Andrea&Lucrezia - Folle amore (da Pazzi, proprio!)

di Stella Dark Star
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il giaggiolo bianco ***
Capitolo 2: *** Fiera come una leonessa ***
Capitolo 3: *** Il dovere di dimenticare ***
Capitolo 4: *** Sentimenti contrastanti ***
Capitolo 5: *** Il fuoco della passione ***
Capitolo 6: *** Tramando nell'ombra ***
Capitolo 7: *** Il significato di un dono ***
Capitolo 8: *** Fragranza al veleno ***
Capitolo 9: *** Segreti dolci e amari ***
Capitolo 10: *** Il ritorno del guerriero ***
Capitolo 11: *** Capelli rossi e sangue ***
Capitolo 12: *** Quale forza ***
Capitolo 13: *** Calore ***
Capitolo 14: *** Ricordi d'infanzia ***
Capitolo 15: *** Il frutto del peccato e il serpente ***
Capitolo 16: *** Labbra da baciare ***
Capitolo 17: *** Perdite ***
Capitolo 18: *** Confessioni ***
Capitolo 19: *** Fiducia infranta ***
Capitolo 20: *** A volte ritornano ***
Capitolo 21: *** Fiume di parole ***
Capitolo 22: *** La pace del paradiso e le fiamme dell'inferno ***
Capitolo 23: *** Addio ***
Capitolo 24: *** Il nome di un sentimento ***
Capitolo 25: *** Come una figlia ***
Capitolo 26: *** Un nuovo inizio ***
Capitolo 27: *** Fiele ***
Capitolo 28: *** Passione cieca ***
Capitolo 29: *** Un sogno ad occhi aperti ***
Capitolo 30: *** Proposta di matrimonio ***
Capitolo 31: *** Visite gradite e non ***
Capitolo 32: *** Carnevale ***
Capitolo 33: *** Cuore spezzato ***
Capitolo 34: *** Riflessioni notturne ***
Capitolo 35: *** Nero su bianco ***
Capitolo 36: *** Troppo tardi ***
Capitolo 37: *** In frantumi ***
Capitolo 38: *** Guai ***
Capitolo 39: *** Dove tutto finirà ***
Capitolo 40: *** Profonda mutazione ***
Capitolo 41: *** Un sacrificio per la vendetta ***
Capitolo 42: *** Bianco bagliore ***
Capitolo 43: *** Un brivido nel cuore ***
Capitolo 44: *** Spettri dal futuro ***
Capitolo 45: *** Inizialmente la mia idea era... (curiosità e ringraziamenti) ***



Capitolo 1
*** Il giaggiolo bianco ***


 


 
Prologo
Il giaggiolo bianco
 
Il sole splendeva radioso nel cielo limpido e azzurro, nell’aria tiepida c’era un delicato aroma di fiori. Non avrebbe potuto essere una giornata migliore per tornare a Firenze dopo quasi un anno di esilio nella città splendida, ma odorosa di pesce, qual era Venezia. Lucrezia aveva pregustato per tutto il viaggio il piacere che l’attendeva, ovvero di poter mangiare di nuovo alla propria tavola e di poter dormire nel proprio letto.
La vita a Venezia, con le sue infinite e pittoresche feste da ballo e in maschera, le aveva fatto vivere un sogno ad occhi aperti, che però poi si era tramutato in un incubo a causa di Jacopo, figlio del Doge e schiavo del vino, il quale si era rivelato un individuo meschino e villano. Talvolta ripensava a quella maledetta sera e le sembrava di sentire ancora le sue mani sudaticce addosso e il suo alito pesante contro il viso. Grazie a Dio non lo avrebbe mai più rivisto e tanto le bastava. Scacciò il pensiero dalla mente e si dedicò invece alla bella vista che si presentava fuori dalla carrozza. Le strade di Firenze erano gremite di persone sorridenti che gridavano a gran voce il nome dei Medici e che li accoglievano calorosamente. Donne e fanciulle portavano mazzi di fiori tra le braccia e altre ancora avevano cesti colmi di petali da cui i bambini attingevano a piene mani per poi lanciarli in aria. E quei petali volteggiavano e danzavano leggiadri fino a quando non ricadevano a terra. Lucrezia non mancava di sorridere e di fare cenni col capo a tutti quelli che la salutavano e le davano il bentornato.
“E’ un bene che il popolo ci accolga con tanto calore.”
A parlare era stato Piero, seduto accanto a lei in quella carrozza che condividevano da soli, poiché Cosimo e Lorenzo avevano preferito affrontare il viaggio a cavallo.
Lucrezia si voltò a guardare il marito, il suo sguardo era rivolto all’esterno, aveva un gran sorriso sul volto e agitava con entusiasmo la mano per salutare il popolo in festa. Piero aveva buon cuore e in momenti come quello appariva come un bambino, cosa che fece sorridere Lucrezia.
“Madonna, Madonna!”
Lei si voltò rapidamente e vide una bimba, dal viso tondo incorniciato da folti ricci biondi, che teneva il braccio sollevato per porgerle un fiore e nel contempo camminava per stare al passo con la carrozza.
“Per voi, Madonna.”
Lucrezia prese il delicato giaggiolo dai petali di un bel bianco candido e sorrise gentile: “Ti ringrazio, piccola! Questo è il mio fiore prediletto!”
“E’ da parte di quel signore. E’ stato gentile, mi ha anche dato una moneta.” E detto questo smise di camminare e puntò il dito in una direzione non ben definita.
Lucrezia spaziò lo sguardo, chiedendosi chi potesse essere il misterioso uomo che aveva avuto la gentilezza di farle quel dono. Nella folla non vide altri che popolani di cui non conosceva il nome, fino a quando il suo sguardo non venne catturato da una figura che se ne stava in disparte dietro a tutti. Schiena poggiata al muro e braccia incrociate al petto, aveva gli occhi puntati su di lei, con quello sguardo che aveva il potere di lasciarla senza fiato.
Si ritrovò a labbra socchiuse, per poco non pronunciò il suo nome, ma per fortuna il buonsenso la salvò in tempo. Se Piero avesse udito lei sarebbe stata perduta. Ma anche se non poteva pronunciare il nome che amava, non significava che non potesse comunicare in alcun modo. Tenendo tra due dita il gambo in gesto signorile, sollevò con grazia il giaggiolo bianco fino a quando i petali non le sfiorarono le labbra in una sorta di carezza quasi sensuale.
Avrebbe dovuto capire che era stato lui a farglielo avere, l’uomo che aveva reso quel fiore il simbolo del loro amore. Oltre che un gesto romantico, era stata una scelta astuta visto che quel particolare tipo di fiore era il simbolo di Firenze, e per questo nessuno si sarebbe mai insospettito nel vederla ricevere un giaggiolo, soprattutto nei giorni di festa e nelle occasioni speciali. Eppure, quel fiore dai petali candidi, talvolta per loro sembrava tingersi di nero quando si ritrovavano a fare i conti con la dura realtà, con l’inganno che portavano avanti da lungo tempo alle spalle dei loro cari e con la consapevolezza che il loro amore era causa di sofferenza anche per loro stessi. Ma in quel giorno di festa, in quel preciso momento, mentre i pensieri di Lucrezia le riempivano la mente, i suoi occhi non si staccarono un solo istante da quelli dell’uomo che amava. L’uomo che aveva conquistato il suo cuore fin dal loro primo incontro. Quell’uomo era Andrea de’ Pazzi.

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Capitolo 2
*** Fiera come una leonessa ***


Capitolo uno
Fiera come una leonessa
 
Era tutto maledettamente noioso. Se non fosse stato costretto a presenziare, mai al mondo si sarebbe trovato lì, a camminare ad andatura soporifera e schiacciato tra la famiglia dei Medici, silenziosa come una tomba, e quella degli Albizzi, di cui padre e figlio si divertivano a malignare con battute provocanti e fuori luogo, anche se ad un certo punto lui stesso si era voltato per scambiare un sorriso complice con Rinaldo. E invece, trattandosi del corteo funebre del grande, potente, scaltro e temuto Giovanni de’ Medici, aveva dovuto armarsi di pazienza e andare per salvare le apparenze. Fino a quando giunse un popolano adirato a movimentare il corteo.
“Basta! Sappiamo tutti che era un tiranno! Ha rovinato chiunque lo abbia ostacolato!”
E aveva ragione. Lui, Andrea Pazzi, sapeva quanto poteva essere pericoloso un Medici, per questo anni fa aveva stretto un’alleanza cogli Albizzi e aveva deciso volutamente di vivere nella loro ombra per proteggersi. O almeno lo avrebbe fatto fino a quando fosse stato necessario.
“Sei un bugiardo! Un bugiardo!” Gridò Piero de’ Medici, scagliandosi addosso all’uomo che aveva osato infangare la memoria di suo nonno. Era uno spettacolo decisamente divertente vedere un giovane Medici dare mostra di sé in quel modo. E l’intervento tempestivo dello zio Lorenzo fece sorridere Andrea senza ritegno, tanto che dovette sollevare un braccio all’altezza della bocca per nasconderlo.
Adesso sì che poteva dire di essere felice di trovarsi lì! Diede un colpo di tosse e cercò di ricomporsi prima che qualcuno lo notasse. Fu allora che vide…lei. Sguardo fermo e infuocato, mascella contratta per il disappunto, avanzò verso l’uomo che aveva parlato e lo apostrofò severamente: “Non provate vergogna a parlare in questo modo? Siete solo un villano.” L’ultima parola uscì con maggiore enfasi, tanto che la voce le vibrò. Sfoggiò uno sguardo di disgusto e si voltò per tornare da Piero. Gli sfiorò il braccio gentilmente e il suo tono di voce mutò in un suono dolce: “Fatti forza, caro.” Ora il suo sguardo era carico di tristezza e le sue attenzioni amorevoli servirono a placare il pianto di Piero. I due erano entrambi molto giovani, forse avevano la stessa età, ma lei era senza dubbio molto più matura come persona. Andrea ne rimase affascinato.
Dopo il piccolo incidente di percorso, il corteo raggiunse la Basilica di San Lorenzo dove si sarebbe svolta la cerimonia funebre. La disposizione dei posti a sedere era a ferro di cavallo, cosicché tutti i presenti potevano vedere in faccia tutti. In ogni caso, da dove era seduto lui, avrebbe comunque potuto vedere la ragazza che aveva catturato la sua attenzione poco prima.
Era una giovane molto carina, dalle labbra rosee e piene, l’incarnato olivastro e, cosa che gli piaceva in particolar modo, teneva lo sguardo sollevato in dimostrazione del suo carattere forte. Cercò di ricordare di chi si trattasse, se era una Medici doveva averla già veduta in passato. Il fatto che avesse camminato al fianco di Piero, lo avesse chiamato ‘caro’ e ora fosse seduta accanto a lui, gli suggerì che probabilmente si trattava di sua moglie. A conferma, gli tornò in mente che i due si erano uniti in matrimonio poco tempo prima e, anche se lui era stato invitato, aveva deciso di non andare per pura e semplice antipatia nei confronti della famiglia Medici. Se avesse saputo che la sposa era così bella e aveva un carattere così infuocato, si sarebbe fatto meno problemi a presentarsi.
Il Vescovo parlava in una cantilena ancor più soporifera del corteo, l’unico modo per non rischiare di addormentarsi era quello di pensare a qualcosa. Per esempio a quale fosse il nome della ragazza. Ragionando, scervellandosi, spremendo le meningi per tirare fuori dalla testa quel nome, il tempo passò in fretta e lui si rese conto con un pizzico di sorpresa che il rito era terminato e le prime famiglie si stavano già congedando. Pensò bene di mettersi in fila per porgere le condoglianze, ovviamente il suo obiettivo reale era arrivare a lei.
Il giovane Piero ebbe una nuova crisi di pianto, che lo costrinse a lasciare la Basilica di corsa, al massimo della maleducazione.
“Piero, aspetta.” Cercò di richiamarlo la sua sposa, senza però alzare il tono di voce per rispetto alla santità del luogo. Quando lasciò il gruppo della famiglia per seguire il marito, Andrea non si lasciò sfuggire l’occasione. Uscì dalla fila e, non appena lei gli passò accanto, le afferrò un braccio facendola così roteare verso di sé. Lei gli lanciò un’occhiata interrogativa sfumata di rimprovero.
Andrea chinò il capo con fare signorile in segno di saluto: “Forse dovreste lasciare che ritrovi la calma da solo. Non diventerà mai un uomo se lo coccolate in quel modo.”
Lei sollevò il mento con superiorità: “Perdonate, Messere, ma ciò che faccio con mio marito non è affar vostro.” Puntualizzò.
Lui accennò un sorriso compiaciuto: “Una leonessa che difende il cucciolo! Ma anche una donna fiera che non ha paura di dire ciò che pensa.”
“Infatti.” Sottolineò di nuovo lei, volendo avere l’ultima parola, anche se in realtà il modo di fare un po’ presuntuoso di quell’uomo la stava incuriosendo. Non sapeva chi fosse, ma a colpo d’occhio si capiva che era un uomo altolocato, sia per gli abiti di buona fattura che per l’atteggiamento signorile. Il suo viso diceva che doveva aver superato la quarantina e il suo sguardo profondo indicava una natura furba, un’anima calcolatrice di chi difficilmente ascolta la coscienza. Quando si rese conto di essersi persa dentro lo sguardo di lui, fremette e si sentì improvvisamente impacciata: “Vi...vi sarei grata se mi lasciaste il braccio.”
“Il vostro nome, Madonna?”
Lei dischiuse le labbra e attese che quella parola si decidesse ad uscire, quindi parlò con voce soffocata: “Lucrezia.”
Lucrezia.” Ripeté lui, ma con un suono così piacevole che a lei parve di sentirlo fino in fondo all’anima. Si rese conto di essersi persa nuovamente nei suoi occhi scuri.
Andrea le lasciò andare il braccio e si congedò: “Lieto di avervi conosciuta, Madonna. E condoglianze per il vostro lutto.” Detto questo passò oltre e si avviò verso l’uscita della Basilica, lasciandola lì sola e in preda alle emozioni.
Lucrezia abbassò lo sguardo, sentiva un piacevole calore nel punto dove lui aveva posato la mano. Sfiorò quel punto dell’avambraccio quasi sperando che un po’ di quel calore venisse assorbito dai polpastrelli, per poi diffondersi in tutto il corpo.
“Lucrezia, stai bene?”
Si voltò di scatto nell’udire la voce di Lorenzo. Lui la stava fissando con sorpresa.
“Sei accaldata? Hai le gote arrossate.”
Lucrezia scostò lo sguardo: “Sì, zio. Ho bisogno di uscire, scusami.” Sollevò un lembo della gonna e si affrettò ad uscire. Fuori dalla Basilica cercò con lo sguardo l’uomo con cui aveva parlato, allungò il collo come una gallina nella speranza di vederlo, roteò su se stessa più volte. Niente, di lui non c’era più traccia. Sospirò sconsolata.
“Non mi avete detto il vostro nome.” Disse in un sussurro, rivolta al nulla.

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Capitolo 3
*** Il dovere di dimenticare ***


Capitolo due
Il dovere di dimenticare
 
Capelli corti di colore castano, sguardo penetrante dal quale era impossibile difendersi, labbra sottili e ben disegnate che non avevano timore di parlare, mani calde e curate di cui aveva percepito il calore perfino attraverso la stoffa. Tutti dettagli che lei non riusciva a togliersi dalla testa e che avrebbe dato qualunque cosa per poterli associare ad un nome. Ma per ora, avrebbe dovuto accontentarsi del proprio nome pronunciato dalle sue labbra con voce calda e passionale.
“Lucrezia… Lucrezia… Lucrezia…”
“Lucrezia?”
Tornò improvvisamente al presente, ma dovette sbattere gli occhi per riuscire a mettere a fuoco la figura che aveva di fronte. Contessina, in piedi al lato opposto del tavolo, la stava osservando con occhi spalancati in un modo che lei, a volte, trovava inquietante.
“Ci siamo tutti alzati da tavola e tu non te ne sei nemmeno accorta.” La rimproverò.
Lucrezia si guardò attorno, in effetti a tavola non c’era più nessuno: “Dove sono gli altri?”
Contessina era sbalordita dalla domanda, si portò le mani ai fianchi e riprese la predica: “Piccarda si è ritirata per dormire, invece Piero è andato nel salone con Lorenzo.” Rendendosi conto che Lucrezia si era nuovamente persa in pensieri, alzò il tono di voce: “Ma che cosa ti prende oggi?”
Lucrezia ebbe un fremito, ma si affrettò a ricomporsi e ad alzarsi dalla sedia: “Nulla. E’ stata una giornata lunga, forse dovrei andare a dormire anch’io.”
Contessina sospirò e decise di essere più indulgente con la giovane nuora. Camminò attorno al tavolo per arrivare a lei e, gentilmente, le prese le mani: “Sei preoccupata per Piero, vero? Lo so, mio figlio è un ragazzo molto sensibile. E poi voleva molto bene a suo nonno.”
Il perché c’era davvero da chiederselo, però Lucrezia si guardò bene dall’esprimere quell’opinione ad alta voce. Si schiarì la gola e buttò fuori un: “Sì. Cercherò di stargli vicino.”
“Sei una brava moglie, Lucrezia.” Contessina sollevò una delle mani e le sfiorò il viso: “Piero ha bisogno di te.” Le stampò un bacio sulla fronte e accennò un sorriso, quindi si ritirò.
Rimasta finalmente sola, Lucrezia inspirò profondamente. Come se la situazione non fosse già pesante, ora doveva anche mentire per celare i propri pensieri. E la colpa era solo di quell’uomo incontrato nella Basilica. Irritata, diede un pugno allo schienale della sedia, per poi avvicinarsi ad una delle vetrate e incrociare le braccia al petto come in segno di difesa. La notte era buia, la pioggia scendeva incessante, come se sopra le nuvole ci fosse qualcuno a buttarla giù a secchiate. Si intravedeva a malapena qualche fuoco all’ingresso delle abitazioni e qualche lume dalle finestre, ma il resto era tutto avvolto nell’oscurità.
“Chissà dove si trova in questo momento.” Bisbigliò così piano che lei stessa si udì appena.
Un rumore alle spalle la fece voltare di scatto. Era Lorenzo.
“Perdonami, non volevo spaventarti.” I suoi occhi blu e buoni, in realtà, era ciò di cui aveva bisogno per ritrovare la serenità.
“Non è niente, zio.”
Lui fece alcuni passi per raggiungerla e si fermò al suo fianco per dare un’occhiata fuori.
Lucrezia chiese: “Cosimo è rientrato?”
“No. Marco Bello è ancora fuori a cercarlo. Siamo tutti preoccupati. Ma, se conosco mio fratello, si starà nascondendo per stare solo col proprio dolore e tornerà a casa quando sarà pronto.” Distolse lo sguardo dall’oscurità e lo posò su di lei: “Piero è andato a dormire.”
Lucrezia rispose un po’ brusca: “Va bene, tra poco lo raggiungo. So che è mio dovere di moglie confortarlo. Vorrei solo che mi venisse concesso qualche minuto per me stessa.”
“E’ per questo che sono qui. Non voglio parlare di Piero, voglio sapere che cos’hai tu.” Era tipico di Lorenzo arrivare subito al punto, ma almeno con lei usava un tono gentile che non la faceva sentire sotto processo. Ad ogni modo, dovette rispondergli in modo vago: “Niente. Sono solo pensierosa.”
“Ha forse a che fare con Pazzi?”
“Chi?”
“Andrea Pazzi, l’uomo con cui ti ho vista parlare oggi dopo la cerimonia funebre.”
Lucrezia accese lo sguardo su quello dello zio e, senza accorgersene, rimase a bocca aperta.
“Allora è così. Cosa ti ha detto quel furfante?” Incalzò lui, ora con tono più duro.
“Mi ha... Mi ha solo porto le sue condoglianze.” Non era del tutto vero, ma poteva andare bene. Aveva fretta di passare ad una domanda che le premeva: “Hai detto Andrea Pazzi? Il Banchiere?”
“Sì.” Rispose lui, intrecciandosi le mani dietro la schiena: “Uno dei nostri nemici. E’ un alleato di Albizzi. Non mi sorprenderei se fosse felice dell’improvvisa morte di mio padre.”
Lucrezia abbassò lo sguardo, mentre nella mente soppesava quelle frasi. Prima voleva solo sapere il suo nome, ora sapeva anche troppo. Le braccia ancora incrociate rigidamente al petto allentarono la presa, la stretta divenne quasi un abbraccio di conforto. Qualunque cosa avesse provato o avesse creduto di provare, doveva dimenticarla immediatamente. Era una donna sposata, voleva bene a suo marito e non voleva cadere nel peccato a causa di un uomo che era nemico della sua famiglia.
*
“Una truffa che andrebbe punita severamente.” Disse Ormanno degli Albizzi, gesticolando animatamente e camminando avanti e indietro per la sala, incapace di stare fermo. Il fuoco scoppiettante, nel caminetto alle sue spalle, sembrava accentuare le sue parole.
“Cosimo ha barato, in qualche modo. Forse ha addirittura corrotto Guadagni affinché estraesse il suo nome dall’urna. Qualunque stratagemma abbia usato, ha tolto la possibilità alla nostra famiglia di avere un posto nella cerchia ristretta della Signoria e di questo dobbiamo tenerne conto.” Lanciò un’occhiata significativa alle due persone che lo stavano ascoltando, quindi riprese: “Ma ora, una forza maggiore ci costringe a mettere da parte questo fatto. La difesa della città di Lucca.”
Suo padre Rinaldo, comodamente seduto su una poltrona e con un calice tra le dita, guardava ammirato suo figlio per l’eccellente esposizione. Un giorno sarebbe stato Ormanno a prendere il suo posto, a rappresentare la famiglia Albizzi e a darle prestigio. Gli fece un cenno col capo, senza nascondere quanto fosse fiero di lui.
“Ottimo discorso, Ormanno. Se avessi parlato di fronte alla Signoria avresti avuto la piena attenzione di tutti.”
Ormanno fece un inchino, sorridendo: “Ti ringrazio, padre.” Poi si rivolse all’altra persona presente: “E voi, Pazzi? Cosa ne pensate?”
Il nominato, però, non aveva udito nemmeno una parola. Teneva in mano il calice ancora pieno e aveva lo sguardo assente.
“Il nostro Pazzi si trova altrove, temo.” Disse Rinaldo, alzando il tono di voce appositamente per farsi sentire.
Andrea infatti abbandonò all’istante i propri pensieri: “Come avete detto?”
Rinaldo rise, cercando di coinvolgere anche il figlio per timore che si offendesse di quell’evidente disinteresse: “Mio caro Pazzi, riuscite sempre a sorprendermi!”
“Perché mai?” Chiese lui, lanciandogli uno sguardo interrogativo.
“Non fingete. Vi ho visto quel giorno alla Basilica.”
Andrea posò il calice sul tavolino lì accanto, fingendo tranquillità: “Ci siamo visti e abbiamo anche parlato, Rinaldo. Lo ricordo bene.”
“Sapete di cosa sto parlando.” Sottolineò con tono provocante. Quindi riprese: “Voi e la giovane Lucrezia.”
Se Andrea non riuscì a mascherare la sorpresa di quell’affermazione, Ormanno non fu da meno, infatti prese parola: “Lucrezia Tornabuoni?”
Senza muovere lo sguardo dall’amico, Rinaldo rispose al figlio: “Ormanno, sei pregato di chiamare le cose col loro nome. Lei ormai è una Medici.”
Ormanno chiese ancora: “Non avrete interesse per lei, vero? E’ una ragazza invadente e troppo sicura di sé. E ama sovrastare suo marito. Mi sorprende che non se lo sia già mangiato vivo.” Terminò sarcastico, sfoggiando un’espressione di disprezzo.
“Io trovo che la sua forza sia una qualità da lodare, invece.” Precisò Pazzi, con la massima serietà. Ormanno lo guardò torvo ma, prima che potesse controbattere, suo padre s’intromise: “E’ la prima volta che vi vedo così interessato a qualcosa che non sia politica o denaro. Vi siete fatto ammagliare da quella strega impertinente?”
“Io non ho… Non… Io… Ahh.” Concluse Andrea, scacciando il discorso con un gesto della mano, senza però riuscire a nascondere il suo vero stato d’animo.
Ormanno continuava a fissarlo, negli occhi una profonda delusione: “Non direte sul serio…” Bisbigliò. Strinse il pugno con forza, fino a sentirsi tremare tutto il braccio. Per fortuna nessuno dei due uomini se ne accorse o di certo gli avrebbero fatto qualche domanda al riguardo e lui non voleva sentirle. Per salvarsi da un sicuro momento imbarazzante, andò a mettersi di fronte al camino, così da potersi stringere le mani con la scusa di volerle scaldare.  
Dopo alcuni minuti che parvero durare un’eternità, Rinaldo ruppe il silenzio: “Non perdetevi, Andrea. Non vi facevo un uomo passionale, lo confesso, ma almeno abbiate la decenza di non perdere la testa per una Medici.”
Più che un consiglio era una minaccia e Andrea lo avevo capito. Per temporeggiare riprese il calice e bevve un lungo sorso di vino senza averne voglia. Tenne la bevanda in bocca per un po’ e poi deglutì rumorosamente, neanche avesse ingoiato un sasso. Tenendo lo sguardo puntato verso il basso, parlò: “Credo che la mia vita privata non vi riguardi, Rinaldo. E trovo molto scorretto che facciate di ogni erba un fascio. Anche se ha sposato un Medici, non significa che lei sia un’anima corrotta.” E solo allora sollevò lo sguardo su quello di lui, con fermezza.
Rinaldo lo sostenne abilmente, sulle labbra l’accenno di un sorriso e nella voce un pizzico di divertimento: “Mio Dio. Allora è una cosa seria!”
Tra i due uomini avrebbe potuto scoppiare un incendio se fosse dipeso dai loro sguardi. A rompere il contatto visivo ci pensò Ormanno: “E’ solo un mucchio di sciocchezze.” Disse tra i denti, per poi andarsene a passo spedito.
Entrambi lo seguirono con lo sguardo, poi Rinaldo si voltò di nuovo a guardare Pazzi.
“Mio figlio ha ragione. Invece di perdere tempo inseguendo sudice sottane, pensate a sostenere la nostra causa. C’è una guerra in corso.”
Andrea sentì un fuoco invaderlo dall’interno. Sapeva che Rinaldo aveva ragione, sapeva che non era il momento di distrarsi. Medici o no, doveva dimenticare quella ragazza il più in fretta possibile.

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Capitolo 4
*** Sentimenti contrastanti ***


Capitolo tre
Sentimenti contrastanti
 
Le mancò il respiro quando si rese conto della sua presenza. Aveva solo voltato lo sguardo distrattamente e se lo era ritrovato lì, nella fila accanto, mani giunte in grembo e finto interesse per la celebrazione della messa. Era stata una sciocca a non pensarci, in fondo tutte le famiglie potenti della città presenziavano alla messa nella Cattedrale di Santa Maria del Fiore, quindi era ovvio che ci sarebbe stato anche lui.
Si ricompose e cercò di seguire la messa come aveva sempre fatto. Ma allora perché i suoi occhi non facevano che tradirla guardando da tutt’altra parte? Era agitata, prese a torturarsi le mani. Incapace di controllarsi, voltò di nuovo il capo verso di lui. Non era nemmeno un uomo particolarmente attraente e di certo era troppo vecchio per lei. E allora perché desiderava poter toccare i suoi capelli, posare le labbra sulle sue, sentire le sue braccia stringerla forte? Si morse le labbra sovrappensiero. Qualcuno se ne accorse.
“Lucrezia, smettila subito.” L’apostrofò Contessina, tenendo il tono di voce basso per non attirare l’attenzione.
Lucrezia si sentì smarrita, il corpo era come pietrificato.
Contessina incalzò: “Finirai col farle sanguinare.”
Allora si rese conto a cosa si riferiva e liberò le povere labbra dalla morsa in cui le aveva strette. Inevitabilmente le sentì pulsare, ma almeno, passandovi la lingua, constatò che non si era ferita a sangue. Schivò lo sguardo severo della suocera e abbassò gli occhi quando anche Piero la guardò. Avrebbe dovuto inventare una buona scusa per giustificare quel comportamento irrazionale. L’unica cosa positiva era che la paura delle conseguenze aveva placato l’agitazione iniziale. Non del tutto, però. Era come se sentisse lo sguardo di lui addosso e questo continuava a pungerla. Contò fino a tre e diede una sbirciata all’altra fila. Incontrò gli occhi di Andrea, come sospettava, ma ugualmente non riuscì a controllarsi, aveva bisogno di guardarlo e fondere lo sguardo con il suo. Le guancie le andarono in fiamme all’istante. Non si accorse che, con la coda dell’occhio, Contessina la stava ancora guardando.
Al termine della funzione, mentre era in fila per uscire come tutti, Lucrezia si slacciò il braccialetto dorato dal polso e, con discrezione, lo fece scivolare lungo la gonna. Prima di imboccare l’uscita della Cattedrale si voltò, Andrea si stava chinando per prenderlo dal pavimento. Non appena lui ebbe sollevato lo sguardo, lei gli lanciò un’occhiata significativa per indicargli di dirigersi verso la navata più in penombra.
Ora non le restava che prepararsi a recitare a regola d’arte.
“Oh, il mio bracciale! Deve essermi caduto…” Si fermò e sfoggiò un’espressione preoccupata. L’intera famiglia si voltò a guardarla.
“Vi prego, voi andare avanti. Io torno dentro a cercarlo.”
Piero si offrì gentilmente: “Vengo con te, in due lo troveremo prima.”
Lei lo fermò sollevando una mano: “No. Non preoccuparti, farò presto.” Accennò un sorriso, sperando di essere convincente, quindi si affrettò a rientrare nella Cattedrale.
Nell’attesa che anche le ultime persone uscissero, scrutò il pavimento come se stesse davvero cercando qualcosa. Un paio di minuti e fu libera di recarsi al punto indicato ad Andrea poco prima. Prese la navata di destra, passò alcune colonne e si addentrò sempre più nell’ombra. Dal punto più buio comparve lui. Teneva un braccio sollevato e tra le dita della mano aveva il sottile bracciale in oro di lei, un ninnolo delicato e sobrio che non era nemmeno di gran valore.
Andrea fece un inchino galante, ma poi rovinò tutto sfoggiando un’espressione beffarda: “Credo abbiate perduto qualcosa, Madonna.”
“Infatti.” Gli lanciò un’occhiata di superiorità e allungò la mano per riprendersi il bracciale. Nel farlo, le dita sfiorarono quelle calde di lui in un contatto che durò più del necessario.
“Cosa direbbe vostro marito se sapesse che lasciate cadere appositamente i vostri gioielli per incontrare in segreto un altro uomo?”
Quel tono accusatore non le piacque, soprattutto perché sapeva di essere nel torto. Aggrottò le sopracciglia e fece per andarsene: “Siete un uomo davvero arrogante, Messer Pazzi.”
Lui l’afferrò per una mano, costringendola così a voltarsi.
“Dunque sapete.”
“Sì, mi è stato detto chi siete. Un uomo senza scrupoli, nemico della mia famiglia.” Disse lei con tono severo.
Andrea ridacchiò per quella descrizione. Quando arricciava le labbra per sorridere il suo volto ispirava simpatia e fiducia e a lei piaceva ancora di più. Accidenti.
“Non posso biasimare la vostra famiglia per avervi messa in guardia contro di me. In fondo è la verità, noi siamo nemici naturali. Non dovreste parlare con me.” La stuzzicò lui.
Lucrezia rispose per le rime, sentendosi canzonata: “Nessuno può dirmi cosa fare, Messere. Decido io della mia vita. E so fare le mie scelte.”
Andrea sollevò un sopracciglio: “Avete scelto voi di sposare quel bambino piagnucolone di Piero?”
Si prese uno schiaffo in piena faccia per aver osato tanto. Lei lo stava guardando con occhi di fuoco e la mano con cui lo aveva colpito era ancora sollevata e tremante.
“Voi non mi conoscete. Non sapete niente di me. Non sapete cos’ho nel cuore.” E detto questo  liberò l’altra mano da quella di lui e se ne andò, furente di rabbia, lasciandolo lì solo nell’ombra.
Andrea si portò una mano alla guancia colpita che cominciava già a bruciare e sorrise tra sé: “Davvero un bel caratterino!”
*
Erano trascorsi due giorni e lei era ancora tutta un fuoco ripensando a quell’incontro. Aveva sperato che il ricamo le occupasse la mente, che l’aiutasse a ritrovare la calma, e invece continuava ad impugnare l’ago come fosse stato un’arma e ad infilzare la stoffa senza pietà, pensando a lui. Dopo che era stata avvertita aveva fatto di testa sua ed ora poteva biasimare solo se stessa.
Fu in quello stato che la trovò Piero, di ritorno dalla sua prima riunione con la Signoria.
“Lucrezia, va…?”
“Non chiedermi se va tutto bene.” Lo interruppe lei scortese, per poi sospirare e usare un tono più mite: “Scusami. Quali nuove dalla Signoria?”
Piero si appoggiò di spalle allo stipite della porta: “Le famiglie nobili sosterranno la guerra contro il duca di Milano e il Generale Sforza. Domani partiranno con l’esercito.”
Lucrezia si fermò all’improvviso, la mano che teneva l’ago rimase sospesa. Sollevò lo sguardo sul marito: “Domani?”
“Sì. Prima intervengono, meglio è, secondo loro. Non capiscono che così facendo distruggeranno il commercio e manderanno alla fame il popolo di Firenze.”
A lei non importavano i motivi politici. C’era ben altro che voleva sapere: “E… Si conoscono i nomi di chi partirà? Voglio dire, delle famiglie nobili.”
Piero alzò lo sguardo al soffitto per pensarci qualche istante, ma poi scosse il capo e le rispose: “So per certo che partiranno gli Albizzi, padre e figlio. Degli altri non saprei dire.”
“Ah…” Fu tutto ciò che riuscì a dire Lucrezia. Si accorse di avere ancora la mano sospesa, quindi l’abbassò e ripose l’ago. Ormai ogni residuo di voglia di ricamare era scomparso. Gli Albizzi… Andrea era loro alleato e questo non era un bene. Certo lui era un Banchiere, ma lei non poteva sapere se fosse stato addestrato anche alle armi. E se l’indomani fosse partito con loro? Per quanto tempo sarebbe stato via? Quando avrebbe potuto rivederlo? Scosse il capo, si sentiva davvero sciocca. Fino a un attimo prima immaginava d’infilzarlo con l’ago e adesso si preoccupava per lui.
Dallo stipite della porta, Piero la osservava incuriosito, avrebbe voluto porle delle domande ma temeva che lei si sarebbe arrabbiata. La conosceva da quando erano bambini, era consapevole di essere la parte debole della coppia e non si sentiva pronto a fare un passo virile proprio in quel momento. Quando lei si alzò e gli venne incontro con quegli occhi tristi, fu tentato di allungare una mano verso il suo viso per accarezzarla, ma non lo fece.
“Vado a fare una passeggiata.” Disse Lucrezia, con un tono che non ammetteva obiezioni.
“Vuoi che io ti accompagni?”
Lei scosse il capo: “No. Vorrei stare un po’ sola, se non ti dispiace.”
Senza attendere che lui esprimesse il suo parere, lo lasciò per andare a prendere il mantello nella camera da letto lì vicino. Quando la vide uscirne, Piero la seguì fino all’ingresso del palazzo, solo per vedere se lo avrebbe degnato di un saluto prima di andare. E la sua speranza venne infranta.
Contessina, passando, lo vide lì fermo di fronte alla porta chiusa. Gli si avvicinò: “Piero?”
Lui si voltò: “Sì, madre?”
“Cosa stai facendo?”
Suo figlio fece spallucce, aveva un’aria afflitta: “Niente. Lucrezia è uscita.” E superò la madre per andare altrove.
Lei si voltò rapidamente e lo richiamò: “Dov’è andata?”
Lui rispose dandole di spalle: “E chi lo sa.”
Contessina strinse le labbra per l’impazienza. Non sapeva cosa stesse accadendo a quella ragazza, ma di certo doveva smetterla al più presto.

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Capitolo 5
*** Il fuoco della passione ***


Capitolo quattro
Il fuoco della passione
 
Qualcuno doveva averle lanciato una maledizione, non vi era altro modo di spiegarlo. Quando aveva sposato Piero, lo aveva fatto con gioia, felice di essere unita ad un amico col quale era cresciuta, ad un ragazzo dal cuore d’oro che con lei era sempre stato gentile. Aveva giurato di fronte a Dio di amarlo, onorarlo ed essergli fedele. E poi era bastato incontrare un altro uomo per infrangere quelle promesse in un soffio. A dire il vero, la terza ancora non era stata infranta, poiché tra lei e Pazzi non vi era stato nulla di sconveniente. Non troppo, almeno. Non era stata tra le sue braccia, non aveva assaporato le sue labbra, non gli aveva concesso di far visita al proprio intimo giardino. Non ancora.
Le campane avevano rintoccato le cinque già da un po’, ma lei non aveva intenzione di tornare a casa. Era uscita per schiarirsi le idee e invece si era ritrovata sotto Palazzo de’ Pazzi e lì era rimasta per tutto il tempo, con il viso sollevato, gli occhi puntati sulle finestre da cui forse aveva sperato di vedere lui. Per lo meno il buonsenso le aveva consigliato di coprirsi col cappuccio, in modo che nessuno la riconoscesse.
Scosse il capo, si sentiva così ridicola: “Lucrezia, sembri una ragazzina al primo amore.” Si schernì, per poi fingere di andarsene. Cosa che non fece. Ogni volta che provava a muovere un piede sentiva una fitta al petto che la costringeva a bloccarsi. Se l’indomani lui fosse partito, senza conoscere i suoi sentimenti, e gli fosse accaduto qualcosa…
Strinse i pugni per ritrovare la forza e mise un piede di fronte all’altro. Il problema era che, invece di tornare a casa, si diresse all’ingresso di Palazzo de’ Pazzi.
Fu accolta da quella che doveva essere la governante, una donnina dai capelli ormai quasi tutti grigi e delle rughe attorno agli occhi, ma da un sorriso caldo e sincero, la quale si premurò subito di prenderle il mantello.
“Prego, Madonna, attendete qui. Vado subito ad avvisare il mio Signore.” Le disse con tono gentile, quando giunsero all’anticamera.
Lucrezia si guardò attorno distrattamente, anche se quella dimora era di una bellezza seducente e particolarmente luminosa, i sensi di colpa le diedero un brivido alla schiena. Non sapeva nemmeno lei il perché si trovasse lì.
Quasi subito udì il rumore della porta che si apriva e, credendo fosse la governante, preparò un sorriso per ringraziarla della sua gentilezza. Ma le labbra incurvate ricaddero in una linea retta nel vedere che si trattava di Andrea. Non era pronta a vederlo così presto.
Dal canto suo, Andrea non si sarebbe mai aspettato di ricevere una visita proprio da lei, dopo quanto era accaduto alla Cattedrale. Lasciò la porta aperta dietro a sé e fece qualche passo per andare incontro a lei. Non riuscì a mascherare la propria sorpresa: “Madonna Lucrezia! Una visita davvero inaspettata, la vostra.”
Lei era come paralizzata dall’emozione, il respiro quasi ansante le gonfiava il petto e sentiva di avere le gote in fiamme.
Vedendola così in imbarazzo, Andrea riprese la parola: “Posso fare qualcosa per voi?”
Lucrezia dischiuse le labbra, ma non vi uscì alcun suono. Tutto ciò che voleva era…era…
“Che Dio mi aiuti.” Gridò nella propria testa, per poi gettarsi su di lui e baciarlo con trasporto. Gli gettò le braccia al collo, possessiva, impaziente di scoprire tutto ciò che immaginava da giorni, quanto fossero morbidi i suoi capelli, quale sapore avesse la sua bocca, quanto fosse possente il suo corpo sotto i vestiti.
Andrea, inizialmente spiazzato da quel gesto, si lasciò andare e l’avvolse in uno stretto abbraccio, rispondendo al suo bacio famelico. Anche senza parlare, capì che al bacio sarebbe seguito qualcosa di molto più approfondito. Il fatto che stesse accadendo davvero, senza un apparente motivo, era solo la prova che invece di dimenticarla dovevano assecondare quella passione che li legava. In qualunque modo fosse nata, avevano tutto il diritto di viverla fino in fondo.
In breve si ritrovarono in camera da letto, dove si scoprirono strato dopo strato, sia nel corpo che nell’anima. Lucrezia esplorò con interesse quel corpo virile, più forte di quanto avesse sperato, e assorbì il calore che emanava come se volesse sciogliersi su di lui come ghiaccio vicino al fuoco. Allo stesso modo, Andrea si deliziò di lei, del suo corpo snello, le gambe lunghe, i seni prosperosi nei quali affondò il viso più volte per saggiarne la morbidezza e per risucchiarli tra le labbra come frutti maturi e succosi. Solo dopo questa prima esplorazione si lasciarono ricadere sul letto e Lucrezia gli cinse i fianchi tra le cosce con malizia, in un chiaro invito. Lui la prese con passione, navigò nel suo mare caldo e confortevole tracciando la rotta da buon Capitano. Più andava a fondo, più sentiva che lei era sua, completamente e senza riserve. Lasciò che fosse lei a naufragare nel piacere per prima e le concesse anche la scelta della posizione successiva, poiché una volta sola non sarebbe bastata a nessuno dei due. Lucrezia si lasciò guidare dall’istinto quando si stese sulla pancia, sostenendosi sui gomiti, e non ebbe bisogno di parole per invitare lui ad adagiarsi nella medesima posizione, cosa che Andrea fece premurandosi di sostenersi con le braccia per non darle peso sulla delicata schiena. Un nuovo viaggio ebbe inizio.
La luce infuocata del tramonto si spargeva su di lei, mentre dalle sue labbra s’innalzava una melodia dettata dal piacere che lui le stava donando.  Il viso di Andrea che talvolta sfiorava la sua chioma chiara e ondulata, le labbra che stampavano rapidi baci sul suo collo sottile, durante i movimenti della frenetica danza. Giungendo all’apice del piacere, Andrea diede tutta la forza sulle braccia, tanto da far gonfiare i bicipiti per lo sforzo, il viso immerso sull’incavo della spalla di lei nel tentativo di soffocare un suono di gola, mentre lei invece lasciò ricadere il capo all’indietro per liberare quell’ultimo grido d’estasi.
Dopo la paradisiaca fatica, Lucrezia trovò rifugio tra le braccia di lui, la sua anima divisa in due e in lotta tra la sensazione di completezza e il rimorso per ciò che aveva fatto. O forse no. Più che essere pentita per il tradimento, la sua paura era che Piero lo scoprisse e decidesse di ripudiarla. In quel caso avrebbe perso tutto. Ma ne sarebbe valsa la pena per amore?
*
Sguardo glaciale e cappotto di pelliccia che rendeva ancora più imponente la sua figura, Rinaldo era prossimo ad uscire dal palazzo quando la voce di suo figlio lo richiamò: “Padre, dove stai andando?”
Si voltò, la sua voce riecheggiò tra le mura: “Vado da Pazzi. Voglio sapere per quale motivo è così in ritardo. Tu dì al cuoco di tenere le portate in caldo per quando rientrerò con quell’idiota.”
Ormanno fece un cenno col capo e andò a riferire.
Essendo Palazzo degli Albizzi molto vicino a quello dei Pazzi, Rinaldo impiegò pochi minuti ad arrivare e, caso volle, che fece in tempo a vedere una figura incappucciata che usciva alla chetichella proprio da lì, guardandosi attorno con circospezione e tenendo il cappuccio ben calato sul volto. Era comunque evidente che si trattava di una donna e lui non faticò a riconoscere Lucrezia dalla figura alta e snella, soprattutto sapendo che tra lei e Andrea era scattato qualcosa che, a quanto sembrava, nessuno dei due era riuscito a fermare. Strinse i pugni ed imprecò tra i denti: “Maledizione.”
Essendo un ospite abituale, non incontrò alcun ostacolo ad entrare e tantomeno nel dirigersi nell’ala delle stanze private. Spalancò la porta della camera da letto e, alla luce del candelabro che teneva in mano, sorprese Andrea addormentato e nudo come un verme su un letto decisamente disfatto. La vista lo irritò particolarmente.
“Pazzi!” Tuonò adirato, con la sua voce già grossa di natura.
Ovviamente Andrea si risvegliò di soprassalto, gli occhi rossi e assonnati si guardarono attorno in cerca di qualcuno che non era più lì, per poi alla fine posarsi sulla figura dell’amico. La voce gli uscì roca: “Rinaldo… Perché siete qui?”
“Perché, dite?” Rinaldo camminò fino ai piedi del letto, dove si fermò torreggiante con tanto di mano al fianco: “La cena, avete dimenticato? Vi avevo invitato per discutere di alcuni argomenti importanti prima di partire per la guerra con mio figlio. Ma visto il forte ritardo sono venuto a vedere cos’era accaduto.”
Resosi conto della propria nudità, Andrea aveva già provveduto a coprirsi parzialmente con il lenzuolo, mentre l’amico lo rimproverava, ma quel senso di stordimento dovuto al sonno interrotto sembrava non volerlo abbandonare. Si passò una mano sugli occhi diverse volte, mentre cercava di sostenersi a fatica con l’altro braccio. Con uno sforzo si mise seduto e tentò di parlare con voce più chiara: “Avete ragione, lo avevo dimenticato. Sono stato impegnato con alcuni affari e…”
Rinaldo ridacchiò amaramente: “Affari? Andrea, vi prego, questa stanza puzza di sesso e di costoso profumo femminile!”
Andrea cercò di minimizzare: “Non è contro la legge cercare compagnia femminile. In fondo sono un uomo e anch’io ho i miei svaghi.”
“Non prendetevi gioco di me, Pazzi.” Ringhiò Rinaldo, sempre più adirato: “Ho visto quella puttana Medici uscire di qui come una ladra!” E puntò il dito accusatore verso l’esterno.
Le grida avevano contribuito a ridargli lucidità, perciò Andrea riuscì a fissare lo sguardo su quello di lui e a rispondere a tono: “Rinaldo, non capisco il motivo di questa scenata. Mi risulta che Lucrezia non sia né vostra parente né la vostra amante. Quindi perché siete furioso?”
Rinaldo aveva gli occhi quasi fuori dalle orbite, tanto era contrariato, ma invece di continuare a gridare, ridusse la voce ad un sussurro minaccioso: “Sapete che i Medici hanno rovinato la mia famiglia, un tempo. E sapete quanto sia stata dura per me risollevarmi dal fango. E ora voi osate calpestare la nostra alleanza e la nostra amicizia per una sgualdrina che si è unita ai miei nemici?”
Aveva un’innaturale ossessione per quella famiglia, un odio primordiale che nessuno riusciva a comprendere fino in fondo. Ma il punto restava uno e doveva decidersi a capirlo. Per questo Andrea, portando con sé il lenzuolo per proteggere la propria nudità,  si sollevò dal letto e andò dritto a guardare in faccia Rinaldo.
“Io non sto calpestando nulla. Sono e rimango vostro alleato e vostro amico. Ma come vi ho già detto una volta, la mia vita privata non vi riguarda.” La voce tagliente e lo sguardo di chi non accetta proteste.
Rinaldo spostò lo sguardo altrove e, di punto in bianco, si rasserenò. Mentre s’incamminava verso l’uscita della stanza, disse in tono quasi gioviale: “Vestitevi. L’invito a cena è ancora valido!” Posò il candelabro sul ripiano di un mobile e uscì.
Chiusa la porta alle proprie spalle, la sua espressione mutò.
“Se voi non volete farlo, mi occuperò io di questa faccenda. Personalmente.” Sibilò nel buio.

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Capitolo 6
*** Tramando nell'ombra ***


Capitolo cinque
Tramando nell’ombra
 
L’alba non era ancora sorta sulla città di Firenze e le ombre si muovevano spettrali contro le pareti dei palazzi, delle chiese, dei cunicoli malfamati. Il silenzio era talmente profondo che i passi di Rinaldo riecheggiarono come colpi di cannone sul selciato. Giunse fino alla piccola piazza dove, all’angolo, vi era la bottega dello Speziale, l’unico uomo della città ad aprire molto presto e a chiudere molto tardi per vendere rimedi di ogni tipo a chiunque glieli chiedesse.
Entrando, Rinaldo fu accolto da una semplice torcia che faceva ben poca luce. La cosa non gli importò. Chiuse la porta dietro a sé e andò fino al banco, dietro il quale si trovava l’uomo di cui aveva bisogno, lo speziale cieco da un occhio e col viso per metà sfigurato per chissà quale incidente. L’occhio azzurro funzionante tremò nel riconoscere chi era entrato nella bottega.
“Messer Albizzi.” Deglutì, intimorito.
Rinaldo certo non fece nulla per metterlo a proprio agio, anzi parlò con quella voce profonda che amava usare anche con la Signoria: “Ho bisogno dei vostri talenti, speziale.”
L’uomo fece una leggera riverenza: “Servo vostro, mio Signore. In cosa posso esservi utile?”
“Come saprete, sto partendo per difendere la città di Lucca e ho bisogno che voi assolviate un compito per me.”
Lo speziale rimase in attesa del seguito, un mezzo sorriso educato che cercava di tenere sulle labbra.
Rinaldo si sporse sul banco e parlò chiaramente: “Dovete avvelenare Lucrezia de’ Medici.”
“A-avvelenare?” Balbettò il poveretto.
“Dovrete essere cauto, però. Non voglio una morte rapida ed evidente. Preferirei che fosse graduale, in modo che nessuno sospetti che si tratta di veleno.”
“Ma io come posso giungere a lei? Messere, temo che la vostra richiesta sia inattuabile.” Disse velocemente, in propria difesa.
Facendo dei cenni col capo, Rinaldo si ritrasse per riflettere sul da farsi. Con la mano si lisciò la sottile barba disegnando un arco dalle guance al mento. Quando posò di nuovo lo sguardo sullo speziale, chiese: “Voi lavorate da solo?”
“No, Messere. Ho a servizio un paio di ragazzi che mi aiutano nelle commissioni e che mi sostituiscono nella bottega quando devo assentarmi per cercare erbe.”
“Bene. A partire da oggi, uno di quei ragazzi lavorerà esclusivamente per me. Voglio che segua i movimenti di Andrea Pazzi e dei suoi servitori, che sia la loro ombra. E così facendo, sono certo che riuscirete ad arrivare anche a Lucrezia.”
Lo speziale era visibilmente confuso: “Pazzi? Posso chiedere qual è il nesso tra lui e…”
Rinaldo lo interruppe congelandolo con lo sguardo: “Questo non vi riguarda. Fate come vi ho detto e riceverete una sostanziosa somma di denaro.” Prese un sacchetto dalla cintola e lo sbatté sul banco per far sentire il suono del suo contenuto. Lo speziale ne fu deliziato.
“Questo è un anticipo. Quando tornerò dalla guerra mi aggiornerete sulla situazione. Mi aspetto che riusciate nel vostro incarico e, ovviamente, che non ne facciate parola con anima viva.”
L’uomo chinò il capo: “Sarò muto come una tomba, non avete di che temere.”
Soddisfatto dell’accordo preso, Rinaldo fece un cenno col capo e se ne andò. Ora che aveva sistemato quella questione, poteva partire tranquillo.
*
Ormanno si lasciò ricadere sull’erba del prato, all’ombra di un albero. Si era allontanato di proposito dal Fronte per poter stare solo coi propri pensieri e per respirare aria pura, eppure, anche da quella distanza, di tanto in tanto una folata di vento contrario gli riportava l’odore nauseabondo del campo di battaglia, odore di sangue e fango, odore di corpi in decomposizione sotto il sole estivo. Quando invece il vento si placava, gli giungevano alle narici odori piacevoli di natura, di varietà di piante selvatiche e fiori, allora riusciva a rilassare le membra e lasciare che l’erba piacevolmente umida e fresca lo rigenerasse, gli togliesse di dosso un po’ di sudore e di terra. Era stato tentato di abbandonarsi ad un sonno ristoratore ma, appena aveva chiuso gli occhi, nella mente erano comparse le immagini delle battaglie che si susseguivano da quando era arrivato. Era un ragazzo coraggioso e ben addestrato, non aveva mai lasciato che la paura lo bloccasse, ma trascorrere giorni interi sotto il sole cocente o sotto acqua e fulmini di un temporale improvviso lo stavano stremando. Dei volti dei nemici affrontati sul campo non ne ricordava nemmeno uno, mentre invece il clangore delle spade e le grida dei feriti, dei mutilati, dei moribondi, non volevano lasciarlo in pace. Quando sarebbe finita quella dannata guerra?
Cercò di rilassarsi guardando il cielo limpido, seguendo con lo sguardo alcune piccole nuvole bianche che vagavano trasportate da un leggero vento. Aveva bisogno di fare un bagno e, dal pizzicare sul viso, anche di tagliare la barba. Ma non in quel momento, in cui voleva solo isolarsi dal mondo e riposare prima dell’ennesima battaglia.
“Quanti giorni ancora mi separeranno da Firenze?” Chiese in un sussurro, lo sguardo rivolto al cielo ma la mente rivolta alla sua città. E quel pensiero pian piano andò alla ricerca di una persona in particolare che si trovava là. Socchiuse gli occhi e concentrò la propria attenzione sull’udito. In risposta gli arrivò solo il vento tra le foglie sopra di lui, un rumore tranquillo ma che non gli diceva nulla di concreto. Un’altra risposta gli arrivò per vie più interne, senza bisogno di usare alcun senso.
“Quando si dice il richiamo della natura!” Sbuffò infastidito, dovendo alzarsi dal comodo giaciglio.
Scelse uno degli alberi lì vicino, tanto nessuno lo avrebbe visto, nessuno sapeva che era lì. Slacciò le braghe e pazientò che la vescica si svuotasse, mentre con lo sguardo scrutava l’area tutta attorno. In effetti c’erano parecchi fiori tra l’erba e qua e là poteva vedere intere aiuole naturali dai colori tenui, su cui ronzavano api e altri piccoli insetti.
Soddisfatto il bisogno imminente, Ormanno decise di soddisfare anche la propria curiosità e andare a vedere quei fiori di persona. Fece solo pochi passi ed ecco che qualcosa attirò la sua attenzione. Seminascosto da un cespuglio trovò un piccolo tesoro, un’aiuola di giaggioli bianchi che danzavano nel vento e emanavano un dolce profumo.
“Firenze!” Disse, sorridendo, ricordando che quei fiori erano anche chiamati Gigli di Firenze proprio perché rappresentavano il simbolo della città. Si chinò su un ginocchio e allungò una mano con l’intenzione di sfiorarli, ma si fermò. La sua mano era sudicia di battaglia, non voleva deturpare il bianco candido di quei fiori.
“Una grazia dal cielo. Un segno che vinceremo e che tornerò presto a casa.” Con entrambe le mani armeggiò per spezzare il lungo gambo di uno dei fiori, quindi si rimise in piedi e, per non rischiare di rovinarlo, lo infilò nella cintola. Ripercorse la via del ritorno con ritrovato vigore, come se avesse bevuto un potente nettare che gli aveva fatto dimenticare fatica e malumori. Era diretto alla propria tenda quando una voce lo fermò: “Ormanno, dove sei stato?”
Si voltò e incrociò lo sguardo di suo padre.
“Sono andato ad esplorare il terreno laggiù. Per sicurezza. Ma non ho trovato nulla.”
Rinaldo, anch’esso sudicio di fango e sporcizia e stretto dentro ad una corazza, abbassò lo sguardo di ghiaccio sulla cintola del figlio: “E quello cos’è? Non sarai diventato una donnicciola, spero.”
Ormanno seguì il tragitto dello sguardo e, vedendo dove puntava, si affrettò a chiarire: “Oh questo. L’ho trovato per caso. Credo sarà di buon auspicio.”
Rinaldo fece dei cenni col capo, seguendo il suo ragionamento: “Il Giglio di Firenze. Sì, potrebbe portar bene.” Per poi irrigidirsi tutto un tratto e parlare seriamente: “Non sbandierarlo troppo. Abbiamo bisogno di ben altro che di un fiore per sconfiggere quel dannato Sforza.” Quindi gli lanciò un’occhiata severa e se ne andò altrove.
Ormanno lo seguì con lo sguardo alcuni istanti, poi scosse il capo per scacciare le parole del padre e andò dritto nella propria tenda.
Si mise seduto al piccolo scrittoio, parlando tra sé: “Se lui non capisce, conosco chi invece lo apprezzerà.”
Intinse la penna e scrisse qualche riga sul foglio di pergamena, per poi arrotolarla. Si rialzò e andò a rovistare in un cumulo di abiti finché non trovò un pezzo di tessuto nero strappato che in origine faceva parte di un suo mantello.
“Andrà bene.” Andò a stenderlo sullo scrittoio e sopra vi ripose con cura il giaggiolo e la pergamena, quindi arrotolò il tutto e lo chiuse con un laccio.
Con il pacchetto sottobraccio, si aggirò per l’accampamento in cerca di un messaggero. Quando ne scorse uno, lo richiamò con un fischio e gli fece cenno di avvicinarsi. L’uomo fortunatamente aveva un bell’aspetto, invero indossava abiti puliti e i suoi stivali dovevano essere stati spazzolati da poco, il che avrebbe attirato meno l’attenzione una volta giunto in città.
“Ho un incarico per te, ma non farne parola con nessuno. Soprattutto con mio padre.”
“Sì, mio Signore.”
Ormanno gli porse il pacchetto: “Porta questo a Firenze. Ma fai attenzione, è delicato.”
Il messaggero lo prese: “A chi devo recapitarlo?”
Lui si sporse per parlargli all’orecchio e l’uomo annuì.
“Un’ultima cosa. Non dire chi ti manda e nemmeno da dove arrivi. Chi riceverà il dono capirà ugualmente. O almeno lo spero.” Aggiunse Ormanno.
Il messaggero fece un ampio cenno col capo: “Parto subito, mio Signore.”
Non era poi certo che quel dono fosse gradito, ma voleva comunque fare un tentativo. Erano settimane che mancava dalla città e non sapeva cosa stesse accadendo mentre lui era lontano. Sperò solo che la situazione non si fosse aggravata in sua assenza, che quella persona non avesse fatto nulla di sconsiderato. Il pensiero di una discussione spiacevole fatta tempo prima, lo irritò, e dai suoi occhi neri emerse una scintilla sinistra.

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Capitolo 7
*** Il significato di un dono ***


Capitolo sei
Il significato di un dono
 
L’unica certezza era che quella ragazza aveva un carattere focoso e una buona dose di pepe nelle vene! Ma lui non riusciva ancora a spiegarsi cosa fosse accaduto quel giorno. Dopo aver fatto l’amore con lui, Lucrezia aveva atteso che si addormentasse per poi svignarsela senza dire una parola e da allora non l’aveva più incontrata. Non in modo diretto. Le uniche volte in cui l’aveva vista era stato durante le messe, ma lei mai una volta aveva alzato lo sguardo su di lui e tantomeno rivolto la parola. Si era tenuta nascosta sotto ad un velo da monaca che lui non le aveva mai visto indossare prima. Non sapeva cosa pensare, la situazione era assurda. Per quale motivo Lucrezia Tornabuoni, ora Medici, si era gettata tra le sue braccia come una bestia selvaggia assetata di sesso, per poi ritirarsi nel silenzio?
Politica a parte, le giornate si erano fatte sempre più monotone per lui, anche se di tanto in tanto era stato tentato di richiedere la compagnia di qualche fanciulla di mestiere, giusto per risvegliare i sensi. E invece non l’aveva fatto. Era sicuro che nessuna gli avrebbe acceso il fuoco nelle vene come aveva fatto lei quella volta.
Perso com’era in pensieri, si destò nel sentire qualcuno dare un forte colpo di tosse parecchio innaturale. Sollevò lo sguardo e vide il proprio servitore chino in una riverenza e con le braccia in avanti per porgergli un pacchetto.
Andrea, stando comodo sulla poltrona, si scusò: “Perdonami, Goffredo, ero sovrappensiero.”
L’uomo, con un fisico sulla via della decadenza e un viso segnato dalle rughe, rispose umilmente: “Sono io a chiedervi perdono per aver osato disturbarvi. Un uomo ha consegnato questo per voi.”
Andrea prese lo strano pacco con entrambe le mani e congedò il servitore: “Puoi andare, Goffredo.”
Mentre l’uomo usciva dalla sala, lui studiò con interesse la stoffa nera e arrotolata che ora aveva posato in grembo. Tirò via il laccio e, nello scostare un lembo di stoffa, vide che all’interno vi era un fiore.
“Ma cosa…?”
Lo prese per il gambo e lo avvicinò al viso per guardarlo meglio: “Il Giglio di Firenze. Una cosa insolita da ricevere.” Lo posò e si dedicò alla pergamena che lo accompagnava. La scrittura era ordinata e facile da decifrare.
Anche tra mille avversità si può trovare la speranza. Nulla è perduto fin che essa vivrà.
Non vi erano né firma né sigillo. Andrea fece scorrere il pollice su quelle parole, cercando di coglierne il significato che sembrava sfuggirgli.
“Goffredo!” Gridò in direzione della porta.
Il servitore entrò subito, a prova che era lì fuori in attesa di essere chiamato: “Sì, mio Signore?”
“Chi ha mandato questo dono? Non vi è firma.”
“Non saprei dirvi, Messere. L’uomo che lo ha portato ha detto che non poteva rivelare nulla. Spero non si tratti di un dono sgradito.”
Ancora pensieroso, Andrea rispose in un sussurro: “No, non credo.” Quindi andò a rileggere il messaggio, senza curarsi del fatto che il servitore fosse lì ad ascoltare.
“Potrei azzardare un’ipotesi, col vostro permesso?”
“Sì, certo. Cosa ne pensi?”
“Potrebbe trattarsi di una dichiarazione d’amore, Messere. Forse una giovane donna che si è invaghita di voi e, per timidezza, non ha il coraggio di dirvelo apertamente.”
Andrea scoppiò in una risata, cosa che gli capitava molto di rado: “Goffredo! Che ipotesi fantasiosa!”
L’uomo aggrottò le sopracciglia, sentendosi offeso, e rispose con tono di rimprovero: “Io la trovo assolutamente realistica. Voi siete un uomo di bell’aspetto, un Signore, e non sarebbe insolito che una fanciulla s’innamorasse di voi se una qualche volta sorrideste e foste più gentile.” Senza attendere il congedo, fece un inchino ed uscì dalla sala, contrariato.
Le risa si placarono gradualmente, comunque non avrebbe potuto arrabbiarsi con un servitore fedele come Goffredo, che gli era accanto da molti anni e che di certo lo considerava il figlio che non aveva mai avuto. Per questo qualche volta l’uomo parlava liberamente senza pensare alle conseguenze, perché sapeva che non ve ne sarebbero state alcune.
Un’idea attraversò la mente di Andrea, il suo volto parve illuminarsi. Dopotutto quella teoria  avrebbe potuto essere giusta. Che quel dono fosse da parte di…
“Lucrezia?” Chiese diretto, rivolgendosi al fiore e alla pergamena come se questi potessero dargli risposta.
*
“Ricapitoliamo. Recati al mercato a cercare la fioraia e acquista un giaggiolo bianco, se ne ha. Nel caso non ne avesse, incaricala di cercarne uno.”
“Sì, mio Signore.”
“Dille di preparare un mazzo di fiori bianchi, su cui il giaggiolo spiccherà, e di avvolgere il tutto in un bel velo ricamato. Il velo lo acquisterai tu al banco dei tessuti.”
“Sì, mio Signore.”
“Infine vai a Palazzo de’ Medici e consegnalo a Madonna Lucrezia. Solo a lei, bada. E non tornare senza aver effettuato la consegna, sono stato chiaro?”
“Sì, mio Signore.”
“Il messaggio che dovrai riferirle, te lo ricordi?”
“Sì, mio Signore.”
“Bene. Allora puoi andare.”
La giovane sguattera, una ragazza adolescente di bassa statura e dal viso tondo cosparso di lentiggini chiare, era così intimorita dal tono severo di Pazzi, che non aveva avuto il coraggio di sollevare lo sguardo e anzi aveva quasi sperato di potersi nascondere sotto la cuffietta bianca che indossava per lavorare a palazzo.  Prima di uscire tastò la tasca nascosta della gonna per controllare che le monete datele da Pazzi fossero ancora lì, quindi si strinse lo scialle attorno al busto e si recò al mercato a fare la commissione richiesta. Quella povera anima non si accorse di essere seguita a breve distanza da un giovane.
Giunse a destinazione entro pochi minuti e andò dritta al banco della fioraia, ansiosa di fare in fretta e tornare a palazzo al sicuro. Non le piaceva camminare sola per la città, con tutti i pericoli che c’erano.
Fece una riverenza con gentilezza: “Buondì, Madonna. Vengo da parte di Messer Pazzi. Mi chiedevo se aveste un giaggiolo bianco da vendermi.”
La fioraia, un donnone massiccio e con un viso bonaccione, rispose a gran voce: “Siete fortunata, piccina! Ne ho trovati giusto due questa mattina presto!” Allungò il braccio ed indicò un vaso specifico: “Eccoli là, belli freschi di mattinata!”
La sguattera sorrise: “Bene! Sareste così gentile da formare un mazzo di fiori bianchi e di mettere il giaggiolo al centro? E’ un dono per una fanciulla.”
“Certo, mia cara! Come lo gradisce il mazzo di fiori Messer Pazzi?”
“Lo vuole avvolto in un…” Si portò una mano alla bocca, trasalendo. Nell’abbassarla disse tutto d’un fiato: “Oh che sciocca, prima devo acquistare il velo! Attendete, faccio in un minuto.” E si affrettò ad allontanarsi in cerca del banco del mercante di tessuti.
La donna scosse il capo, sorridendo: “Beata gioventù!” Andò a prendere un giaggiolo dal vaso e a ripescare fra tanti i fiori più bianchi che aveva, poi li posò sopra il piccolo tavolo da lavoro in attesa che la ragazza tornasse. Il sorriso le sparì dalle labbra nel sentire qualcosa di appuntito contro la schiena.
“Non vi muovete. Non voglio farvi del male.” Le disse una voce sussurrata e dal timbro roco.
La donna scostò lo sguardo e scorse la figura di un giovane alto e magro, vestito con abiti sgualciti, ma che stranamente odorava di erbe mediche.
“Fate quello che vi dico e non vi accadrà nulla.”
“Sì, sì. Tutto ciò che volete.” Disse lei, spaventata.
Il giovane le porse una piccola fiala contenente della polvere bianca: “Spargete un po’ di questa polvere sulle corolle dei fiori.”
Lei prese la fiala: “Che-che cos’è?”
“Niente che vi riguardi. Fate come vi dico.” E per incitarla, pensò bene di premere la punta del coltello con più decisione contro le sue reni.
Seppur con mano tremante, la fioraia obbedì e poi riconsegnò la fiala al giovane. Lui si affrettò a riporla sotto la giacca: “Un’ultima cosa. Se tenete alla vita, non fate parola di quanto accaduto.”
“Ma…non so nemmeno che cosa ho fatt…” S’interruppe non sentendo più la pressione del coltello. Si voltò e vagò con lo sguardo in cerca del ragazzo, ma non lo vide da nessuna parte. Ancora scossa, si sentì tremare nell’udire la voce della sguattera che le correva incontro sventolando con la mano un rettangolo di tessuto: “Eccomi, Madonna.” Le si fermò di fronte, tutta sorridente: “Ecco a voi. Ora potete preparare il dono!” Si accorse che la fioraia aveva una strana espressione e che non reagiva in alcun modo. “Vi sentite bene?”
La donna cercò di ritrovare il sorriso, seppur finto, essendo ancora turbata: “Sì. Datemi il velo.” Lo prese dalla mano della ragazza e andò al tavolo a fare il proprio dovere.
Il velo era di un bianco puro ed era stato ben ricamato, già alla prima occhiata si vedeva che era un tessuto costoso, perciò lo maneggiò con delicatezza per creare un bell’involucro e pensò bene di rivestirlo all’interno con un pezzo di stoffa grezza affinché i gambi dei fiori non lo sporcassero irrimediabilmente. In capo ad una decina di minuti consegnò la composizione alla ragazza: “A voi, fanciulla. Mi auguro che il vostro Signore sarà soddisfatto.”
“L’importante è che lo sia la persona che lo riceverà.” Rispose sorridendo e porgendo una moneta per saldare il conto. Quindi prese con estrema delicatezza il mazzo di fiori e s’incamminò per eseguire la seconda commissione.
Ben nascosto, il giovane che prima aveva terrorizzato la fioraia seguì la sguattera con lo sguardo e, accertatosi di non essere visto, lasciò il proprio nascondiglio per seguirla.
“Lo Speziale sarà contento di me!” Si disse, orgoglioso.  
Ora gli restava solo da controllare che il dono finisse nelle mani giuste.

