Mille gradi di separazione - Il gioco dei tarocchi

di vernal winter
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 • Remain my reflection. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 • Broken mirror. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 • Replace the pieces. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 • Of troubles and feelings. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 • Remain my reflection. ***


Mille gradi di separazione

Capitolo 1 • Remain my reflection

 

 

 

 

 

Il problema di Abigael era sempre stato uno: pensare troppo. 
 
Il suo cervello sembrava non accontentarsi di vivere la vita come tutte le persone che la circondavano. Era possibile che nessuna di esse si sentisse come lei? Era possibile che per loro, tutta quella perpetua monotonia fosse piacevole? Vedeva i loro occhi brillare; sentiva le loro voci farsi più eccitate nel programmare una nuova serata; o i sorrisi tendersi come se non ne potessero fare a meno per l’annuncio di una nuova serie tv. E lei aveva preso ad imitarli, perché starsene in un angolo da sola - così come la sua vena depressa ed asociale le richiedeva - di certo non avrebbe contribuito al miglioramento della propria vita. Faceva finta che andasse tutto bene, che fosse un periodo passeggero o il semplice effetto della primavera; anche se erano ormai anni che viveva in uno stato di apatia totale. Ma questo le aveva permesso di diventare un’ottima attrice.
 
Gioiva dei suoi successi universitari, o della vittoria di un contest. Alzava gli occhi al cielo quando le chiedevano del ragazzo con cui era uscita il weekend precedente, illudendosi che non era stata certo colpa sua se questo non l’aveva più richiamata. Mandava avanti una vita sociale più o meno attiva, anche se l’unica cosa che avrebbe voluto sarebbe stata seppellirsi in camera. 
 
Era in quella fase della vita in cui i giorni si susseguono, protagonisti di un’ordinaria routine. Sempre uguali, sempre gli stessi. Talmente monotoni da farle credere di essere rimasta ferma nello stesso secondo per chissà quanto tempo. Faceva le stesse cose, rispondeva alle stesse domande ed ogni giorno, alle dieci e mezza di sera, il pensiero di quanto sarebbe stato più appagante farla finita la sfiorava come una mano amica. C’erano mille modi per farlo, aveva pensato ad ognuno di essi con estrema attenzione, valutandone i pro e i contro.
 
Tagliarsi le vene sarebbe senz’altro stato molto drammatico e d’effetto, ma era sicura che le mancasse la fermezza per incidersi da sola la pelle fino al punto di non ritorno.  Mettersi una corda intorno al collo l’avrebbe fatta agonizzare, così come l’annegamento. Le pillole potevano essere un’ottima alternativa, ma procurarsene abbastanza per causarsi un’overdose non era così semplice.
 
Alla fine, si addormentava sempre cullata dalla promessa di non risvegliarsi. Promessa che ogni mattina veniva infranta.
 
***
 
« Hey, Abi, sei pronta? »
 
La voce di Mike le arrivò alle orecchie dal fondo dell’aula e, quando voltò lo sguardo, lo trovò fermo sulla soglia ad aspettarla. Ancora non capiva perché continuava a starle appresso. Dopotutto, nonostante i propri sforzi di apparire una persona normale, non era mai stata particolarmente loquace con nessuno, tantomeno con quello strambo ragazzo dai capelli biondi che, di certo, non rientrava nella categoria di appartenenti al genere maschile di cui potersi fidare. Era sempre troppo sorridente, troppo divertito, troppo flirtante. Eppure, in qualche modo, doveva aver catturato la sua attenzione con i propri silenzi e le occhiate furtive. Cosa che le faceva comodo, perché con Mike Turner al proprio fianco nessuno avrebbe avuto il coraggio di infastidirla al campus.
Annuì in sua direzione, finendo di raccogliere i propri appunti nello zaino, prima di caricarselo in spalla e raggiungere il ragazzo. Si limitò a seguirlo fuori, senza accennare l’inizio di una discussione che avrebbe senz’altro riguardato la noia estenuante della lezione di Storia del Cinema appena finita. Non che avesse qualcosa contro quella forma d’arte o quel corso in particolare che, anzi, le aveva permesso di scoprire registi che l’avevano fatta innamorare, ma la professoressa era davvero insostenibile. O almeno, era quello che dicevano tutte le centodiciassette persone presenti nell’aula. A lei sembrava ugualmente noiosa a tutti gli altri.
 
« Domani escono i risultati del bando. » Buttò lì, il biondo, mentre si incamminavano verso l’uscita. Ormai aveva imparato a non aspettarsi niente da lei e, puntualmente, era lui il primo a trovare qualcosa di cui parlare.
 
« Mmh— Non ci spero. »

« Piantala, del nostro anno sei sicuramente quella con più possibilità. »
« Questo è quello che dite tu ed Eleonor. A quanto pare, il parere del professore conta molto e non credo che la McKarthney abbia particolarmente apprezzato il mio ultimo intervento. »

Una risata leggermente roca e divertita uscì dalle labbra del ragazzo accanto a lei, facendolo sembrare ancora più luminoso di quanto già non fosse. Ma da dove diavolo la prendeva tutta quella voglia di vivere? « Dio, quello è stato sicuramente uno dei momenti più esilaranti della mia carriera universitaria. »
 
Abigael alzò gli occhi al cielo al ricordo di una delle poche volte che aveva mai deciso di aprire bocca in classe. Non era certo stata colpa sua se quell’idiota con il seno rifatto aveva denigrato una delle sue opere letterarie preferite, definendola come “la perversa e odiosa visione di un folle”. Era dovuta, per forza, correre in aiuto di Oscar Wilde; ne sarebbe andata della sua poca salute mentale rimasta, altrimenti. Peccato che non appena aveva zittito la professoressa, questa aveva annunciato che c’era la possibilità di vincere un concorso per uno stage retribuito in uno dei più importanti giornali di Londra, presentando una relazione su argomento a piacere che, ovviamente, avrebbe valutato lei. Con quello, era certa, di aver segnato la sua fine. 
Quando la brezza fresca autunnale le arrivò sul naso, si rese conto di essere arrivata alla fine dell’immenso corridoio dell’università e di essere già uscita fuori grazie a Mike che le aveva prontamente tenuto aperta la porta. 
 
Sospirò. Un’altra giornata finita. 
Uguale. 
Monotona. 
Ripetitiva.
 
Si chiese se lui non si sentisse così, ma sembrava evidente di no, dato il sorriso soddisfatto che aveva stampato sul viso dai lineamenti perfetti. Si sentiva così distante da lui - da tutti - che la solitudine sembrava l’unica difesa da utilizzare contro il vuoto opprimente che le invadeva il petto. Eppure sorrise, o almeno accennò a farlo, quando il biondo la salutò per correre a prendere l’autobus che aveva visto passare dal lato opposto della strada, lasciandola sola nel cortile con i propri pensieri. Si permise di perdersi un minuto, guardandosi intorno, studiando i profili - a volte conosciuti, a volte totalmente estranei - delle persone che invadevano la aiuole e le panchine, affollandole di libri e di troppe parole. Come se tutto fosse normale, come se tutto andasse bene. Come se fossero felici. E, probabilmente, lo erano davvero.
Si riscosse solamente quando dovette stringersi di più nella propria giacca di jeans, colpita da un improvviso brivido di freddo che le ricordò la fine della stagione estiva. Non dovette nemmeno stare a pensare alla strada che avrebbe dovuto fare, i suoi piedi conoscevano perfettamente l’itinerario per arrivare nel modo più veloce alla fermata della metro e lei si concesse di infilarsi gli auricolari nelle orecchie per godersi un po’ di musica. Le faceva compagnia. La faceva sentire meno sola. Come se immaginare che dietro a quelle note e parole si nascondesse lo stesso suo disagio, la aiutasse a non pensarci troppo. 
 
Nel giro di dieci minuti si ritrovò nel solito vagone della metro, con la stessa playlist che le rimbombava nelle orecchie e gli occhi puntati sullo stesso ragazzo. 
 
Lui faceva la differenza. 
Lui era l’unico momento della giornata in cui era felice di essere viva. 
Non sapeva perché, non sapeva come, ma un giorno, tre mesi prima, quello strano individuo dai capelli scuri si era seduto accanto a lei, e niente era più stato lo stesso. Stava sempre con lo sguardo perso in chissà quale pensiero, non si perdeva mai a passare il tempo fissando lo schermo dello smartphone e, una volta, avrebbe giurato di sentirlo canticchiare la stessa melodia che stava ascoltando lei con le cuffie. Non si erano mai parlati, non sapeva nemmeno il suo nome, ma ogni giorno aspettava le 18:30 per poter salire su quella carrozza e incontrare i suoi occhi. Non conosceva niente di lui, ma lo sguardo stanco, con cui ogni tanto l’aveva sfiorata di sfuggita, le ricordava il suo. Era come lei. Poteva capirla. Se lo sentiva. Eppure essere così vicini e allo stesso tempo così lontani ad una persona che avrebbe potuto condividere il suo stesso subbuglio interiore la spaventava. Non era pronta per affrontare l’eventualità che fosse solo un ragazzo imbronciato. Lui doveva rimanere il suo specchio. Doveva rimanere l’ancora a cui aggrapparsi quando la notte le lacrime affioravano per bagnarle il cuscino. Doveva rimanere un sogno. Anche se la tentazione di avvicinarsi a lui era sempre più forte e sempre più difficile da reprimere. 
Quella sera la metro era particolarmente affollata e non era riuscita a trovare posto a sedere. Se ne stava con la mano appesa ad uno dei pali di metallo che attraversavano da parte a parte la carrozza e cercava di capire quale libro il ragazzo stesse leggendo. Era seduto quasi di fronte a lei, ma per qualche motivo, non l’aveva ancora guardata. Sembrava più stanco del solito. Dopo qualche fermata, le porte si aprirono, lasciando entrare un’anziana signora dai capelli bianchi che si guardò intorno un po’ spaesata, alla ricerca di un posto dove potersi mettere.
 
« Prego, si sieda qua. »

La sua voce. Non aveva mai sentito la sua voce.
Era calda. Roca, ma non gutturale. Profonda al punto da spingerla a farle desiderare altro. 
Improvvisamente fece troppo caldo.

