Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli: Capitolo 1: *** Prologo: Il Nostro Giardino *** Capitolo 2: *** Parte I: Nostoi - Capitolo I.1: Ad occhi aperti I *** Capitolo 3: *** Parte I: Nostoi – Capitolo I.2: Ad occhi aperti II ***
È
doveroso che inizi con le
mie scuse più sincere ai lettori che avevano recensito o
inserito questa storia
fra le seguite o le preferite: stavo provando ad aggiornare il
prologo e -
dando prova di assoluta inettitudine - ho accidentalmente
cancellato tutto.
Sono sinceramente mortificata e mi scuso profondamente del
disagio arrecato.
Spero di potermi far perdonare.
I
personaggi di Saint Seiya
appartengono a Masami Kurumada e alle altre persone giuridiche
competenti; i
personaggi storici e mitologici sono di dominio pubblico; i
personaggi
originali appartengono a me. Questa storia non è scritta a scopo
di lucro.Ulteriori
note al fondo.
La rosa dei venti
Prologo
Il
nostro giardino
Il
faut cultiver
notre jardin
-
Voltaire, Candide
ou De l’Optimisme -
Santuario,
17 aprile
1987
Aphrodite
amava l’ordine.
Amava
l’ordine perché Ordine
è Bellezza; e la Bellezza è l’ordine, sottile e misterioso,
nascosto nella
trama delle cose, l’ordine silenzioso che segna ascisse ed
ordinate
nell’amalgama indicibile del caos – e fa il Sublime.
Aphrodite
dall’alto vedeva,
contemplava. Dall’alto della sua Dodicesima Casa, dalla quiete
del suo
santuario di petali e rovi, dalle contraddizioni quasi sopite,
quietate, che
aveva sentito, sofferto, compiuto e talora anche amato; da lì,
dall’alto, anche
la vita gli sembrava bella – più bella di quanto avesse mai
visto e capito
prima.
Ma
la pienezza languida e
matura d'un pomeriggio calmo è sempre troppo breve: seguita il
tramonto; e
l'orizzonte placido e brillante segna il confine d'un
presentimento. Non che
Aphrodite credesse alle sensazioni: aveva abbastanza precedenti
per veder le
premesse e trarne le dovute conclusioni. Però questa volta era
sorto,
inaspettato, un giorno nuovo, un giorno diverso, un giorno
ch'era stato una
sorpresa: questo tramonto era d'un'altra sorta.
Dall'alto,
Aphrodite vedeva;
ma non si vede mai dove finisca il cielo: l'altitudine diventa
una vertigine,
lo sguardo coglie solo linee tremolanti – ed i dettagli, che
celano gli dèi,
non sono più che miraggi indistinti.
“Cosa
rimugini?”
Il
tepore secco e noto d’una
mano amica, familiare, di una pelle la cui consistenza, la cui
trama, avrebbe
saputo ridire a memoria, gli si posò sull’incavo tra la spalla e
il collo, là
dove palpita una favella ancora di vita. Quella mano forte, che
– discretamente
– prendeva la sua quando questa tremava, era la mano cui
rivolgeva la sua più
sincera, intima gratitudine, l’unica mano che potesse toccarlo
così – entrambi
disarmati, pronti a ferirsi, a lasciarsi far male, trovandovi
una forma di
piacere, o di consolazione –, nonostante tutto, tutti gli
sguardi e le parole
dette male o per scherzo crudele, privato, tra loro, nonostante
tutti gli
errori, nonostante tutte le carezze scambiate, troppo tenere –
spesso – per non
essere brutali per il fondo del cuore – o forse proprio per
questo. Era l’unica
mano che avrebbe voluto l’accompagnasse, stringendo la sua, fino
alla fine dei
suoi giorni, ancora una volta – mano non di rose ma di sole e di
ombre
indicibili; mano tanto amica, tanto nota.
Perso
nei suoi pensieri,
perso nel pomeriggio, non l'aveva sentito arrivare; non l'aveva
visto salire.
Sapeva benissimo come avesse trascorso il suo giorno fra le
macerie della Casa
che gli appartenne, fermo al passaggio che dovette custodire, il
suo museo, il
suo cimitero; sapeva benissimo che voleva andare.
“Stavo
riflettendo,” rispose,
con un sorriso accennato, nella voce più che sulle labbra:
voleva quel che
voleva, ma s'era risolto a venire – forse per farsi convincere,
forse per farsi
tentare; forse soltanto per salutare. Convincerlo, Aphrodite
poteva, e farlo
ragionare; tentalo era quasi banale... ma era impensabile
doverlo salutare.
“Fin
qui c’ero arrivato pure
da solo, sai?”, Cancer gli sedette accanto, sull'ultimo gradone,
nell'angolo
che volge alla roccia, dove la montagna si schiude appena con un
cenno segreto,
un occhiolino, e lascia intravedere uno scorcio di mare in
lontananza. Vestiva
un ghigno che imitava il solito, ma era più stanco, un po' più
finto, troppo
poco violento per rassicurarlo che tutto fosse come sempre, che
nulla fosse
cambiato; probabilmente Deathmask intendeva solamente
rassicurare sé stesso – e
i muscoli tirati della faccia, in una smorfia che tenta appena
d'essere
l'usuale, son meglio di niente. Eppure, stavolta non osava
guardarlo: si
fissava le mani, pigramente giunte fra le gambe aperte – in una
posa
studiatamente lassa, scomposta, un po' arrogante –, e le punte
dei piedi, per
evitare di scorgere le nuvole vaganti e l'azzurro più in basso,
più profondo e
assai più invitante, che lo chiamava dallo squarcio nel monte; o
forse solo gli
occhi intelligenti di Aphrodite, quasi di mercurio in quella
luce dorata e
calante. In un'altra vita, Saga gli aveva detto che
all'imbrunire aveva gli
occhi duri di un inquisitore.
Deathmask
sapeva che allo
sguardo d'Aphrodite è difficile sfuggire – e che, per capire
lui, non aveva
neppure bisogno di osservare. Così sapeva anche che Aphrodite
non amava girare
intorno alle questioni: elegante, gli avrebbe dato uno spazio,
un'apertura per
parlare, usandogli il tatto che ci vuole verso un parigrado e –
occasionalmente
– verso un vecchio amante; ma, al suo silenzio, non avrebbe
indugiato a
domandare, senza tentennare, senza dargli tregua, come si fa con
gli amici di
sempre.
Con
Aphrodite, in fondo, fra
indulgenza e tortura non c'era una netta distinzione: faceva
sempre quel che
credeva ci fosse da fare, non si curava di quanto facesse male –
almeno non a
sé stesso: per loro, serbava un poco di riguardo, quel po' di
compassione che
troppo di rado riusciva a mantenere –; metteva in conto tutte le
conseguenze,
sapeva ch'è inevitabile soffrire. Ma non era Shaka: non s'illuse
mai di non
sentire.
Forse
era anche quella una
forma d'amore; lui, dal canto suo, d'amore non se ne intendeva:
facevano
l'amore a modo loro, un amore che entrambi non erano avvezzi a
dire – la
tenerezza sovente un sottinteso. L'amore d'Aphrodite era come un
pugnale che
affonda nella piaga, con una mano ferma, per farla sanguinare,
finché non sia
purgato tutto il marcio; se necessario, l'avrebbe riempita anche
di sale, per
disinfettare... L'amore di Aphrodite era un amore facile da
odiare.
Eppure,
Deathmask non l'odiò
mai: avrebbe voluto solamente poterlo ringraziare, avere le
parole, saper come;
essere in grado di dire che, per lui, la tenerezza era la
gratitudine di non
aver dovuto vederlo morire, di non aver dovuto ricomporlo in un
abito formale,
avvolgerlo in un sudario bianco più della sua pelle, piantarlo
troppo in fondo
nella terra, assieme alle sue rose. La tenerezza era l'immenso
sollievo di non
aver dovuto volergli fare compagnia fino alla fine, per poi
lasciarlo andare,
guardandolo cadere, senza riuscire a distogliere lo sguardo –
no, non avrebbe
potuto smetter di guardare, neanche nell'orrore: togliere gli
occhi di dosso ad
Aphrodite è quasi impossibile, comunque è un errore, sovente
letale. Deathmask
non aveva smesso di guardarlo neanche sprofondando insieme:
fisso, solo lui,
come se invece che all'Inferno si stessero tuffando nel piacere.
Sarebbe stato
intollerabile non poterlo seguire, dover rimanere; adesso gli
pareva
altrettanto intollerabile non poter andare - né avere il
coraggio di chiedergli
se lo volesse accompagnare.
Anche
volendo, Deathmask non
sapeva da dove cominciare.
Però
oggi anche Aphrodite
aveva bisogno d'interrogarsi interrogando lui, ad alta voce, per
mettere ordine
in mezzo ai propri pensieri, tirarseli vicini: talvolta, se si
sta troppo in
alto, si è troppo lontani per vedere; talvolta quel che si
chiede non è una
domanda, ma una conferma, o una rassicurazione.
Tutto
era quieto, si muoveva
appena: i suoi capelli lunghi, li scostava la brezza – mite,
accennata – che
soffia quasi pigra a metà aprile; il sole arrossato, declinando,
glieli
infiammava d'oro brunito, un riflesso più scuro che scivolava
via di secondo in
secondo. Voltandosi a guardarlo, Deathmask pensò che non ci
fosse nulla di più
bello al mondo: bello come un segreto condiviso; bello come le
cose troppo
esili per essere fragili, che restano sempre e sono spietate.
Neanche lui era
un uomo di pace, neanche lui lo sarebbe mai stato: se glielo
avesse detto,
avrebbe capito; se l'avesse invitato, forse l'avrebbe seguito.
"Questa
pace sospesa non
potrà durare", Aphrodite andò diritto al cuore della questione,
senza
preavviso, esattamente come era solito fare. Non era altro che
una
constatazione, una presa d'atto, una premessa su cui ragionare –
ed un ricatto:
non te ne potrai andare –; ma era anche un fatto bruto e
vero: neppure
Deathmask lo poteva negare. Aphrodite non era incline ad essere
gentile, ad
indorare la pillola, a consolare, a rassicurare; ma con lui
pareva sempre
funzionare – in fondo Aphrodite, da bravo giardiniere, estirpava
i problemi
alla radice.
"Il
che ti
rincuora", non era una domanda, ma un'osservazione: le mani
d'Aphrodite
erano sporche, erano tagliate; la sabbia e la terra s'erano
infilate sotto le
sue unghie appena troppo lunghe, sempre curate. Non era stato
mai capace di
tollerar l'inerzia, di stare inoperoso, o d'aspettare un ordine
o una
spiegazione senza preoccuparsi, senza ragionare: la sua
insofferenza
nell'attesa dei marmocchi, gli invasori, fu di quelle che per
anni si sarebbero
potuti rinfacciare; s'era anche offerto d'andare a trucidare
Cepheus e i suoi
innocenti, soltanto per avere qualcosa da fare. Deathmask non
aveva provato
neppure a commentare: sapeva che le rose e il sangue l'aiutavano
a calmarsi ed
a pensare – in questo, si riuscivano a capire.
"Cercavo
di rincuorare
te", gli fece notare. "Siamo tornati indietro. Sai meglio di me
che
non è stata Athena, che non ne ha il potere. Siamo tornati
indietro... Può
esserci soltanto una ragione".
"Un'altra
guerra..."
"La
guerra. La guerra
che aveva da venire", Aphrodite lo corresse, con un mezzo
sorriso,
piuttosto divertito: si dilettava anche a correggere e
giudicare, ma – per
fortuna sua – solo raramente a predicare.
"Un'altra
guerra...",
insistette lui, per abitudine e l'usuale spirito di
contraddizione. "Forse alla fine niente dovrà cambiare", mormorò
quasi a sé stesso – forse con speranza, forse con terrore.
"È
già cambiato tutto.
Siamo cambiati noi", Aphrodite gli rispose con un'evidenza e con
rassegnazione. Come sempre, aveva anche ragione; Deathmask aveva
solo la
propria stanchezza ed un po' di rancore.
"Cosa
ti fa credere che
io sia in grado di combatterla, questa tua nuova guerra? Cosa ti
fa credere che
ci sia posto per me, tra queste fila? Non sono un santo, non
sono un eroe...".
Soltanto allora si rese dunque conto che, ancora una volta,
Aphrodite era
riuscito a farlo confessare, a fargli dire tutto quel che voleva
sapere – con
garbo, con una rosa rossa che all'apparenza non faceva male, ma
che ora gli
lasciava uno strappo nel petto, tra lo stomaco e il cuore.
Ancora
un'altra volta, aperta
la ferita, a modo suo Aphrodite la volle ricucire: "L'Inferno,
il Muro dei
Pianto, e che hai fatto sempre quello che c'è da fare. Cancer ti
ha punito, non
ti ha abbandonato; neanche tu ci puoi abbandonare."
"Ho
abbandonato Mei...
Cosa ti fa credere che non possa disertare?"
Aphrodite,
allora, parve
riflettere per qualche secondo, prima di sorridere, dolcissimo e
tagliente,
come la sera d'aprile, da mozzare il fiato in quel sole morente:
"Mei ...
al Chrysos Synagein chiederemo l'autorizzazione formale
per andare a
riprenderlo e farlo investire: se questa guerra sta per
incominciare, avremo
bisogno di tutti i guerrieri che riusciremo ad arruolare."
"Non
voglio mandarlo a
morire".
Non
era stato certo un
abbandono, ma solo il desiderio di poterlo risparmiare, la
sciocca conseguenza
d'un'insensata affezione: non voleva ammetterlo, ma non lo
poteva refutare;
Aphrodite, insolitamente magnanimo, non glielo fece notare.
"Allora
fa in modo di
essere qui per assicurarti che non accada".
"Sono
queste le tue
buone ragioni?", avrebbe dovuto essere sospettoso, non
incredulo.
"Oh,
no! C'è anche che
non hai nessun altro luogo in cui poter scappare: l'Inferno è in
subbuglio; e
la vita di provincia ti farebbe annoiare".
Quando
Aphrodite s'ammantava
di quell'aria saputa, superiore, Deathmask voleva solamente
cancellargli
quell'indifferenza un po' affettata dalla faccia, trascinarlo in
basso insieme
a tutti loro, farlo urlare; con gli anni escogitarono un sistema
che garantiva
a entrambi la giusta soddisfazione. Quell'aria saputa, ora
sapeva che voleva
dire; si devono scambiare le formule di rito, stereotipate ma
non sempre vuote:
"Potrei viaggiare, fare il gran signore... O dar retta a mio
nonno e
magari fare il console, o l'ambasciatore..."
La
risata d'Aphrodite ebbe la
consistenza della luce: ampia, spiegata, sembrava invadere la
valle; la valle,
gioiosa nella primavera, sembrava rispondere.
"Quanti
anni sono che
ormai ti conosco? Sei molte cose, amico mio, ma non sei un
vagabondo, né un
diplomatico: ti piace troppo l'ebbrezza della lotta, il senso di
potere che
spetta solamente al vincitore; sai vincere le guerre, ma saresti
atroce ad
evitarle", ridacchiò ancora, riprendendo fiato. "E poi tuo nonno
sarebbe il primo a rimandarti al fronte."
Deathmask
non si sarebbe mai
spiegato come Aphrodite fosse riuscito ad abbindolare quel
vecchiaccio arcigno,
né come a sua volta ne fosse rimasto abbindolato.
"Voi
due andate
d'accordo perché siete stronzi uguale".
"Il
frutto non cade mai
lontano dall'albero", si limitò a sottolineare. "E poi tuo nonno
è un
fine giocatore: se t'interessassi un pochino agli scacchi,
magari non avrei
bisogno di cercare tanto spesso la sua compagnia, tra l'altro
piacevole",
concluse e si alzò lentamente, indicando con un cenno del capo
il suo giardino
privato, dove il veleno cede il passo solo ai fiori e alle spine
– soltanto uno
stolto si sarebbe illuso che non fosse quello il giardino più
rischioso.
"Vieni, ho risistemato il roseto".
