City of Storm. | blackstairs!au

di catoptris
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1.0 ***
Capitolo 2: *** 2.0 ***
Capitolo 3: *** 3.0 ***
Capitolo 4: *** 4.0 ***
Capitolo 5: *** 5.0 ***
Capitolo 6: *** 6.0 ***
Capitolo 7: *** 7.0 ***
Capitolo 8: *** 8.0 ***
Capitolo 9: *** 9.0 ***
Capitolo 10: *** 10.0 ***



Capitolo 1
*** 1.0 ***


Emma correva per i corridoi familiari dell'Istituto di Los Angeles, stringendo un coltello da lancio in mano: il peso ormai familiare di Cortana dietro la sua schiena era affiancato dalla stretta di una piccola mano; voltandosi, Emma vide la piccola Dru stretta alla sua cintura che la seguiva mentre correvano. Teneva in braccio Tavvy, con il volto paonazzo per il pianto; si scorse in una delle finestre dell'Istituto: i capelli biondi erano legati in un'alta coda di cavallo che le lasciava il volto scoperto. Un volto da bambina di dodici anni. Si bloccò di colpo solo quando si rese conto di aver imboccato il corridoio sbagliato, che la fece arrivare in cima alla scalinata che affacciava sull'atrio e sul portone d'ingresso. C'erano Shadowhunters ovunque.
Ci mise ben poco a capire: Sebastian Morgenstern. Vestito di rosso scarlatto, con i capelli biondissimi, quasi bianchi, e il volto simile a una scultura di marmo, senza alcuna traccia di emozioni. Aveva gli occhi neri, privi di qualsiasi traccia di vita, e una delle sue mani era stretta in una spada incisa con un motivo di stelle, nell'altra un calice fatto di adamas. La Coppa Infernale. Vide Mark, immobilizzato, con la tenuta sporca di sangue e incapace di qualsiasi azione. Sebastian disse qualcosa, qualcosa che raggiunse Emma come un brusio soffocato. Il signor Blackthorn trascinò Katerina, la loro tutor, che tentava di ribellarsi. Venne spinta sulle ginocchia. Questa volta, le parole di Sebastian raggiunsero Emma chiare, come se gli fosse accanto – e all'improvviso, al posto di Katerina c'era lei, sotto la stretta possente del signor Blackthorn e lo sguardo impassibile di Sebastian Morgenstern
"Adesso bevi dalla Coppa Infernale," le intimò, spingendo quindi il bordo del calice contro la bocca. Emma gridò, tentando di indietreggiare –

E si svegliò gridando. Le coperte bianco candido del suo letto erano gettate da un lato, uno dei cuscini dall'altro; sudava, e il suo cuore andava a mille. Lasciò vagare lo sguardo per la stanza: la luce pallida della luna filtrava dalla finestra aperta, illuminando appena la scrivania quasi immacolata, e gli abiti gettati sulla sedia, sul pavimento. Cortana, al fianco del letto, emetteva una flebile luce pari a quella della luna, che andava a riflettersi sulla copertina del libro che Emma teneva sul comodino.
D'improvviso, la porta venne aperta, lasciando entrare anche la luce del corridoio.
"Em? Em ti senti bene?" La voce maschile la raggiunse familiare come quasi tutte le notti. La figura avanzò rapidamente, sedendosi al suo fianco e avvolgendole le braccia attorno le spalle per attirarla a sé: Emma sentiva il suo stesso cuore in ogni fibra del corpo, ma a quel contatto così gentile le parve di sciogliersi. A poco a poco, le immagini dell'incubo lasciarono la sua mente libera, facendo sì che si concentrasse solo sul respiro regolare del ragazzo al suo fianco.
"È stato solo un incubo – sto bene, Alec," mormorò la giovane. Qualche momento dopo, si era allontanata da lui, incrociando le gambe e afferrando il cuscino in equilibrio precario sul bordo del letto per stringerlo al petto. Lui la osservava con i suoi grandi occhi blu che luccicavano nell'oscurità, e le labbra appena ripiegate verso un lato come in una smorfia: con Emma c'era sempre qualcosa di più, ma aveva ormai imparato a non fare troppe domande. Passava talmente tanto tempo con Jace da aver acquisito parte del suo carattere – o era Jace a somigliare più a lei da quando si allenavano insieme?
"Quando sei tornato?" Gli chiese quindi, sciogliendo la lenta treccia che bloccava i suoi lunghi boccoli biondi. Magnus adorava i capelli di quella ragazza, diceva che gli ricordavano una cascata d'oro colato dalle mille sfumature. Lui non ci aveva mai fatto caso, ma sapeva che Emma era una bella ragazza – un po' trasandata forse, ma la sua bellezza era un'altra cosa. Era forte, combattiva, non si faceva abbattere da nulla e riusciva sempre a far ridere tutti, anche nelle situazioni più spiacevoli.
"Un paio d'ore fa circa, sono passato al loft di Magnus per – sistemare una faccenda, quindi sono tornato qui," replicò, allungando una mano per scostarle i capelli dal volto. In un'altra circostanza, lei si sarebbe ritratta: le piacevano le premure di Alec, ma non quando esagerava. Finché non era arrivato Max, lui si era comportato da padre con lei, come se si stesse allenando per il momento in cui avrebbe avuto a che fare con il vero bambino; così, di tanto in tanto, tornava alle vecchie abitudini affettive di quando Emma era poco più che una dodicenne.
Un ampio sorriso si fece strada sulle labbra della giovane, indecisa su quale tipo di battuta poter provare: dischiuse le labbra, pronta a parlare, ma lo sguardo di Alec la fermò. Anche al buio, ogni singola sfaccettatura delle sue iridi era visibile. Emma aveva imparato a conoscerlo dai suoi occhi, che non riuscivano mai a nascondere nulla. Forse erano quelli il motivo per cui Magnus si era innamorato di lui, tra tanti.
"È successo qualcosa?" Domandò, reprimendo il panico che a poco a poco rimontava in lei. Sei una Shadowhunter, si disse, non puoi farti prendere dal panico così facilmente. Alec la guardò per qualche istante ancora, poi sospirò.
"Magnus, prima di venire a Buenos Aires, è passato a trovare Malcolm a Los Angeles," iniziò. A quelle parole, il sangue di Emma parve raggelarsi. Le sembrava quasi di non sentire più le pulsazioni del suo cuore, mentre una piccola rotellina nel suo cranio iniziava a girare cigolando. Los Angeles era argomento off-limits, lo sapevano tutti. La ragazza iniziava a dare in escandescenza al solo sentirlo nominare. O al sentir nominare la famiglia Blackthorn.
La verità è che le mancavano più di quanto realmente volesse ammettere: ricordava a malapena gli occhi di Ty, il volto dolce di Dru, la sicurezza con cui si muoveva Livvy, i piccoli versi che faceva Tavvy – anche se ormai aveva sicuramente imparato a parlare. Le mancava perfino Mark, sempre con quell'aria da ragazzo perfetto e imbattibile, che lo accumunava in maniera inquietante sia con Jace che con il popolo fatato, del quale possedeva i tratti. Li ricordava vagamente, ma sapeva con certezza che erano delicati e precisi. Ma più di tutti, era Julian a mancarle. Il suo migliore amico, con il quale aveva affrontato anche troppo a soli dodici anni. Sarebbero dovuti diventare parabatai e restare insieme, lì nell'Istituto di Los Angeles. Era stato lui a chiederglielo.

"Potremmo diventare Parabatai," disse Julian. "Allora non potrebbero separarci. Mai."
Emma ricordava chiaramente come quelle parole rimbombarono nella sua testa per qualche istante.
"Ma Jules," replicò lei, "essere Parabatai non è uno scherzo. È – è per sempre."
"Noi non siamo per sempre?"

Poi, dopo la morte del padre, aveva cambiato idea. L'aveva evitata, allontanata.
A distanza di cinque anni, Emma continuava a chiedersi se fosse stata lei a far qualcosa di sbagliato, aver detto qualcosa di male. Magari invece – come le aveva ripetuto per mesi Clary – era semplicemente sotto shock. Per essere dei semplici dodicenni, ne avevano passate tante. In quei momenti, Emma avrebbe voluto colpirla in faccia: lei era nata Mondana, non sapeva che loro erano abituati sin da piccoli a pressioni e allenamenti. Naturalmente, la Guerra era stata una pressione fin troppo grande, ma più di tutti, Julian aveva dovuto uccidere il padre. Aveva dovuto farlo. Davanti ai suoi fratelli minori. Emma sapeva che ancora non se l'era perdonato, nonostante fosse consapevole di aver fatto la cosa migliore; non quella giusta, probabilmente, ma di sicuro quella migliore.
"Pare abbiano chiesto aiuto a Malcolm per individuare delle linee di energia, o qualcosa del genere – Julian era lì con una ragazza, Cristina," Alec si bloccò, riprendendo fiato con un sospiro. Avrebbe davvero dovuto dirglielo a quell'ora della notte? Ma, dopotutto, era già sveglia, e non si sarebbe riaddormentata. Era sempre così, dopo i suoi incubi. "Em, sono stati trovati altri corpi come quelli dei tuoi genitori, lontani dall'oceano," disse quindi.
Fu come sentire un colpo di Jace piazzato sul naso dall'angolazione migliore che si potesse trovare. Emma era stordita, incapace di assimilare a pieno la notizia. Corpi. Genitori. Tuoi genitori. Altri corpi. Dimenticò tutto: Julian, la ragazza con lui, Malcolm, Magnus, perfino la presenza di Alec lì con lei. Tutto ciò che riusciva a vedere erano le foto dei corpi dei suoi genitori, prima che si disintegrassero, sfregiati dalle rune – che propriamente rune non erano.
Avrebbe voluto mettersi a gridare, o a piangere, o magari entrambi contemporaneamente. Non riuscì a fare nulla di tutto ciò – e vide tutto nero.

Quando si svegliò, capì immediatamente di essere nell'infermeria. Sentiva un calore piacevole all'altezza del fianco sinistro, e le sue mani sfioravano qualcosa di soffice – Church, probabilmente. Il sole le sfiorava il volto che, se fosse rimasta a Los Angeles, non sarebbe stato così pallido come tutti le facevano notare.
"Oh per l'Angelo, finalmente ti sei svegliata!" Izzy accorse strascicando i piedi, e le gettò le braccia al collo. Emma si trattenne dall'allontanarla bruscamente, limitandosi a fingere un colpo di tosse che la fece tirare in piedi con uno scatto. Isabelle era una bella persona, un'ottima cacciatrice, e teneva a Emma. Io ero come te, le aveva detto una volta. Piena di ambizioni e di traguardi da raggiungere. Non aveva mai concluso la frase, e la cosa aveva demoralizzato abbastanza la bionda.
"Cos'è successo?" Borbottò quest'ultima, tirandosi lentamente a sedere. Come previsto, al suo fianco c'era Church, acciambellato con il muso sul fianco della giovane. I grandi occhi dorati scrutavano l'ambiente con una pigra attenzione, mentre muoveva appena la coda. Per tutti era stato sconvolgente quando, entrata nell'Istituto, Emma si era ritrovata mucchi e mucchi di pelo aggrappati alla spalla, alla disperata ricerca di coccole. Ormai passava tutto il tempo che non gironzolava chissà dove nella stanza di Emma – James Carstairs le aveva spiegato il motivo solo un paio di anni dopo il suo arrivo, quando si erano incontrati per caso.
"Quando ci siamo svegliati Alec ha dato di matto – non sapevamo neppure fosse tornato! Ha detto che stavate parlando e dopo averti parlato di – lo sai – sei svenuta di colpo e non volevi proprio riprenderti. Ti ha portata qui, pensando che sarebbe servito a qualcosa, e ti ha fatto qualche runa di troppo," si sedette al suo fianco, incrociando le lunghe gambe in un angolo di materasso. Church balzò giù, come infastidito dalla sua presenza, e nel giro di pochi istanti svanì. Indossava la tenuta da combattimento, ma era scalza, cosa che rendeva il quadro alquanto bizzarro. Il rubino le cadeva sul petto, ed era la prima cosa che probabilmente saltava all'occhio guardandola.
Emma si guardò le braccia, sulle quali si erano già formate nuove cicatrici dovute alle rune applicate da Alec – consapevolezza, calmarabbia, fortezza, iratze, protezione, tranquillità. Sembrava che qualcuno lo avesse strappato via da lei, così da interrompere quella successione di segni in combutta con loro. Magari era quello il motivo della confusione di Emma.
"Dov'è ora?" Chiese a Izzy. Lei scivolò giù dal letto, stiracchiandosi come un gatto prima di allacciarsi la giacca.
"Con Magnus, avevano alcune faccende da sistemare – ce ne parleranno questa sera probabilmente," le disse. Quindi si chinò in avanti, lasciandole un delicato bacio contro la fronte; quel gesto ricordò a Emma la madre. Lo faceva anche lei? Ormai quasi non lo ricordava più. "Riposati un po' per oggi, Jace non se la prenderà se salterai un allenamento," continuò, con un sorriso bonario sulle labbra. "Tanto sei già più brava di lui," aggiunse, strizzando un occhio. A quelle parole, Emma non riuscì a non sorridere.
"Tu dove vai?" Le domandò, fingendo di stendersi nuovamente. Le labbra di Isabelle si dischiusero in un sorriso a trentadue denti. Simon.
"Simon," rispose lei semplicemente, prima di saltellare via. Emma rimase qualche istante a guardare l'uscio vuoto, quindi sorrise tra sé e sé. Dopotutto era stata fortunata a trovarsi lì.

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Capitolo 2
*** 2.0 ***


Naturalmente, Emma rimase a letto solo qualche minuto.

Il sole era già alto e filtrava dalle ampie finestre dell'Istituto riempiendo i corridoi deserti: al solo pensiero di quanto tempo aveva sprecato dormendo, Emma si sentiva quasi male.
Raggiunse la propria camera in poco tempo e, silenziosamente, si richiuse la porta alle spalle, entrando nella cabina armadio. Si cambiò guardando le pareti, sulle quali erano appese le foto dei corpi dei genitori che aveva rubato anni prima dall'ufficio di Jia Penhallow. Se Jules fosse stato lì con lei avrebbe avuto qualcuno con cui condividere tutte le sue preoccupazioni. Scacciò rapidamente quel pensiero dalla testa, infilandosi una delle magliette bianche che Jace le aveva regalato al suo arrivo – sono diventate troppo piccole per me, e tu avrai bisogno di qualcosa con cui allenarti; inoltre, a Clary stanno male. Viveva lì da ormai cinque anni, avrebbe dovuto trovare qualcuno con cui sfogarsi di tanto in tanto: ma teneva tutto dentro. Parlava con Alec solamente quando lui si precipitava da lei nel mezzo della notte, raccontandogli occasionalmente gli incubi che l'assillavano. Clary, di tanto in tanto, le faceva qualche runa antipaura, ma neppure quelle riuscivano a tranquillizzarla più di tanto. Avrebbe preferito se qualcuno della sua età fosse stato lì.
Uscì dalla sua stanza legandosi i capelli in una coda alta, dalla quale sfuggivano alcune ciocche troppo corte per essere raccolte completamente. Sicuramente, Alec aveva parlato con Jace, proibendogli di farla allenare, quindi escluse l'opzione in partenza – probabilmente lui e Clary ne avevano già approfittato, sparendo in qualche locale mondano per stare un po' da soli.
Che altro fare, se non andare a correre? Emma avrebbe preferito di gran lunga la spiaggia di Los Angeles alle strade affollate di New York, ma doveva accontentarsi. Si diresse quindi rapidamente all'ingresso.
Il momento prima che riuscisse ad aprire la grande porta principale, un braccio le si avvolse attorno i fianchi, sollevandola da terra e allontanandola.
"Dove pensi di andare, signorina?" Disse il ragazzo al suo fianco nel contempo, tentando di mascherare il tono divertito. Lei strinse le labbra, valutando se gridare o meno.
"Jace, mettimi immediatamente giù," protestò invece, posando le mani sul suo polso: la presa di Jace era salda, ferma e, in un certo senso, rassicurante. Emma ricordava ancora quando a dodici anni aveva una cotta per lui – chi non l'aveva? – e arrossiva anche solo nel vederlo da lontano: con un contatto del genere, a quel tempo, probabilmente si sarebbe sentita male. Ma lui era diventato il fratello che non aveva mai avuto, nonché suo allenatore.
"Papà Alec è stato abbastanza chiaro, devi restare qui e riposare," replicò lui. A quel punto, Emma scoppiò a ridere; non era la prima volta che Jace chiamava il suo parabatai papà Alec, specialmente da quando era arrivato Max. Si divertiva a stuzzicarlo, prendendolo in giro e chiamandolo paparino quando Magnus non c'era – altrimenti l'avrebbe trasformato in un appendiabiti. Emma si era spesso chiesta se avere un parabatai fosse anche quello: c'era il lato legato alla battaglia, certo, e alle sensazioni che uno provava. Ma c'era di più, giusto? Leggendo dal Codice, sembrava tutto unicamente finalizzato al combattimento, ma per Jace e Alec era diverso – e, a loro tempo, anche per Jem e il suo parabatai, Will, era stato diverso. Erano legati insieme, i due: un'anima divisa in due corpi. Si era spesso chiesta anche se, con Jules, sarebbe stato lo stesso. Insomma, loro due erano già parecchio vicini, combattevano perfettamente coordinati – ma come sarebbe stato averlo come parabatai?
"Avanti, Jace! Volevo solamente andare a correre!" Continuò la bionda, mentre lui – sollevandola da terra – la riportava verso la sua stanza.
"Non se ne parla, leggi un libro piuttosto," le disse, salendo l'ultima rampa di scale e infilandosi in uno degli stretti corridoi. A quel punto, Emma distese le gambe abbastanza da toccare terra, e si impuntò, premendo con il proprio corpo contro quello di Jace: avvolse le dita attorno il suo avambraccio, spingendolo in avanti così che la presa sul suo busto si facesse quasi nulla e, ruotando su un piede, gli passò alle spalle, portando in questo modo il braccio dietro la sua schiena, bloccandolo. Jace, dal canto suo, era rimasto spiazzato da quel gesto, e non era riuscito a ribattere abbastanza in fretta, finendo faccia al muro.
"Come vedi sono in perfetta forma," gli disse scherzosamente la bionda, posando il mento contro la sua spalle e dischiudendo le labbra in un ampio sorriso.
"Sei stata sleale, Carstairs," borbottò, con la guancia premuta al muro e le labbra arricciate. La minore a quel punto sollevò le spalle quasi con noncuranza.
"In guerra ogni cosa è lecita, Herondale," fu la sua risposta. Quindi lasciò la presa sull'altro e indietreggiò di un passo. "Allora, posso andare a correre o hai intenzione di chiamare Clary per farmi andare in camera?" Gli disse, posandosi le mani sui fianchi e inclinando il capo da un lato. Lui, massaggiandosi di nascosto il polso indolenzito – per l'Angelo, si stava davvero arrugginendo a fare il capo – si voltò nuovamente nella sua direzione, inarcando un sopracciglio. Poi scosse la testa, affranto.
"Andiamo, ragazzina, abbiamo del lavoro da fare," le disse, ruotando quindi sui tacchi per allontanarsi lungo il corridoio.