Si era alzato e adesso, a causa dello spazio ristretto, premeva quasi completamente sul lato sinistro del suo corpo. Era più alto di lei di almeno quindici centimetri e ciò le permetteva di sentire il suo fiato andarsi ad intrufolare fra i propri capelli. Avrebbe voluto urlare, avrebbe voluto sparire. Ma quando si decise ad alzare lo sguardo, trovò quello di lui a fissarla, penetrante. Non come si fissa una sconosciuta in metro. La guardava davvero. Le scavava l’anima con quegli occhi troppo verdi e le succhiava via ogni istinto di sopravvivenza con quelle labbra carnose, che - bastarde - se ne restavano socchiuse di fronte ai suoi occhi, inducendola a pensieri non del tutto casti. Forse fu solo la sua immaginazione, ma le parve che il lato destro della sua bocca fosse guizzato appena verso l’alto, come divertito da quella sua reazione. Probabilmente era arrossita.
Il suono acustico della vettura la riportò abbastanza alla realtà, per farle capire che doveva porre fine a quella situazione. Sgusciò via dalle porte aperte, ad una fermata che non era la sua e si permise di riprendere fiato solo quando ormai la metro era ripartita.
 
Improvvisamente, niente fu più tutto uguale. 


 

 

 

SPAZIO AUTRICE
Scrivo questa storia per dare sfogo alla mia vena romantica e sognatrice che solitamente reprimo. Per fare un po' di analisi interiore e per darmi, almeno nella scrittura, la possibilità di trovare qualcuno come me. Il titolo "Mille gradi di separazione" prende spunto da una teoria sociologica, per cui ogni persona è potenzialmente collegata a qualsiasi altra persona al mondo, con un giro di non più di sei contatti. Sta ad indicare che Abigael, la protagonista, si sente molto più distante dal resto del mondo, rispetto alle altre persone e, quindi, sei gradi non bastano. Ho utilizzato il raiting arancione e non rosso, per riuscire a raggiungere più persone possibile. Probabilmente, se dovessero esserci scene particolarmente esplicite, creerò degli spin-off a parte con il raiting rosso per permettere, a chi vorrà, di leggerli.

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 • Broken mirror. ***


 



 

Mille  gradi di separazione

II - BROKEN MIRROR

 

 

 

Non aveva più preso la metro, dopo quel mercoledì sera.

Non dopo che, quella stessa notte, aveva sognato mani e labbra e denti, appartenenti al ragazzo misterioso, su ogni angolo del suo corpo. Non era mai stata una ragazza pudica, ma non capiva come un semplice contatto sulla metropolitana avesse scatenato in lei reazioni così intense. In fondo, si era interessata a lui perché credeva di condividere la stessa anima travagliata, lo stesso disagio che la teneva per mano giorno per giorno. Eppure, c’era anche qualcosa di più. Qualcosa di più fisico, che l’aveva spaventata al punto da indurla a preferire un quarto d’ora di camminata, per arrivare alla fermata del tram più vicina, piuttosto che salire di nuovo sul vagone con lui. Sapeva di star tenendo un atteggiamento stupido e infantile, decisamente non adatto ai suoi ventitré anni, ma era già sull’orlo di un burrone di cui non riusciva nemmeno a vedere il fondo; se si fosse sbagliata - se si fosse resa conto di aver sognato ad occhi aperti per tutto quel tempo - era sicura che vi sarebbe precipitata dentro. 

Come se non bastasse, c’era stato un cambio di programma per quanto riguardava lo stage al Times. Lei e altri tre studenti avevano ricevuto una mail che li invitava a sostenere un colloquio per decidere quale di loro fosse il più meritevole per quell’ambito posto. Ancora non riusciva a credere che la McKarthney avesse valutato in modo positivo il suo lavoro. Era sicura di aver svolto un ottimo progetto, ma la professoressa le era sempre sembrata troppo frivola e povera di critiche costruttive per riuscire a separare la sfera personale da quella lavorativa. 
Ad ogni modo, il giorno del colloquio era arrivato e lei si ritrovava seduta su una delle scomode sedie di plastica fuori dalla sala conferenze dell’università. Accanto a lei, un ragazzo dai capelli rossi sembrava ripetersi un discorso ormai imparato a memoria. Dal canto suo, non si era preparata niente da dire. Lo trovava stupido, certo non l’avrebbero presa per qualche bella frase studiata e buttata elegantemente sopra un tavolino. E poi, a dirla tutta, non si aspettava nulla. Era l’unica donna e, per quanto sperasse che i pregiudizi a sfondo sessuale fossero ormai estinti nel ventunesimo secolo, era convinta che l’avrebbero scartata per prima. Si limitava, quindi, a sfogliare la propria relazione che aveva prontamente stampato e rilegato, nel caso le avessero fatto delle domande a riguardo. Passarono venti minuti buoni prima che chiamassero il primo candidato, e un’ulteriore mezzora per il secondo. Era rimasta l’ultima e tutti erano tornati al proprio posto nervosi e tesi, come se si aspettassero un brutto risultato. Era stato detto loro di aspettare lì, poiché l’esito sarebbe stato comunicato non appena tutti e quattro fossero stati ascoltati.

« Abigael Sparks. » La voce della professoressa le giunse alle orecchie tagliente e per niente amichevole, come se non fosse stata lei a volerla lì.

Si alzò prontamente, ma senza fretta, lisciandosi il tessuto ben stirato dei pantaloni scuri, prima di precedere la donna dai capelli biondi all’interno della stanza. Un lungo tavolo di legno la riempiva orizzontalmente e, dal lato opposto al suo, un uomo e una donna vestiti elegantemente, sedevano con un plico di fogli sparpagliato di fronte a loro. Alzarono lo sguardo quando sentirono il rumore dei suoi passi che si avvicinava. L’uomo sorrise, la donna no.

« Buongiorno. » Disse educatamente, mentre si accomodava sulla sedia solitaria che era stata adibita ad ospitare i candidati.

« Buongiorno a lei, signorina Sparks. O posso chiamarti Abigael? » Chiese l’uomo, mentre rovistava concitatamente nella marea di fogli, probabilmente alla ricerca di quello che la riguardava. Sembrava affabile e alla mano e questo contribuì a farla rilassare un po’,  nonostante lo sguardo della mora accanto a lui continuasse a studiarla severo.

« Abigael va benissimo. Vi ringrazio per l’opportunità che mi state dando. »

« Beh, suppongo che te la sia guadagnata. Il tuo articolo era ben fatto: nessuna ripetizione, stile fresco e non noioso, ottimo vocabolario. » La mano del moro andò a lisciare le pagine dell’articolo che aveva finalmente ritrovato. « L’unica cosa che mi ha stupito, e non so ancora se in senso negativo o positivo, è stato l’argomento: l’omicidio come forma di suicidio. Come ti è venuto in mente? » E, in effetti, il suo tono pareva realmente incuriosito. Abigael represse un sorriso, quella era la reazione che aveva voluto suscitare.

« Per quanto macabra possa sembrare, mi interesso di cronaca nera. Sarebbe l’ambito in cui mi vorrei specializzare, quindi, parte dell’articolo deriva da questo. Dall’altro lato ho una forte propensione per la letteratura classica e il mito, che mi ha ispirata e portata ad analizzare le ragioni e le conseguenze che stanno dietro un atto come l’omicidio. » Come se la risposta l’avesse soddisfatta, la donna dai lunghi capelli corvini sembrò rilassarsi e abbandonare il cipiglio severo che fino a quel momento l’aveva contraddistinta. Probabilmente era anche più giovane di quanto non sembrasse e quella sua aria autoritaria doveva essere una sorta di arma che utilizzava per farsi rispettare. La ammirava. E fu proprio lei a prendere parola.

« Le diremo la verità, signorina Sparks. » Abigael non mancò di notare che lei non intendeva prendersi la stessa confidenza del collega. « Il lavoro sarà duro, non ci saranno gratificazioni, né promesse. Se dovessimo scegliere lei, tutto quello che otterrà se lo dovrà guadagnare. C’è gente che ucciderebbe, tanto per rimanere in tema, per un’opportunità simile. Le consiglio di valutare bene ciò che implica far parte di un giornale come il Times prima di prendere decisione affrettate. »

Aggrottò le sopracciglia. Non capiva dove voleva andare a parare. Non credeva di avere l’aspetto di una sciocca ragazzina dai sogni più grandi di lei. Se quelle parole erano un semplice pretesto per spaventarla, non ci sarebbe cascata. « Non ho paura di impegnarmi. Né di rinunciare alla mia vita sociale. » Come se tanto le fosse importato qualcosa di intrattenere false relazioni. « Voglio questo lavoro perché mi permetterebbe di mettere una parte di me in qualcosa di utile. »

Era vero. Fin da piccola, tutti l’avevano additata come strana. Era sempre stata troppo. Troppo silenziosa, troppo riflessiva, troppo pragmatica. E questo l’aveva sempre fatta sentire a disagio, come se, quelli come lei, sarebbero dovuto essere rinchiusi in un angolo di mondo a parte per far sì che non influenzassero i “normali”. Crescendo, però, aveva capito che una reale definizione di normalità non esisteva e questo avrebbe dovuto farla sentire meglio. Eppure quella costante paura di non riuscire mai a far parte di niente, non sembrava volerla abbandonare. La letteratura, così come la musica, le aveva permesso di scoprire un mondo in cui niente era troppo, ma solo abbastanza. Un mondo dove tutte le sue stranezze avrebbero avuto un posto ben preciso.
Per questo, aveva scelto Giornalismo come carriera universitaria. Era abbastanza intelligente per capire che con una laurea in Lettere avrebbe concluso ben poco. Quello sembrava un’ottimo compromesso: avrebbe raccontato storie reali, ma pur sempre storie. 


« Molto bene. Non le nasconderò di essere sempre molto restia ad assumere personale femminile. » Disse la donna, piegando i gomiti sul tavolo così da avvicinarsi almeno di un po’ a lei. « Alla fine, creano sempre problemi, le donne. Fra pettegolezzi e richieste di ferie finiscono per far andare in palla il giornale. Lei non sembra il tipo, ma preferisco comunque prima discuterne con il mio collega. Si accomodi pure fuori, vi chiameremo quando avremmo deciso. »

E così fece. Per qualche assurdo motivo, era molto più agitata adesso, mentre aspettava il risultato del suo intervento, piuttosto che quando ancora doveva farlo. Aveva ripassato nella propria mente ogni secondo di quello scambio di battute e, alla fine, aveva capito che le cose sarebbero potute essere solo o bianche o nere, senza nessuna scala di grigio.
Passavano i minuti e ancora nessuno sembrava affacciarsi dalla porta. Il ragazzo al suo fianco continuava a picchiettare il piede destro contro il bordo della sedia; quello di fronte, invece, si era incantato a fissare chissà cosa sul muro alle sue spalle. Lei non riusciva quasi a muoversi, tanta era l’agitazione e non capiva come fosse passata dal meditare la morte prima di dormire, ad entusiasmarsi veramente per una cosa come quella. Certo, era un’occasione unica che le avrebbe senz’altro cambiato la vita, ma, alla fine dei conti, della sua vita non le era mai importato veramente. Almeno fino a quando quegli occhi verdi non le si erano parati così vicini da leggere anche le pagine più nascoste della sua anima. Scosse bruscamente la testa, impedendosi di pensare nuovamente al ragazzo misterioso. 