Lo
scintillio nei suoi occhi
chiari – mentre gli tendeva una mano per aiutarlo ad alzarsi –
era malizioso e
invitante, ma nascondeva un fremito di dubbio: Deathmask lo
conosceva e se ne
accorse; s'avvide di quella sorta di timore, il tarlo del
pensiero che nemmeno
le cose fra loro fossero più come prima e non potessero più
esserlo, che
neppure Aphrodite lo potesse aiutare né trattenere. Ma la
proposta gli si serrò
intorno alla bocca dello stomaco come un pugno di ferro, con
tutta
l’eccitazione dell’attesa, della caccia o della danza: quello
che Aphrodite gli
stava offrendo era un rifugio cui ritornare, un buon motivo per
restare –
l'unico argomento stringente, ma che non voleva esporgli
apertamente. Afferrò
come stordito, inebriato, le dita protese, che si ritirarono
subito, scivolarono
via dalle sue; e, mentre Aphrodite si incamminava verso
l'ingresso – un brivido
nelle caviglie il solo sentore che temesse di non essere seguito
–, lui si
perse per un momento a contemplare la linea dei suoi fianchi
sottili, così
chiaramente maschili, e – con un piglio d'artista – non poté
fare a meno di
stupirsi di quanto fosse naturalmente lasciva quella bellezza,
di come potesse
stregare tutti i sensi senza nemmeno provarci, senza far niente.
Lo raggiunse
in un paio di falcate, gli afferrò un polso: doveva fermarlo,
non poteva
tacere.
"Ti
avrei chiesto di
partire con me", ammise, con lo stesso coraggio disperato che
disperatamente
aveva invocato nell'uccidere la prima volta, tanti anni prima,
quando era un
bambino.
Aphrodite
parve spiazzato: lo
fissava con gli occhi spalancati, nudi, stupiti; era uno sguardo
grato – era lo
sguardo di chi l'avrebbe portato nel suo orto chiuso, l'avrebbe
fatto stendere
sul terriccio morbido, su un manto di petali, su un letto di
rovi, e ce
l'avrebbe piantato, affondando le sue radici, annaffiandole,
tagliando quel che
avesse dovuto, solo per farlo restare.
"Grazie.
Grazie anche di
non averlo fatto", perché sapevano entrambi che cosa gli avrebbe
risposto.
Ma un'ammissione vale un'ammissione: "Qui c'è bisogno di noi,
questo è il
nostro posto. Ho bisogno di te: da così in alto, non sempre so
vedere."
Deathmask
capiva che cosa gli
voleva dire, ma era passato il tempo per parlare: "Sarebbe
comunque
rimasto Shura: figurati se quello si muove", la prese a
scherzare.
"Shura
è tutta un'altra
gatta da pelare". E già vedeva la mente d'Aphrodite mettersi a
intrigare,
a pianificare; ma anche lassù il tramonto s'era ormai consumato:
domani sarebbe
stato un altro giorno, e quasi tutto il resto poteva aspettare.
"Adesso
andiamo:
dobbiamo coltivare il nostro giardino."
*
Un
luogo nascosto,
Grecia; una notte di mezza estate agli albori del Tempo del Mito
"Su
cosa intrattieni i
tuoi pensieri, o nobile Athanasios?"
La
notte di mezza estate,
senza luna e senza stelle, era mite ed opprimente; un soffio di
brezza appena
smuoveva l'aria pesante, gravida d'umidità, che prometteva
pioggia; ma il passo
del nuovo venuto era leggero, come se appena sfiorasse la terra.
Dall'altura su
cui il nobile e prode Athanasios sedeva profondamente assorto,
si avvertiva
salmastro il sentore del mare, portato dal vento, e il profumo
dolce e pungente
dei fiori selvatici – crochi, oleandri, ginestre; mirti e
carrubi, qualche
giovane ulivo... – che avevano conquistato le rocce
tutt'intorno, indomiti,
orgogliosi e incuranti dell'ambiente ostile. Sì, quello era un
buon posto per
un baluardo, elevato e protetto, pensò il nuovo venuto dai passi
leggeri –
quello che aveva parlato –, accomodandosi anch'egli sulla nuda
roccia accanto
al nobile Athanasios vestito di oro. Entrambi volgevano al mare,
uno scorcio di
pece brillante incastrato tra il nero dei monti e il nero del
cielo, che il
nobile e saggio Athanasios non aveva più occhi per vedere. Era
bello,
Athanasios l'Ario, bello, forte e nel rigoglio degli anni,
quando la giovinezza
è virile e matura, non ancora avvizzita: aveva il profilo regale
ed aguzzo del
suo popolo di magi e di cavalieri; fra i fini capelli corvini,
increspati dal
sale e dal vento, non si celavano che pochi fili d'argento,
quasi preziosi; e
gli occhi dorati che aveva perduto, quegli occhi come
l'orizzonte un momento
prima dei bagliori dell'aurora, occhi da gatto, le donne avevano
detto che
rubassero l'anima – e si erano segnate contro la sciagura, senza
tuttavia poter
smetter di guardare. Non aveva bisogno dei suoi occhi di oro e
di rame il
nobile e virtuoso Athanasios, perché l'universo dentro di lui
era immenso; né
mai aveva guardato le donne e nessuno di rimando. Con quei suoi
occhi aveva
contato e dato un nome alle stelle, ne aveva studiato il moto
lento e costante,
nelle notti insonni e febbrili, con il suo amico accanto,
sfidandosi a quanto
lontano potessero arrivare a scovare il più remoto bagliore; con
il cuore, di
quelle stelle, entrambi avevano abbracciato il potere, e si
erano riconosciuti
e riscoperti come universi che si schiantano. Ed ora il suo
amico era di nuovo
lì, il suo cosmo così mutato eppure lo stesso... Quei capelli
biondi – che mai
Athanasios avrebbe rivisto, non in questa vita – non sarebbero
sbiaditi coi
segni del tempo; né quella pelle bianca, soffice e forte, da
uomo di pace,
sarebbe avvizzita; i suoi occhi blu come il cielo sopra le
steppe in un mattino
sereno non si sarebbero spenti nelle nebbie della vecchiaia o
nel buio della
morte. Athanasios non aveva bisogno di occhi per guardare le
stelle: ne sentiva
il moto e il potere, e non credeva ai presagi. Non c'erano
stelle nel cielo
quella notte, ma Athanasios le maledisse tutte.
"L'incantesimo
è
completo: non ci vedranno qui, né per questi monti, dal grande
ingresso fino al
mare, mio .... non so se chiamarti nobile o divino, amico mio",
rispose,
con un sorriso amaro. E l'altro gli prese una mano, sulla roccia
e la ghiaia, e
la strinse forte, continuando a guardare lontano, dove il cielo
incontrava il
mare e il nero era più scuro e profondo.
"Non
te ne dolere, non
tu che sei caro al mio cuore sopra ogni altro."
Athanasios
strinse di rimando
la sua mano fredda come il marmo, e con la voce rotta da
un'angoscia non detta
gli chiese, senza guardarlo: "Perché ne hai bevuto?"
Quell'altro
alzò le spalle,
lasciandosi cullare un momento dal vento salmastro e pesante che
gli
schiaffeggiava la faccia. "Cos'altro avrei potuto fare? Non sono
mai stato
un guerriero, non come voi altri; e quel mostro ti stava
uccidendo... I tuoi
begli occhi...".
Allora
Athanasios si volse,
gli carezzò il viso, muovendolo verso di sé, e ripercorse il
contorno di una
guancia, l'incavo del collo, il profilo del suo naso con la
punta di un dito;
dischiuse le palpebre su due sfere di oro, uniforme e lucente.
"L'allievo
del fabbro me ne ha fatti di nuovi, ma non ho bisogno di occhi
per
vedere," disse sorridendo. "Ma tu ti sei condannato forse ad
un'eternità senza pace, e per cosa?"
"Non
potevo lasciarti
morire, non quando non siamo ancora sicuri che tu conosca la
strada del
ritorno. Dobbiamo porre rimedio a quel che abbiamo fatto: in
fondo, è colpa
nostra."
"Oh,
Hermes, ma io
invecchierò, e morirò, mille e mille volte ancora, e tu,
costretto in una stasi
senza tempo, non potrai far nulla, potrai solo stare a guardare
ed aspettare.
Questo mi spezza il cuore."
"Meglio
che vederti
morire forse una volta sola e non ritrovarti per sempre. E poi
c'era la
bambina, dovevo portar via la bambina e tu non eri in
condizioni, dovevo
portare al sicuro anche te...". Ripensava a quella figuretta
esile,
riversa al suolo, al sangue che imporporava il suo vestito
bianco, alle piccole
mani che non avevano più la forza di fare pressione sulla
ferita, le dita quasi
dischiuse nella spossatezza che precede la morte. Strinse la
mano morbida e
calda di Athanasios, la sua carne viva, un poco più forte. "Un'
innocente..."
E
Athanasios distolse il suo
sguardo cieco, ed abbassò il capo, quasi con vergogna. "L'ho
condannata,
amor mio, ho condannato un'innocente. Ma il padre l'aveva
trafitta per aver
protetto me, passata da parte a parte come se non avesse
importanza... E che
importanza poteva avere ormai? Cosa sono, a confronto
dell'immortalità ed un
infinito potere, le tre vacche per cui, fra qualche settimana,
l'avrebbe
venduta in sposa ad un uomo con tre o quattro volte i suoi
anni?". Tremava
di rabbia Athanasios magnanimo e nobile, tremava per
quell'ingiustizia; tremava
perché a quella fanciulla del villaggio vicino – inviata a
servire alla Casa
dei Saggi prima che raggiungesse l'età da marito – lui stesso
aveva insegnato a
leggere e scrivere, a fare di conto, e i nomi che alle stelle
andavano
imponendo, e i segreti dell'universo che pian piano scoprivano.
"Come
potevo lasciarla morire per me? Ho versato il nettare dalla
coppa sulla sua
ferita, amico mio, prima di sigillare quel maledetto calice in
un'altra
dimensione cui neanche io potessi accedere. Non ho pensato al
giogo che le
stavo addossando, solo che non potevo lasciarla morire senza far
niente... Ed
ora ho dannato lei e l'anima mia". Athanasios allora avrebbe
pianto, se
ancora avesse potuto. "Non si è ancora svegliata... dorme un
sonno
innaturale, sulla cima del monte. Non so come il suo corpo
reagirà, non so se
crescerà, per morire e ritornare, ancora e ancora... O forse non
c'è
differenza, forse è come se ne avesse bevuto, e allora rimarrà
così per sempre.
Anche nell'incoscienza, il suo cosmo è immenso, e ne provo
terrore". Nella
sua voce c'era tutta la disperazione che aveva covato nei giorni
trascorsi – o
erano già settimane? che fossero mesi?–, quando il suo Hermes
era in missione
ed Athanasios, Athanasios il forte, Athanasios il lungimirante,
Athanasios che
non vacilla, aveva sorretto quello sparuto gruppetto di loro che
era scampato
alla lotta – guerrieri e sapienti ormai rotti – raccogliendone i
pezzi, ed una
bambina che ora era una dea e dormiva un sonno come di morte; e
aveva costruito
un rifugio, gettato le basi di un forte, mentre guariva dalle
proprie ferite –
almeno quelle del corpo. Aveva perduto il senso del tempo: i
giorni e le notti
ormai uguali, le stelle cantavano un muto lamento, il suo cuore
a lutto.
"Quanto sei stato via?"
"Quasi
una luna".
Rispose Hermes, dolce, o così dolce, così calmo e fidato. "Si
sveglierà...
Si sveglierà e rimedieremo a ciò che abbiamo creato". La sua
stretta era
di ferro, che non si rompe, e Athanasios per un momento credette
alle sue
parole.
"Abbiamo
creato gli dèi,
amico mio. Che cosa avremmo potuto riversare di più terribile
sul mondo?"
"Le
nostre intenzioni
erano buone."
"O
Hermes, quando
inventeranno un inferno ci lastricheranno la strada con le
nostre intenzioni!
Sono come bambini crudeli, ma col potere dell'universo nelle
loro mani,
abbastanza per saltare al di là dell'ordine delle cose e le
leggi della natura.
Sono come bambini, e giocheranno alle loro guerre e tutti gli
altri ne pagheranno
il prezzo. Sono come bambini: scriveranno le proprie leggende ed
esigeranno
adorazione. Si spartiranno il mondo. Saranno adorati: per
timore, reverenza, o
fiducia malriposta, saranno adorati. Ed è colpa mia. Verranno
per lei, verranno
per noi, non oggi, non forse domani, ma verranno e verranno
ancora, e che cosa
potremo fare?"
"Athanasios,
anima della
mia anima, respiro del mio respiro, tu sei onorato come saggio e
lungimirante;
tu chiamasti le stelle prima che avessero un nome, ne studiasti
gli influssi
sottili, ma non sei un profeta: non credere di conoscere il
futuro. Che
vengano! Proteggeremo la fanciulla, proteggeremo noi stessi e
questo luogo,
proteggeremo tutti. Abbiamo creato un abominio, ripareremo alla
nostra colpa.
Le stelle e la terra mi siano testimoni, li squarcerò tutti con
le mie stesse
mani, drenerò fino all'ultima goccia del loro sangue corrotto,
del mio stesso
sangue, se questo solo servisse a quietare il tuo spirito. Il
biasimo ricade
almeno altrettanto su di me; non farti carico di fardelli che
non ti spettano e
non disperare: è una stoltezza che poco si addice alla tua
saggezza e alla tua
lungimiranza". Quelle di Hermes erano parole formali e parole
d'amore,
perché non era solo l'amico e l'amante a parlare, ma l'uomo
giusto, Hermes il
pratico, Hermes il laborioso, e Athanasios lo sapeva – ma non
cambiava niente.
"Guardati
intorno! Erano
tanti i saggi e siamo rimasti in tredici! E quasi tutti si sono
dannati!Lì, quasi
alla vetta, Alrischa ha piantato un
giardino sul cadavere del suo bambino. Povero piccolo, il suo
corpicino era
così velenoso che è tutto un veleno lassù. E lei non ne può
morire. Lo hanno
trovato a giocare vicino al laboratorio, un gruppo di loro. Non
sapevano della
coppa che è sempre piena, non sapevano che non era lì, cercavano
le giare che
avevamo riempito: hanno testato su di lui ogni elemento ogni
pozione. Non
parlava ancora, nemmeno il suo nome, oh mio Hermes: 'Vernalis' è
difficile da
pronunciare. Camminava da appena una luna! Quando Alrischa è
arrivata non piangeva
più neppure: era livido e gonfio, e quelli continuavano a fargli
bere a forza
ogni ampolla, ma non poteva più inghiottire perché era già
morto. Ridevano,
dicevano che era una questione di tempo, che avrebbero trovato
la bottiglia
giusta. Continuo a vederla nella mente di Alrischa,
quell'orribile scena. La
sua anima continua ad urlare il suo dolore ed io non la posso
fermare. Aveva
una fiala con sé, povera donna: andava a testarla sui fiori e
sul fuoco, non si
era accorta di nulla, non aveva sentito il pericolo. E ne ha
bevuto. Li ha
uccisi tutti, tutti tranne uno che le è sfuggito, a mani nude e
senza armatura:
ha strappato loro gli arti uno alla volta, ha aperto le
mandibole che avevano
osato ridere, come prugne mature; ha spappolato loro i cuori di
pietra ancora
nei petti. Ma il suo spirito grida ancora vendetta, è una fiamma
che non si
placa, che vuole bruciare il mondo perché non può estinguere sé
stessa. Laggiù,
quasi a valle, Mephitis, che del piccolo era altrettanto madre
che se fosse
uscito dalle sue viscere, continua a cercarne l'essenza nel
regno dei morti.
Non lo troverà, e non avrà mai pace: anche lei ha bevuto - non
ne so la
ragione, forse per non lasciare Alrischa da sola. E lì, un poco
più in basso,
Castor piange il gemello ucciso - il primo a cadere: pugnalato
alle spalle,
diritto nel cuore. Pollux non aspettava l'attacco: quando Castor
è andato a
recuperare il suo corpo lo ha trovato lì, alla sua scrivania,
riverso sulle sue
carte come se il sonno l'avesse sorpreso, ma niente in lui aveva
le sembianze
del riposo. È stato uno di noi, Hermes, un traditore. Lo vedo
ogni notte nei
sogni di Castor: il corpo di Pollux è una bambola di cera rotta,
che gocciola
sangue come una clessidra. Ed anche Castor aveva bevuto, il suo
tormento non si
spegnerà nel silenzio, non troverà mai pace né il fratello
nell'altro mondo: a
sé stesso Castor è morto e lo spettro di Pollux vive ancora.
Sargas trascinerà
uno squarcio nel fianco fino alla fine dei tempi, per proteggere
Bàn il
Bibliotecario, l'amico suo prediletto, che distruggeva le note
delle nostre
ricerche, perché quelli non potessero averle. Ma quelli erano
già giunti agli
Archivi, quindici, venti, cinquanta, tutti armati di daghe e di
lance bagnate
d'ambrosia e coperte di incantesimi che neanche io conosco né
posso spezzare -
armi che tagliano l'oro delle nostre vestigia, armi che tagliano
le carni
immortali. Bàn, quando ha visto Sargas accasciarsi, ha
trasformato la
biblioteca in un inferno di ghiaccio, così freddo da annullare
la materia: ogni
libro, ogni appunto, tutto il sapere che avevamo raccolto è
perduto; lo è un
po' più anche il cuore di Bàn per ogni giorno che Sargas non si
risveglia.