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Capitolo 8
*** Fragranza al veleno ***


Capitolo sette
Fragranza al veleno
 
Quando le venne riferito che una giovinetta aveva chiesto di lei espressamente, Lucrezia ne rimase molto incuriosita e andò a passo spedito a vedere di cosa si trattava. Giunta all’ingresso del palazzo, ad attenderla fuori dalla porta trovò una ragazza bassa e burrosa da un viso simpatico e cosparso di lentiggini. Tra le braccia teneva un mazzo di fiori avvolto in un bellissimo velo.
“Siete voi Madonna Lucrezia?” Chiese sgranando gli occhi azzurri.
Lucrezia le sorrise giocosa: “Sì, proprio io!”
“Madonna.” La giovane fece una riverenza e le porse il dono: “Da parte del mio Signore.”
Lei prese la composizione dalle mani della ragazza con molta cura e, rimirando i fiori con curiosità, non riuscì a fare a meno di lasciare una risatina: “Di chi si tratta? Chi è il vostro Signore? Dovrò ringraziarlo personalmente per un pensiero così carino!”
La giovane le lanciò un’occhiata piena di malizia e disse: “Non vuole che io dica il su nome. Ha detto che avreste capito. Però mi ha incaricato di riferirvi che il suo cuore è colmo di speranza. Queste sono le esatte parole.”
Sembrava tutto uno scherzo, o forse un tentativo innocuo di un corteggiatore che non osava presentarsi alla sua porta personalmente. Lucrezia continuava a ridere divertita.
“Se doveste aver bisogno di me, io mi chiamo Guendalina, Madonna.  Sarò a vostra disposizione ogni qualvolta avrete bisogno di me per comunicare col mio Signore.” E detto questo salutò con un’altra riverenza e se ne andò.
Lucrezia rientrò e chiuse la porta di propria mano, dato che la ragazza aveva chiesto di riceverla in privato. Quei fiori erano di una bellezza divina, per non parlare del raffinato velo che li avvolgeva e che lei già immaginava di indossare e di sfoggiare con orgoglio. Camminò fino alla sala da giorno, dove poi sostò per riflettere sul significato di quel dono. Guendalina aveva parlato di un Signore, quindi un uomo nobile o comunque importante, qualcuno che era sicuro di essere riconosciuto senza dire il proprio nome e che aveva avuto la sfacciataggine di presumere che lei avrebbe voluto comunicare in segreto tramite una ragazzina che somigliava ad un pasticcino ben lievitato.
“Da non credere! E’ una cosa da pazzi!” Quella che voleva essere una frase scherzosa, si presentò invece con la massima serietà. Il sorriso si affievolì mentre le labbra ripetevano quelle parole lentamente e sussurrando: “Una…cosa…da…Pazzi.”
Con le dita sfiorò la morbidezza delle corolle bianche, e si soffermò sul giaggiolo. Ora il suo sguardo languiva di tenerezza. Sentì un piacevole calore salirle alle guance.
Una cosa da Pazzi!” Ripeté sorridendo, per poi avvicinare i fiori alle narici e respirarne il dolce profumo. Chiudendo gli occhi, quel profumo le riportò alla mente il ricordo di un volto, di una voce, di un bacio, di un intimo abbraccio… Dettagli che le fecero battere il cuore.
Il rumore di passi che si avvicinavano la indusse a riaprire gli occhi.
La sua serva stava arrivando con un piccolo vassoio in mano, su cui vi era una coppa piena di vino. Lo posò sul tavolo di fronte alla finestra: “Il vino che mi avete chiesto, Madonna.”
Lucrezia rispose gentile: “Ti ringrazio.” Le fece un cenno col capo per permetterle di andare, quindi si avvicinò al tavolo. Respirò un’ultima volta il profumo dei fiori prima di riporre il mazzo sul tavolo in un punto in cui la luce del sole rifletteva più forte. L’effetto quasi magico la fece sorridere. Senza distogliere lo sguardo dal giaggiolo, prese la coppa e se la portò alle labbra. Bevve un lungo sorso di vino, quindi posò nuovamente il calice. Il malessere arrivò all’improvviso. Si sentì la testa girare, le gambe pesanti, si appoggiò di peso al tavolo nel tentativo di sostenersi. Diede un colpo di tosse, la vista le si stava offuscando. Fece per allungare una mano verso i candidi fiori, un gesto dettato dall’istinto, ma prima che potesse farlo si sentì cadere giù e in un attimo il mondo attorno a lei divenne tutto nero.
*
Era tornato solo per riferire alla Signoria quello che stava accadendo al Fronte e chiedere il voto per ottenere maggiori fondi. Il suo esercito era in svantaggio, non poteva permettere che Sforza vincesse quella guerra. Per un istante, un solo misero istante, si era sentito grato a Cosimo de’ Medici per aver deciso di sostenere finalmente la causa. Un istante, appunto, che lo aveva indotto a ringraziarlo prima di ripartire. Ma poi, invece di lasciare la città, gli era tornato alla mente un accordo preso e una faccenda spinosa che doveva essere risolta. Fece girare il cavallo sugli zoccoli e andò al galoppo in direzione della bottega dello Speziale. Non gli importava di essere visto in quel luogo, in fondo veniva da un campo di battaglia, avrebbe potuto benissimo essere lì per acquistare un rimedio per una ferita.  Scese da cavallo con un salto e si preoccupò di legare le briglie della bestia ad un gancio sul muro.
“Messer Albizzi, siete tornato!” Il modo con cui lo speziale lo accolse gli fece ben sperare in buone notizie.
“Sto ripartendo, in verità.” Andò al banco e vi si appoggiò con un gomito, lo sguardo di ghiaccio puntato sull’uomo: “Arriviamo al dunque, vi va?”
Lo speziale sembrava incapace di contenere l’emozione per ciò che stava per dire: “Ottime notizie, Messere. Uno dei miei ragazzi ha avviato il vostro progetto di avvelenamento.”
Rinaldo sorrise, quello era decisamente il suo giorno fortunato!
“Come? Voglio sapere i dettagli.”
Lo speziale si sporse leggermente su di lui, l’occhio buono brillava di soddisfazione: “E’ una notizia fresca, io stesso ne sono stato informato un’ora fa. Dunque, dovete sapere che io avevo lasciato a Tommaso, il ragazzo che vi dicevo, una piccola fiala di cicuta in polvere nel caso gli fosse servita con urgenza. E la mia accortezza è servita. Come avevate chiesto, l’ho incaricato di seguire i movimenti di Messer Pazzi e dei suoi servitori e, finalmente, questa mattina è giunto il momento buono. Vedete, Pazzi ha mandato una sguattera al mercato ad acquistare un mazzo di fiori per Madonna Lucrezia e…”
S’interruppe di proposito, per accrescere la curiosità del suo interlocutore, infatti Rinaldo dovette incitarlo a proseguire: “E?”
“E…il veleno è stato sparso sulle corolle dei fiori.”
Lo sguardo di Rinaldo divenne scettico: “E come ha potuto ingerirlo?”
Lo speziale ridacchiò: “Lo ha respirato, Messere.”
Ora cominciava a capire: “E ha fatto effetto? Ditemi di più, avanti!”
“So per certo che si è sentita male. Non si riprenderà molto facilmente.”
Soddisfatto, Rinaldo allungò il braccio per dare una meritata pacca sulla spalla allo speziale: “Ben fatto. La prossima volta che tornerò dal Fronte vi pagherò profumatamente.”
Lo speziale fece un ampio cenno col capo in segno di ringraziamento. Ma poi si ricordò di aggiungere un dettaglio: “Devo dirvi, però, che la quantità di veleno non era mortale.”
“Esattamente come avevo chiesto io. Ricordate?” Disse Rinaldo, sollevando un sopracciglio.
“Sì, ma… Dovremo attendere di trovare un’altra occasione per finire il lavoro.”
“Lo troverete. Magari attraverso altri fiori. Sono sicuro che Pazzi gliene manderà ancora. Le donne amano quelle sciocchezze frivole.”
“E non solo le donne, direi.” Lo speziale si fece pensieroso, sollevò il dito indice come per dare una spiegazione: “Tommaso mi ha riferito un fatto insolito. Ha detto che il primo a ricevere un fiore è stato proprio Messer Pazzi.”
Rinaldo si morse un labbro, ragionando a sua volta: “Insolito davvero, sì. Perché una donna dovrebbe mandare fiori a un uomo?”
“Non saprei, Messere. Come non so spiegare la scelta del fiore. Si trattava di un Giglio di Firenze.”
Quel nome accese lo sguardo di Rinaldo: “Che strano, ho visto giusto alcuni giorni fa quel fiore in mano a….” Si fermò, ma poi scacciò il pensiero con un gesto della mano: “Una coincidenza. Niente di più.” Puntò il dito contro lo speziale: “Finite il lavoro e sarete ben ricompensato.”
Mentre lui raggiungeva l’uscita in brevi falcate, lo speziale lo assicurò: “Farò il possibile, Messere.” Per poi abbassare lo sguardo e sospirare tra sé: “Non sarà affatto facile.”
*
La sera era scesa velocemente, in un modo che a lei parve innaturale. Era mattino inoltrato quando aveva ricevuto la bellissima composizione di fiori dal dolce profumo e, dopo lo svenimento, in un batter d’occhio si era ritrovata che il sole stava già calando. Non si sentiva per niente bene, nonostante le rassicurazioni che aveva fatto ai famigliari. Ripensandoci, non capiva per quale motivo Cosimo e Marco Bello fossero così preoccupati o perché si fossero soffermati a parlare del vino che aveva bevuto. Era lo stesso vino di sempre, buono e corposo, era incredibile pensare che fosse stato quello la causa del malessere. Contessina era al suo capezzale e da ore si premurava di bagnarle la fronte con acqua fresca, cosa che lei apprezzò molto. Credeva di aver solo bisogno di riposo e invece più passavano le ore e più si sentiva debole e dolorante in tutto il corpo. Aveva la febbre. Non faceva che pensare al dono ricevuto da Andrea, con le dita le sembrava ancora di sfiorare le corolle e quel pensiero si fondeva con il ricordo di quando aveva toccato la sua pelle, il giorno in cui si erano amati. Avrebbe voluto che qualcuno le portasse il mazzo, per poterlo tenere accanto a sé e lasciarsi cullare dal suo profumo. Ma come poteva chiederlo con Contessina lì? Di certo la suocera le avrebbe posto delle domande e lei non era nelle condizioni di inventare scuse plausibili. Gemette sentendo una fitta di dolore al ventre, dove si portò la mano.
“Lucrezia, cos’hai?” Chiese Contessina, sporgendosi su di lei per guardarla meglio, con quei suoi grandi occhi verdi che facevano da specchio alla sua anima.
Lucrezia sorrise a stento: “Niente. Sono tutta un dolore.”
Contessina chinò il capo di lato, guardandola triste: “Vorrei poter fare di più, tesoro. Marco Bello è stato dallo speziale nella speranza di trovare un rimedio per te, ma pare che non ci sia riuscito.”
Sospirando, Lucrezia voltò il capo verso la finestra e si accorse che fuori stava piovendo.
“Mi guarirà il tempo, allora.” Disse semplicemente, mentre con la mano continuava a proteggere il proprio ventre in un gesto naturale. Sapeva come stavano le cose, o meglio, fino a poco prima lo aveva solo sospettato ma ora, mettendo assieme tutti i tasselli del mosaico, nella propria mente vedeva un disegno ben delineato. Da quando si era concessa ad Andrea provava spesso piccole fitte di dolore al basso ventre e, se in un primo momento aveva creduto che fossero solo la conseguenza del rapporto molto ardito, poi col passare delle settimane la mancanza delle regole le aveva dato una risposta ben diversa. Era sicura che lo svenimento e la febbre fossero legati a questo. Ad ogni modo, fino a quando il dottore non avrebbe accertato il suo stato, era inutile preoccuparsi o arrovellarsi. Tutto ciò che voleva ora era guardare fuori dalla finestra e pensare a lui.

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Capitolo 9
*** Segreti dolci e amari ***


Capitolo otto
Segreti dolci e amari
 
Non aveva più ricevuto messaggi da Lucrezia, ma la cosa non gli importò visto che finalmente era arrivata la domenica mattina. Andrea si era vestito in modo impeccabile, più che un Banchiere avrebbe potuto passare per un Principe! Era ansioso di incontrare lei e vederle indossare il velo che le aveva regalato. Si era fatto descrivere da Guendalina il tessuto e i suoi ricami e ne era rimasto entusiasta. Aveva fatto bene ad affidare a lei un compito così importante. Anche se era una semplice sguattera, Guendalina era dotata di buon gusto. E così, raggiante nei suoi abiti color mirtillo e oro, era giunto alla Cattedrale in anticipo nella speranza di veder arrivare Lucrezia e godere di una delle sue occhiate accese e piene di significato. Invece rimase deluso nel vedere arrivare la famiglia Medici con abiti eleganti e passo tranquillo come in un corteo, ma senza di lei. Piero camminava dietro ai genitori Cosimo e Contessina, che a loro volta seguivano Piccarda al braccio del figlio Lorenzo. Di Lucrezia nessuna traccia. Li osservò entrare nella Cattedrale, assieme ad altre famiglie che andavano a prendere il proprio posto prima dell'inizio della messa. Lo sguardo pieno di interrogativi attirò l’attenzione di una persona.
“Messer Pazzi, avete forse visto un fantasma?”
Nel sentire la voce femminile dal tono scherzoso, Andrea si voltò e si ritrovò di fronte Madonna Alessandra, gli occhi chiari sgranati su di lui con curiosità.
Lui si affrettò a chinare il capo per salutare: “Madonna Albizzi, vi auguro il buongiorno.”
Lei accennò un sorriso: “Non avete risposto alla mia domanda, Messere.”
“Mh… Non è nulla, non temete. Ho ricevuto giusto ieri notizie da vostro marito. La guerra non prosegue a nostro favore, a quanto dice.”
“Oh dovrei invidiarvi per sapere queste cose direttamente da lui. Rinaldo ha sempre una parola per i suoi alleati, ma spesso si dimentica di sua moglie.” Sottolineò amara, era talmente indispettita che una ruga si formò sulla sua fronte.
“Conoscete Rinaldo meglio di me, Madonna.”
“Sì. Avete ragione.” Scacciò i cattivi pensieri scuotendo leggermente il capo e cambiò discorso: “Conosco abbastanza bene anche voi e direi che il vostro sguardo era rivolto ai Medici.”
Andrea non fu contento di essere stato scopeto in flagrante, però trattandosi della moglie del suo più potente alleato, cercò di non dare troppo peso alla cosa.
“Sono solo…sorpreso, in verità. Non ricordo di una volta in cui la famiglia non si sia presentata al completo alla messa della domenica.”
“Non lo avete saputo?” Alessandra ora lo guardava con occhi spalancati.
Andrea scosse il capo: “Cosa…dovrei sapere?”
La donna si sporse leggermente verso di lui e parlò a voce bassa: “La povera Lucrezia è gravemente malata. E’ da alcuni giorni che non può alzarsi dal letto a causa di una gran febbre. La sua famiglia è molto preoccupata, la sorvegliano giorno e notte. Pare che non siano ancora riusciti a trovare una cura. Io personalmente reciterò una preghiera per lei, oggi, povera figliola.”
La notizia lo colpì come una pugnalata, un colpo improvviso e dritto al cuore. Nessuno si era preoccupato di avvisarlo. Ma poi, chi avrebbe dovuto farlo? Chi avrebbe mai pensato che un Pazzi fosse interessato alla salute di una Medici? Era così assorto nei proprio pensieri che Madonna Alessandra dovette scuotergli il braccio per riavere la sua attenzione: “Mi avete sentita? Io entro, la messa inizierà a momenti.”
Andrea si riprese: “Oh sì, certo, Madonna.”
Vedendo che restava comunque fermo dov’era, lei incalzò: “Voi non entrate?”
Rimase ancora immobile e dallo sguardo sembrava essere di nuovo assorto, invece poi parlò: “No. Non ora. Perdonatemi, Madonna Albizzi.” E solo allora si mosse per andare a passo spedito in una direzione ben precisa.
*
Lucrezia era ferma  a letto e la sua fedele serva sedeva lì accanto per tenerle compagnia, quando delle voci alterate provenienti dall’ingresso attirarono l’attenzione di entrambe.
“Vai a vedere cosa succede, per favore.” Disse Lucrezia, la voce stanca a causa di notti insonni.
La serva parve allarmarsi: “Ma Madonna! Io…”
La interruppe: “Posso stare sola un paio di minuti. E là fuori forse c’è bisogno del tuo aiuto. Vai!”
La povera donna emise un gemito poco rassicurante, ma si alzò dalla sedia e fece una riverenza per poi obbedire. Più si avvicinava e più udiva chiare le voci delle guardie e quella di un uomo che invece non conosceva.
“Non potete tenermi fuori come un cane! Come osate?”
“Messere, vi prego di allontanarvi. Potrete tornare quando i Signori saranno tornati dalla messa.”
“Io voglio entrare adesso, dannazione!”
“La vostra insistenza non…”
La donna finalmente giunse all’ingresso, interrompendo il litigio tra i tre. Si sentì come un uccellino di fronte a un branco di lupi quando disse intimorita: “Madonna Lucrezia chiede che cosa sta accadendo.”
La guardia sulla destra tentò di prendere parola: “Messer Pazzi insiste per vederla, ma…”
E lo stesso Pazzi lo interruppe, con foga: “Voglio vederla, fatemi entrare. Ho saputo solo poco fa che è malata.”
“S…sì. Lei ha bisogno di riposo e…”
“Vi prego.” Il suo sguardo la stava supplicando più delle parole, il che la mise in difficoltà. Non sapeva cosa fare di fronte ad un uomo così desideroso di incontrare la sua Signora. Un pensiero le balzò alla mente: “Voi le avete mandato un dono.”
“Sì. Un mazzo di fiori bianchi ed un velo ricamato.”
La donna ricordava bene quel momento, mentre le stava portando una coppa di vino aveva visto la sua Signora odorare quei fiori e ricordava anche il dolce sorriso che aveva sulle labbra. Forse sarebbe stata lieta di riceverlo, dopo tutto.
Si bagnò le labbra con la lingua e disse timidamente: “Se è solo per pochi minuti…”
Il viso di Andrea mostrò un’evidente gratitudine, che poi manifestò con le parole: “Siate benedetta.”
Le guardie dovettero scansarsi per lasciarlo passare, quindi lui si lasciò guidare dalla serva in quella dimora in cui non era mai entrato prima per ovvi motivi.
Ad un certo punto la donna si fermò e si voltò verso di lui: “La stanza è questa sulla sinistra. Io attenderò qui.”
Lui fece un cenno di assenso col capo ed entrò. Vederla pallida, con la fronte perlata di sudore e gli occhi arrossati lo bloccò un istante. Sembrava un’altra persona rispetto alle altre volte. Ma il bisogno di toccarla era più forte che mai, perciò percorse l’ultimo tratto velocemente: “Lucrezia.”
Lei, dapprima con lo sguardo perso nel vuoto, nell’accorgersi di lui parve illuminarsi. Sorrise: “Andrea!” Per poi correggersi da sola: “Messer Pazzi.”
Lui prese posto sul bordo del letto e le prese una mano tra le proprie, la sentì fredda e umida: “Andrea va bene. Potete dirlo.” Sollevò quella mano e se la portò alle labbra per stamparvi un bacio sul dorso.
“Siete venuto qui per me?” Chiese Lucrezia, la voce debole.
“Sono venuto di corsa appena ho saputo.” Scosse il capo con preoccupazione: “Lucrezia, che cosa è successo? Come vi siete ammalata?”
“Non lo so. E’ accaduto all’improvviso.” Disse stringendosi nelle spalle, per poi fare una piccola smorfia di dolore per il movimento repentino.
“Ho... Ho pensato molto a voi.” Perché parlare a cuore aperto gli era così difficile? “Dopo che ve ne siete andata in quel modo dal mio palazzo, non sapevo cosa pensare, ma poi…” Si schiarì la voce: “Avete ricevuto il mio dono, ho sentito.”
Lei sorrise: “Sì. Vi ringrazio con tutto il cuore. Ho adorato ogni fiore e trovo che il velo sia splendido.”
Andrea accennò un sorriso, arricciando le labbra in quel modo che lei adorava: “Ne sono lieto.” Spostò lo sguardo per guardarsi intorno: “E dove sono i fiori ora?”
Il volto di Lucrezia si incupì: “Sono desolata. La mia serva li aveva messi in acqua ma, per un qualche motivo sono appassiti in fretta. Ha dovuto gettarli.”
“Oh, ma certo. Non importa. E poi, il loro odore potrebbe recarvi fastidio ora che siete malata.” La tranquillizzò lui. Continuò ad accarezzarle la mano con affetto, soffermandosi sulla lunghezza delle dita affusolate e graziose.
“Volevo dirvi che…” Dissero insieme, per poi fermarsi e ridere.
“Prego, prima voi.” Propose Andrea.
Lucrezia fece un cenno col capo e iniziò: “Volevo dirvi che anch’io ho pensato molto a voi. So che il mio comportamento è stato riprovevole e che vi devo delle spiegazioni per…” Il rossore le imporporò le guance: “Per quello che abbiamo…”
“Vi prego, non affaticatevi. Avete la febbre, non siete lucida. Ne parleremo quando sarete tornata in salute.” Le disse in tono diplomatico.
I loro sguardi si fusero l’uno nell’altro, come se le parole non fossero più necessarie per comunicare. Andrea ammirò gli occhi grandi di lei, le pagliuzze dorate che li rendevano luminosi e pieni di vita, mentre Lucrezia non si sarebbe mai stancata di esplorare i suoi occhi all’apparenza spenti ma che in realtà celavano chissà quali segreti.
Nel corridoio, nel frattempo, la serva attendeva pazientemente stando ferma e buona con le spalle poggiate alla parete, quando giunse Marco Bello.
“Cosa fai qui? Non dovevi prenderti cura di Lucrezia?”
Lei sollevò lo sguardo sull’uomo alto e dall’aspetto un po’ selvaggio: “Sì. Ora Madonna ha una visita.”
Marco la guardò con sospetto: “Una visita? Nelle sue condizioni? Cosimo lo sa?”
Lei scosse il capo: “No, ma ho ritenuto che potesse far bene alla mia Signora vedere lui.”
Lui?” Sottolineò Marco, contrariato: “Di chi si tratta?”
“Non credo che ti riguardi, sai.” Le rispose lei, altezzosa.
“Va bene, allora lo vedrò da me.” Disse pratico, sorpassandola e ignorando il suo tentativo di fermarlo.
All’interno della stanza, Andrea riprese la parola: “Ora sarà meglio che io vada. Se qualcuno mi vedesse qui…”
“Sì, non voglio che i miei famigliari sappiano. O non avremmo più modo di vederci.” Confermò Lucrezia, e lui notò che nel dirlo la pulsazione del polso le si era accelerata.
Le lasciò la mano ma, prima di alzarsi, si chinò su di lei e le sfiorò le labbra con un bacio. Proprio nel momento in cui Marco Bello aveva fatto capolino dalla porta.
Quando le labbra si separarono, Andrea sussurrò: “Anche tra mille avversità si può trovare la speranza.” Recitò dal biglietto che aveva ricevuto.
Sentendo la parola ‘speranza’, a Lucrezia venne spontaneo rispondere con il messaggio riferitole dalla sguattera: “Il mio cuore è colmo di speranza.”
Scambiarono un sorriso complice, quindi Andrea si alzò, ma Lucrezia lo trattenne prendendogli una mano: “Andrea, aspettate.”
Lui le prestò attenzione: “Sì? Ditemi.”
“Io…” La mano libera, che aveva tenuto posata sul ventre per tutto il tempo, si spostò un poco verso il basso, mentre lei cercava di trovare il coraggio di continuare: “Io devo confessarvi che… Che aspetto…”
“Cosa?” Chiese lui, gli occhi che volevano leggerle nell’anima.
Alla fine Lucrezia abbandonò la battaglia, era inutile dirglielo in quel momento, in quel modo. Lasciò un leggero sospiro e disse solo: “Aspetto con ansia il giorno in cui potrò rivedervi.”
Andrea le regalò un sorriso compiaciuto e, per ringraziarla, le baciò la mano soffermandosi con le labbra un po’ più a lungo.
Marco si affrettò a dileguarsi per non essere visto e si nascose giusto un attimo prima che Pazzi uscisse dalla stanza.
Andrea andò dalla serva in attesa: “Vi ringrazio ancora per avermi concesso di entrare. Non lo dimenticherò.”
Non sapendo cosa rispondere, la donna indicò il corridoio con la mano e fece per chiedergli di seguirla, ma lui la fermò: “Troverò da solo la strada per uscire. Voi tornare da Lucrezia e prendetevi cura di lei affinché si rimetta presto.”
La donna fece una riverenza: “Messer Pazzi.” Quindi tornò ai proprio doveri, mentre Andrea s’incamminò per cercare l’uscita. Non appena ebbe svoltato l’angolo, ecco che da una porta comparve Marco Bello. Svoltò l’angolo a sua volta e osservò Pazzi fino a quando gli fu possibile. Il suo sguardo era più contrariato che mai e dalle labbra sibilò: “Quell’uomo porterà solo guai.” E scosse il capo con disapprovazione.

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Capitolo 10
*** Il ritorno del guerriero ***


Capitolo nove
Il ritorno del guerriero
 
Appena rientrati in città in sella alle proprie cavalcature, Ormanno e suo padre si erano ritrovati di fronte alla notizia che i Medici avevano avviato i lavori per la costruzione della Cupola di Santa Maria del Fiore. Rinaldo, come c’era da aspettarsi, era subito andato su tutte le furie e nel percorrere il restante tragitto fino a Palazzo degli Albizzi aveva borbottato come una pentola di verdure sul fuoco, esaurendo gli ultimi residui di sopportazione del figlio. Certo anche lui era adirato per quell’iniziativa, anche lui odiava i Medici e anche lui voleva distruggerli, però dopo mesi passati al Fronte a combattere, in mezzo al fango e al sangue, Ormanno non aveva la forza né fisica né mentale per pensare a qualunque cosa non fosse un bel bagno ristoratore. E così, non appena fu sceso da cavallo ed ebbe salutato la madre, si fece preparare la vasca dalla servitù.
Immerso nell’acqua quasi bollente che gli cullava i sensi e le membra affaticate, i capelli gocciolanti dopo essere stati accuratamente lavati, Ormanno stava godendo di quel momento di pace assoluta. Gli occhi socchiusi contro la luce del giorno, il profumo del sapone di qualità che lo rilassava, la mente che vagava lenta in attesa che il sonno giungesse. Quanto aveva desiderato tutto questo! L’acqua ormai non era più limpida, dopo che lui si era sfregato con cura per togliersi di dosso strati di sporcizia e sudore stantio, ma in ogni caso non si sarebbe mosso da lì nemmeno sotto minaccia di tortura. Se l’era meritato, aveva combattuto il nemico senza mai retrocedere, aveva obbedito agli ordini del padre senza battere ciglio, e dopo tutto quello che aveva passato, voleva solo concedersi un po’ d’intimità. Se anche la sua mente avesse voluto altrettanto…
Sospirò e si mosse dentro la vasca, insoddisfatto. Per quanto avesse bisogno di riposo, per quanto fosse stremato e gli dolesse ogni singola parte del corpo, si sentiva addosso una fastidiosa agitazione. Voleva qualcosa, ma non capiva di cosa si trattasse.
Udendo il rumore della porta che si apriva, fece per voltare il capo, ma abbandonò l’idea quando una fitta alle cervicali gli tolse il fiato.
Una voce dolce e gentile lo chiamò: “Ormanno, va tutto bene?” Ancora un istante e un paio di mani esili e curate si posarono sulle sue spalle.
“Madre… Sono molto stanco.”
“Ne hai tutto il diritto, figlio mio.” Alessandra si mise in ginocchio e poggiò il mento sul capo del figlio, quindi cominciò a muovere le mani su di lui disegnando le forme dei bicipiti e soffermandosi dove i muscoli erano più rigidi.
“Ti fa male?”
“Un po’.” Non avrebbe mai mentito a lei, al contrario di come doveva fare col padre che non tollerava nessun tipo di cedimento o debolezza.
“Io e tuo padre siamo fieri di te. Hai combattuto con onore.”
“La guerra non è ancora finita, madre. Non appena mio padre avrà ottenuto ulteriori fondi ripartiremo.” La voce che diventava un sussurro man mano che parlava, a causa della stanchezza.
Alessandra mosse il viso e andò ad imprimere le labbra sulla guancia del figlio, con affetto, poi gli sussurrò: “Ora riposa.”
Ormanno cercò di lasciarsi andare e rilassarsi, ma prima sentì il bisogno di dire un’ultima cosa: “Dopo cena vorrei fare visita ad una persona.”
“Puoi sempre farlo domani dopo una bella dormita.”
Lui scosse il capo lentamente: “No. Voglio farlo il prima possibile. Farò visita a Pazzi, madre, e non è necessario che mio padre sia presente, perciò ti prego di non dirglielo.” Fece una pausa, poi riprese la parola: “E dopo, avrò piacere di incontrare anche un’altra persona, che credo sarà ansiosa di rivedermi.”
Alessandra sorrise, anche se lui non poteva vederle il viso: “Si tratta…di una fanciulla?”
“Non proprio.”
“Oh.” Le uscì come uno squittio. Rimase in silenzio alcuni istanti, le mani ora ferme sulle spalle di lui.
Ormanno fece di tutto per trattenere una risata, sapendo che quell’argomento metteva in agitazione la madre. Inspirò profondamente per calmarsi, sua madre riprese il massaggio.
“Non dirò nemmeno questo a tuo padre, lo sai cosa pensa di quei posti. Però promettimi che starai attento. Da quando hai iniziato a frequentare quelle…” Ricercò nella mente un termine che non fosse offensivo, ma, non trovandone, optò per una parola più semplice: ”…donne, ho sempre paura che tu possa contrarre qualche malattia.”
“Farò attenzione, te lo prometto. Non preoccuparti.” Si era sempre sentito in dovere di rassicurarla, da quando lei aveva capito che di tanto in tanto lui faceva visita a delle signorine di mestiere per trovare svago. E lei non si era opposta a questo interesse, anzi era divenuta sua complice per nascondere il fatto a Rinaldo, che invece era assolutamente contrario a quel tipo di piacere poiché lo considerava una perdita di tempo.
*
“Caro Ormanno, sono lieto di rivederti!” Lo accolse Pazzi quella sera, andandogli incontro a braccia aperte come si trattasse del suo stesso figlio. I due si scambiarono un veloce e contenuto abbraccio e Andrea riprese la parola: “L’eroe di ritorno dalla guerra. Non solo dalle lettere di tuo padre, ma anche dalle voci in città ho sentito meraviglie sul tuo coraggio.”
Ormanno sfoggiò un timido sorriso, sensibile ai complimenti: “Ho solo fatto il mio dovere.”
“Prego, vieni ad accomodarti nel salone. Ho giusto un vinello che ti rimetterà in forze.” E così dicendo precedette l’ospite fino al salone ed entrambi presero posto su delle poltrone posizionate una di fronte all’altra e divise da un piccolo tavolino dove poi venne servito il vino da uno dei servitori.
Ormanno bevve a grandi sorsi, deliziandosi di quella bevanda corposa, che gli scendeva lungo la gola lasciando un retrogusto amarognolo, per poi depositarsi nello stomaco dove l’alcol gli dava una sensazione di calore ben gradita. Posò il calice vuoto sul tavolino e si stravaccò beatamente sulla poltrona, gli occhi neri accesi dal riflesso delle candele.
Andrea accennò un sorriso interessato: “So che siete tornati in giornata. A cosa devo l’onore di questa visita?”
“In verità, sono venuto per invitarvi, Pazzi!”
“Invitarmi?” Chiese Andrea, le sopracciglia aggrottate per il sospetto.
“Dopo mesi di battaglie ho davvero bisogno di particolari attenzioni e...le ragazze di Madonna Leona staranno piangendo la mia assenza!” E detto questo si lasciò sfuggire una risata sotto l’effetto del vino che aveva bevuto troppo velocemente.
Pazzi prese un sorso dal proprio calice e increspò le labbra in un sorriso complice: “Prima la battaglia e poi il piacere, eh? Anche se dovresti essere più preciso nel parlare. Se ben ricordo hai una favorita in quella casa. Rossella, giusto?”
Ormanno emise un suono simile a quello che fanno i cocchieri per incitare i cavalli ad avanzare: “Proprio lei! Dunque, Pazzi? Verrete con me? E’ passato molto tempo dall’ultima volta.”
Lui scosse il capo con fare divertito: “Ragazzo impudente. Non so ancora come tu mi abbia convinto quella volta.” Si fermò per correggersi: …quelle volte. Se lo sapesse tuo padre mi farebbe uccidere da un sicario e picchierebbe te a sangue.”
“Perciò la vostra risposta è?” Incalzò Ormanno, lanciandogli un’occhiata maliziosa.
Andrea ridacchiò tra sé, ma poi sospirò e bevve un lungo sorso di vino. Il suo sguardo era mutato: “Ti ringrazio, ma devo declinare l’invito. Mi sento legato ad una donna e non ho desiderio di tradirla.”
Ormanno lo punse sul vivo: “Da quando siete un moralista? Non mi sembra che vi siate fatto problemi in precedenza.”
Ad Andrea arrivò chiara l’allusione, la cosa lo infastidì, ma di certo non aveva voglia di sollevare quell’argomento. Scacciò la frase con un gesto della mano: “Questa volta è diverso.  Non puoi capire. Lucrezia mi ha conquistato e…”
“Lucrezia?” Sbottò Ormanno, sfoggiando un’espressione schifata come se avesse bevuto un calice di aceto: “Mi state dicendo che siete innamorato di lei? Avete perso la ragione?” Il viso ora contratto dalla rabbia.
Andrea lo osservò alcuni istanti prima di rispondere con tono diplomatico: “Ti assicuro che questo non interferirà con i piani politici. Il mio obiettivo rimane quello di distruggere i Medici, compreso il suo piccolo marito piagnucolone.”
“Lei non sarà mai vostra, Pazzi.” Sottolineò severo Ormanno.
“Forse.” Andrea vuotò il calice in un sol fiato e lo sbatté sul tavolino mentre si sporgeva verso il suo ospite con fare quasi intimidatorio: “Ma fino a quando avrò la sua totale fiducia e il suo corpo caldo nel mio letto, non ho intenzione di tirami indietro. Voi e Rinaldo dovete farvene una ragione.”
Ormanno, dapprima arrabbiato, scoppiò in una risata e si alzò dalla poltrona: “Allora d’accordo, Pazzi. Preferite una sgualdrina gratuita? Molto bene! Tenetevela stretta assieme al borsellino. Avete la mia benedizione.”
Andrea si alzò a sua volta, avendo capito che era il momento dei saluti. Si avvicinò ad Ormanno e gli posò una mano sulla spalla: “Non ho mai nascosto l’affetto che provo per te. Ti ho visto crescere, sei come un figlio per me, oltre che un alleato. Sarei molto amareggiato se una donna incrinasse il nostro rapporto.”
Ormanno si obbligò a sorridere anche se quelle parole lo avevano fatto arrabbiare ancora: “Non sia mai, Pazzi. Ora, se volete scusarmi, sono ansioso di andare dalla mia bella puledra rossa.”
Andrea ritirò la mano: “Certo. Vai pure. Ti ringrazio della visita.” Lasciò che Ormanno se ne andasse accompagnato da un servo. Anche se a parole sembrava tutto chiarito, aveva timore che in realtà i problemi fossero appena cominciati.

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Capitolo 11
*** Capelli rossi e sangue ***


Capitolo dieci
Capelli rossi e sangue
 
Nonostante i buoni propositi, la sua collera non si era placata e il piacere fisico non gli aveva dato quel senso di appagamento che sperava. Non riusciva a togliersi dalla testa la conversazione avuta con Pazzi e il solo ripensare alla sua confessione d’amore per Lucrezia non faceva che ribollirgli il sangue nelle vene. Involontariamente strinse nel pugno un lembo di lenzuolo, il lino bianco e morbido messo apposta per lui in quanto cliente nobile.
Il calore di un corpo caldo che si appoggiò a lui parve dargli un attimo di tregua. Una voce gli sussurrò all’orecchio: “Confidatevi con me, Ormanno.”
Rossella, la giovane prostituta che in quegli ultimi anni era stata come un balsamo per le sue ferite spirituali, quella notte aveva miseramente fallito. Era una giovane donna scappata da un convento, che aveva trovato rifugio e fortuna nella casa di piacere di Madonna Leona. Non aveva mai rivelato il suo vero nome, per timore di essere ritrovata e ricondotta al convento, però quello che si era scelta le calzava a pennello vista la splendida massa fiammante di capelli che aveva, una moltitudine di ricci lunghissimi che le sfioravano le natiche e che si erano rivelati la sua specialità per i giochi piccanti. Ormanno ne aveva fatto la sua favorita sin dalla prima notte in cui l’aveva posseduta. Solo che, mentre lei col passare del tempo aveva cercato di entrare nel suo cuore, lui si era sempre limitato ad entrare nel suo corpo e ad innalzare poi un muro quando si trattava di sentimenti o semplicemente di confidenze.
Ormanno voltò leggermente il capo verso di lei, lo sguardo sfiorò prima le morbide curve dei seni che lei in quel momento teneva premuti contro il suo braccio, poi salì fino ad incontrare i suoi occhi azzurri e limpidi ma contornati di un pesante tratto nero di trucco che non gli era mai piaciuto e che lei si ostinava a mettersi.
“Non ho nulla da dire, a te. Resta al tuo posto o dovrò riferire a Leona che non ti comporti adeguatamente.”
A quelle parole Rossella ebbe un fremito e si ritrovò a stringere le natiche ricordando la punizione che le era stata inferta l’ultima volta in cui aveva forzato Ormanno a confidarsi con lei. A volte le sembrava di sentire ancora il bruciore delle frustate infertele con un ramoscello di salice essiccato.
“Perdonatemi. Volevo solo alleggerire il vostro fardello.” Disse con voce contrita, per poi ingoiare il timore e sfiorargli la guancia con le dita calde.
Ormanno le cinse i fianchi col braccio, la mano andò ad impossessarsi delle curve piene e burrose con bramosia, quindi le rubò un bacio forte che quasi le tolse il respiro.
Credendo che volesse riprendere il rapporto carnale, lei fece scivolare la mano sul suo corpo, sui bei pettorali scolpiti, sugli addominali, per poi avventurarsi sotto il lenzuolo ed afferrare tra le dita quello che lei amava chiamare ‘il pezzo forte’.
“No, per questa notte ho finito.” Tagliò corto lui, togliendo quella mano intrusa e scivolando fuori dal letto come un’anguilla.
Rossella camminò carponi fino al bordo del letto, le sopracciglia inarcate per la preoccupazione: “Ho forse commesso un errore? Siete così contrariato.”
Prese le braghe da una poltrona lì accanto, Ormanno cominciò a vestirsi: “No, niente di tutto ciò. Non sei tu la causa del mio malumore. C’è una cosa che devo sistemare.”
“Posso…esservi d’aiuto in qualche modo? Sapete che per voi farei qualunque cosa.”
Ormanno si lasciò sfuggire una risata amara: “Ne sono certo! Ma poi se venissi arrestata e giustiziata io perderei la mia favorita.”
Vestito di tutto punto, non gli restò che indossare il mantello e sprecare una parola per rassicurare la ragazza: “La prossima volta avrai un bel daffare per soddisfarmi. E’ una promessa.” Le lanciò prima un’occhiata maliziosa e poi una moneta che aveva preso dal borsellino alla cintola.
Mentre lui usciva dalla camera a passo spedito, Rossella prese la moneta che era finita sul letto, la sollevò e la rigirò tra le dita. Ogni spicciolo era un bene, niente di cui lamentarsi, però tutto l’oro del mondo non sarebbe mai bastato a riempire il vuoto nel suo cuore.
*
Essendo notte fonda, la città buia era invasa dal silenzio totale. Il che forse era un bene, perché se qualcuno avesse tentato di avvicinarsi per aggredirlo lui se ne sarebbe accorto e avrebbe estratto il pugnale dal fodero. Nonostante camminasse rapidamente, il suo passo era felpato e gli occhi invisibili nel buio erano vigili e pronti a scrutare qualsiasi movimento.  I sensi da soldato erano sempre attivi.
Ormanno sapeva che per liberarsi dei propri demoni c’era solo un modo e a quell’ora, in quel momento, coperto dal manto della notte, si stava appunto recando dall’unica persona che poteva aiutarlo. Voleva soddisfazione e, per ottenerla, non doveva far altro che uccidere quella dannata sgualdrina che era la causa di tutto.
Ancora una volta le parole di Andrea gli attraversarono la mente come il filo di una lama nella carne.
“…fino a quando avrò la sua totale fiducia e il suo corpo caldo nel mio letto, non ho intenzione di tirami indietro.”
Si portò le mani alle orecchie, come se quelle parole gli stessero ferendo i timpani, e invece poi si rese conto che il dolore era dentro la sua testa. Riabbassò le mani che poi strinse in pugni.
Sibilò: “Non le permetterò di portarmelo via.”
Affrettò ulteriormente il passo e, dopo quella che gli parve un’eternità, giunse infine alla piazza dove vi era la bottega dello Speziale. Anche se stava dormendo, l’avrebbe strappato ai suoi dannati sogni d’oro per portarlo nell’inferno della realtà. Voleva che l’uomo finisse il lavoro per cui suo padre l’aveva pagato. Al più presto.
Pronto a scagliarsi contro la pesante porta di legno bruciato dal sole e riempirla di pugni, Ormanno rimase sbalordito nel constatare che questa era aperta. Prima di rendersene conto si ritrovò all’interno della bottega e per poco non finì a terra, ma per fortuna riuscì ad aggrapparsi alla porta. L’interno era buio, l’aria era satura degli odori forti delle erbe mediche.
“Speziale?” La sua voce fendette il silenzio, ma non vi fu nessuna risposta.
Facendo attenzione, mosse qualche passo in avanti per raggiungere il banco e, quando lo trovò, tastò con le dita ogni cosa nella speranza di trovare una candela ed un acciarino.
“Maledizione.” Imprecò tra i denti, non trovando nulla. Comunque i suoi occhi stavano cominciando ad abituarsi all’oscurità e la luce fioca della luna alta nel cielo contribuì.
“Speziale? Sono Ormanno degli Albizzi. Mostratevi.” Questa volta parlò più forte.
Dato che nessuno rispose, pensò bene di recarsi alla porta che sapeva condurre all’interno dell’abitazione dell’uomo. Stando rasente al banco da lavoro, Ormanno fece dei passi ma all’improvviso trovò un ostacolo che lo fece cadere a capofitto.
“Ma che diavolo…?” Si rese conto di essere caduto su qualcosa di tiepido e grande all’incirca quanto lui. Era un corpo. Con uno scatto si sollevò gridando: “Chi siete?” Ma fu inutile, il corpo era immobile. Dovendo fare per forza uso del tatto, toccò con riluttanza la carcassa fino ad arrivare al viso. Sotto le sue dita sentì la sgradevole sensazione di pelle deformata.
“S…speziale?” La voce gli tremò.
All’improvviso una luce lo fece sobbalzare. Sgranò gli occhi e cercò di vedere oltre la candela che ora era sopra di lui.
“Messere.” La voce roca apparteneva ad un ragazzo alto e molto magro, vestito di abiti sgualciti e con lunghi capelli che gli coprivano parte del viso.
“Che cosa è successo? Chi…?”
“Non lo so.”
Ripreso coraggio, Ormanno si alzò in piedi e scavalcò il corpo per raggiungere il ragazzo.
“Tu chi sei?”
“Tommaso, Messere.”
“Ti conosco… Mio padre mi ha detto il tuo nome. Tu hai avvelenato Lucrezia de’ Medici.” Il suo interesse era improvvisamente impennato, ma poi si rese conto del turbamento del ragazzo, vide il suo sguardo puntato sul corpo dello speziale.
“Sicuro di non sapere nulla?”
Lui scosse il capo, una ciocca di capelli gli coprì un occhio: “Stavo dormendo, dei rumori mi hanno svegliato. Sono corso a vedere cosa accadeva e…l’ho trovato con un pugnale conficcato nella schiena. L’altro ragazzo che vive e lavora qui con noi è fuggito non appena gli ho detto che lo speziale era morto. Io sono rimasto.”
Abbassò la mano per illuminare meglio il corpo ed ecco che lanciò un grido.
“Che ti prende, adesso?” Sbottò Ormanno, i nervi a fior di pelle.
“Il…il pugnale. Non c’è più. Guardate!”
Ormanno si chinò su di un ginocchio ed esaminò il corpo. In effetti dalla ferita era fuoriuscito un rivolo di sangue che andava asciugandosi, ma non vi era traccia dell’arma né lì né attorno. Il che significava che oltre all’assassino qualcun altro era stato lì.
Tommaso ansimò: “Che cosa farò adesso? Non ho dove andare. E se resto qui verrò di certo arrestato e accusato di assassinio.”
“No, non accadrà.” Ormanno si rialzò e guardò dritto negli occhi il ragazzo per trasmettergli sicurezza: “Ora andremo insieme dal Gonfaloniere di Giustizia e gli racconteremo tutto. Starà a lui e ai suoi uomini trovare il colpevole. Dopo di che verrai a vivere a Palazzo degli Albizzi. I tuoi talenti saranno apprezzati, te l’assicuro.” Negli occhi una luce diabolica, mentre la sua mente contorta immaginava la morte di Lucrezia. 

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Capitolo 12
*** Quale forza ***


Capitolo undici
Quale forza
 
Poteva ancora rivivere quel momento nella sua mente, quello in cui la verità era stata svelata. Lo sguardo scrupoloso del medico che l’aveva visitata, l’imbarazzo provato nel sentire le sue mani addosso e vedere che, accanto al letto, Piero e Contessina stavano guardando tutto. Non appena il medico si era risollevato, lei aveva preso immediato possesso del lenzuolo per proteggere la propria dignità. Uno sguardo professionale, un tono di voce fermo nel rivolgersi a Piero: “Congratulazioni, Messere. Avrete presto un erede.”
Nel vedere l’espressione del marito, quei suoi occhi spalancati come quelli di un bambino, aveva temuto. Sì, temuto che nella sua testa da banchiere, figlio e nipote di banchieri, i conti non tornassero. Poi invece l’aveva guardata e in un attimo il suo sorriso si era acceso, quegli occhi si erano riempiti di lacrime. Le si era quasi gettato addosso: “Lucrezia! Sono così felice!”
Il cuore le era balzato nel petto, era salva. Dapprima esitante, la sua mano poi si era sollevata per accarezzare la chioma folta e indomabile del marito. E finalmente aveva buttato fuori la tensione che aveva trattenuto nei polmoni. Sarebbe andato tutto bene, se solo un paio di ore più tardi, dopo essere uscito per annunciare il lieto evento al padre e allo zio, Piero non fosse rincasato di corsa gridando alla peste.
Ripensando a quell’ultima parola, Lucrezia ebbe un brivido nonostante il calore estivo. Si premette contro la bocca un lembo del velo, gettando un’occhiata furtiva alla strada. Molti cittadini stavano lasciando la città, nobili e potenti nelle loro carrozze e i poveri popolani a piedi e tenendo sulle spalle pesanti fagotti. Nell’aria si sentiva già l’odore di morte e l’eco del pianto di donne che avevano già perso figli e mariti. E la pestilenza era solo all’inizio.
Giunse presto a destinazione, alla Basilica di San Lorenzo. Doveva fare presto. Non appena entrò nel luogo sacro si guardò attorno, nessuna presenza, niente occhi indiscreti, così puntò la navata in penombra. Il suo passo si affrettò nel vedere la sagoma in fondo, le mani giunte dietro la schiena. Non appena lui si voltò, probabilmente sentendo il rumore dei passi, e la vide, Lucrezia lo chiamò con voce sospirata: “Andrea!”
Lui aprì le braccia e l’accolse calorosamente, la strinse a sé, le baciò i capelli come una reliquia sacra, mentre lei aveva affondato il viso sulla sua spalla e con una mano gli premeva amorevolmente la nuca. Incapace di aspettare oltre, Andrea la scostò leggermente, guardò i suoi occhi grandi e pieni di lacrime e finalmente la baciò. Un bacio forte e intenso al quale lei rispose con trasporto. Quando le labbra si separarono, entrambi dovettero riprendere fiato e la cosa li fece ridere. Ma le risate si spensero quasi subito.
“State bene. Grazio a Dio state bene.” Disse lui, accarezzandole una guancia col dorso della mano.
Lucrezia sorrise e si sporse per stampargli un bacio a fior di labbra. Ma ecco che il suo sguardo si velò di tristezza: “Ho poco tempo. Stiamo per lasciare la città.”
Andrea sospirò contrariato: “Non posso credere che tutto stia accadendo così in fretta. Ho atteso giorni pregando che guariste per potervi rivedere. E adesso…” Mosse la mano nell’aria come ad indicare qualcosa senza forma: “La peste.”
Lei fece un cenno col capo: “Lo so. Tutto sembra volerci tenere separati.”
Si guardarono alcuni istanti senza parlare più, solo i loro sguardi persi l’uno dell’altro, fino a quando non fu Andrea a rompere il silenzio: “Questo è…” Con la mano andò a sfiorare il prezioso velo che lei indossava.
“Sì. Volevo che me lo vedeste indossare almeno una volta prima di partire.”
Ora che lo vedeva personalmente, era ancora più soddisfatto del gusto di Guendalina. Le avrebbe dato una ricompensa una volta tornato a palazzo. La sua attenzione ai ricami di bellezza esemplare che adornavano il velo, venne distolta quando Lucrezia riprese la parola: “Sono qui anche per un altro motivo. Non posso lasciarvi senza avervelo detto.”
Andrea notò una luce particolare nei suoi occhi, sentì un leggero fremito nel suo corpo che ancora teneva avvolto in un abbraccio.
Lucrezia si sciolse dalle sue braccia e gli prese una mano che poi andò ad imprimersi sul ventre. Ad un’occhiata interrogativa di lui, sorrise e trovò il coraggio di dire: “Aspetto vostro figlio.”
Andrea si ritrovò immobile e senza respirare, la sorpresa lo aveva lasciato di sasso. Decisamente stava accadendo tutto troppo in fretta! L’aveva posseduta solo quella volta, l’aveva vista e le aveva parlato solo in poche occasioni e ora…
“Vi prego, dite qualche cosa!” Lo spronò lei, divertita ma anche in pena.
Non sapeva cosa dire. Si sentiva così fiero di se stesso per aver procreato, si sentiva potente per aver impiantato il suo seme all’interno della famiglia del nemico, si sentiva…felice di aver creato una vita con la donna che gli aveva rubato il cuore.
“Mia diletta…” Riuscì a dire solamente, prima di baciarla ancora una volta. Quindi la guardò dritta negli occhi: “Qualcuno ha sospetti?”
Lei scosse il capo: “No. A parte me, nessuno potrebbe dire con precisione quando è stato concepito. Non avete nulla da temere. E nemmeno io.”
Andrea stava per aggiungere qualcosa, invece poi lasciò stare e abbracciò Lucrezia, aveva bisogno di stringerla e sentirla sua.
“Una ragione in più per partire e mettervi in salvo.” Disse ragionevolmente, anche se il pensiero di lasciare lei e suo figlio nelle mani di quella famiglia maledetta gli dava il voltastomaco.
Lucrezia lo strinse a sua volta, voleva assorbire il suo calore, imprimere nella mente l’odore della sua pelle e farne tesoro fino a quando non si sarebbero rivisti. Fu a malincuore che dovette dire: “Devo andare. Ho chiesto di poter venire qui a dire una preghiera prima della partenza. Non voglio rischiare che Piero venga a cercarmi.”
Andrea ebbe l’impulso di stringerla più forte, quasi sperando che il moccioso arrivasse e li vedesse, e avere così un motivo per infilzarlo col proprio pugnale e prendersi Lucrezia una volta per tutte.  E invece si obbligò a comportarsi da uomo maturo e paziente. Forse col tempo, chissà…
La sciolse dall’abbraccio: “Andate, dunque. Prendetevi cura di voi e di nostro figlio.” Quelle ultime parole parvero vibrare nell’aria, infrangere il silenzio della Basilica. Era tutto vero. Quel figlio apparteneva a loro.
Lucrezia non riuscì a dire nulla, un nodo alla gola glielo impedì. Abbozzò un sorriso e fece un cenno col capo, quindi sollevò una mano e gli accarezzò il viso, soffermandosi sulle sue labbra affinché lui potesse baciargliela. Desiderando restare con lui, ma pensando prima di tutto alla sicurezza del bambino che portava in grembo, si voltò e uscì dalla Basilica senza guardarsi indietro.
*
Era inspiegabilmente furioso. Tutto ciò che voleva era poter stare accanto a Lucrezia, soprattutto ora che sapeva che lei portava suo figlio in grembo, e invece a causa dell’epidemia di peste era costretto a separarsi da lei e accettare di non rivederla per quelle che era certo sarebbero state settimane. E quel che era peggio, non aveva modo di comunicare con lei, perché una lettera l’avrebbe messa solo in pericolo. Strinse i pugni con forza, sentì il sangue salirli alla testa con furore. Al diavolo tutto! Tanto valeva che lasciasse anche lui quella maledetta città e che vi facesse ritorno a cessato allarme.
Era così concentrato e amareggiato che andò a scontrarsi dritto contro una figura.
Una mano possente lo afferrò ad una spalla: “Non ho tempo per uno scontro corpo a corpo, ora!”
Sentendo la voce che ben conosceva e la nota scherzosa, Andrea sollevò lo sguardo e incontrò il viso di Rinaldo, vide l’amico sollevare un sopracciglio e aggiungere: “E nemmeno voi. La Signoria si riunisce, lo sapete.”
Andrea si liberò dal suo tocco con uno scatto aggressivo: “Non ci penso nemmeno.”
Rinaldo e il figlio, con cui si stava recando a Palazzo della Signoria, si scambiarono un’occhiata interrogativa.
“Che significa, Pazzi?” Ora il tono di Rinaldo era serio.
“Che non resterò in questa dannata città un minuto di più. Me ne vado.” Scandì Andrea, per poi voltargli le spalle.
Ormanno fece due rapidi passi e lo fermò trattenendolo per un braccio: “Non potete farlo! Abbiamo bisogno di voi. I Medici stanno lasciando la città, è un ottimo momento per screditarli.”
Non avrebbe dovuto dirlo. Il solo sentire quel nome fece scattare la collera di Andrea che si ritrovò a gridare: “Lo so che stanno lasciando la città.” Rimase senza fiato di fronte al viso turbato di Ormanno.
“State davvero passando il limite, Pazzi.” Disse Rinaldo, avvicinandosi a lui a sua volta, ma senza più tentare il contatto fisico. Gli lanciò un’occhiata estremamente severa: “Avevate promesso. Ma sembra che le vostre faccende personali stiano offuscando il vostro giudizio.”
Andrea sostenne il suo sguardo, ma nel rispondere fece vibrare forte il sarcasmo: “Non mi risulta che voi siate da meno, mio caro Rinaldo.”
Rinaldo dovette incassare il colpo, in ogni caso, prima che potesse pensare ad una risposta adeguata, Pazzi terminò il discorso: “Sono certo che voi e Ormanno saprete farvi valere anche senza di me.” Quindi fece un cenno del capo ad Ormanno per indurlo a lasciargli il braccio e finalmente poté riprendere il cammino verso il proprio palazzo.
Già ferito nell’orgoglio a causa di Cosimo che aveva trovato il modo di porre fine alla guerra, sminuendo così il suo potere e la sua forza sul campo di battaglia, Rinaldo ora non poteva tollerare di essere sfidato apertamente anche da quello che era suo amico e alleato. Si spremette le meningi per trovare qualcosa di pungente da dire prima che Pazzi svoltasse l’angolo. E purtroppo lo trovò.
“Porgete i miei saluti a vostra moglie.”
La frase ebbe effetto, infatti Andrea si fermò e si voltò per fulminarlo con lo sguardo.
“Immagino stiate andando da lei. Dopotutto, anche in mancanza della vostra sgualdrina avrete comunque chi vi scalderà il letto.” Sulle labbra un sorriso diabolico.
Andrea odiava sentir nominare sua moglie e Rinaldo lo sapeva.
“Oh, ma certo! La piccola Medici non sa che siete sposato. Non glielo avete ancora detto, vero?” Lo derise Rinaldo, scuotendo il capo: “Come nemmeno dei vostri figli, immagino. Pazzi, Pazzi… Siete un imbroglione! Sarebbe davvero spiacevole se lei venisse a conoscenza del vostro piccolo segreto e decidesse di troncare la vostra relazione.”
Ora dunque si passava alle minacce! Ma Andrea non gli diede la soddisfazione. Indignato, sputò a terra e gli voltò le spalle.

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Capitolo 13
*** Calore ***


Capitolo dodici
Calore
 
Dopo un paio di giorni trascorsi a darsi una bella sistemata per ricoprire il nuovo ruolo di servitore degli Albizzi, Tommaso era finalmente stato convocato nello studio privato di Ormanno. Con addosso una camicia bianco candido, un farsetto marrone dal taglio impeccabile e un paio di braghe morbide, la sua figura sembrava un po’ più robusta di quel che era in realtà. O forse era anche merito della cuoca che lo aveva visto magrissimo e smunto e, giunta all’affrettata conclusione che lo speziale lo nutrisse a pane e acqua,  si era subito votata alla nobile causa di rimpinzarlo con squisiti manicaretti per fargli mettere un po’ di carne sulle ossa! I capelli castano chiaro ad onde naturali erano stati ben pettinati e legati sulla nuca da un nastro, ma ugualmente una ciocca birichina era scivolata fuori per incorniciargli la linea dolce del viso.
Teneva lo sguardo basso, sulle guance una leggera nota di rosa che si accentuò quando Ormanno, accorgendosi della sua agitazione nello stare fermo davanti alla porta a stropicciarsi le lunghe dita sottili, lo invitò: “Prego, Tommaso, prendi posto accanto a me.”
Lui obbedì, i suoi passi impacciati tradivano le sue emozioni. Si sedette sulla poltrona accanto a quella dove era Ormanno, dove rischiò di affondare nel morbido cuscino di piume.
Ormanno cercò di farlo sentire a suo agio: “Anche se mio padre è diffidente, sono sempre più convinto di aver fatto un buon affare a prenderti a servizio!”
Tommaso sollevò lo sguardo che per tutto il tempo aveva tenuto abbassato come in contemplazione del pavimento. Accennò un timido sorriso: “Vi sono grato per tutto ciò che avete fatto, Messere.”
“Puoi chiamarmi Ormanno quando siamo soli. In fondo non abbiamo molti anni di differenza, se non erro.”
“Io…” La voce gli morì in gola, diede un colpo di tosse: “Io ho sedici anni compiuti, Mess…Ormanno.”
Infatti non gli avrebbe dato un giorno di più. Tommaso non era chiaramente più un bambino, lo si capiva dall’altezza notevole e dalla traccia di peluria tagliata che gli imbruniva il mento. Però altri dettagli del suo aspetto ne tradivano la giovinezza. Gli occhi erano grandi, forse leggermente incavati e sovrastati da due folte sopracciglia scure, le iridi marroni erano illuminate da una luce particolare che li rendeva molto belli. Però la cosa che più piaceva ad Ormanno era la sua bocca piccola, le labbra piene e di un bel rosso fragola come quelle di una donna. Sì, non era difficile crederlo. Se non fosse stato per l’altezza, per gli arti lunghi e le spalle pronunciate, Tommaso avrebbe potuto essere tranquillamente scambiato per una fanciulla. [1]
Si rese conto di essersi fermato ad osservarlo troppo a lungo, perciò cambiò posizione sulla poltrona e si schiarì la voce: “Raccontami qualcosa di te. Se devo donarti la mia totale fiducia, prima vorrei conoscerti meglio.” Gli disse, lanciandogli un’occhiata maliziosa.
Tommaso, nel tentativo di combattere la timidezza, prese tempo portandosi la ciocca di capelli dietro l’orecchio, quindi si inumidì le labbra con la punta della lingua e cominciò: “Sono nato qui a Firenze. I miei genitori sono entrambi morti quando ero bambino, perciò per un po’ ho vissuto coi miei nonni, degli anziani tirchi e tutt’altro che amorevoli. Questo fino a quando lo speziale non mi ha trovato.” Sorrise inseguendo quel ricordo: “Stavo strappando erbacce da un prato per passare il tempo. Lui mi vide e si avvicinò. Fu molto gentile con me sin da subito. Scambiammo qualche parola e, giuro che non so come, mi ritrovai a fargli da apprendista nella bottega!” Ridacchiò, i suoi occhi si posarono su quelli di Ormanno per alcuni istanti.
“Avrà visto qualcosa in te. Come l’ho visto io.” Precisò Ormanno.
Ancora una volta Tommaso si portò la ciocca ribelle dietro l’orecchio: “Forse. Tutto ciò che so è che da quel giorno non ho più sofferto la fame -nonostante quel che pensa la cuoca!- e ho anche potuto avere un’istruzione. Quell’uomo mi ha insegnato molto. Per me è stato…” Si fermò, le labbra socchiuse mentre cercava un termine: “Non un padre, no. E’ stato un vero Maestro. Credevo che un giorno avrei ereditato la sua bottega e avrei continuato il suo lavoro.”
E questo era il punto dove Ormanno voleva arrivare: “Ti incaricava spesso di avvelenare qualcuno?”
Ad una domanda così diretta e pericolosa, Tommaso impallidì, i suoi occhi divennero vitrei: “Mio Signore…”
Ormanno ridacchiò e fece un gesto con la mano: “Suvvia, non sono un giudice! Non m’importa di ciò che hai fatto. Quello che voglio sapere è se hai appreso davvero tutto dallo speziale.”
Prima incerto, poi Tommaso ritrovò il coraggio e sostenne il suo sguardo: “Sì. Ma vi assicuro che, prima di Madonna Lucrezia, non avevamo mai avvelenato nessuno con le nostre mani. Ve lo giuro.”
“Quel che devi capire, Tommaso, è che…” Si sporse leggermente in avanti: “Io ti garantisco assoluta protezione, pasti a volontà, un letto caldo e laute ricompense, ma tu in cambio dovrai obbedire ai miei ordini. Sempre. E se ti chiederò di uccidere, tu dovrai farlo senza ascoltare la coscienza.” Lo sguardo assottigliato per fargli capire la serietà di quella richiesta. Dopo di che si alzò in piedi e andò verso un mobile su cui vi erano una caraffa e dei calici. Ne riempì due di ottimo vino rosso e andò a porgerne uno al ragazzo.
Tommaso si alzò in piedi a sua volta e prese il calice con ben poca grazia, evidentemente non avvezzo alle buone maniere.
“Alla nostra collaborazione. Che possa essere sempre redditizia.” Disse Ormanno, sollevando il calice.
Tommaso fece altrettanto e attese che fosse lui il primo a portarsi il calice alle labbra, prima di fare lo stesso.
Ormanno era fiducioso che quel ragazzo sarebbe stato il suo braccio destro, un servitore ed un compagno fedele. Ma oltre a questo, non poteva negare di provare qualcosa di altra natura, di percepire uno strano calore su tutto il corpo ogni volta che lo sguardo ricadeva sulle sue labbra. Rese ancora più rosse dal vino corposo, erano maledettamente seducenti.
*
Alla fine era partito più tardi del previsto, incerto sul proprio volere. Lasciare Firenze con la scusa di scappare dalla peste era una cosa lecita, ma l’idea di rivedere sua moglie non lo faceva saltare dalla gioia. Come sempre, tra l’altro. Ma poi l’amore per i propri figli aveva abbattuto ogni incertezza e ogni freno e così, dopo aver ordinato ai servitori di raccogliere il necessario e di chiudere il palazzo, erano partiti tutti assieme verso la campagna. Lui in carrozza assieme al fedele Goffredo, la governante nonché moglie dell’uomo e la sguattera Guendalina, mentre gli altri li seguirono col carro.
La tenuta era magnifica, poteva rivaleggiare tranquillamente con quella dei Medici per bellezza e decoro e di questo Andrea ne andava fiero. Ogni filo d’erba, ogni muro, tutto era perfettamente curato, grazie soprattutto a sua moglie che se ne prendeva cura con gran senso di responsabilità.
Fece giusto in tempo a mettere piede giù dalla carrozza quando uno stormo di gonne e giacche svolazzanti  e capelli ricci uscì dall’ingresso principale gridando a squarciagola ‘Padre!’.
Andrea si mise in ginocchio e accolse per prime le tre bambine che, più che abbracciarlo, gli si tuffarono addosso. La più piccola poi aveva da poco imparato a camminare con le proprie gambette e rischiò quasi di cadere.
“Apollonia, Elena, Albiera![2]” Pronunciò i loro nomi con gioia ed impresse dei baci sui capelli scuri e ricciolini di tutte. Amava stringere le figlie a sé, gli facevano provare una piacevole emozione e il loro odore dolce era una fragranza che non si stancava mai di respirare.
“Padre, devi parlare al più presto col Precettore! Sarai contentissimo di me!” Cinguettò per prima Apollonia.
“Ci sei mancato tanto tanto tantissimo, padre!” Disse Elena, sgranando gli occhioni dorati.
La piccola Albiera, le guancie rosee e piene, fece dei marcati cenni col capo, tanto che alcuni ricciolini le finirono davanti agli occhi.
“Anche voi mi siete mancate, piccole mie.” La voce carica di sentimento che nessuno, oltre ai suoi figli, aveva mai avuto l’onore di udire.
A loro si aggiunsero i fratelli maggiori,  due ragazzini dai tratti a dir poco signorili e coi capelli scuri più o meno arricciati.
“Antonio, Jacopo![3]” Allungò le braccia verso di loro per poterli stringere a sé assieme alle bimbe in un unico e grande abbraccio. Era in quei momenti che si malediva per trascurarli così tanto, per far loro visita solo poche volte all’anno. Si sentiva un pessimo padre.
“Figli miei…” Aveva quasi voglia di lasciarsi andare ad un pianto emozionato, per loro lo avrebbe fatto volentieri pur di fargli sapere quanto li amava. Il suo sguardo però si alzò su una figura che era rimasta sulla porta. Il ragazzino era ben abbigliato e i capelli neri arricciati erano pettinati con cura. Il viso leggermente affilato era abbellito da una carnagione dorata e due occhi scuri brillanti che sembravano pietre onici. Peccato solo per il broncio che gli stava sul viso come una maschera.
Tra le risate di gioia e le parole affettuose dei figli, Andrea si sentì in dovere di alzarsi per raggiungerlo. Sfiorò una ad una le chiome dei cinque e poi si diresse verso la porta, dove lo attendeva il figlio mezzano.
“Francesco.[4] Non sei felice di rivedermi?”
Il ragazzino abbassò un momento il viso, sembrava indeciso sulla risposta, ma poi lo risollevò e, seppur non sorridendo, allungò le braccia verso di lui e disse: “Benvenuto, padre.”
Andrea si chinò un poco e lo strinse in un abbraccio forse ancora più forte di quello dato agli altri figli, il viso affondato nell’incavo della spalla di Francesco.
Allentò la stretta e guardò il figlio in volto: “Come stai, figlio mio?”
Francesco sospirò, scostò lo sguardo: “Come sempre, padre. La campagna mi annoia.”
Andrea gli stampò un bacio sulla fronte, soffermandosi, cercando di trasmettergli affetto.
“Ne sono dispiaciuto. Ma ti prometto che presto vi porterò tutti a vivere a Firenze con me.”
Le parole ebbero effetto, gli occhi di Francesco s’illuminarono, il suo sguardo ora era davvero di benvenuto. Andrea fu tentato di aggiungere qualcosa di più, ma il rumore di passi dall’interno attirarono la sua attenzione. Mosse lo sguardo oltre il figlio, nell’ombra riuscì a scorgere solamente punte di scarpe e la gonna blu notte di un abito ben cucito, ma tanto gli bastò. Una voce vibrante di emozione lo accolse: “Bentornato, marito mio.” Ed ecco che dall’ombra comparvero due occhi dorati pieni di lacrime e un viso delicato.



[1]: Per il personaggio di Tommaso mi sono ispirata molto a Ezio Auditore interpretato da Devon Bostick nella web serie Assassin’s Creed Lineage.
 
[2], [3]: I nomi non sono inventati. I figli di Andrea Pazzi si chiamavano davvero così.
 
[4]: Francesco non era il figlio bensì il nipote di Andrea Pazzi. Ho dovuto ‘saltare’ una generazione per rendere più scorrevole la storia. Inoltre nella mia versione Francesco prende il posto di un altro figlio di Andrea che non ho inserito, Piero. 
 

