Crumbling away di antigone7 (/viewuser.php?uid=73715)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo + 1. You can call me Cinderella ***
Capitolo 2: *** Making new ''friends'' ***
Capitolo 3: *** Always be friendly during a party ***
Capitolo 4: *** Prom (mistakes) and Summer (funs) ***
Capitolo 5: *** How to silence a bully ***
Capitolo 6: *** Becoming Delia ***
Capitolo 7: *** War and Peace ***
Capitolo 8: *** What's important to me ***
Capitolo 9: *** The scarlet letter ***
Capitolo 10: *** I'll take you away ***
Capitolo 11: *** Don't ask questions you don't want to know the answer to ***
Capitolo 12: *** Love and friendship and other things ***
Capitolo 13: *** Watching the flashbacks intertwine ***
Capitolo 1 *** Prologo + 1. You can call me Cinderella ***
Prologo
Devo stare tranquilla, non
devo agitarmi, devo rimanere calma.
Forza, Dee, inspira,
espira, inspira, espira, su. Tranquilla tranquilla tranquilla
tranquilla tranquilla. Un altro respirone e… Ecco, mi sento
già meglio.
Quasi mi sono
dimenticata il motivo per cui…
MA COME DIAVOLO
È POTUTO SUCCEDERE????
No, no, cazzo,
così non va bene. Mi ero ripromessa di stare calma e
starò calma.
Col cavolo, sono
agitata, okay? Ogni volta che ci penso mi viene l’urticaria,
è assurdo, è inverosimile. E sono incazzata,
anche dopo aver parlato con David.
Perché
è un deficiente, sul serio. Non David, poveretto. Parlo di
lui, di… di Matt.
Ecco, ho detto il suo
nome e già mi tornano gli istinti omicidi.
Questo non doveva
accadere, accidenti, Matt non doveva farmelo. Era OVVIO che non doveva,
cioè… Io e Matt ci odiamo, ci odiamo da sempre.
Mi ricordo bene quand’eravamo a scuola, i battibecchi in
corridoio, gli insulti in classe, le occhiatacce in… beh,
dappertutto. Ci odiavamo, ci odiamo.
Com’è
successo, allora? E soprattutto, perché?
In realtà
lo so bene, mi ricordo com’è cominciato tutto.
Ma tutto cosa, poi?
1. You can call me
Cinderella
Avevo
appena sedici
anni quando i miei genitori decisero, mio malgrado, di trasferirsi
dalla fantastica Oakland, una delle città più
grandi e popolate della California, paradiso per chi, come me, ama
divertirsi, conoscere gente, andare a concerti, cercare ogni sera
locali diversi, a Winthrop, una cittadina di circa trentamila abitanti
in Massachusetts, cioè esattamente sulla costa opposta degli
States. All’epoca per me fu un trauma, ma non lo diedi troppo
a vedere e mi comportai da ragazza matura, per quanto la mia
età lo permettesse.
Sapevo bene
che i
motivi del nostro trasferimento erano seri: mio padre aveva problemi al
lavoro e mia madre aveva passato una brutta depressione, dalla quale
era uscita debolissima e parecchio instabile. Vivevamo tutti i giorni
sul filo del rasoio, temendo che mia madre avesse nuovamente un crollo
psicologico grave. Papà era pazzo di lei – lo
è ancora, a onor del vero – e non voleva vederla
stare nuovamente male: così, in poche settimane decise di
licenziarsi e trovare casa a Winthrop, la cittadina natale di mia
madre, dove viveva anche mia nonna materna.
Effettivamente,
col
senno di poi, quella fu la scelta più giusta. Dopo che ci
fummo trasferiti mamma migliorò e non ripiombò
più nel baratro, tornando quella donna meravigliosa che era
prima. Forse fu anche e soprattutto grazie alla vicinanza di nonna
Charlotte, ma la nostra famiglia tornò a sorridere, a poco a
poco.
Questo
però
successe col tempo, col passare delle settimane e dei mesi.
All’inizio la situazione era ben diversa.
Ero solo
una ragazzina
e non facevo certo i salti di gioia all’idea di lasciare la
mia città, la mia scuola, i miei amici e la mia vita per
buttarmi nell’ignoto. Ero forte, sì, e i miei
genitori lo sapevano bene. Ma nemmeno io ero indistruttibile, per
quanto gli altri volessero vedermi così. Vivevo dietro a una
maschera che mi ero costruita con anni e anni di pratica: fingevo che
mi andasse bene tutto, ma dentro di me piangevo a dirotto
perché dovevo lasciare Oakland e tutto ciò che di
buono avevo costruito là.
Il mio
primo giorno
nel nuovo liceo era un lunedì mattina d’inizio
febbraio. Il fatto che l’anno scolastico fosse già
iniziato da diversi mesi non aiutava, in effetti, ma, come si dice?
Aiutati che il ciel t’aiuta: ero ben predisposta
a conoscere
almeno qualcuno, in quel buco di città, che non girasse con
sette metri di puzza sotto il naso o che non si credesse il
più figo dell’universo solo perché
indossava le bellissime scarpe firmate che paparino gli aveva comprato.
Le scuole
statali
americane sono controllate quasi sempre da una rigida gerarchia, basata
su di una piramide sociale tanto statica quanto assolutamente idiota.
In cima ci
sono i
più belli, simpatici, amati e popolari della scuola, quelli
contro i quali nessuno può permettersi di andare: in genere
sono i giocatori di football o di basket o di pallanuoto –
dipende da qual è lo sport più seguito
– e le loro fidanzate modelle.
Alla base,
praticamente sottoterra, troviamo i cosiddetti sfigati: secchioni,
emarginati sociali, nemici giurati dell’ora di educazione
fisica e chi più ne ha più ne metta.
Al centro
c’è invece una vasta gamma di persone
“normali”, specie troppo spesso dimenticata da
telefilm, libri, teen drama, ma sempre ben fornita, anche se poco
stabile: uno di questi può sempre compiere un gesto eroico
che lo faccia diventare popolare o un’azione infima che lo
porti a rinverdire le fila degli sfigati. C’est la vie.
Infine, ci
sono gli
eccentrici. Generalmente questi non sono considerati né
modelli da seguire né sfigati da evitare, sono semplicemente
personaggi strani da guardare un po’ in disparte senza capire
se è necessario ammirarli oppure ridergli dietro.
Io, a
Oakland, facevo
parte di quest’ultima categoria. Avevo amici tra i
quarterback e le ragazze pompon, mangiavo in mensa con i secchioni del
corso d’informatica e conoscevo un sacco di persone normali.
Ero strana perché cambiavo spesso colore e taglio di capelli
e mi vestivo senza seguire particolari mode, ma nessuno aveva il
coraggio di annoverarmi in una categoria piuttosto che
nell’altra, perché in fondo stavo simpatica un
po’ a tutti. Ero piuttosto popolare ma non per la mia
bellezza sfolgorante o il sorriso smagliante, quanto per il mio
carattere solare e il mio essere sempre in movimento.
Dopo il
trasferimento,
quando misi piede per la prima volta nella Winthrop High School, decisi
che non mi sarei sbilanciata. Volevo, finalmente, essere considerata
anch’io una persona normale, con amici normali e
comportamenti normali. Così, cominciai a guardarmi intorno,
speranzosa, con un preciso scopo: conoscere gente normale. Lo capii
anni dopo che, probabilmente, la normalità non esiste,
è un puro concetto astratto. Ma questa è
un’altra storia.
La Winthrop
High
School, lo notai non appena ci misi piede quel
lunedì, non era diversa da tutte le altre scuole
superiori d’America. Ero conciata normalmente: jeans,
maglione, scarpe da ginnastica, il mio cappotto rosso (che, ok, forse
non era poi così sobrio, ma neanche troppo eccentrico!) e i
capelli – che al momento erano del mio colore naturale,
ovvero biondo cenere e non troppo lunghi – legati in una
semplicissima coda alta. Nonostante ciò percepivo gli
sguardi su di me, ed erano sguardi più insistenti del
necessario. Era così evidente che fossi nuova? A quanto
pareva sì. Ad ogni modo, quegli sguardi mi infastidivano, ma
non riuscivano a intimidirmi, ero abituata a cose peggiori. Tenni la
testa ben alta, guardai negli occhi tutti quelli che mi fissavano e
continuai la mia sfilata in corridoio senza intoppi.
Con il
preside avevo
già parlato due giorni prima, l’orario ce
l’avevo tra le mani, non mi mancava niente. Dopo un passaggio
veloce all’armadietto per appoggiare due o tre cose, mi
diressi svelta verso l’aula dove avrei dovuto avere la mia
prima lezione: Letteratura Inglese. Non male, non era la mia materia preferita,
ma me la cavavo anche in quella, nella mia vecchia scuola.
Avevo
già
visto dov’era l’aula, mi sarebbe bastato percorrere
quel corridoio, fare le scale, poi girare a destra e…
Maledizione!
Proprio
all’ultimo angolo successe una cosa che, secondo i miei
piani, non sarebbe dovuta accadere. Appena svoltai, andai a cozzare
contro qualcosa – che identificai solo dopo come un essere
appartenente al genere umano – e caddi a terra, con il mio
zaino, per fortuna, ben ancorato sulle spalle.
Tipico, pensai,
sconfortata e seccata. Ci mancava solo che alzassi la testa e mi
trovassi di fronte il ragazzo più bello, simpatico e
popolare della scuola, e a quel punto sarei andata dritta a iscrivermi
alla lista dei più banali cliché cinematografici
della storia dell’umanità. Dai, certe cose
succedevano solo nei film! Era impossibile…
Quando
alzai veramente
lo sguardo, però, per un attimo credetti di essere davvero
in un film hollywoodiano. E, per la precisione, di aver appena
incontrato il protagonista maschile di tale film.
Avevo
davanti due
occhi grigio-azzurri che mi scrutavano sospettosi; e io, dannazione,
avevo un debole per gli occhi grigi. Inoltre, il portatore di questi
occhi era un ragazzo alto, biondo e davvero, davvero molto bello. Mi
sembrava di avere di fronte il Principe Azzurro in persona: mancavano
il cavallo bianco e il mantello celeste e, forse, gli avrei detto di
chiamarmi Cenerentola.
Come
ho già
specificato, però, questa mia prima impressione
durò un attimo. Il tempo che lui aprisse bocca e avevo
già cambiato totalmente idea. Probabilmente avrei dovuto
capirlo già dal suo modo di guardarmi, sdegnato e
infastidito, o dalla posizione svogliata con tanto di mani nelle tasche
dei jeans, che era un completo stronzo. Ma, purtroppo devo ammetterlo,
all’inizio mi feci fregare anch’io dal suo bel
faccino, tanto che dopo dieci secondi di stupore catatonico –
solo dieci, sì, per fortuna tendo a non farmi mai trovare
più di troppo impreparata – gli sorrisi
incoraggiante, per fargli capire che non mi ero fatta male, e mi
rialzai da terra, vagamente imbarazzata.
Quando mi
trovai in
piedi di fronte a lui in tutta la mia statura – davvero molto
scarsa, per mia disgrazia – rialzai, coraggiosa, gli occhi su
di lui. Stavo per scusarmi e, magari, presentarmi con lui, ma fui
bloccata dal suono della sua voce.
“Ehi
novellina, pensi già che il corridoio sia tutto tuo,
eh?”
Ci misi due
secondi
netti a decidere che quel tizio, per quanto bello, mi stava altamente
sulle palle. Odiai da subito il suo modo arrogante e sfrontato di
rivolgersi a me, alzando un sopracciglio e sorridendo irriverente. E
poi… novellina??
Ma come diavolo si permetteva quel
bellimbusto di rivolgersi così a me?
Non mi
premurai
neanche di rispondergli. Semplicemente, mentre le campane nella mia
testa smettevano bruscamente di suonare, mi pulii la giacca da
invisibili granelli di polvere e lo superai, accingendomi a raggiungere
l’aula di letteratura prima che suonasse la campanella
dell’inizio delle lezioni.
“Comunque
le
tue scuse le avrei accettate volentieri, sai, bionda?” mi
apostrofò alle mie spalle mentre mi allontanavo tentando di
mantenere un briciolo di dignità.
Le mie scuse te le sei
giocate, bello, pensai
inviperita, senza voltarmi.
Ma
perché,
perché
tutti i bei ragazzi dovevano essere così
stronzi o così deficienti?
Entrai
nell’aula di Letteratura ancora incavolata con quel tipo
– e con me stessa, per la figuraccia. Appoggiai con forza lo
zaino su un banco qualunque fra quelli liberi, in seconda fila, e mi
sedetti, spostando la sedia con rabbia. Facendo quel movimento notai
che la persona seduta sul banco in parte al mio era trasalita,
probabilmente spaventata da tanta veemenza nei miei movimenti.
Ottimo. Era
appena
cominciato il primo giorno di scuola in quel pulciosissimo paese e
già avevo collezionata una figura di merda,
un’occhiataccia da
Mister-Sono-Biondo-E-Bellissimo-E-Tu-Non-Sei-Nessuno, e inoltre ero
riuscita a spaventare la mia prima vicina di banco.
Benissimo, Delia,
continua così e ti eleggeranno a breve capitano della
squadra di stronzaggine della scuola, mi dissi, cercando
di calmarmi
prima di voltarmi per fare conoscenza con la povera anima che avevo
impaurito.
Era una
ragazza e
appena mi girai distolse lo sguardo da me e cominciò a
fissarsi intensamente le mani sopra il banco. Dovevo rimediare in
qualche modo, sennò avrei passato il resto
dell’anno senza alcun vicino di banco, lo sapevo: le voci in
una scuola, specie se non molto grande come quella, girano piuttosto
velocemente.
“Ciao,”
le dissi sorridendo e cercando di sembrare amichevole, ma lei
sobbalzò ancora leggermente quando le rivolsi la parola.
“Scusa
se ti
ho spaventata, non volevo,” continuai, senza troppe speranze.
Lei
finalmente si
girò a guardarmi e abbozzò un sorriso.
“Figurati, non mi hai spaventata.”
Cavolo, era
carina.
Cioè, a me piacevano i ragazzi, chiariamo, ma non potevo non
ammettere che quella ragazza aveva davvero dei lineamenti fuori dal
comune: pelle olivastra, capelli nerissimi e liscissimi lunghi fin
sotto le spalle, occhi verdi e tratti del viso delicati. Accanto a lei
avrei certamente sfigurato, io e i miei capelli color topo!
“Mi
chiamo
Delia, comunque, Delia Gray,” mi presentai porgendole la mano
che lei strinse brevemente.
“Audrey
Byrne.”
Mi sorrise,
timida.
Timida, cosa che, ovviamente, io non ero, non sono e, temo, non
sarò mai: a volte tenere la boccaccia chiusa mi farebbe
bene. O forse no, comunque quella volta parlai, per fortuna.
“Sono
nuova
qui,” spiegai, senza rendermi conto che lei non mi aveva
chiesto proprio un bel niente. “Comunque la scuola non mi
sembra male e generalmente ci metto poco ad ambientarmi, almeno spero.
A parte che stamattina ho già fatto un brutto incontro; non
tu, è naturale…” Stavo parlando a
macchinetta, decisamente e me ne resi conto: va bene logorroica e mezza
pazza, ma non sono deficiente. “E scommetto che a te non te
ne frega proprio niente,” conclusi.
Audrey
sorrise, poi il
suo sorriso si allargò. Alla fine era evidente che si stava
trattenendo dal ridere, cioè, dal ridermi in faccia.
Sospirai,
abituata a
certe situazioni. “Va bene, puoi ridere se ti va, lo capirei.
Anch’io mi riderei in faccia, ora.”
Lei
ridacchiò, comunque con una certa educazione. “Sei
buffa,” commentò.
“Grazie.”
“Oh,
scusa,
non volevo offenderti,” si spiegò subito: si
vedeva lontano un miglio che era una persona talmente buona che,
probabilmente, era impossibilitata fisicamente a fare del male a
chicchessia. “Era in senso positivo: di solito quelli nuovi
stanno sempre sulle loro…”
“Tranquilla,
non mi offendo. Me lo dicono in molti, ormai lo prendo come un
complimento anche quando non lo è!”
Audrey
sorrise di
nuovo. Almeno qualcosa di positivo la mia parlantina l’aveva
ottenuto: ero riuscita a sciogliere l’imbarazzo, e non era
poco.
In quel
momento
entrò il professore di Letteratura, un certo Mister
Berries, e il chiacchiericcio nell’aula si interruppe.
Ovviamente mi fece alzare per presentarmi di fronte
all’intera classe e per dire qualcosa su di me: avrete
già capito che non sono – e non ero –
una ragazza particolarmente timida, quindi lo feci senza grossi
problemi. Sentii qualche borbottio nel momento in cui dissi –
non senza un certo orgoglio – di venire dalla California, ma
per il resto nessuno si interessò più di tanto a
me e non fecero domande strane.
Il seguito
della
lezione fu tranquillo, normale. Normale,
esattamente come mi ero
prefissata di essere. Alla fine dell’ora scambiai qualche
chiacchiera con Audrey che, come avevo già intuito, a
differenza mia era timidissima. Mi salutò con un
“ci vediamo domani” e un mezzo sorriso, e io sperai
con tutta me stessa di aver finalmente trovato quel briciolo di
normalità che stavo cercando.
Ma durante
l’ora di Biologia rividi lo stronzo. E conobbi il suo nome.
Non che ci tenessi a saperlo, visto come mi aveva trattata durante il
nostro primo incontro, comunque lo scoprii per caso.
Ero
già
dentro l’aula semideserta – per la precisione
eravamo solo io e un’altra ragazza, che poco dopo avrei
capito essere la secchiona del corso – quando lui
entrò, zaino mollemente appoggiato sulla spalla e mano
destra in tasca, come poco prima. Appena mi vide si fermò un
secondo, giusto il tempo di squadrarmi con aria annoiata e alzare un
sopracciglio, mormorò un “chi si rivede”
a cui non mi degnai neanche di rispondere e passò avanti,
andandosi a sedere in fondo alla classe.
Poco dopo
l’aula si riempì e cominciò la lezione,
alla fine della quale il biondo mi passò di nuovo accanto
per raggiungere la porta mentre io ancora rimettevo
l’astuccio nello zaino. Viste le sue precedenti uscite, mi
aspettavo un’altra frecciatina o uno sguardo di
superiorità dei suoi, invece mi ignorò
completamente, cosa che mi stupì: rimasi a guardarlo
imbambolata mentre prendeva la porta e si allontanava. Mi ricordo che
pensai anche che avesse un bel culo e mi auto maledissi per quello.
Comunque,
la mia
vicina, una certa Sheila con cui avevo scambiato due parole durante la
lezione, notò il mio sguardo e dovette fraintenderlo,
perché mi parlò con fare cospiratorio, anche se
non le avevo chiesto niente.
“Lui
è Matt Patterson,” disse, con voce sognante.
“Matthew Jonathan Patterson Junior, per
l’esattezza. È un gran figo, eh?”
“Non
mi
interessa,” borbottai, colta sul fatto, scuotendo la testa.
“Certo
che
ti interessa, invece! Ho visto come lo hai guardato. Ma non devi
preoccuparti, interessa a tutte qui a scuola,”
confessò Sheila senza credere alle mie parole.
“È bello, alto, ricco ed estremamente pieno di
fascino. Peccato per il suo caratteraccio, è un
po’ troppo burbero e chiuso in se stesso.”
“Io
direi
pure cafone,” sospirai, rancorosa, ma lei non mi
sentì.
“Comunque
ti
sconsiglio di stargli dietro,” continuò,
imperterrita.
Bella, avrei voluto
dirle, non hai capito. Io a quello lì gli sto dietro solo
per colpirlo col lanciafiamme quando non se ne accorge, fidati.
Ma
stetti in silenzio e ascoltai il resto delle sue parole, che non erano
finite.
Mamma mia, questa
parla più di me, non va per niente bene.
“Certo,
pare
che esca con un discreto numero di ragazze, ma quasi tutte
più grandi. E poi è scostante da far paura,
dicono. Lo so dalle voci, ovviamente, non l’ho mai provato di
persona, anche se ammetto che mi piacerebbe… Dio, a chi non
piacerebbe, hai visto i suoi occhi? E il suo culo?”
E
continuò
a parlare di quello e di decine di altre cose – di tutto
ciò che le passava per la testa –
finché non inventai una scusa per liberarmi e fuggii
esasperata.
“Com’è
andata a scuola, pulcina?”
Mio padre
mi accolse
con un fantastico thè caldo e l’aria attenta e
premurosa.
Non
riuscivo a odiarlo
per aver deciso il trasferimento, era più forte di me. Lo
aveva fatto per il bene di mia madre, per il bene della nostra famiglia
e, anche se non apprezzavo quella nuova cittadina sulla costa
orientale, tentavo di capire le sue ragioni. Oltretutto si vedeva
lontano un miglio che si sentiva in colpa per avermi imposto quel
cambiamento e non era mai stato così gentile e premuroso con
me prima di allora.
Perciò,
finsi la solita noncuranza.
“Bene,
bene… Papà, mi hai fatto il thè,
grazie!”
Lui mi
schioccò un bacio sulla guancia. “Allora,
com’è la nuova scuola? Cos’hai fatto
oggi?”
Mi fece
quasi
tenerezza. Sorrisi.
“Ho
seguito
le prime lezioni, niente di che. L’anno è
già cominciato da sei mesi quindi dovrò un
po’ capire come stanno messi coi programmi, ma penso di
potercela fare.”
“Brava
la
mia pulcina!” si congratulò mio padre, dandomi un
buffetto. “E hai conosciuto qualcuno di
interessante?”
Pensai alle
conoscenze
della giornata: Audrey, Sheila, un ragazzo gentile e brufoloso di cui
non ricordavo il nome. E poi quel Patterson: mi veniva
l’urticaria solo a pensarci, ma evitai di parlargliene.
“Sì,
una ragazza carina, si chiama Audrey.”
Chiacchierammo
allegramente per un po’ bevendo il thè, infine gli
domandai dove fosse la mamma e lui mi rispose che si trovava in camera
con la nonna. Gli dissi che andavo a salutarle e mi sorrise
incoraggiante.
Nonna
Charlotte era la
madre di mia madre. Non l’avevo mai vista molto spesso
perché, ovviamente, fino a una settimana prima lei viveva a
Winthrop mentre noi stavamo in California e dovevamo fare parecchie ore
d’aereo per andare a trovarla. Ma adesso eravamo
lì, e già dopo i primi giorni vissuti a stretto
contatto con lei mi ero accorta di quante cose avessimo in comune: era
una donna forte e battagliera e sospettavo di avere preso da lei la
maggior parte dei lati del mio carattere, dal momento che i miei
genitori, invece, erano molto diversi da me.
La adoravo,
comunque.
Ammiravo il suo modo di prendere la vita, così simile
al mio ma molto, molto più maturo e consapevole.
Con piglio deciso stava spronando mia madre a uscire dal baratro della
depressione in cui era caduta quasi sette anni prima, dopo un brutto
aborto. E ci stava riuscendo: era ancora all’inizio ma io
vedevo dei cambiamenti evidenti in mamma e speravo che stavolta ce la
facesse davvero.
“Fallo
almeno per tua figlia, Miriam, lei se lo merita.”
Quella era
la voce di
nonna e Miriam, ovviamente, era il nome di mia madre. Le potevo sentire
discutere dall’altra parte della porta ma non mi andava di
origliare e avevo un brutto presentimento: bussai e subito dopo entrai,
trovando mia madre stesa a letto e nonna Charlotte accanto a lei, che
la guardava con aria di rimprovero. Mi si strinse il cuore: mamma
passava le giornate a letto solo quando stava male –
psicologicamente molto male, intendo – e in quel primo
periodo a Winthrop non l’avevo ancora vista così.
La salutai
e mi
sedetti sul letto, accanto a lei, dandole un bacio sulla guancia. Mamma
accennò un sorriso, cosa che prima non faceva mai, e per un
attimo sperai che le cose andassero bene, da lì in avanti.
E promisi a
me stessa
che avrei fatto di tutto per farle andare bene. Ora, c’era
anche nonna Charlotte ad aiutarmi.
È
una follia pubblicare questa storia, già lo so. Ma
è da secoli che è lì e mi guarda
triste, e ultimamente, chissà perché, ha deciso
di
prendere possesso delle mie sinapsi e si è messa a scriversi
da sola. Giuro.
Procediamo
con ordine, con qualche informazione che forse
può esservi utile.
Crumbling away
è una storia nata praticamente secoli fa nella mia testa.
All'epoca stavo scrivendo e pubblicando qui su EFP un'altra cosa,
Of all the people in the
world. Dai personaggi di quella è
nata anche
questa storia, con Delia protagonista. Non ne è un sequel,
per il momento è più un prequel, però
più avanti raggiungerà e supererà le
vicende di Of all.
Essendo
Crumbling
narrata da tutt'altro personaggio (Of
all è raccontata in prima persona da Jude, che
qui comparirà nel prossimo capitolo) sarà una
cosina un po' diversa, anche se conto di mantenere il tono ironico e
più o meno leggero della sua genitrice.
Non è
assolutamente necessario aver letto l'altra storia per
comprendere questa. Potete farlo, se volete, ovviamente a me farebbe
piacere, ma sappiate che Of
all è ambientata, per ora, nel futuro rispetto
a questa. Va benissimo leggerle nell'ordine che volete, o leggerne solo
una delle due, o non leggerle affatto, as you want.
Crumbling, ripeto,
sarà una storia prevalentemente leggera, ma purtroppo non
sono capace di scrivere senza qualche dramma. Niente di troppo
stressante, solo la vita reale che ogni tanto si immischia nella storia
di questi ragazzi.
So che i primi capitoli possono sembrare noiosetti ma, mi spiace,
è più forte di me, mi servono sempre a
caratterizzare i personaggi. Poi ci sarà più
azione, promesso.
Delia
è una persona molto, molto diversa da me e da come ero io
alla sua età, spero di riuscire a renderla lo stesso. Matt
è molto di più di quello che si vede nei primi
capitoli, ma questo lo noterete più avanti. Per quanto
riguarda il resto, la trama, i personaggi, le ambientazioni, sappiate
che ho appositamente
giocato con i cliché tipici dei teen drama americani, quelli
della mia generazione almeno. Quindi troverete la storia letteralmente
infarcita di luoghi comuni e banalità: io vi ho avvisati,
non venite a lamentarvi poi!
Spero
che apprezziate. I primi cinque capitoli di Crumbling away sono
già scritti e, per ora, sto continuando a scrivere. Non
posso garantire niente, sono estremamente scostante e pigra, ma un
feedback minimamente positivo potrebbe aiutarmi.
Vi ringrazio infinitamente per l'attenzione, a presto!
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Capitolo 2 *** Making new ''friends'' ***
2. Making new "friends"
Col
tempo, effettivamente, le cose migliorarono. Ci vollero settimane,
mesi, ma mamma migliorò, papà tornò a
sorridere come faceva un tempo e nonna si dimostrò la
combattente che avevo immaginato fosse. Ci salvò,
probabilmente.
Ma se pensando a quel periodo dovessi scegliere un giorno che la vita
me la cambiò veramente, non avrei dubbi.
Era la mia terza settimana di scuola, il mercoledì per
l’esattezza. Arrivai a scuola con il mio solito umore
ottimista e aperto al mondo e, prima dell’inizio delle
lezioni, successe una cosa che mi scombussolò completamente
la giornata e un’altra cosa che mi cambiò
completamente la vita.
La prima, com’è ovvio, fu un’iniziativa
di quel Patterson. Ero tranquilla, impegnata sistemare i libri dentro
il mio armadietto, quando una voce alle mie spalle mi fece trasalire in
modo molto evidente.
“Ehi, novellina.”
Per la sorpresa, nel girarmi andai a sbattere col braccio contro
l’anta aperta del mio armadietto, prendendo una bella botta.
Trattenni a stento un’imprecazione, ma i guai erano appena
cominciati: appena mi voltai, infatti, mi trovai davanti al ghigno
ironico e divertito di nientepopodimeno che Matthew J. Patterson in
persona.
All’inizio rimasi talmente interdetta che mi mancarono le
parole, così continuai solo a massaggiarmi il braccio leso
con veemenza. Poi ritornai in me, raddrizzai il busto, alzai il mento e
parlai, scocciata.
“Che vuoi?” chiesi, incapace di immaginarmi una sua
qualsiasi risposta.
In quei quindici giorni di scuola appena trascorsi, infatti, lui non
aveva fatto altro che ignorarmi del tutto: non mi aveva mai degnato di
un solo sguardo, anche se frequentavamo più di un corso
assieme, essendo dello stesso anno. Non che la cosa mi stupisse
più di tanto. Insomma: l’unica volta in cui le
nostre strade si erano in qualche modo incrociate era quando gli ero
andata bellamente a sbattere contro e non mi aspettavo certo che da
lì cominciasse a salutarmi o robe simili. Un cafone rimane
sempre un cafone, pensavo, e all’epoca consideravo Matt un
vero deficiente borioso e maleducato. E non ci tenevo ad avere a che
fare con lui.
Comunque, a domanda risposta, si dice: la risposta di Patterson mi
lasciò a dir poco esterrefatta. Continuando a sorridere,
allungò il braccio verso di me e aprì la mano,
porgendomi qualcosa.
“Penso che questo sia tuo,” disse, ignorando il mio
sguardo d’odio puro.
Io smisi tutto d’un tratto di massaggiarmi il braccio, cosa
che avevo continuato a fare fino a quel momento, e guardai sbalordita
il palmo della sua mano, sul quale spiccava tranquillo il mio
braccialettino verde. Ce l’avevo solo da qualche mese ma ci
tenevo moltissimo, quel bracciale di stoffa me l’aveva
regalato mia nonna quando ancora vivevo a Oakland, e lei ne aveva uno
uguale: era il suo modo per starmi vicina anche quand’eravamo
lontane. Il giorno prima, a casa, mi ero accorta di averlo perso da
qualche parte e ci ero rimasta parecchio male.
Perciò restai a bocca aperta.
“Dove… Quando me l’hai preso?”
balbettai, sorpresa e sospettosa.
Lui schioccò la lingua, più divertito che
infastidito dalla mia non troppo celata accusa di furto.
“Ieri l’hai lasciato sul banco dopo la lezione di
Matematica,” spiegò, e io mi sentii
un’idiota: non avrebbe avuto motivo per prendermi
volontariamente il braccialetto, ero stata stupida anche solo a farmelo
passare per l’anticamera del cervello.
Restavo comunque diffidente nei suoi confronti, le vecchie abitudini
sono dure a morire. Così, presi ciò che mi stava
porgendo e bofonchiai un ringraziamento prima di tentare di girarmi di
nuovo verso l’armadietto per tornare alla mia occupazione. Ma
Matt mi bloccò prendendomi un braccio e facendomi trasalire
per la seconda volta.
“Sai, penso che abbiamo cominciato col piede sbagliato, io e
te.”
Tornai a guardarlo negli occhi – ma proprio di quel maledetto
grigio dovevano essere? – aspettandomi di
vedervi
un’espressione di scherno che, invece, non trovai.
“E…?” domandai quindi, presa alla
sprovvista: non capivo dove volesse arrivare.
Lui fece un passo verso di me, continuando a stringere il mio
avambraccio nella mano destra. “E penso che il nostro
rapporto potrebbe essere, diciamo… migliore di
così.”
Nel suo sguardo era passato un lampo di malizia o me l’ero
solo immaginato?
“Quale rapporto, scusa? Io non ti conosco,”
puntualizzai, sulla difensiva.
“Hai ragione,” fece lui, staccando la mano dal mio
braccio per porgermela. “Sono Matt.”
“Delia.”
Ci stringemmo la mano, lui sorridente, io ancora cauta.
“Gray, giusto?”
“Bravo, vedo che durante le lezioni ascolti pure, non sei
solo concentrato su te stesso come sembrerebbe.”
Questa mi era uscita piuttosto cattiva ma con lui era più
forte di me, quasi inconscio, comportarmi da stronza. Matt comunque non
si fece impressionare.
“Mi odi così tanto, Delia Gray?”
“Ho già detto che non ti conosco, Matthew
Patterson.”
Lui ridacchiò. “Anche tu sai come mi chiamo,
allora.”
“A quanto pare lo sanno tutti in questa scuola,
giusto?”
Matt si limitò ad alzare le spalle, così
continuai io.
“E tornando alla domanda di prima: non posso ancora dire di
odiarti, ma, se devo essere sincera, finora non mi hai fatto una gran
bella impressione, ecco. Quindi, o arrivi al punto e mi dici cosa vuoi
da me o puoi anche andartene, tanti saluti e grazie ancora per il
braccialetto.”
Lui alzò un sopracciglio, tornando serio. “Hai un
bel carattere di merda, te l’ha mai detto nessuno?”
Boccheggiai, offesa. Okay, mi stavo volutamente comportando male con
lui per fargli pagare la pena del nostro primo incontro – e
forse anche per fargli pagare il fatto di essere così bello
e insieme così merdoso – ma doveva avere una bella
faccia tosta per rivolgersi a me in quel modo: avevo avuto ragione su
di lui fin dall’inizio, evidentemente. Per fortuna mi ripresi
in tempo.
“Solo con le persone che non mi piacciono per
niente.”
“E posso chiedere cos’avrei fatto per meritarmi
quest’onorificenza?”
“No, perché lo sai già,”
risposi seccata, girandomi a prendere due libri
dall’armadietto per poi chiuderlo.
“E io che pensavo di aver riguadagnato dei punti portandoti
quello,” fece, indicando il braccialetto che nel frattempo
avevo rimesso al polso. “Che illuso.”
“Già,” confermai, voltandomi di nuovo
verso di lui. “Sai com’è, non siamo
più alle elementari e io non sono la maestra che mette una
stellina accanto al tuo nome ogni volta che fai una buona
azione.”
“Oh, sei piuttosto rancorosa. Così mi spezzi il
cuore, però!” esclamò sarcastico,
portandosi una mano al petto come se l’avessi colpito.
Mi venne voglia di colpirlo davvero. “Spiritoso.”
“Potrei esserlo anche di più.”
“Si può sapere cosa vuoi da me?”
sbottai, infastidita dai suoi continui sbalzi d’umore, dal
suo comportamento criptico e, soprattutto, dai doppi sensi che
continuavo a leggere nelle sue frasi e che mi mandavano in bestia.
“Cercavo solo di diventarti amico, ma se sei
così
maldisposta…” Calcò sulla parola amico
in un modo che mi fece venire i brividi di paura, e non solo.
“Non mi fido di te,” confessai, schietta e dritta
al punto come al mio solito. “Ma se la tua proposta di
amicizia,”
sottolineai anch’io quel termine,
“è sincera, si vedrà.”
Rise. “Signorsì, tenente Gray.”
Poi si allontanò da me e, prima di andarsene, mi
lanciò un’ultima frecciatina. “Posso
darti un consiglio?”
Non attese la mia risposta, che comunque sarebbe stata negativa.
“Sei troppo seria, sciogliti un po’, novellina.
Allora sì che potremo diventare amici.”
Era incredibile! Riusciva a farmi imbestialire con due parole, e dire
che gli avevo appena aperto uno spiraglio!
“Senti,” cominciai, “non mi sembra che
tu…”
Ma Patterson si stava già allontanando lungo il corridoio,
sventolando la mano.
“Ciao ciao,” mi salutò, incurante delle
mie proteste. Poi girò l’angolo e sparì
dalla mia vista prima che riuscissi a tirargli una scarpa.
Respirai a fondo, appoggiandomi al mio armadietto. Idiota buzzurro.
Ero ancora appoggiata all’armadietto, che tentavo di calmare
l’improvviso malumore che l’incontro con quel
deficiente mi aveva fatto venire, quando sentii una voce che mi colse,
nuovamente, di sorpresa.
“Ciao!”
Ero talmente presa dai miei pensieri e dai propositi omicidi che non
avevo visto né sentito la persona che mi si era avvicinata,
e sussultai: stava diventando un’abitudine, maledizione!
Davanti a me c’era Audrey col suo solito sorriso dolce e
timido.
“Audrey, ciao!”
“Ti ho spaventata?”
“No, figurati, ero nel mio mondo, ma mi faccio spaventare
raramente.”
In quei giorni avevo avuto modo di conoscere meglio Audrey Byrne. Che
fosse una bella ragazza me n’ero accorta da subito, ma
ovviamente non era quello a colpirmi più di tutto. Era il
mio esatto opposto fisicamente – io biondiccia con gli occhi
nocciola, lei mora e bellissima – ma anche dal punto di vista
caratteriale, e la cosa mi piaceva: tanto io ero espansiva e senza
pudore, quanto lei era timida e riservata; io una stronza dalla lingua
lunga, lei dolce e buona con tutti.
“Ah, meglio per te,” commentò.
Mentre lo diceva, notai due ragazzi che, passandoci accanto, le
fissavano il culo, commentandolo apertamente fra loro. Audrey
ovviamente non si accorse di nulla – era piuttosto ingenua
– ma io non potei fare a meno di lanciare
un’occhiata assassina ai due che, vedendomi, scapparono
fra le risa.
“Cretini,” borbottai tra me e me.
“Con chi ce l’hai?” mi chiese Audrey
girandosi per controllare se ci fosse qualcuno dietro di lei.
“Due cerebrolesi che ti guardavano il culo. Sono andati via,
adesso.”
“Guardavano il culo? A me? Nooo, è impossibile! Ti
sarai sbagliata.”
Scossi la testa, rinunciando: mi ero già accorta
dell’incredibile modestia di Audrey e avevo appurato che non
era né falsa né esagerata. Lei davvero non si
accorgeva di essere bella e davvero
reputava strano che qualcuno
s’interessasse a lei.
Meglio così: se fosse stata sicura di sé e del
suo aspetto fisico, probabilmente avrebbe potuto compiere una scalata
sociale non indifferente e diventare popolare in poco tempo, invece era
una ragazza semplice e per nulla interessata a fare la cheerleader o
robe simili.
“Perché parlavi con Patterson?” mi
chiese all’improvviso Audrey, stupendomi: avrei scoperto
presto che, nonostante la sua timidezza, era molto curiosa, quel lato
del suo carattere mi era ancora oscuro.
“Non lo so,” risposi, sincera.
“È venuto a cercarmi per darmi un braccialetto che
ho perso ieri a lezione e poi ha cominciato a dire cose senza
senso.”
“Ci ha provato con te?”
“Spero di no.”
Non ero ancora sicura riguardo quel punto: i suoi doppi sensi
continuavano a risuonarmi fastidiosamente nelle orecchie.
“Strano, devi essere una delle poche a cui non piace, qui a
scuola.”
“Non è che non mi piace, lo trovo maleducato e
borioso, e preferisco non avere a che fare con gente del
genere,” tagliai corto, per non dover ammettere che
inizialmente anch’io ero stata fregata dai suoi occhioni
color ghiaccio. Che stupida.
“Ok,” annuì, poi qualcosa la distrasse,
per fortuna. “Oh, guarda, c’è Jude!
Vieni, te la presento,” disse indicando una ragazza che si
era appena fermata a metà del corridoio, davanti a quello
che doveva essere il suo armadietto.
“Jude!” La chiamò, alzando la voce, e
quella ci guardò.
Aveva capelli castani e mossi e uno sguardo nero un po’
diffidente mentre mi guardava, ma sorrise, anche con gli occhi, appena
vide Audrey.
“Aud, buongiorno.”
La mora ne approfittò per presentarci. “Lei
è Delia, ti ricordi? La ragazza nuova, viene da
Oakland.”
“Sì, me ne hai già parlato,”
la frenò l’altra, squadrandomi. Ero paranoica o
quella sembrava non avermi proprio in simpatia?
Audrey continuò, imperterrita. “Delia, lei
è Jude, la mia migliore amica,”
sottolineò con orgoglio.
Lei mi strinse brevemente la mano, continuando a studiarmi con lo
sguardo e io, come sempre, cominciai con la mia solita parlantina.
“Sì, ho capito chi sei! Judith Freeland, giusto?
Seguiamo diversi corsi insieme, in alcuni c’è
anche Audrey, ovviamente. Sì, sì, tu a storia eri
seduta vicino a lei! Piacere di conoscerti, comunque, anche
perché ancora conosco pochissime persone in questa scuola e
Audrey è stata da subito molto gentile con me
e…”
“Audrey è sempre molto gentile con
tutti,” mi interruppe lei, secca, lanciando
un’occhiata in tralice alla sua amica.
“Me ne sono accorta, ma non tutti sono così qui a
Winthrop.”
Jude dovette leggere in quella mia frase una sottospecie
d’accusa nei suoi confronti – anche se non era
assolutamente mia intenzione rivolgermi e lei, io stavo pensando a
un’altra
persona – perché mi
guardò un po’ colpevole e un po’
infastidita, dopodiché mi ignorò cominciando a
parlare con Audrey.
Scoprii solo più avanti il motivo di tutta quella diffidenza
nei mei confronti: Jude era convinta, all’inizio, che io
avessi avvicinato Audrey solo per la sua bellezza, pensando che mi
avrebbe aperto le porte della popolarità a scuola. Era
sospettosa di natura con gli estranei, lo è sempre stata e
lo è ancora, e temeva sfruttassi la gentilezza della sua
amica come facevano quasi tutti, del resto. Non poteva essere
più lontana dalla verità, comunque, e glielo
dimostrai col passare del tempo, conquistandomi a fatica la sua fiducia
e quella di tutto il loro piccolo gruppetto.
Ascoltai con interesse il loro discorso, obbligata per una volta a
starmene in disparte, visto che le conoscevo ancora troppo poco.
“Stamattina mi sono svegliata davvero presto,”
stava dicendo Jude, con uno sbadiglio. “Penso che non lo
farò mai più.”
“In effetti sei in anticipo sulle lezioni, è una
cosa più unica che rara vederti per i corridoi prima del
suono della campanella.”
“Non dirmelo, non vale la pena arrivare a scuola in anticipo
se puoi dormire dieci minuti in più. Ma stamattina avevo un
buon motivo per arrivare presto.”
“E cioè?” Evidentemente nemmeno Audrey
riusciva a capire del tutto la follia di Jude.
“Prima o poi deve per forza passare di qua, questo
è il suo armadietto. E quando arriverà,
farà i conti con me, quel maledetto.”
“Ma di chi stai parlando?” chiese la mora, confusa
quanto me.
“Parker, ovviamente. Quello scemo non è mai in
ritardo, secondo i miei calcoli dovrebbe arrivare esattamente
tra…” guardò l’orologio,
“due minuti e mezzo, circa.”
“Che ti ha fatto Josh?”
Jude sbuffò, scocciata. “Ieri per mollare una sua
ragazza le ha detto che era perché era innamorato della sua
migliore amica, e da allora quell’oca non mi dà
tregua con messaggi minatori e chiamate anonime.”
Audrey sorrise. “Innamorato di te?”
“Ma ti pare?! Evidentemente per lui era una scusa come
un’altra, ma quella l’ha preso sul serio e a
rimetterci sono sempre io. E grazie al cielo la tizia frequenta il
collegio privato e non è qui da noi, sennò a
quest’ora mezza scuola saprebbe che ‘Jude Freeland
e Joshua Parker stanno insieme, pensate!’,”
concluse in falsetto, imitando alla perfezione la voce di Sheila, la
ragazza che avevo conosciuto il mio primo giorno.
A quel punto non riuscii a trattenere una risata, alla quale Jude mi
guardò interrogativa.
“Scusa, non ridevo di te,” spiegai.
“È che l’hai fatta uguale. Voglio dire,
stavi imitando quella ragazza, Sheila Bradbury, vero?”
Lei mi sorrise per la prima volta, annuendo.
“Grazie.”
“Di niente, è vero.”
Poi Jude si voltò e la vidi assottigliare lo sguardo
puntando qualcuno.
“Eccolo,” disse solo, prima di partire
all’attacco.
“TU!” sbraitò, indicando un ragazzo moro
e sorridente, che sembrava divertito dall’espressione
assassina di Jude.
“Dimmi, cara.”
“Tu,” ripeté lei, abbassando il tono di
voce per non farsi sentire da mezza scuola. “Maledetto
cretino! Ti sei bevuto il cervello? Come ti è venuto in
mente di raccontare certe stronzate a quella gallina della tua ex? Ora
è convinta che io ti abbia irretito in qualche modo e sta
cercando un modo per uccidermi. E ho cercato di farle capire che poteva
anche tenersi te e la tua idiozia tutta a sua disposizione,
ma…”
“Non mi vuoi?” la interruppe lui, facendo
un’espressione da cane bastonato e sporgendo il labbro
inferiore per farle pena.
A Jude per poco non esplose la giugulare mentre tentava di trattenersi
dal picchiarlo.
“Devi smetterla di comportarti così, Parker! Pensa
se lo viene a sapere qualcuno della nostra scuola… Non ci
prendono già abbastanza per i fondelli per i tuoi gusti?
Eh?”
Mentre continuava a sbraitare con ferocia, si affiancò a me
e Audrey un altro ragazzo, un tipo castano, smilzo e con gli occhiali.
“Questa non me la voglio perdere,”
commentò, divertito. “Che è
successo?” chiese a Audrey.
Le possibilità erano due: o era un guardone ficcanaso, o
anche lui faceva parte della compagnia ed era abituato ad assistere a
scene del genere. Quando vidi che Audrey gli spiegava tranquillamente
la situazione e lui commentava con un “uuuh, roba grossa
allora!”, capii che dovevano essere amici e decisi di
presentarmi anch’io, sporgendomi per dargli la mano.
“Io sono Delia, piacere.”
“David,” rispose lui. “Sei quella nuova,
vero? La californiana.”
“Giusto,” confermai. “Sono già
più conosciuta del previsto, e sì che ho cercato
di restare in incognito finora.”
Lui ridacchiò. “Mpf. Quando
c’è una nuova qui lo sanno sempre tutti. Ti
dispiace se chiacchieriamo dopo? Sennò ci perdiamo il
cinema,” disse indicando Jude e Josh con un cenno del capo.
Sorrisi: la scenetta che ci si parava davanti era davvero memorabile
anche per me che li conoscevo a malapena.
E nell’attimo in cui Jude aveva aggredito quel Josh (il suo
migliore amico?), avevo deciso su due piedi che quella tipa mi piaceva
e che, quindi, avevo un motivo in più per cercare di piacere
a lei: era una tosta e se non si fidava di me, toccava proprio a me
farle cambiare idea.
“Sei incredibile, non te ne frega proprio niente eh?!
Maledetta la volta che ho deciso di sedermi su
quell’altalena, dio… Se fosse stata
più…”
Jude continuò imperterrita a sfogarsi finché non
fu Josh a interromperla, posandole entrambe le mani sulle spalle
– con molto coraggio, pensai. Poi scoprii che lui sapeva
quello che stava facendo: lei gli perdonava sempre qualunque cazzata
facesse e Josh ne era perfettamente conscio.
“Free, stai calma, ok? Non è successo
niente!”
“Non è successo… Eeeeh?!” Lei
non sembrava ancora intenzionata a rilassarsi, ma, strano a dirsi,
bastarono un paio di mosse ben congegnate da parte del ragazzo per
farle cambiare idea.
“Ascolta, Jude, è una cavolata! E non
arriverà mai la notizia qui a scuola, sai che è
impossibile. A meno che non lo scoprano tutti da te che continui a
sbraitare ai quattro venti, ma in quel caso non puoi dare la colpa a
me. È come se mi avessi dato una mano a mollare una ragazza
pedante, ok? Sono in debito con te, Free.”
Lei gli lanciò un’occhiataccia, ma sembrava
già più tranquilla. “Eri già
in debito con me prima di questo, idiota. Tu sei sempre in debito
con
me.”
“Oh, è vero. Vorrà dire che
farò qualcosa di veramente grosso per ripagarti,
ok?”
Mi sembrava incredibile, ma quelle due frasi erano riuscite a
trasformare Jude da belva feroce a… Beh, insomma, non
è che ora fosse proprio un agnellino remissivo, ma si era
sicuramente calmata e l’aveva perdonato. Che classe, quel
tipo.
“Bravi bambini, avete fatto la pace pure oggi!” si
intromise David, avvicinandosi per dare una pacca sulla spalla a Josh e
un bacio sulla guancia a Jude: poi le disse qualcosa
all’orecchio, lei ridacchiò e tutto
tornò definitivamente liscio come l’olio.
“Ma fanno sempre così?” bisbigliai a
Audrey per non farmi sentire da nessuno.
“No, a volte è anche peggio. Però in
realtà si vogliono un sacco di bene.”
“E meno male,” commentai, prima di essere
presentata anche all’ultimo dei presenti, ovvero il ragazzo
protagonista della scenetta a cui avevo appena assistito, Joshua Parker.
Ero entrata – quasi – ufficialmente nel gruppo.
Il giorno dopo, David mi si avvicinò saltellando mentre
litigavo col mio armadietto perché non voleva aprirsi.
“Ciao, californiana!” mi salutò giulivo,
dandomi una pacca sulla spalla.
Lo accolsi con un sorriso, ero di buon umore, a parte
l’ammutinamento dell’armadietto. “Ehi,
come va?”
“Tutto ok,” rispose lui. “Hai Smith
adesso?”
“Sì, anche tu?”
David annuì, poi mi guardò allargando il suo
sorriso. “Ed è vero che Matt Patterson ieri ci ha
provato con te?”
Quasi mi strozzai con la mia stessa saliva per la sorpresa.
“COSA?!”
“Matthew Patterson,” ripeté lui,
“quel biondone che gira per i corridoi della scuola come se
la sua figaggine non fosse un problema suo e che a quanto pare
ieri…”
“So chi è Patterson!” lo interruppi
decisa. “Non ci ha provato con me, come ti è
saltato in mente, ti sei bevuto il cervello?”
Conoscevo poco David, ma in quel momento ero troppo stranita per
pensare alle formalità… A dire il vero non
pensavo quasi mai alle formalità. Evidentemente nemmeno lui,
perché non prese la mia risposta come una scortesia nei suoi
confronti, ma alzò le spalle e continuò a
sorridere.
“Me l’ha detto Josh.”
“Josh?”
“Sì,” spiegò lui.
“A Josh l’ha detto Jude, quei due si dicono tutto.
E Jude deve averlo saputo da Aud, credo.”
“Audrey?”
“Certo. Quella ragazza ha un vero fiuto per il gossip, te lo
dico io, riesce a carpire i pettegolezzi più in voga della
scuola prima ancora che diventino pettegolezzi in voga: farà
strada nel giornalismo rosa.”
“Audrey?” ripetei, stupita.
David mi guardò divertito. “Pensi di riuscire a
dire altro, a parte ripetere i nomi che ho appena fatto io?”
“Audrey è una pettegola?”
“Fatta e finita, sì. Ma è una gran
brava ragazza.”
“Sembra così riservata…”
commentai.
“Oh sì, mica parla con chiunque, solo coi suoi
amici più stretti,” risolse Dave, sventolando la
mano come se fosse una cosa di poco conto. “Quindi hai avuto
o no un tête-à-tête con
Patterson?”
“No, abbiamo solo parlato.”
“Di cosa?”
Gli tirai un pugnetto fiacco mentre ci dirigevamo all’aula.
“Ma siete tutti così impiccioni qui?”
“Eh, californiana, devi capire che i colpi di scena mancano
in questo buco di città, se davvero Matt ci avesse provato
con te sarebbe di sicuro una bella storia interessante di cui
impicciarsi.”
“Non è successo niente di simile, mi ha solo
riportato una cosa che avevo perso in classe,” spiegai,
ripensando allo strano comportamento del biondo il giorno prima.
“Anche se è stato un po’ troppo gentile
per i suoi standard, in effetti.”
“Magari gli piaci.”
“Bah, ne dubito, è solo strano. E pieno di
sé.”
Dave ci pensò su un attimo prima di rispondermi.
“Non so, ho avuto poco a che fare con Patterson, non lo
conosco bene, ma con me è sempre stato molto
gentile.”
“Magari gli piaci tu, allora,” scherzai.
“Con me finora è sempre stato un bello
stronzo.”
“Bello lo è di sicuro,”
commentò David sovrappensiero. “Quello
c’ha la coda fuori di casa, te lo dico io.”
Sospirai, concordando mio malgrado, ed entrai in classe alle sue
spalle, prendendo poi posto accanto a lui. Un’ultima
curiosità mi ronzava per la testa da quando Sheila mi aveva
parlato di Matt, quindi decisi di indagare con David, che sicuramente
ne sapeva più di me.
“Quel Patterson,” iniziai, dopo essermi guardata
intorno per verificare che non ci fossero orecchie indiscrete
all’ascolto, “è vero che è
anche ricco?”
“Da far schifo,” annuì Dave.
“Suo padre è dirigente di una grossa azienda e sua
madre, non ne sono sicuro, ma pare abbia ereditato un’enorme
somma di denaro da giovane.”
“Ora si spiega anche tutta quella puzza sotto il
naso,” annotai caustica.
“Diciamo che può permettersela. Credo non ci sia
niente che non possa permettersi, in realtà.”
David si zittì giusto quando Patterson fece la sua solita
entrata pigra in classe. Il principino mi lanciò uno sguardo
che giudicai altezzoso, e fece un cenno con la testa a mo’ di
saluto, che ricambiai alzando appena le sopracciglia.
“Uh,” commentò Dave, allegro,
“sembra proprio la love story del momento!”
Risi con lui, divertita dalla situazione: evidentemente io e Patterson
avevamo parlato di amicizia un po’ troppo in fretta, dal
momento che facevamo fatica anche a salutarci.
Con David, d’altro canto, mi trovavo proprio bene, e la cosa
non poteva che rendermi felice.
Una
settimana e già il secondo capitolo, potrei abituarmici! :)
Matt è strano, cerchiamo di abituarci, perché lo
troveremo diverso già nel prossimo capitolo. Non fermatevi
alle apparenze...
Per chi avesse voglia o si fosse perso le scorse note, ricordo che
questa storia è uno spin-off di un'altra, che
però non è obbligatorio leggere. Eccovi il link,
comunque: Of all the people in the
world.
Attendo ancora preziosissimi riscontri, anche sull'html e su qualsiasi
cosa vi venga in mente... A presto col terzo.
|
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Capitolo 3 *** Always be friendly during a party ***
3. Always be friendly during a
party
Man mano che passavano le settimane le cose cominciarono ad andare
meglio, in tutti i sensi. Avevo finalmente degli amici fantastici, che
stavo imparando a conoscere meglio.
Audrey, per prima, era davvero una ragazza dal cuore d’oro.
Era dolce e sempre disponibile a darmi una mano, sospettavo fosse
così un po’ con tutti, ma si capiva che teneva in
modo particolare ai suoi amici. A primo acchito sembrava anche timida e
riservata ed effettivamente lo era abbastanza… per quello
che riguardava se stessa. Con le notizie riguardanti le altre persone,
invece, non aveva pietà: era una vera e propria amante del
gossip, strano ma vero. Quando un pomeriggio mi invitò a
casa sua, capii anche da chi doveva aver preso quel lato del suo
carattere: sua madre, una donna indiana dalla quale, evidentemente,
Audrey aveva ereditato anche la sua bellezza sfolgorante, per quanto
gli occhi verdissimi fossero invece identici a quelli del padre.
Ci misi più tempo a entrare in sintonia con Jude, invece.
Per me era strano, di solito coi miei modi espansivi e amichevoli
piacevo a tutti quasi subito. Beh, a tutti quelli a cui volevo piacere,
insomma, quando mi ci mettevo diventavo una vera stronza pure io. In
questo io e Jude ci somigliavamo abbastanza e, forse, superata la sua
ritrosia iniziale, fu proprio il lato “stronzo” che
avevamo entrambe a unirci di più. Audrey era una ragazza
dolcissima, ma anche un po’ ingenua, e tendeva a vedere il
mondo come se fosse dipinto a fiorellini e stelline; Jude era un
po’ il suo contrario, chiusa, diffidente, ma anche
estremamente divertente e portata al sarcasmo. Io ogni tanto avevo
bisogno di parlare male di qualcuno, e Jude era decisamente la persona
giusta con cui farlo. In più, Jude aveva una missione: far
ragionare Audrey e farle notare quando un ragazzo che faceva il carino
con lei era solamente un porco approfittatore. Ovvero, quasi sempre.
Audrey aveva decisamente bisogno che qualcuno le aprisse gli occhi, e
Jude si accorse che ero d’accordo con lei
sull’argomento. Fu così che, pian piano, mi
conquistai la sua fiducia.
Con i ragazzi fu tutto più facile. Josh era aperto e
simpatico e, avevo visto giusto dall’inizio, era il migliore
amico di Jude. Era un bel ragazzo, moro, occhi blu, e con una tendenza
piuttosto spiccata a non pettinarsi. In effetti aveva sempre una
discreta manciata di ragazze a girargli intorno: usciva spesso con
qualcuna, anche se mai con più di una ragazza alla volta, ma
era raro che prendesse queste cose seriamente. L’unica con
cui sembrava avere un atteggiamento diverso, invece, era proprio Jude.
Le voci che li volevano amanti segreti, in effetti, non avevano torto
di esistere, almeno in un senso. Si vedeva che Jude considerava Josh
solo un amico: a volte l’avrebbe volentieri strozzato, ma gli
voleva un bene dell’anima e lo capiva anche solo con uno
sguardo. La sola cosa che non riusciva a capire, forse, era il fatto
che Josh invece aveva un’adorazione totale per lei, magari
non ancora abbastanza consapevole e matura, ma sicuramente abbastanza
forte da essere più vicina all’amore che
all’affetto.
David, invece, era una forza della natura: solare, affettuoso, e sempre
pronto a organizzare qualcosa per stare tutti assieme. Il gruppo di
amici girava perlopiù attorno a Josh e Jude, che si
conoscevano da una vita e che avevano attirato attorno a sé
Dave e Aud e, loro malgrado, me. Ma il vero collante, quello che teneva
uniti tutti, me ne accorsi subito, era proprio David. Riusciva ogni
weekend a pianificare una serata al cinema, un giro da qualche parte o
a rimediare un invito per il party del mese organizzato dal ragazzo
più popolare e bello dell’ultimo anno. Era
inspiegabile: David non era particolarmente in vista a scuola, al
secondo anno eravamo poco più che matricole, eppure usando
le sue conoscenze e chiedendo un po’ in giro, riusciva quasi
sempre a strappare informazioni a chiunque.
Una mattina di fine aprile David si avvicinò a me, Jude e
Audrey con un sorriso soddisfatto. Eravamo sedute in giardino a goderci
un’ora libera col sole primaverile che ci scaldava tiepido,
mentre chiacchieravamo del più e del meno. Me lo ricordo
bene, perché fu uno di quei momenti in cui mi resi conto di
essere stata davvero fortunata a conoscere quei ragazzi, ché
probabilmente erano davvero gli amici che stavo cercando arrivata a
Winthrop.
“Ehi bellezze! Ho una notizia bomba,”
esordì David buttandosi sul prato con noi e lanciando il suo
zaino senza alcuna delicatezza.
Jude sorrise poco convinta. “Fammi indovinare: hai recuperato
gli inviti per la festa a casa di Shane Roberts.”
“Quasi.”
“Non mi viene in mente nient’altro che possa
renderti così raggiante, McPharrell, avanti.”
“Non c’è nessuna festa da Roberts questo
sabato.”
A quel punto mi intromisi anch’io, spiazzata. “E
perché sorridi allora? Quella festa era la tua ragione di
vita in questi ultimi giorni.”
Dave scrollò le spalle. “La festa non è
lì, sarebbe stato troppo facile imbucarsi, come
l’altra volta. L’hanno spostata a casa di Peter
Ramirez, avete presente? Quell’armadio a due ante della
squadra di football che sta sempre dietro a Roberts.”
“Se non hai recuperato gli inviti è comunque
inutile, Dave, sai come sono le feste di quelli dell’ultimo
anno,” disse Jude, che probabilmente sotto sotto era contenta
di non poter andare al party, dal momento che non era il tipo di
ragazza che amava troppo gli eventi sociali.
“Ma qui viene il bello!” continuò David,
sempre più sorridente. “La festa è
aperta a tutti, non c’è bisogno
dell’invito! Cioè, a tutti quelli che sanno che
è stata spostata a casa di Ramirez, ovviamente. Gli altri
sfigati che si presenteranno da Roberts pensando di imbucarsi
rimarranno a bocca asciutta.”
Jude sbuffò. “Aperta a tutti? Mi pare
impossibile.”
“Tranne le matricole, quelle, si sa, vengono solo se
accompagnate da qualcuno del terzo o del quarto.”
“Noi siamo al secondo, David, non ci faranno mai entrare!
Valiamo meno di niente nell’ordine gerarchico di quei
trogloditi.”
“Parla per te, batuffolo, io sono importante,”
commentò Josh, che era arrivato in quel preciso momento e si
era seduto accanto a Jude.
“Non sei importante, Parker, sei poco più che una
matricola anche tu, mi spiace deluderti,” lo
rimproverò Jude.
Josh le scompigliò i capelli beccandosi
un’occhiataccia, dopodiché si stese sul prato
appoggiando la testa alle gambe di lei. “Di che parlavate di
preciso?”
“La festa di Roberts sarà da Ramirez ed
è aperta a chiunque abbia il coraggio di
presentarsi,” riassunse Audrey, poi sospirò.
“Siamo sicuri di volerci andare, ragazzi? A me sembra il
solito casino di quelli dell’ultimo anno.”
David fece un verso oltraggiato. “Sarà
l’ultima festa dell’anno prima del ballo! E del
party dei diplomati, ma a quello non saremo sicuramente invitati.
Dobbiamo approfittarne.”
Josh sorrise accondiscendente. “Condivido la parte
sull’approfittarne. Sarà pieno di belle ragazze
ubriache.”
Jude gli diede una botta in testa. “Non per essere sempre il
bastian contrario, ma io per quest’anno ne ho avuto
abbastanza dei nostri tentativi di infilarci a feste a cui non siamo
invitati. Preferirei un bel cinema.”
“Anch’io la penso come Jude,” le fece eco
Audrey. “Ma se la maggioranza di noi vuole andare penso che
vada bene lo stesso.”
A quel punto David mi guardò, visto che fino a quel momento
ero stata stranamente silenziosa per i miei standard. “Delia,
tu che dici?”
Conosceva già la mia risposta. Sorrisi. “Sono con
te, Dave.”
“Sapevo che non mi avresti deluso, californiana. E festa
sia!”
Entrammo alla festa con la spavalderia tipica di chi sa che
può solo divertirsi: io, David e Josh per primi, salutando
gente a caso per far finta di conoscere tutti gli invitati e avere
quindi il diritto di essere lì; Audrey e Jude un
po’ dietro, ancora convinte che ci eravamo imbucati e che
saremmo stati sbattuti fuori nel giro di pochi minuti. Non accadde:
c’era talmente tanta gente che il padrone di casa faticava a
rendersi conto di cosa stava succedendo – anche il fatto che
a metà serata fosse in mutande a ballare su una sedia forse
c’entrava. Winthrop era comunque una piccola città
e quelle feste erano una delle poche attrattive del sabato sera,
c’erano ragazzi di ogni scuola, probabilmente c’era
anche qualcuno di quel collegio privato per ricconi snob.
Io ero finalmente nel mio ambiente, adoravo le feste. Mi muovevo da una
stanza all’altra felice come una pasqua, parlando con persone
diverse. Giocai a biliardo con Dave e altri tizi che non conoscevo,
bevetti due birre con Josh e Terry, un suo ex compagno di scuola che mi
faceva il filo spudoratamente, ma passai anche un po’ di
tempo con Jude e Audrey, sedute sul divano, semplicemente a commentare
e a ridere delle persone che ci passavano davanti. Audrey sapeva
davvero tutto di tutti, era impressionante.
Ci interruppe Josh che, con poca grazia, obbligò Jude a
seguirlo per ballare e convinse anche noi ad andare in pista. Ci
buttammo in mezzo alla gente ballando e ridendo, dopo un po’
arrivò Terry e si mise a ballare vicino a me. Lo assecondai:
era un ragazzo carino e io adoravo flirtare con i ragazzi carini.
Finimmo per scambiarci qualche bacio innocente, poi lui mi chiese se
volevo spostarmi in posto più tranquillo, io gli dissi di no
e tornai a girarmi verso le mie amiche.
Jude e Audrey ridacchiavano: in quelle settimane avevano imparato a
conoscermi e avevano capito che era una tipa piuttosto free nei rapporti
con l’altro sesso, ma sentivo che non mi giudicavano per
questo. Al contrario, anche se eravamo tutt’e tre molto
diverse – Aud estremamente timida e impacciata a discapito
del suo aspetto, Jude scontrosa e di gusti parecchio difficili
– ci trovavamo piuttosto bene a sparlare di ragazzi e a
raccontarci le reciproche – e all’epoca ancora
scarse – esperienze.
Dopo un altro paio di canzoni mi allontanai per andare a bere qualcosa
ma, muovendomi verso la cucina, venni fermata da Terry.
“Vieni fuori con me?” mi domandò di
nuovo.
“No, guarda, stavo andando a…”
“Se vuoi vado a prenderti qualcosa da bere,” si
propose lui, leggendomi nel pensiero.
Imprecai mentalmente. “In realtà stavo andando in
bagno,” inventai, sperando di togliermelo dai piedi. Mi
dispiaceva un po’ per lui, sembrava carino, ma evidentemente
non avevamo lo stesso obiettivo quella sera: io volevo solo divertirmi
coi miei amici, lui non vedeva l’ora di mettermi le mani
sotto la maglietta.
“Ah, il bagno è da quella parte,” mi
fece notare, indicando il lato opposto della casa.
“Giusto, grazie!”
Mi allontanai il più velocemente possibile, mi infilai in
bagno e ci restai per qualche minuto, sperando che nel marasma della
festa non avrei rincontrato Terry. Quando uscii non lo vidi in giro,
quindi mi diressi di nuovo verso la cucina, decisa stavolta a prendermi
qualcosa da bere.
Nella stanza c’era un casino pazzesco di lattine vuote e
bicchieri abbandonati nei luoghi più strani,
perciò rinunciai presto alla mia idea iniziale –
cercare una birra – e, trovando miracolosamente un bicchiere
pulito, mi accontentai, per il momento, di bere dell’acqua.
Mentre me la versavo dall’unica bottiglia che era ancora
intonsa sopra il tavolo, una voce mi raggiunse alle spalle facendomi
sobbalzare.
“Sei astemia, novellina?”
Mi rovesciai un po’ d’acqua sulla mano e voltai la
testa guardando torva la persona che già sapevo di trovarmi
alle spalle: sua maestà Matt Patterson. Dal canto suo, lui
mi lanciò uno scintillante sorriso a trentadue denti che
scalfì la mia espressione truce. Non lo avevo mai visto
così sorridente e, dovevo ammettere mio malgrado, sembrava
emanare luce propria per quanto era bello.
“Non me l’aspettavo da te, sai?”
continuò, ma il mio cervello si era inceppato sul suo
sorriso e non capivo più di cosa stesse parlando.