Niente sembra guarire la sua ferita – non il sangue immortale,
neppure la
stessa ambrosia –; ma l'anima non può lasciare il suo corpo. Bàn
veglia sul suo
sonno senza sogni, rinchiuso in un silenzio di morte. Bàn
veglierà il suo sonno
sino alla fine dei tempi, finché le stelle saranno tutte spente,
forse anche
dopo, se gli immortali continuano ad esistere senza spazio né
tempo. Nath il
grande, Nath il buono, a sua volta ha bevuto per impedire
all'allievo del
Fabbro di farlo ed ora attende a lui lì a valle, mentre quello
veglia smarrito
l'armatura del suo maestro senza osare vestirla. Quanto
smarrimento, quanto
terrore, sento nel suo giovane cuore... Nashira dal braccio e
dal cuore
affilati, Nashira l'inamovibile, è in preda al dubbio, la sua
risoluzione
vacilla, ed io non posso guidarla, non posso guidare nessuno di
loro! Kiffa il
temperante, che è il più saggio ed il più anziano di noi, non ha
bevuto: passa
i suoi giorni seduto lassù, assorto in profondi pensieri. Ci
aveva detto che
sperimentare con forze che non conosciamo era avventato, ci
aveva messi in
guardia; e noi, stolti che siamo, gli rispondemmo che troppe
cose non
conosciamo ancora a questo mondo, e come potremmo apprenderle se
non
sperimentando? Eppure, non ha avuto una parola di biasimo o di
rimprovero per
me e per tutti noi: semplicemente riflette, è rinchiuso in una
meditazione
senza calma. Neanche Zosma e Crotus hanno bevuto, non credo che
lo faranno da
quel poco che siamo riusciti a mettere in salvo. Zosma ha
voluto, ha dovuto
combattere nonostante il suo stato; il prezzo da pagare è stato
tremendo, ed io
e l'allievo del fabbro abbiamo dovuto riscuotere il conto:
perdeva sangue nero
a tre giorni dalla battaglia, era in delirio, stava morendo... E
noi abbiamo
dovuto strapparle dal ventre quel cadavere appena formato che
ancora si portava
dentro, mentre lei ci implorava di non farlo, di lasciarlo lì, e
Crotus – che
era il padre – le teneva la mano, le bagnava la fronte, la
teneva attaccata al
mondo. Si erano scambiati l'un l'altra voti infrangibili – gli
stessi voti che
pronunciai per te, e tu per me, con lo stesso ardore – che non è
ancora volto
un ciclo delle stagioni. Ora Zosma si aggira irrequieta di
giorno e di notte,
sorveglia il perimetro, mantiene la guardia, feroce come la
fiera delle sue
stelle; e Crotus dagli occhi acuti la segue da lontano, discreto
e in silenzio,
senza poterla domare né consolarla. Non so come dirle che il suo
ventre non
darà più frutto, non so come farlo, mio Hermes! E tutti gli
altri sono morti o
dispersi, ma forse la loro è stata una sorte migliore: io sento
tutto il dolore
di quelli che restano, il loro smarrimento, la disperazione. Che
consolazione
posso offrire io? Come puoi dire che non devo portarne la colpa,
per loro e per
tutti gli altri che seguiranno? Mi guardo intorno, Hermes! E
quello che vedo,
quello che sento, non lascia spazio alla lungimiranza: di tutti
i Saggi non restano
che dodici guerrieri in pezzi, molti col cuore in frantumi ed un
potere
terrificante; una bambina che io ho condannato; e tu, anima
dell'anima mia, tu
che sei il sacrificio più brillante e più doloroso di tutti".
Athanasios
tremava di rabbia e di angoscia, la voce piena di pianto in ogni
parola di quel
suo rapporto, di quella sua confessione. Abbassò il capo
sconfitto, con un
profondo senso di vuoto e di rassegnazione. "Dove posso guidarli
io, che
li ho portati a questo punto?"
Hermes
gli accarezzò i
capelli, ci affondò una mano con indulgenza, gli massaggiò il
cranio con
dolcezza, come in tante notti passate e notti a venire, quando
era troppo teso
per dormire, troppo stanco per sostenere il peso dei sogni; poi
lo tirò a sé, gentilmente,
a fargli posare il capo sulla sua spalla, e quello si lasciò
tirare con un
sospiro come di sollievo. La punta dello spallaccio di
Athanasios spingeva nel
suo fianco, ma era un fastidio gradito, il segno della vicinanza
e che erano
ancora lì, ancora armati, che si sarebbero rialzati.
"Allora
lascia che sia
io a guidarti. Sarò la tua stella polare, l'astrolabio e la rosa
dei venti;
troveremo insieme la strada". Si chinò a baciargli la fronte,
con
tenerezza e con devozione. "Tu vedi una manciata di uomini
rotti, io vedo
un manipolo di possenti guerrieri, di grandi sapienti,
sopravvissuti. Abbiamo
visto la battaglia, conosciamo il nemico, abbiamo doti e risorse
per
fronteggiarlo e tutto il tempo del mondo - letteralmente. È
doloroso, ma non è
un male. Qui costruiremo un rifugio, erigeremo un Santuario; di
qui
proteggeremo la bambina, gli oppressi ed ogni vita preziosa.
Faremo tutto il
possibile per mantenere la pace. Istruiremo le generazioni a
venire, perché
veglino su questo luogo e sulla piccola Athena se ce ne sarà
bisogno. E gli
altri verranno - come potrebbero non venire? è un'esca troppo
ghiotta! Saremo,
saranno pronti ad accoglierli. Ma quando saremo forti e
protetti, tu ed io e
quelli di noi che restano - noi i colpevoli, noi i primi -
partiremo a cercare
una soluzione lontano da occhi indiscreti. Forgeremo nuove armi,
inventeremo
nuove trappole, decimeremo le fila nemiche, finché non troveremo
la nostra
redenzione ed aggiusteremo il mondo. Ti giuro che lo faremo, lo
giuro su tutte
le stelle, sugli occhi che ti hanno strappato, sull'amore
infinito che porto
nel cuore e l'universo che mi brucia nel petto".
Athanasios
annuì, quasi
rincuorato, e gli adagiò le labbra morbide sul collo in un bacio
lievissimo.
"Dimmi che porti buone notizie...". Era un mormorio ed una
preghiera;
e si trovò quasi a sorridere di sé stesso: non aveva mai
pregato, perché aveva
sempre saputo che non c'era niente cui pregare ed era ancora
vero – niente al
mondo era degno d'essere pregato, se non quell'uomo al suo
fianco, che sempre
era e sempre sarebbe stato il suo unico dio.
"Hanno
il Fabbro".
Rispose Hermes, essenziale. "Lo hanno costretto a bere e lo
tengono in
catene in uno stato di semi-incoscienza, ma la sua volontà non è
piegata".
"Vogliono
che fabbrichi
per loro un esercito...Oh Hermes!"
"Lo
libereremo, abbiamo
tempo: Ephaistos è un giovane forte, temprato come i suoi
metalli, il suo
spirito è inamovibile. Lo riporteremo a casa, è la nostra
priorità".
Hermes era così sicuro delle proprie parole che Athanasios gli
credette, ma
ancora rimaneva l'inquietudine, l'orripilante sospetto:
"Sapevano come
trovarlo... come soggiogarlo...".
"Sono
d'accordo con te:
c'è un traditore. Non sono riuscito a scovarlo però: di tutti i
dispersi, il
Fabbro è l'unico che ho veduto".
"Se
vogliono un esercito
e il Fabbro non collabora cercheranno di conquistare il suo
popolo! Hanno il
segreto dell'alchimia e poteri immensi! Sono tutti in pericolo!"
"Ho
già avvisato
l'allievo: lui e Nath di Taurus sono partiti per Mu, con
l'ordine di metterli
in guardia, di supplicarli di andare in un posto sicuro, fra le
tue montagne
remote e nascoste alle mappe degli uomini, dove solo i rapaci
possano osare, e
di portare con sé i propri segreti". Hermes lasciò scivolare la
mano sulla
corazza di Athanasios e non vi sentì imperfezioni lasciate dalla
battaglia:
l'oro prezioso delle vestigia era caldo e sembrava cantare
amorevole al tocco
delle sue dita. "L'allievo del fabbro l'ha riparata. Ha fatto un
buon
lavoro".
"È
sempre stato solerte
ed è tanto saggio per i suoi anni. Ma gli manca il suo maestro".
"Glielo
ridaremo, e
ripareremo il resto. Per ora, quelli sono impegnati a litigarsi
l'ambrosia
rubata tra loro, a spartirsi territori e domini, a
gozzovigliare. Sono
selvaggi, con grandi poteri che ancora non conoscono bene né
sanno dominare.
Faranno le cose come sono abituati a farle, secondo il loro
costume. La guerra
tribale che già si prepara fra loro li terrà impegnati almeno
per qualche
tempo. Questa è la buona notizia. Saremo pronti".
Athanasios
allora rise e
nonostante tutto era divertito: "Devi lavorare alle tue buone
notizie,
Messaggero!"
Prima
di chinarsi a baciarlo,
col bacio che avrebbe dovuto dargli sin dal primo momento,
Hermes gli sorrise
di rimando: "Sei un uomo troppo esigente, o ingiusto Athanasios
che gli
stolti chiamano saggio! Mentì mai il povero e bistrattato Hermes
al tuo
cospetto? Mentirono mai le mie labbra alle tue o sulla tua
pelle?"
"Oh
Hermes scaltro e
mendace, e dalle dita leggere che vagano leste," gli disse
Athanasios,
quando ebbe ripreso fiato, "quante volte mi richiamasti dai miei
studi,
dall'arena, dai laboratori, pretendendo questioni della massima
urgenza, solo
per il piacere della mia compagnia nelle tue stanze? E non
promettesti forse
che mai il mio letto avrebbe conosciuto il vuoto della tua
assenza? Eppure,
ecco ora ritorni dopo quasi una luna...".
Ed
Hermes gli sorrise d'un
sorriso adorante e divertito, passandogli le mani sulla gola,
sulle ganasce,
sul collo sottile, su tutta la pelle che potesse trovare sotto
l'oro vibrante.
Athanasios poteva sentirlo, quel sorriso, vederlo così
chiaramente con occhi
più acuti e profondi di quelli che aveva perduto; e gli
rallegrava l'anima
tutta, gli stringeva lo stomaco.
"Mio
diletto Athanasios,
ognuno di quei richiami fu dalla mia mente alla tua, dal mio
cosmo al tuo, ma
mai al tuo cospetto... E forse il dolore della tua lontananza e
il desiderio
d'averti fra le mie braccia son ragioni da poco?" Ancora un
bacio leggero,
all'angolo della sua bocca. "Oh, iniquo, crudele Athanasios, hai
vegliato
sotto le stelle, ti sei assopito appena sulla nuda roccia per
quasi una luna.
Come avrebbe potuto il fedele Hermes riscaldare il tuo letto?"
"Sei
impossibile...", ribatté Athanasios, senza aggiungere nessuna
parola ma
solo un altro bacio profondo, guardandolo e guardandolo ancora,
guardandolo
tutto, con le proprie mani: i capelli ricciuti intrisi di vento,
le guance
rialzate, le palpebre chiuse su occhi d'un blu penetrante che
mai avrebbe
dimenticato, la forma della sua clavicola, il petto solido e
sempre accogliente,
la seta della sua tunica, l'incavo dolce della sua nuca, la
curva della sua
coscia...
Quando
si staccarono un poco,
sempre vicini, il più vicini che lì potessero stare, fronte
contro fronte,
erano entrambi affannati e accaldati come dopo una lotta.
"Conosco
un angolo ameno
dietro quell'altura, lungo il corso del torrente che mormora
piano",
sussurrò Hermes. "Vi crescono i crochi odorosi, belli come la
linea
dell'orizzonte all'alba o al tramonto; ginestre dorate dai fusti
sottili e
gelsomini selvatici, simili a quelli della tua terra, all'ombra
del mirto,
della salvia aromatica, di teneri ulivi... Lascia che ti conduca
lì a deporre
le armi, perché possa amarti su un letto di malva e papaveri e
riposare fra le
tue braccia, stanotte e ogni notte finché t'avrò costruito un
tempio e una casa
sotto la protezione delle tue stelle, oh Athanasios di Virgo."
Athanasios
si alzò, gli tese
una mano, lo sollevo e lo tirò a sé, non mollò la stretta.
"Mostrami la
strada".
Mentre
scendevano dall'altura
delle stelle e si incamminavano fianco a fianco lungo il pendio,
lasciandosi
alle spalle il mare con un passo appena affrettato che tradiva
impazienza e
batteva la roccia col ritmo di una promessa, l'aria era ancora
pesante, ma il
piede di Hermes era sempre leggero ed ora ancora più leggero era
il suo cuore.
Sì,
lì era un buon posto,
sicuro e nascosto dal mondo, per stare arroccati e aspettare – e
resistere
anche agli dèi.
*
Oltre
l'Inferno, lo
spazio ed il tempo (17 aprile 1987)
Non
aveva mentito: fu un
bagliore accecante, la vista assoluta che sorpassa gli occhi ed
i sensi e la
mente.
Bruciare,
insieme e tutt'uno,
come era stato nel grembo materno, quel calore avvolgente,
quell'essere
indistinti che sempre aveva cercato di ritrovare, da che era al
mondo, con
immenso dolore. In tanta luce che neppure lui adesso era più
un'ombra,
l'anelito era saziato in un altro anelito, non c'era più pena o
dolore.
Non
aveva mentito: fu
un'esperienza unica, che non lascia esperire nient'altro, che
svuota di ogni
sostanza ogni altra esperienza passata. Galassie che
conflagrano, si riempiono
e si svuotano, non sono più che un respiro pieno, così profondo
che dà alla testa,
dove non ci sia più aria o polmoni a respirare. Galassie che
conflagrano,
universi che si spengono ed esplodono... è tutto luce, luce la
sua stella
infausta, luce quella stella oscura, luce, luce e tepore, senza
distinzione.
Bruciare, bruciare infinitamente quando non c'è più nulla da
consumare e tutto
è completo.
Non
aveva mentito, ma quello
non era più un condividere, perché non c'era più divisione, non
più una morsa
di braccia e di gambe intrecciate, la schiena contro il suo
petto: erano e non
erano le sue braccia e le sue gambe, era e non era la sua
schiena e il suo
petto; e assieme era tutto un universo, un universo immenso, un
universo solo,
che bruciava così ardentemente, così dolcemente.
Bruciare,
bruciare, bruciare
insieme fino alla fine, fino oltre la fine, fino a dove la fine
e l'inizio, il
tu e l'io, non hanno più senso. E bruciare ancora, finché la sua
solitudine non
era più la sua - mai più, mai più solitudine! Il ricordo delle
mani di Saga e
di mille altre mani, di cento altre vite che aveva e non aveva
vissuto, di
amori profondi e sinceri andati alla polvere che aveva e non
aveva sentito; la
sua fedeltà e la sua ribellione; risvegliarsi ogni volta con la
morte intorno,
risvegliarsi senza Saga al suo fianco; cercare il sole, troppo
sbiadito e
troppo rovente per chi ne è tenuto lontano; essere un'ombra,
essere un fantasma
– non è poi così diverso –; la perdita e la privazione; le
labbra di Saga, il
tradimento e l'abbandono; la nebbia sulla campagna verde come
uno smeraldo,
sotto un cielo pallido che mai aveva visto e che era stato casa;
il Santuario e
l'Inferno; il sole sulle coste di Grecia; il fondo del mare
profondo sopra la
testa, un'altra prigione; promesse e promesse, mantenute ed
infrante; il suo
stesso viso che non era più il suo né quello di Saga, ma il viso
visto e
ammirato da un inconciliabile nemico; la giustizia, la
tristezza, la rabbia; la
misura, l'attesa, l'eccesso; fremiti uguali di desiderio per le
cose che non
possono essere mai... tutto era uno.
Non
aveva mentito - come avrebbe
potuto? -: non c'era più niente su cui potesse mentire, niente
da nascondere,
solo bruciare, bruciare, e bruciare ancora, insieme e tutt'uno.
Mai era stato
così sincero, più di sé stesso, così libero nel laccio mortale
di gambe e di
braccia che sono e non sono le sue, di stelle che non sono più.
Era quello che
aveva sempre voluto: essere intero di nuovo, essere uno, un po'
come essere
amato. Era quasi la pace. Avrebbe voluto piangere di tenerezza,
di gratitudine,
di una gioia inebriata. Bruciare, bruciare, così insieme e
tutt'uno, così per
sempre...