La porta si aprì. Lei alzò lo sguardo.

« Abigael entra, per favore. »

E lei si sentì improvvisamente più leggera.

 

***

 

La pioggerella leggera ma insistente, tipica del clima londinese, picchiettava sulla tela dell’ombrello mentre si affrettava a raggiungere il centro della città. A causa del maltempo i mezzi erano affollatissimi e, piuttosto che stare stipata fra un vecchio con la pancia e il classico uomo in carriera, aveva preferito farsi l’ultimo chilometro a piedi, anche per sfogare un po’ di tensione. Il giorno di inizio dello stage era arrivato e lei non sapeva se definirsi più nervosa o sgomenta. Era la prima volta, dopo l’inizio dell’università, che si riprovava di nuovo a credere in qualcosa. Come se si aspettasse di trovare in quel lavoro il senso della propria inutile e monotona vita. Ma credere in qualcosa di così vago era pericoloso: si sarebbe potuta scottare, si sarebbe potuta deludere. E, in quel caso, tutto avrebbe ricominciato dall’inizio fino a che, finalmente, non avrebbe trovato il coraggio di correre dietro a quelle fantasie che la cullavano prima di andare a dormire.
Il palazzo le si parò di fronte agli occhi molto diverso da quello dei normali uffici giornalistici. Le pareti erano completamente tappezzate da pubblicità di ogni tipo, dalla Coca Cola, alla Nike, e facevano sentire molto piccolo chiunque vi passasse sotto. Si avvicinò all’entrata con le porte scorrevoli in vetro e già notò le netta differenza fra esterno ed interno. Uno stile minimale e pulito caratterizzava la hall, dove sulla destra faceva bella foggia di sé un ufficio informazioni. Si avvicinò ad esso e tirò fuori il pass che le avevano fatto avere due giorni dopo il colloquio.

« Buongiorno, sono Abigael Sparks. Sono qua per iniziare uno stage, concordato con Matthew Lark. » Disse, sporgendosi appena sul bancone di vetro che la separava dalla ragazza bionda dalle unghie colorate che doveva avere pressappoco la sua età. Lo sguardo superficiale che le lanciò gliela fece già rimanere antipatica.

« Mmh— Quindi sei la nuova recluta. » Commentò mentre passava in rassegna la sua sobria camicetta bianca e i pantaloni scuri. Certamente lei, con quello scollato top rosso faceva ben più sfoggio di sé, ma attirare l’attenzione di tutti gli uomini del Times, certo, non rientrava nei suoi intenti. O almeno, non quel tipo ti attenzione. « Lo chiamo. » Le mani affusolate della bionda si strinsero attorno alla cornetta, subito dopo aver composto un numero a tre cifre. « Signor Lark, la ragazza è arrivata. Sì, certo. Nessun problema. » Mise giù. « Sta arrivando, aspetta pure qua. »

Abigael si allontanò di qualche passo, stringendosi la borsa scura contro il petto. Non sapeva bene che atteggiamento doveva tenere, ma alla fine, qualsiasi esso fosse stato, non ne sarebbe stata comunque in grado. Si limitò, quindi, a guardarsi intorno, ammirando come tutti i dipendenti si affrettassero da una parte all’altra del grande palazzo, impegnati in chissà quale mansione. C’era così tanta vitalità che, per un momento, si permise di sperare che avrebbe contagiato anche lei. Che si sarebbe ritrovata, a sua volta, a cercare, entusiasta, il modo più veloce di svolgere i propri compiti, non vedendo l’ora di arrivare a sera per potersi rilassare con una bella tisana. Era questo quello che facevano le persone normali, no? E lei aveva un disperato bisogno di sentirsi normale.
Matthew Lark fece il proprio ingresso trionfale scendendo - o meglio, trotterellando - giù per le grandi scale in marmo che si trovavano di fronte al suo naso, elegantissimo nel suo completo da lavoro. Il sorriso affabile, però, tradiva quell’aria formale.

« Abigael, buongiorno! Prego, seguimi. » Disse subito, senza quasi darle il tempo di metabolizzare la sua effettiva presenza. Impiegò qualche secondo per capire che sarebbe dovuta andargli dietro e, in un secondo, ringraziò la scelta dei mocassini al posto dei tacchi. « Ti faccio fare il tour. » Affermò, riniziando a salire le scale, come se il fatto di averle appena scese a chissà quale velocità non gli avesse procurato nessun affanno. Eppure, i suoi quarant’anni doveva averli. « Al primo piano, stanno i fotografi. Se tu dovessi aver bisogno di loro, ti consiglio di chiedere prima l’intervento dell’Ufficio Risorse, perché difficilmente accettano progetti non commissionati dai piani alti. » Snocciolò, mentre percorrevano a passo veloce un lungo corridoio diviso da lastre di vetro che separavano un ufficio da un altro. E poi ancora scale. « Al secondo piano, stanno gli addetti stampa. Niente di cui tu debba preoccuparti. Il terzo piano è il tuo. » Affermò, mentre finiva l’ennesima rampa di scale. Abigael avrebbe giurato di essere sull’orlo di un infarto. « La prima divisione riguarda gli articoli sportivi, poi c’è il gossip, la cronaca nera, i casi politici e infine economia. Questo, è l’ufficio stagisti. » Concluse entrando in un ufficio più grande rispetto agli altri, ma che ospitava quattro scrivanie, ciascuna occupante un angolo della stanza. « Al momento, siete solamente in due, quindi avrai la possibilità di allargarti se ne senti la necessità. Questa è la tua postazione. » Ed indicò la scrivania alla sua destra, dove il monitor della computer era già acceso e aspettava solamente che qualcuno facesse il login. « Hai qualche domanda? Non hai ancora espresso niente in merito. »

Per poco quasi non si prese a pugni da sola.

« Chiedo scusa, è che sono stata un’attimo sconvolta da tutto questo. » Si giustificò, piegando l’angolo della bocca in quello che avrebbe dovuto assomigliare ad un sorriso. « Non mi è molto chiaro che cosa dovrei fare. Devo portare il caffè ai giornalisti? Fare le fotocopie? Non so bene cosa aspettarmi. »

« Oh, no, niente di tutto questo. Dovrai revisionare le bozze degli articoli prima che questi vadano in stampa e, se troverai qualcosa di abbastanza interessante, potrai provare a scriverne uno tuo e cercare di fartelo approvare. » Le spiegò e lei tirò un sospiro di sollievo. Molti suoi colleghi universitari avevano partecipato a vari stage, convinti di assicurarsi una formazione e un buon nome da inserire sul curriculum, ma, alla fine, si erano ritrovati a fare gli schiavetti dei soci più anziani che li utilizzavano unicamente come esecutori dei compiti più ingrati. « Direi, quindi, che puoi iniziare. Su questo foglio trovi le tue credenziali di accesso e sui server del giornale le bozze che devi revisionare. Se hai bisogno di qualcosa, sono negli uffici al piano di sopra. Buona prima giornata di lavoro, Abigael. »

« La ringrazio, signor Lark. » Rispose prima che questo sparisse dietro la porta, chiudendosela alle spalle e lasciandola da sola in quello che sarebbe stato il suo posto di lavoro per i successivi sei mesi.

Andò a sedersi alla propria scrivania e si concesse di prendersi qualche minuto per capire che quello che stava succedendo era reale e non solo frutto di un sua complicata fantasia. Forse davvero quella sarebbe stata la svolta; forse, se si fosse buttata interamente in quell’impiego, anche lei avrebbe saputo apprezzare le piccole cose che sembravano mandare avanti tutte le altre persone. Eppure, le voci acute e le risate insistenti che provenivano dalle stanze accanto continuavano ad apparirle distanti, come insensate e lei si sentiva sempre più racchiusa nel suo piccolo mondo, solo con una location diversa.
Decisa comunque a darsi da fare, inserì l’ID e la password nel computer e premette inviò aspettando che il desktop caricasse con tutti gli articoli annessi. Le successive due ore passarono velocemente e si stupì di quanto lavoro stesse dietro ad un giornale come il Times. Nel giro di poco si era ritrovata il server e la casella mail intasata di bozze da revisionare. Aveva letto articoli di tutti i tipi, dall’ultimo campionato di tennis alle imminenti nozze di due attori famosi, di cui lei non riconosceva nemmeno i volti. Ogni documento era affiancato da note, commenti, domande e lei si perse in quel piccolo cosmo di parole al punto che, quando la porta dell’ufficio si aprì, non vi fece caso fino a quando il soggetto, che fino a quel momento era rimasto fermo sulla soglia, non aprì bocca.

« Mi avevano detto che uno stagista sarebbe arrivato a farmi compagnia, non mi aspettavo che avrebbero assunto una ragazza. »

Quando alzò lo sguardo, per poco non cadde dalla sedia. Quegli occhi verdi la stavano fissando, la stavano studiando, e per poco non si prese a schiaffi, convinta di essersi addormentata e di essere dentro ad uno dei suoi sogni. Lui era lì, di fronte a lei, con una camicia scura in dosso e i capelli ricci appena bagnati dalla pioggia autunnale. Bello come non mai e nella sua stessa stanza. Non poteva essere, non poteva accadere sul serio. Aveva passato le ultime due settimane ad evitare la metro come la peste, per non ritrovarselo davanti, per non dover di nuovo confrontarsi con quelle sensazioni sconvolgenti che le suscitava, per poi scoprire di doverci lavorare insieme.
Eppure lui sembrava distaccato, per niente simile a come appariva sui vagoni in corsa. Dello sguardo malinconico e perso che l’aveva conquistata e catturata nelle sue grinfie, non c’era alcuna traccia. La guardava come se fosse quasi infastidito dall’idea di dover condividere l’ufficio con una donna e, forse, era davvero questo il problema. Forse si era sbagliata. Forse aveva semplicemente cercato negli occhi di uno sconosciuto il suo riflesso, per sentirsi meno sola, per avere anche solo una remota ancora di salvezza. Ancora che adesso si dissolveva davanti ai suoi occhi, sotto il peso della consapevolezza di essersi sbagliata.

