Life

di nikita82roma
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** UNO ***
Capitolo 2: *** DUE ***
Capitolo 3: *** TRE ***
Capitolo 4: *** QUATTRO ***
Capitolo 5: *** CINQUE ***
Capitolo 6: *** SEI ***
Capitolo 7: *** SETTE ***
Capitolo 8: *** OTTO ***
Capitolo 9: *** NOVE ***
Capitolo 10: *** DIECI ***
Capitolo 11: *** UNDICI ***
Capitolo 12: *** DODICI ***
Capitolo 13: *** TREDICI ***
Capitolo 14: *** QUATTORDICI ***
Capitolo 15: *** QUINDICI ***
Capitolo 16: *** SEDICI ***
Capitolo 17: *** DICIASSETTE ***
Capitolo 18: *** DICIOTTO ***
Capitolo 19: *** DICIANNOVE ***
Capitolo 20: *** VENTI ***
Capitolo 21: *** VENTUNO ***
Capitolo 22: *** VENTIDUE ***
Capitolo 23: *** VENTITRÈ ***
Capitolo 24: *** VENTIQUATTRO ***
Capitolo 25: *** VENTICINQUE ***
Capitolo 26: *** VENTISEI ***
Capitolo 27: *** VENTISETTE ***
Capitolo 28: *** VENTOTTO ***
Capitolo 29: *** VENTINOVE ***
Capitolo 30: *** TRENTA ***
Capitolo 31: *** TRENTUNO ***
Capitolo 32: *** TRENTADUE ***
Capitolo 33: *** TRENTATRÉ ***
Capitolo 34: *** TRENTAQUATTRO ***
Capitolo 35: *** TRENTACINQUE ***
Capitolo 36: *** TRENTASEI ***
Capitolo 37: *** TRENTASETTE ***
Capitolo 38: *** TRENTOTTO ***
Capitolo 39: *** TRENTANOVE ***
Capitolo 40: *** QUARANTA ***
Capitolo 41: *** QUARANTUNO ***
Capitolo 42: *** QUARANTADUE ***
Capitolo 43: *** QUARANTATRÉ ***
Capitolo 44: *** QUARANTAQUATTRO ***
Capitolo 45: *** QUARANTACINQUE ***
Capitolo 46: *** QUARANTASEI ***
Capitolo 47: *** QUARANTASETTE ***
Capitolo 48: *** QUARANTOTTO ***
Capitolo 49: *** QUARANTANOVE ***
Capitolo 50: *** CINQUANTA ***
Capitolo 51: *** CINQUANTUNO ***
Capitolo 52: *** CINQUANTADUE ***
Capitolo 53: *** CINQUANTATRE ***
Capitolo 54: *** CINQUANTAQUATTRO ***
Capitolo 55: *** CINQUANTACINQUE ***
Capitolo 56: *** CINQUANTASEI ***
Capitolo 57: *** CINQUANTASETTE ***
Capitolo 58: *** CINQUANTOTTO ***
Capitolo 59: *** CINQUANTANOVE ***
Capitolo 60: *** SESSANTA ***
Capitolo 61: *** SESSANTUNO ***
Capitolo 62: *** SESSANTADUE ***
Capitolo 63: *** SESSANTATRE ***
Capitolo 64: *** SESSANTAQUATTRO ***
Capitolo 65: *** SESSANTACINQUE ***
Capitolo 66: *** SESSANTASEI ***
Capitolo 67: *** SESSANTASETTE ***
Capitolo 68: *** SESSANTOTTO ***
Capitolo 69: *** SESSANTANOVE ***
Capitolo 70: *** SETTANTA ***
Capitolo 71: *** SETTANTUNO ***
Capitolo 72: *** SETTANTADUE ***
Capitolo 73: *** SETTANTATRE ***
Capitolo 74: *** SETTANTAQUATTRO ***
Capitolo 75: *** SETTANTACINQUE ***
Capitolo 76: *** SETTANTASEI ***
Capitolo 77: *** SETTANTASETTE ***
Capitolo 78: *** SETTANTOTTO ***
Capitolo 79: *** SETTANTANOVE ***



Capitolo 1
*** UNO ***


- Detective Beckett, buongiorno, dovrebbe venire subito, dobbiamo parlarle.
- Scusatemi, ma oggi è una giornata particolare, c’è il funerale del mio capitano. Possiamo rimandare?
- No, mi spiace. È molto urgente. Si tratta di una cosa di pochi minuti. Avrà tutto il tempo di presenziare al funerale del capitano Montgomery.

 

Era cominciata così quella mattina per Kate. La mattina di una notte passata senza dormire. L’ennesima, dopo il fatto. Dopo l’hangar, la sparatoria ed il patto con Castle, Ryan ed Esposito. Ogni volta che chiudeva gli occhi vedeva Roy a terra, pensava alle sue ultime parole che rimbombavano nella sua mente. Avrebbe dovuto fare di più, avrebbe potuto fare di più se non ci fosse stato Castle a bloccarla a fermarla, se non si fosse messo in mezzo in due di sicuro ce l’avrebbero fatta e Roy sarebbe ancora vivo e lei non avrebbe dovuto ritirare fuori quell’uniforme nera, troppo solenne, troppo scomoda, troppo triste. Il tempo che era passato dall’ultima volta che l’aveva indossata era tanto, ma le sembrava troppo poco. Una giovane vita, un collega morto in servizio durante un inseguimento. Ora era di nuovo lì, appoggiata sul suo letto e la doveva solo indossare. Solo. Buttò il telefono sul letto e cercò un porta abiti dove riporla. Non voleva certo andare in giro vestita in quel modo. L’avrebbe tenuta il meno possibile, solo per la cerimonia.

Passò al distretto dove Ryan ed Esposito erano già vestiti di tutto punto, con il distintivo in vista listato a lutto.

- Ehy Beckett non hai la divisa? - Le chiese Javier e lei gli mostrò il portaabiti appoggiandolo sulla sua scrivania.

- Devo sbrigare una cosa. Torno più tardi.

- Farai in tempo, vero? - Domandò Kevin preoccupato.

- Certo. - Tornò agli ascensori a passo spedito. Prima andava, prima sarebbe tornata, prima avrebbe fatto finta che era una giornata normale.

 

Guardò l’orologio. Aveva poco più di mezz’ora per tornare al distretto, cambiarsi e andare con gli altri colleghi. E con Castle.

Kate stringeva tra le mani quei fogli che le avevano appena dato al laboratorio. Ripensava a quelle domande strane sulla sua salute, erano giorni o forse più che non faceva caso alla sua salute. Stava bene? No, ma era normale, si ripeteva, visto quello che era accaduto. Come si poteva stare bene? Si era anche dimenticata di aver fatto quella visita di routine, obbligatoria ogni anno. Perché doveva pensarci, poi? Non l’avevano mai chiamata dopo averla fatta, era solo la prassi. Ti chiamavano solo se c’era qualcosa che non andava. E a lei l’avevano chiamata quella mattina, con la massima urgenza, perché come le aveva detto il medico, lei non può continuare a svolgere il suo lavoro. Le era crollato il mondo addosso, in quel momento ed ancora stava cercando di rimetterlo sù, in qualche modo, seduta in quella panchina del piccolo giardino non lontano dal distretto.

Il medico era sembrato volerla rassicurarla. Non doveva essere né la prima né l’ultima persona che si era trovato davanti in quelle condizioni, eppure lei non aveva visto nulla di rassicurante in quello che le diceva.

Aveva sfogliato negli ultimi minuti quei fogli più volte, guardando i valori con gli asterischi ed uno inequivocabilmente troppo altro che voleva dire solo una cosa: era incinta. Era stata forse l’unica donna al mondo a non credere alle analisi e ad usare come controprova un test di gravidanza comprato nel primo negozio incontrato e fatto in un bagno pubblico. Due volte, per sicurezza. Perché si ripeteva, anche se non ne era convinta nemmeno lei, che magari potevano aver sbagliato persona, uno scambio di provette, poteva capitare, no? No. Non era capitato. Aveva aspettato i fatidici minuti sola, chiusa in un bagno pubblico e poi aveva visto che entrambi dicevano la stessa cosa: era incinta.

Aveva poi nello stesso bagno vomitato non sapeva nemmeno cosa visto che non ricordava l’ultima volta che aveva mangiato, forse solo la vodka bevuta la sera prima, con l’intento di stordirsi e dormire. Inutile. Le aveva chiesto quel medico proprio poco prima se avesse mai avuto casi di nausea o vomito negli ultimi giorni e no, non li aveva avuti, ma sembra che ora che sapeva, si presentassero tutti insieme con gli interessi in un solo momento.

Riuscì ad uscire da lì, lavarsi il viso con l’acqua gelida e riprese a camminare. Buttò tutto nel primo cestino che incontrò. Aveva bisogno di qualche minuto per riflettere, per capire, ma la sua mente non collaborava. Non riusciva a fare né una cosa né l’altra. Guardò l’orologio ancora. Mancava sempre poco più di mezz’ora, lo aveva già fatto pochi istanti prima. Quanto era stata lì Senza riuscire a pensare a nulla di sensato? Ripiegò più volte quei fogli e li chiuse nel taschino nella borsa ed andò al distretto.

 

Era sola nello spogliatoio. Chiuse uno dopo l’altro i bottoni della camicia, fece il nodo alla cravatta. Indossò la giacca con le mostrine ben in vista. Si guardò allo specchio e vide tutti i segni delle notte insonni e di quella giornata. Si legò i capelli rapidamente, senza badare troppo al come, non si sarebbe sentita bella quel giorno nemmeno se fosse venuto un parrucchiere ed un truccatore professionista a sistemarla.

Con il cappello sottobraccio uscì da lì e si pietrificò nel trovarsi davanti Castle. Sapeva che doveva venire anche lui, ma averlo lì davanti a lei la mise a disagio e lui lo percepì.

- Ciao Beckett, stai bene? - Le chiese preoccupato

- Stiamo andando al funerale di Roy, come posso stare bene? - Gli rispose con rabbia eccessiva per quella domanda.

- Beh, si non intendevo per quello è che… No, niente, lascia stare. Sono stato inopportuno. - Il suo sguardo lo aveva bloccato, aveva smesso di parlare e fatto finta di nulla. Loro erano campioni in questo, fare finta di nulla era la loro specialità.

Si erano baciati ed avevano fatto finta di nulla. Avevano rischiato di morire insieme ed avevano fatto finta di nulla. Avevano messo in pericolo la propria vita per salvare l’altro ed avevano fatto finta di nulla. Avevano fatto l’amore ed avevano fatto finta di nulla. Anzi no, avevano fatto sesso, come si ripeteva Kate per dare una spiegazione a quel nulla che era seguito. E ringraziava il destino che si era sempre messo in mezzo, quando era stata sul punto, più di una volta, di dichiararsi, di dirgli cosa voleva. E che il destino si chiamasse Gina, Josh o un qualsiasi medico aveva poca importanza. Castle credeva nel destino ed allora doveva essere destino a volere che lei non gli dicesse quello che voleva, quello che provava. E allora perché era successo quello?

 

Era seduta in macchina. Non se la sentiva di guidare. Nessuno fece domande, nemmeno Castle che in un’altra occasione avrebbe approfittato per prenderla in giro. Era normale tutto, il nervosismo, le lacrime, il cattivo umore. Quello era il giorno che dovevano dedicare a Roy, avrebbe dovuto pronunciare lei il discorso al suo funerale e non riusciva a pensare a niente. Pensava solo a quella notte a Los Angeles, alla porta che si riapriva all’improvviso e a tutto quello che c’era stato dopo. Pensava a Castle, alle sue mani sul suo corpo, ai suoi baci, a come lei lo aveva cercato e voluto quella notte e a quanto erano stati stupidi e distratti evidentemente. Pensò alla mattina dopo, a lui nella sua stanza, uscito dal suo letto troppo velocemente perché se ne accorgesse e a come aveva fatto finta di niente, evitando ogni discorso e lei si era adeguata, facendo lo stesso, come se non parlarne voleva dire che non era successo e poteva essere giusto, poteva avere un senso se non ci fossero stati gli effetti. Avrebbe voluto parlargli tornati a New York, avrebbe voluto chiedergli perché era successo, anche se lei una spiegazione se l’era data ed era stata anche convincente, era successo perché perché lo avevano voluto, perché si erano voluti e per lei era stato speciale e sperava lo fosse anche per lui. Si era imbarazzata più volte nel guardarlo i giorni seguenti, quando lui le portava il caffè come sempre, come se nulla fosse, quando faceva le sue battute idiote con Ryan e Esposito, quando qualche volta l’aveva anche stuzzicata più del dovuto, ma sempre senza mai fare il minimo accenno a nulla di quello che c’era stato. Come, semplicemente, se non fosse successo. Come quel bacio sotto copertura che era stato un vero bacio ma non se lo erano mai detto. Poi un giorno lo aveva sentito parlare con i suoi colleghi delle sue ultime conquiste della settimana, di come quella modella e quell’attrice fossero state due bombe a letto, faticando anche a riconoscerlo così poco galante nello scendere in discorsi fin troppo privati. Lei era stata solo una delle tante, in fondo. Perché cercare motivazioni diverse che forse erano esistite solo per lei, motivazioni che per lui non esistevano. Era stata solo una notte di sesso. Con conseguenze.

 

Aveva letto e riletto i risultati, fatto conti con le settimane tornando indietro nel tempo e non poteva sbagliarsi. Poteva solo essere lui il padre. Josh era fuori in quel periodo, non poteva essere lui e poi con lui era sempre stata attenta, non voleva complicazioni e non aveva mai perso completamente la testa come con Castle. Josh… non aveva pensato minimamente a lui. Stavano insieme, se così si poteva dire. Era il suo ragazzo e fino a quel momento non aveva pensato nemmeno per un istante al fatto che fosse incinta di un altro e non riusciva nemmeno a sentirsi in colpa. Perché aveva ragione Castle, era una storia vuota, una storia facile che la toccava nel profondo, che non la faceva mai scoprire. 

Avrebbe chiuso con lui glielo avrebbe detto appena si fossero rivisti, quando i suoi turni l’avrebbero permesso. Gli aveva chiesto di accompagnarla, ma lui le aveva risposto che non poteva proprio lasciare l’ospedale quel giorno ed era per l’ennesima volta sola ad affrontare una tappa importante della sua vita. Che senso avrebbe avuto andare avanti con lui adesso? Ora aveva solo bisogno di affrontare quella situazione, in qualche modo, e prendere delle decisioni. Cosa voleva dire avere un figlio? Era sicura di volerlo? Sarebbe stato giusto decidere senza che Castle sapesse nulla? Sentì una mano appoggiarsi sulla sua spalla ed intimamente la prese. Rick era seduto proprio dietro di lei e come se la leggesse dentro ed avesse sentito il suo bisogno di aggrapparsi a qualcosa le aveva offerto la sua mano. Era sempre il destino. Voleva chiamarlo così.

 

L’emozione davanti alla bara di Roy avvolta nella bandiera ebbe la meglio su di lei. Non era giusto quello che era successo e lei non era pronta a dirgli addio. Ancora una volta la mano di Castle si poggiò sulla sua spalla prima che ognuno prendesse il suo posto vicino al feretro per portarlo a mano e rendergli tutti gli onori che meritava. Rick era l’unico civile tra loro e Montgomery sarebbe stato felice di sapere che lui era lì. Era stato il primo a dargli fiducia, a prenderlo in simpatia e a tifare per lui, lei lo sapeva e sicuramente ora sarebbe stato il primo ad essere felice per lei. Prima di se stessa, perché ancora non sapeva se era felice o meno.

Ripensò alle parole che le aveva detto Roy prima di fare il discorso in suo onore e pronunciandolo non potè fare a meno di guardare Rick, in piedi, vicino a lei. Come sempre. Perché lui aveva sempre preso la sua posizione ed era sempre stato al suo fianco, in ogni situazione di pericolo, ogni volta che ne aveva avuto bisogno, aveva sempre potuto contare su di lui e lui non l’aveva mai lasciata sola. Mai. Tranne quella mattina, quando se ne era andato troppo presto dal suo letto. Si voltò a guardarlo e riprese fiato, continuando a parlare.

Poi fu un istante. Un lampo, un sibilo, un dolore al petto. Cadde a terra e vedeva solo il cielo e Rick su di lei.

 

- Kate… resta con me Kate... Kate ti prego non mi lasciare… Ti amo Kate, Ti amo! - Avrebbe voluto dirgli che anche lei lo amava. Non sapeva quando lo aveva capito, forse lo aveva sempre saputo, forse in quel momento, ma il suo pensiero fu subito un altro. Fu per qualcosa di importante, che solo lei sapeva, che lui doveva sapere.

- Rick… il bambino, il bambino… - Lo guardò con gli occhi sbarrati, cercando di stringere la mano di Castle con la sua, racchiusa in quel guanto che da bianco era diventato rosso come il suo sangue. E quelle parole sembravano una supplica ed una preghiera.

- Il bambino? - Rick non capiva la vedeva faticare a tenere gli occhi aperti e sentiva la sua presa farsi sempre più debole. - Kate stai con me, guardami Kate, guardami!

- Il nostro… - Chiuse gli occhi lasciando la mano di Rick che si guardò intorno allarmato. Lanie stava correndo da lui. Quanto tempo era passato? Secondi, minuti? Non lo sapeva.

- Hanno già chiamato un ambulanza! Dio mio Kate resisti! - Disse Lanie inginocchiandosi sul corpo dell’amica e premendo con forza sulla ferita. Rick la guardava in evidente stato di shock: percepiva che la dottoressa gli stava dicendo qualcosa ma non capiva, sentiva come un ronzio tutto intorno a lui che lo avvolgeva mentre spostava lo sguardo da Lanie e Kate priva di conoscenza su quel prato. 

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Capitolo 2
*** DUE ***


I paramedici lo avevano spostato di peso, gli avevano dato una spinta e lui era finito seduto sull’erba. Non li aveva sentiti arrivare, né la sirena dell’ambulanza ferma a poche decine di metri da loro, né le urla degli uomini che lo intimavano a togliersi di mezzo. Continuava a guardare il volto di Kate con gli occhi chiusi a tenerle la mano che era inerme nella sua. Forse anche Lanie gli aveva detto qualcosa ma non l’aveva sentita o meglio, l’aveva sentita ma non aveva capito. Non riusciva a capire nulla. Pensava solo a Kate e alle sue parole. Il bambino? Quale bambino? Che cosa voleva dire il nostro? Non poteva essere quello che pensava, sicuramente Kate voleva dire altro e non era riuscito a farlo. Doveva essere così. Doveva per forza essere così.

Sentì una mano sulla spalla e si girò con un movimento troppo rapido che se non fosse stato già a terra sarebbe caduto.

- Signore, lei sta bene? - Una donna bassa e grassottella con una divisa azzurra lo stava guardando attenta. - Signore, mi ha capito? È ferito?

- Io… - si guardò le mani sporche di sangue, del sangue di Kate, poi guardò ancora la donna con lo sguardo perso - sì io sto bene… Non sono ferito… io no… io…

- Castle! Stai bene? - Anche Ryan si era avvicinato a lui ed ora erano già troppe le persone intorno da seguire. Lo guardò spaesato, così come aveva guardato l’infermiera.

- Sto bene. - Ripeté provando ad essere più convincente senza riuscirci molto.

- Signor Castle, dovrebbe venire in ospedale a farsi controllare. - Gli suggerì la donna.

- No… no…io… Beckett! Devo andare da Beckett! - Guardò Ryan come a supplicarlo di portarlo da lei ma l’irlandese scrollò le spalle.

- L’hanno portata in ospedale. Lanie ed Esposito sono con lei.

Rick annuì poco convinto.

- Signor Castle, venga con noi. La portiamo in ospedale così potremo controllarla. Poi potrà aspettare notizie della sua amica.

Lo portavano in ospedale, in ospedale c’era Kate. Ok. Poteva andare. Si rialzò con cautela aiutato da Ryan e vide che Martha ed Alexis stavano correndo verso di lui che nel frattempo era stato preso sottobraccio dall’infermiera e lo stava conducendo verso l’altra ambulanza.

- Papà! - Sentendo la voce di sua figlia Rick si voltò e le chiese di aspettare.

- Ehy, va tutto bene! - Provò a rassicurarla.

- Papà ma sei ferito! - Urlò la ragazza vedendo il sangue.

- No… non è mio… è… Devo andare Alexis, vado in ospedale, da Kate. - Diede un bacio sulla fronte alla ragazza e si scambiò un’occhiata con sua madre che aveva capito quello che Rick voleva, tenere Alexis lontano da tutta questa storia. La donna mise le mani sulle spalle delle nipote per tenerla vicino a se.

- Kevin, ci pensi tu a loro? - Chiese all’amico che benché volesse andare anche lui in ospedale, si prestò per accompagnare le due donne a casa.

 

Aveva risposto a tutte le domande che l’infermiera gli aveva fatto mentre stavano andando in ospedale: nome, cognome, età, professione, familiari e così via. Aveva quindi scoperto che il suo collega era un suo fan e aveva cominciato anche lui a fargli domande, ma su Derrick Storm, il suo personaggio preferito. Loro, invece, non rispondevano a nessuna delle sue, che poi erano tutte uguali e riguardavano tutte la stessa persona: Kate.

Una volta arrivati in ospedale si era fatto visitare fin troppo pazientemente per i suoi gusti, alla fine aveva firmato qualche foglio e aveva lasciato quella stanza dove tutti pensavano solo a sparargli luce negli occhi e fargli domande stupide. Stava bene. Non gli era successo niente, non fisicamente.

Uscito da lì aveva chiamato Lanie ma non gli aveva risposto, aveva provato con Javier ed era occupato. Ebbe un gesto di stizza, avrebbe voluto scaraventare via il suo telefono e girare palmo a palmo quell’ospedale dove nessuno sapeva niente, nessuno gli diceva nulla. Poi riconobbe vicino all’entrata una figura familiare: Esposito era al telefono e si stava slacciando la cravatta e i primi bottoni della camicia di quell’uniforme nera che aveva visto per così poco tempo e già odiava. Gli si parò davanti con uno sguardo carico d’urgenza e come il detective lo vide chiuse rapidamente la telefonata.

- Beckett? - Chiese Castle con la voce carica d’angoscia.

- La stanno operando. Ha perso molto sangue e… Era vicino al cuore. - Rick si mise una mano davanti alla bocca stringendosi il viso con rabbia.

- Ehy Castle, hai del sangue sul volto. - Gli disse Javier osservandolo preoccupato e Rick si guardò le mani ancora sporche di sangue.

- Dov’è? - Castle parlava a monosillabi.

- Ultimo piano. Ci sono Lanie ed il padre di Kate.

Annuì e si avvicinò agli ascensori.

- Ce la farà Castle, Beckett è forte.

Rick si voltò ed annuì ancora all’amico che era di nuovo al cellulare.

Arrivato all’ultimo piano la prima cosa che vide quando l’ascensore si aprì fu l’insegna del bagno. Entrò trovandolo vuoto e ne fu grato. Si lavò con rabbia le mani vedendo il lavandino riempirsi di gorghi rossi sempre meno intensi man mano che il sangue scivolava via dalle sue mani. Quando furono pulite si gettò una grossa quantità di acqua sul volto, una scusa per piangere. Ma non riusciva più a fermarsi. Voleva uscire da lì, raggiungere Lanie, sapere cosa stava accadendo, ma aveva paura e quelle parole di Kate gli rimbombavano nella mente senza sosta, insieme al suo sguardo con quella disperata richiesta d’aiuto e la sua mano che l’aveva stretta fin quando aveva potuto.

Si impose di smettere. Chiuse l’acqua e prese qualche fazzoletto dal dispenser per asciugarsi ed uscì a testa bassa dal bagno urtando un uomo che anche lui senza guardare davanti a se stava entrando. Vide Lanie appoggiata al muro alla fine di un corridoio vicino a delle porte chiuse.

- Come sta? - Gli chiese saltando tutti i convenevoli.

- Non ci hanno detto nulla. Stiamo ancora aspettando. - La dottoressa stringeva un fazzoletto di carta ormai fatto a brandelli.

- Lanie… ti devo chiedere una cosa… riguarda Beckett. - Lanie alzò lo sguardo per aspettare la sua domanda. - È incinta?

- Cosa? Castle come ti viene in mente una cosa del genere? - Gli chiese shockata

- Non ti ha detto niente? 

- No! Ma perché?

- Quando è stata colpita io… mi sono buttato su di lei e mi ripeteva “il bambino” e poi… - Rick non riuscì a tenere le lacrime.

- Non so nulla Castle, anche se fosse non mi ha detto nulla. - Lanie non sapeva cosa dire, possibile che Beckett fosse incinta e non le aveva detto nulla? Eppure lei era la sua migliore amica, credeva che avrebbe saputo una notizia del genere.

- Novità? - Rick e Lanie si girarono verso un uomo che si avvicinava a loro lentamente.

- No, signor Beckett nessuna. - Gli disse Lanie mentre l’uomo si sedeva stancamente su una delle sedie ordinatamente disposte lungo il corridoio salutando con un cenno della testa Castle che ricambiò il saluto e poi rimasero tutti e tre in silenzio e in attesa ed ogni volta che sentivano le porte aprirsi alzavano lo sguardo verso la porta, interrogando solo con gli occhi chiunque usciva, ma tutti gli facevano segno che loro non potevano parlare o dirgli nulla, solo un ragazzo si era degnato di avvisarli che ancora la stavano operando, ma presto sarebbe uscito un medico per parlare con loro. Castle provò ad autoconvincersi che era positivo. Se la operavano voleva dire che era viva e che stava lottando, Beckett non si sarebbe certo arresa.

- Signor Beckett! - Un medico li raggiunse nel corridoio e quando si sganciò la mascherina sia Rick che Lanie riconobbero nell’alta figura del giovane dottore, Josh il fidanzato di Kate. Jim si alzò e lo raggiunse.

- Allora? - Chiese al dottore con il quale era in evidente confidenza.

- Ci sono state delle complicazioni, però ora l’abbiamo stabilizzata.

- Complicazioni? - Chiese il padre di Kate preoccupato. Josh gli fece un cenno per allontanarsi ed evitare di parlare davanti a Castle e Lanie, ma Jim non si mosse. - Quali complicazioni Josh?

- Ehm… Kate è incinta. Aspettiamo un bambino. - Il dottore diede la notizia visibilmente emozionato e felice, Jim invece era sorpreso e non sapeva cosa dire, si voltò verso Castle e Lanie che si erano guardati tra di loro.

- Voi lo sapevate? - Chiese l’uomo ai due 

- Kate mi stava dicendo qualcosa appena è stata ferita. - Sospirò Rick mentre la dottoressa faceva cenno di no con la testa.

- Perché tu eri lì eh? È tutta colpa tua se Kate è stata ferita, te ne rendi conto! - Josh si era avventato su Rick prendendolo per il bavero della giacca e sbattendolo al muro. Rick era arrendevole nelle sue mani, perché dentro di se era consapevole che il dottore aveva ragione, era colpa sua. - Tu e tutte le tue stupide idee! Sei contento ora scrittore, eh? La mia ragazza e mio figlio stanno rischiando la vita per colpa tua!

Quelle parole colpirono Castle più di quando il dottore non stava facendo fisicamente. Kate era la sua ragazza ed aspettava suo figlio. 

- Mi dispiace. - Sussurrò Rick a denti stretti

- Ti dispiace eh? Ora ti dispiace! Vattene via Castle, qui non sei benvenuto. - Josh lasciò Castle spingendolo via. - Vattene scrittore! Lasciaci in pace!

- Ora basta Josh! - Lo fermò Jim. - Non è Castle che ha sparato a Kate e lei è di là che sta lottando per la sua vita e per quella di vostro figlio e tu non hai niente di meglio da fare che prendertela con lui? È mia figlia quella che è lì dentro Josh! Mia figlia! Fai l’uomo e non il ragazzino che si mette a litigare per gelosia!

Josh abbassò la testa e tornò dentro, mentre Castle stava salutando Lanie.

- Può rimanere, Castle. Sono sicuro che Katie vorrebbe così. - Gli disse mettendogli una mano sulla spalla prima di tornare a sedersi e invitando Rick a prendere posto vicino a lui. Castle occupò una sedia lasciandone una vuota tra lui e Jim, la giusta distanza pensò. 

Così Kate era veramente incinta. Di Josh, ovviamente, era il suo fidanzato. Perché doveva pensare il contrario? Per quel “nostro” detto da Kate un attimo prima di perdere i sensi? Poteva aver capito male, poteva essere stata lei a voler dire altro, magari nello shock era convinta di parlare con Josh. Però lo aveva chiamato per nome, lo aveva chiamato Rick. Non lo aveva chiamato nemmeno Castle. Rick, come quella notte, quell’unica meravigliosa notte, troppo bella per essere vera, troppo perfetta per lui che si era svegliato nel cuore della notte assalito dalle sue paure e dai sentimenti che lo stavano dilaniando. Era rimasto a guardarla fino all’alba con la timida luce di un abat-jour rimasta accesa in fondo alla stanza senza che loro ci facessero caso. Una notte bella e perfetta come lei. Con quante donne era andato a letto nella sua vita? Non voleva vantarsi, certo, ma erano tante ma con nessuna aveva mai provato quello che aveva provato con lei in quell’unica notte. L’amava, Dio se l’amava, e non sarebbe riuscito con lei a svegliarsi nello stesso letto, salutarsi e sentirsi dire che era stata una notte divertente, essere ringraziato e poi via, come se nulla fosse. No. Non poteva svegliarsi quella mattina con lei, perché lui avrebbe voluto baciarla quando apriva gli occhi ed il suo ego non avrebbe accettato un rifiuto. Se ne era andato quindi, facendo finta di dormire nella sua stanza, facendo finta di niente, era più facile, più vigliacco, ma l’unico modo per sopravvivere. Kate stava con Josh. Meglio fare finta di nulla, che quella notte non ci fosse mai stata, che essere considerato il diversivo di una serata noiosa. Questo lo poteva accettare da chiunque, non se ne era mai lamentato, ma non da lei e quando vide che anche Beckett si comportava come se quella notte non fosse mai esistita, si era convinto che aveva fatto la scelta giusta, anche se lui quella notte non se l’era mai dimenticata.

- Signor Beckett? - Una giovane infermiera con la voce pacata si era portata davanti a Jim - L’operazione è finita. Stanno portando sua figlia in camera di rianimazione. Se vuole tra poco può andare a trovarla, ma per qualche ora ancora non si sveglierà. C’è il dottor Davidson con lei.

Jim ringraziò la ragazza dopo che lei gli aveva ripetuto ancora una volta il numero di stanza. Scesero tutti al settimo piano cercando la stanza numero 47. Lanie e Castle si fermarono davanti al vetro, mentre Jim assistito da una delle infermiere del piano, indossava il camice e la mascherina per raggiungere la figlia. Rick, invece, fissava Josh seduto vicino a Kate che le teneva la mano e di tanto in tanto le accarezzava la fronte. Avrebbe voluto esserci lui lì. Ma lui non era niente, era Josh il suo ragazzo ed il padre di suo figlio. Questa cosa ancora faticava a metabolizzarla.

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Capitolo 3
*** TRE ***


Rick non si era nemmeno accorto di quante ore avesse passato in ospedale. Non si ara accorto nemmeno che Esposito li aveva seguiti nei loro ultimi spostamenti fino a quando non fu lui a mettergli una mano sulla spalla mentre era immobile davanti al vetro e non si accorgeva che l’unica cosa che muoveva erano le dita della mano, fatte scivolare lentamente sulla superficie troppo fredda come se volesse accarezzare Kate che era proprio al di là.

Aveva avuto una chance, la sua occasione, e l’aveva sprecata. Si era lasciato vincere dalle sue paure, dal suo orgoglio e dall’idea che tanto avrebbe sempre avuto tempo per conquistarla. Era certo che ci sarebbe riuscito in qualche modo, che Josh era solo una delle sue storie vuote. Avrebbe solo dovuto rendersene conto anche lei, accettarlo e guardare oltre. Non si era mai dimenticato il discorso che le aveva fatto quando erano chiusi in quella tenda in isolamento. Lei aveva bisogno di uno che ci sarebbe stato per lei, sempre, e lui lo avrebbe fatto, soprattutto adesso che ne aveva bisogno ancora di più. Josh cosa avrebbe fatto? Avrebbe lasciato sola lei ed il bambino e sarebbe partito per chissà dove? E se avessero avuto bisogno di qualcosa?

Sospirò. Non era un problema suo. Sicuramente loro ne aveva già parlato, chi era lui per mettersi in mezzo? Anzi vista la sua situazione era proprio l’ultimo a poter dire qualcosa, o forse no, lui poteva dire qualcosa proprio perché aveva vissuto una situazione difficile e cresciuto una figlia da solo. Sapeva cosa voleva dire, i sacrifici, le difficoltà ed era anche fortunato perché aveva un lavoro che gli permetteva di fare più o meno quello che voleva. Kate no. Cosa avrebbe fatto quando Josh sarebbe partito per l’Africa o l’Asia o in qualunque altro posto e lasciandola sola a casa con un bambino, con i suoi orari impossibili?

In poco tempo aveva già esaminato quanto quella situazione fosse complicata e sbagliata. E non poteva fare nulla.

- Ehy amico, forse dovresti andare a riposare. Non credo che Beckett si sveglierà presto. - Rick guardò Esposito annuendo proprio mentre la porta della camera di Kate si apriva. Rivolse lo sguardo all’interno ed ora c’era Jim seduto vicino a lei, perché Josh era proprio davanti a lui, non meno minaccioso di prima.

- Castle mi pare che ti avevo già detto di andartene. La tua presenza qui non è gradita. - Gli disse perentorio

- Come sta? - Forse fu la voce arrendevole di Rick o perché il dottor Davidson aveva letto nei suoi occhi una sincera preoccupazione, ma gli rispose in modo molto più professionale, visto che cordiale era comunque difficile da definire il suo atteggiamento nei confronti di Castle.

- Stabile. Sta lottando, come sempre no? Dobbiamo aspettare le prossime ore, vedere come supera la notte.

- E il bambino? È stato il suo primo pensiero quando è stata ferita. - Glielo stava dicendo da padre, pensava che a lui avrebbe fatto piacere che la sua donna in una situazione del genere avesse come primo pensiero quello di loro figlio. Josh fece un sorriso tirato.

- Lotta anche lui. Ma è troppo presto per sapere se ce la farà. Per ora sta lottando, come sua madre.

- Beh, io allora vado. Tolgo il disturbo, ok? - Josh annuì e tornò dentro, quindi Castle si rivolse a Esposito e Lanie - Mi fate sapere voi se ci sono novità?

- Sì, certo, ma che fai dai retta a quello lì? - Gli chiese Javier che come lui non sopportava proprio il ragazzo di Kate.

- Sarà un momento difficile anche per lui no? La sua donna, suo figlio… Non voglio dare altri pensieri a nessuno. Però vi prego, tenetemi aggiornato.

Uscì da lì sotto lo sguardo perplesso di Lanie e Javier. Quello non era il suo posto e non c’era più nessuna battaglia per lui da combattere. Era stato sconfitto dal destino o semplicemente non aveva capito molto di quello che Beckett voleva, aveva dato molte cose per scontate, era convinto di conoscerla, ed invece non era così e quella era solo la riprova.

Arrivato al loft non aveva voglia di rispondere alle domande di Martha ed Alexis che attendevano notizie di Beckett. Lui le aveva chiamate, non ricordava nemmeno quando, per dire che stava bene e che stava solo aspettando di sapere di lei. Molte ore prima, adesso che ci pensava. Le trovò sedute sul divano, con lo sguardo preoccupato ed i lineamenti tesi. Gli si fecero incontro e lo strinsero entrambe in un abbraccio e lui fece lo stesso con le sue donne, contenendole entrambe tra le sue braccia, baciandole tra i capelli prima una e poi l’altra. Disse loro solo che Kate ancora non si era svegliata, era stabile e dovevano solo aspettare per vedere come reagiva.

 

Jim era uscito dalla stanza di Kate poco dopo che Rick se ne era andato. Aveva chiesto di lui a Lanie ed Esposito e gli avevano riferito quando accaduto con Josh. Il padre di Beckett scosse la testa disapprovando, evidentemente quel comportamento del fidanzato di sua figlia. Era arrivato anche Ryan che era stato trattenuto al distretto per aiutare nelle prime fasi di indagine. Aveva preso tutto in carica il sostituto temporaneo di Montgomery, il capitano Vincent Howard che si era offerto di seguire personalmente le indagini. Era lì solo da un paio di giorni, sapeva che il suo incarico era solo per poco tempo, ma si era dimostrato subito molto comprensivo e disponibile verso di loro e capendo la situazione, aveva dato a Esposito e Ryan la massima autonomia per gestire quei momenti. 

- Signor Beckett? - Un distinto medico in camice bianco un po’ attempato si avvicinò a Jim e agli altri tre - Sono il dottor Peter Hale, ero a capo dell’equipe che ha operato sua figlia.

Jim ascoltò attentamente il resoconto preciso dell’operazione che il dottore gli stava facendo. Era professionale, ma parlava in modo chiaro, affinché anche lui potesse capire quali erano le condizioni di Kate. Non si lasciò andare a facili entusiasmi né gli nascose i pericoli che ancora c’erano per lei e per il bambino, però si disse moderatamente ottimista visto come stava reagendo. Gli consigliò poi di andare a casa a riposare, fintanto che anche lei era sedata, perché poi avrebbe sicuramente avuto più piacere ad averlo vicino una volta ripresa e l’uomo seguì il suo consiglio. Javier voleva convincere anche Lanie ad andare a dormire, ma la dottoressa fu decisa a rimanere lì e così anche i due detective rimasero a farle compagnia.

Josh uscì dalla stanza e passò davanti a loro, togliendosi camice monouso e mascherina, arrotolandoli nervosamente per buttarli. 

- È successo qualcosa? - Gli chiese subito preoccupata Lanie

- No. - Rispose secco il medico non prestando molta attenzione a loro, ma la dottoressa non fu contenta di quel monosillabo come risposta.

- Perché vai via allora? - Insistette

- Perché tra mezz’ora comincia il mio turno ed ho bisogno di un caffè. - Spiegò lui scocciato, convinto che non doveva dargli nessuna risposta.

- Beckett, la lasci sola? - Chiese Esposito contrariato indicando la stanza.

- Sta dormendo e scusami, ma c’è gente che ha bisogno di me! - Rispose ironico il dottore.

- Anche Kate e tuo figlio hanno bisogno di te! O sono meno importanti? - Lo aggredì Lanie, ma Josh non se ne curò.

- Mi dispiace, ma non potete capire. - Scosse la testa se ne andò, buttando la plastica che aveva tra le mani nel cestino.

- Per fortuna non capisco! - Gli urlò contro Lanie assicurandosi che la sentisse, mentre Esposito cercava di farla stare calma. Poco dopo vide passare una donna che da lontano la guardava con insistenza e solo quando fu abbastanza vicina la riconobbe. Serena Wang era stata una sua compagna per alcuni anni in università, poi le loro strade si erano divise e si erano perse di vista, ma bastò un attimo per riprendere confidenza. Le spiegò della loro situazione, di Kate e tutto il resto.

- Ah la ragazza del dottor Davidson è una tua amica! - esclamò la Wang e Lanie storse la bocca facendole capire che non amava che Beckett venisse identificata così, anche capì presto che per tutti in quel reparto lei era solo quello. Riuscì comunque a strappare a Serena il permesso per poter entrare da Kate e stare qualche minuto con lei. Furono veramente pochi minuti, poi un infermiera entrò per controllare i suoi parametri e gli chiese di uscire, oscurando la vetrata che dava all’interno, isolando di fatto Kate da tutti loro.

 

 

Sete. Fu la prima sensazione che Kate provò quando aprì gli occhi, insieme ad un fortissimo mal di testa. Non aveva ancora avuto modo di percepire distintamente tutti gli altri dolori. Fu come se i suoi sensi si appropriassero del suo corpo poco per volta ed avrebbe preferito che non l’avessero mai fatto, perché cominciò a sentire forte e distintamente tutti i dolori che la attanagliavano, al petto, soprattutto. La stanza era illuminata da una luce fredda percepì quella insieme al rumore ed al bip bip costante dei macchinari subito dopo. Non sapeva cosa le fosse successo. Il suo ultimo ricordo era la bara di Montgomery avvolta nella bandiera ed i volti tesi di Ryan, Esposito e Castle. Poi più nulla. Cosa era successo? Come era finita lì?

Provò a fare un respiro più profondo e fu come sentirsi lacerare in due e poi un pensiero la invase ed il ricordo di quella mattina, il medico, le analisi, il bambino. Cosa era successo? Perché era lì? Perché era sola? Cominciò ad agitarsi e sentì il suono dei macchinari aumentare di intensità man mano che l’ansia in lei cresceva, fino a quando non vide le porte spalancarsi ed una luce più forte entrare nella stanza insieme ad un uomo e due donne.

- Katherine? Katherine mi sente? - L’uomo la chiamava per nome lei lo guardava con gli occhi sbarrati muovendo appena la testa per rispondere. Avrebbe voluto parlare ma sembrava che non ne avesse la forza ed aveva la gola in fiamme.

- Va tutto bene Katherine. Si rilassi, deve stare tranquilla. - La voce calma e pacata del dottore non faceva alcun effetto su di lei. Si voltò a guardare le due donne che stavano trafficando con una flebo inserendo qualcosa.

- È meglio se dorme ancora un po’. - Le disse l’uomo dopo aver controllato che tutto fosse nella norma.

- Cosa… cosa… è… successo? - Chiese a fatica

- Le hanno sparato. Ora si rilassi, mi ascolti. È meglio se riposa ancora un po’, per lei e per il suo bambino. - L’uomo le prese la mano accennando un sorriso e Kate sembrò calmarsi. Non sapeva se per le parole appena sentite o se quello che avevano messo nella flebo faceva effetto, ma lasciò che qualunque cosa fosse facesse il suo corso. Doveva calmarsi e rilassarsi, per il suo bene e per quello del bambino. Allora c’era. Era vero. Ne fu sollevata e si addormentò di nuovo.

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Capitolo 4
*** QUATTRO ***


Kate si era svegliata di nuovo e di nuovo la stessa sensazione di sete e di dolore. Ovunque. Si guardò intorno  e non c’era nessuno e sentì insieme a tutto il resto anche una sensazione di vuoto. Poi fece un pensiero tanto inaspettato quanto prorompente: non era sola.

Chiuse gli occhi e provò a respirare lentamente per evitare di agitarsi ancora. Ok, dormire le faceva bene, non sentiva dolori, ma voleva essere sveglia, voleva delle risposte a quelle domande che dovevano servire a ricomporre quei momenti confusi nella sua mente che si fermavano sempre nello stesso momento, quando arrivavano al cimitero. Poi nulla. Fu un momento ed un pensiero la terrorizzò: dove erano gli altri? Perché non c’era nessuno? Perché non le avevano detto nulla di Ryan o Esposito. E di Castle. Dove era Castle? Nel cercarlo si era resa conto che aveva dato per scontato che lui ci fosse, che fosse lì, perché lui c’era sempre quando ne aveva bisogno ed ora ne aveva veramente tanto bisogno. Di sapere che stavano tutti bene, che lui stava bene. E di parlargli. Doveva dirgli cosa stava accadendo, cosa era successo. Non voleva niente da lui, non gli avrebbe mai chiesto o imposto nulla, però doveva sapere di… di suo figlio. Era un pensiero che non riusciva a contenere, perché non era una cosa a cui era preparata e le sembrava troppo grande per lei che non era capace per queste cose. Non aveva pensato a nulla, però quando si era svegliata aveva solo realizzato che era preoccupata e sapere che c’era e che stava bene, l’aveva tranquillizzata ed era tutto estremamente irrazionale ed incontrollato, ma era così.

Le sue pulsazioni doveva essere aumentate mentre stava elaborando quei pensieri perché sentì la macchina suonare di nuovo e la stessa scena di prima, non sapeva quanto prima.

- Non voglio dormire. - Riuscì a dire solo questo al medico, un altro, che era entrato.

- Non si deve agitare Katherine. - La ammonì.

- I miei colleghi? Dove sono? Stanno bene? - Chiese preoccupata contravvenendo subito alle raccomandazioni dell’uomo. 

- Stanno tutti bene. Erano qui prima. Sono andati a riposare. - Le spiegò pacatamente facendo segno all’infermiera che non era necessario dell’altro sedativo, aumentò solo di poco il dosaggio dell’antidolorifico.

- Stanno chiamando suo padre. Verrà qui il prima possibile. Però lei stia calma, va bene?

- Ho sete! - Supplicò il medico che si fece versare dell’acqua da un’infermiera e l’aiutò a bere piccoli sorsi.

 

Jim non tardò ad arrivare e Kate sorrise nel vederlo con quel camice e quella mascherina, o almeno provò a farlo. L’uomo apprezzò che quella cosa servisse almeno in parte a coprire le sue emozioni.

- Ciao papà.

- Ciao Katie.

- Cosa è successo? - Aveva bisogno di quella risposta.

- Ti hanno sparato mentre stavi pronunciando il discorso al funerale di Montgomery. Un cecchino, mi hanno detto. Castle si era accorto, ha provato a scansarti buttandosi su di te ma non ha fatto in tempo.

- Sta bene? - Castle doveva sempre fare le cose di testa sua. Perché si era buttato su di lei se si era accorto che le stavano sparando?

- Sì, cioè, come tutti noi. Preoccupato, per te. Anzi, per voi. - Le disse emozionato.

- Lo sai? - Chiese perplessa

- Sì, Josh ce lo ha detto. Sono contento per voi, Katie.

- Io… Lo so da poco papà… te lo avrei detto… devo solo… abituarmi.

- Certo. Non ti preoccupare.

Kate fu invasa da una luce più forte proveniente dalla porta che era di nuovo aperta. Riconobbe senza difficoltà Josh anche sotto quel camice.

- Ehy Kate! - Le si avvicinò ed immaginò un suo sorriso da come si erano increspati gli occhi e gli zigomi.

- Ciao Josh.

- Vi lascio soli - Disse Jim ai due.

- Grazie signor Beckett. Purtroppo mi posso fermare solo pochi minuti, poi devo tornare in sala operatoria. È una giornata intensa.

- Certo Josh - Disse senza far trasparire alcuna emozione Jim che appena fuori e tolta tutta quella roba di dosso prese il cellulare di Kate che gli avevano dato prima insieme alle altre sue cose e senza pensarci troppo compose il numero che sua figlia aveva chiamato più volte, ma si stupì sentendo un telefono squillare nello stesso momento e voltandosi vide Castle che era lì a pochi metri da lui.

- Ci sono novità? - Chiese Rick allarmato.

- Si è svegliata. Io ci ho parlato poco fa. Ora c’è Josh con lei.

- Come sta?

- È Katie. Anche se sta male non lo vuole far vedere. - Disse Jim quasi rassegnato del carattere della figlia. Rick annuì e i due si accomodarono quasi contemporaneamente sulle sedie nel corridoio.

- Grazie per aver pensato di chiamarmi. Non avevo sentito nessuno, per questo mi sono permesso di venire. - Gli spiegò Castle volendo giustificare la sua presenza - Se è un problema, però, me ne vado.

- Resta. Sono sicuro che a Katie farà piacere sapere che sei qui.

 

Josh si era seduto vicino a Beckett ed entrambi vivevano in una situazione di grande imbarazzo per motivi diversi.

- Mi hai fatto spaventare molto, lo sai Kate? - Le disse Josh come a volerla rimproverare - Ma mi hai anche fatto una bellissima sorpresa.

Lei lo guardò esitante e confusa

- Il nostro bambino Kate! Io… non me lo aspettavo, però… wow!

Il loro bambino? Beckett chiuse gli occhi. Certo, era ovvio. Avevano scoperto che era incinta e tutti davano per scontato che il figlio fosse di Josh, lui per primo. Ma le cose non stavano così e lei voleva uscire subito da quell’equivoco, da quella storia che ora era anche più fastidiosa del solito. Lo guardò senza dire niente, osservandolo guardare l’orologio, più di una volta da quando era entrato. Certo, aveva i minuti contati ed il mondo da salvare che lo aspettava. Ed era più importante di lei anche adesso che era convinto che lei aspettasse suo figlio. Sentì un moto di rabbia dentro di se, si sentì stupida e stanca. Anche lei aveva le sue colpe per quella storia così sbagliata. Avrebbe voluto non svegliarsi da sola, avrebbe voluto che ci fosse qualcuno con lei. Immaginava che il suo ragazzo che è anche un dottore, fosse rimasto con lei, a maggior ragione se era convinto che lei era incinta del loro bambino. Invece no. Il mondo era sempre più importante di lei, di loro.

- Non c’è nessun nostro bambino Josh. - Sospirò Kate con un filo di voce.

Josh si alzò e prese la cartella clinica in fondo al letto, la sfogliò velocemente fino alle ultime pagine, ma non c’erano aggiornamenti in merito.

- Sì Kate, non ti preoccupare. - Provò a rassicurarla ma lei scosse la testa.

- C’è il mio bambino, non il nostro. - Fu brutale nel dirglielo, ma non le importò e non aveva pensato che esistessero altri modi, non voleva nemmeno sforzarsi a trovarli.

- Non vuoi tenerlo? - Gli chiese lui che non continuava a non capire.

- Sì, che voglio tenere il mio bambino, Josh. Ma non è tuo figlio. - Provò a ripeterlo con il massimo della calma che riusciva ad avere.

- Cosa stai dicendo? - Perdendo ogni riguardo e attenzione il dottore si era slacciato la mascherina dal volto.

- Sono incinta di sei settimane Josh. Tu non c’eri in quel periodo.

- Kate ma cosa… cosa hai fatto? - La sua voce era piena di disprezzo.

- Mi dispiace. - Non lo sapeva se le dispiaceva veramente. Ma non sapeva cosa dirgli.

- È dello scrittore? È di Castle? Ti sei fatta lui in tutto il tempo che siamo stati insieme? Eh? Non solo ti sei quasi fatta uccidere per colpa sua, tra un’indagine e l’altra ti facevi anche sbattere da lui!

Non trovò le parole per rispondere, avesse potuto l’avrebbe preso a schiaffi e obbligato ad andarsene. Sentiva invece sempre più rabbia dentro e un dolore al petto che la faceva quasi soffocare, provò a parlare ma si sentì strozzare e in quel momento più di uno schermo suonò lanciando un allarme. Josh la guardava e poi passò a controllare i suoi valori, troppo alterati, chiamando immediatamente l’intervento di un’equipe che arrivò subito e lui fu fatto allontanare. Appena fuori dalla porta lo vide, seduto vicino a Jim a testa bassa, con le braccia appoggiate sulle gambe e le mani congiunte tra le ginocchia. Rick sembrava stesse pregando.

- Castle! - Urlò Josh e non fece in tempo ad alzare la testa per guardarlo che un pugno lo colpì in pieno volto. Se ne fregava se era nell’ospedale dove lavorava e se davanti a lui c’era il padre di Kate. Sollevò Rick prendendolo per la giacca e sbattendolo al muro, aveva una ferita sullo zigomo che l’anello del dottore gli aveva provocato.

- Questo era per esserti scopato la mia donna e questo per averla anche messa incinta - lo colpì ancora sempre nello stesso punto, causandogli un altro taglio poco più sopra, vicino all’occhio. - Sarai contento ora eh!

Rick era completamente frastornato, dalle parole più che dai pugni che non riusciva a dire nulla ed anche Jim era allibito nel sentire quelle parole. Nella mente di Rick tornarono prepotenti le parole di Kate prima di perdere conoscenza. Lei lo sapeva, sapeva esattamente cosa gli stava dicendo. Non fece in tempo a realizzarlo che si sentì ancora colpire al torace da un Josh fuori controllo e il respiro gli si bloccò in gola. Un’infermiera vedendo la scena aveva già chiamato la sicurezza, ma Esposito e Ryan, avvisati proprio da Castle che Beckett si era svegliata, stavano già correndo verso di loro. Bloccarono il dottore mentre Rick senza fiato si accasciava a terra, guardando con sollievo l’arrivo dei due amici che, senza troppo rispetto ma con molta soddisfazione, avevano ammanettato il dottore e gli stavano leggendo i suoi diritti.

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Capitolo 5
*** CINQUE ***


Un medico lo aveva aiutato a rialzarsi e non era facile con un uomo della sua stazza. Rick faticava ancora a respirare ma non sapeva se per i colpi ricevuti o per quello che credeva di aver capito. Cercò Jim con lo sguardo e gli occhi del padre di Kate, aperti come un sottile fessura lo fissavano attenti.

- Io… mi dispiace… - Riuscì solo a dirgli prima che un colpo di tosse gli impedì di parlare oltre provocandogli ancora più dolore, se era possibile.

- Dovrebbe farsi vedere questi tagli, uno è abbastanza profondo. - Gli disse il dottore che lo aveva aiutato e Castle non si accorse nemmeno che lo stava indirizzando verso un ambulatorio in fondo al corridoio. Lo disinfettarono e gli applicarono dei cerotti per suturare le ferite.

Era arrivato anche il direttore dell’ospedale che aveva immediatamente riconosciuto Castle, perché più volte aveva partecipato a degli eventi benefici e a delle donazioni in loro favore. Lo stava pregando di evitare di fare una denuncia alla struttura per quanto accaduto, ma lui nemmeno lo ascoltava, così come non aveva ascoltato quella dottoressa che si era presa cura del suo volto in modo fin troppo attento, che gli aveva detto che c’era la possibilità che gli rimanesse una cicatrice. Aveva forse qualche importanza? No, non l’aveva.

- Posso andare? - Chiese infine alla dottoressa quando aveva apposto l’ultimo cerotto.

- Signor Castle, per favore, non ci faccia questa cattiva pubblicità, perderemo molti dei nostri sponsor… - continuò a pregarlo il direttore preoccupato di come avrebbe fatto a far quadrare i conti.

- Whitmore, non si preoccupi. Non ho nessuna intenzione di fare causa al vostro ospedale. - Gli disse Castle scendendo dal lettino e l’uomo sembrò essere ringiovanito di almeno dieci anni.

- Signor Castle mi dica, come posso sdebitarmi con lei? - Whitmore continuava il suo essere reverenziale con Rick che invece voleva solo che si levasse di torno il più velocemente possibile.

- Se ho bisogno di qualcosa le farò sapere, ora, per favore, vorrei solo andare a vedere come sta il detective Beckett.

- Ah ma certo, la fidanzata del dottor Davidson… l’accompagno. - Rick lo guardò malissimo, ma lui non colse il suo sguardo. Lo seguì trotterellando per il corridoio, ogni passo di Castle erano almeno due dei suoi, che era alto la metà di lui.

Davanti alla stanza di Kate per fortuna si congedò e se ne andò. Jim era sempre lì, seduto, con il volto più tirato e preoccupato e lui subito immaginò che fosse per quanto aveva sentito poco prima da Josh.

- Jim, mi dispiace veramente. Io non volevo mancare di rispetto a tua figlia.

- Andiamo Richard! Siete tutti e due adulti, cosa ti aspetti che faccio la parte del padre geloso? Penso che mia figlia sia abbastanza grande da poter decidere cosa fare della sua vita e con chi decidere di passare le sue serate.

Rick annuì. Non era sicuro che al posto suo sarebbe riuscito a fare lo stesso discorso se ci fosse stata Alexis di mezzo. No, decisamente no.

- Katie ha avuto una crisi quando Josh era lì. Il cuore è ancora debole, hanno preferito sedarla ancora, per non affaticarla troppo, anche per il bambino.

Annuì ancora. Il bambino. Il bambino era suo figlio. Era il loro bambino, come gli aveva detto Kate. Era tanto felice quanto la sua preoccupazione si era moltiplicata dentro di lui. Doveva vederla. Doveva stare con lei. Doveva essere lì quando si svegliava, non poteva svegliarsi da sola.

Fermò un’infermiera, chiedendogli se gli davano anche a lui uno di quei cosi di plastica da mettersi addosso per andare da Kate, ma lei fu irremovibile. Niente più visite. Provò a pregarla che lui, e sottolineò lui con la voce in modo deciso, non l’avrebbe fatta stare male. Voleva solo farle compagnia ed essere lì, quando si svegliava, nulla di più. Lei però non si lasciò commuovere e se ne andò. Provò a sbirciare dal vetro, ma la tenda era abbassata e non si vedeva nulla. Senza dire nulla a Jim se ne andò via di corsa.

 

- Whitmore, voglio vedere Beckett! - Esclamò Rick entrando nell’ufficio del direttore senza bussare. L’uomo al telefono attaccò farfugliando qualcosa.

- Come signor Castle?

- Voglio vedere Beckett, voglio aspettare che si risveglia, voglio stare lì con lei.

- Ma… io… non so, se i medici hanno detto di no…

- Non sono il dottor Davidson, non le farò del male, voleva sapere come sdebitarsi con me? Mi faccia vedere Beckett.

Fece qualche telefonata, facendosi passare il reparto di rianimazione, ascoltò le obiezioni dei medici, ma cercò di essere anche lui il più convincente possibile.

- La faranno entrare, ma se dovesse avere qualche problema, agitarsi o stare male, dovrà uscire immediatamente.

- Siamo d’accordo. - E così, con la stessa fretta con cui era arrivato se ne andò via tornando nel reparto di Beckett.

Jim lo guardò mentre le infermiere lo aiutavano a mettersi il camice e la mascherina, sorrise appena, ma in cuor suo fu molto felice di sapere che Kate avrebbe avuto qualcuno vicino.

 

Il primo istinto di Rick fu quello di andare via perché il senso di impotenza che provava in quel momento lo straziava. Raccolse la sedia caduta a qualche metro dal letto e si chiese se era stato Josh o i medici nella concitazione del momento. Faceva ogni movimento al rallentatore, appoggiandola piano vicino al letto, per non far rumore e si sedette altrettanto lentamente, come se anche il cigolio potesse disturbarla. Dormiva. Sembrava serena. E bellissima. Era più pallida ma la bocca rossa con quelle labbra perfette erano uguali a quelle che aveva osservato per ore quella notte a Los Angeles. Quella notte era stata speciale, lui lo sapeva.

Avrebbe voluto prenderle la mano e stringerla, ma era troppo. Troppo per lei, troppo per lui. Si limitò ad appoggiare la sua mano vicino alla sua, con le dita che quasi si sfioravano. Lui ci sarebbe stato. Sempre. Glielo aveva promesso.

 

Si svegliò stanca, come se non fosse vero che non faceva altro che dormire da non sapeva nemmeno quanto. Non riusciva nemmeno ad aprire gli occhi ma percepiva di non essere sola. Mosse appena la mano e ne sentì subito una vicino alla sua, si ritrasse, tutto voleva tranne qualsiasi tipo di contatto con Josh, ma sentì che l’altra mano faceva la stessa cosa, allontanandosi, come se avesse preso la scossa nel contatto con la sua pelle.

- Ehy Beckett… Sono Castle! - La sua voce gli arrivò ovattata dalla mascherina e si sforzò di aprire gli occhi per guardarlo. La prima cosa che vide furono i suoi occhi, azzurri, lucidi e arrossati. 

- Ciao Castle. - Sospirò 

- Ciao… - Fece una lunga pausa. Era imbarazzato e non sapeva cosa dirle. - … Io… volevo solo che non fossi sola, quando ti saresti svegliata.

Farfugliò e non sapeva se era la mascherina a rendere la sua voce così oppure se era proprio lui che faticava a parlare.

- Grazie. E grazie anche per quanto hai fatto al cimitero. Non imparerai mai a stare fermo, vero? - Provò a sorridere, ma non ce la fece.

- Avrei voluto fare di più. - Disse lui serio, senza riuscire più a guardarla, mentre Kate invece non riusciva a smettere di farlo.

- Lo sai, vero? - Gli chiese prendendogli la mano, in un gesto che Rick trovò così inaspettato da farlo sobbalzare e finalmente alzò la testa per guardarla.

- Sì. - La sua ammissione fu poco più di un sussurro.

- L’ho saputo solo quella mattina. Non te lo volevo tenere nascosto. - Si sentì in dovere di giustificarsi anche se lui non le aveva chiesto nulla.

- Non ti preoccupare. Avremo tempo per parlare. - Le strinse la mano e fu lei ad annuire.

- Cosa hai fatto al volto? - La mascherina non copriva i tagli ed ora che si era voltato vedeva il lato sinistro del suo volto segnato.

- Niente, il tuo fidanzato non ha preso bene la notizia. - Provò a sdrammatizzare.

- Ex. Ex fidanzato. - Sottolineò Kate.

- Già, immaginavo. - Sorrise Rick

- Mi dispiace per quello che ti ha fatto.

- A me no. È tutto ok, Beckett.

Non era niente ok. A cominciare da come stava lei, per finire all’esplosione di sentimenti contrastanti che provava lui.

- Non ti devi preoccupare di niente, ok? Penso a tutto io. Tu devi pensare solo a stare bene ed essere tranquilla. Ci sono io. - Rick si sentiva in dovere di rassicurarla, per rassicurare anche se stesso, per sentirsi utile in qualcosa, fosse stato solo la più stupida cosa pratica del mondo. 

- Non voglio importi niente Castle. Noi non dobbiamo essere un tuo problema. Io me la posso cavare anche da sola. - Kate era così, indipendente, testarda, forte. Lei non chiedeva aiuto e difficilmente lasciava che gli altri la aiutassero. Ora avrebbe dovuto cambiare necessariamente.

- Cosa dici Kate? Non è un problema per me, tutto il contrario. Sono io che voglio importi la mia presenza, né ti sto chiedendo niente. Voglio solo esserci e farti sapere che potrai contare su di me. Per tutto. Sempre. - La guardava perché capisse che era sincero. Se solo lei avesse saputo cosa stava provando in quel momento, cosa voleva dire tutto quello per lui… Ma non la poteva gravare dei suoi sentimenti, non poteva imporle qualcosa che rischiava solo di allontanarla. Glielo aveva già detto al cimitero che l’amava e se lei parlava così, evidentemente, aveva altri piani e non corrispondeva i suoi sentimenti. Però questo non cambiava le cose, né quello che c’era adesso tra loro che era qualcosa di molto più tangibile di un sentimento e li avrebbe uniti per sempre.

- Grazie Castle. Mi dispiace che lo hai saputo in modo così violento da Josh. - Provò anche lei a fare una battuta e Rick sorrise anche se quel movimento gli provocava ancora più dolore allo zigomo.

- Beh, in realtà me lo hai detto tu, ricordi? Sei tu che mi hai detto del nostro bambino. 

Dirlo davanti a lei fu devastante. Devastante e vero, reale. Lo vide da come lei abbassò lo sguardo che era rimasta colpita quanto lui da quelle due parole. Non erano due parole, era la prospettiva di un mondo che si apriva.

- Io… non ricordo nulla. Mi ricordo solo che siamo arrivati al cimitero poi niente. Te l’ho detto io? - Gli chiese perché voleva capire cosa era accaduto.

- Sì… non ricordi niente? - Lei scosse la testa. Non sapeva se essere sollevato o sentirsi sprofondare per quella confessione.

- Quando eri a terra mi hai preso la mano e mi ripetevi del bambino ma io non capivo e tu mi hai detto il nostro… - Non fu facile per Rick ripeterle quelle parole.

- E tu non avevi capito, vero? - Sorride Kate imbarazzata.

- No, pensavo che mi avevi confuso con Josh o che deliravi. - Sorrise Rick a sua volta.

- A quanto pare, invece ero lucida. È il nostro bambino Castle, se tu lo vorrai. - Lasciò la sua mano che si era accorta solo in quel momento di tenere fin troppo stretta ed ora bruciava come brace ardente.

- Certo che lo voglio il nostro bambino, Beckett. - Riprese la sua mano evitando di stringerla troppo e ringraziò di essere già seduto, perché non sarebbe riuscito a rimanere in piedi.

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Capitolo 6
*** SEI ***


I medici che effettuavano le visite di routine su Beckett erano entrati e gli avevano chiesto di andarsene. Era chiaro che non sopportassero molto la sua presenza, soprattutto il medico che era di turno quella sera che gli avrebbe impedito volentieri di rientrare da Kate se non fosse che tutti sapevano che era stato Whitmore in persona a chiedere di chiudere un occhio per lui. Ma che quel giovane medico lo odiava era palese. Lo aveva capito da come lo guardava e da quelle battute fin troppo esplicite che gli aveva riservato quando era uscito, parlando con la collega ma facendo in modo che lui sentisse e così “È lui quello che si è fatto la donna di Josh” era solamente la cosa più carina che gli era stato detto. Nei fatti era vero, ma era il modo e l’astio che non sopportava, non per lui, ma per Kate, per quelle battutine che aveva sentito e che lo avrebbero fatto reagire come Josh con lui. Erano i colleghi ed amici del dottore, non poteva aspettarsi altro da loro.

Quando rientrò Kate sembrava stesse già dormendo: la sedia era dove l’aveva lasciata e si sedette come prima vicino a lei.

- Castle… sei tornato. - La sua voce gli sembrava più stanca ed affaticata.

- Certo che sono tornato. - Kate aprì gli occhi e lo guardò provando a sorridere.

- Sei buffo con tutta questa roba addosso.

Si addormentò subito dopo. 

- Le abbiamo dato dei tranquillanti. - Gli sussurrò un’infermiera alle sue spalle. Rick non si era accorto della sua presenza.

- Non faranno male al bambino? - Si preoccupò Castle.

- No, stia tranquillo. Glieli diamo proprio per farla riposare il più possibile, per il suo bene. - Rick annuì ringraziandola, le sembrava la prima persona che lo trattava bene in quell’ospedale - Altri cinque minuti signor Castle, poi è meglio che lasci Katherine da sola, dormirà almeno per le prossime sei ore.

Rimasti soli Rick le prese la mano e poi le accarezzò il volto, rimase così un po’ più dei cinque minuti che gli erano stati concessi, poi uscì. Jim era tornato e sembrava lo stesse aspettando.

- Sta dormendo. - Gli disse sedendosi vicino a lui. - Dicono che è meglio che si riposi per lei e per il bambino.

- Non devi sentirti in obbligo di nulla con Kate, Richard. 

- Cosa mi stai dicendo Jim? - Gli chiese basito.

- Mi prenderò cura di Katie e farò di tutto per non far mancare nulla a lei e al bambino. Sai com’è fatta mia figlia, non ti chiederà nulla.

- Ma lei non deve chiedermi nulla. Le darò tutto quello di cui hanno bisogno. L’ho già detto anche a Kate. Voglio essere presente nella misura in cui lei me lo permetterà.

- Sai questo cosa comporta, Richard? - Jim lo guardò severo, come se volesse essere certo delle sue intenzioni.

- Sono cresciuto senza aver mai conosciuto mio padre. Io stesso ho cresciuto Alexis con una madre che si ricorda di lei un paio di volte l’anno, se va bene, che spesso non la chiama nemmeno per il suo compleanno. Non permetterei mai che mio figlio viva qualcosa di simile per colpa mia e spero che Kate mi permetta di stargli vicino il più possibile.

- Vatti a riposare Richard. Ne hai bisogno anche tu. 

Si salutarono con dei cenni d’intesa e Castle poi uscì lentamente dall’ospedale. Sembrava che ogni persona che lavorava lì dentro sapesse della sua storia, di quello picchiato dal dottor Davidson perché gli aveva messo incinta la ragazza, qualcuno lo aveva anche riconosciuto, era Richard Castle, lo scrittore.

Fuori da lì accese di nuovo il cellulare, trovò le chiamate di Esposito, Ryan e Lanie, oltre che della sua famiglia. L’ora di cena era passata da poco provò a richiamare al distretto, gli rispose Ryan. Gli disse di rimanere lì, sarebbe passati a prenderlo poco dopo.

 

Ryan ed Esposito avevano insistito per portarlo a cena fuori. Non ricordava più da quanto tempo non mangiava e gli venne appetito solo quando cominciò a masticare la sua bistecca. Li aveva raggiunti anche Lanie in quella steakhouse vicina al distretto dove ogni tanto andavano per mangiare qualcosa dopo i casi che li impegnavano fino a tardi.

- Abbiamo dovuto rilasciare Josh. Poi dovrai passare al distretto per formalizzare la denuncia per aggressione. Se vuoi possiamo provare a chiedere un’ingiunzione per non farlo avvicinare a te o a Beckett nel frattempo. - Gli spiegò Ryan

- Non intendo denunciarlo, non mi interessa. - Rispose Rick che ricordava quanto accaduto in ogni momento mentre mangiava visto che il dolore delle ferite si rinnovava con la masticazione,

- Perché? Se non fossimo arrivati noi… - Intervenne Esposito ma fu subito fermato da Castle

- Non voglio che questa storia vada avanti. Josh non merita il mio tempo, ho altro a cui pensare. - Tagliò un altro pezzo della sua bistecca facendo una smorfia mentre mangiava.

- Josh ci ha detto perché lo ha fatto. - Aggiunse Javier mentre Lanie ascoltava in silenzio.

- Già, immaginavo. - Annuì Rick.

- Vorrei darti anche io un paio di pugni Castle! - Gli disse l’ispanico senza sorridere troppo.

- Se questa cena si deve tramutare in una serie di ramanzine e minacce, scusatemi, ma non ho voglia. - Si pulì la bocca con il tovagliolo e fece per alzarsi, quando Ryan lo fermò.

- Non è questo Castle. Però… 

- Non ci sono però, Kevin. Quello che è successo tra me e Beckett è un problema nostro, al massimo di Josh, visto che loro stavano insieme. Se siamo qui perché volete sapere altro, ragazzi veramente, avete sbagliato. - Rick si scoprì essere molto sulla difensiva, come se dovesse proteggere Beckett e quello che era accaduto tra loro da qualsiasi tipo di curiosità e di interferenza esterna. Se avessero voluto sapere di più avevano sbagliato persona e momento. Non aveva nemmeno lui risposte da darsi, figuriamoci se poteva darle agli altri.

- Come sta Beckett? - Gli chiese Lanie, era l’unica cosa che le importava.

- Dopo aver visto Josh ha avuto una piccola crisi. Preferiscono tenerla a riposo sedata il più possibile in queste ore. Hanno detto che non è ancora fuori pericolo. 

- Tu l’hai vista? Ci hai parlato? - Chiese ancora la dottoressa.

- Sì, abbiamo parlato un po’. È sempre Beckett, non si lamenta e mi ha rimproverato un paio di volte, il solito. - Provò a sorridere. Ora c’è Jim in ospedale, ma ci hanno detto che sperano dorma tutta la notte. Sarebbe importante per lei e per il bambino. - Sospirò.

- Tu come stai? - Gli chiese Esposito.

- Come se mi avessero appena tirato fuori da una centrifuga a duemila giri. - Sospirò Rick mangiando l’ultimo pezzo della sua bistecca, masticandolo a lungo e lentamente, perché il suo appetito se ne era già andato.

- Forse è meglio se ti vai a riposare un po’. - Concluse Kevin facendo cenno ad un cameriere di portargli il conto.

 

Al loft Martha e Alexis lo attendevano ancora sveglie, come la sera prima.

- Papà cosa hai fatto? - Gli chiese subito sua figlia preoccupata vedendo i segni sul suo volto.

- Niente di grave, una discussione con Josh. - Le disse abbracciandola e accarezzandole i capelli.

- Josh il fidanzato di Beckett? - Chiese Martha che li aveva raggiunti.

- Sì, o meglio da oggi l’ex fidanzato di Beckett. - Precisò Castle.

- Ma come si fa a lasciare una ragazza in queste condizioni! Che uomo è? - Esclamò Martha con il suo tono esasperato in una teatrale drammaticità

- Veramente è stata lei a lasciarlo. - La risposta di Rick lasciò le due donne di stucco, non aveva voglia di affrontare quell’argomento adesso, ma sapeva che doveva farlo, doveva dire loro come stavano le cose, era un loro diritto saperlo, visto che inevitabilmente la cosa avrebbe avuto ripercussioni anche sulle loro vite.

Si andò a sedere al tavolo della cucina e le sue due donne lo seguirono.

- Ci sono state delle complicazioni quando la hanno operata. - Aveva cominciato con l’idea di girare intorno all’argomento per cercare le parole giuste per dirlo, ma non esistevano o almeno a lui non venivano in mente. - Beckett è incinta. Il bambino non è di Josh, è mio.

Calò il silenzio per qualche istante nel loft. E anche gli “oh” di stupore alla notizia della gravidanza di Kate sparirono. Rick spostava lo sguardo da Alexis a Martha aspettando una loro reazione e fu la figlia la prima  a parlare.

- Sei proprio sicuro papà? È tuo figlio?

- Josh era fuori in quel periodo e corrisponde con quando io e Beckett… -  Rick alzò le spalle si imbarazzava a fare certi discorsi davanti a sua figlia che con un cenno della mano gli fece capire che non era necessario che continuasse.

- Quindi tu e Beckett state insieme? - Chiese Martha che sembrava già entusiasta della cosa

- No, mamma. È solo successo una notte, quando eravamo a Los Angeles. - Precisò Castle

- Oh Richard, ci sono delle notti che ti cambiano tutta la vita. Chi meglio di me può dirlo! - Gli accarezzò il braccio e gli fece un occhiolino sorridendo, ma quella che per lei voleva essere una battuta affettuosa, lui non la prese allo stesso modo.

- Già, con la sola differenza che io non sparirò nel nulla. Ora scusatemi, ma ho veramente bisogno di dormire.

 

Aveva effettivamente bisogno di dormire, se solo ci fosse riuscito. Invece dopo che si era fatto una doccia velocemente, era rimasto a girarsi e rigirarsi nel letto, con la mente affollata di pensieri. Kate non era ancora fuori pericolo e lui aveva paura. Di perderla. Di perderli. Non si permetteva ancora di soffermarsi a pensare che Beckett sarebbe stata la madre di suo figlio perché era un pensiero che implicava talmente tante sfaccettature che non riusciva ancora a gestirlo. Lo avrebbe fatto poi, quando gli avrebbero detto che lei stava bene, che non era più in pericolo. Perché lei sarebbe stata bene, non poteva nemmeno considerare il contrario. E poi inevitabilmente il pensiero andava a quella notte, a quella forza che l’aveva convinto non sapeva nemmeno lui perché a tornare sui suoi passi e ad aprire quella porta. L’aveva vista in piedi che lo fissava entrambi avevano ancora la mano sulla maniglia e fu lui ad andarle incontro, percorrendo a grandi falcate il poco spazio che li divideva. Per quel che ne sapeva poteva essere tornata indietro per qualsiasi motivo e forse si sarebbe pentito, lei lo avrebbe picchiato e gli avrebbe urlato contro, ma in quel momento non gli importava. Le arrivò davanti e la afferrò letteralmente tra le sue braccia, facendola indietreggiare quel tanto che bastava da farli entrare nella camera di lei. Roteò tenendola fino a che Beckett non era appoggiata contro la porta chiusa. Le prese il viso con entrambe le mani e come aveva già fatto quella notte nel vicolo, la baciò, ma Kate questa volta non era sorpresa. Rick si aspettò uno schiaffo che non arrivò mai, anzi, sentì le sue mani tra i capelli muoversi seguendo il ritmo del loro bacio, aumentando la pressione, man mano che il bacio diventava sempre più intenso, avvicinandolo a lei. Non ricordava se si erano parlati o se come spesso accadeva in altri contesti, si erano capiti senza bisogno di troppe parole, ma quando lui aveva avvicinato ancora di più il suo corpo a lei, la gamba di Kate che si alzava e si strusciava sulla sua gli era sembrato un gesto eloquente che lei condivideva in pieno ogni sua azione. Avrebbe voluto tutto e subito da lei, ma preferì gustarsi a lungo quel bacio che aveva inseguito e cercato da tanto, ritrovando il sapore di quelle labbra che lo avevano stregato, non meno di tutto il resto di lei. Arrivarono sul letto senza smettere di baciarsi praticamente mai si spogliarono senza badare troppo a come e si ritrovarono preso tra le braccia uno dell’altra mentre i loro corpi si conoscevano come loro non avevano più bisogno di fare. Castle ricordava perfettamente la sensazione della pelle di Beckett sotto le sue mani, le sue gambe lunghe, che aveva baciato senza mai stancarsi, avvolte intorno al suo corpo per avvicinarlo ancora di più e dentro di lei, le sue mani che gli accarezzavano la schiena mentre lui la  baciava sul collo e sui seni e non dimenticava nemmeno quando era lei a soggiogarlo e le sue mani sfioravano e graffiavano il suo petto mentre lo guardava dall’alto e lui non poteva fare altro che godersi tutta la sua statuaria bellezza e sensualità mentre si muoveva voluttuosa su di lui. Non aveva dimenticato nulla di quella notte, i baci, i sospiri, i gemiti, la voce di Kate che lo incitava a continuare, a non fermarsi, la bellezza di lei scossa dal piacere che non gli aveva dato tempo nemmeno di rendersi conto che anche lui fu scosso allo stesso modo. Soprattutto non riusciva a dimenticare quei baci, dopo, ed il suo corpo sempre troppo vicino fino a quando non si era addormentata e lui non era stato vinto da quel panico inspiegabile che lo aveva portato a fuggire via come un ladro quando invece avrebbe solo voluto e dovuto rimanere lì con lei.

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Capitolo 7
*** SETTE ***


Kate poteva vedere la luce entrare dalla finestra in fondo alla stanza. Probabilmente era mattina. Fece il gesto istintivo di alzarsi e sentì una fitta tremenda prenderla al centro del petto, si portò una mano a toccarsi proprio lì e riuscì solo a sentire tutta l’area bendata e un gran dolore solo sfiorandosi. Guardò con attenzione la porta che si apriva ed un infermiera entrare.

- Buongiorno Katherine, come si sente? - Le chiese la donna mentre controllava i suoi valori nei monitor e cambiava la flebo.

- Come se mi avessero sparato in petto. - Rispose caustica Beckett.

- Sente molto dolore?

- Sopporto. - Rispose lei stoicamente.

- Non deve sforzarsi, non le fa bene. Ne parlerò con il dottor Hale, deciderà lui se è il caso di aumentare il dosaggio degli antidolorifici. Non possiamo darle nulla di più forte, perché farebbero male bambino.

Kate annuì.

- C’è suo padre qui fuori. È stato qui tutta la notte. Vuole vederlo?

Annuì ancora e l’infermiera uscì sorridendo sotto la mascherina.

 

- Ciao Katie. - Jim aveva preso posto sulla sedia vicino al letto, la sua voce le arrivava come un soffio sincopato dalla mascherina che non nascondeva la sua commozione.

- Ciao papà. Mi dispiace… - Cercò la mano dell’uomo che la prese stringendola con decisione.

- E di cosa? - Le chiese Jim 

- Di averti fatto stare in pensiero.

- Sono in pensiero per te da quando sei nata, Katie. - Kate strinse la mano di suo padre chiudendo gli occhi per evitare di commuoversi. Respirò lentamente. - Lo capirai cosa vuol dire.

- Te lo avrei detto che non era di Josh però… - Tentò di giustificarsi.

- Però è arrivato lui. 

- Sei arrabbiato papà? - Jim provò un’enorme senso di tenerezza per sua figlia in quel momento.

- Perché dovrei Katie?

- Per quello che è successo con Josh e con… con Castle. - Pronunciò il suo nome con un senso di vergogna e qualcos’altro che le suscitava dentro, un brivido ogni volta che pensava a lui e a quello che avevano fatto.

- Josh è un idiota Katie e mi chiedo come hai fatto a stare con uno che quando sei in ospedale si preoccupa di seguire il resto del mondo e non te. Meriti una persona vicino che ti metta sempre al primo posto, Katie, Josh non l’ha mai fatto, tranne quando doveva rivendicare che eri la sua fidanzata. Ma non sono affari miei e non è un discorso che dobbiamo fare adesso.

Kate annuì.

- Mi hanno detto che sei stato tutta la notte qui, dovresti andare a riposarti, papà. - Faticava già a rimanere sveglia ed odiava quella perenne sensazione di sonnolenza.

- Non voglio lasciarti sola. Rimarrò qui ancora un po’. Tu dormi, Katie.

Aveva forse cinque o sei anni l’ultima volta che aveva tenuto la mano di Kate mentre dormiva. Johanna era stata trattenuta a studio fino a tardi e lei era a casa con la febbre. Non riusciva a dormire, ma non voleva chiamarlo perché non voleva sembrare troppo piccola. Piangeva in silenzio contro il cuscino del letto, che attutiva ancora di più i suoi singhiozzi e Jim se ne era accorto quando era salito nella sua camera per controllarla, aveva visto i movimenti delle spalle così innaturali per una bambina che dormiva. Si mise seduto vicino al suo lettino e lei prese la sua mano e piano piano smise di piangere e si addormentò e lui rimase lì fino a quando sua moglie non era tornata a casa ed aveva preso in braccio Kate e quella notte l’aveva fatta dormire nel letto insieme a loro.

 

Quando si era risvegliata per l’ennesima volta, Jim non c’era più, ma in piedi davanti a lei c’era un altro uomo che non aveva mai visto. 

- Buongiorno Katherine, sono il dottor Hale, ero a capo dell’equipe che ti ha operato.

- Buongiorno dottore. È normale che dormo sempre così tanto? - Chiese infastidita

- Sì, è normale. È l’effetto di quello che sta prendendo, ma anche se fosse stata bene, a casa, si sarebbe sentita comunque più insonnolita e stanca in questi giorni. Il suo corpo sta lavorando per due, adesso e anche se non si vede nulla, sono i giorni più frenetici. È stata una bella sorpresa anche per noi, lei lo sapeva?

- Sì, lo avevo scoperto proprio quella mattina.

- Da quello che ci aveva detto il dottor Davidson non era una cosa programmata, o sbaglio?

- No, non lo era. Ma il dottor Davidson…

- Lo so, non è il padre. Abbiamo visto le conseguenze della notizia, purtroppo. Non si preoccupi, ho dato disposizioni che non si occupi più di lei e di non farlo più entrare nella sua stanza.

- Grazie. 

Il medico controllò la sua cartella clinica e i tracciati con i suoi parametri che riportò nell’ultima scheda.

- Senta Katherine… - Fu il turno del dottore, adesso, di sedersi vicino al suo letto. - A proposito della sua gravidanza, lei ha già avuto modo di pensare a cosa vuole fare?

- Cosa intende dire dottore? - Kate provò a sollevarsi e Hale la aiutò a sollevarsi e tirando su lo schienale del letto.

- Vede, non le posso nascondere che viste le sue condizioni la sua è una gravidanza a rischio, non sono un ginecologo, ma se vuole posso dire ad un mio collega di venire a parlare con lei. - Kate annuì ascoltando le parole del medico con una certa apprensione - È mio dovere, inoltre, informarla che possiamo sottoporla ad una serie di terapie limitate, perché molte più efficaci non sono compatibili con il suo stato.

- Lo so, ne sono consapevole.

- Quello che le volevo chiedere Katherine, e mi scusi la brutalità, è se lei ha intenzione di proseguire questa gravidanza oppure no, perché se non ne avesse intenzione, potremmo…

- Non mi interessa cosa potreste fare dottore e non mi interessano altri tipi di cure. - Il suo sguardo diventato improvvisamente deciso e penetrante colpì il dottor Hale che le rispose con un sorriso.

- Bene, in tal caso dirò alle infermiere solo di alzare un po’ il dosaggio degli antidolorifici. Si sta riprendendo bene considerando quello che ha avuto solo ieri, ci ha fatto preoccupare molto, a tutti. Mi raccomando, eviti di agitarsi troppo, so che gliel’avranno già detto tante volte.

- Sì, abbastanza, in effetti.

- Se continua così, un paio di giorni e potremmo trasferirla in un altro reparto, per ora dobbiamo essere sicuri che il suo cuore non ci faccia preoccupare ancora.

 

- Castle, cosa hai combinato? - Rick era appena arrivato, era rimasta sola non per troppo tempo dopo che il dottore se ne era andato e lui, appena entrato nella sua stanza, aveva pensato bene di tirare la tenda per chiudere completamente la visuale all’esterno.

- Non sei tu che tieni sempre tanto alla tua privacy? - Le chiese mettendosi vicino a lei.

- Sì, ma tu con quello sguardo e questi movimenti così circospetti vuol dire solo che hai fatto qualcosa che non dovevi, come sempre. - Lo riprese sospirando.

- Ecco… beh, sì! - Lo divertì vederle roteare gli occhi al cielo e scuotere appena la testa mentre lui estraeva da sotto il camice e la giacca il bocciolo di una rosa bianca.

- Non vogliono far portare nessun tipo di fiore qui dentro - Le bisbigliò sotto la mascherina così piano che faticò a sentirlo - però uno non farà male a nessuno, no?

Avrebbe voluto riprenderlo e dirgli che era sempre il solito che non rispettava le regole e faceva di testa sua, ma quando mise quel bocciolo sul palmo della sua mano e lo richiuse con la propria per nasconderlo e proteggerlo, Kate si sentì avvolgere da una sensazione che faticava a spiegarsi, sentì solo gli occhi umidi ed era certa che lo erano anche quelli di Castle. Abbassò lo sguardo sulle loro mani e quando Rick tolse la sua e vide solo il fiore sulla sua mano ebbe paura anche a stringerlo.

- Non ho potuto nascondere un mazzo intero - Bisbigliò ancora.

- No, è perfetto così. Grazie Rick. 

- Prego Kate.

A nessuno dei due sfuggì l’essersi chiamati per nome. 

- Lo riporto via, prima che se ne accorgano e mi caccino in malo modo! - Le disse provando a prendere il fiore, ma Beckett chiuse la mano in un gesto deciso e delicato allo stesso tempo.

- No, mi farebbe piacere tenerlo. Non dirò che sei stato tu! - Bisbigliò anche lei facendogli l’occhiolino.

- Va bene. Ma se dicono che sono stato io tu nega sempre! - Rispose con lo stesso tono e fu felice di vederla finalmente sorridere, mentre lui si rilassava su quella sedia che doveva essere decisamente scomoda.

- Ti salutano Alexis e mia madre. Ed anche Esposito, Ryan e Lanie. - Elencava tutti Castle cercando un argomento neutro del quale parlare, perché tutte le domande che aveva da farle erano fuori luogo in quel momento.

- Glielo hai detto? - Chiese lei molto più spigliata di lui.

- A Esposito e Ryan c’ha pensato Josh, quando lo hanno portato via e poi loro lo hanno detto a Lanie.

- Fantastico! - Esclamò Kate sarcastica

- A Martha e ad Alexis l’ho detto io ieri sera. Ho sbagliato? - Chiese accorgendosi solo in quel momento di averlo fatto senza nemmeno essersi consultato con lei.

- No, no… non ti preoccupare. Hai fatto bene. È giusto. - Lo rassicurò.

- Sono felici, veramente. Un po’ sorprese ma felici. - Beh, forse felici era un tantino troppo, ma non voleva turbarla con le preoccupazioni della sua famiglia.

- Sicuro Castle? - Chiese lei poco convinta.

- Sì, certo. È una cosa inaspettata, però l’hanno presa bene. - Insistette.

- E tu? - Gli chiese diventata subito seria.

- Io cosa?

- Tu sei sicuro di esserne felice?

- Sì che lo sono. Certo che sono felice. Hai avuto qualche ripensamento Kate? Io… non voglio farti nessuna pressione, di nessun tipo. Sono felice Kate, ma… l’ultima parola spetta sempre a te. - C’era tutta la preoccupazione per quel pensiero che si era rifiutato di prendere in considerazione fin dall’inizio. Aveva forse cambiato idea?

- Nessun ripensamento, Rick. Stai tranquillo. Nessun ripensamento. Sono felice anche io.

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Capitolo 8
*** OTTO ***


Il dottor Hale era stato di parola, i parametri di Kate erano continuati a migliorare in modo costante e nelle successive 48 ore non aveva avuto altre crisi, per questo quella mattina, se avesse superato anche l’ultimo controllo, avrebbe disposto il suo trasferimento in un altro reparto. Rimase in ansia per tutto il tempo della visita e non era tanto il dolore della medicazione o del controllo, era la paura che qualcosa non andasse. C’erano troppi medici intorno a lei. Troppi e troppo silenziosi. Insieme al dottor Hale c’era anche il dottor McLeay, il ginecologo con il quale aveva avuto modo di conoscere in quei giorni e che stava seguendo la sua situazione. Kate aveva auto molte domande da fargli, quando non c’era Castle o suo padre nessuno poteva andarla a trovare ed aveva avuto tanto tempo per pensare a tutte le cose che le sarebbero capitate a come la sua vita sarebbe cambiata e si scoprì totalmente impreparata ad una cosa che non aveva mai né pensato né programmato. Il dottor McLeay le disse più volte che avrebbe avuto tutto il tempo per prepararsi, che quei mesi le sarebbero serviti proprio per questo e che nessuna donna è mai preparata, nemmeno quelle che sono anni che aspettano solo quel momento. Questo non riuscì a farla stare meglio, ma aveva apprezzato di poter parlare con qualcuno che almeno le aveva dato delle indicazioni pratiche su quello che le sarebbe accaduto ed anche sulle problematiche collegate alla sua situazione: tutto sarebbe stato più difficile ed avrebbe dovuto prestare la massima attenzione, almeno nei mesi successivi che sarebbero stati i più delicati e controllarsi rigorosamente per tutto il tempo della gravidanza. Ma fu grata soprattutto di poterne parlare con qualcuno che non fosse emotivamente non coinvolto. 

Era difficile parlarne con Castle. Lo era per lei tanto quanto lo era per lui. Percepiva il reciproco imbarazzo ogni volta che si trovavano a dover accennare il discorso, lasciando il più non detto. Si capivano nelle loro frasi accennate, sapevano cosa stavano provando entrambi, ma le parole erano difficili da trovare, perché le parole rendevano tutto più concreto, più difficile, e loro avevano sempre parlato poco, anzi niente. Avevano sempre lasciato andare, fatto finta di nulla per tutto quello che li aveva riguardati, ma questa era una cosa che non poteva essere trattata allo stesso modo. Anche nella sua mente ancora faceva fatica a realizzare l’idea che “questa cosa” non era una cosa, era loro figlio. Non poteva negare a se stessa che più di una volta aveva pensato a Castle come qualcosa di più del suo partner di lavoro, ma mai aveva provato a mettersi nei panni della madre di suo figlio e solo il pensiero la stordiva, anzi lo faceva anche solo il pensiero della parola “madre” legato a stessa. Pensava che forse avrebbe dovuto convincersi che era tutto uno sbaglio, che quella notte era uno sbaglio, ma non ci riusciva. Forse se se lo sarebbe ripetuta all’infinito avrebbe potuto crederci, ma la realtà era che non lo pensava. Non c’era nulla di sbagliato in quella notte, non era stato sbagliato quel bacio contro la porta della sua camera, né tutti gli altri che ne erano venuti dopo. Non era sbagliato il corpo di Rick sul suo, le sue mani sulla sua pelle. Non era stato sbagliato nulla, tranne il risvegliarsi sola che aveva frantumato tutto. Ma soprattutto, adesso, non riusciva nemmeno a dire che era un errore quello che quella notte aveva portato e non sapeva perché, ma quel bambino non era un errore, era il suo bambino.

- Katherine, si calmi, va tutto bene. Non si agiti. - Il dottor Hale aveva rotto il silenzio dei medici appena aveva visto che le sue pulsazioni di Beckett erano aumentate all’improvviso e si sentì in imbarazzo, perché sapeva benissimo che quello che le aveva fatte aumentare non erano che i ricordi di quella sera. - Procede tutto secondo la tabella di marcia, anche meglio del previsto. Lei è molto forte, Katherine.

- Il bambino? - Chiese come se tutti i discorsi su di lei fossero marginali.

- Per ora è tutto nella norma, considerando la situazione. - Intervenne il dottor McLeay. - Mi raccomando solo, anche quando sarà trasferita, rimanga a letto il più possibile, eviti di alzarsi, almeno per la prossima settimana.

- C’è qualche problema? - Si allarmò

- No, ma per precauzione vista la sua condizione, è meglio se rimane a riposo ed evita ogni tipo di movimento brusco, ma so che nel suo stato sarà comunque così.

- Certo dottore, non si preoccupi.

 

Vedere finalmente persone senza quell’orrendo camice e quella mascherina che copriva il volto fu una gran sollievo soprattutto a livello mentale. Non aveva nulla con se in quella stanza, chiese solo di prendere quel bocciolo di rosa che teneva vicino al letto, lì dove lo aveva nascosto Rick, tra due macchinari, per non farlo vedere a nessuno tranne che a lei. Si beccò il rimprovero dell’infermiera di turno che la pregò di essere più rispettosa del regolamento che, se c’era, era per un motivo preciso non per un loro vezzo. Subì la predica senza prestare troppa attenzione mentre sul lettino teneva tra le mani il fiore bianco.

La portarono in una stanza abbastanza grande ed anche lì era sola. Notò che vicino al letto non c’era solo una scomoda sedia, ma una poltroncina che sembrava decisamente più confortevole, insieme ad altre due sedute più lontano vicino alla finestra e ad un tavolino. C’era una tv sulla parete davanti al letto e ed era molto più luminosa.

L’aiutarono a distendersi sul nuovo letto e non sapeva se era solo per l’ambiente nettamente più accogliente ma le parve di sentirsi meglio, anche se come aveva fatto qualche movimento in più, aveva sentito chiari i suoi muscoli indolenziti ed una serie di dolori più forti al petto e alle braccia.

Appena sdraiata le misero di nuovo alcuni aghi alle braccia collegati a delle flebo che pendevano da sopra il letto e un qualcosa al braccio che la monitorava con un macchinario lì vicino. Si sentiva sempre incatenata lì, ma tanto non sarebbe dovuta andare da nessuna parte. Almeno non aveva più quelle altre cose sul volto. 

La prima visita che ricevette fu di una simpatica infermiera di mezza età, Hollie che aveva controllato che tutto fosse nella norma. A Kate non passò inosservato quel gesto materno che le aveva riservato, accarezzandole la fronte e spostandole i capelli. 

- Sei fortunata, è una bella stanza questa. La migliore. Il tuo fidanzato ha insistito molto perché avessi questa. Sono ore che sta torturando tutto il reparto. - Sorrise la donna mentre controllava le sacche ed il resto.

- Il mio cosa? Josh? Cioè, il dottor Davidson? - Chiese Kate perplessa.

- Oh no… Non lui… - Rise allegramente la Holly - Lui! 

Indicò la porta dalla quale era appena entrato Castle intimidito più che dall’infermiera che lo indicava dallo sguardo inquisitore di Beckett.

- Ah lui. No, lui non è il mio fidanzato. - Rispose decisa.

- No, io non sono il fidanzato, però sono il padre. Cioè, non il padre di lei, non sono così vecchio, non che suo padre sia vecchio… Sono il padre del bambino. - Disse dopo essere uscito da quel ginepraio di parole indicando la pancia di Kate.

- Sì sì… come volete voi. Vi lascio soli, così potrete chiarire cosa siete! - Holly uscì ancora ridendo ed era l’unica che lo stava facendo tra i tre.

- Castle, cos’è questa storia che vai a dire in giro che sei il mio fidanzato e a chiedere in quale stanza mi devono mettere? - Gli chiese come se lo stesse interrogando e lui in effetti si stava sentendo proprio così.

- No, no aspetta! Io non ho detto a nessuno che sono il tuo fidanzato! Non proprio almeno.

- Spiegati Castle. Ora!

- Ecco, posso? - Disse indicando la poltrona e sedendosi prima che lei gli rispondesse - Ieri sera ho chiamato la mia assicurazione, sai è un’assicurazione molto importante, sono un cliente particolare da vari e anni e…

- Castle, lo so che tu sei particolare, vieni al punto, rapidamente.

- Vedi, Beckett, dato che tu sei incinta di mio figlio, la mia assicurazione copre anche te. Ecco, sono stato sintetico, visto? - Disse soddisfatto di se stesso.

- Cosa? Che stai dicendo Castle?

- Volevi che fossi sintetico, lo sono stato. La mia assicurazione copre anche i miei eredi. Essendo un mio piccolo erede dentro di te, copre anche te. - Quel suo comportamento lo irritava, così come quella cosa stupida che stava facendo con il pollice e l’indice ad indicare che era piccolo. Avrebbe voluto avere la forza di picchiarlo o almeno la sua pistola. Se lo prendeva di striscio avrebbero potuto salvare anche lui, ma almeno sapeva come ci si sentiva.

- Castle, il fatto che sono incinta di tuo figlio non ti da il diritto di decidere della mia vita, mettiamo subito in chiaro questa cosa. - Lo ammonì e lui tornò subito serio, togliendosi quel sorriso da schiaffi dal volto e le parlò con tono diverso.

- Non voglio decidere della tua vita. Voglio solo che tutto per te sia il più facile possibile. Recuperare in una stanza da sola e non con altre tre o quattro persone intorno pensavo che fosse meglio, per te dico. Avrei dovuto chiedertelo prima, ma me lo hai detto solo ieri che forse ti trasferivano, ho fatto una serie di telefonate, poi sono venuto qui, ti stavano visitando, non mi hanno fatto entrare e poi…

- Ok, Castle, basta. Scusami. È stato un pensiero gentile. Grazie. - Gli disse prendendogli la mano per farlo tacere. Non era abituata che qualcuno si occupasse delle cose al posto suo, era una che se la cavava sempre da sola.

- Mi dispiace se hai pensato che volessi decidere per te. Io… non voglio che pensi questo. Voglio solo il meglio per te, per voi.

Tornò di nuovo l’imbarazzo tra loro e gli sguardi che si evitavano accuratamente. Poi Rick nel rialzarlo vide il bocciolo di rosa sul comodino.

- Lo hai tenuto. - Disse prendendolo. Era quasi appassito ormai. - Se ti è piaciuto domani te ne porterò un mazzo, lo potrei mettere lì, su quel tavolo in fondo, che ne dici?

Castle si era già fatto di nuovo prendere dall’entusiasmo e dalla voglia di strafare.

- No, non voglio nessun mazzo, mi piace quello. - Fu lei a fare la stessa cosa che aveva fatto lui il giorno che glielo aveva portato, coprire con la sua mano, il palmo di Rick che lo teneva e sembrava ancora più piccolo nella mano grande di lui. Castle riuscì a dire solo un “Oh” appena accennato, mentre si fissavano negli occhi e Kate annuiva, convinta che come al solito, si erano capiti.

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Capitolo 9
*** NOVE ***


Beckett osservò il sorriso timido di Castle sulle loro mani e come muoveva la mandibola impercettibilmente. Prese la rosa dalla sua mano e la portò al suo volto per la prima volta. Profumava ancora, anche se impercettibilmente, ma la cosa che la colpì è che più di ogni altra cosa aveva il profumo di Castle. Ricordava bene il profumo della sua pelle, quando si era stretta al suo corpo e lo aveva respirato facendo affondare il viso nell’incavo del suo collo: se chiudeva gli occhi poteva sentire ancora sulla sua pelle la sensazione delle sue braccia che la avvolgevano forti. Basta, doveva smettere di ripensare sempre a quella notte. Come se fosse stato facile. Come se tutta la sua vita non fosse cambiata dopo quella notte. Come se non ci sarebbe stato sempre qualcosa a farle ricordare di quella notte.

- Sei stanca? - Sentì la voce di Rick preoccupata ed aprì gli occhi. Nemmeno si era accorta che ora era lui che la stava fissando.

- No, stavo solo pensando. - Disse sincera.

- Certo, capisco. Capita anche a me di pensare. In questi giorni, intendo. Cioè, in realtà penso sempre, però in questi giorni penso un po’ di più a quello che pensi anche tu. - Beckett sorrise. Le faceva tenerezza vederlo così titubante per ogni cosa che diceva, come se avesse sempre paura di dire la cosa sbagliata. - Stavi pensando a…

Rise per come per la seconda volta in poco tempo aveva indicato timidamente con il dito la sua pancia.

- Sì, Castle 

- Bene. Come ti senti? - Si sentì stupido un attimo dopo averglielo chiesto. Mancava solo che conversassero sul tempo e poi le frasi fatte erano finite.

- Non lo so. Ancora è tutto strano. - Ammise sinceramente.

- Anche per me, certo non come per te, non volevo fare paragoni. Solo dire che anche per me è strano, sì strano. - Si ritrovò a balbettare ancora. Non riusciva a dire una frase che fosse minimamente intelligente o almeno che sembrasse normale.

- Castle, rilassati o farai agitare anche me, ok? - Rick annuì. Poteva farcela.

- Mi ha detto il dottore Hale che stai migliorando, non gli ho chiesto niente, non mi sono impicciato, me l’ha detto lui. - Precisò. No, non riusciva a rilassarsi.

- Pensi che continuerai così ancora per molto? - Gli chiese quasi divertita.

- Così come?

- Spiegando il senso di tutto quello che dici, scusandoti per ogni frase per non essere frainteso. Non è necessario. 

- Non è necessario… - Ripeté lui pensandoci su.

- No, non lo è. Non è cambiato nulla tra di noi, tra me e te, dico. Possiamo continuare come abbiamo sempre fatto, no?

- Sì, certo. Come sempre. - Si limitava a ripetere le parole di Beckett.

- Quella notte è stata… 

- … Un errore, capisco. - Finì Castle la sua frase guardando mestamente a terra

- No! Non è stato un errore. - Lo corresse con fin troppo vigore e i loro occhi si incrociarono, fissandosi per un lasso di tempo troppo lungo in cui nessuno dei due riuscì a dire nulla - È stata… un episodio.

Avrebbe voluto dirgli altro, spiegargli come l’unico errore lo aveva fatto lui, alzandosi dal suo letto ed andarsene, ma non voleva sembrare patetica, non in quel momento, non quando poteva sembrare che lei volesse di più per altri motivi.

- Siamo due persone adulte, Castle. Spero che riusciremo a far conciliare le nostre vite con tutto questo, senza altre implicazioni. - Gli disse cercando di essere il più distaccata possibile.

- Certo, ci organizzeremo. - Se lei voleva questo, non poteva certo chiedergli altro. Come poteva ora dirgli che lui tutto quello che voleva era avere tutte le implicazioni del mondo con lei? Che l’unico modo in cui voleva che le loro vite si conciliassero era insieme? Beckett era stata chiara e lui doveva rispettare la sua decisione.

- A proposito, mi fa piacere la tua compagnia ma non voglio occupare troppo del tuo tempo. Se hai altro da fare, altre persone da vedere, vai pure. - Avrebbe voluto aggiungere attrici o modelle con cui uscire, ma sarebbe diventata troppo acida e inopportuna. Si sarebbe aspettata che, nella sua strana accondiscendenza di quei giorni, lui si sarebbe alzato e se ne sarebbe andato, salutandola come un amico cortese, ma non lo fece.

- Se non ti fosse accaduto nulla, avrei trascorso ugualmente tutto questo tempo con te. 

- Non devi sentirti in dovere, Castle. - Insistette Kate.

- Non mi sento in dovere, per nessun motivo. Ti sarei stato vicino in ogni caso, Beckett. È questo che fanno i partner. Non ti lasciano quando hai bisogno di loro.

Kate respirò più profondamente senza pensare al dolore che questo semplice gesto le causava, ma Rick se ne accorse dalla sua espressione contratta e gli occhi chiusi tenuti troppo stretti e quando li riaprì lo trovò troppo vicino a lei, le aveva preso la mano e le accarezzava la fronte il tutto nel tempo di un respiro. Gli occhi azzurri di Castle erano una calamita che la impauriva.

- Stai bene Kate? Va tutto bene? - Le parlava con l’urgenza di essere rassicurato, non sapendo che vederlo così era la cosa che la turbava di più. Annuì con testa e Rick sembrò rilassarsi. 

- Sarà meglio che ti lasci riposare un po’ adesso. - Kate annuì ancora anche se non avrebbe voluto che se ne andasse e quando sentì le sue labbra poggiarsi sulla fronte in un contatto fin troppo prolungato avrebbe voluto chiedergli di rimanere lì con lei.

- Rick… - Lo richiamò prima che uscisse - Grazie per esserci.

- Ci sarò sempre, Kate. - Le sorrise e si chiuse la porta alle spalle.

 

- Come sta, Richard? - Castle aveva appena fatto in tempo a riprendere fiato che si era trovato Jim davanti.

- Salve Jim. Il suo medico ha detto che sta migliorando. - Disse all’uomo che lo fissava con gli occhi indagatori.

- Ho parlato anche io con il dottore Hale, volevo sapere cosa ne pensavi tu. Ti va di prendere un caffè?

Non si fermarono alle macchinette della piccola area ristoro come Rick aveva immaginato, ma andarono alla caffetteria al primo piano. 

Jim lo aveva invitato a prendere posto in un tavolo quasi nascosto in un angolino, vicino ad una porta di servizio. Sorrise pensando che probabilmente anche Kate avrebbe scelto lo stesso, isolato, più di ogni altro. Tornò con due tazze di caffè scuro e forte, ne aveva decisamente bisogno.

- Quello del distributore è imbevibile, l’ho provato l’altra notte, terribile - disse il padre di Kate e fece sorridere Castle che capiva da chi la figlia avesse preso la passione per il caffè. - Questo non è il massimo, ma è decente.

Sorseggiarono entrambi in silenzio per qualche minuto.

- Allora, Richard, come sta Katie?

- Mi ha detto che si sente strana e onestamente Jim, anche io mi sento così. - Rick faceva girare la tazza di carta tra le mani incurante del fatto che scottava. - Non era una cosa che avevamo preso in considerazione, ovviamente.

- Non voglio intromettermi in quello che c’è stato tra voi, è una cosa che dovrete risolvere voi. Vorrei solo sapere, secondo te, come sta mia figlia.

- Non lo so, veramente, Jim. Mi sembra confusa e la capisco.

- Certo. Ti ha chiesto nulla del suo ferimento? - Chiese ancora l’uomo.

- No. Solo cosa era successo. Non si ricorda nulla. - Ammise malinconicamente Rick.

- Ho parlato con i suoi colleghi. Mi hanno detto che non sanno nulla di chi sia stato. L’uomo che ha provato ad uccidere mia figlia è sempre in giro…

- Preoccupa anche me questa cosa, Jim. E non perché Kate è incinta di mio figlio. Lo sarei comunque, per lei.

- Lo so, Richard. Devo dire che hai trovato un modo singolare per farle capire che la sua vita è più importante dell’omicidio di sua madre. - Provò ad abbozzare un sorriso e Castle si sentì decisamente imbarazzato. 

- Dovrebbe capirlo a prescindere di quello che sta vivendo che lei è importante per… per tante persone. - Rick finì il suo caffè in un gesto di stizza pensando a quanto quella donna fosse cocciuta e incurante dei pericoli che correva. Ripensò alla notte nell’hangar, a quando l’aveva portata via di peso e come cercava di tenerla al sicuro mentre lei piangeva e si dimenava. Temeva che non sarebbe mai riuscito a farglielo capire.

- Per te lo è, vero? - Gli chiese Jim senza troppi giri di parole.

- Lo è molto. Jim, sono padre anche io, so quello che stai pensando di me, io forse al tuo posto mi prenderei a pugni.

- Quello lo hanno già fatto. - Gli disse l’uomo con un mezzo sorriso.

- Già, sì, beh… me ne sarei dato qualche altro allora… Io non so cosa accadrà, però qualsiasi cosa sia, io non lascerò Kate da sola, potrà sempre contare su di me, per qualsiasi cosa. Io non ho mai conosciuto mio padre, come ti ho già detto, mio figlio non vivrà qualcosa di simile. Voglio esserci per lui.

- Non dovrei dirtelo, ma sono contento che sia tu, e non Josh, il padre del figlio di Kate. - Ammise Jim bevendo il caffè sotto lo sguardo imbambolato di Castle che sperava fortemente che anche lei pensasse la stessa cosa.

 

- Cosa ci fai tu qui? - Castle aveva preso per la spalla girando con forza Josh che stava per entrare in camera di Kate

- Sto andando a fare visita ad una paziente dell’ospedale. Sono un medico, ricordi? - Gli disse sbeffeggiandolo indicandogli la targhetta sul suo camice.

- Non è una tua paziente. - Ringhiò Rick mettendosi tra lui e la porta.

- Non sei tu che lo stabilisci, Castle, quindi adesso togliti di mezzo prima che chiami la sicurezza e ti faccia portare via. - Lo sfidò provando a spostarlo ma Rick bloccò il suo polso guardandolo furioso.

- Tu non andrai da Kate. - Gli intimò scandendo bene ogni parola.

- E chi me lo impedisce? Tu scrittore? Non ti è bastata la lezione dell’altro giorno? - Gli rise in faccia toccandogli il segno sul volto ancora incerottato. Castle gli prese il polso tirandolo via.

- Sì, dottor Davidson. Te lo impedisco io. L’ultima volta che hai visto Kate le hai fatto venire una crisi e l’hanno dovuta sedare per non farla aggravare. Non la vedrai più, hai la mia parola. - Il volto contratto di rabbia di Rick aumentava sempre più man mano che il sorriso beffardo di Josh lo provocava.

- Pensi di farmi paura, Castle? - Lo sfidò ancora.

- Ora basta Josh! - Intervenne anche Jim tra i due. - Non credo che tu e Katie abbiate più nulla da dirvi e sono sicuro che c’è un altro medico che la può seguire al posto tuo. 

Il dottore si voltò a guardare l’uomo che era molto più piccolo di lui, ma lo guardava con una fermezza granitica. Josh si allontanò da Castle continuando a guardarlo.

- Tu non sei nessuno per lei Castle, ricordatelo. Te la sei solo portata a letto una volta, come una delle tante, come fai sempre. Ti è solo andata male che è rimasta incinta. - Gli urlò mentre si allontanava. Rick gli stava andando incontro ma Jim lo fermò.

- Non ne vale la pena, Richard, lascialo stare. - L’uomo aveva appoggiato una mano sul suo petto e gli aveva dato delle piccole pacche per tranquillizzarlo. Non era servito a molto, ma Castle lo aveva assecondato.

Nessuno dei si era accorto che la porta della camera di Kate era aperta e lei dentro aveva sentito tutto.

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Capitolo 10
*** DIECI ***


Hollie passò davanti a Rick salutandolo con un sorriso per entrare da Kate e mettendo la mano sulla maniglia si rese conto che la porta era aperta.

- Mi raccomando, chiudete sempre la porta quando uscite. - Redarguì bonariamente i due uomini l’infermiera che a passo svelto entrò in camera di Kate.

- Forse è meglio se prima che vai a casa, entri a parlarle. - Disse Jim a Castle. Lo scrittore annuì aspettando che la donna uscisse.

- Posso? - Chiese ad Hollie prima che richiudesse la porta di camera.

- Sì, è sveglia… Però mi raccomando eh! - Lo ammonì la donna.

- Non si preoccupi. - La tranquillizzò Rick affascinandola con uno dei suoi sorrisi smaglianti al quale rispose con uno molto lusingato.

 

Kate stava guardando verso la finestra quando Rick entrò chiudendosi rumorosamente la porta alle spalle. Non aveva bisogno di guardarlo per sapere che era lui, riconobbe il suo passo ed il suo profumo.

- Qual è il tuo obiettivo, Castle, fare in modo di farti spaccare anche l’altra metà della faccia? - Gli chiese Beckett senza guardarlo.

- Se serve per evitare che Josh venga a farti agitare sì.

- So difendermi da sola. E non sei tu che devi risolvere i problemi tra me e i mei ex. - Gli parlava senza mai guardarlo.

- Non voglio risolvere i tuoi problemi. Voglio solo che non hai motivi per agitarti più di quanto non fai da sola. - Rick sbuffò affranto. - Non sono qui per discutere con te, nemmeno per infastidirti o mettermi in mezzo nelle tue cose. Scusami se lo hai pensato, scusami se ti è sembrato che l’ho fatto.

- Mi aiuti a tirarmi un po’ su? - Gli chiese voltandosi a guardarlo, prendendolo in contropiede convinto che gli avrebbe chiesto di andarsene, o che lo avrebbe aggredito ancora.

Rick si avvicinò a lei, non sapendo bene cosa fare, non sapeva come prenderla, aveva paura di farle male. Aspettò che fu lei ad aggrapparsi a lui, che poi la sorresse prendendola sotto le braccia e in quel momento la sentì appoggiarsi con la testa sulla sua spalla.

- Grazie Castle. - Gli disse Kate con la voce rotta dall’emozione mentre delicatamente la aiutava ad appoggiarsi sui cuscini e non lasciò la presa su di lui, obbligandolo a rimanerle vicino qualche istante in più.

- Sono qui Kate. Non ti lascio sola. - Le sussurrò lui senza staccarsi da lei.

- Ho paura. - Gli confessò appena che lui si fu seduto vicino a lei.

- Lo so. Anche io. Ho paura di tante cose Beckett e tra le tante anche che Josh venga qui e ti faccia star male. Scusami.

- Non so se sono pronta per tutto quello che verrà, Castle. - Gli strinse la mano guardandolo con gli occhi lucidi.

- Certo che lo sarai e non sarai sola. Non sarai mai più sola Kate. - Sentì la sua stretta farsi più forte e lasciò che lo stringesse quanto voleva.

 

 

Più passavano i giorni, più Kate si sentiva meglio, più faticava a dover rimanere a letto. Era grata, soprattutto, per quei farmaci che le davano per evitare quelle fastidiose nausee mattutine che aveva cominciato ad avere, che sopportava meno dei dolori al petto, che non accennavano a diminuire.

Quando non c’erano né Castle né Jim era Hollie a passare spesso del tempo con Kate approfittando dei momenti in cui doveva controllare le sue terapie o aiutarla, si fermava un po’ a parlare con lei. Le aveva raccontato che aveva una figlia, più o meno della sua età, che viveva sulla costa occidentale da molti anni ormai e che vedeva troppo poco per quanto avrebbe voluto. Hollie aveva visto sempre solo Jim occuparsi di Kate, oltre Castle, e non si era mai permessa di domandarle di sua madre, riversava, però su di lei il suo istinto materno, passando a controllare che stesse bene più del dovuto e lasciandole qualche parola di conforto quando la vedeva particolarmente giù e capitava spesso. Si era accorta di come cercava di far vedere che andava tutto bene quando arrivavano i suoi uomini, come li chiamava lei, a farle visita. 

- Mi scusi, si trova qui Katherine Beckett? - Hollie aveva incontrato Lanie che era andata per la prima volta a trovare Kate dopo aver a lungo combattuto al telefono per convincerla.

- Sì, è qui. - Le aprì la porta lasciandola entrare.

- Ciao tesoro! - La dottoressa si precipitò dalla sua amica, abbracciandola con fin troppo vigore - Non sai quanto mi hai fatto spaventare!

- Mi dispiace Lanie. Credimi, lo avrei evitato molto volentieri. - Kate abbozzò un sorriso tirato.

- Oh ti credo, soprattutto adesso! Dio mio Katherine Beckett! Sai che mi devi un sacco di soldi? - La bacchettò ridendo la dottoressa mentre Kate la guardava perplessa - Tu e Castle!

- Lanie per favore…

- No, no Kate! Tu e Castle! E non mi dici nulla? A me? La tua migliore amica! Io che te l’ho sempre detto che voi avreste fatto faville!

- Lanie…

- Certo, non immaginavo faville fino a questo punto!

- Lanie… - si spazientì Kate - … basta!

- Sei felice? - Le chiese poi addolcendosi.

- Non lo so. Non era certo quello che volevo, quello a cui pensavo… Però mi sto abituando all’idea, più o meno. - Sorrise

- Da quanto lo sai?

- Dalla mattina del funerale di Roy. Sai i controlli annuali della polizia? Lo hanno scoperto lì. Mi hanno chiamato perché c’era qualcosa che non andava nelle mie analisi. Ho pensato il peggio, sai? Quando mi hanno detto che ero incinta non sapevo se essere felice o disperata. Non ho avuto nemmeno il tempo di capire cosa mi stava succedendo che mi sono svegliata in ospedale.

- Però Castle ha detto che quando ti hanno ferito la prima cosa che gli hai detto è stata del bambino, anche se per come era sconvolto per te, non ha capito proprio che gli stavi dicendo che il bambino era il suo.

- Non ricordo nulla di quel momento. - Ammise sconsolata.

- Non ho mai visto Castle così. Era in completo stato di shock. Non voleva lasciarti lo hanno dovuto spostare di peso i medici per portarti via. - Quel racconto mise a disagio Kate, non voleva immaginare Castle in quello stato per lei. Loro erano solo amici che si erano lasciati andare ad una notte di passione. Solo quello. Se lo ripeteva ogni volta che la sua mente andava oltre.

- Si sarà spaventato perché potevano prendere anche lui. - Tagliò corto Kate.

- Se fosse rimasto fermo ed avesse evitato di farti scudo con il suo corpo non gli sarebbe accaduto nulla. Scusami la franchezza, Kate, ma miravano a te.

- Lo so. - Tremò appena nell’ammetterlo.

- E non hai paura? Io sarei terrorizzata al suo posto. - Affermò Lanie con il volto teso, sinceramente spaventato per le sorti della sua amica.

- Non ho avuto tempo per aver paura anche di questo negli ultimi giorni. Ho avuto paura di non sopravvivere, che il bambino non superasse le mie crisi, ho paura di quello che sarà il mio futuro, di come la mia vita dovrà cambiare. Ho troppe cose di cui aver paura, per pensare anche che c’è in giro qualcuno che mi vuole uccidere e che potrebbe provarci di nuovo. - Non riuscì a trattenere le lacrime che per troppo tempo aveva tenuto dentro. Lanie si sedette sul letto vicino a lei e l’abbracciò, lasciando che Kate si sfogasse.

- I ragazzi stanno facendo il possibile, lo sai vero? - Provò a rassicurarla accarezzandole i capelli.

- Lo so… - disse tra le lacrime. Non le chiese più nulla fino a quando non fu sicura che si fosse calmata. Controllò lei stessa i parametri sul monitor vicino e vide che erano rimasti sempre nella norma. Lasciò che si tranquillizzasse continuando ad accarezzarla dolcemente. Non era facile vedere Beckett in quello stato, anzi era la prima volta che le capitava e non era una cosa alla quale poteva dirsi preparata.

- Vedrai che andrà tutto bene Kate. - Provò a rincuorarla.

- Lo dice sempre anche Castle.

- Dovrei considerarlo un complimento o un offesa dire la stessa cosa che dice il tuo scrittore?

- Lanie, non è il mio scrittore! - Puntualizzò Kate tirandosi su e lasciando che Lanie tornasse a sedere sulla poltroncina.

- Beh, almeno per una notte deve esserlo stato a giudicare dai risultati! - La voce della dottoressa era tornata squillante e aveva ripreso a punzecchiarla.

- Solo una notte. - Precisò Kate

- Da come lo dici sembra quasi che ti dispiace! - Rise Lanie che smise subito fulminata dallo sguardo dell’amica. - Con lui invece come va? 

- Mi sto abituando anche all’idea che lui sia il padre.

- Solo questo? Tra di voi non c’è nulla?

- No, Lanie. Non c’è niente. Non c’è mai stato niente se non una notte di sesso durante la quale evidentemente siamo stati poco attenti. - Spiegò non sapeva se a lei o a se stessa.

- Per essere così distratta evidentemente ti aveva preso molto. - La stuzzicò ancora, per niente intimorita, adesso, dallo sguardo di Kate che sembrava supplicarla di smettere. - Andiamo Kate! Non vorrai mica venirmi a dire che avresti preferito che il padre fosse Josh? Non ti è mai fregato nulla di lui!

- Perché, di Castle, invece mi interessa qualcosa, pensi? - Chiese all’amica pentendosi subito dopo di averlo fatto.

- Qualcosa? Me lo stai chiedendo veramente? Comunque non mi hai risposto. Avresti preferito che fosse Josh? Uno che mentre ancora stavi lottando e non si sapeva se avresti superato l’operazione dopo essere stato pochi minuti con te se n’è andato perché cominciava il suo turno dicendo che gli altri avevano bisogno di lui? Avresti preferito essere incinta di uno così? 

- Veramente? - Chiese nervosa ma non aveva bisogno che glielo confermasse, quello era tipico di Josh, metterla sempre dopo il suo lavoro e dopo il bene del resto del mondo. 

- Non ci credi? Certo che è così. E non solo, ha anche mandato via Castle in malo modo, perché non voleva che rimanesse lì, con noi. Perché la sua presenza per lui non era gradita e pensa quanto è stupido, lui se n’è anche andato per rispettare il dolore di Josh, perché lo credeva sconvolto per te e per vostro figlio. E Josh dopo poco ti ha lasciato sola ed è andato a lavorare. Se avessi potuto lo avrei preso a pugni.

- Ma in questi giorni siete tutti smaniosi di fare a pugni? - Sbuffò Beckett

- L’unico che lo ha fatto veramente è stato il tuo ex fidanzato. Credo che Castle quei segni li porterà a lungo. - Quella rivelazione la mise a disagio, più di quanto sembrava essere lui, che le aveva sempre detto che erano graffi di poco conto.

- Perché ci tieni tanto a difendere Castle? Sembri una del suo fan club! - Chiese ironica Kate

- Non ci sono tante persone che si preoccupano per qualcuno come Castle ha fatto per te. E non ti parlo di quando ha saputo che eri incinta di suo figlio, ma di prima. Per lui non faceva alcuna differenza, perché era preoccupato per te. 

- È mio amico, per questo era preoccupato per me! - Esclamò Beckett.

- Con quanti amici sei andata a letto in vita tua Kate? Tu non sei come me, lo dici sempre, non puoi rimangiartelo adesso!

- Beh, in ogni caso è stata solo una notte di sesso tra di noi, come a lui saranno capitate chissà quante dopo, con le sue varie attrici o modelle o non so cosa. - Disse stizzita

- È gelosia quella che sento Detective Beckett? - Disse con un gran sorriso Lanie

- No! È un dato di fatto! Se fosse stato qualcosa di diverso anche per lui non se ne sarebbe andato nel bel mezzo della notte lasciandomi sola. - Non si era nemmeno accorta di aver spiattellato tutto alla sua amica che la guardava soddisfatta di se stessa per averla portata al punto della questione.

- Anche per lui eh? Quindi per te lo è stato. 

- Non è questo il punto.

- Oh, sì che lo è, invece! È proprio questo il punto! Gli hai chiesto perché lo ha fatto? O dai per scontato che lo ha fatto perché non gli interessavi?

