221A e 221B

di sissir7
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Ritrovarsi ***
Capitolo 2: *** Quattro anni prima ***
Capitolo 3: *** Agosto ***
Capitolo 4: *** Divertirsi ***
Capitolo 5: *** Canzoni ***
Capitolo 6: *** Buongiorno ***
Capitolo 7: *** 221A e 221B ***
Capitolo 8: *** Vita ***
Capitolo 9: *** Tatuaggi ***
Capitolo 10: *** Festa ***
Capitolo 11: *** Neruda ***
Capitolo 12: *** È la libertà dell’amore che ci spinge a volerlo ***
Capitolo 13: *** Sta cambiando tutto ***
Capitolo 14: *** Mi ami? ***
Capitolo 15: *** Chiarimenti ***
Capitolo 16: *** La vita (non) continua ***
Capitolo 17: *** Resta ***
Capitolo 18: *** Per Sherlock-Per John ***
Capitolo 19: *** Tom ***



Capitolo 1
*** Ritrovarsi ***


Appena John uscì da Covent Garden Station già si pentì di quella sua scelta. Si fermò per un attimo di fronte a un negozio di fiori, c’erano dei girasoli bellissimi, pensando se fosse il caso di presentarsi con una sorta di regalo o almeno con qualsiasi cosa pur di non essere troppo in imbarazzo dopo tutto quel tempo che era passato, quei quattro anni durante i quali non aveva mai smesso di pensare di andare lì dove c’era la bellissima e prestigiosa Royal Ballet School. Lì dove avrebbe trovato Sherlock.

Non aveva pretese, non si aspettava nulla da Sherlock appena lo avesse visto, né abbracci o feste o sorrisi. Non voleva fargli cambiare idea se mai ancora avesse qualche idea riguardo a alla loro situazione e né era lì per metterlo in difficoltà o dirgli qualcosa in particolare. Sentiva solo la sua mancanza. Sentiva solo la necessità di rivederlo, anche solo se per due minuti, anche solo se da lontano, non importava. Doveva rassicurarsi, assicurarsi che stesse bene, che ancora poteva sentire la sua voce anche se non diretta a lui. Voleva semplicemente vederlo vivere, vederlo camminare, respirare, cose così. Niente di più e poi se ne sarebbe tornato a casa, con un peso in meno. Con la certezza che in questo mondo c’era ancora Sherlock Holmes. Era un desiderio che aveva ignorato da tempo e più lo ignorava più le paranoie lo assillavano. Immaginava che gli fosse successo qualcosa, che stava male e la situazione era diventata ridicola.

Lasciò perdere i fiori e comminando deglutì come se quei quattro anni gli fossero rimasti proprio tra la gola e lo stomaco ed effettivamente provò una sensazione di liberazione dopo averlo fatto. Ormai era lì, il coraggio di tornarsene a casa non lo aveva e quando si incamminò per Floral Street accelerò il passo come se una corda lo tirasse, come se le gambe non avevano bisogno della sua volontà per muoversi. Sapevano che era la cosa giusta da fare, da anni. Si trovò quindi di fronte all’elegante entrata dell’accademia il cui stemma spiccava in alto, sul vetro, come segno di riconoscimento e come se da lì si entrasse in un altro regno. Un regno fatto di disciplina e costanza e sudore, tutte cose che John aveva sopportato ma era un altro discorso, non era certo un ballerino, ma erano cose che lo accomunavano a Sherlock. Non lo aveva mai visto in vita sua e non era di certo mai stato in un luogo così prestigioso che solo anche dalla porta d’entrata ti faceva sentire fuori luogo. Se non sei qui per vocazione e con un conto in banca illimitato per quale motivo sei qui? Sembrava dire questo quell’edificio a John, che ancora stringeva la maniglia nelle sue mani.

Nella sua mente aveva la risposta a quella domanda, era semplice, era un nome.

Spinse piano con timore che quella lastra di vetro potesse frantumarsi al suo tocco troppo deciso ma non si mosse di un millimetro. Una donna col caschetto gli sorrise da dietro a quella che sembrava una sorta di reception come quella degli alberghi di lusso e gli indicò con l’indice la sua destra. John all’inizio la guardò inclinando la testa cercando di decifrare il gesto. Poi si voltò e vide il citofono e annuì alla donna che ancora gli sorrideva. Suonò e fu proprio lei a rispondergli. Quella situazione era imbarazzante.

“Salve, la posso aiutare?”

la sua voce era squillante e per niente in sintonia con il suo aspetto robusto.

“ehm, sì. Sono venuto a trovare un mio amico, Sherlock Holmes. Lavora qui.”

In realtà John non sapeva se Sherlock era davvero lì quella mattina ma aveva letto sui giornali che la sua compagnia di ballo era tornata da poco dalla Russia dopo un tour mondiale nei teatri di maggior prestigio e che per i prossimi mesi sarebbe stata finalmente “a casa” in Accademia a preparare il prossimo spettacolo.

“Ah sì, il Signor Holmes. Mi dia un paio di minuti per avvisarlo che lei è qui. Il suo nome?”

“John Watson.”

“Perfetto.”

E con queste parole vide la donna abbassare il telefono da cui gli stava parlando e sparire nel corridoio. Incredibile. Mi ha lasciato qui fuori, pensò John. Tuttavia sapeva che la sicurezza era fondamentale per il primo ballerino della Royal Ballet School che godeva di fama internazionale ed era ovvio che non avrebbero fatto entrare uno sconosciuto che chiedeva specificatamente di lui. Fortunatamente non aspettò molto e rivide la donna che da dietro al bancone gli aprì la porta. John entrò ed un profumo di lavanda e miele lo avvolse. Lavanda e miele.

“Oh” sospirò. Sapeva esattamente cos’era quel profumo e per un attimo si stupì di sentirlo proprio lì ma allo stesso tempo lo rassicurò, lo fece sentire al posto giusto.

“Mi scusi per l’attesa Signor Watson, ma la sicurezza non è mai troppa. Mi segua.”

“Non si preoccupi, capisco.”

Rispose John e si incamminarono per un lungo corridoio con lampadari eleganti e molto probabilmente di cristallo. I muri erano ocra e rosso scuro. Tutto urlava “lusso” lì dentro e non riusciva proprio immaginare Sherlock in un ambiente del genere anche se aveva sempre avuto un’ inclinazione ad essere regale, altezzoso e sicuro di sé.

“Sa, abbiamo avuto spiacevoli incontri con paparazzi troppo curiosi che si fingevano familiari, provenienti dall’Italia o da chissà dove, amici e cerchiamo di evitare altri problemi.”

La donna camminava sicura e non incrociava lo sguardo di John che sorpreso di quelle notizie la rassicurò dicendo che non aveva assolutamente cattive intenzioni. Lo disse sorridendo. Arrivarono all’ascensore e la donna si voltò verso di lui sorridendogli in risposta e aggiunse:

“Da come ha sorriso il Signor Holmes al suo nome sono sicura che lei gli può fare di tutto tranne che del male. Non lo vedevo sorridere così da tempo e se la sua presenza può renderlo meno scontroso e irritante del solito beh, lei è sempre il benvenuto qui. Vada al terzo piano, ultima aula a destra.”

Lei chiamò l’ascensore per John e se ne andò senza neanche aspettare una risposta, anche perché non l’avrebbe mai avuta visto che John era visivamente scioccato da quelle parole. Sentì un calore invadergli il colo e il volto. Quando realizzò che la donna non era più al suo fianco urlò “Grazie!” ma lei non si voltò. Irritante Sherlock lo era di sicuro ma scontroso non lo rispecchiava molto, pensò John mentre l’ascensore saliva. Sebbene poteva farti perdere la pazienza in meno di due secondi era comunque sempre gentile e anche se a suo modo, lo era davvero. Le porte si aprirono e si trovò in un ambiente luminoso, con due enormi lucernari che facevano da fonte di luce. Era una giornata bellissima e il sole era caldo e lo sentiva sul suo volto come una carezza. Attraversò quella che era una passerella sospesa nel vuoto e il piano di sotto si vedeva chiaramente.

C’erano ragazzi con borsoni che andavano probabilmente a lezione e le ragazze avevano tutte i capelli perfettamente acconciati e i ragazzi sembravano angeli senza ali. John li guardava avanzare con eleganza e con sorrisi composti e pensava che così ci devi nascere. Così armonioso. Così, come se fossi una musica che cammina. Li guardava con invidia ma non un’invidia eccessiva. Avrebbe solo voluto avere quella … non sapeva neanche lui bene come descriverla l’aura che avvolgeva quei ragazzi. Di certo non aspirava ad essere un ballerino di danza classica e anche se avesse voluto il suo fisico non glielo avrebbe mai permesso, ma non avere il dono di possedere gesti sempre così giusti e delicati era qualcosa per cui a volte si arrabbiava anche. Con questi pensieri continuò a camminare, quasi dimenticando dov’era.

C’era un silenzio quasi preoccupante. Si aspettava di sentire della musica o chiacchiere provenire dalle altre aule ma nulla. Si guardò in torno e non c’era nessuno. Il parquet sotto i suoi piedi era l’unico che gli parlava ad ogni suo passo. Quando si trovò alla fine del corridoio si girò verso la porta dell’aula che cercava e bussò un paio di volte. Era un edificio molto antico ma tenuto come un gingillo e le porte erano di un bianco candido e di legno per cui non ricevendo risposta pensò di non aver bussato abbastanza forte. Bussò un altro paio di volte con più forza e sentì dei passi farsi sempre più vicini. La maniglia dorata si abbassò e la porta si aprì.

Un sorriso e la luce forte di quel mattino lo avvolsero e sinceramente non riusciva neanche a distinguere le due cose o quale delle due fosse più bella.

“John …”

John sentì il suo volto come sciogliersi, come se il volto e la voce profonda di Sherlock gli avessero fatto una magia.

“Ciao Sherlock. N-non vorrei disturbarti...”

“Nessun disturbo. Prego, entra. Appena Elisabeth mi ha detto che eri tu non ci volevo credere.”

Sherlock si spostò dalla soglia per farlo entrare. John entrò piano come si entra in luoghi sacri e quello aveva tutto l’aspetto e l’atmosfera di esserlo. L’aula era enorme e tre vetrate sormontate da archi facevano da padrone a tutto l’ambiente che era più bianco del bianco. L’unico colore era il verde degli alberi del grande giardino che abbracciava l’edificio. Alcuni dipinti erano disposti uno dopo l’altro e quei ballerini e ballerine ritratti sembravano ballare tutti all’unisono. “wow” fu tutto quello che John pensò e che poi disse. Su un lato della sala c’era uno specchio che occupava tutto il muro e John incrociò lo sguardo di Sherlock proprio attraverso di esso.

“Sì, è bellissima. Questa è l’aula più bella di questo piano ed è fondamentalmente qui che passo la mia vita.”

Sherlock rise piano a quelle parole e poggiò le mani ai fianchi. John si voltò verso di lui. Dio, quanto era cambiato. Dio, se era bellissimo. Ancora più di quanto già lo era il che a John sembrava improbabile. I ricci castani non erano cambiati e John fece un sospiro di sollievo quando lo realizzò. Gli cadevano sulla fronte come sempre, come anni fa, come un ricordo che non può mai svanire.

“Ti trovo … davvero davvero bene, Sherlock.”Il suo volto era velato di stanchezza ma i suoi occhi, due pietre acquamarina, erano luminosi, vivi.

“Stanco ma felice.” Disse Sherlock e incrociò le braccia.

“E tu John …” Si avvicinò al suo vecchio amico. “Come stai?” lo disse così piano e con così tanta apprensione che John quasi si commosse.

Era davvero Sherlock? Era davvero quel suo irritante e iperattivo amico che mai, mai in vita sua, gli aveva mai chiesto come stava? E invece ora era lì a chiederglielo, di fronte a lui con il corpo più forte, più armonioso, più strutturato di prima. Con le spalle più larghe, quella vita stretta e quelle gambe eleganti. La calzamaglia nera lo avvolgeva come se fosse nata per farlo e la maglietta bianca aderiva al suo petto scolpito. Sembrava ancora più alto. E poi c’era lui, John. Di qualche centimetro più basso, il corpo proporzionato ma normale, usuale, nella norma, sano ma non speciale come quello di Sherlock. Per niente armonioso, per niente bello, neanche lontanamente paragonabile al corpo di un ballerino di danza classica. Per niente paragonabile a Sherlock. La sua pelle era più scura, capelli corti e chiari, totalmente vestito di nero. Un punto scuro in tutto quel bianco, un punto superfluo, qualcosa che lì non apparteneva. La vita di Sherlock era completamente diversa ora, lui era diverso. Cosa ci faceva lì John. Cosa ci faccio qui, questo pensava. E la sua preoccupazione e tensione lo stavano tradendo. Strinse i pugni e distolse lo sguardo da quella scultura di marmo che lo guardava con la fronte arricciata.

“John tutto bene?”

John. John Watson. Sherlock lo guardava e pensava solo a quanto il suo amico non era per niente cambiato. Il volto era più maturo, lo sguardo più deciso ma per il resto nulla, nulla era diverso. Era sempre John, con la camminata un po’ goffa e adorabile. Il suo corpo era nascosto dai vestiti ma Sherlock sapeva com’era, sapeva che era ancora forte e caldo e profumato. Sherlock si perse in queste osservazioni nelle quali la sua mente sembrava annegare e allo stesso tempo cercava di trattenere il suo istinto, impulso di abbracciarlo. Strinse più forte le sue braccia incrociate.

John fece spallucce e disse: “Sì, sì sto bene. È solo che … insomma, è tutto diverso ora. Stavo solo pensando a questo, a quanto tutto questo…” John allargò le braccia. “…sia tu ora. È la tua vita. Ed io non so che ci faccio qui.” Rise, ma era un sorriso amaro. E quasi triste.

Sherlock sospirò. Sentiva il cuore stringersi. “Sono passati tanti anni, John. Sono successe tante cose. Siamo diversi, siamo cresciuti. Non significa che non siamo più gli stessi in fondo.”

Sorrise dolcemente. John annuì. In fondo. Intendeva nel profondo, loro come persone, come personalità con preferenze, gusti, pregi e difetti e John fu lieto di sentirglielo dire.

“E’ solo che il tuo cambiamento esteriore …” John lo squadrò alla testa ai piedi.

“Fa sembrare tutto diverso. Eri così esile. Ora sei così … mi fa strano, tutto qui.”

“Le passioni ti cambiano.”

“Beh credo proprio che hai ragione. E con te hanno fatto un bel lavoro.”

Lo aveva detto davvero. Lo aveva detto e non poteva riavvolgere il nastro ormai.

“Oh, grazie.” Disse Sherlock.

“Voglio dire … sei più in forma. Per la salute fa bene.”

Cercò di aggiustare la situazione con queste parole. Si guardarono per qualche secondo poi John trovò subito qualcosa di cui parlare, ovvero la prima cosa che gli venne in mente.

“Ho visto uno stemma giù, sopra la porta d’entrata. Non pensavo che un Accademia di ballo avesse uno stemma.” A Sherlock non sembrò una domanda così inutile come la sembrò a John, anzi. Era una cosa molto importante per gli allievi.

“Sì è … una sorta di segno di riconoscimento. Un falco e un cigno, il nostro motto: forza e grazia. È ciò che ci guida, ciò a cui aspiriamo e ciò che mi ha anche tormentato.” Il suo volto si rabbuiò un po’. Quello di John fece di conseguenza, senza neanche volerlo probabilmente.

“Per molti una meta irraggiungibile e due parole che fanno paura. Ecco, devi essere più forte di quella paura e solo allora raggiungi la grazia: attraverso la forza. È una conseguenza, capisci?” Sherlock ne parlava con così tanta passione e convinzione che John mai avrebbe immaginato che la danza fosse diventata una cosa così seria per lui.

“Sembra molto difficile ma è un concetto molto bello. Quindi sono queste le due parole scritte, forza e grazia?”

“Esattamente.”

John gli sorrise.

“E tu le hai.”

“Non è una domanda. Pensi che io le abbia?”

Sherlock aspettava con ansia la riposta, glielo si leggeva nello sguardo divenuto più accesso. Anche se era diventato il migliore della compagnia di ballo, anche se era acclamato in tutto il mondo, anche se aveva avuto i maestri più conosciuti nel campo della danza che glielo avevano sempre detto, detto da John era un altro paio di maniche. Era qualcosa che andava oltre la danza, oltre la sua bravura. Era una verità che mai nessuno gli aveva fatto credere fino in fondo e i dubbi e quel tormento di cui parlava si basava proprio su di essa ma se lo pensava John, se lo sentiva dalla bocca di John forse si sarebbe tormentato un po’ meno.

“Ma certo, le hai sempre avute.”

Disse John come se fosse una cosa scontata. Il viso di Sherlock si addolcì e dentro sentiva che John gli era mancato più di quanto pensava.

“E’ il complimento migliore che mi potresti mai fare. Grazie.”John scosse la testa.

“Mettitelo nella testa che purtroppo sei speciale. Non riesco proprio a capire come … come tu possa ancora dubitare e cercare conferme. Soprattutto da me che sono l’ultima persona competente in questo campo. È ridicolo che tu sia così felice di sentirmelo dire.”

“Sì ma sei anche la persona che mi conosce meglio di chiunque altro. Se lo dici tu allora deve essere proprio vero. Nessuno, neanche con le parole o le recensioni migliori che ho ricevuto mi ha mai convinto che valgo la pena di tutto questo. Il privilegio di tutto questo.” Indicò l’aula e metaforicamente il suo successo e tutto quello che aveva guadagnato economicamente.

“Non pensi di meritarlo? Sherlock, io ho letto di te, dei tuoi infortuni, delle difficoltà che hai passato per ciò che la gente ha detto. Eppure sei qui, davanti a me con forza e grazia. Non dubitare mai dello splendore che sei.” Sherlock deglutì rumorosamente e soffocò le lacrime. Neanche un quarto d’ora e già John lo faceva sentire più vivo di quanto mai era stato in quei quattro anni.

“Ma dove sei stato tutto questo tempo, John …” Sherlock gli accarezzò il viso con la mano. Non gli importava neanche di chiedergli cosa pesava di quello che diceva la gente visto che lo sapeva. Non era un momento da sprecare in questioni del genere. Fu un gesto veloce ma John lo sentì eterno.

“I - impegnato anche io in Accademia.” Disse sorridendo.

“Anche io ho … ho avuto parecchio da fare. E vorrei raccontati così tante cose.”

Sherlock incrociò di nuovo le braccia come a tenersi su dopo quella folata di emozioni. John era perso in quegli occhi e nella disperata voglia di parlare e parlare senza sosta di tutto quello che Sherlock ha fatto, ha visto, ha vissuto. Era così curioso. Voleva parlargli di ciò che lui ha fatto. Voleva solo far parte della vita di Sherlock di nuovo.

“Senti Sherlock …” Basta aspettare, si disse John. Basta avere rimpianti. Basta.

“Pensi sia inopportuno se andassimo a cena e magari tu mi racconti com’e andato il tour mondiale con la compagnia ed io magari ti annoio con qualche discorso sull’arte e sulla letteratura. In Accademia ce ne fanno parecchi, non è giusto che annoino solo me.”

John poi si schiarì la voce aspettando una risposta.

“Non devi essere in imbarazzo John.” Sherlock a quella proposta cambiò atteggiamento. John aveva visto gli occhi lucidi per la felicità di rivederlo diventare più distaccati. Eccolo. Sapevo che lo Sherlock irritante e senza tatto era ancora lì da qualche parte, pensò John.

“Quattro anni fa è successo quello che è successo e penso che dovremmo parlarne altrimenti tu non lo supererai mai e poi la questione per me sarà chiusa e potremmo andare avanti e” Sherlock parlava come se stesse semplicemente facendo l’elenco della spesa, come se quelle parole fossero senza peso, ovvie ed ovviamente per lui era così.

“e … non sarà più come prima. Realizzalo. Accettalo. La nostra amicizia è compromessa ma non finita. Diamoci da fare.” John annuì. Che altro fare?

“Immagino sia un sì.”

“Sì, assolutamente sì.”Poi Sherlock poggiò le mani sulle spalle di John e iniziò a parlare piano, di nuovo come se provasse emozioni.

“Non voglio vederti così. Non voglio essere il motivo di una preoccupazione per te. Non voglio che pensi a me con rabbia o tristezza, okay? E non dire che non è così perché è così e non lo sopporto. Quindi, ora mi vesto e andremo a fare una passeggiata. Ti va?” John detestava il fatto che Sherlock fosse così empatico e così incredibilmente bravo a capirlo, farlo agitare per poi farlo tranquillizzare in meno di trenta secondi.

“Mi sbagliavo. Non sei cambiato per niente.” Sherlock fece spallucce e disse: “E’ una cosa negativa.”

Non una domanda ma un’affermazione. Come se fosse qualcosa che veramente niente e nessuno può cambiare. E lo era. Le sue mai ancora sulle spalle del suo amico che sorrideva calmo.

“Tu sei … solo una cosa a cui ci si deve abituare. E spesso le abitudini sono piacevoli. Come la pizza il venerdì sera. Il caffè la mattina. Cose che nonostante si ripetano non stancano mai. Le amerai sempre.” Puntualizzò John.

“E tu ti ci sei mai abituato?” domandò Sherlock quasi come a provocarlo.

Ovviamente parlava di lui. John pensava che stesse flirtando in quel momento, o almeno era quello che lui desiderava stesse facendo.

“Sei sempre stata la mia abitudine preferita, Sherlock.”

Sherlock non potette nascondere di essere compiaciuto da quella frase.

“Mh. Niente male come risposta Signor Watson.” John non sentì più quell’inadeguatezza che quel posto gli provocava. Sherlock non era quel posto. Sherlock non lo avrebbe mai fatto sentire al posto sbagliato, mai.

“Ora che abbiamo rotto il ghiaccio posso abbracciarti, vecchio amico?”

John intuì il sarcasmo e tra la sorpresa e la felicità sorrise scuotendo la testa in rassegna. Il viso di Sherlock era rilassato e forse neanche lui credeva alle sue parole. Ma riabbracciare John era qualcosa a cui non poteva assolutamente rinunciare, non dopo che erano passati anni dall’ultima volta che aveva potuto sentire e godere del calore di una persona che era sempre stata la sola di cui aveva mai accettato la compagnia nella sua vita, l’unica a fargli capire quanto in fondo tutti abbiamo bisogno di qualcuno che renda la nostra vita meno noiosa. Meno facile. Sherlock strinse le braccia intorno al corpo di John che ricambiò la stretta. Sherlock chiuse gli occhi.

“Questo profumo. Hai infestato tutto l’edificio con il tuo profumo. Lavanda e miele.”

“Wow John, sei attento ai dettagli. Allora ti ho insegnato qualcosa. Ed hai migliorato la memoria, bene.”

“Non cambiarlo mai.” Disse John con un tono più serio, come se fosse di vitale importanza.
“Come?” chiese Sherlock non trovando neanche un motivo per farlo. Era il suo preferito.

“Tu non cambiarlo, okay?” Sherlock continuava a non capire.

“Okay, John.” Sherlock sentì nostalgia nella voce di John. Nostalgia di loro.
“Fu un tuo regalo. E non c’è stato giorno in cui non l’ho messo così almeno mi hai fatto compagnia anche se non c’eri. Capisci bene che non lo cambierei con nulla la mondo, non preoccuparti.”

“Bene” biascicò John sorridendo con il volto immerso nel collo di Sherlock.

Sherlock non disse nulla, si godeva la sensazione di John su di lui ma dopo un po’, mentre si stavano ancora abbracciando come se il tempo non fosse importante, come se fosse veramente relativo, disse:

“John, posso dirti una cosa tremendamente seria e a cui non saprai come rispondere?”

L’abbraccio si sciolse e John lo guardò. “Assolutamente sì. Mi mancano i tuoi discorsi seri e a cui non so rispondere.” Sorrise.

Sherlock però rimase concentrato e il suo sguardo fisso su John. Si stavano stringendo le mani, piano. Come per appoggiarsi l’uno all’altro.

“Non prenderla come una dichiarazione o un mio momento di debolezza visto che la tua presenza qui mi fa, devo ammetterlo, un certo effetto ma prendi queste parole come un fatto, una circostanza a cui io sono soggetto e che non posso evitare di pensare. È … una cosa che voglio che tu sappia. Tutto qui, non devi neanche rispondere.”

John era tranquillo, lui era Sherlock e faceva sempre così. Ingrandiva sempre le cose, ti preparava al peggio nel modo in cui solo lui sa fare.

“Ti giuro che non do di matto e che lo accetterò come semplice verità. Va bene?”

“Perfetto”

Sherlock non aveva neanche mai immaginato di poter dire quelle cose che stava per dire a qualcuno se non a John; anche se lì e in quel momento, dopo quattro anni che non si vedevano, dopo tutto quello che non gli aveva detto quattro anni fa, non sembrava proprio opportuno. Ma sentiva che doveva. La sua mente molto più del suo cuore gli diceva che doveva chiarire quelle cose ora. Fissò per un attimo le loro mani intrecciate e sorrise. Sorrise sinceramente e nulla sembrava più opportuno.

“John, io sento che tutto, tutto nella mia vita mi ha portato a questo momento ma non solo, a tutti momenti che abbiamo condiviso. Le mie scelte, i miei dolori, i miei rimorsi. Tutto. E ora che siamo qui insieme il mio passato … sembra che ne sia valsa la pena di sopportarlo perché se avessi fatto anche solo una cosa in modo diverso, se avessi sbagliato di meno o se avessi fatto la cosa giusta, come chiamarti, cosa che non ho mai fatto e ciò fa parte dei miei rimorsi per essere precisi, forse non ti avrei mai incontrato di nuovo. C’è un motivo per cui hai voluto rivedermi e non voglio saperlo, sul serio. Eri confuso e non sicuro di venire, era ovvio, appena ti ho visto l’ho dedotto, ma va bene così. Va bene. Non tutto ha senso. Non tutto deve averlo e l’ho capito solo perché tu hai dato senso a tutto. Che sia chiaro, non in modo romantico, non ne sono capace e non sto dicendo che sei il mio mondo o la mia ragione di vivere, non lo sei, ma sei ciò che la mia vita richiede e necessita e per questo io non posso farci nulla. E devi accettarlo anche se non ti sta bene.”

John non poteva fare altro che ascoltare e lasciarlo finire. Sherlock però si fermò per un attimo. Prese fiato.

“Devi accettare che anche se non hai scelto me quattro anni fa, io sceglierò sempre te.”

Il vento fece aprire una finestra e l’aria fredda accarezzò il corpo poco coperto di Sherlock e lo fece rabbrividire. Ma i brividi li aveva ancora prima, li aveva quando ha visto John, li aveva quando John gli parlava, li aveva perché era John.

“E meno male che non sei romantico.”

“John sono serio!”

“Lo so che sei serio, calmati.”

Sherlock sospirò. Sembrava visibilmente scosso o per lo meno senza forze. Ed effettivamente per lui quello fu uno sforzo molto più consistente di qualsiasi altro sforzo fisico che aveva fatto per diventare un ballerino pressoché perfetto.

“Senti Sherlock” John gli passò una mano tra i capelli, sempre morbidi. Questo gesto mi è mancato così tanto. Lo pensarono entrambi.

“Tutto questo era quello che volevo evitare. Non volevo una tua reazione, non avevo pretese quando ho deciso di venire qui né volevo che tu ti sentissi … in dovere di dire qualcosa e”

“Allora perché sei qui? Sai come gestisco male queste cose. Perché venire dopo tutto questo tempo e farmi sentire di nuovo … così.”

Ora Sherlock le lacrime non riuscì a trattenerle e sul suo viso di marmo ne cadde una lentamente.

“Non ci credo…Come puoi pretendere che io non senta più nulla, John. Eppure sai, sai cos’è per me conviverci.”

John aveva scelto decisamente le parole sbagliate e sottovalutato quanto avesse cambiato Sherlock.

“Mi manchi, Sherlock. Mi sei mancato e … volevo solo vedere che stavi bene. Voglio che tu stia … bene.” La voce di John era bassa, rotta.

“Come pretendi che io stia bene dopo che la persona con cui ho fatto praticamente tutto ciò che c’è di importante da fare nella vita ha deciso di non darmi un’opportunità. Ed ora si presenta qui, chiaramente ancora coinvolto emotivamente ma ancora non sicuro … di ciò che noi potremmo essere.”

Sherlock parlava sfinito, stanco, deluso senza girarci troppo attorno. Anche se faceva male. Si portò una mano alla fronte.

“Di cosa diamine abbiamo parlato fin ora, eh? Cosa vuoi da me? Cosa …”

“Sherlock voglio solo riavvicinarmi, passare di nuovo le mie giornate con te. Riviverti.”

Sherlock annuiva. “Quindi, vuoi provarci. Quando ti ho dato io la possibilità, quando veramente le cose andavano bene ed erano perfette ed eravamo felici e liberi non hai voluto mentre ora che … ora che non ho neanche il tempo di”

“Ovvio, si tratta sempre di te. L’avevo dimenticato. Perché tutto deve andare secondo i paini di Sherlock Holmes, devi sempre controllare ogni singola cosa!” John alzò inaspettatamente la voce e Sherlock lo guardò esterrefatto.

“John, non osare alzare la voce qui. E non con me.” Il silenzio si fece ancora più pesante di prima.

“Dici che si tratta sempre di me. Dici che sono egoista ed è vero. Se non lo fossi, succederebbe esattamente quello che sta succedendo ora. Delusioni. Vane speranze. Tempo sprecato.”

“Tempo sprecato …” ripeté John ridendo.

Poggiò le mani sui fianchi e fissava il pavimento bianco. Il cielo si stava ingrigendo e il sole non illuminava più nulla.

“Se non fosse stato per me quattro anni fa saresti morto, dannazione. Io ho sprecato il mio tempo per salvarti da te stesso. Sei qui perché ti ho amato e perché sapevo che se non l’avessi fatto ti avrei perso sul serio.”

John fece dei passi indietro dicendo quelle atroci parole che si inchiodarono nella mente di Sherlock che piano cercava di controllare il respiro.

“Tu mi hai perso sul serio, John.” John alzò il volto. Qualcosa gli morì dentro. Sherlock continuò.

“Non ti ho chiesto di amarmi né ti ho chiesto di fingere di amarmi per salvarmi. Non l’ho mai preteso e mai lo farò. È stata una tua scelta e per questo dovrei ringraziarti, quindi, vero John? Dovrei ringraziare te per questi altri quattro anni di vita che sinceramente sono stati atroci. Pensi di avermi salvato ma a quanto pare non hai fatto un bel lavoro perchè avrei preferito morire piuttosto di vivere questa cazzo di inutile vita. Senza te, tra l’altro. Il che ha solo peggiorato le cose.”

Se per Sherlock quello era il momento di buttarsi in faccia tutto il peggio di quello che provavano l’uno per l’altro allora John ricambiò a tono.

“Non ti sei mai chiesto perché non volevo sposarti, Sherlock? Non ti sei mai chiesto il perché?”

“Eravamo troppo giovani e tu eri spaventato a morte.”

“No Sherlock, il mio perché. Non il perché dei fatti, quella può essere la motivazione di tutti. Il mio.”

A Sherlock ci vollero sei secondi per capirlo ma non poteva credere che John voleva veramente che lo dicesse, ad alta voce.

“Perché non mi amavi. Lo hai” si fermò per focalizzare l’immagine di John sfocata dalle lacrime. “… appena detto.”

La conversazione era diventata insostenibile per entrambi.

“Esatto. Almeno non abbastanza. E se l’avessi capito prima ti saresti risparmiato questa scenata” John si strofinò gli occhi e si sedette a terra, gambe incrociate. Poggiò i gomiti sulle ginocchia.

“Non sarei dovuto venire.”

L’unica cosa che c’era nella mente di Sherlock era la confusione e l’unica cosa chiara era che sapeva che stava finendo, tutto. La loro amicizia, la sua possibilità di essere amato, di avere una casa con la persona che amava, di fare un viaggio con John, di ridere con John, di vivere con John, di avere John. John, John solo e sempre John. Di avere qualcosa di vero e profondo oltre alla danza che ultimamente non faceva altro che prosciugargliela la vita più che donargliela. John era ancora seduto e reggeva la testa nelle sue mani. Sherlock si asciugò le guance rigate dalle lacrime di poco fa e guardò il suo John (suo, lo sarà sempre) rannicchiato su sé stesso lì a terra, proprio lì dove anche lui si era sempre rannicchiato dopo le prove per uno spettacolo, sfinito, prosciugato e mai soddisfatto, con il fiatone e il corpo a pezzi. Sempre. Lì al centro di quell’aula dove piangeva quasi ogni sera perché la danza, come la sua vita, non raggiungeva mai quello a cui lui aspirava, sognava.

E allora se ne stava fino a notte fonda su quel pavimento freddo, bianco come la neve di dicembre, a guardarsi allo specchio cercando di capire come aggiustare tutte le crepe che vedeva in lui. I difetti fisici che vedeva in lui. Si guardava e a volte arrivava a pensare come quell’orrore potesse piacere così tanto alla gente, alle donne e, lo aveva potuto appurare, anche agli uomini che gli erano costati le prime pagine di riviste di gossip e commenti omofobi; a volte fischi e qualche insulto sussurrato dal pubblico mischiati agli applausi. Tutte cose che giravano il coltello nella piaga. Le sue gambe erano ciò che più odiava. Non lo avevano mai portato da nessuna parte. Faceva chilometri ballando, allenandosi correndo ma alla fine cosa raggiungevano? Non lo sapeva neanche lui cosa pretendeva da sé stesso. Ed ora era davanti alla possibilità di fermare quell’agonia, di metterla in pausa e pensarci più tardi e invece no, non poteva più. Era tutto rovinato e lui rassegato. Di nuovo.

Sherlock si sedette e appoggiò la schiena allo specchio. Distese le gambe che gli facevano male da giorni, forse mesi ma non lo avrebbe saputo dire per quanto ci era abituato e i centododici spettacoli che aveva portato in scena li sentiva tutti, su ogni centimetro della sua pelle, della sua anima. John era silenzioso e lui non aveva intenzione di aprire di nuovo il discorso se John non voleva. Tutto si aspettava tranne di vederlo alzarsi e andare via, semplicemente. Sarebbe stata la cosa più facile da fare e John non l’avrebbe mai fatta quindi Sherlock aspettava, qualsiasi cosa sarebbe successa. Aspettava. Sperava rassegnato, contraddicendosi. Tutto per lui era una contraddizione in quel momento: quello che provava, pensava, ciò che era. Appena sentì John parlare sobbalzò.

“Sai, avevo visto dei girasoli di fronte alla stazione, in quel fioraio su James Street. È un fioraio bellissimo e quei girasoli erano altrettanto meravigliosi. Volevo prenderli in segno di … pace? Non lo so. Ho ricordato che erano i tuoi fiori preferiti e che magari ti avrebbe fatto piacere riceverli dopo tutti quei mazzi di scontate rose rosse dopo ogni spettacolo a teatro.” Un piccolo sorriso fece capolinea sulle labbra sottili di John.

“Ma non li ho comprati. So che li avresti trovati inutili.” Alzò lo sguardo e incrociò quello di Sherlock.

Guardò quel corpo gettato lì all’angolo come un fantoccio e si chiese cosa mai lo tormentasse così tanto. Guardava ogni parte rilassata di quel marmo che rimaneva comunque scolpita, solida; ogni linea che definiva un muscolo era ben visibile, soprattutto sulle gambe avvolte in quella sottile stoffa nera e John le seguiva con lo sguardo immaginando quanti sforzi quel corpo ha fatto per essere così.

“Che c’è John … Mi guardi con pietà. Smettila. Mi basto io.” Disse freddo, arrogante.

“Mi hai mentito, prima. Stanco ma felice, hai detto. Guardati. Stanco lo sei ma felice … non prendermi in giro. Felice non ti si addice proprio e vorrei solo sapere” John scosse la testa e addolcì lo sguardo. “perché. Perché mai mi sto rendendo conto che sei diventato l’involucro prezioso ma svuotato di ogni bellezza che possedeva che mi sta davanti.”

La voce di John non era arrabbiata né accusatoria o compassionevole. Era sincera. Sherlock lo capì e capì che valeva la pena dire la verità se mai poteva porre una tregua tra loro due.

“Questo mondo, caro John, è un incubo vestito da paradiso. Io sono andato avanti perché lo volevo, la voglia di farlo ardeva forte. Forse troppo se mi ha ridotto così eppure è stato un percorso bellissimo. Ma come tutte le cose belle, è finito. Svanito poco a poco. Questo tour è stato il colpo di grazia. Più mi elogiavano più sapevo che l’invidia nella compagnia cresceva così come ora è cresciuta ancor di più l’aspettativa su di me e di me verso me stesso.”

John annuiva ma non bastava.

Voleva sapere tutto nei dettagli, ogni cosa, così rimase in silenzio per spronarlo a continuare e Sherlock, fissando fuori dalla finestra come se stesse rivedendo quello che ha passato, continuò.

“Ho fatto cose brutte, John. A me stesso. Di conseguenza ho ferito e allontanato anche gli altri ed è semplicemente diventato ogni giorno sempre più difficile fidarmi, comportarmi come se tutto andasse a gonfie vele, come se non sentissi quel vuoto che ti lascia … l’aver toccato il fondo.”

Gli occhi ancora lontani, persi. John si iniziò a preoccupare di come stava andando la conversazione. Ha fatto cose brutte a sé stesso. Il solo pensiero gli gelava il sangue perché non avrebbe mai voluto che Sherlock gli raccontasse cose del genere ma cercò di rimanere razionale per poter capire meglio la situazione e magari anche aiutarlo se glielo avesse lasciato fare.

“Aspetta, hai parlato di invidia ma non avrebbe senso. I tuoi allievi sanno che sei il loro maestro. Non competi più con loro per le audizioni o cose del genere qui all’Accademia. Dovrebbero rispettarti e ringraziare il cielo di poterti essere vicini.” Sherlock sorrise quasi divertito e disse:

“Rifletti. Io mi sono diplomato poco meno di un anno fa e il direttore O’Hare dopo due mesi mi ha affidato la compagnia, un ruolo di prestigio qui come primo ballerino, un ruolo di prestigio nella compagnia stessa come coreografo. Mi ha dato carta bianca su tutto. E di conseguenza sono arrivati i soldi grazie alla fama, al posto come maestro qui e in tutto questo voglio precisare che ho solo tre anni più di loro e ho iniziato anche fin troppo tardi a ballare. Come potrebbero dei giovani ventenni non covare un’aspra invidia per me?”

“Okay ma devono accettarlo. Loro non saranno mai come te, devono farsene una ragione e capire che esistono prodigi, geni, persone speciali, chiamale come le vuoi chiamare, a cui devono sottostare e non perchè valgono meno ma perché l’unica cosa da fare è imparare. Dovrebbero sfruttare le loro forze per cercare di imparare il più possibile da te invece che invidiarti o essere antipatici. So che tu non gli avrai agevolato il lavoro ma … non è mai troppo tardi. Potresti parlargli e chiarire le cose. È ovvio che dopo un anno a praticamente convivere con loro ne esci distrutto psicologicamente oltre che fisicamente. Come pensavi di poter sopportare ancora tutto questo?”

Quelle parole colpirono Sherlock che non gli dava tutti i torti. E ancora una volta John gli aveva dimostrato quanto lui aveva bisogno della sua saggezza.

“Hai, hai ragione. Devo creare un dialogo con loro altrimenti non si fideranno mai di me. Mi temeranno soltanto come hanno fatto fin ora.”

John all’improvviso sembrò vedere tutte quante le responsabilità, le preoccupazioni e i pensieri che incombevano sulle spalle curve di Sherlock come una grossa nube nera. Decise di mettere da parte l’orgoglio che non aveva mai portato nessuno da nessuna parte. Si alzò piano e andò verso Sherlock che alzò lo sguardo quando John gli fu di fronte.

“Non volevo litigare.” Disse piano John, che gli porse la mano. Sherlock la afferrò deciso e si tirò su.

“Ma ciò che ti ho detto lo penso ancora. Penso ancora che io merito meglio di tutto questo, ma non significa che ho la forza di lasciarti. Arrendermi.”

“Lo so.” Rispose Sherlock lasciandogli la mano.

“Anche io non voglio arrendermi. Però magari i girasoli, non so, potevi sforzarti di comprarli. Qui sarebbero stati davvero bene.”

“Sherlock …” lamentò John ridendo piano.

“Era per dire.”

Sherlock fece spallucce e si voltò verso la finestra ancora aperta. Un raggio di sole pallido camminò lento sul pavimento fino ai loro piedi e piano saliva, toccando anche i loro corpi vestendoli di una fioca luce gialla ma calda.

“Sta uscendo di nuovo il sole.”

Disse Sherlock facendo un profondo respiro non distogliendo lo sguardo dal cielo che si apriva e mostrava ora un po’ di azzurro. John respirava quel profumo che gli invadeva la gola e che sapeva di bei ricordi, guardava il profilo regale di Sherlock, quelle labbra forti e delineate come dei petali di rosa poggiati su del marmo e guardava quelle lunghe ciglia che di profilo sembravano ancora più lunghe che facevano da cornice alle iridi cristalline di Sherlock. Eccome se gli era mancato ammirare tutto quello.

“Sherlock”

Lui si girò velocemente e sussurrò un “Dimmi”.

John gli prese le mani fredde nelle sue e le accarezzava per riscaldarle.

“Io devo sapere che se me ne vado, se dopo che abbiamo fatto questa passeggiata che dovevamo fare circa mezz’ora fa, tu continuerai a prendere in considerazione quello che ti ho chiesto, ovvero passare del tempo con te. Rivederti. Capire come io posso aiutarti in questo periodo di cui mi stavi parlando perché sinceramente non posso permetterti di stare male di nuovo e stavolta ti giuro sulla mia vita che se sento che il mio amore non è abbastanza non ti lascerò e sarò sincero fin da subito. Non voglio rivivere quello che è successo quattro anni fa, non me ne andrò. E per me è questa la cosa che tu devi accettare, come io accetto il fatto di essere comunque la tua scelta. Okay? Devi accettare il fatto che se non mi avrai nella tua vita come compagno io ci sarò come … come meglio tu vorrai. Come ritieni giusto che io faccia parte della tua vita, non importa cosa sarò ma ci devo essere. Hai bisogno di me comunque, lo sai”

Sherlock serrò le mascelle un paio di volte seguendo quelle parole, per scaricare la tensione. Abbassò lo sguardo.

“Okay John, faremo a modo tuo.” Lo disse consapevole del fatto che John gli stava chiedendo di accontentarsi.

“Hey …” John gli prese piano il volto nella sua mano, un gesto dolcissimo, e glielo sollevò per guardarlo. Gli occhi di Sherlock erano disarmanti.

“Non mettermi il broncio ora. Prendi il lato positivo: per una volta nella tua vita non avrai il controllo, per una volta potrai semplicemente goderti quello che verrà. Senza pensare che le conseguenze possano essere colpa tua. Non lo saranno. Sarà … la vita.”

John cercava di sorridere nascondendo la tensione.

“La vita sarà ingiusta. Come sempre.” Rispose Sherlock calmo, e appoggiò la sua mano su quella di John che ancora sosteneva la sua guancia.

John corrugò per un attimo la fronte e in quel momento si giurò che avrebbe fatto di tutto per rendere il cinismo e il pessimismo di quell’uomo un lontano ricordo. Avrebbe fatto di tutto per guarirlo da tutto il marcio che aveva sopportato ignorando che non poteva farlo ovviamente perchè non si guarisce da certe cose. Provarci però probabilmente lo avrebbe fatto sentire meno in colpa.

“Beh, pensa che sarà ingiusta con entrambi stavolta.”

Stavolta.

Ciò voleva dire che era stata ingiusta solo con lui? pensò Sherlock. Che John aveva sofferto ma non quanto lui. Ovvio. Lui non lo amava. Non così tanto come lui pretendeva. Annuì sorridendo nascondendo la reazione di dolore che quei pensieri gli procurarono.

“Ora vado a farmi una doccia e poi faremo questa benedetta passeggiata, se ti va ancora.”

“Certo. Possiamo anche andare a pranzo se vuoi. Ci sarà un ristorante decente da queste parti.”

“C’è il Crush Room Restourant qui vicino. Ti ci porto. Ma …”

Sherlock squadrò John dalla testa ai piedi.

“Ch- che c’è?”

“Non penso tu abbia una giacca con te. Ma almeno puoi togliere il maglione e rimanere in camicia. Sarà più appropriato.” Lo disse poco convinto.

“Oh ma andiamo, sul serio?”

“Ho sempre odiato i tuoi maglioni e lo sai.”

John alzò gli occhi al cielo divertito. Così continuò la conversazione ancora per parecchio in realtà prima che Sherlock andasse a prepararsi. Sembravano tornati alla spensieratezza di quattro anni fa quando parlavano sinceramente di tutto, quando litigavano e dopo cinque minuti era tutto apposto. E loro neanche se ne accorsero che ora erano tranquilli, che stavano parlando sciolti, come se stessero di nuovo a casa davanti una buona tazza di tè. Si abbracciarono di nuovo, rimasero stretti per un po’, si accarezzavano le mani, piccoli gesti come se facessero fatica a distaccarsi. Le dita di John non resistettero a intrecciarsi di nuovo con i ricci di Sherlock per una seconda volta ma andava bene così, Sherlock non aveva mai obiettato a quel gesto, né ora né in passato. Come se lo avesse aspettato per tutti e quattro quegli anni. Si sfiorarono anche la punta del naso mentre parlavano di come la primavera in Provenza, dove Sherlock era stato durante il tour, fosse meravigliosa.

“E’ un luogo incantevole. Ci sono dei campi stracolmi di fiori profumati. E tante api, sai che adoro le api.”

A quelle parole Sherlock appoggiò la fronte a quella di John.

“Deve essere davvero bello.” disse con un sussurro John, mettendogli le braccia sulle spalle e incrociando le sue dita dietro al collo di Sherlock.

Un gesto che un amico decisamente non farebbe ma John non resisteva, Sherlock era lì ed era ancora suo, lo voleva ancora suo e prenderlo tra le sue braccia era inevitabile.

“Ma scommetto che il tuo profumo rimarrebbe ancora il mio preferito” aggiunse.

Sherlock si limitò a sorridere e a chiedere perché era fissato con il suo profumo.

“Nessuno porta più quel profumo e solo dio sa come fai ancora a trovarlo. E quindi il perché è semplice: potrei sempre ritrovarti, ovunque. Saprei che sei tu.” Bacialo. Era tutto quello che ogni cellula di Sherlock urlava. Ma non poteva. Non doveva.

“Mi mancava la tua dolcezza. Tanto.” Non riuscivano trattenersi.

Come se si desiderassero esattamente come la prima volta che si sono visti, con la certezza che qualcosa sarebbe successo. Ma quella mattina non successe nient’altro se non quella litigata e quella riappacificazione che sembrava più una promessa. Non successe nient’altro se non un ottimo pranzo in quel ristorante di lusso che divenne il preferito di John, anche se non si sarebbe mai potuto permettere di pagare il conto se mai avesse voluto andarci da solo per cui se mai ci fosse riandato sarebbe stato esclusivamente con Sherlock. E quella limitazione non gli dispiaceva affatto. Il pranzo fu veloce e si scambiarono sguardi più che parole anche perché volevano evitare assolutamente di parlare del futuro soprattutto. Si godevano il momento. Entrambi avevano bisogno di staccare la spina, non pensare agli impegni del giorno dopo e nessuno dei due poteva sperare di farlo in un modo migliore se non con l’altro. La loro complicità era sempre stata qualcosa che aveva salvato la loro amicizia più e più volte e il fatto che si fosse trasformata in qualcosa di più anni fa aveva per loro dato senso a tutto, come un bellissimo e sudato traguardo raggiunto dopo tanti sforzi. Tuttavia le cose si complicarono ed ora erano lì uno di fronte all’altro a discutere sul vino migliore da abbinare a quel piatto che avevano appena finito. Ma a loro mancavano anche queste piccole sciocchezze.
Finito di mangiare lasciarono il ristorante con calma.

“Non mangiavo così bene da mesi.” Disse John aprendo la porta per Sherlock.

“Grazie. Sono felice che apprezzi ancora la cucina sofisticata. Se non ti portavo io al ristorante avresti mangiato solo fish and chips per settimane.”

“Vero. Mi hai sempre fatto apprezzare le cose bella della vita che non potevo permettermi. Non è stato poco.”

Passeggiavano su Bow Street lentamente e passo dopo passo si avvicinavano sempre più. John incrociò il suo braccio a quello di Sherlock che si accostò a lui sorridendo a quel gesto.

“Eri l’unico amico con cui valeva la pena condividerle. In realtà eri l’unico e basta.”

John ebbe la pelle d’oca a quella frase.

L’unico.

Questa parola porta con sé una pesantezza che molti sottovalutano e che probabilmente non conoscono. La sua etimologia spiga bene quanto sia bella. Unico = lat. UNICUS da UNUS uno. Solo del suo genere. Che non ha altri della sua specie; fig. Raro, Eccellente. Deriv. Unicamente; Unicissimo; Unicità. Una parola niente male. Un complimento niente male e John ci pensò per giorni da romantico quale era. Fu davvero l’unico capace di tracciare uno spiraglio nella solida armatura che Sherlock indossava perché oltre quella c’era un mondo che unicamente John aveva visto. Provato. Vissuto. E la prima volta che riuscì a trasformare quello spiraglio in una crepa più larga e a svestire totalmente Sherlock di quel suo spesso involucro di razionalità e freddezza fu quell’estate di quattro anni fa.
Quell’estate che pose fine e inizio a tutto.

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Capitolo 2
*** Quattro anni prima ***


Camminava per il corridoio ormai vuoto e sapeva di essere in ritardo.
Piano aprì la porta dell’aula congressi sperando che nessuno si girasse e per fortuna la porta era leggera e non fece rumore.
Tirò quasi un sospiro di sollievo. Il cappotto lungo e scuro avvolgeva il suo corpo e teneva le mani in tasca avvicinandosi a testa bassa al corridoio laterale dell’enorme aula in cerca di un posto vuoto. Scese un paio di gradini e lo trovò. Si sedette.
L’aula era gremita di studenti di tutte le età e c’era, nell’ultima fila al centro, un gruppo di quelli che dovevano essere professori che ascoltavano molto più attentamente dei ragazzi ciò che la Direttrice del Sotheby’s Institute of Art stava dicendo.

“È stato un anno impegnativo per molti ma sono davvero orgogliosa di guidare studenti così eccellenti verso il loro futuro. In particolare quest’anno abbiamo avuto la fortuna di essere scelti da un giovane ragazzo che ci ha dato tanto e siamo sicuri che continuerà a farlo fino alla fine del suo percorso qui in cui ci aspettiamo molto da lui. Ho voluto fortemente che facesse lui il discorso di chiusura per questo anno scolastico e sono lieta di potervi dire che ha accettato di farlo. Molti sapranno già di chi sto parlando.”

Sherlock dal suo posto gettava di tanto in tanto un’occhiata ai professori che aveva notato prima perché una faccia in particolare gli sembrava incredibilmente familiare. Non vedeva bene il volto dell’uomo, chiacchierava con un collega ed era costantemente girato. Intanto la donna al microfono introduceva l’allievo che poco dopo avrebbe preso la parola.

“Un talento difficile da ignorare, come molti miei colleghi e maestri hanno detto.Gli è bastato anche meno di un anno, tra l’altro il suo primo anno qui, per diventare il migliore del suo corso e la passione che lo guida penso sia una rarità che ancora non avevo incontrato”

A questo punto l’aula era diventata più silenziosa e quei pochi che bisbigliavano lo facevano per fare ipotesi su chi potesse essere la persona di cui la loro preside stava parlando.
Lo sguardo di Sherlock tuttavia era fisso su quell’uomo dall’aspetto inusuale per essere un insegnante di cui il suo sesto senso non gli diceva nulla di buono a riguardo. Si alzò e andò in fondo mettendosi in disparte per scrutare il volto del suo probabile conoscente.
Ma appena sentì il nome pronunciato dalla voce sicura e femminile si distrasse e pensò che avrebbe risolto quella questione dopo.

“Un applauso per John Hamish Watson.”

Le labbra di Sherlock si curvarono in un luminoso sorriso. John prese il posto della Direttrice su una sorta di piedistallo e si schiarì la voce aggiustando il microfono adeguandolo alla sua altezza. Era più basso della donna e quel gesto che lo sottolineava lo mise un pò a disagio. Sherlock riprese il suo posto a sedere e ascoltò attentamente la voce di John.
Lo guardava come si guarda il sole dopo un rigido inverno.
Si strinse nel suo cappotto blu curioso di ascoltare ciò che il suo amico aveva da dire. Al liceo John scriveva sempre i migliori temi, saggi, poesie e articoli e anche se era il ragazzo più riservato e solitario di tutti quando gli insegnanti leggevano i suoi lavori per farli prendere come modello alla classe che non era mai alla sua altezza, compreso Sherlock, lui rimaneva sempre composto, non era in imbarazzo ma addirittura aiutava se qualcuno gli chiedeva una mano per il prossimo compito o esame.
Il migliore nel resto delle materie era Sherlock ma non in quello, non nello scrivere e usare le parole in quel modo sublime come solo John era capace. La prima volta che si parlarono fu durante il primo anno e fu proprio Sherlock a farlo. Erano finite le lezioni per quella giornata e Sherlock lo seguì fino in biblioteca.
Si sedette di fronte a lui e disse: “Chi è, tuo fratello o tua sorella? Tuo padre?”
John abbassò il libro che stava leggendo, si guardò attorno per capire se quel ragazzo stava davvero parlando con lui e lo guardò intimorito da quei due occhi azzurro-verdi che trafiggevano i suoi. Le mani grandi incrociate e un atteggiamento di sfida. John conosceva Sherlock ma solo attraverso gli elogi di praticamente tutta la scuola. Cosa mai voleva da lui.

“Come scusa?”

“Chi nella tua famiglia è uno scrittore e ti aiuta per gli esami?” John sorrise.

“Nessuno. Sono naturalmente dotato se è questo che ti stai chiedendo”

Gli sorrise ma il volto di Sherlock era imperscrutabile.

“Ma le cose che scrivi sono così…brillanti. Commoventi e bellissime. Non è possibile.”

Sherlock era certo che quel ragazzo dal viso dolce non stava mentendo ma essersi sbagliato non gli faceva piacere.

“È un caso raro la tua esistenza, sappilo.” Sherlock lo disse visivamente invidioso e si lasciò sfuggire uno sguardo un po deluso alla notizia che veramente John era bravo solo perché dotato.  A John un po dispiaceva quello sguardo. Sapendo che quel ragazzo slanciato e sempre elegante era il genio della scuola poteva immaginare quanto era fastidioso sapere che qualcuno era più bravo di lui in qualcosa.

“Cos’è, un complimento?” azzardò dire John non poco nervoso di star parlando con lui e Sherlock si sentì a disagio per la prima volta nella sua vita. Eppure il fratello gli dava filo da torcere. Vedendo che il ragazzo non sapeva cosa dire in imbarazzo John gli sorrise dolcemente.

“Non me la sono presa perché hai insinuato che copio da qualche parte le mie idee. Tu sei il più intelligente della scuola, è normale che tu ne rimanga stravolto dal fatto che qualcuno è più bravo di te in qualcosa.”

Non aveva un tono di sfida ma di comprensione. Nessuno mai era stato così delicato e gentile con Sherlock lì a scuola. Nessuno gli parlava, timoroso e soffocato da un senso di inadeguatezza. E poi Sherlock era conosciuto per essere abbastanza scontroso, ma il suo animo era dei più generosi e gentili e queste cose così complicate come era lui fanno paura alle persone. Ma John non era quelle persone.

“Non sono il più intelligente della scuola.”

“Ehm, sì lo sei”

“Io sono il più intelligente dell’Inghilterra almeno.”

John rise di gusto e Sherlock anche. Poco dopo divenne di nuovo serio perché guardò John, quel ragazzo così semplice, che passa sempre inosservato, così normale e gentile, dai lineamenti dolci ma quasi già da uomo e non poteva fare a meno di pensare a quanto lo incuriosiva. Aveva attirato la sua attenzione non solo con il suo essere così dannatamente bravo con le parole ma anche con il modo in cui gli parlava, come gli teneva testa e questa cosa non poteva ignorarla.

“John?”

“Sì Sherlock?”

Si chiamarono per nome per la prima volta ed entrambi amarono il suono dei rispettivi nomi come mai prima. Quella sensazione che sentirono gli preannunciò che non sarebbe stata l’ultima volta che si sarebbero parlati. Non poteva finire con una battuta.

“Penso che tu sia una persona che ha molto da dire. Una persona caleidoscopica.” John sbattette diverse volte le palpebre scettico.

“C-cosa scusa?” Sherlock sorrise compiaciuto. Sì. Voleva fare colpo su John Hamish Watson.

“E’ una metafora per dirti che penso tu sia come una sorta di diamante, dalle mille sfaccettature che pochi riescono a vedere. Sfaccettature che se illuminate dalla luce giusta mostrerebbero miliardi di colori e sfumature mozzafiato. Hai presente? Se si è capaci di smuoverti, aprirti … tu saresti uno spettacolo davvero unico. E bellissimo. Colori mai visti. Emozioni mai provate.” Sherlock sospirò. Cosa gli prendeva, non era da lui.

“Sarebbe davvero bello poter essere testimoni se mai accadrà.” Aggiunse.  Non si rese quasi conto di averlo detto. Fu un sussurro.

John arrossì mentre Sherlock sembrava perso nelle sue stesse parole.

“Mi sbaglio, John?” John sorrise. Quel ragazzo aveva appena fatto entrare la luce giusta in lui.

“No, per niente. Hai ragione, sono così.” Si sorrisero.

Sherlock iniziò a vedere quei colori. Quei colori forti che si perdevano piano nella sua mente. John sentiva la luce di Sherlock spogliarlo di tutte le sue ombre. Si guardarono negli occhi per qualche secondo e inevitabilmente si scelsero. Scattò la scintilla. Una fiamma che con il passare del tempo si trasformò presto in un possente fuoco.

Ora che Sherlock era lì dopo due anni che non lo vedeva, quel fuoco dentro si fece più caldo del solito.
Quando John iniziò a parlare catturò l’attenzione di tutti, era inevitabile. Non voleva mai sbalordire e non si faceva il problema di doverlo fare.
Tuttavia lo faceva. Non doveva neanche provarci, era naturalmente magnetico.

“Buongiorno a tutti. Sono davvero lusingato dalle parole di Mrs Dolmenang e sono sicuro che è stata troppo buona nel descrivermi e presentarmi.” Fece un sorriso dolce nella sua direzione e lei ricambiò con un cenno del capo.

“Avere l’opportunità di studiare qui non è una cosa da sottovalutare. Ho imparato, sebbene alla mia giovane età, che la vita raramente è giusta e tranquilla per cui bisogna sfruttare ogni secondo di essa. È quello che ho fatto io ed è quello che ho cercato di far capire a molti dei miei compagni che mi chiedevano consigli. In pochi mesi sono diventato il punto di riferimento di molti ed è stata la soddisfazione più bella per me perché mai crescerò a livello umano così come sono cresciuto grazie all’appoggio, alla fiducia e all’amicizia che i miei compagni di corso e non solo mi hanno donato.”
Molti volti sorridevano sinceramente toccati e Sherlock li notava per capire quali fossero le persone di cui John stava parlando. Erano ragazze e ragazzi molto semplici che lo guardavano con grande rispetto. John fece una pausa per sorridere e poi riprese.

“Detto questo, ora vorrei davvero essere coinciso e il meno tedioso possibile.” Alcuni risero piano.

“Colleghi, insegnanti, matricole, tutti voi siete qui perché avete scelto di farlo. Avete la responsabilità di mantenere fede in ciò che credete e se lo farete non vuol dire che avrete la coscienza a posto né tanto meno tutti i vostri sogni si realizzeranno. Penso che la mia fama di realista pragmatico sia molto diffusa ma chi mi conosce nel profondo sa che l’unico consiglio che sono in grado di dare è questo: mettere ogni singola briciola di amore che avete in corpo nel percorso che avete scelto, che scegliete e che sceglierete in futuro è la sola cosa di cui non vi pentirete mai nella vostra vita. Molti dicono che sono stato un esempio per loro per riuscire a superare questo primo anno e sono grato a quelle persone che hanno creduto in me quando io non ho potuto. Quando non ho avuto …”
a quel punto si fermò e il suo sguardo sembrò perso altrove. Un’ombra si posò sul suo volto.
“quando non ho avuto chi desideravo al mio fianco. Comunque questo è un altro discorso ed io voglio concludere chiedendovi di prendere sul serio la vostra vita qui in Accademia ma anche al di fuori. Il mondo aspetta di essere migliorato. Dimostrategli che siete capaci di farlo. Grazie.”

Sherlock pensò che quel qualcuno fosse lui. Per l’80%  sono io, si disse. Un applauso caloroso riempì l’aula ed echeggiò per il lungo corridoio di fronte per quanto fu forte. Alcuni ragazzi addirittura gli gridarono “Sei grande!” ma John li ignorò avviandosi verso il suo posto vuoto in prima fila accanto ad una ragazza rossa che si alzò per abbracciarlo. Sherlock notò l’affetto tra i due perché un’amica non la si abbraccia così a lungo e così amorevolmente.
Sospirò corrugando la fronte. Quella scena gli diede più fastidio di quanto avrebbe voluto.
Poco dopo la Direttrice fece gli ultimi ringraziamenti e saluti e piano l’aula si sfollò. John era ancora lì che parlava con quella ragazza dai capelli lunghi e curati. Sherlock si avviò verso di lui e scese i gradini del corridoio laterale in fretta.
Le mani ancora nelle tasche gli sudavano e la salivazione era compromessa.
È John, calmati.
Se lo ripeteva più volte, una dietro l’altra mentre attraversava l’aula tra le poche persone che erano rimaste. Vide i due stringersi le mani, intrecciarle le une nelle altre. Si fermò di botto. Brutto segno, probabilmente si stanno per … Sherlock non concluse la frase nella sua mente che il cellulare gli squillò.

“Pronto”

“Ciao Sherlock. Bel discorso vero?”

Sherlock si voltò verso destra, cercando quella voce nell'ultima fila tra i professori e lo vide. Sapeva che c’era qualcosa che non andava in quell’uomo. Sherlock puntò gli occhi nei suoi e parlò scocciato.

“Mycroft sono sicuro che hai ben altro da fare che elogiare quel mediocre discorso.” Suo fratello se ne stava in piedi con la mano nella tasca del pantalone di quel completo troppo costoso per essere di un semplice insegnante e Sherlock ovviamente lo capì.

“E la prossima volta se vuoi che non ti noti non mettere quell’orribile gilet. Fai un piacere a tutti e brucialo.”

Sherlock era deciso a riattaccare ma la voce di Mycroft continuò.

“Gli insulti non mi sfiorano neanche, lo sai. Sono qui perché è importante altrimenti hai ragione, non sprecherei il mio tempo in questo posto per artisti perditempo” E con queste parole chiuse la chiamata. La sua arroganza era il suo pregio migliore e il fratello non era mai stato in grado di sopportarla. Sherlock tuttavia lo raggiunse perchè sapeva che Mycroft diceva il vero. Si fermò al suo fianco senza neanche guardarlo.

“Ho da fare. Fai in fretta.” Mycroft guardò John baciare la ragazza che lo spingeva a sè e con tono ironico ma decisamente con lo scopo di far imbestialire il fratello disse: “Fare cosa? Non vedi che il tuo John è impegnato ora? E per di più con una ragazza. Oh santo cielo, devi davvero averlo sconvolto quel ragazzo per fargli cambiare così drasticamente idea su chi”

“Ci va solo a letto, la conosce sì e no da due mesi, non hai notato che lei si è portata la sua migliore amica perché ancora non è sicura se stanno insieme o no? E decisamente non è innamorato altrimenti l’avrebbe almeno degnata di uno sguardo quando ha ringraziato le persone nel discorso e tu tutto questo lo hai dedotto anche prima che si baciassero quindi smettila di giocare con commenti superflui e dimmi cosa. Diamine. Vuoi.”Disse Sherlock irritato fissandolo con uno sguardo capace di far scappare via chiunque.

“Non impegnarti a fare certe osservazioni così affrettate solo perché ti servono a rendere i fatti meno dolorosi fratellino.” Sherlock alzò gli occhi al cielo e respirò profondamente iniziando a scendere le scale.

“Sherlock Holmes non mi voltare le spalle mentre ti parlo.”

“Prova a dirmi cose che potrebbero interessarmi e forse cambio atteggiamento.”

“Mamma ti vuole a casa per almeno due settimane questa estate. Le ultime due settimane di agosto. E per casa intendo il cottage di famiglia in campagna. Questo ti interessa?” Sherlock si arrestò di colpo a quelle parole e si rivolse verso il fratello.

“Non ho la minima intenzione di passare il mio tempo lì e soprattutto con voi. Mamma lo sa.” Sherlock lo disse serio ma preoccupato perché sapeva come sarebbe andata a finire.
Sua madre non gliela avrebbe fatta passare liscia anche questa estate, non dopo l’anno sabatico che aveva passato fuori casa.

“Ah giusto, tu preferisci andartene in giro in calzamaglia a zampettare qua e là per tutto il giorno. Dimenticavo.”

Seccamente ironico oltre che arrogante. E la lista dei difetti continuava per parecchio. Sherlock lo odiava sinceramente quando metteva in ballo la danza, altra cosa inutile e per niente proficua per Mycroft.

“Non iniziare.”

“Non ti sto insultando Sherlock, ho solo detto la verità. Niente di personale.”

“Certo, come no.”

Sherlock gli dava ancora le spalle. “Ascolta, sai quanto sarà tedioso anche per me ma la mamma è stata categorica e per l’amor del cielo almeno per due settimane fai finta che ti importi delle convenzioni sociali. Non sarà difficile, sei bravo a fingere.” 

Sherlock non avrebbe mai deluso sua madre dopo che aveva mandato il suo adorabile fratello a chiederglielo. Forse lo aveva fatto apposta ma non la biasimava. Con le buone non era mai riuscita a ricavarne nulla da lui. Tuttavia rispettava e ammirava sua madre, come nessun altro. Non gli aveva mai impedito di seguire la sua passione e solo grazie a lei poteva studiare alla Royal Ballet School e convincere suo padre che ne sarebbe valsa la pena.

“Va bene Mycroft. Ma saranno solo quattordici giorni. Almeno potrò prendermi cura degli alveari personalmente.”

Non sarebbe stato poi così male passare un pò di tempo lontano dalla città, dall’accademia e dall’università.

“Vedi? C'è un aspetto positivo in tutto. Bravo Sherlock.” Lo prendeva solo in giro ma Sherlock era stufo di dargli corda e non rispose.

“La mamma sarà contenta.”

“Abbracciala da parte mia.”

Disse distaccato Sherlock. Non la vedeva da un anno intero a causa dell’accademia e dell’università e negare che le mancava era ridicolo. Non gli importava cosa pensava il fratello che sorpreso di quell’esternazione così diretta d’affetto alzò le sopracciglia.

“Lo farò”

Sherlock fece un cenno col capo per salutarlo e Mycroft fece lo stesso.

“Ah, Sherlock. Magari puoi invitare anche John. Con la sua ragazza. Non si sa mai.” Si voltò e se ne andò.

“Idiota” sussurrò Sherlock che però si mise a pensare a quelle parole. Cosa intendeva dire con “non si sa mai”? Che John sarebbe stato disposto a concedersi e/o dividersi tra lui e la sua presunta ragazza per due settimane visto la sua ovvia bisessualità? Idiota, pensò di nuovo. John era troppo corretto per fare una cosa del genere. E Mycroft ignorava il fatto che Sherlock non lo avrebbe mai accettato. Non era così disperato. Non sono cosi disperato, si disse convinto. Poco. Ma convinto. Con quel pensiero a ronzargli in testa Sherlock fissava il pavimento. Non sono cosi disperato. Una mano gentile si poggiò sul suo braccio e alzò di colpo la testa.

“Dio, Sherlock …” John lo abbracciò senza preavviso e Sherlock non fu neanche capace di ricambiare la stretta.

“Non immaginavo sapessi della conferenza né tanto meno che saresti venuto.” John sorrideva felice. Sentiva davvero una gioia invaderlo.

“E’ bello rivederti.” Disse piano. Sherlock intanto registrò l’aspetto un po diverso di John. I capelli tirati indietro, uno stile più ricercato, un profumo diverso.
Ripresosi da quella sorpresa disse: “Sì, l’ho deciso all’ultimo momento.”

“Ma come lo sapevi? Non ci sentiamo da … mesi”.

Ogni tanto si scambiavano e-mail molto brevi. Niente discorsi particolari. Niente “mi machi” soffocati sotto chilometri di gentilezza e distacco con cui entrambi riempivano quelle e-mail.

“Ti ho tenuto d’occhio.” Disse Sherlock quasi a persuaderlo con quella sua voce bassa e calda che a John mancò.

John annuì incerto del significato di quella frase. Non si staccavano gli occhi di dosso. “John! John! John!” Una voce li distrasse e lui si voltò. La sua presunta ragazza salì in fretta le scale del corridoio centrale dove Sherlock e John stavano parlando.

“Hey, non ti vedevo più.”

La ragazza era molto graziosa, occhi verdi e un corpo minuto ma le forme erano al posto giusto.

“Sì scusa, è solo che ho visto Sherlock e volevo salutarlo. Sherlock Florence, Florence ti presento Sherlock.”

Non aveva detto che era la sua ragazza mentre la presentava e quella fu una motivazione in più per Sherlock per fare quello che stava per fare. Starnutì e la mano che aveva messo davanti alla bocca la porse a Florence che sbiancò e si voltò velocemente verso John dicendo:

“E’ un piacere senti John io ed  Emily andiamo a prendere un caffè vuoi venire?” Proprio così, tutto d’un fiato. Sherlock abbassò la mano e sorrise compiaciuto. John stranito guardò prima Sherlock e poi la ragazza che sembrava d’un tratto nervosa.

“No, in realtà ho un impegno. Ti chiamo dopo okay?”

“Okay.”

Disse lei per niente delusa e si fiondò giù per le scale. Non si scambiarono neanche uno sguardo. Ora Sherlock era completamente sicuro che andavano solo a letto insieme.

“Sherlock mi fai capire il perché?”

“Il perché di cosa?” disse fingendosi sorpreso. John lo guardò inclinando la testa con sguardo accusatorio.

“So che hai “dedotto” che ha una fobia per i germi ed è una perfettina in ogni cosa. L’hai messa a disagio, sappilo.”

Era quello lo scopo disse Sherlock tra sé e sé.  John sorrideva. Sorrideva! Avrebbe dovuto essere arrabbiato per quel gesto e invece sorrideva. Andavano assolutamente solo a letto insieme.

“Oh già, scusami ma fare la conoscenza di persone nuove ultimamente non è proprio ciò che desidero.”

“Solo ultimamente?” Disse John sarcastico.

“E poi che razza di nome è Florence?!”

“Genitori italiani.”

“Ridicolo”

“Ridicolo.”

Ripeté John annuendo e ridendo. Sherlock ebbe l’ennesima conferma che lei non era la sua ragazza, nessuno offende il nome della propria donna; anche perché guardava lui mille volte più coinvolto di quanto guardasse lei.

 “Comunque se hai un impegno è meglio che vada.” Sherlock lo disse incapace di nascondere la sua delusione nella voce. Avrebbe potuto rimanere in Accademia ad allenarsi, eri lì solo per lui.

“Tu, sei il mio impegno.”

Gli disse John incredibilmente sexy ma dolce. Sherlock sentì lo stomaco sotto sopra.

 “Ti va … di andare a bere qualcosa?” Sherlock si illuminò.

“Certo.”

Si sedettero a tavolo di un delizioso bar. Era il tramonto e le luci soffuse dell’ambiente sottolineavano l’atmosfera calma e intima. C’era della musica rilassante in sottofondo e ciò tranquillizzò Sherlock.
La musica lo aiutava sempre.
La musica era l’unica cosa reale nella sua vita e una vera e propria droga per cui fu felice che John avesse scelto quel posto così carino. John prese il menù e iniziò a leggere indeciso. Non togliendo lo sguardo dal foglio chiese a Sherlock come andava il primo anno all’università. Sherlock teneva le mani incrociate davanti a sé.

“Noioso.” John incrociò il suo sguardo.

“Immaginavo.”

Disse e tornò a concentrarsi sul menù. Anche se non voleva perdere tempo in sciocchezze del genere avendo in mente domande molto più serie da fare a John, Sherlock iniziò a conversare come immaginava John volesse. Voleva sapere come stava, come si trovava. Preoccuparsi per lui era da John, così continuò.

“La Birnimgham è davvero eccellente e spero nei prossimi anni per dei programmi più strutturati e alla mia altezza. Fare la chimica e la matematica, i due corsi che ho scelto, è …” John posò il menù e disse: “Noioso scommetto.” Sherlock sorrise.

“Esattamente. Ma le lezioni in laboratorio mi fanno andare avanti. Seguo solo quelle infatti.”

“Il resto delle giornate le passi in Accademia?”

“Sì. Faccio dimora fissa lì in realtà. Torno a casa solo per dormire. Casa che non è più quella dei miei genitori in quanto ora vivo in un appartamento vicino all’Accademia.”

“Oh, wow. D -da solo?” John sembrò terrorizzato dalla notizia e Sherlock non capiva quale fosse il motivo di quel tono.

“Certo.”

“E te la cavi sul serio? Insomma, con i vestiti, il cibo e ”

“Sì John, sul serio. Pensi non sia in grado?”

“No, no so che sei in grado ma … anche io ora vivo da solo, ho un lavoro, e so quanto può essere stressante a volte per una persona comune e figuriamoci per te che sei …”

Sherlock aspettava l’aggettivo.
Diverso. Iperattivo. Strano.

“Cosa?” John era impietrito. Lo sguardo di Sherlock era di ghiaccio.

“Molto più impegnato di me.” Disse.

Sherlock sbagliò a capire l’intenzione nella frase di John e un po’ si sentì in colpa con se stesso. John era l’unico delle persone che conosceva che non gli aveva mai detto quanto sembrava strano e ora sapeva che non l’avrebbe mai fatto. Sapeva quanto a lui dava fastidio. Quanto quell’affermazione aveva segnato la sua infanzia.

“Sì è vero sono molto impegnato.” Disse disinvolto. Poi realizzò ciò che John aveva detto.

“Hai un lavoro?” chiese

“Sì. Lavoro in una libreria che è anche un negozio di antiquariato. Pagano stranamente bene e posso permettermi l’affitto dell’appartamento in cui vivo.” John sorrise all’interessamento di Sherlock.

 “E poi tu adori i libri. Un’ ossessione direi, l’hai sempre avuta come per me lo è la musica. Deve essere il paradiso per te.”

John rise tranquillo e si chiese se stava davvero conversando con Sherlock che di solito non era per niente predisposto ad impegnarsi in tali convenzioni sociali.

“Non mi posso lamentare.”

“Da quando sei bisessuale?”

Sherlock lo chiese con la naturalezza più spontanea del mondo, cambiando radicalmente discorso.
Quando era deciso a sapere qualcosa non ci girava molto intorno e non la faceva andare per le lunghe. Era uno pratico.
Un cameriere si avvicinò al loro tavolo interrompendo la conversazione. John fissava il vuoto.

“Per me un tè verde. Molto limone. Due zollette di zucchero. Per lui del whisky con ghiaccio.”Sherlock buttò un’occhiata a John per vedere se acconsentiva.

“Sì, ho bisogno di qualcosa di forte.”

Disse John al cameriere che ringraziò e sorrise gentilmente.

“Allora?” chiese Sherlock.

“Vuoi proprio parlarne ora e qui vero?”

“Sì” John fece un respiro profondo e affrontò lo sguardo del suo fin troppo curioso amico.

“Sai che certe cose non si scelgono. Lo sai meglio di me, perché ti stupisce?”

“Perché l’ultima volta che hai espresso attrazione per qualcuno ero io.” John non riuscì a non arrossire. Il cuore aveva tutte le intenzioni di uscire dal suo petto.

“Volevo provare qualcosa di diverso.” Sherlock aggrottò la fronte.

“Ma se non ti piace neanche.”

“Cristo Sherlock ma come fai a saperlo …”

“Innanzitutto il tuo”

“No. No senti lascia stare. Non iniziare neanche.” Sherlock sorrise soddisfatto e anche divertito.

John si schiarì la voce sciogliendo il nodo che aveva in gola e sapeva che doveva arrendersi perché Sherlock capiva sempre ossessivamente tutto. Era un gioco perso in partenza.

“Di una cosa ancora non sono sicuro: se Florence è la prima.”

“E’ la prima.”, ammise velocemente (prima finiva quel discorso meglio era) cercando di capire cosa Sherlock ne pensava.

Ma era Sherlock. Impossibile anche solo lontanamente avvicinarsi a cosa poteva esserci in quella mente in quel momento. O in qualsiasi altro momento. Il tè e il whisky arrivarono. John sorseggiò piano il superalcolico e il calore nella gola lo fece rilassare.

