Out of Breath

di ClaireOwen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I ***
Capitolo 3: *** II ***
Capitolo 4: *** III ***
Capitolo 5: *** IV ***
Capitolo 6: *** V ***
Capitolo 7: *** VI ***
Capitolo 8: *** VII ***
Capitolo 9: *** VIII ***
Capitolo 10: *** IX ***
Capitolo 11: *** X ***
Capitolo 12: *** XI ***
Capitolo 13: *** XII ***
Capitolo 14: *** XIII ***
Capitolo 15: *** XIV ***



Capitolo 1
*** Prologo ***



La prima volta che Bellamy Blake sente qualcosa nello stomaco che gli dona al contempo un senso di nausea e d’inspiegabile euforia ha diciassette anni ed ha ancora qualche brufolo sul viso già marcato da numerose efelidi.
E’ un pomeriggio di tardo Settembre, fa caldo ed insieme ad un gruppo copioso di ragazzini se ne sta con le gambe a penzoloni lungo un muretto di periferia.
Ci sono proprio tutti da Jasper a Miller, da John a Raven. C’è anche O’, sua sorella minore che ha insistito per trascinare con lei la fantomatica Clarke Griffin, una quindicenne dal viso fiero e dai lunghi capelli color grano.
 

“E’ stata appena mollata dal ragazzo.”
Bell alza le spalle di fronte a quell’affermazione che non lo tange minimamente anzi… Se la presunta migliore amica di Octavia, che tante volte ha distrattamente osservato gironzolare per casa, ha una relazione o aveva insomma… Questo vuol dire che anche sua sorella potrebbe…
Non riesce a formulare il pensiero nella mente, rabbrividisce anzi e scuote la testa, dunque preferisce convincersi del fatto che la cosa non lo interessi e basta, è molto più semplice così.
“Fai come ti pare.”
Borbotta in tono distaccato quasi freddo.
O’ gli lancia un’occhiata truce, non ama il modo in cui suo fratello sfoggi quell’aria così sicura di sé anche con lei, non ne vede il bisogno.
Ma si accontenta del resto ha appena ottenuto ciò che voleva; lo aveva promesso a Clarke che per distrarsi avrebbero passato il pomeriggio in compagnia dei più ‘grandi’.
 

Ma quel pomeriggio non appare agli occhi dei giovani poi così interessante o anche solo diverso dai soliti.
Qualcuno fuma una sigaretta di troppo, Bellamy si accorge di aver quasi terminato il pacchetto e nonostante Miller gliene abbia chiesta più di una sente un leggero senso di colpa farsi largo in lui.
Murphy gioca con i capelli di Raven, si diverte a darle fastidio, sta intrecciando varie ciocche tra loro e ridacchia osservando le espressioni buffe ed indispettite che la ragazza gli riserva eppure non fa nulla per fermarlo.
Qualcuno commenta le prime giornate scolastiche, Octavia si unisce al discorso con disinvoltura, non si sente più una bimba ora che finalmente è al secondo anno.
Clarke in un silenzio imbarazzato posa i suoi occhi su ognuno di loro, osserva attenta i loro lineamenti ancora grezzi, poco definiti, ancora così vicini alla pubertà nonostante tutto.
Si chiede come sarà lei tra un paio d’anni quando come Raven, Bellamy e gli altri dovrà diplomarsi, si domanda se sentirà ancora quella fitta al cuore che ora le sembra inguaribile, se si riprenderà dalla prima delusione, se qualcuno sarà disposto non ad amarla ma a volerle bene almeno e si stupisce perché lo sa, non sono pensieri che una comune quindicenne dovrebbe fare.
 
“Sto per addormentarmi.” Murphy sfoggia un tono saccente ed esasperato quel tanto che basta per guadagnarsi l’attenzione di tutti su di lui.
“Quanti soldi avete?” Lo chiede così, schietto senza porsi tanti problemi.
Alcuni frugano nelle tasche, tirano fuori pochi spicci, senza fare domande, si fidano ciecamente delle idee del biondino per tentare di tirar su quel pomeriggio di sudore e chiacchiere banali.
Bellamy però lo guarda torvo, l’amico sa che in condizioni normali non lo farebbe ma la presenza di Octavia lo rende più responsabile di quanto ci si potrebbe aspettare da un qualunque diciassettenne.
“Rilassati amico, voglio solo comprare un paio di birre, si muore dal caldo dopo tutto!”
L’altro s’irrigidisce, serra la mascella ma non dice nulla anzi annuisce, è un gesto impercettibile il suo ma John sa individuarlo, in fondo lo conosce meglio di chiunque altro.
Ha ceduto ed ora che ha il permesso del maggiore dei Blake, il giovane Murphy si sente più leggero.
“Come pensi di poterle comprare? Non hai mica ventun anni.”
E’ la piccola Griffin a scaldarsi, il suo tono non è a dirla tutta così inquisitorio, curioso piuttosto e forse un pelino esaltato.
“Ho le mie conoscenze principessa.
E la ragazza lo fulmina con lo sguardo. Non ama gli epiteti o gli stupidi nomignoli men che meno quello che gli ha affibbiato il fratello della sua migliore amica quando l’inverno scorso si è rifiutata di mangiare quel piatto di minestrone bollente a casa Blake.
Ma poi con superiorità si fruga nella tasca dei pantaloncini e tira fuori tre dollari porgendoli al biondo che le riserva un sorriso soddisfatto e un occhiolino scintillante.
Octavia guarda con sospetto prima l’amica poi quel ragazzo che è da sempre nei suoi ricordi e si lascia sfuggire un’espressione piuttosto confusa ma resta ferma, in silenzio e spera ardentemente che suo fratello non bolli la fin troppo giovane amica come una cattiva compagnia.
 
Clarke beve la sua prima birra quando l’estate volge al termine e si sforza per non rimanerne disgustata, se l’era immaginato diverso il sapore e invece le lascia un retrogusto fin troppo amaro sulla lingua.
Non sa perché lo sta facendo o forse sì, deve aver sentito da qualche parte che aiuta a dimenticare ed in un certo senso si convince che stia funzionando, del resto è troppo occupata a trattenersi dal riservare ad ogni sorso un’espressione affatto soddisfatta.
Octavia le da una gomitata su di un fianco, la bionda si gira ed i suoi occhi sono limpidi, loquaci: le chiedono esplicitamente ‘Cosa c’è che non va?’ dopo tutto la minore dei Blake non sembra a suo agio così le afferra la mano e la trascina poco lontano, si assicura che gli altri non possano ascoltare ciò che ha da dire all’amica.
E deve essere il caldo, il movimento improvviso ma Clarke sente il suolo mancarle sotto i piedi e la testa le gira quel tanto che basta per non farle comprendere a pieno la ramanzina che Octavia le sta riservando.
C’entra qualcosa suo fratello, il fatto che le vede come delle ragazzine da proteggere e che non vuole che si faccia un’idea sbagliata su di loro, anzi su di lei, sulla sua migliore amica.
“Su di me? Cosa diavolo vuoi che me ne importi di quello che tuo fratello pensa di me?”
Non fa in tempo a pensarla che la frase affiora sulle labbra della giovane Griffin, O’ strabuzza appena gli occhi e capisce che forse non è il momento adatto.
Le avrebbe detto ‘è a me che importa, idiota’ ma si morde la lingua.
Sa perfettamente che Clarke non è il tipo di persona che si lascia sfuggire commenti simili, sa che è una ragazzina con la testa a posto, pacata, persino troppo a volte ma soprattutto capisce che non è lei a parlare, è quella birra che non ha mai bevuto prima d’ora, è tutta quell’assurda situazione che riguarda quel tipo più grande che l’ha mollata, tale Finn e forse alla fine è un po’ colpa anche di quel caldo asfissiante.
Allora sbuffa appena, più a se stessa che all’amica la prende nuovamente per mano, la riporta indietro e l’altra si lascia condurre nuovamente senza lamentarsi ulteriormente.
 
Le bottiglie di vetro verde adesso sono vuote, se ne stanno su quel muretto al loro fianco, non c’è mai nulla da fare in quel dannato quartiere e quei ragazzi sembrano nati e cresciuti al bordo di quel muro sopra il quale sono incisi nomi, date importanti, dediche, alcune scritte ormai sbiadite, altre nuove di zecca: raccontano la loro storia, quel luogo gli appartiene, è di ognuno di loro, conosce tutto: ogni lacrima, litigio, amore è lì ed è lì che resterà, sempre.
 
Ma ecco che Jasper si difende da una battutina che lo ha fatto agitare, opera di Murphy chiaramente…  quindi si muove maldestramente mentre il compagno cerca di dargli un buffetto sul capo, urta una delle bottiglie vuote che in poco tempo è a terra in mille pezzi.
I piccoli frammenti verdognoli brillano, riflettono quei raggi ancora maledettamente caldi del sole estivo che se ne sta alto nel cielo, imperterrito.
Basta questo a cambiare le dinamiche delle loro conversazioni, qualcuno ridacchia, qualcun altro se la prende con John, Octavia deve aver detto qualcosa in difesa del gracile Jordan mentre l’unica a starsene in silenzio ancora una volta è Clarke.
Non riesce a distogliere il suo sguardo rapito dal vetro in frantumi che adesso riposa sull’asfalto sudicio adornandolo di un colore, di una luce nuovi.
E deve scattar qualcosa nella sua testa, leggermente annebbiata, lontana dal gruppo di ragazzi che anima quel vicolo cieco, che lascia troppo spazio a pensieri poco lucidi perché la più giovane della comitiva senza rifletterci davvero impugna il collo della bottiglia vuota al suo fianco e servendosi di quella leggerezza che solo una neoquindicenne può sfoggiare con tale disinvoltura, scaglia l’oggetto lontano, contro l’asfalto, con la giusta dose di rabbia e forse con un po’ troppa forza.
Basta questo a far voltare tutti di scatto, ad ammutolirli come pesci.
Clarke non sembra rendersi conto di quanto ha appena fatto, rimane immobile a fissare la seconda bottiglia rotta che stavolta, data l’enfasi con cui è stata gettata a terra, ha provocato un gran bel frastuono.
Accadono infatti due cose in contemporanea:
La prima è che mentre gli altri cercano di ricostruire la scena tentando di trovarvi un senso logico, Bellamy si scaglia contro la biondina.
E lo fa quasi con ferocia: ha sempre visto quel gruppo di delinquentelli come la sua unica famiglia, li ha sempre protetti, li ha messi in riga quando ce n’era bisogno, gli ha insegnato a non lasciarsi sprofondare nella periferia di Washington DC, dove si è troppo lontani dal centro per contare qualcosa.
Non lascerà dunque che una ragazzina, mandi a puttane il gran lavoro che ha fatto per permettere a quel gruppo di squinternati di salvarsi e sostenersi a vicenda.
“Si può sapere cosa ti salta in mente idiota?”
Urla quasi mentre salta giù dal muretto e con poche falcate colma lo spazio che lo divide dalla piccola donna, sta per stringere il colletto della sua camicetta di garza quando la seconda vicenda, che sembra proprio voler confermare i timori del  fin troppo responsabile Blake, cattura l’attenzione di tutto il gruppo: d’un tratto una donna piuttosto anziana si affaccia da una finestra mal messa minacciandoli
“Brutti delinquenti che non siete altro, sono anni che sopporto in silenzio ma non si possono passare tutti i pomeriggi e le sere accompagnati dai vostri indomabili schiamazzi. Se non ci pensano i vostri genitori a raddrizzarvi, ci penserà la polizia.”
La donna digita tre numeri sul cordless che tiene in mano e la giovane compagnia, impiega qualche frammento di secondo prima di comprendere a pieno ciò che sta per succedere.
 
Corrono, sono disordinati, rapidi ed i loro respiri affannati, irregolari riempiono le scoscese stradine del quartiere. I loro vestiti colorati e zuppi di sudore sfrecciano lungo le vie, si fanno largo tra i passanti un po’ sorpresi che non hanno il tempo di realizzare o di chiedersi per quale motivo quel branco scalmanato di adolescenti stia improvvisando quella corsa a perdifiato.
In lontananza si può udire una svogliata sirena ma in pochi oltre i diretti interessati, possono immaginare che sia riservata proprio a loro.
Ognuno conserva il fiato, lo hanno fatto dal primo istante, non è la prima volta dopotutto che si ritrovano in una situazione simile.
 
La loro fuga disperata e adrenalinica termina nell’unico luogo sicuro, lontano dal sobborgo: un parco dimenticato da Dio dove la vegetazione rigogliosa nonostante l’estremo clima estivo li ha protetti in mille situazioni.
Capitolano a terra stravolti, ognuno di loro si abbandona sul prato, all’ombra dei platani ed un silenzio irreale accompagna gli ultimi movimenti affannati, hanno seminato quella fantomatica volante della polizia, non ci sono echi di sirene, sono salvi.
Ancora nessuno parla, sono tutti troppo occupati a riprendere il respiro, a riappropriarsi del controllo dei loro corpi giovani e scattanti.
 
Bellamy Blake giace a terra con gli occhi chiusi, un miscuglio di strane sensazioni gli attanaglia lo stomaco, cerca d’inspirare profondamente e l’odore di erba fresca si fa largo nei suoi polmoni.
Sente il prato solleticargli le braccia lasciate scoperte dalla t-shirt blu che indossa e, a prescindere dalla sua volontà, un sorrisetto appagato si fa largo sulle sue labbra.
Si permette di aprire gli occhi allora, ci mette un minuto scarso ad abituarsi alla luce ancora forte e si guarda intorno attento, vuole assicurarsi che ci siano tutti, che il gruppo sia rimasto compatto, unito fino alla fine.
Il suo sguardo però viene catturato da un corpo giovane e aitante che si trova proprio accanto a lui: quello di Clarke.
Prova quindi istintivamente a distaccarsi da quella visione ma ottiene scarsissimi risultati, il petto della ragazza ondeggia spasmodicamente su e giù, segue il ritmo del suo respiro l’unica nenia che giunge alle orecchie del maggiore dei Blake.
I suoi capelli dorati scintillano disordinati si incastrano perfettamente tra i fili d'erba rigogliosi donandogli una nuova luce. La sua pelle è candida nonostante la stagione ed è brillante come neve al sole, le guance leggermente arrossate dallo sforzo e gli occhi azzurri appena spalancati gli appaiono come il cielo aperto, limpido che segue un acquazzone primaverile.
Bellamy si perde nella contemplazione di quel viso inerme, immaturo ma perfetto al tempo stesso, contro la sua volontà, senza riuscire a spiegarsi cosa stia accadendo di preciso: la matassa che sentiva nello stomaco pochi minuti prima si sta sciogliendo velocemente, la nausea lascia spazio ad un senso di eccitazione euforica mai provata prima.

“Tutto bene?”
Una voce in lontananza ha appena interrotto quello strano silenzio intervallato solo dallo stridere di alcune cicale, non sa dire a chi appartenga.
E così le prime risposte giungono e sono monosillabiche ma comunque pregne di una serenità infantile.
E’ in quel momento che la giovane Griffin sembra riprender coscienza e lo fa inondando l’aria con una risata spontanea, cristallina che in pochi secondi contagia quasi tutta la compagnia.
Non Bellamy che decide allora di sbirciare attorno a lui, sono ancora tutti sdraiati tranne Murphy che si è appena tirato su a sedere e grida enfatico:
“Era proprio quello che ci voleva!”
Jasper gli lancia un’occhiata dubbiosa mentre Harper, Raven e Octavia si uniscono alle risate che già da un po’ risuonano nel piccolo parco.
Miller meticoloso si sta pulendo la maglietta dalle tracce d’erba che l’hanno irrimediabilmente sporcata.

E’ esattamente come dovrebbe essere, va tutto bene e il maggiore dei Blake tira un sospiro di sollievo, poi si volta alla sua sinistra, attirato da quella risata adrenalinica e acuta che è riuscita a risvegliare ognuno di loro.
Ed è in quell’istante che Clarke Griffin percepisce uno sguardo estraneo su di sé che la costringe a voltarsi nella sua direzione, incrocia velocemente gli occhi scuri, profondi del fratello della sua più cara amica ed ecco che il respiro le si ferma in gola, non ride più adesso e sente il petto esploderle, non è il fiato corto stavolta però.
Sono occhi eloquenti quelli che si posano insistentemente sul suo profilo, la stanno rimproverando silenziosamente, la giudicano anche se…
Non sa dirlo con precisione eppure in quello sguardo attento c’è altro ma pur sforzandosi è sicura che non riuscirebbe a trovare le parole adatte a descrivere ciò che le iridi scure di Bellamy celano.
Si morde il labbro inferiore mortificata, sa che adesso dovrebbe girarsi, dirigere i suoi occhi chiari altrove, in qualsiasi altro punto ma le appare impossibile.
La pelle olivastra del ragazzo è imperlata dal sudore, il suo viso ancora contratto è serio ma incredibilmente dolce, deve essere per via delle innumerevoli lentiggini che sono posate sul naso e sulle gote asciutte.
“Mi dispiace.”
Sussurra timidamente.
E sa che dovrebbe porgere le sue scuse ad ognuno di loro ma vuole essere sicura che sia proprio lui ad udirle per primo.
Ad ogni modo se c'è una cosa che Bellamy Blake sa fare è stupire e stavolta lo fa riservandole un sorriso docile, spiazzante; china leggermente il capo, prega che nessuno si sia reso conto di quella sua impercettibile reazione perché di certo non è riconosciuto dagli altri come una di quelle persone affabili e gioiose, effettivamente non è dispensando sorrisi che il maggiore dei fratelli Blake si è guadagnato il rispetto da quel branco di scapestrati.
Tuttavia in quel momento Clarke Griffin pensa solo che se Finn Collins le avesse mai rivolto un gesto simile, così luminoso e disarmante per la sua sincerità genuina forse sarebbe stata in grado di perdonarlo all'istante.
 

Angolo autrice: Buondì! Nulla... non ce l'ho prorpio fatta a starmene con le mani in mano e il bello è che non ho la più pallida idea di dove tutto ciò mi porterà. 
Intanto ringrazio, non dandolo mai per scontato, chiunque sia arrivato fin qui 

Poi vi do un paio di avvertimenti, ho scritto questa roba qui in un paio di giorni rievocando oltretutto un mio ricordo davvero molto lontano... ma a parte questo non so assolutamente dirvi dove mi condurrà questa storia, ho in mente due opzioni:
1) Una long che devo però sviluppare completamente per cui credo proprio che in tal caso mi prenderò i miei tempi, soprattutto perché devo studiare come una matta per una marea di esami che mi aspettano a braccia aperte :( - Se dovessi intraprendere questa via quasi sicuramente cambierò il rating e forse sperimenterò sino al rosso ma sono tutte mie elucubrazioni, sia chiaro ma soprattutto la narrazione vera e propria subirà un balzo temporale e questo prologo risulterà semplicemente un flashback.
2) Una raccolta di OS, flashfic e quant'alro che potrebbero variare dall'AU al What If a ipotetici Missing Moments. Anche in questo caso non escludo che potrei cambiare il rating.

Infine spendo due parole per questo pseudoprologo: avevo già scritto un qualcosa sui Bellarke che ho cestinato perché non ero soddisfatta, solitamente, come in questo caso, mi muovo con le AU perché non mi sento pronta ad entrare nel vero e proprio contesto di The 100, ho sempre paura di risultare OOC o di fare scempi vari... Qui ci troviamo di fronte ad una Clarke del tutto adolescente e ancora poco matura ecco spiegato il suo atto decisamente sconsiderato ahah. Per Bellamy invece ho preso spunto dal suo progressivo cambiamento per cui lo vediamo già piuttosto maturo e con l'indistinguibile temperamento da leader. Che dirvi? Spero di non aver fatto casino e se mai qualcuno volesse spendere due parole facendomi sapere che ne pensa, non può che farmi piacere :)

Intanto vi abbraccio affettuosamente - scusate la solita logorrea,
Chiara.

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Capitolo 2
*** I ***


I
 
 
Clarke Griffin cammina per le strade affollate di Washington, adora farlo, ama guardare di sfuggita i volti delle persone indaffarate, distratte da quella frenesia di fondo che sembra fagocitare ogni cosa e si perde nei loro lineamenti fugaci, immagina storie e vite.
Dopo tutto la venticinquenne vive di questo, immagini e fantasia, astrattismo e veridicità.
Ma oggi non c’è tempo per perdersi nella contemplazione delle strade della capitale e l’unica cosa a cui si permette di lanciare un’occhiata è il suo orologio che segna le nove in punto. E’ in stramaledetto ritardo ed affretta il passo che la porterà verso il suo imminente futuro, verso il suo lavoro, la sua passione.
 
Quando arriva a destinazione suona al campanello di un vecchio edificio centrale, lo stile le ricorda, per quel che ne sa, quei grandi palazzi londinesi di epoca vittoriana visti nella moltitudine di cartoline che Lexa è solita farle recapitare almeno una volta al mese.
Quante volte le ha promesso di prendere il primo volo utile per ricongiungersi a quella pelle ambrata e a quegli occhi smeraldo che tanto ha amato?
Scuote la testa, sa perfettamente che è la giornata peggiore per pensare alla propria vita sentimentale così confusa e poco nitida.
Raven la accoglie con un sorriso luminoso e senza dirle nulla le strappa letteralmente dalla mano uno dei due frappuccini che la giovane biondina tiene saldamente.
“Non c’è di che!”
Sta al gioco la bionda che entra titubante in quel luogo che l’accoglierà per i giorni a venire. Si guarda intorno come una bambina curiosa, esamina ogni centimetro delle pareti bianchissime sulle quali con maniacale ordine e cura sono appesi diversi dipinti, osserva l’arredamento minimale e a grandi passi delinea quasi inconsapevolmente tutto il perimetro del suo atelier.
“Avrai tutta la serata per contemplare le tue opere.”
Sbuffa Raven dietro al suo bicchiere ancora fumante.
“Lo so è che…”
“Non ti sembra vero.”
La mora termina quella frase che negli ultimi giorni ha udito quasi in ripetizione e lo fa con una tenerezza di fondo capace di rassicurare almeno per un po’ la giovane Griffin che sospirando cerca di ricomporsi.
Clarke dovrebbe essere felice, chiunque al suo posto lo sarebbe dopo tutto sta per coronare quel sogno nel cassetto per cui ha lottato fino all’ultimo.
Stasera è la gran serata d’inaugurazione della sua galleria ed è tutto pronto, tangibile: proprio sotto i suoi occhi ci sono i volantini che nei giorni precedenti hanno infestato la città; le opere sono al loro posto, ogni quadro, schizzo, tavola ha la propria posizione scelta con cura ma invece di sorridere la ragazza digrigna i denti per l’agitazione.
 
*
 
Bellamy Blake siede composto sul suo sedile, non ha chiuso occhio nonostante il volo duri da un’eternità, sente il cuore vibrare ed uno strano presentimento.
Dovrebbe essere mattina ormai almeno seguendo il fuso di Washington e lui dovrebbe essere maledettamente contento di tornare a casa, di rimettere finalmente piede nella sua città natale dopo otto anni passati da sua madre Aurora a Sydney eppure ha una folle paura di non ritrovare più il suo posto.
Lascia che il suo sguardo rimbalzi dall’oblò al sedile accanto al suo, dove la non più piccola ed indifesa Octavia Blake dorme un sonno che non riesce a definire sereno.
Forse se sua sorella non avesse preso così male il rientro non si farebbe tutti quei problemi, cerca in modo ostinato di convincersi di quel pensiero ma non riesce ad essere del tutto sicuro che quella sia davvero la ragione di tanta stupida agitazione.
Il maggiore dei Blake non ama ammettere le proprie insicurezze e men che meno le paure ma negare l’evidenza sarebbe stupido.
Sono cambiate tante cose, persino i volti di quelli che erano i suoi migliori amici, non sono più una banda di ragazzini sconsiderati che credono ciecamente in lui, ognuno sembra aver trovato il proprio posto in quella città che per anni hanno definito ostile.
Le loro barbe non sono più incolte e disordinate, i loro visi ora sono asciutti, ripuliti, gli occhi non brillano più lucenti di quella pura ingenuità e questo lo spaventa a morte.
Perché Bellamy non sa più qual è il suo posto, sa solo che Murphy non abita più nella casa accanto, si è trasferito verso il centro ed ha persino trovato un lavoro, Miller studia al campus della Georgetown University e torna solo nei weekend, Jasper sembra essersi affermato nella scena musicale underground di Boston, nelle foto che ha visto online poi ci sono visi nuovi a cui non saprebbe nemmeno attribuire dei nomi.
Sa queste cose da quelle poche telefonate che in tutti questi anni si è scambiato con alcuni di loro, troppo poche per quell’enorme lasso di tempo e adesso mentre sorvola la capitale i rimorsi lo assalgono, è colpa sua, si sarebbe dovuto preoccupare molto di più per i suoi compagni d’avventure, si erano ripromessi di mantenere i rapporti ma lo hanno fatto con troppa svogliatezza.
Ha vinto la distanza alla fine anche se i patti promettevano il contrario.
Una voce lo allontana bruscamente da quei pensieri così titubanti: è atonale e dall’altoparlante comunica che tra venti minuti atterreranno a Washington DC, il tempo è buono, la temperatura mite e così Bellamy cerca di sforzarsi nel tirar fuori un sorriso convincente perché la minore dei Blake ha appena aperto gli occhi verdi che confusi e ancora assonnati cercano in modo quasi disperato il loro porto sicuro: le iridi scure di lui.
“Andrà tutto bene.” Sussurra il ragazzo e cerca di risultare il più sereno possibile nel pronunciare quella semplice frase ma forse lo dice più a sé stesso ed Octavia, probabilmente non convinta, annuisce in modo impercettibile, senza parlare, senza provare a rassicurarlo.
Sono giorni che prova ad instaurare un dialogo con sua sorella ma la fiera Blake sembra non volerne sapere, si è chiusa di nuovo nel suo mondo, si aggrappa a quel rancore che ha deciso di riservargli, nonostante tutto, nonostante gli innegabili atti di affetto spontanei e viscerali che da sempre caratterizzano il loro rapporto, invidiato di fatti da chiunque, e Bellamy sente un peso nel petto, non ha idea di quando tutto questo finirà, se mai lo farà.
 
 
Un uomo alto e snello sulla cinquantina cammina avanti e indietro per il Terminal 3, ogni cinque minuti riserva un’occhiata al tabellone con gli orari degli arrivi.
Manca davvero poco.
Non sta più nella pelle, si sente come un ragazzino e una leggera tachicardia s’impossessa del suo cuore stanco.
Stretto nel suo Levis logoro e forse macchiato dal quale una camicia di flanella scolorata fuoriesce in modo disordinato stringe al petto un mazzo di girasoli e una scatola di latta assortita di cioccolata.
Michael Blake, per gli amici Mike, non vede i suoi figli da otto anni, ha contato ogni mese, ogni settimana, ogni giorno, ora, minuto o secondo in cui sono stati lontani.
E’ un uomo all’apparenza burbero, il viso è ruvido e segnato, la barba scura piuttosto lunga, poco curata e qualche cicatrice procurata sul cantiere lo rendono un figuro non troppo raccomandabile ma due occhi di un verde smeraldino brillano di una luce nuova fatta di agitazione ed emozione che addolcisce immensamente i tratti severi di quel viso grezzo.
Pensa ai suoi figli, pensa al ricordo che ha dei loro volti, alle poche foto che si sono scambiati da quando Aurora li ha portati via con sé, da quando la famiglia Blake ha cessato di essere definita tale, almeno sin quando le porte del Terminal si aprono ed un gruppo di uomini e donne cominciano la loro personalissima corsa verso la capitale degli Stati Uniti d’America.
L’uomo allora raddrizza le spalle ed inspira profondamente, desidera che tutto sia perfetto, indimenticabile degno di essere raccontato in un romanzo e, a quel pensiero, un sorriso raggiante che contrasta con la sua espressione naturalmente tirata, curva le sue labbra leggermente screpolate.
Li riconosce subito, anche se sono ancora troppo lontani e assorti perché avvenga il contrario, i suoi occhi si appannano, sente le pupille bruciare ma trattiene quelle lacrime di gioia più che può.
Blake Senior non ama esternare la propria sensibilità ed ha sempre asserito con una certa fierezza che i suoi ‘cuccioli’ siano fatti della medesima pasta.
Vede Bellamy camminare con la schiena ritta e la piccola Octavia al suo fianco che si tiene stretta alla mano del fratello maggiore proprio come quando erano solo dei bambini, la minore cerca di star dietro alle lunghe falcate del  moro che la precede leggermente ed è in quel momento che Michael non riesce a trattenersi e corre incontro ai due figli schivando maldestramente la massa di persone che li separa.
I due ragazzi si ritrovano stretti in un abbraccio che odora di casa e diffonde un calore indescrivibile senza che nemmeno abbiano il tempo di realizzare quanto stia accadendo.
La prima a staccarsi è la più giovane che si sistema subito dopo il maglioncino di cotone sgualcito da quel contatto così aggressivo e dalle innumerevoli ore di volo, lascia che i suoi occhi esplorino l’aeroporto, non vuole assistere alle scene smielate che da sempre caratterizzano quei due e fa di tutto per distrarsi da quell’abbraccio che sembra quasi imbarazzarla ora che non ne fa più parte.
Bellamy Blake inspira a fondo, il suo naso percepisce l’odore della calce fresca che aleggia sul giubbotto di suo padre, l’uomo lo stringe con quella forza tipica che solo un operaio attempato riesce ancora a tirar fuori nonostante l’età e il ragazzo sente di non poter più far a meno di quella vicinanza. Con riluttanza i due Blake si staccano l’uno dall’altro e il più anziano, cercando di nascondere il tono rotto da quell’emozione primordiale che solo un genitore sa dimostrare dopo tanta lontananza, pronuncia il suo benvenuto ai figli:
“Bentornati a casa
Porge dunque i fiori alla piccola della famiglia e la scatola al maggiore.
“Non dovevi…”
è Bellamy il primo a parlare.
L’uomo osserva i due oggetti che i suoi figli stringono tra le mani e pensa che quegli stupidi regali non saranno mai abbastanza, così cerca di darsi un tono e quasi sbuffando intona un modesto:
“Non è nulla, figuriamoci.”
“Non c’era bisogno che venissi fin qui a prenderci, avremmo potuto benissimo prendere un taxi.”
La gelida voce di O’ spezza la cordialità impacciata che finora ha dominato la conversazione. Bellamy deglutisce rumorosamente e cerca di stemperare l’osservazione della sorella con un sorriso ma Mike fa spallucce e come se nulla fosse invita i ragazzi a seguirlo, prendendo con cura i bagagli della ragazza.
 
*
 
 Jasper e Monty arrivano portandosi dietro il loro inseparabile ritardo e quando varcano la soglia dell’atelier Raven si lascia sfuggire un sospiro di sollievo, mentre Clarke allontanatasi dalla zona adibita a segreteria è nello spazio espositivo da circa una quarantina di minuti e continua a lamentarsi senza sosta del fatto che la disposizione delle opere non è per nulla convincente, la sua voce arriva fin lì e la mora si porta le mani al volto ogni qual volta l’amica impreca contro una parete.
“Dio Grazie!”
Esclama così la giovane Reyes non appena incrocia gli sguardi dei due amici.
“E’ così tanto grave?”
Monty tira ad indovinare.
“Non ne hai la più pallida idea, è da stamattina che cerco di tranquillizzarla ma sembra proprio che invece che ad un’inaugurazione Clarke si stia preparando all’apocalisse vera e propria.”
“Ci pensiamo noi.” Jasper cerca di rassicurarla stampandole un bacio sulla guancia.
“A proposito lei dov’è?” Fa eco Monty mentre imita l’amico nel saluto affettuoso.
“Secondo te?”
“Domanda stupida, ricevuto.”
I ragazzi si lasciano alle spalle Raven che maledicendosi per aver accettato di far da social manager, monitora l’evento sui social e continua una promozione senza fine per far sì che la serata riesca al meglio.
Quando Green e Jordan approdano nella sala delle esposizioni trovano Clarke seduta al centro della sala, appoggiata con la schiena all’imperante colonna portante intenta ad analizzare ogni centimetro quadrato della stanza.
“Datti tregua ragazza.”
L’ammonisce Monty mentre la bionda, imbarazzata per essere stata colta in quel momento di debolezza, cerca di alzarsi di scatto per andare incontro ai due amici.
“Avete tutto? Vi serve una mano con gli strumenti? Avevo pensato di utilizzare quell’angolo per la vostra esibizion…”
Jasper non le permette di terminare.
“Dio Santo Clarke vuoi darti una calmata? Non ci serve assolutamente nulla, abbiamo tutto nel cofano ed il nostro tutto consiste semplicemente nel computer e le casse, dobbiamo allestire un djset mica far suonare un’intera orchestra!”
La biondina si morde un labbro colpevole e annuisce.
I due si avvicinano e la costringono in un abbraccio caloroso che sa di dolcezza, Jas poi le porge una busta.
“Per te.” Dice teneramente.
La ragazza sorride visibilmente ed estrae dalla busta regalo una splendida orchidea bianca.
“Dicono che quando si apre un’attività sia di buon auspicio regalare dei fiori”
Monty Green motiva la scelta del pensiero e Clarke ancora con il fiato sospeso si abbandona a quel moto amichevole:
“E’ perfetta.”
Corre nello studio chiamando Raven quasi istericamente e i due sprofondano in grasse risate, seguendola a distanza.
I quattro si ritrovano così insieme e mentre l’unica bionda del gruppo cerca l’angolo ottimale per la sua nuova orchidea i tre si perdono in osservazioni e commenti riguardo quel luogo immacolato che tanto hanno sentito decantare dalla giovane Griffin.
“E così finalmente riusciamo a vederlo!”
Inizia Jordan.
“Molto meglio che nelle foto che ci hai inviato su Whatsapp, devo ammetterlo, come ti senti?”
Fa eco l’amico.
“Dimmi che non le hai fatto davvero quella domanda” Raven ridacchia ma nella sua frase c’è un pizzico di esasperazione.
E’ a quel punto che Clarke riesce finalmente a dire qualcosa di sensato, con quella frase tutto le appare più reale, lei è lì, sta per inaugurare la sua galleria, il suo sogno ed è tutto grazie a suo padre Jake.
“Non lo so, sono così eccitata, non riesco a crederci e mi dispiace…” Guarda Raven per un secondo “Mi dispiace davvero se sono stata così insopportabile in questi giorni è solo che… voglio che tutto sia perfetto, voglio ricordare questa serata per sempre.”
“Oh… Lo farai!”
Si lascia sfuggire Jas eppure sembra che il suo commento non sia pienamente rivolto a quello che l’amica ha appena detto.
“Cos’è quel tono?”
Indaga allora Reyes acuta.
“Bhè, non avete sentito la novità?”
Incalza il ragazzo, facendo gioco sulla suspense e lasciando che tutti gli sguardi siano su di lui, solo quando ha la certezza di avere l’attenzione dei presenti inspira profondamente e si prepara a dare quella che ai suoi occhi era apparsa come la notizia del secolo:
“Pare che i fratelli Blake siano tornati a Washington DC!”
Clarke lascia che sue labbra si socchiudano in una muta sorpresa, non sa perché, non ha il tempo di chiederselo ma sente il suo cuore perdere alcuni battiti.
Octavia, ripercorre quel nome mentalmente ed insieme alle lettere le sembra di poter rivedere proprio dinnanzi a lei il profilo esile di quella ragazzina astuta e bellissima che era stata la sua migliore amica.
Non sono pensieri felici, una sorta di amarezza anzi si impossessa di lei immediatamente spazzando via l’ansia per l’inaugurazione, sbatte le ciglia e quel battito le basta per far sì che l’immagine dell’amica d’infanzia svanisca lasciando spazio a quella del fratello maggiore, alto e snello con i capelli scompigliati e quel sorriso beffardo come dipinto sul viso ornato da mille e più lentiggini, le sembra di poter descrivere il profilo di quel naso perfetto e di quel ricciolo ribelle che ricade sulla fronte leggermente corrugata.
Clarke Griffin senza dire una parola ma soprattutto senza lasciare agli altri la possibilità di far alcun commento, si è lasciata alle spalle i suoi amici e come attratta da una forza sovrannaturale si è catapultata nuovamente nella stanza adiacente mirando ad una parete ben precisa, quella della colonna posta proprio al centro della stanza.
E’ strano perché è l’unica di cui non si è più curata dall’allestimento, la sola su cui non ha avuto ripensamenti che ha lasciato immacolata dopo avervi posto il ritratto.
La giovane donna trattiene il fiato mentre sfiora leggermente il foglio dalla grammatura spessa che stretto in un elegante passe-partout impera sul muro ancora fresco di candida vernice.
E’ uno schizzo a carboncino che ritrae un ragazzino serio, i lineamenti del viso sono delicati ma decisi al tempo stesso ed è come se il tratto della matita morbida enfatizzasse nel modo più fedele possibile la natura ossimorica di quel volto, i riccioli neri sembrano prender vita nel preciso chiaroscuro in cui sono incastonati, lo sguardo leggermente crucciato è però fiero e lontano, non osserva gli occhi chiari di Clarke che trattenendo ancora il respiro li posa invece insistentemente su quel tratto a matita che conosce benissimo, è stato uno dei suoi primi ritratti.
Improvvisamente un’ondata di ricordi la travolge.
 
 
Quel giorno se ne stava seduta a gambe incrociate nella comoda poltrona dove solitamente torreggiava Michael Blake intento nel leggere articoli politicamente impegnati con la sua pipa accesa che impregnava le pareti del salone di un caratteristico odore aspro.
Lei e Octavia avevano aspettato quel giorno proprio come i bambini attendono la notte di Natale, era il pomeriggio del Junior Prom e per tutta la giornata non avevano fatto altro che prepararsi, si erano acconciate i capelli a vicenda, avevano fatto una fin troppo attenta manicure, si erano provate differenti vestiti e avevano osato con un makeup differente seguendo in modo maldestro dei tutorial su youtube.
Alla fine Clarke si era arresa, aveva lanciato uno sguardo al suo riflesso nell’ampio specchio di casa Blake e invece di una principessa ci aveva visto una ragazzina con un cerone ridicolo indosso ed un vestito troppo appariscente.
Allora era corsa a casa, lasciando che l’acqua tiepida della sua doccia lavasse via quei vani tentativi di apparire unicamente bella.
Octavia però l’aveva chiamata non appena si era resa conto della sua fuga ma la giovanissima Griffin era stata sincera, le aveva quasi urlato che non ce la faceva a vedersi in quel modo, che non si riconosceva e che forse tutta quella storia del ballo non faceva per lei, dopotutto sapeva che si era semplicemente lasciata trascinare da quell’enfasi genuina e piena di aspettative tipica della minore dei Blake. L’amica dall’altra parte della cornetta però l’aveva convinta a non mollare:
“Promettimi che tornerai qui nel vestito più semplice che troverai nel tuo armadio armata di scarpe da ginnastica e rimmel.”
La bionda aveva riso a quella strana richiesta e non era riuscita ad opporre resistenza quindi aveva spalancato le ante del suo armadio e aveva tirato fuori un vestitino bianco senza spalline che aveva indossato senza dover trattenere il fiato, era poi uscita in terrazzo lasciando che i capelli ancora umidi si asciugassero al sole e delineassero sulle sue spalle nude dei dolci boccoli vaporosi.
Recatasi in bagno poi si era truccata soltanto utilizzando del rimmel ed un rossetto color carne.
Davanti lo specchio che adornava la fine del corridoio di casa Griffin si era infilata un paio di  Converse sporche ancora di fango, aveva afferrato il suo giubbetto di jeans ed era corsa a perdifiato verso casa di Octavia.
Ricorda ancora l’espressione che Bellamy le aveva riservato quando in modo particolarmente seccato le aprì la porta d’ingresso: aveva strizzato gli occhi leggermente ed un sorrisino incerto aveva incurvato le sue labbra rosee lasciando che due leggere fossette facessero capolino agli angoli della sua bocca.
“Non sembro una principessa stavolta.”
“Ti sbagli, sembri una principessa coraggiosa, Griffin.”
Probabilmente Clarke aveva sbuffato e quando Bell le aveva detto che Octavia si era letteralmente chiusa in bagno da quando lei aveva abbandonato la loro dimora, la biondina si era accaparrata il posto più ambito sulla poltrona di pelle nell’accogliente salotto.
Fu allora che il suo sguardo si era posato sul tavolino basso accanto al divano; c’erano un album da disegno con dei fogli spessi e ruvidi la cui carta non era bianca ma tendente al giallo antico, alcuni schizzi a matita su di essi ritraevano paesaggi bellissimi: valli, fiumi e rami, animavano quei fogli che disordinatamente erano disposti sul tavolo creando una sorta di mondo immaginario che prendeva vita attraverso quel puzzle di cui ogni foglio componeva un preciso tassello e la cui composizione sembrava quasi esser stata studiata. In modo altrettanto casuale matite e carboncini di varia morbidezza riposavano sul legno del piano.
“Disegni?”
Una voce poco familiare l’aveva fatta sobbalzare imponendole di distogliere lo sguardo da tutto quel ben di Dio.
Era Mike, di solito molto taciturno, che con la sua pipa in mano la guardava incuriosito, accennando un sorriso.
Lei aveva annuito precisando “Solo ogni tanto a dirla tutta, non sono un granché.”
“Puoi prenderlo se vuoi.”
Disse Blake senior indicando l’album.
“O’ sa farsi attendere e se ti annoi e hai piacere puoi usare tutto ciò che vuoi per disegnare ed ingannare il tempo.”
“Non saprei… Ma la ringrazio tanto!”
“Non fare complimenti Clarke, davvero.”
E così dicendo l’uomo se n’era andato. La ragazzina aveva gettato un ultimo sguardo desideroso verso gli strumenti e furtivamente si era appropriata di un carboncino e dell’album.
Quindi si era ritrovata per dieci minuti buoni a fissare il foglio e ad accarezzare quella carta così preziosa per la sua unicità.
Disegnava è vero, lo faceva da quando era piccola, si era fatta persino regalare pennelli e tempere in occasione di qualche compleanno ma non si era mai sentita un’artista, anzi aveva sempre pensato al disegno come una ad una reminiscenza infantile che avrebbe dovuto scacciare invece di assecondare.
Così non aveva mai scavalcato quel suo approccio dilettantistico, disegnava su vecchi quaderni, diari ma non aveva mai comprato un album da disegno o qualcosa di diverso da una comune matita scolastica e ciò che aveva in più erano solo regali che spesso non utilizzava per paura di “sprecarli” nella realizzazione di quelli che definiva impiastri colorati.
Quando però aveva notato che un assorto Bellamy Blake se ne stava seduto sul tavolo posto proprio perpendicolarmente alla sua traiettoria visiva non era riuscita a sottrarsi dal ritrarlo.
Stava leggendo un libro ed ogni tanto mordeva svogliatamente una mela verde, non si sarebbe mai accorto di lei, dopotutto non lo faceva mai, la ignorava da quando aveva cominciato a frequentare assiduamente casa Blake e se le rivolgeva la parola non era mai carino nei suoi confronti, le riservava piuttosto solo battutine che le lasciavano un retrogusto aspro in bocca proprio come quello del limone.
Non ne soffriva comunque, anzi con il passare del tempo non solo aveva imparato ad incassare i colpi ma aveva affinato la sua tecnica nel fornirgli risposte a tono, spesso anche parecchio taglienti, tanto che ogni qual volta colpiva e affondava il maggiore dei Blake un’inspiegabile soddisfazione affiorava nel suo animo.
Aveva cominciato a disegnare sul foglio con una foga inaudita, improvvisamente era come se nella stanza non ci fossero che Bellamy e lei, voleva approfittare di quel materiale che non avrebbe mai più avuto a disposizione e si era ritrovata ad analizzare attentamente ogni piccola espressione del viso del maggiore dei Blake, ogni curva che i suoi riccioli intraprendevano, tutto lo spazio che il suo busto slanciato occupava. Nonostante la discreta distanza aveva realizzato in quel momento che si era lasciata sfuggire sempre così tanti dettagli del viso del fratello della sua più cara amica.
Non aveva fatto mai caso all’espressione seria e compita, a volte persino malinconica, che conservava, non si era resa mai conto di quanto il naso del ragazzo avesse una forma così morbida e perfetta o ancora non aveva notato quel ricciolo capriccioso che rimaneva imperterrito alla sinistra della sua fronte nonostante i numerosi tentativi del ragazzo di sistemarlo passandosi una mano tra i capelli.
Era bello.
E ricorda ancora bene di essersi rimproverata sorprendendosi a pensarlo, che le prendeva? Si era detta leggermente turbata; insomma era Bellamy Blake, il fratello sbruffone di O’, niente più.
Eppure la bellezza di quel ragazzo era sconvolgente e lo era perché bisognava soffermarsi a guardarlo per coglierla davvero, andava oltre i pettorali scolpiti e le spalle larghe che tutte le sue coetanee a scuola ancora invocavano rievocando gli ex alunni più popolari del liceo.
La bellezza che avvolgeva il maggiore dei Blake era profonda, intrinseca, si manifestava attraverso l’intensità del suo sguardo perso nel vuoto e aggrappato a chissà quale pensiero lontano o nel leggero ticchettio che le sue dita affusolate scandivano sul tavolo o nelle sue labbra morbide che si infrangevano contro la polpa e la buccia della mela che stringeva nella mano destra ed era arrivata al suo massimo esponenziale nel momento in cui aveva percepito il modo in cui sorrideva mentre leggeva le avventure di chissà chi in quel romanzo che continuare a divorare con gli occhi.
Quel giorno Clarke Griffin era riuscita a guardare oltre grazie al disegno, aveva abbattuto delle barriere ed il suo cuore aveva perso due battiti quando Bell si era morso il labbro inferiore ma la sua giovinezza e l’ansia per la serata che con Octavia aspettava da mesi aveva fatto sì che non se ne rendesse davvero conto.
Eppure la giovanissima aveva sentito uno strano formicolio di eccitazione quando la sua mano si era apprestata a delineare con dedizione il contorno del mezzobusto di quel ragazzo con il solo scopo di rendere giustizia a quella rara bellezza che da un momento all’altro era riuscita a captare.
 

“Pensi che verranno stasera?”
“Non lo so… ma se ci pensi siamo gli unici amici che Bellamy ha a Washington e si da il caso che saremo tutti qui.”
“Se conosco abbastanza bene John, credo proprio che lo avrà invitato.”
 
Clarke sente questi discorsi dal bagno anche se le pareti le fanno arrivare le voci in modo ovattato riesce ancora a distinguere ogni parola, è qui che ha deciso di rifugiarsi dopo la rievocazione di quei ricordi che credeva perduti per sempre, non sa nemmeno perché ha sentito quello strano bisogno di rintanarsi da qualche parte, di restare sola e non è proprio sicura di volerselo chiedere.
Si è appena sciacquata il volto con il getto freddo ed ora che si sta guardando allo specchio le sembra quasi di poter vedere riflesso il visoancora imperlato da qualche goccia d'acqua gelida della giovane Clarke Griffin in crisi per il Junior Prom. 
 

Angolo autrice: Ed eccomi qui, dopo un po' di tempo proprio come vi dicevo...
Alla fine mi sono lasciata trasportare ed ha vinto l'idea della long, è un capitolo che ho pensato in tanto tempo ma scritto, dopo un blocco iniziale, in modo quasi furioso per paura di perdere l'ispirazione, ho cercato di rivederlo al meglio ma data la foga potrebbe esserci comunque qualche svista.
Cercherò di fare delle revisioni ma per timore di ripensamenti vari ho deciso di pubblicare comunque, è un periodo di forte indecisione per me quindi cercate di capirmi ahah
Per quanto riguarda la storia spero di aver rispettato al meglio i caratteri dei nostri protagonisti e sappiate che ho mille idee nella mente che devo ancora sviluppare al meglio ma che mi accompagnano quotidianamente quindi spero vivamente di riuscirci, voi intanto se avete qualche osservazione fatemi sapere!
:)
Come al solito vi ringrazio di essere arrivati fin qui 

Per cui vi mando un abbraccio forte,
C.

 

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Capitolo 3
*** II ***


II
 
 
Quando Bellamy Blake mette piede nella casa in cui e nato e cresciuto sente dentro di sé emozioni contrastanti e solo per un momento tutto il resto, compresi suo padre e sua sorella, scompare, il ragazzo si ritrova solo tra quelle quattro mura ancora dissestate ed impregnate dal forte odore di tabacco per pipa che Michael aveva l’abitudine di fumare da giovane.
Non è cambiato nulla: gli anni hanno scalfito i mobili, ingiallito le pareti, logorato qualche utensile ma il maggiore dei Blake percepisce gli stessi odori di un tempo, se chiudesse gli occhi con una semplicità incredibile, potrebbe rivedersi correre nel modesto saloncino, o immaginarsi seduto in tavola ad imboccare una piccolissima Octavia.
Il leggero tonfo che accompagna le valigie posate a terra dalla sorella lo risvegliano da quell’evocazione ed il moro si vede costretto a riappropriarsi del presente in un modo fin troppo brusco, ancora una volta non è sicuro di essere pronto.
“Avevo iniziato a cucinare”
Dice il vecchio Mike grattandosi il capo. E risuona quasi come una frase di congedo, è equivalente a dire
‘Ci penso io qui, adesso siete liberi di risentirvi a casa, di riprendervi i vostri spazi.’
Octavia coglie il suggerimento e, senza dire nulla, sale le scale a due a due scomparendo nel piano superiore, persino il modo in cui si sente il parquet scricchiolare sotto ogni suo passo leggero non è cambiato.

Bellamy si guarda intorno ancora per un po’, tentenna, muove qualche passo incerto, cerca di riconoscere i suoi luoghi, passa una mano sulla libreria: ci sono ancora i suoi vecchi testi universitari di seconda mano e gli innumerevoli pamphlet e manifesti che il padre da convinto socialista e massimo esponente della classe operaia americana continua a costudire  gelosamente.
E’ naturale che il suo sguardo indugi quindi sulla figura paterna, che la analizzi ne colga le differenze, otto anni possono pesare molto più di quanto sembri, possono essere accostati quasi all’eternità.
E ora li rivede in ogni ruga del volto concentrato di Mike quegli interminabili anni, in ogni sfumatura grigiastra che i capelli dell’uomo dimostrano in modo schietto, nello sguardo più opaco e nella curva della schiena piegata dal lavoro e da fatiche più o meno necessarie.
E’ invecchiato e Bellamy per la prima volta pensa a quella burbera solitudine che deve averlo condannato a sembrare molto più avanti con gli anni di quel che è, si chiede se si sia mai dedicato a se stesso, se abbia avuto il tempo di trovare nuove amicizie, se abbia avuto rapporti con altre donne, se sia stato in grado di amare nuovamente.
Conosce già la risposta ma vorrebbe disperatamente convincersi del contrario.
“Tu come stai?”
Quella domanda gli esce in un soffio è apprensiva e per un attimo pensa che dovrebbe essere il contrario perché la regola vuole che siano i padri a preoccuparsi per i figli e non il contrario.
L’uomo si passa una mano sulla barba e offre al figlio un ghigno amaro, lancinante.
“Va tutto bene, Bell. Normale, credo. Sai com’è ad una certa età, si tira avanti.”
Si sta trattenendo, lo legge nei suoi occhi ridotti quasi a due fessure.
Annuisce ma dentro di sé sente il cuore andare in fiamme, vorrebbe spronarlo a fare meglio, vorrebbe vederlo nuovamente sereno, vorrebbe urlargli contro di pensare di più a sé stesso che loro, ormai non sono più bambini bisognosi di mille attenzioni, sanno cavarsela e sapranno capire ma capisce subito che sarebbe una battaglia persa in partenza e dunque Bellamy Blake non può far altro che assecondare il suo vecchio annuendo ancora e guardando altrove.
“In Australia invece com’è andata?”
Sgrana gli occhi che ritornano repentinamente su Mike quando quella domanda vaga ma così difficile da porre per lui, arriva alle sue orecchie.
“Sai che non fa per me. Ma tutto sommato poteva andare peggio.”
“Per tua sorella non è stato lo stesso, non è così?”
Chiede il padre ed è buffo, Bellamy sa bene quanto gli costi parlare di quella terra dove hanno vissuto per un anno prima che nascesse Octavia: Sydney città natale di Aurora ed incubo di Michael.
Blake junior cerca di focalizzarsi sulla domanda, sua sorella aveva trovato il suo posto finalmente, quello che lui aveva cercato disperatamente a Washington, lei lo aveva trovato tra le onde alte, le stagioni invertite ed i muscoli di Lincoln, surfista dal cuore d’oro che in un primo momento aveva fatto perdere non poche staffe al maggiore.
Ma non è quello il momento adatto per andare a scavare nei rimpianti della piccola O’ e nei capricci di Aurora.
“Già, suppongo di si ma Washington è sempre stata generosa con noi Blake ed Octavia deve solo ricordarsi dell’infanzia felice che ci ha regalato.”

 
Ricorda che la notte prima di andare via O’ aveva bussato alla sua porta ad un orario improbabile, frignava come una dodicenne anche se ormai prossima alla maggiore età; non ne voleva proprio sapere di lasciare le sue amiche, il suo liceo, il suo quartiere e Bellamy la capiva meglio di chiunque altro.
La sera prima avevano dato una specie di festa d’addio, il maggiore dei Blake, forte dell’aiuto della sua combriccola, aveva deciso di fare le cose in grande, non poteva permettere che venisse dimenticato nell’oblio, la partenza dei fratelli Blake doveva essere maestosa, avrebbe dovuto imprimere nel cuore di tutti un ricordo infuocato.
La scuola e la sessione d’esami per chi già frequentava l’università erano acqua passata: doveva essere un Luglio atipico perché nessuno era ancora partito per le vacanze e così il terrazzo di casa Griffin si era trasformato nella location perfetta per quell’ultima riunione.
Senza l’aiuto di O’ non sarebbero riusciti nell’impresa ovviamente, Bellamy non nutriva particolare simpatia nei confronti di Clarke Griffin o così voleva far credere ai più. La verità è che non amava averla intorno, si sentiva inspiegabilmente vulnerabile perciò aveva deciso di convincersi che non le andava a genio ma a mali estremi…
Octavia l’aveva convinta in men che non si dica, quelle due sembravano vivere in simbiosi, tanto che per un momento il ragazzo aveva temuto che la lontananza dalla biondina avrebbe provocato non poche problematiche all’animo sensibile della piccola Blake.

Erano arrivati in casa di Clarke di pomeriggio e la ragazza per dargli il benvenuto lo aveva preso per il colletto della camicia non appena messo piede nell’ampia terrazza
“Se solo uno dei tuoi amici prova a fare qualcosa di stupido…”
Bellamy non le aveva lasciato finire la frase.
“Non accadrà.”
Aveva poi preso nella sua la mano pallida della ragazza e con un gesto più delicato del previsto l’aveva convinta a lasciare la presa sulla stoffa morbida.
Le aveva sorriso, non voleva farlo eppure lo aveva fatto in maniera talmente spontanea da non potersi controllare, le iridi acquamarina della ragazza si erano dilatate leggermente, la presa in quel preciso istante si era sciolta e chinando leggermente il volto Clarke si era sbrigata a voltargli le spalle per andarsene.
Lui però era stato repentino nel stringerle nuovamente il polso tirandola leggermente a sé con uno scatto, quel tanto che bastava per far incrociare nuovamente i loro sguardi ad una distanza minima.
“Grazie Clarke.”
Lei aveva annuito trattenendo il fiato, o almeno così sembrava al maggiore dei Blake, conosceva abbastanza bene da saper ormai riconoscere l’effetto che aveva sulle ragazze.
“Non lo sto facendo per te ma per O’.”
Aveva risposto lei in un soffio stizzito ma comunque poco convincente alle orecchie del maggiore dei Blake.
 

“Sarà così ancora, senza alcun dubbio”
Quelle parole distolgono Bellamy dai ricordi fin troppo limpidi che lo hanno sopraffatto. Sono parole d’incoraggiamento, in quella frase c’è tutto ciò di cui ha bisogno: credere che qualunque cosa tornerà al suo posto è ciò che deve fare, lo sa perfettamente eppure sembra maledettamente difficile.
E’ come se la sua vita in Australia sia  stata solo una lunga pausa da quella che ha passato lì tra quelle mura, in casa Blake, in quel quartiere così distante da tutto.
Non è del tutto convinto che premere nuovamente play sarà semplice, sono passati troppi anni e quel vecchio mangianastri impolverato che è il contenitore della sua vita potrebbe tentennare da un momento all’altro.
Sente bussare sommessamente alla porta d’ingresso, dunque è così, suo padre non ha nemmeno riparato il campanello in tutto quel tempo.
“Vado io.”
Dice il moro più giovane mentre l’altro è ancora intento a darsi da fare con pentole e padelle varie.
Chi poteva essere?
Sicuro qualche scocciatura, decide quindi di far calare sul suo volto un’espressione seria ed impassibile mentre lascia che la sua presa salda schiuda la porta scricchiolante.
Quello che accade subito dopo è piuttosto difficile da spiegare.
Ci sono due occhi blu lucenti, un sorriso raro e dei capelli, gettati all’indietro in modo confuso, biondo cenere.
Johnathan Murphy non ha il tempo di dire nulla, non vuole farlo, semplicemente stringe a sé il suo migliore amico, l’unica persona alla quale si è permesso di voler bene davvero.
E Bellamy Blake si lascia scaldare da quel gesto così naturale, si perde tra le braccia del ragazzo di poco più basso di lui, strizza gli occhi, quasi lucidi, in un moto incredulo.

Il silenzio fa sì che Michael si affacci all’entrata e partecipi alla scena con un sorrisetto soddisfatto, sa perfettamente di aver fatto la cosa migliore, chiamare il giovane Murphy è stato un gesto spontaneo, non vederlo bivaccare sul suo divano per  tutti quegli anni è stato orribile quasi come vedere quella stessa casa svuotarsi del tutto.

Quando l’abbraccio si scioglie Bellamy non sa bene cosa dire, è come se le parole potessero rovinare tutto, in quel momento un briciolo di sicurezza si fa spazio nel suo cuore: forse non è tutto perduto ed il sorriso di Murphy non fa che confermare quella flebile supposizione.
E’ chiaro che sia lui quindi a spezzare il silenzio
“Stasera sei con noi, non ci sono scuse.”
Il maggiore dei Blake lo guarda leggermente confuso, costringe l'altro a continuare
“La voce ormai aleggia in tutta Washington mio caro, è tempo che la banda si riunisca.”
“Non lo so…”
“Non sai cosa?”
“Devo disfare le valige e…”
C’è qualcosa di cui Bellamy ha maledettamente paura: rivedere quei volti, riascoltare quelle voci è ciò che desidera di più al mondo ma teme che quel desiderio non sia ricambiato, a chi è mancato? Perché le loro vite non sono state messe in pausa proprio come la sua? A Washington DC tutto ha continuato a scorrere senza di lui e se non fosse in grado di riprendere quel treno già in corsa?
“Stronzate. Le tue valige possono aspettare. Siamo stati settimane ad aspettare il tuo ritorno, non puoi farti attendere ancora, Ci tieni ancora così tanto a mantenere la nomina di re ribelle, pidocchioso di un Bellamy Blake? Forse sei un po’ cresciuto per questa roba, non trovi?”
Eccolo, se ne sta lì con le spalle al muro, non c’è via di scampo e dunque non fa altro che sospirare
“D’accordo. Quali sono i programmi?”
“Una mostra, in centro.”
“Cosa?”
Deve aver sgranato appena i suoi occhi nero carbone, quindi adesso quei ragazzini di periferia se ne andavano in centro alle mostre? C’è qualcosa di perverso in quell’invito, o almeno così la vede lui, si deve esser perso davvero un gran passaggio di qualità se i suoi vecchi amici adesso sono interessati all’arte, di venerdì sera per giunta.
“Pensavi che avremmo passato il resto della nostra vita ad appassire su quel muretto?”
“No ma…”
“Senti Bell, niente ma, niente domande scomode, niente di niente, andrà tutto bene, passo a prenderti dopo cena, fammi sapere se tua sorella ha voglia di raggiungerci, credo ci siano alcune vecchie compagne che morirebbero pur di vederla ed ho un posto in più in macchina.”
“Mhh. Ne dubito ma comunque va bene, mi farò trovare pronto.”
Il biondo gli riserva una pacca sulla spalla e saltellando quasi, percorre il vialetto di casa Blake per poi sparire in un’utilitaria blu.
  
-
 
Una moltitudine di gente si è riversata tutta d’un tratto nella sala, se alle dieci Clarke si stava trattenendo con tutta se stessa dal mordicchiarsi nervosamente le unghie, mezz’ora dopo la sala è colma di gente che è lì solo per lei, unicamente per la sua arte, quanto ha di più importante.

Le gira la testa leggermente, le manca l’aria, ci sono persone da ogni dove ed è davvero felice, non ha paura di ammetterlo adesso, è fiera di sé, della su determinazione e cerca di renderlo manifesto anche in quel momento mentre parla con due uomini eleganti di mezza età.
“Lei ha talento da vendere signorina.”
“Vi ringrazio, davvero.”
“Ha frequentato qualche accademia in particolare?”
“No, ho lavorato sola, ed ho risparmiato i soldi per questo…”
“Ammirevole, complimenti davvero.”
Viene salvata da Harper che la tira leggermente per la camicia di seta chiara, indossata ordinatamente dentro la gonna a vita alta, e la sottrae dalle grinfie e dai complimenti formali di quei critici che lavorano per chissà quale rivista.

La ragazza ci mette un po’ a riconoscerla; tutto quel trambusto e quel vocio indistinto, l’emozione che sente pervaderle il corpo e comprende un’agitazione di fondo che sembra non volerla abbandonare, ecco tutti questi elementi non giocano a suo favore.
“Sei venuta alla fine!”
Esclama riservandole un sorriso pieno.
“Sono riuscita a cambiare il turno, sappi che l’ho fatto solo per te.”
Accompagna la frase con un occhiolino amichevole.
“A momenti arriveranno gli altri, sai? Non vedo l’ora che possano ammirare tutto questo, Dio mio Clarke, sei stata così crudele a tenere per te queste meraviglie per tutto questo tempo.”
“Volevo fosse una sorpresa e poi… Non ero così sicura che agli altri potessero davvero piacere.”
Dice l’ultima frase d’un fiato, forse perché persino alle sue orecchie appare leggermente patetica. Ma Harper è la dolcezza fatta persona e forse è l’unica a cui può rivelare quella piccola insicurezza. Tant’è che la ragazza al suo fianco le prende una mano, gliela stringe tra le sue e sussurra
“Sei sempre stata formidabile Clarke, in tutto ciò hai fatto, nessuno di noi nutre alcun dubbio, te lo garantisco.”
Annuisce, non è brava con i ringraziamenti ma l’amica lo sa, per questo non ha bisogno di fare complimenti, sorride allora ricambiando la tenerezza dell’amica fin quando un impellente interrogativo esce fuori d'improvviso dalle sue labbra
“Chi altro dovrebbe arrivare?”
Ha bisogno di sentirselo dire in modo esplicito, non vuole fare ipotesi, immaginare scene, crearsi aspettative, vuole solo una certezza a cui aggrapparsi.
“Murphy dovrebbe essere andato a prendere Nathan e Bryan, considerato che gli altri sono già qui, dovremmo esserci tutti, no?”
Clarke annuisce in silenzio.
Niente fratelli Blake quindi.
E non sa se dovrebbe sentirsi sollevata ma sente il sorriso che finora ha incurvato le sue labbra rosse indebolirsi un po’.
Scuote la testa e cerca di accantonare quello stupido pensiero, come poteva aspettarsi di vedere lì Octavia se i suoi ricordi con lei sembravano appartenere ad una vita precedente?
Era colpa sua, non era stata in grado di mantenere vivo il rapporto a distanza ed era chiaro che in otto anni passati così lontano si fosse affievolito.
Non era poi quello che stava accadendo con Lexa? Il suo destino le stava giocando un brutto tiro, non vi erano dubbi.
 

La prima volta che aveva visto quei capelli mossi color corteccia era al Senior Prom, Octavia non c’era più: un volo diretto l’aveva portata troppo lontano e quell’anno scolastico non era stato affatto memorabile come si erano più volte promesse in passato.
La verità è che ormai Clarke non vedeva l’ora di mettere piede fuori da quel dannato liceo.
Improvvisamente senza la sua migliore amica, tutto ciò di cui faceva parte, il suo mondo, i suoi amici, le feste, le ore di buco passate a vagare per la scuola non erano più entusiasmanti.
La quotidianità era grigia, le mancava maledettamente quel sorriso spavaldo, sentiva il bisogno di avere qualcuno accanto ma nessuno era in grado di rimpiazzarla e forse Clarke non voleva permettere a nessun altro di prendere il posto della minore dei Blake.
Si era isolata, lei e O’ erano le più piccole del gruppo, spesso capitava ancora che venisse invitata a casa di Raven o Murphy per qualche festa o occasione particolare ma altrettanto spesso capitava che passasse i sabato sera in casa, gli altri avevano la patente da un po’ cominciavano ad uscire fuori dal quartiere, a condurre vite differenti, la maggior parte di loro poi studiava o lavorava e spesso gli orari non combaciavano.
In men che non si dica era rimasta sola.
E non c'era da stupirsi se a quel ballo era andata così: sola.
La verità è che non voleva andarci affatto ma i suoi avevano insistito così tanto che alla fine per farli stare zitti si era infilata un vestitino nero, attillato e aveva raccolto i suoi lunghi capelli biondi in un elegante chignon.
Arrivata a scuola si era lasciata sedere sulle panche della platea in palestra e aveva preso ad osservare quell’insieme disordinato di gambe scoperte, vestiti luccicanti, cravatte dalle improbabili decorazioni e completi rubati ai genitori.
La musica non era un granché si ritrovò a pensare mentre sorseggiava svogliatamente il Punch roseo che colmava il suo bicchiere di plastica colorata.

