo proprio idea di cosa dire. Le sue parole erano
molto belle e toccanti, ma io non avevo ancora alcuna prova del fatto
che quella ragazzina fosse
mia figlia.
«Così sono
diventata anche io una delle tante, sai. Una ragazza madre come tutte
le altre.»
«E non hai pensato di
cercarmi? Di rendermi partecipe?»
Dolly mi sorrise con
indulgenza. «Oh, andiamo. Eri totalmente assorbito dalla tua
carriera come musicista, dai tuoi progetti musicali. Non potevo
trascinarti in un casino come questo, non era il tuo momento di avere
un figlio.»
Strinsi i pugni. «Questo
lo dici tu! Mi avresti dovuto dare la possibilità di
scegliere!» protestai.
«Quando si ha un
figlio non si può scegliere, Daron. Se ti avessi coinvolto,
saresti stato obbligato. Tu non sei una bestia, non avresti mai
abbandonato Layla se avessi saputo di lei. Lo so, ti conosco.»
Sapevo che aveva ragione, ma
non riuscivo ad accettare ciò che mi stava dicendo.
«Dolly, senti, non
posso crederti senza avere delle prove. Facciamo così:
proviamo a vedere se le cose stanno davvero così. Se sono suo
padre, be', mi prenderò le mie responsabilità. Ma prima
di avere la conferma, non chiedermi niente.»
«Io non ti chiedo
niente, lo faccio per mia figlia» affermò la donna, per
poi finire la sua sigaretta e gettarla a terra.
Allungai un piede e
schiacciai la cicca con la suola della mia scarpa da ginnastica.
«Certo, capisco.»
«Ma
volevo solo che sapessi che ti amo ancora» aggiunse,
e quelle parole mi raggiunsero come un fulmine a ciel sereno. Non mi
aspettavo che le ripetesse in seguito alla discussione che avevamo
appena avuto; mi ero convinto che in precedenza le avesse pronunciate
per tentare di riconquistare la mia fiducia e la mia attenzione, ma
forse stava dicendo sul serio.
Non aprii bocca, limitandomi
a fissarla dritto negli occhi.
«Non importa se per te
non è lo stesso, ma non riuscivo più a tenermelo
dentro.»
Annuii e spostai lo sguardo
su Layla. Lei si accorse che la scrutavo, così salutò
rapidamente la persona con cui stava parlando al telefono e ci
raggiunse.
«Siete arrivati a un
accordo?» domandò, rivolgendomi un dolce sorriso.
«Faremo il test del
DNA e poi si vedrà» risposi.
La ragazza allungò
una mano e la posò timidamente sul mio braccio. «Grazie
per aver deciso di farlo, Daron.»
Scrollai le spalle. «Ora
devo andare, si è fatto tardi.»
Dolly annuì e Layla
ritrasse la mano, prendendo ad arrotolare una ciocca di capelli scuri
attorno alle dita.
«Okay.» La
ragazza cercò il mio sguardo. «Andiamo insieme a fare il
test?»
«Sì, va bene.
La prossima settimana ho qualche giorno libero. Ti va bene
mercoledì?»
Layla annuì. «Sì,
mercoledì è perfetto.»
«Ci vediamo per pranzo
in quel locale dove mi hai portato tempo fa?» proseguì
Layla.
«Si può fare»
accettai.
«Allora ci incontriamo
laggiù per mezzogiorno» concluse lei.
Prima di tornare nel
backstage, incrociai gli occhi scuri di Dolly e li trovai velati di
lacrime. Aveva assistito alla conversazione tra me e sua figlia con
profonda commozione, come se già immaginasse noi tre come una
vera famiglia.
Salutai entrambe con un
breve e poco intenso abbraccio, poi tornai dentro, superando con
noncuranza i roadie che ancora chiacchieravano tra loro e tenevano
d'occhio i dintorni.
Solo allora mi resi
realmente conto di aver preso un impegno enorme con Layla, e che per
la prima volta mi sentivo davvero pronto per affrontare la situazione
e prendermi le mie responsabilità.
Quando rientrai nella stanza
principale del backstage stavo sorridendo, e così i miei amici
si rilassarono immediatamente, comprendendo che era davvero tutto a
posto.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 57 *** Love, Music, Sea ***
ReggaeFamily
Love,
Music, Sea
[Leah]
A
risvegliarmi fu lo squillo insistente del cellulare di Shavo. Aveva
nuovamente cambiato suoneria dall'ultima volta che ci eravamo visti;
ora aveva impostato una canzone rap che non conoscevo, e questa
martellava ritmata dalle casse del suo telefono.
Mi
rigirai tra le lenzuola e mi coprii la testa con il cuscino,
biascicando qualche imprecazione.
Il
bassista ronfava beato e sembrava non essersi accorto di niente.
Irritata, mi allungai verso di lui e gli mollai una gomitata sulle
costole; lui si ridestò di soprassalto ed espirò
bruscamente, spalancando gli occhi in preda al panico.
«Spegni
quell'aggeggio infernale!» sibilai.
Lui
si mise a sedere e si stropicciò gli occhi, ancora stralunato
e inconsapevole di cosa stesse accadendo. Mi guardò allarmato,
poi parve tornare alla realtà e si accorse che il suo
cellulare aveva ripreso a trillare.
«Chi
cazzo è?» sbottò, allungandosi sul comodino per
afferrare l'iPhone. Diede un'occhiata al display e finalmente
rispose, interrompendo quella tortura. Odiavo tremendamente la sua
nuova suoneria.
«John?
Sei impazzito? Che cazzo ti prende?» borbottò il
bassista, per poi posare una mano davanti alla bocca e sbadigliare
rumorosamente. Si grattò distrattamente la spalla destra, poi
mi fissò perplesso. «Dice che vuole parlare con te»
spiegò, per poi porgermi il telefono.
Senza
cambiare posizione, mi portai l'oggetto all'orecchio ed esordì:
«Buongiorno batterista».
«Leah,
ciao. Ho provato a chiamarti» disse lui in tono divertito.
«Sai
com'è, io a differenza di questo deficiente del tuo collega
imposto il silenzioso durante la notte.» Mollai un pugno sul
braccio di Shavo e lui sussultò.
«Ehi!»
protestò, per poi scivolare accanto a me e prendermi tra le
braccia. Cominciò a farmi il solletico su una natica e a
baciarmi una spalla.
«Ah,
Shavo! Smettila! Comunque, cosa volevi dirmi?» chiesi infine a
John.
Lui
ridacchiò. «Ho interrotto qualcosa, immagino»
commentò.
«Macché.»
Sbuffai e schiaffeggiai la mano del mio ragazzo che, proprio in quel
momento, si stava insinuando con noncuranza tra le mie cosce. «Shavo
Odadjian, continua così e sei un uomo morto!» strillai,
per poi scostarmi da lui. Mi alzai di scatto dal letto e corsi a
rifugiarmi in bagno. «John, ehi! Dimmi tutto, ora posso parlare
con più tranquillità» sospirai infine,
appoggiandomi con la schiena alla porta chiusa.
Il
batterista rise. «Che dolci che siete, piccioncini. In ogni
caso, volevo chiederti se hai già comprato il biglietto del
treno per Las Vegas.»
Mi
accostai allo specchio e guardai distrattamente il mio riflesso. «No,
lo farò più tardi. Perché?» volli sapere.
«Devo
andare nella tua città a dare un'occhiata a un locale. Ho un
progetto in mente da un po'.»
Spalancai
gli occhi. «Un progetto? A Las Vegas?»
«Sì,
be'... un mio amico abita là e mi ha detto di aver trovato
un'occasione imperdibile per la nostra idea. Preferirei rimanere a
Los Angeles, ma voglio andare a controllare di cosa si tratta»
spiegò John in tono calmo.
«Oh,
okay. Vuoi riaccompagnarmi a casa?» chiesi, poi aggiunsi: «Mi
dirai di cosa si tratta o è un segreto internazionale?».
«Te
lo dirò, non preoccuparti. No, andrò in aereo, farò
prima. Volevo chiederti se vuoi venire con me, così prenoto
anche per te.»
«In
aereo?» strillai. «Non ho abbastanza soldi per un volo,
non scherzare!»
Lui
sospirò. «Bene, ho capito. Prenoto anche per te.»
«No,
John, ehi... ma che dici? Quando...»
«Devo
essere al locale domani pomeriggio alle tre. Prenoto per domani
mattina. In questo modo avrai un altro po' di tempo da trascorrere
con Shavo» decise il batterista, poi mi salutò senza
darmi il tempo di ribattere e mi sbatté il telefono in faccia.
Provai
a richiamarlo diverse volte ma lui non rispose. Imprecando, mi diedi
una sistemata e feci pipì, poi tornai in camera.
Shavo
se ne stava sdraiato a letto con le braccia dietro la testa e le
gambe intrecciate. Teneva gli occhi fissi sul soffitto e sembrava
star riflettendo su qualcosa che non potevo immaginare. Mi fermai un
attimo a osservarlo: il suo petto asciutto si alzava e abbassava al
ritmo del suo respiro, il viso rilassato era così bello e
dolce che mi venne voglia di riempirlo di baci; il pizzetto gli
solleticava la pelle del torace, ma sembrava non infastidirlo. Le
gambe magre e ricoperte da una leggera peluria se ne stavano
abbandonate sul materasso, lasciando che la sua erezione svettasse
senza pudore né vergogna.
Quello
era davvero l'effetto che gli provocavo? E quel bassista famoso e
meraviglioso era davvero il mio uomo?
Lui
non si mosse, ma poco dopo sospirò. «Perché mi
fissi, Leah? Prima mi ripudi e poi mi desideri. Così non si
fa» scherzò lui, per poi ridacchiare sommessamente.
«Quando
fai il deficiente, come posso non ripudiarti? Stavo parlando con John
e tu hai fatto il maiale» lo rimproverai, distogliendo gli
occhi dalla sua nudità. Mi avvicinai alla finestra e scostai
appena le tende blu per permettere a un po' di luce di penetrare
nella stanza. Il cielo era uggioso e minaccioso, non era proprio la
giornata giusta per fare una passeggiata, eppure io volevo andare a
Santa Monica e godermi un bel giretto sul lungomare.
«Sei
permalosa. Vieni qui, dai» mormorò Shavo.
«Dobbiamo
uscire, ricordi?» sbottai, voltandomi nella sua direzione.
Anche io ero completamente nuda, così in quel momento sentii
lo sguardo bruciante del bassista percorrere il mio corpo nella sua
interezza e avvertii un leggero imbarazzo. «Quando mi guardi
così, mi fai paura» bofonchiai, cercando di nascondere
una nota divertita.
«Usciamo
più tardi.»
«Devo
prepararmi per ripartire, Shavarsh» ribattei.
«Tanto
non devi partire oggi. Vieni qui» mi ordinò in tono
deciso, allungando una mano verso di me per invitarmi a raggiungerlo.
«Che
palla al piede che sei, e va bene!» Mi accostai al letto e gli
porsi il suo cellulare, poi mi bloccai e lo scrutai in viso. «Un
attimo. Tu come fai a sapere che non ripartirò oggi?»
Shavo
appoggiò nuovamente il suo telefono sul comodino e allungò
un braccio. Mi afferrò fulmineo per un polso e mi trascinò
sopra di sé, per poi intrappolarmi in un forte abbraccio. I
nostri visi si trovarono a pochi centimetri l'uno dall'altro e io
avvertii l'improvviso impulso di baciarlo fino a togliergli il fiato.
«Adesso
baciami e smettila di fare domande, Leah Moonshift. Sei sempre troppo
curiosa» soffiò sulle mie labbra, per poi lasciarmi un
breve bacio. Si scostò immediatamente e rise ancora.
Feci
leva sul suo petto per potermi allontanare, ma lui non me lo permise
e prese ad accarezzarmi con ardore la schiena. Sospirai e mi arresi
al desiderio che mi stava letteralmente mangiando viva.
«Ti
ho detto che voglio andare a Santa Monica!»
«E
io voglio stare qui a coccolarti.»
«Shavarsh,
ti ho mai detto che sei una piaga?»
«Più
o meno cinque minuti fa. O forse meno.»
Sospirai
mentre Shavo mi accarezzava il collo e mi lasciava piccoli baci tra i
capelli, tenendomi stretta a sé. Era incredibile come la sua
presenza riuscisse a ubriacarmi completamente e a stregarmi
irrimediabilmente.
Non
avrei mai immaginato di potermi innamorare così tanto di
qualcuno, non dopo le disastrose esperienze che avevo vissuto, non
dopo aver perso completamente la fiducia nel genere maschile dopo
aver vissuto con un essere spregevole e insopportabile come Alan
Moonshift.
«Voglio
andare a Santa Monica. Non crederai davvero che rimarremo tutto il
giorno a letto? Scordatelo» ripetei con fermezza.
Shavo
se ne stava con gli occhi chiusi. Mi sollevai sui gomiti e lo baciai
sulle palpebre, poi sulla fronte e infine riuscii ad alzarmi dal
letto.
«Allora
possiamo fare la doccia insieme?» piagnucolò Shavo,
stiracchiandosi languidamente sul letto.
«Datti
una mossa» bofonchiai, entrando in bagno e aprendo l'acqua
della doccia per farla riscaldare.
Shavo
mi raggiunse quando ero già entrata da circa un minuto.
Insistette per lavarmi con cura, per strofinarmi i capelli con
delicatezza e riempire tutto il mio corpo di schiuma. Feci lo stesso
con lui, e infine ridemmo come due scemi e trascorremmo almeno venti
minuti sotto il getto tiepido e rigenerante della doccia.
Ci
vestimmo e preparammo in fretta, poi in tarda mattinata uscimmo di
casa e salimmo a bordo della sua auto.
«Santa
Monica, stiamo arrivando!» strillai, per poi accendere la radio
e cercare qualcosa da ascoltare durante il tragitto.
Ero
felice. Durante quei giorni avevo vissuto delle emozioni incredibili
che ancora mi sembravano un miraggio; avevo assistito per la prima
volta a un concerto dei System e avevo dovuto trattenere le lacrime
nell'osservare Shavo che suonava su quel palco. Avevo ammirato con
incredulità le prodezze di John con la sua batteria, mi ero
accorta di quanto Serj fosse dannatamente bravo a cantare e avevo
riso con Bryah e Mayda delle cretinate che Daron combinava mentre
suonava la sua chitarra.
Poi
avevo festeggiato con i ragazzi e i loro amici, avevo conosciuto un
sacco di musicisti che per me erano sempre stati astratti e quasi
irreali, mi ero scatenata insieme alla mia nuova famiglia che
cresceva sempre più e si faceva via via più bella a
calorosa nei miei confronti.
Shavo
sospirò, fingendosi esasperato dal mio entusiasmo. «Nel
portaoggetti c'è una pennina USB con un sacco di musica»
mi informò, immettendosi nell'intenso traffico losangelino.
Frugai
nel vano ed estrassi l'oggetto, poi lo collegai all'autoradio e
attesi che la prima canzone cominciasse.
Nell'abitacolo
esplose un brano metal che non mi parve di riconoscere e io
sobbalzai; mi allungai per abbassare un po' il volume e subito vidi
Shavo che muoveva la testa a tempo con il ritmo incalzante e confuso
della batteria.
«Che
roba è?» gli chiesi.
«Sono
i Device. Non riconosci la voce?»
Aggrottai
la fronte e rimasi in ascolto. In effetti il cantante del gruppo
aveva un timbro familiare, ma in quel momento mi sentii immensamente
stupida perché non fui in grado di associarlo a qualcuno che
conoscevo. «Mi dice qualcosa, ma ora ho un vuoto» ammisi.
Shavo
ridacchiò e prese a canticchiare il ritornello con tanto di
scream nei punti giusti; mi venne da ridere e non mi trattenni.
«Mi
vuoi dire o no chi sta cantando?» sbottai tra le risate. Poi
aggiunsi: «Scommetto che la canzone si intitola Vilify».
«Che perspicace! Lo
dice mille volte. Comunque, si tratta di David Draiman, il cantante
dei Disturbed. È un fottuto genio!» dichiarò il
mio ragazzo, per poi riprendere a fare quella sorta di rap melodico
che mi vergognai di non aver riconosciuto.
«Oddio, Draiman!»
strillai. «Adoro quell'uomo!»
Nel
frattempo partì una canzone strumentale che mischiava metal e
folk medioevale; mi allungai per cambiarla, avevo voglia di scoprire
cos'altro mi riservava la
raccolta musicale di Shavo.
Partì
You really got me dei
Kinks e io sorrisi, annuendo soddisfatta.
Shavo mi lanciò
un'occhiata. «Sono geloso» bofonchiò.
«Solo perché ho
detto che amo Draiman? Ah, Shavarsh, ma i miei sentimenti per lui
sono prettamente artistici e non hanno niente a che vedere con il
lato carnale della questione.» Riflettei per un attimo, poi
aggiunsi: «Anche se certe volte con quella sua voce mi fa un
effetto particolare, sai com'è». Lo stavo
deliberatamente prendendo in giro e lui se ne rese conto.
«Ma sentila! Vorrei
proprio vedere se avresti il coraggio di essere così sfacciata
se te lo ritrovassi di fronte» mi canzonò in tono
divertito.
Sospirai. «No, hai
ragione. E ora che sto con te, so che potrei conoscere musicisti in
ogni occasione, quindi è meglio se sto attenta a quello che
dico.»
«Donna saggia!»
esclamò il bassista, mentre in sottofondo si udiva un brano
dei Cypress Hill.
«Questi non mancano
mai, eh?» commentai.
«Sono miei amici,
sai?»
Alzai gli occhi al cielo.
«Che strano, non me l'aspettavo» dissi ironica.
Continuammo a scherzare,
cantare e ridere per tutto il tempo, finché non giungemmo
finalmente in un parcheggio nei pressi del lungomare e potemmo
finalmente uscire all'aria aperta.
Ci
avviammo a piedi verso la nostra meta e io continuai a prenderlo in
giro per la musica che aveva
in quella dannata pennina.
«Hai certe
schifezze... com'è che si chiamano quei tizi che hai
conosciuto al Download Festival?»
Lui mi lanciò
un'occhiataccia. «I The Killers? Non sono una schifezza!»
si rivoltò con indignazione.
«Oh sì che lo
sono. Giusto, loro. Non li ho mai sopportati. Il loro cantante è
una lagna.»
«Leah, non offendere
Brandon!» proseguì a contraddirmi, mentre ci infilavamo
nella zona pedonale e venivamo circondati da un mare di folla bagnata
dal caldo sole del primo pomeriggio. «Andiamo a mangiare
qualcosa, piuttosto» bofonchiò.
«Concordo! Hai
qualcosa dei Korpiklaani invece?»
Shavo sgranò gli
occhi e scosse il capo. «Chi?»
Risi e gli presi la mano.
«Non posso credere che non li conosci. Sei un ignorante!»
sbottai.
«Mai sentiti»
ammise con espressione confusa.
«Sono finlandesi e
fanno folk metal» spiegai, orgogliosa di potergli far conoscere
qualcosa di nuovo. Amavo quella band, mi divertiva un sacco la loro
musica e adoravo ascoltarla e ballarla quando mi andava di scatenarmi
senza pensieri.
«Allora devo sentirli
per forza!» affermò tutto contento.
Continuammo a camminare e ci
godemmo il sole e la brezza salmastra che ci accarezzava la pelle.
Era bellissima l'atmosfera che si respirava, era rigenerante scorgere
la diversità tra le persone che ci circondavano ed era
incredibile che nessuno dei passanti avesse riconosciuto Shavo.
Mentre ci accostavamo a un
locale che lui amava e in cui voleva portarmi a pranzo, però,
dovetti ricredermi e pensai di aver attirato io la sfortuna.
«Oddio, Shavo!»
sentii strillare alla mia destra. Mi venne voglia di darmela a gambe
levate e feci per trascinare via il mio ragazzo, ma mi accorsi subito
che lui stava opponendo resistenza. Sospirai e lasciai andare la sua
mano, arrendendomi al fatto che lui non riusciva proprio a essere
scortese e maleducato con i suoi sostenitori.
Una ragazza bionda e
sovrappeso si accostò a noi e sorrise estasiata in direzione
del bassista. Doveva essere alta sì e no un metro e sessanta,
perciò fu costretta a sollevare completamente il capo per
poterlo guardare in viso. Tra le mani stringeva uno smartphone e un
taccuino con tanto di penna incastrata tra le pagine.
«Ciao» la salutò
dolcemente Shavo, tendendole la mano. «Piacere di conoscerti.
Come ti chiami?» volle sapere.
Lo invidiavo tantissimo per
la sua infinita pazienza e per la gentilezza che riusciva a riservare
alle persone che spesso lo riconoscevano e gli chiedevano foto e
autografi, anche in punti del corpo parecchio inopportuni. Io sarei
esplosa dopo solo un minuto e avrei mandato tutti al diavolo.
Somigliavo molto più a Daron da quel punto di vista; me ne
resi conto ancora una volta e sorrisi.
«Mi
chiamo Mary Jane. Ti disturbo solo un attimo, vorrei fare una foto
con te. Se puoi, vorrei anche un
tuo autografo sul mio quaderno di poesie» spiegò la
ragazza, senza riuscire minimamente a nascondere la sua eccitazione
nel trovarsi di fronte al suo idolo. Poi si rese conto della mia
presenza e mi lanciò un sorriso caloroso. «Lei è
la tua fidanzata?» domandò poi.
«Nessun problema,
facciamo tutto. A quanto pare sì, Mary Jane, non mi ha ancora
lasciato» scherzò il bassista, sfilandole gentilmente il
taccuino dalle mani. «Dove posso firmare?» le chiese.
Lei rise per la sua battuta
e io mi accostai leggermente a loro, senza però intromettermi
né aprir bocca.
«Sulla prima pagina,
per favore» rispose la ragazza.
Shavo lasciò il suo
autografo, poi le restituì carta e penna e si voltò a
guardarmi. «Puoi scattare tu la foto?»
Annuii e Mary Jane mi
consegnò il suo cellulare. I due si misero in posa e io feci
qualche scatto, mentre il mio stomaco brontolava per la fame. Quella
ragazza era gentile e non ci stava importunando più di tanto,
ma io non avevo più voglia di starle appresso. Volevo mandar
giù qualcosa e godermi il tempo che mi rimaneva da trascorrere
con il mio ragazzo.
«Ecco fatto»
dichiarai, per poi restituire lo smartphone alla sua proprietaria.
«Grazie mille,
davvero» disse lei tutta contenta, poi si accostò a
Shavo e chiese: «Posso avere un abbraccio?».
Lui sorrise e non cambiò
atteggiamento, ma nei suoi occhi scorsi qualcosa di simile
all'irritazione, la stessa che stava invadendo anche me. Non vedevo
l'ora che quella tizia ci lasciasse in pace.
Lui le diede una rapida
stretta, poi le scompigliò i capelli e la salutò con
gentilezza. Tornò da me e mi prese per mano, per poi
incamminarsi nuovamente verso il locale in cui avremo pranzato.
«Mi stava dando sui
nervi» sibilai a denti stretti, guardandomi attorno per
assicurarmi che la ragazza non fosse più nei paraggi.
«Non essere gelosa,
Leah» mi canzonò lui, chinandosi per baciarmi sulla
guancia.
«Non sono gelosa, è
che stava esagerando» puntualizzai.
«Sei gelosa» mi
contraddisse.
Sospirai. «È
così strano?» gli chiesi in tono irritato.
«No, affatto. Adoro
sapere che sei gelosa» affermò, per poi stringersi nelle
spalle e ridacchiare.
«Spiritoso. Dai,
portami a mangiare, sto per svenire» conclusi, spingendolo
verso la porta d'ingresso del locale.
Solo allora mi accorsi che
si trattava di un ristorante messicano.
«Non amo il cibo
piccante, lo sai» borbottai sulla soglia.
«Ci
sono un sacco di cose che potrai mangiare. Non tutto è
piccante, tranquilla» mi rassicurò il bassista,
per poi farmi strada verso il portico esterno alla struttura, il
quale si affacciava direttamente sulla spiaggia.
Quella postazione mi ricordò
il viaggio in Giamaica e tutte le volte che avevamo mangiato in
qualche chiosco sulla spiaggia o quando avevamo fatto colazione o
bevuto qualcosa sulla terrazza panoramica dello Skye Sun Hotel.
Cercai lo sguardo di Shavo e
mi resi conto che anche a lui erano riaffiorati gli stessi ricordi.
Ci fissammo per un po' e rivivemmo insieme, in silenzio, i momenti
che ci avevano unito e fatto avvicinare sull'isola caraibica.
«Torneremo in Giamaica
insieme?» chiese lui all'improvviso.
Proprio in quel momento
giunse accanto a noi un cameriere e io non potei replicare, ma dentro
di me sapevo già qual era la risposta che avrei voluto dargli.
Con lui sarei andata anche
in capo al mondo.
La cosa mi spaventava un
po', eppure mi faceva sentire allo stesso tempo sicura e protetta.
Pranzammo con calma,
rimpinzandoci fin quasi a scoppiare, poi decidemmo di andare a
sederci in riva al mare e trascorrere un po' di tempo a chiacchierare
e rilassarci.
Faceva molto caldo e
probabilmente ci saremmo scottati il viso e le braccia, ma in quel
momento stavamo talmente bene che non volevamo pensare a qualcosa di
negativo che potesse rovinare quell'atmosfera.
Nel frattempo il cielo si
era coperto nuovamente e io lo fissai contrariata. «Mi ero
quasi dimenticata che stamattina era nuovoloso. Che giornata strana»
commentai, mentre me ne stavo inginocchiata dietro a Shavo e gli
massaggiavo distrattamente la schiena.
Lui sospirò. «Già»
mormorò.
All'improvviso il suo
cellulare prese a squillare, sempre con la stessa canzone rap
martellante che odiavo terribilmente.
«Shavarsh, cambia
suoneria, te ne prego! Odio questa roba» mi lamentai,
spazzolando via un po' di sabbia che si era attaccata ai miei jeans.
Lui borbottò qualcosa
a proposito del fatto che quella canzone fosse di alcuni suoi amici,
poi rispose alla chiamata. «Sì? Ciao, fratello!»
esordì con entusiasmo.
Appoggiai il mento sulla sua
spalla e accostai l'orecchio al suo per cercare di capire con chi
stesse parlando. Non mi parve di riconoscere la voce maschile che
udivo a stento, non si trattava sicuramente di qualcuno dei System o
del loro staff.
«Sono a Santa Monica
con la mia donna, tu?» proseguì Shavo, e io dovetti
trattenere una risata per il tono da gangster che aveva assunto.
«Dai! Ci raggiungete?»
Scivolai al suo fianco e mi
misi a sedere, per poi scoppiare a ridere sommessamente. Nascosi il
viso nelle ginocchia e fui incapace di controllare la mia reazione.
Era troppo buffo.
«Chiamami quando
arrivate. Ciao fratello, a dopo» concluse il bassista, per poi
riagganciare. Mi posò una mano sulla spalla e mi scosse. «Che
cazzo ridi?»
«Sei un gangster
mancato. Tu non sei un bassista metal, mi dispiace» lo canzonai
in tono divertito, senza più trattenere le risate.
«Ma piantala! Senti,
alcuni amici ci raggiungono tra un po'. Ti piaceranno»
annunciò, per poi attirarmi a sé e stringermi al suo
fianco.
Appoggiai la testa sulla sua
spalla e chiesi: «Come si chiamano?».
«Louis, Justin e Lord»
rispose.
Aggrottai la fronte. «Sono
anche loro dei musicisti famosi?» volli sapere, non sapendo più
cosa aspettarmi dall'immensa collezione di conoscenze che Shavo
portava fuori con la sua solita noncuranza.
«No» rispose.
Non gli credetti, nel suo
tono di voce c'era qualcosa che non mi convinceva, un che di ironico
che mi faceva intuire che non me la stesse raccontando giusta.
«Okay, sono curiosa di
conoscerli allora» conclusi.
Decisi di fingere di esserci
cascata, anche se dentro stavo cominciando ad agitarmi. Non feci
altro che chiedermi quali artisti famosi si nascondessero dietro quei
tre nomi, ma non riuscii assolutamente ad associarli a qualcuno che
conoscevo.
Mi arresi e decisi
semplicemente di aspettare e godermi la sorpresa.
Poco dopo cominciò a
diluviare.
Cari
lettori, oggi devo assolutamente lasciarvi delle note a fine capitolo
^^
Ho
nominato così tante canzoni e band, che è giusto che
voi abbiate ben chiaro di chi ho voluto parlare!
Cominciamo
da Vilify dei Device;
questo è un progetto del magnifico cantante dei Disturbed,
David Draiman appunto. Qui di seguito vi lascio il link della canzone
in questione:
https://www.youtube.com/watch?v=-K1q1pw04Bs
Sapevate
che sempre i Device hanno fatto un brano in collaborazione con Serj?
Vi linko anche questo, si intitola Out Of Line:
https://www.youtube.com/watch?v=2CGf35mVJWs
Potete
immaginare la mia sorpresa e la mia immensa gioia quando ho scoperto
che questi due miti hanno fatto una canzone insieme *-* (come quando
ho scoperto che Serj ha fatto un featuring con Mike Patton dei Faith
No More, stavo sbavando, credetemi ♥)!
Ma
andiamo avanti... anche se potrei continuare a parlare delle
collaborazioni di Serj con gente che amo per almeno un'altra ora XD
Poi
ho nominato You Really Got Me
dei Kinks, un brano piuttosto
datato ma fantastico, ecco a voi:
https://www.youtube.com/watch?v=fTTsY-oz6Go
Che
ne pensate? Ci tengo a sapere i vostri pareri sulle canzoni che
scelgo per questi capitoli per capire se secondo voi ci stanno bene,
ma anche per conoscervi un po' meglio e sapere quali sono i vostri
gusti musicali ;)
Vi
linko anche una canzone random dei Korpiklaani, una delle mie
preferite che si chiama Vodka;
fanno una musica meravigliosa questi adorabili ubriaconi finlandesi,
io ve li consiglio caldamente:
https://www.youtube.com/watch?v=e7kJRGPgvRQ
Come
ultima cosa volevo confessarvi che mentre scrivevo la scena della
macchina e quindi portavo fuori questa conversazione tra Shavo e Leah
riguardanti la musica che lui ha sulla pennina, stavo lasciando
scorrere la mia musica sul pc e quindi ho pescato da lì i
brani da inserire :D
Spero
sia tutto di vostro gradimento, e mi raccomando fatemi sapere che ne
pensate e se avete idea di chi possono essere gli amici di Shavo che
arriveranno a breve... X'D
Grazie
di cuore per tutto e alla prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 58 *** #homies ***
ReggaeFamily
#homies
[Shavo]
Rifugiati
nuovamente sul portico del ristorante messicano, aspettavamo che i
miei amici ci raggiungessero.
Avevo
mentito a Leah sulla vera identità dei ragazzi, ma era troppo
divertente immaginare la faccia che avrebbe fatto quando avrebbe
riconosciuto con chi avremmo trascorso il pomeriggio.
Intanto
all'esterno imperversava un terribile temporale e Leah pareva
preoccupata dalle condizioni meteorologiche. Mi lanciò
un'occhiata in tralice e sorseggiò il suo caffè.
«Che
c'è?» le chiesi, allungandomi sul tavolino per
stringerle affettuosamente un braccio.
«Domani
io e John dobbiamo prendere l'aereo. Spero che questo tempaccio si
dia una calmata» borbottò, per poi fare una smorfia in
direzione della tazza che stringeva in mano. «Questa roba fa
schifo. Rimpiango il Blue Mountain che preparava Al.» Sospirò
e mi sorrise.
«A
proposito di Alwan, l'hai sentito di recente?» domandai con
curiosità. Quel ragazzo era davvero simpatico, ed ero rimasto
molto sorpreso quando mi ero reso conto di essere uno dei suoi
bassisti preferiti. Aveva dato di matto quando se n'era reso conto, e
io mi ero divertito a prenderlo un po' in giro.
«Oh
sì, la settimana scorsa mi pare. Mi ha chiamato per sapere
come vanno le cose. Mi ha detto che tra lui e Day va tutto alla
grande, anche se devono ancora mantenere segreta la loro relazione»
raccontò Leah con entusiasmo, spostando la tazza di lato e
rifiutandosi di bere ancora.
«Mi
dispiace. È un'ingiustizia» commentai, grattandomi
distrattamente alla base del collo. Il mio cellulare squillò,
così risposi subito per evitare che Leah si lamentasse ancora
una volta della mia suoneria. «Compare!» esclamai, dopo
essermi portato l'iPhone all'orecchio.
«Ehi!
Abbiamo appena parcheggiato. Cazzo, che tempo di merda! Dove siete?»
esordì Louis in tono contrariato.
In
sottofondo udii le risate di Lord e Justin e sorrisi a mia volta.
«Sì, hai visto? Io e Leah ci siamo rifiutati al Dear
Mexico, sul lungomare. Ce la
fate ad arrivare senza bagnarvi come pulcini?» scherzai.
«Coglione! Justin ha
portato l'ombrello. È proprio una femminuccia»
sghignazzò Louis.
«Pezzo di merda! Ciò
significa che tu non ci vieni sotto il mio fottuto parapioggia»
sentii strillare Justin, mentre Lord se la rideva divertito.
«Ragazzi, noi siamo
qui, datevi una mossa» conclusi.
«Al
Dear Mexico?»
ripeté Louis.
«Sì»
confermai. «A tra poco, ciao» aggiunsi, poi conclusi
la chiamata e appoggiai il cellulare sul tavolo.
«E dicevo»
proseguì Leah. «Sai, Al mi ha raccontato che Lakyta sta
cercando in tutti i modi di partire per venire a Los Angeles. Dice
che è stanca di fare la cameriera.»
«Quella ragazza è
un disastro» dissi, incrociando le mani sul tavolo. «Credo
che non cambierà mai.»
«Già, hai
capito. E continua a provarci con lui» raccontò ancora
la mia ragazza, rivolgendomi un sorriso ammiccante.
«Lakyta ci prova anche
con i pali» dichiarai, mentre mi tornava in mente la spiacevole
esperienza che io stesso avevo avuto con lei.
«Sì, e pensa
che esce con Cornia!» esclamò, per poi bloccarsi
all'improvviso e fissare qualcosa alle mie spalle. Il suo viso
impallidì di botto e i suoi occhi si sgranarono.
«Leah, cosa...»
cominciai a dire.
«È appena
entrato il bassista dei Tool» rantolò, portandosi una
mano al petto. «Insieme ad altri due tizi con l'aspetto da
rapper. Si dirigono verso di noi.»
Le sorrisi apertamente. «Ah
sì?»
Lei comprese all'improvviso
come stavano le cose e imprecò tra i denti. «Lo sapevo!
Questa me la paghi!» sibilò.
Risi e mi alzai, per poi
voltarmi e trovarmi faccia a faccia con i miei amici.
«Cazzo,
quanto tempo è passato dall'ultima volta che ci siamo visti?»
strillò Louis, saltandomi letteralmente
addosso e stritolandomi in un abbraccio fraterno e avvolgente.
Ricambiai la stretta e risi
rumorosamente, battendogli forte sulla schiena. «Ehi, B-Real,
come stai vecchio mio?» lo apostrofai, rendendomi conto che era
bagnato fradicio.
«Insomma... quel
coglione mi ha lasciato sotto la pioggia» si lamentò,
rivolgendo il dito medio in direzione di Justin.
Quest'ultimo fece spallucce
e scosse il capo, facendo sì che i suoi lunghi capelli castani
oscillassero. «Cazzi tuoi, Lou» proferì
noncurante.
«Te la sei cercata»
intervenne Lord, per poi accostarsi a me e regalarmi una forte
stretta di mano. «Ehi Shavo, tutto bene?»
«Certo, tutto a posto»
risposi. «E a te come vanno le cose?» volli sapere.
«Alla grande! Sto
facendo qualcosa in studio, uno di questi giorni passa a trovarmi e
ti faccio sentire!» esclamò con entusiasmo.
«Senz'altro, sono
curioso» accettai di buon grado.
Poi sorrisi ai ragazzi e li
invitai ad avvicinarsi al tavolino, al quale Leah era rimasta seduta
a fissare la scena con aria incredula e profondamente perplessa.
«È lei la donna
incriminata?» domandò Lord, posando i suoi occhi scuri
su Leah.
«Già»
dissi.
«Ma è una
bimba!» sghignazzò Louis, facendo alcuni passi avanti.
«Lou,
piantala» lo ammonì Justin, mollandogli una gomitata
sulle costole. Poi avanzò verso Leah e lei si mise in piedi,
ancora sconvolta da ciò che stava succedendo. «Ciao,
piacere. Io sono Justin Chancellor» le si rivolse, tendendole
la mano con fare amichevole.
«Oh sì, so chi
sei» mormorò lei, avvampando violentemente. «Dannazione»
aggiunse, senza riuscire a trattenere un sospiro. Poi cercò il
mio sguardo e mi pregò di raggiungerla.
Ridacchiai e le andai
accanto, circondandole le spalle con un braccio. «Tutto bene?»
le chiesi in tono divertito.
«Sei uno stronzo,
potevi avvisarmi» borbottò.
«Dovete sapere che non
ho detto a Leah che sareste venuti. E a quanto pare è rimasta
sconvolta» scherzai in direzione dei ragazzi.
«Che bastardo!»
mi accusò Justin, per poi sorridere alla mia ragazza con fare
accattivante. «Bambina, come hai fatto a innamorarti di questo
rospo?»
«Non lo so neanche io,
credimi» commentò lei, divincolandosi dalla mia stretta.
«Ehi, quanti anni
hai?» fece Louis, dopo essersi seduto comodamente al tavolino.
«Non si chiedono certe
cose a una donna, Freese» gli fece notare Lord, battendogli
sulla spalla.
«Non mi offendo. Ne ho
quasi venticinque» rispose lei senza scomporsi.
«Allora
ho ragione! Sei una bimba, e lui è un nonno in confronto a te.
Mi dispiace, dolcezza» dichiarò Louis, facendo spallucce
e cercando un cameriere con
lo sguardo.
«Non è così
male stare con una persona anziana, sai?» stette al gioco Leah,
accomodandosi accanto a lui. Mi resi immediatamente conto che l'aveva
preso in simpatia e sospirai.
«Ora comincerete a
prendervela con me» bofonchiai, per poi sedermi nuovamente al
mio posto.
Justin si accomodò
alla destra di Leah e Lord accostò una sedia alla mia
sinistra, rubandola da un tavolo vuoto poco distante.
«Io però ti ho
già visto da qualche parte» sentii dire alla mia
ragazza, mentre scrutava con la fronte aggrottata il volto di Louis,
ombreggiato appena da uno dei suoi soliti cappellini con la visiera
piatta.
«Ah
sì?» fece lui in tono divertito. «Giochiamo a
Indovina Chi»
propose poi, lanciandomi una rapida occhiata complice.
«Falla breve! Perché
non me lo dici e basta?» sbottò lei.
«Oggi mi sono
divertito anch'io a farle un indovinello» intervenni, per poi
raccontare a tutti la faccia che Leah aveva fatto quando aveva
scoperto che il leader dei Device era il suo amato David Draiman.
«Be', capisco come ti
sei sentita, bambina» commentò Justin. «Quell'uomo
canta da dio, niente da dire» affermò.
«Ragazzi,
io ho pianto quando l'ho sentito cantare dal vivo The Sound
Of Silence» ammise Louis
senza affatto vergognarsi. «È
pazzesco, ed è una persona d'oro.»
«Appunto. Invece tu
sei una persona orribile perché non mi dici chi sei!»
gracchiò Leah, sventolando una mano di fronte alla faccia del
mio amico.
«Prova a indovinare»
disse lui imperterrito, poi finalmente riuscì a intercettare
un cameriere.
Tutti ordinammo qualcosa da
bere e Justin decise di prendere un gelato.
«La solita
femminuccia» scherzò Louis, sorridendogli con
un'espressione da pescecane dipinta sul viso rotondetto. Se ne stava
stravaccato sulla sedia e parlava a un volume di voce fin troppo
alto, ma io ormai ero abituato a quel suo atteggiamento e mi
divertivo a vederlo battibeccare con il bassista dei Tool.
I due si punzecchiavano
continuamente, anche e soprattutto perché erano molto diversi
tra loro; Louis era un rapper fino al midollo e il suo non era
soltanto un atteggiamento, bensì uno stile di vita. Era
espansivo e giocherellone, amava scherzare ma non riservava mai a
nessuno un po' di dolcezza. Era un duro, ma chi lo conosceva bene
sapeva che per i suoi amici sarebbe stato disposto a sacrificare la
sua stessa vita. A dispetto del suo solito modo di fare, era una
persona sensibile e non sopportava assolutamente le ingiustizie.
Justin,
invece, era un po' più riservato rispetto a lui; tentava di
risultare duro e sfacciato quando si trovava
in presenza di qualche nuova conoscenza, ma in realtà finiva
sempre per rivelare il suo vero essere: un ragazzo semplice e
gentile, ma non per questo serio o poco divertente. Non si lasciava
sfuggire l'occasione per fare battute e animare la festa, ma riusciva
sempre a capire quando era il momento di tornare serio e di tenere la
bocca chiusa per non ferire chi gli stava intorno.
Quando i due si trovavano
insieme, però, erano un'accoppiata esplosiva: non facevano che
punzecchiarsi e battibeccare, e in particolare Louis faceva leva su
certi atteggiamenti di Justin che riteneva infantili e tipici di una
ragazza.
Lord in genere cercava
sempre di mettere pace tra i due, mentre io mi limitavo a ridermela e
godermi le scenette divertenti che Louis e Justin mi regalavano.
Trascorrere del tempo con loro era una delizia, mi piaceva molto e
riusciva ad alleggerire anche le giornate o i periodi più
difficili.
Justin si strinse nelle
spalle e mandò al diavolo il suo interlocutore, minacciandolo
che avrebbe svelato immediatamente a Leah la sua identità.
«Non provarci,
Chancey» gli intimò il rapper, sollevando un pugno nella
sua direzione.
«Io vado a guardare i
gusti dei gelati, mi sono rotto» dichiarò il bassista,
per poi alzarsi.
«Sai che c'è?
Mi hai fatto venire voglia di prenderne uno anche io» disse
Leah, per poi seguirlo a ruota.
I
due si allontanarono e io rimasi da solo con Louis
e Lord.
«Fratello, quella
ragazza è tosta» commentò il dj dei Public Enemy,
regalandomi un sorriso compiaciuto. «Mi hai detto che l'hai
conosciuta in Giamaica, non è vero?»
«Sì, hai capito
bene. Lei è di Las Vegas, studia a Paradise» spiegai al
mio amico, mentre notavo che Louis armeggiava con il suo cellulare.
Prese ad ascoltare e inviare messaggi vocali su WhatsApp e ci ignorò
completamente, estraniandosi momentaneamente dalla conversazione.
«È molto più
giovane di te» commentò ancora Lord con cautela.
Annuii. «Lo so. E so
dove vuoi arrivare, ma non devi preoccuparti» lo rassicurai,
intuendo che fosse in pensiero per la sostanziale differenza d'età
che c'era tra me e Leah.
«Ti trovi bene con
lei, questo è palese. Ma vedi, amico mio, a lungo andare
questo potrebbe rivelarsi un problema. Adesso è ancora presto
per rendersene conto, ma ecco...» Il dj si interruppe in cerca
delle parole giuste da utilizzare.
Stavo per dire qualcosa,
quando improvvisamente Louis intervenne: «Insomma, vuole dirti
che siete di due generazioni molto diverse e che lei potrebbe essere
tua figlia».
«Freese, cazzo!»
imprecò l'altro, rivolgendogli un'occhiataccia.
«Aswod,
non preoccuparti» dissi, fissando Louis negli occhi. Ci
guardammo in silenzio per un po', poi
sospirai e mi sporsi in avanti nella sua direzione. «Lou,
ascolta. Ho capito cosa intendi, ma con Leah le cose non stanno così.