“Quindi è stato una specie di esperimento?” chiese Sherlock soffiando sul tè.

Necessitava più informazioni. Era una questione personale per lui. John sembrò quasi offeso da quella domanda.

“Non la sto usando. Florence sa tutto, acconsente e siamo d’accordo sul fatto di farlo solo …” John si interruppe realizzando che stava dando delle spiegazioni che non voleva e doveva dare.

“Non capisco come la mia vita sessuale possa essere interessante per te.” 

“Sei il mio migliore amico John, mi preoccupo.”

John rise guardandolo come se avesse detto una barzelletta.  Sherlock invece intendeva quelle parole, era la verità e il fatto che una donna potesse attrarlo in quel senso lo faceva impensierire. John smise subito di ridere capendo che era serio e si limitò ad un “Ah. Okay.”
Migliore amico, aveva detto così.
Un migliore amico che l’ultimo giorno di scuola al liceo lo baciò mentre si salutarono con la consapevolezza che le loro strade si sarebbero inevitabilmente divise.
Quella fu anche la prima volta che vide Sherlock piangere. Indimenticabile. Dolorosamente e tristemente indimenticabile.
Un migliore amico che non vedeva da due anni. Un migliore amico con cui si sentiva mensilmente da due anni. Un migliore amico che era la persona migliore che le circostanze, il destino, la vita o chissà cosa gli avevano mai fatto incontrare.
Un migliore amico che lo guardava in quel modo da migliore amico, ovviamente. John non sapeva se era il caso di ricordargli di quel bacio.
Non sapeva neanche lui perché gli venne in mente in quel momento, mentre Sherlock appoggiava le sue bellissime labbra al bordo della tazza assaporando il profumato tè verde che aveva ordinato.
Non aveva proprio nessun motivo per pensare a quel bacio.
Tranne quelle labbra che si era ritrovato a fissare, ovviamente.

“Quindi … com’è?”

Per la prima volta Sherlock gli fece una domanda su qualcosa che non sapeva e John non ci poteva credere ma effettivamente era così. Non poteva credere a quello e al fatto che fosse così sciolto nel parlarne. In un bar. In pubblico. Almeno per lui era assolutamente inopportuno e imbarazzante.

 “Non ti descriverò com’è fare sesso con una donna Sherlock, non ci pensare neanche.” John fu categorico. Sherlock fece spallucce.

“Beh se non vale la pena farlo, come immaginavo, mi sta bene.”

“Lo troveresti noioso, credimi.”

“Quindi è stato noioso.”

Affermazione.

John non avrebbe trovato aggettivo migliore, ma si sforzò di non dargli troppa ragione.

“Diciamo che non è niente di speciale.”

Non era mai stato speciale, mai lo sarà e mai lo diventerà, pensò John. Era solo un ripiego, qualcosa che sì, lo eccitava all’inizio, ma che non sarebbe durato a lungo. Lo fece solo perché nessun altro ragazzo o uomo che aveva visto in quei due anni lo affascinava e interessava come Sherlock lo affascinava e gli interessava.
La sua mente attivava subito il paragone quando cercava un ragazzo da abbordare. Ai suoi occhi erano tutti così piatti. Vuoti. Spenti. Comuni. Fotocopie che negli occhi non avevano nulla.
Non ci vedeva niente John, che era invece abituato a Sherlock, alla creatura più complicata e coinvolgente che poteva mai sperare di incontrare, la persona più brillante su cui mai aveva posato gli occhi.   
A volte, quando la notte era passata e stringeva il corpo di Florence tra le sue braccia e vedeva quella pelle morbida e nuda al suo fianco non poteva fare a meno di tormentarsi con una domanda: perché non è Sherlock?
Perché non c’è lui qui al mio fianco, dannazione.
E così lo immaginava.
Immaginava i ricci scuri di Sherlock sulla sua spalla al posto di quelli rossi e lunghi che vedeva. Immaginava le labbra di Sherlock, carnose e morbide a sfiorargli la guancia mentre dormiva. Il suo respiro sul suo collo.
Ogni piccolo particolare, ogni possibile sensazione. Immaginava addirittura il profumo e la lucentezza della pelle di Sherlock che Florence non poteva neanche sognare di avere. Ma spesso con scarsi risultati. A volte era anche doloroso farlo e dopo la seconda volta non ci provò più.
Ora guardava quel volto che ricambiava lo sguardo con sicurezza e pensava a tutte quelle cose inopportune in quel momento.

“Volevo proporti una cosa.”

Sherlock poggiò piano la tazza sul tavolo di legno. John temeva che Sherlock gli avesse letto nel pensiero e non sarebbe stata una cosa che lo avrebbe scandalizzato più di tanto, le qualità di Sherlock erano infinite.

Disse “Ascolto” un po’ a disagio dopo i suoi pensieri.

“Devo passare in famiglia due settimane, le ultime di agosto, al cottage in campagna e mi stavo chiedendo se tu eri impegnato in quel periodo in quanto sarebbe davvero una salvezza per me avere qualcuno che non odio intorno. Sai, almeno il tempo potrebbe passare più in fretta. Immagino.”

Sherlock strinse la tazza vuota ma ancora calda nelle sue mani. Temeva una risposta negativa non tanto perché John non volesse, voleva, ma perché avendo un lavoro sapeva che probabilmente non sarebbe stato libero. John ne era contento, tantissimo. La gioia appena lo vide poco prima alla conferenza, la gioia di poterlo riabbracciare. La gioia che provava ora per quella richiesta. Non doveva neanche pensarci a cosa rispondere.

“Non pensavo aveste un cottage in campagna. Sarà divertente.”

“La tua falsa positività è disarmante.” disse Sherlock.  Il suo cuore rabbrividì per la felicità.

“Ma almeno ce l’ho.”

“Beh abbila per entrambi.”

“Dai, la tua famiglia non è così orribile come pensi. E tu non la odi. Forse Mycroft ma comunque è tuo fratello. Non puoi odiarlo.”

“Non li odio, lo sai. Ma …”

“Ti annoiano.”

John sapeva che Sherlock lo pensava e che la noia era la croce che lui doveva portare. Tuttavia la risposta fu diversa.

“Vorrei solo che fossero più come te.” Sherlock lo disse senza neanche rendersene conto. John non sapeva cosa rispondergli.

“Nel senso che … vorrei mi capissero come fai tu. Che non mi assecondassero solo per evitare di discutere con me. Tutto qui. So che mi vogliono bene e non lo metterò mai in dubbio.”

“Non fai male a pretendere certe cose da loro. È solo che a volte dovresti mettere da parte le tue priorità e assecondarli, magari ripagali con la stessa moneta. Prendila così.” Sherlock annuiva.

John gli risolveva sempre ogni dubbio, lo faceva sempre sentire al sicuro e tranquillizzava ogni suo pensiero proprio come aveva appena fatto. Il sorriso dolce che gli stava regalando con quelle parole non lo avrebbe mai dimenticato. Non aveva mai dimenticato neanche un sorriso che John gli faceva. Tutti conservati nel suo palazzo mentale, correlati alla rispettiva situazione. Erano troppo preziosi per perderli.

“John …”

Sherlock lo guardava come si guarda il mare al tramonto e sentiva dentro una calma che gli mancava tanto.  

John rispose piano “Che c’è?”

 “Volevo solo dirti che sei ancora la cosa migliore che mi sia mai capitata.” 
 

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Capitolo 3
*** Agosto ***


Da maggio fino al giorno in cui si videro ad agosto per andare al cottage, Sherlock e John non si incontrarono.
A Sherlock le lezioni all’ Accademia di danza non gli davano tregua e le vacanze non entravano neanche a far parte del vocabolario di un ballerino di quella scuola. Dedicava anima e corpo alla danza ed era migliorato di molto in quei poco più di due mesi.
La sua concentrazione era tutta lì, nella sala da ballo e sulle coreografie da preparare. Intanto John, anche se libero dall’Accademia, continuava a lavorare in libreria. Ebbe tre settimane libere e due le passò in Italia dalle sue due zie che vivevano poco lontano da Venezia. Durante quel soggiorno non resistette a contattare Sherlock per e-mail per dirgli quanto Venezia era incantevole.
“La ameresti. È un peccato che tu non sia qui. Questo paesaggio ti si addice. Solitario ma fiero ed armonioso. Indimenticabile.  Sono sicuro che ad ogni angolo sorrideresti per le bellezze che ci sono. Il pensiero di passare del tempo con te qui o al cottage occupa tutte le mie giornate.”
Mentre scriveva quelle parole si chiese se erano un po’ troppo. Troppo eloquenti. Troppo esplicite. Ma voleva assolutamente che Sherlock capisse quanto era entusiasta e impaziente di tornare a Londra a fine agosto per lui. L’ e-mail continuava così:
“Ti ho comprato anche un regalo. Voglio proprio vedere la tua faccia quando lo vedrai. Ci vediamo presto.”
Sherlock gli rispose con poche parole che a John bastavano.
“Caro John, sono sicuro che avremo l’opportunità di ritornarci insieme in questa città che a quanto pare ti ha stregato. E per quanto riguarda il regalo ti ringrazio, ma tu mi basti. Mi annoio a non assillare nessuno qui. Torna presto. Ci vediamo il 18 agosto che spero faccia in fretta ad arrivare.”  
Torna presto.
I significati meravigliosi che ha questa frase: vieni da me; vieni presto perché senza te non è poi così bello stare; voglio che stai con me; si sente che non sei con me e questa cosa non mi piace; ritorna da me; mi manchi.  
Poteva immaginare la voce scura e gentile di Sherlock dirglielo piano all’orecchio.
A quelle due parole John sorrise perché non molte persone potevano vantarsi di mancare a Sherlock Holmes e lui era una di queste, forse addirittura l’unica.
Era un altro modo per dirgli che gli voleva bene, era ovvio, sentiva che era così.
Ce ne sono tanti di modi per dirlo e per John quello divenne speciale.

Quel venerdì 18 agosto arrivò prepotente come  la prima aria fresca di fine estate. Soprattutto in campagna, l’aria in quel periodo era sempre più frizzante e la notte addirittura fredda a volte ma la maggior parte delle giornate erano soleggiate e piacevoli comunque, proprio come quella in cui John e Sherlock arrivarono al cottage.
“Q – questo non è un cottage, Sherlock. Questo è … è …”
John scese dalla macchina non essendo mai stato così sorpreso in vita sua. Reggeva la sua valigia nella mano destra. La sinistra Sherlock gliela afferrò in procinto di condurlo sul vialetto d’entrata, ma non si muoveva ancora.
 “Diciamo che chiamarlo castello è un po’ eccessivo se ci pensi, è un cottage a tutti gli effetti. Solo un po’ più grande.”
Sherlock lo disse felice di vedere la meraviglia dentro gli occhi di John che gli sorrise ancora incredulo.
“Signor Watson, la valigia prego.”
L’autista scese dell’auto e con un cenno del capo prese la valigia che John teneva in mano.
“Oh, grazie.”
Non era di certo abituato a certe cose. Era stato a casa di Sherlock a Londra, una villetta a due piani davvero deliziosa, lussuosa ma non troppo.
I genitori di Sherlock anche se benestanti erano persone semplici che non ti mettevano a disagio.
Sherlock aveva ereditato il suo portamento sempre elegante da loro, una compostezza nel parlare e semplicemente nel modo di essere che non tutti avevano e che di sicuro distingueva tutti i membri della famiglia Holmes.
Tuttavia John sentiva che poteva essere se stesso, anche se meno affascinante ed elegante, anche se non al loro livello. Ma quella specie di castello quasi fiabesco lo mise in difficoltà stavolta.  Si incamminarono per il vialetto d’entrata. Sherlock ancora gli stringeva la mano. Gliela lasciò solo davanti alla porta che aprì piano. Quel piccolo gesto, lo stringersi la mano, era così intimo ma entrambi lo sentirono come la cosa più naturale di sempre.  “Prego, entra” gli disse Sherlock seguendo le parole con un lieve gesto della mano. John entrò.
L’interno era all’altezza dell’esterno.
Uno spazio immenso occupava quel piano. Era composto da una grande cucina e un enorme salone con un divano, poltrone grandi, due librerie infinite che arrivavano fino al soffitto. Un odore di dolci alla vaniglia e tè caldo. Parquet a terra che riscaldava l’ambiente dalle pareti elegantemente panna. Lo stile era semplice ma piccoli dettagli come oggetti strani, provenienti da chissà dove attiravano l’attenzione e ti facevano sentire che tutto il mondo era racchiuso lì dentro. Tutto il mondo poteva stare lì dentro. Ad esempio, c’era un tappeto damascato che occupava tutto il salone. Era bellissimo, dai colori accesi che mai John aveva visto.
“Viene dall’India. Mio padre lo comprò durante un viaggio di due settimane per lavoro.”
John si voltò verso Sherlock che si tolse la giacca rimanendo in quella sua camicia bianca che gli calzava a pennello.
Le sue iniziali ai polsi, SH blu scuro affianco ai piccoli bottoni.  
Tutte le sue camice erano fatte su misura e John lo sapeva benissimo.

Diverse volte durante gli anni del liceo quando andava a casa di Sherlock per studiare e farsi aiutare fondamentalmente nelle materie scientifiche, un sarto veniva almeno una volta al mese a prendergli le misure e fargli scegliere il modello, il colore e la rispettiva giacca e pantalone da abbinare.
Lui guardava quella scena con piacere pensando se fosse un caso che ogni volta che accadeva lui si trovava lì o se Sherlock organizzava tutto in modo da far coincidere le cose. John però a quel dubbio non ci pensò più ma era esattamente così, era un piano di Sherlock.
Lui vedeva come John lo guardava mentre posava per il suo sarto e non voleva rinunciare a quello sguardo ardente, desideroso che John non era capace di nascondere. Il tutto non durava più di una quindicina di minuti. Sherlock era una persona sicura di quello che voleva e i suoi gusti erano semplici, essenziali e guardare quei completi una volta finiti addosso a lui, ad ornargli la sua slanciata figura era un piacere per gli occhi a prescindere, che tu lo trovassi attraente o no.
Era come le cose belle e basta, le guardi e sai che i tuoi occhi stanno vedendo uno spettacolo.
Dopo tutti quegli anni per John era ancora così.

Il rumore di piccoli tacchetti sul parquet lo distrasse da Sherlock che sedendosi su uno sgabello affianco all’isola della cucina prese un biscotto fumante dal vassoio appoggiato su quel marmo bianco e grigio.
“John …”
Una piccola figura si avvicinò a lui con le braccia allargate.
“Ne è passato di tempo.”
La Signora Holmes gli andò incontro e gli diede un abbraccio caloroso, pieno di affetto che lui non si aspettava affatto.
Le poche volte che aveva incontrato la madre, più di quante aveva incontrato il padre, una stretta di mano era stata più che abbastanza.
Stavolta sembrava diverso. Era diverso. Questa volta non erano incontri per studiare come al liceo, il che ai suoi tempi riempiva il cuore della mamma di Sherlock di gioia in quanto il suo particolare figlio aveva un amico, ma era una circostanza che avrebbe richiesto qualcosa di più a lungo termine e forse finalmente Sherlock si sarebbe goduto i suoi venti anni divertendosi con un amico.
Ecco perché alla Signora Holmes ridevano anche le orecchie.
“Già, dal liceo. È un piacere rivederla. La trovo stupenda esattamente come due anni fa.”
Lei gli stringeva le mani nelle sue.
“E tu sei sempre un gentiluomo.”
Gli sorrise dolcemente.
“È bellissimo averti qui John, così almeno Sherlock avrà un motivo in meno per lamentarsi.”
Lei buttò un’occhiata al figlio che la ignorò continuando a scegliere il prossimo biscotto da addentare.
“Lo terrò occupato.” Disse John sorridendo.
“Semmai il contrario. Sono sempre stato io a prendere l’iniziativa. Musei, mostre, cinema il venerdì sera, librerie da visitare dopo scuola. Sempre io a proporre.” Precisò Sherlock masticando rumorosamente.
“Questa sarà la mia occasione per rimediare allora.”
John non sapeva da dove tirava fuori tutta quella sicurezza e prontezza e lo guardò mentre lui ricambiò lo sguardo curioso, dando un morso a quei deliziosi biscotti appena preparati dalla madre.
“John Watson.”
Una voce bellissima fece capolinea dal corridoio che dava sul salone e sulla cucina. In un completo blu notte impeccabile il padre di Sherlock gli rivolse un sorriso e una mano grande da stringere e John lo fece con sicurezza.
Aveva sicuramente più freddezza rispetto alla moglie ma era una brava persona. Lo si vedeva dagli occhi.
E questa cosa l’aveva ereditata anche Sherlock.  
“Salve Signor Holmes.”
“Spero che il viaggio sia stato piacevole e che mio figlio non ti abbia annoiato raccontandoti di quanto i suoi genitori saranno una piaga durante questa breve vacanza precisando che sarà meglio ignorarli.”
Il volto segnato da molte più rughe di quanto ci si aspetta da un uomo della sua età si piegò in un sorriso sarcastico rivolto al figlio.
Quei due erano così simili.
“Non sarebbe qui se glielo avessi detto, non credi papà?”
“John sarebbe qui invece. Pur di accontentarti e stare con te, lui ci sopporterebbe.”
John arrossì.
La mano di Sherlock si fermò a mezz’aria e il biscotto quasi gli cadde.
John sentì una mano grande, con gesto paterno appoggiarsi sulla sua spalla.
“Spero che trascorrerai delle belle giornate qui.”
John sbatté le palpebre un paio di volte come per riprendersi cercando di realizzare le parole del padre di Sherlock.
“Sono sicuro che sarà molto bello e vorrei ringraziarvi per l’invito, è stato molto gentile da parte vostra.”
“L’ idea è stata di Sherlock. Ci ha quasi pregato in realtà anche se non c’era motivo di dirgli di no.”esordì la Signora Holmes.
Sherlock deglutì nervoso.
“Okay, basta così, abbiamo finito con i convenevoli. Vieni John, ti mostro la tua camera.”
E Sherlock lo afferrò in fretta per il polso e salirono la larga scala che conduceva ai piani superiori. John sentì la madre ridacchiare.
Si domandò se tutto quello era successo davvero o era un sogno. Un incubo forse. Ma la domanda decisamente più seria e che lo affliggeva era: i genitori di Sherlock sapevano della sua omosessualità?
Sembrava sospettassero qualcosa comunque.

Salito l’ultimo gradino, davanti a loro si apriva un enorme salone, moquette chiara soffice sotto i loro piedi, due lampadari enormi e brillanti che il sole faceva sembrare stelle e una sfilza di libri che non finiva mai con comode poltrone per leggere e un paio di tavoli con vasi e fiori coloratissimi.
Sulla sinistra quella grande sala sfociava in un lungo corridoio con due porte da un lato e due dall’altro e terminava con una statua di origine greca probabilmente, che riempiva tutta la parete; colse subito l’attenzione di John.
La illuminavano due faretti di luce gialla che accentuava le ombre sui muscoli di quella nuda figura maschile simile al Donatello di Michelangelo.
La posa era molto simile e la bellezza di quel volto incantava John tanto quanto quella di Sherlock che ancora gli stringeva il polso. Allentò la presa appena raggiunsero l’ultima camera proprio affianco a quell’adone.
“Un regalo di mio padre a mia madre; lei è fissata con l’arte classica. L’ha comprata da un collezionista in Grecia.”
Gli erano davanti, ammirando il marmo bianco e puro.
“È bellissima.” Disse John con un sospiro.
“Fino a poco tempo fa dei critici d’arte supponevano che questa fosse l’originale di Michelangelo e che il David fosse una copia. Le voci però furono subito smentite per non creare il caos. Immagina se fosse vero. Immagina se questa fosse un Michelangelo e noi non lo sapremo mai.”
“V- vuoi dire che … che forse questa … Oh mio Dio.”
L’ adrenalina nel sangue John la sentì scorrere in ogni angolo.
“Per te che frequenti un’Accademia d’Arte è una bella emozione immagino.”
Sherlock gli sorrideva contento di rendere John così eccitato, felice e sorpreso.
Probabilmente viveva per vederlo così.
“Beh, so che magari non è così ma … comunque è una manifattura pressoché perfetta. Noi al laboratorio ancora non utilizziamo il marmo, sarebbe uno spreco nelle nostre mani incerte e troppo giovani. Ma all’ultimo anno i migliori hanno l’opportunità di farlo, di provare a creare una scultura del genere. Non vedo l’ora.”

John protese una mano verso le dita affusolate che sfioravano la coscia sinistra di quel Dio immobile.
Si fermò subito pensando che forse non era una buona idea se c’era anche solo una piccola possibilità che quello fosse un Michelangelo, e la sua mano rimase a mezz’aria esitante.
“Puoi toccare, non preoccuparti.”
Piano Sherlock avvolse le sue dita nella mano esitante di John e la condusse verso quella della statua. I polpastrelli di John sfiorarono quella pelle diafana e fredda e piano piano il tocco si rafforzò grazie alla pressione che Sherlock gli imponeva.
Fece salire le dita fin sopra il braccio, la spalla ed era sempre la mano sicura di Sherlock a guidarlo fino al petto, poi su sul collo.
Sherlock guardava il viso rilassato di John, quelle labbra socchiuse e le pupille dilatate mentre con la sua mano conduceva quella di John, piano, scivolava sulle labbra dure di quel giovane.
Il pollice di John le accarezzò e disse:
“Una meraviglia. Sembrano calde, vere.”
Sherlock non distoglieva lo sguardo da John, non poteva, non voleva.
“Bisogna usare un bel po’ di immaginazione però John …”
John si voltò verso di lui.
Le loro mani ancora calde le une nelle altre.
“La sto usando infatti.”
E quello che immaginava John andava ben oltre il semplice pensare che quelle labbra bianche e morte fossero vive e pronte a un bacio.
Toccava le labbra di quella statua e immaginava di toccare quelle di Sherlock. Per un attimo pensò di farlo sul serio, usando l’altra mano che si chiuse in un pugno al solo pensiero.
Dopo un attimo di silenzio Sherlock lasciò la mano di John perché sul serio pensava che se quella situazione fosse durata anche solo un secondo in più non si sarebbe più trattenuto.
“Questa statua era uno dei principali motivi per cui volevo farti venire qui. Sapevo che ti sarebbe piaciuta. Magari puoi provare a farne un ritratto, sarebbe bello avere qualcosa di tuo qui e poi potremmo appenderlo su una parete di questo corridoio.”
“Sarebbe carino, buona idea.”
Si sorrisero con ancora il battito accelerato.
“Ora ti mostro la camera.”  
Sherlock poggiò la mano sul pomello della porta, la aprì e un profumo di pulito li avvolse quando entrarono. John subito notò la valigia affianco al letto matrimoniale, davanti a loro al centro della camera.
“La mia valigia è già qui …”
“Sì, l’autista e i camerieri passano per il retro dove c’è il garage e la seconda entrata della casa dove le scale conducono a tutti i  piani.”
“Ah okay. Siete organizzati.” prese la valigia posandola sul letto.
“Questa camera è bellissima, probabilmente il doppio della mia.”
“Sono felice che sia di tuo gradimento. Il bagno è quello.”
Sherlock indicò la porta bianca sulla sinistra.
“E se hai bisogno di qualcosa con quello puoi chiamare Andrew, il nostro maggiordomo.”
John rise guardando il telefono sul comodino.
“Me la cavo da solo, lo sai.”
Sherlock fece spallucce.
“Era solo nel caso tu volessi  provare il brivido della colazione a letto.”
“Potrebbe essere interessante.”Ammise John.
 “So che non sei abituato a questo, ma non esitare.”
Sherlock si avvicinò a John che intanto si era seduto sul letto.
“Due mesi fa, alla conferenza, eri molto stressato e stanco, l’ho capito. Voglio solo che tu possa rilassarti durante queste due settimane, coccolarti un pò e non pensare al lavoro o alla scuola. Te lo meriti.”
Lo sguardo di Sherlock gli si stampò nel cuore e si alzò per abbracciarlo.
“Allora non mi volevi qui solo perché ti servivo a distrarti ma veramente vuoi che io mi goda una vacanza.Smetterai mai di sorprendermi Sherlock Holmes?”
Ad un tratto le braccia di Sherlock lo avvolsero.
“Mai, Signor Watson.”
Quell’abbraccio li fece incollare l’uno all’altro e a tutto pensavano tranne che staccarsi.
Ma le circostanze lo richiedevano.  A prescindere da ciò che poteva nascere tra loro l’abbraccio di un amico era sempre bellissimo.
“Metto in ordine i vestiti e le mie cose ora.”Disse John aprendo la valigia.
“O- okay, ti aspetto giù.”

Sherlock si sentiva benissimo, contento, felice addirittura e tutto ciò che una persona innamorata poteva sentire.
Ma lui non lo capiva ancora bene.
Scese in cucina dove la madre e il padre sorseggiavano del tè sul divano in pelle. Aprì il frigo per prendere da bere per lui e John.
Sorrideva.
E la cosa non passò inosservata.
“Allora, caro. Andate a pranzo fuori?” Il tono della  Signor Holmes era eloquente.
Si alzò e si avvicinò al figlio scrutando meglio il suo viso per assicurarsi di non aver visto male. Sì, il sorriso c’era.
“No mamma. Hai cucinato e non penso che il cibo in frigo  e nel forno sia un ologramma quindi le domande inutili evitiamole. Voi?”
Sviò l’argomento. Capì che la madre voleva sapere qualcosa. La Signora Holmes alzò gli occhi al cielo ma non si arrabbiò essendo abituata al tipo di risposte come quelle da parte del figlio.
“Sì, noi stiamo per uscire. Infatti ora vado a preparami. Henry ti aspetto fuori in veranda.”
E così si congedò. Sherlock non era stupido, tramavano qualcosa quei due. E infatti poco dopo il padre esordì:
“Allora, che ne pensa John della sua camera?”
Sherlock poggiò la tazza di tè freddo e i biscotti per John sulla cucina.
“Vuoi iniziare una conversazione su John. Mamma ha detto che devi farlo. Va bene. Ma non capisco il perché.”
Sul serio non lo capiva.
La sua mente aveva cestinato l’opzione di fare “quel discorso” con i genitori perché non penava che loro potessero pensarlo, capirlo, affrontarlo.  Henry sospirò.
“Anche se sapevamo che l’avresti capito abbiamo fatto un tentativo.”  Disse poggiando la tazza fumante sul tavolino di fronte e si alzò lentamente. “John è un bravo ragazzo. Vogliamo solo ...”
“E’ mio amico. Nient’altro.”
A Sherlock si seccò la bocca, la gola.
Non poteva affrontare ora l’argomento, non con John in casa, non ora che le cose stavano andando bene e secondo i piani e finalmente era pronto a provare qualcosa.
Sentire.
Non voleva avere anche il pensiero di cosa sapessero o volevano sapere i genitori nella testa. Non avrebbe mai voluto ritrovarsi come si ritrovava ora, faccia  a faccia con il padre a spiegargli i suoi sentimenti, a dare spiegazioni, giustificazioni, rassicurazioni,  a sentire le mani fredde e nervose.
A sentire la paura.
Per la prima volta aveva una paura devastante e non sapeva neanche lui come riusciva a stare in piedi in quel momento. Ma perché quella stretta allo stomaco? Non  voleva.
Ti prego papà, basta, supplicava dentro di sé.

Solo paura.

 Paura di mostrarsi per quello che era, dirlo ad alta voce per rispondere a quella presunta domanda che si aspettava di lì a poco.
Magari doversi giustificare. Promettere di pensarci. Ma pensare a cosa? A cambiare sé stesso? A mutilare una parte di sé solo perché non era condivisa dai suoi genitori? Costringersi a non sentire certe cose, proprio adesso; il calore dell’amore, le aspettative della speranza, la voglia di un futuro insieme  al suo John. La passione per un corpo troppo simile al suo. Era davvero sbagliato tutto questo? Può il senso di ciò che sei destinato a provare per qualcuno essere diverso solo perché quel qualcuno è come te fuori? Solo per questo particolare legato ad un fatto esterno, oggettivo che non avrebbe dovuto importare.
Come?
Come potevano le persone anche solo rispondere un sì a queste domande. Tuttavia a lui delle persone non importava. Ma se quelle persone fossero state anche i suoi genitori, non lo avrebbe potuto ignorare tanto facilmente. Il padre lo guardava dolcemente ma quello sguardo poteva nascondere compassione e delusione e Sherlock non si fidava mai di sguardi del genere.

“Sherlock, tu guardi John esattamente come io guardavo tua madre proprio a vent’anni. Come a cercare di far appoggiare delicatamente un velo di protezione su di lui. Come se volessi che niente di brutto lo toccasse. Come se … fosse il solo pezzo di questo mondo che vorresti dichiarare tuo, e basta. Per amarlo, nutrirlo, renderlo sempre luminoso e forte. E tua madre se lo merita tutto questo proprio come tu pensi che John lo meriti. Perché ti viene spontaneo. E non è assolutamente sbagliato, figlio mio.”
Sherlock cercò di negare tutto, ma balbettava, inciampava nelle parole.
“No .. insomma, papà, noi … io poi no so esattamente …”
“Non dubitarne, Sherlock. Non avere paura di sentirlo perché noi, io e tua madre, non fermeremo mai qualcosa di così bello. Non sorridevi così da troppo e ci ha fatto male pensare che tu ti frenassi a causa della nostra opinione. È una cosa tua, non nostra. Sarà nostra nel momento in cui avrai bisogno di noi. Se mai ne soffrirai, e spero sinceramente che non accadrà, noi saremo qui.”
Sherlock annuì capendo le parole sagge del padre che lo toccarono nel profondo, confortandolo.
Ma il nervoso non passò e l’imbarazzo prese il sopravvento.
“Papà io e John, per ora, non  …”
“Non devi spiegarmi nulla. Ciò che c’è da capire è nei tuoi occhi buoni e sinceri. E sono orgoglioso di avere un figlio capace di provare sentimenti così belli, come li ho provati anche io per la persona che amo da trentacinque anni. Non perdere mai queste sensazioni. Promettimi che qualsiasi cosa vi accada, ricorderai come lo guardi ora. Conserva questo sguardo. Promettimelo.”
“Sì. Sì, te lo prometto.”
“Bene. Ora và, non farlo aspettare.”
Sherlock sentì le guance accaldarsi e sorrise nervoso.
“Okay” sussurrò e sparì su per le scale.
Il cuore gli batteva esasperato e arrivato in cima si rese conto di aver detto a John che lo avrebbe aspettato giù, mentre ora era lì. Respirò. Si sedette su una delle poltrone  e si calmò.
Il padre era stato pressoché perfetto, neanche una parola fuori posto e a Sherlock sinceramente non interessava se lo avesse preparato prima quel discorso o se fosse spontaneo, andava bene così, ne era felicissimo.
“Cos’è quel sorrisetto, Sherlock?”
Alzò la testa e vide il fratello avanzare verso di lui piano.
“Niente che ti possa interessare caro fratello.”
“Non ne dubito.”
Sherlock non capì se c’era del sarcasmo in quella frase e negli occhi di Mycroft che pareva sapere qualcosa della conversazione appena avvenuta con il padre. Non chiese, sarebbe stato un suicidio. Un consegnarsi alle grinfie del suo peggior nemico. Si limitò a dire:
“Quando sei arrivato?”
“Poco dopo te e John. A proposito, ti cercava. Pensavo tu stessi al terzo piano, in sala, e l’ho mandato lì.”
Sherlock si alzò dalla poltrona e con passo svelto superò il fratello.
“Sarà meglio se lo raggiungo.”
Mycroft lo fermò prendendolo per il braccio.
“Non ne sono sicuro ma se il tuo cuore ha finalmente o sfortunatamente deciso di funzionare di nuovo,  non lo sprecherei riempiendolo di affetti e carinerie per quel tuo indifferente, monotono, stupido, testardo … amico.”
L’ultima parola la disse con così tanta amarezza che sembrava stare male.
A Sherlock gli si gelò il sangue nelle vene.
“Di certo non lo sprecherò cercando di trovare anche solo un briciolo di interesse o apprensione in queste tue fraterne  parole. Tranquillo, per te non ci sarà mai spazio lì dentro.”
Strattonò il fratello e continuò a camminare.
I nervi a fior di pelle lo fecero quasi voltare per dare un pugno a quell’essere spregevole che lo guardava tranquillo, ma lasciò stare. Non avrebbe concluso niente, anzi. Era quello che il fratello si aspettava.
“Ti distruggerà. Non cedere, Sherlock. Non farlo rientrare nella tua vita solo perché sei solo.”
“La vedi dalla prospettiva sbagliata Mycroft. Non ho paura della mia solitudine perciò non mi serve John. E poi non sono solo.”
Lo disse quasi arrabbiato come quando si dice una bugia che si è convinti sia una verità.
Mycroft rimase muto ma Sherlock sentiva il suo sguardo pesante e rumoroso, come se gli stesse trapanando la testa.
“Lo sei invece. Comunque, ora ho un lavoro che non mi permetterà di avere del tempo per te. Non starò lì a ricomporre i tuoi pezzi.
Non di nuovo.”
Mycroft lo disse come una minaccia.
A Sherlock mancò il respiro e si fermò per qualche secondo non riuscendo a controllare i passi.
Non di nuovo.
Come se il lavaggio del cervello di quanto le emozioni fossero controproducenti e irrilevanti fattogli dopo il liceo lo avessero aiutato. Sherlock perse John e aveva solo 18 anni. Lo perse perché lui tende a drammatizzare sempre tutto. Perdere è un verbo troppo forte ma sembrava la verità assoluta per lui che non aveva nessuna speranza di poter incrociare ancora la  sua vita con quella di John, pensava che sarebbe finita lì, che era la prassi perché tutti si abbandonano dopo il liceo e aveva vissuto con quella pesante consapevolezza sino al primo giorno che capì, guardando John negli occhi, che lo avrebbe perso in quel modo così ingiusto, per una decisione non sua ma della vita, delle circostanze, dei doveri. 
Dopo quel bacio davanti alla scuola era convinto che sarebbe stata l’ultima volta che avrebbe condiviso del tempo con il suo John e la delusione lo fece internare nella sua camera per settimane, non trovando più interesse in quello che amava.
Nei giorni più bui fumava delle sigarette che rubava dal fratello maggiore e tutto ebbe inizio e fine un giorno d’inverno, poco dopo Natale, quando Mycroft lo sgamò a frugare nei cassetti della sua camera dove Sherlock sapeva benissimo che nascondeva le sue distrazioni di nicotina.
“Sherlock, per l’amor del cielo …”
Sherlock sobbalzò alla voce del fratello che sbatté il cassetto chiudendolo.
“Non te la ridò.”
Non era un tono di sfida o dispettoso. Era un tono esausto, spezzato da un sospiro, rassegnato.
Mycroft guardò gli occhi rossi del fratello, le mani tremanti, la pelle più bianca del solito. Era giù che più giù non si poteva e decise di stabilire una sorta di tregua tra loro due fin quando Sherlock non sarebbe stato meglio e avesse dimenticato John.
Così, gli fece un discorso su quanto l’amore sia l’unica cosa al mondo capace di cambiare una persona fino a far rimanere di lei solo la parte meno dignitosa e frivola. Gli diceva come quel sentimento sia solo un difetto a cui tutti prima o poi dovevano desistere.
Ma non lui, lui non doveva diventare l’ombra che un amore spezzato fa diventare una persona perché lui era suo fratello, era Sherlock Holmes.  “Sherlock, ogni singola parola che ti ho detto devi prenderla come un mantra. E riuscirai a dimenticare. Resettare. Congela quella parte di te, e potrai controllare di nuovo tutto. Ho fiducia in te, so che ce la puoi fare.”
Al tempo di questa discussione erano nella camera di Mycroft con due tazze da tè strette nelle mani, uno di fronte all’altro con le gambe incrociate seduti sul letto. Come se fossero due fratelli che parlano e si confessano le loro cotte per la ragazza più bella del liceo. Ovviamente non era così; anche se desideravano con tutto il cuore che lo fosse.
Essere normali. Provare cose normali. Ma non ne erano capaci, ed erano arrivati alla conclusione che non ne sarebbero mai stati capaci.
 “Non lo dimenticherò, Mycroft. Non è così facile e so che non puoi sapere com’è ma … credimi, certe cose non si dimenticano.”
Così gli aveva risposto. “Ma durante questi mesi mi hai aiutato e sono più lucido. Consapevole. Ed hai ragione: soffrire non porta vantaggi. Non ti libera. Tutto quello che devo fare ora è ignorare. Mi hai aperto gli occhi e te ne sarò sempre grato. Ma promettimi che non riapriremo mai più l’argomento.”
“Sono contento che hai deciso così. Non ne parleremo più.”

Da quel giorno Sherlock sorrideva così raramente e aveva addosso un alone di dolore che i suoi genitori non erano mai stati capaci di scalfire e semplicemente pensavano che loro figlio era una di quelle persone che erano nate così, con la “tragedia nel sangue” e destinate al peso della troppa intelligenza e quindi sofferenza.
Una mera condizione di persone che si sono rassegnate alla loro natura, quella natura di disadattati e incompresi che portavano dentro un mondo che mai faceva entrare o uscire luce.

Ora, nella bella luce che illuminava tutto il cottage Mycroft gettò di nuovo quell’ombra su di lui che ricordò tutto, tutto quello che ogni cellula del suo corpo aveva patito e sopportato e poi superato grazie al fratello. Ma le cose erano cambiate, John era lì e tutto gli sembrava così giusto che la possibilità che potesse di nuovo abbattersi come fece due anni fa era pari a zero nella sua mente. Ma ora Mycroft aveva scagliato quella freccia e aveva fatto centro, perfettamente.
Sherlock tuttavia non ripose e ingoiò la pillola pensando solo di raggiungere John.

Arrivò davanti alla grande porta della sala da ballo, sospirò, si ricompose ed entrò. Sono passati due anni, si ripeteva, sto bene e sono pronto. John stava rovistando tra le sue cose all’angolo dove aveva le scarpette, la borsa, lo stereo e tutti i cd con canzoni e basi che utilizzava per coreografie o nel caso delle più rilassanti per riscaldarsi.
“John?”
I passi di Sherlock erano pesanti sul parquet. John si voltò, era in ginocchio, e si alzò.
“Non dovresti vedere questi cd, dannazione.”
Sherlock glieli strappò letteralmente da mano.
“Scusa. Ero solo curioso.” Ammise John.
Sherlock gli sembrava piuttosto nervoso.
“Va tutto bene? Mi sembri un po’ pallido. Hai incontrato tuo fratello, scommetto.” Rise divertito e Sherlock si sforzò  a fare lo stesso.
Cambiò subito discorso.
“Bella la sala da bello, vero? L’ho fatta fare in questi mesi, sono stati veloci.” John annuì.
“I quadri sono molto belli e devo dire che il bagno … wow, sembra uscito da un hotel a sei stelle luxury. Niente male.”
“Forse ho preteso un po troppo.” Sherlock posò i cd affianco allo stereo e li sistemò per bene.
“Avevi intenzione di … farmi vedere qualche cosa qui?” chiese John e si avvicinò inaspettatamente a Sherlock che alzandosi lo sfiorò.
“Perché dovrei?”
“Perché io vorrei.”
Si guardarono carichi di aspettative. John sapeva sedurre con un solo sguardo.
“Avevo in mente una cosa e stavi quasi per sgamarmi, se non lo hai già fatto.”
“No, non l’ho fatto. Sei tu quello intelligente e portato per la deduzione.” John sorrise e poggiò il suo sguardo sulle labbra di Sherlock che si concentrò sulla frase da pronunciare e non sulla voglia di baciarlo.
“Dovremmo andare a pranzo.”
Disse e si avviò verso l’uscita. John ne rimase deluso, arrabbiato e confuso. Era un momento perfetto. Giusto. Ma non per Sherlock evidentemente.

Infatti Sherlock aveva in mente ben altro per il momento in cui le sue labbra avessero  di nuovo toccato quelle di John.
Era una cosa di vitale importanza per Sherlock e mai avrebbe permesso che baciarlo sarebbe accaduto in circostanze non ottimali e giuste. Un po Sherlock non voleva programmare una cosa del genere, non voleva che la logica e la sua necessità di controllo macchiassero una cosa così bella e che di solito è spontanea, che ti prende e ti sconvolge ma lui non poteva sottomettersi al caso. Non voleva. Comunque, era sicuro che in qualsiasi modo sarebbe successo, sarebbe stato giusto lo stesso. Ne sarebbe valsa la pena lo stesso.


Pranzarono e quella tensione che John aveva sentito da parte di Sherlock era già passata. Aveva cucinato la madre di Sherlock e tutto era squisito. Erano seduti uno di fronte all’altro al grande tavolo di vetro che fronteggiava la cucina. Assaporavano le delizie della cucina della Signora Holmes e parlarono di molte cose tra cui la famiglia di John. Quando toccarono l’argomento Sherlock cercò di sviarlo sapendo la delicatezza del discorso ma John invece continuò tranquillo.
“Mio padre e mia madre non la accetteranno mai ma mi sembra che lei se ne sia fatta una ragione. So quello che prova eppure ogni volta che cerco di parlarle e affrontare il discorso si arrabbia e finiamo a litigare.”
“Quando è stata l’ultima volta che l’hai sentita?”
John finì il vino nel suo bicchiere e lo riempì ancora.
“Dalla conferenza a maggio in accademia. Venne prima che iniziasse giusto per salutarmi poi doveva scappare a lavoro.”
“Ha ancora il ristorante a Baker Street vero?”
“Sì e va anche molto bene. È l’unica cosa che la fa andare avanti effettivamente. Mia sorella è sempre stata una che si immerge troppo nelle cose e la cucina l’ha presa proprio sul serio. Passa giornate intere lì, una stacanovista.”
“Mi farebbe davvero piacere conoscerla un giorno. Sembra una persona interessante anche se irascibile e neanche capace di aprirsi al fratello riguardo alla sua omosessualità che in teoria dovrebbe essere qualcosa che vi unisce, che vi dovrebbe far contare sempre l’uno sull’altro anche perché i tuoi genitori hanno avuto la stessa reazione con te e puoi capirla.”
John fece spallucce.
“Ricorda, è una donna. Chi la capirà mai.”
John rise divertito ma Sherlock non avendo bevuto non aveva lo spirito di ridere a battute scontate ma si sforzò per assecondare John.
“Non dovresti bere così tanto John. Non ti godrai la gita ai miei splendidi alveari.”
Sherlock si poggiò allo schienale della sedia guardando il viso arrossato di John che però reggeva bene l’alcool anche se non sembrava.
“Non preoccuparti tesoro, non sono ubriaco. Una passeggiata mi farà bene.”
Alla parola tesoro Sherlock rise con gusto stavolta.
“Tesoro? Sei serio? Dai, aiutami a sparecchiare e a lavare i piatti.”
Disse e si alzò iniziando a togliere di mezzo la bottiglia di ottimo vino rosso di cui il padre ne conservava parecchie in cantina.
Sherlock sapeva che non avrebbe fatto storie se ne avesse presa una per John.
“Agli ordini.” Rispose John.

Fecero in fretta e Sherlock iniziò a spazzare in cucina. Era un po’ maniaco del pulito e dell’ordine e quello era il giorno libero delle cameriere quindi ne approfittò per godersi il brivido delle faccende di casa. Sherlock Holmes era la persona meno prevedibile del mondo sulle sue preferenze e hobby, bisogna ammetterlo. John se ne stava in piedi appoggiato al muro con le braccia incrociate a guardarlo. Sorrideva.
“Saresti un’ottima moglie, Signor Holmes. Maneggi la scopa egregiamente.”
“Smettila John con questi doppi sensi gratuiti e piega la tovaglia.” Disse Sherlock serissimo.
John però voleva divertirsi un po’ e il calore del vino alle tempie lo aiutava. Si posizionò dietro Sherlock e lo abbracciò seguendo i suoi movimenti. “John, così finirò domani. Mi sei d’intralcio”
Sherlock si fermò sentendo il calore del corpo di John aderire alla sua schiena. L’aria tiepida che entrò dalla finestra lo fece accaldare ancora di più. Gli piaceva. Un intralcio che avrebbe sopportato anche per ore.
“Ti distraggo?”
Sherlock decise di essere sincero e, almeno po’, di lasciarsi andare.
“Sì”
John sentì di aver vinto dal tono basso e dolce di Sherlock.
Non sapeva esattamente cosa aveva vinto; un pezzetto del cuore di Sherlock forse.
“Dai, posa quell’affare.”
John afferrò la scopa e la poggiò al muro.
Ritornò da Sherlock che non aveva il coraggio di contraddirlo o fare qualcosa.
“Vorrei mi insegnassi a ballare un po'.”
John unì le sue mani all’altezza dello stomaco di Sherlock e iniziò ad ondeggiare come se la musica di un lento li stesse guidando.
“Dai tempo al tempo.” Sherlock sussurrò quasi quelle parole e appoggiò le mani sulle braccia di John che lo stringevano un po’ più forte.
Sherlock sentiva un calore fino alle tempie ma non era il vino quello.
Quei piccoli movimenti erano gentili e John sembrava avere ritmo.
“Saresti un buon ballerino John.” John sorrise.

Sherlock se ne accorse perché sentì quelle labbra curvarsi, piano, sul suo collo.
Era una sensazione meravigliosa sentire la gioia di qualcuno in modo così palpabile, sulla pelle.
“So che hai in mente qualcosa, Sherlock. Tra i cd ce n’era uno con delle canzoni che mi erano molto familiari. E la calligrafia, anche quella familiare e ” “Okay, sì hai ragione. Avevo in mente una cosa ma ora non ha più senso attuarla visto che conosci le canzoni. E dobbiamo ringraziare Mycroft che ti ha mandato in sala rovinando tutto. Rovina sempre tutto.”
Il suo tono era più cupo, come lo era sempre quando parlava del fratello e John non voleva che ciò rovinasse il momento.
Iniziò ad accarezzare il petto di Sherlock, piano.
Gli stringeva tra le dita quei pettorali che ricordava meno scolpiti, ma la danza trasformò quel corpo esile e lo stava facendo diventare più forte e desiderabile.
Sherlock si rilassò di colpo, come se una scossa elettrica lo avesse travolto e i muscoli erano ormai alla mercé di quel corpo che aderiva sempre di più al suo. Gli scappò un “Ah…” che non poté evitare.
 Il sorriso di John era ancora sul collo di Sherlock e Sherlock desiderava si fermasse lì per sempre.
Poi però si trasformò in un bacio e le labbra di John fecero pressione gentilmente per più di una volta. Sherlock deglutì.
“John …”
“Non fa niente se la sorpresa è rovinata. Troveremo un altro modo per passare del tempo insieme.”
Quelle parole così vicine all’orecchio di Sherlock gli fecero venire la pelle d’oca. Quello era il suo posto vulnerabile, tra l’attaccatura dei capelli e l’orecchio e John neanche lo sapeva ma lo baciò lì, ancora e ancora, come se lo sapesse.
La testa di Sherlock cadde inevitabilmente all’indietro, la sua guancia sfiorava quella di John.
Qualcosa di umido gli sfiorò lo spazio tra la spalla e il collo e delle dita calde gli spostarono l’orlo della camicia per scoprire più pelle.
Il tocco del respiro di John di certo non aiutava Sherlock a concentrarsi ma comunque riuscì a parlare.
“Ti prego John …”
“Non pregarmi, lo farò con piacere.”
John era perso ormai, lo voleva.
La sua lingua si fece più forte sulla pelle diafana di Sherlock che fu costretto dal piacere a chiudere gli occhi.
John, delicatamente, tolse la camicia dai pantaloni di Sherlock e gli sbottonò con cura la cintura.
“John…”
Un sussurro caldo.
Le braccia di Sherlock caddero lungo i suoi fianchi.
Non sapeva da che parte stare, se con il suo bisogno fisico di lasciarsi andare o con la sua mente che aveva progettato quasi tutto per quel momento che stava accadendo troppo in fretta anche se era bellissimo, era diverso da tutto quello che aveva mai provato.
Era così fisico.
John spostava la sua mano sul suo ventre, su e giù, sfiorando l’orlo dei boxer e scatenò una guerra in Sherlock inerme.
Lo tentava con quelle mani che lo stringevano ai fianchi, che lo spingevano, lo controllavano. 
Nella mente Sherlock aveva solo la sensazione del tocco di John, tutto nero e colorato allo stesso tempo.
Che meraviglia.  
John sbottonò e tirò giù la zip deciso. Le sue dita con piccoli movimenti si infilarono tra quella stoffa pregiata che poteva toccare la pelle di Sherlock sempre, senza chiedere, e quanta invidia aveva per una cosa così stupida.
I suoi polpastrelli sentivano il calore di quel corpo che stava stringendo.
Da sopra i morbidi boxer che avvolgevano Sherlock John si muoveva piano.
Voleva godersi ogni singolo gemito e sospiro di Sherlock che portò una mano tra i capelli di John. Sherlock era perso.
Non trovava la strada di ritorno, non gli interessava neanche più dov’era, era tra le mani di John e come poteva non desiderare quel tocco.
Il tocco lento ma deciso di John perché John era sempre stato così, lento, calmo ma pronto a devastarti, averti. Il suo John.
“Sherlock, sei …sei”
Le dita di John si spostavano con precisione.
John continuava a baciarlo e voleva raggiungere le sue labbra, quelle labbra che da due anni sognava gli sfiorassero la guancia di notte prima di addormentarsi.
“No John, fermo.”
Sherlock si voltò e si liberò dalle braccia forti che lo stavano stringendo ma con cura.
“John, non qui. Non ora.”
Sherlock aveva il fiato corto, le pupille dilatate, un calore nuovo sotto la pelle e nella testa, adrenalina.
John si strofinò gli occhi e la testa un po gli girava già a causa del vino.
“Cosa?”
John non capiva, ovviamente.
Era sicuro di non aver sbagliato nulla, Sherlock era eccitato. 
“Non è il caso.” Disse Sherlock rimettendosi la camicia nei pantaloni.
Aveva la gola secca. Si poggiò alla penisola della cucina per reggersi in piedi. John annuì. Non era il caso perché quella era la sua prima volta e non voleva farla durante una vacanza in famiglia? Voleva qualcosa di più romantico? O semplicemente non era pronto, ecco. Durante la loro amicizia

Sherlock gli aveva spiegato che non aveva tendenze a prediligere certe situazioni intime. Non che John avesse mai provato a fare qualcosa ma si arriva sempre a parlare di sesso con il tuo migliore amico e la posizione sull’argomento tempo fa era chiara: non sentiva il bisogno di certe cose e forse la situazione non era cambiata. John, che cosa stai combinando? Si disse. Era Sherlock, per l’amor del cielo e non poteva pretendere certe cose.
“Mi dispiace, Sherlock. Il vino di sicuro ha una parte della colpa ma non dovevo. Scusa.”
John si sciolse in un sorriso per tranquillizzare Sherlock visibilmente coinvolto nel momento.
“E’ un effetto comune dell’alcool, l’eccitazione. È assolutamente normale, lo capisco. Soprattutto con persone con cui si ha già avuto modo di entrare in contatto fisico in modo intimo o quasi quindi c’è una spiegazione logica ai tuoi gesti. Non sentirti in colpa. L’importante è che ora …ci siamo fermati.”

Dannazione se odiava Sherlock quando faceva quei discorsi dando sempre razionalità ad ogni cosa volendo ossessivamente avere l’ultima parola. Possibile che non abbia provato nulla? Neanche la curiosità di sapere cosa veniva dopo? Ma John non lo chiese ovviamente. Inopportuno e deleterio avrebbe commentato Sherlock, che in quel momento sembrava ancora teso. John lo abbracciò.
“Non stai migliorando la situazione John. La mia erezione ancora non si è calmata e dovresti allontanarti, non attaccarti di nuovo a me.”
John continuò ad abbracciarlo.
“Da quanto ho letto un abbraccio può abbassare il livello di ossitocina nel sangue e se dura più di venti secondi anche migliorare la circolazione e far abbassare la tensione. Hai bisogno di un abbraccio, Sherlock. Quindi sopportami.”
Sherlock rimase zittito e ricambiò la stretta sapendo che era vero.
Lo avrebbe fatto rilassare.
Poggiò il mento sulla spalla di John e sospirò un po deluso della sua scelta ma non poteva proprio ora.
“John, ti dovrebbero fare tascabile, sai, come delle pillole. Ne diventerei dipendente.”
Risero con gusto a quella battuta.
Poi Sherlock sentì che doveva almeno spiegare a John perché si fosse fermato.
Voleva rassicurarlo che il problema non era lui o quello che aveva fatto.
Non voleva giustificarsi ma John non si meritava di essere respinto così anche perché avrebbe fatto male alla sua autostima e Sherlock non avrebbe mai voluto vederlo insicuro anche perché in quelle cose era semplicemente perfetto, sicuro ma sempre dolce e rispettoso.
Strinse le braccia di John e si scostò da lui piano.
“John, volevo solo dirti che non è un ‘no’ categorico. Anzi, ho avuto difficoltà a dovermi fermare e seguire il filo del discorso che avevo nella mente per fermarmi quindi … stavi facendo un buon lavoro, non stavi”
“Cristo Sherlock, non hai un pulsante di spegnimento?”
“Volevo solo …dirti che non devi dubitare delle tue capacità.”
“Non lo faccio tranquillo.”
Sherlock rimase un attimo spiazzato.
“Se non senti che vuoi, va bene.”
John gli accarezzò piano il viso.
“Io sono sempre qui. Anche per quello.”
Sherlock non aveva previsto tanta comprensione in uno come John in quella tematica. Sapeva che quando lo voleva ottenere, ce la faceva sempre eppure ora non sembrava deluso. Perché? Perché non era solo passione. Perché Sherlock per John era importante e non avrebbe mai litigato per una cosa del genere, lo rispettava e mai lo avrebbe messo in condizioni scomode.
Sherlock annuì e sorrise. Come lo tranquillizzava lui mai nessuno, niente poteva avere lo stesso effetto. Poi John riprese a parlare, sguardo basso. “Volevo solo farti sentire cosa si prova se mai tu non avessi… ecco, mai provato certe cose durante questi due anni, se qualcuno ha…”
“Vuoi sapere se sono andato a letto con qualcuno durante questi due anni?”
“No, no. Volevo solo essere sicuro che non sentissi disagio perché secondo me non hai sentito disagio, anzi, hai… eri…”
John si schiarì la voce.
“Non ho fatto l’amore con nessuno John. Non ho mai avuto le mani di nessuno nei pantaloni, per essere più precisi e farti svanire ogni dubbio. O una parte del corpo di qualcuno nel mio”
“Ho capito, Sherlock, sei stato chiaro okay? Non peggiorare questa situazione …terribilmente imbarazzante.” Rideva nervoso.
“Voglio solo tranquillizzarti.” disse piano Sherlock. John Incrociò il suo sguardo.
“Sarai il primo, John. Come ho sempre voluto.”
Sherlock gli prese il viso tra le mani. John tremò.
“Ma…” continuò Sherlock “voglio iniziare come si deve, tra di noi. Voglio che tu ricordi ogni mio gesto e impegno nel dimostrati quanto io tengo a te. Non sono il migliore nelle relazioni sociali, per me è difficile lo sai, mi ci vuole solo un po' più di tempo. Ma ne varrà la pena, te lo prometto. Tu ne vali la pena.”
Il cuore gli batteva forte, sicuro.
Quanto era bello sentire.
Provare.
Oh, quanto gli mancava.
“O-okay.” John non sapeva neanche lontanamente cosa aggiungere.
La gioia non deve spiegarsi, o almeno lui non lo sapeva fare.
Disse solo: “Non devi giustificarti mai con me Sherlock. L’unica cosa che ti chiedo è essere sempre te stesso e so che lo sei. Anche per me ne vale la pena.”
Quando si scelsero quella volta in biblioteca, il primo anno di liceo era questo quello che significava: accettarsi.
Sherlock sospirò. “Ora andiamo a vedere le api? Mi manca prendermi cura di loro.”
Sherlock fece scivolare via le mani dal viso di John  che annuì e gli prese le sue stringendole.

Andarono nell’immenso giardino sul retro e passarono il pomeriggio lì. Per la maggior parte del tempo John guardava Sherlock armeggiare con i blocchi in cui le api si davano da fare per produrre il miele che Sherlock guardava come fosse oro.
Ogni tanto Sherlock buttava uno sguardo a John che aveva tra le mani una specie di taccuino e si chiese cosa mai avesse da scrivere. Non glielo chiese mai, ma Sherlock spesso pensava a cosa mai quelle pagine potevano contenere.
Quali parole John poteva mai scrivere su di lui o loro o magari le api perché aveva notato dei passaggi interessanti sul processo della produzione di miele. Impossibile pensò Sherlock, ma non scartò mai la possibilità che John potesse appassionarsi quanto lui all’apicoltura anche se per ora aveva poche speranze.
Tuttavia quel piccolo quaderno incuriosiva Sherlock in un modo quasi ossessivo ma mai si era permesso di prenderlo o chiedere perché gli piaceva il mistero che lo avvolgeva e il fatto che John non ne parlava mai o non lo usava mai quando lui era vicino.
Giorni dopo, quasi alla fine della loro vacanza, Sherlock avrebbe preferito non venire mai a contatto con quel quaderno e con quello che conteneva. Non avrebbe mai voluto trovasi in quella situazione scoprendo proprio in quel momento cos’era quel taccuino.
Non era giusto.
Anche stavolta avrebbe fatto male.  


 

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Capitolo 4
*** Divertirsi ***


Ritornarono quando iniziò a fare buio.
Sherlock mise la sua tuta e maschera di protezione con altre oggetti in una borsa e prese il piccolo barattolo di miele che aveva riempito.
“Stasera latte e miele. Ci sono ancora i biscotti allo zenzero di mia madre e saranno deliziosi nel latte.”
“In realtà sono ancora pieno da pranzo, ma i biscotti di tua madre non me li perderei per nulla al mondo. Ricordo ancora il loro sapore sai? I pomeriggi venivo a studiare da te probabilmente solo per quelli.”
“Sì, come no.”
Si scambiarono uno sguardo di complicità e John istintivamente si morse il labbro inferiore allo sguardo di sfida del suo amico.
Sherlock scosse la testa e sorrise.
Camminavano per quel giardino volutamente incolto.
Sherlock affermava che un po' di non curanza gli dava un fascino a cui non voleva rinunciare e poi i fiori selvatici di campo erano bellissimi.
Ne colse uno lilla prima di entrare, proprio sull’orlo della porta, e lo infilò dietro all’orecchio di John, che sentì la punta delle dita fredde di Sherlock sulla pelle.
“Questo colore ti dona, John.”
Sorrise per quel gesto gentile e aprì la porta.
Si ritrovarono davanti la Signora Holmes.
“Eccovi ragazzi.”
Entrarono in quello che era una sorta di magazzino, molto grande, perfettamente ordinato grazie alle cure di Andrew, il loro fedele maggiordomo che si prendeva cura di ogni angolo della casa.
Una volta dentro, Sherlock chiuse la porta dietro di loro e mise al suo posto su uno scaffale di metallo di un armadietto la borsa con i suoi utensili. Teneva stretto il vasetto di miele.
“Buonasera Signora Holmes.”
“Ciao John. Sherlock posso parlarti un attimo?”
Sembrava preoccupata.
“John aspettami in cucina. Tieni, prendi il miele e inizia a preparare il latte. Vengo subito.”
Fece un cenno del capo e sparì con la mamma nell’ombra del corridoio che portava alle scale.

Sherlock sembrava calmo a differenza della madre.
John fece come gli fu detto e arrivato in cucina cercò due tazze.
La casa era silenziosa. Non c’era ombra del Signor Holmes o di Mycroft e John non sapeva se quella fosse una cosa positiva dopo l’arrivo del volto stanco e teso della donna. Versò il latte nelle due belle tazze di ceramica bianca e dopo aver rovistato un po' nella credenza trovò un piatto abbastanza grande dove mettere i biscotti.
“Buonasera, John.”
Erano circa le sette e mezza e il cielo era appena diventato di un azzurro più scuro. Una piccola stella solitaria sembrava luminosissima lì, da sola a reggere il cielo e faceva capolinea alla finestra, curiosa.
Si prospettava una notte più fredda del solito.
“Mycroft, ciao.”
La slanciata e composta figura si sedette sul divano, guardando John sistemare i biscotti per bene.
John non capiva mai quale effetto gli facesse quell’uomo quando era in sua presenza. Sicuramente non gli era simpatico più di tanto per molte e giuste ragioni, ma era un uomo molto intelligente, forse più di Sherlock e gli capitò di provare stima per lui sebbene dimostrava spesso la sua superiorità che a John infastidiva molto e spesso non riusciva a trattenere un’alzata di occhi.
Cercava di parlargli il meno possibile in quel momento anche perché il sempiterno astio tra i due fratelli rendeva tutto più complicato e seccante per John e Mycroft lo sapeva bene.
John si sentiva osservato e lanciandogli un’occhiata veloce vide un piccolo sorriso sul volto simmetrico che lo guardava.
Tutto voleva tranne parlare di convenevoli con Mycroft Holmes.
“Allora, programmi per stasera?”
John lo guardò e poi tornò a disporre nervosamente i biscotti nel piatto.
Ci stava mettendo un tempo ridicolo nel farlo ma cos’altro fare?
Di certo non si sarebbe seduto al suo fianco iniziando una piacevole conversazione su cosa amavano fare durante le serate estive.
“Latte e miele. Tu? Qualche rompicapo governativo da risolvere?”
Mycroft intuì il sarcasmo nel tono di John che gli sorrise calmo smettendo finalmente di torturare quei biscotti, poggiando le mani sul marmo bianco. “Niente lavoro per stasera. A meno che non venga assassinata la regina nessuno mi impedirà di fare un bel bagno e una lunga dormita. Domani parto. Un lavoro a lungo termine a Tokyo di cui sono stato informato poco fa tra l’altro. Alla faccia della vacanza in famiglia.
” Il suo tono era amichevole e rilassato.
Inquietante, pensò John.
 Perché glielo stava dicendo? Non ne aveva motivo e poi era sempre stata una persona che aveva a cuore la sua vita privata soprattutto per il lavoro che faceva.
La sorpresa sul volto di John per quella sua confessione non lo stupì.
“Volevo solo lo sapessi. Starete tranquilli, voi due.” 
John non voleva fare il suo gioco ma non voleva neanche lasciare la cosa irrisolta.
“Io e Sherlock intendi?”
“Immagino che tu…voglia cercare di riconquistarlo. O almeno riavvicinarlo. Altrimenti perché saresti qui.”
Non aveva peli sulla lingua e non aveva timore di affrontare l’argomento.
La sua voce era fredda.
“Non penso sia un problema tuo cosa voglio fare io o Sherlock.”
“E’ un mio problema se lo ridurrai nello stesso stato di due anni fa.”
John strinse i pugni.
Faceva sul serio?
Sentì una rabbia incontrollabile serrargli lo stomaco.
“Oh John, calmati. Non ho intenzione di mettervi i bastoni fra le ruote, non è nel mio stile impacciarmi. Non di nuovo. E poi Sherlock non me lo perdonerebbe mai quindi…finiamo qui la conversazione.”
Fece per alzarsi.
“No.”
La voce di John divenne dura.
Mycroft si sedette curioso di vedere dove voleva portarlo.

John avrebbe sicuramente voluto cercare di evitare di aprire di nuovo un discorso del passato che gli procurava solo rabbia e dolore ma il suo istinto gli diceva di dover sputare tutto e subito. Mycrofyt intuì tutto questo e forse anche le parole che stava per ascoltare. John Watson per lui era molto prevedibile, come tutti, ma mai abbassare la guardia.
“Il tuo modo assurdo e disumano di aiutare tuo fratello non servirà stavolta. Promesso.”
“Ne se sicuro?”
“Certo.”
“Io non farei promesse che non possono essere mantenute. Non sei un santo. Inoltre, sei l’unico capace di fargli davvero del male e lo hai fatto. Hai un potere immenso e non lo sai.”
“Dannazione Mycroft si può sapere qual è il tuo problema?”
John non aveva alzato di molto la voce ma nessuno mai si era permesso di parlare così a Mycroft Holmes che alzò le sopracciglia stupito.
Iniziò a ridere.
John non sapeva quanto fosse irritante quell’uomo fino a quel momento. 
“John Hamish Watson. Che caratterino. Sarà la tua propensione ad essere così deciso e dominante che deve attrarre il mio piccolo e fragile fratello.” “Sherlock non è fragile. Non parlare di lui così. Non con me almeno.”
John sapeva che il suo migliore amico aveva delle debolezze, punti deboli, ma non era il tipo da rimanere a piangersi addosso dopo essere caduto. Era forte e coraggioso. E lo sapeva perché molte volte glielo aveva dimostrato.
Mycroft fece spallucce.
  Sospirò.
“Mio fratello è molte cose e so che lo conosci bene, probabilmente meglio di me almeno sotto certi aspetti. Altri, credimi, ti sono ancora oscuri. Tuttavia tu conti…”
Il volto stoico di quell’uomo parve addolcirsi e John lo notò.
“…moltissimo per lui. Voglio solo dirti che seriamente non farò nulla. Anche se conosco le possibili conseguenze, non intralcerò il suo cammino.”
John annuì.
“E’ una specie di tregua. Tra noi due. O meglio, tra noi tre. Inoltre con lui ho già parlato.”
“Va bene” fu tutto quello che John si sentì di dire per tagliare corto.

Gli andava più che bene, era quello che desiderava per loro, un pò di pace, ma soprattutto per Sherlock che ora magari si sarebbe potuto godere la sua vita, la loro storia e forse il loro amore. Mycroft era sincero e sentiva che doveva chiarire le cose esattamente come aveva fatto John. Ora era il suo turno. Ora o mai più. In fondo era lì per quello. Fece un respiro profondo e cominciò.
“John, un’ultima cosa. So che non mi perdonerai mai per averti costretto a stare lontano da Sherlock in questi due anni ma doveva in qualche modo riprendersi. Anche se tramite i miei metodi. Doveva staccarsi totalmente da te, da quello che gli hai fatto provare. Doveva iniziare gli studi con la mente lucida senza distrazioni superflue o sarebbe stato uno spreco.” 
John aspettava che finisse di dire quelle stronzate, quelle scuse che gli fecero venire quasi la nausea.
Stringeva talmente le dita sul palmo che le unghie iniziarono a dolere.
Mycroft divenne più nervoso e John non lo aveva mai visto così.
Esitò un attimo prima di parlare.
“Inoltre, c’è un particolare che non sai: ho avuto bisogno delle sue eccellenti capacità per molti episodi riguardanti la sicurezza del Paese e non potevo assolutamente”
“Hai…Lo hai usato?”
John fece dei passi indietro.
Sentiva la stanza rimpicciolirsi, l’aria mancare.
Continuò a parlare ma neanche se ne rendeva conto.
Pensava ad alta voce.  
“Non era solo per gli studi, allora. Ed ero anche…ero anche d’accordo con te riguardo questo, per il suo futuro ma…ma non mi avevi detto che…” “John, so che dal tuo punto di vista può essere sembrata la cosa più crudele che io gli abbia mai fatto ma dovevo. Dovevo.”
“Non dire cazzate.” “John non puoi capire certe cose. Sei troppo giovane. Ne dipendeva la sicurezza nazionale.”
“Anche Sherlock era troppo giovane per tutto quello. Dio solo sa che gli hai fatto passare, quanto lo hai fatto sentire responsabile.”
Mycroft era silenzioso e il suo volto da sfinge non mutò.
“Dovevi dirmelo. Dovevi dirmi che era così. Non lo avrei accettato comunque ma la verità è sempre stata l’unica cosa che ti ho chiesto. Dannazione Mycroft, sarebbe potuto succedergli qualcosa, qualsiasi cosa. Il tuo mondo è pericoloso, lui poteva…”
A John vennero mille pensieri che non lo avrebbero fatto dormire quella notte. Mille incubi. 

Si ricordò, come dei flash rivelatori, di quando per diverse volte, Sherlock non rispose alle sue e-mail per settimane durante quei due anni in cui cercarono di non perdersi; lui che gli rispondeva sempre il giorno dopo alla stessa ora ogni volta.
“Cristo, ti rendi conto?”
La voce di John tremava.

Abbassò lo sguardo sui biscotti, ma davanti ai suoi occhi aveva solo il volto di Sherlock, il suo sorriso, il bacio datogli fuori scuola, la pioggia fine che bagnava  il loro viso. Le lacrime di lui tra quelle gocce.

“Lui…lui era la mia vita. Pensi che io non sia stato male, eh? Pensi… che per una persona normale e monotona come me non abbia fatto fottutamente male?”
Gli occhi di John si riempirono di lacrime ma fece ricorso a tutta la forza che aveva in corpo per non farle scendere.
“Non meriti un fratello come Sherlock. Nonostante tutto lui ti vuole bene. Lui si fida di te. E tu non lo meriti.”
Mycroft sentì un colpo al cuore. Non aveva mai vissuto una cosa del genere.
Deglutì a fatica.
Si sentiva accusato, deluso, giudicato, sbagliato. Dubitò su tutto quello che aveva fatto.
E sapeva che faceva così male perché era vero.
Vedeva il fratello come una sottile e pregiata figura di cristallo, meravigliosa ma che al minimo tocco troppo intenso si sarebbe rotta. Persa. Per questo temeva John Watson: era l’unico stato capace di rompere suo fratello, mutilarlo del suo raziocinio, del suo comportamento analitico e giusto. Ma lui aveva il diritto di rendere Sherlock una macchina e non un uomo?

Aveva il diritto di crescerlo e plasmarlo in quel modo? Per il suo bene? Non sapeva quale fosse la risposta giusta. Non sapeva cosa sentire. Non più. John chiuse per un attimo gli occhi respirando, cercando di calmarsi. Piano ci riuscì. Non si sarebbe dovuto aspettare altro da un uomo come Mycroft Holmes. All’improvviso perso in quei pensieri un dubbio lo trafisse.
Aprì gli occhi di colpo.
“Sapeva che volevo rivederlo? Gli hai mai detto che io comunque lo avrei aspettato?”
Mycroft non rispondeva.
“Dimmelo.”
John aspettava ma lui non rispondeva. Si limitava a guardare il parquet.
“No, non l’ha mai saputo.”
Sussurrò John.
  “Gli ho detto che tu non avevi intenzione vederlo. Mai più. Che per te era una capitolo chiuso. Ed è già stato tanto concedevi di scrivervi.”
Un nodo alla gola gli impedì di continuare a confessare tutte le altre bugie che aveva detto al fratello su John. John non sentiva più nulla. Né rabbia, o rancore. Solo pena per quell’uomo così meschino, narcisista e insensibile.
“John mi…mi disp”
“Oh non provarci. Basta.”
Lo guardava dritto negli occhi.
Si asciugò le lacrime che inevitabilmente bagnarono il suo volto d’un tratto stanco, segnato.
“Ora abbiamo finito, Mycroft.”
Mycroft annuì.

Non poteva capire cosa si provasse a perdere per sempre l’amore.
L’amore della tua vita.
Lui sapeva che John lo era per Sherlock eppure non esitò a negargli la possibilità di averlo. Ma non si pentiva e lo spiegò anche a John.
“Ci sono state delle priorità due anni fa e ho fatto la cosa giusta.”
“Mycroft… basta.”
“No John. Lasciami parlare. Sherlock era l’unica speranza per colmare le lacune di questo nostro governo instabile. Ha salvato molte vite. Ha dato speranza, John. Apprezza almeno questo.”
John scosse la testa.
“Lo avrebbe fatto comunque perché è una persona straordinaria, coraggiosa e gentile a differenza di quello che pensi tu. Non glielo avrei mai impedito.”
Mycroft non ci credeva, sapeva che non sarebbe stato mai possibile avere Sherlock se John fosse rimasto nella sua vita perché sarebbe diventata una priorità per il fratello mentre in quel momento l’unica priorità doveva essere la giustizia.
 “Va bene John. Ora è acqua passata. Sono qui a dirtelo e te lo ripeto: stavolta non farò nulla. Non è la mia vita. Avrete la possibilità di provarci ed io non vi impedirò di farlo. Voglio che sia chiaro.”
“Non ti sei guadagnato né la mia fiducia né la mia accettazione con queste parole. Io e Sherlock non ti perdoneremo mai per quello che ci hai fatto.” Mycroft si allarmò a quelle parole.
“No, non dirglielo.”
“Dovrei.”
“Ti prego di non farlo.”

A quella richiesta, quella supplica, non fece trapelare una minima emozione. Se ne stava seduto, gambe accavallate, labbra dritte e occhi fermi anche se lucidi. Tratteneva tutto in modo magistrale, un muro che neanche la paura di perdere il fratello poteva smuovere, un orgoglio più importante di ogni altra cosa e John si chiese cosa mai lo aveva reso così.
“Ha già sofferto abbastanza e poi il disprezzo per te non gli manca, non ne ha bisogno di altro.”
Disse John, magnanimo.
Anche se quell’uomo non si meritava la sua comprensione, non poteva ferire Sherlock con quello che aveva appena saputo.
“Ti ringrazio.”
“Non lo faccio per te Mycroft.”
“Lo so.”
John capì.
Capì che era proprio per quello che lo ringraziava, per non ferire ancora Sherlock ed indirettamente avrebbe salvato il rapporto che avevano, anche se non uno dei migliori rapporti fraterni in giro. Avrebbe comunque accontentato Mycroft e questa cosa non gli andava a genio. Sherlock aveva il diritto di sapere.  Ma a che prezzo? “Bene. Passate una buona serata, John.” Mycoft accennò un sorriso cordiale e John lo seguì con lo sguardo fin quando non sparì su per le scale. Non disse nient’altro. Non c’era nulla da aggiungere.


John prese il piatto con i biscotti e poi le tazze e le appoggiò sul grazioso tavolino di fronte al divano.
Rimase per un tempo indefinito a fissare il camino spento metabolizzando ciò che era appena accaduto.
Serrò le mascelle.
La rabbia non passava.
Lui reagiva così a situazioni del genere, quando la delusione e la tristezza si presentavano alla sua porta non sprecava molte lacrime né cadeva in uno di quegli stati di depressione o rassegnazione. Ma la rabbia, quello lo divorava.
La rabbia per le bugie dette, subite, per le cose irrisolte delle quali durante quei due anni era riuscito a farsene una ragione erano di nuovo là più insopportabili di prima.
Rabbia per tutto, ogni singola cosa che aveva passato per amare Sherlock. Mai aveva dubitato del suo amore come in quel momento. Si chiedeva se un amore che faceva così fatica a sopravvivere era veramente amore o solo un appiglio per sentirsi vivo.
Si chiedeva se uno come Sherlock fosse in grado di amare, ma amare veramente rendendosi conto che non sarebbe bastato solo passare del tempo insieme perché una relazione non si porta aventi così.
Sarebbe dovuto scendere a compromessi, sarebbe dovuto essere più comprensivo e meno superficiale.
Questo voleva John da lui e molte altre cose. Sherlock ne era capace? Avrebbe capito e accettato tutto ciò? No, si disse John.
Ma importava?
In fondo l’amore dovrebbe bastare. Dovrebbe. Tutti quei clichè lo fecero ridere per un attimo. Neanche lui voleva una storia banale che richiedeva tutte quelle cose, no, lui avrebbe avuto di meglio.
Però un po' di normalità nella mia vita non sarebbe male, si disse e Sherlock non lo era. Non poteva esserlo.
Si chiedeva se magari dimenticando tutto e andare via, in quel momento, avrebbe risolto le cose. Forse sì. Forse no. Si portò una mano alla fronte e massaggiò piano come a distendere e far sparire quei pensieri. 
“Sono ridicolo…” sussurrò.
Si sedette comodo e prese il suo cellulare.
“Tutto bene?” inviò il messaggiò non poco preoccupato.
“Sì ma no. Sto arrivando e ti spiego. SH”
Aveva quel vizio di firmare sempre con le sue iniziali ogni cosa che scriveva.
Quella risposta di certo non fece bene alla già presente tensione di John.

Anche di questo lui parlava, del fatto che in un modo o in un altro nella vita di Sherlock mai andava qualcosa bene. Era una vita piena, frenetica, impegnata. E se ne sarebbe entrato a far parte avrebbe dovuto conviverci anche lui con quella vita. Devo solo smetterla di pensarci e godermi questa fottuta vacanza, si costrinse a pensare. Poi gli venne in mente un’idea, qualcosa per fare in modo di chiarire cosa veramente voleva, se veramente lo voleva e se sarebbe stato possibile raggiungerlo.
Qualcosa che sperava avrebbe fatto uscire un lato di  Sherlock che desiderava vedere se mai c’era veramente. Era un ragazzo di vent’anni anche lui e per quanto potesse odiare le abitudini e le convenzioni sociali magari provarle gli avrebbe fatto cambiare idea. Almeno per qualche giorno. Provarci non costava nulla, e solo io posso convincerlo; John era speranzoso.

