Crumbling away

di antigone7
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo + 1. You can call me Cinderella ***
Capitolo 2: *** Making new ''friends'' ***
Capitolo 3: *** Always be friendly during a party ***
Capitolo 4: *** Prom (mistakes) and Summer (funs) ***
Capitolo 5: *** How to silence a bully ***
Capitolo 6: *** Becoming Delia ***
Capitolo 7: *** War and Peace ***
Capitolo 8: *** What's important to me ***
Capitolo 9: *** The scarlet letter ***
Capitolo 10: *** I'll take you away ***
Capitolo 11: *** Don't ask questions you don't want to know the answer to ***
Capitolo 12: *** Love and friendship and other things ***
Capitolo 13: *** Watching the flashbacks intertwine ***



Capitolo 1
*** Prologo + 1. You can call me Cinderella ***


Prologo


Devo stare tranquilla, non devo agitarmi, devo rimanere calma.
Forza, Dee, inspira, espira, inspira, espira, su. Tranquilla tranquilla tranquilla tranquilla tranquilla. Un altro respirone e… Ecco, mi sento già meglio.
Quasi mi sono dimenticata il motivo per cui…
MA COME DIAVOLO È POTUTO SUCCEDERE????
No, no, cazzo, così non va bene. Mi ero ripromessa di stare calma e starò calma.
Col cavolo, sono agitata, okay? Ogni volta che ci penso mi viene l’urticaria, è assurdo, è inverosimile. E sono incazzata, anche dopo aver parlato con David.
Perché è un deficiente, sul serio. Non David, poveretto. Parlo di lui, di… di Matt.
Ecco, ho detto il suo nome e già mi tornano gli istinti omicidi.
Questo non doveva accadere, accidenti, Matt non doveva farmelo. Era OVVIO che non doveva, cioè… Io e Matt ci odiamo, ci odiamo da sempre. Mi ricordo bene quand’eravamo a scuola, i battibecchi in corridoio, gli insulti in classe, le occhiatacce in… beh, dappertutto. Ci odiavamo, ci odiamo.
Com’è successo, allora? E soprattutto, perché?
In realtà lo so bene, mi ricordo com’è cominciato tutto.
Ma tutto cosa, poi?









1. You can call me Cinderella


Avevo appena sedici anni quando i miei genitori decisero, mio malgrado, di trasferirsi dalla fantastica Oakland, una delle città più grandi e popolate della California, paradiso per chi, come me, ama divertirsi, conoscere gente, andare a concerti, cercare ogni sera locali diversi, a Winthrop, una cittadina di circa trentamila abitanti in Massachusetts, cioè esattamente sulla costa opposta degli States. All’epoca per me fu un trauma, ma non lo diedi troppo a vedere e mi comportai da ragazza matura, per quanto la mia età lo permettesse.
Sapevo bene che i motivi del nostro trasferimento erano seri: mio padre aveva problemi al lavoro e mia madre aveva passato una brutta depressione, dalla quale era uscita debolissima e parecchio instabile. Vivevamo tutti i giorni sul filo del rasoio, temendo che mia madre avesse nuovamente un crollo psicologico grave. Papà era pazzo di lei – lo è ancora, a onor del vero – e non voleva vederla stare nuovamente male: così, in poche settimane decise di licenziarsi e trovare casa a Winthrop, la cittadina natale di mia madre, dove viveva anche mia nonna materna.
Effettivamente, col senno di poi, quella fu la scelta più giusta. Dopo che ci fummo trasferiti mamma migliorò e non ripiombò più nel baratro, tornando quella donna meravigliosa che era prima. Forse fu anche e soprattutto grazie alla vicinanza di nonna Charlotte, ma la nostra famiglia tornò a sorridere, a poco a poco.
Questo però successe col tempo, col passare delle settimane e dei mesi. All’inizio la situazione era ben diversa.
Ero solo una ragazzina e non facevo certo i salti di gioia all’idea di lasciare la mia città, la mia scuola, i miei amici e la mia vita per buttarmi nell’ignoto. Ero forte, sì, e i miei genitori lo sapevano bene. Ma nemmeno io ero indistruttibile, per quanto gli altri volessero vedermi così. Vivevo dietro a una maschera che mi ero costruita con anni e anni di pratica: fingevo che mi andasse bene tutto, ma dentro di me piangevo a dirotto perché dovevo lasciare Oakland e tutto ciò che di buono avevo costruito là.

Il mio primo giorno nel nuovo liceo era un lunedì mattina d’inizio febbraio. Il fatto che l’anno scolastico fosse già iniziato da diversi mesi non aiutava, in effetti, ma, come si dice? Aiutati che il ciel t’aiuta: ero ben predisposta a conoscere almeno qualcuno, in quel buco di città, che non girasse con sette metri di puzza sotto il naso o che non si credesse il più figo dell’universo solo perché indossava le bellissime scarpe firmate che paparino gli aveva comprato.
Le scuole statali americane sono controllate quasi sempre da una rigida gerarchia, basata su di una piramide sociale tanto statica quanto assolutamente idiota.
In cima ci sono i più belli, simpatici, amati e popolari della scuola, quelli contro i quali nessuno può permettersi di andare: in genere sono i giocatori di football o di basket o di pallanuoto – dipende da qual è lo sport più seguito – e le loro fidanzate modelle.
Alla base, praticamente sottoterra, troviamo i cosiddetti sfigati: secchioni, emarginati sociali, nemici giurati dell’ora di educazione fisica e chi più ne ha più ne metta.
Al centro c’è invece una vasta gamma di persone “normali”, specie troppo spesso dimenticata da telefilm, libri, teen drama, ma sempre ben fornita, anche se poco stabile: uno di questi può sempre compiere un gesto eroico che lo faccia diventare popolare o un’azione infima che lo porti a rinverdire le fila degli sfigati. C’est la vie.
Infine, ci sono gli eccentrici. Generalmente questi non sono considerati né modelli da seguire né sfigati da evitare, sono semplicemente personaggi strani da guardare un po’ in disparte senza capire se è necessario ammirarli oppure ridergli dietro.
Io, a Oakland, facevo parte di quest’ultima categoria. Avevo amici tra i quarterback e le ragazze pompon, mangiavo in mensa con i secchioni del corso d’informatica e conoscevo un sacco di persone normali. Ero strana perché cambiavo spesso colore e taglio di capelli e mi vestivo senza seguire particolari mode, ma nessuno aveva il coraggio di annoverarmi in una categoria piuttosto che nell’altra, perché in fondo stavo simpatica un po’ a tutti. Ero piuttosto popolare ma non per la mia bellezza sfolgorante o il sorriso smagliante, quanto per il mio carattere solare e il mio essere sempre in movimento.
Dopo il trasferimento, quando misi piede per la prima volta nella Winthrop High School, decisi che non mi sarei sbilanciata. Volevo, finalmente, essere considerata anch’io una persona normale, con amici normali e comportamenti normali. Così, cominciai a guardarmi intorno, speranzosa, con un preciso scopo: conoscere gente normale. Lo capii anni dopo che, probabilmente, la normalità non esiste, è un puro concetto astratto. Ma questa è un’altra storia.

La Winthrop High School, lo notai non appena ci misi piede quel lunedì, non era diversa da tutte le altre scuole superiori d’America. Ero conciata normalmente: jeans, maglione, scarpe da ginnastica, il mio cappotto rosso (che, ok, forse non era poi così sobrio, ma neanche troppo eccentrico!) e i capelli – che al momento erano del mio colore naturale, ovvero biondo cenere e non troppo lunghi – legati in una semplicissima coda alta. Nonostante ciò percepivo gli sguardi su di me, ed erano sguardi più insistenti del necessario. Era così evidente che fossi nuova? A quanto pareva sì. Ad ogni modo, quegli sguardi mi infastidivano, ma non riuscivano a intimidirmi, ero abituata a cose peggiori. Tenni la testa ben alta, guardai negli occhi tutti quelli che mi fissavano e continuai la mia sfilata in corridoio senza intoppi.
Con il preside avevo già parlato due giorni prima, l’orario ce l’avevo tra le mani, non mi mancava niente. Dopo un passaggio veloce all’armadietto per appoggiare due o tre cose, mi diressi svelta verso l’aula dove avrei dovuto avere la mia prima lezione: Letteratura Inglese. Non male, non era la mia materia preferita, ma me la cavavo anche in quella, nella mia vecchia scuola.
Avevo già visto dov’era l’aula, mi sarebbe bastato percorrere quel corridoio, fare le scale, poi girare a destra e…
Maledizione! Proprio all’ultimo angolo successe una cosa che, secondo i miei piani, non sarebbe dovuta accadere. Appena svoltai, andai a cozzare contro qualcosa – che identificai solo dopo come un essere appartenente al genere umano – e caddi a terra, con il mio zaino, per fortuna, ben ancorato sulle spalle.
Tipico, pensai, sconfortata e seccata. Ci mancava solo che alzassi la testa e mi trovassi di fronte il ragazzo più bello, simpatico e popolare della scuola, e a quel punto sarei andata dritta a iscrivermi alla lista dei più banali cliché cinematografici della storia dell’umanità. Dai, certe cose succedevano solo nei film! Era impossibile…
Quando alzai veramente lo sguardo, però, per un attimo credetti di essere davvero in un film hollywoodiano. E, per la precisione, di aver appena incontrato il protagonista maschile di tale film.
Avevo davanti due occhi grigio-azzurri che mi scrutavano sospettosi; e io, dannazione, avevo un debole per gli occhi grigi. Inoltre, il portatore di questi occhi era un ragazzo alto, biondo e davvero, davvero molto bello. Mi sembrava di avere di fronte il Principe Azzurro in persona: mancavano il cavallo bianco e il mantello celeste e, forse, gli avrei detto di chiamarmi Cenerentola.
Come ho già specificato, però, questa mia prima impressione durò un attimo. Il tempo che lui aprisse bocca e avevo già cambiato totalmente idea. Probabilmente avrei dovuto capirlo già dal suo modo di guardarmi, sdegnato e infastidito, o dalla posizione svogliata con tanto di mani nelle tasche dei jeans, che era un completo stronzo. Ma, purtroppo devo ammetterlo, all’inizio mi feci fregare anch’io dal suo bel faccino, tanto che dopo dieci secondi di stupore catatonico – solo dieci, sì, per fortuna tendo a non farmi mai trovare più di troppo impreparata – gli sorrisi incoraggiante, per fargli capire che non mi ero fatta male, e mi rialzai da terra, vagamente imbarazzata.
Quando mi trovai in piedi di fronte a lui in tutta la mia statura – davvero molto scarsa, per mia disgrazia – rialzai, coraggiosa, gli occhi su di lui. Stavo per scusarmi e, magari, presentarmi con lui, ma fui bloccata dal suono della sua voce.
“Ehi novellina, pensi già che il corridoio sia tutto tuo, eh?”
Ci misi due secondi netti a decidere che quel tizio, per quanto bello, mi stava altamente sulle palle. Odiai da subito il suo modo arrogante e sfrontato di rivolgersi a me, alzando un sopracciglio e sorridendo irriverente. E poi… novellina?? Ma come diavolo si permetteva quel bellimbusto di rivolgersi così a me?
Non mi premurai neanche di rispondergli. Semplicemente, mentre le campane nella mia testa smettevano bruscamente di suonare, mi pulii la giacca da invisibili granelli di polvere e lo superai, accingendomi a raggiungere l’aula di letteratura prima che suonasse la campanella dell’inizio delle lezioni.
“Comunque le tue scuse le avrei accettate volentieri, sai, bionda?” mi apostrofò alle mie spalle mentre mi allontanavo tentando di mantenere un briciolo di dignità.
Le mie scuse te le sei giocate, bello, pensai inviperita, senza voltarmi.
Ma perché, perché tutti i bei ragazzi dovevano essere così stronzi o così deficienti?

Entrai nell’aula di Letteratura ancora incavolata con quel tipo – e con me stessa, per la figuraccia. Appoggiai con forza lo zaino su un banco qualunque fra quelli liberi, in seconda fila, e mi sedetti, spostando la sedia con rabbia. Facendo quel movimento notai che la persona seduta sul banco in parte al mio era trasalita, probabilmente spaventata da tanta veemenza nei miei movimenti.
Ottimo. Era appena cominciato il primo giorno di scuola in quel pulciosissimo paese e già avevo collezionata una figura di merda, un’occhiataccia da Mister-Sono-Biondo-E-Bellissimo-E-Tu-Non-Sei-Nessuno, e inoltre ero riuscita a spaventare la mia prima vicina di banco.
Benissimo, Delia, continua così e ti eleggeranno a breve capitano della squadra di stronzaggine della scuola, mi dissi, cercando di calmarmi prima di voltarmi per fare conoscenza con la povera anima che avevo impaurito.
Era una ragazza e appena mi girai distolse lo sguardo da me e cominciò a fissarsi intensamente le mani sopra il banco. Dovevo rimediare in qualche modo, sennò avrei passato il resto dell’anno senza alcun vicino di banco, lo sapevo: le voci in una scuola, specie se non molto grande come quella, girano piuttosto velocemente.
“Ciao,” le dissi sorridendo e cercando di sembrare amichevole, ma lei sobbalzò ancora leggermente quando le rivolsi la parola.
“Scusa se ti ho spaventata, non volevo,” continuai, senza troppe speranze.
Lei finalmente si girò a guardarmi e abbozzò un sorriso. “Figurati, non mi hai spaventata.”
Cavolo, era carina. Cioè, a me piacevano i ragazzi, chiariamo, ma non potevo non ammettere che quella ragazza aveva davvero dei lineamenti fuori dal comune: pelle olivastra, capelli nerissimi e liscissimi lunghi fin sotto le spalle, occhi verdi e tratti del viso delicati. Accanto a lei avrei certamente sfigurato, io e i miei capelli color topo!
“Mi chiamo Delia, comunque, Delia Gray,” mi presentai porgendole la mano che lei strinse brevemente.
“Audrey Byrne.”
Mi sorrise, timida. Timida, cosa che, ovviamente, io non ero, non sono e, temo, non sarò mai: a volte tenere la boccaccia chiusa mi farebbe bene. O forse no, comunque quella volta parlai, per fortuna.
“Sono nuova qui,” spiegai, senza rendermi conto che lei non mi aveva chiesto proprio un bel niente. “Comunque la scuola non mi sembra male e generalmente ci metto poco ad ambientarmi, almeno spero. A parte che stamattina ho già fatto un brutto incontro; non tu, è naturale…” Stavo parlando a macchinetta, decisamente e me ne resi conto: va bene logorroica e mezza pazza, ma non sono deficiente. “E scommetto che a te non te ne frega proprio niente,” conclusi.
Audrey sorrise, poi il suo sorriso si allargò. Alla fine era evidente che si stava trattenendo dal ridere, cioè, dal ridermi in faccia.
Sospirai, abituata a certe situazioni. “Va bene, puoi ridere se ti va, lo capirei. Anch’io mi riderei in faccia, ora.”
Lei ridacchiò, comunque con una certa educazione. “Sei buffa,” commentò.
“Grazie.”
“Oh, scusa, non volevo offenderti,” si spiegò subito: si vedeva lontano un miglio che era una persona talmente buona che, probabilmente, era impossibilitata fisicamente a fare del male a chicchessia. “Era in senso positivo: di solito quelli nuovi stanno sempre sulle loro…”
“Tranquilla, non mi offendo. Me lo dicono in molti, ormai lo prendo come un complimento anche quando non lo è!”
Audrey sorrise di nuovo. Almeno qualcosa di positivo la mia parlantina l’aveva ottenuto: ero riuscita a sciogliere l’imbarazzo, e non era poco.
In quel momento entrò il professore di Letteratura, un certo Mister Berries, e il chiacchiericcio nell’aula si interruppe. Ovviamente mi fece alzare per presentarmi di fronte all’intera classe e per dire qualcosa su di me: avrete già capito che non sono – e non ero – una ragazza particolarmente timida, quindi lo feci senza grossi problemi. Sentii qualche borbottio nel momento in cui dissi – non senza un certo orgoglio – di venire dalla California, ma per il resto nessuno si interessò più di tanto a me e non fecero domande strane.
Il seguito della lezione fu tranquillo, normale. Normale, esattamente come mi ero prefissata di essere. Alla fine dell’ora scambiai qualche chiacchiera con Audrey che, come avevo già intuito, a differenza mia era timidissima. Mi salutò con un “ci vediamo domani” e un mezzo sorriso, e io sperai con tutta me stessa di aver finalmente trovato quel briciolo di normalità che stavo cercando.