“E’ davvero un peccato che una tipetta come te sia sola.”
Una voce decisa e suadente al tempo stesso l’aveva svegliata dalla sua osservazione quasi antropologica. Naturalmente si voltò verso la direzione di provenienza: una ragazza dalla pelle ambrata e dagli occhi verdi la scrutava sorridendo appena. Aveva dei lunghi capelli castani che le ricadevano dolcemente sulle spalle e sul seno in modo più o meno ordinato.
Clarke si dimenticò di fornirle una risposta perché incantata da tale bellezza che sembrava appartenere quasi ad una rivista per la sua perfezione, improvvisamente si sentì decisamente poco attraente, di fronte ad una ragazza simile aveva pochissime chances anche solo di ricevere una proposta per un brevissimo ballo, non che fosse la sua priorità ovvio.
“Non ci credo che nessuno ti abbia ancora invitato a ballare.”
Quando la misteriosa ragazza le rivolse ancora la parola, solo allora, Clarke cercò di trovare una risposta soddisfacente.
“Credo sia dipeso da me, non ero particolarmente ben disposta.”
Cercò di darsi un tono, in quel momento aveva capito che tutto ciò che desiderava era portare avanti quella conversazione, da quanto tempo non si apriva con qualcuno? Tutte le relazioni interpersonali che tratteneva a scuola erano superficiali, senza O’ non si sentiva più così sicura, difficilmente quindi attaccava bottone con qualcuno che non conosceva eppure quella sembrava l’occasione perfetta.
“I ragazzi sanno essere dei grandi stronzi.”
Clarke scrollò le spalle, non era esattamente quello che pensava, non ce l’aveva con nessuno in particolare per non essere stata invitata al ballo, era più arrabbiata con sé stessa per essersi chiusa in quel modo, era troppo tempo che evitava i luoghi pubblici, le partite di basket, la mensa… Come poteva anche solo pretendere che qualcuno l’avesse notata?
“Tu perché sei sola?”
Non le andava comunque di ammorbare quella ragazza con quei ragionamenti così stupidi e autocritici.
“Cosa ti fa pensare che lo sia?”
“Oh…”
Era stata una stupida come poteva essere sola quella ragazza? La sua bellezza primitiva doveva essere in grado di attrarre chiunque.
Si morse un labbro e abbassò lo sguardo. L’altra però le posò una mano sul mento costringendola a guardarla ancora.
“Se vuoi possiamo ballare noi due.”
“Io e te dici?”
“Vedi qualcun altro qui nei dintorni?”
Rise.
Fu così che Clarke Griffin conobbe Lexa Woods.

Mentre si dimenavano a ritmo sulla pista, la bionda si sentì viva per la prima volta dopo troppo tempo, non voleva che la misteriosa Lexa fosse un semplice rimpiazzo di Octavia ma era così contenta di non essere più sola, dovesse essere stato anche solo per quel breve momento.
Che male c’era? Non stava tradendo nessuno, stava solo riprendendosi i suoi spazi e quella giovane fanciulla sembrava esser piombata dal nulla in suo soccorso, si ritrovò ad immaginare che sarebbero divenute semplicemente buone amiche, lo sentiva nel profondo mentre gli occhi smeraldo della sconosciuta scrutavano ogni suo movimento.

Inutile dire che le cose furono molto più complicate di così.


 
Quando la realtà si fa di nuovo vivida, la giovane Griffin si ritrova per la seconda volta, in un arco troppo breve di tempo, a contemplare quell’unico quadro che ritrae una figura maschile in tutto l’atelier.
Quella colonna, l’attrae come una calamita e mentre sorseggia del vino bianco dal suo calice si perde nuovamente nel chiaroscuro che delinea il profilo di Bellamy Blake.
Il suo cuore fa una capriola, non capisce per quale assurdo motivo sia ancora lì, non sa perché nessuno la tiri via, non le dia da parlare, si chiede perché Lexa non l’abbia ancora chiamata e si sente quasi in colpa a starsene lì ad osservare un ragazzo che sicuramente deve essere cambiato immensamente in tutto quel tempo, mentre pensa al primo incontro con quella ragazzina combattiva ed affascinante che era la nuova arrivata al liceo Arkadia.

Eppure Clarke non riesce proprio a muoversi, la sua mente è altrove mentre i suoi occhi non ne vogliono sapere di allontanarsi da quel ritratto.
Chissà cosa nasconde adesso il viso del maggiore dei Blake, chissà se i suoi capelli sono ancora così scompigliati e ribelli, se il suo sguardo è ancora invasivo e profondo, capace di spogliare chiunque.

“Ha un’aria familiare.”
Una voce sconosciuta e calda punge i suoi pensieri confusi.
Clarke dovrebbe voltarsi, dovrebbe tornare al mondo reale e volgere lo sguardo al suo interlocutore ma continua invece a sprofondare in quei tratti.
“Uhm.”
Si lascia sfuggire solo un borbottio, non le interessa se risulterà scortese, è stata fin troppo disponibile con tutti finora.
La persona che ha disturbato le sue riflessioni fa qualche passo avanti e adesso è al suo fianco, Clarke scorge con la coda dell’occhio un paio di jeans chiari ed una felpa grigia ma ancora una volta decide di non interessarsi all’osservatore che ha avuto la faccia tosta di presentarsi vestito come se fosse andato a fare una passeggiata in campagna.
In un certo senso si sente stizzita dalla sua presenza, non è forse stata chiara? Gli avrebbe dato da parlare se lo avesse voluto lì, invece desidera solo ricominciare a vagare con la mente, vorrebbe far spazio alla sua fantasia ancora una volta, sentirsi vulnerabile e protetta al tempo stesso da tutto ciò che le passa per la testa.

“Sai, se non fosse che ho la certezza che sia stata tu l’artefice di questo disegno, oserei dire che questo tizio mi assomiglia tremendamente.”
E’ in quel preciso istante che Clarke Griffin sente la sua mano tremare, lo percepisce dal liquido che ondeggia più del dovuto nel bicchiere che stringe al petto.
Non può essere.
Quella voce acquista repentinamente un’identità, è più profonda di come la ricordava.
“B-Bellamy?”
Ha bisogno di una conferma prima di permettere al suo sguardo di catturarlo.
“Allora ho indovinato, sono proprio io questo qua!”
Fa come se nulla fosse e Clarke, che ancora non ha trovato la forza di voltare il capo, osserva quasi impaurita le dita del ragazzo che ora, a mezz’aria, indicano sé stesso nel quadro.
Parte da lì: da quelle dita affusolate intente ad indicare, risale piano il braccio avvolto dal cotone grigio scuro, arriva alle spalle larghe, coraggiose e finisce per osservare il collo scoperto, lo vede deglutire: il suo pomo d’Adamo ondeggia su e giù, fin quando i suoi occhi scorgono il mento aguzzo, pulito, senza alcuna traccia di barba, per poi risalire alle labbra che sono increspate in uno strano ghigno.
In un guizzo allora raggiunge le iridi scure: sì, sono ancora in grado di farla sentire completamente a nudo.
 
Bellamy Blake si gratta il capo mentre una bellissima Clarke Griffin è al suo cospetto con le labbra leggermente socchiuse. I suoi capelli neri e scompigliati vengono analizzati ciocca per ciocca dagli occhi vigili della ragazza, sono più limpidi di quel che potesse ricordare quel giovane ancora confuso dalla formalità in cui è stato catapultato senza preavviso.
 
“Io non credevo di vederti qui.”
Dice in un soffio Clarke quasi a giustificarsi per averlo esposto di fronte ad un centinaio di persone.
Certo non è lui in carne ed ossa, non è una fotografia, è solo uno stupido schizzo che lo ritrae ma in quel momento la giovane si sente in imbarazzo per aver fatto quella scelta, forse si sente completamente esposta anche solo per esser stata scoperta dal suo soggetto, all’epoca del tutto ignaro di esser stato ritratto.
“Già, a dirla tutta, nemmeno io credevo di vedermi su un foglio di carta nel bel mezzo della sala.”
Dice lui sardonico, gettando un ulteriore sguardo sull’opera di fronte alla quale stanno conversando.
Si dondola leggermente sulle ginocchia.
“Scusami. Forse avrei dovuto dirtelo è che non ci sentiamo da così tanto tempo…”
Lui scuote il capo e le rivolge un sorriso sghembo.
“Non importa, mi piace.”
Clarke Griffin abbassa lo sguardo, sente le sue guance prendere fuoco, non è il primo complimento che riceve eppure questo, nella sua profana semplicità, le fa uno strano effetto.
“Solo…" Continua lui "Non venderlo ti prego, mi metterebbe a disagio se qualcuno mi appendesse in soggiorno.”
A quel punto Clarke comincia a ridere.
E in quel preciso istante si rende conto che non ricorda l’ultima volta in cui ha riso così di gusto eppure il maggiore dei Blake ha fatto solo una stupida battuta, come suo solito, che infatti accompagna con un riso ben più discreto del suo.
Cerca di riprendersi in fretta ma sente la testa annebbiata ed il sangue pulsare nelle vene ad uno strano ritmo.
“D’accordo, te lo prometto.”
Dice tentando comunque di riacquistare un po’ di serietà.
“Grazie.”
E’ laconico invece Blake.
Sta a lei ora continuare.
“Dio mio, sembra passato un secolo… Come stai?
E Clarke si rende conto che è passato davvero un secolo; Bellamy Blake è un uomo adesso nonostante sia vestito ancora come un ragazzino, non è più acerbo come lo ricordava, le linee del suo volto sono più severe, non lasciano alcuno spazio alla morbidezza, il suo corpo è aitante ma non come quello di un adolescente, sembra forte ma al tempo stesso già scalfito dagli anni che si sono susseguiti.
La pelle è abbronzata, deve essere per via delle stagioni al contrario… Si ritrova a pensare ingenuamente.
Solo i suoi occhi sono realmente uguali a quelli che ha ritratto quasi dieci anni addietro: ancora attenti, profondi e lucenti nonostante il loro colore così scuro, ancora assenti, rivolti a chissà quale pensiero.
“Io? Sto bene, credo. Tu? Ti sei spostata nei quartieri alti vedo.”
Lo dice con un tono amaro, quasi di rimprovero.
“Già… Ma è stata dura.”
Perché sente quell’assurdo bisogno di doversi giustificare?
“Comunque sto bene, davvero… Octavia?”
Vorrebbe sapere tutto di lei ma teme di non meritarlo, è solo colpa sua se adesso quella che era la sua migliore amica è al pari di un qualsiasi sconosciuto.
Bellamy inspira, improvvisamente avverte quella strana tensione, sapeva che sarebbe accaduto.
Ma proprio quando, aggrottando le sopracciglia, è sul punto di rispondere, accade qualcosa.

“Eccovi!”
E’ la voce di Murphy che in un istante schiocca un bacio sulla guancia a Clarke, mentre Jasper, Raven ed Harper si riversano sul maggiore dei Blake con enfasi tempestandolo di domande.
Qualcun altro abbraccia Clarke: sono Miller e Bryan che le dicono qualcosa che la bionda non è in grado di percepire.
Il suo sguardo è intrecciato a quello di Bellamy adesso lontano da lei, separato dal suo viso da almeno una decina di persone ma comunque vigile su di lei.
 

Angolo autrice: Eccomi qui finally! Diciamo che ho poco da dire stavolta e spero che questo capitolo parli un po' al mio posto.
Abbiamo finalmente l'agoniato incontro ma come potete vedere le cose non sono semplicissime.
Ho continuato con i flashback - che avete apprezzato e mi fa immensamente piacere - perché ho bisogno di svelare parecchi retroscena e non volevo farli saltar fuori sempre e solo attraverso i dialoghi per cui, andando avanti, aspettatevene altri!
Come sempre ringrazio chiunque si sia addentrato in questa avventura al mio fianco, spero di poter condividere con voi ancora molto e se vi va di farmi sapere cosa ne pensate sapete che non posso che esserne felicissima :)
Un grazie speciale lo riservo a Federica (Wanheda_Skaikru) fonte d'ispirazione e guida preziosa con le sue splendide storie e recensioni e a Marvi (summer_day) per il dolcissimo sostegno dedicatomi anche qui.

Un bacio,
Chiara.

 

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Capitolo 4
*** III ***


III
 

In pochi minuti è stato assalito da troppe domande, tutte così uguali e differenti tra loro che è quasi sicuro che il suo capogiro dipenda strettamente da quanto sta vivendo, deve essere così. Clarke Griffin non c’entra, se ne convince in fretta.
Scaccia via con uno sbuffo impercettibile l’immagine di quella ragazza poco più piccola di lui, si costringe a rivolgere il suo sguardo altrove, non la cerca più, non vuole farsi sopraffare ancora da quei ricordi confusi che non ha mai dovuto affrontare realmente.
Nota quindi che Raven ha i capelli stretti in una severa coda alta e indossa un vestito sobrio color antracite. Si compiace di quanto poco sia cambiata.
Jasper ha tagliato i suoi capelli lunghi che ora invece rimangono ordinati in una rasatura millimetrica ma sembra comunque sprofondare nella camicia bianca e troppo larga che indossa goffamente.
Dietro di lui un tizio dai lineamenti asiatici avanza timidamente e cerca di partecipare come può a quella caotica riunione, si è presentato poco prima ma non riesce a ricordare il suo nome.
Harper invece affianca il maggiore dei Blake, splende di un sorriso brillante, ha un viso meno tondo e più interessante, è cresciuta bene, si ritrova a pensare: ‘Chi l’avrebbe mai detto.’
Eppure il ragazzo non riesce a districarsi in quell’orgia di sguardi e domande riservate esclusivamente a lui e sente il maledetto bisogno di una via di fuga.
E pensare che un tempo amava essere il protagonista indiscusso.
“Perché siete tornati? Non che mi dispiaccia ma ormai ci avevamo perso le speranze.”
S’interroga il giovane Jordan senza sapere che quella riflessione pesi quintali nel cuore di Bellamy che prova comunque ad accennare un ghigno.
“Dovevamo sistemare alcune pratiche.”
“Quindi poi tornerete in Australia?”
Harper è quasi preoccupata da quella ipotesi.
“Perché Octavia non c’è?”
Raven sembra invece stupefatta dall’assenza della minore dei Blake e Bellamy non riesce a crederci, la faceva più perspicace, è sempre stata la prima della classe dopo tutto.
Non è lui però che dovrebbe fornire giustificazioni al comportamento della sorella eppure non trova altra scelta.
“Ha sofferto parecchio il Jetlag, era sfinita.”
Taglia corto.
Deve approfittare di quel momento di silenzio per ideare una scappatoia, si avvicina a Raven quindi, da quel che ha capito gestisce quello strano posto con Clarke.
“Sai dirmi dov’è il bagno Rav?”
“Certo ma non scappare, non abbiamo ancora finito con te.”
Lo dice ridacchiando ma agli occhi del maggiore dei Blake suona davvero come una sorta di perversa minaccia.
La ragazza gli fornisce le indicazioni necessarie e il giovane si dilegua senza fare troppi complimenti.
Nessuno sembra colpito dal suo comportamento schivo e, per quel che vale, se ne compiace.
 
Non si rende conto ma sta quasi correndo, facendosi largo tra la calca; certo che i suoi amici ne hanno fatta di strada, pensa in modo che gli appare sconnesso da tutto ciò che sta vivendo, o forse no, sa che tutto ciò che è accaduto in sua assenza lo disorienta fino a stupirlo.
Quando arriva davanti la porta del bagno, fuori dalla sala principale, affianco a quella che deve essere la stanza adibita a segreteria di cui gli parlava la giovane Reyes poco prima, si permette di guardarsi intorno quasi con il fiatone.
E’ buio e le voci arrivano finalmente ovattate alle sue orecchie.
Non cerca il bagno, cerca qualcosa di più definitivo che di cinque minuti passati in un cubicolo tutto specchi e umidità.
Conosce abbastanza bene l’architettura dominante di Washington, gli esterni appaiono tutti differenti tra a loro ma al loro interno le disposizioni strutturali non mentono, si assomigliano fottutamente.
Gli basta dare un’ulteriore occhiata in giro per confermare le sue teorie, trova al volo la porta d’emergenza e ci si fionda a capofitto, si lascia scivolare fuori in modo furtivo.
E’ libero.
Sale i gradini che lo porteranno sul tetto del palazzo a due, a due.
Essere il figlio di un operaio che lavora da tutta la sua miserabile vita per un impresa edile ha i suoi vantaggi, un sorriso amaro gli curva le labbra leggermente dischiuse per permettere al leggero fiatone di fuoriuscire.
 
Sospira, lascia che l’aria frizzante della sera si abbatta su di lui, lo liberi dai pensieri, lo inebri. Chiude gli occhi, poi li riapre con uno scatto nervoso.
Si adagia al cornicione, permette ai suoi gomiti di trovare un punto di appoggio più o meno comodo e sprofonda nella visione notturna della sua Washington.
Mille luci delineano l’orizzonte, non ha la più pallida idea di dove si trovi, ha perso l’orientamento non appena Murphy ha superato i pochi punti di riferimento che gli erano rimasti della City, non si era mai spinto oltre se non per rarissime occasioni e quasi sempre si era mosso utilizzando i mezzi pubblici, di riconoscere quelle strade via, via più agiate nella loro lussuosa composizione non se ne parlava.
Forse quella città non è più la sua, forse non lo è mai stata.
Inspiegabilmente si ritrova a metter ordine nella sua testa, numera gli eventi, i visi che ha visto da quando è atterrato nuovamente sul suolo americano.
Pensa a suo padre, a Murphy, a Bryan e Nathan, a Raven e ai ragazzi e poi quel viso diafano e puro fa capolino nella sua mente.
Clarke Griffin di fronte ad un quadro che lo ritrae.
Ha riconosciuto quella chioma bionda dal primo istante in cui l’ha vista.
L’avrebbe riconosciuta in ogni situazione, si giustifica, era fin troppo semplice aspettare di trovarsela lì, non era il suo atelier quello?
 
Quando quella sera Murphy gli aveva detto che sarebbero andati all’inaugurazione della mostra di Clarke Griffin i suoi occhi erano colmi di sorpresa.
“Una mostra?”
“Arte.”
Gli aveva spiegato l’amico e così aveva finito per raccontargli che la ragazza si era iscritta alla facoltà di Medicina per seguire le orme della madre ma poi aveva mollato.
Una persona speciale l’aveva convinta a seguire la sua vocazione ma nessuno sapeva chi fosse, Clarke non ne aveva fatto parola con nessuno, semplicemente da un giorno all’altro aveva buttato tutto all’aria dando il via a non poche discussioni con parenti e genitori.
“Deve essere stato un ragazzo, non credi?”
La frase era fuoriuscita senza troppa esitazione.
“Mmh. Non credo, i gusti di Griffin sono più particolari di quanto credi.”
Particolari.
Che diamine voleva dire?
Si era impedito tuttavia di approfondire, perché doveva interessarsi alla vita privata di quella che nei suoi ricordi era ancora una ragazzina smorfiosa? Il resto del percorso fino al monolocale dei loro amici quindi era stato piuttosto silenzioso.
 
Ma adesso John non c’è e la sua curiosità riemerge.
Quello che continua a non spiegarsi è perché nessuno si fosse mai reso conto della dote che Clarke aveva costudito gelosamente.
Nemmeno Octavia ai tempi doveva sospettarlo, sua sorella aveva il vizio quasi malsano di raccontargli qualsiasi cosa riguardasse quella ragazza.
Quando aveva fatto quel ritratto?
Perché proprio lui?
I quadri di sotto erano strani, non brutti ma semplicemente bizzarri.
Più astratti che reali, linee colorate che accennavano idee.
C’erano corpi nudi di donne, sguardi penetranti, occhi verdi, cangianti, mani che si stringono ma il tutto era inserito in contesti confusi, le linee non erano mai volte a dipingere qualcosa di concreto, ne davano uno spunto ma non lo completavano, lo lasciavano immerso in colori confusi, sfondi macchiati, senza riferimenti tangibili.
Il suo ritratto era l’unico in bianco e nero.
L’unico i cui contorni delicati davano vita ad un’immagine palpabile, poteva davvero immaginarsi riverso su quel tavolo intento a leggere chissà quale libro.
Ogni sfumatura grigiastra sembrava far breccia nel suo animo, renderlo manifesto, non si era percepito così reale nemmeno in foto.
Ma lui di arte non capisce nulla e alla fine di quelle ponderazioni scrolla semplicemente le spalle in un moto di frustrazione.
Cerca di scacciare via l’immagine di sé su quel foglio ruvido, ingiallito.
Forse non aveva nulla di meglio da esporre.
Si convince di nuovo di una mera ipotesi.
 
 
-
 
Lexa non l’ha ancora chiamata.
Controlla il suo cellulare in modo quasi isterico, nessun messaggio, nessuna chiamata persa, nessun vocale nella segreteria.
E la protagonista della serata non può che lasciarsi andare in un goccio di troppo ed un sonoro sbuffo che probabilmente nessuno ha notato.
Nonostante il fuso orario non c’è stato un giorno che passasse senza uno squillo da parte sua, senza una frase colma d’affetto.
Forse Lexa Woods non è più tante cose ma di sicuro è ancora la sua sicurezza e sente di non poterne fare a meno, non oggi, non dopo aver sbattuto la testa contro un passato che ha sotterrato per troppo tempo.
E Clarke non riesce a capacitarsi di come proprio in questa situazione la giovane Woods non si sia ancora fatta viva. Dopo tutto la sua ragazza sa bene quanto sia importante per lei questa serata, le ha permesso di conoscere tutte le ansie, le sue incertezze e le paranoie che hanno preceduto la fatidica inaugurazione.
Il suo bicchiere quindi è di nuovo pieno, il suo sguardo è più languido e annebbiato, sente le parole fuoriuscire dalla sua bocca in modo più fluido mentre suo padre la blocca sorridendole e avvolgendola in un caldo abbraccio.
“Sono così fiero della mia bambina.”
Le sussurra all’orecchio. E Clarke vorrebbe abbandonarsi ad un pianto commosso ma cerca di rimanere incolume aggrappandosi leggermente alla giacca gessata che Jake Griffin indossa elegantemente per l’occasione.
“Non ce l’avrei mai fatta senza di te Papà”
“Oh sì che ce l’avresti fatta, ce la fai sempre alla fine.”
E la lascia andare solo ora che ha colmato quel piccolo vuoto che la figlia porta silenziosamente nel cuore.
“La mamma non c’è?”
Chiede allora la bionda con un filo di voce, conosce la risposta ma è ostinata proprio come lui, alla fine la genetica non mente mai.
“Non è riuscita a spostare il turno.”
E Clarke sente ribollire il sangue dentro di sé, Harper è riuscita ad essere lì per lei ma non Abigail Griffin.
“Verrà nei giorni successivi, mi ha chiesto di mandarle per messaggio più foto possibili.”
Suo padre cerca di giustificarla ma Clarke scuote leggermente la testa e si concede l’ennesimo sorso, come se una foto potesse rendere giustizia ad un quadro.
“Devo andare, gli altri mi stanno aspettando.”
Non ce l’ha con Jake e consolata dal fatto che lui capirà, si allontana fingendosi in cerca dei fantomatici altri.
Non ha la più pallida idea di dove voglia andare, non sa esattamente chi vuole trovarsi di fronte, non è che non desideri passare del tempo con i suoi amici è che le sembra che ogni singolo spettatore si senta forzato a dirle qualcosa, a fare un’osservazione e non è quello che lei pretende, non da quelli che sono i suoi amici di una vita.
Quando localizza Jasper con lo sguardo e lancia un’occhiata all’orologio da polso, è mezzanotte passata e un’idea che le appare brillante si fa spazio tra i suoi pensieri.
“Hei Jas’!”
“Agli ordini capo!”
La prende in giro bonariamente e la ragazza torna a sorridere per un po’.
“Credo che sia giunto il momento di movimentare il tutto.”
“Attenzione, Clarke Griffin mi sta davvero chiedendo di far muovere il culo a questi damerini?”
“Shhh.”
Fa lei stando al gioco.
Ma poi improvvisamente le parole che qualche tempo prima le ha riservato il maggiore dei Blake saltano a galla.
Ha parlato di quartieri alti. Non è esattamente quello che Jasper sta facendo ora? Rievocando le loro umili origini non la sta forse rimproverando?
“Hei tutto bene?”
“Uhm? S-si, solo alcuni stupidi pensieri.”
“Faremo scuotere a questi signori ogni singola articolazione, promesso.”
E solo dopo averle fatto un occhiolino rassicurante si allontana allegramente, perdendosi tra la folla, diretto verso la postazione dj improvvisata.
 
Pochi minuti dopo le luci si spengono nella sala, rimangono accesi esclusivamente i faretti direzionali che illuminano i quadri e pian piano i corpi incravattati e abbelliti da sfumature cangianti e da stoffe pregiate si muovo a tempo, governati da ogni traccia che Monty e Jasper lasciano scorrere abilmente sulla consolle.
Clarke Griffin assiste sola a quella magia, proprio come otto anni prima durante il Senior Prom, tutto è cambiato ma improvvisamente riesce a percepire la stessa identica morsa allo stomaco, tutte quelle persone sono lì per lei ma le sembra impossibile scacciare quel senso di solitudine che la pervade.
Senza accorgersene i suoi pugni si sono stretti lungo i fianchi tanto quasi da farle male, espira  in un moto d’inspiegabile insoddisfazione e cerca  disperatamente un rifugio lontano.
Arriva al bagno allungando il passo e quando si trova di fronte alla porta tira fuori dalla tasca della sua gonna vintage di camoscio il cellulare.
Lo schermo è vuoto, nessuna notifica si sovrappone alla foto che ritrae una ben più immatura Clarke stretta al viso di un’altra giovane donna dal sorriso smagliante e gli occhi verdi.
Tentenna tenendo il dispositivo tra le mani ancora un po’ poi in modo brusco preme il tasto di spegnimento e con un gesto quasi stizzito lo ripone nella tasca, è in quel momento che la sua attenzione è catturata da un dettaglio che non sfugge al suo sguardo attento nonostante l’annebbiamento leggero dovuto al troppo Chardonnay.
Una penna è incastrata tra lo stipite e la porta d’emergenza che porta alle scale antincendio del palazzo.
Senza capire bene il motivo Clarke si china dinnanzi al pesante portone antipanico.
Qualcuno deve essere lì fuori, qualcuno ha scelto come lei di rintanarsi lontano dal chiacchiericcio indistinto che pervade il corridoio buio ma quel qualcuno non ha tagliato tutti i ponti, ha lasciato che una penna non permettesse alla porta di richiudersi definitivamente alle sue spalle.
Qualche minuto dopo la giovane Griffin sale gli scalini che conducono al tetto del palazzo.
Avrebbe potuto scenderli, ritrovarsi nell’Avenue ben illuminato e fare una passeggiata ma ha deciso di concedersi una vista panoramica in quella sera di luna quasi piena.
 
 
-
 
Quando quella notte Octavia lo aveva raggiunto nella sua camera e si era accoccolata sulle sue gambe, Bellamy capì che lasciare Washington sarebbe stato deleterio, nei due giorni precedenti alla loro partenza erano successe più cose del previsto, sembrava che nessuno di quei ragazzini fosse disposto a lasciarli andare ed ognuno lo aveva dimostrato a suo modo.
Il maggiore dei Blake era scosso tanto quanto sua sorella con la sola differenza che non poteva permettere di farsi vedere debole, non da O’, se avesse voluto proteggerla da ogni male non poteva lasciare che lei lo vedesse in quello stato.
Non ci aveva pensato seriamente quando Aurora gli aveva quasi imposto di raggiungerla in Australia. Lui avrebbe potuto scegliere ma Octavia, ancora minorenne, era destinata ad essere sotto la tutela della madre, così aveva deciso la corte quando i genitori avevano divorziato ufficialmente solo pochi mesi prima. Aurora aveva delle entrate economiche migliori, un lavoro più stabile e a Sydney, dove era tornata, abitavano ancora i suoi genitori, ovvero gli unici nonni - e parenti - rimasti ai fratelli Blake.
Furono questi i maggiori fattori che condizionarono la corte a lasciare che fosse lei ad occuparsi della figlia.
Mike ne era uscito distrutto e anche se Bellamy in un primissimo momento aveva pensato di rimanere al suo fianco non era riuscito poi a pensare di separarsi da sua sorella. Non poteva permettersi di immaginarla sola in un paese mai visitato prima d’ora, ai suoi occhi era ancora un’adolescente troppo fragile per sopravvivere in un altro continente, per ricominciare da zero così lontana, aveva bisogno di un volto amico, di una guida.
Michael Blake era un uomo adulto, sarebbe sopravvissuto a quel brutto tiro, si sarebbero sentiti ogni giorno e in poco tempo la sua vita sarebbe tornata sui binari, Bellamy ne era certo, era suo padre che gli aveva insegnato a non arrendersi mai dopo tutto e non poteva dubitare proprio ora di quei saggi e preziosi consigli.
Octavia aveva troppo da perdere e suo fratello non poteva lasciare che dovesse affrontare il peso di un trasferimento sola, lui per lei ci sarebbe stato sempre e suo padre avrebbe capito la sua scelta.
Le sue previsioni si erano rivelate un fiasco totale.
Non solo sua sorella aveva trovato ben presto il suo equilibrio, il suo ultimo anno di liceo era stato grandioso, aveva stretto amicizia in fretta e anche se in un primo momento aveva sofferto per le promesse infrante dalle sue vecchie amiche, ci aveva messo poco a rialzarsi sulle sue gambe.
Tipico.
Era una ragazzina forte, i suoi genitori l’avevano detto sin dai primi istanti, i suoi occhi verdi che a volte si confondevano perfino con un azzurro cupo e profondo erano sempre colmi di determinazione eppure Bellamy si era sempre sentito responsabile, da quando O’ non era che uno scricciolo di ossa e carne si era promesso che l’avrebbe protetta da ogni male.
La gioia che lo aveva pervaso quando sua madre per la prima volta gli aveva permesso di stringerla a sé, la felicità mista al terrore di poterla perdere lo avevano convinto, Octavia era troppo preziosa.
Se la piccola Blake aveva del tutto sopraffatto le ipotesi del fratello maggiore, suo padre aveva fatto ben peggio.
Michael Blake impiegò solo un mese a cadere in una profonda depressione.
E come la maggior parte delle persone afflitte dalla tristezza più assoluta aveva negato fino alla fine la sua condizione; quando si sentivano telefonicamente mentire era naturale e quando invece si optava per le videochiamate il vecchio Mike era talmente brillo da risultare quasi sereno.
 
 
“Dovevo aspettarmelo.”
Una voce femminile lo riporta al presente, su quel terrazzo sovrastato da antenne ultramoderne. Non ha bisogno di voltarsi per capire a chi appartenga, ci ha messo poco a registrare nella sua mente il leggero cambio di tonalità che gli anni hanno donato a Clarke Griffin.
“Già, tipico non è vero?”
Percepisce la presenza della ragazza ormai alle sue spalle ma solo quando lei lo affianca adottando la stessa identica posizione del giovane Blake, Clarke si concede di annuire in risposta alla sua patetica considerazione.
“Cosa ci fai qui Griffin? Non dovresti essere insieme agli altri a festeggiare il tuo successo?”
Non vuole essere acido o scontroso ma in quel momento non riesce a riservarle un trattamento migliore.
“Avevo bisogno d’aria.”
“Capito, se vuoi posso levare il disturbo allora.”
Non vuole avere quella giovane donna tra i piedi, non in quel momento, vorrebbe solo andare via, controllare le condizioni di suo padre, assicurarsi che sua sorella stia dormendo e se Murphy non potrà dargli un passaggio pazienza, vorrà dire che userà Uber, c’è sempre una prima volta e quando ha lasciato gli States gli smartphone ancora non esistevano.
Ma soprattutto Bellamy Blake non vuole destar pena nell’animo di nessuno.
 
“No. Non andartene per favore.”
La voce di Clarke è flebile adesso, i loro sguardi s’incrociano e Blake sente che qualcosa nel  suo petto si sta contorcendo, teme che un brandello del suo cuore possa cedere da un momento all’altro.
“Voglio sapere.”
Continua la bionda dopo aver tirato un sospiro.
“Cosa esattamente? Cos’è che già non sai?”
Chiede allora il ragazzo quasi stizzito, non riesce a voltarle le spalle, non è proprio capace di scappare via e sa che lei lo ha capito, lo ha compreso dalla maniera in cui i suoi pugni si sono schiusi lentamente lungo i fianchi e dall’inconfondibile modo in cui le sue spalle si sono rilassate non appena la sua voce ha riempito l’aria frizzante della fine di Marzo.
“Il punto è che non so proprio nulla Blake, lo sai bene, ma muoio dalla voglia di sapere come stanno. Octavia e Mike come se la passano, cosa pensano, chi hanno incontrato, a chi appartiene il loro cuore adesso?”
Bellamy rabbrividisce.
“Non dovresti chiederlo a me.”
La guarda fisso negli occhi, è uno sguardo severo e colmo di rancore, non vuole proprio aver a che fare con i drammi adolescenziali di sua sorella, non adesso che lei li ha sepolti.
Poi in un breve istante la sua mente ripercorre le parole di Clarke. Ha chiesto di Michael chiamandolo persino Mike.
Perché?
Ma lei ha già ripreso a parlare.
“Se solo potessi tornare indietro, cambierei tutto lo giur…”
“Perché mi hai chiesto di Mike?”
La ragazza lascia che la frase lanciata a mezz’aria finisca spazzata via dal vento e riprende fiato.
“Pensavo ti avesse raccontato.”
Bellamy fa una smorfia.
Suo padre non ha mai raccontato nulla di sé, ha sempre e solo pensato a loro due per tutto quel tempo, ha messo da parte la sua vita e si chiede se se ne sia davvero accorto per tempo, se non sia troppo tardi.
Rimprovera la sua immaturità per non averlo notato prima, per non aver preso il primo volo diretto quando lui tramite i suoi occhi lucidi dietro uno schermo impolverato chiedeva aiuto silenziosamente.
“Cos… Cosa avrebbe dovuto raccontarmi?”
“Non dovresti chiederlo a me.”
Lo schernisce la giovane ripagandolo con la stessa moneta e il ragazzo sente il vuoto sotto i suoi piedi.
Forse alla fine nemmeno Clarke Griffin è cambiata di una virgola.
“Andiamo!”
Protesta inutilmente.
“Prometto di raccontartelo. Ma non stasera, non me la sento e non credo di avere la giusta lucidità per farlo.”
“Come posso esserne sicuro?”
“Mi devi un ballo Blake e si da il caso che di sotto la musica sia già partita da un po’. Se sei in grado di mantenere questa vecchia promessa, allora io manterrò la mia nuova di zecca.”
“Non ti seguo.”
“Avevi promesso a me e Octavia che ci avresti fatto da accompagnatore al Senior Prom.”
“Non dirai seriamente! E poi a te non ho promesso un bel nien-”
Ma Clarke non gli lascia il tempo per ulteriori chiarimenti, gli afferra una mano e lo trascina con enfasi giù da quel tetto, dal suo luogo sicuro.
Bellamy non ha il tempo di pensare o realizzare, non si sforza di capire quella ragazza, non ce n’è mai stato bisogno è questa la verità, l’ha sempre capita e anche adesso forse riesce vagamente ad interpretare quel suo comportamento istintivo ma non vuole rimuginarci, proprio come lei stessa si è impedita di fare e così si aggrappa a quella presa che collega i loro corpi vibranti.
 
-
 
Percepisce la mano di Bellamy stringersi sempre di più alla sua e si sente di nuovo viva, in forze, tanto da riuscire a riaffrontare la mischia nel migliore dei modi.
Decide di non soffermarsi a chiedersi il motivo, in fondo l’ha sempre saputo o almeno intuito.
Che differenza fa?
Scuote i pensieri, li dissipa nella sua mente, adesso vuole solo muoversi, scaldarsi affianco a quel corpo che non ha mai avuto modo di conoscere realmente, vorrebbe dimenarsi e sudare, espellere il tasso alcolico nel suo sangue, lo stesso che le ha donato tanta sicurezza qualche istante prima.
 
Si lasciano l’oscurità alle spalle in un frangente che a Clarke sembra brevissimo e si uniscono alla massa disordinata di volti, arti e mani che popolano la sala. La musica è alta, l’acustica è sorprendentemente buona e la giovane Griffin ora guida la mano del maggiore dei Blake attorno ai suoi fianchi mentre lascia che le sue braccia si aggancino al collo del ragazzo.
Lui le si avvicina leggermente come se avesse preso solo in quel momento coscienza di ciò che sta facendo, segue i suoi movimenti, la asseconda ed in un attimo la sua bocca è vicinissima all’orecchio della ragazza.
“Sai che non so ballare, vero?”
“Lo stai facendo.”
Ridacchia lei mandando indietro la testa per permettersi di lanciargli un’occhiata eloquente.
“Già ma in un modo orribile.”
Lei alza le spalle poi stringe ancora di più le sue braccia intorno al compagno poggiando il capo sul suo petto.
“Non importa.”
Mormora ed il suo tono è tornato serio, non vuole rimanere sola.
Non potrebbe sopportare che il maggiore dei Blake cambi idea, non può permettergli di lasciarla di nuovo e così ancora le sue mani tra i capelli mossi e scompigliati di lui.
Contrariamente a quanto possa aspettarsi percepisce il giovane reagire a quel suo gesto: Bellamy ora afferra la sua carne saldamente, nonostante la stoffa della camicia riesce a sentire ogni polpastrello aderire prepotentemente lungo le sue anche ed un brivido le corre lungo tutta la spina dorsale.
La veemenza di quel gesto la sconvolge, nessuno da lungo tempo l’ha più toccata in quel modo. E con lo scorrere dei giorni ha dimenticato cosa voglia dire sentirsi avvolti, protetti dal corpo di un'altra persona.
Quando nuovamente le labbra di Bellamy esercitano una leggera pressione sul suo lobo sinistro, sente il battito cardiaco accelerare irrimediabilmente.
Vorrebbe punirsi, non può sentirsi in quel modo,  ma le parole del giovane Blake la riportano alla realtà dei fatti
“Voglio una data, un luogo ed un orario.”
“Uhm?”
Non è in grado ancora di formulare una frase migliore di quel mormorio interrogativo.
“Non mi sto rendendo ridicolo di fronte ad un mucchio di gente per nulla. La promessa, ricordi?”
Clarke Griffin sospira inerme, solo per un attimo si è permessa di dimenticare ogni cosa: la galleria, la serata, sua madre, le persone intorno a lei, persino Lexa e adesso quella frase secca ed esplicita la riporta nel mondo reale in modo quasi brusco, inaspettato.
Ma prende fiato prontamente e non ha bisogno di riflettere per figurarsi l’appuntamento ideale
“Lunedì pomeriggio al muretto.”
Sa che quel luogo, quel muro così lontano dal posto in cui stanno ballando in quel momento è l’inizio di tutto e non ha bisogno di ulteriori descrizioni, vuole essere concisa quanto lo è stato lui.
“Facciamo alle cinque?”
Come previsto Bellamy non si è scomposto, non visibilmente quantomeno e non può far altro che sorridergli flebilmente ed essere d’accordo con lui
“Facciamo alle cinque.”
Annuisce lei guardandolo nelle iridi scure e può scommetterci: anche i suoi occhi stanno sorridendo.
 
-
 
C’è qualcosa nel modo in cui Clarke si è avvinghiata al suo collo che gli ha fatto perdere l’equilibrio emotivo che si era imposto e che poi forse aveva perso già dal momento esatto in cui aveva piede in quel luogo.
E’ bisogno di affetto.
Lo percepisce e ricorda in fretta che evidentemente deve essere una costante di cui la giovane Griffin non si è mai liberata.
Se solo non fosse debole, non cadrebbe in quella trappola ma il maggiore dei Blake non può farne a meno e la sostiene, la stringe, sente la sua pelle sotto il debole strato di cotone bianco che le fascia i fianchi e percepisce ogni vena del suo corpo pulsare mentre in modo ostinato continua a negare a sé stesso quanto stia accadendo.
Parlano.
Le parole escono dalle loro labbra come una valanga, un botta e risposta continuo, poche battute e Clarke colma come da copione ogni sua esigenza.
Sa che il suo tono è in contrasto con i suoi gesti ma rimane pur sempre la sua unica difesa.
Il muretto, è una scelta che non lo stupisce, è l’inizio delle loro vicende, l’intreccio delle loro storie parte da lì, da quel muro di marmo ombrato dallo smog, sovrastato dall’inchiostro colorato dei pennarelli indelebili.
Se fosse più coraggioso ricambierebbe quello sguardo e quel sorriso ma non è pronto a farlo, è confuso ed ha paura che la semplicità di un ricordo accantonato possa sporcarsi ora che sono adulti.
Si adagia alle note che stanno facendo il loro corso, lascia che i loro corpi restino ancora stretti in quel muto abbraccio naturale ma costruito in ogni suo dettaglio per apparire così spontaneo da due persone che per troppo sono state separate dall’oceano e dagli anni.
D’un tratto però la musica rallenta, probabilmente si è fatto tardi, si fa così non è vero?
Il dj deve essere così furbo da far sfumare l’atmosfera insieme alla stessa musica e Jasper, da quel che sa, è uno che conosce il suo mestiere.
Improvvisamente Bellamy Blake si sente come un diciannovenne e finalmente ricorda di quella promessa.
 
Mancavano una manciata di giorni e sua sorella avrebbe finito il terzo anno di liceo, era fine Maggio ma faceva un caldo anomalo, esageratamente torrido per la stagione tardo primaverile e Octavia era sdraiata insieme a Clarke all’ombra del piccolo portico che precedeva l’ingresso di Casa Blake.
Parlottavano in modo confuso mentre l’allora matricola Bellamy Blake le osservava svogliato dall’alto del tavolino sorseggiando limonata e perdendosi tra le pagine del testo di Letteratura Inglese I.
All’epoca era una matricola dell’ American University alle prese con i primi esami.
Nessuno dei fratelli Blake poteva immaginare in quel momento che di lì a qualche mese le loro vite sarebbero cambiate per sempre.
Aurora era già partita, Octavia era furiosa per la separazione e per la scenata che la madre aveva rifilato prendendo quel maledetto biglietto di sola andata per Sydney e così sembrava che ogni scusa vertesse a suo favore per far sì che Clarke Griffin passasse pomeriggi interi in casa Blake.
Sembrava l’unica in grado di tenere a bada l’ira funesta della minore della modesta casa e questo destava non poco rammarico in lui.
Non riusciva a credere che una ragazzina spuntata fuori dal nulla riuscisse ad avere tale influenza su sua sorella mentre lui se ne doveva stare spalle al muro a vedere con quanta maestria la suddetta ragazza fosse in grado di tranquillizzarla e capirla.
 
Fu in quel momento che, strizzando gli occhi e chiudendo il tomo dal quale non si staccava da almeno un’ora, si mise ad ascoltare quello che le due avevano da dirsi.
“Non posso credere che stia finendo anche quest’anno.”
Era Octavia che avanzava questa osservazione giocando con i capelli lucenti e biondissimi dell’amica.
“Sono davvero sollevata, non ne potevo più.”
“Non dirmelo, hai idea dell’aria che ogni giorno si respira sotto questo tetto?”
La giovanissima Griffin si morse un labbro e si tirò a sedere, istintivamente lanciò un’occhiata al maggiore dei due fratelli.
Non poteva aspettarsi d’incontrare il suo sguardo interessato e colta sul fatto distolse alla svelta i suoi occhi acquamarina da quelli carbone di lui.
Bellamy non comprendeva per quale motivo Clarke gli avesse riservato quello sguardo assorto e quasi apprensivo, o forse sì… poteva immaginarlo, ma se c’era una cosa che non sopportava era ricevere la pietà altrui.
Probabilmente fu chper quel motivo aggrottò le sopracciglia e decise di prendere posto accanto alle due, doveva recuperare, prima che sua sorella convincesse quella ficcanaso che ciò di cui avevano realmente bisogno era di uno scontatissimo sostegno o peggio ancora di stupida pena.
“Credo che dovresti pensare a goderti l’estate invece di pensare a problemi che nemmeno ci riguardano O’.”
Era severo, sapeva di esserlo ma compensava l’esagerata bontà di suo padre, O’ aveva bisogno di una guida e lui sentiva fin nelle viscere che guidarla, crescerla fosse uno degli scopi della sua esistenza.
“Come puoi dire che non ci riguardano? La fai facile tu…”
Brontolava la minore dei Blake emulandoli e sedendosi a gambe incrociate come gli altri due.
“Invece tuo fratello ha ragione!”
Se Bellamy spalancò la bocca senza riuscire a dar fiato a nessuna parola – da quando Griffin la pensava come lui? – Clarke si guadagnò un’occhiataccia da parte di Octavia che la incalzava aprendo e chiudendo le munghe ciglia nervosamente
“Cosa vorresti dire esattamente con questo?”
“Voglio solo dire che dobbiamo goderci l’estate nel migliore dei modi, non solo, dobbiamo fare in modo che il nostro ultimo anno all’ Arkadia High School sia indimenticabile!”
“Uhm…”
“Voglio dire… poi ci saranno l’università, il tempo che scarseggerà, gli esami, i test… praticamente diventeremo noiosi come tuo fratello, capisci? Quindi prima dovremmo assicurarci di non rimpiangere nulla.”
Un sorrisone si allargò sul viso di Octavia.
Ecco, ancora una volta Clarke Griffin aveva preso spunto da un suo pensiero impacchettandolo su misura per sua sorella.
Perché lui non ne era in grado?
 
E poi c’era quella storia sul fatto che lui era diventato noioso… Non gli andava proprio giù.
“Non sono noioso. E’ che non avete idea di cosa succeda quando sono al Campus…”
A quel punto sua sorella scoppiò a ridere e questo bastò per soddisfarlo pienamente, al diavolo Clarke.
 
“Ho un’idea!”
O’ fece rimbalzare velocemente lo sguardo tra suo fratello e la sua migliore amica che la guardavano in attesa di delucidazioni.
“Una sorta di patto.” S’interruppe per assicurarsi che i due le stessero rivolgendo la giusta attenzione e per ottenere quel po’ di suspense necessaria “Voglio avervi entrambi al Senior Prom.”
“Che vuoi dire scusa?”
Chiese Clarke leggermente allarmata.
“Che andremo insieme! Sarete i miei accompagnatori perché siete le due persone che amo di più al mondo e se è vero che l’ultimo anno deve essere speciale è così che vorrò ricordarlo: al vostro fianco.”
“Credi sul serio che sia fattibile? Insomma per convenzione non si dovrebbe andare in due?”
La giovanissima Griffin non sembrava affatto convinta da quella bizzarra richiesta.
“No.” Blake la riprese puntiglioso “Murphy è stato così idiota lo scorso anno da portare me ed Emori: voglio dire insieme.”
“Questa mi è nuova!”
Esclamò Octavia divertita.
“Ovviamente non aveva informato né me, né lei e non avendo avuto particolarmente voglia di mettermi a far vittime, quando mi ha chiesto di accompagnarlo ho accettato, quel bastardo di Murphy mi ha fatto fare una gran figura di merda, difficilmente riuscirò a dimenticarlo.”
A quel punto Octavia si era alzata di scatto con enfasi, non ci sarebbe stato alcun problema a quanto pare.
“Allora è deciso!?”
Se Clarke abbassò lo sguardo in modo repentino, imbarazzata da quella bizzarra richiesta sussurrando un flebilissimo ed incerto “Si”, Bellamy alzò alle spalle accennando affermativamente col capo in modo deciso.
Non che morisse dalla voglia di fare una cosa del genere, s’intende, ma per sua sorella avrebbe scalato una montagna e poi era quasi certo che a distanza di un anno ci avrebbe ripensato.
 
 
“Chi ti ha portata al ballo di fine anno, alla fine?”
Non sa perché gli sfugge quella domanda, forse è solo perché vuole sapere com’è andata a finire la storia sul versante americano. Ricorda perfettamente dopo tutto lo sguardo che riservò all’accompagnatore di sua sorella.
In quel momento però Clarke Griffin slaccia la presa sul suo collo con un gesto brusco ed improvviso, si distacca da lui con furia ed urla a pieni polmoni, allungando il suo sguardo oltre il maggiore dei Blake:
“Lexa!”
 
E’ troppo tardi ormai quando la vede correre verso l’entrata della sala e poi baciare il volto di una ragazza castana, alta poco più di lei che la stringe tra le sue braccia in un modo che non ha mai visto fare.
Quella misteriosa ragazza apparsa dal nulla si stacca a fatica da quel bacio tanto agognato e tasta il viso di Clarke in modo compulsivo, poi le scompiglia i capelli biondi e ride, i suoi occhi verdi smeraldo s’illuminano di una luce splendente.
 
“I gusti di Griffin sono più particolari di quanto credi.”
La voce di Murphy riecheggia nella sua testa, l’eco scende sino al suo stomaco completamente in subbuglio. 

 


Angolo Autrice: Yuuh, eccomi qui ad aggiornare mentre sto lasciando a caricare il nuovo episodio!
Si va avanti tra colpi di scena "prevedibili" - qualcuno di voi ci aveva più o meno preso, Lexa è tornata! - e strani avvicinamenti legati ad un passato ancora tutto da scoprire ma che pezzetto, dopo pezzetto comporrà il puzzle.
Che dirvi? Inizialmente non ero particolarmente convinta del capitolo poi sul finire mi sono lasciata convincere maggiormente.
E' tosta, più di quanto immaginassi, ho idee che vanno e vengono, s'intrecciano e fare ordine è complicato ma sto cercando di tenere duro!
Voi come al solito fatemi sapere che ne pensate, ogni consiglio, critica o riflessione è preziosissima per me per cui sentitevi liberi di dirmi tutto quello che pensate.

Ora vi lascio, corro a divorare l'episodio eheh :)

Un abbraccio forte,
C.

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Capitolo 5
*** IV ***


IV
 
Clarke Griffin annaspa rannicchiata nell’aria buia del suo monolocale poco distante dall’atelier.
E’ completamente nuda e sente il suo seno aderire alla pelle secca delle ginocchia che ha portato al petto qualche istante prima.
Accanto a lei nel letto sfatto sente Lexa respirare regolarmente, deve essersi addormentata già da un po’, le coperte sono ancora impregnate del loro sudore, dei loro odori e rendono acre l’aria nella stanza.
Hanno fatto l’amore quella notte, si sono aggrovigliate, si sono assaggiate, hanno passato in rassegna ogni centimetro quadrato dei loro corpi, della loro carne viva.
Ha percepito un flebile calore risalirle dal ventre mentre Lexa Woods faceva proprio il suo corpo assaporandola nel profondo, ha sentito quel brivido caldo percorrere tutta la sua persona, risvegliare i suoi sensi, le sue voglie recondite ma il suo cuore è restato immobile mentre la sua gola lasciava libero il passaggio a gemiti di piacere.
Non un battito fuori posto.
Niente palpitazioni accelerate.
Ed è questo che la tormenta ora, quel dubbio si insinua nella sua mente e non riesce a scacciarlo, non trova le prove necessarie per reprimerlo definitivamente.
Non hanno fatto l’amore lei e Lexa.
Hanno scopato.
E la secca volgarità di quella parola la disgusta.
A differenza di molte coetanee non ha mai compreso il fascino dei rapporti occasionali ed ha sempre denigrato i termini riferiti al sesso che non contemplano alcun sentimento.
Eppure non può ritrarsi, lei non ha sentito nulla dentro di sé, per la prima volta nella sua vita Clarke Griffin ha semplicemente colmato un bisogno primitivo e dannatamente fisico.
Sente una lacrima sgorgarle, compiere un percorso irregolare sul suo viso, rigarle la guancia e bagnarle il labbro superiore, quando la lingua, in un gesto automatico, raccoglie quella minuscola goccia, sente il sapore salato sprigionarsi all’interno della sua bocca ed il senso di colpa pervaderla.
Vorrebbe urlare, piangere a dirotto, sfogarsi in qualsiasi modo ma non può; lei è lì e, se non fosse per le lacrime che le appannano la vista, non avrebbe problemi a scorgere nella penombra della notte che sta per lasciare il proprio posto all’alba, la sagoma della sua borsa da viaggio poggiata sul tavolino accanto l’angolo cottura.
Dunque rimane avvolta nel lenzuolo in quella penosa posizione fetale e cerca disperatamente di aggrapparsi ad un pensiero che sia in grado di tranquillizzarla, vuole galleggiare, non può permettersi di affogare proprio ora che i suoi sogni stanno divenendo realtà.
Ma se c’è una cosa che Clarke ha imparato a fare è ritrovare la propria calma, rimanere lucida anche nelle situazioni più precarie, è un qualcosa che deve aver ereditato da sua madre, dalla freddezza necessaria per diventare uno dei migliori chirurghi dello Stato.
Percorre allora mentalmente le immagini della serata, della sua personale sera: rivede i volti sorridenti degli amici, lo sguardo orgoglioso di suo padre, le espressioni compiaciute di critici ed esperti, poi la sua volontà tentenna, si fa debole e l’ultima immagine che le appare riguarda delle lentiggini su un viso olivastro che sembra fiero di riservare al mondo intero un sorriso sghembo.
I singhiozzi si placano, cessano di scuotere il suo corpo.
Stringe ancora di più le gambe al petto e cerca di riprendere il controllo sulla sua respirazione, l’unico rumore che le arriva ora è il ticchettio preciso della sveglia che giace sul comodino al suo lato del letto.
I suoi mesti lamenti che ha tentato di soffocare e silenziare sembrano d’un tratto acqua passata.
Poi due occhi verdi capaci di virare al blu quando fuori c’è brutto tempo le pervadono la memoria.
Il viso di Octavia Blake è davanti a lei, raggiante e pieno di entusiasmo.
 
 
La prima lettera che ricevette dalla minore dei Blake arrivò un mese dopo il loro trasferimento, era fine Agosto e Clarke era tornata a casa dopo un’intera giornata passata con sua madre che le aveva proposto di inserirsi in un programma di aiuto per tossicodipendenti ed alcolisti presso una clinica convenzionata dall’ospedale in cui lavorava.
Avrebbe fatto volontariato, avrebbe imparato ad assistere persone in difficoltà, bisognose d’aiuto ma soprattutto di qualcuno in grado di ascoltare e la giovane Griffin si sentiva particolarmente tagliata per quel tipo d’esperienza.
Senza contare che i suoi piani erano ben chiari all’epoca: entrare alla facoltà di Medicina della Georgetown University con la sua media ed un’esperienza simile alle spalle sarebbe stato quasi un gioco da ragazzi.
Jake stava per andare in palestra quando le incrociò sulla porta d’ingresso e baciandole dolcemente disse con tenera nonchalance
“C’è della posta per voi, ho messo tutto sul tavolo in cucina, ci vediamo dopo.”
Bastò quella semplice frase a far scattare Clarke che in pochi minuti si ritrovò a spulciare le buste bianche raggruppate sul tavolo sino a trovare quella con il suo nome sopra.
Un sorriso le spalancò la bocca, la grafia tonda e piccola in penna blu non mentiva, era di Octavia, non aveva nemmeno bisogno di leggere il nome del mittente sul retro.
In uno slancio e lanciando un grido di gioia si precipitò in camera sua.
 
Avevano deciso di scriversi in quel modo la sera della loro festa di addio, prima di avventarsi sugli alcolici, prima che arrivassero tutti gli altri, O’ e la giovane Griffin si erano ritagliate uno spazio tutto loro.
Si erano promesse che si sarebbero sentite almeno una volta alla settimana, che tra loro non ci sarebbero stati segreti, che avrebbero esorcizzato la distanza perché la loro amicizia avrebbe resistito all’oceano e ai chilometri.
Poi a Clarke venne in mente l’idea delle lettere e la piccola Blake si trovò ad essere completamente affascinata da quella proposta.
Mail e messaggi sarebbero spariti, aveva detto la biondina, archiviati nei loro dispositivi ma la carta no, le parole impresse su di un foglio sarebbero rimaste come testimonianza del loro rapporto; le avrebbero conservate, avrebbero potuto sfiorarle e rileggerle fino allo sfinimento.
“Magari un giorno, quando saremo anziane le leggeremo insieme ai nostri nipoti.”
Aveva azzardato O’.
E così con quella proiezione nel futuro un po’ giocosa ed inverosimile avevano sancito il loro accordo: rimanevano valide le regole riguardo videochiamate e messaggi, ma, una volta al mese, si sarebbero scritte per davvero.
 
C’era una foto insieme al testo scritto elegantemente su carta colorata: Octavia sorrideva verso l’obiettivo, abbracciava il fratello che invece sembrava non essersi accorto che qualcuno lo stesse immortalando ed aveva il viso rivolto altrove.
La minore dei Blake appariva serena, persino entusiasta.
I due si trovavano su una spiaggia ampia, la sabbia bianca ed il mare di un blu intenso.
Sembrava tutto così finto.
Clarke rimase cinque buoni minuti a fissare l’immagine e sentì le gote arrossarsi leggermente quando i suoi occhi acquamarina indugiarono su Bellamy poi però scacciò la smorfia che si era fatta spazio tra le sue labbra e si mise a cercare una puntina che le permettesse di conservare la fotografia sulla lavagnetta di sughero che teneva proprio sopra la scrivania.
Rilesse la lettera tre volte in tutto, compresa la postilla che O’ aveva scritto avvertendola che avrebbe voluto trovare una foto senza un elemento disturbante come suo fratello ma le era apparso impossibile, volente o nolente erano sempre insieme.
Clarke sorrise allora, una volta arrivata a quel punto, per tutte e tre le volte di seguito la sua bocca si dischiuse in una curva smagliante.
 
Octavia stava bene, più o meno, la casa di sua madre era grandissima, nulla in confronto a ‘quella catapecchia’ in cui vivevano a Washington; i suoi nonni erano gentili e parlavano con un accento che la divertiva parecchio.
Aveva deciso di farsi raccontare la storia della loro famiglia e dunque si vedevano ogni giovedì per una passeggiata in riva al mare e per chiacchierare, far riemergere racconti di ricordi ereditati di generazione in generazione.
Il giorno prima si era iscritta al maggior liceo della città, era questo che la rattristava e forse le metteva una leggera apprensione. Le sarebbero mancati tutti ma soprattutto le sarebbe mancata lei, la sua compagna di avventure, la sua unica e sola migliore amica.
 
‘Non so come farò senza di te. Ma so che proverai la mia stessa identica sensazione e allora, inevitabilmente, saremo di nuovo vicine, una accanto all’altra, come sempre.’
 
Clarke si era messa subito a stendere una bozza per la sua risposta, quella lettera era una delle cose più belle che le fossero accadute in quel periodo di lontananza e non avrebbe mai e poi mai voluto spezzare l’incantesimo, aveva fretta e le parole presero forma sul foglio a quadretti che stava utilizzando in men che non si dica.
Solo quella sera, rileggendo ogni frase che stava riservando all’amica, si rese conto che c’era qualcosa che non sapeva come dirle, un piccolo fatto che risaliva a quella festa, a quell’ultima nottata passata insieme, non aveva trovato ancora il coraggio di comunicarle  nulla né per messaggio, né durante l’unica videochiamata che avevano fatto.
Si era ripromessa che le avrebbe raccontato tutto per iscritto ma quando poi si era ritrovata con il viso sul foglio le parole erano rimaste come intrappolate nella sua mente.
Forse Octavia già sapeva e si stava ponendo solo dei problemi insensati, forse suo fratello le aveva parlato, dopotutto quei due sembravano condividere qualsiasi cosa.
Probabilmente sarebbe stata lei a curiosare nella prossima lettera, ne era quasi sicura e finalmente avrebbe potuto parlarne con qualcuno, raccontare che da quel giorno si era sentita diversa, aveva ricominciato a percepire le emozioni e forse, banalmente, si era resa conto di provare qualcosa di cui non si credeva capace e che aveva sperato di trovare da sempre.
 
-
 
Quando Bellamy rientra in casa è tardi, non ha guardato alcuna lancetta ma sa che è notte fonda e non si aspetta di dover prestare attenzione per un qualsiasi tipo di colloquio con uno dei due membri che adesso, dopo anni, compongono nuovamente la famiglia Blake insieme a lui.
E’ per questo che nel buio del saloncino emana un sospiro, la sua mente è offuscata da strani pensieri che spera solo di cancellare con il sonno.
 
Il viaggio di ritorno è stato silenzioso: alla fine ha resistito ed è rientrato con Murphy, scoprendo che paradossalmente proprio Bryan e Nathan erano andati via in anticipo.
Non è che John non avesse provato ad intavolare una conversazione, era comprensibile, i due  ragazzini che un tempo erano stati, erano soliti passare intere notti sul tetto di casa Murphy a chiacchierare, ma Bellamy non era in grado di sostenere una conversazione, non dopo quello che aveva visto, inevitabilmente tutto lo avrebbe portato lì a Clarke Griffin e alla sua nuova anima gemella spuntata dal nulla e lui non voleva proprio saperne.
Quindi era stato naturale per il moro smorzare ogni tentativo dell’amico di stabilire un contatto tanto che alla fine il poveretto aveva rinunciato.
Bellamy Blake non voleva sapere cosa aveva perso.
Non voleva conoscere i dettagli delle vite altrui, ognuno in quella sala era riuscito a fare a meno di lui con lo scorrere degli anni, qualcun altro poi glielo aveva sbattuto letteralmente in faccia.
 
“Dove sei stato?”
Per poco il maggiore dei Blake non inciampa tra i suoi stessi piedi quando sente quel tono fermo ed inquisitorio.
Appartiene a suo padre e non è più docile e gioioso come gli era apparso nella mattinata, assomiglia molto di più a quello che sentiva da bambino ogni qual volta combinava qualche marachella di troppo.
“Sono stato all’esposizione di Clarke Griffin in centro.”
Il silenzio avvolge quell’informazione, Bellamy pronuncia quelle parole senza pensarci davvero, solo qualche istante dopo si rende conto che c’è qualcosa di a lui sconosciuto che deve aver legato suo padre e quella ragazza ed è in quel momento che si spiega quel silenzio incerto.
Proprio quando Bellamy sta per arrivare all’interruttore della luce per osservare il volto di suo padre in poltrona - sa che è lì, ha subito riconosciuto il luogo da cui proveniva la sua voce profonda - l’uomo parla nuovamente
“E’ tardi.”
Dice soltanto.
“Credo di avere il diritto di sapere.”
Bellamy è fermo, si è come risvegliato dalla trance in cui era intrappolato qualche minuto prima ed ora che sa di avere le risposte a un palmo dalla mano, non può farne a meno, non può aspettare lunedì, non è più nemmeno sicuro di volerla vedere.
“No è tardi e dovresti già startene a dormire. Non ti sei fermato un attimo da quando sei arrivato, ne riparleremo quando entrambi saremo più lucidi.”
Il tono di suo padre si è addolcito, non vi è dubbio ma adesso Blake junior boccheggia per la rabbia, Griffin e Michael Blake gli hanno fornito la stessa identica risposta a distanza di poche ore l’una dall’altro.
Ma non ha la forza di manifestare in alcun modo la sua maledetta frustrazione, le parole del padre gli hanno ricordato che è vero: è stanco, anzi distrutto.
Non accende nemmeno la luce alla fine, supera velocemente il perimetro del salone e salendo a tentoni gli scalini arriva a quella che è stata la sua camera da quando non era che un bimbo.
Sul pavimento ci sono ancora le valigie mai disfatte ma tutto ciò di cui si cura il maggiore dei Blake è arrivare al letto e non appena il suo corpo tocca il materasso, la sua mente è già annebbiata dal sonno.
 
 
Senza seguire alcun programma prestabilito quella sera, quell’ultima sera, dopo aver ingurgitato un numero difficilmente quantificabile di alcool erano finiti tutti in cerchio a raccontarsi strambe storie e a rievocare ricordi che qualcuno sembrava aver persino dimenticato.
Quando Jasper aveva tirato fuori l’inseguimento causato dalla giovane Griffin per i bassifondi di Washington, Bellamy si era sentito la gola improvvisamente secca e credeva che di lì a poco avrebbe smesso di respirare.
Non poteva dimenticare le sensazioni che lo avevano assalito durante quel pomeriggio che appariva sbiadito e lontano ma comunque così tangibile.
Quel giorno si era reso conto di non provare quell’indifferenza assoluta di cui era sempre stato convinto nei confronti di Clarke.
Quella ragazzina gli era apparsa intraprendente, coraggiosa, forse un pizzichino esuberante ma comunque bellissima e troppo simile a lui così, proprio da quel giorno, Bellamy Blake aveva iniziato ad esorcizzare quel suo strano modo di sentirsi convincendosi di non sopportarla; non solo, aveva concentrato fin troppe delle sue energie nel renderlo manifesto al mondo intero.
Se prima di quella giornata il maggiore dei Blake non si era minimamente preoccupato, o meglio curato della presenza di Clarke Griffin ai bordi della sua vita, subito dopo qualunque cosa la riguardasse sembrava acquistare improvvisamente un’accezione negativa, quasi disastrosa.
 