“John”
“Ehi”
Sherlock si sedette al suo fianco di lato per averlo di fronte. Non sembrava triste o scioccato e questo fece gioire John perché per attuare il suo piano doveva essere di buon umore. O almeno meno cinico e malinconico del solito.
“Allora? È successo qualcosa?”
Sherlock poggiò il gomito sullo schienale del divano e il volto nel suo palmo. Parlò calmo.
“Un vecchio amico dei miei genitori è passato a miglior vita. Un’ infarto a quanto pare ed era giovane, purtroppo.”
Il viso si rabbuiò un po'.
“Mi dispiace. Tu lo conoscevi?”
Sherlock sospirò.
“In realtà te ne ho parlato spesso sin dal liceo. È il Signor Waltman.”
“Q- quello che ti ha fatto fissare con le api …”
Sherlock alzò gli occhi al cielo. “Quello che mi ha fatto appassionare al mondo dell’apicultura, sì John è lui.”
John gli sorrise abbassando lo sguardo.
“Non penso che tu lo abbia visto durante le sue visita a casa mia a Londra. Era un uomo affascinante, garbato e il più intelligente che io conosca. Senza offesa.”
“Nessuna offesa.”
Rispose John alzando le mani in segno di sconfitta.
“Ne parli con una luce negli occhi che non ho mai visto.”
Sherlock sorrise e un po' imbarazzato distolse lo sguardo.
“Beh, era un uomo che si distingueva dagli altri. Una cultura immensa su molte cose e se te ne parlava anche solo mezza volta stai sicuro che te ne saresti appassionato subito, qualsiasi cosa fosse. Il mondo ha perso un fiore raro.”
“Ti piaceva.” John non era stupido.
 Sherlock rimase di stucco a quell’affermazione.
Ma non poteva mentire a John su una cosa che effettivamente era chiara come il sole e allora lo ammise.

“Ne ho parlato con troppo trasporto e mi sono tradito. Ma non mi piaceva, ti sbagli. Ti piace il tè, la domenica mattina a letto, un libro, queste sono le cose che ti piacciono. Lui mi aveva rubato la mente, capisci? Era intrigante e aveva sempre una dolcezza disarmante negli occhi che mi commuoveva. Quando parlavo con lui, posso giurare che il tempo si fermava.”
Ancora non riusciva a guardare John negli occhi nè tanto meno voleva vedere la sua reazione ma non si vergognava di parlarne.
Non più.  
John, a differenza delle aspettative di Sherlock, era felice di quello che sentiva.
“Non sono stato il primo allora.”
“Non … non l’ho mai vista sotto questo punto di vista e se ti sei offeso se”
“Tranquillo, non sono offeso. Anzi. Se posso tenere testa ad un uomo così straordinario ne sono lusingato.”
John lo guardò sorridendo dolcemente e Sherlock sapeva che aveva davanti un uomo forse anche migliore del Signor Waltman che invece non lo avrebbe mai potuto amare.
“John tu hai molte qualità che David non aveva. E le sottovaluti. Qualità che mi hanno sempre incuriosito. La tua saggezza ad esempio, che neanche un uomo vissuto come Waltman ha potuto raggiungere. Nelle cose che scrivevi al liceo, e che probabilmente scrivi tutt’oggi, c’era una saggezza e una comprensione della natura umana oscura a chiunque su questa terra. Poi mi sopporti, il che non è da tutti. Infatti David mi trovava assillante la maggior parte delle volte e fu così che mi resi conto che non avrebbe mai potuto funzionare tra di noi. E il fatto che fosse eterosessuale e sposato con una donna graziosa mi dava ancor ameno speranze in realtà”
Risero.
“E poi, dio mio John, la tua voglia di vivere. Di andare avanti e provarci a tutti i costi: mai vista una testardaggine così positiva. Io ad esempio non ne sono capace, e  ti invidio per questo.”
“No, non devi Sherlock. Posso insegnarti come trovare la passione per la vita.”
Gli occhi di John brillavano e quasi sperava in una richiesta.
Sherlock fece spallucce per niente convinto.
“Lo sai che la vita è noiosa per me.”

Lo disse con un mezzo sorriso di rassegnazione ma con tono sicuro e di chi non ha paura di dirle quelle parole. Quella frase era la  più triste che John aveva mai sentito dire dal suo caro amico. Eppure ne aveva sentite tante. Ma era esattamente l’occasione per John di dirgli cosa aveva in mente.
Cosa voleva fare per smuovere Sherlock e donargli un po' di spensieratezza.
“Sherlock, la malinconia te la porti addosso come un profumo e la tragedia è l’unica situazione umana che tu capisci veramente.”
“Mi citi Oriana Fallaci nella sua lettera a Pier Paolo Pasolini? Beh, mai parole furono più giuste anche per me, non trovi?.”
John annuì a malincuore.
“Perché non sono sorpreso nel vedere che le conosci…?”
“Perché conosci la mia anima come nessun altro John.”
Si sorrisero ma la malinconia rese quei sorrise spenti.
Tuttavia quella risposta colmò il cuore di John con tanto di quell’amore che si chiese come mai aveva potuto dubitarne poco prima.
“Sherlock, ascoltami.”
Gli prese le mani nelle sue e si schiarì la voce.
Sherlock sussultò a quel tocco deciso.
“So chi sei, e non ti cambierei per nessun motivo al mondo. Ma  potremmo … potrei veramente provarti che alla nostra età possiamo essere, ogni tanto, meno responsabili. Meno schiacciati dalle responsabilità e …goderci la vita. Anche con le cose più stupide. Divertirci. Qui si sta benissimo, non fraintendermi, ma è…Possiamo fare di meglio. Il tempo è oro no?”

La perplessità di Sherlock non era un buon segno ma sembrava anche curioso di ascoltare cosa aveva da dire.
“Divertirci? Ma sei serio?”
Sherlock scoppiò quasi a ridere.
“Non verrò in discoteca con te John, scordatelo. Mai.”
John scosse la testa. Eccome se era testardo Sherlock, ma non mollava.
“Scommetti?”
Sherlock inclinò la testa intuendo le intenzioni di John.
“E’ una sfida?”
Qualcosa si accese in entrambi.
Magari se John l’avesse messa in quel modo Sherlock ci sarebbe cascato e alla fine avrebbe ammesso che a vent’anni certe cose vale la pena farle. “Sì.”
Disse fiero John, capendo di aver già vinto.
L’ingenuità di Sherlock era probabilmente il suo unico difetto.
Lo si poteva aggirare facilmente se si fida ciecamente di te.
Ma in quella occasione sarebbe servito a qualcosa di buono, qualcosa che avrebbe regalato a Sherlock ricordi indissolubili con l’unica persona che avrebbe mai potuto renderli tali. Sherlock biascicò un
“Mh…”
Non avrebbe mai smesso di pensare che solo John poteva farlo sentire come se il meglio della sua vita dovesse ancora arrivare.
E stava arrivando, lo vedeva nei suoi occhi luminosi.
Eppure aveva vissuto bei giorni con lui, i giorni migliori nei quali il cielo sembrava più bello del solito eppure ora, ora sentiva che gli avrebbe regalato altro ancora.
Allora si avvicinò al volto rilassato di John e sfiorandogli l’orecchio con le labbra calde disse:

“Va bene, Signor Watson. Divertiamoci.” 

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Capitolo 5
*** Canzoni ***


John semplicemente disse tutto quello che aveva in mente.
“Partiamo. Spariamo per qualche giorno, senza meta. Oppure organizziamoci e una volta raggiunta improvvisiamo. Facciamo tutto quello che ci viene in mente, togliamoci ogni sfizio, compriamo una tenda e accampiamoci da qualche parte.”
Sorrideva euforico solo all’idea.
“Insomma, viviamo Sherlock. Viviamo.”
Ogni singola parola gli bruciava nel petto, l’avrebbe voluta urlare al mondo intero, avrebbe voluto prendere Sherlock senza neanche sentire una risposta, stringergli la mano e semplicemente andare.
Era il suo sogno ora quello.
Nient’altro desiderava di più, niente.
“Io mi fido ti te e so che sarebbe interessante ma…”
Non c’era un no nella voce di Sherlock ma neanche un sì.
“John, pensi che io sia pronto a tutto questo? Io non sono in grado. Non sono portato per queste cose e mi lamenterò, vorrò fare cose che ti annoieranno a morte. Forse il fatto che ci sia tu mi aiuterebbe, questo è vero ma… ti deluderò.”
“Mai l’hai fatto e mai lo farai.”
John ripose senza neanche pensarci. Un tenero sorriso apparse sulle labbra di Sherlock.
“Ma ti ho baciato, due anni fa, e sono scappato. Ti ho lasciato sotto la pioggia da solo. Almeno un po' di delusione ci deve essere stata dentro di te.”

Sherlock si poggiò sulla spalla di John che lo accolse sprofondando nel divano.
“Ero solo arrabbiato, come sempre. Sai che io mi arrabbio e basta. Successe tutto troppo in fretta e nessuno ha la colpa. Ma ora possiamo rimediare.” Intrecciò le dita nelle sue.
Sherlock fece un sospiro liberatorio e si aspettava quelle parole gentili da John.
Non lo avrebbe mai convinto ad odiarlo. Non che voleva farlo, ma metterlo alla prova gli dava delle sicurezze.
 “A me basta questo, John.” Si strinse a lui.
La sua schiena aderì al petto di John e sentì il suo mento nei suo ricci scuri.
Il suo fiato caldo sulla fronte.
“A me basti tu.”
Girò il viso e il suo naso strofinava piano il collo di John, dolcemente.
Lasciò anche un lento bacio.
John non si lasciò manipolare da quelle esternazioni di affetto.
Per quanto fossero gradite e gli facevano perdere la testa rimase concentrato e disse:
“Non voglio farlo per me o per passare solo del tempo insieme, possiamo benissimo farlo qui, ne sono consapevole. Io voglio solo…farti provare qualcosa di nuovo. Dobbiamo farlo per te. Non pensi di meritarlo? Meritare di svuotare la mente e non averne più…paura? Tu hai paura di dover rimanere così per sempre. Così bravo a capire tutto e tutti, così concentrato, sempre responsabile di cose che non dovrebbero essere scaricate addosso a te.”

Sherlock corrugò la fronte e si alzò piano. John forse aveva detto troppo.
“Io…non capisco. Che vuoi dire?”
Quelle parole erano troppo precise e Sherlock non ci vedeva chiaro.
“Dicevo per dire. Insomma, l’università ti dà mille responsabilità no?”
Se c’era una cosa che proprio John non sapeva fare era mentire, figuriamoci provarci con Sherlock.
“Ho fatto delle cose in questi due anni che mi hanno effettivamente reso ancora più pragmatico e …”
“Triste. La parola che cerchi è triste.”
“No John, ho fatto del bene. Ho fatto la cosa giusta.”
Di che stavano parlando?
“Immagino che entrambi sappiamo di che stiamo parlando, John.”
Sherlock ritrasse le mani e una se la portò alla fronte.

Poggiò i gomiti sulle ginocchia in quella posizione che si tiene quando ci si sente a pezzi.
“Hai parlato con Mycroft immagino, e ti ha detto che ho avuto per diverse volte a che fare con questioni politiche. Beh è vero ma sono state le uniche cose John, le uniche che mi facevano stare meglio dopo di te.”
John deglutì e ormai i giochi erano fatti.
Come pretendeva di nascondere che sapeva tutto quello a Sherlock, impossibile.
“Ho solo fatto due più due.” sorrise nervoso
. “Mycroft non ti ha spifferato tutto per non farti sentire alla mia altezza? Strano.”
Quella era una buona scusa. Sarebbe stato perfetto metterla così e allora John annuì.
“In realtà un paio di cose me le ha dette cercando di sminuirmi ed io ho capito che quando non rispondevi alle mie e-mail avevi qualcosa da fare di ben più importante.”
John abbassò lo sguardo.
Questa gli era uscita bene e poteva sperare di far finire il discorso così.
“Assurdo, non erano affatto più importanti di te. Se avessi avuto te non avrei avuto bisogno di spremermi il cervello e l’anima, non dormire per giorni e mentire ai miei genitori. Ripetutamente. Se avessi avuto te…”
Sherlock vide il volto di John irrigidirsi e farlo sentire in colpa era l’ultima cosa che voleva fare.
“Insomma, non è stato molto salutare ma è stato bello.”
Sherlock sorrise anche se bello era l’ultimo aggettivo da utilizzare per quello che aveva passato.
John fece lo stesso ingoiando qualsiasi cosa fosse quello che sentiva in quel momento.
“Quindi, sono arrivato alla conclusione che hai ragione. Ho proprio bisogno di staccarmi da tutto, recuperare due anni della mia vita in due settimane. E sono sicuro che tu sei in grado di aiutarmi, mio caro John.”
John lo guardava felice in fondo, nonostante tutto.
“Sì.”
Lo disse così piano che il mondo poteva anche finire in quel momento, non importava, aveva convinto Sherlock che poteva essere felice.
“Non chiedo altro.”
Sherlock gli lasciò un piccolo bacio sulla guancia.
John gli prese il collo e lo fermò lì, prima che potesse totalmente allontanarsi.
“Prima però dobbiamo fare una cosa John. Vieni.”

Anche quella vola John non era riuscito a baciarlo.
Era la seconda volta che ci provava e forse per essere il primo giorno lì era troppo pretenzioso. Un giorno lì sembrò un’eternità.
 Sospirò.
“Va bene” disse e si fece trasportare al piano di sopra e poi quello sopra ancora fin quando non erano davanti la sala da ballo.

Sherlock aprì la porta ed accese le luci, abbassandole per creare una certa atmosfera.
“Ti è venuta in mente qualche coreografia da farmi vedere?” disse John divertito.
Sherlock si fermò quasi al centro della sala. Poggiò le mani ai fianchi stretti che accentuavano le sue spalle.
I sacrifici della danza stavano facendo apparire un corpo pressoché perfetto, che sarebbe stato capace di incantare tutti un giorno.
“La sorpresa che volevo farti era il cd che avevi trovato e riconosciuto. Il cd che mi lasciasti l’ultimo giorno di scuola.”
John si avvicinò a lui.
“Allora avevo immaginato bene. La mia scrittura so ancora riconoscerla e l’ordine delle canzoni sul foglio… non potevo dimenticarlo. Ci ho messo giorni per decidere quelle dannate canzoni.”
Entrambi risero. La nostalgia di quei giorni al liceo si fece sentire come qualcosa che sta nascosta lì, da qualche parte del tuo corpo e che ad un minimo suggerimento di ricordo riappare e si scioglie nel sangue a farti sentire quanto eri felice e non lo sapevi. Almeno per loro fu così, ricordando i loro momenti.
“Ti va di risentirle o le odi troppo?”
“No.”
John scosse la testa con ancora un accenno di sorriso sulle labbra.
“Ogni loro singola parola mi è cara, ed è per te. Non potrei mai odiarle e sarebbe bellissimo sentirle con te dopo tutto questo tempo…per la prima volta.” Un brivido percosse John a quelle sue parole.
“L’ho consumato questo cd, John.” Sherlock si avvicinò allo stereo e lo prese.
Lo teneva nella mano, fissandolo.
Dava le spalle a John.
“Ho ascoltato ogni singola canzone, ogni giorno, che tu ci creda o meno. Mi facevano sperare. Mi facevano male ma andava bene. L’amore non fa mai del bene, giusto?”
Si voltò piano e John lo guardava con le labbra socchiuse.
“Vorrei contraddirti ma non posso.” Disse, non facendo un gesto.
Sherlock si rigirò e aprì la custodia di plastica trasparente e prese quel disco sottile che pesava come un macigno per lui.
“E’ bello, vero John?”
La sua voce era così profonda, sicura.
John guardava la testa bassa di Sherlock, piegata a fissare il cuore che gli diede anni fa. 
“Cosa?”
Lo sussurrò quasi.
Il suo battito accelerò, nervoso, consapevole che le sue orecchie avrebbero sentito quelle note, quei testi e aveva una paura tremenda di scoppiare in lacrime proprio lì, di fronte a Sherlock.
Sentiva il peso di quella giornata, del discorso con Mycroft, del piccolo e assolutamente ridicolo ballo con Sherlock in cucina.
Sherlock infilò il cd nello stereo e prima che la prima canzone iniziasse mise pausa. Si voltò verso John che non aveva staccato gli occhi da lui neanche per un secondo.
“Come tutto, tutto faccia male ma tu…”
Sherlock, senza neanche guardare, premette play e raggiunse John.
Gli era quasi vicino e gli porse la mano che grande e gentile aspettava solo quella di John.
Non avrebbe riconosciuto altre mani, non avrebbe stretto altre mani.
Era lì di fronte a lui.
Finalmente.
Era lì, gli stava porgendo la mano con il sorriso più bello di cui era capace e gli occhi di un colore indecifrabile tra quella luce soffusa e la luce della notte.
“tu John, se sei con me non importa.”
John afferrò la mano di Sherlock spaventato da come tutto quello potesse sparire in un secondo se si fosse svegliato.
Ma la stretta era sicura e calda e quello non era un sogno.
Un sogno non è così bello, si disse e in un secondo Sherlock gli mise l’altra mano sulla schiena poggiandolo a sé, al suo petto e John sentì di essere tornato a casa.
“Ti va un ballo?”
Le parole d Sherlock lo accarezzarono come seta e si limitò ad annuire non volendo quasi disturbare quel momento.
La canzone aveva iniziato a risuonare chiara nella sala.
I loro corpi erano ancora fermi.
Quasi respiravano all’unisono.
John poggiò il suo mento alla spalla di Sherlock che avvicinò il lato della sua testa a quella di John.
I ricci castani gli accarezzavano quasi la guancia e John iniziò a sorride e non smise più. “John, voglio che questo duri.”  John fece cadere le sue mani sulla schiena di Sherlock e piano scendevano, si fermavano e risalivano.
Sherlock strinse gli occhi e non ci poteva credere.
Tutto.
Tutto era così giusto che la sua mente non provava neanche a crederci.
Piano ondeggiavano ma non era ballare quello.
Quello era essere dove si deve essere per essere felici. Era concedersi una pausa dal mondo, dalle parole inutili, dagli anni passati che sembravano così lontani ormai, dal loro dolore, dalla vita stessa. John lo guardò, non lasciando la sua stretta su quel corpo.
“Ci sono quindici canzoni in quel cd, non ci staccheremo per un bel po' credimi.”
“Io intendevo…”
“Noi.”
Quella parola non era mai stata così bella per John da dire e per Sherlock da ascoltare.
“Noi.” ribadì John, lasciando le parole della canzone iniziare come una carezza.


 “I remember all of the things that I thought I wanted to be
So desperate to find a way out of my world
And finally breath
Right before my eyes I saw my heart it came to life
This ain't easy, it's not meant to be
Every story has its scars.”



Si riavvicinarono e iniziarono a ballare, muoversi mentre Sherlock guidava John. Fece scendere la sua mano giù per il braccio di John e gli prese la sua. Intrecciò le dita alle sue.


“But when the pain cuts you deep
When the night keeps you from sleeping
Just look and you will see
That I will be your remedy
When the world seems so cruel
And your heart makes you feel like a fool
I promise you will see
That I will be
I will be... your remedy


No river is too wide or too deep for me to swim to you
Come whenever I'll be the shelter that won't let the rain come through
Your love it is my truth
And I will always love you
Love you.”

 
Quella poesia li fece stringere più forte, si trattenevano dal crollare all’improvviso.
Lenti, lasciavano la musica gridare quello che avevano taciuto e congelato per due anni, quello che John, uno dei più bravi scrittori al liceo, il migliore della sua Accademia, non sapeva scrivere.
“Avrei voluto scrivere io una cosa del genere.”
Disse John, con il viso sprofondato nel collo di Sherlock.
“Non ci saresti mai riuscito, lo sai. Troppo coinvolgimento emotivo.”
John sorrise e accettò quella verità. Sapeva che più vuoi scrivere te stesso e ciò che ti porti dentro più non ci riuscirai. Deve venire da sé, come respirare. Aveva scritto delle cose per Sherlock ma non gliele aveva mai date o dette e non aveva intenzione di farlo per ovvi motivi.
Sperava solo che magari un giorno avrebbe avuto coraggio. La canzone finì ma loro continuarono a ballare aspettandone un’altra. Aspettando quella che Sherlock stava aspettando da due anni.
 “La seconda è la mia preferita.”Ammise Sherlock.
“Mi aiuterà a fare ciò che stiamo aspettando da tanto.”


“Settle down with me
Cover me up
Cuddle me in
Lie down with me
Hold me in your arms

Your heart is against my chest
Lips pressed to my neck
I’ve fallen for your eyes
But they don’t know me yet
And the feeling I forget
I’m in love now”



 “Dio, Ed Sheeran.” Sussurrò John.
Partì il ritornello. Sherlock aveva gli occhi chiusi e pensava che aveva aspettato quel momento da tanto tempo. Un tempo così breve per la vita di un uomo, due anni, solo due anni, ma per Sherlock erano stati come un lungo viaggio che lo portava sempre più lontano dalla sua vita, da quello che gli mancava.
Un viaggio che si stava per concludere nel miglior posto che lui poteva desiderare.


“Kiss me like you wanna be loved”


Si mosse piano e John che stava per dire qualcosa neanche si accorse che ora gli stava stringendo il volto nelle mani grandi e gentili.
Al piccolo movimento dello sguardo di Sherlock che si abbassò sulle sue labbra, John capì e allo stesso tempo non capì più nulla
. Era la cosa più dolce che aveva mai provato.
Le loro labbra si poggiarono le une sulle altre, incastrandosi, e la morbidezza che avevano era così piacevole.
Quella frase era ciò che Sherlock aspettava.
Kiss me like you wanna be loved.
Baciami come se volessi essere amato.
Era una richiesta, una preghiera quasi, a John che in quei secondi non sentiva neanche più la canzone andare avanti ma ricambiava il bacio, ancora e ancora per far capire a Sherlock che sì, voleva essere amato.
Sherlock aprì gli occhi e piano lasciò andare le labbra di John.
I respiri si scambiavano e sentivano entrambi un’elettricità pazzesca nell’aria.
John lo baciò di nuovo, davvero.
Come se fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto in vita sua.

Fu così diverso dal primo impacciato e veloce bacio di due anni prima perché quella volta era un bacio d’addio, un bacio straziante che lasciò tutto e niente. Un piccolo tocco che Sherlock gli rapì per poi correre via sotto la pioggia.
E John avrebbe desiderato così tanto prenderlo per il braccio e dirgli
“Tu non vai da nessuna parte” e baciarlo fino a rimanere senza fiato.
Fino a piangere.
Ma non fu così e le sue labbra avrebbero preferito mai averlo quel bacio piuttosto che tremare per l’amaro che lasciò su di loro. Ora invece era così dolce, dentro e fuori.
Non risparmiò neanche un centimetro della bocca di Sherlock, glielo doveva e forse Sherlock lo sapeva perché lasciava John fare ogni cosa. Gli mordeva il labbro inferiore, forte, e continuava a baciarlo con una disperazione che lo fece commuovere. John ne aveva così bisogno. Era meglio di qualsiasi cosa. Era meglio dell’aria che gli mancava. Durante quei due anni oltre Frances era stato con altri due ragazzi a cui volle bene ma le labbra di Sherlock non lo avrebbe trovate da nessun’altra parte.  Si aggrappò al suo collo e dopo un ultimo bacio gli disse:
“S-scusami Sherlock ma devi capirmi.”
Anche se Sherlock aveva ricambiato con la stessa forza e, dio, se era stato bellissimo sentirlo come lui lo voleva sentire, non sapeva se quella foga fu troppa.
Ma John non riuscì a mettere a tacere dentro di lui un semplice bisogno fisico che devi ascoltare, che ti controlla, che devi assecondare.
Un bisogno dell’anima.
Sherlock scosse la testa e lasciando le mani cadere sul collo di John disse:
“Ti capisco.”
Poggiò la sua fronte su quella di Sherlock che ancora non apriva gli occhi, non poteva, avrebbe perso quella sensazione.
La bocca semi chiusa e il suo respiro che gli sembrava freddo per quanto sentiva le labbra calde. “Io avrei fatto lo stesso.
"Te lo dovevo un bacio dopo tutto.” Sorrisero.
Iniziò True Colors di Cyndi Lauper.
“Questa canzone non poteva mancare, eh John?” Ballavano piano, seguivano l’istinto.
“Non mi interessa se trovi che siano canzoni scontate, non potevo farti un cd con Bach o Mozart solo per compiacerti. Questo cd sono io, e volevo che avessi me.”Si guardavano nella penombra. Sherlock  annuiva piano.
“Sì, è una giusta motivazione per lo scopo di questo cd e comunque sono canzoni molto belle, lo dico per davvero.”
“Non penso ti piacciano.”
“Beh, non quanto Bach di sicuro. Scusa.” Sherlock gli diede un bacio.
Poteva farlo e lo fece.
Poteva farlo sempre.
“D’ora in poi ti avviso che per scusarti non basterà solo un bacio. Per quanto mi faccia piacere.” Disse John poco convinto.
“Dannazione, pensavo di aver trovato una via d’uscita.”
“Eh no.”
John sospirò e sorrideva, sorrideva.
“Non sono tutte scontate le canzoni. C’è quella dell’italiano, Ferro, che è molto bella. Ha un modo di cantare con tale convinzione…”
“L’amore è una cosa semplice. Già, è molto bravo.”
“Un poeta azzarderei. Ed è per questo che ti piace. Oltre alla voce oggettivamente bellissima.”
“Scrive in modo pazzesco e quella canzone mi è molto cara. È quello che vorrei riuscire a farti.” Sherlock corrugò la fronte incerto.
“A farmi?”
“Sì, il testo. Dimostrarti che l’amore è una cosa semplice. Essere quel vento che ti alimenta, quel destino che nessuno ha mai scelto, mio dio, ti rendi conto della poesia di questa frase?”
Sherlock guardava gli occhi di John e vedeva un’emozione e una luce che le persone hanno quando parlano della cosa che preferiscono al mondo, quella cosa che ti fa alzare al mattino ancora una volta. Voleva vederla sempre quella cosa in John, quell’euforia della vita di cui solo lui era capace.

“Vorrei tanto mi recitassi qualcosa un giorno. Vorrei…stare seduto di fronte a te mentre mi leggi qualcosa di tremendamente bello che ti faccia riaffiorare la bellezza che sto vedendo ora nei tuoi occhi blu. Ti prego, dobbiamo trovare del tempo per farlo.” Sherlock lo stringeva.
“Certo. Assolutamente.”
Se era quello di cui Sherlock aveva bisogno per sentirsi vivo lo avrebbe fatto anche ogni giorno per il resto della sua vita.

Aveva trovato qualcosa che poteva far riaccendere Sherlock ed erano semplicemente i suoi occhi quando parlava delle sue passioni.
John lo capì, eccome.
Lo capì in quel momento, con Sherlock che lo stringeva e gli chiedeva di renderlo vivo. Forse un viaggio intorno al mondo non sarebbe neanche più servito, quello di cui avevano bisogno lo tenevano tra le loro braccia. Passò un tempo indefinito e non contarono neanche più le canzoni che andavano avanti.

“A cosa stai pensando John?”
“Devo star pensando per forza a qualcosa?”
“Il tuo cervello non smette mai di pensare. A meno che tu non sia morto, ma non penso perché il tuo corpo è caldo e il tuo respiro sul mio collo è la cosa più vera che io abbia mai provato.”
“è una cosa molto bella quella che hai detto.”
“Davvero?”
“A parte… l’introduzione.” Sherlock fece spallucce.
“Tu a cosa pensi?”
“Che…non mi aspettavo di certo un miracolo che mi salvasse ma eccoti qui. Eccoti. A farmi capire che non tutto è perso. Neanche uno come me.”

John affondò la fronte nel collo caldo di Sherlock.
Gli accarezzava la schiena.
“Dio Sherlock, quanto ti amo.”
Sherlock si fermò e il corpo di John fece lo stesso.
“Pensavi a questo John?”
“A cos’altro posso pensare…”
A John non importava neanche che quel ti amo gli fosse ricambiato in quel momento, non aveva importanza. Andava bene così, anche se non gliel’avesse mai detto, andava bene perché conosceva Sherlock e soprattutto conosceva come la pensava e non gli fregava minimamente se avendolo detto lo avrebbe messo in difficoltà. Lui lo sentiva e dirlo lo liberava soltanto. Era l’unico modo in cui era capace di dirlo mentre Sherlock glielo diceva in mille altri e forse migliori modi. Chi lo sa, non mi importa, pensava, sto così bene.
Bene.
Si sentiva quasi volteggiare nell’aria, quasi senza peso.
“Non so, magari stavi pensando al problema sulla classificazione delle lingue e dei dialetti africani.” John rise.
“Ma sì, perché no. Parliamone.”
“Sul serio?”
“Cristo, ovvio che no. Sei incredibile.”
Avevano ripreso a muoversi sulle note di una cover di God only knows di David Bowie.
“Non ti riesci proprio ad arrabbiare con me. Neanche se ho rovinato questo momento.”
“Sai che mi arrabbio con te ma non per queste stupidaggini e non ha rovinato proprio nulla. Siamo noi. Io e te. Non devi preoccuparti di niente.” Sherlock sussurrò un “Mh” e si sentiva dannatamente fortunato.

“Ho appena capito perché anche io ti amo.” John lo guardò.
“Lo sai che ti amo, cos’è quella faccia?”
"Beh, niente ma… sentirtelo dire è bello comunque.”
 “Immagino.”
John scuoteva la testa.
“Che c’è John?”
“Ma guardaci. A ballare e a dirci che ci amiamo.”
“Già. Tocca a tutti prima o poi.”
“Già. E perché mi ami Mr. Holmes?” Gli poggiò le braccia sulle spalle. Voleva guardarlo mentre lo diceva.
“Rassicurazione.”
“Spiegati.”
John non si sarebbe accontentato.
Quel momento sarebbe andato nella storia.
“Mi rassicuri. E per un iperattivo asociale e ansioso non è poco.”
Sherlock gli passò un amano tra i capelli.
“Continua.” John lo pregò.
“Dimmi come ti faccio sentire. Dimmi che…”
Non sapeva neanche lui cosa voleva che gli dicesse ma voleva che Sherlock parlasse e basta, che si aprisse e basta.
Sherlock deglutì.
Era un po' nervoso ma allo stesso tempo quel nervosismo non lo bloccava, non era una cosa negativa.
Significava che era importante e che quello che stava per dire probabilmente avrebbe cambiato la sua vita, probabilmente non lo avrebbe detto mai più a nessun altro, probabilmente non ne sarebbe mai stato più capace e quello che contava era lì e quel momento.

“Tu sei stato incredibilmente paziente con me. E lo sei ancora così come sei sempre buono con me. Tutto mi ha abbandonato durante questi due anni ma non il ricordo di te e della tua ostinatezza nel voler stare con me. Lo sentivo. Sentivo che avresti voluto trovarmi e prendermi e portarmi via. E te lo avrei lasciato fare, capisci? Ecco come mi fai sentire. Come se sapessi che se anche mi trovassi nella zona più remota del mondo, tu mi prenderesti la mano e mi porteresti a casa. Mi rassicuri, John. Mi fai appartenere ad un luogo, sei tu il mio posto. Dove non sono solo. Dove non devo pretendere di stare bene perché lo sono per davvero.”
John era zittito da quelle parole.
“Io ho spesso pensato di essere troppo per te perché, ammettiamolo, sono un casino e per niente facile da sopportare, gestire. Ma purtroppo per te John quello che ho con te non lo voglio con nessun altro. Non ci voglio neanche provare.”
Sherlock gli sorrise e il cuore gli era arrivato in gola.
“Sherlock tu… sei il mio casino. E posso sopportarti per tutto il giorno.”
John lo strinse.
“Gli attacchi di panico diminuiranno drasticamente da oggi in poi immagino.”
Sherlock pensò ad alta voce e non se ne accorse.
“Come scusa? Hai ancora gli attacchi di panico?”
John aveva una tale preoccupazione sul viso che Sherlock si pentì di essersi fatto sfuggire quell’informazione.
“Cristo, non volevo dirlo. John, non è niente di serio.”
“No, lo è.” Sherlock capì dalla faccia di John che voleva parlarne, che voleva sapere.
“Possiamo parlare…domani?”
“No.” John spense lo stereo e si sedette sullo sgabello lì di fianco.
“Seriamente?” “Sì Sherlock, seriamente.Non voglio aspettare domani o quando sarai pronto perché non lo sarai facilmente e poi io sono qui per te. Ricordi? Rendere meno tediosa la vacanza.”

John gli fece cenno col capo e lui si avvicinò, accostandosi tra le gambe di John che lo accolse poggiando le mani sui suoi fianchi.
“Okay, va bene.”
Sherlock alzò le mani in segno di sconfitta.
“Te ne avrei comunque parlato ne prossimi giorni dopo…aver fatto una cosa ma a quanto pare ogni singola cosa che avevo organizzato di fare sta andando a monte quindi immagino che vada bene così.”
Sherlock abbassò la testa sconfitto.
“Potrai farla comunque, non essere sempre così drammatico.” Lo disse dolcemente.
Sherlock sorrise e sospirò.
“Vorrei solo che tu mi dicessi cosa ti sta accadendo, cosa ti fa stare male e come… se hai di nuovo”
“No John. Non sono più un tredicenne depresso.”
Lo disse un po' seccato da ciò che John insinuava.
“L’autolesionismo, o come lo vuoi chiamare, al liceo mi è servito poche volte. Tu lo sai, lo hai sempre saputo.”
“Infatti non sto parlando del liceo. Sto parlando di questi due anni. Sto parlando di ora.”
John immaginava che quella discussione stava facendo del male a Sherlock che lo guardava con gli occhi stanchi e vicini alle lacrime.

Sherlock sapeva che John voleva sapere per aiutarlo, rincuorarlo ma era qualcosa che ti trafigge ogni volta che lo dici, quando ammetti che il dolore ti faceva stare bene. Anche se lo aveva fatto aveva sempre pensato quanto da bastardi e narcisisti fosse farlo solo perché non avevi altra scelta. Allora Sherlock voleva negare tutto.
 “Non l’ho fatto.”
“Mi stai mentendo.”
“Cosa?”
“Mentire non è il tuo forte, non con me. Sei bravissimo con gli altri e ci cascano sempre. Ma non ci riesci con me neanche se ci provi.”
Sherlock si morse il labbro e sospirò.
“Chapeau.”
John si alzò e gli strinse le mani.
“Quante volte?”
“John, non ha importanza, sul serio.”
“Quante”
“Senti, cosa ci potresti fare tu ora? Cosa potre-”
“Non è questo il punto, Sherlock. Non posso farci granchè. Non posso far scomparire quella cicatrice che avrai sulla gamba destra probabilmente, non posso cancellarne il ricordo.”
Sherlock guardava il pavimento.
“Ma posso far in modo che da oggi in poi quella ferita sia un pò meno profonda dentro di te. Almeno vorrei lo fosse e vorrei essere capace, ora, di renderla accettabile. Per te.  Perché io te la bacerò ogni volta che i miei occhi la incontreranno. L’accarezzerò ogni volta che ti sentirai giù e al posto del dolore ci sentirai il mio amore. Ecco perché voglio sapere quante volte l’hai fatto, per sapere dove posso amarti ancora e ancora, sempre. Qualcosa in fondo posso farlo. Voglio farlo.”
“J-John…”
Sherlock alzò la testa di scatto.
Piangeva silenziosamente.
Neanche un respiro fuori posto, neanche un’emozione troppo forte sentiva, ma qualcosa che lo rincuorava gli attraversava gli occhi, gli arrivava da quelli di John.
“Quante volte?”disse John piano.
Gli stringeva ancora le mani.
“Solo una.” Sorrise. Forte. Non poteva crollare ora. Non poteva spezzarsi ora, no, non lo avrebbe mai fatto.
“Okay.” Lo abbracciò.
“Per il resto delle volte il tuo cd ha fatto miracoli, è stato un toccasana.”
Il tono era allegro, per sdrammatizzare ma non funzionò molto.
Le sue lacrime scendevano ancora prepotentemente.

Era una questione seria che non si risolve in fretta.
“Per quanto ne vorrei essere felice che ne sia stata solo una sai che non posso.”
“Lo so.” Disse Sherlock e  John annuì.
Non pensava fosse colpa sua o di Sherlock. Il prossimo della lista era Mycroft ma neanche riusciva più a capire se la colpa fosse di quel fratello iperprotettivo che aveva cercato solo di fare la cosa giusta mentre lui in quei due anni era solo incastrato in quella situazione a cui era inutile opporsi. C’erano cose più grandi di lui, di loro in ballo. Sospirò.
“Ora, te ne prego Sherlock, non facciamolo accadere più. Intendo separaci. Sul serio, diventerebbe una cosa ridicola perché non ce ne sarebbe motivazione. Voglio stare insieme a te e basta. Finiamola a preoccuparci di cose che non ci riguardano e che potrebbero rovinare tutto.”
“Non ti lascerei per nulla al mondo John.”
Si sciolsero entrambi in un sorriso.
“Bene.”
Si baciarono piano stavolta.

Ci sono così tanti tipi di baci che loro ne stavano solo avendo un assaggio. Ci sono tante situazioni, giorni, momenti che richiedono ogni volta in un bacio cose differenti. Se nel primo c’era la passione e il desiderio in questo c’era il futuro. Un bacio che si sarebbero dati senza motivo tra una pubblicità e l’altra durante un film. Un bacio spontaneo che dai con attenzione e amore, una piccola dose di felicità giornaliera; quello era un bacio di questo tipo. Sherlock si asciugò il viso e spense lo stereo.
“Andiamo a dormire. Ho un disperato bisogno di chiudere gli occhi e…dormire.” John annuiva.
“E’ stata una giornata particolarmente stressante, già.”
John gli prese la mano e andarono in camera sua.


“Vado a prendere il pigiama, aspettami.”
Gli disse Sherlock e sparì per qualche minuto. John si tolse la maglia e i jeans e mise la canotta e un paio di shorts di cotone.
Si mise a letto e il silenzio era quasi snervante. La serata era piacevole e quel vento leggero faceva muovere gli alberi fuori che John intravedeva lontano. Poi si ricordò che i genitori di Sherlock e Mycroft erano in casa anche se non sembrava e si chiese se era opportuno che Sherlock gli avesse fatto compagnia quella notte. Dopotutto Mycroft non avrebbe potuto proprio mettere parola se lo avessero fatto.
“Riscaldi il mio posto?”
La voce bassa di Sherlock lo scosse dai suoi pensieri. Indossava una maglietta blu notte e solo i boxer neri.
A John girò la testa.
Aveva delle gambe pazzesche, delineate da muscoli affusolati che nella penombra si dirigevano verso di lui.
Sherlock si fermò al bordo del letto e prese la trapunta e il lenzuolo nella mano, scostandole per stendersi accanto a John.
“No, aspetta.”
Sherlock alzò il volto incrociando lo sguardo di John fisso in basso, su di lui.
Sherlock trattenne il respiro.
Era un pò spaventato da quello che l’istinto di John gli stava per fare ma non indietreggiò, non si mosse perché si fidava.
Accada quello che accada, io ci sto pensò Sherlock.
John si protese e con il pollice toccò la cicatrice sulla gamba di Sherlock.
Era verticale e lunga cinque o sei centimetri, bianca,  diafana. Premeva il dito su di essa e Sherlock rabbrividì.
Il viso di John si avvicinò e le sue labbra la toccarono.
Fredda
. Stringeva la coscia di Sherlock nella sua mano.
“Non accadrà mai più che tu ti faccia del male. Mai.”
John lo disse tremendamente serio e diede un altro bacio su quella linea e le sue dita dietro alla coscia di Sherlock si fecero più sicure.
“Voglio sentirti al mio fianco tutta la notte, okay? Vieni qui.”
 Gli accarezzò il fianco, piano, fino ad afferrargli il braccio per farlo mettere a letto.
Sherlock si stese e aveva il fiato corto. Il tocco di quella mano e di quelle labbra calde gli fecero un certo effetto.
Nessuno mai lo aveva toccato così, con cura e dolcezza e ne voleva ancora, voleva ancora le mani di John su di lui.
Voleva i suoi baci su di lui e di nuovo, ancora e ancora, quelle labbra sulla sua pelle. John si avvicinò poggiò la testa sulla sua spalla, accucciandosi al suo corpo, gli avvolse il corpo con il suo braccio, intrecciò la sua gamba a quella forte di Sherlock e mise le coperte su di loro.
Chiuse gli occhi, poggiando una mano sul petto di Sherlock che lo guardò addormentarsi.
Un pò Sherlock rimase deluso, aspettandosi decisamente qualcos’altro. Ma una volta calmati i suoi impulsi, si rese conto di quanto John lo rispettasse. Non fece altro se non guardarlo per un po', pensando a cosa mai avesse fatto per meritarselo.
Poi, senza accorgersene, si addormentò anche lui cullato dal respiro di John e sapendo che anche meglio sarebbe stato il risveglio, quando aprendo gli occhi lo avrebbe rivisto lì, con lui, rivedendo dove apparteneva.
 
“Non era quella la definizione di casa? Non da dove provieni, ma dove sei desiderato.”

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Capitolo 6
*** Buongiorno ***


Sherlock scese l’ultimo gradino e sentì delle voci.
Ancora assonnato si strofinò gli occhi appena entrato in cucina, confuso dalla forte luce di quella bella giornata di fine estate.
“Buongiorno tesoro.”
La mamma lo abbracciò e lui le sorrise. Aveva gli occhi stanchi come se non avesse dormito molto. La perdita di David l’aveva intristita e il sonno era l’ultima cosa a cui riusciva a pensare. Il padre era comodamente seduto sulla poltrona a leggere il giornale come tutte le mattine.
“Ciao papà.”
Era fermo di fianco a lui e gli posò una mano sulla spalla. Il padre si voltò regalandogli un sorriso. In queste situazioni inevitabilmente si addolciva perfino con lui.
“John dorme ancora?”
Nella mente di Sherlock apparse la piccola figura del corpo di John ancora sotto le lenzuola, a dormire beatamente e vide quelle lunghe ciglia chiare al sole come se fossero tra le sue dita.
“Sì. Ma lo sveglierò presto. Avevamo pensato di andare da qualche parte in questi giorni e spero non sia un problema. So che dovevo restare in famiglia ma davvero vorrei”
“Non preoccuparti.” Gli disse il padre.
“Hai bisogno di divertirti dopo tutto. Tornate durante il fine settimana e poi ripartite, questa è l’unica condizione che chiedo.”
Il padre fu assertivo ma in fondo ne era contento. Era sollevato. Era consapevole che John gli faceva bene e vivere un po' insieme da soli delle avventure sarebbe stato un punto da cui partire per costruire qualcosa di bello. Il padre ne era convinto.
“Va bene, torneremo venerdì sera allora. Mamma…”
Sherlock si voltò e andò ad abbracciare la donna che sorseggiava un caffè caldo.
“…per te va bene?”
La Signora Holmes gli posò una mano sul viso, leggerissima. Sherlock chiuse gli occhi.

Da piccolo la mamma faceva sempre quel gesto quando lui smetteva di piangere dopo essersi fatto male per una caduta o perché aveva rotto per sbaglio qualcosa. Un gesto di consolazione. Un gesto dolce per fargli sentire che andava tutto bene.
“Certo che potete andare. Ma non sconvolgerlo troppo, John è un ragazzo tranquillo e le tue pazzie mi preoccupano.”
“Pazzie?”
“L’anno scorso quando hai deciso di aspettare per iniziare l’università sei sparito per un anno e a mala pena ci chiamavi. Siamo venuti a sapere solo grazie alle conoscenze di tuo fratello dov’eri. E dio solo sa che hai fatto.”
Gli lanciò un’occhiataccia e lui distolse lo sguardo ridacchiando.
“Mycroft vi ha detto esattamente cosa ho fatto, avevo guardie che mi seguivano ogni giorno. Per questo l’ho fatto, perché sapevo che sarei stato al sicuro. E non ho fatto nessuna pazzia.”
Il padre scosse la testa.
“Caro Sherlock, lasciamo perdere l’argomento.” Disse ridendo.
La mamma scambiò uno sguardo di complicità con il marito e Sherlock semplicemente non poteva crederci e disse:
“Okay, okay. Qualcosa di…ricreativo l’ho fatto ma l’unica cosa importante non è che sono sano e vivo?”
Diede un bacio sulla guancia alla madre.
“E’ vero, l’importante è che tu torni sempre da noi. Okay?” Sorrise dolcemente.
“Promesso.”
“Sherlock, mi raccomando.”
La voce del padre era profonda e seria, gli occhi fissi sul giornale. La poltrona dava le spalle a Sherlock che non vedeva il volto un pò preoccupato dell’uomo.
“Cosa?”
“Lo sai.”
Sherlock non lo sapeva, non sapeva di cosa stava parlando.
“Non spenderò molto se è questo che ti preoccupa. O almeno… ci proverò.”
Fece spallucce.
“Con John intendo. Mi raccomando con John. Non lasciatevi prendere dalla novità e non ignorate le conseguenze.”
Sherlock si girò lentamente verso la mamma con gli occhi sgranati.
“Ma intende…” lo sussurrò alla mamma che annuì tranquilla.
Le guance di Sherlock si arrossarono e quella pelle bianca non fu mai così colorata. Si schiarì la voce.
“Staremo molto… a-attenti se mai ci capiterà una situazione del genere, papà, tranquillo.”
“Mh.”
Fu l’unica cosa che ricevette come risposta. Intanto la Signora Holmes aveva versato una tazza di caffè per John e disse a Sherlock di portarglielo. Obbedendo e non dicendo nient’altro salì e andò in camera dove John dormiva, ancora. Questa cosa dobbiamo risolverla, si disse Sherlock. Preferiva le persone mattutine e ovviamente John non lo era a quanto pare.


“Possiamo lasciarlo andare, così?”
Il Signor Holmes lo chiese alzandosi e poggiando il giornale sul posto che aveva appena lasciato.
“E’ giovane ma non è un irresponsabile. Starà bene. Ha John e non mi fido di nessun altro come mi fido di lui se si tratta di qualcuno che sta con nostro figlio.”
“Già, hai ragione.”
Lui le posò un piccolo bacio sulla fronte.
“David sarebbe stato felice di vedere Sherlock con qualcuno.”
Disse il Signor Holmes con un po' di amaro in bocca, sapendo quanto quell’uomo voleva bene a Sherlock e che ora non avrebbe mai più potuto vedere. La donna, gentilmente, annuì.
“Lo amava tanto. E lasciarlo è stato la cosa più difficile che ha mai fatto ed ora che non…”
Le scese una lacrima che asciugò subito.
“Quando abbiamo saputo che era morto ero seriamente spaventata. Pensavo solo a quanto Sherlock sarebbe stato totalmente solo stavolta. Ma John…” Henry la strinse.
“Lo so, cara. John è una speranza che non voglio ci deluda.”
La conversazione finì lì e i due andarono in giardino a godersi la mattinata.
La loro relazione era stata, ed era tutt’ora, come un forte albero che resiste anno dopo anno, che anche se spogliato e infreddolito dall’inverno rifioriva dei fiori più belli e aveva radici forti. Questa era ciò che speravano Sherlock avesse e John, non avendolo mai lasciato soprattutto durante il liceo, quasi erano certi che potesse dare a loro figlio una primavera bellissima che lo avrebbe fatto rifiorire sempre, dopo ogni inverno. David dal suo canto non poteva essere quella persona ma era sempre stato importante per Sherlock e i suoi genitori sapevano cosa lui provasse per quell’uomo troppo grande per lui e una cosa così impossibile non sarebbe mai potuta andare bene. John invece era un sole che riscaldava il cuore della Signora e del Signor Holmes. Un sole a cui non potevano chiedere altro se non risplendere per loro figlio.


Sherlock posò la tazza di caffè sul tavolino nella penombra sperando di centrare la superficie.
Piano scostò le tende e la luce di mattina inoltrata illuminò la stanza. Si avvicinò a John, sul bordo del letto, con il viso metà immerso nel cuscino. Si piegò lì, a pochi centimetri e accarezzò i capelli sottili troppo corti per i suoi gusti.
Sorrise.
Le labbra di John si curvarono e piano Sherlock posò un bacio di loro.
“Buong-“  
Non finì che le mani forti di John lo afferrarono e lo gettarono su di lui.
Sherlock quasi inciampò ma le mani di John gli stringevano decise i fianchi e, guidandoli, piano lo fecero sedere sul ventre di quell’uomo che lo guardava e lo teneva senza farlo muovere. Notò che John era più forte di quanto sembrava visto che era stato capace di muoverlo come voleva e quella sensazione di essere preso e stretto lo fece eccitare come mai gli era capitato.
Si rilassò e prese le mani di John nelle sue, incrociando le dita le une nelle altre ma non facendo muoverle da dove erano, strette, intorno alla sua vita.  “Buongiorno.” Disse finalmente, piano.
“Ti ho portato il caffè. Sai che ore sono?”
John scosse la testa.
Aveva su di lui quel ragazzo bellissimo e si chiese come la gente ancora può dubitare dell’esistenza degli angeli.
Gli occhi di Sherlock in quella luce erano verdi come un immenso prato illuminato da raggi dorati, intorno alla pupilla nera.
“Hai degli occhi mozzafiato con questa luce.” Sherlock inclinò un po' la testa.
Sentì il cuore stringersi.
“Devi alzarti comunque.” Disse piano, non riuscendo ad avere un tono più deciso.
Come poteva impuntarsi sul fatto che era tardi se John lo stringeva così, lo guardava così e gli sorrideva così.
John si alzò facendosi forza con le mani che lasciarono velocemente quelle di Sherlock.
Il suo petto nudo toccò la stoffa della maglietta del suo ragazzo.
“Hai avuto caldo stanotte?” chiese Sherlock, guardando le forme del petto di John.
“Sì, ho dovuto togliere qualcosa. Mi stavi attaccato come una calamita.” Risero piano.

Erano l’uno a pochi centimetri dall’altro, sul letto, Sherlock era su di lui, la luce lo rendeva stupendo, i capelli di John sembravano oro, le gambe forti di Sherlock lo stringevano, i brividi gli correvano lungo la schiena, i ricci scuri furono toccati da una dolce mano, le labbra si volevano, gli occhi si guardavano e Sherlock sembrava non respirare e John lo baciava come fosse la prima volta, era sempre la prima volta, era sempre nuovo e indimenticabile e tutto quello, quello era semplicemente un’altra giornata, quello era così semplice che tutti lo facevano, che tutti coloro che si amano lo hanno fatto ed ora, finalmente, toccava a loro e a Sherlock che respirava l’odore forte della pelle di John e John, John lo stringeva, lo avvolse con le sue braccia e lo avvolse tutto, quel corpo e poggiò la fronte sulla spalla di Sherlock e chiuse gli occhi e tutto quello, quei gesti, quella cosa che fanno tutti appena svegli, il volersi, il ricordarsi che ci si può toccare e stringere e dirsi che ci si ama, quello, era magnifico.
Era loro.

Sherlock poggiò le mani sul collo di John e baciò quei capelli sempre troppo corti e non smetteva di pensarlo.
“Vorrei che ti facessi crescere un po' i capelli. Non riesco neanche a passarci le dita.”
Ci provò, ma finì per dare solo una carezza. La sua voce era sottile, mai stata così esile.
“Vorrei stringerli come tu fai con i miei.” Disse e strofinò la guancia sui quei capelli morbidi.
John la prese come una richiesta e affondò le dita tra i ricci scompigliati di Sherlock che sorrise.
“Esatto, così.”
Chiuse gli occhi. Il sorriso di John gli si stampò sulla pelle.
Rimasero così per un po', qualche minuto. Silenzio.
“E’ così intimo. Tutto questo.”
Sherlock sentiva le mani di John ferme e clade sul suo fondoschiena che ogni tanto lo stringevano e le sue le teneva sulla schiena nuda di John.
Si mosse piano e guardò John negli occhi.
“Non lo voglio con nessun’altro.”
Sherlock era così serio. John annuì.
Quel corpo lo rendeva un’idiota che non sapeva neanche cosa dirgli. Si godeva solo quel calore, quelle sensazione che sì, erano così intime e che sentiva sue come mai prima.
“Nessun’altro ti avrà, Sherlock. Non lo permetterei mai.”
Lo baciò e respiri si fecero forti.
Quelle labbra ora erano sue, della sua bocca e, oh, quella lingua dentro di lui, sulla sua, era la cosa più strana e unica che avesse mai sentito ma non erano state sue tempo fa, erano state di altri, forse.
E quel pensiero turbò un po' Sherlock che terminò il bacio piano dicendo:
“In questi due anni, e devi essere sincero John, oltre a Frances c’è stato qualcun’ altro?”
John sospirò. Perché voleva saperlo, non contava nulla ormai.
“Non guardarmi così, non mi arrabbio. Vorrei solo sapere.”
“Non sarai geloso sapendo che ho stretto un altro ragazzo così come sto stringendo te? Così come sto desiderando te?”
Il tono era decisamente fatto a posta e unito a quel sorrisetto malizioso fece capire a Sherlock tutto. Il suo volto si irrigidì e John sorrise.
La gelosia non lo aveva mai sorpreso così prepotentemente come ora anche se sapeva che lo stava solo istigando.
Sentiva quelle mani stringerlo più forte e spingerlo verso il suo ventre e poi John iniziò a baciargli il collo, il petto da sopra la maglietta sottile.
“Hai fatto sesso con qualche ragazzo allora.” Chiuse gli occhi per concentrarsi meglio sul tocco di quelle labbra che continuavano il loro viaggio su e giù, fino alla sua mascella. John si fermò lì e piano disse:
“Due volte. Due ragazzi diversi. Uno l’ho conosciuto in una libreria e l’altro in un bar. Solo sesso. Solo una notte.”
Sherlock prese il volto di John nelle sue mani. John lo guardava tranquillo ma con un po' di nervosismo che le sue sopracciglia non potevano combattere.
“E’ stato bello?”
John abbassò lo sguardo. Non c’era motivo per mentire.
“Sì, è stato bello.”
“Mh.” 
E’…bello.”
“Non cerco una conferma John, so che è bello. Quel tono per rassicurarmi e farmi convincere che lo è, è inutile.”
“Io… io voglio solo che tu sappia che ti perderesti qualcosa di speciale. Qualcosa che ti completa come persona e che ti fa stare bene. Anche la scienza lo dice.”
John fece spallucce ed era così adorabile. Sherlock rise con gusto.
“Già, e la scienza non sbaglia mai.”
“Sei tu l’esperto. Dimmelo tu.”
Sherlock si fece serio a quello sguardo di John e fece scivolare le mani sulle sue spalle.
Guardò il suo petto e poi la curva del collo, del viso, quegli occhi blu acceso.
“Penso che sul sesso non sbaglia. Ci sono delle prove effettivamente e i fatti sono importanti.”
John lo guardava e si rese conto di quanto fosse ingenuo e puro e così fondamentalmente umano.

Dietro a quella persona fredda e sfacciata che mostrava a tutti, dietro quel volto forte e particolare che ti faceva capire che per lui la vita ed ogni sua sfaccettature non era un mistero, Sherlock era anche lui mosso da emozioni, desideri, curiosità.
Cose che non sapeva e che soprattutto non aveva mai provato.
Questa cosa rendeva John ancora più speciale per Sherlock, era come una confezione di cose nuove che John gli voleva regalare e che Sherlock era pronto a ricevere nel modo più semplice e sincero possibile.

“Un giorno...” si stese di nuovo, lasciando la presa sul corpo di Sherlock che si stupì di quel gesto.
“ti farò vedere quanto è bello donarsi a qualcuno. Sentire nel vero senso del verbo, qualcuno in te.”
“Un giorno?”
Chiese Sherlock incrociando le braccia. Era ancora su John, gambe forti attorno alla sua vita.
“Quando ne avremo davvero bisogno. Quando… sarà inevitabile.” 
John mise le mani dietro la testa per vedere meglio il volto di Sherlock un po' perplesso. Annuì.
“Dici che possiamo aspettare e che sentiremo quando sarà giusto. Mh. E ovviamente io ti do ragione perché ne sai più di me e mi conosci meglio di quanto io conosca me stesso, questo è poco ma sicuro. In più mi fido. Mh. Furbo.”
Con queste parole si distese accanto a John, fissando il soffitto.
“Non sono furbo né pretendo di sapere cosa è meglio per te o per il tuo corpo ma penso di sapere cosa è meglio per noi e …”
Fece una pausa, pesando quelle parole.
“Beh in realtà visto che come tu hai detto ho esperienza, io so cosa vuole il tuo corpo. E devi fidarti ancora di più per questo.”
John si girò e prese la tazza di caffè bevendolo piano anche se ormai quasi freddo.
“E’ una questione su cui non posso dibattere” affermò Sherlock sospirando.
L’assaggio che John gli aveva dato il giorno prima, dopo pranzo, faceva presagire che aspettare ne sarebbe valsa la pena.

John cambiò argomento sentendo che era meglio distrarlo.
“I tuoi genitori come stanno?” chiese, facendo tornare Sherlock alla realtà.
Si era perso nel pensare a quando avrebbe stretto John in quel modo lì, quel modo diverso da tutti i modi.
Come i baci, anche di strette ce ne sono di molti tipi.
“Stanno bene. Mamma ha pianto tutta la notte, occhi rossi e gonfi   e papà sembrava tranquillo. Gli ho detto che partiamo.”
Con un sorriso guardò John che alzò le sopracciglia in sorpresa.
“Oh. Bene. E dove?”
“Pensavo Londra.”
John distolse lo sguardo confuso.
“Ma lo sai che siamo appena venuti da lì vero?”
“Certo che lo so, ma non l’abbiamo mai girata insieme. Insieme insieme come siamo ora.”
Sherlock si alzò e rimase ai piedi del letto.
“Siamo persone diverse ora, siamo cresciuti, ci siamo baciati, ci amiamo. Tutto quello che vedremo da ora in poi lo vedremo con occhi diversi.”
“Cristo, quanto sei romantico. Dovresti scrivere delle poesie, saresti bravo.”
“Smettila John, sono i fatti. Io credo nei fatti.” Disse calmo.
“Tu credi in noi e nel nostro amore. E’ bellissimo. Ammettilo che un po' romantico lo sei o ti sei dimenticato di come mi hai invitato a ballare ieri sera?” Anche John si alzò e posò la tazza sul comodino.

A Sherlock non dava fastidio ammetterlo né gli dava fastidio dare ragione a John anche perché qualcuno che lo capisse così, che parafrasasse le sue frasi così colpendo in pieno cosa voleva dire non esisteva e mai sarebbe più esistito ma era una cosa abbastanza nuova e doveva metabolizzare. Andare per gradi. Alzò gli occhi al cielo e si avvicinò a John.
“Romantico, dolce, non mi importa. Senti, questo mondo fa schifo, l’ho appurato da vicino e sai di che parlo. Ci sono cose che non si spiegano, problemi, a nessuno importa di nessuno. E invece tu sei così…” Sospirò tremando quasi.
“Tu rendi tutto così tranquillo nella mia testa. Fai sembrare tutto più accettabile e più facile anche se non lo è ma anche questo non importa, non mi importa se non lo è, capisci. Qui sta la questione. Mi fai arrivare al punto che neanche mi interessa se la vita fa schifo fin quando ci sei tu. Ed è sdolcinatamente scontato ma sei il mio destino. E ammetterlo, sentirlo e dirlo è…nuovo. Ma è la cosa più reale che esiste per me.”
John deglutì, poggiando la mano al muro per reggersi.
“E’ un pensiero molto molto triste John, è una condizione umana davvero triste, ma io, anche io, perfino io, purtroppo anche io, mettila come vuoi, ho bisogno di qualcuno che posso chiamare mio. Ed in me, nel profondo di me stesso, tu sei mio.”
John si sedette sul letto non sapendo dove piazzare quella dichiarazione d’amore nella sua testa, se tra le opere più belle di Shakespeare e i tramonti che aveva visto a Venezia o tra i suoi libri preferiti e il caffè caldo la mattina. Comunque, era per lui.
Quello era per lui.
Sherlock gli si avvicinò.
“Non voglio farti svenire per due dolci parole.”Gli sorrise.
“Sei così sensibile.”
Disse piano e negli occhi sentiva come una mancanza, stavano per cedere e mai più distogliersi dal volto di John che alzò lo sguardo.
“Tu mi rendi stupido, amore. Mi fai sentire come se fossi fatto e come se nient’altro mi possa riscaldare se non tu. E dannazione, anche tu sei mio. Ti amo. E sono fottuto, Sherlock, fottuto. Io ti amo troppo. Non c’è via di ritorno, te ne rendi conto?”
John sembrava quasi sconvolto.
Aveva la pelle d’oca e Sherlock poggiò le dita su quella pelle ruvida, sulla spalla.
“Ed effettivamente non voglio ritornare da nessuna parte.”
“Neanche io.” Rispose Sherlock sorridendo.
Scesero a fare colazione come se il mondo fuori non esistesse.
C’erano solo loro.
E chiunque li avesse visti non poteva sperare altro se non che durasse.
Ma per quanto? 

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Capitolo 7
*** 221A e 221B ***


“Mi raccomando John, tienilo d’occhio.”
La Signora Holmes aveva entrambe le mani sulle sue spalle e con queste parole lo congedò con un sorriso mentre lui si limitò ad annuire.
Strinse la mano al Signor Holmes che ricambiò la stretta con forza. La donna poi si rivolse al figlio e le bastò un’occhiata per dire quello che era necessario. Anche il padre fece lo stesso e Sherlock, dopo un cenno ai genitori per segnalare di aver capito, prese la sua valigia e si avviò con John.
“I tuoi genitori pensano che io possa correre qualche pericolo vero? I loro sguardi erano…convincenti direi.”
Sherlock scosse la testa.
“Mi ami. Dovrebbero saperlo che solo questo è già un pericolo per te.”
John rise, non dandogli tutti i torti. Ma ovviamente era il pericolo migliore che potesse mai sperare di vivere.

Misero le valigie nel bagagliaio e Sherlock salì al posto di guida; John al suo fianco.
Era un Audi un po' datata ma comunque molto bella.
“Sono sorpreso ci abbiano lasciato l’auto.” Disse Sherlock mentre metteva in moto e lasciava il viale di casa.
John abbassò il finestrino e fece ondeggiare la mano nell’aria fresca di campagna. Si voltò per vedere i ricci morbidi di Sherlock che si sarebbero mossi per la brezza e vide esattamente quello che sperava di vedere; un volto rilassato, quel collo libero dai bottoni della camicia che aveva sbottonato fino al petto…
“Fermo, fermo!”
Sherlock frenò bruscamente.
“Ma che ti prende!”
“Ho dimenticato il tuo regalo.” 
Così dicendo John scese dalla macchina e Sherlock fece lo stesso.
“Me lo puoi dare quando torniamo. Perché tutta questa urgenza, è un oggetto.”
Sherlock se ne stava in piedi con la mano appoggiata allo sportello aperto con fare annoiato e di chi sa che quella era una cosa inutile che avrebbe solo ritardato i loro piani. John si limitò a fargli un cenno con la mano come per dire di aspettarlo lì ma Sherlock lo seguì sbuffando.

Entrarono di nuovo in casa e dopo aver spiegato ai Signori Holmes “L’impellente voglia di John di darmi un regalo che benissimo poteva risparmiarsi”, salirono in camera di John che frugò per un po' nel suo armadio. Sherlock aveva le mani ai fianchi e anche se appariva disinteressato dentro sorrideva ed era molto curioso di cosa aveva scelto di donargli, a lui che era una persona la cui attenzione era impossibile da attirare.
“Tieni.” Disse John.
Sherlock prese quella confezione che non era altro che un cofanetto quadrato, abbastanza grande, di velluto blu scuro.
Lo fissava.
Gli sembrava esattamente quello che molto probabilmente era: un gioiello.
Stava per aprire bocca che John lo fermò subito.
“Non mi importa. Puoi non metterlo perché so che lo troverai inutile e non adeguato a te ma sai cosa? Non mi importava e non mi importa. Volevo farlo, volevo dartelo.” 
Sherlock deglutì un po' in imbarazzo, zittito, e aprì la scatola.
Il suo sguardo seguiva la catenina brillante e leggera che terminava con un ciondolo circolare e sopra era inciso qualcosa che lui non aveva mai dimenticato.
“No. John.”
John abbassò la testa e si sedette sul suo letto, poggiando le mani sulle gambe che nervosamente si muovevano.
“Giuro che d’ora in poi i regali ai tuoi compleanni o a Natele non te li faccio. Seriamente, ci risparmio anche.”
Rise piano, ma Sherlock era ancora lì a fissare quel ciondolo e chissà cosa stava pensando.
A John sembrò una di quelle volte quando al liceo si fissava su un esercizio di chimica il che non gli faceva sperare molto bene.
“Senti, lo sapevo okay? Posalo e andiamo o si farà tardi.”
Si alzò per prendere il regalo dalle mani ferme che glielo impedirono.
Sherlock lo guardò e scoppiò a ridere.
“John Watson, tu non puoi capire quanto in questo momento io metta in dubbio tutto quello che ho sempre pensato sulle probabilità e le coincidenze.” Lo abbracciò e poi prese la collana e la indossò.
Il piccolo disco si poggiava al centro del suo petto. Sopra vi erano incisi tre numeri e una lettera: 221A. John lo guardava e avevano già capito tutto. “Non ci posso credere che te lo ricordi, Sherlock. Sul serio?”
“Non esserne così sorpreso. Io noto tutto. Se è importante, non lo rimuovo. A maggior ragione se per me è una cosa necessaria perché legata a un ricordo troppo bello.”
John sospirò e corrugò la fronte.
“Oh andiamo John! Me lo vuoi sentir dire?! Pensi che ti stia solo assecondando?”
“Beh, diciamo che per esperienza voglio assicurarmi della cosa.”
Sherlock alzò gli occhi al cielo e poi disse:

“221A è il numero del posto dove ero seduto in biblioteca la prima volta che ci siamo incontrati, al liceo. Era inciso sull’etichetta metallica al centro del tavolo, in alto. Tu stavi leggendo un libro, Hemingway, e indossavi un maglione di lanetta color crema e sotto avevi una camicia panna. Avevi i capelli corti come adesso (anche allora li odiavo, devi farteli crescere) e le gambe incrociate sotto la sedia perché quella è la tua posizione più comoda. Non ti stava piacendo il libro e allora giocavi con la pagina con il pollice, nervosamente. Ma dovevi finirlo per un esame e allora te ne sei andato in biblioteca perché se fossi stato a casa o al parco o da qualche altra parte ti saresti distratto. Lì invece, in un luogo e te così sacro, dovevi leggerlo. Continuo?” John aveva i brividi e le labbra non sapevano più parlare.
“Ti dovrei fare un applauso”
“No, dovresti darmi un bacio.” E lo fece.
Prese quel viso e baciò quelle labbra pronte a ricambiare.
“Ma vuoi sapere una cosa ancora più assurda? Sul serio John, è…”
John annuì.
“Cosa?”
Sherlock chiuse gli occhi per qualche secondo.
Iniziò a sbottonarsi la camicia.
“S-Sherlock, ci sono i tuoi genitori giù ed io…io…”
Guardava il petto di Sherlock nudo e parlare a cosa serviva?
Sherlock si fermò per un attimo dopo aver finito di spogliarsi.
Teneva la camicia ancora in mano.
Ed era lì, davanti a John, che aspettava una risposta.
“Cazzo, Sherlock.”
Le sue dita si poggiarono su quell’inchiostro, all’altezza del cuore.
“Mh. Non proprio le parole che mi aspettavo ma…”
Il tatuaggio erano tre numeri e una lettera: 221B.
Su quella pelle, era come la cosa più inadeguata di sempre, un nero che  pareva sollevarsi su quella pelle diafana.
John lo accarezzava ancora.
“Come diavolo ti è venuto in mente? La tua pelle… Sei un ballerino, non puoi avere queste cose. Poi fa male, qui.”
Sherlock tralasciò lo stupido stereotipo sui ballerini che John aveva appena detto e disse:
“E a te come è venuto in mente di spendere 350 euro per una collana in oro bianco comprata dal migliore orefice in circolazione a Venezia?”
John fece spallucce e poi sorrise.
“Okay, facciamo che siamo pari.”
Disse, incrociando per qualche secondo lo sguardo di Sherlock, per poi tornare a guardare l’inchiostro.
“221B. Non ci avevo neanche fatto caso che era il mio posto quello. Ma se ci pensi è scontato.”
“Già.”
Silenzio.
Cercavano ancora di realizzare.
Quella, se mai qualcuno la credesse una coincidenza, era la coincidenza più strana e inquietante della storia.  
“Lo hai fatto tatuare sul cuore. Ti rendi conto di quanto è scontatamente sdolcinata questa cosa? E tu non sei mai scontato.”
“Non mi importa.”
“Non ti importa?”
“E’ sempre stato il tuo posto. Non c’era altra soluzione.”
Lo disse con fare freddo.
“Non sarebbe stato giusto se lo avessi fatto da qualche altra parte. Non avrebbe avuto senso. Il tuo posto e qui e basta.”
Sherlock prese la mano di John e la baciò, tenendola stretta.
“Ti amo così tanto, John.” Gli accarezzò il viso.
“E lo sento proprio qui.” Poggiò la mano di John sul 221B.
“Ti sento qui.” Disse ancora.
A John corsero dei brividi lungo la schiena.
“Sto cercando qualcosa di tremendamente irritante da dirti ma…”
John non voleva commuoversi. Fallì. Poi scosse la testa.
Guardava Sherlock lì, in quella stanza che aveva appena preso il suo odore e scoppiò a ridere.
Calmandosi, iniziò a dire cose senza senso. Pensieri che gli passavano come fulmini nella mente.
“Perché? Perché siamo io e te Sherlock? Ci hai mai pensato? Insomma, ci sono miliardi di persone al mondo, seriamente, tu potresti uscire di qui ed incontrare chi vuoi. Un ragazzo che ha cosa che ameresti e più simile a te. È lì, da qualche parte e ti stai negando la possibilità di incontrarlo spendendo il tuo tempo con John Watson, assolutamente il ragazzo più normale che esiste. Te ne rendi conto? È assurdo. Io potrei anche incontrare qualcun altro e innamorarmi per davvero se non ci fossi tu. Trovare qualcuno più semplice da sopportare e meno assurdo e complicato. E mi sto negando questa opportunità perché ti ho scelto. E gli occhi si rifiutano categoricamente di cercare altro, di volere altro. È…è…”
Sherlock aveva gli occhi spalancati e si avvicinò piano a John che sembrava  fare fatica a respirare.
“Stai…stai avendo un crollo nervoso per caso?”
“Sto…”
John poggiò le mani sulle spalle del suo ragazzo, il suo amore, il suo chissà cos’altro gli veniva in mente in quel momento.
“Sì, penso di sì. Ma ora sto bene. Benissimo. Stavo solo cercando di capire questa cosa. 221 A, 221B. Insomma. Devi ammettere che è”
“Lo so ma è fondamentalmente normale perché sono dei particolari importanti e… è stato l’inizio di tutto. L’inizio di noi.”
John scosse la testa.
“Non puoi farmi questo ogni volta che mi parli. Non posso guardarti e pensare che stai con me. E non è normale, Sherlock okay? Non lo è.”
Sherlock intuì quasi rabbia ma non ci fece caso più di tanto perché quella era la reazione di John all’ ottanta per cento delle cose che lo sconvolgeva o che non capiva.

“Non ti rendi conto di quanto fai bene alla mia anima. Non lo potrai mai sapere, mai.”
Sbuffò piano, con un sorriso che non controllava, un sorriso nervoso.
Sherlock cercò di farlo rilassare massaggiandogli le spalle.
“No, non posso John. E voglio solo dirti che in qualsiasi momento tu puoi lasciarmi. Non ti incolperei, non mi arrabbierei. Io non sono una persona con cui vivere una vita serena. Io do fastidio, sono arrogante, straparlo e mi isolo. E tu sei libero di andartene quando lo desideri. Non abbiamo neanche iniziato questa vacanza che dovrebbe farmi capire che a vent’anni ci si deve godere la vita e le piccole sciocchezze, che io già so che non ne ho bisogno, John. Noi, non ne abbiamo bisogno. Hai detto che sei un ragazzo normale ma non ti sei mai sbagliato di più in vita tua. Sei un ventenne che ha una saggezza che neanch un cinquantenne ben istruito e vissuto ha mai avuto. Capisci ogni piccola emozione e la fai grande.”
Non vedeva il volto di John in quanto stava ancora massaggiandogli le spalle, con calma, spalle che si rilassarono.
 “Ogni cosa ti tocca e sei così pronto ad ammirare il mondo che te ne riempi e ne scrivi a riguardo, lo disegni con la tua arte che è spettacolare. Sei sempre imbronciato e divori libri come fossero caramelle. Hai metà del corpo tatuata delle cose più assurde e profonde che io abbia mai visto. Tu e normale nella stessa frase non ci stanno proprio. E questa voglia di salvarmi che hai… io la apprezzo. Ed è uno dei motivi più importanti per cui ti amo perché nessuno ci ha mai provato in un modo così bello.”
Nessuna riposta.
Eppure si era fermato per cercare di estorcergli qualcosa. Le sue mani si fermarono e fu di nuovo di fronte a lui. John, semplicemente, ascoltava.
Con quella sua tipica espressione un po' imbronciata.
“Ma fatti dire quest’altra cosa scontatamente sdolcinata” continuò Sherlock.
“Anche solo il tuo amore mi fa venir voglia di vivere quando ci avevo rinunciato.” Sorrise.
John impassibile.  
“Quindi, ora andremo a Londra e ci divertiremo ma non perché io ne ho bisogno e neanche perché tu ne hai bisogno, ma perché noi vogliamo farlo per dimostrarci che insieme possiamo andare ovunque, vedere chiunque e qualsiasi cosa ma alla fine, saremo sempre noi. Insieme. Perché è la sola cosa che ci fa stare bene, non trovi?”
John fu colpito da quelle parole; erano una verità che Sherlock aveva capito mentre lui, no.
Lui aveva la mente di un ragazzo di venti anni. Sherlock del doppio, minimo. Forse neanche si poteva porre un limite di età ai suoi pensieri, ragionamenti, riflessioni. John gli era di fronte e annuiva, annuiva.
Cercò qualche parola a cui dare senso.
“Sai a cosa sto pensando, ora?” Teneva gli occhi fissi sul pavimento, le mani cercavano quelle di Sherlock che si lasciarono prendere.
John ci giocava.
Tentava di disperdere le emozioni, un po' tra le dita di Sherlock da stringere, un pò sulle labbra nervose che stavano per parlare.
Sherlock per un attimo fu colto dal dubbio che aveva parlato troppo, come sempre, sempre lo stesso errore; aveva detto qualcosa fuori luogo e se ne pentiva.

Ecco cosa deve affrontare chi soffre di ansia: non sentirsi mai giusti e sempre alla deriva. E quella scomoda sensazione di colpa faceva capolinea sulle sue mascelle serrate. Quella folata di emozioni per lui era come un puzzle che doveva comporre nel modo esatto altrimenti poteva avere un attacco d’ansia in quel preciso istante.
Ma era con John.
Era John.
E provava, tra tutto quel miscuglio di cose, anche tranquillità. Ed era un paradosso ma era reale. John era reale e lui non poteva sentire nulla se non pace. E pensando questo, anche solo pensando al nome di John, sapeva salvarsi.
“Sherlock, io penso…”
Alzò gli occhi su di lui. Lui che lo guardava intensamente come se stesse aspettando una sentenza.
“…che ti amo, ti stimo e ti devo molto. Io non, non so come andrà a finire.”
“Tra di noi?” La sua voce era instabile.
“Sì. Tra di noi. Il troppo storpia. Troppo poco anche. Tutto quello che spero è che troveremo un equilbrio.”
Le labbra di Sherlock si curvarono in un piccolo sorriso. Lui era il troppo. John era il poco. O almeno questo è quello che pensava John, quindi. Ma erano un troppo che non era sbagliato e neanche il poco lo era. Erano, entrambi, solamente distanti. Due mondi. Ma come due mondi, letteralmente si condizionavano. Come la storia dei campi magnetici, avete presente? Si sta in piedi solo se anche l’altro c’è, altrimenti vagherai nello spazio.
Perso.
Per sempre.
Senza nulla che ti possa riprendere e portare di nuovo a casa. Mai più quella sensazione di casa.
Distanti.
Due mondi.
E come unico svantaggio avevano l’amore che quella distanza se la divorava. Quindi ora si ritrovavano troppo vicini, forse. Era questo il problema, sentivano. Una  vicinanza che ti cura ma ti fa male. Uno sciroppo troppo amaro che ingoi sapendo il bene che ti farà. Volta dopo volta. Tutto quello che dovevano fare ora  “ Resistere, John. Dobbiamo resistere.”
Fu tutto quello che Sherlock disse e John fece un’espressione tra il consenso e un punto di domanda. Sherlock lo baciò, piano.
“Lo so che hai detto che un bacio non aggiusterà le cose con te ma non volevo aggiustare proprio nulla. Mi stai bene così. Con i tuoi dubbi e le facce strane quando tutto quello che vorresti fare è cacciare un urlo e tirare un pugno al muro.”
Sorrise.
John scosse la testa tirando come un sospiro di sollievo.
“Facciamo che mi baci ogni volta che voglio farlo? Ogni volta che vorrei perdere la tesa?”
“Sì.”
“Bene.”
“Ora…scendiamo, saliamo in macchina e partiamo, tu ed io. Io che cercherò di mettere al posto giusto le  emozioni e tu che cercherai di capirle.”
“E se l’amore è davvero qualcosa che non si capisce come tutti dicono?”
Sherlock rimase in silenzio per un po' ma poi sicuro disse: 
“Ma noi non siamo ‘tutti’. Io sono un asociale, scienziato ballerino e tu sei un artista, filosofo, scrittore.”
Alzò gli occhi al cielo. “Dio solo sa come riusciamo ad andare avanti e tu vorresti dirmi che ti importa di quello che tutti dicono sull’amore? No, John.” “Hai centrato il punto, direi.”
“Mh.”
John si passò la mano tra I capelli.
“Siamo un bel casino eh.”
Sherlock dondolò la testa a destra e a sinistra.
“A me piace il caos. Senza, mi annoierei troppo.”
Risero e dopo una sguardo che solo Dio sa quanto era bello, scesero ritrovandosi di nuovo in cucina.