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Capitolo 14
*** Ricordi d'infanzia ***


Capitolo tredici
Ricordi d’infanzia
 
Chissà come sarebbe stato il bambino… Avrebbe avuto gli occhi di Andrea o i suoi? E l’incarnato della pelle? E le labbra? I capelli sperava che li avrebbe presi da lei, soprattutto nel caso fosse nata una bambina, così avrebbe avuto la chioma più bella di tutta la città. Se invece fosse nato un maschio, fin da piccolo gli avrebbe fatto fare regolarmente esercizi affinché crescesse con un fisico atletico. Non voleva un figlio pigro, malaticcio o addirittura grasso. Ed era certa che Andrea sarebbe stato d’accordo. Mosse la mano e sentì il piacevole solleticare dell’erba sul palmo, i fili d’erba giocosi tra le dita. L’estate era ancora viva e lì nelle campagne si poteva respirare aria pura e ricca di profumi. Stesa sul prato, sotto il sole tiepido del pomeriggio, stava usando il velo bianco come cuscino, la sua morbidezza a rammentargli il petto di Andrea sul quale aveva giaciuto aimè solo una volta. Sperava che il morbo della peste sarebbe scomparso presto, così sarebbe potuta tornare in città e rivederlo. E magari concedersi a lui ancora una volta. Il pensiero le imporporò le guance.
Ad interrompere i suoi pensieri, arrivò il tocco di una margherita che le solleticò la punta del naso. Emise una risatina complice: “Piero!” Voltò leggermente il capo e vide il viso sorridente del marito.
Piero si era steso accanto a lei e nemmeno se n’era accorta.
“Non ho saputo resistere, perdonami!” Le disse, il sorriso che gli illuminava il volto e una luce azzurra negli occhi. Quindi sistemò la piccola e candida margherita fra i capelli della moglie.
“Non sei cambiato per niente da quando eravamo bambini!” Lo apostrofò, ma con tono scherzoso, per poi lasciare che lui l’avvolgesse con un braccio, teneramente.
I loro sguardi si persero all’orizzonte, sulla vasta proprietà di campagna dei Medici.
Piero sussurrò all’orecchio di lei: “Hai ricordo della nostra infanzia? Di quando trascorrevamo le vacanze estive qui per sfuggire al caldo afoso della città?”
“Non potrei mai dimenticarlo.” Rispose Lucrezia, la voce quasi spezzata dall’emozione.
Piero ricercò la sua mano, intrecciò le dita tra le sue: “E’ stata in una di quelle estati che ti ho fatto dono per la prima volta di una margherita.” Proseguì lui, inseguendo lieti ricordi: “Io, te e Ormanno siamo cresciuti qui, si potrebbe dire. Eravamo sempre insieme, anche se mio padre e il suo erano già nemici. Per fortuna le nostre madri sono sempre state più giudiziose di loro!”
“Ricordo…” Iniziò Lucrezia, una piccola pausa per cercare le parole: “…che le nostre tre balie amavano sostare all’ombra sotto il porticato della villa, mentre noi giocavamo tutto il giorno, ridevamo, litigavamo e…”
“Era Ormanno a litigare, in verità! Era sempre lui a cominciare!” Puntualizzò Piero.
“E’ vero!” Rise Lucrezia, le gioie del passato a riempirle il cuore e ad unirla al marito. Però quella gioia si affievolì velocemente: “Eravamo così uniti noi tre…. Perché l’età adulta ci ha divisi?”
Piero sospirò, il respiro andò a scontrarsi con i capelli della moglie, facendoli vibrare: “Per via delle nostre famiglie, credo. Quando tuo padre e il mio hanno preso gli accordi per il nostro matrimonio, gli Albizzi non l’hanno presa bene. E conoscendo Ormanno, non mi sorprende che si sia fatto influenzare da suo padre.”
Il silenzio calò tra loro, assieme al fantasma del passato che improvvisamente pesò sui loro cuori e donò loro un profondo senso di tristezza per come erano andate le cose e per aver perduto un caro amico che ora era divenuto un nemico per la vita.
*
Anche se la balia aveva provveduto a fermare la chioma folta e ribelle con un robusto nastro rosso, era inevitabile che presto il suo operato sarebbe divenuto inutile. Lucrezia era una bambina che amava correre, era impossibile che i capelli bellissimi ma difficili potessero stare pettinati per più di dieci minuti. Perciò, dopo aver giocato a rincorrere una farfalla sul prato, Lucrezia si era buttata sulle ginocchia per ammirare un’aiuola di fiori gialli e si era ritrovata di fronte agli occhi abbondanti ciocche ondulate sfuggite al nastro. Le scostò una alla volta con le mani, portandosele dietro alle orecchie e, una volta libera, si sporse in avanti per immergere il viso tra i fiori e respirarne la dolce fragranza.
“Lo sai che tra i fiori ci sono le api?”
Piero annunciò il proprio arrivo con quella domanda. Indossava abiti dal taglio morbido che lo facevano sembrare ancora più magro e gracile di quanto già non fosse, inoltre la sua chioma di capelli era totalmente inguardabile. Camminò fino ad arrivare a lei e riprese: “Lo sai che le api fanno il miele? Lo sai che per farlo prendono il polline dai fiori? Lo sai che hanno una Regina? Lo sai che…?”
Ad interromperlo ci pensò Ormanno: “Lo sai che? Lo sai che? Lo sai che?” Lo canzonò senza ritegno, tenendo una spada di legno issata su una spalla.
Lucrezia nel vederlo si alzò in piedi e gli sorrise, ma lui non le prestò attenzione, troppo impegnato a vittimizzare l’amichetto più piccolo.
“Sei proprio un banchiere, Piero! Solo un banchiere può essere così saputone. E noioso. Se ti lasciassi da solo con Lucrezia la faresti addormentare in cinque minuti.”
Piero sporse il labbro inferiore, al massimo dell’infelicità, ma almeno, invece di piangere, riuscì a borbottare un: “Non è vero.”
“Spostati nanerottolo!” Lo liquidò Ormanno, scacciandolo via con la mano come fosse stato un insetto. Quindi si mise di fronte a Lucrezia e assunse una posa statuaria, puntellando la spada al suolo e passandosi una mano tra i capelli ricci di un bel castano scuro su cui riflettevano i raggi del sole. Il suo intento non era quello di essere galante con lei, bensì quello di farsi ammirare. E Lucrezia non mancava mai di accontentarlo.
“Sei molto elegante con questa giacca nera, Ormanno. Sembri un gran Signore.” Gli disse, stropicciandosi le mani in grembo per l’emozione e facendo oscillare i fianchi in modo civettuolo.
“Io sono un Signore, Lucrezia. E presto diverrò anche un guerriero, proprio come mio padre.”
Piero, in disparte da loro, borbottò ancora: “Non ho mai sentito di un guerriero che viene sculacciato dalla balia.”
Lucrezia si portò una mano alla bocca per la sorpresa, Ormanno invece si voltò svelando uno sguardo assassino: “Come osi, villano?”
“Me l’ha detto la mia balia. Sei un bambino disobbediente e per questo vieni punito spesso.” Disse con incredibile coraggio Piero, con la conseguenza che rischiò davvero di beccarsi un colpo di spada sulla testa. Ma Lucrezia fermò la mano di Ormanno in tempo: “No. Ti prego. Perdonalo.”
Lui le lanciò un’occhiata in tralice, poi si rivolse a Piero: “Sentito la fanciulla? Ti concedo la grazia, per questa volta.”
Piero strinse i pugni, sembrava avere tutta l’intenzione di dargliene uno in pieno stomaco, ma poi l’occhiata significativa di Lucrezia lo indusse a lasciar perdere.
Credendo di averlo spaventato, Ormanno si sentì fiero di sé: “Bene. Andiamo Lucrezia. Se troviamo una cavalletta o uno scarabeo stercorario di faccio vedere come li distruggo.”
Lei si aggrappò al suo braccio: “Sei il mio eroe, Ormanno! Se venissi attaccata da un’ape sono certa che tu la uccideresti in un sol colpo.”
“Sì, be'… Lo farei per chiunque. Come ogni guerriero.”
“E poi io…” Lucrezia si morse un labbro, le sue guance divennero del colore delle ciliegie mature: “Io…ti ringrazierei con un bacio.” Fece per sporgersi, le labbra che stavano per posarsi sulla sua guancia, ma lui si scostò per schivarle: “No, grazie. Mio padre dice che certe cose si fanno solo dopo il matrimonio.”
“Oh…” Lucrezia abbassò lo sguardo per la delusione, il suo cuoricino versò una lacrima invisibile.
“Vieni.” Ormanno la prese per mano e la portò con sé, lasciando Piero lì da solo a riflettere sulla scena che aveva appena visto.
I suoi occhioni verdi erano come persi nel vuoto, quasi potevano trasparire i suoi pensieri e la logica che girava nella sua mente come l’ombra di una meridiana. C’era qualcosa che non riusciva a capire. Si interrogava sul comportamento arrogante di Ormanno e sul modo in cui Lucrezia sembrava adorarlo nonostante tutto. Di lui invece non si curava molto. Sì, era gentile e lo difendeva sempre, però le sue gote non si erano mai arrossate per lui. Così piccolo, basso, non aveva speranze di competere con Ormanno che invece era alto, atletico e di bell’aspetto. Che fosse fresco di bagno e ben pettinato oppure infangato fino alle radici dei capelli, Ormanno era sempre bello. Mentre lui invece… Si prese un lembo dell’elegante giacca color salvia che era stata cucita di recente. Anche quando era al meglio, lui sembrava sempre insignificante. Sospirò contro le ingiustizie della vita e si lasciò cadere sull’erba, le gambe incrociate e una mano a sostenere una guancia.
Non si rese nemmeno conto del tempo che passava, si risvegliò improvvisamente dal tepore dei propri pensieri quando la luce del tramonto gli inondò il viso.
“Oh cribbio, devo rientrare!” Sapeva che al tramonto doveva correre a casa o la balia sarebbe venuta a cercarlo e gli avrebbe assestato una sculacciata. Stava di fatto per darsi alla corsa, ma prima gli balzò alla mente un’idea. Si chinò per prendere un fiore dall’aiuola gialla ma, invece di prendere uno di quelli, optò per una margherita piccola e sola come lui. Strappò il gambo e corse dritto alla villa. Trovò di fatto la balia ad attenderlo, le mani ai fianchi e le sopracciglia inarcate.
“Appena in tempo, giovanotto. Ormanno e Lucrezia sono già rientrati.”La donna abbandonò subito il cipiglio severo e prese Piero in braccio per stampargli un bacio sulla fronte: “Andiamo, devo pettinarvi e  sciacquarvi il viso prima di cena o vostra nonna si lamenterà di nuovo.”
“Balia, prima posso fare una cosa?” Chiese lui con vocina dolce.
“Che cosa?”
“Voglio dare questa margherita a Lucrezia. Subito. Senza che Ormanno mi veda.”
Vedendo la serietà con cui aveva formulato quella richiesta, la donna non poté che accontentarlo. Così rientrarono e andarono a bussare alla stanza di Lucrezia. Prima però la balia si curò di rimettere  a terra Piero per non fargli fare brutta figura con la bambina.
La balia dei Tornabuoni aprì la porta.
“Posso vedere Lucrezia?” Cinguettò Piero.
La donna di chinò su di lui e rispose gentile: “La sto pettinando, Messere. Ma la vedrete dopo a cena.”
“Io devo vederla adesso. Per favore.” E sfoggiò gli occhioni che sapeva essere un’arma vincente.
La donna sollevò lo sguardo e, dopo aver scambiato un’occhiata complice con la balia dei Medici, ripose: “Va bene. Attendete un istante.” Rientrò nella stanza.
Piero ora cominciava a sentire l’agitazione per ciò che stava per fare, infatti, quando comparve Lucrezia di fronte a lui, rimase ammutolito e dimenticò il motivo per cui si trovava lì.
Lucrezia, con i capelli ancora spettinati, lo stava guardando con occhi sorpresi: “Allora? Cosa devi dirmi?”
Piero ebbe un fremito, si voltò per cercare aiuto dalla propria balia, la quale indicò con un cenno del capo la margherita che aveva in mano.
“Oh sì!” Si ricompose e porse il fiorellino all’amica: “L’ho colto per te, Lucrezia.”
Lei sorrise, allungò una mano per prendere la margherita e subito l’avvicinò alle narici per odorarla: “Grazie, Piero!”
“Io non sono un guerriero. E so che non sarò mai il tuo eroe. Però ti voglio bene, Lucrezia.”
Dove avesse trovato il coraggio per una tale confessione nessuno lo sapeva, fatto sta che le sue parole ebbero effetto, Lucrezia rimase piacevolmente incantata. Con la stessa spontaneità che aveva usato lui, per ringraziarlo del dono e delle belle parole gli diede un bacio sulla guancia, le labbra sfiorarono appena la pelle. Piero divenne paonazzo, le sue labbra s’incurvarono in un sorriso soddisfatto. Dopo di che Lucrezia emise una risatina e rientrò nella stanza.
“Orsù, giovane innamorato. La spazzola vi attende!” Disse divertita la balia, riprendendo in braccio il suo fagottino di tenerezza.
Attraversarono il corridoio, Piero sembrava sognare ad occhi aperti. Al contrario, qualcun altro nascosto all’angolo aveva visto tutto e ne era rimasto amareggiato. Ormanno aggrottò le sopracciglia e disse stizzito tra sé: “Questo è davvero sleale, Medici.” Strinse forte i pugni ai fianchi, dopo di che tornò alla propria stanza.
Con quell’immagine nella mente, Ormanno tornò al presente, lo sguardo ora acceso sul pesante tendaggio della sala da giorno di Palazzo degli Albizzi. I gomiti sul tavolo, le gambe accavallate, in maniche di camicia a causa del caldo creatosi, poiché le finestre dovevano restare sigillate per proteggere il palazzo dalla peste. Di fronte a lui una coppa piena di vino, Ormanno la prese con mano quasi tremante. Si sentiva sfinito. Bevve un lungo sorso e la riposò sul legno lucido del tavolo. Con un sorriso amaro sulle labbra, parlò rivolto al nulla: “Piccola sgualdrina. Prima infrange le mie speranze di bambino dando il suo cuore a quel nanerottolo noioso e adesso torna a rovinarmi la vita osando allungare gli artigli su Pazzi.” Scosse il capo.
Improvvisamente strinse la coppa tra le dita e la sbatté con forza, gridando: “E’ lei la vera pestilenza di questa città!”
Da dietro la porta lasciata per errore aperta di uno spiraglio, Tommaso aveva visto e sentito. E forse, anche se non era stato fatto il  nome, aveva capito chi era il soggetto di quelle frasi rabbiose.
Si scostò dalla porta, appoggiò le spalle alla parete lì accanto e sospirò nel vuoto. Nella mente una scia di pensieri contrastanti, negli occhi il dubbio su ciò che avrebbe fatto ora che quel palazzo era divenuto la sua nuova dimora. 

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Capitolo 15
*** Il frutto del peccato e il serpente ***


Capitolo quattordici
Il frutto del peccato e il serpente
 
Una folata di vento s’insinuò tra i lunghi capelli sciolti di Lucrezia, dandole un senso di freschezza ben gradito. Si scostò una ciocca di capelli dal viso e diede una sbirciata all’orizzonte. Aveva camminato molto, si era allontanata dalla villa di proposito e se fosse dipeso da lei non sarebbe più tornata indietro. Ripensò a Piccarda. Come era stato possibile che la peste avesse colpito anche lei? Certo, la donna era anziana, una facile preda per un morbo spietato come quello. Come poteva tornare indietro e vivere nella stessa dimora con una donna infetta e morente? Nemmeno Contessina aveva acconsentito affinché lei e Piero andassero via. Carogna! Piero ovviamente aveva ceduto subito, sempre succube della madre e del padre e della nonna  e prima ancora del nonno, quando quest’ultimo era in vita…  Nessuno di loro pensava alla sicurezza del bambino che portava in grembo. Erano un branco di egoisti.
Sospirò e scosse il capo. Tanto valeva che si godesse il momento, prima di dover tornare indietro. Diede una sbirciata attorno a sé. La campagna era incantevole, ricca, pittoresca. In quella zona vi erano dei meli piantati qua e là, tra i loro rami si poteva trovare ancora qualche mela ritardataria che i contadini avevano lasciato a maturare. Il rosso dei frutti dava una nota di colore tra le foglie che andavano imbruttendosi per via dei forti raggi del sole estivo. Col viso alto, fingendo con se stessa di ammirare i frutti, in realtà stava pensando ad altro. Chissà se era partito o se era rimasto in città… Lei sapeva che da qualche parte, non molto lontano da lì, i Pazzi avevano una villa. Il pensiero di camminare fin là per andarla a cercare la sfiorò giocosamente, pur sapendo che sarebbe stato impossibile. E poi non sapeva se vi avrebbe trovato Andrea.
Ad un certo punto udì un rumore in lontananza, il boato di zoccoli di un cavallo al galoppo. Si voltò, intravide una piccola nuvola di polvere innalzarsi dal terreno. Si portò una mano di taglio sopra gli occhi per riparare la vista dal sole, ma lo stesso non riuscì a vedere chi stava cavalcando. Il timore le strinse lo stomaco, forse era stata davvero troppo incauta ad allontanarsi così tanto e da sola. Il cavallo si stava avvicinando, Lucrezia fece per andarsene, magari si sarebbe nascosta da qualche parte se fosse stato necessario. Non fece che pochi passi quando una voce gridò il suo nome. Si bloccò. Dopo aver preso respiro si voltò e, nel vedere di chi trattava, si portò entrambe le mani alla bocca per la sorpresa. Non era possibile!
Giusto il tempo di giungere a lei, di scendere dal cavallo e lasciarlo libero di pascolare e…Andrea le corse incontro con entusiasmo per prenderla tra le braccia.
Lucrezia si ritrovò gli occhi pieni di lacrime per la gioia: “Andrea! E’ un miracolo!”
“Non potevo restare lontano da voi.” Le disse, un attimo prima di rubarle le labbra con un bacio.
Lucrezia lasciò che alcune lacrime corressero libere, era troppo felice per controllarsi! Dopo il primo bacio lei gliene stampò altri su tutto il viso, si fermò solo per ammirare i suoi occhi: “Stavo pensando a voi e siete comparso. Non potevo nemmeno sperare di rivedervi così presto!”
Lui abbozzò un sorriso, poi scostò lo sguardo per guardarsi attorno con curiosità: “Questo luogo ha qualcosa di pittoresco. Non mi sorprende che appartenga ai Medici.”
Lei ridacchiò: “Sembrate invidioso, Messer Pazzi!”
“Forse!” Stette al gioco, per poi fare un passo verso un melo che era proprio lì vicino a loro. Si sollevò sulle punte degli stivali e allungò un braccio fino ad arrivare a prendere una mela da un ramo. Esaminò il frutto, la pelle rossa non presentava imperfezione alcuna e soppesandolo con la mano capì che doveva essere molto succoso.
“Giusto in tempo. Sarebbe un peccato far marcire un così bel frutto.” Quindi spostò lo sguardo su Lucrezia e le fece cenno di avvicinarsi. Lei obbedì.
“Un morso, mia diletta?” Le propose, avvicinandole il frutto alle labbra affinché lei potesse morderlo.
In effetti la polpa non era croccante, i denti si impressero nel frutto senza produrre alcun rumore. Il sapore era piacevolmente zuccherino. Sentì la presenza umida di una goccia di succo che dall’angolo della bocca le stava correndo giù verso il mento, ma quando fece per sollevare un dito e toglierla, Andrea la fermò.
“No.” Le sussurrò, per poi chinare il capo su di lei e andare ad impossessarsi di quella piccola goccia con un bacio.
“Mangiatene ancora.” Le disse poi e la osservò mentre addentava un altro pezzo di mela. Una seconda goccia imitò la prima, ma questa volta Andrea la lasciò scivolare lungo il collo di lei  e solo dopo andò a imprimervi le labbra per risucchiarla. Lucrezia ebbe un fremito di piacere.
Le mani di Andrea andarono a sfiorarle le spalle e, con tocco leggero, a denudarle. La stoffa fu spinta ancora più giù, lasciandole scoperti anche i seni nei quali lui poi affondò il viso.
“Andrea! Se ci vedesse qualcuno!” Disse ridendo, senza però avere alcuna intenzione di farlo smettere davvero. In fondo, la villa era lontana e nei paraggi non c’erano contadini.
Le sue labbra calde le donarono un piacere indescrivibile mentre s’impossessavano dei suoi seni pieni e morbidi, risucchiando senza pietà le mammelle rosee. Inevitabilmente sentì un calore umido tra le cosce, tanto forte era il piacere. D’istinto addentò ancora la mela, con voracità, per poi spremere il frutto nella mano e far ricadere il succo fra i seni. Andrea vi si dissetò senza lasciar fuggire nemmeno una goccia.
Come in risposta ad una tacita preghiera, si mise in ginocchio e le fece scivolare il vestito dalle gambe, denudandola del tutto. Stampò dei baci sul ventre che presentava appena una leggera rotondità, allora Lucrezia gli accarezzò i capelli, lo guardò in quel gesto di tenerezza rivolto al loro bambino. Qualche istante ancora e poi Andrea si rialzò in piedi. Iniziò a togliersi i vestiti di dosso e Lucrezia lo aiutò nell’intento, desiderosa di eliminare la stoffa e unirsi a lui. Poi Andrea le prese una mano e se la portò al basso ventre, in un’esplicita richiesta di dargli piacere nel punto più intimo. Lei lo afferrò con decisione e prese a muovere la mano velocemente. Andrea lasciò un gemito di piacere. All’improvviso le bloccò la mano e gliel’allontanò. L’afferrò per i fianchi e la issò su di sé, quindi lei gli cinse il bacino con le gambe. Rimase un momento senza fiato nel sentire la sua virilità entrare in lei.
Cominciò a prenderla con forza, ubriacandola di piacere, tanto che Lucrezia sentì il bisogno di abbandonare il capo all’indietro e gemere e ansimare e gridare senza un contegno. I capelli lunghi e sciolti andarono a sfiorare l’erba al ritmo del loro movimento. Persa nel piacere, aprì gli occhi giusto di uno spiraglio ed intravide qualcosa cadere dall’albero. Poi un’altra e un’altra ancora. Li aprì per vedere meglio, si rese conto che le mele stavano cadendo dall’albero e che, nel toccare il suolo, diventavano marce all’istante. Una cosa del tutto innaturale. Poi dal nulla arrivò uno strano rumore, qualcosa come…un sibilo. Mosse lo sguardo e scrutò tra i rami dell’albero, impaurita, ma non vide niente. Andrea continuava a possederla, non si era accorto di nulla. Lucrezia risollevò il capo, le braccia intrecciate al collo di lui su cui fece presa.
“Andrea, fermatevi. Credo ci sia un serpente sull’albero.”
Lui, il viso abbassato, continuò.
“Andrea, vi prego.” Lo richiamò lei e un attimo dopo sentì di nuovo quel sibilo, ma questa volta più vicino, come se provenisse da lui. Terrorizzata, gli afferrò i capelli e lo costrinse a sollevare il viso su di lei. Quel che vide fu terrificante, gli occhi di Andrea erano rossi e luminosi come braci.  
Lucrezia gridò e con un gesto disperato si dimenò per liberarsi dalla sua stretta, senza però riuscirci. Fu allora che il cielo divenne improvvisamente cupo sopra di loro, un tuono rimbombò nell’aria come uno scoppio.
Il frutto del peccato.”
Non era stato Andrea a parlare. Lei abbassò lo sguardo e si accorse che al posto del membro di lui vi era…un serpente. Dalla gola le uscì un grido agghiacciante. Anche il serpente aveva gli occhi rossi come braci e dalla bocca spalancata spuntavano due denti lunghi e affilati. Con orrore, il rettile scattò per insinuarsi dentro di lei.
Lucrezia si svegliò all’improvviso, la pelle madida di sudore sembrava ribollire, i capelli si erano incollati al viso e al collo e la camicia da notte le faceva da seconda pelle. Nella mente vedeva ancora il serpente dell’incubo appena avuto. Però qualcosa non andava…. Sentì un forte dolore al ventre. Gemette. Era come se potesse sentire i denti del serpente nella carne, forti e spietati mentre le strappavano il feto dal grembo. Udì la voce del marito, sembrava lontana e indistinta anche se lui era proprio lì accanto, nello stesso letto. Il dolore si fece insopportabile.
Disperata, gridò: “Il mio bambino.” Una mano stretta al ventre e le lacrime che scendevano copiose dai suoi occhi.










 
Era tutto finito.
Il dolore era cessato.
Nel suo ventre era rimasto solo il vuoto.

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Capitolo 16
*** Labbra da baciare ***


Capitolo quindici
Labbra da baciare
 
Tommaso finì di allacciarsi le braghe, la camicia era a posto e il farsetto per fortuna non era troppo sgualcito. Passando di fronte allo specchio, si diede un’occhiata per accertarsi di non essere troppo in disordine. Stava cercando di togliersi di dosso quell’aria da poveraccio con cui aveva convissuto liberamente per tutta la vita. Ora che lavorava per gli Albizzi, avrebbe dovuto imparare a comportarsi ammodo e a curarsi del proprio aspetto. Prese il laccio per legare i capelli, sperando che rimanessero fermi almeno un po’. Aimè, quei capelli sembravano aver fatto un patto col diavolo e nessuno al mondo sarebbe riuscito a pettinarli abbastanza da farli restare in ordine!
Una risatina alle sue spalle vanificò ogni sforzo  e lo fece sentire ridicolo. Si voltò, fingendo di essere offeso: “Ti diverte?”
Una voce sbarazzina rispose: “A me piacciono così! Ti danno un’aria un po’ ribelle.”
Tommaso regalò un sorriso alla ragazza che aveva parlato, una fanciulla graziosa dai lunghi capelli leggermente ondulati di colore castano con riflessi biondi, la pelle rosea e le labbra chiare. Gli occhi verde oliva erano sfumati di grigio e decorati da pagliuzze dorate, a renderli ancora più belli il particolare taglio che li faceva sembrare gli occhi di un gatto.  Si era avvolta il lenzuolo sopra i seni per coprire la propria nudità, lasciando così scoperte solo le spalle e le braccia pienotte, ma ugualmente la sua figura sembrava richiamarlo come il canto di una sirena.
“Sai cosa ti dico? Meglio così, allora! Visto che neanche le tue abili dita sono riuscite a domarli, questa notte!”
La ragazza lasciò una risatina: “Le mie abili dita? Potrei offendermi, sai!” Gli lanciò uno sguardo malizioso e arricciò le labbra in un modo che la rendeva deliziosa.
Tommaso, accogliendo la provocazione, si avvicinò al letto e si chinò su di lei per rubarle un bacio. E poi un altro e un altro ancora. Dopo una piacevole notte di passione, era una gran seccatura dover abbandonare un letto caldo per mettersi al lavoro.
“Questa sera terrai la porta aperta per me?” Le bisbigliò.
Lei aprì gli occhi e subito li sollevò, fingendo di pensarci, poi riportò lo sguardo su quello di lui e accennò uno scherzo: “Ormai vi siete impossessato del mio onore, Apprendista! Che senso avrebbe impedirvi l’accesso, ora?”
Tommaso ammiccò entusiasta: “Era quello che volevo sentire!”
Lei lo guardò di sbieco, quindi lo congedò con un’ammonitrice pacca sulla spalla: “Ora vai! Non voglio che qualcuno ti trovi qui. E poi io devo correre da Madonna Alessandra se non voglio farmi cacciare.”
Lui, seppur controvoglia, si risollevò e ancora una volta andò a rimirarsi allo specchio per verificare il proprio aspetto. Sentendosi abbastanza soddisfatto andò alla porta ma, prima di uscire, dedicò un ultimo sguardo alla sua bella: “A più tardi, Stella.[5]” Strizzò l’occhio maliziosamente e richiuse la porta.
Per prima cosa si assicurò che nel corridoio non vi fosse nessuno, altrimenti sarebbe stato tutto inutile. Farsi beccare nell’ala della servitù dove vi erano le stanze riservate alle donne, lo avrebbe messo subito nei guai e lui non aveva nessuna voglia di finire per strada.
Quatto quatto riuscì ad allontanarsi dalla zona ‘proibita’ e, quando finalmente imboccò un corridoio comune, lasciò andare un sospiro che aveva trattenuto per tutto il tempo.
“Ah eccoti qua. Si batte la fiacca, vedo.”
Tommaso masticò un’imprecazione per lo spavento, ma subito la mascherò con un colpo di tosse.
“Perdonatemi, Messere.” Si corresse subito: “ No, volevo dire… Ormanno.”
Ormanno scosse il capo e scacciò l’argomento con un gesto della mano: “Non importa. Questa giornata maledetta è iniziata male e finirà anche peggio.” E si avviò lungo il corridoio.
Tommaso gli andò dietro: “Cosa accade?”
“Accade che Cosimo de’ Medici è tornato a Firenze e ha riempito la Cattedrale di appestati, con la conseguenza che gli operai non vogliono mettervi piede per abbattere la cupola. E ora mio padre sta sfogando la sua frustrazione su di me.” E a quest’ultima frase diede un pungo all’aria.
Camminarono di buona lena fino a quando non imboccarono un corridoio di accesso all’ala privata degli Albizzi e finalmente Ormanno rallentò il passo, consentendo a Tommaso di affiancarlo.
“Posso fare qualcosa per voi? Sapete che sono a vostra disposizione.”
Ormanno aprì la porta delle proprie stanze ed entrò, seguito da lui. Rimase fermo, dandogli le spalle, prendendosi così il tempo per riflettere e solo dopo si voltò verso di lui: “Forse sì. Potresti aiutarmi a capire cosa diavolo sta succedendo.”
Ad un’occhiata interrogativa di Tommaso, gli si avvicinò e gli posò la mano sulla spalla in modo confidenziale: “La mia famiglia non ha nulla a che fare con questo, bada, però vogliamo capire che cosa nascondono i Medici. Tu…sai della morte di Giovanni, giusto?”
Tommaso annuì: “Sì. Ricordo che la notizia divise il popolo in due. Quelli che lo piangevano e quelli che maledivano la sua anima.”
“Ebbene, dal giorno del suo funerale accadono fatti strani. Alcuni nostri informatori dicono che Cosimo sia convinto che suo padre sia stato avvelenato. Il chirurgo è stato trovato morto dopo aver parlato con lui. E poi c’è quel maledetto cane sciolto che ficca il naso ovunque.”
“Di chi parlate?”
“Il leccapiedi di Cosimo. Un tipo losco che si aggira per la città come un’ombra. Si chiama Marco Bello.” Ridacchiò e fece una smorfia: “Nome curioso, visto il suo aspetto. Non ha un viso piacente, il suo sguardo è sempre guardingo e ha una massa di capelli ricci che ricorda un cespuglio incolto.”
Il volto di Tommaso impallidì nell’udire quella descrizione: “Io ho già visto quell’uomo. Lui…” Deglutì: “Lui è venuto alla bottega lo stesso giorno in cui è stato ucciso lo speziale.” Barcollò all’indietro, sfuggendo al tocco di Ormanno, fino a finire spalle al muro.
“Credi che sia stato lui ad ucciderlo? Noi sospettiamo che abbia ucciso il chirurgo, perciò…”
Ormanno s’interruppe quando gli occhi di Tommaso si spalancarono su di lui, turbati: “Me lo aveva detto. Lo speziale, mi aveva messo in guardia. Mi ha detto di tenermi lontano dai Medici perché sono portatori di morte.”
La scelta di quelle parole per Ormanno fu una conferma sufficiente. Fece qualche passo verso Tommaso e ancora una volta gli mise la mano sulla spalla e lo guardò dritto negli occhi: “Aiutami. Insieme possiamo stanare quei topi e consegnarli alla Giustizia.”
Lui esitò, ma solo per riflettere prima di esporre il proprio pensiero: “Andrò alla Cattedrale. Sarò i vostri occhi e le vostre orecchie. Di certo scoprirò qualcosa all’interno del covo del nemico.”
Ormanno scosse il capo: “Non sei malato, non ti lasceranno entrare. E men che meno se ti presenti col nostro stemma addosso.”
Tommaso sorrise divertito: “Non sono uno stolto! Non indosserò niente che mi colleghi alla vostra famiglia. E poi ho intenzione di offrire le mie abilità di guaritore. Vi ricordo che ero un apprendista speziale.”
L’idea era buona, Ormanno doveva ammetterlo. Nessuno sapeva che lui era al servizio degli Albizzi, nessuno poteva sospettare che fosse lì per ottenere informazioni. Prese respiro per dare il proprio consenso, ma si bloccò. Il suo sguardo ricadde sulle labbra di Tommaso, su quelle sensuali labbra rosse che continuavano a tormentarlo. Che cosa gli prendeva? Non riusciva a spiegare la sensazione che provava, il desiderio di impossessarsi anche solo per una volta di quelle piccole tentatrici,  baciarle con forza fino a farle pulsare e lasciarvi impresso un invisibile marchio. Si rese conto che Tommaso lo stava fissando, il suo sguardo era fermo, quasi languido. Si rese cosciente di avere la mano stretta sulla spalla di lui. Voleva fare un tentativo, voleva provare a…
Solo una volta.” Pensò tra sé.
Molto lentamente avvicinò il viso al suo, lasciò che i loro sguardi si perdessero l’uno nell’altro. A breve percepì il calore del suo respiro scontrarsi sul proprio viso. Si fermò. Sentì il tocco della mano di Tommaso posarsi sul fianco, forse un segno per farlo smettere. No, poteva sentire la pressione di quella mano spingerlo verso di lui. Possibile che Tommaso fosse…? Invece di darsi una risposta, abbassò lo sguardo sulle sue labbra socchiuse che sembravano chiamarlo al peccato. Chiuse gli occhi. Dischiuse le labbra e fece per accostarle alle sue. Erano così vicine che riusciva a sentirne il calore. E…retrocedette repentino per impedirsi di fare una sciocchezza.
Non aveva senso. Niente di tutto ciò aveva senso! Si portò le mani alle tempie, era come se avesse una bolla di aria nel cranio che lo stava facendo impazzire.
Tommaso lo stava guardando, le sopracciglia leggermente aggrottate in una tacita domanda.
Ormanno scosse il capo, si sentiva così confuso: “Perdonami. Non so quello che sto facendo.” E, come dimenticando di trovarsi nelle proprie stanze, uscì di gran fretta, lasciando Tommaso solo contro la parete.


[5]: Cameo dell’autrice! Ovviamente si tratta di una "versione fiction" di me, adeguata all'epoca e alla storia che sto scrivendo.

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Capitolo 17
*** Perdite ***


Capitolo sedici
Perdite
 
Preceduto da un servitore che gli aveva aperto la porta, Lorenzo entrò nello studio di Pazzi a testa alta, fingendo una sicurezza che in realtà non aveva. Non avrebbe mai creduto di doversi abbassare a tanto, ad entrare nella casa di un nemico, a chiedere denaro. Ma d’altra parte, con la peste che aveva colpito duramente le città e quindi intaccato l’economia, doveva fare qualcosa per scongiurare il fallimento della banca dei Medici. E con Cosimo rientrato a Firenze per salvare dalla distruzione quella dannata Cupola del Brunelleschi, lui si era ritrovato con il mondo sulle spalle. Che Contessina si atteggiasse pure a Gran Signora, che facesse pure sfoggio del suo ghigno contrariato, lui aveva deciso di vendere i lanifici di famiglia e nessuno lo avrebbe fermato.
Ad attenderlo, un sorridente Pazzi che, non appena lo vide, si alzò dalla sedia per accoglierlo: “Lorenzo de’ Medici. Ammetto di essere alquanto sbalordito.”
“Dalla mia presenza qui o dall’offerta che vi ho fatto?” Chiese lui, puntandogli contro uno sguardo glaciale. Anche se fosse andato lì vestito di stracci e a chiedere la carità avrebbe mantenuto lo stesso atteggiamento. Niente l’avrebbe indotto a fingere di non essere disgustato alla sola vista di un Pazzi.
Andrea sogghignò e lasciò correre, con un cenno della mano lo invitò ad accomodarsi.
Lorenzo prese posto sulla sedia che era di fronte al tavolo, accavallò le gambe e s’impose di mantenere assoluta serietà professionale.
Le mani intrecciate sul ripiano, Pazzi parlò per primo: “Dunque, il vostro corriere è giusto qui stamane di buonora per consegnarmi il vostro messaggio. Sulle prime non riuscivo a crederci, dico davvero. Sapete quanto me che sia io che il mio defunto padre abbiamo avanzato molte offerte alla vostra famiglia per l’acquisto di quei lanifici. E voi non ne avete mai accettata alcuna.”
“Le situazioni cambiano, Pazzi. Ma, se non vi dispiace, vorrei concludere l’affare.” Senza farsi vedere, strinse i pugni. Davvero aveva creduto che quel verme firmasse senza prima tentare di fargli saltare i nervi? Il solo averlo pensato gli diede prova della propria ingenuità.
Andrea accennò un sorriso compiaciuto: “Come desiderate! Allora passiamo subito alla firma.”
Lorenzo si affrettò a prendere dalla sacca al proprio fianco la pergamena che poi aprì e distese sopra al tavolo: “Tutto come scritto sul mio messaggio.”
Andrea la lesse comunque con attenzione, restando fedele al proprio ruolo. Se vi fosse stato un inganno, non gli sarebbe sfuggito. Nel frattempo Lorenzo tradì la propria agitazione martellando una gamba del tavolo con la punta dello stivale. Non vedeva l’ora di andarsene.
Senza rendersene conto, tirò un sospiro di sollievo quando vide Pazzi prendere il bastoncino di ceralacca e avvicinarlo alla fiamma della candela per farlo sciogliere. Osservò con attenzione quasi maniacale ogni singolo movimento del nemico, anche se di fatto stava solamente preparando il necessario per imprimere il sigillo dei Pazzi sul documento. Infine Andrea intinse la penna e vi appostò la propria firma. L’incontro era concluso.
Lorenzo si rialzò in piedi e porse la mano ancora prima che Andrea avesse finito di arrotolare la pergamena. Avesse potuto schiacciarlo sotto gli stivali come una vipera, lo avrebbe fatto volentieri. Quella era la prima e ultima volta che faceva affari con un Pazzi.
Di certo non ignaro dell’antipatia che Lorenzo provava per lui, Andrea sorrise tra sé e, dopo essersi rialzato in piedi, gli mise subito la pergamena nella mano. Ora che entrambi avevano ottenuto ciò che volevano, non c’era bisogno di gesti formali come una stretta di mano che sarebbe stata alquanto sgradita.
“Spero siate soddisfatto, Pazzi.” Lo provocò Lorenzo, incapace di resistere ora che era prossimo ad intascare il denaro che gli serviva.
“Non ve lo nascondo. State pur certo che mi terrò quei lanifici ben stretti, nel caso voi o vostro fratello doveste cambiare idea.” Puntualizzò Andrea, senza peli sulla lingua.
Amareggiato, Lorenzo si congedò: “Ora devo andare. La mia famiglia ha subìto dei lutti e dovremmo stare insieme per condividere il dolore.” Chinò il capo per salutare e fece per andarsene, ma la voce di Pazzi lo fermò: “Lutti? Nonostante l’odio tra le nostre famiglie, vi ricordo che sono anch’io un umile servo di Dio. Davvero volete andarvene senza avermi concesso di porgervi le mie condoglianze?”
Lorenzo, suo malgrado, ridacchiò amaramente, ma quando si voltò verso di lui era già tornato serio: “Mia madre è venuta a mancare durante la notte. Era stata colpita dalla peste.”
“Ne sono addolorato, Messer Medici.” Disse Andrea, chinando il capo con rispetto.
“Ma prima ancora…” Lorenzo si fermò, non sapeva nemmeno lui perché glielo stesse dicendo. Forse aveva solo bisogno di sfogarsi, di parlare, anche se lo stava facendo con un avversario politico che di regola avrebbe voluto vedere morto e con la testa infilzata sulla punta di una lancia. Si morse un labbro e riprese: “Che io sia dannato se mai capirò il disegno di un Dio che fa soffrire anche gli innocenti.” Si passò una mano tra i folti capelli scuri, nervosamente, quindi guardò Pazzi negli occhi: “La giovane moglie di mio nipote si è sentita male e ha perduto il bambino.” Terminò, quasi ringhiando.  
La notizia prese Andrea alla sprovvista. In principio fu solo una sensazione di gelo che lo prese prima alla testa  per poi espandersi in tutto il corpo, ma poi si sentì mancare davvero e dovette poggiare le mani sul ripiano del tavolo per sostenersi. Dio era dunque così spietato nel prendersi una vita che non aveva ancora visto la luce? Ma non poteva fare nulla, in quel momento. Soprattutto non poteva dar mostra del proprio turbamento a Lorenzo. Si fece forza, prese respiro e abbozzò una frase di cortesia: “Vi prego di accettare le mie più sentite condoglianze per le perdite che avete subito. Vostra madre Piccarda era una donna dotata di grande intelligenza. E Lucrezia… L-Lucrezia è….” Pronunciare quel nome gli spezzò la voce, dovette deglutire: “E’ giovane, lo supererà presto. Sono certo che avrà altri figli.”
Sarebbe stato impossibile non notare il suo stato, era evidente che la notizia aveva causato in lui un profondo turbamento, però Lorenzo non era certo nelle condizioni di preoccuparsene o farsi domande. Lo stavano aspettando a casa.
“Vi ringrazio, Pazzi. Riferirò ogni parola.” E questa volta imboccò davvero l’uscita.
Credendo di essere rimasto solo, Andrea cedette al dolore. Si piegò in due, la fronte andò a toccare il tavolo mentre dalla sua gola si levava un singhiozzo. Suo figlio... Un figlio che non avrebbe mai conosciuto.  Avrebbe voluto strapparsi il cuore dal petto.
“Eravate voi il padre del bambino.” Non era una domanda, ma un’affermazione.
Andrea si risollevò di scatto e vide sua moglie sulla soglia della porta, i lunghi capelli neri ad incorniciarle il viso. Anche se il suo sguardo era addolorato e il suo tono non era stato affatto accusatore, lui ebbe una reazione negativa.
“Non vi riguarda, Caterina.” Disse tra i denti. Si passò una mano sugli occhi per asciugare le lacrime, quindi andò di gran passo fino alla finestra dello studio col solo pretesto di dare le spalle a lei.
Caterina prese coraggio, fece qualche passo all’interno dello studio: “Ho sentito tutto da dietro la porta. Non avevo idea di come spiegare il vostro strano tono di voce nel porgere le condoglianze a Lorenzo, fino a quando non vi ho veduto. La stessa reazione di quando abbiamo perso il nostro Guglielmo.[6]
Andrea si voltò di scatto, gli occhi rossi e spiritati: “Non nominatelo! Non ve lo permetto!”
Caterina si portò una mano al cuore, era spaventata ma ugualmente non riusciva a tacere: “E invece lo farò. Non posso vedervi soffrire così. Non di nuovo. Non vi porterò rancore per esservi trovato un’amante, voglio solo lenire il dolore per la vostra perdita.”
“A che pro, Caterina? Sperate di rientrare nelle mie grazie? Credete forse che tornerò ad amarvi?” Scosse il capo con decisione: “Non vi perdonerò mai per ciò che avete fatto!”
Lei scoppiò in un pianto disperato, la sua povera anima tormentata non sapeva più a chi rivolgersi per trovare pace: “Io vi imploro di farlo! Vi darò tutto il mio amore, la mia fedeltà, la mia stessa anima in cambio del vostro perdono. Ho sofferto tanto quanto voi, Andrea. Lo sapete.”
Andrea si premette la mano sulle labbra per impedire ad un singhiozzo di pianto di emergere. Stava troppo male, non era in grado di affrontare quell’argomento doloroso. Eppure, nella mente già turbata, sentì l’eco del passato che non voleva abbandonarlo. Il grido disperato di Caterina proveniente dalla camera da letto, il pianto spezzato della governate fuori dalla stanza, la voce incerta del dottore che gli diceva: “Sono molto addolorato, Messere.” Rivide se stesso cedere sulle proprie gambe, crollare in ginocchio. Lo sguardo allungarsi in direzione della stanza, percorrendo il pavimento, e giungere infine alla culla di legno finemente intagliato da cui scendeva un lenzuolino bianco ricamato.
“Noooo!” Gridò, la testa tra le mani, per poi rendersi conto che si era solo perso all’interno di un ricordo e nient’altro.
Caterina, ancora in lacrime, era di fronte a lui. La sua mano sollevata e incerta aveva voglia di sfiorarlo e allo stesso tempo lo temeva. Allo stesso modo, le labbra tremanti sembravano ricercare le parole giuste da dire.
Mentalmente esausto, Andrea si aprì la strada spingendo da parte la moglie come fosse stata una sedia fuori posto. Quindi uscì dallo studio, lasciandola lì sola a torturarsi col dolore di una colpa che nemmeno il tempo di due vite avrebbe potuto espiare.


 [6]: Guglielmo, probabilmente morto infante, era un altro figlio di Andrea Pazzi.

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Capitolo 18
*** Confessioni ***


Capitolo diciassette
Confessioni
 
Non era stato difficile entrare nella Cattedrale, esattamente come aveva detto. Era bastato presentarsi come apprendista del defunto speziale e subito le suore lo avevano accolto con trasporto, ringraziando il cielo per aver mandato loro un giovane di buon cuore e con le giuste abilità per aiutare il prossimo. Aveva medicato con impegno le piaghe dei malati peggiori, senza alcun timore e con grande spirito professionale. Con l’aiuto di una giovane suora che probabilmente aveva appena preso il velo, aveva preparato un buon numero di unguenti da spalmare sulle ferite doloranti di uomini e donne, donando loro un po’ di sollievo. I piacevoli odori delle erbe e degli intrugli avevano anche contribuito a coprire il puzzo del sangue e delle infezioni, rendendo più piacevole la permanenza di tutti. In ultimo si era dedicato ad un bambino appena portato lì, il cui padre sedeva al suo fianco con aria triste.
Esaminò con cura i piccoli bubboni sul viso del bimbo. Per fortuna non erano gravi e, non avendo altri segni del morbo sul corpo, le speranze di guarigione erano molto alte.
“Vieri è il mio unico figlio, è tutto ciò che mi resta.” La voce del padre era spezzata dalla preoccupazione, i suoi occhi erano gonfi in seguito ad una lunga veglia.
Tommaso non volle tenerlo sulle spine, quell’uomo aveva già sofferto abbastanza. Gli fece un cenno positivo col capo: “Non abbiate timore, si riprenderà. Ora gli do un intruglio da bere per far scendere la febbre. Una delle suore starà qui con voi nel caso ci fossero complicazioni, ma sono certo che non ve ne saranno alcune.”
L’uomo, gli occhi improvvisamente illuminati di speranza per quella notizia inaspettata, gli prese le mani tra le proprie e lo ringraziò con trasporto: “Siate benedetto! Dopo aver temuto il peggio, non so davvero come ringraziarvi!”
Tommaso accennò un sorriso: “Mi ringrazierete quando vostro figlio starà bene. Ora perdonatemi, ho altri malati da…” Lasciò la frase in sospeso e fece un cenno col capo per indicare i numerosi corpi tutti attorno.  L’uomo subito gli lasciò le mani, un leggero rossore sul viso per l’imbarazzo.
Tommaso si rimise in piedi, la maggior parte dei malati era stata sistemata sul pavimento in mancanza di ogni cosa, però vedere con quanta cura le suore si occupavano di ogni singola persona era per lui motivo di ammirazione. E pensare che ad organizzare tutto era stato un infido Medici…
Il suo sguardo, vagando per la Cattedrale, arrivò per l’appunto a posarsi su Cosimo che era affiancato dal suo fedele cane, Marco Bello. Lanciò loro un’occhiata piena di risentimento. Se davvero erano loro la causa della morte dello speziale, avrebbero pagato caro.
Prese a muoversi tra le fila di malati, un’occhiata veloce a quelli che avevano già ricevuto le sue attenzioni e una domanda alle suore che vegliavano su quelli che stavano peggio. Era orgoglioso di se stesso per ciò che stava facendo. A soli sedici anni era già era in grado di salvare vite umane. Forse, chissà, un giorno sarebbe potuto diventare perfino un medico oltre che uno speziale.  
Di tanto in tanto passava accanto a Cosimo, giusto per origliare le sue conversazioni nella speranza di sentire qualcosa di utile. Il fatto di occuparsi dei malati di certo non gli aveva fatto dimenticare il vero motivo per cui si trovava lì.
Dopo ore di lavoro, si adagiò in un angolo per prendere una pausa e bere del vino da una bisaccia che la giovane suora, con cui aveva collaborato, gli aveva gentilmente dato assieme ad un ampio sorriso, che lui ricambiò. Era più forte di lui, era sempre stato sensibile alle attenzioni delle fanciulle e delle belle donne. Non aveva ancora deglutito il primo sorso di vino quando vide una cosa interessante. Marco era chino a parlare con un uomo che era stato portato all’interno con la barella. Il che significava che il morbo aveva già fatto troppi danni al suo corpo. Aguzzò la vista per vedere la scena, anche se non poteva sentire, quel che i suoi occhi videro fu sufficiente. I loro sguardi non era affatto amichevoli e poi gli parve di vedere Marco premere qualcosa contro la gola dell’uomo. Non era certo una visita di cortesia, quella! Senza pensarci due volte, abbandonò la bisaccia sul pavimento e si diresse verso i due.
“Qualche problema, Messeri?”
Marco, in ginocchio sul pavimento, sollevò il capo verso chi gli aveva rivolto la parola e si affrettò ad alzarsi in piedi: “Stavo solo augurando a quest’uomo una pronta guarigione.” Poi però il suo sguardo cambiò, il timbro di voce divenne sospettoso: “Voi siete il giovane che sta curando i malati.”
A Tommaso non piacque il modo in cui aveva detto quella frase, come se stesse alludendo a qualcosa. Si comportò da superiore, non voleva cedere alla provocazione: “Infatti. Ora, se permettete, dovrei occuparmi di questo pover’uomo.”
Marco sfoggiò un sorriso beffardo: “Ma certo! Non vi disturberò oltre, ragazzo.”
Questa volta aveva davvero marcato la parola per schernirlo. Tommaso non riuscì a nascondere il disprezzo che provava per lui.
“Lo conoscete anche voi, eh?” Disse l’uomo a terra, con tono scherzoso nonostante la sofferenza.
Tommaso s’inginocchiò accanto a lui e cominciò ad esaminare le lacerazioni sulla sua pelle: “Non proprio. So solo che non è una compagnia da ricercare.”
Gli slacciò sia la giacca che la camicia per esaminare il petto. Ormai non vi era quasi più un briciolo di pelle sana. Sospirò, per lui non c’era nulla da fare.
“So di essere giunto alla fine, ragazzo. Potete dirlo chiaramente.”
Tommaso lo guardò. Fu scorgere l’accenno di un sorriso sulle sue labbra a dargli il coraggio di parlare: “Mi dispiace. Posso solo alleviare un po’ il vostro dolore, ma…nient’altro.”
L’uomo si voltò un momento per tossire, quindi tornò a guardarlo: “Andrà bene.”
Tommaso fece segno ad una delle suore che aveva in mano una ciotola e questa venne subito. Prese la ciotola che lei gli porse e la ringraziò, quindi intinse le dita all’interno per impiastricciarle di una pomata verde scuro. Con delicatezza prese a massaggiare il petto dell’uomo, dandogli immediato sollievo.
“Che Dio vi benedica, ragazzo.”
“Non è di benedizioni che ho bisogno, ora. Ma di confessioni.” Tommaso attese un istante e poi proseguì: “Ditemi che cosa voleva da voi quell’individuo e allora sarò io a benedire voi.”
L’uomo gli lanciò un’occhiata maliziosa, ma poi abbandonò ogni pensiero: “E sia. Non voglio morire nella menzogna.” Si rilassò sotto il tocco delle sue mani e agli effetti benevoli della pomata, quindi parlò: “Io sono, anzi, ero una Guardia al servizio dell’ormai defunto Lupo Corona. Pochi giorni fa quell’uomo venne a Palazzo Corona per vedere il mio Signore, ma non so per quale motivo. Poco fa, invece, mi ha minacciato con un pugnale alla gola.”
“Perché? Cosa voleva?”
“Informazioni su quel pugnale. Io gli ho detto quello che sapevo. Apparteneva al mio Signore, ma poi l’aveva perduto a carte contro Lorenzo de’ Medici.”
Tommaso interruppe la medicazione, sorpreso per ciò che aveva udito. E così anche un altro Medici era coinvolto in quella rete di morte? E quale ruolo ricopriva? E quel pugnale…? Ricordava bene la notte in cui aveva trovato il corpo dello speziale trafitto da un pugnale che poi era sparito.
Finalmente aveva ottenuto delle informazioni, ma non era certo che Ormanno sarebbe stato soddisfatto di aggiungere un altro mistero a quelli che già avevano tra le mani.
*
La croce di pietra s’innalzava dal terreno, dove fili d’erba lasciati appositamente più lunghi le facevano da decorazione naturale. La pietra era di un grigio delicato, di quello che richiede molte cure per non imbruttirsi, e al centro vi erano scolpite le lettere e i numeri che ogni volta gli spezzavano il cuore. Lo sguardo fisso sul nome Guglielmo, le mani giunte in grembo, se all’apparenza la sua figura mostrava tranquillità, in verità il suo spirito stava gridando e dagli occhi spenti talvolta emergeva un luccichio.
Rimase immobile anche quando un paio di braccia gentili lo avvolsero da dietro, in un abbraccio quasi timido e allo stesso tempo bisognoso di dare e ricevere affetto. Percepì il calore del respiro contro il collo e subito dopo delle labbra tiepide gli sfiorarono la pelle con un bacio.
“Vi amo.” Bisbigliò Caterina.
Andrea si sforzò di deglutire il nodo alla gola per riuscire a rispondere: “Non è sufficiente.” Ora le sue mani si stavano stringendo l’una all’altra, quasi tremanti.
Gli occhi di Caterina si riempirono di lacrime, la sua voce tremò: “Se potessi tornare indietro, non farei più lo stesso errore.”
La voce di Andrea si fece più dura: “Avreste dovuto pensarci prima di tradirmi. Portavate mio figlio in grembo quando vi siete concessa a quel…” Strinse le labbra per non diventare volgare, non voleva offendere un morto.  
Caterina strinse l’abbraccio ma, più che tenere stretto a sé il marito, sembrava che si stesse sostenendo a  lui per non crollare. Le lacrime le solcarono le guance: “Non sapevo che Claudio fosse malato. Se l’avessi saputo, mai al mondo avrei…” Spezzò la frase e ne cominciò un’altra: “Quando mio padre mi promise a voi io ero già innamorata di lui. Ma poi divenni vostra moglie ed imparai ad amarvi. Ricordate? Eravamo così felici quando nacquero Antonio e Jacopo.”
“E allora perché lo avete fatto? Perché tradirmi dopo avermi dato due figli se davvero eravate così felice?” Aveva il volto paonazzo, tale era lo sforzo di non perdere il controllo.
“E’ stato un momento di debolezza. Quando mio padre giunse qui in visita, con lui al suo seguito, rivendendolo ho provato…qualcosa. Forse nostalgia del passato. Non lo so…”
Andrea scosse il capo, deglutì un altro nodo alla gola: “Il vostro maledetto errore è costato la vita a nostro figlio. Se quell’uomo non vi avesse infettata, non sarebbe stato necessario far nascere Guglielmo prematuramente per tentare di salvare la vita ad entrambi.” Ed ecco che i ricordi lo assalirono, crudeli, spietati, assetati del suo dolore, oscuri demoni che lo avrebbero divorato vivo per tutta la vita. Sentendosi soffocare, si liberò della stretta della moglie in malomodo. Si voltò verso di lei, la guardò, negli occhi tutto il disprezzo che nutriva per lei: “Era più piccolo della mia mano. Quando… il dottore me lo porse affinché io lo vedessi.” Sollevò una mano per dare maggiore enfasi alle parole: “Più piccolo di questa mia mano, lo capite? Come avrebbe potuto sopravvivere? E’ nato troppo presto. Lui non…” Un singhiozzo gli spezzò la voce, le lacrime esplosero dai suoi occhi. Non ce la faceva più. Gridò: “Cinque giorni! E’ vissuto solamente cinque giorni.”
Caterina era stravolta quanto lui, faticò a parlare tra le lacrime: “Lo so. Io non…”
Lui la interruppe afferrandola per un braccio, minaccioso: “Mentre voi guarivate dalla febbre, lui stava morendo. Lo sa solo Dio quanto l’ho pregato di prendersi la vostra vita in cambio di quella di mio figlio. Di far vivere lui e di prendersi la vostra anima impura.”
Le stava facendo male, Caterina gemette sotto la sua stretta ferrea: “Andrea, vi prego…”
Lui lasciò la presa all’improvviso, come se si fosse scottato. Prese un respiro profondo e parlò scandendo le parole il più possibile: “Voi dite di amarmi. Sappiate che sarà la vostra croce, perché io non vi amerò mai più.”
“Vi ho dato sei figli! Vi ho dato tutto di me! Ho fatto qualunque cosa per riconquistarvi!” La voce rabbiosa, nel tentativo di difendere quel briciolo di dignità che le era rimasto. Ma invano.
Andrea liquidò la faccenda con un gesto della mano: “Se mi foste rimasta fedele ora ne avremmo sette. O forse anche di più, perché vi avrei tenuta a Firenze con me invece di segregarvi qui in campagna.” Buttò fuori un sospiro: “Vado a salutare i bambini. Voglio andarmene da qui.” Fece per andarsene, ma lei allungò le mani su di lui per trattenerlo. Un disperato tentativo: “C’e ancora la peste a Firenze. Rimanete qualche altro giorno.”
Lui fece una smorfia: “Per darvi modo di sedurmi così che possiate placare i vostri sensi di colpa con un’altra gravidanza?” Quindi marcò ulteriormente il tono sarcastico: “Albiera ormai cammina, ne prendo atto. E voi non volete tardare a figliare ancora come una scrofa.”
Uno schiaffo gli schioccò sulla guancia. Se l’era meritato.
Caterina ora lo guardava con l’odio negli occhi: “Non vi permetto. Se voglio giacere con voi è solo perché vi amo.” Poi ridacchiò, voleva schernirlo e prendersi una rivincita: “Nonostante mi sputiate addosso il vostro disprezzo e il vostro odio, non mi avete mai cacciata dal vostro letto. Quindi ne deduco che le mie attenzioni non vi siano sgradite!” Lo sfidò apertamente, sentendo un’incredibile forza fluire dentro di lei, correrle nelle vene come fuoco liquido. E se lui avesse risposto malamente lo avrebbe colpito ancora, al diavolo le buone maniere!
Innegabilmente lo schiaffo destò Andrea dal torpore causato prima dal dolore spirituale e poi dalla rabbia. I suoi occhi sprizzavano odio puro, il respiro gli gonfiava il petto. Sembrava tentato di ucciderla. Invece, prese Caterina e la gettò sull’erba, per poi adagiarsi su di lei. Ignorando i suoi tentativi di ribellione, riuscì ad intrappolarle le mani sopra la testa, tenendola stretta per i polsi, quindi con la mano libera andò a sollevarle la gonna dell’abito. Che fosse ancora furioso per la discussione e per lo schiaffo ricevuto, era evidente, però prese sua moglie con passione, con forza, come piaceva a lei. Se non fossero stati all’aperto, sul retro della tenuta, Caterina si sarebbe volentieri lasciata andare per manifestare il piacere attraverso grida sensuali, sapendo che lui le apprezzava. Ma, vista la situazione, si limitò a gemere tra le sue braccia, a stringerlo tra le cosce con forza sperando che il suo ardore non finisse mai. Amava suo marito e, fin dalla prima notte di nozze, la loro intesa sessuale era stata perfetta e colma di passione. Sì, che a parole dicesse quel che voleva, che la ferisse pure. Poco importava. Era in quei momenti di passione cieca che dimostrava davvero cosa provava per lei. 

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Capitolo 19
*** Fiducia infranta ***


Capitolo diciotto
Fiducia infranta
 
Lucrezia sbuffò, infrangendo il silenzio nella stanza. Piero dormiva sereno accanto a lei, per quanto gli fosse possibile esserlo dopo quanto accaduto. Per quella famiglia non c’era mai un attimo di pace. Il lutto per Piccarda, la sofferenza per l’aborto e poi tornare a Firenze a cessata pestilenza solo per vedere Cosimo ingiustamente arrestato per un complotto ordito da Albizzi.
Non era ancora l’alba, ma d'altronde le giornate si stavano accorciando con l’arrivo dell’autunno. In ogni caso era stanca di stare a letto, non aveva fatto altro per giorni per rimettersi in forze. Si vestì da sola, senza far rumore, e si diresse alla sala da pranzo per vedere se per caso vi fosse ancora il vassoio con la frutta avanzato dalla cena della sera prima. Con sua gran sorpresa, trovò Contessina a fare colazione.
La donna sollevò lo sguardo di smeraldo su di lei, sorpresa a sua volta: “Lucrezia! Non sei mai stata così mattiniera. Qualcosa non va?”
Lei prese posto a tavola, aveva l’aria affranta di  un gattino abbandonato: “Tutto, in realtà. Accadono cose brutte senza sosta.” Scosse tristemente il capo: “Mi sento così impotente.”
“Lucrezia…” Contessina le accennò un sorriso di speranza: “La vita a volte è difficile. E’ così per tutti. Con te è stata molto severa di recente, ma sono certa che saprà ricompensare la tua forza.”
D’istinto Lucrezia si portò una mano al ventre, sentiva ancora il bisogno di proteggere qualcuno che non c’era più. Si morse un labbro per non scoppiare a piangere, quindi disse: “Non è solo per questo. Io vorrei sentirmi utile. Ora che Cosimo è alla Torre vedo tutti voi impegnati a pensare ad un modo per aiutarlo e poi vedo me, l’unica che non sta facendo nulla.”
Contessina ripose il coltello con il quale aveva sbucciato e tagliato un frutto, lo sguardo concentrato su una risposta da dare. Evidentemente le parole giuste non arrivarono. Si alzò dalla sedia e camminò attorno al tavolo per raggiungere Lucrezia: “Il mio consiglio è di riposare e conservare le forze per confortare Piero. E’ l’unica cosa che puoi fare adesso.” Le sfiorò la spalla in un gesto affettuoso e fece per uscire dalla sala.
“Dove stai andando a quest’ora, se posso chiedere?”
“Da Cosimo. Il processo ha inizio questa mattina. Voglio vederlo prima che cominci.” Rispose lei mentre usciva.
Rimasta sola, Lucrezia scelse una mela gialla dal vassoio e l’addentò con poca voglia. Mangiare e riposare erano diventate davvero le sue uniche aspirazioni? Aveva bisogno di dedicarsi a qualcosa o sarebbe impazzita. Deglutì il pezzo di mela e sollevò la mano per addentarne un altro, ma si fermò.
“Il processo… E’ Albizzi la causa di tutto.” Abbassò la mano e posò la mela sul tavolo, la sua mente che correva in un ragionamento: “Lui e Andrea sono alleati, perciò…” Sollevò lo sguardo, la luce arancio dell’alba si stava spargendo nella stanza come se vi fosse un invisibile pennello che danzava leggiadro per colorarla. Nei suoi occhi parve accendersi una luce: “Ho un’idea!” Si alzò velocemente dalla sedia per andare a prendere il mantello.
*
“Madonna Medici! Perdonate la mia sorpresa ma non mi sarei mai aspettata di vedervi ad un orario così insolito!” L’accolse la governante, sgranando gli occhi come per accertarsi di non avere le allucinazioni.
“Lo so, dovete perdonarmi, ma ho urgente bisogno di vedere Messer Pazzi.” Si tolse il mantello e lo porse alla donnina, quindi s’incamminò all’interno del palazzo.
La governate, presa alla sprovvista, si affrettò per starle dietro: “Aspettate, prima devo annunciarvi.”
“Non è necessario, davvero.”
“Ma…” Dovette prendere fiato, tra l’età e le gambe corte era difficile seguire una giovane in piene forze e dall’altezza statuaria: “Il mio Signore ha appena fatto colazione e ora è nelle sue stanze per vestirsi.”
Lucrezia, continuando a camminare, voltò il capo e sfoggiò un’espressione compiaciuta: “Perfetto! Conosco la strada, vi ringrazio.” Imboccò un corridoio e richiuse la porta dietro di sé, in un chiaro invito alla donna di non proseguire oltre. Si sentiva sicura di sé, avrebbe affrontato l’argomento con la massima serietà, spinta dalla convinzione che lui avrebbe sistemato ogni cosa. Aprì la porta della sua camera da letto e, come previsto, lo trovò intento a vestirsi.
Andrea, con addosso braghe e camicia e con in mano la giacca, rimase a bocca aperta nel ritrovarsi lei di fronte.
Lucrezia, dopo un attimo di esitazione, andò verso di lui: “Andrea, sono qui per…”
Non terminò la frase. Andrea aveva gettato la giacca da parte per avere le mani libere con cui avvolgerla in un abbraccio caldo e pieno di sentimento.
“Lucrezia, mia diletta.”
“A…Andrea…” All’improvviso la voce le mancò. Essere fra le sue braccia era una cosa che aveva sognato giorno e notte per tutto il tempo in cui erano stati lontani e adesso poter sentire il suo calore e il suo profumo le fece dimenticare ogni altra cosa.
Andrea bisbigliò: “Se sapeste quanto ho sofferto. Per voi, per nostro figlio.”
E con quelle parole ogni forza l’abbandonò. Sentire le sue labbra parlare del loro povero bambino era una tortura indescrivibile. Le lacrime cominciarono a solcarle le guance, non le fermò. Aveva bisogno di piangere. Si abbandonò tra le sue braccia e pianse calde lacrime, una pioggia a catinelle che andò ad inzuppare la camicia di lui.
Andrea la tenne stretta per tutto il tempo.
Quando il pianto si calmò e il respiro tornò normale, Lucrezia scostò il viso per ricercare lo sguardo dell’uomo che amava. Gli occhi erano leggermente arrossati, aveva pianto anche lui.
“Andrea, sono qui perché ho bisogno d…”
Ancora una volta non riuscì a finire la frase perché lui le occupò le labbra con un bacio. Prima uno, poi un altro… Era bisognosa dei suoi baci come una monaca delle preghiere. E poi sentire le sue labbra scendere lungo il collo, il calore umido della sua saliva, il solletico causato dalla sua lingua. Quando la sua mano le afferrò le natiche e fece pressione per far aderire il corpo al suo, fu davvero tentata di lasciarsi andare, di strapparsi l’abito con le proprie mani e farsi prendere lì in piedi come una bestia. Gemette desiderosa, la mano tra i suoi capelli in un gesto di consenso, ma ugualmente si obbligò a fare un tentativo per fermarlo: “Andrea… Non abbiamo tempo.”
Continuando ad assaporare la delicata pelle dell’incavo della spalla, Andrea scostò di volta in volta le labbra per rispondere: “ Ne abbiamo…abbastanza.” L’afferrò per i fianchi e fece per sollevarla, ma questa volta Lucrezia lo fermò davvero, afferrandogli le mani. Andrea sollevò il viso sul suo e vide un’improvvisa serietà nella sua espressione.
“Ho bisogno del vostro aiuto, è una cosa molto importante.”
“Parlate, dunque. Farei qualunque cosa per voi.” Si mise a disposizione, con la stessa serietà.
“Dovete impedire ad Albizzi di continuare questa follia contro Cosimo.”
Andrea, deluso dalla richiesta, scostò lo sguardo e sospirò: “Qualunque tranne questa.”
“Andrea, vi prego. Sapete che Albizzi non si fermerà fino a quando non avrà ottenuto la testa di mio suocero.”
“E cosa vi fa pensare che io non voglia lo stesso?”
All’occhiataccia di lei, tolse le mani con cui le stava ancora avvolgendo i fianchi e si voltò.
“Non arrivereste a tanto.” Sottolineò Lucrezia.
Lui sospirò di nuovo: “Non potete capire. Si tratta di politica.”
“Se non volete farlo per lui, allora fatelo per me!” La voce alterata che indusse Andrea a voltarsi verso di lei.
“Questo non ha niente a che vedere con voi, Lucrezia.” Gli occhi spalancati.
“Il vostro amore per me è così misero?” Chiese lei, stizzita.
Andrea esitò. Anche se di fatto non le aveva mai detto di amarla, tutto ciò che vi era stato tra loro era una dichiarazione sufficiente. Era nel torto. Sentì un gusto amaro in bocca: “Dannato Medici. Anche dalla prigione riesce a danneggiarmi, facendomi litigare con voi.”
Lucrezia posò una mano sulla sua spalla, ora il suo sguardo era più dolce: “Aiutatelo. E avrete tutta la mia devozione.”
Quegli occhi avevano il potere di incantarlo, erano un’oasi dove avrebbe voluto vivere per l’eternità. Ma non in quel momento.
“Mi dispiace, Lucrezia. I miei sentimenti per voi sono forti e sinceri ma, come vi ho detto, questa faccenda non ha nulla a che vedere con voi.”
Lucrezia ritrasse la mano, il suo sguardo tremò. Aveva quasi voglia di schiaffeggiarlo e dirgli che lo odiava, ma sarebbe stata una dura menzogna. Si morse un labbro, non sapeva cosa dire.
“Perdonatemi se potete.” Accennò lui con un filo di voce.
Lucrezia scosse il capo: “Forse. Quando Cosimo sarà tornato a casa sano e salvo.” Gli voltò le spalle e uscì dalla stanza prima che lui potesse fermarla. Era furiosa.
*
Prese la strada di casa solo a mattino inoltrato. Il tradimento di Andrea le aveva fatto male, non riusciva a credere che un uomo che con lei era così dolce e premuroso, potesse trasformarsi in un mostro quando si trattava di potere.
“Maledetta politica.” Disse tra i denti, con rabbia.
“Lucrezia? Non avevo idea che fossi uscita anche tu. Dove sei stata?”
Contessina era di fronte all’ingresso di Palazzo Medici.
Lei sfoggiò un’espressione accigliata: “A trovare una persona che credevo mia amica. Evidentemente mi sbagliavo.” E subito scacciò il pensiero di Andrea, per dedicarsi a chi se lo meritava: “Come sta Cosimo?”
“Confida nella giustizia. Sto portando questa a Sandro Tarugi.” Disse Contessina, mettendo in mostra una lettera.
Lucrezia s’illuminò: “Sua moglie Maria è un’amica di mia madre! La conosco da quando ero bambina!”
“Allora vieni con me. Ha cambiato bandiera una volta, può farlo ancora.”
Per quanto incredibile, finalmente aveva l’occasione di rendersi utile, di fare qualcosa per la propria famiglia. Che Andrea se ne andasse al diavolo, la giornata stava avendo una svolta migliore! 