- Per quale altro motivo uno può fare una cosa del genere? - Chiese Kate esasperata

- È un uomo tesoro! Ti pare che gli uomini quando ci sono di mezzo i sentimenti fanno cose comprensibili e logiche? - Lanie la parlava come se stesse spiegando gli uomini ad una ragazzina alle prime armi.

- In ogni caso lui ha detto che quella sera è stata un errore. - Kate provò a chiudere il quel discorso che stava prendendo una piega inaspettata.

- Ti ha detto così? Ma se mi hai detto che non ne avete parlato!

- Non ne abbiamo parlato prima, ne abbiamo parlato in questi giorni, e quando io stavo parlando di quella notte, lui ha pensato che io volessi dire che era stato un errore e lo ha detto lui. 

- Quindi non lo pensa lui. Lui pensa che tu lo pensi. - Lanie si stava divertendo tantissimo nel vedere Beckett così incasinata con i suoi sentimenti, nonostante tutta quella situazione, il fatto che erano in ospedale e che la sua amica avesse ancora una cicatrice fresca di un proiettile in petto.

- Più o meno sì, così…. - Disse a disagio mordicchiandosi un’unghia.

- Gli hai detto almeno che non pensi che sia stata un errore? - Chiese seria.

- Sì, gli ho detto che è stata un episodio. Credo… - Rispose guardandola preoccupata.

- Mio dio ragazza… sei proprio un disastro! - Le disse Lanie scuotendo la testa rassegnata.

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Capitolo 11
*** UNDICI ***


Kate aveva ripensato tante volte a quella chiacchierata con Lanie. Era tornata a trovarla altre volte nei giorni successivi, ma non avevano più ripreso il discorso di Castle e di quella notte. Non avevano più parlato, in realtà, di nulla che la riguardasse direttamente, avevano evitato ogni discorso sul suo ferimento, sul bambino, su Josh. Lanie aveva capito che la sua amica aveva bisogno di leggerezza, così quando andava lì, anche per delle brevi visite, gli raccontava di quello che accadeva al distretto, del capitano provvisorio che c’aveva provato con lei ed aveva fatto andare su tutte le furie Esposito, della sua relazione con Javier che continuava tra alti e bassi, ma si era quasi rassegnata che fosse una cosa senza possibilità di andare avanti. Chiacchieravano come facevano di solito, solo che invece che essere a casa di una o dell’altra con un bicchiere di vino, avevano un succo di frutta ed erano in ospedale.

La visita più inaspettata e che la mise più a disagio per Kate arrivò un pomeriggio quando la sua stanza fu invasa dall’armoniosa esuberanza di Martha. Rimase spiazzata dalla naturalezza e dalla totale assenza di imbarazzo di quei gesti che la donna compiva, così affettuosi e materni, nello spostarle i capelli dal volto o nel prenderle la mano. Ci ritrovava molto di Castle in quell’atteggiamento e notò che madre e figlio si somigliavano più di quanto non avesse mai fatto caso o di quanto loro volessero far vedere. La stupì quel discorso così franco che le aveva fatto senza mai lasciarle la mano. Si era stupita di come all’improvviso si era tolta i panni dell’attrice eccentrica e si era mostrata a lei solo come una donna ed era proprio così che le parlava, da donna a donna. 

- So cosa hai provato Kate. Quando sei sola e pensi che la tua vita vada in un certo senso e poi un estraneo, che non sa niente di te, ti dice sorridendo che ha una bella notizia da darti. E ti dice che aspetti un bambino e tu vorresti gridargli “Ma cosa c’è di bello e cosa c’è da ridere” mentre pensi alla tua vita che va a rotoli. E speri che si siano sbagliati ma sai che non è vero. Lo so, Kate perché l’ho vissuto. - La voce di Martha era enfatica come sempre, ma non c’era nulla di artefatto o di recitato, erano i suoi veri sentimenti quelli che le stava mostrando.

- È stato proprio così. - Sospirò Kate ripensando a quella mattina e alla sua voglia di sparare a quel medico così inizialmente cerimonioso che minimizzava il suo dramma.

- Lo so ragazza mia. Poi cominci a prendere confidenza con l’idea. Non ti vedi come madre, non ancora. Sai però che dentro di te c’è una nuova vita e cominci a farti tante domande e la più importante di tutte è se lo vuoi quello che sarà un bambino in futuro oppure no. - Martha sembrava che leggesse dentro ogni suo stato d’animo.

- Quando hai capito che lo volevi? - Le chiese Kate che si accorse di quanto aveva bisogno di parlare con qualcuno come Martha, qualcuno che non le faceva domande, ma le dava risposte.

- Quando ho pensato a lui come ad un bambino. Lo avevo già formato nella mia mente, anche se pensavo fosse femmina, ne ero convintissima sai? Avevo anche già deciso il nome e pensa, l’avrei chiamata Katherine. Era stato il mio primo ruolo importante quando mi hanno chiamato per fare La bisbetica domata di Shakespeare. Era stato il mio primo grande successo a Broadway e dopo quello mi avevano chiamato per altri ruoli importanti. Una simpatica coincidenza, non trovi. - Le sorrise accarezzandole la mano.

- Sì, decisamente una buffa coincidenza. Perché Richard? - Chiese curiosa

- Il Riccardo III, mia cara! Un altro mio grande successo. Non avevo molta fantasia e poi io mi ero preparata per una bambina.

- Tu senza fantasia Martha, non ci credo! - La lusingò Kate

- Non erano giorni facili, mia cara. Una donna sola, incinta… Le chiacchiere si susseguivano ed ovviamente appena che la gravidanza fu impossibile da nascondere, non c’era più lavoro, per me. I miei genitori mi avevano detto di non tornare a casa. Già non erano contenti del mio lavoro perché considerato poco serio, poi quando gli dissi che ero incinta, hanno preferito tagliare i ponti. Riuscii a tirare avanti con i soldi che avevo messo da parte, l’aiuto di qualche collega e amica e grazie al proprietario di un piccolo teatro che mi permise di lavorare al botteghino fino quasi alla fine della mia gravidanza e riprendere subito dopo.

- Qual è stato il momento più difficile?

- Prima della sua nascita ogni volta che pensavo al futuro, a come sarebbe stato, se sarei mai stata in grado di crescerlo, cosa gli avrei potuto dare. Dopo è stato peggio, i sensi di colpa ogni volta che mi chiedeva di suo padre ed io non potevo rispondergli, le sere passate ad aspettarmi in camerino mentre tutti i bambini della sua età erano già a letto e lui che dormiva se andava bene sul divano, quando era più piccolo, coperto da abiti di scena e mi dicevo che non ero una brava madre, che non facevo abbastanza per lui, ed ero sempre sospesa tra questo e l’incoraggiarmi dicendo che stavo facendo tutto per lui. So che gli sono mancate tante cose, però è venuto su bene, è un bravo ragazzo il mio Richard.

- Sì, lo è, Martha. Hai fatto un ottimo lavoro.

- Vedi Katherine, se ce l’ho fatta io, da sola, tanti anni fa, puoi farcela anche tu. Non sarai mai sola, mia cara. Richard non ti lascerà mai sola, perché sa cosa vuol dire. Poi hai tuo padre e anche me, se vorrai. Non ti dirò che non devi avere paura. Devi avere tutte le paure che senti, perché sono quelle che ti aiuteranno ad essere una brava madre, ma le devi vivere con la consapevolezza che tu sei più forte e che hai tante persone vicino che ti aiuteranno a combatterle.

- Grazie Martha. - In lei c’erta un misto di commozione e sollievo nell’ascoltare la madre di Castle.

- Non mi devi ringraziare e ti devi ricordare che non è tutto negativo, Katherine, anzi. Ci saranno dei momenti indimenticabili, quando lo sentirai la prima volta, quando lo vedrai, lì capirai che la tua vita è cambiata per sempre. Quando la notte finivo di lavorare e lo trovavo nel camerino addormentato mi fermavo a guardarlo, aveva lo stesso broncio di adesso quando dorme, sembra sempre un bambino. - L’attrice sorrise e vide negli occhi di Kate qualcosa che poteva assomigliare ad un velo di tristezza. Beckett pensò che lei non lo aveva mai visto dormire, non ne aveva avuto il tempo, lui era scappato via prima. Ed era proprio questo il problema di tutto. Martha fece una pausa, quasi ad accertarsi che Kate stesse bene, poi riprese il suo racconto.

- Oltre le paure ho passato giorni ad immaginare come sarebbe stato una volta che fosse nato o nata. Sai che gli avevo fatto delle orrende scarpine a mano, bianche, io le volevo fare rosa, ma la mia compagna di scena di allora mi disse che erano meglio bianche. Erano veramente brutte, però l’orgoglio che ho provato la prima volta che gliele ho messe, non te lo posso descrivere.

- Ti sei mai pentita?

- Di avergli messo quelle scarpe orrende? Forse avrei dovuto! - l’attrice rise di cuore, facendo ridere anche Beckett, poi tornò seria e riprese il suo racconto. - Ci sono stati dei momenti di sconforto, in cui ho pensato che non ce l’avrei fatta. Quando Richard era piccolo, piangeva e non sapevo come calmarlo, quando qualsiasi cosa facessi sembrava non fosse mai abbastanza, alcune volte avrei voluto urlare e scappare via, ma quegli occhioni azzurri… come puoi pentirti quando vedi quegli occhi?

Anche Kate pensò agli occhi di Castle, a come l’avevano guardata tutta quella notte, e nemmeno lei poteva pentirsi. Di nulla.

 

Dovette ammettere a se stessa che visita di Martha era stata una delle cose migliori che le erano capitate da quando era lì in ospedale. L’aveva aiutata ad avere una nuova consapevolezza e a non essere spaventata dalle sue stesse paure, non più di quando arbitrariamente considerasse normale. C’erano tante cose, pratiche e non, a cui avrebbe dovuto pensare, cose che si accavallavano nella sua mente una dopo l’altra senza darle tregua. Doveva capire cosa avrebbe fatto del suo lavoro una volta ripresa. Come le avevano detto anche il giorno che l’avevano chiamata, non era conciliabile il suo ruolo attivo sul campo con la sua condizione, era proprio questo il motivo per cui l’avevano avvisata. Avrebbe dovuto parlare con i suoi superiori per stabilire la nuova collocazione. Le era sembrato un problema insormontabile, come si permetteva quello che inizialmente aveva considerato come un “piccolo intruso” di allontanarla dal suo lavoro, dalla sua vita, lei aveva troppe cose da fare, doveva trovare chi aveva ucciso sua madre ed anche Roy. Forse era proprio questo il suo problema. Il lavoro era stato la sua vita, la ricerca dell’assassino di sua madre il suo unico scopo, ed il resto un contorno. Il piccolo intruso la stava obbligando a rivedere le sue priorità e si stupì di come la cosa fosse meno tragica di come avesse pensato inizialmente. Martha sarebbe stata disposta a rinunciare alla sua carriera di attrice per Rick e poi aveva trovato il modo e la forza di farcela e di riprendere in mano la sua vita e i suoi sogni con suo figlio. Ce l’avrebbe fatta anche lei.

La sua casa non era adatta ad un bambino, avrebbe dovuto pensare a dei lavori da fare, avrebbe dovuto chiedere a suo padre di ospitarla, o a Castle. Già, Castle. Il problema maggiore era che si stava imponendo di lasciarlo fuori da ogni suo pensiero perché sapeva esattamente lui com’era, se gli dava un piccolo spiraglio, lui entrava prepotentemente prendendosi tutto e lei non sapeva se sarebbe riuscita a gestirlo e mettergli un freno. Immaginava già, nei suoi slanci di megalomania, che se gli avesse detto una cosa simile, gli avrebbe proposto di trasferirsi direttamente da lui, in fondo aveva la stanza dove l’aveva già ospitata, o lo vedeva arrivare con rotoli di progetti per rivoluzionare la sua casa fatto da qualche suo amico architetto di fama mondiale o peggio ancora poteva anche arrivare a proporle di cambiare casa. Ecco cosa la impauriva di Castle, il suo essere totalizzante, la paura che l’avrebbe soffocata con le sue idee e le sue attenzioni, perché quando lui partiva con i suoi slanci per lei era difficile stargli dietro, lei aveva bisogno di riflettere, di ponderare le cose con calma, di non lasciarsi andare alle esagerazioni. Però Castle era il padre del suo bambino e sapeva che non sarebbe stato giusto escluderlo dalle sue scelte, impedirgli di adempiere al suo ruolo come, perchè avrebbe fatto soffrire sia lui in quel momento, che il bambino in seguito. Avrebbe solo dovuto mettergli dei limiti e dei paletti, che già sapeva che lui non avrebbe mai rispettato, ma doveva comunque provarci.

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Capitolo 12
*** DODICI ***


Il dottor McLeay passava ogni giorno a parlare con Kate, per sentire le sue impressioni, come si sentiva, se aveva dei fastidi o altro. Tutto sembrava procedere al meglio per il suo recupero, senza intoppi o rallentamenti e sarebbero passati presto alla seconda fase del recupero di Kate, quella più attiva e il dottor McLeay d’accordo con il dottor Hale, avevano stabilito che sarebbe cominciata dopo un controllo più accurato da parte del ginecologo, per assicurarsi che il bambino non avesse problemi o sofferenze.

- Domani le faremo un’ecografia di controllo. - Le disse McLeay prima di uscire - Se vuole può dirlo anche al padre, di solito gli fa piacere essere presenti.

Sapevano tutti quale era la sua situazione, ma avevano visto comunque che i suoi rapporti con Castle erano più che buoni, che lui si prendeva cura di lei molto più di tanti altri mariti e padri nella stessa situazione. Non era stato un giorno senza andare a trovare Kate, fermandosi sempre più del consentito, riempiendola di attenzioni e preoccupandosi di ogni aspetto del suo recupero. 

E Castle era lì anche quel pomeriggio, come sempre. Per farla felice era qualche pomeriggio che le portava una tazza di caffè, decaffeinato. Solo al pomeriggio, perché la mattina aveva difficoltà a tenere a freno le nausee, anche con i farmaci. Kate poi non lo beveva quasi mai, solo un sorso, per assaporarne l’aroma, ma le faceva piacere avere lì quella tazza, portata da lui, ritrovarsi in quel gesto che era una tacita consuetudine tra loro, le dava una parvenza di normalità in una situazione che di normale non aveva nulla.

- Oggi sono venuti Hale e McLeay, hanno detto che va tutto bene, nei prossimi giorni potrei cominciare ad alzarmi. - Lo informò, catturando subito la sua attenzione.

- Bene… Bene… è positivo, no?

- Sì… Prima però vogliono essere sicuri che sia tutto a posto, anche per il bambino. Domani farò la prima ecografia e… volevo sapere se volevi esserci. - Fu una delle cose più imbarazzanti che aveva mai fatto e non ebbe il coraggio di guardarlo mentre glielo diceva, perdendosi lo spettacolo dei suoi occhi luccicanti.

- Lo vuoi davvero? Cioè, non me lo chiedi solo perché ti senti in dovere di farlo. Se fosse così, non ti preoccupare, ti capisco, non è un problema. Cioè, mi dispiacerebbe, ma ti capisco. Devi decidere tu… Capisci? - Non aveva capito nemmeno lui quello che le stava dicendo.

- Vorrei che tu ci fossi. È giusto così. Per entrambi. - Lo tranquillizzò lei, anche se Castle dopo quella notizia non era più tranquillo per niente.

 

Non era stata tranquilla nemmeno lei, a dire la verità. Non aveva dormito quasi mai quella notte, tanto da chiedere qualcosa che l’aiutasse a prender sonno almeno per qualche ora, quando sentiva che a quell’agitazione che era normale, così le aveva detto anche Hollie portandole dei calmanti, si era aggiunta quella di non riuscire a dormire.

Castle era arrivato molto prima dell’orario previsto e le era rimasto vicino torturandosi le mani e dondolando nervosamente una gamba tutto il tempo. Non si erano detti quasi nulla, se non le solite frasi convenevoli, quelle che puoi scambiare sempre con un perfetto sconosciuto seduto davanti a te sul treno e Kate, in quei casi, preferiva leggere e non parlare con nessuno. Aveva letto anche in ospedale, era stato lo stesso Rick a portarle alcuni libri, polizieschi, dei suoi colleghi, così avrebbe potuto giudicare se erano migliori dei suoi. Ma lei non poteva essere obiettiva, nei suoi libri c’era qualcosa che nessun altro scrittore aveva, c’era una parte di lui, sarebbero sempre stati i suoi preferiti.

Il dottor McLeay entrò insieme ad una sua assistente che portava il macchinario necessario. Castle scattò in piedi per salutarlo con il suo solito garbo, nonostante la tensione che lo stava consumando.

Rick poi uscì dalla stanza, per permettere a Kate di essere visitata nel massimo rispetto della sua privacy con la promessa che lo avrebbero chiamato quando era il momento. Camminava su e giù per il corridoio facendo respiri profondi, fino a quando l’assistente del dottor McLeay aprì la porta e con un sorriso lo invitò ad entrare. Si mise seduto al suo solito posto, vicino a Kate, prendendole la mano e tenendola stretta tra le sue, evitando di guardarla, ma osservando ogni mossa del dottore e della giovane donna mentre la preparavano per la visita. Osservò il dottore guardare il monitor in silenzio, sporgendosi cercando di vedere o capire qualcosa, ma non vedeva nulla di più di uno schermo nero con delle chiazze bianche, anche con tutta la fantasia del mondo, non avrebbe saputo dire cosa fosse. La sua impazienza aumentava con il silenzio del dottore che tracciava segni incomprensibili per lui indicando qualcosa all’assistente che lo stava facendo diventare matto, se c’era qualcosa da vedere, sarebbe stato opportuno che l’avessero vista loro, pensava. Stava per sbottare quando sentì Kate stringere le sue dita e solo allora si voltò a guardarla. Era tesa come lui, spazientita anche lei da quel silenzio. Lo guardava come se cercasse in lui un aiuto e un appiglio.

- C’è qualcosa che non va, dottore? - Chiese allora Castle rompendo quel silenzio che stava facendo del male prima ancora che a lui a Kate e doveva fare in modo che finisse, qualsiasi fosse il motivo.

- No, va tutto bene. - Rispose l’uomo sorridendo e sentì Kate rilassarsi. - Ecco, vi presento vostro figlio.

Non era pronto. Non erano pronti. Quando voltò verso di loro lo schermo aveva tracciato delle linee per indicargli con precisione dove dovevano guardare e muoveva delicatamente la sonda perché potessero vedere meglio. Castle non era sicuro di riuscire a vedere bene perché sentiva gli occhi bruciare pieni di lacrime e pensava di non potersi emozionare di più, ma quando oltre a vederlo il dottore gli fece sentire anche il battito veloce del cuore pensò che nello stesso momento il suo si fosse fermato per un tempo infinito. Si voltò staccando gli occhi dal monitor solo per guardare Kate, la cui mano tra le sue ormai non si muoveva più e la trovò con il volto rigato da quelle lacrime che non poteva trattenere e l’altra mano che si copriva la bocca coprendo qualcosa che era un misto di stupore, sollievo e amore.

In pochi istanti per Kate era cambiato tutto. Quella che era solo una notizia data in una terribile mattina, un valore troppo alto segnato con due asterischi, la causa della sua nausea alla mattina era diventato un cuore che batteva dentro di lei. Non era un’entità astratta, un’idea, era reale, era una piccola vita che cresceva in lei. 

McLeay la guardava sorridendo, aveva visto migliaia di volte scene del genere e sapeva che la prima volta era sempre quella più emozionante. Ogni donna reagiva in modo diverso, c’era chi rimaneva completamente impassibile, chi cominciava ad esultare, chi rideva o piangeva. Kate era piangeva lacrime silenziose di meraviglia mentre continuava a fissare il monitor fino a quando il dottore rimosse la sonda e l’immagine sparì così come il rumore che cessò all’improvviso, ma lei era sempre isolata da tutto il resto del mondo, raccolta tra i suoi pensieri e le sue sensazioni che faticava a mettere in fila. Sentì a mala pena il dottore dirle che li lasciava soli e che sarebbe tornato più tardi. Anche Castle le aveva detto che se voleva le avrebbe lasciato il suo spazio ma lei lo fermò, tornando a stringergli mano che mai aveva separato dalla sua. Rick si avvicinò di più a lei, fino ad abbracciarla e lasciarla piangere sulla sua spalla. Vide sul suo volto il sorriso più bello quando si tirò sù e lo guardò con gli occhi che brillavano. Castle si lasciò trasportare dal momento, asciugandole il volto dalle lacrime e Beckett non rifiutò il suo tocco.

- È il nostro bambino… - gli sussurrò quasi avesse bisogno di una conferma e lui sorrise annuendo.

- Sì, il nostro bambino. - Anche lui cedette per un istante a quell’emozione che aveva cercato di contenere in ogni modo, e si appoggiò con la fronte sulla sua. Sorridevano entrambi inebetiti da quel vortice emotivo nel quale erano stati risucchiati. Fu solo un attimo, il suo profumo troppo intenso, il desiderio di farlo che non riusciva più nascondersi, ma Rick appoggiò le sue labbra su quelle di Kate e quel semplice contatto si trasformò presto in un bacio che sorprese entrambi per la sua naturalezza e al quale nessuno dei due sapeva o voleva resistere o aveva il coraggio di mettere fine. Nel silenzio della stanza l’unico rumore che adesso c’era era quello delle loro labbra che dolcemente si cercavano, si staccavano per poi ritrovarsi in una lunga dichiarazione silenziosa. 

Così come lo aveva cominciato fu Rick a mettere fine a quel bacio e Kate ebbe per un attimo il terrore che scappasse ancora, per questo afferrò il suo braccio e lo guardò seria e preoccupata. Si osservarono, in silenzio, come sempre in quei giorni, sapendo che ora qualcosa era cambiato, ancora una volta, sapendo che non era stato un momento di passione, che non potevano catalogarlo sbrigativamente come una cosa di una notte, che non potevano fare ancora finta di niente, perché ormai non potevano più farlo per nessuna cosa. La notte che per settimane avevano ignorato, evitando di parlarne per renderla meno reale, gli aveva portato qualcosa che aveva appena creato uno tsunami di emozioni che li aveva travolti, la cui ultima onda era stato proprio quel bacio così fortemente voluto, più di quanto fossero realmente consapevoli di volere. Se ne erano accorti solo quando non riuscivano a separarsi e rinnovavano il cercarsi con altri baci dentro lo stesso.

- E ora? - Gli chiese Kate non sapendo nemmeno lei a cosa si riferisse. Rick la osservò come forse non aveva mai fatto. Aveva le labbra rosse del bacio che si erano appena scambiati e gli occhi lucidi per l’emozioni di aver appena sentito per la prima volta il loro bambino. Teneva il suo braccio con una mano, per non farlo andare via mentre l’altro era sul suo ventre e lui non sapeva se era una casualità oppure no, ma mise la mano sulla sua, godendosi l’espressione meravigliata che fece al suo contatto, non solo fisico ma per tutto quello che voleva dire quel gesto.

- E ora… Ti amo. - Le rispose lasciandola definitivamente senza parole.

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Capitolo 13
*** TREDICI ***


Kate lo guardò basita. Lasciò la sua mano come se fosse un tizzone incandescente che la stava ustionando mentre Rick non riusciva a togliere lo sguardo da lei. Non aveva considerato la sua reazione e come avrebbe potuto farlo se non aveva nemmeno pensato di dirle quelle parole. Si era solo lasciato trasportare dal momento, lasciando che per una volta tutto quello che pensava e che provava per lei uscisse fuori, senza la paura di quello che sarebbe stato. Non era stato quello che aveva voluto, non si era immaginato certo che gli saltasse addosso e facesse i salti di gioia, ma nemmeno che lo guardasse inorridito. La sentì sfilare la mano da sotto la sua, lasciandolo a contatto con il lenzuolo che proteggeva il suo ventre. Kate percepì il calore che proveniva da Rick avrebbe voluto spingerlo via, ma non riusciva nemmeno a sfiorare la sua pelle.

Lo guardò ancora cercando nei suoi occhi una risposta, ma ci leggeva solo domande.

- Perché? - Gli chiese quasi disperata.

- Non lo so. Ti amo e basta. Perché mi piace tutto di te, anche le cose che mi fanno diventare matto.

- No, Castle, perché me lo dici adesso? - Spostò la mano che lui stava per prenderle, non era pronta ad un contatto, faceva fatica anche a sostenere la sua vista.

- Perché non sono più riuscito a fare finta che non fosse vero. - La sua disarmante semplicità la spaventava tanto quanto le sue parole. Si immaginava da lui discorsi infiniti, ed invece non c’era stato niente di tutto questo. Le aveva detto le cose più normali che si poteva aspettare e questo le faceva ancora più paura.

- Non vale Castle, non così. Non in questo momento. - Sospirò faticando a trattenersi dal piangere ancora.

- Perché non vale Beckett? 

- Perché è l’emozione del momento che ti fa parlare Castle. Siamo tutti e due troppo emotivamente sconvolti adesso.

- Perché mi hai baciato, Kate? - Le poggiò una mano sul braccio e Kate sentì tutta la tensione che sprigionava il suo tocco.

- Mi hai baciato tu Rick! - Puntualizzò lei.

- Tu ti sei fatta baciare! - Ribatté lui che non intendeva cedere di un passo.

- Non rovinarmi questo momento Castle, ti prego. - Lo supplicò.

- Pensi questo? Pensi che io stia rovinando il tuo momento Kate? - Rimase colpita dal dolore che lesse nel suo sguardo. - Io… mi dispiace… Io volevo… no… Lascia stare…

- Sarebbe stato tutto diverso. - Quel pensiero sfuggì a Beckett senza che se ne rendesse conto, però era quello che pensava. Sarebbe stato tutto diverso se lui quella notte non l’avesse lasciata, se fosse rimasto.

- Cosa doveva accadere per essere diverso, Kate?

- Dovevi rimanere Castle! - Gli urlò contro come una liberazione. - Dovevi rimanere quella notte e non farmi sentire come… come… come una delle tante che ti porti a letto, una notte e via.

- Una delle tante? Non hai capito niente Beckett… È proprio perché non sei una delle tante che me ne sono andato. Perchè sono stato ore sveglio ad osservarti dormire prima di andarmene. Perché avevo paura, Beckett. 

- Tu Castle? Tu avevi paura di svegliarti con me? - Kate scoppiò in una risata isterica.

- Cosa c’è che ti fa ridere? Ho provato a fartelo capire in tutti i modi quello che provavo Kate e mai niente! - Anche il suo tono era più sostenuto adesso.

- Non me lo hai mai detto Castle! Qual è il tuo modo di farmi capire le cose, rimetterti insieme con la tua ex moglie? Baciarmi e fare finta di nulla anzi no, farmi i complimenti per come avevo disarmato quel tizio. È questo il tuo modo di farmi capire le cose?

- No, Kate, era esserci, sempre. Prometterti che ci sarei sempre stato. Era questo, forse era poco… Avrei voluto che anche tu mi dicessi qualcosa, un appiglio per capire che avevo una speranza.

- Vuoi dire che è colpa mia Castle? - Lo aggrediva, perché era l’unico modo per difendersi da quello che stava provando.

- No, voglio dire che tu stavi con Josh. Come potevi pensare che io ti potessi dire di più? Che non avessi paura di quello che poteva accadere tra noi? Che la mattina non ti svegliavi e mi dicevi che era stato bello, ma era stata solo una notte? 

- Abbiamo fatto l’amore Castle!  Era un problema dirmi quello che pensavi, tanto da andartene ma non lo era venire a letto con me? Quando facevamo l’amore non ero fidanzata con Josh? Quando mi baciavi non ero fidanzata con Josh? Lo ero solo per dirmi quello che provavi? - Gli urlò ancora.

- Kate per favore, non è così…

- Allora com’è Castle, spiegamelo! O pensi che sia una che ha un fidanzato e lo fa con il primo che capita? Che va a letto con chiunque, appena ha l’occasione. Mi reputi una così? Vuoi un test del DNA per il bambino? Magari ai paura che chissà con quanti altri sono andata quando non c’era Josh e vuoi essere sicuro che sia tuo figlio. - Kate aveva il fiatone ed era visibilmente agitata, Rick lasciò perdere ogni discorso ed uscì a chiamare un infermiera perché la aiutassero ma quando provò a rientrare la prima cosa che fecero fu sbatterlo fuori in malo modo. Rick si appoggiò al muro coprendosi il viso con le mani ripensando a quanto era stato stupido. Stupido a baciarla, a dirle che l’amava, a fare tutto quello che aveva fatto solo perché pensava che ora sarebbe stato tutto più facile.

- Cosa succede Richard? - La voce bassa di Jim fece scivolare via lentamente le mani dal suo volto per guardarlo. Voleva sotterrarsi. - Il bambino?

- Il bambino sta bene. Lo… lo abbiamo sentito. - Sul suo viso nacque subito un sorriso al ricordo del battito veloce del cuore di suo figlio - Io… Ho fatto una stupidaggine… Ho discusso con Kate e lei si è agitata troppo e… Ho chiamato i medici e mi hanno lasciato fuori, loro sono ancora dentro… Mi dispiace.

Castle era veramente dispiaciuto, sentiva su di se lo sguardo severo del padre di Kate che scrutava e si sentiva trafitto da quegli occhi che sembravano solo una fessura. Attese in piedi lì appoggiato al muro fino a quando non vide uscire medico e infermiere dalla camera di Beckett. Provò ad avvicinarsi ma lo sguardo che gli lanciò Jim fu sufficiente a farlo desistere. Sembrava che parlassero a bassa voce apposta per non fargli sentire nulla e farlo crogiolare ancora di più nei suoi sensi di colpa. Vide un sorriso sul volto del medico che lo tranquillizzò almeno in parte, poi i due si diedero la mano e Jim entrò da Kate, lo fissò ancora una volta prima di chiudere la porta e Rick preferiva di gran lunga i pugni di Josh a quello sguardo carico di biasimo.

 

Jim fu colpito dal trovare sua figlia esattamente così come aveva visto Castle appena arrivato, con le mani che coprivano il volto. La sentiva respirare profondamente in modo lento e regolare. Le avevano di nuovo applicato una flebo, calmanti e antidolorifici, gli aveva detto il medico prima. Stava bene, non le era successo niente, era solo il suo fidanzato, così lo aveva definito quel dottore, un po’ troppo apprensivo. Sorrise pensando a Castle solo lì fuori. Voleva che si cuocesse ancora nel suo brodo, così qualsiasi cosa avesse fatto, ci avrebbe pensato di più, la volta dopo.

- Cosa c’è papà? - Gli disse Kate senza togliersi le mani dal volto.

- Il tuo sesto senso non si smentisce mai Katie - Sorrise l’uomo.

- È solo che usi lo stesso profumo da forse trent’anni papà. - Sorrise lei scoprendo finalmente il suo viso e gli occhi rossi di pianto. Jim si avvicinò e le diede un bacio in fronte, al quale lei rispose sfiorando la sua guancia.

- Come è andata? - Le chiese allontanandosi di qualche passo rimanendo in piedi dietro la poltroncina stringendone lo schienale con forza.

- Abbiamo discusso. - Disse semplicemente, lasciando implicito che si trattasse di Castle.

- Non mi importa di quello che fai con Richard, volevo sapere come è andato il controllo.

- Bene, sta bene. - Kate si portò entrambe le mani sul ventre, un gesto che non sfuggì a Jim che faticò per non farsi vincere dalla commozione - Ha il cuore che batte velocissimo. È incredibile come una cosa così minuscola abbia un cuore che batte così forte.

Gli occhi di Beckett si riempirono ancora di lacrime, commuovendosi di nuovo al pensiero di quanto vissuto poco prima. Padre e figlia rimasero in silenzio fino a quando la Kate non superò quell’ennesimo momento emotivo. Stava accusando, decisamente troppo ogni cambiamento e non poteva cominciare già a dare colpa agli ormoni per quegli sbalzi d’umore.

- Castle è qui fuori. - Le disse Jim quando la vide tranquilla. - È preoccupato per te.

- Lo so. - Ammise Kate mordendosi l’interno della guancia per evitare di piangere ancora.

- Non so cosa ha fatto di tanto stupido, però ci tiene a te, Katie.

Beckett si stupì di suo padre: da quando prendeva le parti di uno dei suoi uomini? Si voleva prendere a pugni da sola. Castle non era uno dei suoi uomini. Castle era solo il padre di suo figlio. E la persona che amava.

- Papà… Se quando esci è sempre lì fuori, gli puoi dire di entrare?

Jim si avvicinò e diede un altro bacio a sua figlia.

- Ci vediamo domani Katie.

- Non ti stavo dicendo di andartene papà. - Gli disse Kate prendendo la sua mano.

- Lo so, sono io che penso sia giusto che vada.

 

- Giuro Castle, non ti picchio e non ti mordo. - Gli disse cercando di stemperare la tensione vedendolo fermo in fondo alla stanza.

- Potresti sempre spararmi, però.

- Sì, ma anche se resti lì ti prenderei lo stesso. O dubiti anche della mia mira? - Aveva detto un anche di troppo, ma lui fece finta di niente avvicinandosi a lei, ma rimanendo in piedi, a debita distanza per non invadere il suo spazio vitale, osservando la flebo che le avevano messo, guardando la soluzione trasparente come se potesse capire cosa fosse.

- Antidolorifici e calmanti. - Gli disse evitando la sua domanda e Castle annuì sentendosi ancora di più in colpa.

- Mi dispiace Kate. Io non penso che tu sei una che vai a letto con chi capita e soprattutto non sei una delle tante con cui sono andato a letto io. Non ho bisogno di nessun test del DNA perché ti credo. Ma Beckett, io ti amo e ti amavo anche prima di sapere dell’esistenza di qualsiasi bambino. Se tu ricordassi il momento del tuo ferimento lo sapresti. Perché te l’ho detto lì, prima che tu mi dicessi del bambino. Non ti amo per perché sei incinta di nostro figlio, potrei dirti che quella è una conseguenza del fatto che ti amo, ma potresti non essere d’accordo.

- Castle…

- Non ti agitare Kate, però fammi finire. Ho sbagliato ad andarmene quella notte. Ed ho sbagliato tutte le volte che ho fatto finta di niente. Ho dato per scontato che tu avessi capito quello che provavo per te e che non mi davi mai la risposta che volevo, solo perché non ti interessava. Mi dispiace di aver avuto talmente tanta paura di perderti, anche solo come partner, da non avere il coraggio di prenderti. Però ti amo veramente.

Kate gli fece cenno di avvicinarsi e di sedersi sul bordo del suo letto. Lo fece e la vide faticare per cercare di alzarsi, per mettersi seduta anche lei. In un gesto istintivo cinse la sua vita, accompagnandola piano verso di lui. Si sorprese e rimase immobile quando lei appoggiò una mano sulla sua spalla accostandosi a lui, in qualcosa che sembrava molto simile ad un abbraccio.

- Avrei voluto svegliarmi e trovarti vicino a me. Mi avevi promesso che ci saresti sempre stato e l’unica volta che avevo veramente bisogno che tu fossi lì, non c’eri. Non avrei fatto l’amore con te se tu non fossi stato importante per me e forse ho sbagliato io a dare per scontato che tu lo capissi, che bastasse quello che avevamo fatto per spiegarti quello che eri per me. Non un amico, non un partner, ma qualcosa di più. - Kate chiuse gli occhi appoggiando la testa sul suo braccio. 

- Posso sempre esserlo, se vuoi. - Si azzardò ad accarezzarle i capelli e lei lo lasciò fare.

- È tutto complicato ora Castle… È tutto troppo complicato.

- Lo so… - Sospirò lui deglutendo rumorosamente.

- Però ti amo anche io. - Sussurrò Kate poggiando una mano sul petto di Rick, che lui prese immediatamente lasciandola ferma sul suo cuore che batteva troppo forte perché lei non lo sentisse dalla stoffa della camicia.

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Capitolo 14
*** QUATTORDICI ***


Se baciarsi era un modo di comunicare, loro stavano parlando molto. Avevano sentimenti molto più profondi nascosti nei meandri delle loro anime delle parole che erano in grado di pronunciare, ma certe cose non avevano nemmeno bisogno di spiegazione. Succedevano, e basta, così come loro si erano trovati. A Castle non sembrava vero poter scostare i suoi capelli ed accarezzarla avvicinando il suo volto al proprio, lambirle le labbra senza timori. 

In serata il dottor McLeay era tornato, non troppo stupito di trovare lì anche Rick, pronto ad ascoltare tutte le informazioni sulla gravidanza che avevano bisogno di sapere. Tutto procedeva nel migliore dei modi, considerando quello che Kate aveva subito. “È un miracolo”, le avevano ripetuto più volte. Le avevano confermato anche la data del presunto concepimento e i suoi calcoli erano stati più che precisi, corrispondeva proprio con il periodo in cui erano a Los Angeles. Avevano così scoperto che sarebbe dovuto nascere i primi giorni dell’anno e una volta rimasti soli, Beckett aveva preso in giro Castle dicendogli che se suo figlio aveva il suo tempismo sarebbe nato come minimo la notte di capodanno, mentre lui insisteva che la notte di Natale sarebbe stato più romantico. Nel giro di pochi minuti erano passati ad elaborare nuove teorie e ipotesi e non riguardavano omicidi e assassini, ma la loro vita e loro figlio e come sempre era stato sorprendentemente bello e naturale per loro: riuscivano a parlarne con leggerezza ed un filo di imbarazzo quando prendevano coscienza di cosa stesse comportando tutto quello. Così capitava che nel mezzo di un discorso si fermassero improvvisamente entrambi, si cercassero con con lo sguardo di si prendessero per mano. Quel viaggio lo avrebbero fatto insieme, sostenendosi e incoraggiandosi, era una delle poche certezze che avevano.

La cosa peggiore di quella nuova situazione era lasciarsi, quando non gli permettevano più di stare con lei e quella fu solo la prima delle tante sere successive sempre più dure. Così non passavano che pochi minuti da quando usciva da lì che lui la chiamava. Le aveva regalato un tablet e la sera parlavano in videochiamata per ore, fino a quando lei non crollava esausta e lui la pregava di non chiudere la comunicazione, gli piaceva guardarla dormire, pensando che così, in qualche modo, anche se da lontano, poteva vegliare su di loro.

I progressi di Kate erano continui, nonostante dolore, nausee e debolezza, non aveva mai un momento di cedimento, guardava sempre avanti ponendosi ogni giorno nuovi obiettivi. Il primo era stato quello di alzarsi e camminare in camera, seguito da riuscire a fare tutto il corridoio. Ci era ovviamente riuscita prima di quanto pensasse e toccava ai medici e a Castle porre un freno alla sua eccessiva voglia di fare ricordandole di procedere per gradi e non esagerare. Non c’era giorno in cui non le raccomandavano prudenza, ricordandole come il suo corpo aveva subito un grosso trauma e doveva riprendersi, in più era in continua trasformazione: far conciliare le due cose era un lavoro di grande equilibrio che richiedeva attenzione, costanza e non bruciare le tappe. L’obiettivo di Kate, però, era solo uno: uscire da lì. Apprezzava con quanta scrupolosità i medici la seguissero, ma più si sentiva bene, più faticava a concepire la sua vita tra quelle quattro mura, sembrando sempre più ansiosa di ritornare a casa e di riprendere la sua vita di prima. 

C’era un argomento del quale Kate non parlava mai, con nessuno: il suo ferimento. Non aveva più chiesto nulla, non aveva mai voluto sentire come procedevano le indagini, come se tutto quello non fosse mai esistito. Evitava di parlarne e se qualcuno lo faceva, cambiava discorso. Rick era quello che ci aveva provato di più e con più perseveranza, più volte. Ma lei non ricordava quei momenti e non voleva farlo. Le crisi di pianto che però aveva avuto quando lui insisteva e non le dava tregua, non fermandosi ai suoi rifiuti gli facevano capire che c’era un grosso nodo da sciogliere in lei, che avrebbe richiesto tempo e dedizione e non doveva affrettare i tempi, forzandola oltremodo. Vinceva poi le sue resistenze di voler rimanere sola, abbracciandola dolcemente, facendole capire sempre che lui era lì per lei e non contro di lei. Sembrava funzionare, ma Kate in ogni caso, si rifiutava di affrontare quell’argomento liquidandolo con un “non c’è nulla da dire”.

Nei loro tanti discorsi avevano affrontato anche il più delicato al momento, quello che li metteva davanti al primo grande bivio. Cosa fare quando Kate sarebbe uscita dall’ospedale? Aveva bisogno di aiuto, non poteva stare da sola, perché ancora non poteva fare molti sforzi sia per la gravidanza che per il suo decorso post operatorio, anche se lei tendeva a minimizzare ogni aspetto. Rick le aveva proposto di andare al loft e se non voleva dormire con lui, c’era la stanza degli ospiti, quella dove era già stata quando il suo appartamento era esploso, ma Kate diceva di sentirsi a disagio in quella situazione con Martha e Alexis. Gli dispiaceva, ma capiva: era in imbarazzo anche lui ed ancora non era riuscito a spiegare quale era la loro situazione, forse nemmeno a capirla fino in fondo. Beckett disse che le sarebbe piaciuto passare del tempo fuori, in montagna. Suo padre aveva un piccolo chalet a circa 4 ore di auto da New York. Troppo, per i medici, almeno per il momento. Avrebbe dovuto far passare qualche settimana cosicché la situazione sua e del bambino si fossero stabilizzate, aspettando almeno l’entrata nel secondo trimestre. Tre settimane, più o meno, da quando l’avrebbero dimessa. Beckett non era abituata ad attendere senza che le decisioni dipendessero da lei. Castle si divertiva a prenderla in giro ripetendole che se era in dolce attesa, era ovvio che dovesse attendere. Il bambino, gli eventi, situazioni stabilizzate e tutto il resto. Alla fine lo accettava di buon grado e Rick glielo aveva promesso, appena i medici avrebbero dato l’ok sarebbero andati in montagna fino a quando non avrebbe avuto il permesso di tornare a lavoro. Anche quello era stato lui un motivo di discussioni, più o meno concitate, perché Kate ancora faticava ad entrare nell’ottica di come anche il suo lavoro doveva cambiare che non avrebbe potuto avere né quei ritmi né quelle mansioni. Era troppo, tutto, da metabolizzare insieme. In un giorno la sua vita era stata stravolta: incinta e ferita quasi mortalmente. Era entrata in ospedale con una relazione senza senso con Josh, ne stava uscendo innamorata e libera di amare il padre del suo futuro bambino. Era veramente troppo.

Jim le aveva offerto di trasferirsi da lui, ma Kate voleva la sua casa, ritrovare almeno in quello il suo mondo, la sua piccola dose di normalità che poteva ancora avere. Ce l’avrebbe fatta, diceva a tutti quelli che la guardavano perplessi, suo padre, Lanie e soprattutto Castle. Nessuno metteva in dubbio la forza di Kate, nè pensavano si sopravvalutasse: tutti però erano convinti che lei sotto stimasse cosa volesse dire stare da sola, incinta e convalescente. Alla fine, però, fu proprio Castle l’unico a sostenerla, con la promessa che gli avrebbe permesso di esserle vicino ed occuparsi di lei, era un compromesso ragionevole.

La mattina che doveva essere dimessa, per sicurezza, avevano stabilito che le avrebbero fatto un’altra ecografia, per controllare il bambino. Era stato Rick ad insistere con i medici: era felice che Kate sarebbe stata dimessa, perché poteva finalmente cominciare una nuova fase della sua vita, anzi della loro vita, ma allo stesso tempo era ansioso e preoccupato perché il fatto che fosse in ospedale lo vedeva come tenerla in un bozzolo protetto e lo faceva stare inconsciamente più sicuro. Si diceva da solo che doveva darsi una calmata, perché non avrebbe resistito a vivere così i mesi restanti della gravidanza di Kate e non avrebbe fatto bene prima di tutto a lei.

Sentire ancora il suo cuore battere, vedere quell’esserino muoversi sullo schermo, non era stato meno emozionante della prima volta, per nessuno dei due. Si erano tenuti per mano per tutto il tempo e Rick aveva più volte baciato il dorso di quella di Kate stretta nella sua, un modo per incanalare per qualche istante le emozioni verso di lei, ed evitare di esserne sopraffatto.

- Va tutto bene. - Disse loro il dottor McLeay - Il battito è forte e cresce secondo i normali parametri. Se non ci sono problemi, Katherine, ci rivediamo per sicurezza quando verrà a fare il suo controllo in ospedale.

Rick si offrì di ripulire Kate dai residui del gel. Lei inizialmente imbarazzata lo lasciò fare, guardando l’amore con il quale compiva ogni singolo gesto, accarezzando il suo ventre ancora piatto con dolci carezze, molto più del necessario. Era la prima volta che lo faceva e lei si sentì invadere da qualcosa a cui non sapeva dare un nome, un'onda di felicità ed emozione che non faceva altro che rinnovare quelle che ancora non erano del tutto scemate nell’aver sentito ancora il suo bambino. Proprio quando pensava di non riuscire ad emozionarsi di più, Beckett vide Castle appoggiare le labbra sul suo ventre e lasciarle un delicato bacio.

- Ti amo già, piccolo. - Disse Rick in un sussurro che arrivò alle orecchie di Kate con forza dirompente e lei mise le mani tra i capelli di lui costringendolo, di fatto a rimanere in quella posizione, perché non voleva farsi vedere piangere. Le diede un altro bacio, seguito da altre carezze, prima di ricoprirla con la maglietta e guardarla non riuscire a nascondere le lacrime. 

- E amo te, Kate. Non so dirti quanto. - La aiutò ad alzarsi e la abbracciò. Era così più bassa di lui senza tacchi che non ne era abituato. Le sembrava piccola e indifesa quando l’avvolse tra le sue braccia e lei senza guardarlo ma con le labbra vicine al suo orecchio gli diede un bacio sul collo.

- Anche noi ti amiamo, Castle. 

Le era venuto spontaneo ed era la prima volta che si sentiva completamente una cosa sola con il suo bambino e tra le braccia di Rick sentiva dopo tanti anni il senso di famiglia che aveva perduto.

Ripensava alle parole di Royce. Inconsapevolmente non aveva da rimproverarsi nulla. Forse non avesse aperto quella porta e fosse tornata indietro lo avrebbe rimpianto per anni o per tutta la vita. Stava mettendo veramente il suo cuore davanti a tutto, anche se non era facile. Ancora, spesso, doveva rendersi conto di come tutto stava cambiando e stare al passo con la sua vita che mutava non era facile. Ma ci stava provando e ci sarebbe riuscita. Ora veniva la parte dura, era vero, ma lei avrebbe combattuto per tutto quello e l’unica cosa di cui era certa era che non avrebbe avuto mai nessun rimpianto e nessun rimorso. Quella notte era stata perfetta così, e non si sarebbe mai chiesta cosa sarebbe accaduto “se solo” non fosse rimasta incinta. 

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Capitolo 15
*** QUINDICI ***


Quando Kate aprì la porta di casa rimase senza parole. Sul tavolo c’era un enorme mazzo di rose bianche. Si guardò intorno ed era tutto troppo in ordine per come aveva lasciato lei la sua casa ormai troppe settimane prima.

- Jim mi ha prestato la sua copia delle chiavi e Lanie mi ha dato qualche consiglio. - Le disse Rick abbracciandola da dietro, accarezzandole il ventre. 

- Sono bellissime. - Lo ringraziò emozionata.

- Avrei voluto portartele prima ma non me lo hanno permesso. - Le diede un bacio sul collo.

Kate tirò fuori dalla tasca dei pantaloni della tuta il bocciolo ormai secco che Rick le aveva portato quel giorno, mostrandoglielo.

- Mi hai portato questo. È stato bellissimo. - Castle si stupì che lo avesse conservato. Le sfiorò la mano, accarezzando le sue dita e la rosa. - L’ho tenuto sempre vicino a me. 

Castle amava l’amore di Beckett per le piccole cose, come custodiva quel fiore era la prova di quanto amore ci fosse dentro di lei che nemmeno conosceva. 

- Ora vai a riposarti Beckett. - Le sussurrò all’orecchio cercando di essere il più gentile possibile, ben sapendo di rischiare di beccarsi un suo rifiuto.

- Castle ma… - Infatti Kate stava già protestando ma lui le appoggiò l’indice sulle labbra per farla stare zitta.

- Me lo hai promesso! - Le sorrise e lei baciò la punta del suo dito sorridendo a sua volta e roteando gli occhi verso l’alto.

- Agli ordini! Ma non ti ci abituare Castle.

Kate entrò nella sua stanza trovando appoggiati sul comodino alcuni libri nuovi e sul letto ripiegata una maglietta bianca. La aprì trovandola eccessivamente grande, c’era un immagine vintage di Hollywood Boulevard e sembrava proprio la vista che c’era dalla loro suite a Los Angeles. Se la portò al volto annusandola: aveva il profumo dei suoi vestiti, era la sua. Sorrise tenendola tra le mani. Le piaceva l’idea di avere qualcosa di lui, qualcosa di materiale.

Andò in bagno aveva tanta voglia di farsi un bagno o una doccia, ma si sentì improvvisamente troppo stanca per fare tutto. Si sciacquò solamente il viso e dovette dare ragione a Rick, doveva riposare. Era frustrante.

Si spogliò con attenzione, guardandosi allo specchio in camera quelle ferite ancora così rosse. Sfiorò con un dito quella al centro del petto e poi il taglio che aveva sotto il seno, sul fianco. Vide il suo corpo cambiato e non solo per quei segni. Sorrise nel constatare già come il suo seno era più florido e le sembrava diversa anche la forma della vita, anche se in ospedale si era dimagrita. Troppo, secondo Castle e non aveva tutti i torti.

Si fissava nello specchio nell’anta dell’armadio mentre cercava qualcosa da mettersi in quelle prime giornate d’estate ancora non troppo calde. Vide la maglia di Rick sul letto e decise di indossare quella, era lunga le arrivava a metà coscia, ma ci stava incredibilmente bene, non solo perché il tessuto era morbido e leggero, ma perché era come se ci fosse lui ad abbracciarla. Stava diventando troppo sdolcinata e preferiva dare la colpa agli ormoni. Sarebbero stati una buona scusa, per tutto.

 

- Come facevi a sapere che dormivo da questa parte del letto? - Gli chiese quando entrò in camera con un vassoio con una spremuta ed un toast. 

- Sull’altro comodino non c’era niente. - Si sedette vicino a lei sul bordo del letto. - Ti sta bene la maglietta, ti piace?

- Sì, tanto. È la tua? Aveva il profumo dei tuoi vestiti. - Annusò ancora il bordo del collo.

- L’avevo presa quando siamo andati a Los Angeles. Mi fa piacere se ce l’hai tu. - Rick le appoggiò il vassoio in grembo e Kate cominciò a mangiare mentre lui le accarezzava le gambe. - Sei stanca?

- Un po’… È normale, no? - Gli chiese Kate cercando di essere rassicurata.

- Sì, è normale. Però questo è il motivo per cui devi riposarti e non ti devi affaticare. 

Kate annuì, finì di mangiare e poi si distese sospirando rilassata e felice di essere di nuovo nel suo letto. Si lasciò accarezzare a lungo da Rick che poi prese il vassoio e si alzò.

- Io… vado di là, ti lascio dormire. - Le disse quando era già vicino alla porta, vedendola provata e insonnolita.

- Castle, torni qui? - Gli chiese aprendo gli occhi per guardarlo.

Rick lasciò il vassoio sul piano della cucina e poi tornò da Kate, sedendosi di nuovo al suo fianco, riprendendo ad accarezzarla.

- Perché non ti sdrai vicino a me? C’è posto…

Rick timidamente si tolse le scarpe e poi si andò a stendere nella parte vuota del letto, guardandola, aspettando che fosse lei a muoversi, non voleva abusare del suo spazio. Kate gli dava le spalle quando lo chiamò.

- Abbracciami Castle. - Gli chiese semplicemente, come se fosse normale che lui lo dovesse fare. Rick non se lo fece ripetere, le si avvicinò abbracciandola da dietro e lei prese la mano di lui stringendola tra le sue. Kate addormentò dopo poco tempo.

 

Rick era stato tutto il tempo immobile mentre lei dormiva tenendogli la mano. Pensò che avesse paura che se ne sarebbe andato, lasciandola ancora nel sonno. Non sapeva che non lo avrebbe mai più fatto. Lasciava che il respiro calmo di Kate fosse il ritmo che scandiva il tempo di quel pomeriggio e dei suoi pensieri. Aveva pensato tanto in quei giorni, cercando di nasconderle sempre le sue ansie e le sue preoccupazioni, riservando a Kate solo il lato migliore di se e tenendosi il resto per quando tornava a casa ed era solo. Si era sfogato qualche volta con Martha, si era confrontato con Jim, aveva parlato con Lanie. La sua preoccupazione per Kate era costante e riguardava tutti gli aspetti, pratici e non solo e viveva in perenne conflitto tra essere quello che cercava di mediare tra il buon senso e la voglia di Beckett di vivere in modo normale e quello non era proprio il suo ruolo, abituato a vivere al di sopra delle righe da sempre ad essere quello irresponsabile, ora doveva tornare a vestire i panni di compagno e padre coscienzioso, gli stessi che aveva già indossato tanti anni prima, ma adesso con una nuova consapevolezza, con molti più anni di vita alle spalle ed una situazione molto più stabile ed agiata che gli permetteva di non far mancare nulla a Kate ed al bambino, ma soprattutto con la certezza che Beckett non avrebbe mai lasciato suo figlio come aveva fatto Meredith con Alexis. Allo stesso tempo era più che mai convinto che lui stesso non avrebbe rifatto gli errori del passato. Lui avrebbe voluto molto di più dalla sua relazione con Beckett ed il suo carattere da tutto e subito lo avrebbe spinto ad affrettare di nuovo i tempi, ma con lei si stava imponendo di andare con i piedi di piombo. Non avrebbe insistito per il matrimonio, solo perché lei era incinta, come aveva fatto con Meredith. Aveva capito che non era quello che poteva garantirgli stabilità ed una famiglia. Si era ritrovato, infatti, presto solo e con una bambina da seguire. Avrebbe lasciato che la loro relazione seguisse il suo corso naturale, si evolvesse come doveva, crescendo giorno dopo giorno. Era certo che questa volta avrebbe capito quando sarebbero stati entrambi pronti per qualcosa in più, che fosse stato vivere insieme o altro. Avrebbe dovuto solo stargli vicino, farsi carico di tutte le preoccupazioni e le paure e non farle mancare nulla, e più di ogni altra cosa, aiutare Kate ad aiutare e capire se stessa. Era ancora spaesata, la capiva, era comprensibile. Era tutto diverso, tutto cambiato in così poco tempo. 

La sentì muoversi appena e stiracchiarsi, lasciando la sua mano dopo aver dormito a lungo. Poi si girò verso di lui e si ritrovarono con i volti terribilmente vicini, in quella situazione così intima come non ne avevano mai vissuta una, perché lì c’erano solo loro con i loro sentimenti, nessun altro fine. Rick la guardava ed era bella da togliere il fiato, insonnolita e con quegli occhi che brillavano d’amore.

- Sei qui… - Gli disse accarezzandogli il volto e Castle chiuse gli occhi per godersi di più la sensazione di quel contatto. 

- Sempre. - Le rispose. Sapeva cosa c’era dietro quelle parole, la sua paura che di risvegliarsi sola e voleva a tutti i costi farle capire che, lui ci sarebbe stato sempre, da quel momento in poi.

- Grazie Castle. - Lo abbracciò appoggiandosi su di lui che fu sorpreso da quel gesto.

- Per cosa? - Chiese abbracciandola a sua volta.

- Per essere rimasto. - Gli sussurrò poggiando le lebbra sulle sue.

- Se vuoi che me ne vada, dovrai mandarmi via. - Per tutta risposta lo strinse di più.

- Non ti ci abituare Castle, è solo l’effetto degli ormoni. Poi passa - Il tentativo di Kate di essere seria non riuscì un granché.

- Uhm… va bene, intanto ringrazio i tuoi ormoni per il trattamento.

 Beckett si stava riprendendo tutto quello che le era mancato. Stare abbracciata a Castle, i baci, gli abbracci e quelle coccole che da troppo tempo non riceveva o forse non aveva mai ricevuto da un uomo. Era facile, in fondo, pensava. Doveva solo fare finta che le ultime settimane, mesi, non fossero esistite, riprendere la sua vita da lì, da quella mattina a Los Angeles e andare avanti. Poi, però i ricordi tornarono prepotentemente. La sensazione di smarrimento nel trovarsi sola, il disagio della sua indifferenza, quella sofferenza che graffiava dentro quando lo sentiva parlare delle sue conquiste e di come si divertiva con loro e la paura di non sapere quale fosse in realtà il vero Castle. Pensò a Roy che si era fidato tanto di lui da affidargli il compito di difenderla, di metterla in salvo. Pensò a come Castle la stringeva nell’hangar, appoggiata a quella macchina, a come le impediva di urlare e la accarezzava cercando di calmarla. Le mancava Montgomery e le faceva male pensare a come era stato ucciso, per lei, per rimediare a quegli errori commessi molti anni prima. Pensava che lo avrebbe odiato, come tutti quelli coinvolti nell’omicidio di sua madre, a vari livelli, invece no, non avrebbe mai potuto farlo, perché era il simbolo di come nella vita ci si possa riscattare e di come si possa vivere degnamente per correggere i propri errori.

- Cosa c’è? - Le chiese allontanandola un po’ solo per poterle vedere il viso e gli occhi lucidi.

- Pensavo a Montgomery. - Ammise senza dirgli tutti gli altri pensieri e preoccupazioni.

- Ci penso spesso anche io. Sai però cosa penso? Lui sarebbe felice oggi, ne sono sicuro. Sarebbe felice per te e per noi. - Le spostò una ciocca di capelli dal volto.

- Tu gli sei sempre piaciuto. Dall’inizio. - Sorrise Kate pensando a quella prima discussione con Montgomery che di fatto l’aveva obbligata a collaborare con lui.

- Anche a te sono piaciuto dall’inizio, solo che non lo vuoi ammettere. - Le disse baciandole la punta del naso.

- Ne sei veramente convinto eh Castle? - Rispose punzecchiandolo

- Assolutamente convinto, Beckett. Dovevi solo ammettere che non potevi resistere al mio fascino!

- Nei tuoi sogni Castle! - Provò ad allontanarsi ma lui la trattenne.

- Sì, anche lì. Ma tu sei qui, ed evidentemente non puoi resistere al mio fascino. Ne ho le prove. - Ricominciò a baciarla e di fatto lei non resistette rispondendo ai suoi baci. - Visto? Ne ho le prove!

Castle esultò come un bambino e Kate poi si spostò nella sua parte di letto guardando il soffitto, con un gran sorriso sulle labbra e cercando la sua mano che prese stringendola forte. Rick era nella sua stessa posizione, guardava anche lui in alto, ma spesso si voltava a cercare lei, ad ammirare quel sorriso disteso.

- Tu mi sei piaciuta da subito, Beckett. - Le disse interrompendo il loro silenzio. Kate si voltò a guardarlo, pensava di trovarlo con uno di quei sorrisi da schiaffi ed invece era serio, quasi contratto nell’ammetterlo. Gli si avvicinò di nuovo, accarezzando i suoi lineamenti, lì dove erano più tesi.

- E questo che ti fa preoccupare? Che ti sono piaciuta da subito? Ci stai ripensando? - Gli disse sorridendo per stemperare la sua tensione.

- Ti ho quasi perso Kate. Ti ho visto chiudere gli occhi e pensavo che non avrei mai più potuto rivederli. In tre anni non avevo mai avuto il coraggio di dirti che ti amavo e quando l’ho fatto tu forse nemmeno lo avevi sentito o capito. Avevo avuto la mia occasione e l’avevo sprecata, per paura, rischiando di averti poi perso per sempre. - Serrò ancora di più la mandibola mentre lei voltò il viso di Rick in modo tale che potesse guardarla.

- Sono qui, Castle. - Gli baciò una guancia e si accoccolò sul suo petto, incurante del fastidio che ancora le davano le cicatrici.

- Sì, sei qui. Siete qui. - La avvolse tra le sue braccia. Il pensiero che non avrebbe perso solo lei ma anche il loro bambino come una scossa che rinnovò la paura. Quanto poteva costare una misera frazione di secondo, il tempo di uno sparo? Tutto.

Kate chiuse gli occhi e vide il volto di Castle disperato che la guardava. “Kate… Kate ti prego non mi lasciare… Ti amo Kate!”. Ricordò tutto. Le parole di Rick e lei che gli diceva del bambino, che gli avrebbe voluto dire di pensare a lui, al loro bambino ma non era stata abbastanza brava da farglielo capire. Lei, il loro bambino, già lo amava e lo voleva. Non aveva mai dovuto decidere nulla e lo aveva capito proprio quando aveva avuto paura di perderlo.

- Siamo qui. - Ripeté lei sorridendo. - Sono rimasta con te, non me ne sono andata. Ti amo Rick e amo il nostro bambino.

Castle non aveva bisogno di sentirsi dire altro.

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Capitolo 16
*** SEDICI ***


Non se ne era più andato. Kate gli aveva chiesto di rimanere e lui era rimasto. In quella prima notte insieme non avevano dormito molto, avevano più che altro parlato. Di loro e del bambino. Avevano per la prima volta parlato con leggerezza, avevano riso e si erano anche commossi. Kate aveva tremato quando Castle aveva intrufolato una mano sotto la sua maglia ed aveva incominciato ad accarezzarle dolcemente il ventre mentre parlava con un tono di voce così bello e gentile che non lo aveva mai sentito.

- Sarà una femmina. - Le disse Rick

- Cosa ne sai? - Rise Kate arruffandogli i capelli.

- Perché sarà bella come te. Una piccola te. - Rick le baciò la pancia dalla maglia e Kate pensò che non si sarebbe mai abituata a tutto quello.

- Sarà un maschio. E avrà gli occhi azzurri come i tuoi e i tuoi stessi capelli ribelli. - Fantasticò Beckett.

- Oppure potrebbe avere i tuoi occhi verdi e la tua bocca perfetta. - Rick tirò su e andò a baciargliela non si sarebbe stancato mai. La osservò, la accarezzò. Gli sembrava che i suoi lineamenti stessero cambiando, era se possibile ancora più dolce.

- Sai Beckett, credo che sia meglio se sarà un maschio. Perché se avremo una figlia e sarà come te, io diventerò pazzo ogni volta che qualcuno le si avvicinerà. E so che nessuno le potrà resistere. - Kate rise di cuore alla serietà delle sue parole, lo poteva vedere già accigliarsi al pensiero.

- Hai già Alexis del quale preoccuparti Castle! Pensa ai ragazzi che girano intorno a lei, non quelli di una figlia che deve ancora nascere e non sai nemmeno se sarà maschio o femmina!

- No, sarà maschio, mi hai convinto. - Si abbassò di nuovo sulla sua pancia - Ciao piccolo! Ciao Prince!

- Come lo hai chiamato Castle? - Chiese Kate quasi inorridita dalla sua idea.

- Prince. Prince Castle, suona bene no? - Disse lui tutto eccitato.

- Scordatelo. - Rispose seria.

- Perché? È bellissimo! - Fece il suo sguardo da cucciolo maltrattato ma Kate rimase irremovibile.

- Non accadrà mai che chiameremo nostro figlio Prince, non voglio che lo prendano in giro per il resto della sua vita. - Odiava quel sorriso che faceva quando lei era seria e lui faceva di tutto per convincerla. Lo odiava perché lo amava. 

- È bello. - Insistette lui con quell’espressione a cui lei non poteva dire di no.

- Se sarà maschio, secondo nome. Al massimo. Ma niente di simile se sarà femmina. - Cedette.

- Ci sto. Prince secondo nome. Il primo lo deciderai tu. Hai già qualche idea? - Chiese soddisfatto.

- Non ancora.

- Allora per ora posso chiamarlo Prince. - Le sorrise e poi tornò a rivolgersi alla sua pancia. - Ciao Prince!

- Ti odio Castle! - Disse lei esasperata.

- Lo dici da tre anni. Però lo so che vuol dire che mi ami. - “Prince” per un po’ poteva dormire tranquillo, Castle aveva bisogno di dedicarsi alla sua mamma riempiendola di quei baci che entrambi amavano troppo per rinunciarci presto.

 

 

Rick glielo aveva chiesto più volte se era sicura e lei aveva sempre risposto di sì, con gioia. Le aveva proposto di far incontrare Martha e Alexis con Jim, un pranzo tutti insieme, niente di formale o particolare, solo mangiare insieme a casa di Kate ed era stata proprio lei a insistere perché si facesse il prima possibile, trovando, ovviamente il massimo appoggio in tutti, Castle in primis. Kate stava decisamente meglio, sembrava che quei primi giorni a casa, totalmente coccolata da lui, l’avessero rigenerata fisicamente e mentalmente. 

Rick aveva già preparato tutto, mentre Kate lo osservava dal divano finire di apparecchiare. Tremò per un attimo, accarezzandosi il ventre, nel pensare che sembravano già una famiglia.

Dopo che aveva dato gli ultimi ritocchi alla tavola la raggiunse e si sedette vicino a lei.

- Oggi tu sarai al centro di tutti loro, però voglio che tu sappia che per me sei sempre al centro di tutto. Ti amo e farò sempre di tutto perché tu sia felice come in questo momento.

Castle prese una grande busta che aveva nascosto dietro lo schienale e gliela porse.

- Cos’è? - Chiese curiosa.

- Aprilo! - Le rispose gioioso e Kate tirò fuori un peluche di Dumbo.

- Per il bambino! - Esclamò con gli occhi che le brillavano.

- No, è per te. Questi peluche non sono adatti ai bambini piccoli. Ho sempre notato quegli elefanti sulla tua scrivania non me ne hai mai parlato, ma penso che ti piacciano, quindi ho pensato di regalartene uno anche io. Per farti compagnia, quando io non ci sono.

- Mi hai regalato un peluche, Castle? - Rise Beckett

- Uhm sì, perché? - Sembrò preoccupato.

- L’ultimo me lo aveva regalato mia madre, pochi mesi prima che fosse uccisa, quando mi sono trasferita a Stanford. Anche quello era un’elefante, azzurro, però più piccolo di questo. Sai mia madre adorava gli elefanti. - Disse mentre accarezzava il suo Dumbo giocando con le grandi orecchie - Quelli sulla mi scrivania erano i suoi.

- Quindi ti piace? - Le chiese Rick sollevato

- Moltissimo. - Amava come fosse attento ad ogni particolare, scegliere di regalarle un elefantino perché aveva degli elefanti sulla scrivania era esattamente una cosa da Castle. 

- Dove lo tieni l’elefantino che ti aveva regalato tua madre?

- È una di quelle cose che è andata distrutta con l’incendio. - Ricordò con un velo di tristezza. Castle approfittò per accarezzarle il viso e lei gli sorrise. - Sarebbe felice però di vedere questo nuovo arrivato.

- Sarebbe felice di vederti felice. - Concluse Rick ed anche Kate annuì, anche se pensare a lei le provocava sempre quel misto di nostalgia e tristezza.

Castle fu felice che il suo del campanello interruppe quella spirale di pensieri negativi che sapeva poteva coglierla. 

 

Martha e Alexis arrivarono per prime, entrando non senza qualche imbarazzo a casa di Beckett che le accolse sorridendo e concedendosi ai loro abbracci mentre Rick le osservava compiaciuto. Era la sua famiglia, le sue tre donne.

Martha si avvicinò a lui e Castle la abbracciò, cingendole la vita in uno strano slancio affettuoso. Lasciarono sole Kate ed Alexis, le due che di più avevano bisogno di conoscersi sotto altra veste. Tra loro i rapporti erano più che buoni, ma l’equilibrio di tutto poteva essere facilmente sovvertito in quella situazione e Rick era un rischio che non voleva correre, contando sull’intelligenza di entrambe. 

- Sei felice? - Bisbigliò l’attrice all’orecchio del figlio.

- Molto. Sono splendide, vero? - Chiese a sua madre senza togliere gli occhi di dosso dalle due donne più importanti della sua vita.

- Lo sono assolutamente, Richard. - Rispose sua madre e lui annuì orgoglioso. Vide poi Alexis prendere dalla sua borsa un piccolo pacchetto e consegnarlo a Kate che si volto a guardarlo stupita, ma Rick non ne sapeva nulla, Martha sì e sorrise a Beckett che tornò a guardare Alexis con gratitudine.

- È solo una sciocchezza Richard, un modo per farla sentire la benvenuta in famiglia. - Sussurrò Martha a suo figlio.

Kate scartò il pacchetto e dentro trovò una collanina d’argento con tre ciondoli, un ciuccio, una culla e due piedini.

- Papà non lo sa, ma avrei sempre voluto un fratellino o una sorellina. Magari ora sono un po’ troppo grande per giocarci… Però posso sempre portarlo al parco qualche volta, no? - Le disse Alexis mentre Beckett annuiva commossa.

- Tutte le volte che vorrai. - Le rispose abbracciandola

- Cosa aspetti, ragazzo! Vai da loro! - Martha spinse suo figlio, imbambolato a guardare l’abbraccio di Kate e Alexis, verso loro. Rick riuscì a racchiuderle entrambe nel suo abbraccio. Diede un bacio ad ognuna, poi guardò Beckett e la invitò a sedersi di nuovo, lei accettò di buon grado. Chiese ad Alexis si sedersi vicino a lei e di aiutarla ad indossare il suo regalo. 

- Va tutto bene, non è vero Richard? - Chiese Martha compiaciuta dalla scena.

- Va tutto benissimo, mamma. È tutto perfetto, non trovi? Kate, il bambino, Alexis. Sono fortunato. - Disse orgoglioso.

- Lo sei, Richard. Lo sei. - Gli diede una pacca sulla spalla affettuosa.

 

Jim arrivò poco dopo e Rick, dopo aver fatto le presentazioni di rito, chiamò sua madre e sua figlia in cucina con una scusa per permettere a Kate e a suo padre di passare qualche minuto soli insieme. Sapeva quanto era difficile per loro esprimere i propri sentimenti, ma anche quanto era profondo il loro legamene. Erano entrambi riservati, non gli piaceva mettere in piazza i loro sentimenti, né mostrare il loro reciproco affetto, nemmeno alle persone più vicine a loro. Non era un rapporto fatto di grandi slanci o di gesti plateali. Si volevano bene e si preoccupavano reciprocamente l’uno dell’altra, si dimostravano il loro affetto con piccoli gesti, un sorriso o un abbraccio. Fecero così anche quel giorno, prima che gli altri tornassero da loro. Kate sussurrò un “grazie” a Rick quando si avvicinò per darle un bacio.

Il pranzo proseguì piacevolmente, ma quando nel pomeriggio videro Kate cominciare ad essere stanca, decisero tutti di lasciarla sola per riposarsi e Kate convinse Rick ad andare con Martha ed Alexis e passare un po’ di tempo con loro, mentre lei avrebbe dormito. Non fu molto convinto ma alla fine fece come voleva lei, non prima di essere sicuro che non le mancasse niente, ma come lui le aveva detto, aveva il suo nuovo amico Dumbo a tenerle compagnia in sua assenza e lo abbracciò tenendolo vicino a se nel letto. Kate non riuscì ad addormentarsi subito. Rimase molto tempo sveglia a pensare a quella giornata, a come le cose stavano cambiando, al suo piccolo e a come sarebbe stato fortunato ad avere così tante persone intorno che lo amavano già.

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Capitolo 17
*** DICIASSETTE ***


Le belle notizie in quei giorni non erano finite. Kevin e Jenny erano andati a trovare Kate annunciando che presto si sarebbero sposati, avevano fissato la data per inizio settembre, non avevano molto tempo per preparare ma sarebbe stata una funzione semplice e tradizionale. 

- Sembrerò già una balena? - Chiese Kate facendo un rapido conto dei mesi, pochi, che mancavano, facendo ridere tutti.

- Non ti preoccupare Beckett, ancora no. Ma in ogni caso, saresti la balena più bella di tutte! - Le rispose Castle stringendola a se e facendola imbarazzare davanti ai suoi amici, ma non si sottrasse alle sue attenzioni. 

Non mancarono momenti nei quali tutti si trovarono un po’ impacciati nel parlare di quello che era accaduto tra loro, dove veniva difficile liquidare tutto con le loro solite battute come si sarebbero aspettati: Castle sembrava poco propenso a scherzare su quel tema, dimostrandosi, invece, molto protettivo nei confronti di Kate ed anche quando furono Lanie ed Javier ad andare a vedere come stava Kate, la situazione non fu diversa, anche se Esposito era meno in imbarazzo di Ryan e Lanie era tra le poche persone ad essere rimasta vicino a Kate anche durante il suo ricovero in ospedale, quella che aveva raccolto le sue paure ma anche la sua gioia, così Javier e Rick lasciarono le due amiche da sole a chiacchierare andando a farsi una birra in cucina. I due uomini brindarono con le bottiglie osservando le due donne conversare sorridendo.

- Falla felice, Castle. Se lo merita. - Disse Esposito sempre molto protettivo nei confronti di Kate.

- È tutto quello che voglio fare. - Rispose lo scrittore senza staccarle gli occhi di dosso.

- Non pensavo che Beckett fosse così felice di avere un bambino. Non l’ho mai sentita parlare di niente di simile - Constatò il detective.

- Nemmeno io lo pensavo. Soprattutto per come è arrivato ma… Sarà una mamma eccezionale, ne sono sicuro. - Fecero tintinnare ancora le bottiglie di birra.

- Ora però non ti commuovere eh Castle! - Lo schernì Esposito, più che altro perché voleva evitare di farlo anche lui.

 

 

- Non lo fare mai più! - Beckett spense il sorriso di Castle con quell’ordine imperioso. Aveva in mano il vassoio della colazione. Muffin alla vaniglia, tè, french tost con frutti rossi e sciroppo d’acero e succo di mela. Una rosa, rossa questa volta, accompagnava il tutto. Si era alzato ed era uscito a prendere la rosa ed i muffin, non pensava che si sarebbe svegliata proprio in quel momento, non ci aveva messo più di 10 minuti. - Non mi interessano le rose, né i dolci appena fatti.

Non l’aveva trovato lì ed aveva provato la stessa sensazione che aveva vissuto a Los Angeles. Lo aveva chiamato e non era a casa. Rick la guardava colpevole con un sorriso tirato.

- Però visto che ti ho portato la colazione puoi mangiare? Ti farebbe bene. - Le porse il vassoio che lei prese scuotendo la testa. Mangiò tutto con molto più appetito di quando pensasse, stranamente senza avere nausee come i giorni precedenti e Rick la guardava sorridendo mentre si gustava tutto quello che le aveva portato.

- Non mi guardare così. È tuo figlio che ha fame, non io.

- Certo, Beckett. È ovviamente lui, tu non mangi mai così.

Lo fulminò con un solo sguardo e Rick smise si parlare, senza però riuscire a togliersi quel sorriso sbruffone dalla faccia. Adorava vederla così, in realtà adorava vederla in ogni modo. Adorava lei qualsiasi cosa facesse e più passavano i giorni, più l’adorava.

- Devo andare a controllare le ultime correzioni del libro. Penso che farò tardi stasera, perché non dici a Lanie se ti viene a fare compagnia quando finisce a lavoro? - Le chiese quando finì di mangiare.

- Non ho bisogno della balia Castle, posso stare qualche ora da sola. - Rispose lei seccata, ancora turbata per quella sua “fuga” non prevista.

- Lo so che non hai bisogno della balia, però se hai bisogno di qualcosa ti può aiutare e per farti compagnia. Queste riunioni di solito vanno sempre per le lunghe e vorrei veramente finire tutto oggi, così non avrò altri impegni in futuro. - Spiegò cercando di fargli capire le sue ragioni.

- Non sono sola Castle, c’è lui… - Disse accarezzandosi il ventre.  - … Staremo bene da soli, abbiamo tante cose da raccontarci.

Rick le sorrise, la baciò e portò via i resti della colazione. Kate poi lo guardò prepararsi, vestirsi accuratamente per andare alla Black Pawn.

- Per cena ordiniamo una pizza, ti va? - Gli chiese già pensando di gustarsi una mega pizza.

- Mi dispiace Kate, ma penso che mangerò qualcosa là. Te l’ho detto farò tardi. - Si scusò desolato Rick.

- Con Gina? - Chiese lei irrigidendosi.

- Sì, anche con Gina ma… 

- Fai come vuoi Castle. - Rispose seccata. Non riusciva a separare l’idea di Gina da quell’orribile sensazione provata nel vederla arrivare al distretto e andarsene sottobraccio con lui, a come si era sentita una stupida, un’illusa a sperare che Castle fosse veramente diverso, che fosse interessato a lei, che quello non era soltanto un invito fatto ad una delle tante donne da portare lì. Invece era stata rimpiazzata nel giro di poco tempo, dalla bionda, bellissima, prosperosa ex moglie che era tornata alla carica.

- Gina è solo la mia editor Kate, non è niente di più. - Ci tenne a precisare.

- Certo, come lo era prima che andaste negli Hamptons, solo la tua editor ex moglie, ex fiamma, ex amante. - Non riusciva a vedere Gina in modo diverso da lei con le sue mani addosso a lui che lo teneva stretto e lo portava via da lei.

- Esatto. È un ex. - Puntualizzò

- Con la quale andrai a cena. E poi Castle? Ci scapperà anche il dopo cena? - Disse tirando fuori molto più veleno di quanto pensasse di avere.

- Ma che dici Beckett? - Le chiese perplesso e colto si sorpresa dal suo atteggiamento.

- Niente, Castle. Devi andare? Vai. Non vorrei che Gina ti aspettasse troppo. - Si voltò girandosi nel letto per non vederlo, in piedi, vicino a lei.

Rick si sedette sul bordo e la abbracciò, prendendole la mano.

- Come te lo devo far capire che io amo solo te? Cosa vuoi che mi interessi di Gina o di chiunque altra? - La obbligò a voltarsi a guardarlo. Vide che aveva gli occhi lucidi. - Non devi essere gelosa di nessuna. Nessuna è te.

Le accarezzò il volto e poi la baciò dolcemente mentre lei rimaneva immobile.

- Vai Castle, farai tardi. - Gli disse ancora esortandolo ad andare.

- Non vado da nessuna parte. Non ti lascio sola così. Il libro può aspettare.

- Non voglio intralciare il tuo lavoro. 

- Tu vieni prima di ogni cosa. - Cercò di rassicurarla.

- Ti aspettano Rick. Vai.

Rick si alzò controvoglia dopo averle dato un altro bacio.

- Verrò appena finita la riunione, con le pizze. Di là ti ho lasciato pronto il pranzo, lo devi solo riscaldare. - Le ricordò mentre stava uscendo. Beckett annuì solamente, le dava fastidio che lui pensasse che non era più nemmeno in grado di riuscire a scaldarsi il pranzo da sola. Amava che si prendesse cura di lei, amava che le stesse vicino ma non amava che non la considerasse più capace di fare nulla o che avesse sempre bisogno di qualcuno intorno. Stava ogni giorno meglio, da un paio erano anche sparite le nausee e si sentiva più in forza, non si stancava più come i primi giorni appena uscita dall’ospedale.

Appena uscito di casa, Rick chiamò prima Jim e poi Lanie, avvisando entrambi che sarebbe stato fuori tutto il giorno e che Kate sarebbe stata sola. Nonostante le sue rassicurazioni, Castle non voleva che lei passasse troppo tempo a casa senza nessuno che le facesse compagnia o si assicurasse che non avesse bisogno di qualsiasi cosa e non perché era incinta, ma semplicemente perché era ancora convalescente ed era certo che lei non avesse la piena percezione di quello che aveva subito.

 

- Papà, cosa ci fai qui? - Chiese Kate quando aprì la porta e trovò Jim.

- Nulla, volevo solo vedere come stavi, se avevi bisogno di qualcosa. - Le disse l’uomo dopo averla salutata con un bacio.

- Sapevi che ero sola? Ti ha avvisato Castle? - Chiese alterandosi.

- Sì, ma mi fa piacere passare del tempo con te. Come ti senti?

- Bene, papà. E non ho bisogno che te o Castle o chiunque altro mi faccia da baby sitter.

Lo fece entrare e Jim vide che ancora doveva mangiare.

- Vuoi che ti aiuti? - Le chiese cortese

- No, faccio da sola, grazie. Vuoi mangiare anche tu? Castle ha preparato per quattro, almeno. - Disse controllando la grande quantità di polpette e purè. L’uomo annuì e Kate preparò due piatti sotto lo sguardo attento del padre che sperava veramente stesse bene e non si sforzasse di farlo solo per dimostrare che non aveva bisogno d’aiuto.

Riuscì a rilassarsi, parlando con suo padre e lo vide veramente felice per lei.

- Sai, Richard è un brav’uomo. Si preoccupa molto per te. - Le disse per giustificare il perché fosse lì.

- Lo so papà. Ma lo sai come sono… Non è sempre facile accettare di non avere autonomia per fare nulla. Non mi piace essere sotto una campana di vetro, mi sento soffocare. E Castle questo vorrebbe. - Sospirò sentendosi quasi prigioniera delle sue attenzioni.

- Sotto una campana di vetro ci si mettono solo le cose più preziose, quelle che si ha paura di perdere. Abbiamo avuto tutti molta paura di perderti Katie. Richard soprattutto ed io l’ho visto, da prima di sapere che il bambino era il suo. Aveva paura di perdere te. - Le disse prendendole le mani.

- Lo so, papà. 

- Non voglio farmi gli affari tuoi, Katie, ma tu lo ami? Non fare l’errore di stare con una persona solo perché stai per avere un bambino con lui, Castle starà vicino a vostro figlio in ogni caso e…

- Lo amo papà. Lo amo molto. - Lo interruppe e Jim sorrise.

- Sai tua mamma sarebbe stata felicissima. Tante volte fantasticava di quando sarebbe diventata nonna. - Disse l’uomo faticando per non commuoversi.

- Mamma? Mamma pensava a quando avrebbe avuto un nipote? - Chiese Kate stupita non immaginando quel lato di sua madre.

- Oh sì. Le sarebbe piaciuto molto. - Le assicurò Jim.

- Mi manca molto papà. Avrei tante cose da chiederle, vorrei tanto poter parlare con lei di tutto questo, vorrei il suo aiuto, i suoi consigli. Sarebbe tutto più facile.

Jim e Kate rimasero in silenzio pensando entrambi a Johanna, ognuno con i suo dolore ed i suoi ricordi. Kate si portò una mano al ventre accarezzandolo in un gesto che stava diventando sempre più usuale, pensando a quel bambino che non avrebbe mai conosciuto sua madre e a sua madre che non avrebbe mai visto suo figlio.

 

 

La riunione alla Black Pawn procedeva, dopo un pranzo leggero, con un Castle piuttosto distratto che si era già preso diversi richiami da Gina perché non era attento alle loro proposte e modifiche. Ancora non aveva detto a nessuno di loro della sua relazione con Beckett, né del fatto che lei fosse incinta. Anche Paula era presente e stava definendo con Gina quello che sarebbe stato il calendario della promozione del libro negli USA e all’estero.

- Allora Rick, il libro uscirà a fine settembre. Siamo già d’accordo per una promozione nelle principali librerie qui a New York per la settimana del lancio. Cinque pomeriggi di incontri con i fan. Poi comincerà il tour promozionale, abbiamo già preso contatti a Boston, Washington, Atlanta, Philadelphia, Chicago… - Disse l’agente leggendo l’elenco delle città - … Ehy Castle, mi stai ascoltando?

- Sì, sì certo. Philadelphia, Chicago, poi? - Chiese come se stesse effettivamente ascoltando.

- Poi prima di Natale Denver, Salt Lake City e la West Cost: Las Vegas, San Francisco, Los Angeles San Diego.

- Sono troppe. Non posso. - Protestò Castle

- Rick, ma cosa dici? Abbiamo anche già accordi con Detroit, Toronto e Montreal per gennaio e poi pensavamo ad andare in Europa per il lancio della saga di Nikki Heat! - Lo riprese Gina.

- No, non se ne fa nulla. Dammi il calendario, lo devo rivedere con calma e ti dirò quali fare e quali no. - Prese il foglio e lo rilesse velocemente prima di piegarlo e metterlo via.

- Rick, si può sapere cosa succede? Avrai abbastanza spunti per i tuoi libri, non credo che devi sempre stare dietro a quella detective, no? - Chiese Gina indispettita.

- Io e Kate stiamo insieme e aspettiamo un bambino che dovrebbe nascere a fine anno. Di certo non starò fuori città prima e dopo la sua nascita. Quindi potete scordarvi le tappe prima di Natale e quelle a gennaio. E di sicuro non andrò settimane in Europa.

- Ma Rick, cosa stai dicendo? Sei serio? Non mi hai mai detto nulla! - Gli chiese Paula che sembrava cadere dalle nuvole.

- Non sono discorsi che riguardano la mia agente, Paula.

- Ok, ok… Facciamo una pausa. Devo riprendermi - Disse Gina guardando Castle con un misto di irritazione e compassione, come se gli fosse capitata una disgrazia.

Rick uscì approfittando per chiamare Kate. Voleva dirle che aveva detto di loro e del bambino anche a Gina e Paula, rassicurarla che nessuna avrebbe avuto secondi fini con lei. Fece squillare il suo cellulare a lungo, ma nessuna risposta. Aspettò qualche minuto camminando nervosamente per il corridoio della casa editrice e poi chiamò di nuovo. Ancora nulla. 

Chiamò Jim che lo rassicurò che aveva visto Kate a pranzo ed era rimasto con lei un po’ e stava bene. Riprovò a chiamare Kate ma non le rispondeva ancora. Lanie era ancora a lavoro ma gli assicurò che sarebbe andata da lei appena fosse uscita, doveva finire delle analisi su un corpo. Rick, però, non era tranquillo, perché Kate continuava a non risponderle.

- Io devo andare - Disse rientrando nella sala riunioni mentre tutti i presenti lo guardarono sorpresi. - Kate non mi risponde e devo andare a vedere come sta.

Non diede tempo a nessuno di dirgli nulla, era già fuori.

 

 

Era andata in bagno. Dava colpa a tutto quello che aveva mangiato per quei dolori che sentiva. Aveva esagerato, in effetti, tra la abbondante colazione che Castle le aveva portato e il pranzo dove aveva mangiato molto, finito con quella coppa di gelato al cioccolato sotto lo sguardo sorridente di Jim. Le aveva fatto piacere passare del tempo con lui, anche se all’inizio era molto arrabbiata.

Quando però vide delle macchie rosse sugli slip fu assalita dal panico che diventò vero terrore nel vedere altro sangue. Cominciò a girarle la testa e non sapeva se era per quello o per la paura che la stava paralizzando, insieme ai dolori che diventavano sempre più forti. Provò ad alzarsi e dal bagno andare in camera per prendere il cellulare e chiamare aiuto, ma non ci arrivò mai. Appena uscita dal bagno non riuscì a reggersi in piedi e cadde lì, a terra.

 

- Kate! Kate dove sei? Kate! - Castle era entrato urlando. Continuava a chiamarla e sentiva il suo telefono squillare. Entrò in camera e la vide lì, a terra senza conoscenza e una scia di sangue che andava dal bagno e si accumulava lì intorno al suo corpo. Rimase paralizzato solo per un istante, poi si buttò su di lei.

- Kate! Ehy ti prego apri gli occhi Kate… 

Il suo primo pensiero fu che qualcuno era arrivato a lei per finire l’opera cominciata al cimitero, ma si accorse ben presto che Beckett non era ferita e quel sangue era altro.

Prese la prima coperta che trovò e la avvolse al suo corpo freddo troppo freddo.

- Ehy amore… ti prego svegliati… Kate... Kate ti prego guardami.... - Le accarezzava il viso e le spostava i capelli. 

- Castle… il bambino… ti prego Castle… aiutami… il nostro bambino… 

Si era svegliata ma sembrava in uno stato di semi incoscienza. Rick non sapeva cosa fare, ma non poteva perdere altro tempo. La raccolse tra le sue braccia e uscì da lì il più velocemente possibile. La adagiò nel sedile della sua auto, sentendola lamentarsi e senza riuscire a fermare l’emorragia. Ogni suo lamento per lui era un dolore fisico e guidò con gli occhi pieni di lacrime e terrore fino all’ospedale, fregandosene dei limiti e delle strade dove non poteva passare.

 

Entrò urlando fino a quando non arrivarono degli infermieri che portarono via Kate con una barella. Lui li seguiva correndo fino a quando non arrivò davanti ad una porta e lo obbligarono a rimanere fuori. Alzò gli occhi e guardò il cartello che indicava che quello era il reparto di ginecologia e maternità. Si appoggiò al muro e gli sembrò di essere stato senza respirare da quando aveva visto Kate fino a quel momento. Chiuse gli occhi stringendoli più che poteva. Pregò tutte le divinità che poteva conoscere perché Kate stesse bene, perché il loro bambino ce la facesse, anche quella volta, provando a mettere a tacere quella sua parte razionale che gli diceva tutt’altro.

Non a loro. Non a Kate. Non era giusto.

Aprì gli occhi e si guardò intorno. C’erano futuri padri agitati, futuri nonni che fremevano per l’attesa. E poi c’era lui, che piangeva e pregava.

- Signor Castle? - Un giovane medico uscì da quella porta e gli andò incontro. - La sua ragazza ha avuto una forte emorragia. Siamo riusciti a fermarla.

- Il bambino? - Chiese Rick in una domanda alla quale erano appese le sue ultime speranze.

- Mi dispiace… Verrà da lei un infermiera più tardi, quando potrà vedere la sua compagna.

Rick annuì solamente, mentre l’uomo tornò dentro. Si appoggiò di nuovo al muro, ma non era molto sicuro che sarebbe riuscito a rimanere in piedi.

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Capitolo 18
*** DICIOTTO ***


Quando Castle andò da lei, Kate se ne stava raggomitolata in posizione fetale, con il volto rivolto verso il muro. Non si mosse quando lo sentì entrare, nemmeno quando si sedette sul bordo del letto. Lo sentì sospirare più forte alcune volte, fino a quando il tocco incerto della sua mano non le accarezzò i capelli e la schiena. Avrebbe voluto dirgli di smetterla ma non riusciva nemmeno a parlare. Fino a che non lo avesse fatto nemmeno lui, sarebbe riuscita a sopportare. Avrebbe preferito il suo odio a quelle carezze, avrebbe preferito sentirlo urlare, rinfacciarle tutto invece di quel silenzio condiviso. 

Sentì la porta aprirsi e chiudersi di nuovo e dei passi veloci, un rumore di tacchi che si avvicinava sempre più.

Lanie era vicino a Rick, gli aveva appoggiato una mano sulla spalla e quando l’uomo l’aveva guardata aveva letto nei suoi occhi tutto il dolore e la preoccupazione di quel momento. Castle si alzò dal letto dando un bacio tra i capelli di Kate che rabbrividì nel sentirlo così vicino e poi uscì, lasciando le due amiche sole.

Anche con Lanie il comportamento di Kate non fu diverso. Non si mosse né disse una parola, accettando passivamente il contatto con la sua amica così come quello con Castle, nel suo silenzio assordante. La dottoressa rimase con lei sperando che si decidesse prima o poi ad interagire in qualche modo, fosse solo per dirle di andare via, ma fu inutile. 

- Mi dispiace Kate… Mi dispiace tanto… - Le disse prima di andarsene e l’unica cosa che ottenne fu un respiro più profondo.

 

Rick stava parlando con un medico quando Lanie uscì. Lo vide ascoltare serio ed annuire alle raccomandazioni dell’uomo che poi gli strinse la mano e se ne andò da altri parenti in attesa, poco distanti.

- Ha detto che Kate sta bene. La terranno in osservazione questa notte e domani mattina la dimetteranno. - spiegò a Lanie che lo ascoltava non sapendo se essere sollevata oppure no. 

- Ti ha detto qualcosa? - le chiese Castle speranzoso.

- No. Silenzio totale.

- Anche con me. - Sospirò Rick stringendo i pugni così forte da farsi male.

- Castle, Kate è traumatizzata. Ha vissuto due importanti traumi a breve distanza. Ha bisogno di aiuto, anche se lei non lo ammetterà mai. - Lanie accarezzava amichevolmente il braccio di Rick che si stava sforzando di mantenere la giusta lucidità in quel momento.

- Non so cosa fare. - Disse sconsolato.

- Vai a casa, cambiati quella camicia. Non credo che a Kate gli faccia bene vederti così - indicò le macchie di sangue sul suo petto.

- Non ce la faccio ad andare via da qui. Non la posso lasciare sola, non qui.

- Chiamo tua madre. Le dico di portarti qualcosa. - Si propose Lanie.

- Lei… non sa niente… Non… io… non ce l’ho fatta a dirlo a nessuno. - Si giustificò Rick.

- Vado da lei. Ci parlo io. Non ti preoccupare di nulla. Stai con Kate.

Castle annuì e Lanie lo abbracciò prima di andare al loft.

Rick si spogliò, buttando quella camicia nel primo cestino davanti a lui, mettendosi la giacca sopra la tshirt. Quando tornò da Kate lei era ancora nella stessa posizione di quando l’aveva lasciata. Si sedette di nuovo vicino a lei, sempre in silenzio, sempre immobile. La sentì sussultare appena solo quando la sfiorò di nuovo, ma non ebbe nessun altra reazione. Passò un tempo indeterminatamente lungo in silenzio con lei, accarezzandola e sperando in un suo cenno che non arrivò mai, nemmeno quando entrò un’infermiera per mandarlo via.

 

Lanie e Martha erano sedute fuori e, quando videro Rick uscire, sua madre si precipitò ad abbracciarlo. Rick strinse la donna tra le sue braccia così forte che ebbe paura di farle male quando se ne rese conto e, per la prima volta, si lasciò andare, piangendo sulla spalla dell’attrice come un bambino, per il suo bambino. Pianse senza riuscire a contenersi mentre Martha accettava le sue lacrime in silenzio, non aveva bisogno di altro se non dell’abbraccio di sua madre. In quelle lacrime c’era il dolore e lo strazio, c’era la paura e l’incertezza. Dove avrebbe trovato la forza per tirare su se stesso e Kate? Cosa ne sarebbe stato di loro? 

Furono allontanati dal reparto, dovevano andare via da lì, le pazienti avrebbero dovuto riposare. Rick guardò insistentemente verso la stanza di Kate, non la voleva lasciare sola, sapeva di non doverlo fare. Pregò la donna di farlo rimanere ma non ci fu nulla da fare. Avrebbe voluto prenderla e portarla via da lì. Portarla a casa, stringerla tra le sue braccia e tenerla con se, tutta la notte, tutto il giorno, tutti i giorni successivi, fino a quando ne avrebbe avuto bisogno. 

Mentre Lanie riaccompagnava a casa Martha, lui rimase lì, nella sala d’attesa fuori dal reparto, dove futuri padri attendevano nervosi quello che lui non aveva più.

 

Kate lo aveva sentito. Lo aveva sentito parlare preoccupato con Lanie, lo aveva sentito piangere e singhiozzare con Martha, chiedere di rimanere lì fuori per lei. Aveva sentito il suo dolore e la sua preoccupazione e non era riuscita a fare nulla per lui. Si sentiva paralizzata, pietrificata e le sembrava di non sentire più niente. Era anestetizzata dal dolore stesso. Odiava quel reparto dalle pareti troppo sottili, odiava sentir piangere i bambini nelle stanze vicine . Voleva andare via, non riusciva nemmeno a chiederlo, non riuscì nemmeno a farsi portare qualcosa per dormire. Voleva dormire, per un tempo indefinito, per non sentire niente, per non sentire il vuoto. Il desolante senso di vuoto che aveva lasciato il suo bambino, quel bambino che non sarebbe mai nato, quel bambino che si era originato ed era morto in lei, quel bambino per cui lei era stata tutto il mondo nella sua breve esistenza. Dieci settimane e più della metà del tempo lei nemmeno sapeva della sua esistenza. Eppure quel tempo era diventato sufficientemente lungo perché lui diventasse così importante per lei. Lui, perché così se lo immaginava. Un bambino con i capelli castani e gli occhi azzurri come quelli di Castle. Prince, come lo chiamava Castle, perché lei non aveva mai avuto tempo di scegliere il primo nome. Prince, sarebbe rimasto sempre solo Prince. Lo immaginava così quando pensava a come sarebbe stato tenerlo tra le braccia ed osservarlo scoprire il mondo, quelle braccia che adesso erano vuote. Non lo avrebbe mai sentito piangere, non avrebbe mai saputo se i suoi occhi sarebbero stati effettivamente azzurri, non avrebbe mai saputo se sarebbe stato fantasioso come Rick o concreto come lei. Il suo bambino non c’era più. 

Aveva passato tutta quella notte a farsi domande che non avrebbero mai avuto una risposta. A fustigarsi di dolorosi perché. Ogni domanda faceva più male di qualsiasi dolore fisico, di quei crampi continui all’addome, delle cicatrici non ancora completamente guarite, benediva, anzi, il dolore fisico, le permetteva per qualche istante di non pensare, quanto facesse male tutto il resto. Aveva ripercorso tutti i momenti passati con lui. Quando aveva scoperto che c’era e aveva sconvolto la sua esistenza tanto da chiedersi se effettivamente lo voleva, se poteva permettersi di volerlo e la risposta gli era arrivata poche ore dopo, quando l’avevano ferita e l’unica cosa che era riuscita a pensare era stata il suo bambino. Ripensava alla consapevolezza di lui che cresceva in lei, all’idea che quando era sola in ospedale in realtà non lo era mai, perché c’era lui. Ripensò al suo cuore che batteva agli occhi emozionati di Castle nel sentirlo e nel vederlo e al rendersi conto per la prima volta che loro erano i genitori di quella piccola creatura. Pensava a come prendeva forma nella sua mente, alle prime volte che si era accarezzata il ventre con un tocco incerto, quasi lo potesse disturbare e a come, invece, poi aveva imparato ad accarezzarlo per cercare lei stessa calma e tranquillità. Pensava a come grazie a lui era riuscita a lasciarsi andare all’amore per suo padre e a quell’idea di famiglia che era troppo bella perché potesse essere reale. Infatti non lo era. Non c’era più niente di tutto questo. Non c’era più lui e si era portato via tutto con se.

 

Castle era tornato la mattina dopo e Kate si era fatta trovare già pronta. Aveva con fatica indossato gli abiti puliti che lui le aveva fatto avere. Aveva lasciato quelli con cui era venuta in una busta in quella stanza, voleva dimenticarli lì, come tutto il resto. 

Era rimasto a distanza, timoroso della sua reazione, non volendo invadere il suo spazio senza permesso. Le aveva offerto il suo aiuto, per camminare ed uscire da lì. Le girava la testa ma declinò ancora, camminando a suo fianco con passo incerto. Erano vicini e terribilmente lontani. 

- Dove vuoi andare? - Le chiese quando erano in macchina.

- Portami a casa. - Erano le prime parole che sentiva da lei da quando l’aveva portata in ospedale.

- Hanno detto che ti devi riposare nei prossimi giorni, stare a letto, è importante per riprenderti prima. Sarai debole, hai perso molto sangue, Kate.

Lei sembrava non ascoltarlo, mentre lui parlava lentamente e a voce bassa.

 

Percorsero in silenzio il resto del tragitto. Kate non si volle far aiutare né per scendere dall’auto, né per arrivare a casa. Il corridoio vuoto rimbombava dei loro passi. Tutto sembrava troppo maledettamente cupo e silenzioso, anche il sole che splendeva alto, in quella calda giornata di inizio estate con le temperature che erano salite improvvisamente, sembrava scuro e freddo. Castle si preoccupò quando aprì la porta di casa, pesando che ci fossero ancora le tracce di quanto successo, di come l’aveva trovata. Il pavimento era pulito e la stanza rassettata. Mentre silenziosamente camminavano dentro, vide un biglietto nel quale riconobbe la calligrafia di Lanie, Beckett lo guardò distrattamente, poi proseguì, verso il divano, senza leggerlo.

- Vuoi qualcosa? Un tè, un caffè? Vuoi mangiare? - Le chiese Rick premuroso.

- Solo stare da sola. - Rispose lei senza guardarlo con tono totalmente inespressivo.

Rick annuì sedendosi su una delle sedie, lasciandosi andare, per qualche istante, prendendo la testa tra mani e cercando di recuperare le forze nervose.

- Castle, ti ho detto che vorrei stare sola. - Lui si tirò su guardandola. Aveva lo sguardo perso nel nulla. Guardava nella sua direzione trapassandolo.  Aprì la bocca per parlarle ma non lo fece e scosse la testa. Recuperò le chiavi sul tavolo vicino al biglietto di Lanie che lesse distrattamente: parole dolci, parole di una vera amica, parole che avrebbero fatto bene a Kate se fosse stata disposta ad accettarle.

- Ti amo Kate. Sempre. - Non aspettò una risposta che non ci sarebbe stata, chiuse la porta lasciandola sola come voleva, come non doveva essere, ma non riusciva a trovare dentro di se la forza per imporsi contro la sua volontà. Si sentì affogare nel suo dolore senza essere in grado di tenere a galla anche lei. Avrebbe preferito annegare.

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Capitolo 19
*** DICIANNOVE ***


Incredulità. Smarrimento. Estraniamento. Angoscia. Solitudine. Sconforto. Paura. Rabbia. Frustrazione. Senso di colpa. Inadeguatezza. Vuoto. 

Vuoto. Soprattutto vuoto. Fisico e mentale. Materiale e emotivo. Vuoto. Lei era il nero. Era la somma di tutti i colori che generavano il nulla. Così si sentiva, come se tutto quelle emozioni avessero l’unico scopo di farle sentire il nulla che era dentro e intorno a se.

Tornata a casa quel pomeriggio era rimasta da sola, tutta la sera e tutta la notte, sul divano a fissare un punto imprecisato della stanza, rimanendo al buio man mano che la luce del sole calava.

Erano state le sue ultime ore di dolore solitario, dal giorno dopo non era più riuscita ad avere un attimo di tranquillità. Era diventato un via vai di persone che volevano vedere come stava, volevano portarle il loro conforto, volevano aiutarla. Accettava tutti passivamente. Ascoltava le loro frasi vuote che si ripetevano sempre uguali, sempre senza senso. Lanie, Jim, Esposito, Ryan, Jenny, Martha, Alexis, Madison, sua cugina Sophia e sua zia Theresa che non sapeva nemmeno chi le avesse avvisate e quanti anni erano che le doveva vedere? Nemmeno se lo ricordava. Non capiva tutta questa voglia di presenziare, di andare lì e chiacchierare e dirle tutto quello che non voleva sentire. “Non ti preoccupare Kate, avrai altri bambini”. “È una cosa che capita a tante donne, è normale”. “Meno male che eri solo agli inizi della gravidanza”. “Meglio ora che che più avanti”. “Però l’importante è che tu stai bene”. “Quando succede è perché il feto non è sano. Meglio così.”

Li sentiva parlare uno dopo l’altro, annuendo, senza dire nulla. Si alzava, apriva la porta, salutava e tornava a sedersi, rannicchiata in un angolo della poltrona, senza sforzarsi di parlare, di sembrare gentile ed ospitale. Li ascoltava fino a quando non si stancavano di ripetere le loro ovvietà e poi li accompagnava di nuovo alla porta, guardandoli andare via, salutandoli solo per educazione. E poi la storia si ricominciava e lei ripeteva sempre lo stesso copione, con tutti. Passivamente.

Solo con una  persona aveva un atteggiamento diverso, ma non migliore, ed era Castle. Lui non lo voleva lì, non sopportava la sua presenza. Eppure lui era l’unico che non le diceva niente di tutto questo, rispettava il suo dolore in silenzio, perché era l’unico che lo capiva, perché lo provava. Eppure in lui c’era quel senso di impotenza per non riuscire a fare nulla per farla stare meglio, per non avere più un canale di comunicazione con lei, per riuscire a superare le sue difese. La verità era che lui non sapeva come aiutarla e come riuscire a far uscire il suo dolore. Lui piangeva, piangeva tanto, ogni volta che era solo. Lei non piangeva mai. Nessuno le aveva mai visto versare una lacrima, perché Kate non aveva mai pianto.

Gli parlò, infine, una sera appena rimasti soli. 

- Non c’è più motivo per stare insieme. - Aveva interrotto il suo silenzio e per Castle fu una doccia gelata.

- Cosa stai dicendo Kate? 

- È semplice, Castle. Finisce qui. - La sua voce fredda, impersonale lo faceva tremare.

- Io ti amo, non può finire qui. - Rick si sentì cadere il mondo addosso, non poteva perdere anche lei.

- Non dovresti amarmi, dovresti odiarmi.

- Non posso. - Scuoteva la testa mentre la guardava e si avvicinò a lei per farglielo capire, ma Kate si voltò dalla parte opposta, come se non sopportasse nemmeno la sua vista.

- È meglio per tutti e due, credimi. Vai via Castle. 

- Non ti posso lasciare sola adesso. - Allungò una mano verso di lei ma non aveva il coraggio di toccarla.

- Devi farlo. Non c’è più niente da proteggere. - Rick sentì il suo dolore dalle parole anche se non lasciavano trasparire nessun sentimento dal suo tono e vide la mano scendere in un gesto istintivo sul suo ventre avendo paura persino a sfiorarlo.

- Ci sei tu. - Doveva farle capire quanto era importante per lui.

- Mi posso proteggere da sola. - Si era rintanata dietro quella corazza impenetrabile.

- Non da te stessa. - La accarezzò finalmente e la sentì scattare, spostandogli la mano con decisione, come se quel contatto le facesse male. Si alzò in piedi urlandogli contro, era la prima vera reazione che aveva.

- Hai ragione. Sono io il pericolo. Per me e per le persone che amo. Vattene Castle. Io distruggo tutto. Non voglio distruggere anche te.

- Kate, noi… - Provò a calmarla, senza effetto. Beckett urlò ancora verso di lui.

- Non c’è più un noi. Non c’è più. Vattene Castle. Vai via.

 

Ancora una volta l’aveva assecondata, ancora una volta non aveva trovato il coraggio di combattere per lei e con lei. Ancora una volta il suo dolore era troppo grande per riuscire a prenderla per mano e a portarla con se, al sicuro. L’aveva lasciata nel suo sconforto e nella sua solitudine, come un vigliacco, vinto troppo facilmente dal suo volere.

Kate lo aveva guardato andare via. Era meglio così, per tutti. Nessuno la poteva capire nemmeno lui ed ogni volta che lo vedeva non poteva evitare di pensare a tutto quello che non avrebbero più avuto, di pensare al loro bambino, quel bambino che non era cresciuto solo dentro il suo ventre, ma ancora di più nella sua mente, dove aveva preso forma giorno dopo giorno nei suoi pensieri: lo aveva immaginato, aveva fatto progetti per lui e per loro. Aveva immaginato quando avrebbe cominciato a parlare ed era certa sarebbe stato come Castle, impossibile da fermare. Aveva riso tra se e se pensando che sarebbe diventata matta con i suoi due uomini chiacchieroni ed ora avrebbe dato qualsiasi cosa perché lo diventasse veramente. Ma non c’era più niente di tutto quello, non c’era più il suo bambino, non c’era più Castle. Si era bloccato tutto. Le fantasie si erano infrante, dei sogni rimaneva solo il brusco risveglio, i progetti erano fogli triturati di cui rimanevano coriandoli anonimi. 

Di lui non c’era più nulla e la cosa che la faceva più soffrire era che per molti non c’era mai stato nulla in realtà. Non esisteva più, non sarebbe mai esistito e per tutti non era esistito mai. Non per lei. Per Kate era vero, autentico, reale. Per Kate era già suo figlio, il suo bambino, Prince, il suo piccolo principe. Non era 3 centimetri e 3 grammi di cellule. Era quel cuore che batteva dentro di lei. 

Non le importava se avrebbe avuto altri bambini, lei non avrebbe mai avuto quel bambino e tutto quello che quel bambino voleva dire per lei. Odiava come tutti minimizzavano il suo dolore e quelle frasi che dovevano essere di conforto non facevano altro che aumentare la sua disperazione che sembrava nessuno comprendesse. Era devastante. Lei era sola con il suo dolore, perché per gli altri lui non era nulla, non lo era mai stato, se non un’idea o una proiezione futura. Non per Kate. Lui non c’era più ma lei lo sapeva che c’era stato, aveva già visto il suo corpo cambiare per accoglierlo e testimoniare la sua presenza. Nessuno capiva quel dolore che era solo suo.

Cosa ne sapevano loro che cosa era per lei il suo bambino? Cosa voleva dire che era meglio così perché era poco tempo? Chi erano loro per quantificare il tempo, per sapere quanto in quel poco tempo quel bambino era importante per lei? Odiava, odiava tutti quei discorsi. Odiava chi le diceva che l’importante era che lei stava bene. Lei non stava bene. Non stava affatto bene. Lei si sentiva morire e loro gli dicevano che stava bene. Cosa voleva dire stare bene? Stare bene voleva dire essere a casa, essere sana? Lei non era sana, era distrutta in mille pezzi e nessuno li vedeva, li calpestavano incuranti con le loro frasi fatte e le loro inutili rassicurazioni. Cosa ne sapevano loro cosa voleva dire essere separati bruscamente da qualcosa che si custodiva così gelosamente, essere privata di una speranza, dei sogni del proprio futuro. Era suo figlio, ma nessuno lo capiva. Nemmeno lei lo aveva mai capito fino a quel momento e si era trovata a pensare a quelle volte che, anche nel suo lavoro, si era trovata in una situazione simile, a quante frasi vuote e banali aveva detto. Ma forse non si capisce finché non si vive. O non si muore. Quel bambino era il simbolo della sua nuova vita, era la speranza che la vita potesse veramente cambiare ed uscire da quella spirale nella quale si era ritrovata dopo la morte di sua madre. Aveva visto la luce, aveva afferrato la mano di Castle che le prospettava un futuro diverso, insieme, felice. Ora era precipitata ancora più in basso e faceva ancora più male. Non c’era più speranza, non vedeva più la luce e non voleva nemmeno più provare a salvarsi ancora. Il suo unico compagno era il dolore. Morale e fisico che però non aveva più alcun significato, perché niente poteva fare più male di quello che c’era dentro di se. Il vuoto.

 

Si era alzata per andare in camera, aveva visto quel bocciolo di rosa sul comodino. Ripensò al momento in cui glielo aveva regalato, alle loro mani che lo custodivano e lo proteggevano. Lei non era stato capace di farlo. Lei non era stata capace di proteggere il loro bambino. Non era stata in grado di farlo vivere dentro di se. Lo aveva lasciato scivolare via, lo aveva abbandonato. Continuava a chiedersi perché. Perché proprio a lei, perché proprio a loro? Perché il suo bambino? Non era giusto. Non era umano. 

Non era stata abbastanza brava. Non era stata abbastanza attenta. Le avevano detto di no, ma lei lo sapeva, tutto era dipeso da quel giorno, da quella sparatoria. E lei non si era mai fermata, non aveva mai dato peso alla sua vita ed ora lei era era sopravvissuta ed il suo bambino no. Non lo meritava. Sì era quello il motivo. Lei non lo meritava quel bambino. Però stava soffrendo anche Castle e la sua unica colpa era stato scegliere lei. Lei, che distruggeva tutte le persone che amava, lei che aveva ucciso suo figlio e distrutto anche l'uomo che amava per questo. 

 

Vide il punto esatto dove rimasta a terra. Ripensava al terrore di quel momento che la paralizzava, al l'impossibilità di chiedere aiuto, al sangue, alla vita che sentiva andare via e si sentiva sempre più debole fino a quando non sentì la voce di Rick, le sue braccia sollevarla, le sue urla spaventate e lei che riusciva a dirgli solo "ho paura" con voce tremante. Si ritrovò a stringere quel bocciolo di rosa così forte da distruggerlo. Non aveva più senso nemmeno quello. Camminò fino al punto dove era rimasta a terra. Si inginocchiò toccando il pavimento e poi si sdraiò lì per terra con gli occhi secchi di dolore, continuando a stringere e stritolare quel fiore ormai secco lasciando che le quella polvere scivolasse via dalle sue mani e e si posasse lì, dove tutto era finito. Pensò che sarebbe stato meglio se anche lei non si fosse mai rialzata.

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Capitolo 20
*** VENTI ***


Castle si trascinò fuori dal palazzo. Scese uno ad uno i gradini ripercorrendo ad ogni passo la loro storia. Rivide Kate sdraiata a terra al cimitero che gli diceva del loro bambino, sentì il pugno di Josh sul viso e toccò lo zigomo con quella cicatrice che era rimasta lì. Aveva pensato che l’avrebbe amata sempre, gli avrebbe ricordato il momento in cui aveva saputo di suo  figlio, del suo piccolo principe. Rivide uno per uno i sorrisi di Kate, timidi, imbarazzati a dirgli di loro, sentì le strette di mano, sempre più forti, sempre più importanti. E gli abbracci ed altri sorrisi, pieni ed emozionati, le lacrime di gioia e l’emozione per quel cuore che batteva forte, per quell’esserino che si muoveva vispo. Le promesse, le speranze, i sogni. Loro due, che erano già tre, insieme, finalmente. Ogni scalino che scendeva era un ricordo che faceva male. Uscì dal portone ed era svuotato. Non gli rimaneva più niente solo il freddo dolore di Kate che gli diceva che era tutto finito e lui che non aveva la forza di dirle di no. Lei che lo spingeva già da un precipizio e lui che non riusciva a tenersi e si lasciava spingere. E  forse era più facile così. Era più facile lasciarsi cadere ed affondare che provare a nuotare e stare a galla. Era frustrante amare qualcuno e non essere in grado di aiutarlo e lui sentiva che non ce la faceva. Voleva piangere, voleva il diritto di stare male anche lui e non riusciva a farlo davanti a lei. Per questo  se ne era andato ed era su un taxi diretto al loft. 

Era caldo quella sera d’estate. Il suo tassista ascoltava una radio dove commentavano la Copa America appena cominciata in Argentina. Ascoltava distrattamente nomi di calciatori che non conosceva e vedeva l’uomo, dai tratti marcatamente ispanici, annuire con vigore, segno che lui era evidentemente d’accordo con quanto veniva detto. Provò ad attaccare bottone con lui, non c’era traffico quella sera a New York, ma l’uomo procedeva lentamente, non sembrava avere fretta. Lui nemmeno ad essere sincero, ma non aveva voglia di parlare di calcio o di qualsiasi altra cosa. Potevano anche fare il giro di tutta la città, anzi, sarebbe arrivato anche Buenos Aires se lui ce lo avesse voluto portare, non avrebbe fatto alcuna differenza. Un posto valeva l’altro.

Si accorse che erano arrivati solo quando l’uomo si voltò, chiedendogli con insistenza e senza la cortesia tenuta fino a quel momento, se volesse pagarlo oppure no. Gli diede qualche banconota da 10 dollari, sicuramente più di quanto segnava il tassametro che non aveva nemmeno guardato. Alzò gli occhi al cielo osservando le finestre del suo loft, provando un’insana difficoltà a sentirsi a casa abbagliato dalla luce del lampione.

Lasciò che l’ascensore lo portasse fino all’ultimo piano, fissando la linea nera nella quale le porte si congiungevano, vedendola aprirsi, scoprire il pianerottolo e quindi uscì. 

L’aria fresca del loft si scontro con i suoi abiti caldi e gli fece provare un brivido. Alexis si affacciò da dietro il divano per vedere chi fosse entrato, probabilmente credeva fosse Martha, almeno dalla faccia stupita che fece vedendolo lì.

- Papà! Come mai sei qui? - Gli chiese Alexis andandogli incontro ed abbracciandolo. Sapeva che ne aveva bisogno e capì che era vero da come la stringeva.

- Kate vuole stare da sola. - Disse tenendo sua figlia tra le braccia, aggrappandosi a quella figura esile dai capelli rossi, la sua unica ragione per rimanere a galla.

- Rimani a dormire qui questa sera? 

- Rimango qui sempre. - Sospirò Rick.

- Cosa vuol dire papà? - Chiese Alexis staccandosi dal suo abbraccio.

- Kate non vuole stare con me. In realtà credo che non voglia stare con nessuno, nemmeno con se stessa.

- Non la puoi lasciare sola adesso lei è… è traumatizzata! - Lo rimproverò Alexis che non capiva l’atteggiamento remissivo di suo padre.

- Non ce la faccio adesso, piccola. Non sono capace di starle vicino come dovrei. Mi dispiace, non sono così forte… 

Le diede un bacio e si trascinò fino al suo studio, Alexis non lo seguì, rimase a guardarlo da lontano. Era la prima volta che vedeva suo padre così e non sapeva come comportarsi. Avrebbe voluto stare con lui, ma in quel momento capì quello che lui le aveva appena detto, la difficoltà nel sostenere il dolore di qualcuno, un dolore che non si conosce e non si è in grado di affrontare o consolare e lei non era preparata a vedere suo padre vulnerabile, perché così ora gli appariva. Lui che con la sua ironia e la sua allegria era sempre stato la sua roccia, che non era mai andato affondo, nei momenti più difficili, quando i libri non vendevano bene, quando l’ispirazione mancava, quando sua madre se n’era andata e passavano mesi senza che si facesse sentire, quando lei stava male. Suo padre era sempre rimasto a galla e non si era mai mostrato in difficoltà. Non che lei credesse che lui non aveva mai avuto momenti di sconforto o di amarezza, ma semplicemente con lei evitava sempre di mostrarli, anche quando era lei che invece lo invitava a guardare la realtà dei fatti con occhio più attento, come quando era stato mesi senza scrivere, a passare il suo tempo in casa, tra whiskey e scommesse, ma per lei c’era sempre con le sue battute ed il suo ottimismo e la sua crisi diventava solo un “ho bisogno anche io di un po’ di riposo dopotutto, non trovi?”. No, lei non trovava, eppure ammirava il suo “va tutto bene” che le voleva far percepire in ogni caso. Era sempre stato così, era quello che quando Meredith non si ricordava del suo compleanno le inventava storie assurde sul perché, poi lui spariva e dopo poco lei chiamava. Solo a distanza di anni aveva capito che era stato lui a cercarla per ricordarglielo, ma a lei, in quei momenti andava bene così, e si aggrappava al sorriso di suo padre che la rassicurava ancora “te lo dicevo che avrebbe chiamato” e lei ci credeva. Per anni era stata convinta che suo padre non piangesse mai, perché i papà non possono piangere, però l’aveva visto farlo un giorno, quando si era rotta un braccio andando sui pattini e lui pianse due volte, per la paura prima e per il sollievo poi e lì gli aveva spiegato che anche i papà possono piangere, quando si tratta dei propri figli. Poi lo aveva visto un’altra volta, ma non glielo aveva mai detto, una sera gli aveva raccontato che a scuola la prendevano in giro perché la sua mamma non c’era e le dicevano che era perché no le voleva bene e quella sera lo vide piangere nel piccolo studio senza finestre della loro casa di allora, dove si rifugiava a scrivere in quello che ora le sembrava quasi un sottoscala, ma lui glielo descriveva come il luogo incantato di un mago che inventava storie, dove aveva appeso tutti i disegni che lei gli faceva e Alexis credeva veramente che quel sottoscala era magico: era andata a portargli un nuovo disegno, di loro du insieme, e dalla fessura della porta lo aveva sentito parlare al telefono con Martha e piangere. Gli lasciò il disegno sul tavolo della cucina ed andò a dormire. Anche i papà possono piangere per i propri figli, ma lei era ancora una bambina e non era pronta ed ora erano passati anni, ma ancora non era pronta a vedere suo padre piangere e come quella bambina lo spiò e poi fuggì in camera sua.

 

Castle aprì il mobile dietro di lui tirando fuori una scatola. La teneva chiusa, al sicuro. C’era solo una scritta sopra, Alexis, fatta con una scrittura incerta e imprecisa con la L rovesciata rispetto a come doveva essere. Aveva insistito per scriverlo lei, ancora prima che cominciasse la scuola, come lui le aveva insegnato. Aveva poco più di quattro anni e Meredith se ne era andata da pochi giorni, lasciandoli soli. Rick aveva preso una grande scatola delle scarpe, di un paio di stivali di sua madre che aveva lasciato lì, probabilmente. Aveva messo Alexis sulle sue gambe e l’avevano tutta rivestita con carta da regali rosa con disegnati arcobaleni e fatine. A sua figlia piaceva giocare con lui, perché per ogni cosa che facevano Rick inventava una storia e Alexis si incantava ad ascoltarlo. Le disse che da quel giorno in poi lì avrebbero messo tutte le cose importanti, quelle che volevano conservare per il futuro. Così Rick decise di metterci il suo primo ciuccio ed la prima tutina che aveva indossato in ospedale, Alexis oltre ad alcuni suoi disegni, aveva insistito per metterci il biglietto del cinema del week end precedente, quando erano andati a vedere Tarzan, avevano mangiato pop corn e caramelle gommose e lei gli aveva detto che era stato il pomeriggio più bello di sempre. Non aveva mai saputo se era vero, però quel biglietto era sempre lì, tra le tante cose importanti. Poi Alexis era cresciuta e lui aveva continuato a metterci le cose che riteneva importanti, alcuni riconoscimenti che aveva avuto a scuola, una lettera che gli aveva scritto lei una volta, per scusarsi di essere uscita di nascosto ed averlo fatto preoccupare, il papiro con il suo nome scritto in geroglifico, che lui aveva insistito per farsi fare quando erano andati insieme in vacanza in Egitto e che lei aveva trovato troppo turistico per tenerlo. C’erano tante foto, la sua prima foto con lei in braccio, le sue ecografie, la prima volta sulla neve e al mare, loro due al parco e allo zoo. C’era tutta la vita di Alexis in quella scatola, foto dopo foto, oggetto dopo oggetto. Aveva tenuto anche il fiocco del suo primo giorno di scuola, ma non glielo aveva detto, perché lei lo odiava.

Faceva scorrere tutte quelle cose tra le mani, non sapeva perché, forse cercava solo un conforto che non arrivava. Sulla scrivania aveva ancora la foto dell’ecografia del loro bimbo che non c’era più e qualcuno particolarmente cinico gli avrebbe detto che in realtà non c’era mai stato alcun bambino, solo un embrione, un feto forse. Eppure lui lì lo vedeva, proprio come lo immaginava. Non c’era rimasto altro di lui che quella foto dove nessuno avrebbe visto un bambino, maschio, con la bocca di Kate ed i suoi stessi occhi, come lo vedeva lui. Una foto ed un dolore lacerante. Tutto quello che aveva, ed avrebbe mai avuto, di suo figlio. Vide anche quel pacchettino che aveva preso e non aveva mai avuto modo di dare a Kate, non aveva nemmeno il coraggio di aprirlo, non voleva rivedere quella minuscola tutina azzurra che aveva pochi giorni prima, con la scritta “Mumy’s Little Prince”. Avrebbe voluto dargliela quando l’ecografia gli avrebbe dato ragione dimostrando che era un maschio, lui ne era certo così come lo era stato con Alexis.