« I-Io sono Abigael. » Disse, quasi non riconoscendosi in quel balbettio incerto. Non era mai stata una ragazza insicura nei rapporti con gli altri, aveva sempre fatto in modo che la rispettassero, perché quello era il massimo che poteva ottenere.

« So chi sei, Matthew mi ha appena informato. » Matthew? Ah, il signor Lark. Doveva avere una certa confidenza per chiamarlo per nome. Chissà da quanto tempo era lì. Sembrava più grande di lei di almeno un paio d’anni. « Beh, non so che intenzioni hai, ma mi hanno incaricato di supervisionarti, il che vuol dire che se combini qualche danno la colpa ricade su di me. Ti consiglio di non fare mai in modo che questo succeda. Ora scusa ma ho un appuntamento. » E uscì, senza darle tempo di aggiungere alcunché.

Rimase lì, per un buon quarto d’ora a fissare il pannello di vetro dal quale era uscito. Non poteva credere di essere finita sul serio in una situazione del genere. Ancora, se si concentrava, riusciva a sentire il respiro del ragazzo infrangersi fra i suoi capelli e l’angolo della sua bocca incurvarsi in una smorfia divertita. Davvero non l’aveva riconosciuta? Si era fissati sulla metro per mesi. Ma, adesso, il pensiero che fosse solo lei a farlo la colpì come un treno in cosa, facendola sentire ancor più stupida ed inutile di quanto già non fosse. Avrebbe voluto solo sparire: era ovvio che non si ricordasse di lei. Quale pazzo si fa attrarre in quel modo da uno sconosciuto? Ingoiò tutto il suo orgoglio ferito e decise di rimettersi a lavoro. Non avrebbe permesso a nessuno - nemmeno a lui  di sconvolgerla un’altra volta. O almeno era quello che continuava a ripetersi. La giornata passò lenta e priva di qualsiasi altro evento significativo.

Quando andò a dormire, quella sera, sognò un ragazzo dai capelli ricci seduto sulla metro; le spalle curve e gli occhi persi.
Davanti a lui, la sua copia lo pugnalava al cuore.



 






ANGOLO AUTRICE.

Non è un capitolo avvincente, me ne rendo conto. Ma volevo che l'attenzione si focalizzasse anche sulla protagonista oltre che sull'incontro fra loro due, che, comunque, dovrebbe apparire significativo. La mia intenzione era quella di focalizzarmi abbastanza su Abigael per far capire ancora meglio il suo totale smarrimento nel trovarsi di fronte la persona che l'aveva scombussolata per tutto quel tempo. Gradirei davvero tanto delle recensioni, non per accrescere il mio ego, ma per sapere che cosa ne pensate, così da decidere se procedere in questa direzione o trovare altre strategie. Ve ne sarei davvero tanto grata.
Per quanto riguarda i volti dei protagonisti ognuno se li immagina come meglio crede, ma personalmente ritengo che Kit Harington sia perfetto nel ricoprire il ruolo del ragazzo misterioso (a parte per gli occhi verdi, che sono una mia aggiunta); e Lily Collins sarebbe un'ottima Abigael.
Fatemi sapere cosa ne pensate.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 • Replace the pieces. ***


 



 

Mille  gradi di separazione

III - REPLACE THE PIECES

 

 

 

 

« Hai corretto le bozze? »

« Lo sto facendo. »

« Quanto ti manca? »

« Ancora due articoli. »

« Avvisami quando hai terminato. »

Quella era la quarta reale conversazione che aveva avuto con il ragazzo misterioso, il cui nome aveva scoperto essere Richard. Ad ogni parola, ad ogni sguardo freddo che le lanciava, vedeva sempre più sbriciolarsi di fronte ai suoi occhi l’immagine che per tre mesi l’aveva cullata nelle sue notti solitarie. Aveva persino pensato di essere impazzita, perché non capiva come avesse potuto vedere qualcosa in più in lui che arroganza e cinismo. Magari aveva un fratello gemello, ma certo non era nella posizione per chiederglielo. Eppure, con tutti era simpatico, affabile, divertente, meno che con lei. Sembrava quasi che gli avesse fatto qualcosa, ma la verità era che si erano a malapena scambiati la parola. Non capiva nemmeno perché ne soffrisse così tanto, in fondo non lo conosceva nemmeno ed era molto più normale aver preso un abbaglio, che aver trovato, effettivamente, la sua anima gemella negli occhi di uno sconosciuto. Ad ogni modo si sentiva sempre più sola. Per più di una volta si era ritrovata a fissare le pagine di uno degli articoli, o le venature della scrivania senza pensare effettivamente a niente. Che senso aveva tutto quello? Perché si impegnava così tanto se alla fine, comunque, niente sarebbe cambiato? Aveva così tanta voglia di esplodere e di lasciarsi spegnere al tempo stesso, che si sentiva in tutto e per tutto la personificazione di un ossimoro.
Sospirò quando anche l’ultima parola dell’ultima bozza fu stata sottoposta alla sua revisione. Erano solamente le due del pomeriggio eppure si sentiva già stanca come se fosse stata in piedi per tutta la giornata e l’idea che lui avesse voglia di coinvolgerla in qualcosa la faceva sentire anche peggio. Avrebbe preferito di gran lunga che la lasciasse in pace una volta per tutte. Alla fine, dopo essersi concessa un caffè di un quarto d’ora alla macchinetta automatica in fondo al corridoio, si decise a comporre il suo numero e ad informarlo della sua disponibilità.

Dopo neanche mezzora se ne stava seduto, con i gomiti piegati sopra le ginocchia, sulla sedia di fronte alla sua nell’ufficio che condividevano.

« Hai presente il killer con le ali? » Lei annuì. Qualche settimana prima, il quartiere di Dulwich era stato sconvolto da un efferato omicidio. Uno dei più importanti rappresentanti politici londinesi era stato ritrovato ucciso e appeso, con le spalle e le braccia aperte infilzate nella balaustra, sulla facciata di una chiesa anglicana. « Pare che ci sia stato un altro omicidio. Non hanno ancora rivelato i dettagli, ma per qualche motivo lo ricollegano allo stesso mittente. Voglio andare al distretto prima che la notizia si diffonda, così da aggiudicarci l’articolo. »

Abigael si prese qualche secondo di tempo prima di rispondere. Non riusciva a capire perché la stesse coinvolgendo. Non credeva di stagli particolarmente simpatica - anzi, era molo più probabile il contrario - ed erano entrambi due stagisti, quindi, sarebbero dovuti essere in competizione e non alleati.

 « Non capisco perché me lo stai dicendo. » Asserì, infine.

« È un caso molto grande; sarebbe di enorme importanza anche per un giornalista già avviato. Ho avuto questa soffiata e mi conviene molto di più includerti e dividere l’articolo, piuttosto che rischiare che qualcun altro me lo soffi. »  Beh, il ragionamento non faceva una piega, anche se lavorare insieme ad un progetto come quello avrebbe voluto dire passare una marea di tempo con lui e non era sicura di riuscire a sopportarlo. Già vederlo tutti i giorni e rendersi conto ogni secondo di più di quanto fosse deviata la sua mente per arrivare ad immaginare una personalità completamente distaccata negli occhi di qualcuno che non conosceva, era abbastanza. Lui dovette percepire la sua incertezza. « Non farò giochetti, sono una persona corretta. Se ti prometto un articolo, lo avrai. » Certo non era quello a preoccuparla, ma non poteva rinunciare ad un’occasione così solo per colpa del suo cervello contorto e dei suoi ormoni in subbuglio.

« Dove dobbiamo andare? »

***

 

La stazione di polizia che si stava occupando del nuovo omicidio era brulicante di persone, sembrava quasi un formicaio. Masse di giornalisti si affollavano intorno alle porte blindate, cercando di entrare per riuscire a strappare un commento isolato a qualche poliziotto. Anche loro ci avevano provato all’inizio, ma poi Richard aveva ricevuto una telefonata, probabilmente, da parte del mittente della soffiata, e adesso se ne stavano seduti sui tavolini esterni del bar all’altro lato della strada, ad aspettare l’interessato. Il ragazzo, che se ne stava comodamente seduto sulla sedia di fronte a lei, aveva preso un americano e lo stava sorseggiando con disinvoltura, come se niente di quella situazione gli importasse. Lei non poteva dirsi ugualmente calma. All’ansia di star rincorrendo il suo primo articolo - e che articolo - si aggiungeva la stretta vicinanza al moro. Se due settimane prima le avessero detto che sarebbe finita insieme al suo ragazzo misterioso in un bar, non ci avrebbe mai creduto, eppure erano lì: così vicini e allo stesso tempo così distanti. Avrebbe dato qualsiasi cosa per far tornare gli occhi carichi di mille significati che era sicura di aver visto sulla metropolitana.
Quelli che sfoggiava in quel momento, invece, se stavano imperturbabili e illeggibili a fissare fuori dal gazebo, in attesa. Attesa che venne finalmente premiata quando un ragazzo dai capelli oro e gli occhi cielo non corse in loro direzione con un sorriso fin troppo largo.

« Ce l’ho fatta! Scusate se vi ho fatto aspettare. » Esordì con una voce roca, regalandole un’occhiata che sarebbe dovuta essere divertente, ma che lei trovò fuori luogo.

« Non preoccuparti, accomodati pure. » Intervenne Richard, facendoli segno con il capo verso la sedia rimasta vuota. « Lei è Abigael. Abigael, lui è Thomas: la nostra fonte di informazioni. »

La fonte di informazioni le tese la mano e lei la strinse per educazione, ma qualcosa la frenava dal dargli troppa confidenza. In fondo, si stava pur sempre trattando di un omicidio, non vedeva il motivo di tutta quell’ilarità. Eppure il suo collega sembrava essere a suo agio, anzi, addirittura in confidenza con lui. A guardarli sembravano completamente gli opposti: Thomas così solare, Richard così cupo. Mentre lei si sentiva semplicemente in disparte, con i suoi mezzi toni e i contrasti accecanti. La sera prima si era guardata allo specchio e il riflesso di sé l’aveva disorientata, come se tutti quei capelli cremisi non le appartenessero, come se le guance rosse facessero a cazzotti con il vuoto bianco che si sentiva dentro. Nessuno, però, sembrava notarlo, tantomeno i suoi interlocutori.
Il ragazzo biondo tirò fuori dalla tracolla di jeans che si era portato dietro un blocco nero pieno di fogli tenuti insieme da un elastico. Non sapeva che ruolo avesse all’interno di quella storia, ma di certo doveva saperne molto. 