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Capitolo 20
*** A volte ritornano ***


Capitolo diciannove
A volte ritornano
 
Dopo che l’accusa di Rinaldo aveva messo in croce ogni speranza di Cosimo di salvarsi dalla forca, Andrea già pregustava il giorno in cui avrebbero dominato la Repubblica di Firenze insieme e cacciato i Medici una volta per tutte. Nel suo caso, avrebbe anche preso Lucrezia con sé come favorita e si sarebbe costruito una nuova vita con lei. Certo, ora lei era arrabbiata, ma una volta libera dalle catene di quella famiglia di usurai sarebbe stata felice.
Fu con questo spirito che entrò nello studio di Rinaldo, trovando l’amico di fronte al caminetto acceso e con un sorriso forse troppo compiaciuto sulle labbra.
“Rinaldo, spero accetterete di nuovo i miei complimenti. Stamane siete stato eccelso. Cosimo non può nulla contro di voi.”
Rinaldo, dopo aver ascoltato volentieri le lodi, fece un passo verso di lui e…rovinò tutto.
“Ditemi, Pazzi. Siete ancora infatuato della vostra sgualdrina?” Prima che Andrea potesse rispondere, Rinaldo gli mise una mano sulla spalla e riprese subito la parola: “Mi piacerebbe saperlo perché sembra che la ragazza e sua suocera stiano tramando alle nostre spalle.”
Dopo una breve attesa per essere certo di poter rispondere, Andrea optò per un tono neutrale: “La risposta alla vostra domanda è sì, Rinaldo. Per quanto riguarda la vostra accusa, invece, dubito che sia fondata. Lucrezia non è una donna del genere.”
Rinaldo sfoggiò un sorriso perfido: “Ne siete sicuro?” Ritirò la mano e la volse altrove, in un punto della stanza in penombra: “Mia cara Maria, dite al nostro Pazzi quello che avete detto a me.”
Dalla penombra ne uscì una donna di grande eleganza, vestita di un incantevole abito porpora e con in mano una lettera aperta che teneva in bella vista. Si avvicinò ad Andrea con un sorriso forse anche più perfido di quello di Rinaldo: “Lieta di rivedervi, Pazzi. Sono anni che non avevamo occasione di incontrarci e scambiare qualche parola.”
Andrea non nascose di essere infastidito dalla presenza di quella donna. Le lanciò un’occhiata sospettosa: “Maria, venite al dunque.”
Lei fece un cenno col capo e gli porse la lettera che lui prese in malomodo. Subito vide il sigillo dei Medici sulla ceralacca spezzata. Lesse la lettera velocemente, quindi gliela restituì: “Cosimo ha cercato di corrompere vostro marito Sandro. C’era d’aspettarselo da un uomo come lui.”
Rinaldo si avvicinò ai due, intromettendosi nella conversazione: “Vero. Infatti più tardi andrò io stesso a dirgli che abbiamo scoperto l’inganno. E ovviamente gli farò portare via tutto il materiale da scrittura. Poi procederemo come stabilito. Ormanno ha già incaricato il giovane apprendista di preparare un veleno non mortale da far bere a Cosimo, di modo che domani non sia in grado di esporre la propria difesa al processo.”
“Bene. Se avete già pensato a tutto, per quale motivo mi avete fatto venire qui?” Voltò lo sguardo verso Maria e aggiunse: “Credo sappiate che certe presenze non mi sono gradite.”
Rinaldo gli lanciò un’occhiata di sfida: “Ripensandoci, andrò subito. Non vorrei che Cosimo sentisse la mia mancanza! Vi lascio soli.” Fece un cenno col capo a Maria e si dileguò prima che Andrea potesse protestare.
Ritrovandosi solo con lei nello studio, Andrea si fece più severo: “Cosa volete da me, Maria? Credevo che evitarvi per anni bastasse per farvi capire quello che penso di voi.”
Maria, stranamente, non si offese per quelle parole e anzi ne parve deliziata: “Albizzi mi ha raccontato tutto, sapete? Non credevo che sareste caduto così in basso.” Rise: “Una Medici!”
“Tornabuoni, maritata Medici. Se non vi dispiace.” Sottolineò lui.
“Una sgualdrina anche con un altro nome resta sempre una sgualdrina.” Azzardò Maria, con la conseguenza che Andrea fu lì per perdere la pazienza e colpirla. Ma fermò la mano, non ne valeva la pena.
Maria gli prese il braccio e se lo passò attorno alle spalle, con malizia: “E’ passato molto tempo, mio amato Andrea.”
“Risparmiatemi la cantilena, non servirà a nulla. Non ho nessuna intenzione di tradire Lucrezia. Io la amo.” E quell’ultima frase la ringhiò tra i denti, come un cane.
Lei ridacchiò: “Vi capisco! Gambe lunghe, bel visino, capelli ammirevoli. Io purtroppo non sono più altrettanto graziosa.”
Andrea la guardò attentamente, sul viso sfiorito si poteva contare ogni ruga e, guardandola dall’alto della propria statura, constatò che anche i seni non erano più floridi come un tempo. Non si risparmiò: “Credetemi, Maria, voi non eravate piacente nemmeno da giovane.”
Questa volta l’offesa la punse sul vivo, infatti gli artigliò il petto con le unghie: “Eppure sono stata la vostra amante.”
In effetti la gatta aveva le unghie affilate, ma nulla poteva contro la lama della verità che stava brandendo lui: “I mesi più noiosi della mia vita. Errore mio. Porgete le mie scuse a vostro marito.”
“Carogna!” Gli gridò, giunta al limite della sopportazione.
“Maria, fatevene una ragione. Tra me e voi non vi è mai stato nulla di importante.”
Lei abbassò il viso e prese respiro per calmarsi, quindi nel sollevarlo rivelò un’improvvisa sicurezza. Rinfoderò gli artigli e usò quella stessa mano per accarezzare il viso di lui: “Vi siete coperto dietro ad un buon scudo, complimenti.” Quindi gli afferrò il mento e gli abbassò il viso per guardarlo dritto negli occhi: “Ma sappiamo entrambi la verità. Quando vostra moglie vi ha tradito voi siete venuto da me. Avete pianto tra le mie braccia come un bambino e poi per vendetta avete cercato conforto tra le mie gambe. E io questo non lo dimentico.”
“Voi avete tradito la mia fiducia rivelando a Rinaldo della nostra relazione. E non ne ho mai capito il motivo.” Sibilò tra i denti Andrea.
Maria abbozzò un sorriso: “Siamo alleati. Mi sembrava scorretto tenerlo all’oscuro. Dobbiamo essere sinceri tra noi, altrimenti la nostra alleanza non avrebbe senso.”
Andrea si liberò dalla sua morsa: “Gli avete rivelato un segreto con il quale può ricattarmi. Sapete quanto possa essere spietato Rinaldo. Può rovinare sia me che voi con una parola, se lo desidera.”
Maria lo guardò con tanto d’occhi: “Allora non dategli un motivo per farlo! Restate fedele a lui e ai suoi piani e tutto andrà bene. Altrimenti detto, non fatelo dubitare della vostra lealtà a causa di quella ragazzina.” Sfoggiò un sorriso vittorioso e se ne andò.
*
Il giorno seguente, Ormanno camminava tranquillo per le strade della città, dopo aver lasciato suo padre e Pazzi a discutere sul procedimento del processo contro Cosimo. Certo quella mattina era stata turbolenta, anche se Rinaldo aveva fatto avvelenare l’usuraio affinché non potesse difendersi dalle accuse, l’entrata in scena di Piero e il tradimento di Sandro Tarugi nonostante le precauzioni della moglie, si erano rivelati un bel problema. Ma ora che Tarugi era dietro le sbarre, loro avevano di nuovo il coltello dalla parte del manico, oltre ad una nuova accusa di corruzione da presentare alla Signoria contro Cosimo.  Si stava giusto recando alla Casa di Madonna Leona per festeggiare quando gli capitò di vedere Piero. Anche se di bassa statura, sarebbe stato impossibile non vederlo con quella massa di capelli inguardabili e con quegli abiti pomposi! Affrettò il passo per raggiungerlo e non esitò a cingergli le spalle con un braccio: “Piero de’ Medici! Ma quale piacere!”
Piero sobbalzò per quell’improvvisa comparsa ma, nel vedere di chi si trattava, la paura lasciò il posto a ben altre sensazioni. Sollevò gli occhi al cielo: “Ormanno degli Albizzi. Il piacere è tutto vostro, ve l’assicuro.”
Ormanno si accorse che tra le mani di Piero vi era un piccolo fiore di campo, un ottimo motivo per stuzzicarlo: “Oh ma cosa abbiamo qui? Il piccolo Piero raccoglie ancora i fiorellini per la fidanzata?” E scoppiò a ridere sguaiatamente.
Piero gli lanciò un’occhiataccia: “Moglie. Lucrezia è mia moglie, anche se l’idea non ti piace. E comunque quel che faccio non ti riguarda, Ormanno.”
“Il nanerottolo si è offeso! Cosa vuoi fare, sfidarmi a duello?”
Con una mossa decisa, Piero gli prese il braccio e se lo tolse di dosso, quindi lo affrontò apertamente: “E’ da quando siamo nati che mi dai il tormento. Quando ti deciderai a crescere?”
“E’ la stessa domanda che ti fai allo specchio la mattina?”
Niente da fare, Ormanno era senza limiti quando si trattava di schernirlo. Lo stesso tono strafottente che aveva usato al processo per ridicolizzarlo davanti a tutti. Non faceva altro che rovinargli la vita.  
Dimenticandosi del fiore che aveva in mano, Piero strinse i pugni con rabbia: “Un giorno avrai quello che ti meriti, prepotente di un Albizzi.”
Il tono placò le risate, in effetti, ma provocò in Ormanno un senso di sfida che non gli piaceva affatto. Diventato completamente serio, afferrò Piero per il colletto della camicia e lo tirò verso di sé: “Non credere di poter cantare vittoria solo perché oggi sei riuscito a prendere le difese di tuo padre. L’intervento di Tarugi a tuo favore è stato un errore che non si ripeterà più. Sarete voi Medici ad avere quello che meritate.”
I loro sguardi rimasero incollati, Piero ora non aveva nemmeno il coraggio di respirare per timore che Ormanno potesse fargli male. Non era mai riuscito a tenergli testa, era troppo forte per lui. Ma poi nel suo cuore si fece strada un briciolo di pietà, un residuo di purezza di quando era bambino, quel poco che bastava per dargli la forza di parlare.
“Mi odi solo perché Lucrezia ha scelto di sposare me. Ma io non ho mai voluto esserti nemico.”
Quelle parole sorpresero Ormanno che, senza volerlo, lasciò la presa: “Tu credi che io sia geloso?”
Piero scosse il capo: “No. Sono certo che tu sia geloso.”
Ormanno era turbato da tanta sfacciataggine, cercò di mascherare il suo stato abbozzando una risata fasulla: “Lucrezia ha un carattere troppo forte, per i miei gusti. Non mi è mai piaciuta molto.” Sollevò il dito indice e lo puntò su Piero:  “E comunque, nanerottolo, lei non ha scelto un bel niente. E’ stato suo padre a prendere accordi con il tuo. Anche se l’idea non ti piace.” Lo canzonò ripetendo le sue stesse parole, quindi gli lanciò un’ultima occhiata severa e gli voltò le spalle. Ma poi si voltò nuovamente: “Ti assicuro che odio Lucrezia molto più di quanto odi te. E, visto che siamo in vena di confidenze, dille di stare lontana dal mio territorio o gliene farò pentire amaramente.” E solo allora se andò davvero.
Piero lo osservò allontanarsi, un vistoso interrogativo nello sguardo: “Territorio? Ma di cosa sta parlando?” Non sapendo come venirne a capo, abbandonò il pensiero. Quando abbassò lo sguardo si accorse che il fiorellino giallo, ormai ridotto in poltiglia, gli si era appiccicato alla mano. Sospirò spazientito.

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Capitolo 21
*** Fiume di parole ***


Capitolo venti
Fiume di parole
 
“Buondì Madonna Leona!” Salutò Ormanno, facendo una riverenza, quando gli fu aperta la porta.
La donna, una signora dall’aria gioviale ma con un viso tutt’altro che fresco, gli sorrise: “Messer Ormanno! Era da tempo che non venivate nella mia umile Casa. Prego, entrate.”
Si spostò per lasciargli libero l’ingresso e, appena lui fu entrato, richiuse la porta. L’interno era buio, a malapena illuminato da qualche candela alle pareti che però dava un tocco spettarle all’ambiente, nonostante la raffinata mobilia e i tendaggi dai colori caldi. D’altronde in quella casa le finestre non venivano mai aperte, anche se lui non ne capiva il motivo.
“Madonna, spero che tutte le vostre ragazze siano in salute. Avrei voluto passare prima ma, sapete del processo contro Medici…”
Lei fece un gesto vago con la mano: “Sì sì, ho saputo. Vostro padre si è dato un gran daffare per architettare tutto, immagino.” Gli lanciò uno sguardo malizioso che lo fece ridere, ma poi passò ad altro: “Rossella è nella sua stanza, se volete vederla. Anche se di fatto non è ora di apertura, per voi farò un’eccezione.”
Ormanno la ringraziò con un cenno del capo e si affrettò a salire le due rampe di scale che lo avrebbero portato dalla sua bella. Giunto alla porta giusta bussò.
Una voce dall’interno rispose acuta: “Prego, avanti.”
Una volta entrato, Ormanno trovò la ragazza intenta a ricamare in fondo alla stanza, seduta su uno scranno posizionato davanti alla finestra incredibilmente aperta di uno spiraglio per far entrare un po’ di luce solare. Nel rendersi conto che lei non aveva capito che si trattava di lui, le andò accanto e lasciò uno studiato colpo di tosse. Subito Rossella alzò lo sguardo e, nel vedere lui, si illuminò di gioia: “Ormanno!” Lasciò il ricamo e si gettò su di lui, regalandogli un intenso bacio.
Ormanno la tenne stretta a sé. Dopo il bacio, i loro sguardi s’incontrarono, gli occhi azzurri di lei ora luccicavano: “Mi siete mancato così tanto. Temevo che non vi avrei più rivisto.”
Ormanno ridacchiò: “Non essere sciocca! Dove la trovo un’altra rossa focosa in grado di soddisfarmi?”
“Oh, giusto, siete venuto per questo. Perdonatemi.” Con un pizzico di agitazione, lei si sciolse dall’abbraccio e cominciò a slacciarsi l’abito, ma Ormanno la fermò: “No, aspetta. Non voglio farlo subito. Non ci vendiamo da tempo, vorrei prima che mi raccontassi di te, di cosa hai fatto.”
Rossella sgranò gli occhi: “Siete serio?”
“Assolutamente!” Rispose divertito, per poi divorare le sue forme con lo sguardo e azzardare un’osservazione: “E’ la prima volta che ti vedo vestita. Voglio godermi la novità.”
Le guance di lei diventarono rosse come fragole: “Ormanno, cosa dite? E poi è falso, anche la prima volta che mi avete incontrata ero vestita.”
“Vero.” Mosse lo sguardo, inseguendo il ricordo: “Indossavi un bell’abito rosso che risaltava i tuoi capelli. Ti stringeva i seni così tanto che ero certo sarebbe esploso. Ma a colpirmi davvero fu il tuo viso pulito, i tuoi occhi grandi e luminosi.” Tornò a guardare lei: “Eri meravigliosa.”
Dopo simili parole, Rossella era tentata di saltargli addosso e ringraziarlo a dovere ma, se lui voleva prima parlare allora lo avrebbe assecondato, perciò lo invitò a sedersi sul bordo del letto e si premurò di riempire due coppe di vino da brava ospite. Gliene porse una e si sedette accanto a lui: “Potrei raccontarvi di me, ma… Non c’è molto da dire. A causa della peste il bordello è rimasto chiuso. Madonna Leona ci ha rinchiuse tutte a chiave nelle nostre singole stanze per timore che ci ammalassimo. Io la vedevo solo quando mi portava da mangiare o veniva a prendere la biancheria per far fare il bucato. Il mio unico svago è stato il ricamo.”
Ormanno scherzò: “Meglio annoiata che morta! Nemmeno io ho molto da dire, in verità. Io e mio padre siamo rimasti in città e ci siamo occupati di politica per tutto il tempo. E tutt’ora lo stiamo facendo.” Si portò la coppa alle labbra e bevve un lungo sorso. All’improvviso gli venne in mente qualcosa, emise un gemito e si affrettò a deglutire: “Non ti ho parlato di Tommaso!”
“Un vostro nuovo amico?” Chiese con curiosità lei.
“Molto di più, credimi. L’ho preso a servizio dopo il nostro ultimo incontro. Lui lavorava per lo speziale così, dopo che questi è stato assassinato, gli ho offerto la possibilità di lavorare per me. E’ un ragazzo eccellente, non manca mai di sorprendermi. E poi se lo vedessi ne rimarresti affascinata, ha una bellezza sublime.”
“Potrei vederlo se voi lo portaste qui.” Propose maliziosa lei.
Ormanno divenne pensieroso: “Lui…non è adatto ad un luogo come questo.”
Rossella scoppiò a ridere: “Quale purezza d’animo! Forse dovrebbe farsi monaco, allora!”
Lui rimase serio, era come se ad un tratto non fosse più lì con la mente anche se le sue labbra continuavano a parlare a lei: “Non dico che non sia interessato alle fanciulle, anzi so che lo è, viste le occhiate maliziose che lancia a tutte le serve del mio palazzo. Però…se lo portassi qui infangherei la sua anima.” Quindi terminò con tono cupo: “E poi non potrei sopportare di saperlo avvinghiato a quelle spregevoli donnacce senza pudore che tu chiami amiche.”
Rossella si portò una mano alle labbra per coprire un’altra risata e poi gli rispose: “Oh cielo, sembrate quasi un amante geloso!” Quel che vide nei suoi occhi però non le piacque. Non solo era rimasto serio mentre lei rideva, ma qualcosa in lui era cambiato. Se non avessero parlato di un ragazzo avrebbe giurato che si trattasse davvero di pura e fredda gelosia. Ma di certo non era possibile. Gli prese la coppa dalla mano e le ripose entrambe accanto al letto.
“Direi che abbiamo parlato abbastanza.” Disse, intrecciandogli le braccia attorno al collo prima di baciarlo con ardore. Si impose di togliersi dalla testa quelle strane idee. Ormanno era un vero uomo e gli piacevano cose che solo lei poteva dargli.
*
Un nuovo giorno era cominciato e lei non aveva la forza di alzarsi dal letto. Non aveva quasi fatto in tempo ad assaporare una piccola vittoria che subito la situazione era drasticamente precipitata. Non aveva idea che Maria Tarugi sarebbe stata così spietata da tradire la sua fiducia, come non aveva idea che Contessina fosse andata personalmente da Sandro per chiedergli fedeltà. Pover’uomo, alla fine era stato lui a pagare il prezzo di quel gioco oscuro. Però…
Lucrezia scosse il capo e sussurrò a se stessa: “Non è giusto che Piero sia in collera con me. Io non ho fatto nulla di male.”
Dopo che Maria aveva fatto irruzione per sputare veleno su Contessina e accusarla dell’arresto del marito Sandro, Piero era stato molto severo con entrambe. Non solo avevano avuto un irruento litigio, ma addirittura lui si era ritirato a dormire nelle stanze di Cosimo, disertando così il talamo nuziale. Era la prima volta dal matrimonio che dormivano in stanze separate. Aveva sperato che venisse a dirle qualche parola di riappacificazione prima di recarsi a Palazzo della Signoria per la sentenza, ma invano. Lui non si era fatto vedere e lei era rimasta a letto a rimuginare sulla situazione. Aimè non aveva fortuna con gli uomini! Sia Andrea che Piero erano testardi e fermi nelle loro decisioni e lei ne pagava le conseguenze. Non si era mai illusa sulle gioie matrimoniali, in fondo Piero più che un marito era un caro amico con cui trascorrere le giornate. Ma che dire delle gioie proibite? Da quel che sapeva, un amante dovrebbe essere un balsamo per le ferite dell’anima, una consolazione per la tristezza della vita. E allora perché il suo non faceva che aumentarle il carico di preoccupazioni?
Bussarono alla porta. Era la sua serva personale. Anche se controvoglia, Lucrezia si alzò dal letto e lasciò che la donna svolgesse il proprio dovere. A volte non era così noioso farsi vestire e acconciare, senza dover muovere un dito. E lei quella mattina non voleva muoverlo per nessuna ragione. Se nessuno voleva il suo aiuto e nessuno voleva concederglielo, tanto meglio!
Stava giusto recandosi alla sala da giorno quando udì la voce di Piero all’ingresso. Era impossibile che la sentenza fosse già stata emessa, cosa ci faceva a casa?
“E’ un’ottima mossa, almeno questo rende certo che mio padre sarà liberato!”  
“No, invece! E’ una decisione sciocca e sconsiderata!” Ribatté Contessina con furore, stringendo i pugni. Fu in quello stato che la vide Lucrezia.
“Perché gridate? E’ accaduto qualcosa?”
Piero rispose per primo: “Mio zio ha preso un accordo con Francesco Sforza. Se mio padre non sarà dichiarato innocente e liberato e gli Albizzi non andranno in esilio, l’esercito attaccherà Firenze.”
“Ma è terribile.” Disse d’istinto, portandosi una mano al petto.
Contessina confermò: “E’ quel che penso anch’io. Perché mettere a repentaglio le vite di tutti i cittadini? Gli Albizzi non cederanno mai e anzi, saranno i primi a fuggire e a restare illesi.”
“Ma almeno mio padre sarà salvo.” Gridò Piero, gli occhi spalancati.
“Lo uccideranno prima!” Ribatté sua madre, gridando ancora più forte.
Lucrezia si sentì in dovere di dividerli prima che si mettessero le mani addosso: “Gridare non è una soluzione al problema. Datevi un po’ di contegno.” Intimò loro severamente.
Madre e figlio rimasero fermi a squadrarsi ancora alcuni istanti, poi Piero cedette: “Io torno alla Signoria, voglio essere presente quando verrà presa una decisione sul da farsi. Stare qui con voi è solo uno strazio.” E lo sguardo rivolto prima a Contessina e poi a lei non fu per niente lusinghiero. Ora stava davvero esagerando.
Lucrezia lo apostrofò: “E’ così che hai rispetto di me? Sono tua moglie e non ho fatto nulla per meritarmi questo trattamento.”
Piero si morse un labbro, forse per non essere ancora più sgarbato, ma poi la tentazione fu più forte: “Impara a non darmi torto e a non agire alle mie spalle, se vuoi il mio rispetto.” Voltò le spalle e uscì dalla porta dell’ingresso.
Lucrezia batté un piede a terra, infuriata: “Perché gli uomini sono tutti così arroganti? Noi diamo il sangue e l’anima per loro e questo è il ringraziamento.” Guardò Contessina, credendo che la suocera avrebbe confermato le sue parole, invece nei suoi occhi di smeraldo vide solo sospetto.
“Non credevo che alla tua giovane età potessi conoscere così bene gli uomini. Eppure oltre quelli della nostra famiglia non ne conosci altri in intimità.” Sollevò un sopracciglio per dare enfasi alle parole: “O sbaglio?”
Lucrezia scostò lo sguardo e strinse le labbra per non rispondere, o quella conversazione avrebbe avuto una fine tragica. Si sentiva in trappola tra le mura di quel palazzo, attorniata da quelle persone che troppo spesso non la capivano e la giudicavano a caldo. Non c’era proprio nessuno al mondo che potesse darle un po’ di conforto?

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Capitolo 22
*** La pace del paradiso e le fiamme dell'inferno ***


Capitolo ventuno
La pace del paradiso e le fiamme dell’inferno
 
La situazione era disperata, a mezzanotte la città sarebbe stata attaccata e messa a ferro e fuoco. E lei, invece di potersi mettere in salvo o almeno rinchiudersi al sicuro all’interno di Palazzo Pazzi, era costretta a rimanere lì a supplicare una nobildonna viziata che sembrata irremovibile. Ma perché Messer Pazzi non si decideva a troncare quella sciocca  e pericolosa relazione? Erano questi i pensieri che ronzavano nella mente di Guendalina, di fronte all’ingresso di Palazzo Medici a supplicare Lucrezia. Non sapeva più cosa dire per convincerla, ma se se ne fosse andata senza di lei, di certo Pazzi l’avrebbe punita o addirittura gettata per la strada. Disperata, giunse le mani in preghiera e sgranò gli occhi azzurri: “Vi prego, Madonna. Venite con me. Il mio Signore vi attende.”
Lucrezia si sentiva ribollire come un calderone sul fuoco. Piero era ancora arrabbiato con lei, Lorenzo aveva scatenato un vespaio per liberare il fratello e ora Andrea chiedeva d’incontrarla anche se sapeva bene che lei gli portava rancore. Quando mai avrebbe avuto un po’ di pace? Però…se Lorenzo e Sforza avessero attaccato la città, quando lo avrebbe rivisto? Fu questo ultimo pensiero a stringerle il cuore e a farle prendere una decisione. Lanciò un’occhiata alla sguattera che la stava supplicando e acconsentì alla sua richiesta.
Camminarono fianco a fianco per le strade del centro città, entrambe coperte da mantello e cappuccio per non farsi riconoscere. Guendalina le aveva solo detto di seguirla fino al luogo dell’incontro e lei aveva obbedito docile.
Quando giunsero nei pressi della Cattedrale, imboccarono una piccola via semibuia e lì Guendalina si fermò. Le indicò un punto preciso col dito: “Svoltate a sinistra. Il mio Signore vi attende là.” E detto questo fece un inchino e si dileguò come un animaletto spaventato.
Lucrezia prese un respiro profondo e avanzò a passi lenti lungo il vicolo. Non appena svoltò, trovò di fatto Andrea ad attenderla in abiti eleganti e a capo scoperto.
“Ne deduco che Guendalina abbia faticato non poco per convincervi. Ho dovuto mentire a Rinaldo  e lasciare la Signoria per potervi incontrare.” Le disse con tono di rimprovero.
Lucrezia aggrottò le sopracciglia: “Non avreste dovuto. Buona giornata. ” Fece per andarsene ma Andrea le afferrò una mano: “No, restate. Vi chiedo perdono.”
Lucrezia guardò i suoi occhi, ora erano limpidi e sembravano sinceri, e il tocco della sua mano era gentile. Rispose alla sua stretta e fece un cenno col capo: “Io voglio perdonarvi. Soprattutto ora.”
“Avete saputo…?” S’interruppe, rendendosi conto dell’ovvietà della domanda. Prese respiro e arrivò dritto al punto: “Vi ho mandata  a prendere per chiedervi di venire con me.”
Lei gli lanciò uno sguardo interrogativo: “Per andare dove?”
“Al mio palazzo, per il momento. Vi proteggerò dalla follia di quella dannata famiglia.”
Le venne spontaneo ridacchiare: “Non mi verrà fatto del male! L’esercitò attaccherà per volere dello zio di mio marito!”
Andrea  usò la mano libera per afferrarle una spalla, quindi divenne più serio: “Ma non capite? Gli uomini di Sforza non faranno distinzioni quando si metteranno a uccidere e stuprare. In quel palazzo non siete al sicuro.”
“Ma…mio marito?”
“Al diavolo! Lasciatelo, Lucrezia. Quel ragazzino pomposo non ha niente da offrirvi.” Era così preso dal discorso che il suo volto era divenuto paonazzo mentre lui parlava.
Lucrezia sentì un brivido lungo la schiena, cercò di obiettare: “Andrea, non posso farlo. Non si tratta solo di me. Se venissi con voi rovinerei la mia famiglia, la mia vera famiglia. Riuscite a capirlo? E non ditemi che mi sposerete, sapete che il mio matrimonio con Piero non può essere annullato ormai.”
Lui sapeva bene quello che non poteva fare, dannazione! E di certo l’ostacolo non era quel piccolo Medici. Ma non era il momento di dire la verità, di confessare a Lucrezia che anche lui era sposato. Si rese conto di essersi immobilizzato mentre pensava, si schiarì la voce: “L’unica cosa che voglio siete voi.” Liberò la mano solo per poterle usare entrambe per avvinghiarla in un abbraccio, quindi la guardò negli occhi, immergendosi in quelle profondità infinite: “Io vi amo, Lucrezia.”
Aveva atteso così a lungo di sentirgli pronunciare quelle parole, che quasi non poteva credere di averle udite davvero. Ogni sguardo, ogni parola, ogni tocco, ogni bacio, era come se tutto quello che avevano condiviso si fosse unito in un unico momento. Perché lo aveva conosciuto? Perché si era innamorata di lui? Chi l’aveva deciso? E, per tutti gli angeli, perché non poteva essere sua? Le lacrime le riempirono gli occhi, la voce era rimasta intrappolata nella gola e non sarebbe uscita se non attraverso i singhiozzi. Le lacrime le rigarono il viso, alcune le inumidirono le labbra. Un turbine di gioia e di disperazione le stava invadendo il petto. Unì le labbra alle sue, era l’unico modo per trasmettergli quello che provava senza ricorrere all’uso delle parole. E lui rispose a quel bacio con trasporto, più di quanto avesse mai fatto. Più le labbra si assaporavano, più i loro respiri si amalgamavano e le mani regalavano carezze e calore. Andrea fu il primo a prendere l’iniziativa, portando il corpo di Lucrezia contro la parete, per poi sollevarle una gamba e portarsela al fianco. Lucrezia non si ribellò in alcun modo, aveva messo la coscienza dentro ad un cassetto di cui aveva  nascosto bene la chiave, ed ora poteva finalmente concedersi all’uomo che amava. Complice, si avventurò con la mano verso il basso fino a trovare i lacci delle sue braghe, con i quali cominciò ad armeggiare. Pochi gesti rapidi ed ecco che prese possesso del caldo e rigido strumento di piacere. Tenendolo delicatamente tra le dita, lo guidò, facendogli prima sfiorare i folti riccioli del boschetto, poi continuò attraverso le morbide pieghe ed infine lo lasciò scivolare all’interno della propria fonte calda e avvolgente. Il piacevole contatto fece gemere lei e Andrea nello stesso momento, i loro sguardi si sfiorarono un istante. Poi Lucrezia chiuse gli occhi e si abbandonò a lui, ai suoi baci sul collo e al movimento dei suoi fianchi che presero ad inarcarsi verso di lei prima lentamente e poi sempre più forte. Aveva voglia di gridare, liberare quel piacere incontenibile che aveva desiderato per settimane, ma trovandosi in un vicolo non poteva correre il rischio che venissero scoperti. Tutto ciò che poteva fare era soffocare quei gemiti nella gola e stringere tra le braccia l’uomo che amava.
Il viso accaldato contro il suo, Andrea stava combattendo la propria lotta interiore, preso dal bisogno fisico di lasciarsi andare e allo stesso tempo di resistere per godere più a lungo. Nella mente il pensiero martellante di dover tornare a Palazzo della Signoria prima che Rinaldo mandasse qualcuno a cercarlo. In ogni caso, era deciso a non fare nulla prima di aver ottenuto una cosa importante.
Trattenendo il respiro, le sussurrò: “Ditemi che mi amate.” Per poi espirare rumorosamente. Il corpo in fiamme per la passione di quella frenetica danza.
Lucrezia l’avrebbe già fatto, se avesse potuto, ma era certa che se avesse dischiuso le labbra avrebbe gridato e perso il controllo. Ma come poteva tacere? Nella mente poteva ancora udire l’eco della sua dichiarazione d’amore di poco prima e ora moriva dalla voglia di confessargli i propri sentimenti.
“Ditemelo!” La voce di Andrea uscì come strozzata a causa di quel bisogno che si faceva sempre più esigente.
Il corpo e lo spirito al bivio tra la pace del paradiso e le fiamme dell’inferno e le lacrime che ora stavano sgorgando dai suoi occhi in conseguenza al forte piacere, Lucrezia si disse quelle parole prima con la mente, le ripeté più volte, le gridò perfino! Poi concesse loro di avere voce, correre lungo la gola e trovare l’uscita oltre le labbra: “Vi amo, Andrea Pazzi!” Ed infine levarsi verso il cielo.
Andrea si lasciò finalmente andare dentro di lei, il corpo per alcuni istanti completamente rigido, e poi l’arrivo della pace. Con una mano andò a ricercare sostegno contro la parete, il respiro ansante contro il collo di lei, mentre sentiva il peso del suo corpo addosso e la responsabilità di sostenerla. Lucrezia, in quel piacevole senso di sfinimento, si sentì completa e poco importava se l’aria le entrava prepotente nei polmoni gonfiandole il petto fino a mettere a repentaglio le cuciture dell’abito.
Ora più in possesso delle proprie facoltà e con la circolazione del sangue che si stava stabilizzando, Andrea la guardò negli occhi e fece un ultimo tentativo: “Venite con me.”
Tutta la magia del momento parve infrangersi come vetro, al suono di quelle parole. Lucrezia tolse la gamba dal suo fianco e si ricompose con dignità, la paura di rispondere le stava pulsando nelle orecchie. Sfiorò le labbra di lui con un bacio e sussurrò a malincuore: “Non posso.”
Andrea scostò il viso, strinse i denti per il disappunto. Un momento e riprese pieno possesso di sé. Le lanciò un’occhiata severa: “Dunque tutto questo non ha significato nulla?”
Lei scosse il capo, non voleva litigare: “Non è così! Io vi amo! Io…”
Andrea la interruppe sollevando la mano: “No.” Si ricompose velocemente e, senza nemmeno degnarla di uno sguardo, svoltò l’angolo del vicolo.
Lucrezia rimase lì ferma, spalle al muro, con il calore del suo corpo ancora addosso e il suo seme ad inumidirle le cosce. Ma senza di lui.
“Che cosa ho fatto?” Si disse con voce spezzata, prima che le lacrime l’assalissero. Batté il capo all’indietro  contro la parete, lo sguardo annacquato rivolto verso il cielo blu sembrava alla ricerca di una presenza divina che l’aiutasse. Un solo misero aiuto dal cielo.
Un singhiozzo si levò dalla sua gola: “Mio Dio dammi la forza. Io lo amo!” E lasciò sfogare il pianto, sperando che dall’alto dei cieli qualcosa o qualcuno potesse udirlo. 

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Capitolo 23
*** Addio ***


Capitolo ventidue
Addio
 
“Posso restare qui con Piero. Ci occuperemo noi della casa. Piero può seguire la Banca. Dio sa quanto ha bisogno di maggiori responsabilità!”
Aveva tentato, aveva sperato, si era buttata senza timori. Qualunque cosa pur di non lasciare Firenze. Non poteva andare. Non voleva. Andare in esilio avrebbe significato forse non fare più ritorno e perciò non rivedere più lui...
Gli occhi di Contessina, con il loro verde brillante e infinito, le avevano quasi dato una speranza. Era la stessa donna che qualche ora prima aveva coraggiosamente salvato il marito e la città entrando a Palazzo della Signoria in sella ad un bianco destriero e facendo valere le proprie ragioni. Un atto memorabile, un gesto di amore sconfinato per l’uomo che amava e per la propria città. Quella donna avrebbe acconsentito alla sua richiesta di certo, senza contare che Piero era già caduto nello sconforto al pensiero di dover lasciare la propria casa. Però…ormai la guerriera aveva deposto le armi a causa dello stesso uomo che aveva salvato. Cosimo si era mostrato indegno quando, invece di ringraziarla per il suo tempestivo aiuto, l’aveva vittimizzata dichiarandosi disposto a morire piuttosto che essere esiliato. Ma, visto che il danno era fatto, aveva stabilito che tutta la famiglia partisse per Venezia all’infuori di lei. Con quel doloroso pensiero nella mente, Contessina non rispose nulla e si limitò a sfiorare la guancia di Lucrezia con una carezza, infrangendo così ogni sua speranza.
Era dunque la fine?
Doveva assolutamente trovare una via d’uscita, un modo per restare senza destare sospetti. Ebbe un leggero mancamento che la fece barcollare, si ritrovò con lo stipite della porta piantato nella schiena, il respiro le mancò improvvisamente. Si diede una spinta in avanti, dandosi la forza di mettere un piede di fronte all’altro annaspando in cerca d’aria. Dalla gola arida si levarono frammenti di parole: “Andrea…. Non…voglio.”
Giunse alla propria camera da letto e vi scivolò all'interno, quindi chiuse la porta facendola sbattere alle proprie spalle. Finalmente un singhiozzo pose fine all’agonia, il respiro le tornò assieme ad una pioggia di lacrime che presero a scendere precipitose lungo le sue guance per poi finire sul pavimento. No, era quella l’agonia. Ed era appena cominciata. Si lasciò cadere sul letto, il viso premuto contro la coperta nel tentativo di soffocare i singhiozzi che si erano fatti più forti e che le stavano massacrando il petto. Strinse tra le dita un lembo di coperta, sollevò leggermente il viso: “Aiutami.” Una richiesta disperata che però non poteva giungere all’orecchio dell’uomo che amava.
Due colpi alla porta e una voce familiare: “Madonna Lucrezia, vi sentite bene? Messer Cosimo mi manda a dirvi che è quasi giunta l’ora di partire.”
La voce della fedele serva arrivò ovattata attraverso la porta, ma bastò a placare il pianto di lei. Lucrezia si passò velocemente il fazzoletto sul viso per asciugare le lacrime e prese un respiro profondo: “Va bene.” Per fortuna la voce non le uscì troppo roca.
Saltò giù dal letto e corse allo scrittoio con rinnovata energia. Non aveva tempo da perdere, una volta a Venezia avrebbe potuto piangere quanto voleva. Afferrò la penna dal calamaio, con mano tremante, e prese a scrivere meglio che poté.
Mio amato Messer Pazzi,
è con il cuore in frantumi che vi scrivo questa mia. Quando leggerete le mie parole io sarò già lontana con la mia famiglia e mi rammarico di non essere riuscita a dirvi addio personalmente.
Ho tentato l’impossibile per restare qui Come abbiamo potuto anche solo pensare che il nostro legame potesse avere un futuro? Forse ciò che credevamo di provare altro non era se non una via di perdizione causata dalle insoddisfazioni delle nostre vite. Io e voi siamo persone diverse, con sogni diversi e aspirazioni diverse. Eppure, se non fossi sposata non esiterei ad unirmi a voi Questo esilio, a cui prendo parte per volere dei miei suoceri, arriva come un aiuto dal cielo. Dio sta dando sia a me che a voi la possibilità di ricominciare, di imparare dai nostri errori. Per quanto io vi ami Sono certa che la lontananza ci farà presto dimenticare tutto ciò che vi è stato tra noi.
Addio.”
Era un miracolo che fosse riuscita a salvare il foglio di pergamena dalle lacrime che avevano ricominciato a cadere dai suoi occhi. Scrivere simili menzogne era stato più arduo che mai.
Sparse la polvere per assorbire l’inchiostro, quindi vi soffiò per toglierla. Dovette rivolgersi all’intero Creato per trovare la forza di non strappare subito quella lettera piena di falsità. Una volta arrotolato il foglio e impresso il proprio sigillo, Lucrezia si alzò dalla piccola sedia e uscì dalla stanza a passo spedito. Lo sguardo che vagava da una parte all’altra, in cerca di qualcuno a cui affidare il prezioso messaggio. E poi vide l’unica persona che poteva aiutarla.
“Marco Bello.” La voce le uscì quasi strozzata, ma comunque fu abbastanza per attirare la sua attenzione.
L’uomo fece un cenno col capo: “Sì, Madonna?”
“Devo affidarti un incarico, ma bada che resti un segreto tra noi.” Disse lei, mostrandogli il rotolo di pergamena. Quindi si sporse su di lui per sussurrargli i dettagli all’orecchio: “Ti prego di portarla a Palazzo Pazzi. Immediatamente. Consegnala a chi ti aprirà la porta e dì solamente che venga data a Messer Pazzi al tramonto. Non prima.”
Marco la guardò in tralice: “Pazzi? Lucrezia, non credo sia una cosa saggia…”
“Fallo!” Aveva quasi gridato, si schiarì la gola e riprese a parlare sottovoce: “Fallo, ti prego. Per me è molto importante.”
Lui la fissò alcuni istanti, ma poi lasciò un respiro e le prese la pergamena dalla mano: “Farò presto. A breve partiremo e non vorrei che Cosimo si accorgesse della mia assenza.”
Un sorriso sfiorò le labbra di Lucrezia: “Ti ringrazio.” Voltò lo sguardo altrove e poi lo riportò su di lui: “Vado a vedere se Piero ha bisogno di me.”
Marco la osservò allontanarsi  e imboccare un corridoio, appena sparì alla sua vista sollevò la pergamena e la squadrò con disappunto. Scosse il capo: “Il suo contenuto potrebbe essere pericoloso.” Gli tornò alla mente il giorno in cui li aveva colti in flagrante, nella camera da letto di lei, intenti a baciarsi. Fece per stringere la lettera nel palmo della mano con l’intento di sgualcirla e poi farla sparire. L’avrebbe salvata dal suo stesso peccato e messo la parola fine a quella relazione abominevole. Ma non ne ebbe il coraggio. Imprecò tra i denti contro se stesso, quindi si arrese: “Che la lontananza possa rimettere quella ragazza sulla retta via.”
*
Il servitore, impeccabile nei suoi abiti di buona fattura e stirati a dovere dalla moglie, entrò nella sala tenendo con una mano il manico di una grande caraffa d’argento ricolma di ottimo vino rosso. Con attenzione riempì quasi fino all’orlo tre calici, anch’essi d’argento, posti su di un vassoio sul bordo del tavolo di forma circolare coperto da un elegante telo ricamato. Svolto il proprio compito, posò la caraffa su di un secondo vassoio e chinò il capo per congedarsi.
Rinaldo prese un calice per primo e lo sollevò, un’espressione evidentemente entusiasta sul volto: “Possiamo ritenerci soddisfatti per il risultato ottenuto!”
Ormanno al suo fianco e Tommaso di fronte, presero anch’essi i calici in mano in previsione di un brindisi.
Rinaldo si rivolse a Tommaso: “Devo farti i miei complimenti, ragazzo. Da quando sei a nostro servizio hai dimostrato il tuo valore e le tue capacità. Non solo i tuoi ‘preparati’ si sono rivelati utili più di una volta, ma anche la tua abilità di ottenere informazioni è ammirevole. Per questo motivo, il primo brindisi spetta a te!”
Tommaso fece un cenno col capo in segno di ringraziamento e arricciò un angolo della bocca in un mezzo sorriso compiaciuto, in quel modo tipico che gli apparteneva. Il primo sorso di vino fu alquanto gustoso, per lui.
Poi Rinaldo riprese la parola e puntò lo sguardo sul figlio: “Ormanno, cosa posso dire? Sei un figlio obbediente, un soldato valoroso e un abile uomo di politica. Non permetti a nessuno di calpestarti o intimorirti. Hai la mia piena stima.”
Ormanno sorrise, fiero di sé: “Vi ringrazio, padre.” E anche il secondo brindisi venne fatto.
Tommaso si incaricò personalmente di riempire nuovamente i calici di vino, intuendo che vi sarebbe stato dell’altro. E anche perché non gli capitava tutti i giorni di gustare del vino di buona annata!
Rinaldo si schiarì la voce: “Ed infine, brindiamo a questo giorno. All’esilio di quella serpe di Cosimo. Alla partenza di una famiglia che per anni ha spadroneggiato nella nostra amata città.”
Ormanno lo interruppe: “Perché Pazzi non è qui con noi? Anche lui ha contribuito, dovrebbe essere qui a festeggiare.”
Suo padre sfoggiò un’espressione beffarda: “Temo che il nostro alleato non sia dell’umore. La sua bella ha lasciato la città, da quanto ho sentito.”
“Voi credete che lui….stia soffrendo?” La voce spezzata dalla delusione.
Rinaldo scacciò l’argomento con un gesto della mano: “Si riprenderà.” Senza ulteriori indugi si portò il calice alle labbra e bevve l’intero contenuto tutto d’un fiato. Tommaso lo imitò volentieri. L’unico a non aver più voglia di festeggiare era lui, Ormanno. Grazie all’esilio sperava che finalmente Lucrezia sarebbe uscita dalla sua vita, in tutti i sensi. Ma quando sarebbe uscita dalla vita di Andrea, dalla sua mente e dal suo cuore? Con questi quesiti nella mente si portò il calice alle labbra per bere un sorso. Aimè, il vino aveva assunto un sapore diverso ora, come se si fosse tramutato in un amaro veleno. 

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Capitolo 24
*** Il nome di un sentimento ***


Capitolo ventitre
Il nome di un sentimento
 
La governante lo aveva avvertito quando lo aveva accolto all’ingresso. Le rughe accentuate sul viso per la preoccupazione e gli occhi tristi: “Oh Messer Ormanno! Il mio Signore sembra aver perso il senno. Non fa che ubriacarsi da quando ha ricevuto quella lettera.”
Ormanno le aveva chiesto con sospetto: “Quale lettera?”
“E’ giunta ieri. L’uomo che me l’ha consegnata mi ha dato precise istruzioni ma non mi ha detto chi era e chi lo mandava. E io non ho potuto vederlo in viso perché teneva un cappuccio calato sugli occhi.” Si era portata una mano al cuore: “Io ho solo svolto il mio dovere ma…ora me ne pento. Qualunque cosa vi fosse scritta ha gettato Messer Pazzi nella più cupa disperazione. Ha smesso di mangiare, non dorme e non fa che chiedere caraffe di vino quasi ad ogni ora.”
Se la situazione era davvero così grave, l’unica persona ad aver causato tutto non poteva che essere….
Ormanno aveva lasciato un sospiro malinconico, per poi spendere qualche parola di rassicurazione per la povera governante turbata: “Non temere, Agata, farò il possibile per aiutarlo.”
Lei gli aveva accennato un sorriso di gratitudine: “Se vi è qualcuno che può aiutarlo, siete senz’altro voi, Messere.”
Era ciò che aveva sperato anche lui fino a quando non aveva aperto le porte della sala da giorno. L’aria all’interno era quasi irrespirabile, una combinazione di fumo e legna bruciata, sudore stantio e altri lezzi di un corpo non lavato. Solo in un secondo momento gli giunse alle narici anche l’odore pungente del vomito ma, vedendo che non ve n’era traccia, presunse che la servitù aveva già provveduto a ripulirlo. Almeno quello. Ciò che vide in quella sala lo turbò alquanto. Il disordine, il tavolo centrale e i mobili cosparsi di calici e di caraffe, una sedia rotta che giaceva in un angolo dopo esservi stata scaraventata, ed infine, abbandonato su di uno scranno vi era Andrea. Indossava solo camicia, braghe e stivali, i capelli erano spettinati e il suo viso pallido sfumato di una tonalità giallognola era reso più terrificante dai neri cerchi attorno agli occhi. In grembo aveva una caraffa che, dalla posizione molto inclinata, doveva essere vuota.
Ormanno dovette prendere il coraggio a due mani per entrare in quel luogo di desolazione. Per prima cosa, trattenendo il fiato, andò ad aprire uno dei vetri affinché gli odori nauseabondi uscissero ed entrasse un po’ di aria fresca. Poi andò a dedicarsi ad Andrea. Lo scosse alla spalla, per destarlo da quello stato di torpore irreale causato dalla sbornia. Andrea faticò ad aprire meglio gli occhi e, quando alzò lo sguardo su di lui, gli ci vollero alcuni istanti per riconoscerlo.
“Come vi siete ridotto.” Lo commiserò Ormanno, la voce roca per la delusione.
Quelle parole aiutarono Andrea a tornare al presente, il che non fu un bene: “Ormanno, ti prego di andartene.” Scrollò la spalla per liberarsi del suo tocco, quindi prese la caraffa che aveva in grembo e la sollevò per verificarne il contenuto. Vedendo che era vuota, perse interesse e la lasciò cadere a terra con noncuranza.
Ormanno prese respiro e disse diretto: “Ditemi che non è a causa sua.”
Anche senza dire il nome, quella parola andò ad infilzare il cervello di Andrea come uno spillone, innervosendolo: “Ti ho detto di andartene.” Fu severo, non urlò solo perché altrimenti gli sarebbe scoppiata la testa già dolorante per il troppo vino bevuto.
“E lasciarvi qui a morire ubriaco?” Lo provocò Ormanno, scatenando così la sua collera.
Andrea lo afferrò per la giacca, minaccioso: “Che cosa vuoi da me? Se ti ha mandato tuo padre digli che può andare all’Inferno! Ha ottenuto tutto ciò che voleva, ora deve lasciarmi in pace.”
Ormanno gli rispose con un tono di voce che ricordava un ringhio canino: “Non mi ha mandato lui. Sono qui perché ero preoccupato. Temevo che la partenza di Lucrezia vi avesse ferito, ma non credevo di trovarvi in uno stato così pietoso.”
Andrea scostò lo sguardo velocemente, lasciò la presa alla giacca: “A quanto pare sono riuscito a sorprenderti.” Riuscì ad accennare uno scherzo, nonostante tutto.
Ormanno si chinò su di lui, sostenendosi sui braccioli dello scranno: “Bene, state cominciando a reagire, sento. Vedrete che presto arriverete ad odiare quella ragazza e poi la dimenticherete.”
Andrea ridacchiò amaramente: “Non accadrà mai!”
“Io sono convinto che prima capirete lo sbaglio commesso donando il vostro cuore a quella sgualdrina, prima potrete…”
Lo interruppe, gli occhi spalancati sui suoi: “Ho detto che non accadrà mai perché non voglio che accada. Continuerò ad amarla nonostante lei mi abbia rinnegato.” Scostò Ormanno e si fece forza per riuscire a tirarsi su in piedi. Il primo impatto fu difficile, un giramento di testa rischiò di farlo crollare a terra, ma fortunatamente il mondo si fermò in tempo. Con calma, si diresse verso il tavolo ad esaminare caraffe e calici, mentre Ormanno si riprendeva dopo aver elaborato la sua affermazione. Si voltò verso di lui, le sopracciglia aggrottate per l’incomprensione: “Che cosa avete detto?”
Come nulla fosse, Andrea rispose continuando ad esaminare: “Lucrezia mi ha mandato una lettera in cui rinnega me e il nostro amore. Confesso di non aver gradito ma, dopo aver riflettuto, sono arrivato alla conclusione che abbia mentito. Il problema è che non posso chiederglielo personalmente ora che è partita.”
Ormanno gli lanciò un’occhiata di disgusto: “Se lei ha ammesso di non amarvi perché dovreste credere il contrario?”
“Non pretendo che tu capisca. Non sai cosa vi è stato tra noi. D’altronde, sia tu che tuo padre non avete fatto altro che distruggere il nostro amore con ogni mezzo.” Ed ecco che trovò un goccio di vino sul fondo di un calice, che si affrettò a bere.
Ormanno era sull’orlo di una crisi di nervi, strinse i pugni per controllarsi: “Continuate  a parlare di amore ma….non lo era.”
“E’ qui che ti sbagli.”
Ancora una volta aveva risposto senza nemmeno guardarlo in faccia e con quel tono indifferente che lui ormai odiava. Gli venne spontaneo provocarlo: “E quand’è che siete giunto a questa conclusione? Dopo aver bevuto dieci calici? O forse venti?”
Come sperava, Andrea si decise a prestargli attenzione: “Non mi piace il tuo tono, Ormanno.”
“E’ l’unico che vi meritate, Pazzi. Trovo che sia abominevole il vostro comportamento. Io sono venuto qui in veste di amico e voi mi state offendendo con il vostro ciarlare di quel presunto amore. Lucrezia è partita. Non la rivedrete più se Dio lo vorrà. Siete libero!” Terminò allargando le braccia per infondergli il senso di libertà di cui parlava.
Andrea, oramai completamente lucido, si limitò a scuotere il capo con aria quasi divertita: “Sei semplicemente assurdo. Desolato di infrangere le tue speranze, ma a conferma di quanto ho detto finora vi è un elemento importante. Non solo Lucrezia mi ha detto a voce ciò che prova per me, ma tempo fa mi aveva già manifestato il suo sentimento attraverso un dono. Un simbolo, se preferisci. Un giaggiolo bianco.”
Udire quel dettaglio gli fece raggelare il sangue nelle vene. Ormanno si ritrovò a balbettare: “Un g-giaggiolo bia-bianco?”
Andrea fece un cenno affermativo: “Me lo mandò assieme ad un biglietto su cui vi era scritta una frase di significato profondo. La ricordo molto bene.” E recitò: “Anche tra mille avversità si può trovare la speranza. Nulla è perduto fin che…”
fin che  essa vivrà.” Terminò Ormanno.
Andrea lo guardò perplesso: “Come fai a sapere…?”
“Perché ve l’ho mandato io.” La voce roca e gli occhi pieni di lacrime: “Sono stato io a farvi dono di quel fiore.”
“Non…non è possibile! Tu…”
“Era avvolto da un tessuto nero che avevo trovato tra i miei abiti da battaglia. Mi trovavo al Fronte!” Gridò, con la conseguenza che alcune lacrime sfociarono e andarono a rigargli le guance.
Andrea ora lo stava guardando di sbieco, ancora diffidente, e questo lo indusse ad andargli incontro ed avvalorare le proprie parole: “Da quando sono bambino non ho desiderato altro che avere la vostra attenzione. Da che ho memoria voi vi siete sempre preso cura di me, avete sempre avuto una parola gentile da dedicarmi. E io di questo vi sono grato, ve lo giuro.” S’interruppe per bloccare un singhiozzo, le lacrime non sarebbe riuscito a fermarle nemmeno se avesse voluto. Lo sguardo di Andrea esprimeva una tale perplessità che quasi si sentì in imbarazzo, ma ormai non poteva più tirarsi indietro.
“Non vi siete mai chiesto per quale motivo, da quando faccio parte della Signoria, mi sono dato tanto da fare? O perché vi ho sempre confidato i miei pensieri e le mie idee politiche prima che a mio padre? O perché….santo Iddio, ho sempre fatto di tutto per sedermi accanto a voi durante le riunioni?”
Andrea aprì la bocca, ma gli ci volle un po’ prima di riuscire ad emettere qualche suono: “Ah… Ormanno non sono sicuro di capire dove vuoi arrivare con questo strano discor…”
“Io vi amo!” Gridò Ormanno  a pieni polmoni, per poi riprendere velocemente respiro e buttare fuori quel vomito di parole che si teneva dentro da anni: “Dopo tutto quello che ho fatto per farvelo capire non ho ottenuto altro che dolore. Nemmeno ve n’eravate accorto di ciò che provavo! Però non avete esitato a far entrare nel vostro cuore quella maledetta ingannatrice e darle tutto quello…” Deglutì: “Tutto quello che avreste dovuto dare a me!”
Andrea avrebbe voluto che fosse solo uno scherzo, ma purtroppo era tutto vero. Quella confessione tanto incredibile quanto inaspettata lo aveva completamente spiazzato. Scosse il capo, confuso: “Tu frequenti il Bordello. Mi hai detto tu stesso che con Rossella…”
“Quello è solo sesso!” Gridò Ormanno, per poi ricomporsi un poco: “E…e anche amicizia. Rossella non è solo una prostituta. E’ una ragazza gentile e con lei posso parlare oltre che…bè, lo sapete.”
Come se fosse possibile, quella conversazione rischiava di diventare ancora più imbarazzante. Doveva trovare qualcosa da dire prima che Ormanno riprendesse a dire assurdità.
“Ascolta, Ormanno…” Andrea si schiarì la voce, per la prima volta in vita sua si sentiva incerto sul da farsi e temeva di non trovare le parole giuste: “…io sono certo che vi sia un equivoco. Ti conosco da tutta la vita e non mi sei mai parso interessato alle attenzioni di…uomini.”
“Io non sono un sodomita!” Gridò Ormanno, battendosi un pugno al petto. Peccato che le emozioni lo sovrastarono nuovamente, lo abbatterono. Si ritrovò in ginocchio, le lacrime avevano ricominciato a sgorgare copiose dai suoi occhi. Niente di tutto ciò era virile, ma non riusciva a controllarsi.
Vedendolo in quello stato, Andrea sentì una morsa al cuore. Quello era il ragazzo che aveva visto crescere, doveva aiutarlo a tutti i costi. Si avvicinò a lui, con una mano gli sfiorò i folti capelli scuri. Ormanno si aggrappò a lui come se fosse un’ancora di salvezza, appoggiò la fronte sulla sua anca: “Non sono un sodomita.” Ripeté con voce spezzata dai singhiozzi.
“Ma certo che non lo sei.” Lo rassicurò Andrea, continuando ad accarezzargli i capelli: “Sei solo confuso. E temo che sia a causa mia. E’ vero, per me sei come un figlio, ti ho sempre dato tutto l’affetto che potevo. Ho cercato di colmare le lacune lasciate  da tuo padre e di questo non mi pentirò mai.” Sentì la stretta di lui farsi più forte, quindi riprese: “Forse è per questo che i tuoi sentimenti sono confusi. Quando mi sono innamorato di Lucrezia ho dato le mie attenzioni a lei, trascurandoti, e tu ti sei sentito tradito. Sono sicuro che è così. E questo ti ha portato a pensare di provare per me qualcosa di diverso da quello che è in realtà.” Scostò la mano e andò a ricercare il mento di lui per sollevargli con delicatezza il viso. Era tutto arrossato e gli occhi erano gonfi dal pianto.
“E’ così?” Gli chiese con un filo di voce.
Ormanno deglutì, si impose di placare quel pianto che lo stava distruggendo. In fondo sapeva che lui aveva ragione, che tutto ciò che aveva detto era vero. Come aveva potuto credere di amarlo in un modo diverso? Sì, era maledettamente geloso di Lucrezia, ma… Fece un cenno col capo: “Sì.”
Andrea accennò un sorriso gentile: “Va bene, figliolo.” Quindi lo aiutò a rimettersi in piedi.
I due si guardarono, nelle loro espressioni sembrava trasparire l’equilibrio ristabilito tra loro. Il primo a reagire fu Andrea, che gli diede una pacca sulla spalla: “Era da almeno dieci anni che non ti vedevo piangere. Sono fiero di te. Un uomo talvolta ha bisogno di manifestare le proprie emozioni.”
Ormanno ridacchiò: “Se lo dite voi, Pazzi!” Sospirò e si passò una manica sugli occhi per asciugare le lacrime, quindi sollevò lo sguardo su di lui, ma questa volta con totale serietà: “Però c’è una cosa che vorrei davvero fare. E non me ne andrò da qui fino a quando non l’avrò fatta.”
E ancora una volta Andrea si ritrovò in imbarazzo, temendo di intuire qualcosa: “Ormanno, non fare qualcosa di cui potresti pentirti.” E fece un passo indietro per sicurezza.
Ormanno lo guardò storto e specificò: “Voglio dire ai servi di prepararvi un bagno. Ne avete seriamente bisogno!” E scoppiò a ridere.

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Capitolo 25
*** Come una figlia ***


Capitolo ventiquattro
Come una figlia
 
Quando il servitore aprì la doppia porta del salone principale, Lucrezia rimase affascinata  dall’elegante stile veneziano che si manifestava dalle pareti dipinte fino al più piccolo vaso decorativo. L’ambiente era accogliente e colorato ed era molto piacevole a vedersi. L’unica cosa che stonava era il muso lungo di Piero, ma forse col tempo lei sarebbe riuscita a trasformarlo in un sorriso. Anche se, in verità, lei stessa aveva smesso di sorridere ormai, seppur per motivi diversi dai suoi.
Nel sentirsi toccare il braccio, voltò lo sguardo verso il marito. Lui si schiarì la voce, come per trarsi d’impaccio: “Io vado a vedere se mio padre ha bisogno di qualcosa.”
Lei abbozzò una risata: “Ci sono i servitori! In cosa potresti essergli utile tu?”
“Non so… Magari deve dirmi qualcosa. Ad ogni modo, vado. Tornerò prima di cena.” E se ne andò.
Lucrezia dovette fare appello a tutta la pazienza che aveva per non andargli dietro e prenderlo a calci solo per il gusto di farlo. Però doveva ammettere che dopo aver affrontato l’intero viaggio fino a Venezia senza dire una parola, quella breve conversazione appena avuta poteva considerarsi un traguardo.
“Prego, Madonna, vi mostro la vostra camera da letto.” Disse il servitore, esibendosi in un elegante inchino.
Lei lo seguì attraverso altre piccole stanze e poi su per due rampe di scale, fino a quando l’uomo non si fermò di fronte ad una porta. L’aprì e subito si spostò per lasciarle il passaggio libero.
Appena entrata, Lucrezia fu accolta dalla propria serva giunta alcune ore prima, assieme agli altri servitori fiorentini e ai bagagli, per preparare la casa prima del loro arrivo. Le sorrise e la salutò con un cenno del capo, per poi dedicarsi ad ammirare la stanza, anch’essa pittoresca e ben arredata. Fece un giro tutto attorno, giusto per verificare che i propri effetti fossero stati sistemati con cura nella nuova dimora, ma quando lo sguardo le scivolò su una delle vetrate, la sua attenzione venne catturata da ben altro. Quel lato della casa era affacciato su un piccolo canale dall’acqua azzurra, su cui si ergevano alcuni ponticelli di legno. Le pareti delle altre case lungo il canale erano dipinte di giallo, rosa e arancio. Tutto l’insieme creava un quadretto delizioso. Se perfino uno scorcio come quello l’aveva affascinata, chissà quali altre emozioni meravigliose avrebbe provato visitando l’intera città! Forse aveva davvero una speranza di essere felice e lasciarsi il passato alle spalle.
“Gradite rinfrescarvi, Madonna? O prima preferite che io vi faccia preparare qualcosa di gustoso per rifocillarvi dopo il viaggio?”
Lucrezia si voltò verso di lei, gli occhi illuminati da un ritrovato buonumore: “Vorrei assaggiare qualche dolcetto veneziano! Credi che il cuoco possa prepararmene in breve tempo?”
La donna le sorrise con complicità: “Sono sicura di sì! L’ho appena conosciuto ma mi è parso un uomo gentile e affidabile. E poi ha un forte accento locale che lo rende ancora più piacevole!”
Lucrezia lasciò una risata cristallina come non faceva da tempo, il che le parve di buon auspicio per la nuova vita che l’attendeva. Congedò la serva con un cenno della mano, quindi rimasta sola continuò a sbirciare. Uscì dalla camera e andò in quella adiacente dove vi era il vestibolo. Era piccolo e riservato e già pieno dei suoi vestiti e i suoi accessori. Che cosa avrebbe indossato per la sua prima cena a Venezia? Cosimo, che avrebbe vissuto in un’altra casa[7] poco lontano da lì assieme al fratello, li aveva invitati a cena con il pretesto di non perdere l’unità famigliare. Parole ipocrite, dette dall’uomo che aveva costretto la moglie a restare da sola a Firenze.
Lucrezia passò in rassegna gli abiti, indecisa se scegliere un colore caldo o qualcosa di più discreto. In fondo era solo una cena intima, niente di importante. E alla fine optò per un blu notte. Magari avrebbe potuto ingentilirlo con una bella collana… Stava appunto aprendo le ante di un altro armadio alla ricerca di qualche ninnolo quando le capitò sotto gli occhi qualcosa che avrebbe preferito non vedere in quel momento. Sollevò una mano tremante verso lo scomparto. Dapprima sfiorò il velo con la punta delle dita, poi lo prese nella mano e se lo portò alle labbra per imprimervi un bacio, per tastarne la morbidezza e il dolce profumo. Gli occhi le si riempirono di lacrime. Perché era stata così sciocca? Perché si era avventurata da sola in quel vestibolo invece di attendere il ritorno della serva? Ormai il danno era fatto. Una volta trovato il velo, nulla poteva impedire ai ricordi di invaderla brutalmente. L’ultima volta in cui aveva visto Andrea, avevano fatto l’amore contro la parete di un edificio, si erano dichiarati e poi…avevano litigato. La loro storia era stata così fin dal principio. Una breve serie di incontri passionali e di parole romantiche che poi mutavano in rimproveri. E ogni volta terminava con il dolore. Cadde in ginocchio e prese a singhiozzare, mentre le sue mani stringevano il tessuto come se al suo posto vi fosse stato lo stesso Andrea.
“Non lo rivedrò più. Non lo rivedrò mai più.” Continuò a piangere.
“Mai dire mai, Lucrezia.” S’intromise una voce gentile alle sue spalle.
Lucrezia sentì il cuore mancarle un battito nel rendersi conto che si trattava di Lorenzo. Deglutì un nodo alla gola e tentò di trovare una via di fuga: “I-io… Parlavo di…di Firenze, zio.”
Lorenzo sfoggiò uno dei suoi sorrisi beffardi, quindi prese posto accanto a lei sul pavimento: “Sappiamo entrambi che non è così! Ho udito chiaramente che ti riferivi a qualcuno. E poi, dal modo in cui stringi quel velo tra le mani, non mi è difficile credere che ti sia stato donato proprio da quel qualcuno.”
Lucrezia era pietrificata. E adesso cosa sarebbe accaduto? Avrebbe detto tutto a Piero? L’avrebbe fatta ripudiare e cacciare? Doveva farsi scoprire proprio dallo zio di suo marito, accidenti!
Vedendo il turbamento nei suoi occhi, Lorenzo la tranquillizzò con insolita calma, vista la gravità dell’argomento: “Non lo dirò a nessuno. Hai la mia parola. E non ho intenzione di giudicarti, se te lo stai chiedendo.”
“Vuoi dire che approvi l’adulterio?” Gli chiese lei, perplessa.
Lorenzo ridacchiò: “Voglio dire che conosco la differenza tra dovere e sentimento. Il matrimonio con Piero ti è stato imposto, lo so bene, ma nonostante questo hai fatto del tuo meglio per essere una buona moglie e prenderti cura di lui. Solo…non potevi sapere che un giorno avresti conosciuto l’amore.” Terminò, lanciandole un’occhiata significativa.
Lucrezia scosse il capo: “Non è come credi, zio. Io voglio bene a Piero. E’ un bravo ragazzo. Lo conosco da sempre, siamo cresciuti insieme e siamo buoni amici.”
“Vero. Però ora sei in ginocchio sul pavimento a piangere stringendo a te il dono di un altro uomo.”
Lucrezia sospirò, sentendosi improvvisamente stanca e arrendevole: “Sembri capire bene quello sto passando. Hai anche un consiglio su come lenire il dolore?”
Lorenzo alzò una mano sulla sua folta chioma ricciolina, la sfiorò delicatamente coi polpastrelli quasi avesse timore di sgualcirla. Poi con l’indice scese, seguendo una ciocca sfuggita ai fermagli. Scostò lo sguardo ed incontrò gli occhi speranzosi di Lucrezia, in attesa di una sua risposta.
“Sei giovane, Lucrezia. L’amore alla tua età sembra la cosa più importante del mondo e, allo stesso modo, perderlo sembra una catastrofe indescrivibile.” Accennò un sorriso: “La fortuna è che ben presto capirai che cosa è davvero importante  e allora riuscirai a dimenticare. O almeno ti consiglio di farlo prima che io scopra l’identità di quell’uomo, altrimenti sarò costretto ad ucciderlo con le mie mani!”
Riuscì a strapparle un sorriso, finalmente. Ma fu un breve momento. Lucrezia, bisognosa di affetto, ricercò l’abbraccio di lui, dimenticando tutt’a un tratto il velo che le scivolò dalle dita come acqua. D’istinto, Lorenzo la strinse più forte a sé, desiderando di avere il potere di darle un mondo migliore o addirittura di ricrearlo daccapo solo per lei. Fin da quando era solo una bambina, in lui era sempre stato forte il bisogno di proteggerla. Ricordava ancora con piacere il giorno in cui lo aveva chiamato ‘zio’ per la prima volta. Era un giorno d’inverno, lei e Piero stavano giocando nel cortile innevato di Palazzo de’ Medici. Lui era appena rientrato da una notte di vino e lussuria e, quando Piero lo aveva visto, lo aveva salutato. Forse sentendo lui, a Lucrezia era sfuggito lo stesso nominativo e subito dopo era arrossita per l’imbarazzo di quell’errore. A lui piacque così tanto sentire quella vocina dolce chiamarlo ‘zio’, che la pregò di chiamarlo sempre così. E lei lo aveva accontentato. Si rese conto di avere gli occhi umidi per quel lieto ricordo. Grazie ad un piccolo ed innocente errore aveva guadagnato l’affetto di una… Di fatto avrebbe dovuto definirla ‘nipote’, ma per lui sarebbe sempre stata come una figlia. Quella che non aveva avuto e che forse non avrebbe avuto mai.
“Pensi che col tempo le pene d’amore diventeranno meno dure anche per me?” La voce triste di lei lo riportò al presente. Anzi, lo fece tornare solo per poi perderlo in un altro passato più recente. Il ricordo di due grandi occhi chiari, di labbra rosse ben disegnate, di capelli ricci e biondi e…il sapore di un ultimo bacio. Chiuse gli occhi per assaporarlo meglio e per focalizzare la figura che lo tormentava. Mai avrebbe creduto di provare un dolore così intenso. Solo in quegli ultimi anni aveva conosciuto il vero amore e poi, quando Rosa era scomparsa, gli aveva lasciato dentro un vuoto incolmabile. Giorni e notti trascorrevano senza senso, nella vana speranza di ritrovarla e di ricominciare a vivere. No, le pene d’amore non sarebbero mai diventate meno dure. Ma con quale coraggio poteva dirlo a lei? Non aveva il cuore di distruggere quel barlume di speranza che poteva aiutarla ad andare avanti.  Si sarebbe tolto la vita piuttosto che ferirla. Per questo motivo decise di mentire a fin di bene. Prese respiro e si impose di rispondere senza che la voce tremasse: “Sì.” Un monosillabo fu tutto ciò che riuscì a dire, ma almeno sperò di essere stato convincente. La sciolse lievemente dall’abbraccio per poterle stampare un affettuoso bacio sulla fronte, che lei accettò come una benedizione.
Lucrezia sollevò lo sguardo su quello di lui e gli disse con gratitudine: “Ti ringrazio, zio. Prometto di non deluderti. E…prometto anche che non farò mai soffrire Piero.” E lo promise anche a se stessa.