Ma durante l’ora di Biologia rividi lo stronzo. E conobbi il suo nome. Non che ci tenessi a saperlo, visto come mi aveva trattata durante il nostro primo incontro, comunque lo scoprii per caso.
Ero già dentro l’aula semideserta – per la precisione eravamo solo io e un’altra ragazza, che poco dopo avrei capito essere la secchiona del corso – quando lui entrò, zaino mollemente appoggiato sulla spalla e mano destra in tasca, come poco prima. Appena mi vide si fermò un secondo, giusto il tempo di squadrarmi con aria annoiata e alzare un sopracciglio, mormorò un “chi si rivede” a cui non mi degnai neanche di rispondere e passò avanti, andandosi a sedere in fondo alla classe.
Poco dopo l’aula si riempì e cominciò la lezione, alla fine della quale il biondo mi passò di nuovo accanto per raggiungere la porta mentre io ancora rimettevo l’astuccio nello zaino. Viste le sue precedenti uscite, mi aspettavo un’altra frecciatina o uno sguardo di superiorità dei suoi, invece mi ignorò completamente, cosa che mi stupì: rimasi a guardarlo imbambolata mentre prendeva la porta e si allontanava. Mi ricordo che pensai anche che avesse un bel culo e mi auto maledissi per quello.
Comunque, la mia vicina, una certa Sheila con cui avevo scambiato due parole durante la lezione, notò il mio sguardo e dovette fraintenderlo, perché mi parlò con fare cospiratorio, anche se non le avevo chiesto niente.
“Lui è Matt Patterson,” disse, con voce sognante. “Matthew Jonathan Patterson Junior, per l’esattezza. È un gran figo, eh?”
“Non mi interessa,” borbottai, colta sul fatto, scuotendo la testa.
“Certo che ti interessa, invece! Ho visto come lo hai guardato. Ma non devi preoccuparti, interessa a tutte qui a scuola,” confessò Sheila senza credere alle mie parole. “È bello, alto, ricco ed estremamente pieno di fascino. Peccato per il suo caratteraccio, è un po’ troppo burbero e chiuso in se stesso.”
“Io direi pure cafone,” sospirai, rancorosa, ma lei non mi sentì.
“Comunque ti sconsiglio di stargli dietro,” continuò, imperterrita.
Bella, avrei voluto dirle, non hai capito. Io a quello lì gli sto dietro solo per colpirlo col lanciafiamme quando non se ne accorge, fidati. Ma stetti in silenzio e ascoltai il resto delle sue parole, che non erano finite.
Mamma mia, questa parla più di me, non va per niente bene.
“Certo, pare che esca con un discreto numero di ragazze, ma quasi tutte più grandi. E poi è scostante da far paura, dicono. Lo so dalle voci, ovviamente, non l’ho mai provato di persona, anche se ammetto che mi piacerebbe… Dio, a chi non piacerebbe, hai visto i suoi occhi? E il suo culo?”
E continuò a parlare di quello e di decine di altre cose – di tutto ciò che le passava per la testa – finché non inventai una scusa per liberarmi e fuggii esasperata.

“Com’è andata a scuola, pulcina?”
Mio padre mi accolse con un fantastico thè caldo e l’aria attenta e premurosa.
Non riuscivo a odiarlo per aver deciso il trasferimento, era più forte di me. Lo aveva fatto per il bene di mia madre, per il bene della nostra famiglia e, anche se non apprezzavo quella nuova cittadina sulla costa orientale, tentavo di capire le sue ragioni. Oltretutto si vedeva lontano un miglio che si sentiva in colpa per avermi imposto quel cambiamento e non era mai stato così gentile e premuroso con me prima di allora.
Perciò, finsi la solita noncuranza.
“Bene, bene… Papà, mi hai fatto il thè, grazie!”
Lui mi schioccò un bacio sulla guancia. “Allora, com’è la nuova scuola? Cos’hai fatto oggi?”
Mi fece quasi tenerezza. Sorrisi.
“Ho seguito le prime lezioni, niente di che. L’anno è già cominciato da sei mesi quindi dovrò un po’ capire come stanno messi coi programmi, ma penso di potercela fare.”
“Brava la mia pulcina!” si congratulò mio padre, dandomi un buffetto. “E hai conosciuto qualcuno di interessante?”
Pensai alle conoscenze della giornata: Audrey, Sheila, un ragazzo gentile e brufoloso di cui non ricordavo il nome. E poi quel Patterson: mi veniva l’urticaria solo a pensarci, ma evitai di parlargliene.
“Sì, una ragazza carina, si chiama Audrey.”
Chiacchierammo allegramente per un po’ bevendo il thè, infine gli domandai dove fosse la mamma e lui mi rispose che si trovava in camera con la nonna. Gli dissi che andavo a salutarle e mi sorrise incoraggiante.
Nonna Charlotte era la madre di mia madre. Non l’avevo mai vista molto spesso perché, ovviamente, fino a una settimana prima lei viveva a Winthrop mentre noi stavamo in California e dovevamo fare parecchie ore d’aereo per andare a trovarla. Ma adesso eravamo lì, e già dopo i primi giorni vissuti a stretto contatto con lei mi ero accorta di quante cose avessimo in comune: era una donna forte e battagliera e sospettavo di avere preso da lei la maggior parte dei lati del mio carattere, dal momento che i miei genitori, invece, erano molto diversi da me.
La adoravo, comunque. Ammiravo il suo modo di prendere la vita, così simile al  mio ma molto, molto più maturo e consapevole. Con piglio deciso stava spronando mia madre a uscire dal baratro della depressione in cui era caduta quasi sette anni prima, dopo un brutto aborto. E ci stava riuscendo: era ancora all’inizio ma io vedevo dei cambiamenti evidenti in mamma e speravo che stavolta ce la facesse davvero.
“Fallo almeno per tua figlia, Miriam, lei se lo merita.”
Quella era la voce di nonna e Miriam, ovviamente, era il nome di mia madre. Le potevo sentire discutere dall’altra parte della porta ma non mi andava di origliare e avevo un brutto presentimento: bussai e subito dopo entrai, trovando mia madre stesa a letto e nonna Charlotte accanto a lei, che la guardava con aria di rimprovero. Mi si strinse il cuore: mamma passava le giornate a letto solo quando stava male – psicologicamente molto male, intendo – e in quel primo periodo a Winthrop non l’avevo ancora vista così.
La salutai e mi sedetti sul letto, accanto a lei, dandole un bacio sulla guancia. Mamma accennò un sorriso, cosa che prima non faceva mai, e per un attimo sperai che le cose andassero bene, da lì in avanti.
E promisi a me stessa che avrei fatto di tutto per farle andare bene. Ora, c’era anche nonna Charlotte ad aiutarmi.












È una follia pubblicare questa storia, già lo so. Ma è da secoli che è lì e mi guarda triste, e ultimamente, chissà perché, ha deciso di prendere possesso delle mie sinapsi e si è messa a scriversi da sola. Giuro.
Procediamo con ordine, con qualche informazione che forse può esservi utile.

Crumbling away è una storia nata praticamente secoli fa nella mia testa. All'epoca stavo scrivendo e pubblicando qui su EFP un'altra cosa, Of all the people in the world. Dai personaggi di quella è nata anche questa storia, con Delia protagonista. Non ne è un sequel, per il momento è più un prequel, però più avanti raggiungerà e supererà le vicende di Of all. Essendo Crumbling narrata da tutt'altro personaggio (Of all è raccontata in prima persona da Jude, che qui comparirà nel prossimo capitolo) sarà una cosina un po' diversa, anche se conto di mantenere il tono ironico e più o meno leggero della sua genitrice.
Non è assolutamente necessario aver letto l'altra storia per comprendere questa. Potete farlo, se volete, ovviamente a me farebbe piacere, ma sappiate che Of all è ambientata, per ora, nel futuro rispetto a questa. Va benissimo leggerle nell'ordine che volete, o leggerne solo una delle due, o non leggerle affatto, as you want.

Crumbling, ripeto, sarà una storia prevalentemente leggera, ma purtroppo non sono capace di scrivere senza qualche dramma. Niente di troppo stressante, solo la vita reale che ogni tanto si immischia nella storia di questi ragazzi.
So che i primi capitoli possono sembrare noiosetti ma, mi spiace, è più forte di me, mi servono sempre a caratterizzare i personaggi. Poi ci sarà più azione, promesso.
Delia è una persona molto, molto diversa da me e da come ero io alla sua età, spero di riuscire a renderla lo stesso. Matt è molto di più di quello che si vede nei primi capitoli, ma questo lo noterete più avanti. Per quanto riguarda il resto, la trama, i personaggi, le ambientazioni, sappiate che ho appositamente giocato con i cliché tipici dei teen drama americani, quelli della mia generazione almeno. Quindi troverete la storia letteralmente infarcita di luoghi comuni e banalità: io vi ho avvisati, non venite a lamentarvi poi!

Spero che apprezziate. I primi cinque capitoli di Crumbling away sono già scritti e, per ora, sto continuando a scrivere. Non posso garantire niente, sono estremamente scostante e pigra, ma un feedback minimamente positivo potrebbe aiutarmi.

Vi ringrazio infinitamente per l'attenzione, a presto!

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Capitolo 2
*** Making new ''friends'' ***


2. Making new "friends"


Col tempo, effettivamente, le cose migliorarono. Ci vollero settimane, mesi, ma mamma migliorò, papà tornò a sorridere come faceva un tempo e nonna si dimostrò la combattente che avevo immaginato fosse. Ci salvò, probabilmente.
Ma se pensando a quel periodo dovessi scegliere un giorno che la vita me la cambiò veramente, non avrei dubbi.

Era la mia terza settimana di scuola, il mercoledì per l’esattezza. Arrivai a scuola con il mio solito umore ottimista e aperto al mondo e, prima dell’inizio delle lezioni, successe una cosa che mi scombussolò completamente la giornata e un’altra cosa che mi cambiò completamente la vita.
La prima, com’è ovvio, fu un’iniziativa di quel Patterson. Ero tranquilla, impegnata sistemare i libri dentro il mio armadietto, quando una voce alle mie spalle mi fece trasalire in modo molto evidente.
“Ehi, novellina.”
Per la sorpresa, nel girarmi andai a sbattere col braccio contro l’anta aperta del mio armadietto, prendendo una bella botta. Trattenni a stento un’imprecazione, ma i guai erano appena cominciati: appena mi voltai, infatti, mi trovai davanti al ghigno ironico e divertito di nientepopodimeno che Matthew J. Patterson in persona.
All’inizio rimasi talmente interdetta che mi mancarono le parole, così continuai solo a massaggiarmi il braccio leso con veemenza. Poi ritornai in me, raddrizzai il busto, alzai il mento e parlai, scocciata.
“Che vuoi?” chiesi, incapace di immaginarmi una sua qualsiasi risposta.
In quei quindici giorni di scuola appena trascorsi, infatti, lui non aveva fatto altro che ignorarmi del tutto: non mi aveva mai degnato di un solo sguardo, anche se frequentavamo più di un corso assieme, essendo dello stesso anno. Non che la cosa mi stupisse più di tanto. Insomma: l’unica volta in cui le nostre strade si erano in qualche modo incrociate era quando gli ero andata bellamente a sbattere contro e non mi aspettavo certo che da lì cominciasse a salutarmi o robe simili. Un cafone rimane sempre un cafone, pensavo, e all’epoca consideravo Matt un vero deficiente borioso e maleducato. E non ci tenevo ad avere a che fare con lui.
Comunque, a domanda risposta, si dice: la risposta di Patterson mi lasciò a dir poco esterrefatta. Continuando a sorridere, allungò il braccio verso di me e aprì la mano, porgendomi qualcosa.
“Penso che questo sia tuo,” disse, ignorando il mio sguardo d’odio puro.
Io smisi tutto d’un tratto di massaggiarmi il braccio, cosa che avevo continuato a fare fino a quel momento, e guardai sbalordita il palmo della sua mano, sul quale spiccava tranquillo il mio braccialettino verde. Ce l’avevo solo da qualche mese ma ci tenevo moltissimo, quel bracciale di stoffa me l’aveva regalato mia nonna quando ancora vivevo a Oakland, e lei ne aveva uno uguale: era il suo modo per starmi vicina anche quand’eravamo lontane. Il giorno prima, a casa, mi ero accorta di averlo perso da qualche parte e ci ero rimasta parecchio male.
Perciò restai a bocca aperta.
“Dove… Quando me l’hai preso?” balbettai, sorpresa e sospettosa.
Lui schioccò la lingua, più divertito che infastidito dalla mia non troppo celata accusa di furto.
“Ieri l’hai lasciato sul banco dopo la lezione di Matematica,” spiegò, e io mi sentii un’idiota: non avrebbe avuto motivo per prendermi volontariamente il braccialetto, ero stata stupida anche solo a farmelo passare per l’anticamera del cervello.
Restavo comunque diffidente nei suoi confronti, le vecchie abitudini sono dure a morire. Così, presi ciò che mi stava porgendo e bofonchiai un ringraziamento prima di tentare di girarmi di nuovo verso l’armadietto per tornare alla mia occupazione. Ma Matt mi bloccò prendendomi un braccio e facendomi trasalire per la seconda volta.
“Sai, penso che abbiamo cominciato col piede sbagliato, io e te.”
Tornai a guardarlo negli occhi – ma proprio di quel maledetto grigio dovevano essere? – aspettandomi di vedervi un’espressione di scherno che, invece, non trovai.
“E…?” domandai quindi, presa alla sprovvista: non capivo dove volesse arrivare.
Lui fece un passo verso di me, continuando a stringere il mio avambraccio nella mano destra. “E penso che il nostro rapporto potrebbe essere, diciamo… migliore di così.”
Nel suo sguardo era passato un lampo di malizia o me l’ero solo immaginato?
“Quale rapporto, scusa? Io non ti conosco,” puntualizzai, sulla difensiva.
“Hai ragione,” fece lui, staccando la mano dal mio braccio per porgermela. “Sono Matt.”
“Delia.”
Ci stringemmo la mano, lui sorridente, io ancora cauta.
“Gray, giusto?”
“Bravo, vedo che durante le lezioni ascolti pure, non sei solo concentrato su te stesso come sembrerebbe.”
Questa mi era uscita piuttosto cattiva ma con lui era più forte di me, quasi inconscio, comportarmi da stronza. Matt comunque non si fece impressionare.
“Mi odi così tanto, Delia Gray?”
“Ho già detto che non ti conosco, Matthew Patterson.”
Lui ridacchiò. “Anche tu sai come mi chiamo, allora.”
“A quanto pare lo sanno tutti in questa scuola, giusto?”
Matt si limitò ad alzare le spalle, così continuai io.
“E tornando alla domanda di prima: non posso ancora dire di odiarti, ma, se devo essere sincera, finora non mi hai fatto una gran bella impressione, ecco. Quindi, o arrivi al punto e mi dici cosa vuoi da me o puoi anche andartene, tanti saluti e grazie ancora per il braccialetto.”
Lui alzò un sopracciglio, tornando serio. “Hai un bel carattere di merda, te l’ha mai detto nessuno?”
Boccheggiai, offesa. Okay, mi stavo volutamente comportando male con lui per fargli pagare la pena del nostro primo incontro – e forse anche per fargli pagare il fatto di essere così bello e insieme così merdoso – ma doveva avere una bella faccia tosta per rivolgersi a me in quel modo: avevo avuto ragione su di lui fin dall’inizio, evidentemente. Per fortuna mi ripresi in tempo.
“Solo con le persone che non mi piacciono per niente.”
“E posso chiedere cos’avrei fatto per meritarmi quest’onorificenza?”
“No, perché lo sai già,” risposi seccata, girandomi a prendere due libri dall’armadietto per poi chiuderlo.
“E io che pensavo di aver riguadagnato dei punti portandoti quello,” fece, indicando il braccialetto che nel frattempo avevo rimesso al polso. “Che illuso.”
“Già,” confermai, voltandomi di nuovo verso di lui. “Sai com’è, non siamo più alle elementari e io non sono la maestra che mette una stellina accanto al tuo nome ogni volta che fai una buona azione.”
“Oh, sei piuttosto rancorosa. Così mi spezzi il cuore, però!” esclamò sarcastico, portandosi una mano al petto come se l’avessi colpito.
Mi venne voglia di colpirlo davvero. “Spiritoso.”
“Potrei esserlo anche di più.”
“Si può sapere cosa vuoi da me?” sbottai, infastidita dai suoi continui sbalzi d’umore, dal suo comportamento criptico e, soprattutto, dai doppi sensi che continuavo a leggere nelle sue frasi e che mi mandavano in bestia.
“Cercavo solo di diventarti amico, ma se sei così maldisposta…” Calcò sulla parola amico in un modo che mi fece venire i brividi di paura, e non solo.
“Non mi fido di te,” confessai, schietta e dritta al punto come al mio solito. “Ma se la tua proposta di amicizia,” sottolineai anch’io quel termine, “è sincera, si vedrà.”
Rise. “Signorsì, tenente Gray.”
Poi si allontanò da me e, prima di andarsene, mi lanciò un’ultima frecciatina. “Posso darti un consiglio?”
Non attese la mia risposta, che comunque sarebbe stata negativa. “Sei troppo seria, sciogliti un po’, novellina. Allora sì che potremo diventare amici.”
Era incredibile! Riusciva a farmi imbestialire con due parole, e dire che gli avevo appena aperto uno spiraglio!
“Senti,” cominciai, “non mi sembra che tu…”
Ma Patterson si stava già allontanando lungo il corridoio, sventolando la mano.
“Ciao ciao,” mi salutò, incurante delle mie proteste. Poi girò l’angolo e sparì dalla mia vista prima che riuscissi a tirargli una scarpa.
Respirai a fondo, appoggiandomi al mio armadietto. Idiota buzzurro.