“Sei californiana, dovresti saper bere.”
Ah già, mi aveva preso per astemia.
“Veramente no. Ho già bevuto due birre stasera,
sono venuta qui per prendere la terza ma non l’ho
trovata.”
Matt mi fece un gesto con la mano, come a dirmi di aspettare, poi si
allontanò per qualche secondo e, quando mi si
ripresentò davanti, aveva in mano due bottiglie di birra
fresche di frigo che aveva pescato chissà dove. Me ne porse
una e io la guardai titubante.
“Non volevi una birra?”
“Mi sa che ho cambiato idea, non so se mi fido a bere in tua
compagnia.”
“Non voglio approfittarmi di te, se è
ciò che pensi.”
“In ogni caso.”
“Avanti!” insisté lui, mettendomi la
bottiglia in mano. “Siamo amici, no?”
“Stai scherzando, spero,” sputai allora, caustica.
Quel ragazzo riusciva sempre a tirare fuori il peggio di me, e io ero
amichevole praticamente con tutti, davvero.
La verità era che dopo la piazzata al mio armadietto e dopo
tutte quelle storie sul voler diventare mio amico, il belloccio aveva
simpaticamente cominciato a ignorarmi, salutandomi a malapena quando mi
incontrava in classe. Non che la cosa mi turbasse poi molto, io ero
impegnata a farmi altri amici, ma non mi andava proprio giù
che adesso si mettesse a fare il finto tonto.
Lui continuava a sorridere, ignaro di tutto ciò.
“Hai detto tu che potevamo provare a essere amici.”
“Due mesi fa, Patterson.”
“Accidenti! Ho fatto scadere il ticket nel
frattempo?”
Sorrisi, divertita mio malgrado. “No, è che dopo
quella volta hai preso a ignorarmi.”
“Ah, capisco. Ci sei rimasta male, tesoro?”
Tralasciai quell’appellativo e la conseguente voglia di
tirargli un pugno sul naso, ma solo perché quella sera,
tutto sommato, sembrava più simpatico del solito.
“Sei ubriaco, principino?” gli domandai, notando
che in effetti non era mai stato così cordiale con me.
Lui scrollò la mano. “Sono a malapena brillo. In
realtà devo chiederti un favore.”
“Oh!” commentai, spalancando gli occhi con fare
teatrale. “Ora è chiaro il perché di
tutta questa simpatia! Opportunista.”
Matt ridacchiò e si grattò la guancia in un gesto
molto spontaneo per lui che, di solito, sembrava estremamente studiato
in ogni suo atteggiamento. Mi ritrovai di nuovo a sorridere con lui.
“Touché,” rispose. “Allora, me
lo fai o no questo favore?”
Decisi su due piedi – e tre birre, probabilmente –
di stare al gioco. “Dipende. Se vuoi togliermi la maglietta,
la risposta è no. Si è già prenotato
un altro ragazzo per farlo, stasera.”
Lui mi lanciò un lungo sguardo stupito e, credo, malizioso.
“A quello ci pensiamo dopo. Devi aiutarmi a liberarmi di una
tipa che mi sta dietro da mezzora ed è diventata piuttosto
appiccicosa.”
Capii immediatamente di cosa stava parlando e, in automatico, ritirai
fuori la mia faccia scocciata. “Te lo scordi di baciarmi solo
per far fuori una delle ochette che ti sbavano dietro.”
“Io non ho mai parlato di un bacio, ma mi piace come ragioni,
novellina.”
Non bastava certo quello a farmi arrossire. Sollevai un sopracciglio,
minacciosa.
Matt alzò le mani in segno di resa. “Ok ok, le ho
detto che sono venuto qui per vedere un’altra. Credo ci abbia
già visti, quindi in realtà sei già
diventata il mio alibi. Pensavo solo che sparire per un po’
insieme renderebbe il tutto più credibile, ma se volevi
anche un bacio bastava dirlo.”
Continuai a guardarlo seccata, in silenzio, così lui
continuò.
“Eddai Gray, ti sto chiedendo solo dieci minuti del tuo
tempo! Andiamo in giardino, ci finiamo la birra e torniamo dentro.
Prometto di non toccarti in nessun modo, se non vuoi. Senza contare che
un alibi farebbe comodo anche a te, a giudicare da quel tipo che ci
guarda storto da quando abbiamo iniziato a parlare.”
Mi girai e notai Terry che si voltava in quel momento, fingendo di non
averci guardato fino a un attimo prima. In effetti quel ragazzo stava
cominciando a diventare insistente, e gli avevo già concesso
fin troppo quella sera.
“A meno che non sia quello a cui hai promesso di farti
togliere la maglietta. In quel caso, vai pure da lui, mi accontento di
guardare, se posso.”
Sbuffai, tornando a puntare gli occhi su Matt che, nel frattempo, aveva
assunto un’espressione da cherubino che decisamente stonava
sul suo volto.
“Dieci minuti,” lo ammonii, “non uno di
più. E le mani restano al loro posto.”
Lui si mosse verso la porta del giardino e la aprì con un
gesto plateale per poi farmi segno di uscire per prima. Immaginai fosse
tutto a uso e consumo della povera ragazza che voleva scaricare e alzai
gli occhi al cielo.
“È un peccato che tu non sappia apprezzare un
gentiluomo, Gray.”
“Lo so apprezzare, a meno che non sia un troglodita
travestito da gentiluomo.”
Una volta all’esterno, ci guardammo
intorno indecisi sul da farsi. C’era già un
po’ di gente fuori, ma niente messo a confronto del caos che
regnava in casa, inoltre tutti sembravano farsi bellamente gli affari
propri. Ci dirigemmo senza dirci niente a un tavolo da giardino libero
e ci sedemmo, continuando a bere le nostre birre. Ovviamente, essendo
di solito logorroica, non riuscii a stare zitta a lungo.
“Chi era quella che volevi scaricare?” chiesi,
sputando la prima cosa che mi era venuta in mente per interrompere
l’imbarazzante silenzio.
Lui scrollò le spalle. “Probabilmente non la
conosci.”
“Ti ricordi almeno come si chiama?”
“Certo che me lo ricordo, per chi mi hai preso?”
“Per uno che utilizza subdoli trucchetti da quattro soldi per
liberarsi, dopo essersi stufato, di una povera ragazza
che…”
Matt scoppiò a ridere. “Povera ragazza? Non sai
neanche cos’è successo.”
“Sarai venuto qui alla festa con lei per
poi…”
Mi interruppe per la seconda volta. “Non sono venuto con lei!
Hai proprio una splendida opinione di me, eh.”
“Non hai mai fatto molto per meritartela.”
“Hai detto anche tu che stasera sono più simpatico
del solito.”
“Solo perché volevi un favore da me.”
“Ed ecco che tornano fuori i tuoi pregiudizi.”
“Pregiudizi?” Alzai la voce, stranita da quella sua
affermazione seria, che aveva interrotto il nostro botta e risposta.
“Ogni volta che parliamo mi accusi di qualcosa. Solitamente,
di avere dei doppi fini.”
“Ogni volta che parliamo o mi chiedi qualcosa o vaneggi su
un’amicizia che non esiste!” controbattei,
intenzionata a difendermi: io non mi ritenevo affatto il tipo di
persona che si faceva condizionare da stupidi pregiudizi.
Matt ridacchiò. “È la prima volta che
ti chiedo un favore, novellina.”
“Beh, contando che abbiamo parlato due volte in
tutto…”
“Appunto,” sottolineò lui, non
lasciandomi finire la frase. “Non mi conosci così
bene da sapere cosa c’è dietro ogni mia parola.
Eppure sei molto convinta di quello che pensi su di me.”
Aprii e richiusi la bocca, trovandomi senza parole come raramente mi
accadeva.
Matt sorrise di nuovo e, per la prima volta, il suo sorriso mi parve
amaro. “Probabilmente anche tu, come tutti qui, sei convinta
che essendo ricco e bello, la mia vita sia tutta rose e
fiori.”
Evitai di rispondere, perché avrei dovuto ammettere che
aveva ragione.
“Sei anche modesto…” borbottai invece.
Lui ridacchiò e l’atmosfera seria
sembrò svanire. “Vorresti dire che non sono
bello?” mi domandò, ironico, appoggiandosi al
tavolino e sporgendosi pericolosamente verso di me.
Mi ero ficcata di nuovo in un vicolo cieco, preferivo di gran lunga
l’argomento precedente.
“È inutile che fai la vittima,
comunque!” berciai, dal nulla, dopo qualche secondo di
immobile riflessione. “Sembra che io sia la cattiva che ti ha
etichettato senza alcuna ragione, ma non è che tu ti sia
comportato benissimo con me, fin dall’inizio.”
Matt tornò a scansarsi, con mio grande sollievo.
“È vero, io tendo a essere piuttosto freddo, ma
non è che tu sia proprio uno zuccherino.”
“Lo sono, invece!”
“Beh, non con me allora.”
“Perché tu sei uno stronzo.”
“Pregiudizi.”
Chiusi gli occhi e sospirai, sconfitta. “Non ne usciremo mai,
vero?”
Quando riaprii gli occhi, Matt mi stava sorridendo divertito. Ed era
decisamente di nuovo troppo vicino: quello di cui non mi ero accorta
era che, nel precedente battibecco, entrambi ci eravamo spostati, quasi
inconsciamente, finendo a un palmo l’uno dall’altra.
D’istinto mi allontanai e girai la testa e nel farlo notai,
poco più in là, un gruppetto di persone
incuriosite che ci guardava.
“Direi che la tua scenetta ha avuto l’effetto
desiderato,” mormorai, continuando a guardarmi intorno.
“E il finto bacio?”
Tornai a guardare Matt, preoccupata, e capii dal suo sorriso ironico e
sfrontato che stava nuovamente scherzando.
“Ce lo risparmiamo, che dici?”
Lui scrollò le spalle e si sedette più comodo
sulla sedia, allontanandosi. “Sarà per la prossima
volta.”
Alzai gli occhi al cielo. “Contaci.”
Rientrammo insieme, e anche quando ci salutammo e tornai dai miei
amici, continuai a sentirmi gli occhi di tutti addosso: non che mi
disturbasse, riuscivo a reggere un po’ di attenzioni, ma
evidentemente la voce di me e Matt Patterson da soli fuori era
già girata. Appena raggiunsi i miei amici, infatti, Audrey
mi fece il quarto grado, e da quanto era su di giri sembrava che fossi
appena tornata da una folle notte d’amore con Johnny Depp.
Risposi con sincerità a tutte le domande che mi piovvero
addosso, raccontando del mio accordo di comodo con Patterson.
L’entusiasmo di Audrey scemò man mano che spiegavo
cos’era successo, ma continuò, fino a quando non
tornammo a casa, a guardarmi con sospetto, come se le stessi
nascondendo qualcosa.
Il lunedì mattina successivo mi presentai a scuola piuttosto
assonnata - non avevo fatto in tempo a bere il mio solito litro e mezzo
di caffè bollente. Chiudendo l’armadietto notai,
in fondo al corridoio, Audrey che mi guardava; la salutai con la mano e
lei ricambiò, con uno sguardo che sembrava quasi preoccupato
appiccicato in volto. Mi domandai, con una parte remota e poco sveglia
del mio cervello, cosa diavolo potesse avere, ma liquidai tutto
pensando a una delle mie solite paranoie, quindi mi accinsi a
raggiungerla, sorridendo.
Lo sguardo di Audrey si fece presto da vagamente preoccupato a
decisamente allarmato quando vide qualcosa nel corridoio, e
cominciò a sventolare le braccia per aria come
un’invasata, segnalandomi e sillabando con le labbra delle
parole che non capii. Mi fermai e feci una faccia perplessa, lei mi
indicò un punto imprecisato e poi mi sembrò
sillabare qualcosa tipo “vai via”. Mi voltai per
vedere cosa stesse cercando di farmi notare la mia amica: magari dietro
di me c’era quel figo pazzesco di George Peterson e io avevo
il maglioncino infilato al rovescio, quindi Audrey cercava di evitarmi
una pessima figura con lui, avvisandomi di non farmi vedere
così; oppure, ma questo sembrava meno probabile, una mandria
di gnu impazziti stava per stendermi e fare spezzatino di me.
Girandomi, però, non vidi assolutamente nulla di sospetto,
perciò mi rivoltai verso Audrey, decisa a raggiungerla per
porre fine a quell’incomprensione. Fu così che mi
trovai esattamente faccia a faccia con una ragazza carina e bionda che
mi fissava con insistenza a quindici centimetri di distanza dal mio
viso.
“Ciao,” salutai, colta alla sprovvista.
Lei sembrò scrutarmi per valutare qualche cosa, poi si
decise a parlare. “Sei Delia Gray?”
Annuii. “Sì, sono io. Hai bisogno di
qualcosa?” chiesi, affabile come il mio solito.
La ragazza fece un sorriso poco rassicurante, dopodiché
divenne improvvisamente seria e mi puntò sulla spalla un
dito che io mi ritrovai a fissare stupefatta.
“Non ti devi più permettere di avvicinarti a Matt
Patterson,” fece quella, con un tono di voce che,
nell’intenzione di lei, doveva forse essere minaccioso, ma
che a me sembrò solo un ridicolo tentativo di darsi un tono.
“Lui non è tuo, né mai lo
sarà. Hai capito?”
Mi sembrava di essere in un remake decisamente mal fatto del Padrino. Dire che
ero allibita è dire poco.
“Io non voglio niente da Patterson,” mi
uscì subito, in tutta onestà, per poi ricordarmi
del nostro patto per togliergli dai piedi una pretendente: se la
ragazza in questione era la versione di un mafioso bionda e piena di
ciglia finte che mi stava davanti, non avevo difficoltà a
capire perché il principino volesse liberarsene.
Lei rise con un suono acuto. “Sei molto falsa, Gray, vi hanno
visti tutti alla festa sabato.”
Dire che ci avevano visti tutti era un’esagerazione bella e
buona, nel giardino in quel momento c’erano al massimo una
ventina di persone. Ero indecisa su cosa risponderle per non
smascherare il piano cretino in cui Matt mi aveva trascinata, alla fine
decisi di non mentire ma di restare comunque sul vago.
“Se ci hai visti allora sai che è meglio lasciar
perdere,” commentai secca.
La bionda mi puntò nuovamente il dito sulla spalla.
“Stai pestando i piedi a una mia amica.”
Ero sbalordita: quale idiota stratosferica mandava una sua amica in
corridoio a minacciare la presunta rivale in amore?
Tolsi la sua mano dalla mia spalla con un gesto secco.
“Di’ pure alla tua amica di non preoccuparsi
più di tanto per Patterson, e che se ha qualche problema
comunque può sbrigarselo da sola. Ora devo andare, grazie e
ciao.”
“Attenta, Gray,” mi avvertì alla fine,
prima di voltarsi e allontanarsi da me.
Roteai gli occhi: ci mancava solo la testa di cavallo
nell’armadietto e la scena sarebbe stata perfetta. Che razza
di gente.
Audrey mi guardava di nuovo, da in fondo al corridoio, ma io avevo
improvvisamente realizzato cosa fosse successo e a chi dovessi chiedere
spiegazioni. Feci un gesto a Aud con la mano, spiegandole che
l’avrei raggiunta dopo, feci dietrofront e mi diressi nel
punto dove più probabilmente avrei potuto trovare Patterson:
il suo armadietto. Lo vidi che trafficava con dei libri proprio
lì e lo raggiunsi a passo di marcia.
“Dobbiamo parlare,” dissi secca prendendolo per una
manica della felpa e trascinandolo con me lungo il corridoio.
Lui fece a malapena in tempo a chiudere l’armadietto, poi fu
costretto a seguirmi quasi perdendo l’equilibrio. Trovai
vuota una vecchia aula che spesso veniva usata al pomeriggio per le ore
di punizione e ce lo portai dentro senza troppi complimenti.
Matt si ricompose lisciandosi i vestiti e mi lanciò
un’occhiata in tralice quasi divertita. “Che foga,
ragazzina,” commentò asciutto. “Se ci
hai ripensato per la storia della maglietta bastava dirlo.”
Finsi di non sentire la sua battuta da cretino in calore qual era e
andai dritta al punto: a quel punto tutto il mio sonno era stato
cancellato dalla rabbia e da un pizzico di curiosità.
“Chi cazzo era la ragazza che dovevi scaricare sabato
sera?” domandai, incrociando le braccia al petto.
“Perché vuoi saperlo ora?”
“Perché sono appena stata fermata in corridoio
dalla nipote cerebrolesa di Don Vito Corleone che mi ha minacciata di
non toccarti se non voglio finire con una pallottola in testa. Ora,
tralasciando il fatto che non ti voglio toccare nemmeno con una
cannuccia lunga quattro metri, la tizia ha fatto intendere che avevo
pestato i piedi a qualcuno. Posso almeno sapere chi prima di
morire?”
Matt sembrava piuttosto impressionato dalla mia parlantina.
“Porca miseria, quanto parli, Gray,”
commentò infatti, stralunato. “Dammi tregua, non
sono nemmeno le otto del mattino.”
“Senti…” cominciai, cercando di sembrare
perentoria, ma Patterson mi interruppe.
“Davvero ha minacciato di spararti?”
“Chi-diavolo-è?” continuai io,
avvicinandomi di mezzo passo per fulminarlo meglio con lo sguardo: il
risultato, pessimo peraltro, fu che dovetti piegare di più
il collo per guardarlo, visti i diversi centimetri che ci separavano in
altezza.
“Lauren Garreth,” rispose Matt. “Ma la
tipa ha detto proprio che ti avrebbe sparato?”
A quel punto il mio cervello si fuse. “Lauren
Garreth?” domandai, confusa.
Lui fece un cenno affermativo con la testa.
Rimasi a bocca aperta, boccheggiando per qualche secondo, e
indietreggiai arrivando ad appoggiarmi a uno dei banchi alle mie spalle.
“Pensi ancora sia… Com’è che
avevi detto?” alzò lo sguardo, riflettendo.
“Ah, già. Pensi ancora sia una povera ragazza
innocente presa in giro dal sottoscritto?”
“La Lauren Garreth dell’ultimo anno? Lauren
sono-uno-squalo-e-mi-prendo-chi-mi-pare Garreth?”
“Proprio lei,” annuì di nuovo Matt,
ridacchiando. “Sei piuttosto fantasiosa coi soprannomi. Ne
hai uno anche per me, per caso?”
“Tu sei solo Lo Stronzo,” biascicai guardando il
pavimento.
“Non è molto carino.”
“Ma da oggi potresti diventare anche quello che mi ha messo
in guai seri.”
“Perché?” fece lui con un sorrisetto
angelico sul volto.
“Lauren Garreth è la ragazza più
popolare della scuola, tutti la amano, tutti la vogliono, tutti la
assecondano. E da oggi mi odia a morte. Odia me, insignificante insetto
del secondo anno. Perché diavolo dovevi servirti proprio di
me per scaricarla?”
L’espressione di Matt si era fatta improvvisamente
più corrucciata. “Non pensavo volessi diventare
sua amica.”
“Non me ne frega niente di diventare sua amica!”
sbraiti, tornando ad alzarmi sulle mie gambe e sventolando le braccia
per aria. “Le voglio stare il più lontana
possibile, anzi! Volevo che Lauren Garreth non sapesse mai chi ero, ma
grazie a te e alle tue idee geniali ora lo sa!”
Matt sembrava divertito dalla mia sceneggiata. “Davvero ha
minacciato di spararti, quindi?”
“Non proprio, ma il succo non era molto diverso.
Perché non vuoi farti Lauren Garreth?”
Lauren sarà stata anche mezza pazza, non avevo
più dubbi dopo aver visto la scenata della sua amichetta in
corridoio, ma era popolare ed era sicuramente molto, molto bella, oltre
che essere più grande di noi. Non riuscivo a trovare un
motivo per cui Patterson dovesse rifiutarla, in realtà.
“È insipida,” rispose lui con una
scrollata di spalle. “Me la sono fatta, ma poi mi sono
stufato,” precisò infine.
Il suono della campanella interruppe il nostro discorso proprio quando
non era rimasto più molto da dire. Matt si
sistemò lo zaino sulla spalla e mi lanciò uno
sguardo strano, prima di avviarsi verso la porta senza nemmeno
salutare.
“Principino,” dissi io, prima che uscisse.
Matt si girò e mi guardò interrogativo.
“Ti chiamo principino,” spiegai allora,
rispondendogli alla domanda che mi aveva posto prima.
“Lo so.”
“È perché ti comporti da viziato,
facendo sempre quello che ti pare. A quanto pare è tua
abitudine usare anche le persone a tuo piacimento. E non tirarmi di
nuovo fuori quel discorso sui pregiudizi, ora.”
“Uso le persone come Lauren Garreth?” chiese lui
allibito. “Veramente non è andata proprio
come…”
“Non stavo parlando di lei,” mormorai prima di
superarlo e uscire dall’aula, cercando di ributtare
giù quella strana delusione che mi aveva preso.
Perché poi? Sapevo già che Patterson era un
deficiente patentato: nulla di nuovo, quindi.
Mi fermai appena fuori dall’aula, notando qualche studente
ritardatario che mi guardava. Un paio di secondi dopo uscì
anche Matt. Sbuffai e ripartii verso la mia classe: ci mancava solo
questa da aggiungere alle voci che già giravano su di noi,
dopodiché potevo dire definitivamente addio a una vita
sociale normale, che era invece ciò che agognavo con tutta
me stessa.
Entrai in aula con il fumo che mi usciva dalle orecchie, un
po’ arrabbiata con Matt, un po’ arrabbiata con me
stessa per essermi fatta fregare da lui. Mi sedetti davanti a Jude e in
parte a Audrey e risposi alle loro espressioni interrogative dicendo
semplicemente qualcosa tipo: “Quel Patterson è un
vero deficiente.”
Per tutta l’ora successiva io, Audrey e Jude ci passammo un
foglio spettegolando di ciò che era successo, insultando
Matt e augurandogli (soprattutto io) le peggiori malattie veneree
esistenti. In quel modo, grazie alle mie amiche, mi sfogai, ma certo
non per questo ero tranquilla quando, entrando per prima nel
laboratorio di biologia, vidi Patterson sorpassare la porta poco dopo e
avvicinarsi con noncuranza alla sottoscritta.
“Tu non ti devi avvicinare a me per i prossimi
centocinquant’anni,” lo fermai, ancora prima che mi
raggiungesse.
“Non sai nemmeno cosa devo dirti.”
“E non voglio saperlo.”
Matt sospirò, si fermò davanti al banco
dov’ero seduta, e mi lanciò uno sguardo
esasperato. “Mi hai chiesto perché ho scelto te
per liberarmi di Lauren Garreth,” disse poi, continuando a
guardarmi.
“Non mi interessa più un fico secco di
cosa…” cercai di rispondergli, infuriata, ma lui
mi interruppe.
“Onestamente? Pensavo avessi le spalle abbastanza larghe da
sopportare due settimane di pettegolezzi. Per questo ho scelto
te.”
Mi lasciò senza parole per una manciata di secondi, e questa
è una cosa, per me, più unica che rara. Poi,
ovviamente, mi ripresi, ma il mio tono di voce risultò molto
meno convinto di prima.
“Non cambia le cose. Devi comunque starmi il più
lontano possibile, d’ora in poi.”
“Su questo siamo d’accordo,”
asserì Patterson, allontanandosi verso il fondo
dell’aula. “Non è che io muoia dalla
voglia di avere a che fare con te, sai, Gray. Parli decisamente
troppo.”
Stavo già per rispondergli a tono, quando un paio di ragazze
entrarono nel laboratorio e smisero di parlare per guardarci
incuriosite. Mi girai verso la cattedra e mi cucii la bocca, rimandando
gli insulti al cretino a data da destinarsi.
Salve
bella gente, ecco il terzo capitolo con un Matt in grande spolvero e
una Delia finalmente nel suo ambiente. Entriamo nel vivo,
sì, e dal prossimo capitolo ancora di più!
Volevo
avvisare che per ora ho, già pronti, solo il prossimo
capitolo e buona parte di quello successivo, quindi avrei bisogno di un
po' di incoraggiamento per continuare a scrivere, se a qualcuno
interessa la storia. Io adoro i miei personaggi, davvero, ma finora
sono a zero recensioni e la cosa non è molto stimolante: la
prima recensione vince un cioccolatino e un abbraccio virtuale (non
vengo a cercarvi a casa, easy). Grazie.
Un altro paio di precisazioni prima dei saluti:
- Finora non l'ho detto ma il titolo di Crumbling away l'ho
preso dalla canzone Falling
away with you dei Muse, che io trovo perfetta
per Matt e Delia. Significa, letteralmente, "sbriciolarsi". Magari
più avanti parlerò un po' meglio del
perché l'ho scelta.
- Ripeto per la terza volta per chi se lo fosse perso: su Efp potete
trovare Of
all the people in the world, la storia da cui ho
iniziato a scrivere di questi personaggi. È ambientata, per
ora, nel futuro rispetto a questa. Sono complementari ma non
necessitano l'una dell'altra.
- Nel prossimo capitolo grosse sorprese. Stay tuned. ;)
Bacio grosso e a presto! <3
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Capitolo 4 *** Prom (mistakes) and Summer (funs) ***
4. Prom (mistakes) and
Summer (funs)
Su una cosa Patterson aveva ragione: l’interesse per la
nostra fantomatica liaison durò al massimo un paio di
settimane, dopodiché le voci su noi due si erano
già dissolte, sotterrate dal nuovo e più
interessante gossip del momento. L’unica che
continuò a guardarmi con sospetto per qualche tempo in
più fu proprio Lauren Garreth, che ogni volta che ci
incrociavamo mi lanciava occhiate di fuoco e di disprezzo, sempre
scortata dal gruppo di fedeli oche che la seguivano ovunque nei
corridoi, tra le quali ovviamente c’era la minacciosa
biondina con cui avevo avuto a che fare quel lunedì mattina.
Infine, pure la Garreth dovette farsi una ragione del fatto che tra me
e Matt non c’era nient’altro che il nostro odio
reciproco e che, se qualcosa c’era stato alla festa di
Ramirez, era acqua più che passata. In effetti, se lo
capirono i suoi due neuroni significava che era una cosa proprio
evidente: dopo le ultime strane parole che mi aveva rivolto
nell’aula di scienze, Patterson prese nuovamente ad ignorarmi
come aveva - quasi - sempre fatto e io feci altrettanto con lui, ancora
infastidita dai suoi subdoli giochetti da quattro soldi, che lo
portavano un giorno a guardarmi con disprezzo, il giorno dopo a
chiedermi di diventargli amica e il giorno dopo ancora a trattarmi come
se fossi invisibile. Quel ragazzo avrebbe mandato ai pazzi chiunque.
Evitai di farmene un problema. Era vero che avevo la scorza
sufficientemente dura da sopportare quei pochi giorni di pettegolezzi e
occhiate sbieche in corridoio - Patterson aveva avuto ragione anche su
questo, maledizione - e, quando l’attenzione su di me
calò, a malapena me ne accorsi.
In quel periodo, infatti, cominciai a frequentare Steve Teller, un
ragazzo piuttosto carino di un anno più grande di me. Mi
piaceva parecchio, anche se probabilmente non ero innamorata pazza di
lui, e feci un errore piuttosto banale: persi la mia
verginità con lui una settimana prima del prom. Lo sbaglio
colossale, a discapito di ciò che si potrebbe pensare, non
fu tanto quello di andarci a letto - la mia filosofia era che presto o
tardi avrei dovuto avere la mia prima volta e Steve fu comunque
abbastanza dolce, anche se non particolarmente bravo a letto - ma fu
proprio quello di farlo prima del ballo di fine anno. I maschietti, si
sa, aspettano con ansia il prom per concludere qualcosa con la ragazza
di turno, e io detti a Steve l’opportunità di non
dover essere per forza carino con me fino a quell’evento.
Ma procediamo con ordine.
Il ballo, programmato per il primo venerdì sera di giugno,
era l’evento che, ovviamente, ogni ragazzo della scuola
aspettava con ansia.
Io mi frequentavo con Steve da un mese circa e, per
l’appunto, eravamo già d’accordo per
andarci assieme quando, un pomeriggio in cui mi ero recata a casa sua
per fare gli ultimi compiti di algebra, decisi malauguratamente di
concedermi e di perdere quindi ogni ascendente su di lui. Le mie amiche
rimasero piuttosto stupite dalla velocità con cui avevo
deciso di compiere quel passo ma per me non era niente di troppo
importante: ero abituata, già da quando vivevo in
California, a saltellare da un ragazzo all’altro senza troppa
serietà, flirtando con uno e perdendo la testa per un altro
per due settimane dimenticandomi poi il suo nome in un battito di
ciglia. Trovarmi interessata a Steve per più di un mese per
me era già un bel passo avanti e mi risultò
naturale fare sesso con lui non appena me ne sentii pronta.
Forse fu affrettato, ma io non me ne pentii, e così mi
ritrovai, il venerdì del ballo, fasciata nel mio abitino al
ginocchio color verde bosco, con i capelli biondo cenere che mia mamma
mi aveva aiutato a pettinare da un lato, pronta e trepidante ad
aspettare il mio accompagnatore. Steve arrivò, elegante nel
suo completo noleggiato al negozio, alle otto in punto,
salutò cortesemente i miei genitori, mi
accompagnò alla sua auto e - mi accorsi - non mi diede
nemmeno un misero bacetto sulla guancia. Ci rimasi un po’
male per questa sua apparente freddezza, ma evitai di farglielo notare
e raggiungemmo in uno strano viaggio silenzioso i miei amici alla
palestra della scuola.
Dave e Audrey erano già lì, avevano deciso
all’ultimo di fare coppia tra di loro invece di venire
entrambi da soli, dal momento che lui non aveva voluto invitare
nessuno, mentre lei si era ritrovata più o meno sommersa di
inviti da chiunque tranne che dal ragazzo che le piaceva, e aveva
preferito infine David. Josh era con Isabel, una ragazza che
frequentava da qualche settimana ma per la quale, come al solito,
sembrava non provare un gran trasporto. Per ultima, ovviamente in
ritardo, arrivò Jude accompagnata da Derek, un tipo timido e
non molto appariscente che le faceva il filo già da un
po’, ma che si era deciso a invitarla ad uscire solo
approfittando dell’ultima festa dell’anno.
Prima ancora che arrivassero Jude e Derek, però, Steve era
già sparito dai miei radar.
“Dov’è Steve?” mi chiese David
infatti, mentre chiacchieravamo.
Mi guardai intorno per cercarlo, ma di lui non c’era traccia.
“Non saprei... Sarà andato a cercare i suoi amici
per salutarli.”
“Ah. Tutto bene tra voi, invece?”
Avrei dovuto insospettirmi a quella domanda: David ha sempre avuto una
sorta di sesto senso per queste cose. Invece scrollai le spalle,
indecisa sulla risposta da dare.
“Credo di sì. È un po’ strano
ultimamente, ma magari sono solo paranoie mie.”
“Non mi sembri una da troppe paranoie.”
Sorrisi. “Hai ragione, non lo sono per niente.”
Dave si avvicinò e mi lasciò un bacio sulla
guancia. “Comunque sei uno splendore stasera, Deels, per come
la vedo io Steve sarebbe un pazzo a snobbarti.”
“Grazie McPharrell, anche tu non sei niente male.”
Arrivarono Jude e Derek e di Steve ancora non c’era
l’ombra, si ripresentò solo un po’
più tardi, con un punch per me, dicendo che si era
allontanato per andare a prendermelo.
Alzai le sopracciglia. “Sei stato via venti minuti.”
“Ho incontrato dei miei amici. Balliamo?”
Tempo di una canzone e Steve si era nuovamente dileguato con una scusa,
lasciandomi sola seduta a un angolo della palestra, mentre i miei amici
si divertivano ballando tra di loro. Poi Dave venne a chiedermi di
danzare e commentammo per un po’ la povera Isabel che
guardava storto Jude e Josh che ballavano insieme, evidentemente gelosa
del loro affiatamento. Steve tornò giusto per una capatina,
dopodiché ballai di nuovo con David, con Josh, con Audrey, e
persino con un tizio del mio anno di cui non ricordavo il nome.
Mi divertii comunque molto quella sera, nonostante la sparizione
misteriosa di Steve e nonostante Lauren Garreth che, eletta reginetta
del ballo, ebbe l’accortezza di passarmi accanto lanciandomi
un’altezzosa occhiata da manuale, come se a me potesse
fregare qualcosa della sua incoronazione.
Poco più tardi, mentre mi avviavo al tavolo del punch per
versarmene un nuovo bicchiere, capii finalmente cosa diavolo avesse
fatto il mio ragazzo per tutta la serata: lo vidi in un angolo poco
illuminato della sala che ballava con Chantal Sterling palpandole il
culo, mentre lei gli stava abbarbicata addosso quasi soffocandolo.
Ora, ripeto, non sono mai stata una romanticona e probabilmente
all’epoca non ero nemmeno innamorata di Steve. Ciò
non toglie che un cuore ce l’avessi pure io e vedere quella
scena davanti ai miei occhi e davanti agli occhi di tutta scuola me lo
fece sanguinare dolorosamente. Perché forse non
durò a lungo, ma fu doloroso: Steve era un ragazzo che mi
piaceva, era sempre stato carino con me, mi portava al ballo e poi si
faceva la Sterling così, davanti a tutti?
Ferita, la mia prima reazione fu quella di voltarmi, uscire dalla
palestra e camminare in giro per i corridoi, fino a trovare un angolo
abbastanza lontano dalla confusione; mi sedetti sui gradini della scala
che portava al piano di sopra e rimasi lì, intenzionata a
lasciare che il mio cuore sanguinasse ancora un po’, in pace.
Ma il mio piano era evidentemente destinato a non avere successo, visto
che dopo pochi minuti fui disturbata: udii dei passi provenire dalla
mia destra e interrompersi giusto un attimo prima di sentire
l’ultima voce che avrei voluto in quel momento, a parte forse
quella di Steve.
“Gray?”
Alzai la testa che avevo lasciato scivolare sulle ginocchia piegate.
“Patterson.”
Lui esitò, poi si avvicinò e si sedette accanto a
me sulle scale.
“Nessuno ti ha invitato a sederti,” gli feci notare
con un tono piatto, ma senza muovermi di un millimetro.
Matt non si scompose alla mia freddezza. “Non mi pare di aver
letto il tuo nome su questo gradino.”
“Nemmeno il tuo, se vogliamo dirla tutta, eppure ti sei
comunque seduto qui.”
“Già. Proprio dove sei seduta tu. Le coincidenze,
eh?”
Sbuffai, roteando gli occhi: quel ragazzo era nato per rendere la mia
vita un inferno, non c’erano dubbi.
“La festa fa schifo, non trovi?”
Alzai le spalle, poi risposi sinceramente. “Io mi sono
divertita.”
“Ed è per questo che sei qui da sola, seduta su un
gradino, a piangerti addosso?”
“No, è perché un quarto d’ora
fa ho beccato il ragazzo che frequento e con cui sono venuta al ballo
in atteggiamenti piuttosto intimi con Chantal Sterling. Ma
così imparo che non è il caso di fare sesso con
qualcuno una settimana prima del prom, se non voglio fargli perdere
tutto l’interesse nei miei confronti e ritrovarmi in una
situazione del genere. Con te, peraltro.”
Finii la filippica senza mai riprendere fiato, poi mi girai verso Matt,
che mi guardava interessato e con un sopracciglio leggermente alzato.
“Chantal Sterling non mi sembra questo
granché,” commentò infine, con tono
definitivo.
Mi scappò un sorriso. Non sapevo se Matt l’avesse
detto con l’intenzione di farmi tornare il buon umore, di
fatto però ci era quasi riuscito.
“In effetti… Almeno se fosse stata Lauren Garreth
me ne sarei fatta una ragione più facilmente.”
“Neanche la Garreth è questo granché. E
parlo con cognizione di causa.”
Gli tirai un pugno fiacco sul braccio. “Angelina Jolie ti
basta o neanche lei è alla tua altezza,
principino?”
“Angelina Jolie è ok.”
Scossi la testa, non si smentiva mai. “Lauren Garreth
è appena stata eletta reginetta e mi è passata
accanto squadrandomi come se fossi un insetto.”
“Di già? Mi sono perso l’incoronazione,
la mia serata non vale niente.”
Lo guardai di nuovo, assottigliando gli occhi. “Ce
l’ho ancora con te per la faccenda della festa, non credere
che me ne sia dimenticata.”
“Me ne farò una ragione.”
“Ti sei comportato da grandissimo stronzo,
Patterson.”
“Davvero?”
“Sto ancora aspettando le tue scuse.”
“Buon per te.”
Mi venne fuori dalla gola un suono gutturale simile a un ringhio.
“A cuccia, Gray,” commentò allegro Matt,
facendomi se possibile incazzare ancora di più.
“È Teller quello con cui sei venuta al ballo,
vero?”
“Sì, perché?”
Quello che accadde dopo fu talmente veloce ed inaspettato che non ebbi
minimamente il tempo di reagire. Matt mi si avvicinò, mi
appoggiò una mano sul volto facendomi girare verso di lui e
posò le labbra sulle mie.
Mi stava baciando, che cazzo.
Sentii le sue labbra schiudersi appena sulle mie e il suo respiro
sfiorarmi la guancia; ebbi a malapena il tempo di elaborare la cosa che
si era già allontanato di qualche centimetro. Lo guardai con
tanto d’occhi, incapace di muovermi.
“Che cazzo fai?” gli chiesi in un sussurro
strozzato, il cuore incastrato in gola per la sorpresa.
Patterson mosse impercettibilmente la testa verso la sua sinistra,
indicandomi il corridoio di fronte alle scale su cui eravamo seduti. Mi
girai, ancora confusa, e vidi in piedi lì davanti Steve,
fermo a una decina di metri di distanza da noi, che ci osservava
stupefatto almeno quanto me. No, forse non così tanto, ma
sembrava parecchio incredulo anche lui.
Mi voltai di nuovo verso Matt, boccheggiando, poi mi alzai e andai
istintivamente da Steve.
“Senti…” cominciai indecisa, non sapendo
come spiegargli ciò che aveva appena visto.
“Te la fai con quello?” mi chiese lui, con
un’espressione schifata e quasi oltraggiata a dipingergli il
viso.
La rabbia prese il sopravvento su di me: si permetteva pure di fare
l’offeso dopo quello che aveva fatto tutta la sera alle mie
spalle? Bella faccia tosta, davvero.
“E tu, te la fai con la Sterling?” gli ritornai la
domanda, acida, mentre incrociavo le braccia al petto.
Steve sbiancò, colto in fallo. “Cosa
stai…? Non è vero, io…”
“Risparmiati le scuse, Teller, vi ho visti, e non credo di
essere l’unica. Direi che siamo pari, chiudiamola
qui.”
Lui non trovò niente da obiettare, incassò il
colpo e si girò, allontanandosi con la coda fra le gambe.
A quel punto, ancora parecchio incazzata, mi voltai verso Patterson che
se ne stava tranquillamente seduto sulle scale, come se il caso non
fosse il suo.
“E tu…” iniziai, camminando decisa nella
sua direzione. “Credevo di essere stata abbastanza
comprensibile, l’altra volta, nel chiarire che non voglio per
nessuna ragione al mondo avere più a che fare con te. Ti
diverte tanto starmi tra le scatole?”
“Ti ho fatto un piacere, piccoletta, puoi anche
ringraziare.”
“Come? Sei… Sei davvero incredibile!”
sbottai, a corto persino di insulti.
“Lo so, grazie,” sorrise lui.
“Senti un po’, Patterson, io non so quali siano i
tuoi problemi, ma se pensi che questo tuo atteggiamento da gran…”
Matt mi interruppe con un gesto secco della mano e mi parlò
sopra.
“Alt, ferma, tregua! Non cominciare con la solita tiritera,
non ho tutta la notte. Mi hai dato una mano a scaricare la Garreth e io
ti ho aiutato a vendicarti di quel tipo, ok? Siamo pari. Puoi evitare
di farti venire un infarto.”
“Io non…”
“E comunque mi dovevi un bacio finto.”
“Non ti dovevo un bel niente!”
Matt si alzò e scese quei due o tre gradini che ci
separavano, mettendo fine alla mia momentanea situazione di
superiorità in altezza.
“Ah no?” commentò tranquillo, pulendosi
il retro dei pantaloni con le mani. “Mi pareva di ricordarmi
così. Mi sarò sbagliato.”
“Io ti odio, Patterson. Davvero.”
“Prego, Gray. È stato un piacere,”
rispose lui, mentre si voltava e prendeva il corridoio per
allontanarsi.
“Vaffanculo!” gli urlai dietro, ormai ben oltre il
limite della mia sopportazione.
Matt si limitò ad alzare una mano a mo’ di saluto,
senza nemmeno guardarmi.
Le vacanze estive arrivarono qualche giorno più tardi, per
il bene della mia sanità mentale: incrociare tutti i giorni
a scuola Teller e Patterson non mi faceva per niente bene,
né a me né al mio fegato.
Avevo raccontato brevemente ai miei amici ciò che era
successo con Steve al ballo, tralasciando però tutta la
parte su Matt. Mi faceva incazzare il solo pensarci, e mi vergognavo
anche un po’, senza sapere perché, per tutta la
faccenda. A quanto pareva, nemmeno Steve aveva raccontato in giro del
mio bacio con Matt, dal momento che non mi ritrovai sommersa di
pettegolezzi come mi sarei aspettata: evidentemente anche lui si
vergognava del palco di corna che mi aveva messo con la Sterling,
perché, nei giorni successivi, quando lo incontravo in
corridoio si limitava a cambiare strada abbassando la testa. Forse non
aiutava nemmeno il fatto che i miei amici lo guardassero come se fosse
merda secca, a dirla tutta, ma avevano i loro buoni motivi per farlo.
Patterson, invece, aveva ripreso a salutarmi, ma riceveva da me solo
occhiatacce cariche d’odio e qualche insulto colorito.
Persino Jude un giorno mi chiese perché ce
l’avessi tanto con lui; le risposi solo con un
“è un cretino” che chiuse
definitivamente ogni possibile discussione sull’argomento.
Avevo assolutamente bisogno di distrarmi. L’arrivo delle
vacanze mi concesse, grazie al cielo, di farlo.
Luglio lo passai perlopiù a dormire, mangiare e divertirmi
in giro con i miei amici. Per la maggior parte del mese di agosto,
invece, tornai in California con i miei genitori, e passammo le ferie a
casa della sorella di mio padre. Rividi molti dei miei vecchi compagni
di classe, passai le mie giornate in spiaggia, e godetti anche di
un’avventura estiva con un ragazzo della mia precedente
scuola che mi piaceva da un pezzo. Non potevo chiedere migliore
distrazione.
Sempre in quel periodo, poi, feci un’altra cosa che mi rese
piuttosto orgogliosa di me stessa: un pomeriggio particolarmente caldo
entrai in un salone di parrucchiere a caso e chiesi alla ragazza che mi
guardava stupita con le forbici in mano di dare un taglio netto ai miei
capelli. Ne uscii con un caschetto piuttosto corto e una tinta color
cioccolato che si intonava bene alla mia abbronzatura estiva. A mio
padre per poco non venne un colpo quando mi vide, mia madre invece
sembrava divertita, e i miei amici mi fecero un sacco di complimenti
stupefatti.
Tornai a Winthrop una decina di giorni prima dell’inizio
della scuola e, ovviamente, dovetti darmi da fare coi compiti che avevo
snobbato per tutta l’estate.
Rividi anche i miei amici in quei giorni e venni informata delle ultime
novità piuttosto succose: Jude aveva perso la
verginità con Derek Finn, il ragazzo con cui era andata al
ballo qualche settimana prima. Me lo raccontò Audrey un
pomeriggio di inizio settembre in cui uscimmo io e lei.
A detta di Aud, Jude e Derek sembravano stare davvero bene insieme e
questo, secondo David, creava non pochi fastidi a Josh, che invece
pareva infastidito dall’affiatamento dei due, ed era saltato
di ragazza in ragazza per tutta l’estate uscendo meno del
solito con il resto del gruppo.
“Non capisco perché,” mi disse Audrey
mentre ce ne stavamo sedute su un muretto di un parco poco lontano dal
centro città, “secondo Dave Josh sarebbe
infastidito da Jude che fa coppia fissa con Derek. È stato
proprio lui a presentarlo a Jude, se non sbaglio.”
Sospirai, scuotendo la testa: Audrey era
l’ingenuità fatta a persona per quanto riguardava
questo genere di cose, non c’era niente da fare.
“Vedi, credo che Dave intendesse dire…”
cominciai paziente a spiegarle.
Aud mi interruppe. “Quello non è Matt
Patterson?”
Sussultai, sorpresa, e seguii lo sguardo della mia amica, fino ad
arrivare al marciapiedi dall’altra parte della strada:
lì c’era, appunto, Patterson, appoggiato
mollemente al muro con una sigaretta in mano. Guardava distrattamente
il cemento della strada di fronte a sé, lasciando che la
sigaretta si consumasse da sola tra le sue dita.
Magnifico,
pensai scoraggiata. Sono
in città da meno di quarantott’ore e tra tutti
dovevo incontrare proprio lui.
“Cosa starà facendo lì da
solo?” mi chiese Audrey, ovviamente incuriosita dalla sua
natura di ficcanaso professionista.
“Si sarà finalmente deciso a fare un giro tra i
comuni mortali,” commentai caustica. “Cerchiamo di
non farci notare, Aud, preferirei non doverlo affrontare almeno fino
all’inizio della scuola.”
Matt non ci notò, anzi. Continuò a restare fermo
in quella posizione, l’unico impercettibile movimento che
potevamo notare era il leggero strofinio stanco del suo piede
sull’asfalto del marciapiedi.
Era assurdo vederlo così, mi sembrava di spiare qualcuno in
un momento di intimità: ebbi l’impressione di
vederlo nuovamente senza maschera, quasi spoglio in quella sigaretta
lasciata a consumarsi e quel lieve dondolio della punta del piede.
Avevo già avuto, alla festa di Ramirez,
l’impressione di coglierlo in un raro momento di
onestà e limpidezza, ma era durato un attimo e avevo sempre
pensato di averlo immaginato. Eppure quel pomeriggio, di nuovo, pensai
fugacemente che Patterson doveva essere molto più di
ciò che dava a vedere.
Quando la sigaretta che aveva in mano era praticamente finita, Matt
spense il mozzicone, lo gettò su un posacenere appoggiato
alla finestra e si voltò rientrando nell’edificio
alle sue spalle da una porta di servizio.
Io e la mia amica restammo entrambe in silenzio per qualche secondo
finché Audrey non si batté improvvisamente una
mano sulla coscia, facendomi sobbalzare penosamente, tanto ero persa
nei miei pensieri.
“Quella dev’essere la porta sul retro del Green Cafè!”
esclamò, come se le fosse tutto improvvisamente chiaro.
La guardai confusa e lei si spiegò. “Mi avevano
detto che Patterson lavorava lì, quest’estate, ma
ci sono stata e non l’ho mai visto, perciò pensavo
fosse una bufala. Probabilmente lavora in cucina, per questo non
è mai in sala.”
“In cucina a fare cosa?”
“Boh, può fare un milione di cose diverse. Prepara
i panini, fa gli ordini per i pranzi, pulisce, lava le
stoviglie…”
“Lo sguattero?” chiesi dubbiosa: non ce lo vedevo
proprio uno come Patterson che lavorava come lavapiatti, senza
considerare tutti i soldi che doveva avere la sua famiglia.
Aud alzò le spalle. “Magari voleva un lavoretto
estivo.”
“Sarà,” borbottai io, ancora poco
convinta. “Forza, andiamo a salutare Jude, mi ha detto che
oggi pomeriggio è a casa.”
Anche la visita a Jude ebbe un risvolto inaspettato, almeno per me.
Quando suonammo, venne ad aprirci la porta un bellissimo ragazzo,
evidentemente più grande di noi, che indossava solo dei
pantaloncini da basket. Mi scrutò stupito, poi
spostò lo sguardo sulla mia amica dietro di me e sorrise.
“Ehi, ciao Audrey,” la salutò
allegramente, spostandosi per farci entrare.
I miei ormoni si erano agitati al suo sorriso, quindi lo sorpassai
continuando a guardarlo curiosa. Chi diavolo era quel figo da paura che
girava mezzo nudo a casa di Jude? C’era qualcosa che non
quadrava, Derek non me lo ricordavo affatto così.
“Ciao Kerr,” rispose lei, svelandomi finalmente
l’arcano.
“Kerr?” chiesi io, priva di pudore come al solito.
“Sei il fratello di Jude?”
“Yep,” rispose lui facendomi un occhiolino che
quasi mi stese. “E tu devi essere…”
“Delia,” mi presentai io, riprendendomi, sfoderando
un sorrisone e porgendogli la mano.
“Giusto, Delia. La californiana.”
“Già. Ma puoi chiamarmi Dee, se vuoi,”
gli dissi ricambiando l’occhiolino di poco prima.
Audrey seguiva lo scambio di battute esterrefatta: era abituata a
vedermi flirtare con i ragazzi, ma evidentemente non si aspettava di
trovarmi così spigliata anche di fronte al fratello maggiore
della nostra amica.
Kerr fece un sorrisone e mi lanciò uno sguardo divertito
che, purtroppo, è lo sguardo che si riserva precisamente
all’amichetta della propria sorellina piccola. Maledizione.
“Vi chiamo la piccolina,” ci disse poi, confermando
il mio pensiero di poco prima. Dopodiché si sporse per le
scale e sbraitò alla sorella che eravamo arrivate, dal piano
di sopra ci giunse ovattata la voce di Jude che rispondeva con qualcosa
di incomprensibile per chiunque.
“Ha detto che potete raggiungerla in camera sua,”
disse invece Kerr, tornando a guardarci.
Io e Audrey ci lanciammo uno sguardo stupito.
“Tu hai capito cos’ha detto?” chiesi a
Kerr mentre già salivamo i primi gradini.
Lui ridacchiò. “Comunichiamo così da
sempre, certo che capisco.”
Entrai nella camera di Jude con un’espressione ancora
adorante in volto.
“Hai un fratello così tremendamente figo e non mi
dici niente?”
Jude mi guardò come se avessi sbattuto la testa molto forte.
“Figo? Kerr?”
“Perché, hai altri fratelli?”
“Tu sei sciroccata, Dee. Sei già stata altre volte
a casa mia, non…”
“Infatti!” esclamai io enfatica. “E me
l’hai sempre tenuto nascosto.”
“Perché fa il college a New York, non è
quasi mai qui. Intendevo dire che è pieno di foto di Kerr a
casa mia, è impossibile tu non le abbia viste.”
“Certo che le ho viste, ma siete piccoli in quelle
foto!” le spiegai, e sottolineai le mie parole indicando con
la mano una cornice sulla libreria in camera sua: nella fotografia al
suo interno c’era uno sdentato e sorridente bimbo di cinque
anni che teneva in braccio una piccolina di qualche mese appena.
“Adesso è davvero stupendo!” conclusi,
puntando uno sguardo sognante sul soffitto.
“Stupendo? Devi farti fare un controllo alla vista,
Dee…”
“Cosa? Audrey, di' qualcosa!” dissi, cercando aiuto
nell’unica altra persona in quella stanza che non aveva
patrimonio genetico in comune con il ragazzo di cui stavamo parlando.
Audrey intervenne. “Beh, è carino, ma credo tu ti
sia più che altro fissata sulla mancanza di vestiti nella
parte superiore del corpo, Dee.”
Jude ridacchiò. “Ovvio. Hai un problema ormonale,
tu!”
“E comunque ti somiglia un sacco, Jude, hai poco da
sminuire,” continuò Aud, indicandola.
Lei sbuffò, ma adesso che avevo modo di pensarci pure io
senza i pettorali di Kerr davanti, dovetti concordare che era vero.
Mi buttai sul letto divertita. “Bene, ora che abbiamo
stabilito ciò… Io e i miei ormoni possiamo
raccontarvi di Marc se tu,” dissi indicando Jude,
“mi racconti tutto di Derek.”
Jude arrossì imbarazzata, mentre Audrey spalancava gli
occhi.
“Ti sei fatta Marc? Quel
Marc che ti piaceva a Oakland?”
Annuii soddisfatta. “Beh, praticamente abbiamo flirtato tutta
la mia prima settimana lì, ma lui non si è
avvicinato finché, un venerdì sera, il suo amico
Lenny non ci ha provato con me e…”
Cominciai a raccontare tutto srotolando la mia solita parlantina e
sorridendo.
Ero felice: stava per iniziare un nuovo anno a Winthrop e io avevo
delle amiche splendide con cui condividere le mie psicosi e da stordire
con la mia logorrea. Non potevo essere più fortunata di
così.
Hola!
Sono di nuovo qui senza grossi ritardi, se qualcuno davvero segue
questa storia deve cominciare a ringraziare gli dei dell'Olimpo per la
mia strana puntualità! Ma non formalizziamoci, vado al punto
che è meglio.
Non ho
molto da dire, forse vi aspettavate qualcosa di più da
questo capitolo, ma per i tempi che ho io di solito direi che siamo
già ben che avanti! Il bacio c'è stato, un po'
stitico e fatto per un motivo particolare, ma c'è stato.
Ricordatevi che Delia NON ha raccontato ai suoi amici dell'accaduto,
questo vi servirà a capire un po' meglio il personaggio, che
non è così lineare come poteva sembrare a prima
vista (e chi mai lo
è?). D'altronde, chi di voi ha letto anche Of
all the people in the world (la
storia su Jude ambientata nel futuro, cliccate il titolo per aprirla)
sa che Jude, diversi anni dopo, sospetta qualcosa ma non sa niente di
cose accadute tra Delia e Matt.
Per quanto riguarda Matt Lo Stronzetto, invece, penso che si
comincerà a capire molto di più sul suo carattere
a partire dal prossimo capitolo, che, per la cronaca, è
probabilmente il mio preferito finora. Ma non faccio spoiler.
Mi piacerebbe da morire
psicanalizzare uno per uno i miei personaggi, cosa che non posso fare
bene nella storia perché parlo solo con la voce di Delia,
ovviamente. Ma dubito che ve ne freghi qualcosa. Qualcuno di voi vuole
dirmi che ne pensa? Li trovate coerenti? Ci tengo tantissimo alla
caratterizzazione, e la storia ha una trama che dura diversi anni,
quindi i personaggi matureranno... Spero di riuscire a mantererli
coerenti pur nella crescita. Fatemi sapere che ne pensate.
Ho BISOGNO delle vostre recensioni, gente, faccio per la prima volta
davvero questo appello, perché so che qualcuno
c'è e sta leggendo. Le recensioni, anche quelle critiche,
sono il sale per chi pubblica qui, servono per continuare ad avere la
giusta spinta e l'ispirazione per scrivere.
Grazie mille a chi segue la storia, un bacione grosso a tutti quelli
che leggono! Bye bye.
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Capitolo 5 *** How to silence a bully ***
5. How to
silence a bully
Il
terzo anno di liceo iniziò e, sorprendentemente, ne fui
contenta. Sono sempre stata iperattiva di natura e andare a scuola,
vedere gente tutti i giorni, poter parlare e stare sempre coi miei
amici, in fondo, mi piaceva.
C’era solo il piccolo inconveniente di dover per forza avere
a che fare anche con persone che avrei preferito non incontrare fino
alla fine dell’anno scolastico. Tipo Patterson, tanto per
fare un nome a caso. Cominciammo l’anno male esattamente come
avevamo concluso quello precedente.
Il primissimo giorno di scuola arrivai in anticipo, addirittura prima
di Josh, talmente ero eccitata di rivedere finalmente tutti i miei
amici insieme. I corridoi erano semi deserti: salutai le poche persone
che conoscevo e poi andai a prendere posto nella zona caffetteria, che
non era altro che un piccolo atrio prima del cortile, munito di un paio
di macchinette del caffè e di qualche tavolo circondato da
vecchie poltroncine. Gli studenti si contendevano, durante le ore buche
o gli intervalli, quei pochi posti, ma essendo arrivata molto presto
trovai i tavoli praticamente vuoti e, frequentando finalmente il terzo
anno, non rischiavo neanche di sedermi per poi essere scacciata in malo
modo da qualche galletto più grande che non voleva quelli
del primo o del secondo lì intorno.
Cominciai a guardarmi attorno nell’attesa frenetica di una
faccia amica ma i minuti passavano a non arrivava nessuno. Sbuffai
guardando l’orologio: mancavano venticinque minuti
all’inizio delle lezioni, forse avevo esagerato con la
sveglia quella mattina. Mi rassegnai ad aspettare mettendomi
più comoda sulla poltroncina e in quel momento fece la sua
solita entrata pigra Matt Patterson.
Avevo ancora davanti agli occhi l’immagine di lui sul retro
del Green
Cafè con quell’espressione distratta
e sincera appiccicata addosso. Forse per questo mi trovai stranamente
ben disposta, mi dimenticai del ballo, del bacio, dei litigi, e decisi
di salutarlo, quasi allegra.
“Ehi, ciao.”
Matt, che in quel momento mi stava passando di fianco, alzò
la testa e mi guardò, confuso per un attimo, come se non mi
riconoscesse – cosa che mi era successa con altre persone
quella mattina, visto il cambiamento dei miei capelli. Notai che aveva
capito chi ero quando, dopo qualche secondo e un lampo di comprensione
nei suoi occhi, aprì la bocca per dire qualcosa, ma si
fermò alzando le sopracciglia e squadrando il mio
abbigliamento dall’alto al basso.
Evidentemente non apprezzava la mia tenuta del giorno: uno scamiciato
azzurro acceso a maniche corte, dei sandali con una zeppa in sughero e
i capelli, tagliati e tinti di castano scuro durante
l’estate, legati in una codina alta che mi spuntava dalla
testa come una piccola fontanella. Ah, e gli orecchini etnici a
spirale. Colorati. Con le perline.
Quell’esame visivo mi stava innervosendo, così,
ovviamente, parlai.
“Tutto bene? Hai capito chi sono o ti hanno lobotomizzato
durante l’estate?”
Ok, non era il massimo come incipit, ma in mia difesa posso dire che la
domanda fu pronunciata con un tono scherzoso per stemperare
l’imbarazzo, non con l’acidità con cui
ero solita rivolgermi a lui.
“Sì, Gray. Stavo solo cercando di capire se sembri
più l’infermiera o la paziente di una casa di cura
per malati psichiatrici. Dal vestito direi più
l’infermiera, ma…”
“Bastava rispondere con un ciao,
sai.”
“Non volevo essere banale.”
“Sia mai che mostri un po’ di educazione, per
l’amor del cielo.”
La sua risposta mi aveva fatto tornare acida. Non c’era
niente da fare, davvero, ero una persona socievole io, ma Matthew
Patterson risvegliava i miei istinti omicidi.
“La paziente,” commentò lui infine.
“Sembri più la paziente.”
In quel momento arrivarono Josh e David, e Matt si girò a
salutarli educatamente, cosa che con me era impossibilitato a fare.
“Ciao Patterson,” rispose Josh dandogli una pacca
sulla spalla.
“Buongiorno,” fece David, il solito tono allegro.
Poi si girò verso di me. “Dee, sei davvero carina
oggi. Bello il vestitino,” commentò dandomi un
bacio sulla guancia e sedendosi accanto a me sulla poltroncina a due
posti.
Mi girai soddisfatta verso Patterson. “Sentito?”
Lui alzò le mani in segno di resa e si allontanò,
andandosi a sedere da solo a un tavolino poco lontano.
“Perché non lo invitiamo qui con noi? È
solo,” propose Josh, sedendosi su una poltrona lì
di fianco.
“Chissà come mai,” sbuffai io,
sottovoce, senza neanche prendere in considerazione quella malsana
proposta.
“Perché Delia lo odia,” disse invece
David, rispondendo anche per me.
Josh mi lanciò un’occhiata confusa. “Lo
odi? Che ti ha fatto?”
“È un cretino. E maleducato, anche se
evidentemente solo con me,” risposi, tentando di tenere la
voce abbastanza bassa per non farmi sentire. Patterson sapeva
già quello che pensavo di lui, ma avrei volentieri evitato
un secondo battibecco prima dell’inizio delle lezioni.
David guardò Josh stupito. “Parker, sei
l’unico in tutta la scuola a non esserti accorto che questi
due non si possono vedere!”
In effetti, Josh non era particolarmente attento a queste cose, era
piuttosto svampito riguardo al mondo circostante. A meno che non si
trattasse di Jude, ovvio.
Il diretto interessato scrollò le spalle. “Pensavo
scherzassero, non che si odiassero per davvero.”
“Certo,” annuì Dave. “Questo
finché Matt non l’ha usata per liberarsi di Lauren
Garreth, a quel punto deve averle detto qualcosa che l’ha
fatta incazzare sul serio. Ma credo che poi sia successo anche qualcosa
di peggio, perché non ho mai visto Deels così
stronza con qualcuno, nemmeno quando Steve…”
A quel punto lo interruppi, David ci stava prendendo decisamente un
po’ troppo per i miei gusti.
“Ehi! Io sarei qui!” esclamai offesa.
Josh rideva di gusto. “Peccato, era una storia
avvincente,” disse, mettendosi più comodo sulla
poltroncina. “Niente Patterson, quindi, ho capito. Voi avete
fatto tutti i compiti della Spencer? Perché io
no…”
I primi mesi dell’anno scolastico volarono via abbastanza
tranquilli e rapidi, tra l’invito per una festa rimediato,
ovviamente, da David, i compiti per casa da svolgere il più
velocemente possibile per poi uscire con gli amici, e i continui
battibecchi con Patterson durante le ore di lezione e non. I nostri
piccoli litigi presero una cadenza all’incirca settimanale e
ci resero anche uno spettacolo di discreto successo: spesso, quando ci
incontravamo in corridoio, qualcuna delle persone lì attorno
si girava a guardarci sperando in una frecciatina da parte di Matt che
scatenasse una mia reazione stizzita. Qualcuno mi adorava per come
sapevo tenergli testa, qualcun altro, invece, riteneva che fossi una
sfigata malata di mente che non sapeva apprezzare il fatto che Matt
Patterson, quel bel figaccione tenebroso, mi rivolgesse la parola.
Quasi sempre per insultarmi, ma tant’è.
Ma gli avvenimenti più interessanti di quel periodo furono,
in verità, altri.
Innanzitutto, prima delle vacanze di Natale e dopo il mio
diciassettesimo compleanno, Jude e Derek si mollarono. Più
volte. Questo perché, dopo la prima volta che Derek la
scaricò, tornarono assieme, poi ci fu una specie di breve
riavvicinamento con successivo riallontanamento, e poi tornarono
insieme per un paio di settimane, prima di lasciarsi di nuovo, il tutto
nel giro di un mese circa. La verità era che Jude si sentiva
ancora parecchio presa dal ragazzo, e ogni volta che Derek tornava da
lei, confuso sui suoi sentimenti e, forse, inconsapevole di farle
così tanto male, lei non riusciva a dirgli un secco no e
cedeva, tornando con lui.
Ho sempre avuto il sospetto che la situazione, alla fine, fosse stata
sbloccata in maniera definitiva da Josh. Una mattina, uscendo
dall’aula di francese per andare a recuperare un libro nel
mio armadietto, vidi in corridoio Josh, espressione seria e risoluta in
volto, che parlava proprio con Derek Finn, il quale aveva invece la
testa bassa e l’aria abbattuta. Non sentii nulla di quello
che si dicevano e non mi soffermai ad origliare, ma notai che da dopo
quell’episodio Derek smise di giocare al tira-e-molla con la
mia amica.
Ovviamente, non parlai mai con Jude di quello che credevo fosse
successo, non perché volevo essere sleale nei suoi
confronti, ma perché ritenevo che Josh avesse agito solo per
il bene di lei. Inoltre, credo che quella sia stata la prima e
l’ultima volta che Josh intervenne personalmente nella vita
amorosa di Jude: era sempre stato iperprotettivo nei suoi confronti ma
la lasciava, giustamente e da bravo amico, fare
ciò che voleva, senza nemmeno darle troppi consigli, anche
se lei gli parlava di tutto.
Quello che invece Josh fece e che continuò a fare anche
negli anni a venire quando lei stava male per un ragazzo, fu mollare
tutto ciò che riteneva meno importante per rendere Jude il
centro del proprio universo in quel periodo: scaricò la
frequentazione del momento, disertò qualche allenamento
della squadra di basket e, con discrezione ma con una tenacia
stupefacente, risollevò Jude dal periodo nero in cui si
trovava, coccolandola e facendola ridere come solo lui sapeva fare.
Jude stette da cani per qualche settimana, poi migliorò,
infine tornò la ragazza ironica e ritardataria che tutti
conoscevamo.
E poi, finalmente, David un giorno fece coming out e si
dichiarò omosessuale. Non fu una cosa rose e fiori, non fu
semplice né immediato come in quei film in cui il ragazzo
omosessuale di turno un giorno alza la mano e dice: “Volevo
dire a tutti che sono gay, so che vi andrà bene, grazie e
baci”. Winthrop era una piccola cittadina, non tutti
lì erano così aperti mentalmente, e per David non
era facile prendere consapevolezza e decidere di sbandierare i propri
affari ai quattro venti.
Certo, era una cosa che era già nell’aria da un
po’: Dave ogni tanto commentava i ragazzi con noi e almeno
io, Jude e Audrey avevamo già previsto l’ipotesi
che fosse gay, anche se non ce ne aveva mai parlato chiaramente.
L’unico ad essere veramente all’oscuro era Josh, e
infatti Dave decise di confessarlo proprio a lui e a Jude un pomeriggio
in cui erano assieme a studiare. A dirlo a me e Audrey fu Jude, qualche
giorno più tardi, spiegandoci che fino a quel momento David
l’aveva detto solo a noi e a sua madre e che non voleva che
il resto della scuola lo sapesse.
Ovviamente per noi non cambiò assolutamente nulla nella
relazione con Dave, era sempre il nostro amico pazzo e disponibile con
tutti. Josh fu quello che rimase un po’ più
tramortito dalla notizia, ma solo perché, a differenza di
noi ragazze, non se l’aspettava. Se la cosa gli
creò degli scompensi, comunque, non lo diede a vedere, e
l’equilibrio del nostro piccolo gruppetto non si
modificò in maniera consistente.
Quell’inverno, un martedì mattina stavo
chiacchierando tranquillamente con Audrey prima dell’inizio
delle lezioni, quando notammo che si era creato un capannello di
persone in fondo al corridoio. Ci avvicinammo, ovviamente incuriosite
dal parapiglia e dalla voce che sembrava provenire dal centro di questa
cerchia di nostri compagni.
Per cercare di capirci qualcosina in più domandai a un
ragazzo che conoscevo, Michael Brady, se sapesse dirmi cosa stesse
accadendo, poiché immaginavo che essendo parecchio
più alto di me con ogni probabilità riuscisse a
vedere oltre al resto della gente. Lui scrollò le spalle,
disinteressato.
“Ashton se la prende con McPharrell,”
spiegò conciso.