[7]: In realtà Cosimo era ospite nel Monastero di San Giorgio.

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Capitolo 26
*** Un nuovo inizio ***


Capitolo venticinque
Un nuovo inizio
 
Anche se era stato informato dalla servitù, Ormanno rimase comunque sorpreso nel vedere Pazzi ad attenderlo nel salottino privato. L’uomo, con addosso abiti neri e collare d’oro del proprio ceto sociale, ma con un velo di tristezza sugli occhi che un tempo non aveva, a vederlo con lo sguardo perso nelle fiamme del caminetto sembrava quasi una creatura indifesa. Certo non era mai stato un uomo particolarmente sorridente, però a Ormanno non piaceva vederlo in quello stato, con il broncio e gli occhi privi di vita come quelli di una statua. Optò per uno scherzo: “Non posso crederci! E’ davvero Andrea Pazzi l’uomo che vedo seduto sulla mia poltrona!”
Funzionò, Andrea mosse lo sguardo su di lui e per un attimo un accenno di sorriso gli sfiorò le labbra. Peccato che quel sorriso morì subito e venne sostituito da uno studiato colpo di tosse. Andrea si alzò e gli andò incontro: “Buonasera, Ormanno. Perdonami l’ora…”
Ormanno scacciò quella formalità con un gesto della mano: “L’ora non ha importanza se una persona cara viene a farmi visita.”
Andrea si schiarì la voce, era visibilmente in difficoltà per quanto voleva dire. Dovette schiudere le labbra tre volte prima di riuscire ad emettere qualche suono di senso compiuto: “Spero che tu stia bene. Dopo quell’episodio imbarazzante non abbiamo più avuto modo di parlare. Intendo…sì ci siamo incontrati alcune volte per la Signoria, ma oltre quello, non abbiamo più avuto occasione di…” Niente, per la prima volta in vita sua il Banchiere Pazzi non era in grado di formulare un pensiero correttamente. Forse era a causa dello sfinimento fisico e mentale. Aveva ancora problemi d’insonnia e la bottiglia era divenuta la sua nuova amante dopo la partenza di Lucrezia. Non riusciva a riprendersi, non riusciva a darsi una spiegazione per quella dannata lettera.
Ormanno, vedendolo bloccato, prese la parola: “Io sto bene, come potete vedere. E per quanto riguarda quella faccenda, non ci pensavo nemmeno più, in verità. Voi invece…  Non vi vedo in ottima forma, se mi perdonate la franchezza.”
Andrea increspò le labbra in un sorriso amaro: “Dire che non sono in ottima forma è un eufemismo.”
“E’ più dura di quanto credevate, vero?” Azzardò Ormanno.
“Ogni volta che chiudo gli occhi rivedo il suo viso triste. L’ultima volta che l’ho vista sono stato troppo severo con lei.” Sollevò le braccia e le lasciò ricadere a peso morto: “E ora non faccio che annegare nell’alcol e nel mio stesso rimorso.” Per fare una simile confessione doveva essere veramente a pezzi.
Ormanno lasciò un sospiro, da una parte avrebbe voluto trovare un modo per aiutarlo, dall’altra invece desiderava prendere un martello e colpirgli il cranio fino a fargli perdere la memoria. Solo quella che comprendeva Lucrezia, ovviamente,  l’unica causa di tutto il male.
“Se sei d’accordo…” Quell’inizio di frase riportò la sua attenzione su Andrea, il quale proseguì: “Qualche volta la sera potresti venire a farmi visita. Magari a bere un bicchiere di buon vino. A esser sincero, Ormanno, ho disperatamente bisogno di compagnia e tu sei l’unica persona in città che tollero!” Terminò con uno scherzo per alleggerire la propria tensione, per lui non era facile aprirsi e confessare le proprie debolezze.
“Sarebbe un vero onore, Pazzi. Le mie serate ultimamente sono diventate incredibilmente noiose, eccetto quando vado da Rossella. Ma come comprenderete, non posso vederla tutte le sere e rischiare di essere scoperto da mio padre. Anche se, a dire il vero, ogni dopocena lui si rinchiude nel suo studio per pianificare solo il cielo sa cosa. Mia madre invece è solita ritirarsi in preghiera e…” Sorrise divertito: “Il mio fidato Tommaso non vede l’ora che io lo congedi per infilarsi nel letto della sua bella!” Come perso in un pensiero, continuò: “Credo che tra loro vi sia qualcosa di serio. Non posso che augurargli ogni bene, se è così.” Era lieto di sapere che il giovane amico aveva trovato qualcosa a cui dedicarsi che non fosse creare veleni per soddisfare le brame sue e di Rinaldo.
“Sei molto legato a lui, mi sembra di capire.” Disse Andrea per riportarlo al presente, quindi sottolineò: “E’ un ragazzo davvero fortunato. Lo hai trovato quando aveva più bisogno e lo hai preso sotto la tua ala protettrice.”
Lo sguardo complice di Ormanno fu una risposta sufficiente. Non avendo altro da aggiungere, Andrea si schiarì la voce: “Credo di averti disturbato a sufficienza. E’ meglio che io vada.”
Ormanno gli aprì la porta e lo accompagnò fino all’uscita del palazzo, in silenzio. Forse non era stato saggio parlare in quel modo di Tommaso e fargli capire quando tenesse a lui. Quel ragazzo era tanto prezioso quanto pericoloso, purtroppo. Se in qualche modo Andrea avesse scoperto che Rinaldo aveva tentato di far uccidere Lucrezia col veleno, che cosa ne sarebbe stato di tutti loro? Era certo che non avrebbe esitato a rompere l’alleanza politica e se fosse riuscito ad arrivare a Tommaso avrebbe anche potuto farlo torturare per fargli confessare tutto. Doveva esser sincero con se stesso, più che la rottura dell’alleanza ciò che temeva di più era che venisse fatto male a Tommaso. Il solo pensiero gli fece mancare la terra sotto i piedi. Per fortuna l’arrivo all’ingresso lo obbligò a controllare le emozioni.
“Domani sera vi farebbe piacere, Pazzi?” Gli chiese di punto in bianco, tornando sulla loro discussione precedente.
Andrea fece un cenno col capo: “Assolutamente sì. E per non farti rimpiangere la compagnia della tua bella Rossella, ti offrirò il mio vino migliore.”
Ormanno ridacchiò: “Una volta o l’altra vi convincerò a combinare le due cose. Buon vino e belle donne!” Lo aveva detto come uno scherzo, ma in realtà era proprio ciò a cui si sarebbe dedicato. Gli serviva solo un po’ di tempo. Anche se il suo sentimento per Andrea si era infine rivelato diverso da quello che credeva, era comunque geloso di Lucrezia e in un modo o nell’altro voleva fargliela dimenticare.  
*
Pur essendo autunno inoltrato, il sole rendeva l’aria tiepida e i suoi raggi riflettevano sull’acqua della laguna facendola sembrare una distesa di oro liquido. Era incantevole.
Dopo aver trascorso un numero imprecisato di giorni passeggiando nei dintorni di Piazza San Marco per riflettere, Lucrezia era giunta ad una conclusione ed ora si trovava lì al molo per attuare il suo progetto e dire addio al passato. Quel mattino si era svegliata con un terribile senso di vuoto che le aveva fatto temere il peggio. Non potendo sopportare un minuto di più di stare a letto con un marito che si stava trasformando in un vegetale, si era alzata e aveva indossato il primo abito che le era capitato tra le mani. Aveva un disperato bisogno di uscire, di immergersi nella bellezza e sentirsi di nuovo viva. E poi all’ultimo istante aveva preso il velo dall’armadio e l’aveva indossato senza nemmeno chiedersi il perché.
“E’ arrivato il momento, Lucrezia.” Si disse, nel tentativo di infondersi coraggio. Tolse i due fermagli con cui aveva fissato il velo ai capelli e li ripose in una piccola tasca nascosta tra le pieghe della gonna, quindi lo fece scivolare dai capelli, tirandolo per un lembo. Sapeva che non sarebbe stato facile, ma di certo non si aspettava che le vertigini l’assalissero così repentine. Si voltò e con lo sguardo ricercò un punto fermo al quale aggrapparsi con la mente. Il Campanile di San Marco venne in suo aiuto. Altissimo e imponente, vegliava sulla città come un guardiano e allo stesso tempo aveva un che di inquietante. Fin dalla prima volta in cui l’aveva visto aveva attirato la sua attenzione e talvolta le piaceva immaginare di essere lassù, sulla sua cima, e di guardare l’intera città sotto di sé. Ma ogni volta quella fantasticheria si trasformava in paura, quella dell’altezza e del vuoto sotto i piedi. Sbuffò e si voltò nuovamente verso la laguna.
“Stai temporeggiando.” Si rimproverò. La sua mano ora stava stringendo il velo come se volesse fargli male, ferirlo, ucciderlo, fargli esalare l’ultimo respiro neanche fosse stato una cosa viva. Voleva fargli perdere ogni significato e gettarlo via assieme al sentimento che provava per l’uomo che glielo aveva donato. All’improvviso allentò la stretta, si ritrovò a tenerlo solo col pollice e l’indice. Doveva solo lasciarlo e in un attimo sarebbe finito nelle acque della laguna… Protese il braccio in avanti, lasciando che la leggera brezza mattutina danzasse con quel tessuto dal colore puro. Quando la vista le si offuscò a causa delle lacrime, chiuse gli occhi e sussurrò: “Addio Andrea.”
“Ve lo sconsiglio caldamente.”
Udendo quella voce, Lucrezia ritirò la mano immediatamente e d’istinto appallottolò il velo per intrappolarlo tra le proprie mani, per timore che gli venisse sottratto.
“Così va meglio.” Colui che aveva parlato era un giovane abbigliato con abiti evidentemente costosi, ma con un incarnato pallido e due profonde occhiaie nere sotto gli occhi arrossati che gli davano un’aria malaticcia. L’affiancò: “Qualunque motivo vi abbia spinta a liberarvi di un così bell’oggetto, vi assicuro che non ne vale la pena.  Sarebbe davvero un peccato gettare al vento, letteralmente, un tessuto così costoso.”
Lucrezia s’irritò a causa di tanta sfacciataggine: “Scusatemi, ma quel che faccio non è affar vostro.”
Il giovane sorrise compiaciuto, quel caratterino focoso gli piaceva: “Però sono riuscito a farvi cambiare idea, visto il modo in cui lo stringete tra le mani.” E detto questo si sedette sul bordo di pietra del molo, appoggiando i piedi su uno dei gradini sottostanti. Sembrava sfinito.
Dopo aver ripiegato velocemente il velo ed averlo riposto sotto al mantello, Lucrezia prese posto accanto a lui e lasciò che uno slancio caritatevole avesse la meglio sull’orgoglio: “Posso aiutarvi in qualche modo? Mi sembra che non stiate molto bene…”
Il giovane scoppiò in una risata scomposta: “Sto solo smaltendo la sbornia! E vi assicuro che non è la prima volta, perciò non avete di che preoccuparvi.” La risata cessò e lui le fece l’occhiolino: “Comunque vi ringrazio per il pensiero!”
Lucrezia sentì il sangue salire e concentrarsi sul viso, ma non sapeva se per la collera o per l’imbarazzo. Era davvero instabile se accettava di essere presa in giro da uno sconosciuto senza reagire. Per salvare almeno in parte l’orgoglio, pensò bene di rispondere per le rime. “A mio parere eccedere nel bere non è affatto una bella abitudine. Dovreste avere più cura di voi.”
“E’ quello che dice anche mio padre.” Rispose semplicemente lui, per poi puntellare i palmi delle mani a terra e gettare il capo all’indietro per godersi il calore del sole sul viso.
Lucrezia lo guardò incuriosita, tutto sommato non sembrava una cattiva persona. Si era interessato a lei e le aveva impedito di fare una sciocchezza di cui poi si sarebbe pentita. Chiunque egli fosse gli doveva già un favore.
“Voi…” Si schiarì la voce e riprese: “Dovete essere un uomo importante se potete permettervi abiti costosi e nottate allegre.” Lo stuzzicò, giusto per vedere la sua reazione.
Lui fece una smorfia, tenendo comunque occhi chiusi e capo all’indietro: “Io non sono nessuno. Solo un ragazzo che vuole vivere la vita fino in fondo senza essere intrappolato da ridicole regole.”
Lei cercò di trattenere una risatina, con scarso successo: “E bere fino a sentirvi male lo chiamate vivere?”
Inevitabilmente, lui risollevò il capo e la guardò con diffidenza: “Voi non siete di qui, vero?”
“Non è evidente?” Chiese lei di rimando, indicando il proprio abito sobrio e di certo ben lontano dalla moda locale.
“Se poteste illuminarmi…!” La provocò, sfoggiando un sorriso furbo.
Lucrezia scostò lo sguardo, divenuto improvvisamente triste, e lo lasciò vagare sul panorama: “Vengo da Firenze. Io e la mia famiglia…” Scosse il capo e si corresse: “Io e la famiglia di mio marito siamo stati esiliati.”
Il giovane fischiò, al massimo della maleducazione: “Brutta storia. Ma vedrete che vi rifarete una vita qui. Venezia è una delle città più belle del mondo e poi…” Lasciò la frase in sospeso in attesa che lei gli rivolgesse nuovamente lo sguardo, quindi riprese: “Adesso conoscete me. Vi presenterò a persone di buona compagnia e in breve tempo dimenticherete perfino il nome della vostra città!”
Lei lo rimproverò, ma questa volta con tono amichevole: “Siete sempre così sfacciato?”
“Solo con le fanciulle degne delle mie attenzioni.” E ancora una volta le fece l’occhiolino. Non aveva dato alcun peso al fatto che lei fosse sposata, anzi non gliene importava proprio nulla!
Lucrezia si rialzò e, più per pietà che per gentilezza, gli porse una mano a cui aggrapparsi o da solo non sarebbe mai riuscito a rimettersi in piedi senza rischiare di finire dritto nella laguna, ridotto com’era.
“Mi permettete di accompagnarvi alla vostra dimora?” Le chiese, cimentandosi in un traballante inchino.
“Oh, non importa, davvero. Non è lontano.”
“Tanto meglio!” Disse lui, facendola ridere. Quindi s’incamminarono nella bellissima piazza.
“Tutto è meraviglioso qui. Ogni minima cosa cattura la mia attenzione.” Confessò lei, sentendosi improvvisamente rilassata e serena.
Lui non mancò di dire qualcosa di pungente: “Spero vivamente che vi interesserete anche ai tessuti. Conosco ottimi sarti che in pochi giorni potrebbero ridare vita al vostro guardaroba.” Ma poi il suo tono si fece più gentile: “E a mio parere dovreste mettere delle gemme tra i capelli, per esaltarne la bellezza.”
“Mi state adulando?” Chiese lei, con fare civettuolo, persa in quel gioco piacevole e pericoloso. Fortunatamente giunsero a destinazione prima che la situazione diventasse troppo inopportuna. Lucrezia si fermò e indicò la casa: “Eccoci.”
Il giovane diede giusto un’occhiata per valutarla e per memorizzare qualche dettaglio nel caso un giorno avesse dovuto ritrovarla. Poi si rivolse a Lucrezia seriamente: “Non rientrate senza promettermi che domani vi rivedrò.”
Lei lo guardò in tralice: “E’ una minaccia? Vi informo che non prometterò alcun che fino a quando non mi avrete detto il vostro nome.”
Lui fece un cenno col capo: “Jacopo.”
“Lucrezia.” Disse lei di rimando, sollevando una mano per concedergli di baciarla. Cosa che lui fece senza farsi pregare. Quando risollevò il capo, la guardò in un modo che le spezzò il fiato.
“Promettete?”
Tutto ciò che riuscì a fare fu un cenno positivo col capo, la voce era come se fosse rimasta seppellita da qualche parte nel petto.
Jacopo sorrise e le lasciò andare la mano facendola scivolare delicatamente dalla propria: “Ora potete rincasare, Madonna Lucrezia. E sarà bene che io faccia ritorno a Palazzo Ducale, prima che mio padre mi mandi a cercare dalle guardie!”
“Palazzo Ducale? Siete ospite di qualcuno che vi risiede?” Chiese lei in un impeto di curiosità.
Lui scosse il capo, ridacchiando: “Sono io che ci vivo. Capita, quando si è figli del Doge.” E detto questo se andò, lasciandola lì a bocca aperta per la sorpresa.
Non era possibile! Non poteva credere di aver fatto conoscenza proprio con Jacopo Foscari, il figlio dell’uomo più potente e importante della Serenissima Repubblica di Venezia! Ripresasi un po’, sorrise al nulla. Con un pizzico di fortuna forse sarebbe riuscita a scacciare la tristezza e ad accogliere il divertimento. Ora aveva un amico che l’avrebbe aiutata. E che amico!

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Capitolo 27
*** Fiele ***


Capitolo ventisei
Fiele
 
Non era stato necessario presentarsi. Il viso sorpreso e allo stesso tempo impaurito della donna che lo aveva accolto all’ingresso, era stato sufficiente a fargli capire di essere stato riconosciuto. Dopo alcuni istanti d’immobilità, Madonna Leona chinò il capo e cercò di dire qualcosa per non sembrare irrispettosa: “M-Messer Al-Albizzi…”
“Dove si trova mio figlio?” Chiese lui, con tono severo e intimidatorio.
“Al primo piano, la terza porta sulla destra.” Non ebbe nemmeno il coraggio di alzare lo sguardo su di lui, mentre rispondeva.
Rinaldo la passò senza dire altro, solo si voltò un istante per accertarsi che Tommaso fosse dietro di lui. Ed infatti c’era, lo seguiva come un’ombra, a testa bassa e con aria colpevole. Era stato lui a rivelargli dove trovare Ormanno.
Non appena raggiunse la porta indicata, l’aprì senza preoccuparsi di bussare e quando allungò lo sguardo all’interno della stanza si sentì fremere dalla rabbia. Sul letto, nudi e svergognati, giacevano Ormanno e Pazzi. A dividerli, una prostituta dai capelli rossi e le forme burrose.
Avendo udito il rumore della porta, Rossella si era svegliata e, nel vedere degli estranei, lasciò un grido che destò anche i suoi due clienti. Mentre lei si affrettava ad afferrare il lenzuolo per coprirsi, Ormanno e Andrea aprirono gli occhi a fatica, esausti dalla notte di lussuria e messi fuori combattimento da un evidente abuso di alcol. Ormanno si portò una mano alla fronte per placare una terribile fitta di dolore, la voce gli uscì roca: “Padre.”
Rinaldo si rivolse a Rossella: “Tu, esci da qui. Immediatamente.”
“Ma questa è la mia st…” S’interruppe all’occhiata omicida che lui le lanciò. Cercò di stringersi addosso il lenzuolo, ma le sarebbe stato impossibile portarlo con sé dato che era parzialmente bloccato dagli altri due corpi stesi sul letto. Sarebbe morta piuttosto che farsi vedere nuda da quell’uomo. In suo aiuto arrivò Tommaso che, vedendola in difficoltà, si era guardato attorno e una volta adocchiata una veste da camera andò a recuperarla. Gliela porse gentilmente, anche se era una prostituta non meritava meno rispetto di qualunque altra donna.
Lei prese l’indumento sussurrando: “Vi ringrazio.” Al quale lui rispose con un cenno del capo. Una volta messo tutto al sicuro, Rossella scivolò giù dal letto e se ne andò dalla stanza come richiestole.
Rinaldo aveva tenuto per tutto il tempo lo sguardo fisso sul figlio, non lo distolse nemmeno quando si rivolse a Tommaso: “Ragazzo, porta a casa mio figlio. A lui penserò dopo.”
“Sì, mio Signore.” Rispose lui, per poi recuperare dal pavimento gli indumenti di Ormanno e aiutarlo a rivestirsi. La parte più difficile si rivelò sostenerlo poiché, ridotto com’era, non riusciva quasi a camminare. Sperò solo che non ruzzolassero giù per le scale. Sarebbe stato umiliante. Per fortuna, un gradino alla volta, raggiunsero il piano terreno senza incidenti, anche se Ormanno puzzava talmente tanto di sudore, sesso e vino da causargli quasi un mancamento.
Nel vederli arrivare, Madonna Leona aprì loro la porta d’ingresso: “Povero ragazzo. Che cosa gli farà il padre, ora?”
Tommaso rispose onestamente: “Chi può dirlo? La follia di quell’uomo non ha limiti.”
Fecero appena in tempo a svoltare l’angolo del vicolo che Ormanno fu colto dalla nausea. Tommaso dovette letteralmente sostenerlo di peso, altrimenti Ormanno sarebbe finito a terra nella pozza del suo stesso vomito. Passato il peggio, Ormanno prese un respiro profondo, in attesa che il mondo attorno a lui smettesse di girare.
“Perdonami, Tommaso. Speravo che non mi avresti mai visto così.”
“Non avete nulla di cui giustificarvi.”
“E invece sì. Tu non sei solo un servo, sei anche mio amico.”
Tommaso emise un suono buffo con la bocca: “Un amico che vi ha tradito!” Sempre tenendolo appoggiato a sé, riprese a camminare verso casa. Non vedeva l’ora di arrivare.
*
Dopo aver deglutito un sorso di vino per togliersi il sapore amaro dalla bocca, Andrea squadrò Rinaldo: “Avete intenzione di restare lì fermo a guardarmi le parti intime fino all’ora di pranzo?”
Rinaldo scosse il capo, sul volto un’espressione di disgusto: “Stavo solo guardando le conseguenze delle pene d’amore. Grazie al cielo non mi hanno mai sfiorato. Ho sempre tenuto lontane le donne.”
“Avete una moglie, Rinaldo.”
“E questo cos’ha a che vedere con l’amore?” Puntualizzò lui.
Suo malgrado, Andrea ridacchiò per quella verità. Matrimonio e amore troppo spesso erano due cose incompatibili, per gli altolocati. Si diede la spinta per riuscire a mettersi seduto, quindi mise i piedi  a terra e si chinò per riprendere la camicia. Aveva bisogno di ritrovare la propria dignità.
Rinaldo si decise ad abbandonare la soglia e andò incontro all’amico: “Una puttana. Veramente, Pazzi? E per di più avete coinvolto anche mio figlio nella vostra depravazione.”
Quindi credeva che Ormanno fosse stato spinto a farlo. Meglio così, si sarebbe preso la colpa di tutto e avrebbe risparmiato ad Ormanno conseguenze spiacevoli.
“Era ubriaco quando gli ho proposto di venire qui. E anch’io, in verità. So cosa pensate al riguardo e vi porgo le mie scuse. Vi garantisco che non accadrà più.” Ed infilò le gambe nelle braghe.
“Sono io che ve lo garantisco!” Il tono alterato di Rinaldo gli fece sollevare un istante lo sguardo, ma poi tornò a dedicarsi alla propria vestizione.
“Un uomo come voi non può frequentare un bordello. Specialmente adesso.”
Una volta indossati anche gli stivali, Andrea si rialzò in piedi e azzardò uno scherzo: “Ecco che ha inizio la ramanzina!”
Rinaldo lo afferrò alle spalle e lo guardò dritto negli occhi: “Ho bisogno di voi, Pazzi. Lo capite?” Nei suoi occhi chiari vi era una sfumatura di paura: “Ho bisogno del vostro aiuto per comandare questa città. Ogni settimana che passa si verificano sempre più disordini. Sono costretto ad assoldare mercenari da tutta la nostra Repubblica per placare quei fuochi molesti. Ho timore che anche i nobili cominceranno a ribellarsi a me, se mi crederanno debole.”
“Allora dovreste lasciare il comando. Firenze non tornerà all’antico regime, Rinaldo, dovete abbandonare questa idea o vi distruggerete con le vostre mani.” Rispose secco Andrea.
“Dopo aver ottenuto la mia vendetta su Cosimo de’ Medici? Preferirei la morte.”
Andrea sollevò un sopracciglio: “Ricordatevi di queste parole, quando sarà il momento.” E si liberò del suo tocco.
Rinaldo rimase turbato da quelle parole, l’Andrea Pazzi che conosceva non avrebbe mai osato rivolgersi a lui in quel modo.  Ma ormai, che ne era stato di quell’uomo? Doveva fare qualcosa. Cercò di usare un tono amichevole, sperando che bastasse: “Mio caro Pazzi, vorrei darvi un consiglio da amico. Siamo prossimi alle festività natalizie, perché non vi prendete un po’ di tempo per voi stesso? Partite, andate dalla vostra famiglia e trascorrete una piacevole e lunga vacanza.”
Andrea sospirò: “Non credo di esserne in grado. Non ancora.”
Rinaldo riuscì perfino a simulare un mezzo sorriso: “So che amate i vostri figli e ora avete bisogno di loro più che mai. Dovete riprendervi, Andrea. Dovete riprendere il vostro posto in società.” Gli posò una mano sulla spalla e avvicinò il viso al suo: “Perdonate vostra moglie e riportate la vostra famiglia a vivere a Firenze con voi. Siate un esempio.” Terminò dando enfasi a quell’ultima parola.
Andrea aveva capito che tutto il discorso puntava solo al potere. Voleva manovrarlo come un burattino per dimostrare la propria autorità. Il pensiero gli riportò l’amaro in bocca. Ma d’altronde, su una cosa aveva ragione: trascorrere del tempo con la propria famiglia gli avrebbe giovato e, con un po’ di fortuna, forse sarebbe riuscito a smettere di pensare a Lucrezia e al male che gli aveva fatto preferendo i Medici a lui.
Fece dei cenni positivi col capo: “Sì, avete ragione. Lo farò. Farò un tentativo.”
Rinaldo si sentì già più tranquillo nell’udire quella risposta. Se fosse davvero riuscito nell’intento, avrebbe riavuto il suo prezioso alleato e insieme di certo sarebbero riusciti a dominare la città.
*
Tra gli effetti della sbornia e il freddo pungente che aveva invaso la città, Ormanno aveva davvero bisogno di un bagno bollente e ristoratore. Era bastato entrare nella vasca e mettersi comodo per desiderare di rimanere lì per sempre, cullato dall’acqua e dal profumo delle erbe aromatiche che Tommaso aveva aggiunto in gran quantità. Un fruscio gli ricordò che Tommaso era ancora lì con lui, nella stanza da bagno. Aprì gli occhi e lo vide intento a recuperare dal pavimento gli indumenti di cui poco prima lo aveva aiutato a liberarsi. Sul volto aveva un’espressione troppo seria.
“Lascia. Le serve se ne occuperanno più tardi. Vieni, siedi qui accanto a me.”
Tommaso temporeggiò, sembrava quasi incerto sul da farsi, ma alla fine obbedì. Posò il mucchio di abiti sudici accanto alla porta e andò a recuperare uno sgabello. Le mani in mano, il capo chino e quell’espressione corrucciata erano chiari segnali che qualcosa non andava.
Ormanno pensò bene di tranquillizzarlo: “Non sono in collera con te. Immagino che mio padre ti abbia costretto a dirgli ciò che voleva. Non fartene una colpa.”
Tommaso mosse lo sguardo verso di lui, ma non lo guardò in viso: “Vi ringrazio.”
Una risposta così misera non era da lui. Non l’aveva mai visto così, con quell’aria da cane bastonato. Sollevò una mano dall’acqua, spinto dall’impulso di toccargli i capelli, in particolare quella ciocca ribelle che gli finiva sempre sulla guancia e che talvolta gli copriva un occhio. Ma poi si bloccò, guardò la propria mano gocciolante e un istante dopo la ritirò.
“Tommaso, puoi confidarti con me. Cosa ti turba?”
Finalmente lui sollevò lo sguardo sul suo, i suoi occhi scuri sembravano fiammeggianti di rabbia e le parole non furono da meno: “Se vi rivelassi i miei pensieri mi fareste punire. Poiché essi riguardano vostro padre.”
Per dire una cosa del genere, significava forse che…
Ormanno si allarmò: “Che cosa ti ha fatto? Dimmelo! Se ti ha anche solo sfiorato, giuro…”
“No, non è come credete.” Lo interruppe Tommaso, per poi voltare il capo altrove. Si alzò dallo sgabello e andò verso il camino, dove sostò nel tentativo di non dare in escandescenze.
Ormanno lo incalzò: “Devi dirmi tutto. Qualunque cosa ti abbia fatto, hai la mia parola che non accadrà più. Devi fidarti di me.”
Tommaso stava stringendo i pugni con tanta forza che il suo volto era divenuto quasi paonazzo per lo sforzo. Se fosse esploso cosa sarebbe accaduto? Rinaldo era un mostro ma era pur sempre il padre di Ormanno. Colpì il vuoto con un pugno, gridando: “Al diavolo!” Tornò accanto alla vasca, era così furioso che gli occhi sembravano uscirgli dalle orbite: “Mi ha minacciato, ma non è questo il punto. Anche se mi avesse fatto picchiare e frustare, io non avrei detto una parola.”
Ormanno lo fissava come se volesse leggergli nell’anima ma, visto che non era in grado di farlo, dovette porgli la domanda: “Che cosa ha fatto?”
Dapprima le labbra serrate in una morsa e i denti tanto stretti da scricchiolare, Tommaso infine buttò fuori tutto quello che aveva da dire: “Ha minacciato di fare del male a Stella. Ha detto…” Si bloccò per ingoiare un nodo alla gola: “Ha detto che se non avessi parlato, avrebbe fatto frustare sia me che lei e poi l’avrebbe cacciata.” Sferrò un altro pugno all’aria: “Non potevo permetterglielo!”
Ormanno si sentì fremere, non poteva credere che suo padre fosse arrivato a quel punto. Il potere gli stava davvero dando alla testa, era diventato un uomo brutale e senza pietà. E poi, sapere che aveva ferito i sentimenti di Tommaso era una cosa che gli bruciava come fuoco.
“Ha saputo che tieni a lei e ne ha approfittato per metterti in ginocchio.” Sentenziò, scuotendo lentamente il capo con disapprovazione.
“Nessuno qui le è affezionato, tranne vostra madre. Tutte le serve la odiano, sono delle pettegole invidiose che sarebbero felici di vederla mendicare per strada.” Lanciò un’occhiata a Ormanno, credendo che lui volesse chiedergli di più al riguardo, ma ciò che vide nei suoi occhi lo offese. Appoggiò le mani al bordo della vasca e lo guardò dritto in viso: “Anche voi credete che lei non meriti il ruolo che ha? Non sarà brillante, non sarà una fulgida bellezza, però è una brava ragazza e io la amo per la sua semplicità.”
Ormanno rimase senza fiato per quella confessione. Dunque era davvero una relazione seria. Era lieto di questo ma…perché in un angolino della sua mente sentiva una voce digli tutt’altro? Per quanto si sforzasse di non pensarci, era geloso. Ma che tipo di gelosia era? La stessa che provava per Andrea? Non lo sapeva. Andrea era sempre stato una figura paterna, ma Tommaso… Tommaso era un ragazzo intelligente e dalle mille risorse e ogni volta che era vicino a lui provava desiderio di toccarlo. Con Andrea non aveva provato niente di simile.
Avendo frainteso il suo lungo silenzio e il suo sguardo turbato, Tommaso si sentì in colpa, credendo di aver veramente passato il limite: “Vi chiedo perdono. Non volevo mancarvi di rispetto. E’ solo che…” Scosse il capo e si risollevò: “Vorrei tanto darle più. Se avessi i mezzi necessari, aprirei una bottega tutta mia in cui esercitare la professione di speziale e la porterei con me.” Sottolineò: “Non fraintendetemi, vi sono grato per tutto ciò che avete fatto per me. Ma ho dei sogni che desidero realizzare, un giorno. E tra questi c’è anche quello di mettere su famiglia con lei.”  
Ormanno aveva ascoltato ogni parola con interesse, apprezzando l’onestà di quella confessione. Sentire dalle sue labbra ciò che desiderava, era un dono prezioso. Per questo si sentì l’anima in pace. Abbozzò un sorriso: “C’è una cosa che mi frulla per la testa ultimamente e credo che sia giunto il momento di dirtela. Come te la cavi con le armi?”
Tommaso fece spallucce: “So usare bene il coltello.”
Ormanno ridacchiò, ma poi si fece più serio: “Ti informo che, a  partire da domani, ti addestrerò personalmente nell’arte della spada. E quando sarai pronto, ti nominerò mia Guardia Personale. Anche se non è il tuo sogno, ti consentirà comunque di avere una posizione rispettabile.”
Tommaso lo guardò con tanto d’occhi: “Dite davvero? Ormanno, ve ne sono grato ma… non credo di esserne all’altezza.”
Lui gli lanciò un’occhiata maliziosa: “Quando avrò finito con te, ti assicuro che lo sarai!”
E con quelle parole riuscì a strappargli un sorriso. Uno di quelli che lo caratterizzavano, di quelli che nascevano dall’arricciamento delle labbra. Uno di quelli che lui adorava.

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Capitolo 28
*** Passione cieca ***


Capitolo ventisette
Passione cieca
 
Era un pomeriggio di gennaio, la pioggia cadeva come se dovesse verificarsi un secondo diluvio universale e il freddo umido minacciava di entrare fin nelle ossa, ma a Caterina non importava, l’emozione che le scaldava il cuore era di gran lunga più forte delle intemperie invernali. Per tutto il viaggio aveva dovuto trattenere l’impulso di mettere la testa fuori dalla carrozza, tanto era impaziente di vedere Firenze comparire all’orizzonte. Talvolta aveva cercato di distrarsi chiacchierando con Antonio e Jacopo che si trovavano nella carrozza assieme a lei e Andrea, quest’ultimo rimasto praticamente muto per tutto il tempo. Sperava solo che i bambini nell’altra carrozza non stessero facendo impazzire la balia, in particolare la piccola Albiera che aveva sviluppato un’incontenibile parlantina anche se ancora non riusciva a pronunciare bene tutte le parole. Di tanto in tanto, invece, si soffermava ad osservare Andrea, scrutando i suoi occhi scuri persi in chissà quale pensiero e le labbra serrate in un filo sottile che sembrava essere stato disegnato sul suo viso. A modo suo era un bell’uomo e poi, da quando lei lo aveva convinto a lasciarsi crescere un leggero strato di barba, aveva assunto un certo fascino. Le poche volte in cui lui aveva incrociato il suo sguardo, lei gli aveva sorriso nella speranza che ricambiasse, ma non lo fece. Comunque, ora che stavano per tornare a vivere tutti sotto lo stesso tetto, avrebbe avuto tutto il tempo di addolcirlo.
Infine erano giunti a Firenze e lei aveva divorato con lo sguardo ogni singola casa ed ogni singolo angolo per confrontarli con le immagini impresse nella propria memoria. Pur sapendo della vicenda legata alla Cupola della Cattedrale, rimase sorpresa nel vedere quella corolla rossa sulla cima e una parte di lei si chiese se mai qualcuno ne avrebbe ultimato la costruzione. Il tempo di formulare quei pensieri e la carrozza entrò nel cortile interno di Palazzo de’ Pazzi.
Un servitore aprì la porticina della carrozza e le porse la mano a cui lei si appoggiò per scendere. Col naso all’insù per osservare la sua dimora e le labbra socchiuse per l’emozione, Caterina parve tornare bambina. Una lacrima fece capolino dalle ciglia e le rigò una guancia, nel sussurrare: “Sono a casa.”
Andrea le avvolse le spalle con un braccio, cosa che la sorprese alquanto, e la guidò fino all’ingresso dove vi erano alcuni dei servitori in attesa di accoglierli. Caterina regalò loro un luminoso sorriso: “Agata! Goffredo! Guendalina!”
Se l’uomo si limitò a fare un cortese inchino, la domestica invece scoppiò in un pianto emozionato e si gettò sulle sue mani per baciarle: “Oh Madonna Caterina! Sono così felice che siate tornata nella vostra dimora.”
Caterina lasciò una risata innocente: “Anch’io, Agata. Suvvia, non fare la sentimentale! Non fa bene alla tua età.”
Agata tirò su col naso e si ricompose: “Sì, mia Signora. Siete così gentile a preoccuparvi per me.”
Poi fu la volta di Guendalina che si esibì in un aggraziato inchino ma, prima che potesse porgerle i propri omaggi, arrivò lo stormo dei piccoli Pazzi che la circondò facendo un gran baccano.
“Va bene, va bene!” Sorrise lei: “Signorine e Signorini, seguitemi. Vi condurrò alle vostre stanze.” Era felice di vedere tanta gioventù nel palazzo. Quel luogo era rimasto cupo e silenzioso troppo a lungo.
Caterina, non appena la sua allegra nidiata si fu allontanata, si rivolse scherzosamente alla governante: “Temo che tu e le tue ragazze avrete un bel daffare d’ora in poi!”
“Oh non chiedo altro, Madonna. Sarà una gioia immensa.” Rispose lei, portandosi il fazzolettino al viso per asciugare nuove lacrime.
Dopo l’accoglienza, giunse infine il momento che Caterina aspettava con più ansia di quanta ne avesse avuta di tornare in città. Il ritiro nelle stanze private. Anche se conosceva bene il palazzo, lasciò che Andrea la guidasse per i corridoi, fino a quando giunsero a quello riservato a loro. Le une di fronte alle altre, vi erano le doppie porte che conducevano rispettivamente alle stanze di lui e a quelle di lei. Certo non sperava che Andrea le avrebbe chiesto di condividere la stessa camera da letto, avevano avuto camere separate fin dal giorno del matrimonio, come chiunque del loro ceto sociale, ma almeno le sarebbe stato facile entrare nel letto di suo marito notte dopo notte e tentare così di ricostruire il loro matrimonio.
Accennò un timido sorriso: “Sono lieta che mi abbiate concesso questa seconda possibilità.”
Lui si schiarì la voce, tradendo la propria agitazione: “Sì, io… L’ho fatto per i nostri figli. Hanno bisogno di entrambi i genitori ed è giusto che crescano nella loro città. E poi desidero stare accanto a Francesco, essere più presente. Lui è quello che ne ha risentito di più della mia assenza.” Aveva deviato il discorso sui figli, vigliaccamente. Per lui era estremamente difficile ammettere di voler ritrovare l’intesa con sua moglie. Ma forse lei aveva ugualmente capito le sue intenzioni.
Sollevò una mano su di lui e gliela posò sul petto, per poi sporgersi e dargli un bacio sulle labbra. Le assaporò lentamente prima di ritrarsi e incontrare il suo sguardo. Gli sorrise dolcemente e fece per lasciarlo, ma lui la trattenne afferrandole la mano. Gli occhi dorati di Caterina lo guardarono con sorpresa. Tenendola per mano, la condusse all’interno della propria camera. Richiuse la porta con un colpo della mano  e in un attimo si ritrovò addosso a sua moglie. Le rubò un bacio intenso e con le mani andò subito a ricercare le sue curve sotto agli abiti. In un qualche modo, aiutandosi a vicenda, ma senza smettere di baciarsi, tolsero di mezzo ogni brandello di stoffa che li divideva, quindi lui la issò su di sé e la portò fino al letto. Non fecero in tempo a coricarsi che lui la stava già possedendo. A spingerlo, un’incontrollabile passione amalgamata al desiderio di avere la propria vendetta su Lucrezia per il male che gli aveva fatto partendo. Prese tutto ciò che poteva di Caterina, la fece gridare, la fece piangere, sopportò i suoi graffi sulla schiena e talvolta i suoi morsi sul collo. Più che un rapporto carnale, il loro sembrava una lotta corpo a corpo tra acerrimi nemici che volevano distruggersi. E continuarono così fino a quando la furia di Andrea esplose nel ventre di lei e tutto ebbe fine. Stremato, si abbandonò tra le sue braccia  e le concesse di cullarlo e accarezzargli i capelli. Ora che lui non poteva vederla, Caterina sorrise trionfante per la prima vittoria ottenuta.
*
La concentrazione era una delle sue doti naturali e gli aveva sempre permesso di apprendere rapidamente qualunque cosa gli fosse servita per affrontare le difficoltà, oltre che permettergli di ragionare a mente lucida invece di lasciarsi ingannare dalle emozioni, positive o negative che fossero.
Anche se si era legato i capelli stringendo saldamente il laccio, la sua ciocca ribelle aveva comunque trovato la strada per uscire e in quel momento era appiccicata al viso umido. Sulle sue guance, due chiazze rosse come fragole facevano pendant con le labbra, tanto era affaticato. E ad ulteriore dimostrazione, vi era il fatto che il suo petto si sollevava rapidamente, bisognoso di aria, anche se lui si ostinava a respirare solo dalle narici. Con gesto rapido, si portò la ciocca dietro l’orecchio e diede giusto una passata all’indietro ai capelli madidi di sudore.  Con la destra impugnava la spada, tenendola in posizione di guardia con mano ferrea.
Di fronte a lui, a pochi passi, Ormanno lo stava studiando, anch’esso tenendo la spada in guardia. All’ultimo decise di fare la prima mossa per vedere come si sarebbe difeso. Tommaso parò il colpo senza difficoltà e non si lasciò spaventare da quelli più potenti che vennero dopo in rapida successione. La sua prontezza di riflessi e il suo equilibrio erano ammirevoli e in breve tempo le sue braccia si erano modellate e rafforzate, come anche le gambe. Lui stesso si sentiva cambiato anche dentro, si sentiva migliore e più adulto. Resistette ai possenti fendenti di Ormanno con coraggio, mettendo in pratica i suoi insegnamenti, eppure questo non bastò a farlo vincere, poiché Ormanno era solito compiere qualche piccola sregolatezza per metterlo in difficoltà. E ancora una volta ebbe la meglio, riuscì a fare lo sgambetto a Tommaso, che cadde dolorosamente sulle natiche e poi giù di schiena. Quando lui cercò di colpirlo con la spada, Ormanno gliela fece cadere di mano.
Orgoglioso di sé e divertito, liberò una risata ed umiliò l’avversario mettendosi cavalcioni su di lui per intrappolarlo e minacciarlo con la spada di taglio contro il collo. La sua espressione si fece seria: “Sai cosa ti dico? Per il tuo compleanno sarai pronto  a ricevere la nomina.”
Tommaso, che fino ad un istante prima stava fremendo per la rabbia e l’umiliazione della sconfitta, si ritrovò a guardarlo con tanto d’occhi nel sentire quelle parole. Ma poi aggrottò le sopracciglia e disse severo: “Non prendetevi gioco di me. Manca appena un mese.”
“Lo so!” Ormanno gli fece l’occhiolino e allontanò la spada dalla sua gola.
Approfittando del momento, Tommaso gli sferrò un pugno al braccio, costringendolo così a lasciar cadere l’arma.
“Razza di pidocchio!” Gridò Ormanno, stringendosi la parte lesa con l’altra mano ma tenendo lui fermo a terra. Giusto qualche istante che si placasse il dolore e poi reagì all’offesa afferrando entrambi i polsi di Tommaso ed immobilizzandolo totalmente al pavimento. Normalmente gli avrebbe detto qualcosa di utile all’addestramento, ma in quel momento incontrò i suoi occhi scuri e si ritrovò bloccato. Dentro quegli occhi poteva leggere ogni sua emozione e vi trovò anche qualcosa di nuovo che lo attirò. No, non nuovo, qualcosa che aveva visto in un’altra occasione. Il ricordo della parete gli fece battere il cuore. Forse troppo stanco dall’estenuante esercizio fisico, non pensò di lottare contro quello che provava o di pensare con razionalità. I loro volti erano vicinissimi e i loro corpi erano a stretto contatto. Tutto ciò che desiderava era lì  e lui non doveva far altro che prenderlo. Chiuse gli occhi e posò le labbra sulle sue. Bramava così tanto impossessarsi di quelle labbra che le premette con forza con le proprie, aiutandosi anche con piccoli movimenti circolari della testa. Avevano un sapore così dolce che il miele stesso non poteva rivaleggiare. Che splendida sensazione di conquista!
Solo dopo un momento che a lui parve un’eternità si rese conto di un fatto: non solo Tommaso non si stava ribellando, ma addirittura stava rispondendo al bacio con trasporto. Contro ogni logica, Ormanno s’interruppe: “Che cosa stai facendo?”
Col respiro affannato, le guance ancora più rosse e gli occhi socchiusi e lucidi, Tommaso rispose con un cenno di malizia: “Non lo so, ma finora mi piace!” E subito ricercò le sue labbra per un altro bacio.
Ormanno lo baciò con più ardore, il petto premuto contro il suo, e gli liberò i polsi solo per poter intrecciare le dita a quelle di lui. Le sue labbra erano morbide e calde, così piacevoli e invitanti che desiderò di esplorarle meglio. Dapprima le assaggiò con la punta della lingua, seguendone la lunghezza da un angolo all’altro della bocca. Dopo questa prima esplorazione si insinuò nella sua bocca, dove incontrò prima la liscia dentatura e poi la morbida e umida lingua. Tommaso lo assecondò, facendole intrecciare l’una con l’altra in una sorta di gioco. Ciò che fece dopo lasciò Ormanno piacevolmente sorpreso. Con un’agile mossa, rotolò sul fianco e si impossessò della posizione dominante sopra di lui. Sostenendosi sui gomiti e intrecciando le gambe a quelle di lui, riprese a baciarlo con trasporto. Ormanno credette di trovarsi in paradiso. Sentire il suo corpo snello contro il proprio e i suoi capelli lunghi solleticargli il viso, era più di quanto potesse sperare. Con una mano andò ad intrecciare le dita nella sua chioma, mentre con l’altra sparse carezze sulla sua schiena. Preso dal piacere, fece scorrere la mano in basso e la fermò solamente quando sentì sotto i polpastrelli il principio della linea curva di una natica, dove fece pressione. A causa o forse grazie a quel gesto, sentì chiaramente che il corpo di Tommaso cominciava a reagire al piacere, proprio come il suo, e questo fece scattare un segnale d’allarme nella sua mente. Interruppe bruscamente il bacio: “Sei un sodomita?”
Tommaso lo guardò sorpreso per qualche istante, per poi scoppiare a ridere: “Certo che no! E nemmeno voi! Non avrete paura, vero? Non stiamo facendo nulla di illegale.”
“Ah no? Vuoi provare a chiederlo ad un giudice?” Lo rimproverò, per poi spingerlo da parte e liberarsi di lui e del suo tocco.
“Ormanno, sappiamo entrambi cos’è la sodomia. E vi assicuro che non è mia intenzione calarvi le braghe e abusare di voi. Tantomeno permettervi di farlo a me.” Tentò di sdrammatizzare: “Cristo santo, ci stiamo solo divertendo un po’! E poi voi sapete che sono innamorato di una ragazza.”
“Credo che dovresti lavorare sul tuo senso di fedeltà, allora.” Lo schernì Ormanno.
Offeso dal suo comportamento e dalle sue parole, Tommaso si rialzò in piedi e gli voltò le spalle: “Come volete. Vi rammento solo che siete stato voi il primo a saltarmi addosso. E ora, mio Signore, vorrei ritirarmi.”
“Tommaso, io…” In realtà non sapeva cosa dire. Era dispiaciuto per averlo trattato in quel modo e per aver cercato di far ricadere su di lui la colpa di ciò che era successo. Si sentì meschino come non mai. Sospirò: “Vai pure. E perdonami, se puoi.”
Tommaso non rispose e non si voltò, semplicemente uscì dalla sala lasciandolo lì da solo. Ormanno lasciò ricadere il capo sul pavimento, lo sguardo a vagare per il soffitto affrescato. Gli ci erano voluti mesi per ottenere ciò che voleva e un solo attimo per perdete tutto, compresa la stima di quello che era più un amico che un servo. Strinse il pugno e lo batté contro il pavimento, imprecando tra i denti: “Maledizione.”

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Capitolo 29
*** Un sogno ad occhi aperti ***


Capitolo ventotto
Un sogno ad occhi aperti
 
Aveva perso la cognizione del tempo da quanto era felice, realizzata, coccolata! Non aveva voluto fare nemmeno una pausa per riposare le gambe, era così entusiasta che non sentiva la stanchezza delle ore passate in piedi. Le due cucitrici, instancabili e professionali, avevano lavorato con estrema precisione affinché ogni singola cucitura e ricamo aderisse alla perfezione alla sua figura. In quel momento, una si stava occupando dell’orlo della gonna e l’altra stava lavorando alle decorazioni del copricapo a forma di ciambella. L’intero completo era in tessuto bianco con cuciture e bordi dorati. Di fronte a lei, adagiato su una comoda dormeuse, Jacopo l’aveva ammirata e adulata per tutto il tempo, oltre ad averla intrattenuta con chiacchiere frivole come piaceva a lei. Il tutto accompagnato da una quantità incalcolabile di vino che aveva contribuito a sciogliere la sua parlantina.
“Oh Messer Jacopo, so di averlo detto molte volte ma…come posso non continuare a ringraziarvi? Ciò che avete fatto per me è davvero…” Abbassò lo sguardo sull’abito che indossava, per poi rialzarlo e rispondere raggiante: “Meraviglioso!”
Jacopo, tenendo sollevato il calice tra le dita, le lanciò un’occhiata maliziosa: “Non ho intenzione di rimproverarvi. Potete dire tutto ciò che volete fino a quando avrete quel bel sorriso sulle labbra.”
Lucrezia lasciò una risatina civettuola: “Addirittura tre abiti nuovi! Mi sembra un sogno!” Ma poi si morse le labbra: “Spero solo che vostro padre non ne sarà contrariato. Tessuti così pregiati devono esservi costati un bel gruzzolo.”
Lui deglutì un lungo sorso di vino, quindi fece schioccare la lingua: “Dovrebbe essere fiero di me, invece. Sto omaggiando l’ospite più graziosa che questa città abbia mai avuto.”
“Omaggiando è dir poco! Da quando sono giunta qui non fate che ricoprirmi di doni!”
“La cosa vi dispiace?”
“No affatto!” Rispose lei, sempre più civettuola e spudorata.
Le due cucitrici si scambiarono un’occhiata, come per darsi l’un l’altra la forza di sopportare tutte quelle chiacchiere inutili e schiocche. Ma quella che lavorava all’orlo evidentemente aveva esaurito la pazienza, perciò fece un inchino e si rivolse a Lucrezia: “Madonna, per oggi il nostro lavoro termina qui. Ma non temete, avrete il vostro abito pronto entro domani. Ve lo faremo recapitare all’indirizzo che ci avete dato.”
La seconda cucitrice, sentendo il discorso, pensò bene di assecondare la collega: “Prego, Madonna. Seguitemi e vi aiuterò a cambiarvi d’abito.” Indicò la via con la mano e andò ad aprire la porta di una stanza adiacente, quindi lasciò il passaggio a lei.
“Io dovrei occuparmi di una faccenda urgente. Se non avete bisogno del mio aiuto…” Disse l’altra, restando dov’era.
Lucrezia fece capolino dalla porta e le sorrise: “Fai pure, non preoccuparti!” La donna che era con lei si premurò di richiudere la porta.
Ora che non era più visibile alle due, la cucitrice cambiò del tutto espressione, una luce sinistra si accese nei suoi occhi scuri. Ma durò solo un attimo, perché poi il suo volto si rasserenò. Si voltò verso Jacopo e andò da lui sfoggiando un’aria seducente. Si adagiò su di lui e gli rubò un lungo e sensuale bacio. Jacopo, oltre a rispondere al bacio, andò ad esplorare il corpo della donna con le mani per poi soffermarsi sulle tonde natiche, quindi separò le labbra dalle sue per immergere il viso nei suoi seni abbondanti stretti dentro il corpetto. Quelle attenzioni fecero gemere la donna.
Quando lui risollevò il viso, era tutto arrossato: “Allora abbiamo un accordo?”
Lei sfoggiò un sorriso compiaciuto: “Convincerò il sarto ad abbassare il prezzo, come sempre.”
“Bene. Ed io in cambio ti procurerò altri clienti.” Ammiccò sfacciato: “Per l’altra professione, intendo.”
Lei abbozzò una risata, poi gli sfiorò le labbra con un bacio: “E’ un piacere fare affari con voi, Messer Foscari.”
Lui la scostò da sé: “Ora vai, non voglio che Lucrezia ci scopra in flagrante. Se sapesse che ho un’amante perderei la sua fiducia.”
La donna, rialzandosi, non riuscì a trattenere una risata: “Una? Ne avrete una decina qui in città!”
“Ma lei non lo sa.” Disse seriamente Jacopo, per poi puntualizzare: “E non dovrà saperlo almeno fino a quando non me la sarò portata a letto. Chiaro?” Quindi accennò un sorriso sinistro, che lei condivise. Fecero appena in tempo a ricomporsi che Lucrezia fece la propria comparsa: “Bianco e oro, arancio e oro, verde e oro! Non riesco nemmeno a decidere quale sia il mio preferito! Giuro che non vedo l’ora di indossarli!”
Jacopo si rimise in piedi e le porse il braccio, galantemente: “Lo farete presto, mia cara. Quando avranno inizio i festeggiamenti per il Carnevale, vi inviterò ad ogni ballo e ogni festa al quale io stesso sarò invitato. E vi assicuro che essendo il figlio del Doge gli inviti non mancheranno.”
Lucrezia si aggrappò al suo braccio, sprizzando felicità da tutti i pori: “Ho sempre desiderato vedere il Carnevale! Oh Jacopo, non potrei avere amico migliore di voi!”
Uscirono dalla bottega e presero la direzione per San Marco. Essendo inverno, le giornate erano molto brevi e nel primo pomeriggio il sole iniziava già a calare.
Divenuta improvvisamente cupa, Lucrezia disse: “Jacopo, non mi va di rincasare. Vi dispiace stare fuori ancora un paio di ore? Magari in un luogo tranquillo?” Azzardò.
Lui ovviamente non si lasciò sfuggire l’occasione: “Ma certo. Potremo camminare fino al Rialto.”
Lei s’illuminò nuovamente: “Oh sì, che bella idea! Adoro la vista da quel ponte! Anche se, fosse per me lo farei ricostruire. E’ un peccato che il ponte principale della città sia così povero.”
Jacopo scoppiò in una risata: “Povero? Cosa intendete dire?”
Lucrezia si mise a gesticolare mentre gli spiegava quel pensiero: “E’ di legno![8] E il legno si rovina facilmente con il tempo e le intemperie. Sarebbe opportuno ricostruirlo in pietra e magari renderlo più artistico.”
“E che altro?” L’assecondò lui, divertito e incuriosito in egual misura.
“Per me non dovrebbe solo essere un punto di passaggio, ma un luogo d’incontro dove le persone abbiano piacere di fermarsi. Si potrebbe…che so, mettere delle piccole botteghe dove fare acquisti.”
Jacopo scosse il capo, ridendo: “Mia bella fiorentina, voi state proponendo di costruire il vostro Ponte Vecchio nel bel mezzo di Venezia!”
Lei fece spallucce: “Non è una cattiva idea. Sarebbe bellissimo.” Puntò lo sguardo sul ponte oramai visibile e cercò di immaginarlo nel modo in cui lo aveva descritto. Con aria sognante confermò: “Io ci trascorrerei intere giornate su un ponte così.”
“Da sola o in compagnia?”
La domanda la distolse dalla fantasticheria e la fece ridere: “Io vi inviterei, ma temo che vi annoiereste!”
Lui sollevò un dito indice nel precisare: “Non se ho con me un calice di vino. E guarda caso c’è una locanda proprio ai piedi del ponte, dove vendono dell’ottimo rosso veneto.”
*
Il fuoco del camino si era spento durante la notte e nessuno si era occupato di riaccenderlo. Complice il fatto che Andrea non aveva fatto chiudere le tende, gli spifferi erano entrati indisturbati dalle finestre e ora la stanza era fredda. Ma a lui parve non importare, con addosso la camicia da notte e una semplice coperta, il suo corpo sembrava insensibile. Perlomeno al freddo. Qualcos’altro invece lo sentiva eccome! Stava ancora dormendo quando sua moglie era entrata alla chetichella e si era infilata sotto le lenzuola per fargli un servizietto mattutino coi fiocchi. Quando lui aveva aperto gli occhi aveva visto solo la sagoma sotto la coperta, mentre con altri sensi percepì a fondo il calore della bocca di Caterina e l’abilità della sua lingua. Tutto molto piacevole, se non fosse stato per il ricordo di Lucrezia che s’insinuò nella sua mente senza un valido motivo. Aveva ancora voglia di vederla, di confrontarsi con lei, di mettere in chiaro tutte le cose non dette tra loro che avevano distrutto il loro rapporto. A volte Venezia non gli sembrava poi così lontana, se solo avesse trovato un pretesto per lasciare la città senza destare sospetti. Ma ora più che mai sarebbe stato impossibile, avrebbe dovuto mentire a troppe persone e il rischio di essere scoperto era troppo alto. Doveva mettersi in testa che la sua famiglia aveva bisogno di lui, doveva sforzarsi di diventare un buon marito e…. Un gemito si levò dalle sue labbra e scacciò in un istante qualunque pensiero dalla sua mente che non riguardasse il piacere che stava provando. Il suo corpo ebbe degli spasmi. Giurò a se stesso che avrebbe picchiato la moglie a sangue se si fosse azzardata a fermarsi. D’istinto scostò le coperte, Caterina aveva il viso arrossato  e i capelli tutti arruffati. Perso nel piacere, Andrea immerse le dita in quella chioma corvina, dando a lei un tacito ordine di non muovesi da lì e di andare fino in fondo. Pochi istanti e un grido estasiato si levò dalla sua gola, riempiendo la stanza come una melodia. Ritirò la mano e giacque sfinito sul letto, fisicamente soddisfatto. Solo fisicamente, però, visto che nella sua mente si fece presto sentire la voce dell’egoismo che gli ordinò di comportarsi come un perfetto bastardo. Si risollevò con movimento agile e uscì dal letto mentre Caterina si stava ancora asciugando le labbra con un lembo di lenzuolo. Lo guardò con tanto d’occhi: “Dove state andando?”
Lui camminò fino ad una cassapanca, dove la sera prima Goffredo aveva riposto degli abiti puliti. Cominciò a vestirsi e le rispose con indifferenza: “Dagli Albizzi. Rinaldo mi sta aspettando per parlarmi di una questione importante, che ancora non so quale sia.”
“E mi lasciate qui così?” Si lamentò giustamente lei.
“Non vi ho chiesto io di infilarvi nel mio letto. Non potete accusarmi di nulla.” Si sedette su di uno scranno per infilarsi gli stivali, quindi una volta pronto camminò fino al letto e disse in modo provocante: “Comunque sapete quanto io apprezzi i vostri talenti. Gradisco molto le vostre labbra quando non parlano.”
Caterina gli lanciò un’occhiata di odio puro, stringendo il lenzuolo tra i pugni. Pensò velocemente ad una risposta pungente, ma poi optò per una gesto più significativo. Sputò per terra, quasi sfiorando gli stivali di lui.
“Ammiro la vostra dolcezza, mia cara moglie.” La beffeggiò Andrea, per poi andarsene.
Giunto a Palazzo degli Albizzi, fu condotto allo studio dove Rinaldo lo stava di fatto aspettando. Seduto alla scrivania ricolma di fogli di pergamena e sigilli, gli lanciò un’occhiata in tralice: “Temevo aveste dimenticato il mio invito.  Una cosa frequente nell’ultimo anno.”
Andrea sollevò un angolo della bocca, in un mezzo sorriso: “Siete stato voi a dirmi di riappacificarmi con mia moglie e riportarla in città. Ora ne subite le conseguenze.” L’allusione era così evidente che non vi fu bisogno di entrare nei dettagli.
Rinaldo rise: “Oh Pazzi, cosa vi fanno le donne!” Quindi lo invitò con un cenno della mano: “Prego, sedetevi.”
Andrea prese posto di fronte a lui, all’altro capo del tavolo: “Per quale motivo sono qui?”
Rinaldo si accomodò meglio sulla grande poltrona di legno intagliato e intrecciò le dita delle mani in grembo: “Sapete che le cose non stanno andando come avevo sperato. Gira voce che in città vi siano ormai più mercenari che fiorentini, anche se questa è una falsità bella e buona.”
“Se non trovate al più presto un modo per ottenere il favore del popolo, tutto ciò che avete costruito finora verrà distrutto.” Disse Andrea, senza peli sulla lingua.
Rinaldo prese un profondo respiro: “Ho bisogno di alleati. Punta a questo la mia prossima mossa.”
Andrea fece un cenno col capo: “Chi?”
“Conoscete i Contarini di Mantova?”
“Certo. Una famiglia importante nel ramo commerciale.” Ridacchiò: “E come pensate di convincere il buon vecchio Massimo ad unirsi a voi?”
Negli occhi di Rinaldo si accese come una luce d’ingegno nel rispondere: “Facendo unire in matrimonio sua figlia con Ormanno.”
“Interessante, devo ammetterlo.” Quindi si guardò attorno, come cercando qualcuno: “E Ormanno dov’è? Vorrei sentire anche la sua opinione al riguardo.”
Rinaldo sospirò: “Non gliel’ho ancora detto.”
“Dovreste farlo. E’ lui che si ritroverà legato per la vita ad una fanciulla che nemmeno conosce.”
“Come è capitato a noi, Pazzi. E’ nostro dovere di uomini. Farà quello che gli dirò senza opporsi se non vuole che io lo diseredi.”
“Severo!” Lo stuzzicò Andrea: “Sperate che, una volta sposato, si dedichi esclusivamente alla politica?”
Rinaldo rispose con un pizzico di malumore: “Maggiore impegno gli gioverà. Ultimamente trascorre le giornate ad addestrare quel suo dannato servo. Non lo vedo quasi più.”
“Padre geloso… Io dico che dovete abituarvi all’idea. Dopo sposato potreste vederlo ancora meno se verrà conquistato dalle grazie della piccola Contarini!”
Rinaldo scacciò quell’idea con un gesto della mano: “Sciocchezze. Le mogli servono solo per stringere alleanze e condividere il letto con loro per assicurarsi una successione. E ad esibirle alle feste e in chiesa, se volete.  Ogni altro minuto trascorso con loro è solo tempo sprecato.” Si accorse che Andrea lo stava fissando con espressione beffarda. Aggrottò le sopracciglia: “Cosa?”
Lui scosse il capo, ridacchiando: “Avete davvero bisogno di trovarvi un’amante, amico mio!”


[8]: A quei tempi il Ponte di Rialto era davvero semplice e fatto appunto di legno. Solo in seguito venne ricostruito in pietra e diventò il meraviglioso ponte che oggi possiamo ammirare. 
 