Fu
un morire così dolce, cui
dolce è abbandonarsi, lasciarsi andare, come alla risacca o
all'abbraccio di un
amante... fu un morire così dolce.
Poi
tutto finì e fu un vero
morire atroce e crudele, laddove la morte era stata tanto dolce,
tanto amata.
L'erba bagnata sotto la sua pelle nuda fu come uno schiaffo
doloroso, un pugno
allo stomaco. L'aria era umida e pungente: dopo la tenerezza di
tutto quel
bruciare, il freddo di quell'aria umida e pungente, il gelo di
essere uno, di
essere di nuovo solo, era peggio di mille ferite, peggio della
Cuspide
Scarlatta di Milo, peggio della linea diritta delle spalle di
Saga che si
allontanano senza voltarsi indietro per lasciarlo in una cella
senza uscita ad
annegare. Mai pena fu tanto grande che l'aver avuto quel che
sempre aveva
voluto, più vivido e così più assoluto del sogno sfocato d'uno
stato di
pienezza e di grazia prima dell'essere al mondo; di averlo
creduto per sempre;
di averlo perduto.
Dove
era stata luce, così
tanta luce, ora era buio: aveva gli occhi chiusi, aveva occhi
che erano suoi e
avrebbe voluto strapparseli – non osò aprirli, non subito, non
ora, non così,
no, no, no!
Cercò
disperatamente,
ciecamente, una mano, a tentoni fra l'erba bagnata, sulla terra
umida. Altre
dita, un poco ruvide, tiepide come della memoria di tutto quel
bruciare,
scivolarono fra le sue, spinte da un moto uguale e contrario.
Entrambi
strinsero forte, con un sospiro quasi di sollievo, per non
lasciarsi andare.
Non
era solo. Si fece
coraggio. Aprì gli occhi.
La
luce della prima mattina,
troppo bianca, troppo pallida, era tagliente, faceva male.
Insetti senza
colore, che sembravano ma non erano api, ronzavano pigri su
fiori senza colore,
fiori che non conosceva, sotto un cielo come di latte - senza
colore. Solo il
verde del prato, di qualche arbusto, di qualche stelo che
riusciva a vedere,
era incredibilmente intenso, lucido, quasi abbagliante; se
avesse alzato lo
sguardo avrebbe visto che il verde sui pochi alberi dai tronchi
pallidi sparsi
lì intorno era lo stesso: incredibilmente intenso, lucido, quasi
abbagliante,
in quel mondo pallido e senza colore. Per un momento fu troppo,
ne fu stordito.
Poi mise a fuoco le mura sullo sfondo, d'una pietra spessa e
grigiastra,
corrosa dal tempo; lo stipite intarsiato d'un portale gotico;
l'arco acuto
d'una trifora troppo bassa per essere stata progettata con cura;
la trama
neutra e discreta del tweed su due gambe piantate di fronte a
lui. Hortus
clausus, pensò, in una terra straniera che conosceva da
memorie non sue.
Pensò anche che avrebbe dovuto provare terrore di quelle gambe
fasciate di
tweed, elegante e discreto, del cosmo disumano ed immenso che ne
proveniva;
pensò che avrebbe dovuto essere in guardia, pronto alla lotta.
Ma che poteva
far lui, che era di nuovo uno soltanto, nudo e indifeso su
quell'erba bagnata,
nell'aria umida e troppo pungente, in quel giardino troppo verde
e senza
colore? Che cosa poteva lui, che solo voleva tornare a morire,
così dolcemente,
insieme e tutt'uno? Strinse più forte la mano dell'uomo che
aveva accanto,
strinse più forte l'eco di quel tepore, per non lasciarlo
andare.
"Kanon
di Gemini... il
mio preferito, bentornato", disse una voce da sopra quelle gambe
terrificanti, fasciate di tweed elegante e discreto. Kanon
spalancò gli occhi,
con lo stupore improvviso che non si può celare: era una voce
che conosceva, da
un tempo remoto e lontano, dai giorni dell'addestramento, dai
suoi giorni di
ombra in terra di Grecia. Non aveva parlato con molti in quegli
anni lunghi, lunghi
come sono gli anni per i bambini e i fanciulli, ancora più
lunghi per lui cui
era precluso il contatto con gli uomini: Saga e sé stesso; il
loro maestro; più
tardi, un bambino biondo e silenzioso, che gli portava sempre
dolci strani,
tondi ed esotici, e non apriva mai gli occhi; una volta
soltanto, Aiolos; e poi
quell'uomo. Alzò la testa. Non era invecchiato di un giorno.
Quello gli sorrise
bonario, poi si rivolse al suo compagno - anche lui nudo
sull'erba - che gli
stringeva forte la mano per non lasciarlo andare, e il sorriso
si fece più
compiaciuto.
"Rhadamanthys,
vecchio
mio", fece mellifluo, "tu sei uomo giusto e leale, e noi avevamo
un
accordo".
Rhadamanthys
della Viverna,
Stella celeste della ferocia, guardiano del Tempio di Saturno,
Giudice Infernale
e Primo Generale dell'esercito di Hades, grugnì con irritazione
e
rassegnazione, nudo sull'erba, e aprì i suoi occhi di fiera come
se si fosse
appena svegliato assai controvoglia. Kanon si sentì scuotere da
un fremito
inappropriato. L'uomo dalle gambe fasciate di tweed sorrise
ancora di più:
"La guerra fra il tuo signore ed Athena è finita, il fatto che
stiamo
parlando e il sole splenda ancora – per quanto possa splendere
in questa terra
stramaledetta – ti lascia ben intuire il risultato. Ma io sono
ancora qui e tu
sei di nuovo qui, e c'è una pila di esami da correggere".
Kanon
sbatté le palpebre,
guardando dall'uno all'altro, spaesato. Rhadamanthys grugnì di
nuovo: "Non
credo che fosse previsto che tu mi riportassi qui".
Quello
rise di gusto:
"Non era escluso. Avresti dovuto riflettere meglio sui termini e
le
condizioni, mio caro! Kanon, ovviamente la tua collaborazione
sarebbe molto
apprezzata".
Kanon,
che continuava a
essere all'oscuro di ogni informazione rilevante, ma che intuiva
che non si
stesse parlando solo di chissà quali esami, annuì cautamente,
perché conosceva
quell'uomo.
"Perfetto!",
disse
tutto contento, sfregandosi le mani – non era invecchiato di un
giorno –,
dunque si fece più serio: "Poi spero che vogliate ascoltare la
mia
proposta".
"Che
ne è stato del mio
signore?", chiese Rhadamanthys, con la voce quasi sottile,
insicuro come
mai Kanon lo aveva visto, se non in memorie di infanzia che non
erano sue.
Kanon strinse più forte quelle dita che tremavano appena, mosse
le proprie
leggermente, in una minuscola carezza – non lo considerò fuori
luogo: erano
stati uno, avevano condiviso la furia, la fedeltà, la perdita,
morendo così
dolcemente.
Rhadamanthys
continuò:
"Se non sono sciolto dai miei vincoli, sai bene dove ripongo la
mia
lealtà". E lo sapeva anche Kanon.
"Credo
che tutto si
risolverà per il meglio: ora abbiamo ampi margini per
contrattare una soluzione
soddisfacente per tutti", fu la risposta serafica dell'uomo dal
cosmo
immenso e le gambe fasciate di tweed, elegante e discreto, che
non era
invecchiato di un giorno in più di vent'anni. "Per il momento,
direi di
dirigerci verso le nostre stanze: le vecchie cornacchie stanno
per svegliarsi,
sono quasi le sei, e verrebbe loro un colpo a trovarsi due bei
giovanotti come
mamma li ha fatti nel giardino dei fellow. Non che non
sia capitato, per
carità! Ma di solito si tratta di matricole irresponsabili dopo
una notte di
baldoria, ed io preferirei evitare di ritrovarmi coinvolto in
uno scandalo col
mio miglior dottorando".
"Sono
il tuo unico
dottorando", rispose Rhadamanthys, alzandosi e tirandosi dietro
Kanon.
"Dettagli!",
sventolò
una mano per tutta risposta quell'altro. "Sono sinceramente
mortificato per la mancanza di vestiti: le resurrezioni sono
difficili di per
sé, ed ho dovuto recuperare i vostri atomi tutti mischiati!
Spero che non me ne
vogliate. In ogni caso, mi auguro che tu abbia un paio di
completi di scorta
nel tuo ufficio: non credo che niente di mio possa entrare al
nostro comune
amico", ridacchiò, incamminandosi col suo passo tanto leggero,
dopo aver
squadrato dalla testa ai piedi il buon Kanon e lanciato
un'occhiata eloquente
al proprio allievo.
Rhadamanthys
provò a
respirare profondamente, strizzò gli occhi, si massaggiò il mal
di testa
incipiente in mezzo alla fronte, e per mantenere la calma iniziò
a ripetersi
che non si uccidono gli dèi – anche se probabilmente gli altri
due sarebbero
entrambi stati in sonoro disaccordo. Pensò che sarebbe stata una
lunga giornata
e tornò a rimpiangere quel morire tanto dolce – anche se, ora
come ora, gli
sarebbe andato altrettanto bene essere semplicemente morto.
Conscio della
propria nudità, si incamminò velocemente verso il portale
gotico, dallo stipite
intarsiato e l'arco acuto, attraverso quel giardino che mai gli
era apparso di
un verde così incredibilmente intenso, lucido, quasi
abbagliante, nella luce
pallida e tagliente, sotto un cielo senza colore.
La
mano di Kanon nella sua
era ancora tiepida di tutto quel bruciare, insieme e tutt'uno;
ed era
rassicurante.
Camminando
lesti, dietro a
quei passi così tanto leggeri, si strinsero ancora un poco più
forte, per non
lasciarsi andare.
Note
dell'autrice:
La
prima versione della prima
parte di questo prologo datava 2009. Da allora, la storia che -
molto molto
lentamente - sto raccontando è cambiata, si è evoluta, si è
espansa, ed io sono
diventata più risoluta nella mia operazione di
autoconvincimento. Dunque c'è
una nuova versione aggiornata e corretta dell'incipit.
So
che i miei tempi di
aggiornamento con questa storia sono biblici, ma spero che
riordinando le
vecchie sudate carte riesca ad avere una buona base cui
agganciare il resto.
Per ora, impegni a sorpresa permettendo, confido di avere la
seconda parte del
primo capitolo pronta entro maggio.
Capitolo 2 *** Parte I: Nostoi - Capitolo I.1: Ad occhi aperti I ***
Nota
dell'autrice:
Capitolo
ripostato con
qualche cambiamento minore, ma senza modifiche sostanziali
rispetto alla
precedente versione. Che dire? Mi impegno per dare di che
mangiare ai filologi
delle generazioni future.
Rinnovo
le mie scuse per la
cancellazione accidentale della storia; e mi scuso anche per il
ritardo con cui
mi rimetto in pari: i miei file sono più disordinati di quanto
sia disposta ad
ammettere...
Prometto
di fare del mio
meglio per postare la seconda parte di "Ad occhi aperti" quanto
prima!
Parte I: Nostoi
La
notte lunga si
spegne
negli
occhi dei gatti
e
canta il gallo
l'approdo
alle
rive del giorno.
È
faticoso tornare
ad
essere vivi.
-
Giulio Stolfi,
"Alba" –
Capitolo I.1
Ad occhi aperti I
Petite
âme, âme
tendre et flottante, compagne de mon corps qui fut ton hôte, tu
vas descendre
dans ces lieux pâles, durs et nus, où tu devras renoncer auxjeux d’autrefois. Un
instant encore.
Regardons ensamble les rives familières, les objets que sans
doute nous ne
reverrons plus… Tâchons d’entrerdans la
mort les yeux ouverts.
-
Marguerite
Yourcenar, Mémoires d'Hadrien-
Santuario,
notte fra
il 17 e il 18 aprile 1987
Il
primo ricordo che aveva
del suo essere al mondo era di luce, di una luce accecante, e la
certezza che
non ci fosse persona al mondo più preziosa di lui.
Il
volto di suo padre non
aveva mai sfiorato la sua memoria, come se non fosse mai
esistito, neppure in
quell’angolo ombroso e insondabile, dove talvolta, ancora poco
più che bambino,
aveva frugato, senza particolare convincimento né speranza di
trovare qualcosa.
Di sua madre non aveva neppure un sogno; a volte indugiava ad
immaginare come
sarebbe potuta essere: si figurava una voce, soffusa e gentile,
lontana, e
forse la sensazione di lunghi capelli di seta bionda sotto dita
che non sanno
ancora stringere bene, che non sanno afferrare, perché non hanno
ancora
imparato che cosa voglia dire la perdita o l’abbandono.
L'immagine di sua madre
aveva gli occhi – persi a guardare un confine lontano – di Saga
non ancora
uomo, le mani un poco rugose del vecchio Shion, il sorriso di
Aiolos fanciullo,
l'universo caldo e avvolgente di qualcuno che non ricordava. Sua
madre non era
che una fantasia indistinta ed algida, messa assieme male,
perché Shaka non
aveva idea di come una madre dovesse essere – perché Shaka, gli
avevano detto,
era nato da un fiore.
E
quello che gli restava,
dell’inizio della sua vita, del prima di tutto, era un mare di
luce, soltanto
un abisso di luce purissima che non si osa guardare e cancella
le cose, e fa
chiudere gli occhi, perché fa troppo male, col suo cuore di
tenebra scura e
brillante che mangia l’anima.
Luce
e dolore – questa la
primitiva materia, la forma originaria che l’esistere gli aveva
impresso nella
carne.
Tutte
le altre reminiscenze
della sua infanzia – i volti tracciati appena e sbiaditi dal
tempo, il
mormorare di una fontana e un giardino pervaso da mille profumi,
il penetrante
sentore del loto, quello quasi fragile del gelsomino, le parole
pacate e dal
tono profondo d’un giovane uomo che gli insegnava a chiamare le
stelle, l’ombra
imponente dell'antica dimora (o era già il monastero, sempre il
monastero?) che
era stata casa, il ronzio di un colibrì e di troppe zanzare, il
sapore
amarognolo d’una tazza di tè vellutato da una goccia di latte… e
poi
l’immensità dell’aperta pianura e delle montagne, le acque del
Gange, il
fruscio dei campi di canapa, l’eterno silenzio – erano come
offuscate da quel
suo primo ricordo di luce, dal male che brucia il cervello, e il
senso
metallico del sangue sulle labbra e sulle palpebre: perché
questo associava
immediatamente all’essere vivo, questo gli ricordava, con la
presenza serena
che aveva portato annidata nell’anima, che sarebbe dovuto
morire, un giorno.
Una
luce accecante, il
profumo del loto e del gelsomino, il sapore e il tepore del
sangue, ed un
immenso dolore – questa la prima impressione dell'essere al
mondo.
Ne
aveva parlato soltanto a
Mu, una volta, anni prima, in Jamir, quando erano quasi
adolescenti e si
facevano visita occasionalmente, di tanto in tanto, nei giorni
in cui la
solitudine dell’esilio diventava troppo opprimente,
schiacciante, per entrambi:
Mu, allora, lo chiamava, lo invocava con la mente, e l’eco della
sua mancanza
arrivava fino a Shaka, cullata dal vento che scivolava verso la
grande piana
fra i valichi delle montagne, oltre le quali lo aspettava il suo
amico; Mu lo
chiamava col bagliore gentile del suo cosmo e Shaka accorreva,
come una nuvola
– niente di più che un fruscio di vesti indicava il suo arrivo e
la sua attesa.
Shaka accorreva perché dentro di sé sentiva vibrare la stessa
armonia, lo
stesso cielo: e all’improvviso l’assenza era insostenibile,
inammissibile,
anche per la sua anima che in molti dicevano grande.
Quella
volta, Mu lo aveva
guardato lungamente, d’uno sguardo aperto e innocente che non
cessa di essere
indagatore; e Shaka, pur con gli occhi chiusi, aveva sentito
quello sguardo
familiare scrutarlo, valutarlo – o forse valutare soltanto che
cosa fosse il
caso di dire perché fosse vero e lui potesse capire.
Gli
aveva preso la mano tra
le proprie, Mu, e se l’era portata al petto, dolcemente,
lasciando adagiare la
punta delle sue dita sul proprio cuore.
“Ricordo
il vuoto”, aveva
detto, “il vuoto qui.”
E
Shaka in quel momento l’aveva
sentito anche lui, il vuoto nel cuore, e aveva capito che cosa
fosse quel
primitivo senso di privazione, che cosa volesse dire
'desiderare' – e che non
c'era persona al mondo più preziosa di Mu.