Ero ancora appoggiata all’armadietto, che tentavo di calmare l’improvviso malumore che l’incontro con quel deficiente mi aveva fatto venire, quando sentii una voce che mi colse, nuovamente, di sorpresa.
“Ciao!”
Ero talmente presa dai miei pensieri e dai propositi omicidi che non avevo visto né sentito la persona che mi si era avvicinata, e sussultai: stava diventando un’abitudine, maledizione!
Davanti a me c’era Audrey col suo solito sorriso dolce e timido.
“Audrey, ciao!”
“Ti ho spaventata?”
“No, figurati, ero nel mio mondo, ma mi faccio spaventare raramente.”
In quei giorni avevo avuto modo di conoscere meglio Audrey Byrne. Che fosse una bella ragazza me n’ero accorta da subito, ma ovviamente non era quello a colpirmi più di tutto. Era il mio esatto opposto fisicamente – io biondiccia con gli occhi nocciola, lei mora e bellissima – ma anche dal punto di vista caratteriale, e la cosa mi piaceva: tanto io ero espansiva e senza pudore, quanto lei era timida e riservata; io una stronza dalla lingua lunga, lei dolce e buona con tutti.
“Ah, meglio per te,” commentò.
Mentre lo diceva, notai due ragazzi che, passandoci accanto, le fissavano il culo, commentandolo apertamente fra loro. Audrey ovviamente non si accorse di nulla – era piuttosto ingenua – ma io non potei fare a meno di lanciare un’occhiata assassina ai due che, vedendomi, scapparono fra le risa.
“Cretini,” borbottai tra me e me.
“Con chi ce l’hai?” mi chiese Audrey girandosi per controllare se ci fosse qualcuno dietro di lei.
“Due cerebrolesi che ti guardavano il culo. Sono andati via, adesso.”
“Guardavano il culo? A me? Nooo, è impossibile! Ti sarai sbagliata.”
Scossi la testa, rinunciando: mi ero già accorta dell’incredibile modestia di Audrey e avevo appurato che non era né falsa né esagerata. Lei davvero non si accorgeva di essere bella e davvero reputava strano che qualcuno s’interessasse a lei.
Meglio così: se fosse stata sicura di sé e del suo aspetto fisico, probabilmente avrebbe potuto compiere una scalata sociale non indifferente e diventare popolare in poco tempo, invece era una ragazza semplice e per nulla interessata a fare la cheerleader o robe simili.
“Perché parlavi con Patterson?” mi chiese all’improvviso Audrey, stupendomi: avrei scoperto presto che, nonostante la sua timidezza, era molto curiosa, quel lato del suo carattere mi era ancora oscuro.
“Non lo so,” risposi, sincera. “È venuto a cercarmi per darmi un braccialetto che ho perso ieri a lezione e poi ha cominciato a dire cose senza senso.”
“Ci ha provato con te?”
“Spero di no.”
Non ero ancora sicura riguardo quel punto: i suoi doppi sensi continuavano a risuonarmi fastidiosamente nelle orecchie.
“Strano, devi essere una delle poche a cui non piace, qui a scuola.”
“Non è che non mi piace, lo trovo maleducato e borioso, e preferisco non avere a che fare con gente del genere,” tagliai corto, per non dover ammettere che inizialmente anch’io ero stata fregata dai suoi occhioni color ghiaccio. Che stupida.
“Ok,” annuì, poi qualcosa la distrasse, per fortuna. “Oh, guarda, c’è Jude! Vieni, te la presento,” disse indicando una ragazza che si era appena fermata a metà del corridoio, davanti a quello che doveva essere il suo armadietto.
“Jude!” La chiamò, alzando la voce, e quella ci guardò.
Aveva capelli castani e mossi e uno sguardo nero un po’ diffidente mentre mi guardava, ma sorrise, anche con gli occhi, appena vide Audrey.
“Aud, buongiorno.”
La mora ne approfittò per presentarci. “Lei è Delia, ti ricordi? La ragazza nuova, viene da Oakland.”
“Sì, me ne hai già parlato,” la frenò l’altra, squadrandomi. Ero paranoica o quella sembrava non avermi proprio in simpatia?
Audrey continuò, imperterrita. “Delia, lei è Jude, la mia migliore amica,” sottolineò con orgoglio.
Lei mi strinse brevemente la mano, continuando a studiarmi con lo sguardo e io, come sempre, cominciai con la mia solita parlantina.
“Sì, ho capito chi sei! Judith Freeland, giusto? Seguiamo diversi corsi insieme, in alcuni c’è anche Audrey, ovviamente. Sì, sì, tu a storia eri seduta vicino a lei! Piacere di conoscerti, comunque, anche perché ancora conosco pochissime persone in questa scuola e Audrey è stata da subito molto gentile con me e…”
“Audrey è sempre molto gentile con tutti,” mi interruppe lei, secca, lanciando un’occhiata in tralice alla sua amica.
“Me ne sono accorta, ma non tutti sono così qui a Winthrop.”
Jude dovette leggere in quella mia frase una sottospecie d’accusa nei suoi confronti – anche se non era assolutamente mia intenzione rivolgermi e lei, io stavo pensando a un’altra persona – perché mi guardò un po’ colpevole e un po’ infastidita, dopodiché mi ignorò cominciando a parlare con Audrey.
Scoprii solo più avanti il motivo di tutta quella diffidenza nei mei confronti: Jude era convinta, all’inizio, che io avessi avvicinato Audrey solo per la sua bellezza, pensando che mi avrebbe aperto le porte della popolarità a scuola. Era sospettosa di natura con gli estranei, lo è sempre stata e lo è ancora, e temeva sfruttassi la gentilezza della sua amica come facevano quasi tutti, del resto. Non poteva essere più lontana dalla verità, comunque, e glielo dimostrai col passare del tempo, conquistandomi a fatica la sua fiducia e quella di tutto il loro piccolo gruppetto.
Ascoltai con interesse il loro discorso, obbligata per una volta a starmene in disparte, visto che le conoscevo ancora troppo poco.
“Stamattina mi sono svegliata davvero presto,” stava dicendo Jude, con uno sbadiglio. “Penso che non lo farò mai più.”
“In effetti sei in anticipo sulle lezioni, è una cosa più unica che rara vederti per i corridoi prima del suono della campanella.”
“Non dirmelo, non vale la pena arrivare a scuola in anticipo se puoi dormire dieci minuti in più. Ma stamattina avevo un buon motivo per arrivare presto.”
“E cioè?” Evidentemente nemmeno Audrey riusciva a capire del tutto la follia di Jude.
“Prima o poi deve per forza passare di qua, questo è il suo armadietto. E quando arriverà, farà i conti con me, quel maledetto.”
“Ma di chi stai parlando?” chiese la mora, confusa quanto me.
“Parker, ovviamente. Quello scemo non è mai in ritardo, secondo i miei calcoli dovrebbe arrivare esattamente tra…” guardò l’orologio, “due minuti e mezzo, circa.”
“Che ti ha fatto Josh?”
Jude sbuffò, scocciata. “Ieri per mollare una sua ragazza le ha detto che era perché era innamorato della sua migliore amica, e da allora quell’oca non mi dà tregua con messaggi minatori e chiamate anonime.”
Audrey sorrise. “Innamorato di te?”
“Ma ti pare?! Evidentemente per lui era una scusa come un’altra, ma quella l’ha preso sul serio e a rimetterci sono sempre io. E grazie al cielo la tizia frequenta il collegio privato e non è qui da noi, sennò a quest’ora mezza scuola saprebbe che ‘Jude Freeland e Joshua Parker stanno insieme, pensate!’,” concluse in falsetto, imitando alla perfezione la voce di Sheila, la ragazza che avevo conosciuto il mio primo giorno.
A quel punto non riuscii a trattenere una risata, alla quale Jude mi guardò interrogativa.
“Scusa, non ridevo di te,” spiegai. “È che l’hai fatta uguale. Voglio dire, stavi imitando quella ragazza, Sheila Bradbury, vero?”
Lei mi sorrise per la prima volta, annuendo. “Grazie.”
“Di niente, è vero.”
Poi Jude si voltò e la vidi assottigliare lo sguardo puntando qualcuno.
“Eccolo,” disse solo, prima di partire all’attacco.
“TU!” sbraitò, indicando un ragazzo moro e sorridente, che sembrava divertito dall’espressione assassina di Jude.
“Dimmi, cara.”
“Tu,” ripeté lei, abbassando il tono di voce per non farsi sentire da mezza scuola. “Maledetto cretino! Ti sei bevuto il cervello? Come ti è venuto in mente di raccontare certe stronzate a quella gallina della tua ex? Ora è convinta che io ti abbia irretito in qualche modo e sta cercando un modo per uccidermi. E ho cercato di farle capire che poteva anche tenersi te e la tua idiozia tutta a sua disposizione, ma…”
“Non mi vuoi?” la interruppe lui, facendo un’espressione da cane bastonato e sporgendo il labbro inferiore per farle pena.
A Jude per poco non esplose la giugulare mentre tentava di trattenersi dal picchiarlo.
“Devi smetterla di comportarti così, Parker! Pensa se lo viene a sapere qualcuno della nostra scuola… Non ci prendono già abbastanza per i fondelli per i tuoi gusti? Eh?”
Mentre continuava a sbraitare con ferocia, si affiancò a me e Audrey un altro ragazzo, un tipo castano, smilzo e con gli occhiali.
“Questa non me la voglio perdere,” commentò, divertito. “Che è successo?” chiese a Audrey.
Le possibilità erano due: o era un guardone ficcanaso, o anche lui faceva parte della compagnia ed era abituato ad assistere a scene del genere. Quando vidi che Audrey gli spiegava tranquillamente la situazione e lui commentava con un “uuuh, roba grossa allora!”, capii che dovevano essere amici e decisi di presentarmi anch’io, sporgendomi per dargli la mano.
“Io sono Delia, piacere.”
“David,” rispose lui. “Sei quella nuova, vero? La californiana.”
“Giusto,” confermai. “Sono già più conosciuta del previsto, e sì che ho cercato di restare in incognito finora.”
Lui ridacchiò. “Mpf. Quando c’è una nuova qui lo sanno sempre tutti. Ti dispiace se chiacchieriamo dopo? Sennò ci perdiamo il cinema,” disse indicando Jude e Josh con un cenno del capo.
Sorrisi: la scenetta che ci si parava davanti era davvero memorabile anche per me che li conoscevo a malapena.
E nell’attimo in cui Jude aveva aggredito quel Josh (il suo migliore amico?), avevo deciso su due piedi che quella tipa mi piaceva e che, quindi, avevo un motivo in più per cercare di piacere a lei: era una tosta e se non si fidava di me, toccava proprio a me farle cambiare idea.
“Sei incredibile, non te ne frega proprio niente eh?! Maledetta la volta che ho deciso di sedermi su quell’altalena, dio… Se fosse stata più…”
Jude continuò imperterrita a sfogarsi finché non fu Josh a interromperla, posandole entrambe le mani sulle spalle – con molto coraggio, pensai. Poi scoprii che lui sapeva quello che stava facendo: lei gli perdonava sempre qualunque cazzata facesse e Josh ne era perfettamente conscio.
“Free, stai calma, ok? Non è successo niente!”
“Non è successo… Eeeeh?!” Lei non sembrava ancora intenzionata a rilassarsi, ma, strano a dirsi, bastarono un paio di mosse ben congegnate da parte del ragazzo per farle cambiare idea.
“Ascolta, Jude, è una cavolata! E non arriverà mai la notizia qui a scuola, sai che è impossibile. A meno che non lo scoprano tutti da te che continui a sbraitare ai quattro venti, ma in quel caso non puoi dare la colpa a me. È come se mi avessi dato una mano a mollare una ragazza pedante, ok? Sono in debito con te, Free.”
Lei gli lanciò un’occhiataccia, ma sembrava già più tranquilla. “Eri già in debito con me prima di questo, idiota. Tu sei sempre in debito con me.”
“Oh, è vero. Vorrà dire che farò qualcosa di veramente grosso per ripagarti, ok?”
Mi sembrava incredibile, ma quelle due frasi erano riuscite a trasformare Jude da belva feroce a… Beh, insomma, non è che ora fosse proprio un agnellino remissivo, ma si era sicuramente calmata e l’aveva perdonato. Che classe, quel tipo.
“Bravi bambini, avete fatto la pace pure oggi!” si intromise David, avvicinandosi per dare una pacca sulla spalla a Josh e un bacio sulla guancia a Jude: poi le disse qualcosa all’orecchio, lei ridacchiò e tutto tornò definitivamente liscio come l’olio.
“Ma fanno sempre così?” bisbigliai a Audrey per non farmi sentire da nessuno.
“No, a volte è anche peggio. Però in realtà si vogliono un sacco di bene.”
“E meno male,” commentai, prima di essere presentata anche all’ultimo dei presenti, ovvero il ragazzo protagonista della scenetta a cui avevo appena assistito, Joshua Parker.
Ero entrata – quasi – ufficialmente nel gruppo.

Il giorno dopo, David mi si avvicinò saltellando mentre litigavo col mio armadietto perché non voleva aprirsi.
“Ciao, californiana!” mi salutò giulivo, dandomi una pacca sulla spalla.
Lo accolsi con un sorriso, ero di buon umore, a parte l’ammutinamento dell’armadietto. “Ehi, come va?”
“Tutto ok,” rispose lui. “Hai Smith adesso?”
“Sì, anche tu?”
David annuì, poi mi guardò allargando il suo sorriso. “Ed è vero che Matt Patterson ieri ci ha provato con te?”
Quasi mi strozzai con la mia stessa saliva per la sorpresa. “COSA?!”
“Matthew Patterson,” ripeté lui, “quel biondone che gira per i corridoi della scuola come se la sua figaggine non fosse un problema suo e che a quanto pare ieri…”
“So chi è Patterson!” lo interruppi decisa. “Non ci ha provato con me, come ti è saltato in mente, ti sei bevuto il cervello?”
Conoscevo poco David, ma in quel momento ero troppo stranita per pensare alle formalità… A dire il vero non pensavo quasi mai alle formalità. Evidentemente nemmeno lui, perché non prese la mia risposta come una scortesia nei suoi confronti, ma alzò le spalle e continuò a sorridere.
“Me l’ha detto Josh.”
“Josh?”
“Sì,” spiegò lui. “A Josh l’ha detto Jude, quei due si dicono tutto. E Jude deve averlo saputo da Aud, credo.”
“Audrey?”
“Certo. Quella ragazza ha un vero fiuto per il gossip, te lo dico io, riesce a carpire i pettegolezzi più in voga della scuola prima ancora che diventino pettegolezzi in voga: farà strada nel giornalismo rosa.”
“Audrey?” ripetei, stupita.
David mi guardò divertito. “Pensi di riuscire a dire altro, a parte ripetere i nomi che ho appena fatto io?”
“Audrey è una pettegola?”
“Fatta e finita, sì. Ma è una gran brava ragazza.”
“Sembra così riservata…” commentai.
“Oh sì, mica parla con chiunque, solo coi suoi amici più stretti,” risolse Dave, sventolando la mano come se fosse una cosa di poco conto. “Quindi hai avuto o no un tête-à-tête con Patterson?”
“No, abbiamo solo parlato.”
“Di cosa?”
Gli tirai un pugnetto fiacco mentre ci dirigevamo all’aula. “Ma siete tutti così impiccioni qui?”
“Eh, californiana, devi capire che i colpi di scena mancano in questo buco di città, se davvero Matt ci avesse provato con te sarebbe di sicuro una bella storia interessante di cui impicciarsi.”
“Non è successo niente di simile, mi ha solo riportato una cosa che avevo perso in classe,” spiegai, ripensando allo strano comportamento del biondo il giorno prima. “Anche se è stato un po’ troppo gentile per i suoi standard, in effetti.”
“Magari gli piaci.”
“Bah, ne dubito, è solo strano. E pieno di sé.”
Dave ci pensò su un attimo prima di rispondermi. “Non so, ho avuto poco a che fare con Patterson, non lo conosco bene, ma con me è sempre stato molto gentile.”
“Magari gli piaci tu, allora,” scherzai. “Con me finora è sempre stato un bello stronzo.”
“Bello lo è di sicuro,” commentò David sovrappensiero. “Quello c’ha la coda fuori di casa, te lo dico io.”
Sospirai, concordando mio malgrado, ed entrai in classe alle sue spalle, prendendo poi posto accanto a lui. Un’ultima curiosità mi ronzava per la testa da quando Sheila mi aveva parlato di Matt, quindi decisi di indagare con David, che sicuramente ne sapeva più di me.
“Quel Patterson,” iniziai, dopo essermi guardata intorno per verificare che non ci fossero orecchie indiscrete all’ascolto, “è vero che è anche ricco?”
“Da far schifo,” annuì Dave. “Suo padre è dirigente di una grossa azienda e sua madre, non ne sono sicuro, ma pare abbia ereditato un’enorme somma di denaro da giovane.”
“Ora si spiega anche tutta quella puzza sotto il naso,” annotai caustica.
“Diciamo che può permettersela. Credo non ci sia niente che non possa permettersi, in realtà.”
David si zittì giusto quando Patterson fece la sua solita entrata pigra in classe. Il principino mi lanciò uno sguardo che giudicai altezzoso, e fece un cenno con la testa a mo’ di saluto, che ricambiai alzando appena le sopracciglia.
“Uh,” commentò Dave, allegro, “sembra proprio la love story del momento!”
Risi con lui, divertita dalla situazione: evidentemente io e Patterson avevamo parlato di amicizia un po’ troppo in fretta, dal momento che facevamo fatica anche a salutarci.
Con David, d’altro canto, mi trovavo proprio bene, e la cosa non poteva che rendermi felice.











Una settimana e già il secondo capitolo, potrei abituarmici! :)

Matt è strano, cerchiamo di abituarci, perché lo troveremo diverso già nel prossimo capitolo. Non fermatevi alle apparenze...

Per chi avesse voglia o si fosse perso le scorse note, ricordo che questa storia è uno spin-off di un'altra, che però non è obbligatorio leggere. Eccovi il link, comunque:
Of all the people in the world.

Attendo ancora preziosissimi riscontri, anche sull'html e su qualsiasi cosa vi venga in mente... A presto col terzo.