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Capitolo 30
*** Proposta di matrimonio ***


Capitolo ventinove
Proposta di matrimonio
 
Non erano trascorse che poche ore da quando Ormanno lo aveva investito della carica di Guardia Personale. Una cerimonia, se così si può definire, molto semplice ed intima, a cui avevano partecipato solo gli Albizzi assieme ai propri servitori personali e in più le guardie del palazzo.
Quella notte Tommaso non aveva dormito, a causa dell’emozione, della speranza, del timore che gli avevano impedito di chiudere occhio, eppure non si sentiva affatto stanco. Aveva lasciato il letto della sua ragazza all’alba e si era preparato con cura. Per la prima volta aveva indossato la divisa ufficiale con lo stemma della famiglia e poi aveva pensato bene di legarsi i capelli stringendoli il più possibile in una sorta di codino in stile orientale.
Ricevere la nomina gli aveva fatto sudare freddo, le sue mani erano così umide che per poco non gli era caduta la spada che Ormanno gli aveva porto. Per fortuna tutto era andato bene. Poi Ormanno, per festeggiarlo, aveva organizzato un pranzo solo per loro due e come dono aveva ‘preso in prestito’ Stella affinché li servisse a tavola e si unisse a loro al momento del brindisi. Sapendo che non avrebbe gradito la presenza di Rinaldo, Ormanno gli aveva evitato il disagio di averlo intorno. E poi, da ora in avanti avrebbe preso ordini da lui e nessun altro e di questo Tommaso ne fu lieto. Infine era giunto il pomeriggio e, non avendo assolutamente nulla da fare poiché Ormanno e il padre si erano ritirati nello studio per discutere di affari, lui ne aveva approfittato per recarsi al mercato principale a fare un importante acquisto.
Appena messo piede nell’area del mercato, adocchiò subito il banco che gli interessava e vi si recò con passo sicuro, senza guardarsi intorno. Già da tempo lo controllava, ma fino a quel momento non aveva avuto il coraggio di avvicinarsi. Ora il tempo delle insicurezze e delle paure era finito.
“Buondì, ragazzo.” Lo salutò l’uomo con aria gioviale, ma poi, notando la spada al fianco e lo stemma sulla casacca, si scusò: “Oh perdonatemi, Messere.”
Tommaso scosse il capo, divertito: “Non fa niente, davvero! Chissà quanto tempo mi ci vorrà per abituarmi a questo!” Ed indicò la divisa con un gesto della mano.
L’uomo rise: “Va bene, ragazzo. Allora procediamo per gradi! Ditemi, in cosa posso esservi utile? Forse cercate un dono per l’onomastico di vostra madre?”
Questa volta Tommaso non fu contento delle sue parole e si fece sentire: “Per prima cosa mia madre è morta da molti anni. E secondo, giusto per informarvi, non sono un bambino che fa regali frivoli alla mamma. Ho compiuto diciassette anni ieri l’altro e oggi sono qui per acquistare un anello di…” E si bloccò all’improvviso, le sue gote divennero rosse come pomodori maturi.
L’uomo gli lanciò un’occhiata maliziosa: “Fidanzamento?” Vedendo che lui non riusciva a rispondere e se ne stava immobile come una statua, pensò bene di aiutarlo diventando professionale: “Vi assicuro che andrete a casa soddisfatto. Da me non troverete altro che il meglio. E a costi non eccessivi.”
Il che era vero, Tommaso lo sapeva bene. Aveva avuto modo di informarsi su di lui, un orafo professionista che realizzava personalmente gioielli originali talvolta usando materiali a buon mercato. Certo, se avesse atteso alcuni mesi avrebbe potuto accumulare abbastanza denaro per acquistare un anello da gran Signora, però aveva deciso di non rimandare, si sentiva pronto per quel passo e voleva farlo immediatamente. Anche se questo significava vuotare le tasche dei risparmi di una vita. In ogni caso si sarebbe rifatto con la nuova paga da guardia personale.
L’orafo prese da sotto il banco due cofanetti di legno intagliato e li aprì di fronte a lui. All’interno vi erano due dozzine di anelli dalle fantasie più diverse, alcuni con diamante e altri no.
“Sapete quali preferenze abbia la fanciulla che volete prendere in moglie?”
Lo sapeva, ovviamente, ma ritrovarsi di fronte a tanta scelta era comunque arduo. Cominciò a osservarli uno ad uno, studiandone attentamente i dettagli e parlando più a se stesso che non all’uomo: “A lei piacciono le cose semplici, ma belle. Ama i colori ma non disprezza quelli classici. Talvolta si sofferma sui dettagli, ma non sulla precisione. Impazzisce per le cose frivole, ma che abbiano un valore affettivo.”
L’orafo si lasciò andare ad una risata: “Volete tornare qui con lei per esserne sicuro?”
In effetti non aveva torto. Stella poteva lasciarsi conquistare da una sciocchezza, però era incapace di nascondere la delusione per un dono non gradito. Un anello di fidanzamento era una cosa troppo importante che non lasciava margine di errore. Gli ci volle parecchio per prendere una decisione, era così concentrato da non accorgersi della presenza di altri clienti che venivano e andavano. Addirittura un paio di volte si portò dietro l’orecchio una ciocca di capelli immaginaria, in quel gesto abituale di cui non si sarebbe liberato facilmente.
Scelse un anello con montatura spessa d’argento, su cui faceva bella mostra una decorazione anch’essa d’argento che ricordava un tipico rosone fiorentino, e dalle cui fessure si poteva vedere il letto di perla. Era certo che le sarebbe piaciuto.
Arricciò le labbra in uno dei suoi sorrisi e finalmente sollevò lo sguardo sull’orafo, mentre gli indicava con l’indice: “Questo.”
Lui lo estrasse dal velluto nero del cofanetto e lo sollevò tra due dita: “Una buona scelta. Ora…non resta che accordarsi sul prezzo.”
Tommaso deglutì. Grazie al cielo, l’uomo non fu disonesto. Non troppo, almeno. Dopo aver messo il denaro al sicuro in un piccolo forziere, si premurò di mettere l’anello in un sacchetto di velluto nero, che poi strinse bene con un laccio, quindi lo porse a Tommaso.  Lui se lo infilò subito nella scarsella  e salutò: “Vi ringrazio, Messere. Buona giornata.”
L’orafo gli sorrise: “Buona giornata a voi, ragazzo. E i miei più cari auguri alla sposa!”
Tommaso rispose con una risata, tenendo lo sguardo rivolto verso di lui, ma quando fece per andarsene andò a scontrarsi con qualcuno.
“Oh, perdonatemi, ero distratto.”
La giovane si risistemò al gomito il cesto che per poco non le era caduto nello scontro, ma subito lo rassicurò con un sorriso: “Non è nulla. Sto bene.”
“Bene. Buona giornata, Guendalina.” Mise un piede avanti all’altro per incamminarsi.
“Aspettate un momento! Come sapete il mio nome?”
Quella domanda lo immobilizzò all’istante. Che babbeo! Aveva dimenticato che di fatto non si conoscevano. Lui l’aveva seguita per alcuni mesi quando era ancora alle dipendenze dello speziale e su incarico degli Albizzi. Chiuse gli occhi, maledicendo se stesso. Ormai il danno era fatto, doveva trovare una soluzione. Si voltò verso di lei e si schiarì la voce, sperando che le parole non lo avrebbero tradito: “Io… Ehm, vi ho vista spesso qui al mercato.” Vide il suo sguardo sospettoso e riprese con più sicurezza: “Devo aver sentito qualcuno chiamare il vostro nome, probabilmente. Voi siete la sguattera di Messer Pazzi, giusto?”
“Sì, è così.” Continuò a squadrarlo poco convinta, fino a quando non si accorse dello stemma sulla sua casacca: “Oh cielo! Voi siete al servizio degli Albizzi!” La sua espressione mutò e divenne allegra: “Questo spiega tutto. I nostri Signori sono alleati e si incontrano spesso nei rispettivi palazzi. Perciò vi sarà capitato di accompagnare il vostro Signore a Palazzo dei Pazzi e lì avrete sentito il mio nome.”
Tommaso l’assecondò, ringraziando tutti i Santi per quella svolta a lui favorevole.  Si batté la mano sulla fronte fingendo di ricordare: “Sì, certo! Ora ricordo.”
“Voi come vi chiamate?”
“Tommaso. Avrei dovuto presentarmi subito, scusate.”
“Dunque, Tommaso…” Guendalina sollevò una mano per indicare la via dietro di sé: “Sareste così gentile da passeggiare con me? Se non avete altri impegni, s’intende.”
Vedendola così cordiale, lui rispose con un sorriso: “Sarebbe un piacere.”
Presero a camminare fianco a fianco per il mercato, inizialmente in silenzio, fino a quando Guendalina non intavolò un discorso: “Sapete, da quando la mia Signora è tornata a  vivere a Firenze trascorro più tempo qui che a palazzo. Ha sempre delle commissioni da farmi fare.”
“Ne siete contrariata?”
Lei si soffermò a pensarci, ma poi tornò sorridente: “In verità no! Un tempo odiavo le commissioni ed ero spaventata dal mondo esterno, ma poi…” Fece spallucce: “Mi sono resa conto che passeggiare per la città e vedere le sue meraviglie è molto meglio che stare nelle cucine!”
Tommaso l’aveva ascoltata con interesse e l’aveva guardata per cogliere la luce di gioia nei suoi occhi. Anche se quella ragazza era parecchio bassa e parecchio tonda, il suo viso ispirava subito simpatia e i suoi occhi azzurri come il cielo erano davvero belli. Quando lei volse lo sguardo su di lui, per un momento si sentì colto in flagrante, ma lei invece di rimproverarlo per averla fissata gli chiese: “Voi invece perché siete qui? Non credo per comprare il pane o le uova, vista la spada che avete al fianco!”
Lui riportò lo sguardo in avanti e scosse il capo con fare divertito: “Decisamente no! Sono qui per motivi personali. Ho acquistato un anello di fidanzamento, per la precisione.”
Guendalina spalancò la bocca per la sorpresa: “Oh mio Dio, congratulazioni!”
“Prima di congratularvi forse dovreste attendere che io le abbia fatto la proposta.” Precisò, senza una valida ragione.
Lei sgranò gli occhi: “Avete motivo di dubitare in una sua risposta positiva?”
Lui rispose alzando il tono di voce, le gote leggermente arrossate: “Assolutamente no! Lei mi ama!”
L’entusiasmo di Guendalina si riaccese: “E allora perché preoccuparsi? Ma ditemi: quando chiederete la sua mano? Avete già pensato a come dichiararvi?”
Lui si lisciò i capelli con la mano, timidamente: “Be' sì… Lo farò questa sera, nella sua stanza. Ehm, lei è una serva personale di Madonna Alessandra quindi viviamo nello stesso palazzo.” Si schiarì la voce e riprese: “Ho pensato di mettermi in ginocchio e mostrarle l’anello. Ecco tutto.”
“E l’atmosfera?” Gli chiese con passione.
Tommaso la guardò con sospetto: “Come, prego?”
“Ma come? Già trovo triste che glielo chiediate nell’alloggio della servitù quando avete un’intera città meravigliosa a vostra disposizione. Se poi mi dite che non farete nulla per rendere romantica l’atmosfera, temo proprio che dovrò mettermi a piangere per quella povera ragazza.” E sfoggiò un broncio degno di un’attrice.
In effetti quel discorso gli diede da pensare…. Lui si riteneva un ragazzo abbastanza romantico, ma forse poteva fare di più. Se Stella avesse reagito come Guendalina sarebbe stato un disastro.
“Dunque… Insomma, che cosa mi consigliate di fare?”
Il broncio sparì magicamente dal volto di lei e al suo posto nacque un luminoso sorriso: “Dovete portarla fuori! Invece di farle la proposta questa sera, attendete domani e portatela in un luogo che per lei è importante, magari. Ricordate che poi quel momento rimarrà impresso nei vostri cuori per il resto della vita.”
Tommaso notò la sua espressione così concentrata. Quella ragazza stava prendendo davvero sul serio la cosa! Dopo aver riflettuto tenendo lo sguardo perso in aria, neanche stesse leggendo una risposta dipinta nel cielo, Guendalina si illuminò: “Prima di mostrale l’anello potreste farle un dono! Per esempio un bel mazzo di fiori! La fioraia saprà cosa consigl…”
“NO!” Gridò Tommaso, di getto, guadagnandosi così l’attenzione delle persone attorno a lui, non che un’occhiataccia da parte di Guendalina che lo fece sentire ancora più imbarazzato. Accidenti. Nel sentir nominare la fioraia gli era quasi preso un colpo. Non poteva assolutamente rischiare che quella povera donna riconoscesse la sua voce o la sua fisionomia. Anche se erano passati dei mesi, di certo non aveva dimenticato il giorno in cui si era ritrovata un coltello puntato contro le reni e una boccetta di cicuta in polvere tra le dita. Diede un colpo di tosse e riprese a camminare, sperando che anche la gente attorno smettesse di fissarlo. Si morse un labbro e cercò di ritrovare la calma: “E’ solo che… Non posso! Lei è allergica ai fiori, quindi capite bene che non posso fargliene dono o rischierei di prendermeli in testa!” Chissà come gli uscì anche una mezza risata.
Con la coda dell’occhio scrutò il volto di Guendalina, che pian piano si stava raddolcendo.
“Capisco… Allora no, questa teoria è da scartare subito.”  Si fece pensierosa ancora una volta, per poi esordire: “Però di certo non è allergica al vino! Non appena avrà detto di sì alla vostra proposta non sarebbe inadeguato festeggiare con qualche calice di vino.” Era talmente entusiasta delle proprie idee che la gioia le illuminava tutto il viso. Era davvero un tipetto simpatico!
Tommaso sorrise gentile: “Sì, quest’idea piace anche a me!”
Uscirono dall’area del mercato e presero la direzione della Cattedrale. Guendalina parlò per tutto il tempo di mille  e più stramberie. 

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Capitolo 31
*** Visite gradite e non ***


Capitolo trenta
Visite gradite e non
 
Due splendidi occhi di un verde puro contornati da lunghe ciglia scure, naso sbarazzino, labbra sottili e rosee inarcate in un luminoso sorriso, pelle chiara che avrebbe potuto rivaleggiare con il latte, una folta chioma di capelli scuri e ondulati che richiamavano alle carezze. Tutto questo si poteva sintetizzare in due parole: Isabella Contarini.
Quando Rinaldo gli aveva parlato delle sue intenzioni di unire le famiglie in un’alleanza attraverso il matrimonio, Ormanno non ne era stato felice. Non aveva mai visto la fanciulla che il padre voleva dargli in moglie e dentro di sé credette già di sentire un’insopportabile sensazione di vuoto che temeva di non poter più colmare. Il giorno stesso in cui aveva appreso la notizia, per sfogare la frustrazione aveva dato a Tommaso una bella batosta durante uno degli allenamenti che continuavano a fare e poi si era lasciato andare alla depressione al pensiero che non avrebbe più potuto trovare la felicità. Questo fino a quando non aveva visto lei. Già al primo sguardo si era innamorato, l’aveva accolta con calore a Palazzo degli Albizzi e si era praticamente trasformato in un damerino che non la lasciava mai e pendeva dalle sue labbra. Nel ripensare ai tormenti che lo avevano colto prima di conoscerla, si sentiva un povero stupido. Fin dal giorno del suo arrivo a Firenze, assieme al padre Massimo e allo zio Ezio, lui le aveva parlato di sé, delle vittorie della propria vita, e poi le aveva porto decine di domande spinto dal desiderio di conoscerla fino in fondo all’anima. Era una fanciulla così aggraziata, così gentile, così sorridente che ogni minuto con lei era tempo ben speso. Odiava doverla salutare quando era il momento di ritirarsi per la notte, ma poi al mattino si faceva trovare nella sala da giorno già all’alba, dove lei aveva imparato a raggiungerlo prima ancora che i loro parenti si svegliassero. Per questo sotto i loro occhi cominciarono a formarsi delle ombre per la mancanza di sonno!
Ogni giorno, quasi per l’intera giornata, era compito di Tommaso far loro da chaperon, seguirli in ogni dove del palazzo ed essere costantemente nei paraggi a controllare che non si comportassero in modo ‘disdicevole’. Se in principio non aveva preso bene l’incarico,  ritenendolo noioso e poco virile, poi col passare dei giorni aveva imparato ad ascoltare ogni loro parola, ad osservare ogni loro sguardo ed imprimere tutto nella memoria per la sera, quando incontrava Stella per riferirle il tutto e insieme si facevano delle gran risate. Non aveva idea che sotto la corazza Ormanno potesse essere così tenero. Sembrava una persona completamente diversa dal ragazzo che pochi mesi prima voleva vedere morta Lucrezia de’ Medici solo per gelosia. E la cosa gli faceva davvero piacere.
Quel mattino andò a bussare alla sua porta e lo trovò di fronte allo specchio, intento a sistemarsi la folta chioma corvina. Non riuscì a trattenere una risata e a nulla servì chinare il capo e coprirsi le labbra col dorso della mano.
Ormanno però non si offese, guardò il suo riflesso sullo specchio: “Cosa c’è?”
Tommaso scosse il capo e trattenne il respiro alcuni secondi per placare le risate. Rialzando il capo, col viso arrossato e gli occhi che quasi lacrimavano, rispose: “Nulla. Solo che non vi avevo mai visto così attento al vostro aspetto esteriore.”
Ormanno gli lanciò un’occhiata complice, quindi passò a sistemare il colletto della vaporosa giacca di velluto: “Hai controllato che Isabella non sia già scesa?”
“Sì, la sala è ancora vuota.”
“Bene.” Finito di prepararsi, Ormanno abbandonò lo specchio. Tommaso, da buon servitore, gli aprì la porta e gli lasciò libero il passaggio. Visto che a quell’ora non vi era anima viva per i corridoi, affiancò il suo Signore e gli parlò con tono confidenziale: “E’ rimasto un angolo di palazzo che non le abbiate ancora mostrato, con tanto di spiegazioni e aneddoti?”
Ormanno lo guardò con sospetto: “Lo faccio solo per farla sentire a proprio agio nella dimora in cui vivrà per il resto della vita. O vuoi forse insinuare che sono pomposo?”
“Non lo dire mai, Ormanno. Anzi trovo che siate molto galante.” Ma poi si prodigò in una buffa imitazione di lui: “E questa, mia amata, è la Stanza della Latrina. La mia prediletta. Vengo qui almeno una volta al giorno a riflettere sull’esistenza umana. Ma non dimentico mai di porgere il mio pensiero anche a voi.”
In risposta si beccò una meritata gomitata sulle costole seguita da un’altra in pieno stomaco che per un momento gli tolse il respiro.
“Ti fai beffe di me, Apprendista?” Ormanno usò quell’appellativo per fargli capire che non era in collera e che lo scherzo tra loro continuava. Ma ugualmente Tommaso preferì ricomporsi e cambiare tono: “Lo faccio perché sono lieto di vedervi così felice. Sapevo che in voi c’era più di quanto lasciavate vedere. E trovo che il modo in cui state vivendo questo sentimento d’amore per damigella Contarini vi faccia onore.” Mosse lo sguardo giusto per deliziarsi del sorriso di apprezzamento di Ormanno  e solo allora riprese a scherzare: “A patto che non diventiate troppo sdolcinato!”
Ormanno spalancò la bocca, fingendosi offeso, ma scoppiò a ridere quasi subito: “Da quale pulpito! Temo che tu mi abbia già superato in romanticismo, amico mio. Non sei forse tu quello che ha fatto una proposta di matrimonio alla luce del tramonto?”
Vide Tommaso arrossire, perciò continuò con teatrale sentimento: “Tu, che le hai confessato il tuo amore e le hai donato un anello di incredibile bellezza. Tu, che hai chiesto il permesso a mia madre di portare via la tua amata per una romantica fuga d’amore tra le vie di Firenze fino al Ponte Vecchio. Tu, che hai supplicato mio padre che detesti affinché ti concedesse di prendere una bottiglia di buon vino dalla cantina. Tu, che…”
Tommaso lo interruppe: “Sì, va bene, siete stato esauriente.” Anche se le cose erano andate esattamente come aveva detto, si sentiva comunque imbarazzato nel sentirle elencare con dovizia di particolari. Per fortuna raggiunsero la sala e Isabella arrivò appena un paio di minuti dopo di loro.
*
“Dunque è deciso. La cena avrà luogo fra tre giorni nel mio palazzo.” Concluse Pazzi, alzandosi.
Rinaldo posò il calice sul tavolino accanto a sé e si alzò a sua volta: “Una serata piacevole è giusto ciò di cui abbiamo bisogno tutti noi.” E fece un cenno a sua moglie che ricambiò con un sorriso.
“E’ il minimo che io possa fare per omaggiare ospiti così illustri.” Aggiunse Pazzi, rivolgendosi ai Contarini.
Massimo chinò rispettosamente il capo: “Onorato, Messere.”
Terminati i convenevoli, Andrea porse la mano a Caterina per aiutarla a rialzarsi. Lei gli sorrise gentile, per poi lasciare la sua mano e andare a porgere i saluti a Madonna Alessandra. Andrea allora andò a stringere la mano al fratello di Massimo, Ezio, e poi a baciare la mano della deliziosa Isabella, quindi avvicinò Ormanno per sussurrargli all’orecchio: “I miei complimenti, è davvero incantevole.” Si scambiarono un’occhiata complice prima che lui tornasse dalla moglie.
Ormanno vagò con lo sguardo per la stanza, in cerca di Tommaso: “Ah eccoti. Accompagna Messer Pazzi e Madonna Caterina all’uscita.”
Lui fece un inchino: “Sì, mio Signore.” E fece strada alla coppia.
“Avete visto in che modo si guardano Ormanno e Isabella?” Civettò Caterina, una volta fuori dalla sala.
“E il padre di lei non ne sembra affatto contrariato, il che mi fa pensare che le nozze potrebbero avere luogo presto.”
“Sempre che il vostro amico Rinaldo non avanzi troppe pretese sulla dote e mandi tutto in fumo.” Disse lei stizzita.
Andrea le lanciò un’occhiata storta: “Vi pregherei di tenere queste opinioni per voi. Inoltre vi ricordo che non dovreste nemmeno essere a conoscenza di questo fatto. Non fatemi pentire di essermi confidato con voi.”
“Oh non ho detto nulla di diverso dal vero. Ma se questo vi offende, starò al mio posto.”
Tommaso, anche se aveva fatto finta di nulla, aveva ovviamente ascoltato quel dialogo tra i due coniugi. Ogni giorno che passava si sentiva sempre più fortunato ad essere nato comune cittadino e a non dover sottostare ad obblighi come il matrimonio combinato. Preferiva di gran lunga un matrimonio d’amore e poche risorse piuttosto di vivere nel lusso ed essere affiancato da una moglie di cui non gli importava nulla, come nel caso dei Pazzi.
Giunti all’ingresso, Tommaso aprì loro la doppia porta e si appostò fuori a capo chino.
Caterina lo ignorò completamente, Andrea invece fu più educato: “Grazie, ragazzo. E ancora i miei auguri per il tuo fidanzamento.”
Certo ricevere gli auguri non gli dispiaceva, ma a lungo andare si stava stancando di avere tutta quell’attenzione su di sé. Soprattutto per il fatto che gli Albizzi avevano fatto circolare la notizia come fosse l’evento dell’anno -come se un matrimonio tra servi potesse interessare a qualcuno- solo per distogliere l’attenzione dagli affari che stavano concludendo. Ma poi, che senso aveva tenere nascosto un accordo per il fidanzamento tra Isabella e Ormanno? Di cosa avevano timore?
Abbandonò i propri pensieri e rispettivi interrogativi e fece per rientrare, ma ecco che un uomo incappucciato, passando, gli fece cenno di seguirlo. Sulle prime Tommaso rimase immobile, ma poi la curiosità lo spinse a reagire. Accostò la doppia porta e, dopo aver sfiorato con le dita l’elsa della spada al fianco per infondersi coraggio, si recò allo stretto vicolo che costeggiava il palazzo, dove l’uomo aveva svoltato. Quando lo trovò ad attenderlo nella penombra, si fece più cauto e parlò con tono di voce fermo: “Chi siete?”
La figura si voltò e gli balzò addosso. Prima che lui potesse emettere qualunque suono, si ritrovò spalle al muro e con la gola stretta in una morsa. Con la mano libera, l’uomo si tirò indietro il cappuccio.
“Voi.” Ringhiò Tommaso, riconoscendolo.
Marco Bello sfoggiò un sorriso di scherno: “Vedo che non mi hai dimenticato! Purtroppo per te nemmeno io ho dimenticato il tuo bel faccino.”
“Che cosa volete da me?” Aveva iniziato quasi in un grido, ma poi la stretta alla gola gli spezzò il fiato e la voce.
Marco avvicinò ulteriormente il viso al suo e gli alitò in faccia ogni parola: “Mi sono informato su di te fin dal nostro primo incontro, ragazzino. Quando ho saputo che un tempo lavoravi per lo speziale, mi sono chiesto perché mai un ragazzo che ha perduto tutto si offrisse volontario per curare i malati di peste, riuniti da Cosimo nella Cattedrale, senza ricevere compenso alcuno. E poi ho scoperto che eri già stato preso come servo degli Albizzi. Strana coincidenza, non trovi?”
“Solo perché indosso lo stemma degli Albizzi non significa che io la pensi come loro.” Tentò di difendersi Tommaso, ma Marco lo obbligò a tacere e riprese la parola: “Pochi giorni dopo il mio Signore è stato fatto arrestare da Albizzi che poi lo ha fatto avvelenare in cella. Non un veleno mortale, no, ma comunque una dose sufficiente da non permettergli di difendersi al processo. Certo per creare un preparato così bisogna avere ottime conoscenze in materia. E guarda caso tu eri l’apprendista di uno speziale.”
Tommaso sfoggiò un sorriso di scherno: “Mi lusingate con le vostre allusioni!”
Marco a quel punto si fece più severo: “E ora ti trovo armato e con addosso una divisa da guardia. Davvero una carriera sorprendente per un una nullità come te. Ma…non sono qui per questo. I tuoi giochetti sporchi non mi interessano.”
“Che cosa volete, allora?” Chiese Tommaso, digrignando i denti.
Marco spalancò gli occhi sui suoi: “Voglio che tu mi dica dove è finito il Registro di bottega dello speziale. Mi serve con urgenza.”
Tommaso, suo malgrado, gli rise in faccia: “Avreste dovuto chiederlo a lui prima di ucciderlo!” Ma subito dopo la sua espressione mutò in rabbia: “L’avete pugnalato alle spalle, cane bastardo.”
Marco incassò il colpo, lasciarsi andare ad uno scatto d’ira non sarebbe servito a nulla: “Non l’ho ucciso io.”
“E invece sì. Lo avete minacciato e poi lo avete ucciso.”
“L’avevo minacciato, è vero, ma non l’avrei ucciso. Lui aveva informazioni che mi interessavano. Quella notte l’ho trovato morto con un pugnale conficcato nella schiena. Ho preso il pugnale e me ne sono andato.”
Nella mente di Tommaso si riaccese un ricordo, anzi una serie di fatti che prima sconnessi ora avevano un filo logico: “Il pugnale scomparso. La guardia di Lupo Corona. Lorenzo de’ Medici.” Il suo volto divenne esangue nel giungere alla conclusione finale: “E’ stato Lorenzo de’ Medici ad assassinare il mio Maestro. Quel figlio di…”
Marco lo interruppe appena in tempo: “Ti consiglio di tenere a freno la lingua, ragazzino, o dovrò tagliartela. Stai lavorando troppo di fantasia. E ora dimmi dove si trova il Registro.”
Lui distolse lo sguardo: “Probabilmente è stato sequestrato dagli uomini del Gonfaloniere come tutto il resto. Lo speziale non aveva famiglia, perciò nessuno ha reclamato i suoi averi.”
Marco buttò fuori l’aria dalle narici come una bestia, tanto era contrariato. Ormai l’unico modo di scoprire chi aveva ucciso Giovanni era impossessarsi di quel Registro. I soli indizi che aveva per le mani portavano alla colpevolezza di Lorenzo, ma come poteva credere che avesse ucciso il suo stesso padre? E per quale motivo poi? Aveva bisogno di certezze, ma senza Registro come fare?
“Va bene.” Marco lasciò andare Tommaso, ma prima che lui se ne andasse gli diede un avvertimento: “Chi ha ucciso lo speziale ha ucciso anche Giovanni de’ Medici. Visto che ora abbiamo un interesse in comune, ti consiglio di non dire niente ai tuoi padroni.”
Tommaso rimase alcuni istanti in silenzio, poi sentenziò: “D’accordo. Ma sappiate che io e voi non siamo dalla stessa parte. A me interessa solo avere giustizia per l’assassinio del mio Maestro.” Gli voltò le spalle e uscì dal vicolo. Non si accorse che all’angolo Pazzi aveva sentito buona parte della conversazione. Con mille interrogativi per la mente, Andrea lasciò la postazione e s’incamminò in direzione di casa. Trovò Caterina ad attenderlo sulla soglia: “Lo avete trovato?” Gli chiese ansiosa.
Andrea sgranò gli occhi ed emise un mugolio interrogativo.
“Il mio fazzoletto di seta!” Caterina s’illuminò nel vederlo tra le dita del marito. Se ne impossessò e gli diede un bacio a fior di labbra come ringraziamento, quindi rientrò contenta e sorridente. 

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Capitolo 32
*** Carnevale ***


Capitolo trentuno
Carnevale
 
Erano un gruppo di dodici tra uomini e donne, tutti abbigliati in modo stravagante se non eccessivo, ma comunque in tono con ogni altra persona che si aggirasse per la città. Era Carnevale. In quel gruppo da cui si levavano grida e schiamazzi, facevano da guida Jacopo e Lucrezia, quest’ultima particolarmente raggiante dentro il nuovo abito verde deliziosamente ricamato e con gemme tra i capelli che brillavano alla luce del tramonto.
“Messer Foscari, ma dove ci state conducendo?” Strillò una delle Dame, per poi scoppiare a ridere senza motivo.
Jacopo si voltò e parlò a voce alta per farsi udire da tutti i compagni: “Al Ponte di Rialto, per compiacere la nostra deliziosa Lucrezia!”
Un’altra Dama sfoggiò un visetto imbronciato e obiettò: “Ma perché? E’ solo un ponte. Non c’è nulla con cui divertirsi.”
Lucrezia scambiò un’occhiata di scuse con Jacopo, al quale lui rispose gentile: “Non temete, tra breve saranno talmente ubriachi da non sapere nemmeno dove si trovano!”
Quello scherzo ebbe effetto, Lucrezia lasciò una risata e, riacquistato il buonumore, prese Jacopo a braccetto fin quando giunsero a destinazione. Troppo emozionata per aspettare un istante di più, lo lasciò per correre sul ponte e raggiungere la sua postazione preferita da cui ammirare il panorama.
Jacopo, prima di raggiungerla, si occupò dei suoi ospiti: “Ora che siamo qui, Madame e Messeri, che abbia inizio la festa!” Sollevò le braccia in aria e fece dei gesti rivolti ai servitori che li avevano seguiti portando ceste di viveri e alcuni barilotti di vino: “Riempite i calici e serviteli. Nessuno deve restare con la sete!” Cosa che ci certo non riguardava loro, visto che erano già tutti brilli, comunque quella frase fu accolta da grida entusiaste.
Con occhi che brillavano di meraviglia, Lucrezia stava navigando nella bellezza di tutto ciò che vedeva, dall’acqua del Canal Grande su cui dondolavano dolcemente le gondole che trasportavano gente in ogni dove per festeggiare, ai pittoreschi palazzi che s’innalzavano su entrambe le sponde, fino alle tinte arancio del cielo. E poi ecco che si ritrovò di fronte agli occhi un calice d’argento. Sgranò gli occhi e poi lo prese in mano: “Grazie, Jacopo.”
Lui si sistemò appoggiando un gomito sul parapetto e sorseggiò dal proprio calice, quindi le chiese: “Siete felice?”
Lucrezia assaggiò giusto un sorso di vino e subito poggiò il calice sul parapetto: “Sì. Ed è merito vostro!”
Lui fece un cenno di ringraziamento col capo: “Faccio tutto ciò che è in mio potere per compiacervi, visto che, perdonatemi, vostro marito sembra non curarsi della vostra felicità.”
Non poteva negare quando era chiaro che lui aveva capito tutto. Talvolta Jacopo aveva il potere di leggerle nell’anima e questo era uno dei motivi per cui lei gli era tanto affezionata. Scostò lo sguardo e accennò un sorriso triste: “E’ vero, il mio rapporto con Piero non è dei migliori. Da quando abbiamo lasciato Firenze non lo riconosco più. Si è completamente chiuso in se stesso e, quando rincaso mostrandomi sempre sorridente e allegra nella speranza di contagiarlo, lui reagisce con indifferenza o in malomodo. Senza contare che a volte il suo sguardo spento mi urta i nervi.”
Jacopo non trattenne una risata, per cui si beccò un’occhiataccia che lo rimise subito a posto: “Perdonatemi, ma quelle poche volte in cui l’ho visto sembrava un fantoccio privo di vita e aveva l’espressione che avete appena descritto voi!”
Suo malgrado, anche Lucrezia rise: “Non che prima fosse molto diverso, a esser sinceri!” Cercò di ricomporsi e tornare seria: “Però ha buon cuore. Ci conosciamo fin da bambini e siamo legati da una profonda amicizia, nonostante tutto.”
Jacopo trangugiò il vino in un sol fiato, gli bastò allungare il braccio per riporlo sul vassoio che uno dei servi teneva in mano lì vicino a lui, quindi cambiò posizione e si fece più vicino a Lucrezia. Guardò i suoi occhi chiari illuminati di gioia. Quella ragazza sembrava uscita da un dipinto da quanto era bella. Senza troppa malizia avvicinò una mano e la posò delicatamente su quella di lei. Il tocco gli assicurò la sua attenzione e in un attimo gli occhi di lei si posarono sui suoi. Lucrezia sorrise e mosse le dita sotto la sua mano per fargli capire che il gesto d’affetto era apprezzato. Il momento sembrava propizio, Jacopo stava pensando di fare un tentativo per baciarla, quando una Dama gli cadde addosso a peso morto. Lucrezia si affrettò a sorreggere la donna, evidentemente ubriaca: “Credo che per voi la festa sia finita, mia cara. Avete bisogno di stendervi, non vi reggete più in piedi!”
Uno degli uomini, in condizioni non tanto diverse, si fece avanti: “Sì, Gigliola, stendetevi. A sollevarvi le sottane e fare il resto ci penso io!”
Dal resto del gruppo si levarono risate sguaiate, mentre l’uomo si ‘premurava’ di prendere la Dama sottobraccio per condurla alla taverna giù dal ponte.
Lucrezia li osservò, scuotendo il capo con fare divertito, e solo quando si assicurò che furono entrati nella taverna spostò la propria attenzione su Jacopo. Nel vederlo sporto dal parapetto e con espressione incredula sul volto, si affrettò a chiedere: “State bene?”
Lui scosse il capo: “No. Nello scontro ho urtato il calice che avevate posato sul parapetto. E’ caduto nel canale. Dannazione, mio padre me le suonerà di santa ragione quando lo scoprirà.”
“Suvvia, è solo un calice! Non sarà così severo con voi.”
“E’ d’argento!” Precisò Jacopo, alzando la voce. In quel momento sotto al ponte passò una gondola senza passeggeri che gli diede un po’ di speranza.
“Ehi voi! Fermatevi! Sono Messer Foscari!”
Il gondoliere, sentendo quel nome, ebbe un fremito e si affrettò a fare quanto richiesto. Sollevò il viso verso il ponte: “Servo vostro, Messere.”
“Mi è caduto un calice d’argento, riuscireste a recuperarlo usando il remo?”
“Temo di no, Messere. Non è abbastanza lungo.”
Jacopo lo incitò: “Almeno provateci! Sarete ben ricompensato. Guardate, è caduto in questo punto.” E allungò un braccio verso il basso per indicarglielo.
Non potendo far altro se non accontentarlo, il povero gondoliere si inginocchiò nella gondola ed immerse il remo in acqua più che poté.
“Muovetelo, così avrete più possibilità di urtare il calice. Metteteci un po’ d’impegno.” E continuò così per diversi minuti, frantumando la pazienza del gondoliere che avrebbe tanto voluto poter rispondere per le rime, se non avesse temuto la forca.
“Vi prego, Messere. E’ impossibile ciò che chiedete. Lasciatemi tornare al mio lavoro. Ogni minuto che passa sono clienti e denari persi.” Lo pregò, quasi sull’orlo della disperazione.
Jacopo lo apostrofò severamente: “Pigro di un barcaiolo, hai un bel coraggio a rivolgerti così al figlio del Doge.”
Allora Lucrezia si sentì in dovere d’intervenire: “Jacopo, non servirà a nulla sfogare la vostra frustrazione su quel pover’uomo. Ha fatto il possibile. E’ il momento di guardare in faccia la realtà: il calice è perduto.”
Lui la guardò con tanto d’occhi: “Perduto? Non ditelo nemmeno per scherzo. E’ là sotto che aspetta solo di essere ripescato, ve lo posso giur…” Si bloccò nel puntare lo sguardo in basso, verso l’acqua non esattamente limpida del canale: “Lo vedo. Lo vedo, è là! Gondoliere lo vedete anche voi?”
L’uomo si mise a scrutare tutto agitato le acque in cerca di un qualunque bagliore che potesse indicargli la posizione di quel maledetto calice.
“Siete cieco? E’ proprio lì sotto il vostro naso! Lo vedo bene!” Si sporse ulteriormente dal parapetto e…in un attimo finì nel canale dritto di testa!
Il tonfo richiamò l’attenzione del gruppo, gli otto rimasti corsero su quel lato del ponte per vedere. Lucrezia stessa si sporse preoccupata: “Oh mio Dio, Jacopo.”
Il gondoliere si affrettò ad immergere il remo, gridando: “Messer Foscari, aggrappatevi!”
“Sarà già annegato?” Chiese scioccamente una delle Dame.
Nell’acqua non si vedeva altro che la successione di bolle correre verso l’alto, nessuna traccia di lui, ma per fortuna il gondoliere sentì tirare il remo e li informò: “Si è aggrappato. Lo tiro su.” Facendo appello a tutte le proprie forze, riuscì a tirare fuori dall’acqua Jacopo e farlo salire a bordo dell’imbarcazione.
Aveva i capelli incollati al viso ed era senza fiato, di certo fare il bagno in inverno e dentro l’acqua tutt’altro che profumata del canale non gli aveva fatto bene.
“Oh grazie al cielo è salvo.” Sospirò Lucrezia, portandosi una mano al petto. Poi si rivolse a lui: “Jacopo, state bene?”
Lui lasciò un colpo di tosse, non vedeva l’ora di bere del buon vino per togliersi dalla bocca quel saporaccio di pesce: “Sì.” Riprese fiato, mentre cercava di trovare le forze per sollevare il braccio e, quando vi riuscì, mise in mostra il tesoro ritrovato: “Se il canale fosse stato vino me lo sarei bevuto tutto!”
Mentre tutti applaudivano e si congratulavano, Lucrezia fu l’unica a guardarlo incredula. Come si poteva essere così sciocchi da rischiare la vita per un oggetto? Anche se vedere Jacopo bagnato fradicio e con quell’espressione da beota sul volto, era uno spettacolo veramente buffo. Si portò una mano alle labbra, ma non servì a nulla, dalla sua gola si levò una risata cristallina che in breve contagiò anche il resto del gruppo. Lo stesso Jacopo, inizialmente sorpreso da quella reazione, poi si lasciò andare e si fece una bella risata. L’unico a non osare fu il gondoliere.
Una volta riportato a terra, sfruttando il piccolo molo subito dopo il ponte, a Jacopo venne offerto un mantello con cui coprirsi e le Dame si prodigarono a coccolarlo come un bambino. Il calice fu consegnato ai servitori che lo riposero subito al sicuro e il gondoliere venne ben ricompensato per il tempestivo salvataggio del figlio del Doge.
Nel trambusto generale si udì uno scoppio e in un attimo tutti si zittirono. Una delle Dame alzò il dito verso il cielo: “E’ il segnale! Tra poco avranno inizio i fuochi in Piazza San Marco! Non possiamo perderli.”
Un’altra saltò fuori dicendo: “Ma Jacopo? Non può camminare al nostro passo dopo la brutta avventura che ha vissuto e di certo non possiamo lasciarlo qui da solo.”
“Starò io con lui.” Si fece avanti Lucrezia: “Voi potete andare, se lo desiderate. E i servitori potrebbero precederci a Palazzo Ducale per annunciare il nostro arrivo. Jacopo ha bisogno di trovare abiti caldi e asciutti una volta arrivato.” Scambiò un’occhiata con Jacopo per avere il suo consenso, cosa che lui le concesse facendo un cenno del capo.
Uno degli uomini concluse: “A me sembra una buona idea, ora però dobbiamo affrettarci se non vogliamo perdere l’inizio dello spettacolo.”
I saluti furono molto brevi e, in men che non si dica, loro due si ritrovarono soli. Il sole era ormai scomparso alle loro spalle per lasciar posto alla sera.
“Vi ringrazio, Lucrezia. Avete buona cura di me.” Disse lui per spezzare il silenzio.
Lucrezia si aggrappò al suo braccio e gli sorrise: “Una piccola cosa in confronto a tutto ciò che avete fatto per me. Vi devo molto, lo sapete.”
Camminarono ad andatura lenta per le strade della città, dove gruppi di persone se ne stavano con il naso all’insù per vedere i fuochi colorati che scoppiavano nel cielo. Uno spettacolo magico! Quando infine giunsero a Palazzo Ducale, Lucrezia accompagnò Jacopo fino alle sue stanze private dove venne subito accolto da due servitori armati di coperte. Jacopo era livido dal freddo.
Fermatasi sulla soglia, Lucrezia si stropicciò le mani timidamente: “E’ meglio che io vada. Piero mi starà aspettando.” Una bugia bella e buona, ma d’altronde doveva pur dire qualcosa per andarsene. Era consapevole del fatto che trovarsi lì poteva essere compromettente per lei, le malelingue non risparmiavano nessuno e lei non voleva distruggere il proprio matrimonio per delle falsità.
Dietro ad un paravento e in piena vestizione, Jacopo azzardò: “Sappiamo entrambi che non è vero.”
Incerta sul cosa dire e cosa fare, alla fine Lucrezia batté la scarpetta sul pavimento e farfugliò: “Devoproprioandarebuonaserata.”
Corse via come se avesse il Diavolo alle calcagna e si fermò solo quando raggiunse il porticato subito fuori dal palazzo. Si poggiò spalle al muro e riprese fiato.
Dal Molo alla Piazza era tutto un brulicare di persone, abbigliate nei modi più fantasiosi, che parlavano e ridevano. Era tutto così pieno di vita e colorato che le vennero le lacrime agli occhi per la gioia.
Non si rese conto di essersi persa in quello spettacolo fino a quando non si ritrovò davanti Jacopo, vestito al meglio con abiti caldi e vaporosi e i capelli ben pettinati che un po’ odoravano di legna bruciata.
“Siete rimasta.” Nella sua voce una nota di malizia.
Lucrezia sorrise e fece per rispondere, ma poi un’improvvisa idea la trattenne. Era una follia e poi Jacopo forse non si era ancora ripreso del tutto, ma…perché non tentare? Tenendo lo sguardo fisso sul suo sollevò i lembi della gonna e…fuggì via! Si voltò un istante giusto per vedere il suo sguardo interrogativo ed incitarlo: “Venite a prendermi, Messer Foscari!”
Bastò quel sorriso luminoso a farlo sentire nel pieno delle forze. Sentì una fiamma accendersi in lui e con uno scatto si diede all’inseguimento. Lucrezia si addentrò nella fitta folla della piazza, cercando di schivare le persone, di non calpestare nessuno e soprattutto di non essere calpestata. Di tanto in tanto dava uno sguardo alle proprie spalle per vedere se Jacopo la stava seguendo. Entrambi si stavano divertendo un mondo, anche se scivolare tra la folla non era per niente facile.
Dove aver zigzagato per un po’, Lucrezia pensò bene di uscire da quella ressa e cercò di dirigersi verso un passaggio sotto i portici del lato sinistro. Si voltò e vide che Jacopo stava guadagnando terreno, perciò dovette affrettarsi. Pessima mossa.
“Ahi!” Squittì, quando sentì un grosso stivale schiacciarle il piede. Ma prima che potesse fare alcun che, una Dama la urtò, facendola cadere addosso ad un uomo alto e robusto.
“Oh, vi prego di scusarmi. Io…” Nel rimettersi dritta inciampò su qualcosa e si ritrovò a zoppicare in avanti. In un qualche modo riuscì ad uscire da lì e, una volta raggiunto il porticato, si fermò davanti ad una colonna per riprendere fiato. Si sentiva accaldata. Poggiò le spalle contro la colonna e alzò gli occhi al cielo stellato: “Santo cielo, che avventura!” Rise tra sé, divertita.
Ad un tratto di rese conto di avere un piede infreddolito e, quando sollevò la gonna per vedere cos’era successo, si rese conto di non avere più una scarpa! Scoppiò a ridere: “Oh Dio!”
“Vi sto raggiungendo, mia cara!”
Nell’udire quella voce spostò lo sguardo e vide Jacopo ormai prossimo ad uscire dalla folla. Senza pensarci un attimo, si rimise in fuga. Imboccò il passaggio all’angolo tra i porticati e sbucò sulla strada che costeggiava il canale poco prima che questo sfociasse nella Laguna. Un’altra sbirciata per vedere dove era arrivato Jacopo e si ridiede alla corsa. Il fatto che fra loro non ci fossero più ostacoli, fu fondamentale per Jacopo, che la raggiunse in un batter d’occhio. L’afferrò per il girovita mentre lei stava ancora correndo, quindi la portò di peso fino al muretto di pietra affacciato al canale e lì la intrappolò. Lucrezia stava ridendo di gusto.
Jacopo avvicinò il viso al suo e sussurrò: “E adesso cosa succede?”
Lucrezia placò la risata, ma era così felice che non riusciva a smettere di sorridere: “Ora dovete fare una cosa per me!”
Jacopo inarcò un sopraciglio e chiese malizioso: “Cosa?”
Lei lo osservò cercando di non scoppiare a ridere e dopo un po’ disse: “Temo che dovrete riportarmi a casa in braccio perché ho perso una scarpa e mi si sta congelando il piede!”
Alla fine fu lui a scoppiare in una fragorosa risata. Quella ragazza non smetteva mai di sorprenderlo. Lucrezia sollevò le braccia sulle sue spalle ed intrecciò le dita fra i suoi capelli, in un gesto forse un po’ troppo audace, dato che lui la stava ancora tenendo stretta per il girovita. I loro visi erano molto vicini, sarebbe stato il momento giusto per baciarla. E invece, sobrio e dimentico di ogni cattiva intenzione, Jacopo non fece nulla di scorretto e si limitò ad apprezzare il momento così com’era: perfetto.

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Capitolo 33
*** Cuore spezzato ***


Capitolo trentadue
Cuore spezzato
 
Occhi annacquati come quelli di una triglia e sorriso da beota perennemente stampato sulle labbra, Ormanno disse con voce sospirata: “Siete bellissima.”
Seduta accanto a lui sulla dormeuse, Isabella lasciò una risatina, portandosi il dorso della mano alle labbra. Nei suoi occhi verdi brillava una luce di gioia che avrebbe illuminato anche la notte più buia: “E’ la quarta volta che me lo dite, oggi!”
“Avete ragione.” Disse lui, tenendo gli occhi incollati ai suoi: “Evidentemente non ho il dono della poesia, altrimenti ve lo direi usando altre parole.”
Nessuna poesia avrebbe potuto scioglierle il cuore più di quelle parole, del modo in cui le diceva, dello sguardo che aveva nel pronunciarle. Non aveva conosciuto l’amore fino a quando non aveva incontrato lui e per questo ringraziava il cielo ogni sera prima di coricarsi e ogni mattina appena sveglia. Chi era lei per meritare così tanto? Matrimonio e amore assieme, era quasi un miracolo. Contava con ansia i giorni che mancavano alla celebrazione del loro matrimonio nella Basilica di Santa Croce, l’abito era già in lavorazione e presto anche gli inviti sarebbero stati scritti e spediti. A questo pensava, quando si ritrovò le labbra di Ormanno premute sulle sue. Ogni suo bacio era come un assaggio del nettare degli dei, qualcosa di prezioso di cui non voleva abusare. Si impose di ritrarsi, anche se tutto il corpo le stava gridando di non farlo. Le labbra umide schioccarono contro le sue, le ci volle un istante per ricominciare a respirare e riaprire gli occhi: “Ormanno, perdonatemi. Sapete quanto io vi ami, ma… Prima del matrimonio…”
Lui le lanciò un’occhiata maliziosa e posò una mano sulle sue che lei teneva in grembo: “I baci non sono proibiti! Anche se ammetto che a volte il desiderio che provo per voi è così intenso che vorrei…”
Lei gli mise un dito sulle labbra per farlo tacere, sentiva di avere le gote in fiamme: “Ormanno, vi prego! Non sta bene dire certe cose! E poi…” Fece un cenno col capo sulla destra: “Il vostro servo potrebbe sentire.”
Ormanno ridacchiò: “Suvvia, Tommaso ha di meglio da fare che ascoltare le nostre chiacchiere amorose!”
In diretto interessato, dall’altra parte della sala, seduto su uno scranno di fronte alla finestra, di fatto teneva tra le mani un libro, ma appena sentì quelle ultime parole, le sue labbra si inarcarono in un sorriso. Anche se dava loro di spalle, sollevò lo sguardo e sussurrò al nulla: “Vero, peccato che io non sia sordo e vi senta ugualmente!”  Cercò di concentrarsi sulla lettura, a cui in effetti era molto interessato. Ormanno, per aiutarlo a sconfiggere la noia delle interminabili ore in cui doveva ‘tenerli d’occhio’, ma anche per non avere costantemente il suo sguardo addosso quando amoreggiava con la fidanzata, gli aveva procurato un libro, o meglio un diario, in cui uno Speziale del secolo precedente aveva annotato tutto sui propri studi delle erbe e del loro utilizzo. Un dono molto gradito per lui che amava quella professione e che così poteva ridere delle loro smancerie senza essere notato!
“Vi prego, Isabella, un altro bacio soltanto.” La supplicò Ormanno.
Lei sospirò: “Va bene. Ma l’ultimo per questa mattina.” Lo ammonì.
Lui sorrise malizioso: “Avete detto bene. L’ultimo per questa mattina.” Quindi l’avvolse in un abbraccio giocoso, facendola ridere, e subito dopo le loro labbra erano unite in quel magico contatto di tenerezza.
Fu così che li trovò Massimo quando entrò nella sala senza farsi annunciare. Tommaso scattò subito in piedi, mentre ai due innamorati servì qualche istante prima di accorgersi di quella presenza in più. Si separarono e si rialzarono in piedi velocemente, entrambi turbati. Isabella si nascose le labbra con la mano, provando vergogna.
“Isabella, ma che cosa fai?” La rimproverò il padre, guardandola con tanto d’occhi.
Ormanno prese coraggio e la difese: “Nulla di male, Messere. Siamo fidanzati.”
“Oh non più, figliolo.” Lo liquidò, per poi tornare a rivolgersi alla figlia: “Vai ad indossare il mantello, stiamo per partire.”
Lei e Ormanno si scambiarono un’occhiata interrogativa e velata di paura. Ormanno si fece avanti ancora una volta: “Che cosa significa? Abbiamo un accordo. Abbiamo stretto un’alleanza, non potete…”
Massimo sollevò una mano a mezz’aria per farlo tacere, nei suoi occhi una serietà assoluta: “Mi sono dovuto ricredere. La politica di vostro padre sta distruggendo la Repubblica di Firenze oltre che la città stessa. Cadrei in disgrazia se accostassi il buon nome della mia famiglia al vostro.” Quindi fece una smorfia di disgusto: “E non ho desiderio di lasciare mia figlia nelle mani di un ragazzo che non sa tenerle a posto.”
“Padre!” Lo riprese Isabella, sempre più imbarazzata, ma non ricevette altro che un ulteriore rimprovero: “Spero che non si sia spinto troppo oltre. Devi essere pura e immacolata per onorare il tuo sposo Jacopo Foscari.”
“Foscari? Quell’ubriacone rammollito di Venezia? Non parlerete sul serio! Isabella merita di meglio.” Strillò Ormanno, ormai perso in una furia cieca.
“Quel meglio di certo non siete voi, ve lo assicuro.” Concluse Massimo, per poi afferrare la figlia per il braccio e portarla via.
Ormanno fremeva di rabbia, fece per seguirli e, dal modo in cui stringeva i pugni, aveva tutta l’aria di voler colpire Contarini, per questo Tommaso si gettò su di lui per bloccarlo. Lo afferrò per entrambe le braccia: “Non fatelo, Ormanno. Peggiorereste solo le cose.”
“Io devo impedirgli di portarmela via…”
“No.” Lo guardò dritto negli occhi, cercando di trasmettergli la propria calma: “Non potete fare niente, ormai. Vi consiglio di sfruttare questi pochi minuti per dire addio alla vostra amata.”
Aveva ragione, ovviamente, ma come poteva sopportare anche solo il pensiero di dirle addio così all’improvviso? Un attimo prima viveva un sogno e l’attimo dopo si ritrovava bloccato in un incubo senza via d’uscita. Scostò lo sguardo quando le lacrime gli offuscarono la vista, dovette deglutire un nodo alla gola.
“Vi accompagno all’ingresso.” Propose Tommaso, quindi gli fece sentire l’affettuosa stretta sulla spalla e insieme si incamminarono. Nel tragitto incrociarono Rinaldo e Alessandra, sui loro volti era visibile un profondo turbamento per quella partenza improvvisa. Tommaso dovette lasciare che Ormanno procedesse con loro e rimase ad aspettarlo all’interno accanto ad una colonna.  
Fu un’attesa molto breve poiché Ormanno rientrò quasi subito. Il suo volto era esangue, gli occhi lucidi e spiritati. Aveva bisogno di aiuto, di una spalla su cui piangere. Tommaso lo seguì fino alle sue stanze private e, una volta entrati, buttò lì una proposta: “Vi verso una coppa di vino, almeno così riprenderete colorito e vi aiuterà a rinfrancare lo spirito.”
Vedendolo accomodarsi sulla poltrona accanto al tavolino, lo prese come un segnale di conferma, quindi andò subito a riempirgli una coppa di vino corposo e profumato e gliela porse. Ormanno ne bevve un lungo sorso tenendo lo sguardo fisso nel vuoto.
In piedi accanto a lui, Tommaso si schiarì la voce: “Mi dispiace molto. So che i vostri sentimenti per Isabella erano profondi e sinceri.” Sospirò: “Non è giusto che sia finita così.”
Niente, nessuna reazione. Se non fosse stato per il movimento del braccio col quale si portava la coppa alle labbra, Ormanno avrebbe potuto essere scambiato per una statua. Vuotò il calice che poi posò sul tavolino, facendolo sbattere rumorosamente.
“Vi verso altro vino?” Chiese prontamente Tommaso.
Ormanno non rispose, solo si alzò e andò nella camera da letto. Inizialmente indeciso sul da farsi, Tommaso rimase lì fermo alcuni istanti, ma poi prese la decisione di agire. Certo non poteva lasciarlo solo in quello stato. Entrò nella camera e si accorse che Ormanno stava piangendo silenziosamente, o meglio capì che piangeva dal movimento delle spalle e solo dopo un singhiozzo gliene diede conferma.
“Vi prego, ditemi cosa posso fare per aiutarvi.” La voce gli era uscita soffocata, deglutì: “Posso immaginare come vi sentiate. Se mi portassero via Stella credo che impazzirei e mi strapperei il cuore dal petto. Ma voi siete forte, siete un guerriero, non lasciatevi spezzare.” Si accorse che ora il movimento delle spalle era cambiato, era più veloce. Aggrottò le sopracciglia con sospetto e fece un passo avanti: “Mio Signore?”
Ormanno si voltò, aveva il viso arrossato per il pianto, gli occhi illuminati da una luce folle e dalla sua gola si stava levando una risata distorta.
“Una gran burla, ecco cos’era questo fidanzamento. Mio padre aveva progettato tutto, certo, ma non poteva aspettarsi di trovare un uomo più scaltro di lui. Peccato che…” La risata morì lentamente e al suo posto tornarono i singhiozzi accompagnati dalle lacrime: “…entrambi abbiano dimenticato che io e Isabella abbiamo dei sentimenti. Che per noi non si trattava solo di un affare politico, ma di amore.” Si portò una mano al viso e poi la lasciò ricadere a peso morto: “Non avrei mai creduto di potermi innamorare così.”
“Vi innamorerete ancora, Ormanno. Voi…” La frase di Tommaso venne interrotta dal grido disperato di Ormanno: “Vorrei essere nato con il cuore di pietra di mio padre!”
Capendo che ogni parola sarebbe stata inutile, Tommaso optò per un gesto gentile e lo accolse nel proprio abbraccio. Il suo discorso, in fondo, era sensato. Chi aveva la sfortuna di nascere nobile poteva sopravvivere solo se aveva un cuore di pietra. Purtroppo per Ormanno non era così.
“Sei… Sei l’unico al mondo ad amarmi.” Disse Ormanno tra i singhiozzi.
Tommaso sorrise, anche se lui non poteva vederlo: “Non è vero. I vostri genitori vi amavo, anche se vostro padre ha un modo tutto suo di dimostrarlo. E poi c’è Rossella. Lei farebbe qualunque cosa per voi, lo sapete bene. Potrebbe essere proprio lei il balsamo per curare le ferite del vostro cuore.”
Quelle parole parvero funzionare. Ormanno si calmò e in breve smise di piangere. Quando sollevò il viso, era così arrossato e umido che sembrava quello di un bambino. Alzò lo sguardo su quello di Tommaso e disse con un filo di voce: “No. L’unico che può curare le mie ferite sei tu.” E gli rubò le labbra con un bacio. Le cose, però, andarono diversamente rispetto a quella volta... Tommaso si ribellò e, quando riuscì a liberarsi dalla sua stretta possessiva, si passò la manica sulle labbra come per pulirle dal peccato. Lo guardò contrariato: “Non siete in voi.”
Ormanno ribatté con sicurezza: “Non sono mai stato più lucido. Finalmente ho capito, Tommaso. Fin dalla prima volta in cui ho posato lo sguardo su di te alla luce del giorno, ho provato qualcosa di travolgente e sconfinato.”
Tommaso fece una smorfia di disgusto: “Che state dicendo?”
Lui riprese a parlare, ma con più passione: “Siamo fatti l’uno per l’altro. Perché continuare a negarlo? Perché cercare la felicità altrove quando possiamo trovarla qui a portata di mano?” Fece per sfioragli il viso con una carezza, ma Tommaso gli cacciò la mano e si spostò: “Siete forse uscito di senno? Ciò a cui alludete è contro natura.”
Ormanno liquidò la faccenda con un gesto della mano: “Al Diavolo la moralità, d’ora in poi le regole le stabilirò io. Ma non capisci? Possiamo vivere il nostro amore senza destare sospetti. Io sono il tuo Signore e tu sei la mia guardia personale, è tuo dovere starmi accanto.”
Tommaso si sentiva come se stesse per vomitare: “Di quale amore parlate? Io non sono un sodomita e non lo sarò mai. E voi…” Fece un passo avanti e lo affrontò faccia a faccia: “E voi, mio Signore, avete davvero bisogno di dormire per recuperare il sonno arretrato. Spero che quando vi sveglierete sarete tornato in voi. Ma, nel caso non fosse così, vi ricordo che il reato di sodomia viene punito con il rogo.” Sottolineò appositamente quell’ultima parola, quindi fece un inchino e se ne andò anche senza aver ricevuto il permesso.
Più che camminare lasciò quelle stanze di corsa e si fermò solo dopo aver svoltato l’angolo. Sfiorò una parete con la mano e vi posò la fronte chiudendo gli occhi. Non poteva credere a quanto era accaduto. Si sentiva in parte colpevole, poiché era stato lui a dargli corda. Ma certo non credeva che Ormanno potesse arrivare a tanto. Il cuore gli batteva forte e sentiva un tremolio invaderlo in tutto il corpo. Era spaventato. Quando si sentì pronto, prese un respiro profondo e si scostò dalla parete. Con gesto quasi isterico si sciolse quel maledetto codino in stile orientale e riallacciò i capelli in modo grossolano, un po’ disordinato, lasciando fuori la sua fedele ciocca ribelle che andò ad incorniciargli un lato del viso. Con passo sicuro si diresse ad una porta precisa dove bussò tre colpi, tanto forti da procurargli dolore alle nocche. Giusto qualche istante e la porta si aprì.
“Tommaso! Cosa ci fai qui?”
Eccola la sua amata, la sua forza, la sua Stella. Indossava un abito carino ma piuttosto sobrio color indaco e aveva i capelli sciolti sulle spalle e decorati da due file di perle. Madonna Alessandra permetteva solo a lei di agghindarsi un po’, a dimostrazione di quanto tenesse a lei e non la considerasse una serva. Il motivo per cui tutte le altre ragazze del palazzo la odiavano.
“Ho bisogno di te un momento.” Le disse, trattenendo il fiato.
Lei sbirciò all’interno della stanza, quindi uscì e socchiuse la porta dietro di sé. Lo guardò con occhi tristi: “Madonna Alessandra è molto turbata per la partenza dei Contarini. E immagino che Ormanno sarà disperato per…” Prima che potesse terminare la frase, lui l’afferrò per il girovita con un braccio e unì le labbra alle sue in un bacio appassionato. Dapprima immobile per la sorpresa, poi lei si lasciò andare ed intrecciò le braccia attorno al suo collo. Amava quei suoi slanci di passione improvvisi, amava tutto di lui. Il modo in cui la guardava con quegli occhi scuri e penetranti, il modo in cui arricciava le labbra quando sorrideva, i suoi capelli perennemente spettinati, le sue mani forti…e quel suo modo di essere sempre elegante qualunque cosa indossasse.
Le labbra si separarono lentamente, ricercandosi ancora un paio di volte prima di staccarsi del tutto. Restando abbracciati, fronte contro fronte, aprirono gli occhi di appena uno spiraglio. I loro respiri amalgamati. Tommaso sussurrò: “Non permetterò mai a nessuno di portarti via da me.”
La frase più romantica che le avesse detto da quando si conoscevano.

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Capitolo 34
*** Riflessioni notturne ***


Capitolo trentatre
Riflessioni notturne
 
Andrea prese un grosso ciocco di legno e lo gettò nel fuoco facendo sollevare una nuvola di cenere e fiammelle. In genere non era compito suo ma, a quell’ora era l’unico ad essere ancora sveglio, ad eccezione delle guardie all’esterno del palazzo. Riprese posto sulla poltrona e si versò un calice di vino. Aveva perso il conto di quanti ne aveva bevuti, sapeva solo che i servitori avevano riempito la caraffa due volte prima di ritirarsi per la notte. Bevve un lungo sorso e posò il calice sul ripiano del tavolo. Inevitabilmente, sollevando lo sguardo finì per guardare il punto esatto in cui era stato Rinaldo quella sera. Sentì una stretta allo stomaco che per poco non gli fece rigurgitare il vino. Si sentiva in colpa. Con gli occhi della mente poteva ancora rivedere ciò che era accaduto lì in quello studio, quando Rinaldo si era presentato in preda al panico e aveva confessato il proprio piano di prendere la Signoria con la forza. Povero stolto, non poteva sapere che dietro la porta Messer Guadagni non attendeva altro che quella sua confessione per far intervenire le guardie. Andrea non aveva avuto scelta, era stato complice di quell’inganno a spese di quello che era suo alleato e amico. Ma d’altronde, il suo modo di governare stava distruggendo la Repubblica e non vi era da stupirsi che i cittadini reclamassero il ritorno dei Medici in città. Eppure… Strinse con forza il pugno, non riusciva a perdonarsi quel tradimento nei confronti di Rinaldo. Rilassò la mano e si lasciò andare sullo schienale. Con quale coraggio avrebbe potuto guardare in faccia Ormanno dopo ciò che aveva fatto? Il rumore della porta che si apriva lo distrasse da quei pensieri molesti. Volse lo sguardo. Sull’uscio vi era Francesco, vestito solo della camicia da notte e con le babbucce ai piedi.
“Francesco, cosa fai ancora sveglio?” Senza attendere la risposta, gli fece cenno con la mano di avvicinarsi.
Il ragazzino chiuse la porta e andò a prendere una sedia che poi accostò alla poltrona del padre. Sollevò lo sguardo penetrante su di lui: “Padre, stai male per via dell’arresto di Albizzi?”
Andrea lo guardò sorpreso: “E tu come lo sai? Eri già andato a dormire quando è accaduto.”
“Non sono più un bambino. Non sottovalutarmi.”
“Già!” Suo malgrado Andrea accennò un sorriso, ma subito tornò serio: “Comunque sì, è per questo. Io e Rinaldo ci conosciamo da tutta la vita, eravamo alleati e… E’ stata dura decidere.”
“Ora hai un problema più grande a cui pensare. Sento le grida dei cittadini. Rivogliono i Medici. Ma i Medici sono nostri nemici, non puoi permettere che tornino.”
Andrea non si stupì che il figlio fosse a conoscenza anche di questo. Era un ragazzino intelligente ed era chiaro che era molto interessato alla vita politica e agli intrighi. Forse un giorno avrebbe lasciato la guida del Banco dei Pazzi a lui. Anche se Antonio e Jacopo erano i maggiori, il primo era totalmente disinteressato a quella vita e il secondo aveva un carattere troppo ritroso e insicuro. Ad ogni modo, ciò che Francesco aveva detto era vero. A cosa era servito far imprigionare Rinaldo se Cosimo era già in fila per prendere il suo posto? Per una volta avrebbe voluto essere lui al comando della città.
Neanche gli avesse letto nel pensiero, Francesco se ne uscì con una domanda: “Potresti proporre alla Signoria di dare a te il comando. Sono certo che faresti un lavoro migliore di Albizzi e di Medici.”
Andrea accennò un sorriso di gratitudine al figlio: “Ti ringrazio per la fiducia. Ma non è così semplice. Io non sono abbastanza potente, forse non lo sarò mai. E conquistare l’approvazione dei cittadini e degli altri membri della Signoria non è cosa facile.”
Francesco fece spallucce: “Gli altri hanno ottenuto il potere con l’inganno, perché tu dovresti fare diversamente? Se fossi al tuo posto, schiaccerei i miei nemici come insetti e poi mi occuperei del benessere di chi mi è fedele.”
Non aveva torto, il ragazzo. Se pensava anche solo alla metà degli atti disonesti commessi da Rinaldo e Cosimo, gli venivano le vertigini. Certo lui non era uno stinco di santo, ma con in ballo la guida della Repubblica di Firenze si sarebbe comportato in modo esemplare. Il problema era che ormai era quasi certo che Cosimo sarebbe tornato in città a causa dei suoi astuti giochetti. Era stato lui a mandare in frantumi l’alleanza tra gli Albizzi e i Contarini, manovrando il Doge di Venezia e, a quanto detto da Guadagni, aveva sventato un complotto dei milanesi ai danni di Firenze. Ovvio che il popolo lo amava! Si sistemò meglio sulla poltrona e si portò una mano al mento, immergendosi in un pensiero. Gli tornò in mente il dialogo sentito per puro caso tra Marco Bello e Tommaso. Non sapeva i dettagli, ma era certo di aver capito che forse Lorenzo de’ Medici era un assassino. Se avesse trovato le prove di tale fatto, avrebbe potuto screditare quella famiglia agli occhi di tutti e…chissà, forse conquistare il favore del popolo. Non era poi così impensabile. Tornò al presente e allungò lo sguardo sul figlio che lo stava osservando in silenzio. Il suo consiglio gli aveva acceso una fiamma dentro, un desiderio di prendersi ciò che voleva invece di vederselo soffiare da sotto il naso.
Accennò un sorriso: “Credo di poter fare qualcosa, figliolo.”
Il volto di Francesco si illuminò di una sinistra gioia, un sorriso perfido si dipinse sulle sue labbra. Per essere un ragazzino così giovane aveva già le idee chiare su cosa voleva dalla vita e portare il nome dei Pazzi sulla vetta del potere era una di queste.
*
La luna splendeva alta nel cielo, la sua luce si rifletteva sull’acqua del canale e sulle pareti dei palazzi rendendo il paesaggio un unico manto d’argento. Da ore Lucrezia si stava ubriacando di quella vista per ritrovare la pace interiore, seduta ai piedi di una dormeuse, stringendosi le ginocchia al petto, i capelli sciolti che ricadevano con grazia e una profonda tristezza negli occhi segnati dalle lacrime. Seguendo la linea del canale, il suo sguardo si perdeva nei ricordi di momenti felici, di numerose passeggiate, di giochi e scherzi che le avevano scaldato il cuore, ma poi un brivido le attraversava la schiena ed ecco che la felicità veniva tagliata di netto dal ricordo di ciò che era accaduto quella sera all’ennesimo ballo in maschera. Come era potuto succedere? Aveva visto Jacopo ubriaco innumerevoli volte, ma mai si era comportato in quel modo. Quante volte si erano sfiorati con innocenza? Quante volte i loro sguardi si erano amalgamati senza secondi fini? E allora perché era finita così? Provò a chiudere gli occhi, ma ancora una volta nel farlo rivide Jacopo sporgersi su di lei, sentì le sue labbra risucchiarle il collo, le sue braccia tenerla stretta come catene. Scosse il capo, lasciò che due lacrime lasciassero i suoi occhi portandosi via anche il ricordo di quella visione. Perché? Erano amici, avevano fatto così tante cose insieme. Era stato lui a ridarle il sorriso, a darle una speranza di ritrovare la felicità, a sostenerla nei momenti difficili. Non riusciva a ricordare un solo giorno senza di lui.
“E allora perché?” Disse con voce soffocata da un singhiozzo.
Anche se stava piangendo, riportò lo sguardo verso la luna, pregandola di darle una risposta. In un momento era cambiato tutto. In un momento aveva perso tutto. Davvero non riusciva a trovare una spiegazione al comportamento di Jacopo e in un angolo del suo cuore temeva di essere lei la causa, in un qualche modo. Gli aveva involontariamente dato false speranze? 
Non siete la candida fiorentina che fingete di essere.”
Con queste parole l’aveva accusata, per giustificare il suo abominevole gesto. Ma lui non poteva sapere di Andrea, perciò…a cosa si riferiva? Doveva essere stata lei a sbagliare, per forza. E ora, cosa ne sarebbe stato di lei? Non aveva il coraggio di rivedere Jacopo e probabilmente lui non voleva più vedere lei dopo il suo rifiuto, dopo averlo offeso e spinto giù dal divano della sala. Senza la sua amicizia non le restava più niente, ancora una volta si ritrovava sola e svuotata. La luna brillava con una forza divina, sentiva la sua luce sfiorarle il viso come una carezza. Non voleva pensare a nulla. Basta. Chiuse gli occhi e si affidò alla clemenza di Dio.
Li riaprì subito nel sentire un rumore, o almeno lei credette di farlo subito, invece la luce del giorno la contraddisse. La luna era sparita e nel cielo un sole timido cercava di farsi strada tra le nuvole grigio perla.
“Lucrezia, sei qui! Ho una notizia meravigliosa!”
Voltò lo sguardo e vide Piero venirle incontro con un gran sorriso sulle labbra. Si sedette accanto a lei e le accarezzò il viso, una cosa che non faceva da molto tempo: “Amore, ti senti bene? Da ieri sera sei strana. Prima hai voluto andartene dalla festa dove ti avevo raggiunto, sotto tua insistenza, e ora ti trovo qui in veste da camera tutta sola.”
Lei scosse il capo leggermente, per non sfuggire al suo tocco, quindi cercò di abbozzare un sorriso: “Nulla. Devo essermi addormentata guardando la luna. Era uno spettacolo bellissimo.”
Piero sorrise: “La mia romantica moglie. Ma ora devo dirti una cosa importante. Mio padre è appena stato qui per darmi la notizia. Quasi non potevo crederci!” Prese respiro e scandì le parole: “Torniamo a Firenze!”
Lucrezia sgranò gli occhi: “Non è vero!”
“E invece sì! Torneremo con l’arrivo della primavera! L’esilio è finito! Albizzi è stato imprigionato e il popolo vuole che la nostra famiglia torni al comando!”
Adesso sì che aveva voglia di piangere, dalla gioia però! Gettò le braccia al collo di Piero e lasciò che lui l’avvolgesse in un abbraccio sincero e pieno di calore. Le sue preghiere erano state ascoltate. Chi avesse sbagliato e perché ormai non aveva più importanza, poteva considerare l’amicizia con Jacopo un capitolo chiuso.