Non c’era da stupirsi se quando, subito dopo quella rievocazione, Johnathan Murphy aveva proposto di giocare a “Sette minuti in Paradiso”, Bellamy lo avesse fulminato con lo sguardo e, quasi fuori di sé, avesse cominciato ad elencare tutte le motivazioni per cui quel gioco era una ‘gran patetica stronzata’.
 
“Non siamo troppo grandi per queste idiozie?”
Aveva esclamato quando gran parte del gruppo si era schierato a favore della proposta di Murphy.
“Di cosa hai paura Blake?”
Quella voce lo aveva fatto impazzire.
Clarke Griffin, l’altezzosa, insopportabile, saccente amica della sorella lo stava deridendo, la stessa che lo aveva fatto vacillare due anni prima, proprio la stessa ragazzina impunita che li aveva costretti a correre in lungo e largo per il quartiere lo stava sfidando di fronte ai suoi amici che adesso ridevano assecondandola.
Maledisse mentalmente quel giorno, strinse i pugni e deglutì.
“Non ho paura di un bel niente principessa. Cercavo solo di farvi maturare un po’ ma, se non avete idee migliori per divertirvi, non mi tirerò certo indietro.”
La biondina soffiò appena quando il maggiore la appellò con quel nomignolo che soffriva poco e niente ma non portò avanti la discussione e così in meno di cinque minuti Jasper, munito di bottiglia, si era già posizionato per dare il via ai giochi.
 
Successe che vennero a formarsi le coppie più buffe: da Harper e Octavia, a Nathan e Jasper passando per Raven e John.
Ma il caso volle che quando fu il turno di Bellamy la bottiglia girando finì esattamente tra Clarke Griffin e Raven Reys.
Il maggiore dei Blake trattenne un groppo in gola fin quando Jasper gli concesse di scegliere.
“Lo trovo disgustosamente sessista, sapete?”
Le proteste di Octavia poterono poco comunque e alla fine il fratello si ritrovò a dover scegliere tra le due ragazze.
Raven aggrottò le sopracciglia, leggermente annoiata e per nulla interessata alla scelta del giovane Blake mentre Clarke aveva rivolto il suo sguardo ai suoi piedi, sembrava piuttosto agitata ma il moro, in preda alla sua personalissima crisi di coscienza, non ci fece mai caso.
“Andiamo Reyes, passeranno in fretta, promesso.”
“Bleah. Non azzardarti a  sfiorarmi Bell o giuro che ti ammazzo con queste stesse mani.”
Disse la mora mentre lo seguiva sul retro del terrazzo.
Non avendo uno sgabuzzino, alla fine i ragazzi avevano optato per il balconcino sul retro del terrazzo di casa Griffin, dove i suoi genitori tenevano gli attrezzi e altre cianfrusaglie varie, era connesso con il resto della terrazza ma vi si accedeva percorrendo uno stretto corridoio che fiancheggiava le mura laterali dell’appartamento sito all’ultimo piano del condominio, risultando del tutto appartato e lontano da occhi indiscreti dato che si trovava praticamente in opposizione al resto dell’ampio terrazzo dal quale era separato dalla stessa casa.
 
Quella sera nessuno si accorse di come Clarke Griffin reagì a quella scelta, nemmeno l’attenta Octavia poteva avere la lucidità adatta per rendersi conto che la sua amica sembrava non solo offesa e stizzita da quella selezione ma persino a tratti dispiaciuta.
Il suo viso si ombrò dal momento in cui Bellamy Blake strinse la mano di Raven conducendola nel retro e si voltò per l’ultima volta nella sua direzione incrociando in modo fuggente il suo sguardo.
 
Ad ogni modo Bellamy Blake e Raven Reyes stettero per i primi due minuti a braccia incrociate a guardare il panorama della città illuminata fin quando la ragazza non interruppe coraggiosamente quell’ostinato silenzio.
“Si può sapere perché hai scelto me?”
“Perché almeno riesco a sopportarti per sette minuti filati.”
Rispose lui d’un fiato.
“Mmh. Non ti capisco davvero Blake, non sei stanco di questa farsa?”
“Quale farsa Reyes? Io non la riesco a sopportare, davvero.”
“E’ solo che a volte ho la sensazione che le cose stiano in modo completamente diverso da come vi ostinate a dipingerle e non scherzo se ti dico di averla percepita fremere quando la bottiglia l’ha quasi sfiorata prima.”
“Fidati. Ti sbagli…” Sospirò “Ti sbagli di grosso.”
 
Bellamy Blake tornò da quell’appartata conversazione leggermente provato, che cosa voleva intendere Raven con quella frase?
Ma soprattutto aveva importanza?
Ora che lui avrebbe lasciato la città in meno di quarantotto ore che senso aveva agitarsi tanto?
Sperò quindi che i suoi compagni fossero stufi di quel gioco adolescenziale ma ancora una volta andò errato.
Sotto i suoi occhi vennero a crearsi molte altre combinazioni fantasiose e proprio quando Jasper chiamò l’ultimo giro si ritrovò nuovamente coinvolto.
 
Era il turno di Clarke che fino a quel momento aveva avuto la fortuna di capitare con Octavia la sua migliore amica, quando era accaduto qualcuno aveva sbuffato e Miller si era affrettato a commentare
“Che monotonia, scommetto che se ne staranno tutto il tempo a chiacchierare, ancora, come se tutta la serata non fosse stata abbastanza.”
“O magari…” Esordì John “Avete presente quei video che iniziano con le due migliori amiche che studiano insieme e poi…” Finì la frase mimando con le mani volgarità di vario genere tanto che Raven intervenne
“Dio mio, Murphy sei rivoltante!”
L’altro si difese minacciandola che avrebbe iniziato a raccontare cosa era successo tra loro mentre si erano appartati e lei alzando gli occhi al cielo lo accusò di inventarsi fandonie davvero poco credibili.
Bellamy aveva riso di fronte a quel teatrino e in quel momento, in un certo senso, era grato di tenere quelli come gli ultimi ricordi dei suoi più cari amici.
 
Ma quando per la seconda volta Clarke Griffin aveva girato la bottiglia di plastica, il tappo si era posato proprio su Bellamy Blake.
A quel punto non c’era davvero nulla che potesse fare per evitare la cosa e sentì il respiro mozzarsi a mezza bocca, cercava disperatamente una via di fuga e la cercava negli occhi limpidi della sua inconsapevole carnefice.
Clarke colse quell’irrefrenabile disgusto che si celava dietro lo sguardo scuro del ragazzo e cercò di trovare un escamotage
“Vi prego! Non potreste fare un’eccezione? Non fatemi passare sette minuti con un sadico che ama torturarmi da quando mi conosce…”
Nessuno però si precipitò in suo aiuto e Jasper che ormai sembrava il giudice di quella rievocazione adolescenziale decretò
“Le regole sono regole e valgono per tutti, nessuna eccezione per principesse o fantomatici re ribelli.”
Fu la voce profonda di Bellamy che riuscì ad infondere una sorta di malinconica accettazione nell’animo della biondina
“Andiamo, passerà no? Dobbiamo solo restarcene seduti su un balconcino per una manciata di minuti.”
Non era ben chiaro se quelle parole fossero indirizzate a lui stesso o alla ragazza con uno scopo quasi consolatorio e a tratti premuroso ma in ogni caso sortirono il loro effetto ed entrambi, uno affianco all’altra, con le teste basse, s’incamminarono verso il luogo topico.
 
Dapprima ci fu un gelido silenzio, i due se ne stavano seduti per terra, tenevano la schiena poggiata alle mura del palazzo e lo sguardo perso tra le sbarre che delimitavano quello spazio angusto, fu Clarke a spezzare il silenzio qualche istante dopo
“Non capisco. Ti ho mai fatto qualcosa che ti ha colpito direttamente? Cos’è questo astio che nutri nei miei confronti? Non credo sarò mai in grado di levarmi quello sguardo di dosso che mi hai rivolto prima, sembrava disgustato, inferocito.”
Bellamy non riusciva a trovare le parole adatte, forse perché di parole calzanti non ne esistevano.
“Perché hai scelto lei invece che me? Ho bisogno di sapere cos’è che ti urta così tanto, cos’ho che non va? ”
Sembrava non smetterla più, Clarke era partita in quarta e se lui non fosse riuscito a rispondere sarebbe andata avanti così per tutto il tempo, ne era sicuro.
“Ho scelto lei perché sapevo che sarebbe successo questo.”
Disse di getto ma il suo stomaco in quel momento si contorse, aveva una dannata paura che quella ragazzina potesse fraintendere, lei si era aperta, aveva chiesto spiegazioni e lui stava mentendo spudoratamente, o meglio stava omettendo dei particolari che aveva represso persino con sé stesso.
Ma con che coraggio le avrebbe potuto dire che le cose stavano in ben altro modo?
Che per la prima volta nella sua vita aveva sentito il cuore capitolare ai piedi di qualcuno, così senza neanche avere il tempo di realizzarlo davvero?
Era possibile?
Era giusto?
Lei si morse un labbro per tutta risposta ed abbassò il suo sguardo, in quel momento Bellamy Blake sentì il terreno mancargli sotto i piedi, stava impazzendo ne era certo, non era possibile che la sola vicinanza a lei lo facesse sentire così stordito, non era accettabile che quel breve colloquio durato forse un paio di minuti lo avesse atterrito in quel modo.
Sentì che doveva fare qualcosa.
“Se ci tieni tanto a saperlo, non credo di odiarti Clarke.”
Disse quasi in un sussurro, gli costava fatica e non coglieva il senso di ciò che stava accadendo, seguiva ciecamente l’istinto.
Quella frase catturò l’attenzione della ragazza che nuovamente rivolse i suoi occhi chiari su di lui provocandogli un leggero sussulto, sembrava aspettare qualcos’altro, una precisazione, doveva essere colpa del tono che aveva utilizzato, ne era quasi certo.
“Anzi…”
Non riusciva ad andare avanti.
Cosa doveva dirle precisamente?
Poteva permettersi di mettersi così a nudo?
La ragazza a quel punto rivolse il suo sguardo altrove, sembrava perplessa, confusa e Bellamy non riusciva proprio a biasimarla, se solo non fosse stato un codardo...
 
Fu in quel preciso istante che la voce di Jasper si fece chiara
“Yuuh!? Piccioncini, è ora di smettere qualsiasi cosa voi stiate facendo lì dietro! I sette minuti sono appena scaduti.”
Clarke sembrò sollevata, mentre si alzava e faceva per superare Bellamy con un espressione quasi apatica sul viso, il maggiore dei Blake invece rimase seduto dietro di lei ancora per qualche frammento di secondo, si sentiva sconfitto dal sospiro che la ragazza si era lasciata sfuggire.
Solo quando la biondina urlò di rimando “Arriviamo!” E mosse il primo passo, l’istinto prevalse.
 
Il moro si alzò impetuosamente ed afferrò il polso di Clarke, era come se in quel preciso istante avesse capito che ormai da perdere non c’era un bel nulla e se non riusciva ad esprimersi con le parole tanto valeva cercare di farlo con un gesto.
Doveva essere del tutto impazzito, si ritrovò a pensare velocemente.
La ragazza si volto bruscamente, la sua presa era stata prepotente e le iridi chiare di lei si riversarono interrogative e leggermente accigliate sulla sua persona, di nuovo cercavano una risposta.
Ma Clarke Griffin non fece in tempo ad esprimere qualsiasi tipo di lamento stesse formulando nella sua bocca perché Bellamy Blake le afferrò il volto tra le mani e lasciando che i suoi occhi scuri si ancorassero a quelli glaciali di lei e spingendola contro il muro alle sue spalle, fece sue quelle labbra in un bacio.
Tra le loro bocche, per quegli istanti che parvero infiniti, riuscirono a convivere una primitiva passione ed una spontanea dolcezza, desiderio e pudore, attrazione e dubbio.
I battiti intrecciati dei loro cuori colmarono il silenzio della notte, non sentivano più il vociare dei loro amici, i loro respiri leggermente in affanno si rincorrevano e le loro mani esploravano alla rinfusa la carne lasciata scoperta dai vestiti leggeri.
Fu quando sentì le mani della ragazza aggrapparsi alla sua nuca per avvicinare più di quanto non fosse già stato possibile il suo viso al proprio che il maggiore prese coscienza di quanto stesse accadendo e si lasciò sfuggire un sorriso in quel contatto fugace ed intriso di parole non dette che sembravano ormai non avere più alcun senso.
 
“Insomma avete capito che il tempo è scaduto?”
Stavolta la voce era di Murphy e sembrava più vicina del dovuto.
Bellamy rise ancora tra le labbra di Clarke, sembrava divertito da quella situazione al limite e delicatamente si separò dal corpo della giovane ragazza, poi riprendendo aria rispose senza toglierle gli occhi di dosso
“Eccoci!”
Si passò una mano tra i capelli, leggermente imbarazzato e solo quando vide Clarke sorridergli, dopo averle sistemato una ciocca bionda dietro l’orecchio, ebbe il coraggio di voltarsi per riemergere nella realtà al di là di quel balconcino.
Sentì i passi di Clarke appena dietro di lui e respirò profondamente avvertendo ancora il suo sapore sulle labbra e beandosi del profumo che le aveva lasciato sulla pelle.
 
-
 
“Devi andare per forza?”
La figura di Lexa si staglia sulla porta del bagno mentre Clarke è intenta a mettersi il mascara.
No.
Non deve andare per forza ma ne ha bisogno e quindi decide di inventare qualcosa
“Sì, la festa di ieri è andata benissimo ma sicuramente ci sarà molto da mettere in ordine ed ho promesso a Raven che me ne sarei occupata personalmente.”
“Posso accompagnarti se vuoi.”
“Non ce n’è bisogno, davvero, sarò di ritorno prima che tu possa accorgertene.”
E così dicendo le lascia un bacio leggero  sulle labbra e la sorpassa velocemente prendendo la borsa sul tavolo e chiudendosi la porta alle spalle.
Scende in fretta le scale del piccolo condominio e si ritrova in strada, chiude gli occhi inspira ed espira, sente il panico assalirla.
Non ha dormito ed i suoi muscoli sono completamente indolenziti ma, nonostante tutto, comincia a camminare verso l’atelier.
 
Quando apre la porta sente l’odore acre del detersivo prenderle i polmoni.
Non c’è un bel niente da mettere a posto è tutto perfettamente in ordine, ogni cosa è dove dovrebbe, il pavimento è lucido e sembra che nessuno sia stato lì prima d’ora.
Quel luogo è immacolato esattamente come la prima volta che lo ha visitato, quando ancora i suoi quadri erano nel garage della casa dei suoi e lei immaginava la loro disposizione mentre l’agente immobiliare le illustrava l’area e si prodigava per rendere quelle stanze come un ambiente luminoso, spazioso e stimolante.
 
Corre verso l’armadio nella piccola segreteria e ne estrae fuori tutto l’occorrente per mettersi a disegnare, per la prima volta dopo un tempo immane afferra un foglio da disegno e dei semplici carboncini, niente tempere, niente colori ad olio, niente tela.
Solo un foglio e la sua mano che si muove fluida sulla carta grezza dalla grammatura spessa e finalmente i suoi pensieri sono di nuovo liberi, lontani.
 

Angolo autrice: Heilà! Eccomi di nuovo, purtroppo un po' demotivata ma ci sono.
Demotivata per due semplici motivi
1) Non sono fermamente convinta di questo capitolo, non di tutte le sue parti almeno... L'ho riletto svariate volte e alla fine l'ho pubblicato perché ho bisogno di andare avanti nonostante ci sia qualcosa che non riesco ad apprezzare fino in fondo per cui fatemi sapere cosa ne pensate voi o se è solo una mia strana sensazione.
2) L'ultimo episodio ed il promo del prossimo mi hanno distrutto. Per la prima volta non sopporto Clarke e odio veder soffrire così Bellamy... Vorrei strangolare Jason, lo giuro. Non riesco a mollare le mie speranze ottuse ovvio ma non so davvero a cosa aggrapparmi - motivo per cui è necessario continuare a scrivere ahah -

Nonostante queste osservazioni un po' malinconiche vi abbraccio fortissimo, ringrazio tutte le bellissime persone che si sono soffermate a leggere questa fanfic, che hanno recensito e che l'hanno inserita tra seguite/preferite/ricordate, siete una gioia per il cuore, sappiatelo!

Vostra Chiara.

 

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Capitolo 6
*** V ***


V
 
 
“Dov’è papà?”
La sorella alza lo sguardo d’improvviso, è quasi stupita mentre Bellamy le fa quella domanda. Il ragazzo sente la testa pulsare, il suo non è stato di certo un gran risveglio ma ha bisogno di sapere dov’è, non dimentica che la sera prima gli ha promesso di metterlo al corrente.
“E’ andato a lavorare.”
Il tono svogliato.
“Già? Ma i turni non dovrebbero essere più leggeri per chi è avanti con l’età?”
La piccola di casa alza le spalle mentre sorseggia il suo caffè lungo, Bellamy non riesce a vederla così, Octavia Blake ha sempre sprizzato vitalità da tutti i pori mentre ora sembra del tutto inghiottita dall’apatia.
“Come stai?”
Tutto ciò che può fare quindi è tentare di scuoterla, di ricordarle che lui è lì anche per lei.
“So dove sei stato ieri notte.”
Il maggiore dei Blake strizza gli occhi leggermente, non poteva aspettarsi tale evasione.
“Me l’ha detto Murphy, mi ha scritto un messaggio… Almeno lui lo ha fatto, tu non ci hai nemmeno pensato a chiedermi se avessi voglia di venire.”
Continua con una sorta di schietta freddezza.
Il ragazzo deglutisce preso alla sprovvista ma tenta comunque di giustificarsi
“Pensavo solo che dato che non hai conservato questo gran rapporto con Clark…”
La ragazza lo ferma con un gesto impellente delle mani, sembra infastidita.
“Non c’è bisogno che tu vada avanti, ti ho semplicemente fatto notare che Murphy è stato molto più apprensivo ed interessato di quanto non lo sia stato tu.”
“Ma…”
“Lascia stare, davvero. Come stanno?”
Bellamy la scruta dall’alto in basso, poi si siede di fronte a lei e senza smettere di guardarla, si versa il caffè nella tazza pulita, ci sono dei momenti in cui si stupisce di sé stesso, nonostante le parole della sorella siano state simili ad una pugnalata infatti, si ritrova carico di una rabbia che mai avrebbe pensato di liberare.
“Fammi capire O’… Cos’è che vuoi sapere esattamente? Pensi che sia semplice per me?”
Non riesce comunque ad essere impassibile come vorrebbe.
“Si Bell.  E’ un dato di fatto: per te è semplice, infatti non hai avuto alcun problema a passare l’intera nottata con tutta la combriccola, no?”
Beve un sorso di caffè, Octavia non può capire e non può colpevolizzarla per questo, del resto lei non sa e subito il ragazzo cerca di ristabilire un nuovo equilibrio, una nuova calma tutta basata sull’innocenza di O’.  
La piccola effettivamente non sa assolutamente nulla di lui e Clarke o del fatto che, esattamente come lei, ha perso presto i contatti con gli altri ma lui non ne ha fatto un dramma esistenziale, no, ha preferito calare un muro, non dare nell’occhio.
Era convinto che prima o poi quella storia del bacio alla festa sarebbe spuntata fuori, ricorda che per un periodo sua sorella aveva sentito Clarke Griffin regolarmente eppure, all’epoca aveva la sicurezza che la bionda non le avesse detto ancora nulla.
Sa perfettamente che se sua sorella avesse saputo, gli avrebbe detto qualcosa, qualsiasi cosa.
Non è mai riuscito ad immaginare quale sarebbe potuta essere la reazione di O’ ma sapeva perfettamente che non avrebbe mai fatto scivolare un fatto del genere nel silenzio.
E se questo non è mai accaduto vuol dire solo che Octavia Blake è ignara di tutto e per una volta il legame fraterno non è riuscito a farla penetrare nelle sue sensazioni, nelle sue insicurezze più recondite.
Dunque si ritrova a nascondere la sua espressione tesa dietro la tazza fumante.
Non sa come si sente e non può fargliene una colpa.
L’ironia dei fatti vuole anzi che l’assecondi inspirando profondamente.
“Forse hai ragione O’ ma è passato così tanto tempo… Eravamo dei ragazzini, non potrai incolparla per sempre.”
Il viso di sua sorella s’irrigidisce, le sopracciglia si corrugano e gli occhi sprigionano improvvisamente veleno.
“Avevo bisogno di lei Bellamy, avevo bisogno di un’amica sincera ma Clarke è scomparsa d’improvviso, aveva ancora la sua vita dopo tutto. Non puoi difenderla, non stavolta.”
“Cosa intendi?!”
Sua sorella sospira scuotendo la testa.
“Lascia perdere.”
Con un gesto stizzito abbandona la sua tazza sul tavolo e se ne va, sparisce dalla porta aperta e dopo pochi istanti riesce a distinguere le scale scricchiolare al suo passaggio.
“Dovrai uscire da quella stanza prima o poi Octavia, non puoi nasconderti per sempre!”
Urla a pieni polmoni frustrato.
Dovrebbe sentirsi meglio, dovrebbe essersi sfogato ma non udendo una risposta differente dalla serratura della camera della minore che si chiude, non può far altro che sprofondare nella sedia della cucina, portarsi le mani al volto, scompigliarsi i capelli e sbuffare appena.
 
-
 
Sente il brusio nella sala confonderla, sua madre non è passata nemmeno oggi.
Sono trascorsi già due giorni dalla mostra e Abigail Griffin non è ancora andata a trovarla, si da della stupida per aver tenuto aperto anche quella mattina, di Domenica ci si dovrebbe riposare a casa, si dovrebbe rimanere a letto stretti alla persona che si ama…
Ma Clarke Griffin deve essere una sarcastica eccezione, dopo un anno che aveva finalmente la possibilità di passare una giornata intera con la sua ragazza, ha comunque deciso di lasciarla dormire, ha preferito che si svegliasse sola e che trovasse sul tavolo la colazione pronta ed un bigliettino di scuse scritto con una grafia tremante.
E adesso non sa proprio dire se quella scelta sia dovuta al disperato tentativo d’illudersi che sua madre le avrebbe fatto finalmente visita o se è semplicemente perché non riesce più a sentire nulla mentre Lexa le bacia il collo, le labbra e l’accoglie tra le sue braccia.
 
 
“Quando ripartirai?”
La voce di Raven fa tornare la giovane Griffin al tavolo per quattro prenotato a suo nome.
“Domani notte.”
Risponde Lexa con un sorriso amaro.
“Prima o poi riuscirò a farla venire con me…”
Aggiunge accarezzando l’inconfondibile chioma bionda “Nel frattempo per domani ho preparato una sorpresa!”
Clarke deglutisce e tenta di sorridere, scosta delicatamente la mano della sua dolce metà, perché nessuno si accorge che sta fingendo?
Si sorprende a pensare che Octavia Blake lo avrebbe compreso fin da subito, le avrebbe stretto la mano e le avrebbe trasmesso il coraggio di fare la cosa giusta ma adesso è sola, è contornata dalle persone che dovrebbe amare di più ma si sente comunque completamente abbandonata a sé stessa, in balia di pensieri che nemmeno riesce a decodificare.
“Giuro che v’invidio tremendamente!”
L’innocenza di Harper stride tremendamente con le ponderazioni della ragazza seduta di fronte a lei.
“Siete fonte d’ispirazione… Nonostante la lontananza siete così legate…”
Sospira quasi sognante.
“E’ normale.”
Dice Lexa con una semplicità sconvolgente.
“Siamo cresciute insieme, ci conosciamo così in profondità che potrei dirvi esattamente a cosa sta pensando proprio adesso la nostra piccola Clarke con la testa tra le nuvole…”
La giovane Griffin le manda uno sguardo interrogativo, quelle parole le stanno facendo più male del previsto, non ce la fa, non può ferire qualcuno che ha amato così.
La verità è che quella giovane donna non ha la più pallida idea di cosa le passi per la testa, se solo lo sapesse allora sarebbe in grado di odiarla e lei non meriterebbe altro che questo.
“Vedrai che tua madre verrà presto.”
Sussurra la sua compagna, è apprensiva e sente la sua mano stringersi sulla sua spalla.
“Oh…” Si lascia sfuggire Raven “Lexa ha ragione Clarke, non angustiarti, non pensarci ma soprattutto goditi la serata, niente problemi okay?”
Sente il respiro mancarle, per quanto ancora potrà mandare avanti quella farsa?
Deve solo aspettare, attendere che tutto finisca, che Lexa Woods sia di nuovo a Londra.
Allora fingere sarà più semplice.
“Credo di aver bisogno di andare un attimo in bagno.” Dice soltanto parlando flebilmente “Torno subito.”
 
Si è lasciata alle spalle la porta del ristorante da pochi istanti, l’aria è frizzante, sente un brivido pervaderla, non ha pensato a portare con sé il maglione, aveva detto che sarebbe andata alla toilette dopo tutto.
L’ennesima bugia.
E’ compulsivo, sono tre giorni che finge e non credeva di esserne capace, non pensava di essere così brava.
Mente agli altri e a sé stessa facendo credere di essere serena, risultando contenta, finge di amare persino e questa cosa le lacera il petto, si sente vuota, assente e si odia.
Clarke Griffin odia il suo dramma improvviso e non riesce a sopportare di sentirsi in quel modo proprio adesso, chiunque al suo posto trasuderebbe gioia pura.
 
In quel momento la sua attenzione viene catturata da un uomo appoggiato alla vetrina del ristorante, è piuttosto alto e i suoi occhi di nocciola per un attimo la inchiodano.
Clarke si dirige con noncuranza verso di lui:
“Hai una sigaretta?”
E’ una domanda retorica dato che quel tipo dalla capigliatura semi-brizzolata tiene stretto tra le dita un mozzicone fumante, annuisce e in silenzio estrae il pacchetto dai vecchi Levis che indossa.
“Tieni.”
Clarke fa un cenno di ringraziamento con il capo, poi lo affianca.
“Credo che avrò bisogno anche di un accendino.”
L’altro allora ridacchia appena, il suo viso è rassicurante, è un completo sconosciuto ma riesce ad infondere nella giovane donna uno strano senso di serenità.
Scosta la giacca e con un gesto delicato, dopo aver estratto il piccolo oggetto, si avvicina con le mani alla sua bocca e lascia che il gas faccia tutto il resto.
“Te l’hanno già detto che dovresti evitare, vero?”
Clarke sorride mentre aspira.
“Scusa la paternale ma sei giovane e…”
“Tranquillo, non sono una fumatrice abituale è che…”
Non sa come continuare, le altre la aspettano e lei sta per sfogarsi con un completo sconosciuto.
“Serataccia?”
“Più o meno.”
“Andrà tutto bene alla fine, vedrai. Alla tua età le cose si risolvono sempre.”
“Non credo sia così semplic…”
Viene interrotta quando una donna fasciata in un cappotto color carta da zucchero sembra richiamarlo all’appello
“Marcus! Dov’eri finito? C’è la torta, dovresti venire dentro.”
L’uomo fa un cenno con la testa poi getta a terra il mozzicone e rivolge uno sguardo intenerito alla ragazza
“Il dovere mi chiama.”
 
 
“Si può sapere che fine avevi fatto?”
Raven la guarda con due occhi interrogativi mentre Harper e Lexa sembrano conversare animatamente.
“Avevo solo bisogno di… di un po’ d’aria.”
La mora le si avvicina e cercando di essere discreta le chiede
“Sei sicura di stare bene? Puzzi tremendamente di fumo.”
Gli occhi di Clarke si gonfiano appena, vorrebbe dannatamente sfogarsi, poterle parlare liberamente ma non può proprio mentre vede il viso ambrato della sua ragazza rivolto verso di lei.
Allora abbassa leggermente il capo annuendo.
“Va tutto bene” Dice a forza “Non preoccuparti.”
E l’altra deve aver capito che sta mentendo spudoratamente ma in una complice razionalità asseconda l’altra con il solo sguardo, non insiste.
 
Un’ora dopo sono fuori il ristorante e vede Harper e Raven abbracciare in modo affettuoso Lexa
“Hei! Dovresti farci più spesso sorprese del genere, sono stati giorni brevi ma intensi.”
La giovane le stringe ancora di più a sé dopo le parole colme di dolcezza di Harper.
“Ve l’ho detto! La prossima volta dovreste essere voi a venire da me.”
Riserva un’occhiata diretta a lei, oltrepassando le nuche delle due giovani alle quali è ancora stretta.
“Clarke e la sua stupida paura degli aerei…”
Sghignazza Raven e per un attimo Clarke è lieta di quella insensata fobia, è grata di avere una scusa così plausibile.
“Sono sicura che per te farà un’eccezione”
Harper sembra rincarare inconsciamente la dose.
Poi le tre si separano e le due amiche posano un veloce bacio sulla guancia alla bionda prima di voltarsi ed incamminarsi verso la macchina della morissima Reyes.
Lexa allora prende la mano della giovane Griffin
“Hei tu! Sei sicura di non voler continuare la serata?”
La ragazza tentenna “Sono stanca Lex’, tu vai pure dai tuoi, ci vediamo domani.”
“Come vorrei non aver mai detto ai miei vecchi che sono tornata negli States e passare anche questa notte al tuo fianco…”
Clarke si sente imbarazzata, sente di essere una persona orribile mentre con la mano accarezza il viso asciutto della donna e cerca di lasciarle un dolce bacio sulle labbra carnose.
“Vai, ci sentiamo domani.”
Sa di averla rassicurata di averle dato la buonanotte che dovrebbe meritare ma allo stesso tempo vorrebbe essere stata in grado di non averlo mai fatto, se solo avesse imparato dai suoi errori, adesso saprebbe come dirle addio, riuscirebbe a rendere anche un momento così drammaticamente triste, speciale, e lo farebbe solo per lei e per quei sentimenti che non credeva di saper provare ancora con tale intensità.
Ma Clarke Griffin deve avere delle serie problematiche con gli addii o sarebbe stata capace di fare lo stesso con Octavia, riesce solo a far male alle persone a cui tiene, se ne convince mentre si lascia alle spalle Lexa Woods e affretta il passo verso la stazione della metropolitana più vicina.
 
-
 
Suo padre deve essersi davvero divertito, è riuscito a sfuggirgli per due giorni filati e Bellamy si rigira tra le coperte fissando il soffitto nel buio.
E’ stato come avere un chiodo fisso.
La curiosità lo ha devastato, sente l’acuta necessità di sapere per quale assurdo motivo Clarke Griffin e Michael Blake condividevano un rapporto dalla dubbia entità.
Alcuni strani pensieri si sono persino affacciati nella sua mente e una leggera ansia ha compagnato il sonno notturno di quei giorni.
Dare per scontato che i padri siano brave persone a prescindere è un errore che compiono in moltissimi.
Ma suo padre, Mike non è una persona qualunque e nonostante la sua depressione, nonostante lo sfogo alcolico, sa che non sarebbe in grado di far male nemmeno ad una mosca.
E poi Clarke sembrava serena quando ha fatto il suo nome, sembrava interessata, preoccupata anzi.
No, suo padre non è un mostro, come poteva aver dato adito a pensieri tanto stupidi?
Per un attimo Bellamy si sente in colpa solo per aver minimamente dubitato di lui, è questo l’ultimo pensiero che formula prima di prendere il cellulare in mano.
 
Sono le due di notte e non ha altra scelta, è costretto a cercare una conferma o di questo passo non si addormenterà: scorre la casella dei messaggi e digita velocemente sul touchscreen
Tutto confermato per domani? 17,00 al muretto?”
Non sa nemmeno se Clarke abbia cambiato numero, riflette nel silenzio della notte, non ha pensato a chiederglielo due sere fa, ma tenta comunque, sente il battito leggermente accelerato mentre prova a figurarsi in testa quell’incontro, non riesce a credere che dopo tutti quegli anni di assenza, quella ragazzina, ormai cresciuta del tutto, sia in grado di farle ancora lo stesso identico effetto di quando non erano che degli adolescenti in preda agli ormoni.
 
La vibrazione del cellulare lo agita ancora di più, sa che è lei, non può essere altrimenti.
Afferra lo smartphone e sblocca lo schermo:
“Si, buonanotte.”
Vorrebbe risponderle, avrebbe voglia di mandare avanti ancora per un po’ quella conversazione fredda e rarefatta, composta di brevi e sincopati caratteri digitati alla rinfusa.
Non si aspettava una sua risposta, è tardi e domani le persone della sua età avranno i loro impegni, lei compresa.
Ma per un attimo, grazie a quella brevissima frase, riesce a percepirla più vicina del dovuto, riesce ad immaginarla sdraiata su un materasso, avvolta da coperte colorate e con i capelli sciolti e scompigliati sulle spalle, osserva quel realistico frutto della sua mente: la vede rannicchiata stringere in mano il cellulare ma guardare oltre, fissare un punto nel vuoto, poi però accanto a lei appare quella ragazza e il cuore di Bellamy Blake si ferma.
“Buonanotte.” Scrive velocemente, non vuole avere ripensamenti.
Qualunque cosa Clarke Griffin stia facendo, vuole far parte anche lui di quel breve momento, pure se si tratta di un semplice messaggio, anche se sa perfettamente che nella sua vita non c’è più spazio per lui, che il suo treno è passato troppi anni prima e ciò che ha fatto è stato solo un vano ed infantile tentativo di prenderlo in tempo quando l’ultimo vagone stava lasciando a velocità la stazione.
 
 
Una luce lo infastidisce, la sente violenta sotto le sue palpebre chiuse, un rumore brusco accompagna l’illuminazione accecante e in un attimo la sua mente si risveglia, cerca di collegare i segnali che ha ricevuto.
“Svegliati Bellamy.”
Suo padre deve aver completamente dimenticato che cosa voglia dire ospitare dei giovani in casa.
Borbotta lamenti sommessi, tirandosi le lenzuola fin sopra al viso.
“Per la miseria Bell’, ti rendi conto di avere ventisette anni? Posso sapere per quale motivo ti comporti ancora  come un ragazzino di quindici? E’ mezzogiorno. Se non scendi di sotto entro dieci minuti, passerò alle maniere forti sappilo. E pensare che io all’età tua mi ero già sposato e stavo quasi per diventare padre…”
Forse l’unica cosa che gli manca dell’Australia è la possibilità di svegliarsi a qualsiasi ora del giorno, i lavori notturni gli hanno praticamente scombinato qualsiasi tipo di abitudine ed ora si ritrova ad essere sgridato dal suo vecchio perché dorme troppo.
Aveva dimenticato quali fossero i principi di Michael ma ricorda in pochissimi minuti che l’essere mattinieri è il primo fra tanti.
Con non poca fatica si tira in piedi a forza e segue l’inconfondibile odore di pancakes.
 
“Credevo che avessi il turno…”
Dice ancora con la bocca impastata dal sonno.
“Ho lavorato ieri Bell ed oggi al cantiere è tutto coperto.”
Lo informa con voce roca suo padre mentre gli piazza davanti un piatto colmo dei dolci sciroppati.
“Tu piuttosto che intenzioni hai?”
L’uomo prende posto di fronte a lui e lo guarda con un sopracciglio alzato.
Sa perfettamente a cosa si sta riferendo, non potrà vivere ancora per molto in quella bolla post-adolescenziale.
“Tranquillo, la pausa è finita, oggi ho un impegno ma da domani cercherò di farmi qualche giro in città per capire cosa offre il mercato.”
Suo padre allora accenna una risata amara.
“Sai che siamo nel 2017 vero? Cosa vuoi che offra il mercato? Datti una svegliata figlio mio, non siamo in Australia, ricordatelo.”
Bellamy sospira allora mentre trangugia un boccone della sua colazione.
“Lo so. Ma me la caverò. Sono pur sempre un Blake…”
“Appunto. Cerca solo di non finire come me…”
Dice l’uomo con un tono apprensivo e Bellamy lo vede di nuovo nella sua più profonda fragilità, averlo lì in carne ed ossa ripulito, gli fa quasi dimenticare il motivo per cui hanno deciso di tornare.
“Tu… tu stai bene?”
Cerca di chiedere incerto.
“Meglio direi.” Poi stringe un pugno sulla superficie legnosa del tavolo. “Quali sono i tuoi programmi?”
“Mi vedo con Clarke per quella cosa.”
Rimarca la frase, forse è ancora in tempo per estorcergli qualche informazione.
“Ah.” Il volto di Michael si adombra.
“Non c’è niente che preferisci dirmi tu?”
“No. Lei saprà spiegarti molto meglio. Quella cara ragazza è stata la mia salvezza Bellamy, tienilo a mente, se sono qui in questo momento è anche grazie a lei… Ti basta sapere questo.”
Adesso è confuso. Che cosa sta cercando di dirgli?
Per un attimo si sente pervaso dal senso di colpa, qualunque cosa sia, comprende che non sarà facile e forse quello che Clarke Griffin ha fatto per suo padre avrebbe potuto farlo lui stesso se solo non fosse stato via così a lungo.
 
-
 
Sente il telefono squillare in lontananza, i suoi sogni si diradano in fretta e Clarke si vede costretta ad aprire gli occhi e a riprendere contatto con la realtà.
Allunga la mano sul comodino nel preciso istante in cui il cellulare cessa di squillare e con gli occhi ancora socchiusi cerca di identificare le notifiche sullo schermo.
E’ tardi.
Sono le undici passate e il display del dispositivo le ricorda che quella che l’ha svegliata è la quarta chiamata persa da Lexa.
“Merda.”
Mormora mentre compone il numero e attende una risposta dall’altro capo.
“Buongiorno dormigliona…”
“Hei.”
“Scusa se sono stata un tantino insistente.”
“Tranquilla.”
“I miei mi trattengono a pranzo, hanno invitato tutta la famiglia…”
I pensieri di Clarke sono altrove, intorpiditi e risponde meccanicamente a quelle informazioni.
“Okay, cerca di stare serena.”
“Sono serenissima tesoro ma volevo ricordarti che dalle quattro di pomeriggio sei mia.”
Qualcosa si accende nella mente di Clarke.
E’ lunedì e lei ha dormito fino a tardi, questo vuol dire che Raven è sola alla galleria mentre lei è ancora lì nel letto come se non avesse un’agenda da rispettare.
E’ lunedì e Lexa partirà in serata per tornare a Londra.
E’ lunedì e lei ha promesso a Bellamy Blake delle spiegazioni.
“Hei, ci sei?”
“Io… Ecco, io…”
“Cosa?”
“Ho un impegno.”
Dice di getto, quasi vergognandosi di quella ammissione.
“Come sarebbe a dire che hai un impegno? Ieri non mi hai accennato nulla!”
La voce di Lexa Woods è tesa, fin troppo.
Clarke cerca di respirare profondamente, sarebbe facile, dovrebbe solo chiedere al maggiore dei Blake di posticipare il loro incontro eppure non vuole, è un’opzione che non contempla.
Ha bisogno di vederlo, ha voglia di sentire la sua voce calda e ferma, ha il desiderio di incrociare quegli occhi color carbone così diversi dai suoi, sente la disperata necessità di poter parlare con l’unica persona al mondo in grado di capirla ed è così, Bellamy è l’unico perché è il fratello della persona che per Clarke Griffin c’è sempre stata e perché è il solo che le ha fatto ricordare di essere in grado di amare e con un semplice bacio fuggente le ha insegnato a lasciarsi amare.
Se non fosse per Bellamy Blake probabilmente lei e Lexa non si sarebbero mai innamorate in quel modo.
“Lo avevo dimenticato Lex’.”
Sussurra soltanto, ha paura, ha un fottutissimo terrore.
“Tu lo sai vero per quale motivo sono tornata a Washington?”
Sente dalla sua voce tremolante che sta cercando di mantenere la calma e Clarke annuisce, come se la donna potesse vederla, non parla, continua a muovere il capo su e giù.
“Vuoi spiegarmi cosa c’è di più importante? Capisco la Galleria, capisco tua madre ma sono giorni che mi pianti in asso, ti rendi conto di quanto tempo passerà ancora, prima che potremo rivederci?”
Lo sa bene.
Lexa lavora in un gruppo internazionale di ricercatori per l’eco sostenibilità ambientale ed ha i ritmi serrati, è già un miracolo che sia riuscita a staccarsi per quei quattro giorni.
Ma Clarke Griffin è stanca e proprio non ce la fa.
Non è mai stata tanto egoista in vita sua, lo riconosce.
“E’ una cosa delicata Lex’. Un mio vecchio amico è tornato dopo tanti anni e…”
“Con vecchio amico  intendi dire Bellamy Blake?”
Clarke annaspa. Non credeva che Lexa potesse ricordare.
“Tieni molto a quel ragazzo non è vero?”
“Bhè…”
“Così tanto da fregartene di salutare la tua ragazza prima che parta? Così tanto da esserti dimenticata persino di dire qualcosa, di ringraziarmi per la sorpresa? Non era scontato che venissi fin qui, lo sai, l’ho fatto solo per te.”
“Lo so e ti ringrazio ma… Lexa tu non puoi capire…”
“Oh io capisco molte cose invece.”
Un fruscio e degli squilli continui le lasciano intendere che l’altra donna le ha appena attaccato il telefono in faccia.
Un tempo Clarke Griffin si sarebbe alzata in fretta e furia dal letto, si sarebbe sciacquata il viso e avrebbe indossato i primi stracci che le fossero capitati sotto tiro.
L’avrebbe raggiunta imprecando contro il traffico, l’avrebbe richiamata fino a quando la ragazza non le avesse risposto, avrebbe fatto una scenata di fronte a tutta la sua famiglia, insomma l’avrebbe riconquistata con gesti plateali che provavano quanto il suo amore fosse potente, quanto una litigata fosse insulsa per il sentimento che le legava.
Non stavolta.
La bionda invece si raggomitola tra le coperte, resta lì inerte, vittima delle sue scelte, informando con un messaggio Raven di chiudere l’atelier e di prendersi la giornata libera, non aggiunge altro, non ha bisogno di condividere con nessun altra persona i suoi errori.
Forse un giorno rimpiangerà questo assurdo comportamento.
 
 
E’ in ritardo.
E quei maledetti ingorghi sulla Statale non la stanno aiutando.
Aveva dimenticato quanto fosse difficile raggiungere la periferia dal centro nel tardo pomeriggio nel primo giorno lavorativo della settimana.
Sta tornando a casa.
Sono anni che non mette piede in quel quartiere eppure ricorda tutto: ogni lurido vicolo, ogni volto dei passanti con la stessa identica espressione stanca, tirata.
Non sa dire se le sia mancato tutto quello, riesce solo a percepire l’agitazione impossessarsi di lei.
Ha dormito  troppo, non riesce ancora a capacitarsi di come sia sprofondata di nuovo in un sonno profondo e così sereno dopo quell’assurda telefonata.
E’ come se si fosse svuotata di ogni pensiero, di ogni angoscia.
 
“Alla buon’ora principessa.”
Bellamy Blake è seduto su quel muro e a Clarke Griffin sembra una visione.
Stringe una bottiglia di birra in mano e le rivolge uno sguardo tranquillo, non sembra affatto turbato dal suo ritardo, piuttosto le appare quasi divertito.
“Scusa. Ho calcolato male i tempi.”
“Lo avevo immaginato”
Risponde passandosi una mano tra i capelli e facendogli spazio, lei esita appena prima di sedersi affianco a lui, si lascia sfuggire un respiro stanco.
“Stai bene?”
Sente i suoi occhi addosso e per un attimo ha il terrore di essere così facilmente compresa da quel ragazzo dal viso sincero.
Non stacca il suo sguardo da terra e annuisce appena, non può mentirgli, non è in grado di farlo, non guardandolo in faccia quantomeno.
Lui alza le spalle e beve un sorso dalla bottiglia per poi passargliela, Clarke afferra il vetro verde come se fosse tutto ciò di cui ha bisogno, un paio di sorsi ed è completamente vuota.
“Hei, vacci piano Clarke.”
Si ritrova a ridere.
“Come vedi, siamo cambiati molto meno di quanto tu possa pensare.”
Solo adesso ha il coraggio di rivolgergli un’occhiata, si è appena ripromessa che deve essere veloce ma i suoi occhi vengono intrappolati dai lineamenti del giovane.
Il suo viso è un porto sicuro, ogni lentiggine è lì, esattamente dove l’aveva lasciata otto anni prima, le sue labbra sono leggermente dischiuse proprio come dopo l’ultima volta che aveva permesso alle sue d’incontrarle, di conservarne il sapore.
Solo quando le vede intente a sussurrare qualcosa, la ragazza cerca di recuperare l’attenzione persa
“Senti, so che non deve essere semplice ma…”
“Tranquillo, è per questo che si siamo incontrati, no?”
E in cuor suo vorrebbe che non fosse così, Clarke desidererebbe che fosse un semplice incontro di piacere, vorrebbe chiedergli della sua vita in Australia, delle ragazze che ha incantato, delle persone a cui ha riservato quel sorriso, del suo lavoro, delle amicizie ma sa che non sarebbe naturale.
Clarke Griffin e Bellamy Blake non sono mai stati buoni amici e pretendere di esserlo adesso sarebbe solo stupido.
“Solo… ti va di fare una passeggiata? Credo di averne bisogno.”
Il maggiore dei Blake scrolla le spalle e salta giù dal muro di marmo, per un frammento di secondo è in piedi quasi di fronte a lei e i loro visi sono vicini, così come solo poche volte è successo.
E’ un attimo perché la ragazza, con una leggera spinta dei polsi, raggiunga il terreno e di nuovo, com’è naturale, la differenza di altezza tra i due separa i loro sguardi, allontana i loro volti.
 
“Hai qualche domanda?”
Chiede lei iniziando a camminare senza conoscere quale sarà il punto d’arrivo.
Lui scuote la testa “Voglio solo capire.”
Clarke trattiene il respiro per una manciata di secondi poi espirando comincia a parlare.
“Bhè qualche mese dopo che tu e Octavia siete andati via ho preso parte a questo progetto presso una clinica di ricovero per tossicodipendenti ed alcolisti. Per me era una sorta di tirocinio, se vogliamo chiamarlo così, all’epoca ero ancora convinta che mi sarei laureata in medicina, sai…
Non facevo granché a dire il vero, non avevo le competenze necessarie per fare qualcosa di più concreto a livello medico. Diciamo che assistevamo alle sedute, passavamo del tempo con chi era ricoverato, cercavamo di distrarli da ciò che alla maggior parte di loro appariva una prigionia forzata.
Ero la più giovane, la maggior parte delle persone che facevano questo tipo di lavoro, del tutto volontario, erano più che adulte, casalinghe o pensionati che cercavano di dare una mano come potevano. Alcuni avevano tragiche storie alle spalle, figli morti di overdose, cari ricoverati in cliniche come quelle, infanzie violente e robe simili…”
 
Sta diventando più difficile del previsto rievocare tutto quello e Clarke fa una pausa temendo che sia troppo anche per Bellamy che ormai deve aver capito più o meno come la storia continuerà.
“Puoi andare avanti?”
Con lui le pause non funzionano allora, sa di dover arrivare dritta al punto e aspettarsi qualsiasi tipo di reazione.
“Insomma decisero che ero troppo inesperta per avere a che fare con chi aveva passato gran parte della propria vita a drogarsi, alla fine c’era gente che faceva volontariato da anni,  così mi inserirono nel programma per gli alcolisti, come se fosse più semplice, meno brutale.
L’unico lato positivo è che la maggior parte di loro non passava ventiquattro ore su ventiquattro nella clinica, c’erano delle giornate, dei turni e degli orari prestabiliti durante i quali si affrontavano dei veri e propri percorsi per la disintossicazione.
La prima volta che vidi Michael era fine Settembre, non dovevo nemmeno essere lì, mi ero ripromessa che non appena fosse ricominciata la scuola avrei lasciato il progetto, avevo già accumulato le ore necessarie per garantirmi il credito di cui avevo bisogno per entrare alla Georgetown.
Ma non riuscivo a voltare le spalle a quel luogo.
Ogni giorno che varcavo la soglia della clinica mi ripetevo che sarebbe stato l’ultimo e ricordo di essermelo ripetuta più volte anche quel giorno.
Ma poi ho incrociato il suo sguardo e…”
 
Clarke esita, può sembrare stupido, anzi ha l’impressione che agli occhi di Bellamy sia apparsa del tutto patetica ma può ancora percepire la sofferenza che aveva colto nello sguardo di Mike.
E non riesce ad andare avanti, a far finta di nulla, non davanti a suo figlio.
Sente la mano del giovane Blake stringersi attorno alla sua, è una presa salda, stabile eppure allo stesso tempo delicatissima, si permette di alzare lo sguardo, di incontrare quello del ragazzo: è serio, non è lievemente appannato da quelle che sembrano lacrime, non è affatto come il suo eppure riesce a percepire la stessa identica emotività.
“Se vuoi possiamo fermarci…”
La voce di Bellamy è scossa ma ancora lineare, ben scandita.
“No, andiamo avanti.”
E solo dopo essersi aggrappata a quella mano che è accorsa in suo aiuto, Clarke trova la forza di ricominciare l’attenta descrizione
“Credo di averci messo più del dovuto a riconoscerlo, sembrava sconvolto, il suo viso era esangue, la barba lunga e poco curata, persino i vestiti che indossava erano logori ed i suoi occhi apparivano eterei. Solo leggendo l’appello dei nuovi partecipanti ebbi la conferma che quello era davvero Michael Blake. Non ci volle molto perché capissi quali fossero i motivi che lo avessero spinto al limite, solo non credevo che in così poco tempo si potesse apparire come dei fantasmi.
Octavia mi aveva raccontato della rottura che c’era stata tra i vostri genitori ma quando me ne aveva parlato sembrava tranquilla e non potevo credere quanta sofferenza si celasse dietro a quella scelta. Mi diceva che da quando Aurora era partita Mike aveva cominciato a bere molto di più ma, con voi ancora in casa, si era contenuto evidentemente.
Era stata la vostra partenza a ridurlo in quello stato.
Il primo giorno durante la seduta aveva raccontato la sua storia.
Non mi ero unita al cerchio, ero rimasta in disparte, forse perché avevo paura che mi riconoscesse. Disse che non aveva più una famiglia, che gliel’avevano portata via, usava parole contorte, tanto che inizialmente alcune persone ipotizzarono che ci fosse di mezzo la morte di qualcuno.
Solo io avevo capito perfettamente a cosa stesse facendo riferimento ma non proferii parola.
Quando se ne andò, inevitabilmente incrociò il mio sguardo e qualcosa in lui si accese, vidi una scintilla brillare nelle sue pupille spente, mi rivolse un sorriso debolissimo e in quel momento capii che non solo mi aveva riconosciuta ma che in un certo senso mi stava implorando di aiutarlo.”
 
Prende fiato, ha perso la cognizione del tempo e solo in quel preciso istante si rende conto che hanno smesso di camminare.
Sono in quel parco che un tempo era del tutto abbandonato a sé stesso, quello con alle spalle il bosco.
Ricorda di quando avevano corso per tutto il quartiere fino a capitolare su quello stesso prato su cui adesso stavano in piedi.
Qualcosa è cambiato, il parco ora è ben curato, ci sono delle panchine e un area giochi per bambini.
Senza pensarci due volte lascia la presa dalla mano di Bellamy e si siede sul terreno umido, lo invita poi con gesto a fare lo stesso, il ragazzo la segue ponendosi di fronte a lei.
Non importa se ci sono dei posti più comodi, dei sedili appositi, Clarke sente di appartenere a quel lembo di terra ed ha bisogno di mantenere un contatto solido con ciò che la circonda.
Gioca allora con i fili d’erba, la sua mano destra è ancora sudata, piena di quel gesto che ha unito i loro corpi in quella passeggiata senza sosta.
 
“Sei sicuro di volere che vada avanti? Basterebbe questo, insomma è così che abbiamo stretto un rapporto, il resto puoi immaginarlo…”
Lui le punta le pupille contro, sono imploranti, sono identiche a quelle di Mike e allora capisce che non basta, che deve andare avanti, deve trovare la forza di farlo, glielo ha promesso e legge in quello sguardo che Bellamy Blake ha bisogno di lei, ha bisogno di conoscere la verità e di sentire ancora la sua voce.
E in quell’istante comprende di aver fatto la scelta giusta, non poteva andare diversamente, non poteva abbandonarlo, non poteva lasciarlo ancora ignaro di tutto, era passato fin troppo tempo.
Lui non l’aveva lasciata in quel prato, quando a quindici anni aveva quasi rischiato di metterli in pericolo, c’era stato per lei e l’aveva perdonata con un sorriso splendido.
Clarke Griffin capisce ora il motivo intrinseco per cui ha rinunciato a vedere Lexa prima della sua partenza e non riesce a pentirsi di quella scelta.
 
“Veniva due o tre volte a settimana e feci in modo di incrociare i miei turni con le sue presenze. Ero l’unica persona a cui parlava, tanto che gli psicologi del centro mi dovettero dare un quaderno su cui appuntare ogni cosa che diceva. Parlavamo a lungo inizialmente, mi diceva che gli faceva bene, che ero come una medicina perché collegava il mio viso a quello di Octavia, dopo tutto ci aveva visto crescere insieme sotto il tetto di casa sua, ma diceva che caratterialmente ero profondamente diversa da lei, era convinto che più di ogni altra cosa, parlare con me gli ricordava com’era avere una vera conversazione con te.
Ricordo che ogni volta in cui si lamentava della tecnologia, dello schermo attraverso cui era costretto a vedervi, cercavo di fargli cambiare prospettiva, era difficile ma non mi sono mai arresa e credo che in un certo senso quel piccolo sforzo gli abbia fatto capire in parte che la cosa più importante era non smettere mai di sentirvi.
Dopo un paio di mesi lo convinsi a partecipare alle attività ludiche che organizzavamo, erano progettate per gli adulti ma sembravano sortire l’effetto di farli divertire come bambini.
E’ in quegli incontri che tuo padre m’insegnò l’arte del disegno, era stato lui a scegliere di concentrarsi su quell’attività: una sorta di art-terapy molto poco vincolata dall’intervento di addetti al lavoro e mediata dai volontari come me.
Ben presto si rovesciarono i ruoli, era più lui che insegnava a me, che mi lasciava divertire, sperimentare, che mi guidava, non ho mai imparato così tanto in vita mia.
Un giorno mi chiese se ero sicura delle mie scelte, disse che mi sarei pentita amaramente se avessi lasciato fuggire via da me quella dote. Diceva che l’arte mi scorreva nel sangue e che dovevo inseguirla.
Fu quella chiacchierata che mi fece riconsiderare il mio futuro, avevo sempre dato per scontato che sarei diventata un medico solo perché lo faceva mia madre ed ero cresciuta con questa convinzione in testa.
In realtà entrai a medicina, non riuscii ad evitare di fare quei maledetti test, sentivo le ambizioni che gli altri avevano su di me e non mi sentivo pronta a tradirle…  La lasciai quasi subito, feci passare il tempo necessario per raccogliere il giusto coraggio, mia madre non mi rivolse la parola per mesi.
Michael smise di venire agli incontri a Natale, a livello clinico non c’erano stati molti progressi dato che si rifiutava di collaborare con qualunque persona non fosse me. Ero triste ma non riuscivo ad arrendermi al pensiero che potesse essere finita così. Fu una la psicologa che mi diede il compito di compilare i quaderni al suo posto che mi consigliò di fargli visita, diceva che non tutti rispondevano bene ad un ambiente come quello ma aveva visto come mi guardava, come mi sorrideva e si era detta convinta che vedermi non avrebbe potuto che fargli bene.
Da quel giorno ho incontrato tuo padre due volte al mese, fino a due mesi fa.
Non è mai uscito del tutto dalla sua dipendenza e mi rimprovero ogni giorno questo fallimento ma so di avergli fatto compagnia, di aver alleviato quella profonda solitudine che lo ha spinto a soffocare nell’alcool.
Quando comprai l’atelier mi disse che dovevo andare per la mia strada, che non potevo sprecare la mia vita dietro alla sua burbera malinconia e che ormai non c’era più niente da insegnarmi, mi aveva trasmesso tutto ciò che sapeva sull’arte.
Non mi diede modo di ribattere, mi disse che quello era un addio.
Solo quando ho saputo del vostro rientro ho ipotizzato che probabilmente in quel momento gli avevate dato la notizia del vostro ritorno...”
“Pensi che non ti abbia voluto tra i piedi per colpa nostra?”
Bellamy da fiato a quella frase restando sovrappensiero, rivolgendosi più a sé stesso che alla ragazza, nonostante la diretta natura della domanda.
“Oh no. Penso solo che avesse bisogno del tempo per ritrovare un proprio equilibrio da preservare una volta che sareste arrivati. Non ce l’ho con tuo padre, gli devo il mio sogno, è stato lui a farmi aprire gli occhi e so che non potrò mai ringraziarlo abbastanza.”
“E’ buffo, l’altro giorno mi ha detto quasi la stessa cosa di te.”
Lo dice sorridendo con la stessa tenerezza di un bambino in cerca di certezze e Clarke Griffin non può fare a meno di ricambiare quell'espressione.
 

Angolo autrice: Ho aggiornato più in fretta di quanto potessi pensare e sono contenta ma la sessione si sta avvicinando davvero e quindi non so per quanto ancora riuscirò a tenere questo ritmo, spero vi armiate di santa pazienza.
Comunque mi ero ripromessa di spendere due paroline su questo capitolo ma mi sono resa conto di aver dedicato davvero molta attenzione a questa parte della storia per cui non vorrei risultare ulteriormente ridondante...
Spero vi piaccia e mi auguro di avervi trasmesso tutto quello che ho immaginato nella mia testa, fatemi sapere!
Dal mio canto vi ringrazio sempre, non credevo davvero di poter attirare la vostra attenzione con questo progetto ancora del tutto in fase di sviluppo! Non dimenticate mai che ogni vostra parola e/o interazione è sempre una grande spinta per la storia in sé, è anche grazie a voi se ho sperimentato un po' ed ho trovato tanta ispirazione perciò fatevi avanti qualsiasi cosa abbiate voglia di condividere :)

Un abbraccio forte,
Chiara.

 

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Capitolo 7
*** VI ***


VI
 
C’era una cosa che per Bellamy Blake aveva sempre significato più di ogni altra: la famiglia.
Sin da piccolo avrebbe sacrificato tutto pur di sapere sua madre, suo padre e sua sorella al sicuro.
Era insito nel suo cuore e quando qualcuno gli faceva notare quell’attaccamento quasi spasmodico, non riusciva a riconoscere da dov’è che si originasse quel sentimento così forte. Sapeva solo che faceva parte di lui in modo indissolubile.
 
Per questo quando sua madre li aveva inspiegabilmente abbandonati alla volta di Sydney il suo mondo gli era come crollato addosso.
Era accaduto tutto così velocemente: il giorno prima Aurora e Michael scherzavano e guardavano la tv uno affianco all’altra e solo ventiquattro ore dopo un taxi portava in aeroporto sua madre che stringeva tra le mani un biglietto di sola andata per la sua terra di origine.
Le pratiche per il divorzio avvennero a distanza e Bellamy fu più protagonista di quel che volesse, si ritrovò costretto ad aiutare il padre tra raccomandate, avvocati e siti online dei quali si servirono per compilare tutta la documentazione necessaria.
Non ebbe il tempo per arrabbiarsi, inizialmente era stato semplicemente travolto dalla furia dei suoi genitori e profondamente frustrato dal non poter trovare una spiegazione logica a tutto quel dramma.
Solo in un secondo momento la rabbia si impossessò di lui: era astioso con Michael che non aveva fatto assolutamente nulla per fermarla, orripilato dal comportamento di Aurora che gli aveva voltato le spalle con una semplicità unica e leggermente deluso da Octavia che sembrava impassibile di fronte alle scelte che quei due cocciuti dei loro genitori stavano intraprendendo senza minimamente tener conto del resto.
Si sentì messo da parte ed il suo sentimento fu esteso a sua sorella: come amplificato, nessuno si era curato di pensare a loro due: vittime sacrificali di quell’assurda separazione.
 
Perciò quando arrivò la sentenza fece ciò che sentiva più giusto: seguire Octavia; percepiva tutto il peso di quella responsabilità nei confronti di lei dato che i loro genitori avevano deciso di ignorarla, di tralasciarla come se nulla fosse, accecati da un egoismo che il maggiore dei Blake non era in grado di concepire.
Ed era così che si era lasciato sfuggire la sofferenza di suo padre, lo aveva sopravvalutato, lo aveva persino accusato, lo riteneva colpevole almeno quanto Aurora di quanto stava accadendo.
Già perché Mike non aveva mosso un dito, aveva riservato a tutta quella situazione un atteggiamento del tutto passivo come se non gli interessasse, sembrava solo voler far finire tutto alla svelta e Bellamy non era riuscito a perdonargli quella scelta così pateticamente vittimista.
 
Probabilmente sarebbe andata avanti così se, anni dopo, non avesse mai ricevuto una lettera confidenziale dal Washington Hospital.
Proprio quando tutto sembrava aver trovato un epilogo più o meno sereno, almeno ai suoi occhi, suo padre era stato ricoverato d’urgenza per intossicazione da alcool e i dottori avevano ritenuto opportuno avvertire almeno un familiare, soprattutto per la fallita terapia che aveva intrapreso in una clinica riabilitativa.
Fu quella la goccia che fece traboccare il vaso, che fece tornare a galla senso di colpa e un maledetto senso di responsabilità mancato, che lo spinse ad aprire gli occhi e che gli fece prendere in considerazione l’idea di ritornare.
Dopo tutto avrebbe sacrificato qualsiasi cosa per il bene della sua famiglia ed in parte lo aveva fatto ma era stato così sciocco da non rendersi conto che chi tra tutti aveva bisogno di lui era proprio Michael, rimasto inevitabilmente solo.
Trascinare con lui Octavia era stata una conseguenza, non le aveva lasciato scelta, poco importava se lei gli avesse riservato rancore per tutta la vita.
La lontananza aveva già provocato troppe vittime e Bellamy Blake non sarebbe mai riuscito ad affrontare tutto ciò che lo aspettava a Washington DC senza la presenza di sua sorella, saperla distante gli avrebbe solo causato ulteriore preoccupazione e non poteva permettersi errori questa volta.
Era una scelta egoista forse, in un certo senso persino disperata, tutta devota al mantenimento della promessa che sette anni prima si era fatto: Mia sorella, mia responsabilità.
Una promessa suggellata dalla cecità di Mike e Aurora, se loro non erano stati in grado di essere presenti per lei, ci avrebbe pensato lui.
 
Aveva provato un certo stupore quando sua madre lo aveva assecondato, asserendo esplicitamente che quella era la decisione migliore: dovevano esserci l’uno per l’altra, erano fratello e sorella: sangue dello stesso sangue e in un momento così delicato era assolutamente necessario che restassero insieme.
Così fu lei a fare il lavoro più sporco ancora una volta: a comprare altri biglietti di sola andata, a comunicare la notizia che avrebbe stravolto nuovamente la vita ad O’, che avrebbe incrinato di nuovo il sottile equilibrio che con tanta, troppa testardaggine la giovane Blake aveva raggiunto, che l’avrebbe allontanata se non per sempre per un lasso di tempo, forse irrimediabilmente lungo, dall’unica persona con la quale era riuscita a sentirsi sé stessa in Australia, l’unico uomo al quale avesse mai aperto il suo cuore: Lincoln Whittle.
 
 
Quando Clarke termina il suo racconto, la sua versione dei fatti, in un attimo Bellamy viene travolto da tutto ciò che per anni e mesi ha tentato di nascondere.
Il divorzio, il trasferimento, il progressivo abbandono di suo padre sono cose a cui ha tentato di non dare grande rilevanza, almeno in apparenza, poco ha importato se ogni notte prima di chiudere gli occhi quei pensieri lo tormentassero, in superficie aveva comunque fatto di tutto per eliminarli.
Ma soprattutto Bellamy Blake è sempre stato convinto che nessuno sapesse nei dettagli di quel dramma familiare senza fine, certo, tutti i suoi amici erano al corrente del motivo per cui era stato costretto a lasciare gli Stati Uniti, non perché lui ci tenesse particolarmente a sventolare ai quattro venti le cause ma perché al tempo Octavia aveva sentito il bisogno di confrontarsi, di parlare con la maggior parte di quelle persone che erano i loro più cari ed intimi amici.
Nessuno però aveva osato mai scendere nei dettagli, ognuno di loro era stato vicino ai due fratelli come aveva potuto senza mai ledere quella dignità, quell’alone di privacy di cui i Blake non avevano potuto fare a meno.
Ma le cose erano cambiate.
Adesso Clarke sapeva.
E paradossalmente sapeva più di lui, aveva fatto molto di più di quanto non avessero mai potuto fare lui ed Octavia.
 