È una ragazza matura, forse molto più di me. Lei sa
capirmi, sa ascoltarmi e ha bisogno di me.» Mi guardai intorno
e sospirai ancora. «Sono innamorato di lei e voglio vivere nel
presente. Ragazzi, ehi, non ho voglia di pensare a cosa succederà
in futuro. Non so se costruirò una famiglia con lei, non so se
sarà per sempre. So solo che voglio stare con lei e che la
amo» conclusi.
Louis e Lord mi fissarono
con aria sorpresa, ma nessuno dei due rise né sghignazzò.
Avevano capito che ero mortalmente serio e che provavo dei sentimenti
forti e sinceri per quella ragazza.
«Cazzo, sei proprio
cotto a puntino» mormorò Louis, togliendosi per un
istante il cappellino dalla testa. Si grattò dietro
l'orecchio, poi lo infilò nuovamente e incrociò le
braccia sul petto. «Sì, decisamente, sei fottuto.
Abbiamo perso anche te, dopo quella femminuccia di Chancey»
concluse, scuotendo il capo con finta indignazione.
«Smettila di criticare
sempre il povero Justin» lo rimproverò Lord.
«Che ne pensate di
lei?» domandai a entrambi, riportando l'attenzione sul discorso
che stavamo affrontando poco prima.
«Di
Leah? È carina e simpatica, secondo me è una a posto.
Ma soprattutto non devi lasciartela scappare, come lei non ce ne sono
in giro» rispose Louis
con sicurezza, regalandomi un sorriso ammiccante.
«Questo lo so, grazie
compare.»
«Concordo. Per una
volta sono d'accordo con questo scimmione, non è incredibile?»
sbottò Lord, battendo sulla spalla dell'altro.
«Scimmione? Io?»
I due stavano per cominciare
ad azzuffarsi come due ragazzini, quando Leah e Justin tornarono al
tavolo, leccando fieramente il loro gelato.
«Shavarsh, vuoi
assaggiare?» mi si rivolse la ragazza, mostrandomi il suo nuovo
tesoro.
«Oddio!» Louis
si batté una mano sulla fronte e scoppiò a ridere. «Se
le permetti di chiamarti così, be', allora la situazione è
davvero grave!» Detto questo, afferrò il suo bicchiere e
bevve un sorso di birra, poi si alzò e si diede due leggeri
colpetti sulla tasca destra dei jeans larghi. «Esco a fumare,
chi mi ama mi segua.»
Noi tutti lo ignorammo, così
lui si strinse nelle spalle e se ne andò, non prima di averci
amichevolmente mandato a fare in culo.
«Adorabile»
ironizzò Justin, che intanto si era completamente sporcato la
barba con il gelato.
«Che gusto hai preso?»
chiesi a Leah.
Lei ingoiò un
boccone, poi rispose: «Nocciola e stracciatella».
«La nocciola non mi
piace» dissi.
Lei
si spostò sulla sedia accanto alla mia, quella che Louis aveva
lasciato momentaneamente vuota, poi allungò il cono verso di
me. «Lecca qui, c'è
solo stracciatella» mi invitò con un sorriso.
Notai che sull'angolo destro
della bocca era sporca di gelato e mi venne voglia di baciarla e
ripulirla per bene, ma dovetti trattenermi perché non amavo
particolarmente le smancerie in pubblico e sapevo che Leah le
detestava molto più di me.
Mi
allungai e assaggiai un po' del suo gelato, poi annuii e la
ringraziai. «Niente male. Non l'avevo mai assaggiato qui da
Dear Mexico.»
Trascorremmo un po' di tempo
a chiacchierare e scherzare, divertiti dai continui battibecchi tra
Louis e Justin.
«Io mi arrendo! Non lo
so chi sei, dimmelo e basta, Louis!» sbottò Leah a un
certo punto, incenerendo il rapper con lo sguardo.
«Dai, spara qualche
nome» le suggerì lui.
«Allora, vediamo...
sei un cantante rap? Uno tipo 50 Cent?» lo interrogò
lei.
Lui scoppiò a ridere.
«Questa è bella!»
«Ci sono! Sei Lil
Wayne?» proseguì la ragazza in tono solenne.
«Merda, dolcezza! Hai
mai visto Lil Wayne?» sghignazzò Louis.
«Non che io ricordi,
neanche mi piace» buttò lì Leah, per poi fare
spallucce. «Ah! Sei uno dei Beastie Boys!» continuò
a blaterare.
A quel punto Lord e Justin
scoppiarono fragorosamente a ridere, e il dj dei Public Enemy rischiò
di strozzarsi con la birra che stava bevendo.
«Leah, guarda che
anche Lord è un tizio famoso» intervenni.
«Ah sì? Non
l'avevo mai visto prima. Scusa, eh, ma è così.
Evidentemente non sei famoso fino a quel punto» scherzò
lei, per poi fare l'occhiolino al mio amico.
«Hai ragione, sono
solo DJ Lord dei Public Enemy. I miei colleghi sono molto più
conosciuti di me, in effetti è vero. Sicuramente hai presente
Chuckie D» rispose lui, per niente offeso da ciò che lei
gli aveva appena detto.
«Non ascolto rap, mi
dispiace. Non so chi sia. Conosco solo i Public Enemy di nome, forse
ho sentito qualche canzone» ammise Leah in tono dispiaciuto.
«Sfigato, non ti ha
riconosciuto!» lo schernì Justin, contento e soddisfatto
di essere stato l'unico a destare fin da subito un qualche interesse
nella mia ragazza.
«Allora? Chi sei?»
Leah scosse il capo e tornò a osservare Louis. «Fammi
pensare ai probabili amici sfigati di Shav...» Si interruppe di
colpo e il suo viso si illuminò all'improvviso. «Ci
sono, ora ho capito!» strillò.
«Sentiamo» la
incoraggiò Louis.
«Sei
quello dei Cypress
Hill! Shavo ha sempre le vostre canzoni in macchina, tipo quella che
fa... aspetta...» Ci pensò un attimo su, poi prese a
canticchiare maldestramente il ritornello di Insane In The
Brain.
Louis
scoppiò a ridere e le arruffò i capelli. «Indovinato!
Ora meriti un premio, dolcezza! Scegli cosa vuoi: un bacio da me, che
sono il grande e meraviglioso B-Real dei Cypress Hill, oppure una
cena romantica con quella femminuccia di Chancey, oppure un autografo
sul culetto dal qui presente DJ Lord dei Public Enemy?»
Mi irrigidii sulla sedia e
mollai un ceffone sul braccio di Louis, imprecando tra i denti.
«Piantala» sibilai.
Leah scoppiò a
ridere. «Shavarsh, non essere geloso!» esclamò.
«Il solito deficiente»
sospirò Justin.
«Bambina, non starlo a
sentire» la rassicurò Lord divertito.
«Non sono geloso, ma
lui non deve esagerare» grugnii, distogliendo lo sguardo dalla
ragazza.
«Dai, fratello!
Scherzavo, non fare quella faccia! Ce l'hai con me, tesoruccio?»
mi punzecchiò Louis, accarezzandomi il braccio con ostentata
tenerezza.
Me lo scrollai di dosso e
gli sorrisi. «Macché. Però non fare il coglione.»
«Signor sì!
Prometto che non lo farò mai più» dichiarò
in tono solenne, accennando un saluto militare.
Non riuscii più a
trattenermi e gli scoppiai a ridere in faccia, per poi circondargli
le spalle con un braccio. «Ti voglio bene, compare»
dissi.
«Anche io, ragazzo»
replicò.
«Sono simpatici i tuoi
amici.»
«Dici sempre che ho
degli amici sfigati.»
«Mi rimangio ciò
che ho detto. Sono forti.»
«Oh, per fortuna.»
Io e Leah eravamo appena
rientrati a casa da Santa Monica, e stavamo decidendo cosa fare per
cena.
Lei mi guardò con
fare dubbioso, poi mi chiese: «Perché non invitiamo qui
Daron? Domani riparto e vorrei salutarlo. E poi... la settimana
prossima andrà a fare il test del DNA con Layla».
Mi feci improvvisamente
serio e annuii. Leah aveva ragione, per Daron si stava avvicinando un
momento molto difficile e importante della sua vita, perciò
forse era meglio stargli accanto il più possibile. «Okay,
chiamalo» acconsentii. «Nel frattempo mi cambio» la
avvisai, avviandomi in camera.
Indossai dei vestiti più
comodi e mi lasciai cadere sul letto. Controllai il cellulare e
impiegai un po' di tempo a scorrere i messaggi e le notifiche che
avevo ricevuto nei vari social.
Leah mi raggiunse mentre ero
impegnato a pubblicare su facebook una foto che quel pomeriggio avevo
fatto insieme a Louis, Lord e Justin.
«Quel selfie è
orribile» bofonchiò lei, mentre sbirciava lo schermo del
mio cellulare.
«Ma no, dai. Io sono
bellissimo» scherzai, mentre riempivo il commento della foto di
hashtag di ogni tipo, tra cui #homies
e l'immancabile #family.
Leah cominciò a
spogliarsi e decise a sua volta di indossare qualcosa di più
comodo. Le rivolsi una rapida occhiata e scorsi appena la sua schiena
nuda. Mi venne voglia di allungare una mano e sganciarle il
reggiseno, ma decisi di darmi una calmata e non comportarmi da
maniaco, almeno per il momento.
«Tu sei l'unico a
essere uscito male» mi contraddisse.
«Antipatica. Daron che
dice?» cambiai argomento.
«Arriva tra un po'.
Passa a prendere qualcosa da mangiare e ci raggiunge» spiegò
lei, facendo per infilarsi una maglia rossa sbiadita.
Appoggiai rapidamente il
cellulare sul comodino e riuscii ad afferrarla per i fianchi prima
che potesse compiere quel gesto. La attirai a me e feci aderire la
sua schiena nuda contro il mio petto, depositandole piccoli baci
sulla pelle del collo e delle spalle.
Lei sospirò per la
sorpresa e si immobilizzò, lasciando che la assaporassi e la
tenessi forte contro di me. Ero eccitato da morire e avevo una voglia
matta di fare l'amore con lei. Non ne avevo mai abbastanza, quella
ragazza esile e minuta riusciva a farmi impazzire e perdere il
controllo in un modo che non avrei mai creduto possibile.
«Shavarsh...»
mormorò, rovesciando la testa all'indietro. Appoggiò la
nuca sulla mia spalle e si lasciò baciare, mentre le mie mani
le accarezzavano la pancia e risalivano lungo i fianchi stretti.
«Quando mi chiami
così, Leah, è difficile per me stare calmo. Lo sai?»
ammisi, per poi insinuare le dita sotto la stoffa del suo reggiseno
nero.
Lei gemette piano e si
inarcò contro la mia mano, poi tentò di scostarsi da
me, ma io la tenni ferma.
Sentii che cominciava a
fremere sotto il mio tocco e compresi che l'eccitazione si stava
impossessando di lei, così la feci sdraiare gentilmente sotto
di me e subito mi posizionai sopra di lei, facendo scontrare i nostri
occhi.
«Shavarsh, che ti
prende?» ansimò, mentre lasciava che le sganciassi
finalmente il reggiseno.
Mi tuffai sui suoi seni
piccoli e sodi, divorandoli con le labbra e beandomi della dolce
accoglienza che la mia donna mi stava offrendo. «Ti voglio»
sussurrai.
«Sei così
passionale oggi» ridacchiò lei, sollevando il bordo
della mia maglia per poi sfilarmela.
«È colpa tua»
scherzai, per poi cercare le sue labbra e intrappolarle in un bacio
colmo di passione. La tenni ferma e approfondii il nostro contatto
fin quasi a perdere il fiato, mentre con una mano le carezzavo il
viso e i capelli.
«Se mi vuoi»
soffiò sulle mie labbra, quando ci scostammo per riprendere
fiato. «Dimostramelo» mi sfidò, e nei suoi occhi
luccicò il desiderio, ardente e vivo almeno quanto il mio.
Le presi il viso tra le mani
e la fissai per qualche istante, poi mormorai: «Ti amo».
Lei
avvampò leggermente e tentò di sfuggirmi, ma io
non glielo permisi. Infine sospirò piano e annuì. «Lo
so. E anche io ti amo, Shavarsh.»
«Buono a sapersi»
scherzai. «Allora ho il permesso di fare l'amore con te?»
Scoppiò a ridere e mi
si strinse contro. «Guai a te se non lo fai, idiota!»
concluse.
E ci abbandonammo per
l'ennesima volta l'uno nell'altra, dimenticandoci di tutto ciò
che ci circondava.
Stavamo pian piano
riprendendo a respirare regolarmente e giacevamo abbracciati sul
letto, quando il campanello di casa mia suonò insistentemente
facendoci sobbalzare.
Ci fissammo in preda al
panico.
«Daron!»
strillammo all'unisono, poi scoppiammo a ridere e ci alzammo in
fretta dal letto.
Ehilà!
Be',
vi è piaciuto il casino che hanno combinato Shavo e i suoi
compari? :D
Vi
è piaciuta la comparsa di B-Real, DJ Lord e Justin Chancellor?
Mi sono divertita un sacco a descrivere queste scenette
raccapriccianti, ve lo giuro! X'D
Ma
sono qui per linkarvi una canzone, anzi, no... La Canzone.
Ebbene,
la suggestiva, meravigliosa, unica, emozionante, formidabile,
strappalacrime The Sound Of Silence eseguita dal vivo da quel
favoloso uomo e cantante che è David Draiman, vocalist dei
Disturbed e dei Device, come vi ho già detto nelle note al
capitolo scorso.
Ecco
a voi, e poi ditemi se non ho ragione quando dico che fa venire i
brividi e le lacrime agli occhi:
https://www.youtube.com/watch?v=Bk7RVw3I8eg
Non
so se lo sapete, ma questa canzone è una cover; infatti è
stata portata al successo dal duo Simon & Garfunkel nel 1965. Nel
corso degli anni è stata ripresa da molti artisti, ma
personalmente la versione del 2015 dei Disturbed è quella che
preferisco, anche rispetto all'originale.
Voi
che ne pensate?
Grazie
per essere stati qui anche stavolta, il vostro supporto è
veramente importante per me!
Alla
prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 59 *** Projects ***
ReggaeFamily
Projects
[John]
Seduto
al mio posto, sul sedile 15A, tentavo invano di reprimere l'impulso
di oscurare il vetro del finestrino alla mia sinistra. Non avevo il
coraggio di guardare all'esterno e mi limitavo a fissare dritto
davanti a me, tenendo gli occhi puntati sul poggiatesta del sedile di
fronte al mio. Tenevo le braccia incrociate sul petto e non accennavo
a muovermi.
Leah,
abbandonata al mio fianco, si stava adoperando per spegnere il
cellulare. Prima di farlo, ascoltò un messaggio vocale di
Shavo e sorrise nell'udire ciò che lui stava sproloquiando.
Leah,
fai buon viaggio e chiamami quando atterri. Di' a John di tenerti
d'occhio. Ah, comunque poco fa ho sentito B-Real e mi ha detto di
salutarti tanto! Oh merda... ha ricominciato a piovere.
Shavo concluse il messaggio
tossicchiando, e mi parve di udire il familiare suono di un accendino
che scattava. Tuttavia non ci badai e ripresi a concentrarmi su
pensieri diversi, pensieri che mi portassero via di lì e mi
impedissero di rendermi conto che fuori da quel fottuto aereo
imperversava una tempesta epocale che mi stava facendo sudare freddo
e rischiava di mandarmi in iperventilazione.
Un lampo improvviso invase
la cabina dell'aereo e io strizzai automaticamente gli occhi, poi
sentii lo scoppio dell'ennesimo tuono e mi irrigidii sul sedile.
Leah mise via il cellulare e
si protese verso di me. «Ehi, va tutto bene?» domandò
con la voce venata di preoccupazione.
Non risposi, avevo il timore
di aprire bocca. Se lo avessi fatto, avrei sicuramente rivelato il
tremore che si stava diffondendo in tutto il mio corpo. Non era
proprio il momento di reagire così, ma era più forte di
me. Non ero in grado di controllare le mie reazioni quando c'era di
mezzo un temporale.
«John, sono
preoccupata per te. Sei tremendamente pallido» commentò
la mia amica, poggiandomi una mano sul braccio.
Un altro tuono esplose
all'esterno, e proprio in quel momento l'aereo si mise in moto. Stava
scivolando dolcemente sulla pista e si stava dirigendo al punto da
cui avrebbe preso lo slancio per librarsi in volo. Ero terrorizzato
come poche volte mi era capitato prima d'allora, e detestavo quella
fastidiosa sensazione di impotenza che si insinuava sempre più
nelle profondità del mio essere.
Strinsi le mani attorno alla
stoffa della mia t-shirt e sentii un rivolo di sudore scorrermi lungo
il viso. Avrei tanto voluto potermi alzare e scappare di lì,
ma ormai ero a bordo e non potevo affatto tornare indietro. Mi
maledissi per aver deciso di andare a Las Vegas in aereo, avrei
dovuto immaginare che il tempo non sarebbe stato clemente durante
quei giorni. Ero stato uno stupido.
«John, ehi»
sussurrò Leah, accarezzandomi dolcemente il braccio. «Mi
fai paura. Respira, John, respira. Se non mi prendo cura di te, Bryah
mi uccide. Quindi vedi di stare bene, eh?»
Mi voltai a guardarla e le
afferrai la mano di slancio, stringendola forte. «Leah»
mormorai incerto, mentre un altro tuono scoppiava all'esterno del
mezzo.
Ero nel panico più
totale, non avevo mai preso l'aereo durante un temporale. Mi sentivo
in gabbia all'interno di quel dannato trabiccolo, e il senso di
claustrofobia non faceva che amplificare il resto.
«Tranquillo, va tutto
bene. Ci sono io con te, io riesco a scongiurare tutte le disgrazie,
non devi proprio preoccuparti!» tentò di ironizzare con
un mezzo sorriso.
Sei
un tesoro, avrei voluto dirle,
ma non ci riuscii e mi limitai a tenere strette le sue dita.
Lei poggiò anche la
mano destra sulla mia e prese a carezzarne distrattamente il dorso;
mi fissava in volto e rimaneva in silenzio, cercando di capire come
potermi aiutare.
«Senti questa. Daron
ieri è venuto a cena da Shavo. Era un po' agitato, anche se ha
cercato in tutti i modi di nasconderlo. Abbiamo mangiato cibo
coreano, roba strana. E lui a un certo punto, mentre Shavo era in
bagno, mi ha detto di avere una fottuta paura di scoprire la verità.
L'ho abbracciato e gli ho detto che non deve pensarci, non deve
affatto preoccuparsi.» Si interruppe per un istante e sospirò
appena. «Gli ho detto che secondo me non c'è problema,
che per me quella ragazzina non è sua figlia.»
«Come fai a saperlo?»
mi lasciai sfuggire.
«Be',
me lo sento. Secondo me in tutta questa storia c'è qualcosa
che non va.» Aggrottò le sopracciglia,
poi aggiunse: «Ehi, si decolla!».
Non accennai a lasciar
andare le sue mani e mi preparai per lo spostamento d'aria che mi
aspettava. Avvertii il familiare senso di vuoto sotto di me quando
l'aereo si staccò dalla pista e prese il volo.
Leah sfilò una mano
dalla mia e si tappò il naso. La osservai gonfiare le guance e
spingere l'aria nelle orecchie, mentre la pressione cresceva ed
evidentemente le stava creando qualche problema.
Io avvertii le mie orecchie
tapparsi per un attimo, ma mi bastò deglutire per sentirle
nuovamente libere come prima. «Compensazione, eh?» chiesi
a Leah.
«Sì, in aereo
mi succede di doverlo fare diverse volte. È una rottura»
ammise.
«E allora? Com'è
finita la storia di Daron?» volli sapere.
«In nessun modo. Gli
ho detto di chiamarmi quando saprà qualcosa in più su
Layla» spiegò, poi si rilassò sul sedile e
slacciò la cintura dopo essersi accorta che il segnale
luminoso che segnalava di tenerla allacciata si era spento. «Ma
cambiando argomento, che devi fare a Vegas?» mi domandò.
«C'è un
progetto che ho in mente da una vita. Mi sono sempre detto che lo
avrei messo in pratica, ma non ho mai avuto l'occasione. Non avevo
neanche i soldi per pensarci» le dissi. «Voglio aprire un
negozio di fumetti.»
«Un... negozio di
fumetti?!» sbottò la mia amica all'improvviso,
sollevando un po' troppo la voce.
Annuii. «Ho già
in mente anche il nome.»
Leah ridacchiò. «Un
uomo come te ha sempre le idee chiare su tutto. Come fai?»
«Non so. È un
sogno che ho da sempre, sarà per questo che ho già
tutto ben chiaro in mente» spiegai con semplicità.
Sentivo ancora le dita di Leah che stringevano le mie e questo mi
faceva sentire più rilassato. «Ho pensato di chiamarlo
Torpedo Comics» aggiunsi.
«Wow. John, ma è
fantastico!» saltò su lei, in preda a un'euforia
disarmante. I suoi occhi scuri si posarono sui miei e io vi lessi
eccitazione e gioia, come se si sentisse completamente fiera di me e
mi stimasse profondamente per quello che volevo fare.
Stavo
per ribattere quando un'hostess si accostò a noi e ci chiese
se desiderassimo qualcosa da mettere sotto i denti. Leah scelse di
prendere un pacchetto di patatine, mentre io optai per una barretta
ai cereali. Dovevo assolutamente mangiare qualcosa, stavo seriamente
rischiando di digerirmi da
solo.
«Ti senti meglio?»
mi chiese Leah mentre apriva la sua confezione di snack.
Improvvisamente mi resi
conto che avevo quasi dimenticato il panico che stavo provando fino a
poco prima, distratto dalla conversazione con lei e rassicurato dal
suo tocco premuroso. Sollevai gli occhi su di lei e sollevai una
mano, per poi posarla cautamente sulla sua guancia. «Sì.
Grazie a te» sussurrai.
«Non ho fatto niente
di speciale, andiamo» si schernì, scuotendo il capo e
sottraendosi alle mie dita. Era evidentemente imbarazzata, il che la
fece apparire ancora più tenera e dolce ai miei occhi.
Mi lasciai sfuggire un
sorriso e scartai la mia barretta, per poi cominciare a
sgranocchiarla distrattamente. «A te piacciono i fumetti?»
chiesi, cambiando argomento. Capivo perfettamente come la mia amica
si sentisse e volevo toglierla d'impiccio.
«Quando ero piccola,
mia madre mi regalava spesso dei fumetti. Cose come Dylan Dog o
Diabolik. Li divoravo, ma col passare del tempo ho perso di vista
questa attività» raccontò la ragazza, spazzolando
qualche briciola che si era depositata sui suoi jeans chiari.
«È un peccato»
osservai.
«Sì. Be', ehi,
quando aprirai Torpedo Comics, sarò la tua prima cliente e
vorrò assolutamente che tu mi consigli qualcosa da leggere»
scherzò, per poi strizzarmi l'occhio.
«Ci sto»
conclusi.
Trascorremmo il viaggio a
chiacchierare, e quando scendemmo dall'aereo fu incredibile per me
rendermi conto che a Las Vegas splendeva il sole e l'aria era torrida
e irrespirabile come al solito.
«Bentornata a Las
Vegas, Leah» scherzò la ragazza al mio fianco, mentre si
adoperava per legare i capelli in una crocchia disordinata. «Faccio
già fatica a respirare» borbottò.
Sorrisi. «Los Angeles
è leggermente più vivibile» ammisi.
«Concordo!»
«Vieni con me al
locale?» chiesi.
Leah si fermò nei
pressi dell'uscita dall'aeroporto e mi scrutò. «Sei
sicuro?»
«Certo.» Mi
strinsi nelle spalle e annuii.
«Okay» accettò.
Poi mi si accostò e, di slancio, mi strinse in un abbraccio.
Rimasi per un attimo
sorpreso, poi ricambiai il suo gesto e la strinsi forte a me. Volevo
ringraziarla per come si era presa cura di me, per essere
semplicemente se stessa e per avermi accettato fin da subito, senza
alcun timore né pregiudizio nei confronti della mia timidezza.
La sentii ridere e aggrottai
la fronte. «Che c'è?»
«Sono
uno scricciolo in confronto a te, attento a non spezzarmi le ossa»
scherzò, per poi spingermi via e lasciarmi un buffetto sulla
guancia. «Hai un'espressione così tenera, fai morire dal
ridere» proseguì, senza più riuscire a trattenere
le risate.
Scossi il capo e sospirai.
«Andiamo. Piantala di fare la cretina.»
Leah mi prese sottobraccio e
mi trascinò fuori, immergendosi con uno sbuffo nell'afa
irrespirabile di Las Vegas.
«Abbiamo preso un
taxi, tranquilla.»
«C'è molto
caldo laggiù?»
«Già. Sia io
che Leah abbiamo già nostalgia di Los Angeles» ammisi.
Stavo parlando al telefono
con Bryah, mentre io e la mia amica stavamo seduti sui sedili
posteriori di un taxi. Ci stavamo dirigendo a Paradise, più
precisamente all'appartamento di Leah.
Avevamo da poco finito di
dare un'occhiata al locale e io ero euforico. Mi piaceva, era
veramente perfetto per ciò che avevo in mente, ma per il
momento non volevo ancora affrettare le cose. Quella sera stessa
avrei incontrato il mio amico Logan e avrei parlato con lui della
faccenda.
L'agente immobiliare che ci
aveva accolto era stato molto gentile, aveva ammesso che
probabilmente avrei dovuto prendere una decisione molto in fretta,
considerando che il locale era stato adocchiato anche da qualcun
altro. Notando la mia determinazione e il modo estasiato in cui mi
aggiravo per il luogo, aveva compreso che me ne ero innamorato fin da
subito, così era stato sincero con me e mi aveva suggerito di
pensarci seriamente.
Leah non aveva fatto che
annuire, estasiata quanto me, suggerendomi continuamente come avrei
potuto allestire il mio negozio o dipingere le pareti. Era
evidentemente felice ed euforica per il mio progetto, e a quel punto
mi ero reso conto di aver già preso una decisione, ancor prima
di rifletterci razionalmente.
«Mi ascolti?» mi
richiamò la voce calda di Bryah.
«Ah, ehm... no, scusa,
mi sono distratto... dicevi?» bofonchiai, passandomi una mano
sulla fronte zuppa di sudore.
«Ti ho chiesto com'è
andato il viaggio. Qui piove a dirotto e io ero così in pena
per te» ammise la mia compagna, facendomi venire una voglia
matta di stringerla tra le braccia e rassicurarla.
Arrossii leggermente, perché
mi trovavo in taxi con Leah e non mi andava di esternare troppo le
mie emozioni. «Ehi, sto bene. Sai, Leah è riuscita a
distrarmi, abbiamo chiacchierato e mangiato qualcosa, il viaggio in
fondo era breve» minimizzai, anche se udii chiaramente la mia
voce incrinarsi leggermente.
«Oh John...»
Bryah sospirò.
«È tutto okay,
sul serio. A te come va con l'articolo?» cambiai argomento,
notando che Leah teneva discretamente gli occhi fuori dal finestrino.
«Non
sono riuscita a scrivere niente stamattina. L'ansia mi stava
divorando. Ma adesso che so che stai bene, provo ad andare avanti.
Voglio scrivere un pezzo eccezionale, ve lo meritate» rispose,
conferendo all'ultima parte della frase una nota entusiastica.
«Grazie, sei troppo
buona» borbottai.
«Niente affatto. Mi
metto subito al lavoro, ma chiamami più tardi, okay?»
La rassicurai e, dopo averla
salutata, riattaccai. Mi tornò in mente il momento in cui
Bryah mi aveva fatto una piccola intervista da integrare
all'articolo, e quel ricordo mi fece sorridere. Avevo cercato di
essere il più obiettivo possibile, ma era strano rispondere a
delle domande posta dalla propria compagna. Lei conosceva la maggior
parte delle risposte, ma ovviamente io avevo dovuto spiegare per bene
ogni cosa e lei aveva registrato diligentemente la conversazione,
mentre nel contempo prendeva appunti. L'immagine di lei che stava con
le gambe incrociate sul mio letto matrimoniale, la matita tra i denti
e i capelli legati disordinatamente in una treccia mi invase di
calore in tutto il corpo e mi permise di dimenticare ulteriormente
l'ansia che avevo provato quella mattina a causa del temporale.
«Come sta Bryah?»
mi chiese Leah, interrompendo i miei pensieri.
«Era preoccupata per
me. Non è riuscita ad andare avanti con l'articolo»
risposi, fissando distrattamente lo schermo del mio smartphone.
«Logico. Ehi, stiamo
per arrivare. Sicuro che non vuoi scendere a visitare la mia casetta?
Sam l'hai già conosciuta, e ti assicuro che Shelley è
una persona molto più normale.»
Ridacchiai. «Mi
piacerebbe, davvero, ma Logan mi aspetta» rifiutai,
accorgendomi che erano già le quattro e mezza del pomeriggio.
Avevamo perso tempo durante il pranzo e ci eravamo soffermati
parecchio a perlustrare il locale, perciò rischiavo di fare
tardi al mio appuntamento con Logan, fissato per le cinque.
«Okay, ricevuto.
Quando riparti?» volle sapere la mia amica, circondandomi le
spalle con un braccio.
Le scompigliai i capelli che
sfuggivano alla crocchia e sorrisi, guardandola negli occhi. «Oggi
sei affettuosa. Che succede?» la presi in giro, eludendo
volutamente la sua domanda. Sapevo quanto la cosa la irritasse, per
questo mi divertivo e lo facevo apposta.
«Antipatico!»
Leah si ritrasse da me e si appiattì contro lo sportello,
evitando accuratamente di toccarmi. «Così impari. E non
hai neanche risposto alla mia domanda!»
Risi piano. «Sciocca.
Riparto domani mattina, spero vivamente che non ci sia nuovamente una
tempesta come quella di oggi» ammisi, rabbuiandomi leggermente.
«Ma no, vedrai che il
tempo non farà che migliorare.» Leah fece una pausa e mi
rivolse una breve occhiata di fuoco. «Tu non mi vuoi bene»
borbottò, mettendo il broncio, nonostante fosse evidente che
si stesse sforzando per non ridere.
«Sì,
dai. Ma solo un po'» commentai in tono divertito. Mi allungai
verso di lei e la intrappolai in un
abbraccio affettuoso, battendole appena sulla schiena. «Su,
bambina, non fare i capricci, altrimenti non ti faccio la proposta
che ho in mente.»
Leah si irrigidì e
sgranò gli occhi, dopo essersi scostata da me. I suoi occhi
divennero ancora più grandi e colmi di confusione. «Proposta?»
biascicò.
Risi ancora e mi battei una
mano sulla fronte. «Ma che hai capito?» Avvampai
violentemente e distolsi lo sguardo dal suo viso, puntandolo dritto
di fronte a me. Intrecciai le dita tra loro e lasciai cadere le mani
nel mio grembo. «Sei troppo maliziosa» mormorai.
«E allora di che si
tratta? Me lo dici o no?» si agitò la ragazza,
mollandomi un pugno sul braccio.
Sospirai appena. «Volevo
solo chiederti, ecco, se ti va di darmi una mano con Torpedo Comics»
buttai lì, senza trovare il coraggio di guardarla nuovamente
in viso.
Leah si agitò accanto
a me e si lasciò sfuggire un'imprecazione strozzata. «Che
cosa?» sbottò poi, afferrandomi saldamente per il polso.
Mi scosse con forza e aggiunse: «Devi essere impazzito. Non è
che hai assunto qualche droga a mia insaputa?».
Posai
nuovamente lo sguardo su di lei e la osservai con estrema serietà.
«Niente affatto. Non scherzo. Ho notato quanto eri entusiasta
al locale, ti comportavi come se...» Feci una pausa e frugai
nella mia mente in cerca delle parole giuste. «Insomma,
ho avuto l'impressione che la cosa ti stesse a cuore. Ho visto una
scintilla nel tuo sguardo, mentre insieme guardavamo quelle stanze e
quelle mura. Ho capito che il mio progetto appassiona anche te. Ma
dimmi, mi sbaglio?»
Leah mi studiò con
un'espressione indecifrabile. «Non sbagli. Io credo davvero che
tu possa farcela, ma non vedo come potrei aiutarti. Non ne so niente
di...»
«Intanto mi aiuterai
ad arredare il negozio. Hai portato fuori delle idee pazzesche mentre
eravamo là, quindi ora non puoi tirarti indietro» la
interruppi, pronunciando ogni parola con fermezza.
La sua stretta sul mio polso
si allentò, poi mi lasciò andare e abbandonò le
mani sulle sue ginocchia, inclinando leggermente la testa di lato.
«Dici sul serio? Ti sono piaciute le mie idee?» chiese
incerta.
«Tantissimo»
confermai. «Poi dopo vedremo. Mi servirà una mano quando
aprirò, per l'inaugurazione e non solo. Sempre se ti va, Leah»
proseguii.
La ragazza si fissò
le dita che avevano cominciato a giocherellare nervosamente tra loro.
«John, mi stai proponendo un lavoro?» sibilò,
incapace di credere a quanto le stavo dicendo.
Feci
spallucce. «Più o meno. So che, be', stai studiando.
Forse non hai tempo da dedicare a questo progetto, già... mi
dispiace, è che ho intravisto
un certo interesse in te e...»
«Niente mi impedisce
di fare entrambe le cose» mi interruppe in maniera precipitosa,
come se temesse che potessi ritirare la mia proposta. «Insomma,
amo ciò che studio, però sono rimasta molto colpita
dalla tua idea. Posso fare entrambe le cose, perché no?»
Avvertii un sorriso
allargarsi sul mio viso. «Davvero?»
Leah stava per replicare
quando il tassista parcheggiò di fronte allo stabile in cui si
trovava il suo appartamento. Lei se ne accorse e cercò la sua
borsa.
«Pago io quando arrivo
da Logan, non preoccuparti» la fermai. Poi mi rivolsi al
tassista: «Aiuto io la ragazza a prendere i bagagli. Ci vorrà
solo un minuto».
L'uomo annuì
distrattamente e noi scendemmo dall'auto. Mi accostai al portabagagli
e lo aprii, per poi afferrare le valigie di Leah ed estrarle
velocemente.
«Grazie, che
gentiluomo!» scherzò lei, sventolando una mano di fronte
al suo viso nel vano tentativo di scacciare l'afa asfissiante che ci
circondava.
«Figurati»
risposi in tono fintamente solenne.
«Comunque, ehi. Se la
proposta è ancora valida, io accetto» disse
all'improvviso, mentre spingeva il suo grande trolley in un angolo
del marciapiede.
Io
afferrai il suo borsone bordeaux e lo sistemai lì accanto.
«Avete un ascensore?» domandai assorto.
«Sì, non
preoccuparti. Allora?»
Fissai Leah negli occhi, poi
le tesi una mano. «Affare fatto?»
Lei la strinse con estrema
serietà. «Affare fatto.»
Mollai la presa e allargai
leggermente le braccia. «Vieni qui, dammi un abbraccio che devo
scappare, altrimenti Logan mi strozza» scherzai.
Lei ridacchiò e mi si
gettò addosso. Ci stringemmo in un abbraccio fraterno, mentre
io le battevo dolcemente sulla schiena e la ringraziavo mentalmente
per tutto ciò che aveva fatto e stava facendo per me.
«A
presto, e tieni d'occhio quel cretino del mio fidanzato»
sghignazzò la mia amica, poi mi spinse verso il taxi e mi
lasciò un rapido bacio sulla guancia.
«Senz'altro. A presto»
conclusi, per poi risalire in auto.
Mentre il tassista si
immetteva nuovamente nel traffico, mi venne in mente che avrei voluto
dire un sacco di cose a Leah, avrei voluto ringraziarla all'infinito
e farle capire quanto le volessi bene. Eppure non ci ero riuscito, la
mia timidezza mi aveva bloccato e me lo aveva impedito con fermezza.
Tuttavia
sperai che lei lo avesse capito, e su questo non avevo alcun dubbio:
era una ragazza fortemente empatica e sensibile, altrimenti non
avrebbe mai deciso di conoscermi e darmi una possibilità come
aveva fatto fin dal primo momento
in cui mi aveva incontrato allo Skye Sun Hotel.
Era un'amica preziosa, più
trascorreva il tempo e più me ne rendevo conto. Sorrisi tra me
e me, per poi immergermi nuovamente nei miei pensieri e progetti per
il futuro.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 60 *** Touches ***
ReggaeFamily
Touches
[Daron]
Circondato
da un gruppetto di persone, stavo seriamente cominciando a
innervosirmi. Avevo fatto di tutto per arrivare puntuale
all'appuntamento, ma evidentemente quella ragazzina si era presa
gioco di me. Era già passata circa mezzora da mezzogiorno, il
sole batteva su Sunset Boulevard come un incendio indomabile, e io
morivo di caldo e di fame. La gola mi si stava seccando sempre più
e non riuscivo a stare fermo.
Eppure,
una massa informe di fan mi si era assiepata attorno, pretendendo
foto, autografi e futili chiacchiere con il sottoscritto. Mi sarebbe
piaciuto sprofondare o liquefarmi nell'asfalto rovente, ma continuavo
a rimanere fermo a subire con un sorriso falso le grida e le
sollecitazioni di quei pazzi. A volte erano davvero fastidiosi e
inopportuni.
«Daron,
Daron! Una foto, per favore!»
«Daron,
ehi, ci sono anche io!»
«Oddio,
Daron! Daron! Daron!»
«Daron,
fratello! Facciamoci un selfie!»
«Daron,
mi puoi autografare questo?»
«Prima
io, Daron, ho qui il disco degli Scars!»
Se
sento ancora pronunciare il mio nome, giuro che vomito,
pensai in preda all'esasperazione.
Spingevano, volevano tutti
raggiungermi, toccarmi, baciarmi, abbracciarmi. Mani sudaticce, corpi
sudaticci, capelli sudaticci.
Trattenni
a stento l'impulso di scappare via come un pazzo, non era il
comportamento giusto da adottare
con degli ammiratori. I miei colleghi me l'avevano sempre detto, ma
per me era davvero difficile certe volte.
Ripensai ai ragazzi che
avevo conosciuto fuori dal centro commerciale qualche mese prima, e
rimpiansi quel momento. Rimpiansi la compagnia di quei tre simpatici
ragazzi che erano entrati nel backstage al Dodger Stadium,
chiedendomi perché non tutte le persone fossero capaci della
stessa discrezione e dello stesso buon senso.
«Ragazzi, scusate, ho
fretta» bofonchiai.
«Daron, una foto!»
«Daron? Daron? Ci sono
anche io! Mi chiamo Tiffany, puoi farmi una dedica? Ah, anche una per
mia sorella Beth e una per mio cognato, lui si chiama Daniel! Daron,
mi ascolti?»
«Ci sono prima io,
fatti da parte! Daron, oddio, sei bellissimo!»
«Non penso proprio,
stupida! Spostati!»
Due tizie cominciarono a
battibeccare e spintonarsi a vicenda, intente a decidere chi mi si
dovesse spalmare addosso per prima. Come se facesse chissà
quale differenza. Quando si comportavano così, per me erano
tutti uguali; li vedevo soltanto come una massa informe senza alcuna
distinzione.
Le
due tizie cominciarono a tirarsi i capelli e insultarsi pesantemente,
ma io non mossi un dito. Rimanevo inerme con le mani in tasca e
l'esasperazione a stringermi la bocca dello stomaco, mentre un paio
di altri ragazzi si facevano
avanti per chiedermi qualcosa. Qualcuno ebbe la decenza di separare
le due psicopatiche e di trascinarle via, intimando loro di non fare
le cretine.
Mi parve surreale ritrovarmi
nuovamente solo sul marciapiede, quando tutti furono felici e
soddisfatti di avermi importunato. In realtà ero circondato da
un sacco di persone, come succedeva sempre in strade come Sunset
Boulevard; tuttavia nessuno badava a me, se non per rivolgermi
occhiate rapide e stranite.
Sapevo cosa vorticava nella
mente dei passanti: mi vedevano come un alieno, abbigliato con una
camicia in jeans a maniche lunghe e un cappello nero in testa,
nonostante l'estate imperversasse su Los Angeles e il caldo fosse
quasi asfissiante. Per questo l'abbigliamento della maggior parte
della gente che mi vorticava attorno non era quasi mai al limite
della decenza, come se tutte quelle persone non avessero aspettato
altro per svestirsi e girare seminude per la città.
Controllai che ore fossero
sul mio cellulare e sospirai. Mancavano circa dieci minuti all'una,
ma di Layla ancora non c'era traccia. Ero incazzato nero, sia per il
suo ritardo che per l'incontro fastidioso con quei fan rompicoglioni.
Alzai
gli occhi al cielo e venni accecato dal sole, alto e cocente sopra la
mia testa. Per arrivare in orario a quel fottuto appuntamento, avevo
dimenticato gli occhiali da sole a casa e adesso ne stavo pagando le
conseguenze. Sbuffai e imprecai
tra i denti.
Decisi di andarmene, ormai
Layla aveva sprecato la sua occasione. Se credeva che io fossi il suo
giocattolo, si sbagliava di grosso. Volevo soltanto tornare a casa e
buttarmi sotto la doccia per cercare di lavare via la sensazione di
disagio che il contatto con tante persone mi aveva procurato.
Mi
avviai lungo il marciapiede in direzione del parcheggio in cui avevo
abbondonato il SUV e ripensai a quanto fossi stato stupido. Mi ero
fidato di Dolly, di sua figlia e delle loro buone
intenzioni, ma come spesso
accadeva dovevo ricredermi. Probabilmente la mia ex amante aveva
qualche interesse a livello economico nei miei confronti, e stava
soltanto cercando di usare sua figlia per spillarmi un po' di
quattrini. Bella fregatura.
Mentre camminavo, qualcuno
alle mie spalle mi si scaraventò addosso e mi trattenne per le
braccia, ansimando pesantemente.
Il primo istinto che ebbi fu
di scrollarmi di dosso chiunque avesse deciso di importunarmi ancora,
tuttavia mi trattenni e mi limitai a irrigidirmi. Mi voltai con
l'intenzione di chiarire all'ennesimo fan che non avevo tempo da
perdere, ma rimasi in silenzio nel riconoscere il viso di Layla,
completamente stravolto e ricoperto di sudore.
«Io... scusa... è
successo un disastro, Dar... Daron...» balbettò in preda
al panico, stringendo convulsamente il mio braccio destro.
«Sei in ritardo. Io me
ne vado» sbottai, ponendo fine al nostro contatto. Arretrai di
un passo e feci per voltarmi.
«Aspetta! Non è...
non è colpa mia, io...» strillò, tentando
nuovamente di afferrarmi.
Sollevai le mani come per
proteggermi e la fissai con freddezza. «Non toccarmi»
ordinai in tono piatto. Non riuscivo a capire perché la gente
non sapesse tenere le mani a posto.
«Ma Daron! Ascoltami,
ti prego!» mi implorò Layla, stringendosi le braccia
attorno al corpo. Sembrava avere freddo, nonostante l'aria attorno a
noi fosse sempre più rovente e quasi irrespirabile.
«No, basta.» Mi
voltai e ripresi a camminare, ignorando le sue proteste. Mi bloccai
soltanto quando lei riuscì nuovamente ad afferrarmi per un
polso.
Seccato, tornai a guardarla
e persi definitivamente la pazienza. «Ti ho detto di levarmi le
mani di dosso, hai capito? Non mi interessa...»
Layla sgranò gli
occhi e indietreggiò leggermente, abbassando il capo. «Scusa,
non pensavo ti desse così fastidio. Ascolta... mia madre ha
cercato di impedirmi di uscire di casa!» Sollevò
nuovamente lo sguardo su di me. «Mi ha chiuso a chiave in
camera, e non ti dico cosa ho dovuto fare per uscire! Daron, mi
nasconde qualcosa, non vuole che io e te facciamo il test...
capisci?»
Sbattei le palpebre più
volte e il peso di quelle parole si abbatté su di me,
mandandomi ancora più in bestia. «Cosa? Mi prendi in
giro?»