La Signora Holmes vide la collana luccicante e la prese sul palmo della mano.
“E’ bellissima, John.” Sorrise.
“221A?”
“E’ una lunga storia, mamma.”
“Un giorno me la racconterai. Ma ora avviati in auto. Io e tuo padre abbiamo bisogno di parlare con John.”
Sherlock e John si guardarono.
“Se vuole dirmi qualcosa che riguarda la mia relazione con suo figlio, Sherlock rimane. Non ho problemi, né imbarazzo.”
“No ragazzo.”
Intervenne il padre di Sherlock, che se ne stava di spalle di fronte al camino spento, con le mani in tasca e una voce meno gioiosa del solito.
“E’ una questione personale. Che riguarda te e noi, in un certo senso.”
Sherlock era confuso.
“Papà, mamma, so che io non sono la persona migliore nella relazione, e forse mai lo sarò ma non per questo dovete tentare di”
“Stai solo sprecando tempo prezioso, figlio mio. Ascoltaci.”
“Sherlock, va bene.”Disse John, che ancora cercava di realizzare le parole di Sherlock ma, sembrava una cosa seria e non era il momento di prendere posizione.
“Aspettami in macchina.”John fu piuttosto serio e calmo. Anche se non poco preoccupato, si fidava degli Holmes e sapeva che era necessario ascoltarli.
“Ma John io”
“Sai che te lo direi comunque ciò di cui abbiamo parlato. Lo sai.”
Le spalle di Sherlock si rilassarono e a quella rassicurazione e al sorriso altrettanto rassicurante di John non poteva che fare come gli era stato detto. Si schiarì la voce e prendendo le chiavi che aveva lasciato sull’isola della cucina, piano si avviò alla porta. Di spalle disse ai genitori:
“Ci vediamo venerdì.”  La porta si chiuse. Sherlock salì in macchina fissandola dallo specchietto laterale, aspettando John.
Mise un cd, quello di cui aveva sempre una copia in auto, quello che lo tranquillizzava di più al mondo: quello di John.


I Signori Holmes, uno accanto all’altro, guardavano John con apprensione e John era stranamente tranquillo ai loro occhi.
“Voi siete i genitori migliori che una persona possa avere e niente mi farà cambiare idea al riguardo, neanche se pensate che vostro figlio non è capace di amare o prendersi cura di un’altra persona perché lui, credetemi, pone attenzione e gentilezza e amore in ogni cosa che fa. Soprattutto con me. Ed io, fin quando non saremo pronti, non lo lascerò e non lo costringerò a fare cose che”
“Abbiamo già detto che non riguarda voi. E’ qualcosa di più delicato.”
Il Signor Holmes prese una busta bianca dalla sua giacca e la porse a John. Sul retro, al centro, il suo nome.
“Ce l’ha lasciata Mycroft e ci ha detto di dirti delle cose, cose che neanche noi capiamo.” Disse piano la madre di Sherlock.
“Sappiamo solo che sono importanti. Nostro figlio fa parte di un mondo complicato e tutto quello che possiamo e dobbiamo fare, mio caro John, è fidarci.”
A quella frase John rise come ad una barzelletta.
Sapeva, ovviamente, cose che quelle due persone non potevano neanche immaginare e sentire proprio quelle parole da loro, era troppo.
“F-fidarsi? Di Mycroft?” disse retoricamente John, come se fosse la cosa peggiore da fare e la decisione più pericolosa da prendere.
La donna continuò, stringendosi al braccio del marito.
“Sappiamo com’è con gli altri: un egoista, un altezzoso e molto prepotente. Lo sarà stato con te, di sicuro. Ma è nostro figlio ed è l’unica cosa che possiamo fare. Ed è il fratello di Sherock. Non lo metterebbe mai in pericolo ma ora, sembra che qualcosa accadrà e tu, purtroppo, sei qualcuno che è entrato nelle nostre vite ormai. Nella vita di Sherlock, soprattutto. E Mycroft ritiene che tu debba sapere certe cose e ci ha detto di darti quella lettera da parte sua dicendoci che non dovrai rivelare il contenuto a Sherlock. Almeno non subito ma quando sentirai che ne sarà il momento. Non ci ha detto altro se non che dovrai leggere quella lettera e farne venire a conoscenza Sherlock almeno entro venerdì. Perché…”
Un cenno di quello che sembrava terrore apparse nell’azzurro degli occhi della Signora Holmes che abbassò quello sguardo perso.
“Perché quando tornerete, accadrà.”

John sentiva il sangue scorrergli nelle vene, una sensazione di gelo sulla schiena e una preoccupazione mai provata.
La lettera nella sua mano si piegò per la sua stretta.
Il padre di Sherlock sembrava di pietra.
Solo la sua dolce mano accarezzava quella della moglie appoggiata al suo braccio.
“Inutile chiedere cosa accadrà.” Disse.
“Non lo sappiamo ovviamente. Ma Mycroft si fida di te, capisci? Deve essere sincero. E noi…ti chiediamo di fidarti di lui. Perchè noi ci fidiamo di te. Ma qualsiasi cosa accadrà, qualsiasi cosa ci sia scritta lì, ti prego di prendere sempre la decisione che ti dirà il cuore.”
Il Signor Holmes aveva uno sguardo profondo, che trafiggeva quello di John che lo ascoltava.
“Il tuo cuore è sempre un passo avanti rispetto alla tua mente, ricordalo. Le decisioni fatte col cuore non si rinnegano mai.”
John annuì e fece tesoro di quelle parole. Le rinchiuse per bene nella sua memoria e se le ripeteva come un mantra.
“Lo farò. Vi prometto che sarò prudente e che niente, mai nulla succederà a Sherlock. Lo giuro.”
Il volto pesante e forte del padre di Sherlock si sciolse un po' per lasciare spazio ad un sorriso.
John disse quelle parole deciso e sincero.
“Anche se so che fra Sherlock e Mycroft non corre sempre buon sangue, anche io penso che non lo metterebbe mai in un serio pericolo quindi mi fiderò di Mycroft e delle sue parole.”
 La donna lo abbracciò e il profumo dolce dei suoi capelli fecero sentire John al sicuro. Si disse che nei momenti in cui si sentirà perso o indeciso, ricorderà quel bel profumo per ricordarsi di fare la cosa giusta.
“Sii ancora più forte di quanto non sei, John. Fai tutto quello che ritieni necessario e giusto. Non te lo chiederemo mai se non fosse importante.”
“Ed io non lo farei mai se non per l’uomo che amo e per la sua famiglia.”
Gli occhi lucidi della donna non si trattennero nel piangere poche, lacrime che si asciugò subito.
Al padre di Sherlock venne in mente il discorso che fece al figlio solo il giorno prima. Gli venne in mente il modo in cui suo figlio guardava quel coraggioso ragazzo che con una naturalezza immane aveva appena detto che amava Sherlock. A quei pensieri, non ebbe più paura.  
“Ora va. Fate in modo che questi quattro giorni siano memorabili.”
Questo fu l’ultima frase che il Signor Holmes disse. Una frase che John prese come una promessa da mantenere.
Annuì, e infilandosi la lettera dietro, nei pantaloni, aprì la porta e dopo un ultimo sguardo che aveva troppo il sapore di un addio, sparì, lasciando i genitori di Sherlock sperare nel meglio.


John salì in auto.
La canzone che andava avanti ad alto volume lo fece sorridere, nonostante tutto.
 Era Shine on di James Blunt.
Si mise comodo e si allacciò la cintura, deciso a fare come promesso.
Non avrebbe detto nulla e appena avrebbe avuto almeno cinque minuto di tempo da solo avrebbe letto la lettera che gli pesava come un macigno appoggiato alla sua schiena.
Sherlock abbassò il volume lo guardò, incociando le braccia.
“Allora?” lo disse con calma, stranamente.
Ma quella farsa del tranquillo e stoico non avrebbe funzionato con John, che si voltò sorridendo.
“Allora, io posso solo dirti che quando verrà il momento giusto ti dirò di cosa abbiamo parlato io ed i tuoi genitori ma fino ad allora, Sherlock…” pronunciando il suo nome gli cadde la facciata forte che aveva mantenuto fin ora.
Deglutì con fatica.
“Fino ad allora fidati di me.”
Sherlock era come esausto, come se il mondo gli si stava poggiando addosso e chilo dopo chilo lo soffocava.
Gli occhi lo tradirono diventando umidi, ma per poco. Fece un respiro profondo, lungo e poggiò la mano sulla gamba di John.
Annuì soltanto.
Gli bastava.
Fidarsi di John gli bastava e sentiva che era l’unica cosa da fare.
John gli prese la mano e la baciò piano. Sherlock mise in moto.
“Sherlock.”
“Che c’è?”
John sentiva cose che mai avrebbe potuto o saputo raccontare.
“Se tu potessi sentire quello che sto sentendo io ora, probabilmente ne moriresti.”
A malapena Sherlock reggeva l’affetto per John perciò sì, sarebbe morto se avesse potuto avere dentro di se ciò che John in quel momento stava subendo, tutto l’amore che aveva promesso e che sentiva. Tutta la necessita di salvarlo, proteggerlo.
Proteggere il suo Sherlock.
E sentiva anche ansia, paura, un’anticipazione di dolore.
Sherlock si limitò a sorridere nel modo più dolce che poteva in quel momento e guardandolo, disse poche parole che sperò John capisse in fondo.
“Mi andrebbe bene.”
John capì.
Poteva finire tutto in quell’istante, pieno di dubbi e domande e incertezze, Sherlock avrebbe sempre e costantemente detto che gli andava bene, John era lì.
Probabilmente quello che li aspettava era la fine.
La fine.
Sherlock non si sforzò neanche di dedurre qualcosa o di fare ipotesi perché aveva un solo motivo per non farlo: quei quattro giorni.
Quattro giorni che non saranno turbati dalle mie fissazioni, si disse.
In quei quattro giorni non sarebbe esistito più niente se non loro.
“Vivremo questi quattro giorni splendidamente, John.”
Dentro John qualcosa nacque dopo aver visto gli occhi di Sherlock più vivi che mai.
“Come se fossero gli ultimi?” Chiese, sperando di non turbare quella vita che scorse in Sherlock.
“No. Come se fossero i nostri primi.”
La macchina partì veloce, in quella mattinata splendida e Sherlock e John erano pronti.
Pronti a fare il possibile per non arrendersi a ciò che la vita gli avrebbe imposto.
A ciò che l’amore aveva in serbo per loro.
 

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Capitolo 8
*** Vita ***


La musica li accompagnò per tutto il viaggio.
Passavano dalle romatic ballads, che gli facevano istintivamente stringere le mani l’una nell’altra in una stretta sicura ma gentile, al rock dei Queen o al grunge dei Nirvana fino a passare per Bach di tanto in tanto quando John lo permetteva.
Tra di loro solo musica ed era una sensazione bellissima riuscire a stare in silenzio con qualcuno.

Dicono che è qualcosa che se riesci a fare devi sentirti fortunato.
Raggiungere una certa sintonia non è scontato.

Arrivarono per l’ora di pranzo al centro di Londra. Sherlock imboccò una strada laterale al Big Ben. Lì in città era più nuvoloso e sembrava che le nuvole corressero velocissime per il vento che c’era. Dopo pochi minuti Sherlock rallentò e si fermò, parcheggiando davanti all’entrata di un antico palazzo. Pochi gradini fronteggiavano la grande porta di legno scuro e alzando gli occhi John vide i balconi in ferro battuto, molto eleganti, pieni di fiori bellissimi. Era una zona in cui c’erano molti negozi, alcuni di firme famose, e costosi ristoranti.
“Pensavo stessimo andando all’hotel vicino a Golders Hill Park. O almeno così avevamo deciso ieri.”
Il motore era spento e Sherlock sorrideva con lo sguardo basso.
Quell’hotel era lontano del centro di Londra mentre da dov’erano ora, se si voltavano, vedevano l’imponente Big Ben in una meravigliosa luce bianca e una strada gremita di persone e vita.
“Al quarto piano, l’ultimo, c’è un appartamento che un amico di mio padre ci ha messo a disposizione.”
Sherlock guardò John corrugare la fronte e sorridere come se fosse la notizia più bella del mondo dicendo: “Capisco.” “Risparmiamo anche soldi in questo modo. Era una proposta a cui non potevo rinunciare, ovviamente. Non ti piace l’idea?”
Lo domandò conoscendo la già la risposta perché conosceva John.
“Scherzi? Siamo a cinque minuti di cammino  da Westminster Bridge, riusciremo a vedere il Big Ben dal balcone praticamente e mi chiedi se l’idea mi piace? E guardati intorno. E’ esattamente quello che volevo.”
Gli diede uno sguardo di gioia pazzesca e Sherlock disse solo:
“Bene.” con un filo di voce.
Scesero dalla macchina e presero le due valigie.

Salirono i gradini e Sherlock aprì la porta un po' pesante ed entrarono in un atrio molto spazioso con un tappeto lungo e lampadari molto eleganti che creavano una luce accogliente. Alla sinistra c’era una piccola cabina e dal vetro il giovane ragazzo fece un cenno col capo per poi uscire. Aveva un uniforme nera, lavorava lì come portinaio. Aveva lunghi capelli biondi che gli scendevano sulle spalle e due occhi verdi brillanti e un sorriso per il quale sicuramente sarà stato scelto per quel lavoro.
“Salve. Posso aiutarvi con le valigie?” disse gentile e Sherlock e John annuirono.
“Il Signor Holmes mi aveva avvisato del vostro arrivo. L’appartamento del Signor Hill è al quarto piano, la porta a sinistra. Immagino avete le chiavi e se potete farmi la cortesia di avviarvi intanto avviso il Signor Holmes del vostro arrivo.” Prese le due valigie e poi disse:
“E comunque l’ascensore è purtroppo piccola per tutti quindi…vi raggiungo in due minuti” disse dandosi un tono.
“Bene. Andiamo John.” 
Entrarono nell’ascensore alquanto piccolo e raggiunsero il piccolo pianerottolo occupato da soli due appartamenti, uno di fronte all’altro. Sherlock aprì la porta a sinistra che cigolò un po'.
“Il proprietario, il Signor Hill, lavora a Dublino e viene qui solo quando ha qualche affare a Londra. Questa casa è vuota per l’80% del tempo in un anno. Guarda i bordi in basso delle tende.” Disse Sherlock entrando ed indicando le lunghe tende di una stoffa pesante tipo lino, chiare che coprivano un enorme balcone che illuminava tutto l’open space.
“L’orlo è nero nonostante la domestica faccia le pulizie due volte al mese in quanto sposta molta polvere e rimane lì, in basso. Non le lava. Ha paura di rovinare il tessuto alquanto costoso effettivamente.”
John mise le mani ai fianchi.
“Non per darti corda Sherlock, ma non posso mandarle in lavanderia?”
Sherlock lo guardò come fosse un’ idiota.
“Uomo, anzi, uomo d’affari per precisare, che viaggia di continuo e ha rapporti internazionali con mezza Europa...e pensi si preoccupi se la domestica è una scansafatiche che si annoia di portare le sue care tende a lavare?” John fissò un punto nel vuoto per qualche secondo.
“Beh, ci terremo le tende impolverate allora.”
Si incamminò guardando i suoi passi sul marmo bianco e grigio. Lo spazio era luminoso. Al centro della stanza, davanti all’alto balcone, c’era un bel tavolo rotondo di vetro su cui spiccavano delle fresche rose rosse. A destra c’era una cucina moderna, con tutti gli elettrodomestici, un grande forno e una penisola in marmo nero e lucidissimo.
John si avviò verso il divano mentre Sherlock ancora studiava matematicamente tutto l’ambiente.
Accarezzò la pelle della poltrona su cui si sedette. Di fianco un grande divano, un bel tavolo in legno e al muro un televisore di minimo 72 pollici. C’era anche una piccola libreria, diverse mensole con sopra quadri della famiglia del proprietario. John curiosò tra i libri ma non trovò nulla di interessante, soliti classici della letteratura inglese ed italiana che aveva già letto. La casa era un po' spoglia, c’era solo l’essenziale, ma era bella e spaziosa. “Eccomi.”
Il bel ragazzo che aveva le loro valigie entrò e le poggiò vicino Sherlock che gli rivolse un piccolo sorriso.
“Grazie Liam.” Per un attimo Liam si chiese come conosceva il suo nome ma realizzò che lo aveva cucito sulla divisa all’altezza del petto.
“Di nulla…” attendeva che Sherlock gli dicesse il suo nome, guardandolo curioso.
“Sherlock. Sherlock Holmes. Lui è il mio…”
Aveva indicato John per un secondo con la mano.
Doveva dirlo?
In queste circostanze le convenzioni portano ad etichettare le persone se si hanno rapporti intimi e diversi rispetto ad una semplice amicizia?
Non lo sapeva. E un po' nel panico, lo disse.
“…fidanzato.”
Deglutì a quella parola.
Gli sudarono le mani.
John stava ancora sfogliando un libro e lì, all’angolo dell’appartamento, non sentì. Sherlock non avrebbe mai superato questa cosa.
“John Watson.” Aggiunse, evitando di guardare il biondo tranquillo che gentilmente disse:
“E’ un piacere conoscervi. Per qualsiasi problema potete rivolgervi a me. È una casa tenuta bene ma se un rubinetto non funziona o quant’altro non esitate a dirmelo.”
“Okay, grazie.”
Rispose Sherlock tranquillizzato dall’atteggiamento di Liam.
Aveva le mani strette dietro la schiena, in quella posa professionale e con un cenno del capo uscì dall’appartamento. Sherlock si avvicinò a John. Poggiò il petto alla sua schiena e lo avvolse con le sue braccia piegandosi un po' per raggiungere con il mento la spalla di John che lo accolse strofinando un pò la testa contro la sua.
“Ti ho appena presentato al portiere come il mio fidanzato.”
John sorrise.
Si disse: allora è questo quello che si prova.
“Va bene. È la verità, Sherlock.” Sherlock lasciò un bacio sul collo di John, sfiorando il bordo della t-shirt.
“Sì, ma ridurti a quella parola è inconveniente e lontano dalla mia di verità.”
John chiuse il libro e lo rimise al suo posto. Sherlock lo stringeva all’altezza dello stomaco con le sue lunghe braccia.
“Ma non potevo certo dire ‘il mio tutto, la mia vita, la mia unica luce e bla bla’. Mi avrebbe riso in faccia.”  
“Ci dobbiamo accontentare della banale umana parola fidanzato.” Risero.
John si voltò liberandosi dall’abbraccio, ma non lasciandolo.
“Vediamo il resto della casa, sono curioso.”
“Posso dirti qualsiasi cosa tu voglia su tutto. Ci sono indizi spiattellati ovunque. Se solo la gente fosse più attenta a lasciare parti di sé in giro, magari io troverei un pretesto per parlare loro.”Disse sbuffando piano.
John gli prese la mano e si incamminarono per il corridoio.
“Il pretesto si chiama ‘fare amicizia’ ma so che è un concetto che devi ancora metabolizzare.”
“Abbastanza.” Ripose Sherlock che aprì una delle quattro porte che occupavano lo spazioso e lungo corridoio.

“Oh, un bagno più grande della cucina. Interessante.”
Aprirono un’altra porta e c’era un altro bagno più piccolo, con la lavanderia. Poi la camera per gli ospiti che poteva  benissimo passare per quella padronale. Alla fine del corridoio, l’ultima porta.
La camera profumava di bucato appena fatto.
Il grande letto matrimoniale al centro occupava sì e no un terzo della camera.
C’erano due grandi armadi, la tv al muro, una cabina armadio piccola ma funzionale.
“Niente male.”
Diverse candele era sparse per la camera e rendevano l’ambiente più caldo e vissuto. Un quadro di un mare in tempesta la faceva da padrone sul letto. John lo guardò stranito.
“Non proprio un quadro rilassante che metterei in una camera in cui devo dormire ma…de gustibus.”
Si sedette sul letto, accarezzando la soffice trapunta a stampo floreale.
“Il letto è comodo.”
Prese i cuscini e li adorava, era sofficissimi.
“La sua amante gli ha regalato queste candele.”
Sherlock ne prese una che se ne stava per metà consumata sulla cassettiera sotto uno specchio elegante.
“Oh.” Commentò John, quasi dispiaciuto. Anche Sherlock aveva un’espressione delusa sul volto.
“Ha una bella famiglia, sai John. Loro figlio è un genio del tennis e la moglie è un avvocato in carriera ma trova il tempo per andare in vacanza in montagna con il marito anche durante l’anno. Ci tiene.”
La tristezza mista a rabbia che ne uscì da quelle parole era enorme.
“E lui la tradisce.” Poggiò la candela con forza di fianco alla foto della famiglia cheaveva appena descritto.
“Non lo capirò mai.” Sherlock si voltò e vide John guardarlo.
“Hai un cuore troppo buono per capire queste cose. Ma non so ancora se sia una cosa positiva o negativa. Ti fa solo crogiolare ancora di più sulla natura umana, vero?”
Sherlock annuì.
“Beh. Mettila così: è il Signor Hill che ci perde. È l’unica cosa da capire.”
Andò verso quel ragazzo che gli sembrava l’essere più bello che il mondo avrebbe mai conosciuto. Non sapeva come fosse possibile che cose come quella per Sherlock non sarebbe mai potute esistere perché non le concepiva, aveva un animo così sincero un’integrità morale che non lo portava a credere nel tradimento.
“Ti va di mangiare indiano oggi? Ne ho una strana voglia.”
Poggiò le braccia sulle spalle alte di Sherlock che lo prese alla vita.
“Certo.” Rispose.
Tutto quello a cui pensava era che non avrebbe rimpiazzato John con nessuno, neanche per un giorno. Neanche per curiosità. Neanche per sogno.

Andarono in un bel ristorante nel quartiere, fecero una lunga passeggiata, andarono a fare la spesa che più che altro comprendeva qualche birra, biscotti, tè, marshmallow e nulla che si poteva ritenere salutare.
“Non so perché lo stiamo facendo, a vent’anni dici che si fanno queste cose in vacanza, ma mi piace.” Azzardò Sherlock, riempiendo il carrello con delle confezioni di biscotti allo zenzero che adorava.
John gli sorrise.
“Ti devo fare la pasta una di queste sere. Quando sono stato a Venezia mia zia Elisa mi ha cucinato un ragù pazzesco, ti giuro. E dubito che avrà lo stesso sapore ma voglio provare.”
Sherlock lo guardava scegliere il tipo di vino rosso da abbinare.
E, come se una musica lo avvolgesse, si sentì importante.
“La cucineresti per me, John?” John si voltò con due bottiglie ancora tra le mani.
“Certo. Certo che lo farei per te.”
Gli sorrise e posò le due bottiglie nel carrello quasi pieno.

Cos’era quella cosa? Era la normalità di una coppia che si amava. Era sicuramente qualcosa di lontano da ciò che realmente erano ma, pensò Sherlock, non è per niente male.

Tornarono a casa e misero a posto quello che avevano comprato. Dopo disfecero le valigie e Sherlock buttava di tanto in tanto occhiate curiose tra la roba di John  che, disordinatissimo, buttava semplicemente le magliette e la biancheria a caso nei cassetti mentre Sherlock riempiva l’armadio con tutte le sue camice e solo qualche t-shirt per quando voleva stare più comodo.
Appese anche i pantaloni e occupò tutto l’armadio di fianco al bagno. John alzò gli occhi al cielo.
“Lo sai che venerdì ripartiamo giusto?” Sherlock fece spallucce.
“Mi piace avere una vasta scelta.”
John spalancò la bocca e tenne un paio di  boxer a mezz’aria per un bel po' a causa di quella affermazione.
“Posh boy” disse fissando uno Sherlock intento a  richiudere la valigia vuota.
“Dimmi che non mi hai chiamato come mi hai appena chiamato.” Poggiò le mani ai fianchi, scioccato.
“Perché non sono un…posh boy.” Sventolò le mani in aria.
“Qualsiasi cosa tu voglia intendere.”
“Quello che intendo” sentenziò John “è che a volte, e ripeto a volte, ti piace atteggiarti. Tutto qui. Non  è mica un’offesa. Poi tutte quelle camicie fatte su misura, eleganti, il modo in cui le porti…” Disse disinvolto.
“Allora come ti dovrei chiamare io?” incrociò le braccia aspettando una riposta da John che si limitò a chiudere i cassetti.
Si poggiò sulla cassettiera e fece spallucce. “Tu come vorresti chiamarmi?” lo disse in modo molto ammiccante. Le guance di Sherlock divennero di un rosa che non avevano mai conosciuto. Era un territorio sconosciuto per lui, soprattutto i una camera da letto. Abbassò lo sguardo.
“John. Semplicemente John.”
John annuì, un pò dispiaciuto dalla mancanza di fantasia del suo ragazzo. Prese il suo accappatoio e la biancheria pulita.
“Io vado a fare una doccia. Tu?”
Non voleva azzardare nulla né implicare nulla. Lasciava la scelta a Sherlock che cadde sul letto come un peso morto, aprendo le braccia.
“La farò dopo, tranquillo. Mettici tutto il tempo che vuoi.” disse velocemente e prese ad armeggiare con il suo cellulare.
“Come vuoi.” si limitò John, che sparì nel bagno.
Poggiò l’accappatoio e i boxer su un piccolo mobile e si poggiò al lavandino, facendo un lungo respiro prendendo la lettera che aveva nei pantaloni. La fissò per un tempo indefinito che in quel silenzio parve non avere senso.
“Dannazione” sussurrò più piano possibile.
Aprì la busta e spiegò il foglio di carta piegato con cura.
La calligrafia di Mycroft era molto chiara e la lesse facilmente.
Scorreva gli occhi su quelle parole e la fronte si imperlò di sudore.
La lettera diceva esattamente questo:

“Spero che tu almeno abbia capito che la scrivo a mano in quanto qualsiasi altro tecnologico modo in cui potevo contattarti sarebbe stato intercettato. Chiarito questo, sai che questo lunedì mattina sono partito per l’Oriente, cosa che ti accennai quando facemmo la nostra bella e calma chiacchierata ma ora sarò coinciso: Sherlock non è solo in pericolo di morte ma dovrà (e vorrà) anche evitare che tu rimanga ferito o ucciso quindi so benissimo quanto sarà stressante per lui quando ritornerete, ma mi dovrà aiutare  a convincere un uomo molto cattivo a lasciar perdere un affare. Non so come dirtelo in modo meno infantile. Allo stesso tempo, non posso darti troppe informazioni perché mio fratello lavora meglio sul campo, a diretto contatto con il fatto. Mi fido di lui, cecamente. Di te meno perché comprometterai questa operazione a causa del coinvolgimento di mio fratello nei tuoi confronti. È un dato di fatto. Ma dovevi sapere. Infine, ti chiedo solo una cosa: se sarà necessario, salvalo. Io non potrò. Fallo per te stesso, fallo per i miei genitori, non mi importa. Sherlock non deve in alcun modo morire.”

Cos’era quello?
Un ordine?
Così sembrava ma in realtà era affetto per il fratello che probabilmente sarebbe morto.
Morire.
Morte.
Sul serio era reale tutto quello? John aveva il fiato corto.
Con freddezza però si ricompose e decise di dover distruggere in qualche modo quel foglio.
Aprì il rubinetto lasciando scorrere l’acqua e l’inchiostro poco alla volta si dileguò lasciando macchie indecifrabili.  Prese quel miscuglio molle e lo avvolse con della carta, buttandolo nel cestino di fianco al water.
Chiuse gli occhi.
Li aprì violentemente e non sapeva cosa stava pensando. Sapeva solo che doveva parlare con Sherlock e risolvere quella questione. Presto. “John?” Sherlock accompagnò il suo nome con due colpi alla porta.
“Tutto bene, Sherlock.”
Non aggiunse altro iniziandosi a spogliare e infilandosi nella doccia.
Appena Sherlock sentì l’acqua scorrere si distese di nuovo sul letto, a pancia in giù, leggendo un libro che John aveva portato con se.
Intanto John cercò di rilassarsi, l’acqua gli scorreva fresca sulle spalle poggiate alle mattonelle di un rosa pallido marmorate. Restò così per un bel po'. Più di quanto non avesse  voluto ma doveva far passare del tempo prima di poter rivedere Sherlock in faccia dopo quello che sapeva.
Si avvolse nell’accappatoio e si asciugò distratto i corti capelli chiari. Quando uscì, vide Sherlock in pedi appoggiato di fianco al balcone.

Mani in quei bei pantaloni che aderivano al suo sedere in modo celestiale e la camicia era appena fuori di essi, un po' stropicciata. Il tramonto fuori ricordava l’ora e Sherlock lo guardava sereno. Il cielo era rosa e piano piano, come se qualcuno lo spolverasse, diventava arancione acceso. Quell’atmosfera inondava la camera da letto.
“Vuoi andare a cena fuori stasera amore?” chiese John, mentre si stringeva nelle spalle per asciugarsi.
Sherlock però rimase in silenzio.
Se John avesse potuto vedere il suo volto avrebbe visto il volto di un uomo consapevole.
“Siamo in pericolo John, vero?”
John rabbrividì.
“Non so come, ma penso sia questo che i miei genitori ti abbiano detto. La tua esitazione di prima, in bagno,  mi ha detto molte cose.”
Si voltò.
Il volto era pesante e di chi non ce la fa più, di tutto.
“Va bene, John. Sul serio, è tutto okay.”
Si avvicinò a John.
Appoggiò la fronte contro la sua. John non sapeva se dire qualcosa.
Sherlock iniziò a baciarlo, disperatamente.
Come se quella fosse l’unica corda a cui aggrapparsi mentre si sta cadendo in un precipizio.
Respiravano con affanno.
John doveva parlare? Voleva? Dov’era? Sentiva solo le labbra di Sherlock stringere le sue.
Poi Sherlock lo afferrò per la vita e lo prese, facendogli incrociare la gambe intorno alla sua di vita.
Letteralmente e metaforicamente.
Gli stringeva le cosce per tenerlo su e John gli avvolse il collo con le mani, facendo presa forte e intensificando il bacio.
Fu un riflesso, un istinto.
Neanche pensava  che se non si fosse tenuto sarebbe caduto all’indietro probabilmente.
Ma sopra, sotto, dietro erano concetti che in quel momento non erano importanti. Sherlock lo sbattette al muro e John fece un verso di piacere che mai aveva fatto.
Era incredibilmente bello.
Sherlock rallentò.
E piangeva.
Occhi chiusi, e piangeva.
John mosse i pollici su quelle lacrime, sussurrandogli all’orecchio un “Ehi” dolcissimo che però servì a poco.
Sherlock riprese a baciarlo e stringerlo come se l’unica intenzione che aveva era di non lasciarlo, mai.
Piangeva, dio se piangeva, ma trattenne i singhiozzi pensando solo al corpo forte del suo amore.
Una lacrima scese anche sul volto di John

. Consapevolezza: questa cosa ti uccide, dentro. La consapevolezza della morte ancora di più. Fa ancora più male della morte stessa.
Allora fai quello vorresti fare negli ultimi istanti della tua vita e loro lo fecero.
Non erano mai arrivati a fare tanto, con così tanto trasporto e desiderio e niente, niente mai era stato così fisico tra di loro.
Sherlock scese con la bocca fino al collo di John, prese un respiro per frenare le lacrime.
La testa di John premeva contro muro, le sue mani tra i capelli di Sherlock che se le divoravano esattamente come i suo denti stavano divorando il collo di John e la spalla che scoprì con un gesto repentino.
“Cristo, Sherlock.”
Riuscì a biascicare con un filo di voce.
Occhi chiusi che parevano sentire, come la pelle stessa, quello che la lingua di Sherlock gli stava facendo, quello che non sapeva neanche di desiderare.
Piano, le gambe di John scivolarono e  i suoi piedi toccarono terra mentre le sue mani tenevano il volto di Sherlock che ancora lo baciava e che ansimando disse: “Wow”. John sorrise.
Qualche giorno dopo poteva essere morto o peggio, l’amore della sua vita poteva essere morto e lui sorrideva.
Gli occhi di Sherlock non piangevano più e lo guardavano con quel colore lontano, di un mare lontano, perso, un mare che incontra un cielo azzurro e le aurore boreali nordiche.
Un colore magnetico e John si ritrovò a pensare un’assurdità: se mai avessimo un figlio vorrei tanto avesse i suoi occhi. Se lo disse con la tanta nostalgia di una cosa che mai sarà.
“Tutto bene John?” Sherlock glielo chiese asciugandogli il volto da quella lacrima e intendendo che la mente di John era da qualche altra parte, all’improvviso.
John vedeva quel volto bagnato di fronte a lui, a pochi sospiri dal suo e dannazione se aveva paura di quello che stava vedendo, delle ragioni che c’erano dietro ma era giusto.
Sentiva da qualche parte che come aveva detto il suo ragazzo poco prima, andava tutto bene.
“Se mai avessimo un figlio vorrei avesse i tuoi occhi e il mio volto ma, come saprai, è…impossibile.”
John fece spallucce e un mezzo sorriso gli incorniciava le labbra.
Sherlock rise quasi divertito.
“Se lo vorremo lo avremo un figlio, John. Sarà comunque nostro figlio. Lo ameremo comunque.”
John chiuse gli occhi e abbracciò Sherlock che lo strinse come prima.
Sospirò.
Ad un tratto Sherlock lo alzò di poco da terra per poi trascinarlo nel letto.
Era su di lui, come la mattina precedente, gli stringeva le gambe introno alla vita e slacciando la corda del soffice accappatoio bianco disse:
“So a cosa stai pensando.”
John scosse la testa, cercando di far sparire quel pensiero come se facendolo potesse cancellarlo così che quegli occhi che lo scrutavano non potevano leggerlo.
“Mi è venuto naturale. Fare quello che ho appena fatto, anche se sono vergine e non ho neanche un’esperienza alle spalle.”
“Non devi giustificarti. Puoi fare qualunque cosa vuoi, quando vuoi.”
Sherlock prese i bordi dell’accappatoio appena aperto sul petto di John e lo aprì ancora di più, stringendo quei muscoli nelle sue mani che iniziarono a muoversi piano.
“Non sai quanto vorrei continuare a piangere, buttare tutto fuori.”
John gli prese i polsi, fermandolo.
“Fallo.”
Sherlock però continuò a toccare la sua pelle.
“Questo? Questo posso farlo?”
Massaggiava piano e piano i suoi fianchi seguirono.
Il pantalone gli tirava sulle cosce, all’inguine proprio al punto giusto.
“Sì” si limitò a dire John, che respirava forte sotto le grandi mani bianche e un po' impacciate di quell’angelo.
“Fai pure tutto quello che necessita essere fatto.” Continuò guardando Sherlock che aveva lo sguardo fisso sui suoi pettorali.
“Vedi John, è questo il punto.” Si abbassò e baciò la sua fronte calda.
“Non è una necessità, non devo soddisfarla per forza. È peggio.”
La lingua di Sherlock si insinuò nella sua bocca e John la prese piano, tra le labbra.
“Mh.” Sfuggì a Sherlock che avrebbe voluto tenere lui il controllo in quel momento.
“E’…è…un desiderio.” Riuscì a dire ingoiando a fatica.
“Qualcosa che si alimenta, un vento che non si ferma. Non lo controlli perché non puoi assecondarlo e soddisfarlo.”
John ascoltava, eccitato ma non solo.
Sentiva che sarebbe rimasto anche così, con quelle mani a toccargli piano il collo e quelle labbra perfette a sua disposizione, senza pretendere altro. “Un desiderio lo prendi e basta. Lo fai e basta.” Finì Sherlock che si tolse la camicia.
Fece per sbottonarsi la cintura di pelle nera ma John poggiò le mani sulle sue e le scostò, sbottonandola lui, sfilandola e facendola cadere a terra. Sbottonò anche il pantalone e tirò giù la zip, pianissimo.
“Oh, John.”

A Sherlock scappò una piccola risata per quel tentennamento fatto di proposito.
 “Non sono così disperato, John.”
“Io sì.”
Rispose di botto John che infilò le mani nel pantalone di Sherlock, stringendo le sue morbide forme.
“Hai un culo pazzesco.”
Non si baciavano. Si guardavano e basta.
Fissi.
Sherlock pensò alla poca delicatezza di John e roteò gli occhi.
“Posh boy” commentò John, le cui dita lo toccarono in un modo nuovo, in un modo vero che più vero non c’era e con quell’affermazione a ronzargli nelle orecchie Sherlock aprì la bocca per prendere più ossigeno.
John iniziò a baciargli il petto, verticalmente.
Labbra sottili e calde toccavano ciò che non era ma stato toccato e la pelle di Sherlock lo sapeva perché a quella nuova esperienza rabbrividiva per la prima volta.
“Togliamoli, dai.”
Gli disse John che lasciò la presa e fece alzare Sherlock che si sfilò i pantaloni.
John si sedette al bordo del letto, di fronte a Sherlock che lo guardava togliersi l’accappatoio, finalmente, mostrando il corpo profumato e morbido. Nudo. Vero.
Era lì, ed era per lui. Sherlock fece un passo avanti, fermandosi tra le gambe di John che si aprirono per accoglierlo.
John gli sorrideva e spostava lo sguardo dalle forme di Sherlock alle sue labbra e ai suoi ricci che alla luce del tramonto riflettevano dei riflessi dorati che non aveva mai visto prima.
Poi Sherlock fece un cenno con la testa e John capì.
Stranamente, capì.
Si conoscevano troppo per non capire anche quel tipo di cose, così intime. Inevitabilmente, lo capisci. 
Le dita di John si poggiarono sul bordo dei boxer di Sherlock.
Si mossero e lo fecero scendere fino alle caviglie. Sherlock se ne liberò e piombò su John che un po' sorpreso disse:
“Oh, wow, okay.”
I loro corpi aderivano.
Petto su petto.
Le gambe intrecciate.
“Toccami, John. Come in cucina al cottage.”
I gomiti di Sherlock erano poggiati al di sopra delle spalle di John che aveva libero accesso al collo di Sherlock che si sporse per avere dei baci.
Fu accontentato.
La mano di John scese su quel fianco e si insinuò tra i loro corpi.
“Aspetta. Stenditi sulla schiena, andrà meglio.”
Sherlock fece come gli aveva detto e si mise comodo.

John andò tra le sue gambe e vederlo sotto di lui gli fece una strana sensazione. Ora capiva quanto veramente aveva potere su Sherlock, come gli aveva detto Mycroft. In quella circostanza, qualsiasi cosa gli avrebbe detto di fare, Sherlock l’avrebbe fatta ma non era un pensiero gradevole.
“Dai, John.”  Sherlock gli poggiò le mani sulle spalle.
“Se faccio qualcosa che ti mette a disagio e non vuoi, fermami. Non costringerti andare oltre, come il tuo solito. Questa cosa è”
“Lo so. Ma te l’ho chiesto esplicitamente e se non fai qualcosa subito potrei sentirmi male perché…fa male e devi fare qualcosa. E sì, ti fermerò se non mi andrà bene.”
Il cuore di Sherlock si dimenava nel petto.
“Okay.” Disse John come quasi stordito. “Okay” ripetette e piano, disegnò altri baci sul petto sotto le sue labbra.
Poi sulla pancia e sul ventre caldo.
Sherlock istintivamente piegò le gambe e le mani di John le presero sotto le cosce.
Lo baciava e baciava fin quando non fece godere Sherlock nel modo in cui lui stesso non aveva mai goduto.
Quel calore nella sua bocca era qualcosa di sacro per lui, qualcosa che mai prima aveva sentito altre labbra.
“John. Dio, John.”
Sherlock ripeteva, e afferrò con la mano destra un cuscino sopra la sua testa mentre l’altra mano se la portò alla bocca per fermare la sua voce profonda che non riusciva a trattenere.
Alzò il bacino prepotentemente e John cercava di seguire quei movimenti leggeri.
“John…”
John afferrò la vita di Sherlock e la tenne ferma in quell’incredibile istante quando senti che tutto ciò che vedrai è il bianco più assoluto.
Sherlock stringeva gli occhi e tutto era una luce forte e sicura mentre John lo guardava ed era la persona più felice del mondo.
Gli si avvicinò, sfiorandogli la punta del naso con la sua.
Il respiro caldo di Sherlock lo accolse.
Sei incredibile.”
Sherlock sorrise e gli occhi si rifiutavano di aprirsi.
“Io, John? Io sarei incredibile?”
“Esattamente.”
Posò le labbra sulle sue che accolsero quel sorriso.
“Sai di buono.”
Gli disse John e Sherlock voleva vedere quel volto mentre lo diceva e aprì gli occhi chiedendogli se poteva ridirlo.
“Sai di buono”
Sherlock lo baciò profondamente e disse:
“Sì, è vero.” Risero piano.
“John, stiamo per fare l’amore vero?”
“Stiamo per fare tutto quello che desideri.”
Gli disse accarezzandogli le gambe che afferrarono la sua schiena.
“Desidero fare l’amore con te.”
Sherlock non era mai stato così sicuro. 
“Senti John, non fa nulla se moriremo.”
John sentiva il cuore fermarsi a quelle parole.
“Ora siamo vivi e tu sei la mia vita, ora, su di me, con il tuo corpo che mi vuole tanto quanto io voglio il tuo e voglio che mi fai capre che questa è la vita. È il modo in cui si crea una vita. E anche se non siamo fatti per crearla, abbiamo la nostra. E io la mia voglio che me la fai sentire. Ora. Voglio te. Voglio il mio John.”
Trattenne le lacrime perché non voleva assolutamente piangere.
Se John avesse potuto descrivere quello che sentiva avrebbe fallito e mai era stato così senza parole. Lui che le trovava sempre stavolta avrebbe fallito miseramente.
John chiuse per un attimo gli occhi.
Era tutto vero.
Erano vivi.
Lui era vivo.
Vivere.
Vita.
Quello importava, lì, su quel letto con i brividi che non si fermavano. Baciarsi non era mai stato così magnifico.

E forse è questo il punto: quando ti accade qualcosa di così profondo ‘magnifico’ sembra l’unica parola utile.
Sherlock si lasciò guidare da John nella maniera più totale in cui era capace.
Voleva solo darsi e ricevere e nel preciso istante in cui accadde, capì che in quel punto preciso della sua esistenza che gli sarebbe potuto accadere di tutto, ma mai sarebbe stato all’altezza di John.
John che gli promise che gli avrebbe fatto sentire cosa si prova ad avere una persona in te, qualcosa di così assurdo da pensare se ci si sofferma sulla cosa, ma ora Sherlock sapeva esattamente cosa si provava e mai avrebbe pensato ad altro se non il fatto che non si prova proprio nulla.
Si è.
Ci si accorge che si esiste con ogni fibra del corpo. Ci si accorge che l’amore non è come tutti lo descrivono perché per lui l’amore è John e in quei momenti, in cui ci si muove e si respira l’uno nell’altro, l’amore è John e nessun altro lo sta vivendo se non lui.

Si fermarono. Ma non era un fermarsi quello, era più come quando la musica si affievolisce e tutto sembra andare lontano. John era ancora su di lui. Le gambe di Sherlock lasciarono la presa e si distesero mentre le mani seguivano gli ultimi movimenti del bacino che sopra di lui si rilassò.
Le braccia tese di John si piegarono e senza staccarsi da quel bel corpo, si distese al suo fianco.
Nessuno parlò per un bel po' fin quando sapevano che non dovevano dire nulla.
Sherlock si voltò piano e andò sul lato per guardare quegli occhi blu profondo al suo fianco. Poi, con non poca sorpresa di John, Sherlock si mise sopra di lui, gli accarezzò il ventre e quel corpo tra le sue gambe rigide.
Con un sorriso e la sua voce scura e rassicurante gli disse:
“Vediamo cosa riesco a fare io.”  
"Dio, sì.” gli rispose John, che avrebbe rivissuto quella notte tutte le notti della sua vita.  

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Capitolo 9
*** Tatuaggi ***


“Senti qua.” Sherlock si schiarì la voce.
“ ‘La morte è il trionfo della vita.
Per la morte viviamo, poichè siamo oggi soltanto, perché moriamo per ieri.
La morte attendiamo, poichè possiamo solo credere nel domani per la certezza nella morte di oggi.
Per la morte moriamo quando viviamo, poiché vivere è negare l’eternità!
La morte ci guida, la morte ci cerca, la morte ci accompagna.
Tutto ciò che abbiamo è morte, tutto ciò che vogliamo è morte, è morte tutto ciò cui desideriamo anelare.’ ”
I suoi occhi si fermarono su quella pagina che accarezzava con le dita che seppur voleva controllare, tremavano appena.
“Buongiorno anche te.” Replicò John stanco, che si portò un braccio davanti agli occhi ancora chiusi.
La testa del suo ragazzo era poggiata sulla sua pancia e i ricci un po' lo solleticavano ad ogni respiro.

Sherlock chiuse il libro e se lo poggiò sul petto. Pensava a quella dannata cosa che aveva appena letto e non aveva mai capito cosa era la paura della morte fino a quel momento ma la cosa assai più strana è che non aveva paura. Quella paura che aveva capito non era la sua, la sentiva lontana. Non aveva mai avuto paura di morire perché non aveva mai avuto un motivo plausibile per voler vivere e anche se con John ad accarezzargli i capelli in quel momento poteva fermamente dire che una ragione ce l’aveva, non pensava che la sua perdita sarebbe stata una cosa da temere. Aveva tutto ciò che voleva e la morte sarebbe stata la fine giusta.
La fine, ma una fine plausibile come l’inizio della vita. Non erano forse la stessa cosa? Gli iniziò a far male la testa per quanto pensava.
“Dannazione.”
Disse calmo e fece un respiro profondo. John sembrava essersi riaddormentato ma poi disse:
“L’hai letto tutto il libro, vero?” con il tono di chi già sapeva la risposta.
Sherlock si mosse e poggiò il libro sul comodino per poi mettersi a pancia in giù, baciando piano la pancia di John che rise, sorrise per la sensazione di quelle labbra. Il libro era “Il secondo libro dell’inquietudine” di Pessoa, il secondo libro preferito di John perché il primo era, sorpresa sorpresa, “Il libro dell’inquietudine”, fondamentalmente il prequel del secondo.
“Pessoa è un genio.” Commentò Sherlock, sincero.
Strofinava appena le labbra su quella pelle. John alzò il braccio per guardarlo non poco piacevolmente sorpreso.
“Davvero ti piace?”
“A volte troppo melodrammatico ma nell’insieme è un capolavoro. Originale. Coinciso, il che è fondamentale.”
Continuava con i piccoli baci.
“Sei così morbido John, lo farei tutto il giorno.” John rise piano. Era adorabile.
“Pessoa è il mio eroe. Vorrei tanto fosse vivo per farci una di quelle chiacchierate lunghe un pomeriggio, hai presente? Gli chiederei minimo mille cose.”
Quei due libri erano, per John, la sua anima fatta ad inchiostro. Il che era un pensiero tristissimo se hai letto quei libri. John li portava sempre con se, letteralmente ovunque. Ogni giorno. Erano un pezzo di lui. Come un altro arto che gli serviva per sopravvivere. Sherlock si alzò e si stiracchiò per bene. Si massaggiò un po' la spalla dolorante. Sentiva ancora il segno dei denti di John sui polpastrelli. Aveva il pigiama e John ne fu un po' dispiaciuto. Quel corpo già gli mancava. Alzò le coperte e indossava i boxer.
“E questi?”
“Te li ho messi io.”
Disse Sherlock. Scostò le tende e aprì la finestra. Entrò l’aria fresca di prima mattina, quel tipo di aria che sembra che la notte l’abbia ripulita per bene. John prese il cellulare e vide l’ora. 7.30.
“Cristo, abbiamo dormito solo quattro ore e mezza.” Si lamentò.
“Abbiamo fatto tardino ieri in effetti. Colpa mia.” Gli disse Sherlock facendogli l’occhiolino.
John si rigirò piano nel letto non togliendo lo sguardo di dosso a Sherlock.
“Dio, che mal di schiena.”
“Sempre colpa mia.” John rise.
“Già.”

Sherlock fissava la città che era sveglia in quel martedì mattina ordinario per gli altri e straordinario per lui e per qualche secondo chiuse gli occhi come esausto.
“Non hai dormito.” Disse John, arricciando le sopracciglia.
“Come potevo?”
“Stai bene?” John si tirò su e si sedette.
“Ne vuoi parlare?” Sherlock si girò e fece spallucce.
“Sto più che bene. Ma non smettevo di guardarti quando ti sei addormentato e allora il sonno non era importante e…”
John aprì la bocca per dire qualcosa ma sospirò soltanto.
“Puoi venire qui?” Sherlock si sedette al suo fianco e gli prese la mano nella sua.
“No, ho detto vieni qui. Su di me.”
Sherlock alzò gli occhi al cielo e si sedette sul ventre di John che adorava il modo in cui gli stringeva la vita con le gambe.
“Sono stanco, non ce la faccio a”
“Col mal di schiena che ho è il mio ultimo pensiero.” Sherlock abbassò la testa.
“Ok, magari penultimo.” Aggiunse John e lo fece sorridere.
“Quella frase che hai letto sulla…morte. Ci credi? Credi che sia tutto quello che abbiamo?” Sherlock deglutì.
“N-no. Ma ora mi sembra più reale che mai. E non ho paura, John.”
“Neanche io.”
Sherlock annuì e poi chiese con tutto il coraggio che poteva racimolare:
“Dovremmo averne?”
John gli accarezzava le braccia.
“No, non dobbiamo.”
Quella frase detta con così sicurezza e quella che sembrava anche fierezza fece sentire Sherlock forte come mai.
“Sul serio non hai proprio dormito?”
Stava per rispondere ma gli occhi di Sherlock si spostarono sopra alla testa di John e notando qualcosa, inclinando la testa e indicandola, disse: “Ops.” John si voltò.
All’altezza della testiera in legno del letto c’erano segni marrone scuro proprio di quel legno, anch’esso rovinato al bordo.
Aveva sbattuto forte e ripetutamente troppe volte quella notte.
“Cazzo.” Commentò John in una risata che trattene con la mano alla bocca.
“Questa è colpa tua John.”
“Mia?”
“Assolutamente. Eri tu sopra di me al terzo round e non ti reggevi neanche, ti sei aggrappato tu lì come una furia.”
“Anche tu, dopo.”
“Sbagliato. Mi sbattevi tu contro e, a proposito, mi fa malissimo la spalla.”
“Tu mi hai chiesto di farlo!”
“Ok! Va bene, sì. Ma sei tu l’artista qui e ridipingi tu.” John fece un lungo respiro.
“Tu faresti un disastro effettivamente.”
“Esatto.”
John continuò a guardare il muro rovinato.
“Non ci voleva.”
“Te ne penti?” chiese Sherlock sussurrandoglielo all’orecchio. John l’abbracciò.
“Ovvio che no.”
Rimasero per un po' abbracciati, stretti.


“Grazie.”
“Stai scherzando vero, Sherlock?”
“No, sul serio. Grazie.”
John gli scostò dei ricci ribelli dalla fronte.
“L’abbiamo fatto insieme, non c’è nulla per cui ringraziarmi.”
“Lo so ma sei stato…così attento. Sentivo che ti importava quello che desideravo. Sentivo che avresti messo in secondo piano quello che tu volevi per farmi avere ciò che io volevo.”
“Tutto quello che volevo era vederti felice. A tuo agio. E tu hai fatto lo stesso con me.”
Sherlock annuì.
“Ci ho provato.” John gli baciò il collo.
“Ci sei riuscito.”
“Ti amo, John.”
Lo disse quasi contemporaneamente.
Seguì i brividi di John che gli apparvero sulla schiena dopo quella sua frase. Non voleva altro. Si distese sulla sua parte di letto e così, all’improvviso, si addormentò.

John si alzò. Era tutto così silenzioso. Forse sentiva perfino il respiro di Sherlock. Ogni tanto il brusio della città si faceva più forte e qualche risata raggiungeva la stanza. Lì giù, la gente stava comminando, parlando al cellulare, aspettando, correndo, mangiando. Vivendo. Sorrise.
Andò in cucina e preparò la colazione.
Pancakes, i suoi preferiti, con panna e frutta. Si erano fatte le dieci e Sherlock ancora dormiva. Gli preparò quel ragù che aveva promesso per pranzo. Sorseggiava il tè, al centro del divano, gambe incrociate, mentre guardava Sense8. Serie tv che aveva rivisto quattro volte ma non avrebbe mai rinunciato a rivedere. Dopo aver pianto per centesima volta alla fine del suo episodio preferito andò in camera. Sherlock se ne stava rannicchiato nel letto, gambe quasi al petto e tutto quello che passava per la testa di John era
“Non voglio perderlo.”
Erano quasi le undici e decise di svegliarlo altrimenti quella sera non avrebbe dormito, di nuovo.
“Ehi.”
Accarezzò il viso rilassato che piano sorrise.
“Quando mi dici ‘Ehi’ così, è bellissimo.”
La sua voce era ancora più bassa del solito se era possibile.
“Anche ieri, quando piangevo, mi hai detto ‘Ehi’ dolcemente. Mi sono sentito a casa. Quella bella sensazione che si ha dopo che sei tornato, che ne so, tipo da lavoro dopo dodici ore fuori casa e hai mangiato un pranzo orribile e sciapo e il caffè non ti ha tenuto abbastanza sveglio. Ti si è bloccato il computer per qualche assurda ragione e la metro ha fatto ritardo. Tutto sembra veloce, la giornata è volata ed è stata insostenibile. Però poi apri la porta di casa, quella che ha le tue foto, i tuoi odori, i tuoi calzini preferiti nel cassetto e senti quello che solo il silenzio dopo ore di rumore di fa sentire.”
Aveva gli occhi chiusi mentre parlava.
Muoveva solo quelle bellissime e perfetta labbra.
“Senti quei muri accoglierti, la porta chiudersi per lasciare oltre la giornata. Entri nel tuo paradiso. Ti senti a casa. È finito tutto, va tutto bene. Sei a casa.”
John era in ginocchio di fronte a lui.
“John?”
Non sentiva risposta e aprì gli occhi ancora un po' rossi.
“Tu sei fuori di testa.” Assonnato si alzò poggiandosi su un gomito.
“E te ne sei accorto solo ora?” John rise e lo spinse di nuovo giù sul letto.
“Alzati dai. Ci sono un paio di cose che vorrei fare e una di queste è una doccia. Che coinvolge anche te.”
Si avviò in bagno dopo aver dato un bacio sulla fronte di Sherlock che dopo un po' fece come gli era stato detto.
Si alzò ancora assonnato e andò in bagno dove John già era sotto l’acqua che scorreva forte.

Entrò e si poggiò a John per non scivolare. Era una doccia grande, di quelle in vetro, eleganti, che tutti sognano. L’acqua tiepida e piacevole lo era ancora di più con John lì ad insaponarlo.
“No, non è il caso di farmi lo shampoo, saranno indomabili dopo.”
“Come lo sei stato tu stanotte, Sherlock?”
“Wow, ti ho servito questa scontata battuta su un piatto d’argento, vero?”
Intanto John massaggiava i ricci di Sherlock che divennero come una grande nuvola bianca.
“Gli occhi John. Ho lo shampoo negli occhi.”
“Sei irritante.”
“Lo shampoo negli occhi è irritante.”
John alzò gli occhi al cielo.
“Verranno benissimo.”

Una volta chiusa l’acqua, si guardarono per un istante.
John gli prese le mani e intrecciò le dita nelle sue, per poi alzarle e baciarle.
Sherlock si avvicinò e, piano, era su John che fu costretto a indietreggiare fino ad incontrare con la schiena le fredde mattonelle.
Sherlock lo baciò.
“Ti vorrei di nuovo.” Disse, baciandolo ancora sul mento, sul collo.
Gli afferrò la gamba, la alzò, stringendo la coscia al suo corpo.
Sentiva perfettamente che anche lui lo voleva.
“Lo so. Ma abbiamo tempo.” John si sforzò di non chiudere gli occhi altrimenti non avrebbe fatto ritorno.
“Lo spero.”

Gli occhi di Sherlock si posarono sul braccio destro di John.
“Adoro i tuoi tatuaggi.”
Dalla spalla fino al gomito, delle grandi rose ornavano la sua pelle. Tra quelle rose spuntavano piccole margherite qui e lì. Sherlock ci passava le dita tentando di sentire quei petali sotto i polpastrelli per quanto sembravano reali. John tese il braccio in avanti.
“Sono i fiori preferiti di mia sorella ma non lo sapevo. Solo dopo che fu finito mia sorella me lo disse.”
Più in basso, poco sotto l’incavo del braccio, c’era un cuore avvolto in una specie di fascia e al centro scritto empathy. “Empatia.” Lesse Sherlock.
“Ne abbiamo davvero bisogno in questo mondo.” Aggiunse.
“Esattamente. Me lo sono tatuato per non dimenticarlo mai e cercare di essere una persona migliore ogni giorno.”
I loro sguardi si incrociavano e non c’era neanche bisogno che Sherlock gli dicesse che lo era.
Aveva, una sotto l’altra per tutta la lunghezza del braccio, fino al polso, delle rune.
“Ti ricordi il loro significato?” gli chiese guardandole curioso.
“Sherlock Holmes che non conosce qualcosa di così semplice.”
“Non ho spazio per queste cose qui dentro.” Puntò la sua testa e John scosse la sua.
“Allora” iniziò.
“Questa rappresenta la conoscenza, la saggezza e anche la creatività e l’spirazione.”
“Azzeccatissima dire.”
“Già. Questa che è praticamente una r maiuscola, è viaggio, cambiamento mentre questa l’energia positiva, la forza e anche il sole. Infatti è una specie di s.”
Sherlock ascoltava interessato.
Era bellissimo vederlo così attento alle sue parole.
“E questa invece rappresenta l’uguaglianza, l’amore ma anche cambiamento.”
“Mi piace.”
“Sì, è importante. Anche a quest’ultima ci tengo. Rappresenta il dolore, l’introspezione e la concentrazione.”
“Sono molto belle, John. Sei tu.”

Per entrambi tatuarsi era qualcosa che acquistò un’importanza assurda e per John era sempre stato necessario per non impazzire, per non tenere dentro tutto.
“Grazie.” Disse, poi Sherlock gli girò il braccio ed era tatuato fino alle nocche della mano da un mandala abbastanza complicato ma bellissimo. Disse: “Il buddismo mi ha sempre affascinato. Non la vedo come una religione ma più come un ragionamento. Di sicuro ha più aspetti interessanti del cristianesimo.”
“E poi come non puoi trovare straordinari questi disegni. Quando li disegnano, con polveri colorate, e ci mettono ore anche per farne uno, poi lo spazzano via per ricordare la caducità delle cose. Quanto tutto è temporaneo. Anche lo stesso universo che i mandala praticamente rappresentano.” Sherlock sospirò con un sorriso amaro.
“Quanto è vero.” Sussurrò.

Perdere tutto perché tutto può essere perso senza neanche volerlo era una cosa immensa che se ci pensava gli veniva di nuovo mal di testa. Sherlock reagiva così ai pensieri forti, la sua mente non reggeva e allora prese John e lo baciò, per ricordarsi che c’è ancora qualcosa di bello in tutto quello.
“Ti sei intristito, vero?”
Sherlock poggiò la fronte sulla sua.
“Sì. Ma tu mi riporti subito la felicità, tranquillo.”

Uscirono dal bagno, si vestirono e John asciugò i capelli a Sherlock.
“Un disastro.”
“Ti avevo avvertito.”
Sherlock aveva dei capelli morbidissimi, profumati ma informi.
“Sei adorabile.”
“Non penso che la gente lo pensi. Riderebbero.”
“Li riempirei di botte se lo facessero.” John suonò abbastanza serio e Sherlock sorrise incrociando il suo sguardo.
Poi si alzò e prese del gel dal suo cassetto e si aggiustò la sua folta chioma. Fece un cenno col capo per la soddisfazione. Erano in cucina e prima di uscire John chiese:
“Se ti va di rimanere a casa a guardare la tv, possiamo farlo. E’ la tua vacanza in fondo.”
“No, implicherebbe lo stare sul divano. Vicini. E a me verrebbe voglia di fare tante cose tranne che guardare la tv, se capisci cosa intendo.”
Gli disse, tranquillo. John alzò le sopracciglia.
“Ti giuro che se ti ho trasformato in un sessuomane non c’è bisogno di aspettare venerdì, mi ammazzo subito.” E rise.
Rideva e Sherlock fissò il vuoto.
Silenzio.
Pesante.
Sherlock lo guardava trafiggendolo con lo sguardo e John sentiva di stare per morire sul serio.
“Sh-Sherlock non vole”
“Wow. Davvero wow, John.”
E detto questo con una rabbia assurda afferrò la sua giacca dalla sedia e uscì, facendo sbattere la porta. John lo rincorse fuori ma si rese conto che era lì, appoggiato al muro di fianco alla porta di casa.
Testa bassa.
John incrociò le braccia e si strinse a se, sentendosi piccolo piccolo.
Sherlock aveva sempre odiato questo tipo di battute ed era la persona meno ironica del mondo.
Tutto, ma proprio tutto, lo prendeva sempre sul serio. Figuriamo una cosa del genere che lo feriva a prescindere. Giocarci su non fu una bella mossa. “Mi dispiace. Potevo risparmiarmela.”
Sherlock si pentì di essersi arrabbiato per quella sciocchezza, un niente, una battuta. Si pentì di aver portato John lì. Si pentì di aver coinvolto John. Si pentì di essere così. Respirava a fatica ora e sentiva i muscoli contrarsi.
“No, non ora. Ti prego.”
Disse con un filo di voce tanto bassa che John non capì.
“Sherlock?”
Sherlock strisciò contro il muro e si sedette. Sentiva lo stomaco uscirgli dal corpo, il sangue alle tempie e strinse gli occhi.
“Oh no. Stai avendo un attacco di panico.” Realizzò John, e si accovacciò di fronte al suo ragazzo che cercava di tranquillizzarsi.
Gli posò le mani sul viso.
“Va tutto bene. Respira.  Per davvero, respira.”
Sherlock gli prese le braccia nelle sue mani grandi e le strinse. Guardava il volto rilassato di John, sempre così rassicurante, sempre così pronto ad aiutare, sempre così. La sua presa si affievolì dopo qualche secondo.
“Così. Concentrati su di me. Guarda me.”
E Sherlock lo guardava.
E ritornò a casa.
John lo aiutò ad alzarsi. Si schiarì la voce che parve non voler uscire e disse:
“Sono ancora arrabbiato. Per la prossima mezz’ora sarò ancora arrabbiato con te John.”
“Va bene.”
Gli rispose sorridendo e Sherlock lo abbracciò forte.
“Andiamo. Ho bisogno di un po' d’aria.”

Successe tutto relativamente in fretta perché Sherlock era familiare con quella situazione ma mai era riuscito così in fretta a riprendersi. Le altre volte erano state peggiori ma cercò di distogliere i pensieri da quelle sensazioni ormai passate. La tensione che provava da quando sapeva che lui e John erano in pericolo non l’aveva ma lasciato e unita a quella battutaccia la sua mente non aveva retto. Il panico era qualcosa che non ti lascia tanta scelta. Devi solo accoglierlo e gestirlo al meglio. Stavano per entrare in ascensore quando all’ improvviso si trovarono vicino una ragazza alta, mora che teneva i lunghi capelli legati in una bella treccia che gli arrivava allo stomaco. Due occhi verde brillante. “Buongiorno.” Disse lei con un sorriso e porse loro la mano. Indossava un paio di jeans nuovi, dedusse Sherlock, e una canotta, piedi nudi. Tuttavia Sherlock non riusciva bene ad inquadrarla, nessuna deduzione che gli venne in mente per capire la sua personalità; un po' per quello che era appena successo un po' perché non gli importava sul serio. Si irrigidì infastidito dalla cosa e non riuscì a stringerle la mano che puntava verso di lui. John, capendo, la strinse lui e parlò.
“Ciao.”
“Sono Lisa. È un piacere conoscervi.”
Sherlock inclinò la testa.
“Sto cercando di capire se sarà lo stesso per noi.”Disse freddo.
“Io sono John e lui è Sherlock. È sicuramente un piacere anche per noi. Sherlock?”
John lo guardò facendogli capire che non era il momento di fare il difficile e che tutto sarebbe finito prima se faceva la persona…normale. “Assolutamente.”
Replicò accontentando John, con un piccolo sorriso.
“Mi chiedevo se stasera avevate voglia di venire da me.  Abito di fonte a voi. Mio fratello Liam festeggia il compleanno.”
A John piaceva l’idea ma attendeva qualche parola da Sherlock. Per il resto della giornata voleva solo farlo stare tranquillo.
“Oh, il portiere è tuo fratello.”
“Intuitivo Sherlock, eh?” disse lei sorpresa guardando John che annuiva tra l’imbarazzo e un sorriso.
“Beh, credo che sarà interessante. Ci saremo.”
Sherlock si congedò neanche guardandola e John seguendolo disse solo:
“A stasera allora.”
Lisa gli sorrise e rientrò in casa.
Prese il cellulare e inviò un messaggio.
“Per stasera saprai dove sono.”
Andò alla finestra e vide i due stringersi la mano mentre si incamminavano su per la strada.
Quella serata sarebbe stata davvero interessante. 

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Capitolo 10
*** Festa ***


Quella giornata passò nel migliore dei modi. Non si erano mai rilassati e divertiti così tanto.
Andarono a Camden Town in una piccola pasticceria artigianale che faceva delle torte e un gelato pazzesco. Presero un caffè allo Sky Garden che quel martedì era semivuoto ed il brusio lontano era piacevole. Con quella vista pazzesca che si vedeva dall’enorme vetrata, John lesse a Sherlock delle parti de Il libro dell’inquietudine di Pessoa.
Durante il loro primo ballo Sherlock gli aveva chiesto se poteva, un giorno, leggergli qualcosa e John pensò che quello era il momento perfetto. Sherlock lo ascoltava fissando una Londra che si stagliava calma contro un celo azzurro intenso, perso, nella bella voce di John che ogni tanto si mischiava ad un sorriso e qualche brivido. Leggeva come se fosse in un universo parallelo dove esistevano solo loro due ed era tremendamente felice di vedere le reazioni di Sherlock, qualche volta perplesso ma altre toccato con un “Wow” che gli accarezzava le labbra mentre lo diceva.
Andarono, dopo aver pranzato, in due librerie che John aveva scovato su internet. Entrambi comprarono parecchi romanzi e Sherlock anche qualcosa sulla danza che trovava interessante. Sherlock in quei momenti provò solo a goderseli e lo fece. Ogni tanto, mentre guardava da lontano John sfogliare qualche libro, pensava che se non gli si fosse avvicinato subito quella piccola figura che tanto conosceva bene poteva sparire da un secondo all’altro allora si affrettava e gli era di nuovo vicino.
Era una sensazione forse non fondata perché Mycroft gli aveva detto che tutto sarebbe successo quando sarebbero ritornati al cottage e ciò fece capire a Sherlock che intanto lui lo avrebbe tenuto d’occhio con i suo metodi da governo inglese che erano sempre stati impeccabili. Ma non importa quanto ti dicono di essere al sicuro.
Quando hai una persona che ami, temi sempre che il tuo amore, le tue accortezze e tutto l’impossibile che sei disposto a fare non è mai abbastanza.  Nella seconda libreria in cui andarono non c’era quasi spazio per camminare, l’aria era impregnata di odore di carta e la poca luce che c’era entrava come lentissima da una piccola finestra in alto, sul bancone dove l’anziano signore se ne stava a leggere, con i piccoli occhiali sul naso e il gilet a trama scozzese.
Era la persona più gentile che John aveva mai incontrato.
Quando salutarono, l’uomo li fermò.
“Aspettate ragazzi.”
Loro si voltarono sulla soglia e poco dopo l’uomo riapparì da sotto il bancone lamentandosi un po' per la schiena e porse loro un libro. Sherlock lo prese.
“Penso lo troverete davvero bello. Spero.”
E sorrise stringendo un po' le labbra.  Poggiò una mano al fianco come a sorreggersi e in realtà un po' titubante in quanto non avrebbe voluto fraintendere gli sguardi che vide tra i due. Ma era così palese il loro affetto che non poteva aver frainteso. Il libro era probabilmente il libro degli innamorati per eccellenza, il libro della passione vera e per molti irripetibile: “Poesie d’amore” di Neruda.

John lo conosceva ma non l’aveva mai letto e Sherlock non si avvicinava neanche a quel genere di cose ma non perché non gli sarebbero piaciute, avrebbe apprezzato molto il sentimentalismo se scritto poeticamente, era solo che l’invidia per quelle persone che avevano provato quelle cose non la voleva proprio provare. Non voleva sentirsi estraniato e l’unico al mondo a non sapere cosa significavano quel genere di cose. Perché era così che si sentiva. Estraniato. Lontano. E faceva male.

Tuttavia, non sapeva ancora che avrebbe trovato lì le parole più belle da dedicare e che l’invidia non l’avrebbe sentita affatto ora che John rappresentava tutto quello che Amore poteva essere per Sherlock.
“Grazie ma non possiamo prenderlo gratis.” Disse John.
“Ha bisogno di soldi per riparare la perdita nel suo appartamento di sopra.”
Seguì Sherlock indicando una macchia all’angolo del piccolo ma suggestivo locale.
“Tenetelo, ragazzi. Sono un uomo anziano e se posso aiutare due innamorati ad innamorarsi ancora di più e trovare una passione che solo Neruda può farvi trovare, mi tengo il tubo gocciolante.”
Un uomo che viveva letteralmente nei libri non poteva non avere le parole giuste. Sherlock sorrise provando un calore piacevole al petto. Non sapeva bene cos’era ma gli fece abbracciare quel piccolo ometto che ancora sorrideva.
“La ringraziamo. Significa tanto.” Gli disse piano.
Trovare comprensione era sempre bello.
Ti faceva sentire più giusto in un mondo in cui parte di esso ti avrebbe negato di amare solo perché esso stesso non sapeva amare.
Si staccarono e l’uomo fece un cenno col capo.
Intanto John assisteva a quella scena e una volta usciti chiese a Sherlock se andava tutto bene.
“Non so che mi è preso, John. Quell’uomo è davvero speciale penso. Tutte le persone anziane lo sono, capiscono sempre le cose più importanti prima di tutti non pensi?” John annuì.
Era davvero una giornata meravigliosa.


Tornati a casa trovarono un biglietto sotto la porta.
“Ci vediamo alle 9:00 pm xoxo Lisa”
“Ci andiamo per davvero? Non siamo mai andati ad un evento insieme.”
Sherlock aprì la porta ed entrarono.
“Hai dimenticato le feste di Halloween e i compleanni al liceo?”
“Era diverso. Non eravamo ufficialmente insieme e tu potresti...”
Sherlock gli poggiò le mani sulle spalle.
“Io potrei essere assolutamente pronto per una cosa del genere e tu devi rilassarti a riguardo. Niente più attacchi di panico per oggi, promesso.”
Posò un bacio sulla fronte di John.
“Ora ci prepariamo e saremo puntuali e porteremo questa deliziosa bottiglia di vino che hai scelto a Lisa che ci farà passare una serata interessante.” John non si fidava molto di quello sguardo acceso e curioso che vide durante la parola ‘interessante’.
“Non ti metterai a curiosare in giro come fai di solito quando pensi ci sia un mistero da risolvere vero?”
“Bheeee”
“Sherlock.”
“Solo un po'. Concedimelo.”
John sospirò divertito dalla faccia adorabile che Sherlock gli stava facendo, come i bambini quando vogliono un’altra fetta di torta.
“Niente che attiri troppo l’attenzione però.”
“Assolutamente niente del genere.”

John non lo faceva perché si vergognava del suo ragazzo, affatto, e Sherlock lo sapeva.
Era sempre stato alla base del loro rapporto l’accettazione l’uno dell’altro per ciò che era, li faceva andare avanti. Infatti quando Sherlock aveva per la testa dei rompicapi adorava aiutarlo e di solito anche Sherlock era a favore del suo aiuto ma ad una festa con gente comune non voleva che il suo ragazzo diventasse l’oggetto di risate e battute ignoranti perché a volte faceva cose davvero pazzesche. Se ne girava da solo frenetico e con espressione fredda ti faceva le domande sul tuo passato o su un tuo lontano cugino di terzo grado. Meglio evitare tutto quello. In fondo anche Sherlock non voleva dare scena e godersi la festa che, per loro sorpresa, fu davvero piacevole.

La casa di Lisa era molto simile a quella che loro stavano prendendo in prestito anche se la cucina era più piccola. Aveva delle luci gialle, come quelle che si mettono sull’albero a natale, sui muri del salone che davano un’atmosfera calmante e il grande tavolo al centro era colmo di bevande e un invitante buffet.
“Ha classe.” Bisbigliò Sherlock all’orecchio di John che si guardò intorno. Ci saranno state una ventina di persone massimo.
Lisa era davvero bellissima. Aveva un vestito aderente lilla e i capelli raccolti con due brillanti orecchini che risaltavano il verde dei suoi occhi.
“Grazie per il vino, ragazzi. Lo apro subito.” La seguirono in cucina.
“Passato una bella giornata?”
“Dov’è Liam?” chiese impaziente Sherlock.
“Starà con Steve e gli altri. Adiamo da lui subito, sarà felice di vedervi.”
Dopo aver dato loro due calici di vino andarono verso Liam che sorrise appena li vide. Indossava una bella camicia blu notte e un paio di jeans scuri. Capelli più corti dell’ultima volta e il suo viso squadrato ora era meglio visibile. Sherlock gli strinse la mano ed anche John dopo.
“Buon compleanno.” Gli disse Sherlock un po' nervoso e John fece lo stesso, ma più tranquillo.
“Grazie per essere venuti, un paio di facce nuove è quello che ci voleva.” Disse apparentemente e sinceramente felice.

Per ora Sherlock non aveva notato nulla degno di attenzione. Forse era solamente tutto nella sua testa, come spesso gli accadeva. Gli iniziarono a sudare le mani e bevve tutto il vino che gli era rimasto nel bicchiere.
“Liam! Andiamo, i ragazzi vogliono discutere della partita.” Con queste parole un ragazzo altissimo e con un fisico da paura, stretto in una t-shirt aderente, si avvicinò e diede una pacca forte sulla schiena di Liam.
“Steve, questi sono Sherlock e John, i vicini di mia sorella. Ragazzi, lui è Steve.”
“Il tuo migliore amico. Mh, non mi sorprende. Siete praticamente l’uno l’opposto dell’altro; è una cosa a cui sono familiare. Comunque Liam odia le pacche sulla schiena, evitale. Piacere, sono Sherlock.”
Steve lo fissò.
Gli strinse la mano tentando un sorriso e non un’espressione sconvolta. Liam fece lo stesso.
“Io sono John!” E prese prepotentemente la mano di Steve nella sua.
“Okay, quindi tu sei quello strano e tu quello che lo sopporta. Come me e Liam.” Disse avvolgendo l’amico con il braccio.
“Già, quello strano sono io.” Sherlock abbassò la testa dicendolo, sorridendo. John lo guardò ma andava tutto bene, Sherlock non sembrò arrabbiato. Un po' infastidito dallo stereotipo, ma non arrabbiato.
“Ora vado. Ci si vede dopo.” Disse Liam, esortato da Steve a seguirlo.
“Steve è…esuberante.”Disse Lisa facendo spallucce volendo mettere Sherlock a suo agio.
“E’ un bravo ragazzo. Bella famiglia. Ha una barca, adora il rugby. Non gli piace l’alcool se non un paio di birre di tanto in tanto alle feste. Non è una mente brillante ma è okay. Posso avere altro vino?”
Lisa scuoteva la testa con gli occhi spalancati.
“Ma come fai?!”
“Osserva.”Intervenne John.
“Vede quello che noi non vediamo, nota le piccole cose e la sua mente è un posto meraviglioso. È semplicemente…”
Ora John lo guardava innamorato pazzo.
“Grazie John.”
“Siete davvero belli.” Disse Lisa che non avrebbe voluto smorzare quel bel momento.
“Ti prendo altro vino.” Prese il bicchiere di Sherlock e andò in cucina.