Non si permette di sorreggere di nuovo il suo sguardo mentre quei pensieri lo torturano, quando le nuove informazioni cominciano a far emergere al meglio quel puzzle che fin dall’inizio gli era apparso incompleto.
Si sente in colpa, vorrebbe darsi dell’idiota, sputarlo fuori quel rancore che prova nei suoi confronti per essere stato tanto cieco e meschino.
Perché nel profondo sa che non spettava a  Clarke Griffin  stare al fianco di Michael Blake, doveva esserci lui, suo figlio, ancora una volta era una sua responsabilità ma proprio come Aurora e Mike avevano fatto con Octavia, lui sembrava aver ripagato suo padre con la medesima moneta.
Se n’era lavato le mani, non si era minimamente posto il problema.
 
Sa che deve parlare, deve sforzarsi di trovare le parole adatte, è lui ad essere in difetto e glielo deve.
Quella ragazza non era obbligata a fare tutto quello per Michael eppure, senza chiedere nulla in cambio, si è sacrificata per suo padre e quel che è peggio è che lo ha fatto al suo posto, per una sua ingiustificabile mancanza.
Le labbra sono secchissime, lo percepisce appena tenta di aprir bocca, le umetta appena poi, solo dopo aver inspirato quanta più aria possibile, lascia che il fiato dia forma a quei pensieri confusi
“G-grazie.”
Tiene ancora i suoi occhi fissi sul terreno, non è in grado di sostenere lo sguardo cristallino di Clarke, non si è mai sentito così debole, così insicuro.
No.
Perché Bellamy Blake odia sentirsi in debito con qualcuno e se quel qualcuno non gli è indifferente è ancora peggio.
“Non essere stupido Bellamy, non dovresti nemmeno ringraziarmi.”
E’ inevitabile, la sua risposta ha innescato in lui una confusione tale da costringerlo ad incontrare i suoi occhi.
Sembra sincera, le sue sopracciglia sono leggermente inclinate, gli appare quasi preoccupata ed è tutto ciò che non vorrebbe mai, non sopporta che qualcuno si impietosisca, provi pena nei suoi confronti ma è una situazione così drasticamente delicata.
Se Clarke non avesse a suo modo salvato suo padre, la lascerebbe lì, si alzerebbe, le volterebbe le spalle probabilmente per sempre, metterebbe il suo cuore in pace e si rassegnerebbe ma non oggi, non ora, non dopo tutto ciò che finalmente sa.
“Senti, è il minimo che io possa fare okay? Non eri obbligata a fare nulla di tutto ciò che mi hai raccontato e quindi non posso fare a meno di dirti grazie, non voglio sapere che cosa sarebbe potuto accadere se…”
Si morde un labbro, posa i suoi occhi altrove, non può continuare, farebbe troppo male e non vuole sentirsi ancora più vulnerabile.
“Hei.”
Clarke si sporge verso di lui, posa lentamente una mano sulla sua spalla esercitando una delicata pressione sulla sua pelle, fa piano: probabilmente ha paura che lui possa reagire in modo forastico.
Ma Bellamy Blake rimane al suo posto, impietrito da quel contatto che non ha chiesto e che non riesce a scacciare, dal quale si sente completamente intrappolato, del quale vuole cogliere tutto il calore che in quell’istante gli appare come l’unica ancora di salvezza.
“Non posso sapere come ti senti… Ma posso immaginarlo, ci sto provando. Sappi solo che non devi colpevolizzarti Bellamy, tu non c’entri nulla, hai fatto tutto quello che potevi, sei stato con Octavia e fidati, posso assicurarti che era ciò che desiderava Mike, non avrebbe sopportato di sapere O’ sola, lo sai anche tu questo.”
Il maggiore dei Blake scuote la testa appena, sa che ogni parola di Clarke è esatta eppure non riesce a calmarsi del tutto.
Non può davvero perdonarsi, continua a rimproverarsi perché sa che avrebbe dovuto almeno rendersene conto, prestare più attenzione e invece no, non è stato capace.
“Smettila di torturarti.”
“Non ci riesco.”
Risponde con il fiato corto.
“Ma devi. Lo devi fare per tuo padre e Octavia, non è ancora troppo tardi.”
La sua mano che ha sfiorato la spalla fino a quel momento, tentenna appena prima di ritirarsi, Bellamy Blake cerca di non farci caso, di non darlo a vedere ma quel distacco lo scuote ancora di più, avrebbe voluto sentire quel calore su di lui per almeno un altro po’ di minuti.
Annuisce lievemente in risposta, assottigliando appena le labbra, poi guarda distrattamente lo schermo del cellulare: è tardi, tra poco Michael metterà un piatto caldo in tavola e alla luce di tutto quello che ha scoperto non può proprio perdersi quel semplice rito quotidiano.
“Dovremmo andare.”
Clarke lo guarda di sottecchi, vuole assicurarsi che stia bene, che non stia buttando quella scusa solo per scappare dalla sua emotività, lo sa benissimo, la riconosce ancora sotto molti punti di vista, è sempre stata così, si è sempre preoccupata più per gli altri che per sé stessa, ha perennemente messo il bene comune sopra ogni altra cosa ed in un certo senso le è grato di non essere cambiata di una virgola.
La ragazza getta un’ultima occhiata al lampione poco distante da loro che nella flebile luce del crepuscolo si è finalmente acceso.
“Hai ragione…”
 
-
 
 
“Grazie ancora per oggi.”
Bellamy Blake stringe le chiavi in una mano mentre con l’altra si gratta il capo mentre la saluta in quella strana maniera, a metà tra il formale e la più profonda gratitudine.
Sono di nuovo davanti a quella casa che per Clarke ha sempre significato qualcosa: prima Octavia, poi Michael.
Sente il suo stomaco in subbuglio, un lato di lei vorrebbe essere sfrontato: chiedere il permesso per poter entrare, basterebbe poco, quel tanto necessario per assicurarsi con i propri occhi che sia davvero tutto al proprio posto, che Michael abbia ritrovato la serenità e che gli occhi di O’ siano ancora grandi e pieni di curiosità verso il mondo circostante.
Ma sa che non può farlo, non è più una ragazzina, non è più l’amica di Octavia Blake o la ragazza dedita al volontariato in clinica; Clarke Griffin non è più tante cose.
“Va tutto bene principessa?”
Non si è nemmeno accorta di aver tenuto lo sguardo a terra per tutto quel tempo, alza di scatto il viso al suono di quel nomignolo che un tempo non poteva sopportare.
Abbozza un ghigno.
E forse dovrebbe davvero ammettere che sono tante le cose a non andare bene ma ancora una volta si tira indietro, Bellamy Blake non ha bisogno dei suoi problemi, la verità è non ha proprio bisogno di lei, non importa se per lei sia il contrario, se senta disperatamente la necessità di abbracciarlo, di sprofondare in quel maglione di cotone bordeaux che odora di bucato appena fatto, se vorrebbe solo sentirsi al sicuro per qualche minuto.
“E’ tutto okay, Bell.”
Mente di nuovo e sente un groppo in gola quando quelle bugie fuoriescono velocemente dalla sua bocca.
“E’ solo stata una giornata impegnativa.”
Si giustifica, scrollando le spalle.
“Allora… Ci vediamo Griffin.”
Il moro alza la testa appena in un cenno di saluto, non sono pronti per alcun tipo di contatto, sarebbe innaturale, li riporterebbe a quell’ultima sera e le è grata perché da subito si è accorta che, in sua presenza, non potrebbe minimamente confidare nel suo autocontrollo.
Lei risponde con un gesto della mano
“Suppongo di sì.”
Dice prima di voltarsi, pronta a lasciarsi nuovamente alle spalle quella casa e le infinite vicende che racchiude tra le sue mura.
Respira piano mentre compie a ritroso la strada che la porterà dritta alla sua macchina, si guarda intorno cercando di cogliere ogni dettaglio, si chiede se ricapiterà mai in quel luogo che le appare immutato, che la fa sentire ancora una semplice adolescente preda di sentimenti inspiegabili e sensazioni tutte da scoprire.
Ed è mentre la sua mente sta cercando di ritornare al presente, mentre si chiede cosa si preparerà da mangiare e come dovrà rispondere alla prossima telefonata di Lexa – se mai ci sarà – che la vede.
Tiene il capo chino, riconosce il suo corpo esile stretto in una felpa nera e in un paio di leggins scuri.
I suoi capelli sono raccolti in una coda alta e nonostante la posizione del suo viso leggermente inclinata, riesce a cogliere il luccichio smeraldino dei suoi occhi.
Senza rendersene conto s’immobilizza mentre la scorge arrivare nella sua direzione, colmare la distanza passo, dopo passo.
Viene colta da un improvviso sgomento quando Octavia Blake alza lo sguardo dal marciapiede, quando incrocia la traiettoria dei suoi occhi e vede la fronte della ragazza, sempre più vicina, aggrottarsi.
Dovrebbe dire qualcosa, fermarla, abbracciarla ma non riesce a fare nulla di tutto questo se non sperare che sia lei ad aprirsi come la prima volta in cui si sono incontrate.
 
 
 Aveva scelto il banco più vicino alla finestra e ci si era piazzata senza fare troppi complimenti, la classe era semi-vuota comunque ma non era stupita, tutto era andato secondo i suoi piani e la giovane Griffin era riuscita ad accaparrarsi il posto perfetto.
Era contenta da un lato di ricominciare da capo, quasi tutti i suoi compagni delle scuole medie avevano scelto scuole lontano dal quartiere, migliori per certi versi, un lusso che lei non si era potuta permettere.
Con sua madre e suo padre perennemente fuori casa per via del lavoro le era apparso fin troppo complicato allontanarsi e così il liceo di zona le avrebbe permesso di ritornare a casa per conto suo, semplicemente passeggiando per una decina di minuti.
Man mano che la classe si riempiva però sentiva uno strano senso di agitazione crescerle dentro: molti dei ragazzi e delle ragazze che avevano messo piede nella stanza sembravano conoscersi da una vita, erano già tutti presi in un chiacchiericcio indistinto basato su enfatiche conversazioni riguardanti vacanze passate lontano dalla città ed evocazioni di ricordi più o meno puerili.
Aveva paura, il terrore più completo di rimanere sola, di non essere in grado di riuscire ad integrarsi e cominciò persino a dubitare della sua mossa strategica che non aveva minimamente preso in considerazione l’ipotesi più sociale che l’inserirsi in un nuovo contesto scolastico offriva.
Il rintocco della prima campanella non fece che acuire quella sensazione che le stava dilaniando lo stomaco, le persone attorno a lei prendevano posto velocemente ed il posto affianco al suo rimaneva vuoto.
Cominciò a ticchettare nervosamente le dita sopra la superficie di legno lucido del suo banco, completamente assorta nei suoi pensieri ormai, già si vedeva a vagare sola nella mensa qualche ora dopo in cerca di qualcuno che l’accogliesse.
 
“Hei!”
Una voce squillante la fece quasi trasalire, alzando lo sguardo le si parò davanti una figura esile, una ragazzina dai lunghissimi capelli color nocciola e gli occhi verdissimi, grandi e gioiosi.
Quella visione le dipinse automaticamente un dolce sorriso sulle labbra.
“Ti dispiace se mi siedo qui? Mio fratello mi aveva detto che se non avessi puntato la sveglia avrei fatto tardi ma sai com’è…”
Non aveva terminato la frase che già stava prendendo posto accanto a lei, Clarke soffocò una risata a quell’aneddoto così stereotipato ma tremendamente vero, dopo tutto lei aveva puntato la sua sveglia alle sei e mezza in punto per appropriarsi di quello che considerava il banco perfetto…
Non comprese bene il motivo ma l’estrema differenza tra lei e quella ragazza le faceva simpatia, se si diceva che gli opposti si attraggono un motivo c’era e seguendo quella teoria le due sarebbero potute diventare davvero grandi amiche.
Quando l’altra finalmente aveva finito di riporre sul piano tutto l’occorrente, si scambiarono un’occhiata e finalmente la biondina riuscì a sbloccarsi:
“Io sono Clarke, tu come ti chiami?”
“Octavia, Octavia Blake.”
Disse con una particolare enfasi nel tono della voce, sembrava sul punto di continuare ma il professore entrò in classe e tutti ammutolirono, Octavia compresa.
Poco male, di lì a poco le due avrebbero imparato a condividere molto più che semplici parole di cortesia ed inevitabilmente quel primo giorno di scuola sancì la nascita di una profonda e viscerale amicizia che in molti, all’interno dell’istituto, invidiarono esageratamente.
 
 
Ma stavolta la minore dei Blake non fa nulla di ciò che Clarke ha preventivato o forse solo sperato, bensì le rivolge un’ultima e velocissima occhiata alquanto truce che fornisce alla bionda la sicurezza di essere stata riconosciuta dall’ex amica.
Poi, nonostante si trovi a pochi metri da casa sua e forse a poco più di uno da lei, attraversa velocemente la strada per non incrociarla.
 
 
-
 
Uno strano silenzio piomba in casa Blake, è un silenzio pesante intriso di parole non dette e domande che sembrano riecheggiare nelle loro menti sino a provocare in ognuno di loro profondi e confusionari mal di testa.
Mangiano in fretta, guardano i piatti che si svuotano poco, a poco.
Evitano il contatto visivo l’uno con l’altro e Bellamy Blake si chiede se sia solo una sua strana percezione dovuta a quella fin troppo lunga chiacchierata con Clarke.
In un attimo gli sembra che suo padre si comporti in modo diverso con lui ora che lo sa al corrente di tutta la storia, quanto ad Octavia è da quando sono in America che il suo comportamento scostante non fa altro che ferirlo ma ciò che in parte lo rassicura è che, dopo una manciata di giorni, sta quasi imparando a farci l’abitudine.
Lo fa solo perché è convinto del fatto che prima o poi anche lei capirà ed inevitabilmente affronterà la realtà dei fatti.
“Potreste pensarci voi, qua?”
Dice poi Michael alzandosi rumorosamente dalla tavola ed imperando sui due fratelli ancora seduti uno di fronte all’altra.
Octavia si limita ad annuire mentre Bellamy sta cercando di dar fiato ad alcuni pensieri che proprio non riesce ad ordinare in senso compiuto.
Il padre che deve aver capito le sue intenzioni però lo blocca prima che possa iniziare
“Sono stanco, ho bisogno di riposare, credo proprio che mi metterò in camera ma se doveste avere bisogno non esitate a bussare.”
Detto ciò abbandona la piccola cucina, senza dar loro il tempo di replicare o fare qualsiasi domanda.
Il maggiore dei Blake sa perfettamente che il padre non è stanco, è una versione dei fatti poco credibile, quell’uomo rinuncerebbe difficilmente al suo riposo serale in poltrona condito di libri e giornali.
C’è dell’altro dietro e non è altro che il timore di fronteggiare apertamente suo figlio riguardo tematiche così delicate che oltretutto hanno i suoi errori, la sua irresponsabilità come essere umano prima e come padre, subito dopo, per protagonisti.
 
Per un attimo Bellamy sente il bisogno di sfogarsi, è quasi sul punto di rivelare tutto a sua sorella, tanto che comincia ad immaginare apertamente il modo in cui potrebbe comunicarle alcune cose e cerca di prevedere il modo in cui lei potrebbe reagire.
Ma non appena Michael Blake lascia la stanza, Octavia tira indietro la sedia in un impeto costringendo il fratello a guardarla dritto negli occhi
“Che cosa ci faceva lei qui?”
In pochi secondi Bellamy capisce.
Tutto gli è chiaro, per quanto sua sorella potesse portarle rancore, quel silenzio era stato davvero troppo.
Ricorda velocemente che O’ è entrata in casa poco dopo di lui e il suo viso era leggermente paonazzo, pensava fosse dovuto al fatto che fosse uscita per andare a correre, era così che la giovane aveva deciso di esorcizzare la sua rabbia per il ritorno e da quando erano tornati aveva preso l’abitudine di correre senza sosta per tutto il quartiere agli orari più disparati.
E’ così che deve averla incontrata.
“Avanti Bell, parla.”
Lo incalza ed il ragazzo non sa proprio che dirle, le mancano troppi dettagli per motivare un ipotetico incontro tra i due.
Potrebbe mentire, dirle che si sono incontrati casualmente ed hanno chiacchierato un po’ ma tutto quello che Octavia ricorda di loro due insieme devono essere gli interminabili battibecchi.
Potrebbe dirle una bugia ma sa in partenza che non sarebbe credibile; Octavia potrebbe far finta di crederci e perdere ancora più stima nei suoi riguardi oppure arrabbiarsi e sarebbe una reazione del tutto legittima alla quale non potrebbe opporre alcuna resistenza.
Ma deve dirle qualcosa, è inevitabile.
“Le avevo chiesto io di vederci.”
Dice vago, non riesce a mentirle fino alla fine ma allo stesso tempo sente che non può dirle la verità, non a così breve distanza, non nello stesso giorno in cui lui stesso ne è venuto a conoscenza.
Sa che il punto debole di Octavia è il dolore emotivo e ne ha già provato abbastanza, non può far gravare sulle sue spalle anche questa storia.
“E si può sapere per quale assurdo motivo?”
“Bhè… mi… Mi doveva dare la felpa di Murphy, l’altro giorno l’ha dimenticata al suo atelier e insomma io e John ci vedremo sicuramente prima di quanto non faccia lei.”
Octavia lo guarda di traverso, in silenzio, sembra che stia ponderando quella risposta, il suo tono incerto, quasi imbarazzato.
“Quindi tu le hai chiesto di vedervi per farti ridare la felpa di John?”
Bellamy annuisce lentamente
“Poi però ci siamo messi a chiacchierare, insomma era venuta fin qui e…”
“E non hai minimamente pensato ad avvertirmi.”
Sgrana gli occhi.
Si convince in fretta che il problema di Octavia non è Clarke ma è la gelosia che prova nei suoi confronti, è chiaro, è la stessa identica sensazione che ha provato lui lasciando Washington DC.
La gelosia nei confronti di ognuno di loro, il timore di sapere che i loro rapporti personali sarebbero andati avanti, sarebbero cresciuti mentre quelli con lui sarebbero rimasti in sospeso, era una visione infantile ma era naturale e soprattutto difficile da reprimere.
Sua sorella è ossessionata dal fatto che la sua ex amica possa ancora intrattenere rapporti positivi con gli altri, non riesce ad accettare il distacco che c’è stato, deve essere così.
“Io credo che dovresti darle una possibilità di recuperare.”
“Ti ho già detto che non hai il diritto di intrometterti in questa situazione. Quando si tratta di Clarke tu non riesci mai ad essere obiettivo, non mi sorprende nemmeno un po’.”
Bellamy Blake sente il suo cuore perdere un paio di battiti, perché sua sorella continua a fare riferimenti simili?
Sente che c’è qualcosa che gli sfugge.
“Smettila.”
Cerca di mantenere la calma ma non sa ancora per quanto ci riuscirà.
“Sono io quella che dovrebbe smetterla? Sei proprio sicuro? O non sei tu quello che è qui da nemmeno una settimana ed è già ricaduto nelle sue vecchie malsane abitudini?”
Bellamy socchiude le labbra, non riesce a capire dov’è che vuole arrivare
“E quali sarebbero queste malsane abitudini, scusami?”
Alza il tono, è nervoso, odia quei giochetti, quelle domande retoriche che implicano delle risposte che si rivelano affatto scontate.
“Quella di andare dietro ad una che non ha mai provato nulla nei tuoi confronti se non pena, forse, al massimo, un briciolo di tenerezza.”
Sente il peso di quelle parole gravare su ogni sua vertebra, gli sembra di essere stato travolto da un vento freddo, gelido, tagliente che sferza e sta lacerando ogni lembo di pelle.
Sa che dovrebbe farsi forza, non arrendersi e riprendere in mano la situazione, chiedere ad Octavia come le sia venuta in mente una cosa simile ma non riesce.
Scuote la testa, cerca di trattarla con superiorità, come se quelle parole non avessero avuto alcun effetto su di lui
“Pensa quello che vuoi O’.”
Poi fa qualche passo all’indietro, varca la soglia, sale gli scalini in fretta, senza guardarsi intorno si precipita nella sua camera da letto, con la consapevolezza di aver perso.
Non è una sfida, una battaglia, una dimostrazione ma lui con sua sorella, quella sera, ha perso lo stesso, è scappato.
 
-
 
Ha guidato con difficoltà fino a casa. Il viso di Octavia le è apparso, le è rimasto stampato in testa per tutto il tragitto buio che ha compiuto a ritroso.
Da quando ha incontrato Bellamy alla mostra, ha sempre saputo che prima o poi l’avrebbe rivista ma non aveva minimamente immaginato che le cose sarebbero andate in quel modo.
 
La cosa positiva è che il suo stomaco si è chiuso, non ha avuto bisogno di cucinare, è entrata velocemente in casa senza accendere la luce, le è bastato raggiungere il letto, accovacciarsi sul materasso e sperare che il sonno si impossessasse di lei prima dei ricordi.
 
Ed è mentre sistema le coperte sul suo corpo freddo come il marmo che Clarke ripercorre velocemente il momento in cui il suo orgoglio ha prevalso su quella magica amicizia diventata così fragile a causa dei chilometri.
 
 
Aveva aspettato sue notizie per due settimane, aveva contato i giorni, aveva persino provato a scriverle dei messaggi che Octavia aveva deliberatamente ignorato rispondendole che le avrebbe scritto non appena avesse avuto un momento libero.
Clarke sentiva il peso di ciò che stava accadendo nella sua vita e non riusciva più a sostenerlo da sola, l’incontro con Michael Blake aveva avuto un impatto troppo forte, sentiva il disperato bisogno di raccontare quanto stesse accadendo ma non poteva farlo così alla leggera.
Quell’uomo era il pare di O’, non una persona qualunque, non avrebbe mai potuto mandarle un messaggio o scrivere tutto in una lettera se prima non fosse riuscita quantomeno a guardarla negli occhi, non importava se fosse una visione virtuale fatta di pixel su uno schermo da quindici pollici.
La scuola era ricominciata e Clarke aveva accusato più di quanto potesse immaginare l’assenza della sua amica, si dice che il quarto anno sia il più faticoso e cominciava a dubitare delle proprie capacità di reggere tutte quelle responsabilità senza avere qualcuno affianco, senza avere lei su cui fare affidamento.
L’incontro con Mike era stato il culmine di tutto, il liceo non era iniziato nemmeno da un mese e lei si ritrovava già a dubitare delle proprie capacità.
Tutto ciò che desiderava era vederla, non aveva idea se coinvolgerla fosse giusto, ma egoisticamente sentiva che se non l’avesse fatto non sarebbe mai riuscita ad andare avanti e poi si erano promesse che tra loro non ci sarebbero dovuti essere segreti.
E’ vero lei aveva già omesso tutta la faccenda di Bellamy.
Ma per quanto riguarda Mike non avrebbe potuto fare lo stesso, no, era davvero troppo importante.
Eppure il ‘momento libero’ decantato da Octavia sembrava non arrivare mai, non arrivavano messaggi, né mail, né chiamate su skype.
E con il passare dei giorni Clarke, troppo assorbita dalle lezioni che andavano avanti a ritmo serrato e dal suo impegno pomeridiano alla clinica, sembro quasi dimenticarsene.
 
L’ultima lettera di Octavia arrivò a metà Novembre.
A quel tempo Clarke aveva praticamente smesso di cercarla quasi offesa da quell’assurda scelta di lei che contemplava solo risposte secche e scuse non del tutto credibili.
Si sentiva tradita, lasciata in disparte e ciò che trovò scritto su quel pezzo di carta colorata non aiutò minimamente i suoi sentimenti.
Octavia sprizzava gioia da tutti i pori, paradossalmente non avrebbe dovuto stupirsi, avrebbe dovuto essere felice per lei e forse avrebbe anche potuto esserlo se solo le conseguenze di quella felicità dall’altra parte dell’emisfero non stessero gravando tutte sulle sue spalle.
Le raccontava della scuola, delle lezioni molto più approfondite e meno noiose rispetto a quelle in America, dei ragazzi solari e splendidi, del suo nuovo gruppo d’amici e di un certo Lincoln per il quale aveva avuto una sorta di vero e proprio imprinting anche se:
‘non è ancora successo nulla ma credo sia solo questione di tempo… Ovviamente sarai la prima a sapere.’
Octavia parlava come se non fosse accaduto nulla, le spiattellava su quel foglio la sua nuova e perfetta vita con tanto di foto di gruppo allegata che la vedeva al perfetto centro di un folto gruppo di ragazze e ragazzi tutti abbronzati, tutti bellissimi.
Forse fu proprio quella fotografia a farle perdere del tutto i nervi saldi che si era ripromessa di mantenere.
Si sentì dimenticata, rimpiazzata, lasciata completamente indietro.
Non rilesse quelle parole come usava fare, le bastò una sola volta per capire che qualcosa dentro di lei era scattato, per scegliere che, almeno per ora, non avrebbe risposto.
Non se la sentiva, non era all’altezza, la sua vita era rimasta quella che anche lei aveva conosciuto bene: monotona, fatta degli stessi visi, delle stesse identiche persone, non poteva certo competere con la ventata d’aria fresca che Octavia aveva deciso di rifilarle.
E poi Michael: dulcis in fundo, dopo una lettera simile non poteva accollarsi la responsabilità di rendere la sua vita infernale, di farle pesare quella maledettissima felicità.
Conosceva abbastanza bene la minore dei Blake, da sapere che ciò che avrebbe provato sarebbe stato un enorme senso di colpa, lei ed il fratello si stavano divertendo nonostante i dubbi iniziali, mentre il padre si era lasciato prendere dalla depressione.
Sapeva che la frustrazione l’avrebbe divorata, che si sarebbe sentita da padrona della sua nuova splendida vita a prigioniera di un continente troppo lontano.
In sostanza si convinse che lo stava facendo per il suo bene anche se sapeva perfettamente che non si trattava solo di quello, c’era dell’altro: orgoglio, gelosia, invidia… Nulla di positivo ma forse era vero, vi era anche un substrato di profondo affetto: non avrebbe potuto scriverle come se nulla fosse, non poteva nuovamente omettere una parte così nuova, importante e tragica della sua vita che oltre tutto comprendeva proprio la presenza di suo padre. E non potendo farlo ciò che le avrebbe scritto sarebbe risultato totalmente vuoto, aveva già avuto quella sensazione quando aveva deciso di non raccontarle di Bell, temeva che stesse tralasciando qualcosa di troppo importante, che per lei aveva significato una miriade di cose.
Non riusciva a rifarlo.
Semplicemente non rispose, ripiegò la lettera, la nascose in un cassetto della sua scrivania e tentò di fare come se quella lettera non fosse mai arrivata al destinatario.


Angolo autrice: Eccomi di nuovo qui, potatrice del ritardo preannunciato ma ancora al lavoro, proprio come promesso!
Inizio col dire che sono particolarmente affezionata a questo capitolo, è stato duro da scrivere ma mi ha lasciato soddisfatta perché finalmente abbiamo un quadro della situazione molto più chiaro e quasi tutte le vicende cominciano a prendere più organicità.
Inoltre l'ispirazione non manca e pian, piano questa storia sta prendendo più forma anche nella mia testa, vorrei essere una di quelle persone che prima scrive tutto, cura nei minimi dettagli ogni vicenda ma proprio non mi appartiene ahah
Spero comunque che per voi non sia un problema.
Quest'ultimo è uno dei motivi per cui ogni vostra interazione, ogni vostro pensiero è sempre d'aiuto e non smetterò mai di ringraziare (a costo di risultare esageratamente ripetitiva) di ringraziare ognuno di voi per essere al mio fianco, vuol dire tantissimo per me :)

Infine spendo due parole per il season finale: straziante al punto giusto e persino romantico in alcune sue parti, non sono pronta ad aspettare tutto questo tempo e cercherò di sfogarmi quanto più possibile scrivendo.
Ultima piccola nota: per Lincoln dovevo trovare un cognome ed ho optato per quello dell'attore, magari voi nemmeno ci avete fatto caso ma ecco, mi faceva piacere darvi questa informazione!
Nel frattempo vi mando un bacio grande,
vostra Chiara.

 

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Capitolo 8
*** VII ***


VII
 
“Clarke, stai bene?”
La voce di Raven Reyes rimbomba nella piccola stanza, la giovane donna, amica, collega e assistente se ne sta seduta alla scrivania dello studio mentre la bionda contempla in modo fin troppo silenzioso il panorama dell’Avenue al di fuori dell’ampia vetrata che inonda di luce l’ambiente.
La Griffin sospira appena, cosa dovrebbe dirle? E’ davvero in grado di esternare tutti i pensieri che nelle ultime ventiquattro ore si sono impossessati di lei?
“Volevo chiederti scusa.”
Mugugna lievemente.
L’altra allora alza il volto dallo schermo cercando di captare qualche segnale ma l’amica è ancora di spalle, sforzandosi appena però riesce a rilevare il suo viso riflesso sulla vetrata e le sue labbra s’increspano in un’espressione preoccupata.
Non vede Clarke in quello stato da così tanto tempo che stenta a ricordare quand’è stata l’ultima volta che la ragazza le fosse risultata così turbata.
Forse dopo la partenza di Octavia, si ritrova a pensare la mora, quando tutti loro ormai non mettevano piede in quel liceo da più di un anno e la giovanissima Griffin si era ritrovata d’improvviso sola, senza più alcun punto di riferimento.
“Perché dovresti?”
Capisce subito che deve lasciarla sfogare, deve farlo prima che sia troppo tardi, prima che possa pentirsi ancora di non essere una buona amica come quell’ultima volta.
Lexa è nuovamente lontana e stavolta non potrà essere presente per lei come durante la serata d’inaugurazione o alla fine del liceo.
“Per ieri.”
Dice voltandosi
“Per aver iniziato il nostro lavoro insieme con così poca attenzione…”
“Clarke… Non fa niente, può succedere e poi eri scossa, con la partenza di Lexa e tutto il resto.”
Ma la bionda scuote la testa velocemente appena le parole della ragazza arrivano a destinazione.
Non ha avuto il tempo di pensare a Lexa se non per pochissimi e superficiali istanti e si sente un vero e proprio mostro, ora che è in grado di rendersene conto.
“Ho fatto un casino Rav’.”
L’altra le rivolge un’occhiata intensa senza più essere in grado di prevedere dove questa conversazione le porterà, realizza subito però che le sue supposizioni potrebbero essere del tutto errate quando ascolta il tono della voce di Clarke rotto dall’angoscia.
“Non l’ho nemmeno salutata… Dopo l’altra sera non ci siamo più riviste, l’ho lasciata andare via così, come se nulla fosse.”
“Frena un attimo, non riesco a seguirti. Se non sei stata con lei allora cosa hai fatto ieri?”
Clarke si morde il labbro inferiore, sta per uscire fuori tutto, sta per ammettere ciò che fino adesso ha solo tentato di rimandare.
“Ero con Bellamy.”
Un filo di voce che risuona pregno di colpevolezza tra quelle mura bianche.
Raven strabuzza gli occhi e l’amica non è in grado di sorreggere quello sguardo inquisitorio.
“… Blake? Per quale assurdo motivo, credevo non lo sopportassi.”
“Dovevo farlo, gliel’avevo promesso l’altra sera all’inaugurazione…”
“Okay, ma perché?”
E Clarke la guarda di nuovo, sente gli occhi bruciarle, non ha bisogno di uno specchio per sapere che devono essere lucidi e completamente arrossati.
“E’ una storia lunga.”
“Oh no, non funziona così. Non puoi gettare la pietra e nascondere la mano.”
Sta solo cercando di spronarla e Clarke lo sa bene per cui trova il modo di riprendere fiato e riassumere il tutto in poche frasi.
“Dopo la separazione dei suoi, Michael, suo padre, ha frequentato la clinica in cui facevo tirocinio, ti ricordi?”
La mora annuisce senza aggiungere nulla, attendendo semplicemente altre delucidazioni.
“Alcolismo. Dovevo dirglielo, aveva il diritto di sapere, sono tornati perché Mike è finito in ospedale Rav’ e loro erano all’oscuro di tutto, per otto anni non hanno mai saputo nulla, mai dubitato.”
Lo sguardo della ragazza si ammorbidisce lievemente ma basta poco perché la giovane Reyes torni all’attacco.
“Va bene ma cosa c’entra questo con Lexa? Non avresti potuto rimandare di qualche ora o di un giorno l’incontro con Bell?”
Ovviamente nulla sfugge alla mente meticolosa e brillante di Raven, quella donna è pragmatica, severa, ordinata, tanto da apparire irreale ed incapace di provare empatia a volte e questa è decisamente una di quelle.
“Avrei potuto, sì. Ma non l’ho fatto.”
“E’ piuttosto evidente… O non saresti in questo stato.”
“Senti, non lo so che mi è preso… Io volevo solo vederl… Voglio dire…”
Si trattiene, non può mettersi a nudo così quando nemmeno è stata in grado di farlo davvero in solitaria.
La confusione regna ancora sovrana nella sua mente.
“Voglio dire che volevo solo scrollarmi questo peso di dosso e mi sembrava la cosa più giusta da fare.”
L’amica fa fatica a trattenere un sospiro che risulta quasi esasperato.
“Più giusta per chi Clarke? Possibile che tu non sia riuscita a mettere da parte il tuo spirito da crocerossina, nemmeno per la persona che ami? Ad ogni modo penso che dovresti chiamarla, prima che sia troppo tardi… Non so mi sembra che tu non abbia ben chiara la situazione, sai? Per te è solo più comodo pensarla così, dire che non hai la più pallida idea di ciò che sta accadendo, è una scusa e tu sei abbastanza intelligente da riconoscerlo.”
Le parole di Raven sono taglienti ma non feriscono Clarke, la conosce bene ormai e sa che quello è semplicemente il suo modo di convincerla a fare la ‘cosa giusta’.
Solo che non vuole pensare a Lexa, non ora e non sopporta l’idea che l’amica abbia bypassato completamente il resto e si sia focalizzata solo sulla sua ragazza.
Certo non può biasimarla, Raven come chiunque altro è all’oscuro di tutto ciò che ha passato con Bellamy prima e con Michael poi.
“Io non so davvero cosa devo fare… ma non è tutto...”
“Cosa c’è ancora, scusa?”
Ogni ruga del suo viso è crucciata.
“Ho rivisto Octavia.”
Raven si passa una mano tra i capelli e aguzza le orecchie facendo cenno alla sua interlocutrice di continuare.
“Nulla. L’ho rivista, avevo riaccompagnato a casa Bellamy e stavo tornando alla macchina, l’ho incrociata per strada e lei ha attraversato non appena mi ha riconosciuto, mi ha evitato come si fa con la peste.”
“Me lo sentivo…”
Dice la mora sovrappensiero, più a sé stessa che a lei.
“Ti sentivi cosa?”
“Che il ritorno dei fratelli Blake avrebbe portato scompiglio.”
Clarke ha un’espressione indispettita dipinta sul volto, forse si aspettava qualcosa in più.
Ma l’altra riprende subito la sua attenzione
“Lo so cosa stai pensando… Credi che io sia un’insensibile non è vero? Bhè, senti qua, non abbiamo più sedici anni e soprattutto non abbiamo tempo per le scenate, per i drammi esistenziali, dobbiamo voltare pagina, andare avanti e tutte quelle stronzate che ti dicono quando sei piccolo e non proprio non riesci a capire nonostante gli sforzi. Clarke dagli la giusta importanza, tu e Octavia vi siete volute troppo bene perché questa storia abbia un epilogo simile, dovete solo darvi del tempo.”
“Tempo? Scherzi? Pensi che otto anni siano pochi?”
“Otto anni d’incomprensioni sono troppi Clarke è questo il punto e adesso siete su due linee parallele ma vedrai che prima o poi riuscirete a trovare un punto d’intersezione soprattutto perché, ora che siamo di nuovo al completo, volente o nolente dovrai passarci del tempo.”
Eppure il pragmatismo della sua collega le sembra fare acqua da tutte le parti.
“Non sono sicura che lei sarà dei nostri.”
“Non ha nessuno oltre noi e Octavia non è in grado di restare sola, combina solo guai, Bellamy l’ha viziata troppo, è sempre stato alle sue spalle, l’ha sempre sorretta…”
 
Dopo quel botta e risposta concitato Clarke si permette di restarsene in silenzio un istante, forse Raven ha ragione i fratelli Blake porteranno davvero scompiglio nelle loro vite e nulla sarà come prima.
 
Il giorno prima, lasciando casa Blake, ha sentito un vuoto dentro di sé, ha avuto paura che non lo avrebbe più rivisto, che lui non avrebbe più avuto motivo di parlarle, o di chiedere a qualcuno di lei.
Poi proprio quando quei pensieri la stavano divorando i suoi occhi si sono incontrati con quelli di Octavia.
 
Per ora le sembra di essere l’unica ad essere stata travolta in pieno dal loro ritorno.
“A cosa stai pensando?”
Scuote la testa.
“A nulla.”
Raven Reyes scrolla le spalle consapevole che Clarke le ha appena mentito ma non forza più la mano e, dentro di sé, spera solo che quella ragazza trovi pace.
“Bene. Allora è arrivato il momento di rimboccarci le maniche, questo atelier non si terrà in piedi da solo. Abbiamo bisogno di iniziative, organizzare mostre, rassegne, chiamare artisti, entrare nel vivo dell’ambiente, insomma dobbiamo cercare di avviare le attività, non riusciremo a cavarcela con la sola vendita delle tue opere… Senza nulla togliere.”
Le dice sorridendo con una punta di ironia che la bionda coglie accennando un ghigno.
“Sei tu l’esperta nella ricerca informatica, io posso farmi una passeggiata vecchio stile armata di volantini.”
Dice con improvvisa serenità, è sempre stato così del resto, Clarke Griffin ha bisogno di fare per non pensare, per non farsi travolgere dalle emozioni lei deve semplicemente agire, vivere.
“Mi sembra un ottimo compromesso.”
 
-
 
Quando si sveglia la casa è vuota.
Nessun rumore segnala la presenza di qualcuno oltre lui, ne è grato, non ha tempo adesso per un confronto e sa che è ciò che lo aspetta con Mike ed O’.
Quindi il giovane Blake si sforza di sentirsi pronto a dare una svolta nella sua vita.
E’ finito l’ozio e con esso il veloce e forse poco efficace riadattamento alla vita quotidiana di Washington.
Senza pensare a quanto sia accaduto la sera prima si lava e si veste in modo quasi meccanico, apatico.
In poco più di mezz’ora dal suo risveglio è già pronto fuori casa, armato mentalmente per immergersi nel caos metropolitano.
 
Bellamy Blake non è uno sprovveduto, ha fatto lavori umili in Australia, ha messo i soldi da parte, non ha mai terminato l’università lasciata dopo il trasferimento ma è stato in grado di mantenere un solo vero rapporto in piedi.
L’unico che potesse assicurargli un nuovo inizio se mai avesse rimesso piede negli States, quello con Marcus Kane: professore di scrittura creativa alla Georgetown e responsabile della biblioteca nazionale di Washington DC.
Non era nemmeno stata esattamente una sua intenzione, semplicemente il professor Kane aveva dimostrato un attaccamento incredibile nei suoi confronti, impossibile da non ricambiare.
 
E ai tempi Bellamy Blake avrebbe davvero voluto laurearsi ed inseguire i suoi sogni, Marcus Kane aveva stimolato quella giovane mente, gli aveva permesso di avere più confidenza nelle sue potenzialità e probabilmente era davvero rimasto male quando Bellamy gli aveva comunicato che avrebbe interrotto il corso, che non avrebbe proseguito gli studi perché la sua famiglia aveva bisogno di lui.
Quindi, poco prima che il giovane lasciasse per sempre il suo studio, l’uomo lo aveva afferrato per un braccio.
“Non così in fretta Blake.”
Lo aveva richiamato e poi aveva fatto scivolare nella sua mano un biglietto da visita
“Qui ci sono i miei recapiti telefonici e la mia mail.”
“Grazie molte professore ma…”
Lui gli lanciò un’occhiata severa.
“Niente ‘ma’ ragazzo, insegno qui da vent’anni ormai e non ho mai visto uno studente con del potenziale come il tuo, passami il francesismo: buttare al cesso tutto questo sarebbe un errore madornale. Hai lavorato sodo Blake, hai ottenuto una borsa di studio che sogna ogni ventenne americano con un po’ di sale in zucca e lo hai fatto con una semplicità incredibile… Scrivimi, ovunque sarai, raccontami della tua giovane vita e avrò la prova di aver insegnato ad una delle menti più brillanti di questo nuovo secolo.”
Non era bravo a ricevere complimenti, ad immagazzinarli, semplicemente non era abituato, si era imposto sugli altri, sui suoi amici, è vero. Era diventato una sorta di punto di riferimento, un leader carismatico ai quali tutti si riferivano ma ottenere un simile riconoscimento da qualcuno che non fosse suo coetaneo era di gran lunga un’altra storia.
Annuì abbozzando un sorriso più riconoscente che gioioso e dopo aver salutato Kane con un cenno del capo si defilò.
 
Ci mise un anno ad inviare la prima mail.
Un lungo anno durante il quale aveva scoperto di essere stato completamente travolto da una vita che non aveva mai desiderato fatta di turni di lavoro massacranti, ore piccole e corpi formosi nei quali si abbandonava per non pensare a tutto ciò che aveva lasciato indietro.
Credeva che Marcus Kane si fosse dimenticato di lui, ne era convinto ma in un momento di sconforto si ritrovò assorto davanti allo schermo del suo computer intento a scrivere.
Sembrava una patetica pagina di un diario di una ragazzina ma era tutto ciò di cui aveva bisogno, dopo tutto quella era l’unica cosa che riuscisse a tranquillizzarlo.
Scrivere, immaginare, sfogare i tormenti del proprio cuore sulla carta bianca – o su di uno schermo in tal caso.
C’era un tempo in cui si era immaginato sceneggiatore, giornalista, intellettuale ma erano giorni lontani ormai.
Nonostante ciò scrisse, fece come lui gli aveva detto, facendo scivolare velocemente le mani sulla tastiera, dando forma ai suoi pensieri.
Raccontò delle stagioni invertite, del caldo insopportabile, del mare, della moltitudine di bellissime ragazze che aveva avuto il privilegio di trovare tra le sue lenzuola senza mai ritrovarsi realmente soddisfatto, di sua sorella, della sua potenza, del suo essersi adattata molto più di quanto non avesse fatto lui.
Poi premette invio senza darsi il tempo di poterci ripensare.
La risposta di Marcus Kane non tardò ad arrivare e da quel momento Bellamy mantenne un contatto con quell’uomo quasi settimanale, più di quanto non fosse stato in grado di fare con Murphy o Miller.
 
 
L’appuntamento era alle undici.
 
Sono le undici e dieci e Bellamy è ancora su quel maledetto autobus che lo sta facendo tardare.
Non sa cosa aspettarsi anche se è perfettamente conscio del fatto che quello che gli verrà offerto non sarà il lavoro dei suoi sogni.
 
Kane è stato chiaro del resto
 “Non posso esserti d’aiuto come vorresti, senza un titolo specifico è difficile inserirti in certi ambienti… Sei proprio sicuro di non voler ritentare?”
Bellamy  allora aveva trattenuto il respiro alla cornetta per poi sputare fuori la mera verità
“Mi servono i soldi. Non ho più tempo per pensare a cosa voglio.”
 
Scende dall’autobus di corsa ripensando a quella bizzarra telefonata di qualche giorno prima.
Per scaramanzia non ha detto nulla né a suo padre, né ad Octavia, tanto meno a chiunque altro con cui abbia avuto modo e tempo di parlare.
Arriva con il cuore che gli martella in petto di fronte al vecchio edificio, dinnanzi a lui si staglia una delle infinite succursali della Library of Congress, nota anche per essere la più grande biblioteca al mondo.
Si prende il tempo di un minuto per guardarsi intorno, è già in ritardo del resto, un minuto ormai non potrà più fare alcuna differenza.
Ma poco dopo vede una figura alta e avvolta da un elegante completo, si avvicina: i capelli brizzolati sono ancora tenuti in una pettinatura leggermente retrò che gli permette di riconoscere il suo ex professore.
“Mi scusi il ritardo prof….”
L’uomo gli rivolge un sorriso smagliante
“Non c’è più bisogno di chiamarmi professore Bellamy, da oggi sono solo Marcus.”
Il più giovane allora annuisce mentre le loro mani si stringono in saluto formale ma cordiale al tempo stesso e quel breve e deciso contatto sembra trasudare profonda stima da entrambe le parti.
“Ti trovo bene.”
Dice Kane analizzandolo appena con un’occhiata attenta.
“Me la cavo… Lei invece? Sta bene?”
“Uhm. Cose da anziani…”
Fa spallucce, il suo tono è ironico e stranamente riesce a tranquillizzare Bellamy che pian piano percepisce tutta l’agitazione accumulata abbandonarlo alla svelta.
“Vieni, seguimi.”
Bellamy si ammutolisce dato che l’altro gli ha già dato le spalle e non perde tempo e obbedendo, senza fare alcuna domanda, lo segue affiancandolo dopo aver recuperato la breve distanza.
Entrano nell’edificio marmoreo, la prima cosa che il maggiore dei Blake nota è l’assoluto silenzio, sorpassano varie stanze, di libri ancora nemmeno l’ombra, ci sono solo cartelli con molteplici indicazioni, banchi, tavoli, una specie di caffetteria, una reception…
Bellamy Blake non ha il tempo di riuscire ad osservare tutto ciò che pian piano appare dinnanzi la sua vista curiosa, Marcus Kane sembra non voler sprecare un momento di più ed il suo passo è svelto, tanto da non lasciare alcuna possibilità di orientamento al ragazzo che lo segue.
Scale.
Una, due, tre porte.
Corridoi.
Poi un’arcata imperante con un’elegante insegna
“Letteratura inglese e americana”
Kane non si perde in chiacchiere, varca quella soglia austera e per la prima volta il moro li vede.
Scaffali immensi colmi di volumi dominano l’ampia stanza, creano angusti vicoli, piccoli slarghi, nota alcuni tavoli posti lungo il perimetro in modo accurato, tale da non intralciare la ricerca di chi vi si reca.
Con discreto stupore osserva i molti giovani che occupano quei banchi, tanto assorti da non aver fatto caso al loro ingresso.
Deve essersi fermato per un istante perché il suo ex professore ha fatto qualche passo indietro e prendendolo per un braccio lo ha condotto dietro ad una sorta di banco informazioni.
“Ci siamo.”
Sussurra per non disturbare la quiete.
Bellamy si concede uno sguardo interrogativo, Kane gli aveva accennato della possibilità di lavorare alla biblioteca ma quell’informazione non era stata accompagnata da nessun dettaglio.
Si sente smarrito.
“E’ molto semplice Blake, sarai il responsabile – uno dei, sarebbe corretto dire - del dipartimento di Letteratura. Il tuo compito non è particolarmente complicato: dovrai occuparti dell’inventario dei libri, di segnare prestiti e restituzioni dei volumi, di controllare che ogni frequentatore sia fornito della tessera della biblioteca e via dicendo… Il contratto è a tempo determinato, semestrale. Se farai un buon lavoro mi assicurerò io stesso del suo rinnovo, la paga è modesta, parliamo di Ottocento dollari netti al mese ma dovrai essere qui solo per cinque ore al giorno, avrai dei turni specifici e se accetti ti stampo subito la scheda con gli orari.”
Quella valanga di informazioni inonda la mente di Bellamy che sfugge momentaneamente lo sguardo dell’uomo brizzolato.
Non è abbastanza. Tutti i suoi amici ormai sono indipendenti da tempo, lavorano a tempo pieno, hanno delle case di proprietà o quanto meno riescono a permettersi di pagare un affitto e il ragazzo sa bene che quella cifra non gli consentirà di fare nulla di tutto quello.
“Accetto.”
Si ritrova a bisbigliare emulando il tono lieve che Marcus Kane ha adottato poco prima.
Non ha altra scelta del resto, non ha tempo per varare altre opzioni ed è sempre meglio che ritrovarsi a fare dei turni impossibili come cameriere in un pub.
“Ma…” Leggermente insicuro, alla fine si consente di avanzare una piccola richiesta “Se dovesse saltar fuori qualcos’altro… Qualsiasi altra cosa, mi tenga in considerazione: turni straordinari, progetti… Non so. Gliene sarei grato.”
L’uomo gli rivolge un sorriso sincero che a Bellamy Blake non piace affatto, percepisce la pena nei suoi occhi, l’apprensione mista a rassegnazione che prova nei suoi confronti, come se già sapesse che non è abbastanza, come se fosse impietosito dalla sua condizione di semplice e futuro impiegato senza alcuna possibilità di salire più su in quella strana gerarchia che ruota attorno al mondo letterario ed universitario.
“Sai bene che lo farò, ma se può farti stare più tranquillo, ti do la mia parola.”
 
-
 
Ha camminato senza sosta, non con una concreta destinazione, ha consegnato tutti i volantini di cui si era armata, è entrata nei locali più sensibili al mondo artistico, nelle accademie, nelle scuole, ovunque qualcuno potesse essere interessato a mettersi in contatto con lei per organizzare corsi, chiederle delle lezioni o per esporre.
Ha parlato meccanicamente con una dozzina di persone, ha venduto le sue idee, il suo ideale artistico tentando di accaparrarsi l’attenzione dei più svariati interlocutori: dai giovanissimi ai più attempati.
E lo ha fatto non solo perché ne ha un estremo bisogno, non esclusivamente perché c’è in gioco la sua attività per cui ha sudato sette camicie, no.
Lo ha fatto per non pensare.
Per non permettersi d’intrufolarsi nei meandri labirintici dei suoi dubbi, della sua mente, dei suoi sentimenti.
Per non visualizzare in modo dettagliato il viso acuto di Lexa.
Per non rivedere gli occhi grandi e colmi di rancore di Octavia.
Per non ripensare alle labbra del maggiore dei Blake.
Per scacciare quei consigli di Raven che, nella sua memoria, sono risuonati più come ammonimenti.
 
Ma ora apre la porta dello studio e dopo lunghe ore si ritrova da capo a dodici.
La giovane Reyes sembra quasi non essersi mossa da come l’ha lasciata durante la mattinata e Clarke non si stupirebbe se questa sua supposizione fosse realtà.
E’ ancora lì assorta in quello schermo che pare inglobarla che sembra stimolare, molto più di quanto possa risultare visibile, il suo instancabile cervello.
Non alza nemmeno il capo quando la bionda si richiude la porta alle spalle e si lascia cadere in un moto di stanchezza e sconsolatezza sul divanetto che costeggia il muro.
“Hai mangiato?”
Le chiede senza salutarla.
“Ho preso un panino per strada.”
Risponde lei evasiva.
“Com’è andata?”
“Bene. Voglio dire ho trovato anche qualcuno disposto a farsi una chiacchiera… Nulla di concreto ma credo di essere riuscita ad incuriosire più di una persona.”
Raven Reyes risponde con una sorta di mugugno distratto, come se quello che la sua collega le ha appena detto non sia davvero influente e forse, a mente fredda – cosa di cui la brunetta è dotata in modo evidente - non sarebbe sbagliato poi giudicare quelle informazioni così, per quello che sono: vane, dubbiose, non sicure.
“Senti qua allora. Ho trovato qualcosa di super interessante e fossi in te mi ci fionderei a capofitto…”
Sospende la frase per essere sicura di aver attirato l’attenzione dell’amica, poi prosegue lanciandole un’occhiata briosa
“Il Ministero dell’istruzione ha indetto un bando per qualificarsi in un progetto che prevede delle lezioni d’arte collettive per studenti problematici. Qui dice che si tratta di un qualcosa di pratico, niente storia dell’arte dunque ma… Solo un laboratorio artistico che deve essere in grado di suscitare l’interesse degli allievi e di far sfogare alcuni disturbi comportamentali tramite l’art-therapy. C’è scritto anche che il bando e la realizzazione del corso sono svolti in collaborazione con la Library of Congress che metterà a disposizione materiali e aule.”
Finisce così, non aggiunge altri commenti ma le rivolge uno sguardo intenso, carico di aspettative.
“Dice nulla riguardo ipotetici guadagni?”
E’ una domanda all’apparenza superficiale ma Raven percepisce tutta la curiosità dell’altra, così cerca di colmare qualche lacuna in modo convincente
“C’è scritto che chi vincerà il bando riceverà una paga settimanale di Trecento dollari. Il test del bando si svolge tra quattro giorni alla Georgetown e che il responsabile del progetto è il professor Marcus Kane di scrittura creativa, nonché preside del dipartimento di letteratura e responsabile della biblioteca. Ci sono dei recapiti telefonici, l’orario di ricevimento del professore e… Insomma fossi in te andrei, riceve domani mattina!”
Qualcosa dentro di lei si smuove, sente le vene pulsare il sangue dritto al suo cervello.
Clarke Griffin ama l’arte almeno quanto ama sentirsi utile per qualcuno, è dentro di lei, non può farci nulla, ha sempre avuto questo spirito che non si è mai sopito del tutto, quello di voler a tutti costi aiutare chi si trovasse in difficoltà e questo spiega la sua difficoltà nell’abbandonare la clinica di recupero presso cui ha prestato volontariato.
Ma in quel caso frequentava il liceo, l’ultimo anno, aveva degli obiettivi da raggiungere e solo quando ebbe la sicurezza che avrebbe potuto assistere Michael Blake anche al di fuori della clinica si decise a lasciarla.
E’ buffo poi pensare che entrambe le sue predisposizioni si siano stimolate a vicenda, se non avesse messo anima e corpo dietro la cura di Mike, non avrebbe mai scoperto a pieno quanto l’arte fosse una parte essenziale di lei.
Questa quindi le sembra un’occasione irripetibile ma alcuni dubbi si insinuano in lei: non sa nulla di art-therapy, non sa cosa le verrà chiesto durante il test, non sa se tutto ciò che sa è abbastanza e teme profondamente di non essere all’altezza per tutto ciò.
Si ritrova assorta nelle sue insicurezze ma annuisce, come se stesse cercando di far ordine, di attuare un piano.
“Hei! E’ la tua occasione Clarke, devi almeno tentare.”
Clarke le rivolge i suoi occhi azzurri colmi di incertezza.
“Andiamo! Tua madre è un medico, tra i migliori degli States oltretutto, sono sicura che riuscirà a darti una mano se quei test saranno più specifici del previsto.”
Non può obiettare.
Eppure in cuor suo sa bene che le è difficile chiedere ed accettare un aiuto quasi al pari di quanto le risulta semplice fornire il suo agli altri.
Poi però un nuovo scenario si apre nelle sue ponderazioni, se vincesse quel bando, se approfondisse l’argomento e parlasse con quel Kane, se il gioco valesse la candela e quel corso fosse davvero così serio come viene presentato… Allora sua madre dovrebbe ricredersi.
Abby Griffin che ha sempre visto quella storia del disegno come un semplice hobby un po’ patetico, come un percorso troppo insicuro e privo di certezze per la sua unica figlia dovrebbe far fronte alla realtà.
L’arte è molto più potente di quanto possa sembrare, talmente grande, coinvolgente da poter aiutare dei ragazzini in difficoltà.
“A che ora?”
Dice con un filo di voce, come se avesse paura di poterci ripensare da un momento all’altro.
“Dalle nove alle dieci.”
Le risponde l’amica con sorrisino soddisfatto stampato sul volto.
“D’accordo, stampa i documenti per l’iscrizione, allora.”
“Vedrai che andrà alla grande!”
Raven si lascia sfuggire un forse eccessivo entusiasmo.
Ma non può farne a meno, ha sempre riposto tanto in Clarke Griffin ed ha paura che la ragazza possa essere ancora turbata dal discorso fatto nella prima mattinata.
 
-
 
Marcus lo ha lasciato insistendo per offrirgli un caffè e dandogli appuntamento nel suo studio il mattino seguente: gli avrebbe lasciato così la spilla con il suo nome, dei documenti necessari per il contratto e le chiavi dell’ala riservata al dipartimento di Letteratura.
Il posto è suo, stenta ancora a crederci, deve aver mostrato meno entusiasmo del previsto, lo ha letto chiaramente nello sguardo dell’uomo.
Ma non può farci nulla, è fatto così, ci mette sempre troppo a realizzare alcune notizie, ad interiorizzarle, eppure mentre compiva il tragitto a ritroso, verso casa, seduto sul vecchio bus un timido sorriso gli ha incurvato le labbra.
Non era felicità quanto serenità, ha sempre temuto che alcune scelte compiute durante la sua tarda adolescenza lo avrebbero portato ad un destino fallimentare e pensare di avere uno stipendio fisso che non implichi turni bestiali anche se per un semestre, gli aveva donato uno strano senso di leggerezza, di tranquillità.
 
Quando apre la porta di casa trova suo padre indaffarato a scrutare vari documenti, Michael non sembra nemmeno averlo notato.
“Sono a casa!”
Si ritrova ad esclamare e per un istante ha quasi dimenticato cosa è accaduto il giorno precedente: la chiacchierata con Clarke su suo padre, la strana sfuriata che Octavia non gli ha risparmiato, tutto è scomparso in un buco nero che però si riapre in un momento, non appena gli occhi profondi del padre incrociano i suoi.
“Bellamy… Mi ero preoccupato, non sapevo che fine avessi fatto, non rispondevi al telefono e tua sorella non aveva la più pallida idea di dove fossi.”
Blake junior scrolla le spalle e accenna un furbo sorrisetto, una reazione che sembra quasi mettere a disagio il maggiore che lo osserva con uno sguardo confuso.
“Eravamo d’accordo…” Si schiarisce la voce il ragazzo prima di proseguire “Ti avevo detto che mi sarei rimboccato le maniche per cercare un lavoro.”
Fece cadere la frase aspettando di leggere un segnale sul volto dell’uomo evidentemente attento ed incuriosito dall’esordio del figlio.
“Bhè… Da domani sarò ufficialmente un impiegato nella Library of Congress!”
C’è una punta di orgoglio nel tono solenne di Bellamy Blake, ed è quella che gonfia il petto a Michael facendogli dimenticare quel senso di inquietudine che ha provato fino a qualche secondo prima, ben conscio del fatto che ora anche Bell conosceva la versione integrale della sua storia.
“Oh mio Dio.”
Si lascia sfuggire.
Ed il suo tono è quasi emozionato e i suoi occhi sono sgranati, colmi di felicità.
Mike si alza dalla poltrona, noncurante lascia cadere maldestramente alcuni di quei fogli che aveva consultato fino a quel momento e con qualche passo colma la distanza che lo separa dal figlio.
Lo abbraccia.
Non pensa più a nulla di brutto e preso dalla notizia avvolge la sua stretta intorno alle spalle del ragazzo.
“Sono così fiero di te Bell.”
Ammette quando i due si sciolgono da quell’abbraccio caloroso, denso di affetto.
E Bellamy non può far a meno di riservargli un sorriso ampio che lascia scoperta la sua dentatura perfetta.
 
Sente una strana sensazione quel ragazzo così ottuso e preso dalle sue convinzioni, percepisce che quell’abbraccio è stato molto più importante di mille parole.
Capisce che suo padre vive per loro: per lui e Octavia e che vederli felici, pronti a realizzare dei seppur modesti obiettivi, è ciò che lo aiuta ad andare avanti, a superare i propri errori, forse persino ad ammetterli nella speranza di non ricaderci più.
Lo vede nei suoi occhi.
Sa che Michael Blake ha sempre temuto che fosse destinato a finire come lui, non che ci fosse nulla di male nella manovalanza, ma il suo vecchio temeva di non avergli mai dato le giuste opportunità anche e soprattutto dal punto di vista economico.
Ma Bellamy ha imparato che non sempre bisogna avere una montagna di soldi per farcela, basta la stima, l’affetto la vicinanza delle persone care e forse è proprio per questo che è sempre rimasto così attaccato alla sua famiglia e ai suoi amici.
Il ragazzo sa anche che quello non è un lavoro magnifico ma in quel momento per lui conta molto di più di quel che potesse aspettarsi.
Intascherà i soldi, avrà dei turni regolari e controllati e persino il tempo di leggere qualche volume direttamente lì in libreria, potrebbe persino ricominciare a scrivere se le cose andassero davvero secondo i suoi piani…
Suo padre l’ha capito subito quello che provava e allora Bellamy Blake decide che non c’è bisogno di ritornare a parlare del passato, che forse per superarlo basta solo concentrarsi sul futuro e decide di conservare per tutto il pomeriggio il sincero calore di quell’abbraccio paterno.
 
 
E’ arrivato prima di Kane, il campus era vuoto e la brezza ancora piccante della mattinata lo ha svegliato a dovere, molto più del torpido tragitto in autobus che ha compiuto stilato in mezzo ad una folla incravattata  dai visi spenti.
Octavia non era tornata a casa la sera scorsa, si era promesso di non preoccuparsi ma…
Il risultato è stato un sonno leggero e quasi tormentato.
Suo padre sembrava sereno e Bellamy non riusciva a concepirlo ma dopo quel tenero episodio pomeridiano ha lasciato da parte le polemiche.
Michael gli aveva semplicemente detto che Octavia si era fermata a dormire da un’amica e forse suo padre poteva anche cascarci ma il maggiore dei fratelli Blake aveva i suoi legittimi dubbi.
Un tempo forse sarebbe potuto essere possibile, quasi all’ordine del giorno, che Octavia passasse le nottate fuori ad organizzare dubbi pigiama-party con Clarke ed Harper ma ora le cose non stavano più così.
Da quel che ne sapeva O’ non aveva amici a Washington o meglio, dopo il misterioso distacco dalla sua inseparabile metà bionda, aveva tagliato i contatti anche con tutti gli altri.
 
Questi pensieri furono interrotti quando il suo orologio segnava le otto e mezza passate.
Marcus Kane lo salutò con una pacca sulla spalla scusandosi per il ritardo ed invitandolo ad entrare nel suo studio personale.
 
“Sei stato di parola… Dopo il ritardo di ieri credevo che fossi avvezzo a questo tipo di vizio.”
Disse in tono piuttosto scherzoso.
“Cerco di evitarlo sul lavoro.”
Rispose serio.
Non importava se il professor Kane si fosse affezionato in modo così forte alla sua persona, Bellamy vuole dimostrarsi all’altezza e sa perfettamente che è solo così che riuscirà a fare quella gavetta che si è messo in testa di scalare.
“Bene Blake, questo è lo spirito giusto.”
Dice mentre raduna dei fogli di carta e apre qualche cassetto della sua scrivania, gli porge poi i fascicoli ed un mazzo di chiavi appena recuperato dall’ultimo cassetto.
“Questo è il contratto, leggitelo con calma e firma, qui invece c’è la tua copia delle chiavi, aprono esclusivamente la biblioteca di Letteratura e un bagno privato che ti segnaleranno alla reception.”
Bellamy annuisce afferrando le chiavi e si immerge nella lettura del contratto semestrale.
Marcus Kane è stato di una correttezza unica, tutto ciò che gli ha anticipato è stampato su quei fogli ed dopo pochi minuti il moro si prodiga a firmare la documentazione, restituendo poi i fogli all’uomo.
“Hai qualche domanda?”
Il ragazzo fa per pensarci poi scuote la testa velocemente, è tutto lucido e chiaro, sotto il suo totale controllo.
“Va tutto bene.”
“Ottimo, il tuo turno inizia alle dieci meno un quarto, la sala apre al pubblico alle dieci quindi è bene riservarsi quel quarto d’ora d’anticipo… Ad ogni modo da qui, se sei con i mezzi dovresti metterci davvero poco.”
Il telefono squilla senza dare modo al maggiore dei Blake di rispondere e dileguarsi alla svelta.
Kane lo lascia suonare un paio di volte prima di tirare su la cornetta.
Lo osserva mentre un’espressione seria ma rilassata gli domina il volto, lo vede annuire
“Va bene, ho quasi finito… La lasci aspettare qui fuori, la riceverò appena avrò terminato, tra pochi minuti.”
Riaggancia.
Si passa una mano sul volto leggermente rugoso  e poi lascia che quella compia un percorso a ritroso sui capelli brizzolati di media lunghezza ma comunque ordinatissimi.
“Prima di andare volevo dirti una cosa… Potrei avere dell’altro per te ma vediamo come vanno questi primi giorni… Con il Ministero dell’istruzione stiamo organizzando un progetto artistico per le scuole e stiamo selezionando del personale competente ma il tutto è svolto grazie al patrocinio della Library of Congress, potrebbe essere necessario quindi che ci sia qualcuno interno all’ambiente che debba supervisionare questo esperimento. Per ora non ti anticipo nulla ma… se dovesse interessarti…”
Bellamy lo interrompe in modo prorompente
“Gliel’ho detto: qualunque cosa.”
“Bene. Ti terrò aggiornato allora.”
Gli stringe la mano e lo lascia congedarsi.
Quando il ragazzo è sul punto di aprire la porta dello studio si volta
“Grazie profes… signore. Grazie davvero per quello che sta facendo per me.”
L’altro annuisce in modo pacato, chiudendo appena gli occhi come a dire ‘E’ il minimo che potessi fare’ ma non lo dice.
Piuttosto gli chiede:
“Lascia la porta aperta, ho qualcuno da ricevere.”
E Bellamy Blake esegue gli ordini.
 