Layla scosse vigorosamente
il capo. La osservai e notai che era completamente stravolta: il viso
dai lineamenti orientali era pallido e sudato, i capelli risultavano
scarmigliati e disordinatamente legati in una coda di cavallo, gli
occhi neri sgranati e colmi di disperazione. La sua maglia gialla era
completamente sgualcita e gli shorts in jeans parevano essere la cosa
più ordinata del suo aspetto.
«Daron, ti prego!
Andiamo via da qui, lei sa dove dovevamo incontrarci. Non appena si
accorgerà che sono scappata, verrà a cercarmi» mi
implorò in preda al panico, facendo per allungare ancora una
volta una mano nella mia direzione.
Le lanciai un'occhiataccia,
poi mi guardai intorno e annuii. «Okay, ma tieni giù le
mani. Per favore.»
Lei borbottò delle
scuse e mi seguì per qualche altro metro su Sunset Boulevard,
finché non svoltai a destra e mi lasciai alle spalle la strada
più trafficata e chiassosa, cercando riparo in qualche altro
luogo più tranquillo. In realtà avevo deciso di
raggiungere il parcheggio e recuperare l'auto, in modo da potermi
spostare più in fretta e allontanarmi dal luogo in cui io e
Layla ci eravamo dati appuntamento.
Raggiungemmo la nostra meta
in silenzio, senza che lei provasse a spiegarmi cosa diamine stesse
succedendo e io le ponessi alcuna domanda in merito. Ci sarebbe stato
tempo per questo.
«Ormai
è fatta, lei non può più impedirci di scoprire
la verità» osservai, mentre io e Layla riemergevamo
dalla struttura sanitaria in cui ci eravamo recati per lasciare i
campioni del nostro DNA da analizzare.
Lei piangeva a dirotto e non
riusciva a calmarsi, scossa da profondi singhiozzi e da un'agitazione
che riuscivo a stento a comprendere.
Mi afferrò per un
polso e io mi bloccai in mezzo al parcheggio sotterraneo, lanciando
un'occhiata di fuoco alle sue dita strette sulla stoffa della mia
camicia. «Cosa ti ho detto prima?»
«Ho paura. Lei non si
era mai comportata così, Daron!» Ignorò le mie
proteste e cercò il mio sguardo. «Io e lei abbiamo
sempre avuto un rapporto fantastico. Ci siamo sempre confidate tutto,
come due amiche... invece adesso...» Scosse il capo e mi lasciò
andare, immergendo nuovamente il viso tra le mani.
«Evidentemente ha
qualcosa da nascondere» le feci notare, facendo spallucce.
Ripresi a camminare verso il mio SUV e, una volta raggiunta la meta,
aprii l'auto e mi sedetti al posto di guida. «Salta su, ho una
fame terribile» buttai lì, mettendo in moto prima che
lei chiudesse lo sportello.
«Dove andiamo?»
domandò Layla, sbirciando cautamente nella mia direzione.
Ci pensai su mentre guidavo
all'interno dell'enorme parcheggio, dirigendomi alla rampa d'uscita.
«Ho un'idea» ammisi.
«Cioè?»
«Sorpresa.»
Da
Avetisyan era un piccolo
ristorante armeno che si trovava nascosto nell'area di Little
Armenia. Ogni tanto ci andavo con alcuni amici che avevano le mie
stesse origini, ma a volte qualcun altro si innamorava della cucina
del luogo e si convertiva al cibo della mia terra, accompagnandomi
volentieri.
Layla era spaesata e
stazionava sulla soglia, dietro di me, incerta se entrare o meno nel
piccolo locale completamente ricoperto di tappeti persiani. Le
lanciai una rapida occhiata e mi resi conto che teneva gli occhi
socchiusi e saggiava l'aria con le narici dilatate, sul viso
un'espressione indecifrabile.
Quando il misto di profumi
si faceva largo in me, era sempre un'emozione grandissima. Avevo
bisogno di qualcosa che mi tirasse su di morale, e se Layla fosse
stata mia figlia, tanto valeva cominciare a farle conoscere le mie
tradizioni e le mie radici.
Avevo
già deciso cosa avrei mangiato: un zhingyalov hac
ripieno di carne, verdure e salse. Mi piaceva esagerare quando andavo
là, amavo mischiare il maggior numero di sapori della mia
terra, nonostante fosse un po' dissacrante per quella pietanza
aggiungere tanti condimenti tutti insieme. Il zhingyalov
hac era un piatto pressochè
vegetariano, ma ormai tutti là dentro sapevano che io amavo
sperimentare e pasticciare, stavolgendo le ricette tradizionali.
Layla
sussurrò: «Mi sento a disagio, vestita così e,
insomma, così americana».
Stavo
per rassicurarla, quando notai Alina avvicinarsi a me con un enorme
sorriso stampato sulle
labbra. Mi raggiunse e mi strinse in un forte abbraccio, e tra quelle
braccia forti e materne mi sentii subito meglio. Conoscevo Alina da
una vita, fin dai tempi in cui i miei genitori avevano cominciato a
portarmi in quel posto magico quando ero ancora molto piccolo. Per
quanto mi riguardava, Alina aveva sempre fatto parte della mia
esistenza, non ricordavo un
primo incontro con lei, perché semplicemente c'era sempre
stata.
Era una donna possente e
dolce, con il cuore grande e tenero, nonostante cercasse sempre di
mostrarsi severa nei confronti dei suoi dipendenti e di suo marito
Tigran.
«Daron!»
sussurrò Alina, mentre mi accarezzava la schiena come fossi
suo figlio. Parlò in armeno: «La fanciulla è
la tua nuova fidanzata? Mi sembra un po' troppo giovane, figliolo».
«No,
Alina, non è la mia fidanzata. È una lunga storia.»
Poi mi voltai verso Layla e ripresi a parlare in inglese, notando che
ci fissava con espressione confusa. «Alina, lei è Layla,
una mia amica. Layla, ti presento Alina, una persona magnifica che
per me è come una seconda madre» spiegai.
Le
due si scrutarono con attenzione, poi Alina avanzò verso la
ragazzina e le accarezzò il mento con fare affettuoso. «Ciao
Layla, benvenuta in questa
piccola parte di Armenia. La nostra è una terra molto antica,
e la nostra cucina è stata tra le prime a nascere nell'area
mediterranea e del Medio Oriente. Noi qui cerchiamo, nel nostro
piccolo, di tenerla viva, vogliamo evitare che si perdano
le nostre radici. Ci siamo molto legati, il nostro popolo ha subito
tante angherie nel corso della storia, ma noi non vogliamo
arrenderci. Gli armeni sono forti.»
Layla la guardava
ipnotizzata, proprio come succedeva a me quando ero piccolo e stavo
per un po' di tempo ad ascoltare i racconti di Alina, le sue storie
sull'Armenia, sognando di poter un giorno conoscere di persona i
luoghi che lei mi aveva sempre descritto con amore e passione. Lei
non era come mia madre, che cercava con disperazione di non parlare
troppo del passato, perché questo le costava molta fatica. E
non era come mio padre, che era ormai abituato alla vita negli Stati
Uniti e non badava più di tanto a certi discorsi. Alina era
una donna armena e ne andava fiera, ecco perché lei e Tigran
mandavano avanti il ristorante senza timore.
«Signora... la
ringrazio, io...» Layla balbettò, fissando con imbarazzo
i propri abiti sgualciti e zuppi di sudore. «Non credo di
essere all'altezza di...»
«Tesoro,
non pensare a niente e accomodati pure dove vuoi. Il nostro Daron è
venuto qui con elementi ben peggiori di te» minimizzò
Alina, rivolgendomi un'occhiata un po' troppo severa. Poi mi parlò
in armeno: «Fai il gentiluomo e non far sentire a
disagio la ragazza, mi sembra molto spaventata. Ma è carina,
dove l'hai conosciuta?».
«Lascia
stare, ne parliamo un'altra volta»
mormorai, poi sorrisi a Layla e la condussi a un basso tavolo in
legno, circondato da enormi cuscini
con decorazioni orientali che trovavo meravigliose.
La ragazza si accomodò
incerta su uno di essi, quasi temesse di rovinarlo. Si allungò
sul tavolino basso di fronte a sé e afferrò un
rudimentale menu scarabocchiato su un cartoncino beige. Aggrottò
subito le sopracciglia non troppo sottili e mi fissò,
rivelando una certa confusione.
«Che c'è?»
feci.
«Non capisco queste
cose. Ci sono dei geroglifici e poi... anche le parole in caratteri
occidentali sono impronunciabili» sussurrò. «Per
esempio...» Gettò un'occhiata al menu, poi aggiunse:
«Cosa sarebbe un... dolma?».
Ridacchiai. «Hai
scelto il piatto con il nome più semplice. Prova a leggera
questo.» Allungai un dito e lo posai su un'altra pietanza.
Lei alzò gli occhi al
cielo, poi sospiro. «Allora... ar... arfe? Che roba è?!»
sbottò.
Risi piano. «Si legge
urfa kabob» spiegai con calma.
«Daron, mi dici che
roba è? Per me questo è arabo!» si arrese,
lasciando cadere il cartoncino sul tavolo.
«Io prenderò un
zhingyalov con carne di agnello, verdure e salse a volontà.
Sapessi che bontà!» annunciai.
Lei sgranò gli occhi
e mi lanciò uno sguardo stranito. «Carne di... agnello?»
balbettò.
«Sì, perché?»
Mi strinsi nelle spalle.
«Io non mangio carne»
affermò in fretta, scuotendo il capo con forza.
Mi portai una mano al mento
e riflettei per un attimo, poi mi lasciai sfuggire un sospiro. «Non
puoi essere mia figlia allora» dichiarai in tono serio. Poi
un'idea mi balenò in mente e scoppiai a ridere.
«E ora che succede?»
sibilò Layla.
«Magari sei figlia di
Serj. Il cantante della mia band, sai, è vegetariano»
sghignazzai.
«Oddio» mormorò.
«Ehi, scherzavo»
la rassicurai, evitando di farle notare che la mancanza di senso
dell'umorismo in lei non faceva che confermare che non poteva essere
sangue del mio sangue.
Alina ci raggiunse al tavolo
e si accovacciò accanto a Layla. «Tesoro, cosa vuoi
mangiare?» le chiese, accarezzandole piano un braccio.
La ragazzina sospirò
e mi rivolse un'occhiata terrorizzata. «Io non so se...»
«È vegetariana»
spiegai in tono piatto.
«Vegana» mi
corresse. «Sono vegana.»
Mi venne da ridere, ma mi
trattenni poiché Alina mi lanciò uno sguardo
ammonitore. Finsi di grattarmi il collo e distolsi lo sguardo dalle
due.
«Non c'è
problema. Posso prepararti un dzhash vegetariano. Preferisci
lenticchie o ceci?» propose Alina con dolcezza.
«Uh... non so cosa
sia, ma sarebbe fantastico» biascicò Layla sempre più
confusa.
«Oh, certo! Daron non
ti ha spiegato niente, c'era da aspettarselo.» La donna mi
incenerì con lo sguardo, poi spiegò alla ragazzina che
il dzhash era un brodo che poteva essere accompagnato da
diverse verdure e salse. «Posso fartelo con un legume a tua
scelta, poi posso aggiungere fagiolini, piselli... o preferisci le
zucchine? Se non ti va la zuppa, posso proporti delle polpette
vegetariane con contorno di riso e un po' di pane. Cosa ne pensi? O
preferisci pomodori? O patate?»
Layla ci pensò su.
«Credo che le polpette vadano bene, sì, grazie»
ammise.
«Certo, perfetto.
Bene, ti porto anche un antipasto. Si chiama topik ed è
una sorta di polpettina vegetariana. Ti piacerà.»
«Se lo dice lei...»
borbottò Layla.
«A me un po' di
formaggio e di pasta di pane fritta» aggiunsi, pregustando già
ciò che avrei mangiato.
Finimmo di ordinare il
nostro pranzo e Alina si dileguò, lasciandoci immersi
nell'atmosfera orientale del locale e in una leggere musica di
sottofondo che non riuscivo a distinguere.
«Mi hai portato
all'inferno» brontolò Layla in tono contrariato,
guardandosi attentamente intorno.
Stavo per ribattere, quando
Tigran fece il suo ingresso nella sala semivuota. C'era qualche altro
cliente che stava già finendo di mangiare, visto che noi
eravamo arrivati piuttosto tardi e avevamo fatto giusto in tempo ad
accomodarci prima che la cucina chiudesse.
Erano già le tre meno
un quarto del pomeriggio.
Tigran era un uomo
corpulento, in linea di massima un gigante buono dai lineamenti
orientali molto marcati e l'atteggiamento autoritario che avrebbe
spaventato chi non lo conosceva. Portava i capelli lunghi e grigi
legati in una treccia e indossava sempre abiti tradizionali armeni.
Quando Layla si accorse di
lui, si appiattì contro la parete che stava dietro di lei e
ammutolì, distogliendo lo sguardo da quell'omone che tanto la
metteva in soggezione.
Sorridendo, mi alzai e mi
accostai a Tigran, dandogli una pacca affettuosa sulla spalla.
Contrariamente a quanto si potesse immaginare dal suo modo di vestire
e dai suoi tratti, l'uomo non parlava quasi mai in lingua armena e il
suo accento era appena percettibile, perciò mi rivolsi a lui
in inglese. «Ciao Tigran, sono onorato di essere venuto qui.
Come stai?»
«Daron» mi
salutò lui con calore, utilizzando la sua voce sottile e
pacata, che subito faceva intendere a un estraneo che il timore che
stava provando non aveva alcun senso. «Ragazzo, dovresti
passare più spesso a trovarmi. Ti offro una Kotayk Gold,
ho sempre qualche bottiglia da parte apposta per te» proseguì
l'uomo, regalandomi un sorriso appena accennato.
Mi venne da ridere, nel
ricordare le bizzarre sfide che io e Shavo organizzavamo tra John e
Tigran, in modo da decidere chi dei due riuscisse a mantenersi più
serio dopo qualche bicchiere di troppo. Inutile dire che aveva sempre
vinto John.
Layla intanto era immobile e
ci fissava confusa.
Le rivolsi un'occhiata e poi
dissi: «Layla, lui è Tigran, il marito di Alina. Il mio
secondo padre. Tigran, Layla, è un'amica» spiegai per la
seconda volta.
«Ragazza, spero ti
trovi bene nel nostro ristorante. Ora vado a prendere qualcosa da
bere, vogliate scusarmi» si congedò infine l'uomo,
dirigendosi nuovamente verso la cucina.
Tornai a sedermi accanto a
Layla e sorrisi tra me e me. Non sapevo come sarebbe andato a finire
quel pranzo, se a Layla sarebbe piaciuta la cucina della mia terra o
se avrei scoperto di essere suo padre.
In quel momento volevo
soltanto godermi ogni singolo istante, circondato da tappeti persiani
e sicuro di essermi finalmente scrollato di dosso il disagio che
avevo provato nell'essere toccato da un sacco di estranei.
Era bastato un abbraccio di
Alina per annullare ogni cattiva sensazione.
Allungai una mano sul tavolo
e afferrai quella di Layla, facendola sobbalzare un poco.
Mi guardò stranita e
confusa, poi spostò gli occhi sulle mie dita, e infine
ricambiò titubante la stretta.
Ci scambiammo un'occhiata.
Forse
non mi dispiacerebbe se tu fossi mia figlia.
Cari
lettori, eccomi qui con un capitolo che per me è stato molto
impegnativo. Non tanto per le tematiche trattate, ma per tutte le
ricerche che ho fatto mentre lo scrivevo.
Direte
voi: «Kim, potevi anche non concentrarti su tutte quelle
informazioni sulla cucina armena, chi te l'ha fatto fare?».
Be', il punto è che non dobbiamo dimenticarci le radici dei
nostri amati System: loro sono armeni, e in quanto tali in un certo
senso sono legati alle loro tradizioni e alla loro terra, e non solo
a livello culturale o storico.
Insomma,
ho voluto immaginare un Daron un po' insolito, un po' nostalgico, un
Daron con la voglia di sentirsi a casa e di assaporare i gusti e i
profumi della sua Armenia, nonostante lui sia l'unico della band a
essere nato negli Stati Uniti ^^
Mi
scuso fin da ora se ci sono inesattezze per quanto riguarda le
pietanze citate, ma ci ho messo davvero tanto impegno e ho dovuto
fare un lavoro di traduzione di molti termini perché ho
trovato le informazioni solo su Wikipedia in inglese. In quella
italiana non c'è praticamente niente -.-”
Se
qualcuno di voi è bravo in inglese – riferimenti a una
certa StormyPhoenix sono puramente casuali XD – potrebbe
prendere in considerazione l'idea di aggiornare la pagina di
Wikipedia in italiano sulla cucina armena... toh, io la butto lì,
poi ditemi voi se sono pazza :D
Che
ne pensate? A voi la parola!
Grazie
per essere ancora qui e per leggere tutto ciò che scrivo,
perché mi sostenete e mi tenete compagnia da più di un
anno in questo folle progetto!!
Alla
prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 61 *** Insecure ***
ReggaeFamily
Insecure
[Leah]
Fissavo
il libro che avevo di fronte senza neanche vederlo. Ero totalmente
assorbita da altri pensieri, ormai incapace di reprimerli e
ignorarli. Non potevo più mentire a me stessa, la mia mente si
rifiutava di concedermelo ancora.
Avevo
mentito a John, avevo mentito a me stessa e avevo incolpato Alan
Moonshift di avermi praticamente rapito e trascinato in Giamaica, ma
in realtà dentro me gli ero stata grata anche se non l'avrei
mai ammesso. Grazie a quel viaggio mi aveva distolto dai miei dubbi
esistenziali, dai cupi e confusionari pensieri che mi passavano per
la testa. Mi aveva portato in un luogo di svago, un luogo dove avevo
conosciuto persone magnifiche che mi avevano fatto dimenticare quanto
fossi insoddisfatta di me stessa.
Una
volta rientrata a casa, con un nuovo carico di energia e di affetti,
mi ero rigettata a capofitto nella mia vita, credendo seriamente di
potercela fare; mi ero convinta che quella vacanza avesse spazzato
via ogni incertezza, che avesse curato ogni mia insicurezza e mi
fosse stata utile per liberare la mente prima di ricominciare da dove
mi ero interrotta.
Ero
riuscita addirittura a studiare e passare un esame, seppur con il
minimo del punteggio; ma adesso che mi ritrovavo a dover studiare
ancora, fui nuovamente travolta dallo sconforto e dalla
consapevolezza che stessi sbagliando tutto. Sapevo perfettamente che
lo studio non faceva per me, che avevo cominciato a seguire i corsi
solo per poter andare via di casa e non dover convivere con Alan
Moonshift e le sue innumerevoli amanti. Lui non mi avrebbe mai
mantenuto se avesse saputo che non volevo studiare, ma adesso questa
situazione stava diventando insostenibile.
Ero
stanca di trascorrere le giornate a non fare niente, desideravo avere
la mia indipendenza e volevo avere un lavoro serio che mi permettesse
di staccarmi definitivamente da lui e da quella vita che non mi
appagava per niente. Non avevo mai preso neanche in considerazione
l'idea di cercare mia madre, con lei non c'era niente da dire o da
fare. Sapevo che esisteva e perfino dove abitava, ma non mi passò
mai per la mente di chiederle aiuto.
E
poi ormai avevo quasi venticinque anni. Sospirai e adocchiai il
calendario appeso alla parete della cucina: era un cimelio che
Samantha si era procurata a una di quelle manifestazioni per i
diritti degli omosessuali, l'aveva comprato perché tutti i
ricavati sarebbero stati devoluti a un'associazione nascente che si
proponeva di fare tante cose che ancora nessuno aveva messo in atto.
Il
mio compleanno sarebbe stato il 26 settembre, esattamente tredici
giorni dopo. Sospirai. Ancora non avevo deciso cosa fare della mia
vita e mi sentivo una fallita, anche e soprattutto perché ero
circondata da persone già realizzate, con le idee ben chiare a
differenza mia.
Primo
tra tutti il mio ragazzo, che era un musicista affermato e aveva
sempre perseguito i suoi progetti. Forse il fatto che fosse più
grande di me non era roba da poco, non era da sottovalutare come
tutti avevamo sempre fatto. Mi sentivo a disagio se confrontavo la
sua vita con la mia, e questo mi portava a vergognarmi di me stessa e
a non riuscire a parlargli del mio disagio.
Non
riuscivo a confidarmi con nessuno, e lo sconforto non faceva che
aumentare in me. Era sempre più difficile nasconderlo,
tuttavia avevo un blocco interiore che mi impediva di aprir bocca.
Come
avrei potuto parlare con Shelley, lei che sapeva fare un sacco di
cose e aveva un sacco di alternative nel suo futuro? Lei era sicura
di voler fare la stilista, non aveva mai avuto dubbi a riguardo.
Non
potevo neanche confidarmi con Samantha, mi vergognavo delle mie
insicurezze di fronte a una donna che voleva diventare medico e
combatteva per i diritti degli omosessuali con fierezza e sicurezza
di sé.
E
così non potevo fare con i ragazzi dei System, tutti musicisti
affermati con tanti altri progetti da portare avanti, né
potevo lamentarmi con una come Bryah che aveva coraggiosamente
ripreso in mano la sua vita e si era ricavata un nuovo lavoro in un
giornale di Los Angeles, lasciando la sua terra e la sua famiglia
adottiva, dedicandosi inoltre alla stesura del libro sui System.
Come
potevo scaricare questo peso su Dayanara e Alwan, loro che lottavano
continuamente per il loro amore e avevano entrambi un lavoro che li
appagava?
Tutti
i miei amici erano realizzati, l'unica ad aver intrapreso gli studi
in Lettere Moderne senza neanche rifletterci su ero io. Mi sentivo
una cretina e non sapevo come venir fuori dal mio stesso pantano.
Sospirai
e spostai il libro di lato, appoggiando i gomiti sul tavolo della
cucina. Avevo detto a John che ciò che studiavo mi piaceva,
eppure non era affatto vero. Avevo scelto quell'indirizzo di studi
senza alcun raziocinio, mi ci ero gettata a capofitto con entusiasmo
perché convinta che bastasse allontanarmi da casa mia per
rendermi felice. Fin da subito mi ero resa conto che non era stato
affatto così, eppure avevo provato ad andare avanti.
E
ora mi ritrovavo a pagarne le conseguenze.
Il
campanello trillò all'improvviso, facendomi sobbalzare.
Aggrottai la fronte mentre mi alzavo; generalmente sia Shelley che
Samantha entravano in casa utilizzando le chiavi, ma probabilmente
una delle due aveva dimenticato le sue.
Mi
accostai al citofono e sollevai la rudimentale cornetta, sperando che
funzionasse. A volte dava dei problemi e non ci permetteva di
comunicare con chi si trovava ai piedi dello stabile, costringendoci
ad aprire il portone senza sapere chi fosse arrivato o a scendere al
piano di sotto per accertarci di persona di chi si trattasse.
Per
fortuna stavolta l'aggeggio infernale fece il suo dovere e una voce
stridula a me familiare strillò: «Apri, sono io!».
«Daron?!»
sbottai perplessa, mentre schiacciavo il bottone che permetteva al
portone di aprirsi con un click.
MI precipitai sul
pianerottolo e, affacciandomi dalla ringhiera delle scale, gridai:
«Daron, non prendere l'ascensore. Ieri si è bloccato!
Fai le scale fino al quinto piano!».
L'eco della mia voce si
espanse per l'ampio e alto androne, rimbombando come un tuono. Udii
Daron sbuffare e grugnire qualcosa di incomprensibile, poi sentii i
suoi passi mentre saliva rapidamente i gradini che ci separavano.
Non riuscivo a capire cosa
ci facesse a Las Vegas, a casa mia, così all'improvviso. Non
mi aveva avvertito, ma doveva aver estorto il mio indirizzo a John o
Shavo. Mentre ci riflettevo, lo avvistai mentre si apprestava a
percorrere l'ultima rampa di scale; con un tuffo al cuore per la
gioia di vederlo, mi gettai letteralmente giù dalle scale e
gli saltai addosso, impedendogli di fare un altro passo.
Il
mio amico rischiò di ruzzolare all'indietro e fu costretto a
sorreggersi alla ringhiera. Imprecò tra i denti
e tentò di divincolarsi dal mio abbraccio.
«Oddio, Daron! Sono
così felice di vederti! Che sorpresa, dannazione, non me
l'aspettavo!» gridai in preda all'emozione, e rischiai di
scoppiare a piangere. Mi ero sentita così sola fino a pochi
minuti prima, e ora ringraziavo qualunque forza divina lo avesse
spedito a raccogliere i cocci della mia incompiutezza.
«Mi strozzi, razza di
cretina! Lasciami andare!» sbraitò il chitarrista, ma
infine sorrise e ricambiò la stretta. «Non è che
mi hai confuso con Shavo? Ehi, Leah, sono Daron!» scherzò,
arruffandomi affettuosamente i capelli.
«Che stronzo!»
esclamai, lasciandolo andare di botto.
Lui barcollò per un
attimo e tirò un sospiro di sollievo. «Mi hai travolto»
mormorò.
Risalii in fretta le scale e
mi fiondai dentro il mio appartamento, senza aspettare che lui
raggiungesse il pianerottolo.
Proprio in quel momento la
porta accanto alla mia si spalancò e Harper Jackson si
affacciò con il viso stravolto dal sonno. «Leah, che
cazzo stai combinando?» brontolò.
Mi voltai a guardarlo,
rimanendo sulla soglia. «Ciao Harper» lo salutai con
noncuranza.
Lui spostò gli occhi
azzurri su Daron e sbiancò. «Daron Malakian? Oh cazzo,
quella roba che mi ha procurato Stephen doveva essere proprio forte,
sto avendo le allucinazioni...» biascicò il mio vicino.
«Già, hai
ragione. Di che parli? Qui non c'è nessun altro oltre me.
Torna a dormire, Harper» lo assecondai, mentre il mio amico
faceva il possibile per non scoppiare a ridere.
«Cazzo, sì che
ci torno» borbottò infine Harper, per poi sbattere la
porta.
Io e Daron ci fissammo e
prendemmo a sghignazzare, poi finalmente lo invitai a entrare.
Lui si guardò attorno
e notò subito il libro che avevo abbandonato sul tavolo.
«Siediti pure. Siamo
soli, le ragazze non ci sono» gli dissi, sentendomi un po' in
imbarazzo per l'appartamento spartano in cui abitavo. Questo non
aveva niente a che vedere con le abitazioni di Shavo e Serj, e
immaginavo che fosse poco simile anche alla sua casa e a quella di
John.
«È carina la
tua casetta» commentò il chitarrista, prendendo posto su
una sedia.
Feci lo stesso e sminuì
quel complimento con un gesto della mano. «Macché. Dimmi
cosa ci fai qui, sono molto confusa» cambiai argomento.
«Prima dammi qualcosa
da bere. Vegas è un inferno e ogni volta che ci vengo mi
disidrato» disse.
Solo allora mi accorsi che
aveva il viso imperlato di sudore.
Mi alzai e mi accostai al
frigorifero. «Cosa ti va?»
«Non lo so... hai
della limonata?» volle sapere.
«Certo.
Ricordati che casa mia è come un bar, Sam e Shell riforniscono
il frigo quotidianamente. Detestano rimanere a corto di bibite»
spiegai, portando fuori una
bottiglia di plastica da un litro mezzo piena.
Osservai Daron mentre
sorseggiava la sua bevanda e notai che era vestito completamente di
nero, con una camicia in jeans a maniche lunghe e si era addirittura
messo un cappello in testa.
Sgranai gli occhi. «Ecco
perché hai caldo. Sei impazzito?» commentai indignata.
«Devo aggirarmi in
incognito, sai com'è» scherzò.
«Daron, perché
sei qui?»
Lui sospirò e perse
gli occhi grandi e scuri dentro il liquido giallognolo che ancora
rimaneva nel suo bicchiere. «Ho avuto i risultati del test del
DNA» sussurrò.
«E sei venuto fin qui
per questo? Avresti potuto telefonarmi...» farfugliai, posando
una mano sulla sua.
Scosse il capo. «Non
mi piace comunicare con quegli aggeggi. E poi avevo bisogno di
staccare, di andarmene per un po' da Los Angeles. Di stare lontano da
Layla.»
«Perché? Che
cosa è successo?» domandai in preda alla preoccupazione.
Se Daron era venuto fino a Las Vegas per parlarmi di quella
questione, doveva essere capitato qualcosa di grave.
«Leah» disse,
poi fece una pausa e sospirò ancora. «Non è
compatibile. Layla non è mia figlia.»
«Lo
sapevo!» esclamai, battendo la mano sinistra sul tavolo. Poi
notai l'espressione smarrita del mio amico e tentai di darmi un
contegno. «Cioè... me lo
immaginavo, ma... ehi, perché fai quella faccia? Non sei
felice di non doverti prendere quest'onere? Quella mocciosa voleva
solo i tuoi soldi, te lo dico io!» blaterai, sempre più
confusa dal suo strano atteggiamento.
Daron sollevò lo
sguardo e incrociò il mio. Nei suoi occhi lessi delusione e
malinconia, così ammutolii e attesi che dicesse qualcosa.
«Lei non c'entra. Il
giorno in cui dovevamo andare a fare il test, Layla è arrivata
in ritardo di un'ora. Io ero incazzato e me ne stavo già
andando, ma poi lei mi ha spiegato che Dolly voleva impedirle di
uscire per incontrarmi.»
«Che cosa? Oddio...»
«Sì.
Evidentemente Dolly sapeva la verità, ma non voleva farmelo
scoprire. Ha mentito a sua figlia, le ha fatto credere che io fossi
suo padre. Era lei a volermi incastrare, la ragazza non c'entra»
spiegò ancora il chitarrista, per poi distogliere gli occhi
dai miei e posarli sul tavolo di fronte a sé.
Mi allungai per poggiare una
mano sulla sua spalla. «E tu non sei felice?» chiesi con
cautela.
«No, non lo so.
Insomma... quel giorno abbiamo fatto il test e poi l'ho portata nella
Little Armenia a pranzo in un ristorante di vecchi amici della mia
famiglia. Le ho fatto conoscere le mie radici, l'ho fatta entrare
nella mia vita. Non so perché l'ho fatto, ma... con lei mi
trovavo bene, Leah.» La sua voce era malinconica e rotta da
emozioni che non riuscivo a decifrare.
«Avresti
voluto che fosse tua figlia?» domandai, ma
subito me ne pentii. Forse ero stata tropo diretta, come al solito
non ero riuscita a mostrare un po' di tatto.
Poi vidi Daron annuire
impercettibilmente e il cuore mi sprofondò nel petto. «Oh,
Daron... mi dispiace così tanto, non sai quanto»
mormorai.
«Già, anche a
me» replicò in tono improvvisamente piatto.
«Ma... tu e lei potete
rimanere in contatto, chi ve lo impedisce? Se ti trovi bene con lei,
potete costruire una bella amicizia. Ricordati che Layla non ha un
padre, potrebbe comunque prenderti come figura di riferimento, non
trovi?» tentai di consolarlo.
«Forse sì,
forse no... Dolly non lo permetterà, non ora che sua figlia è
arrabbiata con lei e la odia per averle mentito e averla illusa»
disse il mio amico.
«Però...
però... tu puoi essere importante per lei. Sai quante persone
vengono amate da famiglie adottive o... insomma...» Frugai
nella mente in cerca delle parole giuste. «Prendi Bryah. Lei è
stata amata tantissimo dalla sua famiglia adottiva. Perché tu
non potresti costruire un bel rapporto con quella ragazza, come fossi
una sorta di padre? Se vi siete trovati bene insieme...»
suggerii.
Lui sorrise amaramente.
«Magari fosse così semplice. Sei una ragazza molto
positiva, Leah. Ti ringrazio. Sapevo di poter contare sul tuo
sostegno.»
Mi
sentii ancora più in colpa. Non avevo fatto niente
di concreto per aiutarlo, e inoltre mi aveva definito positiva senza
sapere quanto fosse squallida e insoddisfacente la mia intera
esistenza.
Vedere Daron Malakian, il
grande e famoso chitarrista dei System Of A Down, in quelle
condizioni mi fece capire che forse potevo confidargli come mi
sentivo. Compresi che, nonostante fosse famoso e conducesse la vita
che desiderava in campo professionale, la sua sfera privata era
disastrosa almeno quanto la mia.
Io avevo un ragazzo che mi
amava e che amavo, eppure mi sentivo una fallita totale in campo
professionale. Non riuscivo a concludere niente di utile per me
stessa e per gli altri, però ero circondata di persone
meravigliose che mi volevano bene e che mi sostenevano nonostante
tutto.
Daron, invece, si ritrovava
nuovamente a dover fare i conti con la sua solitudine sentimentale;
non aveva una compagna e ora aveva scoperto che la sua speranza di
poter costruire un legame unico e speciale con Layla era sfumata,
rivelandosi soltanto una stupida e inutile illusione.
«Daron, voglio
lasciare l'università» buttai lì all'improvviso,
avvertendo subito un peso abbandonare il mio cuore.
Lui sobbalzò
leggermente e mi fissò perplesso. «Cosa? Perché?»
«Non
mi soddisfa. Non mi sento per niente realizzata e so di aver
sbagliato. Ho scelto di continuare
gli studi, ma l'ho fatto solo per scappare di casa e allontanarmi da
mio padre. Solo che sono ancora legata a lui, visto che mi paga gli
studi e mi mantiene, convinto che io stia concludendo qualcosa. Ma io
non ce la faccio più.»
Il chitarrista abbassò
mestamente il capo. «Amica, anche tu sei nei guai. Da quando va
avanti?»
«Da sempre. Quando
sono partita in Giamaica, credevo che mi sarebbe bastato quel momento
di pausa per riprendermi e ridarmi la forza per proseguire. Ma mi
sono illusa. io... mi dispiace di avertelo detto, mi vergogno così
tanto... ho quasi venticinque anni e non ho concluso niente»
spiegai, lottando con le lacrime per impedire che sgorgassero dai
miei occhi.
«Ehi, non dire così.
Non è mai troppo tardi per cambiare idea» mi rassicurò,
accostando la sua sedia alla mia. Con gesti goffi e un po' incerti,
mi prese tra le braccia e mi strinse affettuosamente a sé.
«Dai, coraggio. Troveremo una soluzione» mormorò.
Sapevo perfettamente che
quel gesto gli costava parecchia fatica, perciò lo apprezzai
doppiamente e ricambiai la stretta, incapace di trattenere una
lacrima solitaria.
«John
mi ha detto che ti vuole nel suo staff per Torpedo Comics. Potresti
ricominciare da lì e vedere se ti piace come cosa»
suggerì ancora il mio amico. «In questo modo potresti
lasciare l'università e renderti indipendente da tuo padre. E
poi, ehi, noi ti possiamo
aiutare in ogni caso. Per questo non c'è problema, okay?»
Mi scostai da lui e
incrociai il suo sguardo. «Dici che potrei farlo davvero?»
Avevo pensato alla proposta
di John, ma l'avevo considerata soltanto come un diversivo dai miei
studi, così come un modo per dare una mano a un amico che
aveva un bellissimo progetto in mente. Ma ora che Daron me lo faceva
notare, comprendevo che forse quella sarebbe potuta essere la
scappatoia che cercavo e aspettavo da anni.
«Ma certo! Pensi che
John Dolmayan sia uno sprovveduto che offre un lavoro a chiunque? Ma
lo conosci? È talmente riflessivo e razionale che a volte mi
dà il voltastomaco!» scherzò il chitarrista, per
poi finire di bere la sua limonata. Se ne versò un altro
bicchiere, poi aggiunse: «Pensaci bene. E non vergognarti di
parlarne con noi. Ogni persona ha le sue insicurezze, anche quelle
che apparentemente sembrano realizzate in tutto e per tutto».
Mi ritrovai a dargli
mentalmente ragione. Mi ero convinta di essere l'unica a sentirmi a
disagio per qualcosa che non andava nella mia vita, ma Daron mi aveva
fatto aprire gli occhi. Sapevo che era sincero, non mi avrebbe mai
detto qualcosa che non pensava veramente.
«Quindi pensi che io
possa farcela?» chiesi ancora.
«Sì
che lo penso. Ne sono stra convinto» affermò senza
alcuna esitazione.
«Sarà un passo
molto importante e difficile per me» gli feci notare.
«La vita è
così, amica mia» filosofeggiò, lanciandomi un
sorrisetto sghembo. Si frugò in tasca e mi mostrò il
suo astuccio per l'erba. «Ce la fumiamo?»
Gli strappai l'oggetto di
mano e cominciai ad aprirlo. «Insegnami a costruirne una»
gli dissi.
Daron ridacchiò e per
i successivi dieci minuti mi spiegò minuziosamente come creare
la canna perfetta. Sbagliai diverse volte, ma alla fine il risultato
non fu poi così male.
Ci affacciammo alla
finestra, fianco a fianco, e fumammo insieme mentre osservavamo il
sole del tardo pomeriggio che ancora infuocava i palazzi di Paradise.
«Quanto ti fermi a
Vegas?» gli domandai dopo aver fatto un tiro.
«Ho prenotato per due
notti in un alberghetto» rispose.
«Allora ci dobbiamo
divertire!» esclamai entusiasta.
Daron annuì, poi si
voltò a guardarmi. «Shavo sa di questa cosa
dell'università?» indagò, facendosi
improvvisamente serio.
Scrutai per un attimo il suo
viso pallido su cui spiccavano gli occhi grandi e scuri. «No.
Mi vergognavo troppo per dirglielo» sussurrai mestamente.
«Parlagliene.
Si è accorto sicuramente che c'è qualcosa
che non va. E Shavo odia che gli si nascondano le cose, dà di
matto» mi consigliò il mio amico, per poi portarsi la
stecca di erba alle labbra.
Annuii. «Lo so. Sì,
lo farò. Glielo dirò appena saremo nuovamente insieme.
Anche perché non posso nascondergli più questa cosa, la
settimana prossima viene qui e vedrà finalmente dove abito.»
«Festeggerete insieme
il tuo compleanno?»
Assentii con un cenno del
capo. «Però sarebbe bello se ci foste anche tutti voi.»
Daron fece spallucce. «Non
preoccuparti, avremo altre occasioni per festeggiare. Anzi, sai cosa?
Io e te festeggiamo in anticipo, visto che sono qui!» esclamò.
«Okay, ma ti impedisco
categoricamente di farmi gli auguri in anticipo, porta sfiga!»
scherzai, poi gli mollai una pacca sulla spalla. «E anche tu
pensa a ciò che ti ho detto su Layla, d'accordo?»
Lui si rabbuiò
leggermente, tuttavia annuì. «Ci proverò. Sai che
ho bisogno di tempo per assimilare e capire le cose, non sono
perspicace come te, amica.»
«Idiota! Che ne dici
se chiamo le mie coinquiline e tutti insieme ce ne andiamo a
divertirci da qualche parte?» gli proposi.
Daron ridacchiò. «Ci
sto. Non vedo l'ora di conoscere questa Shelley. È sexy?»
Gli mollai un pugno sul
braccio e lo mollai alla finestra, andando a recuperare il mio
cellulare.
Ero felice che Daron fosse
venuto a trovarmi e che si fosse confidato con me sui suoi problemi
con Layla. Riponeva una grandissima fiducia in me e io stentavo
ancora a crederci, visto il suo carattere riservato e il suo
atteggiamento spesso freddo e distaccato.
Mentre riflettevo su quanto
fosse strano che io fossi riuscita a conquistare la fiducia di
persone come lui e John, raccattai lo smartphone. Prima di scrivere
alle mie amiche, decisi di inviare una nota vocale a Shavo.
Shavarsh,
c'è Daron qui. Mi ha fatto una sorpresa, ancora non ci credo.
Mi ha parlato di Layla, perciò ora chiamo le ragazze e lo
portiamo a svagarsi un po'. Non preoccuparti, faremo attenzione e non
ci ubriacheremo, promesso! Ma anche tu fai il bravo, eh? Non
permettere a quei depravati dei tuoi amici di trascinarti nelle loro
solite stronzate... dai, scherzo. Saluta tutti, ci sentiamo domani.
Mi manchi tantissimo.
Mentre attendevo che mi
rispondesse, inviai un messaggio sul gruppo WhatsApp che avevo creato
con le mie coinquiline, avvisandole della presenza di Daron in città
e chiedendo loro se fossero disponibili per una serata in giro per
locali insieme a noi.
Una volta inviato, trovai la
risposta di Shavo.
Ehi...
sì, sapevo che quell'idiota stava andando da te, non sono
riuscito a fermarlo. Vabbè, ormai è fatta. Tienilo
d'occhio, non vorrei che facesse stronzate per affogare i suoi
dispiaceri. Che casino, ti ha detto tutto, eh? Okay, vado a farmi una
doccia, anche se vorrei che ci fossi anche tu con me... lo so che
stai pensando che sono un maiale, ma fa lo stesso. Ci sentiamo
domani, divertiti e saluta quel cretino e Sam! Ti amo, lo sai. Ciao
Leah.
Sorrisi imbarazzata. Non mi
sarei mai abituata al suo modo dolce di confessarmi con semplicità
i suoi sentimenti, né sarei mai riuscita a essere spontanea
quanto lui.
Mentre tornavo da Daron,
scoprii di sentirmi molto meglio e di nutrire una piccola speranza
per il mio futuro.
Sapere che almeno qualcuno
si fidava di me e credeva che avrei potuto cambiare la mia vita, mi
diede una forza incredibile e mi riempì di energia positiva.
Ero pronta ad andare avanti
e a vivere finalmente la vita che desideravo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 62 *** Portrait ***
ReggaeFamily
Portrait
[Shavo]
«Allora?
Mi racconti o no?»
«Mmh...»
«Malakian,
non ignorarmi!»
«Non
ti ignoro...»
«Sì,
invece!»
Sedevo
sul divano a casa di Daron e cercavo di estorcergli qualche
informazione sul suo viaggio a Las Vegas. Mi serviva soprattutto
sapere quali erano i locali che Leah frequentava abitualmente, volevo
organizzarle una festa a sorpresa per il suo compleanno e non avevo
molto tempo per farlo.
Probabilmente
lei se lo aspettava, non ero affatto bravo a nascondere le mie
intenzioni. Però volevo farlo in ogni caso, anche se sapevo
che molti dei nostri amici non ci sarebbero stati per via dei loro
impegni e perché avrebbero dovuto viaggiare fino a Las Vegas.
Per
fortuna John e Bryah sarebbero stati dei nostri, perché il
batterista ne avrebbe approfittato per mostrare il locale in cui
avrebbe aperto la sua fumetteria alla sua compagna.
Daron,
Serj e Angela non sarebbero partiti con noi, così come non lo
avrebbero fatto Mayda e Sako.
Quando
aveva saputo che sarei andato a Las Vegas, Louis aveva fatto i salti
di gioia e si era praticamente aggregato alla combriccola, asserendo
che non faceva un viaggetto da quelle parti da un po' di tempo e
aveva voglia di giocare a strip poker in un casinò degno di
tale nome. Io l'avevo mandato al diavolo, ma lui aveva deciso di
seguirmi e non avevo potuto impedirglielo.
Mollai
un pugno sul braccio del mio amico e lui sussultò.
«Daron,
parla! Non ho molto tempo!» sbottai.
«Ah,
che palle... non mi ricordo i nomi dei locali, mmh... forse qualcosa
come Creaminal, scritto
così.» Afferrò un taccuino che teneva poggiato
sul tavolino basso di fronte al divano e scarabocchiò
disordinatamente qualcosa. Poi strappò il foglio e me lo
porse.
«Ah, carino»
bofonchiai con un mezzo sorriso.
«Credo di sì.»
«Com'è andata?
Sei riuscito a stare meglio?» domandai, spostando lo sguardo
sul suo volto.
«Un po' sì. La
tua donna è forte, ha delle amiche fantastiche e Shelley è
proprio sexy. Vedrai.»
Sospirai. «Sono serio.
Come stai?»
Lui sbuffò. «Così»
borbottò.
«Leah ti ha
consigliato di provarci, credi che le dari retta?»