 

 

- Richard, non ti fa bene stare lì a guardare quella foto. - Martha era entrata nel suo studio e lui tirò sù la testa guardando sua madre, asciugandosi le lacrime.

- Mi rimane solo questa. È l’unica cosa che resta insieme al dolore. Potrebbe essere stato solo un sogno. Io e Beckett, il bambino… Troppo bello e troppo assurdo per essere vero, no? Infatti non lo è più. Non c’è più niente.

Martha si avvicinò a lui, e lasciò che lui appoggiasse la testa su di lei. Gli accarezzò i capelli come ad un bambino e non era molto diverso da quello. Era arrivata subito appena Alexis l’aveva chiamata. Aveva lasciato quella cena con le amiche alla quale era andata controvoglia, convinta dalla nipote, per distrarsi un po’. Ma ora che il suo ragazzo era lì a casa, sapeva che era quello il suo posto, quello il suo compito.

- Perché mamma? Perché a noi, perché a Kate? Lei non se lo meritava. Non ha già pagato un conto troppo salato con la vita? Perché anche questo? - Alzò gli occhi a la fissò cercando una risposta che la donna non poteva dargli, gli accarezzò il volto e gli asciugò gli occhi con il suo fazzoletto.

- Non lo so ragazzo mio… non lo so…

- Lei è… distrutta. La dovevi vedere mamma… Era così… indifesa e mi diceva di andarmene, mi aggrediva per proteggersi anche da me… - Martha prese una sedia e si mise seduta vicino a lui, prendendogli una di quelle mani che non riusciva a tenere ferma quando parlava.

- Perché te ne sei andato Richard? Perché non sei rimasto con lei? - Gli chiese gentilmente.

- Perché sono un vigliacco. Non ce la facevo a sopportare il suo dolore. Perché volevo piangere e non potevo davanti a lei.  Lei non ha mai pianto davanti a me e credo che non lo abbia proprio fatto mai.

Capiva il suo dolore ed il suo senso di impotenza. Non poteva rimproverarlo ma sarebbe stato veramente meglio se le fosse rimasto accanto.

- Non devi sopportare tu il suo dolore. Tu hai il tuo, dovete solo farvi forza a vicenda, solo voi sapete cosa state provando, nessuno può capirvi. Nemmeno io.

- Non so nemmeno io cosa prova lei. Non riesco a comunicare con lei. Si sente in colpa, mi ha detto che dovrei odiarla, come faccio ad odiarla mamma? Io non so come dirle che non è vero, che non ha nulla da rimproverarsi? Quella mattina avevamo discusso. Kate era gelosa di Gina, non voleva che passassi la serata con lei. Io le avevo detto che mi sarei fermato fino a tardi alla Black Pawn, di non aspettarmi e c’era rimasta così male… Io non dovevo andare.

- Non devi sentirti in colpa nemmeno tu, Richard. Non potevi fare nulla e lo sai. Te lo ha detto anche il dottore, non ci sarebbe stato nulla da fare nemmeno se fossi stato lì.

Castle annuì e Martha prese dalle sue mani la foto dell’ecografia mettendola sulla scrivania rivolta verso il basso. Non sapeva se era la cosa giusta da farsi, ma non poteva vedere suo figlio torturarsi così. Gli diede un bacio e poi andò in camera sua.

Rick non appena fu solo prese di nuovo la foto e riprese a guardarla, senza sosta.

- Papà? - Alexis si era affacciata al suo studio

- Ehy piccola, dimmi. - Si asciugò le lacrime con un gesto rapido.

- Tu sei forte, io lo so. Però se vuoi piangere ne hai tutto il diritto, non ti nascondere.

Castle annuì e aprì le braccia a sua figlia che andò da lui e si sedette sulle sue gambe come quando era bambina ed aveva bisogno di essere consolata e piangeva sulla sua spalla. Ora, però, a piangere era lui e lei non sapeva ancora come fare a consolare lui, lo abbracciava solamente, sperando che almeno un po’ bastasse.

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Capitolo 21
*** VENTUNO ***


Kate sentì bussare con insistenza alla sua porta. Non sapeva che ora era, né da quanto tempo stava lì, sempre a terra, sempre nello stesso posto e non aveva nessuna voglia di alzarsi, né di vedere nessuno, chiunque fosse. Voleva stare lì, chiusa nel suo dolore, chiusa come gli occhi che non volevano vedere nulla se non il buio che l’avvolgeva. Non voleva più sentire le parole di vuota pietà, quella compassione dovuta e fredda. Non voleva sentirsi dire che sarebbe passata, che era solo questione di tempo. Cosa ne sapevano loro del tempo e del dolore? Cosa ne sapevano del senso vuoto e di come sarebbe passato?

Non passava nemmeno il bussare insistente ma non aveva nessuna intenzione di aprire. Si stancheranno, prima o poi, pensava. Cosa voleva ancora il mondo da lei? Non aveva già pagato abbastanza, in ogni modo possibile? Era tanto voler essere lasciata in pace. Si tranquillizzò solo quando non sentì più nulla e poi due mani le stavano tenendo il volto. Aprì gli occhi e c’era luce. Le dava fastidio, come tutto.

- Kate, ma cosa fai qui? Dio mio ragazza sei bollente! - Lanie aveva una mano sulla sua fronte e Kate percepì chiaramente il freddo delle sue mani sulla sua pelle.

- Vai via Lanie, lasciami stare - Farfugliò all’amica che però non aveva alcuna intenzione di lasciarla lì.

- Dov’è Castle? Perché sei sola?

- È andato via. 

- Che vuol dire è andato via? Perché?

- L’ho mandato via io ed ora vai via anche tu. - Provò ad imporsi ma era troppo debole per la forte volontà di Lanie di farla alzare a lì.

- No, ora tu ti alzi e vai a letto, oppure chiamo un’ambulanza e ti faccio venire a prendere. Hai la febbre alta Kate, da quanto sei lì?

- Non lo so. - Si alzò barcollando sentendosi molto più debole di quanto ricordava che fosse. Si lasciò aiutare da Lanie a mettersi a letto: batteva i denti in quella stanza calda e osservava la sua amica rovistare tra le sue cose cercando qualche coperta in più da metterle sopra, ma il tremore non passava.

- Tu ora stai qui e non ti muovere. Vado a prenderti delle medicine e qualcosa da mangiare. - Le intimò Lanie e Kate non ebbe nemmeno la forza di protestare.

Non si era accorta che era rientrata, quando aprì gli occhi la trovò seduta sul bordo del letto vicino a se, che stava cambiando un panno bagnato dalla fronte.

- Da quanto sei tornata? - Le chiese con un filo di voce.

- Da un po’. Tieni prendi queste intanto. - Lanie le passò due pasticche ed un bicchiere d’acqua che Kate bevve tutto d’un fiato, non accorgendosi fino a quel momento quanto fosse assetata.

- Stai perdendo troppo tempo qui con me, non devi andare a lavoro? - Si informò Beckett

- No, oggi è il mio giorno libero. - La rassicurò Lanie.

- Non lo dovresti passare a fare da infermiera a me, dottoressa. 

- Rassegnati Beckett. Non puoi sempre pretendere di dire a tutti quello che devono o non devono fare ed aspettare che ti ubbidiscano. Io non lo farò. Non puoi stare da sola.

- Io voglio stare sola - Rispose rabbiosa.

- Proprio per questo non devi stare da sola. - Lanie tirò su da una busta che aveva messo vicino al letto un contenitore bianco. - Ti ho preso del brodo di carne, dovresti mangiare qualcosa.

- Non ho fame. - Protestò

- Kate, devi mangiare! - Insistette Lanie aprendo il contenitore e dandole un cucchiaio. Kate, arrendevole, cominciò a mangiare in silenzio. Quando superò di poco la metà, poggiò tutto sul comodino arrendendosi. Lanie non fu molto soddisfatta ma preferì non insistere ancora, almeno aveva ingerito un po’ di liquidi che le avrebbero dato sostentamento.

Beckett si girò di lato, dandole le spalle. Faceva dei respiri profondi mentre Lanie le accarezzava la schiena.

- Perché hai mandato via Castle? - Le chiese ancora.

- Perché sta male e vuole piangere ma non lo vuole fare davanti a me.

- Tu perché non hai mai pianto?

- Non lo so. Non ci riesco. Vorrei piangere ma non ce la faccio. Rick invece… Quando tornava aveva sempre gli occhi lucidi. Si allontanava se c’era qualcuno con me e poi tornava… stava male e faceva finta di nulla, per me. Sopportava tutto, non potevo condannare anche lui, con me. - Stringeva tra le mani la coperta tanto da tremare.

- Pensi che ora stia bene? Lui ti ama.

- Lo so. Non dovrebbe farlo. - Lanie capì il senso di colpa di Kate nascosto dietro quelle parole. Non si aspettava nulla di diverso da lei, conoscendola.

- Kate, non è colpa tua. Lo sai, lo hanno detto anche i medici. Non potevi farci niente, non potevi accorgertene prima.

- Era il mio bambino, Lanie. Non ho saputo proteggerlo. Dal mondo e da me stessa.

- Tu non hai nessuna colpa, ragazza. Hai fatto tutto quello che dovevi fare. Non rimproverarti e non colpevolizzarti.

 

- Quando mi hanno detto che ero incinta mi è crollato il mondo addosso per un po’. Ho pensato alla mia vita, totalmente stravolta. Ho pensato a me stessa e all’idea che non sarei mai stata in grado di affrontare tutto. Mi hanno detto di valutare tutte le alternative. Non ci volevo credere, non volevo credere che fosse vero, che esistesse. Ho fatto anche un test, perché volevo essere certa, stupida eh? Poi per qualche ora sono rimasta su una panchina a pensare. Capisci Lanie? Io ho pensato a cosa fare…

- È normale essere sconvolti appena si sa una notizia del genere e pensare a tutte le possibilità.

- Non avrei mai potuto farlo. Più ci pensavo e più sentivo che ero già la madre di quel bambino, che era già mio figlio da quando ho scoperto che lui c’era. - Fece una pausa e si voltò verso la sua amica - Ho saputo subito che era figlio di Castle, anche prima di sapere di quante settimane, sapevo che era suo. Era così felice… Tu non puoi immaginare quanto. Si era convinto che era un maschio e lo voleva chiamare Prince. Abbiamo anche discusso sai? Prince Castle… non è ridicolo? - Le uscì una risata amara. 

- Tipico dello scrittore pensare ad un nome del genere. - Sorrise tristemente Lanie immaginando Castle tutto preso dalla scelta del nome che si scontrava con la rigida concretezza di Beckett.

- Già. Alla fine eravamo d’accordo che se fosse stato veramente un maschio io avrei scelto il primo nome e Prince sarebbe stato il secondo. Non ho mai fatto in tempo a scegliere il primo. Ora rimarrà sempre Prince per me.

Lanie la vide sospirare e mordersi il labbro inferiore. Sentiva l’enorme tristezza e dolore della sua amica che faticava ad trovare una via d’uscita, ma i suoi occhi non riuscivano a nascondere quanto stesse soffrendo in quel momento. Non poteva il suo tono incolore riuscire a celare tutto quello che le parole non riuscivano a dire. 

- Kate… avrai tutto il tempo per scegliere tutti i nomi che vorrai per… 

- Non lo dire Lanie. Sai qual è la cosa che mi ha fatto più male in questi giorni? Tutti voi che mi dicevate che sarebbe passata, che se avrei avuto altri bambini, che meno male è successo adesso. Perché nessuno capisce che non è la stessa cosa? Perché tutti minimizzate? Perché mi fate sentire quasi ridicola e stupida a stare così male per una cosa da niente a sentirvi parlare? 

- Scusa Kate. Scusami. Io non so cosa stai passando, né cosa senti, non lo sa nessuno, è una cosa solo tua, ma non è sicuramente né ridicolo né stupido. Mi dispiace se con quello che ti ho detto hai pensato che fosse così. 

Le due amiche rimasero a lungo in silenzio. Lanie vedeva Kate così indifesa tra le coperte in quel caldo pomeriggio estivo. Le tastò la fronte ancora bollente e madida di sudore: sembrò trovare sollievo nel suo tocco fresco. Lanie andò a prendere dell’altra acqua per bagnare un panno per rinfrescarla. Aveva chiamato il suo medico le aveva detto quali medicine prendere e consigliato di tenerla fresca il più possibile, ma se la febbre non fosse scesa in un paio di giorni, dovevano portarla in ospedale, perché avrebbe potuto avere un’infezione in corso dopo l’ultimo intervento. La dottoressa sperò con tutto il cuore che non fosse così, che si trattasse solo del suo fisico debilitato, perché Kate di tutto aveva bisogno tranne che di tornare in ospedale, non lo avrebbe retto.

- Grazie Lanie. - Disse Kate prendendo la mano dell’amica.

- E per cosa, tesoro? Vorrei fare di più per te, se potessi fare qualcosa. 

- Per esserci, per ascoltarmi e non dire nulla. Se dei andare vai. Ti ho già portato via troppo tempo.

- Stai scherzando vero? Rimango con te Kate, non ti lascio sola. - Mise la mano di Kate tra le sue e la vide annuire chiudendo gli occhi. Lanie pensava che si sarebbe addormentata, invece prese un gran respiro e poi ricominciò a svuotarsi l’anima.

- Vorrei tornare indietro, vorrei che tutto questo non fosse accaduto. Sarebbe meglio stato morire il giorno del funerale di Montgomery.

- Non dire stupidaggini Kate! - La rimproverò Lanie strattonandola come se volesse farla tornare in se.

- Non avrei mai voluto provare la gioia e l’illusione di qualcosa di diverso. Non avrei mai voluto far soffrire Castle.Vorrei dimenticare tutto, far finta che non ci sia mai stato niente. 

- Non è solo per il bambino, vero? C’è anche Castle… - Lanie sapeva già la risposta.

- Mi sono innamorata veramente, sai? Forse per la prima volta, mi sono innamorata sul serio di lui. Mi ha mostrato un lato di lui diverso così… amorevole, attento… 

- E allora Kate, perché lo hai allontanato da te? Lo sarebbe stato ancora, ti avrebbe aiutata, anzi vi sareste aiutati a vicenda.

- Perché mi ricorda tutto questo. Ogni volta che lo guardavo mi chiedevo se il nostro bambino sarebbe stato come lui, se avrebbe avuto i suoi occhi azzurri o i capelli ribelli come i suoi. Lo immaginavo così, sai? Con i suoi occhi blu ed un piccolo ciuffo dispettoso.

- Un piccolo Castle - Sorrise Lanie con il volto intriso di malinconia.

- Sì, un piccolo Castle… Magari non proprio con il suo carattere però… Sarebbe stato bello, non credi? Troppo bello per essere vero. Come può mancarti così tanto una cosa che non hai mai avuto? Come può farti stare così male l’idea di aver perso qualcosa che non hai mai nemmeno sfiorato? Mi sento come se mi avessero portato via il futuro e fa così male, Lanie…

- Non è vero che non ce l’hai mai avuto. Era dentro di te Kate. Io non lo so, nessuno lo sa, ma tu sì. Per questo ti fa male, per questo è difficile. Chiama Castle, Kate, chiamalo, fallo venire qui. Hai bisogno di lui tanto quanto lui ha bisogno di te. - Il consiglio di Lanie veniva dal cuore, aveva visto Rick in quel periodo con Kate, aveva visto la sua sofferenza e preoccupazione per Kate e per il bambino, lo aveva visto piangere disperato e combattere per quella donna, togliersi i panni dello scrittore irresponsabile e diventare un compagno premuroso ed affidabile, ancor prima che tra lui e Beckett ci fosse qualcosa, ma non si scoraggiava né dava segni di cedimento. Era crollato solo con sua madre e per la prima volta lo aveva visto veramente con occhi diversi, indifeso, dietro un dolore più grande di lui. Lanie sapeva che se Kate aveva dentro un dolore fisico ed emotivo non paragonabile con quello di nessun altro, nemmeno di Castle, che era qualcosa di solo suo ed imparagonabile, Rick, invece, aveva due tormenti che torturavano la sua anima, il dolore per la perdita del loro bambino e quello per Kate che si mescolava con la paura per avrebbe reagito a tutta quella situazione.

- Non posso farlo, Lanie. Rick è un capitolo chiuso nella mia vita. Lui e tutto quello che ha significato per me. Non posso permettermi di stare con lui, di averlo vicino. Castle costruisce sogni ed io non ho più la forza di sognare nulla.

- Non so quando accadrà tesoro, ma sono sicura che tornerai a sognare anche tu. Sei più forte della vita Kate, dimostralo ancora.

Lanie le strinse forte la mano, mentre Beckett chiudeva gli occhi sfinita dalla febbre, dalle emozioni e dai ricordi. Sperò solo che quel sonno fosse senza sogni per lei, perché era certa, in ogni caso sarebbero stati solo incubi al risveglio.

Prese il cellulare e scrisse velocemente un messaggio. Sperò che Rick lo leggesse presto.

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Capitolo 22
*** VENTIDUE ***


Castle non sapeva se in quel momento odiava più il traffico o quel tassista che guidava come una ripresa alla moviola.

- Per favore, potrebbe andare un po’ più veloce? - Gli chiese cortesemente Castle dal vetro che li separava, senza però nascondere tutta l’urgenza che aveva.

- Sa cosa diceva sempre mia madre? “Dio ha fatto il tempo e l’uomo ha fatto la fretta”. Non voglio certo prendermi una multa.

Rick benedisse il vetro tra di loro. Vedeva solo il profilo di quell’uomo con i capelli rossi e la pelle chiarissima che guidava con un sorriso sul volto che non capiva da dove venisse. Gli buttò 100 dollari della fessura.

- Per favore, con il resto ci paga la multa se la prende, se no ci avrà guadagnato di più. La… la mia ragazza sta male, devo andare da lei, subito. - L’uomo non notò l’imbarazzo di Castle nel parlare di Beckett ma dopo uno sguardo alla banconota accelerò sensibilmente.

 

Lanie sentì qualcuno armeggiare alla porta ed aprì trovando Castle con le chiavi in mano.

- Mi ero dimenticato di lasciargliele. - Disse giustificandosi e poggiandole sul mobile, ma di certo a Lanie la cosa non importava, guarda anzi Rick impacciato che aspettava che le dicesse qualcosa.

- È in camera, sta dormendo profondamente. Non so da quanto non lo faceva. Sono gli effetti degli antipiretici. Vai da lei, Castle, che aspetti?

Lanie lo strattonò per un braccio e Rick entrò piano in camera da letto. Rimase ad osservarla dalla porta, appoggiato sullo stipite. Notò che dalla sua parte del letto, c’era l’elefantino che le aveva regalato. Aveva dormito lì per qualche manciata di giorni e già considerava quella la sua parte, gli fece ancora più male. 

Si avvicinò piano, sedendosi vicino a lei, facendo attenzione a non far sobbalzare troppo il letto, ma lei non si accorse di nulla. Prese la stoffa che aveva sulla fronte e la bagnò di nuovo, appoggiandogliela con cura. Si prese l’ardire di accarezzarle il volto e sentì come era veramente tanto calda. Passò qualche minuto a tracciare il contorno del suo viso e si intristì nel vedere come anche quando dormiva aveva i lineamenti contratti in un’espressione di muto dolore. Aveva passato ore ad osservarla dormire, avrebbe riconosciuto ogni suo impercettibile cambiamento.

 

- Castle, cosa ci fai qui? - Kate si era appena svegliata ed aveva visto il suo viso dove un forzato sorriso si sforzava di renderlo meno teso, ma non le sfuggirono i suoi occhi troppo scuri e troppo rossi.

- Mi prendo cura di te. Come avrei dovuto fare sempre, senza andarmene.

- No, Castle. Non dovevi tornare. Non devi essere qui.

- Dammi un motivo valido, Kate.

- Tra noi non c’è più niente e non potrà esserci più niente. - Lo disse come se fosse una sentenza alla quale Rick voleva tremendamente ribellarsi.

- Non è vero. Io ti amo. È dura Kate. Fa male. Ma insieme… - C’era dolore e speranza nelle sue parole ed era troppo per lei che non vedeva nulla oltre il nero che ammantava tutti i suoi pensieri.

- No Castle. Non possiamo fare nulla insieme. - Kate si rese conto solo in quel momento che lui le stava tenendo la mano e quando provò a sfilarla via dalla sua presa, Rick la strinse ancora di più.

- Non è vero, e lo sai anche tu, da qualche parte lo sai. Possiamo ricominciare.

- Che vuol dire ricominciare Castle? Fare finta che non sia successo niente? Come se non ci fosse stato niente? 

- No, Kate. Vuol dire andare avanti nonostante quello che è successo. Insieme.

- Io vorrei solo tornare indietro. Vorrei dimenticare tutto. Anche noi. - Rick allentò la presa dalla sua mano e lei si ritirò dal suo contatto: le sembrava di aver trattenuto il fiato fino a quel momento.

- Non credo potrei mai dimenticarmi nulla di noi, anche se volessi. 

Kate si voltò dall’altra parte per non vederlo, mentre cercava di tirarsi su per mettersi seduta. Rick in un gesto istintivo la prese sotto le braccia aiutandola e i loro volti si trovarono troppo vicini. Il bacio, inevitabile, che ne seguì fu un disperato tentativo di Castle di convincerla che c’era sempre un “noi” da qualche parte, e di Beckett di convincersi che avrebbe vissuto meglio senza tutto questo. Lei, ma soprattutto lui, perché non sopportava quegli occhi arrossati dal pianto che aveva davanti, soprattutto perché sapeva che era lei la causa di tutto quello. 

- Non voglio soffrire ancora e non voglio far soffrire più nemmeno te, Castle. - Si concesse il lusso di accarezzarlo e forse per la prima volta lo sentì molto più fresco di lei, lui che era sempre tanto più caldo.

- Non sei tu che mi fai soffrire Kate, non lo hai mai fatto… 

- Ti prego Castle, basta. Io non posso. Lo vedi? Non riusciamo nemmeno a parlarne, a dire nulla, per paura di farci male, non riusciamo a dire quello che è successo, a dargli un nome, il suo nome. - Si staccò da lui e dal suo sguardo che la trafiggeva e non le dava tregua.

- Abbiamo bisogno di tempo Kate e di capire come fare. 

- Ogni volta che ti guardo penso a tutto quello che è successo. Ti amo Castle, ma fa troppo male ed io voglio solo dimenticare tutto e non posso farlo con te vicino. - Ce l’avrebbero fatta, insieme, Rick ne era convinto, ma quelle parole di Kate lo gelarono. Era lui che la faceva star male, era la sua presenza a rinnovarle dolore. Non voleva questo, non voleva farla soffrire.

- Mi dispiace Kate. Non voglio farti stare male, io… proprio non voglio questo… 

- Allora vai Castle. Dimenticami. Dimentica tutto questo anche tu. Mi dispiace che stai soffrendo per colpa mia, per non essere stata abbastanza, per tutto.

Avrebbe voluto ancora una volta essere più forte e rimanere, imporgli la sua presenza. Sapeva che si sarebbe arrabbiata, avrebbero discusso, si sarebbe forse finalmente sfogata e dopo sarebbe stata meglio, ma ancora una volta non ce la fece. Si sentiva piccolo e vigliacco davanti al suo dolore, alle sue richieste di solitudine e di voler dimenticare. Si chiese guardandola mentre gli dava le spalle, quanto fosse forte il suo amore per lei, quanto sarebbe stato in grado di sopportare. Tutto, forse, tranne sapere di farle male, non sopportava il suo dolore se era lui che glielo causava. Si sentì ancora una volta svuotato e sconfitto da se stesso. Avrebbe avuto ancora tante cose da dirle, ma non sapeva da dove cominciare: a cosa serviva lavorare con le parole se poi quando doveva parlare con la persona più importante della sua vita gli sembrava di possedere il vocabolario di un bambino di tre anni? Le accarezzò il capelli, prima di alzarsi e allontanarsi, ma si fermò sulla porta.

- Tu non hai colpa di nulla Kate, di nulla. Io non l’ho mai pensato e non lo penserò mai e non devi pensarlo nemmeno tu.

Chiuse piano la porta di camera e si ritrovò Lanie davanti.

- Non volevo spiarvi Castle, ma… - Disse sottovoce la dottoressa allontanandolo dalla camera di Beckett

- Non ho niente da nascondere Lanie, nulla che poi non avresti saputo in ogni caso.

- Che fai Castle? Te ne vai? Non ti ho chiamato per farti vedere come stava ed andartene, ma per farla ragionare. Sai cosa accadrà se Kate si chiuderà in se stessa, non è vero?

- Non posso farle niente. Hai sentito? Sono io che le faccio male. Le ricordo quello che vuole dimenticare. Non voglio essere il suo costante carnefice.

- Io non so tra voi due chi è più stupido, Castle, veramente. - Gli disse sconsolata.

- Io, credo. Kate non è stupida, è solo distrutta ed io non ho abbastanza forza per aiutarla a rimettere insieme i suoi pezzi se lei non vuole. Non ce la faccio. Stalle vicino tu, di te si fida e fammi sapere come sta, per favore.

- Certo Castle. - Provava una naturale compassione per quell’uomo che era impotente davanti a quella situazione che non riusciva a gestire. Vedeva la sua voglia di stare vicino a Beckett, aveva sentito dalle sue parole il suo amore sincero, eppure si faceva da parte, perché non era capace di vederla soffrire.

- Grazie, Lanie. So che lei non vorrà, ma se ha bisogno di qualcosa, di qualsiasi cosa, non esitare a chiamarmi. Non è necessario che lei lo sappia, voglio solo aiutarla. - Lanie annuì, sapeva che non lo diceva per secondi fini, Castle era estremamente generoso con tutti.

- E tu? Che farai? - Gli chiese preoccupata.

- Aspetterò che faccia meno male. Ma di sicuro non dimenticherò mai nulla. Dì a Beckett che le chiavi sono lì sopra.

- Mi dispiace Castle. 

- Già, anche a me. Dì ai ragazzi che un giorno passerò a salutarli al distretto.

 

Uscito dall’appartamento di Kate, Rick vagò senza meta per quel quartiere dove non aveva punti di riferimento. Cinese, pizzeria, caffetteria e fioraia, il suo giro si era sempre limitato a questi posti e la donna circondata dai fiori lo salutò con un gran sorriso che ricambiò sforzandosi, per gentilezza.

- Rose bianche o rosse oggi, mio caro? - Gli chiese quando fu vicino. Rick si sentì spiazzato dalla domanda.

- Una, bianca, la più bella che ha. - Le rispose un po’ frastornato.

La donna scelse con cura la rosa tra quelle nel suo cesto e quando stava per confezionarla, Castle la fermò, dicendo che andava bene così, senza niente. Insistette solo per poterci mettere un fiocco.

- Almeno questo ragazzo! - Gli disse in un bonario rimprovero e lui acconsentì a quel nastro dello stesso colore dei petali.

Tornò al loft con la sua rosa, con molta meno fretta di quando era uscito. Fu grato che non ci fosse nessuno ad aspettarlo, aveva bisogno anche lui di stare un po’ da solo. In camera c’era ancora il letto sfatto, testimone di una notte insonne passata a girarsi e rigirarsi senza sosta, senza dormire. Aprì il cassetto del comodino e sospirò alla vista di quella scatolina blu. L’aprì e guardò ancora una volta quell’anello che aveva comprato la sera stessa quando Kate gli aveva detto che lo amava. Era stato più forte di lui, doveva farlo. Così era andato nella sua gioielleria di fiducia, erano anni che non metteva più piede lì. Prima ne era un frequentatore abituale, viste le pretese di Gina di gioielli in regalo per ogni occasione. Trovò Paul, il commesso che lo serviva abitualmente, che lo salutò mostrandogli tutto il sua piacere di rivederlo lì. “Mi serve qualcosa di speciale e di semplice”. Fu la sua unica richiesta, dopo aver specificato che non era per la sua ex moglie, ma per una ragazza straordinaria. La sua scelta ricadde sul più classico, semplice e luminoso anello che avevano. Una montatura in platino con un diamante purissimo. Era lui quello giusto per lei, non aveva bisogno di vederne altri.

Sapeva che doveva aspettare, che non era ancora il momento, che doveva contenere il suo slancio ed il suo entusiasmo per non banalizzare il gesto. Sarebbe arrivato il momento giusto, si diceva. Forse ora non sarebbe arrivato più. Prese in mano l’anello sentì il diamante duro ed il metallo liscio, lo vide brillare con la luce della stanza: era sempre convinto che quello fosse perfetto per lei e che loro, insieme, sarebbero stati perfetti, se solo gli avesse dato una possibilità. Non le avrebbe mai fatto dimenticare quello che gli era accaduto ma era certo che insieme sarebbero potuti essere ancora felici, ma aveva capito da come gli aveva parlato che Kate non voleva la felicità, non la voleva più.

Sciolse il nastro della rosa e legò l’anello a quel cordino, riponendo tutto dentro al cassetto. Spense la luce e contemplò il buio della sua stanza cercando un motivo per riuscire a rimettersi in piedi, ma ne trovò solamente tanti per piangere ancora.

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Capitolo 23
*** VENTITRÈ ***


Kate per qualche istante aveva sperato che Castle rimanesse. Che quel “sempre” che le aveva ripetuto tante volte fosse vero, che fosse rimasto, lottando, nonostante tutto anche per lei, che fosse lui ad indicargli la strada per ricominciare, che fosse più forte di lei. Invece era uscito, arreso all’evidenza che lei non lo voleva. Non gliene faceva una colpa, lo capiva, anzi. Comprendeva perfettamente il suo desiderio di ricominciare nella maniera più facile, di vivere il suo dolore come meglio credeva, di non confrontarsi con lei e con quello che avevano perso. Glielo aveva chiesto lei di andarsene perché la faceva soffrire la sua presenza, non poteva biasimarlo perché lo aveva fatto, ma non poteva nascondere a se stessa che ci aveva sperato. Che si sarebbe sdraiato vicino a lei e l’avrebbe stretta tra le braccia e non lasciata andare, che si sarebbe caricato delle sue urla, dei suoi silenzi e che magari sarebbe riuscita a farla sfogare al punto da distruggere quella diga che aveva costruito capace di trattenere le sue lacrime. 

Quelli seguenti erano stati giorni duri, con l’incubo di quella febbre che non passata e la possibilità di un nuovo ricovero in ospedale che lei voleva a tutti costi evitare. Lanie la convinse solo a farsi visitare a casa dal suo medico che le prescrisse anche degli antibiotici e dopo una settimana cominciò a stare meglio, almeno fisicamente. Non voleva vedere nessuno, l’unico suo contatto con il mondo esterno era Lanie e rimase così per diversi giorni. La sua amica era l’unica che le stava vicino, che si occupava di tutte le cose materiali che la riguardavano, dal portarle del cibo alle medicine. Kate se ne stava chiusa in casa, anzi in camera. Non guardava la tv, non leggeva, non usava il computer. Non faceva niente. Diceva sempre che era troppo stanca per fare qualsiasi cosa. La realtà era che nemmeno dormiva. Aveva passato giorni interi senza farlo, concedendosi al massimo dei brevi momenti in cui provava a chiudere gli occhi, immediatamente interrotti da incubi e ricordi che la facevano svegliare di soprassalto. 

Non voleva vedere nemmeno suo padre. Ci aveva parlato qualche volta per telefono e gli aveva chiesto di non andare a trovarla. Glielo avrebbe detto lei quando si sarebbe sentita pronta, ma ogni volta aveva una scusa, prima la febbre, poi che non era in forma e non le importavano le sue rimostranze, né il fatto che fosse palese per lui che erano tutte scuse. Non voleva parlare né confrontarsi essere compatita o qualsiasi altra cosa. Solo con Lanie aveva raggiunto uno strano equilibrio, perché la dottoressa non le chiedeva mai “Come stai?” e questo Kate sembrò apprezzarlo molto. Tra loro c’era una sorta di tacito patto, Lanie non le imponeva niente, non faceva domande e Kate le permetteva di starle vicino, come unica eccezione. Kate sapeva anche che Lanie parlava di lei e aggiornava gli altri sul suo stato, ma fino a quando nessuno le faceva domande andava bene così. Sospettava che tenesse aggiornato anche Castle, ma non glielo chiese mai per avere la conferma. Lui, comunque, da quel giorno non si era fatto più vedere né sentire. Kate pensava che stesse guarendo ed era felice per lui.

Poi, un giorno, qualcosa in Kate scattò. Quando Lanie passò da lei la mattina prima di iniziare il suo turno pomeridiano non la trovò a casa. Guardò in camera e vide gli inconfondibili segni che si era cambiata, il suo pigiama buttato sul letto insieme a due grucce vuote e le ante dell’armadio aperte testimoniavano che aveva senza dubbio preso qualcosa. Provò a chiamarla più volta senza ottenere risposta ed avvisò Perlmutter che avrebbe fatto tardi e di sostituirla fino a quando non si fosse liberata.

Kate rientrò a casa qualche ora dopo. I capelli legati in una coda alta, i jeans aderenti ed una camicia sbottonata sul davanti. Dall’alto dei suoi tacchi salutò l’amica che la guardava perplessa.

- Sono stata alla visita di controllo. Per il ferimento - Le spiegò indicandosi la cicatrice.

- Cosa ti hanno detto? 

- Che va tutto bene, posso ricominciare ad avere una vita più attiva.

- Gli hai detto anche del resto?

- Già lo sapevano. 

- Cosa intendi fare adesso? - Chiese Lanie vedendo l’amica tirare fuori dalla borsa vari contenitori con compresse di diverso tipo che cominciò ad osservare attentamente leggendo le etichette.

- Riprendere la mia vita. - Rispose decisa.

- Che vuol dire Kate? - Lanie sembrava quasi intimidita da quella Beckett che aveva davanti. Aveva voluto per settimane che che si destasse dal suo torpore, ma era accaduto tutto troppo in fretta.

- Tra tre settimane ho un nuovo controllo. Se andrà bene potrò tornare a lavoro. Sono stata anche dallo psichiatra della polizia. Mi ha detto solo che devo riprendere i miei normali ritmi, mi ha dato qualcosa per dormire e per aiutarmi a sentirmi meglio.

Lanie per niente convinta dalle sue parole osservò ancora i farmaci sul tavolo.

- Sei sicura Kate? Basta questo? - Chiese perplessa.

- Sì, basterà. Devo solo ricominciare a vivere come prima, tornare al lavoro alla mia quotidianità. Andrà tutto bene.

Kate non sapeva se stava rassicurando se stessa o l’amica, ma cercò di essere il più convincente possibile, anche se quando Lanie se ne andò non era del tutto certa di quello che stesse facendo. 

Quella notte per la prima volta dopo tanto tempo dormì. Un sonno profondo e vuoto. Un sonno artificiale. Aveva osservato e contato le gocce cadere nel bicchiere, le vedeva fare i loro cerchi concentrici nell’acqua lasciando quell’impercettibile scia mentre si scioglievano con il resto del liquido. Le vedeva scendere in basso e poi rialzarsi in vortice quando ne arrivava un’altra. Incantata da quel gioco perse anche il conto di quante ne aveva effettivamente messe. Girò tutto rapidamente e poi bevve senza pensarci troppo. Si mise a letto e dopo poco, senza rendersene conto, si addormentò.

Quando si risvegliò la mattina dopo le sembrava di aver dormito anni, ma non era riposata. Piuttosto intontita e faceva fatica a svegliarsi. Sentiva ancora nella bocca il sapore dolciastro delle gocce prese la sera prima: non lo aveva mai fatto, non era mai ceduta a quegli aiuti, nemmeno quando era morta sua madre e passava le giornate dividendosi tra il suo dolore e cercare di aiutare suo padre. Si diceva sempre che lei era più forte, che ce l’avrebbe fatta, che poteva resistere e lo aveva fatto, allontanando sempre l’ipotesi di assumere qualunque tipo di medicinale, anche quando i medici gliel’aveva consigliato, vedendola più volte fragile e sul punto di non farcela, lei non aveva mai ceduto. Era da deboli, aveva sempre pensato, prendere psicofarmaci e tranquillanti e lei era sempre stata forte, fino a quel momento. Ora sapeva di non esserlo più, aveva ceduto e cercava di non pensarci anche se quella sensazione di testa pesante con la quale si era risvegliata non la faceva sentire meglio. 

Si alzò controvoglia, mangiando qualcosa di quello che aveva nel frigo, un po’ di frutta le sembrava la cosa più adatta e commestibile, avrebbe dovuto certamente fare un bel rifornimento di cibo commestibile. Osservò i flaconcini con le compresse che le avevano dato il giorno prima, controllò la prescrizione e le prese con abbondante acqua. Decise che quel giorno avrebbe ricominciato la sua vita. Aveva un obiettivo essere in piena forma per il successivo controllo così da poter poi tornare a lavoro. Si infilò i primi pantaloncini e top che trovò nell’armadio, indossò le scarpe da ginnastica e cercò nella scatola che teneva nella libreria le cuffiette.

Il parco non era lontano da casa, aveva un percorso di jogging corto e piuttosto semplice, per iniziare poteva andare bene. Con la musica a tutto volume nelle orecchie cominciò a correre senza forzare troppo, anche perché sentiva che il suo fisico non rispondeva come voleva, come si sarebbe aspettata. Faceva fatica più di quanto pensasse, ma aveva solo un imperativo: andare avanti, non pensare a nulla. Era focalizzata solo su quello e continuò fino a quando non sentì di aver raggiunto il limite. Le avevano raccomandato di non esagerare, ma in quel momento non era un problema. Era stanca, ma poteva dire che era tanto tempo che non si sentiva allo stesso tempo così in forza. 

Prima di tornare a casa si fermò in una caffetteria e prese al volo un caffè da portare via. Erano settimane che on beveva un caffè, sapeva esattamente da quanto, ma  non voleva pensarci, non voleva ricordare il perché. Si diceva solo che non capiva come aveva fatto a resistere per tanto tempo senza la sua dose quotidiana di caffeina che le diede una scarica di benessere nel gustarlo mentre faceva ritorno al suo appartamento. Era la prima sensazione veramente piacevole che provava da tempo. Nell’afa dell’estate newyorkese stava adorando la sensazione di tenere quella tazza calda tra le mani ed il caffè bollente che le scottava il palato ad ogni sorso, ma non poteva farne a meno. Il calore della bevanda la stava scaldando, in tutti i sensi. Bevve l’ultimo sorso e fece un respiro profondo prima di rientrare a casa. Buttò il contenitore vuoto nel cestino fuori dal palazzo e poi cominciò a salire le scale. La velocità con la quale faceva i primi scalini diminuiva man mano che saliva. Con non poca fatica e i muscoli molto indolenziti arrivò al suo piano, vittima di un affanno che raramente aveva provato. Buttò a terra i suoi vestiti e si infilò direttamente nella vasca per un lungo bagno. Era stata bene, aveva svuotato la mente concentrandosi solo su se stessa, il suo obiettivo, il suo limite giornaliero da superare. Il difficile veniva adesso, sola, a casa. Il difficile era continuare a non pensare, concentrarsi sui muscoli indolenziti, sul fiato ancora troppo corto. Non pensare, doveva solo aspettare la sera. Avrebbe ripreso la sua dose di gocce, avrebbe dormito ancora e la mattina dopo avrebbe ricominciato. Non pensare per il resto del giorno, doveva fare solo quello.

Non ci riuscì. Appena finito il bagno ed asciugati i capelli si mise una tshirt e sfinita si buttò sul letto. Forse aveva chiesto troppo al suo corpo, al suo cuore e alla sua mente. Tornò tutto indietro, come un elastico troppo tirato e l’effetto che ne derivò fu ancora una volta devastante: di una forte rabbia verso se stessa la invase per non riuscire a lasciarsi tutto alle spalle. “È presto Kate, datti tempo, hai fatto solo un passo” si ripeteva, ma non faceva effetto. Voleva stare bene. Voleva stare bene subito. Voleva qualcosa che le facesse passare per sempre il senso di vuoto che la attanagliava e arrivava sempre, puntuale, ogni volta che pensava che non ci fosse più. 

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Capitolo 24
*** VENTIQUATTRO ***


I miglioramenti fisici di Kate erano evidenti e costanti. Ogni giorno forzava di più si imponeva di allungare il suo allenamento al parco, aggiungendo metri e poi chilometri. Nel giro di tre settimane aveva triplicato il percorso fatto all’inizio. Sentiva i suoi muscoli risponderle in modo sempre più pronto alle sue stimolazioni giornaliere. Aveva cominciato nell’ultima settimana prima del controllo ad andare anche in palestra, tutti i pomeriggi. Tenere occupato il suo corpo la aiutava a tenere occupata anche la mente, a non pensare, a concentrarsi solo sul passo successivo, sulla serie successiva, sul piegamento successivo. Contava mentalmente ogni movimento, ogni esercizio che ripeteva fino a quando non completava tutto il programma che aveva stabilito. Meticolosamente. Tornava a casa la sera sfinita, solo il tempo di farsi un bagno e mangiare, poi contava le sue gocce e si augurava un sonno senza sogni.
Era stato così ogni giorno ed ogni giorno benediva la fatica e i muscoli indolenziti sempre più. Solo una volta fu sopraffatta al punto di pensare di smettere, un movimento troppo rapido un peso troppo duro da sollevare ancora per il suo fisico ed aveva sentito uno strappo come se la cicatrice nel petto le si fosse aperta di nuovo che le ricordò, però, perché era lì e questo fu il motivo per non abbandonare tutto.
Aveva mantenuto fede al suo intento, non aveva più parlato, con nessuno, di quanto accaduto. E se non ne parli non è successo, si diceva. Non c’erano tracce di quello che era successo, come si era detta lei stessa, il suo bambino per il mondo non era mai esistito, quindi non era facile. Era stato solo dentro di lei e se lei faceva finta che non fosse mai successo, se non dava modo alla mente di pensare a lui, non c’era mai stato. Aveva visto qualche volta Esposito e Ryan, ben catechizzati da Lanie, che non avevano minimamente sfiorato l’argomento né fatto domande, l’aggiornavano solo su quello che accadeva al distretto e sul nuovo, terribile, capitano che aveva preso il posto di Montgomery, dicendole che non vedevano l’ora che sarebbe tornata a lavoro, per godersi i suoi scontri con Iron Gates, così era soprannominata quella donna che oltre al fatto di essere dura ed inflessibile di suo, ai loro occhi aveva anche lo sfortunato compito di sostituire l’amato Roy e questo la faceva sembrare ancora peggiore di quanto non fosse. La realtà era che Victoria Gates era semplicemente una donna molto ligia ed attenta alle regole e non permetteva ai suoi detective di avere tutta quella libertà di iniziativa e quei comportamenti a volte molto al limite sui quali Montgomery chiudeva un occhio. Una delle prime cose che aveva fatto quando aveva preso il comando del dodicesimo era stata mandare via Castle, ma questo non lo avevano detto a Beckett, Castle era uno degli argomenti tabù e poi erano certi che questo non gli sarebbe dispiaciuto. Non lo era nemmeno a lui, da quel che avevano potuto vedere. Aveva seguito le indagini per cercare il cecchino che aveva sparato a Kate all’inizio, fino a quando stavano insieme, poi si era allontanato e non lo avevano più visto. Solo Lanie lo aveva sentito, qualche volta, per aggiornarlo sulla salute di Kate, ma quando aveva saputo che stava riprendendo in mano la sua vita ed era uscita da quello stato di inerzia e impassibilità aveva detto alla dottoressa di non cercarlo più e di avvisarlo solo se Beckett avesse avuto bisogno di qualcosa. La avvisò che sarebbe partito, avrebbe passato i mesi successivi negli Hamptons, per scrivere e riprendersi, ne aveva bisogno anche lui, così era già qualche settimana che nemmeno Lanie aveva più notizie di Castle.
Ryan ed Esposito erano anche riusciti a convincere Beckett ad uscire con loro una sera, nulla di particolare, una birra con gli amici in un locale nuovo, per fare quattro chiacchiere e sentire un po’ di musica. Era stata a lungo riluttante, l’idea di doversi divertire non le passava per la testa e non voleva essere quella che rovinava le serate degli altri con il suo umore, però alla fine l’avevano convinta, dicendo che sarebbe venuta anche Jenny e che dovevano parlarle del matrimonio. Già, il matrimonio. Lei se lo era completamente dimenticato e sarebbe stato da lì a poche settimane. Provò quella sera a dire loro che non se la sentiva e non sarebbe andata, ma alla fine si lasciò persuadere e le strapparono un poco convinto sì che festeggiarono con un brindisi al quale lei partecipò solo con un bicchiere di soda, voleva evitare di mischiare alcolici con i farmaci che stava prendendo: lo sapeva solo Lanie, ma nessuno le chiese conto di questo, anzi Jenny la seguì nella scelta, un gesto carino per farla sentire meno sola.
La vita di Kate fu così scandita da nuove tappe e scadenze. La prima fu la visita di controllo che le diede il via per cominciare l’iter per tornare a lavoro. La nuova data segnata in rosso sul suo calendario mentale era due settimane dopo, quando avrebbe dovuto sostenere la visita per il reintegro in servizio, che stabiliva il suo recupero fisico ed emotivo. Aveva parlato di nuovo con lo psichiatra della polizia, un uomo che stava lì più che altro per firmare carte e ricette. Le aveva chiesto come stava, le aveva risposto bene, senza troppa convinzione, ma lui non se ne curò, occupato a firmare le ricette per le sue medicine. Si sarebbero rivisti il giorno che le avrebbe consegnato il suo via libera per rientrare in servizio. Uscì e dietro di lei altri poliziotti erano in fila per fare lo stesso iter, più visite più il dottore guadagnava e lei era solo un numero, Detective Katherine Beckett 2011/975, questo aveva letto nella sua cartellina ordinatamente messa nella pila con le altre, tutte uguali, tutte blu.

Lanie riuscì a distogliere Kate dal suo allenamento quotidiano chiedendole di dedicarle una giornata per andare a scegliere il vestito adatto per il matrimonio di Kevin e Jenny. La trascinò così, molto controvoglia, in un negozio specializzato in abiti da cerimonia, dove cominciò l’affannosa ricerca della dottoressa dell’abito giusto per sè e per la sua amica. Scartati tutti i vestiti lunghi, non adatti all’ora del matrimonio, Lanie si innamorò di un vestito rosso con una profonda scollatura sul davanti che metteva in risalto le sue curve ed una volta provato, decise che era indubbiamente quello giusto. La scelta di Kate fu più complicata, perché ogni vestito era troppo. Troppo corto, troppo elegante, troppo vistoso. Soprattutto non voleva nessun vestito troppo scollato: non riusciva ancora a guardare lei la sua cicatrice, figuriamoci se l’avrebbe messa in bella mostra per gli altri. Non c’era stato nulla da fare, non aveva nemmeno voluto provare tutti quegli abiti che erano secondo i suoi standard troppo scollati, nonostante la commessa la pregasse di farlo, perché, con il suo fisico da modella, le sarebbero stati da Dio. La donna non sapeva cosa nascondeva Beckett sotto un bottone chiuso di troppo della camicia e non voleva che lo sapesse. Non si era più guardata allo specchio, aveva semplicemente fatto finta che non esistesse, come il resto. Non la vedeva, non c’era. Era solo il dolore, ogni tanto, a ricordarle la sua presenza. Alla fine, però, anche Kate trovò il suo vestito, un abito blu che le arrivava poco sopra il ginocchio, con il collo alto ma che dietro si apriva con un’ampia scollatura che metteva in mostra la sua schiena, forse anche troppo audace e decise di accompagnarlo con una stola di seta tono su tono che la faceva sentire decisamente più a suo agio.

Sarebbero passati a prenderla Lanie ed Esposito da lì a poco per andare in villaggio poco città che Ryan e Jenny avevano scelto per il loro matrimonio, un luogo abitato da molti immigrati irlandesi, con una bella villa con la chiesa dove si sarebbero sposati. Kate si guardava allo specchio dandosi gli ultimi ritocchi. Era tanto tempo che non si era così curata per uscire: osservò soddisfatta il lavoro fatto con i capelli che ricadevano con morbidi boccoli sulle spalle scoperte, il trucco non troppo marcato ad eccezione del rossetto dal rosso piuttosto acceso. Aveva comprato delle scarpe per l’occasione, dello stesso colore della stola e della borsa, un celeste polvere, molto più chiaro del vestito blu scuro. Si sentì bene di nuovo sui tacchi così alti che slanciavano ancora di più le sue gambe tornate decisamente toniche. Si accarezzò con le mani i fianchi, tratteggiando il profilo del suo corpo per far scendere meglio il vestito ma provò un senso di profondo smarrimento quando entrambe senza che ci pensò si congiunsero sul suo ventre e vide la sua immagine riflessa nello specchio. Fu di nuovo invasa da quel vuoto che cercava di allontanare, da quei pensieri che ricacciava via, da tutto quello che voleva dimenticare e la sua mente, invece si riempì di lei e di Castle abbracciati sul divano con lui che la rassicurava che per quel giorno non sarebbe ancora diventata una balena, ma nel caso sarebbe stata la balena più bella di tutte. Ricordava con vivido dolore le loro risate, le sue carezze ed i suoi baci. La sua voce calma e gentile che la faceva sempre stare bene ed ora, invece, era una lama rovente che le trafiggeva la carne. Si sentì mancare il respiro, le gambe diventare deboli ed una gran voglia di gridare e buttare all’aria tutto quello che aveva davanti. Si obbligò, invece a rimanere calma, andò in cucina, aprì uno dei barattoli con le pasticche che le avevano prescritto e ne prese un paio bevendo avidamente un bicchiere colmo d’acqua. Con le mani rigidamente strette ad afferrare il bordo di una sedia, attese che l’effetto calmante arrivasse, solitamente era questione di qualche minuto, fu così anche quella volta.
Fu quello il momento in cui si rese conto che con tutta probabilità anche Castle sarebbe stato lì quel giorno, che sarebbe stata obbligata a rivederlo e parlargli, anche il minimo necessario, per educazione. Stava per cambiare idea, per decidere di mandare tutto all’aria e non andarci più, quando suonarono al citofono e la voce allegra di Lanie la invitava a scendere. Non sarebbe stato giusto disertare quell’evento, per Ryan e per Jenny, che si erano sempre comportati da buoni amici. Si fece coraggio e prese le sue cose prima di scendere, senza dimenticarsi di mettere anche la confezione di pillole nella borsa. Salì in auto facendo fatica a dissimulare l’inquietudine che l’aveva avvolta da quando si era resa conto di cosa l’avrebbe attesa quel giorno e sia Lanie che Esposito se ne accorsero ma fecero finta di nulla.

Ci volle più di un ora per arrivare al luogo della cerimonia e trovarono già un bel po’ di persone sul posto, nonostante fossero arrivati in anticipo. Non conoscevano nessuno dei parenti di Ryan o di Jenny e così ogni volta che qualcuno li andava a salutare chiedendogli se fossero parenti di una o dell’alta parte, rispondevano sempre che erano i colleghi di lavoro di Ryan e tutti li guardavano studiandoli attentamente, tanto che a tutti e tre venne il dubbio che qualcosa non andava in loro. Non mancarono le battute sul fatto che con tre poliziotti presenti quel giorno sarebbero stati tutti al sicuro, soprattutto da parte di un non precisato parente di Ryan che si era presentato come zio o qualcosa del genere, che indugiava un po’ troppo nel fare battute non troppo gradevoli a Lanie e Kate sul ruolo e l’utilità delle poliziotte donne, specialmente quando troppo belle. Beckett in altri tempi non avrebbe avuto difficoltà a togliersi dai piedi quel fastidioso signore attempato che voleva a tutti i costi sembrare più giovane di quanto non fosse, ma non era dell’umore adatto né voleva rovinare la festa dei suoi amici, così ci pensò Lanie con una risposta caustica a mettere a tacere l’uomo, spiegandogli che lei non era un poliziotto, e che non trattava con i ladri e gli assassini, se non quando erano già morti e se gli dava un coltello gli faceva vedere come. L’uomo borbottando qualcosa imbarazzato se ne andò e la performance della dottoressa riuscì a strappare una risata anche a Kate.
- Non credo che verrà più a dirvi nulla! - Esclamò Esposito ridendo.
- Decisamente no, soprattutto quando sarà ora di pranzo e Lanie avrà a disposizione molti coltelli. - Continuò Beckett vedendo l’amica compiaciuta lanciare ancora qualche occhiata all’uomo che si voltava a guardarle di tanto in tanto.
Lanie apprezzò il buonumore ed il sorriso di Kate che da troppo tempo non vedeva, ma tutto durò troppo poco, fino a quando dal cancello che dava nel giardino dove si trovavano anche loro, non fece il suo ingresso Castle, con in mano il cartoncino dell’invito che muoveva nervosamente tra le dita. Rimasero tutti e tre in silenzio a guardarlo da lontano, mentre Esposito e Lanie alteravano lo sguardo tra lui e Kate che fingeva malamente indifferenza dietro ad un palese nervosismo.
Il solito comitato di benvenuto con i parenti di entrambe le parti andarono ad accoglierlo e lo videro chiacchierare in modo affabile con quelle signore non proprio giovanissime, regalando sorrisi benevoli. Non si stupirono nemmeno quando dalla tasca della giacca tirò fuori una penna firmando alcuni pezzi di carta che gli venivano messi davanti da chi lo aveva conosciuto e si prestava a mettersi in posa per foto ricordo con lo scrittore famoso, fino a quando una ragazza gli fece un cenno proprio nella direzione dei tre, indicando i suoi amici. Con non poco imbarazzo si avvicinò, senza riuscire a staccare gli occhi da Kate che invece guardava in tutt’altra direzione. Arrivò davanti a loro e salutò tutti con la sua solita cordialità, anche se il tono non era il solito spumeggiante né c’era la voglia di scherzare e fare battute. Il suo sguardo si incontrò per qualche istante con quello di Kate che ricambiò il suo saluto per poi spostare immediatamente l’attenzione altrove, le andava bene anche osservare attentamente i camerieri che sistemavano i fiocchi alle sedie sparse nel giardino.
La loro attenzione venne poi attirata da una giovane ragazza con un vestito di raso verde che si presentò come una delle damigelle. Aveva in mano un grande cesto pieno di piccole campanelline. Gliene consegnò una per uno, spiegandogli che avrebbero dovuto suonarle quando gli sposi sarebbero usciti dalla chiesa, come da tradizione irlandese si buon augurio per il matrimonio. Furono invitati ad avvicinarsi al luogo della funzione che si trovava dalla parte opposta del giardino rispetto a dove erano loro.
Entrarono tutti e quattro insieme, con Beckett che faceva sempre attenzione a non avvicinarsi troppo a Castle. Andarono a salutare Ryan che, emozionantissimo, sull’altare aspettava l’inizio della cerimonia e la sua futura sposa, intanto che la chiesa si stava via via riempiendo. Cercarono tutti di fare coraggio ad un Kevin al limite della commozione, con le mani sudate che balbettava frasi con poco senso, mentre Esposito e Castle cercavano di fargli coraggio, soprattutto Rick.
- Non ti preoccupare, Kevin, la prima volta ti emozioni, ma già dalla seconda ci fai l’abitudine! - Gli disse facendo riferimento ai suoi precedenti non proprio entusiasmanti.
- Spero che non ci sia una seconda volta Castle! - Replicò il futuro sposo.
- Uhm sì, credo sia meglio se non ci sia. - Convenne Rick
- E poi che ne sai scrittore, magari la terza volta per te sarà quella giusta e più emozionante! - Gli disse Lanie mordendosi la lingua un attimo dopo accortasi dell’espressione di Kate.
- Lo pensavo anche io Lanie, la terza poteva essere quella giusta. - Replicò Castle con un sorriso tirato osservando Kate che sembrava fintamente interessata ad altro e alla dottoressa non sfuggì la direzione del suo sguardo.
Una delle damigelle di Jenny venne ad avvisarli che la sposa era quasi pronta e i quattro andarono a prendere posto con Castle che si sedette sulla panca dietro quella occupata da Lanie, Javier e Kate.
La sposa non era meno emozionata di Kevin e piangeva già nella navata con le sue damigelle al seguito. La cerimonia fu piuttosto semplice e alla promesse di rito aggiunsero solo, dopo dello scambio degli anelli, un rituale simbolico tipico della loro terra d’origine, quando un nastro venne fatto passare intorno alle loro mani e vennero strette insieme a simboleggiare la loro unione. Fu allora che Kate si voltò e vide la sagoma di Castle allontanarsi dal suo posto ed uscire, era strano perché lei era convinta di aver percepito la assenza che l’aveva portata a voltarsi per cercarlo.
Rick era uscito dalla chiesa nel momento dello scambio degli anelli perché non sopportava di vedere quella scena senza pensare a Kate. Era davanti a lui, bella come non mai ma con quegli occhi glaciali che non riuscivano a nascondere la sua inquietudine interiore, non a lui almeno. Si era sentito improvvisamente soffocare ed aveva sentito quella cravatta troppo stretta, aveva bisogno d’aria e per questo era uscito. Lo avevano ritrovato lì fuori con la sua campanellina in mano, dalla parte opposta del vialetto dove si erano fermati Kate, Lani e Javier, ben presto inglobati dal resto degli ospiti che si disponevano per aspettare l’uscita degli sposi. Il signore e la signora Ryan uscirono raggianti in un concerto di campanelline. Anche Castle e Beckett suonavano le proprie ed i loro sguardi si trovarono e si incatenarono tra tutta la folla, rendendo impossibile per entrambi guardare altrove, come se una forza superiore li tenesse bloccati. Quando la magia della musica finì, anche l’incantesimo che li obbligava a guardarsi si spezzò e si persero tra la folla che in modo poco composto si spostava dall’altra parte del giardino dove ci sarebbe stato il ricevimento.

Come avevano intuito si ritrovarono tutti e quattro allo stesso tavolo, insieme ad altri due amici di Jenny che come prima cosa chiesero a Rick e Kate se stavano insieme.
- Siamo stati partner a lavoro, per un po’ di tempo, dovevo fare delle ricerche ed ho rotto le scatole al distretto per seguire le loro indagini. - Chiarì Castle, togliendo tutti dall’impiccio di dover dare altre spiegazioni. Per Kate, però, fu un altro inequivocabile indizio che Rick aveva chiuso con il dodicesimo e non aveva intenzione di tornare lì: non sapeva se esserne sollevata o dispiaciuta, ma si disse che era meglio così, per tutti.
Lo scrittore aveva mantenuto i rapporti con Beckett al minimo, ma non poté fare a meno di fare sfoggio della sua solita cavalleria, portandole un calice di champagne dal buffet, avendo visto che lei non si era alzata per prendere nulla. In realtà se avesse dovuto seguire il suo istinto, avrebbe riempito un piatto di qualsiasi cosa commestibile che sapeva essere di suo gradimento e glielo avrebbe portato, ma si contenne, offrendole solo la flûte.
- Tieni. - Le disse mettendole davanti il bicchiere facendola sobbalzare. Era evidentemente immersa nei suoi pensieri sola a tavola e non si era accorto che lui era propio al suo fianco. Kate prese il bicchiere appoggiandolo subito sul tavolo, mentre osservava lui con il suo in mano.
- Grazie Castle, ma non credo che abbiamo nulla per cui brindare. - Sospirò amaramente.
- No… è per dopo, per Kevin e Jenny.
- Tesoro devi andare ad assaggiare quegli involtini di pollo gratinati, sono la fine del mondo! - Le disse Lanie tornado a tavola con un piatto colmo di cibo, mentre Esposito chela seguiva ancora stava masticando l’altra metà dell’involtino che evidentemente aveva appena assaggiato anche la sua amica e lo stecchetto di legno in mano era l’indizio chiave della sua colpevolezza. Kate sorrise mentre il detective cercava con nonchalance di nasconderlo con dubbi risultati.
Rick e Kate per un po’ si alternarono in un balletto strano, quando uno era in fila per il buffet l’altro era al tavolo a mangiare e viceversa, alternandosi anche nell’andare in bagno, il tutto per cercare di passare meno tempo possibile insieme, uno davanti all’altra alla stessa tavola generando imbarazzo anche nei due appena conosciuti che faticavano a capire quella situazione della quale nessuno gli spiegava nulla e i cui tentativi di instaurare una conversazione o di sapere qualcosa in più di loro caddero rovinosamente nel vuoto, guadagnandosi anzi, qualche occhiata assassina di Lanie, ma loro non sapevano nulla del suo lavoro, non come il presunto zio di Kevin che quando passò davanti al loro tavolo osservò la dottoressa impugnare il coltello e si allontanò di corsa, lasciando perplesso anche Castle, con la promessa che poi gli avrebbero spiegato.
Non ci fu l’occasione perché la situazione cambiò drasticamente nel momento del discorso dello sposo, uno dei pochi nel quale Rick e Kate rimasero contemporaneamente al loro posto con in mano le flûte di champagne.
- Volevo ringraziarvi tutti per essere qui, oggi, a condividere questa splendida giornata con noi. Oggi è sicuramente il giorno fin qui più bello e importante della nostra vita, ma tra poco ce ne sarà un altro e volevamo annunciarvelo oggi, Janny è incinta e tra qualche mese avremo un bambino. Abbiamo aspettato oggi per dirvelo per essere sicuri che tutto andasse bene… -Ryan strinse sua moglie cingendole il fianco, mentre tutti alzavano i calici per brindare a loro. Tutti tranne quattro persone ad un tavolo, rimaste pietrificate da quell’annuncio. Il rumore di un bicchiere che cadeva a terra e fu probabilmente udito solo da loro: era quello di Kate che guardò Lanie e Javier con rabbia.
- Non ne sapevamo nulla Beckett! - Provò a giustificarsi Esposito mentre lei uscì fuori da lì correndo.
Anche Rick li guardò in modo truce.
- Non lo sapevamo, Castle, veramente! - Ribadì Lanie mentre lui poggiava con rabbia il bicchiere sul tavolo e le andò dietro.
La trovò appoggiata alla staccionata che proteggeva il laghetto, con le mani strette sul legno e gli occhi fissi sull’acqua mossa solo dal battere delle ali di qualche papera che placidamente riposava.
- Non chiedermi come sto, Castle. - Gli disse senza voltarsi a guardarlo. Aveva sentito il rumore dei suoi passi, la sua camminata incerta di quando non sapeva cosa fare ed il suo profumo trascinato da una ventata più forte.
- Non c’è bisogno di farlo, Beckett. Scusami, non sarei dovuto venire oggi qui, non volevo metterti a disagio.
- Non è colpa tua. Lasciami sola qualche minuto, poi passa.
- Ok… - Le appoggiò la mano sulla spalla, lasciandola scivolare sulla schiena nuda. Kate si sentì percorrere da un brivido al contatto con le sue dita, calde, morbide, così come le ricordava.
Non gli aveva fatto male come pensava vedere Castle. Non era stato riportare alla memoria quel dolore che non riusciva a chiamare ancora con il suo nome. Vederlo era stata una sofferenza diversa, la sofferenza della sua assenza e quel tocco sembrava averla scossa e rassicurata allo stesso tempo. Aveva sentito come se con quella carezze fugace avesse portato un balsamo nel suo cuore ferito. Pensò che forse aveva sbagliato tutto, che quello che le faceva più paura in realtà era solo quello di cui aveva più bisogno per stare bene. Pensò che quelle carezze erano la cosa che più le avrebbero fatto bene, a quanto avrebbe voluto appoggiarsi sul suo petto e lasciarsi abbracciare da lui. Pensò che avrebbe voluto sfogarsi e farsi consolare da lui come non aveva mai fatto, che non doveva aver paura delle sue emozioni. Aveva sentito come se nonostante tutto, nonostante lei lo avesse allontanato, lui era sempre lì disposto ad aspettarla. Capì in quel momento che lui era l’unico che avrebbe potuto capirla e quanto era stata stupida a chiudersi nel suo dolore e non permettergli di stargli vicina quando lui gli aveva offerto tutto di se, incondizionatamente, ma lei era troppo sconvolta per capirlo. Respirò profondamente prima di tornare dentro. Gli avrebbe chiesto di accompagnarla a casa, di sicuro né Lanie né Esposito avrebbero avuto nulla da ridire.
Al tavolo la sua sedia era vuota e non c’era più nemmeno la sua giacca.
- Dov’è Castle? - Chiese a Lanie cercando di scorgere la sua figura tra quelli che erano a congratularsi con Kevin e Jenny.
- È andato via, è andato a casa appena è rientrato. Ha detto che non aveva più motivo di rimanere qui.
Beckett si sedette continuando a fissare il posto di Castle vuoto con la convinzione che ancora una volta nella sua vita doveva rimettere via tutti i suoi pensieri e le sue speranze e concentrarsi solo sulla realtà delle cose che non era mai sullo stesso binario dei suoi sogni che non avrebbero più dovuto condizionarla, nemmeno per un momento. Castle era il suo passato e non sarebbe più potuto essere nient’altro. Era il destino, evidentemente, ad aver deciso per lei.

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Capitolo 25
*** VENTICINQUE ***


Castle non riusciva a vederla star male. Non poteva accettare di veder Kate soffrire e non poter fare niente, era qualcosa che lo dilaniava, che rinnovava il suo dolore mai sopito per quella che per lui era di fatto una doppia perdita, del loro bambino e di lei. Avrebbe voluto abbracciarla lì in quel giardino, dirle che lui era lì per lei, stringerla fino a quando non si sarebbe lasciata andare e non lasciarla più. Le aveva solo sfiorato la schiena e sentiva come se un incendio gli avesse ustionato la mano e si fosse propagato in tutto il suo corpo. Aveva faticato ad allontanarsi da lei e poi era dovuto correre via, aveva salutato tutti velocemente, si era scusato e se ne era andato. Non avrebbe retto a vederla tornare lì tra loro a far finta di niente quando sapeva che aveva il cuore spezzato e la morte dentro. Avrebbe voluto essere più forte, più indifferente ma non ci riusciva. Le settimane e la distanza non avevano prodotto nulla, se non farlo sentire ancora più vigliacco davanti ai suoi sentimenti. L’aveva lasciata, per l’ennesima volta. Aveva fatto quello che aveva voluto lei, si ripeteva per giustificarsi, ma lui sapeva bene Kate com’era, sapeva che si stava rintanando dietro le sue paure, sapeva che avrebbe dovuto insistere con lei, ma non ce la faceva. Si sentiva provato più di quanto non fosse mai stato, aveva volato in alto ed era precipitato e non aveva la forza di perseverare. Si faceva rabbia nel sentirsi e sapersi sconfitto dagli eventi e da se stesso. Prima di uscire dal cancello si era voltato ancora a guardarla era sempre ferma lì. La guardò per qualche istante, sperando che si voltasse, che si accorgesse di lui, l’avrebbe preso come un segno, ma Kate non lo fece e lui andò via.

Tornò negli Hamptons, in quella villa che aveva comprato per sfizio, una delle tante megalomanie che aveva avuto, perché così dimostrava che anche lui era arrivato tra quelli che contavano, che ce l’aveva fatta. Poi negli anni aveva cominciato ad amare veramente quella casa. Non era solo il luogo dove portava molte sue donne per dare sfoggio del suo status, ma era un posto tranquillo dove andare quando voleva staccare. Quella casa vicina al mare, poi, piaceva tanto ad Alexis e così avevano preso l’abitudine di passarci insieme alcune settimane in estate quando passavano tutto il tempo a fare quelle cose decisamente folli e divertenti e Rick aveva la sensazione che sua figlia vivesse in quei momenti tutta la spensieratezza che spesso non mostrava, sempre chiusa nel suo ruolo di ragazza troppo responsabile.

Aveva fatto grandi progetti per quella casa nella sua mente che non si fermava mai. Avrebbe voluto portare lì Kate appena i medici gli avrebbero dato la possibilità di allontanarsi di New York e passare con lei del tempo in tutta tranquillità. Avrebbe voluto che quella diventasse la casa delle vacanze della loro famiglia e già pensava a come gli sarebbe piaciuto fare delle modifiche per rendere tutto perfetto per il loro bambino. Avrebbe fatto costruire un parco giochi solo per lui ed una nuova piscina per farlo nuotare e divertire sicuro. Lui se li vedeva già, Kate ed il piccolo giocare nella sabbia o fare il bagno insieme. Aveva immaginato tante volte il loro bambino che muoveva i primi passi incerti sull’erba e poi che correva spensierato in giardino sotto il loro sguardo attento. Nella sua mente era sempre tutto perfetto, era come sarebbe dovuto essere, come avrebbero meritato che fosse. 

 

Si era detto che si era rifugiato lì per scrivere ed avrebbe voluto farlo. In realtà sapeva che era solo per allontanarsi da New York. Non aveva scritto molto, non aveva idee per il nuovo libro. La sua mente era come svuotata. Aveva delegato a Gina tutte le decisioni finali da prendere per il libro che sarebbe uscito da lì a poco, tra loro i rapporti non erano il massimo, ma si fidava assolutamente delle sue capacità professionali, buona parte del suo successo lo doveva alle scelte azzeccate di lei e di Paula. La sua agente si era dimostrata molto protettiva nei suoi confronti dopo la perdita del bambino e gli aveva chiesto più volte cosa intendesse fare nei prossimi mesi. Rick ci aveva pensato un po’, le aveva chiesto qualche settimana per riprendersi, senza impegni fino a quando non fosse uscito Heat Rises, poi avrebbe fatto la promozione come avevano stabilito lei e Gina, tanto non c’era più niente che lo legava a New York, anzi era convinto che buttarsi sul lavoro e cambiare aria gli avrebbe fatto solamente bene.

Sul divano nella grande sala degli Hamptons c’era ancora la prima copia del libro che Gina gli aveva mandato e che non aveva ancora guardato. Lo sfogliò e rilesse la dedica per Roy: pensava che non aveva capito poi molto su cosa volesse dire prendere posizione ed avere coraggio. Lui sapeva quale era il suo posto, la sua posizione, ma era scappato via perché non aveva abbastanza coraggio per resistere a quello che gli faceva più male. Rick avrebbe voluto essere più forte, avrebbe voluto essere degno dell’insegnamento di Montgomery e del suo sacrificio. Il capitano aveva dato la sua vita per Kate, per rimediare ai suoi errori, per darle l’opportunità di vivere ed essere felice. Lo avrebbe fatto anche lui se fosse servito, anche subito, avrebbe dato la sua sua vita per Kate, ne era certo, però non si sentiva in grado saper fronteggiare il loro dolore. Era devastato dal ricordo di lei così indifesa, così vulnerabile e allo stesso tempo impenetrabile. Aveva visto i suoi abissi e ne aveva avuto paura, non di perdersi lui ma di non riuscire a risollevare lei e non sarebbe stato in grado di accettare un suo fallimento, di assistere passivamente alla sua distruzione, al vederla andare a fondo senza essere capace di risollevarla e non era nemmeno convinto che lei volesse essere aiutata. L’aveva osservata quel giorno, più di quanto lei avesse voluto e più di quanto lui era intenzionato a fare, ma era stato inevitabile. Aveva visto qualcosa di diverso da quello che gli avevano detto, non era la Kate che si stava riprendendo e che stava andando avanti, lui l’aveva guardata negli occhi e i suoi occhi non potevano mentirgli mai: Beckett era ferma, bloccata nel suo dolore, rintanata dietro il suo muro, protetta dall’armatura che si era ricostruita addosso e forse a vederla così stava meglio, ma se qualcuno si fermava a vedere la vera Kate, avrebbe visto tutto il suo dolore e lei lo avrebbe potuto nascondere a chiunque ma non a lui.

 

 

- Ehy ragazzi congratulazioni! - Esposito si congratulò con Kevin e Jenny stavano girando tra i tavoli per salutare i loro ospiti che, dopo il brindisi e l’annuncio stavano man mano andando in giardino dove ci sarebbe stato il taglio della torta. 

- Grazie fratello! - Lo abbracciò Ryan mentre Jenny stava salutando sia Lanie che Kate. La sposa prese le mani di quest’ultima che la guardò cercando di sorriderle nel modo più sincero possibile.

- Congratulazioni Jenny, veramente. - Beckett le parlò con molta difficoltà a trattenere l’emozione nella voce.

- Kate, mi dispiace noi… - Si guardò con il suo fresco sposo che rivolse anche lui l’attenzione alla sua amica con lo sguardo affranto.

- Sì, Beckett noi… ci dispiace tantissimo… per quello che… - provò a giustificarsi Ryan.

- Ragazzi, è tutto ok. Sono felice per voi. - Non era tutto ok, anzi niente era ok per Kate, ma non voleva la pietà di nessuno, né tantomeno rovinare un giorno così bello ai suoi amici, loro non avevano nessuna colpa di quanto le era accaduto e non avevano nessuna colpa di essere felici, anzi ne avevano tutto il diritto.

- Dai ragazza, andiamo fuori… - Lanie la prese sottobraccio e la trascinò letteralmente via da lì, dandole appena il tempo di prendere la borsa ed il coprispalle, mentre Esposito continuava a chiacchierare con Ryan e Jenny con gli altri ospiti.

 

- Allora, cosa è successo prima in giardino con Castle? È tornato dentro sconvolto. - Le chiese Lanie che sapeva doversi fare gli affari suoi su quel discorso ma, dal suo punto di vista, nel momento stesso in cui era stata lei a chiedere dove fosse, ogni precedente accordo era saltato, quindi ora voleva sapere per filo e per segno cosa si erano detti.

- Niente. Veramente, niente. Lui si è solo scusato perché secondo lui non sarebbe dovuto venire oggi per non turbarmi ed io gli ho solo chiesto qualche minuto per stare da sola e riprendermi. - In effetti era andata così, a parte per il particolare della sua mano sulla schiena che le aveva fatto andare in cortocircuito la mente.

- Perché lo hai cercato, allora, quando sei rientrata? - La incalzò

- Perché… avrei voluto parlargli, dirgli alcune cose su questo periodo che era giusto che sapesse ma… se n’è andato. Forse è stato meglio così.

- Kate… io ho visto come vi guardavate le poche volte che i vostri occhi si incrociavano. Castle è innamorato di te e tu lo sei di lui. - Sospirò la dottoressa.

- Sì, ma non l’ho mai negato. Nemmeno a lui. Forse è passato troppo tempo, forse è giusto come ci siamo separati. Ora sarebbe stato solo parlare dettati dall’emozione del momento e non sarebbe stato giusto.

- Tesoro, voi siete andati a letto insieme senza stare troppo a pensarci su, vi siete messi insieme guardando l’ecografia di vostro figlio, vi siete lasciati dopo che lo avete perso. Non ti sembra che hai fatto tutto con lui dettata dall’emozione del momento, bella o brutta che fosse? - Lanie per la prima volta le parlò senza usare metafore e senza giri di parole e questo colpì Kate che per settimane non aveva più voluto toccare l’argomento.

- Sì, appunto. Basta con le cose fatte così, senza pensare. Non hanno portato a nulla di buono, no? - Concluse Beckett volendo mettere fine a quella discussione.

- Non lo sai, magari se continuavi a seguire le tue emozioni, qualcosa di buono veniva fuori. Chi può dirlo? 

Kate scosse la testa energicamente e non si erano nemmeno accorte che intorno a loro si erano radunate una gran quantità di donne ma nessuno prestava loro attenzione, erano tutte intente a guardare in avanti, verso Jenny che in piedi su uno scalino, stava per lanciare il suo bouquet. Le due amiche intente a discutere di quanto accaduto non si stavano curando di tutta la cerimonia rituale che si stava per compiere e Lanie, visto che nona avevano più tanta privacy fece cenno a Kate di seguirla più in là, ma non fece in tempo che Beckett con un gesto istintivo frutto dei suoi riflessi sempre allenati, afferrò al volo qualcosa che le sembrava le stesse venendo addosso mentre parlava con l’amica e solo quando strinse la mano e sentì gli urletti e gli applausi delle ragazze intorno focalizzò l’attenzione su cosa stesse stringendo in mano, il mazzo di fiori della sposa. Cercò Lanie con lo sguardo, mentre perfette sconosciute l’abbracciavano e si congratulavano mentre lei le guardava inorridita ed incredula. La dottoressa la prese per la mano che aveva libera e Kate guardandosi intorno diede il bouquet alla prima ragazza che le capitò a tiro mentre tutte erano perplesse dalla sua reazione e solo Jenny che la osservava da lontano sembrò comprenderla, ma per le invitate la perplessità durò poco, subito si misero a congratulare l’altra prescelta, quella che aveva ricevuto i fiori dalle mani di Kate.

- Kate… - Lanie cercò di rincuorare l’amica abbracciandola ed al contrario delle altre volte la lasciò fare, anzi fu lei ad aggrapparsi alla dottoressa.

- Ti prego va a cercare Javier. Andiamo via da qui, non ce la faccio più.

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Capitolo 26
*** VENTISEI ***


Kate era tornata a casa e si era letteralmente chiusa dentro dando doppia mandata alla chiave nella serratura. Provava così simbolicamente a lasciare fuori tutto quello che in un momento di debolezza aveva permesso di invaderla di nuovo: amore, speranza, futuro, Castle. Aveva per un attimo desiderato, fortemente desiderato, proprio quello che voleva dimenticare, quei sentimenti che non poteva permettersi di provare e l’avevano devastata, facendole sanguinare ferite che si illudeva di aver almeno chiuso se non cicatrizzato. Niente di tutto questo. La sua emorragia emotiva l’aveva travolta, il dolore era tornato forte e pungente insieme al senso di vuoto e a quella forte mancanza incolmabile, resa ancora più viva dalle parole di Jenny. Era felice per lei, veramente felice, ma non aveva smesso un attimo di farsi di nuovo la stessa domanda: perché lei no? Perché le era stato strappato il suo sogno ed il suo bambino? Non avrebbe mai trovato una risposta e non poteva permettere di ricominciare a torturarsi con quelle domande che sarebbero sempre rimaste insolute. Doveva rimettere tutto quello che aveva provato in quel pomeriggio chiuso in un lato nascosto del cuore, più lontano possibile dalle sue emozioni che non avrebbero mai più dovuto raggiungerli. Doveva concentrarsi sull’ultima parte del suo recupero, sul tornare al lavoro operativa e dedicarsi anima e corpo al trovare quel bastardo che le aveva sparato. Era su quello che doveva convogliare tutte le sue forze ed i suoi pensieri, mettere un punto su quello che era stato e ricominciare senza provare più a vivere di illusioni pericolose che poi le riservavano solo una butta caduta quando si dissolvevano dopo averla trascinata in alto.

Si concentrò su quello perché il suo lavoro era l’unico rifugio che conosceva per nascondersi quando il suo mondo era crollato. Lo aveva fatto dopo la morte di sua madre, lo avrebbe fatto ancora una volta. Il suo lavoro era tutto quello che le serviva per sopravvivere e per proteggersi. Il giorno che ricevette il via libera per rientrare in servizio provò un’immensa soddisfazione e si precipitò al distretto per conoscere il nuovo capitano e concordare il suo rientro. Fosse stato per lei avrebbe cominciato quella mattina stessa, ma sapeva che non sarebbe stato possibile. Giunta davanti al portone del palazzo si rese conto che non metteva più piedi lì dal giorno del funerale di Roy, le sembrava passato tantissimo tempo, una vita o anche due.

Fu travolta dal via vai di agenti che correvano in ogni direzione, non riuscì nemmeno a chiedere spiegazione di quello che stava accadendo perché nessuno le prestò attenzione. Salì al suo piano ed anche lì la situazione era piuttosto concitata. Si diresse senza esitazione alla sua scrivania: Esposito e Ryan erano così presi dalle telefonate che nemmeno si resero conto che era lì. Si schiarì la voce per attirare la loro attenzione e ci riuscì subito.

- Beckett! Cosa ci fai qui oggi? - Le chiese Esposito con una certa apprensione nella voce.

- Ho il via libera per tornare a lavoro, devo parlare con il nuovo capitano. Ma cosa sta succedendo qui?

I due detective si guardarono e si diedero un cenno di assenso. 

- Il cecchino, l’uomo che ti ha sparato… crediamo abbia colpito ancora oggi. Un’altra detective, Sarah Jansen, te la ricordi?

- Sì… certo…

- Stesso proiettile stessa modalità, un solo colpo da lunga distanza. purtroppo Jansen non ce l’ha fatta. È morta sul colpo.

- Ero convinta che il cecchino fosse legato all’altra storia… - ammise Kate perplessa.

- Sì, anche noi, ed abbiamo sbagliato a concentrare le ricerche in un’unica direzione. - Esposito era decisamente arrabbiato.

Il rumore di tacchi di un passo deciso arrivò nitido alle orecchie di Beckett che non fece in tempo a voltarsi prima che la donna le rivolse la parola.

- Mi scusi, lei è…? - Kate vide la donna dalla pelle scura nel suo austero tailleur nero con la gonna che arrivava poco sotto il ginocchio, i capelli lunghi corvini e gli occhi che la scrutavano da dietro gli occhiali lasciati sulla punta del naso. Il suo sguardo era severo così come il suo tono di voce. Non ci mise molto per capire di chi si trattasse, dalla descrizione che le avevano fatto di lei Kevin e Javier.

- Detective Katherine Beckett, signore. - Rispose mettendosi quasi sull’attenti e stando attenta a come si rivolgeva a lei, visto che le avevano già spiegato che non amava essere chiamata “signora”, ma “signore” o “capitano”. Si adeguò subito.

- Finalmente faccio la sua conoscenza, detective. Come mai qui? - Chiese Victoria Gates senza alcune inflessione più benevola nella sua voce. Kate frugò nella sua borsa tirando fuori il foglio da consegnarle.

- Ho l’autorizzazione per riprendere il mio posto, signore. 

La Gates lesse il foglio che confermava quanto appena detto da lei e le fece segno di seguirla nel suo ufficio. Non conversarono molto, il capitano le disse solo che era felice che si era ripresa. Le riconsegnò il distintivo, avvisandola che la pistola l’avrebbe riavuta dopo che si fosse riqualificata al poligono, era la procedura. Kate non fu molto felice della cosa, ma fece buon viso a cattivo gioco davanti al suo capitano.

- Andrò subito, Capitano.

- Se la prenda con comodo, Beckett. Il suo certificato dice che può tornare a lavoro, ma il suo congedo per malattia scade tra una settimana. Ho chiesto un detective per sostituirla e il suo incarico scadrà in concomitanza con la sua malattia, si goda questi ultimi giorni di libertà, poi potrà tornare tra noi. - Alle parole cordiali della Gates sembrava non corrispondere lo stesso intento.  Uscì dall’ufficio del capitano cercando malamente di nascondere tutta la sua contrarietà. Attendere, ancora. Erano pochi giorni ma era qualcosa che sballava ancora una volta il suo calendario, le sue previsioni, che ritardava il suo ritorno alla normalità.

Passò quei giorni che le mancavano per tornare finalmente in servizio come tutti gli ultimi: corsa, palestra, dormire. Corsa, palestra dormire. Corsa palestra, dormire. Un ritmo costante intervallato solo da quelle pause obbligate per mangiare e per spostarsi da un luogo all’altro, una routine alienante ed era proprio quello che voleva.

Nessuno le dava contro, anzi i suoi amici cercavano di assecondarla, pur volendola coinvolgere in qualche loro uscita, ma ad ogni suo diniego non insistevano, avevano paura di spezzare il precario equilibrio nel quale Kate una vita sospesa nel non pensare, nel contare. Passi, chilometri, ripetizioni, piegamenti, esercizi, gocce. E ricominciava. Contare per tenere la mente occupata fino a quando non arrivava quel sonno artificiale che tutto portava via e ricominciare la mattina dopo.

L’unico preoccupato per lei era Jim. Suo padre sapeva che quello non era stare bene. Che far finta che un dolore non esiste non è averlo superato, ma solo aver nascosto una bomba ad orologeria dentro di se, che prima o poi sarebbe esplosa. Tentava di farglielo capire in tutti i modi, ma si trovava contro un muro. Il muro dell’ostinazione di sua figlia, del non volerlo ascoltare perché in cuor suo sapeva che lui aveva ragione, ma ammetterlo voleva dire aver sbagliato tutto e dover ricominciare da capo, affrontare i suoi dolori, doverli rivivere per metabolizzarli in modo definitivo e le non voleva farlo. Stava bene, per ora, si diceva. Il tempo l’avrebbe aiutata a cancellare tutto, il suo lavoro a riprendere la vita di sempre. Non era vero che anche lei sarebbe stata per forza peggio prima o poi. Si era auto convinta che era forte, se lo ripeteva ogni volta che non riusciva a fare quei metri in più e forzava il suo corpo a raggiungerli, quando quella serie di piegamenti sembrava troppo dura eppure con le braccia tremanti la portava a termine, quando quei chili erano troppo pesanti e stringeva i denti per sollevarli. Alla fine ci riusciva sempre, perché era forte, era diventato il suo mantra. “Ce la puoi fare Kate, tu sei forte. Ce la puoi fare Kate, tu sei forte. Ce la puoi fare Kate, tu sei forte.”  Ma non si era mai voluta dire se quell’incoraggiamento valeva per lo sforzo fisico o per tutto il resto a cui non doveva e voleva pensare.

Così aveva finito anche per litigare con Jim, come non faceva da tempo, anni. Gli aveva attaccato il telefono in faccia e gli aveva detto che se doveva continuare a chiamarla perché voleva che facesse qualcosa per stare male poteva anche non farlo, visto che era l’unico che non sembrava contento che lei stesse bene. Non gli aveva dato nemmeno il tempo di replicare, perché sapeva di essere nel torto ma non voleva sentirselo dire, non avrebbe retto ancora di essere messa davanti a quella verità che rifiutava.

Se non bastavano le ramanzine di suo padre, nemmeno fosse stata un’adolescente ribelle, a volerla mettere con le spalle al muro davanti al suo recente passato, sembrava pensarci anche la vita, quando si ritrovò la libreria vicino casa sua con le vetrine piene delle sagome ad altezza naturale di Castle. Avvertì una stretta allo stomaco così forte la prima volta che le vide che buttò il caffè che aveva in mano e corse via. Aveva temuto che lui fosse veramente lì o forse lo aveva sperato. Lesse distrattamente l’annuncio prima di correre, letteralmente, lontano da lì. Sarebbe andato a presentare il suo nuovo libro la settimana successiva e Kate si domandò se quel posto lo avesse scelto lui di proposito o se fosse solo un caso, una scelta della sua editrice ed anche se lui si fosse accorto che quella era proprio a pochi passi da casa sua. Se lo conosceva bene, la risposta era no. Non l’aveva scelta lui quella libreria e non aveva ancora letto nemmeno l’elenco di quelle dove sarebbe andato. Lasciava che gli altri si occupassero delle sue questioni lavorative ed organizzative, a lui lo annoiavano, preferiva che gli dicessero solo dove e quando si doveva presentare, magari con un paio di giorni di anticipo, solo per organizzarsi, nulla di più. Chissà se anche lui avrebbe avuto la stessa reazione a sapere di essere così vicino a lei.

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Capitolo 27
*** VENTISETTE ***


Rick aveva lasciato tutto nella mani di Gina e Paula. Aveva dato la sua massima disponibilità per tutti gli incontri con i fan nelle librerie, aveva chiesto solo di evitare, almeno per il momento, party e cose simili. Le due donne avevano deciso, quindi, di cambiare strategia per l’uscita di Heat Rises, abbandonando l’idea della solita mega festa di presentazione ma optando per una presenza più capillare sul territorio, favorendo il contatto con i fan. Paula, nei suoi comunicati stampa, aveva spiegato così la scelta di Castle, lo scrittore riconosceva che il suo successo era merito del pubblico e quindi voleva fare in modo di essere il più possibile vicino a loro e non rinchiuso in feste con persone che non avrebbero probabilmente mai letto una riga dei suoi libri. La sua scelta fece scalpore, soprattutto considerando quella che era sempre stato etichettato come un festaiolo di prima categoria, sempre pronto a presenziare agli eventi più importanti della città, ma i suoi fan erano invece entusiasti, perché avevano molte più possibilità di vederlo dal vivo e farsi autografare le loro copie.
L’agenda di Rick era praticamente piena, ogni giorno una libreria diversa e la cosa non gli dispiaceva, anzi, gli permetteva per alcune ore di staccare da tutto e dedicarsi solo al suo pubblico. Amava particolarmente andare in quelle che gli mettevano a disposizione anche uno spazio per parlare con i fan e rispondere alle loro domande, lo trovava sempre estremamente stimolante per capire cosa piacesse di più dei suoi romanzi e cosa era effettivamente riuscito a trasmettere con la sua scrittura. 
Per Heat Rises, Castle aveva già cominciato la sua serie di incontri da qualche giorno, allontanandosi dalle solite grandi librerie del centro, ma anche in quelle più piccole e fuori mano. Quando lesse quell’indirizzo, però, si sentì mancare il respiro. Sapeva che tornare lì non sarebbe stato uguale, che la tentazione di fare solo qualche metro in più sarebbe stata forte. Che magari avrebbe anche rischiato di incontrarla o che sarebbe potuto rimanere lì fuori anche tutto il giorno, per vederla. Sapeva che non avrebbe fatto nulla di tutto questo, perché in realtà non aveva il coraggio per farlo. Perché cercarla ancora era esporsi ad un nuovo rifiuto che non avrebbe sopportato, era farle ancora del male e non avrebbe voluto. Malediva la sua mancanza di coraggio, il suo non riuscire ad sostenere il proprio dolore e quello di lei. Ma si sentiva disarmato e incapace di vederla ancora così fragile, perché lui vedeva nei suoi occhi cosa era veramente e quel fingersi forte quando sarebbe bastato un soffio di vento a farla crollare, come un castello di carte che rovinava sul tavolo, lo spiazzava più che vederla inerme. 
Martha e Alexis avevano provato a farlo reagire, ognuna a modo proprio e se la figlia lo aveva fatto con la dolcezza e la semplicità di una ragazzina poco più che adolescente, invitandolo a riflettere sul fatto che se entrambi erano innamorati uno dell’altra non potevano stare separati per sempre, sua madre era stata decisamente meno diplomatica. A lei aveva confidato anche quanto accaduto al matrimonio di Ryan, prendendosi l’ennesima ramanzina dall’attrice che gli imputava il fatto che quella vigliaccheria non gli apparteneva e che non era una scusa per rifugiarsi lì dietro a commiserarsi e lasciar scivolare via la propria vita. Lo aveva spronato più volte ad essere quell’uomo risoluto che aveva mostrato in varie occasioni difficili della sua vita e che in quella situazione dove entrambi soffrivano, perché era evidente, ci doveva essere uno dei due più forte dell’altro e fare un atto di forza per rompere quella situazione e quel qualcuno doveva essere lui. Martha non era stata tenera perché sapeva che non era il momento di esserlo, aveva cercato di spronarlo in tutti i modi, ma non c’era riuscita, vedendolo, anzi, chiudersi sempre più in una misera accettazione degli eventi che gli facevano dire un rassegnato “è andata così, mamma” che a lei faceva venire i nervi. Se solo fosse stato più piccolo lo avrebbe rinchiuso nella sua stanza fino a quando non si fosse deciso ad agire da uomo, ma i suoi sforzi erano stati inutili ed alla fine aveva desistito, mettendolo solo in guardia con un lapidario “spero che non dovrai mai pentirti di essere stato così debole” che fece male a lei pronunciarlo e a lui riceverlo.

Conosceva quella libreria sotto casa di Kate, c’era stato un paio di volte a cercare dei libri per lei da farle leggere durante la sua degenza. Era piccola ma ben fornita ed aveva anche avuto modo di conoscere il proprietario, Arthur, un quarantenne con una grande passione per i libri che si era avvicinato timidamente chiedendogli se fosse proprio lui. Ne era nata una conversazione piacevole sul mondo dei libri, che sorprese il giovane libraio nello scoprire in Richard Castle non solo uno scrittore molto apprezzato nel suo genere ormai di gran moda per il largo pubblico, ma anche un lettore attento ed amante delle novità e di quei libri meno pubblicizzati ma che credeva ogni amante della letteratura dovesse leggere.
Rivedere Arthur quel giorno era una delle cose che gli facevano più piacere. Sapeva che aveva organizzato in una saletta tra gli scaffali uno spazio per un piccolo incontro con alcuni lettori che avevano vinto il concorso che lui stesso aveva organizzato tra chi aveva acquistato il libro: si era rivelata per Castle una cosa informale e piacevole, una decina di perone di varie età che avevano passato più di un’ora in sua compagni a parlare dei suoi romanzi. Ovviamente non mancarono le domande su Nikki Heat e sulla sua ormai finita collaborazione con la polizia di New York e la detective che lo aveva ispirato. Rassicurò tutti che aveva materiale per scrivere ancora altri capitoli di quella saga ma che non sapeva quando lo avrebbe fatto. Si stupì come tutti fossero così interessati a lei, ma nessuno sapeva che in realtà viveva proprio a pochi metri da loro, che magari l’avevano anche vista più volte e forse ci avevano scambiato anche qualche parola.
La fila per farsi firmare il libro era come al solito più lunga del previsto e lui ebbe per tutti un sorriso cordiale, una stretta di mano ed una battuta. Era fatto così, amava il suo pubblico e forse anche per questo lui era amato da loro. Certo non avrebbe mai raggiunto la fama della Rowling con Harry Potter, ma non poteva certo lamentarsi del numero dei fan che aveva e del successo delle sue saghe.
Aveva sperato tutto il pomeriggio di incrociarla, ogni tanto alzava lo sguardo per vedere se fosse lì, magari a spiarlo in disparte, o per vederla passare da quello spicchio di vetrina che vedeva dalla sua posizione. Aveva anche forse sognato di alzare gli occhi e trovarsela davanti, tra i tanti che chiedevano una sua firma. Stupide fantasie di uno stupido scrittore. Lei, ovviamente, non si era fatta vedere e lui non l’aveva cercata in nessun modo. Aveva firmato le ultime copie che era ormai sera e mentre se ne stava andando, era stato fermato all’uscita da un gruppetto di ragazzi che sembravano più scalmanati degli altri. Avevano portato con loro altre copie dei suoi vecchi libri, chiedendogli se poteva firmare anche quelli. Sorrise nel vedere nei loro occhi la genuina passione dei fan e pensava a se stesso se si fosse trovato davanti ai suoi miti alla loro età: in realtà lui aveva fatto molto peggio quando aveva conosciuto Mark Hamill ed era molto più grande quando gli chiese di autografare una delle sue spade laser originali comprata ad un’asta di cimeli in uno dei suoi momenti di follia, felice come un bambino. Così si appoggiò ad una cassetta delle lettere e firmò pazientemente tutti i loro libri. Fu quando alzò gli occhi per dare ad una ragazza una delle ultime copie, prima che questa le mettesse sotto il naso un’altro libro che la vide. Kate era davanti al portone di casa, ferma, e lo stava osservando. Non sapeva da quanto, se fosse appena arrivata o se era lì da molto, ma lo stava fissando e si accorse quando lui incrociò il suo sguardo. Firmò distrattamente, senza vedere dove, l’ultimo libro senza staccare gli occhi da lei che sembrava non riuscire a muoversi, poi salutò i ragazzi e corse da lei. Si aspettava che sarebbe entrata dentro di corsa lasciandolo fuori invece rimase lì, come se volesse aspettarlo. Lui non l’avrebbe fatto, non l’avrebbe aspettata se quei ragazzi non lo avessero fermato. Era il destino che aveva voluto farli incontrare di nuovo, che sotto forma dei suoi fan, gli aveva dato una nuova possibilità o una scusa per parlarle.
- Hey ciao… - Le disse con un mezzo sorriso sghembo imbarazzato.
- Ciao Castle.
- Io ti… ti vedo bene… - Non trovò una frase più idiota da dirle, perché i suoi occhi spenti dicevano tutt’altro anche se fisicamente sì, stava veramente bene.
- Sì, beh… va meglio. Domani torno a lavoro.
- Oh bene… fantastico… cioè, sono felice, vuol dire che…
- Sono guarita, sì. Anch’io ti vedo bene. Stai avendo come sempre un gran successo.
- Merito di Nikki Heat, cioè anche merito tuo.
- Non lusingarmi Castle… Non c’è bisogno.
Parlarono come due conoscenti quasi sconosciuti con l’imbarazzo di due adolescenti alla prima cotta. Rimasero qualche istante in un silenzio scomodo e scivoloso, dove crollarono tutte le certezze di Rick.
- Beh, allora ciao Castle. Mi ha fatto piacere rivederti. - Quella frase così di etichetta fu per lui come una porta chiusa in faccia. Avrebbe preferito che non gli dicesse niente, che volesse evitarlo, piuttosto che parlare con lui come la vecchia amica del college che non vedi da anni e che non rivedrai per altrettanto tempo.
- Aspetta Kate. - La chiamò per nome e per lei già quello fu causa di un sussulto che non doveva esserci, amplificato dal tocco della sua mano sul braccio, che le impediva di aprire il portone. - Ti andrebbe di andare a mangiare qualcosa?
- Castle io… 
- Anche solo prendere un caffè, un caffè insieme… - Insistette lui. Un caffè, certo. Per Kate era meno impegnativo che le proponesse un pranzo di gala da dieci portate che un caffè in un semplice contenitore di carta da asporto. Quello era impegnativo mentalmente ed emotivamente, non una cena.
- No, Castle, grazie dell’invito. Ma domani devo riprendere a lavorare e… sono stanca.
Rick fece scivolare via la mano dal suo braccio. Era stato uno stupido a sperare ancora, a dire tutte quelle cose banali, a proporle un caffè insieme.
- Certo, Beckett, lo capisco. Beh, in bocca al lupo per il tuo rientro allora. Ti manderò una copia di Heat Rises al distretto.
Non aspettò la sua risposta, si allontanò da lì sentendo solo il rumore del portone che ci chiudeva tra loro, senza vedere Kate appoggiata al vetro che lo osservava fino a quando il taxi sul quale era salito non lo portò lontano da lei.

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Capitolo 28
*** VENTOTTO ***


Kate aveva ripreso la sua routine al distretto, dove tutto doveva essere uguale ed in realtà tutto era diverso. Senza Montgomery e dovette ammetterlo, anche senza Castle, e con una Victoria Gates in più, il clima era completamente diverso. Si era persa un po’ di quella spensieratezza che riusciva ad esserci anche in un lavoro così difficile ed emotivamente complicato. Entrambi erano nominati il meno possibile, soprattutto Castle, il cui nome era diventato un vero tabù per tutti quando Beckett era presente. Quando era tornata, la sedia di Castle era già stata fatta sparire. Ne fu intimamente grata a chiunque avesse ci pensato, anche se in fondo vedeva quello come l’ennesimo strappo con tutto quello che c’era prima. Alcuni casi particolarmente complicati in quelle prime settimane l’avevano aiutata a riprendere quello che era sempre stato il suo ritmo. Distretto, indagini, casa, corsa, palestra. Non necessariamente sempre in quell’ordine. Ringraziava quei giorni o quelle notti, a seconda dei casi, che arrivava a casa talmente stanca da non aver voglia di fare nulla, solo dormire e contava ogni sera le sue gocce e così cadeva in un sonno muto e profondo. Solo una volta aveva avuto problemi per questo. Non aveva sentito il telefono suonare ripetutamente per avvisarla che doveva recarsi su una scena del crimine. Appena si rese conto si precipitò sul luogo ma ormai erano già andati tutti via e trovò solo gli agenti a presidiare l’appartamento vuoto mentre la scientifica faceva gli ultimi rilievi.

Ryan ed Esposito la coprirono con la Gates, inventandosi che si trovava fuori città per motivi di famiglia. Il capitano non indagò ma lei dubitava che il suo superiore avesse creduto a quella storia, perché aveva già dimostrato di conoscere molto bene il suo stato di servizio e familiare.

Arrivò un giorno la notizia di una nuova vittima del cecchino, questa volta una giovane detective di Boston. Dalle loro indagini avevano quindi scoperto che negli ultimi 6 mesi erano state uccise 5 detective della polizia, tutte donne, tutte fisicamente simili: alte, capelli scuri, giovani. Aveva fatto la prima vittima a Washington, poi a Baltimora, Philadelphia, New York e infine Boston. Stava facendo tutta la costa est e lei era l’unica sopravvissuta, il suo unico colpo sbagliato. Alcune volte si chiedeva perché lei era stata graziata dal destino. Aveva pensato più volte che quel movimento impercettibile che aveva fatto Castle per spostarla forse aveva permesso al proiettile di colpirla poco più a lato rispetto al cuore e non essere letale. Alcuni giorni pensava che era stata una fortuna, altre che sarebbe stato meglio il contrario, ogni tanto quei veli neri che avevano ammantato i suoi giorni nei mesi passati tornavano ad avvolgerla e stringerla come le spire di un serpente a sonagli, viscide, infide si avvicinavano e poi senza che se ne rendesse conto era già sul punto di non respirare. Poi passava, ma ogni volta le sembrava che la lasciava sempre più stordita. E allora voleva solo dormire.

Dopo l’ennesimo caso ed appena avevano ricollegato quei delitti di poliziotte uno all’atro, arrivò l’FBI che gli prese tutte le prove e gli tolse le indagini. Avevano davanti un serial Killer e quello non era più un caso loro, nonostante le loro recriminazioni, soprattutto di Kate, che si sentiva defraudata della possibilità di scoprire chi era che le aveva rovinato la vita: non l’aveva mai detto apertamente a nessuno, ma una delle sue intime convinzioni era che tutta quella situazione avevano contribuito a farle perdere il bambino. 

Quella sera dopo aver discusso anche con la Gates che secondo Kate aveva la colpa di non aver insistito per permettergli almeno di partecipare in qualche modo alle indagini era rientrata a casa molto nervosa. Se poteva capire che la Gates non comprendeva la sua necessità di sapere, di partecipare attivamente alle indagini, non riusciva a capire perché anche Esposito e Ryan le dicevano di lasciar perdere. Ne era c’era, se c’era Montgomery avrebbe fatto pressioni perché potesse collaborare, magari anche seguire la squadra dell’FBI che si occupava del caso, era una buona scusa per andare via da lì, per cambiare aria. Invece i suoi amici, quelli che meglio di chiunque altro sapevano come stava e cosa aveva passato per colpa di quello sparo, le dicevano di non fare nulla. Era facile per loro, pensava. Ryan aveva la sua vita, si era sposato, aveva un figlio in arrivo. Tutto quello che lei non aveva più, mentre ad Esposito, beh a lui non gli era mai interessato nulla, forse per questo non poteva capire cosa voleva dire per lei. “Sei troppo coinvolta, Kate. In ogni caso non avresti mai lavorato a questo caso, lo sai. Guardati, non sei serena.” Questo le aveva detto Javier, prendendola in disparte. Non ci aveva visto più e se ne era andata, era tornata a casa. Tanto era troppo coinvolta in tutto quel giorno per lavorare. Appena arrivata prese un paio di pillole, quelle che l’aiutavano a calmarsi, quelle che da tempo non toccava, ma quella sera ne aveva bisogno e si abbandonò sul divano. 

Il campanello che suonava insistentemente sembrava un martello pneumatico azionato a pochi centimetri dalle sue orecchie. Si alzò da divano e prima di aprire bevve l’ultimo sorso d’acqua da una bottiglietta di plastica lasciata sul mobile. Immaginava già di doversi sorbire la ramanzina di Lanie per come si era comportata al distretto ed aprì la porta senza nemmeno controllare chi fosse.

Rimase immobile a guardare l’uomo davanti all’entrata del suo appartamento, che le sorrideva come se nulla fosse. Chiudergli la porta in faccia era stata più di una tentazione, ci aveva anche provato, ma lui aveva afferrato il bordo con una mano e l’aveva bloccata. Mettersi a fare una gara di forza in quel momento era l’ultima cosa che voleva, così si arrese ma prima di farlo entrare lo squadrò ancora un volta.

- Cosa vuoi Josh? - Chiese secca, con una domanda che sembrava più un invito ad andarsene.

- Parlare, solo quello. - Rispose il dottore più abbronzato del solito e con i capelli più lunghi.

- Non ho voglia di parlare.

- Per favore, Kate, me lo devi almeno questo. - Il tono di supplica la convinse a farlo entrare. In fondo era vero, almeno quello glielo doveva. Si erano lasciati nel peggiore dei modi, non aveva avuto né riguardo né scrupoli a dirgli che quello che aspettava non era suo figlio, lasciandolo e ammettendo allo stesso tempo di averlo tradito.

- Accomodati - disse lasciandogli il passo e Josh entrò quasi incerto, timoroso di trovarsi davanti qualche altra persona che non avrebbe voluto vedere e con la quale si sarebbe sicuramente scontrato. Accertato che non c’era nessuno, si andò a sedere su una poltrona mentre Kate prese il suo posto sul divano.

- So quello che ti è successo… Mi dispiace. - Disse con aria veramente amareggiata. 

- Preferirei non parlarne Josh. - La risposta di Kate fu stizzita mentre si sfregava nervosamente le mani, un gesto che non passò inosservato al dottore che si sporse per mettere una delle sue su quelle di lei, che però immediatamente si ritrasse, facendolo tornare sui suoi passi.

- Sono stato via qualche mese, in Costa d’Avorio, sono tornato solo un paio di giorni fa, altrimenti sarei venuto prima. 

- Non c’era bisogno.

- Oh sì, non è bello che stai sola. So che con Castle…

- Anche questo è un argomento del quale non vorrei parlare. - Si chiuse sempre più su se stessa, sia con le parole, che con i gesti, incrociando le braccia al petto.

- Kate… Se tu hai avuto una relazione con lui quando stavamo insieme… 

- Non ho avuto una relazione con lui, Josh. Non c’è stata nessuna relazione. Non avrei continuato a stare con te se fosse stato così. È stata una notte, una sola notte quando eravamo a Los Angeles. - Precisò lei cercando di sminuire quella notte che però per lei aveva un valore molto più grande di quanto voleva far capire.

- Ok, non è importante.

- Perché sei qui Josh? Cosa vuoi da me? - Chiese spazientita.

- Se vuoi possiamo ricominciare insieme Kate. Ora non c’è più niente che te lo impedisce, che ti obbliga a stare con Castle.

Lo guardò allibita. Stava veramente dicendo quello che aveva capito. Impedimenti? Obblighi? Di cosa stava parlando?

- Io… io spero di aver capito male Josh. Spero che tu hai sbagliato, che non hai detto quello che volevi dire. - Chiese trattenendo la rabbia a stento.

- Ora che non sei incinta, possiamo tornare insieme, no? Se vuoi un bambino a me piacerebbe, potremmo pensarci.

Kate alzò una mano facendogli cenno di tacere. Cercò di respirare per evitare di prenderlo e sbatterlo fuori di forza. In quel momento ce l’avrebbe fatta, nonostante la stazza nettamente inferiore, perché ogni suo muscolo era teso e la sua rabbia aumentava. Come aveva potuto stare con una persona che diceva certe cose, che aveva capito così poco di lei.

- Non dire un’altra parola, Josh. Non una in più. L’unico impedimento che c’era tra me e te per stare insieme è il fatto che non ti amo e che forse non ti ho mai amato. Sei un bel ragazzo, divertente, ma non è amore questo. Non ci potrà mai essere un futuro tra di noi, non ci sarebbe mai stato in ogni caso. Io non voglio un figlio da te e non so come puoi pensare che l’idea di avere un altro figlio possa cambiare qualcosa in quello che è successo. A me non manca l’idea di avere un figlio, a me manca quel bambino. È chiaro Josh? E adesso vattene la strada la sai. - La calma della voce di Kate era l’esatto opposto del tumulto interiore che si era di nuovo scatenato in lei.

- Ma Kate… 

- Josh, non farmi alzare, non farmi dire più nulla. Vattene e non tornare più, non ti intromettere mai più nella mia vita.

Quando la porta si chiuse e lei rimase di nuovo sola, le sembrò di essere precipitata indietro di mesi, di nuovo ad annaspare nelle sabbie mobili di tutto quello che non aveva mai risolto, ma solo accantonato dentro di se.

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Capitolo 29
*** VENTINOVE ***


- Ehy fratello, ieri sera poi sei andato a prendere una birra con Castle? - Chiese Ryan ad Esposito mentre prendevano un caffè nella sala relax

- Sì, ha detto che gli è dispiaciuto non salutarti prima di partire, però ha detto di tenerti libero per quando torna.

- Quanto starà fuori?

- Un paio di mesi, a quanto pare Nikki Heat farà il suo sbarco in Europa. Sembrava molto eccitato all’idea di fare promozione in paesi diversi.

- Già, mi immagino che tipo di promozione! - Rise l’irlandese dando il cinque all’amico.

Beckett, sulla porta, aveva sentito questa ultima parte della conversazione, si schiarì la voce per annunciare la sua presenza e i due, imbarazzati, cambiarono subito atteggiamento.

- Quando avete finito, c’è un omicidio che ci aspetta. Con calma, eh! - Di certo quel pezzo di conversazione rubata non aveva migliorato il suo umore già pessimo da qualche giorno, esattamente dalla sera che Josh era andato a trovarla. Era passato del tempo ormai. Era finita l’estate ed anche settembre stava per finire. C’era quel senso di malinconia, profondo, che aveva cominciato a provare, che si impastava e solidificava con tutto quello che di irrisolto c’era dentro di lei che faceva ancora finta di non vedere, che non esistesse, anche se aveva piena consapevolezza che era lì, un peso duro che non si scalfiva con niente, che anzi aumentava con ogni suo rifiuto di parlarne, di affrontarlo. Sarà stato anche l’autunno che era arrivato velocemente, non si era nemmeno accorta di come le foglie degli alberi avessero incominciato ad ingiallirsi e a cadere, fino a quando la mattina precedente nella sua solita corsa all’alba quando non c’erano chiamate dal distretto, si era ritrovata nel parco vicino casa, a calpestare un tappeto giallo e arancione reso scivoloso dall’umidità dell’alba. Si fermò ed alzò gli occhi al cielo, seguendo con lo sguardo il volo di una foglia che si era appena staccata da un ramo. Lento, inesorabile, fino a terra. Il vento che era soffiato proprio in quel momento, l’aveva per un attimo risollevata e sembrava che per qualche istante, avesse ballato in aria, che potesse riprendersi ed invece passata la folata, la sua discesa era stata ancora più repentina fino a confondersi nel tappeto di tutte le altre a cui era capitata già la stessa sorte, calpestata poco dopo da gente che non aveva assistito alla sua fine. Si era sentita come quella foglia. Staccata dall’albero, in balia del vento che la teneva a mezz’aria per poi farla precipitare verso il basso, dove nessuno si sarebbe accorto di lei, in fondo era solo una come tante altre. Odiava quei momenti che aveva di autocommiserazione, odiava essere compatita ed odiava anche che la gente sembrasse così insensibile da non capire come stava e perché. Odiava tutto, insomma. Principalmente se stessa, perché non si riconosceva più.

 

- Cosa abbiamo? - Chiese Beckett arrivata sulla scena del crimine, un palazzo fatiscente che aveva sicuramente visto anni migliore. 

- Due cadaveri. - Rispose l’agente sul posto.

- Due? - Esclamò Beckett sorpresa.

- Sì, detective, l’altro lo abbiamo appena trovato. Vi accompagno. Ah, vi avviso, non è un bello spettacolo. - Pennington era un agente esperto che ne aveva viste di scene del crimine, anche molto cruente, Beckett, Esposito e Ryan si scambiarono un’occhiata perplessa mentre seguivano l’agente su per quelle scale sudicie. 

Fuori dall’appartamento 14/A l’agente Robertson evitava che qualche curioso del palazzo si intrufolasse per vedere.

- Teneteli tutti lontano da qui. Altrimenti facciamo sgomberare il palazzo. - Ordinò Beckett ai due agenti. Qualcosa le faceva pensare che l’assassino potesse essere anche uno dei vicini, visto il posto dove si trovavano, qualche drogato o ubriaco, una lite per pochi dollari. Si stava facendo già un film in testa cosa che non avrebbe dovuto, per evitare stupidi preconcetti.

- Chi sono le vittime? - Chiese Ryan a Pennington e Kate si era accorta di non averci nemmeno pensato. Aveva forse dato per scontato che si trattasse di una coppia, ma si rendeva conto che non stava ragionando, non come avrebbe dovuto.

- Robert e Michael Swanston - Rispose l’agente leggendo nel taccuino.

- Fratelli? - Chiese Beckett entrando dentro con gli altri mentre infilava i guanti notando un gran caos e molta sporcizia.

- No, padre e figlio. - Tutti e tre si voltarono a guardarlo con gli occhi sbarrati. - Di là…

L’agente Pennington indicò loro la strada e poi tornò vicino al suo collega per tenere lontano i condomini.

Lo spettacolo in camera da letto era spaventoso. Robert Swanston era disteso sul letto coperto di sangue con il corpo martoriato da vari colpi da arma da taglio tanto che non erano in grado di stabilire se fossero i colpi ad averlo ucciso o fosse morto dissanguato. Quel posto sembrava un mattatoio con schizzi di sangue ovunque.

- Dov’è l’altro corpo? - Chiese Kate vedendo solo quello dell’uomo.

- Non credo dovreste vedere… - Disse Esposito agli altri due disgustato dopo aver alzato una parte del piumone, ma quello era un invito ai due ad andare a vedere ma quello che trovarono li lasciò senza parole. Un bambino di pochi mesi a cui era stato riservato lo stesso trattamento del padre e poi avvolto tra le coperte.

Ryan fece un passo indietro quasi barcollando mentre Esposito lasciava ricadere le coperte. Beckett, invece, uscì velocemente dall’appartamento e scese di corsa le scale. Aveva bisogno di aria. Quasi travolse Lanie che stava salendo senza nemmeno accorgersi di lei, né rispondendo al suo saluto.

- Ragazzi, che è successo a Beckett? - Chiese arrivata al piano e vedendo anche i due detective che sembravano provati. 

- Non c’è un bello spettacolo là dentro Lanie…

 

Travolse l’agente che era fuori dal portone e svoltò l’angolo trovandosi in un vicolo. Appoggiò entrambe le mani al muro, provò a fare lunghi e profondi respiri ma quell’immagine tornò ai suoi occhi, insieme a tante altre. Vomitò sentendo lo stomaco che si contorceva in strette e giri tortuosi ed aveva paura di strozzarsi perché ancora non respirava. Poi sentì tre colpi di arma da fuoco e tutto divenne confuso, la vista annebbiata. Si spostò all’indietro, camminando, inciampando fino a quando non sentì qualcosa sbattere sulle caviglie. Mise le mani dietro e trovò l’altro muro e sembrava volesse spingerlo via, continuare ad allontanarsi senza riuscirci, e poi un altro colpo, un altro sparo e tutto le sembrò nero, la testa pesante, le gambe deboli e si lasciò cadere a terra.

Rivisse tutto in un istante. Il cimitero, il dolore al petto, la paura, Castle sopra di lei e poi tutto girava, le sembrava che i muri del vicolo la stessero schiacciando ed avrebbe voluto andare ancora indietro, scappare.

- Beckett! Beckett cosa c’è? Kate! - La stavano chiamando, non capiva chi. Vedeva ancora Castle con lo sguardo terrorizzato e chiuse gli occhi per non vederlo più, ma faticava sempre più a respirare e si sentì afferrare da sue mani che la tenevano stretta e la scuotevano.

- Kate! - Aprì gli occhi come ridestata da un sogno ma non c’erano gli occhi azzurri di Rick davanti a lei, ma il volto preoccupato di Esposito.

- Javi… - Deglutì a fatica con un sapore orribile in bocca.

- Beckett… cosa succede? Stai bene? 

- Io… sì… ho dormito poco… non ho mangiato nulla… un mancamento, credo…

- Ne sei sicura? - Il detective la guardava poco convinto mentre cercava di aiutarla a rialzarsi.

- Sì, sì certo… Lanie? Non è ancora arrivata? - Chiese mentre ritornava nella via principale.

- Veramente vi siete anche incrociate sulle scale quando tu scendevi e ci ha chiesto cosa avevi…

- Sono scesa velocemente, avevo bisogno d’aria. - Ribadì.

- Beckett…

- Sto bene Esposito. Sto bene, ok? - Disse seccata rimettendosi a posto la giacca.

- La moglie, Peggy Fuller, non si trova. - Disse Ryan uscendo dal palazzo. - L’abbiamo chiamata più volte al cellulare, prima suonava a vuoto, ora è irraggiungibile.

- Torniamo alla centrale e facciamolo tracciare. Magari è stata rapita o… si è spaventata ed è scappata - Disse guardando i due.

- O forse… - Provò ad intervenire Esposito ma Kate non lo fece parlare.

- Telecamere nella zona non ci sono mi pare… - disse lei guardandosi intorno.

- Potremmo provare a chiedere a qualche negozio nella strada. Sicuramente quella banca laggiù dovrà averle. - Ryan indicò l’edificio in fondo alla via dall’altra parte della strada.

- Meglio che niente. Ci pensate voi? Io vado a parlare con i genitori di Peggy.

 

I coniugi Fuller, contrariamente a quanto pensava, abitavano in un bel palazzo a SoHo, qualcosa che sembrava anni luce lontana dal dove avevano trovato i corpi del marito e del figlio. Non aveva scoperto nulla da loro, non sapevano dove fosse la figlia, né avevano notizie di lei da mesi. I loro rapporti si erano praticamente interrotti quando avevano scoperto che era incinta “di quel buono a nulla” così il padre di Peggy aveva definito Robert Swanston, nemmeno troppo dispiaciuto che fosse morto.

- Anche vostro nipote è stato ucciso. Brutalmente. - Il tono di Kate era quasi di rimprovero davanti alla freddezza di quei due signori stretti nei loro abiti eleganti e circondati dai loro arredi e soprammobili pregiati.

- Con quel padre… in quel tugurio dove vivevano… con quella gente intorno… Povero bambino, è sopravvissuto anche troppo!- Disse la madre di Peggy quasi schifata. 

- Detective, per favore, faccia il possibile per ritrovare nostra figlia! - La pregò poi l’uomo prima di congedarla. Beckett uscì da lì con più nausea di quanta non ne avesse provata prima. Non riusciva a capire come si potesse reagire in modo così disinteressato. Si obbligò a mantenere una calma che non sapeva dove prendere. Respirò a lungo rientrata in auto, con la testa appoggiata al volante ma non riusciva a chiudere gli occhi, perché ogni volta la scena di quel neonato con il corpicino martoriato la assaliva come una subdola fiera.

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Capitolo 30
*** TRENTA ***


La visita dai Fuller era stata più breve e infruttuosa di quanto aveva immaginato, per questo Beckett aveva chiesto al distretto l’indirizzo dei parenti di Robert Swanston e l’unico che risultava in vita era la sorella Rose. Si trovava a Brooklin ed attraversare quel pezzo di città a quell’ora non era stato facile. La frustrazione di Kate aumentò quando Rose quasi si rifiutò di aprirle la porta di casa e parlò con lei solo dalla porta semiaperta e tenuta dalla catenella. Se Robert era morto, meglio. Questa era la sintesi del suo discorso, il fratello le aveva solo provocato problemi per tuta la sua vita. Non sapeva che fosse sposato, men che meno del figlio. Si chiuse dentro senza dire altro.

Tornò a distretto arrabbiata e avvilita. Come era possibile che a nessuno sembrasse importare qualcosa della morte di quel neonato? 

- Novità? - Chiese ad Esposito e Ryan prima ancora di essere arrivata alla sua scrivania.

- La banca ed un negozio di pegni avevano delle telecamere, i tecnici stanno esaminando i video. - Disse Ryan.

- Abbiamo interrogato i vicini, nessuno sa nulla, nessuno ha sentito nulla. - Continuò Esposito.

- Visto l’ambiente non mi sorprende. Novità da Lanie? - Kate scosse la testa. Era peggio di quanto pensasse, in realtà.

- Ancora no.

- Peggy Fuller? - Chiese sperando in qualcosa

- Nessuna traccia. Il cellulare è stato trovato in un cassonetto ad un paio di isolati di lì in un vicolo tra due palazzi disabitati in ristrutturazione, ci ha chiamato un agente poco fa. Lo stanno portando alla scientifica per vedere se ci sono delle tracce o qualcosa. - Mentre Javier parlava Kate aggiornava la lavagna con le nuove informazioni.

- A te come è andata? - Chiese Ryan

- Di Robert Swanston e di suo figlio sembra non interessare nulla a nessuno. - Disse finendo di scrivere e buttando i pennarelli sulla scrivania in un gesto di stizza.

 

- Ehy ragazzi… ho i vostri risultati! - Lanie era andata personalmente al distretto per portare il suo lavoro.

- Allora? - Chiese Kate impaziente

- Robert Swanston è stato drogato prima di essere ucciso. Ho trovato forti dosi di sonnifero. Per questo non si è difeso. Il colpo letale è stato quello che ha reciso la carotide, ma non è stato il primo. Dalla forma delle ferite i colpi sono stati tutti scagliati dall’alto verso il basso con un coltello da cucina, un trinciante con la lama approssimativamente sui 22/24 centimetri, ma nessun colpo è andato a fondo, sono stati scagliati con rabbia ma non eccessiva forza, perché soprattutto i primi sono incerti, poi sembra che l’assassino si sia liberato dalla paura ed abbia colpito in modo più deciso e netto. In tutto i colpi sono stati 29. Stessa cosa sul corpo del neonato dove sono so come abbia fatto ci sono 11 fendenti. Vi lascio tutto qui. - Lanie mise i referti sopra la scrivania di Kate e subito Esposito li prese per consultarli.

- Tesoro come va? Oggi non ti sei nemmeno accorta che ti sono passata vicino… - Lanie aveva preso sottobraccio Kate allontanandola di qualche passo dai ragazzi per parlare con lei. 

- Bene, sto bene. Ho avuto solo un po’ di nausea e giramenti di testa… Ho dormito poco, non ho fatto colazione… - Ripetè sempre le stesse scuse.

- Hai più visto Josh? - Le chiese prendendola in contropiede.

- No! E sarà meglio per lui non farsi più strane idee. - Chiuse il discorso fermamente.

- Con questo caso? Va tutto bene? - Si preoccupò ancora la dottoressa.