Quando mette piede fuori sente uno strano formicolio impossessarsi di lui, non credeva fosse così facile ritornare al Campus.
E’ lì che ha lasciato ogni suo sogno del resto.
E’ lì che lo ha sepolto ed è talmente preso da questa sensazione che non si rende minimamente conto di essersi appena scontrato con qualcuno, qualcuno che deve essere stato distratto almeno quanto lui dato che il corridoio è molto ampio.
“Scusami.”
Quella voce.
Subito dopo il suo naso percepisce un odore familiare, il suo profumo ma non può essere, deve essersi completamente rincoglionito.
“B-bellamy?”
‘Come non detto.’
Allora alza lo sguardo quando i due corpi sono di nuovo alla giusta distanza di sicurezza, ci hanno messo così poco a tornare ai loro posti, è stato così naturale.
La vede, i capelli biondi legati in un morbido chignon ed il suo corpo soffice ma tonico al tempo stesso, stretto in una camicia che le fascia il busto ed entra ordinata e in modo severo nella stretta di una gonna nera.
E gli occhi che riprendono la sfumatura del cielo mattutino.
“Clarke.”
Sussurra quasi accompagnando il nome ad un cenno del capo fatto a mo’ di saluto.
Poi collega la sua figura a quel luogo e si chiede cosa diamine ci faccia, in tanti posti che ci sono a Washington, proprio davanti allo studio del professor Kane.
E’ ancora annebbiato per collegare ogni informazione che possiede e così lascia libero sfogo alla sua curiosità
“Che ci fai qui?”
Lei sorride appena, non capisce perché lo stia facendo ma ne è grato dato che sente il suo sangue ricominciare a pulsare nel suo corpo ancora piuttosto intorpidito dalla notte passata quasi in bianco.
“Potrei chiederti la stessa cosa… Ma devo davvero entrare, un esperimento comunque.”
Ed alza la mano destra tenendo l’indice e il medio intrecciati tra loro, incrocia le dita in un gesto fanciullesco e mantenendo quell’espressione amichevole mentre automaticamente il ragazzo si fa da parte per farla passare.
La vede scivolare all’interno di quella porta, chiudersela alle spalle e sospira.
Il suo cuore deve aver saltato qualche battito e forse per qualche istante gli è mancato il fiato ma, grazie al cielo, non ha dimenticato di ricambiare quello sguardo speranzoso e gioioso.
 

Angolo autrice:
Rieccomi qui con un nuovo aggiornamento che mi ha fatto davvero sudare.
E' un capitolo di passaggio e probabilmente è proprio per questo che ho faticato un po' di più. Non è forse particolarmente entusiasmante ma fondamentale all'intreccio e, ancora una volta, per entrare in sintonia con i nostri Bellamy e Clarke, per conoscerli sempre di più.
Spero sia all'altezza dei precedenti che avete accolto con un fantastico entusiasmo, non potevo aspettarmelo e mi ha dato tantissimo slancio nello scrivere, spero quindi di sentirvi anche qui perché la gioia che mi provocano le vostre recensioni è indefinibile!

Una piccola nota comunque:
Ho scelto un Bellamy appassionato alla letteratura e alla scrittura perché avevo sentito un'intervista di Bob nella quale dichiarava una forte predisposizione per la scrittura creativa, da quel che ho capito uno dei suoi sogni nel cassetto è approssimarsi anche al mondo della sceneggiatura.
Insomma non volevo descrivere il solito Bellamy delle Au che, per ovvie ragioni, è quasi sempre un poliziotto in carriera e ho cercato l'ispirazione in giro!

Ringrazio tutte le fantastiche persone che sono arrivate fin qui, tutte quelle che continuano a seguire la storia e chiunque abbia speso il suo tempo nello scrivere delle bellissime e importanti recensioni.
Vi mando un abbraccione affettuoso,
Chiara.



 

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Capitolo 9
*** VIII ***


VIII
 
Quando è entrata in quello studio subito dopo essersi scontrata con il maggiore dei Blake, la testa di Clarke era da tutt’altra parte.
Aveva quasi dimenticato per quale motivo avesse messo piede in quel luogo.
Tutto ciò che la sua mentre riusciva a visualizzare era il viso rilassato di Bellamy Blake, le mille lentiggini che puntigliavano il suo volto radioso grazie a quell’ultimo sorriso che le aveva rivolto prima che lei si chiudesse la porta alle spalle.
“Salve, cosa posso fare per lei?”
La voce le è arrivata familiare, come se avesse avuto già modo di ascoltare quel timbro chissà dove ma soprattutto l’aveva catapultata bruscamente nella realtà.
I suoi occhi chiari allora hanno abbandonano l’uscio e si sono rivolti finalmente alla scrivania, dove un uomo dai capelli brizzolati era chinato su un foglio, da quella posizione Clarke non riusciva a captare alcun tratto del suo volto.
“Salve professore. Sono qui per il bando del corso di art-therapy, volevo chiederle qualche informazione.”
“Prego, si sieda.”
L’interlocutore aveva risposto in modo cordiale ma anche piuttosto distratto.
“Scusi finisco di compilare queste carte e sono da lei…”
Si era poi giustificato subito e Clarke Griffin aveva incrociato le braccia al petto in attesa.
Pochi minuti dopo, solo quando l’uomo si staccò da quei fogli che non aveva abbandonato nemmeno per un secondo, la ragazza quasi sussultò.
Ci volle poco perché riconoscesse quel viso, i suoi ricordi erano recenti, non avevano neppure una settimana e quella era inequivocabilmente la stessa faccia amichevole alla quale si era ancorata in quella serata così confusa fuori da quel dannatissimo ristorante.
Non aveva dubbi.
Anche l’uomo le dedicò uno sguardo piuttosto sbigottito.
“Ci siamo già visti io e lei, non è vero?”
“C-credo di sì. Fuori il ristorante ‘Polis’ nemmeno sette giorni fa, era davvero lei?”
Lui annuì lentamente.
“Bhè è sempre un piacere avere a che fare con un viso familiare, non trova? Il destino sa essere molto ironico alle volte.”
Clarke si era riscoperta a trattenere a stento un risolino. Poi cercò di riprendersi prontamente
“Ad ogni modo non abbiamo avuto modo di presentarci, il mio nome è Clarke Griffin.”
“Marcus Kane.”
Le aveva risposto stringendole la mano con energia.
Quindi era proprio lo stesso Marcus Kane al quale solo pochi giorni prima aveva chiesto una sigaretta, uno dei più influenti professori americani e allo stesso tempo un uomo che le era apparso, nella sua ignoranza risalente ai giorni addietro, semplice esattamente come tutti gli altri, sommerso dai problemi quotidiani che la vita presenta.
E Clarke Griffin che nel destino non aveva mai creduto, per quella mattina dovette ricredersi dato che quell’uomo le aveva spiegato con una cordialità ed una disponibilità sconvolgenti tutti i passaggi necessari per l’iscrizione al bando, concludendo con un fin troppo incoraggiante:
 “Tifo per lei, signorina Griffin! S’impegni al massimo.”
 
 
 
 
 I risultati sono dentro quella mail, deve solo aprirla.
 
Il test è stato un gioco da ragazzi.
Attitudinale più che altro, con qualche domanda mirata soprattutto a capire se l’esaminando fosse pronto a relazionarsi con realtà giovanili e difficoltose.
Alla fine ha chiesto aiuto a sua madre, è riuscita a superare quella barriera che le due avevano innalzato, solo grazie alla consapevolezza che dopo tutto Abigail forse avrebbe capito.
Hanno pranzato insieme nel giorno libero di Abby, Clarke si è accordata di sua sponte un permesso lasciando tutto nelle mani della fidata Raven.
Hanno parlato e, dopo tanto tempo, sono riuscite a sciogliersi.
Sua madre le ha prestato un paio di volumi, le ha spiegato com’è che vengono elaborati quel tipo di test e la mente di Clarke ha recepito in fretta, immagazzinato con facilità quelle informazioni dettagliate.
“Devi capire cos’è che richiedono.”
La figlia l’ha osservata per un momento.
Le rughe sempre più evidenti ma un ovale sereno, una curva spontanea sulle labbra e lo sguardo concentrato le hanno infuso tranquillità e la consapevolezza che sua madre si era finalmente arresa, si era lasciata andare, non per stanchezza ma per semplice comprensione.
“Bhè… Immagino che si aspettino qualcuno che mostri interesse in materia e capacità tecniche ma soprattutto che sia in grado di trasferirle ad altri esercitando anche un’analisi attenta su ogni situazione individuale e cercando di rendere il lavoro ottimale e aderente alla risoluzione, seppur parziale, delle problematiche mostrate.”
Ha detto in un soffio.
Abby aveva annuito con uno sguardo fiero, come se fosse orgogliosa della sua bambina e ne riuscisse a cogliere l’enorme potenziale rimasto sepolto nei confronti di un approccio più scientifico e legato al suo campo lavorativo.
Erano state chine sui libri per quasi tre ore, poi Abby aveva interrotto un ragionamento di Clarke sulla cognizione sensoriale legata alla sfera emotiva
“Ci serve una pausa.”
“Dici?”
“Perché non mi porti all’atelier?”
E le labbra rosee della giovane Griffin si erano allargate in un sorriso riconoscente.
 
Clarke Griffin accovacciata sul letto con il portatile sulle ginocchia osserva lo schermo luminoso: la finestra della sua personale posta elettronica, troppi messaggi non letti, prima ancora del risultato del test inviatole direttamente dall’indirizzo istituzionale della Georgetown, ci sono un paio di Lexa Woods.
Non l’ha più sentita da quando è partita, non l’ha più cercata.
Non lo ha fatto con cattiveria, semplicemente non sapeva cosa dirle, da dove iniziare e così si è lasciata inghiottire dalle sue giornate, dalla nuova routine.
Non ci sono oggetti nelle mail della sua dolce metà, anche se le fa strano ormai identificarla come tale.
Sa che aprendole dovrebbe affrontare una realtà ben delineata, accettarla con la schiena contro il muro, senza vie di fuga, uscire per sempre da quel dubbioso limbo in cui davanti a lei si stagliano ancora infinite possibilità.
Sono giorni che rimanda, non ha voluto distrarsi, aveva davvero bisogno di ottenere quel posto per il progetto.
Non solo per una questione economica, doveva di nuovo permettere alla sua mente di concentrarsi su qualcosa perché Clarke è fatta così, non può lasciare che il suo cuore prenda le redini dei suoi sentimenti e per farlo deve alimentare il suo cervello, trovare uno scopo, concentrarvisi con tutte le sue forze.
Ma ora il test è acqua passata ed i risultati sono solo ad un click, non ha più scuse a cui aggrapparsi.
Trattiene il respiro.
Chiude gli occhi cristallini e l’oscurità s’impossessa di lei.
Si annulla e si lascia galleggiare ancora per qualche istante in quel vuoto nero.
Solo quando sente di non potersi trattenere più inspira dal naso l’aria del monolocale e permette di farla uscire poi dalla sua bocca schiudendola appena.
Allora i suoi occhi si aprono, mettono a fuoco velocemente lo schermo.
Scorre con il mouse lentamente, supera appena l’ultima mail ricevuta ed apre il contenuto mandatole da Lexa.
 
 

‘Qui è notte. Sono tornata a Londra con un macigno nel petto ma ho fatto di tutto per non pensarci, mi sono immersa per due giorni filati nel lavoro.
Ho pensato che prima o poi ti saresti fatta viva, mi sono abbandonata alle mille aspettative che la mia fervida immaginazione formulava in continuazione, senza mai lasciarmi un istante di pace.
Un messaggio, una telefonata, persino una cartolina.
Ma sono passati i minuti, le ore, le notti e lo schermo del mio cellulare era vuoto, la casella postale invece piena di pubblicità e qualche bolletta arretrata, forse una multa.
Nulla nella mia vita ha rimandato alla tua presenza in questi giorni se non una costante fitta nel cuore.
L’amore è debolezza.
Mia nonna me lo diceva sempre ed io ci ho creduto, non importava se ogni giorno i miei genitori mi dessero la prova del contrario, conoscevo la storia di quella vecchietta da cui ho ereditato i miei occhi verdi.
Abbandonata a sé stessa con una nuova vita nel ventre da tenere al sicuro.
Mia madre non l’ha mai ascoltata, ha sempre fatto di testa sua eppure io non sono mai riuscita a dimenticare le lacrime calde che scorrevano sul viso rugoso di quell’anziana donnina.
Quando mi ha raccontato la storia della sua vita ho pensato che i suoi insegnamenti non dovessero rimanere inascoltati e così l’ho onorata: sul letto di morte le ho promesso che sarei diventata una donna forte, indipendente proprio come lo era stata lei.
Ma poi ho conosciuto te e non ci ho più capito nulla, ho dimenticato ogni promessa, ogni fioretto.
Tutto si è dissipato nei tuoi occhi pieni d’oceano.
Non ho bisogno di dimostrati nulla, né di ricordarti i momenti condivisi in questi anni, so che sono dentro te almeno quanto albergano nella mia anima in modo irremovibile.
Solo che il clima ancora freddo di Londra mi ha svegliato. Mi ha ricordato il viso determinato di quella donna che ha trovato la pace pochi istanti prima di lasciare questo mondo proprio tramite le mie parole.
Non so cosa ti abbia spinta a comportarti in quel modo nei giorni passati, non sono più nemmeno sicura di poterlo capire Clarke…
Ma so di cosa ho bisogno io e non posso di nuovo ignorare i miei sentimenti.
Non posso stare male, capisci? Non posso permettermelo.
Non posso essere debole, a lavoro hanno bisogno di me ed io non riesco vivere senza il mio lavoro.
Mi dispiace farlo così ma non mi hai lasciato altra scelta.
Ti chiedo una pausa.
Non ho il coraggio di lasciarti alle mie spalle per sempre ma non riesco a vivere con la convinzione di crederti mia quando le cose non stanno così.

Forse un giorno ci rincontreremo e ci ritroveremo proprio come quella notte di sette anni fa.
Preferisco pensare che possa essere così piuttosto che continuare ad illudermi sul presente.
Non mi aspetto una risposta, forse non la voglio perché la mia non è una richiesta, è una decisione sulla quale non posso tornare indietro.
So solo che quando leggerai questa mail mi penserai ed i ricordi riaffioreranno man, mano con il passare dei giorni e allora io saprò che per l’ultima volta avrò dominato la tua mente.’

 
Un sospiro riecheggia tra le mura del monolocale, Clarke deglutisce, si stropiccia gli occhi arrossati con una mano, incerta nei movimenti così come nelle reazioni.
I suoi occhi sono gonfi eppure nemmeno una lacrima riesce a fuoriuscire.
Improvvisamente si accorge che il macigno che per giorni ha sentito dentro lei è svanito.
Al suo posto c’è un’inquieta leggerezza: la consapevolezza di una fine più agrodolce di quanto potesse immaginare.
 
-
 
La domenica è di nuovo il giorno preferito di Bellamy Blake.
Sembra quasi che il tempo non sia mai passato adesso. Proprio come quando frequentava il liceo e l’università poltrire sul letto è di nuovo uno dei più grandi piaceri per il maggiore dei Blake.
Il lavoro lo assorbe e lo ha aiutato a non pensare.
Ogni giorno si reca al dipartimento di Letteratura con un sorriso furbo dipinto sul volto, entra in quel luogo che dentro di sé racchiude infiniti mondi e vi si perde.
Quando ancora la sala è vuota, qualche minuto prima dell’apertura al pubblico, si permette di aggirarsi tra gli scaffali e selezionare un volume. Così passa le sue giornate appollaiato alla reception sfogliando pagine, immergendosi in regioni lontane, nella mente di personaggi tormentati, dimenticandosi di sé stesso. Riprende contatto con la realtà esterna solo le rare volte in cui si ritrova a fornire indicazioni o a compilare qualche modulo.
Poi finito il turno, il brusco impatto dell’aria fresca lo risveglia e fa tornare a galla i pensieri, i ricordi, i volti.
Ogni tanto Murphy lo raggiunge per prendersi un caffè: passeggiano per la città e si raccontano delle loro vite passate, di ciò che è rimasto in sospeso negli anni e non sono mai stati in grado di dirsi. Scoprono di essere adulti insieme, lo realizzano come se nei loro cuori si sentissero ancora quei ragazzini di periferia annoiati ed in cerca di stimoli.
Così quell’agognato equilibrio che temeva di aver perso per sempre è di nuovo suo: le birre, gli amici di una vita, le giornate che scorrono veloci, tutto è tornato al suo posto alla fine e Bellamy Blake non ha nemmeno avuto il tempo di rendersene davvero conto, è successo tutto in modo spontaneo, senza che dovesse fare troppi sforzi eppure, lo sente, il suo cuore non è ancora sereno.
 
Nel buio della stanza, senza trovare ancora le forze di tirarsi sù dal letto, pensa a sua sorella che a casa ormai fa solo qualche comparsa, a suo padre che ha deciso di non farsi più domande del dovuto, di credere alle innumerevoli bugie che la minore dei figli gli riserva.
Poi due occhi blu fanno capolino nei suoi pensieri, non l’ha più vista, ha incontrato gli altri, è andato a sentire uno show di Jasper con Bryan e Nathan, si è fermato a prendere una birra nei pub con John, Harper e quel ragazzo nuovo Monty ma di Clarke nemmeno l’ombra.
Ciò che lo inquieta è che ogni qual volta sapeva che avrebbe dovuto incontrare qualche vecchia conoscenza, si era reso conto che alla sua mente piaceva giocargli brutti scherzi caricandosi di aspettative, sperando con anima e corpo che la Griffin facesse capolino, ovunque loro fossero, da un momento all’altro.
Non si è mai esposto però, ad alcuna anima viva ha rivelato questo suo desiderio nascosto, mai ha chiesto a nessuno dei suoi amici di lei, mai si è lasciato sfuggire il suo nome e ciò che lo frustra è che l’unica persona che lo ha compreso è anche la sola che in questo momento sembra fare di tutto per evitare di ritrovarsi con lui non solo nella stessa stanza ma anche sotto lo stesso tetto.
Mosso da questo pensiero scatta a sedersi ed in breve tempo è fuori dal letto, forse, almeno di domenica troverà sua sorella in casa.
Silenzioso come un felino scende gli scalini che lo separano dalla cucina, le sue orecchie sono tese, pronte a captare qualsiasi suono che possa tradire la presenza di qualcuno.
Percepisce così il rumore del tosaerba e gli basta ritrovarsi dinnanzi la finestra del modesto salone per osservarvi incorniciato Michael intento a falciare il prato rigoglioso.
In silenzio mette piede in cucina e finalmente la trova: Octavia Blake è concentrata sul suo cellulare e non si è minimamente accorta della sua presenza.
“Finalmente. Credevo fossi diventata un fantasma.”
Sussurra per non spaventarla.
La ragazza allora si vede costretta ad alzare lo sguardo dal piccolo schermo e una strana espressione si fa spazio sul suo volto: confusa in un primo momento, poi infastidita ed infine quasi scocciata.
“Lasciami in pace Bell.”
“Buongiorno anche a te sorellina…”
Avrebbe tentennato in altre occasioni ma è stufo di quella scontrosità, di quell’irrisolto astio che si origina da questioni che ai suoi occhi appaiono già sfocate.
Si siede accanto a lei senza troppi convenevoli, versandosi del caffè in una tazza pulita e cercando di allungare lo sguardo sullo schermo dello smartphone della più piccola.
Riesce solo a leggere un nome che gli appare nuovo, poi la ragazza con un gesto secco blocca il dispositivo, allontanandolo da occhi indiscreti.
“Chi è Indra?”
Chiede il ragazzo con un tono che cerca di risultare il più disinteressato possibile ma che tradisce una nota fin troppo eccessiva di curiosità.
Gli occhi smeraldini della minore dei Blake indugiano contro i suoi e la piccola Octavia sembra ormai costretta a rispondere.
Del resto nessuno sfugge allo sguardo attento di Bellamy, ha provato mille volte ad evadere le sue domande senza mai riuscire pienamente nel suo intento.
“Una lontana zia di Lincoln.”
Mugugna tenendo bassa la testa.
“E’ da lei che sei stata tutti questi giorni?”
La giovane si limita ad annuire.
“E che tipo è?”
Lei lo guarda nuovamente aggrottando le sopracciglia.
“E questa che domanda sarebbe?”
E’ come pensava, sua sorella è confusa e si mette subito sulla difensiva.
“Voglio solo sapere come te la passi O’, cosa fai insomma so quanto possa esser difficile per te…”
“Fidati Bell, non puoi immaginarlo nemmeno lontanamente. Indra è a posto comunque se è questo quello che vuoi sapere. Mi sta aiutando, stare con lei mi fa sembrare Lincoln più vicino. Insegna arti marziali in una palestra qui vicino, sai non è un semplice sport, è una disciplina e sento che è tutto ciò di cui avevo bisogno, davvero.”
Octavia alimenta il suo flusso di coscienza a velocità e Bellamy finalmente si rilassa sulla sedia, ora la riconosce, niente apatia, niente occhi vacui.
E’ come se in quella frase leggermente più articolata delle pochissime risposte monosillabiche che si sono scambiati in quei giorni emergesse tutto il suo bisogno di sfogarsi e di comunicare.
“Sono felice.”
Risponde il maggiore dei Blake rivolgendole uno sguardo colmo di tenerezza.
“Insomma, sono contento che tu sia riuscita a trovare un tuo equilibrio nonostante tutto.”
E’ vero, Bellamy non sa nulla di lei, non sa in che modo si siano detti addio con Lincoln, non sa cosa passi per la testa di sua sorella e per questo, ora più che mai, sente il bisogno di sentirla di nuovo vicino.
Lei annuisce, un sorriso teso emerge sulla sua bocca.
“Credo di aver bisogno ancora di un po’ di tempo…”
“Andrà tutto bene O’.”
Lo dice di getto ma non perché sua sorella abbia bisogno di essere compatita, Bellamy Blake vuole crederci davvero in quell’affermazione.
“Forse. Solo che… è così difficile. Sai, per te è stato complicato, lo so, non li sentivi da così tanto tempo, non eri più tra loro quando uscivano quano una volta non si sarebbero mai mossi di qui senza saperti al loro fianco.”
Sa di chi sta parlando, quel generico loro esprime tutta la difficoltà che prova Octavia Blake nel parlare di quelli che un tempo erano anche i suoi più cari amici.
“Vedi per me è diverso. Tu hai sempre lasciato aperto uno spiraglio in quella parte della nostra vita, io no. Quella porta me la sono sbattuta dietro quasi con violenza, ero arrabbiata, non solo con Clarke ma con ognuno di loro, nessuno mi ha mai veramente cercato e non è solo colpa sua. Mi sono sentita abbandonata Bell. Ma poi ho trovato di nuovo me stessa grazie a Lincoln, lo sai bene e…”
La voce le trema, ogni parola da lei pronunciata è confusa e pesante.
“E quando ci siamo detti addio… io… non volevo crederci, non potevo. Ci siamo guardati negli occhi e abbiamo capito che era giusto così, era meglio interrompere tutto. Quello che abbiamo avuto è ciò che in molti sognano, capisci? Non potevamo lasciarlo marcire dal tempo e dalla distanza, si sarebbe consumato in modo sbagliato. Ma quello che mi fa più soffrire è che tu avevi qualcuno da cui tornare, io no, io stavo solo lasciando la persona più importante della mia vita.”
Le pupille di Bellamy si dilatano, vedere sua sorella in quello stato è come ricevere un pugno nello stomaco.
Inspira, riesce a percepire tutta la sua sofferenza, gli sembra di soffocare nel dolore delle sue parole ma sa anche che alcune delle sue convinzioni sono del tutto errate e cerca di far prevalere quella visione ad ogni costo.
“O’, forse hai ragione, forse non potrò mai capire fino in fondo però so anche, con certezza assoluta, che loro ci sono ancora. I nostri amici non si sono mai dimenticati di noi, la prima cosa che mi hanno chiesto tutti, indistintamente, quando mi hanno rivisto riguardava te. Volevano sapere dov’eri, come stavi, cosa facevi e sì, anche Clarke,  anzi lei più di tutti, prima di ogni altro.”
Octavia scrolla le spalle e si strofina il viso con le mani affusolate come per riprendersi, esita.
“Non importa. Non credo di essere ancora pronta a perdonare, a far finta di niente.”
“Promettimi che almeno ci penserai.”
Sospira flebilmente.
“Te lo prometto Bellamy.”
E in un momento di debolezza quella che agli occhi del maggiore sarà sempre la piccola O’, si accascia sulla sedia e lascia cadere la sua testa di lato, facendo un leggera pressione sulla spalla di Bellamy alla quale si appoggia.
Lui, che è da sempre, nonostante tutto, la sua unica sicurezza, con una mano le sfiora una guancia in modo delicato e al contempo capace di infondere in lei la forza di cui ha bisogno.
 
-
 
E’ di nuovo in quello studio, aspetta le ultime direttive, ce l’ha fatta e ancora stenta a crederci, è successo tutto velocemente.
Alla fine ha aperto la mail di getto, non ha nemmeno perso tempo a leggere tutto il suo contenuto, appena i suoi occhi hanno captato che era risultata idonea ha chiamato la segreteria del dipartimento di letteratura della Georgetown e si è fatta fissare un appuntamento con il responsabile del progetto.
 
Marcus Kane riaggancia la cornetta del telefono fisso che tiene sulla scrivania e si prende un attimo per osservarla.
“Sono contento di non essermi sbagliato.”
Clarke sorride, c’è qualcosa in quell’uomo che le infonde sicurezza, tranquillità.
E’ stato così da subito, da quella sera fuori il ristorante.
“Sono felice anche io di non averla delusa.”
Si permette adesso di confessare.
L’uomo annuisce e comincia a scendere nei dettagli:
“Abbiamo inviato una circolare nelle scuole dello Stato e la risposta è stata celere ed efficace, i consulenti scolastici si sono subito messi all’opera ed è stata già formata una piccola classe composta da circa quindici studenti selezionati da vari istituti. Stiamo cercando ancora di capire durante quali giornate organizzare il corso che si occuperà di tenere ma già posso dirle che si tratterà di due giorni infrasettimanali in una fascia oraria che potrebbe variare dalle tre del pomeriggio alle sei. Per lei va bene?”
Clarke non ci pensa più di un attimo ed annuisce.
“Certo, mi organizzerò senza alcun problema, non esigenze particolari gliel’ho detto.”
“Benissimo. Sarà affiancata dal personale della biblioteca, mi sto occupando personalmente delle selezioni e le presenterò il suo collaboratore non appena avremo una conferma. Per il resto le ricordo che questo progetto è un qualcosa di estremamente innovativo e studiato nei dettagli da esperti e ricercatori, potrebbe essere un successo non solo a livello nazionale; signorina, c’è in campo molto. Le farò recapitare al più presto un fascicolo che dovrà studiare e seguire per tenere il corso, le lascerà una certa libertà a livello creativo ma vi sono delle linee guida tracciate da psicoterapeuti professionisti. Uno dei motivi per cui sarà affiancata da un supervisore esterno è proprio questo, la sua responsabilità sarà quella di assicurarsi che tutto venga organizzato seguendo le regole da noi fornite, spero non le dispiaccia… Ma c’è in ballo il futuro di ragazzi giovani e con grandi problemi alle spalle, credo e spero che potrà capire.”
Cade un attimo di silenzio.
Dunque verrà controllata, seguita, forse persino valutata.
No, non le dispiace, o meglio lo immaginava, solo adesso capisce davvero quanto ci sia in gioco.
Un brivido di emozione le percorre la schiena, vuole farlo più che mai, è elettrizzata, è in parte tutto ciò che ha sempre voluto: applicare l’arte alla vita, riuscire ad aiutare tramite essa, forse riuscire miracolosamente a cambiare l’esistenza di uno o più individui.
Dopo tutto è esattamente quello che è successo a lei, già perché Clarke Griffin senza l’aiuto di Michael Blake, non sarebbe mai riuscita ad esprimere sé stessa al cento per cento.
“Nessun problema professor Kane, capisco perfettamente quanto sia importante e cercherò con tutta me stessa di essere all’altezza di questo compito, glielo assicuro.”
Dice compita, guardandolo negli occhi.
“Benissimo, mi sembra lo spirito adatto, non perda questo entusiasmo e potremmo esser fautori di un’immensa rivoluzione nel campo pedagogico.”
Marcus Kane sorride sinceramente prima di congedarla e prometterle che entro la settimana prossima, se tutto andrà secondo i piani, saranno pronti ad iniziare.
 


“Quindi?”
“Ho l’incarico!”
Raven Reyes salta al collo della sua giovane amica e la stringe forte per un istante.
Poi si allontana e sparisce dietro la scrivania.
Salta fuori una manciata di secondi dopo, una bottiglia di prosecco alla mano.
“Lo sapevo, piccolo geniuccio che non sei altro.”
Clarke ride, spalanca la bocca, e sente l’eco delle risa tra le mura nuove.
Era da tempo che non sentiva quella leggerezza e per un frammento di minuto non ha paura ad immaginarsi felice.
Raven è rapida, riempie due piccoli calici fino a metà, poi mette via la bottiglia e le porge un bicchiere
“C’è un’altra cosa!”
“Ah sì?”
La mora annuisce e la guarda variando il suo repertorio espressivo in modo piuttosto repentino.
“Avanti… Non tenermi sulle spine.”
“E’ che non so come potresti prenderla, ora che ci penso.”
“Allora non avresti dovuto pensarci.”
Dice Clarke leggermente accigliata ma comunque ancora troppo incuriosita.
“E’ stata organizzata una festa gigantesca dal vecchio comitato studentesco e tutte le classi che nel 2009 erano Junior e Senior sono invitate!”
“Cosa?!”
Non sa che pensare.
E’ questa la verità, Clarke è completamente sconcertata da questa notizia, chi diamine ha avuto l’idea e la pazienza di metter su un evento simile? E soprattutto quanti annuari saranno stati necessari per ripescare nomi e contatti di ogni studente?
Non che la loro scuola fosse gigantesca, era pur sempre un istituto periferico che contava tre sezioni a malapena ma…
Chi poteva aspettarsi tanta megalomania a distanza di quasi dieci anni?
“Mhh, vedi? Lo sapevo che non l’avresti presa bene.”
“Ma se non ho detto nulla Rav!”
“Appunto! Dai, quando con gli altri lo abbiamo scoperto abbiamo cominciato ad urlare e ci siamo lasciati trasportare dai ricordi mentre tu te ne stai qui a con la bocca socchiusa e quello sguardo.”
“Che vuoi che ti dica, non è che resti impassibile di fronte ad un evento simile, potrebbe persino farmi piacere… Se non fosse che abbiamo tutti quasi trent’anni e non siamo più ragazzini. Voglio dire, se tieni conto di questo fattore non ti sembra una specie di pagliacciata?”
“Sarà ma io lo trovo un bel modo per riunire la banda prima che ognuno sia davvero troppo vecchio!”
Clarke la osserva di sottecchi e si stupisce un poco.
Era da tempo che non vedeva così entusiasta Raven per qualcosa, qualsiasi cosa.
Ma non ha il tempo di osservare questo suo strano atteggiamento che la mora riprende
“Il punto è questo, non farò il brindisi se prima non prometti che verrai.”
“Ma…”
“Ti prego Clarke, non puoi lasciarmi sola con Harper… Non ora che è diventata così intima con Monty, giuro che non sopporterei di starmene tutto il tempo con il nostro gruppo di ‘maschioni’ che ovviamente sentiranno il bisogno di commentare qualsiasi cambiamento fisico di ogni ragazza presente…”
Clarke si lascia sfuggire un ghigno e senza dire nulla conduce il suo calice verso quello dell’amica.
E’ un sì.
I bicchieri tintinnano in modo acuto.
Un sì che tante volte si è preclusa e lo lascia trasparire da un gesto, senza aggiungere altro perché d’improvviso ricorda che ognuno di loro frequentava le classi indicate durante quell’anno, compresi i fratelli Blake.
E Clarke sa che a questo punto non si tratta più di tenere a freno solo la lingua.
E' infatti il cuore a spaventarla e ad ammutolirla.
-
 
 
“A Blake, che non ne sbaglia una!”
Dice alzandosi John Murphy con tono enfatico stringendo un bicchiere da shot tra le dita.
Sono al bancone del vecchio pub che frequentavano quando da davvero pochissimo avevano ottenuto il permesso legale per ingerire alcolici.
Bellamy lo guarda buttare giù il rum e strizzare gli occhi in modo teatrale e subito dopo lo segue, lo stesso fa Octavia al suo fianco.
Alla fine Kane si è deciso e gli ha affidato l’incarico di cui gli aveva parlato. Bellamy aveva pensato che ci sarebbe voluto molto di più e invece in un paio di giorni avrebbe iniziato anche se ancora non sapeva nulla nei dettagli.
“Ti odio Bell, sappilo.”
Ridacchia la minore dei Blake.
“E questa non è una novità”
Commenta l’unico biondo tra i tre.
“Cos’ho fatto stavolta?”
“Mi rendi la vita impossibile, ecco cosa. Tu hai due lavori ed io sono di nuovo  l’unica disoccupata e scansafatiche in casa… Ma ti avverto, ancora per poco!”
Bellamy coglie uno scintillio nello sguardo della sorella che lo ammalia, gli da forza e speranza, finalmente è  tornata la combattiva ed inarrestabile Octavia Blake.
“Sputa il rospo O’, non vorrai tenerci sulle spine così!”
John le da una leggerissima gomitata e la più piccola si schiarisce la voce
“Sto frequentando un corso della durata di un anno per diventare istruttrice di Kendo.”
Tutto d’un fiato Octavia annuncia con fierezza quella che sembra essere la vera notizia della serata.
Bellamy sorride adesso, gli occhi colmi di orgoglio e il corpo elettrizzato.
John la scruta alzando un sopracciglio.
“Ma dai, gracile come sei non ti darei un soldo!”
La minore dei Blake lo guarda con aria di sfida
“Sarò felice di farti ricredere mio caro Murphy.”
“Allora dobbiamo fare un altro brindisi, voi due, cari fratelli Blake di questo passo mi condannerete a lasciar qui la macchina e a tornarmene indietro a piedi, non ho più l’età per reggere tutto questo alcool, davvero.”
Bellamy s’irrigidisce, l’amico non ha detto nulla di male, lo sa ma non riesce a farne a meno, è più forte di lui, non è più in grado di cogliere la vera ironia di battute del genere, il suo pensiero corre sempre, in modo irrimediabile, a suo padre.
Teme che per Octavia possa essere lo stesso, non ne parla mai sua sorella eppure sa perfettamente quanto quella questione l’abbia logorata.
Se la situazione non fosse stata impellente non sarebbe mai tornata indietro ma senza batter ciglio si è costretta a separarsi da tutto ciò che aveva di più caro per stare vicino a Mike.
Con stupore però è proprio lei a riprendere in mano la situazione.
“A proposito di festeggiamenti… Avete sentito della festa organizzata dal vecchio comitato studentesco?”
Bellamy sgrana gli occhi nella sua direzione e lo fa per due motivi:
il primo è che non sa assolutamente nulla di questa fatidica festa e ciò lo infastidisce un po’, considerando che per due anni di seguito ha fatto parte di quel comitato.
Il secondo è che sua sorella è l’ultima persona sulla faccia della terra dalla quale avrebbe pensato di apprendere una notizia simile.
Il risultato è che le sue labbra si socchiudono in un’espressione del tutto stupita mentre il suo amico risponde velocemente
“Me lo aveva accennato Raven, buffo non credete? Sembra che quest’anno, per un motivo o per l’altro, sia stato progettato per essere all’insegna dei vecchi tempi!”
E quella frase destabilizza l’equilibrio di Bellamy, lui aveva paura di tornare e di ritrovarsi lasciato indietro invece, il loro arrivo sembra averli catapultati in un periodo volto alla rievocazione perpetua del passato.
Sente la schiena formicolare quando i suoi pensieri corrono veloci agli ultimi istanti passati in America, rivede il viso giovane di Clarke così da vicino…
Quell’immagine è rimasta indelebile nel suo cuore, poi realizza che anche lei, proprio come sua sorella, dovrebbe essere tra gli invitati ed un timore misto ad eccitazione gli infiamma il corpo.
“Mi stai dicendo che vorresti andare?”
Bellamy si gira di scatto verso sua sorella, lo fa per scacciare quei ricordi dalla mente ma anche perché a quanto pare Octavia stasera è in grado di stupirlo su più fronti.
“Sapete, so che potrebbe non interessarvi, ma ieri mi sono pesata dopo mesi che non lo facevo. Il risultato è che il mio peso è rimasto invariato da ben otto anni!”
Gli sguardi dei ragazzi sono del tutto perplessi al che Octavia libera nell’aria calda del locale un risolino acuto e rivela
“Nonostante fossimo partiti in estate, avevo già comprato un vestito appositamente per il ballo del Senior Year… L’altro giorno mentre finivo di sistemare le mie cose mi ci è caduto l’occhio. Vi assicuro che nonostante gli anni non ha perso il suo fascino e… avevo disperatamente bisogno di un evento simile per sfoggiarlo. Ovvio, voi non potete capire ma non posso esimermi! Un’occasione del genere potrebbe non ricapitarmi più.”
Bellamy la osserva incredulo, è esageratamente divertito ma allo stesso tempo non è in grado di comprenderla e sfoga questa sua sensazione ingurgitando di fretta il contenuto del suo bicchiere.
John invece comincia a ridere di gusto.
“Quando vi sento dire queste cose, mi ricordo perché da tempo ho deciso di rinunciare alla comprensione dell’universo femminile.”
La ragazza fa spallucce  e aggiunge
“Credo che ancora prima di questa tua decisione, sia stato l’universo femminile a voltarti le spalle!”
Ed è così che i tre si ritrovano a ridere a crepapelle.
Bellamy compreso anche se parte della sua mente è proiettata a quello che potrebbe accadere alla fatidica celebrazione in ricordo dei tempi andati.
Pensa ad ognuno di loro, a com’era prima di diventare adulti, prima delle responsabilità e delle preoccupazioni.
Il Bellamy che ricorda è così distante da quello che vede ogni mattina di fronte allo specchio.
Ed è così che il suo pensiero corre di nuovo a lei, a Clarke Griffin, a quel bacio datole nel buio di una notte estiva, un bacio che quella ragazzina bionda ha ricambiato con insistenza e trasporto dischiudendo le sue labbra e lasciando che le loro lingue s’incontrassero, si rincorressero, s’intrecciassero in una danza lenta ed in grado di far battere i loro cuori alla velocità della luce.
Ricorda bene ogni sensazione ed ora, forse per la primissima volta si chiede quali fossero quelle che ha provato lei, i dubbi lo assalgono, del resto ha sempre dato per scontato che quel sorriso imbarazzato fosse inequivocabile, quella ragazza doveva aver provato lo stesso.
 
Ma Clarke Griffin adesso, se avesse davvero la possibilità di conoscerlo daccapo, sarebbe in grado di amare o anche solo apprezzare, il nuovo Bellamy Blake?


 


Angolo autrice: Sono mortificata per l'immenso ritardo.
Sebbene non abbia mai dato periodi di scadenza, so perfettamente di aver fatto passare un bel po' di tempo e mi dispiace tantissimo.
Purtroppo non posso proprio promettervi che non succederà più e confido profondamente nella vostra pazienza.
Passando al capitolo volevo promettervi che a breve entreremo nel vivo del rapporto Bellarke, scusate se ci ho messo un po' ma avevo davvero bisogno di chiarire alcuni aspetti caratteriali e legati alle loro vite, spero che abbiate comunque apprezzato ogni interazione e gli strani intrecci che la mia mente ha prodotto.
Come sempre vi ringrazio a cuore aperto.
Un grazie speciale per ogni recensione colma d'affetto e stima, ognuno di voi è esageratamente adorabile!
Un ringraziamento poi a tutte quelle persone che seguono la storia e l'hanno inserita tra le preferite/seguite/ricordate... Siete davvero tantissimi!
Perdonatemi ancora per le tempistiche e scrivetemi tutto quello che vi passa per la testa.
Io vi mando un bacio grande,
vostra Chiara.

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Capitolo 10
*** IX ***


IX
 
Si guarda un’ultima volta allo specchio poco prima di lasciare il monolocale, un pizzico di agitazione le fa sussultare il petto.
Il riflesso le mostra una ragazza con i capelli biondi e sciolti che le cadono dolcemente sulle spalle in ordinati boccoli, è una ragazza come tante e quell’immagine la terrorizza: ha paura, di non essere abbastanza per un compito simile, del resto si vede così ordinaria.
Eppure il viso appare più sereno di quel che sente di essere ed in un certo senso tale visione le infonde una, seppur minuscola, sicurezza in più.
Ed è proprio quest’ultima che la convince a lasciarsi alle spalle l’immagine di sé riflessa nella cornice specchiata.
Grazie al cielo il percorso in macchina è breve e le lascia poco tempo per pensare, tutto ciò che riesce a fare quindi è tentare di visualizzare nella sua mente le fotocopie del manuale che Kane le ha fatto recapitare; in quelle due nottate non ha quasi dormito per studiarlo a fondo.
 

In realtà Marcus l’aveva chiamata dicendole che non era importante che lo leggesse per intero anteriormente alla prima lezione ma Clarke non ne aveva proprio potuto fare a meno.
La verità è che non lo aveva fatto solo perché temeva di arrivare impreparata al compito che andava a svolgere ma anche e soprattutto perché sentiva il disperato bisogno di tenersi ancora una volta occupata.
Nei pochi giorni precedenti aveva tentato di parlare con Raven della mail di Lexa senza ottenere alcun risultato.
Ogni volta che provava ad aprire bocca la sua lingua rimaneva impastata ed attaccata al palato; le aveva provate tutte, aveva persino immaginato un ipotetico discorso.
Ogni mattina quando percorreva a passo svelto la strada che la separava dall’atelier cercava di pensare al modo migliore per raccontare all’amica di quanto era accaduto.
A nulla era servito.
Così di sera tardi, quasi fosse un rito, prendeva in mano il cellulare, scorreva i nomi sulla rubrica sino ad arrivare a quello di Harper ma ogni volta che stava per avviare la chiamata, le sue dita rimanevano bloccate a mezz’aria, pochi centimetri separavano i suoi polpastrelli dallo schermo eppure quelli, ogni volta, erano sufficienti a far desistere la giovane donna.
Allora Clarke per armarsi contro i ricordi che tentavano ferocemente di assalirla sprofondava nella lettura dettagliata di quel manuale, si proiettava nel futuro, cercava d’immaginarsi all’opera, di capire come applicare al meglio le metodologie esposte dalle dispense.
 

Quando si ritrova a parcheggiare, nella sua mente ha già visualizzato i primi tre capitoli ed un sorriso soddisfatto le inarca appena le labbra.
Solo scendere dall’autovettura la riporta davvero a contatto con la realtà, con ciò che di lì a poco accadrà ed inevitabilmente il battito cardiaco accelera un po’.
Clarke Griffin ha paura, qualcuno potrebbe chiamarla ansia da prestazione ma per lei è qualcosa di più, di nuovo teme di non essere adatta, di non riuscire in quell’arduo compito che è aiutare gli altri.
Del resto come può farlo se non è in grado di aiutare sé stessa?
Questo interrogativo le logora i pensieri e diventa in fretta un mantra inquietante nella sua testa.
Fin quando almeno, entrando nell’edificio, trova Marcus Kane in giacca e cravatta pronto ad accoglierla.
Le basta scorgere il suo sorriso cortese per ritrovare la necessaria tranquillità.
“Eccola, la nostra eroina! Pronta?”
La ragazza cerca di sorridere ed annuisce appena, Marcus che sembra aver compreso perfettamente il suo stato d’animo le poggia una mano sulla spalla e accompagnandola verso la sala adibita ad aula le sussurra:
“Tranquilla, è normale avere un po’ d’ansia ma sono sicuro che andrà tutto bene. Nel frattempo devo presentarti una persona, i ragazzi non arriveranno prima di venti minuti e voglio illustrarvi le ultimissime cose.”
Quel fare paterno le infonde una nuova sicurezza e la ragazza segue l’uomo a passo serrato
“Grazie.”
Dice con un filo di voce, poi l’altro le sorride ed alza  le spalle.
E’ il movimento del suo corpo robusto e appena invecchiato a comunicarle che lui è lì per quello.
Percorrono qualche corridoio, un paio di rampe di scale ed infine una dicitura incisa nel marmo bianco di un’arcata imponente indica loro che si trovano nel dipartimento di arte moderna così i due si fermano dinnanzi ad una porta leggermente socchiusa.
Marcus la guarda di nuovo: i suoi occhi nocciola si puntano fedelmente nei suoi acquamarina.
Clarke si ritrova ad annuire, lo sguardo impaurito è però colmo di determinazione e così l’uomo senza esitare dischiude l’uscio che rivela una piccola sala adibita ad aula, prima di entrare la bionda scorge una manciata di banchi disposti in modo ordinato in tre file e del materiale da disegno posto su ognuno di essi.
Qualcosa dentro lei freme.
Solo quando scorge Kane già all’interno della stanza, si decide a seguirlo e una volta lasciatasi alle spalle il dipartimento non può che dischiudere le labbra: le pareti sono colme di volumi ed in fondo all’aula un’enorme finestra inonda il luogo di una luce brillante e calda.
“Clarke…”
Marcus la richiama vedendola assorta nella contemplazione di quel posto.
“Come ti dicevo vorrei presentarti il tuo collaboratore nonché supervisore del progetto.”
La bionda si volta di scatto mordendosi un labbro per essersi lasciata prendere dalla distrazione ed in quel preciso istante i suoi occhi si scontrano con due carboni ardenti.
“Bellamy Blake.”
Quel nome che conosce così bene le arriva in modo ovattato alle orecchie, dopo tutto non ha bisogno di udirlo davvero per collegare quello sguardo alla persona cui appartiene.
L’instabile equilibrio a cui si è aggrappata finora crolla in men che non si dica.
Un groviglio di emozioni assale il suo sistema nervoso donandole una scossa che le fa tremare le mani.
Sente le guance arrossarsi e si ritrova incapace di reagire.
 
-
 
“Aspettami qui, torno tra pochi minuti.”
Kane non gli ha dato modo di rispondere ed il giovane Blake si ritrova  ad annuire ad una porta che l’uomo si è già socchiuso dietro le spalle.
Non è agitato.
Del resto questo è un lavoro come un altro, l’ennesimo impiego che lo avrebbe visto ai margini dell’azione.
Quindi no, non è agitato, piuttosto leggermente frustrato, ecco tutto.
Ma Bellamy Blake sa perfettamente che non può proprio farci nulla, nonostante la sua vita si sia divertita a tirargli brutti scherzi, alla fine dei giochi è stato lui ad arrendersi.
Avrebbe potuto continuare a studiare in Australia ma non lo aveva fatto.
Avrebbe persino potuto farlo adesso – proprio come Marcus gli aveva alacremente suggerito - ma no, ha già deciso che è tardi e poi ha davvero bisogno di ottenere la sua personale indipendenza, non importa quanto dovrà sacrificare ancora, deve farlo, o teme che non riuscirà mai a ritrovare la sua serenità.
Di fatto Bellamy Blake vuole solo smettere di essere un peso per la sua famiglia, per suo padre, sa che se non ha ancora accettato il pensionamento è solo per lui ed Octavia.
Così, esattamente come gli altri giorni, si accomoda su una delle due sedie accanto alla scrivania che funge da cattedra e tira fuori dal suo zaino un vecchio volume dell’ Iliade.
L’unico libro che non si è ancora mai stancato di rileggere, l’unico in grado di spegnere del tutto la sua mente e catapultarlo lontano nei secoli, nei luoghi.
 
Così è mentre l’ira di Achille nei confronti di Agamennone viene fermata in extremis da Atena, che la porta accostata si riapre, il maggiore dei Blake però non distoglie subito lo sguardo dal poema, cerca invece di ritrovare il segno perso per la distrazione e prova a leggere ancora un po’, vuole arrivare quanto meno alla fine del verso.
Solo un nome udito quasi da lontano ha il potere di distoglierlo del tutto dal libro.
“Clarke…”
La voce di Kane lo allontana in modo brusco dall’avvincente guerra tra Achei e Troiani e i suoi occhi passano in fretta dalle minuscole parole della vecchia edizione, al perimetro della stanza, poi, quasi subito vengono rapiti da una chioma bionda che gli da le spalle e tutto nella mente di Bellamy si fa finalmente chiaro.
Mentre la osserva voltarsi la consapevolezza lo fa suo.
E’ lei: il viso chiaro e tirato, le labbra rosee che si morde in segno di rimorso per essersi persa nel panorama dipinto fuori la finestra, sa bene che è così, lo immagina perfettamente, lo sente. Ora, finalmente, trova un significato allo scontro fuori l’ufficio di Marcus in Università.
E’ un attimo, il tempo che basta per far sì che tutto abbia finalmente un filo logico, quando i suoi occhi si scontrano con l’azzurro, capisce che non ha più bisogno di alcun chiarimento, ha finalmente ricomposto il puzzle al quale per giorni non trovava risoluzioni.
Marcus lo presenta mentre il suo cuore accelera arbitrariamente i battiti e Bellamy nonostante tutto, proprio non riesce a scacciar via una smorfia ironica mentre tiene ancora gli occhi ancorati a quelli di lei.
E’ agitata, lo percepisce, sbatte le palpebre  e con un dito gioca nervosamente con una ciocca di capelli ma soprattutto non dice nulla, i nervi tesi sotto la pelle.
“Non c’è bisogno.”
Si affretta a dire, l’uomo più anziano aggrotta le sopracciglia in risposta.
“Ha ragione.”
La voce di Clarke si libera nella stanza.
“Ci conosciamo.”
Continua il giovane.
“Già, da parecchio.”
Conclude lei.
Mentre Clarke e Bellamy parlano, rimbalzandosi le frasi come stessero giocando una partita a tennis, il professor Kane sposta quasi incredulo lo sguardo da uno all’altra.
“Dovete perdonare la mia gaffe allora.”
Dice infine, poi con un gesto enfatico si sposta verso la cattedra e fa segno alla ragazza bionda, rimasta in disparte, di avvicinarsi.
“Sapete? Questo potrebbe esserci d’aiuto, sono sicuro che non ci sarà nemmeno l’imbarazzo che può venirsi a creare in queste situazioni quando a collaborare sono due perfetti sconosciuti… Ad ogni modo vi avevo detto che vi avrei dato le ultime raccomandazioni per cui mettetevi comodi.”
Bellamy si risiede ed osserva di sottecchi Clarke fare lo stesso.
Vorrebbe essere in grado di essergli indifferente ma, nonostante gli sforzi, gli sembra impossibile. Percepisce il suo odore agrodolce ed un brivido freddo gli percorre velocemente la schiena.
Le parole di Kane non possono nulla contro i ricordi che lo riportano alla prima volta in cui si è trovato letteralmente costretto a notare Clarke Griffin, a riconoscere quel profumo.
 
 
Sapeva chi era ma non aveva mai sentito l’impulso di curarsi di lei.
Clarke, l’amica di Octavia, la stessa che ogni tanto, a mensa, sedeva al tavolo affianco al loro abituale con sua sorella e qualche altro moccioso del primo anno.
Fu proprio lei quel giorno a risolvere quello che Jasper aveva definito come un terribile problema, o meglio una disgrazia.
 
“Andiamo ho prenotato il campo da una settimana!”
Jasper sbuffava mentre camminava avanti e indietro nel cortile scolastico.
“Hei Jordan, finirai per consumare tutto il suolo a forza di camminare così.”
La voce di O’ aveva distratto il maggiore dei Blake, il suo sguardo vigile si era posato subito sull’esile corpo della ragazzina per assicurarsi che fosse tutto okay, appena dietro di lei riconobbe poi la sagoma di quella che ormai era diventata la sua inseparabile amica: Clarke Griffin.
“Allora si può sapere cos’è successo?”
Gli occhi di Octavia si assottigliarono in attesa di una risposta.
“E’ successo che Nathan e Bryan ci hanno dato buca all’ultimo momento dalla spassosissima partita di paintball che Jasper si era impegnato ad organizzare.”
Tagliò corto Raven.
“Che razza di finocchi.”
Il commento tagliente di John aleggiava nell’aria e provocò un riso piuttosto mesto tra Bellamy e Atom mentre la giovane Reyes si prodigò a sferzare una gomitata sullo stomaco di Murphy e sorrise soddisfatta in direzione delle ragazze appena arrivate.
“Se non troviamo due sostituzioni siamo spacciati… Tra mezz’ora dobbiamo essere lì e ormai è troppo tardi per disdire la prenotazione.”
Jasper sembrava davvero turbato ma questo sorprese davvero poco i suoi amici, lo stesso non fu per la giovanissima Griffin che effettivamente lo conosceva troppo poco per spiegarsi l’esagerata delusione quindi non riuscì ad impedirsi di aggrottare le sopracciglia.
“Andiamo Jordan non lagnare, vedo che posso fare…”
Dopo aver lanciato un’occhiata alla reazione della bionda, il maggiore dei Blake fece per allontanarsi scorrendo la rubrica sul suo telefono.
“Aspetta Bell, forse non c’è bisogno…”
Raven guardò intensamente le due ragazze e rivolse un sorrisetto intriso di furbizia  agli altri.
Gli occhi di Octavia s’illuminarono mentre sul viso di Clarke, che aveva capito tutto, sopraggiunse un’espressione leggermente preoccupata.
“Dovremo riequilibrare le squadre… Scommetto che non riusciranno mai a reggere i nostri ritmi.”
“Murphy falla finita con la tua dannata misoginia, sei un po’ cresciuto per avallare ancora certe teorie, non trovi?”
Harper lo fulminò con lo sguardo e l’altro rispose con una certa noncuranza
“Vedremo…”
“Siete davvero sicure che ne avete voglia?”
Clarke che fino a quel momento era stata in disparte, sembrava sul punto di voler dire qualcosa ma si bloccò non appena intravide l’espressione decisa ed eccitata sul viso dell’amica che annuì in modo eccessivo al fratello maggiore.
 
“Temo di non avere i vestiti adatti.”
Confessò la biondina ad Octavia mentre le due sedevano sui sedili posteriori dell’utilitaria di Bellamy.
“Tranquilla, ti daranno una tuta protettiva!”
“E se non dovesse bastare?”
O’ avrebbe poi spiegato al fratello che genericamente a Clarke non importava poi molto dei suoi abiti ma quel giorno era diverso, avrebbe avuto un appuntamento e dato che la partita di paintball le avrebbe impedito di fare tappa a casa, era terrorizzata all’idea di fare un’impressione sbagliata a quel Finn Collins se si fosse presentata tutta impiastricciata di colori.
Inutile dire che il maggiore dei Blake non riuscì del tutto a scrollarsi di dosso la prima impressione che aveva avuto su di lei.
Così improvvisamente la ragazza si sentì uno sguardo addosso che sapeva non appartenere alla sua amica, quasi istintivamente posò i suoi occhi sullo specchietto retrovisore.
Lì, incastonati nella superficie specchiata gli occhi scuri e profondi come pozzi di petrolio di Bellamy Blake la osservavano con una punta di arroganza.
“Andiamo principessa, siamo nel Ventunesimo secolo, esistono le lavatrici!”
John Murphy si lasciò scappare una sghignazzata che fece gelare il sangue di Clarke.
“Potresti evitare di chiamarmi così?”
Rispose lei rigida e con lieve stizza.
Bellamy allora, dopo aver sbuffato impercettibilmente, cercò nuovamente di osservarla dallo specchietto, il viso si era adombrato e i suoi occhi del colore dei lapislazzuli non si curavano più di lui ma erano rivolti lontano, fuori dal finestrino abbassato.
 
Ma non fu nemmeno in quel momento che il maggiore dei Blake prestò davvero attenzione alla ragazza, ovvio, forse fu proprio tramite il gioco di specchi che notò i suoi occhi così grandi da ospitare il mare in tempesta al loro interno eppure quel particolare non fu abbastanza per magnetizzare la sua attenzione.
Le squadre, almeno secondo la contorta teoria di Murphy, erano calibrate: due donne e due uomini l’una, forse lo erano persino più di quando a giocare c’erano Nathan e Bryan, aveva ammesso con una smorfia laconica.
Bellamy, capitano come sempre, aveva insistito per avere Octavia in squadra con lui e a sua volta la minore aveva implorato il fratello di prendere Clarke con loro, dunque Atom era stato l’unico che aveva davvero scelto senza badare ad alcuna richiesta.
Dall’altro lato la scelta di Murphy era ricaduta su Jasper, Harper e Raven  che indubbiamente formavano un formidabile team avversario.
E lo stupore del maggiore dei Blake arrivò proprio quando la partita stava per volgere al termine, non avrebbe mai potuto immaginare infatti che i due superstiti della loro squadra sarebbero stati proprio lui e la principessa.
 
E pensare che a pochi istanti dall’inizio la ragazza le aveva confessato di non aver mai giocato a paintball, né di aver tantomeno mai impugnato un’arma giocattolo per colpire deliberatamente qualcuno.
“Diamine Griffin e me lo dici solo ora?”
“Pensavo fosse solo un passatempo…”
Lui allora scosse la testa con fare esasperato
“In un certo senso lo è ma… devi sapere che siamo molto agguerriti quando si tratta di sfidarci.”
La ragazza si massaggiò una tempia in segno di resa.
“Forse possiamo ancora rimediare però.”
Il suo sguardo si puntò sul grande orologio-timer posto nella sala giochi, il loro campo era ancora occupato e non sarebbe stato disponibile prima di qualche minuto.
“Vieni con me.”
Le disse prendendole la mano di fretta senza nemmeno far davvero caso alla leggera scossa che il contatto provocò sulla sua pelle olivastra.
I due arrivarono in un’ampia sala nel cui limite vi erano dei bersagli concentrici, Clarke ne aveva visti di simili quando cambiando compulsivamente canale, in preda alla noia, le era capitato di guardare delle sfide di tiro con l’arco in televisione.
Il maggiore dei Blake aveva imbracciato uno dei fucili che la sala metteva a disposizione, non erano gli stessi che avrebbero utilizzato per la partita di paintball muniti di vernice colorata, no, questi sembravano molto più minacciosi ed il ragazzo se ne accorse quando lo sguardo di lei osservò la finta arma con un velo di preoccupazione.
“Tranquilla principessa, sono dei semplici fucili a piombini. Tu piuttosto sei pronta a diventare una vera dura? ”
Lei annuì ma ancora non del tutto convinta accennò solo un ghigno incerto.
Bellamy le si avvicinò piano, facendo del suo meglio per sfoderare uno sguardo rassicurante e le porse l’inconsueta arma, lei tentennò appena prima di imbracciare il fucile e rivolgere i suoi occhi al bersaglio.
Ma dopo pochi secondi, la ragazza, rendendosi conto di procedere solamente dando retta al suo istinto, cercò qualche conferma
“Quindi devo solo appoggiarlo sulla mia spalla?”
Chiese lasciando che il suo sguardo ricadesse nuovamente sul volto di lui mentre cercava di posizionarsi nel modo migliore.
Lui rispose avvicinandosi “Si…”
Poi con delicatezza portò le sue mani sul braccio di lei, la pelle chiara e fredda per via dell’aria condizionata, era lasciata scoperta dalla canottiera che indossava e Bellamy poté percepire tramite quel leggero tocco quanto ogni muscolo della giovane fosse teso.
Con l’altra mano scivolò lentamente sulla spalla per raddrizzare la postura e nel mentre cercava di spiegarle al meglio cosa dovesse fare
“ Un po’ più in alto…”
Farfugliò chinandosi per fare in modo che le sue labbra fossero più vicine all’orecchio di lei ma proprio mentre la frase abbandonava la sua bocca per librarsi nell’aria della stanza e le sue mani facevano pressione sulla pelle nuda della ragazza, un profumo acre e dolce al tempo stesso gli inebriò le narici.
Fiori d’arancio.
Lo stesso identico odore che aveva sentito quando da bambino si era ritrovato a correre in un frutteto della California; d’improvviso una sensazione di pace e spensieratezza lo colse; gli sembrava quasi di esser tornato quello stesso bimbo spensierato in vacanza con i suoi genitori, pronto ad esplorare ogni angolo dell’agriturismo in cui soggiornavano.
Bastò poco per capire che quel profumo apparteneva a lei, fu quando si allontanò appena dal suo volto infatti che esso si fece sempre più lieve, strinse appena la presa su di lei, fu un riflesso istintivo, non era sicuro di gradire tanta distanza da quell’inebriante fragranza…
La osservò dall’alto, il viso di lei era concentrato, un occhio puntato saldo dietro il mirino e l’altro socchiuso, imparava alla svelta, si disse scuotendo lievemente il capo, ancora leggermente frastornato da quella sensazione che aveva appena provato.
“Si, così va bene… Adesso guarda e impara.”
Disse infine allontanandosi rapidamente e raccogliendo dal distributore un altro fucile.
 
 Alla fine Octavia nonostante la sua indiscutibile agilità era stata eliminata dall’infallibile mira di Jasper, mentre Atom che aveva resistito fino a poco prima, per eliminare Harper, era stato colpito da Murphy alle spalle…
Tipico di John: non guardava in faccia nessuno, figuriamoci le regole di galateo nel combattimento.
Successe così che Bellamy Blake e Clarke Griffin si trovarono accucciati dietro l’imponente struttura in legno del campo che avevano affittato.
Consapevoli che dall’altro lato John e Raven, unici superstiti della squadra avversaria li stavano aspettando.
“Ti avevo detto che avremmo dovuto dividerci.”
Bisbigliò lui mentre la fulminava con lo sguardo.
“E’ solo una partita a paintball Blake.”
Il ragazzo soffiò lievemente stizzito
“Si da il caso che io non sia abituato a perdere…”
Lei in tutta risposta sbuffò ed un ciuffo di capelli le cadde sul viso.
Prima che potesse pensarci sola però Bellamy impugnò il fucile con le munizioni di vernice nella mano sinistra e con un movimento repentino le sistemò la ciocca dietro l’orecchio.
“Non devi… possiamo distrarci.”
Clarke aveva abbassato lo sguardo, presa alla sprovvista dall’intimità di quel gesto avventato mentre al maggiore dei Blake piacque pensare che il suo viso si fosse colorato di rosso, nonostante l’ombra della struttura non gli permettesse una grande visibilità.
Erano rimasti ancora un po’ così, in silenzio, solo loro due: l’allieva e il maestro, spalla contro spalla accucciati e incapaci di capire quale fosse la tattica migliore.
Fu ancora Bellamy il primo a parlare
“Senti facciamo così, io esco allo scoperto, attiro la loro attenzione… Con buone possibilità riuscirò a far tiro su entrambi prima che mi prendano a loro volta…”
Lancia un’occhiata fiera sulla sua tuta rimasta bianca, immacolata, senza alcuna macchia di vernice colorata.
“Tu invece sgattaioli fuori e invadi il loro campo, io cercherò di distrarli il più possibile e tu riuscirai a rubare la loro bandiera, tanto hai visto dov’è, no?”
Clarke scosse la testa.
“Moriremo.”
Disse con un filo di voce, riconoscendo troppo tardi che forse quel termine fosse un tantino fuori luogo.
“Non ce la faremo comunque, tanto vale provare!”
L’altra lo guardò serrando le labbra, improvvisamente seria, calata completamente nella tattica del gioco, il suo tale coinvolgimento, lo stesso che poco prima aveva criticato, lo fece sorridere.
“Ci sottovaluti, Clarke.”
E così dicendo il ragazzo uscì fuori allo scoperto sperando che la cara amica di sua sorella si ricordasse il piano mentre ascoltava le voci di Murphy e Raven che lo avevano identificato.
 
Vinsero.
Il suo piano aveva funzionato alla grande e la piccola Griffin era stata impeccabile nell’evitare di farsi notare.
Un moto di soddisfazione lo colse, è vero lo avevano colpito ma ciò non toglieva nulla alla loro vittoria.
Octavia abbracciò l’amica non appena uscì dal campo
“E tu che ti preoccupavi di sporcarti, alla fine sei l’unica rimasta pulita!”
Se Clarke prima rise senza alcuna preoccupazione addosso ma semplicemente alimentando quella felicità genuina e fanciullesca, qualche secondo dopo prese O’ per le braccia e con fiato corto si preoccupò
“Che ore sono?”
“Quasi le cinque, perché?”
“Merda. Sono in ritardo! Devo muovermi…”
Sparì così, con la vittoria in pugno e disperdendo al vento, in una corsa contro il tempo, tutta la gioia per la vittoria.
Ed In quel momento Bellamy Blake rimase deluso perché festeggiare senza chi ha condotto la squadra alla vittoria non è mai la stessa cosa.
 