Fece spallucce. «Chi
lo sa? Io e Layla non siamo rimasti in contatto. Non ho nessuna
intenzione di darle il mio numero o qualcosa del genere.»
«Se vuole cercarti, sa
come fare. Potrebbe anche scriverti su qualche social... insomma, non
è impossibile.»
«Appunto»
confermò, passandosi una mano tra i capelli scompigliati. «Ma
forse è meglio se si dimentica di me. Non sono suo padre,
punto.»
«Non
essere così categorico. Fratello, mi dispiace» gli
dissi, circondandogli le spalle con un braccio.
Lui tentò di
sottrarsi a quel contatto, ma poi cambiò idea e rimase
immobile. «Purtroppo è andata così.»
«Vedrai che troverai
presto qualcuno che possa renderti padre, ne sono sicuro. Anche se,
ehi, io non ti ci vedo a cambiare pannolini!» tentai di
sdrammatizzare.
«Coglione.»
«Okay, io me ne vado.
Devo organizzare qualcosa per Leah, e poi devo andare con Bryah a
sceglierle qualcosa. Non so cosa regalarle, sono incasinato e parto
dopodomani...» blaterai, avviandomi alla porta senza aspettare
che mi accompagnasse.
«Ce la farai!»
gridò lui.
Lo sperai con tutto me
stesso, ma sarebbe stato difficile.
Scesi dal taxi e mi schermai
gli occhi con una mano, maledicendomi per non aver portato fuori gli
occhiali da sole. A Las Vegas faceva un caldo infernale e io stavo
sudando furiosamente.
Avevo lasciato Louis, John e
Bryah affinché andassero in albergo, e io mi ero subito
precipitato da Leah.
Non vedevo l'ora di
abbracciarla e trascorrere del tempo con lei, non ci vedevamo da
quando lei era stata da me per il concerto al Dodger Stadium.
Mi
mancava sempre troppo per i miei gusti, ma doveva essere normale
quando si era innamorati di
qualcuno, anche se faceva sempre troppo male stare lontani per tante
settimane.
Suonai il campanello e
aspettai che qualcuno mi aprisse. Lanciai un'occhiata al condominio,
notando che era una struttura piuttosto anonima e dall'aria vissuta.
Sapevo che probabilmente quella palazzina aveva più di un
secolo, ma evitai momentaneamente di chiedermi in che condizioni
fossero gli appartamenti al suo interno.
Il portone di fronte a me si
spalancò e un tizio allucinato che doveva avere la testa in un
universo parallelo mi venne quasi addosso; si bloccò di botto
e mi fissò come se avesse appena visto uno spettro e sbatté
ripetutamente le palpebre.
«Ehi, amico. Grazie
per avermi aperto» lo apostrofai, facendo per infilarmi dentro
l'androne.
«Oh merda! Ultimamente
le mie allucinazioni sono sempre più gravi... dovrei andare
davvero da uno strizzacervelli...» farfugliò il tizio.
Una voce proveniente
dall'interno del palazzo gridò: «Harper, non c'è
nessuno lì, ma con chi stai parlando?».
Aprii maggiormente il
portone e notai Leah che scendeva gli ultimi gradini di una scala
ripida e angusta. Il mio cuore perse un battito e rimasi per un
istante a fissarla senza muovere un muscolo.
«Già, ma... mi
sembra di vedere il bassista dei System Of A Down sul nostro
portone...»
Leah
raggiunse il ragazzo e gli picchiettò sulla spalla. «Devi
darci un taglio con quella robaccia» lo
rimproverò, poi lo spinse fuori e gli disse che doveva proprio
muoversi se non voleva arrivare tardi, ovunque stesse andando.
Poi tornò indietro e
mi travolse con un abbraccio, per poi trascinarmi all'interno e
richiudere l'uscio alle nostre spalle.
«Leah, che cosa...»
farfugliai.
«Poi ti spiego,
andiamo!» Mi afferrò per un braccio e mi portò
con sé verso la scala.
La costrinsi a fermarsi e le
rivolsi un'occhiata ammonitrice. «È questo il modo di
salutare il tuo uomo?»
Lei gettò un'occhiata
prima alla sua destra e poi a sinistra, infine fece spallucce. «Uomo?
Io non vedo nessun uomo da queste parti» fece in tono ironico.
«Allora torno a Los
Angeles» la minacciai.
«No!» Lei
scoppiò a ridere e mi spinse contro la parete che
fiancheggiava l'ascensore. Premette il suo corpo contro il mio e si
sollevò in punta di piedi per cercare le mie labbra. Le baciò
con impeto, stringendomi forte a sé e regalandomi le
sensazioni familiari che tanto mi erano mancate.
«Così si
ragiona» soffiai sulle sue labbra, quando mi staccai per
riprendere fiato. La strinsi tra le braccia e la baciai ancora,
carezzandole i capelli sottili e la schiena esile.
«Andiamo dentro, dai»
boccheggiò Leah, immergendo per un istante il viso nella mia
t-shirt.
«Va bene.» Ma
non mi scostai di un millimetro e rimasi a godere del suo calore e
dei suoi soffici capelli tra le dita, mentre lei mi lasciava delicati
baci sul collo.
Sospirai e chiusi per un
attimo gli occhi. «Leah, attenta a quello che fai» la
avvertii, mentre un calore incontrollabile si espandeva per tutto il
mio corpo e mi faceva desiderare di strapparle i vestiti di dosso e
prenderla lì, sulle scale, senza pensarci due volte.
«Adesso ho paura»
mormorò al mio orecchio, poi si staccò improvvisamente
da me e cominciò a salire i gradini con noncuranza. «Shavarsh,
datti una mossa e non stare lì con quell'espressione da pesce
lesso» cantilenò, sfottendomi apertamente.
La seguii in silenzio,
resistendo fino all'ultimo per non afferrarla da dietro e sbatterla
al muro per dimostrarle quanto la desiderassi. Una volta giunti al
quinto piano, lei aprii rapidamente la porta situata proprio di
fronte alle scale e sgusciò dentro.
Le corsi dietro e la
afferrai saldamente per i fianchi, abbracciandola da dietro e
avventandomi sul suo collo ancor prima che l'uscio si fosse richiusa.
Leah si abbandonò
contro il mio petto e inclinò la testa all'indietro, poggiando
la nuca alla mia spalla. «Ehi, c'è Shelley di là...»
biascicò, ma la sua voce venne spezzata da un gemito strozzato
quando le mie mani si insinuarono sotto la sua maglia leggera. Stavo
per risalire lungo i suoi fianchi stretti, quando udii un rumore alla
mia destra e decisi di fermarmi.
Non volevo dare spettacolo
di fronte alla coinquilina di Leah; se si fosse trattato di Samantha,
mi sarei preoccupato molto meno, visto e considerato che la conoscevo
e sapevo che non era facile metterla in imbarazzo e scandalizzarla.
Ma di Shelley non sapevo niente e non avevo intenzione di darle
subito l'impressione di essere un maiale pervertito.
Mi limitai a tenere Leah
stretta a me e riportai le mani sulla sua pancia, lasciando piccoli
baci sui suoi capelli.
Una ragazza bellissima
apparve sulla soglia di una stanza che affacciava sulla piccola
cucina e ci fissò sorpresa, per poi incurvare le labbra
sottili in un dolce sorriso. Era bionda, doveva essere alta circa un
metro e ottanta, i suoi occhi erano azzurri e luminosi e il suo
fisico avrebbe fatto invidia a qualsiasi altra creatura di sesso
femminile presente sulla faccia della terra. Daron aveva ragione a
dire che era sexy, ma certamente non avrebbe mai avuto alcuna
possibilità con uno schianto del genere.
Leah mi mollò una
gomitata sulle costole e io distolsi immediatamente lo sguardo,
imprecando sottovoce per il dolore.
«Razza di imbecille»
mi rimbeccò, divincolandosi dalla mia stretta. Raggiunse la
sua amica e le sorrise. «Shy, questo qui è rimasto
abbagliato da te com'è successo a Daron. Sei troppo bella, io
mi sento un essere inferiore» blaterò, battendole
affettuosamente sul braccio.
«Oh, Leah! Non
sottovalutarti tanto» la rabbonì la sua amica, poi mi si
accostò. «Ciao, tu devi essere Shavo. È un
piacere conoscerti, sono Shelley.»
Le tesi una mano e mi
soffermai per un attimo a scrutare i suoi lineamenti delicati e
perfetti. Non era possibile che al mondo esistessero esseri tanto
incantevoli.
«Ma lo vedi come ti
guarda?» sbraitò Leah, già nei pressi del tavolo
della piccola cucina collegata direttamente all'ingresso.
«Io...»
farfugliai, distogliendo immediatamente lo sguardo. «Ehi, non
incontro tutti i giorni ragazze come lei» mi giustificai, poi
mi resi subito conto di aver commesso un madornale errore.
Leah si voltò di
scatto nella mia direzione, mentre Shelley rideva imbarazzata e
scuoteva il capo per cercare di minimizzare le mie parole.
«Come, scusa?»
gracchiò la mia ragazza, gli occhi stravolti dalla rabbia.
«Io... Leah, se tu ti
trovassi di fronte a un dio greco, non potresti negare che è
più bello di me» tagliai corto, stringendomi nelle
spalle.
«Avanti ragazzi, mica
sono Miss Mondo!» si schernì Shelley, accostandosi poi a
Leah. «Ehi, dai, non fare così.» Si chinò a
sussurrarle qualcosa come lui ha occhi solo per te, poi le
sorrise dolcemente e si avvicinò al frigorifero.
«Sei un imbecille. Voi
maschi siete tutti uguali» mi accusò Leah, incrociando
le braccia al petto.
«Stai davvero
facendo una scenata di gelosia?» le chiesi, per poi
ridacchiare. La trovavo tremendamente buffa e sexy allo stesso tempo,
il che non fece che accrescere il mio desiderio nei suoi confronti.
Non doveva preoccuparsi, non avrei mai trovato in una Shelley
qualunque ciò che lei sapeva darmi, il suo caratterino capace
di tenermi a bada e quel corpo esile ma incredibilmente morbido,
caldo e accogliente.
«No, affatto. Ti dico
solo quello che penso, Shavo Odadjian» replicò
seccamente.
«Andiamo!» Il
mio sorriso si allargò e, non potendone più di starle
lontano, la raggiunsi e cominciai a riempirle il viso di baci
rumorosi.
«Levati! Stronzo!»
«Sta' ferma!»
«No!»
«Ragazzi?» ci
richiamò Shelley.
Ci voltammo verso di lei,
Leah con le mani premute contro il mio petto e i capelli scompigliati
sul viso, e io con le braccia attorno alla sua vita e l'espressione
divertita.
Sul viso della ragazza era
dipinta una dolcezza e una tenerezza difficile da descrivere. Ci
fissava quasi estasiata, come se non riuscisse a credere ai suoi
occhi.
«Shy, che c'è?»
le si rivolse Leah in tono perplesso.
«Siete davvero una
coppia stupenda. Credetemi, vedervi così mi ha dato un sacco
di ispirazione. Vorrei...» Si schiarì la gola e distolse
gli occhi, posandoli in un punto indefinito oltre la finestra
spalancata. «Potrei farvi un ritratto?»
«Eh?!» sbottai,
mentre Leah si esibiva in un sibilo strozzato colmo della mia stessa
sorpresa.
«Sì, be'...
emanate una magia unica. Non mi capita spesso di trovare due
innamorati come voi. Posso sembrare pazza, ma...»
Sospirò. «Oggi stavo cercando di disegnare un nuovo
abito da sera, ma proprio non ci riesco. E ora ho capito che ho
bisogno di fare qualcosa di diverso.»
«Stai scherzando?»
abbaiò Leah.
«Perché no?»
feci io in contemporanea.
La mia ragazza mi fissò
allibita. «Stai scherzando?» ripeté.
Scossi il capo e mi strinsi
nelle spalle. «Sembra una cosa interessante» commentai,
mentre una strana eccitazione mi si espandeva nell'animo.
«Voi due siete matti!»
«Dai, Leah, fallo per
me!» la pregò Shelley.
L'altra la fissò per
un po', infine sospirò e scosse il capo. «Fa' come ti
pare.»
«Oh, grazie!»
strepitò Shelley.
«Dobbiamo stare fermi
in un punto come due statue?» volle sapere Leah con fare
scettico.
«Ma no! Cercherò
di cogliere i particolari che mi piacciono con delle foto, e poi mi
metterò all'opera basandomi su quelle. Se per voi non è
un problema.»
«Basta che poi le
cancelli» brontolò la mia ragazza.
«Non cancellarle. Io
le voglio!» affermai.
Leah alzò gli occhi
al cielo. «Originale, Shavarsh. Non me l'aspettavo.»
dopodiché
trascorremmo un po' di tempo in cucina con Shelley. Prendemmo a
chiacchierare e scherzare, e dopo un po' riuscimmo quasi a ignorare
la sua macchina fotografica che molto spesso scattava con un secco
click per cercare di coglierci in momenti in cui eravamo
distratti o ci stavamo punzecchiando.
L'amica di Leah era molto
timida, non poneva mai delle domande e si faceva perlopiù gli
affari suoi. Era sicuramente un'attenta e acuta osservatrice, e
doveva possedere una sensibilità fuori dal comune.
Arrivammo a parlare di Daron
e notai che Shelley arrossiva nel sentirlo nominare, segno che
probabilmente lui era riuscito a metterla in imbarazzo com'era solito
fare con ogni creatura femminile respirante.
Infine Leah si stancò
di farsi fotografare e mi afferrò per un braccio,
trascinandomi verso la sua stanza. «Shy, ora noi ce ne stiamo
un po' tranquilli, okay? Tu cosa devi fare?»
«Voglio cominciare il
ritratto, ma tra un po' devo uscire.»
«Sam torna per cena?»
si informò Leah.
«Credo di sì.
Ma lei è imprevedibile, lo sai» rispose l'altra,
preparandosi a disegnare con un taccuino e diverse matite.
Leah annuì e chiuse
la porta della sua stanza.
Mi guardai attorno e notai
che si trattava di un ambiente piuttosto piccolo dall'arredamento
spartano, molto semplice e senza alcuna pretesa.
Leah sospirò. «Scusa,
certo non è come stare da te» mormorò,
appoggiandosi con la schiena alla parete che affiancava la porta.
La raggiunsi e, cogliendola
di sorpresa, la presi in braccio di slancio. Lei emise un sibilo di
sorpresa e si aggrappò goffamente alle mie spalle.
«Fregata!»
esclamai.
«Mettimi giù,
ehi! Che fai?»
Mi accostai al suo letto e
la deposi delicatamente su di esso, per poi stendermi al suo fianco e
prenderla tra le braccia. «Voglio solo stare qui con te»
sussurrai, lasciandole un bacio sulla fronte.
«Non te lo meriti. Io
non sono come Shelley» borbottò, stentando a rilassarsi
contro di me.
Sospirai brevemente. «Leah,
smettila. Certo che non sei come lei, ma tu sei unica e perfetta così
come sei» la rassicurai, accarezzandole i capelli con dolcezza.
«Lo dici solo perché
sai che non posso resisterti» si lamentò, tirando
leggermente la treccina che mi pendeva dal mento.
Ridacchiai. «Sai
quanto mi fa sentire onorato?»
«Cosa?»
Le presi il viso tra le mani
e la guardai negli occhi. «Che tu non riesca a resistermi.
Perché è lo stesso per me. Non c'è Shelley che
tenga, per me tu sei la più bella, la migliore in ogni senso.
Non c'è partita.»
Sbuffò e mi colpì
il petto con un pugno. «Ma piantala, non ci credi neanche tu!»
esclamò.
La fissai. «Sono
serio, Leah Moonshift. Ti amo.»
Lei avvampò
improvvisamente e fece per sottrarsi al mio sguardo, ma io non glielo
permisi e tenni i miei occhi sui suoi. Sentii una dolcezza
incredibile invadermi e scaldarmi il petto, perché sapevo che
ciò che le avevo confessato era semplice ma tremendamente
vero.
«Quando la smetterai
di arrossire quando ti confesso i miei sentimenti?» scherzai,
trascinandola vicino a me e abbracciandola stretta.
«Credo che non
succederà mai» disse lei in tono sconsolato, affondando
il viso sul mio petto.
«Non importa»
mormorai. «Non importa. È per questo che sei così
speciale» conclusi.
Leah sollevò il viso
e mi baciò dolcemente sulle labbra, socchiudendo gli occhi e
abbandonandosi finalmente tra le mie braccia.
L'immagine non era niente di
più di uno schizzo, ma non appena la individuai il cuore
rimbalzò nel mio petto e fece una capriola.
Sul lato sinistro si
intravedeva la figura di Leah con i capelli arruffati e gli occhi un
po' più grandi del normale. Da questi, nonostante si trattasse
solo di un disegno, trasparivano emozioni contrastanti: un calore
indescrivibile, il fuoco della passione e una nota di dolcezza che si
intuiva dal modo in cui gli angoli si incurvavano verso il basso,
sorridendo proprio come le sue labbra sottili. Teneva le braccia
incrociate al petto e fingeva evidentemente di non badare a me,
nonostante tutto il suo essere paresse inspiegabilmente fremere dal
desiderio incontrollabile di toccarmi.
Io, sulla parte destra del
foglio, tenevo una mano attorno alla sua vita e sembravo intento a
trascinarla più vicino a me. Tenevo gli occhi fissi sul suo
volto, dai quali traspariva un velo di preoccupazione e un'infinita e
inspiegabile tenerezza, venata da una nota di desiderio nei confronti
della donna che mi stava accanto.
I dettagli che Shelley era
riuscita a cogliere nel suo disegno erano incredibilmente realistici
e furono in grado di lasciarmi senza fiato.
Leah fissava quella piccola
opera d'arte con il viso paonazzo e gli occhi sgranati, incapace di
aprire bocca ed esprimere un qualsiasi parere.
«Vi piace?»
chiese Shelley con cautela.
Era tarda mattinata e noi
tre stavamo seduti attorno al tavolo della cucina. Era il 26
settembre e Leah aveva compiuto venticinque anni, e la sua amica
aveva deciso di regalarle il nostro ritratto all'interno di una
cornice a giorno. Un dono semplice, ma capace di colpire dritto nel
cuore la mia ragazza e anche me.
O forse io ero rimasto
ancora più stregato rispetto a lei, considerato che stavo
facendo fatica a trattenere le lacrime di commozione che spingevano
per rotolare giù dai miei occhi.
«Io... sono davvero
così?» esalò Leah, chinandosi sul suo regalo per
poterlo osservare meglio.
«In che senso?»
«Sembro un'arpia»
mormorò. «E so benissimo quanto tu sia brava a osservare
e cogliere i dettagli di ciò che ti circonda, Shy.»
«No, un'arpia? Ma...»
Shelley si portò le mani al viso. «Non volevo darti
l'impressione che...»
Mi schiarì la gola.
«Leah, non essere sciocca. Hai visto quanto io sembro un
idiota?» Sospirai. «Mi chiedo come hai fatto a metterti
con me» borbottai.
«Caso mai è il
contrario» protestò lei.
Shelley ci fissò e la
sua espressione si addolcì, mentre le sue labbra si
incurvavano in un luminoso sorriso. «Ho voluto solo disegnare
due sciocchi insicuri. Vi rendete conto di quanto vi amate?»
Io e Leah ci scambiammo
un'occhiata perplessa.
«Sì, è
questo che traspare dal disegno che ho fatto. Io vi guardo e vedo due
anime così belle e vicine da far quasi mozzare il respiro a
chi le circonda.»
Mi sentii avvampare, e a
quel punto Leah scoppiò a piangere e si gettò
letteralmente addosso alla sua amica. «Shy, ti adoro! Oh,
grazie, è un regalo bellissimo!»
L'altra ricambiò la
stretta e le accarezzò la schiena con fare affettuoso. Anche i
suoi occhi si erano inumiditi. «Però così fai
piangere anche me, su» biascicò.
«Ragazze»
sussurrai, asciugandomi gli occhi a mia volta.
Leah cercò il mio
sguardo e si staccò dalla sua amica, correndo a gettarsi tra
le mie braccia. «Questo è il compleanno migliore di
tutta la mia vita!» esclamò.
Qualche lacrima silenziosa
mi rigò le guance e cercai di asciugarla con discrezione,
anche se sapevo perfettamente che le ragazze se ne erano accorte. Mi
venne in mente che Leah non sapeva ancora niente della sua festa a
sorpresa, né della presenza di John, Bryah e Louis a Las
Vegas. Sorrisi e la tenni stretta.
Shelley stava per dire
qualcosa, quando un fracasso infernale proveniente dall'ingresso ci
fece sobbalzare. Poco dopo, Samantha fece irruzione nella piccola
cucina, con al seguito una ragazzina che non doveva aver ancora
compiuto diciotto anni e la seguiva come un cagnolino ammaestrato.
«Buongiorno gente! Ah,
Shavo, ciao!» strillò l'amica di Leah. Si accostò
a me e mi batté sulla spalla. «Come vanno le cose,
compare?»
«Non c'è male»
risposi con una risatina nervosa, perfettamente consapevole di avere
ancora i segni del recente pianto sul viso.
«Ciao Sam. Lei chi
sarebbe?» domandò Shelley, scrutando con sospetto
l'accompagnatrice di Samantha.
«Ah, sì... lei
è Susan, un'amica speciale» rispose,
sottolineando con fare malizioso l'ultima parola.
«Ciao Susan. Prego,
accomodati» la invitò la bionda con gentilezza.
Leah si voltò a
fissare la ragazzina e sbuffò. «Un'altra vittima»
commentò con ironia.
Susan non aprì bocca
e si sedette al tavolo della cucina.
Samantha si rivolse a Leah e
abbaiò: «Chiudi il becco». Poi si accostò
alla sua accompagnatrice e si chinò per sussurrarle qualcosa
all'orecchio; non mi sfuggì la mano che lasciò
scivolare sul fianco dell'altra e il modo in cui mordicchiò
brevemente il lobo del suo orecchio.
Susan arrossì
lievemente e annuì, poi rivolse un sorriso timoroso a Leah.
Trattenni una risata e
attirai l'attenzione di Samantha. «Sam, non fai gli auguri a
Leah?»
«Auguri a...» La
mora si batté una mano sulla fronte e imprecò. «Ma
cazzo, oggi è il tuo compleanno! È vero!»
Leah fece spallucce. «Non
te ne frega niente di me, strega» la accusò.
«Ma vaffanculo! Vieni
qui, vecchietta!» Samantha travolse la sua amica con un
abbraccio colmo di affetto, poi prese a sbaciucchiarla rumorosamente
sulle guance.
Distolsi lo sguardo e mi
finsi disgustato, mentre Leah si rivoltava contro Samantha e la
insultava in maniera per niente dolce.
«Nessuno apprezza i
miei gesti d'affetto» finse di offendersi la ragazza
corpulenta, incrociando le braccia sul petto prosperoso.
«Io sì»
sussurrò Susan con un filo di voce, allungando una mano con
fare titubante per poi accarezzare il braccio della sua amica
speciale.
Samantha la fissò,
poi le ordinò di alzarsi e prese a marciare verso la sua
stanza intimandole di seguirla, perché doveva insegnarle
due cose su come ci si comporta.
Io, Leah e Shelley ci
fissammo perplessi, poi cominciammo a sghignazzare tra noi, finendo
per fare delle battute oscene sulle due ragazze che si erano appena
allontanate.
Guardai la mia ragazza. «Sei
pronta? Ti porto fuori a pranzo.»
«Sul serio?»
Annuii.
Prima che Leah si avviasse
verso la sua stanza per finire di sistemarsi, notai che Shelley le
sfiorava il braccio e le rivolgeva uno sguardo strano. Non riuscii a
decifrare la sua espressione, ma qualcosa nell'atteggiamento sereno
della mia ragazza era cambiato.
E non mi piacque per niente.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 63 *** Happy Birthday! ***
ReggaeFamily
Happy
Birthday!
[John]
Lanciai
un'occhiataccia a Louis e lui me la restituì senza scomporsi
troppo.
«Stai
facendo un casino» lo rimproverai, indicando lo striscione che
il rapper stringeva tra le mani.
«Dolmayan,
non rompere. Altrimenti te lo faccio fare da solo» bofonchiò,
facendo per lasciar cadere l'estremità del festone sul
pavimento.
«Insomma!
Vogliamo smetterla di comportarci come bambini dell'asilo?»
intervenne Samantha, portandosi le mani sui fianchi. «Abbiamo a
malapena un'ora prima che Leah e Shavo arrivino, dobbiamo darci una
mossa!» aggiunse, e la sua voce piena e tonante rimbombò
per tutto il locale.
Evitai
di rispondere e spostai lo sguardo su Bryah, intenta a gonfiare dei
palloncini come una forsennata, aiutata dall'amica di Samantha. Avevo
già dimenticato il nome di quella ragazzina bassottina e
piuttosto insignificante.
Louis
e Samantha, intanto, si stavano letteralmente scannando, abbaiandosi
contro come iene imbufalite.
«Senti,
bella, non mi faccio comandare da te!»
«Pensi
che invece io mi faccia dire
da te cosa devo fare?
Mettiti al lavoro, gangster dei poveri!»
«Come ti permetti?»
«Ma piantala di fare
l'idiota! Appendi quel festone o no?!»
una ragazza bionda e
bellissima fece il suo ingresso nella sala, trafelata e con
un'espressione colma di panico dipinta in viso.
«Scusate per il
ritardo! C'è stato un ingorgo pazzesco sulla Madison, non
sapevo come venirne fuori...» farfugliò, poi i suoi
occhi si posarono su di me e infine su Louis. «Oh, ciao»
aggiunse timidamente.
Le rivolsi un cenno di
saluto, rimanendo dov'ero con la mia estremità dello
striscione ancora in mano. «Ciao. Tu devi essere Shelley»
dissi.
Lei annuì e si
avvicinò a me per tendermi la mano. «Esatto. Tu sei
John?»
Sorrisi appena. «Come
hai fatto a indovinare?»
«Dalle foto che Leah
mi ha mostrato.»
Come non detto.
Louis si accorse di Shelley
e si immobilizzò per un istante, ignorando completamente gli
improperi che Samantha ancora gli rivolgeva. Poi emise un fischio
d'approvazione parecchio raccapricciante, facendo sospirare
d'esasperazione tutti i presenti.
Shelley scrollò le
spalle e gli si accostò come se niente fosse, nonostante le
sue guance si fossero leggermente imporporate. «Ciao, piacere.
Sono Shelley.»
«Louis
Freese, al tuo servizio, mademoiselle»
cinguettò il rapper, sbagliando ovviamente la pronuncia della
parola in francese.
«Bada a te stessa,
Shel, è un ciarlatano pervertito» puntualizzò
subito Samantha, scatenando le risate dei presenti e l'ira funesta di
Louis, il quale cominciò a rincorrerla per tutta la sala con
intenzioni ben poco chiare.
Aveva lasciato cadere la sua
estremità dello striscione a terra, il che mi fece sospirare.
La bionda se ne accorse e lo
raccolse, offrendosi per aiutarmi a finire di addobbare la stanza.
Non vedevo l'ora che fosse
tutto pronto, l'espressione attonita di Leah sarebbe stata
impagabile.
«Shavarsh, avevamo
detto niente stronzate!»
«Cammina e non
blaterare.»
«Ma non vedo niente,
levami questa roba dagli occhi!»
«Niente affatto. Dai,
manca poco.»
«Ti detesto! Perché
mi fai questo?»
«Perché mi
piace torturarti.»
Eravamo
tutti fermi e zitti, immersi nell'oscurità della grande sala
che Shavo aveva affittato al Creaminal
per la festa a sorpresa di Leah. L'unico che stava sghignazzando
sottovoce era Louis, e io stavo cominciando a perdere la pazienza.
Doveva aver vinto qualcosa a strip poker, perché sembrava
elettrizzato da quando ci eravamo riuniti per preparare tutto per il
party.
Gli mollai una gomitata
sulle costole e lui rantolò sommessamente, insultandomi con
parole che non riuscii a distinguere.
«Okay, ci siamo quasi»
sentii dire a Shavo, poi intravidi nella penombra le figure di lui e
Leah che facevano il loro ingresso nella sala.
Il
bassista cominciò a slacciare la benda che aveva sistemato
sugli occhi della sua ragazza, e lei
rimase per un istante immersa nel buio. Prima che i suoi occhi
potessero abituarsi alla penombra, le luci si accesero e
sfarfallarono allegre tutt'intorno, mostrandole ciò che
avevamo preparato per lei.
In
quel momento il dj – un tizio allampanato e taciturno che
organizzava spesso delle serate nel locale – fece partire Back
In Black degli AC/DC e tutti noi
gridammo: «Auguri Leah!».
Il tutto fu molto
raccapricciante e io ebbi l'impressione che fossimo una banda di
idioti e che Leah ci avrebbe probabilmente ritenuto pazzi.
«Oddio!»
strillò, schermandosi gli occhi con una mano.
Il suo sguardo si posò
sugli striscioni in tema giamaicano – giusto per non farle
dimenticare il viaggio che ci aveva unito indissolubilmente – e
sui palloncini con su dipinti smile di vario tipo e foglie di
marijuana colorate. Poi ispezionò il dj che pompava bassi
inopportuni su musica rock e sull'enorme tavolo rettangolare
stracolmo di cibo e bevande che stava accostato al bancone del bar.
Infine gli occhi scuri e
lucidi della festeggiata si posarono su ognuno dei presenti, e quando
raggiunsero i miei si soffermarono per un istante e lasciarono
trasparire una commozione che non ricordavo di aver mai scorto in
lei, non così apertamente almeno.
Quando
cominciò la seconda strofa di Back In Back,
Leah corse verso di me e si fiondò tra le mie braccia,
stringendomi forte e strillando di gioia. «John!
Ci sei anche tu!»
«Non potevo mancare!
Tanti auguri, vecchia mia. Come ti senti? Hai raggiunto un quarto di
secolo!» le dissi, battendole affettuosamente sulla schiena.
«Ah, piantala! Sono
felice di vederti!» bofonchiò con la voce rotta
dall'emozione.
La lasciai andare e lei si
fiondò a salutare Bryah con lo stesso calore, poi si accostò
a Louis e gli rubò il cappellino dalla visiera piatta che lui
indossava. «Se non mi consideri, non te lo restituisco»
gracchiò la festeggiata.
Louis la degnò appena
di un'occhiata e continuò a fissare spudoratamente il
fondoschiena di Shelley.
Samantha si scaraventò
addosso al rapper e lo spintonò verso Leah.
«Maleducato!»
strillò la mora.
Leah rise e mollò una
pacca sulla spalla di Louis. «Farò finta che non sia
successo niente» proclamò, poi tornò da Shavo e
gli regalò un bacio a fior di labbra. «Hai organizzato
tutto tu?»
Il bassista annuì.
«Daron mi ha consigliato il locale, poi tutti loro l'hanno
addobbato prima che arrivassimo.»
Il
dj fece partire Piece of my heart
di Janis Joplin e Louis si risvegliò improvvisamente dalla sua
fase di voyeurismo molesto e trotterellò da Leah, afferrandole
la mano con fare cavalleresco e, dopo
aver eseguito un lieve inchino, le chiese: «Mi concederesti
questo ballo, baby?».
Poi le strappò il suo cappellino dall'altra mano e se lo
risistemò in testa.
Leah
rise e i due cominciarono a zampettare per la stanza, gridando le
parole del testo e inventandone la metà. Sembravano due
galline strozzate, e a rendere il tutto ancora più penoso ci
pensò la pronuncia incomprensibile con cui Louis articolava le
parole e le lettere come la s
e la f.
Dopodiché le note di
un brano degli Smash Mouth si diffusero nell'aria circostante, il che
bastò a scatenare la gioia generale.
Mi ritrovai in mezzo a balli
improbabili e gente che cantava a squarciagola. Bryah, euforica,
chiese al dj di rimettere da capo il brano, com'era usuale con le
canzoni reggae che suscitavano particolare interesse e stima da parte
del pubblico.
La
mia compagna, al centro della sala, fece una piroetta e gridò:
«Pull up!».
Il tizio sorrise per la
prima volta da quando era giunto sul posto e inserì un effetto
come quello che i selecta usavano con i vinili per rimetterli da capo
e il brano ricominciò.
Ridacchiai e la raggiunsi,
regalandole un breve abbraccio. «Ti piacciono gli Smash Mouth?
Non finisci mai di sorprendermi» le dissi.
Lei annuì. «Sono
allegri!»
«A volte sì, a
volte no» replicai divertito.
«Balla con me, dai!»
mi esortò.
Scossi
il capo. «Vado a prendere qualcosa da mangiare.»
Mi accostai al suo orecchio e sussurrai: «Il regalo è
pronto?».
«Certo! Tutto okay,
tranquillo.»
Assentii con un cenno del
capo e mi allontanai, spostandomi verso il grande tavolo stracolmo di
cibo.
Intercettai
Shavo che, piazzato di fronte al banchetto, muoveva a tempo la testa
su I'm shipping up to Boston
dei Dropkick Murphys.
Gli battei vigorosamente
sulla spalla, facendolo quasi strozzare con un mucchietto di pop corn
che aveva appena messo in bocca.
«Quella mummia di dj
ci sa fare» commentai.
Il bassista annuì,
mentre tossicchiava. «Sì, mette su la musica giusta»
bofonchiò.
«Leah è
felicissima» osservai, gettando un'occhiata alla ragazza che si
scatenava in pista insieme a Bryah e Louis.
«Già, anche
se...» Shavo finì di masticare e mi lanciò
un'occhiata venata di preoccupazione. «Questa mattina ho avuto
l'impressione che qualcosa non andasse.»
«In che senso?»
indagai confuso.
«Be'... non so. Come
se mi nascondesse qualcosa» mormorò.
Faticai ad afferrare le sue
parole, incapaci di sovrastare il baccano generale che regnava
all'interno del grande salone. Mi accostai a lui e cominciai a
riempire un bicchiere di plastica con patatine di vario genere.
«Le hai chiesto
spiegazioni?»
Shavo scosse il capo. «Non
volevo rovinare l'atmosfera, ecco... oggi è il suo compleanno
e...»
Fummo interrotti proprio
dalla festeggiata, la quale corse da noi e ci abbracciò
insieme, eccitata come non mai dalla sorpresa che tutti avevamo
organizzato apposta per lei.
«Ragazzi! Sono così
felice!»
Il bassista le scompigliò
dolcemente i capelli e si chinò per baciarla sulla guancia.
«Allora abbiamo fatto la cosa giusta?» domandò.
«Sicuro!»
confermò la ragazza.
Mi ricordai all'improvviso
di una cosa che dovevo assolutamente fare e afferrai il cellulare,
poi guardai in direzione di Leah. «Ehi, c'è qualcuno che
vuole parlare con te al telefono» le dissi.
«Con me?» si
puntò un dito sul petto, inclinando la testa di lato.
Annuii. «Andiamo un
attimo fuori?» le proposi.
Shavo la spinse leggermente
verso di me e ridacchiò. «Io intanto mi ingozzo con un
altro po' di pop corn caramellati, sono deliziosi!» Poi mi fece
l'occhiolino senza farsi vedere dalla ragazza.
Leah mi seguì
all'esterno, sul retro del locale che era munito di una piccola sala
fumatori, che al momento era completamente vuota.
Mi portai il cellulare
all'orecchio e feci partire la chiamata, sotto lo sguardo perplesso
della mia amica.
«Pronto?»
rispose Daron.
Dovetti
trattenermi per non ridere nell'udire la sua voce più nasale
del solito, a causa di un brutto raffreddore
che l'aveva colpito un paio di giorni prima. «Lei è qui,
vuoi parlarle?» domandai in fretta.
Leah dovette notare la mia
espressione divertita, poiché mi si accostò e tentò
di origliare.
«Okay» gracchiò
Daron.
Porsi il cellulare alla mia
amica e mi voltai per ridacchiare, incapace di trattenermi oltre. Il
chitarrista sembrava ancora di più una cornacchia strozzata
con il raffreddore, e risultava piuttosto difficile comprendere cosa
diceva.
Leah, a differenza mia,
scoppiò a ridere quasi subito. «Ti sei ammalato,
Malakian? Cosa? Non ho capito, ripeti.» Prese a camminare
avanti e indietro per il pavimento piastrellato che ricopriva la sala
fumatori. «Un? Cosa?»
Alzai gli occhi al cielo e
mi allontanai un po' da lei per poter sghignazzare liberamente.
«Ah!
Un augurio speciale,
okay, ora ho capito. Io credevo te ne fossi dimenticato, visto che
non mi hai contattato per niente oggi» proseguì la
festeggiata.
Mi accostai alla porta che
conduceva all'interno del locale e sbirciai con discrezione
all'interno, notando che il resto della banda stava finendo di
allestire tutto per il momento in cui avremmo dato i regali a Leah.
«Cretino,
lo hai fatto apposta!» La ragazza rise. «Grazie, amico.
Vorrei tanto che anche tu fossi qui, non sai quanto ci stiamo
divertendo. Ho ballato Janis Joplin con Louis, è stato
fantastico!» raccontò
tutta contenta. Rimase in ascolto per un attimo e, dopo aver chiesto
più volte a Daron di ripetere una parola che non riusciva a
comprendere, concluse: «Va bene, ci sentiamo domani allora,
così finisco di raccontarti tutto. Sì, guarisci presto,
mi raccomando!»
Poco dopo mi raggiunse e mi
porse lo smartphone.
«Torniamo dentro?»
le proposi, certo che ormai tutto fosse pronto.
Lei
annuì e insieme ci recammo nuovamente nella grande sala. Le
luci erano state abbassate e dalle ponderose casse posizionate in
punti strategici della stanza si diffusero le prime note di Purple
Rain di Prince.
Shavo avanzò con
espressione seria e dolce verso la sua ragazza e le porse una mano.
«Mi concedi questo ballo, mia bella?» le domandò,
risultando piuttosto teatrale e ridicolo.
Mi schiarii la gola e mi
allontanai per evitare di ridere, avvicinandomi poi a Bryah. La
abbracciai da dietro e insieme prendemmo a oscillare su quella
bellissima canzone che da sempre avevo ritenuto piuttosto romantica e
struggente.
Appoggiai
il mento sulla spalla della mia compagna e socchiusi gli occhi,
mentre osservavo distrattamente Shavo e Leah ballare abbracciati. Non
che stessero mettendo in scena chissà quale performance, ma
erano talmente carini e stretti l'uno all'altra che il cuore mi si
riempì di tenerezza e fui costretto a distogliere lo sguardo
per paura di disturbarli.
«Comunque Shavo non è
credibile quando fa il romantico» sghignazzò Louis,
trotterellando accanto a noi.
«Ma sì. È
molto dolce in realtà, è che spesso si atteggia e si
mostra duro» lo contraddissi.
«Vero, però
sembra un idiota quando si comporta da sdolcinato.» Il rapper
mi mollò una piccola gomitata sulle costole.
«Povero Shavo!»
intervenne Bryah con un sorriso.
MI staccai da lei e insieme
corremmo a recuperare il regalo che io, lei e Daron avevamo fatto a
Leah, nascosto dietro il bancone del bar.
Quando
Purple Rain si
concluse, il dj fece partire un'altra canzone piuttosto tranquilla e
dolce, che lasciò nell'aria un'atmosfera rilassata.
«È ora di
aprire i regali!» annunciò Bryah, accostandosi alla
festeggiata.
Quest'ultima era ancora
stralunata dal momento romantico che aveva appena vissuto e faticava
a trattenere lacrime di gioia e commozione. «Mi avete pure
fatto dei regali? Oh no!» farfugliò.
«Ma certo, tesoro!
Questo è da parte mia, di John e di Daron. Speriamo ti
piaccia» annunciò la mia compagna, spingendo il
voluminoso pacco verso Leah, facendolo strisciare sul pavimento.
La
nostra amica sgranò gli occhi e si inginocchiò sul
pavimento, cominciando a strappare via la carta blu elettrico
disseminata di stelline colorate. Quando individuò la grande
valigia che si trovava all'interno della confezione, emise un sibilo
strozzato. «Uh! Mi
serviva davvero, ragazzi! Siete stati così... oh, è
bellissima! Io...» La sua voce tremò e una lacrima
scivolò sulla sua guancia sinistra.
«Apri la valigia, non
è finita qui» le consigliai, accovacciandomi accanto a
lei.
Leah mi fissò. «C'è
dell'altro? Oddio, esagerati, ma che avete combinato?» ci
rimproverò, per poi seguire il mio suggerimento. All'interno
della grande borsa trovò una busta color crema e la estrasse
con sospetto. «Devo preoccuparmi?»
«Non è una
bomba» la rassicurò Bryah.
«Okay.» La
festeggiata estrasse un foglio scritto a mano dal sottoscritto e lo
fissò con aria smarrita. «Cos'è?»
«Leggi» dissi
soltanto.
Leah
annuì. «Okay. Carissima Leah Moonshift, con
questa piccola lettera voglio annunciarti con immenso piacere che tra
due settimane cominceranno i lavori per la realizzazione di “Torpedo
Comics”, progetto a cui tengo tantissimo. Volevo perciò
chiederti ufficialmente, non solo a parole, di entrare nel mio staff
e di aiutarmi a realizzare questo mio sogno. Ti prego di accettare,
per me sarebbe un vero onore. All'interno di una di queste tasche
troverai il tuo contratto di lavoro, ti basterà firmarlo e
farai ufficialmente parte del mio equipaggio. Con tanto affetto,
tanti auguri, John» lesse
tutto d'un fiato, poi gettò tutto per aria e mi si scaraventò
addosso, stringendomi forte in un abbraccio che significava
più di mille parole.
«MI sa che le serve
una penna» commentò Shelley, per poi scomparire per
andare a cercarne una.
«Questo è un
sì?» volli sapere, quando la mia amica si fu scostata da
me.
«Sì, sì
e ancora sì! Io... sono senza parole!» strepitò,
portandosi le mani sul viso.
«Ora tocca a noi!»
annunciò Samantha, accostandosi a Leah con un pacchetto
rettangolare stretto tra le mani.
Shelley tornò accanto
a noi e porse a Leah una penna. «Firma quel contratto, poi apri
il nostro regalo!» suggerì.
Leah eseguì e mi
porse una copia del contratto con sopra incisa la sua firma. «Se
divento famosa, hai un mio autografo e puoi rivenderlo su internet
per fare soldi» scherzò, per poi scartare il dono delle
sue amiche.
Portò fuori una
scatola grigio tortora che all'interno conteneva un completino intimo
molto sexy, tutto pizzi e rasi, color rosso fuoco. Lo stesso colore
che assunsero le sue guance quando lo vide.
Shavo si affrettò a
esaminare il regalo, per poi annuire vigorosamente ed esibire un
sorrisetto sghembo e malizioso che non faceva presagire niente di
buono.
«Maschiaccio,
ormai hai venticinque anni e anche tu devi indossare qualcosa di
femminile. Ormai sei una donna impegnata» proferì
Samantha senza peli sulla
lingua, dando di gomito a Shelley.
La bionda ridacchiò.
«Esattamente. Buon compleanno, bomba sexy» aggiunse.
Leah farfugliò
qualcosa di incomprensibile e richiuse frettolosamente la scatola,
mentre Louis continuava a fare battute sconce che nessuno stava a
sentire.
Intanto il dj fece partire
una canzone dei Franz Ferdinand, probabilmente si trattava di un
vecchio successo della band, ma non riuscivo ad associare un titolo
al motivetto familiare.
«Baby, questo è
un piccolo regalo da parte mia» strillò Louis, per poi
rivolgere un'occhiataccia al dj. «Ehi, giovanotto! Togli questa
merda e metti su un po' di rap old school!»
Il dj fece sfumare il brano
che aveva da poco fatto cominciare, e poco dopo una canzone di Eminem
prese a pompare nelle casse. Louis annuì soddisfatto e porse a
Leah il suo regalo.
Lei lo aprì, sorpresa
di aver ricevuto qualcosa anche dal rapper che conosceva da poco. «Un
CD dei Cypress Hill?» chiese incerta, rigirandosi l'oggetto tra
le mani.
«Già. O non ti
piace la mia musica?» fece lui.
«Sì, sì!