Erano
passati molti anni, ma
quella conoscenza – la seconda grande lezione del suo essere al
mondo: la prima
fu il senso della vita e della morte, il profumo del loto e del
gelsomino, il
sapore del sangue – gli era rimasta conficcata come un pugnale
fra un polmone e
lo sterno; e non poteva non associarla al profumo di Mu – di
cannella e ancora,
sempre, di gelsomino, e sostanze segrete, di nevi, di stelle e
di alchimia –, o
al tepore della sua carne, in quel giorno lontano, attraverso i
vestiti
pesanti. Non aveva avuto il coraggio di riceverla ad occhi
aperti: Mu sarebbe
stato come la luce del sole e lui non avrebbe visto più niente,
perché il
sangue già gli tremava al ritmo di quell’altro cuore,
sconvolgeva la quiete
ordinata e studiata del suo spirito giovane che a questo nuovo
dolore non
sapeva dare un nome appropriato.
“Il
vuoto nel cuore...",
ripeté solo a sé stesso, adesso.
La
notte era dolce, il cielo
indulgente sulle rovine del tempio di Virgo; la brezza leggera
dell'aprile
greco, mite e secca, gli sfiorava la pelle come una carezza
d’amante che non aveva
mai osato immaginare. Le mani di Mu e il vuoto nel cuore… questo
quel pensiero
gli richiamava alla mente.
Ma
un altro vuoto, un vuoto
diverso, un vuoto infinito più grande della sua comprensione,
più grande della
sua anima – che in molti dicevano grande –, lo aveva svegliato
quella notte: lo
aveva chiamato nel suo sonno senza sogni, incubi di tenebra
sterminata senza
più luce, gelsomini né sangue; lo aveva cercato per ghermirlo; e
lui ne aveva
provato orrore. Era un vuoto contrario al vuoto del cuore: il
vuoto del cuore è
un richiamo gentile, chiede di esser colmato, di esser lenito;
il vuoto che lo
aveva scovato quella notte, nel suo sonno senza sogni, era un
vuoto che tutto
distrugge, che tutto divora, terrificante – e stava venendo per
lui.
Si
era svegliato di
soprassalto, ansimando e sudato, come se avesse corso mille
miglia e mille
altre ancora, come se avesse provato a scappare oltre i confini
del mondo senza
riuscirci, senza riuscire a muoversi – come se avesse provato a
dimenticare che
siamo tutti stretti nella mano del Buddha sempre aperta. Si era
svegliato senza
luce, in un letto non suo, nella notte stagnante, e ancora una
volta aveva
dubitato della propria Illuminazione.
Poi
si era detto che non era
come quando Saga, giovane e splendente come un dio tutto d'oro,
era venuto in
India per condurlo la prima volta al Santuario – ma anche altri
erano venuti, e
c'era stata battaglia, e il sangue scarlatto di Saga di Gemini,
e il sangue
scuro di quelle creature di tenebra che divorano l'anima, e i
suoi occhi
aperti; e poi un brivido di ammirazione e terrore di fronte al
suo spaventoso
potere, quando tutto era finito. Si era detto che non era come
quella volta un
paio di anni dopo, quando – ancora bambino – si era allontanato
poco oltre i
confini del Santuario, seguendo un'ombra familiare in un
pomeriggio tiepido, e
di nuovo aveva sentito un vuoto orrendo chiamarlo, calare su di
lui per
divorarlo, e quegli altri erano venuti ancora e nuovamente c'era
stata
battaglia – quella battaglia che gli era valsa a pieno titolo
l'investitura.
Non aveva mai detto a nessuno – non a Mu, non a Saga, né ad
Aiolia – che quel
giorno non aveva combattuto per proteggere solo sé stesso,
perché l'aveva
promesso; non aveva mai detto che non aveva combattuto da solo,
perché l'aveva
giurato; né aveva detto che aveva sentito il nemico venire
soltanto per lui,
perché per la prima volta, in quel pensiero, aveva avuto paura.
Una promessa
per una promessa: entrambi avevano taciuto.
Ora
non era più un bambino.
No, si era detto nella notte stagnante, non era stato che un
brutto sogno, un
residuo della morte, dell'ultimo annullamento che non è più
liberazione.
Aveva
accettato la morte,
l'aveva abbracciata pienamente, come mai si era concesso di fare
con niente e
con nessun altro; aveva saldato i suoi conti e i suoi debiti con
questa vita –
nella lotta, nel sacrificio, in un unico bacio sulle labbra di
Mu prima che
tutto iniziasse, prima che tutto finisse.
E
tutto era finito, con tanta
luce, il sapore del sangue, e un mare di fiori mandati a portare
un messaggio
importante – il più bello però lo aveva inviato a lui, per
indicargli la
strada.
La
morte dovrebbe essere
definitiva: non la fine, ma un passaggio da cui non si ritorna.
Non lo era
stata; e lui era tornato, così com'era – Shaka di Virgo e non
qualcun altro –,
e aveva scoperto con stupore ed orrore di avere rimpianti. Pensò
che Milo aveva
sempre avuto ragione e il dolore ha davvero un colore, ma non
era il rosso
scarlatto della Cuspide dello Scorpione: era il verde ardente
degli occhi di Mu
– e lui, cieco, non lo aveva visto, non lo aveva capito fino a
quell'ultimo,
quell'unico bacio sulle labbra di Mu, ad occhi aperti.
Non
erano stati amanti, non
nel senso ordinario, e avrebbero dovuto esserlo.
Sarebbe
dovuto restare,
restare lì con Mu, concedergli e concedersi ancora un po' di
tempo – un minuto,
un secondo, un'eternità, che conta? –, ancora la spiegazione che
gli era dovuta
ma che lui non sapeva e non poteva dargli, in quel tramonto
rosso e amaro come
tutto il sangue che sarebbe stato versato. Sarebbe dovuto
restare: avrebbe
dovuto contemplare la sua carne e la propria, il sapore della
sua pelle, il
profumo dei suoi capelli (gelsomino e cannella, nevi e sostanze
segrete, stelle
e alchimia), il dolore e il piacere della vita che si apprestava
a lasciare;
avrebbe dovuto guardarlo fino a saziarsi, come un pellegrino che
parte per
l'esilio più lungo; avrebbe dovuto abbracciare Mu con tutto il
suo essere,
concedersi pienamente a Mu prima che alla morte. Avrebbe dovuto
dirgli che solo
per lui cantava il vuoto nel proprio cuore; ma non sapeva come,
non aveva le
parole.
Allora
Shaka gli aveva preso
una mano fra le proprie e se l'era portata al petto, come lui
tanti anni prima,
ma ad occhi aperti; e aveva fatto brillare il proprio cosmo
soltanto per Mu, lo
aveva cercato, lo aveva avvolto, aveva accarezzato tutto il suo
universo, e Mu
lo aveva incontrato. Così avevano fatto da ragazzini, nella
gioia di ritrovarsi
ogni volta, quando non sapevano ancora quanta intimità stessero
condividendo;
così avevano fatto, sempre più spesso, dopo la Battaglia delle
Dodici Case,
nella gioia di non essersi persi, di riconoscersi sempre; ma
questa volta Mu
era stato come il sole, e Shaka non aveva più niente da vedere.
Tutto l'essere
di Shaka aveva pregato Mu di capire, di perdonare, di vivere,
vivere, vivere –
e di riamarlo come lui lo amava. Shaka, allora, aveva richiuso
gli occhi; e Mu
aveva capito, come sempre capiva, perché conosceva il suo
spirito, e si era
lasciato strappare una promessa di non intervenire – la più
difficile da
mantenere, ma Mu di Aries era sempre stato un uomo di parola. Mu
aveva giurato
a Shaka di custodire il suo cuore; e Shaka di Virgo era andato a
morire in
pace, facendosi guida e giustiziere, facendo il proprio dovere.
Sarebbe dovuto
restare – un minuto, un secondo, quell'ora ancora che non
avevano.
Ora
Shaka dischiuse gli occhi
lentamente al bagliore fioco, argentato, delle stelle e della
luna calante; e
vide, con la devastazione del palazzo della Vergine Celeste, la
desolazione
infinita della propria anima, che in molti dicevano grande, ma
che lui sentiva
ancora bambina, come il giorno doloroso in cui era nato. Nessuno
lo aveva
capito, allora, che era un bambino; nessuno glielo avrebbe
perdonato.
“È
faticoso tornare ad essere
vivi”, soprattutto se si è vissuti in vista della propria morte,
progettandola,
come un’opera d’arte o un monumento, una composizione di fiori.
È faticoso
guardare la vita a occhi aperti, ma questo tremolare notturno di
astri
impalliditi nella calura non gli faceva poi così male; e la
roccia spezzata
sembrava fasciata d’incanto, come una ferita…
“Ed
è ancora più faticoso se
ci si priva del sonno”. Una voce gentile alle sue spalle, e una
stretta
cameratesca.
Si
voltò di scatto, ma senza
essere sorpreso di trovarsi di fronte Aiolia, con il suo sorriso
gentile di
pacata, inamovibile fermezza d’azioni e d’intenti.
“Ho
sentito il tuo animo
turbato”, disse, a motivare la sua presenza, ma senza
giustificarsi affatto.
“C’è
molto lavoro da fare
perché le cose tornino a posto”, rispose Shaka, adagiando le
dita esangui sul
polso dell’amico, polso baciato dal sole, con un sospiro –
tacito invito a
lasciare la presa.
“Parli
della sesta Casa o del
suo custode, Shaka?”, Aiolia aveva sussurrato appena, ma le sue
parole
risuonarono nella mente di Virgo come colpi a un tamburo di
guerra, che
scuotono i muri e le ossa.
“Lasciami,
per piacere”, respirò
profondamente, provando a tornare calmo o a ritrovare almeno un
po’ di
compostezza.
Quegli
fece per ritirarsi,
come se avesse toccato un metallo bollente, ma la stretta di
Shaka sulla sua
mano si serrò un momento più forte, a trattenerlo, a spiegarsi
in un gesto:
“Non hai fatto nulla di male, amico mio. Sono solo ancora un po’
stanco”,
disse, lentamente e pacatamente, forse parlando a sé stesso, ma
sinceramente,
con un sospiro. Non sapeva Shaka dire di più; non sapeva mettere
meglio in
parole il proprio animo perché Aiolia, diretto, onesto e buono,
potesse
leggervi a chiare lettere; non sapeva, perché quel tumulto
interiore era
qualcosa che aveva sempre creduto di non dover provare, di
esserne incapace, e
parlarne non era nella sua natura – sorrise appena al pensiero
che, forse,
aveva congelato il proprio cuore come Camus della Neve e dei
Ghiacci mai aveva
saputo fare.
La
carezza di Aiolia sulla
sua guancia era un po’ ruvida ma con la delicatezza di chi teme
di ledere una
cosa bella e preziosa con dita atte alla forza, al lavoro… alla
guerra; era una
carezza da fratello maggiore, piena di tenerezza, perché –
Aiolia lo rammentava
ancora – quando, bambino, non ritrovava la pace dopo un brutto
sogno che non
voleva però raccontare, Aiolos lo accarezzava così, e lui poteva
tornare a
dormire, e non aveva paura.
“Sei
un essere umano anche
tu… è inutile tormentarsi ora che te ne sei reso conto”.
Shaka
sorrise: “Sono
cresciuto credendo diversamente”. E a quelle parole, sotto il
peso della
consapevolezza della loro verità, sentì qualcosa spezzarglisi
dentro e un
dolore di vetri rotti schiantarglisi nelle vene; non riuscì a
trattenere una
smorfia di disgusto e di orrore – forse per i propri errori,
forse anche per sé
stesso.
“Cosa
c’è, Shaka? Ti senti
male? Vuoi che ti accompagni da Mu?", chiese Aiolia con simulata
leggerezza, per distrarlo da quel turbamento che non sembrava
del corpo.
“Checché Athena ne dica, non c’è ferita che Mu non sappia curare
perfettamente…”. Poi uno sguardo di comprensione – allorché
Shaka indietreggiava
discretamente per voltarsi di nuovo a contemplare il luogo che
un tempo aveva
protetto – : “…né di un’armatura, né del corpo… né del cuore".
Nonostante
dovessero costargli tanto quelle parole – i suoi legami con Mu
erano da anni
impostati su una rispettosa e reciproca non sopportazione, un
costante
fraintendersi, e qualche occasionale minaccia di morte qua e là,
sempre sincera
–, Aiolia aveva sempre dato a Cesare quel che è di Cesare;
Aiolia aveva sempre
saputo che Mu manteneva Shaka ancorato alla terra – anche quando
Shaka era
troppo cieco per vederlo.
“Non
quelle che infligge lui
stesso”, sospirò Shaka per tutta risposta, ma si rese conto di
essere stato
ingiusto; tentò di essere più equanime e risoluto: "Mu non è
ancora
tornato. Ma non è colpa sua: il mio sonno è stato inquieto, ed
io sono stolto a
leggere infausti presagi in quello che è assai probabilmente
solo il frutto del
mio cosmo ancora esausto. Ho lasciato vagare la mente, quando
dovrei
concentrarmi e meditare".
Aiolia
si perse un momento a
studiare quella schiena rilassata per la stanchezza, qualche
filo di capelli
dorati, sfuggito al fascio che l’amico aveva raccolto su un lato
del collo,
vagava sperduto, come un gioco dimenticato di bimbo, nel mare
color del vino
della sua veste.
“Non
gli hai parlato?”
“E
tu hai parlato con
Shura?”, rimbrottò Shaka, caustico. Aiolia rimase pietrificato
come una statua
di sale.
“Aiolia,
non avrei dovuto.
Io…”
“Non
ti preoccupare, sei
molto turbato”, deglutì, come a ricacciare cupi pensieri nel
fondo delle
viscere. “Non è dei miei problemi che sono venuto a discutere,”
né ti voglio
imporre anche questo peso – ma non lo disse. “Allora?”
“Non
per molto…”. Un attimo
di silenzio, il frusciare del vento tiepido gli riempiva le
orecchie e i
polmoni: "È dovuto partire per Tokio, non c'è stato tempo".
Aiolia
sapeva quanto Kiki –
incaricato di accompagnare Mu ancora debole dalla resurrezione –
avesse
indugiato prima di raggiungere il suo maestro, nonostante la
gioia strabordante
di averlo di nuovo lì, vivo, per dargli tempo prezioso; e
sollevò un
sopracciglio, divertito ma non senza quel po' di malizia che mai
si risparmia
ad un amico.
Shaka,
che non aveva bisogno
di aprire gli occhi o voltarsi per sapere esattamente che
espressione avesse
stampata in faccia, non poté evitargli un commento
inequivocabile sulla sua
intelligenza – un po' imbarazzato, ma senza rancore. Non poté
evitarsi di
ripensare a quella mattina: la luce accecante dell'alba greca,
troppo pungente
dopo il vuoto ed il nero del niente, anche attraverso le
palpebre chiuse, per
aprire gli occhi; l'incredulità, lo smarrimento di essere lì,
sull'altura
desolata bagnata dal sole nascente, di pallido platino e
diamante brillante,
non ancora d'oro; la carezza della brezza d'aprile, carica
dell'umidità e del
profumo salmastro del mare vicino, e d'un sentore spettrale di
rose e di
melograno, sulla nuda roccia e sulla polvere, sulla pelle nuda,
come una
frustata, pesante come un pugno nei polmoni, difficile da
prender dentro e
mandar fuori – dentro, fuori ... dentro, fuori... Respirare era
stata una
sorpresa sconvolgente, un boccheggiare senza fiato, come il
soffocare di chi
annega – in tutta quella luce di platino e diamante, in
quell'aria salmastra di
mare ed aspra di rose e di melograno, in tutta quella vita che
non sarebbe
dovuta essere.
Shaka
non era mai stato così
consapevole del proprio corpo – d'avere un corpo, d'essere corpo
(lui, anima
bambina che in molti dicevano grande), d'essere vivo.
I
passi trafelati, i respiri
affannati di Shaina, di Marin, d'una terza fanciulla velata di
bianco ma a
volto scoperto, e dello sparuto manipolo rimasto a guardia del
Santuario, si
erano arrestati davanti a loro come se fossero andati a sbatter
contro un muro
in una strada senza uscita. Nessuno aveva detto niente: i vivi
troppo
stupefatti per trovare le parole, i redivivi – gli occhi bassi –
ancora persi
in contemplazione di sé stessi, nel sole e nel vento,
nell'essere lì.
Poi
Kiki, fedele all'impeto
delle proprie stelle (come Mu non era che raramente), era corso
avanti, ridendo
e piangendo assieme, ad abbracciare il suo maestro, a nascondere
le lacrime e
la faccia, a soffocare riso e singhiozzi contro il suo ventre.