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Capitolo 3
*** Always be friendly during a party ***


3. Always be friendly during a party


Man mano che passavano le settimane le cose cominciarono ad andare meglio, in tutti i sensi. Avevo finalmente degli amici fantastici, che stavo imparando a conoscere meglio.
Audrey, per prima, era davvero una ragazza dal cuore d’oro. Era dolce e sempre disponibile a darmi una mano, sospettavo fosse così un po’ con tutti, ma si capiva che teneva in modo particolare ai suoi amici. A primo acchito sembrava anche timida e riservata ed effettivamente lo era abbastanza… per quello che riguardava se stessa. Con le notizie riguardanti le altre persone, invece, non aveva pietà: era una vera e propria amante del gossip, strano ma vero. Quando un pomeriggio mi invitò a casa sua, capii anche da chi doveva aver preso quel lato del suo carattere: sua madre, una donna indiana dalla quale, evidentemente, Audrey aveva ereditato anche la sua bellezza sfolgorante, per quanto gli occhi verdissimi fossero invece identici a quelli del padre.
Ci misi più tempo a entrare in sintonia con Jude, invece. Per me era strano, di solito coi miei modi espansivi e amichevoli piacevo a tutti quasi subito. Beh, a tutti quelli a cui volevo piacere, insomma, quando mi ci mettevo diventavo una vera stronza pure io. In questo io e Jude ci somigliavamo abbastanza e, forse, superata la sua ritrosia iniziale, fu proprio il lato “stronzo” che avevamo entrambe a unirci di più. Audrey era una ragazza dolcissima, ma anche un po’ ingenua, e tendeva a vedere il mondo come se fosse dipinto a fiorellini e stelline; Jude era un po’ il suo contrario, chiusa, diffidente, ma anche estremamente divertente e portata al sarcasmo. Io ogni tanto avevo bisogno di parlare male di qualcuno, e Jude era decisamente la persona giusta con cui farlo. In più, Jude aveva una missione: far ragionare Audrey e farle notare quando un ragazzo che faceva il carino con lei era solamente un porco approfittatore. Ovvero, quasi sempre. Audrey aveva decisamente bisogno che qualcuno le aprisse gli occhi, e Jude si accorse che ero d’accordo con lei sull’argomento. Fu così che, pian piano, mi conquistai la sua fiducia.
Con i ragazzi fu tutto più facile. Josh era aperto e simpatico e, avevo visto giusto dall’inizio, era il migliore amico di Jude. Era un bel ragazzo, moro, occhi blu, e con una tendenza piuttosto spiccata a non pettinarsi. In effetti aveva sempre una discreta manciata di ragazze a girargli intorno: usciva spesso con qualcuna, anche se mai con più di una ragazza alla volta, ma era raro che prendesse queste cose seriamente. L’unica con cui sembrava avere un atteggiamento diverso, invece, era proprio Jude. Le voci che li volevano amanti segreti, in effetti, non avevano torto di esistere, almeno in un senso. Si vedeva che Jude considerava Josh solo un amico: a volte l’avrebbe volentieri strozzato, ma gli voleva un bene dell’anima e lo capiva anche solo con uno sguardo. La sola cosa che non riusciva a capire, forse, era il fatto che Josh invece aveva un’adorazione totale per lei, magari non ancora abbastanza consapevole e matura, ma sicuramente abbastanza forte da essere più vicina all’amore che all’affetto.
David, invece, era una forza della natura: solare, affettuoso, e sempre pronto a organizzare qualcosa per stare tutti assieme. Il gruppo di amici girava perlopiù attorno a Josh e Jude, che si conoscevano da una vita e che avevano attirato attorno a sé Dave e Aud e, loro malgrado, me. Ma il vero collante, quello che teneva uniti tutti, me ne accorsi subito, era proprio David. Riusciva ogni weekend a pianificare una serata al cinema, un giro da qualche parte o a rimediare un invito per il party del mese organizzato dal ragazzo più popolare e bello dell’ultimo anno. Era inspiegabile: David non era particolarmente in vista a scuola, al secondo anno eravamo poco più che matricole, eppure usando le sue conoscenze e chiedendo un po’ in giro, riusciva quasi sempre a strappare informazioni a chiunque.

Una mattina di fine aprile David si avvicinò a me, Jude e Audrey con un sorriso soddisfatto. Eravamo sedute in giardino a goderci un’ora libera col sole primaverile che ci scaldava tiepido, mentre chiacchieravamo del più e del meno. Me lo ricordo bene, perché fu uno di quei momenti in cui mi resi conto di essere stata davvero fortunata a conoscere quei ragazzi, ché probabilmente erano davvero gli amici che stavo cercando arrivata a Winthrop.
“Ehi bellezze! Ho una notizia bomba,” esordì David buttandosi sul prato con noi e lanciando il suo zaino senza alcuna delicatezza.
Jude sorrise poco convinta. “Fammi indovinare: hai recuperato gli inviti per la festa a casa di Shane Roberts.”
“Quasi.”
“Non mi viene in mente nient’altro che possa renderti così raggiante, McPharrell, avanti.”
“Non c’è nessuna festa da Roberts questo sabato.”
A quel punto mi intromisi anch’io, spiazzata. “E perché sorridi allora? Quella festa era la tua ragione di vita in questi ultimi giorni.”
Dave scrollò le spalle. “La festa non è lì, sarebbe stato troppo facile imbucarsi, come l’altra volta. L’hanno spostata a casa di Peter Ramirez, avete presente? Quell’armadio a due ante della squadra di football che sta sempre dietro a Roberts.”
“Se non hai recuperato gli inviti è comunque inutile, Dave, sai come sono le feste di quelli dell’ultimo anno,” disse Jude, che probabilmente sotto sotto era contenta di non poter andare al party, dal momento che non era il tipo di ragazza che amava troppo gli eventi sociali.
“Ma qui viene il bello!” continuò David, sempre più sorridente. “La festa è aperta a tutti, non c’è bisogno dell’invito! Cioè, a tutti quelli che sanno che è stata spostata a casa di Ramirez, ovviamente. Gli altri sfigati che si presenteranno da Roberts pensando di imbucarsi rimarranno a bocca asciutta.”
Jude sbuffò. “Aperta a tutti? Mi pare impossibile.”
“Tranne le matricole, quelle, si sa, vengono solo se accompagnate da qualcuno del terzo o del quarto.”
“Noi siamo al secondo, David, non ci faranno mai entrare! Valiamo meno di niente nell’ordine gerarchico di quei trogloditi.”
“Parla per te, batuffolo, io sono importante,” commentò Josh, che era arrivato in quel preciso momento e si era seduto accanto a Jude.
“Non sei importante, Parker, sei poco più che una matricola anche tu, mi spiace deluderti,” lo rimproverò Jude.
Josh le scompigliò i capelli beccandosi un’occhiataccia, dopodiché si stese sul prato appoggiando la testa alle gambe di lei. “Di che parlavate di preciso?”
“La festa di Roberts sarà da Ramirez ed è aperta a chiunque abbia il coraggio di presentarsi,” riassunse Audrey, poi sospirò. “Siamo sicuri di volerci andare, ragazzi? A me sembra il solito casino di quelli dell’ultimo anno.”
David fece un verso oltraggiato. “Sarà l’ultima festa dell’anno prima del ballo! E del party dei diplomati, ma a quello non saremo sicuramente invitati. Dobbiamo approfittarne.”
Josh sorrise accondiscendente. “Condivido la parte sull’approfittarne. Sarà pieno di belle ragazze ubriache.”
Jude gli diede una botta in testa. “Non per essere sempre il bastian contrario, ma io per quest’anno ne ho avuto abbastanza dei nostri tentativi di infilarci a feste a cui non siamo invitati. Preferirei un bel cinema.”
“Anch’io la penso come Jude,” le fece eco Audrey. “Ma se la maggioranza di noi vuole andare penso che vada bene lo stesso.”
A quel punto David mi guardò, visto che fino a quel momento ero stata stranamente silenziosa per i miei standard. “Delia, tu che dici?”
Conosceva già la mia risposta. Sorrisi. “Sono con te, Dave.”
“Sapevo che non mi avresti deluso, californiana. E festa sia!”

Entrammo alla festa con la spavalderia tipica di chi sa che può solo divertirsi: io, David e Josh per primi, salutando gente a caso per far finta di conoscere tutti gli invitati e avere quindi il diritto di essere lì; Audrey e Jude un po’ dietro, ancora convinte che ci eravamo imbucati e che saremmo stati sbattuti fuori nel giro di pochi minuti. Non accadde: c’era talmente tanta gente che il padrone di casa faticava a rendersi conto di cosa stava succedendo – anche il fatto che a metà serata fosse in mutande a ballare su una sedia forse c’entrava. Winthrop era comunque una piccola città e quelle feste erano una delle poche attrattive del sabato sera, c’erano ragazzi di ogni scuola, probabilmente c’era anche qualcuno di quel collegio privato per ricconi snob.
Io ero finalmente nel mio ambiente, adoravo le feste. Mi muovevo da una stanza all’altra felice come una pasqua, parlando con persone diverse. Giocai a biliardo con Dave e altri tizi che non conoscevo, bevetti due birre con Josh e Terry, un suo ex compagno di scuola che mi faceva il filo spudoratamente, ma passai anche un po’ di tempo con Jude e Audrey, sedute sul divano, semplicemente a commentare e a ridere delle persone che ci passavano davanti. Audrey sapeva davvero tutto di tutti, era impressionante.
Ci interruppe Josh che, con poca grazia, obbligò Jude a seguirlo per ballare e convinse anche noi ad andare in pista. Ci buttammo in mezzo alla gente ballando e ridendo, dopo un po’ arrivò Terry e si mise a ballare vicino a me. Lo assecondai: era un ragazzo carino e io adoravo flirtare con i ragazzi carini. Finimmo per scambiarci qualche bacio innocente, poi lui mi chiese se volevo spostarmi in posto più tranquillo, io gli dissi di no e tornai a girarmi verso le mie amiche.
Jude e Audrey ridacchiavano: in quelle settimane avevano imparato a conoscermi e avevano capito che era una tipa piuttosto free nei rapporti con l’altro sesso, ma sentivo che non mi giudicavano per questo. Al contrario, anche se eravamo tutt’e tre molto diverse – Aud estremamente timida e impacciata a discapito del suo aspetto, Jude scontrosa e di gusti parecchio difficili – ci trovavamo piuttosto bene a sparlare di ragazzi e a raccontarci le reciproche – e all’epoca ancora scarse – esperienze.
Dopo un altro paio di canzoni mi allontanai per andare a bere qualcosa ma, muovendomi verso la cucina, venni fermata da Terry.
“Vieni fuori con me?” mi domandò di nuovo.
“No, guarda, stavo andando a…”
“Se vuoi vado a prenderti qualcosa da bere,” si propose lui, leggendomi nel pensiero.
Imprecai mentalmente. “In realtà stavo andando in bagno,” inventai, sperando di togliermelo dai piedi. Mi dispiaceva un po’ per lui, sembrava carino, ma evidentemente non avevamo lo stesso obiettivo quella sera: io volevo solo divertirmi coi miei amici, lui non vedeva l’ora di mettermi le mani sotto la maglietta.
“Ah, il bagno è da quella parte,” mi fece notare, indicando il lato opposto della casa.
“Giusto, grazie!”
Mi allontanai il più velocemente possibile, mi infilai in bagno e ci restai per qualche minuto, sperando che nel marasma della festa non avrei rincontrato Terry. Quando uscii non lo vidi in giro, quindi mi diressi di nuovo verso la cucina, decisa stavolta a prendermi qualcosa da bere.
Nella stanza c’era un casino pazzesco di lattine vuote e bicchieri abbandonati nei luoghi più strani, perciò rinunciai presto alla mia idea iniziale – cercare una birra – e, trovando miracolosamente un bicchiere pulito, mi accontentai, per il momento, di bere dell’acqua. Mentre me la versavo dall’unica bottiglia che era ancora intonsa sopra il tavolo, una voce mi raggiunse alle spalle facendomi sobbalzare.
“Sei astemia, novellina?”
Mi rovesciai un po’ d’acqua sulla mano e voltai la testa guardando torva la persona che già sapevo di trovarmi alle spalle: sua maestà Matt Patterson. Dal canto suo, lui mi lanciò uno scintillante sorriso a trentadue denti che scalfì la mia espressione truce. Non lo avevo mai visto così sorridente e, dovevo ammettere mio malgrado, sembrava emanare luce propria per quanto era bello.
“Non me l’aspettavo da te, sai?” continuò, ma il mio cervello si era inceppato sul suo sorriso e non capivo più di cosa stesse parlando. “Sei californiana, dovresti saper bere.”
Ah già, mi aveva preso per astemia.
“Veramente no. Ho già bevuto due birre stasera, sono venuta qui per prendere la terza ma non l’ho trovata.”
Matt mi fece un gesto con la mano, come a dirmi di aspettare, poi si allontanò per qualche secondo e, quando mi si ripresentò davanti, aveva in mano due bottiglie di birra fresche di frigo che aveva pescato chissà dove. Me ne porse una e io la guardai titubante.
“Non volevi una birra?”
“Mi sa che ho cambiato idea, non so se mi fido a bere in tua compagnia.”
“Non voglio approfittarmi di te, se è ciò che pensi.”
“In ogni caso.”
“Avanti!” insisté lui, mettendomi la bottiglia in mano. “Siamo amici, no?”
“Stai scherzando, spero,” sputai allora, caustica. Quel ragazzo riusciva sempre a tirare fuori il peggio di me, e io ero amichevole praticamente con tutti, davvero.
La verità era che dopo la piazzata al mio armadietto e dopo tutte quelle storie sul voler diventare mio amico, il belloccio aveva simpaticamente cominciato a ignorarmi, salutandomi a malapena quando mi incontrava in classe. Non che la cosa mi turbasse poi molto, io ero impegnata a farmi altri amici, ma non mi andava proprio giù che adesso si mettesse a fare il finto tonto.
Lui continuava a sorridere, ignaro di tutto ciò. “Hai detto tu che potevamo provare a essere amici.”
“Due mesi fa, Patterson.”
“Accidenti! Ho fatto scadere il ticket nel frattempo?”
Sorrisi, divertita mio malgrado. “No, è che dopo quella volta hai preso a ignorarmi.”
“Ah, capisco. Ci sei rimasta male, tesoro?”
Tralasciai quell’appellativo e la conseguente voglia di tirargli un pugno sul naso, ma solo perché quella sera, tutto sommato, sembrava più simpatico del solito.
“Sei ubriaco, principino?” gli domandai, notando che in effetti non era mai stato così cordiale con me.
Lui scrollò la mano. “Sono a malapena brillo. In realtà devo chiederti un favore.”
“Oh!” commentai, spalancando gli occhi con fare teatrale. “Ora è chiaro il perché di tutta questa simpatia! Opportunista.”
Matt ridacchiò e si grattò la guancia in un gesto molto spontaneo per lui che, di solito, sembrava estremamente studiato in ogni suo atteggiamento. Mi ritrovai di nuovo a sorridere con lui.
“Touché,” rispose. “Allora, me lo fai o no questo favore?”
Decisi su due piedi – e tre birre, probabilmente – di stare al gioco. “Dipende. Se vuoi togliermi la maglietta, la risposta è no. Si è già prenotato un altro ragazzo per farlo, stasera.”
Lui mi lanciò un lungo sguardo stupito e, credo, malizioso. “A quello ci pensiamo dopo. Devi aiutarmi a liberarmi di una tipa che mi sta dietro da mezzora ed è diventata piuttosto appiccicosa.”
Capii immediatamente di cosa stava parlando e, in automatico, ritirai fuori la mia faccia scocciata. “Te lo scordi di baciarmi solo per far fuori una delle ochette che ti sbavano dietro.”
“Io non ho mai parlato di un bacio, ma mi piace come ragioni, novellina.”
Non bastava certo quello a farmi arrossire. Sollevai un sopracciglio, minacciosa.
Matt alzò le mani in segno di resa. “Ok ok, le ho detto che sono venuto qui per vedere un’altra. Credo ci abbia già visti, quindi in realtà sei già diventata il mio alibi. Pensavo solo che sparire per un po’ insieme renderebbe il tutto più credibile, ma se volevi anche un bacio bastava dirlo.”
Continuai a guardarlo seccata, in silenzio, così lui continuò.
“Eddai Gray, ti sto chiedendo solo dieci minuti del tuo tempo! Andiamo in giardino, ci finiamo la birra e torniamo dentro. Prometto di non toccarti in nessun modo, se non vuoi. Senza contare che un alibi farebbe comodo anche a te, a giudicare da quel tipo che ci guarda storto da quando abbiamo iniziato a parlare.”
Mi girai e notai Terry che si voltava in quel momento, fingendo di non averci guardato fino a un attimo prima. In effetti quel ragazzo stava cominciando a diventare insistente, e gli avevo già concesso fin troppo quella sera.
“A meno che non sia quello a cui hai promesso di farti togliere la maglietta. In quel caso, vai pure da lui, mi accontento di guardare, se posso.”
Sbuffai, tornando a puntare gli occhi su Matt che, nel frattempo, aveva assunto un’espressione da cherubino che decisamente stonava sul suo volto.
“Dieci minuti,” lo ammonii, “non uno di più. E le mani restano al loro posto.”
Lui si mosse verso la porta del giardino e la aprì con un gesto plateale per poi farmi segno di uscire per prima. Immaginai fosse tutto a uso e consumo della povera ragazza che voleva scaricare e alzai gli occhi al cielo.
“È un peccato che tu non sappia apprezzare un gentiluomo, Gray.”
“Lo so apprezzare, a meno che non sia un troglodita travestito da gentiluomo.”
Una volta all’esterno
, ci guardammo intorno indecisi sul da farsi. C’era già un po’ di gente fuori, ma niente messo a confronto del caos che regnava in casa, inoltre tutti sembravano farsi bellamente gli affari propri. Ci dirigemmo senza dirci niente a un tavolo da giardino libero e ci sedemmo, continuando a bere le nostre birre. Ovviamente, essendo di solito logorroica, non riuscii a stare zitta a lungo.
“Chi era quella che volevi scaricare?” chiesi, sputando la prima cosa che mi era venuta in mente per interrompere l’imbarazzante silenzio.
Lui scrollò le spalle. “Probabilmente non la conosci.”
“Ti ricordi almeno come si chiama?”
“Certo che me lo ricordo, per chi mi hai preso?”
“Per uno che utilizza subdoli trucchetti da quattro soldi per liberarsi, dopo essersi stufato, di una povera ragazza che…”
Matt scoppiò a ridere. “Povera ragazza? Non sai neanche cos’è successo.”
“Sarai venuto qui alla festa con lei per poi…”
Mi interruppe per la seconda volta. “Non sono venuto con lei! Hai proprio una splendida opinione di me, eh.”
“Non hai mai fatto molto per meritartela.”
“Hai detto anche tu che stasera sono più simpatico del solito.”
“Solo perché volevi un favore da me.”
“Ed ecco che tornano fuori i tuoi pregiudizi.”
“Pregiudizi?” Alzai la voce, stranita da quella sua affermazione seria, che aveva interrotto il nostro botta e risposta.
“Ogni volta che parliamo mi accusi di qualcosa. Solitamente, di avere dei doppi fini.”
“Ogni volta che parliamo o mi chiedi qualcosa o vaneggi su un’amicizia che non esiste!” controbattei, intenzionata a difendermi: io non mi ritenevo affatto il tipo di persona che si faceva condizionare da stupidi pregiudizi.
Matt ridacchiò. “È la prima volta che ti chiedo un favore, novellina.”
“Beh, contando che abbiamo parlato due volte in tutto…”
“Appunto,” sottolineò lui, non lasciandomi finire la frase. “Non mi conosci così bene da sapere cosa c’è dietro ogni mia parola. Eppure sei molto convinta di quello che pensi su di me.”
Aprii e richiusi la bocca, trovandomi senza parole come raramente mi accadeva.
Matt sorrise di nuovo e, per la prima volta, il suo sorriso mi parve amaro. “Probabilmente anche tu, come tutti qui, sei convinta che essendo ricco e bello, la mia vita sia tutta rose e fiori.”
Evitai di rispondere, perché avrei dovuto ammettere che aveva ragione.
“Sei anche modesto…” borbottai invece.
Lui ridacchiò e l’atmosfera seria sembrò svanire. “Vorresti dire che non sono bello?” mi domandò, ironico, appoggiandosi al tavolino e sporgendosi pericolosamente verso di me.
Mi ero ficcata di nuovo in un vicolo cieco, preferivo di gran lunga l’argomento precedente.
“È inutile che fai la vittima, comunque!” berciai, dal nulla, dopo qualche secondo di immobile riflessione. “Sembra che io sia la cattiva che ti ha etichettato senza alcuna ragione, ma non è che tu ti sia comportato benissimo con me, fin dall’inizio.”
Matt tornò a scansarsi, con mio grande sollievo. “È vero, io tendo a essere piuttosto freddo, ma non è che tu sia proprio uno zuccherino.”
“Lo sono, invece!”
“Beh, non con me allora.”
“Perché tu sei uno stronzo.”
“Pregiudizi.”
Chiusi gli occhi e sospirai, sconfitta. “Non ne usciremo mai, vero?”
Quando riaprii gli occhi, Matt mi stava sorridendo divertito. Ed era decisamente di nuovo troppo vicino: quello di cui non mi ero accorta era che, nel precedente battibecco, entrambi ci eravamo spostati, quasi inconsciamente, finendo a un palmo l’uno dall’altra.
D’istinto mi allontanai e girai la testa e nel farlo notai, poco più in là, un gruppetto di persone incuriosite che ci guardava.
“Direi che la tua scenetta ha avuto l’effetto desiderato,” mormorai, continuando a guardarmi intorno.
“E il finto bacio?”
Tornai a guardare Matt, preoccupata, e capii dal suo sorriso ironico e sfrontato che stava nuovamente scherzando.
“Ce lo risparmiamo, che dici?”
Lui scrollò le spalle e si sedette più comodo sulla sedia, allontanandosi. “Sarà per la prossima volta.”
Alzai gli occhi al cielo. “Contaci.”
Rientrammo insieme, e anche quando ci salutammo e tornai dai miei amici, continuai a sentirmi gli occhi di tutti addosso: non che mi disturbasse, riuscivo a reggere un po’ di attenzioni, ma evidentemente la voce di me e Matt Patterson da soli fuori era già girata. Appena raggiunsi i miei amici, infatti, Audrey mi fece il quarto grado, e da quanto era su di giri sembrava che fossi appena tornata da una folle notte d’amore con Johnny Depp. Risposi con sincerità a tutte le domande che mi piovvero addosso, raccontando del mio accordo di comodo con Patterson. L’entusiasmo di Audrey scemò man mano che spiegavo cos’era successo, ma continuò, fino a quando non tornammo a casa, a guardarmi con sospetto, come se le stessi nascondendo qualcosa.