"Quando hai parlato di lavoro, non credevo ti riferissi a del vero lavoro," protestò Emma, emergendo dal mucchio di scartoffie in cui Jace l'aveva seppellita. Lui le rivolse un'occhiata dall'altro lato della scrivania, le labbra distese in un ghigno divertito.
"Coraggio, biondina, ci manca poco, poi potrai prendermi a calci nel sedere quanto vuoi," le replicò, scarabocchiando una firma sul foglio che teneva in mano. Lei gli rivolse un'occhiata glaciale.
"Ok, primo questo non è poco," disse lei, allontanando una pila di documenti. "Secondo, non chiamarmi biondina," aggiunse, lanciandogli contro una delle matite spuntate con cui aveva lavorato fino ad allora. Jace scostò il capo per evitarla, lasciandosi sfuggire una bassa risata.
"Perché? Trovo sia carino," si giustificò lui, allontanando un'altra pila di documenti. La ragazza assottigliò gli occhi, furente.
"Perché nessuno può chiamarmi biondina e salvarsi le rotule," borbottò tra sé e sé. Jace riuscì comunque a sentirla e reclinò il capo all'indietro, scoppiando a ridere di gusto. Non aveva mai riso tanto quanto in quel periodo, con Clary al suo fianco, Alec e Izzy nell'Istituto insieme a lui e tutto che andava per il verso giusto. Emma pensava fosse quello il significato di "sentirsi appagati"; dopotutto, non parlava molto con le persone, e aveva imparato a conoscerle con uno sguardo. Le riusciva quasi sempre. Inoltre, le era utile per i combattimenti: ci metteva poco a riconoscere il linguaggio del corpo del suo avversario, e annientarlo era semplicissimo. Persino se era un demone. Era, a detta degli altri, la Shadowhunter più determinata della sua età. Aveva superato anche il grandioso Jace Lightwood (o Herondale che fosse). Forse era questo che si otteneva nel restare orfani.

"Ancora," disse Emma, con il fiato corto e la punta della lancia a sfiorare il petto di Jace, steso a terra. Rivoli di sudore gli colavano dalla fronte, sul volto e lungo il collo, i capelli – ancora troppo lunghi, soprattutto secondo Clary – erano tirati indietro, con le punte arricciate leggermente bagnate. Si allenavano ininterrottamente da quasi quattro ore, e lui iniziava a perdere colpi. Emma, al contrario, nonostante i vestiti attaccati al corpo, i capelli scombinati sfuggenti dalla coda e il fiato tirato, sembrava stare bene. Era caduta una volta sola, rialzandosi prima che Jace le desse il colpo finale.
"Ragazzina, ti hanno sostituita con un robot o qualcosa di simile?" ansimò il ragazzo, scostandosi la lancia da davanti il petto per tirarsi a sedere. Lei si poggiò su di questa come se fosse un bastone, posando la mano libera contro il fianco e osservandolo con un sopracciglio inarcato.
"Magari sei tu che stai invecchiando," gli rispose con un ghigno a incresparle le labbra. "Oppure il lavoro da ufficio ti rende fiacco," aggiunse. Lui le rivolse un'occhiataccia prima di tirarsi in piedi. La verità è che si sentiva davvero fiacco.
Recuperò il suo bastone e si chinò appena in tempo per evitare il colpo della minore. Si muoveva come una furia, menando fendenti precisi e capaci di tramortire chiunque fosse nell'arco di tre metri. Jace l'ammirava per la sua forza e per la sua caparbietà; difficilmente lo avrebbe ammesso a voce alta, ma le ricordava lui prima che incontrasse Clary – o venisse trafitto con una spada che gli aveva riversato del fuoco celestiale nelle vene. In quel momento non poteva certo lamentarsi se lo chiamavano testa calda.
L'asta lo colpì nello stesso punto delle sette volte precedenti, facendolo ricadere su di un fianco con un gemito sofferente.
"Cosa sta succedendo qui?" chiese una voce autoritaria sulla porta della sala, facendo voltare il capo sia di Jace che di Emma con uno scatto. Alec era fermo sulla soglia con le braccia incrociate al petto e un cipiglio a corrugargli la fronte. I due si scambiarono una rapida occhiata, quindi tornarono a guardare l'altro che, con aria impaziente, attendeva una spiegazione.
"Tu dovresti riposare," dichiarò, quindi, indicando Emma. "E tu dovevi controllare che non si sforzasse," aggiunse, rivolgendosi a Jace.
"Sai, è stata molto persuasiva nel dimostrarmi che non aveva alcun bisogno di riposo," replicò Jace, ancora a terra e con il fiato corto. Alec sollevò lo sguardo al cielo, sospirando esasperato.
"Andate a darvi una lavata, devo parlare di una cosa quando ci saremo tutti," si rassegnò. Emma si ritrasse da Jace che, rivolgendo uno sguardo sollevato al proprio parabatai, si alzò e uscì di corsa dalla palestra. La bionda rimase ancora qualche istante, tirandosi le braccia indolenzite mentre riponeva gli attrezzi al suo posto.
"Pensavo di averti detto di restare a letto," le disse Alec dalla porta, con le mani posate sui fianchi. Avvicinandosi, lei inclinò appena il capo.
"In realtà, me l'ha detto Izzy al posto tuo," precisò. Lui sospirò per l'ennesima volta, portandosi le mani sul volto.
"Emma–" iniziò, con voce poco più alta. La ragazza, in risposta, sollevò le mani vicino al capo.
"Vado, vado," replicò, passandogli accanto.

Arrivò in biblioteca con Church al fianco che le miagolava contro. Forse perché si era legata i capelli ancora bagnati e aveva sgocciolato lungo tutto il tappeto. Raggiunse l'ultima poltrona libera e vi affondò, sospirando, e il gatto le saltò rapidamente sulle gambe, acciambellandosi e iniziando a ronfare. Alec si guardò attorno, come accertandosi che ci fossero tutti – Clary, apparentemente, era andata a trovare Luke e Jocelyn, e non poteva essere con loro – quindi sospirò e si poggiò contro la scrivania, incrociando le gambe all'altezza della caviglia.
"Allora, come sapete sono stato a Buenos Aires per una serie di attacchi da parte di vampiri e, per un certo periodo, ho fatto avanti e indietro da qui a lì con Magnus," iniziò, tamburellando le dita contro il bordo della scrivania a un ritmo costante. Emma sollevò un sopracciglio osservandolo: non era da Alec esser così nervoso. "Non lo facevo per dei controlli, la situazione era abbastanza stabile, ma mentre ero lì ho – sì, ecco, ho incontrato uno Shadowhunter," Jace dischiuse le labbra come per dire qualcosa, ma Izzy gli tirò una gomitata tra le costole per zittirlo. "Di cinque anni," aggiunse quindi, e Jace parve rilassarsi. "I suoi genitori sono rimasti vittime della strage all'Istituto durante la Guerra Oscura. È rimasto solo lui e, ecco – Mag!" la porta della biblioteca venne aperta di nuova e, in controluce, Emma scorse un uomo che teneva un bambino in braccio e uno per mano che, subito, si staccò e corse verso Izzy, richiamandola e saltandole al collo per abbracciarla. Lei rise, stringendo a sé il piccolo bambino dalla pelle blu, mentre lo stregone avanzava.
"Ragazzi, lui è Rafael," disse Magnus, con un piccolo sorriso. "Rafael Santiago Lightwood-Bane," aggiunse, rivolgendo uno sguardo a Alec che, riconoscente, chinò il capo. Lentamente, l'uomo depositò a terra il bambino che, subito, barcollò in direzione di Alec, guardandosi attorno con fare spaesato. Church, nel vederlo, si alzò e andò via con un miagolio di protesta, facendo sfuggire una piccola risata a Jace. Jace. Emma immaginava che Alec avesse fatto tutto quello per ottenere l'approvazione del suo parabatai e di sua sorella. Ma stava guardando lei, tenendo per le mani il bambino estremamente magro. La ragazza dischiuse appena le labbra, alternando lo sguardo da lui a Magnus, quindi a Rafael. Poi sorrise.
"Andrà bene," mimò con le labbra, e un ampio sorriso dischiuse le labbra di Alec, che prese il piccolo tra le braccia. Andrà bene.

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Capitolo 3
*** 3.0 ***


Emma credeva che dopo un altro Lightwood-Bane ad ampliare la famiglia non potessero arrivare altre sorprese. Poi, Simon era entrato di corsa nell'Istituto, scatenando il panico con sette parole.
"Ho appena chiesto a Isabelle di sposarmi!" Emma, per poco, non era caduta su Jace dalla trave su cui si allenava, mentre uno degli studenti di Beatriz Mendoza era scivolato di peso su un tappeto da ginnastica. La bionda atterrò agilmente al fianco di Jace che, steso a terra, aveva allargato le braccia avvilito. "La gente penserà che siamo.. parenti! Parenti di sangue, magari!" stava esclamando, esasperato. Emma si era lasciata sfuggire una bassa risata.
"Ne dubito fortemente," aveva dichiarato a mezza voce, ricevendo un delicato colpo dietro le caviglie che l'aveva fatta barcollare in avanti.
Nel sentire il modo in cui la proposta era andata – "Coperta d'icore, non ti era mai parsa più luminosa?" – Emma si era trattenuta fortemente dallo scoppiare a ridere, limitandosi a congratularsi con Simon rivolgendogli un delicato sorriso.

E due giorni dopo, costretta dal suo abito color avorio, se n'era pentita. Detestava i festeggiamenti, e detestava gli abiti così femminili. Per lo meno, Clary le aveva permesso di prendere il suo in un negozio vintage – cosa che ricordava a Emma la madre. Aveva i capelli sciolti sulla schiena a coprirle vecchie cicatrici di rune e allenamenti, ma sulle braccia scoperte sembravano essere intessuti fili di ragnatela argentati: ogni volta che allungava il braccio per recuperare qualcosa da bere o da mangiare, la luce si rifletteva in maniera inquietante sulla cicatrice che si era inflitta con Cortana, facendole distogliere lo sguardo. Erano in momenti come quelli che si chiedeva come sarebbe stato essere una semplice mondana, senza la preoccupazione di farsi nuove rune ogni giorno e ritrovarsi con le braccia, le gambe, il petto, la schiena ricoperte di segni sempre nuovi. Sospirò, aggirandosi con fare assente per la sala, quando vide Magnus correre nella sua direzione, affiancato da Jace e Clary – i cui capelli sembravano reduci da un incontro ravvicinato con un tornado. Si bloccò sul posto con la tartina vicino alle labbra.
"Emma, ci sono stati dei – dei problemi e tu – insomma noi," balbettava Clary. Per un momento, Emma credette di aver bevuto qualcosa che le aveva fatto venire le allucinazioni, dopotutto era stato Magnus a organizzare la festa e ogni cosa poteva essere possibile. Poi lo stregone bloccò la rossa, rivolgendosi a Emma con un sorriso comprensivo sulle labbra. Jace, alle sue spalle, stringeva i pugni, le guance arrossate e gli occhi lucidi. In un'altra occasione, Emma avrebbe sdrammatizzando chiedendo chi fosse morto. Eppure non le sembrava il caso.
"Quello che Clary sta cercando di dirti, fiorellino, è che ci sono stati dei problemi all'Istituto di Los Angeles. Con i Blackthorn. Che ci aspettano in biblioteca. Vuoi venire?" la bionda rimase paralizzata, e si lasciò scivolare la tartina dalle mani.
"Em, se non vuoi, non sei obbligata, ti faremo sapere –" iniziò Jace. In risposta, lei scosse la testa e avanzò decisa, tirandosi l'orlo del vestito sopra le ginocchia.
"Andiamo," replicò fermamente. Jace e Clary si scambiarono uno sguardo preoccupato, poi si allontanarono con Magnus e Robert Lightwood. A Izzy non sarebbe piaciuto.