- È un caso Lanie…

- Kate… Non mi prendere in giro. - La ammonì la sua amica

- È solo un caso come tanti altri. Scusami, devo cercare un duplice omicida.

Kate si allontanò da Lanie, non voleva sentire altro, non voleva parlare né farsi prendere dall’emotività e sapeva che lei era in grado di farla uscire allo scoperto.

- Ehy Kate, ci vediamo uno di questi giorni? - Le chiese prima di andare via.

- Sì, certo. Appena chiudiamo questo caso. - Rispose senza nemmeno guardarla e la dottoressa se ne andò poco convinta su quanto le aveva detto la sua amica dopo aver salutato gli altri due.

Dopo aver letto i referti di Lanie tutti e tre furono convinti che la maggiore indiziata potesse essere proprio Peggy Fuller. Mandarono una pattuglia a presidiare sotto casa dei suoi e la sua foto fu inviata a tutte le squadre della città.

 

Quella notte a Kate non erano state d’aiuto nemmeno le gocce che prendeva sempre. Era tormentata da incubi rosso sangue. Vedeva quel bambino, morto, su quel letto circondato da sangue e poi vedeva se stessa a terra che non riusciva a chiedere aiuto in mezzo ad altro sangue. E il volto di quel bambino ucciso cambiava, diventava sempre più simile a quello che nella sua mente era il volto del suo bambino e piangeva e chiedeva aiuto mentre lei era immobile a terra fino a quando non veniva qualcuno e la portava via, perché lei era la colpevole, era lei che aveva ucciso quel bambino, il suo bambino.

Si era svegliata completamente sudata, con una tachicardia che non riusciva a controllare e il respiro affannato. Le tremavano le mani mentre cercava sul comodino delle compresse da prendere e l’acqua da bere che si rovesciò in gran parte sul pigiama. Sentiva il cuore che batteva così forte da rimbombargli nella testa. Si premette le tempie senza avere alcun giovamento ed il senso di oppressione al petto aumentò tanto che pensò potesse aprirsi. Le dava fastidio anche quella maglietta che aveva sulla pelle. La buttò via e tolse anche le coperte. Il corpo sudato era appiccicato al lenzuolo sotto di lei e ben presto fu scossa da brividi di freddo. Si alzò e si fece una doccia nel cuore della notte. Chiuse gli occhi sotto l’acqua che scendeva violenta, sperò che lavasse via da lei anche quel senso di sporco che sentiva da quando si era svegliata o forse da molto prima. Mesi prima. Aprì gli occhi per chiudere le manopole dell’acqua e per un attimo ebbe l’allucinazione che anche tutto quello che c’era ai suoi piedi fosse sangue e non acqua pulita.

Tornò a letto senza più coraggio di chiudere gli occhi e passò il resto della notte a fissare il soffitto fino a quando non squillò il suo cellulare. Avevano trovato Peggy Fuller in stato confusionale in un parco a pochi isolati dalla sua abitazione con gli abiti ancora sporchi di sangue e il coltello che era presumibilmente l’arma del delitto. Aveva ferito ad un braccio uno degli agenti che aveva provato a fermarla, ma poi l’avevano catturata ed ora la stavano conducendo al distretto

 

- Dov’è? - Chiese Kate in tono deciso appena arrivata al distretto.

- In sala interrogatori ma… - Non fece finire di parlare l’agente che, preso il fascicolo del caso andò da Peggy Fuller.

Sbattè con violenza la porta entrando lì, facendo sobbalzare la donna che stava seduta nella sedia ammanettata con le mani appoggiate in grembo e singhiozzava dondolandosi avanti e indietro.

Beckett senza andare troppo per il sottile tirò fuori dal suo fascicolo le foto di suo marito e suo figlio che avevano scattato gli agenti appena avevano ritrovato i corpi e gliele mise davanti, ma la donna voltò la testa rifiutandosi di guardarle, continuando a dondolarsi.

- Guarda cosa hai fatto Peggy! Cos’è non hai coraggio? - Urlò Kate

- Io… Io… Non ho fatto niente… Non ricordo niente… è tutto così confuso… Io…. 

- Non ricordi Peggy? Quando lo hai preso il sonnifero che hai dato a Robert? Non ricordi nemmeno questo?

- Il sonnifero… - la donna sembrò avere un lampo negli occhi - Sì, dammi il mio sonnifero! Sono stanca, ho sonno… Michael piange, non smette mai di piangere… voglio dormire…

- No, Peggy, tu non dormi… Tu adesso mi dici tutto… Guarda Robert e Michael… Guardali! - Ora Kate le parlava a voce bassa e molto lentamente ma con una durezza di fondo che sembra una minaccia, ma la donna non cambiò il suo atteggiamento, rifiutandosi di posare lo sguardo su quelle foto.

- Michael piange e Robert urla sempre. - Ripetè la donna piangendo.

- Puoi piangere quanto vuoi Peggy. Non penserai di commuovermi, vero? Hai massacrato un uomo ed un neonato e sei tu quella che fa la vittima? - Kate ora le stava urlando di nuovo e la donna alzò le mani come per proteggersi da lei che si era avvicinata con le foto in mano, ma Peggy nonostante i polsi ammanettati diede una botta alle mani di Kate facendo volare via le foto.

- Basta! 

- Hai ucciso tuo figlio Peggy! Ha massacrato il corpo di un bambino di pochi mesi!

- Sarebbe diventato come lui! Sarebbe diventato come Robert! - Urlò ora anche la donna.

- Che faceva Robert? 

- Mi picchiava! Lui urlava e mi picchiava sempre! - La donna continuò a piangere e dondolarsi sempre più.

- E tu per questo uccidi un bambino di tre mesi? Perché tuo marito ti picchiava? Ma che essere umano sei Peggy? Perché non sei scappata? Perché non sei andata dai tuoi genitori? Avevi addormentato Robert, potevi prendere Michael ed andare via con lui! - Kate girò intorno al tavolo sedendosi davanti a lei.

- No! Michael sarebbe diventato come suo padre… come lui! - Urlò guardando dritta negli occhi Kate che sostenne il suo sguardo senza perdere mai il contatto.

- No Peggy! Michael era un bambino! Era solo un bambino e non aveva nessuna colpa. Nessuna.

- Piangeva! Piangeva sempre! E poi suo padre urlava perché piangeva!

- Era un bambino! Cosa doveva fare secondo te? - Beckett si alzò in piedi sbattendo le mani sul piano facendo ancora una volta sobbalzare la donna.

- Ed io cosa dovevo fare me lo dice lei detective? Lo sa lei cosa vuol dire non riuscire mai a dormire, avere sempre questo essere che piange vicino e quando finalmente ti addormenti lui ricomincia e tu non ce la fai e poi Robert si arrabbiava. E mangiava e poi dovevo cambiarlo e poi piangeva ancora e non sapevo perché… Lo sa cosa vuol dire? Lui urlava e piangeva come Robert… sarebbe stato come lui… 

- No… io non lo so cosa vuol dire… 

- Allora detective non mi giudichi. - Lo sguardo in Penny a Kate sembrava cambiato. Non era più la donna impaurita e piangente ma era fredda ed era convinta fosse perfettamente lucida.

- Questa conversazione finisce qui, anzi questa conversazione non c’è mai stata. - Un uomo piombò nella stanza interrompendo la sfida di sguardi che le due donne avevano cominciato.

- Lei chi è?

- Sono l’avvocato David Sheppard e rappresento la signora Peggy Fuller. 

- Detective Beckett… - Victoria Gates era comparsa alla porta e Kate si avvicinò a lei.

- Signore, la donna non ha mai chiesto un avvocato in mia presenza. - Si giustificò Kate

- Già, ma pare lo abbia fatto prima, agli agenti che l’hanno accompagnata qui, hanno provato a dirglielo ma lei non li ha ascoltati.

- Tutto quello che vi siete dette non ha alcun valore, ne è consapevole, vero detective? - Aggiunse l’avvocato. Beckett lo guardò e poi guardò Penny Fuller e fu certa che quello che aveva visto era un ghigno sul suo volto.

- Venga con me Detective! - Le intimò la Gates e lei la seguì passando davanti l’agente che aveva visto prima che alzò le spalle come per dire che non poteva fare nulla di diverso e i genitori della Fuller che la accusarono di aver vessato la figlia.

La Gates chiuse la porta del suo ufficio e poi si rivolse a Kate che attendeva in piedi.

- Si rende conto cosa ha fatto detective? Ora dobbiamo solo sperare che ci siano prove schiaccianti su quel coltello e che quell’avvocato non si inventi qualcosa, perché la sua confessione è del tutto inutile! 

- Quella donna non è disturbata come vuole far vedere Capitano! È perfettamente lucida. 

- Già, talmente lucida da essersi presa gioco di lei. È fuori da questo caso Beckett. È tutto. - La Gates si era seduto ed aveva indossato gli occhiali per leggere alcuni documenti, ma Kate non se ne andava. - Le ho detto che è tutto, Detective.

- No Signore, non può togliermi questo caso così! -Protestò lei.

- L’ho già fatto, detective Beckett. Ed ora c’è stato un altro omicidio sul quale dovrebbe indagare e spero che non si faccia offuscare la mente anche da questo.

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Capitolo 31
*** TRENTUNO ***


Kate era arrivata solo ad una conclusione in quella giornata: il detective Bryan Preston era solo un perfetto idiota. Anzi non solo quello, era anche presuntuoso e maschilista. Quell’omicidio su cui aveva indagato quel giorno era stato un caso di poco conto, risolto rapidamente: due soci in un affare nel quale uno dei due pensava che l’altro fosse di troppo, ma non aveva pensato a nascondere le sue tracce. Prima di sera il sospettato era già in custodia e proprio mentre formalizzavano il suo arresto vide Peggy Fuller che usciva, libera, dal distretto con la sua famiglia ed il suo avvocato.

- Cosa vuol dire questo? - Sbraitò contro Ryan ed Esposito che avevano continuato ad occuparsi del suo caso.

- Il suo avvocato ha chiesto il rilascio. Lei sostiene che non ha ucciso nessuno, che sul coltello c’erano le sue tracce solo perché lo aveva preso ed era scappata in stato di shock. Il medico che l’ha visitata ha confermato che non è lucida, è fuori su cauzione affidata alle cure della famiglia. - Disse Ryan

- State scherzando, vero? Ha confessato a me di averli uccisi entrambi! Quella donna sta solo recitando! - Urlò ai suoi colleghi.

- Beckett, non possiamo fare niente, la confessione che ti ha fatto non è utilizzabile, lo sai… abbiamo le mani legate!

Si voltò ancora a guardare la donna che circondata dai suoi genitori e dall’avvocato stava espletando le ultime formalità prima di lasciare il distretto.  Andò a grandi passi decisi verso Peggy Fuller. Il rumore dei tacchi degli stivali di Beckett sembrava essere diventato l’unico rumore in tutto il distretto dove gli agenti sembrava avessero smesso anche di respirare.

- Io ti giuro, fosse l’ultima cosa che faccio, riuscirò ad incastrarti. Non lascerò che la morte di tuo figlio resti impunita. - Quella di Kate più che una promessa sembrò una minaccia, e così la percepirono anche i genitori e l’avvocato della donna, che invece sembrava guardare la detective con aria di sfida.

- Da quello che mi risulta lei non segue più questo caso, quindi credo che possa fare ben poco, per fortuna, visto che ha già fatto troppi danni, vessando psicologicamente la mia assistita questa mattina. Ha aggredito una donna alla quale hanno ucciso il marito ed il figlio si vergogni detective Beckett! - Le disse l’avvocato facendosi avanti.

- Un neonato è stato massacrato da quella donna, da sua madre e a nessuno di voi interessa nulla. Né prima di sapere che era stata lei, né dopo, e sono io che mi devo vergognare? 

- Detective Beckett, ora basta! - Il capitano Gates era dietro di lei, attirata lì dal tono eccessivamente alto della conversazione.

- Capitano, dovrebbe tenere più a bada i suoi uomini ed evitare che importunino la mia assistita! - Disse ancora l’avvocato sprezzante.

- Mi dispiace avvocato Sheppard. Potete andare… - Li congedò la Gates mentre questi entravano in ascensore.

- Le dispiace Capitano? Le dispiace per loro? - Kate non aspettò nemmeno che fossero sole nel suo ufficio per parlarle.

- Sì, mi dispiace, perché non abbiamo niente per incastrarla e perché grazie al suo comportamento, La Fuller ora farà la vittima di un detective che ha preso la cosa sul personale!

- È questo che pensa? Che è una questione personale?

- Sì, Beckett. Penso proprio questo! Ed ora farebbe meglio ad andare a casa, visto che qui per oggi ha già fatto troppi danni.

 

La Gates aveva ragione e Beckett lo sapeva. L’aveva presa come una questione personale. Era per lei una questione dannatamente personale visto che le immagini del corpo di Michael straziato la torturavano di continuo e si mescolavano ai suoi ricordi, cambiando forma e sostanza, ma continuando intaccarla dentro, come una goccia che cade imperterrita e finisce con il levigare anche la pietra. Ma lei non si sentiva pietra, piuttosto sabbia, e la goccia scavava solchi profondi. Sentiva inquietudine dentro di lei spandersi e riempirla, ma non era più quel manto nero opprimente, era un lago rosso e denso nel quale affogava, un lago di sangue: il suo, quello di Michael o entrambi che si mescolavano, come i volti e le situazioni, come quelle voci che le venivano da dentro e che le dicevano che le non era meno colpevole di Peggy perché anche lei aveva fatto la stessa cosa. Si era appena assopita sul divano quando si risvegliò per un rumore troppo forte che veniva dalla tromba delle scale, qualcosa di metallico che doveva essere caduto e rimbombava. Si tirò su di scatto in preda all’ansia, boccheggiando ma l’aria era troppo poca e sentiva che stava per avere un altro di quegli attacchi. Il suo fisico non oppose resistenza, si lasciò squassare e poi pian piano riprese fiato, uscendone più stanca di quanto pensasse. Il medico dal quale era stata glielo aveva detto, così, come se fosse un’avvertenza. “Potrebbe capitare che abbia dei momenti di crisi, degli attacchi di panico, magari qualcosa potrebbe riportare alla mente il giorno dello sparo. È del tutto normale. Se ha bisogno mi chiami, mi faccia sapere.” 

 

Dover lavorare ancora con Bryan Preston lo vedeva come una pena accessoria al fatto di non potersi più occupare al caso del duplice omicidio. Non solo doveva sopportare la sua presupponenza ed il suo essere totalmente inutile ad ogni indagine che stavano facendo, ma dovette intimargli anche a brutto muso di tenere le mai a posto. Era uno di quelli che pensava che solo per essere fisicamente piacente, ogni donna doveva starci con lui mentre Beckett pensava che avrebbe preferito farsi suora piuttosto che accettare le sue avances. Praticamente per Kate era come lavorare da sola, anzi, peggio, era lavorare con una zavorra. Non potè evitare di ripensare ai primi tempi con Castle. Lui che non era un poliziotto, non era addestrato, anche se faceva sempre troppo di testa sua non era mai stato un peso, anche se più volte glielo aveva rinfacciato ed anzi l’aveva più volte aiutata a risolvere casi anche complessi. Non pretendeva che Preston l’aiutasse, ma che per lo meno evitasse di essere d’intralcio. Montgomery era morto, non lavorava più con Ryan ed Esposito e non c’era più Castle al suo fianco: era sola, anche a lavoro era totalmente sola e niente era come prima.

In un paio di giorni, comunque, riuscì a chiudere anche il secondo caso in coppia con il detective idiota. Avrebbero dovuto darle un premio solo per quel motivo, invece quella sera la Gates la chiamò nel suo ufficio ma il motivo era ben diverso.

 

- È stata denunciata dai signori Fuller per aver abusato dello stato confusionale della figlia causandole un grave shock ed anche minacciandola. 

- Che cosa? 

- La disciplinare esaminerà il suo caso nel frattempo è sospesa fino a quando non si pronunceranno.

- Capitano, mi sta prendendo in giro?

- Detective Beckett, le sembra la faccia di chi ha voglia di scherzare?

- Quella donna ha ucciso due persone e non solo è libera, ma denuncia me? 

- Al momento la sola accusa confermata a suo carico è l’aggressione all’agente nel parco. 

- Quella donna ha ucciso suo figlio e suo marito, Capitano!

- Lo so, ma non possiamo fare nulla al momento se non cercare altre prove. 

- La interroghi lei Capitano. La faccia confessare, lei se vuole so che può farlo. Ma la verità è che non vuole. Che della giustizia e del rispetto delle vittime non interessa niente a nessuno.

- Detective ma come si permette?

- Mi permetto, Capitano, perché siete tutti più interessati ai protocolli, alla burocrazia che alla verità. Mi permetto perché io sono stata dall’altra parte ed ho trovato persone che non volevano giustizia ma solo chiudere un caso senza problemi, e non c’è stato un solo altro detective che si è fatto venire un dubbio, che ha indagato e fatto giustizia per mia madre. E ancora non ce l’ha. Ecco perché mi permetto ed ecco perché io non ho più niente da spartire con tutto questo. Sono entrata in polizia per questo, per dare giustizia alle vittime, per tenere alta la loro voce ed ora me la state togliendo. Michael Swanston aveva tre mesi. Non ha mai parlato e non parlerà mai. La sua voce non la sentirà mai nessuno perché a nessuno interessa di lui. Sua madre lo ha ucciso, suo padre è morto e i suoi nonni se ne fregano che sia mai esistito. - Mise sul tavolo il distintivo e la pistola. - È evidente che per me qui non c’è più posto. Mi dimetto.

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Capitolo 32
*** TRENTADUE ***


Prese la giacca ed andò via senza dire nulla a nessuno, né a Kevin e Javier che avevano provato a fermarla, né al suo nuovo partner che la chiamava per sapere come doveva fare il rapporto sul loro ultimo caso. 

- Arrangiati Bryan! - Gli urlò mentre le porte del distretto si chiudevano e l’ultima immagine che ebbe di quel posto era la sua faccia inespressiva.

Era arrivata lì con la macchina di servizio che ovviamente non poteva riprendere, quindi cominciò a vagare a piedi senza una meta precisa. Aveva sperato per settimane di poter tornare a lavoro, alla sua vita ed ora aveva lasciato tutto. La realtà, della quale si era resa conto ben presto, è che niente era più come prima, perché lei non era più come prima. Era qualcosa che andava oltre la Gates al posto di Montgomery, di Preston, di Esposito e Ryan o di Castle. Anzi, no, Castle era proprio in quell’oltre che doveva cercare tutto il resto. Era una delle parti che le mancavano di più. Era la parte che le mancava come se fosse una parte di se. Doveva ammetterlo, poteva fare finta di nulla, ma era così. Castle era più di tutto quello che aveva sempre immaginato, di quello che gli aveva mai detto e le mancava. Le mancava tutto di lui e non solo di quel Rick che aveva conosciuto fuori da lì, quello sul quale adorava addormentarsi, che la teneva stretta a se, che cucinava per lei e fantasticava sul loro futuro. Le mancava anche quello che non rispettava mai quello che gli diceva, che faceva di testa sua e poi lo rimproverava, quello che completava le sue frasi, che le portava il caffè proprio quando ne aveva bisogno, le mancavano le sue intuizioni, quelle sue folli teorie ed il fatto che con lui tutto era più semplice e leggero.

Come aveva fatto, fino a quel momento a non dirsi quanto le mancava tutto di lui? Si dovette fermare un attimo, appoggiata contro il muro, perché le mancò il fiato solo a pensarci, a ricordare il suo abbraccio protettivo, i suoi sussurri che sarebbe andato tutto bene e lei che ci credeva ciecamente. Ecco perché lo aveva allontanato, perché lei ci aveva creduto che sarebbe andato tutto bene ed invece non era stato così, perché lei non riesce a far andare nulla bene. Aveva il potere di distruggere tutto, anche quello che sembrava indistruttibile. Rivedeva il suo volto terrorizzato su di lei e quella dichiarazione che l’aveva rapita, quel “Ti amo” disperato al quale ne erano seguiti altri: dolci, romantici, passionali, travolgenti, drammatici. Ma mai aveva pensato che non fossero veri. E si sentiva in debito. Si sentiva che lei non era riuscita a dirglielo abbastanza, che non era stata mai alla sua altezza, che non gli aveva mai fatto capire quanto anche lui fosse stato importante per lei, perché era stata solo capace di farlo soffrire ed allontanare e forse non aveva mai capito quanto lo amava. 

Sentì improvvisamente il desiderio, anzi la necessità di dirglielo, di dirgli che lei lo aveva sempre amato e che se lo aveva allontanato era solo perché non era capace di accettare il suo amore, perché era convinta di non meritarlo. Non era cambiato molto, ancora faceva fatica a pensare che potesse essere degna del suo amore, però in quel momento egoisticamente la vedeva come l’unica cosa in grado di tenerla a galla. Fu ridestata dai suoi pensieri dal rumore dei pneumatici che stridevano sull’asfalto e dal suono incessante del clacson. Si voltò alla sua sinistra e vide un’auto ferma a pochi centimetri da lei. Stava attraversando con il semaforo rosso e non si era nemmeno accorta. Fece qualche passo indietro tornando sul marciapiede mentre l’automobilista la insultava riprendendo il suo cammino ed una bimba che teneva per mano sua madre la guardava dal basso in alto con aria di biasimo: provò a sorriderle, ma doveva essere una cosa che non le riusciva più tanto bene, perché la piccola si voltò di scatto dall’altra parte. Kate attese nervosamente il verde e poi riprese a passo svelto quella camminata che ora aveva una meta precisa, l’unica meta che potesse portare un po' di calma dentro di sè.

 

Arrivata davanti al portone del palazzo di Castle, indugiò a lungo su cosa fare. Si sentì improvvisamente insicura, camminò sul marciapiede avanti ed indietro indecisa su cosa fare. Cosa gli avrebbe potuto dire? Come avrebbe potuto recuperare quei mesi di dolore per entrambi, quello strappo che aveva fatto alla loro vita? Come avrebbe fatto a spiegargli quello che aveva fatto a loro?

Decise, infine, che doveva salire, non chiedersi nulla prima, avrebbe fatto quello che si sentiva al momento, quando lo avrebbe visto. Non aveva nemmeno contemplato l’idea che l’avrebbe rifiutata, che non l’avrebbe fatta parlare, spiegare. Quel pensiero l’aveva sopraffatta mentre era in ascensore e per un attimo avrebbe voluto bloccare e tornare indietro ma quando realizzò che c’era questa possibilità era già arrivata all’ultimo piano e le porte si erano aperte. Fece i pochi passi che la separavano dalla casa di Castle con l’ansia che le metteva lo stomaco sottosopra. Accarezzò il rivestimento della porta facendo un lungo respiro prima di trovare il coraggio di suonare il campanello. Gli istanti che separarono quel gesto dal rumore della maniglia che si abbassava e la porta che si apriva le sembrarono infiniti.

- Katherine! Che sorpresa e che piacere vederti! Fatti abbracciare tesoro!

Erano due occhi azzurri che l’avevano accolta, ma non erano quelli che si aspettava. Erano due occhi vissuti e la guardavano carichi d’amore ma non di quello che sentiva di aver bisogno in quel momento. Senza che riuscì a fare nulla Martha la prese, l’abbracciò e la tirò dentro. Non si vedevano da… da tanto. Da subito dopo che era successo. Istintivamente strinse anche lei la donna ed era sicura di non sbagliarsi nel dire che era commossa. Rimasero qualche istante in silenzio, poi Martha le prese il volto tra le mani, accarezzandola dolcemente: l’attrice la trovò molto dimagrita, tirata e leggeva inquietudine nei suoi occhi. Kate si lasciò andare alle carezze della donna. Quelle che l’accarezzavano erano mani diverse, erano carezze cariche di un affetto protettivo che tolsero dal suo cuore uno strato di quella protezione che si era costruita.

- Come stai Katherine? - Ma Kate già non l’ascoltava più. Guardava dentro, cercava lui.

- Castle? - Chiese quasi timidamente. Era quella la risposta alla domanda di Martha, la donna le sorrise benevolmente, accarezzandola ancora, e la sua pelle sembrava fragile sotto le sue dita e la giovane donna non si ritrasse al contatto pur continuando a guardarsi intorno.

- Non c’è tesoro. - A Martha si spezzò il cuore doverglielo dire, soprattutto perché vide la delusione disegnata sul suo volto.

- Io… lo posso aspettare? - Chiese titubante.

- Richard non è a New York… è in tour per promuovere il suo libro… tornerà alla fine del prossimo mese. È in Europa con Gina. - Le spiegò l’attrice.

Kate si sentì improvvisamente sprofondare. Era partito, con Gina. Le tornò in mente quella scena di poco più di un anno prima. C’era ancora lei, che aveva capito tutto troppo tardi, c’era ancora Castle che se ne andava sottobraccio con Gina, per riprovarci. C’era ancora lei, sola, che li guardava allontanarsi felici mentre le crollava il mondo addosso, come in quel momento.

- Io… Certo… capisco… scusami Martha… Scusami… ma ora devo andare….

- No, Katherine, lascia che ti spieghi… - l’attrice aveva capito che quella parola in più che le aveva detto era stata da Kate completamente travisata. Ma era troppo tardi, Beckett si era già ritirata dietro un muro se possibile, ancora più alto e più duro. Aveva allontanato le mani di Marta ed era indietreggiata contro la porta, fino a sbattere la schiena contro la superficie dura. Cercò a tastoni la maniglia per aprire.

- No, Martha, non c’è nulla da spiegare… io… scusami… ho sbagliato a venire. Ciao Martha, stammi bene, mi ha fatto piacere vederti.

Corse via da lì, il più lontano possibile. Corse su quei marciapiedi evitando la gente come se fossero semplici ostacoli tra lei e lo scappare da tutti, anche da se stessa. Soprattutto da se stessa. 

Era stata una stupida, ancora una volta. Una stupida e una debole. Aveva pensato che doveva cercare lui per aiutarla, aveva sperato che quello che le aveva detto fosse vero, che lui ci sarebbe sempre stato. E invece lui non c’era, lui era, come sempre, tornato sulla strada più facile, con Gina. Non poteva fargliene una colpa se aveva deciso di andare avanti. La colpa era solo la sua che aveva rovinato la sua vita ed aveva anche pensato di poter tornare indietro. Invece ora sentiva che indietro non ci poteva più tornare. Sentiva che le sabbie mobili erano sempre più ingannevoli. Si era illusa di poterle attraversare indenne, che correre da lui l’avrebbe aiutata a superarle ed arrivare nel suo porto sicuro ed invece ora era proprio al centro, impossibilitata a muoversi e stava ormai sprofondando senza riuscire a fare un passo. E non riuscì nemmeno a camminare più in realtà. Si appoggiò sul muro di una recinzione, stringendo tra le mani il freddo materiale arrugginito dell’inferriata. Le gambe erano diventate improvvisamente pesanti e il respiro era doloroso.

Quando si riprese ricominciò a camminare con passo molto più lento. Non correva più, perché non c’era nulla in realtà da cui allontanarsi, visto che l’unica cosa dalla quale voleva prendere le distanze era se stessa, e l’altra era già a migliaia di chilometri da lì. Lentamente passava da un isolato all’altro, come un automa. Non sapeva nemmeno quanto aveva camminato, non sapeva nemmeno di preciso dove fosse. Il sole era appena tramontato e le insegne al neon si erano già accese. Si guardò intorno e vide che quel posto era pieno di ragazzi e locali che brulicavano di vita e risate, quanto di più lontano c’era da lei. Ferma immobile sul marciapiede si sentì spintonare da qualche giovane che cercava di farsi strada per entrare nel locale davanti al quale si era fermata. Fece qualche passo ancora, attratta da uno in fondo alla via, meno alla moda degli altri, meno frequentato, senza fila all’ingresso. Entrò ed andò fino al bancone di legno dove c’erano solo un paio di clienti che la guardarono di traverso mentre prendeva posto.

- Ciao tesoro, cosa ti servo? - Le disse l’uomo che con un panno puliva il ripiano.

- Quello che hai di più forte. - Rispose Kate con un filo di voce.

- Giornataccia eh? - Provò a sorriderle il barman mentre mescolava un paio di liquori in uno shaker prima di versarli in un bicchiere con molto ghiaccio, del lime ed altre cose colorate che non sapeva cosa fossero.

- Fosse solo una giornata… - Bevve tutto il contenuto in un solo sorso. - Non hai nulla di più forte?

- Ne sei sicura tesoro?

- Forse l’unica cosa di cui sono sicura adesso.

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Capitolo 33
*** TRENTATRÉ ***


- Richard… Credo di aver appena fatto un grande errore. - Era così che Martha aveva iniziato la sua telefonata con suo figlio. Castle così aveva protestato perché dopo che era andato a dormire all’alba lei lo aveva chiamato di mattina per raccontargli una delle sue tante stramberie, ma quando gli disse che si trattava di Kate, Rick ebbe subito il massimo della sua attenzione. Aveva ascoltato tutto il resoconto di Martha in silenzio, annuendo, sentendosi male dentro ogni volta che sua madre le diceva quanto Beckett fosse dimagrita o come sembrava sofferente e i suoi occhi tristi. Erano stilettate che attraversavano la sua carne e brividi che lo scuotevano. Sapeva della buona fede dell’attrice, lo sentiva dalle sue parole accorate, ma non riuscì a non farsi sfuggire un mugugno di disappunto quando sentì che le aveva detto che era con Gina. Aveva poi condito il suo racconto con tutte le sue considerazioni personali sul perché lo aveva cercato, sul suo atteggiamento e su come lo cercava. Ma la cosa che più lo aveva toccato era la sua richiesta di aspettarlo. Loro avevano sempre vissuto nell’attesa, ognuno che facesse una mossa l’altro, avevano un pessimo tempismo e continuavano a dimostrarlo. Se avesse potuto avrebbe messo fine a quel viaggio subito e sarebbe ritornato a New York, a casa, da Kate. Ma l’agenda che gli avevano riempito Gina e Paula era fittissima e come gli avevano ricordato più volte prima di partire, le penali per un suo eventuale forfait sarebbero state altissime, ma non era una questione di soldi, era più il fatto che la sua casa editrice aveva investito molto in quella promozione e lui non si sentiva di tradire la loro fiducia, soprattutto dopo che gli aveva garantito la massima disponibilità. Però una cosa l’aveva fatta, aveva immediatamente chiamato Kate. Non gli aveva risposto ed allora aveva provato e riprovato tutto il giorno fino a quando poi non divenne irraggiungibile. Provò anche nei giorni seguenti a chiamarla di nuovo, ma era sempre irreperibile. Fu così che, preoccupato, chiamò Lanie che gli disse che Beckett aveva lasciato il distretto e si era dimessa e da quel giorno non aveva risposto più a nessuno, isolandosi completamente, anche con lei.

 

Kate non aveva risposto, non aveva nemmeno guardato chi fosse. Aveva lasciato il cellulare squillare, aveva poi tolto la suoneria e alla fine non aveva sentito più nemmeno la vibrazione. Non voleva parlare con nessuno, non voleva dare spiegazioni su quello che aveva fatto, tanto nessuno l’avrebbe capita, come per tutto il resto.

Il barman si chiamava Callum e veniva dall’Irlanda. Kate si disse che avrebbe dovuto capirlo subito da quell’accento che ancora si sentiva in alcune sfumature ma soprattutto dalla sua barba rossiccia. Dai capelli no, visto che era completamente calvo, anzi, rasato, come preferiva dire lui, che circondava la fronte con una bandana verde. Per l’Irlanda, appunto, anche se ormai viveva a New York da quasi 20 anni, arrivato poco più che adolescente. Aveva così scoperto che quel ragazzo aveva più o meno la sua età, anche se a vederlo era convinta che fosse molto più grande, forse per i tratti del viso fin troppo marcati e la barba che di certo non lo ringiovaniva.

Callum la serviva ogni sera, quando ormai per Kate era diventata abitudine andare lì. In quella parte di Manthattan non la conosceva nessuno e per lei era tanto meglio così: si sentiva più libera. La cosa che preferiva di Callum era che chiacchierava molto ma non faceva domande alle quali non aveva voglia di rispondere. Forse sapeva solo capire i clienti, perché invece vedeva molti egocentrici che non aspettavano altro che parlare di se, che erano ben felici di essere interrogati da lui e più di una volta, bevendo i suoi drink, aveva pensato che se voleva, poteva interrogarli lei. Li avrebbe fatti parlare tutti. Intanto, però, si limitava a bere. Callum aveva scoperto i suoi gusti con facilità, amava le cose forti, la vodka, soprattutto. In uno dei rari momenti in cui aveva parlato di sè gli aveva detto che aveva imparato ad amare la vodka quando aveva vissuto a Kiev e che se i suoi genitori avessero saputo quanta ne aveva bevuta e come un paio di volte si era ubriacata lì, l’avrebbero uccisa. Da quel momento Callum aveva cominciato a chiamarla “la ribelle” e a Kate faceva sorridere.

Passava lì qualche ora ogni sera, ormai. Stava bene in un posto dove non era nessuno e poteva essere chiunque volesse. I clienti, alla fine, aveva notato che erano sempre gli stessi, per lo più uomini, tra i trenta e i quarant’anni, che facevano per lo più lavori saltuari o non lavoravano per niente. In fin dei conti, poteva rientrare anche lei in questa descrizione. Le sue dimissioni erano state accettate, glielo avevano comunicato da un paio di giorni, quindi non era più ufficialmente il detective Beckett. Era solo Kate. Un altro pezzo di sè che non c’era più, che lei aveva distrutto.

In quel pub non c’erano mai tante donne, solo nei week end aveva visto qualche coppia o qualche gruppetto di amiche. Le poche donne sole che incontrava durante la settimana offrivano tutte compagnia a buon mercato. Non erano né esplicite né volgari, ma lei le sapeva riconoscere facilmente. Entravano, si sedevano in uno dei tavolini alti, ordinavano un drink e si guardavano intorno. Poi un uomo si avvicinava, chiacchieravano un po’, il lui di turno pagava anche per lei e se ne andavano insieme ed il giorno dopo la stessa donna faceva la stessa cosa con un altro uomo o qualche volta anche con lo stesso. Per questo Callum le aveva detto una sera di non mettersi su quei tavoli e lei aveva seguito il suo consiglio. Così se ne stava al bancone, vicino alla cassa. In fondo a lei interessava solo bere qualcosa che le facesse dimenticare tutto per un po’. Qualche volta qualcuno l’aveva anche scambiata per una di quelle che offrivano compagnia e le aveva chiesto quale era la sua tariffa, ma il suo sguardo e le minacce di Callum avevano convinto l’avventore di turno a cambiare preda.

Dopo un paio di settimane quello che beveva non le bastava più ed ogni sera a Callum chiedeva qualcosa di più, lui riluttante provava ad accontentarla, fino a quando la vedeva superare il limite ed allora la obbligava ad andare a casa, le chiamava un taxi e così tornava al suo rifugio solitario.

Fu una di quelle sere, rientrando a casa, che scoprì che il suo appartamento non era vuoto. Quando vide l’ombra di un uomo immobile nell’oscurità ebbe nella sua confusione dovuta all’alcool un barlume di lucidità e istintivamente portò la mano sul fianco, dove sempre aveva tenuto la pistola, trovandolo spoglio.

- Katie… 

Quella voce servì a tranquillizzarla inizialmente. Non era un estraneo, era suo padre. Aveva acceso la luce e lo vide con una busta della spazzatura in mano. Aveva appena raccolto i vetri di quel bicchiere spaccato la notte prima, in preda ad uno dei suoi attacchi di panico e stava buttando alcune bottiglie vuote, sparse qua e là. L’immagine di suo padre vicino ad una bottiglia di liquore vuota accese in lei una spia e riavvolse il nastro dei ricordi estraniandosi da se stessa.

- Cosa ci fai con quelle bottiglie, papà? Hai ricominciato a bere? - Gli chiese Kate con tono accusatorio mentre si chiudeva la porta alle spalle e con una mano si proteggeva gli occhi dalla luce che le sembrava troppo forte per sopportarla.

- È questo che ti preoccupa? Che io ricominci a bere?

- Ti sei rovinato con le tue mani papà.

- E tu cosa stai facendo adesso Katie? Hai allontanato gli amici, hai lasciato il lavoro, non ti fai più vedere né sentire. Hai escluso Castle dalla tua vita!

- Non parlare di Castle papà! - Rispose rabbiosa alle sue paure.

- Ok… non parliamo di Castle, ma perché ti stai facendo questo? - Jim si era seduto al tavolo ed aveva spostato una sedia per far sedere Kate che procedeva lentamente quasi avesse paura di avvicinarsi a lui.

- È solo un periodo. Poi passa.

- Lo dicevo anche io, Kate. Ma non passava mai. Non fino a quando tu…

- Non sono te, papà. Chiaro? - Gli urlò contro aggredendolo.

- Non ho detto questo.

- Io non sono te. - Ripetè volendosi convincere.

- Lo Katie. Tu sei più forte di me. Allora perché ti stai facendo questo? Stai buttando via la tua vita.

- La mia vita fa schifo. 

- Katie, sei giovane, la tua vita può essere piena di cose splendide e non la devi annegare nelle cose sbagliate.

- Cose splendide? C’è uno psicopatico in giro che spara alle donne poliziotto ed io non ho potuto fare nulla per fermarlo. Sono l’unica sopravvissuta a cui ha sparato e non so perché. Montgomery è morto. Mio figlio… Castle… Non c’è più niente di importante. 

- Katie… 

- Sono un fallimento. Non sono riuscita in tutti questi anni a scoprire chi è che ha voluto uccidere mamma e non mi hanno permesso nemmeno di fare giustizia per un bambino ucciso da sua madre. Non sono stata in grado di proteggere mio figlio da me stessa. Cose splendide in futuro? Distruggo tutto quello che tocco, papà!

- Stai distruggendo solo te stessa Katie. - Provò a penderle la mano, ma lei si ritrasse.

- Vattene ti prego. E non tornare. Non ho bisogno della pietà né tua né di nessuno.

- Non puoi fare così. Non è giusto.

- Non sei tu nella posizione di dirmi cosa posso o non posso fare. Ti dimentichi cosa hai fatto? - Gli riversò contro tutta la sua rabbia e Jim la prese senza scomporsi.

- No, mai. Proprio per questo oggi posso dirti che stai facendo un errore. Perché lo so.

- Tu non sai niente, papà. Vattene, per favore.

Jim capì che in quel momento non poteva più fare niente. Katie si era chiusa, con il mondo e soprattutto con lui. Altre parole sarebbero state inutili. Con la morte nel cuore si alzò, passò vicino a sua figlia accarezzandole i capelli in un muto saluto ed andò via.

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Capitolo 34
*** TRENTAQUATTRO ***


Kate era estremamente lucida e questa era la cosa che le faceva più male. Perché non serviva alla fine nemmeno l’alcool per non pensare, per togliersi dalla mente quella voglia di autodistruggersi, per fare in modo che quello che aveva dentro corrispondesse a quello che c’era fuori di lei. Si guardava allo specchio senza riconoscersi. Pensò che se qualcuno l’avesse incontrata dopo un anno, probabilmente non si sarebbe accorto di nulla. Sì, era un po’ dimagrita e non sorrideva più, ma non era una che negli ultimi anni aveva mai sorriso molto, a parte da quando Castle era entrato nella sua vita.

Forse per questo sentiva che nessuno la capiva, perché il suo dolore non era visibile. Però non voleva nemmeno essere capita, perché nessuno, in fondo, in certe situazioni ti capisce. Non sapeva nemmeno spiegare a se stessa come era arrivata a sentirsi così, con la voglia di cancellare tutto quello che era sempre stata. Non sapeva né cosa voleva, né cosa voleva essere, né quello che gli altri voleva facessero per lei. Era tutto sbagliato. Sempre e comunque. Perché si sentiva sbagliata lei. 

Le serate trascorse al pub erano un tentativo si allontanare la vita, di non essere giudicata, di essere una sconosciuta piena di problemi, in un luogo pieno di altri sconosciuti pieni di problemi. Lì era una dei tanti, ognuno con i fatti suoi e nessuno a cui dover rendere conto. Però li invidiava. Invidiava la loro capacità di sbronzarsi e superare il limite della coscienza, quella cosa che a lei non era mai riuscita. Non si era mai del tutto estraniata da se stessa, aveva mantenuto sempre quel filo di lucidità che le permetteva di capire cosa stava facendo e perché questo le faceva ancora più male.

Si guardava inorridita quando tornava a casa e sentiva dentro di se tutto quello che aveva bevuto ed il più delle volte volutamente lo vomitava via. Non serviva ubriacarsi non faceva dimenticare nessun dolore e se da un lato avrebbe voluto autodistruggersi come aveva fatto suo padre, dall’altro era proprio quell’immagine che le aveva permesso di non superare mai quello che nella sua mente era il limite di non ritorno. Così stava solo male e continuava a farsi male. E non dimenticava mai niente, né perché stava male, né quello che stava facendo. Viveva in uno stato di tortura continua verso se stessa.

 

Anche il pub, il suo porto sicuro, svanì.

- Non credo che tu debba stare qui. - Le disse Callum una sera dopo che il suo collega le aveva versato più drink del solito e lei aveva rotto qualche barriera inibitoria, accettando le lusinghe di un tizio mai visto lì.

- Dove dovrei stare, allora? - Chiese lei ancora troppo lucida.

- A casa, da qualcuno che ti vuole bene.

- Nessuno mi vuole bene, Callum. Dammene un altro, con più vodka, non come il tuo amico che mette solo ghiaccio.

- Ho finito la vodka per te, ribelle.

Lasciò i soldi sul bancone e si avviò furiosa verso l’uscita.

- Ehy ribelle, vieni con me, ti porto in un posto qua vicino dove ti puoi divertire un po’ e non ti dicono mai di no. - L’aveva già vista quella ragazza, sapeva solo che si chiamava Amanda, ma nel pub tutti la chiamavano la rossa per via dei suoi capelli tinti in modo così eccessivo. La seguì, non seppe perché. Forse il suo livello di attenzione e la sua soglia del pericolo si era solo abbassato drammaticamente, ma le andò dietro per qualche isolato, mentre catturavano fischi e proposte da più di qualche ragazzo su di giri che Amanda rispediva al mittente in modo tutt’altro che educato.

La luce rosa lampeggiante del neon fuori dall’entrata di quel locale stordì per qualche istante Kate. Poi Amanda la trascinò letteralmente dentro, dove già dall’anticamera si sentiva la musica ad alto volume.

- Ehy rossa! Oggi vieni con un’amica? - Le disse la donna a cui lasciò il suo cappotto invitando Kate a fare lo stesso, ma i look delle due donne non potevano essere più diversi.

Così Amanda scoprì un vestito decisamente corto e decisamente stretto che ben poco lasciava all’immaginazione, mentre Beckett aveva solo un paio di jeans ed una camicia bianca.

- No, tesoro, non ci siamo proprio! - Disse guardandola da capo a piedi. - Solo quelli si salvano!

Indicò i suoi stivali, neri, fino al ginocchio, con il tacco altissimo, come sempre. Le aprì un paio di bottoni della camicia per mostrare il décolleté e per la prima volta Kate non pensò alla cicatrice sempre ben visibile. Poi la tirò fuori dai pantaloni ed sbottonandola anche in fondo, gliela legò in vita, lasciando scoperta una parte della pancia.

- Vabbè, almeno così non sembri uscita da un oratorio! - Rise Amanda.

- No, niente oratorio! - Ammiccò Kate e poi le due entrarono.

La musica era assordante, ma la rossa la trascinava dietro di se per la sala, fino al bancone dove senza che dicesse nulla il ragazzo al bar versò loro un paio di drink che mandarono giù senza indugiare.

Forse fu la musica che insieme alle luci e all’alcool riuscì a far cadere ogni suo residuo di misura e controllo, ma Kate cominciò se non a divertirsi almeno a lasciarsi andare e a non pensare. Nella sua mente sentiva solo il rumore dei bassi che rimbombavano e che martellavano le sue tempie incessantemente. Si sentì quasi in trance e quando Amanda le porse la mano, la seguì, facendo issare dalle mani di non sapeva chi sul tavolo e cominciò anche lei a ballare e a lasciarsi andare. Le porgevano altri drink da bere, alcolici e non, che lei beveva senza freni, mentre ballava. E più ballava meno pensava, meno pensava più si sentiva libera.

Uscì da lì che era quasi l’alba. Distrutta fisicamente e mentalmente.

- Hai una bella resistenza, eh ribelle! - Le disse Amanda che era rimasta con lei quasi tutto il tempo, tranne quando si era appartata con uno su uno dei divanetti più isolati, poi però era tornata a ballare.

- Chiamami Kate. - Le disse mentre saliva su un taxi appena fermato per farsi riportare a casa.

 

Kate era alla disperata ricerca del suo ritratto da distruggere. Ci doveva essere da qualche parte, qualcuno lo aveva dipinto e lei ne era all’oscuro. Voleva quel ritratto che mostrava tutte le sue atrocità. La sua incapacità di dare giustizia a sua madre, la morte di Montgomery, non aver protetto il suo bambino, la sofferenza inflitta a Castle e ai suoi amici e a suo padre. Voleva quel quadro che doveva raffigurare cosa era diventata dopo tutti i suoi fallimenti, dopo tutte le persone che aveva ferito per il suo egoismo, dopo le promesse infrante. Aveva distrutto tutti quelli a cui voleva bene, li feriva di continuo con la sua incapacità di accettare il loro aiuto ma nemmeno la loro differenza. Lei riusciva a distruggere tutti, tranne se stessa. Doveva esserci da qualche parte il suo ritratto che come quello di Dorian Gray si trasformava dopo ogni sua scelta sbagliata, diventando orribile. Lo doveva trovare, lo doveva distruggere così forse avrebbe finalmente messo a tacere anche se stessa ed era convinta che forse si trovasse proprio in quel night club. Aveva abbandonato il pub ed aveva cominciato ad andare lì ogni sera, con abbigliamento sempre più succinto. Sapeva che piaceva e le piaceva a sua volta provocare, cosa che passato l’iniziale pudore, aveva scoperto che le veniva bene. Molto meglio di quanto avesse mai immaginato. Lei e Amanda erano diventate le attrazioni del locale e i ragazzi si piazzavano sotto i loro tavoli per vederle ballare. Kate sapeva come provocarli ma allo stesso modo sapeva come tenerli a bada, perché una cosa non aveva mai permesso a nessuno: toccarla. Lei si divertiva a farli andare fuori di testa, prendeva i loro drink li beveva e poi gli ridava i bicchieri sporchi di rossetto, ammiccando, ma quando uno provava ad andare oltre, lo rimetteva in poche mosse al suo posto.

Usciva da lì all’alba richiudendo il cappotto fino al collo, lasciando che solo gli stivali si vedessero. Se non fosse per il trucco più marcato, sarebbe stata la Beckett di sempre, quella che voleva distruggere, quella che per lei non c’era già più, ma non si accorse che in uno di quei momenti in cui la notte lasciava spazio al giorno, che vicino al night l’ambiente era rischiarato da luci intermittenti che non erano i neon dei locali già chiusi, ma i lampeggianti della polizia. Ryan, Esposito e Lanie avevano distolto la loro attenzione da quel cadavere figlio di una rissa per troppa droga e alcool in circolo, per posarla su quella figura che camminava a passo svelto verso un taxi e l’avrebbero riconosciuta sempre, anche se non si fosse voltata verso di loro senza riconoscerli.

Qualche giorno dopo, però, rientrando a casa, c’era qualcuno che l’aspettava davanti al suo portone.

- Dottoressa Parish, cosa fai qui a quest’ora? C’è stato un omicidio nel mio palazzo? - Le chiese Kate ridendo amaramente.

- No, ma c’è qualcuno che sta provando ad uccidere se stessa. - Disse lei seria fermandola prima che entrasse.

- Cosa c’è? Vuoi farmi la predica qui in mezzo alla strada a quest’ora?

- Se non vuoi farmi entrare sì. Perché non lasci che la gente ti aiuti? Che chi ti vuole bene ti stia vicino? 

- Perché non voglio la vostra pietà!

- Non è pietà, Kate! È affetto! Non pensi che ci stiamo male a vederti così e non sapere cosa fare?

- Non guardatemi allora. 

- E tu? Tu ti guardi? O eviti di guardarti anche tu?

- Lasciami stare Lanie.

- Cosa vuoi Kate? Cosa possiamo fare per aiutarti? È passato un mese da quando hai dato le dimissioni e sei sparita per tutti.

- Niente. Nessuno può fare niente. Io rivorrei solo la mia vita, quella che ero.

- E questo non lo potrai avere. La tua vita non ritorna, tu non sei più la stessa, perchè quello che è successo ti ha cambiato. Lo devi accettare e devi andare avanti accettando che sarai diversa, che la vita è diversa. Invece tu scappi. E lo sai perché lo fai? Perché è più facile. Per questo te ne sei andata dal distretto, perché era più facile scappare che affrontare tutti i giorni la Gates e accettare che Montgomery non c’era più e perché. Per questo hai mandato via Castle, per sfuggire a quello che stavate vivendo. Però non hai risolto niente. Perché Montgomery è morto per salvarti la vita e Castle anche se non lo vedi è dentro di te, come il dolore per la perdita di tuo figlio che continui a non accettare.

- Basta Lanie, vattene.

- Io me ne vado, Kate. Non rimango qui a guardarti affogare dopo che hai deciso tu stessa di rompere lo scafo della tua nave. Però io conoscevo un’altra Kate, una che combatteva.

- Non c’è più quella Kate, perché non c’è niente per cui combattere.

- O forse non vuoi vederlo. Perché ti fa più comodo così. Addio Kate.

Lanie se ne andò, lasciandola sola con quelle parole dure come non le aveva mai sentite dalla sua amica.

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Capitolo 35
*** TRENTACINQUE ***


Lanie guardò Kate rientrare a casa e sbattere con forza il portone i cui vetri tremarono, così come l’anima della dottoressa. Odiava essere dura con Beckett, ma la sua amica non aveva più bisogno di essere compatita, ma scossa. Eppure andò via da lì con la sensazione che nemmeno quello potesse fare effetto.

Esposito la aspettava in macchina dietro l’angolo, non aveva voluto che andasse da sola, ma si era tenuto in disparte, per farle parlare senza intromettersi. 

- Allora?

- Non ci hai sentito? - Chiese lei ironica.

- Beh, veramente qualcosa… - Ammise lui.

- Ecco, così. Non si smuove.

- Sei sempre convinta che lo vuoi fare? - Chiese l’ispanico.

- Sì. Sono sicura che chiamare Castle sia l’unica soluzione.

Aveva controllato l’orario, era tardi anche per l’Europa, ma non le importava, se dormiva lo avrebbe svegliato. Castle, però, non stava dormendo. Era ancora immischiato in una lunga cena cominciata tardissimo. Il mercato spagnolo era solo una fetta di quello che aveva appena aperto con la traduzione in castigliano dei suoi libri, c’era gran parte del Sud America ad attenderlo e Gina stava già pensando ad organizzare una tournée anche lì, per l’anno seguente. Richard Castle anche in Europa riusciva a conquistare tutti con il suo fascino innato. Si preoccupò quando sentì squillare il cellulare, fece un rapido calcolo e si accorse che a casa era l’alba. Quando vide apparire sullo schermo il nome di Lanie la sua preoccupazione aumentò e scusandosi si allontanò dagli altri commensali uscendo fuori sulla veranda di quel ristorante ancora rumoroso.

Aveva ascoltato tutto quello che Lanie aveva da dirle, senza interromperla, annuendo solamente, aveva subito il racconto di quello che Kate stava facendo a se stessa e agli altri, della loro discussione, di quella avuta con Jim che aveva chiamato la dottoressa per chiederle di star vicino a Beckett che però non lo permetteva a nessuno. Ogni parola per Rick era come ricevere un pugno in faccia e solo alla fine parlò anche lui.

- Cosa vuoi che faccia io dottoressa? Kate non mi vuole nemmeno parlare.

- Ti ha cercato Rick! Lo so, me l’ha detto Jim che ha parlato con tua madre. Sei l’unica persona che ha cercato. Kate si sta distruggendo, solo tu puoi disinnescarla.

- Io… farò il possibile. 

 

L’aveva salutata con quella promessa. Fare il possibile e lui era certo, avesse potuto, glielo avesse permesso, avrebbe fatto qualsiasi cosa. Si rese conto che quei seimila chilometri di distanza non erano abbastanza per impedire al suo cuore e alla sua mente di voler stare con lei, che il vuoto che sentiva dentro non lo avrebbe colmato né con il lavoro, né con le feste, né viaggiando, perché quello che le mancava era il vuoto di lei. Viveva con la il rimorso di non aver mai fatto abbastanza, di non aver lottato quanto avrebbe dovuto fare, di non aver insistito. Era come se si fosse dimenticato di chi fosse Kate Beckett, di come doveva scardinare le sue difese. Invece lui si era messo in disparte, l’aveva assecondata per non forzarla e così lei si era chiusa sempre di più a tutti. Lui se ne sentiva responsabile, sapeva che era anche colpa sua. Le aveva promesso che ci sarebbe sempre stato, che non l’avrebbe mai lasciata ed invece alla prima occasione si era arreso alla sua volontà sbagliata. Lui lo sapeva che sbagliava ma non era stato abbastanza forte da combattere per entrambi. Ora non sapeva se lo era, ma sapeva che non poteva lasciare che Kate si distruggesse, perché quello voleva dire che si sarebbe distrutto anche lui. Poteva accettare che Kate non stesse con lui, che fosse un giorno felice altrove, con qualcun altro. Non poteva accettare che Kate si annientasse.

 

Non si era accorto da quanto tempo mancava dal tavolo. Era rimasto a guardare il panorama fuori dalla terrazza e si godeva quel clima ancora mite nonostante fossero a metà novembre. Era più di un mese che mancava da New York. 

- Castle, c’è qualche problema? - Gina lo aveva raggiunto poggiando amichevolmente un braccio sulla sua spalla mentre lui era appoggiato sul muretto del terrazzo.

- In realtà sì… 

- Alexis? Sta bene? - Gina aveva visto crescere la figlia di Castle, la conosceva da quando era molto piccola ed aveva vissuto con loro per alcuni anni. Essere sposata con Rick aveva voluto dire inevitabilmente esserlo con la sua famiglia, di cui Alexis era il centro e sebbene non avesse mai amato i bambini, a lei era rimasta sinceramente affezionata.

- No, lei e Martha stanno bene… è Beckett…

- Le è successo qualcosa?

- No… ma… non sta bene. Mi hanno chiamato adesso e io non so, ma Gina, io devo tornare a New York.

- Rick, mancano poco più di due settimane…

- Gina, per favore. Non posso. Ti pagherò tutte le penali, non mi importa, ma devo tornare a casa.

- Finiamo questi giorni qui in Spagna? Ti prego Castle, questo me lo devi. Poi per il resto vedrò cosa fare.

- Grazie. - le disse sinceramente.

- Rick… Da quello che mi hai detto Beckett nemmeno ti parla. Tu sei disposto a pagare penali per diverse decine di migliaia di dollari per tornare a New York e magari lei non ti vorrà nemmeno vedere? Ne sei sicuro? - Gli chiese la sua editor veramente dubbiosa.

- Sì, ne sono sicuro.

- È la tua vita, Castle, e la tua carriera…

Lo lasciò con i suoi tormenti sulla terrazza mentre lei tornò dentro ad intrattenere e scusarsi con i loro ospiti. Ormai Rick aveva solo cominciato il suo conto alla rovescia per tornare a casa.

 

 

Le parole di Lanie avevano provocato uno squarcio in Kate che però continuava a colmare nel modo sbagliato, perché era più facile, perché pensava che fosse l’unico modo che avesse in quel momento, perché non vedeva un futuro e non pensava al presente. Non aveva cambiato le sue abitudini dell’ultimo mese, anzi osava sempre più, vestiti più corti, alcool più forte, balli più audaci, il tutto per provare ad annullarsi, ma era sempre troppo lucida per riuscire a farlo. Se ne accorse una sera quando declinò con decisione di farsi una tirata, perché poi sì, che sarebbe stata meglio. Per un momento si guardò intorno, chiedendosi cosa ci facesse lì, con quella gente, con la quale in un recente passato avrebbe condiviso lo spazio al massimo in sala interrogatori. Ma lei non era più quella, doveva togliersi queste cose dalla testa, così prese un altro drink e ricominciò a ballare.

 

Castle la vide, proprio come aveva detto Lanie. Era appena tornato in città, non si era nemmeno cambiato, arrivato al loft aveva salutato sua madre e sua figlia e poi aveva chiamato la dottoressa per farsi dare l’indirizzo esatto e lo aveva raggiunto subito. Aveva detestato quel posto già dalle luci dell’insegna all’esterno. Era quanto di più lontano ci fosse da lei e questo gli diede la misura di quanto lei fosse lontana da tutto, lontana dal mondo e da se stessa.

Kate era su quel tavolo, una specie di palco improvvisato. Ballava, si muoveva, si strusciava su mani che non sapeva di chi fossero. Aveva sempre gli occhi chiusi, anche quando diceva qualcosa che nel rumore del locale non sentiva, tra il frastuono del vociare smodato e la musica ad alto volume. Si era voltata, abbassata in modo fin troppo provocante ed esplicito, a prendere un altro bicchiere di qualcosa, sicuramente troppo alcolico, qualsiasi cosa fosse.

Era lei, ma la riconosceva solo perché sapeva a memoria ogni particolare curva del suo corpo che aveva conosciuto per poco tempo ma era indelebile in lui. Non era lei nei modi, negli atteggiamenti in nulla di tutto il resto. Non era lei che beveva avidamente non curandosi del liquido che scivolava dalle labbra sul seno stretto in un corpetto nero, e con le dita lo catturava e poi le leccava provocando uno di quegli uomini lì sotto che la guardavano con la bava alla bocca, sotto la gonna troppo stretta perché si vedesse qualcosa. Ma lei sapeva come stuzzicarli e lo faceva. Lui l’aveva sempre trovata eccitante e provocante, soprattutto nel suo modo inconsapevole di esserlo, invece lì lo accentuava, calcava la mano su qualcosa che lui non conosceva di lei. 

Poi Kate si accorse di lui. Aprì gli occhi un attimo e lo vide, così diverso in quella folla, come se avesse un riflettore puntato addosso. Vide la sua faccia triste e disgustata, almeno così le sembrava, ed improvvisamente provò vergogna di se. Provò ad andarsene a scendere da lì, ma uno di quegli energumeni lì sotto non ne aveva abbastanza di lei e le sbarrò la strada obbligandola a rimanere su quel tavolo, improvvisamente a disagio e impacciata. Riuscì con la forza a farsi spazio e ad andarsene, tra fischi ed insulti, ma tra quella gente e quei tavoli si sentiva in trappola e sempre più braccata dallo sguardo di Rick che le si avvicinava. Finse indifferenza, sedendosi su uno degli sgabelli del bar, ordinando un altro drink e bevendolo di getto, sperando che l’alcool facesse effetto e lo facesse sparire. Fece apparire, invece, un ragazzo. Lo aveva già visto in quel luogo, fin troppo da vicino, non sapeva chi fosse o il suo nome. Le propose un altro giro e prima che accettasse aveva già il bicchiere pieno e lui che la incitava a bere con poca gentilezza.

- Che ne dici se tu ed io ci andiamo a divertire un po’ dolcezza? - Le propose il ragazzo che doveva aver interpretato il suo silenzio per un sì e stava provando ad insinuare la mano, risalendo la coscia, sotto alla sua gonna. Poi Kate sentì che si fermò all’improvviso.

- Hey amico, mettiti in fila. - disse il tizio a qualcun altro e solo quando Kate alzò lo sguardo dal bicchiere si rese conto che era Castle che non considerava per niente il ragazzo ma la guardava addolorato. Approfittò per alzarsi ed andare via.

- Hai visto cosa hai fatto, l’hai fatta scappare! - gli urlò contro il ragazzo mentre Rick si faceva largo tra la folla per raggiungere Kate.

- Beckett! - La chiamò quando era in un punto più tranquillo del locale.

- Vattene Castle. - Gli gridò contro.

- No. Non me ne vado stavolta. 

- Cosa vuoi da me? - Le venne un grido afono che a Castle fece ancora più male.

- Kate andiamo via. - Si lasciò avvicinare vinta da se stessa. Lasciò che lui le mettesse la sua giacca sulle spalle e lei si coprì più che poteva, vergognandosi di se stessa. 

Rick prese dal guardaroba la giacca e la borsa di Kate, insieme al suo cappotto.

- Non dovresti guidare in questo stato - le disse una volta fuori.

- Non ho la macchina. Prendo un taxi.

- Andiamo, ti accompagno a casa.

Kate annuì e lo seguì fino alla sua auto, senza riuscire ad entrare. Vide se stessa seduta lì, quasi senza conoscenza, sentiva tutto ovattato e le immagini diventavano sfocate, come la voce di Rick che la pregava di resistere. Le sembrò passata una vita ma il dolore e la paura li ricordava alla perfezione perché non se ne erano mai andati come quel senso di vuoto che non riusciva ancora a riempire con nulla. Portò le mani sul suo ventre, incrociando le dita, stringendosi forte da farsi male e sentì le gambe cedere e contemporaneamente la stretta forte di Castle che la sosteneva. Sentì il suo respiro rotto, il suo profumo intenso e si voltò verso di lui. Vide il suo viso illuminato da un lampione rigato dalle lacrime. Si lasciò andare contro il suo petto, sprofondando nel suo cappotto morbido di lana e cashmere e sentì anche il suo volto era bagnato. Pianse per la prima volta dopo mesi. Piangeva ed ora non riusciva più a fermarsi, come se le sue dighe emotive si fossero rotte e lasciasse andare tutto quello che aveva accumulato nei mesi precedenti. Pianse di un pianto disperato, di quelli che non hanno consolazione, tra le braccia di Castle che la proteggeva con il suo corpo, avvolgendola, nascondendola da occhi indiscreti che passando in quella notte osservavano quella scena curiosi. Pianse con singhiozzi, lamenti e strazianti “no” e “perché” urlati al suo petto un dolore che per mesi non aveva trovato sfogo e via d’uscita, un dolore che cresceva e si accumulava, con il quale pensava di riempire il senso di vuoto che aveva dentro. Dopo mesi Rick non sapeva ancora che fare, non era ancora pronto a sostenere il suo dolore ma pensò che non doveva fare niente, solo esserci e lasciare che lei si sfogasse. Aveva pensato che sarebbe stato diverso, che quel momento lo avrebbero vissuto da soli, protetti da quattro mura amiche, molto tempo prima. Invece raccoglieva il suo dolore in mezzo ad una strada tra qualche sorriso malizioso e qualche frase poco compassionevole di chi passava, con il vento dell’inverno che cominciava a tirare più forte che niente aveva in comune con quello caldo di quella notte d’estate quando era andato via da casa sua, ma il freddo dentro era lo stesso.

Castle si rese conto in quel momento che anche il suo dolore non era mai passato, che non era riuscito, nonostante ci avesse provato, ed avesse ricominciato una vita normale, a metterlo via, in un posto specifico del suo cuore. Era una ferita che sanguinava sempre. 

Kate si staccò da lui dopo un tempo imprecisato. Nessuno avrebbe potuto dire se fosse stato troppo o troppo poco, perché non c’era modo di quantificare quanto tempo avesse bisogno. Se avesse voluto lui avrebbe aspettato l’alba con lei su quel marciapiede aspettando che smettesse di piangere.

La luce del lampione faceva sembrare cristalli le lacrime sul volto di Beckett con quel trucco troppo marcato che si scioglieva tracciando righe nere sulle guance che creavano una maschera di cupo dolore. Castle avrebbe voluto asciugargliele ma non lo fece, perché era convinto che lei dovesse viverle fino in fondo, sentirle, farsi bagnare il viso e l’anima dal quel pianto trattenuto per troppo tempo.

- Portami a casa, per favore. - Lo supplicò senza nascondere che aveva cominciato di nuovo a piangere in silenzio, con la voce rotta dai singhiozzi.

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Capitolo 36
*** TRENTASEI ***


Kate aveva sommessamente pianto in auto per tutto il tragitto, sembrava che non riuscisse a farne a meno, che non potesse più smettere adesso che aveva cominciato. Rick si era voltato di tanto in tanto a guardarla ma senza dirle nulla. Arrivarono sotto casa di Beckett e Castle accostò l’auto, senza spegnere il motore. Lei, immobile con la mano sulla maniglia, non trovava il coraggio di aprire lo sportello. Cosa era stato? Una visione che era venuta a portarla via da lì, che aveva disintegrato ogni sua barriera ed ora la lasciava sola di nuovo, scaricata davanti casa come un discreto tassista qualunque, senza aver detto una parola?

Rick notò la sua difficoltà, ma non era intenzionato a cedere. Non era arrivato fino a lì per lasciarla andare, ma voleva che fosse lei a rendersi conto se era vero che avesse bisogno di lui. Non era più disposto a fare il primo passo. Se lei non fosse uscita lui sarebbe rimasto lì, col motore acceso, fino a quando non fosse finita la benzina, ed anche oltre, ma non sarebbe stato lui questa volta a proporle nulla. 

La sentì sospirare. Era certo che avesse capito quello che lui aveva intenzione di fare. Sapeva che non se ne sarebbe andato così come sapeva che non avrebbe fatto un passo in più se lei non lo avesse preceduto. Dovevano camminare insieme, non poteva essere lui a trascinarla. Non voleva essere visto come il suo salvatore, ma se voleva uscire dalla palude, lui l’avrebbe tirata via, ma doveva essere lei ad allungare la mano per farsi prendere. Non si sarebbe buttato e non avrebbe combattuto per farsi trascinare a fondo ed affogare insieme. Non perché non volesse farlo, ma perché era convinto che se anche l’avesse tratta a riva, non era quella la strada giusta per guarire, perché alla prima occasione lei si sarebbe spinta di nuovo nelle sue sabbie mobili ed avrebbero continuato così all’infinito. Era difficile per Castle restare immobile, quando tutto quello che voleva fare era tenerla tra le sue braccia, confortarla, baciarla e dirle quanto l’amava. Era quello che aveva sempre fatto e Kate si era quasi annientata. Doveva fare qualcosa di diverso anche se era una sofferenza prima di tutto per se stesso e mentre aspettava e subiva il suo silenzio, stringeva il volante così forte da far diventare le dita bianche. Sentì la mano fredda di Kate sfiorare la sua, calda anche per lo sforzo di serrare le mani sulla pelle scura del volante, quasi lo volesse soffocare. Non si era accorto che già da un po’ lei lo stava guardando, così come non si era accorto che non erano solo le mani ad essere tese, manche tutto il suo volto e la mandibola stretta in una morsa sofferta. Quando quella sensazione di fresco si staccò dalla sua mano, sentì le dita di Beckett percorrere incerte il profilo del suo volto, scendere dalla guancia e seguire la linea del mento e Castle aprì la bocca per respirare meglio, perché improvvisamente gli era sembrato che lì dentro non ci fosse abbastanza ossigeno per i suoi polmoni.

Rick si voltò appena per guardarla e vide che aveva lasciato la maniglia della portiera e non sapeva come interpretare quel gesto, Kate intercettò il suo sguardo carico di tante cose che non sapeva cosa fossero. Aveva paura che fosse troppo tardi per tutto e quel suo insolito silenzio la inquietava. Castle aprì un po’ il finestrino e subito un vento gelido e umido entrò nell’abitacolo, facendoli rabbrividire entrambi, ma benedì quell’aria fresca, perché gli sembrava che l’ambiente fosse troppo pieno di lei. Si sentiva in difficoltà, adesso. Come doveva interpretare quel tocco, quella carezza prolungata che aveva scosso tutte le corde della sua anima? Era quel passo che aspettava? Toccava a lui, adesso? Non aveva finito di pensarci che le sue dita stavano già sfiorando il volto di Kate, ancora umido e le spostò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. La vide seguire con la testa il suo movimento, cercando di prolungare il contatto con lui. Non era così sadico, l’accarezzò di nuovo e Kate chiuse gli occhi. Si prese il lusso di osservarla da vicino, mentre con la mano continuava a lambire la sua pelle morbida che gli sembrava fragilissima sotto le dita. Vedeva tutti i segni della sua sofferenza in quel viso scavato, nelle occhiaie mischiate con il trucco sciolto, nella bocca troppo rossa e rigida con quelle labbra screpolate segno di un nervosismo che non riusciva a contenere. Eppure era bella. Era drammaticamente bella che gli faceva male doversi tenere, mantenere quella distanza che si era imposto. Lo faceva per lei, si ripeteva, sperando che in realtà lo stesse facendo per loro. Gli sembravano sospesi ingabbiati in quell’auto con tutto il mondo fuori ed entrambi avevano paura che una sola parola potesse spezzare quell’equilibrio basato sul nulla che stavano vivendo.

Kate non aveva ancora capito quanto gli era mancato fino a quando non si era riappropriata del suo profumo, e lo aveva respirato fino a riempirsi di lui e Rick, che invece sapeva bene quanto le era sempre mancata, si sentì distrutto in mille pezzi scoprendosi ancora così debole per riuscire a sostenerla. Non sapeva se sarebbe riuscito a farlo, ma se lei voleva, lui avrebbe camminato al suo fianco tenendola per mano percorrendo quel sentiero impervio che li doveva portare fuori da tutto il dolore che avevano vissuto e che si erano procurati. Beckett sembrò aver sentito i suoi pensieri, perché prese quella mano che ancora la stava accarezzando e la strinse tra le sue. Si guardarono per un attimo e quello era troppo, non erano ancora pronti per tutti i discorsi che i loro sguardi facevano indipendentemente dalla loro volontà. 

- Ti va di accompagnarmi su? - Erano le prime parole che gli diceva senza urlare o piangere. Aveva preso lei il coraggio delle azioni: aveva temuto un suo rifiuto ma aveva prevalso la speranza, per la prima volta da mesi. La speranza che gli dicesse sì, che quella carezza che le stava concedendo non era solo un segno di pietà, che in fondo anche lei gli mancasse almeno un po’.

Rick accostò l’auto di più al marciapiede, con una manovra lenta, che era una risposta implicita alla sua domanda. Annuì con la testa mente spegneva il motore, riprendendo fiato. Kate abbassò la testa e i capelli coprirono il suo timido sorriso. Si stupì di essere ancora capace di farlo.

Avevano condiviso in un imbarazzato silenzio lo spazio stretto dell’ascensore e Castle si era fermato davanti alla porta dell’appartamento di Beckett. 

- Non fare caso al caos… - Gli disse appena entrata mentre lui rimaneva sull’uscio. Rick sorrise per il suo gioco di parole e per quello che era un invito implicito a seguirla dentro, forse Kate era più avanti di quanto lui pensasse in quel percorso mentale che aveva immaginato.

Aveva ragione lei, c’era molto caos. Sul tavolo bottiglie di vodka e altri alcolici aperte e consumate per più di metà, ma la cosa che più la colpì erano le bottigliette e flaconi di medicinali, molti di più di quelli che prendeva dopo la sua operazione. Istintivamente prese in mano uno di quei flaconcini e lesse l’etichetta. Pensò troppo tardi che non avrebbe dovuto, quando lei lo guardava quasi impaurita per la sua reazione che in realtà non c’era stata. La guardava in silenzio, senza giudicare, solo addolorato al pensiero che avesse bisogno di tutte quelle cose per “stare bene”. 

- Non dormo molto, ultimamente, mi aiutano. Anche le altre mi aiutano a… a vivere, penso. - Kate sospirò, non era nemmeno sicura per cosa l’aiutassero.

- Scusami, non volevo impicciarmi.

- Sei serio Castle? Tu ti scusi per esserti impicciato di qualcosa? - A Rick sembrò di vedere un vero sorriso

- A quanto pare… Si cambia, vero Beckett?

- Castle… - Fece qualche passo avvicinandosi di nuovo a lui - … Mi sei mancato.

- Anche tu. Tanto.

Si era ritrovata di nuovo appoggiata al suo petto senza sapere come, ma capì in quell’istante che era quella la sua casa, erano le sue braccia che l’accoglievano e la proteggevano dal mondo e prima di tutto da se stessa. Aveva ragione, aveva avuto ragione da subito quando diceva che doveva rimanere con lei, per proteggerla, che lei era il suo peggior nemico e se lo era dimostrato in tutti i modi, senza volerlo capire, anzi lo aveva capito da subito e lo faceva di proposito.

- Non avevo mai pianto. - Gli disse appena riuscì a separarsi da lui.

- L’ho fatto io, anche per te. In tutti i sensi. - Rispose lui sinceramente.

- Mi dispiace se ti ho fatto soffrire più di quanto già non facessi per… - Si fermò. Non riusciva a parlarne, non ancora, forse mai.

- Dillo Kate. Rendi vera la cosa, affrontala.

- Non ci riesco, Rick. - Ammise.

La prese per mano ed attraversarono tutta la casa, la condusse fino in bagno dove la mise davanti allo specchio.

- Guardati Kate, per cosa piangi?

Beckett per la prima volta vide il suo volto rigato di lacrime, vide tutto il nero della sua sofferenza materializzato sul suo volto, insieme a quella chiazza rossa sulle labbra, quel rosso sangue che vedeva sulle sue mani ogni volta che chiudeva gli occhi, perché lei si sentiva irrimediabilmente colpevole.

- Dillo, Beckett, perché stai piangendo?

Kate vedeva il suo volto e dietro Rick che con un braccio le cingeva la vita per tenerla ferma, con l’altro indirizzava il suo sguardo allo specchio e lei poteva solo chiudere gli occhi per non vedersi, ma invece nel riflesso incontrò lo sguardo di Castle, con la stessa sofferenza del suo.

- Per nostro figlio. - Nel dirlo si sentì quasi mancare e Rick strinse la presa su di lei, sostenendola, fisicamente e non solo.

Lasciò che si sedesse sul piccolo sgabello che teneva lì vicino e lei gli bloccò il braccio quando lo sentì allontanarsi, ma Castle stava solo cercando un batuffolo di cotone e del latte detergente. In piedi, davanti a lei, provò un po’ goffamente ma con tanta tenerezza, a pulire il suo viso dal trucco e dalle lacrime. Per il dolore sarebbe stata una strada molto più lunga. Ma almeno avevano cominciato a camminare tenendosi per mano.

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Capitolo 37
*** TRENTASETTE ***


Castle guardò Beckett a lungo mentre le dava gli ultimi tocchi con un secondo batuffolo di cotone, il primo si era riempito dopo poco di trucco e rischiava di peggiorare la situazione. Non che avesse fatto un grande lavoro, ad essere sincero, se non fosse stata quella circostanza così particolare, avrebbe riso di se stesso, ed anche di Kate che sembrava quasi un panda. Gli venne in mente quando era solo un bambino e ogni tanto la sera, quando sua madre aveva le repliche pomeridiane, si divertiva a sedersi vicino a lei e pasticciando con creme e cotone voleva toglierle il pesante trucco di scena, così poco a poco sotto i suoi tocchi confusi di bambino un po’ maldestro, Martha smetteva i panni dell’attrice e tornava ad essere solo la sua mamma. Si meravigliava ogni volta quando la vedeva vestita, spesso con abiti eleganti o sontuosi in quegli spettacoli in costume, e con il trucco così marcato, le sembrava una fata, una di quelle delle storie che lei stessa gli raccontava. Ma dopo poco si annoiava, la vedeva entrare ed uscire velocemente dal camerino, sempre di fretta chiamata da qualche addetto al palco e lui non aveva tempo per gustarsela. Così quando aveva finito non vedeva l’ora che si toglieva tutto e tornava ad essere solo la mamma di cui aveva bisogno. Ed ora con Kate provava a fare la stessa cosa, toglierle quella maschera che si era creata e farla tornare ad essere solo Kate, per essere sua avrebbe avuto tempo, sperava.

Quei lunghi silenzioso minuti trascorsi con gli occhi chiusi servirono a Beckett per prendere consapevolezza di quello che aveva appena detto e per riuscire a calmarsi. Le cure di Castle, tra carezze e tocchi leggeri, stavano riuscendo a pulire molto di più del suo viso, ma a togliere quella patina dalla quale guardava la sua vita, il mondo ed il suo futuro che rendeva tutto desolato, tetro, doloroso, senza speranza. Avrebbe voluto che continuasse all’infinito, che non si fermasse mai. I suoi tocchi andavano sotto la pelle, scavavano molto più in profondità, toccando punti che aveva tenuto nascosti a tutti, soprattutto a se stessa, ma che lui trovava naturalmente, solo lui. Aprì gli occhi solo quando percepì che si era allontanato e le mancava già l’ossigeno. Era a pochi centimetri da lei. Appoggiò un braccio sul suo: aveva bisogno del suo supporto per alzarsi e non solo fisicamente da quel piccolo sgabello. Sperò che lui lo capisse, perché in quel momento non sapeva se ce l’avrebbe fatta a chiederglielo.

Si sciacquò il viso con molta acqua fredda, buttandosela addosso e lasciandola scivolare via. Era veramente fredda in quella notte di novembre con le temperature che stavano scendendo repentinamente, ma i brividi che sentiva non erano per quella, ma perché quando aveva alzato gli occhi, nello specchio lo aveva visto ancora, dietro di lei, guardare fissa la sua immagine riflessa.

- Come ti senti? - Le chiese Rick continuando a fissare il suo riflesso mentre lei si tamponava il viso con un asciugamano.

- Stremata. - Sospirò.

- Ti lascio riposare, allora. - Le accarezzò un braccio, ma lei fermò la sua mano su si se e spostò il peso all’indietro fino a trovare il suo torace contro il quale si fermò. Non si guardavano negli occhi, se non attraverso il lo specchio. Era come vedersi da fuori, come vedere altre persone, l’ultimo estremo mezzo di difesa.

- No. Io… non credo che potrei riposare questa notte.

- D’accordo. Come vuoi.

Tutto era rallentato. Parlavano lentamente, per darsi il tempo di assorbire le reciproche semplici parole. Anche i movimenti erano compassati, come se camminassero su un filo e potessero precipitare da un momento all’altro. Ogni mossa non ponderata, ogni movimento repentino, ogni scelta non prima intimamente accettata poteva farli precipitare. Erano consapevoli che se fossero caduti ancora, in quel momento rialzarsi insieme sarebbe stato impossibile. 

Lo prese per mano e lo condusse fino al divano. Presero posto ai due estremi: avevano paura a separarsi tanto quanto a stare troppo vicini. Le vibrazioni dei loro corpi le avevano sentite entrambi e non erano certi di riuscire ad esserne padroni.

- Sembri stanco anche tu. - Gli disse osservando meglio i suoi occhi pesanti, con le iridi che erano diventate blu scuro, intenso.

- Lo sono. - Ammise rendendosi conto solo in quel momento di quanto lo fosse veramente.

- Sapevo che dovevi rientrare a fine mese… quando sei tornato?

- Un paio di ore prima di venire da te. Ho cancellato qualche tappa del tour ed anticipato il rientro. - Disse sincero.

- Come mai? Qualche problema? - Kate non aveva ancora capito il motivo. Pensò che forse il suo tour non era andato bene e per questo si era visto costretto a fare ritorno.

- Mi ha chiamato Lanie qualche giorno fa, anzi notte. Mi ha detto che avevate discusso e che stavi male. Era preoccupata per te.

- Tu sei… sei tornato per questo? - Chiese perplessa.

- Sì, sono tornato per te. Ti sorprende, Kate? Sono tornato per te, perché Lanie era preoccupata, mi ha detto che ti stavi distruggendo. Ho sbagliato a darti retta, ad andarmene, a lasciarti sola. Per me sei importante, molto importante. Non potevo permetterlo.

Kate sorvolò sulle sue parole. Non aveva ancora i mezzi per affrontarle.

- Ho fatto un po’ di casini… Ho discusso anche con mio padre, sono stata ingiusta con lui.

- Lo so. So anche che hai lasciato il lavoro.

- Non mi dici niente?

- Cosa ti dovrei dire? Che è un peccato che la migliore detective di New York abbia scelto di lasciar perdere tutto?

- Quello che pensi, Castle.

- Penso che se sei arrivata ad una decisione del genere non è perché hai litigato con il nuovo capitano. Non è da te, non ci credo.

- Non sono la stessa persona che conosci, Rick. - Fu un’ammissione che lo spiazzò, perché lui a questo proprio non voleva crederci. 

- Io sono convinto che sei sempre tu, solo che sei nascosta sotto le macerie con cui ti proteggi. - Kate chinò la testa. Rick l’aveva messa a nudo con poche parole, obbligata a guardarsi dentro e a non trovare quello che avrebbe voluto. Sarebbe stato facile essere una persona diversa, essere cambiata, essere riuscita a diventare quella in cui voleva trasformarsi, ma non c’era mai riuscita e lui con forza, fermezza ed un tocco delicato, aveva già disintegrato quella maschera. Quel vestito nero, stretto, corto, che ancora indossava la faceva sentire a disagio. 

- Perché sei qui? - Gli chiese senza guardarlo, per timore dei suoi occhi e di quello che poteva leggerci dentro. O, ancora di più, per quello che aveva paura di non trovare più.

- Per te. - Rick allungò la mano sui cuscini del divano e Kate fece lo stesso. Le loro dita si sfiorarono, poi si toccarono, infine si presero. Beckett sentì la mano di Castle stringere la sua sempre più forte. Quante volte le loro mani si erano trovate, prima che si trovassero loro, offrendosi quel tacito conforto e sostegno, in un gesto così semplice che nascondeva tutto quello che non erano mai stati in grado di dirsi. La mano di Castle c’era sempre stata per Beckett, ogni volta che gli aveva permesso di esserle vicino. Di poche altre persone poteva dire la stessa cosa, forse di nessuno.

- Mi dispiace. - Gli sussurrò ancora una volta. Era come se il dolore che Rick aveva cercato di nasconderle dal primo momento fluisse in lei con quel contatto.

- È stato difficile anche per me, Kate. Mi sono sentito strappare via tutto. Non solo il nostro bambino, ma anche te. Avrei voluto solo starti vicino, lo avremmo affrontato insieme. Non sarebbe stato meno doloroso, ma almeno saremmo stati insieme. Hai deciso tu, per tutti e due. Mi hai lasciato fuori dalla tua vita, dal tuo dolore, con il mio che si moltiplicava e non sapevo cosa fare. Ho rispettato i tuoi tempi, ho pensato che era questione di giorni, poi di settimane. Aspettavo ogni giorno che passasse, che tu mi chiamassi. Non lo hai mai fatto. Ti sei chiusa in te stessa, pensando che eri l’unica persona a soffrire. Ho sofferto anche io, Kate. Ho sofferto tanto, sto soffrendo ancora, ogni volta che ci penso. Forse ci soffrirò sempre pensando a tutto quello che potevamo avere e che non abbiamo più.

Rick non le voleva più nascondere il suo dolore. Non la voleva più proteggere da quello che sentiva. Lo aveva fatto, aveva sbagliato. Voleva essere duro, voleva colpirla, non per farle male, ma solo per farle capire che non era lei l’unica persona a stare male, che non aveva avuto l’esclusiva del dolore, anche se era quella che lo aveva vissuto più di tutti, direttamente. Lui di questo ne era consapevole, non riusciva nemmeno minimamente a capire cosa avesse provato e questa era un’altra delle cose che lo facevano stare male, perché sapere che si era tenuta dentro tutto quella logorante disperazione era straziante anche per lui.

Kate non si aspettava quella risposta, non da lui e fu travolta dalla sue emozioni e dal suo tormento che andò a legarsi con il proprio. Mentre parlava aveva temuto che non lo avrebbe sopportato, che gli avrebbe fatto ancora più male, invece scoprì che per lei era quasi un sollievo. Non era felice che lui soffrisse, ovviamente, ma per la prima volta si aprì e si sentì meno sola. Aveva ragione lui, lo aveva escluso lei ed aveva fatto del male ad entrambi. Aveva cercato comprensione, aveva odiato chiunque fingesse dispiacere o pena per lei, era voluta rimanere sola isolata dal mondo e non aveva voluto vicino l’unica persona che soffriva, come lei. Avrebbe voluto dirgli di più, ma rimase in silenzio fino a quando la sua mano allentò la presa e si ritrasse.

- Ti dispiace se… mi vorrei cambiare… non mi sento molto a mio agio, adesso… - Gli disse imbarazzata e ricevette come risposta un sorriso.

- Io… forse ora è meglio che vada.

- No, per favore. Ci metterò pochi minuti. Se vuoi…

- Certo…

Accarezzargli il volto mentre gli passava davanti fu istintivo e inaspettato per lei tanto quanto per lui. Rick la seguì con lo sguardo mentre andava in camera. Aveva cominciato quella giornata non ricordava più da quante ore, in una città nel sud della Spagna. Era arrivato a Londra, passato ore in aeroporto e poi preso un nuovo volo per New York. Per tutto il tempo si era chiesto cosa le avrebbe detto e cosa avrebbe fatto. Si era ripromesso di non fare tanto di quello che poi aveva fatto, come essere lì. Era stanco, perché anche resistere a fare quello che più avrebbe voluto, abbattere quella formale distanza che si imponeva di mantenere, lo stava logorando piano piano. Era stanco, perché le emozioni, proprie e di lei, lo avevano colpito come un pugile impietoso.

Kate chiusa nella sua stanza si svestì velocemente, indossando la prima cosa, comoda, che aveva sottomano. Una tuta grigia, vecchia, consumata e sformata. Un po’ come si sentiva anche lei. Pensò a quello che le aveva appena detto Rick, nelle sue parole trovava speranza e tristezza, ma anche disillusione. Aveva parlato di un futuro che non avevano più e le era sembrata una chiusura definitiva, a tutto. Pensò che forse lui, alla fine, era riuscito ad andare avanti, che le voleva bene, ed era lì come un amico. Non le aveva fatto capire nulla di diverso, in fondo. Forse era solo lei che aveva sperato, dentro di se, in qualcosa di più. Non avrebbe potuto biasimarlo, non poteva pretendere nulla. Però una cosa sapeva. Glielo avrebbe dovuto chiedere, non avrebbe lasciato tutto sottinteso, presunto, come aveva già fatto con lui, lasciando che entrambi travisassero il comportamento dell’altro. Glielo avrebbe chiesto subito, appena uscita lì.

Glielo avrebbe chiesto veramente, ma quando lo vide, addormentato, sul divano non ebbe coraggio di farlo. Dormiva profondamente, come era suo solito. Conosceva poche persone capaci di andare in letargo come Castle. Sorrise. Aveva quel suo classico broncio che mostrava ogni volta nel sonno e che lei trovava adorabile. Si avvicinò a lui, accostando appena le proprie labbra alle sue, poi lo abbracciò, trascinandolo piano, facendolo sdraiare con la testa sulle proprie gambe mentre gli accarezzava i capelli.

Quella notte stava finendo, l’alba sarebbe arrivata tra poco.

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Capitolo 38
*** TRENTOTTO ***


Kate non aveva dormito.

Aveva passato tutto il tempo con le mani immerse nei capelli di Rick pensando a tutte le cose che avrebbe voluto dirgli. Sarebbe stato più facile se lui avesse potuto leggere veramente nella sua mente, perché lei non sapeva da dove cominciare.  Benedì il suo sonno pesante, anche in quelle condizioni precarie, su quel divano troppo piccolo per lui. Sarebbe voluta entrare nei suoi sogni per dirgli tutto quello che lì, nella realtà non sapeva se sarebbe mai riuscita a fare, ma si velò subito di tristezza, pensando che forse lui ora era tranquillo perché lontano da lì, da lei ed era un bene che non lo disturbasse.

Pensò che nel troppo breve periodo in cui erano stati insieme, forse lei non gli aveva mai dimostrato abbastanza quanto lo amasse. Si sentiva sicuramente in debito con lui, perché aveva preso più di quanto gli aveva dato. Spero di essere in grado di sdebitarsi, un giorno, di averne la possibilità. Lo guardò dormire e la sua immagine di era sovrapposta a quella del loro bambino che aveva sempre disegnato nella sua mente, un piccolo Castle che dormiva imbronciato. Ecco perché lo aveva allontanato, perché sapeva che tutto quello, con lui era inevitabile. La sensazione delle lacrime che scorrevano sulle sue guance era qualcosa a cui non era più abituata.

Quei sussulti sommessi avevano svegliato Castle che ci mise qualche istante per capire dove fosse: nell’ultimo mese e mezzo aveva raramente dormito per due notti nello stesso posto, ma adesso era diverso, si sentiva indolenzito, ma aveva una piacevole sensazione di una mano che lo stava accarezzando e quel profumo, non aveva dubbi di chi fosse. Aprì gli occhi e si voltò accorgendosi di essere appoggiato sulle sue gambe. Si alzò con un gesto repentino che colse di sorpresa tanto lui quanto lei.

- Scusami non volevo… infastidirti. - Disse Kate.

- No… sono io che non dovevo… Scusami, ero veramente stanco… il fuso orario…. - Si passò una mano sul volto e tra i capelli. 

Si guardarono per un po’ senza dirsi altro, fino a quando lui non le accarezzò il volto per togliere qualche lacrima che ancora scendeva.

- Cosa c’è, Beckett?

Scosse la testa e non rispose, togliendosi lei il resto delle lacrime.

- Non è così che funziona, Kate. Non è così che starai meglio.

- Starò meglio? - Chiese riluttante. Viveva da mesi con la consapevolezza che quel meglio non sarebbe mai arrivato.

- Sì, starai meglio. Ma non devi tenere tutto dentro. 

- Tu stai meglio? - Le sembrava impossibile che si potesse stare meglio.

- Un po’. Ma non vuol dire che ho dimenticato nulla. Capisci cosa voglio dire? Stare meglio non vuol dire dimenticare. - Rick ci tenne a precisarlo. Perché sapeva che lei aveva bisogno di condividere e lui era disposto anche a tornare indietro, a tuffarsi di nuovo nel loro dolore ed attraversarlo tutto per uscirne insieme se lei voleva. Kate lo ascoltava ed annuì mentre si stringeva e strofinava le mani nervosamente.

 

Quelli che nascevano tra loro erano silenzi spontanei, necessari per accettare quello che si stavano dicendo. Erano spesso poche parole, frasi spezzate, ma ognuna aveva il significato ed il peso di un macigno. Kate in quel momento era un bambino che doveva imparare a camminare, ed anche ogni piccolo passo, ogni incertezza, ogni volta che provava ad alzarsi da sola e stare in equilibrio, era una conquista e come tale Rick sapeva che la doveva prendere. Gli sembrava impossibile anche essere arrivati fino a lì. La Kate che aveva visto lui era ben diversa da quella descritta da Lanie. 

Forse era stata veramente una magia quella che era successa, non voleva credere che la sua presenza fosse stata per lei così importante da farla cambiare all’improvviso, perché questo voleva dire che avrebbe cominciato ad incolparsi per tutto il tempo sprecato. Ma i sensi di colpa erano inutili quanto dannosi in quella situazione. Alzava la testa ogni tanto per guardarla, sospirava ed aveva lo sguardo basso. Non aveva nulla di magico tutto quello, decisamente no. Era accaduto in quel momento e non prima perché lei era pronta per risalire, perché era caduta così in baso che poteva solo rimanere lì o cercare di venirne fuori. Si volle convincere di non essere arrivato tardi, di non aver sprecato tempo, ma di essere lì al momento giusto, perché prima sarebbe stato inutile, ed aveva già avuto delle dimostrazioni, e dopo sarebbe stato troppo tardi. Doveva sforzarsi di vedere il buono che c’era nelle cose, era quello che gli aveva detto anche lo psicologo da cui era andato qualche volta, per avere una mano, per parlare con qualcuno professionale con cui sfogarsi e non affliggere troppo Martha e Alexis. Forse avrebbe fatto bene anche a Kate parlare con una persona così, ma era troppo presto per proporglielo. Di certo credeva che fosse meglio che smettesse di vedere chi non aveva fatto altro che imbottirla di farmaci: di certo così era più semplice, ma non risolveva i problemi, semplicemente li accantonava.

 

Rick aveva gli occhi fissi sui flaconi di medicinali sul tavolo quando sentì la sua voce rivolgergli ancora la stessa domanda di poche ore prima.

- Castle… Perché sei qui? 

- Te l’ho detto, per te. - Le ripetè dolcemente cogliendo tante sfumature di nervosismo e paura in quella semplice domanda.

- Non per noi. - Lo disse in un sospiro, a bassa voce, quasi non volesse farsi sentire, quasi non volesse ammettere quella sua speranza che da un lato aprì il cuore di Castle, dall’altro lo strinse in una morsa feroce per quello che stava per dirle.

- No, Kate, per te. - Cercò di essere il più fermo possibile, ma era un’impresa titanica, per chi se avesse seguito il suo cuore avrebbe distrutto quella minima distanza tra loro e l’avrebbe stretta tra le sue braccia e si sarebbe perso nelle sue labbra. Le mancava così tanto tutto di lei.

- Certo… tu… Castle… tu e Gina… - Era giunta alla conclusione sbagliata, a quella che sapeva le faceva male, a quel tarlo che anche sua madre le aveva riferito, quella paura e quell’incertezza che più di una volta aveva mostrato, anche quel maledetto giorno.

- No! No, ma cosa pensi, Beckett che io ho un’altra donna?

- Non so cosa pensare Rick. Torni così, ed è tutto strano. Io non so…

Castle si avvicinò, le prese entrambe le mani e le tenne strette tra le sue.

- Non ci potrà essere un noi se prima tu non ritrovi te stessa. Devi stare bene, Kate. Devi sapere quello che vuoi, devi essere sicura di noi, non perché ne senti il bisogno. Non voglio bruciare le tappe, non ce la farei. Non ne uscirei vivo stavolta. 

- Castle… 

- No, Beckett, aspetta, fammi finire. Io da quando ti ho vista mi sto trattenendo dalla voglia di baciarti, perché ti amo. Non è cambiato nulla nei miei sentimenti, ti amo, esattamente come ti ho detto quel giorno al cimitero, come ti ho detto quel giorno in ospedale ed anche qui prima di andarmene. Ti amo, non è cambiato nulla in questo. Però dobbiamo fare un passo alla volta. Voglio che tu sia certa di noi.

- Pensi che io non ti amo? - Le sue paure erano vere, non gli aveva dimostrato abbastanza.

- Penso che devi essere sicura di amarmi al punto da non allontanarmi se accadrà qualcosa. Che devi amarmi al punto di essere egoista e volermi vicino quando stai male e non allontanarmi per il mio bene. Perché il mio bene è vicino a te.

- Sarai vicino a me, Castle? - Gli chiese tra le lacrime che erano tornate a scendere prepotenti.

- Sempre, Beckett. Sono qui per questo.

Accarezzò le sue mani e presto le loro dita si intrecciarono e Castle strinse forte per farle capire che lui ci sarebbe stato. Beckett guardò le loro mani unite. Si morse il labbro mentre cercava le forze per quello che stava per dire.

- Quando tu dormivi, stavo piangendo perché mentre ti guardavo, avevo davanti agli occhi l’immagine che mi ero fatta di nostro figlio. Un bambino con i capelli arruffati che dormiva imbronciato com te. Quando ti ho detto di andare via, che era finita tra noi, era anche per questo motivo, Castle. Perché sapevo che ogni volta che ti avrei visto, avrei pensato a lui. Perché tu sei quello che mi ricorda continuamente quello che è successo. Speravo che senza di te avrei dimenticato prima, avrei superato tutto più facilmente, che mi serviva solo tempo. Non è servito a nulla, niente. Mi dispiace, Castle… Non volevo farti soffrire.

 

Castle voleva essere coerente con quanto detto, voleva essere forte e voleva seguire quel percorso che si era dettato. C’erano dei momenti però, in cui tutto questo andava messo da parte. Non c’era solo Kate a stare male, sentire certe cose da lei, lo dilaniava. Era quello che lui aveva pensato tante volte, che aveva confidato a sua madre ogni tanto ma che per lo più aveva tenuto per se o aveva affidato alla carta. Aveva scritto tanto di quello che sentiva ed era stato un modo per sfogarsi. Sentirla parlare così, però, è qualcosa che andava oltre quello che si era immaginato di dover sostenere, faceva più male di quanto poteva pensare, era un tuffo indietro nei mesi appena trascorsi aggravato dal veder lei così. Pensava a come avesse fatto a sopravvivere da sola con il suo dolore chiuso dentro e capì che la coerenza non serviva in quel caso e che un abbraccio non avrebbe fatto male a nessuno.

Kate si ritrovò stretta tra le sue braccia con il viso contro il suo petto, non capiva nemmeno se si fosse avvicinato Rick o l’avesse presa e portata lui vicino a sé. Affondava in lui, respirando la sua presenza a pieni polmoni, come se il suo profumo fosse ossigeno e si sentì libera. Libera di stare male, di piangere ancora, libera di aggrapparsi a lui e tenerlo stretto come aveva bisogno da tempo di fare. Era molto più di un abbraccio. Castle la baciò tra i capelli e sembrò quasi volerla cullare tra le sue braccia, non poteva promettergli che lì nessuno le avrebbe fatto più male, che non avrebbe sofferto più, ma solo che lui ci sarebbe stato, sempre, se lei avesse voluto. E glielo disse, perché in fondo sapeva che aveva bisogno anche di questo.

- Non ti lascio più Kate, non ti lascio più.

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Capitolo 39
*** TRENTANOVE ***


Non era stato facile salutarsi, per nessuno dei due. Eppure Castle si era imposto di terminare quell’abbraccio prima che diventasse qualcosa di più, come era inevitabile che fosse. Non era insensibile alle mani di Beckett che senza secondi fini o malizia alcuna gli accarezzavano la nuca, né al suo respiro via via sempre più calmo quando aveva appoggiato la testa sulla sua spalla. Quel calore e le sue labbra che lambivano il collo gli provocavano brividi che faceva difficoltà a contenere. Le aveva promesso che sarebbe tornato più tardi, aveva veramente bisogno di farsi una doccia, radersi, cambiarsi quei vestiti che considerando i vari fusi ormai indossava da quasi due giorni e poi doveva parlare con Martha e Alexis, doveva loro delle spiegazioni per quel comportamento assurdo che aveva avuto il giorno prima, quando era arrivato, le aveva salutate frettolosamente e poi gli aveva detto solo che doveva cercare lei. Gli parve di vedere con la coda dell’occhio Martha che sorrideva ed Alexis molto perplessa. La sensazione delle mani di Kate sul suo volto mentre lo teneva stretto e lo guardava fisso negli occhi non riusciva a dimenticarla, così come il desiderio di baciarla in quello stesso momento mentre lei gli chiedeva di tornare, preoccupata che non lo facesse. Aveva messo le mani sulle sue, ed era stato doloroso separarsi da quel contatto che per mesi aveva tanto cercato. Poteva sentire ancora quelle mani, lì fermo sulla sulla porta che non lo volevano lasciare andare, quel bisogno che percepiva che quasi lo stordì perché non era abituato. Non aveva mai visto Kate da quel punto di vista, come quella che aveva bisogno, perché lei era sempre quella che non chiedeva mai, che faceva da sola. Doveva pensare a cosa fare. Perché si era immaginato di trovarsi in una situazione completamente diversa, di dover essere ancora lui a rincorrerla, a farle accettare il suo aiuto, invece si trovava davanti una Beckett disperata che non aspettava altro che essere salvata. Da lui.

 

Arrivato al loft, ancora prima di pensare a se stesso, fece una lunga chiacchierata con sua madre e sue figlia. Cercò di spiegargli quella situazione, ancora così difficile da capire anche per lui stesso. Si erano mostrate comprensive e disponibili, chiedendogli se potevano fare qualcosa per aiutare lui e quindi lei. La realtà era che lui avrebbe veramente voluto il loro aiuto per qualcosa, ma non sapeva nemmeno per cosa, perché ancora non sapeva cosa fare.

- Credo che ricevere un po’ d’affetto le farà bene.

- Lo sai Richard, vogliamo tutti bene a Katherine. Deve essere solo disposta ad accettarlo. - Intervenne Martha.

- È quello che sto facendo, sto cercando di farglielo capire e di lasciarsi voler bene. Non è facile.

 

Rick provò a lavarsi via la stanchezza dagli occhi e dal resto del corpo. Si osservò a lungo allo specchio mentre finiva di radersi e cercava di capire cosa fare della sua vita che nelle ultime ore si era di nuovo stravolta. Si mise quel profumo, il preferito di Kate, dai toni speziati e legnosi di muschio, sandalo e incenso, lei diceva che quel profumo sembrava fatto a posta per la sua pelle. Ricordava ancora quando se lo era messo la prima volta e le si era sdraiato accanto, era ancora insonnolita e si era avvicinata a lui e lo aveva baciato a lungo sul collo. Aveva fatto la gelosa, dicendo che quel profumo poteva metterlo solo quando era con lei perché sarebbe stato irresistibile per chiunque. Lo aveva fatto, non lo aveva più messo da quando si erano lasciati. Scelse la dall’armadio quella camicia viola gessata perché sapeva che a lei piaceva. Si accorse che era già passata l’ora di pranzo ed accelerò le sue procedure, le inviò un messaggio prima di uscire dicendole che sarebbe arrivato dopo poco.

 

Da quando Castle era uscito Beckett aveva nervosamente passeggiato per il suo appartamento. Non vedeva l’ora che tornasse, per nessun motivo particolare, solo per la sua presenza. Avrebbe passato tutto il pomeriggio o anche tutta la giornata e la notte seduta sul divano vicino a lui, anche senza parlarsi. Non aveva dormito, ma non era stanca. Prese un paio di quelle pillole che l’aiutavano ad aumentare i livelli di endorfine, quelle stesse che Castle aveva preso in mano e guardato male. Ne aveva bisogno. Cominciò a prepararsi quasi freneticamente. Un paio di jeans, un maglioncino nero a collo alto, qualcosa di semplice, per cancellare dalla sua mente e da quella di Castle l’immagine di lei della sera prima.

 

- Ehy, sono io, scendi? - Castle le aveva appena citofonato e fu presa in contropiede da quella sua richiesta.

- Cosa? Perché? No, dai, sali tu…

- No, Beckett, andiamo. Andiamo a farci un giro.

Ecco il suo primo momento di crisi. Uscire, farsi un giro… con lui? Perché? Non potevano semplicemente stare a casa, tra di loro, parlare… senza estranei, senza chiasso, senza confusione.

- Allora Beckett? Scendi? - Chiese ancora impaziente e dopo un paio di minuti lei era avvolta nel suo cappotto nero con una sciarpa colorata, la prima che aveva trovato presa all’improvviso, che aveva girato due volte intorno al collo.

- Dove andiamo? - Gli chiese quando lo vide chiudere l’auto e invitarla a proseguire a piedi.

- Innanzi tutto a mangiare qualcosa, che ne dici? Anzi, non mi dire nulla, perché so che mi diresti di no!

Camminarono vicini, senza sfiorarsi, ma tenendosi sempre a quella giusta distanza per non essere lontani. Si percepivano nello spazio. Camminarono per qualche isolato, passando davanti a più di qualche locale che però sembrava non incontrare le preferenze di Castle.

- Hai qualche idea di dove stiamo andando? - Gli chiese incuriosita.

- No, cercavo un posto giusto, hai qualche suggerimento?

- Cosa intendi per giusto, Castle?

- Non lo so, giusto. Lo senti quando un posto è quello giusto.

Beckett non osò contraddirlo. Si ritrovò a sorridere senza farci caso ed era una piacevole riscoperta. Alla fine il posto giusto era stata una caffetteria dove ordinarono due enormi sandwich pieni di tutto. Non sapeva se fosse perché aveva molta fame, se perché quel locale aveva veramente qualcosa di speciale, ma Kate pensò che fossero i più buoni mai mangiati, o forse era solo la presenza di Rick ad aver risvegliato i suoi sensi intorpiditi. Quel posto, in ogni caso, le piaceva molto con il suo ambiente informale ma curato, i giovani camerieri con il sorriso sulle labbra e quei piatti semplici ma curati. Era accogliente senza essere troppo pesante, luminoso e fresco, aveva sorriso ancora, osservando la piantina sul tavolo, non un fiore come usava di solito, ma un’erba aromatica e guardandosi intorno vide che ce ne erano diverse sui vari tavoli. Quella sul loro tavolo era del cerfoglio, non l’aveva riconosciuta, aveva solo letto la scheda che si trovava sul vaso che ne raccomandava l’uso sulle uova e nelle zuppe. Quando ritenne di saperne abbastanza spostò di nuovo la sua attenzione su Castle che, invece, non aveva mai smesso di guardarla.

- Pentita di essere uscita? - Le chiese sapendo già la risposta.

- No, anzi… è piacevole. - Ammise Kate e Castle si mostrò compiaciuto.

Si lasciò convincere da lui ad ordinare anche un dolce anche se era già sazia, ma le piaceva l’idea di prolungare la loro permanenza lì e di bere un caffè insieme. Nell’attesa, Rick ne approfittò per andare in bagno, lasciandola sola al tavolo. Lo seguì con lo sguardo fino a quando non svoltò in un’altra sala, seguendo le indicazioni di un sorridente ragazzo. Approfittò di quei minuti, pochi sperava, di solitudine per guardarsi intorno: gruppi di amici sorridenti, qualche coppia innamorata, lavoratori che mangiavano frettolosamente controllando di continuo i loro smartphone, la vita di tutti i giorni di New York e continuando la sua perlustrazione silenziosa, posò gli occhi su una famiglia su un tavolo nell’angolo alla sua destra, dove una mamma ed un papà cercavano senza troppi risultati di far mangiare qualche intruglio ad un bambino molto piccolo imprigionato in un seggiolone di legno, più interessato a sporgersi per catturare la loro piantina nel vaso. La serenità ed il benessere accumulati fino a quel momento defluirono via di colpo, lasciando di nuovo spazio alla sua cupa tristezza. Quel locale ora non sembrava nemmeno più così luminoso e accogliente e l’allegro vociare stava diventando un rumore impossibile da sopportare, così come i gridolini del bimbo che sembrano il rumore che la sua mente sceglieva di isolare dal resto portandolo in primo piano. Li fissava, forse l’avrebbero presa anche per una maniaca o qualcosa del genere e non si accorse nemmeno che Castle nel frattempo era tornato.

Lui seguì il suo sguardo e non ci mise molto per capire cosa la stava turbando. Lo capiva dalla sua espressione improvvisamente mutata. Poggiò una mano sulla sua, abbandonata sul tavolo e lei sembrò ridestarsi. La coppia di genitori, probabilmente sentendosi osservata, guardò verso di loro e Castle li salutò con un sorriso, mentre Kate abbassò lo sguardo concentrandosi sulla tovaglietta di carta che si accorse solo in quel momento essere in realtà la base di un campo per giocare a battaglia navale, così come quella di Rick. Fosse stato mesi prima gli avrebbe chiesto di giocare, anzi no, lo avrebbe fatto lui appena entrati, probabilmente come prima cosa. Mesi prima, però, non sarebbero mai usciti insieme, solo loro due, a meno che non fossero rimasti fino a tardi al distretto ed avessero deciso di mangiare qualcosa di veloce insieme, ma solo per farsi compagnia. Si rese conto di quante cose erano cambiate, velocemente, più volte. Di quanto tempo sprecato, prima, a fare finta di nulla. Ora tutto quello che sembrava avere era godersi il contatto con la sua mano e quello che sperava volesse dire, anche per lui. Il pollice che le accarezzava il dorso era un dolce palliativo e provò a concentrarsi su quello, chiudendo per qualche istante gli occhi, riaprendoli solo quando lui la lasciò e si sentì di nuovo inghiottita da qualcosa di doloroso, come ogni strappo, anche se minimo. Si accorse che lo aveva fatto perché il cameriere aveva appena portato il loro caffè e poco dopo un altro arrivò con le loro fette di torta al cioccolato su una delle quali svettava una candelina accesa. Castle sorrise soddisfatto nel vedere il volto stupito di Beckett mentre il cameriere le faceva gli auguri porgendole il suo dessert.

- Veramente pensavi che mi fossi dimenticato che oggi è il tuo compleanno, detective?

- In compenso ti sei dimenticato che non sono più detective.

- Vero, è difficile abituarmi. - Ammise Rick.

- Non credo ci sia molto da festeggiare - Sospirò Kate osservando la fiamma viva della candelina.

- Dipende dai punti di vista. Potresti festeggiare che sei sopravvissuta ad un attentato, che siamo qui a mangiare insieme, che hai deciso di uscire di casa e provare ad avere di nuovo una vita normale, che visto che ti sei dimessa nessuno ti telefonerà per un omicidio interrompendo la nostra giornata, che abbiamo trovato un posto carino che non conoscevamo per venire a mangiare altre volte… - Cominciò ad elencare Rick uno dopo l’altro contando con le dita senza fare caso che aveva cominciato a parlare al plurale.

- Cosa stai cercando di dirmi Castle, che anche nei giorni peggiori c’è sempre un motivo per essere felici?

- Più o meno, qualcosa di simile… Dai, esprimi un desiderio e soffia sulla candelina.

Ne avrebbe avuti a decina di desideri da esprime, ma c’era uno, più grande di tutti, che conservava nel suo cuore. Si lasciò contagiare per un attimo dall’ottimismo di Castle, chiuse gli occhi e spense la sua candelina prima che la cera colasse oltremodo sulla torta.

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Capitolo 40
*** QUARANTA ***


Kate affondò la forchetta nella torta mangiandone un bel pezzo, scoprendola più buona di qualsiasi altra torta avesse mai mangiato prima e l’espressione sul suo viso dovevano averla tradita, almeno lo sguardo compiaciuto di Rick le faceva credere che fosse proprio così.
Alla fine le propose un brindisi, con il caffè. Lei lo guardò malissimo ma Castle non si scompose.
- Trovi qualcosa di più adatto del caffè per brindare? Dopo tutti quelli che ti ho portato, direi che è la cosa migliore!
Non potè rispondergli e così fecero tintinnare le loro tazze toccandole appena.
- Alle piccole cose che rendono le giornate migliori e al tuo compleanno. - Disse Castle tornato serio prima di tuffarsi sulla tazza ancora fumante e lasciarsi inebriare dal gusto leggermente tostato e dal profumo intenso.
- Alle persone che rendono le giornate migliori - Gli sussurrò Kate guardandolo bere prima di farlo anche lei e per poco il caffè non gli andò di traverso.
La famiglia in fondo alla sala nel frattempo aveva finito di mangiare. Si ritrovarono entrambi ad osservare il papà che portava il passeggino vuoto mentre la madre li seguiva con il figlio in braccio. I quattro si salutarono con dei sorrisi cortesi appena accennati prima di lasciarli soli ai loro pensieri.
- Tutto bene? - Si preoccupò di chiederle.
- Credo di sì, poi passa… - disse lei sospirando profondamente. Era difficile concentrarsi sulle cose positive in quei momenti, ma fu di nuovo Castle a riportarla indietro dai suoi fantasmi prendendole la mano ed aspettando che lei gli facesse un cenno assertivo. Finirono in silenzio la loro torta ed i caffè, quel clima più leggero di poco prima era scivolato via troppo velocemente, ma Rick dovette rassegnarsi a pensare che quella sarebbe stata la normalità, sperava per il più breve tempo possibile.
Uscirono da lì e Kate quando ricominciarono a camminare annullò completamente la distanza tra loro, prendendo il braccio di Castle e stringendolo mentre passeggiavano. Lui la lasciò fare, anche quando fermi ad un semaforo si appoggiò con la testa sulla sua spalla.
- Quante donne hai conquistato con questo profumo Castle? - Chiese cercando di essere il più leggera possibile, provocandolo un po’, volendo ristabilire tra loro anche quella normalità dialettica e scherzosa che faticava a ritrovare, ma lui la sorprese rispondendole serio.
- Non l’avevo più messo quando non stavo con te. Avevi detto che potevo usarlo solo in tua presenza, ti ho preso in parola. - Kate fu colpita da quelle parole così serie e non pensò nemmeno per un momento che la stesse prendendo in giro. In quei piccoli aneddoti della sua vita senza di lei stava cercando di spiegarle quanto era stata sempre presente nella sua vita e nelle sue scelte e lei capì ed apprezzò il suo intento.
Si ritrovarono a passeggiare in un luogo un po’ insolito: High Line, la vecchia ferrovia sopraelevata che ora era diventato un lungo parco urbano con l’Hudson che scorreva da un lato e i grattacieli di Manhattan che definivano lo skyline dall’altra. Non c’era molta gente in quel pomeriggio di metà novembre, Castle aveva preso altri due caffè prima di salire, non ne avevano veramente voglia, ma passeggiare con quelle tazze in mano era un modo per ricercare quella loro consuetudine e sembrò funzionare, perché erano entrambi più sciolti. Il vento che soffiava era freddo ed a tratti aumentava di intensità. Aveva pulito il cielo da ogni tipo di nuvola, ora era totalmente limpido e si preparava ad accogliere il tramonto. Loro non sembrarono farci caso, passeggiavano in silenzio godendosi la reciproca compagnia immersi nei propri pensieri, volendosi in realtà immergersi l’uno in quelli dell’altro per sapere cosa gli passasse per la mente in quel momento insolito. 
- Ti ricordavo più pigro, Castle! - Gli disse Kate quando si fermò in un tratto tra le piante, appoggiata alla balaustra guardando il traffico sotto di loro.
- Lo sono sempre. Oggi è un’eccezione! - Specificò andandosi a mettere vicino a lei.
- Sai Castle, ci penso sempre. Ogni volta che vedo una famiglia con un bambino piccolo penso se noi saremmo stati come loro, ogni volta che vedo una donna incinta mi chiedo di quanti mesi sia e se io sarei diventata come lei. Quando andavo a correre sceglievo gli orari nei quali sapevo ne avrei incontrate di meno. Se mi fermavo a sedere per riprendere fiato e vicino si sedeva qualche donna con un passeggino mi alzavo di scatto e me ne andavo.
- Fino a quando Kate?
- L’ultima volta ieri mattina. È sempre così. - Un altro sospiro la trascinò via da lì, buttò il caffè ormai freddo e si sedette in una panchina in mezzo ai vecchi binari. Si strinse nel cappotto fino a far sparire le mani dentro alle maniche. Castle si mise vicino a lei, la vide tremare e nonostante il vento e la temperatura sempre più invernale, era sicuro non fosse per quello.
- Ti piace qui Beckett? - Le chiese Rick cercando la sua mano intrufolandosi nel cappotto con una naturalezza che non si aspettava nemmeno lui e lei si lasciò trovare.
- Sì… 
- Questo posto era abbandonato, morto. Guardalo ora: alberi, fiori, panchine, opere d’arte, gente che passeggia felice… è rinato.
- Che vuoi dirmi Castle?
- Ci vuole tempo, ma da quello che può sembrare qualcosa di distrutto, possono rinascere cose bellissime.
Kate guardò le loro mani unite. Avrebbe voluto avere la sua sicurezza, le sue certezze, ed invece non le aveva. Non riusciva ad avere nulla. Le sembrava di fare un passo e poi di essere legata come ad un elastico che la riportava rovinosamente indietro. Quel giorno lo aveva vissuto tutto così.
- Vorrei avere il tuo stesso ottimismo.
- Non sono ottimista, ma credo in te, in quello che sei.
- Come fai? Come puoi nonostante tutto credere in me?
- Ci credo e basta. Altrimenti non sarei qui e se in fondo, da qualche parte, non ci credessi anche tu, non saresti qui nemmeno tu.


- Beh, allora ancora tanti auguri Kate… - Aveva chiesto al taxi di aspettarlo mentre era sceso per salutarla sotto casa. Si era avvicinato per darle un bacio sulla guancia, sorprendendola, ma poi lei lo aveva subito abbracciato, mostrando quasi un senso di necessità. Le aveva dato poi un altro bacio sulla fronte e Kate avrebbe voluto chiedergli di non andarsene, di non lasciarla sola, ma lui non si offrì di rimanere e lei non glielo propose.
- Non mi sarei nemmeno ricordata se non ci fossi stato tu. - Gli disse sinceramente mentre si appropriava degli ultimi istanti con lui.
- Sono venuto proprio per questo, per ricordartelo. - Le sorrise.
- Ci rivediamo presto? - Gli chiese speranzosa.
- A domani Beckett. - Le sorrise rientrando nel taxi.
- ‘Notte Castle…  - Rimase davanti al portone fino a quando il taxi non svoltò l’angolo.
Rientrata a casa fu tutto, di nuovo, più difficile. La stanchezza moltiplicò le emozioni e quel senso di oppressione appena fu sola tornò prepotente. Avrebbe voluto chiamarlo, chiedergli di tornare indietro, di non lasciarla sola ma sapeva che non era giusto farlo, non poteva pretendere di più, eppure già gli mancava. Prese il telefono per scriverglielo e trovò i messaggi di chi le faceva timidamente gli auguri per il compleanno. Si fermò a pensare a come aveva trattato in quei mesi i suoi amici e suo padre, quasi avessero avuto loro la colpa di quanto accaduto. Lesse tutti i messaggi con gli occhi lucidi, soprattutto quando arrivò a quello di suo padre: non lo aveva più visto né sentito da quella discussione di settimane prima. “Buon compleanno. Ti voglio bene. Papà”: semplice, essenziale, come lui. Lo avrebbe chiamato, nei giorni successivi, non in quel momento. Non ce l’avrebbe fatta anche a sostenere un confronto con lui. Aveva solo bisogno di dormire. Dormire e non pensare, uno di quei sonni ristoratori artificiali.
Quando si svegliò la mattina dopo temette che fosse stato tutto solo un sogno. Probabilmente la sera prima aveva esagerato con le gocce perché quando si svegliò era già molto tardi per i suoi standard, anche per quelli della sua nuova vita ed il telefono aveva squillato più volte senza averlo sentito. Lanie, Amanda che probabilmente si chiedeva perché non si fosse fatta vedere al night e soprattutto Castle. Fu l’unico che richiamò perché era l’unico che voleva sentire.
- Ehy Beckett! Mi stavi facendo preoccupare, stavo quasi per venire da te. - Le disse con tono allegro ma non nascondendo una certa reale preoccupazione.
- Ehm sì… io… stavo dormendo. Scusa se non ti ho risposto.
- No, no… scusa tu se ti ho disturbato… ma ecco… non dormi mai fino a quest’ora…
- Già… ma… sai… quelle cose che prendo, mi fanno dormire di più del solito. - Non era una conversazione che voleva fare per telefono, quindi cercò subito di cambiare argomento. - Però, se vuoi, puoi venire anche se non sei più preoccupato.
- Ti passo a prendere per pranzo, va bene?
Le andò bene, anzi era anche troppo tardi per i suoi gusti. Quella era diventata nei giorni seguenti la loro routine, Pranzavano insieme ed ogni giorno andavano in qualche posto diverso. Sempre in giro, nonostante il clima impietoso in quel finire di novembre, però Rick sembrava volerla trascinare sempre in mezzo alla gente, voleva evitare di stare con lei, da soli, in qualche posto molto più confortevole e comodo dove poter parlare con calma. Kate non capiva se lo faceva per lei, per spronarla ad uscire o per se stesso ed evitare che tra loro si creasse una certa intimità. Erano magnetici, lo aveva sentito più volte, quando per vari motivi finivano per essere troppo vicini. Quando l’aveva abbracciata in una panchina a Central Park, quando erano in un ascensore troppo affollato e lei era praticamente appicciata a lui, quando aveva pianto sulla sua spalla, una delle tante volte che avevano affrontato quell’unico discorso in modo più specifico. Ne parlavano poco, però, e a piccole dosi e poi stavano spesso in silenzio, dandosi il tempo di metabolizzare tutto. Kate si stupì nello scoprire ogni giorno come anche Rick era in difficoltà, come lei, nel trattare alcuni aspetti di quella vicenda, come i loro dolori fossero molto più simili di quanto lei avesse mai immaginato. 
Ogni giorno in quella settimana era stato uguale, ma per Kate era stata uguale soprattutto ogni sera, quando tornava a casa ed era di nuovo sola, quando lo salutava sotto il portone, tenendo la sua mano sempre un po’ di più, rimanendo nel suo abbraccio sempre più a lungo, sperando ogni sera che le chiedesse se poteva salire con lei ed invece si limitava con i suoi “a domani” e lo aveva sempre mantenuto, c’era stato ogni “domani”. Poi veniva la notte, di incubi e risvegli improvvisi, di ansia e panico, di dolore pianti ed allora ricorreva di nuovo a quel sonno artificiale che le faceva dimenticare tutto e le regalava qualche ora di oblio.

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Capitolo 41
*** QUARANTUNO ***


Castle era stato più volte sul punto di fermarla quando rientrava a casa. La riaccompagnava sempre in taxi e chiedeva al tassista di aspettarlo, mentalmente si diceva che era un modo per obbligarsi ad andare via. Ogni giorno era più difficile, ma lui non voleva diventare la persona di cui lei aveva bisogno. Era terrorizzato da questo. Era terrorizzato dall’idea che se lei non avesse più avuto bisogno di lui, si sarebbe di nuovo allontanata. Stava vivendo in una situazione assurda perché aveva capito che lei aveva bisogno della sua presenza per stare meglio, ma non voleva che stesse meglio solo in funzione sua. Lui non era bravo in questo, non era il tipo che limitava gli slanci, lui si assecondava ed invece con lei si ritrovava a tarparsi le ali in ogni momento e in più di un’occasione si chiese se stesse facendo bene.

Lasciata Kate una di quelle sere era tornato a parlare con il suo psicologo, quello che lo aveva già aiutato nei momenti successivi alla perdita del bambino, e per lui anche di Kate, ad accettare quella situazione e gli aveva raccontato cosa stava accadendo. Il dottore evitò di dargli troppi pareri, si limitò come sempre a fargli molte domande a cui lui doveva cercare una risposta. Era sicuro che stesse andando così con i piedi di piombo per Kate e non per se stesso? Era veramente lei quella che voleva? Quanta paura aveva di quella situazione? Cosa avrebbe fatto se Kate avesse veramente voluto ricominciare con lui? Tutte domande che martellavano in testa a Castle che aveva risposte che gli sembravano difficili o paradossalmente troppo banali e lui era in mezzo a queste due percezioni, sballottato da una all’altra. Alla fine la cosa alla quale provò ad aggrapparsi fu la frase che lo psicologo gli disse prima di salutarlo “Non commetta l’errore opposto, non faccia troppi calcoli e segua di più i suoi desideri.”. Ci aveva pensato molto, tornando a casa che ormai era già notte, stava rischiando di fare come aveva fatto lei, facendo vincere la paura di farsi male ed evitando quello che lo faceva stare bene. Piccoli passi, si era detto, ma lui sembrava rifiutare di camminare, fin troppo premuroso che fosse lei a non farsi male, quando invece la paura era la sua.