Spalancai gli occhi, credendo di aver capito male. “Con
David?”
Michael annuì mentre Aud, al mio fianco, mi stringeva
spasmodicamente il braccio, allarmata.
“Perché cazzo…?” biascicai,
ma mi bloccai subito, sbiancando, quando mi arrivarono con chiarezza le
parole cariche d’odio e di scherno che uscivano dalla bocca
di Pierce Ashton in quel momento.
“Allora è vero che sei un finocchio, eh,
McPharrell? Avanti, rispondi.”
Immediatamente mi voltai verso Audrey, che mi guardava con il panico
negli occhi, e, senza perdere altro tempo, le dissi cosa fare.
“Vai a cercare Josh, sicuramente è già
arrivato.”
“Tu che fai?”
“Cerco di fermare Ashton.”
Lei sbarrò gli occhi. “Delia…”
“Non abbiamo tempo da perdere, ci serve Josh. Vai!”
Audrey mi lanciò un ultimo sguardo preoccupato, poi fece
come le avevo detto, fidandosi di me. In effetti, il ragionamento che
avevo fatto in quei due secondi di tempo che avevo avuto per riflettere
era piuttosto sensato. Pierce Ashton era un bulletto prepotente e
maleducato, che spesso se la prendeva con altri ragazzi della scuola,
generalmente più minuti e meno in vista di lui. Era il
tipico adolescente coglione che potevi trovare in una piccola scuola
come la nostra, un concentrato di muscoli e stupidità con la
tendenza a fare il bullo e ad alzare, a volte, le mani. Dal momento che
Josh godeva di una certa popolarità a scuola –
giocava nella squadra di basket, dove peraltro era compagno di squadra
proprio di David e di Ashton – era probabile che riuscisse a
farsi ascoltare da quel decerebrato, che di sicuro invece non avrebbe
dato retta a me, che ero una ragazza, ero bassa, ed ero pure poco
popolare.
Nonostante ciò non mi passava neanche per
l’anticamera del cervello l’idea di abbandonare
David nelle mani di quel gorilla fino all’arrivo di Josh,
perciò, spinta da un coraggio che, in verità, non
mi è mai mancato, mi feci strada superando le persone che
assistevano all’aggressione senza muovere un dito –
quegli idioti ritardati dei miei compagni di scuola
l’avrebbero pagata in seguito – e raggiunsi
l’epicentro dell’azione.
Pierce Ashton aveva messo all’angolo David, che se ne stava a
testa bassa appoggiato al proprio armadietto, mentre l’altro
lo insultava dall’alto della sua statura. Non che Dave fosse
basso, ma in quel momento era così palesemente umiliato e
scoraggiato che stava con la testa incassata tra le spalle ad ascoltare
gli insulti senza avere il coraggio di muovere un dito, stremato da
quella situazione surreale.
“Allora, brutta checca, mi vuoi rispondere o no?”
ringhiò Ashton prendendo il mio amico per il bavero della
polo e spingendolo contro l’armadietto con rabbia.
Aprii la bocca e scattai in avanti, mossa dallo schifo verso quel
sopruso, prima che il cervello mi suggerisse effettivamente come agire;
ma, mentre lo facevo, fui anticipata da qualcuno che, nel superarmi, mi
prese per una spalla e mi spostò dietro di sé.
“C’è qualche problema, Ashton?”
Matt Patterson. Era lui che mi aveva superata e spostata per porsi tra
me e l’idiota che avevo di fronte. Per un istante, nel
realizzare cos’era appena successo, rimasi talmente allibita
da non riuscire a muovermi, la bocca semi aperta e gli occhi puntati
sulla schiena di Patterson.
Pierce dovette rimanere altrettanto stupito, perché
mollò la presa su David e guardò Matt confuso.
“Che vuoi?” gli chiese poi, indeciso sul da farsi.
“Ti ho chiesto che problemi ci sono, visto che eri impegnato
a sbattere il tuo compagno sull’armadietto.”
Ashton fece una smorfia disgustata. “Lui non è un
mio compagno, è una checca.”
Matt lo guardò in attesa di spiegazioni più
dettagliate, che non tardarono ad arrivare.
“Frocio, capisci?” sputò fuori
l’altro indicando con un gesto David, che nel frattempo
continuava a starsene appoggiato all’armadietto con la testa
bassa e l’aria abbattuta.
“Quello che non capisco è perché lo
stavi insultando. Hai la necessità di picchiare qualcuno di
più debole di te prima dell’inizio delle lezioni,
la mattina? Te l’ha prescritto il dottore, per
caso?”
Il gruppetto di persone intorno a noi, sempre più numeroso
peraltro, rumoreggiò commentando la battuta, e Ashton
capì in quell’esatto momento che Matt era
intervenuto per dargli del filo da torcere.
“Non è che sei un finocchio pure tu,
Patterson?”
Matt fece un passo in avanti, guardando l’altro dritto negli
occhi senza lasciarsi intimidire.
“Innanzitutto, siamo nel ventunesimo secolo e si dice gay,
non frocio o checca o finocchio. E poi, Ashton, siamo nel ventunesimo secolo,
e ognuno fa quel cazzo che gli pare della propria sessualità
e della propria vita, senza dover rendere conto a te, brutto stronzetto
presuntuoso.”
Quel discorso era decisamente troppo articolato per il cervello
atrofico di Pierce Ashton, me ne resi conto subito, assieme al resto
dei ragazzi lì intorno, che cominciarono a ridacchiare
commentando a bassa voce la situazione.
Ashton fece una smorfia a metà tra il confuso e
l’incazzato, capendo perlomeno di essere stato insultato, ma
Matt non aveva ancora finito.
“Sai cos’è il ventunesimo secolo,
Ashton?” domandò, muovendo un altro passo verso
l’interpellato, ancora paralizzato dalla sorpresa.
“O sei ancora bloccato nel tuo personale Medioevo?
Perché sarebbe ora di evolversi, ti avviso, o finirai per
estinguerti, tu e tutti i coglioni della tua stessa razza.”
A quel punto, com’era prevedibile, Ashton si
arrabbiò davvero, forse intuendo il significato della parola
“coglioni”. Il destro colpì Patterson
sullo zigomo, ma lui si fece trovare pronto: incassò il
colpo senza scomporsi troppo e reagì velocemente con uno
spintone seguito da un pugno sullo stomaco e uno sulla mandibola.
Io, immobile fino ad allora, trasalii alla vista della rissa, e mi
risvegliai muovendomi per fermarli. In quel momento arrivò
anche Josh, trafelato, il quale, vedendo che mi avvicinavo a Matt
prendendogli un braccio per fermarlo, venne ad aiutarmi. Lo
allontanammo tirandolo indietro e Patterson ce lo lasciò
fare, evidentemente soddisfatto delle condizioni in cui aveva lasciato
Ashton, ormai accasciato sulla fila di armadietti con un labbro
sanguinante.
“Cosa sta succedendo qui?” intervenne la voce del
professor Berries, appena arrivato sul posto.
“Alla buon’ora,” borbottai tra i denti.
Dove diavolo erano i professori in quelle occasioni? Cristo, non
arrivavano mai in tempo.
Berries vide la situazione – Matt trattenuto da me e Josh,
Ashton tumefatto, e David paralizzato poco più in
là – e sbiancò.
“Ma che… Voi… Ragazzi, per la miseria,
una rissa in corridoio?”
Trattenne a stento un’imprecazione, dopodiché
rimise su la sua migliore espressione autoritaria, che comunque
risultava ben poco convincente, e dichiarò il proprio
verdetto.
“Patterson, Ashton, dal preside.”
Si voltò poi verso David. “Immagino che gli altri
due abbiano cercato di porre fine a questo scempio, ma qual
è il suo ruolo nella vicenda?”
Dave boccheggiò e io intervenni. Non ho mai sopportato le
ingiustizie e, d’altro canto, ho sempre avuto la lingua
troppo lunga.
“Professore, veramente non è come sembra,
Patterson è intervenuto per…”
“Gray, veda di non peggiorare la sua situazione.”
“Ma sta sbagliando, cazzo!” sbraitai io, infuriata.
“Vuole fare anche lei un giro nell’ufficio del
preside?”
“Va bene!” risposi io, incrociando le braccia al
petto.
Berries, che con la sua domanda retorica pensava di minacciarmi e di
mettermi a tacere, sembrò piuttosto stupito dalla mia
risposta e rimase ad aprire e chiudere la bocca per qualche secondo.
David mi si affiancò, muovendosi finalmente dalla sua
posizione.
“Penso di dover andare io dal preside, professore, la rissa
è nata a causa mia.”
“McPharrell…?” boccheggiò
ancora Berries.
Josh, invece, non trattenne un mezzo sorriso nel fare un passo avanti.
“A questo punto mi unisco alla gita, ero qui pure
io.”
“Adesso basta!” tuonò il povero Berries,
esaurito. “Filate tutti dal preside! Ora!”
Si girò verso il resto delle persone che ancora non si erano
spostate dal corridoio al suo arrivo. “E voialtri in
classe!”
Infine ci guardo rabbioso e con un ultimo
“seguitemi” si incamminò per scortarci
all’ufficio del preside, continuando a borbottare
considerazioni sui giovani d’oggi e il loro poco rispetto per
le autorità.
Patterson e Ashton entrarono per primi nell’ufficio del
preside Harper, mentre io, David e Josh ce ne stavamo fuori, nella
piccola sala d’aspetto.
Ero così nervosa che avrei voluto dare fuoco a qualcosa. Mi
distrassi raccontando a Josh cos’era successo, dal momento
che lui non era presente, e si era fatto spedire dal preside solo per
dare man forte a me e David. Quest’ultimo, invece, se ne
stava ancora in silenzio, con le gambe incrociate sopra la seggiola,
guardando il pavimento.
Vedere il mio amico, di solito così solare e allegro, stare
tanto male a causa di quel deficiente di Ashton, mi faceva incazzare
ancora di più. Stavo per avvicinarmi a lui, per provare a
dirgli qualcosa che lo tirasse su di morale, quando la porta
dell’ufficio si aprì e i due ragazzi uscirono,
accompagnati dalla voce tonante del preside.
“…che non avrei pensato potesse
succedere,” disse, concludendo una frase. “E ora
andate entrambi in classe, e state lontani l’uno
dall’altro finché non arrivano i vostri genitori.
Sì, Pierce, li ho già fatti chiamare,”
chiarì, vedendo l’espressione spaventata di
Ashton. “Così potrò discutere anche con
loro i termini della vostra sospensione.”
Sentendo quella parola scattai in avanti – mi ero
già alzata quando avevo sentito la porta aprirsi –
e parlai, ignorando Ashton che piagnucolava qualcosa tipo
“non è giusto, guardi come sono ridotto”.
“Preside Harper,” dissi, ansiosa di essere
finalmente ascoltata, “è un errore. Io
c’ero, ho visto come sono andate le cose
e…”
Harper mi lanciò uno sguardo duro e immediatamente mi
zittii: quell’uomo sì che sapeva incutere timore,
a differenza del professor Berries. Era un omaccione alto e robusto, di
circa cinquant’anni, con l’espressione quasi sempre
bonaria e sorridente. Ma conosceva ad uno ad uno tutti i nomi degli
studenti e, quando c’era da tirare fuori
l’autorità che il suo ruolo richiedeva, sapeva
davvero come farlo, con tanto di voce stentorea che riusciva a far
sì che chiunque a scuola lo rispettasse. In effetti, girava
addirittura un modo di dire su di lui: quando qualcuno, professore o
alunno, si arrabbiava tanto da far paura, si diceva che aveva usato la voce da Harper.
“Gray, giusto?” mi domandò, continuando
a squadrarmi.
“Sissignore,” risposi d’istinto.
Alle mie spalle udii il colpo di tosse che Josh fece per mascherare una
mezza risata. Da dove diavolo mi era uscita quella risposta militare?
“Stai buona ancora qualche minuto, Gray, devo fare una
telefonata, poi sentirò anche voi,” mi
avvisò, prima di rivolgersi di nuovo a Patterson e Ashton.
“Andate,” disse loro, dopodiché
rientrò nel suo studio e si chiuse la porta alle spalle.
Ashton si volatizzò alla velocità della luce,
Patterson invece venne fermato da David, che gli mise una mano sul
braccio per bloccarlo mentre prendeva la porta e aprì bocca
per la seconda volta dopo il fattaccio.
“Grazie,” gli disse solamente, e io sapevo quanto
sentitamente il mio amico stesse pronunciando quell’unica
parola.
Matt fece in risposta solo un cenno della testa e, appena prima di
uscire, mi rivolse una breve occhiata distratta e io notai il livido
bluastro che gli si stava gonfiando sotto lo zigomo.
Restai in silenzio per i pochi minuti successivi, finché il
preside non riaprì la porta dell’ufficio
chiedendomi di entrare.
“Da sola?” borbottai io, ancora lievemente
intimidita.
“Sì, Gray, preferisco sentirvi uno alla volta.
Vieni.”
Entrai e mi sedetti, a un cenno di Harper, sulla sedia di fronte alla
sua scrivania.
Ero stata solo una volta nell’ufficio del preside, quando,
l’anno precedente, mi ero iscritta a scuola, e avevo dovuto
discutere con lui il mio piano di studi e i dettagli del mio
inserimento a inizio secondo semestre. Ma quella volta con me
c’era mio padre, non era un richiamo per ragioni
disciplinari; ora invece non sapevo bene come comportarmi, anche se
volevo evitare che Patterson subisse un’ingiustizia.
Il preside Harper parlò per primo, guardandomi dritto in
faccia, e io non evitai i suoi occhi.
“Allora Gray, il professor Berries mi ha riferito che ti ha
visto mentre cercavi di fermare Patterson durante la rissa, ma ha
aggiunto che poco dopo sei stata irrispettosa nei suoi confronti.
È vero?”
Sbuffai, ritrovando la mia sicurezza. “Stavo solo cercando di
spiegare a Berries che…”
“Al professor
Berries,” mi corresse Harper, serio.
“Sì, volevo che il professore sapesse
com’erano andate le cose.”
“E come sono andate, Gray? I due diretti interessati non
hanno voluto parlare, prima, ma sapere che si sono picchiati in
corridoio potrebbe bastarmi per dare loro un provvedimento disciplinare
che…”
Lo interruppi coraggiosamente. “No, preside Harper, deve
ascoltarmi. Patterson avrà sbagliato a replicare al pugno di
Ashton, è vero, ma è intervenuto per un buon
motivo. Ashton stava insultando e spintonando David McPharrell in
corridoio. L’ho visto, stavo per intervenire io stessa, ma
Patterson mi ha preceduta, ha cercato di farlo smettere, e quando
Ashton se l’è presa con lui allora ha
reagito.”
“McPharrell, mmh? È il ragazzo qui fuori,
giusto?”
Annuii con forza, contenta che qualcuno finalmente mi ascoltasse.
“Perché stavano litigando?”
“Non litigavano, signore, Ashton ha attaccato
McPharrell.”
“Per quale motivo, lo sai?” insisté
Harper, che nel frattempo aveva messo gli occhiali e stava scrivendo
qualcosa su un foglio.
Tentennai, non me la sentivo di sbandierare ai quattro venti le
questioni personali di Dave.
“È una cosa… privata.”
Il preside smise di scrivere e mi guardò.
“Ascolta Delia,” iniziò, chiamandomi per
nome com’era solito fare quando non stava rimproverando uno
studente. “Non è la prima volta che qualcuno
denuncia una scorrettezza di Ashton, quindi potrei anche crederti.
Capisco la lealtà nei confronti dei tuoi compagni, ma ho
bisogno che tu mi dica cos’è successo, altrimenti
non posso fare niente.”
Sospirai, messa alle strette. “Deve promettermi che alcune
delle cose che le dirò resteranno tra noi.”
Harper restò piuttosto serio alla mia infantile richiesta, e
annuì. “Sarò discreto, hai la mia
parola.”
A pelle mi fidavo di quell’uomo, senza nemmeno sapere il
perché. Non sapevo niente di lui, in realtà
poteva anche essere tanto omofobo quanto Ashton, ma il mio istinto mi
diceva che non era così, ed allora parlai. Gli raccontai la
scena esattamente come l’avevo vista, senza aggiungere
né togliere niente, probabilmente parlai anche troppo, da
mia abitudine. Harper mi ascoltò gravemente, scrivendo ogni
tanto qualcosa sul foglio di fronte a lui.
Alla fine si tolse gli occhiali e mi guardò posato, prima di
parlare.
“Non hai nominato Parker, sbaglio o è qui fuori
anche lui?”
“Josh non c’entra, signore, mi ha solo aiutato a
separare Patterson e Ashton. Credo sia venuto qui per darmi una mano
e… Beh, probabilmente trovava divertente farsi spedire nel
suo ufficio.”
Harper ridacchiò, sembrava quasi divertito.
“Quel piccolo mascalzone,” borbottò tra
sé e sé, prima di tornare serio a guardarmi.
“Devo farti un’altra domanda, Delia. Per caso hai
una relazione o un interesse particolare per Matthew
Patterson?”
Saltai sulla sedia. “COSA?!”
“Non prenderla nel modo sbagliato, non lo chiedo per farmi
gli affari tuoi. Ma devo sapere se hai un motivo personale per
difenderlo.”
“Assolutamente no, signore!” replicai con una
faccia oltraggiata. “Anzi, io e Patterson cerchiamo di
tenerci il più possibile alla larga l’uno
dall’altra.”
Il preside sorrise ancora, saputo, e io mi sentii in dovere di
spiegarmi.
“Dave… Sono amica di David.”
Harper annuì, rimise su la sua espressione seria e
sistemò gli occhiali nella custodia.
“Va bene, credo di avere un quadro abbastanza completo della
situazione, ma parlerò anche con McPharrell. Tranquilla, non
gli dirò quello che mi hai rivelato,” mi
anticipò, prima che aprissi bocca per parlare. “Ma
ti avviso già che probabilmente avrai un pomeriggio di
punizione anche tu.”
“Perché?” domandai sbigottita,
già pronta a lamentarmi.
“Capisco che fossi agitata, Delia, ma hai comunque sbagliato
a rivolgerti in quel modo al professor Berries.”
Abbassai la testa, avevo dimenticato quel particolare. “Lo
so, signore.”
“Puoi chiamarmi professore, non sono molto diverso dagli
altri insegnanti qui,” risolse lui, alzandosi per aprirmi la
porta. “Puoi andare, grazie Delia.”
Uscii nella sala d’aspetto, dove David e Josh mi guardavano
curiosi; Harper mi seguì per dirci cosa fare.
“David, puoi entrare tu ora. Parker, Gray, voi tornate in
classe.”
Josh si alzò. “È sicuro che non le
servo, professore?”
Harper lo guardò con la sua espressione autoritaria, ma
notai, come Josh, una nota di ironia nella sua voce quando rispose.
“Vai pure, Parker, vai pure.”
Mentre camminavamo verso l’aula di storia, Josh mi
spiegò che il motivo per cui Ashton aveva attaccato David in
corridoio era, probabilmente, che aveva origliato una loro
conversazione in bagno il giorno precedente. Lui e David avevano
parlato di un ragazzo del collegio privato con cui Dave si stava
sentendo e, anche se pensavano che non ci fosse nessun altro nel bagno
in quel momento, si dovevano essere fatti sentire.
Rientrai in classe ancora con lo schifo addosso per quella situazione e
per tutto il giorno non parlai con nessuno se non con i miei amici
più stretti: ero arrabbiata, davvero incazzata nera
perché nessuno aveva pensato di intervenire o di difendere
Dave. A parte Patterson, ovviamente.
Vidi Matt alla fine della lezione, mentre usciva da scuola scortato da
quella che doveva essere sua madre, una donna molto bella e piuttosto
elegante, che camminava spedita di fronte a lui, la mascella stretta in
una chiara espressione di rabbia. Pensai che non fosse corretto che
Patterson dovesse sentirsele anche dai suoi genitori, in fondo aveva
fatto la cosa giusta.
Lui non mi vide nemmeno. Teneva la testa alta, ma guardò
solamente di fronte a sé finché non fu fuori
dall’edificio.
Il giorno dopo, le decisioni prese da Harper riguardo la rissa in
corridoio erano sulla bocca di tutti. Io me l’ero cavata con
un pomeriggio di punizione da scontare il giorno successivo, Patterson
aveva scampato la sospensione ma si era beccato una nota di demerito e
una settimana di punizione.
Per Ashton, invece, la questione fu molto più dura: aveva
attaccato un compagno in corridoio senza apparente motivo, inoltre
aveva iniziato la rissa dando il primo pugno a Matt. Fu sospeso per
quattro giorni e questo, unito ai suoi voti non certo eccellenti,
significava per lui una bocciatura quasi certa a fine anno. I suoi
genitori si lamentarono molto e, infine, lo ritirarono da scuola, ma la
cosa non dispiacque quasi a nessuno.
Un’altra notizia che stava dando parecchio da parlare era
quella della presunta omosessualità di David. Come
immaginavo, non era trapelato niente di quello che avevo detto
nell’ufficio del preside, ma diverse persone avevano
assistito alla scena in corridoio. Ovviamente, per Dave non fu bello
per niente: in quel periodo era piuttosto fragile, e dovemmo occuparci
noi della sua incolumità. Pierce Ashton non c’era
più, ma le teste di cazzo certo non mancavano a scuola.
Il mercoledì, subito dopo la pausa pranzo, mi presentai
nell’aula dove avrei dovuto scontare le mie quattro ore di
punizione. La sorte aveva voluto che fosse proprio Berries a gestire le
punizioni quel pomeriggio, quindi immaginavo che avrei avuto a che fare
con qualche compito extra di letteratura inglese, prospettiva che tutto
sommato non mi pareva poi così male.
Quando entrai nell’aula il professore era già
lì, perciò lo salutai educatamente e andai a
sedermi su un banco qualsiasi. Alzai lo sguardo mentre appoggiavo lo
zaino per terra e incontrai due occhi grigio-azzurri che mi guardavano
imperscrutabili. Sussultai sorpresa, stupidamente: sapevo che anche
Patterson era stato messo in punizione ma, distratta com’ero
stata in quei giorni, non avevo minimamente pensato che avrei potuto
trovarlo lì. Matt mi fissò serio per un paio di
secondi, dopodiché spostò lo sguardo sulla matita
che si stava rigirando pigramente fra le mani.
Io mi sedetti e aspettai ulteriori chiarimenti dal professore, che
arrivarono solo qualche minuto più tardi, quando
entrò anche l’ultima persona che stavamo
attendendo, una ragazzina che sembrava del primo anno e che, da come lo
guardava adorante, con ogni probabilità pensava che
Patterson fosse un qualche dio sceso in terra.
Berries mi assegnò un compito di quattro pagine sul rispetto
dell’autorità e sul ruolo
dell’educazione nella letteratura inglese moderna, con tanto
di riferimenti e testi da consultare. Quel bastardo. Mi misi al lavoro
senza ascoltare quello che dava da fare agli altri: prima avrei finito
e prima avrei potuto tornare a casa, ultimare i compiti che dovevo fare
per il giorno successivo, e telefonare a David per chiacchierare un
po’ con lui come spesso facevo la sera.
Berries però doveva essere ancora parecchio offeso con me,
perché quando terminai il compito e glielo consegnai
soddisfatta con quaranta minuti di anticipo, mi squadrò
altezzoso e mi informò che avrei comunque dovuto aspettare
fino alle sei per muovermi di lì. Dieci minuti dopo anche la
ragazza del primo anno finì la propria consegna, e fu
autorizzata da Berries a tornare a casa.
Ovviamente provai a lamentarmi per quella differenza di trattamento.
“Professore, ma come…” cominciai sicura.
Berries mi interruppe. “Non le ho dato il permesso di
parlare.”
Sbuffai e alzai la mano per attirare la sua attenzione, che
però continuava a essere risucchiata da un compito che stava
correggendo. Non demorsi e rimasi con la mano per aria per cinque
minuti buoni, con Matt, ancora intento a scrivere, che ogni tanto mi
lanciava occhiate semi divertite. Dopo un po’ Berries cedette
e alzò uno sguardo esasperato su di me.
“Sì, Gray?”
“Perché ha permesso all’altra ragazza di
andarsene mentre io devo stare qui fino alle sei?”
“Perché il motivo per cui la signorina Adams era
qui era meno grave del suo.”
“Ma io ho…”
“È sicura di voler continuare, Gray?
Perché mi verrebbe da pensare che il tema che le ho dato da
svolgere non sia stato sufficiente.”
Sospirai mordendomi la lingua e incrociando le braccia al petto:
mancavano circa venti minuti alle sei, dovevo resistere.
Mi annoiai a morte per tutto il tempo restante, costretta a stare zitta
e ferma sulla sedia, cosa che per me rasentava la fantascienza. Ogni
tanto buttavo un occhio su Matt, seduto due banchi oltre il mio, che
scriveva fitto fitto su un quaderno risolvendo quello che sembrava un
problema di geometria. Sul suo zigomo l’ematoma era ancora
piuttosto evidente, di un brutto viola scuro; doveva fare piuttosto
male, pensai.
Riflettei su quello che mi aveva detto il preside Harper il giorno
precedente, cioè che non era a conoscenza di ciò
che era accaduto in corridoio perché né Patterson
né Ashton avevano voluto parlare. Possibile che Matt non
avesse provato a difendersi in nessun modo? Era dalla parte del giusto,
in fondo, anche il preside l’aveva riconosciuto quando aveva
capito le dinamiche dell’episodio.
Così, quando finalmente scoccarono le sei e Berries mi diede
il permesso di uscire, raccolsi le mie cose con più calma
del previsto per poter attendere che anche Patterson finisse e
chiedergli una spiegazione; nonostante ciò, lo dovetti
aspettare comunque un paio di minuti fuori dall’aula.
Matt uscì senza degnarmi di uno sguardo e si
incamminò nel corridoio, così lo seguii,
chiamandolo per attirare la sua attenzione.
“Patterson, ehi!”
“Che c’è?” fece lui, sgarbato
come al solito, senza smettere di camminare.
Mi affiancai a lui. “Volevo ringraziarti per ieri e per
quello che hai fatto per David, dato che…”
Mi interruppe. “No, non volevi dirmi questo. Cosa
c’è, Gray?”
Sbuffai per la sua presunzione, ma stavolta non aveva torto, quindi
decisi di andare dritta al punto.
“Perché non hai detto subito ad Harper
cos’era successo? Ti avrebbe ascoltato.”
“Non sono uno spione, era una cosa che andava risolta in
corridoio,” rispose Matt, secco.
Ormai avevamo raggiunto la porta, lo seguii fuori, ma la sua
motivazione mi sembrava talmente stupida da farmi nuovamente
innervosire.
“Ma cosa diavolo stai dicendo? Avresti potuto essere sospeso,
forse anche perdere l’anno per una cosa che
stavi…”
Mi bloccò di nuovo, ormai sapeva che quando cominciavo a
parlare non mi fermavo più. “Ci hai pensato tu,
no, a dire tutto al preside? Quindi alla fine sono qui.”
“Ti avrebbero sospeso!” gridai, esasperata,
leggendo nella sua frase una sottospecie di accusa nei miei confronti.
“Non sono affari tuoi, Gray.”
“Lo sono, dal momento che sei intervenuto per evitare che lo
facessi io!” sputai fuori, arrivando al vero punto della
questione.
Patterson finalmente si fermò, non lontano dal parcheggio, e
si girò a guardarmi. Restammo immobili per qualche secondo,
in piedi in quel giardino, solo a fissarci, infine Matt
parlò.
“Sono intervenuto perché Ashton è un
coglione, ed era giusto fare qualcosa.”
“Lo so. Dico solo che… Se non lo avessi fatto
tu… Insomma, stavo per fare qualcosa anch’io e tu
sei… In quel momento ho visto che…”
M’impappinai miseramente nelle mie stesse parole e,
incredibilmente, mi zittii da sola.
“Accetto il tuo grazie,
Gray, stai tranquilla.”
“Non ti ho ringraziato,” specificai celere.
Matt fece una faccia dubbiosa ma non infierì. “Ok.
Ti chiederei se vuoi un passaggio,” disse, indicando con la
mano la zona del parcheggio, “ma non credo che riuscirei a
reggere la tua lingua lunga per altri cinque minuti.”
Mi offesi. “Non ho bisogno del tuo passaggio, principino.
Addio.”
Patterson mi guardò col suo sorrisetto strafottente mentre
mi allontanavo dirigendomi verso il mio motorino. Evitai di pensare a
lui e al suo stupido sguardo per il resto della serata.
Il giorno dopo raggiunsi la zona caffetteria prima delle lezioni e
trovai Josh e Audrey che avevano già occupato un tavolino.
Si informarono sulla mia punizione e scrollai le spalle, buttandomi
sulla poltroncina, distrutta: la sera prima ero dovuta stare alzata
più del previsto per finire alcuni compiti. Dopo qualche
minuto ci raggiunse anche David; Jude, ovviamente, era in ritardo come
al solito.
Mentre parlavo con Audrey della professoressa di spagnolo, vidi con la
coda dell’occhio Patterson che ci superava, diretto,
immaginavo, al suo solito tavolo solitario. Non potei fare a meno di
voltare la testa e guardarlo, ma più per una reazione
spontanea che per un reale interesse verso ciò che stava
facendo: vidi che trovava il suo tavolo occupato, sbuffava e si
dirigeva alla macchinetta per prendersi un caffè, rassegnato
a restare in piedi. Josh seguì il mio sguardo e lo vide.
“Perché non lo invitiamo qui con noi?”
suggerì, e quella situazione mi si ripropose come un
déjà-vu di cattivo gusto.
“Non ti azzardare,” ringhiai a bassa voce.
“Ma senti, è solo!”
Guardai Audrey e Dave, nessuno dei due sembrava avere obiezioni sul far
sedere Matt con noi. Ovviamente.
“Dai Delia,” insisté Josh, ma dal suo
tono capii che aveva già deciso. “A me Patterson
non è mai stato antipatico, e comunque dopo quello che ha
fatto per Dave…”
Lasciò la frase in sospeso e io abbassai la testa,
sconfitta. Forse Jude mi avrebbe dato manforte, ma in realtà
non ne ero nemmeno così sicura, non ricordavo che avesse
qualcosa contro Matt.
“Patterson!” sentii chiamare il mio amico.
“Ehi, vieni qui.”
Matt alzò la testa stupito, nello stesso momento in cui lo
facevo anch’io, ed entrambi guardammo Josh.
“Sì?”
“Vieni a sederti, c’è posto.”
Gli occhi di Matt passarono, molto lentamente, da Josh a David, che gli
sorrideva timido ma incoraggiante, e infine si posarono su di me. Io
ressi il suo sguardo senza dire nulla, alzai solo leggermente le
sopracciglia. Alla fine, dopo un’attenta analisi, Patterson
decise che poteva sedersi con noi, se non altro per darmi un
po’ di fastidio, e prese posto tra Audrey e Josh, il quale
gli diede una leggera pacca sulla spalla e cominciò a
chiacchierare con lui.
Sospirai, arrendendomi. Avrei dovuto tirare fuori tutta la mia pazienza
per sopportare quella situazione, perché non avevo idea di
quanto sarebbe durata.
Ed
ecco com'è successo il patatrac che ha permesso a Matt di
cominciare a uscire col gruppo. Chi ha letto l'altra storia (Of
all the people in the world, click
per vederla, solo se volete) sapeva già a grandi linee
cos'era successo, ma mi piaceva l'idea di spiegare com'era andata. La
verità è che poi il problema del bullismo e
dell'emarginazione - nelle scuole ma non solo - è ancora,
purtroppo, drammaticamente reale.
Fatemi
sapere cosa ne pensate, se ci sono andata giù troppo pesante
o se ho gestito il tutto con troppa leggerezza. Non ho voluto
approfondire troppo perché la protagonista, ripeto,
è Delia, non David, e i pensieri che filtro sono solo i suoi
(con mio grosso dispiacere, a volte mi prudono le mani per la voglia di
dar voce anche a qualcun altro).
Matt
sta uscendo poco per volta, come avevo anticipato. Mi piacerebbe sapere
anche cosa ne pensate di lui.
So
che, rispetto ad altre storie nel sito, questa può sembrare
che proceda a rilento. Non ci sono sbaciucchiamenti, strusciamenti e
amoreggiamenti ogni capitolo; le interazioni tra i due protagonisti
sono quelle che sono, ma vi garantisco che io mi diverto un sacco a
scriverle. Arriverà il momento in cui si avvicineranno di
più, ma questi due per ora fanno fatica a vedersi (davvero?), quindi
non si può pretendere immediatamente di vederli a letto.
Infine,
forse ho allungato un po' la parte sul preside, ma dovete perdonarmi,
mentre la scrivevo quell'uomo mi piaceva sempre di più. :)
La
prossima volta vedremo se Delia riesce a sopportare la presenza di
Patterson nel gruppo.
Recensite,
please, senza le recensioni forse non mi sarebbe venuta voglia di
aggiornare, e purtroppo il prossimo capitolo è ancora a
metà.
Un
abbraccio a chi legge e a chi è passato. See you soon.
|
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Capitolo 6 *** Becoming Delia ***
6. Becoming Delia
La situazione, purtroppo per me, durò decisamente tanto.
Josh e David – per quanto mi sembrasse assurdo –
trovarono da subito piacevole la compagnia di Matt, e lo invitarono
sempre più spesso a stare con noi. Fu una cosa graduale:
all’inizio si sedeva ogni tanto con noi prima delle lezioni,
poi lo vidi parlare sempre più frequentemente con Josh a
scuola e sedersi vicino a lui quando Jude non c’era o era
accanto a Audrey.
Infine, una sera dovevamo uscire per andare al Platinum, uno dei
pochi locali underground e pseudo-alternativi di Winthrop, e scoprii
che David aveva invitato anche Patterson solo nel momento in cui varcai
la soglia del pub con Audrey, che mi aveva accompagnata, e lo vidi
lì. Ovviamente, nessuno mi aveva detto niente, portandomi
così davanti al fatto compiuto: rimasi a bocca aperta quando
entrai e vidi Matt che sorrideva a una battuta di Jude. Poi lui
alzò lo sguardo e mi notò, ancora bloccata
davanti alla soglia, quindi fece un sorrisetto che giudicai di sfida.
David mi si avvicinò per salutarmi dandomi il solito bacio
sulla guancia e io glielo impedii spostandomi, irrequieta e anche un
po’ offesa.
“Che ci fa lui
qui?” domandai ad alta voce, indicando con la mano Patterson
che continuava a guardarci da poco lontano.
“Dee, parla piano! È lì, può
sentirti.”
“Non me ne frega niente se può sentirmi, sa
perfettamente che non lo sopporto. E lo sapete anche voi, brutti
traditori,” sentenziai, riferendomi al fatto che i miei amici
mi avevano tenuta fuori dalla decisione di includere Matt nella nostra
serata speciale di divertimento.
Già, era la nostra serata, cavoli! Non avevano il diritto di
rovinarmela così, la organizzavamo da… Beh, da
non più di tre giorni in realtà, ma non contava.
Ciò che contava era che io quella sera volevo divertirmi coi
miei migliori amici, senza avere a che fare con quel buzzurro di
Patterson anche fuori dalle mura scolastiche. Se l’avevo
sopportato in quelle settimane era solo perché pensavo che
fosse un periodo, un’eccezione senza seguito; doverlo vedere
seduto con noi ogni tanto prima dell’inizio delle lezioni non
era minimamente paragonabile al trovarmelo tra i piedi durante una
serata di divertimenti al Platinum.
“L’ho invitato io, prenditela con me,”
rispose Dave pacato.
“È esattamente quello che sto facendo,
McPharrell.”
David a quel punto mi prese per un gomito e mi condusse in un luogo un
po’ più appartato, prima di rimproverarmi con quel
suo modo che riusciva sempre a farmi sentire stupida.
“Ti prego, smettila di fare così.”
Sbuffai. “Perché diavolo l’hai
invitato?” David fece per rispondermi, ma non avevo ancora
finito. “Perché Patterson piace al mondo intero
tranne a me? Hai visto anche tu come si comporta con me! Non
è giusto, ho ragione di non farmelo piacere.”
Mi stavo comportando da persona immatura, me ne rendevo conto da sola,
ma gli occhi di David me lo confermarono.
“Matt è una delle poche persone che non mi tratta
come un appestato da quando tutti sanno che sono gay.”
“Io non ti tratto come un appestato,” continuai, in
pieno stile bambina che fa i capricci.
“Tu sei una delle mie migliori amiche, Deels, lo so che non
mi consideri diversamente solo perché mi piacciono gli
uomini. Ma non è così scontato per le altre
persone, e lo sai. Io e Josh abbiamo dovuto lasciare la squadra per
questo.”
Era vero, e quella constatazione ebbe il potere di zittire parte delle
mie proteste. Quando la voce dell’omosessualità di
Dave aveva fatto il giro della scuola, diverse persone avevano
cominciato a trattarlo in modo strano. Alla fine il mio amico era stato
costretto a lasciare la squadra di basket della scuola,
perché ad alcuni compagni non andava giù il fatto
di doversi cambiare nel suo stesso spogliatoio; Josh, per
solidarietà, aveva fatto lo stesso. Ora andavano
più spesso a giocare al campetto dietro casa di David, ma
immaginavo che non fosse la stessa cosa.
Dave continuò, spinto dalla mia momentanea mutezza.
“Anche Matt è stato escluso da alcuni nostri
compagni, per avermi difeso con Ashton.”
“Non che prima fosse pieno di amici, eh,” borbottai
duramente.
“Dee, Matt è sempre stato parecchio popolare a
scuola. Non aveva una compagnia fissa ma spesso usciva con persone
diverse, lo sai.”
Sapevo anche questo, mi stavo solo comportando da ragazzina offesa.
Patterson non era particolarmente socievole, a causa del suo carattere,
immaginavo, ma conosceva un mucchio di persone a scuola, ed era anche
capace di presentarsi a una festa da solo, per poi incontrare qualcuno
lì.
Mugugnai ancora una debole lamentela, incrociando le braccia.
“Avanti, Delia, non puoi rovinarti la serata solo
perché non avevi previsto la presenza di Matt!”
“Non ci posso credere che tu l’abbia invitato senza
dirmi nulla!” contrattaccai ancora, con l’ultima
carta che mi rimaneva.
Sapevo di aver colpito nel segno questa volta, Dave infatti mi
lanciò uno sguardo di scuse.
“Mi dispiace, avrei dovuto avvisarti, ma sapevo che avresti
reagito così e non volevo litigare.”
Mantenni il mio broncio, ma non era mia abitudine restare arrabbiata a
lungo con le persone, quindi sapevo già che avrei perdonato
presto David per quell’affronto.
“Allora, bimba,” fece David, più
affettuoso, dandomi un buffetto sulla guancia, “pensi di
poterlo sopportare? Prometto che la prossima volta ti avviso prima di
fare una cosa del genere. Scusami, dai.”
Lo guardai dal basso, sconfitta. “Volete più bene
a lui che a me.”
Dave scoppiò sonoramente a ridere e mi abbracciò.
“Non dire cazzate, scema.”
Mi lasciai coccolare un po’ dal mio amico, la rabbia ormai
era svanita. Poi David disse qualcosa che mi sorprese davvero.
“Sai, credo che tu e Matt siate un po’ simili, in
fondo.”
“Adesso non dirle tu le cazzate, McPharrell. Lui è
un asociale musone, io sono simpatica e solare con tutti,”
elencai, senza un minimo di modestia.
“Ma entrambi, alla fine dei conti, tenete davvero solo a una
manciata di persone,” mi spiegò lui, facendomi
sbuffare leggermente.
David era sempre il migliore, non c’era niente da fare.
Slacciò l’abbraccio e mi disse un’ultima
cosa, per smorzare l’atmosfera seria.
“Ed entrambi diventate dei deliziosi stronzetti
l’uno con l’altra,” disse sorridendo.
“Per il resto, te ne do atto, sembrate abbastanza
diversi.”
“Abbastanza?” mugugnai offesa.
Dave ridacchiò dandomi un altro buffetto sulla testa.
“Andiamo a divertirci, su, californiana.”
Tornai verso i miei amici e salutai con la mano Jude e Josh che
chiacchieravano in un angolo. Stavo per raggiungerli quando la voce di
Patterson mi fermò.
“Bei capelli, novellina,” mi salutò con
ancora stampato in faccia quel sorrisetto da impunito.
“È da quattro giorni che sono così, mi
hai già visto a scuola,” bofonchiai acidamente in
risposta. Le parole di David non mi avevano ammorbidito nemmeno un
po’ nei suoi confronti.
“Ah sì? Si vede che non me ne sono
accorto,” fece Matt, scrollando le spalle con noncuranza.
Gli scoccai un’occhiataccia, senza credergli. Era impossibile
che non avesse notato prima i miei capelli, quel commento, come al
solito, era stato fatto per punzecchiarmi.
Non che io fossi così
tanto egocentrica, ma io e Matt ci eravamo incontrati
più di una volta nei giorni precedenti e, soprattutto, i
miei nuovi capelli non passavano certo inosservati: erano cresciuti in
quei mesi ed ora mi arrivavano circa fin sotto le spalle, ed ero
passata da un marrone scuro, quasi moro, a un castano molto chiaro con
le punte rosa acceso, motivo per il quale ritenevo impossibile che non
avesse notato prima il cambiamento. Va bene che gli uomini non facevano
attenzione a questo genere di cose, ma nei giorni precedenti, a scuola,
avevo visto gente girarsi in corridoio per fissarmi stupita e
commentare il mio passaggio.
Lanciai a Matt un’occhiata storta e mi morsi la lingua per
non rispondergli male: continuavo a voler passare la mia serata di
divertimento in tutta tranquillità, e nemmeno Matt Patterson
in persona avrebbe potuto rovinarmela, a prescindere da tutto
l’impegno che ci avrebbe messo per farlo. Mi allontanai da
lui andando verso il bancone del bar per prendere qualcosa, ma
ovviamente il barista, quando provai a ordinare una birra, mi
guardò storto e mi chiese quanti anni avessi. Maledetta me e
la mia faccia da ragazzina quale ero.
“Due birre,” sentii alle mie spalle una voce
conosciuta.
Il barista fece un cenno d’assenso a Matt e andò
subito a spinare le birre.
Mi girai e guardai Patterson con uno sguardo a metà tra il
nervoso e l’incredulo: va bene che era un ragazzo, ma aveva
la faccia pulita almeno quanto la mia, non capivo perché a
me rifiutassero qualsiasi tipo di alcolico mentre a lui no. La risposta
arrivò qualche secondo dopo, quando il barista
tornò con le birre, le spinse nella direzione del biondo e
lo salutò cordialmente.
“Ecco a te, Matt. Tutto bene?”
Conosceva quel ragazzo? Ero la sola a pensare che un tipo del genere
non potesse avere amici?
Patterson rispose educatamente mentre pagava, i due fecero un breve
scambio di battute che non ascoltai con attenzione, poi il barman si
allontanò richiamato da un altro cliente.
Io nel frattempo non avevo smesso di guardare sospettosa Matt,
perciò quando lui mi porse una delle due birre che aveva
preso, rimasi piuttosto stupita.
“Che fai, non la vuoi?” domandò lui con
noncuranza, notando la mia immobilità.
Quei suoi sbalzi d’umore mi mandavano decisamente fuori di
testa: un attimo prima mi insultava nemmeno troppo velatamente, il
secondo dopo mi offriva la birra come se fosse la cosa più
normale del mondo, come se lo facesse tutte le settimane da mesi.
L’ultima birra che avevo accettato da Patterson risaliva a
quasi un anno prima, e quella volta non era certo andata a finire bene:
mi ero quasi illusa che lui fosse un essere umano e Lauren Garreth mi
aveva odiata fino al diploma, rendendomi piuttosto impopolare a scuola.
“L’hai presa per me?”
“Mi pareva ne avessi appena ordinata una.”
Presi la birra dalla sua mano, ancora titubante.
“Quanto ti devo?” chiesi, infilando nella mia borsa
la mano libera per cercare il portafoglio.
“Niente.”
“Avanti, Patterson, non voglio debiti con te.”
“Non è un debito, non ti preoccupare. E smettila
di frugare in quel modo nella borsa se non vuoi rovesciare tutta la
birra, magari addosso a me.”
Gli lanciai un’occhiataccia per dimostrargli che la birra
gliel’avrei volentieri lanciata addosso, ma smisi di cercare
il portafoglio, borbottando un grazie
a mezza voce.
Matt sorrise, sorseggiando la sua birra.
Dopo solo pochi secondi di silenzio alzai gli occhi al cielo,
esasperata.
“Mi arrendo, principino, hai vinto. Non ti capisco proprio.
Perché diavolo sei gentile con me adesso?”
“Non sono gentile,” negò lui, un
po’ troppo velocemente per risultare del tutto credibile.
“Da come mi parli amabilmente si direbbe di
sì.”
“È per fare conversazione, mica ti sto facendo dei
complimenti.”
“Non mi stai neanche insultando, però.”
“È così assurdo?”
“Sì, perché poco fa hai
sorriso,” ribattei, facendo una smorfia.
Matt sembrò soppesare la questione.
“Sarà stata una paresi,” risolse poi,
noncurante.
Contrattaccai mostrandogli il bicchiere di birra che stringevo in mano.
“E questo, allora?”
Lui tentennò. “Quello era solo per…
È un…”
Vedere Matt Patterson in difficoltà era un vero spasso,
perciò non dissi niente, mi limitai a sorridere vittoriosa
continuando a incalzarlo con lo sguardo. Alla fine lui
sospirò, esasperato.
“E va bene, Gray, mi farebbe piacere se non ci scannassimo
stasera. David è mio amico ed è anche amico tuo,
Josh pure, credo sia meglio dimostrare loro che riusciamo a
tollerarci.”
“Dave e Josh sono più amici miei che
tuoi,” mi lamentai io, ritirando fuori il tono da bambinetta
che avevo usato proprio con David poco prima.
Matt scoppiò a ridere di gusto e io non potei fare a meno di
pensare che vederlo così divertito e sorridente era uno
spettacolo niente male.
“Ok, novellina, cercherò di rispettare questa
gerarchia. Ma nel frattempo potremmo evitare di lanciarci coltelli alle
spalle a vicenda, almeno quando sono presenti anche loro.”
Feci una faccia pensierosa e Matt mi guardò in silenzio, in
attesa del mio verdetto finale. Il suo ragionamento aveva senso e
dovevo ammettere, mio malgrado, che era molto più maturo
delle mie lamentele. Forse potevo anche provare a non ucciderlo,
perlomeno per quella sera, ma non volevo comunque che avesse la
soddisfazione di sentirsi dalla parte del giusto.
“Ci penserò su,” stabilii quindi, con un
mezzo sorriso criptico che Patterson, sorprendentemente,
ricambiò.
Poi mi si avvicinò di mezzo passo e mi resi conto di quanto
di quanto fossimo stati vicini fino a quel momento. Quando
parlò, il suo respiro mi sfiorò il viso.
“Stai attenta a non sbottonarti troppo, eh, novellina. Sia
mai che io possa piacerti, altrimenti.”
“Questo lo trovo impossibile,” declamai io, ma
persi subito un po’ di sicurezza quando, un attimo dopo, mi
ritrovai a fissare le labbra di Matt per un secondo di troppo.
Lui dovette accorgersene, perché prima di allontanarsi mi
guardò divertito, come se sapesse qualcosa che a me
sfuggiva, infine mi diede la schiena e fece per raggiungere gli altri.
“Patterson,” lo chiamai io, un attimo prima che
fosse troppo lontano.
Lui si girò e mi lanciò uno sguardo interrogativo.
“Perché mi chiami novellina? Non sono
più nuova da un pezzo, né qui né a
scuola.”
Matt scrollò le spalle, ma sembrava vagamente colpito dalla
mia domanda, come se non se l’aspettasse.
“Abitudine, immagino.”
Andare d’accordo con Patterson per le due ore successive fu
più facile di quanto potessi immaginare. Oddio, forse andare d’accordo
non è il modo più adatto di definire
ciò che accadde, ma riuscimmo a divertirci insieme al resto
dei miei amici – continuavo a considerarli miei amici,
sì, ero una stronza possessiva – e addirittura a
scambiarci qualche battutina sarcastica ma priva dell’odio
profondo che ci riservavamo a vicenda di solito.
Matt riusciva incredibilmente a farsi piacere dalle persone. Non quanto
me, capiamoci, quella era la mia
specialità, ma riusciva a essere affabile, carino e
simpatico con chi gli interessava. Non era particolarmente
chiacchierone, quello l’avevo notato da subito, al contrario
di me apriva la bocca solo per dire il minimo indispensabile ma,
nonostante la nostra fosse una compagnia alquanto difficile da
conquistare, – Josh e Dave erano amichevoli, sì,
ma Jude è sempre stata diffidente e Audrey timida
all’inverosimile – lui sembrava esserci riuscito.
Dopo qualche birra, mi ritrovai quasi a guardarlo con occhi diversi.
Era stranissimo per me apprendere che Patterson fosse una persona del
tutto normale, persino simpatica quando voleva esserlo. Mi dovetti fare
violenza psicologica per evitarmi di fissarlo a bocca aperta ogni volta
che faceva una battutina a Josh, o che diceva qualcosa di sensato a
David. Mi ritenevo piuttosto brava a inquadrare le persone, e non
riuscivo a darmi pace per il fatto di trovarmi continuamente a cambiare
idea su quell’individuo: sapeva darmi ai nervi come nessuno,
eppure riusciva anche a sorprendermi in maniera per me inconcepibile.
In più – sempre dopo le famose birre e aggiunto un
cocktail che il barista preparò a Matt per me lanciandomi
occhiate dubbiose – cominciai seriamente a sospettare che
Patterson flirtasse con me. Era sempre lui ad andare a prendermi da
bere quando notava che avevo finito il mio drink, anche se mi rifiutai
di farlo pagare dopo la prima birra; non passammo molto tempo assieme,
ma ogni tanto mi passava di fianco facendo una battutina sul mio modo
di ballare o sui miei capelli ormai spettinati o sui miei gusti in
fatto di ragazzi. Forse era perché avevamo entrambi bevuto,
anche se non molto in realtà, ma come alla festa di Ramirez
mi venne da trovare le sue battute non fastidiose come al solito,
bensì ironiche e divertite. Lui sembrava divertito, a dire
il vero, sembrava divertirsi un mondo a prendermi in giro, a vedermi
sbuffare o sentirmi rispondere a tono.
Ad un certo punto, dopo essermi scatenata per parecchio tempo con
Audrey sotto il palco dove suonava un gruppo rock locale, tornai a
dirigermi verso il tavolo dove avevamo la base, stanca e intenzionata a
bere qualcosa per dissetarmi, quando venni fermata da una mano che si
posò delicatamente sulla base della mia schiena. Girai la
testa, convinta che fosse il ragazzo che aveva ballato con me negli
ultimi minuti, ma mi trovai davanti agli occhi scintillanti di Matt,
che mi guardava con un mezzo sorriso.
“Non ti sembra di aver ballato un po’
troppo?” mi domandò, senza spostare dalla mia
schiena la mano che, anzi, risalì di qualche centimetro
dandomi l’impressione di fare una strana carezza distratta.
“Non… Non credo,” balbettai, stordita
dall’alcol e da quella vicinanza, non riuscendo quindi a
ribattere con la mia solita verve.
Matt mi guardò giocoso e si avvicinò di
più per farsi sentire senza dover alzare la voce.
“Ti va di uscire?”
“Non fumo,” risposi immediatamente, di riflesso,
dando per scontato che la sua domanda sottintendesse quello.
“Nemmeno io. Volevo solo prendere un po’
d’aria.”
Lo guardai con tanto d’occhi. C’erano due cose che
non mi tornavano nella sua risposta: in primis, io l’avevo
visto fumare, l’estate passata, sul retro del Green Cafè;
e poi, se non voleva andare fuori per una sigaretta, perché
diavolo mi aveva chiesto di uscire dal locale con lui? La mia testolina
bacata, com’è ovvio, si concentrò sulla
questione meno rilevante.
“Ma io ti ho visto fumare.”
Matt alzò un sopracciglio sospettoso, cercando di capire a
cosa mi riferissi, così glielo spiegai.
“La scorsa estate, dietro al Green Cafè,”
mormorai, vergognandomi un po’ di quella confessione: mi
sembrava quasi di dichiarare di averlo osservato per tutta
l’estate, ma non era affatto così.
“Che, mi hai pedinato?” domandò infatti
Matt, che comunque non sembrava per nulla turbato da
quell’ipotesi.
“No!” protestai, offesa. “Ti ho visto per
sbaglio un pomeriggio. E avevi una sigaretta.”
“La usavo come scusa per fare un paio di pause in
più durante la giornata, ma avrò fatto
sì e no due tiri a settimana per tutta
l’estate.”
Mi bloccai, ricordando la scena: in effetti non avevo mai visto
Patterson portarsi la sigaretta alla bocca in quei cinque minuti in cui
io e Audrey l’avevamo osservato; mi era sembrato stanco,
annoiato, pensieroso, ma non aveva fumato veramente. Né mi
veniva in mente di averlo mai notato fumare a scuola, o di avergli
sentito odore di fumo addosso, a ben pensarci.
“Lavoravi lì?” gli chiesi, ancora
sovrappensiero.
Lui si limitò ad annuire, ma non disse niente di
più. Le sue dita sulla mia schiena, però, si
staccarono lentamente, e io mi accorsi in quel momento del fatto che
non avesse smesso di toccarmi fino ad allora.
“Senti, non fa niente,” biascicò Matt,
alzando leggermente le spalle per sottolineare le sue parole.
“Non ne hai voglia, esco da solo.”
Stavo per rispondergli, d’istinto, che sarei uscita con lui,
che non volevo sembrare scortese nel dirgli di no, ma la sua frase
successiva mi anticipò.
“L’ho chiesto a te solo perché sei la
prima persona conosciuta che mi è passata davanti,
figurati.”
Mi lanciò un’ultima occhiata glaciale e si diresse
verso il punto dove c’era l’uscita del Platinum.
Incredibile, aveva di nuovo cambiato personalità nel giro di
un minuto. Mi ritrovai metà confusa e metà
arrabbiata a fissare la sua schiena che si allontanava da me, per poi
valutare che l’impellente necessità di un bagno,
in quel momento, era decisamente più importante del
lasciarmi innervosire di
nuovo da Patterson. Quando rientrai nel locale, dopo aver
dovuto fare un’insopportabile e lunghissima coda per la
toilette, ero decisa a trovare Matt e intimargli di smetterla di
comportarsi come un perfetto psicopatico affetto da bipolarismo. I miei
occhi lo trovarono, stranamente, sulla pista sotto al palco, dove la
gente si stava ancora scatenando con la musica a tutto volume, e i miei
piedi scattarono in quella direzione prima di notare un particolare che
mi fece bloccare a metà strada e restare a bocca aperta per
lo stupore.
Matt ballava con Audrey. Circa, insomma: più che ballare,
infatti, lui la cingeva con le braccia mentre lei, anche se si vedeva
lontano un miglio che era imbarazzata all’inverosimile, si
lasciava toccare i fianchi e si muoveva a ritmo di musica, guardando
ovunque tranne che verso Patterson.
Per un attimo, ma fu solo un attimo, mi sentii come se mi avessero
appena lanciato una secchiata d’acqua gelata addosso. Poi mi
ripresi.
Era ovvio, come avevo fatto a non pensarci prima? Era dannatamente
ovvio che a Matt piacesse Audrey, e viceversa. Erano gli antipodi, ma
erano due delle persone più belle che conoscessi, vederli
vicini era davvero uno spettacolo per gli occhi: lei così
timida, mora, con la pelle ambrata, le labbra a cuore e gli occhi
verdissimi; lui con quell’atteggiamento sicuro e quel sorriso
da cardiopalma, i capelli biondo scuro, gli occhi di ghiaccio e quel
sedere in grado di resuscitare gli ormoni di chicchessia.
Restai a guardarli per un minuto buono, poi vidi Audrey girarsi, dire
qualcosa a Matt nell’orecchio. Lui le sorrise accomodante,
gentile, in un modo che non aveva mai usato con me, le disse qualcosa
che non riuscii a capire dal solo labiale, infine si
allontanò da lei, ed entrambi si diressero al nostro tavolo
senza più guardarsi né sfiorarsi. Erano belli
anche così, solo camminando uno di fianco
all’altra, senza nessun contatto.
È ovvio,
mi ripetei nuovamente, spostandomi dalla mia posizione da
baccalà e muovendomi anch’io verso il tavolo
– o meglio, verso il mio cocktail ancora a metà.
Lo presi e lo finii in un paio di sorsi, poi, senza nemmeno guardare i
miei amici che al momento erano tutti seduti al tavolo salvo Dave, mi
spostai verso il bancone del bar, dove lasciai il vuoto e cominciai a
guardarmi intorno. Individuai poco più in là un
ragazzo carino – era biondastro e sembrava essere un
po’ più grande di me – e, soprattutto,
solo, che attendeva il suo turno con il barman. Controllai il mio
decolleté con aria critica, abbassando un po’ la
maglia per allargare la scollatura, – non che lì
sotto ci fosse molto da mostrare, ma non era il caso di sottilizzare
proprio in quel momento – infine mi avvicinai alla mia preda.
Ero uscita per divertirmi e mi sarei divertita, maledizione.
“Ciao,” cominciai in direzione del biondo,
sorridendo.
Lui mi guardò, poi si guardò intorno, stupito che
parlassi proprio con lui, infine mi rispose, abbozzando un sorriso a
sua volta. “Ehi.”
“Io sono Delia, tu?”
Il ragazzo sembrò squadrarmi per valutare se fossi sana di
mente, alla fine, forse, decise che non gli importava. Non era tanto
normale che una ragazza della mia età si approcciasse
così direttamente, di solito le mie coetanee aspettavano che
fosse il tipo di turno ad avvicinarsi e anche in quel caso, poi, se ne
stavano attaccate alla propria migliore amica, redendo difficile
qualsiasi approccio. Io ero diversa. Non che fossi abituata a provarci
tutti i weekend con un tizio diverso, ma non ero timida, non avevo
stupidi preconcetti sulle relazioni e sui ruoli di uomo e donna, e se
mi piaceva qualcuno non avevo problemi a farglielo capire, a costo di
spaventarlo.
“Chris,” rispose il biondo, porgendomi la mano che
strinsi con sicurezza. “Vieni spesso al Platinum, Delia?
Non mi pare di averti mai vista in giro.”
“Mmh, non così spesso, ma mi piace.”
“Vai al liceo?” chiese lui, appoggiandosi al
bancone del bar.
“No!” mi affrettai a mentire io, per giustificare
il cocktail che avrei preso di lì a poco.
“College, ho vent’anni. Ma tra meno di un mese sono
ventuno, a dire il vero, manca davvero pochissimo. Lo so che sembro
più piccola, ma tranquillo, si sbagliano tutti,”
insistei nella mia bugia, blaterando più del solito.
Chris mi squadrò con un sorriso lieve,
così decisi di evitare ulteriori domande da parte sua
facendogliene io una. “E tu, invece? Vai al college anche
tu?”
“Più o meno,” rispose evasivo.
Sbuffai alla sua risposta vaga. “Senti, sei carino, ma per
stasera ne ho abbastanza di biondi che parlano in modo sfuggente e
ambiguo, davvero. Fai il college o no? Sei un netturbino, sei
stato rimandato per sei volte di fila al liceo, sei un serial killer?
Non importa, purché tu me lo dica, per dio.”
Lui parve piuttosto spiazzato dal mio discorso, ma quando
aprì bocca per rispondermi – o forse per mandarmi
al diavolo – sentii una voce alle mie spalle.
“Gray?”
Alzai gli occhi al cielo, ben sapendo chi avrei trovato alle mie
spalle, e Chris mi lanciò un’occhiata sorridente e
divertita. Quando mi girai, sfoderando un sorriso falsissimo e un
po’ esasperato, Patterson mi fissava serio, con le
sopracciglia appena inarcate.
“Sì?”
“Ho visto che hai finito il tuo drink. Stavo venendo a
prendermi una birra e mi domandavo se… Beh, vuoi
qualcosa?”
La smetteva di controllarmi il bicchiere? Con quei dannatissimi occhi
grigi, peraltro?
Mantenni il mio sorrisetto falso stampato in faccia. “No, non
serve, Patterson, grazie mille. Chris mi sta già prendendo
da bere,” risposi, indicando il ragazzo con un cenno della
mano.
Matt alzò lo sguardo dietro di me e fissò
l’interpellato, il quale gli sorrise spudoratamente; io
passai gli occhi da uno all’altro. Chris aveva davvero un bel
sorriso e, cosa importante, lo usava spesso.
“Ah… Capisco,” asserì
Patterson. Mi lanciò un’ultima occhiata
indecifrabile, che durò qualche attimo di troppo per i miei
momentanei canoni di sopportazione, infine si allontanò di
nuovo.
Tornai a concentrarmi su Chris. Avevo intenzione di flirtare un
po’ senza fare niente di male, non ero una poco di buono. Che
pensasse quel diavolo che voleva, quell’imbecille di
Patterson.
“Allora,” fece il ragazzo, “quello
sarebbe il famoso biondo che parla in modo sfuggente e
ambiguo?” mi domandò, ripetendo le mie parole di
poco prima.
“È… è un mio
amico,” borbottai io, distogliendo gli occhi solo per un
secondo.
“Li chiami tutti per cognome i tuoi amici?”
“Sì.”
“E loro chiamano per cognome te?”
“Sì,” mentii di nuovo, poi mi corressi.
“Senti, è circa
un mio amico, va bene? Non è molto importante, in questo
momento. Ora non è che possiamo…”
“Prendere da bere, certo.”
Chris fece un cenno al barista, che pochi secondi dopo fu lì
di fronte.
“Per me una birra e per lei…” Si
voltò a guardarmi, io stavo per aprire bocca per dire la mia
ordinazione, quando lui stesso mi anticipò. “E per
lei una Coca-Cola.”
Il barista fece un cenno di assenso e aprii la bocca per lamentarmi.
“Ma…!”
Chris mi interruppe. “Ricordi prima, quando mi hai chiesto se
facevo il college? La risposta è no, ho ventun anni e faccio
l’Accademia di Polizia. Mi spiace.”
Sbiancai. “O-ok, ho vent’anni, non sono
così piccola, volevo bere una birra, sono… Non
sono così piccola, no?” pigolai per giustificarmi,
con l’espressione di una che stava commettendo
chissà quale reato.
“Rilassati, non sono un poliziotto,” sorrise Chris,
prendendo la coca dal bancone e porgendomela. “Ma tu non hai
vent’anni.”
“Diciannove e mezzo?” tentai, poco convinta.
Lui scoppiò a ridere e io nascosi il mio broncio dietro il
bicchiere. “Avrai sedici anni al massimo!”
“Ne ho diciassette!” sbottai allora io, ritrovando
un po’ della mia sicurezza.
“Davvero?”
“Davvero! Non sono così piccola!”
ripetei di nuovo, sentendomi per l’ennesima volta quella sera
una bambina guardata dall’alto in basso. Ma che avevano tutti?
“No, non lo sei,” mi diede finalmente ragione lui,
“ma non ho voglia di farti bere illegalmente per poi
approfittarmi di te, mi stai simpatica.”
“Peccato,” scherzai io, facendo un sorriso
malizioso.
Lui ridacchiò. “Posso darti un consiglio,
Delia?”
“Purché non sia l’ennesimo discorsetto
maturo e paternalistico della serata, sì.”
“Beh, sarò anche paternalistico e un po’
tradizionalista, ma credo dovresti evitare di dire a un ragazzo appena
conosciuto che non importa se è un serial killer. Qualcuno
potrebbe prenderti sul serio.”
Toccò a me ridere. “Era per dire, uff, che
serietà! Non mi sembri un serial killer.”
“Wow, grazie.”
“Non c’è di che,” risposi io,
sedendomi sullo sgabello lì vicino al bancone.
“Com’è che hai deciso di fare il
poliziotto invece dell’assassino, quindi?”
Continuai a chiacchierare con lui per diverso tempo: era simpatico,
maturo, ascoltava i miei sproloqui e rispondeva a tono e –
come avevo già notato – sorrideva spesso. Quando
Dave venne a chiamarmi perché stavano andando a casa,
dovetti salutare Chris a malincuore.
“Ci si vede in giro?” gli domandai.
“Può darsi. Tu nel frattempo stai attenta ai
potenziali serial killer e ai biondi sfuggenti.”
Roteai gli occhi. “Quello sempre, figurati.”
Lui si chinò e, a discapito delle mie aspettative iniziali,
mi diede un casto bacio sulla guancia che mi fece sorridere.
“È stato un piacere chiacchierare con te,
Delia.”
“Anche per me. Buona serata, Chris.”
Raggiunsi i miei amici e, sotto gli occhi fintamente disinteressati di
Patterson, Audrey mi fece il solito quarto grado a cui risposi
evasivamente.
Il giorno successivo, ovvero domenica, mi svegliai a un’ora
inconsueta, così decisi di vestirmi e recarmi al Marie’s
per fare colazione chiacchierando con Dave. Il Marie’s,
infatti, era il bar dei genitori di David, si trovava non lontano dal
porto di Winthrop ed era facilmente raggiungibile da me con il mio
scooter di seconda mano. Era un bar carino, che apriva la serranda di
mattina presto e profumava di brioches e caffè caldo,
apparteneva alla famiglia McPharrell da due generazioni, da quando
cioè il nonno di David si era trasferito lì dopo
la guerra e aveva comprato il locale, chiamandolo così in
onore di sua moglie Marie.
Entrai nel bar e salutai allegramente il padre di Dave, Alfred, che
stava servendo altri clienti, per poi sedermi a un tavolino da sola.
Avevo scritto un messaggio al mio amico per avvisarlo della mia
improvvisata, ma evidentemente non l’aveva visto ed era
ancora a letto. Questa mia ipotesi fu confermata poco dopo da Alfred,
che mi si avvicinò sorridente.
“Delia, bambina, stai aspettando mio figlio?” mi
chiese affettuoso.
Annuii con la testa. “Gli ho scritto solo stamani, non
eravamo d’accordo.”
“Quel furbo sarà ancora che dorme, te lo dico io.
Adesso chiamo a casa, mia moglie è ancora
lì.”
Non feci in tempo a fermarlo con un “No, non
disturbare…”, che Al si era già
allontanato per andare al telefono dietro il bancone del bar; cinque
minuti dopo tornò da me con caffè e pancake caldi.
“Ecco qui, gioia. David sta arrivando, dovrebbe portare anche
sua sorella.”
“Non era necessario che lo chiamassi, Al.”
“Ma figurati, quel pigrone non si sarebbe mai alzato
sennò. Avete fatto tardi ieri sera?” chiese
ciarliero, sedendosi al tavolo con me per farmi compagnia.
I genitori di Dave erano piuttosto particolari: entrambi erano persone
alla mano e disponibili, appena li avevo conosciuti avevano preteso che
li chiamassi per nome – Al ed Esther – e avevano
accettato noi, gli amici di loro figlio, come se fossimo di famiglia.