Il lunedì mattina successivo mi presentai a scuola piuttosto assonnata - non avevo fatto in tempo a bere il mio solito litro e mezzo di caffè bollente. Chiudendo l’armadietto notai, in fondo al corridoio, Audrey che mi guardava; la salutai con la mano e lei ricambiò, con uno sguardo che sembrava quasi preoccupato appiccicato in volto. Mi domandai, con una parte remota e poco sveglia del mio cervello, cosa diavolo potesse avere, ma liquidai tutto pensando a una delle mie solite paranoie, quindi mi accinsi a raggiungerla, sorridendo.
Lo sguardo di Audrey si fece presto da vagamente preoccupato a decisamente allarmato quando vide qualcosa nel corridoio, e cominciò a sventolare le braccia per aria come un’invasata, segnalandomi e sillabando con le labbra delle parole che non capii. Mi fermai e feci una faccia perplessa, lei mi indicò un punto imprecisato e poi mi sembrò sillabare qualcosa tipo “vai via”. Mi voltai per vedere cosa stesse cercando di farmi notare la mia amica: magari dietro di me c’era quel figo pazzesco di George Peterson e io avevo il maglioncino infilato al rovescio, quindi Audrey cercava di evitarmi una pessima figura con lui, avvisandomi di non farmi vedere così; oppure, ma questo sembrava meno probabile, una mandria di gnu impazziti stava per stendermi e fare spezzatino di me. Girandomi, però, non vidi assolutamente nulla di sospetto, perciò mi rivoltai verso Audrey, decisa a raggiungerla per porre fine a quell’incomprensione. Fu così che mi trovai esattamente faccia a faccia con una ragazza carina e bionda che mi fissava con insistenza a quindici centimetri di distanza dal mio viso.
“Ciao,” salutai, colta alla sprovvista.
Lei sembrò scrutarmi per valutare qualche cosa, poi si decise a parlare. “Sei Delia Gray?”
Annuii. “Sì, sono io. Hai bisogno di qualcosa?” chiesi, affabile come il mio solito.
La ragazza fece un sorriso poco rassicurante, dopodiché divenne improvvisamente seria e mi puntò sulla spalla un dito che io mi ritrovai a fissare stupefatta.
“Non ti devi più permettere di avvicinarti a Matt Patterson,” fece quella, con un tono di voce che, nell’intenzione di lei, doveva forse essere minaccioso, ma che a me sembrò solo un ridicolo tentativo di darsi un tono. “Lui non è tuo, né mai lo sarà. Hai capito?”
Mi sembrava di essere in un remake decisamente mal fatto del Padrino. Dire che ero allibita è dire poco.
“Io non voglio niente da Patterson,” mi uscì subito, in tutta onestà, per poi ricordarmi del nostro patto per togliergli dai piedi una pretendente: se la ragazza in questione era la versione di un mafioso bionda e piena di ciglia finte che mi stava davanti, non avevo difficoltà a capire perché il principino volesse liberarsene.
Lei rise con un suono acuto. “Sei molto falsa, Gray, vi hanno visti tutti alla festa sabato.”
Dire che ci avevano visti tutti era un’esagerazione bella e buona, nel giardino in quel momento c’erano al massimo una ventina di persone. Ero indecisa su cosa risponderle per non smascherare il piano cretino in cui Matt mi aveva trascinata, alla fine decisi di non mentire ma di restare comunque sul vago.
“Se ci hai visti allora sai che è meglio lasciar perdere,” commentai secca.
La bionda mi puntò nuovamente il dito sulla spalla. “Stai pestando i piedi a una mia amica.”
Ero sbalordita: quale idiota stratosferica mandava una sua amica in corridoio a minacciare la presunta rivale in amore?
Tolsi la sua mano dalla mia spalla con un gesto secco. “Di’ pure alla tua amica di non preoccuparsi più di tanto per Patterson, e che se ha qualche problema comunque può sbrigarselo da sola. Ora devo andare, grazie e ciao.”
“Attenta, Gray,” mi avvertì alla fine, prima di voltarsi e allontanarsi da me.
Roteai gli occhi: ci mancava solo la testa di cavallo nell’armadietto e la scena sarebbe stata perfetta. Che razza di gente.
Audrey mi guardava di nuovo, da in fondo al corridoio, ma io avevo improvvisamente realizzato cosa fosse successo e a chi dovessi chiedere spiegazioni. Feci un gesto a Aud con la mano, spiegandole che l’avrei raggiunta dopo, feci dietrofront e mi diressi nel punto dove più probabilmente avrei potuto trovare Patterson: il suo armadietto. Lo vidi che trafficava con dei libri proprio lì e lo raggiunsi a passo di marcia.
“Dobbiamo parlare,” dissi secca prendendolo per una manica della felpa e trascinandolo con me lungo il corridoio.
Lui fece a malapena in tempo a chiudere l’armadietto, poi fu costretto a seguirmi quasi perdendo l’equilibrio. Trovai vuota una vecchia aula che spesso veniva usata al pomeriggio per le ore di punizione e ce lo portai dentro senza troppi complimenti.
Matt si ricompose lisciandosi i vestiti e mi lanciò un’occhiata in tralice quasi divertita. “Che foga, ragazzina,” commentò asciutto. “Se ci hai ripensato per la storia della maglietta bastava dirlo.”
Finsi di non sentire la sua battuta da cretino in calore qual era e andai dritta al punto: a quel punto tutto il mio sonno era stato cancellato dalla rabbia e da un pizzico di curiosità.
“Chi cazzo era la ragazza che dovevi scaricare sabato sera?” domandai, incrociando le braccia al petto.
“Perché vuoi saperlo ora?”
“Perché sono appena stata fermata in corridoio dalla nipote cerebrolesa di Don Vito Corleone che mi ha minacciata di non toccarti se non voglio finire con una pallottola in testa. Ora, tralasciando il fatto che non ti voglio toccare nemmeno con una cannuccia lunga quattro metri, la tizia ha fatto intendere che avevo pestato i piedi a qualcuno. Posso almeno sapere chi prima di morire?”
Matt sembrava piuttosto impressionato dalla mia parlantina. “Porca miseria, quanto parli, Gray,” commentò infatti, stralunato. “Dammi tregua, non sono nemmeno le otto del mattino.”
“Senti…” cominciai, cercando di sembrare perentoria, ma Patterson mi interruppe.
“Davvero ha minacciato di spararti?”
“Chi-diavolo-è?” continuai io, avvicinandomi di mezzo passo per fulminarlo meglio con lo sguardo: il risultato, pessimo peraltro, fu che dovetti piegare di più il collo per guardarlo, visti i diversi centimetri che ci separavano in altezza.
“Lauren Garreth,” rispose Matt. “Ma la tipa ha detto proprio che ti avrebbe sparato?”
A quel punto il mio cervello si fuse. “Lauren Garreth?” domandai, confusa.
Lui fece un cenno affermativo con la testa.
Rimasi a bocca aperta, boccheggiando per qualche secondo, e indietreggiai arrivando ad appoggiarmi a uno dei banchi alle mie spalle.
“Pensi ancora sia… Com’è che avevi detto?” alzò lo sguardo, riflettendo. “Ah, già. Pensi ancora sia una povera ragazza innocente presa in giro dal sottoscritto?”
“La Lauren Garreth dell’ultimo anno? Lauren sono-uno-squalo-e-mi-prendo-chi-mi-pare Garreth?”
“Proprio lei,” annuì di nuovo Matt, ridacchiando. “Sei piuttosto fantasiosa coi soprannomi. Ne hai uno anche per me, per caso?”
“Tu sei solo Lo Stronzo,” biascicai guardando il pavimento.
“Non è molto carino.”
“Ma da oggi potresti diventare anche quello che mi ha messo in guai seri.”
“Perché?” fece lui con un sorrisetto angelico sul volto.
“Lauren Garreth è la ragazza più popolare della scuola, tutti la amano, tutti la vogliono, tutti la assecondano. E da oggi mi odia a morte. Odia me, insignificante insetto del secondo anno. Perché diavolo dovevi servirti proprio di me per scaricarla?”
L’espressione di Matt si era fatta improvvisamente più corrucciata. “Non pensavo volessi diventare sua amica.”
“Non me ne frega niente di diventare sua amica!” sbraiti, tornando ad alzarmi sulle mie gambe e sventolando le braccia per aria. “Le voglio stare il più lontana possibile, anzi! Volevo che Lauren Garreth non sapesse mai chi ero, ma grazie a te e alle tue idee geniali ora lo sa!”
Matt sembrava divertito dalla mia sceneggiata. “Davvero ha minacciato di spararti, quindi?”
“Non proprio, ma il succo non era molto diverso. Perché non vuoi farti Lauren Garreth?”
Lauren sarà stata anche mezza pazza, non avevo più dubbi dopo aver visto la scenata della sua amichetta in corridoio, ma era popolare ed era sicuramente molto, molto bella, oltre che essere più grande di noi. Non riuscivo a trovare un motivo per cui Patterson dovesse rifiutarla, in realtà.
“È insipida,” rispose lui con una scrollata di spalle. “Me la sono fatta, ma poi mi sono stufato,” precisò infine.
Il suono della campanella interruppe il nostro discorso proprio quando non era rimasto più molto da dire. Matt si sistemò lo zaino sulla spalla e mi lanciò uno sguardo strano, prima di avviarsi verso la porta senza nemmeno salutare.
“Principino,” dissi io, prima che uscisse.
Matt si girò e mi guardò interrogativo.
“Ti chiamo principino,” spiegai allora, rispondendogli alla domanda che mi aveva posto prima.
“Lo so.”
“È perché ti comporti da viziato, facendo sempre quello che ti pare. A quanto pare è tua abitudine usare anche le persone a tuo piacimento. E non tirarmi di nuovo fuori quel discorso sui pregiudizi, ora.”
“Uso le persone come Lauren Garreth?” chiese lui allibito. “Veramente non è andata proprio come…”
“Non stavo parlando di lei,” mormorai prima di superarlo e uscire dall’aula, cercando di ributtare giù quella strana delusione che mi aveva preso. Perché poi? Sapevo già che Patterson era un deficiente patentato: nulla di nuovo, quindi.
Mi fermai appena fuori dall’aula, notando qualche studente ritardatario che mi guardava. Un paio di secondi dopo uscì anche Matt. Sbuffai e ripartii verso la mia classe: ci mancava solo questa da aggiungere alle voci che già giravano su di noi, dopodiché potevo dire definitivamente addio a una vita sociale normale, che era invece ciò che agognavo con tutta me stessa.
Entrai in aula con il fumo che mi usciva dalle orecchie, un po’ arrabbiata con Matt, un po’ arrabbiata con me stessa per essermi fatta fregare da lui. Mi sedetti davanti a Jude e in parte a Audrey e risposi alle loro espressioni interrogative dicendo semplicemente qualcosa tipo: “Quel Patterson è un vero deficiente.”
Per tutta l’ora successiva io, Audrey e Jude ci passammo un foglio spettegolando di ciò che era successo, insultando Matt e augurandogli (soprattutto io) le peggiori malattie veneree esistenti. In quel modo, grazie alle mie amiche, mi sfogai, ma certo non per questo ero tranquilla quando, entrando per prima nel laboratorio di biologia, vidi Patterson sorpassare la porta poco dopo e avvicinarsi con noncuranza alla sottoscritta.
“Tu non ti devi avvicinare a me per i prossimi centocinquant’anni,” lo fermai, ancora prima che mi raggiungesse.
“Non sai nemmeno cosa devo dirti.”
“E non voglio saperlo.”
Matt sospirò, si fermò davanti al banco dov’ero seduta, e mi lanciò uno sguardo esasperato. “Mi hai chiesto perché ho scelto te per liberarmi di Lauren Garreth,” disse poi, continuando a guardarmi.
“Non mi interessa più un fico secco di cosa…” cercai di rispondergli, infuriata, ma lui mi interruppe.
“Onestamente? Pensavo avessi le spalle abbastanza larghe da sopportare due settimane di pettegolezzi. Per questo ho scelto te.”
Mi lasciò senza parole per una manciata di secondi, e questa è una cosa, per me, più unica che rara. Poi, ovviamente, mi ripresi, ma il mio tono di voce risultò molto meno convinto di prima.
“Non cambia le cose. Devi comunque starmi il più lontano possibile, d’ora in poi.”
“Su questo siamo d’accordo,” asserì Patterson, allontanandosi verso il fondo dell’aula. “Non è che io muoia dalla voglia di avere a che fare con te, sai, Gray. Parli decisamente troppo.”
Stavo già per rispondergli a tono, quando un paio di ragazze entrarono nel laboratorio e smisero di parlare per guardarci incuriosite. Mi girai verso la cattedra e mi cucii la bocca, rimandando gli insulti al cretino a data da destinarsi.