« Arriverò subito al dunque e vi chiedo di essere discreti: ci rimetto il posto di lavoro. » Li avvisò, lanciando un’occhiata di avvertimento, soprattutto verso di lei. Capibile. « L’assassino è certamente lo stesso: stesso stile, stesso tema, stesso ceto di provenienza della vittima. Adesso vi farò vedere le foto della scena del delitto, vi prego di non scandalizzarvi. » Ma era ovvio a chi si riferisse. La stava nettamente sottovalutando.

Le immagini ritraevano una donna di mezza età, la gola tagliata, in ginocchio su un pavimento di lastre bianche e le mani legate insieme come in segno di preghiera. Vestiva abiti clericali, ma certamente non era una suora dato il trucco pesante sulla faccia. Doveva senz’altro essere una messa in scena; la rappresentazione di qualcosa. Anche nel primo caso, il corpo era stato disposto in una posizione strategica, come se le sue braccia fossero state le ali di un angelo in volo sopra la basilica di Dulwich. In questo caso, sembrava quasi un’opera di sottomissione.

Per un attimo, Abigael distolse l’attenzione dal soggetto nella foto e si concentrò su come questa era stata scattata. Angolatura perfetta, nessun segno di fretta da parte dell’esecutore. 

« Come fai ad avere queste? »

« Lavoro per la scientifica. Sono il loro “raccogli prove visive”. »

« E perché stai pensando di affidare il caso a qualcun altro? » L’angolo della sua bocca si mosse in un sorriso divertito. Abigael alzò lo sguardo su Richard e lo trovò a fissarla, serio, come se stesse effettivamente prestando attenzione a ciò che faceva.

« Perché il capo sta andando in pensione, il che vuol dire che non gliene frega niente se il caso venga risolto o meno. Gli altri sono una branca di idioti che continuano a fare test a caso, solo per sprecare prove e materiale. Non sono motivati. Voi sì, voi avete bisogno di questo articolo e sono convinto che siate molto più in gamba di loro. »

« Ho già collaborato con Thomas. » Intervenne, a quel punto, il moro, sporgendosi sul tavolo per andare a finire con un sorso la propria tazza di caffè. « Ci si può fidare. » E se lo diceva lui, doveva per forza credergli.

« La vittima è la segretaria del Primo Ministro. » Concluse Thomas, come se lei non avesse mai interrotto la sua spiegazione dei fatti. Le piacque. « Quando è stato informato non sembrava stupito, il che mi fa pensare che ci sia qualcosa sotto. Al distretto stanno intercettando le comunicazioni e analizzando il cellulare della donna per trovare qualcosa. Al momento, non ho molto più di questo. »

Non riusciva a capire il senso di tutto quello. Eppure uno schema doveva esserci: qualcosa che spiegasse la logica con la quale agiva. Nessun serial killer in grado di compiere gesti di quel tipo poteva essere un pazzo senza cervello, anzi, doveva essere molto intelligente. Per un attimo, le tornò in mente l’articolo con cui si era aggiudicata quel posto di lavoro. Di certo, in questo caso, l’assassino non si sentiva minato dalle sue gesta, perché queste venivano ripetute e continuavano a raccontare la storia che lui aveva in mente. Aveva certamente un fine, ma quale era?

Il ragazzo biondo raccolse alcuni documenti nella borsa che aveva svuotato poco prima, ma lasciò sul tavolo le foto, preoccupandosi di raccoglierle in una busta in modo da non farle vedere ad occhi indesiderati.

« Devo andare, prima che si accorgano che sono sparito. Le copie delle foto ve le lascio, ma, ripeto: discrezione. » Li ammonì, prima di alzarsi e lasciare una sonora pacca sulla spalla dell’altro ragazzo. « Ci vediamo domani sera. » Ed era ovviamente riferito a Richard, anche data la direzione del suo sguardo. « Abigael, è stato un piacere. »

« Anche per me. » Non era vero. Ma doveva dirlo e accompagnò la piccola bugia con un sorriso fino a che il biondo non fu fuori dal suo campo visivo. Quando tornò a guardare il suo compagno di avventure, questo stava analizzando la busta con le foto che l’amico gli aveva lasciato in mano. Stava pensando e, mentre lo faceva, sembrava così simile al ragazzo triste che aveva visto in metropolitana che, per un attimo, credette di essere davvero sul punto di toccargli l’anima. Almeno fino a quando lui non rialzò lo sguardo, rendendosi conto che lei lo stava fissando. Stupida

« Cosa te ne pare? »

Stava davvero domandando la sua opinione?
Inarcò le sopracciglia, stupita dalla domanda, dato che fino a quel momento non aveva prestato il benché minimo interesse a qualsiasi cosa passasse per la sua mente. Qualcosa doveva essere cambiato nella sua visione di lei, eppure non aveva fatto niente di speciale per fargli cambiare idea sul suo conto. Era sempre stata se stessa: tutta silenzi e sguardi furtivi. Aveva fatto il suo lavoro alla grande, ma niente più di questo. Eppure, lo sguardo sprezzante con cui l’aveva squadrata il primo giorno in ufficio sembrava essersi affievolito.

« Mi sembra una grande opportunità. » Incominciò, seguendo le venature del tavolo con la punta delle dita. « Ma con molti rischi. » Concluse, rialzando lo sguardo e lottando contro se stessa per non fargli notare come il modo in cui la stava guardando le facesse defluire il sangue dalla testa. Tutto quello era ridicolo. 

« Sicuramente. » Mormorò, accigliandosi. « Non voglio che accetti se non sei sicura. Dovremmo fare un sacco di turni extra, spendere tutte le nostre energie in questo, rischiando anche di andare contro la polizia. » Il suo tono era fermo, ma i suoi occhi tradivano quella sicurezza che avrebbe voluto lasciar  trapelare. Anche lui aveva paura e questo la rincuorava. 

« Non prendermi per una sprovveduta. »

« So che non lo sei. »

Ed eccolo.
Quello sguardo.
Quell’abisso di significati, capace di farla sentire meno sola al mondo. 
Era lì, proprio di fronte a lei, più vicino che mai e avrebbe quasi voluto urlare per la gioia di averlo visto di nuovo. 
Ma poi tutto si spezzò.

« Abi! Che ci fai qua? » La voce di Mike le giunse alle orecchie, strappandola, forse, dal sogno ad occhi aperti che si era concessa di fare. Quando si voltò nella sua direzione, lo trovò più vicino di quanto si fosse immaginata, proprio in piedi di fianco alla sua sedia.

« Mike! Sono qua per lavoro. Tu come stai? » Domandò, alzandosi un po’ frastornata, per lasciarsi stringere in uno dei suoi abbracci che avevano l’incredibile capacità di farla sentire sempre a disagio. « Lui è Richard, un mio collega. » “E il tormento dei miei giorni” « Mike è un mio compagno di università. » Spiegò, nervosa per chissà quale motivo. Forse per lo sguardo con cui il moro continuava a fissare il ragazzone alle sue spalle. Sembrava quasi che volesse incenerirlo e, per un lungo secondo, pensò seriamente che sarebbe rimasto in silenzio e lo avrebbe platealmente ignorato. Alla fine, però, si alzò a propria volta e gli tese la mano, mentre con l’altra le porgeva la busta con le foto, che lei prontamente afferrò per poi nascondere in borsa.

« Molto piacere. » Bugiardo.

« Come mai sei da queste parti? » Domandò alla fine, cercando di distogliere l’attenzione del compagno dal moro, che sembrava tutto fuorché amichevole.

« Sono venuto a prendere Lucy, stiamo andando a bere qualcosa. Volete venire con noi? »

« Veramente stavam— »

« Sì, con piacere. »

Per poco non si strozzò con la sua stessa saliva. 

Cosa diavolo aveva intenzione di fare? L’aveva ignorata fino a quella mattina, parlando con lei solo per questione di stretta convivenza o per farle notare qualche errore nel suo lavoro. L’aveva sempre e solo fissata con uno sguardo di sufficienza e di distacco, mentre con gli altri si lasciava andare, a volte, a quei rari sorrisi che avrebbe tanto voluto che avesse rivolto a lei. Almeno una volta. Aveva mantenuto le distanze, facendola star male la notte, mentre tutti i dubbi - su se stessa, sugli altri, sul mondo - affioravano, per poi accettare con tutta la nonchalance di questo mondo di andare a bere qualcosa con lei ed i suoi amici. Quale era il suo problema?

Probabilmente, lo sguardo che gli rivolse fu esplicativo dei suoi pensieri, perché quando Richard riportò lo sguardo su di lei, alzò semplicemente le spalle, come se quel gesto potesse spiegare il suo strambo ed irritante comportamento. L’istinto di lanciargli qualcosa, come il tavolo o la sedia più vicina, addosso fu veramente molto forte.

« Fantastico! Pensavamo di andare al nuovo locale sulla ventinovesima. »

E un’ora dopo erano proprio lì. 

Abigael con un drink dal dubbio colore stretto in una mano e Richard, al suo fianco, che fissava la propria birra come se fosse la cosa più interessante del mondo. E, probabilmente, in quel momento lo era davvero. Era stato carino con i suoi amici, si era presentato mettendo da parte quella faccia burbera che, a quanto pareva, sembrava utilizzare solo con lei, ma poi era diventato d’improvviso silenzioso e, una volta entrati nel caso del pub, non le si era più allontanato.

« Non ho bisogno della babysitter. È irritante. » Sbottò alla fine, dopo aver constatato per la decima volta quanto stramba fosse quella situazione.

« Si da il caso che io non conosca nessuno. E tu te ne stai in questo angolo da almeno venti minuti, mi pare ovvio tentare di farti compagnia. »

« Stai facendo compagnia al muro, non a me. Io sto bene così in queste situazioni. » Spiegò, alzando gli occhi al cielo e buttando giù un sorso alcolico, tanto per dimenticarsi a che ora assurda sarebbe arrivata a casa quella sera senza un reale motivo. « E piaci sicuramente a Lucy, non credo che tu abbia problemi a socializzare. »

« Beh, lei non piace a me. »

« Oh andiamo, quegli occhi azzurri non possono non aver fatto colpo. »

« E, invece, è proprio così. »

« E, quindi, vuoi farmi credere che preferisci startene in silenzio di fianco alla collega che detesti, piuttosto che tentare di abbordare qualcuna in questo locale pieno di donne? » Esclamò alla fine, fissando finalmente gli occhi in quelli di lui, per scoprire, però, una reazione diversa da quella che si sarebbe aspettata. Era serio. Terribilmente serio e, ci avrebbe giurato, lievemente imbarazzato.