Alfred era quasi sempre lì al Marie’s
per lavoro, mentre sua moglie gli dava spesso una mano durante la
settimana; perciò quando il weekend mi presentavo a
scroccare la colazione – a volte con Audrey e Jude, altre
volte, come quella domenica, da sola – mi sentivo sempre
accolta e coccolata da quell’uomo adorabile.
“Non troppo, ma ci siamo divertiti comunque.”
“Eravate al Platinum,
giusto? Pensa che quel locale era già aperto ai miei
tempi… Cioè un trilione di anni fa,”
borbottò sovrappensiero.
“Non sei così vecchio, dai,” ridacchiai,
ma ero sincera: i genitori di Dave avevano poco più di
quarant’anni e, infatti, avevano anche una bambina di cinque
anni, Rachel.
“Eh, ma le cose erano comunque diverse all’epoca.
Pensa che non era troppo ben vista una coppia meticcia come me ed
Esther.”
Annuii, comprendendo perché per i genitori di David fosse
stato così naturale accettare la sua
omosessualità: erano aperti mentalmente, sì, ma
avevano pure vissuto sulla propria pelle la discriminazione. Non ero a
conoscenza di tutta la loro storia, ma sapevo che Esther veniva da una
famiglia ebrea, mentre Alfred era mezzo francese – dalla
parte di sua madre Marie, appunto.
“Ma parliamo di cose decisamente più nuove,
bambina: stai proprio bene con questi capelli!”
“Grazie!” sorrisi contenta: Al notava ed apprezzava
sempre i miei mutamenti di look, un po’ come suo figlio.
“Avevi bisogno del cambiamento per un motivo in
particolare?” mi chiese, tirando fuori il suo tipico lato da
barista-psicologo un po’ impiccione.
“Mah, no… Ogni tanto sento la necessità
di farlo, però. Sono un’anima in pena.”
Lui ridacchiò di gusto. “C’è
sicuramente qualcosa sotto. La psiche umana lavora in modi che non
possiamo comprendere.”
“Non scomoderei Freud per la mia psiche, né per i
miei capelli, impazzirebbe persino lui,” mi presi in giro da
sola, sbocconcellando i miei pancake.
“Almeno lo ammetti da te!” commentò
ironica la voce di David, arrivandomi alle spalle.
Mi voltai a guardarlo e lui lasciò la manina di sua sorella
Rachel, che corse in braccio ad Alfred. Poi Dave si avvicinò
e mi diede un bacio sulla guancia, mentre suo padre si alzò
per tornare a lavorare; prima di allontanarsi del tutto,
lanciò un bonario rimprovero a suo figlio.
“Hai lasciato la tua amica da sola fino ad ora, razza di
figlio degenere.”
“Non sapevo nemmeno che fosse qui, padre
ficcanaso!” rispose lui con una linguaccia.
“Rachel, vieni a sederti qui con noi, adesso papà
ti porta dei fogli per colorare.”
La bimba fece come le veniva detto e, appena le arrivarono fogli e
matite colorate, si immerse in una delle sue attività
preferite, mentre Dave cominciava ad interrogarmi.
“Quindi che ci fai qui, Deels?”
“Stamattina mi sono svegliata e non riuscivo più a
dormire. Non volevo disturbarti.”
“Ti è passata la bambinite di ieri
sera?” domandò lui, con un sorriso furbo.
M’imbronciai, un po’ per scherzo, e lui mi diede il
solito buffetto.
“Dal broncio si direbbe di no,” convenne, semiserio.
“Davie, cos’è la bambinite?”
intervenne Rachel, smettendo di disegnare un grande sole giallo per
spostare la sua attenzione sulla risposta del fratello maggiore.
“È quando un grande si comporta come un bambino,
tesoro. Un po’ come una malattia.”
“Io sono una bambina, ma non solo malata. A parte quando ho
avuto la varicella,” rispose lei, con una logica impeccabile.
“Perché tu sei una brava bimba.”
“E Delia no?” chiese lei, spostando lo sguardo
confuso su di me.
“Anche lei, ma ogni tanto fa i capricci.”
“Non faccio i capricci!” sbottai io, mentre Rachel
mormorava un “ah” finale e rinunciava a capire i
nostri discorsi per tornare a concentrarsi sul suo foglio.
Dave incrociò le braccia, guardandomi ironico.
“No, eh? Mi ha detto Audrey che ieri quando ti ha portato a
casa eri piuttosto scostante. È successo qualcosa?”
“Io… Non credo che…”
balbettai, presa alla sprovvista.
Se l’aveva notato persino Audrey non dovevo essermi
comportata molto bene, in effetti, e non era da me essere burbera con
un’amica. Dave mi incalzò con gli occhi e io
tentai miseramente di cambiare argomento: non volevo assolutamente
pensare ai motivi per i quali mi ero comportata così la sera
precedente.
“Hai sentito anche Jude, per caso? Ieri sera le ho prestato
il mio elastico e si è dimenticata di tornarmelo.”
“Sei patetica.”
“Niente affatto!”
“Davie, cos’è patiteca?”
si intromise di nuovo Rachel, che a quanto pareva riusciva
perfettamente a stare attenta al nostro discorso e, in contemporanea, a
continuare a disegnare con le matite.
“Si dice patetica. Ed è quello che è
Delia adesso.”
Rachel mi scrutò sospettosa, poi tornò a puntare
gli occhioni nocciola sul fratello. “A me Delia sembra bella,
non patiteca.”
Mi sporsi dalla sedia per scoccarle un bacio di gratitudine sulla
testa. “Ecco, brava Rachel, diglielo anche tu.”
“Ci mancava solo che ti alleassi con la mia sorellina di
cinque anni,” commentò Dave. “Tu
continua il tuo disegno, nocciolina, Delia sa difendersi benissimo da
sola.”
Poi tornò a guardarmi e sospirò. “Senti
Dee, se ce l’hai ancora con me perché ho invitato
Matt ieri sera non mi sembra il caso di rivalersela anche su Aud. E poi
alla fine ci siamo divertiti, no? Mi è sembrato addirittura
che andassi quasi d’accordo con lui, durante la serata. Quasi,”
sottolineò nuovamente, onde evitare fraintendimenti.
“Anche a me pareva che andassimo quasi
d’accordo,” borbottai: ero sul punto di esplodere
in una delle mie solite filippiche. Dave dovette capirlo,
perché mi fece segno con la mano di continuare pure,
ché era lì apposta per ascoltarmi,
così non mi trattenni ulteriormente.
“Non è colpa mia se quello è uno
psicopatico, va bene? Un minuto prima è il ragazzo
più freddo e antipatico dell’universo, quello dopo
mi chiede un favore col sorriso più incredibile e affabile
della East Coast e il minuto dopo ancora torna a essere il Signor Pezzo
di Me…” Notai gli occhi di David spalancarsi per
la presenza della sua sorellina e mi corressi all’ultimo.
“Merlo.
Pezzo di Merlo.”
Rachel, in effetti, mi guardava con interesse crescente. “Il
merlo è un uccello, vero?” domandò
curiosa.
“Sì, nocciolina,” rispose Dave.
“Di che colore è?”
“Nero con il becco arancione. Che dicevi su quel Merlo,
Deels?” continuò salottiero.
“Che ieri sera ha addirittura fatto il carino con
me!”
“Il carino in che senso?”
“Il carino, Dave, con i sorrisetti maliziosi e tutto il
resto. Non mi sbaglio su queste cose, di solito, anche se trovavo
impossibile che ci provasse proprio con me. E infatti evidentemente
avevo preso un granchio, dal momento che cinque minuti dopo era tornato
freddo come l’Everest e quando sono rientrata dal bagno si
stava strusciando su Audrey in pista.”
A quel punto David spalancò gli occhi incredulo, come se
avesse capito qualcosa all’improvviso, qualcosa che non mi
sfuggì.
“Non mi interessa che ci provi con Aud, ok? Sono stupendi
assieme, li hai visti anche tu, sono davvero meravigliosi, ma mi
dà fastidio quando qualcuno fa lo str…ambo,” mi
corressi di nuovo sul filo del rasoio, “con una mia amica, in
particolare con Audrey, che non ha la minima idea di essere
così gnocca e che, lo sai benissimo, non si accorgerebbe che
qualcuno ci sta provando solo per portarsela a letto nemmeno se questo
qualcuno glielo dicesse chiaramente.”
“Sei preoccupata per Audrey?” mi chiese il mio
amico, dubbioso.
“Sono preoccupata per lei, sì.”
“Solo questo?”
“Certo, solo questo! Che altro, sennò?”
Dave mi lanciò un’occhiata eloquente e io alzai
gli occhi al cielo.
“Non farti strane idee, McPharrell.”
“Facciamo che io non mi faccio nessuna idea, ma che tu,
appena finiamo questa conversazione, prendi e vai da Audrey a espiare i
tuoi peccati.”
“Quali peccati?”
“Aud e Matt non si piacciono. Lui la stava solo aiutando a
liberarsi di un ragazzo che ci provava insistentemente, con tanto di
palpate qua e là, per questo le si è avvicinato e
ha ballato con lei, fingendo che fossero intimi. Fingendo male, tra
l’altro, perché se tu fossi un po’ meno
scema ti saresti accorta che a malapena si sfioravano, Aud è
troppo timida e Matt è troppo rispettoso, e non si piacciono:
sembravano due stoccafissi. Il tipo si è allontanato e sono
tornati al tavolo.”
“Oh,” mormorai, adombrata.
David mi guardò con quella che sembrava commiserazione negli
occhi. “Sei senza speranza.”
Ignorai il suo commento e mi grattai il collo, ancora confusa.
“Perché non hai aiutato tu Aud? O Josh, come al
solito?”
Era una cosa normale, per noi, dover tirare fuori Audrey da situazioni
come quella: capitava spesso che ricevesse delle attenzioni non gradite
e che, siccome era troppo timida per allontanare seccamente i
molestatori, lanciasse richieste di SOS con gli occhi a qualcuno di
noi. A quel punto Josh o Dave si avvicinavano fingendosi il suo
ragazzo, ma era successo anche a me di salvarla, dicendo al seccatore
di turno che eravamo lesbiche e di lasciarci in pace.
“Josh non era lì in quel momento e io…
Beh, sarei stato poco credibile.”
“Perché?”
“Ecco, un attimo prima ci avevo provato col ragazzo in
questione, che poi ha cominciato a provarci con Aud.”
Finalmente mi sciolsi in una risata sincera. “Non dicevi di
avere un gay radar infallibile?”
“È ancora in fase di perfezionamento,”
rispose Dave, raddrizzando la schiena altezzosamente.
Ridacchiai ancora un po’, dopodiché ripensai a
tutta la situazione e tornai a imbronciarmi. “Non
è solo questo, McPharrell. Patterson mi urta i nervi.
Può provarci con chi gli pare, ma mi urta i nervi.”
“Pff, fossero solo i nervi, Deels.”
Lo fulminai con lo sguardo. “Dico sul serio. Si comporta
sempre come un mer… merloso,
e poi all’improvviso mette su l’armatura da
Principe Azzurro con tanto di mantello e va a salvare chiunque si trovi
nelle vicinanze del suo scudo dorato. A te sembra normale?”
“A me sembra carino ciò che ha fatto per
difendermi. E per quanto riguarda Aud, gli ho chiesto io di darle una
mano.”
“L’ha fatto anche con me, e nessuno gli aveva
chiesto niente,” mi scappò detto con una certa
acredine, per poi rendermi conto che non l’avevo ancora
raccontato a nessuno.
David infatti fece un’espressione stupita.
“Ieri?”
“No, al prom. Senti, lasciamo perdere.”
“Eh no, cara mia, adesso devi spiegare!”
“Ti ricordi che quando ho visto Steve con Chantal Sterling
sono sparita?” Aspettai che Dave annuisse per continuare.
“Ho incontrato Patterson, che ha deciso in totale autonomia
che per vendicarmi di Steve dovessi farlo ingelosire. Peccato che si
sia dimenticato di avvisarmi.”
Il mio amico aggrottò le sopracciglia pensieroso.
“Avvisarti di che?”
“Ha notato che Steve ci guardava e mi ha… ecco,
sai, mi ha…”
David lanciò un urletto sconvolto e si portò una
mano davanti alla bocca, poi si avvicinò e mi
parlò con fare cospiratorio, come se qualcuno potesse
sentirci.
“Vi siete baciati?!” chiese, disteso sul tavolino
per sporgersi verso di me e con gli occhi praticamente fuori dalle
orbite.
“No!” urlai sconvolta, poi abbassai la voce
anch’io. “Lui ha baciato me.”
“Sai che differenza!”
“La differenza è che non gli ho dato il permesso
di farlo! E comunque è durato un secondo, me ne sono a
malapena accorta.”
David se ne stette stranamente zitto per qualche attimo.
“McPharrell, dì qualcosa,” lo incitai,
mordicchiandomi un’unghia.
“Sto valutando se dovrei toglierti dalla lista dei miei
migliori amici per avermi nascosto una cosa del genere.”
“Senti, non volevo che si sapesse in giro, ok? Non
è successo niente di che, l’avevo già
quasi dimenticato,” minimizzai per scusarmi con lui.
“E ti sarei grata se non lo raccontassi a nessuno, Dave, sul
serio.”
“Ok, ok. Adesso si spiegano un mucchio di cose,
comunque.”
“La mia antipatia per Patterson ha ragioni ben più
profonde e radicate,” sostenni, capendo dove voleva andare a
parare.
Lui scosse la testa. “Sì, lo so.”
Guardai l’orologio e interruppi qualsiasi suo ragionamento
successivo. “È meglio se vado. Devo fare delle
commissioni per mia nonna e poi volevo passare da Aud.”
Mi alzai mettendomi la giacca, ma prima che mi muovessi Rachel mi prese
per la manica, attirando la mia attenzione e guardando alternativamente
me e suo fratello.
“Volete vedere il mio disegno?”
“Certo, nocciolina, facci vedere,” la
incoraggiò David sorridendole.
“Questa è Delia,” spiegò la
bambina, indicando col ditino la figura stilizzata coi capelli mezzi
fucsia, “e questo è il merlo, vedete, ha il becco
arancione.”
Dave rise di gusto, mentre io chiedevo spiegazioni più
dettagliate. “Come mai io sono sopra quella…
ehm… cosa?”
“È la torre, come Raperonzolo,”
scandì lei, come se fosse scontato.
“La torre?”
“Sì, il merlo viene a salvarti, però.
Hai detto tu che è come un principe.”
“Non esattamente quel tipo di principe,” mormorai
io, mentre Dave al mio fianco si divertiva sempre di più.
“Non ho capito come fa un uccello a essere un principe, ma
gli ho fatto anche il mantello, per sicurezza.”
“Sei stata molto brava, stellina,” mi congratulai
io, facendole una carezza sulla testa.
Rachel sembrò illuminarsi. “Ti piace?”
“Sicuro!”
“L’ho fatto per te,” esclamò
allora la piccola, porgendomi il foglio che io presi con titubanza.
“Grazie mille.”
Mi congedai da lei facendomi dare un bacio sulla guancia, salutai Al
con la mano e poi mi feci accompagnare fuori da David, che aveva ancora
un ultimo consiglio da darmi.
“Tu e Matt siete caratterialmente poco compatibili, ma trovo
perlomeno interessante come continuiate a gravitarvi intorno a
vicenda.”
“Non ci gravitiamo intorno, ci insultiamo, Dave. Stai
perdendo colpi.”
Lui sbuffò, sventolando la mano. “Ascolta, Matt
non è così male. Impara ad andarci
d’accordo, perché credo che continuerai a vederlo
in circolazione per un bel po’.”
“Sei un guastafeste.”
“E va’ da Aud, che quell’ingenua ragazza
crede che tu ce l’abbia con lei.”
“Era ciò che avevo intenzione di fare, papà,”
lo presi in giro, salutandolo con una smorfia delle mie.
Seguii il suo consiglio e raggiunsi Audrey a casa sua, raccontandole
anche tutto ciò che voleva sapere sulla mia chiacchierata
con Chris della sera precedente.
Dopotutto, non valeva proprio la pena di farsi rovinare il fegato da un
finto principe – vero idiota – come Matt Patterson.
Hola,
ecco il nuovo capitolo! Ho appena finito di scriverlo, quindi
potrebbero esserci degli errori, ma volevo pubblicarlo
perché non so quando avrò tempo, poi.
È strano, il capitolo così com'è non
doveva proprio esistere, è uscito praticamente da solo, il
che vuol dire che la storia comincia ad avere vita propria, e non so se
è esattamente un bene.
Matt si comporta da psicotico, sappiate che io do ragione a Delia in
questo caso, pur essendo diversissima da lei. Voi che ne pensate? Ho
esagerato? Avete preso paura per Matt e Audrey? :)
Vi prego di farmi sapere i vostri pareri, sono molto indietro con la
storia e, anche se vedo che ha un po' di seguito, ho assoluto bisogno
dei vostri commentini. GRAZIE alle stelle che hanno recensito l'altra
volta, mi avete spinta a scrivere. <3
Un po'
di precisazioni sul capitolo in sé:
-
Il titolo, Becoming
Delia, fa riferimento al fatto che - credo - in questo
capitolo la protagonista comincia a diventare quello che
sarà da adulta, nel bene e nel male. Chi ha letto l'altra
storia (Of
all the people in the world, io continuo a
linkarla che non si sa mai) ha già conosciuto, almeno un
poco, Delia, e notato il suo carattere particolare: qui comincia a
vedersi quella Delia, secondo me, perché la ragazzina sta
pian piano maturando.
- Il Platinum
è un omaggio al Bronze,
il locale di Buffy TVS.
Non serve che l'abbiate visto, era solo per citare chi di dovere. :)
- So che adesso è abbastanza normale tingersi i capelli dei
colori più svariati, ma la storia è ambientata in
una cittadina non troppo grande e temporalmente è collocata
qualche anno fa - diciamo nella seconda metà degli anni
2000, col passare del tempo si andrà avanti con gli anni,
ovviamente. Ho immaginato che Delia potesse essere guardata un po'
così per dei capelli mezzi rosa.
- In America, come penso sappiate, bisogna avere ventun anni per bere
alcolici. In teoria.
- La descrizione della famiglia di David era dovuta, visto che
praticamente Dave è il terzo protagonista della storia.
Spero abbiate apprezzato, io li amo già tutti, obviously.
- Il discorso che Al fa a Delia sui cambiamenti dei suoi capelli non
è buttato a caso, lo riprenderò più
avanti (e ce n'è un accenno anche in Of all).
Ho finito! Spero mi facciate sapere cosa ne pensate. Devo ancora
iniziare il prossimo capitolo, purtroppo potrei metterci di
più a pubblicarlo.
Alla prossima, smack.
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Capitolo 7 *** War and Peace ***
7. War and Peace
La verità era che Patterson, purtroppo, mi dava sui nervi
tanto quanto mi incuriosiva. Su questo, perlomeno, David aveva ragione.
Vivevo a Winthrop da un anno e mezzo e da circa due mesi Matt si era
avvicinato a Dave e Josh; perciò avevo avuto modo di
osservarlo e di cercare di comprendere i suoi comportamenti ma,
evidentemente, non ero riuscita a venirne a capo. Patterson sembrava
una persona schiva e riservata, anche un po’ burbera a volte,
ma avevo notato che – a parte con me – non era
quasi mai maleducato né cercava lo scontro con altri nostri
compagni di scuola. In questo era cambiato: ricordavo che un anno prima
tendeva a rispondere seccamente a più persone, ma crescendo
era diventato più docile. Non che fosse uno zuccherino,
tutt’altro, ma si poteva dire che fosse un ragazzo tranquillo
e beneducato. Era poco loquace con la maggior parte delle persone,
certo, e dava risposte piuttosto freddine soprattutto alle ochette che
gli ronzavano intorno e a cui lui non era interessato; con quelle che
gli interessavano, d’altro canto, aveva tutt’altro
atteggiamento.
Nonostante non facesse parte della squadra di basket né di
quella di football, infatti, godeva di una certa popolarità
a scuola, popolarità che lui non faceva nulla per
alimentare, a dire il vero. Sapevo, perché me
l’avevano raccontato, che durante il suo primo anno aveva
giocato nella squadra di basket, sport nel quale era anche piuttosto
bravo, ma che aveva deciso di mollare senza una motivazione precisa.
David e Josh erano entrati in squadra l’anno successivo,
quindi nemmeno loro sapevano se fosse successo qualcosa di particolare.
Dopo che aveva lasciato la squadra, comunque, la popolarità
di Patterson era rimasta invariata e le ragazze avevano continuato a
girargli attorno come api col miele, attratte dalla sua indubbia
bellezza, dai suoi occhioni grigi, ma anche – purtroppo
– dalle voci sul suo patrimonio familiare piuttosto ingente.
Non ero mai stata a casa sua, ma si diceva che fosse una villa enorme
con tanto di piscina e dependance che un tempo serviva alla
servitù. Sua madre, che avevo visto dopo la rissa con
Ashton, andava sempre in giro vestita di tutto punto e firmata dalla
testa ai piedi, e suo padre pure – dicevano, io non
l’avevo mai incontrato. Ma Matt no. E questa era
un’altra delle cose per me incomprensibili: mi avevano
raccontato che Matt aveva frequentato l’istituto privato fino
all’età di quattordici anni e che poi, una volta
giunto il momento di scegliere quale liceo frequentare, si fosse fatto
trasferire alla scuola pubblica. A vederlo non si sarebbe detto che
fosse così benestante: veniva a scuola con una vecchia
macchina usata e portava quasi sempre delle scarpe mezze sfasciate, per
il resto si vestiva normalmente.
Era un ragazzo intelligente, questa era l’unica cosa su cui
non avevo dubbi. Mi sarebbe piaciuto insultarlo per la sua pochezza o
per la sua stupidità, ma purtroppo non mi dava motivi per
farlo. Si vedeva che non si ammazzava di studio, ma se la cavava
piuttosto bene in tutte le materie e aveva una predisposizione
particolare per quelle scientifiche, tanto che era diventato il cocco
della professoressa Mitchell. Ed era sveglio, aveva sempre la risposta
pronta, oltre che essere dotato di un sarcasmo tagliente che non tutti
comprendevano e che, spesso, usava proprio contro di me.
Era un rebus che proprio non riuscivo a risolvere ed era anche questo,
di lui, che mi dava tanto sui nervi. Oltre, ovviamente, ai
punzecchiamenti cui mi sottoponeva quasi ogni giorno, che spesso
mettevano a dura prova la mia pazienza già di per
sé piuttosto labile. Ma se c’era una cosa che mi
infastidiva di più delle sue battutine era quando, per
ragioni conosciute solo dal Padreterno, decideva di ignorarmi del tutto
e fare finta che io non esistessi per lassi di tempo che variavano da
un paio di giorni a qualche settimana di fila. Dopo questi periodi di
apatia nei miei confronti, di solito, un giorno entrava in classe e,
dal nulla, mi salutava facendo un commento sarcastico sulle mie scarpe
o sulle occhiaie che sfoggiavo quel giorno; io gli rispondevo a tono e
ritornava tutto come al solito.
Non ero abituata a quell’incostanza e non ero abituata alle
persone fumose e mutabili: i miei atteggiamenti potevano sembrare
strani, ma erano quasi sempre chiari e atti a raggiungere un obiettivo
preciso. Matt Patterson era l’esatto opposto.
Ci ragionavo sempre più spesso, durante quelle ultime
settimane del terzo anno, e più ci ragionavo meno ne saltavo
fuori. La cosa, neanche a dirlo, mi innervosiva.
“Dee?”
Era maggio, la scuola sarebbe finita nel giro di un paio di settimane,
dunque a breve ci sarebbe stato anche l’attesissimo Prom.
Visto com’era andato l’anno precedente io avrei
dovuto non avere voglia di parteciparvi, ma rimanevo attratta dalle
feste, di qualsiasi tipo fossero. Però avrei dovuto cercarmi
un accompagnatore, accidenti, era già tardi.
“Delia?”
Posai gli occhi su Patterson, una fila avanti alla mia. Si passava
distrattamente una mano sul collo mentre con la sinistra –
sì, era mancino, si doveva distinguere anche in questo il
signorino – scarabocchiava qualcosa sul foglio di fronte a
sé. Anche oggi indossava quelle scarpe mezze distrutte ai
piedi. Forse era troppo pigro per andare a comprarsene un paio di
nuove? Era possibile.
“Delia!”
E poi come diavolo faceva ad ottenere tutti quei voti alti in
Matematica se durante le ore della Mitchell era così
distratto? Non che io fossi attenta, certo: infatti il mio rendimento
nelle materie scientifiche era discreto, non ottimo come il suo.
“Gray, per la miseria, vuoi rispondere a Byrne che cerca di
attirare la tua attenzione o continui a fissare la nuca di Patterson
fino alla fine dell’ora?”
La voce della professoressa Mitchell mi fece trasalire, ma non feci in
tempo a spostare lo sguardo che, purtroppo, puntava esattamente dove
aveva detto lei: quando Matt si girò i suoi occhi
incrociarono i miei per qualche secondo, mentre il resto della classe
rideva di gusto.
Abbassai gli occhi vedendo lo sguardo di Matt farsi da interrogativo a
vagamente divertito e, forse, arrossii anche un po’, cosa
che, ci tengo a precisarlo, mi succede di rado. Mi ricomposi in fretta
comunque e, mentre la prof tornava alla lavagna per ricominciare a
spiegare, mi voltai verso Audrey che mi guardava con
un’espressione colpevole e che mi sillabò uno
“scusa”, con Jude al suo fianco che alzava gli
occhi al cielo. Ovviamente, dopo la piazzata della Mitchell, non ebbe
il coraggio di dirmi il motivo per cui mi aveva chiamata
così insistentemente da farsi sentire persino dalla prof e
io decisi di aspettare la campanella per chiederle spiegazioni.
Patterson, d’altro canto, si voltò
un’altra volta a guardarmi prima della fine
dell’ora e io, fingendo di essermi ripresa del tutto dalla
figura di merda di poco prima, gli feci una smorfia semi altezzosa; lui
sorrise ironico scuotendo la testa e tornò a scribacchiare
sul suo quaderno.
Quando suonò la campanella notai con la coda
dell’occhio che Matt si alzava e puntava nella mia direzione,
forse intenzionato a chiedermi qualcosa. Io, presa da una sorta di
panico non normale per me, decisi di fuggire a quella possibile
situazione imbarazzante andando a parlare con Audrey ma, nel tentare di
infilare tutte le mie cose nello zaino alla velocità della
luce, feci accidentalmente cadere l’astuccio con la cerniera
ancora aperta, seminando penne, matite, pennarelli e
quant’altro sul pavimento dell’aula. Imprecai a
mezza voce maledicendo la mia sfiga e mi rassegnai a sopportare le
battutine al vetriolo di Patterson. Ma la sua voce sarcastica non
arrivò alle mie spalle, così, dopo aver finito di
riordinare il mio astuccio, mi alzai e mi voltai per controllare cosa
fosse successo.
Patterson era evidentemente stato bloccato da Hillary Kane, una nostra
compagna del terzo anno, mora, riccia, carina, nonché vice
capitano della squadra di cheerleader della scuola. Era una di quelle
persone che camminavano con venti metri di puzza sotto il naso e che
io, pur non avendo un motivo per cui odiarle, evitavo come la peste da
quando mi ero trasferita a Winthrop. Non era il fatto che fosse una
cheerleader a influenzarmi, avevo ottimi rapporti con almeno un paio di
ragazze della squadra, ma il suo atteggiamento costantemente altezzoso
mi impediva di esserle amica: aveva tutte le carte in regola per
diventare la nuova Lauren Garreth, da quando quest’ultima si
era diplomata l’anno precedente lasciando la scuola senza una
vera e propria nuova reginetta.
Ad ogni modo, senza volerlo, Hillary mi aveva aiutato a liberarmi di
Patterson in quel frangente, perciò la ringraziai
mentalmente e feci per caricarmi lo zaino sulle spalle, quando venni
attirata da uno stralcio del loro discorso.
“Quindi,” stava chiedendo lei con un sorriso finto
timido sulle labbra, “sai già con chi andrai al
ballo?”
Patterson sembrò rimanere un attimo basito,
sbatté le palpebre un paio di volte, poi si riprese e le
rispose. “No, in verità non so nemmeno se ci
andrò.”
La Kane fece un’espressione sconvolta, con tanto di mano a
coprirle la bocca semi aperta. Alzai gli occhi al cielo e decisi di
muovermi da lì, che ne avevo avuto abbastanza della
falsità di quella ragazza.
“Ma come? Devi assolutamente! Neanch’io ho un
accompagnatore, potremmo andarci assieme!”
Uscii dall’aula mentre in testa mi si accendeva una lampadina
su ciò che avrei dovuto fare: George Peterson! Come avevo
fatto a non pensarci prima? Era George la mia prima scelta per il
ballo, avevo una mezza cotta per lui ancora dall’anno
precedente.
Così, quando uscii dall’aula, invece di dirigermi
verso il punto dove avrei trovato i miei amici, girai a destra e mi
avvicinai con decisione all’armadietto di George Peterson.
Sì, mi piaceva da un po’, e all’inizio
dell’anno scolastico avevo fatto in modo di scoprire in che
punto del corridoio fosse posizionato il suo armadietto,
così da sapere sempre dove trovarlo tra una lezione e
l’altra. No, non sono una stalker, sono sempre stata molto
organizzata però, non ci trovo niente di male.
Quando arrivai George stava appunto aprendo il suo armadietto per
sistemarci dei libri prima, probabilmente, di dirigersi in mensa per il
pranzo come tutti gli altri. Ero talmente decisa nella mia camminata
che lo raggiunsi ancora prima di rendermene conto e mi accorsi solo
quando si girò a guardarmi interrogativo che non avevo la
minima idea di cosa dovessi dirgli.
“Ehm…”
Complimenti Delia,
ottimo inizio.
“Ciao,” fece George, dopo un attimo di spaesamento.
Avevamo già parlato un paio di volte, essendo entrambi del
terzo anno alla Winthrop High; non si poteva dire che fossimo amici dal
momento che non frequentavamo lo stesso giro di persone, ma sicuramente
sapeva chi io fossi, ecco.
“Ciao,” risposi, ritrovando un grammo della mia
solita sicurezza. “Tutto bene?”
La mia seconda frase non si poteva certo dire migliore
dell’incipit. Maledizione a me e alla mia
impulsività, avrei dovuto prepararmi qualcosa da dire!
George annuì sorridendo, ma si vedeva che era vagamente
imbarazzato. Guardò un punto alle mie spalle, chiuse
l’armadietto e mi fece un nuovo sorriso stiracchiato.
“Volevi chiedermi qualcosa?” mi domandò
quindi, avendo evidentemente fretta di arrivare al punto.
“Sì, scusa. Mi domandavo,” iniziai
ancora incerta sulle parole da usare, “se avessi per caso
già…”
“Tesoro, eccoti qui!”
Una voce femminile mi interruppe prima che facessi quella che poteva
essere definita una figura barbina: la proprietaria di tale voce,
infatti, mi superò senza degnarmi di uno sguardo mettendosi
tra me e George, e baciò quest’ultimo sulla bocca
con uno schiocco talmente teatrale da risultare quasi fuori luogo.
Era Mindy Karpenter, un’altra cheerleader del nostro anno
nonché degna migliore amica di Hillary Kane. Erano entrambe
ricce, solo che Mindy, a differenza della sua amica che era mora, aveva
i capelli castani con qualche mèche più chiara;
andavano in giro sempre assieme e si facevano chiamare le 2K, per
l’iniziale dei loro cognomi. E con ciò si spiegava
piuttosto bene la mia avversione nei loro confronti: cioè,
si erano scelte un nome d’arte, neanche fossero le Spice
Girls. Almeno potevano optare per K2, come il monte, ma dubitavo
seriamente che sapessero cosa fosse.
“Andiamo a mangiare, amoruccio?” insisté
Mindy, attaccandosi al braccio di quello che evidentemente era, a mia
insaputa, il suo fidanzato.
George annuì, poi mi guardò dubbioso.
“Cosa mi stavi dicendo?”
Esitai solo un attimo, ma fu fatale perché la Karpenter mi
lanciasse una sospettosa occhiata di fuoco.
“Per caso hai già copiato gli appunti di Biologia
di lunedì? Perché non ci capisco niente dei
miei…”
Ringraziai mentalmente la mia velocità
nell’inventarmi delle scuse plausibili, e ancor di
più ringraziai il fatto che Peterson seguisse qualche
lezione con me, il che rendeva più credibile ciò
che avevo appena detto. Lui comunque mi guardò stupito per
poi scuotere la testa piano.
“No, mi spiace, non copio mai gli appunti. Non hai altre
persone a cui chiederli? I miei sono sempre incasinati.”
George non era certo il miglior studente del nostro corso, ma mi
sembrava che non se la cavasse male in Biologia, speravo di non aver
preso un granchio.
“Sì, certo, chiederò a qualcun altro.
Grazie lo stesso.”
Mi congedai con un cenno della mano salutando anche la Karpenter, che
continuava a scrutarmi con gli occhi assottigliati, e scappai in mensa
sperando di trovare i miei amici, ma la mia dose di sfiga giornaliera
evidentemente non era ancora esaurita: un attimo prima di arrivare
venni fermata da Patterson.
“Gray.”
Ero talmente presa dai miei pensieri sulla figuraccia appena fatta con
George che, sentendo la voce di Matt che mi chiamava, sussultai
miseramente.
“Distratta oggi, eh, novellina?” infierì
lui, non facendosi mancare l’occasione per prendermi in giro
per ciò che era successo in classe poco prima.
Gli scoccai un’occhiataccia fingendo stupore. “Non
so di cosa stai parlando.”
“Certo, come no,” commentò Patterson,
standomi di fianco mentre entravo in mensa e mi guardavo intorno alla
ricerca dei miei amici. No, il mio gruppo non aveva il suo tavolo fisso
come nei film adolescenziali, ogni giorno bisognava cercare un posto
decente.
“Mi stai seguendo per un motivo in particolare?”
domandai seccata, ancora ferma sulla soglia.
“Scusa, preferisci seguirmi tu? Ho una così bella
nuca?”
Chiusi gli occhi e feci un sospirone, quando li riaprii vidi Dave che
cercava di attirare la mia attenzione per dirmi di andare a sedermi con
loro. Matt ovviamente venne con me, purtroppo aveva preso a mangiare
assieme a noi sempre più spesso negli ultimi tempi, quindi
non cercai nemmeno di fermarlo.
“Posso chiederti una cosa?” insisté
Patterson.
“No, principino, non puoi.”
“Cattiva.”
“Oggi non è proprio giornata, mi spiace, ho
esaurito la mia riserva di pazienza e di risposte ponderate, e pure
quella di figure di merda, se lo vuoi proprio sapere,”
replicai scontrosa mentre mi sedevo al tavolo e lui prendeva posto di
fronte a me. “Ci manca solo che tu mi faccia finire la
riserva di rispostacce ad effetto, a quel punto sarei completamente
vuota.”
“Dubito seriamente tu possa finire la riserva di parole, in
compenso.”
Sorrisi sarcastica. “Per la tua gioia? Mai.”
“Che stella.” Matt mi rimandò indietro
lo stesso tipo di sorriso velenoso, ma con una punta di divertimento:
evidentemente aveva deciso che quel giorno ero la sua dose quotidiana
di svago, perché non sembrava troppo intenzionato a
lasciarmi in pace.
Nel frattempo Dave, Aud, Jude e Josh ci guardavano interessati seguendo
le battute del nostro scambio come se fosse una partita di tennis.
Quand’eravamo in gruppo io e Patterson di solito cercavamo di
mantenere la tregua che avevamo concordato durante la serata al Platinum, evitando
cioè di scannarci; ovviamente era una cosa che, per la
natura controversa del nostro rapporto, non sempre ci riusciva bene, e
ci capitava di battibeccare anche in mezzo agli altri, che di solito ci
osservavano appunto con grande partecipazione, come questa volta.
“Quanto amore,” commentò Dave
interrompendo gli sguardi truci tra me e Patterson.
Scoccai un’occhiataccia pure a lui, poi mi girai verso Audrey.
“Cosa dovevi dirmi di così importante?”
le domandai, impaziente di cambiare argomento.
Lei tentennò guardandosi intorno.
“Avanti!” insistei. “Potevi dirmelo a
lezione della Mitchell e non qui in mensa?”
Mentre parlavo Matt si alzò per andare a prendersi da
mangiare, mentre io decisi di rimandare la cosa per evitare altre
battutine spiacevoli da parte sua.
Infine, Jude rispose al posto di Audrey, stufa di quel silenzio.
“Teller le ha chiesto di andare al ballo con lui.”
Spalancai gli occhi stupita. “Hai detto di
sì?”
Stranamente non sentivo alcun tipo di fastidio o di gelosia
all’idea, per quanto mi dispiacesse per Aud nel caso avesse
accettato: avevo ampliamente appurato quanto Teller fosse un idiota, ma
se aveva avuto il coraggio di domandare a una mia amica di andare al
Prom assieme dopo avermi tradito proprio lì l’anno
prima, forse avevo sottovalutato la sua stupidità.
“No, figurati,” rispose Audrey scuotendo la testa,
ma sembrava dispiaciuta per qualcosa.
Jude intervenne di nuovo. “Aud gli ha risposto di no con la
sua solita gentilezza, io gli ho chiesto con che cazzo di coraggio
facesse una cosa del genere,” spiegò riassumendo
il mio pensiero di poco prima. “E gli ho detto di sparire.
Quel verme.”
Josh ridacchiava al suo fianco. “Che classe, Free,”
commentò divertito, masticando di gusto un boccone di patate
al forno che si era appena portato alla bocca.
Jude lo guardò con una faccia mezza schifata.
“Senti da che pulpito. Dovresti ripassare il galateo,
Parker.”
Io mi concentrai nuovamente su Audrey, continuava a esserci qualcosa
che non mi quadrava nella sua espressione. “Ma avresti voluto
dirgli di sì? Perché per me non
c’è problema, sai.”
“No, è che…”
Sospirò stropicciandosi le mani prima di decidersi a
parlare. “Non capisco perché l’ha
chiesto proprio a me, ho pensato avrebbe potuto dispiacerti,
ecco.”
“L’unica cosa che mi dispiace è di
essere uscita con quel cretino. Non è colpa tua se sei
così bella, Aud, quindi smettila di dire
cavolate,” replicai per tranquillizzarla.
“Ok,” risolse, vagamente imbarazzata dal mio
complimento.
“Invece,” la incalzai, “dimmi
perché non mi hai avvisata dell’affare tra
Peterson e la Karpenter? Sai sempre tutto, non è possibile
che ti sia sfuggito.”
A riprova delle mie parole, Audrey si batté una mano sulla
fronte. “Uh, l’ho saputo ieri, hai ragione! Pensavo
di dirtelo ma stamattina mi sono dimenticata.”
Proprio stavolta che mi
serviva, pensai scoraggiata, evitando di commentare ad
alta voce per non dover subire il quarto grado.
“Da quanto stanno insieme?” chiesi invece.
“Mah, penso una settimana sì e no, forse dal
weekend scorso.”
“Si comportano come una coppia sposata da anni,”
ringhiai, avevo ancora nelle orecchie la voce fastidiosa di Mindy
Karpenter che chiamava George amoruccio,
roba da far venire i conati.
Aud annuì comprensiva. “Ho visto, mi
spiace.”
Scrollai le spalle e nel frattempo vidi con la coda
dell’occhio Patterson che tornava verso il tavolo col vassoio
pieno, quindi decisi che quello era il momento più adatto
per alzarmi e andare a servirmi il pranzo, per continuare a evitarlo
almeno per un po’. Quando tornai, dopo una coda
interminabile, Jude e Audrey se n’erano già andate
e David, che si stava alzando, mi salutò con un bacio sulla
guancia dicendo che aveva urgenza di andare in biblioteca. Poco dopo
anche Josh, appena finita la porzione esagerata di patate che si era
fatto servire, decise che poteva ritenersi soddisfatto e
spostò la sedia pronto ad alzarsi.
“Devo assolutamente andare a fare gli esercizi di Chimica,
sennò Perth mi manda di nuovo dal preside,” disse
raccogliendo la sua roba. “Posso lasciarvi da soli o
sgorgherà del sangue?”
Lo congedai con un cenno della mano e lui sparì. Io e
Patterson restammo a mangiare senza dire una parola per i successivi
minuti, ma mi aspettavo che avrebbe fatto un commentino fastidioso da
un momento all’altro, perciò rimasi piuttosto
stupita quando il nostro silenzio venne interrotto da qualcun altro.
Hillary Kane si era avvicinata al nostro tavolo arrivandomi alle
spalle, motivo per cui non l’avevo sentita arrivare, e ora se
ne stava di fianco a noi. Immaginai che volesse parlare con Matt,
quindi mi limitai a degnarla di uno sguardo fiacco e tornai a
concentrarmi sul pezzo di crostata duro come il marmo che stavo
provando a mangiare, valutando se finirlo o gettarlo direttamente via,
ma lei mi stupì e si rivolse invece a me.
“Gray, dovrei dirti due parole.”
La guardai con tanto d’occhi, incapace di pensare a un solo
motivo che l’avesse spinta a rivolgersi a me; infine
deglutii, bevvi un sorso d’acqua e le feci segno di sedersi
al posto accanto al mio, lasciato libero da David.
“Non devo mica pranzare!” berciò lei
offesa, come se solo l’idea di mangiare qualcosa le facesse
ribrezzo, figurarsi di farlo seduta vicino a me.
“Beh, io devo finire il dolce, perciò se vuoi
parlarmi ti toccherà sederti, a meno che tu non preferisca
restare in piedi lì dietro.”
Hillary sembrò valutare se farlo o meno, infine decise che
rimanere a parlarmi dritta come un baccalà in mezzo alla
mensa fosse l’opzione peggiore, perciò si sedette
sul bordo della sedia che le avevo indicato e mi puntò gli
occhi addosso.
“Quindi?” la spronai a parlare, ormai incuriosita.
“Credo che tu sappia cosa devo dirti.”
“A dire il vero no, sennò non te lo
chiederei.”
Mi ero leggermente voltata verso di lei ma continuavo a intravedere, a
lato del mio campo visivo, Patterson: seduto di fronte a me fingeva
noncuranza e, di contro, seguiva la conversazione con pigra attenzione.
La cosa, comunque, innervosiva più la Kane di me, visto il
suo interesse per il soggetto.
Hillary infatti si mosse sulla sedia e, indecisa, spostò gli
occhi per un secondo su Matt prima di parlarmi.
“Dovresti scegliere con più cura a chi rivolgere
le tue attenzioni,” disse con un’espressione seria
in volto.
“Di che parli?” domandai, ma mi stavo facendo una
mezza idea sul motivo per cui era lì: evidentemente la mia
storia era davvero destinata a ripetersi.
“Di George. Sta con Mindy ora, non farti venire strane
idee.”
“Lo so, li ho visti. Sono molto carini, vero?”
Mostrai un sorriso esagerato; quella giornata stava decisamente
mettendo a dura prova le mie doti attoriali, mi feci un appunto mentale
per ricordarmi di cercare un College con un buon corso di recitazione.
La Kane sembrò rimanere spiazzata all’inizio,
aprì e richiuse la bocca, poi incrociò le braccia
al petto e si sporse un po’ verso di me.
“Non mi freghi, bella, le conosco quelle come te, vi piace
stare sempre in mezzo come il giovedì. Volevi chiedere a
George di venire al ballo con te ma lui è fuori dalla tua
portata, capito?”
Decisi che a quel punto valeva la pena di continuare la recita,
perciò la mia espressione non si modificò di una
virgola.
“Credo che ci sia stato un malinteso, io a malapena ci parlo
con Peterson,” spiegai continuando a sorridere. “E
in ogni caso so già con chi andrò al
ballo.”
L’ultima frase colpì davvero la Kane.
“Lo sai già?”
“Certo.”
Udii Patterson fare un colpo di tosse e per un attimo mi sentii
incredibilmente stupida ad essermi ficcata in quella situazione con lui
presente: mi avrebbe tormentato per secoli. Non potei fare a meno di
lanciargli una breve occhiata che lui non ricambiò, in
apparenza troppo impegnato a sbucciare un’arancia.
“E con chi ci andresti?” chiese Hillary con
un’espressione scettica sul volto.
Tentennai, colta in fallo. “Non sono affari tuoi.”
Lei mi guardò sospettosa, sperando in una risposta
più soddisfacente che però non arrivò.
“Non mi convinci,” confermò infine,
alzandosi dalla sedia e guardandomi dall’alto. “Ma
ti conviene comunque stare lontana da George, non sarai mai
all’altezza di una come Mindy, Gray.”
Quell’affermazione, mio malgrado, mi fece arrabbiare sul
serio. Se c’era qualcosa che al mondo non sopportavo erano le
persone che si credevano superiori a tutto e a tutti solo
perché erano carine e indossavano vestiti firmati, che
fossero ragazzi o ragazze non importava, le detestavo proprio.
Prima di andarsene, Hillary si girò verso Patterson per
salutarlo e i suoi lineamenti si fecero d’un tratto
più melensi e zuccherosi. “Ciao Matt. Pensa alla
mia proposta per il ballo, per favore.”
Improvvisamente seppi cosa dovevo fare e fermai la Kane che si era
già voltata per allontanarsi. “Sai, Matt
è troppo gentile per dirtelo, ma anche lui sa già
con chi andrà al Prom.”
Lei si gelò sul posto e ruotò su se stessa per
guardarmi, gli occhi spalancati. Lasciai qualche secondo di suspense
prima di sciogliere il suo dubbio.
“Con me,” dissi infine, cercando di non gongolare
troppo alla sua espressione allibita.
Tiè, brutta
racchia, beccati questa, pensai comunque dentro di me.
Hillary si mosse giusto quel tanto che le bastava per controllare Matt
ancora seduto dall’altra parte del tavolo e io feci lo
stesso, non sapendo cosa avrei visto.
“È… è vero?”
balbettò la poveretta, chiedendo conferma anche al diretto
interessato.
Patterson era a dir poco impassibile, stringeva tra le mani
metà arancia ancora da mangiare. La appoggiò
piano sul tavolo, prese il proprio bicchiere d’acqua e diede
una lunga sorsata per finirlo, poi posò anche quello davanti
a sé, mi guardò e alla fine guardò la
Kane.
“Sì.”
Espirai profondamente, rendendomi conto solo mentre lo facevo di aver
trattenuto il fiato fino a quel momento. Non avevo la minima idea di
come avrebbe potuto reagire Patterson, era vero che ci eravamo fatti
altri tiri del genere in precedenza, ma questo non mi dava il diritto
di fingermi la sua accompagnatrice per il Prom davanti a una sua
potenziale spasimante. Probabilmente mi avrebbe scuoiata viva, quel
“sì” così serio era solo di
facciata, anche se dovetti ringraziarlo mentalmente per avermi retto il
gioco.
La faccia di Hillary Kane, d’altro canto, valeva tutta la
candela, e me la godetti fino in fondo: sembrava una che aveva appena
visto Naomi Campbell uscire di casa vestita di stracci sporchi. Finse
di riprendersi dopo qualche secondo, accennò un mezzo
sorriso che uscì più come una smorfia nauseata e
si congedò con un’ultima frase, cercando di
mantenere la propria dignità.
“Ok, beh… Vorrà dire che
accetterò uno degli altri inviti, allora.”
La guardai mentre si allontanava con la testa appena più
incassata del solito tra le spalle – o almeno così
pareva – dopodiché mi voltai di nuovo verso il
tavolo, presi in mano la forchetta di plastica e cercai di rompere in
due l’ultimo pezzo di crostata rimasto sul mio piatto. Si
ruppe la forchetta. Imprecai a bassa voce e rinunciai
all’impresa, decidendo invece di prendere in mano la torta e
portarmela tutta in bocca per un solo boccone. Nel farlo non alzai mai
una sola volta lo sguardo.
Patterson cercò di attirare la mia attenzione battendo
ritmicamente le dita sul tavolo; non riuscendoci decise di chiamarmi.
“Gray.”
“Che c’è?” bofonchiai, finendo
di masticare quella cosa che il menu della scuola si ostinava a
definire crostata.
“C’è qualcosa che mi devi
dire?”
“A proposito di…?”
“Di quello che è appena successo,”
ringhiò Patterson, socchiudendo gli occhi.
“Giusto!” feci io. “Ti sembra normale che
in questa scuola le cheerleader mandino l’amichetta a segnare
il territorio intorno al loro ragazzo? È già la
seconda volta che mi capita in poco più di un anno!
È un’usanza qui da voi o sono io ad aver beccato
persone con le rotelle non proprio a posto? C’è un
corso apposta qui a Winthrop per imparare a essere così
minacciose? Poi con quel tono intimidatorio, ma chi si credono di
essere? Le tirapiedi di Al Capone?”
Matt alzò le sopracciglia. “Non pensare di
stordirmi con la tua solita raffica di parole, novellina.”
Continua a negare
finché puoi, Delia, nega.
Non era un gran pensiero, ma era l’unico ordine che il mio
cervello riusciva a impartirmi in quel momento: decisi di seguirlo,
forse perché avevo più intenzione di innervosire
Patterson che altro.
“In che senso?”
“Ho sentito che andremo al ballo assieme, ne sai
qualcosa?”
“No. Davvero?”
“Gray, sei bipolare o cerchi di far impazzire me?”
“Sì.”
Patterson sospirò, dopodiché decise di cambiare
tattica.
“Senti, ho capito che ti piaccio. Se volevi un appuntamento
con me bastava chiedere. Magari concordando un numero di parole massimo
da farti usare durante la serata…”
Il suo attacco funzionò. Mi alzai sbuffando e raccolsi le
mie cose. “E con questo direi che la conversazione
è finita.”
Lui, ovviamente, non perse tempo e mi seguì fuori dalla
mensa.
“Ti ho già detto che non è giornata,
Patterson.”
“Non è che puoi obbligarmi a venire al ballo con
te e poi non spiegarmi nemmeno.”
Mi girai e assottigliai gli occhi guardandolo. “Innanzitutto,
io non ho obbligato proprio nessuno a fare un cavolo. E comunque non
andremo al ballo assieme, di questo puoi stare sicuro.”
Detto ciò ripresi a camminare verso il giardino, con Matt
sempre alle calcagna.
“Non sarebbe almeno…” Si interruppe.
“Dove vai?”
“A prendere un po’ di sole, è quasi
giugno e ho un’ora libera.”
“Pure io. Puoi ascoltarmi un attimo?”
“No,” dissi risoluta, raggiungendo un pezzo di
giardino assolato e abbastanza tranquillo prima di sedermi a terra,
lanciare il mio zaino accanto a me e appoggiarmi all’indietro
su di esso chiudendo gli occhi per percepire il calore del sole sul mio
viso.
Patterson, neanche a dirlo, mi imitò sedendosi.
“Ascolta, Gray, ti ho retto il gioco. Non puoi fare
così, sembri psicopatica.”
“Ok, ti ringrazio. Va meglio ora?” domandai con
sarcasmo, aprendo un occhio per guardarlo di striscio.
Lui sbuffò esasperato. “Va bene. Adesso vado a
dire a Hillary che ti sei inventata tutto e che non ti ho contraddetto
perché hai problemi psichiatrici. A vederti ora non
sembrerebbe nemmeno una scusa.”
Mi rimisi con la schiena dritta e incrociai le braccia, in uno dei miei
tipici atteggiamenti da bambinetta che vuole avere ragione.
“Non voglio venire al ballo con te, Patterson. Volevo solo
che la Kane abbassasse la cresta. Ti rendi conto che la gente come lei
se va in giro per la scuola come se le appartenesse? Come se tutti gli
altri fossero scarafaggi da spiaccicare? Sapevo che ti aveva chiesto di
farle di accompagnatore al Prom e volevo infastidirla; il fatto di
essere riuscita col mio gesto a infastidire anche te è solo
un bonus.”
A Matt scappò un sorriso che non potei fare a meno di
notare. Incrociò le gambe e si sporse un po’ in
avanti, l’angolo della bocca ancora piegato
all’insù.
“E se ti dicessi che non mi hai infastidito?”
Distolsi gli occhi dalle sue labbra. “Ti direi che
è un peccato.”
“Non me ne frega niente di Hillary Kane, questa situazione
potrebbe tornare utile a entrambi.”
“Principino, non scherzo quando dico che non ci voglio venire
al ballo con te. Devi smetterla di usarmi come scudo per liberarti
delle seccatrici.”
“Senti chi parla,” ridacchiò lui.
“Comunque non serve che ci andiamo assieme, basta che non
facciamo nemmeno il contrario. Io ci vado da solo, tu ci vai da sola.
Frequentiamo la stessa compagnia, quindi bene o male le persone ci
vedranno lì con gli altri, e anche Dave sarà
solo, non vuole portare un ragazzo.”
Mi stavo per cacciare in un grosso guaio, già lo sapevo: il
ragionamento di Patterson filava, purtroppo.
“Non saprei…” mormorai, mangiucchiandomi
le pellicine dell’indice.
“Non sto a pregarti, a me non cambia
granché,” spiegò lui, appoggiandosi
all’indietro sulle mani e riprendendo il suo tipico
atteggiamento menefreghista. “Al Prom ci vado comunque da
solo. Ma non capisco cosa ti fa tentennare.”
“Il fatto che non ti sopporto,” risposi sicura.
“Questo patto servirebbe più a te che a me, ti sto
facendo un favore,” biascicò Patterson noncurante.
“Oh, certo. Arriva il Principe Azzurro col cavallo bianco e
la spada sguainata!”
Quel suo modo di fare stava ricominciando seriamente a darmi ai nervi.
Sorrise di nuovo. “E non mi detesti così tanto,
dai.”
Stavolta mi sporsi io verso di lui. “Credimi, Patterson, io
ti odio.”
“Ne sei così certa?”
“Assolutamente sì.”
Matt mi porse la mano. “Siamo d’accordo,
quindi?”
La guardai indecisa, mordicchiandomi il labbro inferiore, infine la
presi con la mia. “Non siamo quasi mai d’accordo,
ma per stavolta potremmo fare uno strappo alla regola.”
Patterson mi strinse la mano deciso. “Mi sembra
giusto.”
“Lasciamo fuori gli altri da questa cosa, per
piacere,” specificai, riflettendo sul fatto che non volevo
coinvolgere i miei amici, anche se non sapevo bene il perché.
“Pensi davvero che non lo verranno a sapere? L’hai
appena detto a Hillary Kane.”
La mattina seguente Audrey mi travolse nei pressi del mio armadietto,
trafelata.
“Cos’è questa storia di te e Matt che
andate al ballo assieme? Perché non mi hai detto
niente?”
Mi fece circa un centinaio di domande prima che riuscissi a bloccarla e
a spiegarle che era tutto un malinteso, che io avrei voluto chiedere a
George di venire al Prom con me, ma che il giorno prima avevo scoperto
che stava con la Karpenter. Le dissi velocemente del mio scontro in
mensa con la Kane e di ciò che era avvenuto in seguito. Non
le raccontai una vera e propria bugia, soltanto tralasciai la parte
dell’accordo tra me e Patterson. All’epoca non
capivo del tutto perché non avessi voglia di parlarne, la
verità era che io e Matt, per quanto mi seccasse ammetterlo,
ci eravamo di fatto messi d’accordo per andare al ballo
insieme.
Il che era assurdo: il fatto che io avessi preso a tollerare le
presenza di Patterson nel gruppo non significava certo che lo trovassi
meno insopportabile e odioso, o che mi andasse bene farmi vedere in
giro con lui come se uscissimo assieme. Solo il fastidio ancor
più profondo che provavo nei confronti di Hillary Kane mi
aveva spinta ad accettare: che pensasse pure che io e Matt fossimo
intimi, se questo serviva a farle capire che non poteva comandare tutti
a bacchetta solo perché si credeva chissà chi.
Vissi comunque quella settimana con una certa tensione addosso,
tensione che scaricai come ero solita fare. Un paio di giorni prima del
Prom andai dal parrucchiere e dissi a Marisol – la ragazza
latinoamericana che ormai era diventata il mio punto di riferimento per
i capelli – di propormi qualcosa di nuovo. Ne uscii con la
frangia e i capelli talmente scuri da sembrare quasi neri.
La sera del ballo, in piena sintonia con il mio solito stile da stramba
della scuola, arrivai nel parcheggio della palestra guidando il mio
motorino, vestita di tutto punto. Notai un paio di ragazze del primo
anno guardami scioccate, gli altri erano per l'appunto abituati alle
mie stranezze: nessuno
andava al ballo in scooter, nessuno tranne me. Mi tolsi il
casco, mi passai una mano tra i capelli per sistemarli ed entrai per
raggiungere i miei amici.
Patterson era già lì. Lo notai solo quando Dave
venne a salutarmi e a complimentarsi per il mio “fascino
molto dark” (citazione testuale): indossavo un abito nero con
la gonna in pizzo leggermente a palloncino e un trucco abbastanza scuro
sugli occhi. Vista la quantità estrema di colori che tendevo
a mettermi addosso di solito, sapevo che quel cambiamento sarebbe stato
ampliamente notato. Ringraziai David con un bacino sulla guancia e in
quel momento i miei occhi si fermarono su Patterson alle sue spalle. In
giacca scura e camicia bianca faceva ovviamente la sua gran bella
figura, ma questo – purtroppo – lo sapevo
già dall’anno precedente. Forse mi aspettavo che
venisse a salutarmi anche lui – per avvalorare il suo piano
cretino contro Hillary Kane, eh, mica per altro – ma non lo
fece, si limitò ad alzare fiaccamente una mano per dare
segno di avermi vista, così lo ignorai di rimando.
Già, non il modo migliore per iniziare col piano, ma almeno
così i nostri amici non sospettarono nulla.
Fu una serata tutto sommato divertente. La passai perlopiù
con David, che era l’unico non accoppiato dei miei amici:
Josh ogni tanto spariva con Pearl, la sua accompagnatrice; Jude si
intratteneva con Roger, un ragazzo simpatico che però lei
vedeva solo come amico, per quanto lui si sforzasse di farle cambiare
idea; Audrey invece sembrava aver trovato un buon feeling col tipo di
cui aveva accettato l’invito, un certo Toby.
Quando andai a prendere da bere per me e Dave incontrai Hillary Kane
che si pavoneggiava a lato della pista da ballo nel suo costoso abito
azzurro cielo. Cercai di girarmi per non farmi vedere, contando sul
fatto che la gente non si era ancora abituata al mio nuovo colore di
capelli, ma lei mi individuò e mi si avvicinò
sicura.
“Delia, ciao! Non dovevi essere con Matt stasera?”
mi domandò, andando dritta al punto. Già il fatto
che mi avesse chiamato Delia mi metteva i brividi.
Continuai a versarmi il punch nel bicchiere senza nemmeno guardarla.
“Sì, è là con gli
altri,” risposi indicando il punto dove speravo che Patterson
fosse insieme ai miei amici.
“Oh, certo,” fece lei. “Io sono qui con
Samuel, un ragazzo del College, sai.”
Non me ne poteva importare di meno. Annuii, presi i bicchieri che avevo
riempito e mi allontanai dopo averle risposto solo un cenno della
testa, giusto per non essere troppo maleducata. David stava parlando
con Audrey e Toby, gli lasciai il suo bicchiere di punch e andai a
sedermi con Jude e Roger a uno dei tavolini posti tutti intorno alla
pista da ballo. Mi intrufolai come se niente fosse nella loro
conversazione sull’esame finale di Chimica, che
quell’anno era stato più difficile del solito,
finché non venni raggiunta da qualcuno che, per chiamarmi,
mi toccò lievemente la spalla con una mano. Quando vidi che
in piedi dietro la mia sedia c’era Patterson drizzai di
riflesso la schiena e gli lanciai un’occhiata interrogativa.
“Balli?” chiese lui porgendomi la mano per
invitarmi ad alzarmi.
Rimasi talmente scioccata che il mio cervello si inceppò e
il mio corpo reagì da solo: annuii sotto lo sguardo stupito
di Jude, poggiai la mano sulla sua e lo seguii in mezzo alle altre
coppie danzanti. Una volta lì Matt si fermò e si
avvicinò a me, tenendo la mia mano nella sua e posando
l’altra sulla mia schiena lasciata libera
dall’ampia scollatura sul retro del vestito. Senza rendermene
conto, d’istinto rabbrividii appena, poi mi ricomposi, mi
sciolsi un po’ per non sembrare uno stoccafisso e alzai la
testa per guardarlo.
“Hai deciso di darti al
punk?” domandò ironico, commentando il mio look:
sapevo che lo avrebbe fatto, perciò lo ignorai, testarda.
“Hai le mani fredde,” dissi
invece, con voce apparentemente piatta.
“Lo dici come se potessi aver fatto anche questo di
proposito, solo per darti fastidio.”
“Non si sa mai.”
Sorrise appena e io ritenni opportuno spostare lo sguardo di fronte a
me, su un punto imprecisato della sua spalla. Probabilmente Patterson
aveva aspettato che il dj mettesse la canzone adatta ad evitarci facili
imbarazzi: era una ballata rock, abbastanza tranquilla da permetterci
di ballare senza muoverci troppo, ma non così smielata da
obbligarci a stare in mezzo a un centinaio di coppiette avvinghiate e
amoreggianti. Ci consentiva di stare vicini ma non troppo.
Improvvisamente, capii perché mi aveva invitata a ballare.
“Tutto questo a uso e consumo della Kane?”
“Dovrebbe essere dietro di me adesso,”
confermò lui. “L’ho incontrata
già un paio di volte, penso stesse cominciando a chiedersi
come mai non ci siamo mai guardati tutta la sera.”
“Potevi dirle che è perché ci
sopportiamo poco, se non fosse così idiota
l’avrebbe già capito da sola.”
Patterson tirò indietro la testa per guardarmi e io fui
obbligata a fare lo stesso: aveva un’espressione a
metà tra lo stupito e il divertito, e seppi che stava per
fare una delle sue solite battutine.
“Nel giro di pochi giorni sei passata da Ti odio a Ci sopportiamo poco?
Sono onorato, dico davvero.”
“Oh, non ti preoccupare troppo. Sono sicura che con altri due
minuti di vicinanza forzata riusciamo a tornare al Ti odio come se
niente fosse.”
Come per sfidarmi, lui mi obbligò a farmi più
vicina, spingendomi leggermente con la mano poggiata sulla mia schiena:
ora i nostri corpi si toccavano e la cosa mi metteva addosso una sorta
di agitazione difficile da spiegare.
“Stai esagerando,” lo avvertii quindi, adattandomi
comunque a quella nuova situazione.
“Non ti pesto i piedi, tranquilla.”
Notai in quel momento che in effetti era piuttosto bravo a danzare; non
stavamo certo facendo qualcosa di particolarmente difficile, ma non era
goffo come la maggior parte degli accompagnatori che avevo avuto in
precedenza, né immobile come molte persone intorno a noi.
“Te la cavi bene col ballo,” mi uscì,
prima di rendermi conto che poteva essere considerato un mezzo
complimento.
“Genitori ricchi e snob,” spiegò lui,
“che ritenevano assolutamente necessario farmi prendere
lezioni di danza per prepararmi al ballo delle debuttanti.”
“Non è una cosa per ragazze?”
Mi lanciò uno sguardo che sembrava altezzoso.
“Hanno anche degli accompagnatori.”
“Perdonami per la mia ignoranza in materia,
principino,” ribattei sarcastica.
“Quand’è che dovresti debuttare in
società, quindi?”
“Mai, spero,” rispose criptico, prima di rispondere
alla mia occhiata interrogativa con un sospiro. “Avrei dovuto
farlo quest’anno a Boston, ma mi sono rifiutato. Mia madre
spera ancora che ci ripensi per l’anno prossimo.”
“Ci ripenserai?”
“Non credo proprio.”
“Che adolescente ribelle,” osservai con un
sorrisetto di sfottò sulle labbra.
Lui mi scrutò semiserio, poi mi punì facendomi
fare un mezzo casqué che, cogliendomi di sorpresa, mi
obbligò ad intrecciare entrambe le braccia dietro il suo
collo per reggermi.
“Ti fidi poco di me, ma non te la cavi male neppure
tu,” bisbigliò direttamente al mio orecchio, non
appena mi permise di riprendere una posizione completamente verticale.
Mi allontanai di qualche centimetro da lui col cuore ancora incastrato
in gola per la sorpresa. “Ho… ho studiato danza
per un annetto da piccola. Danza classica, perlopiù, ma ho
provato un po’ di tutto.”
“Ti annoiava?”
“No, in realtà. Alle elementari non stavo mai
ferma, ero in un periodo in cui provavo quasi qualsiasi cosa, dal nuoto
al pianoforte all’equitazione. Quella è
l’unica che smisi davvero a malincuore, quando scoprii che
mio padre non aveva intenzione di comprarmi un cavallo. Mi accontentai
di un criceto qualche mese più tardi.”
Mi bloccai accorgendomi di aver cominciato a blaterare come al solito e
constatai anche che la canzone che avevamo ballato fino a quel momento
era appena finita, sfumando in un pezzo più lento e
decisamente troppo romantico per i miei gusti. Come scottata, spostai
le mani che erano ancora allacciate al collo di Matt e feci un passo
indietro; lui tolse le mani dai miei fianchi permettendomi di farlo.
“Abbiamo…” Mi schiarii la voce con un
colpo di tosse prima di continuare. “Direi che abbiamo dato
abbastanza spettacolo.”
“Sì?”
Vidi i miei amici che ci guardavano alle spalle di Patterson e annuii
convinta.
“Credo che Audrey non si riprenderà per i prossimi
due mesi, mentre Dave si sta ancora chiedendo quando cercheremo di
ucciderci a vicenda. Quindi è molto probabile che ci abbia
visto anche la Kane, sì.”
“Beh, allora…” Matt si chinò
e mi prese la mano, sfiorandone poi il dorso con le labbra piegate in
un sorrisetto sfrontato. “Grazie per il ballo,
novellina.”
Alzai gli occhi al cielo e scossi piano la testa, ignorando la
sensazione strana all’altezza dello stomaco, procurata dai
suoi occhi grigi irriverenti.
“Si vede proprio che sei un piccolo lord, Patterson, anche se
ti rifiuti di entrare di società,” lo presi in
giro incamminandomi con lui verso gli altri.
“Lo prenderò come un complimento.”
“Ovviamente non lo era.”
“Ci sono ben poche cose ovvie al mondo, Gray,”
concluse lui sibillino, prima di lanciarmi un’ultima occhiata
strana e allontanarsi.
Inutile dire che mi ignorò bellamente per tutto il resto
della serata, limitandosi a un saluto distratto quando giunse il
momento di tornare ognuno a casa propria. Chi non mi ignorò
affatto fu invece Audrey, che mi domandò perché
diavolo avessi ballato con lui almeno un centinaio di volte, non
accontentandosi della mia prima e definitiva risposta:
“Perché me l’ha chiesto.”