Salve bella gente, ecco il terzo capitolo con un Matt in grande spolvero e una Delia finalmente nel suo ambiente. Entriamo nel vivo, sì, e dal prossimo capitolo ancora di più!
Volevo avvisare che per ora ho, già pronti, solo il prossimo capitolo e buona parte di quello successivo, quindi avrei bisogno di un po' di incoraggiamento per continuare a scrivere, se a qualcuno interessa la storia. Io adoro i miei personaggi, davvero, ma finora sono a zero recensioni e la cosa non è molto stimolante: la prima recensione vince un cioccolatino e un abbraccio virtuale (non vengo a cercarvi a casa, easy). Grazie.

Un altro paio di precisazioni prima dei saluti:
- Finora non l'ho detto ma il titolo di Crumbling away l'ho preso dalla canzone Falling away with you dei Muse, che io trovo perfetta per Matt e Delia. Significa, letteralmente, "sbriciolarsi". Magari più avanti parlerò un po' meglio del perché l'ho scelta.
- Ripeto per la terza volta per chi se lo fosse perso: su Efp potete trovare Of all the people in the world, la storia da cui ho iniziato a scrivere di questi personaggi. È ambientata, per ora, nel futuro rispetto a questa. Sono complementari ma non necessitano l'una dell'altra.
- Nel prossimo capitolo grosse sorprese. Stay tuned. ;)

Bacio grosso e a presto! <3

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Capitolo 4
*** Prom (mistakes) and Summer (funs) ***


4.  Prom (mistakes) and Summer (funs)


Su una cosa Patterson aveva ragione: l’interesse per la nostra fantomatica liaison durò al massimo un paio di settimane, dopodiché le voci su noi due si erano già dissolte, sotterrate dal nuovo e più interessante gossip del momento. L’unica che continuò a guardarmi con sospetto per qualche tempo in più fu proprio Lauren Garreth, che ogni volta che ci incrociavamo mi lanciava occhiate di fuoco e di disprezzo, sempre scortata dal gruppo di fedeli oche che la seguivano ovunque nei corridoi, tra le quali ovviamente c’era la minacciosa biondina con cui avevo avuto a che fare quel lunedì mattina. Infine, pure la Garreth dovette farsi una ragione del fatto che tra me e Matt non c’era nient’altro che il nostro odio reciproco e che, se qualcosa c’era stato alla festa di Ramirez, era acqua più che passata. In effetti, se lo capirono i suoi due neuroni significava che era una cosa proprio evidente: dopo le ultime strane parole che mi aveva rivolto nell’aula di scienze, Patterson prese nuovamente ad ignorarmi come aveva - quasi - sempre fatto e io feci altrettanto con lui, ancora infastidita dai suoi subdoli giochetti da quattro soldi, che lo portavano un giorno a guardarmi con disprezzo, il giorno dopo a chiedermi di diventargli amica e il giorno dopo ancora a trattarmi come se fossi invisibile. Quel ragazzo avrebbe mandato ai pazzi chiunque.
Evitai di farmene un problema. Era vero che avevo la scorza sufficientemente dura da sopportare quei pochi giorni di pettegolezzi e occhiate sbieche in corridoio - Patterson aveva avuto ragione anche su questo, maledizione - e, quando l’attenzione su di me calò, a malapena me ne accorsi.
In quel periodo, infatti, cominciai a frequentare Steve Teller, un ragazzo piuttosto carino di un anno più grande di me. Mi piaceva parecchio, anche se probabilmente non ero innamorata pazza di lui, e feci un errore piuttosto banale: persi la mia verginità con lui una settimana prima del prom. Lo sbaglio colossale, a discapito di ciò che si potrebbe pensare, non fu tanto quello di andarci a letto - la mia filosofia era che presto o tardi avrei dovuto avere la mia prima volta e Steve fu comunque abbastanza dolce, anche se non particolarmente bravo a letto - ma fu proprio quello di farlo prima del ballo di fine anno. I maschietti, si sa, aspettano con ansia il prom per concludere qualcosa con la ragazza di turno, e io detti a Steve l’opportunità di non dover essere per forza carino con me fino a quell’evento.
Ma procediamo con ordine.

Il ballo, programmato per il primo venerdì sera di giugno, era l’evento che, ovviamente, ogni ragazzo della scuola aspettava con ansia.
Io mi frequentavo con Steve da un mese circa e, per l’appunto, eravamo già d’accordo per andarci assieme quando, un pomeriggio in cui mi ero recata a casa sua per fare gli ultimi compiti di algebra, decisi malauguratamente di concedermi e di perdere quindi ogni ascendente su di lui. Le mie amiche rimasero piuttosto stupite dalla velocità con cui avevo deciso di compiere quel passo ma per me non era niente di troppo importante: ero abituata, già da quando vivevo in California, a saltellare da un ragazzo all’altro senza troppa serietà, flirtando con uno e perdendo la testa per un altro per due settimane dimenticandomi poi il suo nome in un battito di ciglia. Trovarmi interessata a Steve per più di un mese per me era già un bel passo avanti e mi risultò naturale fare sesso con lui non appena me ne sentii pronta.
Forse fu affrettato, ma io non me ne pentii, e così mi ritrovai, il venerdì del ballo, fasciata nel mio abitino al ginocchio color verde bosco, con i capelli biondo cenere che mia mamma mi aveva aiutato a pettinare da un lato, pronta e trepidante ad aspettare il mio accompagnatore. Steve arrivò, elegante nel suo completo noleggiato al negozio, alle otto in punto, salutò cortesemente i miei genitori, mi accompagnò alla sua auto e - mi accorsi - non mi diede nemmeno un misero bacetto sulla guancia. Ci rimasi un po’ male per questa sua apparente freddezza, ma evitai di farglielo notare e raggiungemmo in uno strano viaggio silenzioso i miei amici alla palestra della scuola.
Dave e Audrey erano già lì, avevano deciso all’ultimo di fare coppia tra di loro invece di venire entrambi da soli, dal momento che lui non aveva voluto invitare nessuno, mentre lei si era ritrovata più o meno sommersa di inviti da chiunque tranne che dal ragazzo che le piaceva, e aveva preferito infine David. Josh era con Isabel, una ragazza che frequentava da qualche settimana ma per la quale, come al solito, sembrava non provare un gran trasporto. Per ultima, ovviamente in ritardo, arrivò Jude accompagnata da Derek, un tipo timido e non molto appariscente che le faceva il filo già da un po’, ma che si era deciso a invitarla ad uscire solo approfittando dell’ultima festa dell’anno.
Prima ancora che arrivassero Jude e Derek, però, Steve era già sparito dai miei radar.
“Dov’è Steve?” mi chiese David infatti, mentre chiacchieravamo.
Mi guardai intorno per cercarlo, ma di lui non c’era traccia. “Non saprei... Sarà andato a cercare i suoi amici per salutarli.”
“Ah. Tutto bene tra voi, invece?”
Avrei dovuto insospettirmi a quella domanda: David ha sempre avuto una sorta di sesto senso per queste cose. Invece scrollai le spalle, indecisa sulla risposta da dare.
“Credo di sì. È un po’ strano ultimamente, ma magari sono solo paranoie mie.”
“Non mi sembri una da troppe paranoie.”
Sorrisi. “Hai ragione, non lo sono per niente.”
Dave si avvicinò e mi lasciò un bacio sulla guancia. “Comunque sei uno splendore stasera, Deels, per come la vedo io Steve sarebbe un pazzo a snobbarti.”
“Grazie McPharrell, anche tu non sei niente male.”
Arrivarono Jude e Derek e di Steve ancora non c’era l’ombra, si ripresentò solo un po’ più tardi, con un punch per me, dicendo che si era allontanato per andare a prendermelo.
Alzai le sopracciglia. “Sei stato via venti minuti.”
“Ho incontrato dei miei amici. Balliamo?”
Tempo di una canzone e Steve si era nuovamente dileguato con una scusa, lasciandomi sola seduta a un angolo della palestra, mentre i miei amici si divertivano ballando tra di loro. Poi Dave venne a chiedermi di danzare e commentammo per un po’ la povera Isabel che guardava storto Jude e Josh che ballavano insieme, evidentemente gelosa del loro affiatamento. Steve tornò giusto per una capatina, dopodiché ballai di nuovo con David, con Josh, con Audrey, e persino con un tizio del mio anno di cui non ricordavo il nome.
Mi divertii comunque molto quella sera, nonostante la sparizione misteriosa di Steve e nonostante Lauren Garreth che, eletta reginetta del ballo, ebbe l’accortezza di passarmi accanto lanciandomi un’altezzosa occhiata da manuale, come se a me potesse fregare qualcosa della sua incoronazione.
Poco più tardi, mentre mi avviavo al tavolo del punch per versarmene un nuovo bicchiere, capii finalmente cosa diavolo avesse fatto il mio ragazzo per tutta la serata: lo vidi in un angolo poco illuminato della sala che ballava con Chantal Sterling palpandole il culo, mentre lei gli stava abbarbicata addosso quasi soffocandolo.
Ora, ripeto, non sono mai stata una romanticona e probabilmente all’epoca non ero nemmeno innamorata di Steve. Ciò non toglie che un cuore ce l’avessi pure io e vedere quella scena davanti ai miei occhi e davanti agli occhi di tutta scuola me lo fece sanguinare dolorosamente. Perché forse non durò a lungo, ma fu doloroso: Steve era un ragazzo che mi piaceva, era sempre stato carino con me, mi portava al ballo e poi si faceva la Sterling così, davanti a tutti?
Ferita, la mia prima reazione fu quella di voltarmi, uscire dalla palestra e camminare in giro per i corridoi, fino a trovare un angolo abbastanza lontano dalla confusione; mi sedetti sui gradini della scala che portava al piano di sopra e rimasi lì, intenzionata a lasciare che il mio cuore sanguinasse ancora un po’, in pace. Ma il mio piano era evidentemente destinato a non avere successo, visto che dopo pochi minuti fui disturbata: udii dei passi provenire dalla mia destra e interrompersi giusto un attimo prima di sentire l’ultima voce che avrei voluto in quel momento, a parte forse quella di Steve.
“Gray?”
Alzai la testa che avevo lasciato scivolare sulle ginocchia piegate.
“Patterson.”
Lui esitò, poi si avvicinò e si sedette accanto a me sulle scale.
“Nessuno ti ha invitato a sederti,” gli feci notare con un tono piatto, ma senza muovermi di un millimetro.
Matt non si scompose alla mia freddezza. “Non mi pare di aver letto il tuo nome su questo gradino.”
“Nemmeno il tuo, se vogliamo dirla tutta, eppure ti sei comunque seduto qui.”
“Già. Proprio dove sei seduta tu. Le coincidenze, eh?”
Sbuffai, roteando gli occhi: quel ragazzo era nato per rendere la mia vita un inferno, non c’erano dubbi.
“La festa fa schifo, non trovi?”
Alzai le spalle, poi risposi sinceramente. “Io mi sono divertita.”
“Ed è per questo che sei qui da sola, seduta su un gradino, a piangerti addosso?”
“No, è perché un quarto d’ora fa ho beccato il ragazzo che frequento e con cui sono venuta al ballo in atteggiamenti piuttosto intimi con Chantal Sterling. Ma così imparo che non è il caso di fare sesso con qualcuno una settimana prima del prom, se non voglio fargli perdere tutto l’interesse nei miei confronti e ritrovarmi in una situazione del genere. Con te, peraltro.”
Finii la filippica senza mai riprendere fiato, poi mi girai verso Matt, che mi guardava interessato e con un sopracciglio leggermente alzato.
“Chantal Sterling non mi sembra questo granché,” commentò infine, con tono definitivo.
Mi scappò un sorriso. Non sapevo se Matt l’avesse detto con l’intenzione di farmi tornare il buon umore, di fatto però ci era quasi riuscito.
“In effetti… Almeno se fosse stata Lauren Garreth me ne sarei fatta una ragione più facilmente.”
“Neanche la Garreth è questo granché. E parlo con cognizione di causa.”
Gli tirai un pugno fiacco sul braccio. “Angelina Jolie ti basta o neanche lei è alla tua altezza, principino?”
“Angelina Jolie è ok.”
Scossi la testa, non si smentiva mai. “Lauren Garreth è appena stata eletta reginetta e mi è passata accanto squadrandomi come se fossi un insetto.”
“Di già? Mi sono perso l’incoronazione, la mia serata non vale niente.”
Lo guardai di nuovo, assottigliando gli occhi. “Ce l’ho ancora con te per la faccenda della festa, non credere che me ne sia dimenticata.”
“Me ne farò una ragione.”
“Ti sei comportato da grandissimo stronzo, Patterson.”
“Davvero?”
“Sto ancora aspettando le tue scuse.”
“Buon per te.”
Mi venne fuori dalla gola un suono gutturale simile a un ringhio.
“A cuccia, Gray,” commentò allegro Matt, facendomi se possibile incazzare ancora di più. “È Teller quello con cui sei venuta al ballo, vero?”
“Sì, perché?”
Quello che accadde dopo fu talmente veloce ed inaspettato che non ebbi minimamente il tempo di reagire. Matt mi si avvicinò, mi appoggiò una mano sul volto facendomi girare verso di lui e posò le labbra sulle mie.
Mi stava baciando, che cazzo.
Sentii le sue labbra schiudersi appena sulle mie e il suo respiro sfiorarmi la guancia; ebbi a malapena il tempo di elaborare la cosa che si era già allontanato di qualche centimetro. Lo guardai con tanto d’occhi, incapace di muovermi.
“Che cazzo fai?” gli chiesi in un sussurro strozzato, il cuore incastrato in gola per la sorpresa.
Patterson mosse impercettibilmente la testa verso la sua sinistra, indicandomi il corridoio di fronte alle scale su cui eravamo seduti. Mi girai, ancora confusa, e vidi in piedi lì davanti Steve, fermo a una decina di metri di distanza da noi, che ci osservava stupefatto almeno quanto me. No, forse non così tanto, ma sembrava parecchio incredulo anche lui.
Mi voltai di nuovo verso Matt, boccheggiando, poi mi alzai e andai istintivamente da Steve.
“Senti…” cominciai indecisa, non sapendo come spiegargli ciò che aveva appena visto.
“Te la fai con quello?” mi chiese lui, con un’espressione schifata e quasi oltraggiata a dipingergli il viso.
La rabbia prese il sopravvento su di me: si permetteva pure di fare l’offeso dopo quello che aveva fatto tutta la sera alle mie spalle? Bella faccia tosta, davvero.
“E tu, te la fai con la Sterling?” gli ritornai la domanda, acida, mentre incrociavo le braccia al petto.
Steve sbiancò, colto in fallo. “Cosa stai…? Non è vero, io…”
“Risparmiati le scuse, Teller, vi ho visti, e non credo di essere l’unica. Direi che siamo pari, chiudiamola qui.”
Lui non trovò niente da obiettare, incassò il colpo e si girò, allontanandosi con la coda fra le gambe.
A quel punto, ancora parecchio incazzata, mi voltai verso Patterson che se ne stava tranquillamente seduto sulle scale, come se il caso non fosse il suo.
“E tu…” iniziai, camminando decisa nella sua direzione. “Credevo di essere stata abbastanza comprensibile, l’altra volta, nel chiarire che non voglio per nessuna ragione al mondo avere più a che fare con te. Ti diverte tanto starmi tra le scatole?”
“Ti ho fatto un piacere, piccoletta, puoi anche ringraziare.”
“Come? Sei… Sei davvero incredibile!” sbottai, a corto persino di insulti.
“Lo so, grazie,” sorrise lui.
“Senti un po’, Patterson, io non so quali siano i tuoi problemi, ma se pensi che questo tuo atteggiamento da gran

Matt mi interruppe con un gesto secco della mano e mi parlò sopra.
“Alt, ferma, tregua! Non cominciare con la solita tiritera, non ho tutta la notte. Mi hai dato una mano a scaricare la Garreth e io ti ho aiutato a vendicarti di quel tipo, ok? Siamo pari. Puoi evitare di farti venire un infarto.”
“Io non…”
“E comunque mi dovevi un bacio finto.”
“Non ti dovevo un bel niente!”
Matt si alzò e scese quei due o tre gradini che ci separavano, mettendo fine alla mia momentanea situazione di superiorità in altezza.
“Ah no?” commentò tranquillo, pulendosi il retro dei pantaloni con le mani. “Mi pareva di ricordarmi così. Mi sarò sbagliato.”
“Io ti odio, Patterson. Davvero.”
“Prego, Gray. È stato un piacere,” rispose lui, mentre si voltava e prendeva il corridoio per allontanarsi.
“Vaffanculo!” gli urlai dietro, ormai ben oltre il limite della mia sopportazione.
Matt si limitò ad alzare una mano a mo’ di saluto, senza nemmeno guardarmi.