« Io non ti— »

Ma le sue parole - parole che avrebbe voluto sentirsi dire, parole che forse le avrebbero finalmente fatto capire il motivo del suo freddo comportamento - furono bloccate sul nascere dall’entrata in scena da uno degli amici di Mike. Si erano incrociati solo un paio di volte prima di quella sera, ma erano bastate perché lei non si facesse una buona impressione di lui. Era sempre stato ubriaco, proprio come in quel momento quando, traballano un po’, le passò un braccio intorno alle spalle come se si conoscessero da chissà quanto tempo. 

« Hey, Abbie. » Odiava quando la chiamavano Abbie. « Perché te ne stai qua tutta sola? Non preferiresti venire a ballare con me? Sicuramente troviamo qualcuno anche per il tuo amico. »

« No, grazie Joshua, sto bene così. »

« E dai andiamo, cosa devo fare con te? »

« Magari lasciarla in pace. » La voce di Richard si intromise prepotente, più profonda e decisa di quando aveva parlato con lei un minuto prima. 

« Che c’è? Sei il suo ragazzo? »

« Se fosse? » Il cuore di Abigael perse un battito.

« Senti, ricciolo, vuoi davvero metterti contro di me? » Sbottò alla fine il ragazzo ubriaco, ma non appena ebbe finito di parlare il colletto della sua camicia a quadri venne afferrato dalla mano del moro. Gli disse chissà cosa all’orecchio, facendo in modo che lei non sentisse, ma evidentemente sortì l’effetto sperato, perché i suoi occhi si spalancarono quando Richard lo lasciò andare, per poi rivolgersi verso di lei.

« Questo posto è asfissiante. Ci vediamo domani, Abigael. » E sparì dietro le porte a vetri del locale, lasciandola stordita e confusa a fissare il punto in cui era rimasto a farle “compagnia” fino a quel momento.

Joshua non la infastidì per tutto il resto della serata.

 



 






ANGOLO AUTRICE.

Innanzi tutto mi scuso per il ritardo dell'aggiornamento, ma l'università mi  ha portato via più tempo del previsto; d'ora in avanti tenterò di essere più rapida. In questo capitolo, spero di essere riuscita a delineare un po' meglio il rapporto fra i due personaggi e di avervi incuriosito abbastanza per spingervi a continuare la lettura. Come avrete capito, non si tratta solo di una storia d'amore, c'è ben di più dietro e il rapporto fra i personaggi si svilupperà di pari passo con l'indagine. Questa storia è molto importante per me e vorrei riuscire a portarla a termine nel migliore dei modi. Qualsiasi appunto, qualsiasi consiglio, qualsiasi commento, quindi, è ben accetto. Recensite, recensite, recensite. A presto.

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 • Of troubles and feelings. ***




 

Mille  gradi di separazione

IV - OF TROUBLES AND FEELINGS

 

 

 



 

Non aveva chiuso occhio quella notte.
Continuava a vedere davanti ai suoi occhi quelli di Richard. Continuava a rivivere il momento in cui l’aveva difesa, come se fosse qualcosa di vitale importanza. E, mentre se ne stava rannicchiata sotto il piumone nel suo piccolo appartamento, lo era. Perché proprio in quello stesso luogo, prima che iniziasse a lavorare per il Times, aveva sognato il ragazzo misterioso, immaginandolo come l’unica persona in grado di capire il vuoto che si sentiva dentro. Ma poi era stata smentita. Platealmente e violentemente. Quel barlume di confidenza che lui le aveva dato - quella breve ed inattesa dimostrazione di interesse nei suoi confronti - le era bastata per cadere di nuovo nel vortice dei suoi occhi. Avrebbe voluto sapere di più, avrebbe voluto fargli un sacco di domande e si ripromise che il giorno seguente gliene avrebbe posta almeno qualcuna.

La mattina, però, arrivò troppo velocemente e lei si ritrovò alle nove - dopo aver affrontato un interminabile viaggio verso l’ufficio, fra tram affollati e taxi inesistenti - china sulla propria scrivania a redarre le bozze che avevano preso possesso della sua casella email. Il moro non si era ancora fatto vedere e lei non aveva la più pallida idea di come comportarsi. Si era già informata in merito alle notizie che la polizia aveva divulgato riguardo l’omicidio e stava iniziando a farsi una propria idea. Avrebbe, però, voluto parlarne con lui dato che sembrava il primo ad essersi interessato al caso. Gli articoli da correggere, tuttavia, scorrevano insieme alle lancette dell’orologio che ben presto arrivarono a segnare le dodici e quarantacinque. Aveva terminato la revisione degli articoli e si era dedicata al “killer con le ali”, anche se non nutriva molte speranze di trovare qualcosa da sola: non aveva mai fatto niente del genere. 

Proprio mentre apriva la pagina web delle news, la porta a vetri dietro di sé si aprì.

« Ti stai interessando al caso? » La voce di Lark la colse di sprovvista alle spalle, dato che era rimasta voltata verso lo schermo del proprio computer, credendo che si trattasse di Richard. 

« Oh, buongiorno! » Esclamò, voltandosi subito con la sedia per puntare lo sguardo in quello cristallino del suo capo, che continuava a fissarla sinceramente curioso. « Sì, io— Beh, mi sembra interessante. » Buttò lì alla fine, consapevole che raccontargli della soffiata segreta non sarebbe stata una grande mossa. 

« Vorresti scriverci un articolo? » La domanda la spiazzò.

« Credo di non essere abbastanza competente. »

« Lascia giudicare me. Me ne aspetto uno sulla mia scrivania lunedì mattina! » 

E sparì, così come era arrivato, lasciandola con un palmo di naso a chiedersi perché tutti sentissero questa strana esigenza di sorprenderla con gli atteggiamenti più strambi. Non poteva certo soffiare l’articolo a Richard, dato che era stato lui ad indirizzarla, ma, allo stesso tempo ignorare l’invito del proprio capo a fare qualcosa di concreto era totalmente fuori discussione.

Si passò le mani fra i capelli rossi, racchiudendoli in una disordinata coda di cavallo, così da non averli di fronte al viso mentre tornava a spulciare tutte le informazioni di cui aveva bisogno. Dopo qualche minuto di inutile ricerca, tuttavia, si ricordò di avere ancora le foto che Thomas aveva lasciato loro nella borsa e, stando attenta che nessuno entrasse, le tirò fuori per poterle guardare meglio. Erano crude, violente e fredde. Non era un tipo facilmente impressionabile, ma vedere quelle due persone martoriate e manovrate come burattini le faceva venire la nausea. Chi diavolo poteva essere così malato da mettere in scena una cosa del genere? Ma soprattutto, perché? Aveva preso di mira la classe politica londinese, quindi, sarebbe potuto essere anche un semplice e squilibrato cittadino in cerca di qualche tipo di redenzione, ma per arrivare a colpire due così alti esponenti dello stato doveva per forza aver avuto degli agganci interni. 
Mentre rifletteva, lo sguardo le cadde sulla fotografia che ritraeva la vittima del secondo omicidio. C’era qualcosa sulla mano sinistra, ma da quell’angolatura era impossibile capire che cosa. Rovistò nella busta, alla ricerca di una foto più vicina al punto che le interessava e, proprio quando stava per credere che non ce ne fossero, la trovò. Un simbolo inciso sulla pelle faceva sfoggio di sé nell’inquadratura del mezzo busto della donna. Non capiva bene cosa fosse, anche perché il sangue rappreso rendeva difficile disegnarne i confini, ma, a prima vista, sembrava una L con due gambe di tropo. 

Cercò nei cassetti della scrivania fino a che non trovò una penna, con la quale scrisse sopra la foto, evidenziando quello che aveva visto. Il fatto che sembrasse una ferita appena aperta doveva per forza far credere che fosse stato l’assassino a procurargliela. Ma perché? Che fosse una sorta di firma?  Come presa da una febbrile voglia di scoprire la verità, sparse le foto sulla propria scrivania, cercando fra quelle che riguardavo il primo caso qualcosa di simile. Ed eccolo. Sulla scapola destra dell’uomo, un altro simbolo, simile all’altro, ma diverso nella forma, era stato inciso nell’epidermide con qualcosa di molto sottile, come la lama di un bisturi. 
Improvvisamente le tornarono in mente tutti i saggi letti, tutti i libri gialli, tutte le indagini poliziesche di cui si era interessata e si diede della stupida per non averci pensato prima. Sperava seriamente che quelli del distretto fossero stati più svegli di lei. Era ovvio che il killer volesse lasciare una traccia, altrimenti non si sarebbe dato la pena di allestire le scene ogni volta. Voleva che lo scoprissero, che gli dessero la caccia e quelli erano di certo degli indizi lasciati per dar loro una momentanea pista. Ma cosa volevano dire? Non potevano essere dei simboli a caso. Le sue mani si mossero da sole, veloci e decise, sulla tastiera del computer digitando parole sul motore di ricerca, nella speranza di trovare qualcosa. Ma Google era troppo vasto affinché lei, senza un minimo di conoscenza dell’argomento, riuscisse a trovare qualcosa di affidabile. Un nome, poi, le si parò davanti all’ennesima ricerca: “Morgan Rey, esperto di simbologia”. 

Si scrisse l’indirizzo su un post-it e stava quasi per lasciare la stanza, quando la fonte di tutti i dubbi che l’avevano cullata quella notte non fece la sua entrata in scena, gettando la propria tracolla sulla sedia accanto alla sua. Era serio - più del solito, almeno - e le occhiaie sembravano segnare ancora di più i tratti già marcati del suo viso. La guardò solamente quando si rese conto di essere sotto il suo sguardo vigile già da una buona decina di secondi. 

« Ciao. » Le disse alla fine, prima di tornare a darle le spalle e sedersi alla propria scrivania. Per poco non gli lanciò qualcosa contro.

« Non credevo che potessi essere ancora meno loquace del solito. » Commentò, inarcando le sopracciglia e, probabilmente, stupendolo dato che fino a quel momento non si era mai permessa di fare battutine sul suo comportamento decisamente incoerente. 