È che Shavo me la fa sentire in continuazione, ormai so tutte
le canzoni meglio di voi» scherzò Leah, per poi regalare
un breve abbraccio a Louis.
«Ehi!
Non è colpa mia se sono forti, sono il loro fan numero uno!»
protestò il bassista, per poi prendere a rappare qualche verso
che conosceva bene del brano
di Eminem.
«Odadjian, perché
non mi hai ancora chiesto un autografo?» gridò Louis,
travolgendo il suo amico con un abbraccio fraterno.
«Levati e lasciami
stare, devo dare il regalo alla mia ragazza!»
Leah sospirò. «Ancora
regali? Vi prego, basta! Volete distruggere il mio povero cuoricino
indifeso?»
Shavo la attirò
accanto a sé e le porse un piccolo sacchetto arancione. «Apri
e sta' zitta» le ordinò.
Lei si arrese e scartò
il suo ultimo regalo. All'interno della confezione trovò un
DVD che in copertina mostrava una foto di loro due insieme. Guardò
Shavo con aria interrogativa. «Cos'è?»
Lui ridacchiò. «Ho
creato una raccolta dei nostri ricordi del viaggio in Giamaica. Ho
recuperato anche qualche video delle jam session che abbiamo messo su
durante la vacanza, poi vedrai. Intanto aprilo, c'è un'altra
cosa dentro» spiegò lui con dolcezza.
«Oddio...» Leah
sollevò lo sportellino di plastica che richiudeva la custodia
del DVD ed estrasse una piccola busta rossa incastrata tra le lamelle
che servivano a tenere ferma la copertina. «Quanti misteri!»
Shavo le sfilò di
mano il DVD per permetterle di esaminare al meglio il resto del suo
regalo.
Leah
aprì la busta ed emise uno strillo acuto, gettandosi addosso
al suo ragazzo. Lui la sollevò da terra e la strinse forte,
facendole fare una piroetta.
Mi affrettai a togliergli di
mano il DVD, temendo che potesse sfuggirgli e rovinare a terra.
L'entusiasmo era troppo per entrambi per essere contenuto.
Noi tutti ovviamente
sapevamo cosa Shavo aveva organizzato per Leah, ovvero un viaggio in
Giamaica, solo loro due, per festeggiare il prossimo Natale insieme e
assistere a un concerto di Protoje, un artista che faceva
letteralmente impazzire la ragazza.
«Sto
per svenire!» Leah tornò con i piedi per terra e prese a
strillare come una matta, e proprio in quel momento il dj mise su la
sua canzone preferita di Protoje, intitolata Stylin'.
Così la ragazza
proseguì a gridare e si scatenò in pista, trascinando
con sé Shavo in una danza scomposta e proprio per questo
perfetta.
Per
me fu come rivivere quella sera al Fyah,
quando i due avevano ballato proprio quel brano insieme per la prima
volta; l'ondata piacevole di ricordi mi scaldò il cuore e mi
fece commuovere.
Tentai di nasconderlo, ma
Bryah se ne accorse e mi sorrise dolcemente, senza dire neanche una
parola.
La festa proseguì tra
danze, cibo, birra e risate, finché nessuno di noi fu più
in grado di capire come avrebbe fatto a rientrare a casa o in
albergo.
Ci divertimmo molto e
festeggiammo come matti i venticinque anni di Leah.
Tornai
in albergo molto tardi, con il cuore e la testa
leggeri, Bryah che desiderava fare l'amore con me e un foglio
ripiegato in tasca e firmato da una delle mie più care amiche
che mi avrebbe aiutato a portare avanti il mio grande progetto.
Cari
lettori, eccomi di nuovo ad aggiornare *-*
Be',
vi è piaciuta la festa di compleanno di Leah? E i regali che
ha ricevuto? A me tantissimo, specialmente il completino sexy che le
hanno regalato quelle due sceme di Shelley e Samantha X'D eheheh,
chissà quando se lo metterà per stare con Shavo... :P
Bando
alle mie solite cretinate... okay, vi faccio ascoltare un po' di
musica, così potrete entrare nell'atmosfera che ho voluto
conferire alla festa!
Pronti?
Partiamo
con Back In Black degli
AC/DC, secondo me un must a una qualsiasi festa alternativa;
sicuramente tutti la conoscete, ma ve la linko comunque:
https://www.youtube.com/watch?v=pAgnJDJN4VA
Poi,
ecco a voi Piece of my Heart di Janis Joplin; povera canzone,
immaginatevela strillata da Leah e Louis... ahia XD:
https://www.youtube.com/watch?v=j0f5ZG9LG6k
Questa
dei Dropkick Murphys è un po' meno mainstream, se così
si può dire... si chiama I'm shipping up to Boston ed è
un brano molto carino da ballare, piuttosto folk e travolgente! Ecco
a voi:
https://www.youtube.com/watch?v=NsxcZol_FEE
Ebbene,
l'intramontabile e super romantica Purple Rain del grande
Prince non poteva mancare; una canzone struggente, un classico che
tutti dovrebbero ascoltare e amare, almeno secondo me. Sentite un po'
su quali romantiche note hanno ballato Leah e Shavo (anche se io non
ce li vedo, ahahahah, voi? X'D):
https://www.youtube.com/watch?v=bN5hTkWoCyE
Inoltre
ho nominato gli Smash Mouth ed Eminem, ma non ho specificato un brano
preciso... se siete curiosi di ascoltare qualcosa di loro, vi basterà
cercare su YouTube ;)
E
infine c'è anche Stylin' di Protoje, ma se ricordate
avevo già inserito il link nel capitolo in cui i ragazzi erano
al Fyah ed era partita quella canzone, avevo inserito anche
alcune parti di testo ^^
Bene,
ho finito con la lista della spesa... XD
Grazie
a tutti voi che ancora siete qui, e al prossimo capitolo ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 64 *** Bad cold! ***
ReggaeFamily
Bad
cold!
[Daron]
Estrassi
di corsa un fazzoletto dal pacchetto che stava appoggiato sul
tavolino di fronte al divano e mi soffiai il naso. Non ne potevo più
di quel dannato raffreddore. Da una settimana mi tormentava e io ero
sfinito.
Ripresi
a suonare, cercando di utilizzare al meglio la mia chitarra classica.
Non la usavo spesso, abituato com'ero a quella elettrica, ma quando
avevo bisogno di un po' di relax quello era il modo migliore per
ottenerlo.
Mi
dispiaceva di non essere potuto partire a Las Vegas per il compleanno
di Leah, ma avevo promesso ai miei genitori che avrei trascorso il
weekend con loro, visto che non ci vedevamo da secoli e mio padre era
tornato in città per qualche giorno. Era impegnato in una
rassegna di mostre in America Latina, ma per fortuna aveva ottenuto
qualche giorno di tregua per stare con la mamma. Di conseguenza,
anch'io avevo insistito per trascorrere qualche giorno in loro
compagnia. Ogni tanto ci voleva.
Erano
stati due giorni piacevoli, nonostante il raffreddore mi avesse
tenuto rinchiuso in una bolla e mi avesse impedito di essere in pieno
possesso delle mie solite energie.
Proseguii
a suonare e mi ritrovai a eseguire un brano dei Dire Straits. Era
sempre così quando prendevo la chitarra classica: mi ritrovavo
sempre a strimpellare qualcosa di Mark Knopfler e la sua band. Non
sapevo nemmeno io perché, succedeva e basta.
Lady
writer on the TV
Talk
about the Virgin Mary
Reminded
me of you
Expectation
left to come up to yeah
A interrompermi fu lo
squillo del telefono. Sbuffai e afferrai l'apparecchio, appoggiando
la chitarra sul divano accanto a me.
Prima di rispondere, mi
soffiai rapidamente il naso.
«Sì?»
esordii con voce più nasale del solito.
«Daron! Come stai?»
Era Serj. Non ci sentivamo
da un po', esattamente dal giorno del concerto al Dodger Stadium. Era
trascorso almeno un mese da allora, ma entrambi eravamo stati
piuttosto presi dai rispettivi impegni e non avevamo trovato
l'occasione per sentirci o vederci.
«Ho un fottuto
raffreddore» biascicai.
«Me ne sono accorto.
Per il resto come va?»
Sospirai. Serj non sapeva
niente del test del DNA, dei risultati e del fatto che non vedessi
Layla dal giorno in cui avevamo scoperto la verità. Non sapeva
niente di Dolly e di come avesse tentato di impedire a sua figlia di
scoprire la verità.
«Direi che va tutto
bene» mentii. Non avevo alcuna voglia di parlarne in quel
momento.
«Oh sì, si
vede.» Serj rise sarcastico. «Dimmi la verità.»
«Non al telefono.»
«Ci vediamo per
pranzo?» propose il mio amico, e dal tono della sua voce
compresi che era in pensiero per me.
«D'accordo. Dove?»
Lui ridacchiò. «Che
ne dici di andare Da Avetisyan? È da un po' che non
passo a salutare Tigran e Alina» propose con entusiasmo.
«No, non mi va»
rifiutai. Non volevo rischiare che Alina mi riempisse di domande su
Layla, era ancora troppo presto per me. Proposi a Serj di andare
nello stesso locale in cui avevo portato Layla la prima volta, il
giorno in cui si era presentata al LAX per rivelarmi che era mia
figlia.
Ci accordammo per vederci
intorno a mezzogiorno e mezza e interrompemmo presto la
conversazione.
Guardai l'orologio: le dieci
e venti. Avevo ancora un po' di tempo per suonare Lady Writer.
Lady
writer on the TV
She
had all the brains and the beauty
The
pictures does not fit
You'd
talk to me when you felt like it
Just
the way that her hair fell down around her face...
«Ti sei beccato
proprio un bel raffreddore, amico» commentò Serj, senza
togliersi gli occhiali da sole nonostante ci trovassimo all'interno
del locale.
«Già, è
un incubo.» Lo osservai per un attimo. «Non vuoi farti
riconoscere? Tranquillo, vengo spesso qui proprio perché
nessuno mi disturba» lo rassicurai, per poi dare un'occhiata al
menu.
«Se lo dici tu... ma
meglio prendere qualche precauzione, sai com'è.»
Annuii. «Ti consiglio
questo hot dog vegetariano, è uno spettacolo. Una volta l'ho
preso anch'io» gli suggerii.
«Tu che prendi
qualcosa che non strabordi carne? Quel giorno dovevi stare proprio
male» mi punzecchiò, strappandomi il libretto di mano.
«Ah sì? Allora
ne prenderò uno anche oggi» decisi.
«Infatti oggi non stai
bene» osservò il cantante, poi si sollevò per un
attimo gli occhiali da sole, giusto il tempo di farmi l'occhiolino, e
infine li rimise al loro posto e prese a esaminare a sua volta cosa
offriva il menu del locale.
«Spiritoso. Sì,
prendo uno di quelli, e poi delle crocchette di pollo»
aggiunsi.
«Si capisce a malapena
come parli, lo sai?»
Scrollai le spalle. «Colpa
del raffreddore, non posso farci niente.»
«Okay, vada per quel
panino. E poi prendo queste patate al forno, il fritto non mi va»
decise.
«Sempre il solito
salutista» brontolai.
Serj ridacchiò.
Indossava una t-shirt blu notte a maniche corte e se ne stava
rilassato sulla sedia, sembrava quasi un ragazzino con quei bizzarri
occhiali da sole a specchio e l'espressione serena e rilassata. Il
fatto che avesse rimosso completamente la barba gli conferiva un'aria
ancora più fanciullesca, rendendolo estremamente più
giovane dei suoi quarantasei anni.
«Perché mi
fissi così?» mi apostrofò.
«Oggi sembri un
adolescente. Nessuno ti riconoscerà» gli feci notare,
mentre facevo cenno a una cameriera di raggiungerci.
La ragazza prese le
ordinazioni con discrezione, senza soffermarsi troppo a guardarci, e
io apprezzai molto quel suo comportamento. Un altro punto a favore di
quel locale.
«Allora? Come stai?
Ora puoi dirmelo, spero» riprese Serj, quando la ragazza si fu
allontanata.
«Sì. La verità
è che non lo so, Serj. Ho fatto il test del DNA con Layla. E
ho avuto i risultati.»
«E...?»
«Non è mia
figlia.»
Il cantante sospirò
di sollievo, portandosi le mani sotto il mento. «Per fortuna.
Questa è una buona notizia.» Poi mi fissò. «O
no?» aggiunse.
«Non lo so. Ci sono
rimasto male e non so nemmeno io perché» ammisi, per poi
cercare un fazzoletto nella tasca dei jeans. Soffiai il naso e
tossii.
«Non
stai facendo l'aerosol o qualcosa del genere?»
chiese Serj.
«No» risposi.
«Comunque, non so se esserne felice o meno. In un certo senso
mi dispiace che lei non sia mia figlia. Non te lo so spiegare.»
«Oh,
cielo!» Il mio amico batté una mano sul tavolo, con il
palmo aperto e rivolto verso il basso. «Non dirmi che tu volevi
avere una figlia» mormorò in tono amareggiato.
«Senti, l'ho portata
da Tigran e Alina, l'ho... le ho fatto conoscere qualcosa su di me,
sulle mie radici... non so perché, non lo so. Sono confuso,
Serj.»
«Ora capisco perché
non volevi andare da loro a pranzo» commentò il mio
amico, e finalmente si sollevò gli occhiali sulla testa e
cercò i miei occhi con i suoi. «Istinto paterno, eh?»
«Non so come
definirlo, so solo che...» Sospirai.
«Potresti sempre
provare a rimanere in contatto con lei. A quanto pare non ha un
padre, in ogni caso credo abbia bisogno di una figura maschile di
riferimento.»
Annuii. «Lo dice anche
Leah» ammisi.
«Quella sì che
è una saggia ragazza!» Serj tornò mortalmente
serio e rifletté per un attimo prima di proseguire. «Senti,
amico mio. So come ti senti, okay? In qualche modo lo so, perché
io e Angie ci stiamo provando da un po', ma... capisci...» Si
interruppe e io attesi che continuasse senza intervenire. «Capisco
il tuo desiderio. Okay, forse sarebbe meglio se...»
Proprio
in quel momento, la cameriera tornò con il nostro
pranzo su un vassoio e noi attendemmo che si allontanasse prima di
immergerci nuovamente nella nostra conversazione.
«Dicevo... forse sì,
sarebbe meglio aspettare, trovare una persona con cui costruire una
famiglia, ma comprendo perfettamente che tu ci avevi sperato. E Leah
ha ragione: cerca di rimanere in contatto con questa ragazza, se ti
trovi così bene con lei. Non è un reato.»
«Peccato che Dolly non
me lo lascerà fare. Ha cercato di impedire che io e Layla
scoprissimo la verità, ora sarà infuriata»
spiegai, ficcandomi in bocca una crocchetta di pollo ancora calda.
Frugai nel contenitore delle salse e ne presi qualcuna a caso, per
poi spremerle sulle crocchette e all'interno del panino.
«Quello è
tabasco! Sei impazzito?»
Guardai il tubetto ancora
mezzo pieno e sbuffai. «Per fortuna ne ho versato poco. È
Shavo l'amante delle cose piccanti, peccato che non sia qui e non
possiamo scambiarci il panino» borbottai.
«Cosa vuol dire che
Dolly ha cercato di impedirvi di scoprire la verità? È
stata lei a parlare di te alla ragazza. Non capisco» rifletté
Serj, cominciando a mangiare le sue patatine senza salse.
«Ha
tentato di rinchiudere Layla in casa per impedirle di incontrarmi.
Lei sapeva che io non ero il padre di Layla, ma ha provato a
incastrarmi. Forse si è illusa che io le credessi senza fare
il test del DNA» raccontai, infilando in bocca un'altra
crocchetta cosparsa di salse.
«Cosa? Oddio, è
impazzita?»
«Probabile. Perciò
non me lo lascerà fare, non mi lascerà frequentare
Layla» conclusi.
«Be', lei non è
una bambina. È scappata per venire con te a fare il test,
quindi non mi sembra una tipa arrendevole. Non permetterà a
sua madre di decidere per lei, immagino» disse il mio amico,
per poi addentare il suo panino. Annuì soddisfatto e continuò
a mangiare.
Io versai la birra nei
nostri bicchieri e ne sorseggiai un po'. «Chissà...»
«Vi siete scambiati il
numero?»
Scossi il capo. «Neanche
per idea.»
Serj sgranò gli
occhi. «Come sarebbe a dire?»
«Sai benissimo che non
do il mio numero a chiunque. Non voglio guai. In fondo, non conosco
abbastanza Layla per compiere un passo del genere. E poi, sua madre
potrebbe trovarlo e allora per me sarebbe la fine. Credo che quella
donna voglia incastrarmi, perciò farebbe di tutto pur di
incasinare la mia vita.»
Il mio amico alzò gli
occhi al cielo. «Che casino.»
Mi bloccai sul posto. «Serj?
Cosa stavi dicendo di te e Angie?»
Lui abbassò lo
sguardo e depositò il suo panino sul piatto. «Ah. Be',
io e lei stiamo provando ad avere un figlio, ma per ora non succede
niente.»
Mi pulii le mani su un
tovagliolo di carta e ne allungai una verso di lui, stringendogli il
polso. «Sul serio? Mi dispiace tantissimo» mormorai.
«Non ci arrendiamo,
stai tranquillo. Siamo certi che prima o poi arriverà.»
Serj sorrise debolmente e riprese a mangiare. Era chiaro che non
avesse voglia di affrontare l'argomento in quel momento.
E io rispettai la sua scelta
senza battere ciglio. Capivo perfettamente come si sentiva, anche io
ero così il più delle volte.
Mentre raggiungevo la mia
auto, dopo aver salutato Serj, il mio cellulare cominciò a
squillare. Proprio in quel momento il mio naso stava nuovamente
colando, così fui costretto a soffiarlo e non potei rispondere
alla chiamata.
Poco dopo afferrai
l'aggeggio infernale e con gesti goffi riuscii a sbloccare lo schermo
e a scoprire che era stato Shavo a telefonarmi. Stavo per
richiamarlo, quando il cellulare squillò di nuovo tra le mie
mani. Sobbalzai e per poco non lo lasciai cadere, ma riuscii a
evitarlo e risposi.
«Daron! Brutto
stronzo, tu lo sapevi, eh? Lo sapevi! Perché cazzo non me
l'hai detto? Perché cazzo tutti lo sapevano tranne me?»
strillò il bassista nel mio orecchio.
Allontanai leggermente
l'apparecchio da me e sospirai. «Shavo, datti una calmata,
altrimenti riaggancio. Che succede?» esordii, per poi
starnutire rumorosamente.
«Non
dirmi che devo calmarmi, non dirmelo anche tu! Mi dici perché
la mia ragazza non si fida di me e mi tiene nascoste delle cose
importanti? Perché le confida a te e a Shelley, mentre io
rimango in disparte ignaro di
tutto? Me lo spieghi, dannazione?» sbraitò ancora il mio
amico.
Fui costretto a raggiungere
di corsa il mio SUV e ad appoggiare il cellulare sul cofano. Estrassi
un altro fazzoletto e mi soffiai il naso per almeno un minuto, mentre
sentivo Shavo strillare attraverso il piccolo altoparlante
dell'iPhone.
«Mi ascolti? Fai lo
stronzo anche tu?»
«Shavo! Smettila di
fare il coglione! Mi stavo soffiando il naso, ho starnutito. Vuoi
darti una calmata? Sì, te la dai, perché altrimenti
stavolta riaggancio sul serio.»
Sentii il bassista sospirare
diverse volte nel tentativo di calmarsi. In sottofondo, udii che
qualcuno bussava a una porta e riconobbi la voce di Leah che diceva
qualcosa, ma non riuscii a comprendere le sue parole.
«Non ti apro, è
inutile che continui a bussare! Lasciami in pace, Leah Moonshift!»
Shavo era incazzato nero, come poche volte lo avevo visto in vita
mia.
«Senti un po', cerca
di ragionare e smettila di fare il coglione. Lei voleva dirtelo, ma
capisci che temeva di deluderti? Credi che per lei fosse semplice?»
sbottai, frugandomi in tasca in cerca delle chiavi dell'auto. Non
appena le trovai, aprii lo sportello e mi misi a sedere sul sedile
del guidatore. Lasciai la portiera aperta in modo che la fresca
brezza di fine settembre entrasse nell'abitacolo rovente.
«Ma
noi stiamo insieme! Come avrei potuto arrabbiarmi
per una cosa del genere? Lei non potrebbe mai deludermi, a meno che
non mi menta e mi nasconda qualcosa come in questo caso!»
strillò Shavo.
«Okay, capisco che ora
tu sia incazzato. Ma calmati e ascoltala. Sai benissimo che Leah non
è una cattiva persona.»
«Mi ha mentito già
in passato! O vogliamo dimenticarci di ciò che è
successo allo Skye Sun Hotel?» sbottò ancora il mio
amico.
«Anche tu le hai
mentito, non le hai detto chi eri. Il fatto che lei lo sapesse già
non conta.» Sospirai. «Senti, non rivangare il passato
adesso. Leah ha parlato con me una settimana fa, non ti ha tenuto
tutto nascosto per un anno! Non farne una tragedia!»
sdrammatizzai, sentendo gli occhi bruciare, segno che un altro
starnuto era in arrivo.
«Ma avrebbe dovuto
dirmelo subito!»
«Sei testardo. Non so
cosa dirti. Continua pure a sbraitare allora, io sto per starnut...»
Non feci in tempo a finire di pronunciare la frase, che lo starnuto
arrivò impetuoso, seguito da altri due. «Maledizione!»
biascicai, cercando in fretta un fazzoletto.
«Okay, okay! Grazie
per il supporto, vaffanculo!» strillò Shavo, poi
interruppe la telefonata.
Tipico di Shavo. Sempre il
solito impulsivo. Presto o tardi mi avrebbe richiamato per scusarsi,
o mi avrebbe inviato un messaggio strappalacrime.
Lo conoscevo troppo bene.
Cominciai
a soffiarmi nuovamente il naso, stanco della
mia condizione. Dovevo decisamente andare dal medico e farmi
prescrivere qualcosa, altrimenti sarei impazzito.
Trascorsero tre giorni prima
che Shavo si facesse sentire.
Io, intanto, avevo
cominciato a fare l'aerosol, inalando un sacco di medicinali atti a
riequilibrare le mucose e liberare il naso, cose che non avevo
minimamente capito ma che in compenso mi stavano aiutando. Era un
incubo.
Quando lessi il messaggio di
Shavo, sorrisi tra me e me.
Fratello.
Sono tornato ieri sera in città. Mi dispiace per l'altro
giorno, sono stato un coglione. Avevi ragione tu. Io e Leah abbiamo
risolto, ho capito che stavo sbagliando a prendermela così
tanto con lei. Cazzo, è che a volte sono così
impulsivo! Scusa se ti ho trattato male. Ci vediamo stasera per bere
qualcosa?
Non persi tempo a digitare
un messaggio, ci avrei impiegato troppo tempo. Lo chiamai e ci
accordammo per vederci quella sera.
«Invito un po' di
amici, eh?» propose il bassista in tono allegro.
«Certo! Chiama Louis,
mi deve raccontare se se l'è spassata a Las Vegas!»
suggerii.
«Sicuro! A più
tardi!»
Mentre
facevo l'aerosol, accesi il computer. Era da una
vita che non entravo a dare un'occhiata alle mie pagine social. Non
che la cosa mi interessasse più di tanto, ma ogni tanto sapevo
di doverlo fare. Ero comunque un personaggio pubblico e avrei dovuto
comunicare molto di più con i miei fan, o quantomeno
pubblicare qualcosa su facebook giusto per far capire che ero ancora
vivo.
Usare il computer con una
mano, mentre con l'altra tenevo la forcella infilata nel naso, era
un'impresa non da poco, considerato quanto fossi incapace con la
tecnologia.
Quando entrai su facebook,
notai che avevo dei messaggi non letti. Erano tantissimi, e la
maggior parte erano da parte di fan esaltati che volevano parlare con
me al telefono, uscire a cena o vedermi con le scuse più
disparate. Mi scrivevano in pubblico e in privato, ed era questo uno
dei motivi per cui sopportavo a malapena l'idea di usare i social.
Un nome attirò la mia
attenzione, incastrato nell'infinita lista dei messaggi: Layla Riggs.
Il messaggio era uno degli ultimi ricevuti e io mi affrettai ad
aprirlo.
Era stato inviato il giorno
del compleanno di Leah, il 26 settembre 2013.
Ciao
Daron, sono Layla. So che non sei mio padre e io dovrei dimenticarti,
ma non posso. Mi trovo bene con te, mi è piaciuto andare in
quel locale armeno. Mi sono sentita ben accetta, a mio agio. Non mi
interessa se mamma è contraria. Io vorrei esserti amica,
vorrei che rimanessimo in contatto. Io ti vedo come una specie di
padre, anche se so che non lo sei affatto! Oh, sapessi il casino che
ha fatto mamma quando ha scoperto che sono riuscita a fare il test!
Sono molto arrabbiata con lei, mi ha mentito e voleva farmi credere
qualcosa che non era! Okay, scusa per lo sfogo... volevo solo dirti
che vorrei incontrarti ancora, se per te va bene. Be', Daron, se ti
va ci vediamo mercoledì prossimo, per pranzo. In quel locale
vicino a Sunset Boulevard. Se verrai, sarò molto felice. A
presto! ☻
Spensi l'aerosol e mi
abbandonai con la schiena contro lo schienale della sedia.
Probabilmente Layla avrebbe saputo che io avevo letto il suo
messaggio, che lo avevo visualizzato.
Rimasi a fissarlo,
rendendomi conto che era lunedì. Avevo ancora un po' di tempo
per pensarci.
Per il momento volevo solo
godermi la serata con i miei amici, spegnere il cervello e smettere
di pensare a qualunque cosa.
Volevo soltanto stare in
pace, senza problemi, senza preoccupazioni.
Mercoledì non era poi
così vicino.
Cari
lettori, eccoci qui con un altro capitolo!
Vi
annuncio che non manca molto alla fine della storia, ahimè, e
questo è molto triste da accettare anche per me.
Ma
vi annuncio che sto già lavorando a un'altra idea nella
categoria dei System, un'altra long un po' particolare, su cui però
non vi do nessuna anticipazione ;)
Aspettate
e vedrete, ma state tranquilli: prima concluderò questa, poi
mi concentrerò completamente sull'altra ^^
Sono
qui principalmente per lasciarvi il link di Lady Writer
dei Dire Straits, la canzone che Daron stava suonando all'inizio del
capitolo. Ecco a voi:
https://www.youtube.com/watch?v=-QMBELh1zyo
Be',
aspetto come sempre il vostro parere su ciò che ho scritto,
quindi ci sentiamo nelle recensioni :3
Grazie
ancora a tutti voi, e alla prossima ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 65 *** Leave me alone ***
ReggaeFamily
Leave
me alone
[Leah]
Suonai
il campanello e attesi, già spazientita. Avrei voluto evitare
di trovarmi in quella situazione, ma purtroppo mi toccava
affrontarla.
Ad
aprirmi fu una cameriera, una delle tante che non sapevo neanche
definire né classificare.
«Signorina
Moonshift, suo padre è nel suo studio. Vado a controllare se
può riceverla» esordì la giovane donna, facendomi
accomodare nel grande salotto della nostra casa.
Odiavo
quel posto. Me n'ero andata, ero scappata a gambe levate perché
mi stava troppo stretto, anche se paradossalmente era veramente
troppo grande per i miei gusti.
Mio
padre bazzicava poco e niente in casa, a lui andava bene stare chiuso
nel suo studio. Per il resto, lasciava che le sue amanti del momento
la arredassero a sue spese; questa, di conseguenza, non aveva mai
avuto una sua identità e un suo stile.
Non
ricordavo quasi più come fosse arredato quel luogo quando
ancora c'era mia madre.
Mentre
osservavo distrattamente i mobili moderni e insignificanti, qualcuno
entrò nella stanza. Mi voltai, convinta si trattasse della
cameriera, ma mi ritrovai faccia a faccia con Medison.
«Ciao
Leah. Cosa succede? Perché sei qui?» mi domandò
in tono piatto, prendendo posto su uno dei divani in pelle bianca che
occupavano l'enorme salotto.
«Ciao»
biascicai. «Devo parlare con Alan.»
«Di
che si tratta? Sei bene che io e lui non abbiamo segreti»
squittì.
«Non
sono affari tuoi» tagliai corto.
«Sei
così acida perché le cose con lo stecchino pelato non
vanno come previsto?» mi schernì in tono tagliente,
senza degnarmi di un'occhiata.
Mi
trattenni per non saltarle addosso o insultarla pesantemente.
Inizialmente Medison era stata semplicemente una tipa insignificante
che sembrava saper stare al suo posto, mentre ora stava cominciando a
irritarmi e a immischiarsi in faccende che non la riguardavano.
Sperai pigramente che Alan Moonshift avesse già messo gli
occhi su un'altra giovane preda e che mandasse via al più
presto quell'essere immondo che sedeva sul divano di fronte a me.
Poi
mi resi conto che questo non sarebbe più stato un mio
problema.
La
cameriera tornò poco dopo e mi annunciò che potevo
raggiungere Alan nello studio.
«Theo,
portami un tè!» sentii ordinare da Medison.
Era
un essere orribile, la detestavo sempre più.
Quando
misi piede nello studio di mio padre, dopo aver attraversato quasi
tutta la grande casa, fui invasa da uno strano senso di sollievo nel
rendermi conto che lui non aveva modificato l'arredamento e che quel
luogo poteva sembrarmi ancora vagamente familiare.
Poi
tutto si dissolse e il disagio che avevo sempre percepito
nell'entrare in quella stanza si fece largo in me, costringendomi a
bloccarmi sulla soglia. Non avevo alcuna intenzione di sedermi e
fingere che io e il mio orribile genitore stessimo per intraprendere
una normale conversazione.
«Leah!
Cosa ti porta da queste parti? Cerca di fare in fretta, tra poco
arriva un cliente» esordì con scarso interesse Alan,
intrappolato nel suo completo gessato e nella sua aura priva di
sentimenti.
«Tranquillo,
non ti ruberò tempo prezioso» lo rassicurai, incrociando
le braccia al petto.
Lui
mi guardò appena. «Bene. Che succede? Ti servono soldi?»
domandò.
Il
sangue mi ribollì nelle vene, tuttavia cercai di non scompormi
troppo. «No, grazie. Sono qui per annunciarti che i tuoi soldi
non mi servono più.»
«Il
tuo nuovo fidanzato si è deciso a mantenerti?» buttò
lì, frugando tra alcune carte che teneva sulla scrivania.
«Lascio
l'università e vado a lavorare» affermai. «Ecco
perché non mi servono più i tuoi soldi, Alan»
aggiunsi in tono sprezzante.
Lui
scrollò le spalle e si lasciò sfuggire un sorriso. «Vai
a lavorare, eh?»
«Cosa
stai cercando di insinuare?» lo aggredii, facendo un passo
avanti.
«Niente.
E si può sapere perché?»
Sbuffai.
«Non ti importa davvero, perciò non perderò tempo
a spiegartelo. Del resto, hai fretta.»
«Giusto.
Possiamo parlarne un'altra volta, va bene?»
Lo
fissai e mi fece veramente tanta pena. Era patetico.
«Non
ci sarà un'altra volta. Io e te non abbiamo più niente
da dirci» chiarii, per poi dargli le spalle. Ero già
stanca di trovarmi là dentro, volevo soltanto tornare al mio
appartamento e prepararmi per l'indomani.
«Cosa
stai dicendo? Io sono tuo padre, non puoi tagliarmi fuori dalla tua
vita» protestò debolmente Alan, evidentemente confuso da
ciò che gli avevo appena detto.
Risi
sarcastica. «Sei ridicolo! Ti saluto Alan, buona vita»
conclusi, per poi uscire da quell'inferno e sbattere la porta.
Tornai
velocemente verso l'ingresso, ma mi fermai poco prima di giungere nei
pressi del salotto. Udii la voce di Medison che parlava con qualcuno
al telefono. Il mio carattere tendenzialmente curioso mi spinse a
rimanere per un attimo in ascolto.
«Sì,
certo che costringerò Alan a finanziare la serata di
beneficenza! Pende dalle mie labbra! Ah sì, almeno ci faremo
una buona pubblicità e potremo essere ricordate come donne
ricche e potenti, ma che comunque fanno qualcosa per il prossimo...
sì, brava, caritatevoli!
Oh, ma certo! Ci aggiorniamo più tardi, andrà tutto
bene!»
Mi lasciai sfuggire uno
sbuffo e ripresi a camminare verso l'uscita, incrociando brevemente
la cameriera.
«Arrivederci,
signorina. È rimasta per poco, tornerà presto?»
mi domandò la giovane, aprendomi la porta.
Mi
fermai e la guardai, rendendomi conto di quanto
fosse bella, nonostante indossasse abiti sformati e fosse appesantita
dalla stanchezza. «Come si chiama?» volli sapere.
«Theodora»
ammise.
«Theodora, bene. Io
non metterò mai più piede in questo tugurio, e le
consiglio caldamente di fare lo stesso. Cerchi un altro lavoro e
scappi via, qui sono tutti matti.»
Detto questo, me ne andai e
la lasciai lì, sperando che seguisse al più presto il
mio suggerimento.
La
sveglia trillò e mi fece sobbalzare. Avevo cambiato suoneria
da poco e ancora non mi ero abituata a sentire Bring It
dei Soulfly che esplodeva dalle casse del mio cellulare.
Interruppi velocemente
quella tortura e mi guardai attorno con gli occhi sbarrati. Ci
impiegai un attimo a rendermi conto che mi trovavo nella mia stanza,
all'interno dell'appartamento di Paradise.
E proprio mentre mi
domandavo dove fossero le mie coinquiline, mi ricordai
improvvisamente che quello sarebbe stato il mio primo giorno di
lavoro.
Afferrai lo smartphone dal
comodino. Erano le sette e diciassette del sette ottobre. Tutti quei
sette mi misero addosso una strana inquietudine, ma poi decisi di
ignorare qualunque sciocchezza e capii che dovevo alzarmi dal letto e
darmi una mossa.
John mi avrebbe aspettato al
locale per le nove, e io non volevo arrivare in ritardo. L'idea che
stavo davvero per cominciare una nuova parte della mia vita mi
elettrizzava, anche se mi sentivo ancora atterrita e insicura. Sarei
stata all'altezza?
E ancora mi pentivo di non
aver parlato subito con Shavo dei miei dubbi. Aveva dato di matto
quando gli avevo confessato di voler lasciare l'università,
non perché volesse obbligarmi a continuare con gli studi, ma
per il semplice fatto che si aspettava che mi sarei confidata con
lui. Non aveva avuto tutti i torti, e mi aveva dato della sciocca
perché avevo temuto di deluderlo a causa della mia vita e
delle mie scelte inconcludenti.
Ora per fortuna era tutto a
posto. Avevamo chiarito, e lui si era addirittura scusato per aver
reagito così d'impulso. Aveva aggredito anche Daron al
telefono, dopo aver scoperto che il chitarrista sapeva già
ogni cosa.
Ero riuscita a combinare un
disastro insensato, ma tutto si era risolto senza troppi danni e io
mi sentivo molto più leggera.
Mentre frugavo nell'armadio,
la mia mente si soffermò sui ricordi della sera precedente, e
un sospiro fuoriuscì dalle mie labbra.
Mi sentivo molto più
leggera da quando avevo detto addio ad Alan Moonshift e alla sua
mediocrità, e il fatto che non avesse fatto una piega all'idea
di perdermi definitivamente non faceva che rendermi ancora più
certa della mia scelta. Ammesso e non concesso che io avessi mai
realmente fatto parte della sua vita.
Mi avviai in bagno,
decidendo che avrei scelto dopo i vestiti da indossare. La ricerca
all'interno dell'armadio era stata piuttosto infruttuosa.
Il cellulare mi avvisò
dell'arrivo di un messaggio su WhatsApp, così tornai in camera
e lo afferrai, per poi portarmelo dietro.
Era di Shavo.
Leah,
ti auguro buona fortuna per oggi! Vedrai che andrà tutto bene,
tesoro mio! ♥ Io intanto sto per uscire, il mio aereo parte
tra meno di due ore. Devo darmi una mossa. Ti faccio sapere quando
arrivo!
Sorrisi e digitai una
risposta veloce, poi mi preparai in fretta per andare al lavoro. Mi
sembrava ancora assurdo poter affermare di avere un'occupazione che
mi avrebbe permesso di mantenermi, e che finalmente mi avrebbe reso
indipendente e libera dalle grinfie di una famiglia distrutta e
dilaniata.
Quando giunsi in cucina con
l'idea di mangiare uno yogurt prima di uscire, trovai un biglietto
sul tavolo. Era di Shelley, riconobbi subito la sua grafia ordinata e
chiara.
Buona
fortuna per oggi! Ci sei per pranzo? Sam non rientra fino a stasera,
è uscita molto presto per una manifestazione in città!
Chiamami più tardi!
Avrei inviato un messaggio a
Shelley una volta seduta sull'autobus.
Mangiai in fretta uno dei
miei amati yogurt con i cereali e finii di raccattare ciò che
mi serviva per riempire il mio zainetto. Ci infilai dentro anche un
blocco per appunti, un pacchetto di caramelle e gli occhiali da sole.
Eravamo a ottobre, ma a Las
Vegas faceva un caldo terribile, perciò non mi pentii di aver
indossato un paio di pantaloncini e una canottiera leggera. John non
mi aveva dato indicazioni sull'abbigliamento da utilizzare, ma in
ogni caso stavamo solo iniziando a decidere come disporre e arredare
il locale, non c'era bisogno che ci mettessimo in tiro.
Sull'autobus scrissi a
Shelley, e mi resi conto che anche qualcun altro mi aveva scritto per
farmi gli auguri per il mio nuovo lavoro.
E
allora mi accorsi che stava succedendo davvero,
e fui invasa da un'euforia indescrivibile, che mi rese allegra e mi
fece dimenticare il brutto incontro che avevo avuto la sera prima con
Alan Moonshift.
«Pensa che
quell'imbecille si lascia usare dalla sua amante del momento. Ieri
l'ho sentita architettare qualcosa al telefono, ha detto che avrebbe
costretto Alan a finanziare una qualche serata di beneficenza...»
stavo raccontando a John, mentre finivamo di pranzare in un piccolo
fast food situato poco distante dal suo locale.
«Immaginavo
che fossero una coppia del genere, per quanto io li conosca poco»
commentò il mio amico,
mettendosi in bocca l'ultima manciata di patatine fritte che gli era
rimasta.
«Oh, sapessi quanto
sono patetici! Ma lui è sempre stato così, con tutte le
sue amanti. Mia madre non si faceva mettere i piedi in testa, ma
essendo una tipa incostante, alla fine si è stancata di lui e
se n'è andata. Senza di me.»
John mi guardò negli
occhi e io subito mi sentii rincuorata da quello sguardo amichevole e
affettuoso. «Mi dispiace molto.»
«Ormai è
andata» minimizzai, addentando il mio sandwich.
«Be'... che te ne pare
del nuovo lavoro? Ti trovi bene con me o sono troppo cattivo?»
cambiò argomento il batterista.
Sorrisi e cominciai a
rispondergli, ma ancora non avevo ingoiato il boccone che stavo
masticando e finii per sputacchiare. «Scusa! Oddio, faccio
schifo!»
John ridacchiò. «Non
così tanto. Ho visto di peggio.»
«Okay! Non sei per
niente cattivo. Tutti vorrebbero lavorare per una persona tranquilla
e ragionevole come te. Andrà tutto bene, me lo sento!»
esclamai. Poi cercai ancora i suoi occhi. «Io non so ancora
come ringraziarti per questa opportunità.»
«Sono io a dover
ringraziare te. Hai gusto, senso pratico e capisci al volo quali sono
i miei capricci. Se riuscirai a sopportarmi, costruiremo insieme un
bellissimo regno!»
Risi sonoramente. «Un
regno?»
John si grattò la
nuca, arrossendo leggermente. «Già. Per me Torpedo è
come un reame dove ognuno potrà sentirsi accettato e trovare
il suo posto tra le pagine dei fumetti e le avventure dei loro eroi.»
Il cuore mi si riempì
di gioia nell'udire quelle parole, pronunciate da lui con una
dolcezza e una semplicità che mi fecero venir voglia di
abbracciarlo.
Stavo per dire qualcosa,
quando il mio cellulare squillò. Trattenni uno sbuffo e lo
estrassi dalla tasca anteriore dello zainetto, per poi rendermi conto
che Shelley mi stava chiamando.
«Shy, che succede?»
esordii.
«Leah...» La mia
amica parlò con un tono strano, che non prometteva nulla di
buono.
«Non farmi
preoccupare!» esclamai, agitandomi sulla sedia di plastica.
John mi rivolse una breve
occhiata, poi si alzò e fece cenno verso la cassa. Avrei
voluto impedirgli di pagare anche per me, ma in quel momento avevo
altro per la testa.
«No, ecco...»
«Shy, stai bene?»
squittii.
«Io sì,
tranquilla. È solo che... c'è qui tua madre, credo.»
Avvertii il sangue defluire
rapidamente dalle mie guance. Sgranai gli occhi e strinsi con più
forza il telefono tra le dita. «Come?» sibilai.
«Di
là in cucina c'è una tizia che dice di essere tua
madre. Un po' ti somiglia, ma sai com'è... io non l'avevo
mai vista prima...» farfugliò Shelley.
«Okay,
okay, ho capito. Arrivo subito» tagliai corto, evitando di
farle notare che avrebbe potuto chiamarmi prima
di farla entrare in casa.
Mi alzai controvoglia e
afferrai ciò che restava del mio panino, poi misi lo zaino in
spalla e raggiunsi John che stava ritirando il resto dalla cassiera.
«Devo andare. È
successo un casino, mia madre è a casa mia.»
«A Paradise?»
fece il mio amico confuso.
Insieme ci avviammo verso
l'uscita del locale.
«Sì. Non so
come abbia fatto a scoprire il mio indirizzo, ma ho già
un'idea» grugnii, avventandomi nuovamente sul mio sandwich.
«Okay. Vuoi che venga
con te?» mi propose il batterista in tono apprensivo.
«No. Ci vediamo più
tardi al locale.» Gli diedi un breve abbraccio e mi avviai di
corsa alla fermata dell'autobus.
Non riuscivo a capire perché
Cecily Vickers si fosse improvvisamente ricordata di avere una figlia
di venticinque anni.
Se ne stava seduta al tavolo
della cucina del mio appartamento, sorseggiando del tè freddo
da un bicchiere che Shelley le aveva offerto.
Aveva
i capelli corvini striati di grigio raccolti in una
crocchia, il viso scarno e pallido leggermente truccato. I suoi occhi
verdi si posarono su di me non appena entrai in casa come una furia.
Le sue labbra sottili si incurvarono in un sorriso privo di dolcezza,
ma pregno di sarcasmo.
E io ricambiai con la stessa
moneta, non riuscendo a provare niente nei confronti di quella
perfetta sconosciuta. Forse l'avevo sempre ammirata per il fatto di
aver lasciato quell'idiota di Alan, ma con quella decisione aveva
scelto di tagliar fuori anche me dalla sua vita.
«Cecily, cosa ci fai
qui? Chi ti ha dato il mio indirizzo?» esordii, stringendo i
pugni.
Shelley, in piedi accanto al
frigorifero, si voltò nella mia direzione e mi rivolse
un'occhiata colma di dispiacere. «Ciao Leah, mi dispiace...»
«Shy, non
preoccuparti. Hai fatto bene a chiamarmi» la rassicurai.
«Okay, vado in camera
a studiare» decise la mia coinquilina.
Annuii e la seguii con lo
sguardo finché non si richiuse la porta alle spalle. Poi
tornai a fissare la donna seduta al mio tavolo con fare accusatorio,
attendendo che mi desse una spiegazione.
Cecily
sospirò teatralmente e sollevò gli occhi al cielo. «I
convenevoli non ti sono mai piaciuti, vero? Nemmeno a me, però,
be'... non ci vediamo da anni, perciò non è poi tanto
male se cominciamo con un ciao.