-
 
Kane ha parlato ha per dieci minuti filati e lei è riuscita a captare solo alcuni frammenti delle sue frasi
“I ragazzi posso uscire dalla classe solo uno per volta e preferirei che Bellamy li sorvegliasse”
Oppure:
“Se ne avrete mai bisogno potrete usufruire della fotocopiatrice per un numero limitato di copie che poi vi comunicherò.”
Osserva Bellamy che come lei appare completamente distante.
“Potete usare qualsiasi strumento che abbiamo disposto sui banchi ma spetta a voi occuparvi del mantenimento e della pulizia di pennelli e qualsiasi altro tipo di materiale.
Marcus conclude
“A fine corso organizzeremo qualcosa per concludere al meglio ma su questo avremo tempo per metterci d’accordo, ora vi lascio, tra cinque minuti i ragazzi saranno qui, su quel foglio trovate l’appello. In bocca al lupo!”
Quando l’uomo si richiude la porta alle spalle Clarke sprofonda nella sedia mentre Bellamy espira sonoramente.
“Non ho sentito una singola parola di ciò che ha detto.”
Annuncia con una sorta di spavalderia laconica il moro.
Lei lo scruta da capo a piedi, a volte pensa che al vecchio Bellamy: l’adolescente arrogante e sbruffone ogni tanto piace fare ancora capolino, non è mai sparito del tutto e questa affermazione ne è la prova.
Lo rimprovererebbe se solo fosse stata attenta, la vecchia Clarke lo avrebbe fatto ma lei non è più quella ragazzina spensierata, oggi men che mai.
“Siamo in due, più o meno.”
Ammette con un filo di voce.
Il maggiore dei Blake ride di gusto e la ragazza non può far altro che guardarlo leggermente accigliata
“Chi se l’aspettava principessa? Tu completamente distratta ed incastrata con me a tenere una lezione per dei ragazzini che probabilmente saranno fotocopia esatta della nostra versione  di qualche anno fa. Ah, se i noi stessi del passato potessero vedere!”
Clarke vorrebbe riprenderlo ma non riesce più a pensare.
Le ultime frasi pronunciate dal più grande la fanno riflettere.
Forse è vero, anche loro erano così: dei ragazzini pieni di problemi che riuscivano ad affrontare solo quando se ne stavano tutti insieme.
Del resto all’epoca non erano in voga le terapie, non avevano avuto altra scelta se non quella di stare uno affianco all’altro. Ma adesso potevano fare la differenza e se la Clarke adolescente avesse potuto vedere quanto stava accadendo, sicuramente sarebbe stata fiera, forse sarebbe stata in grado anche di non commettere quegli errori madornali le cui conseguenze fanno ancora oggi eco nella sua vita.
D’improvviso ascolta Bellamy schiarirsi la voce ed istintivamente incrocia il suo sguardo, lui non dice nulla, tiene le labbra serrate e gli fa cenno con la testa di guardarsi alle spalle.
 
Eccoli.
Un gruppo di ragazzini sta entrando disordinatamente nell’aula, un vociare acuto riempie quel luogo e pian piano i banchi si popolano di visi e colori variegati.
Sente il cuore arrivarle in gola, rimane immobile ad osservarli, senza essere in grado di dire nulla, sa che dovrebbe parlare: deve presentarsi, catturare la loro attenzione, forse persino avvisarli che dovrebbero starsene in silenzio invece di fare tutto quel casino.
Ma nulla.
Clarke è immobile e il suo più grande timore, quello di non essere all’altezza, quello del panico che la sovrasta rendendola inerme, sta tragicamente prendendo forma.
Poi accade qualcosa.
Sente un principio di calore sciogliere la rigidità del suo corpo, il cuore si riassesta o quantomeno lascia che la sua gola non sia più stretta in una morsa, a Clarke sembra di riuscire nuovamente a respirare dopo troppo tempo passato sott’acqua.
I suoi occhi scivolano alla mano che ha tenuto lungo il fianco per tutto il tempo: non è sola, quasi avvinghiata a lei c’è quella di Bellamy che la stringe, percepisce la pelle calda e ruvida di lui a contatto con la sua e la bionda cerca di appropriarsi di tutta l’energia scaturita da quel tocco.
Inizia quindi a parlare, le parole rimbombano nell’aula senza che lei sia in grado di coglierle davvero, da fiato ad un flusso di pensieri che non è in grado di riconoscere ma con la coda dell’occhio vede il maggiore dei Blake annuire e allora capisce che ciò che sta dicendo non è un completo disastro, che va tutto bene se ha la sua approvazione.
Piano la stretta di lui si fa sempre meno presente fin quando il contatto si scioglie del tutto.
Ora è pronta, si siede e lui la emula prendendo il posto accanto al suo.
Gli occhi si posano sul foglio e comincia a scorrere i nomi, solo quelli, niente cognomi, non è una professoressa, è un’ancora, una via che quei ragazzi devono imparare a percorrere senza timore, dunque inizia a dar fiato e quei nomi cominciano ad avere dei volti che la ragazza cerca di far propri dentro sé.
“Gilbert.”
Un giovanissimo ragazzo con i capelli corvini alza la mano, la pelle chiarissima fa da contrasto con la gamma cromatica che sfoggia tra occhi e chioma.
“Jason.”
Il viso pulito dietro due grandi, forse troppo, occhiali da vista.
“Cassandra.”
Un volto paffuto e dolce, gli occhi luminosi come un ruscello limpido di montagna.
“Charlotte.”
Una bambina quasi, l’ovale ancora tondo, due occhietti vispi molto più scuri dei capelli biondo cenere.
 
 L’aula è di nuovo vuota.
Nell’aria è rimasto un odore acre: gli ormoni, riflette sovrappensiero.
Bellamy è ancora fuori, ha detto che sarebbe andato a prendere due caffè alla macchinetta al piano terra e Clarke si permette di girovagare tra i banchi.
Su ognuno di essi c’è un foglio con un albero disegnato sopra: è un esercizio elementare, aiuta a capire come ognuno di quei ragazzi vede il mondo.
Così ci sono foglie e fiori colorati, fusti dai colori autunnali, disegni abbozzati ed altri riprodotti fino all’ultimo dettaglio.
Rami spezzati, tronchi esili o estremamente grandi, uccellini di contorno, nuvole e poi…
Ce n’è uno che cattura la sua attenzione.
Nessun colore. Solo un leggero chiaroscuro delineato in modo più o meno accurato con la matita.
E’ un albero al centro di una radura, non c’è nient’altro, solo un terreno appena accennato, non c’è cielo, non c’è animale che popola l’illustrazione.
Sembra una quercia, si ritrova a pensare mentre si siede al banco, ed è spoglia, i rami sono secchi, vuoti.
Le venature del legno appena schizzate.
Gira il foglio per leggere il nome a cui appartiene quel disegno che tanto le ricorda i suoi:
Charlotte.
Solo il nome, senza cognome, proprio come ha scelto lei durante l’appello.
Ed una stretta al cuore la sorprende, cerca di ricordare il suo viso ma è troppo presto, chiude gli occhi ma immagini sovrapposte la confondono, le rimane solo un senso di profonda inquietudine, avverte un pizzico di amarezza, sa bene che l’arte sa fare anche questo, forse sa fare soprattutto questo.
Si lascia andare ad un sospiro.

“Che c’è? Sei già stanca?”
La voce di Bellamy è ronica ma amichevole e a Clarke fa uno strano effetto, non è abituata a sentirla così.
Nell’arco del tempo il tono che le ha dedicato è sempre stato diverso: diffidente in primo luogo, severo a volte, persino riluttante e poi di punto in bianco, in una sera d’estate, è stato incerto e velato dal desiderio.
Ma mai il maggiore dei Blake si è concesso ai suoi occhi come un amico e forse quel principio di confusione che sente in fondo allo stomaco è perché non sa come reagire a questo nuovo equilibrio.
“Grazie.”
Si lascia sfuggire.
Il moro ridacchia mentre le porge il caffè
“Non devi, ne avevo un maledetto bisogno per cui…”
Non conclude, lascia solo intendere.
Gli occhi di Clarke indugiano un po’ e poi si piantano sulla tazzina in plastica fumante.
Non era per il caffè, solo… per prima.
Ma non lo dice anche se realizza che senza di lui probabilmente non sarebbe riuscita ad abbattere quel muro di panico che si era venuto a creare tra lei e il resto del mondo.
“Dovremo darci una mossa a ripulire, non muori dalla voglia di tornare a casa? Perché io non credo di essere in grado di poter passare più di qualche altro minuto qui dentro.”
“Hai ragione, mettiamoci all’opera, avanti.”
E così dicendo, prova ad allontanarsi dalla strana sensazione che l’assale ogni qual volta si ritrova sola con il maggiore dei Blake e comincia a raccogliere matite e pastelli, si riscopre contenta di non aver tirato fuori tempere ed acquerelli o la prima giornata sarebbe stata infinita, passata a pulire ogni cosa.
Poggia tutto il materiale nell’armadietto sito vicino alla cattedra di cui Kane gli ha fornito una copia di chiavi.
Poi si permette di sedersi sul tavolo e osserva Bellamy ancora frastornata, lo vede raccogliere con cura i disegni e sistemare ogni sedia sotto il banco.
Non si è ancora soffermata su ciò che è accaduto in quel pomeriggio, non ha davvero realizzato che da quel momento lei e Blake lavoreranno fianco a fianco ogni settimana.
Non riesce ancora a capire cosa pensa di tutta questa faccenda, si sente solo estremamente confusa e si abbandona a quel torpore ancora per un po’, sorprendendosi a sorridere lievemente mentre quel ragazzo sistema in una pila ordinata tutti i disegni, muovendosi come se avesse un’estrema paura di rovinarne il contenuto.
“Ecco qui.”
Dice poggiando i fogli accanto a lei, inevitabilmente il suo sguardo si posa sulla pila e la ragazza cerca di nascondere un piccolo sussulto quando nota che il primo è proprio la quercia spoglia in bianco e nero.
“Piuttosto inquietante, per essere uscito fuori dalle mani di un’adolescente, non trovi?”
Osserva il ragazzo con una serietà che la sorprende.
“Lo avevo pensato anche io prima…”
Confessa lei.
“Pensi che funzionerà?”
Ora risulta quasi apprensivo, capisce subito che si riferisce al corso.
“Deve. Ci adopereremo affinché ci siano dei risultati.”
E non sa perché si è riferita al plurale, dopo tutto Bellamy non è che una sorta di sorvegliante, il suo ruolo non è davvero incisivo eppure Clarke riconosce che le risulta impossibile immaginare come potrebbe riuscire in quell’impresa senza di lui. 


Angolo autrice: Yuuh! Eccomi di nuovo qui tra voi.
Finalmente libera dagli esami, non durerà molto ma è già qualcosa, conoscete già il motivo del ritardo ma insomma da adesso in poi cercherò di essere più puntuale, promesso.
Ad ogni modo vorrei dirvi due cose:
spero che il capitolo renda, l'ho lasciato in cantiere per un po' e sono riuscita a terminarlo solo stamattina, mi auguro quindi che non risulti confusionario e aspetto conferme dato che sono piuttosto ansiosa di sapere cosa ne pensate :)
Infine mi sono resa conto della complessità della trama e spero tanto che non vi dia fastidio, iniziando a scrivere non avevo idea di dove mi portasse questo esperimento, ora la storia si sta delineando nella mia testa e credo che continuerà a svilupparsi in modo più o meno complicato.
C'è molta carne al fuoco e mi dispiace se tra Bellamy e Clarke le cose non vadano proprio a passo super-spedito, confido però che saprete apprezzarlo comunque... Mi sono resa conto che volevo lasciare il giusto spazio ad ogni vicenda e in parte ad ogni personaggio, so che potrete capire.
Nel frattempo vi mando un abbraccio forte,
vi ringrazio per tutto l'affetto ed il calore: siete davvero indescrivibili!

 

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Capitolo 11
*** X ***


X
 
 
Clarke è stesa sul fresco pavimento dell’atelier, i disegni dei suoi ragazzi tutt’intorno e le schede di ognuno di loro a portata di mano.
Marcus le ha fatto avere la documentazione che appartiene ad ogni ragazzo che frequenta il corso completa di fotografie e finalmente la giovane donna riesce a ricondurre ogni tratto al viso cui appartiene.
Le loro storie sono freddamente descritte in quei fascicoli: c’è chi ha subito violenze, chi è orfano, chi ha qualche precedente eppure ogni foto ritrae dei bambini appena cresciuti con gli occhi ancora pieni di vita nonostante siano evidentemente offuscati da tutto il male che il nostro mondo è in grado di riservare.
E’ arrivata all’alba, non riusciva a dormire e non ci ha pensato due volte, istintivamente ha raccolto in una cartellina rigida tutto il materiale ed ha camminato per le vie deserte della città ancora assopita, dritta fino al suo studio.
Ancora non riesce a concentrarsi.
Nonostante sia evidente, ora che finalmente conosce le loro vicende, ricondurre le rappresentazioni al singolo dramma che ognuno di quei ragazzini porta dentro sé, la sua mente è altrove.
Sono giorni che le ultime frasi della mail di Lexa Woods le tartassano i pensieri:
So solo che quando leggerai questa mail mi penserai ed i ricordi riaffioreranno man, mano con il passare dei giorni e allora io saprò che per l’ultima volta avrò dominato la tua mente.’
Ed è davvero così, nonostante sappia che dovrebbe pensare ad altro, dovrebbe davvero concentrarsi sul suo nuovo lavoro, i suoi ricordi lottano ferocemente con la realtà riuscendo a vincerla spesso.
Per esempio in alcun modo riesce a togliersi dalla testa la prima volta in cui ha capito che Lexa sarebbe divenuta qualcosa di molto più importante che una semplice amicizia di rimpiazzo.
 
 
Dopo quel ballo le due ragazze avevano cominciato a passare insieme ogni singolo momento della giornata.
Lexa aveva la sua stessa età ed esattamente come lei era sola, si era trasferita dal Nebraska e faceva volontariato allo zoo di Washington.
E quello non era un dettaglio da poco.
La giovane ragazza sembrava vivere per la natura, cresciuta in campagna, riusciva a sentirsi viva solo rimanendo affianco di quel mondo fatto di completa armonia tra piante e animali.
Le aveva confessato che in realtà odiava l’idea dello zoo in quanto tale ma vi si era avvicinata tramite un’associazione animalista che si assicurava che all’interno della struttura venissero rispettati tutti i protocolli affinché ognuna delle specie presenti non subisse maltrattamenti.
La sua dedizione ed il suo modo così spontaneo di rapportarsi all’ambiente aveva fatto sì che venisse notata in fretta dal responsabile, il quale, subito dopo il diploma, le propose di occuparsi a tempo pieno degli animali presenti.
Lexa in un primo momento diffidente, aveva poi compreso che quello sarebbe stato l’inizio di un’esperienza indelebile e così aveva accettato forse soprattutto grazie ai consigli e alla spinta della stessa Griffin.
Fu tramite quell’impiego, inizialmente sottovalutato, che si agganciò all’associazione di ricerca per la quale ancora lavorava in campo ecologista.
Clarke passava così intere giornate al suo fianco, si sedeva in un angolino e la osservava pulire le gabbie, cibare ogni singolo animale, quella ragazza sembrava una forza della natura.
Entrava ed usciva dalle grandi vetrate dietro cui si celavano leoni e tigri senza alcun timore, a volte, riusciva persino a giocare con alcuni di loro e allora, quando succedeva, Clarke socchiudeva appena le labbra e rimaneva incantata da come persino gli animali divenivano preda del suo incredibile fascino.
Non che avesse mai pensato a Lexa in modo differente che un’intima amica eppure le era capitato di percepirsi strana, diversa in sua presenza.
Non come accadeva con Octavia.
Si preoccupava sempre troppo del suo aspetto ogni qual volta sapeva d’incontrarla: sceglieva con cura tutto ciò che doveva indossare, dall’intimo al colore dell’elastico per i capelli.
Ma era stata così ingenua da sottovalutare quegli strani segnali.
Si era semplicemente illusa che quel diverso modo di comportarsi dipendesse dal fatto che Lexa non era Octavia Blake e se non voleva nuovamente essere abbandonata avrebbe dovuto davvero mettercela tutta, essere impeccabile.
Ecco cosa pensava quindi tutte le volte in cui si ritrovava a truccarsi in modo fin troppo marcato di fronte all’ampio specchio del bagno.
 
Quel giorno dunque non fece eccezione, era primavera e nel pomeriggio, come sempre del resto, sarebbe andata a trovarla allo zoo.
Indossò un comodo vestitino dalla leggera fantasia floreale e raccolse i capelli dorati in un’ elaborata acconciatura di trecce.
Quando arrivò allo zoo, puntuale, forse persino in anticipo, si accoccolò nel suo solito angolino e stringendo a sé un blocco da disegno e impugnando la matita con decisione cominciò a schizzare il volto di Lexa accostandolo a quello della pantera nera che si trovava distesa proprio davanti a lei, entrambe sembravano avere in comune gli stessi identici disarmanti occhi verdi.
Fu la prima volta che impresse il suo volto sulla carta dalla grammatura spessa, le linee scorrevano lungo il foglio in modo armonico, s’intrecciavano in una strana danza astratta che mescolarono i due lati dei visi delle due protagoniste indiscusse: i volti della pantera e di Lexa si fondevano di fatto in un tutt’uno senza perdere il proprio carattere, la loro personale essenza.
Solo più tardi l’altra ragazza si accorse della sua presenza ma impegnata com’era, Clarke non la biasimò.
“Hei!”
Il tono piacevolmente stupito.
La giovane Griffin si affrettò a chiudere il blocco da disegno e le rivolse uno sguardo quasi colpevole.
Ma lei, in tutta risposta, andò oltre il suo buffo comportamento e proseguì
“Non pensavo di trovarti già qui.”
E’ questo che le piaceva di più della giovane Woods, sapeva perfettamente dosarsi, percepiva subito quand’è che doveva ignorare i suoi più strani atteggiamenti.
Lo aveva appena fatto, aveva capito che Clarke dentro quel blocco le stava nascondendo qualcosa, effettivamente chiunque lo avrebbe capito, persino un bambino, ma lei non aveva fatto nulla per insistere, l’aveva rispettata anzi come nessuno aveva fatto prima d’ora.
“Avevo voglia di vederti.”
Si lasciò sfuggire lei, non sapeva nemmeno di averlo pensato prima che le sue parole affermassero quello strano desiderio.
Sentì le guance andare a fuoco, nonostante fossero ormai davvero amiche per la pelle, le sembrava assurdo confessare una cosa simile e credeva di aver detto un qualcosa di estremamente fuori luogo.
Ma il sorriso smagliante ed orgoglioso che andò ad increspare la linea sottile delle sue labbra la spogliò di ogni dubbio o insicurezza.
 “Bene… Perché ho una sorpresa per te. Stasera mi occupo della chiusura e credo proprio che potremmo goderci lo zoo come in pochi lo hanno visto: vuoto, avvolto dalla luce della luna. Ho portato dei panini e un paio di birre, pensavo di improvvisare un pic-nic vicino all’area savana, che ne dici?”
Le pupille di Clarke si dilatarono in un moto di assoluta gioia.
 
Così, quando calò la sera e lo zoo lentamente si svuotò di ogni presenza umana rivelandosi come un posto quasi incantato, le due si ritrovarono stese su un telo ad osservare in silenzio religioso le Giraffe che dinnanzi a loro si stagliavano brucando qua e la da qualche fusto di alberi esotici a cui Clarke non sapeva dare un nome.
“E’ incredibile.”
Si lasciò sfuggire Clarke tirandosi a sedere, Lexa la imitò silenziosamente.
“Mi sembra davvero di essere dall’altra parte del mondo, non mi era mai successo.”
L’amica annuì.
“Mi lasciano fare la chiusura da un paio di settimane ormai ed ogni volta è speciale, è come se solo in quel momento gli animali siano in grado di ritrovare la loro indole. Finalmente sono soli, lo percepiscono, sai? E se si volesse davvero osservare il loro comportamento bisognerebbe farlo ora.”
“Vuoi dire che si rendono conto di essere osservati?”
L’altra annuì.
Improvvisamente Clarke distolse il volto rapito dalla recinzione che le separava dalle giraffe e si voltò.
Il suo viso ora si trovava esageratamente vicino a quello di Lexa, bagnato dalla luce argentea della luna alta in cielo, i suoi lineamenti apparivano ancora più incantevoli ed i suoi occhi assumevano una sfumatura di verde talmente scura che Clarke credeva e temeva di perdervisi.
“Grazie.”
Fu in grado di sussurrare appena senza riuscire a distaccare il suo sguardo prima dagli occhi, poi dalle labbra di lei.
Lexa non rispose, non rivelò espressioni, semplicemente chiuse gli occhi e delicatamente posò le sue labbra su quelle di Clarke.
E precisamente in quell’istante la bionda capì perché non aveva mai percepito Lexa Woods come un rimpiazzo, o come un’amica al pari di O’.
Nei suoi confronti aveva provato nient’altro che profonda attrazione, non c’era nulla che avesse a che fare con l’amicizia in quanto tale e quel bacio glielo aveva dimostrato nel modo più inequivocabile.
 
-
 
“Ti ricordi che questo weekend c’è la festa?”
Bellamy annuisce spaesato a sua sorella che come suo solito si è intrufolata senza bussare in camera sua.
“Dovresti smetterla di apparire così di soppiatto.”
Dice invece soffocando una risata nervosa.
“Il fatto è che Murphy ci ha dato buca.”
Il maggiore dei Blake allora si volta abbandonando la sua scrivania e prestando davvero attenzione ad Octavia.
“In che senso?”
La piccola Blake sfoggia un sorriso malizioso.
“Ha detto che ci raggiungerà ma non può venire con noi… Io credo che ci sia sotto qualcosa, sai? Tipo un appuntamento galante.”
Il ragazzo scuote la testa, i suoi pensieri erano assenti e ci mette un po’ a riprendere il vero significato di ciò che Octavia sta insinuando.
Un piccolo ghigno affiora velocemente tra le sue labbra, immaginare John coinvolto in qualsiasi tipo di relazione lo fa ridere, non è mai stato il suo forte, si è sempre dato alla pazza gioia ogni qual volta ha potuto ma poi la realtà dei fatti si fa più chiara.
Stanno crescendo.
Sono cresciuti anzi e improvvisamente non ci trova più nulla di troppo strano, quell’elaborazione è accompagnata da un leggero groppo alla gola, è come se si sentisse differente, se cogliesse troppo lontano da sé quell’idea di essere maturi e davvero adulti.
Del resto dopo la prima lezione che ha tenuto con Clarke, non è riuscito in alcun modo di impedire ai suoi pensieri di correre da lei.
Allora ha cercato di ignorarli senza ottenere risultati soddisfacenti.
Il viso luminoso di Clarke Griffin ha fatto capolino ogni istante, il suo sentimento adolescenziale, lasciato in disparte per troppo tempo, si è risvegliato in modo prepotente e l’amarezza di non poterla avere lo ha pervaso per giorni.
Lei non gli appartiene, tutto di lei, ogni lembo di pelle, ogni sguardo intenso, ogni sorriso incerto o raggiante che sia, hanno un altro proprietario, un’altra proprietaria anzi di cui ha preferito ignorare il nome, nonostante Murphy stesse per spifferarglielo con leggerezza.
“Hei! Ci sei?”
O’ lo allontana dal dolore che ha pervaso il suo torace ed il ragazzo sente la gratitudine crescere dentro di sé, non avrebbe sopportato di lasciare ancora che certe idee lo corrodessero a tal punto.
“Scusa, hai ragione…” Respira profondamente, non vuole che sua sorella si preoccupi e ancor meno desidera che gli ponga domande scomode.
“Mi fa sorridere pensare a Murphy in situazioni romantiche ma voglio dire… perché no, dopo tutto anche lui ha un cuore!”
“Credevo che dopo Emori avesse detto basta.”
Riflette lei in modo assente.
“Andiamo, aveva diciassette anni, era ancora un ragazzino, Emori non era l’amore della sua vita, era solo la prima vera cotta.”
La minore dei Blake soffoca una risatina e il fratello le riserva uno sguardo interrogativo.
“Cosa ci trovi da ridere, scusa?”
“Non sei la persona più adatta per accantonare in modo così superficiale le cotte adolescenziali…”
“Non ti seguo, se parli di Gina o Echo… Sai bene che per me sono state solo delle ragazze con cui condividere dei bei momenti.”
Lei gli lancia uno sguardo malizioso e indietreggiando appena lo canzona con una battuta finale mentre sta per richiudersi la porta alle spalle.
“Ma io non sto affatto parlando di loro!”
Bellamy è abbastanza sveglio da comprendere l’allusione, solo che non riesce a capire perché sua sorella conservi tanta sicurezza, del resto non ha mai fatto nulla per esplicitare il suo debole per Clarke Griffin.
In realtà se c’è qualcosa di cui è convinto è di aver fatto anche l’impossibile per nascondere la vera natura dei suoi sentimenti che tanto lo terrorizzavano.
Senza pensarci più del dovuto allora, lascia la sedia e cerca di recuperare la distanza con Octavia, in un impeto apre la porta della sua stanza e si avventa nel piccolo corridoio che separa le loro due camere.
Irrompe nell’ambiente e senza permettersi di riprendere fiato chiede utilizzando un tono particolarmente alto
“Cosa sai?”
Ed il suo pensiero corre di nuovo a quella notte di schiamazzi, promesse ed ultimi sguardi.
Lei scuote la testa
“Allora c’è qualcosa che dovrei sapere?”
Temeva che nella sua voce potesse esserci traccia di rancore o rabbia ma Octavia non lascia alcuno spazio a questi sentimenti nonostante ormai sia chiaro che il soggetto in questione sia proprio la sua ex migliore amica.
Bellamy si morde il labbro ripensando a quanto abbia reso impossibile la vita a lei e Lincoln i primi tempi.
La piccola O’ non sembra turbata ma maledettamente curiosa.
“N…N…Niente.”
Si ritrova a balbettare Bellamy quasi odiandosi per questa stupida situazione che sta mettendo in scena.
“Quando mio fratello comincia a balbettare non riesco a credergli.”
Il maggiore sbuffa.
E si sente un bambino, un idiota che non è nemmeno in grado di ammettere ciò che ha fatto.
Rimane lì impalato a guardarla, incapace di emettere versi.
“Senti Bell, non voglio obbligarti, se non vuoi parlarne fai come ti pare ma se dopo tutto questo tempo stai ancora così… Bhè forse dovresti capirlo che ne hai bisogno. Indra mi ha detto che combattere è come esprimersi, non puoi restare per sempre sulla difensiva, perirai sicuramente, prima o poi dovrai attaccare. E nel tuo caso penso che sia sinonimo non solo di agire ma proprio di ammettere qualsiasi cosa sia accaduta.”
Gli occhi del maggiore dei Blake sono sgranati, è sempre stato lui a farla ragionare e questo capovolgimento dei ruoli lo destabilizza ma non trova la forza di voltarle le spalle e dunque si lascia cadere sul materasso senza smettere di fissarla.
“Come lo hai capito?”
Comincia prendendola alla larga.
“E’ piuttosto semplice… Da un momento all’altro hai iniziato a comportarti come un bambino con lei. Sapevo che non ti era mai andata particolarmente a genio, non fraintendermi ma eri sempre rimasto sulle tue, avevi deciso di ignorarla ed in un certo senso andava bene così. Ma poi… Poi, d’un tratto hai deciso di renderle la vita impossibile e fidati… Non sei stato furbo, tutti lo abbiamo notato, è buffo, ognuno di noi aveva capito che quella tensione, le continue battutine sarcastiche, gli scherzi, ogni sbeffeggiamento, celava qualcosa. Lo avevamo compreso davvero tutti tranne Clarke. Non è ironico?”
Bellamy serra le labbra in una sottile linea e distoglie il suo sguardo dal viso di sua sorella, lo lascia adagiarsi invece sul soffitto bianco.
“Ad ogni modo la prima cosa che t’insegnano quando sei una bambina è che i ragazzi se sono attratti da te non ti lasceranno mai in pace, di solito è qualcosa di elementare e legato soprattutto alla pubertà ma tu da vero maschio alfa quale sei, ti sei trascinato dietro questo maturissimo atteggiamento fino alla fine…”
Una punta di rammarico misto a un dolce sarcasmo conclude la frase di Octavia e Bellamy ne è stupito, non poteva immaginare che sua sorella potesse essere una sostenitrice di quell’assurda accoppiata.
“Non fino alla fine…”
La corregge istintivamente, come se volesse dimostrarle che proprio all’ultimo aveva capito.
Non riesce ancora ad osservarla mentre annuncia la grande notizia.
“L’ultima notte, ricordi? Quando abbiamo giocato a ‘Sette minuti in paradiso’, ecco… Io l’ho baciata alla fine.”
 
-
 
Sono le sette e mezza del mattino quando Clarke ha terminato di compilare le schede, con estrema fatica è riuscita a liberarsi almeno per un po’ di quei pensieri legati a memorie lontane ma inevitabilmente vivide ed ha riportato con cura ciò che è stato fatto durante la prima lezione; ha allegato i disegni nelle cartelle di quei ragazzini che sta cominciando a conoscere.
Per ognuno di loro ha scritto due righe, provato ad estrapolare da quelle illustrazioni delle primissime impressioni, sono solo spunti che poi verranno analizzati da chi ne ha le competenze. Psicologi e consulenti scolastici avranno il compito di trovare soluzioni, di scendere in profondità, il suo invece  è solo quello di incoraggiare loro ad esprimersi e nonostante possa risultare poco, la bionda Griffin ne è estremamente felice.
Quando però il suo sguardo si posa sul grande orologio sito sulla candida parete il suo respiro tentenna: è esageratamente presto ed ha il maledetto terrore che altri ricordi possano riaffiorare facendogli del male.
E’ in quel momento però che un rumore la distrae facendole contrarre ogni nervo già teso.
Qualcuno è entrato nell’atelier, ha udito chiaramente l’inconfondibile rumore della porta che da sull’avenue, poi dei passi hanno rotto di nuovo il silenzio ed ora un filo d’ansia la pervade.
Chiunque sia deve essersi diretto verso la sala espositiva o già sarebbe nello studio dunque si alza lentamente cercando di non far rumore e, appoggiandosi al muro, avanza con estrema cautela verso la grande sala.
I suoi occhi si sgranano quando riconosce la figura di spalle di Raven Reyes seduta proprio al centro della stanza, tira un sospiro di sollievo mentre si pente per aver permesso alla sua immaginazione contorta di correre in fretta a scenari ben più catastrofici.
Segnala la sua presenza in fretta, conosce troppo bene la moretta e sa che se non ci fosse qualcosa dietro non abbandonerebbe mai il suo letto così tanto prima del dovuto.
Proprio per questo si sente più vicina a lei di quanto non sia mai accaduto.
“Hei.”
Usa la sua voce piano, non vuole spaventarla e mentre sillaba la brevissima parola le si avvicina.
“Clarke!?”
Si volta di scatto, il suo viso è tirato eppure sembra contento di individuare un volto amico.
Lei annuisce sorridendo appena mentre la imita accucciandosi al suo fianco, portando le ginocchia al petto.
Silenzio.
Per qualche minuto le due non hanno bisogno di aggiungere altro, se ne stanno una accanto all’altra facendo aderire le loro spalle e sostenendosi senza sentire la necessità di rompere quella magica quiete mattutina.
E’ Raven a spezzare per prima l’aria taciturna.
“Scusa se ti ho disturbato, credevo di essere sola.”
Clarke allora le volge uno sguardo pacifico, è incuriosita dalla sua voce, è pacata, serena, non sembra venata da nulla di negativo e questo la rassicura, per un po’ ha temuto che l’amica l’avesse emulata.
“Non pensarci nemmeno Rav’. Questo luogo non mi appartiene, sai come la penso.”
L’altra si lascia sfuggire un lieve riso
“Per quanto ti ostini a negarlo, legalmente questo posto è tuo Clarke, sicuramente più tuo del monolocale in cui vivi…”
“Voglio dire che puoi venirci quando vuoi.”
Taglia corto.
La mora annuisce restituendole un’occhiata di gratitudine, poi socchiude nuovamente le labbra.
“Posso chiederti perché?”
La giovane Griffin pone la domanda guardando altrove, non vuole invadere i suoi spazi e desidera lasciarla libera di decidere se rispondere o meno.
“Si puoi farlo ma devi lasciarmi fare lo stesso.”
Difficilmente Raven si lascia sfuggire qualcosa e Clarke sa perfettamente di non essere passata inosservata durante gli ultimi giorni, il suo nervosismo era palpabile e una richiesta del genere è più che lecita, del resto quella ragazza così diversa da lei è anche sua amica prima che sua collega e collaboratrice.
Acconsente semplicemente annuendo, risparmia il fiato per provare ad esprimere ciò che non è riuscita a comunicare per giorni.
“Sono stata invitata da un ragazzo alla festa di sabato e avevo bisogno di spazio per capire.”
Riesce solo a dire in un soffio la giovane Reyes.
Clarke ha capito il suo gioco e l’asseconda, quella frase concisa non le lascia dubbi, Raven ha rispolverato quel vecchio e buffo sistema che consiste nel confessare un pensiero alla volta, una dopo l’altra, lo facevano spesso quando erano più piccole e solitamente a quello strano rito partecipavano anche Harper e Octavia.
“Lexa mi ha lasciato, anzi mi ha chiesto una pausa.”
“Il fatto è che dopo Kyle non so più cosa sia davvero giusto.”
“Bellamy Blake è il mio supervisore a lavoro.”
Raven a quel punto le lancia uno sguardo curioso e leggermente accigliato ma continua imperterrita.
“John Murphy è il ragazzo che mi ha invitato al decennale.”
A quella confessione però Clarke non può ribattere passando oltre. Si è stupita che Raven non abbia spezzato il patto già alla sua prima confessione quando le ha detto di Lexa ma sa anche bene che la mora è molto più resistente di lei in certe occasioni.
“Cosa?! Lo stesso Murphy che con uno scherzo idiota ti ha fatto rompere una gamba costringendoti a rimandare tutti gli esami durante il primo anno di università? Lo stesso con il quale hai sempre e perennemente battibeccato ogni giorno della tua vita?”
Raven Reyes sorride divertita, è ironico il modo in cui il tempo abbia levigato ogni contrasto.
“Già.”
“E tu che gli hai detto?”
“Ho accettato ma… Non so se è stata la scelta giusta.”
Scuote la testa passandosi una mano sulla nuca, poi si permette di cercare conforto negli occhi azzurri di Clarke, quegli occhi di una sfumatura diversa ma infondo dello stesso colore del suo futuro accompagnatore.
“Al diavolo Wick. Meriti un po’ di felicità Raven anche se devo ammetterlo: mi chiedo come possa John essere in grado di dartela…”
Non c’è malizia nelle parole di Clarke piuttosto mero beneficio del dubbio.
“A prescindere da come andrà saprò cavarmela.” La rassicura ma poi continua “Tu invece, Clarke hai bisogno di parlare te lo si legge in faccia per cui…”
Lascia cadere la frase aspettando un segnale dall’amica che non tarda ad arrivare.
Tutto ciò che sta per dire è preceduto da un sonoro sospiro e Raven si affretta a metterle una mano sul ginocchio, vuole farle sentire la sua vicinanza.
“Sta accadendo tutto così velocemente che nemmeno io riesco davvero a capire. Lexa mi ha chiesto spazio con una mail e dopo il trattamento che le ho riservato non la biasimo… E’ successo poco più di una settimana fa, io ho provato a dirtelo ma… Ogni volta che stavo sul punto di parlare le parole non riuscivano più a prendere forma.”
La guarda e i suoi occhi limpidi come il cielo dopo un temporale le chiedono scusa, la giovane Reyes scuote il capo in risposta, non ha bisogno di perdonarle un bel niente.
“Suppongo che avessi bisogno di realizzare.”
Dice solo.
Lei alza le spalle.
“Non lo so Rav’. In questi giorni ho dormito poco e niente, ho sempre paura che i ricordi mi trascinino a fondo e non posso permettermelo, non ora che ci sono così tante cose da portare avanti. E poi… Ho sentito che qualcosa non andava, è come se il legame tra me e Lexa sia stato spezzato solo che io non avevo il coraggio di ammetterlo.”
“Bhè la distanza non vi ha certo aiutate.”
“No. La distanza non c’entra, dopo tutto questo tempo abbiamo imparato a gestirla. E’ il passato che credevo di aver dimenticato e seppellito, è stato quello a farmi vacillare.”
“Stai parlando di Bellamy non è vero?”
Clarke non si stupisce, conosce abbastanza bene Raven da sapere che difficilmente sfugge qualcosa al suo sguardo attento.
“Credo di sì. Pensavo che non lo avrei rivisto così spesso, ho persino evitato di partecipare alle grandi riunioni di gruppo… Temevo che incontrarlo potesse confondermi ancora di più. Poi, l’ironia della sorte ha voluto che proprio lui sia al mio fianco nel gestire un mucchio di ragazzini incontenibili…”
Con grande sorpresa la bionda osserva la giovane Reyes sorriderle, ha sempre pensato che non nutrisse grande simpatia nei confronti di Bellamy e questa sua reazione non può far altro che destabilizzarla.
“Non vi ho mai capiti, ho sempre colto una strana tensione tra voi due ad essere sincera ma il vostro ottusissimo modo di nasconderla e negarla mi ha quasi dato fastidio alle volte; è come se vi foste proibiti di essere felici insieme. Ora non so dirti se siete ancora quelli di un tempo… So per certo però che hai amato Lexa più di quanto non ti sia permessa di amare Bellamy, con lei ti sei aperta alla felicità e non credo che sarà facile gettarsi tutto alle spalle ma… Se ne avrai bisogno io sarò sempre qui per te, su questo puoi contarci. In quanto a Blake, bhè penso che sarà quel che sarà, devi solo evitare di crogiolarti in antichi e sepolti sentimenti, non penso sia necessario.”
Ancora una volta Raven riesce ad essere più lucida di quanto Clarke potesse prevedere, ogni sua parola è perfettamente coerente con ciò che sta vivendo, con quello che ha passato e la bionda non può far altro che annuire riservandole un’occhiata colma di gratitudine.
Poi, come se le sue confessioni non fossero mai esistite, cerca di scherzare un po’ con lei
“Non posso credere che mi costringerai ad andare sola a quella dannatissima festa…”
La mora soffoca una risata
“Non inventare scuse… Ho ancora bisogno di te, anzi probabilmente la tua presenza sarà ancora più necessaria.”
“Se mi vuoi comunque al tuo fianco devi assolutamente dirmi come sono andate le cose tra te e John… Non vorrei essere impreparata!”
Raven si morde il labbro inferiore e prima di risponderle abbassa leggermente lo sguardo, indugia, dopo tutto non è da lei abbandonarsi a smancerie colme di sentimentalismo.
 
-
 
Bellamy se ne sta seduto sul davanzale della finestra dell’ampia aula, portando con sé il suo previdente e al tempo stesso fastidiosissimo vizio di essere in anticipo, volge lo sguardo al cielo basso di Washington e lascia correre i suoi pensieri ad Octavia.
Temeva che quella confessione provocasse in lei imprevedibili reazioni, pensava che si sarebbe persino potuta arrabbiare.
Ufficialmente era fuori discussione tentare di omettere qualsiasi cosa tra loro due anche se poi, più di una volta avevano rotto quella strana promessa che si erano fatti da bambini. In continuazione erano riusciti ad infrangerla, effettivamente molto spesso alla base delle profonde liti che sembravano una costante nel loro rapporto c’era sempre qualcosa di non detto, di frainteso.
Il maggiore dei Blake aveva una fottuta paura che anche stavolta le cose avrebbero seguito il tipico copione ma era stato esageratamente felice quando sua sorella con improvvisa naturalezza era andata contro ogni suo oscuro pronostico.
Infatti Octavia aveva semplicemente inclinato la testa rendendo la decifrazione di quello che si era manifestato come un sorriso tra le sue labbra un tantino difficoltosa.
I suoi occhi brillavano e Bellamy non era del tutto sicuro che non si trattasse di lacrime, sua sorella tuttavia non gli aveva lasciato il tempo necessario per capirlo, si era portata una mano al viso strofinandoselo in fretta.
“Non avrei mai potuto immaginare che accadesse qualcosa di simile…”
In quella semplice constatazione c’era stupore ed un’inquantificabile dose di affetto, era così che la piccola Blake aveva reagito, lasciandogli un rumoroso bacio sulla guancia ad ulteriore prova di quanto fosse fiera.
 
E’ l’entrata di Clarke a farlo scattare sull’attenti, in velocità balza giù dalla finestra come se temesse di essere sorpreso in un atteggiamento non troppo calzante per il ruolo da lui rivestito.
“Hei!”
Non riesce a nascondere una sorta di primordiale e stupido entusiasmo dietro la sua voce e si pente quasi subito di non essersi frenato.
“Ciao.”
Il tono di lei è ben diverso: composto e ligio al suo compito.
Ferisce Bellamy in superficie solo per un attimo, prima che il giovane Blake possa esserle abbastanza vicino da cogliere ogni sfumatura che cela il suo volto.
E’ tirato, stanco, due profonde occhiaie violacee delineano il contorno occhi della bionda, sono evidenti nonostante il trucco ed improvvisamente il ragazzo percepisce un principio di preoccupazione impossessarsi di lui.
“Stai bene? Sei in anticipo…”
E’ allora che Clarke Griffin alza lo sguardo dalle scartoffie che ha appena posato sulla cattedra ed i suoi occhi fanno breccia in quelli profondi e scuri di lui.
“Tranquillo Bellamy, sono solo un po’ stanca… E poi anche tu sei in anticipo.”
Il maggiore dei Blake non si fida, non permette alle sue iridi scure di staccarsi dal suo profilo adombrato da quella domanda aggirata con abilità principiante.
Percepisce tutto il suo dolore e non riesce ad accettare di esserne estromesso, vorrebbe solo farlo suo, farlo scomparire del tutto dallo sguardo plumbeo di quella ragazza.
Ma non sa come fare, improvvisamente si rende conto di essere stato distante da lei per troppo tempo, non sa più come Clarke vada presa, non riesce più ad intuire a primo colpo cos’è che può preoccuparla… O almeno non pensa di esserne davvero capace.
“Sei sicura? Va tutto ben con…” Non ricorda il nome, anzi realizza di non conoscerlo affatto ma ormai ci sta dentro con tutte le scarpe ed è troppo tardi per tirarsi indietro. “Con la tua ragazza?”
Riconosce che la sua voce è dominata da quella che può apparire come un’insensata apprensione ma non riesce, ancora una volta, a contenersi.
Non può far altro dunque che osservarla in attesa di una risposta che però tarda ad uscir fuori.
La giovane ragazza deglutisce e fa correre i suoi occhi lontano da lui, le sue labbra si assottigliano ed  il suo corpo si chiude, Clarke incrocia le braccia al petto e si dondola leggermente piegando le ginocchia.
Scuote la testa.
“No, non va tutto bene ma l’ho voluto io per cui… non c’è nulla di cui parlare.”
E’ fredda, distante.
Il maggiore dei Blake l’ha punta e lei si è  subito ritratta.
Bellamy si maledice, lo fa spesso ultimamente ma ora più che mai si pente profondamente per non essersi saputo regolare. Vorrebbe solo accoglierla tra le sue braccia, offrirle un contatto per farle sentire che non è sola ma sa, nel profondo, di essere la persona meno indicata per farlo, per cui lascia che la sua mano destra si scompigli appena i capelli e fa un paio di passi indietro.
“Mi dispiace.” Sussurra dolcemente “Non intendevo farmi gli affari tuoi.”
Credeva che non ci fossero più barriere tra loro, che la distanza e il tempo avessero levigato l’imbarazzo derivato da un bacio rubato caduto nell’oblio dei ricordi ma evidentemente si sbagliava.
 
E’ davvero sollevato quando la stanza comincia a riempirsi di testoline che pian piano spezzano l’imbarazzante silenzio venutosi a creare dopo quelle poche battute.
Osserva quei bambini ancora troppo piccoli per essere chiamati ragazzi e forse un po’ cresciuti per essere definiti ancora pienamente bimbi.
Cerca di distrarsi e si concentra sui loro occhi, ne coglie le sfumature, le forme differenti, i colori mentre sono intenti a fare esattamente ciò che Clarke ha detto loro ovvero disegnare la prima parola che gli salta in mente.
Bellamy li osserva concentrarsi, impugnare le matite colorate e chinarsi sui fogli bianchi come se da quei disegni dipendesse la loro vita.
Il suo sguardo viene catturato però da una ragazzina in particolare: ha i capelli biondo cenere raccolti in delle trecce che aderiscono alla sua nuca e finiscono dietro di essa in un intreccio intricato.
La scatola dei pastelli colorati è chiusa, impugna solo una matita grigia e il suo sguardo è vacuo e forse persino intimorito dal foglio che in quel preciso istante tentenna a sporcare di grafite.
Istintivamente si alza e cammina nella sua direzione, passa tra i banchi, sino ad arrivare al centro dov’è posto il suo, sa che non dovrebbe farlo, lui è solo un supervisore il cui unico compito è limitarsi a controllare che tutto vada per il verso giusto ma non sente di non poter resistere.
Si piega sulle ginocchia per fare in modo di essere alla stessa sua altezza e solo in quel momento ottiene l’attenzione della bambina.
Lo guarda aggrottando le sopracciglia, senza dire una parola.
“Come ti chiami?”
“Charlotte.”
Dice sottovoce, anche Bellamy tiene il tono basso in un certo senso ha paura che Clarke abbia da ridire qualcosa.
In poco tempo collega quel nome all’albero spoglio, quello che lui e la giovane Griffin hanno osservato per qualche istante in più l’ultima volta.
“Io sono Bellamy.”
Risponde velocemente e lo fa con una dolcezza della quale non si credeva capace.
“Cos’è che stai disegnando? Qual è la parola?”
Lancia un’occhiata al foglio e indugia: c’è solo un groviglio di linee scarabocchiato, riesce a vedere i solchi lasciati dalla mina, deve aver calcato in modo eccessivo, deve essersi completamente sfogata… Ma si tiene per sé un sorriso: sta funzionando.
Clarke sta riuscendo a farli uscire fuori dai loro gusci.
“Paura.”
“Di cosa hai paura?”
Chiede avvicinandosi un altro po’ e cercando di infonderle serenità ma ben presto capisce che Charlotte è restia, punta semplicemente i suoi occhi color corteccia nei suoi e scuote leggermente la testa.
“Ok, non importa se non vuoi parlarne, sappi però l’unica cosa che conta è ciò che fai per combatterla.”
“E pensi davvero che disegnare possa aiutarmi ad eliminarla? Come potrebbe?”
E’ una domanda innocente ma cela un moto di disperazione, è come se quella ragazzina volesse trovare a tutti i costi una soluzione per scappare da ciò che prova.
Bellamy tenta di sorriderle, vuole incoraggiarla come ha fatto sempre con sua sorella, la verità è che quella bambina così insicura gli ricorda esattamente Octavia.
Si volta per un frammento di secondo in direzione di Clarke che appena incrocia i suoi occhi volge il suo sguardo altrove e si appella nuovamente a Charlotte annuendo.
“Fammi vedere la tua matita.”
La piccola gli porge lo strumento incuriosita dalla sicurezza del ragazzo e Bellamy la impugna senza smettere di guardarla.
“Ora, quando ti senti impaurita tieni stretta la matita e ripeti nella tua mente ‘fottiti, non  ho paura.’
Non si preoccupa del linguaggio forse un po’ ardito per una ragazzina che a malapena avrà quindici anni, non sta a lui rispettare quel tipo di protocollo.
Con un gesto deciso restituisce l’utensile a Charlotte e con un cenno del capo la invita ad emularlo.
La ragazzina fa esattamente ciò che Bellamy le sta chiedendo e poi come armata di una nuova energia si reimmerge a capofitto sul foglio.
“Sconfiggi i tuoi demoni piccoletta e vedrai che andrà tutto bene.”
Sorride lasciandole un tenero colpetto sul capo e ritorna al suo posto.
E’ di nuovo sereno, nonostante ciò che sia accaduto poco prima con Clarke, sapere di essere riuscito a comunicare positivamente con quella bimba lo fa sentire una persona nuova.
 
La lezione è passata in fretta, quella piccola parentesi lo ha aiutato a distrarsi e subito dopo si è concentrato nel compito di riordinare l’aula per non curarsi della presenza di Clarke.
Niente caffè o confidenze stavolta, solo silenzio, un pesante ed opprimente mutismo.
Quando finisce di sistemare le sedie alza lo sguardo e trova la sua ‘collega’ china sull’armadietto, intenta a sistemare i materiali da disegno.
Per quanto non ne abbia estrema voglia si schiarisce la voce per attirare la sua attenzione e decide di salutarla.
“Io ho finito qui, ci vediamo dopodomani, okay?”
La osserva immobilizzarsi ed alzare appena il capo, rimane di spalle
“Certo…”
Bellamy china la testa e si prepara ad uscire, raccogliendo le sue cose è pronto a lasciare la stanza. Solo in quel momento, mentre sta per varcare la soglia sente la mano di Clarke stringersi con forza attorno al suo polso, percepisce la presenza del suo corpo dietro di lui e trattiene il respiro fin quando non ode le sue parole.
“Aspetta Bell’, non andare…”
Appena termina la frase sente la presa sciogliersi e con la coda dell’occhio la vede fare un passo indietro, sta lasciando a lui la scelta, non insiste.
Il maggiore dei Blake esita, vorrebbe essere forte, dimenticarla davvero, lasciarsela alle spalle una volta per tutte ma vacilla.
Aspetta un istante ancora prima di voltarsi lentamente.
Pianta allora i suoi occhi nelle iridi di Clarke, aspetta pazientemente.
“Perdonami.”
Si umetta le labbra poco prima di continuare “So che non volevi essere invadente e mi dispiace se la mia reazione è stata così dura, non ne ho ancora parlato con nessuno e… E’ strano, tutto qui.”
Bellamy annuisce lentamente.
“D’accordo, sei perdonata…”
La sua bocca s’inarca in un riso spontaneo prima di ricomporsi e farsi nuovamente serie in pochi istanti.
“Mi chiedevo… Tua sorella e… Insomma, tu verrai a quella stupidissima reunion decennale della scuola?”
Bellamy inarca un sopracciglio e si arma di quella che è sempre stata una sua difesa innata: una punta di ironia
“Che c’è principessa, mi stai già chiedendo di uscire?”
Clarke si porta una mano alla bocca e, lasciando andare indietro la testa, ride.
Per un attimo il ragazzo con un gesto repentino vorrebbe spostare la sua mano che copre timidamente quel riso ma rimane al suo posto.
Si morde invece l’interno della guancia mentre si ritrova completamente in preda di lei anche se privato dell’assolutezza di quella risata armonica e brillante.
Nonostante gli risulti impossibile goderne a pieno si sente felice, è una sensazione netta, la sua felicità è cristallina, sapere di essere riuscito ad illuminare, anche se per poco, il viso di Clarke, di aver fatto brillare i suoi occhi di nuovo lo riempie di assoluta gioia.
“Perché vuoi saperlo?”
Chiede mantenendo un tono scherzoso per non spezzare la tanto desiderata leggerezza, mentre solo ora realizza e sente il suo stomaco capovolgersi nel suo corpo.
“Volevo sapere se avrei avuto la possibilità di incontrare un volto amico…”
Bellamy annuisce e si permette di farle un occhiolino prima di girare definitivamente i tacchi.
Non vuole osservare la sua reazione, preferisce immaginare le guance di lei colorarsi di un rosa acceso e sentire i suoi occhi ancora fissi sulla sua schiena.


Angolo autrice: Ci ho messo un po' lo so, ma sono stata via per qualche giorno lasciando in sospeso per un po' il lavoro sul capitolo.
Ho passato quasi tutta la giornata a scrivere per terminarlo e spero davvero che possiate apprezzarlo. 
Clarke e Bellamy stavolta dovranno fronteggiare quanto sta accadendo loro, ovviamente avranno modi differenti di reagire ma con l'aiuto di figure importanti al loro fianco inizieranno pian piano ad arrendersi al loro destino.
Ho inserito un interazione di Bell con Charlotte liberamente ispirata e adattata al dialogo che hanno nella 1x03, come al solito spero di non aver fatto troppo casino...
Di questo capitolo ci sono parti che adoro ed altre che mi convincono meno - Poi c'è anche la Marven o come vogliamo chiamarla... e questo è anche merito vostro ahah ) avere una vostra opinione è sempre bellissimo e stimolante per cui fatevi avanti.
Nel frattempo ringrazio di cuore tutte le splendide persone che si sono prodigate nel lasciarmi dolcissimi commenti e tutti coloro che a prescindere dal resto si sono approcciati alla mia storia 

Vi mando un forte abbraccio,
vostra Chiara.

 

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Capitolo 12
*** XI ***


XI
 
 
“Pensi che possa andare bene?”
Clarke osserva Raven rimanendo estasiata dalla sua eleganza.
La giovane donna è avvolta in un fine vestito blu notte, la stoffa in raso riflette in sgargianti sfumature ogni fascio di luce che incontri sul suo sentiero ed illumina in modo unico il volto tutt’altro che rilassato della moretta.
Annuisce, incapace di esprimersi, poi decide di prendersi ancora un attimo per guardarla: non l’ha mai vista così, la Raven sempre sicura di sé e spavalda ha lasciato spazio ad innumerevoli insicurezze e a una fragilità che non credeva potesse appartenerle.
Ma non c’è nulla di negativo in questo, Clarke infatti fa caso solo all’estrema tenerezza che avvolge la ragazza e forse prova un filo d’invidia nei confronti di quell’emozione così pura e genuina che l’amica proprio non riesce a nascondere.
“Sei perfetta Rav’.”
Sussurra quasi esterrefatta e sfoggiando un sorriso sincero.
Senza aspettare alcuna reazione la giovane Griffin poggia le sue labbra sulla guancia dell’amica e cerca di rassicurarla
“Andrà tutto bene. E se John dovesse fare qualche stupidaggine ne pagherà le conseguenze, posso assicurartelo.”
Raven annuisce, sul suo viso domina di nuovo la solita espressione decisa e determinata anche se la bionda sa che presto quel briciolo di fiducia in sé stessa scomparirà nuovamente.
“Ora però devo andare, non sei l’unica a doversi rendere presentabile.”
La mora annuisce e prima che l’altra possa abbandonare la stanza le afferra una mano.
“Grazie per tutto Clarke. Non so come avrei fatto senza di te, a dire il vero non so proprio cosa mi stia accadendo…”
Un velo di preoccupazione avvolge la frase e la bionda scuote appena la testa.
“Non pensarci nemmeno, non devi ringraziarmi.”
 
Mentre compie a ritroso la strada che la porterà a casa Clarke Griffin ripensa a Raven e all’ultima frase da lei pronunciata.
La sua mente fa il resto, ripercorre in modo fedele il dialogo affrontato pochi giorni prima con l’amica quando le ha svelato i dettagli che l’hanno portata ad accettare l’invito di Murphy.
 
“Non so dirti nemmeno io cosa sia scattato dentro me. Ho sempre visto John come un idiota, voglio dire, non ho tutti i torti non trovi? Ricordi com’era da ragazzino?”
“Decisamente insopportabile…”
Aveva semplicemente accennato Clarke ridacchiando.
“Ecco. Per me John è sempre stato solo ed esclusivamente quello. Quel ragazzo dagli occhi glaciali che se ne stava seduto in un angolo e guardava tutti dall’alto con scherno e plateale superiorità. Non importa cosa facevi, lui riusciva sempre a deriderti e a farti sembrare un perfetto idiota.”
Allora la bionda aveva annuito, non esistevano parole più aderenti per descriverlo ma dentro sé sentiva crescere la curiosità, voleva capire davvero cosa avesse visto poi l’amica in quel ragazzaccio che non si era mai soffermata a tentare di comprendere.
Effettivamente non si era dedicata molto a Murphy, lo aveva sempre visto solo come l’amico  esuberante di Bellamy e quando aveva iniziato a frequentare il suo gruppo non era di certo a lui che aveva rivolto la sua attenzione.
Il maggiore dei Blake infatti le aveva reso difficile tentare di soffermarsi sugli altri dato che riusciva a calamitare sempre l’attenzione su sé stesso, in particolare con lei, visto che non le aveva mai lasciato un attimo di pace.
Era stata talmente assorta dal combattere la sua battaglia personale contro l’arroganza e l’astio unico riservatole dal moro che per un lungo periodo tutto il resto della comitiva non era stato che di contorno.
 
La bionda allora si ritrova a strizzare gli occhi, si spreme le meningi e cerca di riesumare ricordi che comprendano il giovanissimo John Murphy.
Nella sua mente però ancora una volta riesce ad intravedere solo la figura longilinea di Bellamy Blake.
Così lo ricorda mentre sbuffa ed alza gli occhi al cielo quando lei, per la primissima volta, si siede al loro tavolo a mensa.
O intento a sbattersi rumorosamente alle spalle la porta della sua camera lasciando fuori lei ed Octavia.
Lo rivede cambiare espressione, irrigidirsi, nascondere il suo sorriso ogni qual volta i loro occhi s’incontrano per poi fuggire in sguardi lontani e piccati.
Riconosce il tono della voce scostante e pregno di sarcasmo, pronto a controbattere ogni sua proposta per passare un sabato sera differente dai soliti.
Nulla.
Ricorda John solo come la spalla del maggiore dei Blake, pronto a prendersi gioco di chiunque sia sotto la mira dell’amico ma nulla più.
Poi però le parole di Raven la conducono nuovamente nella giusta direzione, l’aiutano a far sfumare l’immagine di Bellamy.
 
“Le cose però sono cambiate quando i fratelli Blake sono andati via. Tu all’epoca non eri ancora sempre con noi e forse non sei riuscita a cogliere pienamente ciò che è successo a John. E’ come se solo dopo la partenza di Bell fosse riuscito a ritrovarsi. Improvvisamente si è fatto carico di tutto ciò a cui aveva sempre pensato Bellamy. Ci ha tenuti uniti, sai? Si è persino preoccupato per te…”
Clarke aveva alzato un sopracciglio e la sua espressione aveva preso le forme della sorpresa, lei non si era curata mai abbastanza di lui e quel ragazzo aveva persino mostrato una sorta di interesse nei suoi confronti.
“E’ stato lui a pregarci di non lasciarti indietro. Ricordi quando t’invitavamo alle feste del college? O quando organizzavamo le serate-cinema a casa di Jasper? Era sempre John a ricordarci di scriverti o chiamarti.”
Nel dire ciò Raven si era morsa un labbro, era evidente che provava un seppur sottile senso di colpa ma Clarke non era riuscita a biasimarla.
Nemmeno lei li aveva cercati del resto, non così tanto.
Erano più grandi, facevano una vita differente e soprattutto erano stati suoi amici solo per via di Octavia e Bellamy. Se non fosse stato per i fratelli Blake chissà, forse lei non si sarebbe mai avvicinata a dei tipi così.
Perciò era rimasta in silenzio, aveva annuito appena e si era preoccupata di comunicare con i suoi occhi che ormai non c’era nulla di cui vergognarsi, ne era passato di tempo e le cose, nel bene o nel male, si erano sistemate.
“Pensava ad ogni cosa e lo faceva in modo silenzioso, mantenendo per tutto il resto del tempo la sua abituale maschera da guastafeste patentato. Continuava a rendersi insopportabile con le sue battute stupide, i suoi sbeffeggiamenti e la sua aria da ‘nessuno può ferirmi, sono John Murphy, diamine! Ma io si che posso fregarvi… E lo farò a dovere’. E alla fine abbiamo capito che quel suo modo di essere era tutto ciò che ci teneva uniti. Quando ci annoiavamo a morte e restavamo bivaccati per ore sul divano di Harper lui tirava fuori una qualsiasi osservazione idiota, offensiva nella maggior parte dei casi, ma che alla fine ci faceva ridere a crepapelle, o quanto meno ci risvegliava dal torpore perché poi qualcuno finiva sempre per alzarsi provando ad acciuffarlo, per ricordargli che no, non poteva fregarci, non sempre. Solitamente ero io a farlo…”
A quel punto la moretta aveva abbassato lo sguardo e un leggero sorriso aveva rivolto all’insù il profilo delle sue labbra carnose.
Effettivamente era vero, Raven era l’unica che da sempre era riuscita a tener testa all’esuberanza di John Murphy.
A Bellamy bastava uno sguardo per azzittirlo o bloccarlo ma quella era un’altra storia, il subordinamento di uno all’altro era un risultato naturale e spontaneo dovuto probabilmente alla stima che John nutriva nei confronti dell’innata ed innegabile indole da leader che il maggiore dei Blake sfoggiava con un certo vanto e con la giusta dose di spontaneità.
Per Raven era diverso.
La sua forza caratteriale, il suo amore per la collettività, la sua forza interiore si era sempre contrapposta al cieco arrivismo di Murphy, al bieco egoismo di quel ragazzo snello e dagli occhi chiari e pungenti che tanto si divertiva a farsi beffa degli altri se non per cattiveria – quello non era certo un aggettivo adatto alla sua persona – almeno per banale noia.
Ed ora, finalmente Clarke riusciva a captare i dettagli delle sue memorie, in ognuna di esse la sua amica era effettivamente l’unica che tentava e riusciva a tener testa alle innumerevoli fuoriuscite del giovane Murphy.
Erano bastati quei pochi istanti e subito la giovane Reyes, dopo aver inspirato profondamente, ricominciò da dove si era interrotta
“Non l’ho notato subito, sai? Ci è voluto tempo, anni direi. Siamo cresciuti insieme, tanto da non rendercene davvero conto, non subito. Poi un giorno, all’improvviso ti svegli e ti accorgi di quanto tutto il mondo attorno a te sia cambiato, di quanto ogni singola persona sia maturata. John è stato il primo forse, il primo a trovarsi un lavoro vero, un posto fisso. A comprarsi un buco lontano da quella periferia nella quale siamo cresciuti e a renderlo una casa presentabile, tanto da invitarci a cena, ti ricordi?”
Era stata una domanda retorica la sua, una pausa enfatica durante la quale però Clarke non aveva potuto fare a meno di annuire.
“Era stato così premuroso da includere Lexa nell’invito.”
La bionda aveva deglutito rumorosamente allora, quel dettaglio le squarciava in due il petto ravvivandole la memoria più del dovuto.
Ma Raven che se ne era prontamente accorta, in fretta e furia aveva ripreso il discorso
“Vedi, il fatto è che John non ha voluto renderlo manifesto ma è stato il primo a diventare adulto, a lasciarsi alle spalle il passato e soprattutto a farsi carico di tutto ciò che comportava una scelta simile. Nessuno lo ha notato perché lui è stato maledettamente bravo a non farcelo pesare…”
A quel punto Clarke aveva notato le mani di Raven, le dita affusolate non riuscivano a star ferme, si muovevano da sole intrecciandosi, incontrandosi e contorcendosi tra loro in una danza dominata dall’imbarazzo e da una lieve ansia.
“Stai serena Rav’. Non c’è bisogno che tu vada oltre. Credo di aver capito.”
“Qualche sera fa siamo rimasti soli al pub. Monty e Harper hanno tagliato la corda quasi subito, Jasper non era venuto e Bellamy è tornato a casa prima preoccupato per Octavia che a quanto pare ha deciso di snobbarci tutti…”
Clarke si era umettata le labbra, sapeva che O’ non stava evitando tutti ma lei e, volente o nolente, lei stava imitando il suo identico gioco.
“Comunque per o motivo o per l’altro ci siamo ritrovati soli. In condizioni normali saremmo tornati a casa un po’ avviliti ma è stato strano, tutt’altro che normale. Non avevamo affatto sonno e così abbiamo deciso di prenderci l’ultima birra e abbiamo cominciato a camminare senza una vera meta. Ci siamo ritrovati al belvedere, dall’altra parte della città, senza nemmeno rendercene conto. Abbiamo parlato talmente tanto che il tempo ha cominciato a divenire un po’ meno universale. Mi sembravano passati minuti ed invece eravamo lì da ore. John mi ha raccontato così tanto di sé ed io non sapevo nulla. E’ come se prima dell’altro giorno non lo avessi mai conosciuto realmente. Per esempio non sapevo che da bambino era stato per un periodo in affido; suo padre era un piccolo criminale, un ladruncolo da quel che mi ha detto e sua madre per qualche anno ha tentato di redimerlo, lasciandosi tutto alle spalle, persino lui. Finalmente sono riuscita a capire e se vuoi a giustificare alcuni lati dei suoi atteggiamenti peggiori. Non lo so Clarke… E’ come se improvvisamente di fronte a me fosse apparsa una persona completamente differente, o meglio, lui è stato sempre lì, non è diverso, solo molto più profondo rispetto a ciò che ama dimostrarci e nessuno di noi è stato davvero in grado di osservarlo per quello che è.”
Le frasi uscivano dalla bocca di Raven alla velocità della luce tanto che Clarke Griffin aveva provato a tranquillizzarla ancora una volta.
“Respira Rav’, non vado da nessuna parte…”
Sapeva che quella velocità e quell’agitazione erano causate più dall’emozione che da qualsiasi altra cosa, si notava dal modo in cui Raven scandiva ogni parola, sembrava fremere, era come se non vedesse l’ora di arrivare alla fine della sua personalissima odissea con Murphy.
Quindi quando aveva ascoltato l’amica rassicurarla, aveva semplicemente annuito più volte sbattendo in fretta le palpebre.
Aveva poi ripreso piuttosto in fretta, come del tutto incapace di mettere in pratica il consiglio della Griffin.
“Così è arrivata l’alba e allora sì, ci siamo finalmente stancati. Quando il sole ha invaso la città, illuminando i nostri visi tirati per la nottata insonne appena trascorsa, ci siamo guardati come se prima di quel giorno non l’avessimo mai fatto. Al buio è facile raccontarsi, parlarsi; è quando viene il giorno che ci vuole un gran fegato. E John a quel punto mi ha chiesto di andare con lui alla reunion, sempre se non avessi altri progetti. Ed io ho riso perché andiamo, quali altri progetti potevo avere? E ho detto sì, non ci ho pensato, capisci? E’ stato del tutto spontaneo, in un certo senso credevo di averlo sempre desiderato…”
“E adesso?”
Clarke odiava rovinare i momenti ma Rav era una delle sue più care amiche e non poteva permettersi di vederla soffrire, egoisticamente, temeva che se anche lei si fosse fatta male, sarebbero andate a fondo insieme.
“E adesso… Non so, ho solo paura di non riuscire a trovare ancora quella magia ma cerco di essere confidente.”
E allora la bionda l’aveva abbracciata forte sorridendo, Raven si meritava davvero quella felicità che trepidava dalle sue parole, che scoppiettava riempiendo la stanza di aspettative e sogni e quell’abbraccio voleva essere un porta fortuna.
 