« Ti infastidisce? »

« Mi infastidisce nella misura in cui mi trascini ad un’uscita che non avevo voglia di fare, per poi sparire senza una spiegazione. » Non mancò di notare come gli occhi di Richard fissassero tutto meno che lei e questo la irritò ancora di più. Quale era il suo problema? « E si può sapere cosa hai detto a Joshua? Dopo la tua scenetta pareva che avessi la peste da tanto mi evitava! »

« Perdonami, non avevo capito che traessi piacere nell’avere un cretino del genere a sbavarti addosso! » Esclamò lui, allargando le braccia in un segno di stizza. Che fosse geloso?

« Certo che no, ma sono quanto meno rimasta stupida dal suo comportamento. E anche dal tuo. » Spiegò, cercando di non alzare i toni per non peggiorare la situazione. Voleva spiegargli quello che aveva scoperto quella mattina e chiedergli se poteva accompagnarla all’indirizzo che aveva segnato, ma se avessero continuato con quella stupida ed insensata discussione senz’altro non sarebbe arrivata da nessuna parte.

« Il mio comportamento non ti riguarda. » 

« Vai al diavolo, Richard. » 

Come non detto.

Arrabbiata con lui e con quella parte di lei che gli permetteva di avere così tanto controllo sul suo umore, afferrò le proprie cose ed uscì dall’ufficio senza più voltarsi. Avrebbe voluto urlare o mettersi a piangere, ma non fece niente del genere anche se, si rese conto, forse era un bene che almeno riuscisse a provare qualcosa: solitamente se ne rimaneva inerme nel suo guscio di apatia. Richard riusciva a scatenare in lei sensazioni forti, anche se avrebbe sperato in modo totalmente diverso. L‘immagine di lui sulla metro, con gli occhi spenti e le spalle curve, non riusciva ad abbandonarla e le faceva rimanere addosso un senso di incompiuto che difficilmente sarebbe riuscita a scrollarsi via. Tuttavia, in quel momento, era troppo adirata per pensare a lui in modo positivo e si limito a raggiungere a passo svelto l’ufficio di Lark proprio in cima all’infinita rampa di scale.

Bussò due volte prima di permettersi di aprire il pesante battente di mogano e quando entrò il capo la accolse con il sorriso di sempre.

« Signore, avrei una pista per quanto riguarda l’articolo del “killer con le ali”. Mi servirebbe qualche ora di permesso. »

 

*** 

 

Trovare l’indirizzo che si era segnata era risultato molto più difficile del previsto. Come se la giornata non fosse già stata abbastanza difficoltosa, il telefono le si era scaricato, lasciandola in mezzo al traffico londinese senza la più pallida idea di dove si sarebbe dovuta recare.  Aveva chiesto in giro, ma quasi nessuno sembrava essere a conoscenza di niente. Alla fine, dopo aver comprato un caricabatterie in un vecchio negozio d’angolo e aver sfruttato la corrente dello Starbucks più vicino, era arrivata sul luogo. Peccato che fossero già le otto di sera e il quartiere non apparisse affatto convincente. 
Mentre si affrettava lungo il marciapiede sporco si sentiva addosso le occhiate di chi era perfettamente conscio che lei non avrebbe dovuto trovarsi lì. Da sola, tantomeno. Era uno di quei quartieri in cui scarseggiavano i soldi, ma abbondava la delinquenza. Uno di quelli in cui una come lei non avrebbe mai dovuto trovarsi. Cercò di rimanere calma, ma continuava a chiedersi come fosse arrivata a quello. Fino a due settimane prima, non riusciva a trovare nemmeno un motivo per cui potesse dire che la sua vita valeva qualcosa, mentre, adesso, si ritrovava a fare cose stupide soltanto per rincorrere un articolo. Cos’era che la spingeva a farlo? La voglia di trovare il colpevole? L’ambizione di fare bene il proprio lavoro? O la volontà di rifarsi agli occhi di Richard? Probabilmente, tutte e tre le cose, ma, mentre continuava ad avanzare per le strade che si facevano sempre più strette, avrebbe solo voluto avere lui al suo fianco. Senza neanche un reale motivo, dato che ben poche volte si era dato la pena di interessarsi a lei. 

Buttò giù il nodo che le attanagliava la gola, quando vide il gruppo di ragazzi che fino a quel momento l’aveva squadrata, attraversare la strada in sua direzione. Guardò nervosamente la mappa sullo schermo del cellulare, rendendosi conto che mancava davvero poco all’arrivo a destinazione, solo un altro centinaio di metri. Ma loro erano sempre più vicini, le loro voci sempre più alte e il suo cuore batteva sempre più forte. Che avrebbe dovuto fare?

« Hey, bella! Dove stai andando? »

Accelerò il passo. Mancavano cinquanta metri.

« Avanti, non ignorarci così: non ti facciamo niente. » 

Trenta. 

« Mi sono sempre piaciute le rosse. » 

Dieci. Riusciva a vedere l’insegna.

« Adesso frena, piccoletta. » Una mano rude le afferrò l’avambraccio, strattonandola all’indietro e facendola quasi cadere, ma lei continuò a fissare quell’insegna che avrebbe potuto significare la sua salvezza. Sapeva che urlare non sarebbe servito a niente. « Morgan Rey, eh? » Alla pronuncia di quel nome, portò di scatto lo sguardo verso la figura che continuava a tenerla ancorata lì. Doveva essere più giovane di lei, ma era sicuramente più minaccioso e più alto. I capelli, di un biondo slavato, erano lasciati lunghi, in una triste imitazione di quelli di Kurt Cobain, e una cicatrice gli spaccava il sopracciglio sinistro. « Non ci piacciono le spie qua, sai? » 

I suoi amici risero e, senza nemmeno sapere come, si ritrovò con il culo per terra nel vicolo di fronte al quale l’avevano bloccata. Il cuore sembrava esploderle nel petto, riempiendola di adrenalina, ma anche di consapevolezza. Lottare non sarebbe servito a niente. Non ce l’avrebbe fatta nemmeno se fosse stata in possesso di un’arma. Ma che diavolo le era venuto in mente? Recarsi lì da sola. Per cosa, poi? Per dimostrare a Richard di non essere una stupida? Beh, effettivamente aveva ragione lui. 
Si guardò intorno, alla ricerca di qualsiasi cosa avrebbe potuto aiutarla, mentre loro iniziavano ad avanzare verso di lei. Niente, non c’era niente. Solo cemento e rifiuti. In quel momento avrebbe voluto essere apatica. Avrebbe voluto non provare niente e agognare quella morte che tante volte aveva pensato di infliggersi da sola. Ma qualcosa la teneva legata a quel momento - alla vita - e ogni fibra del suo corpo sembrava lottare contro la voglia di lasciarsi andare. 

« Non ti azzardare a toccarmi. » Sibilò, quasi felina, quando una mano si sporse verso di lei per afferrarle un polso. E approfittò della sorpresa del ragazzo per tirarsi velocemente in piedi.

« Ah, ma allora parli. Avete sentito, ragazzi? Ha la voce. » Esclamò, ridendo. Ma poi i suoi tratti si indurirono, si fecero freddi e crudeli e la sua lingua uscì fuori dalle labbra per umettarsele, come un cacciatore che pregusta la sua preda. « Sarà un piacere farti urlare. »

La schiena al muro.
Le mani bloccate.
Un corpo premuto contro il suo.
Uccidimi. Fu l’unica cosa che pensò, ma era ovvio che quello non fosse il suo intento.

Riusciva a sentire il fiato di lui - che sapeva di marijuana e tabacco - infrangersi contro la pelle della sua guancia, così vicino che quasi le venne da vomitare. Non riusciva a muoversi e un avambraccio di quell’energumeno le premeva contro la gola, rendendole anche difficile emettere qualsiasi tipo di suono. Non era la prima volta che lo faceva, era evidente, e la sua mente volò già al dopo. Come si reagiva ad una cosa così? Come si andava avanti quando già la tua vita sembra priva di senso? Tentò di dargli un calcio, ma non riusciva a prendere la mira. Probabilmente, però, lo colpì perché sentì il gemito di lui e le risate dei suoi compagni.

« Hai bisogno di una mano, Trevor? Mi sembra agguerrita. »

« È come tutte le altre. Appena glielo metti dentro si tranquillizza. »

Quella frase. La spontaneità con cui l’aveva pronunciata. Il modo semplice in cui faceva apparire una cosa come lo stupro, le fece ribollire il sangue nelle vene. Prese a dimenarsi, usando tutte le sue energie, provando a gridare, a morderlo, a fare qualsiasi cosa pur di toglierselo di dosso. Sapeva che non sarebbe servito a niente, anzi, probabilmente lo avrebbe solo infastidito e sarebbe stato peggio, ma non gli avrebbe permesso di prendersi ciò che voleva senza lottare. Lui continuava a stringerla e sbatterla contro il muro. Le faceva male la schiena, le facevano male le braccia. Ogni cosa sembrava bruciare e stava quasi per arrendersi, quando, senza un apparente motivo, fra le urla generali e uno scalpiccio di fuga, si ritrovò libera e accasciata per terra. 

« Allontanati subito, prima che decida di farti un buco in testa. »

Quella voce le arrivò lontana, forse perché le orecchie le fischiavano così tanto da renderle difficile riconoscere perfino il suo stesso respiro. I passi di quello che l’aveva bloccata fino a quel momento si allontanarono veloci, raggiungendo i compagni. Doveva alzarsi, e lo fece, perché essere passiva e lasciarsi salvare da chissà chi proprio non faceva per lei. Ma non appena fu stabile sulle gambe, due mani l’afferrarono per le spalle e avrebbe ricominciato subito a dimenarsi se non avesse riconosciuto quegli occhi verdi che si erano incastrati nei suoi, con un’espressione preoccupata mai vista prima.

« Stai bene? » La voce di Richard era carica di emozione, carica di passione e per poco non si lasciò crollare fra le sue braccia, permettendosi di piangere con lui tutte le lacrime che si era sempre tenuta dentro. Ma si trattenne.

« S-Sì, sto bene. » Mormorò, portandosi le mani fra i capelli e cercando di far smettere la sua testa di girare. Si tirò, però, indietro quando le mani di lui tentarono di alzarla. « Ho detto che sto bene. Riesco a camminare. »  Non voleva farsi vedere debole. Non da lui. Non adesso. 

« Allora muoviti. » Mormorò, mentre raccoglieva da terra le cose che le erano cadute di mano, compreso il suo cellulare, per poi avviarsi all’uscita opposta del vicolo dove un BMW nero faceva sfoggio di sé, decisamente fuori contesto in quelle strade abbandonate a loro stesse. 