Nel momento stesso in cui oltrepassava la soglia della biblioteca, la ragazza se ne pentì. Il suo sguardo percorse la sala, finché non vide Mark: era cresciuto, dall'ultima volta che lo aveva visto, e i suoi tratti di fata si erano fatti molto più marcati, rendendolo bellissimo. Sfortunatamente, lei non fu l'unica a rendersene conto.
"Mark Blackthorn?" esclamò incredulo Robert. Emma vide le spalle di Mark irrigidirsi, come quelle del ragazzo al suo fianco. Si voltò lentamente, e il suo sguardo incrociò per la prima volta dopo anni quello di Julian. Anche lui era cresciuto, completamente diverso da Mark. Ma ugualmente bello. I capelli gli ricadevano in scure onde attorno il volto, incorniciandolo con dolcezza e ammorbidendo i suoi tratti severi. Per avere solamente diciassette anni, Julian Blackthorn sembrava esausto. Scrutò per poco i suoi occhi, perdendosi nelle piccole screziature che rendevano il suo sguardo luminoso. Ma erano freddi, distanti. Non erano gli occhi del suo Jules.
"Emma!" Gridò una vocina femminile. Lei si voltò appena in tempo per vedere una massa di capelli castani piombarle addosso, travolgendola in un abbraccio. Rimase interdetta per qualche istante, con le labbra dischiuse. Non sentiva più nulla di ciò che le accadeva attorno. Percepiva, oltre un fastidioso ronzio, la voce distante di Robert, Magnus e Jace, e quella che credeva fosse di Mark. Come mai era lì? Non era stato preso dalla Caccia Selvaggia?
"Dru? Sei tu?" chiese, stupidamente. Certo che era lei. La più giovane sollevò lo sguardo verso il suo volto, e con orrore Emma si accorse che aveva gli occhi gonfi di pianto. Si guardò attorno, e intravide Livvy e Ty in un angolo, abbracciati. Ty non piangeva, confortando la gemella che sembrava incapace di riprendere fiato tra un singhiozzo e l'altro. Tornò a guardare Jules, il quale stringeva i pugni lungo i fianchi. Mark discuteva animatamente con Robert, ma si voltò comunque verso il fratello, mormorandogli qualche parola che Emma non riuscì a sentire. Va' da lei. Julian rivolse uno sguardo rigido al fratello prima di allontanarsi a gran passo.
"Dru, Dru torno subito, te lo prometto," disse alla piccola, che sembrava sul punto di scoppiare nuovamente a piangere. Un ragazzo si avvicinò a lei, stringendola in un abbraccio comprensivo. Emma era sicura di non averlo mai visto prima: di certo se ne sarebbe ricordata. Poi notò la sua divisa; era un Centurione, ferito per lo più. Ma non aveva tempo di pensare a queste cose. Raccolse la gonna dell'abito fin sopra le ginocchia e corse verso la direzione che aveva imboccato Jules, fuori dalla stanza. Aveva ormai raggiunto la fine del corridoio, ma prendendo un profondo respiro, lei gli corse dietro. Si sarebbe volentieri fermata a togliersi le scarpe, sulle quali avrebbe sicuramente rischiato di cadere senza tutto quell'allenamento. Si fermò solo quando lo fece anche il ragazzo, mantenendo la distanza di qualche metro, ma lo vide comunque: i muscoli rigidi, il respiro accelerato, il tremore. Si fece avanti con rapidità, bloccando il pugno che il ragazzo stava scagliando contro la parete nella propria mano.
"Jules," disse, semplicemente, stringendogli le dita attorno le nocche. Lui non la guardava, ma continuava a tremare. A quel punto, Emma fece la cosa più stupida a cui riuscì a pensare: lo attirò a sé, avvolgendogli le braccia attorno le spalle con delicatezza, come per paura di romperlo.
"Cos'è successo, Julian?" gli domandò quindi, con dolcezza. E lui crollò, soffocando un grido contro la pelle di lei e aggrappandosi al suo abito. Lei barcollò appena all'indietro, finché la sua schiena non cozzò contro il muro, ed entrambi si ritrovarono seduti a terra. Gli accarezzava i capelli lentamente, sollevando lo sguardo verso le luci appese alle pareti – una cosa che le aveva suggerito Tessa: per non piangere, guarda fissa una luce. Le sembrava di percepire il dolore di Julian insinuarsi sotto la sua pelle, e si chiese se fosse quello che si provava nell'avere un parabatai.
"Tavvy è morto per colpa mia, Em. Per colpa mia," disse con voce strozzata il ragazzo. Emma si irrigidì: Tavvy. Come poteva essere stata così stupida da non rendersene conto? Mancava Tavvy. Ma lui era ancora troppo piccolo per partecipare a qualche spedizione.
"Sono sicura tu non abbia fatto nulla, Jules. Non è colpa tua," gli rispose, mordendosi il labbro inferiore con forza. Avrebbe voluto saperne di più sull'accaduto, ma non voleva far pressioni su Julian né su nessuno dei Blackthorn. Lo avrebbe chiesto a Jace, in seguito. Lui le avrebbe detto di sicuro tutto. No?
"Abbiamo scoperto chi ha ucciso i tuoi genitori," dichiarò dopo un po' Julian, distanziandosi da lei. Le parve di nuovo di brancolare nel buio, e si ritrovò a stringere le mani attorno il tessuto della maglia di Julian, con lo sguardo puntato sul suo volto. Lui sospirò, scostandole una ciocca di capelli da davanti il volto con lentezza: Emma sentì la pelle mangiucchiata delle sue dita pizzicarle contro la fronte, ma non si mosse. Il ragazzo aveva sempre avuto il vizio di mordersi le unghie fino a farsi sanguinare le dita, anche da piccolo; era una cosa che Emma non avrebbe mai dimenticato.
"Malcolm Fade," disse quindi, non aspettandosi alcuna risposta da parte sua. "Ha ucciso Octavian per completare un rito. Ora è morto, e con lui la sua compagna," terminò, scostandosi da lei.
In fondo, Emma si sentì ferita da quel gesto: non si vedevano da cinque anni, poteva comprendere il cambiamento. Ma fino a quel punto? A sua volta, indietreggiò di poco, ma entrambi rimasero seduti a terra, con la schiena premuta contro il muro e lo sguardo perso nel vuoto. Poi, senza che lei gli chiedesse nulla, Julian iniziò a raccontare.
"La prima volta che abbiamo trovato dei corpi come quelli dei tuoi genitori ho pensato di chiamarti, ma mi sembrava stupido dopo cinque anni," le disse. La intravide voltarsi verso di lui con la coda dell'occhio, ma non osava incontrare il suo sguardo. "Ho persino pensato di lasciar perdere, di fingere non fosse nulla se non una semplice coincidenza, ma le fate hanno chiesto il nostro aiuto. E ci hanno riportato Mark. Così ho spiegato a Cristina – dovresti conoscerla, credo andreste d'accordo – e ai ragazzi, troppo piccoli per ricordare, la situazione. Appena hanno sentito il tuo nome non hanno perso un secondo in più," dalle sue labbra sfuggì un basso rantolio, che Emma interpretò come una risata. "Sono ancora tremendamente affezionati a te, e credo mi diano la colpa anche del fatto tu sia dovuta andare via," aggiunse, con tono velato di sarcasmo. La ragazza si irrigidì ulteriormente nel sentirlo parlare a quel modo. Come poteva? Stava per replicare, ma lui continuò. "Abbiamo scoperto delle linee di energia, su ciascuna delle quali venivano trovati i corpi. Le abbiamo fatte analizzare da Malcolm, stupidamente, e al tempo stesso abbiamo cercato di tradurre le rune – no, non sono rune, avevi ragione tu – l'incantesimo che appariva sui corpi. Era una filastrocca, delle istruzioni su come svolgere l'incantesimo in una lingua antica. Prima la fiamma e poi l'inondazione, il sangue dei Blackthorn è la sola spiegazione." Emma rabbrividì. Fiamma e inondazione.
"Mi sembra di conoscerla," mormorò tra sé e sé, e Julian fece di nuovo quello strano verso.
"È una vecchia fiaba degli Shadowhunters. Mai sentito parlare della Signora della Mezzanotte?"
"La Shadowhunter che si innamorò di chi non avrebbe dovuto innamorarsi e che fu rinchiusa in un castello di ferro. Lei morì di tristezza e l'uomo andò a chiedere alle fate se c'era un modo per riaverla, così gli dissero la filastrocca," rispose lei automaticamente. Aveva dimenticato quella fiaba, la madre gliel'aveva raccontata una sera, e lei l'aveva trovato ingiusto. Perché non poteva semplicemente amare quell'uomo?
"Non capisco, cosa c'entra il sangue dei Blackthorn?" chiese quindi, tornando a guardarlo. Lui la stava osservando da un po', ma non distolse lo sguardo.
"Era una di noi. Una Blackthorn. È stato Tavvy a capirlo," sospirò, posando il capo contro il muro.
"Prima tredici e poi l'ultimo di contare," Emma si accigliò, quindi scosse la testa. "Ma certo, serviva uno di voi," si rispose da sola. Vide Julian deglutire e stringere nuovamente i pugni.
"Ed è toccato al più piccolo," disse, con voce spezzata. "Mi sono fidato della persona sbagliata. Toccava a me."
Emma gli scivolò più vicino, incespicando nell'orlo dell'abito finché non si sentì un sonoro strappo. Socchiuse gli occhi, stringendo tra di loro le labbra e sospirando: ci mancava il vestito rotto.
"Non dirlo, Julian. Non toccava a nessuno di voi, ma è capitato," tentò di mantenere la voce ferma, nonostante le sembrasse impossibile. "Loro ti perdoneranno, sanno che hai fatto il possibile, sanno che non c'era altra soluzione. Sono ragazzi intelligenti, e ti vogliono bene," sospirò, avvolgendo delicatamente le dita attorno il suo polso. Riusciva a sentire il battito del suo cuore accelerato, come dopo una corsa. "Andrà bene, Jules, siete una famiglia, e supererete anche questo," terminò in un sussurro. Lui si voltò di nuovo a guardarla, ed Emma riuscì a sentire il proprio battito accelerare. Non ricordava che Julian fosse così bello – forse perché erano ancora troppo piccoli perché se ne rendesse conto. Aveva lasciato da parte i tratti infantili, facendo spazio a linee ben definite e marcate che un tempo caratterizzavano solamente Mark. I capelli erano cresciuti nei tipici boccoli dei Blackthorn, ed Emma aveva un profondo desiderio di passarvi le dita per ore. Gli occhi erano la cosa che più era cambiata in lui: sembrava che per ogni anno passato distanti la loro intensità fosse aumentata, rendendoli profondi specchi d'acqua nei quali la bionda riusciva a vedere il suo riflesso. Aveva sempre amato il colore dei suoi occhi.
Si rese conto, di colpo, che le si era avvicinato in maniera pericolosa, quindi si ritrasse di scatto, finendo con lo strappare ulteriormente il vestito. Julian si tirò a sedere nuovamente dritto mentre Emma balbettava.
"Cosa stavi – esco con un ragazzo, Jules," disse d'istinto. Ovviamente, se n'era quasi dimenticata. Chase non le piaceva davvero, cercava solo di ingannare il tempo con qualcuno della sua età. Ma per come era lui, avrebbe preferito di gran lunga uscire con un Fratello Silente. Eppure, qualcosa in lui le impediva di rompere – oltre il fatto che il 99% delle volte non ricordava la sua esistenza. Era come una nuova razza di demone capace di essere ricordata solo mentre vista.
Lo sguardo di Julian fu come uno schiaffo in faccia: nuovamente freddo e distaccato, privo di quella luce che Emma avrebbe giurato di aver visto poco prima.
"Probabilmente resteremo qualche giorno," disse, alzandosi. "Spero di potermi allenare con te, almeno una volta," aggiunse, e se ne andò, lasciandola seduta a terra, con l'abito strappato e l'anima crepata.

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Capitolo 4
*** 4.0 ***


Come Julian aveva detto, erano lì da ormai qualche giorno: lui, i Blackthorn, Cristina e il Centurione, Diego. Clary era riuscita a convincere Robert che non era giusto rimandarli a casa dopo ciò che avevano passato. Jace dava in parte il merito a una runa di persuasione molto potente, ma Emma sapeva che la rossa sapeva essere molto convincente.
Loro però non si erano ancora allenati insieme, e lui sembrava evitarla. Non c'era più nulla del vecchio Jules, in lui: la dolcezza e la gentilezza di un tempo erano stati sostituiti da modi rudi e impazienti, soprattutto con i bambini. Mark e Cristina cercavano in tutti i modi di farlo ragionare e tranquillizzare, ma lui non voleva stare a sentire nessuno.
Un giorno, durante un allenamento, Mark le si era avvicinato talmente di soppiatto da rischiare di essere colpito con una spada da allenamento: aveva balzato agilmente oltre la lama e bloccato il polso di Emma con sguardo colpito.
"Non ricordavo fossi così brava," le disse, sollevando un sopracciglio. Emma era rimasta qualche istante a fissare i suoi occhi, stranamente colpita dal segno che la Caccia Selvaggia lasciava, prima di scrollare le spalle e ritirare la propria arma al fianco. Avrebbe preferito allenarsi con Cortana, ma – per ovvie ragioni – non glielo permettevano.
"Mi sono allenata," replicò. Naturalmente, un commento del genere da parte di Mister-Perfezione era più che gradito, ma ancora non sapeva se fidarsi completamente di lui: la Caccia Selvaggia non lasciava nessuno andare via. In più, nonostante la sua cotta infantile, Mark Blackthorn non le era mai andato completamente a genio.
"Emma non – non potresti parlarci tu con lui? Magari ti ascolterà," mormorò dopo qualche momento, scostandosi i capelli da davanti la fronte. Emma assottigliò lo sguardo, cercando un segno qualsiasi che suggerisse Mark stesse scherzando. Ma era serio.
"No," disse fermamente, allontanandosi per riporre l'arma. "Non mi parla neppure," aggiunse, stringendo il pugno attorno l'elsa. Mark sospirò e si riavvicinò a lei, con un'eleganza disarmante.
"Tiene ancora a te, Emma, nonostante ciò che lascia vedere," le rispose, posandole una mano contro la spalla. A quel contatto, la ragazza si irrigidì. "L'ultima cosa che gli ho detto prima che la Caccia Selvaggia mi prendesse è stata di restare con te, e lui non si è perdonato di averti lasciata andare via."
Emma valutò: si sarebbe potuta mettere a gridare contro Mark, colpendolo magari, come aveva sempre desiderato fare. Se la sarebbe potuta prendere con Julian per averla illusa sarebbero rimasti insieme nonostante tutto. Invece si scostò bruscamente dall'altro, senza guardarlo in faccia – non ci sarebbe comunque riuscita, e si diresse verso l'uscita.
"Avrebbe potuto pensarci meglio," disse, senza voltarsi.

L'unica cosa che desiderava in quel momento era chiudersi in camera, mettersi nel letto e soffocare le grida contro il cuscino, ma sarebbe stato un gesto fin troppo infantile. Inoltre, lungo il corridoio, incontrò un ragazzo dai tratti spigolosi e i capelli castani ben sistemati, che appena la vide socchiuse i luminosi occhi scuri.
"Emma! È un sacco che ti aspetto, non dovevamo uscire?" la bionda si paralizzò sul posto, le labbra dischiuse e la sensazione di essere stata appena schiaffeggiata. Se n'era dimenticata.
"Chase, ciao – sì, ecco, non potremmo rimandare? Credo di essermi stirata un muscolo durante l'allenamento e –" quando era nervosa, Emma tendeva a gesticolare. In quel momento, chiunque fosse nell'arco di due metri, avrebbe rischiato un dito nell'occhio.
"E deve aiutarmi, il lavoro da scrivania mi sta arrugginendo," disse una voce alle sue spalle, facendola sospirare di sollievo. Il braccio di Jace le si avvolse attorno le spalle e lei rivolse un piccolo sorriso imbarazzato a Chase.
"Ma certo, non preoccuparti," le disse con una scrollata di spalle. Le passò accanto e le lasciò un delicato bacio contro la guancia che la fece ritrarre, tirandosi dietro Jace.
"Ti faccio sapere!" quasi gridò, ormai a metà del corridoio. Una volta svoltato l'angolo, Jace scoppiò a ridere, allontanandosi da lei e tenendosi la pancia.
"Emma! Un muscolo stirato, tu?" domandò tra una risata e l'altra. Lei scosse il capo, seppellendo il volto tra le mani.
"Di solito ho una buona memoria, eppure non mi ricordo mai di lui! Mi dimentico persino di rompere con lui," replicò, esasperata. Al suo fianco, Jace continuava a ridere.
"Davvero non l'hai ancora lasciato?" le domandò, con espressione divertita. Poi si bloccò, accigliato. "In realtà, neppure ricordavo steste insieme," ammise, arricciando le labbra.
"Lo vedi? È come se non esistesse!" esclamò, sollevando le braccia al cielo.
"Secondo me ti ricorda Julian," disse senza pensare Jace. A quel punto, Emma dischiuse le labbra e sgranò gli occhi, voltandosi nella direzione del biondo. Come? No, non le ricordava affatto Julian. Aveva i tratti simili, certo, e il suo volto era contornato dai boccoli come quello di Jules. Ma non erano neppure lontanamente comparabili.
"Chase non mi ricorda Julian," replicò stizzita. In risposta, lui sospirò e sollevò lo sguardo al cielo.
"E neppure Matthew? O Lucas? Oppure, sì, Alan, con quella sua fissa per la pittura?" domandò in maniera retorica, tornando a guardare la bionda con le labbra strette tra di loro. "La verità è che da quando hai iniziato a uscire con qualcuno – troppo presto, a parer mio – hai cercato di ricucire lo strappo procurato dal tuo allontanamento con Julian," il tono con cui parlò era stranamente serio, per essere Jace, e per un momento rese Emma titubante. Come poteva Jace pensare davvero una cosa simile?
"Mi aveva chiesto di diventare parabatai, Jace, è normale che ci sia rimasta male quando ha troncato i rapporti," replicò, dura. Sul volto del biondo si dipinse un'espressione stupita.
"Non ne sapevo nulla, Em, mi –" lei gli rivolse un'occhiataccia, bloccandolo.
"Se provi a dire che ti dispiace ti prendo a pugni," disse prima di allontanarsi, lasciandolo da solo con le parole bloccate tra le labbra.