David, dal canto suo, evitò di commentare la cosa e mi
lanciò solo qualche sguardo sentenzioso, e sapevo senza
bisogno di chiederglielo che stava pensando a quando gli avevo rivelato
del bacio che Patterson mi aveva dato l’anno prima. Non
poteva immaginare che ci stavo pensando anch’io, ma per un
motivo ben diverso: mi stavo rendendo conto che mentre quel bacio aveva
dato definitivamente il via alla guerra tra me e Patterson, il ballo e
le chiacchiere che avevamo appena condiviso, anche se in modo
tutt’altro che tradizionale, avevano sancito la tregua che
– più o meno consapevoli – ci
preparavamo a vivere.
Mi
dispiace incredibilmente di avervi fatto aspettare tanto, ma
è stato un periodo un po' pieno, e inoltre avevo avvisato
che normalmente non sono regolare negli aggiornamenti. Sto facendo i
salti mortali per pubblicare oggi, in effetti, spero di far piacere a
qualcuno, perché le recensioni che mi state lasciando non
saranno molte ma sono davvero stupende. Quindi grazie davvero, di
cuore. <3
Le
solite sceme precisazioni, poi mi dileguo.
Non
mi pare di averlo mai detto, in realtà, ma Winthrop, la
cittadina dov'è ambientata la storia, esiste davvero, ha
circa ventimila abitanti, è in Massachusetts, molto vicina a
Boston, ed è sul mare. Quando ho iniziato a scrivere la
storia mi sono fissata con la verosimiglianza e baggianate simili, in
realtà avrei solo potuto inventare una città e
piazzarla dove volevo, ma la mia insanità mentale ha portato
a questo. Naturalmente so ben poco altro di Winthrop - quella vera - a
parte ciò che vi ho appena detto, perciò tutte le
informazioni che darò nella storia saranno più o
meno inventate, la verità potete spulciarla cliccando qui.
Matt e Delia hanno fatto un passetto in avanti in questo capitolo,
ebbene sì. So che può sembrare poco, so che
magari vi aspettavate e speravate ben altro, ma i tempi per sti due
sono questi, purtroppo. Non disperate! Non abbandonateli! Sono carini,
no? Almeno un pochino? :)
Matt sta cominciando pian piano ad aprirsi, la conversazione che hanno
durante il ballo non è casuale. Fatemi sapere cosa ne
pensate, se vi sono piaciuti o se vorreste venire a cercarmi a casa per
picchiarmi.
Il titolo del capitolo, War
and Peace, si rifà al noto romanzo di Tolstoj,
anche se tutto il resto, per mia sfortuna, non ci azzecca un cavolo con
esso! ^^
Penso sia abbastanza chiaro il perché del titolo,
perciò non mi dilungo oltre.
Sto pubblicando davvero di fretta, forse stasera o domani
farò una revisione, se qualcuno nel frattempo dovesse
trovare sviste o errori me lo faccia sapere e sarà
ricompensato con la mia gratitudine!
Se non mi avete abbandonato, recensite please. Un abbraccio grosso,
alla prossima! :*
|
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Capitolo 8 *** What's important to me ***
8. What's important to me
L’estate prima del mio ultimo anno di liceo passò
talmente in fretta che fu quasi un trauma accorgermi che era finita.
Winthrop era dotata di un porto e delle spiagge carine, che in alta
stagione si riempivano di turisti e ragazzi in cerca di avventure
estive, occasione che non mi lasciai sfuggire.
Portavo con me nella “caccia al turista” David e
una recalcitrante Jude, che era sempre poco propensa a conoscere gente
nuova. Josh ogni tanto si univa a noi, ma aveva appena cominciato a
frequentarsi più seriamente del solito con Olivia, una
ragazza di un anno più grande che a settembre sarebbe
partita per andare al College dall’altra parte del paese,
quindi cercava di godersi più tempo possibile in sua
compagnia prima di doversene separare. Audrey, invece, continuava a
vedersi con Toby, il ragazzo del Prom, e sembrava piuttosto felice.
Matt lavorava part-time in una gelateria del centro e, anche se David
lo invitava spesso, si faceva vedere molto di rado, giustificandosi col
fatto che spesso aveva i turni serali. Non mi lamentai.
Come l’anno precedente ad agosto passai due settimane in
California con i miei genitori e tornai una decina di giorni prima
dell’inizio della scuola. Feci a malapena in tempo a mettere
piede in casa – preoccupata per la miriade di compiti che
avevo lasciato indietro e convinta di dovermi segregare per tutta la
settimana – che David stava bussando alla mia porta trafelato.
Entrò abbracciandomi come se fossi appena tornata dalla
guerra.
“Deels, tesoro, che bello vederti!”
“Ehi, calmo. Sei venuto a casa mia, non è che ci
siamo incontrati per caso.”
“Mi sei mancata!”
“Sono stata via quindici giorni, Dave.”
Lui si staccò dall’abbraccio e mi
guardò con occhio critico. “Niente cose strane ai
capelli?”
“Mm, no, ho rifatto la tinta scura, avevo la
ricrescita.”
“Puoi permettertela solo perché sei abbronzata,
tesoro, tra due mesi sembreresti Mercoledì Addams.”
“Grazie, Davie.”
“Sono sincero,” si giustificò lui,
facendo spallucce. “Saresti splendida anche in versione
Mercoledì Addams, se ti può consolare.”
“Sei il solito lecchino.”
“È che mi sei mancata!”
ripeté accorato il mio amico, tornando ad abbracciarmi
brevemente.
Appena riuscii a liberarmi dalle sue grinfie lo scrutai sospettosa.
“Tutte queste feste per il mio ritorno sono troppe persino
per uno come te,” commentai stranita.
Dave alzò gli occhi al cielo con fare teatrale.
“Ok, mi hai beccato! Devo assolutamente raccontarti una cosa
che è successa in tua assenza, o rischio di
scoppiare.”
A dire la verità non lo avevo esattamente beccato; il suo
comportamento mi era parso strano, sì, ma non ero io quella
intuitiva tra noi due: David aveva solo colto la palla al balzo e aveva
approfittato della mia perplessità per decidere di parlarmi.
Mi trascinò senza troppi complimenti in camera mia,
fermandosi solo per salutare educatamente mia madre in sala.
“Dee, mi devi aiutare a risolvere una situazione,”
esordì una volta nella mia stanza, buttandosi a sedere sul
mio letto e guardandomi con due occhi profondamente indecisi.
“Di che si tratta?”
“Prima devi promettermi che non ne parlerai con nessuno.
Almeno finché non avremo deciso come procedere.”
“Finché non avremo deciso come procedere? Stai
cominciando a preoccuparmi sul serio, Dave.”
Mi sedetti sul letto a gambe incrociate e rivolta verso di lui, che a
sua volta ruotò per stare girato dalla mia parte.
“Sputa il rospo, su,” lo incitai quindi, ormai
incuriosita.
“Sul serio, non lo dirai a nessuno?”
“Certo, so mantenere un segreto.”
Lui mi lanciò un’occhiata scettica e io sbuffai,
offesa.
“Va bene, parlo troppo, ma so controllarmi quando ce
n’è bisogno, cosa credi? Non è come se
parlassi a vanvera con tutti di qualsiasi cosa, compresi i segreti dei
miei amici. Sono pazza, ma solo fino a un certo punto. E comunque
stiamo andando fuori tema, cos’è che mi devi dire.
Sono sicura che non è così grave come lo stai
facendo sembrare, insomma, stai esagerando per…”
“Toby l’altra sera ci ha provato con me.”
Rimasi con la bocca leggermente socchiusa, cercando di assimilare le
parole del mio amico ma, come ho già detto, non sono certo
un esempio di intuito, perciò alla fine aggrottai le
sopracciglia e scossi la testa.
“Toby…?”
“Mm-mm.”
“Non stai parlando del Toby di Audrey, vero?”
“Quanti altri Toby conosci?”
“Cosa… Cosa diavolo vuol dire che ci ha provato
con te?” capitolai infine, in confusione totale.
“Secondo te cosa vuol dire?” si stupì
David. “Sul serio, Delia, sei sicura di stare bene? Sembri un
po’ fuori fase, la California deve averti fuso il
cervello.”
“A me sembra che sia tu quello col cervello fuso. Toby non
sta con Aud?”
“Sì, scema. Perciò quello che ti sto
raccontando è un segreto.”
“Ma perché, ad Audrey non l’hai ancora
detto?”
David mise su un’espressione colpevole che mi rese superflua
una sua risposta: era evidente che non aveva avuto il coraggio di
parlare con la nostra amica in comune.
Sospirai arricciando il naso, scompigliata.
“Senti, non sapevo cosa fare!” si
giustificò lui, mettendo le mani avanti. “Non
farmi sentire ancora più in colpa, sono venuto da te per un
consiglio.”
“Non voglio farti sentire in colpa, Dave, io
non…” Mi bloccai per riordinare le idee e
ricominciai dall’inizio. “Senti, partiamo daccapo.
Sei sicuro che ci abbia proprio provato?”
“Dipende,” rispose lui facendo spallucce, e io
partii in quarta, già più sollevata.
“Ecco, vedi! Magari è stata solo
un’impressione, non ti sei…”
“Dipende se per te tentare di baciarmi significa provarci
oppure no,” continuò David, facendo una faccia
spaventata.
“Ha provato a… Vuoi dirmi che vi siete…
Ma come diavolo è potuto…?”
“Calmati Dee, sembri Berries durante una delle sue
crisi.”
“Non fare il pacato adesso, sai, due minuti fa sembravi in
preda a una crisi di panico in piena regola. Sei un pazzoide.”
“Ma io sono in panico!” esplose lui, allargando le
braccia. “Ne ho il diritto! Non so che cosa fare!”
“Ehi, ok, non schizzare ora! Raccontami bene
cos’è successo.”
“Non è molto complicato. Sabato sera eravamo al
Platinum e stavamo ballando e bevendo un po’ e divertendoci.
Poi sono uscito un attimo con Matt e ho trovato una mia amica, mi sono
fermato a chiacchierare. Quando Matt è rientrato Toby era
uscito, mi ha chiesto di seguirlo, mi ha portato in un posto un
po’ appartato e ha provato a baciarmi. Mi sono scansato e
sono rientrato. Ero così sconvolto che poco dopo sono andato
a casa. Fine della storia.”
Uno dei particolari del racconto mi aveva colpito più degli
altri, così mi ritrovai a fare una domanda stupida.
“C’era anche Matt?”
“Ci ha raggiunti quando ha finito il turno in gelateria,
l’ha fatto anche le altre sere.”
“Davvero?”
Mi sembrava strano, nel periodo in cui io ero a Winthrop non era uscito
molto spesso con noi. Quasi mai, a dire il vero.
“Sì, davvero. Ti sembra una cosa rilevante, Dee?
Capisco e supporto la vostra storia di odio-amore e bla bla bla, lo sai
bene, ma ti stai perdendo il punto focale della faccenda che, per la
cronaca, stavolta non è Matt.”
“Ma quale odio-amore! Ti sei bevuto il cervello,”
esclamai scandalizzata.
David alzò un sopracciglio sospettoso.
“Ok,” continuai, cambiando argomento.
“Non hai fatto niente di male, McPharrell, ma Aud deve sapere
cos’è successo. È pur sempre il ragazzo
con cui si frequenta.”
Il mio amico abbassò la testa sospirando. “Lo so,
lo so, ma non ho idea di come fare a dirglielo.”
Lo vidi piuttosto abbattuto e cercai di tirarlo su. “Non hai
fatto niente di male,” ripetei, sottolineando le mie parole
con una carezza sul braccio.
“So anche questo, ma…”
“Cos’è che ti preoccupa?”
“È che io e Toby ultimamente abbiamo legato
abbastanza, non vorrei che avesse pensato fosse lecito provare a
baciarmi.”
Lo guardai con tanto d’occhi, incitandolo a spiegarsi meglio.
David mi raccontò che lui e Toby si erano spesso trovati
bene a parlare nell’ultimo periodo, scoprendo di andare
parecchio d’accordo. Ovviamente Dave non aveva mai fatto
niente con malizia, al contrario: sapeva che Toby era il ragazzo di
Audrey, quindi etero, quindi al massimo un amico.
Ci riflettei un attimo su, mi stesi sul letto e David, accanto a me,
fece lo stesso, ascoltando il mio silenzio. Alla fine giunsi alla
soluzione che mi sembrava più sensata.
“Ascolta, Dave, facciamo così. Hai detto che i
prossimi giorni Toby non c’è, giusto?”
“Me l’ha confermato Audrey. Sta in campeggio tutto
il weekend con la sua famiglia, mi pare.”
“Ok, perfetto,” commentai, guardando pensierosa il
soffitto. “Allora domani sera usciamo tutti insieme.
Purtroppo io durante il giorno non posso, ho un mucchio di compiti da
fare ancora, mio padre non mi farà mai uscire. Ma il sabato
sera posso guadagnarmelo.”
“Mi darai una mano?”
“Certo, McPharrell, sono dalla tua parte.”
David si sporse sul letto per abbracciarmi di nuovo. “Grazie
Dee. Sei la migliore.”
“Povera Aud. Sarà un brutto colpo per
lei.”
Lui annuì, abbattuto. “Quella ragazza è
proprio sfigata nelle scelte sentimentali.”
Rimanemmo qualche secondo in silenzio, poi mi venne in mente una cosa.
“Senti, se inviti anche Matt… Non dirgli che ci
sono anch’io, per favore. Anzi, digli proprio che sono ancora
in California.”
Il mio amico mi guardò stranito, poi scrollò le
spalle, probabilmente troppo preso dai propri pensieri per far caso ai
miei.
“Come vuoi, piccola paranoica,” rispose lanciandomi
una frecciatina.
Magari mi sbagliavo, ma avevo la sensazione che il rampollo di casa
Patterson stesse cercando di evitarmi. Era l’occasione giusta
per scoprirlo.
La sera successiva uscii di casa principalmente preoccupata per Audrey,
ma un piccolo brivido alla base del collo mi ricordava che forse avrei
rivisto Patterson. Non riuscivo a capire se avessi voglia di vederlo
oppure no. Tendenzialmente le mie viscere e la mia testa dicevano di
no, che non avevo per niente voglia di vedere quello stronzo; ma
c’era una parte di me che si sentiva offesa per lo snobismo
con cui mi aveva trattata nell’ultimo periodo e che voleva
rinfacciargli la cosa. Ero piuttosto combattuta.
Ma quella sera stavo uscendo per rivedere i miei amici dopo la vacanza
in California e, soprattutto, per risolvere una possibile crisi, quella
che vedeva coinvolti Audrey, David e Toby in un insolito e imbarazzante
triangolo sessualmente ambiguo.
Fu quello che successe, anche perché quando arrivai al
Platinum di
Patterson non c’era nemmeno l’ombra,
perciò sospirai di sollievo e mi concentrai nella faccenda
scottante di Dave. Gli avevo promesso che l’avrei aiutato ma,
ovviamente, toccava a lui parlare con Audrey, su questo non
c’erano dubbi. Gli feci da spalla e lo incoraggiai e appena
arrivò Aud lo guardai andare da lei per parlare, con
l’accordo che se avesse avuto bisogno del mio aiuto avrebbe
dovuto farmi un cenno e io sarei intervenuta. Nonostante il suo
carattere apparentemente aperto e sereno, David era piuttosto insicuro
in questo genere di situazioni.
Restai al tavolo da sola con Josh, poiché Jude doveva ancora
arrivare. Josh mi guardò solo un attimo confuso quando gli
altri due si allontanarono, ma non fece domande indiscrete, quindi mi
misi a chiacchierare con lui e nel frattempo tenni un occhio fisso su
Aud e Dave che parlavano in un angolo.
Passarono pochi minuti e arrivò pure Jude che, dopo avermi
salutata e
avermi chiesto della vacanza, lanciò uno sguardo preoccupato
a Josh.
“Come stai tu, Parker?” gli chiese subito,
sedendosi con noi.
“Bene.”
“Olivia è partita?”
“Ieri.”
Merda! Ero talmente presa dal problema di David che mi ero dimenticata
che Josh era appena stato costretto a salutare la ragazza con cui aveva
passato l’intera estate. Ero una pessima amica, meno male che
c’era Jude.
“Sei sicuro di stare bene?”
Josh annuì di nuovo e io mi sentii stranita. Non sembrava il
tipo da struggersi per una ragazza, non l’avevo mai visto
innamorato probabilmente, pareva più abituato a divertirsi e
a spezzare cuori lui stesso. Eppure aveva l’aria di essere
effettivamente un po’ abbattuto: forse non si sarebbe
strappato i capelli, ma era evidente che a questa Olivia teneva davvero.
“Ho bisogno di divertirmi,” disse invece Josh.
“Non c’è Matt? Il barista qui
è suo amico, gli dà sempre da bere.”
Sbuffai, ricordando la prima serata al Platinum in cui
avevo avuto a
che fare con Patterson, quando mi era sembrato che mi facesse gli occhi
dolci. Come no.
“Oh, eccolo lì!” esclamò di
nuovo Josh, lasciandomi di stucco.
Quando mi voltai, infatti, sulla porta del locale era appena apparso
Matt Patterson, con tanto di scarpe distrutte e sguardo grigio
annoiato. Josh gli fece un cenno con la mano e lui lo notò,
avvicinandosi subito al nostro tavolo. Appena i suoi occhi incontrarono
i miei, però, mi parve per un attimo indeciso e il suo passo
rallentò quasi impercettibilmente. Ma io l’avevo
beccato, dannazione.
“Ciao,” salutò con sicurezza quando ci
raggiunse.
Jude e Josh gli risposero allegramente, io mi limitai a un sorriso
tirato e un cenno del capo.
“Tutto bene?” chiese lui, in generale. Poi, senza
aspettare una risposta, continuò. “Non
c’è McPharrell?”
Josh gli indicò Dave con la mano. “È
là che parla con Audrey,” spiegò celere.
A quel punto anche Jude drizzò le antenne e, dopo aver
guardato gli altri due, mi lanciò un’occhiata
interrogativa. Le feci segno con la mano di aspettare, che avrebbe
saputo tutto dopo, non me la sentivo di spifferare io ciò
che era successo. Nel frattempo Josh stava domandando a Matt, ancora in
piedi di fianco al tavolo, se fosse possibile avere qualcosa da bere
dal barista che di solito lo serviva senza problemi; Patterson
annuì e si voltò per andare verso il bancone e
io, come azionata da una molla, mi alzai di scatto.
“Vengo con te!” esclamai.
Matt mi guardò, per la prima volta da quando si era
avvicinato a noi, con un’espressione vagamente stupita, ma
non disse niente, così lo seguii mentre pensavo a come agire.
“Vuoi una birra anche tu?” mi domandò
quando arrivammo di fronte al banco, attendendo che il suo amico si
liberasse per servirci.
Notai che non si era nemmeno girato a guardarmi e mi innervosii ancora
di più, perché non capivo se lui fosse
improvvisamente diventato ancora più stronzo del solito o
sei io fossi improvvisamente diventata paranoica.
“Sì,” risposi concisa.
“Jeff, tre birre per favore,” disse allora Matt
sporgendosi sul bancone.
“Tu non bevi?” gli chiesi stupita: sapevo che le
altre due birre erano per Jude e Josh.
“No, ho già bevuto un paio di birre coi colleghi
prima di venire qui.”
Devi guidare?”
“No, sono a piedi.”
“E perché non bevi, allora?”
“Hai dimenticato di prendere la pillola contro la
curiosità stasera, Gray?” sbottò lui,
ma più che infastidito il suo tono sembrava divertito ed
esasperato.
“Dalla tua rispostaccia dopo solo tre battute immagino di
esserti mancata da morire, principino.”
Lui ridacchiò e si appoggiò con la schiena al
banco, voltandosi finalmente a guardarmi.
“Pensavo fossi ancora in California,” disse dopo
qualche attimo di silenzio.
“Lo so,” risposi stupidamente io, distratta per un
secondo di troppo dai suoi occhi grigi.
Matt mise su un’espressione dubbiosa. “Lo
sai?”
Sospirai, incerta, maledicendo me stessa per la mia lingua lunga; ma
sapevo che alla fine la verità sarebbe saltata fuori,
parlavo sempre troppo.
“Ho chiesto io a David di dirti che non
c’ero.”
Patterson alzò un sopracciglio. “E
perché l’avresti fatto?”
Decisi di sganciare la bomba per vedere come avrebbe reagito, presi
fiato e parlai velocemente. “Perché mi hai evitato
per tutta l’estate. Ho pensato che se avessi creduto che
stasera non c’ero saresti uscito. E infatti, eccoti
qua.”
Il suo sopracciglio alzato ebbe solo un lievissimo tremore, quasi
impossibile da notare, tanto che pensai di essermelo immaginato,
dopodiché, a sorpresa, Matt scoppiò a ridere di
gusto. Rimasi immobile, indecisa se offendermi o continuare il mio
copione per cercare di smascherarlo, anche se parte della mia sicurezza
stava volando via.
Corrucciai la fronte. “Che ci sarà di
così divertente?”
Lui continuò allegramente a ridacchiare mentre tentava di
spiegarmi. “Non sei mai stata del tutto a posto, ma pensare
che ti abbia evitata di proposito per tutta
l’estate… Stai rasentando la follia,
Gray.”
“Non credo proprio che…” cominciai
decisa, ma venni interrotta dalla voce del barista.
“Matt, le tue birre.”
Lui ringraziò e fece per tirare fuori il portafoglio, ma
l’altro gli fece un cenno con la mano. “Per
stavolta offro io. Meredith ed io stiamo andando a vivere insieme,
stasera si festeggia!”
“Tu e Meredith? Bel colpo, amico!”
“Grazie. Ora torno al lavoro, divertitevi.”
Patterson prese una birra dal bancone e me la porse, poi si
girò per recuperare le altre due. Non sembrava molto
intenzionato a ricominciare il discorso che era stato interrotto dal
barista, ma non desistetti, cocciuta come al solito.
“Quindi non mi stai evitando?”
“No. Avevo una cotta per lei quand’ero bambino,
sai?”
“Chi?” chiesi, confusa dall’improvviso
cambio d’argomento.
“Meredith. La ragazza di Jeff,” spiegò
quindi e, vedendo che non ne venivo a capo, indicò dietro le
sue spalle il barista.
“Che c’entra ora?”
“Niente. Mi faceva da baby sitter da piccolo ed ero
innamorato di lei. Ora vanno a vivere assieme.”
“Che storia strappalacrime,” commentai acida,
nervosa per essere stata interrotta di nuovo.
“Sei piuttosto stronza. Ti ho appena aperto il mio
cuore,” fece lui sarcastico, mostrando un mezzo sorriso.
“Come no.”
“Invece sì.”
“Tu non ce l’hai un cuore, Patterson.”
“Da ragazzino ce l’avevo. Avevo una cotta per
Meredith.”
“E questa Meredith rimarrà per sempre il tuo unico
amore?”
Lui sembrò pensare a qualcosa, lo sguardo perso nel nulla,
poi si riscosse e mi osservò di nuovo, gli occhi
incredibilmente seri. “Chi lo sa.”
Sospirai rassegnata. “Portiamo le birre agli altri,
va’.”
Proprio mentre mi giravo per tornare al tavolo Matt mi toccò
lievemente un braccio per fermarmi. Non me l’aspettavo, tanto
che reagii sussultando e rovesciai sul pavimento un po’ della
birra che avevo in mano, poi imprecai poco elegantemente mentre
controllavo di non essermi sporcata.
“Perché diavolo l’hai fatto?”
lo insultai.
“Io ti ho solo sfiorata, sei tu che sei saltata per
aria!”
“Ho preso paura. Senti,” continuai, anticipando la
sua battuta sarcastica, “ho capito l’andazzo, sono
tre mesi che praticamente non ci vediamo ma non è cambiato
un cavolo tra di noi, continuiamo a non sopportarci, forse è
il caso di…”
“Perché pensi che ti abbia evitata?”
“Mi… mi hai evitata, quindi?” balbettai,
presa alla sprovvista.
Sospirò, avvicinandosi di un passo. “No, ti ho
chiesto solo perché lo pensi.”
Spostai gli occhi per cercare di evitare i suoi, ormai troppo vicini
per i miei gusti. “Non… non è
che…”
Dovevo cercare una risposta in fretta, ma in realtà non
sapevo più cosa dire, le sensazioni dei giorni precedenti
sul fatto che mi avesse appositamente scansata durante
l’estate stavano svanendo sotto il suo sguardo caldo e
vagamente curioso. Mentre facevo vagare gli occhi oltre la spalla di
Matt in cerca di una risposta, incontrai l’espressione
atterrita di David, che mi faceva segno di aver bisogno di una mano,
come avevamo concordato in precedenza.
“Ti sei inceppata?” mi domandò
Patterson, incerto.
“Devo andare.”
Lo superai e andai dritta verso David, sentendomi estremamente in
colpa: per la seconda volta nella serata mi sentii una pessima amica,
ero così presa dai miei stupidi drammi personali che mi ero
dimenticata di controllare la situazione tra Aud e Dave. Quando arrivai
da lui era solo e sembrava piuttosto abbattuto.
“Dave! Com’è andata? Sei riuscito a
dirle tutto? Dov’è Audrey?” lo bombardai
subito dopo averlo abbracciato brevemente.
“Sì, le ho detto tutto.”
“Se l’è presa?”
“No, non con me almeno. Ma credo ci sia rimasta davvero
male.”
“Dov’è ora?” gli chiesi,
mentre mi guardavo in giro senza trovarla.
“È appena uscita. Dee, vai, accompagnala a
casa.”
Annuii e mi voltai per andarmene, ma mi venne in mente
un’ultima cosa.
“Dovresti spiegare agli altri cos’è
successo,” consigliai a David, indicando il tavolo
dov’erano seduti Jude, Josh e Matt, poi gli porsi la birra
che avevo ancora in mano. “E tieni questa.”
Uscii di fretta senza salutare nessuno e raggiunsi Audrey che camminava
a testa bassa verso casa propria.
“Aud!” la chiamai, accelerando il passo per
arrivare a toccarla su una spalla.
Lei sussultò e si girò di scatto, sorpresa.
“Delia…”
“Sono qui, tesoro. Mi dispiace tanto.”
“Tu lo sapevi?”
Sospirai pesantemente, sentendomi un po’ in colpa.
“Sì.”
“Da quanto…?”
Non la lasciai nemmeno continuare, non volevo che pensasse che le
avevamo mentito. “È una cosa nuova, Aud, nessuno
poteva sospettarlo. È successo mentre ero via e David me
l’ha detto ieri. Era davvero in panico, solo per questo non
te ne ha parlato subito, ma non te l’avremmo mai tenuto
nascosto, davvero.”
Audrey sembrò indecisa sulla risposta da dare, alla fine
abbassò la testa e non disse niente, vidi solo due grosse
lacrime che le solcavano lentamente le guance per poi cadere sulla sua
maglietta.
“Oh, tesoro!” mormorai avvicinandomi per
abbracciarla.
Lei si lasciò stringere da me e mi si spezzò il
cuore a sentirla singhiozzare così.
“Perché capitano tutti a me?” mi
domandò con una vocina piccola piccola.
“Perché sei troppo bella e intelligente e buona
per essere vera. Quando arriverà il tuo Principe Azzurro
sarà un ragazzo spettacolare.”
Lei ridacchiò, si staccò da me e si
asciugò le lacrime. “Puoi dire a David che non
sono arrabbiata con lui? Ora non ho voglia di tornare al
Platinum.”
“Glielo dirai tu domani, ma credo che lo sappia
già.”
“Domani?” chiese lei titubante.
“Sì. Ora andiamo a casa tua, tiriamo fuori una
mega confezione di gelato dal freezer, due cucchiai, e ci buttiamo
davanti alla tv per cercare un film stupido e divertente che ci
distragga un po’.”
“Non credo di avere del gelato in casa,”
pigolò lei abbattuta.
“Allora so esattamente dove possiamo andare.”
La casa di mia nonna Charlotte distava abbastanza dal locale,
perciò decidemmo di arrivarci col mio scooter, che poi era
il mezzo con cui ero arrivata al Platinum.
Avevo le chiavi ma, anche se
sapevo che a mia nonna non sarebbe dispiaciuto vedermi piombare
lì alle dieci di sabato sera, decisi di farle una telefonata
per avvisarla della situazione. Lei non mi fece neanche spiegare tutto:
appena cominciai a dirle quello che era successo mi ordinò
di andare subito, e che avrebbe avvisato lei i miei genitori che avrei
dormito lì, nella cameretta che teneva sempre pronta per me.
Quando ci aprì la porta accogliendoci in pigiama e vestaglia
svolazzante, fu chiaro che quando l’avevo chiamata fosse
già pronta per andare a dormire o, peggio ancora, che
l’avessi svegliata.
“Nonna! Non serviva che ci aspettassi su, potevi andare a
dormire!”
“Non dire sciocchezze, Delia. Vi ho preparato la camera e
sono andata a prendere il gelato nel congelatore di sotto,
l’ho messo in cucina. È una confezione con
cioccolato, stracciatella e crema, andate a prenderlo prima che si
sciolga.”
Audrey aveva già conosciuto mia nonna, ma probabilmente si
accorse quanto mi somigliasse proprio in quel momento, quando
sciorinò tutta la sua parlantina e ci spinse dentro casa
invitandoci ad andare in cucina, senza lasciarmi protestare
né ringraziare.
“Ora che siete arrivate posso ritirarmi nelle mie stanze da
vecchia decrepita e lasciarvi alle vostre giovani occupazioni. Potete
anche stare in sala, se volete, c’è la pay tv,
almeno voi la sfrutterete, io la uso solo per quei vecchi film dei miei
tempi che fanno il venerdì sera sul canale 77.
L’altra settimana c’era Casablanca, un vero
classico. E non preoccupatevi di fare confusione, ragazze, sono mezza
sorda.”
Era evidente che non fosse né decrepita né sorda,
e per la verità non era nemmeno eccessivamente vecchia:
aveva settantun anni ma sprizzava energia da tutti i pori. La adoravo
da sempre, ma in quel momento la adorai ancora di più, con
quel suo modo di farci sentire le benvenute senza lasciarsi andare a
stupidi convenevoli né mettere Audrey a disagio.
“Grazie nonna,” le dissi, seriamente riconoscente.
Lei sventolò per aria una mano, come a dire che non
c’era niente di cui ringraziare, dopodiché ci
diede le spalle per andare verso le scale che portavano alle camere.
“Buonanotte, bambine.”
Non ci diede neanche il tempo di rispondere che era già
sparita, veloce come il vento. In cucina, oltre al gelato, trovammo sul
tavolo anche due bicchieri, il succo di frutta e un pacco di biscotti
con le gocce di cioccolato. Lanciai un’occhiata di sbieco a
Audrey e la vidi già un po’ rinfrancata.
“Tua nonna è una vera forza. Me la
presti?”
Sorrisi mentre ci spostavamo in salotto con tutto il necessario.
“Puoi venire quando vuoi, ma la nonna rimane la mia. La amo
troppo.”
Aud sospirò e si accucciò sull’angolo
del divano. Io presi il telecomando e mi misi di fianco a lei,
cominciando a spulciare i vari canali fino a trovarne uno per bambini,
dove passavano La bella
addormentata nel bosco, la versione Disney.
Guardai la mia amica, sapevo quanto le piacesse quel cartone, e infatti
le si illuminarono gli occhi quando notò che il film era
iniziato da poco.
Passammo la serata così, a guardare un cartone per bambini e
parlare male dei ragazzi ingozzandoci di gelato e biscotti.
“Perché non esistono ragazzi come il Principe
Filippo?” sospirò Audrey alla fine del film con
voce sognante.
“Non è che sia il massimo, in
realtà.”
La mia amica mi guardò con gli occhi sgranati, come se
avessi detto un’eresia.
“Cioè,” continuai,
“è carino e tutto il resto, certo, ma senza le
fate sarebbe morto abbrustolito da Malefica. Le donne sono le vere
toste di questo film, tolta quella rincoglionita di Aurora, che
comunque si vede ben poco. Dovremmo imparare un po’
più di girl power, dovremmo imparare a vendicarci come
Malefica. Con un po’ meno di cattiveria omicida,
magari.”
Audrey ridacchiò. “È facile per te
parlare così, sei già una forza della natura.
Riesci sempre a districarti con facilità in ogni
situazione.”
“Certo, come no,” commentai ricordando il balbettio
confuso che avevo sfoggiato poche ore prima di fronte a Patterson.
“Dico davvero, Dee. Vorrei essere un po’
più come te, fregarmene di tutto e di tutti.”
“Non è esattamente così.”
“Lo so, ma dai quest’impressione,” disse
lei, sospirando di nuovo. “Tipo coi ragazzi, sembri
così… libera.”
“Perché sono stata male pure io. Dopo la faccenda
con Teller mi sono ripromessa di divertirmi e basta finché
avrei potuto: per il momento mi va bene così, trovo che sia
molto più facile per come sono fatta. Ma tu sei diversa da
me, Aud, sei molto più sensibile e gentile e fiduciosa, e
non devi vedere questi come dei difetti, perché ti rendono
la persona stupenda e l’amica fantastica che sei.”
Audrey mi lanciò uno sguardo riconoscente, gli occhi lucidi.
“Mi piaceva davvero Toby. Mi stavo innamorando di
lui.”
“Lo so, tesoro, non è colpa tua.”
“Non è nemmeno colpa sua, povero, è
gay.”
Sbuffai, alzando gli occhi al cielo. “Non devi sempre vedere
il buono in tutti. È vero, è gay e non
è colpa sua, ma poteva almeno avvisarti prima di provarci
con uno dei tuoi migliori amici, cosa dici? Puoi insultarlo un
po’, non c’è nulla di male.”
Lei arricciò il naso. “Hai ragione, è
stato scorretto.”
“È stato un vero bastardo,
altroché!” esclamai, ormai abituata alla sua
difficoltà nell’essere cattiva con chicchessia.
“Ripeti con me: Toby è stato uno stronzo e lo
lascerò per sms senza nemmeno concedergli il diritto di
replica.”
Audrey sorrise, ma poi rifletté qualche secondo.
“Dovrò comunque affrontarlo a scuola.”
“Lì non sei sola, non ti devi preoccupare: io e
Jude siamo
delle brave guardie del corpo,” la rassicurai
raddrizzando le spalle.
A quel punto la mia amica scoppiò finalmente a ridere.
“Lo so bene! Meno male che ho voi.”
“Puoi dirlo forte, sorella. Andiamo a nanna?”
Lei annuì con uno sbadiglio, così ci sistemammo
in camera e ci infilammo nei due letti che mia nonna aveva preparato
per noi con le lenzuola rosa a fiorellini bianchi.
“Buonanotte Aud.”
“Buonanotte Dee. E grazie.”
Non risposi, non ce n’era bisogno: quello che avevo fatto per
lei quella sera era il minimo, ne eravamo entrambe consapevoli. Mi
addormentai più serena, sapendo di aver compiuto il mio
dovere e, in fondo, sentendo di non essere un’amica poi
così pessima.
La mattina seguente mi svegliai con il profumo familiare delle mie
domeniche a casa della nonna: cannella e caffè. Mi alzai e
notai che il letto di Audrey era già vuoto, così
mi diressi verso la cucina, facendo prima un passaggio in bagno per la
pipì. Quando arrivai in cucina trovai Audrey seduta al
bancone vicino al piano di lavoro che chiacchierava amabilmente con
nonna Charlotte, la quale, nel frattempo, stava alzando la pila di
waffle che aveva costruito su un piatto di fronte alla mia amica.
“Buongiorno,” esordii entrando, già di
buonumore per il profumo di cannella che si spandeva
nell’aria.
“Buongiorno bambina,” mi salutò mia
nonna, porgendomi un piatto dove aveva appena messo due waffle.
“Aspetta che ti prendo la panna. L’ho appena
montata.”
“Sì, lo so. Non esiste che tu compri quella spray
del supermercato.”
“Figurarsi! È troppo dolce e piena
d’aria.”
Andai a scoccarle un bacio di ringraziamento sulla guancia prima di
sedermi di fianco ad Audrey e cominciare a mangiare.
“Di cosa parlavate?” domandai mentre addentavo un
boccone gigante di waffle.
“La tua amica mi stava raccontando la sua sfortunata vita
sentimentale,” rispose mia nonna, con fare ciarliero.
Guardai stupita Audrey, ma lei mi sorrise di rimando, senza alcun
accenno di imbarazzo. Era strano: di solito Aud era molto riservata
sulla sua vita privata e, anche se parlava con chiunque delle faccende
altrui, tendeva a essere timida riguardo le proprie. Evidentemente mia
nonna le aveva ispirato davvero molta fiducia, tanto da spingerla a
confidarsi con lei.
“E che ne pensi, nonna?”
“Ah, la sfortuna non dura per sempre,”
commentò lei saggia, prima di rivolgersi direttamente ad
Audrey. “E comunque, tesoro, più stronzi
incontrerai più sarai capace di riconoscerne
l’odore da lontano la prossima volta.”
Sputacchiai il succo d’arancia dentro il bicchiere
nell’udire mia nonna che usava una parolaccia, ma lei non si
scompose.
“Credimi, gli uomini bisogna saperli prendere: se trovi
quello giusto lo puoi addestrare. Ma alla vostra età
è ancora difficile capire chi ha un briciolo di sale in
zucca e chi invece è proprio una causa persa.”
“Vedi?” mi intromisi io per battere sul mio punto.
“Ho ragione io a lasciar perdere per ora. I ragazzi servono
solo per divertirsi.”
“Tu ti diverti fin troppo, bambina mia,” mi
rimproverò mia nonna, ma c’era un sorriso svagato
nella sua voce che non potei fare a meno di notare.
Le feci una linguaccia irriverente. “Scommetto che a tuo
tempo ti sei divertita anche tu.”
“La solita impertinente,” ridacchiò lei.
La verità era che mi capitava, a volte, di parlare con mia
nonna dei tipici problemi della mia età: scuola, amici e
sì, anche ragazzi. Avevamo un rapporto molto confidenziale e
la consideravo quasi come un’amica, non avevo alcun tipo di
timore reverenziale nei suoi confronti, anche se aveva mezzo secolo
più di me. Audrey ci guardava rapita e non ebbe il coraggio
di intromettersi nei nostri botta e risposta.
“Continua con i tuoi consigli illuminanti, nonna.”
“Mi stai prendendo in giro, nipote?”
“No, stavolta no. Era davvero interessante quello che stavi
dicendo. Sai che non mi stufo mai di ascoltarti!”
“Sei la solita piccola ruffiana.”
Avrei avuto anch’io delle cose da chiedere a mia nonna, su
Patterson, sul perché si comportasse sempre in modo
così criptico, sul motivo per cui un giorno volevo prenderlo
a sberle e il giorno dopo mi stupiva tanto da lasciarmi senza parole,
ma non avevo ancora il coraggio di parlarne con nessuno,
perché non capivo cosa significasse. E in ogni caso la mia
priorità in quel momento rimaneva Audrey. E David.
“Dave mi sta chiamando,” notai prendendo in mano il
mio telefono.
Alzai gli occhi su Aud, che fece un’espressione vagamente
allarmata, poi mi porse la mano per prendere il cellulare.
“Sei sicura?”
Lei annuì leggermente e rispose alla chiamata al posto mio,
mentre mia nonna mi lanciava un ultimo sguardo ammonitore.
“Tu cerca di non fare troppa confusione coi ragazzi, che hai
solo diciassette anni.”
“Ti voglio bene anch’io, nonna.
C’è ancora panna?”
Eccomi in ritardo di solo qualche mese, come previsto! -.-
È anche inutile che mi scusi, purtroppo sono fatta
così e questi mesi sono stati incasinati. Spero vogliate
seguirmi ancora, perché sono piena di idee per questa storia
e spero di mantenere un ritmo più simile a quello dei primi
capitoli, anche se purtroppo non posso garantire niente.
So che è un ritorno abbastanza vergognoso, perché
vi aspettavate (e mi aspettavo) qualcosa di più. Doveva
succedere tutt’altro in questo capitolo, ciò che a
sto punto accadrà nel prossimo capitolo, che sarà
bello succoso, soprattutto per quanto riguarda Matt e Delia.
È che ogni tanto la storia prende vita e si scrive da
sé… Cioè, non proprio da
sé, sennò si sarebbe pubblicata prima,
ahimè. ^^ Ma mi sembrava necessario lasciare più
spazio ad Audrey e soprattutto mostrare finalmente nonna Charlotte, che
ho nominato in moltissimi capitoli e che finora avevo solo immaginato e
mai descritto. Spero apprezziate, ma non ne sono così
sicura, perché i personaggi secondari ogni tanto non
interessano. Fatemi sapere cosa ne pensate e se preferireste
che lasciassi meno spazio a queste parti.
In ogni caso ciò che è successo tra Matt e Delia,
anche se è poco, sarà importante nel prossimo
capitolo. So che è difficile tenere il filo ma so anche di
avere delle lettrici brave brave e super attente. <3
Aspetto pareri e intanto mi mangio freneticamente le pellicine delle
unghie, quindi siate gentili e lasciate un commentino! A presto, spero.
Grazie per la pazienza! Un bacio!
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Capitolo 9 *** The scarlet letter ***
9. The scarlet letter
Ricominciare la scuola fu piuttosto difficile per Audrey. Era il nostro
Senior Year, avemmo dovuto goderci il primo giorno entrando nei
corridoi in pompa magna e sentendoci i padroni del mondo, ma purtroppo
all’inizio non andò esattamente così.
Toby non prese bene il fatto che Dave avesse parlato: tentò
di difendersi dicendo che si era inventato tutto, pregò Aud
di non credergli e cercò di infangare il nostro amico in
tutti i modi possibili, arrivando persino a dire che era stato David a
provarci con lui quella sera al pub e non viceversa. Ovviamente lei non
credette neanche a una parola di quello che lui tentava di propinarle
e, anzi, la sua amicizia con Dave uscì rafforzata da quella
prova. Ma ci vollero diverse settimane prima che Toby capisse che
nessuno di noi avrebbe parlato dell’accaduto per
ridicolizzarlo a scuola e decidesse infine di lasciar perdere Audrey.
Quello che invece accadde a me all’inizio dell’anno
scolastico fece un bel po’ di scalpore in più e
disturbò il mio ritorno a scuola, ma per raccontarlo devo
partire dal principio.
Il primo giorno dell’ultimo anno, tolti i problemi di Audrey,
fu da me, come sempre, accolto con gran entusiasmo. Arrivai in anticipo
come l’anno precedente e andai a prendere posto nella zona
caffetteria per aspettare i miei amici, eccitata e ansiosa al mio
solito.
Dopo pochi minuti, mentre controllavo l’orario delle lezioni,
che ero già andata a ritirare in segreteria non appena
quest’ultima aveva aperto, qualcuno si sedette sulla sedia
accanto alla mia, salutandomi.
“Delia Gray! Non sei un po’ presto?”
Alzai gli occhi stupita, poiché non avevo riconosciuto la
voce. Lì di fianco, sorriso ammiccante e busto piegato in
avanti, c’era Thomas Petrovic, Petey per gli amici, che mi
guardava con un’espressione apertamente interessata.
“Sei qui anche tu,” ribattei, rispondendo anche al
suo sorriso.
Lui scrollò le spalle e si sedette più comodo,
appoggiandosi allo schienale della seggiola e prendendo in mano il
caffè che aveva precedentemente lasciato sul tavolino.
“Io non vedevo l’ora di provare la mia nuova
macchina, che mi hanno regalato i miei stamattina per il compleanno.
Qual è la tua scusa, invece?”
“È il tuo compleanno? Auguri!”
Non avevo avuto a che fare con lui abbastanza da sapere quando facesse
gli anni, le cose che sapevo sulla sua persona si contavano sulle dita
di una mano: era del mio stesso anno, giocava a football nella
scalcinata squadra della Winthrop High School, aveva i capelli corti e
castani e due grandi occhi verdi che avevano steso più di
una ragazza della scuola. Era simpatico, ci avevo parlato qualche volta
gli anni precedenti e mi era sempre parso un ragazzo a posto, per quel
poco che avevo potuto capire, un po’ troppo cascamorto forse,
ma era un dettaglio che non mi preoccupava vista la mia natura
libertina.
Petey annuì e si sporse nuovamente in avanti.
“Quindi mi dai un bacio?”
Non mi mossi di un millimetro. “Perché?”
“Per il mio compleanno,” spiegò lui
ammiccante.
Mi rilassai e decisi di stare al gioco: se un bel ragazzo ci provava
con me così apertamente, di certo non sarei stata io a farlo
desistere. Mi avvicinai sporgendomi sulla sedia e gli lasciai un bacio
sulla guancia, soffermandomi poi un secondo di più per
ripetere un “auguri” bisbigliato. Quando mi
allontanai lui mi guardava soddisfatto e tornò a mettersi
comodo.
“Per stavolta mi accontento, Delia.”
Stavo per rispondergli a tono quando ci raggiunse Nathan Wilde, un
altro ragazzo della squadra di football, con cui ero anche uscita un
paio di volte l’anno precedente senza combinarci niente di
che.
“Petey!” iniziò, arrivando vicino al suo
amico e dandogli una pacca sulla spalla. “È tuo il
bolide qui fuori, amico? Che colpaccio!”
“Sì, ti avevo detto,” rispose
l’altro. “Siediti, Wilde.”
“Ciao Delia,” mi salutò Nate mentre
ascoltava l’invito e si sedeva con noi.
“Ehi, ciao, come stai?”
Lui rispose con un “bene, grazie” e poi
tornò a parlare col suo amico, così io mi
ritrovai nel bel mezzo di una conversazione sui motori di cui avrei
volentieri fatto a meno, vista anche l’ora del mattino. Dopo
diverso tempo cominciai ad annoiarmi seriamente, stavo giusto prendendo
in considerazione l’ipotesi di alzarmi e allontanarmi da quel
martirio quando arrivò Josh. Mentre si avvicinava alla
macchinetta del caffè mi notò e mi fece un cenno
con la mano, dopodiché vide con chi ero seduta e
cominciò a farmi espressioni maliziose e a domandarmi a
gesti se avessi intenzione di farmi due giocatori di football
contemporaneamente. Ridacchiai alla sua sfacciataggine e mi alzai per
raggiungerlo, e in quel momento Petrovic e Wilde smisero di ciarlare
per guardarmi stupiti.
“Dove vai?” mi domandò Petrovic.
“È arrivato un mio amico, volevo raggiungerlo.
Grazie per la compagnia, ragazzi, è stato un
piacere,” mentii senza pudore, mentre raccoglievo le mie cose.
Non attesi nemmeno una risposta, mi allontanai senza troppi convenevoli
e mi diressi al tavolo dove Josh aveva appena preso posto in compagnia
di Patterson, che non avevo idea di quando fosse arrivato.
“Ebbrava piccola Delia,” mi accolse Josh, sul volto
un sorriso furbo che feci finta di non notare.
“Non infierire, Parker, ho dovuto sorbirmi discorsi degni di
un episodio di Supercar
fino ad ora,” sospirai lasciandomi
cadere su di una poltroncina consunta, vicino a Josh, pur sapendo che
mi avrebbe preso in giro ancora per un bel po’.
“Ah, non stavate organizzando una cosuccia a tre?”
chiese infatti lui.
“Non proprio.”
“Sei fortunata che Audrey debba ancora arrivare, se ti avesse
vista in quella situazione ti starebbe già bombardando con
domande piccanti.”
“Già,” mormorai, pensando che in effetti
avrei potuto distrarre Aud con ciò che mi era appena
successo.
A quel punto, senza preavviso, Patterson decise di intervenire.
“Petrovic è un coglione.”
Mi stupì sentire la sua voce, fino a quel momento era
sembrato poco interessato all’argomento della conversazione,
quindi rimasi qualche secondo di troppo a pensare a una risposta,
finché Josh non mi precedette.
“Mah, non lo conosco abbastanza per dirlo. Nathan Wilde non
è male, ogni tanto viene con me e Dave a giocare al
campetto, ma con Petrovic avrò scambiato sì e no
tre parole in tre anni.”
“È un coglione,” ribadì Matt
con decisione.
“Se lo dici tu,” rispose Josh. “Che ne
pensi, Dee?”
“Lo conosco a malapena, ma ho visto di peggio.”
“Con quegli occhioni verdi, eh?” mi prese in giro
Josh sbattendo le ciglia per esprimere meglio il concetto.
Stavo per scoppiare a ridere quando Patterson parlò di
nuovo, con aria annoiata.
“Se ti basta così poco, Gray.”
Mi offesi a morte per quell’insinuazione di
superficialità, di certo io non ero il tipo di ragazza che
si faceva convincere da due begli occhi, la prova lampante di
ciò era proprio il mio odio nei confronti di Matt Patterson,
che a scuola era Mister Occhioni per eccellenza.
Lanciai a Patterson uno sguardo fulminante, con l’intenzione,
se possibile, di dargli fuoco con la sola forza del pensiero, ma
purtroppo non mi riuscì.
“Sei il solito deficiente.”
“Ho detto la verità.”
“Non sai neanche di cosa stai parlando, Patterson. Non mi
conosci.”
“Ah, e da quando saresti diventata selettiva nei confronti
dei ragazzi con cui esci?”
Boccheggiai, punta sul vivo. “Sempre meglio delle ochette
insipide con cui esci tu.”
“Chi? Thomas Petrovic? Sono abbastanza sicuro di conoscerlo
meglio di te.”
“Se hai questa fissazione per lui escici tu, allora,
principino. Io non ho mai detto che l’avrei fatto.”
Josh guardava il nostro battibecco da fuori, come al solito,
limitandosi a ridacchiare per le battute più velenose. Non
appena terminai l’ultima frase sentii qualcuno che mi
chiamava da poco lontano e mi girai interrompendo il contatto visivo
con Patterson per trovarmi davanti proprio Tom Petrovic. Era in piedi
poco lontano dal nostro tavolo e aveva appena raccolto il suo zaino per
dirigersi, probabilmente, verso il corridoio, dove Wilde lo aspettava.
“Vieni con me all’Homecoming venerdì
sera? Dopo la partita possiamo fare qualcosa insieme, se ti
va.”
Rimasi interdetta e con la bocca socchiusa per qualche secondo, senza
sapere come rispondere: mi capitava un po’ troppo spesso di
recente, e non era un bene. Solo quando sentii Matt sbuffare alle mie
spalle decisi cosa fare, e prima ancora di rendermene conto stavo
parlando.
“Certo.”
“Ottimo!” esultò Petrovic.
“Più tardi ci mettiamo d’accordo,
allora.”
Si diresse verso il suo amico e io mi voltai verso i miei. Josh
ridacchiava apertamente, mentre Patterson mi guardava con aria scettica.
“Escici tu, io
non ho mai detto che l’avrei
fatto?” mi scimmiottò, ricalcando la
mia
affermazione di poco prima.
“Ho cambiato idea,” borbottai, ancora offesa con
lui.
Dopotutto a me Tom Petrovic non era sembrato così male e se
quell’idiota di Patterson aveva una pessima opinione di lui
non poteva che essere un punto in suo favore.
Inutile dire che l’appuntamento, se così si
può definire, fu un disastro totale. Ero talmente
determinata a farlo andare bene e a far sì che Patterson
avesse torto nel suo giudizio negativo su Petrovic, che finsi di non
notare tutti i segnali d’allarme. E ce ne furono a bizzeffe.
L’Homecoming era una tradizione della mia e di molte altre
scuole e università del paese, ed era una specie di festa di
benvenuto per l’inizio dell’anno scolastico. Di
solito ci si radunava per guardare la partita di uno sport praticato a
scuola, e dal momento che da diverso tempo la nostra squadra di
football non vinceva un incontro nemmeno per sbaglio,
quell’anno la scelta era ricaduta sul basket, il secondo
sport più popolare da noi. Era prevista una presentazione
della squadra della Winthrop High, una partita amichevole contro la
formazione del Collegio Saint James e, infine, un party per gli
studenti sul campo di football.
Avevo appuntamento con Petey per le sette e mezza, ma lui si
presentò con più di mezz’ora di
ritardo, mancando la presentazione della squadra. Nessuno dei miei
amici era presente alla prima parte dell’Homecoming: Josh e
David boicottavano tutte le partite di basket poiché avevano
lasciato la squadra al terzo anno, quando il coming out di Dave aveva
reso loro la vita impossibile all’interno dello spogliatoio;
Audrey era ancora in fase depressiva per la faccenda di Toby e Jude
aveva deciso di stare a casa con lei. Sapevo che, nel caso Petrovic mi
avesse dato buca, le mie due migliori amiche non mi avrebbero raggiunte
nemmeno per il post partita, ma non potevo scommettere lo stesso su
Josh e David che, nonostante gli umori altalenanti
dell’ultimo periodo, erano da sempre dei festaioli nati.
Ad ogni modo alla fine Petey arrivò, si scusò
fiaccamente per il ritardo e si sedette di fianco a me sugli spalti.
Pensai con un vago accenno di stizza che avrebbe almeno potuto
inventarsi una scusa per quei quaranta minuti di ritardo ma, spinta da
una bontà d’animo che di norma non mi
apparteneva, decisi di fare finta di nulla e di dargli una seconda
possibilità. Gliene diedi una terza quando, durante
l’intervallo della partita, incontrò un suo
compagno di squadra e si mise a parlare con lui come se io non
esistessi, per poi ricordarsi di me quando si girò e mi mise
in mano dieci dollari chiedendomi di andare a prendere due birre per
lui e Jackson.
“E ovviamente prendi qualcosa anche per te,
splendida,” aggiunse, ma non mi sembrò notare il
mio sguardo di fuoco.
Tornai portando loro due aranciate con la scusa che al gazebo non
vendevano alcolici agli studenti, cosa probabilmente verosimile, ma che
non mi ero premurata di verificare.
Concessi a quel troglodita addirittura una quarta
possibilità perché, no, proprio non volevo darla
vinta a Patterson, dopo che lo vidi correggere la propria aranciata con
della vodka che estrasse direttamente dalla tasca interna della giacca,
come nei migliori cliché sugli alcolizzati. Non mi
scandalizzavo per un po’ di vodka, ma per giustificare la
fiaschetta in tasca di Petrovic dovetti ricorrere ai più
strani film mentali che potessi farmi: credetti che l’avesse
portata per il post partita, mi dissi che di certo non aveva intenzione
di ubriacarsi al nostro primo appuntamento, pensai che sicuramente ne
avrebbe offerta un po’ anche a me e ai suoi amici. Non me
l’offrì. Inoltre alla fine del match era
già piuttosto alticcio, anche se non lo dava a vedere, e lo
capii solamente a causa di ciò che successe durante il party.
Ci dirigemmo al campo da football e lì Petrovic
sparì per qualche tempo, lasciandomi sola. Chiacchierai un
po’ con un paio di persone che conoscevo, infine vidi Josh e
mi avvicinai a lui, sollevata. Quando notai che era in compagnia di
Matt il mio passo si fece più incerto, non avevo proprio
voglia di affrontarlo in quel momento, ma andai comunque nella loro
direzione per evitare che si accorgessero del mio tentennamento.
“Delia!” mi accolse Josh, felice di vedermi.
“Come va il tuo appuntamento?”
“Piuttosto bene, direi,” mentii, stampandomi un
sorriso sulle labbra.
“E dov’è… Cutie Petie? Lo
chiami già così, vero? Siete intimi?”
Abbozzai un sorriso, ma sapevo che in un altro momento le prese in giro
di Josh mi avrebbero divertita. Se ne accorse anche lui,
perché smise di infierire e mi lanciò
un’occhiata indagatrice.
“Allora, dov’è?”
domandò di nuovo.
Evitai accuratamente di guardare Matt mentre rispondevo. “Non
saprei, si è allontanato poco fa per salutare qualcuno
e… Beh, insomma, con tutta questa gente poi ci siamo persi
di vista. Ma sono sicura che è qua da qualche
parte.”
Josh annuì lentamente, poi sembrò valutare cosa
dire. “Vuoi… Hai bisogno di qualcosa?”
Sapevo che mi stava proponendo un modo rapido e indolore per uscire
indenne da quel disastro di appuntamento ma, poco propensa ad
abbandonare il mio orgoglio di fronte a Patterson, risposi con un cenno
negativo.
“Sei sicura?”
Stavolta era stato proprio Matt a parlare, anche se fino a quel momento
era stato muto come un pesce.
“Sì, sono sicura,” risposi senza
tentennare. “Dave non c’è?”
Josh scosse la testa. “Ha preferito rimanere a
casa.”
Annuii lentamente, senza sapere cos’altro dire, e in quel
momento vidi Petrovic a pochi passi da noi.
“Eccolo,” dissi indicandolo ai miei amici.
“Torno da lui, ragazzi, ci si vede in giro.”
Li abbandonai con qualche riluttanza e tornai da Petie, intenzionata a
inventarmi una scusa per tornare a casa il più presto
possibile. Se ci fosse stato solamente Josh forse gli avrei detto la
verità, cioè che l’appuntamento si
stava rivelando una mezza catastrofe e che mi avrebbe fatto comodo
qualcuno che mi salvasse, ma la presenza di Patterson mi aveva in
qualche modo inibita.
Petrovic quando mi vide mi fece un gran sorriso, mi raggiunse, mi prese
per un polso e mi trascinò in un posto meno affollato. Lo
lasciai fare, pensando che volesse portarmi fuori dalla festa, che
comunque non era un granché, per fare insieme qualcosa da
“primo appuntamento”, un gelato, una passeggiata,
due chiacchiere. Ma quando notai che non ci stavamo dirigendo vero
l’uscita gli domandai dove stessimo andando.
“In un posto tranquillo,” rispose lui, imboccando
un passaggio per entrare sotto le gradinate dello stadio.
Quando ci ritrovammo protetti dall’ombra delle tribune
Petrovic si fermò, si girò verso di me e senza
troppi complimenti si avvicinò per baciarmi, cosa che
ovviamente, tolti i primi due secondi di sorpresa, non gli lasciai fare.
“Cosa diavolo stai facendo?” gli chiesi trafelata,
staccandomi da lui.
“Mi sembra chiaro, ti ho portato in un posto isolato
così finalmente ci divertiamo un po’.”
Biascicava nel parlare e aveva l’aria di non essere del tutto
in sé. Mi allontanai di un paio di passi per prudenza e
intanto mi insultai mentalmente per essermi ficcata in quella
situazione.
“Sei ubriaco e forse ti sei pure fumato qualcosa.”
“Macché ubriaco, che vuoi che sia! Ti credevo un
po’ meno bacchettona.”
“Bacchettona un cazzo!” sbraitai sconvolta.
“Non ti avrei toccato nemmeno se fossi stato sobrio, dopo
questo appuntamento di merda!”
“Con Nate non ti sei fatta tanti problemi,
però.”
“Che paragone idiota! Sono uscita tre volte con Wilde e non
si è mai minimamente sognato di comportarsi
così.”
Petrovic rise di gusto. “Infatti gliel’hai data
subito.”
“Ma ti sei bevuto anche il cervello? Non c’ho fatto
sesso!” Feci un paio di respiri profondi per calmarmi e poi
continuai. “Senti, pensa quello che vuoi, non devo certo
giustificarmi con te. Me ne vado.”
Lui cercò di avvicinarsi a me per fermarmi. “Dai,
Delia, scusa, non volevo…”
Gli risposi dandogli le spalle e mi allontanai il più
velocemente possibile. Uscii dallo stadio e mi fermai solo per
infilarmi il casco e salire sul mio scooter, infine me ne andai senza
voltarmi indietro.
Sabato sera, per evitare ulteriori disastri sociali, mi rintanai in
casa. David venne a trovarmi e passammo la serata a lamentarci come due
vecchie zitelle del fatto che gli uomini facevano schifo e che non
avremmo mai trovato la persona giusta.
Quando arrivò il lunedì mattina, in
realtà, avevo fatto in tempo a dimenticarmi per bene lo
schifoso appuntamento con Petrovic, così racimolai un
po’ del mio solito buon umore, mi attaccai in faccia un bel
sorriso ed entrai a scuola con l’intenzione di passare una
settimana migliore della precedente. Purtroppo i miei buoni
propositi durarono giusto il tempo di arrivare al mio
armadietto.
Avevo notato, in corridoio, qualcuno che mi guardava bisbigliando, ma
avevo pensato che fosse dovuto al fatto che in testa avevo un
cerchietto rosso con dei piccoli pois bianchi che, unito alla mia lunga
gonna sui toni del giallo, alla maglietta blu e ai miei capelli
scuri, faceva tanto effetto Biancaneve. Così quando giunsi
nei pressi del mio armadietto e notai qualche persona di troppo che
ronzava lì intorno non mi preoccupai, almeno
finché non venni placcata da un David alquanto agitato che
tentava di impedirmi di giungere a destinazione.
“Delia, ciao. Devi sapere una cosa prima di vedere il tuo
armadietto.”
“Cosa?”
“Innanzitutto questa scuola è piena zeppa di teste
di cazzo,” iniziò lui prendendo
l’argomento piuttosto alla larga.
“Questo lo so, Dave, si può sapere cosa cavolo non
posso vedere?”
“Amore, non rimanerci male. Sei migliore di così,
tu non…”
Lo superai e mi diressi spedita all’armadietto, con un
allarme che risuonava forte nella mia testa: se David mi aveva chiamata
amore
sapevo che c’era davvero qualcosa di brutto,
perciò non mi stupii quando vidi che sullo sportello, con
una bomboletta spray rossa, qualcuno aveva scritto un messaggio
semplice e inequivocabile: TROIA.
Sbuffai infastidita, non era la prima volta che vedevo episodi del
genere a scuola, non ero mai stata coinvolta personalmente ma avevo
imparato che c’era qualcuno che a volte si divertiva a fare
anonimamente il moralizzatore di turno. Finsi indifferenza, aprii
l’armadietto e ci riposi le mie cose e, mentre lo facevo,
sentii Dave appoggiarmi una mano sulla spalla.
“Tutto ok?”
“Sarà il solito stronzo bigotto, non credo sia il
caso di preoccuparsi,” minimizzai, cercando di non dare a
vedere che il mio umore era rovinato.
“Puoi prendertela, Deels, sai che puoi sfogarti con
me.”
“E perché dovrei? Non sei stato tu a imbrattarmi
l’armadietto. Adesso siamo in ritardo per Biologia, alla fine
dell’ora andrò a denunciare la cosa al preside o a
un professore e domani sarà tutto come nuovo. Mi hanno fatto
anche un favore, in realtà, magari è la volta
buona che mi sostituiscono lo sportello, è difettoso
già dall’anno scorso.”
Parlai a voce alta per farmi sentire dalle persone lì
intorno, presi i libri che mi servivano, richiusi
l’armadietto con una spinta un po’ troppo vigorosa
e mi caricai lo zaino sulla spalla per incamminarmi verso il
laboratorio di Biologia. David, che mi aveva creduto o aveva finto di
credermi, mi seguì in silenzio.
Ma, nonostante il sangue freddo che avevo mostrato, quella scritta era
stata come un pugno nello stomaco per me e ciò che mi
riferì Audrey durante la prima ora fu la famosa goccia che
fece traboccare il vaso. Non l’avevo incontrata in corridoio
perché, dopo aver visto la scritta, si era messa
d’accordo con Dave e, mentre lui aspettava il mio arrivo, lei
era andata in giro a raccogliere informazioni sulla faccenda. Aveva
scoperto che nessuno pareva sapere chi avesse usato la bomboletta, ma
che a scuola giravano delle dicerie parecchio scandalose e altrettanto
menzognere sul mio conto.
“C’è chi dice che ti sei fatta
metà squadra di football e metà squadra di basket
solo durante l’anno scorso,” mi raccontò
Audrey mentre guardavamo a turno dei vetrini al microscopio per poi
annotare sul quaderno ciò che vedevamo.
“Sì. Magari, guarda,” commentai stizzita.
“Ma la cosa che mi ha stupita è che ci sono voci
molto più specifiche, credo siano il quelle il vero motore
di tutto.”
“Cioè?”
Aud mi lanciò un’occhiata dubbiosa e io la incitai
a parlare con un cenno della mano: se volevo capirci qualcosa e,
magari, trovare un colpevole, tanto valeva sapere tutta la storia.
“Morgan dice che Allison le ha detto che… Ok, chi
se ne frega,” tagliò corto notando la mia occhiata
disperata. “Dicono che ti sei fatta Nate Wilde, Carter Austin
e Jeremy Bell. E che all’Homecoming hai trascinato Tom
Petrovic sotto le gradinate del campo da football per fargli
un… Sì, insomma, hai capito.”
“Innanzitutto non so nemmeno chi sia questo Jeremy Bell. E
comunque: magari la mia vita sessuale fosse tanto interessante! Di
certo non passerei il sabato sera reclusa in casa a guardare Desperate
Housewifes col mio migliore amico gay.”
“Dee, in quest’impiccio c’entra
sicuramente Petrovic.”
“Lo sospettavo già,” annuii io.
“Ma per me può mettere in giro tutte le voci che
vuole, non vedo chi può credere a un patetico sfigato del
genere.”
Aud fece una faccia allarmata e dispiaciuta. “Beh,
veramente…”
La interruppi, sconfitta. “Lo so, lo so. Vorrei almeno
provare a far finta che i nostri compagni di scuola non fossero tutti
degli imbecilli patentati.”
“Morgan e Allison non ci hanno creduto, se ti può
consolare. Non a tutto, almeno.”
“In che senso non a tutto?”
“Morgan ha detto che Petrovic aveva aggiunto così
tanti particolari alla storia dell’Homecoming
che…”
Sbottai, agitando per aria la matita che avevo in mano.
“Particolari che si è inventato di sana pianta!
Quel coglione mi ha palpeggiata sotto le tribune e siccome
l’ho respinto vuol far passare me per una poco di
buono!”
“Lo so, Dee, gliel’ho detto e lei mi ha creduto. Ma
sai come sono le voci qui a scuola, si spargono a macchia
d’olio e…”
“Non fa niente, passerà anche questa,”
sbuffai, stufa dell’argomento.
Ma quella conversazione mi lasciò con l’amaro in
bocca e con una sensazione di peso alla bocca dello stomaco, tanto che
alla fine dell’ora mi allontanai dai miei amici e andai a
cercarmi un posto tranquillo dove riposarmi per cinque minuti dalle
occhiate maliziose (dei ragazzi) e disgustate (delle ragazze) che mi
vedevo piovere addosso.
Vagai a vuoto per qualche minuto, poi, temendo di essere beccata in
giro per i corridoi da un professore o, peggio, dal preside Harper, mi
decisi e mi infilai nell’Aula Conferenze, che non era altro
che una specie di piccolo auditorium dove si tenevano le riunioni
plenarie della scuola, gli spettacoli o gli incontri formativi. Visto
che non era previsto nessun evento l’aula era prevedibilmente
vuota; tirai un sospiro di sollievo e scelsi una fila a caso per
buttarmi a sedere su una delle poltroncine rosse in stile teatro, per
godermi la pace e la penombra della stanza.