 
-
 
 
Guarda Octavia dirigersi verso la macchina ed i suoi occhi riescono ad essere solo pieni di orgoglio.
Non sarebbe mai andato a quell’inutile pagliacciata, altresì detta ‘festa’, se non fosse per lei ma vederle quello sguardo addosso sta ripagando il suo sacrificio più di ogni altra cosa.
Sua sorella apre la portiera e subito l’aria si riempie di una strana ed elettrizzante gioia.
“Wow.”
Sibila lei osservandolo attentamente.
Bellamy sorregge il suo sguardo alla perfezione, quasi con fierezza.
“Sembri una persona nuova.”
Constata lei ridacchiando.
Deve essere per via di quella stupida camicia celeste polvere che suo padre lo ha letteralmente obbligato ad indossare.
“Anche tu non scherzi sorellina.”
E fa per avvicinarsi e scompigliarle appena i capelli con la mano, un gesto che risale alle origini di quel rapporto fraterno così elementare, ma la ragazza dai riflessi più che pronti lo precede e gli blocca il polso con una presa decisa e forte, più di quanto potesse aspettarsi.
“Non provarci nemmeno Bell, sai quanto ci ho messo a fare questa maledetta piega?”
E allora il maggiore dei Blake si ritrova a ridere e forse comincia quasi ad essere felice di aver compiuto quel ‘sacrificio’ che tanto ha cercato di far pesare ad O’ nelle giornate precedenti.
“Andiamo?”
Continua lei, dopo aver riaccompagnato la mano del giovane sul volante con una mossa delicata.
Lui inspira, l’aria fresca e leggera della sera gli riempie i polmoni ed annuisce.
“Dannato di un John.”
Borbotta.
Octavia gli rivolge uno sguardo curioso.
“Non sono più abituato a guidare così.”
Otto anni in Australia hanno sortito il loro effetto e guidare a destra risulta adesso una sfida infernale per il maggiore dei Blake.
Tuttavia il giovane uomo mette in moto prima che possa ripensarci, ingrana la prima e parte, lasciandosi alle spalle dimora e tramonto.
“A proposito sei riuscito a scoprire con chi ci tradisce Murphy?”
Oh sì che lo ha scoperto.
Vorrebbe sfoggiare un sorriso furbo da chi la sa lunga ma invece tiene lo sguardo fisso sulla strada e si morde il labbro superiore.
 
 
Quando John lo ha invitato a cena l’altra sera, dopo il corso di Clarke, non si aspettava nulla di tutto ciò che poi è accaduto.
Immaginava semplicemente la solita serata dominata da junk food  e dall’unica cosa di qualità che si riesce a trovare nell’appartamento del suo migliore amico: una classica e mai deludente bottiglia di Scotch.
Invece quando ha messo piede nella piccola casa, John lo ha accolto di spalle, intento a non far scuocere gli spaghetti.
Era incredibile ma un profumino niente male aleggiava per tutta la stanza.
“Cosa sta succedendo J.? Sicuro di stare bene?”
Bellamy Blake del resto era ancora l’unica persona in grado di sbeffeggiarlo a dovere.
“Molto divertente Blake. Davvero. Qui c’è chi si sbatte per tirar su una cenetta da leccarsi i baffi e tu ringrazi così?”
La risposta era stata una pacca sulla spalla, poi il moro senza chiedere permesso – non ce n’era davvero bisogno – aveva preso posto sedendosi sul pianale della cucina a penisola e osservando le sue gambe penzolare aveva chiesto
“Quindi a cosa dobbiamo tutta questa roba da adulti?”
Murphy allora aveva alzato gli occhi al cielo e Bellamy era riuscito subito ad intuire che quindi c’era davvero qualcosa per cui festeggiare.
Solo poco dopo aveva ripensato alle parole di Octavia Il fatto è che Murphy ci ha dato buca.
Il punto è che il maggiore dei Blake aveva avuto altro a cui pensare e per un po’ aveva deliberatamente dimenticato tutto il resto.
Il pomeriggio era stato denso.
C’era stata quella ragazzina: Charlotte e poi Clarke con il suo dolore.
No, nella sua mente non c’era stato molto spazio per altro.
Non aveva fatto altro che ripensare a quell’episodio, allo scontro iniziale, alla pena repressa di quella ragazza che era ancora maledettamente in grado di avere su di lui un ascendente fin troppo forte.
Si era sentito in colpa quando lei gli aveva detto che le cose con la sua ragazza non andavano bene, quella frase gli aveva donato un’insolita speranza e si odiava per quello.
Clarke era visibilmente provata e lui, sebbene sentisse il peso della sua sofferenza, non riusciva ad essere triste per lei.
Non che fosse felice ovviamente, come poteva esserlo?
In verità vederla così lo aveva distrutto eppure non si poteva dire disperato, anzi egoisticamente si sentiva sollevato, nella sua testa tutta quella faccenda aveva preso un solo significato: forse, chissà quando, avrebbero potuto ricominciare, riprendere da dove tutto era iniziato, da dove ogni cosa si era bruscamente interrotta, colmare quella distanza logorata dagli anni e dai chilometri.
Non era certo pronto ad ammetterlo a voce alta ma riconosceva perfettamente che una parte di sé, non trascurabile, nutriva ardentemente quella speranza, vi si aggrappava con tutte le forze.
Ma ora, almeno per quella sera, avrebbe dovuto mettere da parte le sue congetture e concentrarsi sull’amico.
 
Così non lo aveva spinto a parlare, non subito almeno, per un po’ era riuscito a nascondere la sua curiosità, ad aspettare che John fosse pronto.
E l’attesa valse la sorpresa.
Avevano finito di mangiare da un pezzo quando Murphy, solo dopo aver sorseggiato una discreta quantità di whiskey, si decise a sputare fuori il rospo.
“Volevo un tuo parere su una cosa.”
Bellamy si stava passando tra le mani il bicchierino contenente il liquido ambrato, era restio ad ingurgitarne il contenuto, dopotutto bere non era più la sua cosa preferita da quando la vicenda di Mike aveva scombussolato a dovere la vita dell’intera famiglia Blake.
“Dimmi ma sappi che mi stai facendo preoccupare!”
Non era serio, ancora una volta stava utilizzando l’ironia per stemperare il clima che appariva esageratamente solenne.
“Qualche sera fa avrei chiesto a Raven di venire con me al decennale.”
A quell’annuncio Bellamy aveva aggrottato le sopracciglia, era un’informazione piuttosto semplice da immagazzinare eppure stava facendo un’immensa fatica.
“Aspetta… Avresti o hai?”
John era stato veloce a far cadere il suo sguardo limpido sulle sue dita che ticchettavano velocemente sul vetro del bicchiere.
“La seconda.”
A quel punto il maggiore dei Blake era piuttosto confuso ma decise di non darlo a vedere.
Non solo vedeva l’accoppiata Reyes-Murphy come un qualcosa di metafisico ma inevitabilmente i suoi pensieri lo avevano riportato a quando, accidentalmente, lui e Raven erano inciampati nello stesso letto durante un festino all’inizio del quarto anno.
Una cosa da niente, decisamente influenzata dall’eccessivo tasso alcolico nel loro sangue ma comunque non del tutto trascurabile, non in quel caso almeno.
“E quindi vorresti la mia opinione.”
Murphy aveva annuito e tenendo ancora lo sguardo lontano da lui aveva precisato
“Si. Voglio dire sei l’unico che ha avuto con lei un qualche rapporto.”
“Dio… Frena un attimo J. Stiamo parlando di quasi dieci anni fa appunto… E poi non definirei come ‘relazionarsi’ quello che c’è stato tra me e lei…”
Ai suoi occhi sembrava davvero un’eternità e non riusciva a capire come a Murphy fosse venuto in mente di riesumare un tale periodo della sua vita.
“Appunto, vorrei solo capire perché tra voi non è andata, chiedo troppo?”
Bellamy aveva sospirato e alla fine si era abbandonato al sapore forte dello Scotch, ne aveva dannatamente bisogno o non sarebbe mai riuscito a fornire una risposta decente al suo amico.
Si stava massaggiando le tempie in cerca di una spiegazione convincente… Sapeva bene cos’è che non avrebbe mai potuto funzionare tra lui e Raven e la risposta, ancora una volta, vantava un nome ed un cognome: Clarke Griffin.
 
 
Quando Bellamy aveva accolto tra le sue braccia una giovanissima Reyes era del tutto andato, le immagini di quella notte infatti apparivano ormai tutt’altro che lucide.
Ricordava ancora il modo in cui Raven gli aveva ordinato di togliersi i vestiti, la voce impastata e la pelle lucida, imperlata dal sudore ricavato da un ballo sfrenato nel quale i due si erano immersi.
Rammentava anche il calore del corpo sinuoso della ragazza colmo di rabbia per chissà quale torto subito da chissà quale ragazzo, all’epoca i due non erano dei gran chiacchieroni e in quel momento avevano completamente evitato qualsiasi commento.
Gli tornavano alla mente i baci umidi, ancora inesperti dominati da un istinto ormonale più che sentimentale.
Poi più nulla, durante quell’incontro - o forse sarebbe stato meglio definirlo scontro - di corpi la sua mente si era completamente spenta e, a distanza di anni, non riusciva a recuperare più nulla.
Ricordava però ciò che era accaduto subito dopo: la fretta con cui Raven si era rivestita, le lenzuola ancora umide, il suo corpo rimasto nudo al buio per un tempo che appariva indecifrabile e il silenzio assordante che dominava la casa.
La moretta se n’era andata chiudendosi la porta alle spalle con nonchalance, non lo aveva degnato di uno sguardo, non aveva parlato, si era solo scostata da lui freddamente e in punta di piedi lo aveva lasciato indietro.
Chi affermava che il sesso si basa sull’intimità tra due persone doveva essere fuori di testa, ecco cosa si era permesso di pensare dopo quell’assurda esperienza.
Rimasto solo però aveva dovuto far fronte alla verità: Raven Reyes era bellissima, perfetta, un uragano di passione ed energia ma lui non era riuscito a godere della sua sensualità nemmeno un po’, tutto ciò che aveva fatto con lei era stato meccanico, quasi cinicamente calcolato. Eppure qualunque ragazzo del loro anno avrebbe dato qualsiasi cosa per passare una notte simile e invece alla fine Bellamy si era semplicemente ritrovato disteso su quel letto freddo senza riuscire a provare nulla, non un battito fuori posto, non un sospiro, zero.
A quel punto sapeva che il sonno sarebbe sopraggiunto da un momento all’altro, non aveva la più pallida idea di che ore fossero ma era ben conscio che quando lui e la giovane Reyes si erano allontanati dalla combriccola, la festa stava giungendo alla fase crepuscolare.
Percepiva solo il suo corpo intorpidito e pian piano sentì gli occhi farsi più pesanti.
Fu in quel momento, mentre la sua mente attraversava il limbo tra la veglia e i sogni, che i ricordi risalenti a nemmeno un mese prima vennero a fargli visita.
Improvvisamente si ritrovò catapultato nel prato del parco dei Platani, quello dove la loro corsa contro il tempo era terminata quando Clarke Griffin li aveva messi nei guai.
Riusciva a riconoscere la sensazione dell’erba che solleticava la sua pelle, poi vide due occhi enormi e limpidi dalle sfumature azzurre irrompere nella sua memoria e tutto perse importanza.
Quegli occhi lo condussero lontano, gli donarono un fremito, lo stesso che Raven gli aveva negato seppur inconsapevolmente e gli fecero perdere definitivamente il contatto con la realtà circostante.
 
 
“Non eravamo compatibili John ed è stato un bene capirlo al volo.”
Le labbra del suo amico si erano fatte sottili, il suo sguardo finalmente era risalito a quello del giovane Blake
“Quindi non sei infastidito o che so io?”
Per poco Bellamy non si era ritrovato a sputare su tutto il tavolo l’ultimo sorso che aveva deciso di concedersi prima di tagliare la corda definitivamente.
“Oh Cristo santo Murphy! Come ti viene in mente? Devo ancora ripeterti che stiamo parlando di una cosa accaduta più di nove anni fa?”
L’altro aveva risposto annuendo e un sorriso sghembo si era fatto largo sulla sua bocca.
Inevitabilmente il maggiore dei Blake si era ritrovato a chiedersi se il suo amico potesse   davvero essersi invaghito di Raven Reyes a tal punto ma subito dopo aveva deciso di non indagare oltre, di non forzare la mano, del resto non ce n’era bisogno.
 
 
Bellamy ritorna al presente solo quando sua sorella gli regala un pizzicotto sulla guancia
“Allora sai qualcosa: si o no?”
Il maggiore dei Blake scuote la testa.
Eccola un’altra innocente bugia.
“Immagino che lo scopriremo presto però!”
 
 
-
 
Quando entra nel locale, poco distante dal loro vecchio liceo e troppo lontano da casa sua, Clarke si sente subito fuori luogo, completamente a disagio.
La musica è forte, rimbomba nelle sue orecchie rendendole quasi impossibile sentire il suono dei suoi stessi pensieri.
Un’orda di gente l’accoglie, percepisce l’odore aspro che ogni singolo corpo in movimento emana mischiato ai forti aromi tipici dei long-drinks; le luci basse poi le rendono difficile orientarsi e la testa le gira già senza il bisogno di essere aiutata da alcuna sostanza alcolica.
Mentre meccanicamente si dirige verso quello che deve essere il guardaroba, rimpiange di aver mantenuto la promessa fatta a Raven.
Si toglie la giacca in fretta e furia, lasciandola al custode in cambio del solito bigliettino verde numerato: 100.
Il tempismo non è mai stato il suo forte e non si stupisce se già altri novantanove ex compagni di liceo l’abbiano preceduta.
Si chiede subito se ci sia qualcuno di sua conoscenza.
L’idea di essere sola la spaventa a morte, si sente vulnerabile e tremendamente impacciata.
Inevitabilmente percepisce quella stessa identica sensazione provata anni addietro al Senior Prom: può rivedersi seduta sugli spalti della scuola con un bicchiere di punch in mano, annoiata e pentita per non non aver scelto di rimanere a casa.
Quella sera però le cose andarono fin troppo bene, conobbe Lexa…
Ma non ha bisogno di rammentarlo, la sua memoria in quei giorni ha dimostrato di essere molto tenace per certe cose e Clarke Griffin in quel preciso istante vorrebbe solo perderla del tutto.
Ricordare la sua ex proprio adesso, l’unica persona ad essere stata in grado di starle accanto in qualsiasi situazione, quando tutti i suoi amici invece sembrano pronti a voltare pagina, ad inseguire nuove ed improbabili presenze nelle loro vite, le fa sentire ancora di più quella solitudine opprimente che si avverte soprattutto quando ci si ritrova isolati in mezzo ad una folla gremita di persone pronte a divertirsi.
Le sue gambe, probabilmente stimolate dalla moltitudine di pensieri affatto positivi, l’hanno condotta senza chiedere alcun permesso dritta al bancone.
Qui una ragazza esile, mora con gli occhi di un colore indefinibile le chiede cortesemente
“Cosa posso prepararti?”
Clarke la scruta, è incredibile che la sola persona che le abbia rivolto la parola in modo gentile in quel luogo sia una perfetta sconosciuta, sa benissimo che è tenuta ad essere cortese, del resto è il suo lavoro ma continua a pensarci mentre in modo non altrettanto cordiale sillaba
“Un Bourbon… Liscio, senza ghiaccio.”
La ragazza allora aggrotta le sopracciglia e la giovane Griffin capisce subito cosa la turba.
Nessuno chiede un Bourbon ad una festa che dovrebbe ricordare i bei tempi andati del liceo, la consuetudine vuole che ci si accontenti di qualche cocktail classico, gli stessi che si prendevano da minorenni con i documenti falsi e di cui si conoscevano i nomi alla perfezione, sapevano tutti che indugiare avrebbe portato allo scoperto.
Ma nonostante una prima esitazione la giovane si appresta a servire la bevanda richiesta e Clarke sorride compiaciuta, non vorrebbe, ma è spontaneo e non ha la forza di ricomporsi.
“Sono l’unico a pensare che il dj sia davvero un incapace?”
La bionda a quel punto non ha bisogno di voltarsi per riconoscere il proprietario di quel pensiero e si ritrova a tirare un sospiro di sollievo.
“Non potrei essere più d’accordo Jas’!”
Si volta alzando il bicchiere in aria ed il ragazzo scrolla le spalle
“Non si brinda soli, aspetta un attimo.”
Il giovane Jordan s’impossessa dello sgabello posto affianco all’amica e poggia con un gesto teatrale e deciso i gomiti sul bancone in legno lucido.
Per pochi istanti non si cura di lei e volge la sua attenzione al di là del bar, poi come folgorato si volta e guarda Clarke sorridendo esageratamente.
“Che c’è?”
Quella domanda è mossa da naturale curiosità ed il giovane si avvicina a lei per sussurrare qualcosa al suo orecchio.
“La domanda più precisa sarebbe chi. No dico, ma l’hai vista?!”
La bionda si allontana appena e rivolge il suo sguardo dove Jasper l’ha appena invitata a concentrarsi.
Ci vogliono pochi secondi perché capisca a cosa, o meglio a chi, si stia riferendo il ragazzo: la barman moretta che l’ha servita poco prima deve essere la sua nuovissima preda.
In pochi istanti il soggetto di tante attenzioni è nuovamente al loro cospetto e Jordan non perde un attimo
Si sporge verso di lei per leggere la spilla con il nome che la ragazza tiene appuntata sulla polo da cameriera.
“Maya giusto?”
Lei annuisce sorridendo
“Bene Maya, lascio a te la scelta, mi fido delle tue capacità: stupiscimi con il tuo miglior cocktail.”
Clarke vorrebbe sotterrarsi, aveva rimosso quanto fosse imbarazzante guardare gli altri flirtare e lo realizza quando la giovane Maya abbassa il suo sguardo rapita dalle parole di Jasper e gli sorride più del dovuto.
L’amico invece sembra non far caso al lieve fastidio che la Griffin cerca di nascondere educatamente e riprende velocemente il discorso
“Insomma, come va? Non ti ho vista molto in giro ultimamente.”
“Effettivamente ho avuto un gran da fare…”
“Bhè stasera però non bisogna pensarci!”
Ridacchia entusiasmato e Clarke vorrebbe assecondarlo, provare anche un millesimo di quella spensieratezza ma non riesce proprio a condividere la sua gioia e così si ritrova ad annuire in modo poco motivato.
“Allora…” Riprende lui il discorso apparentemente noncurante della reazione poco coinvolta dell’amica e continuando a fissare il vero soggetto del suo interesse
 “Verrà anche Lexa stasera?”
La leggerezza con cui Jasper avanza quella domanda provoca dentro Clarke il doppio dello strazio che finora ha tentato di scacciare insistentemente.
Le sue difese ora sono troppo basse e sente l’aria mancarle, non riesce a provare nient’altro che pena mentre butta giù il residuo nel suo bicchiere e cerca mentalmente una via di fuga.
Fortunatamente il tempismo di Maya riesce a salvarla, proprio mentre sta richiamando l’attenzione del giovane Jordan per avvertirlo che il cocktail è pronto, la bionda riesce a svignarsela con una scusa classica e indolore
“Scusa Jas’ devo assolutamente andare in bagno, ti lascio in buona compagnia tanto, no?”
Non si prende il tempo per ascoltare la risposta del ragazzo, in pochi secondi riesce a visualizzare solo un luogo: la porta di accesso di quel sudicio locale.
Ha solo bisogno di aria fresca si convince, di respirare e soprattutto di un po’ di silenzio.
Clarke Griffin allora corre, sperando con tutta sé stessa che la meta sia in grado di fornirle la tanto desiderata serenità.
 
 
-
 
 
Bellamy spegne la macchina di suo padre assaporando l’ultimo momento di tranquillità.
Alle sue orecchie arriva il rumore indistinto della musica che rimbomba tra le pareti del locale.
E’ solo nel parcheggio buio, sua sorella gli ha dato a stento il tempo di arrivare che subito è scesa dall’autovettura correndo verso l’entrata del locale.
Il ragazzo controlla velocemente il cellulare sperando di trovare un messaggio di John ma ovviamente del suo amico non c’è alcuna notizia.
Cerca di sorridere, dovrebbe essere felice per lui ma sente un principio d’ansia impossessarsi del suo corpo che gli impedisce di reagire come vorrebbe.
Bellamy Blake ha solo un problema, lo ha sempre avuto da quando ne ha memoria: non sopporta l’incognito e si da il caso che questa serata incarni esattamente il suo timore.
Non sa cosa aspettarsi, non sa chi rivedrà, con chi si ritroverà a parlare della propria vita ed odia la sensazione di non avere tutto sotto il suo controllo.
Cosa succederebbe se incontrasse Echo o Atom?
Cos’è che dovrebbe raccontare?
I suoi fallimenti?
Il suo aver passato ben otto anni a rimediare ai problemi altrui?
La sua mente sembra fare l’impossibile per allontanarlo da quel luogo, potrebbe fare marcia indietro, tornare a casa, non c’è spazio per lui lì, ne è convinto, ognuno ha trovato il suo fottutissimo posto al mondo ormai, ha la sua vita da sfoggiare con orgoglio e di cui vantarsi, tutti… tranne lui.
Ma nonostante ciò le sue gambe avanzano, Bellamy Blake non si tira certo indietro, non importa se sia perseguitato dalla paura del fallimento, non può arrendersi senza combattere.
Varca così il cancello del locale e rimane fermo lì ancora per qualche istante, i piedi ben aderenti sul terriccio, dondolandosi appena si guarda intorno: un’orda di persone è accalcata vicino la porta d’ingresso ed il maggiore dei Blake decide di concedersi un sospiro prima di rimettersi in marcia.
 
Eppure, prima che possa realizzarlo, accade qualcosa: basta una frazione di secondo affinché tutto cambi, ogni dubbio, ogni incertezza, ogni domanda scompaiono velocemente.
Sente una nuova pressione sul suo cuore.
La vista si offusca ed un calore improvviso lo avvolge.
Un impatto forte ed impetuoso lo ha fatto proprio e adesso sente due mani stringersi al proprio collo, poi un profumo lo inebria all’istante:
fiori d’arancio.
Si permette di aprire gli occhi solo ora, non si era nemmeno reso conto di averli tenuti chiusi, riconosce la capigliatura dorata che disordinatamente sfiora le spalle di Clarke e s’incastra tra il proprio petto ed il suo collo.
Le braccia che ha tenuto lungo il suo profilo per tutto il tempo adesso decidono di avvinghiarsi su quel corpo, di rispondere a quel contatto così inaspettato, così fisico e straripante di bisogni.

In quel momento non esiste più nulla, sente i pensieri spegnersi ed il cuore pulsare.


Angolo autrice:
Non riesco ad essere puntuale e voi dovete perdonarmi.
Non credevo di metterci tanto ma così è stato per i più vari motivi: da partenze improvvisate sino all'immancabile crisi d'ispirazione - ho preferito aspettare piuttosto che forzare le cose!
Ma ora ci siamo e spero che questo capitolo non vi abbia deluso.
L'idea iniziale era quella di concentrarmi solo sul party ma, non volevo lasciare in sospeso le altre storyline e ci meritavamo tutti un approfondimento sui Murven, giusto?
Volevo solo dirvi che nel prossimo capitolo verranno chiarite un po' di cose ma vi anticipo ciò che mi sta più a cuore ovvero l'abbraccio Bellarke.
Vi prego di non leggerlo come un ripiego da parte di Clarke perché non è affatto così anche se potrebbe sembrare!
Bellamy è l'unica persona in grado di sostenerla in un tale momento di crisi ed il fato si è occupato del resto, posso dire solo questo ma ci tenevo a farlo presente :)
Per il resto aspetto qualsiasi vostra reazione!
Nel frattempo vi abbraccio e vi ringrazio tuttitutti.

Vostra Chiara.



 

 

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Capitolo 13
*** XII ***


XII
 
 
Clarke Griffin arriva alla porta quasi arrancando, alla fine è scappata, non è riuscita a sorreggere le parole dell’ignaro Jordan ed ora che è fuori da quell’inferno non riesce a smettere di correre.
Sa che se lo facesse la sua mente non reggerebbe, permetterebbe anzi ai pensieri di assalirla, verrebbe sconfitta dal cuore e questo la giovane Griffin non l’ha mai permesso, si è sempre fermata prima, ogni volta è riuscita a trovare un qualche trucco per evitare che accadesse.
Ora il suo vecchio asso nella manica è quello di correre, vuole farsi sopraffare dalla stanchezza, sentire il battito cardiaco aumentare gradualmente ed essere sconfitta dalla fatica, deve tenere occupato il suo cuore affinché esso non le faccia brutti scherzi ed istantaneamente si carica di questa nuova convinzione e sente ogni pensiero volare via lontano.
Non è la prima volta che attua questa tattica effettivamente e non è ancora mai stata delusa.
Adesso riesce a percepire l’aria frizzante della sera scontrarsi con il suo corpo caldo per lo sforzo, ha superato con affanno la folla accalcata per entrare e finalmente può permettersi di alzare il suo sguardo verso la desolata periferia, non deve più stare attenta a dove posa i suoi piedi in quella interminabile corsa, sa che a breve dinnanzi a lei si staglierà il cancello che delinea il perimetro di quello squallido locale, tra poco si lascerà tutto alle spalle, sarà tutto finito.
Potrà accasciarsi sull’asfalto ruvido esausta, lontana da tutto il resto persino dalle sue paure.
 
E’ quando volge i suoi occhi all’orizzonte che le sue speranze si sgretolano e le sue sicurezze vacillano in fretta e furia.
Un corpo che non ha avuto mai modo di conoscere fino in fondo ma che tuttavia le appare fin troppo familiare è ritto a due passi dal cancello, ad un soffio da lei; lo riconosce subito e nonostante provi ad intimarsi che dovrebbe ignorare la sua presenza, comprende con altrettanta velocità che non è assolutamente in grado di farlo.
E’ come se Bellamy Blake fosse lì per lei, nel momento e nel posto giusto e Clarke non riesce a trascurare quella forza impetuosa che, come una calamita, la attrae con prepotenza verso quelle braccia.
 
Non pensa più, la sua mente è stata completamente dominata da quell’organo che ha sempre visto come il suo nemico supremo, come un dannato generatore automatico di insicurezze.
Ora però il suo porto sicuro non è più l’asfalto, non l’aria della notte che ha fatto la sua comparsa da poche ore, non l’abitacolo della sua macchina ma il petto di Bellamy, nel quale si ritrova ad affondare il volto, il suo collo al quale si avvinghia con inaspettata veemenza ed il suo viso che dopo pochi istanti sente far pressione sul proprio capo insieme alle braccia che finalmente la cingono rispondendo a quella disperata richiesta d’aiuto in modo spontaneo e protettivo.
 
E’ solo quando ha percepito la reazione di Bellamy che la bionda si è tranquillizzata, la sensazione delle sue braccia che finalmente la stringono le hanno fatto ritrovare improvvisamente una travolgente serenità, hanno placato ogni suo timore, levigato ogni angoscia.
 
Rimangono stretti per una manciata di secondi che a Clarke appaiono come minuti, ore e forse persino giorni, aggrappandosi a quel corpo la giovane Griffin ha perso ogni concezione di spazio e tempo, ha sentito una prorompente energia farsi spazio in lei ma le basta poco per capire che teme maledettamente quel nuovo sentore: infatti capisce che se non dovesse affrettarsi ad interrompere quel contatto, troppo intimo per i loro recenti standard, potrebbe non riuscire più a farne a meno.
 
Nuovamente quindi il timore la spinge a sciogliersi da quel groviglio di mani, braccia e fiato.
Un passo indietro, la testa bassa, non ha ancora il coraggio di guardare in volto Bellamy Blake, del resto non ha mai amato mostrarsi vulnerabile ed il fato ha voluto che quel ragazzo dai capelli corvini l’abbia già osservata troppe volte in preda alle sue paure.
Vorrebbe voltarsi, cancellare quegli ultimi minuti dalle loro vite, andare via e non averlo mai incontrato a quella stupidissima festa.
Il Bellamy che conosce non le lascerà via di scampo, ne è ben conscia, non si limiterà ad andare oltre quel bizzarro accaduto, le chiederà spiegazioni che lei non è in grado di fornire.
Clarke Griffin non sa perché si è precipitata tra le sue braccia come se fosse la cosa più naturale da fare e non è davvero sicura di volerlo sapere.
Per questo una parte di lei la esorta a far finta di nulla e per quanto sia possibile, a superare in fretta il suo profilo ancora stordito dall’accaduto.
Ma il maggiore dei Blake è rapido e prima che lei possa fare qualsiasi cosa la blocca: così Clarke non può far altro che osservare la mano di lui stringersi attorno al suo esile polso con un movimento delicato che tuttavia sembra deciso a non lasciarle alcuna via di scampo.
“Clarke… stai tremando.”
La voce è calma, profonda, in grado di scaldarle il petto.
La ragazza, guidata da quelle parole, osserva le sue braccia lasciate scoperte dal tubino nero che ha indossato per l’occasione, solo adesso riesce a vedere distintamente i brividi increspare la sua pelle candida e a percepire lucidamente il tremore che l’ha assalita.
Non ha freddo però.
Ed ha di nuovo paura che quella reazione sia causata da chissà cosa, il suo corpo accalorato dall’aria consumata del locale non c’entra, né tanto meno la fatica che ha provato dopo quella corsa forsennata.
C’è dell’altro.
Scuote la testa in un gesto che rivolge a sé stessa: non può permettersi di perdere il controllo in quel modo.
Percepisce lo sguardo di Bellamy indugiare sul suo corpo, cercarla ed il panico l’assale, non può rispondere a quel richiamo eppure non ha via di fuga, la mano del ragazzo è ancora lì sul suo polso e non sembra essere intenzionata a lasciarla andare tanto facilmente.
La giovane Griffin allora espira lentamente poco prima di arrendersi e puntare i suoi occhi in quelli del maggiore dei Blake: hanno lo stesso colore del cielo, sono scuri, come il manto senza luna che domina sulle loro teste.
“Credo di essermi sentita poco bene.”
Sussurra a fior di labbra, per un attimo ha sperato che quella mezza verità uscisse fuori in modo più convincente invece la tradisce istantaneamente, lascia trapelare in modo violento che quella non è altro che una conseguenza di qualcosa molto più complicato.
 
 
-
 
 
Arrivano dei momenti in cui bisogna mettere da parte sé stessi e Bellamy Blake lo ha sperimentato sulla sua pelle fin troppo spesso.
Con Clarke è stato diverso però, sebbene avesse desiderato sentirla così vicina da anni, ha compreso quasi subito che qualcosa era fuori posto.
L’ha sentita tremare tra le sue braccia, ha avvertito sul proprio petto il suo affanno caldo che penetrava velocemente sulla sua pelle passando per il cotone della camicia e la preoccupazione ha subito predominato su qualsiasi altro sentimento.
Non ha faticato dunque a dimenticare i suoi desideri ed ha rivolto tutta la sua attenzione su di lei, prima rispondendo con quanta più forza potesse a quel gesto: l’ha circondata con le sue braccia temendo quasi di farle male per un istante, tuttavia non ha smesso di farlo finché lei stessa non ha deciso di liberarsi dalla presa.
Poi l’ha osservata esitare, escogitare un modo per scappare ancora, l’ha notata fuggire il suo sguardo, ha percepito ogni sua insicurezza ed ha cercato nuovamente il suo corpo: le ha preso il polso tra le dita ed il palmo della sua mano – abbastanza grande da circondare quell’esile lembo di pelle – infine ha tentato con tutto sé stesso di starle accanto; non solo nel senso più fisico del termine, ha cercato qualcosa di molto più profondo.
Clarke gli ha mentito maldestramente e lui non lo ha davvero accettato ma non è nemmeno riuscito a giudicarla per averlo fatto, ha capito perfettamente e quando finalmente Clarke ha abbassato le difese gli è bastato guardarla in quegli occhi limpidi, incapaci di nascondere la verità.
Infatti il maggiore dei Blake non ha fatto nulla per farle pesare quell’innocente bugia, sa così bene cosa voglia dire mentire per fuggire dalle spiegazioni, per rendere tutto meno complicato.
Tuttavia ha deciso di non arrendersi, così la sua presa si è spostata: dal polso ha cercato la sua mano, le proprie dita si sono intrecciate alle sue generando una piccola scossa nel suo corpo, una leggera scarica che lo ha destato definitivamente, gli ha fatto comprendere a pieno che lui non era lì casualmente, era lì per lei fin dall’inizio.
Non gli importava nulla di quella  stramaledetta festa, nulla dei goliardici rimpianti da liceali, voleva solo vederla al di fuori del lavoro, delle loro vite sistematicamente dense d’impegni e tempo agli sgoccioli.
Bellamy Blake l’ha guardata negli occhi ancora un po’ prima di farle un cenno con la testa e dirle in modo quasi imperativo:
“Andiamo via da qua.”
Lei ha annuito incerta, guardandosi appena alle spalle, come se volesse essere certa di non lasciarsi dietro nulla di davvero importante ma nonostante quella leggera insicurezza sembrava davvero non aspettare altro.
E non le ha chiesto nulla anche se il suo cuore continuava ad essere striminzito dal dolore che sentiva scorrere in lei.
Sono arrivati alla macchina in silenzio, Clarke è entrata velocemente, non gli ha nemmeno dato il tempo di provare ad essere gentile e aprirle la portiera, una volta dentro con lui ancora al di là del finestrino intento a passarsi una mano tra i capelli per la mancata accortezza, l’ha vista tirare un sospiro di sollievo e si è ritrovato ad emularla automaticamente.
 
Ora Bellamy entra titubante, ha paura di fallire, sente la tensione impadronirsi del suo corpo, teme di non riuscire ad abbattere le spesse barriere che Clarke ha innalzato.
Non è più ingenuo come una volta, capisce al volo che la giovane Griffin è restia al dialogo eppure è chiaro che una parte di lei abbia accettato e forse persino cercato il suo aiuto.
Accende distrattamente l’aria calda, può individuare ancora i brividi sulla sua pelle, poi cerca nello stretto abitacolo la copia di “Carrie & Lowell” di Sufjan Stevens che sua sorella gli ha regalato ormai qualche Natale fa e quando la trova è quasi sorpreso che se ne stia ancora lì, piena di polvere.
Abbassa il volume appena la prima nota fa capolino dalle vecchie casse, non vuole incoraggiare il silenzio della principessa, ma non ha nemmeno intenzione di rendere il tragitto – per dove poi? – velato da un imbarazzante mutismo.
Si schiarisce la voce, si gratta il viso con leggera ansia e volge lentamente il suo volto verso lei, alla ricerca, per l’ennesima volta, del suo sguardo.
“Senti… Non devi sentirti obbligata a parlarmi se non vuoi.”
E sa benissimo che il tono lo tradisce, è così evidente che in realtà stia intendendo tutto il contrario. Non ce la fa a vederla ridotta in quello stato, non di nuovo e la sua sete di sapere cos’è che sia in grado di turbarla in quel modo lo sta a dir poco lacerando.
“Tu metti in moto…”
Quella è la sua risposta, secca ma a tratti implorante.
Qualsiasi cosa affinché tu stia bene
Ma non lascia uscire quella frase, che è come un eco del passato, dalle sue labbra ed esegue semplicemente gli ordini annuendo e guardando nuovamente dritto davanti a sé.
Tuttavia appena Bellamy Blake gira le chiavi nel quadrante qualcosa non va per il verso giusto, la vecchia autovettura tentenna e rumori poco rassicuranti risuonano nel cofano, di mettersi in moto sembra non averne davvero intenzione ed il ragazzo si lascia sfuggire una leggera risata.
E’ gutturale e laconica, poi è persino divertita ma quello cerca di non darlo a vedere
“Mi dispiace principessa, temo che sia passata la mezzanotte e la mia carrozza sia ritornata una zucca…”
La ragazza si lascia scivolare in un moto di leggero sconforto sullo schienale del sedile, i suoi occhi si puntano sul tettino della vettura per poi spostarsi lentamente su di lui.
“Hei, non siamo obbligati ad entrare, lo sai questo, vero?”
La voce è roca ed ora anche il suo viso è totalmente rivolto a lei, sta imparando a gestire quella sensazione di totale spaesamento che lo assale ogni qual volta quelle due iridi turchesi e limpidissime si intrecciano alle sue scure e polverose.
“Io non dovrei essere qui, non dovrei trattenerti, tu dovresti essere dentro a divertirti insieme agli altri…”
“Sei fuori strada Griffin, non mi sento obbligato okay? Sono qui perché voglio farlo.”
“E quindi cosa facciamo? Ce ne stiamo qua fin quando qualcuno non verrà a cercarci?”
Il maggiore dei Blake alza le spalle sorridendo.
“E’ un’ipotesi bella e buona, non trovi?”
Ascolta la ragazza sbuffare e d’un tratto gli sembra di poter entrare indietro nel tempo solo chiudendo gli occhi.
 
Sono sempre stati così loro due.
Ci sono stati l’uno per l’altra a prescindere dalla loro volontà.
E non hanno mai imparato a gestire quella vicinanza, quel loro modo così semplice ed al tempo stesso intricato di comprendersi che a volte sembrava rivelargli tutto il contrario, hanno preferito fuggire quasi sempre, sì lo hanno fatto ogni volta eccetto che in quella sera afosa.
Lo hanno fatto per esempio anche quella volta in cui una giovanissima Clarke aveva suonato al campanello di casa Blake in lacrime.
Erano passati pochi giorni da quel piccolo inconveniente causato dall’irrequietezza della piccola Griffin che tanto aveva innervosito ed al contempo ammaliato Bellamy.
La casa era vuota quel pomeriggio: Octavia era andata da qualche parte con sua madre mentre suo padre era, ancora nel pieno della sua attività lavorativa, intento a coprire turni massacranti.
Così Bellamy ne aveva approfittato per godersi quel raro momento di solitudine che gli appariva sublime e prezioso.
Si era impossessato dell’altrimenti inavvicinabile poltrona di Michael in compagnia della sua copia nuova di zecca del “Mito di Sisifo” di Albert Camus.
Non era una lettura facile eppure si sentiva maledettamente attratto da quel modo così estremo di concepire l’esistenza come un qualcosa di assurdo che rende l’uomo prigioniero.
Ma il professor Kane aveva detto alla lezione di presentazione del corso di laurea al quale voleva iscriversi che quel libro forniva la chiave per la libertà, spiegava il senso o meglio il non-senso della vita e li aveva invitati alla lettura del breve saggio per poi riparlarne in un’altra sede che avrebbe indicato agli interessati per mail.
Bellamy non aveva perso tempo ed ora pregustava la sua pacifica immersione in quella lettura così affascinante.
Così quando qualcuno suonò al campanello in modo esageratamente insistente avrebbe solo voluto fingere di non essere in casa e lo avrebbe fatto se il suo pensiero non fosse corso prima ai suoi famigliari.
Una parte di lui sapeva che non potevano essere loro, Octavia e sua madre erano uscite da troppo poco tempo mentre suo padre avrebbe lavorato ancora per svariate ore ma il suo pessimismo aveva preso il sopravvento e per un attimo aveva immaginato che qualcuno di loro potesse aver avuto qualche problema.
Quindi, udendo il suono continuo del dispositivo, aveva scaraventato il volume a terra ed era corso ad aprire la porta.
Quando al suo cospetto vide la chioma biondissima di Clarke Griffin che ormai non faceva più tanta fatica a riconoscere, sentì la seccatura impossessarsi completamente della sua persona.
“O’ non c’è, è uscita con nostra madre.”
Disse piuttosto spazientito, tutto ciò che voleva fare era liquidarla in fretta e tornare alla sua lettura, ovviamente non si era minimamente reso conto in che condizioni versasse l’amica di sua sorella, almeno non fin quando la sentì tirare su con il naso e la vide alzare la testa che aveva tenuto, fino a quel momento, inchiodata in basso, verso la superficie del porticato.
Il suo viso solitamente diafano era arrossato così come i suoi occhi solitamente limpidi come il cielo. Il trucco che doveva averli adornati durante la giornata adesso colava disordinatamente sulle sue guance in un pasticcio di lacrime e pigmenti scuri.
Velocemente sentì un nodo stringerglisi in gola.
“Potrei aspettarla qui?”
La voce era flebile, roca probabilmente per il pianto e forse per il leggero imbarazzo che le costava farsi vedere in quello stato.
“Vieni dentro.”
Aveva detto Bellamy cercando di mantenere un tono il più neutro possibile, non capiva bene perché ma non riusciva a rimanere impassibile di fronte a quella ragazzina ridotta in quel modo.
Clarke aveva fatto due passi in avanti sino ad entrare nella modesta casa dei Blake e solo dopo si era permessa di rivolgere il suo sguardo verso il fratello della sua migliore amica, in quel momento le loro iridi s’intrecciarono in un legame magnetico.
“Dio santo ma che ti è successo?”
Lei si era morsa un labbro ed aveva scosso la testa.
“Vai a darti una sciacquata almeno, sai dov’è il bagno, no?”
Così la ragazza aveva annuito ed era sparita dalla sua vista.
Bellamy aveva preso il cellulare e mandato un messaggio a sua sorella, qualunque cosa fosse sembrava piuttosto urgente. Poi aveva recuperato la copia del suo libro da terra e l’aveva messa a posto sullo scaffale arrendendosi allo stato di cose, infine si era diretto verso la cucina e aveva messo sul fuoco un pentolino con dell’acqua per preparare un tè caldo.
Quando la piccola Griffin era riapparsa, finalmente pulita e un po’ meno scossa, Bellamy l’aveva invitata con un cenno a sedersi al tavolo della cucina, poi le aveva messo davanti una tazza fumante e aveva rivolto i suoi occhi altrove.
Non sapeva davvero cosa fare, del resto non si poteva certo definire in confidenza con lei e non voleva insistere nel  farle domande alle quali evidentemente Clarke non aveva intenzione di rispondere.
L’unica cosa a cui riusciva a pensare, mentre fuggiva lo sguardo della bionda e giocherellava nervosamente intrecciando le dita delle sue mani, era che, grazie al cielo, sua sorella gli aveva risposto velocemente al messaggio ed ora doveva essere già sulla via del ritorno.
“Ho scritto ad O’.”
Aveva detto quindi in modo esageratamente apprensivo.
“Credo che sarà qui tra poco.”
Clarke aveva annuito, i suoi occhi vitrei e stanchi ora si posavano insistentemente sulla persona di Bellamy ed a quel punto il ragazzo ne era stato inevitabilmente catturato, non poteva più fuggirgli, dopo tutto era stato lui a parlare per primo, a cercare un contatto e persino a sperare di rassicurarla.
Perché era davvero così, si sentiva dannatamente impotente e la lieve frustrazione che derivava da quella condizione era assolutamente insopportabile, quindi il maggiore dei Blake aveva tentato maldestramente di fare tutto il possibile per scrollarsi di dosso quella sensazione.
Il tè, il tono fin troppo amichevole e costernato e poi il messaggio a sua sorella, la quale avrebbe sacrificato qualsiasi cosa pur di stare al fianco di quella ragazzina, lui stesso stava facendo qualsiasi cosa affinché lei potesse ritrovare la serenità.
E non riusciva davvero a spiegarsi perché sentiva dentro lui quel bisogno impellente di saperla felice.
Fortunatamente la sua voce ancora flebile e turbata lo aveva distolto da quella catastrofica valanga di pensieri.
“Grazie davvero Blake…”
Poi Clarke prima di continuare aveva preso a tartassarsi con le dita una ciocca di capelli che le ricadeva sulla spalla, il nervosismo e un tacito imbarazzo facevano decisamente da padroni a quel tavolo.
“Io… Mi dispiace per averti disturbato è che… Non sapevo cosa fare, dove andare, sono una stupida, avrei dovuto chiamare prima Octavia per assicurarmi che fosse qui.”
Ogni tratto del suo viso emanava mortificazione e Bellamy non era sicuro che quello fosse ciò che volesse
“Hei, non preoccuparti Grif… Clarke. Sono sicuro che avrai avuto i tuoi buoni motivi per presentarti qui di getto e poi non hai disturbato, a dire il vero non stavo facendo un granché e avevo persino una spasmodica voglia di tè.”
Ora il maggiore dei Blake stentava a riconoscersi: non solo si era sforzato a chiamarla per nome, aveva anche mentito spudoratamente su ciò che voleva fare.
Ma Clarke aveva sorriso leggermente per quella strana battutina con cui aveva concluso la frase e la curva delle sue labbra rosee gli aveva fatto uno strano effetto, era stata in grado di tranquillizzarlo all’istante.
“Io non sono convinta di aver avuto davvero una buona motivazione…”
Aveva detto spiazzandolo, di certo Bellamy Blake non si aspettava che quella ragazza potesse cominciare a fidarsi di lui tanto da raccontargli cos’è che l’avesse distrutta in quel modo.
“Ma io non ci ho capito più nulla quando li ho visti lì…”
“Lì dove?”
- E poi chi? – Ma forse era meglio fare una domanda per volta.
“Nel mio posto preferito… Sulla riva del Potomac Park, dove ci sono i ciliegi. Lui lo sapeva, era una delle pochissime persone a saperlo, quel luogo è il solo in cui riesco a sentirmi al sicuro, lontana da tutti e da tutto, è il mio posto dove vado quando ho bisogno di staccare e lui ci ha portato la sua nuova stupida conquista, quando sapeva perfettamente che io…”
Si era morsa un labbro e non era riuscita a continuare la frase ma quelle poche informazioni erano bastate per far sì che nella mente di Bellamy si delineasse il preciso quadro di come stessero le cose.
C’era un lui che con tutta probabilità aveva lasciato Clarke e questo forse doveva anche saperlo, Octavia gli aveva accennato qualcosa al riguardo e la giovane Griffin evidentemente non aveva preso così bene la rottura…
E chissà se poi questo fantomatico lui non fosse lo stesso di quella lontana e sfocata partita di paintball.
Improvvisamente i nervi di Bellamy si erano tesi, poteva sentirli a fior di pelle un solo pensiero riusciva a farsi largo nella sua testa: se avesse avuto quel bastardo sotto tiro lo avrebbe colpito con tutta la forza che aveva in corpo, ne era certo.
Erano sensazioni che non riusciva a controllare, non gli appartenevano eppure erano affiorate con prepotenza senza nemmeno dargli il tempo di rifletterci davvero sopra.
Sentiva solo una profonda empatia nei confronti di quella ragazzina che era sempre stato convinto di non riuscire a sopportare, che aveva sempre visto come una maledettissima spina nel fianco.
Ma adesso tutto ciò che avrebbe voluto fare era prenderle una mano e rassicurarla, sussurrarle che tutto sarebbe andato per il verso giusto.
E stava davvero per farlo, almeno prima che potesse udire lo scatto della serratura ed osservare una preoccupatissima Octavia Blake precipitarsi in cucina e tirare a sé la sua migliore amica.
Alla fine era finita così, dietro la porta accuratamente serrata della camera di Octavia quello strano contatto avvenuto tra Bellamy e Clarke era stato spazzato via del tutto, lui, come di norma, era stato estromesso da tutto ciò che stava avvenendo in quella stanza.
Non aveva insistito.
Aveva deciso di lasciar correre, del resto tutta quella storia non doveva significare nulla per lui, così si era imposto di non fare nemmeno domande ad O, aveva preferito dimenticare quel bizzarro legame che aveva percepito, quell’intrinseco bisogno di farle percepire che, in quell’istante, lui aveva scelto di essere lì per lei.
 
-
 
 
Clarke Griffin si arrende.
E’ dannatamente complicato persino per lei decifrare le sue emozioni in quel momento, ha ottenuto quel che voleva dopo tutto, se ne sta abbastanza lontana da quella maledetta confusione, da quei visi che si dovrebbe sforzare di riconoscere, ai quali dovrebbe persino sorridere, da quei corpi con i quali avrebbe dovuto condividere lo spazio e i movimenti in una danza forzata e frenetica stimolata solo dal tasso alcolico presente nel loro organismo.
Eppure si sente inerme nelle grinfie dell’auto del maggiore dei Blake, si sente debole, priva di qualsiasi tipo di difesa, non è solo una sensazione, è la realtà dei fatti.
Bellamy l’ha letteralmente accolta ma in un certo senso l’ha pure fatta prigioniera in quello spazio angusto e confortevole al tempo stesso, non ci sono più vie di fuga ed il silenzio che comincia a soffocarli non è più un’opzione.
I ringraziamenti con la famiglia Blake non hanno mai funzionato e ironicamente Clarke lo ha sperimentato sulla sua pelle più volte, con ognuno ha avuto la riprova che nessuno di loro accetta la pura e semplice evasione in momenti simili.
No, arrivano fino in fondo sempre, ti scavano nel profondo, hanno quella maledetta capacità di estirpare ogni pensiero anche il più remoto ed intimo.
E sanno farlo in modo naturale e inequivocabile, gli basta uno sguardo, un gesto e sono già dentro di te, in un istante non ci sono più segreti che non siano anche i loro.
Così Clarke si ritrova ad espirare un’ultima volta prima di abbandonarsi irrimediabilmente a Bellamy Blake, butta fuori il fiato pesantemente, si libera da quel senso di frustrazione che assale ogni persona quando si sente costretta a dover far fronte alla realtà nonostante sia l’ultima cosa che si vorrebbe fare.
 
“Sai, io sapevo dal principio che venire qui stasera non era una buona idea… Ma Raven mi ha fatto promettere che ci sarei stata e, sai che non so dirle di no.”
Guarda dritto davanti a sé mentre lascia che le parole scivolino fuori dalle sue labbra, di sguardi ce ne sono stati fin troppi e conosce troppo bene l’effetto che quegli occhi scuri come la notte hanno su di lei. Non riuscirebbe ad evitare di sentirsi ancora più nuda ed indifesa, le sue stesse parole che la stanno già spogliando di ogni protezione e non è convinta di poter andare oltre.
“Non sei la sola, se non fosse stato per O’ nemmeno io avrei messo piede a questa idiozia.”
In altre circostanze avrebbe sorriso all’idea di Bellamy soggiogato dalla piccola Blake, è sempre stato un adorabile cliché, lo ha pensato dalla prima volta che ha avuto modo di vederli insieme per più di dieci minuti.
Ma decide di annuire semplicemente e continuare a parlare
“Ad ogni modo adesso dovrò trovare una scusa abbastanza plausibile per giustificare la mia assenza… Dio sono così sollevata al pensiero che non mi abbia visto cedere…”
Si ferma e sente di nuovo lo stomaco in subbuglio esattamente come al bancone quando Jasper ha posto quella che per lui era un’innocua domanda.
Perché ripercorrere tutto quello? Perché rievocare lo strazio? Perché ripensare a lei?
Non ne vede il punto.
Ma quei pensieri le fanno dimenticare in fretta che si trova al cospetto del maggiore dei Blake e così viene anticipata in fretta dal suo insolito compagno di confidenze.
“Le rotture non sono mai semplici da assimilare.”
Dice solo cercando in qualche modo di facilitarla nel tirar fuori tutto ciò che da troppi giorni la sta torturando.
La bionda si schiarisce appena la voce.
“Le pause sono peggio.”
“Oh…”
Lo ha colto in contropiede, lo evince dal tono spezzato dall’incertezza e da una sorta di delusione latente che la confonde appena.
“La verità è che in questi giorni ho pensato che avrei preferito di gran lunga se la nostra fosse stata una vera e propria rottura. Era da un po’ che le cose non funzionavano come avrebbero dovuto, sai Lexa vive a Londra da tempo ormai e le relazioni a distanza sono un qualcosa di così rarefatto che a volte perdere di vista i sentimenti è quasi automatico, io non me ne sono accorta per almeno un anno, poi quando finalmente ho avuto modo di rivederla, di toccare nuovamente la sua pelle… Io non ho più sentito nulla. E a volte penso che non me ne sarei mai resa conto se non si fosse presentata davanti a me in carne e ossa.”
Vorrebbe non sapere perché sta dicendo tutto questo a quel ragazzo dai capelli corvini che un tempo le ha fatto battere il cuore all’impazzata ma la verità è che ne è ben conscia: non riesce a mentire a Bellamy, non ci è mai riuscita.
Tutto ciò che il maggiore dei Blake ha fatto o detto fino a quel momento l’ha portata a questo, a svelare ogni sua angoscia, ogni suo dubbio e una parte di lei si odia per non essere in grado di evitarlo.
“Penso che sia il senso di colpa a farti stare così, a prescindere da tutto le vuoi bene, tieni a lei e averla delusa, averla portata a questo ti distrugge. Ma non è colpa tua, dovresti saperlo, sei stata sincera, cosa sarebbe successo se non le avessi dimostrato che i tuoi sentimenti erano mutati? Portare avanti una farsa è molto più complicato, più doloroso.”
Bellamy si stava sbagliando.
 
Clarke non era stata affatto sincera, le era bastato così poco per capirlo.
Durante quei giorni passati insieme a Lexa Woods aveva faticato così tanto per dare l’impressione che andasse tutto bene.
Ma fin dal primo loro contatto aveva notato che qualcosa non andava, era mancata la solita scarica di adrenalina che provava quando incontrava quegli occhi smeraldini ad esempio. Troppo presa a riprendersi dall’incontro ravvicinato ed inaspettato avvenuto con Bellamy, l’aveva abbracciata meccanicamente, senza che la sua pelle fosse attraversata da alcun fremito.
Da quel momento e soprattutto dopo la conferma avuta la stessa notte, quasi impaurita da ciò che non riusciva più a provare nei suoi confronti, non aveva fatto altro che cercare scuse, ideare scappatoie per rimanere lontana e passare un po’ di tempo sola.
Aveva agito d’istinto, senza riconoscersi, quasi totalmente nel panico.
Alla fine aveva preferito passare il pomeriggio con Bellamy Blake piuttosto che salutarla come si deve prima della sua partenza.
Ciò che l’aveva sconvolta è che per lei era stato maledettamente semplice scegliere, nonostante la delicata circostanza per cui era avvenuto, avrebbe potuto rimandare l’incontro con il maggiore dei Blake ma aveva fermamente deciso di non farlo.
Aveva stranamente seguito il suo cuore e ne aveva pagato tutte le conseguenze, la decisione era semplicemente ricaduta su ciò che voleva fare, invece di pensare a ciò che avrebbe dovuto.
Ed immaginare che Lexa era diventata una sorta d’impegno morale le aveva fatto venire dei mostruosi crampi allo stomaco.
Si era sentita impotente, non poteva ignorare i suoi desideri eppure riconosceva di essere stata una codarda, la giovane Woods non meritava nulla di tutto questo, non dopo quello che avevano passato insieme, non dopo tutto quel tempo.
 
Il suo flusso di coscienza però s’interrompe bruscamente, infatti Clarke si ritrova a trasalire non appena percepisce il tocco incerto e delicato della mano di Bellamy sulla sua guancia.
Sente il suo corpo accaldarsi e non è in grado di dire se sia dovuto a quel contatto inaspettato o a quei pensieri che per troppo tempo ha cercato di reprimere.
Rimane ferma immobile per qualche secondo prima di rivolgere il suo sguardo a Bellamy.
Sorride impacciato, una smorfia che non gli appartiene e che deve aver riservato a pochissimi eletti nell’arco della sua vita.
“C’era una lacrima e ho pensato di…  Scusa.”
Balbetta quasi e Clarke, che deve avergli riservato un’occhiataccia fino a quel momento, non riesce proprio a trattenersi dal rispondere a quell’espressione in modo analogo.
“La verità è che è tutta colpa mia Bell.”
Sospira poco dopo.
“Ricordi quel pomeriggio quando ci siamo visti, subito dopo che sei tornato?”
E’ sorpresa, non ha più abbassato lo sguardo, non l’ha rivolto altrove, con una semplicità sconvolgente ha tenuto i suoi occhi incollati a quelli di Bellamy ed ora può finalmente osservarlo annuire.
“Le avevo promesso che ci saremmo viste, mi aveva detto che mi avrebbe fatto una sorpresa; la sera stessa sarebbe partita ed io ben conscia della situazione le ho dato buca, ho preferito vedere te.”
L’imbarazzo riaffiora prepotentemente quando nota la bocca sottile e morbida del maggiore dei Blake schiudersi appena in un bizzarro moto di stupore.
Vorrebbe dire qualcosa per evitare fraintendimenti, solo ora capta la profonda ambiguità che può celarsi dietro quella frase ma proprio quando sta per dar fiato a mille parole che ancora non hanno preso davvero forma nella sua mente, il telefono di Bellamy squilla in un modo che appare quasi assordante.
E’ allora che il ragazzo distoglie l’attenzione da lei e si precipita a rispondere al cellulare. Clarke però non riesce a distaccarsi dal suo volto e, mentre l’altro parla con chissà chi, osserva con avidità ogni ruga che pian piano affiora sulla pelle del ragazzo.
Così quando lo sente sussurrare con il fiato corto
“Oh mio Dio.”
Non ha dubbi sulla natura di quella esclamazione, ci legge preoccupazione e angoscia e non riesce a rimanere impassibile, sente i nervi tendersi, il suo pensiero corre veloce ai cari di Bellamy: sua madre Aurora, Michael, Octavia…
Appena il maggiore dei Blake termina la telefonata, tutto ciò che vorrebbe fare è donare la libertà ad ogni suo interrogativo ma qualcosa la trattiene.
Il moro a sua volta invece le chiede agitato
“Possiamo usare la tua macchina? Dobbiamo arrivare il prima possibile al Children’s National Medical Center.”
Lo sussurra tutto d’un fiato e Clarke si vede costretta ad annuire senza riuscire a dire una singola parola, la sua mente è completamente annebbiata dal panico che trasuda dalle membra di Bellamy Blake.

 

Angolo autrice: Non so davvero come farmi perdonare per l'immenso ritardo, sono mortificata.
E' stato un periodo diverso da come avevo immaginato e in cui mi sono ritrovata stretta tra mille impegni. Il caldo assurdo poi non ha aiutato l'ispirazione e quindi ho spesso rimandato ognu cosa per evitare di combinare pasticci irrimediabili.
Eppure devo dirvi che sono contentissima di essere tornata e non vedo l'ora di sapere qualcosa da voi a riguardo del nuovo capitolo!

Spero non abbiate dubitato della continuità di questa storia, non sarei mai sparita senza lasciarvi alcuna spiegazione e mai lo farò, mi auguro solo, in ultima battuta, che possiate perdonarmi.
Un abbraccio,
Chiara.

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Capitolo 14
*** XIII ***


XIII
 
 
Osserva le mani di Clarke strette al volante, le nocche quasi bianche come se la stretta fosse troppo forte, gli occhi glaciali sono fissi sulla strada ed una smorfia seria le inclina leggermente all’ingiù le labbra.
Non ha parlato.
Non ha fatto domande, ha semplicemente impostato il navigatore ed ha messo in moto.
Ed è proprio questo che le invidia e che la fa apparire così dannatamente lontana da lui, questa è la differenza abissale tra loro due.
Non è serena, lo può vedere da come si aggrappa ad ogni singola parte della vettura - dal volante al cambio - e da come le sue labbra sono strette e fine in un’espressione apparentemente imperturbabile che però in fondo cela in modo piuttosto marcato un velo di pura angoscia.
Eppure Clarke Griffin resta muta, inscalfibile, tiene con sé qualunque sensazione stia provando o perlomeno tenta di farlo, tiene per sé ogni interrogativo che naturalmente la sta tormentando, non potrebbe essere altrimenti.
Lui non è così, Bellamy Blake non sarebbe mai in grado di fare qualcosa del genere e se da un lato invidia il distacco della sua compagna di viaggio, dall’altro la compatisce.
Perché Bellamy è un vulcano perennemente attivo, inarrestabile e la sua sete di conoscenza, in qualsiasi situazione, non conosce limiti.
Ma soprattutto il maggiore dei Blake ha imparato a non avere paura dei propri sentimenti, o quantomeno prova costantemente a non rimanere ingurgitato dal terrore di rivelare sé stesso e lo fa perché sente uno stramaledetto bisogno di sentirsi libero, di aprire il suo cuore agli altri, è l’unica cosa che lo fa sentire realmente vivo e che riesce a salvarlo in momenti che, come questo, appaiono bui e indissolubili nel loro tragico andamento.
Non ha paura Bellamy tranne quando si tratta di lei.
Ma se Clarke non fa nulla per rendere sopportabile quell’istante che appare indistricabile e senza fine, lui sente il dovere pressante di renderlo meno oscuro, più chiaro e reale.
“Si tratta di Charlotte.”
Quindi sputa fuori quell’affermazione come se ne valesse la sua stessa vita.
“E’ stato Marcus a chiamarmi, ed è un bene che tu fossi qui con me perché… Ha chiesto esplicitamente di noi due, insieme.
Le labbra della ragazza allora si schiudono in un leggero sussulto eppure non lasciano fuoriuscire ancora alcuna parola e Bellamy sente un moto di frustrazione e rabbia montare nel suo petto, opprimere ogni suo organo.
Sa che dovrebbe rimanere lucido, che ha il compito di comportarsi da adulto eppure avrebbe bisogno d’aiuto, non è mai stato bravo a chiederlo ma lo ha sempre avvertito, da solo non può farcela, non ci è mai riuscito ed è anche per questo se per tutta la sua misera esistenza ha lavorato senza sosta per far sì che quel gruppo di ragazzini crescesse insieme e fosse pronto a qualsiasi cosa pur di salvarsi il culo l’un l’altro, è stato lui ad educarli a quell’amore così denso e primordiale che rende capaci di compiere sacrifici.
Proprio lui che da quell’unico sentimento in fin dei conti ha sempre provato a sfuggire perché terrorizzato dalle sue estreme conseguenze.
Di fronte a quel silenzio Bellamy vorrebbe solo urlare ma si rende conto di essere stanco, forse se Clarke non è più in grado di aprirsi con lui è anche colpa sua e degli atteggiamenti scostanti ed irriverenti che per troppo tempo le ha riservato, certo, alla fine è cambiato ma del resto lo  ha fatto con un imperdonabile ritardo, quando ormai mancavano poche ore alla sua dipartita.
Per cui lascia che la sua schiena smetta di rimanere rigida e si adegui alla forma comoda del sedile, poi volge il suo sguardo in direzione opposta, lontano, verso il mondo esterno che sfila velocemente dietro il vetro freddo del finestrino.
“Ti sei affezionato a lei, non è vero?”
La voce della giovane Griffin è calda ma estremamente incerta e sul viso del maggiore dei Blake appare una smorfia amara, è sempre così, proprio quando sta per arrendersi, per gettare la spugna definitivamente, Clarke rimescola le carte in tavola, manda avanti quel gioco infinito cambiando strategia e lasciandolo ogni volta di stucco.
Inspira mentre annuisce.
“Credo di si. Mi ha ricordato di noi alla sua età, soli contro tutto.”
“Forse non eravamo così soli però…”
“Già, non così ma ammettilo, ci sentivamo in quel modo anche noi, incompresi e chiusi in gabbia.”
La percepisce annuire, ha deciso di non voltarsi di nuovo verso di lei, parlarle in quel modo è più facile.
“Ti ho visto l’altro giorno, hai fatto un buon lavoro con lei, più di quanto non avrei saputo fare io.”
“Non ero sicuro e non lo sono tuttora, anzi… Spero di non aver detto nulla fuori posto, non vorrei aver contribuito in qualche modo a…”
Le parole si rifiutano di uscire, rimangano a grattare sul fondo della gola, non potrebbe reggere un peso simile, si è già sentito abbastanza in colpa quando è venuto a conoscenza della crisi di suo padre.
Poi però d’improvviso i pensieri smettono di esistere all’interno della sua mente, percepisce la mano calda di Clarke sul suo ginocchio ed il mondo intorno a lui sparisce per un millesimo di secondo.
“Non ci pensare nemmeno Bell. Non hai alcuna colpa tu, semmai sono io quella a cui è sfuggito qualcosa, sono io che avrei dovuto fare di più.”
Il maggiore dei Blake raggiunge la mano di Clarke con le proprie e la stringe avvolgendola con cura, se lui non è colpevole allora non si tratta nemmeno di lei, è strano pensarlo ma, nonostante i loro ruoli dentro quell’aula siano profondamente diversi, è insieme che affrontano quell’universo di drammi personali e visini affranti.
“Tu non c’entri principessa, sei un essere umano come tutti gli altri, non puoi fare l’impossibile in così poco tempo, sai meglio di me che per fare effetto il tuo corso ha bisogno di andare avanti ancora un po’.”
Ora la cerca, ha bisogno di trovare i suoi occhi acquamarina, solo guardandola in viso ha una chance di rassicurarla e non vuole assolutamente farsela sfuggire.
L’impatto è veloce, dura pochi secondi, il maggiore dei Blake si è voltato al momento giusto, non appena ha percepito sul proprio corpo la sua occhiata si è affrettato a non perderla del tutto e a ricambiarla.
Un flebile sorriso inclina la bocca di Clarke, è un grazie sordo e mesto e a Bellamy va bene così.
 