"Parlaci e basta, Jules! Non vi vedete da cinque anni!" protestava Livvy, andando dietro il fratello maggiore lungo il corridoio. Appena uscito dalla biblioteca, Julian si era ritrovato la ragazza con le mani sui fianchi e un'espressione severa dipinta in volto: per qualche strana ragione, si era convinta che tra lui ed Emma fosse successo qualcosa, e ora voleva a tutti i costi che si parlassero. Da una parte, il ragazzo capiva che lo facesse semplicemente per non pensare a Tavvy, cosa che sembrava riuscire benissimo a tutti – eccezion fatta per Ty. Mark non faceva che parlare con Jace, o Clary, o Simon. Livvy esplorava l'Istituto alla ricerca di gossip, probabilmente. Dru si era messa in testa di leggere tutti i libri della biblioteca, oltre quelli che Jace e Clary le avevano prestato. Ma Ty non aveva ancora parlato con nessuno: non mangiava, non si allenava, non guardava nessuno in faccia. Specialmente Julian.
"E con questo? Ci siamo visti, abbiamo parlato, ora lei segue le sue giornate tipo e noi ci teniamo alla larga dagli affari dell'Istituto," dichiarò, fermamente. La verità è che non avrebbe voluto far altro che trovare una stanza in cui chiudersi e dormire per giorni. Ma non riusciva a dormire, e ovunque andasse gli sembrava di essere fuori posto. Fortuna che c'erano tante stanze.
"Hai sempre detto che rivedendola avresti risolto tutto, ma ora non stai facendo nulla!" continuò Livvy.
"Cosa dovrei fare, Livia? Nostro fratello è appena morto e io dovrei andare in giro con una ragazza che non vedo da cinque anni solo per dimenticarmene come fate tutti voi?" chiese con voce più alta di quel che credesse. Si portò poi una mano davanti le labbra, mentre la minore si ritraeva, indietreggiando.
"Livvy, aspetta, non volevo," tentò di dire con voce più bassa, tendendo la mano nella sua direzione. Ma la sorella si scostò bruscamente.
"Questo è il punto, Jules, tu non vuoi mai," replicò, allontanandosi lungo il corridoio e lasciandolo da solo.

Emma sarebbe tornata volentieri in palestra, ma sospettava che Mark fosse ancora lì, e non voleva mettersi a discutere con lui, così si era diretta in maniera spedita verso la sua stanza. Davanti la porta c'era Church, che agitava inquieto la coda e fissava la maniglia, come sperando si aprisse da sola.
"Non sono dell'umore giusto, Church, vai via," borbottò, scacciandolo con la punta del piede. Lui, in risposta, miagolò e le girò attorno le gambe. La ragazza sospirò, prendendolo in braccio e aprendo la porta borbottando tra sé e sé – e il gatto. Appena sollevò lo sguardo, si bloccò.
"Ty!" esclamò, più colpita che spaventata. Il ragazzino, seduto a terra con un libro sulle gambe, sollevò lo sguardo e strinse le labbra.
"La tua è la stanza più tranquilla" dichiarò a mezza voce. Emma lasciò andare Church che si avvicinò al minore e gli strofinò il muso sulla gamba, facendo inarcare le sopracciglia della bionda. Quel gatto sembrava odiare tutti.
"Non sei il primo a dirmelo," rispose lei con un sorriso, avvicinandosi e sedendosi al suo fianco. "Ecco perché l'ho scelta," aggiunse, strizzando l'occhio. Lui accennò un mezzo sorrisetto, quindi tornò a guardare il suo libro. Rimasero in silenzio qualche istante, poi Ty lasciò ricadere il capo contro la spalla della ragazza, socchiudendo appena gli occhi.
"Se tu fossi stata con noi avresti fermato Malcolm, non è vero?" le domandò in un sussurro. Emma si morse il labbro inferiore, voltando il capo verso di lui.
"Siete troppo severi con vostro fratello, soprattutto tu Ty-Ty," replicò, passandogli il braccio attorno le spalle e stringendolo dolcemente a sé. Aveva imparato, grazie ad Alec, che era semplice stringere a sé una persona per confortarla. "Avete fatto tutti il possibile, e Jules non voleva assolutamente che una cosa simile accadesse a Tavvy," continuò, accarezzandogli lentamente i capelli. "Ma si sta già incolpando da solo, voi dovreste convincerlo del contrario. La colpa è di Malcolm, non vostra né sua," terminò, lasciandogli un delicato bacio sulla fronte.
"Non è solo questo, si comporta in maniera diversa ultimamente," mugugnò, mentre il libro gli scivolava dalle gambe.
"Vorrebbe essere vostro fratello, ma è stato costretto a comportarsi da padre per questi cinque anni," gli disse dolcemente. Non era compito suo farlo, lo sapeva, ma si sentiva in dovere verso Julian. Perché? Lui non l'aveva forse mandata via? Non aveva fatto sì che lei si ritrovasse da sola lì? Non era compito suo difenderlo.
"Se ci fossi stata tu magari sarebbe stato più semplice, per lui e per noi," continuò Ty. Emma sospirò, sollevando lo sguardo verso la finestra e puntandolo verso l'esterno: senza che se ne accorgesse, si era fatto buio.
"Ty, tutto quello che Julian ha fatto lo ha fatto per voi. Avermi in mezzo magari non gli sarebbe stato d'aiuto per seguire voi, capisci che intendo?" Emma aveva parlato così gentilmente solo con Max e Rafe; solitamente non era così. Ty annuì appena, ed Emma si rese conto che aveva socchiuso gli occhi, sul punto di addormentarsi. "Jules vi vuole bene, Ty-Ty, ve ne vorrà sempre," aggiunse in un sussurro, sfiorandogli nuovamente la fronte con le labbra.
Le erano mancati così tanto tutti quanti che non ebbe il cuore di muoversi per portarlo nella sua stanza. Lo lasciò riposare tra le sue braccia per qualche minuto, osservando i tratti così differenti dai suoi fratelli: aveva i capelli neri, seppure arricciati come gli altri Blackthorn, e dietro le palpebre tremolanti le iridi scintillavano di un chiaro grigio. Non somigliava per nulla a Livvy, con i suoi tratti spigolosi.
Sobbalzò, sentendosi sfiorare il braccio. G-R-A-Z-I-E. Si voltò con un piccolo sorriso sulle labbra, e incontrò immediatamente lo sguardo di Julian seduto al suo fianco. Nella penombra, i suoi occhi sembravano ancora più luminosi.
"Figurati," mormorò in risposta, prima di reclinare il capo all'indietro, posandolo contro il materasso.
Julian rimase qualche altro istante a osservarla, quindi avvicinò nuovamente le dita alla sua pelle, tracciandovi le lettere rapidamente, con dolcezza. M-I-D-I-S-P-I-A-C-E.

 

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Capitolo 5
*** 5.0 ***


Erano giorni che Emma sentiva di dover fare qualcosa, ma non riusciva assolutamente a ricordare cosa. I Blackthorn erano da loro da una settimana, e lei aveva iniziato ad affezionarsi a Cristina: era una ragazza dal cuore d’oro, sempre pronta a dare una mano e ascoltare chiunque ne avesse bisogno. Eppure Emma aveva notato che qualcosa in lei non andava, come se fossero anni che si teneva dentro un segreto. Allora avevano iniziato a parlare del più e del meno, nella speranza – presto o tardi – di riuscire a capire cosa le passasse realmente per la testa.
“Allora, sei riuscita a rompere con Chase alla fine?” le chiese, mentre riponevano i piatti della colazione. Emma si bloccò sul posto, con la tazza in una mano e l’espressione confusa. Poi si portò la mano sulla fronte, sospirando.
“Dannazione,” borbottò tra sé e sé. “Me ne sono dimenticata,” aggiunse, finendo con il posarsi con gli avambracci al ripiano della cucina. A quel punto, Cristina scoppiò a ridere, nascondendosi rapidamente le labbra con una mano e socchiudendo gli occhi.
“Sei un caso perso, Em,” aveva quindi dichiarato, scuotendo il capo. “Ascolta, non sono il tipo da fare certe cose, ma se vuoi posso pensarci io per te appena lo vedo,” disse poi, avvicinandosi alla bionda che continuava a tenersi il capo tra le mani. “Dovresti solamente dirmi chi è,” terminò, sfiorandole con fare comprensivo la schiena. Per qualche assurdo motivo, il contatto con lei non la infastidiva minimamente. Sembrava quasi si conoscessero da una vita.
“Oh, è quello che somiglia a Jules,” disse lei sollevando il capo, per poi dischiudere le labbra alle proprie parole. Cosa? “No, cioè, non intendevo – per l’Angelo,” e si riprese nuovamente il capo tra le mani, chiudendo gli occhi. Cristina parve titubante, osservandola con il capo inclinato e i capelli adagiati su di una spalla.
“Emma, ti interessa Jules?” domandò a mezza voce, come timorosa di essere sentita. La bionda dischiuse le labbra, sollevandosi di scatto e portando lo sguardo sul volto dell’altra, pronta a replicare. Ma le parole non uscirono dalle sue labbra, quindi si limitò ad assumere l’espressione più stupita che riuscì a fingere.
“Jules? Figurati! Era come un fratello per me,” disse poi, borbottando con tono ironico. “Perché, a te piace lui?” le chiese quindi, accompagnando un sorrisetto. Ma nel solo pronunciare quelle parole, sentì il petto dolerle. Cristina dischiuse di scatto le labbra.
“Cosa? Come ti viene in mente?” domandò, e l’accento fu particolarmente evidente. Emma si strinse tra le spalle e, affiancandosi l’una all’altra, si allontanarono lungo il corridoio.
“Avete passato molto tempo insieme, pensavo fosse – sai, nato qualcosa,” azzardò, stringendosi distrattamente la coda.
“Sai, Em, sono teoricamente fidanzata,” dichiarò in risposta, facendo bloccare Emma sul posto. “Con Diego, il Centurione che è con noi,” aggiunse a mezza voce, distogliendo lo sguardo da lei.
“Voi cosa?” domandò quindi Emma, e il suo tono si alzò di qualche ottava.
“La storia è – è complessa, un giorno prometto che te lo racconterò, quando ci riuscirò,” sospirò, sfiorando con la punta delle dita il medaglione che le ricadeva sul petto. “Solo, evita di andarlo a dire in giro,” aggiunse a mezza voce. Emma sorrise, socchiudendo gli occhi; raramente sorrideva a quella maniera – con tutta se stessa.
“E a chi potrei dirlo, a Church?” le chiese ironicamente. Un delicato sorriso si fece spazio sulle labbra di Cristina, che colpì scherzosamente il fianco della bionda con il proprio.
“Coraggio, Carstairs, devi ancora mostrarmi di che pasta sei fatta,” dichiarò, intrecciando il braccio al suo e trascinandola in direzione della palestra, non preoccupandosi del sorrisetto quasi sadico che andava ad ampliarsi sul volto dell’altra, mano a mano che avanzavano.

“Non ti stai impegnando,” constatò Jace, una volta disarmato Julian per l’ennesima volta. Il giovane sollevò lo sguardo al cielo, chinandosi per recuperare la propria arma con un sospiro.
“Ci sei arrivato presto,” commentò, rigirandosi il bastone tra le mani pigramente. La verità è che l’ultima volta in cui aveva impugnato un’arma suo fratello era morto, quindi non aveva tutta questa gran voglia di allenarsi. Si sarebbe volentieri chiuso in camera a dipingere. O, meglio ancora, a dormire. Ma se Jace Herondale (o Lightwood? Julian ancora non sapeva come preferisse essere chiamato) si presenta in camera tua chiedendoti di allenarvi assieme, puoi mai rifiutare?
“Potevi semplicemente rifiutarti, Jules,” replicò il biondo, inarcando entrambe le sopracciglia. Sì. Puoi. Jules si colpì mentalmente e, con un sospiro, piantò la punta del bastone a terra, poggiandosi su di esso come se fosse un muro.
“Ci state ospitando, dovrei dare una mano per sistemare quando possibile, o a gestire gli allenamenti, e non ho neppure voglia di combattere,” borbottò, arricciando le labbra in una piccola smorfia. “Per l’Angelo, sono un pessimo Nephilim,” disse quindi, rischiando di perdere l’equilibrio. A quelle parole, Jace si lasciò sfuggire una bassa risata, immediatamente affiancata da due cristalline di ragazza: Emma e Cristina si presentarono nella sala parlando tra di loro e ridendo.
“Non è colpa mia!” diceva Emma, con il volto arrossato e gli occhi lucidi, attraversati da una scintilla divertita. Cristina le colpì scherzosamente il braccio con la spalla, e Julian sentì immediatamente un dolore espandersi sotto la sua pelle, all’altezza del petto. Rimase a osservarle qualche altro secondo, poi Emma si voltò e incrociò il suo sguardo: la sua risata si affievolì e, lentamente, il sorriso scomparve dalle sue labbra.
“Credevo fossi con Clary,” disse con voce piatta, rivolgendosi a Jace. Julian era vagamente consapevole della sua presenza al proprio fianco, ma sentiva di reggersi in piedi solamente per quello; Cristina gli rivolse un rapido sguardo, poi tornò a osservare Emma.
“Mi ha mandato a smuovere un po’ Jules, in realtà,” replicò il biondo. “Ma ora è tutto vostro,” aggiunse, lanciando il bastone in direzione di Emma. Lei si accigliò ma, agilmente, si gettò in avanti e lo afferrò, fermandosi a pochi metri dal corpo di Julian. Non ricordava fosse così brava – non che si stupisse del fatto che, dopo cinque anni, fosse cambiata. Ma era davvero brava.
“Due contro uno sarebbe scorretto,” commentò con voce flebile il ragazzo. Ovviamente, se ne pentì il momento dopo.
“Oh, già – Cristina, Diego ti stava cercando,” disse di colpo Jace, scostandosi i capelli da davanti il volto con un piccolo cenno del capo. La diretta interessata arricciò le labbra in una piccola smorfia, quindi rivolse un ennesimo, rapido sguardo in direzione di Emma prima di chinare impercettibilmente la testa.
“Grazie,” replicò semplicemente, prima di roteare sui talloni e allontanarsi silenziosamente.
“Visto? Ora è più che corretto!” esclamò Jace, passando al fianco di Emma e lasciando scivolare una mano tra i suoi capelli, arruffandoli. “A dopo, biondina, e vacci piano.”
Emma, mentre lui si allontanava, strinse le labbra tra di loro borbottando tra sé e sé parole che Julian non sentiva da decisamente tanto – avendo passato la maggior parte del suo tempo con dei bambini. Involontariamente, si lasciò sfuggire una bassa risata divertita che portò Emma a voltarsi nuovamente verso di lui.
“Se non hai voglia posso sempre andare a chiamare Isabelle,” disse, rigirandosi lentamente il bastone tra le mani. “O Mark, magari la caccia selvaggia lo ha rallentato,” continuò, borbottando a mezza voce l’ultima frase, come se non volesse farsi sentire. Julian la osservava, ma non riusciva a trovare un singolo elemento che gli ricordasse la vecchia Emma. La piccola Emma. La sua Emma.
“No!” esclamò di colpo, sentendo il nome del fratello. Poi si schiarì la voce, nascondendo l’imbarazzo sul suo volto. “Voglio dire, lo avevamo detto. Ed eccoci qua, quindi, insomma,” si strinse tra le spalle, scostandosi i capelli da davanti il volto con un gesto lento prima di afferrare saldamente la propria arma. La giovane rimase a osservarlo per qualche istante, quindi annuì.