“Troppo?” chiese a John.
“No. Sembrano persone più mature degli imbecilli che frequentavamo al liceo.”
“Hanno tutti quasi trent’anni. Ho sempre saputo che è la fascia d’età che fa per noi John.” Si sorrisero.
Quella vacanza doveva fargli vivere i loro venti anni e si ritrovarono ad un elegante festa di trentenni. La vita non va mai come vogliamo perché noi la cambieremo lo stesso. Sherlock e John sapevano che avrebbero sempre scelto, anche se inconsciamente, il meglio per loro. Lisa tornò con il vino. “Vado a mettere della musica. Preferenze?”
“Oh, non avresti dovuto chiedere.” Le disse John. Sherlock si accese.
“Vengo con te a sceglierla. Sono il migliore.”
“Anche dj?”
“Non, non proprio ma ho bei gusti. E non metterò Bach, John. Tranquillo.”
Gli fece l’occhiolino e prese Lisa per il braccio, seguendola.

Il vino stava funzionando pensò John, che passò l’ultima mezz’ora a chiacchierare con alcuni amici di Liam. Erano persone piacevoli e gentili.
“Da quanto state insieme?”
Erano seduti sul divano e a quella domanda che la ragazza gli aveva fatto, John veramente non sapeva come rispondere.
“Io…Diciamo che è complicato. Non il fatto o in se o lui ma…”
Meglio dare pochi dettagli e far sembrare la cosa romantica, pensò John.
“Siamo andati al liceo insieme e poi per due anni ci siamo persi. Ci siamo rincontrati e…è successo. Insomma, penso che sapevamo dalla prima volta che ci siamo visti che in qualche modo dovevamo stare insieme. Quel tipo di cose che capitano a una persona su un milione, ecco.”
E anche di meno per quando Sherlock è unico, si disse John. Fece spallucce sperando di non essere sembrato troppo sdolcinato. La ragazza, Mary, sospirò e gli altri due ragazzi lo guardavano quasi invidiosi. Uno di loro disse:
“Sei fortunato, amico. Il modo in cui ti guarda dice tutto.” Prese un sorso di birra e la puntò dietro le spalle di John.
“Il…il modo in cui mi guarda?”
“Sì. È tutta la sera che lo fa. Ti cerca con lo sguardo. È molto dolce.”
Il ragazzo guardò dall’altra parte del salotto e John fece lo stesso. Sherlock parlava con Lisa e aveva dei cd tra le mani. Poi incontrò lo sguardo del suo ragazzo e sorrise. John fece lo stesso.
“Vivete insieme?” continuò il ragazzo.
“No. Dio, no. Non mi sopporterebbe.”
La conversazione andò avanti e John si divertì molto.

Sherlock passò tutta la serata intorno a Lisa in modo da scoprire più cose possibili.
“Puoi prestarmi un attimo il cellulare? Devo inviare un messaggio. Il mio è scarico.”
Lisa aveva lo sguardo basso cercando di ponderare la situazione perché Sherlock era intelligente e sapeva che dal suo cellulare avrebbe capito qualcosa anche se aveva cancellato il messaggio mandato ore prima. E poi se avesse dato una risposta negativa o detto che poteva andare nel suo di appartamento a prendere il caricabatterie, avrebbe fatto sorgere ancora più dubbi a quel genio che sicuramente aveva notato che lei non si staccava neanche un attimo dal suo cellulare, neanche alla festa del fratello.
“Certo.” Disse alla fine e glielo diede.
L’esitazione non sfuggì a Sherlock che, facendo il più presto possibile, ispezionò un po' la rubrica, le chiamate e i messaggi. Pochi numeri. Zero chiamate o messaggi. Era ovviamente strano anche se Lisa gli era parsa una ragazza molto precisa e probabilmente liberava la memoria del cellulare spesso dalle cose inutili. Ma quel vuoto indicava che non chiamava o messaggiava nessuno di importante tanto da tenere i messaggi il che era molto strano per una ragazza così bella e socievole.
“Grazie.” Le disse porgendole il cellulare.
“Ora vado a vedere se il mio ragazzo è in pericolo di vita.”
A quell’affermazione detta ironicamente Lisa sorrise divertita.
“Va bene.”
Sherlock raggiunse John che conversava ancora con Mary e gli altri due ragazzi.
“John?”
“Oh, Sherlock. Le canzoni che hai messo erano bellissime.”
Gli prese la mano e ne baciò il dorso. Sherlock arrossì come un ragazzino.
“Ho piacevolmente scoperto che anche Lisa ha bei gusti musicali.”
Sorrise velocemente.
Partì una canzone molto familiare a John.
Era un lento ed il ragazzo bruno, da un po' di tempo nervoso, come Sherlock aveva notato, prese tutta l’aria che poteva e disse:
“Mary, ti…ti va se balliamo? Questa è davvero una bella canzone.”
La ragazza fu non poco stupita.
Si aggiustò i capelli dietro l’orecchio e timidamente strinse la grande mano che la condusse al centro del grande salone. Erano gli unici a ballare ma dopo un po' l’atmosfera si caricò di aspettative da parte di molti che prendendo coraggio, iniziarono anch’essi a ballare. John guardò Sherlock.
“Che ne dici?”
Sherlock buttò un’occhiata alle sue spalle dove coppie esclusivamente etero si stringevano e non sapeva cosa pensare. Non avrebbe esitato un attimo a prendere John ed abbracciarlo, potendo finalmente sentire  l’odore forte di quella pelle che tanto amava. Ma ora esitava. John si alzò.
“So che è orribile da dire ma tutti sanno che siamo gay. Okay? Tutti. Quindi, chi se ne frega di cosa pensano. Tu balli da Dio, mi hai fatto sentire al centro dell’universo quando ballammo insieme e vorrei ritornare lì con te. Ora.”
Un piccolo sorriso che gli veniva dal cuore sciolse il volto di Sherlock che piano disse:
“Certo che balleremo. E non sono loro o noi il problema. Per me ballare con te è una cosa…intima.”
Lo disse quasi sussurrando. Era davvero dolce.
“ E’ una cosa importante. Ballare per me è intimo ed importante.” Disse convinto.
“Farlo tra gente appena conosciuta mi fa pensare che…”
Si piegò un po' per raggiungere l’orecchio di John che non sapeva se era un no o un sì.
“…saranno tutti invidiosi. Terribilmente invidiosi.”

Sherlock afferrò la mano di John e indietreggiando piano si trovò al centro della scena con John che lo stringeva e che fu colto un po' di sorpresa da quella scenata da timido che gli aveva fatto per poi penderlo così prepotentemente e farlo suo.
Aveva le braccia poggiate sulle spalle di Sherlock così che almeno  poteva poggiarsi un po', giusto il necessario, per baciarlo.
E si baciarono.
Facciamo pure vedere di cosa siamo capaci.
Chiusero gli occhi e sì, era proprio come stare al centro di tutto.
Nel punto in cui tutte le energie e le stelle convergono. Quella canzone meravigliosa li avvolse.
Era Meteor Shower di Andy Kong e diceva questo:


Winter air couldn't keep us from braving the cold
Laying out in the driveway wrapped to the bones
And I swear you never looked so good
Better than anyone should
And your hair was all a mess
As I felt your hand pressed in mine

Tell me it's love that I'm feeling
If it's not then I’m afraid
My heart cannot take much more
You're staring up
I can't take my eyes off you
‘Cause I realize the reason why I’m here tonight
And what I breathe for
And I found love while dreaming of meteor showers

Eyes grow heavy but steadily we pull through
Fires in heaven begin to fall for you
Sending sparks across the sky
Like the sparkles in your eyes, so blue
If I survive another night
Tomorrow I'll lie here again with you


Il ritornello ritornò a farli rabbrividire e le persone intorno a loro potevano giurare di star vedendo l’amore. Sorridevano tutti.
Sherlock si muoveva così bene, stringeva la vita e la mano di John che cercava di essere aggraziato quanto quel bellissimo ballerino che brillava, che aveva una luce negli occhi mentre ballava che non aveva mai mostrato fin ora.  


Never wanna let you go…

I knew it was love I was feeling
As the years begin to fade
Your eyes still shine the same
You're staring up
I can't take my eyes off you
‘Cause I realize the reason why we live this life
You I breathe for
As you're staring up
I won’t take my eyes off you
‘Cause I realize the reason why we live this life
And what we breathe for
I found you while dreaming of meteor showers.

 
Le ultime note scivolavano su di loro e sui pochi che ancora ballavano, poi Lisa staccò la musica.
“Il vino ti ha dato coraggio eh, Signor Holmes?”
Partì un applauso inaspettato. Sherlock fece un piccolo inchino ancora stringendo la mano di John nella sua. Si avvicinò e gli disse:
“Per te questo ed altro Signor Watson.”

Dopo poco la casa si stava sfollando.
L’orologio segnava la mezzanotte passata. Erano rimasti loro, Liam e i suoi amici più intime e Lisa, che se ne stava a riposare sul divano sgranocchiando delle patatine.
“Noi togliamo il disturbo.”
“Oh, di già John? Se volete potete restare ancora un po'. Voglio dire, so che avreste meglio da fare ma…”
Sherlock annuiva e disse: “Faremo più piano stanotte, promesso.”
Con un occhiolino guardò John che non poteva fare altro se non portarsi una mano alla fronte e sospirare. Lisa ricambiò con un altrettanto ammiccante occhiolino.
“Siete diventati ottimi amici vedo.”
“Esatto John. Lisa è molto gradevole. Questa possiamo tenerla.”
Risero e lei, alzandosi, li ringraziò per essere stati lì.
“Andate via?” Liam lo gridò dall’altro lato della stanza per poi avvicinarsi a loro, salutandoli cortesemente.
Dopo quei convenevoli, ora erano davanti alla soglia di casa.
“Con il vostro ballo avete dato un tocco in più alla serata. Spero ci sarà occasione di pranzare insieme in futuro.”
Sorrideva cordiale ma Sherlock osservò come curvò le labbra, come dispiaciuta. Lo era? E perché? Scosse la testa per ritornare alla realtà. “Sicuramente.” Le disse, e l’abbracciò.
“Grazie a te, davvero. I tuoi amici sono delle persone meravigliose. Fin troppo anche.” Disse John corrugando la fronte a quell’affermazione a cui Lisa sembrò nervosa; ma poi l’abbracciò e sorrise.
“E’ vero. Sono fortunata. Beh, allora buona serata ragazzi. E fate pure tutto il casino che volete.”
“Ho detto già che adoro questa ragazza?”
“Sì Sherlock me lo hai detto. Buonanotte Lisa.”
La ragazza chiuse la porta mentre loro rientravano nel loro appartamento.

“Idee per stanotte che non includono di dover riverniciare mezza parete?”
Sherlock lo chiese mentre spingeva lentamente John contro la porta chiusa sulla quale poggiò le mani, sopra alle spalle di John.
Gli baciava il collo, ansimando, non riuscendo a distogliere la sua mente dal buon sapore della pelle che stava leccando e lo faceva così piano che John non sapeva neanche quanto tempo era passato quando rispose.
“Dormiamo stanotte. Ti prego.” Non lo disse facilmente. Il suo ragazzo sapeva usare bene quella lingua. Sherlock si pietrificò a quell’affermazione e le sue labbra erano ancora immobili sulla spalla nuda di John che poggiò la mano sul collo di Sherlock.
“Pensavo mi avresti pregato di fare ben altro.”
Forse a John serviva una spinta in più, una motivazione migliore e allora gli afferrò la mano e la posò proprio lì, tra le sue gambe che piano si divaricarono.
Aveva il palmo sul suo dorso e premeva piano, così piacevolmente, ma John era impassibile e scostò con cura il suo eccitato ragazzo.
“Se ti promettessi di farti cose inimmaginabili domattina?” 
John alzò le sopracciglia fissando le sue iridi in quelle di Sherlock che si morse il labbro inferiore. Quell’affermazione non placò la sua erezione. Il suo sguardo era un po' pensieroso, come se stesse ponderando la proposta.
“Comunque non accetto un no.” John fu categorico.
Anche se Sherlock rimase un po' deluso, John come sempre aveva ragione.
Una dormita ci voleva.

Liberò dalla sua la mano di John  che lo baciò mentre annuiva sconfitto.
Andarono a letto poco dopo e si addormentarono subito.
Era stata una giornata piena e una festa che in qualche modo gli aveva dato del coraggio.
Era stata come una prova per loro, una sorta di esperimento sociale che volevano superare.
E fu bello.
Quella sensazione di essere visti e non giudicati l’avrebbero portata con loro per sempre.   

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Capitolo 11
*** Neruda ***


Dopo una giornata dominata da un temporale estivo, il giovedì arrivò con un celo ancora nuvoloso e abbastanza cupo che di certo non aiutava la tensione che inevitabilmente li faceva sentire, di tanto in tanto, di cattivo umore.
Soprattutto Sherlock sembrava essere distratto ogni volta che John attirava la sua attenzione con ogni genere di cose, cose che potevano tenere la mente del ragazzo occupata.
John sapeva che doveva cercare di vivere quei momenti liberamente ma Sherlock quel dannato giovedì non voleva neanche sforzarsi di stare con lui tranquillamente, godendosi quella mini vacanza che si erano ripromessi di godere a pieno. Sherlock se ne stava al computer sul divano e John girava per casa cercando di non disturbarlo. Vedeva cosa stava facendo. Vedeva come scriveva di tanto in tanto sui fogli che aveva al suo fianco. Più che altro, sembravano ricerche su un certo Alan Birman e sulla sua azienda. John scosse la testa piegando le camicie di Sherlock che aveva da poco lavato.
“Dannazione.” Disse piano e irritato Sherlock.
“Ok Sherlock, puoi dirmi cosa stai facendo da due ore?” Nessuna risposta.
John si avvicinò e gli fu di fronte ma non catturò nessuno sguardo.
“Posso aiutarti?” Sherlock leggeva frenetico qualcosa.
“Sherlock?” Passò circa un minuto e finalmente ebbe una risposta che non gli piacque per niente.
“Faccio da solo.”
John si sedette al suo fianco, curiosando sullo schermo del pc che si chiuse violentemente, tanto che John sobbalzò. Sherlock si alzò altrettanto violentemente.
“Mi spieghi qual è il problema?”
“Qual è il problema? Fantastico.”Disse John seccato.
“Il problema è che hai passato la mattinata e queste due ore a non calcolarmi ed io sono abituato, davvero. È già capitato. Ma non siamo al liceo, siamo in vacanza e in una situazione che di certo non ci permette di sprecare tempo per quanto per te sia importante ciò che stai facendo; ci sono anche io qui.”
Le labbra di Sherlock si strinsero e sospirò. Pensava che quel discorso era più che lecito ma non poteva rinunciare a capire qualcosa di più di Lisa. Ci stava pensando dall’alba. John si alzò e gli poggiò le mani sul petto, con cura, gentilmente.
“Chi è quell’Alan? Cosa c’entra lui con quello che ti preoccupa?”
Sherlock chiuse gli occhi, poggiando la sua fonte a quella del fidanzato che dopotutto ancora gli parlava dopo averlo lasciato solo tutto quel tempo.
“E’ il padre di Lisa e volevo cercare di capire qualcosa su di lei e sul suo passato. L’uomo è un famoso imprenditore, qualche scandalo sulla vita personale, gossip ma niente degno di nota.”
“E la cosa ti secca perché odi non avere ragione.” Sherlock sorrise.
“Odio intuire le cose e non avere abbastanza dati per poterle accertare.”
“Con questi dati riesci a dedurre qualcosa invece?”
E John lo baciò, la sua lingua non mollava e lo stringeva, le sue dita si piegavano nella schiena di Sherlock che prese fiato.
“Beh, dati interessanti devo dire.”
Era così bello baciare John. Era come i fuochi d’artificio a Natale, quelli migliori che ci sono, i più forti e i più mozzafiato.
Sì, era proprio così.
“So che vuoi tenere la mente impegnata. Lo capisco. Ma che ne dici se parliamo un po'? Ci sono delle cose che non sai su di me.”
Sherlock corrugò la fronte non poco sorpreso.
“Tutto okay?” gli chiese e John tentennò un po' annuendo.
John aveva portato con se un peso per tutti gli anni che conosceva Sherlock ed ora era, come si sul dire, il momento giusto.

Si sedettero sul divano, uno di fronte all’altro come quando si devono fare quei discorsi importanti e si è tutti concentrati.
John fece un bel respiro sapendo che Sherlock non l’avrebbe presa proprio bene la notizia che gli stava per dare.
"E’ una cosa che non avevo mai e poi mai immaginato di doverti dire così all’improvviso ma siccome non vorrei mai lasciarti con dei segreti, se così si può chiamare quello che sto per dirti, ecco…”
Sherlock incrociò le braccia e voleva semplicemente sentir John parlare.
Se doveva morire avrebbe dato a John tutto il tempo necessario di parlargli e basta per l’intera giornata anche, fosse l’unica cosa che avrebbero fatto quel giovedì. John lo guardava dritto negli occhi. Ormai non temeva nulla. Non oggi.
“Volevo solo che tu sapessi che i miei genitori, ecco, loro sono…”
John si schiarì la voce.
Reggeva lo sguardo di Sherlock che piano disse:
“John.”
Le labbra separate, immobili, stavano per dire qualcos’altro ma non uscì niente.
“John…io so quello che vuoi dirmi. L’ho saputo il giorno del tuo compleanno il terzo anno di liceo.”
John semplicemente sbiancò.
Non poteva essere.
Non voleva pensare a come Sherlock aveva sempre saputo.
“Non venni alla tua festa di compleanno se ricordi e”
“Ricordo benissimo. Litigammo.”
“Esatto e allora…io cercai delle cose sul tuo conto. Sapevo che ti conoscevo bene ma non conoscevo bene il tuo passato e volevo solo capire. Capirti di più. Capire perché eri così, perché litigammo. Le esperienze passate di una persona la influiscono inevitabilmente e se cercando più cose possibili avessi trovato la tua di brutta esperienza magari io potevo fare qualcosa. Potevo rimediare…”
Sherlock trovava difficile esprimere quei sentimenti ormai lontani ma che si precipitarono di botto di nuovo nel suo stomaco.
“Volevo rimediare al tuo dolore. Al nostro litigio.”
John fece un mezzo sorriso. I pugni stretti e le nocche bianche contro i suoi jeans.
“E’ stato in quel momento che ho provato così tanto coinvolgimento ed interesse per qualcuno come mai prima. Mi preoccupavo. Per te.”
Si guardavano ma non sembravano molto a loro agio.
Era una cosa delicata, era la morte dei suoi genitori e John non poteva credere che Sherlock lo sapeva. John non parlava, forse non aveva neanche la forza di pensare.
“Ogni volta che mi mentivi quando dicevi che avresti passato il Natale con i tuoi…Pensavo solo a quanto in realtà fossi solo. E tutto quello che desideravo era farti sentire il meno solo possibile come tu hai fatto con me. Non penso di esserci riuscito comunque.”
Sherlock pensava velocemente e non sapeva cos’altro fare per riempire i silenzi che provenivano dal suo ragazzo.  
“Sai cos’è l’unica cosa a cui riesco a pensare ora? E’ se come ti sei comportato con me è stato mai influenzato da questa cosa che sapevi. Vorrei sapere se…”
“Ti ho sempre trattato come se me lo avessi detto, come se lo avessi sempre saputo. Sai come sono.”
“Lo so ma…a volte pensavo che mi accettavi al tuo fianco solo perché ero debole.”Sherlock era confuso.
“O perché ero sempre quello meno intelligente, che ti avrebbe dato meno problemi ed io ”
“Ti ho scelto perché tu sei stato l’unico che mi ha scelto. Tu mi hai visto. Nessuno mai mi aveva visto per davvero ma tu sì. E sei dannatamente intelligente e bellissimo. Bellissimo diciamo che se te lo dico è perché sono coinvolto sentimentalmente e forse sì, non sarei oggettivo nel dirtelo ma per me, per me sei una persona bellissima. Dio John, pensavi davvero questo?”
John non riusciva a non sorridere anche se Sherlock era comunque sconvolto quanto lui in quel momento.
“Volevo che me lo dicessi, John.” Un velo di lontana delusione coprì le iridi celesti di Sherlock che dopo un sospirò disse:
“Non sai quante volte ho pensato di chiedertelo ma volevo anche che fossi pronto tu, questa era la cosa più importante. Aspettavo che ti fidassi di me a tal punto e se lo sei ora, va bene.”
Sherlock gli prese il volto nella mano che era leggerissima.
“Io mi fidavo di te Sherlock, sul serio.”
“Lo so, lo so.”
“Ma questa era una cosa così personale e non ero mai pronto.”
Un sorriso incrociò gli occhi umidi di John.
“Avrei potuto fare qualcosa.”
“No, Sherlock. Nessuno ha mai potuto e neanche tu potresti. E’ una cosa troppo grande, non pensi?”
John si poggiò sullo schienale del divano e poggiò la testa che cadde indietro, rilassata.
“La morte è sempre troppo grande.”
Si voltò a guardare quel volto irrigidito.
“Hey.”Disse John ridendo un po' cercando di dirgli ‘Va bene. Va tutto bene’.
Poi, cambiando tono gli disse:
“Vorrei tanto passare alla seconda cosa che volevo dirti.” Sherlock annuì.

Era ancora un po' teso per le cose appena dette ma le sottili labbra di John curvate e felici lo rassicurarono.
“Andiamo in un sex shop.” Tutto quello che riuscì a fare Sherlock fu sgranare gli occhi e deglutire per un paio di volte.
“Non voglio comprare chissà cosa ma, andiamo, dobbiamo farlo. Potrebbe essere la nostra ultima occasione.”
Sfoderò un paio di occhi blu e dolci mai visti prima e Sherlock effettivamente non ci trovava niente di male; solo non se lo aspettava da un ragazzo come John.
“Vedila come un esperimento.” Ammiccò John, poggiando le sue mani sulle gambe del suo bel ragazzo che pensò a cose non proprio da poter dire ad alta voce che pesavano quasi nella sua testa e gli facevano riscaldare il corpo.
“Sicuramente fa parte del tuo piano di divertimento, John.”
“Come potrebbe non esserlo.”
“Okay, va bene. Non ho idea di cosa potrà uscirne fuori da questa cosa ma sarà interessante e ci terrà occupati per un po'.”
John si morse il labbro inferiore per poi inumidirlo e stringendolo per scaricare l’eccitazione che sentiva. Sherlock intuì tutto e John adorava che lo facesse così in fretta. Quella mente pronta in certe situazioni era la cosa migliore che c’era.
"Niente cose troppo ingombrati però John.”
“Cos’è, una battuta? Eppure sai cos’ho nei pantaloni.”
“Oh, ma smettila!” Risero e mai e poi mai avevano pensato di poter arrivare a quel punto della loro relazione ma li intrigava molto.
Non avevano mai avuto bisogno di fare gran cose per divertirsi e neanche ora, ora che la morte avrebbe probabilmente bussato alla loro porta, sentivano che non dovevano desiderare cose impossibili per stare bene e dirsi che ne è valsa la pena.
Insieme era l’unica cosa che gli serviva.

“C’è una cosa che anche io vorrei dirti ed è una cosa alquanto insignificante ma so che ti farà piacere sentirla perché sei un…romantico, possiamo dire, ed è una cosa personale che non sa nessuno se non mia madre quindi magari è un bene che io voglia dirtela perché, per quanto piccola, è qualcosa che mi ha reso molto felice.”
A John brillarono gli occhi e gli disse che voleva sentire ogni particolare.
“Bene. Allora, quando avevo otto anni, andammo come ogni estate al cottage in campagna e un giorno mio padre decise di andare a fare una sorta di escursione perché aveva da poco comprato la tenuta. Arrivammo al confine del bosco e lasciarono me e mio fratello andare un po' in esplorazione. Vicino ad un albero altissimo, che mi sembrava toccare il cielo (ero uno scricciolo da piccolo), vidi un piccolo animaletto marrone che mai avevo visto dal vivo, un porcospino.”
“Un…porcospino?” chiese John già interessatissimo dalla storia. 
“Era la cosa più adorabile che avevo mai visto, devo ammetterlo.” John si sciolse.
Gli occhi di Sherlock erano così malinconici e mai, mai, lo aveva visto così vulnerabile.
“Lo presi con cautela e mi annusava con quel minuscolo nasino sporgente…Lo ricordo come fosse ieri. Andavo tutti i giorni a quell’albero e indovina?” John scosse la testa non riuscendo ad immaginare cosa mai poteva essere accaduto.
“Lui era ogni giorno lì, John. Ogni mattina per due estati consecutive mi aspettò lì e non facevo altro che accarezzargli la pancia tutto il tempo.”

Sherlock sorrideva come un bambino che raccontava di aver ricevuto il più bel regalo di compleanno con quello sguardo acceso e la voce dolcissima, quasi commossa.
“Sul serio era sempre lì?” chiese John, non poco toccato.
“Sì. Ogni mattina per tutto il mese di agosto. Incredibile. Era la cosa più vicina ad un amico che avessi mai avuto.”
“Oddio, Sherlock…” disse a bassa voce John e si portò le mani al viso.
“Lo so, lo so è una cosa…commovente.”
“Poi cosa è successo?”
Sherlock fece spallucce.
“Una mattina andai e semplicemente lo aspettai perché, con mia sorpresa, non era lì. Lo aspettai per circa quattro ore ma non venne. E neanche i giorni a seguire.”
Sherlock sorrideva un po', ma il viso era spento e quel ricordo davvero troppo triste da non poter nascondere la tristezza agli angoli della bocca.
“Per un bambino di otto anni poteva essere la cosa più brutta di sempre e per cui piangere disperato ma io, beh io lo capivo.
Capivo che tutto finiva e che quell’animaletto in fondo non sarebbe durato per sempre.”
“C-cosa facesti?”
“Dai John, non stai piangendo sul serio.”
Un paio di lacrime bagnavano il suo volto e Sherlock gliele asciugò in fretta.
“Non piango ma non sono nemmeno fatto di pietra.”
“Sei così sensibile.” Glielo disse con ammirazione quasi.
“Già.”
“Comunque, lo dissi a mamma che ovviamente sapeva che uscivo ogni mattina per andare dal mio amico e lei mi abbracciò forte e mi chiese se mi sarebbe mancato. In quel momento non capii bene ma nel mio cuore sapevo che sarebbe stato così, mi sarebbe mancato parecchio. Infatti ci pensavo spesso. Mi chiedevo come stava, se era ancora vivo.”
“Eri un bambino dolcissimo, Sherlock. Davvero.”
“Mia mamma me lo diceva sempre, sai?”
“Non poteva essere diversamente. Sei ancora dolce.”
Scosse la testa e un po' stranito disse:
“Lo sono solo con te. Esserlo con il resto del mondo sarebbe inutile.”
Giocava con le proprie dita, un po' nervoso.
“Non dico che devi abbracciare ogni persona che incontri ma mostrare i tuoi occhi bassi e commossi, il tuo tono di voce vellutato così com’è ora, così gentile e sincero…Non ci sarebbe persona che non lo apprezzerebbe. Non averne paura.”
Sherlock alzò la testa per guardarlo. Ancora una volta si sentiva come se John riusciva a trovare ogni pezzetto bello di chi era e renderlo ancora più bello, importante ma soprattutto gli faceva capire che non era sbagliato. Nessuno dei suoi pezzetti era sbagliato.
Gli sorrise e annuendo un po' gli disse:
“Sai, John. Penso che per ora tutta la mia dolcezza la meriti davvero solo tu. Mi chiedi di fare quasi l’impossibile per uno come me.”
John capì che tentare di mettergli idee in testa di quel genere era tempo sprecato.
Sherlock Holmes non avrebbe mai parlato, guardato, sorriso così con nessun altro e a John dispiaceva per quelle persone che non avrebbero mai state testimoni di tanta bellezza. “Va bene, Mr. Holmes. Usala pure tutta con me.”


La sera fece presto a venire e dopo un boccone uscirono.
La serata era piacevole e dopo una birra che volevano gli desse un po' più di coraggio per quello che stavano per fare, seguirono la strada che gli indicava il navigatore sul cellulare che gli suggeriva di svoltare alla prima strada a destra.
Una volta imboccata, fu semi deserta e da lontano videro l’insegna spiccare nella penombra: una scritta in rosso, in stampatello accompagnata da un paio di manette che si accendevano ad intermittenza.
“Eccolo lì.” Disse John con la voce carica di aspettative e un sorrisone sulle labbra. Sherlock, dal canto suo, era curioso più che felice come John.



Entrarono annunciati dal suono di un campanellino posto sopra la porta.
C’erano un paio di ragazze che davano un’occhiata e il proprietario dietro al bancone, un uomo di mezza età impegnato al computer, con una lunga barba e occhi scuri. Il locale era abbastanza grande e l’atmosfera calda era data da luci soffuse e una musica che pareva lontana, molto suadente. “Cosa stiamo cercando per l’esattezza, John?”
Sherlock girava calmo tra gli scaffali, prendeva qualche oggetto di cui faceva fatica a capire più che l’utilità il come una persona poteva pensare di inventare certi marchingegni. John fece spallucce mentre armeggiava con una scatola.
“Cerchiamo qualcosa di…carino suppongo.” E gli sorrise velocemente per poi tornare a dare un’occhiata in un cesto al centro del negozio.

“Dai Mary, prendilo e basta.” La giovane voce attirò l’attenzione di Sherlock che dall’altra parte di uno stand cercava di sbirciare le due ragazze nella corsia di fronte. Una era alta bionda, vestita di tutto punto e annoiata. L’altra era più alla mano, si intuiva dai movimenti più spontanei, e aveva una frangia che gli donava tantissimo, pensò Sherlock.
La ragazza con la frangia rispose che non voleva fare una stupidaggine a prendere quello sbagliato. Aveva in mano un vibratore nero, molto elegante e tra i più costosi. Sherlock capì che non era per lei, troppo responsabile per spendere così tanti soldi per se stessa, non le serviva, e non era  neanche per la sua amica che non aveva per niente interesse in quelle cose dato che batteva con il piede un ritmo veloce per l’impazienza di andare via.
“Mary, gli piacerà. Credimi. È uno degli ultimi modelli no? Deve andare per forza bene.”
Oh. Era per un amico allora, molto probabilmente un regalo.
Sherlock non resisteva a volerne capire di più e ascoltava attento.
“Lo so che va bene, ma mi sembra troppo…” Mosse velocemente le mani in aria.
L’amica si portò le sue alla testa e le disse che l’avrebbe aspettata fuori. Uscì e Mary, con quell’aggeggio in mano, sembrava avere l’amica meno amica del mondo.
“Penso che sia molto bello e credo che lui apprezzerà.”
Lei si girò di scatto e vide questo ragazzo alto, dagli occhi penetranti e quasi vitrei in quella luce che se ne stava come un adone con le mani in tasca a sorriderle.
“Sono Sherlock.” Disse e le porse la mano. Lei arrossì e le mani quasi le tremavano.
“C-ciao. Lavori…qui?”
“Davvero do questa impressione?” Un po' temeva una risposta positiva.
“No, anzi. Però mi hai consigliato questo e pensavo…”
“Sono solo bravo nei consigli. Beh, almeno in questo settore. Penso.” Gli si asciugò tutta la saliva in bocca. Perché aveva parlato a quella ragazza? Non era affatto nella posizione di consigliare visto che anche per lui era la prima volta. Istinto, pensò.
Era semplicemente il suo istinto, era quello che era, erano i suoi gusti.
Era quello che avrebbe voluto anche lui.
“E’ per mio fratello. A lui piacciono queste cose e poi il fidanzato mi ha detto che ne desiderava uno nuovo da tempo quindi eccomi qui, da sola e in crisi per un vibratore. Che bello eh?”
“Okay, fammi vedere un po'.”
Sherlock con coraggio gli prese la confezione dalle mani, gentilmente, e lesse il retro. Mary guardava quei lineamenti particolari, le labbra carnose e rosse e pensò a che sfiga aveva avuto ad essere donna in quel momento.
“Hai detto che gli piacciono queste cose quindi presumo che abbia avuto già esperienze anche perché in caso contrario questo non sarebbe andato per niente bene. È molto sofisticato.” Disse tutto non staccando gli occhi dalle righe che leggeva velocemente e felice di star apprendendo cose mai sapute prima su oggetti del genere, almeno non nei particolari.
Ne aveva visti alcuni, non era un santo, ma non aveva mai approfondito la cosa. Non era di certo una priorità.
“Io me lo comprerei.” Esordì più rilassato porgendo il regalo a Mary.
Aveva qualcosa di molto rassicurante nei gesti e in quella voce profonda, il che era paradossale ma tutto lo sembrava in quel ragazzo.
La mente di Mary pensava tutto questo. Si aggiustò gli occhiali sul naso e sorridendo prese lo scatolo.
“Grazie Sherlock.”
“E di che.”
Lei fece per andarsene ma si fermò e con gli occhi sul pavimento chiese:
“Sei gay, vero?” Sherlock rise, gettando un’occhiata a John che era assorto dagli oggetti su cui curiosava, e sempre guardandolo disse:
“Fino al midollo.”
La sua voce era bassa, quasi un sussurro.
Poteva quasi sentire le sue pupille dilatarsi e strinse i pugni nelle tasche. Tutto quello lo stava effettivamente eccitando.
L’atmosfera, John sempre così sexy.
E quelle cose attorno a lui ovunque si girava non lo aiutavano. Poi si voltò ritornando dal mondo dei sogni e vide l’espressione delusa della ragazza che non cercava altro che una conferma.
“Mi dispiace. Sei davvero davvero carina però.”
Mary fece spallucce e il rossore un po' ritornò sulle sue guance a quel complimento.
“Grazie ancora.” Disse e andò a pagare con l’animo più tranquillo.
Sherlock ricambiò il saluto con la mano che lei gli fece e dopo un sorriso, Mary sparì dietro la porta. Pensò che andare in un sex shop non era poi così strano. Era ciò che le persone fanno di continuo, qualcosa che andava provato e quegli oggetti in effetti potevano aiutare a farlo.
Il sesso è una delle esperienze migliori che l’uomo può regalarsi e farlo con convinzione e responsabilità era tutto tranne che strano.
Farlo con passione, sperimentare e scoprire nuove cose come quelle che lo circondavano era qualcosa che ancora non aveva assaporato e solo ora lo capiva, capì perché John lo aveva portato lì, perché voleva provarci. Ora Sherlock voleva fargli passare una delle notti più divertenti e coinvolgenti mai esistite.
Lo raggiunse con il cuore a mille.
“John.”
“Hey penso che potremmo provare queste, che dici?”
Sherlock gli prese il viso nelle mani e lo baciò.
Solo labbra.
Solo un tocco delicato.
Ma fu così intenso.
Quando John riaprì gli occhi vide Sherlock sorridere.
“E’ stata una splendida idea John.”
“Oh. Hai visto qualcosa che ti piace allora…”  disse felice John, contento di vedere il suo ragazzo più convinto.
Sherlock posò lo sguardo su quello che John gli stava proponendo e sembrava la cosa meno spaventosa che aveva visto fin ora.
Era un inizio.
 “Queste saranno interessanti.” Prese le due buste dalle mani di John e si avviò alla cassa. John disse invano un okay che Sherlock neanche sentì.


Uscirono e John gli chiese cosa gli aveva acceso la scintilla che gli vedeva negli occhi. Sherlock cercò le parole giuste.
“Vedi, è che ho capito cosa significa questo.” 
Indicò il negozio che avevano appena lasciato.
“E’ un modo per ricordarsi quanto dobbiamo amare. Quanto dobbiamo amare forte. E senza paura di nuove sensazioni e nuove gioie. Il sesso viene visto così spesso come un qualcosa da temere e da evitare ed è anche giusto perché nella vita c’è un giusto tempo per fare le giuste cose e…ho semplicemente capito che per me è arrivato il momento giusto e il fatto che sia arrivato con te…”
Sherlock fece spallucce.
“Sei tu ad avere acceso questa consapevolezza. Voglio fare il miglior sesso della mia vita con te. Voglio fare l’amore con te e divertirmi e sentire sulla pelle cosa sei capace di regalarmi ogni secondo che lo desideriamo.”
John lo ascoltava assorto.
“Mi hai acceso un interesse che non avevo mai avuto. Mi stimoli, John. Mi fai vivere.”
Sherlock si poggiò al muro. Aprì le braccia, sorrise inclinando un po' la testa come per dire ‘Ecco tutto. Solo questo.’
John scosse la testa con un solo pensiero in essa. Lo prese per la mano e d’un tratto erano a casa. Neanche entrarono che già si stavano baciando profondamente.
Le mani ferme di John a circondare il collo di Sherlock che lo trascinò in camera.


Si buttarono sul letto ancora sfatto da quel mattino. La busta con il loro acquisto era sotto la schiena di Sherlock che velocemente la prese e la poggiò sul cuscino.
Le lingue si sfregavano ed era abbastanza da farli uscire fuori di testa.
John era su Sherlock e si staccò per un attimo per togliersi la maglia. Sherlock lo guardò nella penombra.
Quella pelle ambrata sembrava velluto, i tatuaggi scuri erano ben delineati dalle ombre e le labbra semi aperte erano umide, il petto di John sotto i suoi palmi. Le sue mani scesero e le dita seguivano gli addominali appena accennati di John che gettò la testa all’indietro, rabbrividendo a quel tocco.
“Sei la cosa più sexy del pianeta, John.”
Gli sorrise in risposta e mise le sue mani sul dorso di quelle di Sherlock che erano ferme sulla sua pancia e le spinse più giù, tra le sue gambe. Sherlock afferrandolo, guidato dai movimenti di John, sembrò non avere aria da respirare.
Lo guardava e di nuovo sentiva come poco prima in negozio le sue pupille dilatarsi per l’eccitazione.
“Ti piace.” Gli disse John.
Sherlock non staccava gli occhi dalle loro mani che si muovevano all’unisono.
John si abbassò, leccò quel collo che accolse i suoi baci. Si spogliarono, piano.
Le mani di Sherlock accarezzarono John dalle spalle ai polsi, afferravano le gambe e accarezzavano quella pelle morbida. Intanto i baci di John lo facevano rilassare e dimenticare tutto il resto.
“Cristo Sherlock.” Disse John quando posò gli occhi sul cavallo dei pantaloni del fidanzato che ancora li indossava.
Li sbottonò, li afferrò e piano li fece scivolare lungo le gambe muscolose del ballerino.
Ad ogni centimetro di pelle che si liberava John lasciava un bacio lì dove prima c’era la pregiata stoffa scura.
Una volta arrivato alle caviglie fece cadere a terra  i pantaloni e risalì con le labbra quello che aveva baciato poco prima.
Sherlock piegò le gambe come se una scossa elettrica lo avesse costretto. Le labbra di John era forti e salivano piano.
Sherlock aveva gli occhi chiusi. Le lenzuola strette nelle mani.
“John…John…” era l’unica parola che pensava il suo cervello che registrava ogni  tocco che si ripeteva ancora e ancora, ogni tocco delle mani di John che gli afferravano la vita e quel suo respiro caldo sulle cosce.
“John…”
“Shhh. Tranquillo, amore.”
Baciò l’interno della coscia destra e Sherlock respirava forte e la sua schiena si inarcò.


Quel movimento fece incontrare il suo ventre con la bocca pronta di John che lasciò lì altri baci, tenendo sempre la vita stretta di Sherlock tra le dita.
Si poggiò piano su di lui e Sherlock aprì gli occhi.
La punta del loro nasi si sfiorava.
Il respiro di Sherlock un po' si calmò. John sorrideva soddisfatto, non lasciando il suo ragazzo perdere l’eccitazione e spingeva la coscia tra le gambe di Sherlock che torturava le lenzuola.
“Dio, John.”
L’erezione di John premeva contro il lato di Sherlock che sorrise quando la sentì.
“La tua voce mi manda fuori di testa Sherlock.”
Lo baciò stringendo i ricci nella sua mano. I corpi si muovevano piano e a ritmo e presto si liberarono della biancheria intima. Era tutto come una danza, una lenta danza che la pelle ballava sicura e calda. I baci erano dolci e John gli prese le mani stringendole e portandole sopra alla testa di Sherlock che accolse i baci sul petto che le labbra generose di John gli donavano.
“Ti amo John.”
John era al centro del petto e sorrise sfiorando con il naso quella pelle sottile e profumata.
Morse le costole più visibili e Sherlock, con le braccia ancora alzate cercò di afferrare qualcosa, qualsiasi cosa e trovò il bordo del materasso.
“Ah…wow.” sospirò.
John alzò lo sguardo.
Sherlock aveva gli occhi chiusi, il labbro inferiore stretto tra i denti, i ricci sulla fronte.
Era uno spettacolo.
Ed era tutto suo.
 “Ora proviamo queste.”
John lo disse prendendo la busta e sedendosi sul letto per aprirla e prendere il contenuto. Intanto Sherlock rimase steso e il suo corpo si rilassò di colpo.
“Prima io.” Disse conciso.
“Okay Sherlock.” John con un sorriso aprì la bustina.
“Interessante.” Sherlock lo disse un po' perplesso cercando di capire come quello che il fidanzato aveva tra le mani poteva andargli.
“Hanno un buon profumo” John fece spallucce e porse quegli slip a Sherlock.
“Indossali, dai.” Sherlock li prese ed andò in bagno.
“Dove vai?”
“E’ per aumentare la suspense, John.”
Gli fece l’occhiolino e chiuse la porta. Slip commestibili.
Che cosa assurda pensava intanto John che si mise comodo al centro del letto, aspettando.

La porta si aprì e ne uscì Sherlock che avanzava lento.
“Punto uno, sono scomode. Punto due sono letteralmente incollate alla pelle quindi prepara bene quella lingua perché c’è parecchio lavoro da fare qui.”
Aveva le mani sui fianchi. Gli slip rossi chiaro non lasciavano molto all’immaginazione e John non faceva altro che ridere.
“Dio santo Sherlock, sei…”
“Nessun commento, grazie.”
Sherlock salì sul letto, in ginocchio di fronte a John che gli fece spazio fra le gambe.
“Vieni qui fragolina.” Sherlock arrossì tantissimo e nascose il volto nella mano mentre piano si avvicinava a John. 
“Ti prego John, no.” Sorridevano.
“Ti stanno benissimo.” Sherlock lo guardò serio.
“Sono ridicolo.”
Gli poggiò le mani sulle spalle.
Il volto di John era sollevato per vedere quello di Sherlock ancora un po' rosso per l’imbarazzo.
“Se proprio non ti piacciono, farò in modo di farle sparire.”

Quella voce gli accarezzò il ventre e John iniziò a leccarlo lì, per poi assaporare il gusto forte di fragola.
Sherlock poggiò le mani sulla testa di John che si muoveva a ritmo. S
herlock la spingeva e John lo lasciava fare, lasciava che gli facesse capire di andare più a fondo, di prenderlo, assaporare tutto.
“Così…sì.”
La voce di Sherlock era un sospiro profondo.
Le mani di John stringevano quelle cosce, fino a lasciare il segno.
Voleva dargli tutto, voleva prendersi tutto, voleva avere tutto.
“J-John!”
Era la sensazione più incredibile, lo sarebbe stata ogni volta.

John sentì un pò la lingua bruciare dopo aver finito.
Il sapore del frutto gli pungeva la gola ma questo non lo fermò.
“Ora girati.”
Sherlock lo prese come un ordine perché uscì dalla bocca calda di John come tale.
Il corpo di Sherlock si adagiò sul letto, a pancia in giù. Sentiva il resto degli slip ancora attaccati alla sua pelle sul fondoschiena e sapeva benissimo cosa stava per accadere; una cosa nuova per lui, una cosa che John aveva già fatto ma non a lui, una cosa dalla quale lui non sapeva cosa aspettarsi. Una sensazione nuova.
Un tocco nuovo.
Non c’era molto di cui parlare in quel momento ma Sherlock pensava a tante cose.
Sperava soprattutto di non mettersi troppo in imbarazzo perché sapeva come poteva perdere il controllo e in quella circostanza, con John che gli divaricava le gambe e che iniziò di nuovo ad assaporare la sua pelle, con quella lingua, non sapeva quanto oltre sarebbe potuto andare.
Le sue mani stringevano il cuscino sotto il suo mento.
La schiena gli si imperlò di un velo di sudore e brividi.
Ripeteva il nome di John come una preghiera e John intanto si concesse un po' di piacere mentre il suo amore gli diceva quanto stava andando bene.
Il corpo di Sherlock si muoveva contro il materasso e il volto di John ne seguiva il ritmo, senza staccarsi dalla sua fonte di dolcezza, piacere.
I respiri si sentivano pesanti e quando tutto fu fermo, in quell’attimo di pace quando ti godi solo ciò che è appena finito che eppure è così presente e lo senti scorrere nel sangue, il corpo di John giaceva sulla schiena di Sherlock che lo accoglieva alla perfezione.
Rimasero così per un po', occhi chiusi e sorrisi infiniti.

“Tutto bene?” la voce di John era incredibilmente diversa, apprensiva come mai prima.
La sua guancia destra era appoggiata alla spalla di Sherlock che non voleva per nessuna ragione al mondo muoversi.
Sentiva il petto di John caldo sulla sua schiena e sentiva il battito ancora forte di quel cuore che tanto lo amava.
“Sento il tuo cuore, John.”
Occhi chiusi, sensazioni a mille, la mente che per la prima volta sembrava non chiedergli spiegazioni, non esisteva, non lo preoccupava.
Sentiva solo il respiro di John cadere sul braccio e la curva di un sorriso che gli accarezzava la spalla.
“Io sento il profumo del tuo shampoo.” Gli rispose, mentre strofinava un po' il naso contro la sua nuca.
“Sento quanto ti amo e quanto tutto questo vorrei fosse il ricordo che ti porterai di me se fossi io ad andare via.”
“Non lo permetterei mai.”
Sherlock lo disse più serio di quanto avrebbe voluto sembrare.
Si voltò e John scivolò al suo fianco.
Erano faccia a faccia.
John prese le lenzuola e coprì i loro corpi, tenendo gli occhi bassi.
Prima di parlare, Sherlock prese dal suo comodino il libro delle poesie di Neruda e accese la piccola lampada.
Era deciso a chiarire delle cose.

Avevano già chiarito che qualsiasi cosa fosse successa, loro non ne avrebbero avuto timore. Ma di come l’uno si sarebbe poi comportato se l’altro fosse davvero morto, beh, questo è un altro paio di maniche. Il coraggio per parlarne non c’era e mai ci sarebbe stato ma ora Sherlock voleva leggergli quello che John aveva il bisogno di sentire.
Quello che quel poeta sembrava aver scritto apposta per loro.
“Lo hai letto tutto?”
“Sì. E devo dire che ce ne vorranno di secoli per scrivere altre parole del genere.”
John sorrise.
Sherlock poggiò la schiena allo schienale del letto e sfogliava il libro mentre il suo ragazzo cercava in tutti i modi di fissare nei suoi occhi quell’immagine del suo amore dopo aver fatto l’amore, l’amore migliore della sua esistenza e per poco non pensò che anche se lo avessero rifatto non sarebbe arrivato più a quei livelli perché effettivamente, pensò John, quando sai che puoi morire le cose le vivi diversamente, le vivi pienamente come se ogni cellula sapesse che quella è la sua ultima occasione per vivere.
John i lineamenti del corpo e del volto e delle belle mani di Sherlock li conosceva o almeno pensava di conoscerli a memoria fino a quel momento. Quel momento in cui i suoi occhi lo guardavano e ogni secondo sembravano scoprire qualcosa.
Una luce diversa, un colore diverso.
Sherlock era davvero la sua opera d’arte preferita, quella di cui non  ti stanchi, quella che ti parla e ti capisce; quella a cui pensi quando qualcuno ti chiede cos’è per te l’amore, la gioia, la vita, lo struggimento, l’esistenza, la bellezza, ogni cosa.
L’arte per eccellenza.

“Eccola, trovata. In realtà vorrei leggertene un paio.”
Si fece più serio facendo un respiro profondo.
“John, vorrei che ascoltassi queste parole attentamente e che le prendessi sul serio anche se so che ogni cosa che leggi la prendi sul serio. Per te è importante, lo so. Ma vorrei davvero lo facessi perché non ti dirò altro, non c’è altro per esprimermi.”
Gli occhi ora verdi ora un po' azzurri non si staccarono dalla pagina a queste parole.
Non volevano incrociare altro.
“Ti ascolto.” Disse semplicemente John, rispettando quel momento come Sherlock voleva.
“Bene.”
Rispose e si schiarì la voce.
“Sono entrambe prese da ‘Cento sonetti d’amore’. Questa è la prima.”
Strinse il libro tra le mani, e lesse:


Se muoio sopravvivimi con tanta forza pura
che tu risvegli la furia del pallido e del freddo,
da sud a sud alza i tuoi occhi indelebili,
da sole a sole suoni la tua bocca di chitarra.”


John rimase in silenzio a quella pausa che servì a Sherlock per guardarlo, finalmente. Per sorridergli appena. Per fargli intendere ‘mi sento così’.  


“Non voglio che vacillino il tuo riso né i tuoi passi,
non voglio che muoia la mia eredità di gioia,
non bussare al mio petto, sono assente.
Vivi nella mia assenza come in una casa.
 
E’ una casa sì grande l’assenza
che entrerai in essa attraverso i muri
e appenderai i quadri nell’aria.
E’ una casa sì trasparente l’assenza
che senza vita io ti vedrò vivere
e se soffri, amor mio, morirò nuovamente.”


Silenzio. Pesante.


La pagina tremò, come il respiro di John che si avvicinò un po'.
“E’ una meraviglia, Sherlock.”
“Sì ma devo essere sicuro che hai capito cosa voglio che tu faccia se”
“Ho capito ogni cosa. Ho capito che sai che probabilmente non potrei farcela senza te ma se ti vivrò comunque, se abiterai in me non ti perderò mai. E anche se sarà difficile non soffrire, ti prometto che farò durare la sofferenza il meno possibile.”
Sherlock annuì sollevato.
“Grazie.”
John si strinse al suo braccio.
Chiuse gli occhi.
“Leggimi l’altra e ancora altre, ti prego.”
John sapeva che se Sherlock aveva scelto quelle parole ci credeva sul serio e voleva sentirle, ancora e altre ancora.
Tutte cose che Sherlock non poteva dire perché non in grado.
E John ringraziò il cielo per l’esistenza della poesia che non fallisce mai nel suo scopo.
“Okay. Questa mi piace anche di più.”
E lesse.


Quando morrò voglio le tue mani sui miei occhi:
voglio che la luce e il frumento delle tue mani amate
passino una volta ancora su di me la loro freschezza:
sentire la soavità che cambiò il mio destino.”
Brividi invasero tutto John che disse, commosso: “Wow.”
Voglio che tu viva mentr’io, addormentato, t’attendo,
voglio che le tue orecchie continuino a udire il vento,
che fiuti l’aroma del mare che amammo uniti
e che continui a calpestare l’arena che calpestammo.”


Queste che sto per leggerti sono fondamentali, e spero di resistere e non piangere.”
Mezzo sorriso incorniciò quel volto serio.


Voglio che ciò che amo continui a esser vivo
e te amai e cantai sopra tutte le cose,
per questo continua a fiorire, fiorita,
perché raggiunga tutto ciò che il mio amore ti ordina,
perché la mia ombra passeggi per la tua chioma,
perché così”

Il volto di Sherlock si bagnò di una lacrima e con la voce rotta concluse.

perché così conoscano la ragione del mio canto.”

Chiuse il libro.
Asciugò il volto.
“Guarda come mi hai ridotto, John. A piangere per della poesia.”
Sorrise poggiando le mani sulla copertina.
John era senza parole.
Potevano essercene altre?
“Sherlock, sono entrambe…davvero, sono…”
“Sì”
La fronte di John toccava il braccio forte di Sherlock.
Lì le labbra lasciarono un piccolo bacio. Sherlock guardava davanti a sé, fissando un punto nel muro.
“C’è una cosa che mi fa arrabbiare ed ora capisco a pieno perché anche tu eri arrabbiato per non aver scritto tu stesso le parole di quella canzone di Adele che mi dedicasti. Capisco come ti senti, davvero. Così inutile perché ti servi di cose non tue per spiegare cose tue. Le cose intime tue, te stesso. Il tuo amore. Dio, che rabbia.”
“Esattamente.”Gli rispose John, che era felice di sapere che finalmente Sherlock potesse provare una cosa così forte per quanto non piacevole.

Era come sentirsi liberati ma allo stesso tempo ci si sente come si si è subiti un torto. Perché un’altra anima doveva sapere il mio amore in un  modo che io neanche immaginavo?
“La subisci spesso vero? Questa ingiustizia dico.”
John si tirò su accolto dal braccio di Sherlock che gli circondò le spalle.
“Ogni volta che metto piede in Accademia, ogni volta che cerco di scrivere e mi ritrovo col nulla anche se ho davanti una quindicina di pagine ma è solo roba senza valore e penso: perché lo faccio? L’arte è stata già provata tutta. Io non servo.”
“Certo che servi John.”
“Sì sì…non fraintendere. Amo quello che faccio e mai farei altro. Però a volte ci vuole una volontà che scarseggia, ecco.”
“Andrà tutto bene. Tu sei eccellente, andrà bene.”
“Lo voglio credere anche io.” Sherlock lo strinse.
“Non provi anche tu questo quando balli?”
“No. Personalmente, la trovo una cosa talmente necessaria che non metto in dubbio quanto faccio o come lo faccio. Devo farlo. Poi penso al resto… Ho più difficoltà nelle parole come ben tu sai. Per questo Neruda mi ha fatto incazzare. Ma lo ringrazierei se potessi.”
“Hai vissuto una rivelazione come io con Pessoa.”
“Possiamo metterla così, sì.”

Ora si sentivano bene.
Come se dicendo e ascoltando quelle poesie avessero eliminato una delle cose da fare prima di morire, come in quelle liste che si fanno per divertimento; lo scrivi proprio in alto al centro: cosa da fare prima di morire, senza neanche pensarci più di tanto e aggiungendo anche cose futili come passare un’intera giornata al mare. Ma futili non lo sono.  
Creano la successione degli eventi che sarà la tua vita.

“Leggimi le altre cose che ti sono piaciute.”
John prese il libro dalla pancia di Sherlock e liberandosi dalla stretta del suo ragazzo lo aprì dove trovava delle pieghe agli angoli delle pagine.
“Cristo Sherlock, c’è un girone dell’inferno per chi piega le pagine per portare il segno, sai? Poveri libri.”
Sherlock alzò gli occhi al cielo. Prese il libro e spiegò ogni angolo piegato che aveva fatto.
“Ecco qui.” Disse calmo.
“Molto meglio.” Gli rispose John.  

Poi, lesse a mente per diversi minuti le poesie che aveva scelto e decise quale leggere ad alta voce a John.
“C’è la seconda parte di questa che è molto bella.”


T’amo senza sapere come, né quando né da dove,
t’amo direttamente senza problemi né orgoglio:
così ti amo perché non so amare altrimenti
che così, in questo modo in cui non sono e non sei,
così vicino che la tua mano sul mio petto è mia,
così vicino che si chiudono i tuoi occhi col mio sonno.”


“Questa l’ho sentita dritta allo stomaco. Che bellezza.”
Sherlock sospirò e un calore lo avvolse.
Era il corpo di John, era l’amore, chissà cosa ma se veramente domani sarebbe morto non aveva altro da provare.
“Come darti torto John. Sono tutte bellissime e sì, c’è questa, ‘Sete di te m’incalza…’ di cui vorrei leggerti il finale. Sai, ho notato che nella maggior parte delle sue poesie sono i finali che mozzano di più il fiato. Letteralmente.”
John ormai gli era di fianco, anche lui a leggere con gli occhi quelle parole.
Dette da Sherlock, con la sua voce nata per raccontare la musica della poesia, sentivi che era una benedizione del cielo avere il senso dell’udito. Quella voce calda lesse cose che Sherlock aveva sempre provato in certe situazioni al liceo e lo disse a John.
Gli disse: “Mi attraevi, ovviamente. Neruda rende perfettamente l’idea del mio desiderio e se l’avessi conosciuto prima penso che ti avrei dedicato queste parole molto tempo fa. Ascolta.”


Come poter non amarti se per questo devo amarti.
Se questo è il legame come poterlo tagliare, come.
Come, se persino le mie ossa hanno sete delle tue ossa.
Sete di te, sete di te, ghirlanda atroce e dolce.
Sete di te, che nelle notti mi morde come un cane.
Gli occhi hanno sete, perché esistono i tuoi occhi.
La bocca ha sete, perché esistono i tuoi baci.
L’anima è accesa di queste brage che ti amano.
Il corpo, incendio vivo che brucerà il tuo corpo.
Di sete. Sete infinita. Sete che cerca la tua sete.
E in essa si distrugge come l’acqua nel fuoco.”


John d’istinto dopo quelle frasi si porse per baciarlo e tra un sorriso si baciarono piano.
Quella poesia era passionale e fece rinascere un desiderio viscerale in entrambi, una passione così dolce che solo una poesia poteva creare.
John accarezzò il petto di Sherlock, Sherlock seguì la mano di John e intrecciò le dita nelle sue.
“Dovremmo proprio ritornare in quella libreria e ringraziare quell’uomo per averci fatto un regalo del genere.”
“Dovremmo.”
John si accucciò al suo fianco.

Sherlock prese il cellulare e lesse l’ora: le due del mattino. Si distese fino a poggiare la testa sul cuscino, di fianco a quella di John che sembrava dormire. Il volto rilassato e le labbra curvate in un sorriso.
“E’ già venerdì John.” Si mosse piano. Le iridi blu di Sherlock gli parsero una notte stellata.
“Mh mh.”
John aprì gli occhi mormorandolo.
Capì che Sherlock stava per dirgli qualcosa.
“Sono felice che mi hai mostrato com’è essere fragili. Esposti. Sia emotivamente sia fisicamente. Sentirti in certe parti del corpo è stato davvero…” “John rise piano, poi Sherlock riprese lasciando stare l’argomento.
“Tante volte mi hai fatto sentire così in passato e lo ignorai ma quando ci allontanammo ero debole e non capivo. E quando ci siamo rivisti ero esposto a tutto quello che cercavo inutilmente di capire, di nuovo.”
Sherlock corrugò la fronte, confuso.
“Non so cosa sto cercando di dirti John. Voglio solo che tu sappia che anche se non l’ho capito, quando si tratta di te io non mi farò mai il problema di affermare che ti amo. Vorrei dirlo a tutti in questo momento. Aprirei la finestra e lo urlerei.”
Scosse la testa e l’euforia cresceva pian piano nelle vene. John stampò ogni parola nel cuore e disse solo:
“Suonerei troppo egoista se ti chiedessi di farlo?”
Sherlock ci rimase di stucco per qualche secondo. Guardava John e fece spallucce.
“Come ultima probabile cosa da fare nella mia vita sarebbe perfetta.”
Sherlock si alzò, la notte fuori era calma e quando aprì la finestra davvero pensava di avere tutto il mondo davanti a sé.
Londra. La sua casa.
Ciò che scorreva nel suo sangue.
Glielo stava per urlare e il cielo punzecchiato di stelle non sembrava aspettare altre parole. Si voltò per un attimo e vide John seduto con le gambe incrociate e una mano davanti alla bocca.
Non ci posso credere, pensava.
Lo fa, lo sta per fare.
Sherlock Holmes sta per fare una cosa del genere.

Prese un bel po' d’aria e poi:
“Io amo John Watsooooooon!”
Teneva le mani strette alle ante delle finestre, ansimava e si sentì libero.
E felice.
Un po' idiota ma era l’idiota più felice di Londra, questo era certo.
“Amo quel ragazzo incredibile che è John Watson.” Disse piano stavolta
. Come se lo stesse dicendo a se stesso dopo averlo detto al mondo.
Se lo disse convinto e sapendo quella era la frase più bella mai pronunciata dalla sua bocca.
Si voltò e John sorrideva luminoso.
“Sei pazzo, Sherlock.”
“Di te, sicuro.”
Si buttò a letto e tra le risate si addormentarono.


In un appartamento di una delle città più belle del mondo, Sherlock Holmes non era mai stato così sensibile e John Watson mai così sé stesso.
Molte cose dovevano ancora accadere, cose che avrebbero messo alla prova ogni lato di loro stessi.
Quel tipo di cose che ti lasciano cicatrici nell’anima e che ti fanno pensare a cosa mai hai fatto per meritartele.
E loro due, distesi e stretti l’uno all’altro, così esposti erano paradossalmente intoccabili.
Immortali.
Lontani da tutti.
Ancora al sicuro.
Ancora insieme.
Ancora l’opera d’arte più preziosa mai conosciuta. 

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Capitolo 12
*** È la libertà dell’amore che ci spinge a volerlo ***


La sveglia suonò prepotente.
Le sei del mattino si presentarono come il giorno precedente con un cielo azzurro nascosto a forza dalle nuvole grigie tipiche di Londra, anche ad agosto.
La mano di John prese il cellulare mentre Sherlock nascondeva la testa sotto un cuscino.
“Amore?” John lo disse appoggiando una mano sulla nuda spalla del suo ragazzo che fece un verso contrariato.
“Amore, alzati.”
Sherlock sospirò.
Occhi già aperti e ancora stanchi.
Non voleva credere che era già l’ora di andarsene. Non voleva credere che era già tutto finito.  
Cosa dovevano fare ora esattamente? Preparare le valigie, calmi, mettersi in auto e andare al cottage dove affrontare l’ignoto?
La morte? Un’apocalisse? O peggio, Mycroft e tutte le sue conseguenze?
Sherlock era all’oscuro di tutto, voleva essere all’oscuro di tutto, e John non gli aveva accennato ancora nulla riguardo al discorso che fece con i suoi genitori in sua assenza e quella mattina, volente o nolente, sarebbe arrivato il momento in cui avrebbe preteso delle spiegazioni.
Aveva lasciato stare per quattro giorni, aveva ignorato bene o male la situazione e lasciato a John il tempo di godersi con lui la sua compagnia
ma non si può rimanere nel mondo delle favole troppo a lungo.
I cattivi ad un certo punto della storia arrivano sempre.
E Sherlock ora li voleva conoscere.
 
Tutto quello che sentivano era tensione.
Bene affondata nello stomaco.
Ormai ci convivevano da quando erano arrivati in quella casa anche se ogni tanto la vita li ha fatti stare bene in quei quasi quattro giorni.
Solo quattro giorni.
Cosa fare se si ha solo quattro giorni a disposizione per finire la propria vita?
Loro neanche se ne erano resi bene conto perché avrebbero fatto così tante altre cose lasciate solo nella loro immaginazione.
John sarebbe voluto andare al mare e poi visitare le scogliere bianche di Dover dove suo nonno aveva vissuto, dove era sbarcato di ritorno dalla guerra. Sarebbe voluto andare lì su quella costa dove il suo caro nonno aveva trovato la salvezza e salutarlo simbolicamente un’ultima volta.
E poi quelle scogliere erano incantevoli, magiche e sarebbe stato davvero bello passare una mattina lì e fare un picnic magari.
Sentire l’erba fresca tra le dita, il profumo dell’oceano e le labbra di Sherlock sorridere.
 Avrebbe voluto farsi un altro tatuaggio, uno dedicato a loro due.
E poi sì, avrebbe voluto trascinare il fidanzato in discoteca perché, dannazione, avevano venti anni e non erano mai andati a ballare insieme.
Per Sherlock quel luogo era la cosa più insulsa, inutile e denigratoria per la musica e gli aveva giurato che mai e poi mai ci avrebbe messo piede.
Lì dove la sua religione, la sua amata musica (e in realtà anche la danza),  era trattata come una cosa che si meritava solo due note e del rumore. Non riusciva proprio ad andare oltre quella sua convinzione.
Fino a quel venerdì mattina.

Fino a quando si è ritrovato con la testa sotto un cuscino che aveva il profumo di John e tutto quello che desiderava era accontentarlo e andare in una discoteca da quattro soldi per dimenticare tutto nel flusso incessante di quel rumore e di altri corpi che erano lì esattamente per fare la stessa cosa: dimenticare per una sera un problema, un litigio o semplicemente per divertirsi un po' ed ubriacarsi.
Non importava, avrebbe voluto esserci in un locale del genere. Con il suo John felice per avergli concesso quel piccolo desiderio. C’erano altre cose che Sherlock avrebbe voluto fare con John ma che non ha fatto, illuso che non gli sarebbe servito a nulla togliersi qualche capriccio.
Eppure era proprio questo il pretesto di quella mini vacanza; fare tutte le stupidaggini che un ventenne libero avrebbe fatto.
Ma no.
Perché?
Cos’era andato storto?
Perché non gli ho detto di voler andare a ballare con lui?
Perché non gli ho ancora chiesto di sposarmi?
Perché non gli ho fatto quella bella proposta che ho stampata nel cervello da tempo, forse da sempre, ma che non ho ancora pronunciato?
Perché non gli ho detto che voglio passare la mia vita con lui, per sempre.
Perché non gli ho detto che voglio passare questa morte con lui, legato a lui in tutti i modi umani possibili.
Uniti in matrimonio.
Sì, un gesto simbolico ma che avrebbe decretato una volta per tutte che John Watson era suo.
Vedere due anelli rispettivamente ai loro anulari, una cosa loro, una promessa, un marchio, un luccichio che avrebbe brillato fino alla fine.
Un per sempre, il loro per sempre.
A Sherlock mancò tutto questo che neanche aveva mai avuto.
Lo aveva perso ancora prima di pensarlo, di realizzarlo.
La sua mente andò dritta alla luna di miele, a quelle due settimane che avrebbero passato in Norvegia o Svezia, in quei Paesi che sembravano oltre il mondo.
Dormire sotto le aurore boreali: la forma d’arte che John ammirava con più fervore e passione.
Pensava che nessuno poteva creare quei colori se non l’universo e questo lo attirava incredibilmente.
Era un desiderio che a quindici anni gli aveva confessato.
“Vorrei passare una notte sotto il cielo del nord e vedere quelle luci straordinarie. Sarebbe come ammirare un dipinto, no? Meglio di un semplice dpinto in realtà. Pura arte. E voglio fare questo nella vita.”
Così gli disse con naso puntato al cielo e gli occhi che sembravano già sotto quel cielo, mentre sorseggiava un tè un pomeriggio durante un’uscita di scuola.
Gli altri ragazzi nell’ora libera se ne andavano scorrazzando per la città mentre loro due rimasero insieme davanti a un bar, sotto il sole piacevole di settembre a parlare dei loro sogni. John gli confessò quello e in quel preciso momento, per assurdo, Sherlock pensò che la loro luna di miele sarebbe potuta essere proprio quella, incorniciata da un’aurora boreale dalle luci immense, verdi e bianche e blu e tutto sarebbe stato indimenticabile.
A quindici anni pensò al suo matrimonio con quel ragazzo mingherlino e dagli enormi occhi blu profondo che altro che aurore boreali, lui avrebbe guardato solo quelli.

Ed ora, con le mani tese e le unghie nelle cosce, disteso in un letto in un appartamento anonimo di Londra Sherlock si chiedeva perché.
Perché non l’avevano ancora fatto.
Strinse gli occhi e sentì l’accenno di un mal di testa che ultimamente gli veniva spesso se si metteva a pensare troppo.
Si alzò piano e si sedette.
Con l’amaro in bocca per quelle cose forse perse pensava che ora tutto quello da fare era essere razionali e pronti alla guerra.
 

John era in cucina. Sentiva dei rumori provenire da lì e probabilmente stava preparando la colazione.
Sherlock si guardò un po' intorno e si rese conto che le lenzuola erano un disastro.
Avevano macchie rosa ovunque per colpa degli slip alla fragola che avevano lasciato una patina anche su di lui.
Sorrise fissando quel disastro e sentendo nell’aria l’odore tipico del miglior sesso mai fatto, l’odore della pelle forte di John, il loro odore.
Avevano fatto l’amore come mai più l’avrebbero fatto, ne era convinto e se avesse saputo che questo lo pensava anche John gli avrebbe dato ragione al cento per cento.
Fu irripetibile.
Un godimento che il suo corpo ancora sentiva nel sangue.
Si alzò e per prima cosa fece una doccia. Infilò i boxer e una  camicia che aveva lasciato sulla sedia di fianco alla cassettiera per poi raggiungere John in cucina.
“Buongiorno.
”La voce bassa di Sherlock uscì ancora assonnata.
Si baciarono piano. Ogni gesto quella mattina era fatto con una consapevolezza nuova, che li faceva trepidare anche se non di gioia.
“Sto praticamente svenendo dalla fame.”
Sherlock si sedette al lato della penisola in marmo e poggiò il mento sul dorso delle mani.
John mise delle uova e due fette di toast fumante nel piatto che porse a Sherlock. Fece lo stesso per sé e dopo aver preso del succo di frutta dal frigo si sedette per godersi quella colazione con il suo ragazzo che già aveva iniziato a magiare.
“La colazione dei campioni”
Commentò Sherlock sorridendogli.
“Abbiamo bisogno di energie.”
“Dopo ieri sera, concordo.”
Si scambiarono uno sguardo complice.
E quello, non l’avrebbero perso mai. Mai.

John gli buttò un’occhiata veloce, come per tastare il terreno, provando a intendere l’umore del suo ragazzo e poi gli chiese:
“Vuoi…pranzare prima e partire oppure…partire ora?”
John tirò fuori dalla sua mente e dal suo corpo tutto il coraggio necessario per chiederglielo. Sherlock fissò il piatto e deglutì.
“Prima partiamo, meglio è.”
Un tono così John non glielo aveva mai sentito fare.
Il tono di chi non ha più speranze e che facendo spallucce, rinuncia. Un tono però anche deciso, conciso.
“Okay.”
Si limitò a dire.

Finirono di mangiare in silenzio. Un silenzio difficile da colmare.
“E’ stato a dir poco sensazionale il sesso stanotte. Davvero Sherlock, è qualcosa che non dimenticherò mai. Vorrei…ringraziarti per”
“No, no ti prego. Da come mi stai parlando sembra che queste sono le tue ultime parole ed è l’ultima cosa di cui ho bisogno. Ed anche tu.”
Sherlock piantò le iridi fredde nelle sue e quella durezza gli fece male.
John non intendeva fargli un discorso di addio.
“Lo so. Infatti non era quello che stavo per fare. Tutto quello che desidero ora è darti, darci tutta la tranquillità di cui abbiamo evidentemente bisogno.” Lo disse calmissimo, dolcemente.
Vide le spalle del ragazzo abbassarsi, rilassarsi.
“Scusami John.”
Si sfregò piano il viso con le mani.
“Scusami, John, davvero scusami ma ho resistito fin ora e in questo momento non sai quanto i miei nervi avrebbero voglia di cedere.”
Chiuse gli occhi.
“Ho resettato la mente. Ho eliminato ogni domanda che cercava di pormi su Lisa, su Mycroft, sulla situazione che affronteremo e davvero ho fatto un ottimo lavoro.”
Sorrise nervoso.
John non lo aveva mai visto così irrequieto.
“Ma…sto per portarti al patibolo probabilmente. Ti ho coinvolto in…questa assurdità che non posso controllare, che mio fratello non mi fa controllare da egoista qual è ed io…”
John gli andò dietro poggiandogli le mani sulle spalle, massaggiandole piano. Il petto di Sherlock si riempiva e svuotava frenetico ma dopo un po' John riuscì a calmarlo. Poco, ma era meglio che niente.
“Non mi porterai al patibolo, Sherlock. Non è nulla che potevi prevedere, non è colpa tua e non intendo lasciare che pensi che lo sia.”
Sherlock annuiva poco convito
. “Ci siamo dentro insieme.”
John poggiò le labbra sui ricci di Sherlock che stava per chiedergli di dirgli la verità ma fu interrotto da John stesso che disse:
“Hai detto che tuo fratello non ti fa controllare la situazione. Hai provato a contattarlo?” Sherlock serrò le mascelle.
“Sì. Ho telefonato a tutti i numeri tramite i quali è possibile rintracciarlo nella speranza che almeno uno l’avrei riuscito ad ingannare ma hanno ovviamente intercettato da dove proveniva e sapevano che ero io. Gli ho spedito una lettera, passandola mano per mano da un giro di amici di strada che ho, pagandoli, ma non ho ricevuto risposta.”
“T-tutto questo è accaduto sotto i miei occhi?”
“Cercavo il meno possibile di fartelo notare. Mi avresti fermato.”
John girò lo sgabello costringendo Sherlock ad averlo di fronte.
“Non so cosa avrei fatto ma potevamo parlarne.”
Tutta la calma e la dolcezza di prima era velata da un po' di fastidio. Sherlock lo guardava annoiato quasi.
“Non ti appigliare a questa sciocchezza John. È ovvio che se avessi ricevuto riposta te lo avrei detto, ti avrei parlato. Cosa che invece tu non hai ancora fatto.”
Inclinò la testa spostando lo sguardo basso lontano, oltre il viso di John che sospirò con un mezzo sorriso, il solito che faceva quando stava per perdere la pazienza. Indossava solo i boxer scuri e si portò le mani ai fianchi. Pensa fino a dieci prima di parlare, te ne prego, si disse. Arrivato al dieci disse:
“Ora vado a comprare la vernice per il muro in camera. Quando torno parliamo. Ho bisogno di una boccata d’aria.”
Non lo degnò di uno sguardo e andò in camera, si vestì velocemente ed ignorandolo di nuovo gli passò davanti per poi chiudere la porta di casa alle sue spalle.

La loro relazione era sempre stata una costante per entrambi, cosa su cui non ponevano troppe domande ma a John era già capitato in fondo di dubitare di Sherlock. Più che di Sherlock, tutto quello che si portava dietro. Ne dubitò pochi giorni prima, nel salotto silenzioso del cottage mentre lo aspettava con la guerra in testa, letteralmente.
Ora, mentre camminava distratto, sentiva ad ogni passo che stava facendo la cosa giusta: andarsene.  Ci pensò seriamente. Sherlock non sarebbe mai cambiato per nessuno e nemmeno per lui. Non fino in fondo. Mentire, ignorare, sottovalutare erano cose che Sherlock faceva continuamente e anche se non sempre con lui, lui non lo sopportava a prescindere. Ma cosa doveva fare ora?
Non poteva lasciarlo, non poteva andarsene veramente.
Si bloccò di botto.
Piantò i piedi e scosse la testa. I dubbi ora non gli servivano a nulla. Doveva salvare Sherlock, lo aveva promesso ai Signori Holmes, lo aveva promesso anche a Mycroft in cuor suo e poi lo aveva promesso a sé stesso. Alla parte di sé stesso che tendeva come una corda indistruttibile sempre e costantemente verso Sherlock.
Aveva ancora troppi motivi per non andarsene.


L’appartamento vuoto gli sembrò il posto più triste del mondo senza John che aveva lasciato lì ben presente il suo profumo.
Sherlock andò in camera rassettandola e iniziando a fare la valigia. Buttò le lenzuola ormai irrecuperabili e andò in bagno per prendere le sue cose. Prima però aprì, per la prima volta da quando era lì,  il piccolo bidone della spazzatura di fianco alla doccia e ne prese la busta per buttarla.
Qualcosa attirò il suo sguardo sempre pronto e attento; un malloppo informe grigio e un foglio fatto a pezzi.
Li tirò entrambi fuori, sedendosi a terra.
Li collegò subito a quel lasso di tempo in cui John stette in bagno in silenzio.
Il gomitolo ancora impastato ormai era illeggibile e l’inchiostro scuro non era più parole ma macchie inutili.
Una lettera.
Quello che Sherlock pensò essere il foglio era la busta che lo conteneva, fatta a pezzi grossolanamente.
“Grande errore, John.”
Disse un po' felice ed eccitato. Allo stesso tempo la delusione affondò nel labbro inferiore che morse con i denti. Mente anche lui per il mio bene come io faccio a volte con lui, pensò. Erano pari ora? Era un gioco fra di loro? No. Era solo tanto complicato.

Con la minuziosa pazienza ed enorme curiosità che uno come Sherlock aveva, riuscì in qualche minuto a ricomporre parte della busta, lì dove riusciva a distinguere le lettere. I pezzi sul pavimento tra le sue gambe di fecero sempre più vicini e riuscì a leggere ‘Per John’ con la calligrafia del fratello, inconfondibile per lui.
Gli si gelò il sangue nelle vene.
Si portò una mano alla fronte mentre sentì la serratura della porta di casa.
“Sherlock?”
Nessuna risposta.
John corse in camera pensando al peggio ma il corpo di Sherlock seduto in bagno gli fece fare un grande sospiro di sollievo.
“Sei qui…”
Gli scappò un sorriso.
“Forse avrei dovuto farlo.”
La voce bassa proveniva dal capo piegato su quella carta che guardava fisso.
“Cosa?”
“Pensavi che me ne fossi andato, John. Avrei dovuto farlo.”
John si avvicinò e piegandosi un po' vide ciò che Sherlock aveva scoperto.
“Te lo avrei detto proprio ora, appena tornato.”  
“Lo so. E’ questo il problema.”
Sherlock si alzò urtandolo un po' mentre rientrava in camera.
“Sherlock, andiamo. Avevamo deciso di goderci il tempo rimasto e non vole”
“Sei un completo idiota.”
Gli dava le spalle, la camicia stropicciata lo avvolgeva leggera.
“Ho solo fatto ciò che mi è stato detto di fare per il tuo bene. Mi potevi pregare in ginocchio di dirti cosa sapevo, non lo avrei fatto fino a questa mattina. Dovevano andare così le cose.”
Le mascelle di John si serrarono.
Era un misto di rabbia e senso di colpa quello che provava ma sentiva di aver fatto la cosa giusta, a costo di far innervosire Sherlock che in quel momento pensavo solo ad aver avuto la conferma di quello che pensava da sempre: mai fidarsi delle persone con cui sei coinvolto sentimentalmente. Solo che da John un tradimento se lo aspettava di meno.
“Sei un’idiota. Potevo risolvere tutto già tre giorni fa. Te ne rendi conto?”
Si girò e il volto di marmo era inespressivo mentre dentro bruciava, tutto.
“Anche se ti dicessi per filo e per segno ogni riga di ciò che mi ha detto Mycroft ne capiresti quanto me.”
“Ovviamente ma io conosco mio fratello, tu no. Dalla sua calligrafia avrei capito almeno l’ottanta per cento di quello che possiamo, o meglio potevamo, evitare o addirittura esattamente ciò che sarebbe successo. E ti dico anche di più: probabilmente Mycroft, non sicuro che gli avresti dato retta e che mi avresti dato subito la sua lettera, mi aveva lasciato un messaggio nascosto, degli indizi… Cristo, John.”
Si portò una mano alla fronte e poi serrò i pugni poggiandoli al muro che fissava.
Chissà dove era la sua mente ora.