Le vacanze estive arrivarono qualche giorno più tardi, per il bene della mia sanità mentale: incrociare tutti i giorni a scuola Teller e Patterson non mi faceva per niente bene, né a me né al mio fegato.
Avevo raccontato brevemente ai miei amici ciò che era successo con Steve al ballo, tralasciando però tutta la parte su Matt. Mi faceva incazzare il solo pensarci, e mi vergognavo anche un po’, senza sapere perché, per tutta la faccenda. A quanto pareva, nemmeno Steve aveva raccontato in giro del mio bacio con Matt, dal momento che non mi ritrovai sommersa di pettegolezzi come mi sarei aspettata: evidentemente anche lui si vergognava del palco di corna che mi aveva messo con la Sterling, perché, nei giorni successivi, quando lo incontravo in corridoio si limitava a cambiare strada abbassando la testa. Forse non aiutava nemmeno il fatto che i miei amici lo guardassero come se fosse merda secca, a dirla tutta, ma avevano i loro buoni motivi per farlo.
Patterson, invece, aveva ripreso a salutarmi, ma riceveva da me solo occhiatacce cariche d’odio e qualche insulto colorito. Persino Jude un giorno mi chiese perché ce l’avessi tanto con lui; le risposi solo con un “è un cretino” che chiuse definitivamente ogni possibile discussione sull’argomento.
Avevo assolutamente bisogno di distrarmi. L’arrivo delle vacanze mi concesse, grazie al cielo, di farlo.
Luglio lo passai perlopiù a dormire, mangiare e divertirmi in giro con i miei amici. Per la maggior parte del mese di agosto, invece, tornai in California con i miei genitori, e passammo le ferie a casa della sorella di mio padre. Rividi molti dei miei vecchi compagni di classe, passai le mie giornate in spiaggia, e godetti anche di un’avventura estiva con un ragazzo della mia precedente scuola che mi piaceva da un pezzo. Non potevo chiedere migliore distrazione.
Sempre in quel periodo, poi, feci un’altra cosa che mi rese piuttosto orgogliosa di me stessa: un pomeriggio particolarmente caldo entrai in un salone di parrucchiere a caso e chiesi alla ragazza che mi guardava stupita con le forbici in mano di dare un taglio netto ai miei capelli. Ne uscii con un caschetto piuttosto corto e una tinta color cioccolato che si intonava bene alla mia abbronzatura estiva. A mio padre per poco non venne un colpo quando mi vide, mia madre invece sembrava divertita, e i miei amici mi fecero un sacco di complimenti stupefatti.

Tornai a Winthrop una decina di giorni prima dell’inizio della scuola e, ovviamente, dovetti darmi da fare coi compiti che avevo snobbato per tutta l’estate.
Rividi anche i miei amici in quei giorni e venni informata delle ultime novità piuttosto succose: Jude aveva perso la verginità con Derek Finn, il ragazzo con cui era andata al ballo qualche settimana prima. Me lo raccontò Audrey un pomeriggio di inizio settembre in cui uscimmo io e lei.
A detta di Aud, Jude e Derek sembravano stare davvero bene insieme e questo, secondo David, creava non pochi fastidi a Josh, che invece pareva infastidito dall’affiatamento dei due, ed era saltato di ragazza in ragazza per tutta l’estate uscendo meno del solito con il resto del gruppo.
“Non capisco perché,” mi disse Audrey mentre ce ne stavamo sedute su un muretto di un parco poco lontano dal centro città, “secondo Dave Josh sarebbe infastidito da Jude che fa coppia fissa con Derek. È stato proprio lui a presentarlo a Jude, se non sbaglio.”
Sospirai, scuotendo la testa: Audrey era l’ingenuità fatta a persona per quanto riguardava questo genere di cose, non c’era niente da fare.
“Vedi, credo che Dave intendesse dire…” cominciai paziente a spiegarle.
Aud mi interruppe. “Quello non è Matt Patterson?”
Sussultai, sorpresa, e seguii lo sguardo della mia amica, fino ad arrivare al marciapiedi dall’altra parte della strada: lì c’era, appunto, Patterson, appoggiato mollemente al muro con una sigaretta in mano. Guardava distrattamente il cemento della strada di fronte a sé, lasciando che la sigaretta si consumasse da sola tra le sue dita.
Magnifico, pensai scoraggiata. Sono in città da meno di quarantott’ore e tra tutti dovevo incontrare proprio lui.
“Cosa starà facendo lì da solo?” mi chiese Audrey, ovviamente incuriosita dalla sua natura di ficcanaso professionista.
“Si sarà finalmente deciso a fare un giro tra i comuni mortali,” commentai caustica. “Cerchiamo di non farci notare, Aud, preferirei non doverlo affrontare almeno fino all’inizio della scuola.”
Matt non ci notò, anzi. Continuò a restare fermo in quella posizione, l’unico impercettibile movimento che potevamo notare era il leggero strofinio stanco del suo piede sull’asfalto del marciapiedi.
Era assurdo vederlo così, mi sembrava di spiare qualcuno in un momento di intimità: ebbi l’impressione di vederlo nuovamente senza maschera, quasi spoglio in quella sigaretta lasciata a consumarsi e quel lieve dondolio della punta del piede. Avevo già avuto, alla festa di Ramirez, l’impressione di coglierlo in un raro momento di onestà e limpidezza, ma era durato un attimo e avevo sempre pensato di averlo immaginato. Eppure quel pomeriggio, di nuovo, pensai fugacemente che Patterson doveva essere molto più di ciò che dava a vedere.
Quando la sigaretta che aveva in mano era praticamente finita, Matt spense il mozzicone, lo gettò su un posacenere appoggiato alla finestra e si voltò rientrando nell’edificio alle sue spalle da una porta di servizio.
Io e la mia amica restammo entrambe in silenzio per qualche secondo finché Audrey non si batté improvvisamente una mano sulla coscia, facendomi sobbalzare penosamente, tanto ero persa nei miei pensieri.
“Quella dev’essere la porta sul retro del Green Cafè!” esclamò, come se le fosse tutto improvvisamente chiaro.
La guardai confusa e lei si spiegò. “Mi avevano detto che Patterson lavorava lì, quest’estate, ma ci sono stata e non l’ho mai visto, perciò pensavo fosse una bufala. Probabilmente lavora in cucina, per questo non è mai in sala.”
“In cucina a fare cosa?”
“Boh, può fare un milione di cose diverse. Prepara i panini, fa gli ordini per i pranzi, pulisce, lava le stoviglie…”
“Lo sguattero?” chiesi dubbiosa: non ce lo vedevo proprio uno come Patterson che lavorava come lavapiatti, senza considerare tutti i soldi che doveva avere la sua famiglia.
Aud alzò le spalle. “Magari voleva un lavoretto estivo.”
“Sarà,” borbottai io, ancora poco convinta. “Forza, andiamo a salutare Jude, mi ha detto che oggi pomeriggio è a casa.”

Anche la visita a Jude ebbe un risvolto inaspettato, almeno per me.
Quando suonammo, venne ad aprirci la porta un bellissimo ragazzo, evidentemente più grande di noi, che indossava solo dei pantaloncini da basket. Mi scrutò stupito, poi spostò lo sguardo sulla mia amica dietro di me e sorrise.
“Ehi, ciao Audrey,” la salutò allegramente, spostandosi per farci entrare.
I miei ormoni si erano agitati al suo sorriso, quindi lo sorpassai continuando a guardarlo curiosa. Chi diavolo era quel figo da paura che girava mezzo nudo a casa di Jude? C’era qualcosa che non quadrava, Derek non me lo ricordavo affatto così.
“Ciao Kerr,” rispose lei, svelandomi finalmente l’arcano.
“Kerr?” chiesi io, priva di pudore come al solito. “Sei il fratello di Jude?”
“Yep,” rispose lui facendomi un occhiolino che quasi mi stese. “E tu devi essere…”
“Delia,” mi presentai io, riprendendomi, sfoderando un sorrisone e porgendogli la mano.
“Giusto, Delia. La californiana.”
“Già. Ma puoi chiamarmi Dee, se vuoi,” gli dissi ricambiando l’occhiolino di poco prima.
Audrey seguiva lo scambio di battute esterrefatta: era abituata a vedermi flirtare con i ragazzi, ma evidentemente non si aspettava di trovarmi così spigliata anche di fronte al fratello maggiore della nostra amica.
Kerr fece un sorrisone e mi lanciò uno sguardo divertito che, purtroppo, è lo sguardo che si riserva precisamente all’amichetta della propria sorellina piccola. Maledizione.
“Vi chiamo la piccolina,” ci disse poi, confermando il mio pensiero di poco prima. Dopodiché si sporse per le scale e sbraitò alla sorella che eravamo arrivate, dal piano di sopra ci giunse ovattata la voce di Jude che rispondeva con qualcosa di incomprensibile per chiunque.
“Ha detto che potete raggiungerla in camera sua,” disse invece Kerr, tornando a guardarci.
Io e Audrey ci lanciammo uno sguardo stupito.
“Tu hai capito cos’ha detto?” chiesi a Kerr mentre già salivamo i primi gradini.
Lui ridacchiò. “Comunichiamo così da sempre, certo che capisco.”
Entrai nella camera di Jude con un’espressione ancora adorante in volto.
“Hai un fratello così tremendamente figo e non mi dici niente?”
Jude mi guardò come se avessi sbattuto la testa molto forte. “Figo? Kerr?”
“Perché, hai altri fratelli?”
“Tu sei sciroccata, Dee. Sei già stata altre volte a casa mia, non…”
“Infatti!” esclamai io enfatica. “E me l’hai sempre tenuto nascosto.”
“Perché fa il college a New York, non è quasi mai qui. Intendevo dire che è pieno di foto di Kerr a casa mia, è impossibile tu non le abbia viste.”
“Certo che le ho viste, ma siete piccoli in quelle foto!” le spiegai, e sottolineai le mie parole indicando con la mano una cornice sulla libreria in camera sua: nella fotografia al suo interno c’era uno sdentato e sorridente bimbo di cinque anni che teneva in braccio una piccolina di qualche mese appena.
“Adesso è davvero stupendo!” conclusi, puntando uno sguardo sognante sul soffitto.
“Stupendo? Devi farti fare un controllo alla vista, Dee…”
“Cosa? Audrey, di' qualcosa!” dissi, cercando aiuto nell’unica altra persona in quella stanza che non aveva patrimonio genetico in comune con il ragazzo di cui stavamo parlando.
Audrey intervenne. “Beh, è carino, ma credo tu ti sia più che altro fissata sulla mancanza di vestiti nella parte superiore del corpo, Dee.”
Jude ridacchiò. “Ovvio. Hai un problema ormonale, tu!”
“E comunque ti somiglia un sacco, Jude, hai poco da sminuire,” continuò Aud, indicandola.
Lei sbuffò, ma adesso che avevo modo di pensarci pure io senza i pettorali di Kerr davanti, dovetti concordare che era vero.
Mi buttai sul letto divertita. “Bene, ora che abbiamo stabilito ciò… Io e i miei ormoni possiamo raccontarvi di Marc se tu,” dissi indicando Jude, “mi racconti tutto di Derek.”
Jude arrossì imbarazzata, mentre Audrey spalancava gli occhi.
“Ti sei fatta Marc? Quel Marc che ti piaceva a Oakland?”
Annuii soddisfatta. “Beh, praticamente abbiamo flirtato tutta la mia prima settimana lì, ma lui non si è avvicinato finché, un venerdì sera, il suo amico Lenny non ci ha provato con me e…”
Cominciai a raccontare tutto srotolando la mia solita parlantina e sorridendo.
Ero felice: stava per iniziare un nuovo anno a Winthrop e io avevo delle amiche splendide con cui condividere le mie psicosi e da stordire con la mia logorrea. Non potevo essere più fortunata di così.










Hola! Sono di nuovo qui senza grossi ritardi, se qualcuno davvero segue questa storia deve cominciare a ringraziare gli dei dell'Olimpo per la mia strana puntualità! Ma non formalizziamoci, vado al punto che è meglio.

Non ho molto da dire, forse vi aspettavate qualcosa di più da questo capitolo, ma per i tempi che ho io di solito direi che siamo già ben che avanti! Il bacio c'è stato, un po' stitico e fatto per un motivo particolare, ma c'è stato. Ricordatevi che Delia NON ha raccontato ai suoi amici dell'accaduto, questo vi servirà a capire un po' meglio il personaggio, che non è così lineare come poteva sembrare a prima vista (e chi mai lo è?). D'altronde, chi di voi ha letto anche Of all the people in the world (la storia su Jude ambientata nel futuro, cliccate il titolo per aprirla) sa che Jude, diversi anni dopo, sospetta qualcosa ma non sa niente di cose accadute tra Delia e Matt.
Per quanto riguarda Matt Lo Stronzetto, invece, penso che si comincerà a capire molto di più sul suo carattere a partire dal prossimo capitolo, che, per la cronaca, è probabilmente il mio preferito finora. Ma non faccio spoiler.
Mi piacerebbe da morire psicanalizzare uno per uno i miei personaggi, cosa che non posso fare bene nella storia perché parlo solo con la voce di Delia, ovviamente. Ma dubito che ve ne freghi qualcosa. Qualcuno di voi vuole dirmi che ne pensa? Li trovate coerenti? Ci tengo tantissimo alla caratterizzazione, e la storia ha una trama che dura diversi anni, quindi i personaggi matureranno... Spero di riuscire a mantererli coerenti pur nella crescita. Fatemi sapere che ne pensate.

Ho BISOGNO delle vostre recensioni, gente, faccio per la prima volta davvero questo appello, perché so che qualcuno c'è e sta leggendo. Le recensioni, anche quelle critiche, sono il sale per chi pubblica qui, servono per continuare ad avere la giusta spinta e l'ispirazione per scrivere.
Grazie mille a chi segue la storia, un bacione grosso a tutti quelli che leggono! Bye bye.

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Capitolo 5
*** How to silence a bully ***


5. How to silence a bully


Il terzo anno di liceo iniziò e, sorprendentemente, ne fui contenta. Sono sempre stata iperattiva di natura e andare a scuola, vedere gente tutti i giorni, poter parlare e stare sempre coi miei amici, in fondo, mi piaceva.
C’era solo il piccolo inconveniente di dover per forza avere a che fare anche con persone che avrei preferito non incontrare fino alla fine dell’anno scolastico. Tipo Patterson, tanto per fare un nome a caso. Cominciammo l’anno male esattamente come avevamo concluso quello precedente.

Il primissimo giorno di scuola arrivai in anticipo, addirittura prima di Josh, talmente ero eccitata di rivedere finalmente tutti i miei amici insieme. I corridoi erano semi deserti: salutai le poche persone che conoscevo e poi andai a prendere posto nella zona caffetteria, che non era altro che un piccolo atrio prima del cortile, munito di un paio di macchinette del caffè e di qualche tavolo circondato da vecchie poltroncine. Gli studenti si contendevano, durante le ore buche o gli intervalli, quei pochi posti, ma essendo arrivata molto presto trovai i tavoli praticamente vuoti e, frequentando finalmente il terzo anno, non rischiavo neanche di sedermi per poi essere scacciata in malo modo da qualche galletto più grande che non voleva quelli del primo o del secondo lì intorno.
Cominciai a guardarmi attorno nell’attesa frenetica di una faccia amica ma i minuti passavano a non arrivava nessuno. Sbuffai guardando l’orologio: mancavano venticinque minuti all’inizio delle lezioni, forse avevo esagerato con la sveglia quella mattina. Mi rassegnai ad aspettare mettendomi più comoda sulla poltroncina e in quel momento fece la sua solita entrata pigra Matt Patterson.
Avevo ancora davanti agli occhi l’immagine di lui sul retro del Green Cafè con quell’espressione distratta e sincera appiccicata addosso. Forse per questo mi trovai stranamente ben disposta, mi dimenticai del ballo, del bacio, dei litigi, e decisi di salutarlo, quasi allegra.
“Ehi, ciao.”
Matt, che in quel momento mi stava passando di fianco, alzò la testa e mi guardò, confuso per un attimo, come se non mi riconoscesse – cosa che mi era successa con altre persone quella mattina, visto il cambiamento dei miei capelli. Notai che aveva capito chi ero quando, dopo qualche secondo e un lampo di comprensione nei suoi occhi, aprì la bocca per dire qualcosa, ma si fermò alzando le sopracciglia e squadrando il mio abbigliamento dall’alto al basso.
Evidentemente non apprezzava la mia tenuta del giorno: uno scamiciato azzurro acceso a maniche corte, dei sandali con una zeppa in sughero e i capelli, tagliati e tinti di castano scuro durante l’estate, legati in una codina alta che mi spuntava dalla testa come una piccola fontanella. Ah, e gli orecchini etnici a spirale. Colorati. Con le perline.
Quell’esame visivo mi stava innervosendo, così, ovviamente, parlai.
“Tutto bene? Hai capito chi sono o ti hanno lobotomizzato durante l’estate?”
Ok, non era il massimo come incipit, ma in mia difesa posso dire che la domanda fu pronunciata con un tono scherzoso per stemperare l’imbarazzo, non con l’acidità con cui ero solita rivolgermi a lui.
“Sì, Gray. Stavo solo cercando di capire se sembri più l’infermiera o la paziente di una casa di cura per malati psichiatrici. Dal vestito direi più l’infermiera, ma…”
“Bastava rispondere con un ciao, sai.”
“Non volevo essere banale.”
“Sia mai che mostri un po’ di educazione, per l’amor del cielo.”
La sua risposta mi aveva fatto tornare acida. Non c’era niente da fare, davvero, ero una persona socievole io, ma Matthew Patterson risvegliava i miei istinti omicidi.
“La paziente,” commentò lui infine. “Sembri più la paziente.”
In quel momento arrivarono Josh e David, e Matt si girò a salutarli educatamente, cosa che con me era impossibilitato a fare.
“Ciao Patterson,” rispose Josh dandogli una pacca sulla spalla.
“Buongiorno,” fece David, il solito tono allegro. Poi si girò verso di me. “Dee, sei davvero carina oggi. Bello il vestitino,” commentò dandomi un bacio sulla guancia e sedendosi accanto a me sulla poltroncina a due posti.
Mi girai soddisfatta verso Patterson. “Sentito?”
Lui alzò le mani in segno di resa e si allontanò, andandosi a sedere da solo a un tavolino poco lontano.
“Perché non lo invitiamo qui con noi? È solo,” propose Josh, sedendosi su una poltrona lì di fianco.
“Chissà come mai,” sbuffai io, sottovoce, senza neanche prendere in considerazione quella malsana proposta.
“Perché Delia lo odia,” disse invece David, rispondendo anche per me.
Josh mi lanciò un’occhiata confusa. “Lo odi? Che ti ha fatto?”
“È un cretino. E maleducato, anche se evidentemente solo con me,” risposi, tentando di tenere la voce abbastanza bassa per non farmi sentire. Patterson sapeva già quello che pensavo di lui, ma avrei volentieri evitato un secondo battibecco prima dell’inizio delle lezioni.
David guardò Josh stupito. “Parker, sei l’unico in tutta la scuola a non esserti accorto che questi due non si possono vedere!”
In effetti, Josh non era particolarmente attento a queste cose, era piuttosto svampito riguardo al mondo circostante. A meno che non si trattasse di Jude, ovvio.
Il diretto interessato scrollò le spalle. “Pensavo scherzassero, non che si odiassero per davvero.”
“Certo,” annuì Dave. “Questo finché Matt non l’ha usata per liberarsi di Lauren Garreth, a quel punto deve averle detto qualcosa che l’ha fatta incazzare sul serio. Ma credo che poi sia successo anche qualcosa di peggio, perché non ho mai visto Deels così stronza con qualcuno, nemmeno quando Steve…”
A quel punto lo interruppi, David ci stava prendendo decisamente un po’ troppo per i miei gusti.
“Ehi! Io sarei qui!” esclamai offesa.
Josh rideva di gusto. “Peccato, era una storia avvincente,” disse, mettendosi più comodo sulla poltroncina. “Niente Patterson, quindi, ho capito. Voi avete fatto tutti i compiti della Spencer? Perché io no…”