Julian ricordava l’ultima volta che si era allenato con Emma. Era stato esattamente prima dell’attacco di Sebastian all’Istituto di Los Angeles.
“Non ti stai impegnando,” disse Emma, fermando il bastone a qualche centimetro dal volto di Jules. Lui trasalì, indietreggiando.
“Mi sono distratto,” protestò, scostando appena l’arma di Emma con un delicato colpo. La ragazza sollevò lo sguardo al cielo e, troppo rapidamente perché Julian potesse reagire, lo disarmò.
“Ottimo,” commentò quindi, abbandonando il proprio bastone a distanza di sicurezza. Il ragazzo continuava a osservarsi le mani ormai vuote per qualche istante, prima di scostare lo sguardo sul volto di Emma – improvvisamente vicina a lui.
“Em, possiamo anche fermarci –” tentò di dire Jules; in risposta, il primo colpo fu diretto alla bocca. Indietreggiò appena barcollando, portandosi entrambe le mani davanti il volto.
“Lo avevamo detto. Ed eccoci qua,” replicò poi la bionda. Jules si spinse verso di lei in pochi istanti, tentando di colpirla in punti in cui sapeva non le avrebbe fatto male; era troppo abituato all’allenamento con i bambini (o Cristina): non era pronto a quel tornado di colpi. Parati, respinti, o incassati che fossero sembravano solamente spingere Emma a dare di più. Julian, al contrario, iniziò a sentirsi esausto quasi da subito. Come poteva tanta energia essere racchiusa in quel corpo così, apparentemente, delicato? Respirò a fondo prima di afferrarle i polsi, bloccando i suoi colpi e tirandola verso di sé: si sbilanciarono ma, nella caduta, lui si voltò, finendo con il bloccarla a terra.
Emma sollevò lo sguardo sul suo volto, le labbra strette tra di loro appena arricciate in un sorrisetto e il petto che, a causa del respiro affannato, si alzava e abbassava in maniera irregolare.
“Più rapido di quanto pensassi,” commentò Emma con tono divertito. Julian si irrigidì, scostando le mani dai suoi polsi ai lati del suo capo, mantenendosi sollevato. Dischiuse le labbra, come per replicare, ma rapidamente la bionda ribaltò la situazione: si sollevò con il corpo contro il suo, puntando le gambe ai lati dei suoi fianchi e le mani sulle sue spalle, spingendolo a terra.
“Ma non abbastanza,” aggiunse con il volto in corrispondenza del suo. Julian non si mosse, scostando lo sguardo verso quello della ragazza più volte, tentando di imprimersi rapidamente nella mente alcuni dettagli del suo volto; gli formicolavano le dita, ferme lungo i fianchi, desiderose di passare tra i suoi lunghi boccoli dorati, sfiorarle il volto, il collo, le braccia. Si sollevò appena con il busto – o, almeno, quando la spinta della giovane gli permetteva.
“Em,” mormorò, semplicemente. A lei parve di sentire il proprio cuore sobbalzare, e tutta la sicurezza acquisita durante l’allenamento scemò, lasciando il posto a una spiacevole sensazione di inadeguatezza. Allora perché non riusciva a muoversi? Il suo corpo e quello di Julian si incastravano perfettamente l’uno all’altro, facendole desiderare di restare lì per sempre. Chinò lo sguardo sulle labbra del ragazzo, solo per una frazione di secondo – abbastanza, comunque, per sentir quasi fremere le proprie.
“Dovrei andare,” biascicò, lottando contro se stessa per allontanarsi dal corpo di Julian. Il suo Julian.
“Per favore,” replicò lui, rapidamente e in un sussurro. Riuscì ad avvolgere un braccio attorno i suoi fianchi e, in questo modo, le loro figure combaciavano quasi del tutto. “Non farlo.”

Cristina vagava per i corridoi rigirandosi tra le dita la propria collana: avrebbe dovuto chiedere a Jace dove poteva trovare Diego, dal momento che ormai erano venti minuti buoni che girava a vuoto per l’Istituto. Sbuffò, posando la schiena contro la porta di una stanza e portandosi le mani sul volto: iniziava a pensare che Jace l’avesse detto semplicemente per far restare Emma e Julian da soli. Anche lei lo avrebbe fatto, in fondo; aveva notato lo sguardo del ragazzo appena erano entrate nella sala, e il modo in cui si comportava ogni qualvolta diventava argomento di conversazione. Ricordava come, durante le loro indagini, Ty continuasse a ripetere di farlo solo per Emma.
“Magari così tornerà da noi,” aggiungeva, facendo irrigidire Jules. Ricordava anche la rabbia nei suoi occhi quando, una volta raggiunto Malcolm, lui aveva chiamato i genitori della bionda un semplice esperimento mal riuscito.
“Tu sai quanto lei vorrebbe vendicarsi, Julian,” gli aveva detto, guardandolo dritto negli occhi. “Vendica la tua bella, coraggio,” aveva poi aggiunto, calando l’arma sul minuscolo corpo di Tavvy.
Cristina sobbalzò, riscuotendosi e aprendo gli occhi.
“Tutto bene?” domandò il ragazzo davanti a lei. Lei rimase qualche istante a osservarlo, senza riuscire a metterlo a fuoco.
“Come? Sì, sì sto bene,” disse rapidamente, scuotendo appena il capo. A quel punto, il giovane indicò la porta alle sue spalle.
“Dovrei entrare,” inclinò il capo, lasciando scivolare alcuni riccioli scuri sul suo volto. Cristina, scusandosi, si fece da parte.
“Sei Chase?” chiese d’istinto. Non aveva propriamente una faccia da Chase, ma Cristina supponeva di non avere una faccia da Cristina. Il ragazzo si bloccò sulla soglia della porta arricciando le labbra. Sembrava come se nessuno gli chiedesse mai una cosa del genere.
“Ci conosciamo?” le domandò. Un dolce sorriso si fece spazio sulle labbra di lei mentre, sulla sua spalla, la runa della persuasione iniziava a formicolare.
“Non ancora; posso entrare?”


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Capitolo 6
*** 6.0 ***


"Emma Cordelia Carstairs!" la porta della stanza di Emma venne spalancata di colpo, facendo sobbalzare la ragazza stesa malamente sul letto. "Stai vedendo Star Wars senza di me?"
Emma, tirandosi a sedere lentamente e bloccando la riproduzione del film ormai a metà, sospirò.
"Ciao anche a te, Clary; come va? Hai qualche novità?" borbottò, scostandosi sul letto e facendo spazio alla rossa che, rapidamente, richiuse la porta e si stese al suo fianco.
"Le solite storie tra Luke e mia madre – ma tu stavi guardando Star Wars senza di me!" ripeté, protestando. Una flebile risata abbandonò le labbra di Emma che, prontamente, spense la TV e posò il telecomando sul comodino. La sua era l'unica stanza ad avere una televisione, e l'aveva sistemata assieme a Simon un anno dopo il suo arrivo, così come i tre computer presenti nella biblioteca – ma ben nascosti.
"Volevo distrarmi," replicò la minore. "Da sola," aggiunse, interrompendo prontamente l'altra che si accigliò, sistemandosi su di un fianco.
"È successo qualcosa con – Raziel, com'è che si chiamava? – Chad?" Emma scosse il capo.
"Con Chase non è successo nulla – credo non sia più un problema, o almeno secondo Tina," scrollò le spalle, senza dargli peso: avrebbe dovuto sentirsi in colpa, ma non riusciva a trovare il minimo indizio che restare nella situazione precedente fosse la cosa migliore. L'unico aspetto negativo, era che avrebbe avuto un debito con Cristina a vita.
"Allora? È per via di Jules?" chiese pacatamente Clary. Nel sentirlo nominare, Emma socchiuse gli occhi, non vedendo il piccolo sorriso formatosi sul volto della rossa.
"Perché date per scontato sia Jules? Non potrei avere una cotta per Diego? O per Cristina?" brontolò, voltandosi su di un fianco. Clary rise flebilmente, sfiorandole i capelli con la punta delle dita affusolate.
"È il modo in cui lo guardi, Em. Si vede che ci sono tante cose tu vorresti dirgli, ma non ne hai il coraggio – tu non ne hai il coraggio!" le labbra di Emma si arricciarono in un lieve broncio. "Dal primo momento in cui vi ho visti insieme credevo nulla vi avrebbe potuti separare: è stata una sorpresa il tuo arrivo qui senza la famiglia Blackthorn a seguito. È stato il modo in cui ti sei rapportata anche solo con il pensiero di Julian per tutti questi anni a farci capire che non avresti smesso di pensarci, mai," continuò in tono gentile, sfiorandole i capelli. "E, Emma?" la richiamò, facendole sollevare pigramente lo sguardo. "Hai appena ammesso di avere una cotta per lui."

Julian aggiunse un'altra voce alla sua lista "Ripagare la gente per":
ripagare Clary per essere andata a Los Angeles, recuperando alcune cose dei suoi fratelli e i suoi colori.
"Potrebbe farti bene sfogare un po' le tue emozioni con l'arte," aveva detto, porgendogli i pennelli minuziosamente ripuliti. "Inoltre, mi piacerebbe vedere qualcosa di tuo prima o poi," aveva aggiunto con un sorriso, prima di sollevare il capo e allontanarsi di tutta fretta dalla stanza in cui il ragazzo si era sistemato. Non aveva avuto neppure il tempo per ringraziarla.
Aveva dimenticato quanto lo rilassasse sentire il pennello scivolare sulla tela, osservare il colore stendersi ed espandersi su di essa, vedere a poco a poco l'immagine imprimersi permanentemente su una superficie materiale anziché nella sua testa. Ormai non aveva più il controllo delle sue mani, che brandivano il pennello quasi fosse un'arma, colpendo e colpendo e colpendo ancora la tela, finché la figura non divenne chiara: il mare, e tre figure sulla spiaggia, mano nella mano. Si bloccò di colpo. Tre. Livvy, Ty e Dru. Solo loro tre. Un impellente desiderio di scagliare la tela contro il muro montò in lui, ma si affievolì subito nel sentire dei lievi colpi contro la porta. Respirò lentamente, per tranquillizzarsi, quindi si voltò verso il legno scuro alle sue spalle.
"Sì?" domandò, come un invito a entrare. Lentamente, una lunga chioma bionda fece capolino.
"Jules?" chiese quasi timidamente la ragazza. Lui strinse convulsamente le dita attorno il pennello vedendola, drizzando la schiena di scatto.
"Emma," disse semplicemente, alzandosi. "Ti serve qualcosa?" continuò, cercando di non sembrare troppo informale. Ancor prima di mettere piede nell'Istituto, si era ripromesso di mantenere le distanze, fallendo miseramente: nel momento stesso in cui l'aveva vista, vestita di luce, il cuore gli si era sciolto nel petto. Cinque anni – non era pronto a quella visione dopo cinque anni di assoluto silenzio. A causa sua. Non faceva altro che ricordarsi che era tutto, tutto per causa sua. E avrebbe fatto sì che, a causa sua, Emma si tenesse alla larga: non poteva ferirla ulteriormente. Non che sembrasse incline a spezzarsi, lei, ma Julian ricordava ancora la ragazzina di dodici anni che abbracciava la propria spada pur di consolarsi. Era forte, certo, ma vulnerabile. Persino l'adamas aveva il suo punto debole.
"Una runa," replicò lei, schietta, risvegliandolo dalla sua moltitudine di pensieri. "Cercavo Clary, le sue rune sono fantastiche, ma è fuggita non appena finito il film," aggiunse, entrando completamente nella stanza. "Credo di avere solamente la schiena libera," terminò, biascicando appena. Jules scostò lo sguardo sulle sue braccia, ricoperte di rune, lungo il petto e il collo; dall'orlo dei pantaloni della tuta, spuntavano alcune linee nere, e non gli ci volle molto a capire che si diramavano per tutta la lunghezza delle gambe. Lentamente, si alzò e posò il pennello.
"Siediti," disse, semplicemente, indicando il letto perfettamente in ordine. Lei gli rivolse un delicato sorriso, richiudendosi la porta alle spalle e avanzando fino ad affondare nel materasso. Nel frattempo, Jules si ripulì le mani, cercando il proprio stilo abbandonato da qualche parte – lì, da qualche parte.
Quando, trionfante, si voltò nuovamente verso la giovane, lei era di spalle, la maglia adagiata sulle gambe incrociate e i capelli fermati su di una spalla sola. Deglutì appena, lui, avvicinandosi, lo sguardo fissato sulla rete di cicatrici intrecciate sulla sua pelle.
"Hai per caso incontrato un tatuatore folle, in questi anni?" le domandò, inginocchiandosi dietro di lei. Le sue spalle tremarono appena in seguito alla breve ma cristallina risata che abbandonò le sue labbra.
"Alec sa essere molto –" si fermò, voltando solo di poco il capo per osservarsi il braccio sul quale spiccavano una serie di cicatrici affiancate. "Protettivo," terminò. Le sopracciglia di Jules ebbero un piccolo guizzo mentre, nella sua mente, cercava di immaginare come potesse aver bisogno di tutte quelle rune. Trovò uno spazio di pelle sgombra tra le scapole e, sistemandosi, posò mano e punta dello stilo su di essa, facendola trasalire. La intravide socchiudere gli occhi, mentre stringeva le dita attorno il tessuto della maglia sgualcita.
"Ti fa male?" chiese lui, quasi timoroso. Gli sembrava che la sua mano andasse a fuoco, ma non si fermò comunque dal disegnare, seppur lentamente. Emma scosse impercettibilmente il capo.
"Hai la mano fredda," si giustificò, con un piccolo sorriso. Lui sospirò, terminando la runa più rapidamente di quanto desiderasse.
"Davvero?" domandò, quindi, passando il braccio attorno i suoi fianchi e facendo aderire la mano al suo ventre scoperto con un lieve ghigno. Emma tentò di ritrarsi con un basso gridolino sorpreso ma alle sue spalle fu il corpo stesso del ragazzo a bloccarla. Rise piano, poi, reclinando il capo all'indietro fino a posarlo sulla sua spalla.
"Grazie," biascicò appena, sollevando lo sguardo verso il suo volto. Lui le rivolse solo un piccolo sorriso tirato, alzando la spalla sgombra da pesi.

La verità era che Emma era andata lì di proposito: runa o meno, sentiva il bisogno di vedere Julian. Clary le aveva, in qualche modo, aperto gli occhi, più delle occasioni precedenti – Jace si sarebbe offeso a morte nel saperlo. Essere lì, in quel momento e quel momento soltanto, l'aveva risvegliata, facendola sentire viva.
"Sarei io quello bisognoso di una – anzi, molte – rune; ti ha mai detto nessuno che sei brutale durante gli allenamenti?" le disse con un lieve ghigno ad arricciargli le labbra ed Emma pensò che, escludendo la prima sera, quella era la frase più complessa che gli avesse sentito pronunciare in quel periodo. La bionda si strinse tra le spalle con fare innocente, mantenendo lo sguardo sollevato su di lui.
"Francamente, ci sono andata piuttosto leggera," replicò. Le labbra di Jules si dischiusero per lo stupore, e una limpida risata genuina si liberò dalla ragazza, che chiuse inconsciamente gli occhi, poggiandosi maggiormente al corpo solido del giovane con lei. La guardò, a metà tra il confuso e il ferito, ma non riuscì poi a trattenere un piccolo sorriso a quel suono così piacevole e, ormai, estraneo. Si rese poi conto, di colpo, che la ragazza era ancora spogliata dalla maglia e, più rapidamente di quanto volesse, distolse lo sguardo dal suo petto. Lei, naturalmente, se ne accorse e, scostandosi lentamente, afferrò l'indumento: fu una frazione di secondo, ma la mano di Julian corse al suo braccio, bloccandola e facendola voltare nella sua direzione.
"Jules?" lo richiamò, la voce ridotta a un dolce sussurro, smorzato immediatamente dalle labbra di Jules – il suo Julian – premute contro le sue quasi con violenza. Sobbalzò, Emma, a quel contatto così rude e urgente, aggrappandosi alla maglietta del ragazzo rapidamente, ormai sbilanciata all'indietro. Un gemito quasi grottesco proruppe dalle labbra di Julian che, scivolando in avanti, aveva avvolto entrambe le braccia attorno i fianchi sottili ma forti della bionda. La sentì poi sospirare nel momento in cui l'adagiava sul materasso coperto da lenzuola ormai stropicciate.
"Julian," disse lei con voce strozzata e affannata, in un momento di distanza tra le loro morbide labbra umide e arrossate. Il ragazzo scosse la testa, zittendola con un bacio più lento e delicato. Le sue mani corsero all'orlo della maglia che si sfilò, fin troppo rapidamente, abbandonandola oltre i loro corpi. Emma rimase quindi in silenzio, osservando il busto costellato di cicatrici del giovane, il modo in cui i muscoli accompagnavano ogni immagine, il modo in cui il suo petto si muoveva al ritmo affannato del suo respiro. Gli posò una mano all'altezza del cuore, percependone il battito contro il palmo e, pochi istanti dopo, lui era di nuovo su di lei, baciandola di nuovo. E di nuovo, e di nuovo.
"Emma," sussurrò sulla sua pelle, mentre lei gli affondava le dita tra i morbidi capelli. "La mia Emma," aggiunse con tono, se possibile, ancora più basso.