Lo seguì senza aggiungere altro, ancora troppo stordita per formulare un pensiero coerente. Doveva allontanarsi da lì, subito. O sarebbe impazzita. Salì sul lato del passeggero, trascinandosi dietro le gambe che sembravano farsi più pesanti di secondo in secondo. E lui era serio, decisamente incazzato - a buon ragione dopotutto. Solo quando a sua volta si fu accomodato sull’auto notò che, oltre ai suoi effetti personali, tenesse in mano anche una pistola. Beh, era ovvio, di certo quei tre non se ne sarebbero andati così se lui non avesse avuto qualcosa con cui minacciarli. Eppure il pensiero di lui armato la metteva in agitazione.

« Perché hai una pistola? » Sussurrò quando lui gettò tutto sui sedili posteriori. 

« È scarica. » Il suo tono di voce era nettamente diverso da quello utilizzato prima. Adesso era freddo, anche più del solito. Era tagliente e lei si sentì in colpa per il rischio a cui lo aveva esposto. 

« Come facevi a- ? »

« Sei un idiota! » La interruppe e il volume decisamente alto della sua voce andò ad intonarsi con il rombo della macchina che si accendeva. « Come cazzo ti è venuto in mente di venire qua da sola? Per cosa, poi? Incontrare un morto!? » Dovette accorgersi della sua espressione perplessa perché alzò gli occhi al cielo, per specificare, mentre si allontanava a gran velocità da quel quartiere. « Se ti fossi data la pena di controllare meglio prima di partire come un treno, avresti scoperto che Morgan Rey è stato ucciso una settimana fa. »

Rimase in silenzio, sotto il peso delle proprie colpe e della propria inesperienza. Aveva creduto che avere un’idea e impegnarsi per scoprire se fosse vera o meno sarebbe bastato, ma, a quanto pareva, non era così. Se c’era una cosa che non sopportava era proprio dover dipendere dagli altri. Non appena ne aveva avuto la possibilità si era allontanata perfino da suo padre, così da non dover pesare a nessuno. Ritrovarsi in una situazione del genere con l’unica persona di cui, in quel momento, le importava effettivamente qualcosa - senza un reale motivo, per giunta - la faceva andare fuori di testa. Voleva riscattarsi e, invece, aveva finito per peggiorare la propria situazione.  Non disse più una parola per diverso tempo. Ancora si sentiva addosso le mani di quel ragazzo e la paura di non riuscire a scappare. Se non fosse arrivato Richard, a quel punto, sarebbe già successo tutto e lei non avrebbe più avuto il coraggio nemmeno di guardarsi allo specchio. 
Il paesaggio continuava a cambiare di fronte ai suoi occhi, dall’altra parte del finestrino e solo dopo un’abbondante mezzora iniziò di nuovo a riconoscere le vie centrali di Londra. Era buio e i lampioni illuminavano la strada insieme alle insegne a neon delle varie pubblicità colorate. Si sentì di nuovo sola. Di nuovo estranea a tutta quella vita che sembrava andare avanti indipendentemente da tutto e da tutti. 

« Dove stiamo andando? » Domandò alla fine, senza distogliere lo sguardo dal semaforo al quale si erano fermati.

« A casa mia. » Disse con una semplicità che la disarmò, facendole sgranare gli occhi. Cosa?« So che abiti fuori città. Non sei nelle condizioni per fare un viaggio del genere da sola e io preferisco ospitarti da me, piuttosto che fare avanti e indietro. »

Deglutì, mentre lui ripartiva. Dopo tutto quello che era successo non sapeva se fosse effettivamente in grado di passare la notte a casa di lui. Era già debilitata per conto suo e l’unica cosa che aveva pensato di fare era un bagno caldo e buttare fuori tutta la tensione che si era tenuta dentro per tutta la giornata. 
Voltò il capo per guardarlo e ne studiò il profilo definito: la mascella marcata, coperta dallo scuro strato di barba; gli occhi fissi sulla strada; il naso dritto; i capelli in cui avrebbe tanto voluto affondare le mani. Tutto in lui la richiamava, eppure il ragazzo sembrava detestarla e, dopo quella serata, ne aveva tutte le ragioni.

« Ti fa male? » Solo quando lui aprì di nuovo bocca si rese conto che lui le stava lanciando occhiate furtive a propria volta. A cosa si riferiva? « Il ginocchio, ti fa male? »

Abbassò lo sguardo e trovò la calza scura che aveva indossato quella mattina lacerata dalla coscia in giù e una macchia rosso scuro si estendeva dal ginocchio fino a metà dello stinco. Non si era nemmeno accorta di essersi ferita. A giudicare dal primo impatto non doveva essere niente di profondo: probabilmente, aveva solo strusciato per terra. A preoccuparla erano di più le condizioni delle sue collant. Non sarebbe certo potuta andare a lavoro il giorno dopo con solo il vestito di lana che aveva indosso. 

« Oh- No. Non è niente. » 

Lui la guardò perplesso, ma poco dopo venne distratto dalla manovra di parcheggio e lei poté tornare a respirare regolarmente. Si rese conto di essere in un grande piazzale, all’interno di uno di quei palazzi che ospitano un sacco di appartamenti. Non si sarebbe mai potuta permettere niente del genere. Lo seguì fuori dall’auto quando lui scese.
Neanche cinque minuti dopo, le porte dell’ascensore che avevano preso si aprirono, mostrandole l’ingresso di una casa non troppo grande ma decisamente ben curata. Gli arredi erano scuri, ma la grande parete a vetri che permetteva di vedere le affollate strade di Londra sotto di loro rendeva il tutto non opprimente. L’adorava. 

« Vieni qua. » Le disse Richard, dato che fino a quel momento era rimasta impalata sull’ingresso con la propria borsa in mano, a fissare quella casa stupenda. 

Ubbidì e, quando fu vicina, lui le fece segno di accomodarsi sullo sgabello della cucina, mentre rovistava nei mobiletti alla ricerca di chissà cosa. Quando tornò da lei, aveva in mano dell’acqua ossigenata e dei batuffoli di cotone che appoggiò sull’isola alle sue spalle, prima di avvicinarsi ulteriormente. Abigael dovette trattenere il fiato, perché vederlo inginocchiarsi di fronte a lei, mentre le teneva fra le mani la gamba per esaminare la gravità della ferita, le faceva decisamente uno strano effetto. I suoi polpastrelli le accarezzavano la pelle del polpaccio, fortunatamente ancora coperta in parte dal sottile strato di nylon.  Le sembrò di andare a fuoco. Soprattutto quando lui, con tutta la naturalezza del mondo, le tolse gli anfibi dai piedi per poi poggiarli a terra, di fianco al muro.

« Che stai facendo? » Mormorò e il suo tono di voce fu più rotto di quando non avesse preventivato. Fortunatamente lui lo interpretò in modo totalmente sbagliato.

« Rilassati, non ti faccio niente. Solo che non riesco a disinfettarla con tutta questa roba che hai addosso. » Se solo avesse saputo quando desiderava non avere niente addosso. « Credo che- Beh, dovresti toglierti le calze. »

E nonostante sapesse che quella richiesta era stata fatta solo per poterla aiutare meglio, dovette deglutire un paio di volte per riprendersi del tutto. Di certo non voleva fare l’amore con lei. Ma perché lei sì? Perché lei era pronta a concedersi a lui anche in quel momento, come se tutti quei giorni in cui aveva passato a trattarla male non fossero mai esistiti? Non era mai stata così. Non aveva mai dato confidenza a nessuno, tantomeno agli uomini e specialmente in quel senso. Eppure con Richard tutto era diverso. La sua pelle, solitamente così piatta e inerme, sembrava prendere vita e il cuore - che aveva maledetto così tante volte per quel battito frenetico - voleva appartenere a lui, nonostante praticamente non ne conoscesse niente.
Alla fine, riuscì a scendere dallo sgabello abbastanza stabilmente per fare quello che le aveva chiesto, per poi rimettersi seduta prima che il tremolio delle sue gambe tradisse la sua reale agitazione.

« Posso farlo da sola. » 

« Lo so. »

« Allora perché lo stai facendo tu? »

« Voglio rendermi utile. »

« Mi hai già salvato la vita, non ti sembra abbastanza? » 

Gli occhi del moro, che fino a quel momento erano stati fissi sul suo ginocchio, a seguire i movimenti della propria mano, si alzarono verso di lei. E lei lo vide di nuovo. Quell’abisso verde in cui avrebbe voluto gettarsi a capofitto solo per provare, almeno una volta nella sua vita, la sensazione di essere compresa. 

« No, non è abbastanza. » Mormorò, senza distogliere lo sguardo. « Devo chiederti scusa. » Che stesse sognando? « Se non mi fossi comportato da coglione non saresti andata da sola. » 

Era lì, così vicino da poter sentire il suo odore, tanto che le tornò in mente il loro primo contatto fisico sulla metro e quel sorriso sbieco che gli aveva provocato il suo arrossire. Ma questa volta non sarebbe scappata, né da lui, né dalle sensazioni che la spaventavano. Avrebbe voluto donargliele e chiedergli se anche lui provasse lo stesso, ma era troppo orgogliosa e troppo ferita dall’atteggiamento che aveva tenuto con lei in quei giorni per poter fare un passo in più.
Rimase lì, con il respiro corto, a godersi la sensazione della sua mano che dal ginocchio le risaliva la coscia, il fianco, il busto, mentre il pozzo verde dei suoi occhi sembrava risucchiarla sempre più a fondo. Stava per baciarla. Doveva baciarla. Ma si allontanò e lei sentì improvvisamente freddo.

Sembrava altrettanto scosso.

« Credo che tu debba riposare. La camera è infondo al corridoio, io me ne sto sul divano. » 

Due ore dopo, era ancora sveglia, ma in un letto che almeno profumava di lui.

 
 



 






ANGOLO AUTRICE.

Ancora una volta ho aggiornato meno velocemente di quanto volessi, ma questo capitolo mi ha un po' preso la mano e mi sono ritrovata ad aggiungere elementi che non avevo preventivato. Si entra nell'azione, si sviluppano le prime idee sul caso e anche il rapporto fra Abigael e Richard muta, trasformandosi in qualcosa di più complicato. Spero che apprezzerete, perché io mi sono divertita a scriverlo.
Vi invito ancora a recensire e vi lascio un bacio. Per qualsiasi dubbio non esitate  contattarmi.
A presto.

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