Mu gli aveva
sorriso piano, come in un risveglio lento; gli aveva accarezzato
i capelli – la
mano quasi ferma a trattenerlo lì, come ad assicurarsi che non
fosse un
miraggio –; gli aveva mormorato qualcosa che Shaka non aveva
udito, ma che
certo doveva essere affettuoso e rassicurante per entrambi.
Le
risa e i singhiozzi, il
mormorio di Mu – sempre l'ariete dorato che sfonda il confine
fra i mondi –
cullato dal silenzio del vento, avevano infranto l'immobilità
della morte,
avevano sollevato il sortilegio della vita che non crede a sé
stessa.
Aldebaran, buono e saldo, sempre segretamente più saggio di
quanto non fossero
gli altri, più bravo ad accettare le cose per quelle che sono
senza lasciarsi
scuotere, aveva regalato una risata bonaria e tonante a tutti
loro e a sé stesso,
e una pacca amichevole alla schiena di Mu. Era stato abbastanza
per strapparli
tutti al loro stupore. Dohko di Libra, forte dei suoi
diciott'anni e di
duecento di solitudine, era andato al cospetto di Shion, ogni
suo passo un
peana. Camus di Aquarius era rimasto in silenzio, come di
ghiaccio, lo sguardo
basso, perché non voleva, non poteva vedere la rabbia e il
rancore negli occhi
di Milo, lo scotto del tradimento, dell'abbandono; ma Milo di
Scorpio, come
sempre, lo aveva raggiunto, gli occhi pieni di reverenza e
d'amore, e la
carezza che gli aveva adagiato su una guancia, sulla curva del
collo, e
lasciato correre via lungo una spalla, era dolce come una
promessa e
un'assoluzione – e Camus, come sempre, si era adagiato nel
calore di quella
mano nota e così tanto rimpianta. Aiolia aveva avuto un unico,
interminabile,
sguardo per Shura, ineffabile di devozione, rabbia e dolore: era
uno sguardo
che non si può incontrare; e Shura, immobile e pallido, teso
come una corda di
violino che sta per spezzarsi, lo aveva fuggito – né aveva
ardito incrociare lo
sguardo di nessun altro. Aphrodite, altero e bellissimo, ancora
una volta
l'ultimo baluardo, aveva frapposto la propria incommensurabile
bellezza di
fronte a Shura e Deathmask, come uno scudo o una sfida a chi
volesse osar
giudicarli o lanciare la prima pietra. Poi Aiolos aveva chiamato
Aiolia –
Aiolos non più adolescente, rinato uomo, alto e possente, con un
sorriso dolce
senza l'ombra degli anni perduti – e per Aiolia non era più
esistito
nient'altro. Saga di Gemini era sembrato sul punto di strapparsi
ancora una
volta il cuore dal petto; poi il panico e la disperazione lo
avevano
sopraffatto, come un uragano, ineluttabili come la marea: Kanon!
Kanon non era
lì, Kanon era assente! Saga lo aveva cercato con tutto il
fievole cosmo che gli
era rimasto, freneticamente, ciecamente, un urlo dell'anima e un
folle
richiamo; era crollato in ginocchio; infine lo aveva trovato –
Kanon!-, un
remoto bagliore, così lontano, a nord-ovest, da dove soffia il
maestrale; e
aveva ripreso a respirare. Anche Shaka, nel suo stordimento,
prigioniero e
cosciente del proprio corpo, lo aveva sentito, Kanon lontano,
come in un sogno;
così come aveva sentito soffusa, a oriente, la luce di Athena.
Anche gli altri
si erano quietati, si erano ricordati del mondo al di là di loro
stessi, della
dea oltre i confini del Santuario, della battaglia vinta –
perché quell'alba
pallida di platino e diamante era l'alba di un nuovo giorno che
sarebbe potuto
non essere, che non sarebbe stato se avessero perso.
Shion,
Grande Sacerdote per
investitura e per abitudine, aveva impartito i suoi ordini: a Mu
– l'allievo
fidato, il discepolo tanto amato, il figlio che non aveva avuto
–di recarsi da
Athena con Kiki, non appena si
fosse ristorato abbastanza, di accertarsi della situazione e
prestare il suo
aiuto se necessario, di rientrare a fare rapporto al Chrysos
Synagein indetto
per il suo ritorno; a Marin e alla fanciulla velata di venire al
Tredicesimo
Tempio per le debite presentazioni, scusandosi senza vergogna
dell'accoglienza
poco adeguata, più tardi quella mattina.
"Verso
il
tramonto", aveva suggerito Dohko con un gran sorriso compiaciuto
e bonario
– e con la furba soddisfazione di un gatto che alla fine ha
scovato la tana del
topo.
"Nel
pomeriggio,"
aveva concluso Shion, indulgente, conciliante e sfacciato, con
tenerezza. Poi
si era rivolto a Saga di Gemini, ancora per terra in ginocchio,
ancora
prostrato e svuotato, perché tutti i suoi peccati erano radiosi
e impressi a
fuoco lì di fronte a lui, perché Kanon era un miraggio debole e
lontano. Non
c'era stato rimprovero nella voce dell'antico Ariete, non c'era
stata condanna,
nessun rancore, solo una pragmatica dolcezza, nell'ordinargli di
andare a
vederlo il mattino seguente per aggiornarlo sugli ultimi tredici
anni
d'amministrazione del Santuario, sulle finanze, le missioni e
gli intrighi, sui
conti rimasti in sospeso, perché poi potessero iniziare a
ricostruire; gli
altri dorati li avrebbero raggiunti dopo mezzogiorno.
Saga
aveva annuito, solenne
però assente a sé stesso – ma avrebbe voluto avere ancora
abbastanza anima da
essere in grado di piangere, avrebbe voluto che quella salda
dolcezza lo
facesse tremare, avrebbe voluto che Kanon ci fosse e che Aiolos
non lo
guardasse.
"Nel
frattempo,
prendetevi cura di voi stessi e gli uni degli altri", aveva
infine
ordinato Shion, mentre una mano leggera di Dohko sull'incavo
della sua schiena
lo guidava gentile verso le sue stanze – perché non avevano di
nuovo ancora
vent'anni e dopo più di due secoli non c'era più tempo che si
potesse
aspettare. "Ritornate ad abbracciare la vita. Per il resto c'è
tempo
domani".
Shaka,
ancora perso nel sole
nascente e nel vento leggero, nell'eco assordante del proprio
respiro, come in
un limbo, aveva pensato che, in fondo, era stato quello che
avevano sempre
provato a fare, in quegli interminabili tredici anni e negli
ultimi mesi di
lutto e stupore: prendersi cura gli uni degli altri, tenere
assieme alla meno
peggio i loro cocci di uomini rotti, di bimbi sperduti, e un po'
di speranza, e
l'illusione che valesse bene a qualcosa. Ciascuno aveva fatto
del proprio
meglio, ciascuno secondo quello che aveva ritenuto necessario e
giusto, con
sangue e con sacrificio: i successi, fragili e segreti,
consumati nell'intimità
dei loro templi, nell'ombra d'una pace impermanente; e i
fallimenti... i
fallimenti erano stati deliranti e disastrosi, distruttivi senza
discrezione –
ma il più delle volte Shaka non aveva saputo distinguerli, e
ancora si chiedeva
quali fossero state le vittorie, quali le sconfitte, quale il
prezzo troppo
alto da pagare.
La
stretta d'acciaio della
mano di Mu sul suo polso lo aveva strappato alla sua rêverie;
gli occhi di Mu,
piantati nei suoi come due pugnali, erano ardenti e lo avevano
fatto tremare in
quel luogo segreto fra lo stomaco e il cuore: Mu era furioso.
Non gli aveva
detto niente – non ce n'era stato bisogno –, non aveva detto
niente a nessuno –
ma forse lo aveva fatto mentre Shaka era intento a smarrirsi
lungo il filo dei
propri pensieri –; semplicemente lo aveva condotto giù per la
scalinata, senza
correre, ma con decisione e con una fermezza che non ammette
repliche: se Shaka
si fosse opposto, probabilmente lo avrebbe trascinato comunque,
come il
destino; ma se Shaka aveva imparato qualcosa negli anni, sin da
quando era
bambino, era che non avrebbe mai saputo opporsi a Mu.
La
Casa del Montone Bianco
aveva subito danni – qualche colonna crollata, il frontone
diroccato, polvere e
detriti sulle scale e nell'ingresso sotto i piedi nudi al loro
passaggio –, ma
era ancora lì, solida, eburnea e brillante nella pallida aurora,
come la linea
ferma delle spalle di Mu. La Casa della Vergine celeste non
esisteva più.
Erano
entrati, Mu un passo
avanti, sempre tenendolo per il polso, ma il suo tocco era un
poco più lieve,
un po' più gentile, mentre lo portava alle sue stanze private
quasi intatte:
non era più un ordine, ma una richiesta – non tremare, concedimi
almeno questo,
me lo devi, ed io ne ho bisogno.
La
sala da bagno – spaziosa,
spoglia – era grigia e perlacea come sempre; le finestre, troppo
alte, troppo
piccole, per offrire più che una luce soffusa e una penombra
dolce; l'aria era
densa e fresca come pietra.
Mu
lo aveva lasciato per
riempire la grande vasca, poi: "Entra", gli aveva detto, e lo
aveva
seguito. Entrambi in piedi, senza smettere di guardarsi, nella
penombra fresca
e nel gorgogliare dell'acqua che scorre, Mu aveva lavato Shaka:
ogni tocco
leggero delle sue mani – sulle spalle, sul collo, sul suo petto,
lungo le
braccia e le gambe, su tutto il suo corpo – gli accarezzava via
la morte di
dosso, era un rituale e un battesimo. Ad ogni tocco sul corpo di
Shaka, Mu
stava lavando via un po' della sua stessa rabbia; quando, alla
fine, gli aveva
accarezzato il terzo occhio con un pollice, tenendogli il viso
fra le palme
bagnate, con delicatezza infinita, entrambi avevano sospirato –
entrambi si
erano quasi sciolti in lacrime. Allora Shaka aveva fatto lo
stesso a sua volta
– e nel lavare Mu gli era parso di purificare sé stesso, di
tornare alla vita
come mai era stato vivo prima.
Poi
Mu si era asciugato,
aveva asciugato Shaka, aveva indossato i suoi abiti usuali e lo
aveva vestito
con una tunica color del vino; aveva infine appoggiato la fronte
alla sua.
"So
che hai fatto quello
che ritenevi necessario, lo capisco; so che era il tuo dovere",
aveva
confessato, con una carezza sulla guancia di Shaka, "e so anche
che lo
rifaresti; non posso biasimarti per questo. Ma, Shaka...". Non
aveva avuto
modo di finire: forse gli erano mancate le parole, forse in
verità non c'era
niente da dire; ma il cosmo di Kiki brillava impaziente oltre il
pronao del
tempio di Aries ed era ormai tempo di andare.
"Parleremo
al mio
ritorno", aveva concluso e Shaka aveva annuito. "La mia casa è
la tua
casa, se non ti pesa restare qui in mia assenza", e si era
accomiatato con
un bacio minuscolo all'angolo della sua bocca che aveva il
sapore di una
promessa di risoluzione. Shaka lo aveva guardato allontanarsi,
prima di
richiudere gli occhi.
Ma
come poteva dire tutto
questo ad Aiolia? Come poteva spiegargli l'orrore di trovarsi
vivo e dei mostri
notturni della sua infanzia che ancora lo visitavano negli
incubi? Come
descrivere il dolore di quell'alba di platino e diamante e il
sollievo della
penombra, delle mani e del corpo di Mu? Come poteva, quando
neppure lui sapeva
che cosa volesse dire?
"Mu
era arrabbiato con
me", ed era vero.
Aiolia
gli venne accanto,
chinandosi a raccogliere in un pugno una manciata di polvere che
era stata
roccia immutabile, intangibile al tempo: “Hai idea del perché?"
Shaka
non gli rispose, gli
occhi chiusi e il capo chino, una posa di rassegnazione di
fronte a sé stesso,
che Aiolia non avrebbe mai immaginato su di lui, né avrebbe mai
voluto vedere.
“Shaka...
Se stamattina Mu
non ti avesse portato via di gran carriera – per farti non
voglio sapere cosa
volesse farti –, un pugno sul muso non te lo avrebbe risparmiato
neanche
Athena”. Il tono di Aiolia era quasi scherzoso, ma Shaka sapeva
benissimo che
era serissimo – e che lo avrebbe fatto davvero.
"Perché?"
Allora
Aiolia aveva risposto
onestamente, cercando di mantenere tutta la calma di cui fosse
capace, perché
Shaka sinceramente faticava a capire e lui doveva spiegargli, ma
la voce
tremava: "Perché sei andato a morire – o qualunque cosa tu abbia
fatto –,
deliberatamente, senza dirci niente. Non ci hai degnato di uno
straccio di
spiegazione. Lo sai che Mu mi ha impedito di entrare nel tuo
stupido giardino?
Che sorvegliava la porta piangendo? Che ogni minuto di
quell'agonia sapeva
perfettamente che cosa avevi intenzione di fare e si sentiva
morire anche lui?
Che mi sentivo morire anche io? Avrai avuto le tue buone ragioni
– anche i muri
hanno orecchie, le spie di Hades, quello che ti pare, non mi
interessa –,
perché tu hai sempre le tue buone ragioni anche quando sono
completamente
stupide! E sicuramente Mu lo aveva capito benissimo o almeno lo
immaginava, ma
ciò non toglie il fatto che sia dovuto star lì a lasciarti
morire, a sentirti
desiderare di morire. Io avevo il cuore spezzato; come immagini
che stesse il
suo, di cuore?"
E
Shaka aveva finalmente
capito, come in una sconvolgente illuminazione; e tremava. "Che
cosa posso
dirgli ora?"
"Chiedigli
scusa, Shaka.
Anche se lo rifaresti, chiedigli scusa".
*
Santuario,
notte fra
il 24 e il 25 ottobre 1986
Milo
sedeva – giaceva –
prostrato accanto alla grande porta chiusa, la schiena
abbandonata contro lo
stipite, senza avere il coraggio, o la forza, di entrare: così
vegliava, lui
stesso corpo senz’anima, o una bambola rotta. Quella che Aiolia
– di fronte a lui,
accasciato su una colonna, quando non sarebbero bastati i
pilastri del mondo a
sostenerlo – vegliava non era una veglia funebre, non solo, ma
il disperato
stupore dei sopravvissuti ad un’insospettata congiura, dei
traditi che non si
salvano mai, e piangeva rabbiosamente anche lui il suo pezzo
strappato di cuore
– che non credeva d’avere, non prima che fosse tardi, e tutto
rovinato e
perduto.
Marin
li sorvegliava in
disparte, tagliata dall’ombra, in silenzio: era l’unica che
aspettasse ancora
qualcosa, perché per gli altri due il tempo si era fermato in
una goccia densa
di dolore scurissimo, pesante più del sangue, e aveva perso di
senso misurarlo
in un prima e in un poi, in oggi e domani, perché lo ieri non
esisteva più e si
era portato via tutto; né si poteva sperare scorresse, passasse.
C’era solo la
notte, la notte infinita del riposo dei morti, e il vuoto
devastante della
perdita.
Nessuno
dei guerrieri dorati
sopravvissuti aveva seguito Athena e i suoi piccoli Cavalieri di
Bronzo feriti:
la morte e il dolore erano cose cui erano stati abituati a
badare da soli, fra
di loro, a questo erano stati addestrati; e le ferite del cuore
dovevano essere
riaccostate dolorosamente lembo per lembo, in solitudine, prima
che la Dea
potesse suturarle col suo cosmo divino – prima che loro stessi
potessero
pienamente accettarne la ragione.
Ma
non era il momento della
ragione quello, non per Milo: appena l'aereo della Fondazione fu
alto sulle
loro teste – a sgravarli per un attimo del loro dovere di santi
ed eroi, lasciandoli
soltanto uomini, nello spazio dei loro lutti –, si era girato,
come se
null’altro contasse – perché più nulla contava –, col passo
lento e scosso, ma
inarrestabile, delle prefiche della sua terra, che aveva visto
bambino; e
nessuno, nemmeno Mu, aveva provato a fermarlo, o ad
accompagnarlo, o a dirgli
qualcosa – perché non c’era parola che si potesse dire, né di
conforto, né di
rassegnazione. No, non era quello il momento della ragione; ma
il silenzio che
urlava nell’anima dello Scorpione riportava alla schiacciante
realtà tutti
loro, perché erano i reduci e gli abbandonati.