Risvegliandosi, Emma percepì le gambe dolerle. Un dolore piacevole, quasi rilassante, che la portò a sospirare rigirandosi tra le candide coperte avvolte attorno il suo corpo. I capelli biondi ricadevano sul cuscino disordinatamente, finendo con l'intrecciarsi ai boccoli scuri di Julian, steso sul suo fianco. La coperta gli ricadeva malamente sul corpo, permettendo alla ragazza di osservarlo silenziosamente, senza timore di disturbarlo. Da addormentato, perdeva quel lieve cipiglio sempre presente sul suo volto e, per qualche istante, a Emma parve di rivedere il piccolo Jules di una volta. Mosse lentamente le gambe, attorcigliate alle sue, così da potersi scostare appena più vicina a lui, bisognosa di sentire di nuovo la sua pelle contro la propria. Anche nel sonno, lui la strinse a sé, inconsciamente, facendole adagiare il capo sul petto.

Sorrise, Emma, beandosi di lui e del loro profumo.

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Capitolo 7
*** 7.0 ***


Era stato un gesto sconsiderato.
Da ore non faceva che ripetersi quanto stupide fossero state le sue – le loro – azioni. Erano passati cinque anni, non potevano semplicemente andare a letto insieme e chiudere lì la questione.
Risvegliandosi la seconda volta, Emma non aveva trovato il ragazzo al suo fianco, ma sul momento non gli aveva dato molto peso: si era vestita e aveva raggiunto silenziosamente la propria camera. Solo lì, in quell'ambiente familiare, la consapevolezza dei suoi gesti e di ciò che era accaduto l'aveva attanagliata, stringendole la gola, premendole sul petto. E aveva iniziato a mettere in ordine. Lei non metteva mai in ordine; solitamente, per disperazione, Alec o Jace lo facevano per lei.
"Non sai più con chi allenarti o c'è qualcosa che non va?" la voce gentile sulla soglia della porta – porta che, ed Emma ne era più che sicura, era stata chiusa – la fece bloccare di colpo, una pila di libri in mano e la fascia dei capelli calata sulla fronte. Voltò il capo, incontrando lo sguardo indagatore di Alec, con le braccia incrociate al petto e il mento appena sollevato.
"Emma!" gridò subito dopo una voce più delicata, bambinesca, e chinando lo sguardo la giovane vide Rafael correrle incontro. Sorrise flebilmente, posando i libri e abbassandosi al livello del minore, accogliendolo in un abbraccio come era solita fare. Rafael era per lei il fratello minore che aveva perso una volta abbandonata la famiglia Blackthorn: si sentiva responsabile per lui, ma lo avrebbe aiutato in qualsiasi situazione – specialmente quando, da più grande, si sarebbe ritrovato a far strage di cuori.
"Max fa ancora lo sbruffone?" sussurrò in tono divertito all'orecchio del bambino, prima di allontanarsi quanto bastava per osservare il suo volto: conservava ancora la magrezza di quando era arrivato, tutto ossa e muscoli, ma gli occhi erano nuovamente vispi e luminosi, come dovevano essere stati un tempo. Annuì piano, Rafael, gettando un'occhiata al padre che sospirò, avanzando a grandi falcate all'interno della stanza.
"È solo contento di riuscire a imitare Magnus," lo giustificò in tono bonario, facendo arricciare il volto del bambino in una smorfia. "E tu non hai risposto," aggiunse, rivolgendosi direttamente a Emma. Lei lo guardò per qualche istante, scompigliando poi i capelli di Rafael.
"La seconda che hai detto," mugugnò in risposta, tirandosi nuovamente in piedi.
"Rafe, sono sicuro che Jace non ha nulla da fare: ti andrebbe di allenarti con lui?" disse il giovane, facendo sfuggire dalle labbra del bimbo un gridolino di gioia mentre abbandonava di tutta fretta la stanza. Jace, lo sapevano tutti, era il secondo Shadowhunter che Rafael ammirava con tutto se stesso.
"Sai che a Jace non piacerà," dichiarò Emma, sedendosi di peso sul letto. Alec, chiudendo la porta, si strinse tra le spalle.
"Mi deve ancora qualche favore," si giustificò lui, prima di raggiungerla. "Ora, perché non mi dici cosa è successo?" le chiese, retorico.
La bionda sapeva che quel momento sarebbe arrivato, ma sperava di allungare il più possibile il brodo così da non ricevere una ramanzina. Non ancora.
"Ho chiuso con Chase," iniziò. "O meglio, Cristina ha chiuso con Chase al posto mio," precisò, facendo sollevare gli occhi al cielo ad Alec – più per sollievo, forse, che per altro.
"Se hai avuto una crisi adolescenziale per una relazione finita, allora vado a chiamare Izzy, lei ne capisce di più," disse rapidamente, sistemandosi un ciuffo scuro che gli ricadeva tra gli occhi. Emma sospirò, volendo in parte fosse quello il problema.
"Non – no, non proprio," posò lo sguardo sulle proprie mani unite sulle cosce, improvvisamente interessanti, respirando a fondo. Dischiuse le labbra, per continuare, ma la voce – più acuta – di Alec la interruppe.
"Tu hai – oh santo cielo – Raziel, hai –" iniziò a balbettare, scattando in piedi come se il letto fosse improvvisamente rovente. Emma sollevò di poco lo sguardo, solo per vederlo camminare avanti e indietro più volte. "Hai – con chi?" chiese quindi, fermandosi. Emma si posò una mano sulla fronte, massaggiandosela appena.
"Julian," mugugnò, sperando di non essere davvero sentita. Ovviamente, non fu così.
"Julian!" ripeté l'altro, quasi in un grido. "Io non – per l'Angelo, Emma," continuò, riprendendo a camminare con una mano incastrata tra i capelli. In altre circostanze, lei sarebbe scoppiata a ridere.
"Alec, non era neppure la prima volta, –" tentò di dire, venendo interrotta bruscamente da un secondo grido, per nulla virile, da parte di Alec.
"Non ho intenzione di parlare di questa cosa, Emma!" la riprese, improvvisamente rosso, prima di continuare a borbottare tra sé e sé.
Si interruppe solo dopo quelle che parvero ore, bloccandosi davanti lei con una mano su di un fianco e l'altra a massaggiarsi le tempie, come se servisse a metabolizzare le informazioni.
"Ha fatto qualcosa che non doveva? Voglio dire, si è spinto troppo in là?" domandò in un borbottio, sollevando appena lo sguardo sul volto della giovane che scattò, drizzando la schiena.
"Cosa? No! Assolutamente no!" squittì, portandosi le gambe al petto. "Dopo, però, mi è sembrato sbagliato – cioè, non subito dopo, ma la mattina," disse in tono più basso. Alec agitò la mano davanti il volto, come per scacciare un insetto fastidioso, prima di ispirare a fondo.
"In fondo hai un minimo di buonsenso," aggiunse in un basso borbottio. Per – probabilmente – la prima volta in vita sua, Emma Carstairs si sentì davvero imbarazzata. Il ragazzo si inginocchiò davanti a lei, posando le mani sulle sue con delicatezza e, sebbene sembrasse procurarle dolore fisico, la giovane alzò lo sguardo, incontrando il suo. Inaspettatamente, Alec sorrideva.
"Troveremo una soluzione, va bene?" mormorò, con dolcezza. "Non sei talmente pazza da gettarti tra le braccia di un ragazzo qualsiasi dopo una rottura," continuò. "E, per favore, non contraddirmi o perderò tutta la tranquillità che mi è rimasta."
Una breve risata abbandonò le labbra di Emma alla sua ultima esclamazione, liberando una mano dalle sue per sistemarsi i capelli con la piccola fascia allentata.
"Julian non è un ragazzo qualsiasi," replicò, talmente piano che, se non fosse stato così vicino, Alec non l'avrebbe sentita neppure grazie a una runa. Sospirò, sedendosi nuovamente al suo fianco e attirandola a sé in un abbraccio – stava cercando di consolarla?
"Lo so, Em. Lo so benissimo."

"Santo cielo, Julian, hai un aspetto orribile," borbottò Mark, gettandosi con grazia sul letto di fianco al fratello che, da circa un'ora, fissava immobile il soffitto.
"È sempre un piacere essere confortati da te, fratello," replicò, sarcastico, il minore. Anche se, vedendoli, non si sarebbe detto. Era rimasto talmente tanto fermo in quella posizione che sentiva gli arti formicolare, addormentati, ma non riusciva a pensare ad altro che a quella minuscola e quasi invisibile macchia sul soffitto.
"Emma è stata qui?" domandò Mark, stiracchiando le gambe come un gatto prima di voltarsi su un fianco, in direzione del fratello. Jules inarcò le sopracciglia, confuso. Prima che potesse porre la più che ovvia domanda, l'altro gli afferrò il polso. "C'è il suo profumo ovunque," dichiarò, quasi fosse la cosa più ovvia da poter dire. Eppure Julian lo sapeva, lo sapeva bene. "Anche su di te," aggiunse in tono più basso prima di scattare a sedere, gli occhi sbarrati.
"Cosa c'è?" chiese Julian dopo qualche istante, guardandolo sempre accigliato.
"Ti si legge in faccia," disse, puntandogli un dito contro. "Perché hai quest'aria afflitta? Io mi taglierei una gamba pur di passare una notte con Emma, vedendo com'è diventata," ghignò poi, distogliendo lo sguardo. Prima ancora che riuscisse a finire la frase, Julian gli era addosso, spingendolo giù dal letto e inchiodandolo a terra. Fece per colpirlo, ma le dita di Mark erano ancora avvolte attorno il suo polso.
"Parla ancora così di Emma e finirò con il liberarmi di un altro fratello," sibilò, vicino il suo volto. Mark vedeva il suo petto alzarsi e abbassarsi rapidamente, la furia nei suoi occhi che si spense nel momento stesso in cui si rese conto delle parole appena pronunciate. Si portò entrambe le mani contro la bocca, premendo sulle labbra con forza. "Mark, non intendevo –" biascicò, indietreggiando. Il fratello si tirò a sedere, bloccandolo e sorridendogli con tenerezza.
"Lo so, tranquillo," sospirò, sfiorandogli le spalle irrigidite. "Ma, per quel poco che ho visto da quando sono tornato, questo era l'unico modo per farti ammettere quello che provi per Emma, e non" lo interruppe, ancor prima che potesse ribattere "provare a negarlo."
Jules si morse il labbro inferiore, chinando lo sguardo. Rimase in silenzio a osservarsi le mani – le stesse mani che avevano stretto la giovane a sé quella notte, sfiorandole i capelli, il volto, la pelle.
"Ricordi il giorno in cui mi presero?" ruppe nuovamente il silenzio Mark, costringendo il fratello a sollevare lo sguardo sul suo volto con un sussulto. "Eravamo in palestra, abbiamo sentito dei rumori e sono sceso di sotto – per l'Angelo, me ne pentirò finché avrò vita. Ma ricordi cosa ti dissi, prima di andare?" Lo guardò, enigmatico, inclinando il capo di modo che l'occhio dei Blackthorn fosse più visibile. Per Julian fu come esser catapultato indietro di quasi sei anni, ormai.
"Rimani con Emma," replicò in un mormorio, sforzandosi di non distogliere lo sguardo. Fallì.
"Non lo hai fatto, Julian. Hai lasciato che la portassero via dai ragazzi," disse e, per la prima volta dopo anni, sembrò il vecchio, rigido Mark. "Hai lasciato che la portassero via da te," aggiunse.
"Le avevo chiesto di diventare parabatai," confessò Jules, di getto. Mark drizzò la schiena, inclinando ulteriormente il capo come un gatto. "Ma non volevo fosse quello il nostro legame, non avrei sopportato il pensiero di non poter mai costruire qualcosa con lei, persino a dodici anni," disse poi, portandosi la punta delle dita alle labbra, riprendendo – come ormai d'abitudine – a tirare le pellicine attorno le unghie. Le piccole fitte spesso lo disturbavano, ma aveva quasi smesso di farci caso.
"Qualcosa lo avresti costruito, Jules, ma non quello che desideravi," constatò Mark prima di portarsi le mani alla faccia, passandole su di esse con un profondo respiro. "Eri troppo maturo per avere dodici anni," aggiunse, facendo ghignare appena Julian.
"Emma non deve saperlo, Mark," piagnucolò il minore, improvvisamente vulnerabile. Mark non capì: perché si ostinavano tutti a tenere i loro sentimenti per loro, lì? Tra le fate non era così: loro si esprimevano, punto e fine. Non c'erano problemi di alcun tipo. Quei pensieri vennero immediatamente repressi quando, socchiudendo le palpebre, vede degli occhi vagamente simili ai suoi: segnati dalla Caccia Selvaggia. Kieran. Tentò di scuotersi la sensazione delle sue mani di dosso come ogni volta che gli tornava in mente, cercando di non pensarci troppo – di non pensare a cosa stesse facendo, o dove potesse essere.
"Perché? Sono passati cinque anni, Jules, siete entrambi grandi abbastanza per andare a letto insieme, immagino che affrontare i vostri sentimenti non sia così difficile," replicò, piegando il capo fino a posarlo contro il materasso. Julian mugugnò.
"Si tratta dei miei sentimenti, Mark, miei e basta," disse, in tono greve. "Lei ha – aveva, non lo so – un ragazzo. Ne può avere quanti vuole. Probabilmente anche delle ragazze, se lo desiderasse. Ma io? No, assolutamente no. La rovinerei, Mark, e lei non lo merita," continuò, prendendosi la testa tra le mani. "Non lo merita," disse nuovamente, scuotendo il capo. Mark rimase a guardarlo per poi, in un rapido gesto che stupì entrambi, attirare il fratello a sé in un abbraccio di conforto. Erano passati talmente tanti anni dall'ultima volta in cui Julian si era sentito così al sicuro tra le braccia di qualcuno.
"Non è stupida, Jules. Non avrebbe fatto una cosa simile stando con qualcuno e, nella maniera più assoluta, se non ne fosse stata pienamente convinta," gli disse con tenerezza, accarezzandogli i capelli. "Tu dovresti conoscerla meglio di me," aggiunse in tono più basso. Julian scosse comunque il capo, le labbra strette tra loro e gli occhi chiusi. Afferrò tra le dita la maglia del fratello, come per stringerlo a sé, ma Mark capì che necessitava solamente di un appiglio, quasi fosse l'unica cosa a tenere insieme le parti del suo corpo, e lo lasciò fare.
"Non deve saperlo, Mark. Non deve – promettimelo, ti prego. Promettimelo.

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Capitolo 8
*** 8.0 ***


Izzy non era una che si spaventava facilmente, ormai lo sapevano tutti: sentirla gridare, quindi, fece precipitare metà Istituto in biblioteca. La prima a irrompere, con la spada sguainata, fu Clary – un tornado di capelli rossi, abiti larghi e fogli scarabocchiati, seguita a ruota da Simon e Alec.
“Cos’è successo? Izzy? Izzy!” chiamò Simon, allarmato.
“Non posso crederci!” disse lei invece, dando le spalle agli altri. Si bloccarono tutti, eccezion fatta per Alec che, raggiunta la sorella, dischiuse le labbra.
“Magnus?” domandò, inclinando il capo. Lo Stregone era in piedi davanti il divano, gli abiti sgualciti – chiaramente indossati il giorno precedente – e i capelli che gli ricadevano ai lati del volto morbidamente. Metà dei presenti in quella stanza non lo aveva mai visto così trasandato. “Cosa ci fai qui? È successo qualcosa?” chiese poi, mascherando l’ansia che iniziava a montare in lui.
“Sono dovuto tornare a Los Angeles –” iniziò, ma Alec lo interruppe subito.
“Hai lasciato i ragazzi da soli? Avresti dovuto chiamarmi!” squittì allarmato, avanzando di un passo verso Magnus che sollevò le mani.
“Sono con Lily, non contavo di restare fuori tutta la notte – sono andato all’Istituto per prendere alcuni libri,” nel sentir il nome della ragazza, Alec sembrava essersi calmato lievemente.
“Ed è tornato con un altro ragazzino,” li interruppe Isabelle, le mani sui fianchi e lo sguardo inchiodato sul volto di Magnus. “Che, per inciso, ha distrutto mezza cucina,” aggiunse, facendo schioccare le labbra.
“Ho già detto che mi dispiace,” protestò una vocina alle spalle di Magnus. Lo Stregone si fece da parte, rivelando una montagna di riccioli dorati e disordinati a nascondere un volto bambinesco. Alec dischiuse le labbra, così come Clary e Jace ai suoi fianchi.
“È uno Shadowhunter – si nascondeva nell’Istituto da giorni,” Magnus lasciò vagare lo sguardo per la stanza, come alla ricerca di qualcuno, quindi si soffermò su Clary che aveva – saggiamente – nascosto la spada. “Tessa e Jem lo hanno visto al Mercato delle Ombre da Johnny Rook,” si bloccò, sollevando una mano per farla passare tra i riccioli del ragazzo che protestò con un basso mugolio, ma non si scostò. “Jonathan Herondale,” aggiunse poi, guardando direttamente Jace. La sua mano si serrò attorno il polso sottile di Clary, mentre incontrava di sfuggita gli occhi azzurri del minore. “Ricorda i Blackthorn, parlavano spesso con Jonathan durante le indagini riguardo la convergenza,” riprese Magnus, sedendosi – esausto – al fianco del biondo.
“Uno di loro mi ha puntato un coltello alla gola,” dichiarò lui, tornando a chinare lo sguardo verso il pavimento. Indossava un paio di logori jeans stracciati sul fondo e una maglia troppo grande per la sua esile figura.
“Biscottino, potresti andare a chiamarli?” domandò in maniera retorica Magnus, prima di reclinare il capo all’indietro. Riuscì giusto a socchiudere gli occhi prima di sentire le braccia di Alec avvolgersi attorno i suoi fianchi, tirandolo in piedi. Protestò, poggiandosi sulla spalla del ragazzo come un essere privo d’ossa.
“Volevo solo riposare gli occhi,” piagnucolò. Alec, sospirando, gli stampò un bacio contro la tempia e si diresse verso la porta.
“Abbiamo delle stanze per quello, Magnus – Jace, ti dispiace restare con lui? Immagino avrete qualcosa da raccontarvi,” disse il Nephilim, praticamente trascinandosi dietro il compagno quasi completamente addormentato. Simon corse in suo aiuto, lasciando Izzy e Jace in biblioteca con il nuovo arrivo.