 
-
 
 
La sala d’aspetto è vuota e silenziosa, asettica.
Quell’ambiente le da il voltastomaco e la mancanza d’informazioni la lacera, per tutto il tragitto si è impedita di pensare a ciò che poteva essere successo a Charlotte, ha solo continuato a guidare tenendo saldo in mente il volto di quella ragazzina e spingendo il pedale dell’acceleratore più del dovuto.
Ma ora è impossibile proibire alla testa di generare ipotesi, sono troppo vicini alla sala in cui Charlotte è ricoverata, la prognosi è riservata e finora nessuno si è presentato a fornire uno straccio di spiegazione.
Sa che l’agitazione che lei riesce a tenersi stretta all’interno del suo petto non fa lo stesso nel corpo di Bellamy, infatti, sebbene non abbia più parlato, lo vede contorcersi accanto a lei, cambiare posizione ogni cinque minuti nella troppo stretta e scomoda sedia e muovere le gambe nervosamente su e giù.
Vorrebbe fare qualcosa per alleggerirlo da quel peso ma non riesce a pensare a nulla di davvero efficace, tutto le appare stupido e banale sapendo che la piccola Charlotte è a pochi metri da loro in chissà quale stato.
Si aspettavano di trovare Marcus e per tutto il tempo lo hanno cercato con lo sguardo, ogni porta che si apriva ha guadagnato la loro attenzione ma del loro datore di lavoro non c’era nemmeno l’ombra.
Bellamy ha provato a chiamarlo ma a rispondergli è stata solo la metallica voce della segreteria telefonica.
Medici ed infermieri li ignorano invece, solo l’assistente in segreteria li ha accolti freddamente facendoli “accomodare” nelle piccole sedie in plastica bianca.
Clarke non riesce a capacitarsi che siano i soli ad essere lì, non vi è ombra di parenti o genitori eppure nella cartella della ragazzina aveva letto chiaramente il nome della madre e del suo compagno, un certo Thelonious Jaha.
Le sue ponderazioni sono interrotte da uno scatto di Bellamy, improvvisamente il ragazzo abbandona la sua postazione e quando il suo sguardo lo segue, attirato dal movimento, trova all’entrata della sala d’aspetto Kane, accoglie il suo arrivo con un leggero sospiro di sollievo e segue istintivamente il maggiore dei Blake.
L’uomo sorride flebilmente e gli porge dei bicchieri di cartone fumanti.
“Non credevo di trovarvi qui così presto.”
Dice mentre gli porge i contenitori.
“Sono andato a prendere qualcosa di caldo alla caffetteria, scusate se non mi sono fatto trovare qui prima.”
“Appena ci hai chiamato siamo corsi qui.”
Dice Bellamy tagliando corto e lasciando intendere di essere pronto ad ascoltare qualsiasi cosa abbia da dire loro.
“La situazione è delicata.”
Clarke è stufa di aspettare e sente tutta l’agitazione repressa ribollire in lei, fagocitarla.
“Lei… Sta bene?”
Non le importa conoscere le cause, non ora, vuole prima accertarsi sul suo stato di salute, il resto può aspettare.
L’uomo dondola appena sulle ginocchia.
“Se la caverà, credo. E’ in coma indotto, la sveglieranno entro la mattinata. Il fatto è che io non posso rimanere, domani ho una lezione alle nove e…”
Kane vacilla, la sua espressione è corrugata e profondamente tesa.
“Vuoi sederti?”
Bellamy anticipa il pensiero di Clarke e l’uomo annuisce invitandoli a fare altrettanto.
“Stanotte è successo qualcosa di terribile…”
Clarke sente l’acido lattico avvolgerle ogni muscolo, non è sicura di essere pronta ad ascoltare ciò che Marcus sta per raccontare.
“Come sapete teniamo Charlotte nel programma di recupero già da un po’, la sua storia sembra simile a quelle di molte altre persone se si analizza in superficie ma non è affatto così. Sua madre, Teresa, è stata sposata a lungo con Angus quello che è stato il suo padre naturale ma purtroppo l’uomo è venuto a mancare quando la bambina era ancora piccola. La loro situazione economica non era delle migliori e, nonostante i sussidi, Teresa arrancava, faceva la bidella in una scuola media non molto lontano dal quartiere in cui siete nati… Così ha deciso di affiancarsi al fratello adottivo di Angus, Thelonious. Jaha è sempre stato un uomo equilibrato, è stato consigliere comunale qui a Washington per un larghissimo lasso di tempo, insomma si è sempre dato il suo da fare e possiamo dire che si è riscattato dopo aver passato un’infanzia infelice. E così è stato fin quando suo figlio, nato da una precedente relazione, è morto tragicamente in un incidente. Da quel momento l’uomo è mutato nel profondo, il lutto per il fratellastro sommato a quello per il giovanissimo figlio sono stati troppo per lui. Per un periodo ha cercato conforto nella terapia ma non soddisfatto ha interrotto tutto e il lato più oscuro del suo carattere ha prevalso. Si è immischiato in affari loschi, si è lasciato corrompere durante i suoi ultimi mandati ed è cambiato radicalmente, in sostanza è diventato un violento.”
Dopo quel lungo preambolo Clarke sa più o meno cosa aspettarsi eppure sente un brivido scuoterla, Charlotte è stata la vittima di situazioni e scelte più grandi di lei.
Il freddo la pervade, non si tratta di un fattore ambientale, lo sente dentro, nell’animo, ha sempre reagito così di fronte alla miseria eppure ha cercato di non darsi mai per vinta, ma adesso è diverso, è cresciuta, ne ha viste così tante e si sente colpevole, la speranza che ha sempre riservato in queste occasioni ora scivola via veloce.
Se solo avesse analizzato meglio la cartella di quella ragazzina forse adesso non sarebbe qui, non avrebbe rovinato la serata a Bellamy e Kane ma soprattutto avrebbe saputo come intervenire con Charlotte.
E’ anche colpa sua, ciò che il maggiore dei Blake le ha detto prima sbiadisce in modo semplice, perde significato in fretta, almeno lui, a suo modo, ci ha provato, lo ha capito che quella bimba aveva bisogno d’aiuto più di altri.
Lei cos’ha fatto invece? Si è lasciata travolgere dalla sua vita privata, dai suoi sentimenti contrastanti e si è dimenticata di quel lavoro per cui si era sempre sentita tagliata.
Evidentemente sbagliava di grosso.
Mentre le sue colpe prendono il sopravvento sente Marcus riprendere fiato, sa dove la porterà ascoltarlo fino in fondo, quel pugno nello stomaco sarà ancora più forte e la condurrà sul baratro, vorrebbe solo evadere da quel luogo, dall’odore nauseante di disinfettante ma non può farlo ormai.
Si sente in gabbia, esattamente come diceva Bellamy.
Ed è proprio lui a scuoterla da quel senso d’inadeguatezza, le afferra con veemenza la mano, le sembra quasi di essere strattonata
“Puoi scusarci un momento Marcus?”
Lo interrompe appena in tempo, un attimo prima che ricominci con lo straziante racconto.
Senza fornirle spiegazioni repentine la porta fuori da quella sala con forza, Clarke lo segue aggrappandosi alla presa della sua mano.
Tutto intorno a lei è sfocato: le mura bianche, immacolate; i camici verdi; i suoni, il vociare dismesso, i lamenti, i conati; le porte e i corridoi.
Poi la luce al neon si dissipa, sono fuori e c’è solo la notte, una leggera foschia e i lampioni aranciati.
Solo ora Clarke torna a respirare e lo fa in modo discontinuo quasi annaspando come quando si è stati troppo sott’acqua.
Percepisce l’aria umida entrarle pienamente nei polmoni e guardando gli occhi bui di Bellamy il freddo che finora l’ha invasa si ritira, lascia spazio ad un timido calore.
“So come ti senti.”
“No, non lo sai.”
E’ ancora agitata, solo ora si è resa conto del battito cardiaco accelerato e del tremolio che l’ha scossa per tutto quel tempo, proprio ora che il suo corpo si sta riprendendo.
“Smettila Clarke. Non sei colpevole, ok?”
“E’ facile per te. Tu ci hai provato, non sei rimasto con le mani in mano!”
Il suo tono è più alto del dovuto, lo sente rimbombare nel parcheggio semi vuoto dell’ospedale, rimbalza sulle mura lerce della struttura e torna da lei come un’eco al quale non si può sfuggire.
“Te l’ho già detto e non credo di volerlo ripetere ancora quindi vedi di ascoltarmi una volta per tutte: non sei sola Clarke, non sei mai stata sola e tutto ciò che posso fare è prometterti che non lo sarai mai.”
La sua voce è estremamente calma, persino rigida eppure c’è una vena di profonda dolcezza a dominarla, se non fosse così agitata avrebbe tempo per chiedersi come ci riesce in un momento simile ma le cose sono profondamente diverse.
Il suo cuore ricomincia a battere all’impazzata e la sua mente è di nuovo un mare di nebbia stavolta però manca quella sensazione atroce di solitudine, quella paura di cadere nel vuoto senza poter far affidamento su nessuno.
“Insieme?”
“Insieme.”
 
-
 
 
Ha annuito quando, calmandosi appena, Clarke le ha posto quella semplice domanda che non poteva trovare di certo un’altra risposta.
Ha ripreso la sua mano, stavolta lo ha fatto senza foga ma con infinita dolcezza, per sottolineare ulteriormente che per lui tutto ciò che conta è davvero affrontare quella dannata situazione in modo congiunto.
L’ha condotta dentro, ha sentito i tendini irrigidirsi contro i suoi quando l’aria angusta dell’ospedale li ha riabbracciati ma non ha esitato a stringere ulteriormente la sua presa.
Ha osservato Marcus riservargli un sorriso debole, un’occhiata di gratitudine, anche lui è solo, persino l’uomo che ha sempre ammirato ed invidiato ha bisogno di aiuto, del loro aiuto per giunta.
Eppure intenderlo non lo ha fatto stare meglio, non è stato felice di sentirsi utile, non come si sarebbe aspettato almeno, non in una nottata simile ma quel che è certo è che Bellamy Blake ha riconosciuto tutta la fragilità umana di quell’uomo e di Clarke e questo lo ha fatto sentire meno solo.
 
Si sono seduti più vicino di quanto non fossero prima, la giovane Griffin deve averlo preso alla lettera, separati non possono reggere ciò che manca alla conclusione della narrazione, ne sono ben consci entrambi.
Così la ragazza gli ha impedito di lasciare andare la sua mano e Bellamy non l’ha delusa, è rimasto saldamente attaccato alla sua carne senza batter ciglio.
E’ quando Kane ha ripreso il racconto che però Bellamy si è sentito mancare la terra sotto i piedi.
“Charlotte questa sera ha tentato il suicidio, mentre Jaha sbraitava e Dio sa solo cos’altro faceva alla madre, lei si è chiusa nella sua camera ed ha aperto la finestra. Tre piani possono sembrare pochi ma vi assicuro che la sua sopravvivenza è stata un vero e proprio miracolo.”
E’ l’unico brandello del discorso del professore che è riuscito a salvare, che per ore ha continuato a ronzargli in testa, tutto il resto è nebbia, nero più totale.
Deve aver aperto la bocca perché ha percepito il suo respiro mozzarsi, in un primo momento il suo cervello si è spento, è come andato in tilt, poi in pochi istanti troppi impulsi lo hanno invaso.
Rabbia in primo luogo, poi disperazione e ansia e inquietudine, orrore infine.
Non credeva di essere capace di riuscire a provare tanti sentimenti contrastanti contemporaneamente.
Il suo viso probabilmente più pallido che mai è scattato velocemente da Marcus a Clarke, nonostante tutto, ha sentito il compito di preoccuparsi per lei.
L’ha trovata immobile a digrignare i denti ma impassibile ed in quel momento ha capito.
Credeva di poter essere inscalfibile per lei, aveva realmente immaginato di poter divenire il suo sostegno ma a quanto pare stava accadendo il contrario.
Ora era lui a stringersi a lei, era lui a percepire l’aria troppo pesante.
Senza di lei sarebbe impazzito, avrebbe urlato forse con il poco fiato che ancora riusciva a sentire in petto, se la sarebbe data a gambe, invece era lì accanto a lei, incapace di far prevalere quel principio di codardia.
 
“So cosa significa avervi reso partecipi di questa tragedia ma non potevo fare altrimenti, Charlotte è sola, sua madre è in terapia intensiva e non sappiamo cosa le accadrà. I soccorsi hanno dato la priorità alla bambina ed io mi sono preoccupato in primo luogo di lei. So solo che Teresa non è in questo ospedale, domani cercherò di fare ulteriori ricerche. Sono consapevole di chiedervi molto ma non sapevo a chi altro rivolgermi, se riusciste a rimanere fino al suo risveglio sarebbe ottimale. Dal mio canto ho già dato disposizione di interrompere il corso fin quando questa situazione si risolverà perché fidatevi, andrà così, i nodi verranno al pettine, è nostro compito crederci, torneremo alle nostre vite, ognuno di noi, in particolare Charlotte, ve lo prometto.”
Ha detto l’ultima frase con una strana luce negli occhi, piegando appena le ginocchia per far in modo di guardarli dritti negli occhi.
Il maggiore dei Blake però non è stato in grado di sorreggere quello sguardo, non era sicuro di poter fare affidamento in quel moto di speranza e si è voltato di nuovo verso Clarke.
Ha ancorato le sue pupille agli occhi lucidi e arrossati di lei, l’ha osservata trattenersi, stringere i pugni, mordersi le labbra fino quasi ad infrangere la pelle rosea dal colorito più opaco del solito.
 
 
Marcus se n’è andato poco dopo, li ha stretti forte a sé ed ha sussurrato un grazie sincero alle loro orecchie.
Ma quella parola e quel gesto puro non sono stati sufficienti a donargli forza.
 
Sono in silenzio da chissà quanto tempo, non c’è alcun imbarazzo però, semplicemente non esistono parole adatte.
Clarke si è alzata un paio di volte per sgranchirsi e probabilmente anche per far defluire l’agitazione, ha camminato per il perimetro della sala d’aspetto lentamente e Bellamy non ha distolto da lei lo sguardo nemmeno per un attimo.
 
Ora è di nuovo lì però, accanto a lui e una domanda roca quanto improbabile fuoriesce dalla sua bocca secca.
“Che ore sono, Bell?”
Hanno perso il senso del tempo da quando sono in quella maledetta sala d’aspetto e solo in quel momento il maggiore dei Blake si rende conto di non avere alcuna idea di che ore segnino le lancette.
Fruga nella tasca del giaccone alla ricerca del cellulare, guarda lo schermo distrattamente, alla ricerca di un solo dato:
“Quasi le tre.”
Bisbiglia, la stanza è quasi vuota e le poche persone che la popolano, fatta eccezione per gli infermieri, è assopita in un sonno leggero e poco allettante.
Clarke annuisce.
 
“Merda.”
Esclama poco dopo, il tono non è più tanto contenuto e attento agli altri.
Ha notato solo ora i numerosi tentativi di Octavia e John di mettersi in contatto con lui.
Si alza di scatto.
“Scusami un attimo.”
Dice solo allontanandosi verso l’uscita.
 
Fuori fa freddo, l’inverno è quasi finito ma senza il sole in cielo è impossibile non far caso ai suoi strascichi.
“Dio mio Bell. Mi hai fatto davvero preoccupare.”
“Ci ha fatto preoccupare, vorrai dire.”
Riconosce la voce fuoricampo di Murphy.
“Dove sei?”
Octavia non le ha dato ancora il tempo di dire nulla.
“E’ successo un casino O’. Sono in ospedale.”
“Stai bene? E’ per caso papà?”
“Si, cioè no, voglio dire io e papà stiamo bene.”
“Chiedile se Clarke è con lui.”
Un’altra voce che arriva ovattata e in lontananza, non riesce subito a riconoscerla.
“Raven vorrebbe sapere se Clarke è con te.”
“Si, sta bene, è con me, si tratta di una bambina che seguiamo al corso, c’è stato un incidente.”
C’è un attimo di silenzio.
“Merda, mi dispiace. Senti, io sono con Raven e Murphy, ho visto la tua macchina nel parcheggio e credevo fossi alla festa, ti ho cercato in lungo e largo senza risultato e dato che non rispondevi si sono offerti di darmi un passaggio ma se le cose stanno così vi raggiungiamo.”
“Non c’è bisogno O’, davvero.”
“Dimmi il nome.”
“Il nome?”
“Dell’ospedale Bell, il nome dell’ospedale.”
“Siamo al Children’s National Medical Center.”
Sa che insistere con sua sorella è totalmente inutile ed in un certo senso è grato che di lì a poco vedrà dei volti amici.
“Arriviamo.”
 
Quando rientra, Clarke sta tartassando la cerniera del suo cappotto, è talmente assorta nell’agitazione di quel gesto che nemmeno si rende conto del suo ritorno.
Sebbene capisca perfettamente che ognuno ha il suo modo di sfogare l’ansia, decide d’interromperla.
“Stanno arrivando gli altri.”
Lei non si volta.
“Gli altri chi?”
“Murphy, Raven e… e Octavia.”
Per un millesimo di secondo ha temuto che Clarke potesse scomporsi al pensiero di rivedere sua sorella ma mentirle non avrebbe alcun senso.
Annuisce appena, poi lentamente decide di voltarsi verso di lui.
Bellamy ha finalmente accesso al suo volto che per tutto quel tempo la giovane Griffin ha deciso di rivolgere verso il pavimento.
E’ facile da leggere e del resto lui è abituato a farlo.
Sembra più tranquilla, l’arrivo degli altri deve averle fatto lo stesso effetto che ha avuto su di lui.
Eppure non può evitare di notare gli occhi gonfi, contornati da pesanti occhiaie violacee e il viso tirato, segnato dalla stanchezza e dalla tensione.
Vederla così fa male ma sa che non può fare nulla per alleggerirla da quel peso che stanno già sopportando insieme.
Si permette perciò di darle un semplice suggerimento.
“Perché non provi a riposare un po’? Ci sono io qui e gli altri arriveranno tra non molto.”
Si morde colpevolmente il labbro superiore dopo aver parlato, teme che Clarke possa prenderla male, non saprebbe nemmeno perché dovrebbe farlo eppure non riesce a scacciare quel sospetto.
Ma la ragazza è troppo provata per controbattere ad una proposta simile e si ritrova ancora una volta ad annuire.
“Sei sicuro che non ti dispiace?”
“Assolutamente.”
La osserva mentre poggia la schiena contro il muro e chiude le palpebre socchiudendo appena le labbra.
 
 
-
 
 
Le mura di quel luogo sono gelide, nonostante indossi il giaccone percepisce l’umidità contro la sua schiena e quella sedia che cigola ad ogni movimento, anche il più impercettibile, è quanto di più scomodo abbia mai provato.
Nonostante tutto Clarke tiene gli occhi serrati, prova a concentrarsi sul suo corpo ancora in completa tensione, vorrebbe solo trovare conforto tra le braccia di Morfeo ma dopo tutto quello che è successo, dopo il racconto di Marcus, cercare anche solo un briciolo di serenità a cui appigliarsi per raggiungere il sonno sembra impossibile.
E’ devastata dalla stanchezza eppure non riesce a spegnere la sua mente, le frasi di Kane rimbombano nella sua testa, dipingono spontaneamente immagini atroci, difficili da guardare ma impossibili da ignorare.
Si maledice per essere così portata all’immaginazione, del resto è parte della sua vita, non ha bisogno di modelli per disegnare le basta la sua fantasia, fissare le immagini nella sua mente è il suo mestiere, crearle, scomporle, analizzarle è ciò che fa ogni giorno quando si trova dinnanzi alla tela bianca.
Così le parole pronunciate da Marcus diventano pesanti e piene così tanto da generare nitide rappresentazioni che la scuotono e le rendono impossibile svuotare i suoi pensieri.
 
E’ sempre stata brava ad aggrapparsi a momenti felici prima di addormentarsi.
E’ stato suo padre a insegnarglielo.
 
Da piccola Clarke Griffin aveva un’immensa paura del buio, ‘una cosa normale’ diceva sempre sua madre con un certo distacco ‘ma devi imparare a conviverci’ continuava come se fosse una cosa semplice.
Più volte le era capitato di svegliarsi in piena notte e ritrovarsi come pietrificata sotto le coperte, allora si tirava il piumone fin sopra le orecchie, tratteneva il respiro e rimaneva immobile, fin quando il silenzio diveniva assordante e il buio troppo scuro da sostenere.
A quel punto tendeva la sua manina verso il comodino cercando affannosamente l’interruttore dell’abat-jour.
Solo quando finalmente la luce rischiarava l’ambiente il suo piccolo cuore tornava a battere ad un ritmo regolare ma il silenzio della notte era ancora incombente e l’oscurità avvolgeva il resto della sua abitazione, allora cercava di raccogliere tutta l’energia derivata da quella piccola lampadina per alzarsi e sgattaiolare nella camera dei suoi genitori.
Ricorda ancora che chiudeva gli occhi durante tutto il percorso perché più si allontanava dalla sua stanza, più il buio ritornava a dominare la scena, avanzava in velocità fin quando le sue mani tese in avanti non riconoscevano la maniglia della porta.
Conosceva ormai il percorso a memoria e salire sul letto dei suoi servendosi del solo tatto era facile, poi finalmente quando si trovava tra i due corpi assopiti si permetteva di spalancare gli occhioni azzurri.
Li teneva aperti senza paura fin quando, abituatisi al buio, riuscivano a riconoscere nella penombra i profili di ogni oggetto.
Solo allora richiudeva le palpebre in completa serenità e si stringeva tra le braccia dei suoi genitori.
Quasi sempre però al risveglio Abby la rimproverava, non le era mai sembrata arrabbiata ma delusa e un po’ stanca forse.
“Sei grande Clarke, lo dici sempre anche tu! Dovresti cominciare ad esserlo anche di notte, non trovi?”
Abigail Griffin poteva apparire estremamente rigida ma in fondo quel piccolo scricciolo biondo sapeva che parlava per il suo bene e del resto quello era il suo modo di stimolarla, per questo annuiva ogni volta che sua madre le faceva lo stesso rimprovero, cercando di promettersi che un giorno, prima o poi sarebbe riuscita a combattere quella stupida paura.
 
Alla fine fu la risolutezza di Jake Griffin a districare la situazione, una sera di Settembre come di consuetudine accompagnò la piccola Clarke in camera sua e le insegnò a sognare.
“Ricordi cosa hai promesso stamattina a tua mamma?”
La bimba aveva annuito con una notevole incertezza e Jake decise di esortarla
“Quindi?”
“Non sgattaiolerò più da voi…”
Suo padre le aveva passato una mano tra i capelli scompigliandoglieli con tenerezza.
“Ti va di spiegarmi cos’è che non ti fa riaddormentare?”
A quella domanda Clarke aveva incastonato il suo sguardo a quello del padre trovando in fretta la forza necessaria per aprirsi.
“E’ il buio. Aprire gli occhi e non vedere nulla non mi fa stare tranquilla e se li richiudo so che intorno a me è tutto scuro e… E poi c’è il silenzio che è così forte quindi appena sento un rumore sembra molto più grande e allora ho paura… Ho paura che possa succedere qualcosa di brutto.”
Jake aveva sorriso di fronte all’impaccio della figlioletta.
“Non succederà mai nulla di brutto Clarke, lo sai che io e la mamma siamo qui e se anche dovesse succedere qualcosa arriveremo in un secondo da te ma devi imparare ad affrontare le tue paure, ormai ti stai facendo grandicella.”
“Lo so. Ma non so se sono capace! Io ci provo, sai? Ma più rimango sveglia e più non riesco che a pensare al buio intorno a me e allora non riesco più a riaddormentarmi.”
“Va bene, allora ti insegno un trucco ma non devi dirlo a nessuno, me lo prometti?”
La bimba aveva annuito e spalancando le pupille si era avvicinata al padre, pronta ad ascoltarlo.
“Quando vuoi dormire devi fare una cosa semplice, vedi questo?”
Aveva afferrato un peluche, un cagnolino di stoffa che le avevano regalato i nonni quando ancora era troppo piccola per averne dei ricordi lucidi.
“Lo stringi forte a te e chiudi gli occhi, poi devi fare una cosa importantissima, all’iniziò sembrerà difficile ma pian piano sarà sempre più semplice e naturale. Devi immaginare, Clarke. Pensa a una storia, a qualcosa che ti piace, puoi essere tu la protagonista o inventarti i personaggi che la popolano, pensa che di notte puoi diventare tutto quello che vuoi, piccola: una principessa o una guerriera e puoi anche esplorare il mondo, conoscere nuovi amici, devi solo lasciarti andare alla fantasia, poi i pensieri faranno il resto, l’importante è immaginare solo cose belle.”
“E se arrivano le cose brutte? Se mi ricordo del buio?”
“Non succederà te lo prometto, il trucco è pensare a quello che vuoi sognare Clarke, ogni sera prima di dormire puoi immaginare i tuoi sogni e farli diventare reali, così niente potrà fermarti, nemmeno il buio.”
“E tu lo fai?”
“Sempre.”
La piccola aveva sorriso schioccando un bacio sulla guancia di Jake, poi si era rintanata sotto le coperte.
“Ora ci provo e appena ci riesco te lo dico, va bene?”
Jake Griffin aveva ridacchiato annuendo.
“Allora resto qui, così poi mi racconti…”
Dopo dieci minuti Clarke dormiva beatamente, ovviamente e come previsto non era riuscita nell’impresa di fuoriuscire dal mondo dei suoi sogni per avvertire il padre, così Jake aveva spento la luce, lasciandole una leggera carezza sulla guancia prima di andare via.
Da quel giorno la più giovane della famiglia Griffin non aveva mai smesso di immaginare i suoi sogni prima di addormentarsi, nemmeno nelle notti più buie in cui la luna nuova stentava a farsi vedere.
 
 
In quel momento però la sua abilità: il trucco di Jake diventa una condanna, il suo pensiero infatti è prigioniero di ciò che ha vissuto nelle ultime ore e non c’è alcun modo di liberarlo.
Non che ci siano poi chissà quali grandi elementi positivi a cui aggrapparsi nella sua vita, crescendo ha abbandonato i sogni fatti di favole e avventure concentrandosi sui volti delle persone amate ma molti di questi ora non sono più presenti e la loro assenza torna improvvisamente a farsi pesante.
“Clarke…”
La voce di Bellamy è vicinissima e poco dopo percepisce la sua mano calda sulla guancia, quel contatto inaspettato la costringe ad aprire gli occhi, li riscopre doloranti, si accorge adesso di trattenere a stento le lacrime.
Il viso del maggiore dei Blake è la prima cosa che vede e il suo sorriso, seppur debole, è in grado di farla sentire al sicuro, a casa, di farle dimenticare per un istante il mondo fuori.
Dura un attimo però, le luci al neon la riportano in fretta alla realtà e Bellamy si accorge di tutto perché comincia a parlarle.
“Stavi sussultando, sei sicura che vada tutto bene?”
Una linea obliqua si fa largo sulla sua bocca, se Clarke Griffin fosse in grado di mantenere la sua integrità al cospetto di quel ragazzo non esiterebbe a sbraitargli contro.
Che razza di domanda è quella?
Eppure c’è qualcosa nella sua voce: è una nota di dolcezza che in pochissimi le hanno mai riservato e poi ricorda che quello non è un momento come tutti gli altri, non c’è nulla di normale.
Dunque riesce solo a scuotere la testa, tiene gli occhi sbarrati, s’infrangono per poi perdersi nei meandri bui di quelli di Bellamy e realizza che sono fatti esattamente della stessa oscurità che tanto temeva da bambina.
In un attimo sente i suoi bruciare, prudere, è nuovamente in un maledetto vicolo cieco: le lacrime calde le riempiono in fretta le iridi per poi percorrere il profilo del suo volto stanco.
E’ un pianto muto e impossibile da controllare.
Sente la mano di Bellamy far presa sulla sua nuca, l’attira a sé avvolgendola con l’altro braccio e in pochi istanti Clarke Griffin affonda il suo viso nel petto del ragazzo.
Decide di perdersi in quel gesto spontaneo, per una volta nella sua vita non vuole porsi alcuna domanda, non pensa alle conseguenze di quella vicinanza, realizza solo che è tutto ciò di cui ha bisogno.
Così si lascia inebriare dal profumo fresco di lavanderia della sua camicia ormai sgualcita dall’imprevista frenesia di quella notte e si adagia nel calore del suo corpo.
E’ facendosi cullare dal battito cardiaco irregolare che si abbandona a lui; assomiglia fin troppo al suo e pulsa insistentemente nella sua mente tanto da far vibrare ogni fibra del suo corpo.
Le braccia di Bellamy Blake diventano un porto sicuro, il solo che sia in grado di immaginare in quel momento, sono le uniche in grado di sopportare con forza il suo crollo e le percepisce stringersi ancora attorno al suo corpo ingoffito dagli strati di stoffa, tenerlo saldamente intatto e ancorato a sé.
Il pianto silenzioso di poco prima si tramuta senza chiedere il permesso in sordi singhiozzi, è il segnale che la bufera sta passando, Clarke riesce finalmente a chiudere le sue palpebre stanche e pesanti e a spingere ulteriormente il suo viso contro il corpo dell’uomo che la sta salvando.
Solo rinnovando l’aderenza tra loro riesce ancora a sperare, a scacciare via dalla sua mente quelle immagini crude, solo rifugiandosi in lui ricomincia ad essere padrona dei propri sogni e così, senza che il tempo le permetta di realizzarlo, i rumori si fanno ovattati e la sua mente piomba in un riposo leggero ed incredibilmente sereno.


Angolo Autrice: 
Ancora una volta sono qui a non sapere bene come farmi perdonare, spero che il capitolo possa bastare ma non so spiegarvi quanto sia difficile per me chiedervi scusa ancora una volta!
So di avervi chiesto pazienza e spero che questo non vi faccia disamorare della storia, purtroppo l'ultimo anno di università si sta rivelando più pesante e denso del previsto e così la vita quotidiana pregna anche di tantissimi imprevisti mi lascia davvero poco spazio per dedicarmi alla scrittura.
Questo ovviamente non fa altro che dilatare i tempi e vi chiedo ancora una volta di capirmi e perdonarmi come solo voi sapete fare!
Per il resto spero solo di non avervi deluso e mi auguro di risentirvi presto tramite le vostre preziosissime e dolci recensioni che tanto mi sono mancate :)
Per il futuro stavo pensando che magari per pubblicare più spesso potrei diminuire l'ampiezza dei capitoli anche se questo comporterebbe aumentare considerevolmente il loro numero complessivo, non saprei, sono davvero combattuta quindi ogni consiglio è ben accetto 

Sappiate che scrivendo ho pensato tantissimo ad ognuno di voi, spero riusciate a percepirlo, come sempre vi abbraccio fortissimo.
Vostra C.

 

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Capitolo 15
*** XIV ***


XIV

 
Il respiro di Clarke arriva alle sue orecchie in modo sempre più leggero e regolare eppure percepisce ancora le braccia ancorate con una certa pressione al suo busto, da quel piccolo dettaglio comprende che la giovane Griffin deve essere in un precario mondo dei sogni, il suo corpo non si è lasciato andare totalmente al sonno e lei sembra essere pronta a scattare sull’attenti da un momento all’altro.
Dal suo canto Bellamy Blake riconosce sulle palpebre sempre più pesanti tutta la stanchezza che quella maledetta notte gli sta riservando, ci sono degli istanti in cui, impotente, lascia che esse si chiudano facendo spazio al buio primitivo e a quell’innato senso di pace che ha percepito fin dal momento in cui l’ha stretta tra le sue braccia.
Eppure decide di non estraniarsi da quel luogo infimo, di combattere fino all’ultimo quel senso di spossatezza.
Le sue orecchie infatti rimangono in tensione ed i suoi polpastrelli ben stretti al profilo di quella ragazza incredibile, non ha la minima intenzione di recidere quel contatto, la paura di perderla improvvisamente potrebbe lacerarlo, sente con tutto sé stesso il profondo bisogno di saperla al sicuro.
Almeno lei deve esserlo.
Del resto non è stato in grado di tenere lontano dalla sofferenza suo padre e poi sua sorella, non può fare ancora una volta lo stesso errore.
Deve trovare il modo e la forza di farlo quanto meno con lei.
E’ quel senso di responsabilità ma anche la voglia di vedere Clarke nuovamente sorridere che lo tengono saldamente attaccato alla realtà e Bellamy cerca di aggrapparvisi con ogni brandello di volontà.
Così, quando un rumore attira la sua attenzione, il maggiore dei Blake ha smesso da un pezzo di concentrarsi sullo scorrere del tempo, i secondi e poi i minuti si sono susseguiti senza che lui potesse controllarli esattamente come i suoi pensieri.
Quindi distrattamente volge il suo sguardo verso la porta d’ingresso, quasi come avesse dimenticato di attendere visite e nel momento in cui finalmente scorge i visi dei suoi amici e di sua sorella, le sue labbra si allargano in un’espressione distesa e a tratti sorpresa.
Li osserva muoversi goffamente nella sala pallida, non sono abituati ad avere a che fare con luoghi simili così nota la spensieratezza volare via dai loro visi in un attimo per poi lasciare spazio ad un principio di sollievo quando i loro occhi identificano i corpi ammassati che appartengono a lui e Clarke.
Sono rapidi a raggiungerli, i primi a capitolare al suo cospetto sono Raven e Murphy, poco dietro vede Octavia e velocemente intuisce il motivo del suo restare in disparte.
“Sta riposando.”
Si affretta ad annunciare regolando il volume della sua voce che fuoriesce roca e stanca, non bada ai convenevoli.
Sa che alle orecchie dei suoi amici quello appare come un semplice dato di fatto, una giustificazione per il suo mancato saluto.
Ma vuole essere prima di tutto una sorta di rassicurazione per sua sorella, non è ancora il momento di affrontare antichi rimorsi.
Anche se non può ancora osservarla la percepisce tirare un sospiro di sollievo.
E’ piuttosto convinto di conoscere perfettamente ciò che le passa per la testa; probabilmente si sta maledicendo, non aveva previsto d’incontrarla così, di essere costretta ad avere a che fare nuovamente con lei in un momento talmente delicato.
Ormai O’ è abbastanza matura da sapere che non può fare altro che mettere da parte il suo orgoglio e soprattutto il suo risentimento ma, privata di quegli atteggiamenti che nel corso degli anni sono diventati il suo scudo protettivo, ora deve essere completamente presa dal panico.
Per questo nel momento in cui vede emergere il suo viso tra le spalle di Raven e John cerca di regalarle un sorriso d’incoraggiamento, non è certo che lo abbia recepito però, ha subito notato che il suo interesse non è affatto per lui quanto per Clarke ancora dormiente e ignara di quanto stia accadendo attorno a lei.
Ad attirare nuovamente il suo sguardo è John che si gratta il capo e viene prontamente seguito da Raven che verosimilmente ha l’incredibile capacità di tradurre quel gesto in una frase di senso compiuto.
“Bell non sei costretto a raccontarci nulla se non vuoi… Ma se hai bisogno di condividere qualsiasi cosa… Bhè siamo qui per questo.”
Il ragazzo accanto a lei annuisce guardandolo dritto negli occhi mentre Octavia si avvicina silenziosamente e piuttosto lentamente fino a prendere posto accanto a lui.
Il maggiore dei Blake non può rimanere in silenzio, lo ha fatto per troppo tempo, sa che se scegliesse di non dire nulla impazzirebbe del tutto eppure non ha la minima idea di come iniziare.
“E’ accaduto tutto così velocemente…”
Sputa fuori quel pensiero senza rendersene realmente conto, parlando più a sé stesso che agli altri.
“Lei sta bene?”
Octavia deve aver captato perfettamente il significato di quella sua frase, una richiesta d’aiuto, il bisogno di percepirli accanto non solo fisicamente per non essere costretto a rivivere quell’inferno da solo.
Si limita ad annuire inizialmente.
“E’ in coma indotto e la prognosi è riservata ma ci hanno detto che entro stamane sarà svegliata, credo stiano conducendo degli accertamenti… E’ caduta dal terzo piano di un appartamento, Marcus ha detto che è un miracolo che sia ancora qui.”
Non riesce ad essere più specifico di così, non se la sente di condividere il resto della storia, non vuole appesantire anche loro con quei dettagli che restano gravi ed indelebili nella mente.
Abbassa il suo sguardo dopo aver pronunciato l’ultima sillaba, lo rivolge al viso di Clarke affossato sul suo petto, è convinto che anche lei sarebbe d’accordo con la sua decisione.
John si accovaccia sulle ginocchia per raggiungere il suo volto con quegli occhi glaciali, gli posa una mano sul ginocchio esercitando una leggera pressione ed è un gesto di conforto veloce, quasi incerto ma per Bellamy acquista un valore indecifrabile.
“Ve la caverete.”
Sussurra facendo oscillare il suo sguardo da lui a Clarke.
“Certo che lo farete e anche Charlotte starà bene, dobbiamo crederci, nulla è ancora perduto ok? E lo so che adesso sembra tutto così insormontabile ma siamo insieme, proprio come ai vecchi tempi…”
Raven s’interrompe sorridendo flebilmente ad O’ per poi riprendere
“Sono sicura che questa notte diventerà presto solo un brutto ricordo sbiadito dai più belli che verranno.”
E Bellamy vorrebbe davvero crederci ma sente di non avere assolutamente la forza per farlo, tuttavia  piega il viso di lato e rivolge loro un ghigno di gratitudine, sforzandosi di farlo risultare il meno provato possibile.
“Pensavamo di prendere qualcosa prima di arrivare qui ma O’ ha insistito a rimandare. Qualcosa di caldo però ci farebbe bene, non trovate? C’è una caffetteria qui nei paraggi, io e Rav’ potremmo prendere qualcosa che ne dite?”
“Buona idea…”
Bellamy risponde velocemente a John pensando che ormai il cappuccino offertogli da Kane ha smesso di fare il suo effetto e lo congeda con un cenno del capo.
Così il giovane uomo dalla capigliatura color faggio cinge premurosamente in vita Raven con il suo braccio e volta le spalle alle tre figure rimaste sulle sedie.
Bellamy non si sofferma più di tanto su quel gesto, non elabora alcuna considerazione eppure non può proprio fare a meno di notarlo.
 
“Come stai?”
Gli occhi di Octavia si fanno grandi e carichi di apprensione in fretta.
Bell scuote solo appena la testa, vuole evitare che quel leggero movimento possa in qualche modo infastidire Clarke.
“Non lo so. Sono stanco e purtroppo penso di stare fin troppo bene.”
Sua sorella scrolla le spalle, è un gesto sbarazzino ed anche il suo naso che si arriccia appena e le sue labbra fine sembrano voler esprimere una certa leggerezza.
“Fino a qualche tempo fa non avrei mai immaginato di vedere nulla di simile…”
Octavia rivolge un leggero cenno a quello strano groviglio di braccia e teste che sono diventati lui e Clarke, sorride e Bellamy intravede una nota d’orgoglio in quella sua strana espressione.
Non credeva capace sua sorella di riuscire a mettere da parte così bene tutto il resto, quella matassa di sentimenti che per troppo tempo le hanno lacerato il petto e l’hanno rigonfiata di rancore, risentimento e di sguardi tesi e muti.
Il maggiore dei Blake si ritrova a soffocare una risata goffa e quasi timida.
Lo fa per tante ragioni diverse ma sicuramente perché si vede colpevole di provare nel profondo una gioia remota e confortante, capace di scaldarlo e farlo andare avanti.
 
-
 
Sente delle voci in lontananza, è come se provenissero da una stanza adiacente a quella in cui si trova eppure le capta ed inspiegabilmente un principio di calore si fa largo nel suo petto.
Il torpore non vuole proprio saperne di abbandonare il suo corpo, né tantomeno la sua mente, fa fatica a fare mente locale, non deve aver dormito un granché perché sente i muscoli incordati e qualche formicolio di troppo.
Prova a riconcentrarsi sulle voci, non è facile distinguerle eppure…
C’è qualcosa in quei sussurri, qualcosa che aiuta il suo cuore a pulsare il sangue alle vene, è come un richiamo, un ricordo felice, è famiglia.
“Quindi siete venuti qui insieme?”
A parlare è una ragazza, giovane, quel tono le ricorda qualcosa, qualcuno eppure nessun volto fa ancora capolino nella mente appena sveglia della Griffin.
“Si, te l’ho detto. La macchina è andata, domani… Domani se tutto va bene… andrò a controllare e a capire di che si tratta.”
Bellamy.
Fa presto a riconoscerlo perché c’è qualcosa di diverso nel modo in cui ascolta ciò che dice, non è più lontano come sembrava poco prima l’altra voce, è vicino, troppo vicino, così tanto da percepire ogni vibrazione, così da riconoscere quasi ogni sussulto del suo diaframma e da udire i respiri che si susseguono tra una pausa e l’altra, tra il silenzio e le parole.
E’ come se il corpo di Bellamy Blake fosse il suo, così vicino da…
Clarke si forza, apre gli occhi.
La luce bianca del neon la acceca, è tutto sfocato e dannatamente confuso ciò che vede o che meglio non riesce a mettere a fuoco, è esattamente ciò che c’è nella sua testa: un groviglio d’informazioni poco chiare, occultate dall’assenza di lucidità.
Solo con i secondi ogni cosa sembra riacquistare i propri contorni, i propri odori.
Le pareti bianche, i camici blu che svolazzano da un angolo all’altro della sala, l’odore acre e asettico dell’ammoniaca.
Il vestito sgualcito di Bellamy, troppo vicino al suo viso, il profumo fresco dell’ammorbidente.
E il profilo di quella ragazza che adesso ha un nome e un cognome ben distinti.
Tutto torna in superficie, ogni immagine si ricollega ai suoi pensieri e improvvisamente ogni traccia di confusione svanisce.
Il torpore tipico di chi si è appena svegliato l’abbandona strattonandola, sbattendole in faccia la cruda realtà che chissà per quale assurdo motivo era riuscita davvero ad accantonare.
“Charlotte…”
Sussurra con la bocca ancora impastata, senza riuscire nemmeno a terminare la frase e a capire se qualcuno sia riuscita ad ascoltarla.
Solo in quel momento percepisce la mano di Bellamy scivolare via dalla sua guancia, Clarke la rimpiazza velocemente con la sua, tocca quello stesso punto: è caldo, bollente, testimone del gesto attento che deve essere stato continuo fino a quell’istante.
Velocemente si sente liberare anche i fianchi, sempre cinti dal braccio del maggiore dei Blake. Non può ancora vederlo in viso ma la repentinità di quei gesti le fa pensare all’imbarazzo, lo stesso identico che sente infiammare le sue gote.
Così, come a ricambiare il favore, scosta il resto del corpo dal suo e rivolge il viso ai due fratelli, sperando ingenuamente che i capelli scompigliati nascondano in modo adeguato il disagio incastonato nella sua espressione.
“Hei… Va tutto bene?”
Il tono caldo di Blake ora è di nuovo il solito, ad una distanza di sicurezza accettabile.
Annuisce incapace di aprire bocca.
Non si tratta di Bellamy stavolta.
E’ Octavia il problema, ora che è proprio lì davanti a lei, come per tanto tempo ha sperato, non ha la benché minima idea di come approcciarsi a lei ma non può certo ignorarla.
Così, approfittando dell’ultimo brandello di confusione lasciatole dal sonno, le rivolge un cenno con la mano.
“Hei…”
Dice incerta.
“Clarke.”
Rispondelei accompagnando quella sottospecie di saluto muovendo appena il capo.
“Ci sono anche Raven e Murphy, sono usciti a prendere qualcosa di caldo già da un po’, dovrebbero essere di ritorno presto.”
I suoi occhi brillano alla notizia datale da Bellamy e il gelo avvertito poco prima a causa di quella strana formalità tra lei e la piccola di casa Blake si affievolisce appena.
Ma ben presto Clarke scuote la testa, scacciando via i pensieri più superficiali…
“Ci sono novità?”
Chiede ancora.
L’attesa è diventata insostenibile, non sa nemmeno da quant’è che sono lì ed odia aver lasciato solo Bellamy, essersi permessa di addormentarsi in una simile situazione.
“Non ancora ma… se entro un’oretta non ci dicono nulla, voglio provare a parlare direttamente con chi se ne occupa.”
“Sì… è una buona idea.”
Di nuovo il silenzio tra i tre si fa imperante, Clarke vorrebbe dire così tante cose ma la presenza di Octavia le rende tutto più difficile.
Vorrebbe scusarsi con Bellamy ad esempio, chiedere perdono per averlo lasciato solo, per essersi permessa di dormire in un momento così delicato, per non esserci davvero stata.
E poi vorrebbe abbracciare O’, urlarle contro con tutto il fiato che ha in corpo che adesso nulla conta, che ha capito finalmente, solo ora che ha scoperto come tutto può cambiare da un momento all’altro lo ha fatto, ora che sa che perdere una persona è facile quanto trovarla, se non di più.
Avrebbe il desiderio di alzarsi, abbandonare quella sala d’aspetto che ormai è diventata una gabbia, cercare qualcuno che possa darle un briciolo d’informazione, vedere il viso di Charlotte, assicurarsi che sia ancora qui, con loro, al sicuro.
Eppure non ne è capace, la sua mente non riesce a liberare le parole né a far muovere il suo corpo, Clarke Griffin rimane immobile sulla sedia, si guarda intorno, fugge gli sguardi dei fratelli Blake e si concentra su stupidi e superficiali particolari.
Nota il filo del telefono teso, il punto di blu dei camici dei pochi addetti ai lavori presenti in sala, le vetrate della porta d’ingresso appannate e poi il cielo fuori che non è più di quel nero pesto ma presenta un chiarore all’orizzonte, anche oggi il sole sorgerà e lo farà presto.
Clarke Griffin pensa che se dovesse dare un tratto alla speranza, rappresentarla sulla tela, disegnerebbe quel cielo.
Ed è proprio quando sta per distogliere lo sguardo dalle vetrate che le vede schiudersi, lasciare libero il passaggio a Raven e Murphy.
Li vede sorridersi per poi ricomporsi, farsi seri.
Nota il braccio forte del ragazzo cingere il fianco della sua amica e un leggero sorriso si incastona nelle sue labbra, speranza, è di nuovo quella parola a darle la forza, la riesce a vedere perfettamente in quel gesto di pura e semplice affezione.
Improvvisamente Clarke Griffin trova uno spiraglio di luce, qualcosa in cui credere, una seppur fievole voglia di sperare che alla fine tutto andrà bene.
“Ben svegliata!”
La voce di Raven arriva prima del suo corpo che si scapicolla ad accorrere dall’amica.
“Sapevo che il nostro arrivo ti avrebbe fatto perdere il sonno e infatti ho pensato anche a te.”
Le porge il caffè ristretto senza darle il tempo di ribattere.
Clarke sorride. Non è facile, fa una leggera fatica ma sente di volerlo fare, capisce che non c’è nulla di male nel farlo.
Finalmente lo sente, lo riconosce quell’amore che li ha portati fin qui, ad essere di nuovo tutti insieme. Non si è mai spento, definisce chi sono, è capace di cancellare qualsiasi cosa ed è la chiave di tutto.
Non si ferma quando il desiderio di volgere il suo sguardo a Bellamy si fa impellente.
E’ grazie a lui che sono quel che sono.
E’ lui che li ha accolti, li ha guidati quando erano ancora troppo acerbi per comprendere quanto fosse importante esserci l’uno per l’altro e la gratitudine per averci creduto per primo le gonfia il petto.
Quando tutto sarà finito, si ripromette di dirglielo, è quasi sicura che in pochi lo abbiano fatto e forse è arrivato il momento della riconoscenza.
 
“Clarke Griffin e Bellamy Blake?”
Un’infermiera si approssima al gruppo di ragazzi. Ha una cartellina in mano e la sua voce è squillante.
‘E’ un buon segno.’ Pensa la bionda. ‘Deve esserlo.’ Lo fa mentre scatta in piedi seguita a ruota dal maggiore dei Blake.
“Siamo noi.”
Si affretta a dire il ragazzo quasi in affanno.
“Bene. Seguitemi.”
Il viso della donna non lascia trapelare nulla. Gli occhi scuri sono vacui, privi d’espressione, il suo volto non è corrugato, né disteso. Clarke si chiede come sia possibile, si domanda se anche sua madre sia in grado di rimanere così impassibile di fronte a ciò che vede ogni giorno. Ma lo fa mentre l’infermiera ha già dato loro le spalle e decide quindi di ignorare quelle stupide domande che non porteranno a nulla mentre il suo corpo segue ciecamente quello della donna.
Si ferma un istante solo quando sente le dita di Bellamy sfiorare le sue, è poco dietro di lei, la cerca senza dire nulla e Clarke accoglie quella richiesta stringendo la sua mano.
‘Insieme.’
Riesce solo a pensare a quella che è suonata come una promessa, con la consapevolezza che lui stia facendo lo stesso.
 
-
 
 
Hanno percorso un paio di corridoi, lo hanno fatto senza quasi respirare, aggrappandosi l’uno all’altra e ora che sono a pochi metri dalla verità, dal verdetto finale, tutto intorno a loro sembra sbiadire, perdere significato o importanza.
“Marcus Kane mi ha lasciato i vostri nomi per avvertirvi qualora ci fossero stati sviluppi, tuttavia non avete alcuna parentela con la ragazza, giusto?”
Bellamy percepisce Clarke digrignare i denti, si sta trattenendo, come se tutto questo adesso avesse davvero importanza…
“Esatto, siamo solo i tutori legali durante il progetto di sostegno al quale partecipa. Ma…”
Non riesce a sillabare, ha paura della risposta.
“Si è svegliata?”
La voce di Clarke è impaziente, angosciata ma completa alla perfezione la sua frase, è coraggiosa, più di lui.
La dottoressa annuisce chiudendo appena le palpebre.
Bellamy sospira, sente il sollievo riscaldarlo, vorrebbe piangere, gioire, persino urlare eppure non riesce a fare nulla di tutto questo. Rimane fermo immobile, sente gli occhi arrossarsi ma non accade nulla, le lacrime di gioia faticano a farsi largo e l’incredulità domina il suo volto.
Sente la mano di Clarke stringersi ancora di più alla sua, la percepisce tremare, fremere e comprende di non essere l’unico a non saper gestire bene i miracoli, non ha bisogno di guardarla, lo sente.
“Vi ho chiesto se per caso foste dei parenti perché volevo sapere se Charlotte sia in grado di riconoscervi.”
“Credo di si…”
Lo dice senza pensarci due volte, facendo un passo avanti verso l’infermiera, agitandosi e gesticolando più del dovuto.
E’ piuttosto sicuro che tutto ciò che desidera di più al mondo adesso è vederla, accertarsi con i propri occhi che tutto ciò che sta accadendo non sia solo un’illusione.
Deve convincerla, non può permettersi di fallire.
“E’ ancora in uno stato leggermente confusionale e vorremmo metterla a suo agio, ci vorrà molto tempo per assimilare tutto ciò che le è accaduto e non vogliamo procurarle ulteriori traumi, è bene che le prime persone che veda siano in grado di infonderle sicurezza, capite?”
Annuisce con enfasi.
“Le assicuro che andrà tutto bene. Non ha nessuno, sua madre è ricoverata e non sappiamo ancora…”
La donna lo interrompe con un gesto veloce.
“Sappiamo già tutto, volevo solo assicurarmi che fosse la scelta migliore anche per voi.”
Ora l’infermiera sorride docilmente, mette da parte la sua professionalità di fronte a tanta determinazione, dinnanzi alla preoccupazione quasi paterna di Bellamy Blake.
E tutto sembrerebbe andare finalmente per il verso giusto se non fosse per quel che si appresta a dire la giovane Griffin
“Vai tu.”
Bellamy non è sicuro di aver capito bene
“Come scusa?”
“Entra tu. Io ti aspetterò qui fuori, è la cosa migliore da fare.”
Le sue pupille scure si dilatano mentre cercano di scrutare il volto di Clarke, ovviamente sta eludendo il suo sguardo, il suo capo è chino, volto verso le maioliche grandi e bianche del pavimento.
“Mi scusi, può lasciarci un attimo soli?”
Dice tra i denti quella frase senza nemmeno guardare la semisconosciuta a cui è rivolta.
La donna si allontana facendo aleggiare nell’aria una frase che in quel momento suona come una specie di monito
“Certo, sono in fondo al corridoio, avvertitemi quando siete pronti.”
Il maggiore dei Blake aspetta che l’infermiera si allontani prima di ottenere l’attenzione di Clarke
“Si può sapere che diavolo ti prende?”
Una parte di lui è arrabbiata, non ci mette molto a capirlo, tuttavia cerca di moderarsi, le parole escono gravi ma mantiene un tono di voce fermo e basso.
“Te l’ho già detto, è meglio così.”
Continua ad eludere i suoi occhi.
Ma Bellamy non si accontenta, quella frase arrendevole non ha senso per lui.
“Guardami.”
E’ imperativo, severo.
“Non sono sicura di riuscirci.”
Sospira prima di risponderle, deve mantenere la calma, trovare la pazienza necessaria a tutti i costi, non può crollare proprio ora che le cose stanno ricominciando ad andare per il verso giusto.
“D’accordo. Allora spiegami perché non ci riesci, dimmi perché non vuoi entrare, dammi anche solo un buon motivo per cui credi che a Charlotte non faccia bene vederti e ti lascerò in pace. Ma per favore… Dammi delle risposte.”
“Se lo facessi, se ti guardassi adesso, cederei e non posso permettermelo. Non è giusto.”
“Nei confronti di chi? Diamine Clarke…”
“Di Charlotte! Non voglio entrare per il suo bene. Io… non sono adatta, non sono in grado, te l’ho già detto mi pare, no? Sei stato tu a capire davvero che qualcosa non andava, tu le sei stato vicino a modo tuo, non io… Io non ho fatto un bel niente, per lei la mia presenza non significa nulla, rischierei solo di metterla in imbarazzo.”
Le ultime parole risuonano spezzate nel corridoio vuoto.
E quello è esattamente ciò che fa crollare Bellamy Blake.
Non c’è più alcuna traccia della rabbia provata attimi prima, la fragilità di Clarke ha cancellato ogni stupido e cieco risentimento.
Pensava che avesse capito ma evidentemente ha ancora bisogno di una spinta o di un sostegno.
“Si, me l’hai già detto è vero ma mi pare di averti risposto. Io senza di te non vado da nessuna parte. Tu in questa dannatissima storia non hai alcuna colpa, vedi di mettertelo bene in testa.”
“Ma…”
Bellamy è veloce, più veloce delle sue parole, si china leggermente e posa un dito sulle labbra di Clarke, sente l’umidità del suo fiato appena spezzato sulla pelle e questo gli basta per tirare un sospiro.
Poi con la stessa mano scosta delicatamente una ciocca dei suoi capelli biondi, la ripone con delicatezza dietro l’orecchio destro, quel tanto che basta per raggiungere i suoi occhi che scopre lucidi.
Sono vicini, come lo sono stati poche volte, ma per la prima volta non ha paura di limitare le distanze.
“Non ho dimenticato un bel niente Clarke. Insieme, ricordi?”
La vede sollevare il mento, adagiarsi contro il muro e annuire.
“Era una promessa, vero?”
 Non si aspettava una domanda simile, non si aspettava nulla più a dirla tutta.
Così sorride, non può farne a meno stavolta.
“Certo. Vogliamo andare?”
Lo dice mentre lascia scivolare il suo braccio sulle spalle della ragazza, quasi avesse paura di perderla, sente il cuore più leggero ma resta comunque quell’inevitabile paura per ciò che accadrà dopo.
Eppure saperla vicino lo fa sentire forte.
 
-
 
 
Ha osservato per tutto il tempo Bellamy, non lo ha perso di vista un attimo mentre ascoltava attentamente tutto quello che l’infermiera aveva da dirgli. Ha preso tempo, ha delegato a lui il lavoro sporco, quello ufficiale, burocratico, fatto di chiacchiere, dati e numeri telefonici. Ma non si è allontanata, è rimasta al suo fianco proprio come promesso, lasciando che i suoi occhi percorressero il suo profilo mille e più volte, che si adagiassero insistentemente sul suo volto teso eppure incredibilmente lucido.
E’ certa ormai di conoscere a memoria ogni tratto che lo compone, ogni ruga o increspatura della pelle. Se glielo chiedessero saprebbe disegnare ad occhi chiusi ogni punto esatto in cui le sue lentiggini si posano sulla pelle olivastra o prevedere in che direzione i riccioli neri, spostati dal vento, ricadrebbero, coprendo disordinatamente la sua fronte, spesso corrugata.
Tuttavia non si stanca mai; osservarlo, saperlo così vicino da poter vedere nitidamente ogni dettaglio, da poterlo toccare, la fa sentire serena.
E mai come ora Clarke Griffin sente il bisogno di trovare un porto sicuro.
Ha paura.
Le cose dette a Bellamy pochi istanti prima non erano un gioco, le ha pensate davvero.
Non è sicura di riuscire ad affrontare Charlotte e tutto ciò che ne consegue, ha il gigantesco timore di peggiorare in qualche modo la situazione, di dire o fare la cosa sbagliata.
Ma non può lasciare tutto sulle spalle di Bellamy, lo ha promesso del resto e in fondo al suo cuore sente il bisogno di accertarsi con i propri occhi che quella ragazza stia davvero bene, ha un’incredibile voglia di vederla, di saperla salva.
Mille contraddizioni si fanno spazio nel suo animo e l’unico modo per tenerle a bada, per non perdere il controllo è focalizzarsi su di lui, ancora una volta.
 
“Bene…”
Percepisce uno sguardo estraneo sulla sua pelle, lo sostiene stavolta, è lei, l’infermiera.
“Direi che è tutto pronto, potete entrare, tra una mezz’ora busserò alla porta, è prestissimo, prendetelo come un saluto, se avrete voglia nel pomeriggio potrete tornare, d’accordo?”
Annuisce repentinamente, tutta quell’attesa, quelle formalità, la straziano.
“Sarò qui fuori per qualsiasi cosa.”
“Grazie, davvero.”
Percepisce un goccio di impazienza anche nella voce di Bellamy che dopo aver pronunciato a fior di labbra quella frase sbrigativa la cerca con lo sguardo.
Non c’è bisogno di parlare, comprende tutto ciò che è racchiuso in quegli occhi neri come il carbone.
‘Insieme’ sembrano dire di nuovo, e quel mantra si ripete nella sua mente senza sosta, è capace di donarle il coraggio e l’energia necessari per affrontare tutto quello che sta per succedere.
Serrano le labbra quando i loro occhi, contemporaneamente, si lasciano per posarsi sulla porta appena socchiusa. La mano del maggiore dei Blake trema quando si posa sulla superficie bianca e fredda ma non si tira indietro ed in men che non si dica varcano il confine, chiudono il mondo fuori, alle loro spalle e rimangono inermi in quella stanza, lontani da tutto e tutti, soli con Charlotte di cui percepiscono subito il flebile respiro.
Tutto scompare, le paure, le insicurezze, ogni cosa perde importanza non appena la vede, e senza nemmeno pensarci si avvicina.
Vederla sdraiata lì a due passi, osservare il profilo del suo corpo coperto dal lenzuolo candido le ha fatto dimenticare ogni timore, ogni paranoia.
Il suo istinto la guida fino al suo fianco e stavolta è Bellamy a rimanere indietro di qualche passo.
Finalmente il viso di Charlotte si rivela ai suoi occhi.
E’ pulito nei limiti di ciò che le è accaduto, i medici devono aver fatto un ottimo lavoro, ci sono graffi ovunque, e qualche punto in cui la pelle, ora infiammata, è destinata a diventare livida ma dietro quelle ferite riconosce i suoi lineamenti ed è indescrivibile ciò che prova nel rivederli, lì, intatti, vivi e pulsanti.
La osserva muoversi quasi impercettibilmente, deve averli sentiti arrivare, ci mette poco ad aprire gli occhi ma Clarke non le sta addosso, le lascia lo spazio per ricominciare a riconoscere.
Così le sue pupille si spostano velocemente da una parte all’altra della stanza per qualche istante, rimbalzano sul suo corpo e su quello di Bellamy quasi incredule, poi si gonfiano, si appannano, lasciano spazio a un paio di lacrimoni che scendono giù silenziosi.
Clarke percepisce Bellamy colmare la distanza tra loro, lo sente stringersi a lei, cercare conforto dinnanzi a quel dolore muto e straziante.
“Hei, piccola…”
E’ lui a parlare per primo, a spezzare timidamente il silenzio, nonostante la sua voce sia incerta e flebile.
Charlotte reagisce velocemente a quell’appello, cerca di slanciarsi verso di loro ma le fasciature glielo impediscono e ciò che esce dalla sua bocca sono solo mesti gemiti di dolore.
E’ Clarke ad avvicinarsi, posa una mano sulla spalla della bimba, delicatamente quasi come fosse una carezza più che un avvertimento
“Devi solo cercare di riposare adesso, va bene?”
“Gr-grazie.”
E’ matura, più di quanto ci si possa aspettare da una ragazzina di quell’età e quella singola parola, pronunciata con affanno, acquista un significato molto più ampio di quanto si possa anche solo osare immaginare. Rimbomba nella testa della bionda, la scuote, la fa sentire viva.
Quando Clarke sta per ritrarre la mano dalla piccola spalla, sente quella di Bellamy raggiungerla, posarsi esercitando una pressione leggerissima tra il camice di Charlotte e la sua pelle.
Forse ha ragione, non è ancora tempo di recidere quel contatto.
E’ uno di quei casi in cui parlare non serve a molto, contano i gesti, gli sguardi, la vicinanza e lo nota osservando ancora una volta la piccola Charlotte che adesso, nonostante gli occhi ancora lucidi, abbozza un sorriso prima di lasciare spazio ad un goffo sbadiglio che provoca inevitabilmente un riso nel maggiore dei Blake.
E’ buffo notare come anche i più piccoli sintomi di vitalità contino in determinate circostanze e questo spiega la sua reazione.
Si può essere felici per uno sbadiglio?
“E’ tardi piccoletta, credo che la cosa migliore che tu possa fare sia cercare di dormire, sai?”
Bellamy Blake è portentoso, è in grado di calibrare perfettamente serietà e dolcezza e Charlotte non può fare altro che annuire lentamente.
“Tornerete, non è vero?”
“Sempre.”
Clarke sillaba piano quella parola come fosse una nenia oltre che una sincera promessa e solo allora la piccola Charlotte si permette di serrare le palpebre e abbandonarsi al sonno.


Angolo Autrice
Non so davvero da dove iniziare, devo essere sincera. E forse l'unica cosa che posso dirvi è Grazie. 
Grazie a chi ha continuato a scrivermi, a chi ha recensito fino a qualche giorno fa, grazie a chi proprio adesso è arrivato fin qui.
Sono stati mesi intensi e stressanti, essere stata lontana da qui mi ha fatto male ma non ho potuto fare altrimenti, purtroppo crescere fa parte di questo gioco e il tempo scarseggia sempre di più.
Non posso promettervi nulla su tempistiche future ma una cosa posso dirvela, non ho alcuna intenzione di abbandonare questa storia, non importa quanto ci metterò per finirla, prima o poi tornerò sempre qui ad aggiornare e spero che sarete con me.
La gestazione di questo capitolo è stata lunga e a tratti stressante, non voglio di certo ammorbarvi con i miei 'problemi', eppure non c'è stato un giorno in cui non ho pensato al suo svolgimento, alla sua costruzione, anche se poi lasciavo il file a marcire nel mio PC, i miei pensieri erano spesso con Clarke, Bellamy e Charlotte e non sapete quanto io sia felice adesso di poter finalmente condividere con voi tutto questo.
Spero che nonostante il ritardo imperdonabile e quasi vergognoso, siate riusciti a ritrovarvi nelle mie parole.
Aspetto qualsiasi vostra reazione con ansia e vi abbraccio fortissimamente.
Chiara.

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