Era
sceso, muto e
implacabile, fino all’Undicesimo Tempio; il battere ritmico e
angosciante dei
suoi calzari sugli scalini di pietra era l’unica cosa che gli
scandisse nel
petto il pulsare del cuore, e se si fosse fermato si sarebbe
arrestato anche
lui – il suo piccolo cuore di insetto schiacciato e privato del
sole.
Era
crollato in ginocchio di
fronte al suo Camus, crollato rovinosamente come un monumento
cui
all’improvviso vengano meno le fondamenta, come il ragazzo che
era, senza più
aria, o speranza, senza più niente, perché il suo Camus era lì,
ancora di
ghiaccio, ma questa volta non avrebbe scostato né ricambiato le
sue carezze,
non gli avrebbe regalato il sorriso più piccolo, non lo avrebbe
più
rimproverato con la più dolce, impercettibile tenerezza.
Aveva
pianto, Milo, per
un'eternità, senza più tempo, in ginocchio, disperatamente e
senza ritegno;
aveva singhiozzato finché solo il bruciore di fuoco nella sua
gola, in fondo ai
polmoni, gli ricordava che lui era vivo – ma questo era un
dolore
insopportabile.
Aveva
sollevato Aquarius come
una sposa dormiente, anche se non aveva niente del sonno; lo
aveva portato fra
le braccia con la stessa avvolgente e amorevole cura che gli
aveva usato quando
era in vita, fino a una manciata di ore prima, quando aveva
giurato e rigiurato
che niente, niente avrebbe mai toccato il suo Camus – una
manciata di ore prima
lo aveva mandato lui, il suo assassino al suo Camus. Avrebbe
dovuto saperlo che
Camus aveva il cuore troppo caldo e troppo in pezzi per
congelare quel bambino
ancora una volta; avrebbe dovuto saperlo che si sarebbe lasciato
morire per
insegnare la sua stupida lezione – perché Camus amava troppo,
aveva sempre
amato troppo, e la sua morte ed il dolore di Milo, che lo
riamava e che lui si
lasciava dietro, era la sua stupida, insensata lezione. Avrebbe
dovuto saperlo
e tenerlo fra le sue braccia quando era tornato dalla Casa di
Libra, finché non
avesse più tremato, finché non avesse avuto più freddo, finché
la battaglia non
fosse finita, senza lezioni. Avrebbe dovuto saperlo....
Milo
aveva trascinato anche
il proprio cadavere, fino alle stanze del Sacerdote; e il corpo
che aveva
affidato con reticenza e un’ultima carezza sulla fronte gelida,
come di marmo,
alle mani tremanti di Shaka, perché facesse quel che andava
fatto, pesava anche
di tutta la sua anima che non poteva più stargli nel petto, che
s’era involata
da lui.
“Camus…”
Ora,
dentro, tremavano ancora
le mani di Shaka, tremavano come mai avevano tremato, le sue
mani ferme; e Mu
non sapeva come quietarlo, quel profondo terrificante tremore
dell’antro dove
mente e cuore non si distinguono più.
Subito
dopo aver adagiato
Camus erano andati a deporre le armature, come trasognati;
avevano indossato
tuniche bianche, sacerdotali, lavato via polvere e sudore dalle
proprie membra
e tracce di sangue che non volevano vedere, che non era loro.
Milo
era rimasto accanto alla
porta, attendendo il loro ritorno, come a guardia dell’inferno;
e ancora era
là, senza neppure più la forza di piangere: aveva l’elmo in
grembo, lo
stringeva assentemente, così perso da non sentire il dolore
della pelle
lacerata dalla cuspide dello Scorpione, perché gli si erano
spezzate tutte le
corde del cuore – e avrebbe voluto non sentire più niente.
Aiolia aveva
aggiunto la propria solitudine alla sua; non era stato lui ad
andare a prendere
Shura.
Non
è vero, non è logico, non
è possibile, era il mantra di Virgo; non è vero, non è logico,
non è possibile,
si ripeteva, tracciando, con le mani intrise d’acqua e d’essenze
che avevano
l’odore del pianto, i tratti del viso di Saga, a cancellare
qualche schizzo di
rosso e tracce di terra – i segni della lotta si erano distesi
da soli, e
sembrava in pace, in una pace che non è sonno, né è riposo, ma
l’attesa delle
cose distrutte che non si ricompongono più.Ed erano tutti, tutti i vivi e tutti i morti, quali
statue di cera fatte
a pezzi; e Shaka non aveva il coraggio di aprire gli occhi
mentre ricostruiva
la compostezza di corpi vuoti – così, tremando, raccoglieva
anche i pezzi della
propria umanità.
Mu
lo osservava preoccupato,
mentre continuava ad occuparsi di Camus: nella morte sembrava
meno preciso – i
capelli di fiamma bagnati di ghiaccio sciolto, le sopracciglia
senza una piega
accigliata, pensosa e lontana, le dita distese, non più strette
ad afferrare il
controllo perfetto che scivola via, impercettibilmente, ogni
momento; e sulle
labbra neppure più lo sforzo di celare i suoi più segreti
sorrisi. Con quanti
rimpianti fosse partito quell’uomo, Mu non se lo chiedeva,
perché non spettava
a lui; e l’angoscia dei vivi lo arenava alle cose di questo
mondo, rendendo il
dolore una sorta di torpore, di stordimento, che avrebbe fatto
male dopo,
quando tutto sarebbe stato sepolto e avrebbero avuto lunghi
giorni per pensare
ed attendere ordini e domandarsi ancora e ancora “come”, e
“perché”.
Aphrodite
sembrava fragile –
la pelle ancora più diafana adesso che nessun calore l’animava,
la bocca di un
pallore quasi infantile –, rimaneva di una bellezza altera e
perfetta, ora più
immobile ed immutabile, che non si corrompe; profumava ancora di
rose, di una
fragranza dolceamara che sapeva di attese, di amori non senza
pericoli, di
ricordi d’infanzia e di lui. Deathmask gli era stato deposto
accanto, con
delicatezza infinita, perché non c’è crimine o morte che sciolga
il nodo
d’impegno e d’affetto dei compagni d’armi, quel nodo serrato sul
cuore, per cui
ogni tradimento fa male come il filo d’un pugnale, ma che
inietta nel sangue il
filtro sottile di una comprensione profonda più delle viscere, e
il rancore
stesso è quello che si porta a un fratello.
Aldebaran
aveva raccolto
Shura; fra le sue grandi braccia, sembrava ancora più snello e
sottile: era
tanto alto, ma il suo corpo così fermo e flessuoso, disegnato
per i balli
frementi della sua terra, ora pareva non avere più ossa, neanche
un piccolo
sostegno che il rigore della morte potesse tendere ancora.
Quando il Toro era
passato col suo fardello, Aiolia aveva girato la testa – ma non
era solo per
rabbia che non voleva, non poteva vedere.
“Shaka…”,
aveva mormorato Mu,
quando tutti gli altri erano stati preparati per gli ultimi riti
e gli estremi
onori, e Virgo sistemava ancora le pieghe della veste e i
capelli di Saga, gli
occhi chiusi e le mani tremanti, perso nei suoi pensieri, o in
ricordi remoti
che anche Mu divideva, ricordi di anni e di tutti loro –
comunque altrove.
Shaka
aveva annuito come
assente e, con un’ultima carezza al volto morto d’una memoria
distante, aveva
seguito Mu via dalla grande sala, per lasciare che Shaina e
Marin compissero le
celebrazioni che spettano solo alle donne, preghiere alla notte
e alla terra
perché il loro grembo fosse benigno e accogliente, invocazioni
di vita e sangue
senza sole, e canti più acuti del vento – cose che neppure lui
conosceva, né
avrebbe mai pronunciato.
Aiolia
era fuggito a covare
nell’ombra il rancore che gli straziava e riapriva le ferite del
cuore; Milo
non si era mosso di lì, perché sarebbe sceso anche lui nella
tomba con Camus.
Aveva levato gli occhi, come se avesse voluto chiedere loro
“come sta?”; li
aveva riabbassati con la dignità sofferente del guerriero
sconfitto e il pudore
del bambino colto in fallo o che, semplicemente, ha pianto
troppo. Fu come un
congedo e non aggiunse nulla, perché quella guardia notturna era
per lui, su di
lui tutto il peso della tenebra e del sopraggiungere –
impossibile e
inammissibile, perché come può esserci sole se non c’è lui? –
della straziante
luce del giorno.
Dall’altra
parte della porta,
giungeva, come irreale, penetrante un odore di incenso e di
fiori bruciati, e
sommessi lamenti come cantilene singhiozzate; a Shaka dava la
nausea.
“Scendiamo
insieme fino al
tuo tempio, se non ti disturba la mia compagnia”, gli aveva
proposto Mu, con
l’usuale cortesia e lo sguardo gentile – quello sguardo che,
quando se lo
sentiva addosso, gli riscaldava l’anima e stringeva lo stomaco,
gli faceva
venire voglia di sorridere senza motivo. Questa volta fu come un
balsamo per lo
straniamento delle ultime ore, l’ultima cosa che avesse senso in
un mare di
assurdità e di certezze rovinate al prezzo di troppo sangue e
troppo passato
perduto – e lui, in preda all’orrore, dubitava e aveva la
sensazione
paralizzante di aver sbagliato tutto, tutto quello che si
potesse sbagliare.
“Non
potrebbe che farmi
piacere”, rispose. “La tua compagnia mi è indispensabile”,
aggiunse in un
sussurro debole.
Mu
gli sfiorò un braccio,
consolatorio e incoraggiante – perché solo lui leggeva e
conosceva ogni
turbamento dell’animo suo, nonostante fosse passato tanto tempo
–,rassicurante
come sanno essere solo i saggi
che non smarriscono il mondo umano, dolce come una madre e un
fratello, o come
un amante.
“Andiamo,
è bene dormire
almeno qualche ora: domani sarà una lunga giornata per tutti”.
Scesero
spalla contro spalla,
e quel poco calore della semplice presenza poteva quasi bastare
a mitigare il
gelo di un cielo troppo buio; il silenzio era rotto solo dai
loro passi e dal
sentore lontano di foglie cadute: quella notte, tutte le stelle
erano mute,
niente segnava la direzione.
“Come
si può dormire, davanti
al sonno dei morti?”, mormorò Shaka, di fronte all’ingresso
della sesta Casa,
con nuda sincerità e nudo turbamento, perché parlare con Mu era
qualcosa di più
intimo che parlare a sé stesso. Gli rispose un lieve bagliore di
cosmo, un noto
richiamo dell’anima, che non aveva dimenticato. Si volse verso
l’amico, stupito
e con gli occhi spalancati: vide un sorriso triste.
“Perché
non mi inviti a
prendere una tazza di tè? Questa notte non è per vegliare in
solitudine”.
Capitolo 3 *** Parte I: Nostoi – Capitolo I.2: Ad occhi aperti II ***
Parte
I – Nostoi
Capitolo I.2
Ad Occhi Aperti II
"...
ces rites
barbares, qui créent entre les affiliés des liens à la vie et à
la mort,
flattaient les songes les plus intimes d'un jeune homme
impatient du présent,
incertain de l'avenir, et par là même ouvert aux dieux. Je fus
initié..."
–
Marguerite Yourcenar,
Mémoires d'Hadrien –
*
Tra
la Grande Piana e
le Porte del Cielo, circa vent'anni prima del Tempo del Mito
Era
un figlio del vento e
della steppa.
La
grande piana brulla, senza
limiti o confini – dove gli orizzonti sono solo laddove l'occhio
può arrivare e
si rincorrono al ritmo forsennato di un galoppo leggero come
l'etere, pesante
come il cielo –, l'aveva cullato alla sua nenia di zoccoli che
alzano la terra
sottile come cenere, di aria che sgretola le rocce, di sibili
tra le torri del silenzio.
La grande piana arida, di polvere e di sabbia, che beve tutta
l'acqua,
prosciuga tutto il sangue, l'aveva nutrito nel suo ventre
sterile, che
rigurgita le ossa dei cadaveri e solo i ricordi degli scheletri.
La grande
piana verde, tutta in fiore, pingue di rugiada e di frescure,
che s'insinua
flessuosa fra gli immensi monti, incontrastata, profonda come
una ferita,
gentile come una promessa, cortigiana imperiosa... la grande
piana verde, tutta
in fiore, lo aveva temprato all'incudine della tentazione del
riposo; al
martello dell'indicibile bellezza di paesaggi mai violati –
altera, imponente,
vera bellezza sempre inquietante –, lo aveva fatto diventare
quasi un uomo, la
grande piana verde, flessuosa, tutta in fiore. Però il suo cuore
inquieto e
pellegrino seguiva ancora il moto delle stelle, che lo
chiamavano, sempre più
insistenti, oltre la grande piana; oltre le montagne; oltre il
fiume immenso
che si dipanava, gigante come il mare o un imperatore; oltre...
Era
un figlio del vento e
della steppa. Era il figlio più bello degli arya, che si dicono
nobili.
Ogni
guerriero gli era stato
madre, ogni sapiente padre, i cavalli ed i falchi suoi cugini e
fratelli, senza
distinzione – questo il costume della sua stirpe di esseri
liberi, di
conquistatori: senza giogo o possesso, senza catene, senza
attaccamento,
danzavano col fuoco; cercavano nell'acqua il segreto della vita,
l'eterno
movimento; battevano la terra col passo incessante degli
esploratori;
nell'aria, ascoltavano i sospiri del futuro, le promesse di ogni
strada nuova,
e le affidavano i caduti ed i segreti, gli anziani consumati dal
ciclo degli
anni, perché li consumasse ancora un poco, acché, ridotti a
niente, trovassero
un facile ritorno. E l'aria, in fondo, è tanto più leggera della
terra: si scosta
più in fretta.
Era
un figlio del vento e
della steppa, un figlio fatto nel grembo delle stelle, dal fuoco
e dalla
sabbia, un figlio battezzato nella pioggia: il più bello e il
più saggio dei
figli degli arya, che si dicono nobili; anche il più
inquieto.
Aveva
corso il mondo noto,
capo a capo, in dorso al suo cavallo: in dorso al suo cavallo
aveva dormito,
aveva sognato; era cresciuto; era diventato quasi un uomo. Ma il
suo cavallo
andava troppo piano; così imparò a correre più forte, veloce
com'è rapido un
pensiero, però mai quanto il costante tremolare che gli
stringeva il cuore – e
che gli sussurrava di cercare, di avanzare ancora, d'andare un
altro poco, un
po' più in là, di non aspettare...
La
grande piana, un giorno,
poi, era finita: s'apriva ancora una distesa sterminata, mille
direzioni da
esplorare, in cui vagare; eppure, i nobili si vollero fermare,
vollero imparare
le opere dei giorni e delle stagioni, vollero coltivare e
costruire. La piana
non esiste, se non ci si può smarrire.
Ma
il loro figlio più forte,
il più saggio e il più bello, di tutti il più inquieto,
apparteneva al vento ed
alla steppa: al vento voleva tornare, e riattraversare la
steppa, inseguire le
stelle, andare col falco a caccia di qualche cosa che non
conosceva, ma che
doveva scoprire – e lì, lì fermo, lì non poteva.
Così,
per settimane, avanti e
indietro, camminò assorto, tra i bordi d'un fazzoletto;
insofferente, su quei
campi pingui che già iniziavano a fruttare; libero come un
prigioniero che non
osa scappare. Il mistero del seme che germoglia non lo
affascinava; la
geometria segreta delle radici nascoste non lo riusciva ancora a
interessare.
Sospeso a mezz'aria in quella fermezza – non più bambino, non
ancora uomo –,
non poteva far altro che attendere l'iniziazione, il segno
temuto ed agognato
di chi sarebbe dovuto diventare, d'un ultimo passaggio da cui
non si sarebbe
potuto svincolare. Gli astri, però, indifferenti ai vezzi del
rituale, quasi si
misero ad urlare: il cielo, forse eterno, non conosce pazienza –
ed anche lui
la doveva ancora imparare.
Parvero
lustri, quelle
settimane: la stasi dell'attesa rende i minuti angusti,
l'inerzia sfiancante.
Consumò il tempo guardando le fiamme; ignorando sguardi che non
poteva – forse
non voleva – ricambiare; danzando solo, con la sciabola e la
spada; parlando
distrattamente al vecchio rapace ch'ormai non osava più volare,
al corsiero
consunto, stanco di galoppare; smaniando lontananze sconosciute,
che gli erano
precluse.
Giunse,
alla fine, la
convocazione – nel buio, quando la notte è scura ma non già
fonda–; rispose con
sollievo e con terrore. Gli Anziani, nobili fra i nobili, non
l'accolsero in
sella, com'era tradizione: sedevano su stuoie intrecciate, un
tetto sulla
testa. Il fuoco non era nudo: cinto di bronzo, stretto nel rame,
li illuminava
come statue di cera vestite a festa.