“Perché tu e Jules non parlate?” domandò Ty, lanciando uno dei pugnali. Emma menò l’ennesimo fendente contro il manichino che, questa volta, perse definitivamente la testa. Rigirandosi la spada tra le mani, la bionda si voltò e si strinse tra le spalle, tentando di non dimostrare quanto realmente quella domanda l’avesse messa in difficoltà.
“Ci incrociamo raramente, l’Istituto è grande,” replicò, riponendo l’arma e portandosi le mani al capo per sistemare la coda quasi del tutto sfatta. Ultimamente passava parecchio tempo con Ty – qualsiasi cosa, pur di evitare Julian. Era passata una settimana e ancora non si parlavano.
“Livvy continuava a chiedere di voi due a Cristina. È convinta ci sia qualcosa,” continuò il minore, scagliando l’ultimo pugnale della fila. Emma lo affiancò e, inarcando le sopracciglia, osservò il bersaglio: tre nella testa, uno sul collo, uno su ciascuna spalla, tre nel petto.
“Sei spaventosamente bravo, Ty,” esclamò, posandogli dolcemente la mano sul capo.
“E tu stai evitando l’argomento,” disse l’altro, scostandosi con un basso lamento. Emma si inumidì le labbra prima di arricciarle in una piccola smorfia.
“Ty? Ty sei qui?” entrambi si voltarono verso la fonte del suono, e la ragazza rimase pietrificata: sulla soglia della porta stava Julian, i capelli disordinati come sempre, con alcune ciocche sporche di colore, così come lo zigomo sinistro e la punta delle dita che teneva avvolta attorno lo stipite della porta.
“Che succede?” chiese il minore, facendo sì che lo sguardo di Jules non incontrasse quello di Emma.
“C’è il figlio di Rook in biblioteca – hanno chiesto di noi,” disse sbrigativo. Emma notò il lieve guizzo dei muscoli delle sue spalle quando si era reso conto che il fratello non era solo.
“Il – cosa? Perché è qui?” il tono di Ty parve diventare più irritato e, istintivamente, la bionda gli posò la mano sulla spalla. Lo sentì fremere sotto il suo tocco e, a poco a poco, rilassarsi.
“È uno Shadowhunter, Ty. Un Herondale,” spiegò gentilmente Jules, scostando lo sguardo sulla mano di Emma. “Ascolta, Jace e Izzy sono con lui, raggiungili mentre io vado a chiamare gli altri,” disse poi. Ty sollevò lo sguardo verso la giovane alle sue spalle che gli sorrise, rassicurante, facendo ricadere entrambe le mani ai lati dei propri fianchi. Il minore schizzò fuori dalla stanza, lasciandoli soli.
Emma inspirò, voltandosi e dando in questo modo le spalle al ragazzo. Si mosse in avanti, verso le armi d’allenamento, ma non aveva la minima idea di dove metter le mani. Riusciva a percepirlo ancora, nella stanza, e sentiva il suo sguardo su di sé.
“Emma,” la richiamò, avanzando. Lei non si voltò ancora, respirando a fondo per tranquillizzarsi – detestava il modo in cui la faceva sentire. Debole, impotente, bisognosa di qualcuno al suo fianco. Non era mai stata così lei. Non lo aveva mai pensato. Non sarebbe dovuto essere così.
“Ho pensato all’altra sera,” riprese Julian, notando l’assenza di risposta dalla bionda. “Credo di aver fatto uno sbaglio – probabilmente mi sono solo lasciato trasportare, ma non sarebbe dovuto accadere, non” si bloccò qualche istante, come se non trovasse le parole giuste. O come se non sapesse esattamente cosa dire. “Non con te, ecco. È stato davvero un grande errore, ma spero di poter mantenere almeno un rapporto di amicizia,” continuò, stringendo le mani dietro la schiena. “Anche se capirei benissimo se non volessi più avere a che fare con me,” aggiunse. Notò l’improvvisa tensione dei muscoli della ragazza, e dovette far appello a tutte le sue forze per non precipitarsi ad abbracciarla. Stringerla a sé. Non doveva.
“Mi sembra giusto,” replicò lei con un filo di voce. “Ora ti conviene andare, gli altri ti aspettano e io devo finire di allenarmi,” aggiunse, continuando a non voltarsi. Julian annuì e, senza aggiungere altro, abbandonò la sala.
Fu allora che Emma crollò sulle ginocchia, piangendo lacrime silenziose che tratteneva da anni.

L’unica cosa a cui Julian riusciva a pensare erano gli occhi di Emma. Non li aveva visti mentre le parlava, e non sapeva se esserne più grato o dispiaciuto.
“Finché non ci viene detto qualcosa, non possiamo tornare all’Istituto di Los Angeles, Kit,” disse Livvy, colpendo quindi il fianco del fratello maggiore completamente assorto tra i suoi pensieri. Julian la guardò con gli occhi sbarrati e l’espressione confusa.
“Potrai restare qui,” si affrettò a dire Jace. Aveva una strana luce a illuminargli il volto: lo avevano notato tutti non appena erano entrati in biblioteca. Parlava con Kit come se lo conoscesse da tempo, e sorrideva.
Kit sollevò lo sguardo lentamente, prima verso Jace, poi verso il resto. Jules aveva capito cosa era accaduto a Johnny – ma non si aspettava assolutamente che un individuo come quello fosse uno Shadowhunters.
“Finché lui non mi punterà altri coltelli alla gola, mi sta bene,” mormorò, indicando Ty. Lui si irrigidì, incrociando le braccia al petto e sollevando lo sguardo al cielo.
“Era lavoro. Niente di personale,” replicò, sbuffando. Un piccolo sorriso divertito si fece spazio sulle labbra di Mark.
Allora Kit si voltò verso Jace, appoggiandosi nuovamente allo schienale del divano con un basso sospiro. Aveva l’aria di essere esausto.
“Mio padre ripeteva di continuo che tu sei uno dei peggiori Shadowhunter di sempre,” disse, rivolgendosi al biondo. “Fosse qui, gli chiederei il perché. Non lo capisco proprio.”
Quelle furono le parole che sciolsero la piccola riunione, lasciando solamente i due Herondale a parlare tra di loro.

Emma si rese conto di non essere più sul pavimento della palestra quando un piacevole calore l’avvolse come una coperta. Si era addormentata tra le lacrime senza neppure accorgersene.
“Jace?” mugugnò, sollevando lo sguardo. Le bruciavano gli occhi e le doleva il collo. Le labbra di Jace si curvarono in un piccolo sorriso mentre la stringeva con tenerezza, trasportandola lungo i corridoi dell’Istituto come se fosse leggera quanto una piuma.
“Fortuna che a trovarti sono stato io e non Alec,” le disse, voltandosi per aprire la porta della stanza della ragazza con le spalle. “Avrebbe sicuramente dato di matto,” aggiunse.
“Avresti dovuto svegliarmi,” protestò la ragazza nel momento in cui Jace la posava sul letto e si stendeva al suo fianco. Raziel, c’era qualche persona in quell’Istituto che non si era sdraiata lì?
“Hai ancora gli occhi rossi, Em, e non è allergia alla polvere,” le disse, sciogliendole i capelli per passarci le dita in mezzo. “Vuoi dirmi cosa è successo?” chiese quindi.
Emma sospirò, passandosi le mani sul volto.
“Julian vorrebbe mantenere il rapporto di amicizia,” disse di getto. Le sopracciglia di Jace si sollevarono di scatto mentre interrompeva il lento movimento delle dita tra i suoi capelli.
“Oh, e sarebbe un male perché – no, lascia stare, è inutile chiederlo,” replicò, mentre Emma socchiudeva nuovamente gli occhi. “C’è stato qualcosa tra di voi, non è vero?” le chiese quindi. Emma si morse l’interno della guancia prima di distendere le labbra in un flebile sorriso triste.
“Certo. Davvero un grande errore,” rispose. Le braccia di Jace si avvolsero attorno le sue spalle, attirandola a sé in un tenero abbraccio mentre sospirava.
“Detesto aver ragione,” borbottò, facendo sfuggire una breve risata a Emma mentre le lacrime riprendevano a scorrere sul suo volto. Detestava sentirsi così.

Vi chiedo immensamente scusa per il ritardo e per avere solo questo capitolo completato, ma la scuola mi sta tenendo impegnatissima e non ho quasi mai tempo. Cercherò di rimediare.

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Capitolo 9
*** 9.0 ***


Emma odiava fare shopping con Isabelle.
Emma odiava l’idea di dover partecipare a un matrimonio con un abito da cerimonia.
Emma odiava lasciare il proprio letto dopo esservi stata trascinata giù con la forza.
Questo poteva essere un semplice riassunto della mattinata: dormiva da ore – le capitava spesso da qualche giorno – quando Clary e Izzy si erano presentate nella sua stanza come due tornado in miniatura, buttandola giù dal letto e costringendola a vestirsi.
“Dovresti provare a bere del caffè,” le suggerì Cristina, colpendole dolcemente la spalla – la bionda si stava infatti addormentato, cullata dal movimento della macchina.
“Detesto il caffè,” replicò lei mugugnando e riaprendo gli occhi. Cristina si voltò lentamente verso di lei e dischiuse le labbra. “Cosa c’è?” domandò quindi Emma, accigliata.
“Eretica!” dichiarò, facendo scoppiare a ridere l’altra.
“Forza, forza, non abbiamo tempo da perdere,” le richiamò Izzy con un sorriso bonario sulle labbra, aprendo lo sportello di entrambe. Un gruppo di ragazzi Mondani si fermò vedendole uscire dall’auto, ma lo sguardo di Clary fu talmente fulminante che decisero di dileguarsi nel giro di qualche secondo.
“Emma, Cristina, benvenute nel paese delle meraviglie,” dichiarò poi, raggiungendo l’entrata del negozio. Un basso borbottio – probabilmente qualcosa di poco fine – abbandonò le labbra di Emma, ma fu la prima a entrare una volta aperta la porta. Vedendo l’espressione di Isabelle, però, decise che non sarebbe stata lei a rovinare quella giornata. Non completamente, almeno. E sicuramente non a lei.

“Mi sento un confetto,” protestò Cristina da dietro la porta del camerino. Emma sollevò lo sguardo per l’ennesima volta verso il soffitto.
“Sono sicura che non è così, Tina,” sospirò. “E anche se fosse, è un matrimonio. Saresti in tema,” aggiunse, trattenendo a stento una risata. Sentì l’amica replicare in spagnolo, senza capire una sola parola, ma il sorriso sulle sue labbra si ampliò. “Avanti, vieni fuori!” disse quindi, bussando un’ultima volta. Passarono pochi momenti, poi la serratura scattò ed Emma fece qualche passo indietro, le labbra distese e il capo appena inclinato. Cristina uscì lentamente, le braccia rigide lungo i fianchi e il capo chinato in avanti. Le labbra di Emma si dischiusero. “Stai benissimo, altro che confetto!” esclamò.
“Mi sa che è troppo stretto,” mugugnò nuovamente l’altra, portandosi le mani contro i fianchi.
“Invece io credo che vada portato così. Ti fa due tette favolose,” fu il commento divertito di Emma.
“Emma!” la richiamò quindi Cristina, guardandola scandalizzata. Ci mise qualche istante a metterla a fuoco, poi dischiuse le labbra. “Em, santo Raziel, stai benissimo,” mormorò, ammirata. Le guance della bionda, incredibilmente, si tinsero di un tenue rosato che fece sorridere l’altra. Sfiorò delicatamente la stoffa avorio e argento del semplice abito che indossava, tracciando con la punta delle dita la linea che le piccole perline seguivano, dando quasi movimento all’abito stesso. Per loro, il bianco era il colore del lutto. Eppure sentiva che sarebbe stato sbagliato indossare un abito dorato: quello era il giorno di Isabelle.
“Emma? Oh, sembri una bambola di porcellana, sei bellissima!” esclamò una voce alle sue spalle. La bionda si voltò, incontrando lo sguardo illuminato di Isabelle – nuovamente nei suoi abiti mondani – e Clary, che stringeva tra le braccia un abito verde e dorato.
“Non ci hai fatto vedere il vestito!” protestò Emma, portandosi le mani sui fianchi. Una piccola risata sfuggì dalle labbra di Izzy, che si strinse flebilmente tra le spalle.
“A tempo debito,” dichiarò, facendo sbuffare la bionda. “Dovreste prenderli. Tutti e due,” aggiunse, indicando le ragazze con un cenno del capo prima di sorridere e roteare sui tacchi.

Il giorno del matrimonio arrivò di colpo, come se fossero uscite il giorno prima dal negozio. Più Emma si sforzava, meno ricordava cosa avesse fatto in quel periodo: si era allenata? Era uscita? Quanto era passato?
“Secondo te quando torneremo all’Istituto di Los Angeles?” le chiese Cristina, dalla stanza. Emma, all’interno del piccolo bagno, per poco non cadde. Uscì di tutta fretta, il vestito indossato solo per metà e i capelli raccolti sul capo in maniera disordinata.
“Perché diamine lo stai chiedendo?” le chiese, come se avesse il fiatone. Tina le dava le spalle, intenta a sistemarsi i capelli davanti lo specchio che Isabelle aveva portato in camera di Emma.
“Perché mi sembra strano essere ancora qui – non che mi dispiaccia, Em – ma sono passati circa cinque mesi e ancora non hanno risolto ciò che dovevano,” mormorò, stringendosi tra le spalle prima di voltarsi nella sua direzione. “Non sei ancora pronta,” constatò, con un sopracciglio appena inarcato. Ma Emma era come paralizzata: circa cinque mesi?
“Io – non riesco ad allacciare il vestito,” replicò in un mormorio, voltandosi di spalle. Cristina la raggiunse silenziosamente, aiutandola con rapidità.
“Coraggio, è la sposa che deve arrivare in ritardo, non noi – ti sistemo i capelli e andiamo,” la rimbeccò con fare divertito. Emma le rivolse un sorriso, ma non si sentiva realmente lì. Tentava di ripercorrere con la mente i mesi passati accanto a Cristina, ai Blackthorn. A Julian. Le mancavano dei tasselli e non sapeva dove andarli a prendere: ricordava gli allenamenti con Ty – diminuiti da quando Kit era arrivato – e quelli con Mark. Ricordava Dru che le correva incontro per parlarne di un nuovo libro. Ricordava Livvy e le sue occhiatine divertite nel chiederle qualche informazione – no, come li chiamava? Gossip, ecco. Ricordava, naturalmente, le uscite con Cristina, gli allenamenti, le notti insonni che l’altra riusciva a superare dopo qualche tazza di caffè. Ma Julian? Niente. Era come se fosse scomparso dalla sua vita, come se ci fosse stata una rottura del terreno che li costringeva a camminare su strade parallele, ma mai a incrociarsi. Aveva il vago ricordo di averlo visto allenarsi con Jace ed essersene andata per non interromperli, anche più di una volta.
“Terra chiama Emma, sei ancora tra noi?” la voce di Cristina la colpì in faccia come una secchiata d’acqua gelida, mentre le agitava una mano davanti gli occhi.
“Stavo solamente pensando,” replicò, sobbalzando sul posto. Lo sguardo di Cristina si addolcì mentre le scioglieva i capelli, iniziando a districarli con le dita.
“A Julian,” disse, al suo posto. Emma si afferrò il labbro inferiore tra i denti, distogliendo lo sguardo dallo specchio – dove il riflesso dell’amica la osservava quasi con compassione.
“Continuate a dare per scontato sia Julian, chi ti dice che non stessi pensando a te? Mi pare di averti già detto che questo vestito ti rende uno schianto,” rispose con un brontolio. Cristina scosse il capo, sospirando.
“Apprezzo il complimento,” iniziò, posando entrambe le mani sulle sue spalle. “Ma so che è lui. Hai un certo sguardo,” aggiunse, osservandola nel riflesso. Emma rimase con le labbra dischiuse per qualche istante prima di chinare nuovamente lo sguardo. “Perché non mi dici cosa è successo tra voi due, Em? Posso aiutarti,” disse quindi. La bionda chiuse gli occhi, le labbra rosate strette tra di loro – una parte di lei avrebbe voluto strapparsi di dosso quel vestito, indossare una vecchia tuta e correre via, non curandosi di nessuno; l’altra sapeva quanto questo sarebbe stato irrispettoso nei confronti di Isabelle. E poi ci teneva a vederla nel giorno più felice della sua vita.
Come poteva Cristina aiutarla? Aiutare lei, che in vita sua non aveva mai avuto bisogno di nessuno per tenersi in piedi? Come poteva essere possibile?
“A dodici anni mi aveva chiesto di diventare parabatai,” dichiarò, lasciando fuoriuscire dalle labbra un lento sospiro. Era Cristina, e Cristina sapeva sempre come aiutarla. Iniziò a raccontare, sperando di non far fare tardi a entrambe. Sarebbe stato imbarazzante.