Adesso me ne sto qui,
pensai, stremata. Salto
Fisica e poi Letteratura
e anche Storia, e sto nascosta tutta la mattina. Posso fare la fifona,
per una cazzo di volta.
Ovviamente non feci nemmeno in tempo a concludere il pensiero che il
mio brillante piano venne rovinato sul nascere dall’ingresso
nella stanza di una persona. Lì per lì cercai di
far finta di niente, chiusi gli occhi, mi rimpicciolii un po’
sulla sedia e sperai con tutto il cuore di non essere notata
dall’intruso. Poi sentii dei passi avvicinarsi e, con gli
occhi ancora chiusi e la testa incassata fra le spalle, percepii una
sedia sulla stessa fila della mia abbassarsi sotto il peso di qualcuno.
Mi accartocciai un po’ di più sulla seggiola,
piegando le ginocchia per nascondervi il viso in mezzo, ma non aprii
ancora gli occhi.
“Dimmi solo che non sei un professore,” mormorai
invece.
“Non sono un professore.”
Nonostante il nervosismo, l’agitazione e la voglia di
rimpicciolirmi fino a sparire in uno sbuffo d’aria, riconobbi
all’istante quella voce e, se possibile, la cosa mi
destabilizzò ancora di più.
“Patterson,” borbottai, aprendo finalmente le
palpebre.
Mi tolsi il cerchietto e mi passai nervosamente la mano fra i capelli,
più e più volte.
“Biancaneve, sei tu?” mi canzonò lui.
“Preferivo fosse un professore.”
Lo sentii muoversi, probabilmente per mettersi più comodo, e
finalmente mi girai per lanciargli una breve occhiata. Era seduto un
paio di sedie oltre la mia, si sporse leggermente verso di me e prese
il cerchietto rosso che avevo appoggiato al bracciolo, per poi
cominciare a girarselo tra le mani, quasi sovrappensiero. Notai che il
suo zaino giaceva abbandonato sul pavimento lì di fianco.
“Non ti ho visto alla prima ora,” gli dissi, mentre
tornavo a guardare di fronte a me.
“Sono arrivato adesso.”
“Ah.” Feci una lunga pausa, dopodiché mi
decisi a parlare, lanciandogli un’altra occhiata.
“Quindi avrai notato il mio splendido armadietto.”
Lui mi guardò serio ma non disse niente. Lo presi come un
sì.
“Sei qui per questo?” domandai, appoggiandomi
completamente allo schienale e buttando la testa all’indietro
per guardare il soffitto. “Per rinfacciarmi il fatto che
avevi ragione tu su Petrovic?”
Matt schioccò la lingua sul palato. “Quanto
stronzo pensi che io sia?”
“Non lo so, ma so che mi odi. Adesso almeno sei in buona
compagnia.”
L’ultima frase la borbottai a voce bassissima, quasi
inudibile, se non fosse che eravamo immersi in un silenzio
pressoché assoluto.
Lui in risposta sbuffò, quasi con impazienza. “Ma
finiscila di compatirti.”
Tipico. Riuscivo a innervosirlo anche nelle condizioni pietose in cui
versavo in quel momento: se questo non la diceva lunga sul nostro
rapporto, non sapevo cos’altro avrebbe potuto farlo. Non
avevo nemmeno voglia di litigare, così mi limitai ad alzare
le spalle.
“La fai facile, tu. Non hai un’etichetta gigante
con su scritto troia
stampata in fronte.”
Matt sembrò riflettere a lungo sulle parole da dire subito
dopo; quando ormai pensavo che non avrebbe più parlato, mi
stupì. “Forse non sono la persona più
adatta a dirtelo, ma dovresti fregartene. Sei migliore di un deficiente
che scrive cazzate con una bomboletta spray e sicuramente sei migliore
delle quattro chiacchiere da spogliatoio che Petrovic ha messo in giro
su di te.”
“Chiacchiere?” ripetei, amara, ricordando le sue
affermazioni del primo giorno di scuola. “Pensi anche tu che
io sia una facile.”
“Non lo penso. E mi dispiace se ho detto qualcosa che te
l’ha fatto credere.”
A quel punto ero davvero stupita. “Mi stai chiedendo
scusa?”
“Certo che no.”
“Perché sei così carino con me
adesso?” insistei.
“Avevi ragione,” rispose serio.
“Quest’estate ho cercato di evitarti, soprattutto
in quelle serate in cui uscivate per bere e festeggiare.”
“Mi prendi in giro?”
Scosse la testa. “Il problema è che…
Dopo che ho bevuto un paio di birre ti odio di meno e cominci a
piacermi un po’ di più.”
Il mondo smise di girare per qualche secondo e io mi trovai ad
aggrapparmi ai braccioli della sedia. “Comincio a…
Cosa?”
“Piacermi. Poco, eh. Ma non va comunque bene.”
Aprii la bocca un paio di volte a vuoto prima di trovare il coraggio di
rispondere. “Perché me lo dici ora?
Sei… sei sobrio.”
“Perché è una cosa compromettente.
Immagino che l’idea di avere qualcosa con cui ricattarmi in
futuro possa tirarti un po’ su.”
Ero talmente confusa e stupita che non riuscivo a smettere di fare
domande idiote. “Vuoi tirarmi su di morale?”
Lui fece una faccia annoiata, continuando a fissare il mio cerchietto
che si passava da una mano all’altra con finto interesse.
“Mica per bontà d’animo nei tuoi
confronti. Sei lagnosa e più fastidiosa del solito oggi,
quasi quasi ti preferisco logorroica e petulante.”
“Non sono lagnosa, stronzo!” mi inalberai subito ai
suoi insulti.
Matt alzò finalmente la testa per guardarmi con un
sopracciglio alzato. “Eccola qua.”
“E in ogni caso non sono mai petulante.”
“Oh, lo sei.”
Il sorrisetto furbo con cui mi rispose mi fece saltare definitivamente
i nervi, così sbottai. “Ma guarda te da chi mi
devo far insultare!” mi lamentai incrociando le braccia.
“Un damerino altezzoso e pieno di sé che prende
lezioni di danza per andare al ballo delle debuttanti. Che comunque,
per la cronaca, è una cosa per femmine. Magari i tuoi
genitori avrebbero voluto una femmina, almeno sarebbero riusciti a
inculcarle un po’ di buone maniere, invece sei uscito tu, una
specie di irritante, egocentrico, maleducato…”
Non aspettò che finissi e si sporse un po’ verso
di me. “Almeno non puoi negare di essere
logorroica.”
Lo ignorai e continuai a insultarlo. “…borioso,
bugiardo e indisponente principino viziato.”
“Hai finito?”
“Ne avrei ancora,” bofonchiai, fingendomi
più offesa di quello che ero.
“Non ho dubbi. Sembri un dizionario di sinonimi.”
Lo fulminai con un’occhiataccia e lui mi lanciò il
cerchietto che acciuffai per un pelo, dopodiché si
alzò e fece con la testa un cenno per indicare la porta.
“Andiamo, dai.”
“Non ho voglia di andare a lezione della Mitchell,
davvero,” gli risposi senza muovermi di un millimetro.
“Vi raggiungo alla terza ora.”
Matt mi sorprese di nuovo. “E facciamo a meno. Non ho voglia
nemmeno io.”
Detto questo, raccolse da per terra il suo zaino e la mia tracolla e si
diresse verso l’uscita. Potevo passare sopra a tutto, ero
praticamente in uno stato catatonico provocato dagli avvenimenti della
mattina e dalle parole incredibili di Matt, ma il furto della mia borsa
mi smosse.
“Ehi, che stai facendo?”
Lo seguii senza avere risposta e, una volta fuori
dall’auditorium, fui colpita dalla luce accecante che
illuminava il corridoio e strizzai gli occhi. Quando li riaprii
Patterson sembrava essere sparito, tanto che mi ritrovai, spaesata, a
guardare più volte nelle varie direzioni in cui poteva
essersi mosso, finché la sua testa non spuntò da
in fondo al corridoio alla mia sinistra.
“Gray! Veloce, prima che ci veda qualcuno.”
Gli andai dietro senza protestare, ma solo perché avevo
paura di dare nell’occhio: i corridoi erano praticamente
deserti, la maggior parte degli studenti erano nelle aule, ma poteva
sbucare un professore libero da un momento all’altro.
Patterson, a sorpresa, s’infilò per uno svincolo
di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza, alla fine del quale
c’era una porta che dava sul retro del parcheggio. Quando
fummo all’esterno continuò a camminare diversi
passi davanti a me, raggiunse quella che avevo imparato a riconoscere
come la sua macchina, una vecchia Ford marroncina di seconda mano di
cui non conoscevo il modello, aprì lo sportello posteriore
per buttarci la mia tracolla e il suo zaino, e infine entrò
sedendosi sul sedile del guidatore.
Solo allora tornò a puntare gli occhi verso di me, che ero
ferma in piedi a pochi passi dall’auto. Mi guardò
interrogativo e io mi posai una mano all’altezza del cuore,
nell’inutile tentativo di fermare la tachicardia dovuta alla
corsa e alla paura di essere scoperta.
“Sei pazzo,” lo accusai, puntandogli un dito
contro. “E pericoloso.”
Lui sorrise con aria angelica. “Che fai, non vieni?”
Tentennai qualche secondo, immobile con la mano sul petto e la bocca
schiusa per riprendere fiato. Pensai che non ero maggiorenne, che
mancavano tre mesi al mio diciottesimo compleanno, che i miei genitori
mi avrebbero ammazzata. Poi pensai all’armadietto, alle
occhiate che avrei dovuto sorbirmi a scuola, a Petrovic. Infine pensai
che per me non era normale pensare così tanto e, proprio
mentre Matt sbuffava impaziente e apriva la bocca per dirmi di decidere
alla svelta, feci il giro dell’auto, aprii lo sportello e mi
accomodai sul sedile del passeggero.
“Devo essere impazzita anch’io,” mormorai
tra me e me, allacciandomi la cintura di sicurezza ed evitando di
guardare alla mia sinistra.
Patterson accese il motore e partì con un’ultima
raccomandazione che ebbe il potere di farmi uscire il fumo dalle
orecchie.
“Finché sei nella mia macchina segui le mie
regole: puoi usare frasi composte al massimo da venti parole. Niente
monologhi deliranti alla Delia Gray.”
“Io non faccio monologhi deliranti alla…”
Mi bloccai alla sua occhiata eloquente, incrociai le braccia e misi su
un’espressione offesa. “Non mi sentirai dire una
parola, principino.”
“Questa sì che sarebbe una
novità.”
“Voglio scendere,” brontolai, non troppo convinta.
“È troppo tardi, Gray,” rispose lui
prendendo una svolta a sinistra. “Stamattina sei bloccata con
me.”
Hola! Non odiatemi, per favore: il capitolo doveva continuare, lo so.
So anche che avrei potuto farlo lungo il doppio e che probabilmente
nessuno si sarebbe lamentato, ma avevo paura uscisse un papiro assurdo
e, soprattutto, avevo paura di non riuscire a pubblicarlo entro tempi
brevi. Ho fatto fatica già a scrivere questa parte e volevo
avere qualcosa da far leggere a chi mi segue con tanto amore.
Sto faticando a scrivere e temo che il capitolo ne risenta. Ho bisogno
di qualche feedback per capire se sto andando nella direzione giusta o
se devo chiudere baracca e burattini. So che sono stata assente per
tanto tempo, ma so anche che qualcuno che segue la storia
c’è, se trovaste cinque minuti per lasciarmi due
righe di recensione mi fareste la persona più felice del
mondo!
Per quanto riguarda il capitolo, spero di non aver deluso nessuno, mi
sto sforzando di mantenere i personaggi il più IC possibile
e non è facile. A volte mi devo trattenere per non fargli
dire troppo (non a Delia, lei può parlare quanto vuole,
tanto ormai è così), perché trovo che
sarebbe inverosimile un dialogo in cui Matt spende troppe parole per
consolarla, o le spiega perché è andata a
cercarla (sì, stavo per scriverlo, ma poi ho cancellato
tutto). Per questo a molti può sembrare che la storia
proceda a rilento, ma dal mio punto di vista non è
così. L’obiettivo è mostrare un
avvicinamento tra due persone tendenzialmente e apparentemente
tanto diverse, e forse, sì, mi sto dilungando, ma
non voglio nemmeno affrettare le cose. Gli step della storia sono ben
chiari nella mia testolina, forse per arrivarci faccio dei giri un
po’ assurdi ed esagero? Let me know.
Il titolo del capitolo è ovviamente un rimando al romanzo La
lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne che, per farla
breve, parla di
adulterio e di gogna pubblica. Mi pareva adatto.
Il Senior Year è l'ultimo anno di High School (le nostre
superiori) negli US. Tra qualche capitolo finirà la parte
"scolastica", yep.
Aspetto pareri e spero apprezziate lo sforzo di una pubblicazione
(relativamente) veloce.
Un bacio grosso a tutti quelli che leggono! <3
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Capitolo 10 *** I'll take you away ***
10. I'll take you away
Cercare di stare zitta durante il viaggio in macchina con Patterson fu
per me un autentico supplizio. Mi venne spontaneo aprire la bocca per
dire qualcosa almeno una dozzina di volte, anche perché non
sapevo dove eravamo diretti e non conoscevo la strada che avevamo
imboccato quando eravamo usciti dal centro di Winthrop. Ma sentivo lo
sguardo divertito di Matt su di me ogni volta che sospiravo per lo
sforzo di non dire nulla, quindi, per orgoglio, mi morsi la lingua e
riuscii a restare più o meno in silenzio per quasi tutto il
tragitto.
Rassegnata e obbligata a tacere, quindi, mi misi a fare delle
considerazioni su ciò che era appena accaduto, dal momento
che ero ancora vagamente scossa.
Innanzitutto, quel coglione di Petrovic aveva messo in giro voci false
sul mio conto e ora mezza scuola credeva che fossi una poco di buono.
Se lui andava a letto con tutte le ragazze della scuola era da
considerarsi un eroe, ma io, che tra l’altro non avevo fatto
nulla di ciò andava in giro a raccontare, ero stata fatta
passare per la sgualdrina della situazione. Robe da pazzi.
Non ero una persona vendicativa, non lo ero mai stata, perlomeno, ma se
Petrovic pensava che gliel’avrei fatta passare liscia si
sbagliava di grosso. Aveva pestato i piedi alla ragazza sbagliata,
decisi in quel momento, e alla prima occasione se ne sarebbe pentito.
E poi c’era l’altra
questione, la questione con due
occhi grigi e una spiccata tendenza a irritarmi di proposito. La
questione che mi sedeva di fianco in quel momento. Guardai Patterson
con la coda dell’occhio e mi domandai per
l’ennesima volta cosa diavolo ci facessi seduta nella sua
macchina.
Era vero, negli ultimi mesi, da quando lui aveva cominciato a uscire
col mio gruppetto di amici, avevamo iniziato ad avvicinarci anche noi
due, seppur a
modo nostro, ma non potevo ancora considerare Matt un amico,
né era una persona che mi ispirava particolare
fiducia. Nonostante i passi in avanti compiuti da entrambi durante il
precedente anno scolastico, l’estate ci aveva allontanati di
nuovo e subito dopo mi era sembrato di dover ricominciare da zero, con
lui. Poi però quella mattina era venuto a cercarmi
– o forse no, forse mi aveva trovata per caso, non
gliel’avevo nemmeno chiesto – e mi aveva
quasi consolata per la storia del mio armadietto. Diamine, mi aveva
addirittura detto che con l’alcol cominciavo a piacergli di
più.
Cosa accidenti significava quella frase, poi? Lì per
lì non ci avevo dato peso, ero troppo presa dalla situazione
per soffermarmi su quel particolare, ma ora che ci
riflettevo… Beh, non sapevo davvero cosa pensare.
Lanciai una seconda occhiata a Matt, che guidava in silenzio.
Probabilmente intendeva solamente dire che quando beveva un paio di
birre riusciva poi a trovare la mia compagnia più
tollerabile. Era una cosa che accadeva anche a me: tutto sommato, a
partire da quella volta alla festa di Ramirez, ogni volta che bevevamo
qualcosa insieme Patterson sembrava diventare più umano e
meno insopportabile.
Ma si trattava davvero solo di questo? Aveva detto che con
l’alcol cominciavo a piacergli di più e che la
cosa non andava bene. Che intendesse che gli piacevo da un punto di
vista… Romantico? Fisico? Naah, era
impossibile, non
l’avrebbe mai spifferato con tutta quella
tranquillità.
Sbuffai, frustrata da quell’enigma. La verità era
che in genere ero brava in queste cose, capivo al volo quando un
ragazzo stava flirtando con me e che cosa volesse ottenere. Ero sveglia
e maliziosa al punto giusto, non ero un riccio come Jude né
ero ingenua come Audrey; ci sapevo fare, a detta di tutti. Eppure
quando si trattava di Patterson diventavo insicura e mi riempivo di
dubbi, mi sembrava che lui cambiasse atteggiamento nei miei confronti
ogni due per tre e non capivo il suo gioco. Non credevo che ci avesse
mai provato davvero con me e, anche se ogni tanto mi aveva dato
l’impressione di flirtare, era sempre talmente enigmatico che
era impossibile dirlo con certezza, pure per me.
Tornai a guardarlo, concentrata nei miei pensieri. Era un po’
corrucciato, aveva una leggera rughetta tra le sopracciglia e, forse,
delle occhiaie appena più marcate del solito, ma era
comunque carino da far schifo. Teneva gli occhi fissi sulla strada, ma
sembrava sciolto alla guida, sicuro come io non sarei mai stata, anche
perché mio padre mi permetteva di usare la macchina solo
per brevi tratti.
Quando Matt parlò, ovviamente, la sua voce mi colse di
sorpresa e tornai subito a fissare un punto davanti a me.
“L’hai presa piuttosto seriamente la faccenda del
non dire più una parola,” disse, con un tono
vagamente ironico.
“Potresti ricambiarmi il favore con la stessa
moneta.”
“Avanti, Gray, ho notato come mi fissi. So che ti stai
facendo violenza psicologica per non chiedermi dove stiamo
andando.”
Era da un po’ che non stavo pensando a quello, in
realtà, ma era meglio che lui continuasse a crederlo. Sperai
di non essere arrossita e puntai gli occhi fuori dal finestrino,
notando che in effetti non avevo idea della nostra ubicazione in quel
momento. Di sicuro eravamo usciti da Winthrop, ma non mi pareva ci
stessimo dirigendo verso Boston, la città più
vicina, perché conoscevo la strada per arrivarci.
“Non mi interessa,” mentii spudoratamente.
Lui mi fissò la nuca per un paio di secondi, ma non
commentò ulteriormente.
Qualche minuto più tardi eravamo in aperta campagna e Matt
imboccò una strada sulla destra, alla fine della quale
c’era un grande spiazzo in ghiaia con qualche macchina e un
camion parcheggiati. Ci fermammo lì anche noi, Patterson
parcheggiò in un posto a caso, si slacciò la
cintura di sicurezza e mi guardò, indeciso se dire qualcosa,
prima di scendere dall’auto.
Lo imitai e mi guardai attorno, stranita. Dal parcheggio partiva una
stradina, sempre in ghiaia, che portava a una serie di edifici bassi ed
estesi in lunghezza, dietro i quali vedevo solo campagna, prati,
qualche recinto e degli animali non meglio identificabili da quella
distanza.
Patterson non disse niente, si limitò a chiudere la macchina
e incamminarsi con sicurezza verso gli edifici, io lo seguii con
qualche titubanza, non sapendo che altro fare. Eppure a quel punto ero
decisamente troppo curiosa per riuscire ancora a tacere, quindi,
nonostante le mie intenzioni, alla fine cedetti.
“Dove siamo?” gli domandai, cercando di stagli
dietro.
“Appena fuori Beachmont,” rispose lui senza nemmeno
girarsi.
“Questo l’avevo intuito, dato che non siamo andati
verso Boston. Ti domandavo cos’è quel posto dove
siamo diretti, genio.”
“Sei cieca o cosa?”
“Senti, Patterson, posso anche capire che
tu…” iniziai mentre acceleravo il passo per
raggiungerlo, ma bloccai da sola il fiume di parole che stava per
uscirmi dalle labbra quando riconobbi l’edificio davanti a
noi. “Mi hai portato in un maneggio?”
C’era il tipico odore delle stalle, che di sicuro non era il
massimo ma che avevo imparato a riconoscere come familiare quando avevo
fatto equitazione per qualche tempo, anni prima, e ora che ci eravamo
avvicinati potevo anche notare i recinti e diversi cavalli che
trottavano allegri al loro interno.
Matt nemmeno mi rispose, ma io ricordavo bene il prom
dell’anno precedente, quando gli avevo confessato che tra la
miriade di attività che avevo provato da bambina
l’equitazione era l’unica che mi aveva appassionata
davvero. Non credevo fosse un caso che mi avesse portata proprio in un
maneggio.
“Io non ho soldi con me,” mi ricordai
all’improvviso.
“Non è un problema,” rispose lui con
distacco.
“È un problema, sì! Non voglio che mi
paghi qualcosa tu, poi ti rifiuti di accettare che ti torni i soldi e
non va bene. E comunque…”
“Placati, Gray. Non ti pagherò assolutamente
niente, ma non è un problema se non hai soldi.”
Sbuffai e continuai a seguirlo, decisa a rifiutare altri regali da
parte sua. Ma, già quando superammo la hall del maneggio
e ci incamminammo verso le stalle con i cavalli, capii che in quel
posto Patterson conosceva chiunque e che con ogni
probabilità era per quel motivo che aveva assicurato che non
avrebbe pagato per me.
“Sono tutti tuoi amici qui?” chiesi a Matt mentre
lui prendeva con sicurezza la strada per un box davanti al quale ci
fermammo.
“Più o meno,” rispose, senza spiegarsi
ulteriormente.
Poi entrò nel box lasciando la porticina semi aperta, e io
cominciai ad agitarmi di nuovo.
“Ma puoi entrare?” domandai guardandomi intorno
nervosa.
“Direi proprio di sì.”
“Perché? Conosci il proprietario del cavallo?
Nessun dipendente del maneggio ci ha detto che potevamo venire fin qui,
non è che magari…”
“Rilassati, Gray, non stiamo facendo niente di
illegale,” mi interruppe lui.
“A parte bigiare la scuola,” mormorai io a bassa
voce. “Allora, chi è
quell’incanto?” feci poi, indicando il cavallo che
Matt aveva preso a carezzare amorevolmente sul muso mentre,
addirittura, gli sussurrava qualche parola dolce a mo’ di
saluto.
“Lei è Amber,” spiegò lui
sottolineando il sesso dell’animale. “Ed
è mia.”
Rimasi a bocca aperta per qualche istante prima di trovare le parole
per rispondere. “Tua nel senso che… Vieni spesso
qui? A trovarla?”
“No, mia nel senso che i miei genitori me l’hanno
comprata e,” fece una smorfia, come se gli costasse ammettere
ciò che stava per dire, “la mantengono in questo
maneggio da cinque anni.”
“Ah,” asserii solamente, senza sapere
cos’altro aggiungere.
Stetti qualche minuto in silenzio, fuori dal box, solo a osservarlo
mentre dava qualcosa da mangiare ad Amber e recuperava una spazzola per
strigliarla. Dopo un po’ Matt alzò gli occhi e mi
guardò serio.
“Non entri?”
“Posso?” chiesi, già elettrizzata
all’idea.
“Da quando ti fai così tanti problemi,
novellina?”
Alzai gli occhi al cielo mentre aprivo la porticina ed entravo nel box.
“Non conosco il suo carattere, magari è buona solo
con te.”
Lui mi passò la spazzola e, prima di cominciare a usarla,
carezzai dolcemente il muso dell’animale, attenta a non fare
gesti bruschi che la spaventassero.
“È un test,” disse Patterson divertito.
“So già che è buona, ma se sopporta la
tua presenza significa che è davvero una santa.”
Lo fulminai con gli occhi prima di contrattaccare. “E
comunque non volevo disturbarti. Eri così carino mentre
parlavi con lei, sembravi quasi umano.”
Lo stavo prendendo in giro, ma sapevo che c’era un fondo di
verità nelle mie parole: non avevo mai visto Matt
così dolce e remissivo.
Lui fece un mezzo sorriso e mi distolse dai miei pensieri aprendo la
porticina del box. “Visto che fai tanto la spiritosa, vediamo
come te la cavi
fuori di qui.”
Passammo la mattinata così, a prenderci cura di Amber e a
farla passeggiare fuori dal suo box. Matt chiamò uno dei
dipendenti del maneggio e fece in modo che io avessi dei pantaloni
adatti a cavalcare, così quando uscii dagli spogliatoi vidi
che avevano già sellato e preparato la puledra.
Erano diversi anni che avevo smesso con l’equitazione,
perciò mi sentivo un po’ in ansia, ma cercai di
non darlo troppo a vedere mentre mi avvicinavo al recinto. Patterson,
non so come, lo intuì comunque.
“Sei nervosa?” mi domandò non appena fui
abbastanza vicina.
Decisi di non mentire. “Un pochino.”
Charlie, il ragazzo di nemmeno trent’anni che lavorava
lì al maneggio e che ci stava dando una mano, mi fece un
sorriso incoraggiante. “Puoi stare tranquilla,” mi
rassicurò. “Amber è davvero buonissima,
e comunque starò qui con voi.”
Dopo appena pochi minuti, ad ogni modo, mi ricordai il motivo per cui
avevo amato così tanto andare a cavallo quand’ero
più piccola. Amber era intelligente e molto sensibile,
nonostante fosse Charlie a seguirla e dirle cosa fare, lei percepiva
ogni mio movimento e lo assecondava. All’inizio ero
preoccupata, avevo paura di non ricordarmi e di non essere in grado di
stare in sella, ma dopo i primi istanti mi resi conto di essere
perfettamente a mio agio. Se ne accorse anche Charlie e, forte della
sicurezza di Amber, ci spinse ad accelerare il passo e a muoverci al
trotto: corsi più veloce per qualche tempo, il vento sulla
faccia, la sensazione di libertà che finalmente ritrovavo
dopo anni.
Finita la corsa, mio malgrado, dovemmo riportare Amber nel suo box e
sistemarla, prima di dirigerci al piccolo bar del maneggio: ormai era
ora di pranzo e noi non avevamo minimamente pensato
all’eventualità di dover mangiare fuori dalla
mensa scolastica, quindi prendemmo due panini e dell’acqua
lì. Poi, mentre io mi cambiavo per rimettere i miei vestiti,
Matt andò a recuperare un asciugamano da mare che aveva
ancora in macchina, lo stendemmo su un prato che si trovava non lontano
da dove avevamo parcheggiato e ne usammo un pezzetto a testa.
Alla fine, dopo aver mangiato, ci ritrovammo stesi per metà
sull’asciugamano e per metà fuori, entrambi con le
gambe poggiate sull’erba tagliata di recente. Chiusi gli
occhi e forse sonnecchiai anche un po’, non lo ricordo.
Quello che ricordo bene, invece, è che quando riaprii gli
occhi Matt aveva tirato fuori un libro dal proprio zaino e lo leggeva
completamente risucchiato da esso.
Non avevamo parlato molto fino a quel momento, prima la mia attenzione
era stata assorbita da Amber e dalla cavalcata, poi avevo chiacchierato
con Charlie di cavalli e del suo lavoro lì, infine ci
eravamo messi a mangiare e Patterson mi era sembrato poco propenso a
spiccicare parola. D’altro canto io restavo una chiacchierona
di natura, perciò non potevo trattenermi a lungo e,
quando riuscii a vedere la copertina del libro, gli domandai
spiegazioni.
“Madame Bovary?”
Lui alzò gli occhi dal testo e mi guardò stupito.
“Lo dobbiamo leggere per Francese,”
spiegò celere, senza però chiudere il libro.
“Quindi è la versione originale?”
“No, è tradotto. È per Letteratura. La
Chastain vuole farci leggere un libro a semestre.”
Annuii piano e Matt tornò a posare gli occhi sulle pagine
del libro, ma io non avevo ancora finito.
“In effetti ti facevo più tipo da Hemingway o cose
così,” dissi in uno sbadiglio, mentre mi mettevo
più comoda, stesa a pancia in su con la testa appoggiata
alla mia borsa.
“Faccio un po’ fatica con Hemingway, a dire il
vero,” rispose lui senza spostare l’attenzione dal
libro.
“Davvero?”
Lui sentì il mio stupore e si affrettò a
spiegarsi. “Non intendo che faccio fatica a leggerlo, solo
che trovo le sue tematiche lontane dalla mia visione. Ma è
soggettivo, immagino.”
Ci riflettei un attimo prima di replicare. “In quel senso,
allora, faccio anch’io un po’ fatica con Hemingway.
È stato un grande scrittore e so che dovrei leggere tutto
quello che ha prodotto, ma devo essere dell’umore giusto per
mettermici.”
Patterson annuì senza dire niente e restammo in silenzio per
qualche minuto. Per sua sfortuna io non avevo niente da leggere, mi
annoiavo e, quand’era così, non riuscivo proprio a
trattenermi dal parlare per troppo tempo di fila.
“Immagino che la tua famiglia paghi un sacco per tenere Amber
in un posto come questo,” buttai lì senza malizia,
solo con l’intento di chiacchierare.
“Immagino di sì,” confermò
lui senza sbilanciarsi.
“Non lo sai? Io so solo che comprare e mantenere un cavallo
sarebbe stato proibitivo per la mia famiglia. Sei fortunato.”
Matt mi guardò per la prima volta da qualche minuto, poi
dovette decidere che era inutile intestardirsi a leggere quando io
volevo così caparbiamente rovinargli i piani,
così chiuse il libro e lo ripose nello zaino alle sue
spalle, prima di stendersi nella mia stessa posizione e rispondermi.
“È quasi l’unica cosa che mi faccio
ancora pagare dai miei, con il solo stipendio estivo non potrei mai
permettermela.”
Stavo per domandargli il perché, curiosa di sapere che tipo
di rapporto avesse coi suoi genitori per arrivare a dire cose del
genere, ma mi trattenni all’ultimo per non risultare troppo
invadente e Patterson ne approfittò per cambiare argomento,
evidentemente ansioso di non parlare più di se stesso.
“Non ti manca la California?” mi chiese quindi, dal
nulla. “Qui dev’essere tutto così piatto
rispetto a una città come Oakland.”
Feci una smorfia seguendo i movimenti di una nuvola sopra di me.
“Non tanto. Tutto sommato viviamo non troppo lontano da
Boston, ho sempre pensato che fosse un buon compromesso il trasferirsi
qui.”
Lui sbuffò piano e io ridacchiai, decidendo quindi di essere
sincera.
“No, non è del tutto vero. All’inizio
l’ho odiato, il trasferimento, ho odiato tutto di Winthrop:
la scuola, le persone, persino il mare, l’oceano, che mi
ricordava tanto il mio
oceano, il Pacifico della West Coast. Poi
Oakland è attaccata a San Francisco, ti puoi immaginare il
tipo di vita che c’è lì.”
Presi fiato, ma non mi fermai. “Alla fine mi sono adattata.
Sono piuttosto brava, sai, ad adattarmi. Col tempo Winthrop ha finito
per piacermi.”
“Perché un compromesso?” mi
domandò Matt.
Non capii subito quello di cosa stesse parlando. “In che
senso?”
Lui ne approfittò per prendermi in giro, ovviamente.
“Parli talmente tanto che non ti ricordi neanche tu quello
che dici,” ridacchiò divertito.
Gli tirai un pugno fiacco sul fianco e lui continuò.
“Hai detto che è stato un buon compromesso
trasferirsi qui.”
“La vita non ci andava troppo bene a Oakland. Alla mia
famiglia, intendo.” Sospirai, incerta se continuare o meno,
ma alla fine non riuscii a trattenermi. “Mia madre
è stata fortemente depressa per degli anni, prima che ci
trasferissimo a Winthrop. Ebbe un brutto aborto quando io avevo
all’incirca otto o nove anni, e da quel momento
alternò momenti di umore stabile a periodi di depressione
nera, in cui non si alzava nemmeno dal letto per giorni interi.
Sembrava una situazione senza via d’uscita e inoltre mio
padre aveva problemi sul posto di lavoro. Così, mentre mia
madre sembrava pian piano riprendersi, papà decise di
licenziarsi e trasferirsi. Qui c’è mia nonna
materna, ci ha aiutati tantissimo. Credo sia stata la scelta
più giusta e, anche se avrei preferito per mille motivi
restare in California, non rimpiango quei bruttissimi momenti. Fu un
incubo anche per me vedere mamma stare così, ed ero solo una
ragazzina. Per questo non ho mai contestato la scelta di
papà, né ho dato a vedere come la pensavo, in una
situazione del genere mi sembrava stupido mettermi a fare i
capricci.”
Mi ero decisamente lasciata andare: non sapevo perché gli
avevo raccontato tutte quelle cose, lui non mi aveva chiesto niente di
specifico e comunque non aveva insistito perché entrassi nei
particolari. Evitai di spostare lo sguardo su di lui e mi zittii per
diversi minuti di fila, convinta di averlo messo in imbarazzo e di
avergli dato un ulteriore motivo per starmi alla larga: la pena. Non
volevo che le persone provassero compassione per me e per la mia
storia, stavo bene ora.
Stavo quasi per alzarmi e cercare una scusa per chiedergli di tornare
verso casa – ormai non mancava molto all’orario in
cui saremmo dovuti rientrare, ad ogni modo – quando Matt mi
stupì parlando per primo.
“Conosco Thomas Petrovic da quando eravamo
piccoli,” confessò all’improvviso, come
se gli avessi chiesto spiegazioni sulla faccenda.
Non me l’aspettavo e per qualche secondo non seppi come
reagire, era un cambio d’argomento talmente repentino che
rasentava la follia. Ma alla fine, come sempre, la curiosità
ebbe la meglio.
“Siete amici d’infanzia?” domandai, senza
muovermi di un millimetro.
“Per niente. Non ci siamo mai stati molto simpatici, ma i
nostri genitori si frequentavano. Si frequentano ancora, in
realtà, fanno parte della stessa cerchia di ricconi
snob.”
Parlava senza usare un’intonazione particolare, come se fosse
una storia da niente che raccontava tutti i giorni, col suo solito modo
di fare un po’ annoiato e casuale; eppure era impossibile non
notare l’amarezza – la malinconia?
– che
traspariva dalle sue parole. Ormai mi aveva interessata, quindi lo
incitai a continuare.
“Perché non frequentate la scuola privata? La
Saint James, si chiama così, no? Come gli altri ricconi
snob, dico.”
“La frequentavamo entrambi. Io ho scelto di cambiare scuola
per fare il liceo pubblico, lui è stato espulso per dei
motivi che non ho mai saputo bene. Non si comportava granché
bene, adesso sembra essere migliorato, ma non con le ragazze, a quanto
pare.”
“È per questo che… Beh, che mi hai
consigliato di non uscire con lui?” chiesi, un po’
indecisa su come porre la domanda.
Sentii Matt sistemarsi lo zaino sotto la testa prima di rispondere.
“Anche, sì. Ho presente il personaggio,
diciamo.”
“Perché hai lasciato la scuola privata?”
Ormai ci avevo preso gusto con le domande e anche se Matt non era un
fiume di parole come la sottoscritta avevo notato che stava cominciando
a rispondere. A modo proprio, usando meno sillabe possibile, ma
rispondeva.
“Non mi piaceva più quell’ambiente.
All’inizio ero anch’io il tipico rampollo snob
dell’alta società, ero un principino.”
Ridacchiai quando, con il sorriso nella voce, usò di
proposito il termine che io avevo coniato per prenderlo in giro neanche
troppo amichevolmente.
“Io l’ho sempre detto,” commentai
infatti. “E poi?”
“Più vivevo in quella bolla, più mi
rendevo conto che non era il posto per me. Forse con un po’
di pelo sullo stomaco avrei potuto finire le scuole lì e
uscire pronto per qualsiasi college del paese, ma non ho
retto.”
“Perché eri troppo snob anche per gli
snob,” lo presi in giro, sapendo di poter scherzare con lui,
a quel punto.
“Esatto,” rispose Patterson con tono fintamente
altezzoso. “Almeno alla Winthrop High posso trattare tutti
per ciò che sono: plebaglia.”
Ridacchiai appena, poi tornai seria per fargli un’altra
domanda, una ancora più personale, a cui non sapevo nemmeno
se
avrebbe voluto rispondere: si basava su di un’ipotesi che
avevo costruito in base a ciò che mi aveva detto in
precedenza, magari stavo per fare un buco nell’acqua. Non mi
tirai comunque indietro.
“È stato il trasferimento il motivo della rottura
coi tuoi genitori? Insomma, il fatto che vuoi mantenerti e tutto il
resto…” blaterai, gesticolando senza rendermene
conto.
Matt rifletté qualche istante sulla possibilità
di darmi o meno una risposta, poi sospirò. “No, i
problemi c’erano da prima. Mio padre era sempre assente per
lavoro, mia madre era anaffettiva. Sono ancora così,
entrambi. Mi ci sono staccato per necessità, non voglio
diventare come loro.”
Trattenni quasi il fiato, colpita dalla durezza delle sue parole.
“È una decisione… coraggiosa. Insomma,
a nemmeno diciotto anni.”
Lui rispose come se fosse una cosa da nulla. “Cerco solo di
mantenermi per quello che posso, con lavoretti part-time ed estivi. E
da qualche mese sono andato a vivere nella dependance della nostra
villa. Non è molto. Sono sempre a casa loro.”
Era da qualche tempo, ormai, che immaginavo degli strani equilibri
nella famiglia Patterson: mi ero ritrovata a fantasticare sulle poche
informazioni racimolate in giro e sulle pochissime parole dette da Matt
in proposito, pensando che ci dovesse essere qualcosa di non troppo
chiaro. Eppure mai avrei pensato a una situazione simile. Matt era
ricco, poteva avere tutto ciò che voleva, ma aveva deciso di
allontanarsi da quell’agiatezza e dai propri genitori
perché, probabilmente, non si sentiva abbastanza amato da
loro.
Improvvisamente, senza sapere come fosse successo, mi ritrovai a
essergli grata. Mi ero sbilanciata troppo raccontandogli la storia di
mia mamma, gli avevo parlato di cose che non avevo mai confessato a
nessuno, mi ero mostrata a lui per la prima volta senza quella corazza
che ero solita mettere di fronte a quasi tutti. Matt doveva averlo
capito e, anche se con qualche difficoltà, aveva deciso di
raccontarmi a sua volta qualcosa, per togliermi
dall’imbarazzo. Era come se non volesse mantenere quella
posizione di vantaggio che io gli avevo consegnato rivelandogli la mia
situazione familiare: senza rendersene conto mi aveva restituito quel
vantaggio e, così facendo, mi aveva dato una fiducia che non
sapevo nemmeno se era meritata.
Perciò sì, gli fui grata, sentii il mio cuore
riempirsi di una strana sensazione di leggerezza che interpretai come
riconoscenza. Ma non riuscii comunque a ringraziarlo.
“Mi dispiace,” dissi invece, girando appena la
testa per guardarlo.
Durante quella conversazione eravamo rimasti stesi sul prato, con le
teste appoggiate ai rispettivi zaini, guardando il cielo pur di non far
incontrare i nostri sguardi. Quando mi girai verso Matt anche lui si
voltò, si mise su un fianco puntellandosi su di un gomito e
mi guardò dall’alto.
Fece una smorfia e poi un sorriso stiracchiato. “Ci sono cose
peggiori,” commentò pragmatico.
“Già,” risposi io, stranamente a corto
di parole.
Aveva ragione, c’erano cose decisamente peggiori al mondo, e
anche se a nessuno di noi due la vita stava riservando un trattamento
facile, non potevamo certo dirci sfortunati nel vero senso della
parola. Anzi, forse Matt era messo pure peggio di me: io avevo avuto i
miei problemi in famiglia, ma almeno avevo dei genitori che mi volevano
bene e che me lo dimostravano ogni giorno.
Fu di nuovo lui a rompere il silenzio, facendo un’espressione
pensierosa. “Siamo un bel duo di sfigati.”
Drizzai la schiena per sembrare più altezzosa e mi alzai
appena appoggiandomi a
mia volta all’indietro sui gomiti, avvicinandomi
inevitabilmente a lui che continuava a guardarmi dall’alto.
“Pensa per te, principino, io sto benissimo,” gli
risposi, fingendomi offesa. “E poi oggi sarei io quella
lagnosa,” aggiunsi a voce più bassa, per
sottolineare che mi ricordavo ciò che mi aveva detto appena
qualche ora prima.
Matt scoppiò a ridere alla mia espressione oltraggiata ed
io, non so perché, rimasi totalmente incantata
dall’immagine di quella risata, dai suoi occhi per una volta
così luminosi, dalla piccola fossetta che gli si formava
sulla guancia mentre sorrideva in quel modo. Così, quando
notai quanto fossimo vicini, di riflesso mi sporsi verso di lui e
socchiusi le labbra, ancora confusa per tutto ciò che stava
accadendo. Lui smise immediatamente di ridere e mi guardò
perplesso, ma fu solo quando vidi i suoi occhi diventare da stupiti a
esitanti che mi resi conto di quello che stavo facendo e mi allontanai
di scatto, mettendomi seduta.
Mi ero avvicinata a Matt Patterson aspettandomi che si sporgesse per
baciarmi. Come se fosse una cosa naturale, che succedeva tutti i santi
giorni. Come se non mi ricordassi che lo odiavo, che mi odiava, che un
bacio tra noi due probabilmente avrebbe causato la distruzione del
mondo e lo sgretolamento dell’intero universo. Merda.
Il cuore mi batteva talmente forte nel petto che pensavo sarebbe uscito
per fuggire – almeno lui – da un momento
all’altro, ma finsi indifferenza, mi schiarii la gola e
parlai per prima.
“Andiamo? Si è fatto un po’ tardi, non
vorrei che i miei si insospettissero. Anche se in realtà
devo andare da mia nonna oggi pomeriggio, forse lei non sa nemmeno a
che ora finisco scuola. O magari sì, non saprei. Non mi
ricordo se gliel’ho detto.”
Mentre blateravo mi alzai in piedi e mi lisciai la gonna per pulirla
dall’erba, ma non guardai mai nella direzione di Patterson,
anche se sentivo il suo sguardo su di me. Alla fine decise di non
rispondere, si alzò a sua volta e raccolse
l’asciugamano da terra, poi lo sbatté e lo
piegò, si caricò lo zaino sulle spalle e mi
lanciò un’altra occhiata.
Annuii, piuttosto stupidamente visto che non mi aveva posto alcuna
domanda, e mi incamminai verso la macchina.
“Immagino che valga di nuovo la regola del non
parlare,” biascicai una volta entrata, mentre mi allacciavo
la cintura.
L’idea di fare un altro viaggio silenzioso con lui di fianco
che controllava ogni mio movimento con la coda dell’occhio mi
metteva addosso un’agitazione incredibile, a maggior ragione
visto ciò che era appena accaduto, ma non potevo fare
altrimenti. Anche volendo non avrei saputo cosa dire e avevo paura che
iniziando a parlare mi sarei messa a sparare cazzate a raffica come al
mio solito.
“Veramente la regola dice solo di non usare frasi troppo
lunghe,” puntualizzò Matt, mettendo in moto
l’auto.
Non riuscii a trattenermi. “Per te non
c’è pericolo, mi sa,” borbottai a bassa
voce, quasi indignata dalla sua non-reazione fino a quel momento.
Lui prese fiato per rispondermi, ma alla fine si limitò a
sospirare piano senza dire niente, per non smentirsi. Non aveva
intenzione di dire alcunché per provare a togliermi
– toglierci – dall’imbarazzo, sembrava
assolutamente impermeabile a ogni mio commento. Però notai
che teneva un’andatura più veloce
dell’andata, anche se non avevamo davvero fretta di arrivare,
dal momento che eravamo abbondantemente in anticipo sul suono della
campanella: forse anche lui voleva accorciare quel viaggio il
più possibile, dunque.
Eravamo ormai su un rettilineo nelle campagne fuori Winthrop ed eravamo
in silenzio da un buon quarto d’ora, quando Matt si fece
prendere da un’eccessiva smania di arrivare e
accelerò più del dovuto. Il secondo successivo
avevamo una volante della polizia alle spalle con i lampeggianti
accesi, a intimarci di fermare la macchina a bordo strada.
“Cazzo,” imprecò Patterson rallentando e
accostando sulla destra, le mani strette sul volante con tanta veemenza
da avere le nocche bianche.
“Non è una macchina rubata, vero?”
domandai con tono piatto, non sentendomi nemmeno in grado di fare
battute di spirito.
Lui mi lanciò un’occhiata furibonda, come se fosse
davvero, davvero
incazzato con me, ed era la prima vera reazione
emotiva che gli vedevo avere da quando avevamo lasciato il maneggio, da
quando mi aveva guardato le labbra con aria indecisa, per la
precisione. Il mio cuore accelerò in protesta: non aveva il
diritto di essere arrabbiato con me.
Non facemmo in tempo a dire nient’altro, perché
l’agente che era sceso dalla volante batté sul
finestrino di Matt, che si voltò sospirando e
abbassò il vetro.
“Documenti, prego,” fece serio il poliziotto dopo
aver guardato bene dentro l’auto.
Patterson si sfilò il portafogli dalla tasca posteriore dei
jeans e gli diede la patente, poi si sporse verso di me e io sussultai
appena prima di rendermi conto che voleva prendere le carte della
macchina dal vano portaoggetti davanti al mio sedile. Mi spiaccicai
allo schienale per non sfiorarlo nemmeno per sbaglio, ma sentivo
comunque il profumo dei suoi capelli e la cosa mi destabilizzava
vagamente. Per fortuna la ricerca finì in fretta e, trovati
quei dannati documenti, Matt si rimise dritto al proprio posto.
Chiusi brevemente gli occhi, sospirando, mentre l’agente
controllava ciò che gli aveva passato Patterson.
“E lei, signorina?”
Riaprii gli occhi di scatto e notai che, com’era prevedibile,
il poliziotto stava parlando con me.
“Cosa?” domandai sentendomi estremamente stupida
per la milionesima volta quel giorno.
“Posso vedere un documento?”
Sentii distintamente un brivido corrermi lento lungo la schiena
nell’istante in cui realizzai che, non avendo con me il
portafoglio, non avevo alcun documento da esibire.
“Io veramente… Cioè, vede, oggi non ho
con me il… E quindi… No-non pensavo che,
insomma…” balbettai senza ritegno.
Matt alzò gli occhi al cielo e provò a rispondere
al posto mio. “Sta cercando di dire che ha dimenticato il
portafogli a casa. Ma può vedere da lei che non è
molto pericolosa, agente, al massimo è pericolosamente
sbadata.”
Quindi il principino sapeva ancora bene come parlare: mi indignai, ma
non ero certo nelle condizioni di rispondergli per le rime.
Il poliziotto ci scrutò serio prima di iniziare la
ramanzina. “Non farei tanto lo spiritoso, se fossi in lei.
Stava correndo ben oltre il limite di velocità concesso in
questo tratto, è minorenne, immagino che lo siate entrambi,
e la sua amica è senza documenti. Potrei anche pensare che
siate fuori da scuola senza il permesso dei vostri genitori.”
Trattenni il fiato, nel panico più totale: eravamo
spacciati. Mio padre si fidava di me, me se avesse scoperto che avevo
saltato la scuola avrei fatto la muffa per sei mesi in camera mia prima
che mi concedesse nuovamente il permesso di uscire.
L’agente, infatti, non aveva ancora finito. “Non ho
intenzione di perdere tempo portandovi in centrale, ma se poteste darmi
un recapito telefonico cada uno per verificare se…”
“Foreman?”
La voce maschile che aveva interrotto il predicozzo proveniva dalla
spalle del poliziotto, che si voltò per rispondere. Mi
attaccai istintivamente al braccio di Matt, in ansia, e lui
fissò perplesso, senza commentare, le mie mani aggrappate al
suo bicipite. Lo mollai e mi misi a stritolarmi le dita; Patterson
scosse la testa e guardò fuori dal finestrino. Non potevamo
vedere chi aveva parlato, ma intuimmo che si trattava di un altro
agente che era uscito dalla macchina dallo scambio di battute
successivo.
“Tutto okay?”
“Sì.”
“Ci stai mettendo più del previsto,
c’è qualche problema?”
“Sono due minorenni, volevo verificare che avessero le carte
in regola per essere fuori da scuola a quest’ora.”
“Ah.”
Il poliziotto numero due, di cui vedevo solo il busto, si
piegò per lanciare un’occhiata dentro la macchina,
si rialzò e poi si riabbassò strabuzzando gli
occhi mentre mi guardava meglio.
“Porca troia,” imprecai a bassa voce,
riconoscendolo all’istante.
Era Chris, il ragazzo che avevo conosciuto qualche mese prima al
Platinum.
Notai che la sua divisa era leggermente diversa da quella del
suo collega e pensai che magari non aveva ancora finito
l’Accademia di Polizia. In realtà non sapevo se
fosse un bene o un male il fatto di aver trovato proprio lui, ma
cominciai in cuor mio a sperare di non finire in carcere o,
più verosimilmente, in punizione per il resto della mia vita.
“Conosco la ragazzina, Foreman,” disse infatti
Chris all’altro, e io sbuffai per quel
‘ragazzina’.
Quando Patterson mi guardò interrogativo, mi limitai a
scrollare le spalle, ascoltando il resto della conversazione.
“Bene,” fece Foreman. “È senza
documenti, almeno adesso potremmo identificarla.”
“Conosco anche i suoi genitori,” mentì
Chris, con un tono talmente deciso da risultare più che
credibile. “È una brava ragazza, sono sicuro che
non sta facendo niente di male. Se la cosa ti fa sentire più
tranquillo stasera faccio una chiamata a sua madre per verificare che
sia tutto a posto.”
L’altro tentennò, era un vero osso duro.
“Sei sicuro?”
“So che tecnicamente non sono ancora un agente,
ma… Lascia fare a me, va bene? Gli do una bella strigliata
per
l’eccesso di velocità e li rimando a casa. Credo
ci fosse qualcosa di più importante alla radio, poco fa,
prova ad andare a controllare.”
Alla fine l’aveva convinto: il poliziotto annuì e
si diresse verso la volante, mentre Chris si abbassò sul
finestrino e mi
lanciò un’occhiataccia.
“Graziegraziegraziegraziegrazie,”
lo investii non
appena fui certa che ci fossimo liberati del collega rompipalle,
sporgendomi persino su Patterson per la foga senza rendermene conto.
“Non ti ringrazierò mai abbastanza.”
“Il che mi fa pensare che stavate facendo davvero qualcosa di
poco lecito,” rispose lui, ma la sua intonazione non era
dura, era quasi scherzosa.
A quel punto intervenne Matt, silenzioso fino a quel momento.
“Io ti ho già visto,”
commentò, indeciso, guardando Chris. Poi si girò
verso di me ed ebbe l’illuminazione.
“Mi ricordo! Ci hai provato con lui al pub, vero?”
Gli mollai un pugno sul braccio, stavolta non molto scherzosamente.
“Sei un idiota.”
“Beh, mica ti sto giudicando. Anzi, vista la situazione
attuale hai fatto bene a provarci,” ribatté lui
abbassando la voce e facendomi un sorriso gelido.
Evitai di mandarlo a quel paese solo perché Chris ci stava
ancora osservando, perciò mi voltai verso di lui e lo
ringraziai di nuovo.
“Figurati, il mio collega è sempre troppo pesante
in questo genere di cose,” rispose lui. “Ma
è la prima e l’ultima volta che ti paro
il culo, Delia, ricordatelo.”
Abbassai la testa e annuii contrita. “Va bene,”
mormorai.
Chris puntò un dito verso Matt. “E tu, ragazzino,
stavi correndo un po’ troppo. Datti una regolata, non
è una cosa su cui scherzare.”
Patterson fece un cenno col capo, ma mantenne la proprio espressione
altezzosa e annoiata che, ormai, avevo imparato e riconoscere come una
maschera.
“Dico sul serio,” lo redarguì infatti
l’altro.
Mi premurai di intervenire per evitare altri problemi: era evidente che
a Matt non andasse troppo a genio Chris, forse perché aveva
chiamato anche lui “ragazzino”.
“Sì, ha capito. Scusalo, è che questa
è proprio la sua solita faccia da schiaffi,”
improvvisai, togliendomi la soddisfazione di prenderlo in giro a mio
volta.
Chris sospirò e poi mi sorrise. “Okay, ragazzi,
potete andare. Stammi bene, Delia.”
“Ci vediamo in giro?” gli chiesi prima che se ne
andasse.
Matt sbuffò quasi impercettibilmente, mi ero sporta di nuovo
su di lui.
“Tu cerca di non metterti nei guai,”
ribatté lui allontanandosi.
Quando ripartimmo mi accorsi che, nonostante tutto,
l’atmosfera nell’abitacolo non era migliorata di
molto: entrambi eravamo silenziosi e poco propensi a scherzare
l’uno con l’altra. Pigiai qualche tasto a caso
sulla radio finché non trovai una stazione decente, alzai il
volume e mi misi più comoda sul sedile. Patterson non
commentò e quasi mi dispiacque di non averlo infastidito con
quel gesto. Un quarto d’ora dopo, grazie a qualche
indicazione data da me a mezza voce, eravamo davanti a casa di mia
nonna.
Mi slacciai la cintura di sicurezza e mi allungai sui sedili posteriori
per recuperare la mia borsa.
“Vado,” dissi quindi, aprendo la portiera.
“Grazie per… Beh, per avermi fatto conoscere
Amber.”
Matt fece il solito cenno con la testa e io, che nonostante tutto avevo
fatto una fatica incredibile per riuscire a ringraziarlo, mi
indispettii di nuovo per la sua totale mancanza di uno sforzo di
gentilezza.
“Ci vediamo a scuola,” ringhiai mentre uscivo
dall’auto.
“Ciao,” si degnò di rispondere lui.
Per tutto il pomeriggio mia nonna fu costretta a subirsi il mio
malumore ingiustificato, ma sopportò con uno stoicismo
tipico della sua età.
Alla fine mi chiusi in camera e parlai un’ora al telefono con
Audrey, mentendole spudoratamente su tutta la parte che riguardava la
presenza di Patterson nella mia gita al maneggio. Se la mia amica
si insospettì non lo diede a vedere, forse anche
perché era ancora preoccupata per la faccenda
dell’armadietto, cosa che io avevo completamente dimenticato;
infatti parlammo soprattutto di quello e dei mille e uno modi per
vendicarmi su Petrovic.
Riuscì comunque a distrarmi e quando andai a dormire,
decidendo per quella notte di restare a casa di mia nonna, ero un
pelino più tranquilla, almeno finché non
realizzai, un attimo prima di addormentarmi, che avevo lasciato il
motorino a scuola e che il giorno dopo mi sarei dovuta alzare
prestissimo per prendere l’autobus. L'ultimo pensiero di
quella giornata costellata di alti e bassi fu quindi una nuova e poco
fantasiosa maledizione nei confronti di Patterson.
Eccomi! Solo poche righe, perché vorrei riuscire a
pubblicare subito e non ho molto tempo.
Il capitolo non mi convince molto. È una parte
importantissima e ho paura di non averla resa al meglio. Commenti,
please. <3
So che alcune speravano in un bacio, per lungo tempo sono stata
indecisa se inserilo o no, ma ho già ben chiari nella mia
testa i tempi della storia e non sono riuscita a modificarli. Spero di
non avervi fatto imprecare troppo!
Non sono un esperta di cavalli, ho cercato (sigh) di stare sul vago, ma
se ci fossero castronerie da correggere fatemelo pure sapere.
Il titolo del capitolo l'ho preso da questa canzone (click per il
link): Take you away
Okay, chiudo qui! Un bacio grande grandissimo a tutte, grazie a chi
commenta, a chi ha aggiunto la storia nelle varie liste e a chi mi
segue. Alla prossima.
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Capitolo 11 *** Don't ask questions you don't want to know the answer to ***
11. Don't ask questions you don't
want to know the answer to
Il giorno successivo a quello in cui avevo avuto la malsana idea di
saltare la scuola per fare una gita con Patterson entrai a scuola con
due occhiaie che mi arrivavano fino ai piedi: avevo dormito male e mi
ero dovuta alzare molto presto per prendere l’autobus.
Perciò quando Dave mi accolse, festante e incuriosito dalla
mia sparizione del lunedì, io non avevo molta voglia di
scherzare. Rimasi sul vago, come avevo fatto la sera prima con Audrey,
gli dissi che avevo sentito il bisogno di stare per conto mio e che ero
stata in un maneggio.
“Come ci sei andata, dato che il tuo motorino era qui fuori
stamattina?”
Dave era dannatamente attento ai dettagli, lo sapevo che mentire a lui
sarebbe stato più difficile. Che poi tecnicamente non stavo
mentendo, stavo giusto omettendo
dei particolari non molto rilevanti.
“In autobus,” borbottai senza troppa convinzione.
Il mio amico mi guardò sospettoso, ma decise di non
infierire oltre. Sapeva che non gli mentivo spesso, ma sapeva anche che
quando lo facevo era per un buon motivo e che, in quel caso, avevo
bisogno di tempo per decidere di dire tutta la verità.
“Stai meglio oggi, Deels?”
Annuii, sollevata dal cambio d’argomento. Ed era vero: tolti
i problemi che mi ero creata con Patterson il
giorno precedente, per il resto non mi sentivo più
appesantita come quando avevo scoperto la scritta sul mio armadietto.
Il quale, lo vidi poco dopo, era stato coperto con un pezzo di cartone
nell’attesa che venisse sostituito lo sportello.
Il passaggio successivo fu mettere in atto il piano di vendetta nei
confronti di Thomas Petrovic. Era molto semplice: lui aveva messo in
giro delle voci false e volgari su di me e io avrei messo in giro delle
voci false e imbarazzanti su di lui. Era una cosa talmente stupida e
infantile che quasi mi vergognavo, ma per com’ero fatta non
potevo permettere che quell’idiota continuasse a fare il
bello e il cattivo tempo a scuola.
Nel giro di una mattinata, grazie soprattutto all’aiuto di
Audrey e alle conoscenze di Dave, mezza scuola sapeva che tra me e
Petrovic non era successo niente sotto alle gradinate, ma solo
perché lui aveva dei problemi meccanici lì sotto.
In poche parole, che non riusciva ad avere un’erezione.
Un’idea cretina, sì, ma ci facemmo tante di quelle
risate a mettere in giro quella voce che valse la pena di farlo solo
per il nostro divertimento.
Dopo pranzo, quando pensavo di potermi finalmente mettere
l’anima in pace, venni fermata in corridoio da Nathan Wilde,
l’amico e compagno di squadra di Petrovic con cui ero uscita
un paio di volte l’anno precedente. In quel momento ero sola
e non riuscii a evitarlo, per quanto ci provai.
“Gray,” mi chiamò Wilde mentre mi
muovevo dalla mensa alla biblioteca, dove dovevo restituire un libro
che avevo preso in prestito.
Lo guardai di striscio e, appena lo riconobbi, lo ignorai e accelerai
il passo.
“Ehi, Delia, aspettami.”
Non mi fermai, ma lui riuscì ovviamente a raggiungermi lo
stesso e a mettersi al mio fianco.
“Che vuoi, Wilde?” gli domandai poco gentile.
Forse non avevo motivi per avercela anche con lui, ma era
pappa-e-ciccia con Petrovic e questo mi bastava a considerarlo, nella
mia
testa, colpevole quasi quanto questo. Inoltre le falsità
messe
in giro sul mio conto comprendevano anche Wilde, che era conteggiato
tra le innumerevoli persone con cui, in teoria, ero andata a letto,
eppure non era successo nulla di simile tra di noi in quel breve
periodo in cui eravamo usciti.
Nathan continuò a seguirmi. “Volevo…
vorrei parlarti di quello che è successo.”
“Detta così è un po’ vaga la
questione, non credi?”
Lui mi toccò un braccio con delicatezza, nel tentativo di
non farmi proseguire. “Delia, ti prego, ascolta.”
Sospirai, fermandomi appena fuori dalla porta della biblioteca,
poiché sapevo che se fossimo entrati non avremmo
più potuto dire una parola: il signor Bellamy, il
bibliotecario, non transigeva al riguardo.
“Ti ha mandato Petrovic?” domandai a Nathan, che
sembrava essere vagamente sulle spine.
Lui fece una faccia stupita, come se non si aspettasse quella domanda.
“No, perché?”
“Non so, avete delle usanze particolari qui,”
bofonchiai, ripensando alle due volte in cui ero stata minacciata da
ragazze che difendevano l’amichetta del cuore.
Wilde scosse la testa. “Non avrebbe senso.”
“Dimmi che c’è, allora,”
cercai di tagliare corto, senza adoperare un briciolo di cortesia in
più rispetto a prima.
“Mi dispiace per… Beh, per quello che è
successo,” mormorò lui, guardandosi la punta delle
scarpe.
“Ti stai scusando per Petrovic?” chiesi di nuovo,
dal momento che non riuscivo a capire il punto.
“Ancora? No, io e Petey siamo due entità separate,
credimi.”
“Da come ve ne andate in giro sempre insieme non si
direbbe,” commentai sprezzante.
Non era del tutto vero, ma non avevo intenzione di rendere a Wilde le
cose più semplici: lui e Petrovic erano compagni di squadra
e, sì, erano anche amici, ma non erano sempre assieme e mi
sembrava che fuori da scuola frequentassero compagnie diverse.
“Tom è stato un coglione e so che le cattiverie
che ha messo in giro su di te non sono vere. Ma non verrà
mai a chiederti scusa.”
Alzai le sopracciglia, colpita. “Immagino di no.”
Nate aveva finalmente alzato la testa, cominciando a guardarmi.
“Ma io sono qui per la parte che riguarda me. Non
è giusto che girino quelle voci,
perché… Insomma, non è successo niente
di che tra di noi, l’anno scorso.”
“Ah, meno male che me lo dici tu. Stavo cominciando a pensare
di avere l’Alzheimer,” borbottai, stavolta usando
un tono più ironico e divertito che cattivo.
Wilde sorrise, prima di ricominciare con le spiegazioni.
“Quando frequenti uno spogliatoio come il nostro, certe
notizie girano. A volte sono vere, a volte sono pompate. Non ho messo
in giro io le voci su di te e non le ho alimentate, ma non ho fatto
niente per smentirle, e in questo ho sbagliato.”
Lo guardai seria. “Sì, hai sbagliato.”
“Mi dispiace,” continuò lui.
“Farò quello che posso per aiutarti a far sparire
quelle dicerie, io…”
Lo interruppi, vedendolo in difficoltà. “Nate, non
fa niente. Hai fatto errori ben più gravi. Tipo essere amico
di Petrovic.”
Lui sorrise di nuovo e si grattò la nuca. “Ci ho
appena litigato, sai. Credo che abbia esagerato stavolta.”
Mio malgrado, fui colpita dal suo parlarmi in modo così
sincero e diretto, così mi ritrovai senza parole per qualche
secondo. Nate alzò le spalle e approfittò del mio
mutismo per cominciare a congedarsi.
“Ecco, quello che dovevo dire te l’ho detto. Se
posso fare qualcosa per…”
Non riuscì a terminare la frase che la porta davanti alla
quale eravamo si aprì e ci trovammo davanti il volto serio
del bibliotecario.
“Vi sembra forse il posto dove mettersi a chiacchierare del
più e del meno?” domandò con voce bassa
ma rabbiosa, indicando il cartello che, già fuori dalla
porta, intimava a fare silenzio.
“Scusi, professore,” mi uscì detto prima
di riuscire a trattenermi, e Nathan tossì per camuffare una
mezza risata.
Bellamy mi squadrò severo, cercando di capire se lo stessi
prendendo in giro. “Non sono un professore. E ora entrate in
silenzio o spostatevi da qui.”
Feci un cenno con la mano a Wilde per dirgli che entravo in biblioteca,
lui sembrava intenzionato ad aggiungere qualcosa al discorso, ma
l’occhiataccia di Bellamy lo bloccò, quindi mi
salutò con un sorriso e si allontanò.
Per le successive due settimane le voci su me e Petrovic continuarono a
rincorrersi per i corridoi della scuola, finché non vennero
sostituite da qualcosa di più succoso e più
nuovo, nella fattispecie la liaison tra Melanie Frayer,
un’ochetta del nostro anno, e un ragazzo ultratrentenne, il
fratello della sua migliore amica. Avevo smesso di ascoltare i
pettegolezzi a scuola da quando avevo capito che spesso non avevano
alcun fondamento di verità, ma in quel caso ne approfittai
per calcare la mano, un po’ scherzosamente un po’
no, con Jude. Quando Audrey tirò fuori l’argomento
a tavola mi ritrovai a sorridere soddisfatta.
“Hai sentito, Judes?” trillai, guardando la mia
amica, che sembrava non aver capito dove volessi andare a parare.
“Non sono troppo piccola per Kerr, puoi ancora mettere una
buona parola per me.”
Lei roteò gli occhi. “Oddio, Delia, non
ricominciare.”
La cotta per suo fratello, anche se superficiale e poco seria, non mi
era mai passata del tutto.
“Beh, se la Frayer se la fa col fratello trentaduenne della
Jerkins, cosa vuoi che sia la differenza d’età tra
me e Kerr? Ha solo… Quanti anni ha? Ventidue?”
“Ventitré,” specificò lei.
“E non è quello il problema, mi rifiuto di vedervi
insieme, è mio fratello! Non credo che la Jerkins sia
contenta del casino che è scoppiato tra la sua migliore
amica e suo fratello.”
Sospirai, affranta. “Il nostro è un amore
impossibile, tu ci metterai sempre i bastoni tra le ruote.”
“Il vostro non
è un amore. Kerr sa a malapena che
esisti,” mi corresse Jude senza cattiveria. “E ti
ho già detto che sta con una ragazza, adesso.”
“Sottigliezze,” sbuffai, sventolando una mano.
In quel momento arrivò Patterson e mi resi conto, con un
piccolo sobbalzo del mio stomaco, che l’unico posto rimasto
libero al nostro tavolo era di fronte a me. Anche lui se ne accorse, ma
non sembrò preoccuparsene e appoggiò
lì il proprio vassoio salutando tutti. Per fortuna avevo
quasi finito, reggere tutto il pranzo costretta a guardare Patterson e
magari a parlare con lui era impensabile. Finii in due bocconi la mia
verdura, mi infilai la mela in borsa intenzionata a mangiarla dopo e mi
alzai in tutta fretta, con la scusa di dover andare in bagno. Gli altri
non dissero niente, ma vidi David radiografarmi con un lungo sguardo
indagatore che non lasciava presagire nulla di buono.
Mentre mi allontanavo dalla mensa lanciai una maledizione a Patterson e
alla giornata al maneggio che avevamo condiviso, compreso quel momento
imbarazzante in cui avevo pensato che mi baciasse, che era il vero
motivo per cui ultimamente mi ritrovavo a evitare la sua presenza con
più tenacia del solito, a volte anche in modo inconscio.