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Capitolo 35
*** Nero su bianco ***


Capitolo trentaquattro
Nero su bianco
 
Tommaso entrò nella sala da giorno ma, sentendosi a disagio, si voltò indietro per ricercare uno sguardo d’incoraggiamento. Guendalina lo accontentò e, dopo avergli sorriso, richiuse la porta. Sentiva addosso una strana inquietudine fin dal momento in cui lei si era presentata a Palazzo degli Albizzi dicendo che il suo Signore desiderava incontrarlo. Che cosa voleva da lui quell’uomo? Da alleato e amico di famiglia si era tramutato in uno sporco traditore ingannando Rinaldo e contribuendo al suo arresto. Quella fatidica sera, quando Ormanno aveva appreso la notizia, era quasi svenuto. Se non ci si poteva fidare degli amici, di chi fidarsi allora? Ed ora si trovava lì a Palazzo de’ Pazzi, di nascosto dal proprio Signore e con un brutto sospetto.
“Vieni avanti, ragazzo, non hai nulla da temere.” Gli disse Andrea, per tranquillizzarlo, ma nel suo mezzo sorriso non vi era traccia di cordialità e il fatto che tenesse due calici in mano era alquanto sospetto. Infatti ne sollevò uno e disse: “Prego, non fare complimenti.”
Anche se avrebbe preferito andarsene, alla fine Tommaso si rassegnò ad affrontare ciò che sarebbe avvenuto. Gli andò incontro e prese il calice che lui gli stava offrendo.
“Ormanno aveva grande stima di voi.” Puntualizzò, per fargli capire che non si fidava di lui.
Andrea sospirò: “Mi dispiace averlo ferito, ma qualcuno doveva pur fermare la follia di suo padre.” Sfoderò di nuovo quel mezzo sorriso sinistro: “Non ti ho mandato a chiamare per parlare degli Albizzi. Forse tu puoi aiutarmi a trovare una cosa.”
Sospettoso e incuriosito in egual misura, Tommaso gli fece un cenno col capo per indurlo a proseguire.
Andrea bevve un sorso dal proprio calice, quindi disse: “Giorni fa ho udito involontariamente la tua conversazione col cane dei Medici. Anche se non so i dettagli, ho capito che vi è la possibilità di distruggere la reputazione di quella famiglia e far arrestare Lorenzo. Ora che sono prossimi a tornare, non ho altro desiderio che gettarli nel fango come i porci che sono. Per farlo, però, ho bisogno che tu mi dica dove posso trovare il Registro dello speziale.”
Tommaso ridacchiò: “Forse avete involontariamente perso la parte in cui ho detto che forse è in possesso del Gonfaloniere di Giustizia.”
Andrea sollevò un sopracciglio: “Avrà funzionato col cane, ma per ingannare me dovrai impegnarti di più. Lo speziale era la tua famiglia e tu di certo sapevi che a volte vendeva rimedi…come dire, letali. Di certo non volevi che dopo la sua morte venissero alla luce fatti spiacevoli sul suo conto. Perciò, sono convinto che tu abbia nascosto con cura quel libro. Se mi dirai dove, io cercherò le prove della colpevolezza di Lorenzo e lo farò giustiziare. Così avremo entrambi quello che vogliamo.”
La proposta era maledettamente allettante. Se così fosse stato, finalmente avrebbe avuto giustizia per lo speziale. Ma come fidarsi di un traditore?
Vedendolo incerto, Pazzi aggiunse: “Solo io posso aiutarti. Devi fidarti di me per forza.”
Tommaso gli lanciò un’occhiataccia anche se sapeva che aveva ragione lui. Per darsi un po’ di carica, bevve il vino tutto d’un fiato e lo posò su un mobile a portata di mano.
“Accanto alla bottega vivono due sorelle, entrambe vedove. Avevano un buon rapporto con lui e talvolta si scambiavano piccoli favori per aiutarsi. Lui le chiamava ‘le dolci sorelline’.” Si sentiva un po’ ridicolo a raccontare quella storia, ma ormai aveva deciso. Se doveva fidarsi, dove farlo fino in fondo: “La notte in cui venne ucciso, nonostante io fossi turbato e addolorato, la prima cosa che feci fu di prendere il Registro e portarlo a loro. Le uniche persone che sapevo l’avrebbero custodito e protetto.”
Andrea, che aveva ascoltato quella seconda parte della storia con molto più interesse della prima, si mostrò soddisfatto: “Bene. Andrò da loro, dunque. Solo dimmi come convincerle a consegnarmelo.”
“Semplicemente dicendo che vi mando io. Si fideranno.” Fece un inchino e si avviò verso l’uscita. Uscendo, però, fece sbattere la porta. Anche se sperava di aver fatto la cosa giusta, era adirato con se stesso e si sentiva come se fosse un traditore. Più ci pensava e più si convinceva di aver fatto una sciocchezza ad aiutare Pazzi.
Quando rincasò, incontrò Ormanno in un corridoio. Un altro incontro spiacevole. Da quando gli aveva confessato il suo amore, tra loro le cose erano cambiate. Tommaso da quel giorno si era guardato bene dal stargli troppo vicino e talvolta sentiva un brivido corrergli lungo la schiena quando Ormanno lo fissava. Perfino quando Rinaldo era stato arrestato lui aveva mantenuto una distanza di sicurezza per timore che Ormanno perdesse nuovamente il controllo e gli mettesse le mani addosso.
“Dove sei stato? Ti stavo cercando.” Chiese Ormanno, con voce roca.
“Perdonatemi, dovevo fare una cosa.” Rispose, osservando i suoi occhi arrossati e l’incarnato pallido. La pena che si portava dietro lo stava consumando giorno dopo giorno.
Ormanno si schiarì la voce, che però continuò ad uscirgli roca: “Vieni, devo parlarti. E’ una cosa urgente. Dobbiamo partire per Roma.”
Tommaso lo seguì fino alla sue stanze private, ansioso di saperne di più. Giustamente. Non appena richiuse la porta, gli porse la domanda: “Avete detto Roma? Perché mai?”
“Dobbiamo salvare Papa Eugenio IV. Il Duca di Milano ha attaccato la città.” Rispose secco Ormanno.
Tommaso non nascose di essere contrariato: “E noi cosa c’entriamo in tutto questo?”
Ormanno gli si avvicinò, senza osare sfiorarlo, anche se avrebbe voluto, e lo guardò negli occhi con assoluta serietà: “La mia famiglia è molto legata a Sua Santità, per questo lui ha chiesto il nostro aiuto. Dobbiamo portarlo in salvo qui a Firenze. Ho bisogno di te, Tommaso.”
Lui scostò lo sguardo: “Non sono sciuro di voler rischiare la vita per questo. La situazione è già abbastanza complicata senza aggiungere un ulteriore problema.” Cosa stava dicendo? Parlava da codardo senza nemmeno pensare alle parole che gli uscivano dalla bocca. Stava solo trovando delle scuse per nascondere il vero motivo che lo bloccava: il pensiero di essere al suo fianco e dover sopportare i suoi sguardi tristi e le sue attenzioni mirate. Non poteva farci niente, era più forte di lui. Non voleva essere crudele ma… Dannazione, nella mente continuava a rivivere tutto! Tra scambiarsi un bacio per puro divertimento, come avevano fatto la prima volta, a bramare un atto carnale contro natura c’era una bella differenza!
Come se gli avesse letto nel pensiero, Ormanno gli disse: “Non volevo che la mia dichiarazione d’amore ti turbasse a tal punto da non fidarti più. Ma il fatto che io sia innamorato di te e ti desideri non deve influenzare il tuo comportamento. Stiamo parlando di dovere, ora, e tu come guardia personale hai l’obbligo di seguirmi. Non accetto rifiuti o lamentele.” Si accorse che il suo sguardo stava tremando dalla rabbia, ma non volle dargli peso: “Preparati e saluta la tua fidanzata. Partiamo tra due ore.” Andò ad aprirgli la porta di propria mano e gli fece un cenno col capo per obbligarlo ad uscire. Non era proprio il momento di lasciarsi andare al sentimentalismo, c’erano troppe cose importanti da fare.
*
Per un motivo o per un altro, ormai Andrea restava sveglio fino a notte fonda o addirittura andava a dormire solo all’alba. La politica non gli aveva mai tolto il sonno prima di allora, ma con Rinaldo in cella e i Medici sulla via del ritorno non riusciva a rilassarsi. Stanco e di cattivo umore, scansò il Registro con una mano e si adagiò sullo schienale della poltrona. Era stato facile ottenerlo, anche se Tommaso aveva omesso di dire che le due sorelle erano delle megere sfiorite che amavano il trucco pesante e le proposte sessuali indecenti. Ad ogni modo, dopo giorni trascorsi ad esaminare quel dannato Registro, ancora non aveva trovato quello che cercava. Si era soffermato sul periodo antecedente la morte di Giovanni de’ Medici, ma tra i compratori di veleni non vi era nessuno che potesse essere collegato alla sua famiglia o alla sua morte. Il nome di Lorenzo non c’era. Diavolo, però su una delle pagine una riga era stata cancellata con una buona dose di inchiostro e qualcosa gli diceva che proprio lì si trovava l’indizio che cercava. Quel vigliacco di un macinaerbe l’aveva cancellata di proposito, anche se questo non era bastato a salvargli la vita. Nonostante quella sconfitta, Andrea aveva comunque continuato ad esaminare i nomi, proseguendo con le pagine successive alla morte di Medici. Cosa sperasse di trovare, ormai non lo sapeva nemmeno lui.
“Leggerò un’ultima pagina. Non ha senso continuare così.” Disse tra sé. Riavvicinò il Registro e vi si chinò per riprendere la lettura. Col dito indice prese a scorrere la colonna della merce venduta, fino a quando non trovò la dicitura ‘cicuta in polvere’. Mosse il dito in orizzontale sulla riga e si soffermò sulla colonna del nome del compratore. Erano scritte solo le lettere R e A. Curioso che fossero le iniziali di Rinaldo degli Albizzi! Certo lui non avrebbe avuto motivo di recarsi personalmente in quella bottega. E poi in quel periodo era in guerra, perciò non era possibile che si trattasse di lui. Andrea avvicinò di più la candela e lesse bene la data. Per una strana coincidenza, era lo stesso giorno in cui Lucrezia si era sentita male. Anche se lui le aveva fatto visita alcuni giorni dopo, lo ricordava bene.
Scosse il capo ridacchiando: “Una coincidenza, appunto! E poi chi mai avrebbe voluto avvelenare Lucrezia e per quale motivo?” Il sorriso gli morì sulle labbra nel ricordarsi di un fatto. Rinaldo era sì in guerra, ma proprio quel giorno era tornato in città per chiedere maggiori fondi alla Signoria.
Scosse lentamente il capo: “No. Dimmi che non è vero. Dimmi che mi sto immaginando tutto.” Si rivolse al Registro come se questo potesse dargli una risposta. Anche se… Il malessere di Lucrezia, il ritorno di Rinaldo e le sue iniziali scritte nero su bianco accanto alla parola ‘cicuta’, erano tutte coincidenze sospette. Anche troppo. Non si chiese nemmeno se Rinaldo avrebbe potuto compiere un simile crimine, perché sapeva bene che ne era in grado. Odiava Lucrezia per il semplice fatto di far parte della famiglia Medici e aveva tentato di tutto per distruggere il loro amore. Ora lo sapeva, Rinaldo aveva fatto avvelenare Lucrezia. Sentì il sangue salirgli alla testa, sussurrò tra i denti: “Maledetto.” Ma poi, battendo pesantemente i pugni sul tavolo, quella parola uscì in un grido che squarciò il silenzio della notte: “MALEDETTO!”

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Capitolo 36
*** Troppo tardi ***


Capitolo trentacinque
Troppo tardi
 
Piero allungò lo sguardo e la vide là al Molo. Il sole stava sorgendo e nei dintorni non vi era praticamente nessuno ad eccezion fatta per i pescatori e poche altre persone. Attraversò Piazza San Marco con la sola compagnia dei piccioni che beccavano e zampettavano indisturbati sul selciato. Il suo sguardo era puntato in avanti verso Lucrezia. Anche da quella distanza, la sua figura appariva snella e leggiadra, i capelli ondeggiavano alla brezza mattutina e così anche la gonna dell’abito. Giunto a lei, le si affiancò senza essere notato, così poté ammirare il suo sguardo sognante rivolto ala Laguna e all’orizzonte. Che creatura divina aveva sposato! Le prese una mano, dolcemente, e solo allora Lucrezia si voltò a guardarlo, lo sguardo leggermente sorpreso e le labbra sorridenti: “Oh Piero! E’ ora della partenza?”
Lui accennò un sorriso: “Sì.” Quindi scostò lo sguardo: “Sapevo che ti avrei trovata qui. Ami questo luogo più di altri.”
Lucrezia sospirò tristemente, tornando a guardare la Laguna: “Amo veder sorgere il sole da qui. E il tramonto dal Rialto. Mi mancherà tutto questo…”
Piero sentì un brivido corrergli lungo la schiena. Ancora non capiva perché sua moglie fosse così innamorata di quella città. In principio credeva fosse solo per le feste e la chiassosa compagnia, ma in quelle ultime settimane non aveva partecipato a nessun evento ed aveva trascorso le giornate a passeggiare per la città da sola. Almeno a quanto gli aveva detto.
Resosi conto di essersi perso in pensieri, schiarì la voce e disse: “Forse un giorno tornerai, se lo desideri. Ma ora…” Estrasse qualcosa da sotto il mantello e glielo porse: “Vorrei solo che tu fossi felice di tornare a casa.”
Lucrezia prese il velo con entrambe le mani e lo spiegò. Da quanto tempo non lo indossava. Da quanto tempo non pensava più ad Andrea. La città e le sue meraviglie avevano funzionato, avevano alleviato il suo dolore per un po’, se solo Jacopo non gliene avesse causato dell’altro.
Piero incalzò: “Allora, sei felice?”
Lei sorrise e sollevò lo sguardo su di lui: “Sì, lo sono! Ti ringrazio di avermi portato il mio velo prediletto per affrontare il viaggio.”
“Ho pensato che ti avrebbe aiutata a non guardarti indietro.” Le lanciò un’occhiata complice: “Se capisci cosa intendo.”
Lei rispose con un mugolio affermativo, quindi si sistemò il velo sul capo, fermandolo con delle forcine che aveva già tra i capelli. Sollevò lo sguardo sul marito e disse: “Andiamo.”
Piero le riprese la mano nella propria e s’incamminarono. Mentre attraversavano la piazza, Lucrezia passò lo sguardo su ogni cosa per imprimere nella mente ogni dettaglio, per mantenere vividi i ricordi più belli di quel luogo. Ma poi sentì davvero il bisogno di voltarsi indietro, di dare un ultimo sguardo alla Laguna e alle sue acque lucenti. Forse non era pronta ad andarsene. Per darsi coraggio volse lo sguardo al Campanile, percorrendolo dalla base alla cima. Avrebbe dato qualunque cosa per trovarsi lassù, adesso, poiché la paura dell’addio aveva superato quella per l’altezza. Sarebbe mai tornata?
Se il suo sguardo avesse concesso un po’ di attenzione anche a Palazzo Ducale, forse si sarebbe accorta della figura che la stava osservando da una delle finestre. Jacopo. Il suo sguardo era colmo di sofferenza e rimpianto nel vederla andarsene. Non si erano nemmeno salutati, non si erano più rivolti la parola dopo… Strinse le labbra. Si sentiva in colpa per essersi comportato in modo tanto vergognoso con lei. E’ vero che inizialmente bramava solo il suo corpo, ma poi le cose erano cambiate. Si era affezionato a lei e non avrebbe mai voluto farle del male. Ma quella sera, quella maledetta sera, era più ubriaco del solito. Non aveva apprezzato la notizia che suo padre avesse preso accordi per fargli sposare Isabella[9] Contarini. Non era pronto a sposarsi e a farsi carico di grandi responsabilità. Per questo aveva ricercato conforto in Lucrezia, ma aimè l’aveva fatto nel modo sbagliato. E l’aveva persa per sempre.
“Jacopo, perdonatemi.”
Lentamente distolse lo sguardo dalla finestra e si voltò verso chi aveva parlato. Non provò nemmeno a simulare un sorriso, tanto non sarebbe servito a niente. Isabella era all’ingresso della sala, il volto serio. Da quando era giunta a Venezia non l’aveva vista sorridere una sola volta.
“Vostro padre vorrebbe che lo raggiungessimo nelle sue stanze. Ha detto di avere delle cose importanti da comunicarci prima della celebrazione del matrimonio.” Aveva pronunciato quella frase con un tono lugubre, neanche avesse detto ‘prima di andare alla forca’. Non era entusiasta dell’idea del matrimonio, proprio come lui.
Jacopo sospirò rassegnato: “Sì, vengo subito. Precedetemi.”  Aveva la sensazione che non sarebbe mai stato felice. O meglio, che la sua felicità se ne stesse andando per sempre. A Firenze, per la precisione.
*
Rinaldo non riuscì a trattenere una risata, seppur amara, nel vedere chi era venuto a fargli visita in cella. Esaminò il suo ospite dalla testa ai piedi, quasi volesse accertarsi che si trattasse proprio dell’uomo che era stato suo amico ed alleato. Solo quando incontrò il suo sguardo tagliente smise di ridere.
“Non credevo avreste trovato il coraggio di farvi vedere dopo ciò che mi avete fatto.” Fece una smorfia e il suo tono si fece più cupo: “Traditore codardo, dovrei strangolarvi con le mie stesse mani.”
Se per tutto il tempo Pazzi si era limitato ad ascoltare, a quell’insulto la sua apparente calma si frantumò. Si gettò addosso a Rinaldo, lo afferrò per la giacca con entrambe le mani e lo spinse fino alla parete: “Ascoltatemi bene, perché non ve lo chiederò due volte. Avete fatto avvelenare Lucrezia?”
Già turbato per quell’inaspettata reazione, Rinaldo rimase ammutolito anche per via della domanda. Era passato tanto tempo, nemmeno ci pensava più a quel fatto. Ma ecco che nella mente gli balzò una domanda che poi trovò la strada per uscire dalle labbra: “Come lo avete scoperto?”
Andrea spalancò gli occhi sui suoi: “Dunque non negate? Siete davvero voi R. A. del Registro.” Quindi gli gridò in pieno volto: “Io l’amavo, schifoso bastardo!”
Nonostante la posizione di svantaggio, non che la superficie irregolare delle pietre della parete che gli stava graffiando il collo e la schiena sotto i vestiti, Rinaldo lo sfidò apertamente: “Il mio unico rimpianto è che lo speziale sia morto prima di completare l’opera.”
“Lei era gravida. Portava mio figlio in grembo.” Disse Andrea tra i denti.
Rinaldo non poteva credere alle proprie orecchie! Aveva agito appena in tempo, allora. Ma la buona notizia non migliorava la sua situazione, anzi ora era davvero nei guai. Sapeva quanto quell’argomento fosse delicato per lui. L’unica cosa che poteva fare era mettersi sulla difensiva: “Io non potevo saperlo.”
Gli occhi di Andrea ora erano umidi e la voce gli uscì incerta: “Ha perso il bambino poco tempo dopo. E adesso credo di sapere il perché. Lei è guarita ma il bambino deve aver assorbito il veleno. E così è morto lentamente dentro di lei.” Deglutì, le mani gli tremavano: “Miserabile che non siete altro, avete ucciso mio figlio.” Lasciò la presa e retrocedette di qualche passo.
Rinaldo non aveva altra scelta, doveva approfittare di quel suo momento di debolezza per ingraziarselo. Se non fosse tornato dalla sua parte, non aveva speranze di salvarsi dalla forca, visto che tutti lo volevano morto. Si concesse qualche istante per calarsi nella parte e trovare le parole da dire, quindi gli mise una mano sulla spalla e parlò con tono amichevole: “Andrea, amico mio. Voi mi conoscete. Se avessi saputo, non avrei mai fatto ciò che ho fatto. Soprattutto perché ricordo il vostro dolore per la perdita di Guglielmo, anni fa.”
Non doveva nominarlo. Non doveva. Nel sentire quel nome, Andrea percepì come un fulmine attraversargli il cranio, subito seguito da una sensazione di gelo nel profondo del cuore. Un uomo così meschino e spietato non doveva permettersi di nominare suo figlio e ricordargli così il tradimento di Caterina e tutti gli errori commessi in quegli anni. Risollevò lo sguardo che aveva tenuto abbassato e incontrò gli occhi di Rinaldo. Il momento della pietà era finito. Si sporse su di lui e gli sussurrò: “Vi faccio una promessa, amico mio. Questa volta non ne uscirete vivo. Pagherete per tutto il male che avete fatto a questa città. Pagherete per il male inferto a me e alla donna che amo. E pagherete per aver strappato la vita a nostro figlio prima ancora della nascita.”
Quell’avvertimento lasciò Rinaldo pietrificato, il braccio gli ricadde a peso morto quando Pazzi si allontanò. Era dunque la fine ? Aveva perso proprio tutto?
Prima di lasciare la cella, Andrea si voltò un’ultima volta, sfoggiando un sorriso perfido: “Quasi dimenticavo. Ho convinto la Signoria ad infliggervi una punizione. Accettatelo come un dono da parte mia. Spero che ad ogni colpo di frusta vi ricorderete tutto il male che mi avete fatto.”
Rinaldo prese respiro e riuscì a rispondere: “Non temo la frusta.”
Andrea sogghignò: “Meglio così! Ma non temete, la punizione vi sarà inferta in serata. Ora potete godervi il ritorno del vostro peggior nemico. Pare che sarà in città entro un’ora.” Fece un inchino per beffeggiarlo e se ne andò.
Mentre il carceriere richiudeva la cella, Rinaldo, spinto da uno slancio di disperazione, corse alle sbarre e tentò di richiamarlo indietro: “Andrea, aspettate. Tornate qui.” Ma vedendo che lui non tornava, in lui subentrò una tempestiva rabbia. Stringendo le sbarre tra i pugni, gridò a squarciagola: “Il giorno in cui la vostra puttana saprà la verità su di voi, io guarderò tutto dal cielo. E riderò nel vedere la sua espressione sofferente.”
*
Lasciata la Torre, Andrea rimase nei dintorni di Piazza della Signoria a camminare senza meta. I suoi sentimenti stavano impazzendo assieme a lui, tra la rabbia verso Rinaldo, la tristezza per la verità emersa riguardo l’aborto e l’agitazione per il ritorno di Lucrezia. Era impaziente di rivedere i suoi occhi, di riassaporare le sue labbra, di stringerla a sé e sentire il suo calore. Avevano così tante cose da dirsi e da chiarire. Ora più che mai sentiva la tortura dell’attesa, come se quell’ultima ora fosse più lunga dei mesi che li avevano tenuti separati. Dopo aver camminato attorno alla piazza più e più volte, gli giunse all’orecchio che finalmente i Medici erano entrati in città, allora si avviò per andar incontro al corteo, facendosi spazio tra la folla che aumentava ad ogni minuto. Si fermò solo quando avvistò il corteo capeggiato da Cosimo e Lorenzo a cavallo, seguiti da alcune guardie e una donna incappucciata e poi in ultimo da una carrozza. Anche se da quella distanza non poteva vedere chi vi era all’interno della carrozza, le grida che chiamavano Piero e Lucrezia non lasciarono spazio a dubbi. Ora non gli restava che trovare un modo per farle sapere che lui era lì solo per vedere lei. Ma come fare? Se si fosse messo in prima fila, sarebbe stato troppo esposto e di certo non era sua intenzione far credere a qualcuno che fosse lieto del ritorno di quella famiglia. No, sarebbe stato un fatto inammissibile. Si guardò attorno e notò che vi erano fiori praticamente ovunque. Questo gli diede un’idea, se solo fosse riuscito a… Si accorse che vicino a lui c’era una bambina paffutella e dai riccioli biondi che teneva tra le mani un giaggiolo bianco. Era forse un segno divino? Passò velocemente due persone per giungere a lei, quindi si chinò su un ginocchio e sfoggiò il sorriso più cordiale che poté: “Buondì, piccola! E’ davvero una giornata gioiosa, non trovi?”
La bimba sorrise, rivelando così una dentatura non proprio perfetta: “Sì, signore! La mia mamma dice che grazie ai Medici da oggi saremo tutti più felici!”
“Ah dice così?” Chiese con tono irritato, ma poi si schiarì la voce e lasciò perdere il risentimento. Non era il momento di pensare alla politica. Mise mano alla scarsella e ne estrasse una moneta d’oro: “La vedi questa? Sarà tua se mi aiuterai.”
La bimba spalancò gli occhi e la bocca per la meraviglia: “Oooh! Cosa devo fare?”
Andrea puntò il dito verso la carrozza: “Solo andare là e consegnare il tuo giaggiolo alla donna che è dentro la carrozza. Puoi farlo?”
Lei fece degli esagerati cenni col capo per confermare ed espose il palmo della mano per ricevere la ricompensa. La piccola aveva occhio per gli affari!
“Brava bambina.” Le disse Andrea, dandole la moneta, quindi si rialzò in piedi e andò a prendere posto contro la parete di una casa.
La bimba riuscì facilmente a sgusciare tra la folla e raggiungere la carrozza. Andrea vide la mano di Lucrezia prendere il fiore e subito dopo la bambina puntare il dito…be', non proprio verso di lui, ma comunque nella sua direzione. Ancora pochi istanti ed ecco che la carrozza fu abbastanza vicina da permettergli di vedere il suo volto angelico. Era bella proprio come ricordava. E indossava il velo che lui le aveva regalato. Dunque non lo aveva dimenticato, o si stava solo illudendo? Dopo aver cercato tra la folla, lo sguardo di Lucrezia incontrò il suo. Il cuore gli mancò un battito. Mentre la carrozza passava lenta, i loro sguardi rimasero incollati. Lui aveva bisogno di qualcosa di più, di un segno che gli confermasse che tra loro non era finita. Ed ecco che la sua amata esaudì la sua richiesta, sfiorandosi le labbra con i petali del fiore. Ora Andrea sapeva che il suo cuore gli apparteneva ancora.

[9]: Nella serie tv è stata chiamata Isabella ma la ragazza che andò in sposa a Jacopo Foscari in realtà si chiamava Lucrezia Contarini. 

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Capitolo 37
*** In frantumi ***


Capitolo trentasei
In frantumi
 
Aveva sperato che la sua vita sarebbe tornata alla normalità una volta rientrata a Firenze, ma aveva dimenticato che a Palazzo Medici il concetto di normalità non era esattamente positivo.
Dopo quasi un anno di inattività, Piero era ansioso di fare qualcosa di importante per dimostrare il proprio valore e si era messo in testa di affrontare i mercenari di Rinaldo per obbligarli ad andarsene, altrimenti detto, a causa di questi grilli che aveva per la testa non concedeva la minima attenzione a lei. E poi l’alterco con Contessina… Il loro rapporto non era mai stato idilliaco, ma di certo non si aspettava che la suocera riversasse su di lei le proprie frustrazioni. Non era colpa sua se Cosimo aveva portato con sé Maddalena, la schiava e amante di cui il Doge gli aveva fatto dono.
“Parola mia, se potessi tornare a Venezia partirei subito e una volta arrivata là farei pace con Jacopo.” Disse rivolta allo specchio nell’angolo della stanza, dove si era ritirata dopo la sfuriata di Contessina. Sembrava incredibile che il giorno prima fosse stata felice e ora si ritrovasse già in preda allo sconforto. Quella famiglia non l’apprezzava, non la capiva, non le dava calore. Si sentiva sprecata, si stava consumando lentamente e temeva che presto anche la propria bellezza sarebbe sfiorita. Era stanca di vivere secondo gli umori dei Medici. Rimirandosi allo specchio incontrò gli occhi fiammeggianti che vi erano riflessi. E allora prese una decisione.
Dopo aver indossato il mantello e lasciato detto che usciva per fare una passeggiata, camminò a passo sicuro fino alla destinazione che si era prefissa, l’unico luogo in cui sapeva che avrebbe ricevuto amore e attenzioni. Palazzo de’ Pazzi.
Bussò alla porta d’ingresso senza esitazioni e sorrise calorosamente a chi le aprì: “Agata, che gran piacere rivedervi!”
La governante strabuzzò gli occhi e non nascose una certa sorpresa per quella familiarità: “Madonna Lucrezia, ben tornata in città.”
Lucrezia entrò ancor prima di essere invitata a farlo e affidò il proprio mantello alla donna, come da vecchia abitudine: “Dove posso trovare Messer Pazzi?”
“Nel suo studio. Permettetemi di annunciarvi, Madonna.”
“Sapete che non è necessario! E poi sono certa che gradirà questa mia visita inaspettata!” Sottolineò, sfoggiando un bel sorriso, quindi scivolò via come un’anguilla prima che la governante potesse tentare di fermarla.
Ferma di fronte alla porta chiusa dello studio, Lucrezia venne dolcemente colta dall’emozione. Il cuore le batteva forte nel petto e sentiva le mani percorse da un leggero tremolio. Era passato tanto tempo, sarebbe stato felice di incontrarla? Ripensò al giaggiolo del giorno prima… Sollevò una mano lentamente e batté tre colpi sulla superficie liscia della porta.
“Avanti.” La voce di Andrea arrivò ovattata, dall’interno.
Lucrezia prese un respiro profondo per darsi coraggio ed entrò. Lo trovò intento a leggere un documento, da cui ciondolava un grande sigillo in ceralacca, di fronte alla finestra. La luce del sole lo accarezzava con dita gentili. Era così bello…
“A-Andrea...” La voce le uscì appena percettibile perfino al proprio udito, eppure bastò per attirare la sua attenzione.
Andrea voltò il capo di scatto, il suo sguardo si puntò su di lei trafiggendola come una fredda lama. Ma fu solo un instante, perché nei suoi occhi poi si accese una fioca luce che lei riconobbe come amore. Il documento gli cadde di mano, lo lasciò lì. Gli bastarono tre falcate per raggiungerla, quindi la strinse tra le proprie braccia con forza, quasi volesse toglierle il respiro. Impresse le labbra sull’incavo della sua spalla, stampandovi un bacio come un marchio di fuoco. E Lucrezia, con le braccia avvolte attorno al suo corpo e il mento sulla sua spalla, si lasciò andare ad un silenzioso pianto di gioia. Tutto ciò che desiderava era poter stare così per sempre.
Andrea sollevò leggermente il capo, lisciando la barba contro la pelle delicata di lei, e accostò le labbra al suo orecchio: “Perché? Perché lo avete fatto?” La voce roca per l’emozione.
Lucrezia strinse le labbra e cercò di fermare il pianto. Capì subito che si riferiva a quella stupida lettera piena di menzogne con cui lo aveva lasciato prima di partire.
“Credevo di fare bene. Non sapevo se sarei mai tornata a Firenze e non volevo che voi vi struggeste per la lontananza che ci divideva.”
“Vi avrei raggiunta ogni qualvolta mi sarebbe stato possibile se solo voi… Se voi...” Non riuscì a terminare la frase. Quella lettera l’aveva ferito profondamente, gli aveva fatto vivere l’inferno anche se in fondo aveva sempre saputo che niente di quello che vi era scritto corrispondeva a verità. Scostò il viso e allentò la stretta su di lei. I loro volti si sfiorarono e i loro sguardi si incontrarono. Non riuscì a trattenersi oltre, aveva bisogno di assaporare le sue labbra, di dissetarsi di quel dolce nettare che gli avrebbe ridato la vita. Le dita ricercarono i lunghi capelli ondulati, sottili e preziosi come seta. Le mani di Lucrezia sparsero dolci carezze sul suo viso, mentre quelle di lui scivolavano lentamente sulla sua schiena per poi fermarsi all’allacciatura dell’abito. Aveva fretta, era ansioso di riprendersi ciò che gli era stato portato via e di immergersi in quel corpo caldo in cui avrebbe finalmente trovato la pace. Giusto per preservare un minimo di intimità, diede un calcio alla porta, che si chiuse sbattendo rumorosamente. Allentati quei maledetti lacci, le tolse l’abito di dosso con foga e subito dopo lasciò che fosse Lucrezia a toglierli a lui. La desiderava da impazzire. Lucrezia non si sorprese di vedere la sua eccitazione già gonfia e pulsante nel bassoventre, lei stessa sentiva il proprio mare in tempesta in attesa di essere navigato. Approfittò del momento di non contatto tra loro per andare al tavolo e liberarlo con un unico movimento delle braccia di tutto ciò che vi era sopra. La boccetta dell’inchiostro si salvò per miracolo, cadendo su un letto di fogli di pergamena. Salì sul tavolo e vi si stese occupandone tutta la lunghezza, lo sguardo carico di desiderio in un tacito ordine rivolto a lui. Ordine che Andrea eseguì immediatamente, prendendo posto su di lei e invadendo il suo mare caldo e cremoso. La prese non solo con passione, ma con voracità, prendendosi tutto di lei e dandole tutto di sé. Stava impazzendo, il bisogno di lasciar esplodere il piacere dentro di lei era fortissimo, ma si obbligò a resistere e di attendere il momento in cui avrebbe raggiunto anche la sua anima. I gemiti di Lucrezia riempivano lo studio come una melodia, i suoi seni pallidi e pieni richiamarono la sua mano a toccarli e talvolta a stringerli per coglierne la morbidezza, mentre le sue gambe gli stringevano il girovita come catene. Gli fu impossibile resistere a lungo, aveva troppo bisogno di… Aumentò la velocità. Di lì a poco il respiro gli si bloccò un istante, i lineamenti del viso si contrassero e finalmente il piacere si liberò dal suo corpo per finire in quello di lei. Completamente esausto e col respiro spezzato, di adagiò su di lei e posò il capo fra i suoi seni. E ritrovò la pace.
Con le dita ad accarezzargli i capelli e il peso di lui sul petto, Lucrezia si sentì finalmente completa.
“Avete pensato a me, qualche volta?” Chiese di getto.
Andrea, immerso nel tepore del piacere, rispose in un sussurro: “Ogni istante.”
Lucrezia sorrise tra sé, era ciò che voleva sentire: “E io non ho smesso di amarvi, anche se vi sono stati giorni in cui il mio pensiero non era rivolto a voi. Temevo che mi odiaste per ciò che avevo fatto. Per non aver avuto il coraggio di restare al vostro fianco.”
Lui lasciò un leggero sospiro che si scontrò contro un seno di lei: “Non importa, ora siete tornata.”  
Era tutto così romantico, a parte lo scomodo giaciglio che le stava ammaccando la schiena.
“Andrea, non sarebbe una cattiva idea spostarci nella vostra camera da letto.” Propose.
Lui emise un mugolio di conferma, quindi si sollevò pian piano e si rimise in piedi. Abbozzò un sorriso e le lanciò un’occhiata maliziosa: “E raggiunto il letto, mi permetterete di assaggiarvi ancora una volta?”
Lucrezia lasciò una risatina, si sedette sul bordo del tavolo ed intrecciò le braccia attorno al suo collo: “Tutto ciò che desiderate, Messer Pazzi!” Disse giocosa, per poi unire le labbra alle sue.
Andrea stava quasi per afferrarla per i fianchi e issarla su di sé quando il rumore della porta che si apriva e poi un grido isterico misero fine ad ogni progetto.
Sulla soglia, con volto livido e occhi spalancati, Caterina li osservava turbata.
Mentre Lucrezia tentava di nascondere la propria nudità, Andrea si rivolse alla moglie con evidente irritazione: “Quante volte vi ho detto di bussare?”
Caterina parve riprendersi nell’udire quelle parole. Si rivolse al marito, indignata: “Bussare? E’ a questo che pensate dopo che vi ho sorpreso con questa sgualdrina?”
Lucrezia si fece sentire: “Come osate? Chi credete di essere per parlare di me in questo modo?”
Caterina la fulminò con lo sguardo: “Come osate voi? Io sono sua moglie!” Disse, premendosi una mano al petto con decisione.
Una folata di vento gelido la invase dall’interno, Lucrezia volse lo sguardo ad Andrea: “Cosa?”
“Lucrezia, io…” Venne subito interrotto da lei che riprese la parola: “Vi siete sposato mentre io ero a Venezia?”
“Che cosa?” Strillò Caterina, attirando gli sguardi su di sé, quindi si rivolse al marito: “Non glielo avete mai detto?” Emise una mezza risata isterica, quella situazione era davvero assurda. Tornò a rivolgersi a Lucrezia: “Piccola sciocca, io e lui siamo sposati da anni e abbiamo sei figli.” Scandì le parole di proposito, immaginando che ognuna di esse fosse una pugnalata al cuore di lei. E non si sbagliò. Lucrezia stava tremando, non poteva credere che fosse tutto vero.
“Vi prego, lasciatemi spiegare.” Andrea sollevò le mani su di lei, ma Lucrezia si scostò repentina: “No.” Scese dal tavolo e si riappropriò dell’abito che si strinse al corpo con vergogna. Sollevò lo sguardo prima su Andrea e poi su Caterina, avrebbe voluto sparire.
Caterina lasciò libero il passaggio e puntò il dito verso l’uscita: “Vi invito a lasciare la mia casa, prima che vi siano conseguenze spiacevoli.”
Troppo turbata per pensare con lucidità, Lucrezia obbedì come un cagnolino e lasciò lo studio. Infilò velocemente l’abito e corse fino all’ingresso senza curarsi di avere la schiena nuda, come anche i piedi, dato che le scarpette erano rimaste nello studio. Prese il mantello, che indossò in tutta fretta, e si calò il cappuccio sul viso per nascondersi agli occhi del mondo. Uscì così, stravolta.
“Era proprio necessario?” Chiede Andrea, quasi ringhiando contro la moglie.
Caterina rispose stizzita: “Tacete. Siete solo un vigliacco ed un bugiardo. I Medici sono tornati solo ieri e voi non avete perso tempo! Ma badate, non resterò ferma a guardare. Questa storia deve finire, Andrea. Siete un uomo, prendetevi le vostre responsabilità.”
Andrea sollevò un sopracciglio: “Non eravate contraria, in principio, eppure sapevate che l’amavo. Ricordo che avete anche cercato di consolarmi quando avete saputo dell’aborto.”
Caterina strinse i pugni, era furiosa: “Parlate del passato. Adesso sono qui, mi sono guadagnata la vostra fiducia e il rispetto delle famiglie potenti della città. Non vi permetterò di umiliarmi tenendo stretta a voi la vostra amante.” Lo squadrò con disprezzo: “Rivestitevi prima che qualcuno vi veda in questo stato pietoso.” E lasciò lo studio.
Lucrezia, ancora fuori da palazzo e immobile come se fosse pietrificata, sentiva le parole di Caterina correrle nella mente come cavalli imbizzarriti.
Era sposato.
Era sposato da anni.
Aveva sei figli.
E non glielo aveva mai detto.
Quale magra figura aveva fatto per tutto il tempo. E quante risate dovevano essersi fatti i servitori del palazzo, alle sue spalle, già dall’inizio della loro relazione. Dunque cosa c’era stato tra loro? L’aveva usata per puro divertimento? E sua moglie dove si trovava allora? Erano troppe le domande senza risposta. All’improvviso venne urtata bruscamente da un uomo e barcollò fino a finire di spalle contro il muro del palazzo.
“Guarda dove vai, sozzona.” La offese questi, non sapendo chi fosse e vedendo il suo aspetto trasandato. Forse l’aveva scambiata per una poveraccia di strada o addirittura per una prostituta.
Lucrezia lasciò che il pianto le bagnasse le guance, il suo sentimento d’amore era stato infangato da crudeli menzogne da parte dell’uomo che diceva di amarla. Sollevò lo sguardo al cielo limpido. Si sentiva come se le avessero strappato il cuore dal petto e anche la dignità. Con gli occhi puntati nel profondo dell’azzurro, chiedendo il miracolo di risvegliarsi da quell’orrendo incubo, Lucrezia sentì le forze venirle meno e in un attimo il suo mondo divenne buio. 

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Capitolo 38
*** Guai ***


Capitolo trentasette
Guai
 
“Ormanno, volete aspettarmi, di grazia?” Il tono di Tommaso era evidentemente alterato. Da quando erano usciti dalla Chiesa di San Marco aveva dovuto praticamente inseguirlo, dannazione.
La missione per salvare il Papa e portarlo in salvo dai soldati di Visconti che avevano attaccato Roma, era andata a buon fine e giusto quel giorno avevano fatto ritorno a Firenze in incognito con il prezioso carico di Sua Santità. Certo li aveva ringraziati per il salvataggio e Tommaso aveva anche ricevuto una benedizione per il coraggio dimostrato alla sua giovane età, peccato che poi si fosse rivelato un ingrato nei confronti di Ormanno rifiutando la sua ospitalità e chiedendola a Cosimo de’ Medici. E solo con il banale pretesto di non poter risiedere nella casa di un uomo accusato di tradimento. Era così ingiusto. In fondo era stato Ormanno a portarlo in salvo, non Rinaldo, e ora lo stava umiliando appoggiandosi a quel dannato Medici. Ormanno aveva lasciato la chiesa in tutta fretta, tanto era contrariato, e Tommaso gli era corso dietro con la spada al fianco e il cappuccio ancora calato sugli occhi. Lo raggiunse solo all’interno di Palazzo degli Albizzi.
“Capisco che vi sentiate offeso, ma questa reazione è davvero eccessiva.” Lo rimproverò, per poi tirarsi indietro il cappuccio con gesto secco.
Ormanno si disfò del mantello, che gettò a terra, e si liberò anche della spada che ebbe la stessa sorte. Andò di fronte al caminetto acceso e vi si appoggiò con le mani sul bordo. Si sentiva come se le braci stessero bruciando dentro di lui: “Se non fosse per l’amore che nutro per mio padre, avrei subito portato indietro quell’ingrato di un…” Per quanto arrabbiato, preferì stringere le labbra piuttosto che terminare la frase. In fondo stava parlando del più alto ministro di Dio.
Anche Tommaso era a corto di parole innocenti, in verità. Si era aspettato qualcosa di diverso per il ritorno. Ad esempio un po’ di gloria. E invece si ritrovava a mani vuote, accidenti. Sospirò dalle narici, adirato con tutto il mondo, e andò di fronte alla finestra. Se il Papa aveva preferito i Medici significava che quella famiglia aveva ancora pieno potere. Ma Pazzi non doveva far arrestare Lorenzo e infangare la reputazione della famiglia? Fremeva dalla voglia di fargli visita e dirgli in faccia quello che pensava, ma come fare con Ormanno? Non sapeva che pretesto trovare per essere congedato e di certo non poteva dirgli di aver tramato nell’ombra con l’uomo che aveva fatto arrestare suo padre. Il suo sguardo, che fino a quel momento aveva vagato senza meta al di là del vetro, venne attirato da una figura che era certo di conoscere. Rossella! In effetti Ormanno non l’aveva più vista dopo l’arresto del padre e quella povera creatura doveva essere davvero in pena per decidere di fargli visita nella sua dimora. Tommaso arricciò le labbra in un sorriso, non poteva farsi scappare quell’occasione.
“Torno subito.” Disse, correndo fuori dalla sala, prima che Ormanno potesse tentare di fermarlo. Giunse rapidamente all’ingresso, appena in tempo per salvare Rossella da una situazione imbarazzante. Le guardie, infatti, forse avendo intuito la sua professione a causa dell’abbigliamento stravagante, la stavano deridendo pesantemente. Balzò fuori e finse di avere grande familiarità con lei: “Madonna Rossella, ben arrivata! Io e Stella vi aspettavamo con impazienza. Soprattutto lei che è ansiosa di organizzare il matrimonio con il beneficio dei vostri consigli!”
Lei lo guardò incredula, ovviamente, ma poi capì che era meglio assecondare quella recita: “Oh per me è un vero onore, Tommaso.”
Lui le porse il braccio, galantemente, al quale si aggrappò, per poi rivolgersi alle guardie con tono di scherno: “Grazie al cielo ci sono ancora gentiluomini che sanno come trattare una Signora.” Ed entrarono insieme.
Una volta fuori da occhi e orecchie indiscreti, Rossella chiese divertita: “Che cos’era quella recita?”
Tommaso fece spallucce: “Nulla. Volevo solo aiutarvi ad entrare. Immagino che siate qui per Ormanno e Dio solo sa quanto ha bisogno di conforto in questo periodo di sventura.” Volse lo sguardo verso di lei e vide una profonda tristezza nei suoi occhi. Doveva amarlo davvero molto.
Giunti alla sala, Tommaso aprì la porta per introdurre l’ospite: “Una visita per voi, Ormanno.”
Rossella entrò e andò dritta ad abbracciare Ormanno: “Amore mio, ero così in pena per voi. Non potevo più aspettare, avevo bisogno di vedervi.”
Ora che Ormanno era occupato e, a Dio piacendo lo sarebbe stato per qualche ora, Tommaso poté lasciare il palazzo senza timori.
Pazzi lo ricevette nel proprio studio. Vedendo il suo insolito abbigliamento e i capelli bisognosi di attenzioni, gli venne spontanea la domanda: “Da dove arrivi?”
Tommaso puntò i palmi delle mani sul tavolo e rispose secco: “Qui le domande le faccio io. Avete avuto tutto il tempo di agire e invece vi ritrovo qui con le mani in mano mentre i nostri nemici spadroneggiano.”
Andrea fu tentato di ridere nel vedere tanto vigore, ma preferì non infierire: “Non ho agito per il semplice fatto che non ho trovato nulla di compromettente contro i Medici. Il Registro non mi è stato di alcuna utilità.”
L’espressione delusa di Tommaso disse più di mille parole, aveva riposto grande speranza in quell’affare.
Andrea, mantenendo il suo tono di voce tranquillo, riprese: “Per lo meno su di loro. Ma se parliamo degli Albizzi…bè, devo dire tutt’altro.”
Tommaso scostò lo sguardo dal suo, avendo capito a cosa si riferiva.
“Non temere, non ti attribuisco alcuna colpa. Stavi solo facendo quanto ti era stato ordinato. E non negare di essere stato tu a fare in modo che il veleno arrivasse a Lucrezia.”
Tommaso non mosse un muscolo.
“Ti farò solo una domanda ed esigo che tu mi dica la verità. Ormanno ne era a conoscenza?”
Il silenzio di Tommaso fu lungo, perfino chiuse gli occhi e strinse le labbra per obbligarsi a non parlare. Eppure alla fine cedette: “Sì, ma vi prego di non fare nulla contro di lui. Sta già soffrendo abbastanza per il presente, senza caricargli sulle spalle anche il peso del passato.”
“Provo un grande affetto per lui, nonostante tutto.” Pazzi fece dei cenni col capo: “Hai la mia parola. Ma credo sarai d’accordo con me se farò tutto il possibile per vedere suo padre morto.” Non ci fu bisogno di aggiungere altro. Si alzò dalla poltrona e andò ad un mobile, composto principalmente di cassettini, da cui estrasse qualcosa. Quando tornò al tavolo vi posò sopra un sacchetto di pelle. L’inconfondibile tintinnio fece riaprire gli occhi a Tommaso, che si ritrovò davanti una sostanziosa somma di denaro in monete d’oro. Sollevò lo sguardo per lanciare un’occhiata interrogativa a Pazzi.
“Per la tua collaborazione.” Rispose, riprendendo posto sulla poltrona e intrecciando le mani sul ripiano del tavolo: “Senza di te non avrei mai scoperto la verità e ora sarei divorato dai sensi di colpa per un bastardo che non merita di vivere.”
“Perché dovrei accettarli?” Chiese Tommaso, con la voce che gli si spezzò in gola.
“Perché te lo consiglio. Tra breve gli Albizzi non avranno più niente e tu tornerai ad essere una nullità. Se accetterai la mia protezione, invece, avrai una posizione rispettabile. Se non vuoi pensare a te stesso, dovresti pensare alla tua fidanzata, almeno. Di certo non vuoi che finisca per la strada insieme a te.”
Non era un ricatto, era la pura verità. Che Rinaldo venisse giustiziato o meno, per loro si prospettava un futuro di miseria. Non voleva assolutamente che finisse così. Tommaso allungò una mano e prese il sacchetto che poi ripose sotto il mantello.
“Ottima scelta.” Confermò Pazzi, soddisfatto, quindi aggiunse: “E nel caso te lo stessi chiedendo, ho riportato personalmente il Registro a quelle ‘dolci sorelline’. I segreti dello speziale rimarranno tali. Un gesto per farti capire che la mia proposta è sincera.”
*
Lucrezia si svegliò di soprassalto, credendo di affogare. In effetti constatò di avere il viso e il corpetto bagnati, anche se non si spiegava il perché visto che si trovava nel proprio letto.
“Finalmente ti sei ripresa, svergognata.”
Nell’udire quella voce gracchiante si voltò e vide Contessina in piedi accanto al letto, con occhi che quasi emanavano scintille, ed una brocca vuota in mano. Ecco da dove era arrivata l’acqua!
“Allora? Non hai nulla da dire?” Gridò Contessina, sempre più arrabbiata.
Lucrezia si sentiva confusa, spaventata, non riusciva a pensare figurarsi a parlare.
“Vedo che hai perso la voce! Molto comodo!” Ripose la brocca su di un mobile e si portò le mani ai fianchi con fare autoritario: “Ti hanno trovata svenuta davanti a Palazzo de’ Pazzi, senza scarpe e con il vestito slacciato. Un uomo di buon cuore ti ha riconosciuta e ti ha portata qui in braccio, credendo che fossi stata violentata. Ho dovuto pagare il suo silenzio, sai perché?” Ovviamente non attese una risposta, strinse i pugni e li agitò lungo i fianchi: “Perché ho capito che cosa hai fatto!” Riprese fiato e il vomito di parole continuò: “Vorrei non crederci. Sospettavo che avessi un amante, il tuo comportamento era troppo strano, ma mai avrei immaginato che si trattasse di quella feccia di Pazzi. Uno degli uomini che a suo tempo voleva la testa di Cosimo.”
Lucrezia ritrovò improvvisamente la voce ed un briciolo di coraggio, sollevò il viso e disse convinta: “Io lo amavo.” Tale confessione le fece guadagnare uno schiaffo diretto. Si portò una mano alla guancia colpita, aveva una gran voglia di piangere.
Gli occhi di Contessina sembravano quasi uscirle dalle orbite tanto era furiosa: “Non osare mai più ripetere una cosa del genere. Tu sei la moglie di mio figlio e io non ti permetterò di mancargli di rispetto in questo modo. Voglio considerare un progresso il fatto che tu abbia parlato al passato e che il tuo svenimento sia dovuto ad un profondo turbamento. Ma sappi che se vedrai ancora quell’uomo, non esiterò a cacciarti. Ci sono già abbastanza sgualdrine in questa casa.” E se ne andò sbattendo la porta.
Rimasta finalmente sola, Lucrezia scoppiò a piangere. La sventura si era abbattuta su di lei senza pietà. Prima le menzogne di Andrea e adesso questo. Ora era letteralmente alla mercé della suocera e non poteva permettersi passi falsi. Le bruciava tremendamente il fatto che l’avesse paragonata a Maddalena. No, lei non era così. Non voleva esserlo.
“Lo fa per il mio bene.” Si disse tra i singhiozzi, cercando di convincersi. Ma in fondo sapeva che era davvero così. Ora stava a lei impegnarsi per farsi perdonare e riconquistare la sua fiducia. Magari cominciando a rifiutare apertamente la presenza di Maddalena. Per quanto riguardava Andrea, invece… Non era più degno del suo amore. 

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Capitolo 39
*** Dove tutto finirà ***


Capitolo trentotto
Dove tutto finirà
 
“Madonna Lucrezia, è tornata quella ragazza e insiste per vedervi.” Riferì la serva, senza osare alzare lo sguardo.
“Di nuovo?” Strillò Lucrezia, per poi zittirsi e prendere un respiro profondo. Se solo fosse bastato a placare l’irritazione. Per lo meno cercò di abbassare il tono di voce: “Le hai detto che non desidero ricevere messaggi dal suo Signore?”
“Sì, Madonna. E lei ha risposto che questa volta non se ne andrà fino a quando non l’avrete ricevuta. E…” S’interruppe e si stropicciò le mani in grembo, a disagio: “Ha aggiunto che se la farete cacciare dalle guardie allora dirà a loro chi l’ha mandata e perché.”
Lucrezia spalancò la bocca, offesa: “Un ricatto!”
“Forse potrei aiutarvi se mi diceste chi è il suo Signore e cosa vuole da voi.” Propose la serva.
Lei parve riflettervi, ma in realtà aveva già preso una decisione. Non poteva confidarsi con nessuno, era troppo pericoloso. Sospirò rassegnata: “Falla entrare dal retro e dille di attendermi nel cortile.”
La donna fece un inchino e andò ad eseguire, così Lucrezia poté concedersi qualche minuto per prepararsi spiritualmente.
Raggiunse il cortile poco dopo e trovò la sua insistente ospite accanto ad una colonna. Quando furono una di fronte all’altra, si stupì del cambiamento avvenuto in lei. Certo Guendalina era sempre bassa e tonda, però i suoi lineamenti erano leggermente cambiati e nei suoi occhi non vi era più timidezza, ciò che vide fu lo sguardo di una persona sicura di sé.
“Vi ringrazio per avermi ricevuta, Madonna.” Disse educatamente, inchinandosi.
Lucrezia invece si mostrò severa: “Risparmia le parole inutili e dimmi quello che devi. Che cosa vuole Andrea da me? Dopo quello che mi ha fatto gradirei che sparisse dalla mia vita.”
“Sapeva che avreste detto una cosa del genere, ma ugualmente vi prega di incontralo per parlare di una questione importante.”
“Incontrarlo?” Lucrezia era incredula: “Anche tralasciando il fatto che non voglio più vedere nemmeno la sua ombra, non potrei farlo comunque. Mia suocera mi controlla. Ha scoperto il mio segreto e mi ha proibito di…”
Guendalina dovette interromperla, soprattutto perché lei aveva alzato il tono di voce e c’era il rischio che qualcuno sentisse tutto. Se già era nei guai lei non voleva peggiorare la sua situazione.
“Capisco che siate in collera e spaventata, ma vi assicuro che lui ha davvero un buon motivo per vedervi.” Si fece più seria e si sporse su di lei per parlarle sottovoce: “Se non fossi riuscita a convincervi, mi ha incaricata di riferirvi un ulteriore messaggio.”
Lucrezia la guardò negli occhi, si sentì improvvisamente timorosa. Le fece un cenno col capo.
Guendalina recitò a memoria: “Mia amata, ciò che ho fatto è imperdonabile. So di avervi ferita profondamente nel cuore e nell’orgoglio, ma vi prego di incontrarmi nel luogo che riterrete più opportuno. Se non per me, fatelo per la memoria di nostro figlio, poiché è proprio di lui che devo parlarvi. Sono venuto a conoscenza di un fatto grave riguardante la sua morte e voi meritate di sapere.”
Anche se Guendalina smise di parlare, Lucrezia non riuscì a staccare gli occhi dai suoi. Che fosse un inganno per rivederla? No, non sarebbe arrivato a tanto. Avevano entrambi sofferto per la perdita di quel figlio, perciò se aveva deciso di confidare un segreto così pericoloso ad una sguattera, doveva essere qualcosa di veramente grave. Finalmente riuscì  a scostare lo sguardo e d’istinto si portò una mano al ventre, come se potesse percepire ancora quella piccola vita dentro di sé.
“Digli che…” Deglutì e riprese: “Lo incontrerò nella Basilica di San Lorenzo nel primo pomeriggio. Il luogo dove ci siamo incontrati la prima volta. Il luogo dove tutto ha avuto inizio.”
“E dove tutto finirà.” Concluse Andrea, quando Guendalina gli riferì il messaggio.
“Mio Signore, non è questo ciò che ha detto Madonna Lucrezia.” Precisò lei.
Andrea abbozzò un sorriso triste: “Va bene, Guendalina. Hai svolto bene il tuo compito. Puoi tornare alle tue faccende, adesso.” In teoria anche lui avrebbe dovuto tornare alle proprie, ma il solo pensiero di entrare nello studio e pensare agli affari gli stringeva lo stomaco. Aveva tentato di accusare Caterina per quanto accaduto quel fatidico giorno, ma si era solo sentito peggio. La verità era che avrebbe dovuto dire la verità a Lucrezia fin dal principio. Ma cosa si aspettava? Non poteva pretendere che moglie e amante vivessero in armonia, specialmente se queste erano donne dal carattere forte.
Giunse alla propria camera da letto quasi senza accorgersene. Si guardò allo specchio. Era ridotto uno straccio a causa di tutti quei problemi e le notti insonni. Doveva assolutamente riprendersi e dare il meglio di sé agli incontri con la Signoria, così da ottenere la propria vendetta su Rinaldo.
*
Quando arrivò alla Basilica di San Lorenzo, di fatto era già stremato dai fantasmi del passato. La sua mente traditrice gli aveva fatto rivivere momenti riguardanti lui e Lucrezia. Il corteo funebre di Giovanni de’ Medici, la grinta con cui lei era intervenuta durante un alterco tra Piero e un uomo della folla e poi infine la basilica dove lui le aveva parlato per la prima volta, anzi dove avevano battibeccato, per la precisione! Si guardò attorno e vide una figura nella penombra. Si avvicinò lentamente, il cuore gli rimbombava nelle orecchie.
“Lucrezia…” Sussurrò come fosse una preghiera.
Lei rimase girata di spalle, il mantello e il cappuccio a coprirla interamente: “Restate dove siete. Vi prego.” La voce le uscì incrinata.
Andrea temporeggiò un poco, cercando le parole con cui cominciare: “Avete tutto il diritto di essere in collera. Non sono stato sincero con voi, ma l’ho fatto solo per timore di perdervi. Vi assicuro che tra me e mia moglie non vi era più amore quando vi ho incontrata.”
“Per quale motivo?”
“Anni fa mi tradì e il suo gesto sconsiderato costò la vita al nostro terzogenito che morì poco dopo la nascita.” Deglutì: “Da allora tenni Caterina segregata in campagna.”
“Ma questo non vi ha impedito di avere altri quattro figli da lei, dopo.” Non avrebbe voluto, ma dalla sua voce risuonò una forte nota di gelosia.
Anche se lei non poteva vederlo, Andrea sollevò le braccia a mezz’aria e le lasciò ricadere: “Cosa posso dire? Era pur sempre mia moglie, la mia compagna di vita. Dovreste sapere di cosa parlo, anche voi siete sposata.”
Aveva ragione, ovviamente. Lei aveva continuato a giacere con Piero anche dopo essersi innamorata di Andrea. Però era capitato poche volte dato che quel ragazzo non aveva un briciolo di virilità. Si sentì una sciocca solo per averlo pensato. Scosse il capo e si concentrò sul presente: “Sono qui per sentire dalle vostre labbra cosa è accaduto a nostro figlio. Cosa dovete dirmi?”
Andrea temporeggiò ancora. Guardandosi attorno vide la luce, che filtrava dalle vetrate, creare figure pittoresche sul pavimento e sulle pareti. Quel luogo era impregnato di bellezza.
Prese respiro e si avvicinò di un passo, nonostante il divieto da lei espresso: “L’aborto è stato una conseguenza dell’avvelenamento. Ricorderete il vostro svenimento e la febbre che vi ha colta.”
Lucrezia si portò una mano al cuore: “Si ma, io non capisco. Avete detto avvelenamento?”
“Sì. Siete stata avvelenata e nostro figlio ne ha pagato le conseguenze.” Allungò una mano per sfiorare la sua. La sentì tremare. Quando la strinse nella propria lei non glielo impedì.
Una simile confessione la lasciò devastata, si ritrovò le guance rigate dalle lacrime e solo in un secondo momento un singhiozzo si levò dalla sua gola: “Il mio bambino.” Rispose alla stretta di Andrea, aveva bisogno della sua forza o sarebbe crollata: “Chi? Ditemi chi è stato.”
Andrea rispose senza indugiare: “Rinaldo. Aveva scoperto del mio amore per voi e non poteva sopportare che il suo miglior alleato amasse una donna appartenente alla famiglia dei Medici.”
“Mostro!” Le uscì in un mezzo grido che poi fu coperto dai singhiozzi di pianto.
“Sto facendo il possibile per fargli pagare questa atrocità. Ad ogni incontro con la Signoria chiedo la sua testa. Però la situazione sta diventando problematica con Cosimo che mi contraria chiedendo che si voti per l’esilio anzi che la pena di morte.”
“Cosa? Dopo ciò che Rinaldo gli ha fatto, lui..?” Non poteva crederci. Cosimo voleva risparmiare la vita a quel mostro? Per lo meno la sorpresa placò il suo pianto.
“Rinaldo deve morire per ciò che ha fatto.” Ora la voce le uscì ferma.
Andrea sollevò l’altra mano e gliela appoggiò sulla spalla in un gesto d’affetto: “Lo so.”
Rimasero così, uniti per affrontare il dolore, avvolti dal silenzio di quel luogo sacro. I loro cuori stremati da tutta la sofferenza che quell’amore sbagliato aveva inflitto loro sin dal principio.
La prima ad infrangere il silenzio fu lei: “Devo andare.” Si scostò per liberare la spalla dal tocco di lui, ma non riuscì subito a fare lo stesso con la mano. Dentro di lei qualcuno gridava che era l’ultima volta, che poi non si sarebbero più toccati e forse nemmeno parlati. Non sarebbero più stati un ‘noi’, ma singoli individui che per giunta appartenevano a famiglie nemiche tra loro. E che il loro amore si sarebbe perso nel tempo. Un brivido la percorse tutta, si obbligò a lasciare la sua mano una volta per tutte e questo le costò un enorme sforzo morale. L’ultima parola che avrebbe dovuto dirgli le rimase bloccata in gola, stretta in una morsa che le tolse il respiro. Abbassò il capo. Se avesse incontrato i suoi occhi sarebbe crollata e ogni proposito sarebbe svanito all’istante. Pregando il Signore di farle mettere i piedi uno davanti all’altro, se ne andò.
Andrea non la seguì, non volse nemmeno lo sguardo verso di lei. Anzi, puntò gli occhi sulla croce di Cristo chiedendo pietà per tutti gli errori commessi.
*
Lucrezia era quasi arrivata a Palazzo de’ Medici quando, sollevando lo sguardo, vide un gruppo di brutti ceffi uscire proprio da lì. Erano i mercenari di Albizzi. Quando le passarono accanto, pensò bene di riabbassare il capo per non attirare la loro attenzione. Pochi passi e fu a casa.
Mentre imboccava il corridoio verso le camere da letto, incontrò Piero.
“Cosa ci facevano qui quegli uomini? Non sono al servizio di Albizzi?” Chiese contrariata.
“Non più. Ma non temere, mio padre li ha pagati affinché lascino la città.” Spiegò lui.
Lucrezia fece una smorfia: “Un po’ di feccia in meno in città.” Superò Piero senza aggiungere altro e non si curò di averlo trattato in modo poco gentile. Era stanca di tutto.

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Capitolo 40
*** Profonda mutazione ***


Capitolo trentanove
Profonda mutazione
 
“Rimanete con me, questa notte.” Lo pregò Rossella, posando una mano sul suo petto. Dolce creatura piena d’amore che lo guardava con quegli occhi di un azzurro limpido. In quegli anni era stata molto più di un’amante, per lui. Era presente nei momenti difficili e lo amava anche quando lui le mancava di rispetto. Aveva preso la decisione giusta e non voleva ripensarci. Ripetendosi questo, Ormanno le sfiorò il viso con una carezza: “Non chiedermelo più, sai già la risposta. Voglio lasciarti di me un ricordo migliore di quelli che ti ho dato.”
Lei gli portò le braccia al collo, incapace di lasciarlo andare: “Che cosa dite? Di voi ho solo bei ricordi! Siete la persona più importante per me!”
“Sei gentile a dirlo.” Le disse sorridendo, ma poi tornò triste e si sciolse dal suo abbraccio: “Questa notte ho davvero bisogno di stare da solo, perdonami.”
“Ma…perché continuate a tormentarvi? Avete detto che vostro padre verrà esiliato, non giustiziato.”
“Ho detto che sono fiducioso che Medici riesca a convincere la Signoria, in verità.” Scosse il capo: “Dio solo sa perché lo sta facendo. La situazione si è come capovolta. I nemici diventato amici e gli amici diventano nemici.” Ripensò a Pazzi e i suoi occhi si velarono ancor più di tristezza. Li chiuse un istante per scacciare il pensiero, quindi tornò a dedicarsi a Rossella e l’avvolse in un caldo abbraccio. Non avrebbe mai negato di volerle bene, di esserle affezionato.
Non appena si sciolsero, Rossella gli chiese con voce tremula: “Vi rivedrò ancora?”
Ormanno rispose sinceramente, per non darle false speranze: “Se mio padre verrà esiliato io partirò con lui, ovunque lo mandino. Se invece verrà giustiziato…” Si bloccò e deglutì: “Porterò mia madre via da questa città e dubito che vi faremo mai ritorno.”
Gli occhi di Rossella si riempirono di lacrime, ma lei cercò di non piangere. Non voleva lasciarlo con quell’ultima immagine di sé. Desiderava che la ricordasse sorridente e felice. Prese respiro e parlò: “Se questo è davvero un addio, voglio che sappiate quanto vi ho amato. Non vi dimenticherò mai, Ormanno. Ma, se avete preso la vostra decisione, vi auguro il meglio.” Si sforzò di sorridere e intrecciò le mani in grembo per non cedere alla tentazione di toccarlo ancora o non sarebbe più riuscita a controllarsi.
“Ti ringrazio di tutto, mia dolce Rossella.” Con queste ultime parole Ormanno si congedò e lasciò la stanza senza voltarsi indietro. Scese le scale trottando, senza curarsi dei clienti che salivano e scendevano. La Casa cominciava ad essere affollata. Era prossimo ad uscire quando una voce lo fermò: “Messer Ormanno.”
Si voltò e vide Madonna Leona venirgli incontro. Con gesto materno, lei gli prese le mani tra le proprie e disse sorridendo: “Buona fortuna, ragazzo. Sono certa che la vostra famiglia potrà cominciare una nuova vita altrove.”
“Che Dio vi benedica, Madonna.” La ringraziò Ormanno, per poi sporgersi su di lei e sussurrare: “Tutto ciò che vi chiedo è di trovare un buon marito a Rossella. Merita una vita migliore.”
“Non temete! Grazie alla vostra generosa donazione non sarà difficile maritarla. E vi prometto che mi accerterò di lasciare quella dolce creatura in buone mani.”
Ormanno le fece un cenno positivo col capo: “So che lo farete.” Sciolse le mani dalle sue e la salutò con un rispettoso inchino, quindi s’incamminò per tornare alla propria dimora.
Quella sera la luna sembrava un disco d’argento che riversava la sua luce candida sulla città. Dopo tanto tempo provò una piacevole sensazione di serenità che lo accompagnò fino a casa. Il primo obiettivo che si era prefissato era stato raggiunto, ora doveva occuparsi del secondo che lo stava aspettando. Più precisamente, lo trovò ad ‘aspettare’ sulla poltrona del salottino privato, beatamente addormentato. Ormanno richiuse la porta senza far rumore, per non svegliarlo, e prese posto sull’altra poltrona. Oh Dio, quel ragazzo era bello anche quando dormiva… Nella sua mente riaffiorò il ricordo del loro primo colloquio in quella stanza. Quella volta gli era parso così timido! Sembrava essere accaduto in un’altra vita. Tommaso era cambiato, era cresciuto, e anche il suo carattere si era rafforzato. Ma ciò che lui amava di più e che avrebbe impresso nella memoria fino alla fine dei propri giorni, erano i suoi bei capelli ondulati e perennemente in disordine e le labbra rosse dall’arco gentile come quelle di una fanciulla.
Tommaso si destò dal sonno, il suo sguardo incontrò quasi subito quello di Ormanno. Si affrettò a ricomporsi: “Perdonatemi, mi ero addormentato.” La voce roca per l’improvviso risveglio.
“Ho fatto tardi, ti chiedo scusa. E’ che Rossella non voleva lasciarmi andare!” Scherzò.
Tommaso rimase serio: “Avreste dovuto chiederle di partire con voi.”
Ormanno accennò un mezzo sorriso, scostò lo sguardo: “Capisco a cosa alludi. Ma io non sono innamorato di lei, non potrei sposarla. Sarebbe una crudele menzogna e la farei soffrire. Ho fatto la cosa giusta, Tommaso. Madonna Leona le troverà un buon marito e lei vivrà una vita più dignitosa.”
Ci fu qualche istante di silenzio tra loro, fino a quando Ormanno non batté la mano sul bracciolo ed esordì: “Non penserai che mi sia dimenticato di te, vero? Non ho intenzione di lasciarti nell’indigenza!”
Ancora una volta Tommaso non condivise il suo buonumore, ma ora fu a causa dei sensi di colpa. Da quando aveva accettato la proposta di Pazzi si sentiva un meschino traditore, anche se non aveva avuto scelta. Se Ormanno gli avesse chiesto di partire con lui, avrebbe rifiutato, perché la sua vita era a Firenze e non avrebbe lasciato quella città per nulla al mondo.
“Sai cosa sono questi?” Gli chiese Ormanno, puntando il dito su tre fogli di pergamena arrotolati e riposti sul tavolino di fronte a loro.
Tommaso scosse il capo, ovviamente, quindi Ormanno suggerì: “Prendine uno e leggilo.”
Lui scelse il primo e lo spiegò. Dopo appena le prime due righe il suo volto sbiancò e lui sollevò lo sguardo colmo di sorpresa su Ormanno.
“Quello, amico mio, è l’atto di proprietà della bottega appartenuta al tuo Maestro.” Spiegò Ormanno e, visto che lui restò ancora muto, proseguì indicando uno alla volta anche gli altri due documenti: “Questa è la tua autorizzazione ad esercitare la professione di speziale. Invece questa è la somma di denaro che ti servirà per avviare la tua attività.”
Con gesto rapido, Tommaso afferrò quel foglio e, nel leggere la somma, sbiancò ancora di più: “Con tutti questi soldi potrei aprirne tre di botteghe. Sono troppi per me.”
Ormanno ridacchiò: “Allora diciamo che ho aggiunto qualcosa come dono di nozze! Così potrai far avere alla tua sposa un bel corredo.”
Tommaso volse lo sguardo su di lui: “Ma come è possibile tutto questo? Credevo che il patrimonio della vostra famiglia fosse bloccato fino alla sentenza.”
“Vero. Ma giusto un paio di giorni fa ho parlato con Messer Guadagni e…diciamo che mi ha dato un grande aiuto. Che Dio lo benedica. Ora quel denaro e quella proprietà sono tuoi e nessuno te li può sottrarre. Se devo essere onesto, sono felice di sapere che sono in mano tua.”
Tommaso si sentì come se avesse ricevuto un pugno in pieno stomaco. Posò i documenti sul tavolino: “Non posso accettare. Non merito tanta generosità.”
“Devi accettare!” Ormanno si sporse e appoggiò una mano sul ginocchio di lui, amichevolmente: “E’ il mio modo per ringraziarti. Forse non te ne rendi conto ma per me hai fatto molto. Mi hai donato la tua amicizia e la tua lealtà.”
Tommaso si batté un pugno sulla coscia e confessò: “E invece sono un gran bastardo! Ho pensato solo a me stesso quando ho accettato di servire Pazzi.” Strinse i denti, aveva voglia di piangere per il disprezzo che provava nei propri confronti.
Sulle prime Ormanno si fece serio, il suo sguardo divenne inespressivo. Certo una simile confessione non era cosa da poco, specialmente perché riguardante l’uomo che gli aveva fatto da secondo padre e che poi aveva tradito la sua famiglia. Ma poi si rasserenò, non avrebbe avuto senso adirarsi, non ne aveva la forza. Accennò un sorriso: “Ora non sei più costretto a sottometterti. Hai tutto ciò che ti serve per provvedere a te stesso. Sei libero Tommaso.” Lo guardò malizioso e aggiunse: “Mi dispiace solo di non essere presente quando dirai a Pazzi di andare al Diavolo!”
Scambiarono una risata complice. Bastò un attimo perché tornassero i ragazzi che erano fino a poco tempo prima, quando credevano di avere il mondo in mano. Tommaso dovette riconoscere che il suo Signore era davvero un grande uomo, quando voleva. Si accorse della sua mano poggiata sul ginocchio, la prese e se la portò alle labbra per baciarne il dorso con umiltà.
Ormanno rise: “Suvvia, non sono più il tuo Signore, oramai!”
“Lo sarete fino a domani. E anche dopo, perché ovunque andrete resterete sempre la persona a cui devo tutto.” Gli disse Tommaso, con riconoscenza.
Ormanno dovette trattenere l’impulso di rubargli un bacio, non voleva rovinare un momento così perfetto. Ritirò la mano e chiuse il discorso: “Ora prendi i documenti e vai. Stella sarà felice di sentire le novità.”
Tommaso balzò in piedi come un grillo, raggiante: “Lo sarà senz’altro!” Prese le pergamene e se le strinse al petto come fossero stati dei bebè, quindi chinò il capo in segno di rispetto e corse fuori dalla sala.
Rimasto solo, Ormanno si adagiò sullo schienale della poltrona e sorrise al nulla: “Ho reso felice una persona che amo. Che splendida sensazione.” Avrebbe voluto che la gioia nel suo cuore non se ne andasse più. Così, con la pace nell’anima e il silenzio della stanza infranto solo dallo scoppiettio del fuoco nel camino, Ormanno chiuse gli occhi e si addormentò sereno.
*
Erano trascorsi minuti o ore? Non lo sapeva nemmeno lei. Non faceva che camminare avanti e indietro per il corridoio principale stropicciandosi le mani nervosamente, tanto era ansiosa di sapere quale sentenza era stata emessa. Avrebbe voluto presenziare e vedere la faccia di quel verme di Rinaldo nel sentirsi dichiarare colpevole, ma purtroppo era vietato l’accesso alle donne a Palazzo della Signoria e di certo lei non aveva il coraggio di fare un ingresso teatrale come quello di Contessina tempo addietro. Non poteva far altro che aspettare il ritorno del marito e del suocero. Anche se non era un comportamento cristiano, nel suo cuore desiderava ardentemente che dichiarassero a morte Rinaldo. Aveva bisogno morale e fisico di ottenere vendetta per ciò che quell’uomo aveva fatto a lei e al bambino che aveva perso.
Nell’udire il rumore della porta d’ingresso si bloccò, il cuore le mancò un battito. Era giunto il momento. Si voltò e corse per raggiungere i due uomini prima che si dileguassero da qualche parte, come di consueto.
“Allora?” Gli occhi spalancati sul suocero, ma fu Piero a darle una risposta: “Le parole di mio padre hanno avuto l’effetto sperato. Albizzi è stato esiliato.”
“Che cosa?” Trasalì lei, rivolgendosi di nuovo a Cosimo: “Ma perché l’hai fatto? Quell’uomo non merita di vivere!”
Lui la osservò alcuni istanti con quella sua espressione ‘inespressiva’ che lo caratterizzava e che lei aveva sempre trovato snervante. Quando si decise a rivolgerle la parola fu anche peggio: “Qualunque uomo merita una seconda possibilità. Albizzi avrà modo di scontare le sue colpe nella città di Trani.”
Lucrezia insistette: “Trani? Nemmeno se fosse stato mandato in capo al mondo sarebbe abbastanza. Come hai potuto prendere le sue difese?”
Piero, vedendo che la situazione si stava facendo ardente, pensò bene di intervenire: “Lucrezia, non hai motivo di parlare in questo modo. Vorrei che la smettessi.”
Cosimo ne approfittò per dileguarsi, liquidando la faccenda con un irritante: “Piero, occupati di tua moglie. Io ho del lavoro da portare avanti.”
“Certo, padre.” Rispose lui, obbediente e sottomesso come un bambino. Ma bastò che Cosimo voltasse l’angolo per cambiare atteggiamento. Si rivolse a Lucrezia con severità: “Che cosa ti è preso? Mio padre ha fatto la cosa giusta ed è diventato un esempio per la Signoria. Sei l’unica a criticarlo.”
Lucrezia lo attaccò: “Tu e la tua stupida infatuazione per tuo padre! E il maledetto desiderio di gloria di voi Medici!” Gli puntò un dito contro e continuò a parlare a ruota libera: “Per tua informazione, non sono affatto l’unica. Messer Pazzi gli si è opposto affinché trionfasse la giustizia, ma tuo padre ha rovinato tutto.”
Piero le lanciò uno sguardo interrogativo: “Pazzi? E tu che ne sai? Non lo conosci nemmeno.”
Lucrezia si sentì fremere. Sarebbe bastato così poco per vomitargli addosso la verità e distruggerlo. Ma a che pro?  Sarebbe stata ripudiata e cacciata.
“Lascia perdere.” Disse tra i denti, per poi afferrare un mantello lasciato all’ingresso da qualcuno e indossarlo infischiandosene altamente. Lasciò il palazzo in uno stato d’animo allarmante. Era furiosa.