John si sedette sul bordo del letto ancora convinto di aver fatto la cosa giusta perché anche se Sherlock conosceva Mycroft molto bene, lui conosceva Sherlock meglio di Mycroft, ne era certo, ed era tutto quello che contava per lui, era abbastanza per “mentirgli”.
“Tuo padre mi ha detto di scegliere col cuore.”
A Sherlock scappò una risata.
Era scontatamente in disaccordo.
“Sì, lo so. Per te è ridicolo in situazioni del genere, dove si parla di cose importanti, cose come Mycoft e la morte e così via. Ma sai cosa? Io sto con te perché ho seguito il mio cuore. Ed è stata la scelta migliore della mia vita esattamente come questa di non dirti nulla fin quando non fossi stato certo che era il momento giusto.”
La sua voce era decisa. Non avrebbe ceduto.
“Ti avevo chiesto di fidarti.”  Concluse.
Sherlock non aveva il coraggio di guardarlo. Come farlo? Non disse ancora nulla. Sapeva quanto John era saggio, giusto ma davvero la lettera che aveva distrutto era di un’importanza tale che si chiese come ha fatto a fidarsi totalmente, come ha fatto a non provare a scoprirlo. E quindi non era colpa di John.
“Non è colpa tua John.”
“Lo so, non si tratta di colpe Sherlock…”
Lo disse un po' più arrabbiato
. “Anche io lo so. L’errore è stato mio John. Ora lo capisco. Dovevo cercare di scoprire cosa sapevi, cosa era successo invece ho fatto prevalere la mia incessante voglia di stare con te nel modo più bello possibile, nella spensieratezza più totale. Ecco il grande errore.”
Gli occhi azzurro cielo si piantarono in quelli blu mare di John che sentì il cuore perdere un battito a quella frase.
Sherlock tuttavia sembrò più calmo una volta accettata la cosa.
Era veloce a decidere la cosa migliore in situazioni complicate e in quel momento era una cosa positiva.
Riusciva  a selezionare l’emozione da provare e in quell’istante, con John visivamente irritato, ferito forse, non poteva lasciar prevalere il suo lato arrogante. Neppure se in ballo c’era la loro vita. John era più importante in quel momento.
Perchè era John, il suo John.
Non l’avrebbe lasciato con un litigio.
“Ora andiamo avanti. Non è tutto perso.”
Si infilò il pantalone, chiuse la valigia.
“John?”  disse quasi come se niente fosse accaduto.
Ciò un po' irritò John che proprio non capiva come faceva Sherlock a ritornare così imperturbabile.
“Non mi dispiace, Sherlock. Voglio chiarirlo. So che ho fatto la cosa migliore e so che le conseguenze che verranno saranno migliori di quelle che avremmo incontrato se ti avessi messo a conoscenza delle cose.”
Battette con le mani sulle cosce e si alzò.
“Odiami pure ma ho fatto la cosa giusta.”
Anche se addolorato, John era ancora a testa alta di fronte al suo ragazzo che curvò un po' le labbra, per poi abbassare la testa pensieroso.
“Ho detto che dobbiamo andare avanti. Ti capisco, John. Poi Mycroft non è mai stato in gradi di capire la mossa da fare quando sei coinvolto anche tu, ovviamente a causa mia che sono coinvolto altrettanto. Non avrei fatto lo stesso ma capsico che non sei come me. Nessuno è come me. Devo solo capire se è una cosa positiva o negativa.”
Disse quasi sarcastico.
“Positiva sicuramente lo è per gli altri.”
Alzò le sopracciglia. John rise piano e si limitò a dire:
“Lo credo anche io.”
Ricambiando lo sguardo rilassato della persona che mai lo avrebbe deluso.
“E penso comunque che Mycroft non poteva fare molto.”
“Ti ha detto qualcosa di più specifico nella lettera?”
“Ha solo scritto che ha bisogno del tuo aiuto per un affare e che non mi avrebbe detto di più perché, testuale, lavori meglio sul campo. Credo intendesse d’istinto.”
Sherlock serrò le labbra.
Gli aveva fatto un mezzo complimento in effetti. Era tutto quello che se Sherlock fosse morto gli avrebbe voluto dire o almeno fargli sapere anche se attraverso una lettera.
Gli avrebbe voluto dire quando suo fratello era bravo e unico. In Sherlock si diffuse un dolce calore a questi pensieri.
“E’ intelligente, devo ammetterlo.”
“Perché?” chiese John.
“Non può risolvere le cose da solo, mai è stato capace perché gli sei sempre servito tu e lo reputi intelligente?”
John non nascose tutta l’antipatia, per essere gentile, nei confronti di Mycroft.
Certe cose del passato non le avrebbe mai giustificate o dimenticate.
“Ti ha convinto a non dirmi nulla dicendoti che avrei gestito meglio la cosa non sapendo e ovviamente i miei genitori anche sono all’oscuro di tutto e quindi ti hanno detto che non sapevano nulla, te lo avranno detto loro stessi. Si fidano di Mycroft, si fidano di te ma nessuno si fida di me. E quindi sono all’oscuro di tutto e con nessun mezzo per capirci meglio qualcosa, proprio io che ho le capacità. Eppure mio fratello sa perfettamente cosa farò, fidandosi a quanto pare.”
Non voleva sorridere, ma lo fece.
E fu inevitabile anche pensare che forse qualcosa sarebbe potuta accadere anche a suo fratello.
Le sue palpebre calarono pensanti sulle iridi cristalline per un secondo soltanto. Mai preoccuparsi di cose non ancora accadute, non si ha il controllo su di esse. Questa sua convinzione lo tranquillizzò, anche se ci avrebbe pensato ogni secondo da quel momento in poi.
Era suo fratello, la sua famiglia.
E anche sull’affetto innegabile che provava non aveva controllo.

Riprendendo la concentrazione disse:
“E’ un calcolatore eccellente.”
Era estremamente serio nel dire quelle parole.
Lo sguardo trafiggeva un punto perso nell’aria.
“A questo punto penso anche io che sia meglio così. Non sapere nulla. Mycroft non sarebbe stato così poco chiaro se non fosse stato strettamente necessario e soprattutto l’unico modo per farmi essere pronto al cento per cento quando torneremo al cottage. Accadrà lì altrimenti almeno un luogo ed un’ ora te li avrebbe scritti.”
John aveva il fiato corto.
Tutto quello gli aumentava l’adrenalina nel sangue. Con quella minuscola informazione Sherlock era riuscito a delineare un quadro della situazione.
Un quadro che se anche incompleto rassicurava Sherlock che fece un lungo sospiro.
“Io mi fido di te John. Volevo solo, anzi pretendevo solo qualcosa di troppo difficile da fare per te, me ne rendo conto solo ora.”
Lo sguardo si addolcì.
Si guardarono per qualche secondo.
Sherlock, scrutando il bel volto del suo ragazzo ricordò la promessa fatta al padre.
Quella promessa di non dimenticare mai come era in grado di guardare John: come se fosse l’unica cosa bella al mondo, quella da proteggere con più amore possibile.
E lo fece.
Lo guardò così.
Sherlock gli porse la mano.
“A tutte le belle e le brutte cose che ci accadranno, John.”
La mano tesa e il braccio elegante del ballerino erano a mezz’aria. John scosse la testa non poco divertito e sorridente strinse Sherlock a sé in un abbraccio.
“Ce la faremo. Fosse l’ultima cosa che facciamo.”
Sherlock affondò il volto nel collo di John e quella frase non lo convinse per niente.
Quello positivo  era sempre stato John perché esserlo andava contro la logica che lui  cercava di seguire il più possibile.
Quella logica che solo John metteva in discussione. Gli opposti si attraggono, pensò Sherlock che si limitò ad annuire.
Ma sentiva il corpo contratto sotto le sue mani e sapeva che non poteva farci nulla, neanche se avesse provato.


Una volta ridipinto il muro, lo fissarono entrambi quasi nostalgici.
“Quando si suol dire ‘se i muri potessero parlare...’ ”
Disse John con davanti agli occhi le immagini di quelle due notti passate a stampare la pelle del suo amore sulla sua.
Sherlock si limitò ad annuire e sperare che non sarebbero state le ultime che avrebbe ricordato.


Presero le valigie, chiusero la porta alle loro spalle e si sentivano pronti a tutto.
Salirono in macchina velocemente e dallo specchietto Sherlock vedeva chiaro l’orologio del Big Ben, quella torre fiera e affascinante che rendeva la sua città così unica.
Lo fissava ancora e i suoi occhi persero la luce.
“Tutto bene Sherlock?”
“Sì. Sì, è solo che Londra…mi mancherà.”
Abbassò la testa sulle sue mani che stringevano il manubrio. John vedeva il profilo basso del suo ragazzo e quelle labbra strette.
Disse solo:
“Magari il tuo paradiso sarà proprio qui. E non la lascerai mai.”
Sorrise dolcemente e Sherlock pensò che nessuno gli avrebbe mai potuto dare risposta più belle di quella alle sue parole.
Nessuno.


La musica, immancabile e unica cosa di cui avevano bisogno ora, partì. Era una delle canzoni del cd di John, quelle canzoni che appartenevano a loro ormai e questa, Find my way back di Eric Arjes, era perfetta.
Era una speranza. Era la speranza.

 “One step closer
Closer to the light
No matter where we're going
I'll be by your side
 And everything we used to know
 Crashed into the great unknown
One step closer
We're gonna be alright
 
Cause even underneath the waves
 I'll be holding on to you
And even if you slip away
I'll be there to fall into the dark
To chase your heart
No distance could ever tear us apart
There's nothing that I wouldn't do
I'll find my way back to you
 
On my way now
Don't give up on me
And no one knows what
What tomorrow brings
These weary eyes will never rest
Until they look in yours again
I'm on my way now
I still believe
 
Cause even underneath the waves
I'll be holding on to you
And even if you slip away
I'll be there to fall into the dark
To chase your heart
No distance could ever tear us apart
 
There's nothing that I wouldn't do
I'll find my way back to you
 
I'll find my way back
Into the dark to chase your heart
No distance could ever tear us apart
 
There's nothing that I wouldn't do
I'll find my way back…”  

 
Quelle due ore, inaspettatamente, passarono e furono costretti ad interrompere i The Smiths per scendere da quell’auto, e andare.
“Ci siamo.” Disse Sherlock deciso.
Si avviarono verso la porta di casa ma il cellulare di Sherlock squillò.
Si pietrificarono all’istante.
“Oh mio dio.”
“Calmo John. Andrà tutto bene.”
Mentre rispondeva si guardava intorno ma non vide nulla di diverso dall’ultima volta.
“Pronto.”
“Vieni al confine con il bosco. Davanti al grande albero che da piccolo amavi tanto.”
“Mycroft. Dove sei.”
“Vieni subito così iniziamo un po' a divertirci.”
“Mycroft!”
Era troppo tardi.
Sherlock deglutì nervoso mentre John gli prendeva il cellulare dalla mano prima che cadesse.
“C-cosa ha detto?” S
herlock si ricompose come solo lui sapeva fare.
Come solo lui poteva fare.
“Era lui ma gli dicevano le cose da dire. La sua voce era troppo bassa, emozioni, e non mi avrebbe mai proposto di cominciare a divertirci. E’ uno noioso.”
“Dio mio.”
“Dobbiamo andare sul giardino sul retro, davanti all’albero dove andavo sempre da piccolo per incontrare il porcospino. Facendo così pensano di battermi psicologicamente. Non mi conoscono affatto.”


Sherlock si incamminò velocemente e John non disse altro e lo seguì.
Girarono attorno alla casa e da lontano videro la cima enorme dell’unico albero che sovrastava quasi tutto il resto del bosco.
Sherlock si fermò e John, davanti a lui si voltò sorpreso.
“Andiamo…” lo incitò, ma Sherlock rimase fermo.
Testa bassa.
Il cielo iniziò ad incupirsi ancora di più.
E l’aria era pesante, carica di una sicura pioggia.
“Tu non vieni.”
John rise.
“Senti, scherza quanto vuoi ma stiamo perdendo solo tempo. Mycroft ha bisogno di noi.”
“Fermo.”
Sherlock gli afferrò il braccio.
John lo strattonò.
“Sei ridicolo. So già cosa mi dirai e risparmia il fiato okay?”
“Non posso permettere che…”
“che mi succeda qualcosa perché non te lo perdoneresti mai e sai perché lo so? Perché potrei benissimo dirti lo stesso io. Anzi. Te lo dico: non posso lasciarti andare da solo. Non posso anche solo pensare di rimanere qui mentre lì chissà cosa diavolo succede.”
Sherlock fece un respiro profondo e si morse l’interno delle labbra.
“Non mi fermo. Non senza te. E’ semplice, tu vai ed io ti seguo. E’ sempre stato così, Sherlock, sempre. Lo sarà sempre. ”
John lo disse così deciso che qualunque contestazione non sarebbe servita a nulla e Sherlock non sapeva come fermarlo.
Non sapeva come fermare le lacrime che bagnarono le sue iridi, che non scesero, che gli rimasero a briciare negli occhi.
“Non posso vederti morire, John.”
John si irrigidì di colpo a quell’affermazione, a quel tono straziante e la voce rotta.
Si sentì morire come avrebbero fatto tutti.
Come avrebbero temuto tutti.
Sherlock continuò.
“Senti, sappiamo benissimo entrambi cosa stiamo provando in questo momento e penso che questa è davvero una di quelle volte in cui ti posso dire cosa sto sentendo dentro perché la senti anche tu, come quando facciamo l’amore e lo sentiemo così perfettamente entrambi. Proprio perché so che mi capisci, ascoltami. Questo mondo ha più bisogno di te che di me.”
John scosse la testa.
“No, io ho più bisogno di te di qualsiasi altra cosa al mondo e…”
“John…”
“No, tu ascoltami.”
John gli si avvicinò, si riempì il petto di coraggio e disse:
“Ti dico cosa veramente sto pensando, va bene? Sto pensando questo: muoio io, muori tu. Entrambi. Non lo so. Ma se deve succedere, di sicuro non vorrei essere solo. Di sicuro penserei all’unica cosa che vorrei stringere e che non ho e sei tu. Solo tu.”
Sherlock chiuse gli occhi, non reggendo lo sguardo di John che era così calmo mentre parlava e gli diceva quello che sarebbe stato il suo ultimo desiderio.
Era calmo e rassicurante come un caldo abbraccio che ti riporta subito a casa.
“Non c’è bisogno di dirci altro, Sherlock.”
“Vorrei solo trovare il modo per dirti quanto ti amo perchè è impossibile che tu lo senta.”
Sherlock fece un passo verso di lui e John gli strinse le mani nelle sue.
Gli asciugò il volto e poggiò la fronte alla sua ispirando profondamente quel profumo di pioggia e miele con lavanda che proveniva dalla pelle del suo ragazzo.
“Baciami e lo sentirò come l’ho sempre sentito.”
Sorrise prima che le loro labbra si toccassero, in uno dei baci più difficili che si erano mai dati.
Respirarono per un po', vicini. John fece un cenno con il capo per chiedere se era pronto e Sherlock annuì.
Lo era.
Lo erano.
Lo erano per davvero stavolta, senza immaginare troppo come sarebbe stato e si trovarono faccia a faccia con quell’albero maestoso che Sherlock conosceva bene.
Erano uno di fianco all’altro e nella tensione di quel silenzio, aspettavano.
“Qualsiasi cosa accada segui le mie istruzioni.”
John corrugò la fronte e gli rivolse uno sguardo deciso.
“Sì ma se le cose non vanno come pensi io farò la cosa che ritengo più giusta. Sia chiaro.”
“Sei testardo.”
“Ho imparato dal migliore.”
Sherlock alzò gli  occhi al cielo con un mezzo sorriso.
“Ehi.”
La voce di John era bassa e confortante.
“Lo sai che ti amo ma te lo volevo dire.”
“Anche io ti amo. Andrà tutto bene, te lo prometto.”


“Ma che quadretto adorabile.”
Un ghigno accompagnava la voce scontrosa di quell’uomo seguito da altri due uomini e una donna, giovane e che in mezzo a quei volti bui era qualcosa che sembrava come un angelo nelle tenebre.
Sbucarono dalla penombra del bosco, lentamente.
Quello che parlò, evidentemente il capo, e i suoi due scagnozzi avevano i tratti asiatici mentre la donna aveva tutto il fascino delle donne dell’est. “Siete, come dire, una coppia singolare. Un ballerino con disturbo della personalità e genio della chimica e poi tu, un artista.”
Quegli occhi scuri e inquietanti erano diretti a John che serrò le mascelle.
Non lo disse affatto come un complimento.
“Con chi abbiamo il piacere di parlare?”
Sherlock chiese ed inquadrò gli altri due uomini di una stazza considerevole e che avevano pistole in bella vista ai loro fianchi.
“Amici di tuo fratello, caro Sherlock.”
“Dubito che mio fratello abbia rapporti confidenziali con la mafia Cinese. Diciamo che siete conoscenti, questo sì.”
L’uomo, nella costosa giacca di pelle guardò per un attimo i suoi compagni e annuendo disse:
“Sei perspicace. Sapevo che lo eri ma essere alla presenza delle tue deduzioni è affascinante.”
“Non sai quanto.”
Rispose e uno sguardo di sfida gli apparse sul volto.
“Immagino vorrai sapere perché Tian So, che sarei io, sia qui. Bene.”
Schioccò le dita e da dietro al grande albero sbucò un altro uomo che teneva ben stretto il braccio di Mycroft.
John fece un passo indietro e Sherlock spalancò gli occhi.
Non aveva previsto che il fratello sarebbe apparso anche se per telefono di aveva detto che si sarebbero incontrati proprio lì, immaginava che avesse trovato un modo per essere al sicuro, lontano da tutto quello.
Invece, nel bel completo grigio, avanzava costretto dalle mani di quell’individuo con un ghigno sul viso.
“Oh, mi dispiace vedere quell’espressione preoccupata Holmes Jr. Ma le cose vanno come devono andare.”
“Cosa volete.”
L’uomo lo guardò capendo di averlo in pugno.
“E’ proprio questo quello che voglio. Vederti soffrire. Non era chiaro? Tuo fratello non ti aveva avvisato?”
Sherlock abbassò lo sguardo e la sua schiena si drizzò.
Era teso.
John lo guardò ma gli occhi chiari che fissavano l’erba umida non ricambiarono lo sguardo.
“Sono sicuro che a tutti i problemi c’è una soluzione Signor So. Insieme, possiamo trovarla.”
Lo fissava.
“Sei collaborativo a quanto pare. Molto bene. Ma prima voglio spiegarti il perché dell’incontro in quanto ho capito che le cose sono poco chiare e non lo posso permettere.”


Tian si avvicinò a Mycroft e con uno sguardo complice al suo uomo lo fece inginocchiare.
Sherlock d’istinto fece un passo avanti ma John gli afferrò il polso e si fermò.
Mycroft era incredibilmente calmo, con lo sguardo basso e le labbra tese.
Non diceva nulla.
Fece come gli era stato imposto.
“Il qui presente rappresentate del Governo inglese è venuto lunedì a Tokyo a darci parecchi problemi sai Sherlock? Lui e i suoi uomini super intelligenti e dai modo tutt’altro che inglesi  mi hanno tolto tutto.”
Il volto di Tiam si indurì.
“La mafia non è certo una bella cosa ma abbiamo i nostri metodi, il nostro lavoro  e questo…”
Afferrò il volto di Mycroft nella sua mano.
“questo fighettino inglese ha fatto cadere il mio impero. L’impero della mia famiglia. Ma non è questa la cosa peggiore, oh no.”
Con uno scatto lasciò il volto pallido che si coprì di sudore.
“Ha ucciso mio padre.”
L’uomo fece spallucce e rise nervoso mentre la fronte lasciava intravedere il dolore che provava.
“Ha ucciso la mia famiglia, Sherlock. Non solo tutti i miei soci. Non solo ha preso tutti i miei soldi. Ha preso mio padre. E devi bene capire che è una situazione che non posso ignorare.”
Era freddo.
Conciso.
Un uomo sicuramente ferito ma che aveva la freddezza di chi ha preso tante batoste nella vita e la determinatezza di farsi giustizia da solo.
“E’ un bel problema, lo ammetto. Ma la vendetta non è molto elegante come soluzione per un uomo come te Tian.”
Sherlock aveva le mani dietro la schiena e le stringeva forte. Aveva ovviamente capito tutto, ma era una di quelle volte che la consapevolezza di certe cose non la vorresti.
Era intelligente, poteva dedurre un paio di cose sulle persone ma era un animo giovane, un ragazzo sensibile che aveva davanti agli occhi il fratello in ginocchio e piegato come mai lo aveva visto.
Mycroft avanzava sempre a testa alta, fiero. Ma ora, era col volto buio e lo sguardo basso, le ginocchia sporche di erba fresca e il volto stanco, più segnato.
Umiliato.
Per la prima volta Sherlock notò che dimostrava i suoi anni.
Era lì, inerme, ad andare incontro al suo destino.

La donna intanto sorrideva a John.
Un sorriso strano, non di superiorità o sfida. Un leggero sorriso d’intesa.
I corti capelli biondi le incorniciavano il bel viso ovale e gli occhi verdi. John distolse subito lo sguardo. In tutto quello voleva solo assecondare Sherlock. Si era rivelata una situazione troppo pericolosa per azzardare qualsiasi cosa.
Tian incrociò le braccia.
“Pensi che non sappia che andrò in carcere per il resto della mia vita dopo oggi? Pensi che non so quanto sia grave l’omicidio? Lo so bene. E la cosa che mi fa star così tranquillo è che non mi importa. Vedrai morire tuo fratello. Semplicemente.”
Avanzò verso di lui.
Gli era a pochi centimetri.
Alzò  piano la mano verso il volto di marmo di Sherlock ma John, con un passo, gli fu davanti.
“Non toccarlo.”
Tian rise divertito e abbassò la mano.
“John, vai indietro.” La voce di Sherlock era quasi accusatoria.
John strinse i pugni.
“Non devi toccarlo.”
Disse ancora all’uomo che alzò le mani indietreggiando.
“Va bene...John. Non voglio creare altri drammi, va bene.”
Le spalle di John si rilassarono e si voltò per vedere lo sguardo più incazzato che mai del suo ragazzo.
Non si dissero nulla e Sherlock fece un sospiro profondo prima di parlare.
Non sapeva bene cosa fare.
Quegli uomini non erano i bulletti a scuola che poteva fronteggiare e allora capì che tutto quello che poteva fare era farli sentire nel giusto e rassicurarli. Un piano che Mycroft non avrebbe minimante accettato perché da deboli, con poca struttura e troppi pericoli ma se si fidava di lui, doveva fidarsi fino in fondo.
“Ti vedo pensieroso Sherlock.”
Tian sorrideva spudoratamente.
Aveva davanti solo un ragazzo.
Lo aveva in pugno.
“Pensavo che io potrei esserti molto utile.”
“Dici?”
“Lascia andare mio fratello e farò qualsiasi cosa tu mi chieda di fare.”
Mycroft alzò la testa di scatto e disse:
“No Sherlock…”
L’uomo che lo teneva fermo gli diede un calcio nella schiena e l’urlo soffocato che causò sembrò a Sherlock una lama nella sua di schiena.
“Lascia mio fratello Tian, andiamo. Avrai me.”
Tian si inumidì le labbra e qualcosa gli brillò negli occhi.
La cosa lo allettava e Sherlock aveva già in quadrato quell’uomo e i suoi gusti.
Inoltre, era convinto di quello che stava facendo.

Buttò un’occhiata al fratello ansimante che non lo guardava, non ci riusciva.
Con il gesto di un dito fece avvicinare la donna a John.
Lo prese da dietro e gli bloccò le braccia.
“Ma cosa diavolo…”
“Zitto John. Non ti muovere o puoi dire addio ai tuoi polsi.”
La donna glielo sussurrò all’orecchio.
Sherlock neanche si voltò.
Era immobile.
“Avrò te, Sherlock Holmes?”
Tian ormai gli era vicino come prima, senza John ad impedirglielo finalmente, e poggiò le dita sullo zigomo accentuato del bel volto di Sherlock che deglutì a fatica.
Il tocco era leggero e arrivò fino alla mascella.
Sherlock rabbrividì.
Le dita fredde si spostarono fino al collo, che strinse nella sua mano.
John diede uno scossone alla donna ma era inutile, era forte.
“Sei proprio bello. Intelligente. Effettivamente averti…”
Gli sfiorò le labbra con le sue.
L’odore forte di sigaretta e alcool infastidì Sherlock che cercò di svincolarsi ma la presa al collo si intensificò.
“…non sembra così male. Vero John?”
Gli rivolse lo sguardo e John lo resse per fargli capire quanto lo stava odiando.
Quanto era disgustoso per lui.

La presa si sciolse e il collo di Sherlock fu libero.
“Non voglio ferirti. Non sia mai che il tuo ragazzo si metta a piangere.”
“Basta con questi giochetti. Stiamo perdendo tempo.”
La voce di Sherlock non lo tradì anche se dentro era rimasto ben poco coraggio.
“Hai ragione.”
Subito una pistola era puntata alle tempie di Mycroft che serrò gli occhi.
“Signor So, la prego. Ponderi la mia richiesta.”
Sherlock aveva mantenuto la dignità dicendo quelle parole anche se mai avrebbe voluto pregare un uomo del genere.
“Non hai capito la mia filosofia ragazzo. Io credo nel vecchio detto ‘occhio per occhio, dente per dente’. Devi perdere qualcuno per rendermi soddisfatto. Devi vedere la morte di una persona che ami per essermi utile. Lavoro così. E non mi pregare. Sei patetico.”
Tian aveva caricato la pistola ma l’urlo di Sherlock lo fermò.
“E’ mio fratello!”
Stavolta il tremore si sentì.
Stavolta non poteva mentire neanche più a se stesso.
“Oh. Capisco.”
L’uomo abbassò la pistola e con lo sguardo di chi stava per godere del più sublime regalo mai ricevuto disse:
“Tuo fratello no, eh?”
Annuiva piano.
“Blake, porta qui quel bel giovanotto.”
Il cuore di Sherlock si fermò.
Poteva giurare di averlo sentito smettere di battere.
La bionda portò John di fianco a Mycroft, ancora sconvolto.
Gli puntò la pistola alla testa e John guardava Sherlock.
Lo guardava e sapeva che gli stava facendo la cosa peggiore che gli avrebbe potuto mai fare.
Lasciarlo.
Gli occhi di Sherlock si riempirono di lacrime e John, notandolo, scosse la testa sorridendogli come a dire  ‘tranquillo, non ho paura.’
Non l’ aveva.

Aveva immaginato che sarebbe potuto succedere, lo aveva anche metabolizzato e accettato.
Infatti, l’unica cosa che comprendeva con la bocca fredda della pistola sulla sua tempia, era il dolore che avrebbe lasciato al suo ragazzo.
Il suo ricordo rovinato dal dolore che avrebbe lasciato dopo la sua morte.
Perché è questa la sua paura, che Sherlock non ricordi nient’altro se non il momento in cui sarebbe caduto morto in quel giardino.
Non gli sarebbe rimasto nient’altro di lui.
Tutte le cose belle sarebbero state cancellate dal solo e puro dolore.
 “Non ci posso credere! Tieni di più a questo ragazzo che a tuo fratello.”
Tian era davvero sorpreso.
Per lui l’amore per la famiglia era l’unico vero amore che si poteva provare e mai avrebbe pensato che uno come Sherlock invece provasse un tale affetto per un estraneo.
“Non è niente lui per te Holmes Jr. Lui, lui non è la tua famiglia. Lui non ti appartiene. Non è il tuo sangue.”
Era davvero interessato sebbene anche confuso per quella scoperta. Sherlock non aveva una risposta.
Non capiva quale era il male minore o almeno non riusciva ad accettare il male minore: la morte di suo fratello perché quella, l’ avrebbe sopportata di più.
E si sentì un mostro.
Scuoteva la testa a quei pensieri.

Vedeva John stretto e incapace di reagire esattamente come suo fratello, a terra, perso.
Perso quanto lui.
E tutto quello, era nelle sue mani ora.
Poteva davvero decidere lui, o Tian li avrebbe uccisi entrambi? Fino a che punto si sarebbe spinto per vendicare il padre?
“Senza parole piccolo Sherl? Io aspetto solo un nome. Dimmelo. Voglio sentirti dire il nome di tuo fratello. Voglio sentirti ucciderlo.”
Tian stringeva forte la pistola.
“E sono così clemente a darti la possibilità di scegliere. Dio mio, la gentilezza non è più apprezzata come un tempo.”
Fece un sorriso inquietante e inclinando la testa vedeva tutta la rabbia nelle labbra tremanti di Sherlock.
Sapeva benissimo che aveva toccato un nervo scoperto e stava già assaporando il gusto della vittoria.
Le due pistole erano ancora ben salde alla testa di John e Mycroft.
Tutto sembrava immobile, neanche un muscolo della bionda o di quell’uomo si muovevano e Sherlock avrebbe voluto solo fermare il tempo, averne di più per pensare attentamente alle conseguenze, al futuro di un Inghilterra senza un uomo come Mycroft o al futuro del suo cuore senza il suo John. Non aveva una ragione assoluta per scegliere l’uno o l’altro e già il fatto che ci stava ragionando per lui era impensabile.
Crudele.
Guardò John e poi la donna.
Il volto di quella donna.
Gli occhi verde scuro di quella donna.
Perché si stava concentrando su di lei?
Cosa vedeva?
Le labbra carnose si mossero millimetricamente e la bionda, leggerissima, fece un cenno del capo. Il suo sguardo gli parlò.
Capì qualcosa.
C’era intesa, c’era un segnale.
Ecco.

Sherlock aprì la bocca.
Rimase di stucco.
“Oh.”
Sussurrò come rasserenato.
Sorrise.
Sorrise per davvero.

“Spiegami perché sei sollevato ragazzo.”
Tian non capiva.
Sherlock alzò il volto e guardò le nuvole grigie danzare veloci sopra le loro teste.
Fu un agosto molto piovoso e quelle nuvole erano cariche e pronte a esplodere.
Le guardava passare, facendo intravedere di tanto in tanto un po' di azzurro. Chiuse gli occhi e il suo volto accolse le prime sottili gocce di pioggia.
Poi, guardò Tian e con una sicurezza recuperata, gli sorrise.

“L’ amore è una cosa strana. Ci ho messo molto ad impararlo bensì ovunque tutti lo dicano. Non ha un posto ben preciso sebbene tutti dicono che sanno che amano qualcuno perché lo sentono nel cuore o nell’anima. E’ tutto questo è molto poetico ma sono in disaccordo.
L’amore, come l’arte, muta e non è mai da nessuna parte.
L’amore lo si vede passare libero e se siamo molto, molto fortunati riusciamo a farci trascinare dalla sua forza, dal suo flusso potente e John è questo per me. John mi ha aperto gli occhi su questo.
È la libertà dell’amore che ci spinge a volerlo.
Vogliamo solo essere liberi.
Vogliamo prendere una cosa così furiosa e viva e goderne da buoni egoisti quali siamo.”

John serrò le mascelle. Una lacrima gli bagnò la guancia.
Gli aveva fatto tutto questo.
Sherlock continuò.
“Io sono stato molto egoista. Ho prosciugato l’amore che John mi ha dato mentre io raramente sono riuscito a dargli il mio. E non lo merito. Per cui so che non voglio essere egoista e voglio lasciare libero l’unico amore che ho: John.”
Mycroft lo guardava perplesso, sapendo che stava per fare il più grande errore della sua vita.
“Posso farlo solo lasciandolo. Per cui potete far morire lui, e lasciare libero mio fratello.”
Tian lo guardava quasi assorto da quelle parole. 
“Sono molto sorpreso e direi che provo ammirazione per il tuo discorso. E se posso permettermi di dirti come la penso, concordo con te. L’unico amore che controlliamo è per la nostra famiglia. La famiglia è insostituibile.”
Sherlock si limitò ad annuire, facendo di tutto per far capire con uno sguardo al fratello le sue intenzioni.
Mycroft capì che Sherlock aveva un piano ma quel piano sarebbe andato a rotoli.
Allo stesso tempo, sapeva che non sbagliava riguardo al fratello.
Sapeva quanto anche in una situazione del genere la sua intelligenza e perspicacia non sarebbero mai venute meno.
Anche se forse lo avrebbe potuto mettere a conoscenza di qualche dettaglio, era convinto comunque che aveva bisogno di uno Sherlock vero, davvero provato dalla scelta per non destare sospetti a nessuno.
L’unica cosa che il fratello minore ancora non sapeva, è che la morte non la puoi evitare se l’hai già calcolata.
Sherlock aveva un piano ma anche Mycroft.
I due si scambiarono degli sguardi ma Sherlock era confuso.
Poteva solo rimanere fiducioso e sperare nel meglio.

Tian lo guardava eccitato.
Era un folle ossessionato e lo stava dimostrando.
Il vero mostro era lui, pensò Sherlock.
Blake teneva ancora John che però non opponeva resistenza.
Non aveva motivo per farlo.
 “Le tue ultime parole, John Watson?”
L’uomo spinse la pistola contro la pelle bagnata dalla pioggia che piano si intensificava.

“Ti scongiuro, non lasciare che il dolore oscuri quello che siamo stati, Sherlock. Noi, siamo molto di più.”
La voce uscì calma perché lui lo era. Nessun rimpianto.
“Andrà tutto bene, John. Te l’ho promesso.”
John annuì sorridendo.
Strinse le labbra.
“Già.” Sospirò.
“Voglio dirti che sei tutto quello che mi aspettavo che l’amore non fosse e meno male perché un amore non così non è amore per me.”
Sherlock non poteva credere che aveva messo John in quella posizione.
Aveva un vuoto dentro che lo faceva sentire sprofondare metri sotto terra.
 “E innamorati ancora, Sherlock. Rendi qualcun altro dannatamente felice come hai reso me. E’ stato un privilegio e non ti ringrazierò mai abbastanza. Tutto qui.”
John fece un cenno a Tian che ascoltava quella dichiarazione, e sorrise.
Davanti ad una cosa così neanche lui poteva rimanere indifferente.
“Guarda bene, Sherlock.”
Tian piantò i suoi occhi assetati e spalancati i quelli umidi di Sherlock che sperava solo che il suo piano e il suo intuito non fossero sbagliati.

“Addio, John.” 

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Capitolo 13
*** Sta cambiando tutto ***


Uno. Due. Tre. Quattro. Cinque. Sei.
Contemporaneamente.
Sei colpi.
Sei persone a terra.
Sei omicidi.
Sei spari incessanti.
Sei cuori fermi.
Sei.
E tutto non aveva il minimo senso per Sherlock.
Cos’era tutto quello?
Il suo ragazzo a terra non aveva senso. La morte non aveva senso. La vita non c’era lì in quel giardino, ormai.E non aveva senso neanche quello.
John era a terra tra le braccia della donna, Blake, che premeva su quel corpo sanguinante.
Fermo.
Troppo fermo.
Mycroft era a terra.
Mycroft era morto.
Erano tutti morti.
Erano state sei pallottole di pochi centimetri a portar via sei vite.
Faceva caldo nonostante la pioggia e Sherlock sentiva la camicia incollata al petto e sembrava soffocarlo, stringerlo, svuotarlo.
L’erba ormai fangosa sotto le sue ginocchia gli rovinò il bel pantalone scuro.
La sua mano pallida era a mezz’aria sul petto del fratello. Poggiò il palmo all’altezza del cuore e premette.
Niente.
La testa era trapassata da un foro. Sangue ovunque. Aveva del sangue sui polpastrelli ma non capiva cosa stava facendo, cosa stava toccando.
Lo abbracciò.
Aveva il capo curvo sulla spalla di Mycroft e gli sussurrava all’orecchio delle parole, una confessione.
Domande.
Un filo di voce nella poggia e poi solo quel silenzio irreale come quando stai per addormentarti, quando è tutto finito e chiudi gli occhi e dormi.
Una sensazione piacevole dopo tutto.
“Mycroft… svegliati.”


Sherlock gli voltò piano il volto.
Non era dormire quello.
Non si sarebbe svegliato e Sherlock lo sapeva ormai.
“Apri gli occhi. Apri…”
Si guardò di fronte, intorno. Tian e i suoi uomini erano a terra esanimi. E la donna in cui aveva riposto le speranze ormai perse, sorreggeva John.
John.
Sangue anche su di lui, ovunque.
Sherlock si guardò le mani tremanti. Era stato lui? Non aveva lui la pistola ma si sentiva l’unico da incolpare, inevitabilmente.
“Respira, Sherlock.”
Ma Mycroft era morto.
“Respira, fratello. Andrà tutto bene, ricordi? Lo hai detto a John.”
La voce del fratello glielo diceva calma come mai l’aveva sentita.
“Puoi far andare tutto bene.”  
Sherlock respirava, ci provava.
Quella voce nella sua testa sparì. Fece un lungo respiro e tutti i rumori tornarono come uno schiaffo.
La pioggia batteva più forte di quanto credeva. Blake lo stava chiamando. Il suo petto faceva un rumore incontrollabile, il suo cuore gli martellava contro le costole.
Si alzò. Inutile asciugarsi le lacrime che erano portate via dalla pioggia allora le lasciò ancora cadere.
“Va bene, fratello.”, sussurrò.
Lo fissava.
Fissava le sue braccia aperte, la cravatta rossa sfatta, la camicia rovinata, il profilo rigido, il sangue, il sangue unito all’erba, la sconfitta, il dolore, gli sbagli, i sorrisi di Mycroft a Natale, la fiducia in lui, gli occhi cerulei che ora non vedeva, i completi ridicoli che lui adorava, quanto lo aveva aiutato negli anni, quanto lo aveva rovinato negli anni, quanto gli voleva bene, pensava alle notti più belle insieme, le passeggiate nel parco, quanto gli urlava contro mentre litigavano. Fissava tutto questo ai suoi piedi. Fissò Mycroft Holmes. Fissò suo fratello e i ricordi.
Li fissò, e li lasciò andare.
Non aveva fatto pace con tutto quello, era appena successo, era lì ma se c’era una cosa che Sherlock Holmes sapeva fare era andare avanti e fare la cosa più logica. D’istinto corse verso John e Blake.
“Sherlock…”
“Va tutto bene, so che sei tu. L’ho capito con quel cenno complice del capo. Sei Lisa.”
“Non doveva andare così. Non…”
Piangeva.
Una degli agenti più brillanti e preparati del governo inglese, piangeva. La miglior spia a sangue freddo d’Inghilterra, come avrebbe affermato Mycroft, piangeva.
“La missione non è finita, Lisa.”
Sherlock prese John, ancora incosciente, dall’altro lato.
Si sporcò del suo sangue che grondava.
Gli mancò per un attimo il respiro, di nuovo. Gli mancava il coraggio di guardare il suo John in faccia. Di guardare cosa gli aveva fatto.
La cosa più umana da fare sarebbe stata iniziare a piangere sul corpo del suo ragazzo, piangere ed urlare e perfino pregare ma una reazione umanamente accettabile avrebbe ucciso John.
Quel dolore, quella reazione avrebbe ucciso John. Lui avrebbe ucciso John. Non farlo, la sua mente gli diceva. Vai avanti.
Salvalo.
“Salviamo John.”


Camminavano svelti verso l’auto di Sherlock ancora lì, sotto la pioggia all’entrata del cancello del cottage. Lisa annuiva. Sherlock le sorrise.
“Andrà tutto bene. Te lo prometto.”
La ragazza era sconvolta, persa, ma sentiva quanto Sherlock tentava di rassicurarla. Era forte, altrimenti non sarebbe stata scelta lei. Non sarebbe lì.
John respirava a fatica. Lo fecero stendere sui sediolini dietro.
“Lisa, ascoltami.”
Lisa si asciugò il volto, deglutì, si riprese.
Era pronta. Era addestrata per questo. Anche se la morte di Mycroft le trafiggeva il cuore, era lì per salvare un’altra vita e doveva farlo.
Almeno una la doveva salvare.
“Porta John al St. Thomas Hospital. Chiedi della Dottoressa Hoppins, deve operarlo lei. Io mi occupo…io…”
Un nodo in gola gli impedì di parlare.
Io mi occupo di Mycroft, avrebbe voluto dire. Ma come farlo? Come ci si occupa di un corpo morto?
Lisa disse solo: “Ho capito. Vai.”
Sherlock guardò il volto rilassato di John, sentiva il polso debole sotto i polpastrelli. Lo baciò.
“Aspettami, John. Ce la farai.”
Chiuse la portiera e Lisa schizzò via verso la città.


Sherlock rimase lì fino a quando la macchina non sparì dai suoi occhi.
E urlò.
Cacciò un urlo agghiacciante.
Ci mise tutto, lì dentro.
Nella voce che gli uscì forte, nella gola che gli bruciò per il grido, lì, in quello sfogo che il corpo gli richiedeva, ci mise la morte di Mycroft, John inerme buttato sui sedili della sua macchina, la paura per lui, la perdita di suo fratello e ancora John, John, John.
Urlò con tutto il fiato che aveva in gola, e  poi cadde in ginocchio.
Respirava come se avesse corso chilometri.
Serrò gli occhi brucianti.
Il corpo del fratello era lì, ad aspettarlo e quando lo raggiunse prese il suo cellulare e chiamò chi di dovere.
Era seduto di fianco al fratello ad aspettare che arrivassero.
Ci misero un’eternità, venti minuti. Ma anche un minuto gli sembrava un per sempre. Era un infinito durante il quale doveva sopportare, e basta.
Venti minuti nei quali non sapeva esattamente cosa fare. Aveva il fratello morto di fianco.
“Il gioco è finito, Mycroft.”
Sorrise nervoso.
“E per tutto questo tempo abbiamo giocato insieme.”
Strinse le gambe al petto.
Si fece piccolo piccolo, come quando aveva otto anni e Mycroft gli diceva di giocare con lui.
Ma non erano giochi qualunque.
Erano enigmi assurdi, problemi di fisica o matematica impossibili per un bambino, ma non per Sherlock.
Affinava la sua mente, lo aveva sempre fatto solo grazie a Mycroft.
“Giocherò da solo ora.”
Non piangeva.
Capiva.
Capiva che quello, forse, era il piano del fratello: la sua morte.
La sua morte per salvarlo.
Lo sapeva.
Mycroft sapeva che sarebbe morto e Sherlock lo comprese in quell’istante mentre portavano via quel corpo fradicio. Iniziava un nuovo gioco.
C’erano diversi uomini lì, medici, membri del Diogenes Club di Mycroft che gli facevano le condoglianze, che lo avvisavano che sapevano già com’era andata.
Sherlock non sentiva niente.
Quelle parole erano inutili eppure le accoglieva accennando un sorriso e stringendo mani.
Come facevano a sapere? Cosa sapevano? Sapevano cosa si prova ad uccidere proprio fratello? A vederlo morire? A vedere il suo sangue sulle proprie mani? Questo lo sapevano? Sapevano com’è morire eppure respirare ancora?
Sapevano chi era Mycroft veramente?
Loro passavano più tempo con lui che lui stesso, che era il fratello ma quegli uomini non conoscevano il sorriso sincero di quando assurdamente concordavano per qualcosa. Non sapevano di tutte le sigarette fumate di nascosto, come quelle cose che si fa fra fratelli e che si tengono nascoste ai genitori. No.
Tutto questo non lo sapevano.


 Andò via con loro, in un’ auto scura che lo portò fino all’ospedale dove aveva richiesto di essere portato.
Corse come mai in vita sua.
Cercò la Dottoressa Hoppins nel reparto di chirurgia.
Camminava ancora confuso in quel corridoio bianco, con le mani e la camicia ancora sporca di sangue.
Un infermiere lo fermò.
“Cosa le è successo? Si sente bene?”
“I-io, io sto bene. Sto cercando la Hoppins. E’ in sala operatoria? Ha…ha visto una donna, una donna giovane con i capelli corti, biondi, probabilmente ucraina e stava con…con John. Io devo trovare John, devo…”
“Si calmi, la prego.”
Il ragazzo bruno lo prese per le braccia ma Sherlock le tirò indietro.
“No! Lei non capisce!”
“E’ sotto shock.”
“No!”
“Mi guardi!”
Uno schiaffo lo fece impietrire.
“Deve stare calmo.”
Sherlock annuì.
“Ora andiamo in infermeria, mi prendo cura di lei e cerco John. Okay?”
Annuì di nuovo.
La stretta delle mani del giovane infermiere si sciolse.
“Come si chiama?”
“Sono Sherlock Holmes e il mio ragazzo, John Watson, è stato sparato. La prego.”
Gli occhi di Sherlock si riempirono di lacrime.
Tremava ancora.
“Io sto bene. Voglio solo sapere se la Dottoressa Hoppins sta operando il mio ragazzo.”
Joseph, così indicava il cartellino plastificato al suo petto, lo guardava tristemente.
Non aveva ancora preso mano con questo tipo di cose.
Gente che perde persone care, gente che piange, gente che lo prega di dirgli cose e spiegargliene altre.
Fece un respiro profondo.
“Ti togli questa camicia, ti lavi, e ne parliamo.”
Sherlock abbassò la testa, abbattuto, ma sapeva che girare l’ospedale in vano, da solo, sarebbe stata una perdita di tempo, un’opzione da scartare mentre la migliore era quell’infermerie che forse poteva dargli le informazioni che doveva assolutamente avere.
“Okay. Okay, ha ragione.”
Andarono in infermeria e una rinfrescata gli fece bene.
Poggiò le mani al lavandino e fissò lo specchio.
Vedeva il suo volto più bianco del solito e distolse lo sguardo.
Era debole.
Ovunque.
Dentro e fuori.
Sentiva i muscoli bruciargli e il cuore ancora batteva all’impazzata, come in un attacco di panico infinito. Lo odiava.
Uscì e Joseph lo aspettava.
Si sedettero sulle tipiche sedie in plastica messe in fila nella sala d’attesa e Joseph gli parlò calmo.
“Conosce la Dottoressa Hoppins, vero?”
“Sì. È una vecchia amica di famiglia, la conosco da quando ero piccolo e mi deve dire se è lei che sta operando John. C’era la ragazza di cui le parlavo, probabilmente le ha detto di chiamarsi Lisa o si è inventata un altro nome, non lo so, ma”
“Sherlock, devi ascoltarmi perché la Hoppins mi ha detto chi sei. Mi ha detto che saresti venuto e che se fosse stato necessario potevo usare un tranquillante quindi, calmati.”
Sherlock strinse gli occhi e annuì.
Lisa aveva detto tutto alla Hoppins, quindi.
Si morse il labbro per il nervoso ma si trattenne.
“Sta operando John.”
Sherlock si rilassò sospirando. La Hoppins lo avrebbe salvato.
“Che sia ringraziato il cielo.” disse, e poggiò la schiena alla sedia.
Si portò le mani al volto. Il cuore si calmò. Piano, riprese il suo battito regolare.
“E sì, la ragazza mi ha detto di chiamarsi Lisa e mi ha detto di dirti che ti aspettava fuori la sala operatoria.”
“Devo andare da lei.”
Si alzò di scatto avviandosi al reparto chirurgia ma aveva ancora bisogno di Joseph.
Si voltò.
“Hai bisogno di me.”
Sherlock poggiò le mani ai fianchi.
“Sì.”
“Non sei un familiare e neanche Lisa e non potete avere informazioni riguardo John.”
Sherlock inclinò la testa alzando le sopracciglia.
“Ma…” Joseph si alzò.
“Io sono praticamente il pupillo della Dottoressa Hoppins”
“Per questo sai tutto”
“Per questo mi ha detto di occuparmi di te. Ma mi ha anche detto che non devo darti false speranze perché, testuale, dedurresti le mie bugie.”
“Quella donna mi conosce bene”
Poi Sherlock realizzò quelle parole.
“Quali false speranze? John…”
“John è grave, Sherlock.”
Sherlock fece un’espressione che sorprese Joseph, un’espressione di forza, determinazione.
“Allora che ci facciamo ancora qui.”
Lo disse deciso ma inevitabilmente con la voce tremante.


Corse via, verso il reparto chirurgia e Joseph lo seguì.
Lisa era lì seduta vicino ad una grande finestra, con la testa tra le mani. 
“Sherlock!”
Si alzò. Lo abbracciò.
Sherlock ricambiò l’abbraccio.
Fu stranamente bello.
In tutto quel dolore, in tutta quella confusione, quell’abbraccio era la cosa più giusta che poteva capitare ad entrambi.
Sherlock poggiò il mento sui corti capelli biondi di Lisa e Lisa lo stringeva ancora.
“Grazie, Lisa. Per aver portato John qui.”
Si guardavano e si aggrappavano l’un l’altro.
“Potrebbe non essere abbastanza.”
“Lo è stato, per me. Qualunque cosa accada, per me è stato abbastanza.”
“Non doveva andare così. Mycroft…”
Lisa guardò Joseph e Sherlock fece lo stesso.
“Ragazzi, so che è un momento difficile.”
“No, non lo è okay? Non è difficile, è un momento impossibile e ci sono questioni che io e questa ragazza dobbiamo chiarire e non ci serve una balia.”
L’infermiere, di almeno quindici anni più grande, incrociò le braccia.
“La Hoppins mi ha detto di non perdervi di vista. Non so perché e non voglio saperlo ma…”
“Allora vai a prenderci due caffè in fondo al corridoio. Non porti gli occhiali, ci vedrai comunque. E mettici tutto il tempo che vuoi.”
Sherlock fu arrogante, irrispettoso ma Joseph era stato avvisato dalla dottoressa e con un’alzata di mani si allontanò.
Anche se dispiaciuto per quella situazione, era comunque assurda e qualcosa gli puzzava; non voleva mettersi in mezzo certe cose.
“Lisa non guardarmi così. Gli avresti detto le stesse cose.”
“Sì ma gentilmente. Lui è l’unico modo che abbiamo di sapere come sta John. La Hoppins non può dire a noi che non siamo familiari certe cose. Va nei guai. Lo sai meglio di me.”
“Lo so.”
“E sta venendo la sorella di John.”
“C-cosa?”
“Dovevo farla chiamare, la dottoressa ha detto che doveva far chiamare i familiari…”
“E…come le spieghiamo…come facciamo a”
“Ci penso io.” Lisa era calma.
“Sono l’unico qui a non sapere nulla e non sapere cosa fare, vero? Fantastico!”
Si gettò sulla sedia.
Non crollare ora.
Non crollare ora.


Incontrare la sorella di John in quella circostanza era l’unica cosa che non avrebbe mai immaginato.
Già vedeva l’odio negli occhi di Harriet perché la colpa ovviamente era la sua se suo fratello stava morente in un letto di ospedale.
E lui, non essendo un familiare, non avrebbe neanche potuto vedere John.
Gli occhi di Sherlock erano fissi al pavimento bianco, erano persi in quelle consapevolezze. In quei colpi che sentiva dritti allo stomaco, come pugni.
“Sherlock, io sono un agente del Governo Inglese che lavorava con tuo fratello nel caso di Tian, ovvero la mafia cinese ma…”
“Sì fin qua ci sono arrivato.”
La voce di Lisa lo riportò lì e la trafisse con lo sguardo.
“E ho seguito te e John a Londra per essere certa che John non ti dicesse nulla e che tu non facessi nulla di insensato. Inoltre ero responsabile della vostra incolumità.” “Era scontato anche questo, Lisa. E ovviamente questo non è il tuo vero nome. So che eri sul retro del mio cottage per fare il doppio gioco: sei stata un’infiltrata  nella mafia cinese per chissà quanto tempo sotto le direttive di mio fratello ed eri lì per intervenire se qualcosa fosse andato storto. Giusto?”
“S-sì.”
“Allora perché non lo hai fatto.”
Una lacrima scese sul volto freddo di Sherlock.
Aveva uno sguardo disperato che Lisa non resse.
“Hai portato qui John e forse, dico forse, lo hai salvato. Ma Mycroft è morto. Morto.”
“Dovevo proteggerlo, dovevo avere io la pistola puntata contro la sua testa, come era previsto ma…quell’uomo, Tian,  mi ha detto di prendere John e se avessi rifiutato si sarebbe insospettito. E poi uno dei suoi scagnozzi ha sparato a John e non capivo nulla, non sapevo chi salvare. Non sapevo…”
Silenzio.
Lisa ingoiò le lacrime.
Ancora e ancora.
“Mycroft si fidava di me. Sono io ad averlo ucciso, Sherlock. Non tu.”
“Non voglio parlare di colpe, soprattutto a cose fatte. Non è logico, non porta a nessuna soluzione.”
“Ma è così. Mycroft non ti ha informato nulla perché non voleva che tu avessi questa responsabilità. Non dovevi scegliere tra lui e John. Se qualcuno sarebbe dovuto morire aveva detto di dover essere lui e proteggere te. E John, se possibile.”
Lui lo aveva capito ma sentirlo dire, averne la conferma gli fece venire i brividi lungo la schiena e la nausea.
“Lo so, Lisa.”
“Però io dovevo evitarlo.”
Sherlock alzò gli occhi su di lei.
“Mio fratello sapeva a cosa stava andando incontro. Per quanto sono sicuro si fidasse di te sappiamo tutti come il corso delle cose può cambiare per via di molti fattori e alternative inaspettate. Quindi, che tu non sia stata abbasta veloce, che io non sia stato abbastanza bravo ad evitare l’ira di Tian…non ne ho idea, okay? Non riesco neanche a pensarci a cosa potevamo fare. Se potevamo fare qualcosa.”
“Amavo e rispettavo Mycroft e”
“Non c’è bisogno di spiegazioni o giustificazioni o confessioni. Sono arrabbiato con te? Sì. Perché? Perché sapevi più di me ed io in tutto questo non sono servito a nulla. Tu hai fatto quello che ritenevi giusto, sei tu l’esperta qui. Hai salvato me. Hai salvato te stessa e sono sicuro anche John. Andiamo avanti.”
Poggiò i gomiti sulle ginocchia e nascose il volto nelle mani.
Lisa non sapeva cosa dirgli.
Cosa dire ad un ragazzo di venti anni che ora ne dimostrava il doppio sia nell’aspetto che nella saggezza e nella freddezza, probabilmente come sempre, da sempre. Cosa dire a un cuore sanguinante?
A una mente fredda?
A una persona così complicata che di certo non aveva voglia di inutili rassicurazioni o forzato affetto.
Cosa fare proprio non lo sapeva.
“Sherlock.”
“Dimmi.” disse Sherlock immobile.
“John, prima di entrare in sala operatoria, lui…”
La testa di Sherlock fece uno scatto.
“Lui ha detto che…non ha molto senso, non so se era per la morfina ma”
“Dimmi cosa ti ha detto.”
Lisa sospirò piano.
“Il suo taccuino, quello in pelle nera, ha detto che è per te.”
Sherlock sorrise al pensiero di quel dannato taccuino.
Quel taccuino che John si portava dietro dal liceo e che non aveva mai lasciato che lui ne vedesse il contenuto. Mai.
“Ha senso, credimi.”
“D-davvero? Questo taccuino esiste?”
“E’ una lunga storia. Storia che non conosco neanche io sinceramente. Non ancora almeno.”
“Sembrava importante.”
“Penso comunque che intendesse che sarebbe stato mio se lui fosse…Se lui non ce l’avesse fatta, penso che avrebbe voluto che lo avessi.”
“Anche io penso sia così.”
“Allora non lo voglio neanche vedere.”
Lisa gli poggiò una mano sulla spalla.
“Sono certa che rimarrà un mistero ancora per un bel po'. John ce la farà. Non immagini quanto sia forte.”
“La persona più forte che io conosca.” le disse Sherlock, rivedendo tutte le volte che John lo aveva protetto.


“Ecco i caffè.”
Joseph porse ad entrambi un caffè caldo.
“Ho notato che la discussione si stava tranquillizzando.”
“Sì, abbiamo finito e…”
Sherlock fece spallucce.
Si disse che John in se fosse stato al suo fianco, come sempre,  gli avrebbe dato uno di quei sui sguardi accusatori e delusi quando era scortese gratuitamente con le persone e non si scusava.
“Mi dispiace per prima. Scusa se sono stato indisponente.”
“Tranquillo. Ero pronto a peggio. E poi ne vedo di tutti i colori qui.”
Gli sorrise.
Sherlock si sforzò di fare lo stesso.
Gli occhi scuri dell’infermiere, all’improvviso, gli diedero una strana forza.
“Q-quanto ancora dovremmo aspettare, secondo te?”
Sherlock strinse le labbra alla domanda di Lisa.
“Il colpo gli ha sfiorato il cuore praticamente. La pallottola era dentro e…”
Sherlock annuiva piano.
Un cenno di chi non crede alle sue orecchie.
Lisa chiuse gli occhi.
“Senti Sherlock. Sai chi è la Hoppins, sai quanto è straordinaria. Non permetterebbe a niente e nessuno di toccare John se non lo crede capace. Io ho fiducia in lei, ho fiducia nell’amore che sono sicuro John prova per te. Non faceva altro che ripetere il tuo nome, sai?”
Sherlock, inevitabilmente, sorrise.
“Ha una ragione per vivere: te. E vivrà.”
“Grazie, Joseph.”
oseph ascoltò la voce bassa ma calma di Sherlock e capì di aver detto le cose giuste, anche se non vere.
Mentire in quel modo era la prassi nel suo lavoro ma o quello o al posto del sorriso sulle belle labbra di Sherlock avrebbe visto solo altre lacrime.
E dolore.
Enon lo avrebbe mai permesso.


Passi veloci avanzavano verso di loro che si voltarono per incrociare il viso di una donna alta, slanciata e con un’espressione sconvolta.
Si avvicinò a Joseph e a fatica chiese: “La prego, sa dove la Hoppins sta operando?”
Joseph corrugò la fronte.
“Perché?” chiese.
Tra le lacrime lei riuscì a rispondere solo: “Mio fratello. John Watson. Ho…ho saputo che è stato sparato.”
Sherlock, nel guardarla, aveva notato l’incredibile somiglianza.
Stesso sguardo profondo e riflessi rossi nei capelli sottili.
Stesso volto dolce.
“E’ colpa mia.”
Joseph lo guardò accusatorio, come a dirgli ‘cosa diamine dici’.
Sherlock non avrebbe dovuto parlare e allora Jodeph cercò di evitare il peggio e disse: “Signora Watson, non lo ascolti.”
“Chi…chi sei?”
“Sono Sherlock Holmes. E John è qui per causa mia.”
Pioveva ancora su Londra e una giornata d’agosto così  cupa non la si vedeva da anni.
Eppure il peggio doveva ancora venire.

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Capitolo 14
*** Mi ami? ***


“Oh mio dio. Sei tu.”
Harriet non aveva mai visto Sherlock.
John le parlava spesso di lui, di quanto era importante, di come non era solo una cotta che dopo il liceo ti passa e in fondo lei non aveva neanche bisogno di rassicurazione da parte del fratello perché bastava guardargli gli occhi per capire quelle cose.
Per capire che Sherlock Holmes non era uno qualunque per John.
Tuttavia, John non le aveva mai fatto vedere il volto di Sherlock né andava nei particolari della sua vita perché temeva il giudizio e inevitabilmente la paura che avrebbe provato se sapeva cos’era Sherlock.
Chi era il fratello di Sherlock.
John non voleva rischiare di perderlo e ad Harriet semplicemente lo descriveva come un ragazzo solare, intelligente e timido. Tutto quello che poteva vedere Harriet era quanto John fosse diventato più sereno e anche vivace come mai lo era stato da quando frequentava Sherlock, questo ragazzo misterioso di cui non sapeva nulla.
Sapeva solo che dopo l’ultimo giorno del liceo John era cambiato.
Era spento, come se un pezzo di se, la parte migliore di se, se ne fosse andata via, sparita per sempre.
E quella parte era Sherlock.
John le disse tutto, le disse del bacio, di quel mezzo addio e Harriet lo consolò.
Gli disse che non ne valeva la pena piangere per uno così, che era come ogni altra storia liceale, che Sherlock era il solito stronzo di turno che prima o poi avrebbe dimenticato.
Tutto quello che fece John fu assecondarla e da quel momento in poi non parlò più di Sherlock; non le disse che si sentivano mensilmente, non le disse che lo aveva incontrato e che lui lo aveva invitato nel suo meraviglioso cottage fuori Londra da cui tornò con un buco nel petto.
Non disse nulla alla sorella per la paura di essere preso per un manichino nelle mani di quell’affascinante ragazzo che gli aveva rubato il cuore.
John non poteva spiegare e Harriet non poteva capire, non avrebbe mai capito.
A mala pena lui ne capiva qualcosa della sua relazione con Sherlock, figuriamoci cercare di dargli un senso solo perché doveva dirlo alla sorella.
Dal canto suo Harriet pensava che John avesse chiuso con Sherlock Holmes.
Ma a quanto pare non era così ed ora si trovava in ospedale con il fratello sotto i ferri e con proprio Sherlock a dire che era stata colpa sua.
Harriet non potette non pensare a quella volta in cui aveva John tra le braccia che singhiozzava per colpa sua.



“Harriet, giusto? Mi deve ascoltare.”
Joseph la prese per le braccia facendola concentrare su di lui.
“Questo ragazzo e questa ragazza non sono responsabili del colpo inflitto a suo fratello. Sherlock è sotto shock e non si è ancora ripreso, non lo ascolti.”
Harriet si portò le mani al volto e un sorriso nervoso fece capolinea sulle labbra carnose.
“Io…io voglio solo vedere mio fratello quando uscirà dalla sala operatoria. Ascolterò solo lui. Non mi interessa che cosa ci fate qui ma…”
Piantò gli occhi verde scuro in quelli di Sherlock e disse: “…non avvicinatevi a John.”
Deglutì a fatica e andò a sedersi il più vicino possibile alla porta della sala operatoria.
Sentiva solo il bisogno di silenzio.
Non voleva altro.
Sherlock e Lisa si guardarono ammutoliti e Joseph alzò le braccia al cielo.
“Ascoltate, dovete fare i bravi, ve lo chiedo per favore. So che siete preoccupati almeno quanto lei ma è lei la sua famiglia. Vi ha chiesto di rispettare questa cosa.”
Sherlock non riuscì a trattenersi.
Sentiva il sangue scorrergli nelle vene velocissimo.
“Lei sarà pure la sorella, la sua famiglia, ma io ho vissuto cose con lui che lei non sa e che non può neanche immaginare. Io ho lo stesso diritto di vedere la persona che amo se è in fin di vita. Io ho lo stesso diritto di amarlo tanto quanto lo ama lei.”
Lisa fu quasi commossa da quelle parole e dall’amore che Sherlock aveva per John.
Joseph non seppe cosa rispondere e disse solo:
“Io devo andare in un altro reparto, hanno bisogno di me. Parlerò con la Hoppins e vi farò sapere la situazione di John. Non pretendere altro Sherlock. La Hoppins neanche potrà fartelo vedere se la situazione sarà critica. Va a casa. Cerca di riprenderti e quando sarai di nuovo in condizioni di parlarne vieni qui e vediamo cosa posso fare. Chiaro?”
La voce categorica e ferma dell’infermiere fu un coltello nello stomaco e Sherlock si ritrovò ad annuire incapace di ribattere. Joseph sparì e Lisa poggiò piano una mano sulla spalla curva di Sherlock.
“John starà bene e ti vorrà vedere. Harriet è solo…”
Sherlock aveva la guerra in testa.
Cercava di ascoltare Lisa comunque.
“Lei non sa niente, Sherlock. Immagina quanto odi questa cosa. Abbi pazienza.”
“Se John dovesse morire io”
“Tu non farai o dirai nulla. Mycroft mi ha detto cosa spiegare se John fosse stato ferito. Abbiamo le spalle coperte, tuo fratello ha pensato a tutto.”
“A quale fantastica scusa ha pensato esattamente?”
“Lui ti aveva chiamato per un consulto ma John ha voluto seguirti e dei nemici di tuo fratello avevano organizzato un’imboscata e ne siamo rimasti coinvolti. Tutto qui. Non è poi così lontano dalla realtà ma evitiamo di mettere in mezzo mafia cinese ed il fatto che io sono una spia.”
Abbozzò un sorriso.
“Ma John parlerà per primo con Harriet e se le dirà la verità su cosa è successo io non voglio neanche pensare a cosa”
“John non è così stupido, lo sai. Chiamerebbe prima te, è ovvio.”
“Non mentirebbe a sua sorella.”
“Non ti farebbe andare nei guai, anche se significa mentire alla sorella. Non direbbe o farebbe mai niente per ferirti in nessun modo e non c’è bisogno che te lo dica io. E poi non sa di Mycroft. Non oserebbe parlare sapendo che Mycroft si infurierebbe come una belva con lui e anche con te che avevi portato lui lì. Prova  a contraddirmi, dai.”
“Non lo conosci.”
“Vuoi dire che John ti tradirebbe?”
“No, assolutamente no ma come fai ad essere così sicura? Se non fossi me non sarei così positivo.”
“So che è quello che pensi tu e mi basta per crederci.”
La sua mano era ancora dolcemente poggiata sulla schiena di Sherlock che cercò di rilassarsi dopo quella conversazione.
Se fosse andata così, se quella bugia avesse funzionato, Harriet non sarebbe stata più un problema di cui preoccuparsi.
A parte l’inevitabile colpa che gli avrebbe dato per sempre per aver fatto sparare al fratello.
“Cosa dobbiamo fare allora? Andarcene?”
“Sì. Lo ha detto anche Joseph. E dobbiamo andare dai tuoi genitori. Dobbiamo occuparci di loro ora. John è in ottime mani.”



Sherlock sapeva che a quest’ora i suoi genitori già sapevano tutto.
I membri del club di Mycroft già avevano sicuramente fatto visita ai Signori Holmes e spiegato tutto.
Tutta la verità.
Sherlock si alzò e guardò Harriet da lontano, seduta in fondo al corridoio nella penombra.
Era da sola.
Sola ad affrontare quella situazione orribile e non poteva non tentare di avvicinarsi a lei ma Lisa lo fermò dicendogli di ricordare le parole di Joseph e di quanto sarebbe stato salutare evitare litigi con la sorella del ragazzo che amava.
Controvoglia, andò via seguito da Lisa che fermò un taxi.
Salirono, e arrivati a casa Holmes Sherlock si fermò davanti alla porta della villetta a schiera.
“Sherlock?”
Sherlock chiuse gli occhi.
Stava per guardare negli occhi i genitori e vederci un dolore che lui sapeva non poter mai immaginare.
Lui aveva perso un fratello, sì, ma perdere un figlio era un altro paio di maniche.
Era indescrivibile.
“Sherlock, sai che non penseranno mai che sia stata colpa tua. Ho parlato con Basil, del club, mi hai sentito al telefono. Vogliono vederti e abbracciarti.”
Sherlock serrò le mascelle e le lacrime gli scesero calde sul volto.
Cosa stava accadendo alla sua freddezza?
Cosa stava tramando la sua mente?
E perchè non la controllava più?
Perché si sentiva in balia di una incessante scarica di dolore, paura, voglia di prendersi a pugni da solo per dimenticare tutto?
La morte non ti lascia il controllo, capì.
La morte ti prende senza chiedere il permesso e ti cambia, per sempre.
Lisa era una roccia per lui in quel momento.
Qualcosa su cui posare lo sguardo e sentire di meno, tutto.
Gli asciugò il viso, piano.
“Sei un bravo ragazzo. Loro lo sanno. Ti amano e avete bisogno gli uni degli altri. Sfogati ora che puoi, Sherlock.”
Fece un respiro profondo mentre il sorriso sincero di lei lo accompagnava nel lungo corridoio della casa, fino al salone dove suo padre e sua madre erano stretti in un abbraccio, seduti sul divano.
Piangevano silenziosamente.
Il padre poggiò le labbra sulla fronte della moglie e posò un bacio.
Le sussurrò che tutto sarebbe finito prima o poi.
“Papà…”
La figura slanciata di Sherlock era tremante davanti ai suoi occhi e il Signor Holmes si alzò per stringerla e farla smettere di muoversi.
“Andrà tutto bene, figliolo. Mycroft sapeva che ne sarebbe valsa la pena.”
Sherlock scuoteva la testa sprofondata nel collo del padre.
Non trattenne altre lacrime.
Non le controllava, come non controllava la terra che gli mancò sotto i piedi.
“Papà…non sono riuscito a fare nulla. Sono…”
“Shhh. Non ti azzardare neanche.”
“Mi dispiace.”
Sherlock aveva gli occhi chiusi e li stringeva.
“Ora vieni a sederti. Bevi un po' di tè caldo e rilassati.”
La voce calma del padre ebbe proprio quell’effetto, lo calmò di colpo e mai fu più felice di essere a casa.
Sherlock si sedette di fianco alla madre, una donna dai bellissimi capelli lasciati diventare bianchi che gli sorrideva.
Gli bastò uno sguardo e le parole non servirono.
Lisa venne accolta dalle braccia del Signor Holmes.
Anche lei, appoggiata a quella figura paterna, si sentì vulnerabile ma allo stesso tempo protetta.
Bevvero del tè e Lisa, più capace di Sherlock nel ricomporsi, cercò di spiegare nei particolari l’accaduto in quanto i Signori Holmes le chiesero  di farlo anche se avevano già le informazioni grazie a Basil, il collega più fidato di Mycroft nel Diogenes Club. Ma si fidavano di più di Lisa; la conoscevano da anni.
Lei era il piccolo segreto tra loro e Mycroft, segreto che Sherlock non aveva mai scoperto ma che ora finalmente conosceva.
“Se qualcuno ha colpa in questa faccenda sono io. Dovevo proteggerlo, come ho sempre fatto ma questa volta è stato così…” Lisa abbassò lo sguardo.
“Lisa, ti conosciamo.”
La Signora Holmes le poggiò una mano sul ginocchio.
“Mycroft non avrebbe voluto essere lì con nessun altro se non con te. E se è finita così, non ti darebbe mai e poi mai la colpa come non lo facciamo noi.”
Il Signor Holmes aggiunse poche parole:
“Ti amava, lo sai. Avrebbe affidato la sua vita, la sua morte a te. Lo hai sempre reso fiero di te e felice.”
Lisa guardò Sherlock cercando di capire cosa stava pensando di tutto quello in quel momento e Sherlock, comprensivo e gentile disse:
“Io sono sicuro che mio fratello, per nasconderti a me, ti amava con tutta l’anima. Se lo avessi saputo probabilmente gli avrei dato filo da torcere. Anche peggio. So essere insopportabile a volte.” Sorrise. 
“Sei una donna eccezionale e se ancora non ho fatto qualcosa di stupido è grazie a te.”Ammise Sherlock.
“Non posso non darti ragione, scusa.” “No, va bene. È così.”
Lui era grato a Lisa.
Era grato di aver trovato, per la seconda volta nella sua vita, una persona amica.
Una persona che capiva il suo mondo, una persona che lo viveva e che lo accettava.
E pensò a John.
A John che era stato il primo e che a volte non riusciva a reggere il peso di chi lui era.
Si perse in quei pensieri e il pomeriggio andò avanti a rilento.
Ogni ora passata sembrava giorni.
Mangiò a mala pena.
Fece una doccia e si distese sul letto, con l’asciugamano alla vita.
Bagnò le lenzuola ma non gli importava.
Prese tra le dita il ciondolo d’oro bianco.
Col polpastrello sentiva inciso il numero e la lettera.
Era l’unico oggetto che temeva di perdere, quel regalo del suo John, l’unica cosa da cui non si sarebbe mai diviso.
Si alzò.
Guardò il suo tatuaggio, all’altezza del cuore e ci immaginò un foro di proiettile.
John avrebbe avuto una cicatrice lì.
Proprio come il suo tatuaggio.
Se il destino stava giocando con loro era un gioco che a lui non piaceva per niente.



Si vestì lentamente.
Sentiva che gli mancavano le forze ormai.
Tutto quello che voleva era poter vedere gli occhi blu mare di John aperti, il suo petto alzarsi e abbassarsi come segno di vita e le sue labbra avvicinarsi alle sue.
Provò a contattare la Hoppins ma lei non rispondeva.
Voleva assolutamente ritornare in ospedale e dopo aver convinto Lisa, prese l’auto e andarono al Saint Thomas Hospital.
Erano le cinque di pomeriggio e aveva smesso di piovere.
Cercarono Joseph e dopo poco lo trovarono in infermeria.
Si avvicinò a loro.
Silenzio.
La sala dov’erano era gremita di persone e un leggero brusio faceva da sfondo.
Joseph si schiarì la voce.
“E’ vivo e…un’ora fa dormiva ancora. La Hoppins è stata chiamata d’urgenza in un altro ospedale. Se vuoi parlarle…”
Sherlock si piegò in due e poggiò le mani alle gambe.
Fissò per qualche secondo il pavimento bianco.
Mai si era sentito così leggero, sollevato, grato per qualcosa.
John era vivo.
Il suo John.
Si rialzò lentamente.
Lisa gli sorrise solare e si abbracciarono inevitabilmente contenti della notizia.
Un sorriso scappò anche a Joseph.
“La Hoppins è stata eccezionale ovviamente. E’ stato un intervento delicato e la convalescenza sarà lunga ma mi ha detto che John…sentiva come se lui le chiedesse di farlo vivere. Sentiva che voleva vivere. Ha detto che metà del lavoro lo ha fatto lui. Non tutti ce l’avrebbero fatta.”
“Joseph, grazie. Davvero sei stato indispensabile per noi, per me e mi chiedo se…se puoi”
“Non posso fartelo vedere. Deve svegliarsi e se chiede di te potrai vederlo.”
“Capisco. Non condivido assolutamente questa circostanza, è un’ingiustizia che la persona che amo non”
“Non può dirci il numero della camera?”
Lisa interruppe Sherlock che tacque subito.
Fece quella domanda quasi pregandolo e Joseph per poco non le urlava ‘ma stai scherzando?’.
Lei aggiunse:
“Non farò avvicinare Sherlock e neanche io ci tengo ad essere denunciata. Vorrei solo…”
Si dette un tono e fissando il bruno negli occhi fece uscire l’autorità che la distingueva.
“Deve capire che è una situazione delicata e ci sono cose che non sa. La prego. Si fidi della Hoppins che ha garantito per noi. Si fidi di noi.”
Lisa era convincente.
Molto.
Era brava a persuadere e nel suo lavoro era inevitabile. 
Joseph cedette.
“E’ la stanza trentadue al secondo piano. Spero di non rinnegare la scelta di avervelo detto.”
Fece un’alzata di sopracciglia e sbuffò.
“Devo andare. Buona fortuna per tutto.”
Sherlock gli strinse la mano e Lisa fece lo stesso.
“Wow, sei stata brava.”
“Lo so.”
Si guardarono complici e raggiunsero subito la camera.