 

- Domani è il Ringraziamento Richard, cosa pensi di fare? - Martha lo aveva accolto così a casa, con una domanda che sembrava quasi un’intimidazione.

- Il solito, no? - Rispose distrattamente.

- E Katherine? Il Ringraziamento si passa in famiglia, lei ne fa parte? - Non stava cercando molti giri di parole, volutamente. 

- Sì, certo. Anzi, dovrei chiamare anche Jim… - Era forse quella l’occasione che stava aspettando, quel passo in più da fare, insieme.

- Pensi le faccia bene papà? Non credi che possa pensare… - Gli chiese Alexis pensierosa che aveva ascoltato in silenzio fino a quel momento.

- Sì, ci penserà, come ci penserò io, tu, la nonna e chiunque altro. Ma se non affronta queste cose non tornerà mai alla normalità. - Sembrava convinto di quello che diceva, se ne stava convincendo man mano che parlava, come se quell’idea improvvisamente avesse preso possesso della sua mente e gli sembrasse come la cosa più giusta.

- Ne sei sicuro Richard? - Chiese Martha ora meno convinta della sua proposta.

- Non lo so mamma, ma non ho una formula magica. Io voglio far sentire a Beckett che ci sono tante persone che le vogliono bene e che non è sola come pensa. Non credo ci sia un’occasione migliore.

Chiamò subito Jim: si erano sentiti qualche volta in quella settimana, lui gli aveva raccontato del suo nuovo rapporto con Kate e Jim si era mostrato molto felice, convinto anche lui che Rick rappresentasse l’unico con la chiave giusta per far aprire Beckett. Mostrò, però, qualche riserva su quella proposta, convinto che fosse troppo presto, ma Castle era sempre più convinto che era il momento giusto per forzare un po’ la mano su di lei, perché era giusto affrontare tutti i fantasmi del passato, anche quello.

 

 

Quel giorno del Ringraziamento era freddo e pioveva. A New York era tutto chiuso e di certo non potevano pensare di andare in giro come loro solito. Rick aveva raggiunto Kate a casa sua, prima del solito, meravigliandosi di trovare nel suo frigo qualcosa di commestibile per preparare il pranzo, non c’era molto a dire la verità, ma la cosa migliore fu vederla felice di preparare insieme qualcosa che sembrava più una colazione sostanziosa che un pranzo vero e proprio: il profumo delle uova con il bacon e dei tost al formaggio aveva messo ad entrambi appetito e Castle osservò curioso quegli spinaci con i funghi che Beckett aveva preparato mentre lui si dedicava a cosa più gustose e meno salutari.

Mentre mangiavano Rick si stava rendendo conto sempre più come fossero maggiori i momenti nei quali allontanavano i problemi facendo finta che non esistessero di quelli nei quali li affrontavano. Per non andare allo scontro, avevano finito per rimandare, procrastinare, per non ferirsi, si diceva, in realtà sembrava che volessero per lo più far finta che nulla fosse mai accaduto e si scoprì starci comodo anche lui in quei panni. Aspettavano che accadesse qualcosa che inevitabilmente portasse alla luce qualche zona oscura in Kate era difficile prendere di petto l’argomento e decidere di affrontarlo, sapendo di mettere fine a quei momenti di quiete dei quali sembravano aver bisogno entrambi. 

- Vieni a cena da me questa sera? - Le chiese Rick quando avevano finito di mangiare.

- Non credo che ci sia nulla da festeggiare per me. E poi di solito è una festa da passare in famiglia

- Per questo voglio che tu ci sia. A Martha ed Alexis farà piacere rivederti e a me farà piacere passare la serata con te. Non festeggeremo nulla. Sarà una cena tranquilla, un momento per stare insieme. Tutto qua.

- Castle, perché ho la sensazione che il tuo concetto di cena tranquilla applicata ad una festività non sia quello che ho in mente io? - Osservò dubbiosa e quasi divertita.

- Perché mi conosci. E comunque se sono qui, non posso essere io ad occuparmi della cena. Lo sta facendo mia madre, il che non vuol dire assoluta garanzia sulla qualità del tacchino, a meno che non andiamo prima al loft e ci assicuriamo che quel povero pennuto non sia morto invano e non continui a soffrire.

- Se ne occupa Martha uh? Allora immagino che oltre che tranquilla sarà pure sobria.

- Come sei difficile Beckett! Non possiamo certo impedire a mia madre di sfogare in qualche modo il suo senso artistico, ma spero che non si ricordi di quell’assurdo servizio di piatti comprato l’anno scorso che ho dimenticato di buttare! 

- A cosa mi devo preparare?

- Una cosa brutta. Credimi Beckett, orribile - disse accentuando con un’espressione di vero disgusto le sue parole - Non solo piatti, ma anche vassoi e tazzine il tutto con un orribile motivo floreale ed un tacchino disegnato al centro ed altre bruttissime cose che vorrei dimenticare.

- Sono sempre in tempo a rifiutare, vero? - Chiese lei che si immaginava la tavola apparecchiata con quei piatti descritti da Castle e capiva perché fosse tanto disgustato all’idea.

- No, mi dispiace. Dovrai condividere la vista di quei piatti orrendi con me ed Alexis.

 

Aveva accettato di buon grado di andare da loro, si era ritrovata ad accettare coinvolta in quella descrizione degli orrendi piatti che ora era curiosa di vedere. Fu accolta con affetto e cortesia da Martha e Alexis, come una cara amica che non si vede da tempo, che è stata fuori per lavoro o qualcosa del genere. Ma non ci furono domande impertinenti, accenni a cosa fosse accaduto in quei mesi. Fu subito catapultata dalle due rosse in quell’ambiente familiare al quale si era strappata via, trattandola come se quello strappo in realtà non ci fosse mai stato. Non avevano bisogno di chiederle nulla, né di ricevere spiegazioni che avrebbero inevitabilmente comportato altri discorsi che loro non volevano prendere. Così mentre Rick era alle prese con il “povero pennuto”, Alexis preparava l’insalata di patate dolci a lei venne dato il compito di preparare il Chutney di mirtilli. Fu proprio in quel momento che Martha tirò fuori da un anfratto della cucina i temuti piatti del Ringraziamento e Kate, dopo aver osservato le facce schifate di Castle padre e figlia, non potè che unirsi a loro, perché erano decisamente orrendi e kitsch, anche per gli standard di Martha che invece sembrava andarne molto orgogliosa e nessuno disse nulla mentre già decideva di apparecchiare.

- Aspetti qualcun altro? - Chiese Kate a Rick notando la tavola apparecchiata per cinque. Alexis si defilò andando ad aiutare la nonna e lasciandoli parlare da soli.

- Ho invitato anche tuo padre.

- Quando?

- Ieri sera.

- Cosa aspettavi a dirmelo, che me lo trovassi davanti? - Chiese indispettita.

- So che ti fa piacere vederlo, anche se non lo vuoi ammettere. Lui non è arrabbiato con te, Kate. È felice di sapere che stai meglio.

- Cosa fai, ci parli? Sei il mio medico che lo aggiorni del mio stato di salute? - Si era subito irrigidita, ma Rick non aveva nessuna voglia di compatirla. Martha invitò con ampi gesti Alexis a seguirla al piano di sopra, ma rimase vicino alle scale perché non voleva perdersi una parola di quello che stava accadendo.

- Sì, perché è tuo padre e si preoccupa per te. Come tutte le persone che ti vogliono bene e che tu escludi dalla tua vita.

- Non sarei dovuta venire qui. È stato stupido. - Disse pulendosi le mani su uno strofinaccio e buttandolo sul mobile.

- Giusto, non dovevi venire. Non dovevi nemmeno accettare di uscire da quel locale con me, allora. O di vederci tutti questi giorni e tutto il resto. Vai Kate, vai. Torna a ballare su un tavolo, se ti fa stare meglio.

- Sei ingiusto Castle…

- No, tu sei ingiusta. Sei ingiusta perché non permetti alle persone che ti vogliono bene di starti vicino, perché non accetti che chi ti ama possa farlo a prescindere da quello che fai, perché nessuno ti giudica, sei tu che lo fai e sei inclemente con te stessa. Perché non vuoi incontrare Jim? Hai paura che ti rinfacci quello che gli hai detto? O hai paura che sarai tu stessa a farlo quando lo vedrai, perché ti sentirai in colpa per averlo fatto? Lo tieni lontano per lo stesso motivo per cui hai tenuto lontano me, non per paura del suo o del mio giudizio, ma del tuo nei nostri confronti. Smettila di giudicarti e di accusarti. Smettila di isolarti dalle persone che ti amano. Smettila di autocommiserarti. Smettila Beckett! Smettila! - Rick aveva gridato più di quanto volesse e solo quando ebbe finito cercò con lo sguardo sua madre e sua figlia accorgendosi che non c’erano.

- È tutta colpa mia Castle. È tutta colpa mia quello che è successo. Ed è colpa mia se riesco solo a far male alle persone che ho vicino. A te, a mio padre… Ho rovinato questo pomeriggio anche alla tua famiglia…

- Di cosa è colpa tua Kate? Cosa stai dicendo?

- Del bambino Castle! Del bambino e di tutto il resto! È colpa mia! Perché tutto è cominciato quel giorno, perché se ti avessi ascoltato sarebbe stato diverso, se quando mi hai detto di lasciar perdere perché in questa storia morivano tutti ti avessi dato ascolto non sarebbe morto Roy e nemmeno… - Non finì la frase perché le lacrime e i singhiozzi furono più forti di lei. Castle perse tutta la sua determinazione ad essere duro che aveva avuto fino a quel momento e l’abbracciò.

- Tu non hai colpa di niente, Kate. Di nulla. Roy ha fatto le sue scelte. Non potevi fare nulla per il bambino, non darti colpe che non hai. Il dottore te lo ha detto, aveva superato bene il trauma, stava bene. È stata una cosa che non si poteva prevedere, per la quale nessuno avrebbe potuto fare nulla. Anche io mi sono sentito in colpa, sai? Non hai idea di quante volte mi sono detto che se fossi stato con te, a casa, magari le cose potevano andare diversamente. Sono tornato dal tuo medico perché dovevo togliermi questo tarlo che mi stava consumando e lui mi ha detto che quando è successo non ce ne siamo nemmeno accorti, perché forse era già accaduto da qualche giorno, non può dirlo nessuno. Non è colpa tua Kate ed io non l’ho mai pensato, né lo ha mai pensato nessuno.

La scostò dal suo petto per guardarla negli occhi: erano rossi dal pianto e pieni di dolore, tutto quel dolore che non riusciva ancora a tirare fuori insieme a quei dubbi che non riusciva a fugare, a quelle nubi che coprivano i suoi pensieri di presagi funesti.

- Beckett, io quel giorno ti ho detto che non volevo che buttassi via la tua vita e credimi, non lo voglio nemmeno ora e lo stai facendo, anche se in modo diverso. Te lo dico ancora, pensa alle persone che ti amano e tra quelle persone, mettici anche me stavolta se pensi che ti possa aiutare.

Le accarezzò il volto e poi senza darle modo di rispondere né di allontanarsi si avvicinò alle sue labbra. Fu come ritrovarsi dopo essersi persi, una fonte d’acqua nel deserto ed il mondo che tornava a girare nella giusta direzione mentre la baciava accarezzando la sua bocca con estrema dolcezza facendola tremare nel ricambiare il gesto. Poi Kate tornò a rifugiarsi in lui, sul suo petto, tra le sue braccia, un porto sicuro per la sua barca troppo fragile per prendere il largo da sola. Sentì in quel momento altre braccia stringerla e altra mani accarezzarla tra i capelli. Martha e Alexis erano scese e ora quella famiglia che aveva allontanato in tutti i modi la teneva tutta stretta, proteggendola da se stessa prima che da ogni altro nemico. Castle guardò sua madre e sua figlia commosso, sussurrando un impercettibile “grazie” muovendo solo le labbra.

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Capitolo 42
*** QUARANTADUE ***


- Ragazzi, qui c’è ancora molto da fare per la cena! - Martha si asciugò una lacrima senza farsi vedere e cominciò muoversi per la cucina per tenersi occupata. Aveva ricevuto anche lei una grande botta emotiva da quella situazione. Alexis la seguì e le due rosse tornarono a preparare come se nulla fosse, mentre Kate stava ancora cercando di riprendersi da quel momento che le aveva tolto il fiato, abbracciata a Rick con la testa appoggiata sulla sua, cercava anche lui di superare l’emozione di quell’abbraccio familiare.

- Se volete ci pensiamo io e la nonna a finire di preparare. - Propose Alexis, ma immediatamente i due si sciolsero e raggiunsero nonna e nipote per completare il menu della cena. Era divertente, dopo tutto, trovarsi insieme a preparare una cena così. Ripensò all’ultima volta che aveva aiutato a preparare, senza troppa voglia a dir la verità, il pranzo per il giorno del ringraziamento con sua madre, l’ultimo anno di college, perché per il loro ultimo ringraziamento lei era arrivata da Stanford all’ultimo momento ed aveva già trovato tutto pronto. Non pensava all’epoca che avrebbe rimpianto quei momenti e che avrebbe dovuto aspettare quindici anni per rivivere una sensazione simile di calore, affetto e complicità. Si divertì ad assistere insieme ad Alexis ai battibecchi tra Rick e sua madre, due prime donne che volevano primeggiare, anche tra i fornelli, scambiando battute con la figlia di Castle che i due non sentirono troppo occupati a punzecchiarsi tra loro e quando a Rick preso dalla discussioni con Martha, per frullare la crema di zucca si dimenticò di mettere il tappo al frullatore nonostante lei e Alexis stavano cercando di ricordarglielo in tutti i modi, Kate scoppiò in una vera, autentica, risata nel vederlo tutto sporco di schizzi arancioni dai capelli alla camicia. La cucina sembrava un campo di battaglia, Castle era pieno di crema di zucca, una parte che lui descriveva come “fondamentale” della sua ricetta era sparsa per la casa, ma nel sentire il loft pieno della risata di Kate lo stava rendendo più felice di qualsiasi altra cosa. La guardava ed aveva gli occhi che erano tornati a splendere, insieme al suo sorriso per una volta non tirato, ma rilassato. Le si avvicinò e lei con un dito tolse un po’ della crema che aveva su una guancia e poi se lo leccò.

- È un peccato Castle, era buona. - Gli disse beffarda.

- Se vuoi quella che ho addosso puoi mangiarla tutta. - Rispose lui stando al gioco mentre Alexis fece una faccia disgustata.

- Faccio finta di non aver sentito nulla papà! - Esclamò la ragazza facendo di nuovo ridere tutti.

- Richard, sarà meglio che ti vai a cambiare mentre io pulisco i resti della tua sbadataggine! - Lo rimproverò Martha. 

- Martha ti aiuto! - Si propose Kate che fu subito stoppata dalla donna.

- Meglio se controlli che quello sbadato di mio figlio non faccia danni anche a scegliere una camicia pulita, non si sa mai! - Accompagnò la sua frase con un occhiolino che fece diventare rossi entrambi.

 

Beckett seguì Castle, un po’ titubante nella sua camera, ma ancora con il sorriso sulle labbra. Rick andò in bagno per sciacquarsi la faccia e pulirsi anche il suo amato ciuffo dai residui di zucca. Lasciò la porta aperta e Kate per un po’ lo osservò e poi si guardò intorno stupita da quanto di lui trovasse in ogni oggetto, nei quadri alle pareti, nella scelta dei mobili. Se avesse dovuto immaginare la sua camera, sarebbe stata proprio così. La sorprese alle spalle e rabbrividì quando la strinse da dietro, osando di più, appoggiando le labbra sul collo per un veloce bacio. Kate si voltò, trovandolo a torso nudo e lei era lì, tra le sue braccia, con un crescente imbarazzo ed una strana sensazione che la faceva stare bene. Appoggiò la punta delle dita sul suo petto ampio, tracciando segni invisibili su di lui, che la guardava silenzioso e molto serio mentre le cingeva i fianchi. Avrebbe voluto il teletrasporto, per andare via da lì e portarla in un posto qualsiasi dove ci fossero solo loro due. Ma forse era giusto così, avrebbe solo affrettato le cose, avrebbe rovinato tutto solo perché non c’era niente che avrebbe voluto di più in quel momento che stare con lei. Rick chiuse gli occhi quando Kate fece risalire le mani dal suo petto fino al collo e poi dietro la nuca, avvicinandolo a se. Castle sapeva già quale sarebbe stato il seguito, sapeva che avrebbe presto incontrato le sue labbra e che ne sarebbe nato un bacio e sorrise quando alla fine lei prima di separarsi morse dolcemente il suo labbro inferiore ed aprì gli occhi in tempo per vederla sorridere ancora e per voler baciare di nuovo il suo sorriso.

- Penso che tua madre si chiederà quanto ci metti a scegliere una camicia. - Gli sussurrò Kate

- Penso che mia madre sia felice se ci metto tanto tempo. - Ammiccò lui.

- Quindi, volendo ho tempo per un altro… - Non la fece finire che la stava baciando lui di nuovo.

- Anche per due, Beckett… - Le disse sulle sue labbra.

 

Rick aveva aperto la sua cabina armadio a Kate che lo aveva preso in giro per come avesse diviso i vestiti e le camice in base alle tonalità di colore. Scelse lei quale fargli indossare, una camicia bordeaux che si abbinava alla perfezione con i suoi pantaloni blu, molto meglio di quella azzurra che aveva scelto lui, che non lo valorizzava affatto, ci tenne a sottolineare Kate. Ne era nato un battibecco sul fatto che lui non avesse bisogno di essere valorizzato per tutta una serie di motivi che lei non aveva voluto sentire e mise subito fino ad suo elenco con un altro bacio, così che le sue labbra fosse state occupate in qualcosa di più gratificante, per entrambi, e poi lo trascinò di nuovo verso la cucina dove Martha ed Alexis li aspettavano sorridenti.

- Eri veramente molto sporco Richard! Oppure non ricordavi dove tenevi i vestiti? - Gli chiese Martha maliziosamente.

- Io e Beckett non eravamo d’accordo su quale colore si abbinasse meglio con i miei pantaloni. - Rispose sbrigativo ed imbarazzato.

- Oh certo, sarà stato uno scontro molto duro per scegliere la giusta tonalità del rosso che si abbinasse bene con quello delle tue guance figliolo! - Esclamò Martha mentre controllava la cottura del tacchino.

Rick rimase con la bocca aperta e guardando Kate notò che lei non doveva essere meno rossa di lui. Il campanello li salvò entrambi da nuove frecciatine di Martha. Jim era arrivato portando con se una grande scatola di latta che Rick gli prese dalle mani per lasciarlo libero di salutate come si deve sua figlia. Furono entrambi imbarazzati a ritrovarsi in un abbraccio che chiarì molte cose senza bisogno di troppe parole.

- Scusami papà, mi dispiace. - Gli sussurrò Kate, non abbastanza piano da evitare che Rick la sentisse.

- Non c’è nulla di cui scusarsi Katie, io altrimenti dovrei ancora farlo con te. - Jim non si era mi perdonato nel corso degli anni le sofferenze che aveva causato a sua figlia in un periodo già così delicato come la morte della madre. Annuirono entrambi, come al solito si erano capiti a modo loro, poi Kate andò a vedere cosa aveva portato e fu entusiasta di vedere quei dolcetti di zucca e crema al formaggio di cui andava golosissima quando era ragazzina.

- Papà sono anni che non li mangiavo!

- Sono anni che non li facevo più… - ammise lui malinconicamente.

- Spiegate anche a me? - Intervenne Castle curioso che voleva prenderne uno ma Alexis lo schiaffeggiò sulla mano guardandolo in modo truce e gli fece cambiare subito idea.

- Mamma diceva che questa era l’unica cosa che papà sapeva cucinare. - Spiegò Kate

- In realtà era l’unica cosa che lei si annoiava a preparare e quindi lasciava il compito a me, ma sapeva benissimo che cucinavo bene anche altre cose, ma voleva avere il controllo di tutto lei!

- Uhm… ecco allora da chi hai ripreso Beckett! - Le ammiccò Rick ricevendo come risposta una delle sue occhiata glaciali, di quelle capaci di farlo stare zitto all’istante. Era felice, però, si sentirla parlare così della madre con suo padre, era la prima volta che lo faceva, almeno in sua presenza. Martha arrivò con due calici di vino per offrirlo a Jim e Kate prima di cena, ma entrambi declinarono l’offerta della donna e prima che potesse fare domande o battute, suo figlio la fulminò con lo sguardo.

- Qualcuno vuole del sidro di mele analcolico? - Aveva già riempito un bicchiere porgendolo a Jim che ringraziò con uno sguardo cordiale e poi ne preparò altri due, uno per Kate e l’altro per sé.

 

Castle era seduto a capotavola e da una parte avevano preso  posto Martha ed Alexis, mentre dall’atra Kate e Jim, gli piaceva questa idea che queste due famiglie così strane che avevano sofferto dolori uguali e diversi allo stesso tempo fossero riunite in quella stanza e fossero vicino a lui. Rick ci tenne che fosse Jim a tagliare il tacchino e dovette vincere la sua resistenza che insisteva che fosse il padrone di casa a farlo, ma Castle fu irremovibile, dicendo che spettava a lui. Kate li guardò battibeccare bonariamente fino a quando Jim non cedette e tagliò il tacchino per tutti. Non ci mise molto a capire il perché Rick aveva fortemente voluto che fosse suo padre a farlo, facendosi da parte. Era il suo modo per dirle che la considerava a tutti gli effetti parte della famiglia. Kate gli prese la mano mentre osservava suo padre compiere quel gesto che gli aveva visto fare molte altre volte, solo che in quell’occasione non c’era sua madre, come sempre, vicino a lui a porgergli i piatti, ma Martha in un altro piccolo segno di quell’unione che Rick aveva voluto celebrare quel giorno. Stavano tutti cominciando a mangiare quando Alexis non li interruppe.

- Papà, quest’anno niente discorso? - Fu preso in contropiede dalle parole della figlia, al contrario del solito non aveva preparato nulla ed aveva fortemente sperato che si dimenticassero di questa cosa. Non avrebbe voluto dire niente, avrebbe rischiato di essere troppo superficiale o di andare a toccare tasti che non voleva e in quel momento le parole che gli erano tanto care sembravano averlo abbandonato, perché la sua mente era vuota. Alexis si accorse subito che aveva parlato troppo in fretta, anche dallo sguardo stranamente severo che le riservò sua nonna e dagli occhi smarriti di suo padre che non sapeva cosa dire. Avrebbe potuto dire di no, ma aveva chiesto lui stesso di comportarsi normalmente, così lasciò le posate e si schiarì la voce cercando di prendere qualche istante ancora di tempo.

- Siamo qui, oggi, insieme, come un’unica famiglia: questa è la prima cosa da ringraziare di questo anno. Se torno indietro con la memoria istintivamente tutto va ai momenti più duri, quelli più difficili e dolorosi. - Rick fece una pausa e vide Kate stringere con forza il tovagliolo, quindi le prese la mano prima di continuare. - Sono dentro di noi, fanno ancora male, sono difficili da accettare, però ci sono altre cose da ringraziare. Vorrei ringraziare quel centimetro che ha permesso a Kate di essere qui, un centimetro può essere nulla, eppure per me è il centimetro più prezioso del mondo. Vorrei ringraziare voi, per avermi aiutato ognuno in modo diverso quando ne avevo più bisogno. 

Rick fece una breve pausa e guardò Kate, voleva dire ancora una cosa, ma non sapeva come avrebbe reagito, non voleva rovinare quel momento ma si sentiva in dovere di farlo, perché se quello era il giorno del Ringraziamento, lui ne aveva ancora uno da fare, forse il più importante, doloroso e sentito.

- Ma infine vorrei ringraziare chi con la sua breve presenza ha fatto qualcosa che per me ancora oggi è miracoloso: ha permesso a me e Kate di dirci quello che non ci saremmo mai detti, ha abbattuto muri e incomprensioni e ci ha fatto ammettere i nostri sentimenti, nonostante le paure. È anche per lui, se siamo qui oggi.

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Capitolo 43
*** QUARANTATRÉ ***


- Va tutto bene? - Rick appena finito di parlare si era voltato verso Kate che stringeva con forza la sua mano. 

- No…Scusatemi… - Spostò rumorosamente la sedia e si alzò. Cercò un punto dove andare per poter respirare e sfuggire a quella morsa che la stava attanagliando e si rifugiò senza sapere perché in camera di Castle.

 

- Mi dispiace papà… - Sussurrò Alexis sentendosi in colpa, immediatamente rassicurata da Rick e subito dopo anche da Jim che era sì preoccupato per quello che le parole di Castle avevano smosso nella figlia, ma percepiva vivo l’imbarazzo della ragazza seduta davanti a lui. Dal canto suo, Martha, osservava Rick guardare attonito il posto lasciato vuoto da Kate. Pensava di aver esagerato, di aver sopravvalutato la capacità reattiva di Kate oppure sottostimato la forza di quello che aveva detto. 

- Richard, va da lei… - Gli disse sua madre e lui annuendo la raggiunse.

Era appoggiata al muro nell’unico angolo della stanza dove non c’erano mobili ad impedirle un appiglio. Le braccia tese tremavano, la testa ripiegata verso il basso era scossa da singhiozzi silenziosi. Rick andò dietro di lei, con un braccio le cinse la vita, mentre con l’altro fece pressione sulle sue, per farle abbassare, per abbracciarla.

- Non devi cercare un muro per farti sorreggere se non ce la fai. Ci sono io. Ti tengo io.

Era proprio quello che stava facendo. La teneva su. In piedi a dispetto di quel dolore che quando si ripresentava così dirompete la investiva impedendole di avere la forza di dominarlo, non ne era ancora in grado. Aveva imparato ad allontanarlo, ma non a contenerlo quando si manifestava. Si lasciò condurre fino al bordo del letto, sedendosi vicino a Castle, cercando di ricomporsi e scacciando via le lacrime prima ancora che potesse farlo lui. 

- Kate… ho passato tante notti e tanti giorni a farmi domande, a cercare un perché. Perché era successo tutto questo, che senso aveva se poi era finito tutto così. Vedevo tutto come una punizione, per me e soprattutto per te. Una cosa che non meritavamo, nessuno dei due. Poi mi sono convinto che il suo compito era stato quello di farci trovare ed allora stavo ancora peggio, perché avevamo buttato via tutto ed era stato tutto inutile: tu perché mi avevi mandato via, io perché non ero stato abbastanza forte da farti capire che sarei rimasto con te in ogni caso. Da quando Lanie mi ha chiamato e mi ha chiesto di tornare, mi ero imposto che avrei dovuto procedere con cautela, non bruciare le tappe, evitare esattamente tutto quello che è successo oggi. Però Kate io non ce l’ho fatta. Ti amo. Ti amo anche più della paura che tu mi vuoi vicino solo perché hai bisogno di me. Più della paura che quando starai bene ti allontanerai.

- Pensi questo? Che il mio è solo bisogno perché sto male? Che quando starò bene non ti vorrò vicino a me? Io non so nemmeno se starò mai bene e fino a pochi giorni fa credevo che non sarebbe mai stato possibile niente altro che alienarmi dal mondo. Poi sei tornato tu… - Kate gli accarezzò il viso.

- Ci sono tante persone che ti vogliono bene Beckett. Tante, in modo diverso. Tre sono di là che ci aspettano, che sono felici che tu oggi sia qui, che vogliono vederti felice, che hanno sofferto con te, con noi, in modo diverso. Perché ti sei voluta privare di tutto questo? 

- Non pensavo di meritarlo e non sono convinta ancora.

- Lascia che siano gli altri a dire se lo meriti o no. Qui siamo tutti convinti di sì.

Le lasciò qualche istante per assimilare quello che si erano appena detti, come accadeva sempre. La vide annuire, più a se stessa che a lui, e poi si alzò Rick le prese la mano ed insieme tornarono dal resto della famiglia che li aspettava. 

 

- Va meglio ora, Katherine? - Chiese l’attrice premurosa appena lei riprese il suo posto a tavola.

- Sì, grazie Martha. - Sorrise imbarazzata.

- Bene, allora mangiamo che abbiamo il tacchino che ci aspetta! La crema di zucca purtroppo no perché Richard ha pensato bene di farla volare in cucina, però direi che le cose da mangiare non mancano! - E con un gesto eloquente indicò i vari vassoi con salse e contorni ordinatamente posti sulla tavola.

- Dovevi proprio ricordarlo, mamma? - Chiese Rick indispettito, ma lei scrollò le spalle passando a Jim la ciotola con l’insalata di patate.

Il resto della cena trascorse piacevolmente, senza altri scossoni emotivi. Martha e Jim raccontarono rispettivamente aneddoti che riguardavano i giorni del ringraziamento di quando Rick e Kate erano piccoli, soffermandosi su quei particolari che più imbarazzarono i due. Così Jim raccontò di quando la piccola Katie ogni volta che vedeva la zia Ruth si andava a nascondere dietro le gambe della madre e quando la zia provava a prenderla in braccio piangeva come una disperata, mentre Martha ricordò di un giorno del Ringraziamento, trascorso con i suoi colleghi della compagnia, quando Rick vomitò sulle scarpe del padrone di casa che li aveva invitati dicendo che il suo tacchino faceva schifo. Quella che si stava divertendo di più, però, era Alexis nel sentire certe storie così fu anche il turno di Castle di raccontare una delle misfatte della sua bambina e così venne fuori che la piccola Alexis, nell’ultimo giorno del Ringraziamento passato con Meredith a casa dai suoi, disse alla nonna che l’altra sua nonna era più bella e più simpatica. La giovane Castle si ammutolì diventando tutta rossa e fu il turno degli altri ridere questa volta, ma Martha andò subito in aiuto della nipote.

- Tesoro, questo dimostra solo una cosa, che già a tre anni eri decisamente intelligente e perspicace! Ma potevate raccontarmela prima questa cosa, mi sarei vantata molto di più con i miei amici se lo avessi saputo! - Come al solito riuscì a far tornare il sorriso a tutti e la serata finì solo dopo che Rick potè finalmente assaggiare i dolci portati da Jim, capendo perché a Kate piacevano tanto: erano squisiti con quel sapore di zenzero e cannella ed il dolce gusto della zucca che si sposava alla perfezione con la crema al formaggio alla vaniglia.

 

- Sarà meglio che io vada. Domani devo incontrare un cliente per una causa che dovrò discutere la prossima settimana… Katie, vuoi un passaggio? - Jim si alzò dal divano dove si erano spostati per concludere quella serata tra chiacchiere e ricordi.

- Sì, papà, grazie. - Fece anche lei per alzarsi ma Rick la trattenne.

- Non ti preoccupare Jim, riaccompagno io a casa Kate.

- Castle, non ti preoccupare, papà è di strada, non c’è bisogno che esci di nuovo… 

- Non è un problema, Kate.

Beckett stava per rispondergli, quando Jim prese la palla al balzo.

- Oh allora se ci pensi tu, io vado direttamente a casa. Grazie della bella serata Richard e grazie anche a te, Martha. Katie noi… ci sentiamo magari eh? Uno di questi giorni…

- Certo papà…

Martha poi accompagnò Jim alla porta lasciando Rick e Kate soli sul divano, visto che Alexis già da un po’ li aveva lasciati per andare a studiare per una verifica il giorno dopo.

- Beh ragazzi, allora anche io vado, le mie amiche mi stanno aspettando!

- Dove vai a quest’ora mamma? - Chiese Castle perplesso guardando l’orologio.

- A casa di Grace, ha organizzato una serata per anziane nostalgiche signore dedicata al poker e al buon vino. Non mi aspettare sveglio Richard!

 

- Veramente, Castle, poteva riaccompagnarmi a casa mio padre. - Gli disse ancora Kate una volta rimasti soli.

- Rimani. - La prese in contropiede, non si aspettava una richiesta del genere. Avrebbe voluto dirgli di no, che non se la sentiva, che non poteva, che non era pronta. - Non con me, non se non vuoi, se non te la senti. Sopra c’è la stanza dove eri già stata quando il tuo appartamento è esploso e… Mi farebbe piacere se rimanessi.

- La stanza di sopra andrà benissimo, grazie.

Rick le sorrise timidamente. Non poteva negare che avrebbe preferito averla con se anche quella notte, ma gli sembrava già una grande conquista averla convinta a rimanere al loft. Kate non sapeva di preciso perché avesse accettato: forse perché le piaceva l’idea di rimanere lì, con lui fino a tardi a parlare, come sicuramente avrebbero fatto, perché si sentiva a casa e protetta lì al loft o perché avrebbe voluto che quel giorno non finisse mai.

Andò esattamente come aveva pensato. Si era lasciata abbracciare sul divano ed avevano continuato a parlare di quella sera, ricordando altri aneddoti del passato: era incredibile come si conoscessero così bene senza sapere in realtà quasi nulla di quello che erano stati prima di conoscersi. Lo sentì passare con leggerezza sul non aver avuto un padre durante la sua crescita o per le feste, sorvolando il discorso con battute e risate senza mai soffermarsi, come faceva sempre quando c’era qualcosa che lo angosciava nelle pieghe più profonde della sua anima. Sorvolarono insieme quella sera su tutto quello che li affliggeva, pensando solo alle cose che li facevano stare bene, ai ricordi dolci, al profumo del tacchino di quando erano piccoli, alle dita nella salsa con i mirtilli, ai biscotti rubati quando gli adulti facevano finta di non vederli: avevano molti più punti in comune di quanti potevano immaginare.

A Rick sfuggì uno sbadiglio e Kate lo prese come il segnale di finire lì quella serata, che era ora di andare a dormire. Seguì Rick nella sua stanza mentre lui cercava una maglietta pulita da darle. Non ebbe il coraggio di dirgli che avrebbe preferito quella sulla sedia, quella che aveva il suo profumo, così come che sarebbe rimasta volentieri anche lì, con lui e guardò il letto con il comodino vuoto, lì dove avrebbe voluto sdraiarsi, vicino a lui.

- Trovata! - Le disse Castle porgendole una tshirt blu e ridestandola dai suoi pensieri. Non gli avrebbe detto nulla, non quella sera. Era meglio così. Si fece accompagnare fino alle scale per andare di sopra.

- Vuoi che ti accompagno? - Le chiese

- Credo di ricordare la strada e non credo che ci sia qualche pericolo mortale al piano superiore. - Scherzò Kate.

- Oh no, mia madre non è ancora tornata, nessun pericolo mortale! - Sorrise Rick.

- Allora, buona notte Castle.

- A domani Beckett.

Kate salì il primo scalino, ma Rick non lasciò la sua mano e quando si voltò trovò le labbra di Castle pronte a raccoglierle le sue. Fu un bacio diverso dagli altri che si erano dati quel giorno. Per un tempo indefinito si accarezzarono l’anima a fior di labbra, mentre lei teneva il suo volto stretto tra le mani per non farlo allontanare. Lo baciava con passione e struggente dolcezza, lo baciava per tutte le volte che non lo aveva fatto. Si appoggiò poi con la testa sulla sua spalla, come per riprendere fiato dopo quello scambio di vita tra loro. Non lo voleva lasciare, ma sapeva che doveva farlo, per quella sera. Perché non poteva stare con lui. Non in quel momento, non ancora.

- ‘Notte Castle… - Gli disse ancora salendo velocemente le scale senza che lui potesse fermarla ancora.

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Capitolo 44
*** QUARANTAQUATTRO ***


Kate aveva ancora il sapore di Rick sulle labbra quando si chiuse dentro la sua stanza. La prima sulla destra, finite le scale, la conosceva bene, davanti alla sua c’era quella di Martha, ancora vuota mentre vicino si trovava Alexis. La figlia di Castle doveva dormire già perché non aveva visto nessun tipo di luce filtrare da sotto la porta: si stupiva ancora di quanto quella ragazza fosse scrupolosa e coscienziosa, così concentrata nello studio in quello che sarebbe stato il suo ultimo anno al College, sicuramente in pochi avrebbero pensato che una ragazza così potesse essere la figlia di Castle, ma, per quel poco che l’aveva conosciuta, poteva dire sicuramente che non aveva preso della madre. Nonostante tutto lei invece riusciva a vedere in Alexis alcuni aspetti di Rick che lui teneva nascosti e che magari non aveva applicato allo studio: la costanza, la perseveranza, l’impegnarsi a fondo per raggiungere un obiettivo, la generosità erano tutte doti che Alexis aveva sicuramente ripreso da lui ed era stato per tenere a bada la sua esuberanza che sicuramente aveva sviluppato quel lato del suo carattere più riflessivo e concreto.

L’arredamento in quella stanza era rimasto identico da quando era stata lì un paio di anni prima, con i mobili dai colori tenui che erano in contrasto con l’arredamento più scuro e deciso del resto del loft. Era da sempre stata convinta che quella nelle idee dell’architetto doveva essere destinata a diventare la camera padronale, per le sue dimensioni ed il grande bagno annesso. Le lampade di pregiato vetro soffiato sui comodini, con lo stesso design della lampada da terra tra le due poltrone in fondo alla stanza, davano un tocco di eleganza in più all’ambiente che tutto sembrava tranne che una stanza per gli ospiti da usare di tanto in tanto. L’unica cosa che proprio non piaceva a Kate era la parete a specchio che nascondeva la cabina armadio, non grande come quella di Castle ma comunque di dimensioni più che ragguardevoli. Non le piaceva guardarsi allo specchio, almeno non più da quando si era operata ed il suo corpo era rimasto secondo lei orrendamente sfigurato. Detestava la vista delle sue cicatrici che in ogni momento servivano solo a ricordarle quanto era accaduto quel giorno e da allora gli specchi erano diventati un suo nemico silenzioso, che riflettevano solo l’immagine di se che non voleva mai vedere.

 

 

Si spogliò ed indossò la maglia di Rick al buio, dando le spalle al grande specchio per evitare di vedere anche solo il suo riflesso. E fu quando si mise a letto che sentì l’ansia impossessarsi di lei. Quando nella stanza al buio l’aria cominciò a diventare troppo pesante per respirare bene. Aprì la finestra e respirò l’aria gelida della notta della città. Era una notte tranquilla, con pochi rumori e poche macchine che passavano. Quella notte le persone stavano a casa, con la propria famiglia, con le persone che amavano, come lei, in fondo. Ma quel peso addosso, pensò, era solo suo. Voleva pentirsi di aver accettato di rimanere, non era preparata, non si era portata nulla, soprattutto le sue gocce che le permettevano di calmarsi e dormire. Voleva pentirsi ma non ci riusciva, perché lei voleva tremendamente essere lì, anzi avrebbe ancora di più voluto essere la piano inferiore, con Castle, ma era furiosa con se stessa per come stava e quello era uno dei motivi per il quale non aveva voluto e potuto passare la notte con lui. Non voleva che la vedesse così, che si rendesse conto di quanto aveva bisogno delle sue medicine, che non era vero come gli aveva detto che stava smettendo di prenderle. Provò a calmarsi un po’ e quando cominciò a battere i denti per l’aria gelida, chiuse la finestra e tornò a letto. Si mise in un angolo, rannicchiata, ferma, cercando di prendere un sonno che non arrivava. Sentì Martha ritornare piuttosto allegra, canticchiando e ridacchiando tra sé e sé mentre andava in camera e dopo un’attesa ancora lunga, cedette alla stanchezza.

Dormì un tempo che le sembrò estremamente lungo e solo dopo si accorse, invece che era stato solo di qualche minuto, un tempo però sufficiente perché tutti i suoi peggiori incubi la tormentassero, perché rivivesse il dolore dello sparo, la paura di quel giorno e poi quel sangue che si mischiò ad altro ed il terrore e l’angoscia di quando aveva perso il suo bambino. Si voltò di scatto, sudata come se avesse combattuto chissà quale battaglia. Urlò e si dimenò contro nemici invisibili, urtò con un braccio la lampada sul suo comodino che si ruppe in mille pezzi ed il rumore del vetro infranto moltiplicò la sua paura. Si tirò con forza il collo della maglietta che le sembrava la stesse strozzando anche se le era tremendamente larga. Si sentì braccata e al buio barcollò fino ad un angolo della stanza, rannicchiata, impaurita, indifesa contro quel nemico invisibile che sentiva la stava incalzando in maniera imminente. Il terrore la paralizzò e non riuscì a dire nulla nemmeno quando Alexis bussò alla sua porta, chiamandola e chiedendole di aprirle. Quel rumore, quel battito sulla porta non faceva che peggiorare le cose, avrebbe voluto dirle di smettere, di lasciarla stare ma non ci riuscì, si mise le mani sulle orecchie stringendo forte per non sentire nulla e fu grata quando il rumore si placò e non sentì più nulla. Solo pochi minuti, poi il bussare era diventato più vigoroso ed insistente e lei stringeva ancora con più forte le mani contro la sua testa.

- Kate… sono io… aprimi. - Era Castle, ma non riuscì a dirgli nulla e lui continuò a bussare e lei a scivolare sempre più indietro o almeno così voleva, perché il muro la bloccava.

- Kate… - Sentì la porta fare click - … Kate, sto entrando ok?

Quando accese la luce le sembrò di avere un faro puntato sul voltò, scatto ancora a nascondersi il volto tra le mani, mentre lui abbassò l’intensità della luce e chiuse la porta e prima di avanzare verso di lei con cautela per evitare i pezzi di vetro sul pavimento.

- Kate… Cosa succede? Sono io, non voglio farti del male, lo sai. Io non ti farei mai del male… 

Si accucciò vicino a lei e la abbracciò incerto se fosse o meno la cosa giusta da farsi, temendo un rifiuto o peggio che si agitasse di più. Invece sembrò rilassarsi a contatto con la sua pelle e la strinse di più accompagnando l’abbraccio con piccoli baci tra i capelli. La sentì abbandonarsi a lui e cominciare a respirare con più calma.

- Va tutto bene Kate… qualunque cosa sia, va tutto bene.

- Perdonami Castle io…

- Non devi farti perdonare niente.

Rick si accorse solo in quel momento che doveva essersi ferita con un vetro sul braccio, perché una lunga scia di sangue correva dal polso fino al gomito, non sembrava nulla di grave ed attese a terra abbracciato a lei, che se la sentisse di rialzarsi. 

Quando Kate vide la mano di Rick sporca del suo sangue si agitò di nuovo, ma lui fu più fermo di lei questa volta e la guardò negli occhi mostrandole il suo stesso braccio.

- È solo un graffio Kate. Non è nulla.

Si sedette sul letto dal lato opposto rispetto a dove si era messa prima ed attese che lui tornasse dal bagno con qualcosa che poteva sembrare come una cassetta del pronto soccorso. Il taglio era solo superficiale, Rick lo disinfettò accertandosi che non ci fossero schegge di vetro e le mise una garza che fermò con del nastro.

- Puoi aspettarmi solo un attimo? Vado a tranquillizzare Alexis che va tutto bene e torno subito.

Kate annuì senza dire nulla. Insieme a tutto il resto si aggiunse anche il senso di colpa per aver creato tuto quel caos e spaventato Alexis. Rick fu di parola, tornò dopo pochi minuti e si sedette vicino a lei.

- Mi hai sentito da giù? - Chiese vergognandosi di se stessa.

- Veramente no, ho il sonno piuttosto pesante. Mi ha chiamato Alexis.

- Mi dispiace di averla spaventata… - Ammise chinando la testa.

- Le ho detto che stai bene, si era preoccupata che tu potessi esserti sentita male. Ora è tranquilla. - Provò a rassicurare anche lei. - Che è successo Kate? Ti va di parlarne?

Le scostò i capelli dal volto e si accorse di quanto doveva avere sudato. Ora però era fredda, quasi gelida. Beckett seguì il movimento della mano di Castle chiudendo gli occhi, beandosi di quel contatto.

- Io… non riuscivo a dormire e poi… i soliti incubi…

- I soliti? - Chiese Rick preoccupato.

- Sì. Tutte le notti o quasi è così. Solo quando prendo le gocce tranquillanti riesco a non farne, a dormire senza sognare ogni notte le stesse cose. Poi mi sono agitata e il rumore del vetro… lo psicologo della polizia diceva che sono crisi di panico, disturbo post traumatico.

- Perché non mi hai detto nulla? Delle medicine per dormire e… di tutto il resto? - Le domandò aggrottando la fronte.

- Non volevo che pensassi che fossi pazza e pensavo che prima o poi sarebbero passate…

Kate lo accarezzò sul viso, proprio dove aveva formato quelle rughe per l’espressione seria che aveva assunto e quando scese sul collo e sul suo petto, si rese conto solo in quel momento che Rick era a torso nudo, probabilmente aveva solo indossato i primi pantaloni della tuta che aveva trovato per venire su subito. Indugiò ad accarezzare il suo torace e poi si appoggiò con la testa nell’incavo del suo collo cercando sollievo.

- Tu non sei pazza Kate, non potrei mai pensarlo.

- Per questo non volevo dormire, per questo cercavo di stordirmi il più possibile e di stancarmi da essere esausta. Volevo solo che tutto questo sparisse, che non mi tormentasse più.

Rick la fece sdraiare e dopo essersi tolto la tuta si sdraiò al suo fianco. Ora la sentiva tremare ma per il freddo. Coprì entrambi con il piumone ed abbassò ancora di più la luce, fino a che l’oscurità non fu quasi totale. La sentì rannicchiarsi al suo corpo ed appoggiare la testa sul suo torace, mentre teneva una mano proprio sopra il suo cuore.

- Non voglio dormire, Rick… Non vorrei dormire mai.

- Non dormire, allora, chiudi solo gli occhi e rilassati. - Le disse tenendo la sua mano mentre con l’altra le accarezzava la schiena.

- Mi dispiace per la lampada, Castle… - disse lei con le labbra che lambivano la sua pelle.

- È solo una lampada Kate, non ha nessuna importanza. - Ridacchiò lui divertito che in quella situazione lei pensasse ad una stupida lampada. - Sai, anche io ho avuto gli incubi, per molto tempo e spesso li ho ancora.

- Quali incubi hai Castle?

- Che non arrivo in tempo. Al cimitero e nel tuo appartamento. E ti perdo, per sempre… Non voglio perderti Kate…

Lei si strinse ancora di più a lui, se era possibile. Fece come le aveva detto Rick, chiuse gli occhi. Non avrebbe dormito, si ripeteva, non poteva farlo, non voleva altri incubi, nemmeno se ci fosse stato lui a tranquillizzarla subito dopo. Non voleva più provare quel senso di angoscia e soffocamento.

Castle continuava ad accarezzarla e tenerle la mano. La sentì rilassarsi tra le sue braccia, fino a quando il suo respiro non diventò lento e regolare e si accorse che si era addormentata.

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Capitolo 45
*** QUARANTACINQUE ***


Si era svegliata nella stessa posizione in cui si era addormentata senza nemmeno essersi resa conto di averlo fatto. Pensava di aver chiuso gli occhi solo per qualche minuto, invece Kate aveva dormito, profondamente per ore: la testa sul petto di Castle, la mano abbandonata sul suo corpo, stretta in quell’abbraccio che anche lui non aveva sciolto nemmeno quando si era addormentato. Lui stava ancora dormendo e lei si beava del tepore che veniva dal suo corpo più che dal piumone che li avvolgeva entrambi. 

- Hey, ti sei riposata un po’? - Le chiese Castle quando si svegliò qualche minuto dopo che Beckett aveva utilizzato per guardare il suo viso nella penombra.

- Sì. Mi sono riposata molto. Grazie. - Nascose il viso sul suo petto stringendosi a lui. Castle sorrise mentre si godeva il suo abbraccio. Se la mattina precedente gli avessero detto che si sarebbe risvegliato così li avrebbe presi per pazzi. 

- Stai meglio? - Si preoccupò subito per lei.

- Molto meglio. - Era vero. Tra le braccia di Rick stava meglio ora che era disposta ad accettare questa cosa, perché era inutile combattere contro se stessa come aveva fatto fino a pochi giorni prima.

- Vuoi parlarne? Di quello che è successo, di quello che ti spaventa, dei tuoi incubi… - Glielo chiese dolcemente accarezzandole i capelli con un tocco leggero, sfiorandola appena, così come voleva che fossero le sue parole. Non era un’imposizione né voleva obbligarla, ma sperava che si sentisse abbastanza forte e sicura di lui per dirgli quello che la tormentava.

- Il funerale di Roy, il mio ferimento e poi da lì a terra mi ritrovo nella stessa posizione ma a casa, quella sera… E mi sento soffocare ed un dolore lancinante al petto e all’addome. Ho paura e… ogni volta rivivere quei momenti è… straziante… - Sospirò senza mai spostarsi dal suo petto, con gli occhi chiusi aggrappata a lui.

- Vedi, abbiamo anche gli stessi incubi. - Quasi riuscì a farla sorridere, lo sentì da come sbuffò.

- Dovrebbe essere confortante? - Chiese tirandosi su alla sua altezza e guardandolo, mettendosi sulla difensiva.

- No, Beckett, non è confortante. Fa solo sentire meno soli sapere che c’è chi ha le tue stesse paure. Magari confrontandole si superano meglio. Non so cosa possa dare conforto, mi piacerebbe saperlo Kate, perché farei di tutto per cercarlo per me, ma soprattutto per te.

- Scusami Castle… io… non faccio altro che ferirti… - Lo guardò negli occhi con vero dispiacere.

- Vero. Soprattutto quando mi tieni lontano. Quello mi ferisce. Quando non mi dici cosa c’è che ti fa star male o che hai bisogno di prendere non so cosa per dormire. - La vide con un espressione sbalordita, non abituata sentirlo parlare così ma nonostante le parole non c’era alcuna sfumatura polemica o dura nella sua voce. La prese obbligandola a sdraiarsi di nuovo vicino a lui. - Però sai, vorrei svegliarmi tutte le mattine così.

- Come? Con una stanza invasa dai vetri, costretto in un angolo di letto dopo non aver dormito per gran parte della notte.

- Io sono stato sveglio pochissimo, solo il tempo di essere sicuro che ti fossi addormentata e poi quella lampada… ti preoccupi così tanto che sarò costretto a cercare qualcuno che me ne faccia un’altra identica! - Rise Rick. - Comunque no, cioè, posso anche adattarmi all’angolo di letto, purché tu sia vicino a me. Vorrei svegliarmi sempre così, come siamo adesso. Tu abbracciata a me, mi basta questo.

- Ora dirò una cosa che so farà assumere al tuo ego dimensioni spropositate, ma… non ho avuto incubi con te vicino. - Ammise Kate.

- Uhm? Funziono? Cosa dici  mi faccio brevettare? Mi propongo per signore sole per dormire con loro? Meglio il servizio a domicilio o le faccio venire qui? Magari sostituisco le lampade prima… Certo, non mi andrà sempre bene come dormire con te, immagino che non siano tutte come te… Pensi che devo fornire anche una mia maglietta ad ognuna compresa nel prezzo oppure no? Se mi presento a torso nudo devo chiedere un supplemento? Altrimenti, Beckett pensavo che… - Stava parlando a sproposito, come suo solito in questi casi. Kate sapeva che lo stava facendo apposta per farla innervosire o altro. Gli chiuse la bocca con una mano.

- Basta Castle, non parlare e non pensare più. Cosa vuoi fare, il gigolo per le insonni?

- Io veramente certe prestazioni non le avevo messe in preventivo… - Mugugnò sotto la sua mano, che Kate spinse ancora di più per farlo azzittire, ma poi inconsapevolmente stette al gioco.

- Se devono dormire altri servizi non puoi offrirli, Castle! - Tolse la mano dalla sua bocca e lui subito ne approfittò, tirandosi più su e guardandola serio.

- Quindi secondo te quali servizi dovrei offrire? Cuscino? Coccole? Cullare? Raccontare le favole?

- Cosa vuoi sentirti dire adesso Castle? - Chiese spazientendosi rendendosi conto che l’idea di qualunque altra donna abbracciata a lui la faceva innervosire più del dovuto, così come il suo atteggiamento che la portava a pensare a cose che non voleva ammettere.

- Quello che vuoi dirmi, Beckett. Magari aiutarmi in questo difficile compito. Tipo le magliette devono essere incluse nel servizio? A casa mia o a casa loro? - Più continuava ad essere serio, più lei si innervosiva.

- Da nessuna parte Castle.

- Non dovrei farlo? Perché? - Ora la sua espressione da finto ingenuo le ispirava solo voglia di prenderlo a schiaffi.

- Perché tutto quello che hai detto voglio che lo fai solo con me, va bene?

- A me va benissimo. - Si mise con le mani dietro la testa a guardare il soffitto ed un sorriso compiaciuto mentre lei lo guardava sempre con più voglia di picchiarlo.

- Non mi dici altro dopo tutto questo tuo vaneggiare?

- Cosa dovrei dirti Beckett? 

- Non lo so, qualsiasi cosa!

- Tu vorresti svegliarti tutte le mattine così? - L’aveva presa di nuovo in contropiede, con quella domanda dalla risposta così semplice ed impegnativa, allo stesso momento. Non sapeva se era pronta, non così, non adesso, non sapeva se avrebbe potuto. Respirò profondamente guardandolo e Castle doveva aver percepito la sua tensione perché tornò subito serio e si mise seduto invitando lei a fare lo stesso.

- Non voglio farti pressioni né metterti fretta e lo so che è tutto tremendamente diverso da quanto ti avevo detto prima, ma è quello che sento e l’ho capito stando con te. Vorrei veramente svegliarmi ogni giorno così, vorrei abbracciarti ogni volta che hai degli incubi perché non posso prometterti che non ne avrai più, anche se vorrei. 

- Sì, Castle.

- Sì cosa Beckett?

- Vorrei svegliarmi anche io tutte le mattine così. Però ho paura. - Ammise lei.

- Di cosa hai paura? Che posso farti soffrire?

- No Castle, tu… tu sei perfetto… Sono io… Ho paura di essere felice, perché ogni volta che sono felice poi crolla tutto. - Fu difficile dirlo e non capì perché Rick stava sorridendo.

- Hai paura di essere felice? Ti ricordi cosa mi avevi detto quando mi hai mandato via da casa tua? Che non volevi più esserlo. - Vide il suo stupore, le accarezzò il viso spostandole i capelli. - Un passo alla volta Kate. Se li facciamo insieme sarà più facile camminare, no?

Beckett annuì e poggiò le braccia sulle sue spalle abbracciandolo. Un passo alla volta. Insieme. Non sarebbe stato facile, pensava, ma sicuramente sarebbe stato meno difficile.

 

 

Benchè l’idea di stare con Castle le piacesse, quella di trasferirsi al loft non era una decisione facile da prendere e lo era ancora meno vederlo costantemente nel suo appartamento, perché questo le faceva pensare continuamente a quei giorni d’estate. I loro propositi di far andare tutto come sempre e fare finta di niente rimasero, appunto, solo propositi, perché c’era sempre qualcosa che li teneva, qualche parola che non riuscivano a dire, qualcosa in tv che li bloccava o qualche notizia che li metteva particolarmente a disagio. Anche il periodo non aiutava, le feste di Natale erano imminenti ma in realtà, nonostante gli sforzi, nessuno dei due era in vena di festeggiare: Beckett non festeggiava più il Natale da anni e a Castle mancava quella spensieratezza solita del periodo. In compenso tutti i loro familiari ed amici si erano dimostrati vicini e non facevano mancare a Rick, ma soprattutto a Kate il loro affetto, anche se, malgrado i suoi sforzi, faceva sempre fatica a rimanere impassibile ogni volta che vedeva Jenny, perché non poteva evitare confronti e paragoni su quello che sarebbe dovuto essere. Ma lei non voleva essere la guastafeste, né rovinare la felicità di Kevin e Jenny entusiasti per l’arrivo di un maschietto. Castle, però in quelle poche volte che si erano visti, aveva notato il suo cambio d’umore anche quando i discorsi scivolavano sul lavoro e sulla vita al distretto: non aveva mai voluto dirgli perché si fosse dimessa, non voleva mai prendere quel discorso e quando capitava faceva cadere l’argomento e lui non se la sentiva mai di insistere.

Le loro vite continuavano a dividersi tra l’appartamento di Kate, uscite programmate in giro per New York, sempre meno frequenti sia per il clima rigido che per la loro voglia di stare anche a casa insieme, e il loft di Castle. Avevano finito per dormire insieme spesso, non si erano mai detti nulla di esplicito, non avevano mai programmato nulla. Era più un naturale evolversi delle cose. Era un “resta” sussurrato quando erano sul divano, non importava de chi era detto o dove si trovassero e come Castle ben sapeva la sua presenza non era la garanzia di notti tranquille. Aveva avuto altri incubi lui ma soprattutto li aveva avuti ancora lei, con altre crisi di panico che si erano concluse con Kate tremante tra le braccia di Rick. Non c’erano cure miracolose, per quanto ad entrambi facesse piacere crederlo o pensare che fosse così, però come diceva sempre lui, insieme era più facile. Avevano passato notti difficili tra incubi e pianti, notti perfette nelle quali si erano addormentati abbracciati e così si erano risvegliati e lunghe notti a parlare con i discorsi che da duri e difficili, finivano sempre per diventare più leggeri per accompagnarla, come solo Castle sapeva fare, nel metabolizzare ogni singolo step di quel percorso. Una notte, poi, in una delle loro lunghe chiacchierate, mentre erano in dormiveglia sul grande divano del loft Castle le fece una proposta.

- Vorresti sempre andare in montagna?

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Capitolo 46
*** QUARANTASEI ***


Kate ricordò esattamente il momento il cui gli aveva detto che le sarebbe piaciuto andare in montagna e ricordava la sua promessa: andarci dopo quella visita di controllo che non c’era mai stata. Rimase interdetta quando glielo propose: voleva andarci? Non lo sapeva. Certo, le sarebbe piaciuto qualche giorno fuori con lui, lontani da New York e dalla loro routine, però…

- Perché me lo chiedi adesso? - Gli chiese prendendo tempo.

- Mi piacerebbe portarti in un posto. Solo io e te, un posto… speciale.

- Un posto speciale? Non nella baita di mio padre? - Kate era perplessa, non capiva cosa avesse in mente Castle.

- No… pensavo in un altro posto, ma se vuoi andare lì, ok.

- No, no, Castle, va benissimo quello che hai in mente tu, solo che… sono sorpresa.

- Ti assicuro, ti piacerà. - La baciò dolcemente lasciando che poi come di consuetudine, si addormentasse sul suo petto.

 

Rick passò i successivi tre giorni ad organizzare qualcosa che Kate non aveva capito bene cosa fosse, visto che come lei si avvicinava lui chiudeva tutto perché doveva essere una sorpresa. Le disse solo che sarebbero partiti quel martedì e sarebbero rimasti fuori una decina di giorni, tornando in tempo per il Natale. Kate credeva che il loro soggiorno sarebbe durato molto di meno, qualche giorno, solo per staccare un po’ dalla città, ma certo non poteva dire che la cosa le dispiaceva anche se era un po’ agitata all’idea di tutti quei giorni sola con Rick in un posto che non sapeva dove fosse e dal quale probabilmente non aveva possibilità di allontanarsi. Lui, forse avvertendo questo suo nervosismo le aveva chiesto più volte se fosse sicura, altrimenti potevano annullare tutto o rimandare, ma Kate ogni volta che sentiva la dolcezza nelle sue parole non poteva dirgli di no e non voleva farlo. Voleva quei giorni insieme, le servivano anche per capire molto di se stessa e di loro, perché fino a quel momento non avevano mai definito la loro relazione, non avevano mai stabilito nulla. Ripensandoci, in realtà non lo avevano mai fatto. Nemmeno prima. Pensava sempre che ne avrebbero avuto il tempo e con il bambino in arrivo, in fondo, potevano definirsi qualcosa di molto simile ad una famiglia. Ma ora… Ora non c’era nulla che li legava diverso da quello che provavano uno per l’altra. Era tanto, era forte, ma non sapeva ancora quanto. Sapeva solo che con Castle stava bene, che con lui era riuscita a ridere di nuovo, che lui sapeva farle vedere quel futuro che non pensava di avere più, che era l’unico che sapeva tirarla fuori dal baratro nel quale ancora crollava nei momenti più impensabili, che la rassicurava nei momenti di panico. Castle era stata la persona che più aveva allontanato da se stessa ed invece era l’unica che in fondo avrebbe sempre voluto vicino. L’aveva capito tardi, solo quando era riuscita a piangere tra le sue braccia e quando lei recriminava per il tempo che lo aveva allontanato facendo soffrire entrambi in modo fuori dal normale, Rick le diceva che era necessario toccare il fondo per risalire e che lui era solo arrivato nel momento in cui lei lo aveva toccato ed era pronta per riprendere in mano la sua vita e lui non aveva fatto altro che prenderla ed accompagnarla. Kate sapeva che lui era molto di più e che quello che aveva fatto era molto più importante: quelle erano solo parole per darle fiducia, perché lui era così, la metteva sempre prima di tutto e non sapeva se avrebbe trovato mai il modo di sdebitarsi, di fargli capire quanto gli era grata che era nella sua vita, in tutti i molteplici modi in cui era presente.

 

A Beckett sembrava di essere dentro ad un film. L’interno di quel jet privato era semplicemente strepitoso con le grandi poltrone di pelle bianca una davanti all’altra. Avevano occupato due dei quattro posti disponibili di quello che più che l’interno di un aereo sembrava un comodo ed elegante salotto. Rick aveva chiesto di servire due flûte di Champagne per brindare con lei. Kate vi appoggiò appena le labbra assaporando il gusto dolce e delicato, lasciandolo poi scivolare sulla lingua venendo investita da quei sapori fruttati e leggermente aciduli che creavano in bocca una piacevole armonia. Le piaceva osservare come Castle fosse perfettamente a suo agio in quel posto dove lei, invece si sentiva così fuori luogo e lui doveva aver capito le sue titubanze, perché si sporse oltre il tavolo in radica che li sperava per prenderle le mani. Si ritrovarono così, ognuno proteso verso l’altro con le mani unite a guardarsi negli occhi, scambiandosi un bacio dal sapore di Champagne e tutto per Kate sembra aver perso di importanza, avrebbero potuto essere anche in un treno di terza classe, andava ugualmente bene.

Arrivare in Vermont fu breve, un’ora e mezza di volo, senza turbolenze e complicazioni. L’aeroporto nei pressi di  Stowe era poco più di una pista in mezzo alla neve dove atterravano solo voli privati o di una piccola compagnia locale. Era, però, il più vicino a dove erano diretti.

 Hyden era un giovane della zona, con una lunga barba un po’ rossiccia e gli occhi azzurri che gli illuminavano il volto: io suoi anni erano probabilmente molti meno di quelli che dimostrava, Kate lo aveva capito dalla voce che era quella di un ragazzo molto giovane. Prese i loro bagagli e li fece salire nel grande suv nero che li aspettava fuori dalla piccola costruzione che era quell’aeroporto. Durante il tragitto scoprì che era il figlio di un certo Sam che non era potuto andarli a prendere perché doveva aiutare un amico a spostare dei tronchi. La sua era una famiglia di boscaioli della zona ma ancora non capiva perché fosse così in confidenza con Rick. Ogni tanto vedeva che la osservava dallo specchietto retrovisore, mentre chiacchierava con Rick seduto al suo fianco. La guardava con curiosità, non capendo per quale motivo, ma non se ne curò, attenta a guardare il paesaggio innevato che stavano attraversando. Dopo circa una mezz’ora avevano lasciato la strada principale per inoltrarsi in una piccola strada di campagna secondaria, non aveva più visto indicazioni per resort o baite e non capiva dove fossero diretti, forse era qualche scorciatoia nota agli abitanti del posto, pensò. Hyden guidava sicuro anche quando dovette affrontare un tratto più in salita che il potente mezzo non fece fatica a percorrere. Poco prima che iniziasse il bosco, poi, capì quella che era la loro destinazione: uno chalet su un’altura da dove era certa ci sarebbe stata una vista mozzafiato sulla valle che avevano attraversato. Parcheggiò proprio davanti al viottolo ripulito da poco dalle neve che portava fino all’entrata.

- Lascio qui la sua auto Signor Castle? - Chiese Hyden a Rick mentre metteva i loro bagagli nel portico.

- Sì, lì va benissimo, grazie.

- Dentro c’è tutto quello che ha chiesto a mio padre. Per qualsiasi cosa poi, basta chiamarci.

Il giovane diede una vigorosa stretta di mano a Rick e poi salutò con un cenno Kate. Prese un vecchio pickup parcheggiato lì vicino e percorse al contrario la strada che avevano appena fatto.

Kate si guardò intorno prima di entrare. Non si era sbagliata, dal patio la vista era splendida.

- Dalla vetrata la piano superiore è ancora più bella. - Gli disse Rick portandosi dietro di lei, abbracciandola e dandole un bacio sul collo. La differenza tra le labbra calde di Castle e il freddo che c’era fuori le provocò più di qualche brivido.

- Cos’è questo posto, Castle?

- Il mio rifugio.

- Beh, direi che è molto più di un rifugio. - Beckett osservò la struttura a due piani interamente in legno con delle grandi vetrate che lasciavano intravedere gli interni molto curati.

- Nel senso che è il posto dove vengo a rifugiarmi quando voglio stare solo.

La prese per mano e la condusse all’interno. Kate si guardò interno sentendo lo scoppiettio del fuoco nel grande camino che dominava stanza: era un enorme ambiente unico e l’arredamento le ricordava molto quello del loft, con i mobili di legno scuro, i divani in pelle, le stoffe dai colori caldi ed i grandi tappeti chiari. La cucina con il grande tavolo da pranzo era nella parte posteriore ed il resto dell’ambiente ruotava intorno al camino ed alle imponenti vetrate da dove si poteva ammirare il paesaggio. Rick poggiò le valige in un angolo e poi la raggiunse.

- Ti piace qui, Beckett?

- Sì è… stupendo…

- Vieni, ti faccio vedere  il pezzo forte… 

La condusse al piano superiore, salendo velocemente la scalinata in legno ed anche qui rimase sorpresa nel trovare ancora un’unico grande ambiente al centro del quale c’era il letto e poi, davanti alla vetrata delle poltrone di pelle bianca ed un tavolo.

- Da qui c’è la vista migliore, nei giorni che il cielo è limpido si riesce a vedere quasi fino al paese.

Non le diede il tempo di catturare ogni dettaglio che continuò a trascinarla nel suo giro e passando davanti ad un altro caminetto, andarono dalla parte opposta dove, su una pedana rialzata c’era una grande jacuzzi e due lettini. Kate era letteralmente senza parole.

- Laggiù - le disse indicando l’unica porta presente nell’ambiente - c’è il bagno. Che te ne pare?

- Quante donne hai conquistato con questo posto? - Sorrise guardandosi ancora intorno.

- Una, spero.

- Non fare il modesto, Castle! - Lo punzecchiò.

- Non ho mai portato nessuna donna qui, Kate. Non c’è mai stata nemmeno Alexis. Te l’ho detto, è il mio rifugio. Dove vengo quando voglio allontanarmi da tutto e da tutti. Dove venivo quando avevo bisogno della massima concentrazione per scrivere. Alcuni miei romanzi sono nati tutti laggiù, su quelle poltrone, guardando fuori il panorama. Hyden ti osservava, so che lo hai notato, proprio per questo, perché mi avevano sempre visto da solo e quando gli ho detto di procurarmi cibo e scorte per due, si sono stupiti.

- Perché hai voluto portarmi qui, allora, se è il tuo rifugio?

- Perché tu non sei come le altre, non sei come nessuna. Forse da quando ho comprato e fatto sistemare questo chalet, ho sempre aspettato per condividerlo con qualcuno di speciale. E quel qualcuno sei tu.

Beckett gli prese il volto tra le mani e lo baciò sfiorandogli le labbra in un bacio che diventava man mano sempre più intenso. Lo abbracciò, infine, lasciandosi cullare da lui, con la testa poggiata sulla sua spalla. Adorava stare lì, adorava quando lui l’abbracciava così, la sensazione di essere nel posto più giusto del mondo. Lo baciò ancora sul collo lambendo la sua pelle con insistenza.

- Ti piace, Beckett?

- È perfetta, Castle. - Lo era, veramente. Era tutto troppo perfetto e come tutte le cose troppo perfette le facevano paura. Si strinse a lui ancora un po’ chiedendogli implicitamente quella protezione di cui aveva bisogno. Avrebbe avuto il disperato bisogno di sapere che i suoi sogni, quelli che erano rimasti e si erano salvati dalla devastazione della sua anima, fossero al sicuro, lì tra la neve e le montagne, protetti da Rick.

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Capitolo 47
*** QUARANTASETTE ***


Kate se ne stava seduta sulla poltrona vicino al caminetto. Aveva preso uno dei tanti libri che erano ammucchiati su un tavolo lì vicino e lo stava sfogliando distrattamente: era più che altro incantata dallo scoppiettio della legna e dai giochi di luce della fiamma. Era avvolta in un caldo maglione bianco di morbida lana. Non aveva nemmeno aperto la sua valigia, lo aveva preso direttamente da quella Castle, facendolo protestare prima, poi però si era divertito a sfilarle quella maglietta troppo leggera e a rivestirla lui stesso con il suo maglione. 

Una folata di vento la investì quando Rick rientrò con una grossa cesta di legna che a giudicare dalla sua espressione doveva essere molto pesante e la andò a depositare tutta nella cassa vicino a dove si trovava Kate. Quando si avvicinò per darle un bacio lei potè sentire la punta del suo naso fredda, così come le guance che ora Kate riscaldava con le sue mani. Castle si accovacciò vicino a lei guardando interessato la copertina del libro.

- Ti piace?

- Veramente lo stavo solo sfogliando… ero distratta…

- Uhm, da cosa?

- Da tutto… Dal fuoco, da questo posto, dal tuo maglione… - Gli rispose sorridendo mentre toglieva qualche scheggia di legno rimasta incastrata nella maglia di Rick. Le piaceva fare quei piccoli gesti, insignificanti per tutti, che però per lei erano un modo per prendersi cura di lui, come quando gli sistemava il ciuffo spettinato appena sveglio.

- Cosa ha il mio maglione che ti distrae? - Sorrise lui curioso di scoprire sempre qualcosa di quell’infinito enigma che era Kate Beckett.

- È tuo. 

Rick si rialzò, aggiunse due ciocchi di legno al fuoco e poi perse il libro che Kate aveva in mano riponendolo dove era prima, insieme agli altri. La invitò poi a seguirlo sul grande divano proprio di fronte al caminetto. Si sedette sulla penisola, allungando le gambe, lasciando che Kate si poggiasse con la testa su di lui distesa nell’altro lato. Un respiro profondo di lei gli fece capire che si stava rilassando e le loro mani si congiunsero intrecciando le dita completando quell’abbraccio al quale era impossibile rinunciare per entrambi. Dovevano abituarsi ancora alla piacevole sensazione che riuscivano ad infondersi a vicenda, quei momenti in cui gli sembrava di allontanarsi dal mondo e vivere in una realtà diversa, fatta solo di loro due, riuscendo anche se per qualche breve periodo ad allontanare tutto quello che li opprimeva, soprattutto Beckett. Quelle brevi pause dall’angoscia che si portava dentro da mesi la aiutavano a respirare, a vivere e le davano la possibilità di intravedere quel futuro che pensava di non avere. Poi, però il buio tornava, ancora troppo spesso, opprimente. Bastava a volte una frase o un gesto e ricadere nello sconforto era un attimo, l’unica consolazione per lei era il sapere di non essere sola in quei frangenti, che Castle era con lei e la supportava ma poi lo aveva visto, più di una volta, quando lei stava meglio, allontanarsi con i volto tirato ed asciugarsi di sfuggita qualche lacrima. Gli avrebbe voluto dire di non farsi problemi, di piangere davanti a lei, senza nascondersi, ma non ci era mai riuscita. Non era ancora capace di toccare il suo dolore che sapeva essere stato in gran parte causato da lei, pensava di non essere abbastanza delicata per non far sanguinare di più le sue ferite.

Avevano programmato di fare molte cose quel giorno, appena arrivati. Rick aveva idea di portarla in giro nei dintorni ma alla fine rimasero tutto il giorno su quel divano. Rose, la madre di Hyden, aveva preparato per loro alcune cose che sapeva piacevano molto a Castle. Trovarono confortante mangiare la chicken pie davanti al caminetto, in quel silenzio che creavano quando erano immersi nei loro pensieri, interrotto solo dal rumore del vento che si era alzato più forte.

- Perchè non hai mai portato qui nemmeno Alexis? Secondo me le piacerebbe tantissimo. - Le chiese Kate curiosa quando avevano già finito di mangiare. Rick fu colto di sorpresa da quella domanda, prese i piatti dal tavolo di legno davanti a loro e li andò a portare in cucina, prendendo tempo. Kate lo osservò camminare lentamente, sciacquare sotto l’acqua corrente e poi riporre con cura i piatti nella lavastoviglie. Lo osservò mentre indugiava più del dovuto nell’asciugarsi le mani con lo sguardo fisso in un punto imprecisato e non credeva che quella domanda lo avrebbe messo tanto a disagio. Si sedette di nuovo vicino a lei, dopo aver controllato il fuoco ed aggiunto un altro pezzo di legna da bruciare.

- Quando ho comprato questo posto non era così. Cioè, c’era solo la parte esterna, un po’ abbandonata. Avevo conosciuto Sam, il padre di Hyden un po’ per caso, ero in vacanza in zona con degli amici di quando ero più giovane. Avevo invitato tutti qui, era la prima vacanza da solo che mi prendevo da quando Meredith mi aveva lasciato. Avevo guadagnato una buona cifra con i diritti dei primi romanzi, non ero ricco, ma sicuramente un giovane benestante che cominciava ad essere famoso. Eravamo rimasti bloccati per fare gli stupidi e ci eravamo persi. Sam ci ha aiutati a tornare al nostro hotel e siamo passati qua vicino. Mi sono innamorato di questo posto anche se tutti mi prendevano in giro che era solo un rudere, che era meglio l’hotel dove stavamo e non aveva senso sprecare soldi in un sposto così. Mi ha detto che era suo e l’ho comprato. Ci ho messo anni per farlo così, ogni libro che vendevo, ogni successo che facevo, aggiungevo qualcosa. Ora è bellissimo, ma sai, un po’ mi manca quel suo spirito selvaggio dei primi tempi. Ti chiederai che c’entra questo con Alexis…

- No, veramente stavo pensando che mi piace ascoltarti quando mi racconti della tua vita. Alcune volte mi sembra di conoscere così poco di te… - Rick sorrise e le diede un bacio prima di riprendere a parlare.

- Alexis non solo non è mai stata qui, ma non sa nemmeno che questo posto esiste. Vedi, ti può sembrare un discorso egoista, ma alcune volte ho avuto bisogno di venire qui ed isolarmi da tutto, anche da lei. Io darei la vita per mia figlia, Kate, credimi, ma non è sempre stato facile. Essere padre, solo, gestire una vita fuori dal comune sempre in bilico tra quello che sei, quello che devi essere per lei e quello che devi essere per il pubblico. Alcune volte non sapevo nemmeno quello che ero veramente io. Allora venivo qui e mi rifugiava. Alexis pensava che ero fuori per lavoro e mi dispiaceva lasciarla a casa sola, con qualche baby sitter quando Meredith non si degnava nemmeno di venire da sua figlia o annullava all’ultimo, mi sentivo un pessimo padre, però sapevo che se non lo facevo, poi non sarei riuscito ad andare avanti. Una volta ero arrabbiatissimo perché uno dei miei romanzi era stato stroncato dalla critica, avevo litigato con Gina quando ancora nemmeno stavamo insieme. Sono venuto quassù una settimana intera mentre Alexis era fuori con la scuola e sono rimasto irreperibile per tutto il tempo. Ho passato giornate intere a spaccare la legna per sfogarmi e mi sono anche strappato un muscolo. Sam rideva di me, perché diceva che si vedeva che ero proprio di città. Quando sono tornato a New York ho scoperto che mi stavano cercando perché ero scomparso. Ho fatto preoccupare tutti. Ecco, Alexis non ha mai saputo nulla perché questo è un posto solo mio. Dove essere Rick, un ragazzo che poteva evitare di pensare per un po’ a tutte le cose che doveva fare per essere sempre all’altezza di tutti, anche di se stesso. Non papà, non Castle lo scrittore, non Richard il marito famoso. Ora penserai che sono un papà orribile ed egoista, immagino…

Kate gli prese il volto tra le mani, guardando gli occhi un po’ umidi. Non gli disse nulla, lo accarezzò solamente, prima di baciarlo. Aveva tante cose in mente, tante cose che avrebbe voluto dirgli, così tanti pensieri che si affollarono che faceva fatica a decifrarli tutti. Lo osservò ancora, quando le loro labbra si separarono.

- Posso pensare tante cose di te Rick, ma mai che sei un padre orribile o una persona egoista. Tu sei… tu sei tutto il contrario… - Gli diede un altro veloce bacio sulle labbra e pensò che era arrivato il momento di provare a dargli un po’ di tutto quello che da lui aveva ricevuto. - Quando ho scoperto di essere incinta, sono stata subito sollevata all’idea che fosse tuo figlio e non di Josh. Non solo perché in realtà sapevo che con lui era una storia senza senso, ma perché sapevo che mio figlio non avrebbe mai potuto avere un padre migliore di te. E lo continuo a pensare. Non avrei voluto nessun altro padre per il mio bambino, Castle.

Kate vide gli occhi di Rick che stavano diventando sempre più lucidi ed umidi, mentre il viso di lei era già rigato dalle lacrime uscite prepotentemente insieme a quelle parole che erano una tortura ed un sollievo allo stesso tempo. Le aveva fatto male dirlo, sentire la sua voce parlare di quello che provava in quei momenti, ma si sentì sollevata per averlo fatto. Castle provò a toglierle le lacrime dal volto e poi le diede un bacio sulla guancia. Si stava per alzare, Kate lo aveva capito da come aveva irrigidito i muscoli delle gambe e sapeva benissimo cosa avrebbe fatto. Sarebbe uscito con la scusa di dover prendere la legna o qualsiasi altra cosa, anche se era buio ed avrebbe pianto, fuori. Non glielo avrebbe permesso, non lì, non in quel momento. Lo tenne per un braccio e lui la guardò quasi supplicandolo di lasciarlo, di poter andare a sfogarsi, ma Kate scuotendo la testa lo trascinò letteralmente tra le sue braccia e si appoggiò alla sua spalla.

- Non devi essere forte, Rick. Non devi essere nessuno, devi essere te stesso. Sei nel tuo rifugio, no? Non ho bisogno che tu sia forte per me, adesso ho bisogno di sapere che possiamo piangere insieme.

Castle pianse tra le braccia di Beckett e lei sulla sua spalla e ad entrambi fece meno male il proprio dolore.

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Capitolo 48
*** QUARANTOTTO ***


Kate sentiva sulla lingua il sapore salato del bacio che Rick aveva cercato disperatamente, non sapeva se per le proprie lacrime o per quelle di lui, ma non aveva importanza. Le loro lacrime erano uguali, nascevano dalla stessa fonte.

- Grazie. - Le disse non rinunciando ad un altro bacio. - Grazie, Kate.

Era convinto di aver fatto la scelta giusta nel portarla lì, perché solo lei aveva visto tutto di lui e solo a lei non aveva timore a mostrarsi in nessun modo. Aveva ragione, era nel suo rifugio, ma non era quel posto o quella baita, era lei, era il suo abbraccio spezzato e impaurito che sapeva però tenerlo fermo nel suo posto mondo.

 

Castle giocava con i capelli di Kate con la testa appoggiata sulle sue gambe, li arrotolava tra le dita e poi li lasciava andare, guardando le spirali create. Lei sembrava apprezzare quel trattamento, si godeva con gli occhi chiusi il suo morbido tocco. Erano stati fuori tutta la mattina, erano andati a fare un giro al villaggio lì vicino e poi si erano fermati per pranzo in un piccolo locale appena fuori. Avevano mangiato in abbondanza e poi si erano fatti incartare un paio di fette di torta di mele fatte in casa dalla proprietaria della locanda e le avevano mangiate a casa comodamente sul divano. Si erano ripuliti dalle briciole sporcandosi di baci, avevano riso ed avevano giocato. Poi esausti dalla camminata e dalle loro schermaglie si erano riposati adagiandosi uno sull’altro sul divano. Nessuno dei due dormiva, lo sapevano bene. Gli piaceva solo stare così, viversi quelle piccole cose che non avevano mai vissuto e così mentre con una mano Castle giocava con i suo i capelli, Kate teneva l’altra vicino al suo volto, accarezzandogli le dita. 

- Ho avuto paura di diventare come mio padre. - Disse improvvisamente Kate e Rick smise di ripetere quei gesti abitudinari, come risvegliato dalle sue parole.

- Come tuo padre? - Le domandò.

- Con l’alcool. L’ho capito, sai? Credo dopo tanti anni di aver capito perché lo faceva, quella voglia di dimenticare tutto, di non sentire più il dolore, il vuoto. 

- Tu non ti sei lasciata andare, però.

- No. Forse perché in fondo io non volevo dimenticarmi del dolore, lo volevo sentire, volevo farmi male e così facendo mi punivo ancora di più. Non ho mai perso del tutto la lucidità di quello che stavo facendo, sentivo quanto mi faceva male, quanto era sbagliato. E mi andava bene così. Poi ho già la mia dipendenza per quelle medicine, direi che basta, no?

- Hai sentito però anche il dottor Burke cosa ti ha detto? È questione di tempo, già va meglio no?

Castle cercava di farle coraggio. Il dottor Burke era lo psicologo dal quale era andato lui. Era una persona sincera, anche dura a volte nel dire le cose, uno di quelli che passano il tempo farti domande più che a darti risposte e Rick aveva insistito perché ci andasse a Kate. Lo aveva visto due volte prima di partire e le fece bene. Non era stato facile parlare ancora una volta di tutto quello che era accaduto, ma ogni volta le sembrava di riuscire a trovare meglio le parole. Gli aveva raccontato delle crisi di panico, degli incubi, del non voler dormire e dei suoi tentativi di isolarsi e di autodistruzione. Infine gli aveva fatto vedere tutte le medicine che gli erano state prescritte che il dottore guardò scuotendo la testa. Poi le fece una domanda che spiazzò Kate “Vuole veramente andare avanti? Si sente pronta per farlo?”. Gli rispose di sì, convinta più di quando non si sentisse. Così le aveva consigliato di non interrompere immediatamente, come lei avrebbe voluto fare, tutto quello che stava prendendo, ma di diminuire gradatamente i dosaggi in modo di dare tempo al suo corpo di abituarsi al cambiamento. Il poco a poco di Kate, però, non coincideva con quello di Burke. Aveva già del tutto eliminato tutti i farmaci che prendeva in poco più di una settimana, tranne le gocce per dormire. Sentiva che non aveva più bisogno di nessun aiuto per decidere di vivere le sue giornate, per alzarsi dal letto e “fare” qualsiasi cosa volesse o dovesse.

- Sì, va meglio. - Ammise tirandosi su e sedendosi vicino a lui.

Una delle cose che le aveva detto Burke era riconoscere i passi avanti, anche se a lei sembravano insignificanti, perché era giusto che si concedesse delle gratificazione e capisse di essere sulla strada giusta. Però la notte no, non sempre andava meglio. Qualche volta aveva provato a non prendere nulla, perché credeva di essere abbastanza forte, o semplicemente perché si era dimenticata, odiando fare quel gesto davanti a Castle ed aveva finito per non prenderle più, ma non era così. Si era svegliata come sempre in preda ai suoi demoni e poi non aveva più dormito. Era capitato che lui l’avesse sentita e l’avesse, come in quella notte, tenuta stretta tra le sue braccia facendola addormentare di nuovo, ma era successo anche che lei fosse diventata più brava a mascherare il suo stato e lo avesse lasciato riposare, vegliando lei il suo sonno. 

Aveva scoperto la bellezza di guardarlo dormire, di studiare ogni ruga del suo volto, ogni minuzia dei suoi lineamenti, le sue abitudini, quel sonno profondo e quel lamentarsi un po’, come un bambino, quando sognava: aveva imparato che in quei casi bastava che lo accarezzasse, soprattutto sulla fronte, e si calmava subito. Non sapeva se prima non se ne era mai accorta, troppo presa da se stessa, o non aveva mai fatto quel tipo di sogni. Aveva riscoperto ed osservato quella cicatrice sullo zigomo, una piccola linea retta, il “regalo” di Josh. Aveva quasi paura a toccarla e non aveva mai avuto il coraggio di chiedergli che effetto gli facesse trovarsi ogni giorno quando si guardava allo specchio quella traccia di ciò che era stato.

Castle continuava a dormire sempre con un tshirt che lei, la sera dopo, puntualmente gli prendeva, in una finta casualità alla quale non credeva nemmeno lui, e si dispiacque che era solo un caso che quella notte si era presentato da lei a torso nudo: le era piaciuto respirare la sua pelle, baciare il suo petto mentre lui l’abbracciava e le sarebbe piaciuto farlo ancora, ma non ebbe mai il coraggio di chiederlo. Tra loro i contatti si limitavano a molti baci e infiniti abbracci. Non c’era stato mai nulla di più. Lui non le aveva mai fatto capire di voler andare oltre e lei non aveva mai chiesto nulla e quel mantenere le distanze di Rick aveva solo generato in lei maggiore paura ed insicurezza. Castle era senza dubbio l’uomo più importante della sua vita, quello che aveva amato ed amava più di ogni altro, eppure allo stesso tempo il loro rapporto era sempre stato poco più che platonico. Erano stati insieme una notte. Una sola, magnifica, notte, con tutto quello che aveva comportato. Poi non c’era stato più nulla. Poi lei non era stata più la stessa. Poi lei non si sentiva più la stessa. Kate aveva cominciato ad odiare il suo corpo, i segni dell’operazione che l’avevano marchiata irrimediabilmente, per sempre, un monito indelebile di quello che era stato. Quel corpo non abbastanza forte da proteggere la vita che cresceva dentro di lei, quel corpo che aveva cercato di rimettere in funzione in tutti i modi e che ancora adesso, però, le sembrava totalmente imperfetto. Il suo corpo che l’aveva tradita nel momento più importante. Il suo corpo che tentava sempre di nascondere a tutti, soprattutto a sé stessa, sfigurato nella sua immagine più di quanto non fosse, perché vedeva sulla sua pelle tutto quello che aveva passato, come se ogni caduta fosse una ferita palesata sulla pelle da nascondere. 

- Sei molto più forte di quello che pensi, Kate. Devi solo amarti di più.

- Amarmi Castle? Ho passato questi mesi ad odiarmi, ad odiare tutto di me, della mia vita. Accetterei volentieri già una tregua con me stessa. - Sospirò.

Castle si voltò a guardarla. Aveva lo sguardo fisso sul fuoco nel camino, il volto teso, serio, contratto. Tutta quella beatitudine di poco prima sembrava scomparsa. Il bagliore delle fiamme rifletteva sulla sua pelle facendola sembrare ancora più contrita, con quel gioco di luci ed ombre che facevano sembrare il suo volto con lineamenti ancora più marcati. La sua bellezza le toglieva il fiato. Avrebbe voluto che si guardasse con i suoi occhi, non avrebbe potuto non amarsi, le avrebbe voluto far sentire cosa provava per lei quel sentimento che gli bruciava dentro più di qualsiasi fuoco e qualsiasi fiamma. Voleva farle capire quanto era importante e speciale per lui e gli sembrava sempre di non riuscire a farlo abbastanza, frenato da quella paura di andare oltre, di portarsi in sentieri che lei non era ancora pronta a percorrere.

- Lascia almeno che possa farlo io, allora. Fino a quando tu non sarai pronta ad amarti da sola. Lasciati amare, Kate.

Poteva anche non aver sentito nulla di quello che le aveva detto, Castle avrebbe potuto parlare una lingua a lei incomprensibile ed il senso di quelle parole le sarebbe stato ugualmente chiaro: era il tono, lo sguardo, le mani che le avevano preso il viso, in un gesto insolito per lui, uno di quelli che era solita fare lei. La guardava con uno di quegli sguardi che accarezzavano l’anima e si chiedeva se era veramente pronta per essere amata così, come mai nessuno aveva fatto. Non sapeva se era pronta, sapeva solo che da lui si sarebbe fatta amare in ogni modo, perché non poteva resistere alla bocca di Castle che ora esplorava la sua, alle sue mani che dal volto erano scese sul suo corpo e si erano insinuate sotto il suo maglione. Le piaceva sentire le sue dita premere sul suo corpo, sulla stoffa della maglietta che indossava sotto il maglione, sentire come strusciavano in gesti che sembravano famelici, stringendola. Le piacevano le sue labbra morbide, che scendevano sul collo tra baci e morsi. Faticò ad ammetterlo anche a se stessa, ma gli piaceva sentirsi sua.

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Capitolo 49
*** QUARANTANOVE ***


Non era successo nient’altro. Né quel pomeriggio né nei giorni seguenti. Quando Castle aveva sentito che stava per perdere il controllo di se stesso, e c’era mancato veramente poco, si era subito ritratto. Era rimasta stupita quando le mani di Castle l’avevano lasciata, le sue labbra avevano liberato le proprie, aveva sentito quella distanza come qualcosa di tremendamente sbagliato e l’aveva cercato ancora, per altri baci che non le aveva negato. E poi aveva lasciato che si adagiasse di nuovo su di lui, ed aveva continuato a coccolarla ed accarezzarla, come sempre, come se nulla fosse e per Kate era tutto così inspiegabile, perché sentiva l’amore di Rick, profondo, sincero, eppure allo stesso tempo non capiva perché lui la tenesse a distanza o in realtà credeva di averlo capito fin troppo bene: non era capace lei di accettare se stessa, come potevano farlo gli altri? Lo capiva, senza ombra di dubbio. Ci sarebbe stato tempo, pensò, per trovare un punto di incontro, parlarne magari quando sarebbero stati entrambi più forti, capaci di accettarsi.

 

I giorni erano passati più spensierati e veloci di quanto Kate avrebbe mai pensato. C’erano state lunghe passeggiate, nuove gite in paese in quella caffetteria che avevano scovato un po’ nascosta in un cortile, che ogni giorno preparava delle torte diverse, tutte squisite. Beckett era convinta che la cameriera, una donna di mezza età dai modi un po’ bruschi, si era invaghita di Castle perché ogni volta gli dava una fetta più grande del normale e l’aveva notata guardarlo insistentemente dal bancone. Lui per questo gongolava molto, ma non per la fetta di torta o per le attenzioni che quella donna gli riservava, ma per la palese gelosia di Kate, anche se non aveva proprio nessun motivo per esserlo. Erano andati a sciare e Beckett era rimasta decisamente stupita nello scoprire un Caste sciatore provetto, non lo avrebbe mai immaginato così abile e agile nel percorrere le piste e lanciarsi anche nelle discese più impervie. Era passato veramente molto tempo dall’ultima volta che lei aveva sciato ed aveva avuto bisogno di un po’ di tempo per riprendere ritmo e confidenza, ma poi si erano divertiti a rincorrersi e sfidarsi, azzardandosi uno degli ultimi giorni anche nel provare una delle piste più difficili. Rick più veloce di lei, era solito precederla ed aspettarla a fine pista. Le piaceva vederla arrivare e rubarle un bacio ogni volta, prima di risalire insieme e ricominciare, ed era stato così anche per tutto quel loro ultimo giorno in montagna: Rick si era accordato, il jet sarebbe tornato a prenderli il pomeriggio successivo, così da lasciargli tutto il tempo di prepararsi con calma.

Quando Kate era scesa in quella che avevano deciso sarebbe stata la loro ultima sciata prima di fermarsi a prendere una cioccolata calda nella baita in quota e poi tornare a casa, lo aveva visto già con gli sci in mano, appoggiato alla staccionata. Non era solo, una donna bionda era al suo fianco, una mano di lei appoggiata sulla spalla e l’altra sul suo petto, mentre lui le cingeva il fianco. Era abbastanza vicina da poter vedere il sorriso di Rick e lui, invece, non si era accorto che lei si stava avvicinando. Vide la bionda voltarsi proprio nella sua direzione, poi tornare a guardare Castle ed il bacio che lei gli diede, sulla guancia, così vicino alla curva delle sue labbra e la mano di Rick scivolare sul fondoschiena fasciato dalla tuta aderente di lei che lo salutò con un ampio sorriso ed un gesto della mano al quale Castle rispose nello stesso modo, senza che Beckett riuscisse a capire cosa la donna le avesse detto per farlo infine arrossire, ed era sicura non fosse il vento ad aver dato quel colore alle sue guance.

Solo quando la bionda si fu allontanata la notò guardarlo con insistenza ed avvicinarsi con movimenti fluidi sulla neve. Kate mise al suo fianco, spostandosi bruscamente verso il basso per sganciarsi gli sci quando lui provò a baciarla. Castle non diede molto caso al gesto, interpretandolo come una semplice casualità.

- Chiederò una doppia razione di panna sulla cioccolata. Sono esausto! - Esclamò Rick prendendo gli sci ed avviandosi verso la baita mentre Kate rimaneva ferma. - Che c’è Beckett?

Si era accorto che lei non lo stava seguendo e si fermò anche lui proprio poco prima di entrare oltre il cancelletto di legno che delimitava la veranda del rifugio?

- Vorrei tornare a casa, se non ti dispiace. Sono stanca e devo preparare ancora tutto per domani. 

Lo prese in contropiede con quella richiesta, soprattutto per il tono decisamente freddo con cui glielo aveva chiesto, ma Castle annuì, tornando sui suoi passi e rinunciando alla cioccolata ed alla doppia panna. 

Kate era rimasta in silenzio per tutto il tragitto per tornare a casa. Era rimasta voltata a guardare le montagne innevate mentre scendevano a valle con la funivia: cercava di proiettare il suo sguardo oltre il riflesso del vetro che le mostrava un fin troppo premuroso Castle alle sue spalle che le accarezzava le spalle. Osservava la loro discesa con un misto di insofferenza e dispiacere. La loro vacanza stava giungendo al termine e lei si sentiva triste e sollevata allo stesso tempo: triste perché quel posto le era entrato nel cuore e per tutti i momenti belli e spensierati che era riuscita a vivere con Rick, però c’era il rovescio della medaglia, tutti i punti bui che ancora erano presenti, che non riusciva a portare alla luce e che stando lì, sola, con lui toccava ogni giorno senza essere capace di fare di più. Castle in quei giorno era stato tutto il suo mondo e la cosa non le era pesata, ma aveva paura che tutto quello fosse troppo e trovava assurdo anche per se stesso che amava ed aveva paura allo stesso tempo delle stesse cose, della stessa persona. Il suo terrore era che tutto potesse dissolversi quando si sarebbe scontrato con quelle parti di se che ancora non riusciva a metabolizzare ed accettare, che loro non potessero essere abbastanza forti dal resistere a loro stessi, a quella loro forza attrattiva che temeva fosse con la stessa potenza anche distruttiva. Sobbalzò al segnale acustico che li avvisava di essere arrivati a valle e seguì silenziosamente Castle fino al suo fuoristrada. Osservò la strada innevata che diventava sempre meno frequentata man mano che si avvicinavano allo chalet, il sole che li aveva accompagnati per tutta la giornata stava scomparendo dietro le nubi ancora prima che all’orizzonte ed il vento si era fatto più forte come testimoniavano gli alberi scossi con violenza, agitati, come lei.

Il senso di malumore che l’aveva colta nel vedere Castle con quella bionda non l’aveva più lasciata e si era unito a quello provocato dalla sua parte razionale che si dava della stupida da sola. Eppure non poteva fare nulla per evitare che la sua mente creasse immagini e proiezioni nate dal nulla, perché desse un senso sbagliato a tutto: perché Castle sorridente con quella donna gli era sembrato addirittura giusto, giusto per lui. Una donna più facile, una donna senza tutti i suoi problemi, senza i suoi tarli.

Arrivati era corsa in casa, al piano superiore, con la scusa di voler fare la valigia. Gli aveva detto di non aspettarla, che avrebbe letto un po' lì su quelle poltrone davanti alla grande vetrata con la vista sul villaggio. Voleva solo stare sola, in realtà. Riconosceva chiari quei segnali che per mesi l’avevano accompagnata e che ora voleva combattere in ogni modo, non voleva chiudersi in se stessa, ma era una battaglia contro il suo istinto. Buttò i vestiti alla rinfusa nella valigia, pensando che, il giorno successivo a quell’ora, sarebbe stata a casa, sola. Perché forse era giusto così, avere spazio e provare a respirare, da sola. Le mancava in realtà già l’aria e si maledì per questo. Prese il telefono per controllare l’orario e scorse la foto che avevano fatto in quei giorni: il sorriso sincero di Rick ed il suo, sempre troppo tirato. Si odiava per non riuscire ad essere quello che avrebbe voluto per lui, si odiava per non riuscire ad essere di più e si odiava per aver rovinato quella loro ultima giornata lì, per quella cioccolata con la panna che non avevano preso, perché lui era solo davanti al fuoco e lei era lassù ad odiarsi perché si odiava per tutto quello che non era e che era convinta non sarebbe mai riuscita ad essere più. Si rifugiò in bagno, pensando che una doccia le avrebbe fatto bene, magari si sarebbe calmata un po' e poi sarebbe tornata da lui anche se non sapeva come giustificarsi, anche se era convinta che lui non le avrebbe chiesto nulla. 

Si spogliò velocemente attenta come sempre a non guardarsi allo specchio più del dovuto, ma prima di entrare nella doccia, l’occhio le cadde sul suo corpo, su quei segni che tracciavano una linea di demarcazione netta tra quella che era stata e quella che non era più. Rimase a fissarsi in silenzio, toccando quei segni che tanto odiava, di quel rosa più intenso, dove la pelle era più liscia e rimase sorpresa dalla sensazione provata nel non riconoscere il proprio tocco sulla pelle come se la toccasse un estraneo, come se quella linea non fosse la sua, sul suo corpo, come se quella parte insensibile si fosse staccata da lei. Dopo mesi era la prima volta che trovava il coraggio di farlo e questo non l’avvicinò a se stessa, ma anzi si sentì ancora più lontana: quei segni non le erano estranei solo alla vista, ma anche al tatto. 

Il rumore della porta che si aprì la fece scattare e benché fosse interamente nuda, portare le mani a coprirsi i seni e quei segni.

- Castle ti prego vattene! - gli disse risoluta e spaventata allo stesso tempo. Lui imbarazzato si voltò.

- Scusa è che… ti ho chiamato, non mi hai risposto… ho pensato che… avessi bisogno di aiuto, non so… scusami…

Si girò per guardarla e la trovò mentre cercava frettolosamente di coprirsi con un asciugamano, ma il suo nervosismo le impedì di compiere quell’azione con la giusta coordinazione ed il telo scivolò di nuovo a terra. Kate si piegò velocemente per raccoglierlo e lo stesso fece Rick per aiutarla. Lei provò a prenderlo ma lui fu più veloce e lì piegati in quel bagno i loro occhi si incontrarono di nuovo, e Castle vide negli occhi di Beckett una paura che non sapeva decifrare. Le porse l’asciugamano e lei se lo legò sotto le ascelle nascondendosi allo sguardo di lui che scendeva sul suo corpo.

- Non mi guardare, ti prego. - e glielo disse proprio come una preghiera, nascondendosi ancora con le parole, la stoffa e le braccia.

- Sei bellissima Kate.

- Non lo dire, Rick, tu non hai…

Castle la guardava spostando velocemente lo sguardo su quello di lei lasciato scoperto: la linea delle spalle, le braccia, le lunghe gambe, per poi tornare al suo volto, alle labbra che si mordicchiava nervosa, agli occhi impauriti. Le posò un dito sulla bocca facendola tacere.

- Sei bellissima.

Le si avvicinò baciandole le labbra e poi scendendo sul collo e poi sulla spalla. Respirò profondamente, sospirando sulla sua pelle, facendola rabbrividire con il calore del suo respiro mescolato all’umido dei baci. 

- Kate io… io ti amo… 

Fu lei questa volta a deglutire rumorosamente mentre lui si era spostato da una spalla all’altra, riservandole le stesse attenzioni e sapeva bene che quelle sue parole volevano dire anche altro. Lo aveva capito dal suo tono della voce, così diverso, più basso, più ansioso.

Senza dirle nulla Castle mise le mani sul nodo dell’asciugamano e lo stava per sciogliere quando Kate lo bloccò.

- Non dovresti vedere… Non sono più… 

Non fece in tempo a finire la frase perché lui aveva già slegato la stoffa ed era scivolata ai suoi piedi e le aveva preso le mani, obbligandole ad intrecciare le dita con le sue. Non si mosse, la guardò fisso solo negli occhi, in quella sfida di sguardi nel quale non ci sarebbe stato un sconfitto. Aspettava che lei fosse pronta, per essere guardata, per essere amata come lui voleva. Aspettò guardandola mentre lei ora stringeva le sue mani con più forza e Rick annuì, rispondendo alle sue domande silenziose alle sue paure che non riusciva ancora a raccontargli. Ma lui le disse di sì, a tutto, anche a quello che non sapeva. Le disse sì a tutto quello che voleva e poi anche lei disse sì a tutto quello che voleva lui e lo ripetè non solo con un gesto, ma a parole, in un sorriso e lasciò libere le mani di Castle, libere di toccarla come lui voleva e di baciarla dove lui voleva.

 

Era già tramontato il sole, le temperature precipitate, nevicava con insistenza ed il vento soffiava violento, ma tutto questo a Castle e Beckett non importava. La tormenta era chiusa al di fuori di quelle mura era lontana dal letto dove Rick aveva fatto distendere Kate, era lontana dalla bocca di lui che attraversava il suo corpo, esplorandolo come non aveva mai fatto, come avrebbe voluto fare da tempo. Kate teneva gli occhi chiusi mentre lasciava che lui cercasse di farle capire a gesti quello che le parole non potevano dire e sussultò quando lo sentì indugiare sulla cicatrice sul fianco, provocandole una sensazione più familiare del suo stesso tocco e poi lo sentì spostarsi tra i suoi seni baciandola proprio lì su quel segno rotondo quasi perfetto, in quel centimetro più in là che aveva fatto tutta la differenza del mondo. Lo baciò a lungo, ripetutamente, appoggiandosi poi proprio lì, come se volesse riposarsi, come se anche per lui le emozioni fossero troppe. Sentì le mani di Kate tra i suoi capelli accarezzarlo ed allora si sollevò a guardarla: aveva sempre gli occhi chiusi e li aprì solo quando sentì le labbra di lui sulle proprie. 

Beckett infilò le mani sotto il maglione di Castle, tirando la maglietta e scoprendo un lembo di pelle. Fu lì che andò a fermarsi prima di risalire sul torace, fino ai pettorali e poi fare il percorso inverso, sulla schiena ampia. In un movimento rapido, poi, lo lasciò a torso nudo, sospirando alla vista del suo petto e poi godendosi lo spettacolo di lui che si stava slacciando i pantaloni senza smettere per un solo istante di guardarla. Li tirò via facendoli finire in un punto imprecisato della stanza, con tutto il resto prima di ritornare su di lei.

- Dio mio Kate, non hai idea da quanto voglio questo momento… quanto ti voglio… - Le disse riprendendo a baciarla lì dove aveva smesso, scuotendola di brividi.

Le parole di Rick sciolsero quel nodo allo stomaco che la bloccava e si sentì stupida per tutte le paure che aveva avuto fino a quel momento. Le mani e la bocca di Castle si muovevano in perfetta sincronia e Beckett si godeva ogni singola emozione che lui le concedeva, baciandola, mordicchiandola, stringendola mentre lei teneva le mani tra i suoi capelli, massaggiandogli la nuca. Poi si bloccò. 

- Castle ti prego no… - Lui si alzò allarmato a guardarla. Le mani ora stringevano forte le lenzuola. - … questo no.

Era sceso più giù dei seni, era arrivato a baciarle il ventre, in quell’unico gesto più intimo che di tanto in tanto si era concesso, e proprio come in quel momento, lei gli teneva le mani tra i capelli mentre lui accarezzava e baciava la sua pancia ancora piatta. La guardò per un istante, poi non curante delle sue parole si piegò a baciarla lì ancora e ancora e ancora fino a quando non la sentì singhiozzare. Solo allora smise e si sdraiò al suo fianco, prendendole il volto tra le mani e baciandola dolcemente sulle labbra. La baciò fino a quando non si calmò e l’avrebbe baciata fino a quando non avesse smesso di piangere anche se questo avrebbe voluto dire continuare fino al mattino. La sentì infine stringersi a lui e ricambiare i suoi baci, sentì le sue gambe intrecciarsi con le proprie e i singhiozzi diventare sospiro mentre avida cercava ossigeno tra le sue labbra. 

Castle ricominciò dove si era interrotto riprendendo ad esplorare il corpo di Beckett volendo assaporare ogni centimetro della sua pelle. Ora, però, era lei a sembrare impaziente: voleva lui come forse non lo aveva mai voluto, non così coscientemente. Non era solo la passione di un momento, ma un sentimento maturato e cresciuto nei mesi che ora, liberato, non poteva più aspettare. Castle sembrò capirla perché in realtà anche lui non voleva altro che lei con la stessa impazienza e lo stesso desiderio. Fu come era già stato una volta e come non era stato mai. Fu annullarsi l’un l’altro e rinascere insieme. Fu tutto e nulla, la somma di tutte le emozioni e l’annientamento delle paure. Fu l’esplosione del piacere represso troppo a lungo. Fu un lungo sospiro ed un “ti amo” urlato al silenzio. Fu linfa vitale dove Beckett pensava non poter sentirsi viva ancora. Fu amore per Castle dopo aver pensato di averlo perso. Furono loro ed era di più di tutto il resto e dopo furono altri baci, mani intrecciate, respiri che si confondevano, abbracci infiniti in un groviglio di corpi. 

- Non te ne andare. Non mi lasciare. - Gli disse Kate tremando tra le sue braccia e Rick non sapeva se era freddo, piacere o paura ma la coprì con il suo corpo prima ancora che con il piumone e la strinse a se baciandola ancora, sapendo che l’unico modo per rassicurarla era farla svegliare la mattina dopo così come era in quel momento.

- Starò con te per sempre. - Ed era la promessa che Castle voleva mantenere più di ogni altra.

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Capitolo 50
*** CINQUANTA ***


Kate, tra le braccia di Rick, si era addormentata poco dopo mentre lui era rimasto sveglio ad osservarla dormire. Castle sentì solo in quel momento come il vento soffiasse molto forte, tanto da far sbattere i rami degli alberi con eccessivo vigore. Si doveva essere scatenata quella forte tormenta di cui parlavano alcuni uomini del posto quella mattina, a cui però non aveva dato troppa importanza visto il cielo sereno. Avrebbe voluto controllare, ma mai si sarebbe alzato lasciandola sola. Era molto prima di quanto pensasse, in fondo anche se era notte già da qualche ora, in quel periodo dell’anno faceva buio molto presto, era di fatto passata da poco l’ora di cena. Accarezzò Kate e la baciò su una guancia, sentì un brivido nel percepire la sua pelle nuda sul suo corpo, e le lunghe gambe che si muovevano lentamente tra le proprie. L’amava. Era semplice, era banale, ma era un sentimento così forte e totalizzante che gli faceva male. Non aveva mai provato nulla del genere per nessuna donna in vita sua, forse il sentimento più vicino era quello che aveva provato per Kyra, ma era comunque diverso, non aveva allora la consapevolezza di cosa volesse dire amare veramente una donna, desiderare di passare tutta la vita con lei ed essere disposto a qualsiasi cosa per lei. Per Kate, invece, avrebbe fatto tutto. 

Si alzò piano dal letto recuperò qualcosa da mettersi addosso tra i vestiti sparsi per la camera. Prese i boxer e la canottiera. Avrebbe alzato il riscaldamento perché desiderava fortemente che Kate restasse con meno vestiti possibili. Voleva prepararle qualcosa per quando si fosse svegliata, avrebbe voluto mangiare a letto con lei e poi fare di nuovo l’amore una, dieci, cento, mille volte. Mise altra legna nel camino ed alzò la temperatura. Si prese qualche istante ancora per guardarla nuda, con solo un lembo del piumino che le cingeva la vita, che sarebbe andato volentieri a toglierle per ricoprirla con il suo corpo. Kate Beckett ne era certo, per lui era una droga che provocava assuefazione. Sospirò profondamente prima di andarsene de lì e scendere al piano inferiore su quella scala di legno che scricchiolava sempre un po'. 

Il vino rosso che aveva scelto dalla sua cantina personale, nascosta tra i mobili della cucina, era Châteauneuf du Pape di una importante cantina francese, un vino d’annata che conservava per le occasioni speciali, un vino importante e strutturato, come diceva il suo amico sommelier, per questo stava preparando con cura un tagliere di formaggi saporiti e stagionati da accompagnare con il pane che aveva appena tostato e le confetture e per finire preparò una vaschetta con uva e fragole e già immaginava i vari modi in cui l’avrebbe mangiate con lei o su di lei. Mise tutto in un grande vassoio di legno grezzo e salì le scale: avrebbe voluto svegliarla con il sapore dolce di una fragola tra le labbra, ma la trovò avvolta in una vestaglia già in piedi in contemplazione del paesaggio notturno rischiarato solo dalle luci della casa. Non poteva non averlo sentito, ma non si voltò mai, nemmeno quando posò il vassoio sul mobile in fondo al letto aprendo il vino e versandolo un po' nei bicchieri per farlo ossigenare: dopo sarebbe stato ancora più buono.

Si avvicinò a lei abbracciandola da dietro, e baciandole il collo mentre Kate rimaneva immobile. Fu solo quando alzò lo sguardo che la vide riflessa nel vetro, sera con il volto rigato dalle lacrime. Si portò subito davanti a lei, cercando di capire cosa fosse che la turbasse, ma lei si rifiutava di trovare il contatto con i suoi occhi. Non si diede per vinto, aveva capito che mai doveva farlo con lei, e le prese il viso tra le mani, costringendola a guardarlo, ancora una volta. Un pensieroso lo terrorizzò e non riuscì a tenersi dall’esternarlo.

- Ti… ti sei pentita? Di noi, di quanto è successo? È stato troppo presto? Non volevi?

Kate chiuse gli occhi e deglutì con fatica e le parole le uscirono roche dalla gola, come se graffiassero arrampicandosi per trovare l’uscita.

- Non c’eri. Mi sono svegliata ed ero sola.

- Io… ero andato a preparare qualcosa per mangiare… io… non ci ho pensato… perdonami. 

Rick si sentiva tremendamente in imbarazzo. Era stata la prima cosa che gli aveva chiesto, dopo: rimanere con lei, non lasciarla ed era proprio quello che aveva fatto facendola svegliare sola, dopo, ancora una volta. Aveva creato il suo film in testa e questo non prevedeva che lei si svegliasse quindi secondo la sua stramba logica lei non lo avrebbe fatto. Invece Kate aveva percepito quasi subito la sua assenza e si era svegliata, sola, in quel letto e non lo aveva trovato al suo fianco, quella notte come a Los Angeles, così simile e così diversa. 

- Non ti sei pentita? - Le chiese ancora senza lasciare il suo viso. Kate scosse la testa con vigore tra le sue mani.

- Volevo solo svegliarmi vicino a te. E tu?

Rick le lasciò il viso e mise le mani dentro la sua vestaglia che si aprì al suo passaggio poco rispettoso dell’indumento. A palmi larghi passava le mani sulla sua pelle, coprendole la schiena, sfiorandole i glutei per poi cingerle i fianchi ed avvicinarla a se. Si piegò per baciarla e lei fu pronta ad accogliere il suo bacio e a scontarsi con il suo corpo. Non avrebbe mai interrotto quel bacio se non fosse stato per la necessità di ossigeno. Ora lei era stretta tra le sue braccia che non le lasciavano libertà di movimento e Kate si aggrappò alla sua schiena, scivolando sotto la tshirt.

- L’unica cosa di cui mi pento è il tempo sprecato. Ti amo Kate. Ti amo e vorrei riuscire a fartelo capire, a fugare ogni dubbio.

Beckett percepì il dispiacere nelle sue parole e nella sua voce. Si sentì profondamente in colpa per aver rovinato tutto ancora una volta per colpa delle sue paure e dei suoi fantasmi, quella notte che era stata così perfetta in tutto, quando finalmente era stati loro in tutto nel più profondo e completo senso dell’essere. Appoggiò la testa sulla sua spalla, stanca. Stanca di se stessa, delle sue paure e dei suoi fantasmi che tornavano a perseguitarla, subdoli, che distruggevano tutto quando le sembrava di non poter volere di più.

- Mi dispiace, Castle. Mi dispiace tanto. - sussurrò contro il suo collo. - Vorrei essere migliore di quella che sono. Vorrei essere di più per te.

- Non puoi essere più di tutto, Beckett. - Le rispose sorridendo. Avrebbe voluto far sorridere anche lei, ma non fece altro che aumentare quel senso di inadeguatezza nei suoi confronti che l’aveva invasa dopo la paura e tutto il resto. 

- Ti amo tanto Castle. Credimi, anche se spesso sembra il contrario. Non ho mai smesso, nemmeno per un istante di farlo. Sei la cosa migliore che è capitata nella mia vita. Non voglio perderti e nemmeno farti soffrire ma non so se ne sono capace.

- Non mi perderai mai, ok? Una volta ti ho detto che me ne sarei andato solo se me lo avessi chiesto. Ho sbagliato perché non dovevo farlo. Adesso per liberarti di me dovrai arrestarmi. - Lui sorrise ancora e questa volta sentì anche lei farlo, percependo il movimento delle sue labbra sulla pelle del collo.

- Non posso arrestarti più io, ti ricordi che non sono più nella polizia?

- Uhm… tendo a dimenticarlo, in effetti… allora dovrai chiederlo a Kevin o Javier.

Kate rise e Rick la sentì finalmente rilassarsi.

- Che ne dici se ora mangiamo qualcosa? Sai credo che abbiamo consumato molte energie prima… - Sghignazzò

- Ne potremmo consumare anche altre dopo Castle!

- Beckett, sei insaziabile! - Le disse prendendola per mano e portandola fino al letto. Mise tra di loro il vassoio e le passò un calice di vino, senza resistere alla tentazione di baciarla ancora, appena le sue labbra furono bagnate dal rosso nettare e quel vino dal retrogusto fruttato e speziato, sulle sue labbra era ancora più buono, ma era convinto che lei rendesse tutto più buono.

Le piaceva imboccarla, passarle pezzetti di formaggio intinto nelle diverse confetture direttamente con le mani e sentire la sua bocca lambirgli le dita in gesti così involontariamente sensuali che lo facevano andare fuori di testa ancor di più che se fosse voluto e lei ricambiava facendo la stessa cosa con lui.

Il vassoio in mezzo a loro era diventato un ingombro eccessivo ed appena finirono di mangiare Rick lo tolse, lasciando solo la vaschetta con le fragole. La vestaglia di Kate ormai era quasi del tutto scivolata via dal suo corpo. Mangiava reclinata su un fianco e lui non poteva evitare di accarezzare il profilo del suo corpo, solleticando uno dei capezzoli con tocchi sfuggenti. Le piaceva vedere come vibrava ogni volta e soprattutto come cercava di nasconderli, come se avesse riacquistato quel pudore che le aveva fatto completamente perdere prima e lo avrebbe fatto ancora. La sua musa era perfetta, e gliel’avrebbero invidiata tutti i più grandi poeti ed artisti del passato. Castle si rese conto che doveva avere un’espressione sognante perché Beckett lo guardava sorridendo e gli accarezzò il volto.

- A cosa pensi? - gli chiese ridestandolo dal suo sogno ad occhi aperti.

- A te.

- Sono qui. - Rick non sapeva se era una constatazione o un invito, ma lasciò che prendesse un’altra fragola, poi tolse tutto quello che era tra loro, anche una vaschetta era troppo.

- Lo so. Proprio per questo.

Kate si lasciò scivolare via la vestaglia e con un movimento rapido e sinuoso allo stesso tempo fu sopra di lui. Castle si sentiva imprigionato da qualcosa di molto più forte e pesante del corpo esile di Beckett, ma quando la guardò seduta su di lui pensò che non si sarebbe mai abituato a tanto. La vide passarsi la fragola sulle labbra e poi succhiarla avidamente, ma ne morse solo una piccola parte, Rick se ne accorse quando la porse a lui e potè assaporare il sapore dolce del frutto e quello ancora più dolce di lei. Anche lui la succhio e poi la morse e prendendola dalla sua mano poi fece quello che aveva fatto lei, passandogliela di nuovo, continuando a piccoli morsi fino a quando del frutto non rimase più nulla e scambiandosi infine un bacio al sapore di fragola.

- Sai cosa mi dispiace di più che non sei più in polizia? - Le chiese mentre che lei si muoveva in modo provocante sopra di lui mentre armeggiava con la sua maglietta per togliergliela per baciare poi il suo torace nudo. Castle non aveva propriamente un fisico atletico e scolpito, ma lei adorava il suo petto morbido e le sue braccia forti, che la coccolavano e la facevano sentire protetta nello stesso momento.

- Castle non ho assolutamente voglia adesso di parlare delle mie dimissioni. - gli disse con tono lascivo lasciandogli baci e piccoli morsi, come gli veniva in mente di parlare di quello? Lui si lasciò sfuggire un gemito più forte degli altri quando lei lo stimolò sapientemente con il suo corpo nudo.

- Dai Beckett prova ad indovinare… - Insistette lui cercando di resisterle. 

- Che non puoi più vedermi correre dietro ai criminali sui tacchi? - rise stringendo le proprie gambe intorno al suo corpo mentre le mani di lui le accarezzavano le cosce.

- No Beckett. È che avrei sempre voluto vedere in che altro modo usavi le tue manette.

- E chi ti dice che io non ne abbia un paio a casa? - gli disse con un bagliore negli occhi che lo fece eccitare ancora di più.

- Sei diabolica… 

- Ora basta parlare Castle. Intanto considerati in arresto anche senza manette, signor Castle. - con un movimenti rapido e deciso prese entrambi i suoi polsi portandoli sopra la sua testa. 

- È dalla prima volta che mi hai arrestato che ti immaginavo così. La mia safeword è sempre “mele”. - le disse sghignazzando mentre lei gli teneva le mani sempre ferme sopra la testa.

- Tranquillo Castle non ti servirà nessuna safeword. - gli lasciò le mani e scese sapientemente lungo il suo corpo lasciando una scia umida di baci fino ad arrivare all’elastico dei suoi boxer. Poi Kate gli fece perdere il controllo fisico e mentale come mai nessuna donna aveva fatto: era totalmente, completamente, rapito di lei e da lei, dal suo corpo, dalla sua bocca e dalle sue mani che si muovevano su di lui con maestria: Kate voleva restituirgli tutto quello che lui le aveva dato prima ed anche di più.

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Capitolo 51
*** CINQUANTUNO ***


La schiena nuda di Kate era appoggiata al suo torace, i loro corpi uniti in un incastro tutto loro, con le gambe intrecciate e la mano di Castle che tracciava linee sulle sua pelle, tra i seni e sul ventre. L’aveva lasciata libera da poco, per quasi tutta la notte, almeno da quando avevano dormito e lei si era girata di fianco, obbligando lui a fare lo stesso, non l’aveva lasciata, tenendola nella sua, vicino al suo corpo, in un’implicita richiesta di non lasciarla, non ancora una volta, di rimanere con lei.

Le tende lasciate aperte facevano entrare una luce bianca che rifletteva la neve che era caduta senza sosta per tutta la notte e stava ancora cadendo. Era una luce ovattata, non splendente, una luce discreta, quasi non volesse turbare quella mattina e quel risveglio. Rick sentì Kate muoversi, provare a stiracchiarsi, strusciando le gambe tra le sue, producendo qualche mugolio assonnato. Il fondoschiena nudo di Beckett che si strusciava su di lui gli provocava reazioni fin troppo naturali. Si sentiva un adolescente incapace di contenere le reazioni del suo corpo ed era tutta colpa di quella donna che teneva tra le braccia. Lasciò che la sua mano scivolasse maliziosa sempre più in basso, leggera sulla sua pelle: la sentì contrarsi ed aderire di più a lui non facendo altro che stimolarlo ancora di più. La mano di Kate si poggiò sopra la sua, poco prima di arrivare a destinazione. La sentì ridere adesso, di cuore, come da tanto non le capitava.

- Credevo che questa notte ne avevi avuto abbastanza Castle… - Gli accarezzava le dita della mano, morbide e grandi, quelle stesse dita che sul suo corpo sapevano toccare e farla vibrare, come se conoscessero in modo innato ogni suo punto più sensibile, che erano ancora una volta pericolosamente vicine alla meta.

- Dovrebbero metterti nella lista delle sostanze illegali Beckett… - Sospirò baciandola sul collo ed era tutt’altro che un bacio casto, assaporava la sua pelle, lambendola con la lingua in quel punto che aveva scoperto dove lei era più sensibile e se ne accorgeva dai respiri più profondi e spezzati, dalla mano che aveva lasciato la sua, permettendole di continuare il suo percorso, con molta calma, perché quella notte aveva scoperto una cosa, adorava farla impazzire, farla supplicare di arrivare lì dove lui voleva, perché non c’era cosa che lo eccitava di più di lei che lo pregava di darle tutto se stesso.

Kate avrebbe voluto dirgli di smettere, che dovevano prepararsi, finire i bagagli e poi andare in aeroporto. Non sapeva che ora fosse, ma la sua parte razionale sapeva che doveva alzarsi da lì, ma la sua parte razionale, in quel momento non contava nulla, annullata da Castle, dal suo corpo, dalle sue mani e dalla sua bocca e da quell’effetto totalizzante che aveva su di lei. Non era stata una notte di sesso, non era stata nemmeno una notte d’amore, era stata una notte di tutto, la notte nella quale si era dopo mesi riappropriata di se stessa, grazie a lui, la notte nella quale aveva capito di poter essere ancora viva, sotto tutti i punti di vista, che continuare a punirsi non aveva senso, che nel vivere la sua vita pienamente non avrebbe fatto un torto a nessuno e non avrebbe cancellato nulla di quanto accaduto.