Lui
non era come loro erano
stati; non era neanche quello che erano diventati. Adesso si
sentiva solamente
soffocare, il petto costretto in un moto d'angoscia: sarebbe
voluto scappare;
avrebbe voluto pregarli di non forzarlo, di lasciarlo andare.
Come in un sogno
sfocato, di quelli che vengono quando se ne va l'aria, carezzò
il pensiero di
fingersi folle, di farsi scacciare.
Lo
accontentarono quasi, non
dové domandare.
"Figlio
dei nostri figli
e dei nostri avi, dono di fine estate, che hai nome Immortale,
tu sei il nostro
figlio più saggio, il più bello, di tutti il più nobile", fu
quella Antica
a parlare, seduta nel mezzo, rugosa e dura come cartapecora, gli
occhi fumosi
non più distratti da luci e colori – quella che nessuno aveva
visto nascere,
quella il cui tempo nessuno avrebbe mai saputo misurare. La sua
voce sembrava
venire dal vuoto, risuonare nel vuoto; sembrava vuoto a sua
volta.
"Quindici primavere sono passate: il tuo falco non lascia il
trespolo,
anche il cavallo è sfiancato; per le valli e per l'immensa
pianura con noi a
lungo hai viaggiato; non più frutto acerbo, sei quasi un uomo,
sei maturato.
Quello che cercavamo, noi l'abbiamo trovato. Ma tu, tu cosa
cerchi, Athanasios
dal cuore inquieto?".
Al
vuoto non si può mentire,
non avrebbe senso neppure provare. Il figlio più bello degli
arya, che si
dicono nobili, era forte, era saggio, fu onesto: "Saggia fra i
Saggi, non
so rispondere, non prima d'averlo trovato. Le stelle mi
chiamano, mi parlano,
ma dicono cose che non capisco. Mi mancano il vento e la steppa;
mi manca il
moto libero del fuoco; mi manca la carezza dell'acqua che tutto
conquista".
Poi
prese fiato; il vuoto
dentro di lei si prese un momento.
"Figlio
dei nobili,
parli dell'aria, dell'acqua, del fuoco, ma sei della terra: tu
sei la sabbia
nel vento; la sabbia che smorza il fuoco; sabbia che intorbida
l'acqua, finché
non si posa. Noi, questo, non possiamo ricordartelo. Non ti
possiamo
iniziare".
Per
lui fu quasi una
liberazione, sentì di nuovo di poter respirare.
"Da
noi hai già imparato
tutto quel che ti potessimo insegnare", continuò lei – una
constatazione.
"La tua cavalcata è lungi da finire. Segui la Via che taglia la
notte,
ritorna indietro, su per i grandi monti: ti aspetta lì chi ti
potrà guidare,
fra i passi dove al Cielo si apre la Terra, ed alla Terra il
Cielo".
Così
fu congedato: né lui, né
lei, né gli altri sprecarono parole; prima d'allontanarsi, li
ringraziò
soltanto con un cenno del capo.
Il
figlio più bello degli
arya, il figlio più forte, ed anche il più saggio, fu loro grato
che
riconoscessero quello che per primo aveva intuito. Non si voltò
indietro.
Chi
nasce senza giogo né
possesso, chi cresce senza attaccamento, non ha bisogno di
prendere commiato:
non ha niente da prendere, niente da lasciare.
S'incamminò
prima che
arrivasse il giorno; non si fermò neanche a salutare il falco ed
il cavallo che
sempre l'avevano accompagnato: forse alla morte – in un'altra
vita – sarebbe
potuto andare insieme a loro; ma, all'iniziazione, ciascuno,
disarmato, va da
solo.
Furono
le stelle, brillanti
contro il nero, a fargli compagnia; lo scortò ancora il cammino
noto,
all'incontrario; la grande piana l'accolse di nuovo, lo lasciò
passare laddove
diventava più sottile, fino a farsi valle, fino alle pendici.
Athanasios corse,
corse come un lampo, corse perché non c'era nessuno a
trattenerlo: ascoltò le
stelle, senza guardarle; non indugiò sulla via del ricordo,
lungo il cammino
che aveva conosciuto; il ventre della piana – cara, crudele,
così tanto buona
–, lo sfiorò appena; s'arrampicò lungo le pareti con una carezza
lieve delle
mani – perché i bambini afferrano le cose, ma i tocchi degli
adulti sono più
fugaci: hanno imparato, ormai, a lasciarle andare.
Salì,
salì ancora, salì
sempre più in alto, fino all'altopiano brullo, desolato, che si
stagliava
osceno contro il cielo, spudorato, come tuffandocisi, come a
caderci dentro;
l'audacia, la bellezza mozzavano il fiato – o forse fu soltanto
la
scalata.Toccò la
vetta assieme al primo
sole.
A
riceverlo trovò solamente
la polvere e la luce, reali quanto quello che dà forma a
un'illusione;
coagulate in grani fluttuanti, quasi una fiamma immota;
evanescenti sul seno
dell'aurora.
"Benvenuto,
giovane
Immortale", disse la polvere, disse la luce, dissero insieme –
facendosi
fanciulla, polvere e luce ancora, vecchio, bambino, fiore, e
cavaliere;
parlando con la voce delle stelle. Per un attimo, Athanasios
credé
d'intravedere il proprio sorriso, sulla propria faccia, come se
si stesse
specchiando sul ciglio dell'acqua che s'increspa; poi fu il
riflesso d'un
raggio di sole; infine ebbe davanti una forma umana, adulta,
femminea, un corpo
ed un viso, niente di speciale.
"Siediti,
ti stavo
aspettando", lo invitò la donna – la luce, la polvere –, con un
garbato
gesto della mano. "Tutti i tuoi sensi si stanno svegliando, ma
ci vuole
tempo, occorre fatica, per venire al mondo: non è una cosa
facile, il
risveglio. Siediti, t'insegnerò ad intendere le stelle e
l'universo che tutti
abbiamo dentro – e che non può morire".
Athanasios
sedette; lei gli
sorrise: "Bene. Adesso chiudi gli occhi: così si vede meglio".
*
Santuario
– Casa
della Vergine Celeste, notte fra il 24 e il 25 ottobre 1986
Regnava,
giù alla Sesta, un
silenzio assordante, sepolcrale; l'aria era greve come in una
tomba – o forse
un mausoleo, ch'è grave anche del peso dell'assenza.
Aveva
capito subito come
sarebbe finita: con una conversazione lunga e complicata che
avrebbe preferito
non dover affrontare e che, in qualunque altro momento, con
chiunque altro,
avrebbe cercato di evitare – magari fuggendosene in Jamir,
rintanandosi nella
propria torre, sbarrando anche la porta che non c'era. Però
sapeva pure che
quella conversazione era ineluttabile, perché lo conosceva, e
conosceva anche i
suoi rituali, le piccole manie che avrebbe continuato a negare
ciecamente, come
ogni evidenza che non gli facesse piacere: nessuno era bravo
quanto Shaka a non
vedere; ma, se Virgo apre gli occhi, non c'è via di scampo,
finché non t'ha
svuotato, finché non ha ottenuto tutto quello che vuole
ottenere.
Invitandosi
– offrendosi –,
s'era quasi illuso che si sarebbero leccati le ferite
vicendevolmente, che si
sarebbero fatti un poco compagnia, poggiati l'uno all'altro,
trascinandosi fino
alla mattina. Dopo, l'avrebbero fatto comunque. Probabilmente.
Virgo,
però, per esser
consolato, esige spiegazioni. E Mu, a Shaka, di spiegazioni, ne
doveva troppe;
ma, se potesse darne, era un'altra storia – certo non voleva.
Shaka
aveva già chiesto,
davanti a tutti, in mezzo alla battaglia; non avrebbe lasciato
cadere la
faccenda: Buddha impaziente, era un segugio, un cane da tartufo,
quando si
metteva qualche cosa in testa. Avrebbe chiesto ancora, se
necessario più
insistentemente: avrebbe chiesto, esatto le sue ragioni, avrebbe
preteso che
fossero buone; dovendo, gliele avrebbe estorte, strappandogliele
coi sensi, una
ad uno.
Mu
non aveva l'animo per
sostenere ancora un altro scontro; però, aveva sempre preso bene
le misure, da
mastro ferraio, con mano da artigiano: sapeva attendere e
osservare.
Sospirò.
Fra quei cuscini
molli, damascati, di fronte al tavolo basso, nell'odore stantio
d'incenso
bruciato ormai da troppe ore, era davvero con le spalle al muro.
Dunque, aveva
aspettato di vedere che tè Shaka avrebbe servito: un Chai
intenso, speziato, il
tè della consolazione, un piccolo lusso, per dimenticare, per
smettere –
soltanto per un sorso – di pensare, perdendosi nel mare sfumato
d'ogni fragile
aroma, di ogni sapore effimero; o una miscela inglese,
Occidentale, amara,
netta, decisa, senza finezze né mezze misure, una domanda che
non si può
ignorare – il suo modo d'avere a che fare con l'esser
preoccupato o l'essere
triste.
Shaka
rientrò, portando il
vassoio: aveva gli occhi chiusi, stretti stretti; più stretta
ancora la presa
delle mani sul bordo del metallo, come se stesse trascinando il
peso del mondo
– come se il mondo fosse di cristallo e, al primo passo falso,
potesse cadere.
Mu si diede del folle, dello stolto, per aver avuto anche un
solo dubbio, una
vana speranza: in quelle due tazze, nel bricco, nella porcellana
tonda e bianca
della teiera grassa, non c'era proprio nulla d'Orientale.
Il
suo tè, Shaka lo beveva
amaro, come ogni altra cosa. Anche stavolta mancavano lo
zucchero e il
cucchiaio; Mu quasi sorrise della dimenticanza, ma forse, questa
sera, era
deliberata, una dichiarazione, forse d'intenti, forse di guerra
– forse
l'intento e la guerra, stanotte, erano la stessa cosa.
L'amaro
calice sia, si disse
rassegnato.
Shaka,
tuttavia, non gli
sedette di fronte, in un interrogatorio. Dispose invece i pezzi
con cura, in
ginocchio, assorto come se stesse recitando una preghiera;
piano, come
preparando la scacchiera per una partita che esitava a giocare:
prima una
stoffa spessa, pesante, intrecciata – a Mu piaceva immaginare
che Shaka, nei
nodi, vedesse i colori con le dita –, a ricoprire il legno; poi
il bricco panciuto,
bollente, col beccuccio già bagnato, brillante d'una goccia di
liquido
irrequieto, che smaniava d'uscire; dunque le tazze sottili,
delicate, posate
sul piattino – ché senza, aveva sempre detto, erano incomplete.
Gli porse la
sua gentilmente, ancora vuota, come un assegno in bianco da
firmare. Scivolò
infine sui cuscini, facendoglisi accanto, venendogli vicino. Il
tè fu servito
con un goccio di latte, al fondo, per ciascuno.
Tacquero
entrambi, immobili
quasi, quasi senza respirare, forse per pochi secondi – niente,
in quella
stanza, segnava il tempo, se non di giorno l'incedere discreto e
pigro d'una
lama di sole –, forse per un pugno di minuti; parvero comunque
essere ore.
Shaka non apriva gli occhi; Mu non riusciva a smettere di
guardare la piega
accigliata fra le sue sopracciglia e l'increspatura dell'acqua
dorata nella
tazza che cullava tra entrambe le mani, senza sollevarla né
portarla alla
bocca. Nessuno osava bere; nessuno sapeva come incominciare.
Ogni
apertura è sempre di
cavallo o di pedone; ma la risposta segna il corso del gioco: la
prima
contromossa lascia intravedere il labirinto che, dopo, porterà a
una
conclusione.
"Perché
non mi hai detto
niente?".
Che
avrei potuto
dire?, avrebbe voluto rispondere Mu, se fosse stato un
po' più ingenuo e non
avesse saputo che in battaglia non si lasciano sguarniti mai la
testa né il
cuore, o che l'attacco è la difesa migliore – ed ogni colpo deve
andare a segno
e fare male. Non ebbe neppure bisogno di mentire: "Io sospettavo
solo. E
un simile sospetto è già empio abbastanza da rendere chiunque un
traditore". Piccola concessione – un cucchiaino di misericordia
–, si
risparmiò di dirgli neanche di te mi potevo fidare; era
un'omissione così
lampante, che finanche Shaka la poteva vedere. Tanto valeva
colpire ed
affondare: "Ma tu, Virgo, che conosci gli animi e soppesi i
cuori... Tu
come hai potuto, per anni, non sapere?".
A
Virgo, adesso, la tazza
tremava tra le mani, leggermente – come si fosse scottato, senza
bere, e stesse
cercando di non lasciarla cadere, di trattenerla nonostante il
dolore e un moto
di stupore; come se, anche per un attimo soltanto, avesse
dimenticato chi la
stesse reggendo, o chi stesse soffrendo. E Mu si rese conto che,
a un certo
punto – Mu non sapeva quando –, aveva aperto gli occhi, appena
appena, come se
stesse sbirciando qualcosa che soltanto lui poteva vedere,
nascosto tra la posa
nel tè ormai freddo, insieme alle foglie precipitate al fondo.
Poi lo sentì, un
tocco leggero, pianissimo, tremante anche quello – come la
tazza, le mani, le
labbra, le ciglia e forse il resto del mondo – contro il cosmo;
un mormorio
dell'anima che non aveva bisogno di parole; solo un'ammissione, un
dubbio, un
concetto: forse non volevo, forse non potevo volerlo, forse
lo sapevo ed
anch'io fingevo, forse...
Dopo
una vita spesa nella
certezza, nella convinzione della perfezione – la propria e
quella dell'ordine
del mondo – per oggi Shaka aveva visto e ammesso, perso troppo,
troppo
riconosciuto, confessato ed espiato, in un solo colpo. Mu,
certo, covava da anni
il proprio rancore, la propria perdita, con tutta l'amarezza del
risentimento
che appesantisce il cuore ed avvelena lo stomaco; ma Mu era
anche pragmatico e
suo amico, una costante – entrambi l'uno all'altro quanto di più
simile
avessero sempre avuto all'attaccamento. Gli rispose, dunque, di
riflesso, allo
stesso modo, lasciandogli sentire tutta la propria stanchezza,
tutto il vuoto
dentro che aveva preso il posto che fu della nostalgia, del
sogno del ritorno:
lo so; lo sai che capisco; la colpa non è solo tua; basta così,
per adesso.
Spalla
contro spalla,
rimasero in silenzio, con gli occhi aperti ed esausti ad
ascoltarsi respirare e
scrutare la notte della veglia funebre, cercando di non pensare
al come, al
perché, al poi; né alle fosse che al mattino avrebbero dovuto
scavare, o ai
morti da seppellire.
Spartirono
quel po'
d'intimità tacita, discreta, di debolezza, fino a che la pietra
della stanza
non parve iniziare a impallidire e presto sarebbe stato tempo
d'andare. Allora,
con la voce, quasi strappandosi di gola le parole, Shaka gli
disse così
sottovoce, come se non volesse farsi sentire: "Mu, dopo il
funerale,
dovremo convocare un'Assemblea, per decidere il daffare,
consultare i
Maestri... Mu, il Buddha ha smesso di parlarmi".
"Gli
ultimi giorni sono
stati difficili per tutti, Shaka; per te più che per molti. Non
lasciarti
suggestionare". Il suggerimento fu accompagnato da un sorriso,
rassicurante almeno nell'intento.
Ma
Shaka si volse a lui, teso
come una corda di violino, serissimo, gli occhi brillanti
d'acciaio battuto a
fuoco, d'ira e d'un poco di vergogna che volgeva a sé stesso:
"Da prima
che vestissi Virgo. Mu, il Buddha non mi parla da anni".
Nota
dell'autrice:
No,
non sono morta. No,
questa storia non è abbandonata. Sì, ho deciso di spezzettare
ulteriormente
questo capitolo perché, allo stato in cui era il precedente
file, superava le
trentamila parole; il che, per una capitolazione strutturata in
paragrafi non
continuativi, secondo me ha poco senso. Dunque, aspettatevi più
sezioni di
"Ad occhi aperti", prima o poi. Ok, probabilmente più poi che
prima,
ché sono un po' fuori fase con Saint Seiya ed ho poca voglia di
revisionare.
Del resto, se siete ancora qui dopo anni, siete abbastanza
temprati ai tempi
biblici d'aggiornamento.
9
aprile 2023
Questa
storia non è abbandonata
ed io continuo ad essere assente ma non morta. Ho svecchiato e
uniformato la veste
grafica dei capitoli sin qui pubblicati; Ad
Occhi Aperti III potrebbe
non
essere ad anni luce di distanza...