La porta era chiusa e la tentazione di aprirla fremeva sul palmo della mano di Sherlock ma si tennero a distanza facendo prevalere il buon senso.
“Harriet è dentro. Sicuro.”
“Certo che è dentro, Sherlock. Smetti di andare avanti e indietro. Lui è fuori pericolo. Presto Harriet ti cercherà.”
Lisa non lo disse solo per calmarlo ma perché veramente credeva che sarebbe andata così.
“E se vuole parlare con Harriet presente? Come faccio a fargli capire che mi deve reggere il gioco?”
“Non…avete, che ne so, una parola di sicurezza, un codice che usate per parlare di cose segrete, personali?”
Sherlock la guardò spiazzato.
“Non smetti di sorprendermi Lisa. Perché non ci ho pensato io?”
“Sei coinvolto emotivamente. Fino in fondo. La tua mente ti fa scherzi, vero?”
Lisa conosceva bene la sensazione.
Quella sensazione di vuoto mentale che si ha quando accade l’irreparabile, quando accade qualcosa come quella che era accaduta a loro.
Sapeva come c si sentiva a credere di stare per annegare.
Lo aveva provato vedendo il corpo di Mycroft accasciarsi sull’erba quella mattina.
Tutto perde senso.
“Abbastanza. E comunque sì, usiamo sempre ‘aurora boreale’ come avvertimento in situazioni imbarazzanti o per far capre che l’altro ha capito, ecco.”
“Carino.”
“Lui adora le aurore boreali. Me lo disse tempo fa, durante un’uscita al liceo, ed io non facevo altro che immaginare una luna di miele lì con lui.”
“Ne avete parlato? Di sposarvi dico.”
“Oh, no. E’…una cosa mia. Un desiderio mio. Ma farei felice anche lui con un viaggio simile.”
“Sarebbe davvero unico.”
“Già. Non sai quanto vorrei essere suo…”
Sherlock si bloccò, distolse lo sguardo e si sedette al suo fianco.
Si stava lasciando andare.
In quel momento era all’apice della sua vulnerabilità.
Intrecciò le mani.
“Sei nervoso nel parlarne…”
“Ho solo paura di pensare a cose del genere…”
Lisa alzò gli occhi al cielo.
“Basta parlarne, sai? Parlare o anche litigare, se lo vedrete necessario, può solo aiutare. Prendetevi a pugni ma poi fate sempre pace. Se ne vale la pena, farete sempre pace.”
Sherlock la guardò esattamente come prima, molto sorpreso.
“Anche saggia sei.”
“E’ un consiglio che avrei voluto sentire, tutto qui. Ma non voglio parlarne ora.”
Abbassò lo sguardo e Sherlock capì che si trattava di Mycroft e lasciò stare.
Neanche lui avrebbe retto una conversazione sul fratello ora.
“Dovresti chiederglielo. Di sposarti, dico. John è il tipo da matrimonio.”
Sherlock si lasciò scappare una risata.
“Lo credi davvero? E’ uno spirito libero lui. Non so come la prenderebbe.”
“Ti ama?”
A Sherlock mancò il fiato a quella domanda così diretta.
Sentiva che John lo amava, ma cosa John provasse, la pura verità non la sapeva o almeno non poteva esserne certo.
Non lo aveva mai chiesto a John.
“Io…io lo amo. E anche lui mi dimostra di tenerci.”
Lisa sentì il disagio che aveva creato e un po' si pentì di averlo chiesto. In quella situazione non avrebbe voluto aggiungere altri pensieri nella testa di Sherlock.
“Non volevo intromettermi. Scusa.”
“Tranquilla. Prima o poi dovrò affrontare la cosa. Non ci avevo pensato veramente, tutto qui. Non ne avevo mai dubitato.” Accennò un sorriso e Lisa capì di essere stata perdonata.



“Sherlock…”
Alzò la testa e a pochi metri di distanza c’era Harriet, con occhi stanchi, il viso spento e i capelli raccolti disordinatamente che lo chiamava.
Il cuore gli saltò in gola anche se solo per un secondo.
Si alzò e Harriet lo raggiunse.
Aveva le braccia incrociate e un’espressione quasi di sfida.
“Ho saputo che l’intervento è andato bene. Mi fa piacere che”
“Non ce n’è bisogno ragazzo, davvero. Non voglio…”
Si strofinò gli occhi un po' rossi, sia per il pianto che per la stanchezza e continuò calma dicendo:
“Lui vuole te. Si rifiuta di parlarmi. E’ un’ora che provo a farmi spiegare le cose ma ripete solo che vuole vedere prima te.”
“Solo se per lei va bene.”
Lisa sospirò quasi soddisfatta per quella mossa da parte di Sherlock.
Assicurarsi anche solo un po' di fiducia, mostrandosi rispettoso e gentile, sarebbe stato un gran passo.
Harriet non si aspettava quella frase e il volto si addolcì.
“Certo. Va bene. Pare sia l’unico modo per parlare con mio fratello dopo quindi, vai pure.”
Annuiva piano e si spostò per far passare Sherlock che camminava da solo verso la porta.
“Lei è un’amica di John?”
“Sono Lisa e diciamo che sono un’amica di Sherlock e una conoscente di John.”
“O-okay.”
Harriet si sedette al suo fianco.
Ora che si era assicurata che il fratello era vivo, l’odio per quella ragazza e per Sherlock un po' scemò.
E dire alla ragazza di andarsene sarebbe stato fuori luogo.
Voleva solo che tutto tornasse alla normalità.
Intanto torturava con le mani i bordi del maglione blu che portava.
Lisa si alzò e decise che sarebbe andata a prendersi un caffè come scusa per non avere nessun contatto con Harriet prima del dovuto.
Ma vedendo il volto scuro e i segni di una paura terribile fortunatamente scampata su di esso, si sentì di dirle dolcemente:
“Spero che quando le cose si chiariranno, potremmo lasciarci alle spalle il dolore.”
Le fece un cenno col capo e la sorella di John ricambiò con uno sguardo dolce, apprezzando la delicatezza e tutta la speranza che quella frase aveva.
Sentì che tutto sarebbe andato per il meglio prima o poi.




Vedere John così non fu bello.
Sebbene era felice che fosse vivo e che aveva le forze per parlare, Sherlock si incupì vedendo il suo amore bianco come le lenzuola che lo avvolgevano e con flebo che gli bucavano entrambe le braccia.
Era immobile.
Solo gli occhi si voltarono per incrociare il suo sguardo.
Quegli occhi blu erano un po' spenti e stanchi.
Le labbra opache e l’odore pungente di disinfettante non aiutava.
“Siediti.”
La voce di John uscì piano, lentamente. Sherlock fece come chiesto e si sedette sulla sedia di fianco al letto.
John sorrise.
“Cos’è quella faccia cadaverica, eh? Quello che stava per morire sono io.”
Sorrise ancora e Sherlock si sforzò di farlo solo per non far rimanere John male.
Il senso dell’umorismo era una sua caratteristica e lo usava per sdrammatizzare.
O almeno ci provò.
“La Hoppins mi ha fatto sapere che sei stato davvero forte.”
John guardò gli occhi scavati che non brillavano come sempre, quei vestiti sgualciti che indossava Sherlock e gli sembrò di avere qualcun altro davanti.
“Come stai tu?”
“John…”
Sherlock scosse la testa.
“Non importa. Sono solo felice di vederti vivo.”
Gli occhi gli si inumidirono ma si trattenne.
Voleva solo portare sorrisi a John.
“ No, sul serio. Cosa…cosa è successo. Ho visto la ragazza bionda che mi tratteneva sparare a tutti probabilmente e…”
fece un respiro profondo.
La ferita era come una pugnalata ad ogni sforzo.
“Non dobbiamo parlarne ora.”
“Sì. Ora.”
“Non ti agitare.”
“Ha sparato a tutti, Sherlock, e poi ricordo solo che uno degli uomini di quel tizio ha sparato a me e sono caduto a terra. Sentivo la pioggia. Solo pioggia.”
“La ragazza, che Tian diceva che si chiamava Blake in realtà è Lisa.”
John sgranò gli occhi.
I battiti accelerarono.
“John, ti prego”
“Lisa? La vicina nell’appartamento che abbiamo fittato a Londra?!”
“Sì” “Come…come ho fatto non riconoscerla e, mio dio, che ci faceva lì?”
Sherlock gli spiegò tutto.
Gli spiegò anche la versione che John avrebbe dovuto raccontare ad Harriet.
Non tralasciò nulla.
“E Mycroft non…”
John si fece su piano, poggiando la schiena sui cuscini.
Cercava di immaginarsi la cosa, cercava di dargli senso ma non ci voleva credere fino a che Sherlock non glielo avesse detto. “Mycroft cosa?”
“E’ morto. Un colpo alla testa.”
“Mio dio, Sherlock…”
“Faceva parte del piano. Nessuno ha la colpa.”
“Lo so ma…”
E non trovò le parole.
Niente da aggiungere.
Sherlock teneva ancora lo sguardo basso.
“Io…avevo intenzione di dirti una cosa ma credo che non sia il caso.”
“Puoi dirmi tutto, John. Ormai posso reggere tutto, davvero.”
Era sincero. S
e John voleva parlare di qualcosa era lì per lui e nel dargli forza avrebbe aiutato se stesso a farsi forza.
“Non è il caso.”
Ripetette John, consapevole che affrontare un altro problema sarebbe stato inumano.
Sherlock vide un’espressione di distacco sul volto di John, come rammarico.
“Hai detto qualcosa ad Harriet che potrebbe”
“No, non riguarda lei. Tu ci hai parlato?”
“No. Quando ancora eri in sala operatoria era sconvolta e mi aveva detto, a me e a Lisa, di andare via ma aveva ragione e poi ora è venuta a dirmi che voleva…”
John era strano.
Lo sguardo fisso ai suoi piedi.
“John…”
“Senti, io penso che dovremmo stare lontani per un po'. Non lo sopporto, Sherlock.”
“C-cosa?”
“Non sopporto avere tuti questi problemi. Non ce la faccio, sento che sto per morire. Non posso…”
“Insieme possiamo sicuramente”
“Non voglio.”
John lo guardò fisso, deciso, quasi come se non provasse più nulla.
Come se il ragazzo che aveva ora al suo fianco non potesse servigli a nulla.
Sherlock rise.
Non ci credeva davvero, gli sembrava una farsa che in realtà non aveva niente di divertente.
“Deve solo passare oggi, John. Domani starai già più in forze, ne sono sicuro. Tu sei”
“Perché non mi ascolti!”
Si portò una mano al lato.
Una smorfia di dolore apparse sul viso stanco.
“Io…”
Prese fiato e continuò.
“…voglio stare un po' da solo, con mia sorella. Voglio riprendermi e concentrarmi sullo stare bene, Sherlock. Non posso farti forza in questo momento dopo la morte di tuo fratello, dopo tutto…questo. Voglio stare senza avere il pensiero che tu abbia bisogno di me.”
“Io ho bisogno di te.”
E se mai Sherlock si sentì morire, quello fu il modo peggiore in cui aveva mai immaginato potesse accadere.



John chiuse gli occhi e piegò la testa all’indietro.
Fece un respiro che non lo liberò di nulla.
Sapeva quanto crudele suonava  e quanto Sherlock poteva prendere tutto quello come un’assurdità ma non aveva altra soluzione.
Fissava ancora il soffitto quando sentì la sedia spostarsi mentre Sherlock si alzava.
“Non so cosa mai ti passa per la testa, John. Sul serio, non ne ho idea.”
La rabbia prese il posto del dolore ed era una sensazione che mai aveva provato, che mai pensava di poter provare nei confronti di John.
“Hai bisogno dei tuoi spazi, lo capisco. Ma io ti amo. Dannazione John, ti amo. Cosa… cos’altro pretendi?”
John si voltò verso di lui, quasi scocciato.
“Vorrei solo un po' di normalità.”
Il colpo di grazia era arrivato.
Era quello il punto, era stato sempre e solo quello il punto.
“Capisco.”
Si limitò a dire Sherlock, che neanche riusciva a dispiacersi per quell’affermazione.
Tutti gli erano sempre stati lontano perché lui non vedeva le cose come gli altri, perché odiava la normalità, perché cercava sempre un brivido che lo facesse sentire vivo ma non tutti accettano questa cosa.
Non tutti amano la vita così.
Alla fine se ne era fatto una ragione e si era sempre immaginato solo.
Gli andava bene perché sapeva che sforzarsi di cambiare una persona per compiacimento non era da lui.
Non lo avrebbe mai voluto.
Poi arrivò John, John che lo aveva accettato e amato e anche se spesso storceva il naso, Sherlock pensava che l’amore che provava gli avrebbe fatto superare tutte le paure e lo avrebbe fatto restare.
Restare al suo fianco.
John era l’eccezione.
Era l’unico. 
Almeno lo era stato fino a quel momento.
“Senti Sherlock, non sto dicendo che ti voglio lasciare perché tengo a te ma”
“Mi ami?”
John rise piano.
“Sherlock, ma cosa”
“Mi ami?”
Silenzio.
La tensione nei muscoli di Sherlock era insopportabile.
La verità?
Temeva una risposta negativa.
Per qualche assurdo motivo, la temeva.
Dopo tutti quegli anni insieme, la temeva.
John addolcì lo sguardo e disse:
“Ti amo. Io ti amo da sempre, Sherlock. Ma devo prima mettere insieme i pezzi e con te qui, con tutto quello che dovremmo affrontare non ce la farei. Puoi…fidarti di me e darmi del tempo?”
Gli occhi si inumidirono e la facciata forte che aveva preparato per convincere Sherlock a farsene una ragione stava per cedere. Non sapendo più cosa dire e vedendo John convinto della sua scelta, Sherlock annuì.
“Okay. Va bene, John. Forse servirà ad entrambi. Forse se superiamo questo, ne varrà la pena.”
Sforzò un sorriso.
Si asciugò la lacrima che era caduta e si avviò alla porta, aprendola piano.
Uscito di lì, probabilmente non avrebbe visto John per giorni, settimane forse.
Si voltò per vederlo almeno un’ultima volta.
Sì, forse stava drammatizzando troppo ma per lui, per uno come lui, aver trovato uno come John era come trovare qualcosa a cui aggrapparsi per amare ancora la vita, ad ogni risveglio al mattino e ad ogni ultimo sguardo la sera.
Per questo era così restio ad uscire, come se ogni cellula lo stesse fermando.
“Riprenditi presto, John.”
John annuì.



Vedeva le spalle curve di Sherlock ed era ancora più convinto che quel ragazzo spezzato, un po' trasandato non era il suo Sherlock.
Lo Sherlock che conosceva non se ne starebbe curvo così.
Non soffrirebbe così.
Eppure eccolo lì, l’ombra di stesso che non reggeva neanche una pausa in una relazione.
John non la vedeva una cosa così grave, non lo stava lasciando.
Voleva solo tornare a respirare per un po'.
Era da egoisti?
Era sbagliato?
Se non sto bene io, come posso far stare bene lui? Si chiese.
Ma ciò che fece sentire John un dolore ancora peggiore di quella ferita al cuore che una pallottola aveva causato, era il fatto che lui aveva fatto diventare Sherlock così in meno di un giorno.
Era stato lui.
“Sto per impazzire.” Sussurrò.
Conosceva Sherlock, lo conosceva benissimo.
Sapeva che lo avrebbe capito, prima o poi.
Sapeva che tutto sarebbe tornato ad essere come prima, forse anche migliore di prima.
Almeno era quello che sperava.



Harriet si alzò appena vide Sherlock chiudere la porta.
“Sono sicuro che si prenderà cura di lui. Penso che non ci vedremo presto…”
“Cosa ti ha detto…?”
“Non ha importanza. Grazie per avermi concesso di parlargli.”
Sherlock si avviò per il lungo corridoio, infilando le mani nelle tasche dei pantaloni scuri. La sorella di John rimase perplessa e intuì che qualcosa era andato storto.
“Ehi. Pensavo ci mettessi più tempo con John…”
Lisa lo aveva aspettato all’entrata dell’ospedale.
“Ha detto che ha bisogno di tempo.”
Sherlock guardò le nuvole correre veloci nel cielo e il sole calare velocemente.
Le sorrise e fece spallucce.
“Non…credo di capire.”
“Io gli causerei solo altri pensieri. Ha bisogno di tranquillità.”
Abbassò lo sguardo.
“E a te sta bene?” Chiese Lisa forse più irritata di Sherlock.
“Se è quello che gli serve, lo lascerò fare.”
Lisa si rese conto che quella storia d’amore era più complicata di quanto sembrasse e prendendo Sherlock sotto braccio, lo portò in un bar a bere qualcosa per farlo svagare, anche solo per qualche ora.


Presto, le vite di Sherlock e John si sarebbero intrecciate ancora.
E nel bene o nel male, sapevano che avrebbero superato qualsiasi cosa…
se solo una domanda non avesse posto quella fine che era ormai più vicina che mai. 

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Capitolo 15
*** Chiarimenti ***


Sherlock aveva davanti il secondo mojito e Lisa, seduta allo sgabello al suo fianco, sorseggiava una birra.
Il pub era non molto lontano da casa di Sherlock e si concedette un terzo mojito sapendo che Lisa lo avrebbe fatto tornare a casa sano e salvo.
Era un posto tranquillo, con bella musica e tanti ragazzi e ragazze si godevano la serata.
Sembravano tutti così felici, come se i problemi che avevano riuscivano a gestirli con uno schiocco di dita.
Sherlock fissava il ghiaccio nel bicchiere trasparente e si vergognò di sé stesso per affrontare la decisione di John in quel modo.
Pensava solo che i suoi problemi erano ben altro che il lavoro, pagare le bollette, decidere se fare un figlio.
Ma in quel momento anche lui desiderò quella normalità con John se solo fosse stato capace di poterla accettare.
Si chiese se tutto quello che era stato fin a quel momento non fosse stato sbagliato, se avesse potuto fare qualcosa.
Finì in un solo sorso mezzo mojito e l’alcool lo aiutò a smettere di pensare.
“Vediamo il risultato di cosa ti fanno fare tre mojito.”
Lisa finì la sua birra e lo invitò a ballare porgendogli la mano con uno sguardo accattivante.
Era stretta nella sua giacca di pelle nera e i capelli biondissimi corti erano un po' spettinati ma in un modo che la rendevano affascinante.
“Non ci pensare neanche. Sto bene qui a riscaldare lo sgabello.”
“Dai, Sherlock. Sei un ballerino o sbaglio? Non dovresti avere voglia di ballare praticamente sempre?”
Lui le fece un’alzata di sopracciglia e le chiarì che certi stereotipi dovrebbero essere passati di moda ormai.
“Okay, lasciamo stare.” disse sconfitta, poggiando i gomiti al bancone di legno.
Lo guardava e non nascondeva la sua preoccupazione.
Lui ordinò un altro mojito ma Lisa lo trascinò via prima che la cameriera potesse sentirlo.
“Ehi, cosa fai?”
Sherlock un po' biascicò le parole.
“Sei abbastanza brillo per stasera. Te ne bevi un altro la prossima volta.”
Alzò gli occhi al cielo scocciato.
“Sto benissimo.”
“Allora non ti appoggiare al muro per tenerti su.”
Sherlock  ci provò ma ebbe bisogno della presa di Lisa per non cadere.
“Ti ricordi almeno la strada per casa tua vero?”
“Dovrei?”
Rise divertito vedendo il volto serio di lei.
“Per fortuna tuo fratello ti voleva così bene da farti sorvegliare quindi per tua fortuna so io dove abiti. Eri un’ ossessione per lui…”
Si permise di dirlo perché sapeva che Sherlock non lo avrebbe notato nelle condizioni in cui era.
Lo avesse detto in un’altra circostanza lui l’avrebbe assillata senza darle il tempo neanche di spiegare.



Arrivarono davanti a un edificio di sei piani, molto ben tenuto dove era palese vivessero persone di un certo rango.
Sherlock la seguiva in silenzio.
“Le…le chiavi sono in macchina.” Le disse, mentre lei frugava nei suoi pantaloni.
“Non ti porterò mai più fuori a b
Lo fece sedere davanti alla porta che ancora sorrideva come un’idiota.
Poco dopo ritornò con le chiavi ed entrarono.
L’ appartamento era molto grande, al quinto piano con una vista bellissima su Londra.
Era poco distante dalla Royal Ballet School e quella zona era davvero spettacolare dall’alto.
La cucina e il salone erano un unico ambiente; a terra c’era il parquet che faceva un bel contrasto con il tavolo scuro in marmo al centro della sala da pranzo.
Un divano in pelle nera faceva da padrone al alto sinistro del salone e di fronte c’era una tv a muro molto elegante.
Sherlock aveva gusti molto fini e semplici.
Sparsi qui e lì c’erano diversi libri e nel loro disordine avevano un perché.
Un pianoforte di fronte alla grande vetrata sulla città rendeva tuto ancora più raffinato.
“Davvero un  bel posticino amico mio.”
Sherlock riuscì ad arrivare fino al divano per poi crollarci sopra.
“Grazie.” Si limitò a dire.
Sprofondò la testa in un cuscino e chiuse gli occhi.
“Vuoi sul serio dormire lì?”
“Sì. Vai pure, sto bene.”
Lisa non sapeva esattamente cosa fare ma andarsene era fuori discussione.
“Domattina avrai un mal di testa che non riuscirai neanche a farti il caffè. Rimango qui. Buonanotte.”
Senza neanche aspettare una risposta, Lisa andò in camera da letto.



Era una camera matrimoniale spoglia, con solo un armadio, il letto e una scrivania su cui c’era un macello.
Carte e libri aperti la occupavano tutta.
Un po' era curiosa e diede un’occhiata.
Sherlock studiava chimica e matematica e lo si intuiva  chiaramente dai testi e appunti indecifrabili che lesse senza capirci nulla.
Sotto un grosso libro vide degli spartiti.
Sherlock scriveva musica per il bel pianoforte che aveva visto di là.
Anzi, la scriveva per John. Sulla maggior parte dei fogli, al centro della pagina c’era scritto chiaramente ‘Per John, pt1’, ‘pt2’, e così via fino a pt73.
Le scappò un “Wow” per quante ne erano.
“E’ un passatempo più che altro. Non sono molto bravo, ma ci provo. Mi piaceva l’idea di creare qualcosa di eterno come la musica.”
Sherlock era appoggiato con la spalla al bordo della porta e  sorrideva guardando gli spartiti.
“Mi devi far sentire qualcosa.”
“No, non ne vale la pena credimi. Non è niente di speciale.”
Lo disse strofinandosi gli occhi.
“Non sei così ubriaco come sembravi, eh.”
“Lo pretendevo solo. Volevo…”
“Tranquillo.”
Lisa si sedette sul grande letto e gli chiese:
“Se vuoi parlarne io sono qui.”
Parlare esattamente di quale delle centinaia di cose che non andavano? si chiese Sherlock con un’ alzata di spalle.
“Non voglio parlare di John.”
“Parliamo di altro, allora. Qualunque cosa.”
“Sarai stanca.”
Lisa ignorò quella scusa che Sherlock inventò e insistette.
“Cos’è che ti turba?”
Aveva uno sguardo sincero e Sherlock doveva buttare fuori tutti i suoi pensieri, tutte le cose che la sua mente non smetteva di chiedere
quindi iniziò a parlare molto concentrato e come se avesse già pronto quel discorso.
“Io ero lì, davanti a voi e ho visto questo: Tian aveva la pistola puntata sulla testa di John che era tenuto fermo da te.
Un altro tizio teneva la sua pistola alla testa di Mycroft e l’ultimo era di fianco a Tian, che impugnava un’ altra pistola facendo da guardia.
Ora mi chiedo: perché è stato quest’ultimo tipo a sparare a John?
Perché Tian, che aveva la pistola alla testa di John non lo ha ucciso?
Cosa è successo? E poi ho visto Mycroft a terra…lui non c’entrava nulla.
Doveva morire John.”
Lisa lo guardava stranita.
“Non sto dicendo che avrei voluto che John morisse ma pensaci, sarebbe dovuta andare così. Ovviamente poi mi sono accorto di te, di chi eri e sapevo, come so che sono Sherlock Holmes, che avresti salvato John.”
Lisa abbassò gli occhi ma non perché si sentì accusata, no, Sherlock non aveva quella intenzione.
Stava solo esponendo la logicità dell’accaduto.
“Quello che mi chiedo è come sono andate in successione le cose e so che tu lo sai quindi spiegamelo, per favore.”
Lo sguardo fisso e deciso su di lei le fece capire che Sherlock non si sarebbe dato pace fino a che lei non lo avesse risposto ed era anche giusto chiarire le cose.
Era giusto dare pace all’anima di quel ragazzo sempre in cerca della verità, di un senso a quello che era successo.
“Tian stava per sparare a John e sapevo cosa fare e infatti l’ho fatto, sono riuscita a sparare a Tian prima che lui sparasse a John alla testa.
Due colpi e l’ho ucciso. Contemporaneamente, ho sentito un altro colpo dietro di me e Mycroft era…morto.
Ti giuro sulla mia vita che non mi sono mai sentita peggio. Non ero più io.”
Il volto di Lisa si velò di tristezza e amarezza.
“D’stinto ho sparato a l’uomo che ha ucciso Mycroft. Mi giro e l’altro bastardo che era lì puntava la sua pistola verso me e John.
Ci disse che avrebbe finito il lavoro del suo capo, poi avrei potuto ucciderlo. Capii che stava per sparare a John per porre fine alla faccenda e fare quello che Tian avrebbe voluto ma…non sono stata pronta. Io. Io che sono vista come la migliore del mio gruppo non sono stata all’altezza.”
“No, Lisa lo sai che”
“John ha provato a parlarci dicendogli che non doveva finire così, che non dovevamo spargere altro sangue inutile ma il colpo è partito e John era davanti a me e ha preso lui mentre io ero impietrita. Ecco come sono andate le cose.”
Sherlock evitò di consolarla perché Lisa palesemente non voleva che lo facesse.
“Ma anche quell’uomo è morto. Alla fine, se lo meritava.”
“Ma John non si meritava di venire ferito così gravemente. Ha cercato di salvarci, anche se con parole inutile e goffamente ma almeno ha fatto qualcosa. Io no.”
La voce di Lisa era dura.
Lo sguardo perso in un punto della stanza.
“Eri sola contro”
“No, non è rilevante. Ho affrontato quindici uomini armati da sola. Ho fatto prigionieri cinque terroristi in Siria.
Da sola. Ho affrontato molte cose peggiori, credimi.
Non era una missione molto pericolosa perché se lo fosse stata Mycroft non si sarebbe permesso di chiedere anche il tuo aiuto.
Ma sapeva che questo tipo di cose ti fanno sentire vivo.”
Sherlock si rese conto da quell’ultima frase che Lisa era in rapporti davvero intimi con il fratello se gli aveva parlato di lui in quel modo.
Cercò di non pensarci e disse:
“Aiuto che non sono stato in grado di dargli. Siamo nella stessa situazione, Lisa. Siamo stati sopraffatti dagli eventi ed ora fa male. Tanto. Ma non significa che questo ci deve far sentire responsabili per cose che non potevamo evitare.”
Lei abbozzò un sorriso.
Si sentì capita perché non era la sola ad aver perso Mycroft e non era la sola a conoscere quel dolore.
“Quello che non accetto è il fatto che Tian e i suoi sono riusciti ad ingannare mio fratello e a portarlo lì, dietro al cottage, dove pretendevano solo un’inutile vendetta. Mi sembra impensabile che non sia riuscito a fermare la mafia cinese dopo che l’aveva già distrutta dall’interno. Il padre di Tian, il vero boss, era morto. Tu sai come hanno fatto a prendere Mycroft? Ci deve essere una spiegazione. Tu eri infiltrata nel loro gruppo. Non hai notato nulla?”
Lisa incrociò le braccia e un’espressione senza emozioni apparì sul volto.
Non sembrava più tanto amichevole e vulnerabile come poco prima e Sherlock, neanche sapeva perché, indietreggiò.



“C’è una spiegazione plausibile ma non ho intenzione di parlartene. Cercheresti di solvere il caso. Da solo, tra l’altro, perché io non ti aiuterei. Non posso coinvolgerti anche se  si tratta di tuo fratello. Sei solo un ragazzo. Lascia fare a chi di dovere.”
“Ci hai provato e ci stavo anche per credere.”
Lui rideva.
Ma Lisa era irremovibile.
“Andiamo! Devi dirmi cosa sai!”
“Non insistere Sherlock.”
I mojto li sentiva dritti con una fitta alla testa ma cercò di resistere.
“Ora vado. Si è fatto tardi”
Sherlock si parò davanti a lei.
“Hai detto che cercherei di risolvere il caso. È diventato un caso ora?
Un caso che ha palesemente già indizi che non vuoi dirmi, il che è scorretto. Molto. Perché abbiamo vissuto insieme l’invivibile in meno di ventiquattro ore e”
Lo strinse e, prendendogli il braccio, lo sbattette contro il muro.
Gli teneva fermo il polso contro la schiena in una morsa d’acciaio e Sherlock sentiva il suo zigomo bruciare per il colpo contro il muro.
“Non devi immischiarti.”
“Scommetto che stai per farmi una minaccia.”
“Non voglio farti male.”
“Troppo tardi.”
Lo lasciò e Sherlock si voltò piano.
“L’agente super addestrato si è fatto vedere, finalmente.”
“Queste frecciatine risparmiatele.”, disse fredda.
Si avviò alla porta di casa e Sherlock la lasciò andare.
"Non sono io la tua nemica, Sherlock.”
La sua voce era dolce a queste parole.
 “Dammi un po' di tempo e ti prometto che avrai le risposte che vuoi.”
La porta si chiuse.




Sherlock scivolò piano nel letto e chiuse gli occhi ma non per dormire.
Cercava di far funzionare la sua mente come sempre, cercava risposte ma quella sera non era nelle condizioni per trovarle.
Alle sei del mattino era ancora sveglio, seduto sul letto con un caffè tra le mani e un fallito tentativo di avere il fascicolo di Lisa tra le mani.
Basil, secondo responsabile del Diogenes Club dopo Mycroft, si era rifiutato di farglielo recapitare dicendo che erano informazioni troppo delicate per un ventenne come lui che aveva appena perso il fratello.
Quando chiuse la chiamata vomitò anche l’anima.
Sarà stato l’alcool, quella giornata, Lisa, John; buttò tutto fuori.
Poi si addormentò di colpo, cedendo al fisico che la mente non riuscì a controllare.
Rimase chiuso in casa per una settimana.
Non aprì la porta neanche ai genitori che lo chiamavano al cellulare costantemente ogni mezz’ora.
“Sherlock, per l’amor del cielo…”
“Papà, sto bene. Se mi fossi suicidato non penso che ora ti parlerei al telefono, no?”
“Fatti almeno vedere! Vieni a cena stasera, ti prego.”
“Vi manderò qualche foto.” e così staccò la chiamata.
Il telefono squillò di nuovo e stavolta era la madre.
“Va bene prenderti del tempo ma non osare attaccare il telefono in faccia  a tuo padre di nuovo, William Sherlock Scott Holmes. Non ti abbiamo cresciuto così.”
Sherlock si sentì terribilmente in colpa nel versare il suo nervosismo sulle uniche persone che aveva in quel momento.
“Mi dispiace, mamma. Ma sto bene. Sto solo ricaricando il cervello.”
“Sai che è una frase  inquietante da ascoltare, vero?”
Sorrisero.
“Forse un po'.”
"Fatti vivo, ti prego.”
“Presto. Promesso.”




Sherlock guardava la luna piena opaca dalla grande vetrata del suo salotto e fumava lentamente una sigaretta.
In sette giorni era arrivato ad una conclusione, la più plausibile: le cose erano andate così, nel peggiore dei modi, perché c’era una spia
nel Club di Mycroft o nel gruppo di specialisti di Lisa.
O peggio, nel Governo inglese e se fosse stato così non poteva fare molto.
E sì, capì che era una cosa più grande di lui ma non smise di pensarci e di provare ad avere informazioni da Basil che ormai era diventato un muro insormontabile a riguardo.
Non gli disse che pensava che ci fosse una spia da qualche parte, troppo rischioso, ma si fidava di Basil e gli espose le sue preoccupazioni.
Cercò di contattare altri membri amici di Mycroft ma Basil fece tabula rasa e quegli uomini ora sembravano non esistere neanche.
Introvabili.  
Neanche un finto ma convincente pianto convinse quell’uomo di ghiaccio e Sherlock ora poneva tutte le sue speranze solo in Lisa che gli aveva promesso spiegazioni.
Il telefonò squillò e non riconobbe il numero.
Pensò fosse Lisa e rispose subito.
“Pronto?”
“Ciao, Sherlock. Scusa se chiamo così tardi, sono Harriet.”
Silenzio.
“Ciao.”
“Non vorrei disturbarti ma”
“Come sta John?”
“Tranquillo, si sta riprendendo. Volevo solo farti le mie condoglianze per Mycroft.
John mi ha detto cosa è successo e ho aspettato a chiamarti per darti del tempo anche se so che…”
La stessa  impacciata gentilezza di John, pensò Sherlock.
“Grazie Harriet. Apprezzo davvero il pensiero.”
“Figurati. Volevo anche chiederti quando per te è possibile farmi recapitare il resto delle cose di John che hai lì a casa tua.”
Sherlock non capiva.
Non aveva nulla di John a casa sua  e…oh.
Il cottage.
Non gli aveva parlato del cottage ovviamente ma ha detto alla sorella che era stato a casa sua.
“C-erto. Dammi una giornata di tempo e ti farò avere le sue cose dove e quando per te è più comodo.”
La voce gli uscì un po' tentennante.
“Tranquillo. Fammi sapere tu quando puoi, non c’è assolutamente nessun problema.”
“Okay.”
Altro silenzio.
Sentivano che avrebbero dovuto dirsi altro ma non sapevano esattamente cosa eppure avevano infinite cose di cui parlare.
Di cui liberarsi.
Per Harriet ciò che era successo, ciò che suo fratello gli aveva spiegato era talmente assurdo che ci mise un paio di giorni per accettarlo.
Mycroft Holmes, il Governo inglese, un’imboscata dove erano morte delle persone e poi suo fratello lì in ospedale.
Non ebbe un crollo emotivo solo perché doveva occuparsi di John.
“Sherlock, John mi ha detto che ha bisogno di tempo, un po' di tempo senza te, ed è per questo che ti ho chiamato io ma non significa che non ti pensa o che ha smesso di tenere a te e ciò che siete.”
“Dopo anni di odio fraterno vedo che è stato pronto a dirti tutto a quanto pare su di noi.”
Fu un colpo tosto per Harriet che mandò un’occhiata nervosa a John.
“Io e mio fratello non ci mentiamo mai e anche se lo facessimo non penso sia un tuo problema. Certo che abbiamo litigato. Costantemente.
Ma io sono sua sorella e lo appoggerò sempre.”
Sherlock non sapeva neanche perché aveva detto quella frase così fuori luogo; era stato lo stress a parlare ma Harriet non poteva saperlo.
Cercò di scusarsi ma lei continuò con voce  irritata.
“L’ultima volta che avevo visto mio fratello prima di una settimana fa era alla conferenza a maggio.
Andai perché pochi giorni prima litigammo e volevo rimediare. Non ci riuscii molto bene ma almeno lo avevo abbracciato.
Ora poteva essere morto. A causa tua. E penso a quell’abbraccio ogni sera. Quindi, caro Sherlock, non mettere bocca sul rapporto che ho con John.”
“Harriet, dai…”
La voce lontana di John  raggiunse Sherlock e per un attimo gli mancò il fiato.
“No, John. Non c’entri in questa cosa.” disse ferma Harriet.
Sherlock si sentì sprofondare.
“Sherlock, aspetto una tua chiamata per le cose di John. Buonanotte.”
Non gli diede il tempo di rispondere che il silenzio già lo circondava di nuovo.
Gettò il cellulare sul divano.
Pensava che le cose non potevano andare peggio eppure aveva appena litigato con la sorella del ragazzo che amava.
La verità, era che odiava il fato che lei era con John e lui no.
Non c’entrava neanche il fatto che lei fosse la sorella, poteva essere chiunque, Sherlock avrebbe pensato solo che lui non era lì con John.
Si pentì davvero di quello che aveva detto.
Prese di nuovo il cellulare e mandò un messaggio a John scrivendogli:
“Dille che mi dispiace per quello che ho detto e per quello che è accaduto a te. Riprenditi presto. Buonanotte.”
Fu molto distaccato ma mettersi a fare una filippica su quello che veramente pensava e provava sarebbe stato davvero imperdonabile.
John non gli rispose ma aveva visualizzato il messaggio.
Mise su Bach e si addormentò.




 Il giorno dopo, dopo una lunga doccia e dopo essersi di nuovo reso presentabile al mondo, andò al cottage.
Andrew, il maggiordomo che si occupava della tenuta, lo accolse gentile.
Ovviamente né lui né le altre cameriere sapeva la verità ed erano tutti molto tranquilli in quella assolata giornata di inizio settembre.
Sherlock andò nella camera di John.
Come gli aveva detto Andrew, i vestiti sparsi per la stanza  furono lavati e stirati e messi nell’armadio nell’attesa di un suo ritorno.
La valigia chiusa invece, come l’aveva lasciata John, era al centro del letto.
L’aprì. Senza neanche pensarci troppo Sherlock cercò il taccuino in pelle nera che era in una tasca, tenuto chiuso da un elastico rosso.
Lo tenne tra le mani con la pazza voglia di vedere cosa c’era dentro ma sapeva che se John avesse potuto strapparglielo dalle mani in quel momento l’avrebbe fatto. Non sapeva bene cosa pensare, quale fosse la verità ma Sherlock non lo aprì.
E lo ripose dov’era.
Prese i vestiti dall’armadio e li mise in valigia.
La prese, salì in macchina e tornò subito a Londra.
Non voleva rimanere neanche un secondo di più in quel luogo.
Ormai, inevitabilmente, lo odiava con tutta l’anima.




La sera stessa incontrò Harriet al suo ristorante di Baker Street.
Lei aveva deciso di chiuderlo per un po' fin che John non si fosse ripreso del tutto e quella sera sarebbero stati tranquilli e soli a chiarire qualsiasi cosa c’era da chiarire. Sherlock arrivò alle sette in punto.
L’aria era dolce quella sera e sembrava che nulla potesse andare male.
“Ciao Sherlock. Prego, entra.”
Harriet lo disse un po' nervosa ma Sherlock cercò di non notarlo e si sedette  disinvolto al tavolo apparecchiato per due al centro della piccola ma accogliente sala.
C’era una bella luce soffusa e l’atmosfera era davvero gradevole.
L’arredamento era stile urban, molto giovanile e i tavoli scuri in legno facevano un bel contrasto con la modernità della sala dall’alto soffitto.
Baker street era silenziosa e l’aria della serata piacevole, tipica dei primi di settembre.
“E’ molto bello qui.”
Erano seduti l’uno di fronte all’altro.
“Grazie. Questo lavoro è l’unica cosa che mi fa sentire che sto vivendo la mia vita.”
“John mi ha detto la dedizione che hai per il tuo lavoro. Non pensavo che il giorno che sarei venuto qui sarebbe arrivato così presto.”
Sorrise un po', senza eccedere nella confidenza che sentiva quasi persa.
“Invece eccoci qui.”
Lei era serena ma non sembrava pronta a scusarsi per nulla e Sherlock non lo pretendeva neanche.
“Ho fatto preparare il tuo piatto preferito, zuppa di ceci e piselli. Me lo ha detto John. E poi il toast con una marmellata all’albicocca fatta in casa, personalmente.”
“Non dovevi darti troppo disturbo.”
“Si parla meglio con la pancia piena. Si è più felici.”
“Le origini italiane si fanno sentire.”
Si sorrisero e Harriet capì qualcosa, qualcosa che non aveva mai visto o provato: compassione.
Compassione per quel ragazzo solo e ancora dal volto scavato come lo aveva visto una settimana fa.
Era il segno che superare certe cose non  è per niente fattibile a venti anni e lei non poteva immaginare com’era.
Essere gentili e non prendere una presa di posizione era ciò che voleva fare per mettere pace e andare avanti.  
Il cameriere portò i piatti e mangiarono tranquilli, da amici.
Finito anche il toast il silenzio calò per un po'.
“Quindi, rimarrai chiusa per tanto?”
“Quando John tornerà insopportabile e testardo come sempre capirò che starà bene e riprenderò.”
Risero complici.
Entrambi conoscevano John così bene che percepivano che l’unico collante, l’unica ragione per parlarsi, accettarsi e forse un giorno volersi bene era proprio lui, quel ragazzo che amavano più di se stessi.
“La valigia è in macchina, vado a prenderla.”
“Ok.”
Gli rispose mentre sparecchiava con il giovane cameriere la loro tavola.
Andò in auto e prese la valigia.
La fissò per qualche secondo consapevole che non avrebbe dovuto fare quello che stava per fare ma lo fece lo stesso.
Prese il taccuino velocemente e lo infilò nella tasca all’interno della sua giacca nera.
“Eccola.”
Sherlock la poggiò ad una sedia.
“Perfetto. Grazie.”
“Di nulla. Allora io vado. E’ stata una cena eccezionale, ti ringrazio.”
Le porse la mano ma lei lo strinse a sé.
Per lei quello era un segno di pace, un voler far sentire a quel ragazzo che tutto era passato, che tutto sarebbe andato bene e che quei momenti si superano.
L’abbraccio fu lungo e Sherlock gli si abbandonò.
Chiuse gli occhi.
A volte parlare non risolve nulla, invece un abbraccio sì.
“Dagli tempo. John è…lunatico, prende tutto così seriamente e vuole accertarsi solo di non farsi vedere confuso e fragile. Vuole riprendersi con le sue forze, è un po' orgoglioso. Tutto qui.”
Lei si scostò e vide il volto di Sherlock più rilassato.
“Non lo giudicherei mai.”
“Lo so. Ma gli serve tempo. Solo tempo con se stesso. Non ha mai accettato certi lati del suo carattere e non è pronto a condividerli. Non vorrebbe mai farti impensierire anche se lo fa lo stesso, lo so, ma…Puoi rispettare questo?”
Lo chiese dolcemente.
Sherlock ascoltava cose a lui nuove, cose che non aveva preso in considerazione accecato dal bisogno di aiutare John, stargli vicino, amarlo.
Ma l’amore è anche fare un passo indietro, e aspettare il momento giusto per amare di nuovo.
“Certo. Certo che lo rispetto.”
Annuiva piano.
“Starai meglio anche tu, ne sono certa.”
Sherlock voleva solo andarsene e non rubare altro tempo a quella donna così materna e gentile nei suo confronti, così giusta e buona nei confronti del fratello e nei suoi ma si sentì di dire un’ultima cosa.
“E’ solo che mi manca, profondamente e in un modo che non avevo mai provato. Siamo stati lontani, ma ci sentivamo sempre. Ora…ora è diverso e siamo cambiati tanto. Io sono cambiato e lui è sempre stato così forte ma io…Scusami.”
Lo disse composto e con grande dignità, anche se negli occhi non poteva nascondere quanto era stanco di quella sensazione di mancanza che provava e quanto tutto ciò lo irritava; non poteva controllarlo.
“Va a casa, fai un bagno lungo e caldo. Ti aiuterà. Cerca di trovare te stesso. Voglio dire, cerca di fare quello che fa anche lui per il vostro bene: concentrarsi su come affrontare questo periodo e uscirne più forti come persone prima di tutto e poi come coppia.”
“Sembra un’impresa madornale.”
“Lo è ed avete solo venti anni, mio dio. Ma non siete i soliti ventenni, giusto?”
Harriet inclinò un po' la testa per incrociare lo sguardo fugace di Sherlock che si ritrovò a guardare quegli occhi così terribilmente simili a quelli di John.
“Giusto.”
“Andrà tutto bene.”
Si congedarono con un ultimo sincero saluto e quando salì in macchina Sherlock si sentì più leggero.
Sentire le parole di Harriet lo avevano come illuminato, calmato, rassicurato su cosa stava succedendo a John e a lui.



Guidò fino a casa e fece un bagno caldo.
Le candele profumate erano perfette e quasi si addormentò nella vasca.
Si infilò i boxer, si asciugò i ricci ribelli e si mise a letto.
Erano le dieci e sorrise.
Da solo, con il lenzuolo leggero sulla pelle nuda fino al naso, sorrise.
Lisa, Mycroft, il misterioso caso attorno al fratello che forse esisteva non sembravano avere più il potere di torturargli la mente e si disse che avrebbe dato tempo al tempo fin che le cose non avrebbero seguito il loro corso e si sarebbero fatte più chiare.
Era quello che si voleva convincere di fare anche se titubante e quasi divertito per aver pensato  ad una sciocchezza del genere, ovvero perdere interesse nel dare giustizia al fratello.
Poteva farlo?
Poteva ignorare tutto e fidarsi di Lisa fino a quel punto?
Lo voleva tanto.
Desiderava non avere quella responsabilità che sentiva come un ingiustizia personale.
E lo era in fondo.
Ancora combattuto, con la fronte ancora corrugata per questi pensieri, cerco di dormire per davvero, senza darsi un orario o dei progetti per l’indomani.
Seguire l’esempio di John e i consigli di Harriet era l’unica soluzione e l’unica risposta che aveva trovato.
Neanche il taccuino, che ancora giaceva nella giacca, lo impensieriva come prima.
Tutto avrebbe trovato il suo posto e il suo tempo, ne era sicuro.
Ora doveva concentrarsi su di sé.
Sentiva che ora doveva farlo da solo.
Ora capiva John.
Doveva diventare pienamente consapevole di ciò che sentiva.
Magari avrebbe scritto della musica non solo per John ma anche per se stesso.
Avrebbe finalmente messo in ordine la sua camera, i suoi libri e reso il suo lussuoso appartamento meno freddo e più suo.
Casa sua.
Avrebbe trovato il modo di andare avanti, lo avrebbe fatto per John e per i suoi genitori e per se stesso.
Non era tutto perso.
Era solo l’inizio.
Un inizio strano per lui, nuovo ma anche eccitante e probabilmente bello.
Un passo importante verso chi voleva essere.
O almeno ci avrebbe provato. 

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Capitolo 16
*** La vita (non) continua ***


Sorry di Hasley faceva da sottofondo mentre Sherlock era in sala a riscaldarsi, seduto di fianco alla sbarra.
Stava per iniziare  la prima lezione del suo secondo anno alla Royal Ballet School.
Era metà settembre.
Due settimane erano passate dall’incontro con Harriet e niente era cambiato in lui, pe rora.
Sono già chi voglio essere, si ripeteva ma voleva comunque vedere come sarebbe andata.
Tuttavia, aveva ragione.
Gettava occhiate in giro e sì, erano gli stessi ragazzi dell’anno scorso a cui non aveva mai rivolto la parola.
Poggiò la schiena al muro, gambe divaricate e chiuse gli occhi mentre ascoltava la seducente voce di quella cantante americana che ultimamente adorava.
Aveva gli auricolari e si sentiva dall’altra parte del mondo per un tempo indecifrabile fin quando un leggero tocco alla gamba lo fece sussultare.
“Dormito poco Sherlock?”
Il maestro Dallas gli sorrideva, curvo su di lui. Profumava di buono e gli occhi scuri del suo insegnante lo fecero quasi arrossire.
“Mi scusi.” disse piano e si alzò mentre gli altri erano già tutti in piedi al centro della sala.
Il maestro lo guardò un po' severo ma con un sorriso.
La lezione andò bene e per Sherlock era una salvezza aver iniziato così presto i corsi di danza perché quelli dell’università sarebbero iniziati un mese dopo, a metà ottobre, e stare senza far nulla era come sprofondare un’ inevitabile depressione, con o senza John.
Ma soprattutto ora che non aveva più John.
A fine lezione rimase da solo con Dallas per scusarsi ancora.
“Siamo appena tornati. Devi solo riprendere il ritmo.”
Sherlock annuì e fece per andarsene.
“Volevo farti le mie condoglianze per tuo fratello. Mi dispiace.”
“La ringrazio.”
“Se hai bisogno di tempo e vuoi saltare le prime lezioni puoi farlo, hai il mio permesso. Sei il miglior studente di questa scuola e non voglio perderti solo perché senti magari la pressione di questa circostanza. Molti studenti eccellenti non hanno retto e non voglio che succeda anche a te, okay?”
Gli aveva poggiato una mano sulla spalla.
Quell’affetto e comprensione gli fecero inevitabilmente piacere ma spiegò che se fosse rimasto a casa sarebbe stato peggio e non avrebbe retto per davvero.
“Venire a lezione, ballare è tutto per me. Mi salva e non voglio che lei si preoccupi più di tanto.”
Sorrise sincero.
“E se avrò bisogno di una pausa la prenderò.”
Aggiunse per rassicurare quell’uomo poco convinto che però rispettava la sua scelta.
Andò a fare la doccia.
Tutti i ragazzi erano già andati via e il grande bagno era silenzioso.
Solo l’acqua che scosciava su di lui gli faceva compagnia.
Tutto a quello a cui riusciva a pensare era che nessuno dei suoi colleghi, chiamarli amici era una pretesa decisamente troppo alta, gli si era avvicinato per dargli le condoglianze.
Eppure la notizia della morte di Mycroft Holmes era di dominio pubblico da tempo.
Non gli dispiaceva ma lo incuriosiva tanto quella indifferenza da parte di persone facenti parte di una certa élite che si supponeva rispettassero le convenzioni sociali. Invece niente. In fondo era abituato a non venir preso in considerazione al liceo, all’università e anche in Accademia.
Tutti lo vedevano come rivale e di certo lui non si sforzava di avere inutili, false amicizie.
Sospirò sciacquandosi un’ultima volta.
Si massaggiò piano nel basso ventre e avrebbe tanto voluto masturbarsi in quel momento, soprattutto per rilassarsi.
Si morse le labbra e resistette a quell’impulso.
Ma pensava a John.
Al corpo di John e a quello che avevano fatto con i loro di corpi quelle due notti quasi un mese fa.
John mentre ansimava dietro di lui.
Strinse per un po' nella sua mano la durezza che gli implorava di farla muovere ma chiuse l’acqua e uscì dalla doccia mettendosi velocemente un asciugamano alla vita. Ora che aveva provato il sesso il suo corpo era cambiato, come ravvivato e ogni tanto richiedeva attenzioni che quella volta ignorò.
Si asciugò in fretta i capelli e andò a pranzo.
Controllava le mail, gli orari delle lezione che avrebbe dovuto seguire all’università, i libri che gli sarebbero serviti; fece di tutto per non avere la mente piena di John.
“Ehi, posso?”
Alzò lo sguardo dal suo sandwich e vide un ragazzo dal viso familiare.
Non ne conosceva il nome ma era in sala con lui poco prima.
Il piccolo tavolo a cui era seduto poteva ospitare un’altra persona e un ‘no’ non poteva affatto dirlo quindi annuì.
“Sherlock Holmes.”
“Sì.”
Il ragazzo, scuro di capelli e con occhi nocciola, quasi ambra, gli sorrise per poi tornare serio.
“Volevo solo dirti che mi dispiace per tuo fratello.”
Sherlock ingoiò a fatica e lo ringraziò.
“Sono Richard. Richard Linèll.”
Si strinsero la mano.
La nuova conoscenza fece per alzarsi ma Sherlock lo fermò.
“Puoi pranzare qui. Non mi dai molto fastidio.”
Richard corrugò la fronte.
“Non molto fastidio. Bene. È un inizio direi.”
Sherlock sorrise reggendo lo sguardo dolce di quel ragazzo che aveva attaccato bottone e che voleva provarci.
Sherlock lo capì immediatamente e chiarì le cose come era sempre abituato a fare.
“Sono fidanzato e amo il mio ragazzo… non so neanche quanto. Sono felice che hai avuto il coraggio e la gentilezza di parlarmi e farmi le condoglianze per mio fratello ma non ho bisogno di nessuno in questo momento quindi, anche se”
“Frena, frena. Ma parli sempre così tanto?”
Aveva un sorriso luminoso, bellissimo, che incorniciava alla perfezione quel volto ovale dalla carnagione scura.
Sherlock si gelò di fronte a quella sicurezza che Richard mostrava.
“Stiamo solo pranzando insieme, non ti ho ancora chiesto di sposarmi.”
Prese una forchettata di insalata dal contenitore che aveva di fronte e disinvolto continuò a mangiare.
Sherlock non sapeva cosa fare, cosa rispondergli.
Era il secondo ragazzo in vita sua a mostrargli interesse ed era una situazione che gli procurava piacere ma anche fastidio quasi.
Finì il sandwich velocemente e decise di sciogliersi.
In fondo si era ripromesso di vivere un po', senza frenarsi.
Doveva lavorare su se stesso e vide Richard come un ottimo inizio per migliorare il suo lato asociale. Inoltre, John doveva sparire dalla sua mente.
Era insopportabile.
“Vivi a Londra?” chiese.
“Sì, da sempre.”
“Ma hai origini sud americane.  Cubane?”
Richard rimase con la forchetta a mezz’aria.
“Come…lo sai?”
“Odio quando me lo chiedono.” Disse scocciato, ma si rammentò di dover avere pazienza.
“Sono molto intuitivo, mettiamola così. E poi i tuoi lineamenti bastano, non credi?”
Il ragazzo sorrise ancora sorpreso e annuì soltanto.
“Mio padre è di Cuba e lavora lì. Mia mamma ed io siamo venuti qui a Londra per lavoro. Lei  è co-responsabile di una casa di moda molto importante.”
“Interessante.”
“Sì, direi che Chanel è interessante.”
Sorrideva sempre, ancora. Sherlock guardando quelle labbra carnose così felici si sentì così positivo.
Non gli capitava da mesi.
“Wow.” Disse.
“Già. Niente male.”



Continuarono a parlare dell’Accademia, delle lezioni e dei maestri che proprio non sopportavano, degli esami e del fatto incredibile che Sherlock riusciva anche ad andare all’università e non un’ università qualsiasi e sicuramente non frequentava corsi qualsiasi.
“Riesci  a dare gli esami anche all’università? Sei un genio allora.”
Richard lo disse veramente colpito.
“Quest’anno sarà sicuramente più impegnativo ma sì, gli esami li darò sicuramente.”
Parlarono per una buona mezz’ora che a Sherlock sembrò piacevolissima e lo fu davvero.
“Non voglio sembrare inopportuno ma… la morte di tuo fratello ha sconvolto mezza Inghilterra. Eppure sei qui a parlare tranquillamente con me.”
“E’ troppo strano? Pensi l’abbia ucciso io?”
Le labbra si curvarono in un piccolo sorriso, ma lo disse con tono serio.
“No, no. Non intendevo questo. Ho solo pensato che si deve essere terribilmente forti per essere così, per superarla come hai fatto tu.”
Sherlock abbassò gli occhi e disse:
“Sono cresciuto in un ambiente molto particolare. Mio fratello era molto particolare. Io stesso… lo sono.”
La tensione che gli procurò quella sorta di ammissione apparve sul suo volto.
Le maestre da piccolo avevano sempre detto ai genitori che lui era così e finì a pensarlo su serio.
“Non penso tu sia particolare, non in senso negativo. Eccezionale, intelligente, brillante, la promessa del mondo della danza, sexy, affascinante… questo sì ma sei solo un ragazzo a cui sono successo troppe cose e troppo in fretta.”
Alzò lo sguardo su Richard e fu felice di vedere ancora un volta il suo sorriso.
“Penso tu sia abituato ai complimenti, non fingerti sorpreso.”
Richard bevve un sorso di tè freddo reggendo lo sguardo di Sherlock che pensò a quanto gentile con lui era quel ragazzo dai lineamenti inconfondibili.
“Non li sento spesso, non da bei ragazzi come te che tentano di conoscermi.”Ammise Sherlock.
Non capiva perché, ma sentiva di voler essere sincero e non poteva nascondere a se stesso che quel ragazzo gli piaceva.
Molto.
“E tu vuoi conoscermi meglio?”
Lo disse a bassa voce, sporgendosi verso Sherlock con tutto il fascino che era in grado di sfoderare.
Gli occhi penetranti di quel color tramonto mozzarono il fiato a Sherlock che rimase con le labbra socchiuse cercando una risposta da dare.
Poi Richard esitò un attimo e disse:
“Hai il ragazzo, lo so, ma è più forte di me.”
“No, va bene. Non sentirti in colpa. Va bene.”
Andava bene?
Davvero?
Cosa stava dicendo?
John non si era fatto sentire dall’ultima loro discussione in ospedale ad agosto e anche se lo amava, non voleva lasciare andare Richard e quello che poteva provare con lui.
“Tradiresti il tuo ragazzo?” chiese curioso e Sherlock voleva tanto spiegargli tutto.
Quanto tutto era complicato.
“Siamo in un periodo in cui lui ha bisogno di un po' di normalità. Ci stiamo dando del tempo, ecco.”
“Ti reputi libero quindi?”
Sherlock sorrise.
“Sei sempre così insistente con i ragazzi?”
“Con quelli per cui ne vale la pena, sempre.”
“Sei bravo a flirtare. Davvero bravo.”
“Non hai risposto.”
Sherlock scosse la testa. Sentiva un calore nella pancia, un desiderio strano che altro non era lo stesso che aveva provato poco prima nella doccia.
 “Mi reputo responsabile, maturo e capace di prendere decisioni e capace di chiarire qualsiasi cosa con la persona che amo se mai mi capitasse di avere qualcuno come te a disposizione.”
“Ottima risposta, Sherlock.”
Richard si morse il labbro inferiore e Dio solo sa dove Sherlock trovò il coraggio per portarlo a casa sua quel pomeriggio.



Erano appena le tre e si ritrovarono a baciarsi contro la porta di casa nel lussuoso appartamento di Sherlock.
Richard stava con le spalle contro la porta e Sherlock gli stringeva la vita mentre lo baciava piano, profondamente.
Si guardarono per un attimo e gli occhi del cubano diedero un’occhiata in giro.
“Mio dio, qui è stupendo. Quella vetrata è spettacolare tanto quanto la vista su Londra.”
Sherlock non lo fece neanche finire di parlare che lo prese per il polso e lo portò in camera sua.
Tra i baci, si spogliarono velocemente gettando i vestiti a terra senza farci troppo caso.
Sherlock poggiò le mani sui pettorali scolpiti del ragazzo e lo buttò sul letto.
“Da quanto non fai sesso?”
Sherlock salì su di lui, sedendosi su quel ventre piatto e morbido.
“Troppo.” rispose.
Gli prese il viso tra le mani e lo baciò ancora su quelle labbra carnose e poi giù, sul collo.
Richard strinse tra le mani i glutei perfetti e rotondi di Sherlock.
I loro corpi sfregavano l’uno contro l’altro, due corpi scolpiti, da ballerini perfetti, armoniosi, uno più bello dell’altro.
Un corpo asciutto ma dai muscoli delineati e dalla pelle chiarissima, il corpo di Sherlock.
L’altro più muscoloso, forte, dalla pelle scura come formata dal sole forte del Sud America da cui proveniva.
“Dio mio, le tue labbra.”
Sussurrò Richard mentre le labbra di Sherlock lo baciavano sui pettorali, stringevano i suoi capezzoli tra di esse e scendevano fino alla pancia e più giù mentre
la pelle scura si ricopriva di brividi di piacere.
Richard si portò una mano tra i capelli li strinse.
Aveva gli occhi serrati, la bocca aperta.
Sherlock gli piegò le gambe per avere meglio accesso alla parte in cui di lì a poco avrebbe messo le sue labbra, la sua lingua.
Gli piaceva, lo faceva impazzire far godere Richard in quel modo.
Ne aveva bisogno.
“Sì, sì, sì.”
Era tutto quello che diceva mentre le labbra di Sherlock stringevano, baciavano e poi stringevano ancora, su è giù, su e giù.
“Sherlock…”
Quel nome uscì come una preghiera, una richiesta esplicita.
La lingua di Sherlock si spostò continuò ad andare più a fondo.
“Ah… mio dio!”
Richard lo urlò quasi.
La bocca di Sherlock strinse di nuovo tra le labbra quello che desiderava, che cercava  e continuava  a muoversi, su e giù, all’unisono con la sua mano su se stesso,
tra le sue gambe.
Si stringeva con la mano mentre stringeva Richard con la bocca.
Era come una danza, era bellissimo e gli mancava.
“Sherlock sto per venire…” biascicò Richard ma Sherlock continuava, veloce, e senza smuoversi ingoiò tutto.
Richard strinse le lenzuola tra le mani, gli addominali gli si contrassero fortissimo e la fronte era imperlata di sudore, come quella di Sherlock che inevitabilmente sentì il suo liquido caldo nella sua mano.
Entrambi respiravano a fatica, inebriati dall’orgasmo appena avuto.
Sherlock rimase per qualche minuto tra le gambe di Richard, continuava a baciarlo, e poi si sollevò.
Guardò Richard ancora con gli occhi chiusi, ansimante, sotto di lui.
Lo baciò sulle labbra, ancora un po' sporco.
Richard accolse la lingua di Sherlock e la sostanza che rese il bacio umidissimo, caldo.
Tutto quello sembrava essere durato un’eternità, un piacere infinito.
"Sherlock. Mio dio.”
Sherlock sorrise.
Era ancora su di lui. I loro corpi erano caldi e volevano di più.
Entrambi lo percepivano.
C’era un feeling tra di loro pazzesco e nessuno lo poteva negare.



“Hai la stessa faccia di John.”
“John?”
“Il mio ragazzo.”
Richard rise.
“Parli del tuo ragazzo quando hai appena fatto ciò che hai fatto ad uno sconosciuto.”
“Hai la stessa beatitudine scritta sul volto.”
Sherlock si abbassò e piano scivolò al suo fianco.
La sua guancia sulla spalla forte di Richard e la mano ad accarezzargli il petto.
“Sei molto dolce, Sherlock.”
Richard si voltò verso di lui e gli prese il meno tra le dita per sollevarlo.
Guardò quegli occhi verde-azzurri, incredibili, e quelle pupille scure dilatate.
“Posso fare qualcosa per te ora? Vorrei tanto farlo.”
Gli sfiorava le labbra nel parlare e Sherlock avrebbe tanto voluto resistere e non avere un rapporto con quel ragazzo perché se lo avesse fatto, tutto sarebbe cambiato tra lui e John.
C’era una linea sottile che non sapeva se era pronto a varcare.
“Richard…”
Si tirò su e si poggiò su un gomito.
“John è stato l’unico che ho avuto, il primo e sarà sempre l’unica persona con cui farò l’amore.”
Richard si portò le mani dietro la testa e sospirò.
“Non la vedo una cosa tanto brutta se lo facessimo. E’ sesso. Non ti piacerebbe avere un’altra esperienza, con qualcuno di nuovo?”
Si voltò per incrociare il volto un po' titubante che lo fissava.
“Smettila di tentarmi.”
“Non ti chiederei di più. Mi andrebbe bene anche se dopo questa volta non accadrà più, sai? Vorrei solo rimanere tuo amico, un amico con cui ho fatto una bella esperienza.”
“Quindi…”
Sherlock pensò bene alle parole da dire.
“…sai distinguere perfettamente tra amore e sesso?”
“Sì”
Lo sguardo di Richard era rilassato, fisso sul soffitto.
“E lo sai fare perché non hai mai provato amore.
Non ti sei mai innamorato per questo ti viene così facile parlare così e accontentarti di un po' di sesso.”
Il tono di Sherlock non gli piacque molto.
“Anche fare solo sesso implica avere delle emozioni. Se non fossimo attratti l’uno dall’altro non saremmo qui. E guarda che l’ho fatto solo per te. Mi mangiavi con gli occhi e avevi solo bisogno di sfogare la tua voglia di sesso. Ammettilo. Che poi neanche lo abbiamo fatto!”
Si alzò piano e rimase seduto con lo sguardo basso.
“Non volevo irritarti. Non sono bravo in questo.”
Gli disse sincero Sherlock e Richard scosse la testa.
“Non sei stato tu, è stata la verità delle tue parole. Però quello che ti ho detto è vero e non ammetto obiezioni.”
“Lo so, hai ragione. Se non mi fossi piaciuto non avrei fatto quello che ho fatto. Mi sei sembrato un bravo ragazzo. Sei stato davvero carino.”



Sherlock era steso e vedeva solo la schiena larga e liscia di Richard.
Non sapeva bene perché ma si sentiva in debito con quel ragazzo in quel momento.
Avrebbe dovuto concedergli qualcosa di più e anche lui, nel profondo, voleva concederglielo.
“Ehi.”
Disse piano Sherlock.
Il ragazzo, con il volto un po' teso si voltò e vide Sherlock a pancia in giù, con la gamba destra piegata in un posa al quanto provocante e che non lasciava spazio all’immaginazione.
Richard rise divertito ma anche inevitabilmente eccitato.
“Sul serio?” chiese.
“Togliamoci il pensiero. Così da oggi in poi non ci sarà imbarazzo, non trovi?”
“Devi dirmi che lo vuoi.”
Richard si poggiò su di lui, delicatamente.
La sua erezione premeva contro la schiena di Sherlock.
“Certo che lo voglio.”
“Sicuro?”
Iniziò a baciare quella pelle chiara, quasi con la paura di spingere troppo le labbra che avrebbero lasciato un segno rosso troppo marcato.
Sherlock chiuse gli occhi.
Spinse il bacino contro Richard chr si avvicinava sempre più alla meta.
Morse il sedere di Sherlock che si lasciò scappare un verso di piacere.
“Sicurissimo.”
Rispose, e si lasciò in balia di quel ragazzo forte che con cura lo preparava a ciò che lo aspettava.
Sherlock sentiva quelle dita ferme ed esperte e l’altra mano lo stringeva alla vita.
“Mio dio…” disse e Richard fu compiaciuto di aver convinto Sherlock a farlo.
“Non te ne pentirai.”
Fu l’ultima cosa che dissero e poi si lasciarono travolgere da una passione giovane, sicura, che non li lasciò per parecchio tempo.
Continuavano a muoversi, a volersi ad ansimare e sudare.
Richard era baravo, Sherlock non poteva non pensarlo mentre quel ragazzo si muoveva dentro di lui come mai John lo aveva fatto.
“Sherlock…” ripeteva Richard, dolcemente.
Fu bellissimo per entrambi.
Nuovo per Sherlock.
Richard gli teneva le spalle ferme, poi gli massaggiava la schiena.
Ancora gli teneva le cosce e non risparmiava nessun centimetro della sua pelle.
Ogni tanto si abbassava per baciarlo e incontrava  le labbra di Sherlock, calde e rosse per i morsi che non tratteneva, ed era piacevolissimo stringere quelle labbra perfette tra le sue.
Non voleva fermarsi, avrebbe continuato ancora e ancora a sprofondare in quel corpo chiaro, un po' rosso qui e lì per le sue strette.
Sherlock stringeva ancora le lenzuola e non faceva altro dire di sì, sì, e ancora sì.
Dopo l’ultima spinta, dopo i diversi orgasmi e baci e strette, Richard si buttò sul letto al suo fianco, con i muscoli delle braccia che gli tremavano un po' per la tensione. Sherlock era ancora a pancia in giù con il volto sprofondato nel cuscino che spostò velocemente per prendere una bella boccata d’aria.



“Oddio…” disse.
Respirava a fatica.
Le dita un po' gli dolevano per aver stretto troppo le lenzuola e le mani di Richard che ogni tanto afferrò.
Gli doleva anche altro, inevitabilmente.
Ma il piacere provato sovrastava ogni dolore.
Dopo qualche minuto, giusto il tempo che servì ad entrambi per riavere un battito regolare, Sherlock si mise su un lato, sorridendo a Richard che aveva sul volto un’espressione soddisfatta.
“Dalla tua espressione deduco che non c’è il bisogno di dirti quanto sei stato…”
A Sherlock effettivamente mancavano le parole.
“Prego.”
Si limitò a dire gentilmente Richard, che chiuse gli occhi. Poi, ci fu un silenzio strano.
Richard era rilassato, stava riposando ma Sherlock si sentì un po' fuori luogo.
Si alzò e andò in bagno a farsi una lunga doccia.
Aveva appena fatto sesso con un figo pazzesco.
Fu bello, molto, pensò sorridendo.
Ma…
Il sorriso svanì all’improvviso. C
hiuse l’acqua e rimase in  piedi, con le mani poggiate alle mattonelle blu scuro a fissarsi i piedi.
Ma… cosa?
Possibile che non era fatto neanche per una scopata e basta?
Tutto quello che sapeva è che pensava a John.
Punto.
Senza neanche provarci, pensava a John.
A John che non era nel suo letto ad aspettarlo.
C’era, invece, un ragazzo bellissimo e gentile che gli aveva fatto passare due ore in paradiso.
Ma ora era di nuovo sulla terra, con la sua vita reale e il cuore a battere forte pensando a John.
Quando uscì dal bagno Richard ancora dormiva.
Erano le sei circa e controllò il cellulare.
Nessun messaggio, nessuna chiamata.
Un po', per assurdo, avrebbe voluto che John sapesse quello che aveva appena fatto solo per sentirlo.
Lo avrebbe chiamato e, incazzato, gli avrebbe detto che sapeva di Richard e che voleva parlarne.
Si sarebbero incontrati, avrebbero risolto la faccenda, avrebbero risolto tutto  e avrebbero fatto l’amore.
Non il sesso che gli aveva dato Richard ma l’amore che gli avrebbe dato John  mentre facevano sesso; questo Sherlock voleva.
Perché aveva capito come mai prima che c’era un abisso tra le due cose.  
Si vestì con poca voglia e all’improvvisò vide Richard sveglio.
“Ehi.”
“Ehi.”
Si alzò piano dal letto e andò a farsi una doccia.
Anche lui si vestì piano e infilandosi le scarpe disse:
“Ora vado. Si è fatto abbastanza tardi.”
Si alzò e andò verso Sherlock che era poggiato alla sua scrivania.
Richard gli afferrò la vita con le mani e stava per baciarlo ma Sherlock si scostò.
“Tutto…okay?”
Richard si allontanò e percepiva un imbarazzo senza senso.
“Sì. Ma evitiamo certe cose. E’ stato solo sesso.”
Non lo disse particolarmente seccato ma neanche entusiasta.
Si avviò in cucina e Richard lo seguì.
Aprì la porta di casa e con un piccolo sorriso augurò la buona serata al ragazzo moro che non poco deluso gli fece solo un cenno con la testa.
“Spero che tu e John sarete felici.”
Lo disse senza neanche voltarsi, con tono calmo, per poi sparire nella penombra delle scale.
Sherlock non aveva forze per rispondergli né voglia di parlare e chiuse la porta alla sue spalle.
Sospirò profondamente appoggiandosi ad essa e sentì tutt’a un tratto una stanchezza provenirgli dal profondo delle ossa.
Tolse le lenzuola sporche dal letto, le buttò in un angolo della stanza e si distese.
Sentiva tutto il corpo rilassato, con ancora le endorfine a scorrergli nel sangue ma era sfinito.
Quasi annoiato ormai.
Dormì profondamente.



Al suo risveglio, dopo che la sveglia delle sette in punto suonò, si preparò in fretta per andare in Accademia.
Non sapeva cosa dire nel caso in cui Richard si fosse fatto avanti per cercare chiarimenti, perché lo avrebbe fatto, e allora pensò che ci avrebbe pensato al momento.
Un po' quell’ansia gli ricordava come non avrebbe mai funzionato con nessun altro se non con John.
Poteva sforzarsi di stare con chiunque ma l’effetto di noia e delusione che avrebbe provato dopo non sarebbe cambiato.
Entrato nello spogliatoio notò che i ragazzi stavolta lo guardarono al suo passaggio.
Si mise la calzamaglia che lasciava i polpacci sempre più scolpiti liberi e una canotta nera.
Messe le scarpette non riuscì più a star zitto.
“C’è qualche problema?”
I ragazzi, dopo le risatine, si fecero seri.
Uno di loro si avvicinò a Sherlock e gentilmente gli porse la mano presentandosi e poi aggiunse:
“Siamo solo invidiosi.”
Indicò con l’indice il suo collo.
Piano tutti uscirono e Sherlock si avvicinò allo specchio e capì di cosa stavano parlando.
Aveva dei lividi sul collo e i segni evidenti di un morso sulla spalla.
Sospirò quasi divertito.
Poi, fissandoli di nuovo, si incupì.
Gli davano fastidio.
Non ne era felice o fiero e neanche essere invidiato per quello lo faceva sentire meglio.
Si cambiò e mise la maglia  a maniche corte con cui era uscito, abbastanza accollata da coprire tutto.
Lo fece solo per non far notare i segni al maestro.
Dei ragazzi, se ne fregava altamente.
In sala nessuno più lo guardava o sembrare fare caso a lui.
Era tutto normale insomma.
Si avvicinò alla sbarra, ci poggiò sopra l’asciugamano e poi alzò la gamba per poggiarci il tallone e riscaldarsi.
La schiena gli faceva un male cane.
Sentiva una fitta poco sopra il sedere e sapeva benissimo che la colpa era solo di Richard e del tempo perso in quella posizione assurda per più di un’ora.
Tentava di non fare troppe smorfie di dolore ma era inevitabile e pensò di passare per quel giorno e tornare a casa a dormire un altro po'.
Il maestro non avrebbe fatto neanche storie.
“Non riesci a tener dritta la schiena. Vuoi un massaggio?”
La voce bassa e un po' esitante di David, così si chiamava l’uomo che si occupava dei massaggi e della fisioterapia dei ragazzi lì in Accademia, lo fece sobbalzare quasi, essendo concentrato a non sentire il dolore.
Sherlock abbassò piano la gamba.
“No, non credo sia niente di grave. Ieri ho solo…fatto uno sforzo che non avrei dovuto fare.”
Azzardò un sorriso.
“Comunque sono qui per prendere gli appuntamenti. Ho un buco di un’ora tra le cinque e le sei. Sai dov’è la sala massaggi.”
David si congedò lo sguardo basso sulla sua agenda e Sherlock avrebbe volentieri usufruito delle mani magiche di quell’uomo che l’anno scorso lo aveva aiutato a superare parecchi dolori muscolari in quanto a quel tempo era al suo primo anno ed era anche di due anni più grande di tutti e il suo fisico non rispose bene all’ improvviso sforzo fatto.
Tutti gli altri allievi avevano fatto danza sin da bambini mentre lui aveva preso lezioni private sporadicamente durante la sua infanzia.
Durante l’adolescenza andava  a lezione un paio di volte al mese, per sfogarsi.
Notò che la danza classica, il suo vigore, l’impegno che ci doveva mettere per raggiungere un buon risultato e lo sforzo che richiedeva erano l’unico modo per non impazzire, tener bene occupata anche la mente e non fare cose di cui se ne sarebbe pentito.
Era la sua vocazione.
La danza lo aveva salvato e a diciannove anni era riuscito ad entrare in quella prestigiosa Accademia anche se aveva meno esperienze di tutti.
Eppure era il migliore, in assoluto.
Anche per questo non gli rivolgevano la parola, per pura rabbia e invidia per quell’essere così perfetto e nato per quel destino.
Per ballare.
Mentre loro, anche se avevano ballato da sempre, sudato da sempre e sforzato il loro fisico da sempre, non erano al livello di Sherlock.
Sherlock era sempre un passo avanti, aveva sempre quella scintilla che lo rendeva magnifico.
Il maestro Dallas entrò in sala e calò un religioso silenzio.



Dopo cinque ore erano liberi di andare e Sherlock non si era mai sentito così a pezzi.
Non aveva dato il meglio di sé per colpa della schiena e non poteva negarlo, anche per colpa della sua mente che quella mattina proprio non voleva collaborare, ma il maestro non glielo fece notare e Sherlock sapeva che non lo aveva fatto per via del suo lutto.
La verità è ben altro caro maestro, pensò.
Andò a casa, mangiò e dormì tutto il pomeriggio.
Le ore passavano e la sua casa non gli era mai sembrata così silenziosa prima di quel momento eppure viveva lì da due anni, da solo.
Sempre.
Ma il vero silenzio era dentro di lui.
Il vero vuoto era dentro.
Quella sera cenò dai genitori e li rese davvero felici per la sua presenza.
Dopo aver mangiato, raccontò loro di John e di quello che era successo.
La madre gli disse di rispettare la scelta di John e il padre fece praticamente da eco.
Erano seduti nel grande salotto a mangiare la crostato di miele fatta dalla Signora Holmes.
“Io lo rispetto, davvero. Voglio solo che sia felice e quelle cose lì. Ma io? Ciò che provo io davvero non gli interessa.”
Sherlock si buttò sul divano e chiuse gli occhi.
“Non penso tu voglia fare la vittima ma ti comporti da tale. Siete maturi, anche troppo per la vostra età e non penso che lamentarti ti faccia bene.”
La voce scura del padre lo fece sbuffare.
“Se chiedessi a tutta Londra cosa fare, ho come la sensazione che avrei sempre la stessa risposta: che devo rispettarlo.”
  Disse Sherlock calmo, quasi pentito di aver detto tutto ai genitori.
Il discorso su John finì così, con quella frase di Sherlock.
Il Signore e la Signora Holmes non volevano dirgli molto.
Sapevano che quei due erano fatti l’uno per l’altro e videro che il figlio si confidò solo per buttare fuori quello che aveva dentro.
Per il resto sapevano che Sherlock avrebbe affrontato tutto nel migliore dei modi.
Non era una certezza, ma l’amore lo era.
E l’amore avrebbe prevalso su tutti i problemi.
Sherlock tornò a casa sua e si preparò un tè caldo.
Appezzò il relativo silenzio dei suoi genitori e la loro comprensione e intuito sul fatto che lui non aveva bisogno di grandi consigli ma solo di essere ascoltato.
Si sedette sulla poltrona di fronte alla sua alta vetrata per contemplare la notte su Londra.
Ciò che provo io davvero non gli interessa.
Aveva detto questo ma non ci credeva fino in fondo.
John aveva attenzioni che neanche la madre aveva mai avuto.
John non gli toglieva mai gli occhi di dosso.
Lo guardava con quegli occhi blu e gli faceva capire cos’era importante.
Come un fulmine a ciel sereno, gli apparse l’immagine del taccuino custodito ancora nella sua giacca nell’armadio.
Lo prese subito, ovviamente.
Non poteva ignorare la sua presenza ormai.