Si sporse all’indietro, premendo con il fondoschiena sul suo bacino e non si sentì imbarazzata ad avere voglia di lui, tanto sentiva lui ne avesse di lei, se lei era una droga per lui, lui non era nulla di meno per lei e non era un bisogno fisico, non solo quello, era la sua capacità di farla stare bene, di farla sentire speciale, sotto ogni punto di vista. Non si era mai sentita così desiderata da nessuno e mai nessuno lei aveva voluto quanto lui. L’amore si faceva con il corpo, ma Castle era in grado di fare l’amore anche con la sua anima, entrandole dentro fin sotto la pelle, scorrendo dentro di lei, in ogni parte del suo corpo, come un veleno che si diffondeva rapido e la rapiva completamente. Quella notte aveva abbattuto con lui ogni rimanente muro che aveva, andando ben oltre quanto avevano mai fatto. Non era questione di sesso, era l’essersi affidata a lui totalmente, volutamente, consapevolmente. Si era lasciata amare e lo aveva amato in modo egoista, volendo e pretendendo tutto quello che lui poteva darle e poi restituendogli tutto indietro. Perché sentiva che anche nell’amarlo facesse qualcosa per se stessa più che per lui, perché le era necessario per stare bene essere amata tanto quanto dimostrargli il suo amore. Capì il senso più profondo di quella richiesta di Rick di essere egoista fino al punto di non chiedergli mai di lasciarla per il suo bene. Quella frase che le era sembrata assurda ora era chiara. Non avrebbe più fatto a meno di lui, ne era certa. Lo amava e non faceva fatica ad ammettere adesso che amava essere amata da lui, appropriandosi di quell’egoismo che lui le aveva chiesto. Non avrebbe più avuto la forza di allontanarlo da lei, qualunque cosa fosse successa, ne era certa e mentre la mano di Castle arrivava lì, dove dall’inizio voleva arrivare e reclinò la testa indietro al suo tocco, lasciando a lui il suo collo scoperto e vulnerabile, esposto alla sua bocca che si appropriava di ogni centimetro della sua pelle come se fosse un avido vampiro, lei capì che nella vita non avrebbe mai voluto altro che lui e se anche fosse stato realmente un vampiro, non si sarebbe tirata indietro, accettando che la portasse con se, nel suo mondo. Avrebbe voluto dirgli tutto, tutto quello che era nella sua mente e nel suo cuore, ma non era capace di articolare nessuna parola, né lui l’avrebbe ascoltata. Lo lasciò fare lasciando che fossero i loro corpi a parlare al posto loro. Per le parole, ci sarebbe stato tempo.

 

Era rimasta abbandonata sul suo corpo, lasciando che lui le accarezzasse la schiena e i capelli. Avevano ancora il respiro affannato ed un sorriso impossibile da cancellare dalle labbra. Kate baciava il suo torace, erano baci inconsapevoli, comandati dalla bocca che non poteva farne a meno.

- Il miglior risveglio di sempre. Beckett mi hai… wow… - Le disse infine Rick, senza trovale le parole giuste, facendole alzare la testa per guardarlo, e potè leggere negli occhi di lei insieme al compiacimento un filo di imbarazzo. Scivolò verso l’alto, lui le accarezzò il viso scostandole i capelli, poi lo accarezzò ancora, e ancora una volta. Infine le prese il mento e avvicinò il volto di lei al proprio, per un tenero bacio.

- Ti amo Kate.

- Ti amo anche io Rick. - Gli disse abbandonandosi di nuovo su di lui, quasi come temesse di farsi vedere in quel momento, quando le emozioni presero il sopravvento su di lei, la investirono come uno tsunami e si sentì scaraventata con forza lontano. Se non fosse stata una persona estremamente razionale, avrebbe pensato che lui sapesse leggere nella mente, perché in quel momento la strinse con vigore, perché niente la poteva allontanare da lui. Quelle lacrime che sentì uscire, che gli bagnarono la spalla, non gli chiese mai per cosa fossero, la lasciò piangere in balia dei suoi sentimenti, tenendola stretta a se.

 

 

Non si erano accorti che avesse nevicato così tanto. O meglio, lo avevano visto quando si erano alzati ed avevano guardato fuori dalla finestra un paesaggio completamente bianco e il villaggio in lontananza nemmeno si vedeva. I fiocchi continuavano a cadere con insistenza e non sembravano volersi fermare. Rick stava ancora rigirandosi il cellulare tra le mani, seduto sulla poltrona mentre Kate davanti a lui lo guardava con aria interrogativa.

- Era Sam, il padre di Hyden. Dice hanno chiuso l’aeroporto perché ha nevicato troppo e le previsioni saranno così anche per i prossimi giorni, in più c’è stata una slavina più a valle e la strada per arrivare qui da noi è impraticabile, se non con le motoslitte. Credo che dovremmo rimandare la partenza.

Sentì Kate sospirare, intrecciare le braccia al petto ed il rumore dei suoi tacchi picchiettare sul pavimento di legno dello chalet.

- Dovrai passare il Natale qui… - gli disse guardando fuori quella neve che non accennava a diminuire. Castle fu sorpreso da quella sua affermazione dispiaciuta. Si alzò dalla poltrona e la raggiunse.

- Già, anche tu, a meno che non vuoi provare ad avventurarti nella bufera per chiedere ospitalità a qualche montanaro.

- Per me il Natale non è importante da passare in famiglia, non lo festeggio da anni, per te sì. Me ne hai parlato per giorni di tutti i tuoi riti, le tue tradizione con Martha e con Alexis… Non far finta che non ti dispiaccia, Castle, ti conosco!

Si era voltata per guardarlo. Era stupito dalle sue parole, abbozzò un sorriso non per compiacerla, ma perché nonostante tutto gli piaceva quando lei si preoccupava per lui.

- È vero, ho sempre trascorso il Natale con Alexis da quando è nata, non siamo mai stati separati. La cena della vigilia, aprire i regali a mezzanotte davanti al nostro grande albero che ogni anno è diventato più grande ed ogni anno abbiamo più decorazioni da mettere al loft. Mi mancherà? Certo che mi mancherà. - Andò a cercare le sue mani, sciogliendole da quella posizione di difesa e stringendole tra le sue - Ma Kate, se sono con te, lo passerò comunque con una parte della mia famiglia. Tu sei parte della mia famiglia, una parte importantissima.

- Castle, ti prego…

- No, Kate, ascoltami. Io… non posso più fare finta di niente. Non dopo questi giorni, non dopo stanotte. Io non voglio più dirti “resta”. Avremo tempo per parlarne, ma vorrei che quando torniamo a New York tu venga a vivere al loft, non c’è motivo per stare separati, non c’è nessuna ragione al mondo per evitare quello che è inevitabile. Ti amo e voglio vivere con te. Tutti i giorni.

- Perché me lo stai dicendo ora Castle, così… 

- Perché lo voglio, non c’è un perché. Voglio che fai parte della mia famiglia e vorrei…

- Shh Castle… non dire altro…

Beckett si sporse verso di lui portando le braccia intorno al suo collo, ritrovando quel punto tra il collo e la spalla perfetto per appoggiare la sua testa. Rick la abbracciò mentre guardava la neve accumularsi fuori dalla finestra. Avrebbe dovuto chiamare Alexis, era certo che avrebbe capito, che non si sarebbe arrabbiata, non erano quelli i suoi piani e gli dispiaceva lasciare sole sua madre e sua figlia, ma tutto sommato non poteva dirsi del tutto rammaricato, perché era certo che quel prolungamento di vacanza solitaria con Beckett, in quel momento, avrebbe consolidato ancora di più il loro rapporto, pensando a tutte le cose che potevano fare che non avevano avuto tempo e modo di sperimentare in quei giorni. Vide il suo sorriso riflesso nel vetro e strinse di più Kate a se, lasciandole un bacio tra i capelli, certo che avrebbe accettato la sua proposta di trasferirsi al loft, perché sentiva che anche lei non poteva più fare a meno di quel loro che avevano ricostruito, o forse costruito realmente per la prima volta. Ora non avevano più nessun dubbio, stavano insieme perché lo volevano, perché si volevano, per nessun altro motivo che poteva farli pensare che era solamente una questione di responsabilità. Stavano insieme perché si amavano e perché mai avrebbero potuto fare altrimenti.

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Capitolo 52
*** CINQUANTADUE ***


Uno chalet, la neve alta, il fuoco acceso, la luce delle candele, la persona amata tra le braccia. Sarebbe stato un quadro perfetto per ogni storia romantica, se non fosse che la tempesta aveva isolato i telefoni, interrotto la linea dei cellulari e fatto saltare il quadro elettrico.

Rick e Kate se ne stavano abbracciati sotto le coperte sul divano davanti al camino in quell’antivigilia di Natale. Poco dopo aver scoperto di essere di fatto isolati un blackout li aveva anche lasciati senza elettricità e Rick, come prima cosa, aveva controllato nel capanno fuori quanta legna ancora avevano: secondo le sue stime empiriche da uomo non propriamente esperto di montagna, ancora per un paio di giorni sarebbero stati a posto. Aveva ancora gran parte delle scorte di cibo che aveva si era fatto portare da Hyden, per una volta il suo essere esagerato era stato utile. Era riuscito in un momento in cui il cellulare sembrava dare segni di vita a mandare un messaggio ad Alexis per rassicurarla che stavano bene ed erano solo bloccati in montagna dalla neve. Non sapeva se lo avesse ricevuto o se gli aveva risposto, non era più tornata la linea.

Si erano quindi accoccolati sul grande divano del soggiorno, Kate appoggiata al petto di Rick, con una mano tenuta sulla sua spalla, come a volersi aggrappare a lui che le cingeva la vita per non scostarla nemmeno di un centimetro da lui. Le accarezzava di tanto in tanto i capelli e la schiena sotto le coperte e lei ricambiava le sue attenzioni con dolci baci sul collo. Dopo un primo momento di naturale preoccupazione, Kate si stupì, invece, di essere assolutamente tranquilla in quella situazione e la sua unica preoccupazione era che Rick fosse angustiato per non essere certo che Alexis avesse ricevuto il suo messaggio. In qualsiasi altro momento della sua vita si sarebbe sentita come un topo in trappola e sarebbe stata ansiosa che la situazione si fosse risolta rapidamente. In quel momento, però, tra le braccia di Castle si sentiva assolutamente serena e nemmeno le normali preoccupazioni per le cose più ordinarie la scalfivano. Avevano comprato qualche giorno prima una grande quantità di cioccolata e dolci vari per portarla a parenti ed amici, mal che vada avrebbero mangiato quelli. 

 

Kate non lo avrebbe mai pensato fino a pochi mesi prima, ma c’era una cosa che insolitamente aveva scoperto le piaceva tantissimo fare con Castle, ed era parlare. Parlare di nulla, che poi diventava tutto. Raccontarsi cose del loro passato e con lui le veniva facile prendersi meno sul serio, ridere di se, raccontargli anche le cose che non voleva ammettere a se stessa.

- Qual è la prima canzone che un ragazzo ti ha dedicato? - Le chiese Rick dopo che aveva sistemato il fuoco. Il sole stava tramontando e loro era ancora al buio, isolati dal mondo.

- Uhm… - Kate incrociò le gambe sul divano coprendosi con una soffice coperta rossa - Bed of Roses di Bon Jovi. Era il 1994 ed avevo quindici anni, lui si chiamava Scott

- È stato il tuo primo ragazzo? - Chiese Rick sedendosi sul tappeto e guardandola dal basso in alto.

- No! - Rispose lei quasi disgustata.

- Beh? Che c’è di male? 

- Scott era… un viscido che pensava solo che tutte le ragazze ci sarebbero state solo perché molto ricco.

- Beh, però ti ha dedicato una canzone molto romantica!

- Solo perché sapeva che io ero assolutamente pazza di Bon Jovi all’epoca!

- Wow Beckett si scoprono gli altarini adesso! Tu fan di Bon Jovi!

- Esatto. Lo adoravo ed avevo anche i suoi poster in camera, cosa c’è di male? Tu non avevi i poster di nessuno in camera a quella età?

- Sì, ma non posso dirti di chi! Erano tutte molto poco vestite! - Sghignazzò Rick. 

- Sei sempre il solito Castle! 

- Se vuoi dire che mi piacciono sempre i corpi nudi delle belle donne hai ragione Beckett! Soprattutto di quelle con delle gambe lunghissime! - Disse accarezzandole maliziosamente la gamba nuda sotto la coperta, ma lei bloccò la sua mano prima che arrivasse troppo in alto, roteando gli occhi al cielo.

- Il tuo primo ragazzo allora chi è stato? - chiese curioso.

- Il suo nome era Theodore, ma si faceva chiamare Vince, come il protagonista di Renegade. Portava sempre un giubbotto di pelle, aveva i capelli lunghi ed un Harley. 

- Sempre questa passione per i ragazzi con le moto tu! - Disse sbuffando Castle alludendo a Josh.

- La passione è per le moto, i ragazzi con le moto una conseguenza. 

- E com’era questo Theodore o Vince?

- Bello, un po' stupido è decisamente poco raccomandabile.

- E tu stavi con uno così?

- Era la mia fase ribelle, mia madre era disperata e mio padre non mi ha rivolto parola per qualche settimana, quando lo hanno scoperto.

- È durata molto?

- Cos’è un interrogatorio, Castle? Comunque solo qualche mese, poi l’ho trovato a baciarsi durante una festa alla quale eravamo andati insieme con un’altra. L’ho lasciato quella sera stessa, poi gli ho anche rotto lo specchietto della moto. Credo si sia dispiaciuto di più per quello che per essere stato lasciato.

- Sei vendicativa Beckett! Dovrò tenerlo a mente! - Scherzò Rick.

- Sono tornata a casa piangendo come una disperata con l’orgoglio distrutto e mamma mi ha accolto con un “te lo avevo detto Katie!” che mi fece stare ancora peggio. Per tutto il resto dell’anno scolastico ero convinta che tutti ogni volta che mo guardavano pensavo solo alla stupida tradita da Vince. 

- Secondo me ti guardavano solo perché eri la ragazza più bella della scuola, ne sono certo! - La convinse a sedersi vicino a lui sul tappeto e l’abbracciò come a volerla consolare di qualcosa accaduto quasi vent’anni prima.

- E tu? La prima canzone che ti hanno dedicato? - chiese lei cambiando discorso.

- Una compagna di classe mi aveva mandato un biglietto con il testo di Crazy for you di Madonna. 

- Aveva buon gusto la ragazza.

- Lo so, ero già molto affascinante anche da ragazzino.

- Parlavo della canzone, Castle! - gli diede un pizzicotto sul fianco facendogli il solletico.

- Uhm… sicura? Perché ti assicuro, ero irresistibile anche allora! - disse facendole l’occhiolino

- Chi ti dice che ora sei irresistibile? - Lo provocò.

- Vogliamo scommettere? - Gli bastò sussurrarle quella frase molto languidamente vicino all’orecchio e poi lambirle il lobo con la lingua per sentirla fremere.

- L’importante Castle è che tu ora lo sia solo con me. - Rispose Kate con un filo di voce.

- Vuoi l’esclusiva della merce? - Le chiese accarezzandola sotto il maglione.

- Sì, Castle. Di tutta la merce.  

 

La sensazione del tappeto morbido sulla pelle nuda e sudata le provocò un misto di piacere e disagio. Kate rotolò su se stessa recuperando le coperte sparse sul divano che sporgevano dal bordo e le usò per coprire se stessa e Castle che era sdraiato sulla schiena con un sorriso soddisfatto e compiaciuto. Sperò che non a tutte le donne facesse il suo effetto, perché lei avrebbe ricominciato lì dove avevano appena finito. Beatitudine ed eccitazione si mescolavano in lei al nuovo contatto con il suo corpo: voleva solo sdraiarsi appoggiata a lui, faticò ad evitare che i suoi pensieri prendessero di nuovo forma. Capiva esattamente le sue parole, l’averla definita una droga, perché per lei Rick era la stessa cosa e se ne accorgeva ogni volta più nitidamente. Pensò che non era stato un caso quella notte a Los Angeles, che tutte quelle sensazioni provate e tentate di nascondere prima per fare finta di niente, poi perché troppo dolorose, non erano state casuali, figlie di un incontro clandestino. Erano loro, lo erano stati dalla prima volta senza nemmeno sapere che lo erano. C’era una forza incredibile che li legava, che non era solo sesso, quella era solo una delle componenti, ma era molto di più. Era un modo carnale di amarsi che le andava a prendere l’anima e non la lasciava più e per la prima volta pensò a quella notta senza che il dolore la lacerasse dall’interno.

Kate sapeva che Rick stava facendo finta di dormire mentre lei gli accarezzava il petto. Lo capiva dall’espressione e dalla postura e da quell’abbozzo di sorriso sulle labbra che aumentava quando le sue carezze scivolavano più in basso a solleticargli la pancia, quando poggiava le labbra sui suoi pettorali e umettava la pelle con la punta della lingua. Sorrideva lui a ricevere le sue attenzioni, sorrideva lei nel farle. Kate lo aveva sempre preso in giro, perché Rick era come un bambino, credeva a tutte le teorie più assurde e alla magia, ma adesso almeno a quest’ultima avrebbe dovuto cominciare a crederci anche lei, perché forse era stato proprio lui a farle qualche incantesimo: credeva non avrebbe più sorriso, con lui non poteva fare altro.

Kate sentì la mano di Rick percorrerle la schiena, arrivare fino alle natiche, stringerle e poi costringerla ad avvicinarsi ancora di più a lui, obbligo che esplicò con più che gioia.

- Credo che l’uso dei vestiti sia una cosa assolutamente sopravvalutata quando c’è del fuoco e tante coperte. - Asserì Rick mentre palpava la sua pelle nuda, morbida e ancora calda.

- Però così sei una grande fonte di distrazione, Castle. Molto grande. - Amava il modo in cui la toccava e la stringeva, come la faceva sentire sua come nessun altro aveva mai fatto, perché nessuno la aveva mai avuta come lui, fisicamente, emotivamente e mentalmente.

- Non abbiamo nessuno che ci vieta di distrarci tutte le volte che vogliamo, Beckett. E ti assicuro che anche tu sei una fonte di distrazione immensa.

Risero e la risata di Kate fu la cosa più bella che Rick potesse sentire ed era ancora più bello sentirla ridere quando si mise a cavalcioni su di lui. Il suo sorriso ed i suoi occhi erano illuminati dalle fiamme tremolanti del camino. Allungò le braccia sulle sue spalle, lasciando ricadere la coperta sul tappeto: faceva di nuovo molto caldo.

 

Era necessario che il fuoco fosse sempre acceso. Persi in loro stessi non si erano accorti che la fiamma si era spenta ed era rimasta solo un po' di brace. Non molta, ma sufficiente perché con qualche legnetto più piccolo il camino riprendesse rapidamente ad illuminare e riscaldare la stanza ora del tutto avvolta nell’oscurità della notte. Per quanto il tappeto fosse morbido e caldo ed avesse accolto le loro effusioni, per evitare di ritrovarsi con un importante mal di schiena erano risaliti sul divano, ora sì molto coperti in attesa del nuovo tepore del fuoco.

- Non credevo fosse possibile tutto questo, lo sai Beckett? Nemmeno nel mio più sfrenato ottimismo, non così presto, almeno.

- Cosa? Che il fuoco riprendesse a bruciare e a scaldarci? - Scherzò lei utilizzando le braccia di lui per coprirsi di più nel suo abbraccio. Erano distesi su un fianco, la schiena di lei contro il petto di lui, il viso di Rick tra i capelli di Kate con gli occhi chiusi, le loro gambe intrecciate.

- Se era una metafora era bellissima Beckett. Sì, il nostro fuoco. Io e te, noi. Lo desideravo, ma non riuscivo nemmeno a sperarci, non volevo illudermi. Invece è meglio di quanto avessi mai sognato.

- Lo hai sognato? - Chiese divertita.

- Di noi? Sempre e mai quando dormivo. Non sei un sogno vero Kate? Tutto questo non è solo un sogno, vero? Se apro gli occhi tu sei sempre qui. Non sono solo al loft e tu non mi vuoi nemmeno vedere, vero? - Improvvisamente Rick fu invaso dal dolore di tutti quei mesi e dalle sue paure quelle che aveva provato a non dirle, quelle che non le voleva nascondere più. Kate uscì dal suo abbraccio e lui si sentì perso. La sentì sollevarsi e muoversi, poi sentì il suo braccio avvolgergli la spalla, una mano delicatamente poggiata sul volto ed il sul profumo che lo inebriava.

- Apri gli occhi Castle! - quello di Beckett fu quasi un ordine che lui eseguì. Lei si era voltata, i loro visi erano così vicini che le punte dei nasi si sfioravano, potevano sentire i loro respiri, se avessero respirato, ma stavano tutti e due trattenendo il fiato. Il viso di Kate era così serio mentre lo guardava o forse erano solo le ombre prodotte dal fuoco a far sembrare la sua espressione così solenne. Rick aprì la bocca per parlare ma lei non glielo permise, intrappolandola in un bacio che lui fece subito diventare il rifugio delle sue paure. 

- Non è un sogno Castle. Non sei solo. Non siamo soli. Me lo hai insegnato tu. Non lo siamo più.

- Non lo siamo più… - Ripetè lui.

- No, Castle. E se tu vuoi, non sarai più solo nemmeno al loft, quando torneremo a New York.

- Vuol dire che verrai a vivere da me? - le chiese illuminandosi.

- Sì. Perché nemmeno io posso più stare senza di te. 

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Capitolo 53
*** CINQUANTATRE ***


Il bip del cellulare di Castle annunciò l’arrivo di un messaggio. Era la risposta di Alexis che gli diceva di non preoccuparsi per loro e gli chiedeva di fargli avere altre notizie su come se la passavano. Tranquillizzò la figlia rispondendole che andava tutto bene, loro erano al sicuro e stavano bene. 

Stavano decisamente bene, talmente bene che non poteva dire alla figlia quanto e perché. Era una cosa sua, anzi era una cosa loro, come tutto quello che era lì, qualcosa che era solo suo e che era diventato loro. Adesso Rick era decisamente più rilassato, sotto tutti i punti di vista. Sapere che Alexis stava bene, che avrebbe trascorso il Natale con i suoi amici, così come avrebbe fatto Martha, lo fece sentire meno in colpa per non essere poi così dispiaciuto di stare ancora un po' lassù con Kate. Anzi, non era dispiaciuto affatto. 

Si erano addormentati stretti uno nelle braccia dell’altra, scambiandosi piccoli baci fino a quando Morfeo non li raccolse cullandoli entrambi e si svegliarono allo stesso modo in quella vigilia di Natale, non appena la luce del sole invase il salone dalle grandi vetrate. Era poco più che l’alba ed aveva smesso di nevicare.

Kate osservò Rick rivestirsi, cercando i suoi indumenti (che il giorno prima aveva usato molto poco) sparsi sul tappeto e tra le coperte. Gli piaceva tutto di lui e non era una frase fatta, amava le sue imperfezioni così come la linea perfetta dei suoi glutei tonici, la schiena grande, le spalle ampie. Vederlo di spalle mentre copriva il suo corpo le sembrava un delitto che avrebbe volentieri evitato che commettesse. Si era accorta di essere innamorata di lui nel momento stesso in cui aveva segretamente cominciato ad amare tutto quello che di lui prima la irritava: il suo essere infantile lo aveva cominciato a vedere solo come un modo leggero di divertirsi, l’essere assillante era il modo in cui dimostrava che lui c’era per lei, se avesse voluto, il suo ego immenso ed il suo pavoneggiarsi nascondevano il suo bisogno di affetto e di essere al centro dell'attenzione delle persone. Perché Castle non era perfetto, come nessuno può esserlo ma lui era dannatamente perfetto per lei ed accettarlo era stata una delle cose più difficili che aveva dovuto fare, perché aveva voluto dire mettere in discussione tutto quello che era stata fino a quel momento e quello che aveva creduto di volere. Forse aveva sempre e solo voluto lui ed aveva solo dovuto capirlo. Ora, invece, ne era semplicemente certa. 

 

Il fuoco era ormai spento, ma la spia della tv accesa indicava che la corrente doveva essere tornata. In breve la casa fu avvolta da un nuovo calore, artificiale e meno romantico del caminetto, ma decisamente più pratico.

Rick ne approfittò per preparare una ricca colazione, cucinò uova, bacon, toast al formaggio e pancakes e mentre divoravano il loro pasto aveva lasciato del manzo a stufare con le verdure: non sapeva se quella situazione di ritorno alla normalità sarebbe durata a lungo e preferì approfittarne, così come Kate subito dopo aver mangiato andò a farsi una lunga doccia calda. Rick l’avrebbe seguita volentieri, ma poi finì con il chiamare Alexis e sua madre, rassicurandole ancora che tutto era ok, stavano bene e non gli mancava nulla e promise loro che se avesse potuto, le avrebbe chiamate a mezzanotte per gli auguri.

Kate era appena scesa quando dei rumori alla porta li colsero di sorpresa. Da quel che ne sapeva le strade erano impraticabili e loro sarebbero dovuti essere isolati. Nel mentre che andava ad aprire la porta Rick si era già fatto un film in testa, immaginandosi qualche uomo sopravvissuto alla bufera giunto fin lì per chiedere riparo con una storia avventurosa alle spalle che lui era pronto ad ascoltare, mentre Kate era, come sempre molto più sul chi va là, ricordandogli di stare attento, seguendolo appena un paio di passi indietro.

La sagoma che si palesò davanti alla porta era quella di un uomo grosso ed alto, con una folta barba rossiccia e un cappello di pelo calato in testa. Rick lo abbracciò calorosamente invitandolo ad entrare.

- Kate, lui è il mio amico Sam, il padre di Hyden. Sam lei è Kate… la… - si trovò imbarazzato a non sapere come definirla.

- Non so come la vuoi chiamare, ma se è la prima persona in tanti anni che ti vedo portare qui, vuol dire che è una persona molto importante. Molto piacere signora. - Le disse stringendole la mano con una delicatezza che lo rendeva impacciato.

- Piacere mio Sam. - rispose cordialmente Kate che guardò Rick sorridendogli, ancora frastornato dal non averla saputo definire in qualche modo. 

- Sono venuto a vedere come ve la cavavate ed ho fatto bene, perché le vostre scorte di legna scarseggiano, ho controllato prima di bussare. - Spiegò Sam

- Sì, lo so… ma sembra tornata l’elettricità adesso. - gli fece notare Rick.

- Sì sì, ma meglio essere prudenti. Ti ho portato un po' di rifornimenti e così starai tranquillo un qualche altro giorno. Stanotte dovrebbe nevicare ancora, guarda lassù la tempesta potrebbe tornare tra qualche ora. - Sam dalla finestra gli indicò la cima della montagna avvolta da una spessa coltre bianca.

- E tu come sei venuto? - Chiese Rick

- Con la slitta, come se no? Non ci sono tanti alti modi per muoversi. Ah, aspetta, ho qualcosa per voi là fuori, meglio prenderlo prima che si congela.

Uscì fuori e Rick e Kate sbirciarono dalla porta: proprio davanti allo chalet c’era una slitta con due cavalli che sembrava uscita da un film sul Natale di quelli che in quei giorni tutti i canali mandavano a ripetizione. Sam tirò fuori un cesto da sotto una spessa coperta e rientrò.

- Questo ve lo manda mia moglie. Dice che non è Natale senza un buon pranzo di Natale.

- Rose non si fida delle mie abilità di cuoco eh! - Si finse offeso.

- Lo sai come sono le donne… Senza offesa eh Kate! - Ridacchiò Sam sotto la folta barba. - Ma più che altro temeva che aveste finito le provviste, così ha insistito per farmi venire a dare una controllatina, ma dal profumo che viene da là, mi pare che sia tutto sotto controllo.

- Ringrazia Rose da parte nostra Sam. Ed ora è meglio che torni a casa, non vorrei che la bufera ti prendesse di sorpresa.

- Oh, non ti preoccupare Rick, abbiamo ancora un po' di ore di tranquillità. Buon Natale ragazzi e mi raccomando, non avventuratevi in giro nei prossimi due giorni, ancora potrebbe essere pericoloso. 

- Non ti preoccupare Sam, non abbiamo nessuna intenzione di muoverci, ci godremo qui questa vacanza prolungata. - Rick abbracciò Kate avvicinandola a se, mentre salutavano l’uomo che se ne andava. Seguirono dalla finestra la slitta scivolare via sulla neve fino a quando non scomparve nel bianco. 

Kate curiosò dentro al cesto dove fu stupita nel sentire ancora un certo tepore nonostante il viaggio all’aperto con temperature sotto zero. Vide delle generose porzioni di tacchino con quella che sembrava essere una salsa di mele, una vaschetta di piselli e carote, un’altra di purè e del pudding. Ma la cosa che più di ogni altra attirò la sua attenzione era il pane: pane fatto in casa, ancora tiepido non resistette alla tentazione di prenderne un pezzo ed assaporarlo ad occhi chiusi. Tornò per un attimo bambina, con la mente a quelle feste di tanti anni prima, quando ancora era felice, quando erano un momento di allegria e le aspettava per tutto l’anno. 

- A cosa stai pensando? - Le chiese Rick abbracciandola da dietro con il mento appoggiato sulla sua spalla.

- A mia nonna. Preparava sempre il pane caldo il giorno di Natale, perché diceva che a mio nonno piaceva così. Non ho mai conosciuto mio nonno, è morto che ero molto piccola, però mia nonna ha sempre continuato a fare il pane caldo, per ogni Natale, fino all’ultimo che abbiamo festeggiato. Era un modo per ricordare anche mio nonno, credo.

- È un bel ricordo? - Chiese timoroso.

- Oggi sì. Oggi è un bel ricordo. Grazie a te.

- Non ho fatto nulla. 

- Lo sai che non è vero. Tu hai fatto tanto. Hai fatto tutto. - Si appoggiò a lui sospirando mentre anche Castle staccava un pezzo di pane, provando a ricercare quelle sensazioni che Kate aveva appena raccontato. 

- Io non ho mai avuto una nonna, una vera nonna. C’era la proprietaria di casa dove stavo con Martha fino a dieci anni, più o meno. Era un’anziana signora ed ogni tanto passava del tempo con me, soprattutto la sera se mia madre doveva recitare ed io non potevo andare con lei. Mi cucinava, mi metteva a letto e qualche volta mi raccontava una storia. Mi ero convinto che fosse mia nonna, almeno fino a quando non co ha sfrattato, perché quella casa serviva a sua nipote. Siamo sempre stati soli io e Martha a Natale, ma credimi, nonostante tutto, mi ha sempre fatto passare delle splendide serate, arrivando con la creatività dove non arrivava con le possibilità. 

Kate si voltò verso di lui rimanendo tra le sue braccia. Vide gli occhi azzurri luccicare commossi. Non riuscì a tenere l’istinto di prendergli il volto tra le mani e coccolarlo. Amava conoscere il mondo dietro Rick Castle, il mondo di Richard Rodgers, di quel bambino conosciuto più che altro dai pochi racconti di Martha che però ne evidenziavano quasi sempre solo il lato divertente e pasticcione, lo stesso che Castle metteva in primo piano, insieme a quello guascone. Questo invece era il Rick di cui si era innamorata, follemente innamorata e le andava più che bene che lo mostrasse solo a lei, perché era così gelosa di quella parte di lui che non la voleva condividere con il mondo. 

 

Era la vigilia di Natale più atipica che Castle avesse mai vissuto, forse perché nulla aveva intorno che gli facesse pensare al Natale, niente addobbi, niente profumi, nessuna confusioni, niente albero o luci, però stava infinitamente bene a chiacchierare con Beckett con un buon bicchiere di vino. Anche per lei era tutto diverso. Da quando era entrata in polizia quei giorni li aveva sempre dedicati al lavoro, coprendo volontariamente i turni dei colleghi con famiglia che volevano trascorrere quelle giornate con figli e parenti. Lei no, aveva sempre preferito essere occupata, far finta che fosse un giorno come un altro, lavorare e pensare agli altri, ma lì, in montagna con Castle, stava vivendo un Natale diverso, senza tutte le sovrastrutture consumistiche della festa, ma cercando la sua essenza più profonda, la condivisione del tempo e dello spazio con chi si ama.

 

- Quale è la tua canzone preferita di Bon Jovi? - Le chiese Castle davanti all’impianto Hi Fi, mentre sfogliava sullo schermo touch del lettore le cartelle con i file musicali.

 - Always, senza dubbio. - Disse sicura.

- Always eh? Mi piace!

- La conosci?

- Beckett, mi fai così vecchio da non conoscere una canzone di Bon Jovi? Ero poco più che ventenne quando era su tutte le radio e le ragazze ti cadevano ai piedi se gliela canticchiavi!

Le prime note della canzone riempirono la stanza e la voce di Bon Jovi che raccontava di quel Romeo ferito e sanguinante fece venire un brivido a Kate: non ascoltava più quella canzone da tanto tempo. Rick le offrì la mano e lei la prese alzandosi dal divano. Ballarono abbracciati stretti, mentre Rick le canticchiava la canzone all’orecchio, in un sussurro che era una carezza, perché quelle parole, dette da lui, avevano tutto un altro significato: erano vere e le facevano quasi male, perché riviveva la loro separazione, il dolore dei mesi precedenti ed in fondo quella speranza di qualcosa di diverso. 

 

We can pack up our old dreams

And our old lives

We’ll find a place where the sun still shines

 

Kate sentì un brivido quando dopo avergli detto queste parole Rick smise di canticchiare ma spostò le labbra più in basso e le diede un bacio sul collo, come a suggellare quella promessa. Riprendere i sogni, trovare un posto ed un modo per ricominciare. Lo avrebbe voluto terribilmente, anche se ancora faceva male ed aveva paura che tutto potesse finire, ancora.

Si baciarono dolcemente sulle note finali, molto più a lungo anche quando nello chalet era tornato il silenzio. 

- Ti amo Babe. Always. - Kate sorrise sulle sue labbra mentre glielo diceva ed il suo cuore batteva, molto di più e molto più forte di quando aveva sedici anni.

- Always. - Ripetè Rick mentre la guardava negli occhi. Sapeva che quel “Sempre” detto in quel momento aveva un valore molto più grande di una promessa, era qualcosa che sapeva li avrebbe legati per sempre ma non si sentì impaurito da quello anzi, avrebbe solo voluto che tutta la loro vita insieme potesse cominciare subito, sentì quasi l’urgenza di qualcosa di più per loro, perché non era solo Kate ad aver paura, l’aveva anche lui che tutto gli potesse scivolare via. Fece un respiro profondo e prese il suo volto tra le mani. La guardò instancabilmente e la baciò ancora.

Quel momento stava diventando emotivamente troppo intenso, lo stavano percependo entrambi, Rick sentiva la stretta di Kate diventata troppo urgente e lui sentiva le proprie mani tremare sul suo viso. Appoggiò la fronte su quella di lei e chiuse gli occhi.

- Con quanti ragazzi hai ballato questa canzone tutta avvinghiata? - Le chiese cercando di sorridere sdrammatizzando.

- Solo con uno. Ma non è più un ragazzo. L’avevo conservata per un momento speciale. 

Si guardarono sorridendosi e poi tornarono a sedersi sul divano.

- A quante l’hai canticchiata tu allora? Dì la verità! - Chiese Kate con una punta di gelosia.

- A nessuna a dire il vero.. Avevo appena scoperto che Meredith era rimasta incinta e credimi, non avevo per niente voglia di andare in giro a conquistare altre donne, Meredith in crisi e mia madre che mi faceva la predica ogni volta che ci parlavo erano più che sufficienti in quel periodo.

- Cosa avevi combinato?

- Meredith non le è mai piaciuta e non perdeva occasione di ricordarmi quanto ero stato stupido e superficiale. Io invece credevo di essere innamorato di Meredith o forse all’epoca lo ero veramente, non lo so più, non mi ricordo. Però dopo Kyra è stata la prima donna che mi aveva preso veramente ed ero felicissimo che era incinta, forse in quel momento ero l’unico ad esserlo. 

Kate si distese sulle gambe di Rick e prese la sua mano mentre lui aveva cominciato a raccontare. Era sempre difficile che lui parlasse di se, del suo passato.

- Meredith la vedeva come una disgrazia, mia madre come la fine della mia carriera che ancora doveva cominciare. Mi ripetevano che avrei dovuto trovare un lavoro vero, per mantenere la famiglia, soprattutto Meredith. E lo avrei fatto sai? Quei libri non andavano tutti bene. Avevo fatto qualche buon lavoro e guadagnato bene, ma un conto era vivere solo, altro mantenere una famiglia ed un figlio. Non avevo mai contratti lunghi, ogni volta presentavo un’opera e poi vedevo che succedeva. Mi sono detto che dovevo darmi un’altra possibilità, almeno una. Così portai il mio ultimo romanzo ad una nuova casa editrice, la Black Pawn. A quello che era il mio editor di allora piacque molto e mi offrirono un contratto per altri 3 romanzi negli anni successivi. È stata la mia svolta. Dopo quei tre ci furono altri tre e poi ho cominciato la saga di Derrick Storm. Il resto lo sai.

- Ottieni sempre quello che vuoi Castle. - Gli sorrise Kate.

- Quasi sempre. - La corresse.

- Cosa non hai ottenuto?

- In quegli anni pensavo che avrei avuto una grande famiglia, che sarei stato felice con Meredith. Invece poi ho dovuto sopportare i “te l’avevo detto” di mia madre e Alexis non ha mai avuto quella famiglia che volevo darle.

- Perché non l’hai più fatto? Con altre donne dico, non ci credo che non hai avuto occasione.

- Non l’ho più cercate. Alexis era piccola ed era tutto il mio mondo, non volevo tradirla. Quindi tante donne sì, ma nessun rapporto serio.

- E con Gina?

- Beh, con Gina l’unica cosa che è sempre stata chiara era che lei non aveva alcuna intenzione di avere una famiglia e dei figli, anzi era felice che Alexis fosse già grande. Buffo vero? Volevo una grande famiglia e mi sono sposato con una donna che non lo voleva. Però avevamo una grande affinità, frequentavamo gli stessi ambienti, sul lavoro ci trovavamo alla grande. Fossimo stati innamorati veramente sarebbe stato perfetto, forse. Però so perché non lo è mai stato, né con Meredith né con Gina.

- Sarebbe? - Chiese Kate curiosa.

- Perché dovevi arrivare tu. Perché aspettavo te, senza saperlo. Perché tu eri quello che ho sempre voluto.

- Però non quella che ti da quello che hai sempre voluto. 

Kate si tirò su e si alzò camminando fino ad arrivare alla vetrata. Aveva ricominciato a nevicare, come aveva detto Sam, però al momento niente blackout. Erano entrati in una spirale di discorsi che li aveva riportati dopo un po' di tempo in mezzo a quel sentiero buio e doloroso che avevano volutamente abbandonato. Rick la guardava sospirando chiedendosi cosa dire o fare, poi si portò le mani a coprire il volto e appoggiò la testa sullo schienale del divano. 

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Capitolo 54
*** CINQUANTAQUATTRO ***


Bastava poco. A volte era solo una parola, un’immagine che si materializzava, un ricordo e a Kate sembrava di venire inghiottita nella vita sua spirale nera, dove la ragione nulla poteva e non c’era modo di combattere la paura e il dolore. Le sembrava che le ferite che stava faticosamente chiudendo si aprissero di nuovo tutte insieme ed il dolore arrivava così, improvviso, devastante, per ricordarle quello che non avrebbe mai dimenticato, ma facendolo nel modo più meschino. I rimpianti la affliggevano insieme ad una nuova sensazione, quella dei sensi di colpa perché cominciava a casa sentire di poter stare bene e allora quel sentimento subdolo si insinuava in lei, proprio quando pensava di poter andare avanti, quando il futuro non  faceva più tanta paura, proprio quando sentiva di poter stare bene.

- Scusami, non avrei dovuto dirti certe cose. - sospirò afflitto Castle.

- Non devi scusarti di dirmi quello che desideri. Sono io che dovrei scusarmi per…

- Per niente Kate, non devi scusarti per niente.

La sentì improvvisamente molto più lontana di quei pochi passi che li separavano. Le braccia strette al petto e lo sguardo fisso davanti a se rendevano la sua figura ancora più statuaria ed austera. Anche in quel momento Castle non poté non pensare a quanto fosse bella, anche con il volto tirato da quel dolore che la attanagliava. Era quello il segno che si stava chiudendo in se stessa, dopo avergli spalancato le porte della sua anima, si stava rintanando spaventata dal dolore.

- Vuoi sapere veramente quello che desidero, oggi? Perché è oggi che conta, non sei mesi, un anno o dieci anni fa. 

Si era avvicinato a lei, le si era messo di fianco, senza guardarla. Entrambi guardavano fuori, nella stessa direzione. Kate non rispose, mosse solo impercettibilmente la testa, movimento che lui vide riflesso nel vetro, insieme alla bocca che si arricciava nervosa.

- Voglio stare con te, condividere con te tutta la mia vita. Qualsiasi altra cosa possa desiderare non ha senso se non è con te e adesso passa in secondo piano. Voglio una famiglia e la voglio con te e per me noi due lo siamo già. Non voglio farti pressioni né obbligarti ad altro.

- Non so se sarò mai pronta per altro, Castle. E non so se ne sarò mai capace.

- Dirti che so che lo sarai ora non servirebbe a nulla. Non voglio forzare i tuoi tempi. Kate, quello che era successo è stato tutto imprevisto, inatteso. Io non so nemmeno se tu avessi mai voluto un figlio, se era nei tuoi piani magri in futuro. Te lo avevo detto allora e te lo dico di nuovo adesso, era tutto quello che potevo sognare e non ti nego che lo vorrei ancora, ma solo se lo vuoi tu. Se e quando lo vorrai tu.

Kate rimase in silenzio ad ascoltare le sue parole. Sapeva che prima o poi ne avrebbero parlato il problema era che lei non sapeva cosa voleva. Non aveva mai pensato ad un figlio prima di ritrovarsi madre una mattina e di aver dovuto subito cominciare a lottare per lui. Madre, non lo era mai stata realmente eppure lei si era sentita così, lei era la madre di quel bambino mai diventato tale, una madre interrotta dal destino, come quella gravidanza. Ed aveva scoperto di volerlo quel bambino, fortemente, con tutta se stessa e non aveva ancora capito se il suo desiderio era quello di essere madre o solo di essere la madre di quel bambino, che non c’era più ma che occupava gran parte della sua mente e delle sue paure. I ricordi, i progetti e le illusioni tornavano prepotentemente in lei, così come il dolore. E pensare di avere un figlio, quell’idea che non aveva più voluto nemmeno considerare in un ipotetico futuro, le sembrava una cattiveria, un voler sostituire qualcuno con un altro.

- Ti ricordi cosa mi avevi detto? - Kate non si era nemmeno accorta di avere il viso rigato dalle lacrime fino quando non sentì le dita di Rick accarezzarla.

- Sì… mi ricordo. Ci penso da un po'…

- Come fai a sapere a cosa mi riferivo? - Chiese sorpresa tirando su con il naso.

- Perché ci penso spesso anche io. Più spesso di quanto credi. - Non era un rimprovero il suo. Era volerle far capire quanto fosse importante anche per lui. Che non aveva dimentico. Nulla. Kate si buttò tra le sue braccia, lasciandosi avvolgere e facendo scorrere le lacrime sul maglione di Rick.

- Dicevi che sarebbe nato questa notte… Quanto sono stata stupida a sperare di no!

Kate alzò lo sguardo su Rick, accorgendosi che anche sul suo volto c’erano delle lacrime: non voleva che anche lui stesse male eppure allo stesso momento si sentì sollevata nel sapere di non essere l’unica persona alla quale quei ricordi suscitavano quella reazione. Gli prese la testa con entrambe le mani, accarezzandogli gli zigomi con i pollici facendo scivolare via quelle tracce umide. Rick aveva sempre pensato che per Kate non era meglio vederlo stare male o piangere, invece lei scoprì che prendersi cura delle sue sofferenze aveva per lei un potere taumaturgico.

- Dicevi che sarebbe stato magico. Tu riesci ancora a credere nella magia? - Gli chiese cercando adesso di contenere il suo pianto.

- Sì, certo. 

- Come fai Castle? Cosa c’è di magico.

- Ci sei tu, qui con me e credevo di averti perso per sempre, che non avrei più potuto tenerti così. Abbiamo tutta la vita davanti per ogni tipo di magia, per realizzare qualsiasi cosa.

 

Era strano, per Kate, sentirsi contemporaneamente la fonte del dolore di Rick e colei che lo consolava. Non glielo disse, perché già sapeva che lui non le avrebbe mai permesso di pensare che fosse colpa sua, ma lei non aveva bisogno delle parole degli altri, lo sapeva da sola che tutto dipendeva da lei. Come la prima notte che era rientrato nella sua vita, quel pomeriggio Castle si addormentò sul divano con la testa sulle sue gambe mentre lei con tocchi leggeri gli accarezzava i capelli. Pensò che forse aveva ragione lui, che essere lì insieme era già qualcosa di magico, anche di miracoloso, forse. Ogni tanto si fermava a pensare a quanto la sua vita fosse stata stravolta da Castle negli ultimi mesi, a quanto le loro scelte o le casualità del destino li avessero fatti avvicinare ed allontanare. Era passato solo un anno da quando al distretto era piombata Natalie Rhodes e lei si era trovata per la prima volta ad essere veramente gelosa di Rick e di tutto quello che lui era per lei. Gli aveva sempre detto di odiare il fatto di essere la sua musa, ma vedere come lui girava intorno a quella le aveva fatto male. Aveva pensato che in fondo, avrebbe potuto perderlo in qualsiasi momento, che lui avrebbe potuto trovare un’altra musa e così come era entrato nella sua vita, come un tornado, ne sarebbe uscito con altrettanta velocità, lasciando dietro solo le sue macerie. Qualche settimana dopo si erano baciati, sotto copertura. Per finta. Se lo è ripetuto per mesi. Eppure sapeva che non era così, perché un bacio finto lo sapeva riconoscere, e quello era uno di quelli che toglievano il fiato ed acceleravano i battiti del cuore. Avrebbe dovuto avere più coraggio, invece aveva scelto la via più facile, nascondersi dietro la relazione vuota con Josh, fare finta di nulla. Si era innamorata dello scrittore bambino, esasperante e infantile quando ancora non sapeva tutto il resto che c’era dietro di lui, l’uomo meraviglioso che adesso dormiva sulle sue gambe. O forse sì, lo aveva sempre saputo e fare finta di no era solo un’altra delle menzogne che si raccontava per non lasciarsi andare. 

Si raccolse una lacrima e non si era accorta che lui nel frattempo si era svegliata e la guardava. Ma quando late poggiò la mano sul volto di Rick per accarezzarlo ancora, lui si voltò, baciandogliela, facendola trasalire.

- A cosa stai pensando adesso? - Si era tirato su, per essere alla sua altezza ed immediatamente Kate appoggiò la testa sulla sua spalla.

- Non credo di avertelo mai detto, ma sono orgogliosa di essere la tua musa. - Gli sussurrò stringendosi a lui. Rick sorrise soddisfatto. 

- Piangevi per questo? - Kate scosse la testa facendo strusciare i capelli sulla sua spalla. 

- Pensavo alla prima volta che ci siamo baciati.

- In ospedale… - fu Castle a sospirare questa volta. Ricordava ogni istante di quel bacio, le emozioni avvolgenti, la paura per quello che stava nascendo tra loro…

- No, quello sotto copertura. Ti avrei baciato ancora. - Si spostò per guardare la sua reazione. Quello era uno di quei momenti in cui non avevano bisogno di dirsi di più, quelli nei quali si capivano sol guardandosi, che sapevano quanto le parole erano difficili per spiegare quello che entrambi provavano. 

- Anche io. - Si limitò a risponderle Castle, in quell’implicita ammissione di tutto quello che c’era dietro quel desiderio di continuare un bacio improvviso. Quello che era successo a Los Angeles non era stato un caso, era stato solo il rimandare qualcosa di inevitabile, qualcosa che già da mesi o nel suo caso anche da di più era inevitabile che accadesse, perché lui l’amava da tanto tempo, non avrebbe nemmeno saputo dire da quanto, con precisione, non sapeva quando esattamente si era innamorato di lei, forse da quando aveva cominciato a scoprire tutte le complesse sfaccettature della sua personalità ed aveva provato l’irrefrenabile desiderio di conoscere ogni angolo del complesso mondo di Kate Beckett.

- Avevo lasciato Demming, per te. - La confessione di Kate lo colse di sorpresa. Sembrava stesse leggendo nella sua mente e rispondendo alle sue domande.

- Cosa? - Esclamò Castle sorpreso.

- Avevo chiuso con lui e prima che arrivasse Gina al distretto stavo per dirti questo. Che lo avevo fatto per te, per venire con te negli Hamptons.

- Perché non me lo hai detto?

- Stavi andando via sorridente con la tua ex moglie, cosa avrei dovuto dirti? - Rise Kate nervosamente ripensando al disagio di quella mattina.

- La verità. Io sarei voluto partire con te.

- Già anche io.

- Quindi è da allora che… - Castle non aveva il coraggio di chiederlo, Beckett di dirlo.

- Sì, probabilmente sì… 

- Beh anche io… Ma anche da prima, probabilmente… Però poi Josh… - Sottolineò Castle che aveva fastidio solo a pronunciare il sul nome.

- Tu stavi di nuovo con Gina. Era una relazione facile… Ma… avrei voluto di più… avrei voluto te ed io credo che dentro di me sapevo cosa provavi, ma… avevo paura di essere amata come mi ami tu…

- Come ti amo io? - Sorrise Rick stupito da quelle confessioni. Sorrise anche lei che non sapeva spiegarlo e si rifugiò con il viso tra le pieghe del suo maglione mentre lui che capì il suo imbarazzo la stringeva.

- Così… Mi sei mancato tanto Caste… Io… Vorrei riuscire ad essere per te, quello che tu sei per me… Mi saresti mancato anche se non ti avessi mai incontrato, perchè prima o poi mi sarebbe mancata l'idea di te.

- Non puoi essere di più di quello che già sei. Sei tutto Beckett. - Glielo avrebbe ripetuto ogni volta, fino a quando non ci avrebbe creduto, fino a quando non avrebbe più avuto dubbi.

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Capitolo 55
*** CINQUANTACINQUE ***


Lo aveva convinto ad andarsi a fare una doccia e a prepararsi per la cena con molta calma. Voleva regalargli quello che a lui piaceva di più, voleva che in qualche modo potesse festeggiare quel Natale atipico. 

Nel frattempo Kate aveva alzato il riscaldamento e preso dalla sua valigia un vestito rosso, molto corto, che aveva messo in valigia senza pensarci troppo. Sesto senso, forse, o solo casualità. Lo aveva indossato con non poca fatica senza sciogliere i lacci che legavano il corpetto dietro la schiena, poi era scesa di nuovo al piano inferiore, aveva apparecchiato la tavola con una tovaglia rossa trovata in un cassetto e posto al centro due candele, era il massimo che poteva fare per creare un po' di ambiente natalizio: non aveva né gli strumenti né le capacità, per lei il Natale era finito tanti anni prima, quando aveva tolto gli addobbi messi da sua madre ed ora si stava sforzando e lo faceva solo per lui.

Aveva messo a riscaldare quello che Rose aveva preparato per loro, prima o poi, si disse Kate, sarebbe stato anche il suo turno di preparargli una vera cena, perché era sempre lui a prendersi cura di lei e voleva ricambiare, non per dovere ma perché provava un estremo benessere a fare qualcosa per renderlo felice. 

Mentre sfogliava l’hard disk dell’impianto hifi di Castle non si stupì di trovare un’intera compilation dedicata alle canzoni di Natale. Rick al piano di sopra stava finendo di vestirsi smanioso di scendere da lei, ma si gustava quei momenti di attesa. Aveva chiesto il permesso di scendere due volte e lei in entrambi i casi gli aveva detto di aspettare. Ecco, l’attesa era quel sentimento del Natale che più gli era mancato e si sentiva come un bambino in quel momento mentre doveva reprimere la sua natura curiosa che lo avrebbe fatto precipitare da lei ed attendere. Quando sentì le prime note di “I'll be home for Christmas” che risuonavano dalle scale scese senza chiederglielo ancora e la trovò vicino allo stereo nel suo vestito rosso. La voce di Frank Sinatra si sovrappose a quella di Kate che si improvvisò cantante. Era dolce e melodiosa, forse Rick non aveva mai sentito nulla di più bello. 

- Se sono a casa per Natale per la prima volta dopo tanti anni è solo merito tuo. Non importa dove sono, se questa non è la mia casa, perché la mia casa sei tu.

Lo aveva preso e lo aveva abbracciato, le mani giocavano con i suoi capelli corti sulla nuca, solleticandolo un po', mentre lui la teneva salda per i fianchi, avvicinandola a se. I loro occhi brillavano riflettendo le luci basse che Kate aveva impostato.

- Il più bel Natale di sempre. Assolutamente.

- Non prendermi in giro Castle.

- Non lo sto facendo. Devi credermi, non lo farei mai. - Le baciò la spalle scoperta e Kate fu scossa da un brivido. - Hai freddo?

- No, sei tu. - Rispose imbarazzata e lui per tutta risposta la baciò ancora e ancora, facendola ridere questa volta. Solo lui era in grado nel giro di poche ore di farle provare così tante emozioni diverse. 

Lo prese per mano e mangiarono il tacchino preparato dalla moglie di Sam, raccontandosi delle loro feste passate quando erano bambini, cercando sul tavolo le loro dita, lasciando che si sfiorassero, che si intrecciassero e mangiare era diventato secondario. Rick accarezzò la mano di Kate, rendendosi conto che c’era una cosa che doveva fare, l’unica per la quale rimpiangeva di non essere a casa, quell’anello che doveva finalmente trovare la sua giusta collocazione, al suo dito. Immaginò la scena, immaginò lei con il simbolo del suo amore e si ritrovò ad accarezzarla proprio in quel punto mentre lei lo guardava respirando piano, forse assorta in pensieri simili.

 

Si accorsero che la mezzanotte era passata dal grande orologio sulla parete vicino il caminetto. Si scambiarono gli auguri suggellandoli con un bacio mentre lei era seduta sulle sue gambe, lasciando le proprie ben in vista dal vestito rosso corto lasciando che Rick le accarezzasse languidamente.

- Il tuo regalo è rimasto a New York - Le disse Castle.

- Sì beh… anche il tuo… - Rispose Kate. Si era sforzata di andare in giro per negozio, superando la sua ritrosia per le vetrine addobbate e le commesse forzatamente felici alle quali mandava occhiate di assoluta comprensione e avrebbe detto loro che almeno con lei avrebbero potuto evitare quei sorriso smaglianti e finti, ma preferì sempre evitare ed attenersi anche lei al copione. Scegliere il regalo per Castle era l’acquisto più difficile che avesse mai fatto, un po' perché aveva tutto, un po' perché cercava qualcosa di particolare. Si era sentita molto frustrata quando nonostante il suo impegno non era riuscita a trovare qualcosa che l’aveva colpita, qualcosa che avesse un senso speciale, come faceva lui con qualsiasi cosa. Alla fine gli aveva preso uno di quei giochi per la xbox che lui amava tanto, convincendolo un pomeriggio che erano usciti insieme per fare i regali a Martha e Alexis, a non comprarlo lui stesso, non con poca fatica. Alla fine avevano quasi dovuto discutere, con lei che gli diceva che giocare come faceva lui era da bambino, e lui che aveva messo su una di quelle sue irresistibili espressioni da cucciolo offeso e le sembrò talmente assurdo che stavano avendo una delle loro prime discussioni per una cosa inesistente, per il suo regalo, talmente assurdo che se glielo avesse chiesto ancora, gli avrebbe detto la verità. Sapeva che aveva vari controller, ma per scusarsi gliene aveva preso ancora uno gli avrebbe spiegato tutto, poi, gli avrebbe detto che quello era il suo, per giocare insieme. Non era del tutto soddisfatta ma sperò che potesse capire ed apprezzare. 

Rick osservò Kate avvolta nel suoi pensieri, così presa che non si accorse nemmeno che lui aveva appoggiato qualcosa di piccolo e metallico nella sua mano. Non era freddo solo perché l’aveva tenuto in tasca per tutto il tempo della cena e del dopocena.

- Non mi chiedi cos’è? - Kate trasalì alle sue parole e mentre lui le faceva stringere il pugno percepì il corpo estraneo tra le sue dita. Tastandolo non ci mise molto a capire cosa fosse, ancora prima di aprire la mano.

- Cosa vuol dire questa chiave? - Chiese stupita.

- Non volevo passare una notte di Natale, il nostro primo Natale, senza regalarti qualcosa.

- Rick non è necessario, veramente.

- Per me lo è… vuoi sapere cosa è quella chiave? - Kate annuì - È la chiave di qui, dello chalet.

- Castle questo è il tuo rifugio, il tuo chalet… io non posso…

- Pensi che io potrei mai tornare qui senza pensare a te? Nemmeno tra mille anni Kate! 

- Non posso accettare Rick.

- Cosa? Condividere questo luogo con me? Probabilmente da quando l’ho comprato ho sempre aspettato che arrivassi tu a renderlo perfetto e tu fai parte di questo ormai. Questo vuol dire la chiave Kate. Non ti voglio fare nessuna pressione o metterti in imbarazzo. Ma questo è il mio rifugio, il luogo dove mi nascondo quando voglio stare bene. E lo sei anche tu, sei il mio rifugio, sei la persona che mi fa stare bene.

Riusciva sempre a farla emozionare. Lo abbracciò senza dirgli nulla e si lasciò cullare tra le sue braccia. Poteva capire che stava sorridendo dalla forma delle sue labbra che premevano sul suo collo e si stupì che era arrivata ad una simile conoscenza di lui da capire le sue espressioni dal tocco.

- Io però qui non ho nessun regalo per te Castle…

- Non è vero… lo sto scartando proprio adesso… - le sussurrò mentre sapientemente scioglieva i lacci del suo vestito facendola tremare ancora.

 

Alla fine rimasero allo chalet anche dopo che la tempesta era finita, tornarono qualche volta a sciare, rimasero a guardare abbracciati davanti alla grande vetrata del piano superiore i fuochi d’artificio la notte di capodanno fatti nella vallata, dalla loro posizione privilegiata. Usarono in molti modi la grande jacuzzi adiacente alla camera da letto. Si amarono, molto, in ogni modo, fisico ma soprattutto emotivo, si presero cura uno dell’altro, della parte più importante, accarezzandosi l’anima in punti dove solo loro potevano arrivare. 

 Forse avrebbero potuto rimanere lì per sempre se Rick non avesse avuto delle incombenze lavorative già programmate da mesi. Per una volta tanto era lui l’uomo impegnato che lavorava e lei si sentì profondamente inutile. Tornarono in città i primi giorni di gennaio, con un profondo senso di nostalgia già da quando sorvolarono le montagne, con una promessa implicita che sarebbero tornati presto a rifugiarsi lì dal resto del mondo. 

 

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Capitolo 56
*** CINQUANTASEI ***


Ritornare a New York fu un ritorno ad una quotidianità che sarebbe stata certamente diversa. I primi giorni ricevettero le visite dei loro amici che non smettevano di prenderli in giro per essere rimasti isolati in montagna. Castle si divertiva ad inventare ogni volta situazioni più estreme che avevano dovuto affrontare, il tutto sotto lo sguardo perplesso di Beckett che proprio non riusciva a tenergli gioco. Ma Kate era tornata a sorridere e quello non era sfuggito a nessuno, soprattutto a Rick che si prestava ben volentieri alla parte del buffone con amici e parenti se lei era felice.

Non era certo che il ritorno alla vita di tutti i giorni sarebbe stato così naturale, invece lo fu, facilitati anche da giornate piene nelle quali organizzarono il trasloco: Kate come promesso si stabilì al loft e tutto fu estremamente normale, senza traumi, strappi o altro di simile, come se ci fosse, per tutti, la consapevolezza che era quello il suo posto, e non un altro. 

Non era stato, però, tutto emotivamente tranquillo. C’era stato un anniversario in quei giorni che non era passato inosservato a nessuno, e Rick potè notare come già dalla sera prima Kate era diventata nervosa e scostante. Non ne fece un problema, sapeva perché, sapeva che quel nove gennaio era una ferita aperta, una delle sue tante cicatrici che faticavano a chiudersi. Rispettò i suoi silenzi e la sua distanza, il suo girarsi dall’altra parte del letto, ma quando sentì il pianto sommesso che voleva attutire con il cuscino non potè chiedere a se stesso di ignorare anche quello, così semplicemente si avvicinò alla sua schiena e l’abbracciò nel silenzio e nel buio della loro camera da letto. Kate non disse nulla, gli prese solo la mano che la cingeva e la baciò. Rick non aveva bisogno di nulla di più, non aveva detto nulla, ma lei aveva capito tutto, quella era la loro magia.

Fu sorpreso la mattina seguente quando senza guardarlo, sussurrando appena le chiese di accompagnarla. Non ci fu bisogno nemmeno lì di parlare, sapeva dove erano diretti. Castle si preparò con cura, come se fosse un appuntamento importante ed in un certo senso lo era, Kate lo stava rendendo partecipe di una delle cose più intime della sua anima e del suo cuore e lui non riusciva a dirle quanto si sentiva onorato.

Aveva comprato un grande mazzo di gigli bianchi, Kate gli aveva detto che era il fiore preferito di sua madre, e con i fiori in una mano e tenendo lei con l’altra si lasciava guidare tra i viali del cimitero. Molte lapidi erano ancora ricoperte di neve, non quella di Johanna, perfettamente ripulita. Spiccava vicino un bouquet di rose rosse, erano ancora fresche segno che dovevano essere state lasciate lì da poco.

- Papà è già stato qui. Le porta sempre le rose rosse, oggi ed il giorno del suo compleanno. Sono passati tanti anni, la ama ancora come il primo momento, forse anche di più. - Sospirò Kate, lasciando che le sue parole diventassero un timido vapore in quella fredda mattina.

- Lo capisco. Puoi amare molte persone nella tua vita, ma solo una è quella che ti ruba l’anima per sempre. - Si piegò ad appoggiare i fiori e vide Kate fare un passo avanti verso la lapide ed accarezzare la pietra gelida.

- Se vuoi ti lascio sola, ti aspettò laggiù - le disse ancora indicando un punto indefinito più indietro, in quel viale appena percorso.

- No, resta. Rimani qui. - Allungò una mano verso di lui, affinché la prendesse e la raggiungesse.

- Ciao mamma, lui è Castle ed è quello che ho sempre aspettato anche quando credevo di non aspettare nessuno. È quello che tu mi dicevi sempre che sarebbe arrivato per farmi dimenticare tutto, quando mi sfogavo dopo ogni delusione d’amore. Non so se senza di lui oggi sarei stata qui. Ti sarebbe piaciuto, ma non l’avresti ammesso subito, però poi saresti stata entusiasta di lui ed io un po' gelosa, perché non avresti parlato d’altro. Ma non so come avreste fatto tra voi, perché anche lui chiacchiera molto, sarebbe stata una dura lotta e per me e per papà avervi nella stessa stanza sarebbe stato da ko! Avrei voluto tanto fartelo conoscere, perché così avresti visto la parte migliore di me. Quest’anno è stato duro mamma, ho vissuto i momenti più belli e più brutti della mia vita ed avrei tanto voluto che fossi vicino a me, ho avuto tanto bisogno di te. Quando tutto mi sembrava perso ancora una volta, è stato Castle a tirarmi fuori dagli abissi. Per questo oggi è qui con me, perché volevo che condividesse anche questo momento e lo sai, non è mai venuto nessuno qui. Vorrei riuscire ad essere per lui quello che tu eri per papà e… mi manchi mamma, mi manchi tantissimo.

Rick aveva ascoltato immobile in silenzio le parole di Kate, sussultando solamente ogni volta che lei gli stringeva di più la mano, quando era più difficile andare avanti. L’aveva poi stretta a sé, baciandola su una guancia, perché altro no, era troppo ed era sconveniente lì, ma Kate si appoggiò alla sua spalla e nonostante il vento gelido che sibilava tra gli alberi secchi, lì rimase: al caldo, sicura, protetta e amata.

 

Rientrarono in un loft stranamente vuoto e silenzioso e Castle decise di approfittare di quella favorevole congiunzione per fare quello che aveva in mente da quando erano tornati e che sempre, per un motivo o per un altro, aveva rimandato. 

Kate era intenta a sistemarsi dopo essersi tolta i pesanti vestiti invernali ed aver indossato dei più comodi ed informali vestiti da casa. Pensò che anche Rick stesse facendo lo stesso sentendolo armeggiare tra cassetti ed armadi, ma quando si voltò e lo vide, aveva ancora lo stesso completo elegante scelto per quella mattina e quell’incontro importante.

- Cosa nascondi dietro la schiena Castle? - Gli chiese curiosa e divertita dal suo atteggiamento così serio.

- Siediti Kate… ti devo dare una cosa, che ha una storia e non so se è tutta bella…

Si sedette sul letto, diventando seria anche lei, preoccupata ed anche un po' nervosa. Rick le mostrò cosa nascondeva e Kate sembrò non capire, vedeva solo stretta nella sua mano una rosa bianca ormai secca con un nastrino che spuntava dalle sue dita.

- Cosa è questa Castle? Perché questa rosa? - Le rose bianche per lei erano ormai legate ad un solo significato da quando lui gliene aveva portata una in ospedale, quel bocciolo che poi lei aveva non solo metaforicamente distrutto.

- Il giorno che mi hai detto di andarmene sono passato come tutti i giorni davanti alla signora che vende i fiori, vicino il tuo appartamento. Mi ha chiesto se volevo il solito ed io non sono riuscito a dirle di no. Quando sono tornato a casa ho chiuso quella rosa, questa rosa, nel cassetto del mio comodino, ma lì ho visto che c’era dell’altro… 

Kate ascoltava con il cuore che batteva troppo velocemente e lo stomaco sottosopra e non capiva perché proprio quel giorno doveva parlarle di quella rosa. Poi lo vide armeggiare con il nastrino, senza capire bene cosa stesse facendo.

- C’era questo - le disse mostrandole un anello e lasciandola senza fiato. - Questo anello io l’ho comprato il giorno che ci siamo baciati in ospedale. Avrei voluto dartelo subito, ma mi sono detto “Non correre Richard, non questa volta. Fai le cose come si deve, è importante”. Così aspettavo il momento giusto e non era mai arrivato. Ho temuto non arrivasse mai, non arrivasse più e quella sera ho legato l’anello a questa rosa era il simbolo di tutto quello che avevo perso. Ora però è arrivato il momento giusto…

Castle si alzò, lasciò il fiore sul suo grembo e Kate ebbe un brivido, e davanti ad un’attonita Beckett si mise in ginocchio e le prese una mano.

- Katherine Beckett, io ti amo infinitamente e questa è la più importante e banale delle motivazioni per chiederti se mi vuoi sposare?

Kate non rispose, non perché non volesse farlo, semplicemente non ne era in grado. Annuì con la testa prima di riuscire a dire un flebile “Sì” ma tanto bastò a Castle per far scivolare l’anello al suo dito. Chiuse gli occhi per un attimo e lasciò che lui la sollevasse. Si ritrovarono tutti e due in piedi, uno di fronte all’altro.

- Tu sei pazzo Castle! - gli disse prima di baciarlo cingendogli le spalle, lasciando che lui la avvicinasse a se tirandola per i fianchi. 

- Se dicessi di te sarebbe scontato? - Le chiese appena le loro labbra si separarono.

- Sì, scrittore, puoi fare di meglio, un po' banale… - Lo punzecchiò prima di baciarlo ancora.

- Tutte le parole me le hai rubate tu, oggi voglio essere banale. Voglio vivere con te tutto il resto della mia vita, voglio che diventi mia moglie come non ho mai desiderato altro.

- La tua terza moglie! - precisò lei prendendolo in giro.

- La mia unica e ultima moglie. E voglio essere il tuo unico ed ultimo marito. - La guardò negli occhi in quel modo che sapeva guardarla solo lui, scavandogli l’anima.

- Lo sarai Castle. - Non seppe dirgli di più.

 

Le mani di Rick risalirono la sua schiena, dai fianchi alle spalle. C’era una cosa che a Kate faceva impazzire, ed era come quando fossero in quella situazione le sue carezze non si limitassero a lambire la sua pelle, ma facevano una leggera pressione per spingerla sempre più verso di sé. Le metteva i brividi ogni volta quel suo modo irrazionale tenerla vicina, che nascondeva sempre quella paura inconscia che scivolasse via. Le labbra scesero a tracciarle la linea del collo, dovendosi fermare per l’ostacolo dei vestiti. Troppa stoffa tra di loro. Non ci fu bisogno di parlare nemmeno in quel caso, perché quando Kate sciolse il nodo della cravatta e sbottonò i primi due bottoni della camicia, il resto fu solo una conseguenza impossibile da evitare.

Approfittarono della solitudine del loft come due adolescenti che avevano la casa libera, con l’emozione e l’eccitazione del proibito. Rick guardava Kate estasiato da lei, e quando fu vestita solo della promessa del loro amore che brillava, ma non più dei suoi occhi, pensò che non avrebbe potuto mai amare nessuna più di lei. Kate si accorse del suo sguardo e non si sarebbe mai abituata ad essere guardata così e mentre il viso di lui si avvicinava a quello di lei, come tutto il suo corpo, pensò che non avrebbe potuto mai amare nessuno più di lui.

Rick le prese le mani e le loro dita si intrecciarono sul cuscino, ai lati della testa di Kate. Sentì solo quando sulla punta delle sue labbra gli disse ancora una volta “Ti amo” e Castle non sapeva quante altre volte Beckett glielo aveva detto, tra un bacio e l’altro, poi più niente perché le parole non servivano più. Il bacio divenne più profondo e loro una cosa sola, come lo erano sempre, anche quando erano più distanti dall’essere fisicamente uniti. 

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Capitolo 57
*** CINQUANTASETTE ***


Rick la abbracciò ancora, prendendo di nuovo le sue mani che si erano lasciate solo per percorrere la loro pelle, assecondando i movimenti dei loro corpi, sottolineando i sospiri e i gemiti, usate per stringersi di più quando raggiunsero il culmine del piacere. Poi rimasero immobili stretti tra le braccia uno dell’altra, fino a quando non fu Rick a sollevarsi da lei, rotolando poco più in là, ma cercandola subito dopo, impossibilitato a starle lontano. 

Baciò la mano sinistra di Kate, lì dove poco prima aveva messo l’anello. Ne era stato certo da quando l’aveva visto, era perfetto per lei e non si era sbagliato: era stato creato per stare lì ed in nessun altro posto al mondo. 

- Non vedo l’ora di chiamarti Signora Castle.

Kate rise nascondendo il volto sul braccio di Rick. Gli aveva detto di sì senza nemmeno pensarci, perché non c’era nulla da pensare, non c’erano altre risposte che poteva contemplare. Non era importante diventare sua moglie, non in senso assoluto, ma per lei quello era il simbolo che sarebbe stata sua per tutta la vita. Probabilmente avevano un’idea diversa del matrimonio, lui che si era già sposato due volte, lei che la vedeva come una cosa definitiva, da fare una sola volta nella vita, con la persona giusta. Lui lo era. Lui era quello giusto, lui era il “per sempre” che si dice solo una volta e lei glielo aveva fatto capire poche ore prima che lui era quel lui, davanti alla tomba di sua madre, quando a modo suo aveva provato a fargli capire che non ci sarebbe mai stato nessun altro, oltre lui. 

Kate si voltò e si mise quasi sopra di lui. Il piacere del contatto dei loro corpi nudi avvolti sotto il piumone era qualcosa che non aveva paragoni. Sarebbe rimasta immersa in quel tepore per sempre. Gli accarezzò il viso disegnando dei cerchi sul suo volto liscio, dopo che si era rasato proprio quella mattina.

- Non vedo l’ora, Signor Castle. - Gli morse il labbro inferiore, poi lo imprigionò tra le sue, succhiandolo. Gli sorrise maliziosa quando lo lasciò e lui non potè che sorriderle a sua volta.

- Ogni volta che mi guardi così, mi domando sempre se sei reale. - Le disse facendo in modo che lei fosse esattamente su di lui e lei non ci mise molto a capire le sue intenzioni, strusciandosi provocatoriamente, fino a quando non percepì di nuovo la sua eccitazione farsi prepotente.

- Sono molto reale Castle… Hai bisogno che te lo dimostri? - Non fece in tempo a darle una risposta, aveva deciso lei per entrambi e Rick fece un profondo respiro quando la sentì avvolgerlo dentro di se e chiuse gli occhi per apprezzare totalmente la beatitudine che lei gli dava, immobile sopra di lui, pensando che l’unica cosa che gli dispiaceva era non poterla vedere. Però la sentiva: le mani sul petto, il suo corpo che si muoveva lento e sinuoso, le labbra sul collo, il respiro caldo e tutto di lei era fatto per farlo impazzire e sarebbe impazzito così per tutta la vita.

La quiete dopo la tempesta fu ancora più dolce di prima, Kate abbandonata su di lui, le loro gambe intrecciate, le braccia larghe sul letto, arresa ai sensi, arresa a loro, a tutto quello che ogni volta sprigionavano e quelle sensazioni sempre così intense, sempre nuove, come se ogni volta riuscissero a toccare alcune corde dell’anima ancora nascoste.

Beckett era ancora prigioniera del suo abbraccio, delle braccia forti di Castle che le imprigionavano la schiena e non le permettevano di muoversi da lui: vagò con le mani sul materasso, come se stesse cercando di raggruppare ogni molecola sparsa di quello che c’era stato. Le sue dita invece sfiorarono qualcosa che non si aspettava, che non pensava fosse lì. Della rosa bianca che aveva conservato con l’anello era rimasto solo lo stelo secco, mentre il fiore si era sbriciolato sul letto, vittima dei loro amplessi. Si ridestò da quella beatitudine, dal torpore generato da loro stessi. Si alzò di scatto sorprendendolo, guardando quella che era poco più di polvere bianca sulle lenzuola scure, come aveva imparato piacevano a Rick. Si coprì con il lenzuolo, aggrappandosi alla stoffa trascinata sopra i seni,  lasciando la schiena nuda a coprire la vista di Castle che non capiva mentre fissava quel che rimaneva della rosa, ricordando quello che lei stessa aveva fatto, quella notte nel suo appartamento.

- Cosa succede? - Chiese Rick tirandosi sù anche lui, baciandole la spalla prima di sporsi oltre questa, per vedere e per capire. La vide anche lui e capì cosa voleva dire per lei. - È solo una rosa, Kate. - Le disse dolcemente abbracciandola ancora.

- No, Castle… non è solo una rosa… è… - Si voltò a guardarlo e i suoi occhi brillavano, ma era un luccicare diverso, quello che non voleva vedere in quel momento.

- Sì, Beckett. Quella è solo una rosa. - Rispose sicuro. - Aveva un compito, aspettare con me che tu tornassi, custodire quello che doveva essere tuo. Lo ha portato a termine. Era solo un fiore, Kate, solo quello.

Si appoggiò con la schiena al suo petto, respirando profondamente. Odiava quei momenti, odiava quando rovinava sempre tutto, quando i fantasmi tornavano prepotenti, quando tutto diventava nero, quando tutto quello che di bello c’era spariva lasciando solo il freddo ed il vuoto. Si sentì scaldare dal corpo di Castle che la cullava dolcemente.

- Mi dispiace… Mi dispiace… - Si scusò reclinando la testa all’indietro fino a trovare la spalla dove appoggiarsi.

- Un passo dopo l’altro, Kate. Insieme, ok? Un passo dopo l’altro, ne usciremo fuori amore mio… da tutto…

 

Appena avevano dato la notizia a parenti ed amici nei giorni seguenti, tutti sembravano estremamente più agitati ed eccitati di loro. Erano stati bombardati dal dove e dal quando. Martha si era già proposta per organizzare tutto e Lanie aveva detto a Kate che l’avrebbe accompagnata a fare tutti i giri d’obbligo, perché proprio non si fidava di lei. Ryan ed Esposito gli avevano detto che avrebbero organizzato qualcosa di eccezionale per la loro cerimonia, Alexis e Jim, invece tra tutti erano semplicemente felici per loro. Rick e Kate ogni volta, ripetevano che in realtà non avevano ancora pensato a nulla, si erano solo detti che l’avrebbero fatto, avrebbero deciso insieme, come tutto, avrebbero capito quando sarebbe stato il momento giusto.

Martha aveva riempito il loft di riviste su abiti da sposa, sul matrimonio, aveva stampato un elenco dei migliori wedding planner di New York segnando quelli che secondo lei erano i migliori, buttato giù delle idee che quando una sera Rick e Kate avevano visto erano prima rabbrividiti e poi scoppiati a ridere immaginando una sala allestita con fiocchi e paillettes.

- Allora, come lo sognavi il tuo matrimonio? - Le chiese Castle chiudendo tutte le riviste e togliendo di mezzo tutte le cose portate da sua madre.

- Quando? - Chiese invece lei prendendogli le mani ed avvicinandosi a lui sul divano.

- Non so, quando eri piccola, tutte le ragazzine sognano il loro matrimonio.

- Uhm… con un lungo vestito bianco ed un velo da principessa, arrivare in chiesa con la carrozza con i cavalli bianchi e che ad attendermi all’altare ci fosse un bel fusto biondo con gli occhi azzurri. - Rise

- Per gli occhi azzurri siamo apposto, su tutto il resto dovremmo lavorarci. - Disse Rick pensieroso toccandosi la pancia non di certo scolpita.

- Non ci pensare nemmeno Castle! Adesso una cosa del genere mi mette ansia al solo pensiero. E non scambierei il tuo corpo… morbido… con nessun altro bel fusto! - Gli disse baciandolo.

- Ora invece cosa vorresti per quel giorno? - Aprì un braccio per farla accomodare meglio appoggiata a lui.

- Fammi pensare… Solo una cosa. Tu che mi aspetti all’altare. Tutto il resto non ha importanza.

- Sei sicura? Nemmeno un vestito da super sposa? Tutte le ragazze hanno un vestito ideale!

- No, nemmeno quello. Solo te. Pensi di potermi accontentare? - Gli chiese con quella voce che diventava irresistibile

- Ti prometto che il giorno del nostro matrimonio sarò sull’altare ad aspettarti. - Sorrise lui.

- E tu questa volta come lo vorresti? - Chiese lei.

- Nostro. Mio e tuo. - Rispose lui senza indugi e vide Kate perplessa di quella risposta, quindi decise di raccontarle qualcosa che lo metteva profondamente a disagio con lei, dei suoi precedenti matrimoni, perché si sentiva quasi in colpa per essersi sposato già due volte e non poterle dire che lei sarà la prima e l’unica, come lei invece gli ripeteva sempre. - Il matrimonio con Meredith è stato classico, il classico matrimonio americano. Chiesa poi ricevimento in giardino con tutti i parenti e gli amici. I parenti erano tutti suoi, io avevo solo mia madre. Lei è stata al centro della scena tutto il giorno, come voleva ed io spesso la guardavo seduto dal nostro tavolo mentre si prendeva il palcoscenico, con amici e parenti, cugini, zii tutte persone delle quali ignoravo l’esistenza fino a quel momento e delle quali ho continuato ad ignorarla dopo. Quel giorno è stato il suo matrimonio, la sua giornata.

- E con Gina? - Gli chiese Kate.

- È stato il matrimonio di tutti, organizzato da lei ad uso e consumo della stampa. Ogni dettaglio è stato curato non perché piacesse a me o a lei, ma perché era quello che veniva meglio per la stampa, per il pubblico. Non c’è stato un secondo autentico quel giorno, dalle promesse che ho scritto io per entrambi, perché dovevano essere belle e di scena, alle pose delle foto, ai baci, i sorrisi, anche la scelta degli ospiti, come farli disporre. Era tutto fatto per gli altri, un copione recitato per ore, provato e riprovato.

- Perché lo hai fatto Castle? - Chiese lei quasi triste per lui, perché lei lo sapeva, Rick non era quel tipo di persona.

- Perché Gina voleva così, perché era più conveniente in quel momento. Perché andava bene così, per quello che ero. Per questo voglio che questo sia nostro. Senza compiacere nessuno, amici o parenti, solo quello che vogliamo noi. Che ne pensi? - Le propose prima di baciarla.

- Mi sembra perfetto, rispose sulle sue labbra.

 

Lo aveva lasciato sul divano, mentre lei era andata nel suo studio: Rick voleva mostrarle le foto dei suoi precedenti matrimoni, per farle vedere quanto fosse ridicolo. Forse parlarne e condividere tutto con lei era il modo migliore per eliminare l’imbarazzo di quell’argomento. Le diede le indicazioni di dove trovarle, e lei lo prese in giro dicendo che alla fine le teneva sempre tutte a portata di mano, ma quando Kate aprì lo sportello del mobile dell’ufficio di Castle, il suo sorriso svanì. Rick continuò a parlare e scherzare per un po’ non accorgendosi subito del silenzio totale che veniva dallo studio, ma quando la chiamò e lei non rispose, si alzò per vedere cosa ci fosse che non andava. Lo sentì arrivare e si voltò verso di lui, Castle vide il suo volto teso e rigato dalle lacrime e tra le mani una piccola stoffa blu. Non aveva avuto coraggio di buttarlo, lo aveva messo lì, dove c’erano i suoi ricordi, gli album di matrimoni, la scatola con le cose di Alexis… Quando le aveva detto di prendere le foto non pensava a cosa avrebbe trovato.

- Perché Castle? - Gli chiese tra le lacrime.

- Era una sorpresa per te, una delle tante cose che non ho mai fatto in tempo a darti. 

Guardò a terra e ai suoi piedi c’erano anche le ecografie che erano cadute a terra. Kate seguendo lo sguardo di Rick si piegò a raccoglierle, lasciandosi poi scivolare sul pavimento. Castle la raggiunse, mettendosi anche lui seduto a terra vicino a lei. La vide accarezzare l’ecografia e non staccava gli occhi da quelle immagini in bianco e nero, che solo per loro avevano un significato così grande.

- Kate io… io credo che sia arrivato il momento di lasciarlo andare… - Disse Rick guardando la foto con lei, e portando le mani sulle sue. Lei lo guardò scuotendo la testa.

- Non so se ce la faccio… non so se sono pronta.

- Lo sei Kate, io lo so che lo sei… Devi solo volerlo… 

- Non lo voglio dimenticare, Castle…

- Noi… non lo dimenticheremo mai e possiamo fare una scatola dei ricordi, con tutte le cose di lui… La metteremo insieme ai nostri ricordi più cari ma… Kate… Ce la puoi fare, ce la possiamo fare insieme…

Rialzarsi da lì non fu facile, né fisicamente, né metaforicamente. Kate passò tutta la notte tra le braccia di Rick, piangendo in silenzio, per lo più. Ma sapeva che lui aveva ragione, che ora che volevano cominciare una nuova vita insieme, quello che diceva lui era la cosa giusta da fare. 

La mattina dopo prese una delle scatole che Rick aveva nel suo ufficio, mise dentro le ecografie, la tutina e la collana che le aveva regalato Alexis. Tutto quello che rimaneva del suo bimbo era lì. Con un pennarello nero scrisse “Prince” sul coperchio della scatola e quando Castle si svegliò la trovò che la stava abbracciando, lo stava salutando, per l’ultima volta. Rick le cinse le spalle e appena Kate sollevò la testa la baciò dolcemente e poi baciò la scritta che lei aveva fatto sul cartone. Tolse dal mobile gli album con le foto dei suoi matrimoni e mise quella scatola vicino a quella di Alexis, poi chiuse il mobile e si lasciò trasportare nell’abbraccio di Beckett, perché in quel momento era tutto tanto difficile, anche per lui ed aveva bisogno di lei.

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Capitolo 58
*** CINQUANTOTTO ***


Per Kate vedere Rick impegnato nella parte pubblica del suo lavoro era ancora una novità. Aveva imparato a conoscere il suo modo di scrivere, non solo per la costruzione della storia, ma anche materialmente, i suoi attacchi di ispirazione improvvisa notturna, quando si alzava e si rifugiava nello studio o sul divano per dare sfogo alla sua immaginazione. Trovarsi invece a dover fronteggiare con lui un tour promozionale era altro, soprattutto in quella situazione, perché Rick aveva tutte le intenzioni di proteggere Kate da tutto quello che ci sarebbe stato intorno a loro, non l’aveva portata per farsi pubblicità, ma solo perché non poteva pensare di stare alcune settimane lontano da lei. Aveva temuto che lei non accettasse ed invece lo aveva sorpreso dicendo immediatamente di sì, anche perché adesso stare a New York da sola, senza fare nulla per di più al loft senza di lui, era impossibile. Stava cominciando a sentire la mancanza di quella che era sempre stata la sua vita, i suoi ritmi, e Castle lo aveva capito, per questo cercava di non farle mai avere troppi spazi vuoti che lei avrebbe riempito con la sua malinconia.

 

Gina si presentò al loft il giorno prima che loro sarebbero dovuti partire per Las Vegas. Era ancora indispettita perché Rick le aveva detto espressamente che non voleva che lei lo seguisse, che se la sarebbe cavata da solo e che avrebbe portato Kate con lui e questo la fece arrabbiare ancora di più, non per la presenza di Beckett al suo fianco, perché quello che c’era tra loro era ormai assodato, ma perché lui si era rifiutato categoricamente di sfruttare questa cosa per ulteriore pubblicità: Beckett era di fatto la protagonista nel libro, era la sua musa, sarebbe stato un colpo eccezionali averli insieme per pubblicità, ma lui era stato irremovibile, lei non era lì per quello. Conosceva la voglia di riservatezza di Kate e quanto non le piacesse essere al centro dell’attenzione, non ne avevano parlato, ma lui non avrebbe avuto da ridire se lei non avrebbe voluto farsi vedere in nessuna occasione ufficiale, certo gli sarebbe piaciuto averla al suo fianco, perché lui era orgoglioso di lei, sotto tutti i punti di vista, ma la cosa importante era ritrovarla ogni sera quando sarebbe ritornato da lei, il più presto possibile.

Quando fu Kate ad aprirle la porta, mentre Rick ancora era immerso nei preparativi dei suoi bagagli, Gina rimase stupita della naturalezza con la quale Beckett si era già appropriata del ruolo, anche se viveva lì da poco tempo. Si salutarono in modo cordiale e piuttosto formale, Kate ogni volta che rivedeva l’ex moglie di Rick non riusciva a ricacciare indietro la spiacevole sensazione di quella mattina al distretto quando erano andati via insieme negli Hamptons e di quel maledetto giorno, quando lui era andato alla Black Pawn: non era gelosia quella che provava, aveva imparato a fidarsi ciecamente di Castle, sapeva di non aver più nessun motivo al mondo per essere gelosa adesso, dopo tutto quello che avevano affrontato separati ed insieme e come si erano rimessi in gioco, era un continuo evocare sentimenti dolorosi che la facevano rimanere tesa ed a disagio, nonostante cercasse di mascherarlo in tutti i modi.

- Gina, come mai qui? - Le chiese Rick uscendo dalla camera da letto appena riconosciuta la voce dell’ex moglie.

- Speravo di riuscire a convincerti a fare un po’ meglio il tuo lavoro, Rick - Gli disse con aria di sfida.

- Credo di saper fare bene il mio lavoro, Gina. Altrimenti tu non potresti fare la bella vita che fai sfruttando i miei guadagni e quello che ti sei presa per il divorzio, non trovi? - Rispose sarcastico.

- Dai Rick, sii ragionevole è una occasione importante! Tre serate, non di più, una per città, ci mettiamo un attimo ad far uscire un comunicato stampa che eccezionalmente sarai presente con la tua musa, lo sai come vanno queste cose, al massimo vi faranno qualche domanda durante la festa, poi tu sei bravo a gestire la stampa, no? - Provò ad adularlo ma lui le rispose con un sorriso scuotendo la testa.

- Te l’ho già detto, Gina. Kate… - Si avvicinò a lei cingendole la vita - Kate non è qualcosa che devo esibire. Verrà con me e starà al mio fianco nel modo in cui lei vorrà, senza bisogno che ci sia alcun annuncio. Non viene con me perché Nikki Heat è ispirato a lei, ma perché al mio fianco è l’unico posto dove la vorrei sempre.

- Sembra quasi una dichiarazione Rick! - Sorrise Gina per nulla imbarazzata dalle parole di Castle, al contrario di Kate che aveva abbassato la testa guardando il pavimento. - Anzi, credo che ti sia già dichiarato a giudicare da come brilla quell’anello. Congratulazioni, lo hai già detto a Paula? Avrà tanto da fare! - Esclamò ancora la bionda mentre Kate istintivamente coprì la mano con con l’altra, come a voler tenere tutto quello solo per sé.

- No. E non è una cosa che a Paula deve interessare. - Rispose seccamente.

- Andiamo Richard! Lo scrittore che sposa la sua musa è una notizia da urlo! Si vende da sola. Tanto prima o poi verrà fuori la notizia, tanto vale che la sfrutti tu a tuo piacimento.

- Gina, non è il vostro matrimonio. È il mio e di Castle. Io non ho nessuna intenzione di nascondermi, ma questa è una cosa che è solo nostra e così dovrà rimanere. - Kate era rimasta in silenzio fino a quel momento, poi aveva parlato per difendere la loro vita e i loro sentimenti. Sapeva che stare vicino a Rick comportava dover fare delle rinunce per quello che riguardava la sua voglia di normalità e di riservatezza, aveva capito fin da subito che avrebbe dovuto accettare i compromessi, però su quello non aveva alcuna intenzione di derogare, l’unica cosa di cui avevano parlato era che il loro matrimonio doveva essere tale e non avrebbe accettato nessun tipo di interferenza da parte di qualsiasi situazione lavorativa. La durezza del tono di Kate aveva colpito la bionda che incassò il colpo senza replicare: se quella era la posizione di Beckett quella di Castle non sarebbe stata diversa, anzi avrebbe fatto di tutto per assecondarla.

 

Così erano partiti da soli, loro due, alla volta di Las Vegas ed era strano come il più emozionato fosse proprio Castle, che invece avrebbe dovuto essere abituato a tutto quello. Si sarebbero fermati alcuni giorni, Rick aveva in programma alcuni incontri e degli eventi ai quali avrebbe dovuto presenziare, però il resto del tempo lo avrebbe dedicato solo a Kate, certo non erano nella città più romantica del mondo, ma l’unica cosa che gli interessava era stare con lei, sarebbe andato bene ovunque.

Seduti vicino in aereo nelle loro comode poltrone di prima classe, Rick aveva tenuto per tutto il tempo la mano di Kate, giocando lui stesso con quell’anello che simboleggiava la loro promessa. Più passavano i giorni più era impaziente che Kate diventasse sua moglie, non per paura di perderla o che ci ripensasse, ma solo perché lo desiderava come mai aveva fatto. Lei rilassata, con gli occhi chiusi, si godeva il suo tocco che la tranquillizzava e le teneva silenziosamente compagnia. Quella era una delle cose di lui che l’aveva sorpresa di più, il suo saperle stare vicino in silenzio, più spesso di quanto avrebbe mai immaginato potesse fare vista la sua indole incline al parlare, sempre. Però aveva scoperto che con lei c’era un altro Castle, quello che non aveva bisogno di parole per comunicare con lei, bastava che le tenesse la mano e lei sapeva esattamente quello che voleva dirle.

- Sei nervoso? - Gli chiese quando mancava poco all’atterraggio e stava ricontrollando l’elenco dei suoi impegni.

- No… ehm… stavo controllando quanto tempo dovrai rimanere sola… cioè, non perché io non voglio che tu venga, insomma io vorrei, ma non ti voglio dire di venire per farmi felice… - Si era incartato da solo e fece un respiro. - Non vorrei ti annoiassi troppo, ecco tutto. 

- Signor Castle, sarò felice di essere al suo fianco ogni volta che lei vorrà. - Gli disse prendendogli lei questa volta la mano. - Sempre.

- Sempre? - Chiese speranzoso.

- Sì, tranne quando fai quella cosa orribile di firmare gli autografi sul corpo delle tue fan. Perché non so se resisterei alla scena senza picchiare loro o forse te. - Disse scherzando ma non troppo.

- Ehm… no… promesso nessun autografo su nessuna parte del corpo… - si giustificò - ma poi tu cosa ne sai?

- Ti devo ricordare che è stata la prima cosa che mi hai detto quando ci siamo incontrati? - Gli ricordò raddrizzando il sedile dell’aereo.

- Uhm… ti ricordi la prima cosa che ti ho detto? Allora ho fatto colpo! - Aveva già ritrovato tutta la sua sfacciataggine.

- Non ti allargare, Castle! E poi si sa che fai così… tutte quelle ragazzine in fila, per i tuoi autografi che si scoprono e tu che con quella faccia da schiaffi che hai le autografi tutto contento… - Raccontò inorridita.

- Da come lo dici pare che lo hai visto fare… - Le disse ridendo, poi ci pensò e si fece serio. - Tu lo hai visto. Lo hai visto perché lo hai fatto anche tu, dì la verità! Non mi dire che ho autografato anche te e non me lo ricordo!

- Il libro. Una volta. Mi hai autografato un libro. Non a me. Ti sembro la persona che fa certe cose? - Specificò puntualizzando la differenza tra lei e le altre sue fan.

- Tu mi sorprendi sempre Beckett… Ma me ne sarei sicuramente ricordato. Non avrei potuto dimenticarmi di te. - Le parlava di nuovo con quel tono che gli avrebbe perdonato tutto.

- Sono passati tanti anni Castle…

- Tanti anni persi… - La guardò negli occhi e lei non riuscì a sostenere il suo sguardo, imbarazzata, facendo scivolare l’attenzione sulla cintura di sicurezza che stava per allacciarsi. Avevano cominciato le manovre di atterraggio, sarebbero arrivati entro pochi minuti.

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Capitolo 59
*** CINQUANTANOVE ***


Li vennero a prendere direttamente appena scesi dall’aereo, un trattamento che per Castle era la normalità, per Beckett molto meno. Lo seguiva camminandogli vicino, con movimenti quasi sincronizzandosi, sfiorandosi senza toccarsi mai realmente, ma senza nemmeno lasciarsi, erano uniti anche così.

Salirono nella limousine messa a disposizione dall’hotel subito dopo aver parlato con Robert, un ragazzo dai modi educati ed eleganti, impeccabile nel parlare e nel muoversi, che sarebbe stato il suo referente per l’organizzazione di tutti gli eventi che lo riguardavano, il primo il party dato dall’hotel che li ospitava quella sera stessa. Era da poco passata l’ora di pranzo e quelle sei ore di volo non erano state stancanti, ma comunque entrambi non vedevano l’ora di poter arrivare in camera e rilassarsi un po’ prima di prepararsi per l’evento della sera per il quale, per motivi diversi, erano entrambi agitati: Castle perché sarebbe stato il primo dove avrebbe portato pubblicamente Beckett come sua compagna ufficiale e lei perché temeva di non riuscire ad essere perfettamente a suo agio in quel contesto.

L’elegante hotel che li accoglieva sembrava un’oasi di normalità in mezzo agli eccessi della città dove di normale c’era ben poco e tutto doveva andare fuori dalle righe. Quando arrivarono, Robert era già lì e diede disposizione ai facchini di prendere il loro bagaglio, poi li accompagnò personalmente nella loro camera. Castle già conosceva quel posto, c’era stato una volta, qualche anno prima, per la promozione di uno degli ultimi suoi libri di Storm ambientato in parte proprio in quell’hotel e da lì era nata quella singolare collaborazione come uno dei testimonial del brand, non erano cose che faceva spesso, ma si divertiva molto a farle, soprattutto perché erano quelle che gli permettevano di soddisfare il suo ego ed essere al centro dell’attenzione come piaceva a lui.

Kate mise piede dentro l’enorme suite con un carico di ansia addosso che Rick percepì immediatamente quando si voltò per guardare l’ambiente.

- Non riesci ad essere mai un po’ meno eccessivo, vero Castle? - Gli disse con un tono di finto rimprovero mentre lui l’abbracciava avvolgendola da dietro.

- È la camera degli ospiti speciali. Noi lo siamo. 

Kate fece un passo avanti e lui la lasciò scivolare via, allungò la mano per accarezzare il bouquet di orchidee bianche appoggiato su un mobile sotto un grande specchio. Rick rimase incantato ad osservare il suo profilo riflesso nello specchio mentre sfiorava i petali dei fiori assorta nei suoi pensieri. Aveva imparato a riconoscere quei suoi momenti, quando qualcosa la faceva pian piano scivolare dentro i suoi incubi che anche se adesso le facevano meno paura. Aveva imparato, soprattutto, a rispettare e capire i suoi tempi, quando era giusto lasciarla sola e quando poi starle vicino, perché un attimo prima si sarebbe ribellata ed un attimo dopo sarebbe affogata. Vivano di equilibri fragili che loro avevano fatto diventare solidi. Kate si voltò verso Rick che fece quel passo per ridurre la distanza tra loro di nuovo e lasciò che lei appoggiasse la testa sulla sua spalla, bastava anche solo questo.

 

- Vado bene così? - Kate glielo aveva ripetuto varie volte e lui non sapeva più come dirle che era perfetta in quel lungo abito rosso con il corpetto e le spalline di pizzo che le fasciava il corpo. Rick l’aveva osservata vestirsi e cercare di coprirsi il più possibile il segno della cicatrice ancora ben visibile sul petto, era stato tentato più volte di dirle di non farlo, che lei era perfetta così, ma non lo fece perché capì che non era quello di cui aveva bisogno, perché non si sarebbe mai perdonato se qualcuno vedendola le avesse fatto qualche domanda inopportuna.

- In realtà no. Perché questa sera sarai al centro dell’attenzione di tutti e mi farai perdere il mio posto d’onore. Passerò solo come l’accompagnatore della donna più bella, un durissimo colpo per il mio ego, quindi ti prego, cerca di essere meno perfetta.

La fece ridere, uno di quei suoi sorrisi pieni, uno di quei sorrisi di cui si era innamorato, appena aveva cominciato a sorridere, di quelli che le illuminavano il viso e gli occhi e proprio mentre lei rideva entrarono nella sala della festa dove, per la prima volta, Kate Beckett era sottobraccio a Richard Castle senza dover fingere una copertura, senza nessun sotterfugio. Rick la volle sempre al suo fianco, in tutto il giro dei saluti di rito, presentandola, senza farsi troppi problemi, come la sua futura moglie, facendo tremare le gambe e non solo a Kate la prima volta che lo sentì pronunciare quella frase inaspettata.

- Tanto lo avrebbero scoperto lo stesso, perché non ho nessuna voglia di fare finta che sei solo la mia musa. - Si giustificò appena si allontanarono.

- Non sono arrabbiata, Castle. Sono solo… beh… mi fa un certo effetto sentirlo… Io non sono abituata a tutto questo… alle feste e soprattutto all’idea di sposarmi. - Fu lei che finì per scusarsi.

- Ci stai ripensando? - Chiese preoccupato.

- No! No! Ma cosa dici? - Gli diede un bacio lieve sulle labbra per farlo tacere mentre si spostavano per prendere due flute di champagne, immediatamente immortalati da alcuni fotografi presenti - È solo tutto strano… 

 

I giorni a Las Vegas passarono velocemente, Kate aveva accompagnato Rick anche nei suoi incontri con i fan, curiosa di osservarlo interagire con loro e lui l’aveva voluta sempre al suo fianco. Gina lo chiamò entusiasta ma lui le spiegò che non aveva fatto nulla di quello per lei, ma solo perché era quello che entrambi si erano sentiti di fare, così avevano soddisfatto la curiosità di più di qualcuno rispondendo a domande su come si svolgevano le loro indagini, su come era nato il personaggio di Nikki Heat.

L’ultimo party che avevano in programma era stato organizzato direttamente dalla Black Pawn e oltre a Castle partecipavano anche alcuni scrittori emergenti della casa editrice che dopo il successo ottenuto con lui, aveva messo sotto contratto altri giovani talenti interessanti.

- Ehy Richard, ho sentito che ti sposi di nuovo! - Un uomo di mezza età con un improbabile completo gessato che lo faceva assomigliare molto ad un boss uscito da qualche film di seconda categoria sulla mafia americana si avvicinò a Rick e Kate salutandoli in modo beffardo.

- Ciao Bob, tu invece, sei stato piantato in asso di nuovo? - Rispose Rick con lo stesso sarcasmo 

- Cose che capitano con le donne. Cos’è questa volta? Attrice, cantante? - Chiese come se Kate non fosse nemmeno lì.

- Detective della omicidi. - Rispose lui senza nemmeno pensarci, guardandola un attimo negli occhi, solo per vedere una punta di nostalgia.

- Ah… - Esclamò sorpreso l’uomo guardando poi Kate. - Nikki Heat immagino. È pericoloso Richard confondere lavoro con sentimenti non lo sai? Pensavo che dopo Gina avessi imparato la lezione. Ma corri ancora da lei come un cagnolino quando ti chiama Richard? 

Bob fece una grassa risata che lasciò Kate completamente interdetta, poi la squadrò e fece un gesto di apprezzamento decisamente poco elegante.

- Non male comunque la detective. Vabbè, sei ancora giovane, per la cantante da aggiungere alla collezione c’è sempre tempo…

Gli diede una pacca sulla spalla e ne andò senza dargli possibilità di risposta.

- Scusami. È Bob Candle…

- Dovrei conoscerlo? - Chiese Kate ancora infastidita.

- Non credo. Era lo scrittore di punta della Black Pawn prima… insomma, prima di me. Aveva anche avuto una storia con Gina. Ce l’ha con me perché dice che gli ho portato via tutto.

Kate annuì ma subito dopo gli disse che non si sentiva bene e lo lasciò solo al party.

La raggiunse in camera appena finito dell’ultimo incontro con la stampa, se ne era andato prima della fine, perché la sua presenza lì era diventata inutile, visto che la sua attenzione era altrove. La trovò già a letto, girata nel suo angolo, non si mosse nemmeno quando lui si avvicinò e la abbracciò ancora vestito con il suo smoking impeccabile.

- Cosa c’è Kate? - Le chiese dolcemente.

- Sarà sempre così per tutti vero?

- Cosa?

- Una nella collezione.

- Ti importa di cosa pensano gli altri o di cosa penso io? - Non riuscì a nascondere il dolore dalle sue parole che arrivò dritto a Kate colpendola con forza e facendola voltare verso di lui. Gli prese il volto tra le mani, era stata una stupida ed avrebbe voluto trovare il modo di scusarsi ma non ne era nemmeno capace. Provò ad alzarsi ma lui la fermò.

- Dove vai Kate?

- Non volevo rovinarti la serata, mi dispiace. - Rispose mordendosi il labbro inferiore.

- Cosa vuoi che mi importi della serata? È una stupida festa con della stupida gente! - Sbottò lui. - Voglio sapere se ti importa più di cosa penso io o di cosa pensano gli altri e se dopo tutto quello che è accaduto hai veramente dei dubbi su quello che voglio e quello che provo. - Aveva alzato la voce così tanto che Kate si sentì bloccare dalle sue parole, immobilizzata sul bordo del letto mentre lui era alle sue spalle, aveva paura anche a voltarsi perché non sapeva cosa avrebbe visto nel suo volto, nei suoi occhi.

- Distruggo sempre tutto, vero Castle? - Chiese con il volto rigato da lacrime che lui non poteva vedere, ma che riconosceva dalla voce tremante.

- Solo fino a quando crederai di farlo, Beckett ed io non so più come farti capire che non è così. - Si prese la testa tra le mani appoggiandosi con le spalle alla testiera del letto. Ebbe solo un momento di stizza sfilandosi il papillon e gettandolo via, mentre Kate seguì con lo sguardo solo il movimento dell’ombra sul muro. Rimasero tutto il resto della notte così, senza che nessuno dei due avesse il coraggio di dire nulla all’altro, come due statue congelate nelle loro posizioni.

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Capitolo 60
*** SESSANTA ***


Rick sobbalzò quando sentì le dita di Kate tra i suoi capelli e poi il suo abbraccio e quella leggera pressione che lo invitava, per una volta, ad appoggiarsi a lei che si era spostata al suo fianco. 

- Posso provare a cambiare tutto Beckett, non il mio passato.

- Vorrei solo riuscire a pensare solamente al nostro futuro. - Ammise lei.

- Facciamolo allora. - Rick si tirò su e la guardò. Aveva gli occhi che brillavano, come quando un’idea lo attraversava, una delle sue intuizioni che lui giudicava geniale da solo.

- Cosa? - Chiese presa alla sprovvista.

- Sposiamoci!

- Ti ho già detto di sì, se tu non hai cambiato idea. - Gli disse perplessa.

- Dico oggi. Hai detto che vuoi che il nostro matrimonio sia solo nostro. Facciamolo, oggi. Io e te. Ci serve solo questo no? - Era improvvisamente eccitato come un bambino davanti ai regali di Natale.

- Castle ma tua madre… tua figlia… i nostri amici… mio padre… Non saranno felici di questo. - Provò a farlo ragionare.

- Non ti sposo per far felici loro Kate, ti sposo per far felice te ed essere felice io. Voglio essere egoista. Voglio che questo sia solo nostro. Sposiamoci oggi, Kate. Siamo a Las Vegas, possiamo fare tutto!

Il suo sorriso e la luce nei suoi occhi la contagiarono a tal punto che dopo aver preso un respiro profondo non potè fare altro che dire di sì, a voce ed annuendo, lasciandosi investire dal suo entusiasmo. Forse quello era esattamente quello di cui avevano bisogno, rompere tutti gli schemi e fare una follia insieme. Aveva ragione lui, non avevano bisogno di altro o di altri. Era solo quello che pensava lui che doveva avere importanza e così sarebbe stato.

- Che dici se dormiamo un po’? - Le propose

- Castle, mi hai detto che ci sposiamo oggi non so quando e pensi che adesso potrei dormire? - Chiese lei sbalordita.

- Dovrai solo dire sì, non è difficile. - Rispose abbracciandola ed obbligandola di fatto a sdraiarsi vicino a lui mentre si sbottonava sbadigliando un paio di bottoni della camicia.

- La fai facile tu, mica è la prima volta per te! - Lo prese in giro questa volta sorridendo.

- Però è la prima volta che sono agitato, senti! - Le prese la mano e la poggiò sopra il suo cuore. Batteva forte che poteva sentirlo rimbalzare il palmo della sua mano.

- Devi solo dire sì, Castle! - Ripetè le sue parole.

 

Alla fine Kate si era veramente addormentata ascoltando il battito del cuore di Castle ed aveva anche dormito molto di più di quanto avesse immaginato. Aveva trovato solo un biglietto dall’altra parte del letto vuoto. La scrittura di Rick le sembrò ancora più bella del solito.

“Quando ci rivedremo sarai mia moglie.

Ti Amo.

Rick” 

Prese il telefono e lo chiamò. Rispose al primo squillo, quasi non aspettasse altro.

- Tu sei pazzo! Dove sei Castle? - Gli disse sorridendo solo nel sentire la sua voce. Le inquietudini della notte precedente sembravano così lontane.

- Ad organizzare il nostro matrimonio. Tu non pensare a nulla, scegli solo il vestito che ti piace di più e rilassati. Ho già parlato con la boutique dell’hotel, troverai sicuramente qualcosa di tuo gradimento. Questa sera alle 18:00 verrà a prenderti un’auto, tu devi solo salire e venire da me, ti prometto che ci sarò ad aspettarti all’altare.

- È l’unica cosa che mi importa, lo sai vero?

- Sì, ma dato che sarà il tuo unico matrimonio, voglio che sia speciale in tutto. Ci vediamo tra qualche ora, pensi di poter resistere?

- Penso di sì, Castle… 

- Bene… allora ci vediamo dopo Kate.

- Ci vediamo dopo… Rick! - Lo richiamò quando stava per attaccare - Ti amo.

- Ti amo anche io Beckett.

 

Si affacciò dubbiosa all’interno della boutique dell’hotel nel suo leggero vestito di lino nero. Rick doveva aver fatto una descrizione precisa di lei alle commesse o forse gli aveva fatto vedere tutte le sue foto, perché appena messa la testa dentro, subito in due le si fecero incontro chiamandola per nome e trascinandola in una parte più riservata del negozio dove su alcune rastrelliere erano già ben disposti una grande quantità di abiti bianchi. Vedendoli a Kate si chiuse lo stomaco perché non pensava che avrebbe dovuto scegliere proprio un vestito da sposa, non nella boutique di un hotel, pensava più a qualcosa di elegante, magari bianco, ma nulla di troppo formale. Invece c’erano tre donne intorno a lei, tutte estremamente sorridenti e disponibili, per nulla sorprese del suo imbarazzo.

- Fa sempre questo effetto, più o meno a tutte la prima volta. E poi se la prima volta è anche a poche ore dal matrimonio, anche di più. -  Le disse quella che sembrava essere la più esperta delle tre. - Come vorresti il tuo vestito?

Non sapeva cosa rispondere a quella domanda le guardò sbarrando gli occhi forse con una chiara espressione di aiuto, tanto che una delle altre due si avvicinò alla rastrelliera prendendo alcuni abiti e portandoglieli.

- Vuoi cominciare con uno di questi? - Glieli porse e lei li prese incerta lasciandosi guidare in un camerino. Indossò il primo e si guardò allo specchio. Si guardò per la prima volta vestita da sposa ed ebbe una strana sensazione, era tutto così veloce da non riuscire bene a razionalizzare quello che stava accadendo, però quel vestito era troppo eccessivo per i suoi gusti. Uscì fuori e lasciò che la vedessero le commesse che ovviamente la riempirono di complimenti, ma almeno adesso aveva un’idea di cosa voleva. Qualcosa di più semplice. Ne provò molti e quasi si demoralizzò perché pur essendo tutti bellissimi e tutti a detta delle commesse le stavano bene, non riusciva a vedere nulla che le sembrasse giusto per quel momento. Era uscita della loro suite pensando che avrebbe preso il primo vestito bianco elegante che avesse trovato, era già più di un’ora che provava vestiti e non c’era nulla che sentisse veramente suo. La fecero sedere su un divanetto, le portarono una tazza di caffè e le dissero di prendersi qualche minuto per rilassarsi.

- Mi devo sposare tra poche ore… - Sospirò sorseggiando il caffè.

- Sì, ma il suo futuro marito è stato perfetto nel descriverla ed ogni vestito le sta alla perfezione. Appena lo indosserà saprà che è quello giusto. - Cercò di supportarla la donna più anziana.

Alla fine fu così, finito il caffè guardò con calma tra i vestiti nella rastrelliera e poi lo vide. Un abito semplice, con un leggero drappeggio, con un’importante spacco sul fianco ed una profonda scollatura. Si guardò allo specchio e capì che era proprio quello il suo vestito, nonostante tutto, soprattutto nonostante lasciasse la sua cicatrice bene in vista o forse proprio per quello. Portò una mano sul foro del proiettile che disegnava un cerchio sulla sua pelle e l’emozione in lei aumentò.

- È questo vero? - Le chiese la commessa e lei semplicemente annuì. Era quello.

Il resto del tempo lo passò nel salone di bellezza dove le sistemarono i capelli e la truccarono, poco, come chiesto esplicitamente da lei. Tornata in camera trovò il vestito appoggiato sul letto e vicino a quello una scatola blu con dentro la collana e gli orecchini più belli che aveva mai visto nella sua vita. Indossò il vestito, da sola, in silenzio senza riuscire a chiudere i nastri che lo legavano alle spalle e poi i gioielli. Avrebbe dovuto cercare qualcuno per farsi aiutare. Mancava ancora mezz’ora alle 18:00, si sedette sulla sedia davanti allo specchio della sala da bagno e si guardò a lungo, osservò ogni segno sul suo volto, mascherato da quel leggero trucco che però non nascondeva quello che lei sapeva esserci sotto.

C’erano 14 anni di tormenti, di delusioni, di lotta con la vita e con la morte. C’erano dolori che non se ne sarebbero andati mai, c’era un amore che pensava non sarebbe mai arrivato, non così. C’era una bambina che era diventata una donna ed una donna che si era quasi distrutta e solo grazie all’amore era riuscita a rialzarsi. C’era lei con tutte le sue contraddizioni e le sue difficoltà, i detriti dei suoi muri abbattuti e la polvere depositata sulla pelle e sugli occhi. C’era una donna che voleva fortemente ricominciare a vivere in modo diverso e sapeva che doveva farlo. Resistette contro se stessa per non piangere, perché non avrebbe avuto tempo per truccarsi di nuovo. 

Aveva immaginato più volte come sarebbe stato quel giorno, non lo aveva mai immaginato così, sola in una stanza di hotel senza nemmeno qualcuno che l’aiutasse a chiudere il suo vestito. Eppure non c’era tristezza in quello, c’era solo la profonda consapevolezza che tutta quella situazione era solo il contorno e che il vero centro di tutto, il senso profondo, era in quello che avrebbe fatto. Solo una cosa le mancava in quel momento, l’abbraccio di sua madre. Eppure era convinta che fosse lì, con lei, che non era sola e che lei era la prima convinta che stesse facendo la cosa giusta, nel modo giusto. Giocò con una ciocca di capelli, arrotolandosela sul dito e poi lasciandola andare.

Suonarono il campanello della stanza, erano in anticipo. Corse ad indossare le scarpe e poi ad aprire, ma dietro alla porta vide il volto amichevole della commessa della boutique.

- Ho pensato che serviva una mano per chiudere il vestito. - Le disse sorridendo, aiutandola poi ad allacciare gli ultimi nastri sulla schiena, sistemandole i drappeggi sulla vita e le spalline.

- Sei perfetta, lo sai? Ci sono spose che si preparano per mesi per questo giorno e non si avvicinano nemmeno a te. - Kate arrossì mentre salutava e ringraziava la donna che le faceva i suoi migliori auguri.

Poi fu Robert, all’ora stabilita, ad andarla a prendere in camera.

- Il signor Castle sarà incantato quando la vedrà! - Le disse quando erano soli in ascensore facendola arrossire, arrivando direttamente al parcheggio dove una limousine l’aspettava, evitando di farla passare tra la folla di curiosi mettendola ancora più a disagio ed in imbarazzo di quanto già non fosse. Trovò nel sedile un bouquet di orchidee bianche lo prese tra le mani accarezzandolo dolcemente, chiudendo gli occhi e lasciandosi trasportare tra le strade affollate e scintillanti di Las Vegas.

Quando l’auto si fermò e Kate scese per un attimo non si rese nemmeno conto che era esattamente dove era partita. Trovò di nuovo Robert che la guardava sorridendo mentre lei faticava a capire.

- Mi perdoni, ma tutto questo è stata un’idea del signor Castle… mi segua…

Così Kate con il suo bouquet in mano seguì il ragazzo fino ad una grande vetrata dove lui la lasciò, invitandola ad aprire ed andare. Si guardò per un attimo riflessa nel vetro e poi mise la mano sulla maniglia ed uscì sulla terrazza. Il sole era appena tramontato lasciando un leggero colore rossastro prima che sopraggiungesse la notte. Camminò lentamente guardando in basso alzando gli occhi poco alla volta, provando a gustarsi ogni singolo istante. Notò i fiori, uguali a quelli del suo bouquet nei vasi che adornavano la breve distanza tra loro, e poi in fondo c’era lui, sorridente, nervoso, bellissimo che stringeva i pugni mentre l’aspettava. Affrettò il passo e lui sorrise ancora di più nel vederglielo fare ed allungò una mano per prendere la sua quando fu finalmente al suo fianco.

- Ciao… - Gli disse senza riuscire a smettere di sorridere.

- Ciao… potevi fare con calma, giuro, ti avrei aspettata. - Le rispose prendendosi tutto il tempo per guardarla. L’officiante non osò interrompere il loro silenzio nel quale si erano rifugiati, poi contemporaneamente si voltarono verso di lui, erano pronti.

Rick prese uno degli anelli che erano su un cuscino tra di loro del quale Kate non si era resa conto fino a quando non aveva seguito le sue mani e lasciò che lui prendesse la sua.

- Avevo preparato un bel discorso, me lo hai fatto dimenticare. Perché tu sei così, mi fai dimenticare tutto il resto e ci sei solo tu. Ti amo Katherine Beckett e voglio passare il resto della mia vita con te, voglio che diventi mia moglie e voglio essere per te il miglior marito che puoi desiderare. Voglio solo renderti felice ed essere felice con te. Sempre.

Le infilò l’anello al dito e senza staccare per un solo istante gli occhi dai suoi, poi Kate appoggiò il suo bouquet dove prima c’erano gli anelli e prese la mano di Rick tra le sue.

- Io invece non avevo preparato nessun discorso, perché non ci avevo proprio pensato - gli sorrise - Però ti amo Richard Castle ed anche io voglio passare il resto della mia vita con te e voglio essere tua moglie e che tu sia mio marito e so già che sarai il migliore che io possa desiderare, perché tu sei tutto quello che io volevo, sei sempre quello di cui io ho bisogno e lo sei prima ancora che me ne accorga. Sei la persona che riesce a tirare fuori il meglio di me ed a sopportare tutto il peggio e ti prometto che mi impegnerò ogni giorno perché tu sia felice tanto quanto rendi felice me. Sempre.

Kate lasciò che l’anello scivolasse al dito di Rick e si sorrisero quando l’officiante li dichiarò il signore e la signore Castle, marito e moglie, lasciandoli soli subito dopo. Ebbero il tempo di scambiarsi un lungo e tenero bacio, sorridendosi a vicenda, abbracciandosi dolcemente. Castle le baciò la punta del naso e poi si allontanò con il viso per guardarla, spostandole una ciocca di capelli dal volto. Avrebbe voluto dirle che era bellissima e tante altre cose, ma proprio in quel momento l’aria si riempì delle note della canzone che aveva scelto per loro e le fontane danzanti davanti all’hotel, proprio sotto la terrazza dove erano sospesi nella notte del Nevada, si esibirono solo per loro due.

- Non è un caso vero? - Gli chiese Kate nel sentire le prime note di Always.

- È solo un po’ di magia… - Rispose lui mentre lei si appoggiava sulla sua spalla.

- È meglio di qualsiasi cosa abbia mai sognato - Gli disse godendosi lo spettacolo dei getti d’acqua e musica.

- È uno spettacolo molto bello, è vero. - Commentò Castle.

- Non parlavo dello spettacolo, ma di noi. - Sussurrò Kate cercando le sue labbra per baciarlo ancora.

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Capitolo 61
*** SESSANTUNO ***


- Signora Castle… - Le disse Rick sorridendole quando prese sottobraccio, rientrando con lei dentro l’hotel. Kate si stringeva al suo braccio, con la mente che elaborava tante emozioni e sensazioni tutte insieme, troppe, in quel momento, così si lasciò condurre e ringraziò con un’espressione inebetita ed un sorriso incancellabile tutti quelli che, anche senza conoscerli, gli facevano le congratulazioni. In quel momento aveva solo bisogno di stare sola con lui e di realizzare tutto. Già in ascensore le sembrò di respirare meglio, che la mente rallentasse i suoi giri, ma non si parlarono e non si dissero nulla fino. Arrivarono all’ultimo piano, davanti alla loro suite, Rick digitò il codice della stanza sulla pulsantiera e la porta si aprì. Kate si ritrovò tra le sue braccia, sospesa a mezz’aria mentre lui la portava dentro, lasciando che la porta si richiudesse lentamente alle loro spalle.

- Ci tengo alle tradizioni, signora Castle! - Le disse dopo aver varcato la soglia rimettendola a terra. - Sei splendida, te l’ho già detto?

- Anche tu non sei niente male, lo sai? Quasi quasi ti sposerei… - Si sentiva euforica, confusa, sbalordita e tante altre cose, ma più di tutto felice ed innamorata.

- Mi dispiace, perché mi sono già sposato, proprio poco fa ed oltretutto amo tantissimo mia moglie. Suona bene vero? Ascolta: sono Richard Castle e sono innamoratissimo di mia moglie. Cosa ne pensi?

- Che tua moglie è una donna molto fortunata ed anche lei è innamoratissima di suo marito.

- Uhm… allora questi due sono proprio una bella coppia… direi che hanno fatto bene a sposarsi… - Le disse abbracciandola cingendole i fianchi, mentre lei faceva lo stesso con le sua spalle.

- Sì, direi che hanno fatto benissimo a sposarsi.

- Ne sono felice. - Scherzavano, sorridevano prima ancora che con il viso con gli occhi, erano felici, erano banalmente felici. Rick la baciò con dolcezza avvicinandosi piano alle sue labbra, catturando tutta la scia del suo profumo, indugiando sul morbido contatto umido prima di far diventare il bacio più profondo e passionale.

- Ogni volta che ti ho immaginato vestita da sposa ti ho sempre vista così, però sei ancora più bella di quanto riuscissi a pensare. - Le disse abbassando una delle spalline del suo abito e poi proseguendo ad accarezzarla sulla clavicola, scendendo tra la scollatura, fermandosi sulla sua cicatrice. La accarezzò e poi si piegò per baciarla proprio lì ed in un attimo ripensò a tutto, come un film che scorreva veloce e tutti i sentimenti provati da quel momento in poi lo investirono in modo brutale da rimanerne stordito. Kate se ne rese conto e prendendogli il volto tra le mani lo spostò da lì, per guardarlo negli occhi, per farsi guardare, perché andava tutto bene. Fu emozionante, per lei, vedere la propria mano con la fede che racchiudeva il suo viso e gli accarezzò quel leggero segno sullo zigomo che ancora gli era rimasto da quel giorno in ospedale. In quella storia entrambi avevano le proprie cicatrici, visibili al mondo, e solo a loro stessi e poi quelle che riuscivano a vedere solo l’uno dell’altra. 

In quel lungo sguardo silenzioso trovarono le risposte alle domande che non sapevano porsi ed annuirono in maniera appena percettibile. Rick le prese la mano e la guardò. Osservò la fede sopra l’anello che le aveva dato solo un paio di settimane prima. Era sua moglie e non aveva mai dato tanta importanza a quel fatto come in quel momento. Non era un contratto legale, non era un atto burocratico, era un legame che sentiva dentro. Kate era sua moglie e lui era suo marito. Appoggiò la mano di Kate sulla propria, facendo tintinnare gli anelli che si sfiorarono e lei sorrise emozionata prima di accarezzare la fede di lui, per sentirla, per accertarsi che fosse vera e che fosse proprio lì. 