“Ti hanno messo delle ortiche nei pantaloni?” domandò Diego, spuntando alle spalle di Mark e Julian. Quest’ultimo non riusciva a stare un secondo fermo, strofinandosi le mani contro le gambe, sistemandosi la giacca, allentandosi e stringendosi nuovamente la cravatta.
“A me una volta è successo,” protestò il biondo, accigliato. “Non è stato divertente.”
Sia Diego che Julian lo guardarono per qualche istante con un sopracciglio inarcato, poi Jules sospirò scuotendo la testa.
“Le cerimonie mi rendono nervoso,” replicò, borbottando. Un ampio sorriso si dipinse sulle labbra di Diego, facendo venir voglia a Julian di colpirlo in faccia. Perché era ancora lì? Non poteva semplicemente tornare a fare il Centurione lontano da loro?
“Le cerimonie o le bionde che ci saranno?” chiese con un piccolo ghigno. Julian sbarrò gli occhi, rivolgendo un’occhiataccia a Mark che, involontariamente, indietreggiò. Non lo avrebbe mai ammesso, ma vedere il fratello con quell’espressione lo spaventava sempre a morte. Sembrava pronto a mangiarselo vivo – per una volta, quindi, fu grato a Diego. Di norma lo detestava, ma vederlo avvolgere il braccio attorno le spalle del fratello e frapporsi tra i due lo tranquillizzò.
“Non prendertela con lui, è abbastanza chiaro,” disse, facendo schioccare le labbra. “Ascolta, non ci conosciamo molto bene, e non conosco bene neppure la biondina, ma se le cose stanno così allora fatti avanti,” inarcò entrambe le sopracciglia con un sorrisetto a curvargli le labbra. “Che ti costa?”
Julian strinse le labbra, guardando davanti a sé e respirando lentamente, quasi a dover mantenere la calma. Prese quindi il braccio di Diego per scostarselo dalle spalle, mentre un sorriso ironico gli attraversava le labbra.
“Nulla, direi,” dichiarò, a denti stretti. “Ma, se posso darti io un consiglio, non chiamare mai Emma biondina,” aggiunse, scostandosi definitivamente da lui. “A meno che tu non voglia liberarti delle tue ginocchia,” terminò, allontanandosi di gran carriera.

Per tutti è chiaro, ma non per i Blackstairs.

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Capitolo 10
*** 10.0 ***


Kit era corso fuori dalla stanza terrorizzato dopo che Emma lo aveva letteralmente minacciato. Non era mica colpa sua se l’aveva vista piangere durante la cerimonia, darle un fazzoletto gli sembrava solo un gesto carino.
“Si può sapere che ti ha fatto di male? Cercava solo di essere carino,” rise Mark alle spalle di Emma. Lei sbuffò, passandosi le mani sul viso.
“Mark, non mi interessa dei tuoi riflessi da fata, se vai a dire in giro che ho pianto strapperò la lingua anche a te,” dichiarò, voltandosi nella sua direzione. Mark rimase a osservarla per qualche istante, le labbra appena dischiuse. Poi scoppiò nuovamente a ridere e, senza pensarci troppo, l’attirò a sé per abbracciarla. Emma rimase appena interdetta – onestamente non se l’aspettava. “Ti senti bene? Prima ridi a una battuta e poi mi abbracci, la cosa si fa preoccupante,” borbottò, con il volto appena premuto contro il petto del ragazzo, ancora troppo alto per i suoi gusti.
“Sto cercando di riprendere vecchie abitudini – ho sbagliato qualcosa?” domandò, allontanandola appena. Lei sollevò lo sguardo e un piccolo sorriso si vece spazio sulle sue labbra; gli posò le mani sul petto, arricciando il naso e inclinando il capo verso un lato.
“Affatto,” replicò prima di rivolgere il palmo delle mani verso l’alto. “Quindi, dati i tuoi tentativi, suppongo di poterti chiedere se vuoi ballare. No?”
Lo sguardo sul volto di Mark fu di puro terrore, ed Emma si ritrovò a ridere.
“Non so ballare – durante le feste delle fate è diverso,” cercò di indietreggiare, ma le dita di Emma si serrarono attorno i suoi polsi sottili, avvicinandolo a sé mentre indietreggiava verso la pista affollata.
“Sono sicura ci riuscirai, non è difficile,” rispose lei con un sorriso. Mark aveva quasi dimenticato il sorriso di Emma – in quel periodo l’aveva vista sorridere davvero fin troppo raramente. Con che cuore, quindi, poteva dirle di no?

“Da quanto ballano quei due?” Livvy si parò davanti Cristina di colpo, facendo sì che il discorso – molto, molto imbarazzante – con Diego si interrompesse. Da una parte fu immensamente grata alla minore, dall’altra, capendo chi aveva attirato la sua attenzione, desiderò fuggire a gambe levate.
“Credo sia il loro terzo ballo, perché?” mugugnò, rivolgendo un’occhiata di sottecchi a Mark ed Emma che ballavano, ridendo. Lui sembrava talmente impacciato all’inizio che, vedendo la sicurezza con cui ora si muoveva, Cristina faticava a distogliere lo sguardo. Era come se spiccasse all’interno della sala, luminoso come solamente Mark Blackthorn poteva essere.
Al contrario, Emma aveva palesato la sua sicurezza sin dal primo istante, trascinando il povero malcapitato come fosse un burattino finché non erano riusciti a coordinarsi. Non se l’aspettava, Cristina, ma la bionda era davvero una brava ballerina.
“Secondo me c’è qualcosa,” ghignò la piccola. A quelle parole, Cristina sollevò lo sguardo al cielo.
“Livvy, solo perché due persone stanno bene insieme non significa che ci sia qualcosa tra di loro,” quasi sbuffò, facendo corrugare la fronte dell’altra. “Non cercare sempre una storia tra le persone, non tutto ruota intorno alle relazioni amorose. Ci sono cose molto più importanti, soprattutto per noi Shadowhunters,” aggiunse, rivolgendole un’occhiata che fece distogliere lo sguardo della minore. La serietà di Cristina l’aveva talmente colpita che neppure si rese conto del mezzo giro di Emma che, scostata dal corpo di Mark, chiuse gli occhi e si lasciò andare, finché il suo corpo non si scontrò con quello di qualcun altro.

Julian chinò lo sguardo, con il cuore che gli batteva all’impazzata. Emma gli era letteralmente scivolata tra le braccia, aggrappandosi al suo collo e ridendo sommessamente, con il fiato corto e i capelli appena arruffati attorno il capo. Sollevò lo sguardo, incontrando il volto di Mark che, con il capo inclinato, gli sorrise incoraggiante. Era quello che aveva in mente da tutta la sera?
“Jules?” mormorò, reclinando appena il capo. Lui dischiuse appena le labbra, per replicare, ma rimase bloccato a osservare i suoi occhi: riusciva a leggervi il divertimento e la libertà che aveva provato in quegli istanti, e gli sembrò di precipitarci dentro. Osservò anche le sue guance arrossate, così come le labbra, dischiuse. Osservò la sua pelle candida intrecciata di cicatrici di rune, e il petto che le si alzava e abbassava rapidamente. Aveva sempre guardato Emma, sempre, ma in quel momento gli parve di non averla mai vista. Solo starle vicino lo faceva sentire più forte, meno insicuro. Si riscosse quando vide le labbra della ragazza muoversi e le sue mani premergli appena sul petto, per allontanarsi. L’afferrò per i fianchi, bloccandola e attirandola nuovamente a sé.
“Non abbiamo mai ballato insieme,” disse semplicemente. Un lieve sorriso si dipinse sulle labbra della giovane mentre chinava lo sguardo verso terra, lasciandosi ricadere i capelli ai lati del volto. Lui glieli scostò con delicatezza, sfiorandole la guancia con il dorso della mano – non desiderava far altro da mesi e mesi. Gli mancava la sua pelle come avrebbe potuto mancargli l’aria: starle lontano gli faceva male. Gli sembrava di avere un uncino piantato sotto le costole, con qualcosa che tirava in senso opposto. Lentamente, le avvolse un braccio attorno i fianchi, stringendola con dolcezza a sé mentre cercava con la mano libera la sua. Lei si poggiò delicatamente al suo petto, sorreggendosi, reclinando appena il capo, e intrecciò le dita alle sue. Fu un gesto rapido e privo di esitazioni, come se lo avessero fatto per tutta la vita.
Se ballare con Mark era stato divertente e liberatorio, trovarsi lì con Julian, ondeggiando lentamente a ritmo della musica lungo la pista era come librarsi a metri e metri da terra, avvolta dal profumo familiare di casa. Jules sapeva di bagnoschiuma, di colori, di buono. Era un profumo che Emma avrebbe riconosciuto ovunque, e lo avrebbe portato con sé nonostante tutto.
Il modo in cui si muovevano lungo la pista era talmente naturale e semplice che finirono tutti con lo scostarsi, lasciando spazio ai due che sembravano privi di limiti. Oltre a esser perfettamente coordinati, creavano un’armonia superiore a quella della musica che invadeva chiunque restasse a guardarli un po’ più a lungo, rapendo la loro attenzione.
“Ti è piaciuta la cerimonia?” gli domandò in un sussurro Emma. Era timorosa di interrompere quel religioso e per nulla imbarazzante silenzio, ma sentiva lo sguardo dei Nephilim su di lei, e detestava quella sensazione. Le labbra di Julian si curvarono in un piccolo sorriso mentre le faceva fare un mezzo giro.
“Non l’ho seguita molto, ero concentrato su altro,” replicò, attirandola nuovamente a sé. Rimasero fermi qualche istante, e lui tenne lo sguardo sul suo volto. Le guance di Emma presero ulteriore colore, mascherato dalla stanchezza e l’euforia dei momenti passati.
“Julian,” mormorò. Sentì la presa delle sue braccia farsi più salda, sebbene non ce ne fosse alcun bisogno: non aveva intenzione da andare da nessuna parte. Non in quel momento.
“Avevo voglia di dipingerti, Em,” replicò lui, interrompendola. “Ci ho pensato davvero – ma non renderei giustizia,” aggiunse in tono più basso.
“Ty ha detto che non mi ha mai dipinta,” gli disse, facendo un altro mezzo giro. Un piccolo sorriso si fece spazio sulle labbra del ragazzo, che finì con il posare entrambe le mani sui suoi fianchi, inclinando il capo in avanti in direzione della curva del suo collo.
“È tutta la vita che ti dipingo, Em,” sussurrò, quasi contro la sua pelle. Lei si aggrappò alle sue spalle, scossa dai brividi. “O almeno ci provo. Non volevo che anche il ricordo che avevo di te svanisse come hai fatto tu,” aggiunse.
“È stata una tua scelta,” fu la risposta di Emma. Sembrava sul punto di crollare in mille pezzi, tenendosi solamente grazie alle mani agganciate alla giacca di Julian.
“Era l’unico modo,” disse poi il ragazzo, tirando nuovamente su il capo. I loro sguardi si incrociarono, ed Emma riuscì a rivedere l’oceano nei suoi occhi. Tornò a Los Angeles, dove l’aria sapeva di città, e di mare, e di deserto. Dove la sua vita era iniziata e dove credeva sarebbe finita. Dove lei e Julian avevano condiviso tutto. Dove i suoi genitori erano morti, e dove lei aveva perso tutto. “Ero innamorato di te anche allora,” fu la frase che riscosse Emma dai precedenti pensieri, facendola scivolare in una voragine che sembrava senza fine.
Si allontanò quasi barcollando dal ragazzo, mentre le girava la testa e iniziava a dolerle il petto. E lo stomaco. E i muscoli si facevano deboli, pronti a cedere da un momento all’altro. Uscì dalla sala di gran carriera, ignorando lo sguardo di Alec e quello di Mark. Erano l’ultima cosa di cui aveva bisogno.
Innamorato, innamorato, innamorato. Quella era la ragione per cui lei era stata spedita a New York, per cui non erano diventati parabatai.
“Emma, aspetta, per favore,” la richiamò Julian. Senza che se ne rendesse conto, la bionda aveva attraversato già metà corridoio.
“Sono passati cinque mesi, Julian, e me lo vieni a dire ora?” sbottò di colpo. “Posso capire l’ignorarmi per cinque anni, dopotutto non ci aspettavamo di rivederci – ma sono passati cinque mesi da quando sei qui, se non di più. E me lo vieni a dire adesso?” continuò, con voce sempre più alta.
“Emma..” tentò di richiamarla lui, avvicinandosi.
“Ma è stato un errore, sbaglio? Ciò che tu hai fatto è stato un errore! Meglio mantenere un rapporto di amicizia, no?” andò avanti Emma, il volto ora arrossato per la rabbia e il fiato corto. “Baciarmi, venire a letto con me, è stato un errore. Sono state parole tue, Julian, tue, e ora mi vieni a dire che eri innamorato di me?” senza che se ne rendesse conto, aveva iniziato a piangere, e le si era annebbiata la vista. “Questa sarebbe la ragione per cui mi hai allontanata? La ragione per cui sono stata costretta ad abbandonare casa mia? Avevamo dodici anni, Julian, e tu eri innamorato di me?” prim’ancora che finisse la frase, le mani del ragazzo si erano avvolte attorno i suoi polsi e l’aveva attirata a sé, passando a tenerle il volto mentre premeva quasi con prepotenza le labbra contro le sue. Inizialmente, lei tentò di indietreggiare, premendogli sul petto e respirando a fatica. Poi si sciolse contro la sua bocca, affondando le dita nel tessuto dei suoi abiti. Allora Jules si allontanò, sempre tenendole il volto tra le mani; le accarezzò lentamente gli zigomi e le guance, asciugando le lacrime che avevano continuato a scendere sul suo volto.
“Quello che sto cercando di dirti è che sono ancora innamorato di te, Emma,” mormorò lentamente. “Ma tornerò a Los Angeles – torneremo tutti a Los Angeles, e non volevo perderti una seconda volta,” sospirò, passandole lentamente le dita tra i capelli. “Allontanarti era l’unico modo, Em.”
La ragazza rimase qualche istante a guardarlo, immobile, come se avesse smesso persino di respirare, quando un singhiozzo proruppe dalle sue labbra arrossate, e si reclinò in avanti, nascondendo il volto contro il petto del ragazzo che le avvolse le braccia attorno le spalle prima di posare un delicato bacio sul suo capo. Come gli era venuto in mente?

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