Non trovi?» esordì senza scomporsi.
«Sì, ciao.
Allora? Che vuoi?» tagliai corto.
«Perché non ti
siedi, Leah? Sei cresciuta molto dall'ultima volta che ci siamo
viste.»
Avrei
voluto ridere, ma mi limitai ad avvicinarmi al tavolo. Mi sedetti il
più distante possibile da lei e la
fissai in cagnesco. «Sei qui per ricordare i bei vecchi tempi,
quelli in cui eravamo una famiglia felice?»
Lei scosse il capo. «No,
sono qui perché tuo padre mi ha detto che hai lasciato
l'università e che non vuoi più vederlo. Che ti
prende?»
Stavolta non fui in grado di
trattenere una risata intrisa di ironia. «Ecco qual è il
problema. Non appena quell'idiota si rende conto di non potermi più
controllare come gli pare, sfodera i suoi assi nella manica. Carino»
commentai.
«Noi siamo i tuoi
genitori e siamo preoccupati per te.»
Questo era troppo. Mi misi
nuovamente in piedi e spinsi indietro la sedia, chinandomi sul tavolo
per poter accostare il mio viso al suo e trafiggerla con lo sguardo.
«Voi siete tutt'altro che genitori! Hai capito? Non sto qui a
ricordarti come ti sei comportata con me, né a descriverti
l'atteggiamento di Alan. Tanto sai già tutto. Voi due siete
dei mostri e dovete lasciarmi in pace.» Mi ritrassi da lei e mi
raddrizzai, poi indicai la porta d'ingresso. «E adesso vattene.
Devo tornare al lavoro e sono tornata qui inutilmente. E non farti
mai più vedere da queste parti.»
Cecily mi fissò a
bocca aperta. «Non credevo tu mi odiassi così tanto,
pensavo avessi capito le mie ragioni.»
«Non
ti odio, semplicemente mi infastidisci come... una mosca»
ammisi, per poi accostarmi alla soglia e spalancare la porta. «Prego,
accomodati. Ti saluto. E
buona vita anche a te.»
Lei si alzò
lentamente e solo in quel momento notai un particolare agghiacciante,
che mi fece raggelare sul posto. Notò che il mio sguardo aveva
colto il particolare, così annuì.
«Sì, volevo
venire qui anche per dirti che avrai una sorellina» ammise con
fierezza.
«Tu... aspetti un
figlio a... alla tua età?» balbettai, senza riuscire a
capacitarmi di aver appena appreso una simile notizia.
«Ho quarantasette
anni, Leah, non sono una vecchia decrepita» disse.
«Vattene. Non mi
interessa» conclusi, rendendomi conto che non mi importava più
niente di lei e di ciò che stava capitando nella sua vita.
Mentre la guardavo arrancare
giù per le scale, mi scoprii dispiaciuta per la povera
creatura innocente che cresceva nel suo grembo. Se avesse riservato
alla sua nuova figlia lo stesso trattamento che avevo ricevuto io,
sarebbe stata dura per lei sopravvivere.
Sperai almeno che avesse un
carattere forte e che riuscisse a superare il trauma di avere una
madre degenere come Cecily Vickers.
Avvertii la presenza di
qualcuno alle mie spalle e solo allora mi resi conto che stavo
piangendo.
Shelley mi afferrò
saldamente per le braccia e mi attirò a sé, cullandomi
tra le sue braccia. «Su, tranquilla. Andrà tutto bene,
andrà tutto bene» prese a sussurrare.
«Voglio
solo essere lasciata in pace» ammisi tra i singhiozzi,
aggrappandomi alla mia amica.
«Mi sa che ora tua
madre l'ha capito, visto come l'hai cacciata di qui» tentò
di rassicurarmi Shelley.
«Lo spero. Ne ho
abbastanza di lei e di quel fallito di suo marito. Non ho mai avuto
dei veri genitori, non vedo perché dovrei cominciare a
desiderarli ora.» Sospirai e lasciai andare la mia amica.
«Potrei volerlo, se potessi scegliere qualcun altro che mi
faccia da padre o da madre» aggiunsi.
«Ma non si può,
purtroppo. Mi dispiace» replicò lei, sistemandomi una
ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«Grazie, Shy. Mi lavo
la faccia e torno al lavoro. Ormai ho una nuova vita, non lascerò
che questa gente me la rovini. Loro l'hanno già fatto
abbastanza, ma ora basta» affermai, per poi avviarmi con fare
risoluto verso il bagno.
Dopo essermi sciacquata il
viso, seppi con certezza che ero riuscita a dare un calcio al passato
e a relegarlo in un angolino.
Volevo accogliere il
presente e il futuro, senza più preoccuparmi di fare ciò
che gli altri si aspettavano da me.
Sarei stata sempre e solo me
stessa e non avrei più permesso a delle stupide nubi
travestite da genitori falliti di oscurare il mio orizzonte.
Sapevo di potercela fare,
avevo accanto molte persone che mi amavano e che amavo, su cui sapevo
di poter contare in ogni singolo istante.
Presa da un improvviso
istinto, afferrai il cellulare e registrai una nota vocale da inviare
a Shavo.
Shavarsh,
volevo solo dirti che ti amo tantissimo. E non mi sento stupida a
dirlo. Ti amo. E mi manchi.
Poi, dopo aver salutato
Shelley con un abbraccio, mi precipitai giù dalle scale,
tornando ad abbracciare la mia nuova vita.
Carissimi
lettori, queste note saranno molto brevi ^^
Sono
qui giusto per lasciarvi il link per ascoltare la canzone che Leah ha
impostato come sveglia, almeno capirete il trauma che questa ragazza
vive ogni mattina al suo risveglio XD
Ecco
a voi Bring It dei Soulfly:
https://www.youtube.com/watch?v=6MTQKEP706g
Allora?
Che ve ne pare dei “genitori” di Leah? Attendo i vostri
commenti, curiosa come sempre di capire il vostro parere :)
Alla
prossima e grazie ancora a tutti coloro che seguono, leggono e
recensiscono questa long ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 66 *** Decisions ***
ReggaeFamily
Decisions
[Shavo]
Sospirai.
Trovarmi a San Diego mi faceva sempre un effetto particolare, come se
quella città fosse in grado di scaricare tutta la tensione che
sentivo.
Avrei
voluto che Leah fosse con me, ma lei era impegnata nel suo nuovo
lavoro ed era giusto che fosse così. John le aveva offerto
un'opportunità unica e io ne ero estremamente felice.
Da
quando lei mi aveva confessato quali erano i suoi dubbi e io le avevo
fatto una scenata incredibile, mi sentivo spesso in colpa nel
ripensarci.
Mentre
stazionavo su un taxi, ricevetti un messaggio su WhatsApp.
L'ennesimo. Sbuffai ed estrassi lo smartphone dalla tasca dei jeans,
rendendomi conto che l'ultima notifica proveniva da Leah.
La
aprii e rimasi di sasso a leggere ciò che mi aveva scritto.
Shavarsh,
volevo solo dirti che ti amo tantissimo. E non mi sento stupida a
dirlo. Ti amo. E mi manchi.
Non me lo aveva mai detto,
mai scritto così. Per un istante mi parve di toccare il cielo
con un dito, poi però mi resi conto che doveva essere successo
qualcosa.
L'ansia mi assalì,
così scorsi velocemente le altre notifiche e trovai un paio di
messaggi da parte di John. Li aprii senza neanche rifletterci sopra.
Non
volevo disturbarti, so che sei a San Diego. E forse non dovrei
intromettermi, ma Leah è appena andata via di corsa. A casa
sua c'è sua madre, temo possano litigare furiosamente.
Leah
sembrava molto scossa. Mi dispiace, dimmi se posso fare qualcosa.
Erano stati inviati l'uno a
poca distanza dall'altro, e poi John non mi aveva più scritto
né chiamato.
Guardai l'orario sul
display: erano appena le quattro del pomeriggio, e quei messaggi
risalivano all'incirca a due ore prima.
Il messaggio di Leah era
arrivato da pochi minuti, questo poteva significare solo una cosa.
Fui indeciso se chiamare la
mia ragazza o il mio amico, sentendomi invadere dal panico più
totale e buio. Infine optai per la seconda possibilità: se
Leah si fosse trovata ancora in compagnia di sua madre, sicuramente
non avrebbe risposto.
Selezionai il nome di John e
feci partire la telefonata. Il batterista rispose dopo un po'.
«John! Che diavolo è
successo?» sbottai, non appena udii la sua voce all'altro capo
della cornetta.
«Ehi. Non so niente,
Leah non è ancora tornata in negozio» ammise lui in tono
dispiaciuto.
«Cazzo! Mi ha detto
che ieri ha litigato con suo padre, oggi torna all'attacco sua
madre... dev'essere una gran bella giornata di merda per lei!»
brontolai, beccandomi un'occhiataccia dal conducente del taxi. Forse
il tipo non apprezzava il mio linguaggio scurrile, ma io non potevo
curarmi di lui in quel momento. Ero fuori di me.
«Puoi dirlo forte...»
John si interruppe e poi sospirò brevemente. «Prova a
chiamarla, forse ha bisogno di te.»
«Okay, amico, grazie
per avermi avvisato.»
Il batterista si schiarì
appena la gola. «Shavo? Non dirle che l'hai saputo da me, non
vorrei si arrabbiasse. Sai com'è fatta Leah...»
Annuii tra me e me. Certo
che lo sapevo: era riservata e detestava che qualcuno sbandierasse in
giro i fatti suoi senza che lei lo sapesse.
Ringraziai John per
l'ennesima volta e fissai lo schermo del cellulare, sul cui sfondo
avevo impostato una foto di me e Leah che era venuta particolarmente
bene. Lei aveva asserito più volte che quello scatto fosse
orribile, ma io non le avevo mai dato retta e l'avevo tenuto,
facendole presente che del mio smartphone potevo fare ciò che
volevo.
Sorrisi appena, poi mi
decisi a chiamarla. Dovevo sapere come stava e cosa fosse successo,
anche se ciò avrebbe significato interrompere una sua
conversazione con sua madre.
Ascoltai gli squilli a vuoto
con un po' di apprensione, fissando dritto davanti a me.
«Shavo!» esordì
lei, e subito notai che il suo tono allegro nascondeva qualcos'altro.
Mi
ha chiamato Shavo, è un brutto segno,
pensai.
«Ehi.
Che succede? Perché hai quella voce?» sbottai,
senza riuscire a controllare le sensazioni negative che si stavano
impossessando di me.
La sentii ridere con
sarcasmo. «Mi chiami per chiedermi che succede? Solo perché
ti ho scritto quel messaggio?»
Aprii la bocca per dire
qualcosa, ma subito la richiusi. Rimasi semplicemente in silenzio,
non sapendo come scoprire qualcosa su sua madre senza farle intendere
che sapevo già tutto.
«No» buttai
fuori all'improvviso. «Ti ho chiamato perché ho letto il
tuo messaggio e volevo risponderti a voce. Ma poi ho sentito il tuo
tono e...» aggiunsi, sperando che lei mi credesse.
«Oh... okay. Il punto
è che... mia madre si è presentata a casa mia,
costringendomi a tornare a Paradise durante la pausa pranzo.»
«Tua... madre?»
biascicai.
«Hai capito bene,
Cecily Vickers, quella stronza. E sai che c'è? È pure
incinta!» sbraitò.
«Per favore, Leah,
cerca di calmarti. Dove sei?» le suggerii, avvertendo la
preoccupazione amplificarsi ancora nel mio petto.
Sbuffò.
«Sono sull'autobus, sto tornando da John. Che situazione di
merda! Vuole farmi credere che lei e Alan sono i miei
genitori e che sono
preoccupati per me! Ma pensa
te!» strepitò.
Immaginai
che stesse gesticolando come una matta, con gli occhi infiammati per
la rabbia e il viso paonazzo. Avrei voluto poterla stringere a me e
rassicurarla, ma anche quella volta dovetti arrendermi all'evidenza
che chilometri incalcolabili
ci separavano.
«Leah, piccola, ti
prego... cerca di stare tranquilla. Ascolta, facciamo così:
vai da John ora, resta con lui. Io mi vedo con Sonny, sento un po'
cosa vuole e poi prendo il primo volo per Las Vegas. Okay?»
Leah rimase in silenzio per
un attimo, poi replicò: «No, Shavo, no! Non puoi correre
qui ogni volta che faccio i capricci, chiaro? Me la vedrò da
sola! io... me la caverò, non è successo niente. L'ho
cacciata di casa e le ho ordinato di non farsi mai più vedere!
Non devi assolutamente provarci, chiaro? Tu fai ciò che devi
fare e basta! Cavoli, non avrei dovuto dirtelo» blaterava.
Io non la stavo più a
sentire: avevo già preso la mia decisione.
Anzi, ne avevo preso due.
«Allora, Shavo? Cosa
ne pensi? A me farebbe molto piacere organizzare questa serata. Un dj
mi serve, non posso affidarmi a qualcun altro» stava dicendo
Sonny, mentre ce ne stavamo chiusi nel suo studio di registrazione.
Mi aveva fatto sentire un
po' di nuovo materiale che stava componendo con i P.O.D., poi si era
prodigato a spiegarmi cosa aveva in mente: voleva organizzare una
serata di beneficenza a Los Angeles e aveva pensato di affidarsi a me
per selezionare la giusta musica. Aveva intenzione di suonare con la
sua band, ma necessitava di qualcuno che ricoprisse il ruolo di dj e
sapesse esattamente cosa mettere su in ogni momento.
Avremmo potuto parlarne al
telefono, ma io avevo insistito per andarlo a trovare, dal momento
che non ci vedevamo da tempo e in quei giorni non avevo particolari
impegni. Mi sarei dovuto fermare da lui per una o due notti, ma avevo
già deciso di ripartire il prima possibile.
«Dico che si può
fare. Senti, se vuoi ti aiuto a trovare delle altre band che vogliano
suonare durante la serata. Secondo me potrebbe venir fuori qualcosa
di buono, e anche svilupparsi più in grande» gli
consigliai, osservando con ammirazione il suo enorme e professionale
mixer. Era una bomba, mi piaceva da matti. «Per la serata
potrei usare questo gioiellino» insinuai, sfiorando appena
alcune manopole colorate.
«Non penso proprio,
questo bestione non uscirà mai dal mio studio» scherzò
Sonny, battendomi amichevolmente sulla spalla. «Apprezzo molto
il tuo aiuto, ma non preoccuparti. Ho già delle band emergenti
da far esibire, tutti questi giovani ragazzi sono molto entusiasti di
partecipare a questa serata. E tutto sarà perfetto con un
selecta come te.»
Ridacchiai. «Sono
stato in Giamaica, non mi freghi con queste parole in patois,
amico» scherzai.
«Sul serio?»
Sonny cercò il mio sguardo. «E quando ci sei andato?»
Sorrisi ancora. «In
primavera, a maggio. È stato fantastico. E ora che ci penso:
ti devo portare i saluti da una persona» dissi all'improvviso.
Il mio amico inclinò
il capo di lato e mi fissò confuso. «Di che parli?»
Lo osservai e sghignazzai.
«Sai che i dreadlocks ti stavano proprio bene?» lo
canzonai.
«Questo non c'entrava
niente, Odadjian! Chi hai incontrato in...» Strabuzzò
gli occhi e si bloccò, fissandomi con improvvisa
consapevolezza. «Non dirmi che... hai incontrato Eek?»
sbottò.
Annuii con vigore e sollevai
il pollice. «Indovinato! Lui e Barrington Levy» spiegai
fieramente.
«Cazzo! Quel vecchio
stronzo di Eek! Non lo sento da una vita, come sta?» volle
sapere Sonny, per poi lasciarsi cadere su una sedia imbottita accanto
alla mia.
Mi venne voglia di fumare e
mi guardai attorno. Volevo uscire da quello studio, starci chiuso
troppo a lungo mi dava una sensazione di claustrofobia, forse perché
non ero più abituato a trascorrere tante ore all'interno di un
ambiente insonorizzato che sembrava quasi una bolla sospesa sul resto
del mondo.
«Usciamo a fumare e ti
racconto» gli dissi, per poi alzarmi e frugare nelle mie
tasche.
«Okay.»
Raggiungemmo in fretta il
balcone che si affacciava su un grande parco immerso nel verde, e io
mi appoggiai con i gomiti alla balaustra, mentre Sonny costruiva una
stecca di erba.
«Dicevo... eravamo in
giro per Kingston, abbiamo visto una locandina di un evento e abbiamo
deciso di andarci. Sembrava divertente. Bryah, una giornalista
musicale che abbiamo conosciuto laggiù, conosceva i due
artisti e ci ha voluto accompagnare a tutti i costi» spiegai.
«Oddio! E com'è
andata?»
Ridacchiai. «Sono
stati loro a riconoscere noi. Eek ha fin da subito preso Daron in
simpatia e gli ha fatto un discorso insensato che ci ha fatto morire
dal ridere. C'è stato uno scambio assurdo di foto e autografi,
e i due poi ci hanno regalato qualche loro disco. È stato
incredibile!»
Sonny mi batté sulla
spalla. «Hai avuto una fortuna pazzesca.»
Annuii. «Lo so. E poi
hanno insistito per rimanere in contatto con noi, così ci
siamo scambiati il numero di cellulare.» Mi bloccai
d'improvviso e mi voltai completamente verso Sonny. «Ehi! E se
li invitassimo alla serata di beneficenza?» proposi.
Il mio amico mi fissò
per un attimo. «Sai che ti dico?»
«Cosa?»
«Che sei un fottuto
genio!»
Sonny aveva insistito perché
mi fermassi a dormire da lui almeno per una notte, facendomi
intendere che anche sua moglie e i suoi figli ne sarebbero stati
contenti. Lo avevo ringraziato tantissimo, ma avevo rifiutato.
E ora, mentre mi trovavo sul
volo notturno diretto a Las Vegas, non mi pentivo della mia
decisione. Volevo andare da Leah, avevo qualcosa di importante da
dirle e sentivo che lei aveva bisogno di me.
Mi ero accordato con John,
mentre correvo in aeroporto, affinché stesse con lei finché
non fossi arrivato. Lui aveva accettato senza pensarci due volte e mi
aveva assicurato che le sarebbe stato accanto, portandola con sé
nel piccolo appartamento che aveva affittato in vista del tempo che
avrebbe trascorso a Las Vegas per via di Torpedo Comics.
Mi gettai letteralmente giù
dall'aereo, travolgendo numerosi passeggeri che stazionavano per
inerzia nel corridoio e cercavano di recuperare i loro bagagli
stipati nelle cappelliere.
Mi beccai diverse
imprecazioni, ma non mi importava. Dovevo correre da Leah, ed era già
l'una meno venti di notte.
Dovetti attendere il mio
turno per prendere un taxi, e maledissi tutto l'afflusso di
passeggeri che anche a quell'ora sciamava disordinato sul marciapiede
illuminato da forti lampioni dalla luce giallastra.
Una volta seduto a bordo,
comunicai all'autista l'indirizzo che John mi aveva inviato su
WhatsApp e cercai di rilassarmi sul sedile mentre l'auto procedeva
fin troppo a rilento per i miei gusti.
Quando giungemmo a
destinazione era l'una e dieci. Pagai la corsa con una banconota da
cinquanta dollari e dissi all'autista di tenere il resto, poi mi
scaraventai giù dall'auto, trascinandomi dietro il mio modesto
bagaglio.
Suonai il campanello che
John mi aveva indicato e attesi. Un attimo dopo, un click mi
avvertì che il portone si era aperto. L'appartamento si
trovava al secondo piano, così ignorai la presenza
dell'ascensore e salii di corsa le scale, senza preoccuparmi di star
facendo un baccano infernale.
Quando giunsi di fronte alla
soglia, lei era Leah: indossava una canottiera e un paio di
pantaloncini leggeri, sulle spalle teneva un plaid bordeaux e i piedi
carezzavano nudi il pavimento di linoleum. I capelli erano legati
disordinatamente sulla nuca e qualche ciuffo ricadeva sul viso,
adombrandolo un poco. I suoi occhi scuri erano malinconici e parevano
volermi rimproverare.
Lasciai andare il mio
borsone e di slancio abbracciai Leah, tenendola stretta a me con
tutte le forze che avevo. Lei posò la testa sul mio petto e
ricambiò il mio gesto, tremando leggermente tra le mie
braccia.
«Leah, come stai?
Oddio, ero così in ansia...» sussurrai, affondando il
viso tra i suoi capelli.
«Shavarsh... sto bene,
ma tu...» Mi spinse via e mi guardò negli occhi. «Sei
impazzito? Ti avevo detto di non farlo!»
John ci raggiunse sulla
soglia e rimase in silenzio, avvolto nei suoi abiti scuri e in un
velo di discrezione.
«Amico! Grazie,
davvero, grazie! Hai prenotato la stanza che ti avevo chiesto?»
domandai al batterista, accostandomi a lui per salutarlo con un breve
abbraccio fraterno.
«Certamente»
confermò lui con un lieve sorriso. «Lei sta bene,
davvero. La tua ragazza è forte, Shavo» sussurrò.
Leah lo affiancò e
annuì. «Diglielo! Ha fatto una cazzata!» Poi si
rivolse al batterista. «E tu l'hai assecondato! Sei impazzito
anche tu?»
John le arruffò
affettuosamente i capelli. «Adesso basta protestare. Andate a
riposare, domani pomeriggio alle tre ti voglio al lavoro!»
esclamò.
«Okay, capo!»
Leah si allungò per dargli un bacio sulla guancia, poi corse
dentro per rimettersi le scarpe.
«John, grazie.
Senti...» Mi guardai attorno e cercai di capire dove si
trovasse la mia ragazza. La sentii muoversi in una stanza all'interno
dell'appartamento, così proseguii a bassa voce: «È
davvero un casino continuare così. Sono molto ansioso, saperla
lontana da me mi uccide».
John sospirò. «Shavo,
non puoi trasferirti a Las Vegas o correre qui ogni volta che c'è
un problema. Leah ha ragione» mi fece notare con calma.
«Ma noi stiamo
insieme, io non riesco a...» Scossi il capo, togliendomi il
cappellino da baseball e prendendo a farlo roteare tra le dita.
«Shavo. Non essere
impulsivo, rifletti.» Il mio amico mi batté sulla
schiena. «Su, dormi e non pensarci. Domani tutto ti sembrerà
diverso, più semplice. Davvero.»
Ci guardammo negli occhi e
io pensai che potesse davvero avere ragione. Del resto, John aveva
sempre ragione.
Leah ricomparve
nell'ingresso e rivolse un'occhiata al batterista. «Tengo il
plaid, te lo riporto domani a Torpedo.»
John ci salutò e si
richiuse la porta alle spalle.
Presi Leah per mano e feci
qualche passo, ma lei si fermò prima che potessimo scendere le
scale.
«Che c'è?»
le chiesi con sospetto.
«Ti detesto»
sibilò.
«Perché?»
Sospirò. «Perché
sei venuto fin qui.»
Mi portai di fronte a lei e
le sollevai il mento con due dita, guardandola negli occhi nonostante
la penombra. Non dissi neanche una parola, mi limitai a fissarla per
un po', poi mi chinai a baciare teneramente le sue labbra. Infine la
lasciai andare a presi a scendere le scale.
Poco dopo lei prese a
corrermi dietro. «Shavo!» strillò.
E io pensai che in quel
momento qualcuno avrebbe chiamato la polizia a causa di tutto il
baccano che stavamo facendo.
John aveva prenotato una
camera in un alberghetto a poca distanza dal suo nuovo appartamento.
Avevo calcolato e organizzato tutto mentre andavo in taxi dallo
studio di Sonny all'aeroporto. Sì, ero stato impulsivo anche
stavolta, ma non riuscivo a pentirmi di essere corso dalla mia donna.
Non ce la facevo.
Mentre giacevamo immobili
tra le lenzuola, immersi nel buio e nel silenzio, sentivo che quella
notte non avremmo fatto l'amore. Non che io non desiderassi stare in
intimità con Leah, ma avevo capito che non era il caso. E
avevo bisogno di parlare con lei, di tenerla tra le braccia e
coccolarla senza arrivare a nient'altro.
«Ti va di raccontarmi
cos'è successo?» sussurrai, rompendo il silenzio.
Lei sospirò e si
sottrasse alla mia stretta. Si inginocchiò sul materasso e
cominciò a spogliarsi, poi fece lo stesso con me finché
entrambi non rimanemmo in biancheria intima. Poi tornò a
stendersi accanto a me e mi si rannicchiò contro, intrecciando
le gambe alle mie.
Era successo diverse volte
che ci spogliassimo senza poi entrare in intimità, limitandoci
a parlare o a stare in silenzio uno tra le braccia dell'altra. Era il
nostro modo per stare più vicini, per sentire il calore che
solo i nostri corpi insieme sapevano sprigionare.
«Sei anni. Shavarsh,
sono passati sei anni» cominciò Leah con voce
amareggiata. «E adesso lei ha il coraggio di comparire
nuovamente nella mia vita? No, non esiste.»
«Aspetta un figlio?»
chiesi, ricordando ciò che Leah mi aveva detto al telefono.
«Una sorellina,
ha detto. Che stronza. Chissà da chi si è fatta mettere
incinta» commentò con disprezzo. «Io non voglio
pensarci. L'ho cacciata, così come ieri ho tagliato fuori Alan
Moonshift dalla mia vita. Sono esseri spregevoli e io non voglio
averci niente a che fare.»
Accarezzai la sua schiena
nuda e sospirai. «No, infatti non devi pensarci. Devi seguire
il tuo cuore e il tuo istinto, e se questi ora ti suggeriscono di
stare alla larga dai tuoi genitori, be'...» Feci una piccola
pausa. «Nessuno può dirti se sia giusto o sbagliato.
Forse hai bisogno di tempo, forse no. Però per ora cerca di
stare tranquilla e di pensare solo a te stessa» le suggerii,
sperando che i miei consigli non fossero banali o inutili.
«Hai ragione. Lo so
bene. Però mi sono infuriata così tanto!»
esclamò, aggrappandosi a me con più forza.
«È normale,
Leah. È comprensibile.»
«Tu sei impazzito,
comunque» cambiò discorso, mollandomi un piccolo pugno
sul petto.
«Senti, Leah...»
Mi feci serio e mi scostai appena da lei, in modo da poter cercare il
suo sguardo.
«Dimmi. Che c'è?
Com'è andata a San Diego?» mi chiese, sollevandosi su un
gomito per potermi osservare meglio.
Le accarezzai la guancia con
delicatezza. «Dopo te lo racconto, ora ascoltami. Per me è
davvero difficile starti lontano. Vengo assalito dall'ansia e dalla
preoccupazione se solo penso che... okay, be'...»
«Shavarsh, cosa stai
cercando di dirmi?» volle sapere lei, lanciandomi un'occhiata
sospettosa.
«Avevo pensato di
trasferirmi a Las Vegas e di chiederti se ti andasse di vivere con
me...»
«No! Sei impazzito? È
uno scherzo? Tu non puoi... hai una vita, una casa... hai...»
Le posai un dito sulle
labbra. «Aspetta, lasciami finire. Ci avevo pensato, ti giuro
che avevo deciso di proportelo.» Sospirai e mi grattai dietro
l'orecchio. «Però poi ci ho pensato bene. A volte prendo
delle decisioni avventate, sono impulsivo. Ma ho capito che non posso
chiedertelo. Non posso chiederlo né a te né a me
stesso. Ho anche pensato che avresti potuto venire a Los Angeles da
me, ma tu adesso hai un lavoro qui. E io ho tante cose da fare e da
gestire nella mia città.»
Leah annuì con
vigore. «Esatto. Non è il momento.»
Ci guardammo negli occhi per
un po', poi lei si accostò a me e mi baciò lentamente
sulle labbra.
La strinsi a me e ricambiai
il gesto, approfondendolo con calma, in modo che quel contatto
risultasse fluido e dolce, intenso e colmo di tutto ciò che
sentivo per lei.
«Lo vorrei tanto, ma
per ora è meglio lasciare che le cose stiano così»
sussurrò, accarezzandomi teneramente il viso.
«Lo so anche io, me ne
rendo conto perfettamente» ammisi. «E John mi ha invitato
a rifletterci.»
«John è
fantastico!» affermò Leah, tornando ad accoccolarsi
accanto a me. «Allora? Mi racconti di San Diego?» ripeté
dopo un po'.
Le raccontai di Sonny, della
sua idea per la serata di beneficenza e della mia proposta di
invitare anche Eek-A-Mouse e Barrington Levy.
«Hai avuto
un'illuminazione fantastica!» esclamò, agitandosi per
l'eccitazione. «Io voglio esserci assolutamente!»
aggiunse.
«Ma certo! Sarà
una serata memorabile, ne sono certo. Sonny non sbaglia mai in queste
cose.»
Leah sbadigliò.
«Già.» Si stiracchiò sensualmente al mio
fianco.
I miei occhi percorsero
lentamente il suo corpo magro e pallido, avvertendo il bisogno di
accarezzarlo e prendermene cura, ma subito mi resi conto di quanto
fossi stanco.
Avevo viaggiato per quasi
tutto il giorno, e in quel momento tutto si stava riversando sul mio
corpo. Sbadigliai a mia volta e chiusi gli occhi.
Leah mi diede le spalle e io
la abbracciai da dietro, facendo aderire il mio petto alla sua
schiena.
«Leah?»
mormorai.
«Dimmi»
biascicò.
«No» risposi.
«Niente.»
«Su, dimmelo» mi
incoraggiò.
Sospirai, accarezzando
distrattamente la sua pancia. «Mi ha fatto piacere ricevere
quel messaggio» spiegai con cautela.
La sentii sorridere. «Sei
uno sciocco. Tutto qui?»
«Be', sì...»
«Buonanotte,
Shavarsh.»
«Sogni d'oro, Leah.»
|
Ritorna all'indice
Capitolo 67 *** Everything's gonna be alright! ***
ReggaeFamily
Everything's
gonna be alright!
[John]
Bryah
era seduta sul tappeto con le gambe incrociate, il portatile
appoggiato accanto a sé e una miriade di fogli sparsi
tutt'intorno.
Ero
appena rientrato da Las Vegas per il weekend e mi sentivo molto
stanco, ma allo stesso tempo felice e soddisfatto. I lavori a Torpedo
Comics procedevano piuttosto bene, Leah era una grande risorsa per me
e tutto si stava mettendo per il meglio.
La
mia compagna sollevò gli occhi dallo schermo del computer e mi
rivolse un sorriso che subito sciolse il mio cuore. Lasciai i bagagli
sulla soglia del salotto e la raggiunsi, chinandomi su di lei per
baciarla.
Lei
mi attirò a sé e ci ritrovammo sdraiati sul tappeto,
stretti in un abbraccio. Era bello tornare a casa, poter sentire quel
profumo familiare e quel calore intenso, poter stringere tra le
braccia quella donna meravigliosa e dimenticare tutto il mondo fuori.
«Ciao»
mormorò Bryah, cercando le mie labbra mentre accarezzava
sensualmente la mia schiena.
«Ehi»
replicai, tenendola stretta a me. Ricambiai il suo bacio e lo
approfondii, beandomi di quel sapore che mi era mancato: un mix
inebriante di caffè e menta.
«Com'è
andata?» mi chiese lei, appoggiando la testa sulla mia spalla.
«Bene,
tutto a meraviglia. Sono sfinito, ma va tutto alla grande»
raccontai, lasciandomi sfuggire un breve sbadiglio. «E a te?
Stavi lavorando?»
Bryah
annuì. «Sto finendo di buttare giù un articolo su
una band emergente che sono andata a sentire ieri sera. Faranno
strada.»
«Se
lo dici tu, ci credo!»
Bryah
alzò il viso e mi guardò negli occhi. «Ieri mi
hanno comunicato che tra qualche settimana dovrò andare a
Kingston per un'udienza. Si tratta di Benton.»
Subito
mi rabbuiai e rotolai sulla schiena, tenendo lo sguardo fisso sul
soffitto che mi sovrastava. Intrecciai le mani sulla pancia e tentai
di assimilare al meglio quell'informazione per niente piacevole.
«John?»
«Sì,
ho capito» dissi con calma. «Allora dobbiamo prenotare i
voli al più presto.»
Bryah
si mise a sedere e mi guardò dall'alto in basso. Il suo bel
viso mostrava un'espressione indecifrabile, e le sue labbra carnose
erano incurvate verso il basso. «Posso andarci anche da sola,
so che hai da lavorare in negozio.»
D'istinto
allungai una mano e afferrai la sua, stringendola forte. «Non
dire sciocchezze, non ti lascerò da sola. Abbiamo affrontato
tutto questo insieme, e lo faremo fino alla fine.» Mi misi a
sedere a mia volta e scrollai le spalle. «Leah se la caverà
in negozio, non preoccuparti. Quando si terrà l'udienza?»
volli sapere.
«Il
22 novembre, di venerdì» disse Bryah, dopo aver
afferrato uno dei tanti fogli sparsi sul tappeto. «Dovrebbe
essere l'ultima» aggiunse con un sospiro.
«Lo
spero. Voglio che tu riesca finalmente a stare tranquilla»
affermai, per poi sbuffare e passarmi le mani tra i capelli.
«Andrà
tutto bene.» Bryah mi abbracciò. «E... John?»
«Dimmi»
sussurrai, immergendo il viso tra la sua folta chioma corvina.
«Quando
tutto sarà finito, voglio cominciare a lavorare seriamente al
vostro libro» annunciò, spingendomi nuovamente
all'indietro sul tappeto. Si sistemò a cavalcioni su di me e
mi fissò dritto negli occhi. «Sto già preparando
le interviste che intendo farvi. Ci sarà un sacco di lavoro da
fare, ma ne varrà la pena» proseguì.
«Io
non so se sarò all'altezza della situazione» ammisi,
accarezzandole una coscia coperta da un paio di pantaloni sportivi e
leggeri.
«Ma
certo che lo sarai! Sarà divertente!» Bryah sorrise e si
stese su di me, baciandomi con ardore sulle labbra.
Ci
spogliammo in fretta, avevamo una certa urgenza di stare insieme, di
unirci e stare il più vicini possibile.
Facemmo
l'amore con urgenza e passione, per poi ricadere abbracciati sul
tappeto e riprendere fiato, mentre ci accarezzavamo con tenerezza e
delicatezza.
«Stare
qui mi fa sentire al sicuro» disse Bryah, quando l'oscurità
della sera calò su di noi e ci ritrovammo immersi quasi
completamente nel buio.
«Ne
sono felice. Per me è importante» dissi, attirandola
ancora più vicino a me.
«Ho
fame. So che non è il massimo, ma ho qualche avanzo di ciò
che ho preparato oggi a pranzo. Credi di poterti accontentare?»
chiese lei.
La
baciai sulla fronte. «Certo. Non c'è problema, lo sai.»
Ci
alzammo e ci rivestimmo, per poi passare in cucina. Mangiammo e
chiacchierammo finché non fummo troppo stanchi per farlo, e
allora ci gettammo a letto sfiniti e sereni.
L'udienza
fu sfiancante, ma non durò troppo.
Per
fortuna Benton non presenziò, e Bryah fu molto contenta di non
trovarlo nelle vicinanze.
Per
lei fu difficile ascoltare ancora una volta tutta la storia, così
come risultò doloroso per lei rispondere ad altre domande che
parevano non finire mai.
Infine
ci fu una pausa, durante la quale il giudice si ritirò per
decidere cosa ne sarebbe stato di Benton. A livello penale era già
stato processato e aveva ottenuto una condanna per molestie e
violenza fisica, ma quel giorno avremmo saputo se Bryah avesse
diritto a un risarcimento per i danni civili subiti da quel coglione
del suo ex fidanzato.
Bryah
sospirò. «Spero che questo incubo finisca in fretta»
borbottò, appollaiata su una sedia imbottita che si trovava in
un corridoio del tribunale.
«Non
preoccuparti» la rassicurai, posandole una mano sulla spalla.
Dal canto mio, avevo deciso di stare in piedi, ero troppo irrequieto
per pensare di stare ancora seduto e immobile.
Attendemmo
per più di un'ora e trascorremmo per lo più il tempo in
silenzio, ognuno immerso nei propri pensieri.
Avevamo
deciso di alloggiare allo Skye Sun Hotel per un paio di notti, poiché
Bryah non se l'era sentita di invadere la casa dei suoi genitori
adottivi e non disponeva più dell'appartamento che aveva preso
in affitto insieme a Benton.
Avevamo
raggiunto l'albergo giusto per lasciare i bagagli, ma non avevamo
incontrato nessuno dei nostri amici.
Mentre
mi chiedevo quando avrei potuto salutare i ragazzi che lavoravano in
albergo, l'avvocato di Bryah ci raggiunse e la mia compagna si alzò
subito e gli andò incontro.
«Avvocato
Cohen, cosa mi dice?» chiese immediatamente.
L'uomo
dalla pelle scura e i lineamenti marcati ci rivolse un breve sguardo.
«Il giudice ha deliberato.»
Mi
accostai a Bryah e le sfiorai la schiena. «Cosa è stato
deciso?» mi intromisi.
«Il
signor McGregor è stato condannato a un risarcimento di
cinquecentomila dollari. Mi dispiace, non abbiamo potuto fare di
meglio» spiegò l'avvocato Cohen con calma.
Bryah
annuì e sospirò. «Va bene. Ma Benton non ha
soldi, questo cosa significa?» chiese poi.
«Gli
verranno sequestrati diversi beni, dei quali ora come ora non può
disporre in ogni caso. Venga con me, ci sarebbero da firmare alcune
carte, poi potrà andare.»
«Ti
aspetto qui» sussurrai.
Bryah
sorrise lievemente e seguì il suo avvocato.
Mentre
attendevo che lei tornasse da me, controllai il cellulare e notai che
avevo diverse notifiche, per lo più messaggi su WhatsApp.
Il
primo che aprii fu quello da parte di Leah.
Qui
tutto bene, capo! E da voi? Fatemi sapere qualcosa appena possibile,
okay? Ah: non dimenticarti di dare i miei regali ai ragazzi :)
Digitai in fretta una
risposta in cui spiegavo a Leah che la sentenza era stata appena
emessa, poi la rassicurai e scorsi velocemente gli altri messaggi. Ce
n'erano alcuni dei miei amici, uno di mia madre e uno di Sako.
Bryah mi raggiunse dopo un
po'.
La strinsi in un abbraccio.
«Andiamo?»
«Sì, torniamo
in albergo e cerchiamo di rilassarci. Abbiamo un po' di tempo tutto
per noi» rispose lei, poi mi prese per mano e insieme lasciammo
il tribunale.
Il taxi si allontanò
in fretta e io contai le infinite monetine che il conducente mi aveva
restituito. Gli avevo detto che poteva tenere il resto come mancia,
ma lui non ne aveva voluto sapere e ora mi ritrovavo con un
mucchietto di ferraglia tra le mani.
«Quant'è?»
volle sapere Bryah, sbirciando oltre la mia spalla, mentre
camminavamo lungo il vialetto.
«Saranno sì e
no quattro dollari» bofonchiai, passando attraverso le doppie
porte scorrevoli che si erano appena spalancate.
Notai subito Dayanara dietro
il banco della reception. Il ragazzo, con il suo solito portamento
discreto, ci sorrise e ci venne incontro.
«Day!» lo
salutai, battendogli sulla spalla con fare amichevole. «È
bello rivederti» aggiunsi.
«John! Oh, Bryah! Che
ci fate qui?» esordì il receptionist, salutandoci
educatamente e stringendo la mano a entrambi.
«Avevamo un'udienza,
sai, per la storia di Benton...» spiegò Bryah.
«Già, cavoli!»
esclamò il ragazzo con aria dispiaciuta. «Spero sia
andato tutto bene. Quanto vi trattenete qui?»
«Stiamo qui per due
notti» risposi, avvicinandomi al banco.
Lui tornò al suo
posto e picchiettò velocemente sulla tastiera del computer.
«Vi siete già registrati?»
«Sì, siamo
arrivati stamattina. Alwan e Cornia sono nei paraggi?»
Dayanara mi guardò
negli occhi e sorrise. «Al è di turno, Cornia sarà
qui domani.»
Annuii. «Allora
andiamo a prendere un caffè e salutare Alwan. Ci vediamo più
tardi» conclusi, avviandomi verso l'ascensore.
Dayanara ci salutò
brevemente e fu intercettato da qualche cliente che era appena
arrivato.
Io e Bryah chiamammo
l'ascensore e attendemmo che le doppie porte si aprissero. Quando ciò
avvenne, ci trovammo faccia a faccia con un ragazzone alto e biondo,
con l'aria di un vichingo. Indossava una maglia verde a maniche corte
con la stampa di una qualche band scandinava su un paio di bermuda
grigio topo.
Non appena i suoi occhi
chiari si posarono su di me, ebbe un lieve sussulto e si immobilizzò.
«Cazzo, tu sei il batterista dei System Of A Down!»
esclamò con voce strozzata.
Io dovetti trattenere un
sospiro e mi limitai ad annuire. «Indovinato» commentai,
sperando si facesse da parte e ci lasciasse andare.
«Fratello! Facciamo
una foto!» strepitò il vichingo, estraendo rapidamente
lo smartphone dalla tasca dei pantaloni.
«Va bene»
acconsentii, notando che Bryah si faceva discretamente da parte.
«Grande! Com'è
che ti chiami? Voi della band avete dei nomi un po' strani, non sono
mai riuscito a memorizzarli» continuò a blaterare il
tizio, mentre impostava la fotocamera interna.
«John» dissi in
tono piatto, evitando di fargli notare che il mio nome era
estremamente semplice e comune.
Lui annuì con vigore
e mi circondò le spalle con il braccio destro, mentre con il
sinistro sollevava il cellulare di fronte alle nostre facce. Cominciò
a controllare che l'inquadratura andasse bene e non scattò
finché non fu soddisfatto della luminosità.
Mi ritrovai pigramente a
chiedermi se fosse mancino come me, visto che compieva quasi tutte le
azioni con il braccio sinistro.
«Grazie, John! E scusa
il disturbo, ma quando mai mi sarebbe ricapitata un'occasione
simile?» fece infine, battendomi leggermente sul braccio. «Ci
vediamo in giro, fratello!» concluse, per poi allontanarsi in
direzione della reception.
Finalmente io e Bryah
potemmo prendere l'ascensore e dirigerci verso la terrazza panoramica
dello Skye Sun Hotel.
La mia compagna ridacchiò.
«Non sapeva il tuo nome?»
Feci spallucce. «No,
per niente. Non me la sono scampata neanche stavolta»
commentai, incrociando le braccia al petto. Persi lo sguardo oltre il
vetro trasparente del box, riconoscendo i luoghi che avevano fatto da
cornice alla mia vacanza in Giamaica e all'inizio della mia relazione
con Bryah.
Quest'ultima mi si accostò
e mi costrinse a sciogliere le braccia, poi si premette con il suo
corpo contro il mio e mi baciò sulle labbra. «Come ai
vecchi tempi» mormorò, dopo essersi staccata.
La abbracciai e sorrisi.
«Hai ragione.»
«Non prendertela per
quell'ammiratore, su» mi suggerì, accarezzandomi con
dolcezza una guancia.
Afferrai la sua mano con la
mia e la portai alle labbra, baciando le punte delle sue dita. «Va
bene, va bene.»
Le doppie porte metalliche
si schiusero e noi scendemmo dal box, ritrovandoci sulla grande
terrazza panoramica dello Skye Sun Hotel. Riconobbi il chiosco in
legno al centro del grande spiazzo sopraelevato, i tavolini
disseminati ovunque e parzialmente coperti da alcuni ombrelloni. Mi
soffermai sulla balaustra che ne delimitava quasi interamente il
perimetro, poi adocchiai le casse dalle quali si diffondevano le note
di un'allegra e tranquilla canzone reggae.
L'atmosfera era sempre la
stessa, anche se novembre era ormai giunto al termine.
«Questa è Tanya
Stephens!» affermò Bryah, riconoscendo il brano in
sottofondo.