 

Kate non riuscì a capire se era stato più emozionante indossare il vestito da sposa oppure rimanere completamente immobile mentre Rick delicatamente scioglieva i nastri, abbassava le spalline ed apriva la cerniera lasciando che poi il vestito scivolasse ai suoi piedi. Chiuse gli occhi quando sentì le mani di Castle slacciare la collana e poi toglierle gli orecchini, abbandonandoli sul mobile vicino a loro, come qualcosa di poco conto e per lui in quel momento erano proprio così, non avevano alcun valore, non aggiungevano niente a lei. Poi lasciò che le mani di Kate si intrufolassero sotto la sua giacca e la aiutò a farla cadere via. C’era un qualcosa di rituale in quei gesti che tante volte avevano già fatto, ma era così diversi quella sera e quando Beckett gli sfilò via la cravatta e cominciò a sbottonargli la camicia Castle trattenne il respiro nel vederla avvicinarsi e poggiare le labbra sul suo collo appena scoperto e baciarlo lentamente, come se stesse gustando la sua pelle, mentre le mani abili continuavano a aprire uno dopo l’altro i bottoni, non smettendo di baciarlo, anzi scivolando verso la spalla quando lo liberò dell’inutile indumento. Gli prese ancora il viso tra le mani, accarezzandolo e poi guardandolo negli occhi, ancora, senza parole e poi lasciò che le mani scendessero sulle spalle e le braccia fino a trovare le mani, stringendole nelle sue, intrecciando le dita per poi appoggiarsi sul suo petto, potevano sentire i loro cuori rimbombare contro la pelle. Rick la prese di nuovo in braccio e la portò in camera, adagiandola sul letto e poi una volta finito di togliersi tutto il superfluo si sdraiò su un fianco vicino a lei, cominciando ad esplorare delicatamente il suo corpo, lambendola con la punta delle dita, provocandole brividi di piacere e desiderio. La notte era appena cominciata.

 

Aveva dormito appoggiata a lui, in quella che era ormai una consuetudine, ma al contrario delle altre volte era stata lei quella ad addormentarsi per prima, perché ricordava distintamente la sua mano che le accarezzava i capelli mentre scivolava nel sonno. Quando si era svegliata quella mano era solo un po’ più in basso, appoggiata sul suo fianco, mentre i loro corpi erano intrecciati tra le lenzuola sfatte che coprivano misere porzioni di pelle con la stoffa fresca. Rick dormiva ancora profondamente e approfittò di quel momento per osservalo indisturbata, senza imbarazzarsi per quegli sguardi che lui le riservava che la facevano sempre sentire in qualche modo inadeguata ad essere guardata così. Avrebbe voluto essere più brava, avrebbe voluto fargli capire tutto quello che a parole non riusciva mai a fare, quanto fosse importante per lei e le sembrava che ogni volta che ne aveva l’opportunità sprecava l’occasione. Aveva pensato che per il loro matrimonio sarebbe riuscita a preparare un discorso degno di quello che sentiva dentro ed invece era stata così presa da se da dimenticarsi proprio di farlo ed era talmente tanto in confusione che non ricordava nemmeno quello che gli aveva detto, mentre le sue parole le risuonavano in mente ogni volta che chiudeva gli occhi. 

Lo lasciò dormire alzandosi piano per non disturbarlo. Si guardò intorno sorridendo, vedendo come i vestiti erano un po’ ovunque, senza badare troppo al caso, fuori dalla porta di camera c’era la sua camicia, quella che lei gli aveva tolto la sera prima. La indossò chiudendo solo qualche bottone, affondando la testa nel colletto alzato dove il suo profumo era ancora più forte, mescolato a quello del dopobarba. Poco distante c’era il suo abito abbandonato a terra lo tirò su poggiandolo su una delle poltrone della sala rimanendo a guardarlo: le sembrava ancora impossibile che quello era il vestito che aveva indossato solo poche ore prima per sposarsi ed abbassò lo sguardo sulla mano che teneva aperta davanti a se controllando quella fede che era veramente lì, non aveva sognato nulla.

Raccolse poi il resto degli indumenti, la cravatta, la giacca ed i suoi pantaloni che erano in fondo al letto. Ripensò mordendosi il labbro a come aveva sorriso quando non riusciva a slacciarsi il bottone perché gli tremavano le mani ma non aveva voluto che lei lo aiutasse ed era stato tutto così tremendamente da Castle, soprattutto il dopo, quando invece l’aveva raggiunta e l’aveva amata, come la prima volta, come ogni volta. Poggiò tutto sulla sedia nell’angolo della stanza e nel riporli scivolò via dalla tasca un foglietto che Kate prese e non riuscì ad evitare la tentazione di aprire e leggere. Era una pagina strappata in malo modo da un blocco, scritta a mano senza esitazioni da Castle e Beckett dopo aver letto solo le prime parole deglutì tenendosi il petto perché la gola si era fatta improvvisamente secca. Indietreggiò fino a trovare il bordo del letto dove si sedette, continuando a leggere…

 

Tienimi con te tra le tue braccia dove vorrei stare per sempre, tra i tuoi respiri, i battiti del tuo cuore ed i tuoi sospiri.
Tienimi con te quando alzi gli occhi al cielo, sorridi ed illumini il sole, perché splendi più di lui.
Tienimi con te quando vorrai fare qualcosa di folle perché la vorrò fare con te e se il mondo ci considererà dei pazzi, saremo pazzi insieme.
Tienimi con te quando sei felice, perché non c'è niente di più bello che io possa vedere della tua felicità.
Tienimi con te nei tuoi silenzi, nei tuoi giorni più duri, di quando vuoi stare sola.
Tienimi con te lo quando vuoi scappare e se proprio non puoi farne a meno, portami con te nella tua fuga, ma non lasciarmi solo.
Tienimi con te quando vorrai piangere perché proverò ad asciugare ogni tua lacrima oppure potremmo piangeremo insieme, se lo vorrai.
Tienimi con te quando mi vorresti lontano,  quando ti farò arrabbiare, quando sarai delusa e piena di dubbi perché ci saranno anche quei momenti ed io non sono perfetto e accetta i miei sbagli.
Tienimi con te quando penserai che non ne vale la pena, perché farò ogni cosa per dimostrarti il contrario.
Tienimi con te perché ti amo e perchè sono solo un egoista che non riuscirebbe a vivere in nessun altro posto lontano da te.


Kate non se lo era immaginata, le ultime parole lui le aveva veramente pronunciate, mentre lei le stava leggendo e quando si voltò lui era esattamente alle sue spalle. Lo guardò scuotendo la testa, ancora una volta senza parole e lui scrollò le spalle sorridendo.

- Avrei voluto dirtelo ieri sera… durante… poi non ce l’ho fatta. - Sembrò scusarsi.

- È stato perfetto così, Castle… Vorrei… - Avrebbe voluto dirgli che voleva cancellare i suoi dubbi e le sue paure, figli di quei mesi e di tutto quello che avevano vissuto, di tutte le volte che lo aveva allontanato ed escluso, tutte quelle che aveva sentito leggendo ogni singola parola di quel foglio, ma come al solito non trovò le parole giuste per farlo. Lo abbracciò non uno dei loro soliti abbracci, era qualcosa di più stretto, qualcosa di forte, di chi voleva fargli capire che non lo avrebbe fatto andare da nessuna parte, mai. Di chi voleva fargli capire che lo avrebbe tenuto con se, sempre.

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Capitolo 62
*** SESSANTADUE ***


San Francisco li accolse nel loro primo viaggio ufficialmente come il signore e la signora Castle, cosa che Rick non perdeva occasione di rimarcare in tutti i modi. Appena arrivati, mentre stavano andando in hotel, prima che la notizia diventasse di dominio pubblico, avevano solo chiamato le loro famiglie per dirglielo e le reazioni erano andate da quella entusiasta di Martha, a quella attonita di Jim, passando per quella non molto felice di Alexis che non mancò di far sapere a suo padre che avrebbe voluto partecipare ad un evento del genere. Rick comprese il suo stato d’animo, ma le disse che c’erano state delle circostanze particolari e che le avrebbe spiegato tutto al suo ritorno e comunque avrebbero sicuramente festeggiato l’evento tutti insieme.

- Mi dispiace… - Gli disse Kate prendendogli la mano e provando sempre un brivido ogni volta che vedeva la fede, doveva ancora abituarsi.

- Hai già cambiato idea? - Le sorrise lui sdrammatizzando.

- Lo sai che voglio dire, mi dispiace per la reazione di Alexis… Forse noi avremmo dovuto… - Le diede un bacio per farla smettere di parlare.

- Avremmo dovuto fare esattamente quello che abbiamo fatto. Era il nostro giorno, il nostro matrimonio, riguardava noi. Alexis capirà e se non lo farà non sarà comunque un nostro problema. Lei è mia figlia, le ho sempre dato tutto quello che potevo per farla felice, ma questa è la nostra vita, sono scelte che riguardano noi.

- Ti amo, Castle. - Gli disse appoggiandosi con la testa sulla sua spalla lasciando che le loro mani rimanessero saldamente intrecciate tra loro sulla gamba di lui.

- Ma sbaglio o non stiamo andando verso la città? - Disse vedendo i grattacieli che si allontanavano in direzione opposta.

- No… Ho cambiato qualcosa nei nostri programmi. Ho trovato un hotel più adatto per questa nostra strana luna di miele. - Le rispose ammiccando

- C’è qualcosa di quello che facciamo che non è strano? - Sorrise Kate.

- No, è questo il bello. Ogni cosa con te è assolutamente fuori dall’ordinario, perché con te tutto è straordinario. Come te.

- Come noi. - Lo corresse.

- Come noi. Mi pare giusto. - Scivolò un po’ sul sedile per mettersi comodo e godersi il resto del breve viaggio.

 

Il resort si stagliava su una scogliera che dominava l’oceano Pacifico sotto di loro. Il cielo scuro che annunciava pioggia rendeva ancora più incredibile la vista dall’alto, con le onde che si abbattevano sulle rocce sotto di loro e frustavano la spiaggia incorniciata in un’insenatura. Kate dalla vetrata della stanza direttamente con la vista sull’oceano rimase a guardare incantata la potenza della natura che si manifestava davanti a lei, fino a quando Rick non la raggiunse abbracciandola.

- Il periodo non è dei migliori per godere di questo posto, però abbiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno per rendere questi tre giorni splendidi. - Le disse indicando il camino acceso nella stanza e la jacuzzi nella terrazza coperta.

- Ci sei tu, ogni posto sarebbe stato perfetto… ma questo è… non ho parole, Castle… sai sempre come sorprendermi.

Beckett ammirava incantata quello scenario naturale così drammatico. I fulmini che squarciavano il cielo diventato ancora più buio e si tuffavano in mare, la pioggia che aveva cominciato a scendere incessante il cui rumore era attutito dagli spessi vetri della stanza, le onde che si infrangevano sulla scogliera lasciando la loro scia schiumosa. Si appoggiò con la schiena a Castle che la stava abbracciando, mentre era persa nei suoi pensieri. La calma e la tranquillità della stanza che si scontrava con il mondo tormentato lì fuori le sembrava una sintesi perfetta di quello che stava vivendo. Lei era lì, con suo marito, nella loro bolla di felicità dalla quale avevano estromesso tutto quello che li aveva feriti, addolorati, spezzati e divisi, lì nessuno li avrebbe potuti toccare, non la pioggia, né il vento, i fulmini o le onde e le sembrava tutto assolutamente incredibile.

- Vorrei entrare nella tua testa per sapere a cosa stai pensando da un po’… - Le disse Rick e Kate sembrò ridestarsi senza essersi nemmeno accorta quanto tempo era rimasta così.

- A noi qui ed al mondo fuori. A come riesci a farmi stare bene e a tutto quello che è abbiamo passato. Mi sembra come se quella tempesta che è lì fuori l’abbiamo attraversata tutta ed ora siamo arrivati qui, al riparo da quello che ci ha fatto male. Forse è un pensiero banale ma… Sono sicura che non ce l’avrei mai fatta senza di te, che sarei stata ancora fuori in balia delle onde o sarei già affogata. - Si voltò per guardarlo, per accarezzare il suo volto che era contratto in un sorriso tirato, le sue ultime parole lo avevano colpito, non voleva nemmeno pensare a cosa sarebbe accaduto se Lanie non l’avesse chiamato, se non avesse deciso di lasciare tutto e partire, per lei. Kate gli scostò i capelli scoprendo per qualche istante la fronte prima che il suo ciuffo la coprisse di nuovo. - Mi hai salvato la vita, Castle, più volte e vorrei anche io che tu riuscissi a leggere i miei pensieri, perché così sarebbe più facile capire quello che provo per te e che non riesco mai a dirti come vorrei, perché non trovo le parole giuste per esprimerti tutto.

- Non devo sapere niente di più di quello che già so, che sento e che vedo… E sai… mancano ancora diverse ore prima del party di questa sera… - Le disse accarezzandole con due dita la linea del collo, scostando la sua maglia fino a scoprire la spalla. - … Mi piacerebbe tanto poter passare questo tempo con mia moglie… senza tutti questi inutili vestiti… - Si sporse per baciarla ed il sospiro che ricevette come risposta gli fece capire che quell’idea piaceva molto anche a lei.

 

L’acqua lambiva placida i loro corpi ancora accaldati e sembrava non fosse così calda, rispetto alla loro temperatura. Dalla jacuzzi uscivano dei getti delicati che li solleticavano appena, stimolando ancora di più la loro pelle già percorsa da altri tipi di vibrazioni e sussulti. Avevano giocato con loro stessi, con i loro corpi e le loro sensazioni, in quel continuo scoprirsi, nel cercare ogni volta di trovare nell’altro qualcosa di nuovo da amare di più. E non c’era nulla di artificioso in quella ricerca di nuove sensazioni, di nuovi piaceri, c’era solo la continua, costante, crescente voglia di essere loro, totalmente l’uno per l’altra. Rick amava sentire Kate che respirava profondamente appoggiata al suo petto, tenendole le mani sul corpo che sentiva alzare ed abbassarsi, ed il battito accelerato del suo cuore che pian piano tornava a ritmi normali. Le piaceva vederla così abbandonata e rilassata su di lui che non sarebbe mai stato sazio di lei, del suo profumo, del suo sapore, della sua pelle che si strusciava morbida sul suo corpo. Adorava accarezzarla, schizzandola piano con l’acqua e vederla sorridere quando sentiva le gocce che ricadevano sul suo corpo, fino a quando Kate non prendeva le sue mani e le appoggiava su di sè per farsi tenere, abbracciare, stringere, ancora un po’ di più, come se non bastasse mai ed era proprio così. Non le bastava mai.

- Dovremmo rifarlo… - Gli disse voltandosi su di lui, prendendogli il volto tra le mani e baciandolo, facendo strusciare i loro corpi nudi in modo molto pericoloso…

- Ancora? - Chiese stupito sorridendo - Non ti accontenti mai, signora Castle… questa sarebbe la…

- Non dico adesso… dico in generale… - Rise lei baciandolo ancora - Nella jacuzzi è stato… wow Castle!

- È sempre wow con te Beckett! - Le sussurrò all’orecchio imprigionandole il lobo tra le labbra, facendole inarcare la schiena per l’eccitazione che quel semplice gesto le dava, mentre con le mani accarezzava il suo petto. - Sicura che non dici adesso?

La sua frase rimase in sospesa, senza risposta, perché la bocca di Kate era troppo occupata a baciare ogni angolo del suo collo, mentre le mani di lui percorrevano la sua schiena seguendo la linea della spina dorsale, dal collo al fondoschiena. Scivolò ancora dolcemente in lei e tutto ricominciò come prima, amandosi ancora, come la prima volta, come l’ultima, come sempre, con la dolcezza di scoprirsi e la passione di volersi. Per il party c’era ancora tempo, ed in ogni caso l’ospite d’onore poteva anche arrivare in ritardo.

 

Alla prima intervista non passò inosservata la presenza di quel cerchietto metallico al suo anulare sinistro e la notizia del loro matrimonio rimbalzò presto da un sito gossip all’altro. La riservatezza del loro hotel di Las Vegas gli permise di non veder divulgate troppe notizie sul loro matrimonio e ci furono solo un paio di foto rubate da altri ospiti che non si erano nemmeno accorti che gli avevano scattato a corredo di quegli articoli.

Rick vide Kate sul letto con il tablet in mano a fissare quelle foto che li ritraevano appena sposati, mentre uscivano dal terrazzo per raggiungere la loro camera. Le si sdraiò vicino e alternava lo sguardo da lei alla foto senza riuscire a capire dove avesse la faccia più sognante.

- Tutto bene? - Le chiese avvicinandosi come sempre per rubarle un bacio.

- Sì, è che… è strano… rivedersi dico…

- Mi sembra che siamo felici, no? Lì ed anche adesso.

- Decisamente felici. Ma… mi sembra un sogno, tutta quella giornata, quella sera… è qualcosa di sospeso, quasi irreale ed ora invece con queste foto… Siamo io e te, ci siamo appena sposati ed è tutto così…

- Così perfetto! - Esclamò Rick, che non aveva altre parole per descrivere tutto.

- Già, perfetto…

- Ormai lo sapranno tutti. Dico tutti tutti… - Precisò lui.

- Penso di sì… credo che dovremo aspettarci un po’ di chiamate nei prossimi giorni… - Disse mordendosi il labbro e corrugando la fronte, immaginandosi di dover rispondere alle tante, troppe, domande di Lanie che ci sarebbero sicuramente state.

- Potremmo sempre spegnere tutto ed riaccendere i telefoni solo quando saremo a New York. Mi piacerebbe potermi godere questi ultimi giorni soli io e te. - Le tolse il tablet dalle mani sporgendosi sopra di lei per poggiarlo sul comodino.

- Sì, potremmo anche farlo, se tu non dovessi ricevere telefonate di lavoro… - Lo riportò alla realtà

- Posso sempre arrangiarmi in qualche modo… Cosa c’è? - La vide diventare improvvisamente più cupa, pensierosa.

- Mi dispiace andare via da qui. - Ammise candidamente.

- Ci torneremo, te lo prometto. Tutte le volte che vuoi. Sicura che non c’è altro?

- Los Angeles… Tornarci, con te… ci ho pensato molto in questi giorni ed ora che domani ci andremo… Mi fa tornare in mente tante cose, anche cose che non vorrei, e mi dispiace perché non vorrei farmi rovinare questi giorni da nulla.

- Non li rovinerà nulla, Kate, soprattutto non i ricordi e qualsiasi cosa ci sarà, saremo insieme a viverla, come sempre. Un passo alla volta, ti ricordi? Guarda dove siamo arrivati… - Le prese la mano con la fede e la baciò.

- Un passo alla volta… - Ripetè lei

- Già, un passo alla volta.

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Capitolo 63
*** SESSANTATRE ***


Una leggera brezza primaverile scompigliò i loro capelli appena usciti dall’aeroporto di Los Angeles. Le temperature erano decisamente più miti rispetto a San Francisco e il sole rifletteva sui loro occhiali scuri.

- Niente Ferrari, Castle? - Lo provocò Kate mentre salutava il loro autista che si sbracciava per farsi vedere proprio fuori dal terminal, con un grande cartello con i loro nomi scritti sopra.

- Ne abbiamo una a disposizione in hotel, se vuoi. - Rispose facendole l’occhiolino, sorprendendola e lasciandola ferma sul posto mentre lui con il carrello dei loro bagagli si avvicinava gongolando alla macchina.

 

Kate non era tranquilla come a San Francisco. Aveva un senso di inquietudine che aumentava man mano che percorrevano le strade della città per una destinazione che le sembrava fin troppo familiare. Rick si accorse del suo nervosismo, ma nemmeno stringere la sua mano, accarezzandole piano il dorso riuscì a calmarla. Lo sentiva da come i suoi muscoli erano tesi, da come serrava la mandibola, dallo sguardo fisso davanti a se. Si pentì, in parte, della scelta che aveva fatto, di non aver pensato di cambiare i piani dopo il matrimonio a Las Vegas e tutto quello che c’era stato, ma dentro di sé sentiva che anche quello era un passo fondamentale da fare, non voleva che rimanessero delle zone buie, qualcosa di irrisolto, strascichi del passato che avrebbero condizionato il loro futuro.

 

Rick lasciò una generosa mancia per far scaricare e portare i loro bagagli in camera.

- Felice di rivederla ancora Signor Castle e… Signora Castle. - Disse Maurice aprendo le porte della suite. - Immagino che questa volta champagne, fiori e massaggio di coppia non dovrò cancellarli.

L’uomo ammiccò a Rick che controllava costantemente le reazioni di Kate, seria e silenziosa con le braccia conserte osservando il tavolo basso con i fiori davanti ai divani. Maurice rimase lì ad elencargli le altre facility della loro stanza non capendo di essere decisamente di troppo di in quella circostanza e Castle aspettò fino all’arrivo dei bagagli fingendosi attento alle sue parole, per poi congedarlo velocemente e con finta cortesia.

- Perché tutto questo, Castle? - Kate aveva atteso che fossero rimasti soli, gli aveva parlato appena aveva sentito il click della porta che si chiudeva, accarezzava con le dita le rose rosse nel vaso sul tavolo mentre ascoltava il rumore ovattato dei passi di suo marito sulla moquette.

- Se me lo chiedi, vuol dire che questo posto non ti è indifferente. Se sei così nervosa vuol dire che c’è qualcosa che ti turba e se è così voglio risolvere anche questa cosa, che non rimanga nulla di oscuro tra di noi.

- Non si possono sempre sanare tutti i ricordi Castle.

Rick le si avvicinò e Kate sentendolo si spostò, non si sentiva pronta. Per farsi abbracciare, per sostenere, condividere ricordi e paure.

- Io… mi dispiace… Se vuoi ce ne andiamo, anche subito. Trovo un altro posto, non c’è problema. - Era rimasto spiazzato dal suo evitarlo ed aveva veramente paura di aver esagerato. Si tolse la giacca, buttandola su divano e si andò a sedere lì vicino, mentre cercava nervosamente sul cellulare un numero da chiamare per risolvere quella situazione. Non si accorse che lei lo guardava, adesso, sentendosi colpevole per quella sua frustrazione evidente. Si mise vicino a lui, togliendogli il telefono dalle mani, lasciando che stringessero le proprie, appoggiò la testa sulla sua spalla senza dirgli nulla e chiuse gli occhi.

- In meno di un anno credo che abbiamo vissuto nel bene e nel male tutto quello che si può provare. Tutto è cominciato qui e… - Gli disse Kate sospirando profondamente mentre si tirava su, sciogliendo le loro mani e cominciando a torturarsele strofinandole nervosamente.

- Per me non è cambiato nulla, lo sai? Sei mia moglie, oggi eppure davanti a te mi sento sempre come quello di meno di un anno fa, che ti guarda e si sente inadeguato a starti vicino, che rimane ancora colpito dalla tua forza, dal tuo cuore e dalla tua bellezza… E non credo che questo cambierà mai.

Kate lo guardò sorpresa. Come poteva sentirsi lui inadeguato a lei? Era la cosa più stupida che avesse mai sentito, se avesse mai dovuto definire in qualche modo suo marito, l’ultima cosa che le veniva in mente era quella, anzi era lei che il più delle volte aveva la percezione non riuscire ad essere alla sua altezza, a stare al passo di tutto quello che lui faceva per lei, per loro, di non fargli mai capire tutto quello che voleva dire per lei, proprio come in quel momento.

- Di tutto quello che è accaduto qui, rimpiango solo il non essere stato così coraggioso da rischiare la possibilità di un “è stato divertente” ed esserti rimasto vicino, per scoprire se ci poteva essere altro. Se ci poteva essere quello che volevo, quello che volevo da tanto, quello che ho adesso. Te. Non cambierei altro di tutto quello che è successo quella notte Kate. Niente.

Kate aveva capito esattamente perché aveva voluto portarla lì, lo aveva capito da subito, anche se non voleva dirselo. Erano quei cerchi da chiudere che erano così difficili e dolorosi, che andavano ogni volta a graffiare una ferita che credeva rimarginata, ma che aveva poi la certezza che non lo sarebbe stata mai del tutto. Lo sapeva lui e lo sapeva anche lei cosa voleva dire, in realtà, con quel “tutto è cominciato qui”. Non erano solo loro, era quel tutto che non avrebbero mai avuto. Castle la abbracciò e lei si lasciò condurre sul suo petto, ascoltò il battito calmo del cuore di lui che era in netto contrasto con il proprio, attraversato da fasci di emozioni che la turbavano più di quanto volesse.

Pianse. Pensando a tutto quello che era stato e non era stato. Pianse ancora e non avrebbe voluto farlo, ma non poteva farne a meno. Rick non le disse nulla, le accarezzava solo il volto rigato dalle lacrime, tenendolo ancora più vicino a sè, in un gesto protettivo, che voleva nascondere a sguardi indiscreti che non c’erano le sue emozioni, per farla essere libera di sfogarsi senza farsi vedere, nemmeno da lui ed aspettò che l’onda passasse.

- Eri bellissima quella sera… eri così… diversa dal solito, senza i tuoi tacchi, a piedi nudi sul pavimento, con quella tuta leggera che… è stata comoda da… toglierti velocemente… - Sorrise lui ripensandoci.

- Già, molto più dei tuoi jeans e la tua camicia con quei bottoni che non ne volevano sapere. - Sorrise anche lei.

- Le prossime che comprerò se vorrai le potrai testare prima, così giudicherai se si apriranno abbastanza in fretta per le tue necessità. - La stuzzicò.

- Le mie necessità? - Rispose guardandolo di traverso, ma bastò un suo sorriso per farla sorridere a sua volta. Era vero, c’erano dei momenti che quella di lui poteva chiamarsi proprio così, necessità. E non era un discorso fisico, era il bisogno di sentirlo, di averlo e di sentirsi sua. Di sapere che quello era il suo giusto posto nel mondo.

- Credevo che non avresti aperto mai quella porta, ero rimasto lì a guardarla… ci speravo, ma avevo perso la speranza… Pensavo di essermi illuso, che tutto quello che avevo sentito quando eravamo seduti qui, era stata solo una mia fantasia…

- Non lo era stata… e la cosa mi spaventava… proprio perché sentivo tutto quello che c’era avevo paura. Ma… tutto il resto è stato più forte della paura. - Gli confidò.

- Per questo tu sei più coraggiosa di me… Ti chiedi mai cosa sarebbe stato di noi se io non fossi rimasto a guardare la tua porta chiusa o se tu avessi aspettato ancora qualche istante e non ci fossimo mai trovati? - Kate sentì nelle vibrazioni della voce di Rick sfumature di paura che non pensava potesse avere.

- No, non ci ho mai pensato… Però… Forse era inevitabile. Se non in quel momento, magari sarebbe stato poi… Ma adesso io credo che non poteva accadere altrimenti. Magari un giorno avrei avuto paura di perdere tutto, di perdere anche te e non avrei resistito più a far finta di niente e mi sarei presentata a casa tua e rischiando una figuraccia ed un rifiuto ti avrei detto che ti amavo, da tanto tempo.

- E poi? - Chiese curioso.

- Poi avrei provato a baciarti, forse… Così… - Gli prese il volto con entrambe le mani e lo baciò con trasporto, mettendo dentro quel bacio tutti quei pensieri che l’avevano tormentata e la tormentavano ancora. Lui ricambiò il suo bacio, lasciando però che fosse lei a decidere i tempi ed i modi e fu un bacio lungo ed intenso, nel quale si rincorsero più volte, raggiungendosi e riprendendosi.

- Quindi mi sarei perso questo bacio sulla porta di casa… - Le disse quando lei lasciò le sue labbra.

- Ne hai guadagnati altri, però… Senti Castle… non avevamo un massaggio di coppia prenotato, io e te? Avrei proprio voglia di rilassarmi un po’, adesso… - Gli chiese accarezzandogli il petto infilando la mano tra un bottone e l’altro della camicia.

- Se vuoi io conosco molti altri modi per rilassarti senza uscire da qui… e ti assicuro che ti massaggerei molto a lungo…

- La tua offerta è molto allettante ma… spero che sia valida anche dopo… - Gli disse alzandosi dal divano e allungando una mano verso di lui che la prese e si alzò lasciandosi tirare da lei.

- Quella è valida sempre, dovresti saperlo… - Le accarezzò maliziosamente il fondoschiena, mentre uscivano dalla stanza decisamente con animo più leggero di quando erano entrati.

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Capitolo 64
*** SESSANTAQUATTRO ***


- La prossima volta che organizzerai un massaggio di coppia, per par condicio voglio che il mio massaggio lo faccia un bel ragazzo, giovane e prestante Castle, ricordatelo. - Gli disse mentre ancora in accappatoio tornavano verso la loro camera.

- Andiamo Beckett, pensi che mi rinfaccerai questa cosa ancora a lungo? È stato solo un massaggio fatto da una professionista! - La mano di Kate sulla sua spalla lo fermò obbligandolo a guardarla e quello sguardo diceva tutto, diceva soprattutto “Rick evita di dire un’altra parola che aggravi la tua situazione con tua moglie”

- Certo, lo so io che professionista. Era molto professionale, infatti quando di chiedeva dei tuoi libri, ti diceva che era una tua fan, ti chiedeva autografi, di diceva che era sexy immaginarti scrivere…

- Ok, ok recepito il messaggio… - Le disse cercando di farla smettere quando erano già arrivati davanti alla porta della loro stanza.

- E poi la tua ti palpava tutto ed affondava le mani come come… - Gesticolava mimando il muoversi delle mani a mezz’aria e Rick la guardava divertito mentre richiudeva la porta di camera alle loro spalle, lasciando la borsa con i loro vestiti vicino all’ingresso. - come un polpo ecco… non aveva due mani, ne aveva di più, di sicuro! La mia non faceva così!

- Perché io una stazza molto più imponente, solo per quello Kate! - Non riusciva a smettere di sorridere nel vedere sua moglie gelosa e la cosa lo riempiva di orgoglio. - E poi non so più come dirtelo, le uniche mani che mi interessa che mi tocchino, che mi emozionano ogni volta che lo fanno sono queste.

E così dicendo prese le mani di lei tra le proprie baciandole la punta delle dita.

- Pensi di farti perdonare così? - Chiese non lasciandosi intenerire nemmeno dal suo sguardo da cucciolo che provava a corromperla.

- Mi devo far perdonare? E per cosa? Io non ho fatto niente! - Provò a giustificarsi.

- È proprio quello il punto Castle! Io ero lì e tu non hai detto nulla, ma ti sei preso tutti i suoi complimenti e hai riso alle sue battutine come… come se io nemmeno ci fossi!

- Kate, ma stai scherzando? Tu… tu… ma sei veramente gelosa di una che non ricordo nemmeno già più che lineamenti abbia?

- Io… sì, Rick sono gelosa. Io non so perché ma… lo sono. Sei mio marito e… - Si sentiva terribilmente stupida a fare quel discorso da ragazzina insicura ma era così. Era gelosa di lui. Terribilmente gelosa di lui e più la guardava così, con quel sorriso tenero più lo era.

- Sono tuo marito Kate, lo hai detto tu. E tu sei la donna più importante della mia vita, l’unica che amo, l’unica che voglio. Non hai niente di cui essere gelosa. - La prese e la tirò con decisione verso di se, abbracciandola stretta e strapazzandola un po’, cercando di farla ridere e scacciare i pensieri. - Però, se credi che debba farmi perdonare, penso che avrei tanti modi per provare a farlo…

Così dicendo la baciò, mentre allentava la cinta dell’accappatoio, intrufolando le mani all’interno, per accarezzare i fianchi con la pelle ancora leggermente oleata dalle lozioni usate per il massaggio e Kate sarebbe stata veramente contenta di continuare a far sì che le facesse vedere come poteva farsi perdonare, ma tra i due era sempre lei quella che gli ricordava i suoi impegni, dei quali in quelle situazioni, lui avrebbe fatto volentieri a meno, fregandosene di rispettare i tempi, da buona star, si giustificava prendendosi fin troppo sul serio.

 

- La sua auto, signor Castle! - Il ragazzo al concierge appena li vide avvicinarsi all’uscita li raggiunse a passo svelto. - Seguitemi, vi accompagno.

Uscirono fuori dall’hotel fermandosi davanti all’entrata. Rick teneva Kate vicino a se, cingendole il fianco, senza riuscire a staccarle gli occhi di dosso. Era bellissima con quell’abito blu, corto, che metteva in risalto le sue lunghe gambe e quella profonda scollatura sulla schiena che era così sexy.

- Posso essere anche io molto geloso di come ti stanno guardando tutti? - Le sussurrò all’orecchio mentre aspettavano l’arrivo dell’auto. Lei non rispose, ma imbarazzata abbassò lo sguardo e sorrise. - Sono sicuro che questa sera ruberai la scena a tutte le donne del party, rendendomi contemporaneamente il marito più orgoglioso e geloso del mondo.

Le diede un bacio sulla guancia, proprio mentre il ragazzo davanti a loro richiamava l’attenzione schiarendosi la voce.

- Ecco la chiave, signor Castle. Proprio come chiesto da lei - Gli disse porgendogli la chiave dell’auto e mostrandogli la Ferrari davanti a loro. Lo ringraziò con un sorriso ed una generosa mancia, che lo fece correre ad aprire lo sportello ad un incredula Beckett mentre lui si metteva al posto di guida.

- Lo hai fatto veramente! L’hai presa! - Esclamò appena salita.

- Cosa è Los Angeles senza un’auto sportiva? - Disse mettendo in moto ed accelerando facendo rombare il motore.

 

Fecero il loro ingresso nell’area riservata a bordo piscina di quell’hotel a Beverly Hills senza passare inosservati, anche per quell’assoluta armonia cromatica dei loro vestiti, con Rick che indossava un completo blu, poco più scuro del vestito di Kate ed una camicia, invece, decisamente più chiara, come i suoi occhi, gli aveva detto lei perdendosi con lo sguardo in lui. Ok, quella era tecnicamente la loro luna di miele, ma Beckett si chiedeva se quello stato di beatitudine ogni volta che lo guardava sarebbe continuata a lungo oppure no, era solo qualcosa di magnificamente temporaneo.

Quella festa fu decisamente diversa dalle altre, molto più glamour, piena di ospiti importanti e al contrario di quello che Beckett pensava, non era uno dei tanti party di promozione del libro di Castle, ma un party per il nuovo progetto legato a Nikki Heat, non più un film, dopo il progetto naufragato dell’anno prima sul quale aveva apposto un deciso veto visto il pessimo prodotto che stavano confezionando, ma una serie tv. Era stata una contrattazione veloce che aveva seguito personalmente, con un grande network e la promessa di un cast importante. Aveva tenuto Kate all’oscuro di tutto, fino a quel momento.

- Castle! Finalmente sei arrivato! - Timothy Valley, il regista insieme a James Fortune il produttore lo accolsero fermando un cameriere per farsi portare delle coppe di champagne. - E questa immagino che sia la tua Nikki Heat!

- Kate, lei è Kate Beckett… mia moglie. - Ci tenne a precisare.

- Al diavolo Castle! Così però ci metti veramente nei guai! Come faremo a scegliere qualcuna che possa competere con tua moglie? È impossibile! - Rise James lusingò Kate che abbozzò un sorriso sorseggiando appena dal bicchiere.

- James, io lo sapevo già da prima che il vostro compito sarebbe stato impossibile! Non vi chiedo di trovare un’attrice che sia come mia moglie, perché non ce ne sono, ma solo che non rovini il personaggio di Nikki Heat. - Rick la adulava e la adorava, in pubblico come in privato, e non c’era niente di forzato o di artificiale in quello che diceva, Kate lo poteva riconoscere dai suoi occhi, dal suo sorriso appena accennato che era così diverso da quello di quando faceva lo spavaldo in pubblico, era quello di quando le diceva le cose serie, di quando era felice ed aveva quasi paura di esserlo.

Nonostante la sua vicinanza rassicurante ed aver presenziato a più feste in quei giorni che in tutta la sua vita, Kate ancora non riusciva a trovarsi del tutto a suo agio in quel mondo e cercava di sforzarsi solo per lui, perché sapeva quando quella parte fosse importante per il suo lavoro, era tutto quel mondo che c’era dietro lo scrittore di successo che lei non aveva mai considerato, anzi lo aveva fatto ma sempre in maniera diversa, negativa, come se quelle serate fossero solo occasioni per rimorchiare qualche ragazza con cui apparire in copertina. Quelle, invece, per Rick erano le occasioni migliori per presentare Kate, adesso sua moglie, ufficialmente a tutti e la faceva sorridere il suo modo di ribadirlo ogni volta, come se dovesse convincere qualcuno che lei, proprio lei, Kate Beckett, aveva detto sì, lo aveva sposato. Avrebbe voluto dirgli di farla finita, perché l’eccezionalità della cosa la vedeva solo lui, mentre per il resto del mondo lei era solo l’ex poliziotta che aveva fatto bingo incastrando lo scrittore di successo, quindi nessuno si sarebbe meravigliato che lei avesse accettato di sposarlo. Non gli disse nulla, sapeva che quel discorso sarebbe stato infinito e lui avrebbe obiettato qualsiasi cosa per dirle che non era vero e che non capiva.

Le piaceva, però, guardarlo parlare, muoversi agilmente in quell’ambiente, conversare sempre sorridente e vedere come la gente era affascinata da lui e dai suoi discorsi. Si ritrovò a pensare se era successo anche a lei così, e quando. Mentre lui parlava, pensava esattamente a quando era stato quel momento in cui lui era diventato qualcosa di diverso, quando aveva cominciato ad insinuarsi dentro di lei, tanto di diventare così importante, totalizzante e non riusciva a darsi una risposta, a trovare un momento in cui Castle era passato da essere un’insopportabile presenza a semplicemente la persona più importante della sua vita, perché in quel momento, guardandolo, le sembrava che lo fosse sempre stato, che non poteva essere stato altrimenti e che forse lo era da prima che lei se ne rendesse conto.

- Spero che stessi pensando a me, almeno. - Le disse facendola sobbalzare avvicinandosi e imboccandole una tartina che Kate prese direttamente dalle sue dita.

- Se ti dicessi di sì il tuo ego si espanderebbe fino a dove? - Rispose ridacchiando con la bocca piena.

- Il mio ego è già sufficientemente espanso ogni volta che penso che sei mia moglie. Quindi se mi pensi al massimo sono felice. - Le diede un bacio mentre con estrema maestria prese altre due tartine dal vassoio di un cameriere che passava. - Allora, a cosa pensavi, di me?

Glielo chiese ponendo bene l’accento sulle ultime due parole, imboccandola ancora prima che potesse rispondere, per lasciarle il tempo di pensarci bene.

- Non è qualcosa che posso dirti qui! - Gli rispose seria, facendogli fare pensieri tutt’altro che casti.

- Bene, allora possiamo tornare subito in hotel, così me lo spiegherai, a parole o con i fatti! - Le ammiccò.

- Sei fuori strada Castle! - Rise Kate, ma lui ormai aveva già deciso, quella festa era durata fin troppo ed era ora di salutare ed andarsene…

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Capitolo 65
*** SESSANTACINQUE ***


- Allora, adesso vuoi dirmi a cosa pensavi alla festa? - Le chiese Rick rientrati in camera mentre le accarezzava provocante le spalle fino a scendere a lambire la schiena.

- Sicuro che lo vuoi sapere? - Gli rispose allacciando le braccia intorno al collo di lui.

- Certo che lo voglio sapere… e voglio mettere tutto in pratica… - Le baciò il collo mentre lei rideva.

- Non pensavo a nulla di quello Castle!

- Veramente? - Chiese quasi deluso, sicuramente sorpreso.

- Sì, veramente… - Gli disse guardandolo negli occhi.

- E cosa era che non potevi dirmi lì, allora? - Ecco uno dei lati misteriosi di Kate Beckett che non avrebbe mai capito.

- Pensavo a quando ho cominciato ad ascoltarti parlare in modo diverso, quando hai cominciato ad essere tu qualcosa di… diverso, per me e non lo scrittore rompiscatole che non faceva mai quello che gli veniva detto e doveva mettere bocca su tutto. - Sorrideva, aveva finito quel discorso in modo fin troppo leggero per quello che pensava veramente, ma non sempre le era facile riuscire a confessargli tutto quello che aveva dentro.

- E lo hai capito? - Chiese curioso.

- No. In realtà no… - Si morse il labbro.

- Uhm… interessante… - Si stava divertendo a prendersi gioco di lei e Kate lo sapeva.

- Non c’è stato un momento in cui hai cominciato ad essere qualcosa di diverso piano piano… Sei… sei…

- Sono? - Chiese curioso ed aveva tutta l’intenzione che lei parlasse e si sfogasse.

- Diventato tutto insieme qualcosa di importante. Senza mezze misure, senza fasi intermedie e non lo so quando, ad un certo punto c’eri e non me ne sono nemmeno resa conto e non volevo rendermene conto e… ecco io pensavo a tutto questo… - Sospirò alla fine facendolo ridere di gusto.

- Sono così noiose quelle feste per te eh! - Le diede un bacio sulla punta del naso.

- Se dico di sì, ti offendi?

- No… perché lo stavo pensando anche io…

- Eppure non sembrava proprio. Sembravi così a tuo agio…

- Perché non sapevi in realtà a cosa stavo pensando io.

Rick cominciò a baciarla vicino all’orecchio, lunghi, morbidi baci rumorosi che si susseguivano uno dietro l’altro lasciandole la pelle umida. Poi scese lentamente disegnando la linea della mandibola e più giù, sul collo, fino all’incavo della spalla, lasciato scoperto dal vestito. Kate si abbandonò ai suoi baci, alle mani che accarezzavano la schiena, si faceva solleticare dal suo respiro caldo che lambiva la pelle imperlata dei suoi baci. Quando Rick si sciolse dal suo abbraccio la prese per mano, per accompagnarla in camera, ma Kate si fermò, non lo seguì. Castle la guardò titubante con la mano protesa verso di lei, senza capire cosa ci fosse che non andava. Poi seguì lo sguardo di lei, a terra e subito dopo verso la porta dell’altra stanza, quella più piccola, quella che l’altra volta aveva scelto lei, quella da dove lui era scappato come un vigliacco. Trovò di nuovo i suoi occhi e questa volta capì subito e non ci fu bisogno di dire altro, perché si rifugiarono insieme tra quelle pareti e lì, dietro quella porta, ancor prima di fare qualsiasi altra cosa, la baciò. Kate era imprigionata tra lui e la porta chiusa, quella sera, come allora, e quel bacio che si stavano scambiando era qualcosa di più, lo sapevano entrambi. Non volevano pensare, eppure non potevano farne a meno e quando si fermarono e si guardarono negli occhi, ognuno sapeva esattamente cosa stava provando l’altro: non si potevano cambiare le cose, tornare indietro nel tempo, modificare quello che era stato. Quella parete, quel bacio, quella foga non sarebbero mai state le stesse dell’altra volta, perché quelli non erano più loro. Non si poteva ricreare qualcosa che non era più in quei termini, solo perché erano nello stesso posto. Allora la foga scemò, lasciando spazio ad una ritrovata dolcezza.

- Vuoi rimanere qui? - Le chiese Rick e Kate semplicemente annuì, con lo sguardo innamorato e impaurito. - Lo sai, vero, che domattina ci sarò ed anche quella dopo e tutte le altre?

- È una minaccia Castle? - Sorrise mentre lo baciava.

- È quello che ti aspetterà, per tutta la vita Kate.

- Così sembra proprio una minaccia però! - Sorrise ancora e lui la prese in braccio, cogliendola di sorpresa, e mentre si stringeva alle sue spalle per paura che l’avesse fatta cadere, lui la adagiò sul letto dove immediatamente la raggiunse e si amarono con l’unica cognizione che avevano, quella di non dover fuggire da niente e da nessuno, che il tempo quella notte era solo una convenzione per il resto del mondo, non per loro. Non fu come la prima volta, perché loro non erano più quelli della prima volta, fu, però qualcosa che racchiudeva tutto quello che era stato e che sarebbe stato, in ogni gesto che non era studiato ma veniva solo dalla consapevolezza di quello che erano e che volevano. Amarsi, tenersi, prendersi, ritrovarsi in un continuo rinnovarsi di gesti che ormai usuali ma mai scontanti, mai banali, che riuscivano ad emozionarli sempre, fosse stato anche solo lo strusciare leggero dei polpastrelli sulla pelle accaldata, tra un bacio e l’altro con le bocce continuamente impegnate a cercarsi tra loro, la loro pelle, a ripetersi quello che non avevano bisogno di dirsi ma voglia sì, che si amavano ed ogni volta, ogni volta che lo sentivano, era un nuovo brivido che li percorreva ed andava a sommarsi agli altri. Poi ci fu solo il piacere che scosse i loro corpi e le loro braccia che si serrarono di più nel tenersi insieme. Senza lasciarsi. Mai.

 

 

- Buongiorno! - Gli disse Kate voltandosi, trovando le sue labbra scambiandosi un bacio appena sfiorandosi.

- Buongiorno. - Rispose lui accarezzandole il volto. - Ma lo so che non hai dormito mai, stanotte.

Rimase colpita dalle sue parole, da quella sincerità che le aveva lanciato addosso senza nessun riguardo, ed era strano per lui.

- Non mi hai detto nulla ma… non hai dormito nemmeno tu…

- No… volevo solo stringerti tutta la notte ed avrei voluto guardarti dormire. - Non era un rimprovero anche se poteva sembrarlo.

- Io… ho pensato a tante cose… scusami…

- Di cosa dovrei scusarti? - Lambiva dolcemente il suo corpo sotto le coperte che li avvolgevano.

- Di non averti reso partecipe, di essermi rifugiata nel tuo abbraccio senza dirti nulla.

- Ti puoi rifugiare tutte le volte che vuoi… - La avvicinò a se, lasciando che ora fosse anche lei ad abbracciarlo, facendo aderire i loro corpi e scambiandosi, ora sì, un vero bacio.

 

Rick se ne stava abbandonato con la testa sul petto di Kate, mentre lei gli accarezzava distrattamente i capelli ed il collo, provocandogli mugugni di piacere.

- Sei sempre pensierosa, vero Kate? - Bonficchiò Castle contro la sua pelle.

- Non riesco proprio a nasconderti nulla? - Sospirò lei

- Questo no… - Si sollevò dal suo corpo per guardarla, ma lei lo accompagnò di nuovo su di sé. - Ti va di parlarne?

- Pensavo che ci sono cicatrici che per quanto vogliamo, non si rimarginano mai. Che tornano sempre a farti male ogni volta che il pensiero arriva e… non vorrei… non è giusto.

Rick la ascoltò attentamente, poi risalì con la mano il corpo di lei fino ad arrivare tra i suoi seni, fermandosi ad accarezzare quel segno indelebile che aveva sul petto con gesti circolari, tracciandone infinite volte il contorno.

- Non parlavo di quella, Castle. - Sorrise Kate.

- Lo so, ci pensavo io, però… Non hai più paura di questa, vero? E nemmeno delle altre…

Kate si morse l’interno della guancia facendo una smorfia che Rick trovò adorabile e poi scosse la testa, chiedendosi mentalmente come faceva lui a sapere sempre tutto.

- Ogni volta che guardo questo segno, che lo accarezzo, che lo bacio… - avvicinò le labbra sfiorando - … non posso non provare un brivido. Un attimo, uno solo, ma c’è, sempre. La paura di quel momento, di non riuscirti a dire tutto quello che provavo per te, di perderti, perderti per sempre senza averti veramente mai avuto, tu che mi prendevi la mano e la prese che diventava sempre più leggera e poi la lasciavi, i tuoi occhi che si chiudevano e tu che non mi rispondevi più. In un attimo, ogni volta, vedo tutto questo e fa male, ma io questa cicatrice la amo Kate, proprio dov’è. Perché se non ci fosse, se non fosse proprio lì, forse tu non saresti qui ed io non avrei tutto quello che ho adesso. Ed allora pensare a questa cicatrice non è più così terribile. Perché lei è il simbolo che tu sei qui con me di tutto quello che siamo adesso e la amo, come amo tutto di te, anche se ogni volta mi fa tremare di paura.

- Tutto questo a volte mi spaventa Castle… - ammise Kate mentre accarezzava le sue spalle.

- Cosa? - Chiese lui preoccupato

- Tu. Quello che dici, come lo dici… Il tuo amore è così… così totale che a volte mi spaventa… non so se lo merito e… mi sento come se non riuscissi mai ad essere al tuo livello, di non meritarlo…

- Non dire mai più un’idiozia del genere Katherine Beckett. Mai più. Mi ferisci se lo pensi veramente. - Le disse serio sollevandosi dal suo corpo guardandola negli occhi.

- Sei felice Castle? Sei veramente felice con me? Anche quando io… ti escludo e mi chiudo… Non vorrei farlo, veramente… - Si giustificò, poi prese il suo viso tra le mani obbligandolo ad avvicinarsi a se. Lo baciò dolcemente, più volte e lui la lasciò fare. - Sei la cosa più bella della mia vita Rick e vorrei darti tutto quello che meriti e che desideri.

- Abbracciami allora. Voglio solo questo adesso. - Kate si voltò verso di lui e fece quello che lui voleva, ricadendo sul suo corpo e stringendosi a lui più che poteva. Si ripromise mentalmente che ce l’avrebbe fatta, che avrebbe veramente mantenuto quella promessa che gli aveva fatto quando si erano sposati, fare in modo di renderlo felice, ogni giorno.

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Capitolo 66
*** SESSANTASEI ***


- Allora, signora Castle, come ti senti ora che stai per entrare ufficialmente a casa nostra da sposati? - Le chiese in ascensore mentre stavano per arrivare al loft.

- Preoccupata della reazione di tua madre e tua figlia vale come risposta? - Kate fece una smorfia che fece sorridere Rick poi prese lei per una mano, uno dei loro trolley nell’altra ed uscirono da lì. Frugò nelle varie tasche per trovare le chiavi di casa, fin quando Kate non gli passò le sue ed aprì.

- Richard Alexander Rodgers non provare ad entrare in questa casa! - Martha davanti alla porta con le mani sui fianchi sbarrava loro la strada e Beckett la guardò da dietro la spalla di Rick. Poteva essere tutto molto peggio di quanto avesse pensato.

- Mamma ti posso spiegare… Ma non mi avevi detto che eri felice per noi? - Chiese Rick preoccupato.

- Certo che sono felice per voi! Ma non penserai mica di entrare a casa trascinando tua moglie come una valigia! Devi fare le cose per bene, Richard! Dov’à la favola, il romanticismo, la tradizione!

- Mamma cosa vuoi dire? - Le domandò lentamente non sapendo se stava impazzendo lui o lei.

- Andiamo Richard! La devi prendere in braccio! Ma possibile che ti devo dire tutto, eppure ti sei già sposato tre volte! - Rick fulminò sua madre per l’infelice battuta.

- Sì, ma non ho mai portato mia moglie in braccio dentro casa.

- Proprio per questo sarebbe il caso che lo facessi, visti i precedenti! Su, su, cosa aspetti? - Lo invitò con eloquenti gesti con le mani che muoveva velocemente, facendogli segno di sbrigarsi a compiere il suo compito. Così Rick si voltò verso Kate che lo pregava di non farlo, con un espressione che voleva dire che non era colpa sua ma di sua madre lì dietro e tante altre cose, la sollevò e le fece varcare in braccio la porta di casa.

- Benvenuta a casa, signora Castle! - Le disse visibilmente felice prima di darle un bacio, e in quel momento entrambi si dimenticarono che Martha era lì davanti a loro che batteva rumorosamente le mani.

 

- Tesoro sono così felice per voi! - Disse l’attrice andando ad abbracciare Kate appena ebbero portato in casa i loro bagagli. - Mi devi raccontare tutto di quello che è accaduto, ma purtroppo non adesso perché devo andare alla scuola che mi aspettano per una lezione fondamentale!

Così dicendo, senza nemmeno dare a Kate il tempo di rispondere, prese la sua borsa ed uscì, salutando il figlio sulla porta e lasciandoli soli.

- Ecco, tutto questo non mi era mancato! - Disse Rick buttandosi sul divano.

- Non è vero, lo so che ti era mancato anche questo! - Sorrise lei mettendosi vicino a lui.

- Uhm… forse un po’… Però adoro la tranquillità quando possiamo stare insieme e qui è sempre qualcosa di estremamente raro… - La baciò approfittando di quel momento di calma.

 

- Cosa ti turba? - Gli chiese Kate appena finito di sfare i bagagli vedendolo camminare nervosamente in camera da letto.

- Ti devo dire una cosa e… non so come la prenderai. È una cosa che avevo fatto da prima di partire, ci pensavo da un po’ e… - Le prese le mani, si sedette sul bordo del letto e la invitò a fare lo stesso.

- Mi fai preoccupare così Castle! - Gli disse guardandolo seria.

- Io sono il marito più felice ed orgoglioso del mondo, perché tu sei mia moglie.

- Ok… vai avanti.

- Ma tu non puoi essere solo questo. Non è giusto. Tu non sei solo questo. Tu sei Katherine Beckett che è infinitamente di più che essere la moglie di Richard Castle. Tu sei la migliore detective di New York, sei una persona…

- Fermati Castle. Io non sono più una detective da molto tempo.

- È questo il punto, Kate. Ti manca questo, io lo so. Lo vedo e l’ho visto ancora di più in questi giorni quando capitava di parlarne per Nikki Heat.

- Fa parte del passato ormai, Rick. Ho fatto delle scelte in quel momento.

- Sbagliate, Kate. Hai fatto delle scelte sbagliate. Tu ami il tuo lavoro e non c’è nessuno a New York che lo fa con la tua dedizione, con la tua capacità, con la tua voglia di dare giustizia alle vittime e alle loro famiglie.

- Perché stiamo parlando di questo oggi Castle? Che senso ha?

- Prima di partire ho parlato con Bob, il sindaco Weldon. Mi doveva un favore… poco fa mi ha chiamato dicendomi che il tuo sostituto al dodicesimo ha chiesto il trasferimento…

- Il mio sostituto ha chiesto il trasferimento. Lo ha chiesto, vero? - Lo guardava con gli occhi che erano due fessure. Conosceva quello sguardo e sapeva quello che precedeva, un’attacco frontale senza via di scampo.

- Magari sarà stato incentivato a chiederlo… - Scrollò le spalle abbozzando un sorriso subito stroncato da lei.

- Non mi piacciono queste cose Castle, lo sai. E poi chi ti ha detto che vorrei tornare a fare quello che facevo? - Gli chiese con tono accusatorio.

- Non c’è bisogno che me lo dici, Beckett, lo so che è così. Perché tu sei quella persona lì. Tu sei Kate Beckett che corre con i tacchi a spillo per le strade di New York cercando assassini, che butta giù le porte e entra per prima, che non ti arrendi davanti alle ingiustizie, che fai confessare i peggiori criminali in sala interrogatori. E questa sei tu, è una parte di te come tutto il resto, come la donna gelosa per un massaggio, quella che si emoziona per una canzone, quella che le piace dormire abbracciata a suo marito, che quando è in difficoltà abbassa la testa e si morde il labbro, come stai facendo adesso. E non è giusto che fai finta che non ci sia perché in un momento in cui tutto andava male hai fatto una scelta sbagliata.

Kate alzò lo sguardo verso di lui, aveva ragione. Le mancava il suo lavoro, quella parte della sua vita e stare a casa senza fare niente non era quello che voleva per se, per il suo futuro. Ci aveva pensato tante volte, poi c’era sempre qualcosa che Rick organizzava per non lasciare le loro giornate vuote, ma era diverso.

- Che dovrei fare? - Sospirò

- Se vuoi, andare al distretto, riprendere il tuo distintivo, parlare con il capitano e tornare a lavoro. - Gli disse.

- Tu sei incluso? Cioè, hai fatto tutto questo per tornare anche tu al distretto? - Chiese ancora dubbiosa.

- No, io non sono incluso. Il nuovo capitano non vuole civili tra i piedi. Mi dispiace.  - Disse lui palesemente amareggiato.

- Dispiace anche a me. - Gli disse accarezzandogli il dorso della mano.

- Lo dici perché lo pensi o perché visto che sai che non potrò esserci vuoi farmi contento facendomi credere che ti dispiace.

- Lo dico perché penso che tu sia il miglior partner che abbia mai avuto, Castle. Nella vita e nel lavoro.

- Sai che adesso potrei montarmi la testa, Beckett?

- Ne sono consapevole e per questa volta te lo concedo. - Lo baciò sorpresa di se stessa, alla fine non si era nemmeno arrabbiata poi tanto e non capiva quale incantesimo le stesse facendo quell’uomo con gli occhi azzurri che amava ogni giorno di più, tanto da arrivare ad accettare cose che considerava impossibili.

 

 

- Beckett! Cosa ci fai qui? - Javier la vide percorrere il corridoio a passo spedito verso l'ufficio del capitano. Era così strano vederla lì, strano tanto quanto era stato abituarsi a non vederla più. Sì fermò davanti a lui, appoggiandosi a quella che era la sua vecchia scrivania.

- Ho sentito che siete di nuovo rimasti a corto di personale. - Gli fece l'occhiolino ed un sorriso.

- Torni? - Chiese stupito ed il sorriso di Beckett si aprì rivelando più di ogni altra manifestazione quanto lei in realtà fosse felice di tornare a fare quello che aveva sempre fatto.

- Vado a parlare adesso con il Capitano.

- In bocca al lupo. - Esposito fece una smorfia mentre Kate bussò due volte alla porta.

Il capitano Gates la osservò entrare con gli occhiali sulla punta del naso, dopo essere riemersa dalle scartoffie che stava leggendo.

- Katherine Beckett. Non posso dire di essere sorpresa di vederla qui.

- Buonasera signore. - Attese un cenno della donna e poi si sedette davanti a lei.

- Saltiamo i convenevoli, sappiamo entrambe perché è qui. C’è qualcuno che avrebbe molto piacere che lei riprendesse il suo posto. Anzi, più di qualcuno, direi, dalle telefonate che ho ricevuto.

- Non le posso negare che la cosa mi imbarazza molto, signore. Non è stata una mia idea e non è una prassi che approvo ma…

- Ma le fa piacere riavere il suo posto. - Concluse la donna poggiando gli occhiali sulla scrivania ed appoggiandosi allo schienale della sedia.

- Sì, signore. Mi farebbe molto piacere.

- Sarò sincera, Beckett, io non rientro tra le persone che hanno piacere che lei rientri in questo distretto. - Kate abbassò la testa mortificata alle parole del capitano - Ma allo stesso tempo io non ho nemmeno avuto piacere al fatto che se ne sia andata da questo distretto. Tutti mi hanno parlato bene di lei, delle sue capacità e della sua professionalità. So quello che le è successo, la situazione che ha attraversato e capisco anche come certi casi in certi momenti sarebbe opportuno non trattarli, anche se non abbiamo la lucidità per rendercene conto. Non sono una persona dal cuore di pietra, Beckett, nonostante quello che dicono su di me. Non posso nemmeno immaginare quello che ha passato, ma il lavoro è altro.

- Sì signore. - Sospirò Kate.

La Gates si sporse verso il cassetto della sua scrivania, lo aprì e poggiò sul ripiano il distintivo di Kate e glielo porse facendolo scivolare sulla superficie di legno.

- Questo è suo, Detective Beckett. Spero sia l’ultima volta che glielo devo restituire. Non penso che le devo spiegare nulla, conosce già tutto meglio di me. Per la pistola, come da prassi, deve passare prima a farsi riabilitare.

- Grazie signore. - Strinse il distintivo in mano accarezzandone la superficie metallica con le dita.

- Ci vediamo domani Detective Beckett.

- A domani Capitano.

 

- Allora? Sei tornata? - Le chiese Esposito appena uscita e lei in con un sorriso smagliante gli mostrò il distintivo.

- Wow! Allora in questi giorni avremo molte cose da festeggiare!

- Avete saputo del matrimonio vero? - Chiese in una smorfia.

- Era abbastanza difficile non saperlo quando la notizia era su tutti i principali giornali di gossip e non solo! Buona fortuna quando incontrerai Lanie! - La avvisò mostrandosi molto preoccupato.

- Era così arrabbiata?

- Lo era. Ai suoi livelli. - Specificò Javier.

- Ma Ryan? - Chiese Kate che ancora non lo aveva visto.

- Eh fa parte delle cose che ci saranno da festeggiare. Lo ha chiamato prima Jenny che le si sono rotte le acque ed è corso in ospedale… Sono già passate almeno un paio d’ore… - Controllò l’orologio senza accorgersi del nervosismo di Kate.

- Oh… è… bellissimo… - Disse lei stringendo il distintivo in mano.

- Tutto a posto Beckett? - Chiese Esposito notando adesso come fosse a disagio. - Io.. Scusami…

- È tutto a posto Javi, veramente. Io adesso vado, ci vediamo domani, ma se hai notizie da Kevin, fammi sapere.

- Certo. A domani allora.

 

 

- Ehy, Beckett… è andato tutto bene? Problemi al distretto con il capitano? - Le chiese Rick trovandola sul letto nella loro camera semi buia. Era stato fuori più a lungo del previsto, quando lei era andata al distretto ne aveva approfittato per raggiungere Gina alla Black Pawn e fare il punto della situazione dopo quelle settimane fuori ed i riscontri del tour nella West Coast.

- No… tutto bene. - Prese dal comodino il distintivo e lo diede a Castle che lo guardò orgoglioso e contento per lei.

- Allora, cosa c’è? - Si adagiò vicino a lei, togliendole dalle mani il cellulare e lei si voltò dalla sua parte.

- Mi ha chiamato Esposito pochi minuti fa, è nato il figlio di Ryan e Jenny.

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Capitolo 67
*** SESSANTASETTE ***


- Sei sicura di voler andare Kate? - Castle aveva raggiunto Beckett al distretto, avevano appena fermato un taxi e dato l’indirizzo dell’ospedale dove si trovavano Ryan, sua moglie ed il bambino.

- Sì, sono sicura. Tu? - Chiese vedendolo decisamente nervoso.

- Sì, non c’è problema.

- Ma? - Chiese Kate.

- Perché pensi che ci sia un “ma”?

- Perché hai la faccia di uno che ha un “ma” inespresso, Castle. - Disse lei semi seria.

- Non ce l’ho con il bambino, però… Se ripenso a come si sono comportati Ryan e Jenny al loro matrimonio… Non l’ho mai digerito del tutto, ecco. Non mi è piaciuto, non l’ho trovata una cosa rispettosa verso di te, loro sono tuoi amici, avrebbero dovuto pensarci, anche se quello era il loro giorno, sapevano che eri lì.

- Che eravamo lì. - Lo corresse lei.

- Sì ma… è diverso. Avrebbero avuto dimostrare più rispetto per te… io non me lo dimentico quello che è successo…

Kate gli prese la mano. Non se lo era dimenticata nemmeno lei, però aveva sempre pensato che non era giusto che loro si limitassero solo per la sua presenza, non voleva essere di intralcio alla felicità di nessuno. Evidentemente, però, per Rick era rimasta una ferita aperta, qualcosa che non aveva mai metabolizzato del tutto.

- Avevo sperato di ritrovarti quando sono rientrata quel giorno. Avevo capito di avere bisogno di te per andare avanti, perché ti amavo. Invece eri già andato via… - Sussurrò Kate confidandogli qualcosa che non gli aveva mai detto. Rick la guardò a bocca aperta e lei annuì solamente, prendendo la sua mano e stringendola. Aveva avuto bisogno di dirglielo, di dirgli che non aveva mai smesso di amarlo. Rick non rispose, sapeva che non c’era bisogno.

 

Avevano appena parlato con Lanie, era già arrivata ed insieme ad Esposito li aspettavano in camera di Jenny. Gli avevano dato numero di stanza e piano e Rick e Kate stavano nervosamente salendo in un ascensore troppo affollato verso il quinto piano. Beckett teneva tra le mani la grande busta dove c’era il regalo scelto personalmente da Castle, un grande orso bianco con un fiocco verde, in onore delle origini irlandesi della coppia. Quando Kate lo aveva visto oltre a trovarlo naturalmente molto tenero, fece notare a suo marito che probabilmente sarebbe stato più grande del bambino fino a quando non avrebbe compiuto un anno, ma la cosa non sembrò preoccuparlo più di tanto, ma d'altronde lei doveva conoscere bene le sue idee megalomani, non doveva stupirsi di un orso quasi a grandezza naturale come regalo per un neonato.

- Castle! Rick! Cosa ci fai qui? - Stavano camminando nel corridoio per andare da Ryan quando una voce attirò l’attenzione della coppia che si voltò verso l’uomo che aveva appena chiamato Rick.

- Ehy Dan! Kate, lui è Dan, è stato uno di quelli che leggevano i miei romanzi in anteprima e correggevano tutti i miei errori! Dan, lei è Kate, mia moglie!

- Piacere Kate… - Disse l’uomo dandole la mano.

- Noi stiamo andando a trovare un amico che ha appena avuto un bambino, tu? - Spiegò

- Ehm… io sto andando da mia moglie, nostra figlia è nata ieri mattina! Venite con me, così ve la presento! - Propose loro Dan visibilmente emozionato ed eccitato come tutti i neo papà.

- Vai tu Rick, io raggiungo gli Kevin. - Gli propose Kate, che avrebbe visto con piacere Ryan e suo figlio, ma non se la sentiva proprio di passare da un neonato all’altro.

- Ok… Ci vediamo lì. - Le diede un bacio sulla guancia e poi proseguì verso la camera di Jenny con la sua busta enorme in mano.

 

Shaun Killian Ryan era nato poco meno di ventiquattro ore prima per la gioia di papà Kevin e mamma Jenny con un parto relativamente breve, anche se a lei sembrava tutt’altro e proprio di quello stava parlando a Lanie e ad alcune sue amiche che erano lì. Quella stanza era decisamente affollata per Kate, tanto che le sembrò mancare l’aria quando sentì piangere il piccolo che fino a quel momento non aveva nemmeno capito dove fosse: lo teneva in braccio una delle amiche di Jenny in piedi vicino al letto, ma subito lo passò alla madre.

- Ehy Beckett! Sei sola? - Le chiese Ryan avvicinandosi con un sorriso smagliante.

- Castle sta arrivando, ha incontrato un ragazzo che lavorava con lui alla casa editrice e… arriverà tra poco. Tieni questo è per… lui! - Disse indicando il bambino e dando la busta a Kevin.

- Shaun, Shaun Killian Ryan. - Ripetè il detective orgoglioso.

- Per la dimensione… - Disse Kate mentre l’amico guardava l’orso.

- È un’idea di Castle, immagino.

- Già, proprio così. - Rispose facendo una smorfia.

- Katherine Beckett! Non pensare di cavartela solo perché siamo tutti qui per il piccolo Ryan! - La voce di Lanie alle sue spalle era decisamente minacciosa. Si voltò lentamente incrociando lo sguardo dell’amica.

- Ne possiamo riparlare poi? - Chiese supplicandola con lo sguardo.

- Va bene, ma tu sappi che io sono solo tanto, tanto tanto… Felice per te signora Castle! - Le disse abbracciandola.

- Grazie, ma non sono il centro della festa oggi! - Si avvicinò a Jenny che le mostrò il piccolo Shaun, con le guance paffutelle, un bel ciuffetto di capelli rossi e due occhi blu. - Ragazzi, è bellissimo!

Era decisamente emozionata a vedere quel piccolo ometto tra le braccia di Jenny. Gli sfiorò una manina con un dito ed il piccolo istintivamente lo afferrò stringendolo forte, sorprendendola.

- Lo vuoi prendere in braccio? - Le propose Jenny senza pensarci: Lanie e Javier la guardarono e poi guardarono Kate rimasta disorientata da quella richiesta.

- Sì… Sì… - Cosa c’era di male, in fondo, a prendere in braccio un bambino, si disse mentre si piegava e Jenny le adagiava tra le braccia Shaun, che sonnecchiava tranquillo. Non le fece l’effetto che pensava. Non le fece male, quel dolore che si immaginava di provare e che invece non aveva sentito nemmeno nel vedere Jenny con il suo bambino in braccio. Era una sensazione strana tenere quel bimbo così piccolo tra le braccia che si muoveva stiracchiandosi e apriva e chiudeva gli occhi al mondo. Aveva immaginato che nel tenerlo avrebbe pensato al suo bambino, invece non era così, non vedeva lui in Shaun, né immaginava se stessa in quella situazione e non solo perché tutto era così diverso da come l’aveva immaginato, tante, troppe volte. Quello che scoprì di provare in quel momento era una malinconica nostalgia di quello che sarebbe potuto essere ed un infinita dolcezza per quel piccolino che non la smetteva di fare smorfie facendola sorridere, senza accorgersi che, in quel momento, tutti stavano guardando lei.

- Sto cercando un detective che da ora in poi passerà molte notti in bianco ed avrà bisogno di una doppia razione di caffè al distretto. - Rick era arrivato in quel momento nella stanza e stava abbracciando Kevin con affetto: nonostante quello che aveva detto a Kate in taxi poco prima, non riusciva a portare rancore l’amico, dopo quello che avevano condiviso nel corso degli anni. Sentendo la voce di Rick Kate si voltò verso di lui ancora sorridendo per le smorfie di Shaun con il bambino in braccio, trovando, in fondo alla stanza, lo sguardo di Rick che la osservava senza essere capace di dire nulla ed anche lei rimase immobile qualche istante a fissarlo mentre il suo sorriso svaniva guardando il volto di lui diventare sempre più serio.

- Io… scusami Ryan… devo…  devo andare… scusami…. - Rick uscì dalla stanza sotto lo sguardo sbigottito di tutti i presenti.

- Che succede Kate? - Le chiese Esposito non capendo la reazione di Castle. Beckett si guardò con Lanie che invece aveva capito tutto.

- Scusatemi, devo andare anche io. Jenny è un bambino splendido. - Le disse di cuore mentre lo adagiava tra le braccia della madre. - Ci vediamo domani la distretto!

Uscì dalla stanza e corse nel corridoio cercandolo ma non era più lì. Arrivò davanti all’ascensore che stava già scendendo proprio in quel momento e decise di scendere a piedi senza aspettare. Arrivò al piano terra e lo vide mentre stava uscendo a passo veloce.

- Castle! - Lo chiamò con il fiatone per le scale scese di corsa, lui si voltò e lei gli andò incontro - Castle… aspettami! Aspettami…

Lui l’aspettò e lei lo abbracciò. Erano nel mezzo dell’entrata dell’ospedale tra gente che andava e veniva, ma non le importava nulla. Lui aveva bisogno di quell’abbraccio, lì in quel momento.

- Scusa ma… non ce l’ho fatta. - Le disse appoggiandosi con la testa sulla spalla di lei.

- Lo so…

- Non pensavo di vederti così… io… Non ero pronto… Non… scusami Kate…

- Andiamo a casa? - Gli chiese dolcemente Beckett mentre prendeva la sua mano e Castle si lasciò condurre da lei fino al parcheggio dove presero un taxi che li avrebbe riportati al loft.

 

Si fermarono a prendere del cibo giapponese per cena nel locale all’angolo. Sarebbero stati soli quella sera, Martha era fuori con le sue amiche ed Alexis con un non specificato Mark, sul quale Kate convinse Rick a non indagare. Non parlarono di quanto accaduto in ospedale, anche se Kate non riusciva a togliersi l’immagine di lui che la guardava ed i suoi occhi stupiti prima e straziati poi, così come non riusciva a togliersi da dentro quella sensazione provata mentre teneva in braccio Shaun. Ci pensò ogni momento, mentre mangiavano e Castle si sforzava di essere come sempre e lei anche, ma non lo erano e nessuno se lo disse.

Seduti per terra con la schiena appoggiata al divano e i contenitori vuoti del cibo appoggiati sul tavolo davanti a loro si godevano quei momenti di libertà, in cui potevano essere una coppia senza schemi e senza obblighi, quell’ultima sera prima di ricominciare a vivere con il terrore di essere interrotti da un momento all’altro per un qualche omicidio. Ci risero su, soprattutto quando Rick le fece notare che il distretto sarebbe diventato più invadente di sua madre.

 

Avrebbero fatto l’amore lì, per terra senza preoccuparsi di nulla, ma quella sera avevano bisogno di altro, avevano bisogno di amarsi in modo più intimo, stringendosi l’anima, mentre ognuno doveva fare i conti con i propri pensieri fino a quando non fosse stato pronto a confidarli all’altro.

Kate ripensò a tutti quei mesi, da quando tutto tra loro era cominciato, anzi era ricominciato. Lui l’aveva amata, le aveva regalato il sogno di una vita diversa che aveva temuto prima, voluto fortemente e poi perso. Lui l’aveva salvata, tenuta a distanza, fatto capire cosa volesse veramente e solo alla fine, erano diventati una cosa sola. Erano diventati innamorati ed amanti, erano marito e moglie, erano tutto quello che potevano essere l’uno per l’altra.

Per la prima volta dopo mesi, trovò un senso a tutto, arrivare a quella consapevolezza di sentimenti che aveva cercato da sempre. Erano dovuti sprofondare, perdersi, ritrovarsi e camminare insieme per arrivare fino a lì, a quel punto dove tutto era chiaro, dove il desiderio superava la paura, dove l’incoscienza valeva più della ragione. Si rese conto che tutto quello che voleva, adesso, era quello che più di tutto voleva anche lui. E Kate voleva mantenere la sua promessa, voleva rendere Rick felice e voleva essere felice con lui.

Aprì gli occhi e il volto di suo marito era a pochi centimetri dal suo e la guardava come fosse la cosa più preziosa al mondo e lei poteva perdersi nei suoi occhi blu e non ci sarebbe stato luogo migliore al mondo.

- Voglio riprovarci Castle, tu vuoi?

Lesse la risposta in quell’azzurro luccicava, con la luce che rifletteva nelle lacrime che nascevano per prendere il posto delle parole che non riuscì a pronunciare.

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Capitolo 68
*** SESSANTOTTO ***


Kate gli accarezzò il viso, incorniciandolo con entrambe le mani e lui con gli occhi chiusi non poteva vedere il suo sorriso. Rick fece un respiro profondo e poi li aprì guardandola ancora stupito di quella domanda. Non pensava potesse chiederglielo, non in quel giorno, pensava che fosse ancora presto, che lei non fosse pronta e invece in quel momento non era pronto lui a sentirglielo dire, non perché non lo volesse, ma perché non era preparato.

Aprì gli occhi e vide il sorriso dolce e impaurito di Kate, che racchiudeva tutto quello che provava.

- Sei sicura Kate?

- Sì, Rick. Sono sicura. Ho paura ma… sono sicura.

- Non devi farlo se ancora tu… Non per quello che è successo oggi, capito? - Portò le sue mani sopra quelle di lei, le prese e le strinse tra le sue.

- È per quello che è successo oggi. Perché oggi ho capito quanto lo voglio.

- Quando ti ho visto io… Ho pensato che… Era tutto quello che avrei voluto, a quello che non era stato e mi ha fatto male. Lo vorrei tanto anche io… - Era quello l’ultimo passo di quel percorso che avevano cominciato insieme mesi prima, da quando lei aveva pianto sotto quel lampione abbracciata a lui. Sembrava essere passata una vita e non pochi mesi.

- Castle io… non avevo mai pensato ad un figlio, a diventare madre e a tutto il resto. È stato un fulmine a ciel sereno, una cosa inaspettata eppure nostro figlio l’ho amato da subito, appena ho saputo che c’era, anche se ero terrorizzata ed impreparata e la sua perdita è stata… devastante e ci penso sempre, non è per questo che…

- Lo so, Kate… Non ti devi giustificare.

- Ora è diverso. Io voglio un figlio. Voglio un figlio da te. Voglio un bambino nostro, voglio la nostra famiglia, quella che dovevamo avere. - Era riuscita a dirgli quello che voleva, era riuscita a dirlo ad alta voce e a se stessa. E più lo diceva, più si rendeva conto che era esattamente così, era quello che voleva, quello che le mancava. Quello che era successo sarebbe stato sempre parte di lei, ci avrebbe pensato sempre, avrebbe sempre avuto una parte del suo cuore. Però aveva capito che non poteva privarsi di quello che veramente voleva per i sensi di colpa e la paura, altrimenti avrebbe fatto lo stesso errore che aveva già compiuto quando aveva allontanato Rick dalla sua vita. E lui la guardava e non sapeva cosa dirle, in quella che pensava sarebbe stata una serata silenziosa, di quelle nelle quali stavano soli insieme rifugiandosi in abbracci muti e consolatori. Invece Kate si era aperta, gli stava dicendo quello che lui avrebbe sempre voluto sentire ed ora che lo stava facendo, non sapeva se era emotivamente pronto a sentirlo.

- Ti ho promesso che avrei fatto di tutto per renderti felice, che mi sarei impegnata per essere la moglie migliore per te e voglio esserlo Rick. Voglio farti felice, voglio… voglio vedere i tuoi occhi guardarmi come oggi, però voglio che quelle lacrime siano di gioia. Voglio vederti guardare nostro figlio ed innamorarmi del tuo sguardo quando lo farai e voglio vederti con lui o lei in braccio e pensare che siete tutto quello che amo al mondo. Sono terrorizzata Castle, ho paura di tutto quello che potrà accadere però non voglio privarmi di un sogno.

- Ho paura anche io Kate e vorrei poterti dire che non c’è niente da avere paura e che andrà tutto bene di sicuro ma non posso farlo. Non devi privarti di nessun sogno, del nostro sogno, io voglio sognare con te e farlo diventare realtà.

La trascinò tra le sue braccia stringendola a se e lei si accomodò sul suo petto.

- Penso che dovremmo poi scusarci con Ryan… - Gli disse Kate ridacchiando.

- Già, io dopo essere scappato dal matrimonio sono scappato anche dal figlio. Chissà cosa penserà adesso! - Si domandò perplesso.

- Non ci pensare, domani al distretto gli parlo io. - Gli disse prima di baciarlo dolcemente.

Gli sembrava strano non poter più essere al suo fianco come aveva sempre fatto ogni giorno per anni.

- Mi mancherai domani e mi mancherà non essere lì con te. - Era veramente dispiaciuto di interrompere quella loro consuetudine che poi era stata la cosa che li aveva fatti conoscere ed innamorare.

- E a me mancherà non avere nessuno da riprendere perché fa le cose di testa sua, non ascolta e inventa teorie strane. Ed anche il tuo caffè.

Le sarebbe mancato il suo caffè a lavoro, come le era mancato lui per quel breve periodo quando era tornata al distretto, perché lui rendeva tutto più leggero, anche le giornate peggiori, anche i casi più difficili.

- A me mancheranno i tuoi sorrisi quando ti portavo il caffè. - Le accarezzò il contorno delle labbra con l’indice e lei sorrise, facendo sorridere anche lui.

- Quindi non mi portavi il caffè perché volevi che fossi efficiente, per farmi rilassare qualche minuto e portarmi la mia dose quotidiana di caffeina, ma solo perché volevi vedere come sorridevo quando lo facevi? - Chiese fintamente indispettita.

- Sì. Solo per vederti sorridere, almeno una volta al giorno, non era scontato che lo facessi sempre eh! E più tu sorridevi più io mi innamoravo di te.

- Da alzati… - Gli disse lei tirandosi su ed offrendogli le sue mani per alzarsi. Lui le prese e si mise in piedi davanti a lei.

- Ed adesso?

- Adesso mancano ancora molte ore prima di andare al distretto… potremmo trovare un modo divertente per occupare il tempo, che dici? - Lo solleticò con le dita sul petto.

- Hai qualche idea? - Chiese malizioso

- Se andiamo in camera ti faccio vedere cosa ho in mente…

Non ebbe bisogno di chiederglielo ancora, l’aveva presa per mano e condotta velocemente nella loro stanza, ricordandosi di chiudere bene la porta per evitare spiacevoli interruzioni.

 

 

- Ehy ragazza ce ne hai messo di tempo per trovare un momento per un pranzo insieme! - Kate era arrivata di corsa ed in ritardo all’appuntamento per il pranzo con Lanie. Aveva temuto di dover rimandare per l’ennesima volta, dopo che nella settimana passata, la prima che aveva passato interamente di nuovo al distretto, aveva dovuto farlo per ben tre volte, sempre a causa di qualche caso inaspettato. Così invece che davanti a qualche piatto goloso a parlare di loro, si erano ritrovate davanti a qualche cadavere a parlare di omicidi.

- La Gates mi stava incastrando di nuovo, sono riuscita a sfuggirle! - Disse accomodandosi e leggendo velocemente il menu di quel ristorante italiano che conosceva bene, non era la prima volta che si concedevano un pranzo lì.

- Quanti minuti hai oggi? - Chiese ironica. Sapeva che dopo che era tornata al distretto in modo “poco ortodosso” come aveva definito la stessa Kate, il capitano le era particolarmente addosso, non lasciandole spazio.

- Oggi ho tutto il tempo che vuoi ed il pomeriggio libero. Ho già chiamato Castle e l’ho avvisato che saremmo state insieme a pranzo, quindi adesso… relax - disse con un eloquente gesto delle mani.

- Wow! Questo non è un pranzo allora, è un evento dobbiamo prendere qualcosa di forte per festeggiare!

Malgrado l’orario ordinarono due cocktail per accompagnare quell’antipasto pieno di cose schifosamente buone e fritte che aveva scelto Lanie.

- Allora tesoro, devi raccontarmi tutto e per tutto intendo proprio tutto. Ti sei sposata, te ne rendi conto? - Esclamò colma di gioia dopo che avevano brindato.

- Sinceramente? Ancora no. Non sempre. - Si toccò la fede nel risponderle, gesto che non passò inosservato alla sua amica, che le prese la mano per guardarla. Era semplice piatta, di oro bianco.

- Ha fatto tutto Rick. Io ho solo scelto il mio vestito, nulla di più. È stato stupendo, solo io e lui sulla terrazza dell’hotel al tramonto. Pensavo che sposarsi a Las Vegas sarebbe stato kitsch e fuori dagli schemi ed invece è stato tutto così intimo e perfetto.

Lanie rimase stupita, pensava che Castle avesse pensato a qualcosa di eccessivo, come nel suo stile, invece quella le sembrava la fede perfetta per Beckett ed il suo sguardo mentre parlava del suo matrimonio era incantato.

- Sono così felice per te, ragazza. Sei il ritratto della felicità, lo sai? Te ne rendi conto? - Le strinse la mano e Kate annuì.

- Me ne rendo conto Lanie e tutto questo è anche merito tuo. Se tu non avessi chiamato Castle…

- Castle sarebbe venuto da te comunque, ho solo accelerato i tempi. Voi non potete stare separati, te ne sei resa conto adesso? Quante volte te l’avevo detto io? - La rimproverò con il sorriso sulle labbra.

- Mi sono comportata malissimo con te, tu volevi solo aiutarmi ed io sono stata pessima. Mi dispiace Lanie, scusami. - Le disse abbassando lo sguardo vergognandosi ripensando a quei giorni ed al suo comportamento.

- Ehy, non sono qui per farti diventare triste! Tutto quello che è successo non ha importanza Kate. Non devi chiedermi scusa per niente, le amiche servono a questo, anche a farsi trattare male quando tutto è sbagliato. Guardati adesso, sei sposata, Dio mio Kate! Sei la moglie di Richard Castle!

- Non lo dire così però! Sembro un fenomeno da baraccone se no! - Rise Kate.

- Ma ti rendi conto? Pensa a quando leggevi i libri di Derrick Storm e ti chiedevi cosa altro avrebbe inventato! Ora i libri li scrive su di te e sei anche sua moglie.

Kate fu tolta dall’imbarazzo delle considerazioni di Lanie dal suono del cellulare. Era un messaggio proprio di Castle.

- Parli del diavolo… - Disse Lanie che non aveva bisogno di vedere il mittente, le bastava osservare Kate ed il suo sorriso inconsapevole nel leggere il suo nome nel display. - … Ma sei sempre così adesso? Dove hai messo la Beckett che conoscevo io?

- Così come Lanie? - Le chiese mentre aspettava che si caricava la foto che le aveva mandato.

- Imbambolata, sulle nuvole… scegli tu. Ehy, ma mi stai ascoltando?

- Eh? No… ma… guarda… - Diede il telefono all’amica ed anche lei rimase a bocca aperta. Era una foto di Rick e Kate, una foto del loro matrimonio.

- Te l’ha mandata lui adesso? - Chiese lei perplessa.

- Sì ha detto che sicuramente avresti voluto vederci ma… io non sapevo nemmeno che ci avessero fatto delle foto!

- Evidentemente aveva pensato anche a quello e non te lo aveva detto! Ma Dio mio Kate! Eri splendida! Eravate splendidi! Guarda che espressione! - Lanie era eccitatissima nel vedere quella foto e ridiede il telefono ed anche Kate la guardò ancora.

- Non avrei potuto desiderare un matrimonio migliore. Mi dispiace che non era presente nessuno, ma non avrei potuto volere niente di diverso da quello.

- Lo so Kate ed è per questo che anche se mi dispiace non esserci stata non posso che essere felice per te.

Beckett guardò negli occhi l’amica e sapeva che era sincera, che se c’era una persona che era veramente felice per lei era Lanie, quella che l’aveva vista percorrere tutte le tappe più buie dell’ultimo anno, quella che, insieme a Castle ed anche più di lui, aveva visto tutto il suo dolore e la sua sofferenza.

- Grazie. Sapevo che mi avresti capito Lanie.

Furono interrotte dal cameriere che portava loro due piatti di pasta fumanti.

- C’è una cosa che devo dirti… - Kate aveva scostato con la forchetta ai lati del piatto i suoi ravioli dandogli modo di raffreddarsi prima e mentre guardava Lanie che cercava di fare altrettanto con la sua pasta, aveva pensato che doveva dirglielo, voleva che lei sapesse la decisione che avevano preso qualche giorno prima con Rick…

- Non sarà un annuncio vero Kate? - Lanie già non stava più nella pelle e Beckett rise nervosamente.

- No… non ancora… - Si morse il labbro.

- Non ancora vuol dire che…

- Vuol dire che io e Castle abbiamo deciso di riprovarci.

- Questo è bellissimo Kate… Io non pensavo che… cioè, anche l’altro giorno, quando eravamo all’ospedale non pensavo che tu lo avresti preso in braccio…

- Già, nemmeno io. Però sai l’ho capito proprio quel giorno quanto volessi un bambino e che ero pronta per provarci di nuovo.

Giocherellò con la pasta nel suo piatto, aprendo un paio di ravioli dai quali uscì una calda nuvola di fumo.

- Castle? Come l’ha presa? - Chiese la dottoressa imitandola ancora.

- Lo hai visto in ospedale dal figlio di Ryan? Lui in tutto questo tempo è sempre stato quello più forte, ma lo so che anche lui stava male, più di quanto volesse farmi pesare e quel giorno per lui vedermi con un bambino in braccio è stata dura… Lui lo vuole quanto me, Rick è molto diverso da quello che fa vedere, lui non è quello spavaldo, presuntuoso ed esuberante scrittore superficiale… - Non sapeva perché, ma era importante per lei far capire all’amica che suo marito era molto di più di quello che appariva.

- Kate, lo so. Tutti ci giochiamo con Castle, ma nessuno mette in dubbio che lui ti ami veramente e che non sia quello che vuole apparire e se non bastavano questi anni a farcelo capire, come si è comportato dal giorno del tuo ferimento in poi avrebbero fatto ricredere chiunque.

- Sono fortunata Lanie. Io… non pensavo mai che avrei potuto dirlo, però è così. Sono fortunata ad avere Castle nella mia vita.

- Sì, almeno quanto lui è fortunato ad avere te nella sua. Io ve l’ho sempre detto che eravate una coppia perfetta ed adesso non sai quanto spero che quello che desiderate si realizzi al più presto.

- Lo spero anche io Lanie, anche se ho così tanta paura…

- Quando sarà, andrà tutto bene questa volta Kate. Io me lo sento che sarà così. Non può essere altrimenti! - Cercò di contagiarla con il suo entusiasmo ed ottimismo. Kate sorrise solamente prima di addentare la sua prima forchettata di pasta che finalmente aveva raggiunto una temperatura che permetteva di essere mangiata senza ustionarsi la bocca. Avrebbero avuto ancora molto tempo per parlare passando ad argomenti più leggeri. Aveva bisogno di svagarsi un po’ e di rilassarsi quel pomeriggio.

- E tu dottoressa, cosa mi racconti? Quanti cuori hai infranto in queste settimane?

Lanie fece un sorriso malizioso e poi cominciò a raccontarle di un ragazzo portoricano conosciuto il weekend precedente in un club con il quale aveva cominciato a vedersi, senza risparmiare nessun dettaglio.

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Capitolo 69
*** SESSANTANOVE ***


Era tornata a casa felice del pranzo con Lanie, molto più lungo di quelli che avevano solitamente. Appena entrata al loft sentì la voce di Rick, Martha ed Alexis ed i loro commenti che non lasciavano molto spazio all’immaginazione su cosa stavano vedendo. Erano nello studio di Rick, con le due donne ai suoi lati che osservavano un album di fotografie.

- Dio mio Katherine, eri splendida! - Le disse Martha appena entrò nella stanza.

- Sì, eravate veramente bellissimi! - Aggiunse Alexis.

Kate si avvicinò a loro e guardò la foto che stavano osservando anche loro: lei e Castle si stavano tenendo per mano, guardandosi negli occhi, non sapeva che momento della cerimonia fosse, probabilmente le loro promesse.

- Non mi ero nemmeno accorta che c’era un fotografo. - Sorrise a suo marito.

- Erano più di uno, ma gli ho chiesto di essere discreti. E poi tu eri così presa dal tuo futuro marito che non li avresti visti comunque. - Si vantò conquistandosi un’occhiataccia da sua madre e sua figlia. Non da Kate che dentro di se sapeva che era proprio così e lui aveva ragione.

- Grazie. Mi dispiaceva che le nostre uniche foto fossero quelle rubate finite sui giornali. - Gli confessò Kate.

- Dovresti conoscermi Beckett! Non avrei mai permesso che non avessimo dei bei ricordi di quel giorni con i quali pavoneggiarci con amici e parenti. - Aveva cambiato subito tono quando si era accorto che lei si stava emozionando. Rick allora si scostò con la sedia dalla scrivania, invitandola a sedersi sulle sue gambe e ripresero a sfogliare l’album dall’inizio. Kate si stupì di quante foto le avevano fatto senza che lei si rendesse minimamente conto, ed insieme raccontarono per l’ennesima volta a Martha ed Alexis cosa era accaduto quel giorno, condito da qualche aneddoto e dalle loro emozioni.

Nonna e nipote poi li lasciarono, avevano in programma una serata a teatro insieme, Martha aveva insisto con Alexis perché le facesse compagnia a vedere quella commedia che era sicura le sarebbe piaciuta molto e la ragazza aveva acconsentito di passare quella serata con sua nonna.

- Ho anche il video. - Le disse Rick quando rimasero soli.

- Stai scherzando? - Chiese Kate allibita.

- No. Ma quello è solo per noi. Cioè se tu lo vuoi far vedere è ok, ma…

- No, solo per noi. Voglio anche io così. Non sono pronta a condividere le emozioni di quel giorno. Già le foto sono tanto… Ma come hai fatto? - Gli chiese stupita.

- È un segreto! - Le fece l’occhiolino e lei non gli chiese altro. Se lo sarebbe fatto dire in un secondo momento, ora sapeva che era inutile insistere. Lo aveva abbracciato cingendogli le spalle con un braccio, mentre con l’altro passava dall’accarezzare il suo petto o il suo braccio, mentre lui li faceva ondeggiare muovendosi sulla sedia. Le piaceva quando lui la invitava a sedersi sulle sue gambe nella poltrona dello studio, non glielo aveva mai detto ma la trovava una cosa molto sexy - Come è andato il tuo pranzo con la dottoressa Parrish?

- Bene! Avevo proprio bisogno di un po’ di tempo tra amiche. Abbiamo chiacchierato molto ed abbiamo anche avuto modo di parlare del mio periodo buio, mi sono scusata per come l’ho trattata.

- La finirai mai di chiedere scusa al mondo perché stavi male? - Il suo tono scherzoso nascondeva quel rimprovero che Rick le aveva fatto più volte perché lui sosteneva che non c’era bisogno che chiedesse scusa a nessuno: chi le voleva bene non aveva bisogno delle sue scuse, perché capiva la situazione e chi sentiva di averne bisogno evidentemente non era una persona che avrebbe dovuto avere intorno.

- Le ho detto anche di quello che abbiamo deciso… Dopo tutto, mi sembrava giusto che lei lo sapesse. Ti dispiace?

- No, è ok. Cioè credo sia normale che tu voglia confidarti con un amica delle tue cose. Non devi chiedermi il permesso o giustificarti per questo.

- Ti amo Castle… - Il bacio dolce si trasformò in altro e dallo studio arrivare in camera fu un percorso decisamente breve.

 

 

- Cosa abbiamo? - Beckett era arrivata sulla scena del crimine camminando a passi svelti fino ad arrivare all’argine del fiume. Si tirò sù la zip del giacchetto di pelle, in quella mattina di marzo faceva più freddo di quanto pensasse, sembrava che invece che la primavera, fosse l’inverno ad essere appena tornato a New York.

- Donna, bianca, vent’anni circa. - Le disse Ryan mentre si avvicinavano al corpo trascinato a poca distanza all’asciutto dove Lanie lo stava esaminando.

- Affogata? - Chiese ancora Beckett

- No, strangolata. - Rispose la dottoressa spostando la testa della vittima e facendole vedere i segni sul collo, spostando un brandello di stoffa annodato stretto. - Ma non con il tessuto, vedi ci sono i segni delle dita. - Le indicò i punti visibili dove le mani avevano stretto il collo della giovane.

Beckett osservò la vittima, la sua postura era strana per essere stata ritrovata nel fiume, aveva le braccia rigide incociate sul petto, i vestiti strappati e sui polsi presentava segni circolari, come se fosse stata legata con delle corde per farle assumere quella postura cosa che a sua domanda, Lanie le confermò.

- È stata violentata? - Domandò Kate notando la gonna arrotolata in vita e l’assenza di biancheria intima

- Probabile, ma te lo saprò dire con certezza solo dopo aver fatto tutti gli esami del caso, ma a giudicare dai segni, direi di sì. - Lanie aveva finito i rilievi sul posto, si era alzata, tolta i guanti ed aveva fatto cenno a due ragazzi che potevano prendere il corpo e portarlo al laboratorio.

- Da quanto tempo è morta? - Le chiese Kate.

- Tre o quattro giorni, presumibilmente, ma…

- Me lo potrai dire con certezza solo dopo l’autopsia, ho capito.

- Sì, esatto tesoro. Io ora vado, ti faccio sapere appena ho qualcosa.

Kate annuì e poi tornò da Ryan ed Esposito che avevano fotografato tutta la scena e repertato quanto raccolto.

- Si sa nulla sull’identità della vittima? - Chiese osservando i frammenti di tessuto rinvenuti già messi nelle buste sigillate.

- No, nulla. Non aveva documenti. - Le spiegò Esposito.

- Abbiamo ritrovato solo questo. - Ryan le mostrò una busta con un fazzoletto con due lettere ricamate sopra M R.

- È della vittima? - Chiese lei osservandolo.

- Non lo sappiamo, era lì con altre cose, un paio di guanti ed una sciarpa. - Le disse l’irlandese mostrando le altre buste.

- Facciamo un controllo tra le persone scomparse se qualcuna corrisponde a quelle iniziali. Per ora credo che sia l’unica cosa che abbiamo. Chi ha trovato il corpo?

- Due operatori che si occupavano di ripulire questo tratto dell’argine. Sono laggiù, hanno rilasciato le loro dichiarazioni agli agenti dopo che li abbiamo sentiti. - Esposito indicò i due uomini con gli agenti.

- Va bene, voi tornate al distretto, io mi fermo a parlare con loro.

 

Aveva parlato a lungo con i due lì sul posto, si era fatta accompagnare nel punto esatto doveva avevano visto il corpo e gli aveva chiesto di mostrargli esattamente come era stato estratto dall’acqua. Si erano mostrati molto collaborativi e precisi, nella loro versione non c’erano punti oscuri o incongruenze e lei li aveva ringraziati chiedendogli di mantenersi reperibili nel caso avessero avuto ancora bisogno di loro.

Stava rientrando al distretto guidando molto lentamente nel traffico di New York mentre mentalmente ripercorreva quel caso: era il primo che sembrava veramente complesso da quando aveva ripreso il lavoro. Nelle ultime settimane aveva avuto a che fare con degli omicidi che si erano risolti velocemente nel giro di poche ore. Nulla di complicato, omicidi passionali o per motivi economici, omicidi d’impeto compiuti da mani inesperte che avevano lasciato fin troppe tracce e moventi chiari. Quello era diverso, c’era qualcosa in tutta quella situazione che le sfuggiva, le sembrava come se quel corpo e quella scena le dovessero dire altro, ma non capiva cosa. Si voltò pi volte a guardare il sedile passeggero, vuoto. Era sicura che Castle avrebbe avuto la sua stessa sensazione e l’avrebbe già riempita delle sue assurde teorie, ma almeno avrebbe avuto qualcosa da cui partire, una teoria, anche se assurda, era meglio di non averne affatto.

Quando il cellulare squillò e vide il suo viso sorriderle nello sfondo rispose immediatamente mettendo il vivavoce.

- Ciao!

- Castle, mi leggi nel pensiero?

- Uhm forse, perché?

- Stavo proprio pensando a te…

- Wow. Spero che siano pensieri piacevoli e molto poco vestiti!

- No, veramente pensavo a cosa avresti pensato di questo omicidio…

- Non so se esserne lusingato o no, allora. Cosa ha di particolare?

- Una ragazza ritrovata sull’argine del fiume e non lo so, mi sembra che qualcosa mi sfugge…

- Ti manca il tuo partner, detective?

- Potrebbe mancarmi, sì… Ora però sono arrivata al distretto, ti devo lasciare. Ci sentiamo dopo. Ti amo!

- Ti amo anche io.

 

- Beckett, ha chiamato Lanie, ha detto se vai subito da lei, c’è una cosa che deve mostrarti. - Ryan non le diede nemmeno il tempo di posare le sue cose sulla scrivania.

- Riguarda questo caso? - Chiese lei facendo un profondo respiro.

- Sì, ha trovato una cosa durante l’autopsia e vuole che vai subito a vederla.

Girò su se stessa e fece il percorso inverso, aspettando nervosamente l’ascensore.

 

- Allora Lanie cosa hai per me? - Il corpo della ragazza era ancora sul lettino delle autopsie, la dottoressa evidentemente non aveva ancora finito ma l’urgenza con la quale le avevano detto che l’aveva cercata le faceva pensare che avesse trovato qualcosa di importante.

- Ho trovato questo. È stato inserito accartocciato nella gola della vittima dopo che è stata uccisa. - Lanie le mostrò un foglio di carta dentro una busta di plastica. Lo aveva aperto ed erano ben visibili tre caratteri scritti a mano: E.A.P. Kate lo osservò attentamente con aria preoccupata.

- Lo sai cosa vuol dire questo, vero Beckett? - Chiese Lanie alla detective.

- Edward Adam Paulsen. Lo abbiamo arrestato più di un anno fa e da quel che mi risulta sta scontando l’ergastolo a Rikers Island. - Lo disse più a se stessa che alla sua amica. Aveva pensato a lui immediatamente, ma come era possibile? Non aveva ricevuto notizie di evasioni né che fosse stato rilasciato per qualche motivo.

- Per questo ti ho chiamato subito. Avevo fatto io l’autopsia a tre delle vittime che avevate trovato e ricordavo bene questo particolare.

- Hai fatto bene. Vado a vedere se riesco a saperne di più ed intanto informo la Gates.

 

Appena tornò al distretto come prima cosa andò a riferire al capitano quanto aveva scoperto. Era passata in archivio per prendere i fascicoli dei casi che riguardavano Paulsen, cinque omicidi tutti fatti con un macabro rituale, andare a ricalcare omicidi descritti nelle opere di Poe. Era stato Castle, dopo il secondo a collegare le iniziali ritrovate nei fogli di carta e la dinamica degli omicidi. Ricordava come avevano scherzato su quella vicenda, quanto lui l’aveva presa in giro dicendole che lui aveva riconosciuto gli omicidi dei libri di Poe proprio come lei aveva fatto con quello descritto nel suo, ma lui non negava di essere un fan mentre lei sì. Era stata quella una delle tante volte che il suo contributo era stato determinante per risolvere il caso, anche perché Paulsen si era deciso a parlare solo con lui, l’unico che giudicava alla sua altezza. Raccontò tutto alla Gates, senza omettere nulla, nemmeno l’aiuto che Castle aveva dato loro in quell’occasione, ma il capitano rimase comunque piuttosto tiepida nel sentire quelle parole e fece finta di nulla.

Esposito aveva parlato con uno dei responsabili di Rikers Island che gli avevano confermato come Paulsen fosse sempre detenuto presso di loro. Aveva finito di scontare da poco alcuni mesi in isolamento dopo aver aggredito il compagno di cella. Era riuscito ad ottenere che potessero interrogarlo subito, così per l’ennesima volta quel giorno, Beckett riprese le sue cose e insieme a Ryan ed Esposito lasciò il distretto per raggiungere il carcere.

Kate aspettava Paulsen nella sala interrogatori di Rickers. Due guardie lo portarono ammanettato davanti a lei e lo misero in sicurezza bloccandogli polsi e caviglie alle sicure poste a terra.

L’uomo guardava Kate con aria di sfida, sembrava estremamente calmo e quasi divertito.

- Buonasera Detective Beckett, non pensavo ci saremmo rivisti.

- Buonasera Paulsen. Cosa sai dirmi di questo? - Gli mise davanti le foto della ragazza ritrovata quella mattina e del foglio che le aveva dato Lanie.

- È una ragazza morta, mi pare evidente. - Rispose lui.

- Tu cosa ne sai di lei?

- Dov’è lo scrittore? - Chiese eludendo la sua domanda.

- Non c’è. Ti ho chiesto cosa sai di lei.

- Non parlo con te, detective dovresti saperlo. Parlo solo con lo scrittore, perché lui mi capisce.

- Ti ho detto che lui non c’è, quindi dovrai rispondere a me. - Gli intimò Kate, ma lui non fu turbato dal suo tono minaccioso.

- Io non devo niente, detective. Sono condannato all’ergastolo, cosa può esserci di peggio? Se ti dico qualcosa al massimo lo puoi considerare come un favore, ma ti ripeto, parlo solo con lo scrittore.

Paulsen fece cenno ad una guardia di essere portato via e lo ricondussero in cella mentre lei rimase lì a pensare. Avrebbe dovuto dire alla Gates che l’unico modo per far parlare Paulsen era coinvolgere suo marito, ovvero l’uomo che aveva insistito per farla tornare al distretto, quello che lei considerava come un’intralcio alle indagini e non voleva lì, il tutto nel primo caso veramente impegnativo che stava affrontando da quando era rientrata. Sembrava tutto fatto a posta.

Esposito si era offerto di parlare con il capitano al posto suo, riferendole le richieste di Paulsen, ma Kate declinò l’offera, ci mancava solo che la Gates la scambiasse anche per una codarda che si rifugia dietro i colleghi. Così quando tornò al distretto la trovò che stava preparandosi per andare via. Controllò l’orologio e si accorse che era già quasi ora di cena ed il suo turno doveva finire qualche ora prima. Le spiegò velocemente cosa era accaduto mentre la donna la guardava severa, finendo il discorso con la richiesta del detenuto di parlare solo con Castle. La Gates ci pensò e poi le disse che poteva portare Castle a parlare con Paulsen ma solo per quell’indagine e solo per parlare con il detenuto: la sua collaborazione doveva limitarsi a quello, non lo voleva vedere partecipare in altro modo.

 

Ritornò a casa decisamente sollevata ed anche molto stanca. Quella giornata era stata così piena e sempre di corsa da una parte all’altra che aveva perso la cognizione del tempo e di tutto il resto.

Rick la accolse a casa regalandole un abbraccio del quale sentì di aver profondamente bisogno.

- Credo che dovrò abituarmi di nuovo a certi ritmi. Ho perso l’abitudine. - Sbuffò buttandosi sul divano intanto che lui finiva di preparare la cena.

- Scommetto che non hai nemmeno pranzato oggi, vero? - La rimproverò

- Da cosa lo deduci che non ho pranzato? - Gli chiese mangiando con gusto il pezzo di formaggio che le aveva appena portato.

- Dal fatto che quando non ci sono io al distretto e tu sei presa dal lavoro non mangi mai. - Glielo disse come se dovesse evidenziare l’ovvio.

- Domani ti va di venire al distretto con me allora? - Gli chiese sorridendo.

- Hai bisogno che ti porti il pranzo? Devo cucinarti qualcosa? - La prese in giro.

- No, ho bisogno che il mio partner venga con me ad interrogare un sospettato. - Le disse vedendolo subito prestarle attenzione. Tolse la teglia con il pollo dal forno e con la scusa che doveva riposare, si andò a sedere nel divano vicino a lei.

- Cos’è questa novità? - Chiese tutto interessato.

- Il caso di oggi. Ha molte analogie con gli omicidi di Paulsen. Lanie ha trovato nella gola della vittima…

- Un foglio di carta con E.A.P. - Concluse lui.

- Esatto. Ed oggi sono andata a parlare con lui a Rikers, ma ha detto che parlerà solo con te. Così ho chiesto alla Gates e mi ha dato l’ok. Puoi venire con me. Sei contento?

- Wow! Tantissimo!

- Promettimi però che farai il bravo e non ti farai cacciare. La Gates non è Roy… - Gli disse con un più di una punta di rammarico.

- Te lo prometto, farò in modo che mi consideri indispensabile e ci ripensi sulla mia presenza al distretto. - Le disse dandole un bacio eccitato come un bambino.

- È proprio questo che  mi preoccupa Castle! Ora però possiamo mangiare che ho fame e non vedo l’ora di buttarmi sul letto e dormire?

- Dormire? - Chiese lui deluso.

- Sì Castle, dormire! - Gli diede un bacio e si alzò dal divano invitandolo a fare lo stesso. Il giorno dopo sarebbero tornati al distretto insieme e non poteva negare di essere emozionata per questo, ma a lui non glielo avrebbe mai detto.

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Capitolo 70
*** SETTANTA ***


Quando Rick era entrato al distretto ed aveva visto la sua sedia vicina alla scrivania di Beckett si era commosso. Sapeva che la sua permanenza lì si sarebbe limitata a quell’indagine e a pochi giorni, però il fatto che si fossero ricordati di lui con quel gesto gli fece molto piacere.

Kate era già lì, lui le aveva detto che l’avrebbe raggiunta e le sembrava strano che non avesse voluto fare con lei il suo nuovo ingresso trionfale al distretto, ma quando lo vide avanzare con le due tazze di caffè in mano era tutto chiaro.

- Buongiorno detective. - Le disse sorridendo appoggiandole la tazza sulla scrivania.

- Castle, non fare finta che non stavate insieme fino a pochi minuti fa! Oppure Beckett già non ne può più di sopportarti ed è tornata a casa sua? - Gli disse Esposito prendendolo in giro.

- Mi sopporta, ancora mi sopporta. - Si andò a sedere al suo posto appoggiando le mani sui braccioli e guardandosi intorno molto compiaciuto.

- Signor Castle? Può venire nel mio ufficio per favore? - Victoria Gates si era materializzata davanti a lui e lo aveva invitato a seguirla.

Beckett, Esposito e Ryan li osservavano parlare dai vetri dell’ufficio con le tende lasciate aperte e Castle sembrava fin troppo remissivo ed accondiscendente per come lo conoscevano loro.

- Allora? - Gli chiese Kate quando uscì.

- Niente, mi ha ribadito che posso rimanere solo per questo caso e stare al distretto il minimo indispensabile per sapere quello che mi serve. Ah e niente effusioni in qui, questo mi ha detto di dirlo anche a te, il che vuol dire che dovrai aspettare che siamo fuori per baciarmi.

Beckett lo guardò scettica.

- Ah, quindi sarei io quella che vorrebbe baciarti, tu invece no? - Gli chiese aggrottando la fronte.

- Io posso contenermi, tu invece lo so che non puoi resistermi più di tanto tempo, dovrai sforzarti se non vuoi che il tuo capitano mi cacci! - Le fece l’occhiolino.

- Nei tuoi sogni Castle. - Sistemò alcuni fogli senza nemmeno guardarlo.

- Ehy amico, però ci erano mancati mamma e papà eh? - Disse Esposito a Ryan dandogli una gomitata mentre entrambi ridevano di gusto al loro battibecco, non accorgendosi dell’occhiata che gli riservò Castle che subito dopo sotto la scrivania cercò la mano di Beckett stringendola nella sua.

- È tutto ok. - Gli sussurrò lei in tono rassicurante, accarezzando il dorso della sua mano.

- Allora, voi due, quando la smettere di ridere, aggiorniamo Castle sul nostro caso. - Disse poi Kate in tono perentorio ai due amici. Si alzò in piedi e girando intorno alla scrivania si mise seduta sul bordo davanti alla lavagna e Rick la seguì rimanendo in piedi vicino a lei.

Kate gli aveva già detto alcuni particolari del caso mentre erano al loft, ma vedere tutto sulla lavagna lo aiutava molto di più. Sentì la sua ricostruzione e poi Esposito gli passò il fascicolo dove c’erano tutte le altre foto che avevano scattato la mattina precedente. Rick le guardò con attenzione mettendole una vicina all’altra sulla scrivania di sua moglie.

- Edgar Allan Poe, Il mistero di Marie Roget. È questo il racconto al quale si sono ispirati. Una giovane donna ritrovata in un fiume. Anche gli oggetti che avete trovato, sono come quelli descritti nel racconto, almeno in parte. Ecco vedete? Il foulard ed il fazzoletto cifrato. M.R. Marie Roget che non è altro che la trasposizione francese del vero caso di Mary Rogers ritrovata morta ad Hoboken. Quindi io non penso che M.R. siano le iniziali della vittima, a meno che non ha scelto qualcuno con lo stesso nome, ma non mi sembra che la sua ricostruzione sia così fedele, mancano alcuni elementi ed anche nell’omicidio mancano alcuni fattori essenziali, ma solo per ricordare la figura di Marie o Mary.

Lo ascoltarono tutti, anche la Gates che era appoggiata alla parete nascosta ai loro sguardi e non lo avrebbe mai ammesso, ma era impressionata dal suo modo di parlare del caso, soprattutto considerando che non era un poliziotto ma solo uno scrittore.

- Gli altri omicidi di Paulsen erano stati tutti molto precisi, però. - Disse Ryan mentre scorreva i fascicoli dei precedenti casi ai quali avevano lavorato.

- Quello che sappiamo per certo è che lui non è stato, dato che era in carcere. Deve trattarsi di un emulatore che non è preciso e rigoroso come lui. - Continuò Beckett. - Castle, andiamo da Paulsen così sarà felice di fare quattro chiacchiere con te.

- Detective Beckett! - La Gates che aveva assistito a tutta la scena si fece avanti - Mi raccomando, si ricordi che il signor Castle è un civile. Non fate nulla di azzardato.

- Sì signore. - Rispose Beckett mentre Castle sorrise senza essere ricambiato alla donna che tornò subito nel suo ufficio, mentre lui allungò il passo per seguire sua moglie.

 

- Richard Castle! Un piacere rivederti.

Paulsen era appena stata condotto nella sala degli interrogatori del carcere, doveva ancora essere bloccato mani e piedi agli appositi ganci in modo da renderlo inoffensivo. Kate dal fondo della sala seguiva ogni sua mossa nervosamente. Provava un profondo senso di disagio nel vederlo così vicino a Rick che invece sembrava molto tranquillo.

- Vorrei poter dire la stessa cosa, ma non è così Paulsen. - Gli rispose Castle senza tradire alcuna emozione.

- Vedo che la detective ha acconsentito a farmi parlare con te, ieri non sembrava molto collaborativa, ma evidentemente avete proprio bisogno di me… Cosa vi posso chiedere in cambio? - Guardò in aria pensieroso.

- Sai bene che non ti daranno niente. - Gli ricordò Rick e Paulsen sorrise.

- Sì lo so… Allora Castle, di cosa dobbiamo parlare? Sai non trovo spesso persone con cui valga la pena farlo.

- Di questo. - Gli mise le foto dell’omicidio sulla scrivania e l’uomo le osservò attentamente.

- Il mistero di Marie Roget. - Disse il serial killer dopo averle guardate brevemente.

- Esattamente. Un tuo emulatore o un adepto. L’hai addestrato tu? - Gli chiese Castle andando subito al punto.

- Se fosse così sarei stato un pessimo maestro. Pessimo. Lo sai perché, vero Castle?

- Sì, la ricostruzione è approssimativa. Manca il laccio al collo che va fin dentro la pelle, quasi a scomparire. Ma quella sarebbe stata un’esecuzione da maestro, un allievo non è detto che ne sarebbe stato capace. - Provò a lusingarlo sperando di ottenere qualcosa.

- Finchè non si è perfetti non bisognerebbe nemmeno provare, si rischia solo di distruggere un capolavoro, come ha fatto chi ha compiuto questo assassino. Non trovi anche tu che sia volgare fare una pessima imitazione?

- C’è una cosa però che non capisco. Il foglio di carta in gola con le iniziali, a chi lo hai detto che lo mettevi? - Rick si era fatto ancora più diretto ed aveva visto lo stupore negli occhi dell’uomo.

- A nessuno. Non ne ho mai parlato con nessuno. - Vide Paulsen quasi inorridito da quell’eventualità.

- Abbiamo ritrovato lo stesso foglio nella gola di questa vittima, quindi a qualcuno devi averlo detto, perché questo dettaglio non è mai stato rivelato alla stampa. - Castle era serio e Paulsen ancora di più. Kate da lontano guardava suo marito interrogare quell’uomo con estrema tranquillità e si sentiva tremendamente orgogliosa di lui, le veniva da sorridere pensando che in fondo tutti gli interrogatori a cui lo aveva fatto assistere e partecipare qualcosa gli avevamo insegnato.

- Castle, non ne ho mai parlato con nessuno. Probabilmente non dovete cercare qualcuno che conosco io, ma qualcuno che conoscete voi. Qualcuno che ha letto i fascicoli dei miei casi. Se avessi istruito qualcuno per continuare i miei delitti e fosse diventato così bravo da metterli in pratica sarei stato il primo a vantarmene.

- Ma questo non è bravo, forse ti vergogni che non è capace e quindi taci per non ammettere il fallimento! - Lo provocò Rick

- Se sapessi chi ha commesso questo scempio rovinando un’opera d’arte sarei il primo a dire il suo nome in modo tale che possa smettere e non rovinarne altre! È questione di buongusto e di rispetto per l’arte Castle! Tu sei uno scrittore, sei come me, so che mi puoi capire, perché tu ami Poe almeno quanto me!

- Io però mi sono limitato ad usare il suo secondo nome, non ad uccidere le persone come nei suoi romanzi Paulsen, non siamo uguali! - Rick si alzò spostando rumorosamente la sua sedia.

- Castle ma… già te ne vai? - Chiese l’uomo che sperava in un incontro più lungo.

- Tu non hai nulla da dirmi, io ho trovato un’altra pista, grazie a te. Perché dovrei rimanere? Spero a mai più, Paulsen.

Lo lasciò lì solo ed incatenato mentre raggiungeva Kate e poi con lei usciva dalla stanza.

 

- Sei stato bravo sai? - Gli disse mentre tornavano verso l’auto nel parcheggio.

- Ti farai dare il video dal carcere? Il mio primo interrogatorio! È un evento da rivedere! - Le rispose tutto eccitato.

- Il video mi servirà per forza, come prova, però. E credo che questo sarà anche il tuo ultimo interrogatorio.

- Già… Sempre che non riesco a far cambiare idea alla Gates! - Kate vide nei suoi occhi quel lampo di euforia di quando si metteva in testa un obiettivo da raggiungere. Gli sorrise e in fondo sperava anche lei che ci riuscisse. Doveva ammettere che era stato bello riaverlo al distretto, uscire insieme per andare al carcere ed anche vederlo di nuovo in azione con le sue storie ed i suoi ragionamenti.

- Comunque se sei stato bravo è solo perché hai avuto un’ottima insegnante, non ti montare la testa! - Gli disse sorridendo mentre camminavano.

- La migliore, direi. - Le fece un occhiolino.

Arrivati all’auto Kate entrò e una volta al posto di guida fece un gran sospiro prima di mettere in moto.

- Che c’è, tutto bene?

- Sì, tutto bene, ma ieri sera ero così stanca ed avevo così tanti pensieri che non ho riposato bene.

- Vuoi che guido io? - Si propose lui.

- Non ci pensare nemmeno, Castle. Sono stanca non in fin di vita, non guiderai l’auto della polizia per così poco. - Lo vide rattristarsi, per un momento c’aveva sperato.

- Eri preoccupata perché sarei tornato al distretto oggi? Che potessi fare qualche guaio con la Gates? - Chiese divertito.

- Anche.

- E cos’altro? - Insistette.

- Nulla di cui preoccuparsi, cose di lavoro da sistemare. Ma è tutto ok. - Guidava fissando la strada davanti a se, tranquillamente, mentre tornavano al distretto. Rick non era molto convinto delle sue parole, ma le rispose con un semplice “ok” scivolando un po’ su quel sedile decisamente scomodo, rimanendo sempre dell’idea che avrebbero dovuto darle un’auto più comoda.

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Capitolo 71
*** SETTANTUNO ***


Kate aveva fatto un resoconto dettagliato alla Gates di quanto emerso dalla chiacchierata con Paulsen, si guardò bene di chiamare interrogatorio davanti a lei quello fatto da Castle anche se di fatto lo era perché sapeva che ne avrebbe scatenato l’ira. Il capitano si mostrò concorde con le loro stesse conclusioni e le disse di farsi mandare dall’archivio tutti i registri di chi aveva consultato quei fascicoli. Beckett annuì ed uscì dall’ufficio del capitano, senza dirle che lo aveva già fatto prima di andare da lei e Ryan le stava proprio portando quell’elenco in quell’istante. Castle si alzò dalla sua sedia provò a prendere i fogli per primo, ma Kate lo anticipò riservandogli una delle sue occhiatacce che lo fecero sedere di nuovo fingendo disinteresse.

- Ci siamo anche noi sull’elenco! - Esclamò Rick sporgendosi oltre la spalla di Kate per leggere.

- Sì, abbiamo consultato più volte i primi fascicoli per i casi successivi, non è una sorpresa. - Rispose Kate immediatamente mentre continuava a leggere.

- James Melton… Compare più volte. Anche dopo la chiusura dell’ultimo caso… -  Notò ancora Rick.

- Era l’avvocato di Paulsen prima che lo ricusasse. - Gli spiegò ancora. - Lui però non ho idea di chi sia… - Beckett indicò un nome nell’elenco che compariva varie volte, le ultime non più di qualche mese prima.

- Andrew Martin. Non dice niente nemmeno a voi ragazzi? - Chiese Castle a Esposito e Ryan: Beckett era stata lontana dal distretto diversi mesi, era probabile che non fosse a conoscenza di tutto.

- No, mai sentito. Se è un poliziotto sicuramente non è uno del distretto. - Rispose sicuro Javier.

- No, non c’è segnata la matricola, non credo sia un poliziotto… Ryan, mi serve la lista di tutti gli avvocati delle vittime. Esposito, tu intanto cerca nel database gli Andrew Martin che ci sono a New York, vediamo se qualche profilo può corrispondere alla persona che cerchiamo

L’irlandese e l’ispanico annuirono e si misero subito a fare le loro ricerche.

- Io cosa faccio? - Chiese Rick mentre Kate si prendeva qualche istante di pausa passandosi le mani sul viso.

- Non c’è nulla che puoi fare adesso, se vuoi puoi anche tornare a casa. - Gli disse poggiandogli una mano sulla gamba.

- Uhm… ti vuoi già liberare di me? - Le domandò sorridendo.

- No. Ma veramente, è inutile adesso che stai qui, non c’è niente che tu possa fare.

- Ok… - Si alzò e si avvicinò a lei con l’intento di darle un bacio per salutarla, ma si tirò subito indietro ricordandosi delle parole della Gates. La salutò con un sorriso malinconico che lei ricambiò con lo stesso sentimento mentre lo vedeva allontanarsi e fermarsi davanti all’ascensore, voltandosi più volte mentre lo aspettava.

La sorpresa per Beckett fu vederlo arrivare poco dopo con una grande scatola di cartone in mano.

- Vi ho portato un po’ di ciambelle - Disse mostrando il contenuto e poi da una busta estrasse anche tre tazze di caffè che lasciò a Kate e ai ragazzi.

- Non puoi proprio stare senza fare niente, vero? - Gli disse prendendogli la mano appena aveva posato la tazza sulla sua scrivania.

- So già che questa sera farai tardi e non voglio che arrivi a casa stanca e affamata come ieri.

- Grazie Castle. - Gli disse prima che andasse via di nuovo.

- Lo sai che mi piace prendermi cura di te.

 

Kate quella sera tornò a casa molto tardi. Trovò Rick che l’aspettava ingannando il tempo giocando con la sua xbox, ma spense immediatamente quando la sentì aprire la porta. La salutò con un bacio veloce.

- Se ti vuoi andare a cambiare nel frattempo ti riscaldo la cena.

- No, grazie ma non ho fame. Credo che quelle ciambelle si siano piazzate sul mio stomaco senza intenzione di andarsene più. Mi farò una doccia e poi andrò direttamente a dormire. - Gli accarezzò il volto dispiaciuto e poi andò nella loro stanza. Rick guardò la tavola che aveva lasciato apparecchiata per lei, mise l’arrosto con le verdure in frigo e poi la raggiunse.

Quando Beckett uscì dalla doccia lo trovò già sul letto con il computer portatile sulle ginocchia intento a scrivere. Finì di scrivere il periodo che aveva in mente e poi chiuse il computer appoggiandolo a terra vicino al letto.

- Tornare al distretto ti ha fatto tornare l’ispirazione? - Gli chiese sdraiandosi vicino a lui.

- Uhm… forse sì, qualche idea su un nuovo personaggio, un capitano insopportabile. - Sorrise e fece sorridere anche lei. - Tu? Novità sul caso?

- Ho parlato con alcuni degli avvocati delle vittime, ma nulla di interessante. Siamo al punto di partenza, in pratica. - Sospirò.