Una volta preso, tornò a sedersi sulla sa poltrona e incrociò le gambe.
Girava e rigirava il piccolo quaderno tra le mani.
John era così geloso di quelle pagine e fra poco stava per scoprire il perché.
L’unica certezza che aveva era che conteneva qualcosa su di lui.
Lo pensò da sano egoista qual era ma era la verità perché sulla prima pagina, proprio come una dedica prima di un libro, lesse :
“Alla  mia sola ispirazione.
” La girò e al centro della seconda, scritto sempre  a mano nell’elegante calligrafia tipica di John, c’era semplicemente il suo nome.
Sherlock.
Sfogliò delicatamente quelle pagine e c’erano dei disegni del suo volto, dei particolari del suo volto, delle sue labbra e di suoi occhi.
Il suo profilo rilassato riempiva un’intera pagina e i dettagli dei suoi ricci erano incredibili.
Erano tutti disegni in bianco e nero, fatti con una penna a gel.
Erano precisi e verosimili in modo pazzesco.
Lui si riconosceva perfettamente ed era qualcosa che lo commosse.
Provava un calore al cuore dolcissimo.
Pensava alla dedizione e alla cura che John aveva riservato a quelle pagine ma soprattutto a quanta attenzione aveva messo nel guardarlo per avere dei disegni di questo genere come risultato, così sinceri e reali. John lo faceva molto e Sherlock capì solo ora perché; lo fissava per riuscire ad imprimerlo su carta e renderlo immortale.
Al centro di ogni pagina, in alto, c’era anche la data del giorno in cui aveva disegnato.
La prima era pochi giorni dopo il primo incontro al liceo e John aveva disegnato il suo volto che ora gli appariva incredibilmente giovane e spensierato.
Il suo stesso sguardo lo fissava dritto negli occhi ed era uno sguardo duro ma anche ammaliante.
Sì, era lui.
Era proprio come guardò John quella volta in biblioteca per la prima volta.
Rimase senza parole, senza un pensiero logico e senza abbastanza complimenti che avrebbe voluto fare a John in quel momento.
Poi, si accorse che non disegnava assiduamente e che le date erano molto lontane tra loro.
Il penultimo disegno, che gli fece quasi un male fisico da guardare, era del suo volto rigato dalle lacrime che sembravano vere gocce cucite sul foglio.
Proprio al centro della pagina, c’era il suo viso, i suoi occhi serrati e le sue labbra socchiuse.
Pochi ricci ad incorniciargli il viso.
Era fatto a matita e le ombre che incupivano la sua espressione erano molto marcate.
Riconosceva bene se stesso in quello stato.
Sapeva com’era perché lo sentiva e anche senza data, avrebbe capito che era il ritratto di se stesso nell’ultimo giorno di liceo, quando dopo il veloce bacio rubato a John pianse senza controllo e senza dire nulla, corse via.
Era un disegno doloroso da vedere, che incuteva una tristezza tangibile e pensò a quanto peggio fosse stato per John disegnarlo per liberarsi di quell’immagine così perfettamente impressa, come una scultura, nella sua mente.
Doveva essere per forza così.
Sherlock rimase per parecchio a fissarsi su quella pagina realizzando che non si era mai visto piangere in quel mondo.
Mai.
Non poteva credere che quelle esatte lacrime potessero riscendere eppure lo stavano facendo proprio in quel momento.
Se le asciugò e guardò per un po' il cielo blu notte per calmarsi.
All’ultima pagine, invece, si ritrovò a sorridere.
Era sempre lui, stavolta non solo il viso ma tutto il busto, chino, intento a reggere una di quelle lastre dove le api facevano il miele.
Aveva il tipico copricapo protettivo e un sorriso sulle labbra, il tipico sorriso profondamente felice quando si prendeva cura delle sue amate api.
Il suo profilo era ben definito dal tratto scuro della penna come le api di diversa dimensione che lo accerchiavano.
Era davvero bello.
John lo aveva disegnato quel pomeriggio di agosto al cottage, proprio quando Sherlock rivide quel taccuino dopo anni ed ora sapeva cos’era, cosa conteneva e ne era felice.
Ma si sentì in colpa per aver spesso pensato che John non voleva fargli vedere mai nulla di quello che disegnava per una sua reazione e giudizio negativo, troppo schietto, come era il suo solito. Invece, custodiva la sua arte e quel taccuino come un segreto semplicemente perché sarebbe stato quello la prima e più bella cosa che voleva far vedere a Sherlock.
L’opera d’arte migliore che aveva mai realizzato.
Solo per lui.
Stese le gambe e la sensazione di mancanza che lo accompagnava da tempo era più presente che mai.
Metà delle pagine erano ancora vuote ma sfogliandole notò tra di esse una piccola foto in bianco e nero.
La prese con le dita tremanti.
Era lui, ancora una volta, con il volto appoggiato al petto di John di cui non si vedeva la faccia ma solo il mento e le labbra sottili strette in un sorriso, in alto alla fine della foto, e la mano che stringeva la spalla e il corpo di Sherlock al suo.
Sherlock dormiva e aveva il braccio rilassato sulla pancia di John.
Le lenzuola li coprivano fino alla vita, dove finiva la foto in basso.
Era della prima volta che avevano fatto l’amore perché dopo la seconda volta Sherlock non si addormentò con lui, troppo incredulo dalla meraviglia che aveva appena vissuto.
Si vide così rilassato per la prima volta in quella foto.
Era stretto da quel braccio forte e quasi ne sentì il calore.
Ero così al sicuro in quel momento, pensò.
Ero a casa.
Rimise la foto dove l’aveva presa.
Chiuse il taccuino con l’elastico rosso e lo strinse al petto.
Non aveva più intenzione di stare a sentire nessuno se non se stesso, come aveva sempre fatto.
Lui sapeva già chi era.
Sapeva cosa voleva.
Sapeva chi amava.
Non doveva capire nient’altro e nient’altro era più importante.
Allora perché tutti gli dicevano di aspettare?
Fermarsi e vivere.
Trovarsi e vivere.
E quale vita? 
La sua vita?
Ma la sua vita non continuava.
Era ferma all’ultimo sguardo di John.


Settembre passò.


Sebbene era deciso su cosa fare, lasciò che i giorni passassero per riprendere le forze e ingranare con le lezioni in Accademia dove vedeva Richard ogni giorno.
Non c’era molto da dire ma quando parlarono lui si scusò per la freddezza mostrata e per avergli negato quel bacio.
Richard sorrise e gli disse solo che sperava dal profondo del suo cuore che lui e John potessero ritrovarsi e mai più lasciarsi.
“Come so che vi amate così tanto? Abbiamo avuto tre conversazioni quel giorno e menzionasti John in tutte e tre. Pensavi solo a lui, sempre. E una persona innamorata la riconosco, credimi.”
Lo vide prendere velocemente il bus e da quel giorno divennero amici.
Sherlock non pensava fosse possibile, eppure in Accademia parlava con lui, passava a volte i pomeriggi al parco a leggere in silenzio mentre Richard si godeva il sole ed era felice, per davvero.
Questo gli diede una sicurezza che non aveva mai avuto.




A metà ottobre iniziarono anche i corsi all’università.
Dopo una settimana già doveva rimanere la notte sveglio per studiare ma reggeva il ritmo.
Era il ventidue ottobre.
Tre del mattino.
Faceva freddo e aveva un plaid che lo avvolgeva mentre , seduto alla sua scrivania in camera da letto, ricopiava gli appunti di chimica presi in laboratorio quel pomeriggio.
Finì e si stiracchiò un po'.
La sua vita stava andando avanti, senza John, e ogni cosa che faceva sembrava lontana da lui.
Come se accadesse solo a un parte di lui, quella forte e con una forza i volontà senza pari.
Ma l’altra parte era altrove, con un buco al suo centro e con la consapevolezza che l’unica soluzione per colmarlo era John.
Poteva fare qualsiasi cosa, svagarsi con Richard, ballare per ore e sentirsi bene, studiare e fare le faccende di casa, fare la spesa, mangiare, vestirsi.
Era diverso senza John.
Gli dava la sensazione come se fosse sempre tutto un po' sbagliato.
Spense la luce, si mise a letto.
Controllò il cellulare ma né Lisa ne Harriet si fecero vive.
Neanche John.
Si erano tutti dimenticati di lui?
Non era più nessuno ormai per loro?
E soprattutto, John non si era accorto che aveva rubato il taccuino?
Una cosa così vitale per lui e ancora non aveva ricevuto una telefonata da John a riguardo.
Davvero voleva andare avanti allora, pensò.
Davvero sta bene senza me, mentre io mi ritrovo a pensarlo ogni sera dopo una lunga e fortunatamente impegnativa giornata.
Si costrinse a provare più che dolore, rabbia.
Almeno quella riusciva a controllarla.
Dormì cinque ore, andò in Accademia, seguì i corsi all’università, mangiò, dormì di nuovo.
Era così che andava avanti, facendo le cose che sicuramente amava ma…
Ero lo stesso ‘ma’ che gli apparve dopo il sesso con Richard.
Ma non c’era John.
Tornò dall’università stranamente stanco quella sera e non aveva neanche la forza di cenare.
Non ricopiò gli appunti di analisi e non era mai successo che non si metteva in pari con lo studio giorno per giorno, ma quella sera era giù che più giù non poteva sentirsi. Come se stesse steso sul fondo di un pozzo nelle viscere della terra e non nel suo comodo letto matrimoniale.
Quando è dentro che stai male, fuori non importa che c’è.
Stai male.
Fece la doccia con svogliatezza e si rimise a letto.
Dopo settimane che non sentiva suonare il suo cellulare per un messaggio, quel suono gli arrivò alle orecchie come un miracolo e si tirò su velocemente strofinandosi gli occhi rossi e stanchi.
Era John.


 “So da un pezzo che hai il mio taccuino.
Quando ho chiesto ad Harriet se aveva trovato un piccolo quaderno nero da qualche parte e mi ha risposto di no era scontato che lo avessi tu.
Ho aspettato a contattarti perché finalmente mi sono ripreso quasi del tutto e sono tornato a casa mia.
Volevo essere io a dirtelo.
Puoi tenerlo.
È sempre stato tuo, Sherlock.
Lo sarà sempre.
Spero che tu non abbia riso troppo per come appari ai miei occhi.
Spero che un po' ti sia piaciuto, anche se non l’ho finito. L’avrei continuato fino alla fine. Spero che in Accademia e all’università proceda tutto bene e che andrà sempre tutto bene, ma sono certo che sarà così. Buona fortuna per tutto, Sherlock.”


Il cuore scalciava nel petto.
Scuoteva la testa.
Cosa diamine era quel messaggio?
Perché sembrava in tutto e per tutto un addio e no, non poteva esserlo.
No.
Lo ripeteva nella sua mente.
No. No. No.
Neanche un ‘a presto’.
Eppure avrebbe voluto continuare a stare al suo fianco fino alla fine, lo aveva scritto.
Glielo aveva detto.
Perché faceva così?
Perché scappava?
Sherlock si distese e si sentì al centro di una voragine.
Non aveva le parole per risponderlo.
Gli avrebbe solo voluto urlare contro tutto quello che gli passava per la testa.
Cose belle ma altre brutte
. Deglutì a fatica.
Continuava tenere stretto il cellulare con quel messaggio sullo schermo.
Chiuse gli occhi volendo quasi nascondere le lacrime che apparvero in essi ma scesero comunque.
No, Sherlock.
Basta.
Ora fai qualcosa, qualsiasi cosa.
Pensa.
Solo…pensa.
Non sentire nulla.
Ignora il bruciore allo stomaco.
Ignora le lacrime.
Ignora la stanchezza.
Ignora tutto.
C’è solo John.
Solo John.
Devi riprendertelo.
Agire.
Lottare.
Provarci.
Aprì gli occhi.
E fissò freddamente il soffitto.
Devi fare qualcosa.
Devi farlo.
E lo fece. 

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Capitolo 17
*** Resta ***


Dopo due giorni, arrivò quella sera.
La sera in cui per la prima volta sentiva di stare per fare l’unica cosa sensata della sua vita.
Non andò a lezione di chimica quel pomeriggio, aveva una cosa importante da fare.
Tornò a casa, mise la camicia bianca, la sua preferita e un jeans nero.
Si infilò il suo cappotto lungo che lo slanciava in maniere elegante e che lo faceva sembrare un po' più grande.
Prese le chiavi e ciò che gli serviva.
Si fermò davanti allo specchio ovale di fianco alla porta di casa e si diede un’ultima occhiata.
Poggiò le mani ai lati dei capelli e scompose i ricci ora diventati più ribelli.
Annuì a se stesso.
Si sentiva come quando doveva risolvere uno di quei casi che Mycroft gli proponeva.
Gli sudavano le mani e poteva sentire il sangue scorrere nelle vene.
Era eccitato, preoccupato e pensava che tutto poteva finire in un disastro o nella gioia più sublime che poteva mai provare.
Ma quello non era un caso, era la sua vita.
Era la decisione che avrebbe determinato la sua vita e  stavolta aveva una motivazione vera per andare fino in fondo: l’amore.
E gli bastava per diventare l’uomo che voleva essere.
L’uomo che John aveva migliorato.
Uscì di casa in quella fredda sera e salì in auto.
Era lì.
Era lì e poteva farcela.



“Quando aprirai la porta tra circa otto secondi ti imploro di non richiuderla. Per favore. SH.”



Ne passarono dieci e la porta, piano, si aprì su quel corridoio in penombra, illuminato solo dalla luce fioca di un lampione che proveniva dalla finestra alla sua destra.
Rimasero per qualche secondo a guardarsi e fu come respirare dopo esser stati troppo sott’acqua.
E  tornare a sentire il sole sulla pelle.
“Ti ringrazio.” Gli disse Sherlock.
John appariva agitato e schiarì la voce.
“Non sai se l’ho aperta solo per sbattertela in faccia o no.”
Neanche un sorriso.
Lo avrebbe voluto fare, ma non ci riuscì.
Non ci capiva molto in quel momento.
“Non lo faresti.”
“Dammi un motivo.”
“Ne ho tre.”
Sherlock sorrise a quel volto ancora freddo che fece un’alzata di occhi.
Vide le spalle del suo ragazzo dimagrito alzarsi e abbassarsi e poi di nuovo, con la sua voce decisa che mai a Sherlock era parsa così bella, John disse:
“Sei odioso.”
“Non penso mi odierai visto che proprio qui…”
Sherlock abbassò lo sguardo sulle cose che reggeva a mezz’aria.
“…ho il dvd de ‘Il castello errante di Howl, il tuo film d’animazione preferito, e la tua pizza preferita.”
“E la terza motivazione?”
“Io, ovviamente.”
Sherlock lo disse dolcemente e non riuscendo a nascondere il timore di una risposta negativa, di una porta sbattuta in faccia.
Ma John gli disse che gli dava altri dieci secondi per convincerlo a farlo entrare.
“Ho preso la pizza a Soho, da Mario, che dici essere la miglior pizzeria d’Inghilterra. A proposito, ti saluta.”
John si morse  l’interno della bocca.
Dio mio, come sapeva tentarlo Sherlock nessuno mai.
“La pizza. Com’è?”
“Margherita. Con la migliore mozzarella che assaggerai in vita tua. Lo assicura Mario e sai che non mentirebbe mai a una persona di origini italiane come te.”
John si diede dell’idiota da solo per aver fatto rimanere Sherlock lì sulla porta fino a quel momento.
Ma rivederlo non era nei suoi piani.
Non così all’improvviso.
“Sappi che per l’80% entri perché so che odi queste cose e chissà che fine gli farai fare. Il restante 20% è per te.”
Aprì di più la porta e Sherlock entrò, sussurrando quasi a se stesso:
  “Me lo farò bastare.”
“E comunque questa cosa funziona solo nei film.”
John sorrise puntualizzandolo.
“E con te a quanto pare.” Gli rispose Sherlock.
“Non andrà tutto rose e fiori come succede ai protagonisti, sappilo.”
“Ma è un inizio. Mi basta.”
Ammise, con ancora la pizza fumante in mano.
Una strana tensione che mai c’era stata tra di loro li avvolse.
John, un po' impacciato gli prese la pizza e la busta col dvd dalle mani e le posò sul tavolo della cucina a vista.
Lo spazio era un piccolo open space.
Solo due porte ad indicare la presenza di un bagno e della camera da letto.
Prese il lungo cappotto e lo posò su una sedia su cui si poggiò vedendo Sherlock aggirarsi in quel piccolo appartamento all’ultimo piano di un vecchio edificio.
“E’ molto bello qui, John.”
Si accostò alla grande finestra chiusa, dagli infissi nuovi, che occupava tutto il centro della parete di fonte alla porta d’entrata.
“Si vede perfettamente lo Sky Garden.”
John gli si avvicinò.
Stavano apparendo le prime stelle.
“Non pensavo apprezzassi un appartamento da comuni mortali all’ultimo piano di un vecchio edificio.”
“Anche io ho una vista niente male nel mio appartamento e so che una vista così oscura tutto il resto”.
Si voltò verso il profilo di John che rimase fermo e che piano disse:
“Apprezzi davvero le cose belle allora.”
“Certo. Pensavo lo capissi ogni volta che ti guardavo.”
Si voltò e lo sguardo profondo di Sherlock, quel suo sguardo che appariva come una magia quando si concentrava su qualcosa di importante, gli fece effetto.
Disinvolto disse:
“Dio, ti è venuta davvero spontanea questa?”
Sherlock rise paino.
“Già. È così patetica e sdolcinata che mi gira quasi la testa.”
Si sorrisero e non potevano non guardarsi ancora.
E ancora.
Era passato davvero troppo tempo.
“Sai, i soldi che pago sono tutti per questa vista.” Disse John piano.
“Capisco.”
“Sul serio?”
“Un artista ha bisogno d’ispirazione. Londra è una musa degna.”
“Anche tu lo eri.”
Queste parole uscirono dalla bocca di John e non se ne rese neanche veramente conto.
Ma Sherlock non distolse lo sguardo dal cielo sempre più buio.
Pensava al taccuino e a quella dedica alla prima pagina, ma non disse nulla.
“Lo ero?”
Ora si fissava i piedi.
Le mani in tasca.
I brividi sulle braccia.
“Lo eri. Lo sei.”
Erano fermi l’uno di fianco all’altro.
Si sfioravano le braccia.
Solo Sherlock ruppe quel silenzio.
“Mangia la pizza. Io metto su il film.”
Lo videro, e John mangiò con gusto la pizza sul divano.
Erano seduti distanti e il perché di quella cosa se lo chiedevano entrambi in quel momento.
Finito il film John sembrava così felice di averlo rivisto con Sherlock dopo così tanto tempo.
“E’ stato carino da parte tua portare questo e non un film di 007”
“Ci avevo pensato ma anche questo non è niente male. Una storia d’amore diversa dalle altre.”
John non gli rispose.
Aveva una strana sensazione alla gola, come un collare che lo teneva fermo, soffocando il suo istinto di rispondere ‘come la nostra’.
Sherlock si fece serio in viso e per rompere quella lastra di ghiaccio che li sepaava chiese:
“Come stai?”
“Bene.”
“Dico veramente. Come sati veramente.” J
ohn sospirò.
“Ancora stanco. L’ Accademia è iniziata e non posso dire di non avere difficoltà a riprendere il ritmo.”
“E’ capitato anche a me di sentirmi altrove a lezione.”
“Esattamente.”
Si scambiarono un sorriso veloce.
“La…ferita?”
“Si sta sanando, è a buon punto. Ogni tanto ho una sensazione strana, come se potessi dividermi un due da un momento all’altro…”
Sorrideva per sdrammatizzare ma era proprio come diceva.
“…ma poi passa.”
Sherlock si limitò ad annuire.
“Harriet?” chiese.
“Sta bene. Sono venute le mie zie dall’ Italia e sono state fin quando non mi sono ripreso fisicamente, almeno. Zia Mary…lei anche prima di tutto questo, ecco, faceva dimora fissa da Harriet e ogni tanto tornava in Italia da zia Louise.”
Sottolineò quel prima, facendo intendere che si riferiva a prima della morte dei suoi genitori.
Sherlock lo capì all’istante.
“E’ la prima volta che ne parliamo. Non lo sapevo.”
“Già.”
Il silenzio in sottofondo era irreale e faceva diventare tutto più difficile.
“Non te l’ho mai detto che zia Mary si è occupata di me e Harriet dopo la morte dei miei genitori ma è stata lei a farci restare uniti e a darci forza.”
Sherlock vedeva l’espressione dolce e lo sguardo basso di John, come se stesse guardando qualcosa di importante e, visto che non era bravo a parole, voleva abbracciarlo ma lui riprese a parlare e non voleva assolutamente bloccare John proprio ora che avevano riaperto l’argomento.
“Zia Louise ha una famiglia, bella grande, e l’ho sempre vista meno ma è stata indispensabile per zia Mary. Sono sorelle, si sono sempre supportate.
Da loro io e Harriet abbiamo capito che la famiglia è importante. E’ la sola cosa vera che ti capita.”
“Penso che sia così, sì.”
“Ma perché ne parliamo solo ora, Sherlock? Ci conosciamo da otto anni quasi e non sapevi nulla di me eppure siamo stati sempre così in sintonia, così…”
John aveva tenuto dentro per tanto tempo quella domanda e quelle cose mai dette e in quel momento parlarne era affrontare una realtà, la sua vita.
“Vedi John, lo so che sembra assurdo ma io e te non avevamo bisogno di molto per andare avanti. Tutto quello che volevo era vederti al sicuro e  mai volevo metterti nella situazione di farti sentire troppo esposto solo per venir a conoscenza di cose che ti hanno fatto soffrire ma anche crescere ovviamente.”
Sherlock voleva davvero dire le parole giuste ma le parole giuste non esistono, si disse.
“Non volevi saperle?”
“Non si trattava di questo, John. Non è facile a spiegare ma…sentivo che prima o poi avremmo affrontato tutto e lasciavo solo che accadesse. L’unica cosa che volevo sapere, che mi interessava, era che ti avrei avuto accanto.”
“Penso sia stato lo stesso per me.”
Annuiva convinto.
“Nel senso che cercavo solo di godermi quello che eravamo e…sapevo che mi avresti capito. È quello che fanno gli amici veri, capiscono.”
Fece una pausa come per rimettere in ordine le idee e le cose che si erano detti, poi disse:
“E comunque sapevi dei miei genitori.”
“John, mi dispiace non aver avuto il coraggio…”
“Sei stato perfetto, davvero. Hai fatto di tutto per rispettarmi e credimi se ti dico che è stato meglio così. Ora sono più pronto nel parlarne di quanto lo ero a quindici anni. Probabilmente, anzi, sicuramente quando avevamo quindici anni, se mi avessi detto che sapevi, io non ti avrei più parlato. Giuro. Avrei reagito da rabbioso quindicenne quale ero.”
A Sherlock sembrò di essersi liberato da un masso di duecento chili sulle spalle.
“Sono felice che non mi odi per questo.”
“No, tranquillo. Sono incapace di odiarti.”
“Bene.”
“Forse.”
Risero piano.
“Vorrei…vorrei solo sapere come hai fatto. Come hai fatto veramente. Mi dicesti che facesti delle ricerche ma io penso centri Mycroft. Mi sbaglio?”
“No. Chiesi a mio fratello di te e in mezz’ora ebbi tutte le informazioni suoi tuoi genitori perché chiesi di loro e non mi interessai di zie italiane di cui ignoravo totalmente l’esistenza. Essendo Harriet molto più grande di te e avendo i tuoi genitori risparmiato parecchio per mandarvi all’università non mi sfiorò il pensiero di cercare altre persone collegate a te.”
“Mycroft è stato discreto quindi.”
“Non so lui cosa sapeva ma mi diede solo informazioni sui tuoi. È uno preciso.”
“Già. Vorrei parlare anche di lui se te la senti.”
“Non capisco bene in che senso ma, certo.”
“Prima dimmi cosa sai dei miei, di quello che è successo.”
Lo disse nervoso e in modo sbrigativo, come se non volesse esternare troppo quello che provava.
Sherlock iniziò a parlare calmo e dicendo con precisione i fatti.
Era pazzesco dire quelle cose atroci ma John glielo aveva chiesto.
John era pronto a chiudere con quelle cose grazie a Sherlock e alla verità.
“Era il giorno del tuo compleanno, avevi sette anni, e stavi in macchina con tua madre e tuo padre. Harriet era da un’amica e la stavate andando a prendere dopo aver comprato una torta alle fragole, con ripieno al cioccolato.”
“La mia preferita. Quella dove la prendemmo era una pasticceria che mio padre adorava sin da piccolo”
Gli si bagnarono le guance.
“Scusa. Continua.”
“Non…”
“Ho bisogno di sentirti dire quelle cose. Ho bisogno che tu le dica, Sherlock, ad alta voce direttamente a me così che anche tu abbia la consapevolezza dei fatti. E di quello che provo. Perché so che senti, ora, com’è.”
Gli prese la mano e la tenne nelle sue, come fosse l’unica cosa a dare conforto nell’universo.
Empatia.
Sherlock l’aveva.
Era un po' la sua condanna ma lo avvicinava a John in modo indissolubile e John lo sapeva perfettamente quando si fece tatuare quella parola.
Era, in un certo senso, dedicato a loro.
Era dedicato all'anima del ragazzo che amava. 
Sherlock continuò.
“Una grossa moto vi ha sorpassato e la vostra macchina è andata fuori strada, dritta contro un edificio. Pioveva. Sei rimasto…”
Non poteva continuare.
“Sono rimasto  in ospedale per un’eternità. Qualche osso rotto e parecchi lividi ma ero vivo. Quasi miracolato.”
“Non è stato un miracolo John, non esistono i miracoli.”
Sherlock lo disse deciso ma sorrideva piano e gli stringeva quelle calde mani nella sua.
“Sei stato tu e la tua forza, la tua incredibile sete di vita. Ne sono certo. Lo hai dimostrato anche due mesi fa.”
“Sì, forse è così.”
“E’ così. Ho sempre vissuto con persone forti, intelligenti, grandi. Ma tu sei stato il primo a farmi capire cosa significa essere vivi e amare la vita.”
John fu sorpreso di sentire quelle parole e non sapeva se stava mentendo solo per farlo stare meglio o se stava dicendo la verità.
“Ci sono riuscito?”
Chiese speranzoso, pensando che sentirlo dire da Sherlock, sentirgli dire che sì, amava la vita, era la cosa che più lo avrebbe reso felice.
“Vuoi vivere, vero Sherlock?”
Sherlock lo guardava e glielo disse.
“Ho davanti la sola ragione per farlo e non mi negherei mai il privilegio di viverla la mia vita visto che sei tu.”
John gli posò una mano sul viso, senza pensarci neanche.
Lo aveva salvato.
Ce l’aveva fatta, lo sentiva e lo vedeva nello sguardo vivo di Sherlock. 
Tutta la malinconia che lo circondava sembrava solo un brutto ricordo ormai cancellato.
“Dio, dovresti darmi un po' del tuo talento nel dire queste parole, sul serio.”
Sherlock abbassò lo sguardo e sentiva la delicata mano di John accarezzarlo.
“E’ una bella sensazione, vero?”
“Sentire che il peggio è finito?” chiese John.
“Sì.”
Poggiò la testa sulla spalla di John e rimasero così per un po'.



“Cosa volevi sapere di Mycroft?”
La sua voce era bassa e rilassata.
“Sì, ecco…volevo solo sapere com’è possibile che l’uomo più intelligente del Paese, con tutte le risorse che aveva, non sia riuscito ad evitare la sua morte. Ho anche pensato che tu devi avere una teoria a riguardo.”
Sherlock gli spiegò di quella sera con Lisa, della sua omertà, del suo tentativo di estorcere qualcosa non solo a Lisa ma anche a Basil e della sua convinzione che qualcuno era colpevole della morte del fratello.
“E Lisa concorda con te sull’esistenza di una possibile spia, quindi.”
“Non me l’ha detto esplicitamente ma so che è così. So che vuole che io lo sappia.”
“Ma non si è fatta più viva.”
“No. Ancora no.”
John poggiò la schiena al cuscino del divano e si sentì un po' spaesato.
“Ma… lei poteva evitare che Mycroft morisse. Insomma, era lì ed era”
Sherlock lo interruppe.
“Dire cosa poteva o non poteva fare è inutile. Anche io potevo fare qualcosa, ma non l’ho fatto.”
Aveva gli occhi chiusi mentre parlava.
“E’ quello che vorrei facessimo, John. Andare avanti e lasciare al passato gli errori e le paure.”
John la vedeva una cosa impossibile per ora ma non glielo disse e lo tenne per se.
Come a spazzare via la negatività che lo assalì, scosse la testa e disse:
“Parliamo di altro, Sherlock. Per favore.”
“C-cosa?”
“Qualsiasi cosa.”
Lo chiese asciugandosi il volto con le maniche della camicia blu e verde a quadri che indossava.
Sherlock si gelò all’istante.
Borbottò qualcosa poi cercò di seguire il discorso che voleva intraprendere. 
John si sentì leggerissimo.
Nulla poteva andare male, tutto si era risolto, avevano parlato, la ferita sarebbe guarita, Sherlock era lì.
Sembrava tutto così normale, come prima di agosto, come prima della loro separazione.
Ma non era così.
Per un momento John ci cascò, in quella normalità, ma ora Sherlock gli parlava di nuovo serio, quasi preoccupato, e tornò alla verità.
Alla realtà.
“Ecco, il mio maestro di danza classica, il maestro Dallas, mi ha consigliato ad una compagnia di ballo che ha sede in Francia. Hanno visto i miei video e mi vogliono con loro per un tour di sette mesi in giro per Spagna, Italia, Germania. Avrei un ruolo abbastanza importante, non principale, ma è già tanto per un allievo del secondo anno. In più mi varrebbe come secondo anno e passerei al terzo a settembre senza problemi.”
“Dio, sembra fantastico e tu lo dici con la faccia della disperazione.”
Sherlock strinse la labbra.
Annuiva piano.
“Lo è, è fantastico. È un’opportunità unica e sarebbe soprattutto un’esperienza di vita diversa e…”
“Andrà bene. Sarai lì per ballare. Il fatto che ti odieranno come persona mettilo in secondo piano.”
“Non mi sopporteranno tanto quanto non li sopporterò io.”
“Non sono tutti me.”
John gli diede una pacca sulla spalla dicendoglielo ironico.
“No. Nessuno lo è.”
Ma Sherlock rimase serio.
Serissimo.
“Perché mi chiedi cosa ne penso? La risposta ce l’hai. È ovvio.”
“Ma dura sette mesi.”
“Saranno sette mesi bellissimi, allora.”
Sherlock incrociò le braccia come irritato.
“Non è proprio quello che mi aspettavo mi dicessi, John.”
“E cosa devo dirti? Pregarti di restare perché mi mancherai? Lo sai, ma non lo direi mai. Voglio solo il meglio per te, a prescindere da noi.”
“Lo so. Ma non pensi che noi siamo più imp-”
“Senti Sherlock, vai. È facile. Non ti è utile pensarci troppo sopra.”
“E’ importante.”
“Ed io che c’entro?”
Sherlock mantenne lo stupore per quella domanda e rispose anche se pensava che la sua risposta era ovvia e scontata.
“Perché anche tu lo sei. Noi lo siamo. Per questo dovevo parlartene.”
“Il mio consiglio te l’ho dato. Dovresti lasciare il porto sicuro, finalmente superare tutto quello che è successo e farlo. Viverlo.”
John sembrava così positivo al contrario di lui.
Certo che si sarebbero mancati ma John voleva solo che questo non fermasse Sherlock.
Voleva a tutti i costi che quel ragazzo vivesse anche per se stesso.
Sherlock non lo concepiva tutto quello e in quell’istante, non c’era altro modo che farlo, proprio in quel momento.
Fare quello che era andato a fare.
Era un segno.
Era la soluzione.



Sherlock si schiarì la voce e ancora travolto dalle emozioni di tutto quello che si erano detti, disse guardandolo negli occhi:
“Vorrei ancora una risposta da te.”
“Okay, dimmi.”
“E ne dipenderà la mia decisione, se partire o meno.”
“Non voglio essere responsabile di una cosa del genere.”
“Tu rispondimi, John. E poi capirai.”
“Va bene. Sentiamo.”
Rispose quasi curioso.
Sherlock si alzò e si parò davanti a lui.
“Io, e so che tutto suonerà familiare per te, sono la persona più irritante e meno delicata possibile che tu abbia mai conosciuto.
Sono la persona meno capace di darti ciò che meriti.
Non ci credo neanche di poter essere qui ora perchè so che avevi bisogno di tempo per metabolizzare quello che ci è capitato.
Ma quel messaggio che mi hai mandato, non potevo ignorarlo. Non potevo non fare nulla. Non potevo lasciar perdere. 
Anche se dopo tempo pensavo che una pausa sarebbe stata positiva, questi due mesi sono stati capaci solo di farmi rendere ancora più conto di quanto svegliarmi al mattino senza te sia la cosa più sbagliata che potessi mai verificare.
Mi hanno fatto capire che vorrei sentire la tua voce ogni giorno, quando mi sveglio, quando mi addormento.
Mi hanno fatto capire tante cose, quel tipo di cose che l’assenza dell’amore ti manda come una rivelazione.”
Sherlock aveva pian piano enfatizzato le sue parole come trascinato da una corrente impetuosa e sembrava non potersi più fermare.
“John, quello che sto cercando nel modo peggiore di dirti è che senza te non c’è nulla che mi basti.
Neanche la mia vita perfetta e piena, quella che ho sempre voluto e che ora vivo, mi basta.
Ne sono grato e la amo, ma senza te non mi basta.
E tutto quello per cui sono migliorato come persona sembra lasciarmi.”
Le mascelle di John si strinsero.
Mentre Sherlock riprendeva letteralmente fiato lui tentò di fermarlo.
“Sherlock, io credo…”
“No. Fammi finire questa cosa, fammi dire solo due cose.”
John abbassò lo sguardo come in assenso e Sherlock non capiva bene se doveva continuare quello sproloquio per lui difficilissimo.
Ma continuò.
“Non sono la normalità che cerchi e sono qui per chiederti una possibilità.
La seconda cosa, è che sei una persona che rende migliore questo mondo.
Lo so. L’ho visto.
Tutto quello che ti chiedo è se puoi rendere, ancora una volta, me migliore.
Perché quello Sherlock mi manca.
Voglio essere quel ragazzo sempre e vorrei esserlo al tuo fianco. Sempre.”
John era ancora seduto sul divano, inerme.
“Tutto quello che vorrei facessi, John, è chiedermi cosa voglio fare ora, domani e per il resto della mia vita.”
“Non…capisco.”
Capiva perfettamente, invece.
“Per favore, John.”
Entrambi sapevano cosa stava accadendo ma tra di loro sembravano esserci chilometri di distanza ora e John, disinvolto, come a reggergli il gioco, disse:
“Okay. Allora, c-cosa vuoi fare?”
“Invecchiare insieme.”
Sherlock sorrideva, la fronte corrugata per l’ansia che attanagliava le sue mani strette alla vita.
“Non è certo una risposta, Sherlock.”
Perché?
Perché continuava a dargli corda?
Perché voleva vedere fin dove Sherlock si sarebbe spinto.
Aspettava quella domanda.
La aspettava ma non ne era felice, non ci riusciva.
“E’ una proposta infatti.”
Deglutì e continuò.
“Ti propongo ti tenerci per mano in un letto solo nostro, in una casa solo nostra e quando saremo stanchi della città ci potremmo trasferire dove vuoi, in Provenza magari, e avere una vita tranquilla, avere noi.”
La convinzione che ci stava mettendo era disarmante.
“Perché se avessi a disposizione una vita diversa o altre mille vite migliori non le vorrei perché l’unica che voglio, l’unica che accetterei senza esitare è quella vissuta con te.Unicamente quella.”
John aveva le labbra semiaperte e un’espressione di uno che non dava peso a quello che stava ascoltando e Sherlock lo capì.
Ma era lì per dirgli quello che doveva dirgli e avrebbe combattuto fino alla fine pur di dirglielo.
“Ti propongo…”
“Smettila. Okay, Sherlock? Non so che ti eri messo in testa ma…”
“Sposami.”
E dicendolo, lentamente si inginocchiò davanti a John, ignorando le sue parole.
Continuò.
 “Resta con me. Resta la cosa più bella che mi sia mai capitata. Resta mio, davvero mio e diventa mio marito.”
Estrasse dalla tasca dei jeans il piccolo cofanetto che, aprendosi, mostrava un anello d’oro bianco, bellissimo.
John sgranò gli occhi.
Anche l’anello non se lo aspettava.
Rise.
“Mio Dio, non sai cosa stai dicendo." gli disse.
Continuava a ridere e Sherlock poggiò il cofanetto sul piccolo tavolo dietro di lui.
Piegò anche l’altra gambe e rimase a terra, seduto sui talloni.
Se c’era un modo, l’unico modo in cui si poteva sentire, era sconfitto.
“Lo sapevo, John. Questo.”
“Che mi avresti sconvolto e fatto venire un attacco di panico?”
“Non hai un attacco di panico.”
“No, ma rende l’idea. Perfettamente.”
“Vuoi che me ne vada?”
“No.”
“Vuoi che mi…”
“Zitto. Dammi cinque minuti? Per favore?”
“Per la risposta o per riprenderti perché se hai già la risposta gradirei sentirla ora ma…”
John lo guardava come a dirgli ‘ma sei serio?’.
“Okay, sto zitto perché da come mi guardi penso che mi dai un bel pugno se non lo faccio anche se mi ricordo che concordammo che ogni volta che venivi sopraffatto dalla rabbia dovevi baciarmi e sarebbe davvero opportuno visto la mia…”
John si alzò e camminava nervoso nel piccolo spazio della cucina-salotto.
Si fermò verso il suo ragazzo ancora a terra.
“Non ti sposerò, Sherlock. Non ora.”
“La richiesta non esige un’attuazione a breve termine. Possiamo sposarci anche tra due anni, prima che inizi la specialistica in Accademia o anche dopo. Quando vorrai.” “Non è così semplice.”
“E’ la cosa più semplice al mondo invece.”
“Non la vedo così!” Sherlock si alzò e vedendo John scosso, scioccato, cercò di calmarlo e gli parlò con comprensione. Non poteva arrendersi. “
So che venire qui all’improvviso e pretendere un sì è per lo meno indelicato ma se starò sette mesi senza te non sapendo cosa vuoi, se mi vuoi e se ti troverò ancora qui per me…Capisci che non potevo non chiedertelo. Non potevo evitare questa cosa da totale egoista quale sono.”
“Mi hai letto nel pensiero. Totale egoista.”
John sembrava irremovibile.
Un altro, quasi.
“Puoi dirmi di no.” L’incitò Sherlock.
Tutto quello per lui non era altro che una lama che lentamente stava uscendo dal suo cuore.
“Non voglio dirti no.”
La voce calma di John riempì l’aria.
“Dimmi di sì allora. Dimmelo e quel che sarà, sarà. Ma dimmi che anche tu mi desideri al tuo fianco, dimmi che ogni giorno lo vuoi affrontare ancora insieme, con me, e dimmi che anche se non mi sopporti, mi ami e che vuoi questa responsabilità.
Dimmi che anche tu vuoi sposare il tuo migliore amico, l’unica persona che non ti abbandonerà mai perché io…non lo farò.”
John scuoteva la testa.
“Tu hai solo paura di perdermi di nuovo, Sherlock. Hai paura che io ti chieda ancora una pausa perché ne avrò sempre bisogno di una pausa da uno come te e sei voluto venire qui con l’unica soluzione per assicurarti il mio amore. È solo per te stesso che mi sta chiedendo una cosa del genere. Perché mi ami, lo so. Ma…”
Non poteva essere John.
Non è John.
La mente di Sherlock percepiva quelle parole lontane, senza senso, come uno scherzo convincente ma stupido.
Dal canto suo, John non avrebbe voluto dirgli quello che gli stava per dire, ne aveva paura.
Paura dell’effetto che avrebbe avuto su Sherlock.
Ma lo disse.
“…ma ami più te stesso.”



Sherlock si ritrovò a sorridere.
“Io amo me stesso perché lo sono diventato grazie alla tua presenza, alla tua pazienza e al tuo amore. Io amo me stesso, molto, e faccio sempre ciò che mi fa stare bene, è vero. Ma è per questo…che voglio te.”
Ora era lui quello che stava per perdere la pazienza ma fece un respiro e ritornò calmo.
Dolce.
“Voglio amarti come mai potevo immaginare di amare me stesso. Senza troppa ragione e non sono mai stato così pronto a farne a meno. E senza paure.”
Cercare di spiegare come si sentiva John in quel momento è come cercare di trovare un inizio e una fine all’infinito.
“Mi sento una persona orribile in questo momento, Sherlock. Non meriti questo da parte mia.”
“Io non so cosa merito. Non mi sono mai reputata una persona fortunata o degna di qualcosa. Ma tu hai cambiato tutto per me. Dannazione John, tutto.”
Scuoteva la testa e gli occhi luccicavano per le lacrime in essi.
“Sei il mio cuore, John. Lo dico in caso non fosse chiaro. Ed ora, ti sto promettendo che migliorerò, che ci sarò e che rimarrò al tuo fianco se lo vorrai, ci sarò sempre, non so più come dirtelo ma ora… ho bisogno di qualcosa da te e lo sto esigendo per la prima volta ma è vitale. Ora voglio solo che tu mi risponda. Ne ho bisogno.” L’amore non dovrebbe essere pretendere amore e Sherlock lo sapeva bene perché John glielo aveva sempre concesso senza se e senza ma.
Eppure ora lo stava pregando.
“Smettila Sherlock, okay?”
“C-cosa?!”
“Di sforzarti per far andare bene le cose. Di continuare a pretendere di andare d’accordo su cose su cui non andremo mai d’accordo.”
“Il…matrimonio?”
“Certo che si tratta del matrimonio! E vorrei tanto che non lo avessi messo in mezzo. Poteva andare diversamente.”
John abbassò lo sguardo.
Si sedette su una sedia accostata al tavolo da pranzo.
Sherlock ci rinunciò.
Non c’era nient’altro da fare.
“Non so neanche come risponderti ormai. Non so più che altro dirti, John, ma… se solo potessi strapparmi il cuore e dartelo neanche sarebbe abbastanza immagino. Mi sembra solo di avere un muro davanti. Io…”
Chiuse gli occhi per un momento e la lama era ancora lì a fare pressione al petto.
“Io sarei un muro?”
John si alzò, di nuovo animato da una forza che non controllava.
“Io, che ti ascolto e ti assecondo su tutto cercando solo di far andare avanti la nostra relazione al meglio?”
“Non sei concentrato su quello di cui stiamo parlando, John.”
“Vero.  Tu vuoi una risposta. Eccola.”
Sherlock lo guardò finalmente negli occhi.
“No.”
E restò impietrito.
Anche la lama sparì e rimase solo il no e le labbra sottili che lo pronunciarono senza esitare che ora continuarono a parlare un po' tremanti.
“Capisci solo così, vero Sherlock? Solo se ti si dà una risposata concisa e logica. Non accetti altro, non vuoi rischiare, non vuoi semplicemente vivere il momento. Quindi è un no. Punto. Ora fai quello che vuoi, lasciami, rimani, non mi importa. Io ti amo. Ma non ti sposo ora o tra due anni chissà quando.
Il mio amore non è abbastanza forse, non è quanto il tuo; non ho idea di cosa mi fa dire di no ma non ce la faccio.”
Ora le labbra non solo tremavano ma erano anche bagnate dalle lacrime che cadevano silenziose dagli occhi di John.
Sherlock gli si avvicinò, si avvicinò al suo ragazzo che sembrava una preda appena catturata da un mostro e lo abbracciò.
Non poteva lasciarlo al centro della stanza in quello stato anche se lo odiava profondamente in quel momento.
Lo strinse e la fronte di John gli si appoggiò sul suo petto.
Parlò piano.
“So che questi mesi sono stati diversi da ogni cosa tu abbia mai vissuto. So che quello che successo è difficile. Ma ti chiedo di andare avanti.
Di dirmi di sì per avere una certezza: noi. Una certezza di cui entrambi abbiamo bisogno. Per questo mi chiedo cos’è questa paura che hai.
E se hai paura che il tuo amore non sia abbastanza…”
“Non ho paura di noi ma non mi immagino come ci immagini tu, Sherlock. Non ancora almeno Puoi…capirlo?”
John si era calmato e l’abbraccio si sciolse.
Riprese ad essere distante e forte e Sherlock no, non lo capiva quello.
Capì solo che era ancora troppo presto per il suo ragazzo e disse calmo:
“Bene. Allora, penso che sia meglio se me ne vado.”
“Sherlock, dai. Non…”
Sherlock prese il cofanetto dal tavolino dove l’aveva poggiato poco prima e glielo porse.
“Tienilo.”
John non si mosse.
“Prendilo, John.”
La sua voce uscì più dura di quanto avrebbe voluto.
“Non andartene.”
Ora lo supplicava di restare e Sherlock si sentì diviso in due.
Voleva solo svegliarsi da quel sogno senza senso.
Era tutto così veloce.
Voleva andare via.
Forse ora era lui che aveva bisogno di tempo ma…no, un’altra parte voleva rimanere lì con John. Provarci ancora.
Posò il cofanetto sul tavolo.
Prese il cappotto e John gli afferrò il braccio.
“Se esci da quella porta è finita.”
“Passiamo ai ricatti ora?”
“Sherlock.”
Alzò gli occhi al cielo.
“Sherlock, io non voglio che finisca. Se rimani, e so che lo farai perché sei la persona intelligente che hai sempre dimostrato di essere, possiamo mettere le cose a posto, da persone civili e mature quali siamo. Non manderemo tutto a rotoli solo per un matrimonio, dai.
Possiamo resistere. È quello che mi dicesti tu, non puoi averlo dimenticato.”
Sherlock esitò.
E quando si esita, quello che si era convinti di star per fare non lo si fa più.
Era esattamente quello quello che cercava di dire a John, di resistere.
Quindi, mentre lasciò il cappotto anche la presa al suo braccio si sciolse.
“Non sono sicuro che è quello che vuoi, John. Ma rimango perché non sarebbe intelligente andarmene, ti do ragione. Purtroppo però non ho nient’altro da dirti, davvero.” John annuiva.
“Va bene. Non dobbiamo per forza parlarne subito.”
“Okay.”
Non si dissero più niente.
Ormai era tardi ed entrambi sentivano una stanchezza diversa da ogni altra stanchezza che avevano mai provato.
Ma erano ancora loro, con i loro mille difetti e le mille paure e quei venti anni che non riuscivano a vivere e capire.
Erano ancora insieme nell’odio, nell’orgoglio, nel caos ma inevitabilmente nell’affetto, nell’amicizia, nel bisogno necessario, nel volersi ancora, nel volersi comunque. Erano insieme.
Lo sarebbero stati sempre.
Si distesero sul letto di John, nella sua piccola camera da letto.
Se ne stavano semplicemente vicini.
Le uniche cose a toccarsi erano le loro mani, strette.
Sherlock era di lato, mentre John era a pancia in su che già dormiva.
Lo guardava e tutto quello che aveva era una gran confusione nella sua testa e una delusione per il comportamento di John.
Tuttavia, era lì.
Era in quel letto comodo vicino al ragazzo che amava.
Era quello che voleva, quello che aveva appena chiesto a John.
Allora perché non sentiva che era giusto?
Perché impuntarsi su un no a una sua proposta di matrimonio?
Ma non riusciva a darci poco peso.
Non era certo poco importante.
Ma stare ancora insieme era più importante.
Stare lì con John, anche se senza certezze, era ancora importante.
Si addormentò ripetendosi che andava bene così e che prima o poi, sarebbe andato tutto bene.
“Ti amo John. Tu, questo puoi capirlo?”
Ma John dormiva ed anche se fosse stato sveglio, Sherlock non avrebbe sentito la risposta che desiderava.




Aveva freddo.
Si mosse piano, tirando le coperte che non opponevano nessuna resistenza.
Si voltò con gli occhi ancora semi chiusi e vide che John non c’era.
La camicia che ancora indossava era tutta stropicciata e i pantaloni buttati ai piedi del letto.
Si alzò e vide il sole pallido fare capolinea nella stanza.
Voltandosi ancora noto un foglio sul cuscino di John e si rese conto che non c’era neanche l’odore del caffè provenire dalla vicina cucina. John non era di là, non era neanche in casa.
Per una ragione a lui sconosciuta, ebbe una brutta sensazione.
Prese quella che scoprì essere una lettera e la lesse.
Velocemente.
Finì.
Si vestì, chiuse a chiave la porta di casa con la chiave sotto lo zerbino come gli aveva lasciato scritto John in un post-it sulla porta, e tornò a casa sua.
Erano circa le nove di mattina e la sua casa gli apparse come l’unico rifugio dove poteva scappare.
Non andò in Accademia.
Come andarci con il muscolo più importante spezzato?
 Fumò una sigaretta davanti a una Londra assonnata dal cielo cupo e grigio.
Bevve un tè caldo nel silenzio più totale, seduto sulla sua poltrona sempre rivolta verso la sua città.
Non provava niente.
Non era nessuno.
Non era lì.  
Prese la lettera dal suo cappotto e la rilesse
Ancora e ancora, come seguendo una preghiera.
Ora davvero non c’era nient’altro che poteva fare.
Né per sè stesso, né per John, né per quel ‘noi’ che mai fu così lontano da raggiungere, né per i genitori, né per Mycroft, né per Lisa che era sparita, né per nessuno.
Era andata così.
Si sentiva un’ombra.
Si sentiva come una cosa messa su quella sedia lì per caso, senza scopo.
Andò avanti così per mesi.
Non frequentò l’Accademia, non partì per quei sette mesi con la compagnia di ballo francese, non andò all’università.
Girava per Londra e ogni tanto spariva per qualche giorno da tutti, perfino dai controlli ancora in attività di Mycroft.
A maggio decise di riprendere di nuovo la sua vita di prima, sotto le incessanti apprensioni dei genitori che lo fecero aiutare da una psicoterapeuta, Tom, che diventò l’unico appiglio per non sprofondare e l’aiuto che gli servì per smettere di farsi del male con altro male.
Ritornò facilmente a studiare mentre fece più fatica con la danza.
Tuttavia ci riuscì, e tornò ad essere il fiore più bello della Royal Ballet School.
Ogni tanto pensava a John, ma era una condizione talmente familiare quello che provava che pensarlo o non pensarlo era irrilevante.
John c’era sempre.
Rileggeva quella lettera quasi ogni sera, come unica conclusione possibile delle sue giornate.
Anche Tom gli disse che farlo poteva aiutarlo ad abituarsi all’assenza di John e dargli ogni volta che vedeva quelle parole, meno importanza.
Ci provò.
Ci stava ancora provando, ma quella lettera era proprio John, lo John che amava e l’unico scrittore che poteva usare in quel modo sublime le parole.
Inconfondibile.  
Era la cosa più importante che possedeva.
La teneva sotto il cuscino, la maneggiava con cura ogni volta.
Tom sapeva che la terapia non può guarire l’amore e Sherlock neanche voleva guarire in realtà.
La lettera di John, che stava rileggendo quella sera di settembre dopo undici mesi che l’aveva letta per la prima volta, gli suonava ancora nuova, ogni volta  capiva qualcosa in più, come un nuovo particolare in un quadro che prima non avevi notato.
La teneva stretta.
Si concentrava alla ricerca di un nuovo dettaglio nel leggere quelle parole.
Queste parole.

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Capitolo 18
*** Per Sherlock-Per John ***


“Pensa pure che ho deciso di scrivertele a mano queste parole per la mia anima da inguaribile poeta, non importa perché è la verità.
E uso carta e penna anche perché vorrei ricordassi almeno il mio modo di scrivere. Tutto il resto, me stesso, tutto quello che ti ho donato e fatto vivere,
il gusto della mia pelle che divoravi,  il mio modo strano di camminare e il mio sorriso che mai mancava quando ti svegliavi, tutto questo e tutto il resto che sai di me puoi cancellarlo per bene come solo la tua mente sa fare con le cose inutili. Lo vorrei diventare per te. Vorrei non esserti così necessario e vorrei solo sparire per farti vivere la tua vita. Ma sono egoista e pretendo che ti rimanga impressa la mia calligrafia, che ti rimanga impresso il modo in cui spingo un po' di più la penna sul foglio provando una forte emozione perché so che lo dedurrai, dannazione. Noterai tutto quello che sto provando scrivendotela e te lo devi ricordare. Solo questo.
Probabilmente la brucerai questa lettera e questa bella introduzione andrà sprecata ma non importa. Fosse l’ultima volta che ti parlo,
io ti scrivo tutto quello che voglio. Come un capriccio. Ed è una sensazione bellissima non essere più interrotto da te. Perché sei insostenibile.
Tu e tutto quello che ti circonda. Perché sei lunatico e menefreghista a volte. Spesso. Manchi di tatto e, mio dio, se sei testardo. Ma sappi che
anche se avrò qualcun altro non lo avrò mai per davvero. Non c’è spazio. Non ci sarà spazio. Cerco di fartelo capire con un esempio semplice:
è come se mi fosse stato assegnato un posto nel mondo. Un quadrato dove posso muovermi, dove sono io. È il mio spazio e mettiamo che
ci sto benissimo anche se è piccolo ma, sono io. Ecco, tu, in qualche modo, ci stai benissimo nel mio quadrato, Sherlock. Con me. In me.
Dove sono io. Ma il problema ora è che…io voglio spostarmi. E cambiare quadrato. E tu non ci sei nel nuovo. Non voglio che tu ci sia.
Ma ti troverei comunque, qua e là quando mi muoverò e sentirò che mi prendi per mano e mi sussurrerai “Profumi di buono.” Ci sei. Ci sei stato.
Ci sarai. Inevitabilmente. Prepotentemente. Ed io su questo non ho controllo. Sappi che invece io non voglio dimenticare. Non esiste.
Sappi che l’amore avrà sempre le tue sembianze e la tua voce profonda e le tue dita lunghe. Avrà sempre il tuo bel corpo chiaro.
Avrà sempre il tuo modo di stringermi prima piano, e poi avvolgente fino a togliermi il respiro. Sarai sempre tu l’amore. Sappi che nessuno
mai mi convincerà del contrario. E se mai considererai per qualche assurda ragione di accettare la mia presenza un giorno, io ti direi che
ti amo come te l’ho detto la prima volta che ti ho visto, seduto al 221 A di fronte a me con gli occhi di un verde che mai vedrò da nessun’altra parte.
Che poi non te l’ho detto ti amo ma l’avevamo già capito. Significherai sempre la poesia più sublime per me. Sarai sempre la mia opera
d’arte preferita. Sarai sempre più prezioso del mio Pessoa e non posso credere di averlo pensato, scritto. Il mio pezzo di mondo
preferito che era riuscito ad entrare nel mio insignificante quadrato che rendesti immenso quanto l’universo stesso. Sarai sempre
me, perché quando facemmo l’amore per la prima volta in una Londra mai stata così silenziosa, mi hai lasciato qualcosa di te.
Non so cosa, ma lo sento se chiudo gli occhi e poggio la mano sullo stomaco. Proprio lì, quando ci ripenso c’è la tua pelle a sfregare
sulla mia e dentro il tuo respiro. Sarai sempre il mio sempre e tutte le parole che non sono in grado di spiegarti, mi dispiace.
Ti sto ferendo a morte e anche per questo scusarmi sembra un’utopia e serve a niente. Forse più scrivo, più leggerai, più
i tuoi occhi si muoveranno a divorare queste parole e più soffrirai. E sarà incessante il senso di colpa che proverò, ti prego
di credermi. Non ti ho mai odiato così tanto. Dovresti smettere di fare qualsiasi cosa tu stia facendo e sapere che in un modo
o nell’altro io starò con te. Il perché lo sai. Noi siamo come il sole: non puoi impedirgli di nascere ogni mattina. E già vedo
chiaramente la tua alzata d’occhi a questa frase. È il nostro compito stare insieme e non importa quando accadrà. Accadrà.
Intanto odiami. Dimenticami. Ma ritorneremo. Giuro che ritorneremo. E tu non lo capirai (di nuovo) e non lo vorrai (per la prima volta),
eppure sarà così. Voglio tanto sia così. Mi mancheranno le tue soffici labbra e i tuoi occhi innocenti. Mi mancherà vederti aggiustare
i tuoi ricci ribelli e scuri che mi faranno sempre venir voglia di una torta al cioccolato e di un tuo bacio mentre li stringo tra le dita.
Mi mancherai mentre sorridi quando piove. Mancherai ovunque mi volterò e questo mi spaventa ma sorridi, Sherlock. Per me.
Perché domattina mi sveglierò, sentirò il tuo profumo inconfondibile di lavanda e miele sulle  mie lenzuola e penserò a quanto
bello sarai con quel sorriso sul volto anche se non ti vedrò; non c’è bisogno di farlo per sapere che lo sei. E ti penserò ancora e
ancora. Tu sorridi, intanto.
Ti voglio ricordare esattamente così.
Sorridi. 


Tuo, come mai nessun’altro,

John.”



Cosa rispondere a tutto questo?
Cosa aveva senso dopo queste parole Sherlock non lo sapeva.
Non sapeva neanche lui cosa aveva appena scritto per rispondere a John.
Solo la verità, pensò. 
Inviò la mail, e aveva un sapore amaro in bocca, come se aveva appena bevuto un liquore andato a male.
Aveva fatto passare molto tempo prima di rispondere a John, era settembre, ma in fondo sapeva che John non stava aspettando una risposta.
Non la voleva neanche, forse.
Ma quella sera sentiva che era arrivato il momento giusto per scrivergli, il momento giusto per andare avanti.
La rilesse un’ultima volta.
Il cuore gli batteva forte.
La pelle nuda rabbrividì.
Nonostante la tristezza che gli attanagliava il cuore, sorrise malinconico.
Quelle parole e le intenzioni di John erano chiare e, dannazione, certo che l’avrebbe aspettato, pure tutta la vita se  anche solo il suo ultimo giorno avesse potuto guardare John per un’ultima volta.
Spense il pc e tonò a letto.
Si strinse a quel corpo caldo che lo stava aspettando e, come se avesse schiacciato l’interruttore su off, si addormentò  sul petto del suo nuovo amante.
La sua mail riposava nella posta inviata.
I caratteri precisi formati da migliaia di pixel dicevano questo.



“Da quando l’ho trovata ho riletto la tua lettera 739 volte e poi ho smesso di contarle. Sinceramente mi hai fatto pensare di non voler
leggere mai più niente. Troppe parole che mi basteranno per tutta la vita. Ma qualcosa devo dirtela perché ti rispetto e perché ti amo.
Inizio col dirti che non cambierei mai te, che mi hai stravolto il cuore, con qualcuno che lo avrebbe lasciato intero e senza far passare
neanche un po' di luce. Preferisco il dolore di te, che una fredda felicità con qualcun altro. Sei l’unico tutto che ho. E mi sta bene
prendermi le tue urla quando litighiamo, va bene. Mi sta bene vederti scontroso quando faccio qualcosa che ti irrita, come lasciare
sempre note sulle pagine dei libri che mi davi in prestito. O piegare gli angoli per portare il segno. I tuoi libri che hai detto chiaramente
essere più importanti di me. Va bene. Adoro quando mi dai il tè con troppo zucchero e senza latte perché, cascasse il mondo, non
ti ricorderai mai come lo voglio ma sorrido a tutto questo. Eravamo così lontani. Eravamo impensabili insieme eppure è sempre e
solo stata una questione di tempo. Eravamo così sicuri di quello che volevamo che l’abbiamo afferrato senza pensarci neanche,
perfino io. E siamo stati noi a viverci, ogni volta. Ad ogni cosa che abbiamo fatto, io ancora non ci credo. Eppure ero io. Io, che
non ho scelto di essere così. Non ho mai avuto la possibilità di dire “no, questo non posso pensarlo” oppure “okay, mi va di farlo
e lo farò.” La mia vita non è mai stata mia. Non l’ho mai scelta totalmente. La mia natura sceglieva per me, la mia intelligenza
sceglieva per me, mio fratello sceglieva per me, la mia distruzione sceglieva per me. Ma non tu. Io, ti ho scelto. Solo io. Per la
prima volta ho sentito che potevo scegliere e ho scelto l’unica ragione per cui valeva la pena prendere le redini di ciò che ero
e decidere da me cosa volevo. Volevo solo te. Mi continuavi a girare nella testa, come quelle musiche belle che ti fanno stare
bene se le canticchi, una cosa piccola ma che ti dona una pace mai vista prima. Tu. Eccoti. Da quando tutto quello che pensavo
ti coinvolgeva, mi hai scombussolato la vita. Me l’hai rivoltata e formata come qualcosa che mai avrei potuto ottenere da solo.
Un capolavoro mi sono sentito, grazie a te. Quando ci stringevamo la mano sotto il banco, quando ti cercavo a mensa e vedevo
la tua mano alzata e letteralmente correvo verso te, quando mi fissavi mentre ti spiegavo le derivate che non capirai mai, con
quegli occhi blu puntati su di me e la guancia appoggiata al tuo palmo e i respiri profondi che mi facevano capire che mi volevi,
ecco, in quei momenti ti avevo già scelto. Perché mai, mai, avevo dato così tanta attenzione a qualcosa se non a te. Te, che
vali tutta l’attenzione di cui la mia mente brillante è capace. Non ho mai voluto concentrarmi su qualcosa come mi sono
concentrato su ogni centimetro della tua pelle o ogni cambiamento della tua voce durante gli anni o ogni sospiro che non
trattenevi quando mi stavi troppo vicino. Ho sempre notato tutto, John. Io ti sentivo. Sempre. Il tuo amore mi avrà anche
aperto un mondo e fatto sentire quanto il cuore può battere incredibilmente forte per una sciocchezza come un sorriso ma
io, anche se nudo tra le tue braccia mi sono sentito in un altro universo e consapevole di quanto posso sbagliarmi sul bisogno
di avere un’altra persona, anche se mi hai fatto mettere in dubbio ogni cosa, sono ancora me stesso, John. Sono ancora
Sherlock Holmes. E per te, vorrei non esserlo. O almeno vorrei esserlo di meno ma il mio sangue è questo, la mia mente è
così’ e se trovi questo, la mia vita e la mia compagnia  insostenibile, ti capisco. Lo trovo insostenibile anche io. Spesso.
Anche se, da quando avevo te, faceva meno male. Un po' mi hai guarito e fatto pensare che Sherlock Holmes poteva anche
non essere umano, sensibile o una persona con tatto, ma credimi se ti dico che lo hai fatto sentire l’uomo più vivo, amato
e non esito nel dire più felice che ci sia mai stato. Scusami se sono così scontato, ma mi hai fatto capire che la felicità non
è qualcosa, ma qualcuno. Il qualcuno dove torniamo per accudirla, proteggerla e costruirla piano piano come noi stavamo
facendo. Come noi due abbiamo fatto. Mi hai fatto capire che non è un sentimento costante, né perfetto o sempre intenso,
ma neanche il mare lo è, neanche il cielo lo è, neanche un tramonto lo è. Eppure vale sempre la pena ammirarli. Valgono
sempre il nostro tempo. E noi varremo sempre il nostro il tempo, per quanto lungo sarà. Quindi, se io sarò sempre l’amore
per te, tu per me sarai sempre l’attesa che aspetterò con più fervore, piacere e pazienza di cui sarò mai capace. E sai
quanto sono terribilmente impaziente e quanta frustrazione provo nel dover attendere le cose, anche le più piccole. Ma
se devo aspettare te ovviamente è diverso. Tu ne varrai sempre la pena. Ti aspetto, John. Sorrido e ti aspetto, lo prometto.



P.S. Una volta, mentre stavamo parlando di libri (una cosa che non riesci proprio ad evitare) mi citasti Amoz Oz che disse
queste parole: “I libri, loro non ti abbandonano mai. Tu sicuramente li abbandoni di tanto in tanto, i libri, magari li tradisci anche, loro invece non ti voltano mai le spalle: nel più completo silenzio e con immensa umiltà, loro ti aspettano sullo scaffale.” Allora vorrei tanto che tu mi immaginassi così, come un libro, come qualcosa che ami fino al midollo e che sai che ci sarà costantemente, fermo e solido aspettando solo il tocco della tua mano che riconoscerò sempre e a cui mi concederò sempre. Vorrei tanto che tu sapessi che sarò così. Come un libro che ritornerai a cercare, volere, toccare, desiderare, leggere. Se è quello che vuoi, e so che lo è, lo sarò.

Con tutto l’amore di cui Sherlock Holmes è capace, unicamente tuo,  

Sherlock” 

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Capitolo 19
*** Tom ***


Si svegliò con un lungo sospiro e il profumo di bucato fresco gli bruciò quasi le narici.
Era il tipico odore di Tom, quello.
Di qualcosa di pulito, che ti fa sorridere senza un perché.
“Buongiorno raggio di sole.”
Sherlock sprofondò la faccia nel cuscino a quelle parole.
Il modo in cui si sentiva intimidito dal fascino di Tom per lui era ancora una cosa nuova anche se era passato un mese da quanto il suo rapporto dottore-paziente era stato compromesso dal suo invaghimento per il suo terapeuta.
Dopo aver scostato le lunghe tende bianche, la stanza fu invasa da un sole pallido e Tom poggiò le mani sulla vita, sbuffando.
“Anche oggi giornata uggiosa.”
Sherlock si rigirò nel letto e si alzò un po' poggiando la schiena nuda al muro.
“E’ così chiaro che non sei inglese.” Disse.
La figura alta e longilinea di Tom, che piano si voltò, era stretta in un completo blu notte e le scarpe nere lucide brillavano come fanno i riflessi del sole sul mare.
“Invece lo sono.” rispose, e i suoi grandi occhi azzurri guardarono Sherlock profondamente.
“Sì, lo sei. Sei nato e cresciuto qui, la tua istruzione è ottima proprio come lo è quella inglese ma…io parlo della tua anima.”
“Pretendi di conoscere la mia anima dopo un mese di conoscenza.”
Tom si avvicinò al bordo del lato del letto dove il suo ex paziente era steso e si piegò su di lui, poggiando le mani ai lati di quella stretta vita da ballerino.
Posò un bacio su quelle morbide labbra.
“Ci conosciamo da più di un mese.”
Sussurrò Sherlock sulle labbra umide a pochi centimetri dalle sue.
“Ero il tuo terapista. E quando sono stato il tuo terapista non pensavo a certe cose.”
Sherlock fece spallucce e Tom si allontanò verso il suo guardaroba per prendere una cravatta.
“Ma ti piacevo.”
La voce di Sherlock era forte, sicura.
“Certo. Sei un ragazzo molto più giovane di me, con un fisico mozzafiato…Dio solo sa quanto sei intelligente. Ti sei mostrato disponibile ed io cedo sempre alle tentazioni per cui ne vale la pena.”
Tom gli fece un occhiolino e si infilò un costoso orologio.
“Già”
Il tono con cui lo disse era velato di una pesante tristezza.
Era pieno di consapevolezza.
La consapevolezza del fatto che per Tom lui era solo una piacevolissima distrazione e che mai gli avrebbe dato di più.
Di sicuro non il suo amore.
Non erano fidanzati.
Scopavano, tutto qui.
Ed avevano ben chiarito questo loro dare avere perché Tom non voleva nulla di serio dopo il divorzio dalla sua cara moglie e con due figli non avrebbe mai avuto tempo di badare ad un’altra persona.
Mentre Sherlock bramava essere curato, desiderato, voluto ed ebbe queste cose solo sotto il punto di vista fisico.
Ma almeno metà della sua necessità la soddisfaceva.
 Si ripeteva questo per farsi andare bene la situazione in cui si trovava.

“Bene. Ci vediamo domani a cena. Ti passo a prendere io.”
Prese la valigetta in pelle, si chinò a baciare Sherlock sulla fronte e sparì velocemente.
L’eco della porta che si chiuse avvolse tutto l’attico.
Quel silenzio gli faceva male.
Si alzò e rifece con cura il letto.
Già nudo, gli bastò infilarsi sotto la doccia e aprire l’acqua.
Quella casa era di un lusso che neanche lui poteva permettersi.
Aveva del marmo bianco e grigio in ogni camera, soffitti alti e lampadari grandi e preziosi.
Era arredata in modo molto asettico e freddo, estremamente moderno, proprio come Tom: un uomo in carriera che concedeva interviste e convegni sulla psicoterapia in tutta Europa.
Si preparò velocemente le uova e dei toast e bevve succo di ananas in quella cucina mai toccata da una mano, mai neanche guardata da Tom che aveva uno stile di vita che non gli concedeva il lusso di stare molto a casa.
“Sherlock?”
Passi veloci raggiunsero la cucina.
Sherlock stava ancora finendo di mangiare.
“Tom…”
Il volto di Tom era inspiegabilmente dispiaciuto.
Una ruga profonda solcava la sua fronte.
Scostò una sedia dal grande tavolo di vetro che padroneggiava nell’open-space e si sedette incrociando le mani davanti a sé.
“E’ successo qualcosa?” chiese Sherlock, solo coperto da una t-shirt di Tom che gli andava un po' grande.
“Posso chiederti cosa hai fatto ieri sera quando sei balzato via dal letto?”
Sherlock rimase immobile.
“E sei tornato...solo per chiedermi questo?”
“Posso far aspettare la mia prima paziente. Tu sei di gran lunga più importante.”
Sherlock alzò istintivamente le sopracciglia.
“Senti Sherlock, so che non abbiamo una relazione romantica ma questo non vuol dire che io non tenga a te come persona e come ex paziente. Quindi non sorprenderti nel sapere che mi preoccupo per te.”
Si sentì quasi colpevole per aver dubitato di Tom.
Spesso gli era capitato di non sapere cosa rispondergli perché Tom era più grande, e quei tredici anni di differenza li sentiva. Tom lo zittiva e si sentiva inferiore certe volte. Ma la saggezza e la semplicità con cui lo zittiva gli faceva capire, per la prima volta in vita sua, che doveva ancora pienamente capire le persone e che per farlo, doveva stare in silenzio.
 “Ho scritto a John.”
Le labbra di Tom si separano e trattenne il respiro.
Annuì piano.
Sherlock lo guardava un po' nervoso.
“E’ una cosa positiva, Sherlock. Davvero.”
“Mh.”
Il suo sguardo si abbassò sul toast morso poco prima.
“Gli hai detto tutto quello che volevi dirgli?”
“Vuoi sapere cosa gli ho detto?”
“Solo se tu vuoi dirmelo. Solo se hai bisogno di dirlo.”
“E’ il mio terapista che parla? O l’uomo che mi scopa? O un amico?”
“La tua arroganza non ti porterà lontano nelle relazioni personali, quante volte devi sentirlo per convincertene…”
Sherlock incrociò le braccia, scosse la testa e sparì in camera sedendosi sul letto e prendendosi la testa tra le mani.
Tom lo raggiunse poggiandosi alla porta, mise le mani in tasca.
“E tu quante volte hai bisogno di scoparmi per innamorarti di me?”
“Oddio Sherlock, smettila di fare il bambino. Non ti si addice.”
Il volto e il tono di Tom era dolci, così apprensivi che a Sherlock diede un  fastidio pazzesco. Ma diamine se aveva ragione.
Tom non perdeva mai la pazienza, non si lamentava mai per nulla, era la calma fatta a persona.
Era l’opposto di John.
“Non parliamo di me. Io sono qui per te e lo sai.”
Si sedette sul letto di fianco a lui.
“Scusami. Non so perché ti tratto così.”
“Sì che lo sai Sherlock. Sei solo incapace di gestire ciò che John ti suscita. Ed io sono l’opposto di John; ti arrabbi con me perché sai che sono quello che ti farebbe bene ma non sono quello che vuoi.”
Entrambi sorrisero, complici.
“Dannazione. Non mi metterò mai con uno psicoterapeuta.”
“Se non vuoi essere capito più di quanto capisci te stesso…no, non ti conviene.”
Poggiò una mano su quelle spalle curve e le massaggiò piano.
“Sherlock, abbiamo parlato di John durante ogni singola seduta. Tu ami lui e lo amerai per sempre, credimi. Non…non c’è modo che uno come te provi di nuovo qualcosa del genere e ti ripeto quello che ti ho detto la prima volta che abbiamo capito che stavamo superando il rapporto dottore-paziente: non sarò io fartelo dimenticare. Hai accettato di concederti a me per distrazione e ti avrà fatto bene ma è una cosa inconcludente.”
“Non è molto da aiuto credo.”
“Non devono esserti di aiuto le mie parole. Devono essere la verità e la verità è questa. Accettarla non ti risolverà tutti i problemi, ma ti farà sorridere di più, ti farà vivere le giornate con più leggerezza ed è questo di cui hai bisogno. Almeno fin quando tu e John non vi ritroverete. L’unica responsabilità che vorrei ti prendessi ora è quella di fare quello che seriamente vuoi perché tu meriti la tua felicità. Non la mia, né quella che nessun’altro può darti. Ma la tua. Capisci?”
Gli passò una mano tra i ricci scuri e Sherlock tremava un po'.
“Hey…” gli sussurrò ma il ragazzo che stava consolando non riusciva ad alzare lo sguardo.
“Leggi.”
Tom prese il pc e lesse la mail.
Si ritrovò una lacrima a bagnargli il viso e rimase senza molte parole.
“Sono convinto che John non resisterà molto senza te.”



Dopo quella conversazione, Sherlock non rivide più Tom.
Non andò alla cena il giorno dopo né passo altre notti di sfrenata passione con lui.
Notti che, ammise, gli sarebbero mancate molto.
Ma continuò a sentirlo, a chiamarlo, perchè fu comunque il suo angelo custode durante il periodo più difficile della sua vita.
Fu un amore strano, troppo complicato, con un uomo troppo grande e troppo perfetto per lui.
Non era il suo destino ma era stato una parte di esso.
Ora era a telefono con lui.
Erano passati tre anni e lo chiamava per qualcosa di inaspettato, qualcosa che rese Tom molto eccitato e commosso.
Sherlock era appena uscito da un fioraio a Covent Garden per gli ultimi dettagli da decidersi e fu in quel momento che glielo disse, un po' impacciato e quasi timidamente come se stesse confessando un intimo segreto. In fondo lo era ancora per molti.
“Ti avevo chiamato per uno scopo ben preciso, Tom.”
“Oh… Hai qualche problema, Sherlock?” chiese preoccupato.
“L’unico problema ci sarà se non potrai venire al mio matrimonio. Perché vorrei tanto che tu venissi.”
Il sole gli accarezzava le guance.
Londra pulsava introno a lui e si sentiva vivo come mai prima.
La voce felice di Tom, che gridò qualcosa di incomprensibile dall’altro capo del telefono, lo fece sorridere.
Dopo un momento di quasi isteria Tom riuscì a rispondergli che ci sarebbe stato sicuramente.
“E’ ovvio che ci sarò!”
 “Bene.”
“Mio dio, Sherlock. Avevamo parlato del fatto che John si è presentato alla Royal Ballet School e…che avete parlato, vi siete detti di tutto, ma…è passata poco più di una settimana da quel giorno e…”
“Lo so. E’ incredibile come va la vita. Come le cose…ritrovano il suo posto.”
“Non ho mai avuto dubbi su quale fosse il tuo posto. E' John e …”  
Sentì Tom sospirare, forse piangere.
Parlarono ancora per un po' e si lasciarono con la promessa che presto si sarebbero rivisti. Sherlock non aveva ancora realizzato cosa stava succedendo.


Aprì la porta di casa.
“Sono tornato!”
Poggiò delle buste sul divano insieme alla sua giacca.
Prese del tè freddo dal frigo e lo sorseggiò piano dalla sua tazza.
Contemplò per un po' Londra dalla sua vetrata che gli regalava quel quadro irripetibile e piano sentì una mano calda accarezzargli la schiena.
Si voltò e sorrise.
“Hey”
“Ciao.”
Gli occhi blu di John gli fecero venire la pelle d’oca.
Stava pensando che ora li avrebbe avuti al suo fianco tutti i giorni.
Il suo mare personale in un città così grigia.
Guardava i capelli chiari di John e pensò che anche se la mattina si sveglierà e non ci sarà il sole, accarezzerà quei capelli e sentirà lo stesso calore del sole, tiepido, a riscaldargli le dita.
A John bastava pensare che ogni giorno con Sherlock sarebbe stato una battaglia perché il loro amore era pura guerra a volte. Ma vincerla era il suo scopo.
Sanguinare, parare i colpi peggiori, perdere, rialzarsi, combattere era il loro scopo.
Si parò davanti a lui e poggiò le mani  intorno al suo collo, posò le labbra su quelle di Sherlock che avevano il sapore fresco di limone.
“Tra un’ora abbiamo la prova degli abiti.” Gli sussurrò.
“Mh mh.”
John fece scivolare la mani dal collo, alla schiena, fino al sedere che strinse prepotentemente.
Spinse il corpo di Sherlock contro il suo e sorrise malizioso.
Inizò a baciargli il colo, prima con le labbra poi passò alla lingua.
“J-John…”
Sherlock fece cadere del tè a terra.
“Il…tè…”
John prese la tazza e velocemente la posò sul tavolo.
Ritornò a baciargli il collo e appena sentì l’erezione di Sherlock premere contro la sua disse:
 “Che dici, proviamo il letto nuovo?”
“Non rompiamo anche questo però.”
Sherlock strinse l’erezione di John nella sua mano e John fece un gemito osceno.
“Di questo passo, futuro Signor Watson, non ti assicuro nulla.”  
 

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