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Capitolo 41
*** Un sacrificio per la vendetta ***


Capitolo quaranta
Un sacrificio per la vendetta
 
Lucrezia camminò a passo spedito e capo chino, senza guardare la strada o anche solo pensare a dove si stava recando. Nella sua mente l’immagine vivida di Rinaldo che lascia la città tranquillo in groppa al suo destriero, con un sorriso truce dipinto sul viso e una promessa di vendetta nel cuore. Non poteva sopportarlo!
Si fermò nell’accorgersi di aver raggiunto il Mercato. Si guardò attorno, ma senza focalizzare nulla, con un senso di vertigini che le fece venire voglia di vomitare. Possibile che non vi fosse un modo per fare giustizia?
“Non sembra più lo stesso luogo, vero?”
Lucrezia fremette nell’udire quelle parole all’improvviso. Si voltò di scatto e vide una giovane lavandaia col cesto del bucato sottobraccio, un sorriso gentile e una cuffia bianca che copriva parzialmente una massa di capelli ricci e biondi.
“Come avete detto?” Chiese Lucrezia.
La ragazza accentuò il sorriso: “Il mercato! Ora che non ci sono più i mercenari a terrorizzarci, finalmente potremo riprendere le nostre vite serenamente!”
Già, i mercenari che Cosimo aveva pagato profumatamente affinché se ne andassero. Lucrezia sospirò: “Una piaga gettata su di noi da quel maledetto Albizzi che lascerà la città impunito.”
La lavandaia confermò: “Vero. Non lo trovo giusto. Ma almeno gli Albizzi non ci causeranno più problemi. Ho sentito dire che padre e figlio lasceranno la città domani mattina e spero che dopo di loro partirà anche l’ultimo mercenario.”
Lucrezia strabuzzò gli occhi: “L’ultimo? Volete dire che non se ne sono andati tutti?”
Lei scosse il capo e si avvicinò ancor più per parlarle in segretezza: “Il loro capo è ancora in città. Soggiorna nella locanda subito fuori dal mercato. Io conosco una delle lavandaie che vi lavora e mi ha detto in stretta confidenza che quell’uomo sta riempiendo le tasche alla locandiera ubriacandosi continuamente con ottimo vino e richiedendo la presenza delle più belle sgualdrine della città.”
La notizia era in particolar modo interessante. Uomini come quello erano facili da comprare, quindi forse… Sentì dentro di sé un improvviso vigore. La questione era ancora aperta, dunque.
Simulò un sorriso e disse gentilmente: “Vi ringrazio per esservi confidata. Ora però è meglio che io vi lasci ai vostri doveri, non vorrei mettevi nei guai coi vostri padroni.”
La ragazza ridacchiò: “In effetti Madonna Tarugi non è molto indulgente! Buona giornata a voi!”
Lucrezia la salutò con un cenno del capo e s’incamminò verso la locanda con discrezione, accertandosi di non essere seguita e tenendosi ben nascosta sotto il mantello per non essere riconosciuta.
L’ambiente non si presentò sudicio come immaginava, anche se l’odore di sudore mescolato a quello del lardo sciolto, per un momento le tolse il respiro. Esaminò velocemente gli uomini che vi erano nella grande sala, giusto per vedere se riconosceva uno dei volti visti qualche giorno prima.
“Posso aiutarvi?” Le chiese, tutt’altro che gentilmente, una donna dal volto sciupato e abiti dalla stoffa consumata e stinta. Doveva essere la locandiera.
Lucrezia abbassò lo sguardo e cercò di inscenare un atteggiamento timido: “Ehm, credo di sì, Signora. Io…vedete…sto cercando un uomo, un mercenario. Dovrebbe essere qui.”
“Non sono sicura di potervelo dire, a meno che non mi diciate il vostro nome e il motivo per cui siete qui.” Precisò la locandiera.
“Perdonatemi ma temo di non poterlo fare. Vedete, sono la sua amante e desidero che la mia identità rimanga segreta. Se mio marito venisse a sapere che incontro un altro uomo sarei rovinata. Mi capite?” Sperò che la storia facesse effetto, altrimenti sarebbe stato tutto inutile.
La donna la squadrò malfidente: “Forse.” Ma poi schioccò la lingua e allungò il braccio in direzione di una scalinata: “Secondo piano, terza porta sulla sinistra. Comunque, lasciate che vi dica una cosa. Quell’uomo non vi merita. Da quando è qui non fa altro che ubriacarsi e non esce mai dalla stanza, se non per chiedere piacevole compagnia. Potete trovare di meglio, credetemi.”
“Siete molto gentile, Signora. Farò tesoro del vostro consiglio.” Fece un inchino e si recò dove indicato.
Giunta alla porta, vi accostò l’orecchio per origliare. Sarebbe stato tremendamente imbarazzante trovarlo in compagnia. Non sentendo rumore alcuno, però, cominciò a temere che la stanza fosse vuota, o peggio, che l’uomo avesse esalato il suo ultimo respiro a causa degli eccessi. Fu questo pensiero a spingerla ad aprire la porta senza più temporeggiare.
“Ma che Diavolo…?” Sbraitò, giustamente, l’uomo all’interno della stanza.
Lucrezia riconobbe il volto, un viso magro dalla carnagione olivastra e una barba bruna e folta. Però la sua nudità rischiò di metterla a disagio. Non aveva visto altri uomini nudi ad eccezione di Piero, Andrea e… Scosse il capo, non era il momento di soffermarsi su certe sciocchezze. Fece sbattere la porta alle proprie spalle e camminò fino ad arrivare ai piedi del letto, quindi  si tolse il cappuccio.
Il mercenario, superato il momento di sorpresa, osservò bene la nuova arrivata e il suo sguardo cambiò radicalmente, facendosi molto più interessato: “Un bocconcino prelibato! Questa volta la locandiera ha svolto bene il proprio lavoro!”
Lucrezia lo squadrò con disgusto: “Siete solo un lurido maiale. E per giunta uno di quelli che non rispettano i patti.” 
Lui aggrottò le sopracciglia: “Non mi piace questo tono, bellezza. Non pago per farmi insultare.”
“Tenetevi stretto il vostro denaro, voglio ben altro da voi.” Lucrezia camminò attorno al letto e si fermò sul fianco per poter guardare il mercenario bene in faccia. Aveva la situazione in mano e questo le diede la forza di affrontare il discorso: “Cosimo de’ Medici sarebbe molto contrariato se sapesse che non avete ancora lasciato la città come d’accordo.”
Il mercenario sbiancò e si sentì drizzare i peli della folta barba che stonava maledettamente coi capelli troppo corti: “Ma voi chi s…?”
“Vi prometto che non lo saprà mai, se accetterete di fare quanto vi dirò.” Si sporse su di lui e sussurrò: “Uccidete Albizzi e lasciate per sempre questa città.”
Suo malgrado, l’uomo lasciò una risata: “Potrei farlo, ma vi sono due cose da chiarire. La prima, ho saputo che con lui partirà anche suo figlio. Come faccio ad uccidere Rinaldo con lui tra i piedi? Il ragazzo sa usare bene le armi, nel caso non lo sappiate.”
Lucrezia fece spallucce: “Con l’aiuto dei vostri uomini non sarà difficile tenerlo occupato mentre voi vi occupate di suo padre. E non ditemi che non sapete dove si trovano perché sono convinta del contrario.”
La ragazza sapeva il fatto suo, doveva ammetterlo!
“La seconda, quanto mi pagherete?”
“Cosimo vi ha pagato profumatamente.” Ribatté lei.
“Per lasciare la città.” Precisò lui. Si mise più comodo sul giaciglio, infischiandosene di essere nudo come un verme, quindi lanciò uno sguardo carico di malizia a lei: “Prima mi avete sorpreso, sì, ma in fondo non siete nella condizione di avanzare pretese. Non potete ricattarmi, dolcezza. Se voi dite a Cosimo che io mi trovo in città, io farò sapere a tutta la Signoria che mi avete chiesto di assassinare Albizzi. Anche se non conosco il vostro nome sono in grado di descrivervi e far fare un disegno del vostro volto. E allora chi di noi due verrà punito, secondo voi?”
Lucrezia strinse i pugni. Non aveva pensato che quell’uomo potesse essere così furbo e manipolatore. Ma ormai era tardi per tirarsi indietro. Prese respiro e disse stizzita: “Non ho denaro con me e non credo di riuscire a procurarmelo.”
Il mercenario allungò una mano sulla scollatura dell’abito e sfiorò le rotondità dei suoi seni: “Siete davvero una bella donna. Farò quanto mi avete chiesto in cambio di una galoppata.”
Lucrezia deglutì. Sarebbe stata in grado di arrivare a tanto? Non aveva altra scelta. Tentò di parlare, ma la voce le morì in gola, quindi si limitò a fare un cenno di assenso col capo.
“Farò in fretta, non mi piacciono le donne difficili.” L’aiutò a salire sul letto e la fece stendere. Senza attendere oltre, le sollevò le gonne e la prese.
In passato, Lucrezia aveva avuto modo di ascoltare il racconto di qualche donna vittima di violenza carnale, ma ora che lo stava vivendo sulla propria pelle era ancora peggio e non contava il fatto che lei avesse acconsentito, poiché era stata costretta a farlo. Si sentì privata di ogni rispetto, usata come un pezzo di carne. Una sensazione terribile. Chiuse gli occhi nella speranza di isolarsi dal presente e perdere il senso del contatto con quell’animale senz’anima. Dio, come si era ridotta… Tentò di pensare ai volti di chi voleva bene, ma ottenne un pessimo risultato. Suo marito provava affetto per lei, però non era altro che un bambino capriccioso e privo di spina dorsale. Sua suocera Contessina era una vipera travestita da Signora che riversava sugli altri le proprie frustrazioni di moglie infelice e insoddisfatta. Cosimo era un dannato egoista che pensava solo al proprio tornaconto. Se non avesse preso le difese di Rinaldo la giustizia avrebbe trionfato e tutto si sarebbe risolto. E Andrea, che da buon amante si era poi rivelato un meschino bugiardo, e poi si era dimostrato totalmente negato per la vita politica. Era anche colpa sua se ora lei si trovava in una situazione così penosa, essendo stato incapace di tenere testa a Cosimo durante il processo. E quel maledetto Rinaldo, essere spietato e perverso che non si era fatto scrupoli ad avvelenare una donna incinta solo per gelosia o chissà cos’altro. Meritava molto più che bruciare all’Inferno, doveva diventare polvere e poi svanire, era tutto ciò che meritava. E Ormanno… Da bambini lei lo adorava e sognava di poter diventare la sua sposa, un giorno. Ma poi… No, anche lui meritava il suo odio per averle spezzato il cuore quando…quando…
Chiuse la porta a quel ricordo prima che le entrasse nella mente. Dover sopportare il peso anche di quella sofferenza sarebbe stato davvero troppo. Lasciò che l’odio avesse il sopravvento e che le si iniettasse a fondo nel cuore. Rinaldo e Ormanno non meritavano niente!
La voce le uscì in un sibilo sinistro nel pronunciare le parole: “Uccideteli. Uccideteli entrambi.”
L’uomo le lanciò un’occhiata interrogativa, ma subito deviò lo sguardo, sentendo il piacere impossessarsi di lui. Emise un ringhio rivolto al vuoto, il viso contratto e arrossato. Rotolò sul fianco e giacque esausto. Era tutto finito.
Lucrezia scivolò via da lui e uscì dal letto in velocità, cercando di ignorare il dolore al basso ventre. Non appena uscì dalla stanza prese un respiro profondo. Avrebbe avuto la sua vendetta, finalmente.  
*
Andrea era chino sul tavolo, la schiena ricurva e lo sguardo vuoto. Il silenzio della stanza infranto dall’incessante ticchettio della punta della penna battuta sul foglio di pergamena che ormai era un cumulo di schizzi d’inchiostro. Si sentiva svuotato.  Cosimo aveva vinto, come sempre, e lui aveva mancato a quella tacita promessa che si era fatto. Il suo pensiero andava a quel figlio senza volto e senza nome che non aveva mai visto la luce e non aveva potuto emettere il primo vagito. Non era stato in grado di dargli giustizia.  Aveva fallito sia come padre che come uomo.
All’improvviso la sua mano si fermò e il suo sguardo tornò presente. Vide il foglio schizzato d’inchiostro, lo stropicciò nel pugno facendone una palla e lo lanciò dentro al caminetto. Prese un altro foglio dalla pila che era sul tavolo. Aveva fatto portare tutto il materiale da scrittura lì nel salottino privato, nella speranza di riuscire di nuovo a lavorare, invece era ancora bloccato. Erano accadute troppe cose in poco tempo e quella che più gli faceva male era di aver perso Lucrezia e il suo amore. Dio solo sapeva quanto aveva bisogno di lei in quel momento…
Immerse la punta della penna nella boccetta d’inchiostro e riportò la mano sopra il foglio. Era inutile continuare a scappare, l’unica soluzione era affrontare il demone che lo tormentava. Avvicinò la punta al foglio e cominciò a scrivere. Poche e semplici parole che al loro interno contenevano tutto ciò che aveva bisogno di dire.
Amore mio,
ho fallito.”
“E’ un biglietto per mia madre?”
Quella voce lo fece trasalire, al punto che la penna gli cadde di mano: “Francesco! Non ti avevo sentito.”
Il ragazzino abbassò lo sguardo, con aria colpevole: “Perdonami, padre. Ho dimenticato di bussare.”
Andrea accennò un sorriso: “Sei proprio come tua madre!” Lasciò un sospiro e si affrettò a stracciare anche quel foglio prima che Francesco facesse altre domande a cui non avrebbe saputo cosa rispondere per mascherare la verità.
“Ho saputo della sentenza. I Medici ti hanno oscurato ancora una volta. Ma avrai modo di recuperare, ne sono certo.” Disse il ragazzino.
“Grazie, figliolo. E’ quello che spero anch’io.” Spinto da uno slancio paterno, Andrea avvolse il figlio in un caldo abbraccio. Sì, avrebbe ritrovato la forza per andare avanti. Lo avrebbe fatto per lui, per renderlo fiero di suo padre e del nome che portava. Ormai era l’unica cosa per la quale valeva la pena lottare.

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Capitolo 42
*** Bianco bagliore ***


Capitolo quarantuno
Bianco bagliore
 
Rinaldo e Alessandra uscirono dalle stanze di lui, mano nella mano. I loro volti erano così pallidi e sciupati e i loro sguardi velati di tristezza. Era stato concesso loro solo una notte prima della partenza, poi Alessandra avrebbe raggiunto marito e figlio dopo alcune settimane assieme ai loro averi e qualche servitore. Rinaldo baciò la mano della moglie e disse piano: “Tu scendi, io vado a vedere se Ormanno è sveglio e se vuole unirsi a noi per la colazione.”
Alessandra fece un cenno affermativo col capo e cercò di sorridere, seppur a fatica. Presero due direzioni opposte nel corridoio, ma prima che lui potesse raggiungere le stanze di Ormanno, qualcuno lo precedette. Era Tommaso. Vedendolo entrare senza prima aver bussato, si sorprese di tanta sfacciataggine. Notò che la porta era rimasta socchiusa, perciò si avvicinò e ne approfittò per origliare.
Tommaso, dopo aver educatamente salutato,  si ritrovò immobile a causa del disagio e Ormanno se ne accorse. Gli chiese con premura: “Va tutto bene?”
Tommaso si morse le labbra, le mani che si torturavano. Al fine prese respiro e parlò: “Dovrei parlarvi, Ormanno.”
Lui si avvicinò: “Ma certo. Di qualunque cosa si tratti, puoi parlare liberamente.”
“Io… Ecco… Volevo ringraziarvi sinceramente. Quello che avete fatto per me va oltre  qualunque forma di gentilezza e di amicizia e io non potrò mai sdebitarmi.”
Ormanno sorrise: “Per quanto mi riguarda sono ancora io ad essere in debito. Non avevo appreso cosa fosse il vero amore fino a quando ho incontrato te.”
Rinaldo aggrottò le sopracciglia. Aveva capito bene? No, di certo stavano parlando di qualcosa che gli era sfuggito.
Tommaso prese respiro ancora una volta: “Sono qui anche per chiedervi perdono. Per il fatto di non ricambiare i vostri sentimenti, intendo. E’ solo che io…” S’interruppe quando si ritrovò due dita di Ormanno posate sulle labbra e il suo sguardo nel proprio: “Va bene così, Tommaso. Tra noi, sono io quello sbagliato.”
Da dietro la porta, Rinaldo cominciò ad agitarsi. Quella conversazione era inverosimile. Evidentemente continuava ad ignorare chi fosse il vero soggetto, poiché era impossibile che si trattasse di suo figlio.
Tommaso si fece coraggio, prese con gentilezza la mano di Ormanno nella propria: “Mi sentirei un ingrato se vi lasciassi partire così, senza avervi dato niente. Per questo sono qui, adesso. Per darvi il permesso di dirmi addio secondo il vostro desiderio.”
Ormanno sentì il respiro spezzarsi in gola. Forse in un’altra situazione avrebbe rifiutato l’offerta, si sarebbe comportato in modo adeguato, ma… Dio Santo, non l’avrebbe più rivisto. Che cosa gli sarebbe rimasto di lui? Di cosa avrebbe vissuto negli anni a venire se non di rimpianti? I suoi occhi si persero in quelli scuri di lui, sollevò l’altra mano fino ad arrivare a sfiorare la ciocca di capelli che gli ricadeva sulla guancia.
“Dio misericordioso, fammi vivere di questo momento per il resto dei miei giorni.” Pregò nella propria mente, un attimo prima di impossessarsi delle sue labbra con un bacio.  Si sentiva come se fosse assetato nel deserto e quelle labbra fossero l’unica fonte da cui dissetarsi. Il loro sapore e la loro morbidezza erano dettagli che voleva imprimere nella mente a fuoco, come anche le curve armoniose dei capelli con cui stava giocherellando con le dita. Si distolse dalle sue labbra per riprendere fiato un istante e subito affondò il viso sull’incavo della sua spalla, dove la pelle profumava di sapone ed era più calda. La risucchiò come la polpa di un frutto, mentre col senso dell’udito faceva armonia del respiro di lui, un respiro che nonostante tutto racchiudeva anche leggeri gemiti di piacere. Sarebbe ricorso a tutti questi ricordi nelle lunghe notti insonni che già sapeva lo avrebbero colto nella nuova città e nella nuova dimora. E mentre lui si nutriva di emozioni positive, suo padre guardava dallo spiraglio della porta, pietrificato, ancora più pallido di quanto già non fosse e con gli occhi sbarrati che sembravano tremare.
Non poteva essere reale. Se ne sarebbe accorto se suo figlio fosse stato uno sporco sodomita. Ormanno, suo figlio, un ragazzo coraggioso, un combattente ardito, un sostegno in campo politico. Era quello il figlio che aveva cresciuto, non l’abominio che stava scambiando effusioni con un servo. Ma come negare l’evidenza? Che fosse lui il responsabile, in qualche modo? Forse l’aveva tenuto troppo lontano dalle donne impedendogli di trovarsi un’amante? Era quella la causa di un simile cambiamento? Facendo appello a tutte le forze che aveva, si scostò da quella maledetta porta che fungeva da passaggio per l’inferno. Improvvisamente si sentì come se non conoscesse più il suo stesso figlio.
Nel frattempo, all’interno della stanza, Ormanno aveva concentrato ancora le attenzioni sulle labbra di Tommaso e le stava assaporando fino in fondo. Le loro mani strette l’una nell’altra e il suo braccio a cingere i fianchi di lui. Quando sentì di essere soddisfatto, pose fine al bacio, ma rimase comunque a contatto con lui e posò la fronte contro la sua. Entrambi avevano il respiro affannato e le gote arrossate.
“Non dimenticare mai quanto ti amo.” Sussurrò.
“Mai.” Promise Tommaso sia a lui che a se stesso.
Passarono un paio di minuti senza che dicessero o facessero alcun che, poi fu Ormanno il primo a reagire. Fece scivolare la mano di lui dalle proprie dita, allontanò l’altra mano dal suo corpo. Accennò un sorriso di gratitudine. Si voltò ed ecco che le sue labbra ricaddero in un broncio e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Deglutì, sperando che la voce non s’incrinasse: “Ti prego di non venire a salutarmi all’ingresso. Non riuscirei a dirti addio una seconda volta.”
Le labbra ancora pulsanti per la forza dei baci che aveva ricevuto, Tommaso rispose semplicemente: “Come desiderate, Ormanno.” Lo osservò mentre raggiungeva la porta, lo guardò andarsene. Nel suo cuore la gioia e la tristezza erano in lotta. La gioia del futuro felice che lo attendeva e la tristezza di sapere che non avrebbe mai più rivisto il suo Signore e amico. Non lo avrebbe mai dimenticato.
*
In capo ad un’ora, padre e figlio montarono a cavallo e uscirono dalla porta sud della città accompagnati dal silenzio attorno a loro e dalle grida nelle loro menti. Rinaldo si sentiva a disagio come non mai, quasi si trovasse al fianco di un completo estraneo. Non aveva il coraggio di dire una parola, non avrebbe saputo cosa dire. Non poteva dirgli ciò che aveva visto e non aveva il coraggio di chiedergli spiegazioni.  
Dal canto suo, Ormanno era taciturno perché perso nei propri pensieri. Era lieto che al padre fosse stata risparmiata la vita, ma era comunque difficile trovare la forza per lasciarsi tutto alle spalle e guardare avanti. Avere addosso il marchio del tradimento, il timore di non essere bene accetto nemmeno nella città dove si stavano recando. Ma almeno la sua famiglia si sarebbe presto riunita e forse insieme sarebbero riusciti giorno dopo giorno a ritrovare la pace. Si distolse da quel pensiero nel rendersi conto che tutto attorno era davvero silenzioso. Troppo silenzioso, per essere un bosco. Nessun canto di uccello, nessun fruscio tra i cespugli, nessun ramo spezzato. Nulla. Silenzio di tomba e la nebbia che si sollevava dal terreno rendendo pessima la visuale.
Rinaldo allungò un braccio verso di lui in un tacito ordine di fermare il cavallo. Ovviamente anche lui aveva capito che qualcosa non andava. Rimasero in attesa di un qualunque rumore, Ormanno si guardò attorno furtivo e Rinaldo mise mano alla spada. All’improvviso dal folto di un cespuglio arrivò una freccia che si conficcò dritta  nel petto di Ormanno. Mancò il cuore di poco.
“Ormanno! Da questa parte. Seguimi!” Gridò Rinaldo.
Ormanno, troppo turbato per provare dolore, si ritrovò ad eseguire l’ordine del padre automaticamente. Entrambi tirarono le redini per far cambiare direzione ai cavalli e poi li incitarono al galoppo. Avanzarono di un buon tratto, convinti di essersi lasciati alle spalle la minaccia. Qualunque essa fosse. Ma la realtà li contraddisse quando si ritrovarono davanti un gruppo di uomini armati che purtroppo entrambi riconobbero. Erano alcuni dei mercenari che Rinaldo aveva assoldato durante il governo della città. Uno fece uso dell’ascia per infliggere una ferita mortale al cavallo di Ormanno, il quale cadde a terra. Ormanno sbalzò dalla sella e rotolò sul terreno, la freccia che aveva sul petto si spezzò, ma la parte restante andò ancora più a fondo nella sua carne. Il dolore fu lancinante. Riuscì a tirarsi su, a sostenersi sulle ginocchia e i palmi delle mani. Non riusciva a pensare con lucidità, l’unica cosa che sapeva era che doveva mettersi in salvo. Ma ecco che ricevette un colpo di lancia nella schiena, tanto forte da farlo gridare e ricadere al suolo. Sentì il sapore del sangue salire dalla gola e uscirgli dalla bocca in un rivolo. Una mano lo afferrò alla spalla e lo costrinse a voltarsi. In una frazione di secondo poté vedere suo padre lottare con foga, spada alla mano, mentre quei vigliacchi dei mercenari lo accerchiavano e facevano di tutto per colpirlo, ma subito quell’immagine venne infranta da un dolore indescrivibile. Una lama gli attraversò l’addome col suo freddo metallo. Tutti i muscoli del corpo si tesero all’impatto, il viso divenne paonazzo e i suoi occhi si spalancarono. Il mondo attorno a lui divenne confuso, indistinto, e i suoni si fecero ovattati.
“Perché?” Fu tutto ciò che riuscì a chiedersi con la voce della mente. I suoi occhi incontrarono la luce del sole, il suo bianco bagliore gli tolse la vista. O forse gliene donò una nuova. Gli parve di scorgere una figura familiare all’interno di quella luce. Vi concentrò tutta la propria attenzione, come dimentico delle ferite e del dolore, fino a quando quella figura non divenne più nitida. Ora lo vedeva, Tommaso era là e lo stava guardando coi suoi occhi penetranti e un po’ da bambino. Aveva temuto di non rivederlo mia più e invece era proprio là. Era là per lui. Immerso in quella paradisiaca gioia, Ormanno perse coscienza del mondo terreno. Un guizzo di gioia gli attraversò gli occhi e dalle labbra esalò l’ultimo respiro.
Rinaldo lo vide, steso al suolo, privo di vita. Gli bastò un istante per capire che non gliene importava niente di chi o cosa fosse suo figlio. E che avrebbe voluto tornare indietro per rimediare ai propri errori, per dargli più affetto, più libertà. Tutto ciò che sapeva, ormai, era che non poteva scappare. I mercenari lo colpirono senza pietà, i suoi occhi si svuotarono. La fine giunse anche per lui.
*
Tommaso allungò il braccio e puntò il dito indice: “La vedi quella finestra? Là c’è la sala da giorno, mentre quella accanto è la cucina. Dalla parte opposta invece, sul retro, si trovano le camere la letto e…”
“Tommaso, tra poco lo vedrò personalmente!” Rise Stella, felice e divertita dalla situazione. Da quando erano usciti da Palazzo degli Albizzi, mano nella mano, lui l’aveva praticamente trascinata tanto era ansioso di rivedere la bottega in cui sarebbero andati ad abitare molto presto. Non vi aveva più messo piede dalla notte in cui morì lo speziale e non sapeva che cosa vi avrebbe trovato all’interno, però rivedere il luogo in cui era cresciuto lo riempiva di entusiasmo.
Giunsero alla porta dopo aver percorso l’ultimo tratto di corsa, entrambi ridendo come bambini. Tommaso mise mano alla cintola a cui aveva appeso la pesante chiave e fece per infilarla nella serratura quando udì delle voci che lo bloccarono.
“Ma allora è tutto vero?”
“Ti dico di sì! Il carro sta portando i corpi alla Cattedrale.”
“Oh povero ragazzo, almeno lui potevano risparmiarlo. In fondo non era colpevole come suo padre.”
Tommaso e Stella si scambiarono un’occhiata di sospetto.
“Non penserai che…?” Chiese lei, con un filo di voce.
Tommaso l’afferrò per la mano: “Andiamo.”
Si diedero alla corsa  e in un paio di minuti giunsero nei pressi della Cattedrale dove una folla si era riunita. Tra i bisbigli udirono chiaramente un lamento di donna. Si fecero spazio per riuscire ad avanzare e vedere di cosa si trattava. Stava passando un carro, seguito da un corteo di persone. Riconobbero Madonna Alessandra. Era in lacrime e una donna la stava sostenendo perché non cadesse a terra. Stella si portò una mano al petto, quando capì la situazione.
La mente di Tommaso, al contrario, si rifiutò di capire, ma quando il suo sguardo si posò sui due corpi privi di vita che erano dentro il carro, dovette guardare in faccia alla realtà. Gli mancò il respiro, si sentì tremare da capo a piedi.
Dalla parte opposta di dove si trovavano loro, all’ingresso della Cattedrale, vi erano le famiglie che avevano appena presenziato alla messa e che all’uscita si erano ritrovate di fronte quello spettacolo di morte. Fra loro anche i coniugi Pazzi. Con lo sguardo fisso e il corpo come pietrificato, Andrea sentiva il cuore rimbombargli nelle orecchie. Un rumore fastidioso, un susseguirsi di colpi che quasi gli ferivano la mente. Il cuore straziato dai sensi di colpa nei confronti di Ormanno per averlo tradito, per avergli voltato le spalle a causa di suo padre e per non aver nemmeno avuto la decenza di dirgli una parola gentile prima che se ne andasse.
A poca distanza, anche Lucrezia faceva da spettatrice. Avrebbe dovuto sentirsi realizzata, magari addirittura lieta di vedere la propria volontà esaudita, la propria vendetta ottenuta, invece tutto ciò che provava era una sensazione di freddo su ogni fibra del proprio corpo. Avrebbe voluto sprofondare in un mare di pentimento. Dio del cielo, che cosa aveva fatto?

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Capitolo 43
*** Un brivido nel cuore ***


Capitolo quarantadue
Un brivido nel cuore
 
Ancora non riusciva a credere che fosse accaduto davvero. Era rimasto sveglio tutta la notte a pensare a Rinaldo, al modo in cui la politica e gli interessi li avevano divisi e avevano distrutto la loro amicizia. Ma soprattutto, aveva pensato ad Ormanno e versato lacrime silenziose per lui. Aveva amato quel ragazzo come un figlio, prima di fargli del male, e alla fine si era rivelato un pessimo padre per lui tanto quanto lo era per i propri figli naturali.
Quel mattino, il Papa in persona si era offerto di officiare il rito funebre, ogni parola che pronunciava era sincera poiché era stato amico intimo degli Albizzi. Se solo anche lui non avesse fatto loro un grave torto, alla fine, come tutti quanti. Andrea lasciò un leggero sospiro, gli esseri umani erano davvero creature ingiuste. Diede un’occhiata alla propria sinistra, verso Caterina. Era bellissima con la sua pelle d’alabastro e i lunghi capelli corvini, ma nella sua espressione si poteva leggere chiaro il turbamento e l’insicurezza. Al suo fianco vi erano Francesco, Jacopo e Antonio. Aveva concesso loro di presenziare, ritenendoli abbastanza grandi per capire la gravità della situazione. I loro sguardi erano puntati sulla figura di Sua Santità e sembravano davvero interessati alle sue parole. Poi Andrea passò lo sguardo sui volti delle altre persone presenti, in particolare si soffermò su quelli che come lui avevano contribuito alla rovina di una famiglia che prima era una delle più rispettate della città, su quelli che come lui avevano votato per la pena di morte. Chi avrebbe immaginato che sarebbero stati accontentati? Anche se in un modo molto diverso e con l’aggiunta della morte di un innocente. Poi il suo sguardo arrivò a Lucrezia. Era pallida, come tutti del resto, e anche lei teneva lo sguardo fisso sul Papa. L’unica differenza era che i suoi occhi non stavano davvero guardando. Era chiaramente assente, persa in chissà quali pensieri. Anche lei aveva voluto la morte di Rinaldo, ma di certo non poteva dirsi soddisfatta. Giusto? Doveva assolutamente incontrala e parlare con lei di questo, condividere le sue emozioni. Istintivamente strinse la mano per sentire il rassicurante spessore del biglietto che le avrebbe consegnato una volta terminata la funzione.
*
Lucrezia attraversò l’intero corridoio di corsa, un lembo di gonna sollevato per non rischiare di inciampare e finire rovinosamente a terra. Quando giunse di fronte alla stanza che ormai conosceva bene, non esitò ad aprire la porta ed entrare. La richiuse subito e vi si posò di spalle, quindi riprese fiato e si riavviò i capelli giusto per essere presentabile. Attraversò il salottino ed aprì un’altra porta, quella che conduceva alla camera da letto del ragazzo che amava. Lo trovò con addosso solo le braghe e i bei riccioli scuri erano chiaramente bagnati. Evidentemente aveva appena fatto il bagno. Seguì una linea immaginaria sul suo corpo che disegnò prima le atletiche braccia, le spalle abbastanza robuste ed infine scese lungo la schiena bianca come latte. Si sentì avvampare.
“Ormanno…” La voce le uscì spezzata dall’emozione.
Lui si voltò di scatto. L’espressione inizialmente sorpresa venne subito sostituita da una di gioia nel vedere che si trattava di lei.
“Lucrezia!” Le corse incontro e l’avvolse in un abbraccio, sorridendole.
Lucrezia, ancora rossa in volto ma con un sorriso luminoso, disse timidamente: “Volevo vederti, non potevo più aspettare.” Gli portò le braccia al collo e gli sfiorò le labbra con un bacio.
Lui la guardò malizioso: “Forse dovrei vestirmi. Non vorrei farti cadere in tentazione.”
Lei scosse appena il capo e sussurrò: “No. Ti voglio così.” E lo baciò ancora, ma questa volta con passione.
Lui la strinse più forte a sé, esplorò le sue curve con bramosia, come sempre. Solo che, rispetto alle altre volte, il suo corpo reagì in fretta e in men che non si dica la sua virilità premette sfacciatamente contro il ventre di lei. La situazione stava diventando pericolosa per entrambi. Da quando si erano dichiarati l’un l’altra avevano trovato molte occasioni per stare soli, per baciarsi, per accarezzarsi e per entrare in zone proibite al di sotto dei vestiti, ma mai si erano spinti fino in fondo.
Ormanno si interruppe bruscamente: “Basta così. Lo sai che non possiamo. Ma quando avrò convinto mio padre a parlare col tuo riguardo il nostro fidanzamento ti prometto che sarai mia, anche prima del matrimonio se lo vorrai.”
Lucrezia ridacchiò: “Non m’importa niente dei nostri padri! Tu hai chiesto la mia mano ed io ho accettato. Solo questo conta. Voglio essere tua, amore mio.” Come attratta da una forza invisibile, si attaccò alle sue labbra ancora una volta. Era una sete implacabile. Per avvalorare le parole appena dette, pensò bene di aggiungere qualcosa, si scoprì le spalle e tirò giù la stoffa fino a lasciare i seni nudi, quindi prese una mano di lui e ve la portò. Ormanno non si fece pregare, ne tastò la morbidezza, il calore, la rotondità e si dilettò nel sentire una delle gemme indurirsi sotto il suo palmo. Complice la prepotente virilità che pulsava nelle braghe, accantonò ogni principio e si mise ad armeggiare con i lacci del vestito di lei. Lasciò che la stoffa scivolasse dal suo corpo come acqua ed interruppe il bacio per ammirare la bellezza delle sue curve. Per niente intimidita, Lucrezia fece la propria mossa e slacciò le braghe di lui che lasciò ricadere allo stesso modo. Si avvinghiò a lui, il tempo dei giochi era finito. Raggiunsero il letto dove si lasciarono cadere e leggermente affondare nella sua morbida superficie. Scambiarono uno sguardo d’intesa, come per chiedersi conferma di proseguire, quindi Ormanno si adagiò su di lei e prese posto fra le sue delicate cosce. Per lui non era la prima volta, aveva avuto modo di imparare qualcosa sull’arte dell’amore da una fanciulla, tanto deliziosa quanto disponibile, che gli era stata presentata da un amico, prima della dichiarazione d’amore che poi l’aveva legato a Lucrezia. Però, consapevole che invece lei era vergine, fu molto gentile e cercò di interpretare i segnali del suo corpo per sapere quando fermarsi e quando proseguire.
Per Lucrezia fu un’esperienza travolgente e appagante. Anche se all’inizio aveva dovuto stringere i denti, poi il dolore si era attenuato quasi fino a sparire e al suo posto era giunto il piacere. Più questo aumentava più il suo corpo reagiva, sapendo cosa fare pur senza saperlo davvero. Era come se al mondo non esistesse altro che loro due, l’unione dei loro corpi in una dimensione che va oltre il cielo. Raggiunsero quasi contemporaneamente la vetta del più intenso piacere paradisiaco.
Con il dolce peso del capo di lui sul petto e le dita ad accarezzargli i capelli, Lucrezia pose una domanda a fior di labbra: “A cosa pensi, amore mio?”
La voce un po’ roca per la piacevole fatica, lui rispose: “Preferisci la verità o una romantica bugia?”
“La verità, ovviamente.”Gracchiò lei, tra il sospettoso e il divertito.
“Bene.” Ormanno lasciò un sospiro, quindi disse: “Vorrei che Piero ci sorprendesse in questo momento, solo per il gusto di vedere la sua faccia sconvolta!”
Inevitabilmente scoppiarono a ridere entrambi, a conferma della loro grande intesa. Anche se era a danno del loro amico d’infanzia.
“Oddio quanto sei cattivo! Povero Piero! Io mi sento già in colpa per quando dovrò dirgli che il fidanzamento è annullato.”
Ormanno non solo smise di ridere, ma anche di respirare. Che cosa aveva appena detto? Sollevò il capo di scatto e la guardò dritto negli occhi: “Annullato? Vuoi dire che sei stata promessa a lui?”
Lucrezia si sentì sporca ai suoi occhi e questo la indusse a coprirsi con il lenzuolo: “Ormanno, io…”
“Quando è stato deciso? Dimmi la verità, Lucrezia.” 
Lei abbassò lo sguardo. Sapeva che la risposta non gli sarebbe piaciuta: “Prima che io venissi qui. Ma ti giuro che non ne sapevo niente, i nostri padri ce lo hanno detto durante il pranzo.”
Ormanno lasciò subito il letto, non riusciva a starle vicino dopo una tale confessione. Andò verso un mobile a cui si poggiò facendo pressione sui palmi delle mani.
Sentendosi in colpa, Lucrezia cercò di rimediare: “Adesso non ha più importanza. Mi hai resa tua e nessuno potrà impedirci di stare insieme.”
“Mi hai ingannato!” Gridò Ormanno, per poi riprendere con tono più mite: “Hai voluto fare l’amore con me anche se eri già stata promessa  a lui.”
“Lo so, ho sbagliato. Ma l’ho fatto a fin di bene, devi credermi!” Incalzò Lucrezia.
Lui però era di tutt’altra opinione, come poteva perdonarla? Si voltò verso di lei e gli uscì un vomito di parole senza controllo: “Vuoi sapere cosa penso? Ora ti vedo per ciò che sei davvero. Non voglio che una persona così falsa diventi mia moglie. Tu e Piero siete fatti l’uno per l’altra, sempre ad agire nell’ombra per ottenere i vostri scopi. Avete la mia benedizione. Auguri e figli maschi!”
Lucrezia si sentì come se le avessero trapassato il cuore con una lama. La voce le tremò nel dire: “Non posso più sposarlo. Mi dono donata a te, ormai.”
Lui rise amaramente: “Non è un problema mio! Tu hai creato l’inganno e ora tu vi porrai rimedio.”
“Ma io ti amo!” Gridò Lucrezia, disperata, per poi saltare già dal letto con l’intenzione di ricercare il suo abbraccio. Lui però la respinse e la fece cadere a terra. La guardò con sguardo carico di odio: “Per quanto mi riguarda tra noi è finita. E adesso vattene.”
Lucrezia si rimise in piedi e fece per allungare una mano verso di lui: “Amore, ti prego…”
“Vattene!” Gridò lui a pieni polmoni.
Spaventata e tremante, Lucrezia recuperò il proprio abito da terra e uscì di corsa dalla stanza. Una volta fuori, però, le gambe le cedettero e si lasciò scivolare sul pavimento del salottino. Faceva fatica a respirare e il cuore le doleva da impazzire. Aveva commesso un errore, uno stupido errore, al quale non poteva porre rimedio. Dei singhiozzi si levarono dalla sua gola seguiti dalle lacrime che presero a cadere come gocce di pioggia dai suoi occhi. Aveva agito d’impulso e ora aveva perso sia la purezza che il ragazzo di cui era innamorata.
Una lacrima le attraversò il viso mentre la sua mente lasciava quel ricordo per tornare al presente. Il Papa stava ancora parlando, ma dalle sue parole capì che il rito stava ormai per concludersi. Percepì sul viso la fredda scia umida lasciata dalla lacrima, si asciugò la guancia con il dorso della mano. Una lieve stretta alla spalla le fece voltare il capo, incontrò gli occhi tristi di Piero.
“Dispiace anche a me per Ormanno. In fondo un tempo eravamo amici.”
Piccolo e miserabile ignorante, se solo avesse saputo la verità su di loro…
Il funerale terminò e le famiglie andarono una alla volta a porgere le condoglianze a Madonna Alessandra. Quella povera donna era distrutta dal dolore per quel lutto che l’avrebbe accompagnata fino alla fine dei suoi solitari e vuoti giorni. Lucrezia le baciò le mani, ma non ebbe il coraggio di guardarla negli occhi. Non dopo ciò che aveva fatto. Se solo avesse potuto tornare indietro ed impedirsi di commettere un gesto così mostruoso…
Lei e Piero lasciarono la Cattedrale preceduti da Cosimo e Contessina, anch’essi turbati e silenziosi. S’incamminarono lentamente per il breve tragitto verso casa, quando lei venne leggermente urtata.
“Perdonatemi, Madonna Lucrezia.”
Volse lo sguardo e si ritrovò di fronte Andrea. Con lui vi era anche la moglie Caterina e tre ragazzi che lei, pur non avendoli mai visti, riconobbe come i loro figli. Dischiuse le labbra per dire una semplice frase di cortesia, ma si bloccò nel sentire la mano di lui stringere la sua. Fu un attimo, il tempo di percepire il familiare calore e poi tutto svanì. Nella sua mano non restò altro che la sottile presenza di un biglietto ripiegato più volte.
*
Andrea rincasò al crepuscolo, di pessimo umore. Il messaggio che aveva consegnato a Lucrezia indicava luogo e ora di un appuntamento, ma lei non si era presentata. L’aveva aspettata per tre ore, camminando attorno alla Cattedrale e all’interno, addirittura si era recato fino a Palazzo de’ Medici nella speranza di vederla uscire o anche solo di intravederla da una delle finestre. Niente. Si era rifiutata di incontralo. Fu un boccone davvero amaro da mandare giù.
Gettò il mantello a terra, all’ingresso, e si avviò verso le sue stanze. Guendalina sbucò da un corridoio e gli si piazzò davanti.
“Messere, bentornato. Avete una visita.” Gli disse, facendo un cortese inchino.
Ad Andrea si spezzò il respiro per la sorpresa. Possibile che Lucrezia fosse lì, nonostante lo spiacevole episodio di pochi giorni prima? Si schiarì la voce: “Di chi si tratta?”
“Tommaso Innocenti, la guardia personale di Messer Ormanno.” Fece il segno della croce in rispetto della sua anima, quindi riprese: “Dice che deve parlarvi di un argomento delicato e della massima importanza. Ho visto che teneva in mano un sacchetto col vostro stemma, ma non so cosa…”
Andrea sollevò una mano per farla tacere: “Va bene, ora vado da lui.” Sicuramente si trattava del denaro che gli aveva dato. Il che significava che aveva un ripensamento, che non voleva più essere alle sue dipendenze. Sciocco ragazzino.
“Oh un’altra cosa! Perdonatemi, stavo per dimenticarmene.” Guendalina mise mano ad una tasca nascosta della gonna e ne estrasse un foglio di pergamena arrotolato. Glielo porse: “E’ da parte di Madonna Lucrezia. Lo ha portato la sua serva personale mentre voi eravate fuori.”
Quello gli interessava di più di Tommaso. Andrea afferrò la pergamena dicendo: “Puoi andare.”  L’aprì in tutta fretta, impaziente di sapere cosa contenesse. Che fosse una lettera d’amore? Un messaggio per spiegare per quale motivo non si era presentata? Il suo sguardo si velò di delusione nel vedere di cosa si trattava in realtà. Che il loro amore fosse ormai in frantumi lo aveva capito, ma non si sarebbe aspettato tanto disprezzo. Lucrezia aveva messo in poesia tutto ciò che pensava di lui, senza risparmiarsi:
“Non mi curo più di te:[10]
Aggio preso forti rami, 
Non rispondo perché chiami, 
Beffe mi farò di te. 

O nimico, i' ò passato 
Oramai la dubia strada; 
Gesù mio m' à liberato, 
Non istare a quella bada. 
Grazia ò auto ch' io non cada, 
Non provar più l' esca e gli ami; 
Non rispondo, perché chiami, 
Beffe mi farò di te. 

Credesti aver gran faccenda, 
Con piaceri a me mostrare; 
Non che 'l mio Signore offenda, 
Non ci voglio pur pensare. 
Deh omai lasciami stare! 
I' non vo' più tuo' richiami; 
Non rispondo, perché chiami; 
Beffe mi farò di te. 

Deh omai lasciami stare 
Con la tua mortal ferita! 
A' peccati i' vo' pensare 
Ed a Dio, bontà infinita, 
Io vo' metter la mie vita 
In far tanto che Dio m' ami. 
Non rispondo, perché chiami; 
Beffe mi farò di te. 

Or ne mostra quanto puoi 
De' piacer quanti ne sai. 
Se tu fussi tu e' tuoi, 
Da me altro non arai. 
Deh pel resto sia ormai
Questi modi falsi e grami! 
Non rispondo, perché chiami: 
Beffe mi farò di te. 

Tu se' stato molto atento
Farmi, dico, a Dio lontano. 
I' t' ò fatto malcontento: 
Or sarebbe morto invano

Dato gli ò nella suo mano 
L' alma ch' a sé la richiami. 
Non rispondo, perché chiami; 
Beffe mi farò di te."



[10]: “Non mi curo più di te” è una poesia scritta dalla vera Lucrezia Tornabuoni.
 

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Capitolo 44
*** Spettri dal futuro ***


   

 
                 
Spettri dal futuro

 
Quel mattino di fine Ottobre del 1453, il Battistero di San Giovanni era nuovamente gremito delle personalità più importanti di Firenze in onore del battesimo di Giuliano de’ Medici, a quattro anni di distanza dal fratello Lorenzo. Nonostante Lucrezia gli avesse fatto recapitare un messaggio con la supplica di non farsi vedere, Andrea aveva preso l’irrevocabile decisione di presenziare e, per giunta, aveva preso posto il più vicino possibile al Fonte Battesimale. Non sarebbe mancato per nulla al mondo.
Non aveva badato all’espressione sorpresa e quasi spaventata di lei, quando si era accorta della sua presenza. La sua attenzione era stata interamente per il bambino che lei teneva tra le braccia, un fagottino dalla testolina cosparsa di capelli scuri, le labbra sottili e l’incarnato olivastro, avvolto in una veste bianca e riccamente ricamata. Andrea aveva seguito il rito con interesse, sul suo volto un sorriso orgoglioso che forse nessuno gli aveva mai visto prima e che lui non pensò nemmeno di celare. Potevano credere ciò che volevano, l’importante era che fosse lui a conoscere la verità.
Una volta che il bambino venne purificato dal Peccato Originale, Andrea si sentì soddisfatto e poté lasciare il Battistero con il cuore leggero, ignorando gli sguardi perplessi attorno a lui. Prima di uscire si voltò indietro un istante, Lucrezia lo stava guardando con occhi colmi di sofferenza, ma lui rispose vigliaccamente con un semplice e formale cenno del capo.
All’esterno fu investito da una fredda folata di vento che subito venne schiacciata dai raggi di un sole che non voleva arrendersi all’autunno ormai giunto.
Dopo che Lucrezia gli aveva spezzato il cuore con quella poesia, e soprattutto quando era venuto a conoscenza che era in attesa di un figlio da Piero, Andrea era cambiato, era guarito dalla malattia dell’amore e dall’illusione romantica ed era divenuto un uomo ancor più meschino di quanto non fosse prima. Ma almeno aveva fatto in modo di convertire il risentimento che provava nei confronti di Lucrezia in amore per i propri figli. Quel pensiero gli causò un sorriso amaro.
Dopo la nascita di Lorenzo, chiamato così in ricordo dello zio assassinato in parte anche per causa sua, lui si era comunque tenuto informato riguardo Lucrezia e non provava vergogna ad ammettere di aver percepito un piacevole senso di vendetta nell’apprendere che nei tre anni a seguire lei aveva dato alla luce creature che quasi subito erano finite nell’oscurità della morte. Ma poi era accaduto quel fatto. Un pomeriggio d’inverno l’aveva incontrata nella Piazza della Signoria, disperata per i lutti, stanca per i lunghi pianti, il volto invecchiato precocemente. Aveva accettato di passeggiare con lei, di ascoltare il suo pianto e le sue parole infelici, i suoi rimorsi per quell’amore che li aveva legati e che poi loro avevano distrutto.
I ricordi erano confusi per ciò che accadde dopo. Rivide nella mente l’ingresso di Palazzo de’ Pazzi, loro due scambiarsi un’occhiata penetrante e in un attimo ritrovarsi a rotolare su un letto degli alloggi della servitù nel tentativo di soddisfare una passione cieca e di placare un dolore che li avvolgeva da troppo tempo. Poi ancora il silenzio. Lui aveva visto il ventre di lei crescere sempre più col passare dei mesi.
Giuliano.” Andrea ridacchiò nel pronunciare quel nome. Lucrezia non avrebbe potuto dargli un indizio migliore. Aveva chiamato il loro bambino con il nome del Santo che si festeggiava per l’appunto il giorno in cui il loro Giuliano era stato concepito.
Un bambino che nelle vene aveva sangue Pazzi e Tornabuoni, avrebbe portato il nome dei Medici per tutta la vita. Ironia della sorte. Si chiese se un giorno avrebbe mai avuto il coraggio di dirgli la verità o almeno di dirla ai propri figli. Fra tutti, Francesco era quello che più gli dava preoccupazioni. Era diventato un ragazzo scontroso, dal carattere difficile, un grande attaccabrighe che ricorreva alla violenza anche per un nonnulla e che ormai non faceva altro che sputare sentenze su tutti e bramare potere. Andrea scosse il capo, deluso. Sì, ma una delusione rivolta a se stesso poiché era stato lui ad iniziarlo all’odio verso gli altri. Come avrebbe reagito quel figlio se avesse saputo di avere un fratellastro nella famiglia dei Medici?
Una nuova folata di vento lo investì, ma questa volta lo fece rabbrividire da capo a piedi. Rivolse lo sguardo alla facciata del Duomo. La terza porta emetteva un leggero cigolio, mossa dal vento. Andrea la guardò muoversi appena, era come se lo stesse invitando ad entrare. E lui accettò. La Cattedrale era deserta, buia, quasi spettrale, solo qualche candela s’intravedeva qua e là in un movimento repentino causato da spifferi di vento. Gli parve di udire delle voci, come delle eco lontane e irreali. Ad ogni passo che faceva lungo la grande navata centrale gli sembrava che il freddo gli penetrasse sempre più a fondo fino a raggiungere le ossa. All’improvviso si fermò accanto ai banchi. Nella penombra scorse dei volti, delle linee disegnate nell’aria. Fra i volti sconosciuti ve n’erano due familiari. Due uomini, giovani, molto somiglianti. Uno in particolare attirò la sua attenzione. Era alto, aveva gambe lunghe e un fisico atletico. La sua chioma bruna era composta di onde, il suo volto leggermente affilato presentava una carnagione olivastra, occhi scuri e labbra sottili. Si sporse per vedere meglio quella figura irreale. Era come se stesse guardando un gioco di specchi in cui si erano amalgamati il proprio riflesso e quello di Lucrezia. Sentì qualcosa di piacevole scaldargli il cuore. Fece per allungare una mano, nell’impossibile tentativo di  sfiorare quel volto.
“Giuliano.” Bisbigliò, come in un sogno.
Il giovane uomo in effetti voltò il capo, per un istante gli fece credere di averlo sentito, di averlo visto, ma quella speranza miracolosa s’infranse con l’arrivo di un pugnale fantasma che andò a conficcarsi dritto nel petto di Giuliano. Vide il suo volto contrarsi per il dolore, il suo corpo chinarsi sulla panca per poi ricadere all’indietro e finire sul pavimento. E subito dopo un uomo gettarsi su di lui come una bestia furiosa, gridando e infilzando la sua carne ripetutamente e senza controllo. Andrea era pietrificato dal terrore, non poteva muovere un muscolo mentre suo figlio veniva ucciso brutalmente e senza pietà. Quando l’uomo smise di colpire il corpo ormai senza vita e dopo essersi perfino ferito con la propria lama, tanto forte era la foga, sollevò il volto verso l’alto. Nonostante il sangue che lo imbrattava, gli occhi illuminati di follia e le labbra contorte in un sorriso maligno, Andrea riuscì a riconoscere un altro figlio. Francesco.[11]
“Giustizia è stata fatta. Il bastardo è morto.” Ringhiò al vuoto.
Andrea lasciò un grido di terrore e corse fuori dalla Cattedrale come se avesse il Diavolo alle calcagna. Più che aprirla, colpì con la mano la porta dalla quale era entrato e una volta fuori si lasciò ricadere a terra, sbattendo dolorosamente le ginocchia. Il respiro affannato gli stava facendo esplodere i polmoni, il corpo tremava tutto. Quello che aveva visto non poteva essere reale. Non poteva! Eppure lui era terrorizzato.
Nel sentire qualcosa toccargli la spalla sollevò il viso di scatto.
“Messere, lasciate che vi aiuti, vi prego.”
La voce gentile lo aiutò a placare la paura. Il soccorritore non era altri che un giovane frate dal viso scarno e gli occhi buoni. A guardarlo bene, sembrava davvero troppo giovane per indossare un saio, era poco più di un bambino.
Andrea cercò di collaborare mentre il ragazzo si faceva forza per sollevarlo da terra, ma dopo ciò che aveva passato là dentro e con le ginocchia doloranti per la caduta, non era in grado di sostenersi sulle proprie gambe. Per fortuna il ragazzo aveva con sé un lungo e rudimentale bastone da passeggio.
“Cerchiamo una carrozza.” Propose, ma Andrea scosse il capo.
“No. Il mio palazzo è qui vicino. Io posso…”
“No, non potete!” Ridacchiò il giovinetto, per poi offrirsi: “Vi accompagnerò io. Non temete, non vi lascerò cadere. Dovete solo guidarmi lungo il cammino.”
Stordito, Andrea abbozzò un: “Che Dio vi benedica.” Quindi fece segno con la mano libera: “Da questa parte.”
Si avviarono per la via incredibilmente deserta e con il freddo che frustava i loro corpi. Il ragazzo aveva il braccio saldo e sembrava non avere difficoltà a sostenere Andrea, che comunque si impegnava a mettere i piedi uno di fronte all’altro per non abbandonare tutto il peso su di lui.
“Qual è il vostro nome?” Chiese Andrea, tentando di avviare una conversazione.
“Antonio Maffei[12], vengo da Volterra.”
“E come mai un frate di Volterra si trova a Firenze? Se posso chiedere…”
“In verità sono solo un novizio, il più giovane del gruppo. Ad ogni modo, sono in pellegrinaggio, potrei dire. Sono giunto qui con lo scopo di vedere la Cupola di Santa Maria del Fiore, la sua bellezza è decantata ovunque.”
Andrea sorrise suo malgrado: “I Medici sarebbero lieti di saperlo.”
“Oh i Medici! Ho sentito dire che sono ottime persone che amano la cultura e il popolo. Sarei felice se la mia amata città venisse presa sotto la loro protezione.” Disse con tono sognante.
In breve giunsero a destinazione, dove le guardie alla porta si affrettarono a soccorrere il loro Signore. Prima di essere portato all’interno, Andrea pensò bene di ringraziare il proprio salvatore.
“Vi prego, entrate. Se siete venuto da Volterra a piedi meritate di rifocillarvi e riposarvi.”
Antonio fece per rifiutare, timidamente: “Siete molto gentile, ma io non vorrei recar disturbo.”
“Sciocchezze. Mi avete soccorso quando avevo bisogno di aiuto, è il minimo che io possa fare per voi.” Lo incoraggiò Andrea, accennando un sorriso, per poi proseguire: “Vorrei presentarvi mio figlio Francesco, ha all’incirca la vostra età. E’ un ragazzo che ha molto bisogno di apprendere i fondamenti della carità cristiana e sono certo che conoscervi gli farebbe bene.” Inevitabilmente gli balenò alla mente un frammento della visione di prima, la furia, il sangue, la follia, scosse il capo in fretta per scacciarlo, non voleva più pensarci.
Seppur ancora intimidito, Antonio alla fine accettò: “Se lo desiderate, lo farò con gioia. Anche se penso che il figlio di un uomo così buono, non può che avere bontà nel proprio cuore.”  
Di seguito ad Andrea e alle sue guardie che lo sostenevano, Antonio varcò la soglia di Palazzo de’ Pazzi, speranzoso di poter fare del bene alla sua prima pecorella smarrita. E, nel candore della sua giovane età, già sognava di trovare in Francesco de’ Pazzi un amico per la vita. 


[11]: Questa visione altro non è che la famosa Congiura dei Pazzi avvenuta nel 1478, in cui appunto
         Francesco pugnalò a morte Giuliano de’ Medici con tale foga da ferire perfino se stesso.
         Ovviamente nella mia versione l’odio è giustificato dal fatto che Francesco non può
         sopportare l’idea di avere un fratellastro che porta il nome dei Medici, invece nella realtà
         storica lui e gli altri uomini che presero parte alla Congiura, avevano come intento di uccidere
         sia Lorenzo che Giuliano per “liberare la città e la Repubblica dalla loro tirannia”.
 
[12]: Antonio Maffei, di cui ho dovuto romanzare la storia e barare sull’età, partecipò alla Congiura
         dei Pazzi, desideroso di uccidere Lorenzo il  Magnifico. La sua voleva essere una vendetta in
         quanto riteneva responsabile Lorenzo degli orrori compiuti nella città di Volterra nell’anno
         1472, quando questa perse la propria indipendenza e finì sotto il controllo della Repubblica
         Fiorentina.

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Capitolo 45
*** Inizialmente la mia idea era... (curiosità e ringraziamenti) ***


Inizialmente la mia idea era…
 
Spesso mi capita di dire frasi del tipo “questa storia ormai è fuori dal mio controllo” oppure “la storia ha preso una piega inaspettata sotto le mie dita” e puntualmente mi viene fatto notare che… l’autrice sono io! E’ vero, normalmente quello che scrivo nasce dalle mie idee e dagli intrecci che faccio con i personaggi, ma vi assicuro che nella maggior parte dei casi mi sono ritrovata tra le mani storie che non avrei mai immaginato finissero in un certo modo o con sviluppi inaspettati in conseguenza a scelte fatte all’ultimo minuto. Questo ha fatto di me più una spettatrice delle mie stesse opere che non un’autrice. Ed ecco il motivo per cui ho voluto aggiungere questo contenuto, per elencarvi i progetti iniziali e le scene che poi non ho inserito per validi motivi o semplicemente per una scelta fatta sul momento!
 
-L’idea di creare la coppia Andrea-Lucrezia è nata da una fotografia! Si tratta di una foto scattata sul set della serie tv (che io ho modificato e trasformato in copertina per il capitolo d'introduzione) che ritrae i due attori in una posa aggraziata, quasi fossero in un dipinto. Mi ha subito stuzzicato la fantasia, anche se ho aspettato a cominciare la stesura perché allora stavo ancora lavorando alla FF “Delfina de’ Pazzi - La neve nel cuore” (che invito tutti a leggere!).
 
-Quando ho cominciato a scrivere questa storia la mia intenzione era di incentrare l’intera vicenda su Andrea e Lucrezia, ma poi, dopo i primi capitoli, ho temuto che il risultato sarebbe stato deludente e così ho deciso di aggiungere Ormanno come terzo protagonista.
 
-Sempre per il motivo di ampliare le vedute e rendere più ricca la storia, ho inserito molti personaggi di contorno inventati da me (tra cui Rossella, Goffredo, Agata, Guendalina) oltre che quelli presenti nella serie tv (come Maria Tarugi, Ricciardo col figlioletto Vieri), anche se questi ultimi li ho usati solo come comparse o per piccole parti.
 
-Il personaggio di Tommaso, che compare per la prima volta nel capitolo sei, doveva essere un personaggio “macchietta” e la sua breve storia prevedeva che s’innamorasse di Guendalina e che poi vivessero insieme a Palazzo de’ Pazzi. Trovavo divertente l’idea di creare una coppia così buffa composta da un ragazzo alto e magro e una ragazza bassa e tonda, ma poi ho abbandonato tutto per…gelosia!
 
-Come già sapete, per il personaggio di Tommaso mi sono ispirata molto a quello di Ezio Auditore interpretato da Devon Bostick nella web serie Assassin’s Creed – Lineage. Quello che non sapete è che mi sono ispirata a lui solo in un secondo momento e che la sommaria descrizione di Tommaso nella sua prima scena corrisponda a quella di Devon/Ezio solo per una fortuita coincidenza. Al contrario del capitolo dodici in cui ho volutamente inserito un’accurata e fedele descrizione di lui per il semplice motivo che mi ero presa una cotta per l’attore (se mi passate l’espressione!).
 
-Nel capitolo ventitre, la scena della confessione d’amore di Ormanno a Pazzi doveva finire in modo diverso. Andrea, essendo ubriaco e distrutto dal dolore per la partenza di Lucrezia, doveva lasciarsi andare e fare l’amore con Ormanno. Inoltre Rinaldo doveva trovarli a letto assieme il mattino dopo e scoprire così l’omosessualità del figlio. Ma poi, non essendo ancora sicura di voler seguire questo orientamento sessuale per Ormanno, e soprattutto non volendo assolutamente mettere in dubbio quello di Andrea (!) ho deciso di eliminare l’ultima parte e mettere in chiaro i sentimenti tra i due. Però ho ripreso una parte dell’idea per un’altra scena in cui Rinaldo li trova sì a letto, però assieme a Rossella.
 
-La parte dedicata all’esilio a Venezia doveva essere completamente diversa da come poi ho scritto. Il progetto iniziale prevedeva che Andrea andasse di nascosto a Venezia per vedere Lucrezia e vi trascorresse alcune settimane, soggiornando in una locanda sotto falso nome. Una scena particolarmente romantica vedeva loro due incontrarsi nel cuore della notte su un molo, salire su una gondola e fare l’amore al chiaro di luna. Scena poi seguita da una più intrigante in cui Tommaso, in quella stessa città per la luna di miele (perciò il matrimonio con Stella si sarebbe svolto molto prima rispetto alla scrittura finale) li avvista per caso e subito scrive un messaggio da mandare a Firenze per avvisare Ormanno e Rinaldo. Anche in questo caso ho dovuto cestinare tutto perché temevo sarebbe stata una sequenza difficile da gestire e da incastrare con le vicende della serie tv. Però così facendo ho potuto dare molto spazio al personaggio di Jacopo e riempire la lacuna sul suo rapporto con Lucrezia.
 
-Lorenzo avrebbe dovuto essere complice di Lucrezia fin dall’inizio e addirittura aiutarla a portare avanti in segreto la relazione con Pazzi. Invece poi mi è parsa come una stonatura, specialmente sapendo l’odio che c’era tra le famiglie. Comunque ho ripreso parzialmente l’idea per il capitolo ventiquattro in cui lui capisce che Lucrezia è innamorata ma preferisce non sapere il nome dell’uomo.
 
-Nel capitolo trentadue, Ormanno capisce di essere omosessuale (o forse dovrei dire che io finalmente mi sono decisa che lo è!) e si dichiara a Tommaso che però non ricambia il suo amore. Questa scena “strappalacrime” in realtà doveva essere molto violenta e descrivere un Ormanno disperato che, vedendosi respinto, perde il controllo e abusa sessualmente di Tommaso. Scena subito cancellata per timore di infrangere qualche regola ed essere censurata.
 
-La decisione di rendere Lucrezia responsabile della morte degli Albizzi è stata davvero una scelta dell’ultimo minuto! Cosa che mi ha complicato il lavoro dato che dovevo trovare (in fretta) dei validi motivi per farla arrivare ad un gesto così disumano.
 
-L’Epilogo è stato scritto quando ancora stavo lavorando ai primi capitoli della storia. Era il periodo in cui mi stavo documentando sulla Congiura dei Pazzi per interesse personale e da lì è nata l’improvvisa idea di creare l’aggancio con la storia che stavo scrivendo e quindi inventarmi che Giuliano de’ Medici fosse in realtà figlio di Andrea e Lucrezia. Grazie a questa idea ho deciso di inserire Francesco nella storia come figlio di Andrea Pazzi (anche se sappiamo che era il nipote) e raccontare che in età adulta uccide Giuliano perché ha scoperto che è il suo fratellastro ed è geloso di lui, oltre ad odiare la famiglia di cui fa parte.
 
-Anche la presenza della moglie Caterina e tutti i figli di Pazzi è legata alla decisione di inserire Francesco. Per giustificare il fatto che lei e i figlioletti non vivessero a Firenze con Andrea, ho dovuto inventare di sana pianta, quasi sul momento, la tragica storia del suo tradimento e dell’infante morto poco dopo la nascita.
 
-Come avete potuto constatare, la mia storia s’interrompe bruscamente (prima dell’epilogo) con la scena che corrisponde a quella dei titoli di testa del settimo episodio della serie tv, anche se di fatto sui protagonisti ci sarebbe stato ancora molto da dire, in quanto Lucrezia e Andrea diventano di fatto personaggi più attivi. Per giustificarmi vorrei dire che dal mio punto di vista non avevo altro da aggiungere. Ormai la loro storia d’amore era finita (in più Ormanno era morto e Tommaso aveva il suo lieto fine) perciò mi sembrava inutile dilungarmi seguendo delle vicende che nella serie sono già descritte nel dettaglio.
 
In conclusione, vorrei ringraziare tutti quelli che mi hanno seguita e hanno apprezzato la mia storia. Un ringraziamento speciale va a “lovy16” che, dal momento in cui ha scoperto la mia FanFiction, mi ha seguita con grande interesse recensendo tutti i capitoli, non mancando mai di esprimere la sua opinione e chiedermi ulteriori chiarimenti o curiosità.
 
Stella Lazzarin

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