- Ne verremo a capo. Come sempre. - Gli disse cercando di tirarla su di morale. Kate si avvicinò a Castle per dargli un bacio ed augurargli la buonanotte, poi si mise di fianco voltandosi dall’altra parte rispetto a dove era lui e spense la luce sul suo comodino. Rick rimase a guardarla aspettando che si addormentasse. Uno strano senso di inquietudine lo invase e cominciò a dubitare che forse fare pressioni per far tornare Kate al distretto fosse stata la cosa giusta, o forse era solo il suo istinto egoista a farlo parlare così. Sapeva che quello era il suo mondo che era parte di lei, che lei era la migliore che potesse fare quel lavoro che per sua moglie era molto di più, ma odiava quando era così, stanca, pensierosa, distante. Sapeva che in realtà non stava dormendo, lo sentiva dal suo respiro troppo veloce perché dormisse. Spense anche lui la luce e si sdraiò vicino a lei, abbracciandola e quando Kate prese la sua mano che le cingeva la vita, ebbe la conferma che era ancora sveglia. Non le disse nulla, però. Si limitò a baciarla dietro il collo ed a rimanere così vicino a lei fino a quando non si addormentò.

 

Quando si svegliò, la mattina dopo, era solo nel letto: Kate non c’era e tastando le lenzuola le sentì fresche, segno che si era alzata già da un po’.

Uscì dalla camera ed andò ancora assonnato in cucina. Si sorprese di vedere lì sua madre intenta a sorseggiare una tazza di caffè.

- Ne vuoi una anche tu Richard?

Annuì come unica risposta e aspettò seduto sullo sgabello che sua madre tornasse con la sua dose di caffeina mattutina.

- Katherine è uscita già da un po’, sembrava andare molto di fretta. C’è qualche caso complicato a cui sta lavorando?

- Sì, un vecchio caso a cui avevamo lavorato insieme tempo fa… Qualcuno sta uccidendo con le stesse modalità di quel serial killer, più o meno. Solo che non abbiamo nulla su cui indagare, al momento.

- “Abbiamo”, Richard? - Chiese Martha perplessa.

- Mi hanno chiesto di collaborare a questo caso.

Sua madre lo guardò scettica. Conosceva bene Rick, quanto poteva essere insistente e quanto si divertisse a collaborare con la polizia e poi adesso aveva una motivazione in più, stare vicino a sua moglie.

- Te lo giuro mamma è così! Non l’ho chiesto io, me lo hanno proposto loro! - Si giustificò senza che però l’attrice gli credesse.

- Oh sì sì come vuoi… Cosa fai adesso, vai al distretto anche tu?

- Sì… io… sì, perché? - Chiese non capendo come mai tanto interesse.

- Niente, Rick. Solo che… L’ultima volta che sei stato coinvolto in qualcosa che riguardava la polizia tu… hai rischiato di morire per salvare Kate.

- E lo rifarei mamma. Lo rifarei sempre. - La interruppe bruscamente.

- Lo so, ragazzo mio. Però per favore, cerca di stare attento e di pensare bene a qualunque cosa fai. Hai una figlia che anche se non te lo dice, si preoccupa per te ed anche io. Pensaci Richard.

- Credi che non pensi abbastanza ad Alexis, mamma? Che le sto facendo mancare qualcosa? Che non sono abbastanza presente con lei? Che la metto in secondo piano?

- No, Richard, tutto questo lo stai dicendo tu. Io ti ho solo detto di stare attento quando sei con Katherine e prima di prendere ogni decisione di ricordarti che hai una figlia che si preoccupa per te. Il resto lo hai detto tu, non so perché, chieditelo. - Martha mise la sua tazza nel lavello della cucina, poi senza dire altro al figlio che invece ancora teneva la sua stretta tra le mani, prese la borsa ed il soprabito ed uscì, lasciandolo lì solo con i suoi pensieri e le sue domande.

 

Kate si era svegliata presto con la stessa sensazione di malessere con il quale era andata a dormire ed uno strano nervosismo che l’accompagnava da qualche giorno. Sentiva addosso la pressione della Gates per quel caso, come se avesse puntati addosso i fari di tutto il distretto. Lei, quella che non aveva mai chiesto nulla a nessuno, che nella sua carriera si era sempre sudata tutto fino alla fine, che non aveva mai accettato compromessi e scorciatoie, non riusciva ad essere in pace con se stessa per quel lavoro riottenuto in quel modo e sentiva il peso di dover dimostrare che nonostante tutto era lì perché era brava e lo meritava. Quel caso, però, la faceva brancolare nel buio e questo aumentava il suo nervosismo. Si sentiva sfibrata e nervosa, faceva fatica concentrarsi su quello che doveva fare, perché nella sua mente si accavallavano fin troppi pensieri. Doveva trovare una soluzione, il bandolo della matassa di quel caso. Lo doveva a se stessa ed anche a Castle che dormiva sereno. Adorava il suo sonno pesante, perché così poteva permettersi di baciarlo senza che si svegliasse, amava quei momenti in cui poteva osservarlo dormire, quando lui era inerme e lei poteva dedicargli tutti i suoi pensieri e permettersi più volte anche di lasciarsi andare alla commozione senza che fosse vista da nessuno, nemmeno da lui.

Decise di prepararsi ed andare subito al distretto, per tenere occupata la mente leggendo le carte, almeno sperava che avrebbe trovato qualcosa di utile.

Si fermò a prendere il suo solito caffè, più per abitudine che per vera voglia, in quella caffetteria aperta 24ore e in quel momento al massimo trovò qualche collega che aveva appena staccato dal turno di notte e proprio mentre prendeva la sua tazza e la busta dove aveva fatto mettere un paio di muffin, le si avvicinò l’agente Davis.

- Buongiorno Detective Beckett, bentornata al dodicesimo. Sono molto felice che sia tornata, lei è un esempio per molte di noi.

Non ebbe nemmeno il tempo per ringraziarla, perché la ragazza fu chiamata dal suo partner per andare. Conosceva l’agente Veronica Davis ma non aveva mai avuto modo di scambiare qualche parola con lei, era una giovane agente che era da un paio d’anni al distretto, era giovane ma non si tirava mai indietro, era uno dei migliori elementi arrivati negli ultimi tempi. Le parole di quella giovane ragazza quella mattina le fecero terribilmente bene e riuscirono anche a commuoverla. Si diede solo il tempo di respirare un po’ più a fondo e mettere le emozioni al loro posto, poi con il caffè ed i muffin in mano, varcò la porta del distretto, più motivata che mai di trovare chi c’era dietro quell’assurda e terribile messinscena.

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Capitolo 72
*** SETTANTADUE ***


Castle si presentò qualche ora dopo con un altro caffè e altri dolci. Rimase un po’ deluso nel vedere la busta con i muffin di Beckett e la tazza ancora non del tutto vuota sulla scrivania. Lei, però, con un gesto disinvolto, buttò il caffè ormai freddo nel cestino sotto la scrivania e spostò la busta facendo spazio alle cose che aveva appena portato.

- Grazie. - Gli sussurrò mentre si sedeva vicino a lei, rinchiuso in uno strano silenzio, a quale rispose solo con un sorriso tirato.

- Novità? - Le chiese lui mentre osservava i fogli che stava leggendo.

- Sì, la scientifica ha appena identificato la vittima. Katilyn Ross, 19 anni. Ne ha denunciato la scomparsa la madre una settimana fa.

- L’avete già avvisata?

- No, sto andando a farlo di persona. Mi accompagni? - Glielo chiese con un tono che era più che una richiesta.

- Non pensi che la Gates si arrabbierà? - Chiese perplesso.

- Forse, ma vorrei veramente che tu venissi con me.

Non avrebbe potuto né voluto dirle di no. Uscirono dopo poco, Kate bevve solo un sorso di caffè velocemente, non perché le andasse veramente, più perché amava sentire il sapore del caffè che le portava lui: potevano andarlo a prendere nello stesso posto, ordinare lo stesso caffè, eppure lei era sicura che il suo avesse un sapore diverso, fosse più buono, e come sempre dopo gli sorrise. Glielo aveva anche detto una volta e lui l’aveva presa in giro dicendo che era perché quando lei non si accorgeva lui aggiungeva un ingrediente segreto che non le avrebbe mai potuto rivelare, qualcosa che aveva solo lui. E lei ci credette, con la stessa cieca fiducia dei bambini quando gli dici che con un bacio passa tutto il dolore quando si fanno male.

 

Il palazzo dove viveva la madre di Katilyn era uno di quelli che si poteva definire popolari, dove i poliziotti non sono ben visti e nemmeno la gente con troppi soldi. Praticamente Castle e Beckett lì erano la coppia perfetta per attirarsi l’odio di chiunque li guardasse.

Salirono a piedi i tre piani per arrivare all’appartamento numero 27 e Kate bussò energicamente dopo aver constatato che il campanello non funzionava, come molte altre cose in quel palazzo con i corridoi con l’intonaco che cadeva solo a guardarlo. Andò ad aprire loro una donna con un bambino piccolo in braccio che proprio non ne voleva sapere di stare fermo.

- Posso esservi utile? - Chiese lei guardando la coppia.

- Detective Kate Beckett, polizia di New York - Le disse Kate mostrando il distintivo - E lui è Richard Castle…

- Oh sì, lo scrittore, so chi è. - Disse la donna arrossendo guardando Castle che le sorrise.

- Bene. Stiamo cercando la madre di Katilyn Ross, abita qui? - Chiese Beckett alla donna.

- Ehm… sono io, Diana. Prego accomodatevi.

Entrarono quasi in punta di piedi in quella casa semplice ma curata, che era così in contrasto con l’esterno del palazzo. La donna li fece accomodare sul divano, mentre lei si mise seduta su una delle poltrone davanti a loro, con il bambino in braccio che ora sembrava più calmo.

- Avete trovato Katie? - Chiese la donna ai due. Rick guardò prima Kate, poi di nuovo Diana.

- Sì, signora. - Beckett fece una pausa ed un respiro profondo. Si trovava in grossa difficoltà in quel momento. Aveva fatto quella stessa cosa quante volte nella sua vita? Eppure davanti a quella donna che le sembrava troppo giovane per essere la madre di Katilyn, si sentiva schiacciata dal peso delle parole che doveva pronunciare. - Mi dispiace ma…

Diana strinse con un braccio il bambino a se ed alzò l’altra mano facendo segno a Beckett di fermarsi. Non aveva bisogno di sentire altro, non voleva sentirselo dire. Kate rispettò la sua decisione e non disse niente, accompagnò il silenzio con un profondo sospiro e la mano di Rick che cercò la sua ed appena la sentì, la strinse forte. Per quello lo aveva voluto lì, lo aveva capito. Kate aspettò che fosse la donna a parlarle.

- Cosa è successo? - Chiese Diana con la voce spezzata, tenendosi stretta quel bambino così piccolo al quale si stava aggrappando.

- L’abbiamo ritrovata qualche giorno fa sull’argine del fiume. È stata strangolata e poi gettata in acqua. Non siamo riusciti ad identificarla subito. - Kate ebbe più di qualche difficoltà a raccontarle i fatti e decise di omettere alcuni particolari che in quel momento non riteneva necessari. - Sua figlia frequentava qualcuno… aveva litigato con qualche persona?

- Katie stava attraversando quel periodo dell’adolescenza un po’ così… complicato, capisce quello che voglio dire? E se le dicevo qualcosa lei non la prendeva benissimo, mi rinfacciava sempre che alla sua età avevo fatto di peggio, visto che lei è nata quando avevo diciotto anni. Però no, non frequentava brutti giri, se pensate questo. So che da qualche mese di vedeva con un ragazzo, Patrick, mi pare aver sentito si chiamava, ma non me ne ha mai parlato, non saprei dirvi di più.

- Grazie signora. Le dispiace se diamo un’occhiata alla stanza di sua figlia? - Chiese Kate quasi timidamente.

- Certo, seguitemi. - Andarono dietro la donna che si fermò davanti alla porta senza entrare. Beckett lo fece, invece, quasi in punta di piedi. Osservò le foto alle pareti con le amiche, i poster dei sui cantanti preferiti, biglietti di concerti e cinema attaccati al muro come fossero reliquie. Sembrava la camera normale di una ragazza della sua età. Uscirono senza toccare nulla, avrebbero dovuto forse farlo, scavare in quella stanza e nella vita di Katie, ma Beckett non se la sentì.

- Detective, mia figlia era una brava ragazza. Ed era molto responsabile, nonostante tutto, molto più di me che alla mia età per una leggerezza mi sono ritrovata di nuovo come a diciassette anni, con un figlio non programmato da crescere sola con mille difficoltà. Per favore, scopra cosa le è accaduto, non le chiedo altro.

- Faremo il possibile. Un’ultima cosa poi la lasciamo in pace… ha notato se manca qualcosa? Se Katilyn si fosse portata via qualcosa di particolare l’ultimo giorno che l’ha vista?

- Il suo zaino di scuola. Lo portava sempre con se. Ci teneva tutte le sue cose più care, il lettore mp3 per la musica, il suo diario dove scriveva tutto, un album di foto, il primo ciuccio del suo fratellino… Katie amava Prince…

Beckett trattenne il respiro guardando il bambino ora tranquillo tra le braccia della madre, mentre Castle immobile dietro di lei, le appoggiò una mano dietro la schiena, come se volesse sostenerla.

- Prince… - ripetè con un filo di voce Kate.

- Già, un nome strano, vero? Ma era il cantante preferito di Katie e quando ha scoperto che era un maschio mi ha proposto questo nome quasi per scherzo ed io invece ho pensato subito che fosse quello giusto. Era molto legata a lui…

- È un nome bellissimo, come lui. - Disse Kate guardandolo mentre il piccolo le sorrideva ignaro come sua madre del suo tumulto interiore in quel momento.

- È la prima persona che me lo dice, di solito tutti dicono solo che è strano… - Diana fece un sorriso tirato a Kate.

- No, io… io lo penso veramente è un nome bellissimo, come il suo bambino. - Kate guardò quel piccolo con i suoi grandi occhi azzurri, come quelli di sua madre e provò a sorridergli anche lei. Non potè evitare che la sua mente andasse in una direzione precisa ed allungò la mano, lasciando che Prince stringesse il suo dito ridendo. Gli fece una carezza e poi provò a rientrare nei suoi panni.

- Diana, per qualsiasi cosa, non esiti a chiamarmi.

Kate diede il suo biglietto da visita alla donna.

- Grazie detective.

- Possiamo chiamare qualcuno per lei, qualche familiare? - Chiese ancora Beckett.

- No, siamo soli io e Prince adesso. Grazie comunque.

- Se ha bisogno di qualsiasi cosa, non si faccia problemi. - Anche Rick le diede il suo. - Per qualsiasi cosa, dico sul serio.

Diana annuì e chiuse la porta lasciando i due sul corridoio. Kate si appoggiò per un attimo al petto di Rick che l’abbracciò senza dirle nulla.

- Grazie per avermi accompagnata.

- Grazie per avermi voluto con te.

I due non si erano ancora allontanati e dai sottili muri di quel palazzo poterono sentire il pianto di Diana rimasta sola.

- Prince l’aiuterà. Il suo bambino l’aiuterà… - Rick sembrava voler tranquillizzare Kate o forse convincere se stesso che sarebbe stato così.

 

- Come stai? - Le chiese Castle mentre guidava silenziosa.

- Non è stato facile. Niente. - Rispose lei cercando di ricacciare indietro quelle lacrime che sentiva pizzicarle gli occhi. - È una cosa che ho fatto, purtroppo, centinaia di volte, credo ma oggi… È stato diverso… Mi sono sentita un mostro a farle domande in quel momento.

- Non poteva sperare in nessun altro che andasse da lei oggi. Nessuno avrebbe rispettato di più il suo dolore, Kate.

- Alcune volte ho paura di non riuscire più a fare il mio lavoro, di non saper contenere e gestire le emozioni. Se dovessi rifare come l’altra volta? Se non riuscissi a trattenermi? - Fermi al semaforo Beckett si voltò verso Castle guardandolo con un’espressione intrisa di dolore e preoccupazione. Lui provò a risponderle ma non riuscì a farlo mentre lei lo guardava con quegli occhi, gli faceva male, fisicamente, vedere la sua paura di non essere più lei.

Il suo del clacson della macchina dietro attirò l’attenzione di Kate che si accorse che il semaforo era verde e ripartì senza avere una risposa.

- Non sei più quella di prima Kate. Gli eventi ci cambiano, cambiano la nostra sensibilità, la percezione del mondo e delle cose. Ma questo non vuol dire che sarai un detective peggiore, anzi per me sarà l’esatto contrario. Tu sarai ancora migliore, perché la tua sensibilità adesso è ancora più forte, perché avrai ancora più riguardo per le vittime ed i loro parenti. E se perderai le staffe… beh… ti era capitato anche prima qualche volta, no? Fa parte di te essere sopra le righe, a volte. Ma lo fai sempre per un giusto motivo. Non è la tua natura primaria, non sarà sempre come l’ultima volta, tu sei capace di trattenerti quello era un caso particolare in una situazione particolare. Lo sai anche tu.

Lei lo ascoltò in silenzio, lasciandosi accarezzare dalle sue parole. Era quello di cui aveva bisogno, lui non le avrebbe mai detto nulla di diverso, ma sapeva che di lui si poteva fidare, perché sapeva anche che non le avrebbe mai detto qualcosa in cui non credeva.

- Sei il miglior detective della città, questo non lo puoi mettere in dubbio. - Le disse suo marito appena ebbe spento l’auto nel parcheggio del distretto.

- Ero, Castle. Ero.

- Lo sei ancora. O pensi che in pochi mesi qualcuno abbia fatto meglio di te? Tu sei brava Kate, non solo perché risolvi i casi, quello possono farlo in tanti. Sei brava perché sei umana, perché vuoi la verità, perché sai cosa si prova a stare dall’altra parte e cerchi di essere sempre migliore per non far vivere a nessuno quello che hai vissuto tu. E anche quando non riesci, nessuno potrà mai dirti che non hai fatto tutto, fino in fondo. Ecco perché sei la migliore e non lascerò che tu abbia dei dubbi su questo. Non importa come sei tornata al distretto, importa quello che hai fatto e che farai per le persone che sono implicate nei tuoi casi. Pensa se non fossi stata al distretto, se oggi qualcun altro fosse andato da Diana ed avesse dovuto dirle di sua figlia. Pensi che lo avrebbe fatto nello stesso modo?

Ancora una volta Kate non rispose. Rimase nella macchina spenta con le mani sul volante cercando di assimilare le sue parole.

- Gli occhi di Prince mi hanno fatto male. Erano come avevo sempre immaginato che fossero i suoi, come i tuoi.

- Ti giuro che Diana non l’avevo mai vista prima, non pensare male! - Lo disse in tono serio e quando sentì Kate ridere la guardò perplesso.

- Sul serio Castle, hai pensato di dirmi questo? Che non eri tu il padre?

Rick alzò le spalle non sapendo cosa dire.

- Mi piacerebbe poter aiutare Diana in qualche modo, è sola con il bambino… - Gli disse ancora.

- C’entra il fatto che di chiami Prince? - Chiese Castle.

- Ti mentirei se ti dicessi di no. Ma… ora già non fa più male. Sai cosa ho pensato, invece? Che infondo era un bel nome. Quando me lo hai detto ero inorridita, però… ora mi piace.

Rick le sorrise accarezzandole il volto.

- Aiuteremo Diana, troveremo un modo.

- Sapevo che avresti detto così ed è uno dei motivi perché ti amo. Perché sei la persona più buona e generosa che abbia mai conosciuto, Richard Castle. - Lo baciò e poi uscirono dall’auto incamminandosi verso l’ascensore. Avevano ancora un lungo lavoro da fare, per Katilyn e per sua madre.

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Capitolo 73
*** SETTANTATRE ***


Castle era tornato al loft dopo aver passato diverse ore al distretto nelle quali si erano succedute varie persone che Beckett aveva ascoltato, spuntando nome dopo nome da quella lista di persone che avevano richiesto di vedere i fascicoli dei casi di Paulsen, ma nessuno sembrava aver nulla a che fare con l’omicidio di Katilyn Ross. Kate aveva chiesto anche alla scuola della ragazza di mandarle l’elenco dei compagni che condividevano con lei i corsi dell’ultimo anno, nella speranza di trovare tra questi qualche amico più stretto di Katilyn o che almeno qualcuno le sapesse dire qualcosa in più, magari anche su quel Patrick di cui aveva parlato la madre.

Beckett era rimasta un po’ sorpresa quando Castle le disse che sarebbe tornato a casa, non era da lui, di solito, andarsene prima di lei, che invece doveva sempre forzarlo per non aspettarla, ma quello che non sapeva era quanto si erano detti quella mattina con Martha e che Rick aveva intenzione di parlare con Alexis, da solo.

Così aspettò al loft il suo ritorno ed Alexis fu sorpresa di vederlo lì, in quell’atteggiamento di palese attesa.

- Ciao papà, aspetti qualcuno? - Gli chiese Alexis, salutandolo con un bacio sulla guancia.

- Sì, aspettavo te.

- Me? Perchè? - Si tolse la borsa dalla spalla appoggiandola a terra vicino al divano dove si sedette al fianco di suo padre.

- Ho parlato con tua nonna stamattina… - Era decisamente serio e guardava sua figlia con attenzione.

- E? - Chiese Alexis guardandolo senza riuscire a capire cosa volesse dirle.

- Riguardo alla mia collaborazione con il distretto… Per te è ok? Cioè, è solo per un caso per adesso ma… Se dovesse essere di più?

- L’importante papà è che stai attento e che non fai nulla di avventato. Io voglio solo che tu sia felice. Se collaborare con la polizia ti rende felice, per me è ok. Ti ho visto dopo che Kate ti aveva lasciato e dopo la storia del bambino e non voglio vederti più così, perché non eri più tu.

- Non voglio che ti preoccupi per me ma… Tu e Kate siete le persone più importanti della mia vita, Alexis. E non posso prometterti che se capiterà qualcosa ad una di voi due io non farò qualcosa di avventato, perché non sarebbe vero. Farei tutto per voi, anche le cose più stupide. Ma… Alexis, non voglio che tu possa pensare che Kate sia responsabile in qualche modo di quello che potrebbe accadere o che… o che è accaduto. Lei non mi ha mai chiesto nulla, lo sai, vero?

- Lo so papà. Tu sei felice con Beckett e a me basta questo, però non puoi chiedermi di non preoccuparmi per te, perché è normale che io lo faccia, come tu lo fai per me. Anche tu sei la persona più importante della mia vita.

- Al… mi dispiace per la storia del matrimonio. So che ci tenevi, però… In quel momento con Kate… Era giusto che fosse così. Spero che potrai capirlo, prima o poi. - Sapeva quanto sua figlia era rimasta male per quell’evento fatto così all’improvviso, senza nessuno della famiglia presente.

- Non posso negarti che mi sia dispiaciuto, però dopo aver visto le vostre foto… Eravate felici, forse non ti ho mai visto così felice come in quelle foto con Kate. Hai ragione tu, era giusto che fosse così, che fosse il vostro momento.

Rick abbracciò commosso sua figlia.

- Grazie Al, per essere così come sei.

 

 

- A cosa stai pensando Kate? Quel salmone è già morto, non è necessario che lo uccidi ancora - Rick l’aveva aspettata per cenare insieme, cosa che da quando era tornata al distretto sembrava sempre più difficile. Beckett però sembrava persa nei suoi pensieri mentre con la forchetta stava martoriando il suo trancio di salmone, più che mangiarlo.

- Al fatto che è passato un altro giorno e continuo a non avere una pista concreta da seguire. Tutto si sta rivelando un buco nell’acqua. La lista delle persone che hanno visionato quei fascicoli non ha portato a nulla, le amiche di Katilyn non hanno portato a nulla! - Esclamò frustata allontanando il piatto senza aver mangiato praticamente nulla.

- Vuoi qualcos’altro? Non puoi stare senza mangiare nulla…

- No, Rick, grazie ma… mi si è chiuso lo stomaco… Mi dispiace. - Si alzò ed andò a sedersi sul divano, lui la raggiunse subito, lasciando a metà la sua cena.

- Non devi smettere di mangiare per me. - Gli disse lei poggiando una mano sulla sua gamba.

- Smetterei di respirare per te, se fosse necessario. - Kate sentì un brivido percorrerle la schiena perché sapeva che quello che lui aveva detto non era una frase fatta.

- Non dire certe cose nemmeno per scherzo, Castle! - Lo ammonì prendendolo per il mento ed anche lei era terribilmente seria e solo l’idea la terrorizzava.

- Beckett, rilassati… - La abbracciò forzandola ad appoggiarsi a lui. Era decisamente tesa, lo sentiva nelle sue spalle rigide, nel suo corpo che non si abbandonava a lui, ma rimaneva permanente in uno stato di attesa vigile.

- Stavo pensando ad una cosa… - Rick provò a condividere con lei una sua teoria alla quale stava pensando da un po’ - Se Paulsen ha detto la verità e lui con questo delitto non c’entra niente e non ha imitatori istruiti da lui, vuol dire che qualcun altro ha letto quei fascicoli. Qualcuno che potrebbe aver rivelato il loro contenuto ad altri…

- Sarebbe praticamente impossibile così capire chi è stato ed a chi ha rivelato il contenuto… - Continuò Kate ancora più demoralizzata.

- Sì, è vero. Però c’è un’altra possibilità. Che possa averli consultati qualcuno che può leggerli senza registrarsi. - Concluse Rick.

- A chi stai pensando Castle? - Chiese Kate spostandosi da lui e guardandolo attenta.

- Se un agente lavora in archivio e volesse consultare dei fascicoli, potrebbe farlo? Avrebbe modo di farlo senza necessariamente doversi registrare?

- Sì… io immagino di sì. Avrebbe la possibilità di farlo. - Rispose pensierosa.

- Ed un addetto alle pulizie? Ci sarà qualcuno che va a fare le pulizie anche in archivio. Potrebbe prendere un fascicolo e leggerlo?

- Ci sono le telecamere e teoricamente no, ma immagino che se studia bene la posizione, potrebbe trovare delle zone buie. Io penso di sì, anche loro. - Kate rimase qualche istante in silenzio, poi si alzò dal divano. - Devo andare al distretto, controllare chi può avere accesso all’archivio.

- No, Kate. - La fermò prendendole la mano e guardandola severo.

- Come, Castle? - Era stupita dalla sua reazione, le stava dicendo di non andare al distretto?

- Puoi andare domattina al distretto, non è necessario che tu vada adesso. È notte, è tardi, chi pensi che potrà aiutarti? Cosa potrai fare adesso lì? - A Rick sembrava di essere ragionevole, erano obiezioni legittime, ma Kate non la pensava allo stesso modo. Lo guardò con gli occhi che erano una fessura e lui lasciò la presa sul suo polso come una serratura che scattava all’improvviso.

- Non credo che sia tu a dovermi dire se è il caso che vada oppure no, né che possa sapere quello che posso fare o meno.

Non le rispose. Rimase a guardarla scuotendo la testa, poi si alzò ed andò in camera da letto, lasciandola sola in piedi, in mezzo alla stanza. Sentì poco dopo il rumore della porta chiudersi.

Per tutta la notte aspettò inutilmente che tornasse, senza riuscire a dormire.

 

Castle si presentò la mattina dopo al distretto, mise la rabbia da parte e cercò di fare tutto come sempre, caffè incluso che lasciò sulla scrivania vuota di Beckett, perché quando lui arrivò lei non c’era.

- È dalla Gates, già da un po’ - Gli disse Ryan indicandogli la sagoma di sua moglie che si intravedeva dalle tende non del tutto oscurate.

- Problemi? - Chiese lui

- Voleva sapere a che punto siamo, e non è un bel punto, visto che abbiamo poche piste e le uniche nuove ipotesi sono che possa essere stato qualcuno del distretto. - Sospirò Javier decisamente infastidito.

- Sì, è quello di cui abbiamo parlato ieri sera prima che venisse qui. - Ricordò sconsolato Castle.

- Ci ha detto che ha passato tutta la notte a fare ricerche. La cosa più interessante che ha scoperto è che c’è un inserviente della ditta delle pulizie che si chiama Patrick ed ha lavorato qui per sei mesi, fino al mese scorso.

- Patrick come il ragazzo di Katilyn! - Esclamò Rick.

- Già, magari è solo un caso di omonimia, però… È l’unica altra cosa che abbiamo al momento, sono andati a prenderlo portando qui, Beckett lo vuole interrogare. - Spiegò Ryan.

Andò così. Quando Kate uscì si diresse direttamente in sala interrogatori. Lo guardò passando senza dirgli nulla e Castle seguì Esposito e Ryan nella sala adiacente per seguire l’interrogatorio di Patrick. Confermò di conoscere Katilyn, non era proprio il suo ragazzo a lui non piacevano quelle definizioni antiche. Si frequentavano da un po’, in modo particolare, ma non c’era nulla di definito tra loro.

Kate rimase molto colpita dalla freddezza del ragazzo che non pareva per nulla turbato dalla morte della sua amica che frequentava in modo particolare, come diceva lui. Tuttavia non aveva nessun elemento per fermalo, anche se aveva molti sospetti su di lui. Lo congedò, potendogli dire solo di rimanere a disposizione per eventuali altri chiarimenti.

Una volta andato via, chiese a Ryan di scavare a fondo nella vita di Patrick e avvisò che lei sarebbe andata in archivio per controllare alcune cose.

 

- Detective Beckett, come mai da queste parti? - L’agente Albert Harris era un uomo di mezza età, sempre gentile e cordiale. Da che Kate si ricordava era sempre stato lì, in archivio. I primi anni che era lì più di qualche volta aveva chiuso un occhio quando chiedeva di poter controllare il fascicolo della morte di sua madre, sapeva perché lo faceva e non le chiedeva troppe spiegazioni.

- Devo verificare delle cose Albert… Tu conosci l’esatta posizione delle telecamere qui dentro e cosa riprendono, vero? - Chiese Kate guardando verso il soffitto cercando dove fossero posizionate.

- Sì, certo… Perché Detective? - Chiese l’uomo sorpreso.

- Devo verificare una cosa. Puoi mettere sullo schermo le riprese di tutte contemporaneamente? - L’uomo andò al computer e nervosamente aprì una schermata di controllo nella quale mostrava quattro diverse finestre con degli angoli dell’archivio. Kate spostò lo sguardo più volte tra il monitor e la stanza, spostandosi per cercare di capire quale fosse la zona migliore non coperta. Alla fine lasciò la postazione dell’agente Harris e si diresse verso una fascia in fondo sulla destra, sicura che quella non fosse coperta da nessun sistema di sorveglianza. Non si stupì dal notare che non era nemmeno molto lontana da dove ricordava fossero i fascicoli del caso Paulsen, chiunque conoscesse bene quel posto, avrebbe potuto spostarsi con facilità. Si accovacciò per studiare meglio la prospettiva di quel posto e proprio in quel momento sentì qualcosa premere contro la sua schiena.

- Mi dispiace Detective Beckett, ma ora faccia quello che le dico e non provi a fare nulla di azzardato. - La voce tremante di Harris la colse alla sprovvista - Si alzi lentamente e si metta con le mani appoggiate al muro.

Beckett fece quello che l’agente gli stava dicendo. Sentiva la pistola premerle contro la schiena e da come oscillava capì che la presa dell’agente non era salda, così come la sua voce, la sua mano tremava.

- Bene… Rimanga ferma, non faccia scherzi - Le disse ancora l’uomo mentre frugava dentro la sua giacca cercando la fondina con la pistola che prese mise nella sua.

- Perché Harris? Perché hai fatto tutto questo? - Chiese Kate che ormai aveva capito che il responsabile era lui.

- Non parlare detective, non fare domande. Ora muoviti lentamente, davanti a me. Vai verso l’uscita… - Kate eseguì quanto le veniva detto e alla fine come da lui richiesto si mise a sedere su una sedia vicino alla sua postazione. La teneva sotto tiro ma Kate capiva che era agitato e non sapeva in realtà cosa fare: quello poteva essere un vantaggio, ma anche un problema perché se non avesse avuto abbastanza sangue freddo per gestire la situazione avrebbe potuto fare una strage.

Provò a parlargli, ma tutte le volte lui le intimava di tacere, perché doveva pensare, perché doveva capire cosa fare ed ogni volta muoveva in modo pericoloso la pistola nella sua mano. Sarebbe potuto partire un colpo facilmente, ma si ripromise di stare calma, anche se cominciava a sudare freddo e a sentire lo stomaco sottosopra.

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Capitolo 74
*** SETTANTAQUATTRO ***


Castle era seduto nervosamente sulla sua sedia fissando il caffè ormai freddo sulla scrivania di Kate. Controllava di tanto in tanto l’orologio, era scesa in archivio già da un po’ e non capiva perché non aveva detto né cosa era andata a fare, né perché non tornasse.

- Rilassati Castle! Beckett starà consultando qualche fascicolo o facendo un sopralluogo per capire qualcosa. - Gli disse Esposito mentre mangiava una delle ciambelle che Rick aveva portato. Ma a lui c’era qualcosa che non convinceva e non poteva più stare lì. Spostò rumorosamente la sedia alzandosi di scatto.

- Io vado a vedere cosa sta facendo Kate…

L’archivio si trovava nel seminterrato del palazzo, ci erano andati insieme spesso negli anni precedenti, ormai lì lo conoscevano tutti gli agenti di turno e lui conosceva loro. Era abbastanza strano che le luci in fondo al corridoio fossero tutte spente, di solito quell’ambiente era sempre molto illuminato. Si avvicinò a passi svelti fino alla porta, guardò dentro e vide solo Kate seduta con lo sguardo basso, e si immaginò che stesse leggendo qualcosa e l’agente Harris davanti a lei che la fissava, sorrise pensando che aveva sempre immaginato che quell’uomo avesse avuto un debole per lei. Entrò quasi sollevato, ma quello che vide dentro lo bloccò sulla porta.

- Non un passo Castle, non ti avvicinare! - Gli urlò tremante Harris puntando la pistola su Kate. Rick istintivamente alzò le mani, mentre il suo sguardo andava su sua moglie che fece lo stesso con lui per qualche istante, prima si spostarlo verso il pavimento mordendosi il labbro, mentre Harris andava dietro di lei e la bloccò con il bracci sinistro, mentre con il destro teneva l’arma sul suo fianco.

- Harris, stai calmo per favore, parliamone. - Gli disse Rick in tono conciliante.

- No! Non c’è nulla da parlare Castle! Perché sei venuto? Per complicare le cose? - Gli urlò l’agente.

- Io… no, volevo solo vedere se mia moglie avesse bisogno di aiuto, era un po’ che era scesa, non la vedevo e mi sono preoccupato, tutto qui. - Non stava parlando a lui in realtà, era a Kate che voleva dire quelle cose e lei lo capì.

- Non mi interessano i fatti vostri! Ma tu qui complichi tutto! Tutto! - Urlò ancora l’agente.

- Senti Harris, ti va di fare una cosa? Lascia Kate e prendi me.

- Castle ma cosa dici? - Intervenne Beckett ma lui fece finta di non sentirla.

- Lei è un poliziotto, avranno meno riguardi per un ostaggio poliziotto, non pensi? Io sono un civile, sono uno scrittore, sono famoso! Ci penseranno bene prima di fare qualsiasi cosa con un civile di mezzo, non credi? E poi ne parleranno tutti… se cerchi la visibilità ne avrai di più con me…

- Castle falla finita e vattene! - Gli urlò Kate.

- No Beckett, lui ora non va proprio da nessuna parte! - Disse l’agente premendo di più con la pistola sul fianco.

- Dai Harris, una detective della omicidi contro uno scrittore di best seller, non c’è confronto! Sarai su tutte le prime pagine, non sarai più un agente confinato in un seminterrato del distretto.

Rick sperava che quella carta fosse quella giusta. Stava giocando una partita troppo importante perché non lo fosse. Evitava ora di incrociare lo sguardo di Kate, ma sentiva che lei lo stava guardando ed invece fissava l’agente che sembrava pensare a quello che gli aveva detto. Non gli importava cosa sarebbe accaduto dopo. Voleva solo Kate il più lontano possibile da lui  e da quella pistola. Poi lei un modo per tirarlo fuori dai guai lo avrebbe trovato insieme agli altri, ma ora voleva solo che lei fosse libera. Era una cosa stupida quella che stava facendo, forse sì, lo sapeva, ma come aveva detto solo poche ore prima ad Alexis, lui per Kate e sua figlia avrebbe fatto di tutto, cose stupide comprese.

- Va bene Castle. Metti le mani dietro la nuca ed avvicinati lentamente.

Beckett lo guardò fare quello che gli diceva l’agente Harris, fino a quando non fu proprio vicino a lei.

- Beckett allontanati vai contro quello scaffale laggiù, ma non fare scherzi, o tuo marito muore. - Harris spostò la pistola dal fianco di Kate alla testa di Rick e lei si spostò, facendo quando chiesto, mettendosi dove lui voleva. Lo vide andare dietro Castle, era così più piccolo di lui che quasi spariva dietro al corpo imponente di suo marito. Gli puntò la pistola sul fianco, proprio come aveva fatto con lei e lo tirò mentre indietreggiava verso l’uscita.

- Adesso noi ce ne andiamo e tu non provare a seguirci, è chiaro? - Disse a Beckett urlando. - Se ti vedo uscire da qui gli sparo subito.

Kate annuì e guardò Rick scuotendo la testa. Lo vide muovere solo le labbra e ci lesse un silenzioso “ti amo” che non le fece trattenere una lacrima che scivolò via. Pensò alla sera prima, a come era andata via, non gli aveva nemmeno più parlato, se non prima per dirgli di stare zitto e andarsene. Erano le ultime cose che aveva sentito da lui.

- Ti amo Castle! - Gli disse sommessamente prima che Harris lo trascinasse fuori, senza nemmeno avere il coraggio di guardarlo negli occhi. Vide la porta chiudersi e i due sparire dalla sua vista e lei rimase bloccata lì, più che dalle parole di Harris dalla paura che la stava prendendo al punto che le parve che tutta la stanza stesse girando e si aggrappò ad uno scaffale per non cadere a terra.

 

Castle camminava al passo che gli imponeva Harris che premeva la pistola al suo fianco. Fossero arrivati agli ascensori, potevano andare direttamente al parcheggio sotterraneo senza che nessuno li vedesse.

Quando girarono l’angolo, però, si imbatterono in un’agente che li guardò rimanendo per un attimo pietrificata, poi appena compresa la situazione, tirò fuori la sua pistola.

- Butta a terra la pistola Harris! - Gridò l’agente Veronica Davis.

L’agente Harris fu preso dal panico non sapeva cosa fare, spostò la pistola dal fianco di Castle puntandola all’agente davanti a se e Rick pensò di approfittare di questo momento. Colpì l’agente allo stomaco, sperando che allentasse la presa su di lui con il braccio sinistro, ma invece lo strinse di più. Provò a divincolarsi, in un duello corpo a corpo, oramai non poteva fare altro, contava sulla sua stazza, molto più grande di lui e di avere il sopravvento, ma l’agente Davis era ostico e non sembrava volerne sapere di cedere. Rick gli diede un altro pugno e poi prese la mano dove aveva la pistola, cercando di disarmarlo. Non capì cosa successe, sentì solo un rumore forte, uno sparo, e poi cadde a terra.

 

Kate sentiva come un ronzio nelle orecchie, era convinta che stesse per svenire. Lo stress di quei giorni, la notte insonne e non aveva toccato cibo quella mattina, in realtà non ricordava nemmeno da quanto non mangiava se escludeva le due forchettate di salmone della sera prima. Sentiva delle voci concitate e dei rumori, ma il suo corpo sembrava rifiutarsi di collaborare, poi arrivò un rumore più forte degli altri che sembrò risvegliare i suoi sensi, sapeva cosa fosse, non aveva bisogno di vederlo per capire che era quello di uno sparo. Corse fuori da lì trovando energie non sapeva nemmeno lei dove e vide l’agente Davis con la pistola in mano e a terra Harris sopra Rick.

- Castle! - Urlò Kate inginocchiandosi vicino a lui non avendo nemmeno il coraggio di toccarlo - Castle!

- Beckett… - Disse lui aprendo gli occhi facendo fatica a parlare.

Senza troppo riguardo spostò il corpo di Harris, lasciando libero Rick. Aveva la camicia tutta piena di sangue.

- Dio mio Castle, perché lo hai fatto? Cosa ti è saltato in mente? - Gli disse Kate accarezzandogli il volto in quel momento, le avrebbe fatto meno male essere al posto suo che vederlo così.

- Kate… io… non mi ha colpito… non è mio… disse indicando il sangue. - Vide sua moglie sorridere incredula, gli aprì la camicia per controllare che effettivamente non ci fossero ferite e quando se ne fu accertata tirò un sospiro di sollievo aiutandolo a tirarsi su e a mettersi seduto. Guardò poi l’agente Davis che era sul corpo di Harris, scosse la testa dopo che aveva provato a cercare il battito. La vide poi allontanarsi e chiamare con la trasmittente i soccorsi.

Kate prese ancora il viso di suo marito tra le mani, accarezzandolo. Voleva dirgli tutto, non riusciva a dirgli niente.

- Perché? - Gli chiese solamente con un filo di voce rotta dall’emozione e dalla paura.

- Perché tu sei più importante di tutto, Kate. - Rispose serio, portando una mano sopra la sua, per tenerla lì, sul suo viso.

- Ti poteva uccidere Castle! - Protestò contro la sua cocciutaggine e contro quelle parole che frantumavano quei residui di cuore ancora integro.

- Poteva farlo anche con te e non lo avrei mai permesso.

Kate avrebbe voluto replicare, avrebbe voluto dirgli ancora tante cose ma furono interrotti dagli altri agenti che li avevano raggiunti e tra loro c’erano anche Esposito, Ryan e la Gates. Beckett lasciò il volto di suo marito e si mise di nuovo in piedi e quella sensazione di malessere provata in archivio tornò a tormentarla.

- Cosa è successo Detective? - Chiese perentoria la Gates.

- Io non ero presente, ero in archivio. C’erano Castle, l’agente Harris e l’agente Davis, signore. Ma l’agente Harris, era lui il colpevole dell’omicidio di Katilyn Ross, era lui che aveva studiato i fascicoli di Paulsen.

- Il movente, Beckett? - domandò ancora il capitano.

- Non lo so signore. - Ammise Kate - Non ho fatto in tempo a scoprirlo, ma l’agente Harris mi sembrava decisamente confuso e nervoso.

- Agente Davis, cosa è successo qui invece? - chiese alla giovane che stava parlando con i paramedici che si stavano occupando del corpo di Harris.

- Stavo andando in archivio quando mi sono trovata davanti l’agente Harris che teneva con il braccio sinistro il signor Castle, mentre con il destro aveva la pistola puntata contro di lui. Io quando me ne sono accorta ho preso la mia arma e gli ho intimato di buttarla ma lui non lo ha fatto, anzi ha mirato a me. Il quel momento il signor Castle lo ha colpito provando a liberarsi ma non c’è riuscito. Ne è seguita una colluttazione e durante il corpo a corpo, mentre il signor Castle provava a disarmarlo, ho sentito lo sparo e poi sono caduti a terra. - Spiegò minuziosamente l’agente Davis

- Chi aveva la pistola in mano quando è partito il colpo? - Chiese ancora la Gates.

- Quando sono ricaduti la pistola era ancora in mano all’agente Harris quindi presumo che l’avesse lui.

- Signor Castle? - Lo guardò il capitano in attesa delle sue parole.

- Io ricordo solo che mentre eravamo corpo a corpo ed io provavo a prendergli la pistola, lui cercava di indirizzarla verso di me ed io la spostavo verso di lui ricordo solo questo, ma no l’ho mai presa in mano, solo preso la parte superiore per spostarla. Io volevo solo disarmarlo nulla di più. Non sono un assassino. - Si giustificò Rick.

- Va bene, dovrà venire sù a dare la sua versione dei fatti ai detective Ryan ed Esposito insieme all’agente Davis. E anche lei Beckett! - Il capitano Gates guardò i tre poi andò via.

Castle provò ad alzarsi, ma in quel momento si sentì decisamente stordito e con un gran mal di testa: quando era caduto a terra evidentemente aveva dato una botta più forte di quanto non si fosse accorto fino a quel momento in preda all’adrenalina della situazione.

- Ehy amico ti serve una mano? - Esposito si avvicinò a lui insieme a Ryan e lo aiutarono ad alzarsi, mentre Kate li guardava pensierosa, appoggiata al muro dalla parte opposta del corridoio, mordendosi il labbro inferiore nervosamente. Rick rimesso in piedi ringraziò i due amici e si avvicinò a Kate.

- Come stai? - Le chiese a bassa voce, Beckett lo guardò, poi il suo sguardo cadde sulla camicia macchiata di sangue e fece un profondo sospiro.

- Bene… - mentì. Non stava bene, non stava bene affatto. Aveva lo stomaco sottosopra, la testa che girava ed il cuore che ancora le batteva all’impazzata.

- Sei sicura Kate?

Prima di rispondergli guardò Javier e Kevin, stavano parlando con l’agente Davis.

- Noi andiamo sù, quando volete, potete raggiungerci. - Gli disse Ryan capendo che avevano bisogno di un momento per stare soli.

Annuirono entrambi ed aspettarono che si allontanassero loro ed i paramedici con il corpo dell’agente Harris. Quando furono soli, Kate finalmente rispose a quella domanda rimasta in sospeso.

- No, Castle, non sto bene. Non sto per niente bene! Come posso stare bene? Ho sentito uno sparo, ti ho visto a terra. Dio mio Rick, ho pensato che ti avesse sparato… ho pensato che tu… È stato orribile!

- So come ci si sente, Kate. Lo so… Quel momento in cui pensi di aver perso la persona che ami. So cosa vuol dire… Ma io sto bene.

Le parole di Rick furono come ricevere uno schiaffo. Certo che lui sapeva cosa voleva dire, quante volte glielo aveva detto di come la sua cicatrice ogni volta gli ricordasse quel momento e Kate in un gesto istintivo si portò la mano proprio lì, sulla sua cicatrice nel petto e le sembrò che le facesse di nuovo male. Poi si buttò tra le sue braccia, stringendolo forte a se.

- Ti sporcherai tutta anche tu - Le disse sorridendo.

- Non mi importa Castle… non mi importa. - Kate gli passò una mano fra i capelli e lo sentì irrigidirsi quando gli sfiorò la nuca. - Dovresti andare a farti controllare in ospedale, hai sbattuto la testa…

- Lo sai che io ho la testa dura, Beckett, di cosa ti preoccupi? - Sorrise e provò a fare altrettanto con lei, ma non ci riuscì.

- Di te. Mi preoccupo per te. Non hai l’esclusiva per questo, lo sai? - Era terribilmente seria mentre gli parlava.

- Lo so… ma credo che se non andiamo sù, dovrai preoccuparti anche della Gates.

- Non ce la fai proprio ad essere serio, vero? - Lo rimproverò.

- Non quando tu lo sei così tanto. - Le sorrise, poi le offrì il suo braccio enfatizzando il gesto con qualcosa che doveva assomigliare ad un inchino e lasciarono quel corridoio andando verso l’ascensore.

- Penso che per un po’ non verrò più in archivio. - Le disse Castle appena le porte si chiusero.

- Già, nemmeno io… - Rispose Beckett con un sorriso tirato.

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Capitolo 75
*** SETTANTACINQUE ***


Ryan ed Esposito si erano fatti mandare il video delle telecamere dell’archivio. Avevano potuto vedere quasi tutta la sequenza di quello che era accaduto, tranne la prima parte, che, come aveva intuito Kate, era in una zona non ripresa da nessuna telecamera. Fu lei, quindi, a spiegar loro come erano andate le cose, quando Harris l’aveva sorpresa alle spalle, mentre cercava di capire come potersi spostare dagli scaffali a lì senza essere visti. Mandarono avanti il video velocemente, fino ad arrivare a quando Castle entrava nella stanza, videro la sua contrattazione con l’agente e di come poi prese il posto di Kate ed infine lei sola nella stanza, appoggiata allo scaffale. Abbassò lo sguardo quando fu evidente anche a loro che non si era sentita bene ed Esposito la guardò preoccupato.

- È stato solo un calo di zuccheri che si è sommato alla tensione del momento. - Si affrettò a giustificarsi lei.

- Forse allora sarebbe il caso che tu mangiassi qualcosa, Beckett. - Si permise di dire l’ispanico ricevendo in cambio un’occhiata di quelle che volevano dire che era meglio che non parlasse più.

Kate vide la tazza di caffè che le aveva portato Rick appoggiata sulla sua scrivania. Si sedette sul bordo, prendendola e tenendola tra le mani. Nonostante il suo atteggiamento non le aveva fatto mancare nemmeno quel giorno quella piccola attenzione quotidiana. Lo aveva appena portato alle labbra, sentendo bene nonostante fosse freddo, il suo sapore intenso con il retrogusto di vaniglia, proprio come piaceva a lei.

- Quello ormai è freddo, se vuoi te ne vado a prendere un altro. - Rick era arrivato alle sue spalle, aveva appena finito di parlare con la Gates.

- Credo che se uscissi in queste condizioni chiamerebbero o un’ambulanza o qui al distretto per farti arrestare. - Gli indicò la camicia interamente sporca di sangue che non era proprio un bello spettacolo.

- Beh posso comunque correre il rischio. - Le sorrise. -  Te ne preparo uno di là?

- Va bene anche questo freddo, non ti preoccupare.

Bevve lentamente il suo caffè in silenzio, sotto lo sguardo attento di suo marito che non lo distoglieva mai da lei e chiunque li avesse visti in quel momento avrebbe pensato che tra i due, quella che aveva appena rischiato di morire fosse stata lei e non lui.

- Ha detto la Gates che dovrò tornare domani per altre questioni burocratiche. - Rick ruppe quel silenzio pesante tra loro.

- Sì, immagino che dovrai farlo. Ci sono le telecamere, ma ci sarà comunque un’indagine interna su quanto accaduto e penso che vorranno sentirti ancora. Io vado dalla Gates, se tu vuoi andare a casa… - Posò la tazza di caffè e scese dalla scrivania, trovandosi adesso in piedi proprio davanti a lui. Gli poggiò una mano sulla camicia, come se volesse togliergli una piega, proprio all’altezza del cuore.

- No, no… Io ti aspetto. - Fermò la sua mano per un istante, prima di rendersi conto che li stavano osservando e lasciò che si allontanasse.

- Non so quanto potrebbe volerci e fino a quando devo rimanere, sei sicuro?

- Sì, certo. Sto bene… a parte la camicia che fa schifo dico, sto bene.

- Sì, beh, anche la mia non è il massimo. - Sorrise guardando anche la sua sporca più o meno nello stesso punto, da quando si erano abbracciati prima nel corridoio.

 

- Tutto bene? - Chiese Rick ai ragazzi dopo che Kate era entrata nell’ufficio della Gates, rimasti imbambolati a guardarli.

- Sì, sì Castle tutto bene è solo che Beckett… - Ryan stava per dirgli del suo malore quando Esposito lo fulminò con lo sguardo. Conosceva Kate, sapeva che si sarebbe arrabbiata terribilmente se qualcuno avesse detto a Castle quello che era accaduto, se voleva farlo l’avrebbe fatto lei.

- Beckett? - Ripetè Rick

- Ehm… Beckett.. Si è presa un bello spavento prima. - Si riprese l’irlandese.

- Sì, lo so e mi dispiace ma… lo rifarei, nella stessa situazione, farei esattamente la stessa cosa.

 

La Gates diede a Beckett il resto della giornata libero, era meglio se andava a casa, si riposava e tornava il giorno dopo in uno stato migliore.

- Che ne dici se ci fermiamo a mangiare qualcosa? - Gli chiese Rick mentre erano in macchina.

- Un uomo ed una donna armata, sporchi di sangue entrano in un ristorante. Cosa accade dopo? - Sorrise Kate mentre guidava, sembrava finalmente più rilassata.

- Uhm… potrebbe essere l’inizio di un bel romanzo splatter o horror! Ordiniamo qualcosa a casa? - Propose infine.

- Sì, Castle decisamente meglio. Anche perché ora avrei solo voglia di farmi una doccia e togliermi tutta questa roba di dosso.

- La potremmo fare insieme, risparmiamo tempo e acqua… per il bene dell’ambiente, ovviamente! - Disse accarezzandole la gamba.

- Il bene dell’ambiente eh? - Lo guardò voltandosi di sfuggita mentre guidava.

- Certo, dell’ambiente! - Annuì lui convinto, facendola sorridere ancora. Voleva solo questo, in fondo.

 

- Oh mio Dio ragazzi cosa vi è successo? - Martha li guardò appena rientrati al loft con il volto inorridito.

- Tranquilla mamma non è successo nulla, noi stiamo bene, siamo solo sporchi, ok? - Cercò di tranquillizzarla Rick

- Richard, fammi un’altra volta una cosa del genere e dovrai pensare a come organizzare il mio funerale! - Disse l’attrice avvicinandosi al figlio e baciandolo e poi facendo la stessa cosa con Kate.

- È stata una lunga giornata Martha, ma stiamo bene, stai tranquilla. - Anche Beckett cercò di calmare la donna.

- Qualunque cosa vi sia accaduta non voglio sapere i dettagli, mi basta solo sapere che siete a casa e state bene. Per fortuna tua figlia è fuori e dormirà dalla sua amica Tiffany così non vedrà nulla di tutto questo! - Le disse con tono di rimprovero.

- E tu non le dirai nulla, vero mamma? - Si assicurò Rick.

- Ovviamente Richard, ovviamente…

 

 

- Ho ordinato cinese, ti va bene? - Rick era entrato in camera dopo che sua madre era uscita. Kate si era spogliata, aveva buttato tutti gli abiti in un angolo e si era messa una vestaglia.

- Sì, sì va benissimo. - Rispose distrattamente mentre entrava in bagno. Anche Rick cominciò a spogliarsi, buttando i suoi abiti su quelli di Kate. Sentì i muscoli indolenziti per i colpi ricevuti da Harris che ora a freddo cominciavano a far male. Percepì dalla porta lasciata socchiusa da Kate il rumore dell’acqua della doccia che scorreva forte. Chiuse gli occhi e rivide il momento in cui era entrato in archivio e Kate sotto tiro di Harris. Si chiese se quello che alcune volte diceva per scherzo, che loro erano in qualche modo in connessione fosse vero. Aveva sentito che qualcosa non andava, ed il suo istinto gli aveva detto di andare a vere, nonostante sembrasse folle per chiunque, per lui no, sapeva che doveva andare giù da Kate. Si domandò cosa sarebbe accaduto se lui non fosse stato lì, se Kate fosse stata sola, nessuno al distretto sarebbe andato a controllare. Ecco perché doveva fare in modo di tornare al distretto, non per un caso, ma sempre, come prima, perché lui era il suo partner, nella vita e nel lavoro e forse sì, era presuntuoso, ma anche se non era un poliziotto sapeva che nessuno l’avrebbe difesa come lui, perché nessuno l’amava come lui ed avrebbe fatto tutto per lei, senza farsi domande, senza chiedersi cosa era giusto fare.

Rick aprì piano la porta del bagno e vide tra i vetri appannati per il vapore, la sua sagoma di spalle sotto la doccia, con la testa appoggiata su un braccio sulle piastrelle, sotto il getto caldo dell’acqua. La vestaglia di Kate era appoggiata sul gancio dietro la porta, si tolse anche la sua e la mise vicina a quella di lei.

Si rese conto della sua presenza solo quando aprì la porta della doccia, perché le arrivò una ventata fredda in netto contrasto con il caldo anche eccessivo di quel posto chiuso, ma era quello di cui sentiva di aver bisogno, isolarsi nel caldo e non pensare a nulla, ma era impossibile. Come chiudeva gli occhi vedeva Castle a terra, con gli occhi chiusi e la camicia sporca di sangue, ma lei lo chiamava e non apriva gli occhi e non gli rispondeva.

Sentì le braccia di lui avvolgerla e poi spostarla dal muro e farla appoggiare contro il suo petto e benedì l’acqua della doccia che si mischiava alle sue lacrime, confondendole.

- Cosa c’è? - Sussurrò Rick al suo orecchio.

- Niente… - Disse lei non riuscendo a mentire.

- Allora perché stai piangendo?

- È lo shampoo, negli occhi… - Si giustificò Kate

- Che non hai ancora usato…

Kate si voltò ancora tra le braccia di Rick che non la lasciavano. Osservò il suo petto, come a voler trovare una cicatrice che non c’era, perché quello sparo non lo aveva colpito, se ne doveva rendere conto, era solo nella sua mente. Vide però i lividi sul suo fianco che avevano lasciato i colpi di Harris, Li sfiorò, attenta a leggere nel volto di suo marito la sua reazione, perché non gli facesse male.

- Era piccolo ma picchiava forte, chi lo avrebbe detto eh? - Sorrise Rick con l’acqua che gli cadeva sul volto.

- Ti poteva uccidere, riuscirai ad essere serio? - Gli disse lei rimproverandolo.

- Poteva, non lo ha fatto. Quante volte potevano ucciderci in questi anni? Non le ricordo nemmeno più, eppure… siamo qui… Tutti e due… Siamo più forti anche del destino. Dalla prima volta che ci siamo incontrati potevano uccidermi, te lo ricordi in quel vicolo?

- Sì, e mi ricordo che ero così arrabbiata che ti ho sbattuto contro il muro.

- Sai che questa cosa adesso è terribilmente sexy detta da te? Ancora di più di quanto non eri sexy quel giorno… - Si avvicinò al suo collo, baciandola languidamente.

- Castle… ti prego… - disse Kate lasciando che un sospiro interrompesse le sue parole.

Le sue parole non lo fermarono, anzi, nel percepire come lei piegava la testa per dargli più spazio per continuare il suo lavoro, si fece più audace, spingendola contro il muro fino a quando le sue spalle non incontrarono le piastrelle provocandole un brivido nel toccare la ceramica fredda con la pelle.

I loro occhi si incontrarono per qualche istante e non ci fu bisogno di chiedersi nulla di più, soprattutto quando sentì le mani di lei accarezzare il suo petto e scendere più in basso, passando poi le mani sulla schiena ed avvicinandolo a se. Era arrabbiata con lui, era arrabbiata perché faceva le cose senza pensare, perché non aveva nemmeno considerato quanto lei si sarebbe preoccupata a saperlo in quella situazione. Era arrabbiata perché lo amava e lo desiderava. Aveva bisogno di lui, di sentirlo vivo, di scacciare quell’immagine dalla sua mente e gemette ancora quando lui si piegò imprigionando con le labbra uno dei suoi capezzoli, mentre con una mano giocava con l’altro, e piegò la testa all’indietro, per quel piacere fin troppo intenso che le stava dando. Quando smette la sua dolce tortura, Kate non sapeva se essere felice per quello che ci sarebbe stato di lì a poco o dispiacersi per la fine di quelle intime attenzioni, ma sentì subito le sue mani percorrere il suo corpo e scendere più in basso e lei ora lo bramava e lui lo sapeva, lo capiva da come la gamba di Kate si era alzata ed accarezzava la sua, in un chiaro invito ad andare oltre, sentendo il desiderio di lui svettare e premere su di lei. Rick le sorrise baciandola ancora, accarezzandola per sentire quanto lei lo volesse, sorridendo quando la sentì decisamente pronta per lui. Le accarezzò la gamba che cingeva la sua, prendendola e sostenendola, mentre scivolava dolcemente dentro di lei. I loro corpi bagnati dal getto d’acqua incessante erano diventati uno solo e le loro labbra si cercavano e si rincorrevano tra gemiti e sospiri di piacere. Castle era vivo e glielo stava dimostrando amandola con dolcezza e passione, facendo sembrare l’acqua che lambiva i loro corpi fredda in confronto alla loro passione, e Beckett era così che aveva bisogno di sentirlo, fino alla fine, quando riversò in lei il frutto del suo piacere, stringendola a se.

 

Quando arrivò il loro cibo cinese erano ancora in accappatoio, sorridenti ed un po’ storditi. Rick lasciò che il ragazzo tenesse il resto, ben più di quanto speso per il cibo, purchè andasse via subito, lasciandoli soli. Poggiò i contenitori con il cibo sul tavolo davanti al divano e diede una coppia di bacchetta a Kate, le spezzarono quasi contemporaneamente, dividendole.

Beckett mangiò decisamente con appetito, facendo finalmente un pasto decente, che non sapeva se era un pranzo decisamente tardi o una cena fin troppo presto, dopo non ricordava nemmeno quanto tempo. Adorava quando Castle la imboccava con le sue bacchette, passandole i pezzi di carne più gustosi del suo manzo alla piastra e lei faceva lo stesso, passandoli un po’ del riso che stava mangiando. Era quello che gli piaceva di loro, della loro quotidianità e di lui, quel suo modo di rendere normali le cose assurde, e le cose normali farle diventare eccezionali, come del cibo cinese ordinato a domicilio che diventava uno dei pasti più buoni che avesse mai fatto, perché era con lui e dopo quella giornata capiva ancora di più quanto valore avesse.

- Sai cosa stavo pensando Kate? - Le disse Rick accarezzandole la gamba percorrendola verso l’alto, andando a scoprire la coscia dall’accappatoio ormai quasi totalmente aperto.

- Cosa? - Disse lei sorridendo per quel tocco impertinente e delicato.

- Che noi abbiamo un piccolo progetto… E magari potremmo… come dire… spostarci in camera da letto… per… impegnarci un po’ e occupare un po’ la serata… che ne dici?

Quella sua proposta, accompagnata delle carezze sempre più intime era qualcosa a cui era difficile resistere.

- Non ti stanchi mai tu eh? - Gli disse sorridendo.

- Di te? Mai! - La baciò aiutandola a tirarsi su. - E poi dovresti essere felice, vuol dire che anche se tra un paio di giorni dovrò aggiungere un altro anno alla mia età, sono sempre in splendida forma!

- Tra un paio di giorni? - Kate rimase immobile stupita.

- Sì, tra un paio di giorni… Perché quella faccia? Devi ancora farmi il regalo? - Scherzò lui.

- Sì… Devo… Devo ancora farti il regalo… - Balbettò lei.

- Uhm… Va bene, non voglio nulla, mi accontento di te! - Disse lui stringendola.

Kate si lasciò abbracciare, ma nello stesso istante, nella sua mente qualcosa sembrò estremamente chiaro. Non aveva minimamente fatto caso a che giorno fosse, marzo era già finito e non se ne era nemmeno resa conto. Gli sbalzi d’umore, l’appetito e poi il rifiuto di mangiare qualsiasi cosa, la stanchezza e quel senso di vertigine che quella mattina l’aveva messa ko in archivio… Tra le braccia di Rick fece mentalmente i conti e sì, aveva quasi una settimana di ritardo e non sapeva se essere felice o terrorizzata.

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Capitolo 76
*** SETTANTASEI ***


- Ehy, Kate, che c’è? Pare che hai visto un fantasma! - Esclamò Rick vedendo sua moglie decisamente turbata ed attonita.

Beckett accarezzò con due dita il suo sorriso. Avrebbe dovuto dirglielo? Condividere con lui quel dubbio che la stava scavando dentro dal momento in cui si era insinuato in lei? Si immaginava già cosa avrebbe fatto, sarebbe uscito di corsa fino al supermarket ad un isolato di distanza ed avrebbe comprato un test di gravidanza. Anzi non uno, avrebbe più probabilmente saccheggiato il negozio e comprato tutti quelli che avevano lì e poi sarebbe tornato a casa impaziente per leggere il responso ed avrebbe camminato avanti e indietro disegnando con i suoi passi il perimetro della stanza. E poi avrebbe fatto i salti di gioia e l’avrebbe presa e sollevata in aria ed avrebbe riso e pianto insieme. Ma se non era vero? Se la sua era solo un’impressione sbagliata? Non era pronta per vedere l’illusione e poi la delusione sul suo viso e non era pronta nemmeno lei a sapere. La terrorizzava sapere di aver ragione e l’avrebbe avvilita il contrario. Semplicemente non era pronta a nessuna delle due notizie. Non quella sera, non in quel momento.

- Castle… oggi è stata una giornata decisamente carica di emozioni… da stamattina a… prima sotto la doccia…

- Ti è piaciuto? - Le chiese con un’espressione da bambino insicuro.

- Hai bisogno di sentirtelo dire?

Lui alzò le spalle rimanendo in attesa di una risposta. Sapeva che Kate si imbarazzava e lo faceva a posta.

- Mi è piaciuto, molto. Come ogni volta. Mi piace sempre, con te. Il tuo ego ora è intatto?

Non le rispose ma la baciò, un lungo delicato bacio.

- Popcorn, gelato e maratona Star Wars? - Le domando ammiccando e Kate gli rispose con un sorriso grato. Era riuscito come al solito a capirla senza bisogno che lei gli dicesse nulla.

L’odore dei popcorn le provocò una leggera nausea e quello non faceva altro che confermare i suoi sospetti. Lei adorava i popcorn, era una di quelle cose che lo aveva sorpreso di più, perché lui era convinto che lei non fosse tipo da popcorn, invece aveva scoperto che come lui li adorava, così quando decidevano di passare pigri pomeriggi o serate davanti alla tv non glieli faceva mai mancare. Kate sperò che quella sgradevole sensazione passasse, perché altrimenti sarebbe stato complicato spiegare a Castle perché quella sera non voleva i suoi amati popcorn.

 

Si erano sdraiati sul divano e lei si era accoccolata sul petto di Rick e teneva tra le mani il vassoio con i popcorn che spilluzzicava di tanto in tanto qualcuno, per fortuna almeno la nausea le era passata e, soprattutto, che quel film, La minaccia fantasma, lo conosceva a memoria, perché benché si era riproposta più volte di non pensarci, il suo pensiero finiva sempre lì, a quella possibilità che diventava sempre più concreta, anzi che nella sua mente si stava formando sempre più reale e la cosa la stava preoccupando, perché se fossero state solo sue fantasie, se si stava convincendo di qualcosa che non era vero, poi sarebbe stata peggio.

Poteva essere incinta? Poteva già essere incinta? In fondo non era da molto che ci stavano provando. Non capiva, però, da dove le veniva tutta questa sorpresa, del resto l’altra volta era bastata solo una notte… Immaginava che se Castle l’avesse sentita fare quei pensieri, si sarebbe vantato che i suoi “omini” erano decisamente reattivi e loro avevano un alchimia perfetta. Si ritrovò a sorridere da sola, immersa in quel momento in quel senso di beatitudine che sentiva propagarsi per tutto il corpo. Vide Rick prendere una grande manciata di popcorn e mangiarli rumorosamente. Avrebbe veramente voluto dirglielo, ma doveva essere certa e poi avrebbe questa volta pensato a qualcosa di bello per dargli la notizia. Appoggiò a terra la ciotola ormai quasi vuota e si lasciò avvolgere completamente nel suo abbraccio, tenendo le sue mani su quelle di lui. Fu un caso che si incrociarono proprio sopra il suo ventre, ma Kate provò un’emozione così forte in quell’istante che si sarebbe messa a piangere da un momento all’altro. Così chiuse gli occhi e fece solo finta di addormentarsi.

 

Si era svegliata di soprassalto, aveva urlato e non se ne era nemmeno accorta. Era seduta sul letto completamente sudata con i respiro corto. Castle si era svegliato come lei, appena l’aveva sentita le aveva preso la mano e lei lo aveva guardato terrorizzata, poi si era buttata tra le sue braccia e gli aveva chiesto di stringerla.

Lo aveva visto ancora lì in quel corridoio, a terra, lei lo chiamava ma lui non apriva più gli occhi, poi lo coprivano con un lenzuolo bianco e lo portavano via e lei rimaneva sola. Questo era quello che gli aveva raccontato, ma c’era di più, c’era quello che non poteva dirgli, perché nel suo sogno lei si vedeva già incinta e con la consapevolezza di dover crescere il loro bambino da sola. Non aveva paura, era terrorizzata e a nulla servivano le sue rassicurazioni che era solo un incubo.

Era quasi sul punto di dirgli tutto quando lui la strinse a se come se fosse una bimba e le accarezzava la schiena lentamente, ripetendole che lui non l’avrebbe lasciata mai perché loro avevano troppe cose da fare insieme, tanti sogni da realizzare e lui sarebbe stato lì con lei, fino alla fine, sempre.

 

Prima di uscire disse a Rick che se doveva tornare al distretto per una nuova deposizione l’avrebbe avvisato lei, ma per il momento era meglio se non andava: gli disse per non irritare la Gates, in realtà era lei che aveva bisogno di stare da sola, di capire, di pensare a cosa fare.

Appena uscita chiamò il dottor McLeay. Erano mesi che non lo sentiva, da quando era uscita dall’ospedale con Castle. Lui l’aveva chiamata, le aveva lasciato dei messaggi, voleva sapere come stava, ma lei non aveva mai avuto il coraggio di richiamarlo, né di fargli sapere niente. Era sempre tutto, troppo difficile.

Quella mattina, però, non sapeva chi chiamare. Non voleva andare dal ginecologo che l’aveva sempre seguita, perché non sapeva se sarebbe riuscita a spiegargli tutto quello che era successo. Con McLeay sapeva che questo problema non ci sarebbe stato, non doveva dirgli niente, lui sapeva tutto. Non fece molti giri di parole, gli disse solo che pensava di essere incinta e solo dirlo ad alta voce le fece venire un senso di vertigine. Lui le disse raggiungerla subito, avrebbe trovato un po’ di tempo per lei.

Così Kate andò in ospedale e le fece uno strano effetto ripercorrere quei corridoi dove aveva vissuto alcuni dei momenti più belli e più brutti della sua vita. Ripensò a quando per la prima volta con Castle avevano sentito il battito del loro bambino, quella che forse era stata l’emozione più grande della sua vita, a quando lui dopo le aveva detto di amarla, quel bacio che si erano scambiati così carico di speranza per un futuro che non ci sarebbe poi mai stato. Mentre percorreva il corridoio del reparto di maternità dove McLeay le aveva dato appuntamento, ripensava a quella notte che era lì, quando le avevano detto con un freddo “mi dispiace” che il suo bambino non c’era più, quando sentiva gli altri bambini piangere e lei pensava solo al suo che non avrebbe mai sentito, alla mano di Castle che le accarezzava la schiena in silenzio mentre lei guardava solo il muro e non voleva sentire nessuno, non voleva vedere nessuno. Il suo abisso era cominciato lì, in una di quelle stanze e poi era sprofondata in un mare di disperazione che pensava essere senza fine, fino a quando non si era lasciata salvare da Rick e con lui aveva cominciato quella risalita che l’aveva portata quel giorno di nuovo lì.

McLeay la accolse nel suo studio con un sorriso benevolo e la invitò a sedersi davanti alla sua scrivania.

- Allora Katherine, come mai questo dubbio?

- Ho avuto dei giorni a lavoro un po’ complicati e ieri sera parlando con mio marito mi sono accorta che ho quasi una settimana di ritardo e poi nei giorni scorsi non sono stata molto bene… insomma… credo che…

- Era una cosa nei vostri piani?

- Sì, noi da un po’ ci stavamo provando… Non da molto, a dir la verità, per questo sono piuttosto sorpresa e non me lo aspettavo e…

- Mi hai detto che hai avuto un periodo un po’ difficile a lavoro, sai che potrebbe anche essere solo per questo?

- Sì, certo… ma…

- Ci speri. - Le disse sorridendo.

- Sì, anche se ho paura per tutto quello che è successo. - Ammise al dottore.

- Ogni gravidanza è diversa, so che te lo potrò dire anche mille volte, ma per te non cambierà nulla, ma quello che è successo non  influirà in nessun modo in una gravidanza futura. Devi crederci in questo Katherine.

Lei annuì, ma era come aveva detto lui, glielo potevano dire, mille volte, avrebbe sempre avuto paura. Sempre. Le fece fare solo un prelievo e le disse di passare la mattina successiva per prendere i risultati.

 

Kate uscì dall’ospedale e girò in macchina per un po’, poi si fermò nel parcheggio di un supermercato ed entrò. Aveva addosso una smania che le diceva che doveva fare qualcosa, non poteva aspettare la mattina successiva per sapere. Si spostò tra gli scaffali prendendo delle cose a caso: un pacco di biscotti, delle barrette energetiche, una confezione di cereali, un paio di bottiglie di integratori salini e poi si fermò davanti allo scaffale prendendo quello che veramente le serviva, un test di gravidanza, che nascose sotto gli altri acquisti. La cassiera quando lo passò sotto lo scanner le sorrise e lei fece altrettanto, imbarazzata. Mise tutto in un sacchetto di carta e appena arrivata in macchina prese il test e lo buttò nella sua borsa, sotto a tutto il resto, quindi andò al distretto.

Appena arrivata fu risucchiata dalla Gates e da un ispettore degli affari interni che stava facendo accertamenti su quanto accaduto il giorno precedente. Fortunatamente le disserto che per ora la dichiarazione di Castle non era necessaria, però volevano sapere da lei cosa era successo con l’agente Harris prima del suo arrivo. Passò molto tempo a dare la sua versione, a ripetere più volte gli stessi fatti, a ricostruire quel caso a cui aveva lavorato e no, non aveva trovato un movente per tutto quello. Avrebbero dovuto scavare nella vita dell’agente, ma non aveva ancora avuto il tempo materiale per farlo e se la tenevano lì, non l’avrebbe di certo trovato, gli disse alla fine stremata dal dover ripetere sempre le stesse cose.

Quando finalmente la lasciarono andare, si ricordò che avrebbe dovuto parlare a Diana, la madre di Katilyn. Non se la sentiva di farlo con una telefonata, né di farla venire al distretto. Decise di andare di persona da lei per dirle che avevano trovato l’assassino di sua figlia. Fu una conversazione molto intensa e toccante tra le due donne, condita dalle risate del piccolo Prince ignaro di tutto quello che stava accadendo intorno a lui. Diana le chiese solo perché e a quella domanda Kate non seppe rispondere, le disse che l’uomo che aveva ucciso sua figlia era morto, ma che lei avrebbe fatto di tutto per trovare un motivo, perché un motivo c’era sempre. Le risate di Prince coprivano i singhiozzi malcelati di Diana ed anche i sospiri di Kate che si era persa a lungo negli occhi e nel sorriso di quel bimbo.

 

- Detective, può tornare a casa se vuole. - La Gates l’aveva raggiunta alle spalle mentre stava finendo di compilare un rapporto. Kevin e Javier erano andati via da poco e lei era rimasta sola.

- Grazie capitano, finisco questo rapporto e vado.

- Beckett, quello che ha fatto il signor Castle ieri è stato assolutamente sconsiderato e avventato, per chiunque, soprattutto per un civile che non ha una preparazione per mediare con un sequestratore.

- Lo so, Capitano, mi dispiace. - Kate abbassò lo sguardo sentendosi colpevole per l’atteggiamento di suo marito.

- Però è stato coraggioso, anche se non dovrei dirlo. Certo, immagino che i vostri… ehm… rapporti lo abbiano spinto a comportarsi così, però lo ringrazi, da parte mia, in modo non ufficiale, intendo.

- Lo farò. - Kate le sorrise imbarazzata di quelle parole di stima per lui.

Finì di compilare il rapporto, chiuse il fascicolo e fece un respiro profondo. Raccolse la sua borsa da terra ed andò verso i bagni. Non c’era quasi più nessuno al distretto a quell’ora, solo i ragazzi del turno di notte che erano appena arrivati e la salutarono quando gli passò davanti.

Le pareti giallo pallido dei bagni erano sempre uguali, con quei divisori in finto marmo che trovava orribili sia di per sé che in abbinamento con il resto. Si chiese chi fosse che aveva deciso di pitturarli così e perché. Aprì con decisione la porta di un bagno, non il primo, perché non andava mai nel primo bagno, non sapeva perché era una sua fissazione. Si chiuse dentro con la borsa sulle gambe, fece un gran respiro e tirò fuori la scatolina. Le venne da sorridere ricordandosi quando era lì a leggere il libro di Castle e lui apparve da sopra spiandola. Pensò che se lo avesse saputo, sarebbe stato lì sopra appollaiato tutto il tempo, senza nemmeno darle modo di farlo per quando l’avrebbe stressata. Sorrise di lui e di se stessa e guardò di nuovo quella scatola con quei due stick all’interno. Voleva sapere ed aveva il terrore di farlo. Di sapere che era positivo e di sapere che poteva non esserlo. Aveva il terrore di tutto, ma non sarebbe riuscita ad aspettare il giorno dopo.

Il fece entrambi e quei tre minuti le sembrarono non passare mai. In quei tre minuti ripensò a tutto quello che l’aveva condotta lì, al distretto ad aspettare il risultato di un test di gravidanza. Al giorno che aveva conosciuto Castle per la prima volta, ben prima che arrivasse al distretto, a quando poi aveva dovuto lavorarci insieme, all’innamorarsi di lui, al loro primo bacio sotto copertura, alla notte a Los Angeles e a tutto quello che era venuto dopo. Ripensò al loro matrimonio, a quella promessa di farlo felice: anche se lui non glielo aveva mai chiesto apertamente, Kate sapeva quanto lui desiderasse un bambino, il loro bambino. Era un desiderio silenzioso, che non le aveva mai rivelato per paura di ferirla, che non fosse pronta, ma lei lo sapeva quanto lui lo desiderasse, lo aveva capito senza bisogno che le dicesse nulla, perché anche lei lo capiva, più di quanto lui credesse. Ed allora sperò con tutta se stessa che quel risultato fosse positivo, per lei, per lui e per loro.

Voleva solo essere felice, il tempo per le paure ci sarebbe stato poi, voleva solo essere felice vedendo quelle due linee che si coloravano sotto i suoi occhi. Li girò entrambi ed entrambi diedero lo stesso responso: due linee.

Era vero. Aspettava un bambino. Rimase qualche minuto immobile dentro a quel piccolo bagno a guardare quel responso. Poi scoppiò a piangere, questa volta di gioia.

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Capitolo 77
*** SETTANTASETTE ***


Si asciugò le lacrime con il dorso della mano e cercò disperatamente di pensare a qualcosa di sensato da fare e l’unica cosa che le venne in mente fu di uscire da lì. Non sapeva più nemmeno da quanto tempo seduta in quel bagno.

Mise tutto nella borsa e fece un respiro profondo ed uscì. Si guardò allo specchio del bagno, aveva un sorriso stampato sul volto e gli occhi arrossati dalle lacrime e la mente completamente svuotata di qualsiasi altro pensiero.

Il suo primo istinto fu quello di andare a casa e dirlo a Castle, dirgli che era incinta, che il loro progetto, come lo chiamava lui, era già partito. Si era però ripromessa che avrebbe aspettato i risultati che il McLeay le avrebbe dato la mattina dopo, sapeva che i test erano affidabili al 99% e che non esistevano i falsi positivi ma voleva esserne certa, più che certa, in fondo doveva aspettare solo ancora poche ore.

Sapeva però che non sarebbe riuscita a stare davanti a lui senza dirgli nulla o peggio, senza che lui si accorgesse di nulla anche solo vedendola e non sapeva cosa fare, perché aveva deciso che questa volta sarebbe stata lei a dirglielo e a farlo in qualche modo che doveva essere speciale: il giorno seguente sarebbe stato il suo compleanno e quale migliore regalo di quello? Doveva solo trovare il modo per arrivare fino al giorno dopo, senza tradirsi.

Pensò che la leggesse nel pensiero quando sentì vibrare il cellulare e vide la che la stava chiamando.

- Farai tardi anche questa sera signora Castle? - La sua voce sembrò a Kate ancora più dolce del solito. Stava per mentirgli e anche se a fin di bene, si sentì così meschina a non renderlo subito partecipe della sua felicità.

- Veramente questa sera credo non verrò a casa. Ryan mi… mi ha chiesto se potevo sostituirlo. Il piccolo Shaun non si sentiva bene e…

- Oh… certo… Vuoi che vengo da te? Hai bisogno di qualcosa? - Si offrì subito.

- No, non ti preoccupare…

- Ok…

- Ehy Castle… Ti amo, ti amo tantissimo.

- Ti amo anche io Beckett, anche se mi lasci troppo spesso solo la notte.

- Ti prometto che succederà il meno possibile da ora in poi.

 

Uscì dal distretto e si fermò a mangiare in una tavola calda. Aveva bisogno di un pasto completo, caldo e nutriente. Si accomodò in un tavolino sul fondo della sala, su un divanetto rosso che sicuramente aveva visto tempi migliori. Non c’era molta gente a quell’ora, qualche coppia che sicuramente era uscita dal cinema lì vicino, lo aveva intuito anche dai discorsi ascoltati passando, e qualche uomo da solo che probabilmente era appena staccato da lavoro, come lei. Si tuffò nel menu e leggendo i vari piatti improvvisamente le sembrò che tutti quelli le provocassero solo nausea, doveva sforzarsi però di mangiare, non poteva resistere ancora e soprattutto sapeva che non doveva farlo. Ordinò alla fine una zuppa di patate dolci, una bistecca e degli spinaci. Mangiò lentamente, sia perché il suo appetito era decisamente scarso, sia perché dove trovare un modo per occupare quelle ore e ancora non sapeva bene come. Attese che la zuppa si raffreddasse un po’, mescolandola col cucchiaio osservando il fumo che si alzava ogni volta che la rimescolava. La assaporò, poi, cucchiaio dopo cucchiaio, trovandola anche più buona di quanto pensasse per quel posto, immaginandosi i commenti di Castle su ognuna di quelle persone presenti lì, avrebbe sicuramente inventato una storia su ognuno e a lei sarebbe sembrata anche plausibile e convincente.

Quando finì la sua bistecca il locale si era quasi svuotato, non c’erano più le coppiette viste quando era entrata ed i pochi tavoli occupati lo erano da uomini soli, qualcuno anche poco raccomandabile, ma non era certo intimidita da loro, anche se un paio più di qualche volta si erano voltati lanciandole occhiate più che esplicite che lei non aveva raccolto.

Le si avvicinò, invece, di nuovo la cameriera di mezza età, che forse sperava solamente che tutti se ne andassero il prima possibile, chiedendole se voleva altro. Scoprì di avere una gran voglia di torta al cioccolato, così ne ordinò una fetta, con panna e gelato alla vaniglia. Forse pensava che erano giorni che non mangiava e in realtà era più o meno così.

Mentre era assorta nei suoi pensieri le si avvicinò uno degli uomini seduto nei tavoli davanti al suo.

- Ciao bellezza, hai bisogno di compagnia per questa sera? - Kate alzò lo sguardo risoluta, guardando l’uomo che aveva dei modi più eleganti rispetto al suo aspetto completamente trasandato e rude.

- No. - Rispose secca sperando si allontanasse.

- Sicura? Perché di solito quelle come te cercano sempre compagnia. - Disse l’uomo sghignazzando.

Beckett scostò la giacca facendo intravedere distintivo e pistola.

- Sono più che sicura che quelle come me non cercano compagnia. Soprattuto di quelli come te. - Lo guardò con un sorriso beffardo stampato sul volto e l’uomo si allontanò a testa bassa.

La cameriera tornò ma non aveva con sé il suo dolce, ma un foglio stampato che le mise sul tavolo aspettando impaziente.

- Veramente stavo aspettando il mio dolce. - Le disse Kate abbozzando un sorriso, immaginando l’errore in buonafede della donna e già stava facendo come Castle, immaginandosi la storia di quella donna, stanca dopo una giornata di lavoro.

- È finita. - Rispose lei seccamente, ignorando il fatto che da lì Kate poteva vedere la vetrina dei dolci dove c’erano ancora tre grandi fette di torta al cioccolato.

- Ma veramente lì ci sono… - La donna la interruppe senza farle finire la frase.

- Da queste parti gli sbirri non ci piacciono. Né a noi né alla nostra clientela. Credo che sia giunta l’ora di andare, dolcezza.

Kate la guardò perplessa, ma decise di non fare polemica. Pagò ed uscì da lì, subendo i commenti ben poco carini dei presenti nel locale, appuntandosi mentalmente che un bel controllo a quel posto non glielo avrebbe tolto nessuno, aveva un bel po’ di conoscenze a cui chiedere un favore.

Salì in macchina che era poco prima di mezzanotte, con una gran voglia di quella torta al cioccolato rimasta insoddisfatta. Girò un po’ fino a quando non trovò una caffetteria ancora aperta, parcheggiò dal lato opposto della strada ed entrò sperando di trovare quanto desiderava. Nella vetrina dei dolci la vide, c’era proprio una bella fetta di torta come la voleva lei.

- Vorrei quella fetta di torta e un latte caldo. - Disse al ragazzo alla cassa.

- Se non hai fretta tra pochi minuti uscirà una torta calda calda appena fatta, io ti consiglierei di aspettare! - Gli rispose sorridente.

- Va bene, non ho fretta.

- Gelato e panna insieme alla torta? - Chiese ancora il ragazzo.

- Perfetto! - Rispose Beckett con un sorriso.

Le disse di accomodarsi e le avrebbe portato tutto lui al tavolo.

Arrivò poco dopo con una tazza di latte caldo con molta schiuma e la fetta di torta appena sfornata con panna e gelato. Gustò tutto forchettata dopo forchettata, in particolar modo la panna appena montata che avevano messo generosamente a lato della fetta di torta. Beckett non potè evitare di pensare a Castle in quel momento ed al suo amore per la panna. L’avrebbe convinto che quella era mille volte meglio della sua amata panna spray e sapeva che sarebbe nata una disquisizione infinita nella quale lui le avrebbe spiegato la supremazia della panna spray rispetto ad ogni altro tipo di panna.

Sorrise tra sé e sé rendendosi conto di come ormai ogni cosa la riportava a suo marito e si chiese che cosa ci facesse lì, perché non era con lui a ridere e piangere di quello che stava accadendo a lei, a loro, come forse era giusto, come sarebbe dovuto essere. La verità che Kate ammise a se stessa tra un pezzo di dolce e l’altro, era che Kate non voleva solo avere la certezza che le sarebbe venuta dalle analisi del dottor McLeay e nemmeno che voleva organizzare qualcosa di speciale per dirlo a Rick, ma che aveva bisogno di tempo per metabolizzare, per capire che quello stava accadendo veramente, a lei, di nuovo. C’era una piccola vita che cresceva in lei e solo pensarlo la travolse di emozioni. Smise di mangiare e si portò una mano sul ventre. Proprio lì, sotto la sua mano c’era qualcosa di minuscolo, eppure già così importante, qualcosa che avrebbe di nuovo cambiato le loro vite totalmente, qualcosa che si ripromise che avrebbe protetto con tutte le sue forze. Questa volta non aveva nulla su cui riflettere, nulla da decidere o da pensare. Quella piccola vita che si stava formando sapeva già cosa era, era suo figlio, quel figlio che voleva con tutta se stessa e che, almeno per quelle ore, era egoisticamente solo suo. Aveva bisogno di rendersene conto lei, fino in fondo, prima di essere pronta a dirlo a Castle ed affrontare con lui tutto quello che sarebbe stato. Ora voleva solo vivere la felicità di quella scoperta, renderlo reale nella sua mente, fargli prendere forma nei suoi pensieri.

 

Si ritrovò a girare in macchina nel cuore della notte da sola, anzi no, non era sola, era con “lui”. Perché era così che se lo era immaginato, come una piccola copia di Castle. Pensò che fosse normale desiderarlo così, simile alla persona che amava e non solo di aspetto, lo immaginava già curioso e fantasioso come il padre. Si rese conto che quel girare senza meta l’aveva invece portata alla sua meta, a casa, sotto il loft. Lasciò la macchina nel parcheggio e salì. Entrò cercando di fare il minor rumore possibile e si mosse al buio fino allo studio di Castle. Aprì il mobile dove teneva i suoi ricordi più importanti e prese la scatola di Prince, quella che avevano messo via insieme solo qualche mese prima. Accese la luce della scrivania, regolando l’intensità al minimo, così da illuminare la stanza solo con una tenue luce. Aprì quella scatola e non si stupì del fatto che l’emozione era sempre la stessa, non era cambiata, nonostante la nuova presenza. Prese l’ecografia, l’ultima che aveva fatto. Era qualcosa di così piccolo ancora, incomprensibile per i più. Lo accarezzò, baciò quella foto e poi la tenne tra le sue mani per qualche istante. Lo ringraziò mentalmente, pensando che tutto quello che aveva, in fondo, lo doveva a lui. Se lei e Castle stavano insieme probabilmente era merito suo e si chiese cosa sarebbe accaduto a loro senza di lui, se avrebbero mai avuto il coraggio di parlarsi e di confrontarsi su quello che c’era stato tra loro e sui loro sentimenti. Gli promise che non lo avrebbe dimenticato mai e sapeva con certezza che non lo avrebbe fatto. Rimise poi tutto via velocemente non accorgendosi nella semioscurità della stanza che una delle ecografie era caduta a terra sotto la scrivania. Stava per andarsene quando fu attirata dalla porta della loro camera da letto, la aprì piano affacciandosi: Rick dormiva inconsapevole di tutto e lei benedì in quel momento il suo sonno pesante. Era sdraiato a pancia di sotto, prendendo gran parte del letto vuoto e in quel momento si chiese se quando dormivano insieme lui era veramente comodo oppure no.

- Quello è il tuo papà. - Disse senza emettere alcun suono, muovendo solo le labbra, portando entrambe le mani  sul ventre. - E ti amerà tantissimo anche lui appena saprà di te.

Si obbligò ad uscire da lì, prima che le emozioni prendessero il sopravvento in modo irrecuperabile. Chiuse piano la porta della camera, riprese la borsa dalla scrivania, pronta per andare via. Il suo fisico, però, non era d’accordo. Si sentì stanca e sopraffatta, con la testa che cominciava a girare di nuovo. Non poteva certo guidare così. Si appoggiò sulla poltrona, solo qualche minuto si disse, per riprendersi un po’. Chiuse gli occhi per qualche istante ed invece si addormentò.

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Capitolo 78
*** SETTANTOTTO ***


Kate riaprì gli occhi ed il loft non era più avvolto nel buio, ma le prime luci del chiarore mattutino lo riempivano di una luce ambrata e calda. Si passò più volte le mani sugli occhi, non si era semplicemente riposata, aveva dormito qualche ora. Era decisamente indolenzita dalla posizione in cui era rimasta per lungo tempo, ma si sentiva meglio, più riposata. Uscì da lì, richiudendo piano la porta per non svegliare nessuno, anche se si chiese se Rick non l’avesse vista, magari era andato a prendere qualcosa da bere in cucina di notte. Si convinse che no, non l’aveva fatto, perché se l’avesse vista, come minimo l’avrebbe portata a letto e non l’avrebbe mai lasciata dormire lì, non era da lui

Salita in macchina si accorse che aveva ancora qualche ora di tempo prima di andare in ospedale dal dottor McLeay. Andò al distretto, approfittando di quel tempo quando ancora era tranquillo, per studiarsi i fascicoli dell’agente Harris, cercando di capire cosa era successo per trasformare un pacifico agente dallo stato di servizio impeccabile in uno spietato assassino e perché avesse scelto proprio Katilyn.

L’unica cosa che aveva trovato che poteva aver turbato la sua vita ordinaria, era il fatto che pochi mesi prima si era separato dalla moglie, dopo molti anni di matrimonio. Non aveva problemi economici né di salute, continuava ad abitare nella sua casa che la moglie non aveva chiesto né le pagava alcun mantenimento perché non aveva voluto nulla da lui, quindi aveva tolto anche le motivazioni economiche come fattore di stress. Si appuntò su un pezzo di carta il nome e l’indirizzo della nuova abitazione della moglie, riproponendosi di andare a parlare con lei appena avesse avuto tempo. Per tutti quel caso era già chiuso, ma non per lei. Kate voleva sapere il perché, lo doveva a Diana ed anche a Katilyn.

Andò via dal distretto che ancora non era arrivato nessuno. Si impose di andare a fare colazione prima di andare in ospedale. Avrebbe dovuto cominciare ad avere uno stile di vita più regolare ed avrebbe dovuto evitare di saltare i pasti, sapeva che avrebbe corso il rischio che Castle si presentasse ogni giorno solo per ricordarle di mangiare.

 

Tre settimane. Lui era lì da tre settimane. Quando il dottore McLeay le confermò che era incinta non ebbe nessuna sorpresa, lei lo era lo sapeva. Ma ora stringeva tra le mani quel foglio che era solo l’ulteriore, definitiva, conferma di quello che già sentiva, dal momento in cui aveva pensato che potesse essere.

Guardava quei numeri, valori segnalati con asterischi, decisamente troppo alti, la prova che dentro di lei stava nascendo una nuova vita. Quei numeri, in quella mattina dal clima mite della solita indaffarata New York, quella volta, però, non erano ostili, non le facevano paura, non la angosciavano, erano solo quello che avrebbe voluto vedere. Era arrivata fino a lì con un taxi, ma andò via dall’ospedale a piedi. Voleva fare una passeggiata, alleggerirsi la mente da tutti i pensieri. Mentre camminava, invece, aveva deciso cosa avrebbe fatto per Castle, quella sera, gli avrebbe fatto un regalo di compleanno indimenticabile, ne era certa. Aveva una grande busta con tutto l’occorrente e mentre camminava decise di fermarsi in un piccolo parco. Trovò una panchina dove si sedette. Il tiepido sole mattutino la scaldava e la faceva sentire bene.

Tre settimane. Provò a pensare quando poteva essere successo e si morse il labbro pensando che di fatto era quasi impossibile trovare una data precisa, perché in quei giorni non si erano certo risparmiati. Sorrise di loro stessi, stupendosi di come con Castle avesse perso qualsiasi tipo di pudore. Prese il telefono e decide di mandargli un messaggio per fargli gli auguri. Non sapeva se fosse già sveglio oppure no.

“Auguri amore mio, questa sera ti farò una sorpresa e sono sicura che questo compleanno sarà indimenticabile”

Attese solo pochi istanti ed arrivò la sua risposta.

“Spero che sia una sorpresa con pochi vestiti addosso”

“Mi dispiace ma sei completamente fuori strada”

“Puoi anche metterne molti, poi sarò io a toglierli tutti”

“Vedremo…”

“Sai che se mi dici così non resisto fino a stasera, vero?”

“E invece dovrai farlo, Castle! Non sei tu che ami le sorprese?”

“Sì, ma amo farle!”

“Arrenditi, non ti dirò nulla”

Lo poteva immaginare sbuffare davanti al telefono non accettare la sconfitta. Non le rispose, mise via il telefono  e si godette ancora per un po’ la tranquillità di quel luogo.

 

- Hey, Castle! Tanti auguri!

Rick era appena arrivato al distretto con una grande scatola in mano e fu subito festeggiato da Esposito e Ryan.

- Hey ragazzi! Queste sono per voi.

- Wow ciambelle! - Esclamò Javier.

- Le vostre preferite, per festeggiare! Beckett dov’è?

- Non lo so, da ieri pomeriggio non l’ho più vista. - Disse Ryan.

- Ieri pomeriggio? L’ho sentita ieri molto tardi e mi ha detto che ti sostituiva nel turno di notte… - Castle era perplesso mentre guardava i due che non sapevano cosa rispondergli e furono tolti dall’imbarazzo di una risposta che avrebbe tradito o lui o lei, dalla stessa Beckett che apparve in quel momento dall’ascensore. Si bloccò vedendo lì Rick parlare con Ryan ed Esposito e quando Rick si voltò e la vide, lei lesse nel suo sguardo tutta la sua delusione. Scosse la testa con disappunto: non doveva andare così.

- Ciao Castle. - Lo salutò con un filo di voce.

- Ciao Beckett… Sai avevi ragione, credo che questo compleanno non lo dimenticherò mai. - Le disse sarcastico.

- Rick, non è come pensi.

- Non penso niente, Kate. Ciao ragazzi. - Salutò i due visibilmente imbarazzati e fece per andarsene, ma Kate lo bloccò nel corridoio e lo obbligò di fatto a seguirla in sala relax.

- Spero che hai un motivo valido per mentirmi, per dirmi che non vieni a casa perché devi lavorare ed invece non è così.

- Castle…

- Tutto potevo immaginare Kate, tutto da te, ma non questo. Non che mi mentissi così, che tradissi la mia fiducia e spero solo quella.

- Mio Dio Rick, ma cosa stai dicendo? Cosa stai pensando?

- Non lo so. La prima volta che Meredith mi ha detto che non tornava a casa perché doveva lavorare, ho scoperto che ha passato la notte con il suo regista.

- Io non sono Meredith. E se questa notte sono stata fuori, c’è un motivo.

- Ero venuto per invitarti a cena fuori questa sera, per festeggiare con te, ma immagino che non è il caso vero?

- Preferirei che stessimo a casa a festeggiare.

- Oggi non mi sento proprio di festeggiare nulla, scusami Kate se scopro che mia moglie ha passato la notte non so dove e non ho proprio voglia di festeggiare nulla.

- Sulla poltrona. Sulla poltrona di casa nostra. Ho passato la notte lì. Sono venuta a casa tardissimo e sono uscita molto presto. Tu dormivi così bene e… avevi preso tutto il letto, non volevo svegliarti.

- Non volevi svegliarmi? Ti prego Kate, inventa una scusa migliore. Ti avrei sentito se fossi venuta a casa.

- Se non vuoi credermi e non ti fidi di me Castle, io… non posso farci nulla, mi dispiace.

- Pensi che sia colpa mia? Kate, mi hai mentito! Mi hai detto che eri a lavoro perché il figlio di Ryan stava male! Come faccio a fidarmi?

- Perché sono io Rick! Se vuol dire qualcosa per te, fidati di me. Io… Ti amo, Rick. Ti amo infinitamente e non potrei mai per nessun motivo tradirti. Non è una cosa che riesco nemmeno a dire o pensare.

La ascoltò, la guardò negli occhi e quegli occhi lo sapeva, non gli stavano mentendo, eppure non riusciva ad essere tranquillo, sentiva come un graffio sul cuore.

- Mia madre questa sera è a teatro con i ragazzi del suo corso ed Alexis è fuori città con la scuola. Io vado a prendere un drink con i ragazzi della Black Pawn, più tardi. Noi ci… ci vediamo a casa allora, stasera.

- Ma certo, Rick. E ti prego, non preparare nulla, vorrei farlo io per te, oggi.

- Ok…

Beckett si avvicinò per baciarlo, ma lui alzò la testa e le diede un bacio sulla fronte, poi uscì lasciandola sola nella sala relax. Kate sbuffò amareggiata: per fargli una sorpresa lo aveva solo fatto intristire e si sentì completamente stupida.

Avrebbe voluto parlare con la Gates subito della sua situazione, ma quel giorno non era al distretto, impegnata in una riunione con gli altri capitani nella sede della polizia. Quella era una questione primaria che doveva risolvere, perché non avrebbe potuto continuare a svolgere il suo lavoro come aveva sempre fatto. Non voleva correre rischi, di nessun tipo eppure si ritrovò a pensare che senza volerlo lo aveva già fatto, con Harris, in archivio. Pensò per un attimo a cosa sarebbe accaduto se non fosse arrivato Castle, forse avrebbe fatto lei un colpo di testa, forzando la situazione, provando a disarmare l’agente e sarebbe stata lei a rischiare di venir colpita o ferita o peggio. Il solo pensiero le fece gelare il sangue nelle vene. Non avrebbe mai sopportato una situazione del genere, non si sarebbe mai perdonata qualcosa così.

- Beckett, va tutto bene? - Ryan era entrato per controllare come stesse.

- Sì, va tutto bene, grazie Kevin. - Abbozzò un sorriso all’amico.

- Io… non sapevo, se me lo avessi detto…

- Non ti preoccupare, a casa parlerò con Castle.

Ryan si sentiva in colpa, ma Kate voleva rassicurarlo, non era colpa sua.

- So che non sono affari miei, ma va tutto bene tra voi? - Chiese timido e preoccupato.

- Sì, va tutto bene, stavo solo cercando di organizzargli una sorpresa per il suo compleanno, ma evidentemente non sono molto brava in queste cose. - Sorrise amaramente.

- Beh, la prossima volta avvisa, così ti teniamo il gioco!

- Grazie, ma penso che dopo questa volta, con le sorprese ho chiuso! - Si lasciò andare ad un sorriso più sincero, mentre con Kevin uscivano da lì.

 

Non capitava spesso che Beckett cucinasse per Castle, anzi, quasi mai, un po’ perché lui non glielo permetteva, volendo viziarla con le sue doti culinarie, un po’ perché ormai scherzavano spesso sul fatto che lei non fosse capace, ma quella sera voleva farlo ricredere: non che fosse una cuoca eccellente e sicuramente lui era molto più bravo, però se la cavava e nessuno si era mai lamentato quando era andato a mangiare da lei, né i suoi ex né i suoi amici.

Arrivata a casa dopo aver fatto la spesa e comprato tutto il necessario per la cena,  come prima cosa incartò quello che sarebbe dovuto essere il regalo di compleanno di Rick e poi si mise a preparare. Il suo umore era decisamente diverso da quello che si era immaginata, ma mise da parte l’amarezza e preparò la cena che aveva in mente, convincendosi che alla fine, quando gli avrebbe rivelato la sua sorpresa, tutti i malumori di Rick sarebbero passati.

Castle le aveva mandato un messaggio avvisandola che sarebbe rientrato un po’ più tardi del previsto. Aveva già preparato tutto, i tortini di verdura e bacon li aveva appena tolti dal forno, l’insalata di patate era pronta ed il filetto con la salsa alle mele doveva solo scaldarlo al momento.

Guardava la scatola incartata come un vero regalo che aveva messo su una delle sedie del tavolo già perfettamente apparecchiato per due. Non uno davanti all’altra, come era normale ed usuale, ma su due lati vicini. Si era seduta ad aspettarlo pazientemente, non voleva ammetterlo a se stessa, ma più i minuti passavano più si sentiva tesa per quella situazione e stanca.

Osservò il loft vuoto, senza Rick. Si sentì improvvisamente ospite in quella casa dove ormai viveva da qualche mese. Ma non era il luogo che la faceva sentire a casa, ma la presenza di Castle, senza di lui era tutto diverso. Si impose di allontanare tutti i pensieri negativi che le venivano in mente: loro erano già una famiglia e adesso lo sarebbero stati ancora di più. Glielo avrebbe detto di lì a poco, sarebbe andato tutto a posto, lui l’avrebbe capita, avrebbe capito il perché di tutta quella storia, lei gli avrebbe spiegato le sue paure ed il suo bisogno di metabolizzare da sola quella notte e la sua voglia di dirglielo a modo suo, quando ne aveva la certezza. Si imponeva di non pensare a nulla che turbasse quella giornata che doveva essere solo di gioia assoluta, eppure la freddezza di Rick quella mattina era andata a smorzare il suo entusiasmo ed aveva fatto affiorare mille dubbi su tutto quello che stava facendo: veramente la conosceva così poco da pensare certe cose? Da non fidarsi di lei? Si asciugò le lacrime che erano scese al solo pensiero e diede la colpa agli ormoni della gravidanza, sarebbero stati un’ottima scusa d’ora in poi per giustificare tutto.

 

Castle rientrò silenzioso a casa quella sera. Le fece un sorriso tirato mentre lei si alzò di scatto per andarlo a salutare, ma lui tirò dritto verso la loro camera.

- Dieci minuti, mi cambio e vengo a cena - Le disse mentre chiudeva la porta della loro stanza lasciandola fuori, mettendo una netta barriera tra di loro.

Kate occupò quel tempo per finire di preparare i piatti facendogli trovare tutto pronto quando poco dopo uscì e si sedette a tavola vicino a lei.

Mangiarono in un fastidioso silenzio, senza incrociare mai lo sguardo uno dell’altra. Non era quello che Kate avrebbe voluto per quella cena, per quella giornata. Nella sua mente doveva essere tutto diverso, non così. Sentì le lacrime pizzicarle ancora gli occhi quando alzò lo guardo dal suo piatto osservandolo finire di mangiare il suo filetto.

- Era tutto molto buono, grazie. - Le disse appena finito l’ultimo boccone. Kate annuì accettando i suoi complimenti, ma non era quello adesso che le interessava. Magari in un’altra occasione sì, se quella cena fosse andata così come avrebbe voluto ci avrebbero scherzato sù, ma ora non le interessava.

- Io ti amo, Castle. - Gli disse ripetendogli qualcosa che le sembrava ovvio, ma che forse in quel momento per lui non lo era.

- Anche io. - Glielo disse senza guardarla e fu la cosa che le fece più male. Spostò la sedia per alzarsi ma Kate gli prese la mano tenendola ferma sul tavolo.

- Aspetta… c’è… il tuo regalo…

- Non dovevi disturbarti a cercare qualcosa.

- Non è stato un disturbo. È stato un piacere. - Gli porse la scatola dentro la quale aveva riposto tutte le sue aspettative.

- Cos’è? - Rick prese la scatola infiocchettata e la scosse per sentire se faceva rumore, ma nulla. Era insolitamente leggera per essere di quelle dimensioni. Spostò il piatto e l’appoggiò sul tavolo, stappò via la carta e vide una scatola dai colori pastello e l’aprì decisamente curioso sotto lo sguardo teso di Kate.

- Ehm… credo che ti sei dimenticata il contenuto… è vuota. - Gli disse facendogliela vedere.

- Lo so. - Disse lei con una smorfia mentre lui continuava a non capire.

- Ok. Lo sai. Quindi? - Chiese perplesso.

- Quindi… potremo riempirla insieme. Un po’ per volta. Mi capisci Castle? - Gli disse lentamente, ma lui era confuso stava pensando a qualcosa, ma no, non poteva essere quello.

- Riempirla insieme. - Ripeté - Ok… mi piace tutto quello che possiamo fare insieme e una scatola non me l’aveva mai regalata nessuno.

Kate abbassò la testa e sospirò. Era più difficile di quanto pensasse, ma per la prima volta da quando era rientrato a casa aveva detto qualcosa di carino su loro due. Rick seguì i suoi movimenti con lo sguardo.

- Potremmo metterci questo, per cominciare. - Così gli diede una scatolina piccola e lunga. Rick come prima cosa la scosse per sentire se anche quella fosse vuota ma sentendo il rumore sorrise e tolse il coperchio. Appena vide il contenuto il suo sorriso svanì, guardò Kate con la bocca ancora aperta e lei gli fece solo cenno di sì con la testa. Appoggiò la piccola scatola con il test di gravidanza dentro quella più grande e si coprì il volto con le mani, respirando un paio di volte profondamente.

Si rialzò di colpo quando sentì la mano di lei sulla sua spalla e la vide in piedi vicino a lui.

- È vero? - Le chiese tremando.

- Sì, è vero… - Gli rispose accarezzandogli i capelli. - È vero…

Alzò la testa verso di lei, guardandola dal basso in alto e si sentì così stupido per tutto quello che aveva pensato e le aveva detto, per come anche in quella cena l’aveva tenuta a distanza per le sue paure ed il suo animo ferito. Si sentì piccolo, minuscolo davanti a lei e alla grandezza di tutto quello che era. La attirò a se ed appoggiò la testa sul suo ventre, cominciando a piangere senza riuscire a contenersi e non voleva farlo. Kate mise tutte e due le mani sulla nuca di Rick e vedendolo non riuscì a tenersi nemmeno lei, perché le emozioni erano tante, erano troppe. Sentendo il corpo di Kate scosso dai sussulti del pianto, Castle si alzò e la baciò dolcemente sussurrandole parole di scusa che sembravano troppo poche e troppo stupide, che lei fermò con le labbra, cercando altri baci. Non voleva le sue scuse, voleva solo essere sicura che lui fosse felice, che avesse capito. Poi Rick si avvicinò con la fronte a quella di Kate che ora poteva vedere chiaramente il suo volto rigato di lacrime che nascevano dai suoi occhi chiusi. Lo accarezzò per asciugargliele e poi gli diede un lungo bacio sulla guancia, prima di appoggiarsi con la testa sull’incavo della sua spalla. Castle la avvolse in un abbraccio protettivo, stringendola a se senza alcuna pressione, ma con un legamene emotivo che andava oltre qualsiasi cosa. Non riuscivano nemmeno a parlarsi, a dirsi nulla. Rimasero solo abbracciati per un tempo che non seppero quantificare.

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Capitolo 79
*** SETTANTANOVE ***


Rick sollevò il volto di Kate. Sorrideva emozionata mentre lui avrebbe tanto voluto ma non riusciva a farlo. Si sentiva la persona peggiore del mondo nel vedere i suoi occhi brillare e non saper cosa dire, non trovare le parole adatte per scusarsi, forse non esistevano. Si era fatto vincere dalla paura, dalla paura di perderla ed aveva smesso di ragionare, di ascoltare, di fare qualsiasi cosa. Non le aveva dato fiducia, nemmeno il beneficio del dubbio che stesse facendo qualcosa che non poteva o voleva dirgli.

A Kate non sfuggì il suo sguardo malinconico e colpevole.

- Non sei felice, Rick? - Gli chiese tremante sfiorandogli con le dita gli angoli della bocca.

- Troppo. Sono troppo felice. Più di quanto meriterei di essere. - Le prese le mani e gliele baciò.

- Shhh non lo dire.

- Mi dispiace. Mi dispiace per oggi. Io ho avuto paura… - Le confessò senza riuscire a guardarla.

- E di cosa? - Le fece tenerezza mentre ammetteva le sue paure.

- Io… ti ho vista strana in questi giorni ed ho avuto paura che tu… non lo so, quando Ryan ha detto che non dovevi lavorare e non sei tornata a casa io ho pensato che tu fossi con un altro e mi vergogno per questo Kate.

- Beh, in effetti a quanto pare se ero strana in questi giorni era effettivamente colpa di un altro, quello con il quale sono stata stanotte. - Rick la guardò e lei invertì la presa delle loro mani e se le portò sul ventre. - È anche un po’ colpa tua della sua presenza, ne sei consapevole?

Kate provò a farlo sorridere ma lo vide solo emozionarsi di più.

- Ascoltami Castle. Parleremo di tutto quello che è successo stamattina, dei tuoi dubbi, delle tue paure, ma domani. Ora, per favore, vuoi essere felice con me?

Rick guardò le sue mani sul corpo di Kate, le accarezzò dolcemente la pancia, poi la guardò.

- Sono immensamente felice. Non riesco ancora a crederci.

- Credici Rick, è vero. Aspettiamo un bambino. - Si appoggiò di nuovo a lui. Stanca, sfinita emotivamente e fisicamente.

- Tu come stai? - Le chiese abbracciandola ancora.

- Felice e stanca. - Rispose Kate sincera.

- Andiamo in camera? Così ti riposi, che dici? - Kate annuì sulla sua spalla. Il loro letto e lui era veramente tutto quello che voleva in quel momento, tutto quello di cui aveva decisamente bisogno.

Castle prese la scatola e ci mise dentro il test di gravidanza guardandolo ancora e chiedendosi se era possibile che due lineette cambiassero la vita così e facessero essere così felici.

- La mettiamo a posto, che dici? - Chiese a Kate che sorrise, era esattamente quello che si aspettava che facesse e quello che voleva anche lei. Se conosceva un po’ suo marito sapeva perfettamente che lui quel bambino già lo amava, come lo amava lei e l’amore era più forte della paura, era incontrollabile, era tutto quello che la ragione le diceva che non doveva essere eppure l’amore se ne fregava della ragione e seguiva logiche tutte sue. Quel test positivo, quegli asterischi su un foglio di carta a segnare un valore più alto del normale, erano già il loro bambino.

 

Quando furono nello studio, come Rick abbassò lo sguardo per aprire lo sportello e riporre la scatola, notò subito vicino alla scrivania l’ecografia che era caduta la sera prima a Kate.

La prese in mano e la guardò, sospirando profondamente.

- Stanotte quando sono tornata a casa ho sentito il bisogno di salutarlo, di dirgli che non cambiava nulla, che non l’avrei dimenticato. Deve essermi caduta ed al buio non mi sono accorta… - si giustificò Kate - È stupido ma…

- Non è stupido. È bellissimo. È… sei tu, Kate. C’è tutto il tuo amore in quel gesto, tutto quello che sei, tutto quello che amo. - Le accarezzò il viso e Beckett chiuse gli occhi godendosi il contatto con la sua pelle e quel gesto di conforto, poi Rick mise via quell’ecografia e la nuova scatola.

 

- Da quanto lo sai? - Rick era sdraiato al fianco di Kate e non riusciva a togliere mai la mano dal suo ventre e a lei piaceva che lui la tenesse lì, la faceva sentire protetta ed era la cosa della quale aveva più bisogno di tutto.

- Quando hai detto che mancavano due giorni al tuo compleanno ho realizzato che avevo un ritardo. Credo di averlo capito in quel momento. Ieri poi sono andata a fare le analisi e poi ho fatto il test e... era positivo. Ed anche le analisi che ho preso questa mattina lo hanno confermato. - Gli raccontò.

- Perché non me lo hai detto subito? - Chiese perplesso

- Volevo farti una sorpresa e volevo dirtelo solo quando ne fossi stata più che certa, non volevo che tu rimanessi deluso se poi non fosse stato vero. - Kate mise una mano sopra quella di Rick.

- La sorpresa è stata il miglior regalo di compleanno di sempre, però… Se non fosse stato positivo, avresti affrontato la delusione da sola? Io ci sono Kate, anche per questo.

- Lo so, ma per una volta volevo essere io a fare qualcosa per te, ma non sono abituata a fare sorprese ed ho fatto un casino, non è vero? - Si morse il labbro inferiore in quel gesto che lasciava trasparire tutto il suo imbarazzo.

- Scusami, è che io ho solo avuto paura ed ho pensato cose assurde…

- Non ce la fai vero ad aspettare domani per parlare di questo? - Gli chiese con un sorriso e Rick scosse la testa - Ok… Parliamone allora.

Kate si mise seduta sul letto e Rick la imitò, tenendo una mano sulla sua gamba, quasi avesse paura di perdere il contatto con lei.

- Ti ho sentita diversa in questi giorni, sfuggevole. Io ho avuto paura che ci fosse qualcosa tra noi, che tu non volevi dirmi.

- C’era lui. - Gli disse ancora sorridendo Kate prendendo la sua mano e portandosela sul ventre, come aveva fatto anche prima. Ricordava quando Rick timidamente lo faceva, con la paura di invadere i suoi spazi, senza mai osare troppo. Dopo quella notte a Los Angeles tra loro non c’era stato più alcun contatto fisico e ricordava come Castle si sentisse timoroso ad avvicinarsi al suo corpo. Ora non era così, lui la conosceva forse meglio di se stessa e voleva che da subito lui si sentisse sicuro, anzi voleva fargli capire che lei amava quel tipo di contatto, che la faceva stare bene, sentire protetta e amata.

- Già… io però avevo paura che il lui in questione fosse un po’ più grande.

- Pensi veramente che io potrei tradirti? Che potrei amare qualcun altro? - Glielo chiese quasi inorridita.

- Sì, cioè, no. Razionalmente no, lo so. Però la paura a volte non ti fa ragionare.

- Sai di tutto questo è la cosa che mi ha fatto più male. Che tu possa veramente pensare che io possa volere qualcuno che non sei tu, che possa tradirti, per qualsiasi motivo. Perché tu sei subito saltato a conclusioni sbagliate, pensaci Castle, avrei potuto fare un’operazione della quale non potevo informarti, può succedere.

- Non sei l’unica ad avere le tue paure, Kate. Ce le ho anche io. Ho paura che ti possa accadere qualcosa, sempre. Ho paura che non sarei capace più a vivere senza di te.

- Non accadrà. Non per mia volontà, Castle.

- La tua paura di svegliarti sola è la mia paura che tu un giorno possa dirmi di non volermi più vicino a te, che mi allontanerai di nuovo. Ho passato tanto tempo a desiderarti vicino a me che ancora oggi, alcune volte, mi sembra che tutto questo sia impossibile, che sia un sogno.

- È  tutto vero Rick. Io e te. Noi. Castle io non so cosa accadrà e non ti nego che ho paura. Ho paura che tutto si possa ripetere, che un sogno diventi ancora una volta un incubo. Però adesso so che qualsiasi cosa accadrà ci sarai tu nella mia vita, il mio punto fermo.

- Kate…

- No, aspetta fammi finire. Io e te siamo una famiglia Rick e te lo dico oggi che so che potrebbe suonare strano, soprattutto detto da me. Però lo siamo a prescindere da tutto il resto, lo siamo noi. Ieri notte mentre giravo in macchina, prima di venire qui, mi sono trovata a pensare al nostro bambino. So che non dovrei farlo, che non dovrei adesso già immaginarlo perché… è troppo presto… però la ragione non può nulla in questi casi, io già lo amo Rick.

- Anche io. - Castle riuscì a dire solo questo prima che Kate riprendesse a parlare

- Sai quando lo penso io lo immagino come te, una tua piccola copia e sai perché? Perché credo che sia normale volere che il proprio figlio assomigli alla persona che amiamo di più e se avesse tutti i tuoi pregi accetterei anche tutti i tuoi difetti. - Kate sorrise e Rick fece lo stesso.

- Per me è lo stesso. Vorrei una piccola te, un’altra Beckett da amare. - Si guardarono negli occhi. Non avrebbero avuto bisogno di dirsi altro, ma quella sera Kate sembrava invece aver bisogno di parlare.

- So che ti ho fatto soffrire tanto quando ti ho allontanato. Ma credimi, non ho mai smesso di amarti, mai. Quando sei tornato ed io ogni giorno stavo meglio e sentivo di amarti esattamente come prima, mi sono fatta più volte una domanda, se quello che provavo era realmente amore o qualcosa di diverso, gratitudine, riconoscenza… ma più passavano i giorni, più mi rendevo conto che se tu mi avevi salvato dal baratro in cui ero finita era solo perché ti amavo, perché non avrei permesso a nessun altro di fare quello che hai fatto tu.

- Sono uno stupido Kate, ma ti amo così tanto, ti amo come non ho mai amato nessuna prima di te.

- Vorrei dirti anche io che ti amo più di quanto non abbia mai amato nessuno, Castle, ma non sarebbe vero, perché credo di non aver mai realmente amato nessuno, prima di te. Perché se questo è amore, non è mai stato amore per nessun altro.

Rick si avvicinò baciandola con tenerezza e lei si lasciò andare appoggiandosi a lui che la strinse a se, continuando quel bacio. Accarezzava le labbra e le loro lingue sembravano danzare al ritmo della più antica danza del mondo, quella dell’amore. Quando si separarono le loro bocche Kate gli accarezzò il volto e poi tenne la sua mano accostata a lui.

- Ti prego non dubitare mai più, non di me, ma del mio amore. Non è stato facile per me accettare di amare qualcuno come ti amo e nemmeno di essere amata come mi ami tu. Ti prego, non farlo più.

Beckett chiuse gli occhi appoggiandosi sulla sua spalla e l’abbraccio di Rick divenne ancora più protettivo mentre lentamente lasciò che scivolassero sui cuscini. Kate chiuse gli occhi, sembrava esausta e mise la testa sul petto di Castle abbracciandolo.

 

- Tre settimane. - Gli disse ancora con gli occhi chiusi dopo che furono per un po’ in silenzio.

- Tre settimane cosa? - Chiese Rick.

- Lui. Sono incinta di tre settimane. - Questa volta fu Rick a portare la mano sul suo ventre facendole venire dei brividi per l’emozione.

- Hai pensato a quando potrebbe essere successo? - Gli chiese curioso e così Kate si tirò su guardandolo.

- Castle, credo che capire quando sarà impossibile… ci siamo… ehm… impegnati molto ultimamente.

- Uhm già… Però secondo me quella sera che eravamo soli, sul divano… è stata una bella sera, molto impegnativa… Ci sono buone possibilità, visto che abbiamo fatto due round che dici?

- Sono stati tre round Castle! - Rise lei.

- Wow, te lo ricordi bene! Vuol dire che ti è rimasta impressa, quindi può essere. Mi piacerebbe che fosse stato in uno di quei round.

- La sera dopo che abbiamo fatto il bagno insieme nella vasca. - Disse Kate.

- Lo abbiamo fatto anche nella vasca! - La corresse lui.

- Sì ma… dopo, è stato più… romantico, intimo. - Kate disegnò dei cerchi con le dita sul suo petto e Castle ripensando a quella sera la accarezzò languidamente sulla schiena.

- Ogni volta è speciale con te. Hai ragione è impossibile dire quando. Però se quando crescerà amerà i peperoni, sarà stata la sera dopo il messicano! - Rise Rick ricordando come quella sera faticarono ad arrivare in camera dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo tra birra e tequila e dopo essersi stuzzicati in taxi ed aver cominciato a scambiarsi effusioni in ascensore, finirono per fare l’amore in piedi proprio dietro la porta di camera, reggendosi in piedi a mala pena.

- Hai scelto la serata meno romantica in assoluto Castle! - Rise anche Kate poi lo vide tornare serio.

- Lo hai detto a qualcuno? Dico, a parte il dottor McLeay…

- No. Dovevi essere tu il primo a saperlo Castle. Non lo sa nessuno. - Lo vide sorridere con gli occhi prima che con le labbra.

- Quando hai fatto il test?

- Ieri sera, al distretto. Non ce la facevo ad aspettare i risultati. Avrei voluto farlo prima ma è stata una giornata complicata.

- Avrei voluto vedere che faccia avevi mentre aspettavi il risultato.

- Ero al bagno del distretto. Ero nervosa, agitata però sorridevo, perché stavo pensando a te. - Gli disse Kate.

- A me? - Chiese perplesso

- Sì, ti sembra strano? Insomma, eri responsabile al 50% di quella situazione. Comunque non pensavo a te per questo, ma a quando ero lì e tu ti eri arrampicato per spiarmi mentre leggevo il tuo libro, la famosa pagina di Nikki Heat.

- La pagina 105! Rimane una delle preferite da tutti i fan della saga, lo sai? - Gli disse soddisfatto.

- Chissà perché… - Sorrise furbescamente.

- Comunque ora te lo posso confessare, quando l’ho scritta, già pensavo a te. A tutto quello che avrei voluto fare con te e quello che ho scritto erano solo le cose raccontabili. - Le disse scendendo maliziosamente ad accarezzarle il fondoschiena.

- Direi che noi abbiamo fatto molto peggio o molto meglio di Nikki e Rook, a seconda dei punti di vista. - Gli ricordò mordendosi il labbro.

- Decisamente molto meglio. Molto molto meglio.

Kate si strinse a lui affondando con la testa sul suo petto.

- Andrà tutto bene questa volta Beckett. Lo so. Perché tu te lo meriti, perché noi ce lo meritiamo.

La sentì sospirare e stingerlo di più. Castle ne era convinto, sarebbe andato tutto bene.



Mi prenderò una piccola pausa con questa storia, non so ancora di quanto. Intanto li lasciamo così, felici, insieme. Tutti e due, anzi tutti e tre.

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