«Ha una voce
particolare» commentai, ascoltando più attentamente la
musica. «Mi pare di conoscerla, o meglio, lo strumentale l'ho
già sentito...»
Bryah si strinse nelle
spalle. «Sai come funziona nel reggae, no? Vengono create delle
basi dai produttori o dai sound system. Poi ogni artista sceglie se
cantarci sopra o meno, e ovviamente crea una sua linea vocale, usa il
suo stile...» cominciò a spiegarmi, mentre si avviava
verso il chiosco.
«Ah, sì,
giusto.»
Proprio in quel momento,
Alwan emerse da dietro il bancone del bar e sbiancò nel
riconoscerci.
«Ehi! È un
miraggio o siete proprio John e Bryah?» esordì,
battendosi una mano sulla fronte.
Ridacchiai. «Nessun
miraggio. Ciao, Al! Come va?»
il barista fece velocemente
il giro del bancone e ci si scaraventò addosso, stringendoci
in un forte abbraccio. «Ragazzi! Che bello vedervi! Leah non me
lo aveva detto, voleva farmi venire un infarto!»
Bryah rise e gli scompigliò
i capelli un po' più lunghi di quanto ricordassi. «Ti
trovo bene!»
Alwan annuì con
convinzione. «Va tutto alla grande! Insomma, il lavoro è
sempre lo stesso, però c'è stato un aumento del
personale e si respira un po' di più. Non posso lamentarmi! E
voi che fate qui?»
«C'è stata
un'udienza oggi, stiamo arrivando proprio ora da Kingston»
spiegai, appoggiandomi con i gomiti sul bancone in legno.
Alwan tornò al suo
posto e guardò Bryah. «Per quel coglione del tuo ex?»
domandò con apprensione.
«Già. È
andata bene, tranquillo» replicò lei.
Mi parve più serena,
come se stesse cominciando a rendersi conto proprio in quel momento
di quanto la situazione si fosse messa bene per lei. Forse stava
cominciando a comprendere che era finita, che tutto da quel momento
in poi sarebbe migliorato e che avrebbe finalmente potuto riprendere
definitivamente in mano la sua vita.
«Meglio così!
Vi va un Blue Mountain?» ci propose lui in tono allegro.
Accettammo di buon grado e
andammo a sederci a un tavolino poco distante dal chiosco, mentre
dalle casse si diffondevano le note di un'altra canzone.
«Questo chi è?»
domandai a Bryah.
«Anthony B»
rispose senza esitazioni, strizzandomi l'occhio.
«Ti ricordi anche
tutti i titoli delle canzoni?» la presi in giro con ironia,
fissandola insistentemente con l'intento di metterla in soggezione.
«Ma certo! Quella di
Tanya Stephens si intitolava It's A Pity, mentre questa è
Reggae Gone Pon Top» affermò con insolenza,
restituendomi l'occhiata.
Scoppiai a ridere. «Va
bene, hai vinto!»
Alwan volò accanto a
noi con un vassoio in mano. Appoggiò le nostre tazzine sul
tavolo e si guardò attorno. Dopo essersi accertato che non
c'erano altri clienti nei paraggi, scostò una sedia e si
accomodò insieme a noi.
«Quanto resterete qui?
Perché Leah e gli altri non sono venuti con voi?» volle
sapere il barista, osservandoci con gli occhi colmi di felicità.
«Hanno tutti da fare.
Ho dovuto lasciare Leah a lavorare nel mio negozio» spiegai.
«Ah sì! Il
negozio di fumetti, vero? Me l'ha detto! È una cosa
fantastica, John, sul serio!» si entusiasmò Alwan.
«Sta andando bene, sì.
È magnifico» confermai, sorseggiando il caffè.
«Ottimo! Sapete, io e
Day andremo a vivere insieme. Contiamo di trasferirci nel periodo di
Natale, abbiamo trovato un appartamento in città che fa al
caso nostro» raccontò, con gli occhi che brillavano e la
voce rotta dall'emozione.
«Sul serio? Ma è
una notizia strepitosa!» esclamò Bryah, posandogli una
mano sul braccio. «Sono felice, ve lo meritate» aggiunse,
guardandolo negli occhi.
«Grazie! Non vedo
l'ora» ammise il barista.
«La prossima volta che
verremo in Giamaica, passeremo da casa vostra» dissi in tono
scherzoso.
Continuammo a chiacchierare
finché Alwan non fu costretto a tornare al lavoro. Decidemmo
di vederci il giorno seguente per trascorrere un po' di tempo
insieme, dal momento che per lui sarebbe stato il giorno libero.
Io e Bryah andammo a cena e
ci ritirammo nella nostra stanza, sfiniti dal viaggio e dal tempo
trascorso in tribunale.
Era stata una giornata
intensa, ma ne era valsa la pena. Tutto ciò che avevamo fatto
avrebbe giovato al nostro futuro, entrambi lo sapevamo bene.
Ripensavo già con
nostalgia a quei due giorni trascorsi allo Skye Sun Hotel, mentre io
e Bryah viaggiavamo in aereo verso Los Angeles.
Quel luogo era stato magico,
ancora una volta era riuscito a penetrarmi nel cuore e a lasciare un
segno indelebile nei miei ricordi.
Osservai Bryah che dormiva
sul sedile accanto al mio, con la testa che ciondolava da un lato.
Feci in modo che poggiasse il capo sulla mia spalla e sorrisi.
Ripercorsi con la mente la
jam session che avevamo improvvisato io e Alwan; era notte fonda e ci
eravamo riuniti nella spiaggia privata dell'albergo. Io ero finito a
suonare uno djambé, Alwan la chitarra classica e Miriam, la
bagnina, si era rivelata una discreta cantante. Bryah aveva scattato
qualche foto, mentre Dayanara osservava la scena con ammirazione.
Cornia sghignazzava, tenendo Lakyta stretta a sé e insinuando
le mani sotto la sua canottiera leggera.
Avevamo bevuto e mangiato,
ci eravamo divertiti ed era stato come fare un salto indietro nel
tempo, come tornare all'ultima notte della nostra vacanza tutti
insieme, quando Daron aveva organizzato quella festa improbabile.
Mi tornò in mente un
breve scambio di battute che avevo avuto con Miriam e mi ritrovai a
rifletterci su.
«Daron...
come sta?»
«Se
la cava, non c'è male.»
«Era
davvero carino.»
«Già,
diciamo che quando vuole sa esserlo.»
«Avrei
voluto conoscerlo meglio, ma non c'è stato tempo. Non me la
sono sentita di intraprendere qualcosa con lui, sai, non abbiamo
proprio avuto modo di...»
«Certo,
è comprensibile. Non devi giustificarti, Miriam.»
«Be',
ehi, portagli i miei saluti.»
«Senz'altro.»
Forse Daron aveva davvero
fatto colpo su quella ragazza, ma dubitavo che ormai ci fosse
qualcosa da salvare tra loro. Erano troppo distanti e non si
conoscevano; probabilmente Daron si era già dimenticato di
Miriam, o forse custodiva il suo ricordo come uno dei tanti bei
momenti di quella vacanza in Giamaica, niente di più.
Lakyta non mi aveva rivolto
la parola ed era rimasta in silenzio per tutto il tempo. Era come se
fosse cambiata radicalmente: si era chiusa parecchio dall'ultima
volta che l'avevo vista, da quella notte in cui ci eravamo ritrovati
a confidarci sulla terrazza panoramica.
Stava sempre vicino a
Cornia, non guardava più in direzione di Alwan, probabilmente
aveva capito che lui stava con Dayanara e che per loro due non c'era
alcuna speranza. E avevo avuto la vaga impressione che avesse anche
compreso che non sarebbe mai riuscita a raggiungere Hollywood come
aveva sempre sognato.
Era come se i sogni di
quella ragazza si fossero consumati come una vecchia candela, e
questo aveva fatto sì che il suo atteggiamento mutasse e la
rendesse introversa e taciturna.
Prima di partire, ero
riuscito a scambiare due chiacchiere con lei, e sperai vivamente che
questo fosse servito a non farle perdere di vista i suoi obiettivi.
Forse era sempre stata una
ragazza frivola e superficiale, ma non era cattiva.
«Lakyta,
stai bene?»
«Certo.
E tu?»
«Vuoi
ancora venire a Hollywood?»
«Oh,
no. È passata, John, è passata.»
«Non
ci credo. Allora ciò che mi hai detto quella notte...»
«Non
farci caso. Non conta più. Ora sto bene.»
«Non
ti credo. Ti consiglio di non lasciarti abbattere, di non
arrenderti.»
«Grazie,
ma ormai è tardi.»
«Non
dirlo.»
«Be',
ti ringrazio per esserti preoccupato, ma adesso sto bene così.»
Di sicuro non avevo potuto
costringerla, ma forse Lakyta avrebbe ripensato alle mie parole.
Forse si sarebbe riscossa, forse avrebbe capito che non doveva
accontentarsi di una relazione con Cornia se non poteva avere Alwan,
e che non poteva accontentarsi di un lavoro come cameriera se
desiderava fare l'attrice.
Quei pochi giorni, a parte
la storia dell'udienza, erano stati ristoratori e mi avevano permesso
di ricaricarmi.
Mentre viaggiavo verso casa,
sentivo di essere pronto per rigettarmi a capofitto nel progetto
Torpedo Comics, per incoraggiare i ragazzi a creare nuova musica
insieme, per aiutare Bryah con il suo libro e con tutto ciò
che voleva ottenere dalla sua nuova vita.
I pensieri vorticavano nella
mia mente, e senza rendermene conto mi addormentai a mia volta sullo
scomodo sedile dell'aereo, lasciando cadere la testa contro quella
della mia compagna.
Fuori dal finestrino, me ne
accorsi appena, aveva cominciato a piovere.
Cari
lettori, eccomi qui, come ogni giovedì ^^
La
faccio breve, scrivo solo per farvi ascoltare, come di consueto, i
brani che ho inserito nel corso del capitolo!
Ecco
la prima canzone, It's A Pity di Tanya Stephens:
https://www.youtube.com/watch?v=3p55wXWyc4o
Ed
ecco a voi anche il secondo pezzo, Reggae Gone Pon Top di
Anthony B:
https://www.youtube.com/watch?v=nEd7CXys2vQ
Mi
rendo conto che probabilmente per alcuni di voi questo non è
proprio il genere preferito, però ecco, John e Bryah erano in
Giamaica e io dovevo dare ancora una volta una certa atmosfera agli
avvenimenti, cercate di capirmi ;)
Alla
prossima e grazie ancora a tutti voi ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 68 *** Psychopath ***
ReggaeFamily
Psychopath
[Daron]
Ci
avevo riflettuto, ma non ci avevo riflettuto affatto.
Quando
avevo letto il messaggio di Layla, la mia mente aveva immediatamente
preso una decisione: sarei andato a quell'appuntamento, avrei provato
a parlare con lei e a capire se tra noi fosse possibile creare un
qualche rapporto. Certo, non sarei mai stato suo padre, ma se fossi
riuscito a diventare quanto di più simile a una figura paterna
per lei, mi sarei sentito meglio.
MI
capitò di discutere della questione con Sako, la sera prima;
eravamo usciti tra amici, e insieme ci eravamo recati fuori dal
locale a fumare.
Era
tardi perché qualcuno mi facesse cambiare idea, ma il tecnico
della batteria non esitò a farmi sapere cosa pensava riguardo
alla mia situazione.
«Daron,
io non voglio fare il guastafeste. Tutta questa storia è una
figata, certo, ma secondo me dovresti darci un taglio. Insomma, non
mi pare il caso che tu giochi a fare il genitore con una ragazza che
potrebbe benissimo essere la tua amante.»
Gli
lanciai un'occhiataccia, sperando di aver capito male. «La mia
amante?»
Sako
scrollò le spalle. «Sì, hai capito. Quella lì
non è più una bambina, l'ho vista. Che ne sai tu?
Chissà quali sono le sue reali intenzioni... fratello, te lo
dico perché a te ci tengo. Fa' attenzione. Lei ti ha fatto
credere che sua madre volesse metterla contro di te, che lei volesse
impedirvi di scoprire la verità... ma tu hai parlato con
Dolly? Hai sentito la sua versione dei fatti?»
Quelli
che Sako mi stava esponendo erano dei dubbi che mi erano venuti in
mente miliardi di volte. Però lui non conosceva Dolly, non
sapeva quanto lei potesse essere furba e quali fossero sempre stati i
suoi interessi.
«Potrebbe
essere che hai ragione, ma io non penso proprio che Layla sia così
cattiva» replicai, per poi prendere una boccata di fumo.
«Ripeto:
sta' attento, okay? Io e i ragazzi vorremmo evitare di raccogliere
ancora una volta i tuoi cocci da sotto il divano» concluse,
spegnendo la sua sigaretta sul bordo del marciapiede.
«Non
sono più un poppante. Possibile che nessuno se ne sia
accorto?»
Il
mio amico mi guardò negli occhi. «Questo non c'entra
niente. Nessuno di noi lo è, ma ciò non significa che
non ci serva qualche consiglio ogni tanto» disse, per poi
sorridermi appena.
Mentre
rientravo nel locale, riflettei su ciò che Sako mi aveva
detto: poteva avere ragione, ed era proprio per questo che volevo
vedere Layla.
Avevo
qualcosa in mente e decisi di metterla in pratica proprio il giorno
seguente.
Mercoledì
mattina, a mezzogiorno e venti, raggiunsi il nostro punto d'incontro.
Ero in ritardo, neanche a dirlo, e avevo fatto una corsa folle per
riuscire a raggiungere il Boulevard in tempi non troppo lunghi.
La
strada brulicava di persone, gente di tutti i tipi e le etnie, tutti
vestiti a caso o seminudi, come sempre succedeva a Los Angeles. Non
mi sarei mai abituato a vedere tutti quei colori tutti insieme, a
notare la diversità della razza umana racchiusa in pochi metri
e schiacciata dal sole del mezzogiorno. Era uno spettacolo
affascinante e raccapricciante insieme.
Qualcuno
mi picchiettò sulla spalla e io mi voltai di scatto, timoroso
che si trattasse di qualche fan rompiscatole.
Era
Layla.
«Ah,
sei tu! Ciao» esordii, tirando un sospiro di sollievo.
«Scusa,
non volevo spaventarti. Allora sei venuto!» rispose, ritraendo
in fretta la mano. Forse si era ricordata di quanto, la volta
precedente, avessi detestato il suo continuo tocco su di me.
«Già.
Ti va se andiamo a pranzo da Tigran e Alina?» le proposi. «Se
non ti senti a tuo agio, fa' nulla. Magari ti va di andare in un fast
food?» proseguii.
Lei
ridacchiò. Solo in quel momento mi resi conto che era ben
truccata, indossava un vestito azzurro che metteva in risalto le sue
forme non troppo generose, e che ai piedi portava degli stivaletti
neri e semplici con il tacco basso. Era carina, ma non l'avevo mai
vista così curata. In genere era sempre stata molto semplice e
quasi anonima.
«Daron,
a me va benissimo se andiamo in quel ristorante armeno. Lo adoro! E
oggi ho cercato di essere un po' più presentabile, non vorrei
mai che quei bravi signori pensino che sono una stracciona o qualcosa
del genere» si giustificò, accennando al suo aspetto.
Mi
tornò in mente Sako. Se avesse visto com'era fatta Layla,
probabilmente avrebbe capito che lei era ben diversa da sua madre.
Dolly era sempre stata un'esibizionista, aveva sempre amato farsi
guardare e stare al centro dell'attenzione. E io, ovviamente, ci ero
cascato, così come ci era cascato Chuck e chissà quanti
altri uomini. Aveva detto che mi amava ancora, e mai come in quel
momento la sua confessione mi parve patetica e squallida. Non avrei
mai potuto crederle.
«Okay,
allora ci andiamo.»
Il
pranzo fu tranquillo. Alina fu leggermente sorpresa di rivedermi in
compagnia di quella ragazzina, ma fu molto dolce e gentile con lei.
Stavolta
Layla riuscì a parlare un po' di più, e fu anche capace
di non farsi intimorire dall'atteggiamento apparentemente burbero di
Tigran.
Prima
di lasciare il locale, feci tappa in bagno, ma fui braccato nel
corridoio da Alina. Pareva mi stesse aspettando, e compresi che erano
proprio quelle le sue intenzioni, quando parlò senza fare giri
di parole.
«Daron,
tu sei come un figlio per me, perciò ti parlerò come
Zepur farebbe. Che intenzioni hai con quella bambina?»
esordì in armeno, afferrandomi saldamente per le spalle.
«Non
ho alcuna intenzione con Layla. Non è come credi»
mi difesi, tentando di divincolarmi. Anche la sua stretta, così
come il suo tono di voce, risultò piuttosto accusatoria e
colma di preoccupazione.
«Allora
com'è? Dimmelo.»
«Quella
ragazza... sua madre l'ha convinta di essere mia figlia. Mi ha
cercato mentre ero in Giamaica, ha smosso mari e monti per trovarmi,
perché credeva davvero fosse così. Ma abbiamo fatto il
test del DNA: Layla non è mia figlia.»
Alina
si portò le mani alle tempie e mi lasciò andare. «Zepur
lo sa?»
«No! Non lo sa e per
ora non deve saperlo» chiarii in inglese.
«Neanche
Vartan, immagino» commentò
la donna di fronte a me, senza cambiare lingua.
«No, neanche lui»
confermai, smettendo del tutto di assecondarla.
Alina sospirò e
lasciò che le braccia le ricadessero lungo i fianchi
ponderosi. «Be', figliolo, posso solo dirti che devi stare
attento. Quella ragazza sembra a posto, ma non combinare guai. Ci
siamo intesi, vero?»
Sbuffai
e sollevai gli occhi al cielo. «Scusami tanto,
ma non ho più otto anni! So come comportarmi, e non ho
intenzione di approfittarmi di lei,
se è questo che pensi. Pensavo avessi una considerazione più
alta di me» sbottai.
«Andiamo, adesso non
fare la vittima e ascoltami. La carne è debole, lo sai anche
tu. Non vorrei mai che questa strana amicizia tra voi si trasformi in
qualcos'altro.»
Inorridii e feci un passo
indietro. «Cosa?»
«Lo so che forse ti
ferisco, ma devo metterti in guardia. Sai che sono sempre stata
sincera con te e con la tua famiglia. È per questo che ci
vogliamo bene e ci stimiamo da una vita» chiarì Alina
senza scomporsi troppo, addolcendo un poco il tono di voce.
«Io non riesco neanche
a immaginare di... oddio, no!» balbettai, per poi darle le
spalle e tornare di corsa in sala.
Raggiunsi in fretta e furia
il tavolo basso a cui Layla era seduta, lasciai cadere cinquanta
dollari sul ripiano e trascinai velocemente la ragazza fuori di lì.
Non potevo davvero credere
che qualcuno pensasse certe cose di me. Ero veramente così
orribile? Davo seriamente l'impressione di essere un malato di sesso
pronto ad accoppiarsi anche con una minorenne?
«Daron, che fai? Che
succede?» strillava Layla, mentre la tenevo saldamente per un
polso e la portavo verso la mia auto.
«Andiamo, poi ti
spiego» grugnii.
«Sembra che tu abbia
visto un fantasma! Cazzo, ti vuoi fermare? Dimmi cosa è
successo! Adesso!» gridò, riuscendo ad arrestare la mia
corsa con determinazione.
Mi voltai a fronteggiarla e
la trovai spaesata, impaurita e incazzata, oltre che confusa.
«Sei fuggito come un
ladro! Si può sapere il motivo?» proseguì con
fermezza Layla, senza muoversi di un millimetro.
«Alina mi ha accusato
di essere un pedofilo e di volermi approfittare di te!»
abbaiai, riprendendo a marciare verso il parcheggio, senza neanche
preoccuparmi di trascinarmela dietro.
«Cosa? Come?
Sicuramente hai capito male, lei non mi sembra una persona così
meschina! Daron, aspetta!»
Sapevo che aveva ragione,
sapevo che Alina non mi aveva propriamente accusato, ma le sue parole
mi avevano ferito e sconvolto talmente tanto che non ero più
riuscito a stare lì dentro.
«Daron! Dannazione,
fermati!»
Raggiunsi la mia auto e mi
lanciai letteralmente al posto di guida, sbattendo furiosamente il
mio sportello. Ero deluso e incazzato, perché se Alina aveva
detto quelle cose, evidentemente ero stato io a fargliele credere.
Forse con azioni compiute in passato, però sicuramente mi
aveva messo in guardia molte volte da situazioni pericolose in cui mi
aveva trovato. Mi conosceva bene e sapeva che amavo spassarmela con
le ragazze, su questo non c'erano dubbi.
Ma Layla ancora non aveva
compiuto diciotto anni, e poi era diversa. Ero quasi stato convinto
che fosse mia figlia, mi disgustava l'idea di fare sesso con lei. Mi
sarei sentito sporco, e in ogni caso avevo avuto una relazione con
sua madre!
Non ero un porco, non fino a
questi livelli. Mi presi la testa tra le mani per evitare di
sbatterla contro il volante.
Layla salì a bordo e
mi appoggiò cautamente una mano sulla spalla. «Daron, mi
fai paura» mormorò.
«Scusa, ma... cazzo,
scusa! Ho rovinato tutto.» Mi scrollai la sua mano di dosso e
misi in moto. «Ti riporto a casa. Dimmi dove abiti.»
«Ma mia madre
potrebbe...»
La inchiodai con lo sguardo.
«Me ne fotto. Dimmi dove abiti.»
Layla abbassò il capo
e mi comunicò il suo indirizzo.
Capii più o meno dove
dirigermi e presi a guidare in silenzio, senza neanche pensare di
accendere l'autoradio. Ero furioso e fui grato a Layla perché
evitò di aprir bocca, immergendosi semplicemente nei suoi
pensieri con lo sguardo fuori dal finestrino.
Giungemmo a destinazione
circa tre quarti d'ora più tardi; avevamo trovato un po' di
traffico e la Freeway 101 aveva rallentato parecchio il nostro
viaggio a causa di un incidente.
Spensi il motore e rimasi
immobile a fissare la casa bianca e anonima in cui abitavano Dolly e
sua figlia.
«Layla, mi dispiace di
aver sbottato così» fu tutto ciò che riuscii a
dire, sentendomi un vero e proprio idiota.
«Okay, va bene, non
importa» sussurrò.
«A me importa. Ti ho
spaventato.» Allungai una mano per afferrare la sua, poi ci
ripensai e me la portai dietro l'orecchio destro. «Ti chiedo
scusa.»
«Davvero, va tutto
bene» ripeté lei, per poi sollevare il capo e sorridermi
debolmente.
Stavo per aggiungere
qualcosa, quando improvvisamente udii un tonfo secco provenire
dall'esterno dell'auto.
Poi cominciarono le urla.
«Mamma?»
«Scendi
immediatamente da quella macchina, Layla, immediatamente!»
«Smettila di
strillare, per favore...»
«No, razza di cretina
senza cervello! Scendi da questa cazzo di macchina, adesso!»
«Mamma, ma ti sei
drogata? No, non mi muovo di qui! E piantala di urlare!»
Assistevo alla scena,
pietrificato. Dolly bussava con forza contro il finestrino sigillato
della mia auto, inveendo con gli occhi spiritati puntati
alternativamente su Layla e su di me. La ragazza la fissava senza
darle troppa importanza, cercando di farla smettere di fare la pazza.
«Tu!
Sei uno stronzo! Non sei suo padre, ora lo sai, no? Quindi ti vieto
categoricamente di importunare mia figlia! Sei un maniaco, Daron
Malakian! Prima ti sei
approfittato di me, ora vuoi farlo anche con la mia bambina!»
continuò a gridare Dolly, battendo i pugni sul finestrino.
Se avesse continuato di
questo passo, prima o poi si sarebbe rotto e lei si sarebbe ferita,
finendo per fare del male anche a noi due.
«Dolly, cosa stai
dicendo?» biascicai confuso.
Dolly si rese conto che non
aveva ancora provato ad aprire lo sportello, così pose subito
rimedio e lo spalancò con foga, afferrando sua figlia per le
braccia. «Scendi subito, hai capito? Andiamo, vai dentro! E se
scopro che vedi ancora una volta questo depravato, ti spedisco da tua
zia in Florida!»
«Mamma, il mese
prossimo compio diciotto anni. Sei ridicola!» replicò
Layla, mentre veniva sbalzata fuori dall'auto.
Rabbrividii. Avevo davvero
frequentato quella psicopatica in passato? Mi domandai pigramente
perché questi casi umani finivano sempre tra le mie braccia e
nel mio cuore. Ero un caso perso, non avevo speranze di trovare
qualcuno di normale da poter frequentare e amare.
«Per
adesso hai ancora diciassette anni,
Layla! Vai dentro e non provare a uscire di casa finché questo
qui non se ne sarà andato! Chiaro?» sbraitò
ancora Dolly, spingendo con malagrazia sua figlia verso l'ingresso.
La sua voce stridula
continuò a rimbombare per la strada deserta.
Decisi
di squagliarmela, ero stanco di sentire i suoi
strilli acuti e insensati. Stavo per ripartire, quando la psicopatica
tornò all'attacco. Fece il giro dell'auto e spalancò
anche il mio sportello.
«Allora? Che cosa
credevi di fare, eh? Con mia figlia!» strepitò,
afferrandomi per un polso.
«Dolly, calmati. E
lasciami andare, subito» dissi in tono piatto, mentre dentro me
montava la rabbia.
«No!» Lei si
sedette di slancio sulle mie ginocchia e si premette contro il mio
corpo, inchiodandomi sul sedile. «No, tu devi capire che io non
permetterò mai a quella sgualdrina di stare con te. Io ti amo
e te l'ho già detto, perché non vuoi capirlo? Perché
non ti rendi conto che per te è lo stesso?»
Cominciai a vedere tutto
rosso e scattai come una molla. Con una forza che non ricordavo di
avere, la spintonai fuori dall'auto e lei finì per terra,
mentre io saltavo fuori e mi allontanavo da lei di alcuni metri.
«Non. Provarci. Mai.
Più.» Avevo scandito ogni singola parola e la fissavo
con ira, sentendo le mie mani e tutto il mio corpo tremare
incontrollabilmente.
«Daron... non ti
riconosco più...» biascicò, con le lacrime agli
occhi.
«Nemmeno
io. Sei una psicopatica, fatti curare. Io me ne vado, e spero di non
rivederti mai più.» Tornai a sedermi in macchina, mentre
lei si rialzava a fatica. «Ah, e sai una cosa? Tua figlia farà
ciò che si sentirà di fare. Non puoi impedirglielo per
sempre. Tra un mese compirà diciotto
anni, quindi ti consiglio di fartene una ragione. E di andare da uno
psichiatra» conclusi, poi sbattei lo sportello e mi allungai
per richiudere anche quello dalla parte del passeggero.
Misi in moto e me ne andai
di tutta fretta, lasciando Dolly a leccarsi le ferite e a cercare di
riemergere dalle sue sabbie mobili di frustrazione.
Non vedevo l'ora di farmi
una doccia e lavare via l'odore disgustoso e nauseabondo che mi aveva
messo addosso.
«Daron?»
Me ne stavo così,
accucciato, tranquillo. Stavo bene. E non volevo parlare con nessuno.
«Daron? Dove ti sei
cacciato?»
La voce di Angela era colma
di apprensione, come sempre. Era una brava persona, lei, Serj era
stato fottutamente fortunato.
«Daron?!»
Angela si chinò e mi
vide. I nostri occhi si incrociarono, i suoi inondati di luce e i
miei di oscurità.
«L'hai trovato?»
tuonò Serj dalla cucina.
«Sì»
mormorò lei. «È sotto il divano.»
«Merda! E adesso come
facciamo? Ti risponde?»
«No, non mi risponde»
rispose Angela in tono rassegnato.
Non riuscivo a capire perché
fossero tanto preoccupati. Io stavo bene, volevo solo rimanermene per
i fatti miei, sotto quel divano così buio e accogliente.
«John saprebbe come
fare, ma lui è a Las Vegas ora» gracchiò il
cantante, entrando di corsa in salotto.
«Non avresti dovuto
lasciarlo solo! Era in condizioni pietose quando è arrivato
qui» sussurrò Angela.
«Vuoi dire che è
colpa mia?» si rivoltò Serj.
«No, ma... oh,
andiamo. Okay, non ha senso litigare ora, scusami. Come facciamo?»
Serj tacque.
Io intanto fissavo la luce
che inondava la stanza fuori dal mio nascondiglio. Mi rannicchiai
meglio contro la parete alle mie spalle. Quella luce faceva paura.
«Daron, per l'amor del
cielo! Mi vuoi dire cosa è successo?» domandò
Serj in preda all'esasperazione, chinandosi di fronte al divano per
potermi guardare.
Non
aprii bocca. Non avevo voglia di rispondergli, non riuscivo
a farlo.
«Sarà stata una
brutta giornata per lui» suppose Angela, cercando di essere
ragionevole.
Eccome se lo era stata. Una
giornata di merda, di quelle con i fiocchi. Ma non ero in grado di
confermare i suoi sospetti, né di raccontarle cosa fosse
capitato.
Mi
tornò in mente il giorno in cui mi era stato proposto di
partire per la Giamaica. Anche quel giorno mi ero nascosto sotto il
divano, ma poi era arrivato John e mi aveva convinto a uscire di lì.
Non so come avesse fatto, io non mi sarei mosso per
niente al mondo.
E allora capii che non mi
era servito a niente quel viaggio. Io tornavo sempre punto e a capo,
sempre al punto di partenza, senza mai cambiare e risolvere niente.
Ecco perché volevo
stare sotto il divano.
Anche io ero uno psicopatico
come Dolly.
«Daron, mi senti? Ti
prego, esci di lì» mi scongiurò Serj.
Quando ero fuggito da casa
di Dolly, non avevo minimamente pensato di tornare a casa mia. Là
non avevo un divano come quello, non avevo un rifugio sicuro in cui
rintanarmi. Così ero corso da Serj e Angela, sapendo che da
loro mi sarei sentito protetto da quell'oscurità.
«Se non esci tu, io e
Serj spostiamo il divano» decise Angela.
Qualche lacrima scorse lungo
il mio viso. Mi volevano strappare alla mia tana, era ingiusto.
«Giusto!» saltò
su Serj. «Ci piacerebbe molto chiamare John e farti venir fuori
con le buone, ma stavolta non sarà possibile. Mi dispiace»
proseguì il cantante.
Io non riuscii a replicare.
Non fui capace di protestare né di muovermi. Ero nel panico
più totale, ora ne ero consapevole, così come ero
consapevole di non sapere assolutamente come uscirne.
Trascorsero
alcuni minuti, durante i quali marito e moglie proseguirono a
discutere sotto voce sul da farsi. Neanche li ascoltavo, non capivo
le loro parole.
D'improvviso fui invaso da
una luce abbagliante che mi ferì gli occhi. Serj e Angela
avevano sollevato di peso il divano e lo stavano portando al centro
della stanza.
Sbattei le palpebre e
cominciai a piangere senza controllo. Mi portai le mani al viso e mi
coprii gli occhi, invaso da singhiozzi che mi scuotevano fin nel
profondo.
Dopo un po' mi sentii
abbracciare e mi lasciai andare contro la spalla di Serj, il quale mi
tenne stretto contro il petto, sdraiato sul pavimento accanto a me.
«Andrà tutto
bene» continuava a ripetere, mentre Angela si muoveva per la
stanza.
«Serj... sono un
fallimento totale...» farfugliai, tirando su con il naso.
«Non lo sei. Sei
forte, sei una persona fantastica e hai un sacco di persone che ti
vogliono bene al tuo fianco. Supererai anche questa, qualunque cosa
sia» mi rassicurò il mio amico, accarezzandomi piano la
schiena.
«Non so come fare»
mormorai.
«Potresti
parlare con qualcuno. Dei tuoi problemi, dei tuoi attacchi di panico,
di tutto quanto» mi consigliò Serj. «So che non
sei tanto amante degli psicologi, ma ti assicuro che se ne trovi uno
competente, ti aiuterà. E non ti darà delle medicine,
Daron. Non devi andare da uno psichiatra, e se qualcuno ti
prescrivesse dei farmaci, sei libero di non prenderli. Puoi reagire
con le tue forze, te lo
assicuro. Ti conosco e lo so.»
Avevo avuto un crollo e lo
sapevo, così come ero certo che Serj avesse ragione. Forse
dovevo davvero farmi aiutare, forse mi sarebbe servito per
risollevarmi e riprendere del tutto in mano la mia vita.
Annuii piano e mi scostai da
lui. «Sì» dissi soltanto.
«Dai, mettiti seduto e
bevi un po' d'acqua» mi esortò Angela, porgendomi un
bicchiere pieno.
Obbedii e lasciai che Serj
mi aiutasse a sollevarmi. Bevvi avidamente tutta l'acqua contenuta
nel bicchiere e lo restituii ad Angela con un sorriso riconoscente.
«Te ne porto
dell'altra» affermò lei, per poi farmi l'occhiolino.
«Dai, siediti sul
divano. Vieni.»
Io e Serj ci accomodammo sui
cuscini morbidi e sospirammo all'unisono.
«Ce la farai, e non
sei solo, lo sai» ripeté il mio amico con un lieve
sorriso sulle labbra.
«Grazie»
mormorai.
Ero convinto che avesse
ragione. Avrei fatto di tutto per riprendermi. C'erano tanti progetti
in ballo, tante cose che avrei voluto fare e che sapevo di dover
fare.
Forse solo ora avevo capito
che era giunto il momento di risalire, di dare un calcio in culo al
passato e vivere il presente.
Non
avrei più permesso a una Jessica qualunque di
umiliarmi, né a una Dolly qualsiasi di farmi sentire un
coglione.
Avrei lottato per il mio
rapporto con Layla e per salvare tutto ciò che di bello c'era
nella mia vita.
Sorrisi a Serj. «Facciamoci
una birra, ti va?» gli proposi.
Lui scoppiò a ridere
e mi circondò le spalle con un braccio. «Ti voglio bene,
fratello» ammise.
«Anche io»
risposi sincero.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 69 *** Interviews ***
ReggaeFamily
Interviews
[Bryah]
«Buongiorno!»
esordii, stringendo tra le mani taccuino e registratore portatile.
John sbadigliò
sonoramente e mi lanciò un'occhiataccia. «Non puoi
aspettare almeno che mi lavi la faccia?» brontolò,
stropicciandosi gli occhi.
«No! Ho un libro da
scrivere, John Dolmayan! Coraggio, non è da te avere sonno
alle nove del mattino! Che ti prende?» scherzai.
«Non lo so, ma...»
«Su, cominciamo!»
John mi lanciò
un'altra occhiataccia, sbuffò, poi mi raggiunse sul divano.
Cosa
significa per te il progetto System Of A Down?
Per me è
vita. Io e i ragazzi siamo una famiglia. Non importa se non creiamo
nuova musica, non importa se adesso siamo “fermi”. Noi
siamo prima di tutto fratelli, amici, ci vogliamo bene. Io vivo per
la mia musica, e vivo per questa roba, per i System.
Hai
mai pensato di mollare?
Mai. Anche se io e
i ragazzi ora siamo fermi, io insisterò fino alla fine per
convincerli a tornare a fare musica insieme. Per fortuna continuiamo
a suonare in giro per il mondo, questo è un bene.
Un
aneddoto che ti è capitato sul palco?
Oh, uno di quelli
che ricordo meglio mi riguarda in prima persona. Una volta eravamo in
Europa, in Francia forse. Stavamo suonando, eravamo carichi al
massimo, ma eravamo anche stanchissimi dopo un mese di tour. Io non
avevo chiuso occhio nelle due notti precedenti, ero sfatto e
rischiavo di addormentarmi dietro la batteria. Così mi sono
perso per un attimo e ho sbagliato una canzone quasi per intero.
Shavo rideva, ha dato le spalle al pubblico per non farsi vedere,
peccato che si sia voltato a guardarmi. È stato difficilissimo
non scoppiare a ridere, giuro. Daron e Serj hanno continuato a
suonare e cantare indisturbati, ma si sa che basso e batteria sono
sempre in contatto. Forse gli altri non si sono accorti più di
tanto dei miei continui errori, ma Shavo ha subito colto dove stava
il problema. Sì, è capitato altre volte, ma quel giorno
è stato epico, è stato assurdo! Non era mai successo in
maniera così palese.
Qual
è la sensazione che provi quando stringi le bacchette in mano?
Non
si può descrivere a parole. Entro nel mio elemento, potrei
immergermici per sempre senza mai stancarmi. Per me è naturale
come guidare l'auto, no di più, come respirare e nutrirmi.
Senza mi sento perso. Quando
mi capita di non poter suonare per diversi giorni di fila, mi sento
vuoto e avverto la mancanza di qualcosa di fondamentale.
Un
ricordo della tua infanzia in Libano?
Avevo
un amico, si chiamava... ehm... Mikhail, qualcosa del genere. Stavamo
spesso insieme, scorrazzavamo tutto il giorno per le strade devastate
e ci nascondevamo negli angoli più improbabili per cercare
tranquillità. Un giorno mi portò da suo cugino, non
ricordo più il nome, e mi fece vedere i
suoi tamburi. Era una batteria molto spartana, quel povero ragazzo
non aveva neanche i piatti. Usava due bacchette di legno grezzo, una
più lunga e una più corta. Erano di diverso spessore e
probabilmente anche il legno non era lo stesso per entrambe. Il
cugino di Mikhail mi fece provare, e fu un'illuminazione. Per me fu
subito magia, anche se fuori da quel buco qualcuno si disperava e in
lontananza si udì un'esplosione. Da allora in poi ho cercato
in tutti i modi di riprodurre quel suono meraviglioso, quel suono
perfetto nella sua imperfezione, accordando i miei tamburi e provando
diversi tipi di legno per le bacchette. Non ci sono mai riuscito, ma
ancora oggi ricordo quel suono suggestivo.
Di
cosa hai paura?
Dei temporali. Mi
mettono ansia, mi terrorizzano. I tuoni fanno un suono terribile, un
po' come quello delle bombe.
Sollevai lo sguardo e lo
posai su John. Il suo viso era teso, e così non fui più
certa di ciò che gli stavo chiedendo nell'intervista.
«Tesoro...»
mormorai.
Lui scosse appena il capo.
«Okay, possiamo andare avanti.»
«Se vuoi, elimino
questa domanda» gli proposi, facendo per depennare le parole
che riguardavano le paure.
Il batterista allungò
un braccio e mi strinse leggermente il ginocchio. «No, davvero,
possiamo proseguire.
Annuii. Lavorare a quel
libro si stava rivelando difficile, ed ero certa che non sarebbe
stato tutto rose e fiori.
«Io vi lascio
lavorare» disse Angela, affacciandosi in salotto.
Mentre le sorridevo, mi resi
conto che era una donna bellissima: indossava abiti semplici e non
appariscenti, ma questo non faceva che contribuire al suo essere
particolare. I capelli le ricadevano sciolti sulle spalle e il suo
viso dolce era colmo di gentilezza.
«Puoi
rimanere, non ci disturbi» le feci notare, alzandomi
per salutarla con due baci sulle guance.
«Mi piacerebbe, ma ho
delle commissioni da sbrigare e devo riempire il frigorifero»
replicò.
Ridacchiai. «Va fatto
anche questo!»
Serj prese a suonare
distrattamente qualcosa al pianoforte e ci lasciò
chiacchierare per un po'.
«Bryah, sono sicura
che il libro sarà un successo mondiale. Moltissimi ammiratori
dei System non aspettano altro. Sono uscite tante biografie su
moltissime band della scena rock, ma mai qualcosa su di loro. E
grazie a te questo si sta avverando.»
Annuii mestamente. «Farò
del mio meglio, i ragazzi lo meritano» assicurai ad Angela.
Scambiammo qualche altra
battuta, poi la donna uscì di casa dopo averci salutato con
calore.
Io e Serj rimanemmo soli, e
io rimasi per qualche minuto ad ascoltarlo suonare. Era bravo e
sapeva emozionare chi lo sentiva, anche quando eseguiva qualcosa in
maniera distratta e con poco impegno.
«Scusami, Bryah.
Possiamo metterci all'opera. È che quando suono, entro in un
universo tutto mio» spiegò il cantante, roteando sullo
sgabello di fronte al pianoforte.
Sorrisi e gli feci
l'occhiolino. «Sei uguale a John allora» commentai.
«Sì, ci
somigliamo molto da questo punto di vista.»
Accesi
il registratore portatile e impugnai carta e penna.
«Pronto?»
«Pronto.»
Hai
mai preso delle lezioni di musica?
Sì. ho
studiato canto per qualche anno, e pianoforte fin da bambino. Poi,
nel corso degli anni, ho cominciato a suonare un sacco di altre cose,
e quasi sempre da autodidatta. Sono curioso per natura, specialmente
quando si tratta di arte in tutte le sue forme. La musica è
una di queste.
Hai
mai pensato di mollare?
Sì, spesso.
Ho così tanti progetti in mente, in tanti campi, che a volte
mi sento veramente confuso e vorrei soltanto alleggerirmi un po'.
Quando con i ragazzi dei System abbiamo preso una pausa, per me è
stata una liberazione. Non perché io non tenga a loro o alla
nostra band, ma perché avevo bisogno di staccare. Sono molto
attivo in un sacco di cose, e devo assolutamente fare tutto. Non
potrei mai vivere con un solo rimpianto, finirei per impazzire. Però
in certi periodi devo rinunciare a qualcosa, mettere da parte un
progetto per concluderne un altro... ma no, non rinuncerei mai ai
System.
Un
aneddoto della tua infanzia che ricordi con particolare nostalgia?
Io e mio fratello
Sevag, quando eravamo da poco arrivati a Los Angeles, ci divertivamo
a organizzare dei buffi mercatini nel nostro quartiere. Avevamo
portato con noi dal Libano un sacco di cianfrusaglie inutili, e così
decidemmo di rivenderle ai bambini o ai vecchietti che passeggiavano
per strada. Racimolammo un bel gruzzoletto, facendo credere a quella
gente che avessimo con noi dei cimeli rarissimi e costosissimi.
Finché poi mio padre scoprì tutto e ci mise in
punizione per un mese, impedendoci di uscire di casa e di vedere i
nostri amici.
Pensi
mai a come sarebbe la tua vita se fossi rimasto in Libano o se fossi
nato in Armenia?
A
volte ci penso, sì. E credo che sarebbe stato difficile
emergere da quel mondo così difficile. Avrei vissuto anni
terribili. In Armenia ho perso dei parenti a causa del terremoto che
è avvenuto alla fine del secolo scorso. Sono stato fortunato,
ed è per questo che ora voglio aiutare il più possibile
i miei conterranei e le popolazioni più a rischio del pianeta.
Sono certo che da solo non posso
cambiare il mondo, ma posso fare qualcosa. Io sto bene, ho una bella
vita e non mi sognerei mai di lamentarmene. Però anche io ho
sofferto e ho conosciuto dei periodi bui, perciò mi accontento
di vivere in tranquillità e di aiutare il più
possibile il prossimo. Credo molto in ciò che faccio.
Di
cosa hai paura?
Dei rimpianti. I
rimpianti uccidono le persone, le uccidono dentro e le distruggono. E
soprattutto le rendono infelici.
«Serj, se ti sto
mettendo a disagio con queste domande, puoi decidere di non
rispondere o di eliminarne qualcuna. Questo è il vostro libro,
io sono qui soltanto per scriverlo, non ho voce in capitolo»
dissi a un certo punto, scrutando l'espressione indecifrabile sul suo
viso.
Quando si arrivava alla
domanda sulle paure, mi sentivo sempre in imbarazzo nel porla. Non
sapevo se i ragazzi sarebbero stati disposti a rispondere o come
avrebbero reagito.
«Non c'è
problema, Bryah. Le paure sono umane, e io sono un essere umano»
replicò Serj in tono sereno.
Lo ammiravo molto per la
calma e la pacatezza con cui affrontava ogni situazione. Lui e John
si somigliavano per certi aspetti, me ne resi conto anche in quel
momento.
Tornai a posare lo sguardo
sul taccuino. «Andiamo avanti?»
«Certo. Spara la
prossima domanda!»