Quando mi ero trovata obbligata a parlare con lui, d’altro
canto, le cose non erano andate meglio e tutti, amici e non, si erano
accorti di quanto il mio odio nei suoi confronti fosse, se possibile,
aumentato: gli rispondevo in maniera tagliente e quasi sempre
monosillabica, sbuffavo alle sue battute, anche quelle che in
un’altra situazione mi avrebbero fatto ridere, e trovavo
qualsiasi suo atteggiamento insopportabile.
Sapevo che David se n’era accorto, tanto che una volta aveva
anche tentato di chiedermi spiegazioni, ma io avevo liquidato il tutto
rispondendo che avevo sempre odiato Patterson e dicendo che le sue
erano solo paranoie. Proprio a causa di Dave e del suo occhio lungo,
comunque, avevo deciso di provare a essere meno esplicita nelle mie
manifestazioni d’odio e mi ero ritrovata a cercare di evitare
Matt il più possibile: perciò si spiegavano le
varie fughe che intraprendevo nel momento in cui mi trovavo nelle sue
vicinanze, compresa quella appena avvenuta.
Alla fine andai davvero in bagno e poi mi ritrovai da sola senza sapere
cosa fare. Decisi quindi di andare in giardino: era appena iniziato
ottobre e fuori c’era il sole, a quell’ora potevo
permettermi un po’ di relax all’esterno. Mi tolsi
il giubbino in jeans e lo appoggiai per terra per sedermici sopra,
estrassi dalla tracolla un libro e la mela che cominciai a
sgranocchiare mentre sfogliavo senza troppa attenzione le pagine.
“Ehi.”
Era ovvio che non potevo pretendere di stare in pace per sempre, ma
speravo di avere almeno cinque minuti prima di venire raggiunta da uno
dei miei amici. Alzai gli occhi sulla persona in piedi di fronte a me
e, a causa del sole che batteva proprio alle sue spalle, ci misi
qualche secondo a riconoscerne la figura: Nathan Wilde.
Lo salutai con un sorriso e lui prese posto sull’erba accanto
a me, incoraggiato dall’aria rilassata che avevo assunto
quando avevo capito che si trattava di lui.
“Come va?” mi chiese mentre io appoggiavo il libro
e incrociavo le gambe voltandomi per guardarlo.
“Tutto okay,” risposi, senza perdermi in dettagli.
“Tu? Hai fatto pace con il tuo amichetto?”
Lui scosse la testa, fingendo di non cogliere la mia frecciatina su
Petrovic. “Ci limitiamo a dei rapporti piuttosto freddini
ultimamente.”
Lo sapevo, l’avevo già notato: vedere Nathan Wilde
e Tom Petrovic che si ignoravano in maniera palese non era una cosa che
capitava spesso, tanto che a scuola le ipotesi al riguardo si
sprecavano. C’era chi diceva che avessero litigato
perché erano innamorati della stessa ragazza e chi giurava
che fosse un problema riguardante il football, ma forse io ero uno
delle pochissime persone che sapevano come fossero andate davvero le
cose.
“Mi spiace che abbiate litigato a causa mia,” gli
dissi quindi, spinta da un improvviso senso di colpa che, in
realtà, non aveva motivo di esistere.
Nate sorrise. “Non è colpa tua, è stato
lui ad aver sbagliato per primo. E comunque prima o poi avremmo rotto
comunque, il suo atteggiamento stava iniziando a darmi seriamente sui
nervi.”
“Che atteggiamento?” chiesi, anche se non mi
risultava difficile capire che cosa intendesse.
“Il suo modo di fare con le ragazze, con gli altri della
squadra, in generale con le persone. Petey è convinto che
tutto gli sia dovuto e di poter fare sempre quello che gli pare, senza
curarsi di niente e nessuno. Ha già litigato con diversi
nostri amici per questo, anche se la maggior parte della squadra lo
vede come un semidio e non gli si rivolterebbe mai contro.”
Udito ciò, incuriosita, non riuscii a trattenermi dal fargli
un’ulteriore domanda. “Se la pensavi
così su di lui, perché eri ancora suo
amico?”
Nathan alzò le spalle. “Tom non è male
come compagnia. È viziato ed egocentrico, è vero,
ma è spiritoso e in squadra riesce sempre a tenere alto il
morale. Non era il mio migliore amico, ma mi sono sempre divertito in
sua compagnia. L’ho visto fare diverse scorrettezze ad altre
persone, ma non pensavo potesse essere così meschino anche
nei miei confronti.”
A quel punto ero davvero confusa. “In che senso?”
Lui aggrottò le sopracciglia, tornando a guardarmi come se
fino a quel momento fosse stato quasi sovrappensiero. “In che
senso cosa?”
“Hai detto che è stato meschino nei tuoi
confronti, ma mi pare che la scorrettezza l’abbia fatta
più che altro a me,” spiegai indicandomi con un
pollice. “Non per essere megalomane,” specificai
poi con un sorriso.
“Sì, certo che la scorrettezza l’ha
fatta a te ma… Intendevo prima che… Mi sono
trovato anch’io lì mentre… Beh,
insomma, hai capito, no?”
“In realtà no.”
Nathan sembrava vagamente nel panico. “Non… non
è che avessi previsto di dirtelo, ma… Dio, che
idiota che sono,” sbuffò, passandosi una mano tra
i capelli scuri.
“Posso sapere pure io di cosa stai parlando o devo continuare
a rimanere ignara?”
Lui mi fissò indeciso, prima di distogliere lo sguardo, in
evidente imbarazzo. “Ho litigato con Petey per come si era
comportato con te, ma ero già offeso con lui da
prima.” Fece una pausa. “Da quando ti ha
chiesto di uscire. Con me lì presente.”
Aprii la bocca e la richiusi a vuoto prima di decidermi a parlare.
“Perché?”
Nate mi fissò come se fossi tonta.
“Perché io e te eravamo usciti e… era
rimasto qualcosa in sospeso.”
Non sapevo come rispondere. Non avevo mai pensato che tra noi fosse
rimasto qualcosa in sospeso, eravamo usciti giusto un paio di volte
l’anno precedente, in un periodo in cui mi ero trovata a
frequentare diversi ragazzi, anche se mai in contemporanea. Dopo averlo
baciato mi ero resa conto che non era scattato niente tra di noi,
almeno così credevo, e avevamo smesso di vederci. Ero stata
piuttosto scostante coi ragazzi in quel periodo, anche più
di quanto lo fossi di solito, ma non mi pareva di aver ferito nessuno.
Forse mi sbagliavo.
Wilde notò il mio mutismo e intervenne per togliermi
dall’impiccio. “Non capivo cosa non fosse andato,
io mi ero trovato bene con te. Avrei voluto chiederti un altro
appuntamento, magari organizzare qualcosa di più carino, ma
poco dopo uscivi con Todd e ho lasciato perdere.”
“Mi dispiace, io…”
Lui mi bloccò subito. “Non ti preoccupare. Quello
che intendevo dire è che Petey sapeva tutto e non si
è comunque trattenuto dal provarci con te. Non era niente di
che, ma ci sono rimasto un po’ così.”
Di nuovo mi ritrovai senza parole e di nuovo fu Nate a parlare per
primo.
“Se non dici niente mi preoccupi,”
borbottò, e percepii una nota di inquietudine nella sua voce.
“Scusa, è che… io queste cose non le
noto mai. Sono stata una cretina.”
Lui mi sorrise, rassicurante. “Non ti devi scusare, tu non
hai fatto niente di male.”
Presi aria a pieni polmoni, accorgendomi di avere il battito
leggermente accelerato, per la sorpresa e per l’agitazione.
“Mi dispiace comunque se ho fatto qualcosa che ti ha
ferito.”
Il sorriso di Wilde si fece amaro, mi parve, e poco dopo lui era in
piedi pronto ad andarsene. “Non volevo dirti queste cose.
Lasciamo perdere, va bene? Fa’ come se non ti avessi
raccontato nulla, preferivo quando mi prendevi in giro.”
“Nathan, non…”
“Ci si vede in giro,” mormorò appena
prima di voltarsi per dirigersi verso la scuola.
Sentii un misto di tenerezza e urgenza premermi alla bocca dello
stomaco e, spinta da non so quale istinto primordiale, mi alzai per
raggiungere Nate, che si dirigeva a passi svelti verso
l’ingresso della scuola.
“Ehi, fermati!” esclamai, notando che non riuscivo
a raggiungerlo così facilmente.
Certo, è un
giocatore di football e tu sei una nanetta, Dee,
cosa ti aspettavi? disse la mia voce interiore con una
sfumatura
fastidiosamente sarcastica.
“Nate!” lo chiamai di nuovo, e stavolta si
voltò.
Per lo stupore mi fermai sul posto pure io, ancora distante qualche
passo da lui, e mi ammutolii.
“Senti, non importa. Stavolta sono io che ho parlato troppo,
okay?”
“Cosa vorresti insinuare?” replicai, e nel dirlo mi
scappò un sorriso che, poco dopo, contagiò anche
le labbra di lui.
Alzò le mani, come per giustificarsi.
“Assolutamente niente.”
“Come no. Farò finta di non aver
sentito,” affermai allora.
Dalla sua espressione e dal sorriso che continuava a dipingergli il
volto, capii che aveva compreso cosa intendevo, così mi
buttai.
“Ti va se usciamo uno dei prossimi giorni?” chiesi
tutto d’un fiato.
Lo colsi di sorpresa. “Non devi, io… Non credevo
ti sentissi in dovere di…”
“Non è che devo, mi va. Non ci vedo niente di
male.”
Nate si morse l’interno della guancia, indeciso.
“Penso che si possa fare.”
“Okay,” feci io.
“Okay,” ripeté stupidamente lui.
Ci fermammo, restando in silenzio per qualche secondo. Alla fine,
almeno quella volta, fui io a rompere la situazione di stallo.
“Vado a recuperare la mia roba,” dissi, indicando
la borsa ancora appoggiata in mezzo al cortile.
Lui annuì. “Io devo ancora pranzare, dovrei andare
in mensa. Tu hai già…?”
“Sì.”
“Certo, allora…”
“Ci mettiamo d’accordo nei prossimi giorni, va
bene? Magari per il weekend.”
Nate annuì di nuovo, sorrise e si congedò con un
cenno della mano prima di voltarsi ed entrare nell’edificio.
Rimasi ferma ancora qualche secondo, poi tornai a leggere il libro che
avevo abbandonato per fare quella strana chiacchierata con Wilde.
Trovavo assurdo ciò che era appena successo e, come al
solito, ci rimuginai parecchio su, ma una cosa molto più
assurda mi accadde poco dopo. Quando mancavano una ventina di minuti
all’inizio delle lezioni, decisi di alzarmi e raggiungere
l’aula di Letteratura per vedere se qualcuno dei miei amici
era già lì; una volta in corridoio vidi, in
lontananza, la figura di Matt Patterson che camminava nella mia
direzione. Senza pensarci due volte mi infilai nella prima porta che
trovai alla mia sinistra, quella dell’aula “delle
punizioni”, dove non c’era quasi mai nessuno. Ero
sicura che Patterson non mi avesse visto e che avesse tirato dritto per
la sua strada, perciò ebbi un sussulto ancora più
grosso nel momento in cui, pochi secondi dopo, la porta si
aprì ed entrò proprio lui. Dallo spavento mi
cadde per terra la borsa che stavo appoggiando su di un banco in quel
preciso istante.
“Nervosetta?” mi domandò infatti Matt
con un tono irriverente nella voce.
Raccolsi la borsa e tentai di fuggire. “No, ma devo aver
sbagliato aula, mi sa. Avrei il corso supplementare di Letteratura
adesso, credo che dovrei andare.”
Patterson fece un passo di lato per posizionarsi esattamente tra me e
la porta, lanciandomi al contempo un’occhiata eloquente.
“Manca almeno un quarto d’ora all’inizio
della lezione.”
“Volevo prendere posto,” biascicai tentando
un’ultima scusa.
“È un corso facoltativo, non credo ci sia il
pienone.”
“Ma Audrey mi ha chiesto se potevo…”
Lui mi interruppe con secchezza. “Gray, è
ridicolo. Quanto vuoi andare avanti?”
Non mi aspettavo che andasse dritto al punto, non era da lui, ma
indietreggiare in quel momento avrebbe significato dargliela vinta e
non ero pronta a farlo.
Tentennai solo per un secondo. “A fare cosa?”
domandai infine, con la mia solita faccia tosta.
Matt non si lasciò ingannare. “Non è
mia abitudine chiedere spiegazioni e normalmente non ti avrei teso
un’imboscata in un’aula vuota,” ammise,
senza distogliere neanche per un attimo gli occhi dai miei.
“Allora lasciami in pace,” borbottai, la voce
già meno sicura di prima.
Lui mi ignorò. “Ma mi stai trattando di merda da
quando…” Si interruppe, forse indeciso su come
continuare la frase senza farla diventare compromettente. “Da
quando siamo stati al maneggio,” decise infine. “E
voglio sapere se è per qualcosa che ho fatto.”
O per qualcosa che non hai fatto, lo
corresse in automatico il mio
cervello.
Mi maledissi mentalmente, ma mi impedii con veemenza di pensare al vero
significato che avevano quelle parole. Invece, cercai di mettere su
un’espressione neutra per rispondere a Patterson, che
continuava a guardarmi in attesa.
“Non è per qualcosa che hai fatto, mi stavi sulle
palle già da prima,” dissi, con troppa acredine
per risultare del tutto credibile.
“Mi sembrava avessimo fatto pace da tempo.”
Sbuffai. “Un po’ meno di così,
principino.”
Lui sorrise saputo e mi si avvicinò di un paio di passi,
come per mettermi alla prova. “Quindi non è
successo niente di strano tra di noi?”
“Quando?”
“Al maneggio.”
“No, niente.”
“Bene.”
“Perché lo chiedi?” domandai fingendo
noncuranza, mentre il cuore mi martellava insistentemente in gola.
Fece spallucce e si avvicinò di un altro passo,
costringendomi ad alzare ancora il viso per continuare a guardarlo
negli occhi.
“Così, per essere sicuro,” rispose con
il mio stesso finto disinteresse.
Era diventata una gara a chi avrebbe ceduto prima e sapevo di non avere
dei nervi perfettamente saldi come quelli di lui. Così, dal
nulla, sparai la prima cosa che mi passò per la testa, o
almeno la cosa che pensavo potesse allontanarlo da me in quel momento e
togliergli quell’atteggiamento sicuro e spavaldo che mi
innervosiva da morire.
“Sto uscendo con Nate. Nathan Wilde.”
Matt mi guardò inarcando le sopracciglia, sorpreso, ma non
si spostò di un millimetro. “Okay.”
“Da oggi. Cioè, ci esco stasera per la prima
volta. Anche se tecnicamente non è la prima volta, ci ero
già uscita l’anno scorso, in
realtà,” specificai, inventandomi un paio di
dettagli solo per risultare più credibile.
“Non ti ho chiesto niente, Gray.”
Si era allontanato di un paio di passi ed il suo tono era diventato
improvvisamente freddo: ero riuscita nel mio intento, anche se evitai
di analizzare il modo in cui l’avevo fatto, sennò
avrei dovuto pormi troppe domande scomode.
Mi sistemai la tracolla sulla spalla e mi schiarii la voce prima di
parlare di nuovo. “Posso andare ora?”
Matt si spostò di lato senza dire nulla e io lo superai, per
niente alleggerita, dirigendomi vero la porta dell’aula. Una
volta fuori tirai un sospiro di sollievo e continuai a camminare
finché, in corridoio, non notai Nathan che parlava con un
suo amico. Poiché non volevo ancora fermarmi, ma avevo anche
bisogno di scambiare due parole con lui, lo presi per una manica della
felpa e lo costrinsi a seguirmi in modo piuttosto rude.
“Ciao Robbie, te lo rubo un attimo,” mi premurai di
avvisare l’amico, che ghignò sotto i baffi e fece
un cenno di saluto con la mano.
“Mi accompagni in aula?” chiesi a Nate, lasciando
andare il suo braccio; continuai senza aspettare che mi rispondesse.
“Ti va bene se ci vediamo stasera? Sono libera.”
“Non avevi detto di aspettare il weekend?”
domandò lui confuso.
“Sì, ma ho cambiato idea.”
Nel giro di cinque minuti,
aggiunsi mentalmente, pensando che mi
avrebbe preso, a ragione, per pazza.
Nathan sembrava confuso, ma non mi contraddisse. “Va
bene,” decise infine, ancora poco convinto.
Eravamo giunti davanti alla porta dell’aula dove avrei dovuto
seguire la mia lezione di Letteratura, perciò mi fermai e
lui fece lo stesso, piazzandosi di fronte a me.
“Ti ricordi dove abito?” mi informai, nel tentativo
di riguadagnare una parvenza di sanità mentale ai suoi occhi.
Nate annuì, poi mi sorrise e piegò leggermente la
testa di lato, come se stesse pensando a qualcosa. “Andiamo
al cinema, ti va?”
Sorrisi di rimando anch’io, finalmente rilassata dalla sua
espressione tranquillizzante. “Basta che non mi porti a
vedere uno di quei film romanticoni e strappalacrime solo per fare
colpo su di me, non funzionerebbe.”
Lui ridacchiò, infine si avvicinò e mi diede un
bacio sulla guancia per salutarmi. “Come vuoi,”
mormorò prima di allontanarsi. “Passo a prenderti
alle sette e mezza. A stasera.”
Lo guardai allontanarsi e sospirai, infilandomi nell’aula
ancora semi vuota per paura di fare altri brutti incontri in corridoio.
Quella sera, mentre mi preparavo per uscire con Nathan, ero
più agitata del previsto. Forse era dovuto al fatto che il
mio ultimo vero appuntamento era stato quello disastroso con Petrovic,
o forse era perché, anche se ci ero già uscita,
Wilde mi piaceva davvero. Sembrava cresciuto dall’anno
precedente: fisicamente, certo, era più alto e
più carino, aveva di sicuro fatto palestra in quei mesi,
anche se continuava a sembrarmi troppo smilzo per giocare a football.
Ma, soprattutto, lo trovavo cresciuto in quanto a maturità,
ed era quello ciò che mi interessava davvero: già
il fatto di aver capito che Petey fosse un mentecatto superficiale e
borioso era una cosa che di per sé gli faceva onore. E poi
quando mi aveva confessato – circa – di avere una
mezza cotta per me era stato estremamente dolce e mi aveva sciolto
qualcosa dentro che non sentivo da molto tempo, per la precisione da
quando avevo iniziato a lasciarmi andare con Steve Teller.
Indossai una gonna in jeans e un maglioncino color lampone, mi truccai
e valutai di mettere le zeppe per diminuire il divario di altezza che
c’era tra me e Nate, ma alla fine optai per le sneakers nere:
meglio evitare troppi colori o accessori bizzarri, il ragazzo
già credeva che fossi mezza matta, e aveva le sue ragioni.
Mi guardai allo specchio per cinque minuti buoni prima di muovermi,
pensando che era dal prom che non cambiavo colore di capelli, che
quindi erano ancora neri e lunghi fin sotto le spalle, e che era giunto
il momento di farlo. Quasi mi innervosii per non essere andata dalla
parrucchiera la settimana prima, perché in realtà
era da qualche tempo che mi sentivo sulle spine, quasi agitata, e di
solito trasformavo la mia irrequietezza in un taglio e un colore nuovi.
Scossi la testa e mi smossi i capelli con le mani per movimentare le
onde che avevo creato con la piastra, poi presi la borsa, mi infilai la
giacca in pelle e uscii di casa per aspettare Nate seduta sui gradini
del portico.
“Pulcina, tutto bene?”
Mi girai e vidi la testa di mio padre spuntare dalla porta di casa, sul
volto un’espressione leggermente preoccupata.
“Sì, papà, perché?”
Avevo avvisato mia madre del fatto che sarei uscita, dando a lei il
compito di istruire papà. Per quanto si fosse pian piano
abituato e avesse dovuto capire che ormai ero cresciuta e che,
sì, frequentavo dei ragazzi, mio padre rimaneva sempre
abbastanza protettivo nei miei confronti.
“Che fai qui fuori a quest’ora?” chiese
infatti, facendosi più sospettoso.
“Ho un appuntamento, ho già detto tutto a
mamma.”
“Beh, cos’è questa storia?
Perché io non so niente? Adesso non mi racconti
più le cose? È un ragazzo nuovo o lo conosciamo
già?”
Sospirai, per niente stupita, e mi alzai per spingere mio padre in casa
e cercare di chiudergli la porta in faccia.
“Ci vediamo dopo, papi. Non faccio tardi. Ciao.”
Lui cercò di protestare, ma venne richiamato
all’ordine da mia madre che arrivò dal salotto in
quel momento e lo trascinò con sé in cucina.
Tornai sui miei passi, scesi i gradini della veranda e mi misi ad
aspettare in piedi sotto le scale, immaginando che Nate sarebbe
arrivato da un momento all’altro.
Avevo ragione: dopo un paio di minuti vidi un’auto blu in
fondo alla strada che rallentava, indecisa su dove fermarsi. Alzai un
braccio per farmi notare e la macchina mi giunse di fronte, accostando
sul ciglio della strada. Salii prima che Nate potesse uscire, convinta
che mio padre ci stesse osservando dalla finestra per carpire qualche
informazione sul mio appuntamento.
“Meno male che ti ricordavi dove abitavo,” esordii,
lanciando un sorriso a Nate, che rispose con una piccola smorfia.
“Mi pareva di ricordarmelo,” borbottò, e
sembrava essere in imbarazzo, cosa che me lo fece piacere ancora un
po’ di più.
“Non dovevamo andare al cinema?” gli domandai
quindi, notando che non stava prendendo la strada per il centro,
bensì quella per uscire da Winthrop.
“Sì, ma al Venice davano solo PS. I love you. A
occhio, a giudicare dal titolo, sembrava una melensaggine romantica.
Per trovare un multisala dovremmo andare fino a Boston, ma temo che
faremmo troppo tardi, quindi andiamo a Beachmont.”
“A fare cosa?”
“Al cinema, no?”
Mi resi conto che si era dovuto impegnare davvero per organizzare
quella piccola gita fuori porta, solo per non risultare banale nella
scelta del film.
“Non serviva andare fino a Beachmont, mi accontentavo di
qualsiasi cosa,” pigolai, sentendomi quasi in colpa.
“Tranquilla, lo faccio anche perché mi interessa
il film che andremo a vedere.”
“Qual è?”
“Lo scoprirai,” rispose, criptico.
“Basta che non sia Transformers,”
dissi, ricordando di
aver visto il trailer in televisione negli ultimi giorni.
Nate mise su una faccia allarmata. “Mi hai beccato.”
“Oddio, davvero? No, perché l’ho detto
così per dire, non è che…
Cioè, alla fine a me piace andare al cinema, guarderei
qualsiasi cosa, poi Transformers
avrà dei bellissimi effetti
speciali, vederlo al cinema dev’essere bello, ci sono un
milione di altri film che invece…” balbettai in
preda al panico, prima di accorgermi che Nathan al mio fianco stava
ridacchiando di gusto. “Mi stavi prendendo in giro?”
“Solo un poco.”
“Sei un maledetto,” bofonchiai, incrociando le
braccia al petto.
“Mi farò perdonare. Zodiac. A Beachmont
fanno
Zodiac.”
“Mmmh,” mugolai cogitabonda, prima di saltare sul
sedile emozionata, capendo di che film stesse parlando. “Oh!
È quello con quel figo fotonico di Jake
Gyllenhaal?”
“Esatto.”
“Mio dio, io lo amo alla follia! In Brokeback Mountain,
poi,
con Heath Ledger… Quei due sono uno più
meraviglioso dell’altro. Ma poi ho visto quasi tutti i suoi
film, me ne mancheranno uno o due che non sono riuscita a trovare in
videoteca e…”
“Sapevo che era un errore.”
“Cosa?” domandai, interrotta nel mio delirio da
innamoramento platonico.
“Portarti a vedere un film con Gullenhal.”
“Gyllenhaal.”
Nate scosse la testa, ridacchiando. “Sei l’unica al
mondo che sa pronunciarlo.”
“Diventerà mio marito, è ovvio che so
pronunciarlo.”
Continuammo a scherzare e prenderci in giro a vicenda per tutto il
resto del viaggio fino al cinema, dove Nathan insistette per pagarmi
biglietto e popcorn. Fu una serata talmente piacevole che mi dimenticai
di essere già uscita in passato con lui, tanto sembrava una
persona diversa. Dopo il film facemmo una passeggiata sul lungomare di
Beachmont e prendemmo un gelato, sempre continuando a chiacchierare con
leggerezza di qualsiasi cosa.
Nate non era il tipico belloccio, ma mi resi conto che comunque stava
cominciando a piacermi, anche fisicamente. Era alto, con occhi e
capelli scuri, aveva un fisico asciutto che a prima vista non sembrava
troppo atletico, il suo viso era un po’ affilato e, quando lo
prendevo in giro, faceva un sorriso timido e distoglieva lo sguardo in
un modo che trovavo adorabile. Intuii di piacergli a mia volta dal modo
in cui mi guardava, dal fatto che durante il film ogni tanto si girava
per sbirciare il mio viso, o anche le mie gambe, per la
verità. Capii di piacergli davvero quando vidi che non aveva
quasi paura di avvicinarsi troppo a me, come se temesse di essere
respinto.
Arrivammo a casa mia che ancora non aveva avuto il coraggio di provare
un approccio diretto, anche se ci eravamo già baciati
l’anno precedente. Perciò, quando
accostò la macchina al marciapiedi e alzò su di
me uno sguardo esitante, decisi di farmi avanti io, prima di perdere
tutta l’audacia che sentivo in quel momento. Mi avvicinai
lentamente a lui e lasciai che le mie labbra toccassero le sue, per poi
approfondire il bacio e sporgermi di più verso di lui, per
quanto l’abitacolo dell’auto me lo permettesse. Il
cuore mi martellava forte in gola quando mi allontanai di poco e gli
sorrisi, notando la stessa espressione stupefatta e felice sul volto di
Nate, che si riabbassò per darmi un altro veloce bacio sulle
labbra prima di scostarsi del tutto.
“È meglio se vai,” disse quindi, senza
smettere di sorridere.
Rimasi stupita dalle sue parole, mi pareva stesse andando tutto
più che bene, e boccheggiai appena senza sapere come
replicare, un po’ ferita. Nathan capì che avevo
frainteso e mi indicò la casa alle mie spalle con il mento,
spiegandosi meglio.
“Si è appena accesa una luce sul
portico.”
Risi. “Ah, cavolo, sarà papà.
Sì, vuol dire che devo andare.”
Lui tornò verso di me e mi lasciò un ultimo bacio
sulla guancia. “A domani.”
“Grazie per la bella serata.” Erano parole che mi
uscivano quasi in automatico, ma quella volta le intendevo davvero.
“Buonanotte.”
“Notte Delia.”
La mattina seguente entrai a scuola con il sorriso ancora stampato
sulle labbra, sorriso che però si gelò dopo
appena pochi passi in corridoio, quando mi si parò davanti
agli occhi una scena inaspettata e che trovai, in tutta
sincerità, anche un po’ deprimente. Passando
davanti all’armadietto di Matt, infatti, non potei fare a
meno di voltare gli occhi nella direzione in cui immaginavo ci sarebbe
stato lui, indecisa se avrei voluto vederlo o meno. Lui, in barba alla
mia indecisione, era ovviamente lì, ma non era solo.
Appoggiata a un armadietto lì di fianco, Hillary Kane
sbatteva le lunghe ciglia e rideva compiaciuta a una battuta che
probabilmente lui aveva appena fatto, ma stavolta Patterson non
sembrava infastidito dalla sua presenza, né aveva
un’aria indifferente come da sua abitudine. Al contrario, se
ne stava appiccicato a lei, tanto vicino che all’inizio
faticai a credere che fosse davvero lui, che di solito stava per conto
proprio. Ma non c’erano dubbi, era Matt Patterson quello che
ora flirtava così apertamente con la Kane, che si lasciava
spostare da lei un ciuffo di capelli dalla fronte, che le si avvicinava
per dirle qualcosa all’orecchio, che le sorrideva con
quell’angolo della bocca piegato
all’insù, divertito e un po’ malizioso.
Poi Matt voltò appena la testa e per un secondo i suoi occhi
incrociarono i miei. Mi vide, non si scompose, tornò a
girarsi verso la Kane – ma
non la odiava? – e si
abbassò per lasciarle un bacio sulla guancia prima di
sistemarsi lo zaino sulla spalla e incamminarsi dandomi la schiena.
Solo a quel punto mi accorsi di essermi fermata in mezzo al corridoio
e, ripensandoci, mi resi conto che Patterson non mi aveva nemmeno
rivolto un saluto, cosa che un anno prima sarebbe stata normale, ma che
non era più accaduta negli ultimi mesi.
Era normale che avessi percepito quella specie di stretta allo stomaco
nel vedere la scena? E che ci rimanessi male perché Matt non
mi aveva salutato? Il mio inconscio decise che era meglio non farsi
certe domande, decise che la stretta allo stomaco non era altro che
nausea, decise che non me ne importava nulla.
Anche ora che sono passati anni da quel giorno, faccio ancora fatica ad
accettare la verità. So che la mia reazione
dell’epoca diceva più cose di quelle che ero (e
sono) disposta ad ammettere, ma ho passato tanti di quegli anni nella
convinzione più totale di aver sempre odiato Patterson con
tutto il cuore, che rendermi conto ora di una cosa di tale portata non
è facile.
Avevo una cotta per Matt.
È difficile persino da pensare, figurarsi da mettere nero su
bianco. A diciassette anni avevo una cotta per Matt, sfociata
probabilmente dal fatto che in quel periodo ci eravamo avvicinati
parecchio. Era di sicuro una cosa immatura e irrazionale e di poca
importanza, tanto che è svanita subito. Non ho
più nessun tipo di cotta, di sbandata o di debolezza per lui
da diversi anni, ne sono convinta. Lo so. Sto solo cercando di
dimostrarlo.
Boom! Lo so, non è una gran rivelazione, noi lo sapevamo
già da un po', ma per la povera Delia è uno choc,
cercate di capire. ^^ Come al solito vorrei evitare di perdermi in
chiacchiere, ma siccome (anche) stavolta il risultato finale del
capitolo non mi piace per niente, vorrei dare due spiegazioni.
Mi dispiace che dobbiate sorbirvi dei pezzi, come questo, che sono di
passaggio, ma, come credo di aver già specificato in
precedenza, non so scrivere in altro modo se non così. Ho
bisogno di dare spiegazioni, lavorare sulla coerenza dei comportamenti,
e in particolare in una storia come CA, che si svolge
in un periodo di
anni, in cui c'è una crescita dei personaggi e alcuni
inevitabili salti temporali, non riesco a fare a meno di scrivere anche
queste parti. Se il capitolo vi ha fatto schifo, oltre che pregarvi di
farmelo sapere (recensioni, please, mi servono davvero tento tanto!),
forse
vi può consolare il fatto che nel prossimo si
andrà un po' più svelti.
Raccontare questi momenti mi serviva appunto ad arrivare al finale,
dove la Delia del presente (a cui sono successe nel frattempo delle
cose
che vedremo anche più avanti) capisce che la Delia del
passato aveva (già)
una cotta per quel piccolo scemo di
Matt. Il perché credo sia chiaro, come credo sia chiaro il
fatto che Delia, all'epoca, ha "ripiegato" su Nate pur di evitare di
affrontare la cosa (cliché, lo so, avevo detto che la storia
ne sarebbe stata piena). Nate, nonostante tutto, avrà
comunque un ruolo importante nella sua vita e nella sua crescita
personale, ma mi fermo qui con gli spoiler.
A proposito del dialogo in giardino con Nate, invece, volevo scusarmi
se suona forzato e un po' troppo "telefonato", ma per una volta avevo
bisogno di far dare delle spiegazioni ai personaggi senza troppi giri
di parole, senza che ogni atteggiamento risultasse criptico.
C'è già Matt che mi dà del filo da
torcere in quel senso, maledetto lui. Voi che ne pensate? Avete trovato
alcuni dialoghi troppo inverosimili? Quello con Matt? Con Nate?
Ultime precisazioni sul capitolo prima di salutarci.
- I film nominati durante il capitolo sono usciti tutti nel 2007.
Finora non ho dato una collocazione temporale precisa alla narrazione,
ma può benissimo essere, per ora, quel periodo. In
realtà mi piaceva l'idea di inserire Zodiac
perché è un film che ho nominato anche in Of
all
the people in the world, la storia da cui prende
il via questa, tutto
qui. Ah, essendo il 2007, Heath Ledger, pace all'anima sua, non era
ancora morto, quindi non ne ho fatto menzione.
- Anche Melanie Frayer, la ragazza di cui parlano nella scena in mensa,
era già nominata in Of
all, per la precisione nelle
primissime righe, e la nomina proprio Dee, sconvolta del fatto che (nel
futuro rispetto a questa storia) esca con George Peterson, la sua cotta
del liceo.
- Hillary Kane, invece, è la ragazza che aveva
già chiesto a Matt di andare al ballo con lei l'anno
precedente. Faccio passare un sacco di tempo tra un capitolo e l'altro,
quindi trovo ovvio che qualcuno possa non ricordare queste cose!
- Il titolo del capitolo l'ho copiato da una frase di Men in Black, mi
pare. In realtà cercavo qualcosa che avesse quel
significato, ho trovato quella citazione e, anche se un po' lunga, mi
pareva adatta. Letteralmente: Non
fare domande di cui non vuoi sapere
la risposta. Delia docet.
Credo di aver finalmente detto tutto! Grazie mille dell'attenzione e
dell'amore con cui seguite la storia, soprattutto a Evelyn 98 che ha
recensito lo scorso capitolo e i precedenti: <3
Aspetto con ansia i vostri commenti. Un bacione grande!
|
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Capitolo 12 *** Love and friendship and other things ***
12. Love and friendship and other
things
Pochi giorni dopo il mio primo appuntamento con Nate seguii
l’impulso che sentivo solleticarmi le mani da diverso tempo e
tornai dalla parrucchiera per cambiare di nuovo i miei capelli. Li
spuntai e basta, ma la tentazione di cambiare colore, dopo aver tenuto
il nero per quasi quattro mesi, era troppo forte: scartai a malincuore
alcune tonalità troppo audaci per amore del fatto che avevo
appena cominciato a uscire con un ragazzo nuovo e non volevo
spaventarlo e, consigliata da Marisol, puntai su un castano ramato
molto naturale e carino.
Inaspettatamente non cambiai più colore per tutto
l’anno scolastico, né pensai di farlo.
D’altronde per me i mesi successivi furono piuttosto strani e
mi sembrarono scorrere a velocità doppia rispetto al solito,
soprattutto a causa di qualcosa che mi colse di sorpresa e che scosse
non poco la mia visione del mondo: Nate.
So che non c’è modo di spiegare una cosa del
genere senza risultare zuccherosa e banale, ma alla fine, quasi senza
rendermene conto, mi innamorai davvero di lui, come non mi era mai
successo prima e come non mi è più successo dopo,
finora. M’innamorai di Nate come ci si innamora a diciassette
anni, in modo imprevisto, totale e forse pure un po’ ingenuo.
So anche di aver appena detto che all’epoca avevo una cotta
per Matt, ed è vero, non posso negarlo, ma in quel periodo i
nostri rapporti si freddarono parecchio e raggiunsero i minimi storici:
ci salutavamo quasi sempre in corridoio e uscivamo ancora con lo stesso
gruppo di amici, ma evitavamo con tenacia di parlare l’uno
con l’altra, a meno che non fosse strettamente necessario, e
persino le battutine sarcastiche che eravamo soliti rivolgerci
sparirono quasi del tutto.
Matt mi rese le cose più semplici uscendo per qualche
settimana con Hillary Kane, particolare che me lo rese ancora
più odioso, soprattutto dal momento che lei non perdeva
occasione per esibirsi in corridoio con strusciamenti, occhioni dolci
e, quando lui glielo permetteva, sbaciucchiamenti vari. Alla fine si
stufò anche lui, era già stupefacente il fatto
che avesse retto così a lungo quella pantomima, e
scaricò la Kane, che per una settimana buona
camminò per i corridoi della scuola come se fosse
un’attrice hollywoodiana in lutto, con tanto di occhiali da
sole giganti a coprirle il viso. Qualche giorno dopo già
usciva con Thomas Petrovic, nientepopodimeno, e Patterson era tornato
agli occhi di tutti il solito ragazzo solitario, attraente e misterioso.
Solo che non era affatto solitario, quella era una definizione stupida
e tipicamente adolescenziale che gli era stata appiccicata addosso e
che continuava a precederlo nonostante l’evidenza: Matt non
era quasi mai solo, aveva diversi amici a scuola e girava sempre
assieme a Josh e David. Non aveva una ragazza diversa ogni weekend,
quindi neanche l’etichetta di playboy, guardando alla
realtà dei fatti, era meritata. Durante il nostro anno da
Senior uscì, oltre che con la Kane, con un altro paio di
ragazze, con nessuna di loro ebbe storie troppo serie, ma nemmeno si
comportò da stronzo per il gusto di farlo.
Io, da parte mia, guardavo a tutto ciò con moderato
interesse, continuando nel frattempo a vivere la mia vita che, appunto,
in quel periodo era vivace, allegra e movimentata. Patterson riempiva
il bordo esterno della mia visuale, perché se da un lato,
frequentando la sua stessa compagnia, ero obbligata ad averlo sempre
tra i piedi, dall’altro non riuscivo del tutto a
disinteressarmi a ciò che gli accadeva, e avevo il sospetto
che per lui fosse lo stesso con me.
Così, mentre tenevo le distanze da Matt e mi barcamenavo tra
lezioni, compiti e feste del mio ultimo anno di liceo, la cotta
involontaria che mi ero presa per lui parve dissolversi in favore di
ciò che cominciai a provare per Nate, che era invece un
sentimento limpido, luminoso e, per me, totalmente nuovo. Nate stesso
era limpido, era l’esatto opposto del tipo di ragazzo per cui
sbandavo di solito, era solare e affettuoso, era un po’
timido all’inizio, ma quando ti permetteva di avvicinarti a
lui ti donava tutto ciò che aveva, senza remore. Era
spiritoso e autoironico; parlava chiaramente, senza troppi giri di
parole, anche dei propri sentimenti; riusciva a farsi voler bene da
tutti in poco tempo.
Non era perfetto, tutt’altro, e nemmeno la nostra relazione
lo era. Per settimane e settimane mi tenne nascosta ai suoi amici:
parlavamo a scuola e non aveva problemi a farsi vedere con me in
pubblico, ma fingeva che tra noi non ci fosse nulla di che e sembrava
non volermi presentare a nessuna delle persone della sua compagnia.
All’inizio lasciai correre, non mi importava più
di tanto, ma poi, man mano che le cose si fecero più serie,
cominciai a trovare ridicola quella messinscena e glielo feci notare.
Col tempo e grazie alla mia insistenza la situazione
migliorò, ma rimase sempre una patina di freddezza tra me e
i suoi amici, tanto che, anche se Nate usciva sempre con la mia
compagnia, raramente accadeva che io passassi del tempo con la sua.
Questo però era solo un neo nel rapporto tra noi due, che
restava stupendo, fatto di batticuore e parole dolci sussurrate
quand’eravamo soli, di weekend fuori porta di nascosto dai
nostri genitori e mani intrecciate per strada. Ogni tanto
c’era anche qualche litigata, certo, un paio di volte ci
urlammo contro e io corsi a casa di mia nonna arrabbiata col mondo, o
chiamai Audrey con la voce spezzata. Ma Nate era una persona che, per
il proprio carattere, evitava gli scontri il più possibile,
perciò anche quando il mio umore non era alle stelle trovava
sempre il modo di stupirmi facendomi tornare il sorriso. Con lui mi
sentivo al sicuro, quasi sempre.
A dicembre, quando festeggiai il mio diciottesimo compleanno, Nate mi
organizzò una festa a sorpresa a casa sua, mettendosi
d’accordo coi miei amici. Quella sera mi disse “ti
amo” per la prima volta, e il mio cuore esplose in migliaia
di coriandoli colorati.
Ero così su di giri che quando arrivò Patterson e
mi si avvicinò per farmi gli auguri lo abbracciai di
slancio, come avevo abbracciato quasi chiunque quella sera;
durò solo un paio di secondi, ma lo sentii irrigidirsi
appena contro il mio corpo prima di rendermi conto di ciò
che stavo facendo e allontanarmi da lui. Matt, prendendomi alla
sprovvista, mi trattenne per un polso, si abbassò su di me e
mi posò un bacio sulla guancia.
“Buon compleanno, novellina,” mi
sussurrò, prima di scostarsi e guardarsi in giro con un
mezzo sorriso stampato in faccia. “Bella festa,”
aggiunse poi, quasi distratto.
Mi guardai intorno anch’io: non ero sicura di conoscere tutti
i presenti e, soprattutto, non ero per niente sicura che i presenti
sapessero di essere lì per il mio compleanno, dal momento
che Matt era una delle poche persone che erano venute a farmi gli
auguri.
Lo guardai di nuovo e alzai le spalle. “Mi piacciono le
feste,” risposi stupidamente.
Lui sorrise come a dire “lo so” e io mi sentii
improvvisamente a disagio. Spostai di nuovo gli occhi nei dintorni
finché non intravidi Nate che mi faceva un cenno con la
mano, così mi congedai da Matt, e quella fu una delle
pochissime conversazioni amichevoli che avemmo in quei mesi: un
abbraccio dato per sbaglio e tre battute sì e no.
Durante le vacanze invernali Nate mi sorprese di nuovo portandomi nella
casa in montagna dei suoi genitori. Fu solo un weekend lungo, ma fu
lì che cominciai per la prima volta a pensare che potesse
esserci un futuro per noi. Nate mi portava la colazione a letto e io
gli preparavo la cena, durante il giorno e la sera decidevamo insieme
che cosa fare o che film guardare, e la notte, prima di dormire
definitivamente, mi lasciava un bacio sui capelli.
A letto avevamo un’alchimia pazzesca e raramente riuscivamo a
passare un pomeriggio assieme senza finire spalmati l’uno
sull’altra, ovunque ci trovassimo.
Eravamo giovanissimi, innamorati e assolutamente privi di una visione
realistica del futuro. La bolla d’amore ingenuo e luminoso in
cui vivevamo sembrava indistruttibile, ma era pur sempre una bolla e,
come sempre in questi casi, a un certo punto esplose, facendo non pochi
danni.
Nathan era bravo a scuola. Studiava molto e sembrava concentrato nel
raggiungere l’obiettivo che si era prefissato fin
dall’inizio del liceo, ovvero l’essere ammesso in
una università prestigiosa, dove poter continuare anche a
giocare a football.
Quando ci ritrovammo assieme a compilare le domande di ammissione per i
vari college mi accorsi delle nostre differenti prospettive: mentre lui
faceva richiesta per tutte le università migliori, senza
curarsi della distanza da Winthrop, io avevo deciso di rimanere a
Boston, perché non me la sentivo proprio di trasferirmi di
nuovo dall’altra parte del paese. Non capivo dove fosse il
problema: nell’area in cui vivevamo era pieno di ottimi
college e di corsi di studio rinomati, quindi evitavo di pensare a
questa divergenza che si stava creano tra me e Nate. Perciò
ne parlammo pochissimo e io non mi accorsi che era una questione
più grande di quello che sembrava.
Quando, verso metà aprile, Nathan si decise a parlarmene,
ormai era troppo tardi per pensare a una soluzione. Io ero stata
accettata alla Northeastern University, a Boston appunto, città
in cui avrebbe studiato la maggior parte dei miei amici e dove anche
Nate aveva fatto diverse domande di iscrizione. Ma lui, alla fine,
aveva altri programmi.
“Phoenix?” domandai, le sopracciglia che mi
toccavano quasi l’attaccatura dei capelli per lo stupore.
Nathan annuì, seduto a gambe incrociate sul proprio letto,
lo sguardo sul lenzuolo ancora mezzo sfatto dalla mattina. Ero andata a
casa sua per una seduta pomeridiana di studio e coccole, e invece mi
ritrovavo a dover affrontare una delle discussioni più
importanti della nostra relazione.
“Non stai parlando della Phoenix in Arizona, vero?”
“Sì, quella.”
Mi lasciai cadere sulla sedia della sua scrivania, stupita.
“Perché non… Quando hai
fatto… Insomma, perché?” balbettai.
“È un’ottima
università.”
“Hai fatto richiesta per università migliori di
quella solo in Massachusetts. Per non parlare di tutti gli altri stati
che non sono… non sono dall’altra parte del
paese.”
“Nessuna ha il programma sportivo della Phoenix University,
nel basket e nel football, per cui ho la borsa di studio.”
“Non avevi mai parlato di andare così lontano, non
riesco a capire come sia possibile!”
Nate sospirò e alzò su di me gli occhi, ma solo
per qualche secondo. “Esatto, non capisci, Delia. Non
è una decisione che ho preso con leggerezza.”
Sentii un il peso che avevo sul petto diventare ancora più
insostenibile. “Decisione? Hai già deciso
quindi?”
“Io e mio papà abbiamo valutato tutto,
e…”
“Bene, perfetto. Se hai valutato con tuo papà,
figurati,” sbottai, seriamente infastidita. Suo padre mi
aveva sempre mal sopportato, anche se non lo dava a vedere, e pensavo
temesse che bloccassi Nate e gli impedissi di fare le scelte migliori
per il suo futuro. Alla fine, a quanto pareva, le sue paranoie si erano
rivelate infondate.
“Sai quanto ci tengo, quanto ci tiene anche lui!”
rispose Nathan. “Ho lavorato sodo per poter scegliere
l’università che volevo, possibile che non riesci
a metterti nei miei panni?”
“Io ci provo, Nate, ci provo davvero. Ma per quanto mi sforzi
non capisco perché non me ne hai parlato prima, avrei potuto
valutare se…”
Lui mi interruppe, secco. “Hai sempre detto di voler fare il
college a Boston o nei dintorni, non volevo che le mie scelte ti
condizionassero.”
Misi il broncio, coi miei soliti modi da bambina viziata e Nate
alzò gli occhi al cielo, preoccupato per qualcosa che non
potevo ancora capire.
“Dai, non fare così,”
borbottò. “Non ti ho detto ancora tutto, Dee. Se
sei già arrabbiata adesso, immagino quanto bene prenderai il
resto.”
Sbiancai. “Il resto?”
Lui sospirò. “Seguirò… Ci
sono dei pre-corsi per studenti meritevoli, a cui sono stato accettato.
I miei crediti sono sufficienti anche senza finire gli esami, e
contando la borsa di studio per lo sport posso…”
“Cosa vuol dire dei pre-corsi? Senza… senza finire
gli esami?”
“Iniziano tra un mese e durano qualche settimana,
dopodiché mi sono iscritto a un camping estivo di
football.”
Aveva parlato tutto d’un fiato, come per liberarsi di un
peso, così io ci misi un paio di secondi a capire
ciò che aveva appena detto. Quando compresi, rimasi
letteralmente a bocca aperta.
“Andrai via prima che finisca la scuola?”
Lui annuì in silenzio.
“Puoi farlo?”
Fece di nuovo un cenno con la testa. “Devo sistemare un paio
di cose burocratiche, ma sì, posso.”
A quel punto mi alzai senza dire una parola, decisa ad andarmene da
lì.
“Delia…” tentò di fermarmi
senza troppa convinzione.
“Lasciami andare,” mormorai. “Davvero,
è meglio così. Sono così incazzata che
se parlassi adesso direi cose di cui potrei pentirmi. Non mi hai mai
vista così, Nate, dico sul serio. Ci sentiamo.”
Lui seguì il mio consiglio e mi guardò uscire
dalla stanza con aria preoccupata.
Un paio di giorni dopo io e Nate ci eravamo già
riappacificati, ma il peso sul mio stomaco restava consistente. Non
avevamo ancora davvero parlato del futuro, di quello che intendevamo
fare, ed a quel punto nemmeno io, per la verità, ero sicura
di voler intraprendere una relazione a distanza, tuttavia ero troppo
legata a lui per decidere diversamente in quel momento. Neanche lui era
così sicuro del nostro rapporto, lo potevo sentire dal modo
in cui passammo le ultime settimane insieme.
Il secondo martedì di maggio Nathan doveva partire, ma aveva
promesso che sarebbe tornato in meno di un mese, per partecipare al
Prom e alla cerimonia del diploma. Sarebbe stata la prima prova per una
relazione a distanza.
Lo accompagnai in aeroporto e ci lasciammo con un mucchio di baci,
promesse sussurrate e qualche lacrima che però trattenni il
più possibile. Tornai a casa e telefonai ad Audrey per
sfogarmi e, grazie alle sue parole rassicuranti, un po’ mi
consolai.
La tranquillità durò poco. All’inizio
io e Nate tentavamo di sentirci tutti i giorni, di darci il buongiorno
e la buonanotte e di fare una videochiamata su Skype quando potevamo.
Ma man mano che i suoi impegni aumentavano a causa degli allenamenti e
delle partite la situazione si fece più difficile e sentii
chiaramente che ci stavamo allontanando, anche solo nel giro di un
mese. Erano dettagli, piccole cose: una chiamata della sera mancata a
causa di un’uscita con gli amici, una telefonata
più frettolosa e meno calda delle precedenti, nessun
racconto di ciò che gli era successo durante la
giornata… Eppure erano dettagli che percepivo.
Non posso dire che sia stata solo colpa sua, avevamo cominciato ad
allontanarci già da prima che partisse, forse anche da prima
che mi dicesse la scelta che aveva fatto per il college. Se non fosse
stato così, un mese non sarebbe mai bastato a dividerci,
credo.
Ad ogni modo, quando mi telefonò per dirmi che, nonostante
avesse già preso il biglietto aereo, non sarebbe tornato per
il Prom come aveva promesso, mi stupii solo fino a un certo punto: era
come se la cosa fosse già nell’aria da un bel
po’.
Mi arrabbiai comunque. Mancavano solo due giorni al ballo e il mio
ragazzo mi stava tirando il bidone via telefono, senza nemmeno darmi
una spiegazione che non fosse “ho troppe cose da fare
qui”. Quindi mi arrabbiai e litigammo, e una delle cose che
mi disse mi rimase impressa più delle altre e mi
colpì dritta al cuore.
“Non so nemmeno se sei innamorata di me!”
Boccheggiai, offesa. “Ma cosa diavolo vuol dire, Nate, stiamo
insieme da mesi ormai, e fai come se non ti avessi mai dimostrato
che…”
“Delia, me l’hai detto due volte in sette mesi, ed
eri mezza ubriaca entrambe le volte!” esplose lui, la voce
tremante.
“Io non… Non è vero,”
ribattei, colpita, cercando di riflettere su ciò che mi
aveva rinfacciato per dimostrare in qualche modo il contrario.
“Sì, invece. Lasciamo perdere, è
meglio. Devo andare.”
“Nathan…”
Cercai di fermarlo ma aveva già riagganciato il telefono.
Aspettai che le lacrime mi riempissero gli occhi, ma non arrivarono
mai, non perché non fossi distrutta, ma perché
ero talmente sconvolta da quello che mi aveva detto che non riuscivo a
pensare ad altro. E non riuscivo a trovare un modo per negarlo: ero
convinta di aver sempre dimostrato a Nate il mio amore, ma non
gliel’avevo quasi mai detto a parole, e questo per lui aveva
pesato.
Ci risentimmo il giorno successivo per decidere che non era il caso di
continuare in quel modo. Gli dissi che mi mancava e lui rispose che gli
mancavo anch’io, ma sapevamo entrambi che non saremmo durati
un altro mese separati e che non eravamo pronti per vivere una
relazione a distanza. Così mi trovai a ridosso del
Prom senza accompagnatore e, soprattutto, senza fidanzato.
Andai a scuola il giorno successivo con una faccia che da sola spiegava
il mio stato d’animo. Jude e Audrey mi coccolarono tutto il
tempo, ma quando dissi loro che avevo dei dubbi riguardo
l’andare o meno al ballo cominciarono a bombardarmi di motivi
per cui dovevo assolutamente andare. Dissi che ci avrei pensato, ma la
mattina dopo non avevo ancora deciso cosa fare.
“È l’ultimo ballo del liceo, Dee, devi
venire! Ti ricordi quanto ci siamo divertiti da Senior al ballo
d’inverno?”
Sbuffai. Eravamo in mensa e Audrey, che aveva preso molto a cuore la
faccenda, continuava a torturarmi per convincermi a non rinunciare al
Prom, previsto per quella sera stessa.
“Tu hai un accompagnatore, Aud, io mi sono lasciata da meno
di quarantotto ore col mio ragazzo. Posso prendermi una tregua dalle
feste pure io, ogni tanto.”
“Ma è l’ultima e… Non voglio
che tu rimanga a casa da sola, dai! Se è
l’accompagnatore il problema vedrai che qualcuno lo
troveremo. Anche Jude era rimasta sola, ma Josh ha scaricato quella
poveretta della Montgomery per andare con lei, alla fine.”
“Posso andare anche da sola…” tentai,
già conoscendo la sua risposta.
“No, non esiste,” risolse infatti la mia amica,
sventolando la mano come a scacciare una mosca.
“Sennò poi te la svigni appena noi siamo
distratti. Invece devi venire al party post ballo a casa di Matt,
sarà la cosa più divertente.”
“I suoi genitori sono via, alla fine?” chiesi, per
cambiare argomento e provare a distrarre Audrey dal proposito di
trovarmi qualcuno per il ballo.
“Sì, i ragazzi hanno già organizzato
quasi tutto” rispose lei, sovrappensiero. “Vediamo,
non dev’essere un vero appuntamento, non sei ancora pronta.
Più tipo un ripiego…”
“Se poi mi lasci in pace ti prometto che chiedo a Dave appena
lo vedo.”
Aud mi lanciò uno sguardo che non riuscii a leggere.
“Dave non può,” disse solo, prima di
sbattere una mano sul tavolo della mensa facendo girare un paio di
persone lì di fianco. “Matt!”
esclamò all’improvviso, facendomi sobbalzare.
“Matt cosa? Perché Dave non
può?” chiesi, con l’impressione di
essermi persa qualcosa. “Vanno insieme?”
“Ma no, scema. Matt può venire con te, non ha
invitato nessuno, anche perché pensava di liberarsi presto
per andare a sistemare delle cose per la festa.”
“Piuttosto che andare con Matt vado con Thomas
Petrovic,” ribattei d’istinto.
“Non dire cavolate.”
“Okay, ho esagerato. Piuttosto che andare al ballo con Matt
vado con quel tipo del secondo anno coi capelli sempre unti, quello che
si dice abbia una svastica tatuata sul petto. Piuttosto che andare con
Patterson mi tatuo io stessa una svastica.”
“È sempre bello sentirti dichiarare ai quattro
venti il tuo amore per me, novellina,” esclamò una
voce ironica alle mie spalle.
Poggiai la fronte sul tavolo, depressa. “Perfetto.”
Matt, Jude e Josh si sedettero al nostro tavolo coi vassoi del pranzo
e, appena alzai la testa, Patterson, che evidentemente aveva sentito
almeno parte delle mie parole, mi indirizzò un fintissimo
sorriso a trentadue denti che evitai di ricambiare.
“Dove dovresti andare con Matt?” domandò
Josh, incuriosito, dimostrando che almeno lui non aveva origliato il
discorso per intero.
“Da nessuna parte,” risposi secca, ma sapevo che la
questione non sarebbe caduta lì: Audrey si era messa in
testa qualcosa e non l’avrei smossa così
facilmente.
Infatti parlò subito dopo di me. “A Delia
servirebbe qualcuno per il ballo.”
“Non è vero,” tentai di intervenire, ma
senza convinzione.
Josh scrollò le spalle, come se fosse una cosa da niente.
“Beh, sono sicuro che qualcuno di libero
c’è. Nessuno sano di mente rifiuterebbe di andare
al Prom con Delia.”
Sapevo che Josh l’aveva detto di proposito per tirarmi su,
quindi lo ringraziai con un sorriso.
Audrey scosse la testa. “Non è pronta per un
appuntamento.”
“Sono qui di fianco a te, Aud.”
Lei mi ignorò e continuò a parlare come se non
fossi presente. “Ci vuole qualcuno che venga con lei,
così nessuno noterà che non ha un accompagnatore,
e così non tenterà di sfuggirci alla prima
occasione.”
“Quindi Matt?” si informò Josh.
“Matt è la prima scelta perché
è solo,” spiegò Audrey.
“Matt è l’ultima opzione
perché lo odio,” la corressi io, quasi ringhiando.
“Sono qui anch’io, grazie,” si fece
notare il diretto interessato, con un cenno della mano e un mezzo
sorriso esasperato.
Audrey gli rivolse il suo miglior sorriso, spostando gli occhi un paio
di volte da me a Patterson. “Ma tu non lasceresti mai sola
una tua amica in un momento di difficoltà, vero?”
gli chiese melliflua.
Matt mise su la tipica espressione di chi non sa come uscire da una
situazione scomoda, aggrottò le sopracciglia e, con
l’aria di essere vagamente perplesso, aprì la
bocca per parlare, ma a quel punto avevo già deciso che era
il caso di intervenire per fermare quella carneficina.
“È una cosa che non sta né in cielo
né in terra,” dissi a voce alta, per farmi notare.
“Non andrò al ballo con Patterson, questione
chiusa.”
Aud non demorse subito. “Ma non è un
vero…”
La interruppi seccamente, alzandomi da tavola. “Ho detto
questione chiusa, Audrey. Sono stufa di queste puttanate,
scusa.”
Me ne andai senza attendere la sua risposta e senza guardare negli
occhi nessuno, anche se sentivo gli sguardi di tutti piantati sulla mia
schiena.
Quando, pochi minuti dopo, uscii dal cubicolo del bagno, trovai Jude
che mi
aspettava poggiata ai lavandini con le braccia incrociate e
un’espressione risoluta sul volto.
“Senti, non…” cominciai, decisa ad
allontanarla, ma lei non mi lasciò continuare.
“Cerca di non fare la stronza anche con me, che non
attacca,” mi stoppò, senza muoversi.
“Ascolta, Dee. Capisco che Audrey abbia esagerato e capisco
che in questo momento l’ultima cosa che hai voglia di fare
sia andare al ballo con Matt, ma non puoi prendertela così,
quando cercavamo solo di aiutarti.”
Scossi la testa e finii di lavarmi le mani, per poi appoggiarmi al
lavabo, accanto a lei. “Non ce l’ho con nessuno,
sono solo nervosa ultimamente. Le chiederò scusa.”
“Lo so, non ti ho seguita per farti la ramanzina, ma per
chiederti di venirci incontro.”
Gemetti, passandomi la mano ancora umida tra i capelli. “Non
posso semplicemente venire al ballo per conto mio?”
“Vieni con me e Josh, così non sei costretta a
trovare qualcun altro e Audrey sarà comunque contenta
perché non sei sola. Che ne dici?”
Tentennai, ma dovevo ammettere che quella di Jude non sembrava una
cattiva idea. “Non voglio rovinare la serata a te e
Josh…”
“Non dire scemenze. Non è come se fosse un
appuntamento.”
“Ma se Josh ha scaricato la Montgomery per venire con
te!”
Lei arrossì leggermente, colta in fallo. “Non
è andata proprio così, ma… E comunque
non sapevo che l’avrebbe fatto, di certo non
gliel’ho chiesto io.”
“Quel ragazzo farebbe qualsiasi cosa per te, Judes.”
Scrollò le spalle. “Resta il fatto che siamo
amici, quindi non abbiamo un vero appuntamento. Puoi unirti a noi
oppure dare retta a Audrey e andare al ballo con Matt.”
Sospirai, arrendendomi. “Se non vi dispiace,
allora…”
Jude mi diede una leggera spallata. “Ci divertiremo,
vedrai.”
Alla fine andare al ballo si rivelò la scelta giusta: mi
divertii e riuscii per qualche ora a non pensare a Nate, cosa che avrei
senz’altro fatto se fossi rimasta a casa da sola a
rimuginare. Così fui costretta ad ammettere il mio errore,
mi scusai con Audrey e ballai con lei facendo un po’ le
sceme, e passai buona parte del tempo rimanente a commentare con Jude i
look dei nostri compagni di scuola, ridendo del suo umorismo sarcastico
e pungente.
Anche Patterson passò, rimase circa un’ora prima
di andare a casa a sistemare il necessario per il party,
chiacchierò con Josh, e danzò con una ragazzina
del primo anno che era riuscita a tirare fuori il coraggio per
chiedergli di ballare e che lo guardava come se fosse il suo sogno
divenuto realtà. Lo prendemmo scherzosamente in
giro per il modo in cui si era imbarazzato alla richiesta della
ragazza, ma, anche se non lo avrei ammesso nemmeno sotto tortura,
trovai carino il fatto che non se la fosse tirata troppo e avesse
accettato di ballare con lei. Conoscevo ben poche persone della nostra
età che avrebbero fatto altrettanto e rimasi stupita della
reazione di Matt, ma dovetti convenire che, forse, in
quell’anno fosse maturato ancora e io non me ne fossi
accorta, dal momento che quasi non ci parlavamo.
Mi stavo divertendo, quindi, e avevo promesso ad Audrey che, dopo,
sarei andata anche alla famosa festa a casa di Patterson, dove avremmo
concluso la serata con la maggior parte delle persone del nostro anno.
Mi ritrovavo a stare da sola al massimo per una manciata di minuti alla
volta, che di solito coincidevano coi momenti in cui mi allontanavo dai
miei amici per andare a prendere il punch.
In uno di quei momenti, appunto, mi stavo versando la bibita nel
bicchiere quando qualcuno mi parlò.
“Quei due stanno assieme?” sentii una voce
domandare alle mie spalle.
Mi voltai e vidi Jeremy, il ragazzo con cui usciva Audrey.
All’epoca ci sembrava essere una persona decente, ma poi,
nemmeno a dirlo, nel giro di qualche settimana si rivelò un
completo stronzo, di quelli per cui Aud aveva un radar formidabile.
Seguii il suo sguardo con il mio e trovai Josh e Jude che ballavano in
un angolo.
Mi scappò un sorriso. “No, no, sono
amici,” risposi, abituata a quel tipo di domande.
Jeremy non sembrava troppo convinto. “È strano,
non sono l’unico a scuola a essere convinto che siano una
coppia.”
Li guardai con più attenzione: Josh la teneva stretta, tanto
che Jude era stata forzata a mettere le braccia dietro il collo di lui,
erano vicinissimi, ma si guardavano negli occhi senza imbarazzo, con
una sintonia e un’intesa che erano difficili da trovare nelle
altre coppie che danzavano attorno a loro. Lui disse qualcosa facendo
una piccola smorfia e Jude gli tirò uno scappellotto sulla
nuca, ma ridevano entrambi. A quel punto Josh si abbassò per
darle un bacio su una guancia, ma le sue labbra atterrarono talmente
vicino all’angolo della bocca di lei da essere fraintendibili
per chiunque, poi si abbassò ancora e le sussurrò
qualcosa all’orecchio, facendole poggiare la testa sulla
propria spalla.
“Sei sicura?” chiese ancora Jeremy, al mio fianco.
Josh e Jude continuavano a ballare come se non ci fosse nessuno intorno
a loro. Tentennai: se non avessi saputo con certezza che quei due erano
amici, anch’io dal loro ballo avrei dedotto che fossero una
coppietta amoreggiante. Avevo pensato sin dall’inizio che
Josh avesse un debole per Jude, era così dolce e protettivo
solo con lei, eppure man mano che li frequentavo mi ero resa conto che
il loro modo di relazionarsi fosse proprio quello, e che loro due non
ci trovassero niente di strano.
Scrollai le spalle, annuendo appena, e Jeremy si fece bastare la mia
risposta e versò del punch per se stesso e per Audrey,
dopodiché tornammo insieme al punto dove ci eravamo
sistemati da inizio serata. Quando arrivammo Aud stava rientrando e
rimettendo il telefono nella propria borsetta appoggiata su di una
sedia.
“Con chi parlavi?” domandai io, curiosa come sempre.
“Dave,” mi informò la mia amica.
“Ha detto che da Matt hanno sistemato tutto e che possiamo
andare quando ci va. Pensa che Stevenson, Hart e altre persone sono
già là, hanno portato la spina della birra e si
sono piazzati
in giardino.”
“Mh,” risposi pensierosa. Poi, siccome non riuscivo
a togliermi quel pensiero dalla testa, sputai fuori la questione che mi
attanagliava da quella mattina. “Sai perché David
non è venuto al Prom?”
“Sì, lo so,” confermò Audrey,
quasi sulle spine.
La sua risposta mi insospettì ancora di più.
“Non dirmi che è perché doveva mettere
a posto la casa di Patterson, perché bastava che andassimo
via tutti un po’ prima dal ballo per farlo in pochi minuti.
Nessuno ha voluto spiegarmi cosa sta succedendo e sinceramente la cosa
sta diventando seccante, quindi se non vuoi parlare nemmeno
tu…”
“No, non è così.” Aud si
guardò in giro, come per verificare che nessuno ci stesse
ascoltando: siccome anche Jeremy si era allontanato per chiacchierare
con un suo amico, alla fine continuò. “Non
è che non voglio dirtelo, Dee, e non è nemmeno
vero che Dave ti sta nascondendo qualcosa. Credo solo che non abbia
ancora trovato il tempo di parlartene.”
“Di cosa?”
Lei sospirò, ma cedette. “Ha conosciuto un ragazzo
e si frequentano. L’ha invitato al ballo, ma lui preferiva
non venire, anche perché credo sia più grande di
noi di un paio d’anni e… Insomma, lo vedremo alla
festa più tardi, per quella ha detto di
sì.”
Spalancai gli occhi, sorpresa. “Dave sta… Sta con
uno?”
“Più o meno. Non so molto, ma è una
cosa nuova, comunque.”
“Da quanto tempo?”
“Due, forse tre settimane. L’ha incontrato in un
locale a Boston e…” Si fermò e, vedendo
la mia faccia confusa, capì che ero ferita, così
si precipitò a spiegare il resto. “Te
l’avrebbe detto lui stasera, Delia, per questo non te ne ho
parlato prima, non volevo intromettermi.”
“Lo sapevate tutti?”
“No, no… Credo l’abbia accennato solo a
me ed a Matt. E non so se anche a Josh, ma…”
“Se lo sa Josh lo sa anche Jude, quindi sì, lo
sapevate tutti tranne me,” decretai, rattristata.
Io e David parlavamo sempre di qualsiasi cosa, da quando ero arrivata a
Winthrop era stata la persona con cui mi ero confidata di
più. Possibile che nell’ultimo periodo fossi
così presa dai miei drammi personali da non accorgermi che
si stesse frequentando con qualcuno? Perché non aveva voluto
parlarmene?
Tentai di nascondere i miei pensieri dietro un’espressione
noncurante, ma quel tarlo continuò a martellarmi anche
quando lasciammo la palestra e ci dirigemmo verso casa di Patterson.