«Ci sono ancora tante
domande?» brontolò Daron, sbadigliando rumorosamente.
Non era per niente facile
lavorare con lui. Ci era voluto un po' per convincerlo a collaborare
per il libro, ma i suoi colleghi infine ci erano riusciti. Sapevo che
il chitarrista stava andando da uno psicologo e mi sembrava più
tranquillo rispetto a quando lo avevo conosciuto; probabilmente
quella novità lo stava aiutando in tanti aspetti della sua
vita.
«Daron, abbi pazienza.
Le domande sono tantissime.» Sorrisi nervosamente, sperando di
non farlo chiudere a riccio. Mi venne un'idea e aggiunsi: «Se
vuoi, ti rivelo come ho intenzione di creare il libro, ma dovrà
rimanere un segreto tra noi due».
Gli occhi grandi e scuri del
chitarrista si accesero di curiosità. «Sul serio?»
Annuii. «Sì.
Allora, pensavo di fare una sezione per ognuno di voi. Una breve
biografia sui fatti salienti della vostra carriera, sai, quelle
informazioni che tutti sanno e che sono sparse per la rete... le
raggrupperò tutte insieme e questa biografia farà da
introduzione. Poi ci saranno delle foto: ne ho fatto alcune al Dodger
Stadium che sono bellissime, ma John mi ha messo in contatto con Greg
Waterman e lui si è reso disponibile per concedermi tutto il
materiale che mi serve. Verrà fuori un gioiellino, te lo
assicuro. Ci saranno foto molto rare che non si trovano dappertutto,
così come le informazioni che sto cercando di raccogliere
grazie alle vostre interviste.»
Daron annuiva in
continuazione, sembrava piuttosto soddisfatto di ciò che gli
stavo esponendo. «Sembra interessante» commentò.
«Poi ci sarà
una sezione interamente dedicata al vostro staff: sto mettendo sotto
torchio Sako, Rick, Beno e poi dovrò farlo anche con tanta
altra gente...» Feci una pausa e sfogliai in fretta il
taccuino. «Poi ci saranno interviste anche ad altri musicisti
che hanno collaborato e suonato con voi. Insomma, vorrei dare un
quadro il più possibile completo sui System Of A Down. Che te
ne pare?»
Il chitarrista ridacchiò.
«Ci vuoi sputtanare per bene, eh?» ironizzò.
Io gli strizzai l'occhio.
«Qualcosa del genere.»
«Sei una brava
giornalista, è solo per questo che ho accettato di partecipare
a questa cosa. Dai, riprendiamo. Com'è che si dice? Tolto il
dente, tolto il dolore...»
«Giusto»
concordai. «Riprendiamo.»
Hai
sempre voluto suonare la chitarra?
Macché. Il
mio sogno era diventare un batterista, il mio mito era Ian Paice. Ma
mio padre non era per niente d'accordo, così mi comprò
una chitarra e mi intimò di accontentarmi. Evidentemente era
destino, perché alla fine non mi sono mai dedicato seriamente
alla batteria, neanche quando ne ho avuto l'opportunità. La
suono, ma sono una schiappa. Però è uno strumento
bellissimo. Sono il più grande fan di John Dolmayan, senza
ombra di dubbio.
Avresti
voluto avere un fratello?
Uhm... sì e
no. Da un lato sarebbe stato bello condividere tutto con un fratello
o una sorella, ma in definitiva mi va bene così. Per come sono
fatto, avrei finito per farmi detestare da lui o lei!
In
cosa credi?
Credo nella musica
e nell'arte, e credo che lassù ci sia qualcuno che si diverte
a fare casini in giro per il mondo. Be', se vuoi sapere se credo in
Dio, mi definisco agnostico. Non lo so, non ho tempo per pensarci.
Faccio meditazione a volte perché mi rilassa, fumo marijuana
perché mi rilassa, suono perché mi rilassa, scrivo
perché mi rilassa... trovo la spiritualità in ogni
cosa, una spiritualità tutta mia, che forse nessuno può
comprendere. Ed è meglio così.
Com'è
il tuo rapporto con i fan?
Lo definirei
particolare. Sono infinitamente grato a chi mi segue e mi supporta,
ma certe volte per me è difficile gestire l'ammassarsi di
tante persone tutte insieme. Mi sento a disagio e non so come reagire
all'ammirazione smodata. È sempre stato un mio difetto, ed è
per questo che sono sempre stato definito burbero, snob e in un sacco
di altri modi. Non posso negarlo, ma a mia discolpa c'è da
dire che alcune volte diventa pesante gestire il comportamenti di
alcuni ragazzi.
Di
cosa hai paura?
Di molte cose. È
una domanda difficile. Sono terrorizzato dalla sofferenza, ho paura
di essere controllato e spiato, ho paura dei luoghi troppo
affollati... sono pieno di paure. Ma forse la più grande è
quella per la solitudine: tendenzialmente mi chiudo in me stesso, per
contro ho il terrore di perdere tutte le persone che amo e che mi
circondano. E ho paura di commettere sempre gli stessi errori, di non
imparare mai a gestire le mie ansie... ehi, ti ho detto che sono
pieno di paure, no?
«Daron, mi dispiace.
Questa è una delle domande più difficili»
mormorai, timorosa di incontrare il suo sguardo.
Eravamo seduti nel suo
salotto e per me era la prima volta. Mi sentivo un po' a disagio,
avrei preferito ci fosse anche John con me.
«Fa' niente. Però
devo fare una pausa, devo fumare un po' d'erba, ho bisogno di...»
Si alzò e recuperò l'occorrente per costruirsi una
stecca di erba.
«Se vuoi ti lascio
solo, potremmo riprendere un altro giorno» gli proposi, facendo
per alzarmi a mia volta.
«Non dire sciocchezze.
Ormai mi conosci da un po', dovresti sapere che a volte sono un po'
strano. Ma non manderò all'aria tutto il tuo lavoro» mi
assicurò. «Vuoi fumare con me?»
«Non mi convincerai
mai» affermai.
«Okay, okay! Senti,
Bryah... io e te non abbiamo più avuto occasione di stare
soli, perciò non ho mai potuto scusarmi per quel giorno fuori
da casa tua, in Giamaica.»
Sgranai gli occhi e decisi
di seguirlo accanto alla finestra. «Di che parli?» gli
chiesi, sentendomi confusa e spiazzata dalle sue parole.
«Oh, andiamo! Te ne
sei dimenticata? Ti ho accusato di essere stronza e ti ho detto che
ti stavi comportando male con John, che lo stavi facendo soffrire.
Faccio un sacco di cazzate, Bryah, e non le dimentico mai, anche dopo
tanto tempo, anche quando le persone mi perdonano e ci passano
sopra.»
Lo
fissai sorpresa. «Io non mi ricordavo più di queste
cose» ammisi con sincerità. Era trascorso un
sacco di tempo e non avevo dato particolarmente peso a quella piccola
discussione.
«Ma io no. Ogni tanto
ci penso e mi do dello stupido. Mi dispiace, ti prego di perdonarmi.
Non sapevo niente di te, di ciò che quello stronzo di Benton
ti ha fatto passare. Non sapevo un cazzo e ho fatto il coglione.»
Gli posai una mano sulla
spalla e sorrisi ironica. «Daron, mio caro, tanto tu fai il
coglione a prescindere, quindi non ti devi preoccupare»
commentai, per poi scoppiare a ridere.
Lui mi seguì a ruota.
«Cazzo, hai ragione!» si schernì, scuotendo
teatralmente il capo.
Continuammo a chiacchierare
finché lui non terminò la sua stecca d'erba.
«Te la senti di
continuare con l'intervista?» gli domandai cautamente.
«Sicuro.
Sono tutto tuo, paparazza!»
Shavo trotterellava per la
stanza in preda all'eccitazione e all'ansia.
«Sono fottutamente
eccitato per questo libro! Secondo me sarà fighissimo, me lo
sento, i nostri fan impazziranno!» continuava a blaterare.
«Shavo, ti prego,
calmati! Se cominci a dare di matto ora, cosa farai quando il tuo bel
faccino finirà in tutte le librerie?» lo presi in giro.
Ci
trovavamo nella sala prove dei ragazzi, un luogo tranquillo in cui
nessuno ci avrebbe disturbato.
Era pieno di strumenti musicali, soprattutto bassi e chitarre; c'era
anche qualche tastiera, un pianoforte a mezza coda e una batteria
Tama coperta da un telo di cotone nero.
«Shavo? Secondo te
posso fare una foto qui dentro? Da mettere nel libro» lo
interpellai, accostandomi al set di tamburi. Scostai appena il telo e
carezzai delicatamente uno dei tamburi montati sulla grancassa.
«Uh, ma certo! Che
bella idea! Togliamo il telo e sistemiamo un po' le cose in maniera
strategica. Che ne dici se facciamo una composizione che dia
l'impressione di una sala prove incasinata? Fa più rock!»
si entusiasmò subito il bassista, cominciando immediatamente a
spostare strumenti, sgabelli e amplificatori.
Ci divertimmo ad allestire
l'ambiente in modo volutamente casuale, e prendemmo a scattare
diverse foto con la mia macchina fotografica e con il cellulare di
Shavo. Quest'ultimo si offrì per posare per me, fingendo di
suonare e di armeggiare con le attrezzature presenti.
«Sono foto in super
esclusiva, devi ritenerti fortunata» scherzò il ragazzo,
lanciandomi un sorrisetto sghembo.
«Non gongolare,
bassista. E adesso mettiamoci all'opera: ho ancora un sacco di
domande da farti» tagliai corto, recuperando nuovamente il
taccuino e il registratore portatile.
Cosa
avresti voluto fare se non fossi diventato un bassista famoso?
Tantissime cose.
Da bambino volevo fare il cassiere perché ero convinto che
tutti i soldi andassero a finire nelle mie tasche. Quando poi ho
lavorato in banca, mi sono ricreduto completamente. Avrei voluto
essere uno psicologo, ma poi ho capito che sono troppo emotivo per un
mestiere così difficile e delicato. Ho provato diversi
lavoretti, ma mi sarebbe piaciuto anche diventare un bravo scultore.
Ho sempre avuto le idee piuttosto confuse, ma la musica è
sempre stata una certezza per me.
Sei
l'unico della band a essere nato in Armenia. Ricordi qualcosa in
particolare della tua terra natia?
Ho pochi ricordi
legati all'Armenia, e sono anche piuttosto vaghi. Ricordo nettamente
un sapore, quello del lavash fatto in casa da mia bisnonna. Non ho
mai più assaggiato niente di più buono.
Cos'è
per te la famiglia?
La
famiglia è un concetto astratto. L'affetto che provo per
alcuni amici è fortissimo, li considero veri e propri
fratelli. Certo, mi piacerebbe un giorno creare il mio piccolo nucleo
famigliare, però non ho fretta. Inoltre, credo che il legame
più forte che esista
sia quello tra madre e figlio. Non c'è niente che possa
eguagliarlo. So perfettamente che se diventassi padre non potrei mai
competere con la madre dei miei figli, ma non mi dispiace.
L'importante è che si viva in pace e armonia, che si ragioni
bene prima di commettere danni irreparabili, e che ci si butti
completamente in ogni situazione. In poche parole, per me la famiglia
si basa sui sentimenti. Qualunque persona che susciti in me delle
forti emozioni fa parte della mia famiglia.
Il
tuo modo di vedere le droghe è piuttosto aperto. Cosa pensi?
Non
mi sento di condannare nessuno. Io per primo ho sempre fumato
marijuana, che ancora oggi viene considerata una sostanza
stupefacente illegale in gran parte del mondo. Non ho mai
oltrepassato il limite, ma ho perso molti amici a causa di droghe
pesanti e uso smodato di alcolici. Sono situazioni difficili da
affrontare, certe sostanze danno alla testa, creano una dipendenza
difficile da gestire, e in molti casi impossibile da superare. Non
condanno i tossicodipendenti, so bene che hanno bisogno di aiuto, e
non di essere additati come drogati senza cervello. Molte persone
intraprendono una brutta strada per motivi che noi non possiamo
neanche immaginare. Non mi piace giudicare il prossimo, mi piace
aiutarlo e trattarlo come un fratello, sperando
di fare abbastanza. Tutto qui.
Come
ti senti quando sali sul palco?
Mi sento cullato e
coccolato dal mio pubblico, mi sento a casa, mi sento vivo ed
energico. Anche se sono in tour da settimane e dormo pochissimo,
anche se rischio di non reggermi in piedi. Condividere la mia musica
con il mondo ha un effetto lenitivo su di me: cura tutti i miei
dolori e mi rende intoccabile.
Di
cosa hai paura?
Di deludere gli
altri. Sono impulsivo e spesso reagisco d'istinto, ma subito dopo me
ne pento e corro subito ai ripari. Non sono per niente orgoglioso
quando mi rendo conto di star perdendo qualcuno o qualcosa di
importante. Credo molto nel dialogo: è in grado di curare ogni
dissapore e di avvicinare molto le persone. Esorcizzo questa mia
paura in tutti i modi possibili, cerco di essere premuroso e finisco
spesso per entrare in paranoia. È un circolo vizioso, ma non
mi perdonerei mai se deludessi le persone che amo.
«Per oggi abbiamo
finito» dichiarai, chiudendo di botto il taccuino.
Shavo
mi lanciò un'occhiata sorpresa. «Ma come? Di
già? Mi stavo divertendo!» si lamentò.
«Ti
piace davvero essere messo sotto torchio da me? Daron ormai mi chiama
paparazza»
raccontai, fintamente indignata da quell'appellativo.
«Pensa te! Carino come
soprannome» commentò il bassista.
«Ma va'! Tranquillo,
nei prossimi giorni tornerò alla carica» gli promisi.
«Non vedo l'ora.»
Rileggendo gli appunti e
sfogliando le pagine zeppe di scarabocchi mi resi conto che c'era
ancora un sacco di lavoro da fare. Avrei dovuto mettermi seriamente
d'impegno, ma sapevo che ne sarebbe valsa la pena.
Strinsi il taccuino al petto
e fui infinitamente grata a tutti coloro che mi stavano aiutando a
riprendere in mano la mia vita e a sentirmi finalmente rispettata e
amata.
Cari
lettori, eccomi qua!
Forse
nessuno di voi si aspettava un POV Bryah, ma voi non avete idea di
quanto morissi dalla voglia di scrivere questo capitolo!
Inizialmente
il progetto era quello di inserire questo come ultimo capitolo,
come una sorta di epilogo, ma poi mi sono detta che non potevo
lasciarvi così: voi meritate un finale più carino,
perciò vi comunico che
il prossimo capitolo sarà quello conclusivo di questa long che
più long non si può X'D
Su,
su, non strappatevi i capelli e i vestiti così (?): ho già
un altro progetto in mente in questa categoria, un'altra long di cui
ho già scritto tre capitoli ^^
Se
siete curiosi, continuate a seguirmi!
Mi
scuso per aver pubblicato in ritardo questa settimana, ma questo
capitolo per me è stato molto difficile da buttare giù:
ho dovuto elaborare le domande di Bryah e immaginare cosa i ragazzi
avrebbero detto in risposta. Ovviamente molte cose le ho inventate, e
altre prendono soltanto spunto da fatti reali della vita dei nostri
amati System!
Invece,
quando ho scritto “Da bambino volevo fare il cassiere perché
ero convinto che tutti i soldi andassero a finire nelle mie tasche”,
mi riferivo a un aneddoto realmente accaduto che riguarda la mia cara
Soul: lei da piccola aveva questo desiderio e questa convinzione,
così ho pensato che fosse carino farla diventare di Shavo **
Che
ne pensate di questo libro? Secondo me Bryah farà un ottimo
lavoro ** vi immaginate se fosse vero? Io correrei subito a
comprarlo, senza ombra di dubbio :'3
Okay,
be', aspetto come sempre i vostri preziosissimi pareri, ci sentiamo
presto con l'ultimo attesissimo
capitolo di questa folle storia!
Grazie
ancora di tutto a tutti ♥
|
Ritorna all'indice
Capitolo 70 *** Family ***
ReggaeFamily
Family
[Serj]
Quando
ero sceso dal taxi, quasi mi si era mozzato il fiato: poche volte in
vita mia mi era capitato di vedere un posto più bello.
Una
scogliera meravigliosa e selvaggia che scendeva a picco sul mare, un
albergo singolare arrampicato sopra di essa, un mare cristallino e
infinito... sembrava di essere in un luogo magico, era difficile
pensare che esistesse davvero.
Mi
soffermai sulla struttura alberghiera che si stagliava di fronte ai
miei occhi e rimasi a osservarla per un po', ammaliato dal suo
splendore: lo Skye Sun Hotel si strutturava in quattro palazzotti,
dipinti ognuno di un colore diverso, i quali ospitavano le camere
degli ospiti, come mi avevano raccontato spesso i ragazzi. Dal loro
resoconto, sapevo che la struttura in vetro e cemento che si trovava
alla base del complesso alberghiero costituiva la hall, il ristorante
e uno dei due bar dell'hotel. In alto c'era la famosa terrazza
panoramica che non vedevo l'ora di visitare, così come la
spiaggetta privata dell'albergo e il rifugio dei gatti di Leah.
Mi
sentii sfiorare il braccio e mi voltai alla mia sinistra,
ritrovandomi faccia a faccia con Angela.
«Angie,
hai visto che razza di posto è questo?» dissi, notando
che sul viso di mia moglie era sorta la stessa espressione estasiata
che probabilmente avevo assunto anch'io.
«Sarebbe
stato perfetto per il nostro viaggio di nozze, se solo l'avessimo
scoperto prima» affermò lei in tono compiaciuto.
«E
se prendessimo questa vacanza come una seconda luna di miele?»
le proposi, circondandole le spalle con un braccio.
Lei
sorrise e annuì. «Ci sto. Anche se poi saremo costretti
a tornarci quando Rumi sarà nato.» Detto questo, posò
una mano sulla sua pancia e la accarezzò piano.
Ridacchiai.
«Ovviamente, a lui piacerà.»
Angela
era al suo quinto mese di gravidanza e da poco avevamo scoperto che
la nostra creatura era un maschietto; da subito avevamo scelto il
nome per il nostro bambino e già ci rivolgevamo a lui come
fosse già nato. Finalmente, dopo tanti tentativi, eravamo
riusciti a concepire un figlio, e per noi quella consapevolezza era
stata incredibilmente rassicurante.
«Ragazzi,
vi piace? Che vi avevamo detto?» ci intercettò Leah,
trascinandosi dietro alcuni bagagli lungo il vialetto d'accesso alla
hall.
«Pazzesco»
mormorò Angela.
«Sono
così felice che abbiamo organizzato questa vacanza tutti
insieme!» esclamò la ragazza di Shavo, per poi
precipitarsi dentro.
Uscì
nuovamente sul vialetto poco dopo, accompagnata da un ragazzo
altissimo, dalla carnagione scura, capelli e occhi neri. Supposi che
lavorasse come dipendente dell'albergo, poiché indossava una
divisa rossa con una targhetta appuntata sul petto.
«Day!»
strillò Shavo, correndo incontro al nuovo arrivato. I due si
abbracciarono fraternamente, poi il bassista lo trascinò verso
me e Angela.
«Piacere,
io sono Serj» esordii, tendendogli la mano.
«Piacere
mio, mi chiamo Dayanara e lavoro come receptionist in questo hotel.
Benvenuto» mi salutò, stringendomi energicamente la
mano.
«Salve
Dayanara, io sono Angela, la moglie di Serj.»
I
due si strinsero la mano e io ebbi l'impressione che quel ragazzo
fosse molto discreto e professionale. Non fece domande su chi
fossimo, né lanciò occhiate o frecciatine sul fatto che
Angela aspettasse un bambino. Era indubbiamente un buon dipendente,
ma del resto i miei amici mi avevano sempre parlato bene di lui.
«Ovviamente
siete invitati anche voi da me e Alwan, stasera» aggiunse
Dayanara, sorridendoci educatamente.
«Verremo
con molto piacere» risposi, poi notai che anche John e Bryah si
avvicinavano al receptionist per salutarlo.
«Alwan
è in hotel?» chiese il batterista.
«No,
oggi si è preso un giorno libero e sta già cucinando
per stasera. Ho paura che bruci la nostra casa.»
Bryah
ridacchiò. «Andiamo, poveretto, non dire così!
Okay, Day, posso chiederti un favore?»
L'altro
annuì.
«Io
e John vorremmo andare a trovare i miei genitori. Puoi pensare tu ai
nostri bagagli? Ci aspettano per pranzo ed è già
passato mezzogiorno, non vorrei farli aspettare troppo» spiegò
la giornalista, prendendo il suo compagno sottobraccio.
«Ci
mancherebbe altro! State tranquilli e andate pure, penso a tutto io e
li faccio portare in camera vostra da Dennis» li rassicurò
Dayanara, poi si scusò e ci disse che doveva rientrare alla
sua postazione.
Io
e Angela annuimmo, poi le consigliai di andare a sedersi nella hall
mentre noi pensavamo ai bagagli. Non volevo che facesse sforzi e che
si affaticasse senza che ce ne fosse motivo.
Mentre
trascinavamo le nostre valigie nella zona degli ascensori, mi guardai
a malapena attorno, notando che la hall era costituita da dei
divanetti dello stesso colore delle quattro palazzine: rosso,
arancione, bordeaux e giallo. Tutto là dentro era colorato,
moderno e accogliente.
Mi
stavo avviando verso Angela per chiederle se le andasse di riposare
un po' nella nostra stanza, quando un tizio mi sbarrò la
strada e mi fissò con fare estasiato e incredulo: era alto
circa un metro e settanta, magro e minuto, portava i capelli legati
in un codino e indossava una divisa simile a quella di Dayanara.
«Cazzo!»
strillò, poi allungò una mano e me la posò sul
braccio, come se stesse verificando la mia reale esistenza di fronte
a lui. «Serj Tankian...» farfugliò.
«Ehm,
ehi, come va? Sì, sono io, che ne pensi di lasciarmi andare?»
lo apostrofai, cercando di divincolarmi dal contatto con lui.
«Oh,
scusa, scusa... okay, ehi, io sono Cornia. Mi dispiace, ma... ancora
non posso crederci che tu... quando Al me l'ha detto, non gli ho
voluto credere...» continuò a blaterare.
«Cornia!»
lo richiamò Dayanara con voce calma, ma che in sé
nascondeva un'inflessione severa.
Cornia
si irrigidì leggermente e, dopo avermi strizzato l'occhio, si
voltò verso il bancone della reception con un'espressione
fintamente innocente stampata sul viso dai lineamenti affilati. «Sì,
capo!» recitò in tono solenne.
«Che
ci fai qui? Hai lasciato il tuo posto al bar per importunare i nostri
ospiti?»
«No,
c'è Lakyta al bar. Credi davvero che io sia così
irresponsabile? La prossima volta che hai problemi con il pc, chiama
un tecnico! Io non ti aiuto più!» gracchiò
Cornia.
«Ma
piantala. Su, torna al lavoro» tagliò corto Dayanara.
«Cornia,
ehi!» strepitò la voce di Leah alle mie spalle.
«Leah!»
gridò lui, poi i due si abbracciarono con trasporto.
La
ragazza mi batté sulla spalla. «Questo stronzo ti stava
importunando? Perdonalo, in fondo è un bravo ragazzo» mi
rassicurò.
«È
un tuo amico?» chiesi, addolcendo un po' la mia espressione.
«Sì,
è un tipo a posto, anche se non sembra» proseguì
Leah, facendo la linguaccia al ragazzo che ancora stazionava di
fronte a me.
«Scusami,
Serj, non volevo essere invadente. Me ne vado subito» borbottò
Cornia, lanciando un'occhiataccia a Leah.
«Non
preoccuparti. Lavori al bar della terrazza?»
Lui
annuì vigorosamente. «Se passi da me, ti offro qualcosa
per farmi perdonare.»
«Non
mancherò» conclusi, poi gli strinsi brevemente il
braccio e ripresi a camminare verso Angela.
In
quel posto si respirava una bellissima atmosfera, ma io ero stanco
morto e volevo soltanto andare a mangiare qualcosa e poi riposare un
po'.
Daron
piombò accanto a me e Angela mentre aspettavamo l'ascensore
che ci avrebbe condotto alle camere situate nella palazzina bordeaux.
«Muoio
di fame!» esclamò il chitarrista, poi sbadigliò e
cercò di radunare tutte le valigie accanto all'ingresso
dell'ascensore. Poi si voltò verso Dayanara e gridò: «E
comunque, Day, sono ancora incazzato con voi perché non ci
aiutate mai a portare i bagagli in camera!».
Poco
dopo fummo raggiunti da un ragazzino piuttosto giovane, che ci disse
di chiamarsi Dennis e di essere a nostra completa disposizione per
qualsiasi cosa.
Sorrisi.
Il mio amico non si smentiva mai, riusciva sempre a ottenere ciò
che voleva.
La
casa in cui abitavano Dayanara e Alwan era modesta, ma sembrava molto
accogliente. Dall'esterno sembrava abbastanza anonima e simile a
tante altre che avevo visto mentre viaggiavamo in taxi all'interno di
Kingston, ma quando vi entrai mi resi conto che quei ragazzi avevano
arredato la loro abitazione in modo che fosse accogliente: c'era
qualcosa che ricordava i colori dello Skye Sun Hotel e delle sue
pittoresche palazzine, mentre il pavimento ero completamente
costituito da parquet. I muri erano dipinti di colori caldi,
tappezzati da quadri perlopiù astratti e allegri, e i mobili
semplici e funzionali completavano il tutto alla perfezione.
«Ragazzi,
questa casa è bellissima!» esordì subito Leah,
mentre si faceva largo nel piccolo ingresso, pulendosi
meticolosamente i piedi su uno zerbino rosso che recava la scritta
Welcome To Jamrock.
«Voglio anche io
questo tappetino!» commentò Shavo, riconoscendo il
titolo di una celebre canzone di Damian Marley.
«Ti pareva»
sbuffò Leah, mollandogli una gomitata nelle costole.
«Ahi!»
Poco dopo ci raggiunse un
ragazzo con addosso un grembiule rosso, che subito si diresse verso
me e Angela con un enorme sorriso stampato sul viso dolce. «Benvenuti
a casa nostra. Serj, per me è un onore averti come ospite. Ed
è un piacere conoscere te e tua moglie. Angela, giusto?»
esordì.
Lei
ricambiò il sorriso e gli strinse la mano, poi anche
io feci lo stesso.
«Io sono Alwan, spero
che abbiate sentito parlare bene di me!» scherzò, per
poi osservarci meglio. «Aspettate un bambino, ma è
fantastico!» esclamò, soffermandosi a guardare Angela
con più attenzione.
«Sì, dovrebbe
nascere a ottobre» confermai con orgoglio.
«Dai! Sapete già
il sesso del bimbo?» volle sapere Alwan tutto eccitato,
afferrando di slancio la mano di mia moglie.
Lei rise. «Che
entusiasmo! Sì, sarà un maschietto e si chiamerà
Rumi» gli rivelò.
«Ma è
fantastico!» squittì Alwan.
Dayanara lo afferrò
per un polso e sospirò. «Senti un po', torna in cucina.
Il tuo stufato sta per bruciare.»
«Oh, merda! Corro! Voi
intanto accomodatevi pure, eh, fate come foste a casa vostra!»
blaterò, scomparendo nuovamente all'interno della cucina.
Io e Angela ci scambiammo
un'occhiata divertita e seguimmo i nostri amici verso una porta che
conduceva sul retro dell'abitazione.
I padroni di casa avevano
apparecchiato su un piccolo portico in legno e io fui contento di
potermi godere la fresca brezza che caratterizzava quella bella
serata di metà maggio.
Io
mi ritrovai seduto tra John e Dayanara, mentre Angela era stata
trascinata dalle altre ragazze dalla parte opposta del tavolo. Notai
che anche Cornia era stato invitato, e accanto a lui vidi una ragazza
piuttosto anonima e silenziosa. Non sembrava piuttosto in confidenza
con Leah e Bryah, ma non volli chiedere spiegazioni.
John, che pareva sempre
essere in grado di leggermi nella mente, mi diede di gomito. «Sai
chi è quella?» bisbigliò.
«Me lo stavo giusto
domandando» ammisi.
«Lakyta, quella
ragazza di cui ti avevo parlato, quella che sognava di volare a
Hollywood per fare l'attrice» mormorò il mio amico,
mentre versava un po' d'acqua nel suo bicchiere.
«Ora capisco. Sta con
Cornia?»
John si strinse nelle
spalle. «A quanto pare.»
Dayanara si intromise nella
conversazione, sempre discreto e per niente invadente. «Se
posso dirvi qualcosa, ecco, loro due stanno insieme ma io ho paura
che Lakyta stia attraversando un brutto periodo.»
John si allungò verso
di me per potergli parlare meglio. «Cosa intendi?»
«Credo soffra di
depressione o qualcosa del genere. È cambiata molto in
quest'ultimo anno, soprattutto da quando si è fidanzata con
Cornia. Lui è allegro e cerca sempre di fare del suo meglio,
ma dubito riesca a capirla e aiutarla veramente. Non dovrei dirlo, lo
so, ma so che voi due siete affidabili. Me lo sento. È che ho
paura per quella ragazza e non so come comportarmi» ammise il
receptionist a bassa voce, poi si lasciò sfuggire un sospiro.
«La
verità è che se non vuole essere aiutata, tu non
puoi fare niente» dissi.
John annuì. «Serj
ha ragione. Non sentirti in colpa.»
«Già»
commentò Dayanara poco convinto, poi si scusò e si alzò
per andare ad aiutare Alwan a portare il cibo in tavola.
Notai che il batterista si
soffermava a osservare Lakyta, poi si passò una mano tra i
capelli ed espirò di botto. «Ha ragione a essere
preoccupato. Chissà come finirà quella ragazza...»
Stavo per tentare di
rassicurarlo, quando Shavo e Daron cominciarono a fare baccano;
dovevano aver bevuto già un paio di bicchieri e non tardarono
a farsi riconoscere come al solito.
«Sei un coglione,
Odadjian! Non permetterti mai più di buttare la tua fottuta
mollica di pane nel mio vino!» strillò il chitarrista,
allungandosi per afferrare il pizzetto di Shavo con l'intento di
tirarglielo.
«Giù le mani,
stronzo! Faccio come mi pare, del resto tu hai bevuto dal mio
bicchiere!» gracchiò il bassista, balzando in piedi per
sfuggire al suo attacco.
«Siete due idioti!
Però Shavo ha ragione!» esclamò Cornia a
sproposito, sollevando il suo bicchiere.
«No, ha ragione
Daron!» gridò Alwan, mentre depositava pentole e vassoi
sul tavolo.
Sgranai gli occhi. «Sono
sempre così?» chiesi a John.
«Più
o meno sì, anche se di Shavo e Daron non dovresti
sorprenderti» replicò il batterista in tono divertito.
«Basta! Adesso
mangiamo!» decise Leah, spingendo via Shavo che intanto l'aveva
raggiunta per cercare rifugio.
Sospirai e sorrisi. Ne
avremmo viste delle belle.
La cena era andata bene.
Alwan e Dayanara erano stati avvertiti che io ero vegetariano, così
si erano premurati di cucinare dei piatti a base di verdure e
ortaggi, facendomi assaggiare anche qualche ricetta tipica della
Giamaica.
Shavo, Daron e Cornia si
erano dati da fare per svuotare più volte i loro bicchieri, e
ora vegetavano sulle loro sedie in plastica a sproloquiare.
«Avete una chitarra o
qualche altro strumento qui?» volle sapere Daron, mettendosi in
piedi e stiracchiandosi. «E poi mi serve un bagno»
aggiunse, sghignazzando senza ritegno.
«Il bagno è a
sinistra della porta d'ingresso» lo informò Alwan con un
sorriso, mentre si metteva in piedi a sua volta. «Vado a
prendere gli strumenti che abbiamo a disposizione. Vuoi fare una
jam?»
Daron gli strizzò
l'occhio e si avviò dentro casa, seguito dall'altro ragazzo.
Udii le ragazze
chiacchierare e mi soffermai per un attimo ad ascoltare ciò
che si stavano dicendo.
«Io e Serj non abbiamo
ancora comprato tutto ciò che servirà per Rumi, dovremo
rimediare non appena saremo nuovamente in città.»
«Sai, è
bellissimo tutto questo. Io vorrei avere un figlio, ma non so se
sarei una brava madre» replicò Leah.
Bryah ridacchiò. «Io
non voglio averne.»
«E John che ne pensa?
E perché dici così?» le chiese Leah.
«Non mi sento per
niente di avere dei figli. Be', io e John non ne abbiamo mai parlato,
è un po' troppo presto» spiegò la giornalista.
Nel frattempo Daron e Alwan
erano usciti nuovamente sul portico e il padrone di casa stringeva
uno djambé tra le braccia, mentre il mio amico teneva una
chitarra acustica nella mano destra e un basso nella sinistra. Dalla
spalla di Alwan pendeva un sacco di iuta che immaginai contenesse
qualcos'altro, forse delle percussioni.
Dayanara fece spazio sul
tavolo e prese il sacco, per poi svuotarlo sulla tovaglia. Come avevo
immaginato, ne fuoriuscirono diversi shaker, due paia di maracas,
delle claves e dei piccoli tamburi.
«C'è anche uno
xilofono!» annunciò Alwan, portando fuori lo strumento
da un'altra custodia. «E anche un triangolo» proseguì.
«Oh, e noi cosa
dovremmo farci?» borbottò Cornia, sollevando uno shaker
costituito da un barattolo vuoto di shampoo riempito con delle
pietruzze colorate.
«Be', suoniamo, no?»
lo apostrofò Daron, imbracciando la chitarra.
«Su, ragazzi! Ognuno
di noi prenda qualcosa e facciamo un po' di casino» strillò
Shavo, afferrando uno dei tamburelli.
«Shavo, non vuoi il
basso?» gli chiesi sorpreso, mentre mi impossessavo dello
xilofono.
«No, lo suonerà
Al.»
Guardai Alwan in viso,
notando che aveva aggrottato le folte sopracciglia nell'udire le
parole del mio amico. «Io?»
«Ma certo! Leah, tu
cosa suoni?»
«Non sono capace!»
disse lei, accostandosi al suo ragazzo per osservare gli strumenti
disposti alla rinfusa sul tavolo.
«Non tutti lo siamo,
però lo facciamo per divertirci» la rassicurò
Dayanara, porgendole il triangolo. «Prendi questo e tieni il
tempo, fai una cosa semplice e ti fai due risate» le suggerì.
Lei ridacchiò e
accettò volentieri di mettersi in gioco; afferrò
qualche altro strumento e lo porse a Bryah e Angela, ignorando
deliberatamente il fatto che Lakyta fosse rimasta in disparte.
Notai che John si allungava
a prendere lo djambé, mentre Cornia agitava tutto eccitato il
suo shaker.
«Laky, tu non suoni?
Prendi le maracas, dai!» sentii dire a John.
«No, grazie»
rispose lei in tono piatto.
Shavo le si piazzò di
fronte. «Allora fai il video, okay? Lo sai usare, sì?»
le chiese, porgendole il suo iPhone.
Lei annuì e afferrò
il cellulare, preparandosi a filmare la nostra blanda quanto
improbabile jam session.
«Che canzone
facciamo?» domandò Daron, cercando il mio sguardo.
Mi strinsi nelle spalle.
«Non lo so, decidi tu» gli dissi, facendo un breve check
dei suoni del mio strumento. Si trattava di uno xilofono per bambini,
niente di serio, disponeva soltanto di otto tasti colorati, ma per
quella serata sarebbe andato bene.
Daron non si preoccupò
di controllare se la chitarra di Alwan fosse accordata, prese a
produrre qualche accordo e dopo un po' anche Alwan si unì a
lui.
Non stavano eseguendo un
brano preciso, si trattava di pura e semplice improvvisazione.
John entrò con un
complicato ritmo allo djambé, e a quel punto anch'io mi buttai
nella mischia, creando una melodia ripetitiva con piccole variazioni
sul tema.
«Cantate qualcosa!»
strillò Leah, agitandosi a tempo e pestando a caso sul suo
triangolo.
Shavo intanto prese a
percuotere il tamburo, riuscendo a incastrarsi in levare rispetto
alle ritmiche di John.
Non sapevo neanche io come
tutto ciò stesse succedendo e riuscendo anche abbastanza bene,
però era pazzesco e mi stavo divertendo un sacco a suonare
quel diamine di xilofono.
Mi schiarii la gola e
lanciai un'occhiata a Daron, che stava dall'altra parte del tavolo,
con un piede sulla sedia e la chitarra appoggiata sulla coscia.
Lui chiuse gli occhi e
cominciò a canticchiare, nonostante fosse più che altro
un roco rantolare senza capo né coda. Mi aggiunsi subito a lui
e presi ad armonizzare le sue linee vocali, finché non
formammo una sorta di botta e risposta nel quale a turno davamo
l'input per una melodia su cui poi armonizzare e creare
improvvisazioni.
Qualcuno rideva, qualcuno
improvvisava delle parti in pseudo-rap e qualcun altro strillava cose
a caso e completamente senza senso. Quasi tutti ballavano e si
muovevano a tempo.
Era una serata bellissima,
non avrei mai pensato di trovarmi tanto bene in compagnia delle
persone che i miei compagni di band avevano conosciuto un anno prima
durante la loro vacanza in Giamaica.
Se pensavo a quante cose
fossero cambiate durante quei dodici mesi mi sentivo soddisfatto e
felice per me e i miei amici.
Mentre suonavo e cantavo,
sollevai lo sguardo dallo xilofono e osservai Leah e Shavo che
facevano i cretini: lui tentava invano di muoversi sensualmente di
fronte a lei con l'intento di risultare provocante, mentre lei rideva
spudoratamente e fingeva di vomitare sulla pelle del tamburello di
lui. Poi guardai Angela che agitava uno shaker di metallo con la mano
destra, tenendo quella sinistra distrattamente abbandonata sulla sua
pancia. Bryah, accanto a lei, batteva tra loro le claves in una
pulsazione regolare e perfettamente a tempo, senza mai staccare gli
occhi da John. Quest'ultimo era serio e concentrato sul suo djambé
e sembrava essersi estraniato completamente dalla realtà.
Dayanara stringeva tre le mani due maracas e le muoveva
sconnessamente, ridacchiando discretamente. Alwan suonava il basso,
inginocchiato sul pavimento, e muoveva le mani con agilità.
Daron era nel suo elemento e suonava con estrema naturalezza,
un'espressione serena e divertita stampata in viso. Lakyta, in piedi
in un angolo, girava il video e un leggero sorriso si era formato
sulle sua labbra. Cornia le stava accanto e la stringeva per la vita,
blaterando cose senza senso e lasciandole ogni tanto dei leggeri baci
sulla guancia.
Ognuno di noi aveva
affrontato delle difficoltà e ancora ne avrebbe dovuto
superare delle altre, ma quella sera tutto sembrava andare bene ed
era come se niente potesse scalfire il nostro buonumore e la nostra
voglia di stare tutti insieme.
Mentre osservavo Leah
piroettare goffamente di fronte a Shavo, mi tornarono in mente le
parole che mi aveva detto qualche mese prima: «Serj, io sono
arrivata in quel dannato albergo con l'intenzione di non tornarci mai
più, convinta che non volessi trovare l'amore perché
scottata dalla mia esperienza familiare. Poi ho conosciuto Shavo».
In quel momento mi ero
commosso e l'avevo abbracciata fraternamente, rendendomi conto infine
non era riuscita a fuggire dallo Skye Sun Hotel e che ormai lo
considerava come una seconda casa.
«Serj? Perché
ti sei fermato?» mi sentii apostrofare da Daron.
Mi resi conto che attorno a
me era calato il silenzio, così scoppiai a ridere e battei
qualche colpo sullo xilofono. «Niente, stavo solo pensando a
tutti voi.»
Leah mi lanciò
un'occhiata perplessa. «A noi?»
«Sì, scusate.
Sono solo felice e onorato di essere qui» ammisi.
Alcuni dei presenti si
scambiarono delle occhiate interrogative, poi Shavo strillò:
«All'assalto!».
In pochi istanti mi ritrovai
travolto da quasi tutti i presenti, i quali rischiarono di farmi
cadere dalla sedia. Mi si appesero e appiccicarono ovunque,
riempiendomi di abbracci e carezze, baci e pacche su spalle e
schiena.
«Ehi, ehi! Aiuto!»
gridai.
«Sei il più
vecchio, ti tocca!» spiegò Daron.
«Ti vogliamo bene, ci
vogliamo tutti bene» aggiunse Leah.
Ed era vero, la nostra era
una famiglia e io avvertii che anche Alwan, Dayanara e Cornia ne
facevano parte, nonostante li avessi conosciuti quel giorno stesso.
Poi sollevai lo sguardo e
intravidi Lakyta: stava in un angolo, teneva ancora il cellulare di
Shavo e riprendeva la scena in silenzio.
Non una lacrima abbandonò
i suoi occhi, ma questi era talmente tristi e straziati dall'angoscia
che mi fecero sentire male per un istante.
Poi fui travolto da altre
chiacchiere e abbracci e la persi di vista.
Lei non faceva parte della
nostra famiglia, l'avevo capito fin da subito, ma non potevo farci
niente.
Era l'unica a non essere
riuscita nell'intento di fuggire via da se stessa.
Miei
carissimi e affezionatissimi lettori, ebbene sì, questa
avventura si è conclusa!
Oddio,
non mi pare ancora vero: sono proprio arrivata anche io alla fine
della mia prima long sui System; il momento di scrivere quelle parole
mi sembrava sempre lontanissimo, e invece è giunto prima che
potessi rendermene conto o.o
Noooooooo,
non è possibile... ma quanto mi mancheranno questi personaggi?
Non tanto i ragazzi dei System, che comunque possono sempre essere
presenti nelle mie storie, ma più che altro Leah, Bryah,
Alwan, Dayanara, Cornia, Lakyta, Miriam, Dolly, Layla... mi
mancheranno anche Tigran e Alina, per quanto siano apparsi poco e
niente nella storia, mi mancherà lo Skye Sun Hotel, e mi
mancheranno tutti quegli intrecci che si sono creati grazie a loro...
So
già che nel prossimo progetto che sto buttando giù non
ci saranno le stesse dinamiche, non ci saranno gli stessi personaggi,
quindi sentirò davvero la loro mancanza, di tutto e di tutti.
E
voi? Come vi sentite ora che tutto è finito?
Prima
di lasciarvi, volevo ringraziare tutti voi che mi avete seguito:
Stormy che mi ha recensito per prima al primo capitolo e non ha mai
smesso di leggere, Soul che è impazzita fin dal principio per
questa folle storia, Hanna che si è appassionata ai System per
colpa mia e di Soul e ha cominciato ad amare tantissimo questi
personaggi, Selene che è stata quasi sempre la prima a
recensire e mi avrà odiato per aver fatto apparire poco Serj
(XD), Carmensita che con le sue recensioni sincere e divertenti mi ha
allietato le giornate, KUBA che è passato per poco ma che ha
lasciato un segno indelebile, permettendomi di ispirarmi a una sua
bellissima poesia per la creazione del capitolo The Truth, e
chiunque altro sia passato anche solo per una recensione o per
leggere senza commentare!
Se
sono andata avanti è solo GRAZIE a voi e all'ispirazione che
mi hanno dato questi personaggi e i vostri commenti, quindi il merito
per questo successo e per il record di più di 200 recensioni è
vostro!
GRAZIE,
GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE, GRAZIE *____*
E
se questo capitolo si chiama Family è anche perché
in questa nostra categoria dei System si è formata una sorta
di famiglia, la quale si è impegnata per ripopolare la
categoria e che ha scelto di mettersi in gioco per creare qualcosa di
bello... non trovate anche voi che sia così? :'3
Per
finire, posso solo dirvi che, se siete curiosi e vi va, potete stare
all'erta perché c'è un altro progetto in cantiere, ma
non so ancora quando comincerò a metterlo su EFP ^^
Per
ora grazie ancora, spero di ritrovarvi anche nelle mie prossime pazze
avventure ♥
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=3640253
|