Alla festa c’era ormai diversa gente: in casa si aggirava
solo qualche persona isolata, ma in giardino, attorno alla grande
piscina, c’era già un miscuglio di ragazzi e
ragazze della nostra scuola. In teoria doveva essere un party aperto a
quelli del nostro anno, i diplomandi, in pratica, mentre la serata
procedeva, vedevo sempre più gente che non avrebbe dovuto
essere lì. Qualcuno era vestito come al ballo, io, ad
esempio, avevo tenuto il mio abito bordeaux corto, altri si erano
portati il costume per fare un salto in piscina, altri ancora volevano
buttarsi ma, essendo sprovvisti del necessario, facevano il bagno con
gli abiti da cerimonia o direttamente in mutande. Era un delirio.
La prima volta che parlai con David riuscii a fare finta di niente e mi
limitai a qualche convenevole. Più tardi lo vidi parlare con
la faccia a due centimetri di distanza da quella di un ragazzo moro e
alto circa come lui, e intuii che fosse il tipo di cui mi aveva parlato
Audrey. Non riuscii a fermarmi e mi avvicinai a loro.
“Allora, ragazzi, com’è andato il
pre-party qui?” esordii, porgendo loro un bicchiere a testa
con della birra che ero appena andata a spinare.
Dave sembrò in imbarazzo e pensai se lo meritasse.
“Bene, noi… Abbiamo più che altro
preparato l’impianto stereo e fatto sparire alcune cose che
non potevano essere toccate. Anche perché i genitori di Matt
non hanno idea che ci sia una festa qui.” Esitò,
prima di continuare. “E il Prom, invece? Sei stupenda
stasera, Deels, davvero.”
Sbuffai. Di solito i complimenti di Dave mi mettevano di buon umore, ma
quella sera non ero in vena.
Fu l’altro ragazzo a
intervenire, invece. “Deels? Sei tu Delia?”
Feci sì con la testa e abbozzai un sorriso girandomi verso
di lui, che mi porse la mano.
“Tyler, piacere. David mi ha parlato di te.”
Il mio sorriso di accentuò, ma diventò
più tagliente mentre mi voltavo a guardare il mio amico.
“È buffo, perché a me invece non ha
detto proprio nulla di te. Vero, Davie?”
Lui assottigliò gli occhi e capii che voleva suggerirmi di
non fare scenate, ma ormai ero partita.
“Da quant’è che vi conoscete, qualche
settimana? Ho solo notizie di seconda mano, sai, non sapevo
praticamente nulla fino a poco fa.”
“Delia…”
“Dimmi, Dave.”
Lui mi prese per un braccio, si scusò con Tyler e, per
limitare i danni, mi portò in cucina, dove c’erano
solo un paio di altre persone.
“Ti sembra il caso?” ringhiò, esasperato.
Arrivata a quel punto e con un paio di birre in corpo, non potevo
più trattenermi. “Perché non mi hai
detto niente?”
“Volevo parlartene, Delia, davvero. Ma ero così
felice e tu eri così triste per Nate, che mi sembrava di
farti un torto, negli ultimi giorni sei stata sempre peggio.”
“Quindi adesso sarebbe colpa mia?”
“Non ho detto questo, è che…”
Lo interruppi. “Io e Nate ci siamo lasciati tre giorni fa,
già prima avevi tutto il tempo per parlare. Non hai
voluto.”
“Non eri molto ricettiva nemmeno prima,”
sbottò allora lui, cominciando ad innervosirsi per il mio
continuo attaccare.
Alzai la voce di qualche tono. “Lo vedi che dai la colpa a
me? Sono l’ultima a sapere le cose e devo anche sentirmi
additata perché non sono stata ricettiva!”
“Delia, io ho provato a parlartene ancora due settimane fa.
Ti ho detto che ero stato a Boston in un club, ricordi?
L’Exspace.”
“Non… non ricordo che tu me l’abbia
detto,” balbettai, sulla difensiva. “Forse ti
sbagli tu.”
“No, me lo ricordo bene, te l’ho accennato ma tu
non riuscivi ad ascoltarmi, quindi ho rimandato e rimandato.
È stato un mio errore, lo so, ma da quando hai cominciato ad
avere problemi con Nate sei stata completamente assente.”
“Va bene, sono io! Sono un’amica di merda! Penso
solo ai miei problemi!” urlai, indietreggiando.
Dave aggrottò le sopracciglia mentre tentava di avvicinarsi
a me. “Non fare così, adesso. Non ho detto questo,
volevo solo…”
Spostai il braccio quando me lo sfiorò. “Lasciami
in pace,” mormorai con la voce rotta, prima di allontanarmi
definitivamente.
Scappai da lì con il cuore che faceva male. Le lacrime
premevano forte per uscire, ma le ricacciai indietro deglutendo: non
ero una persona che piangeva spesso e, soprattutto, non volevo farlo in
pubblico, davanti a metà della nostra scuola.
Dovevo cercare un luogo dove stare in pace, perché tutto
quello che fino a quel momento avevo cercato di trattenere, tutta la
tristezza, la rabbia, la frustrazione, tutto l’orgoglio
ferito, tutte queste cose ora traboccavano dal mio petto, come se fosse
impossibile contenerle, sperare di fare ancora finta di nulla.
Quella mattina ero sbottata contro Audrey che stava cercando di
aiutarmi e ora avevo pure litigato con David, nonostante sapessi
perfettamente che lui non c’entrava nulla col mio stato
d’animo. Ma mi sentivo tradita anche da lui, mi sentivo messa
da parte, mi sentivo sola come poche volte mi era successo in vita; era
una sensazione di quelle che ti si infilano sotto pelle, che non puoi
scrollarti di dosso con facilità, e anche se adesso, col
senno di poi, posso dire di non essere mai stata davvero sola, in quel
momento non riuscivo a ragionare in modo oggettivo.
Superai alcune persone che giocavano a birra pong su un lato del
giardino e, istintivamente, aprii la porta della dependance e mi ci
infilai dentro, sperando di non trovarvi nessuno. Per fortuna le mie
preghiere vennero esaudite: la stanza, che comprendeva una piccola
cucina e un’area salotto con una televisione di fronte a un
tavolino, un divano e una poltrona, era vuota e in penombra, e non
sembrava provenire alcun rumore nemmeno dalle due porte chiuse che si
affacciavano sul salone. Era evidente che le persone avevano preferito
riversarsi nella villa principale e in cortile, magari pensando che la
dependance fosse chiusa.
Sapevo che Patterson viveva lì da almeno un anno a quella
parte, ma non ci ero mai entrata. Non ero molto in vena di curiosare in
giro, né mi interessava farlo, per la verità,
perciò in due passi raggiunsi il divano e mi ci buttai sopra
e, appena mi rilassai, le lacrime che avevo trattenuto per tanto tempo
fecero capolino.
Erano passati solo pochi minuti dal mio arrivo quando sentii un rumore
alle mie spalle e, guardando sopra lo schienale del divano, vidi
Patterson che usciva da una delle porte infilandosi una maglietta.
Senza volerlo, emisi uno sbuffo di lamentela che lo fece sussultare
appena, prima di voltarsi e vedermi. Restammo in silenzio per qualche
secondo, poi io tirai su col naso e gli feci la domanda che entrambi
avevamo in testa.
“Cosa ci fai tu qui?”
Matt indicò la porta da cui era appena uscito.
“Quella è la mia camera, io ci vivo qui. Casomai
dovrei chiedere cosa ci fai tu
qui.”
Aprii la bocca per rispondere e la richiusi, a corto di parole,
finché un pensiero mi balenò in testa,
improvviso. “Oh mio dio, ti ho disturbato mentre
facevi…?”
Lui inarcò le sopracciglia, invitandomi a continuare.
“Stai… Sei con qualcuno lì
dentro?” pigolai, indicando la porta con il mento.
Patterson sorrise, criptico. “Sarebbe imbarazzante,
vero?”
Gemetti e mi tirai in piedi alla velocità della luce, pronta
a sparire, ma Matt mi fermò prima che facessi un passo.
“Ma no, sta’ ferma. Sono venuto a cambiarmi, Josh
mi ha lanciato in piscina poco fa.”
Sospirai, sollevata, e mi ributtai sul divano senza farmi ripetere
l’invito a rimanere. In effetti, quando Matt fece il giro del
divano e si fermò circa davanti a me, notai che non
indossava più l’abito del ballo, ma dei
pantaloncini e una maglietta blu, e che i suoi capelli erano umidi.
Lui, nel frattempo, se ne stava fermo di fronte al divano e
occhieggiava nella mia direzione indeciso sul da farsi: pensai che
avesse intuito il motivo della mia fuga e che non sapesse se lasciarmi
sola o meno.
Una lacrima che fino a quel momento era rimasta impigliata sulle mia
ciglia si decise a cadere e rotolò sul lato della mia
guancia. La asciugai con la mano, imbarazzata, ma Patterson finse di
non vederla, anche se quella fu probabilmente la motivazione che lo
spinse a fare qualche passo incerto e sedersi sulla poltrona che faceva
angolo col divano sul quale ero posizionata io. Non disse niente e io,
nonostante la situazione, sentii come al solito l’urgenza di
parlare per riempire quel silenzio così poco adatto a me.
“Perché quando sono sola e depressa spunti sempre
tu?”
Matt sorrise e scrollò le spalle. “Giuro che
stavolta non sono venuto a cercarti.”
“Stavolta?” domandai, ma lui non si scompose di un
millimetro.
“Vuoi che vada a chiamarti qualcuno?” chiese
invece, titubante. “Audrey? Dave?”
“No, no, ti prego,” dissi di fretta.
“Non… non disturbare nessuno. Non volevo
disturbare neanche te, in realtà, quindi non serve che stai
qui, la festa è bella e immagino che avrai voglia di
divertirti insieme a tutti gli altri piuttosto che rimanere con
l’unica persona che odi, solo per pena. Sei gentile, ma non
serve. Tra l’altro è casa tua ed è
pieno di persone di là, è pieno di belle ragazze,
c’è la piscina, c’è
l’alcol, è casa tua, dovresti più che
altro controllare che vada tutto bene… Non devi stare
qui.”
Lui rimase in silenzio un paio di secondi al termine della mia tirata,
come per essere certo che avessi finito di parlare.
“Cos’è successo?”
“Come se non lo sapessi,” ribattei, risentita.
“Non ti ho chiesto cos’è successo nella
tua vita, non sono la persona adatta da farti da padre confessore.
È successo qualcosa adesso, vero?”
Mi guardai le mani con interesse. “Ho litigato con
Dave.”
Lui annuì, come se si aspettasse una risposta del genere, ma
non fece le altre domande che sembravano scontate; invece, si
alzò dalla poltrona e andò verso la cucina ad
angolo che occupava una piccola parte della stanza. Quando
tornò aveva in mano una bottiglia di tequila e un paio di
bicchierini da shot.
Cercai di ribellarmi debolmente. “Non tutto si risolve con
l’alcol, principino.”
“Alla festa post ballo del liceo sì.”
Appoggiò sul tavolino i bicchieri e li riempì,
poi sembrò ricordarsi di qualcosa e tornò verso
la cucina. Mi girai e lo guardai trafficare per un po’ senza
capire cosa stesse combinando e, quando si riavvicinò a me,
notai che aveva un piattino in mano.
“Tequila sale e limone?” domandai incerta,
vedendone il contenuto. “Non l’ho mai bevuta
così.”
“Allora devi,” disse lui, spingendo il bicchierino
verso di me.
Si inumidì con la lingua la pelle tra il pollice e
l’indice della mano destra e io lo imitai, per fare in modo
che il sale si attaccasse meglio, poi presi la fetta di limone
e la tequila.
“Pronta?” mi chiese Matt, che poi, notando la mia
esitazione, aggiunse: “prima il sale, poi bevi, e poi metti
subito in bocca il limone.”
“Perché subito?”
“Perché ti salva la vita,” rispose con
un mezzo sorriso, prima di sporgersi per far tintinnare il bicchiere
sul mio.
“Non c’è molto da brindare,”
commentai amara.
“Come no? È finito il liceo! A quanto dicono,
abbiamo superato la parte più difficile.”
Arricciai il naso in una smorfia, ma mi scappò un sorrisino.
“Alla fine del liceo, allora,” confermai, alzando
il bicchierino.
Leccai il sale dalla mia mano, buttai giù la tequila tutta
d’un fiato e, infine, prima ancora di sentirla bruciare nel
mio stomaco, mi infilai il limone in bocca, strizzando forte gli occhi.
Senza rendermene conto cominciai a mugugnare e feci un paio di colpi di
tosse sputacchiando la fetta di limone, che mi cadde sulle gambe
incrociate.
“Che cazzo,” brontolai, pulendomi la bocca con il
retro della mano senza troppa finezza. “Ogni volta che bevo
la tequila mi dimentico che la volta precedente avevo detto che non
l’avrei più bevuta.”
Matt ridacchiò. “Non ti è
piaciuta?”
“Stai scherzando?” esclamai, rimettendo in bocca il
mio limone per finire di mangiarlo, buccia compresa. “La
adoro. Il limone ti salva davvero la vita.”
Feci scivolare il mio bicchierino sul tavolo nella direzione di
Patterson, che mi guardò stupito e un po’
ammirato, ma non disse niente, me lo riempì e me lo porse di
nuovo, prima di versare la tequila anche a se stesso.
“Alla fine del liceo e alla fine della mia prima relazione
decente,” dissi, alzando lo shot.
Matt si limitò ad assecondarmi.
Facemmo diversi altri brindisi quella sera, io e Patterson: alla mia
prima litigata con David, alle feste in piscina piene di ragazze in
bikini, alla professoressa di matematica che aveva un debole per lui, a
Monty, il modellino di scheletro del laboratorio di biologia, alla
ragazzina coraggiosa del Prom, alle lezioni di danza per il ballo delle
debuttanti.
Matt mi permise di proporre la maggior parte di quelle dediche,
divertito dal fatto che diventassi sempre più fantasiosa a
ogni bicchiere riempito e successivamente svuotato, ma
l’ultima la decise lui, poco dopo essersi alzato e aver
riposto la bottiglia mezza vuota su un mobiletto in alto, difficile per
me da raggiungere.
“Mi nascondi la tequila?” chiesi, cercando di fare
una faccia da cucciolo abbandonato.
“Direi che siamo a posto così,”
spiegò, deciso, buttandosi a sedere, stavolta, accanto a me
sul divano.
“Sei una femminuccia, Patterson.”
“Oh, credimi, lo faccio per te, stellina.”
“Perfetto, non sei neanche capace di approfittarti di una
ragazza,” risposi a tono, sbeffeggiandolo. “E non
chiamarmi stellina.”
“Dai, ultimo brindisi,” propose lui, porgendomi il
mio bicchiere per poi allungarsi a prendere il proprio.
“Quando l’hai versata questa?” domandai,
confusa.
Matt rise e io capitolai, come da manuale.
“Non ridere,” lo pregai, gli occhi quasi sbarrati.
“Sei divertente, Gray, non ti ho mai vista
così.”
Non ascoltai nemmeno quello che stava dicendo. “Quando ridi
fai quella cosa con la faccia, con… È meglio se
non ridi. Per favore.”
Ora era decisamente lui ad essere confuso. “Quale
cosa?”
“Quella cosa,” ripetei, ancora abbastanza in me da
auto intimarmi di non continuare quel discorso. “A cosa
brindiamo?”
Matt alzò il bicchiere verso il mio. “A noi due,
che abbiamo ricominciato a parlare.”
“Solo perché ti stai approfittando del fatto che
sono triste e sola,” mugugnai un secondo prima di bere.
Lui mi seguì a ruota e poi rispose. “Ma se hai
appena detto che non sono capace di approfittarmene.”
“Mi hai ubriacata tu, eh,” gli feci notare,
totalmente a sproposito.
“Sei bella che ubriaca, sì,”
commentò lui, ridacchiando. “E non dire che adesso
sono responsabile di te, che non sono messo benissimo neppure
io.”
Il mio cervello era piuttosto inceppato. “Hai detto che sono
bella da ubriaca?” biascicai, perplessa.
“Ho detto che sei bella che
ubriaca,”
specificò Matt.
“Comunque hai detto bella,” ripetei, ridendo come
una scema.
Lui scrollò le spalle, arrendendosi. “Come
vuoi.”
Cercai di alzarmi, appoggiandomi con le mani al divano, e Patterson mi
porse il braccio per aiutarmi. Lo ringraziai confusamente, mi lisciai
le pieghe del vestito e mi diressi verso la porta a vetri della
dependance. La vetrata era per più di metà
coperta da una tenda azzurro chiaro, ma si vedeva comunque che il party
era ancora vivace e pieno di gente.
“Io vado a dare un’occhiata intorno alla piscina
prima che la festa finisca, magari trovo qualcun altro che mi dice che
sono bella. Senza… senza la parte
sull’ubriaca.”
Matt rise e mi accorsi che si era alzato anche lui ed era di fianco a
me.
“Non ridere, ho detto,” gli ordinai di nuovo,
puntandogli un dito sul petto.
Lui alzò le mani, tornando fintamente serio,
dopodiché mi aprì la porta e mi poggiò
leggera una mano alla base della schiena per spingermi a uscire, prima
di seguirmi. Non appena fui fuori, in mezzo alla gente, mi ritrovai
inconsciamente e stupidamente a sperare che la mano di Matt restasse
dov’era ancora per un po’, ma lui si
scostò e mi rivolse un mezzo sorriso incerto.
“Divertiti, la serata è ancora lunga,”
mi consigliò, mettendosi le mani in tasca.
“Certo. Ci si becca in giro.”
Annuì. “Cerca di non fare troppe stupidaggini,
novellina.”
Non mi servì bere ancora per fare stupidaggini, la tequila
fece il suo dovere per bene. Un’ora dopo stavo flirtando con
un ragazzo per cui non avevo alcun interesse e, ancora un po’
più tardi, stavo baciando qualcuno nella cucina della casa
principale.
Ero confusa, la testa mi girava abbastanza, tenevo gli occhi chiusi e
mi concentravo su quel bacio disordinato e morbido e strano,
così strano.
Conoscevo la persona che stavo baciando, ne riconoscevo il profumo,
mischiato all’odore di alcol, che non era proprio il massimo,
ma, cavolo, chi ero io per giudicare? Ero quasi sicuramente
più ubriaca di lui. Conoscevo il suo profumo e forse anche
il suo sapore… Ci eravamo già baciati?
Dio, avevo così paura di aprire gli occhi, mi piaceva quel
bacio, davvero. Non mi preoccupava il fatto di baciare uno sconosciuto
da ubriaca, mi preoccupava di più il fatto che potesse
essere qualcuno che conoscevo bene. Un’idea raccapricciante
mi balenò in testa: e se fosse stato Petrovic?
L’avevo sicuramente visto alla festa.
Fu a causa di quel pensiero che, alla fine, mi costrinsi ad alzare un
po’ il mento per interrompere il bacio e ad aprire gli occhi.
Davanti a me, occhi serrati e labbra ancora socchiuse, c’era
Matt.
Okay, era Matt. Richiusi gli occhi, sollevata, ricollegando anche
quello strano formicolio alla base del mio stomaco al fatto che davanti
a me ci fosse lui, proprio lui, e non qualcun altro. Mi alzai sulle
punte dei piedi e lo baciai di nuovo, stringendogli di più
le braccia dietro al collo.
Stavo baciando Matt, non Petrovic. Tutto a posto, quindi. No?
Ciao a chi è arrivato fino in fondo! Siete eroici ad
aspettarmi, davvero. <3
Se avete altri due minuti di pazienza leggete anche le note, anche se
purtroppo ho diverse cose da dire e non posso promettere
brevità, conoscendomi.
Innanzitutto il capitolo (di nuovo) non doveva finire così,
ma nella mia testa era destinato ad andare avanti almeno fino al giorno
successivo alla sera della festa. Poi mi sono accorta che stavo
scrivendo troppo, che questo, pur non essendo un papiro, era
già il capitolo più lungo che avessi mai scritto
finora (in questa storia) e che, se avessi continuato, avrebbe avuto
almeno altre 2-3000 parole, forse di più. Non ho voluto
restringere né limitare la parte successiva, che
è molto importante. Non odiatemi, tutto sarà
spiegato. Più o meno.
La cosa positiva è che, siccome non ho scritto il capitolo
in ordine cronologico ma a pezzi (spero che non si noti troppo), una
parte del capitolo successivo è già pronta, e
un'altra parte è in fase di scrittura.
Non sono sicura che mi piaccia ciò che ho scritto. Di sicuro
ho amato far parlare di nuovo Matt e Delia, ma è stata dura
e spero di non aver fatto errori: nella parte finale dovevano prima
riavvicinarsi dopo essersi ignorati per lungo tempo, poi interagire da
ubriachi e infine... beh, avete letto. L'ultima parte è
stata la più difficile. Non vedevo l'ora di farli parlare,
riavvicinare, ma ho fatto una fatica boia.
E ora le note dolenti. Per quanto un pezzo del capitolo successivo sia
già scritto (e anche parti ancora più avanti), se
continuo a procedere a questa velocità diventiamo tutti
vecchi qui. C'è solo una cosa che aiuta in questi casi ed
è trovare qualche recensione (positiva, ma anche no) come
stimolo per continuare. E credetemi, mi dispiace davvero rompere le
palle al riguardo, ma la storia ha più di cinquanta persone
che la seguono e una media di meno di due recensioni per capitolo.
Forse dovrei dedurre che le persone che l'hanno inserita nei
preferiti/seguiti non la guardino davvero, e sto cominciando a
pensarlo, in effetti.
Ora, non vi chiedo di commentare ogni capitolo, capisco che non abbiate
voglia di farlo, ma vi garantisco che una recensione una tantum
può fare miracoli, qui. A questo proposito, ringrazio di
cuore, di nuovo, Evelyn 98, che finora ha seguito Matt e Delia con
così tanta devozione e riponendo fiducia immeritata nei miei
confronti. Mille volte grazie! <3
Solite precisazioni prima di dileguarmi:
- Il titolo del capitolo è schematico come sembra: Love (parte
iniziale, Nate) and
friendship (parte centrale, Aud, Jude, Josh, Dave) and other things
(parte finale, Matt). La fantasia!
- Per chi fosse interessato a Jude e Josh, ricordo, dato che
è da un po' che non lo faccio, che questa storia
è uno spin-off di Of
all the people in the world, che parla proprio
di quei due. Click sul titolo se vi interessa, sennò
pazienza.
- La battuta in cui Delia chiede a Matt come mai spunti sempre lui
quando lei è triste è un vago rimando a un
dialogo di BTVS tra Buffy e Spike: "Why
are you always around when I'm miserable?" "Cause that's when you're alone,
I reckon". Per quanto io abbia amato la risposta di Spike
in quel momento, Matt non è ancora pronto a quel tipo di
rivelazione, purtroppo. :)
Mi trovate anche su Wattpad (qualcuno mi ha già trovata,
eheh) con lo stesso nome e con le stesse storie. Continuo a pubblicare
sempre prima qui, anche perché non capisco molto bene il
mondo di Wattpad e i suoi meccanismi.
Chiudo qui, ché stavolta ho davvero esagerato. Vi prego,
fatemi sapere cosa ne pensate di qualsiasi cosa vi venga in mente, da
ciò che vi è piaciuto a quello che avete odiato,
dall'html al mio stile di scrittura. Davvero, ne sarei felice.
Un bacio grande a chi continua a seguirmi! Alla prossima.
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Capitolo 13 *** Watching the flashbacks intertwine ***
13. Watching the flashbacks
intertwine
La prima e la seconda cosa che percepii quando mi svegliai furono la
mia bocca completamente secca e un discreto mal di testa. Allungai un
braccio, senza nemmeno aprire gli occhi, per trovare la bottiglietta
d’acqua che tenevo sempre sul comodino, e mi accorsi che il
comodino non era dove avrebbe dovuto essere.
A quel punto, non senza difficoltà, decisi di aprire gli
occhi per verificare la mia situazione e, guardandomi intorno senza
muovermi troppo, notai alcuni dettagli. Innanzitutto, ero su un letto
che non era il mio, in una camera che non era la mia, presumibilmente
in una casa che non era la mia. Il balcone alla mia destra era semi
aperto e da esso entrava una luce che mi colpiva in modo fastidioso il
viso, e forse era proprio quello il motivo per cui mi ero svegliata. Mi
girai sul fianco sinistro per evitare quell’inconveniente e
il mio stomaco si lamentò, decidendo di svegliarsi per
lanciarmi addosso un bruttissimo senso di nausea.
Non ebbi il tempo di assimilarlo, però, perché
quello che vidi sull’altro lato del letto matrimoniale mi
gelò da capo a piedi e mi fece dimenticare la nausea.
Davanti a me, girato di schiena, appallottolato al lenzuolo e con la
testa coperta in modo da risultare quasi del tutto riparato dalla luce,
c’era un corpo che sembrava essere maschile.
Imprecai tra me e me, seriamente preoccupata. Non era la prima volta
che mi svegliavo coi postumi di una sbornia, ma non mi era ancora mai
capitata una situazione del genere. Oltretutto faticavo a ricordare la
fine della serata precedente, quindi, conoscendomi, poteva essere
successo pressoché di tutto.
Serrai gli occhi sforzandomi di trovare delle reminiscenze nascoste tra
gli angoli della mia testolina bacata, e quello che il mio cervello mi
rimandò indietro furono immagini di me e Matt che ci
baciavamo in cucina, avvinghiati l’uno all’altra
come se fosse una cosa del tutto normale. Spalancai di nuovo gli occhi,
col cuore che mi martellava nel petto neanche dovesse uscire da un
momento all’altro. Cosa diavolo avevo fatto?
In uno sprazzo di lucidità, cercando di capirci qualcosa di
più, buttai l’occhio sotto le lenzuola e mi tastai
i vestiti per capire com’ero conciata. Quello che scoprii
peggiorò, se possibile, la mia condizione: addosso avevo
solo una maglietta blu non mia, che dalle dimensioni sembrava una
t-shirt da uomo, visto che mi arrivava fino alla coscia, e il reggiseno
che avevo indossato per andare al ballo. Delle mutande non
c’era la minima traccia, constatai con l’ennesimo
tuffo al cuore.
Non può
essere vero, dimmi che non è vero,
pensai, angosciata, mentre mi sforzavo di guardare qualunque cosa che
non fosse la montagnola coperta dalle lenzuola accanto a me.
Sospirai per cercare di regolarizzare il battito cardiaco, ma non
funzionò. Decisi quindi, a malincuore, di avvicinarmi al
corpo dormiente per verificare le mie paure. Scivolai piano sul letto e
allungai un braccio per far scorrere il lenzuolo in giù, in
modo da vedere la nuca del ragazzo. Mi aspettavo di trovare una testa
bionda e spettinata, invece, a sorpresa, mi si parò davanti
una zazzera di capelli castani e un po’ più lunghi
del previsto. Allungai il collo per vedere meglio e, finalmente, lo
riconobbi: era David.
La rivelazione non aiutò molto il mio stato
d’animo: dopo un primo momento di sollievo, infatti, la mia
mente malata cominciò a elaborare i dati, giungendo alla
peggior conclusione possibile. Ero andata a letto con Dave? Mi sembrava
un’eventualità poco probabile, ma non era
un’ipotesi da scartare del tutto, alla festa ero talmente
ubriaca che avrei anche potuto fare una cosa del genere.
Però non mi pareva di aver avuto a che fare con David, non
dopo la nostra mezza litigata, almeno.
Mi obbligai a chiudere di nuovo gli occhi per provare a concentrarmi
meglio sui ricordi della sera precedente.
Dopo aver bevuto la
tequila con Matt – maledizione, era tutta
colpa di quella stupida tequila
– uscii a fare un giro
in giardino e chiacchierai con qualche persona che conoscevo.
Alla fine mi ritrovai, chissà come, a parlare con un ragazzo
che avevo già visto a scuola, un certo Brendan. Era
più piccolo di me di un anno e io, tendenzialmente, non
guardavo i ragazzi più piccoli, ma ero ubriaca, confusa e,
oltretutto, stavo solo giocando, non avevo intenzione di combinarci
niente.
Infatti, dopo diversi
minuti che parlavamo, mi resi conto che il tizio
era parecchio irritante, uno di quei pavoni pieni di sé che
fanno di tutto per mettersi in mostra descrivendo i propri pregi e le
imprese che credevano di aver compiuto. All’ennesimo racconto
sulle sue doti di tennista pluripremiato, quindi, mi stufai e cercai un
metodo indolore per liberarmi di lui.
In quel modo, da brava
scema, riuscii solo a cacciarmi in un guaio
ancora più grosso. Per allontanare Brendan, infatti, fermai
la prima persona conosciuta che mi capitò davanti, Russ, un
amico di Nate, che giocava nella squadra di football con lui. Il tipo
cominciò da subito a flirtare con me in maniera piuttosto
palese, facendomi complimenti sul vestito, sui capelli, persino sul
trucco. Capii finalmente perché Nate si era sempre rifiutato
di farmi frequentare in modo continuativo i suoi amici: se quello era
un esempio di ciò che sarebbe successo, forse, non aveva
tutti i torti.
Mi allontanai da Russ
con una scusa, entrai in casa traballando, e
raggiunsi poco dopo la cucina, l’unica stanza in cui era
vietato l’accesso e che quindi era vuota. Ma, si sa, una
ragazza ubriaca è come la carta moschicida per qualcuno che
pensa di potersene approfittare in qualche modo, e infatti dopo appena
pochi minuti apparve proprio Russ, che evidentemente mi aveva seguita
fino a lì per continuare a provarci con me.
Non perse tempo: mi si
avvicinò con un sorriso che, nel suo
intento, doveva essere seducente e malizioso, e mi
intrappolò tra sé e il piano di lavoro alle mie
spalle poggiando le mani su quest’ultimo.
“Tu non sei
amico di Nate?” gli domandai,
sconcertata dal suo comportamento, ma senza muovermi di un millimetro
né allontanarlo.
Lui alzò le
spalle con noncuranza. “Beh, Nate non
è qui adesso.”
Sbuffai: probabilmente
non sapeva nemmeno che io e Nathan ci eravamo
mollati e già ci stava provando così con me, gran
bell’amico. Appoggiai le mani sulle sue spalle per spostarlo
e lui, per la verità, non oppose resistenza e
indietreggiò subito di un paio di passi.
“Che
c’è?” mi chiese, stupito
che qualcuno, dopo avergli toccato le spalle, potesse rifiutare un
ragazzo con un fisico scultoreo come il suo.
“Non siamo
abbastanza in confidenza,” risposi, non
del tutto sincera: se non fosse stato un amico di Nathan probabilmente
gli avrei dato più corda.
Russ si
appoggiò con un fianco sul piano cucina, sempre con
quel sorrisetto malizioso sulle labbra. “Beh, possiamo
conoscerci meglio, se ti va.”
Era una battuta talmente
scontata da rasentare il ridicolo, ma,
purtroppo, io ero ubriaca, quindi mi ritrovai a ridacchiare come una
stupida: Russ pensò quindi di avere campo libero e si
avvicinò di nuovo.
“Eccoti.”
Voltandomi verso la
porta della cucina vidi Matt che ci guardava,
leggermente corrucciato. Mi guardai intorno, pensando che non stesse
parlando con me, ma nella stanza c’eravamo solo io e Russ,
appunto.
“Ti ho cercata
dappertutto,” continuò
lui, guardandomi dritta negli occhi e cancellando ogni dubbio. Poi,
prima che riuscissi a pensare di rispondere, si rivolse al ragazzo che
mi stava ancora troppo vicino. “Sparisci, Stevenson. Non si
può neanche stare in cucina, ho messo un cartello fuori! Non
sai leggere?”
Lui sembrava confuso.
“Ma lei…”
Patterson si
avvicinò di un passo e alzò le
sopracciglia. “Lei è off-limits
stasera.”
“E
perché?”
“È
impegnata,” si corresse, come se così
avesse più senso.
“Con
te?”
Matt annuì
lentamente, stringendo le labbra in
un’espressione di stizzita ovvietà.
Io seguivo il loro
scambio muovendo la testa per guardare prima
l’uno e poi l’altro, e più osservavo
Patterson comportarsi in quel modo più la mia bocca si
allargava in un sorriso di comprensione. In un’altra
occasione mi avrebbe dato fastidio che qualcuno – lui in
particolare – pensasse di decidere cosa potevo o non potevo
fare, ma nel linguaggio del corpo di Matt, in quel momento, leggevo una
sorta di malcelata gelosia che, in qualche modo, mi faceva piacere.
Fece un gesto con la
mano, indicando all’altro la porta.
“Ti conviene uscire. Ci sono molte ragazze ubriache fuori,
prova con Sheila Bradbury.”
Russ fece come gli era
stato detto senza fiatare e io, dal canto mio,
piantai su Patterson due occhi curiosi e un po’ appannati
dalla tequila.
“So prendermi
cura di me stessa, ma è stato
istruttivo vederti comportare da amico geloso, per una volta.”
Lui ignorò le
mie parole e mi lanciò uno sguardo
furioso. “Ti avevo detto di non fare stupidaggini.”
“Non pensavo
fossi così intransigente sul fatto di
non entrare in cucina.”
Matt sbuffò
sdegnato e mezzo divertito, e quella strana
rabbia che non gli avevo mai visto addosso prima sparì,
mascherata, come al solito, dalla sua tipica tranquillità.
“Sei spiritosa, Gray.”
“Sono
impegnata,” lo corressi, avvicinandomi piano
a lui.
Socchiuse gli occhi,
scrutandomi con sospetto mentre gli arrivavo
sempre più vicina. “Dai, l’ho detto per
liberarti di quel tipo. Te li scegli proprio bene, eh, tra
parentesi.”
Mi morsi il labbro
inferiore senza riuscire a trattenere un sorriso e
Matt mi guardò la bocca, indeciso, come quella volta al
maneggio. Eravamo distanti sì e no mezzo metro, se avessi
fatto un altro passo sarei stata attaccata a lui: ero ubriaca e il mio
autocontrollo era quasi del tutto dissolto, ma sentivo comunque che
quel passo, tra noi, pesava tantissimo.
Stavo ancora riflettendo
su cosa fare quando dalla porta
spuntò di nuovo la testa di Russ Stevenson, che chiaramente
quella sera era meno intuitivo del solito.
“Ehi,
amico,” iniziò, quasi infastidito, “mi
hai mentito, la Bradbury non c’è e se
n’è andata diversa gente. Mi hai appena rubato una
delle ultime ragazze ubriache disponibili.”
Matt sbuffò,
alzò gli occhi al cielo esasperato e
compì quell’ultimo passo che ci separava. Poi, mi
baciò.
Sentii un rumore alla mia sinistra e trasalii, distratta. David si
stava stiracchiando con un brontolio appena accennato, alla fine
dell’operazione si girò verso di me e
mormorò un “Buongiorno” soffocato da un
vistoso sbadiglio. Gli risposi con un sorriso nervoso, sentendo lo
stomaco ancora più sottosopra di quanto non lo fosse prima.
Lui mi lanciò un’occhiata indecifrabile e
tirò un po’ giù il lenzuolo, quindi,
con l’ennesimo tuffo al cuore, notai che aveva su una
maglietta. Chissà se indossava le mutande, almeno lui.
“Stai bene?”
“Credo che vomiterò entro la mattinata,”
risposi, con sincerità.
“Beh, sono già le…”
Guardò l’orologio sul comodino prima di continuare
la frase. “Undici e un quarto, quindi non hai molto tempo per
raggiungere questo obiettivo.”
Ci fu qualche secondo di silenzio in cui entrambi ci guardammo in giro
pensierosi, prima che mi decidessi a parlare.
“Dave?”
Lui mugugnò in risposta, tenendo lo sguardo fisso sul
soffitto.
“Posso farti una domanda?”
“Vai.”
Ci pensai un attimo. “Due domande? Anzi, tre?”
David si mise su un fianco voltandosi verso di me, e mi
lanciò uno sguardo accondiscendente. “Anche
settanta, Delia, basta che ti decidi.”
“Abbiamo fatto sesso?” sputai fuori, lo stomaco
aggrovigliato per l’ansia.
Lui spalancò gli occhi. “Io e te?”
Annuii mordendomi il labbro inferiore e Dave scoppiò a
ridere come se non avesse mai sentito qualcosa di più
divertente in tutta la sua vita. Mentre rideva il lenzuolo scese ancora
e notai che, per fortuna, aveva addosso dei boxer grigi. Mi sentii
improvvisamente molto stupida.
“Beh, grazie,” borbottai, quasi offesa.
“Sono gay!” esclamò il mio amico, senza
smettere di ridacchiare.
“Lo so, ma ieri sera ero davvero, davvero ubriaca, e non mi
ricordo bene tutto quello che è successo, penso di aver
fatto un sacco di casini e…” blaterai, in
confusione. “Anzi, ho fatto sicuramente danni a destra e
manca, sono una deficiente. E Dave, l’altra domanda
è… Insomma, sei ancora arrabbiato con
me?”
Lui non ci pensò nemmeno un secondo. “No, Deels,
no. Vieni.”
Aprì le braccia e io espirai, un po’
più tranquilla, gettandomi sulla sua spalla e facendomi
stringere da lui. “Scusa,” mormorai, la voce
spezzata.
Dave mi carezzò la testa. “Siamo stati entrambi
cretini. E non serve che io ti dica che sei e rimarrai
un’ottima amica per me, non ho mai pensato il contrario. Ti
voglio bene,” sussurrò, prima di sdrammatizzare
con una risata. “E comunque ti sei già scusata a
sufficienza ieri sera.”
Corrucciai la fronte e alzai il viso per guardarlo.
“Davvero?”
“Davvero! Mentre stavamo andando a dormire non facevi altro
che chiedere scusa per qualsiasi cosa, eri disperata. Hai tirato fuori
cavolate di due anni fa di cui non mi ricordavo neanche.
Adorabile,” disse, ammiccando.
Tornai a poggiare la testa sul mio cuscino, sistemai la maglietta per
coprirmi al meglio, infine mi misi le mani sul volto, strofinandole
sugli occhi.
“Non mi ricordo,” mi
lamentai, mentre la lieve angoscia di poco prima tornava a farsi strada
nel mio petto.
“Qual era la terza cosa che volevi chiedermi?” mi
spronò David, capendo dove volessi andare a parare.
Chiusi gli occhi e sospirai. “Sono… sono andata a
letto con qualcuno?” domandai con voce tremante.
“A parte con me, intendi?”
Scoccai un’occhiataccia di sbieco al mio amico e lui
tornò serio, ma aveva un’espressione rassicurante.
“No, non l’hai fatto.”
“Ne sei sicuro?”
“Abbastanza, sì.”
Mi accorsi che mi stavo stritolando le mani e incrociai le braccia al
petto, continuando a guardare il soffitto. “Cosa vuol dire
abbastanza?”
“Era tardi, la maggior parte della gente era già
andata a casa. Matt ti ha portato da me e mi ha chiesto se potevo
occuparmi di te. Avevo già previsto di dormire qui e Tyler
era andato via da almeno un’ora. Ti ho fatto lavare il viso,
ti ho aiutata a svestirti e a mettere quella maglietta, ho mandato un
messaggio a tuo papà dal tuo cellulare, ti ho fatto bere un
bel bicchierone d’acqua e ti ho sistemata sul letto con me,
mentre tu continuavi a blaterare scuse e ringraziamenti a
casaccio.”
Un particolare del racconto aveva fatto attorcigliare le mie budella
ancora di più di quanto non lo fossero già.
“Matt?” pigolai, la voce appena udibile.
“Sì, Matt. Ha detto che ti aveva tenuta
d’occhio lui da quando avevi iniziato a bere, per questo sono
abbastanza sicuro che tu non abbia fatto sesso con nessuno.”
Fece una pausa, riflettendo. “A meno
che…” aggiunse poi, in tono malizioso.
Mugugnai in segno di protesta, mi sfilai il cuscino da sotto la testa e
ci seppellii il viso, in imbarazzo.
“Deels?”
“Credo di aver fatto una cazzata,” mormorai,
afflitta.
“Se non esci da lì sotto non capirò mai
quello che stai cercando di dirmi.”
Spostai il cuscino giusto il necessario. “Credo di aver fatto
una cazzata,” ripetei.
Il bacio di Matt mi
trovò con le labbra già
schiuse e mi fece balzare il cuore direttamente in gola. Rimase
comunque in superficie, come la prima volta che mi aveva baciata per
allontanare Teller, al ballo, ma fu una cosa completamente diversa.
Innanzitutto, stavolta
durò di più. Mi
appoggiò la mano destra sulla nuca subito dopo aver posato
le labbra sulle mie e io chiusi gli occhi, d’istinto. Quando
li riaprii Matt si era staccato da me e stava guardando verso la porta,
forse per verificare che Stevenson fosse uscito. Io, invece, non
riuscivo a staccare gli occhi dal suo viso, completamente andata.
“Si
è deciso a sparire,
quell’idiota,” borbottò lui, voltandosi
di nuovo verso di me.
Appena vide che lo stavo
fissando come una scema, la sua espressione si
corrucciò di più. Non aveva spostato la mano
dalla mia testa: piano, come se stesse facendo una carezza
involontaria, infilò le dita sotto i miei capelli raccolti
sulla nuca.
“Non guardarmi
così, Gray,” mi
ammonì, la voce leggermente roca. “Ho bevuto
parecchia tequila anch’io.”
Mi ricordai di quando mi
aveva detto che quand’era ubriaco
gli piacevo un po’ di più, e mi scappò
un mezzo sorriso alcolico. Lui spostò di nuovo gli occhi
sulle mie labbra.
“Maledizione,”
imprecò a bassa voce.
Poi portò la
mano sinistra sul mio fianco, stringendo la
stoffa del mio vestito e avvicinandomi ancora di qualche
centimetro, finché non fui costretta ad appoggiare le
braccia sulle sue spalle.
“È
la tequila,” mormorai, un sorrisetto
a dipingermi il volto.
Lui annuì,
ancora corrucciato. “La
tequila,” ripeté.
Si avvicinò
di nuovo alle mie labbra, lentamente, come se
volesse darmi – e darsi – il tempo di cambiare
idea, ma quella volta fui io che mi sporsi in avanti percorrendo gli
ultimi centimetri che ci separavano.
Quel secondo bacio non
fu delicato, né rimase in superficie.
Dopo i primi istanti di stupore, Matt ricambiò, mi strinse
di più a sé e indietreggiò fino ad
appoggiarsi all’isola della cucina, cercando un sostegno per
aiutare la propria stabilità. Poi approfondì il
bacio e ci ritrovammo entrambi ad assaggiare il sapore della tequila
sulla lingua dell’altro.
Matt si
allontanò di qualche millimetro solo per inspirare a
pieni polmoni quella sensazione nuova e strana, così strana,
che sentivo anch’io premermi alla base dello stomaco.
“È
decisamente la tequila,
sì,” bisbigliò di nuovo, buttando fuori
l’aria e rilassando finalmente le spalle, lasciandosi andare,
un attimo prima di tornare a baciarmi con la bocca schiusa e inquieta.
Lo lasciai decidere come
continuare, ero troppo ubriaca e presa dalla
situazione per fare un altro solo passo in avanti. Mi bastava
continuare a stare lì, aggrapparmi alle sue spalle e
baciarlo, mentre lui mi passava le mani sui fianchi e sulla schiena.
Quando, in un attimo di confusione dettata dal mio tasso alcolemico,
tirai la testa indietro per controllare chi stessi baciando, lui non si
mosse nemmeno, troppo impegnato a riprendere fiato e ad impedirsi di
aprire gli occhi.
Ci baciammo ancora e
ancora, per non so quanto tempo, forse per delle ore, più
probabilmente solo per
qualche minuto, finché Patterson non scambiò le
nostre posizioni, girandosi e facendo in modo che mi appoggiassi io
all’isola. Dopo un paio di goffi tentativi riuscii a issarmi
con le braccia sul ripiano, afferrai la maglietta di Matt e lo tirai di
nuovo a me, aprendo le gambe per fargli spazio. Lui appoggiò
entrambe le mani di fianco a me, sul mobile, e mi guardò
serio negli occhi per la prima volta dopo un po’ di tempo: in
quella posizione il mio viso era alla sua altezza e potevo vederne ogni
particolare da vicino, così mi colpirono le sue sopracciglia
ancora corrucciate e l’espressione indecisa che gli leggevo
negli occhi.
“Cosa?”
gli domandai, sempre sottovoce.
Si umettò le
labbra, sospirò, distolse lo sguardo
girando impercettibilmente la testa. Non capivo a cosa stesse pensando:
lo tirai di nuovo per la maglietta che non avevo mai mollato e lui mi
accontentò, baciandomi piano.
“Hai baciato Matt. E allora?”
“Non l’ho baciato, cioè sì,
ci siamo baciati. Ma è lui che ha baciato me. Per
primo,” lo corressi, balbettando, pur consapevole che quella
volta era un dettaglio inutile e anche poco veritiero.
Dave, infatti, non modificò la propria espressione dubbiosa.
“E allora?” ripeté.
“Come e allora?
Davvero non ci arrivi?”
“Ci arrivo benissimo. Matt è un gran bel pezzo di
ragazzo, Delia, e vi piacete da una vita. Non capisco dove stia il
problema.”
Spalancai gli occhi. “Ci piacciamo da…? Ma cosa
stai dicendo? Ti vorrei ricordare che da quando ci
conosciamo…”
Il mio amico mi interruppe con un gesto secco della mano.
“Non iniziare con la tiritera. Il fatto che non siate
perfettamente compatibili dal punto di vista caratteriale non significa
che non possiate piacervi dal punto di vista fisico.
C’è sempre stata attrazione tra di voi.”
Scossi la testa, spazientita. “È evidente che devi
ancora smaltire la sbronza.”
“Come no,” fece lui, sarcastico.
Decisi di troncare lì il discorso, in parte
perché stava prendendo una piega che non mi piaceva per
niente, in parte perché sentivo il bisogno di muovermi da
quel letto. Ma c’era un problema.
“Ho un’ultima domanda, ma è un
po’ imbarazzante,” ammisi, cambiando argomento.
“Avanti, sentiamo. Tanto peggio di
così,” commentò lui, garrulo.
“Se non sono… Insomma, se tu mi
hai…” Presi fiato e buttai fuori il quesito.
“Perché diavolo sono senza mutande?”
Dave spalancò gli occhi, sbalordito, prima di scoppiare
sonoramente a ridere.
“Eddai, non ridere, è una cosa
importante!” lo rimproverai io, offesa.
“Ma che ne so, Delia! Eri completamente andata, te le sarai
tolte mentre dormivi!” sghignazzò il mio amico,
ancora piuttosto divertito.
“Quindi non sei stato tu?”
“Secondo te mi metto a toglierti l’intimo,
così a caso? Non so neanche slacciare un
reggiseno!”
Il mio broncio si distese un pochino. “Quello ce
l’ho ancora su, è la parte sotto che è
sparita.”
“Io ti posso solo dire che quando ti ho controllata
l’ultima volta avevi tutta la tua biancheria addosso, poi non
so come sei abituata a dormire a casa tua.”
Borbottai un insulto e mi ficcai sotto le lenzuola, uscendone qualche
secondo dopo con le mie mutande in mano, trionfante. David fece un
gesto di vittoria col pungo chiuso e, per la prima volta quella
mattina, ridemmo insieme, poi io mi infilai gli slip e scivolai fuori
dal letto, stiracchiandomi appena.
“Ho seriamente bisogno del bagno,” biascicai,
sentendo la nausea che tornava con prepotenza. “Sai
dov’è? Io non so nemmeno dove cavolo
siamo.”
“Se esci e vai a destra lo trovi in fondo al
corridoio.”
Lo ringraziai e andai a rintanarmi in bagno per diversi minuti: mi
lavai bene il viso e i rimasugli del trucco che comunque Dave si era
premurato di togliermi la sera prima, mi diedi una rinfrescata generale
e mi obbligai a bere un po’ d’acqua, mentre il mio
stomaco ancora si lagnava, ma con più garbo.
Mi venne in mente, all’improvviso, che anche se David aveva
avvisato mio padre sulla mia permanenza fuori casa per la notte, non
avevo ancora detto niente ai miei riguardo il pranzo. Uscii dal bagno
in tutta fretta e per poco non finii contro Patterson, che stava
salendo in quel momento l’ultimo gradino delle scale che
portavano fin lì: per fortuna lui si fermò in
tempo per evitare di sbattermi addosso, salvando così anche
il vassoio che stava trasportando. Lo superai di un paio di passi,
prima di sospirare a pieni polmoni per calmarmi e voltarmi ad
affrontarlo.
“Scusami,” biascicai, ancora agitata nonostante
l’impegno. “Non… non ti ho sentito
arrivare.”
Lui mi studiò con un’espressione imperscrutabile e
all’improvviso mi sentii decisamente troppo poco vestita.
Stavo per parlare di nuovo, spinta dal suo silenzio prolungato, quando
Matt si decise infine a proferire parola.
“Stai bene con la mia maglietta. Hai già
vomitato?”
Boccheggiai, presa totalmente in contropiede da quel suo evidente
tentativo di mettermi in difficoltà, tentativo che,
peraltro, era andato a segno. Mi ricomposi e gli scoccai
un’occhiataccia, incrociando le braccia al petto in posizione
di difesa.
“Non ancora, grazie per l’interessamento. Credo che
parlare con te potrebbe aiutare la causa, però, stai
già peggiorando il mio voltastomaco.”
Lui si morse piano il labbro per evitare di ridere e si
voltò per appoggiare il vassoio su una cassapanca
lì di fianco.
“Sul serio, stai poco bene?” chiese poi.
Notai che stava portando la colazione a me e Dave: caffè, un
brick di latte, un pacco di biscotti e qualche fetta di pane tostato
col burro d’arachidi. Perché doveva essere
così gentile, dannazione? Stavo riuscendo così
bene a ricominciare a odiarlo, era una cosa che dovevo fare ad ogni
costo.
Annuii, stranamente a corto di parole, e mi trovai a fissare con
insistenza un nodo del pavimento in legno.
“Vuoi mangiare qualcosa?”
Feci di nuovo un cenno con la testa. “Magari il
caffè potrebbe aiutare, ma credo di aver già
superato il reale rischio di rimettere.”
Pensai che a quel punto avrebbe ripreso il vassoio per portarlo in
camera, invece rimase fermo dov’era e si passò una
mano fra i capelli, indeciso. Non sapevo se avesse abbastanza fegato da
tirare fuori ciò che era successo la sera precedente per
dire qualcosa, ma era evidente che aveva intenzione di farlo,
perciò decisi che volevo essere la prima a parlarne, per
dimostrare più coraggio di lui.
“Non credo di ricordarmi quello che è successo
ieri,” dissi, guadagnandomi una sua occhiata stupita.
“No?”
“Non… non tutto,” balbettai,
già meno spavalda.
Corrugò la fronte. “Quindi qualcosa lo
ricordi?”
“Ricordo…” Distolsi lo sguardo per
riuscire a parlare. “Ricordo fino a quando eravamo in cucina
e poi ho un vuoto, non mi viene proprio in mente come sono arrivata qui
per dormire, insomma. Ma David mi ha assicurato, circa, che non sono
andata a letto con nessuno, quindi… Be-bene, direi.
Abbastanza.”
Ero andata alla grande, a parte il mio solito fiume di parole, fino
all’ultimo momento, in cui mi ero ritrovata a impappinarmi
senza pietà.
Matt annuì senza commentare i miei balbettii.
“Okay.”
Sospirai, tanto valeva fare quella domanda anche lui, già
che c’ero. “Non… non sono andata a letto
con… con nessuno, vero?”
All’ultimo mi trattenni dal dire “con
te”, ma lui dovette comprendere lo stesso il
sottinteso,
perché drizzò appena la schiena, e non
l’avevo mai visto così nervoso in più
di due anni di conoscenza.
Tentò comunque di scherzare. “Solo con Dave, ma
non in senso biblico. Credo.”
“Non prendermi in giro,” borbottai, cercando di
mantenere un tono leggero. “Quando mi sono svegliata per un
attimo ho creduto davvero di averlo fatto. E poi ero su un letto non
mio, con addosso una maglietta non mia e l’unica cosa che mi
ricordavo con chiarezza era quello che era successo con te
in… in cucina e quindi… Ero a pezzi ieri sera,
non avrei dovuto dire o fare certe cose.”
E tanti saluti al tono
leggero, brava Delia, mi insultai da sola per
essere riuscita a far riemergere l’imbarazzo in quel modo.
Eppure Matt, stavolta, non sembrò sorpreso: scosse la testa
e si avvicinò esitante di un passo, costringendomi a
prendere il bordo della maglietta che indossavo per abbassarlo e
coprirmi un po’ di più.
“Forse abbiamo esagerato con la tequila,”
esordì, e parve soppesare le proprie parole.
“Eravamo ubriachi, ma non abbiamo fatto niente di
male.”
Sembrava propenso ad aggiungere altro, ma lo interruppi, sentendomi
più leggera. “Hai ragione,
mi faccio prendere dal panico per niente. Eravamo sbronzi, tu volevi
solo aiutarmi con Stevenson che mi stava addosso, tra l’altro
ci sei anche riuscito. Ormai abbiamo l’abbonamento per
tirarci fuori a vicenda da situazioni del genere, non trovi? Ma so
perfettamente che non sarebbe successo niente se quell’idiota
non ci avesse provato con me. Insomma, siamo io e te.”
Le sue sopracciglia aggrottate e la smorfia indecisa sulle sue labbra
mi fecero pensare che non avevo detto ciò che intendeva
esprimere lui. Alla fine scrollò le spalle, decidendo di
lasciar correre.
“Delia, ti sei persa?”
La voce di Dave ci colse di sorpresa. Sussultai come una scema: mi ero
completamente dimenticata di lui. Mi girai e vidi la sua testa spuntare
in fondo al corridoio, dalla porta della camera dove avevamo dormito.
“Ehilà, scusate,” esclamò
mellifluo, appena si accorse della situazione. “Non volevo
disturbarvi, piccioncini.”
Spalancai gli occhi mimandogli con la bocca di smetterla, consapevole
che Matt, alle mia spalle, non avrebbe potuto vedere la mia espressione.
“Nessun disturbo,” rispose proprio Patterson, senza
accogliere la provocazione di David. “Ho portato la
colazione. È meglio se mangiate in camera, giù
c’è ancora confusione.”
“Uh, che bellezza!” cinguettò
l’altro, saltellando fin lì per guardare con
desiderio il vassoio. “Ti serve una mano per sistemare di
sotto, amico? Chiamiamo qualcuno?”
“No, ieri sera ho già raccolto le bottiglie in
giro e fatto tre sacchi dell’immondizia. Per le pulizie tanto
dovrebbe arrivare Martha tra poco.”
Seguivo il loro scambio di battute con moderato interesse e alzai un
sopracciglio al sentir nominare quella Martha.
Dave risolse i miei dubbi. “La cameriera? Sicuro che non
spiffererà niente ai tuoi?”
“Nah,
sono il suo pupillo, mi ama.”
David scoppiò sonoramente a ridere e io lanciai a Matt uno
sguardo che nascondeva un mezzo rimprovero esasperato.
“Il solito piccolo principe,” commentai, alzando
gli occhi al cielo.
Lui si difese dalla mia accusa velata. “Che
c’è? È logico che mi adora, mi ha visto
crescere! E comunque l’avevo avvisata della festa.”
Dave si intromise, si ficcò in mezzo a noi due e prese il
vassoio. “Io ho fame, ragazzi, torno in camera a mangiare in
santa pace, così vi lascio alle vostre scaramucce.”
“Vengo anch’io!” esclamai, cogliendo la
balla al balzo per fuggire da una conversazione che comunque, a mio
avviso, poteva considerarsi morta e sepolta.
Purtroppo per me, non lo era. Non feci più di un paio di
passi prima di sentirmi richiamare da Patterson.
“Gray.”
Espirai e mi fermai, rassegnata. Immaginavo che mi avrebbe bloccata, ma
speravo di evitarlo: non ero stata abbastanza veloce, quindi mi voltai
di nuovo per affrontare qualsiasi cosa mi aspettasse. Prima di parlare,
Matt lanciò un rapido sguardo alle mie spalle, per
verificare che David fosse sparito in maniera definitiva. Mi riusciva
difficile credere che quell’impiccione non fosse dietro la
porta ad origliare ogni parola, ma in quel momento non me ne
interessai, tanto sapevo che gli avrei raccontato tutto dopo, Dave mi
avrebbe obbligato a farlo.
Patterson forse la pensava al mio stesso modo, perché alla
fine si decise a parlare. “Siamo a posto?” chiese
solamente.
“In che senso?”
“Non smetterai di nuovo di parlarmi? Dopo ieri
sera.”
Quello, mio malgrado, mi colpì. Non mi aspettavo una domanda
del genere, ma non ero solo stupita: sentii un leggero formicolio sui
palmi delle mani che mi spingeva a rispondere velocemente per poi
fuggire. Non ero una persona codarda di natura, ma come tutti tendevo
ad evitare determinati discorsi che pensavo potessero mettermi in
difficoltà, ed era una cosa che con Matt mi capitava spesso:
sentirmi in difficoltà tanto da voler scappare. Mi costrinsi
a ragionare con lucidità.
“Non credo ti dispiacerebbe troppo,” risposi,
tenendo un tono scherzoso.
Le sue labbra disegnarono un sorriso tirato. “È
stancante sforzarmi di capire quando posso e quando non posso
rivolgerti la parola. E poi farti arrabbiare è una specie di
antistress per me.”
Piegai la testa di lato, fingendo di pensarci. “Non voglio
che ti stressi troppo,” mormorai infine.
Matt sorrise di nuovo, ma quella volta lessi spontaneità
nella sua espressione: sapeva, e lo sapevo anch’io, che
avevamo fatto un enorme passo avanti nel nostro modo di relazionarci,
fatto di continui alti e bassi, di esagerazioni da entrambe le parti.
Qualcosa sfarfallò nel mio petto, come ogni volta che lui
sorrideva così, e mi costrinse a mettere le mani avanti.
“Ma sappi che mi sento ancora in svantaggio per ieri sera,
dato che non mi ricordo tutto, e probabilmente mi ci vorrà
del tempo per superare la cosa e…”
“E bla bla bla… Lo so. Neanche coi postumi
rallenti la
parlantina, Gray?”
Assottigliai gli occhi, offesa solo a metà.
“Ognuno ha il suo antistress. E ora sparisci, principino, per
i miei gusti oggi abbiamo già parlato troppo.”
“Incredibilmente siamo d’accordo,”
replicò lui, voltandosi con un cenno di commiato.
Ci ripensò meno di un secondo dopo: stavo fissando la sua
schiena quando si girò per aggiungere qualcosa, abbassando
la voce di un tono.
“Ti ho solo portata su, per evitare che ti capitasse
qualcosa. Mi sono accorto, non so come, che eravamo entrambi troppo
ubriachi. Ho preso te, una bottiglia d’acqua e una maglietta,
e vi ho consegnate nelle mani della persona più affidabile
che ci fosse in circolazione: Dave. Tutto qui.”
Quando terminò di parlare, mi diede le spalle e
cominciò a scendere le scale, seppi che quel discorso era
definitivamente chiuso per lui. Serrai gli occhi qualche istante per
cercare gli ultimi flashback della sera precedente, per fare in modo
che la questione fosse chiusa anche per me. C’erano dei
ricordi, delle immagini racchiuse da qualche parte nella mia memoria,
solo che fino a quel momento ero rimasta convinta che fossero parte dei
sogni di quella notte, perché avevano una forma confusa e
spezzettata. Mi concentrai di più.
Io e Matt eravamo
davvero sul punto di andare oltre i baci. Perlomeno,
io lo ero. Ero seduta sul piano cucina, lui era ancora tra le mie gambe
e mi baciava così lentamente da farmi impazzire. Volevo di
più: forse ero già impazzita.
Lo avvicinai ancora a me
e afferrai il bordo della sua maglietta per
sfilargliela, lui mugolò qualcosa di indefinito sulle mie
labbra e fece un passo indietro. Senza rendermene conto seguii il
movimento del suo corpo con il mio e, nel farlo, scivolai
giù dall’isola. Non era molto alta, ma io ero
ormai completamente andata, e forse sarei caduta se Matt non mi avesse
acciuffata, posando le mani sui miei fianchi per tenermi in piedi.
Barcollai ancora un
po’, infine alzai gli occhi per
osservarlo. Doveva esserci una domanda nascosta nel mio sguardo,
perché lui scosse la testa piano.
“No,”
disse solo, fissando un punto del mio viso,
appena sotto lo zigomo sinistro, come se stesse cercando di
concentrarsi su qualcosa.
Misi su
un’espressione disconnessa. “No?”
“No,
senti… Si è fatto tardi. Come sei
venuta alla festa?”
“In
motorino,” risposi, come se fosse ovvio. Avevo
preferito muovermi con quello ed evitare la macchina con gli altri miei
amici in modo da essere autonoma per il ritorno, ma non ci avevo
pensato nel momento in cui avevo iniziato a bere.
“Dormi qui,
allora.”
“Qui?”
Lui annuì e
io mi toccai con due dita il viso, dove il suo
sguardo continuava a essere puntato.
“Ho qualcosa
sulla guancia?” gli domandai.
Accennò un
sorriso. “No. No, sei…” Si
bloccò un attimo, indeciso.
“Stai bene.”
Poi mi tirò a
sé e si abbassò per
lasciarmi un bacio proprio sulla guancia sinistra. Vi si
soffermò più del necessario, lo sentii sospirare
piano tra i miei capelli sopra l’orecchio, ma quando mi
voltai, scossa da quella vicinanza, e provai a baciarlo di nuovo,
lasciò a malapena che le nostre labbra si sfiorassero prima
di scostarsi.
Mi prese la mano.
“Andiamo, ti porto da David.”
“Dave
è arrabbiato con me,” gli
ricordai, la voce sempre più flebile e lamentosa.
“Sono sicuro
di no.”
Rientrai in camera e vidi David che si buttava sul letto: quello
sfacciato non provava nemmeno a fingere di non aver origliato.
“Vi siete baciati di nuovo?”
“No.”
“Perché avete smesso di parlare? Non capivo bene
quello che dicevate, questo corridoio è troppo lungo,
maledizione. E mi sono perso tutta la prima parte, pensavo fossi in
bagno!”
“Ero in bagno.”
Mi gettai sul letto accoccolandomi al suo fianco e lui mi
passò una fetta di pane tostato. Masticai qualche secondo in
silenzio, finché Dave non si intromise di nuovo nei miei
pensieri.
“Farete finta che sia successo solo per allontanare un
ragazzo che voleva approfittarsi di te?”
Finii di inghiottire il mio boccone prima di rispondere.
“È successo solo per quello.”
“Delia…”
mi ammonì lui, e immaginavo
dove volesse andare a parare, quindi lo interruppi subito.
“È successo solo per allontanare quel tipo, David,
non può esserci un’altra ragione per me e Matt,
ora come ora. Io sono sotto un treno per via di Nate, non pensavo di
potermi mai sentire così, ho litigato con te, ho bevuto, ho
fatto delle stupidaggini. Matt mi ha aiutato perché
Stevenson mi stava appiccicato. Basta.”
Lui sospirò, rassegnato, ed evitò di prolungare
il discorso. Sapevo che, anche se non era d’accordo con me,
non mi avrebbe contraddetto in quel momento: la mia verità
era quella che gli avevo appena spiegato e non c’era modo che
cambiassi idea.
Mi tornò in mente che dovevo sentire i miei genitori, quindi
mi alzai controvoglia dal letto e recuperai il cellulare, ancora
infilato nella mia borsa. Lessi velocemente un paio di messaggi di
Audrey e di Jude, e quando trovai l’sms che la sera prima
Dave aveva mandato a mio padre da parte mia, mi ritrovai a fare un
verso oltraggiato.
“Dave!” lo chiamai con tono di rimprovero.
“Cosa?”
Lessi ad alta voce il messaggio che avevo sotto gli occhi.
“Dormo da
David, perché David, che doveva darmi il
passaggio, dorme qui. Non preoccupare, ti sapevo domani.
Cos’è questa roba?”
Dave si mise a ridere quasi ululando. “Ero ubriaco
anch’io, Deels, ti aspettavi un poema epico?”
“Bastava scrivere molto meno!” lo rimproverai.
“Dormo fuori,
per esempio, era più che
sufficiente!”
Lui continuò a ridere di gusto stendendosi sul letto e io,
per non fare troppi danni, mi premurai di spostare il vassoio sul
pavimento prima di gettarmi sul mio amico per iniziare una lotta a
colpi di solletico.
Eccoci! Non so se vi aspettavate qualcosa di più, ma questo
è quanto.
Speravo di riuscire ad essere più svelta nella
pubblicazione, ma purtroppo a causa di vari casini ho dovuto rimandare
di almeno una settimana.
Speravo anche che il capitolo uscisse moolto più breve, ma a
quanto pare avevo fatto male i conti. Perlomeno è
più corto degli ultimi di un bel po'.
L'ultimissima parte è scritta abbastanza velocemente e
revisionata allo stesso modo. Potrebbe avere degli errori (ho
modificato delle cose anche l'ultima volta che l'ho riletta), quindi se
qualcosa non vi torna fatemi pure sapere!
Per il resto, non sono del tutto soddisfatta, ma non lo sono quasi mai,
quindi è inutile che tenga qui il capitolo a fare muffa.
Sono stata a lungo indecisa su cosa far ricordare a Delia, non volevo
toglierle niente di fondamentale e ho optato per uno schema
così. Tenete comunque conto che i ricordi sono solo i suoi,
come al solito non ci è dato sapere la parte di Matt, quel
ragazzo è impossibile.
Sono stata a lungo indecisa (e l'ho cambiato più volte)
anche sul tempo verbale da tenere nelle parti in corsivo. Essendo dei
ricordi precedenti al racconto avevo iniziato a scriverle usando il
trapassato, ma man mano che scrivevo mi sono accorta che
così sarebbe cambiato completamente il tono. Ho optato per
il corsivetto e per mantenere il passato remoto, ma non so. Se qualcuno
pensa che abbia sbagliato accetto suggerimenti, ancora oggi non sono
convinta.
Il titolo del capitolo è traducibile con qualcosa tipo
"Guardare i flashback che si intrecciano tra loro". È un
verso della canzone da cui prende il titolo la storia, Falling away with you.
Ho tediato abbastanza. Ringrazio davvero di cuore le stelle che hanno
commentato lo scorso capitolo per darmi un po' di carica. Love <3
Rinnovo l'invito a commentare e a farmi qualsiasi domanda vi passi per
la testa, sono qui apposta!
Causa prossimi impegni vari, non posso garantire tempi brevi di
pubblicazione, ma posso promettervi che farò del mio meglio
e che, come al solito, cercherò la spinta in tutte le
persone che seguono e commentano la storia con tanto amore.
Un bacio per voi! Alla prossima!
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