I primi mesi dell’anno scolastico volarono via abbastanza tranquilli e rapidi, tra l’invito per una festa rimediato, ovviamente, da David, i compiti per casa da svolgere il più velocemente possibile per poi uscire con gli amici, e i continui battibecchi con Patterson durante le ore di lezione e non. I nostri piccoli litigi presero una cadenza all’incirca settimanale e ci resero anche uno spettacolo di discreto successo: spesso, quando ci incontravamo in corridoio, qualcuna delle persone lì attorno si girava a guardarci sperando in una frecciatina da parte di Matt che scatenasse una mia reazione stizzita. Qualcuno mi adorava per come sapevo tenergli testa, qualcun altro, invece, riteneva che fossi una sfigata malata di mente che non sapeva apprezzare il fatto che Matt Patterson, quel bel figaccione tenebroso, mi rivolgesse la parola. Quasi sempre per insultarmi, ma tant’è.
Ma gli avvenimenti più interessanti di quel periodo furono, in verità, altri.
Innanzitutto, prima delle vacanze di Natale e dopo il mio diciassettesimo compleanno, Jude e Derek si mollarono. Più volte. Questo perché, dopo la prima volta che Derek la scaricò, tornarono assieme, poi ci fu una specie di breve riavvicinamento con successivo riallontanamento, e poi tornarono insieme per un paio di settimane, prima di lasciarsi di nuovo, il tutto nel giro di un mese circa. La verità era che Jude si sentiva ancora parecchio presa dal ragazzo, e ogni volta che Derek tornava da lei, confuso sui suoi sentimenti e, forse, inconsapevole di farle così tanto male, lei non riusciva a dirgli un secco no e cedeva, tornando con lui.
Ho sempre avuto il sospetto che la situazione, alla fine, fosse stata sbloccata in maniera definitiva da Josh. Una mattina, uscendo dall’aula di francese per andare a recuperare un libro nel mio armadietto, vidi in corridoio Josh, espressione seria e risoluta in volto, che parlava proprio con Derek Finn, il quale aveva invece la testa bassa e l’aria abbattuta. Non sentii nulla di quello che si dicevano e non mi soffermai ad origliare, ma notai che da dopo quell’episodio Derek smise di giocare al tira-e-molla con la mia amica.
Ovviamente, non parlai mai con Jude di quello che credevo fosse successo, non perché volevo essere sleale nei suoi confronti, ma perché ritenevo che Josh avesse agito solo per il bene di lei. Inoltre, credo che quella sia stata la prima e l’ultima volta che Josh intervenne personalmente nella vita amorosa di Jude: era sempre stato iperprotettivo nei suoi confronti ma la lasciava, giustamente e da bravo amico, fare  ciò che voleva, senza nemmeno darle troppi consigli, anche se lei gli parlava di tutto.
Quello che invece Josh fece e che continuò a fare anche negli anni a venire quando lei stava male per un ragazzo, fu mollare tutto ciò che riteneva meno importante per rendere Jude il centro del proprio universo in quel periodo: scaricò la frequentazione del momento, disertò qualche allenamento della squadra di basket e, con discrezione ma con una tenacia stupefacente, risollevò Jude dal periodo nero in cui si trovava, coccolandola e facendola ridere come solo lui sapeva fare.
Jude stette da cani per qualche settimana, poi migliorò, infine tornò la ragazza ironica e ritardataria che tutti conoscevamo.

E poi, finalmente, David un giorno fece coming out e si dichiarò omosessuale. Non fu una cosa rose e fiori, non fu semplice né immediato come in quei film in cui il ragazzo omosessuale di turno un giorno alza la mano e dice: “Volevo dire a tutti che sono gay, so che vi andrà bene, grazie e baci”. Winthrop era una piccola cittadina, non tutti lì erano così aperti mentalmente, e per David non era facile prendere consapevolezza e decidere di sbandierare i propri affari ai quattro venti.
Certo, era una cosa che era già nell’aria da un po’: Dave ogni tanto commentava i ragazzi con noi e almeno io, Jude e Audrey avevamo già previsto l’ipotesi che fosse gay, anche se non ce ne aveva mai parlato chiaramente. L’unico ad essere veramente all’oscuro era Josh, e infatti Dave decise di confessarlo proprio a lui e a Jude un pomeriggio in cui erano assieme a studiare. A dirlo a me e Audrey fu Jude, qualche giorno più tardi, spiegandoci che fino a quel momento David l’aveva detto solo a noi e a sua madre e che non voleva che il resto della scuola lo sapesse.
Ovviamente per noi non cambiò assolutamente nulla nella relazione con Dave, era sempre il nostro amico pazzo e disponibile con tutti. Josh fu quello che rimase un po’ più tramortito dalla notizia, ma solo perché, a differenza di noi ragazze, non se l’aspettava. Se la cosa gli creò degli scompensi, comunque, non lo diede a vedere, e l’equilibrio del nostro piccolo gruppetto non si modificò in maniera consistente.

Quell’inverno, un martedì mattina stavo chiacchierando tranquillamente con Audrey prima dell’inizio delle lezioni, quando notammo che si era creato un capannello di persone in fondo al corridoio. Ci avvicinammo, ovviamente incuriosite dal parapiglia e dalla voce che sembrava provenire dal centro di questa cerchia di nostri compagni.
Per cercare di capirci qualcosina in più domandai a un ragazzo che conoscevo, Michael Brady, se sapesse dirmi cosa stesse accadendo, poiché immaginavo che essendo parecchio più alto di me con ogni probabilità riuscisse a vedere oltre al resto della gente. Lui scrollò le spalle, disinteressato.
“Ashton se la prende con McPharrell,” spiegò conciso.
Spalancai gli occhi, credendo di aver capito male. “Con David?”
Michael annuì mentre Aud, al mio fianco, mi stringeva spasmodicamente il braccio, allarmata.
“Perché cazzo…?” biascicai, ma mi bloccai subito, sbiancando, quando mi arrivarono con chiarezza le parole cariche d’odio e di scherno che uscivano dalla bocca di Pierce Ashton in quel momento.
“Allora è vero che sei un finocchio, eh, McPharrell? Avanti, rispondi.”
Immediatamente mi voltai verso Audrey, che mi guardava con il panico negli occhi, e, senza perdere altro tempo, le dissi cosa fare.
“Vai a cercare Josh, sicuramente è già arrivato.”
“Tu che fai?”
“Cerco di fermare Ashton.”
Lei sbarrò gli occhi. “Delia…”
“Non abbiamo tempo da perdere, ci serve Josh. Vai!”
Audrey mi lanciò un ultimo sguardo preoccupato, poi fece come le avevo detto, fidandosi di me. In effetti, il ragionamento che avevo fatto in quei due secondi di tempo che avevo avuto per riflettere era piuttosto sensato. Pierce Ashton era un bulletto prepotente e maleducato, che spesso se la prendeva con altri ragazzi della scuola, generalmente più minuti e meno in vista di lui. Era il tipico adolescente coglione che potevi trovare in una piccola scuola come la nostra, un concentrato di muscoli e stupidità con la tendenza a fare il bullo e ad alzare, a volte, le mani. Dal momento che Josh godeva di una certa popolarità a scuola – giocava nella squadra di basket, dove peraltro era compagno di squadra proprio di David e di Ashton – era probabile che riuscisse a farsi ascoltare da quel decerebrato, che di sicuro invece non avrebbe dato retta a me, che ero una ragazza, ero bassa, ed ero pure poco popolare.
Nonostante ciò non mi passava neanche per l’anticamera del cervello l’idea di abbandonare David nelle mani di quel gorilla fino all’arrivo di Josh, perciò, spinta da un coraggio che, in verità, non mi è mai mancato, mi feci strada superando le persone che assistevano all’aggressione senza muovere un dito – quegli idioti ritardati dei miei compagni di scuola l’avrebbero pagata in seguito – e raggiunsi l’epicentro dell’azione.
Pierce Ashton aveva messo all’angolo David, che se ne stava a testa bassa appoggiato al proprio armadietto, mentre l’altro lo insultava dall’alto della sua statura. Non che Dave fosse basso, ma in quel momento era così palesemente umiliato e scoraggiato che stava con la testa incassata tra le spalle ad ascoltare gli insulti senza avere il coraggio di muovere un dito, stremato da quella situazione surreale.
“Allora, brutta checca, mi vuoi rispondere o no?” ringhiò Ashton prendendo il mio amico per il bavero della polo e spingendolo contro l’armadietto con rabbia.
Aprii la bocca e scattai in avanti, mossa dallo schifo verso quel sopruso, prima che il cervello mi suggerisse effettivamente come agire; ma, mentre lo facevo, fui anticipata da qualcuno che, nel superarmi, mi prese per una spalla e mi spostò dietro di sé.
“C’è qualche problema, Ashton?”
Matt Patterson. Era lui che mi aveva superata e spostata per porsi tra me e l’idiota che avevo di fronte. Per un istante, nel realizzare cos’era appena successo, rimasi talmente allibita da non riuscire a muovermi, la bocca semi aperta e gli occhi puntati sulla schiena di Patterson.
Pierce dovette rimanere altrettanto stupito, perché mollò la presa su David e guardò Matt confuso.
“Che vuoi?” gli chiese poi, indeciso sul da farsi.
“Ti ho chiesto che problemi ci sono, visto che eri impegnato a sbattere il tuo compagno sull’armadietto.”
Ashton fece una smorfia disgustata. “Lui non è un mio compagno, è una checca.”
Matt lo guardò in attesa di spiegazioni più dettagliate, che non tardarono ad arrivare.
“Frocio, capisci?” sputò fuori l’altro indicando con un gesto David, che nel frattempo continuava a starsene appoggiato all’armadietto con la testa bassa e l’aria abbattuta.
“Quello che non capisco è perché lo stavi insultando. Hai la necessità di picchiare qualcuno di più debole di te prima dell’inizio delle lezioni, la mattina? Te l’ha prescritto il dottore, per caso?”
Il gruppetto di persone intorno a noi, sempre più numeroso peraltro, rumoreggiò commentando la battuta, e Ashton capì in quell’esatto momento che Matt era intervenuto per dargli del filo da torcere.
“Non è che sei un finocchio pure tu, Patterson?”
Matt fece un passo in avanti, guardando l’altro dritto negli occhi senza lasciarsi intimidire.
“Innanzitutto, siamo nel ventunesimo secolo e si dice gay, non frocio o checca o finocchio. E poi, Ashton, siamo nel ventunesimo secolo, e ognuno fa quel cazzo che gli pare della propria sessualità e della propria vita, senza dover rendere conto a te, brutto stronzetto presuntuoso.”
Quel discorso era decisamente troppo articolato per il cervello atrofico di Pierce Ashton, me ne resi conto subito, assieme al resto dei ragazzi lì intorno, che cominciarono a ridacchiare commentando a bassa voce la situazione.
Ashton fece una smorfia a metà tra il confuso e l’incazzato, capendo perlomeno di essere stato insultato, ma Matt non aveva ancora finito.
“Sai cos’è il ventunesimo secolo, Ashton?” domandò, muovendo un altro passo verso l’interpellato, ancora paralizzato dalla sorpresa. “O sei ancora bloccato nel tuo personale Medioevo? Perché sarebbe ora di evolversi, ti avviso, o finirai per estinguerti, tu e tutti i coglioni della tua stessa razza.”
A quel punto, com’era prevedibile, Ashton si arrabbiò davvero, forse intuendo il significato della parola “coglioni”. Il destro colpì Patterson sullo zigomo, ma lui si fece trovare pronto: incassò il colpo senza scomporsi troppo e reagì velocemente con uno spintone seguito da un pugno sullo stomaco e uno sulla mandibola.
Io, immobile fino ad allora, trasalii alla vista della rissa, e mi risvegliai muovendomi per fermarli. In quel momento arrivò anche Josh, trafelato, il quale, vedendo che mi avvicinavo a Matt prendendogli un braccio per fermarlo, venne ad aiutarmi. Lo allontanammo tirandolo indietro e Patterson ce lo lasciò fare, evidentemente soddisfatto delle condizioni in cui aveva lasciato Ashton, ormai accasciato sulla fila di armadietti con un labbro sanguinante.
“Cosa sta succedendo qui?” intervenne la voce del professor Berries, appena arrivato sul posto.
“Alla buon’ora,” borbottai tra i denti. Dove diavolo erano i professori in quelle occasioni? Cristo, non arrivavano mai in tempo.
Berries vide la situazione – Matt trattenuto da me e Josh, Ashton tumefatto, e David paralizzato poco più in là – e sbiancò.
“Ma che… Voi… Ragazzi, per la miseria, una rissa in corridoio?”
Trattenne a stento un’imprecazione, dopodiché rimise su la sua migliore espressione autoritaria, che comunque risultava ben poco convincente, e dichiarò il proprio verdetto.
“Patterson, Ashton, dal preside.”
Si voltò poi verso David. “Immagino che gli altri due abbiano cercato di porre fine a questo scempio, ma qual è il suo ruolo nella vicenda?”
Dave boccheggiò e io intervenni. Non ho mai sopportato le ingiustizie e, d’altro canto, ho sempre avuto la lingua troppo lunga.
“Professore, veramente non è come sembra, Patterson è intervenuto per…”
“Gray, veda di non peggiorare la sua situazione.”
“Ma sta sbagliando, cazzo!” sbraitai io, infuriata.
“Vuole fare anche lei un giro nell’ufficio del preside?”
“Va bene!” risposi io, incrociando le braccia al petto.
Berries, che con la sua domanda retorica pensava di minacciarmi e di mettermi a tacere, sembrò piuttosto stupito dalla mia risposta e rimase ad aprire e chiudere la bocca per qualche secondo. David mi si affiancò, muovendosi finalmente dalla sua posizione.
“Penso di dover andare io dal preside, professore, la rissa è nata a causa mia.”
“McPharrell…?” boccheggiò ancora Berries.
Josh, invece, non trattenne un mezzo sorriso nel fare un passo avanti.
“A questo punto mi unisco alla gita, ero qui pure io.”
“Adesso basta!” tuonò il povero Berries, esaurito. “Filate tutti dal preside! Ora!”
Si girò verso il resto delle persone che ancora non si erano spostate dal corridoio al suo arrivo. “E voialtri in classe!”
Infine ci guardo rabbioso e con un ultimo “seguitemi” si incamminò per scortarci all’ufficio del preside, continuando a borbottare considerazioni sui giovani d’oggi e il loro poco rispetto per le autorità.

Patterson e Ashton entrarono per primi nell’ufficio del preside Harper, mentre io, David e Josh ce ne stavamo fuori, nella piccola sala d’aspetto.
Ero così nervosa che avrei voluto dare fuoco a qualcosa. Mi distrassi raccontando a Josh cos’era successo, dal momento che lui non era presente, e si era fatto spedire dal preside solo per dare man forte a me e David. Quest’ultimo, invece, se ne stava ancora in silenzio, con le gambe incrociate sopra la seggiola, guardando il pavimento.
Vedere il mio amico, di solito così solare e allegro, stare tanto male a causa di quel deficiente di Ashton, mi faceva incazzare ancora di più. Stavo per avvicinarmi a lui, per provare a dirgli qualcosa che lo tirasse su di morale, quando la porta dell’ufficio si aprì e i due ragazzi uscirono, accompagnati dalla voce tonante del preside.
“…che non avrei pensato potesse succedere,” disse, concludendo una frase. “E ora andate entrambi in classe, e state lontani l’uno dall’altro finché non arrivano i vostri genitori. Sì, Pierce, li ho già fatti chiamare,” chiarì, vedendo l’espressione spaventata di Ashton. “Così potrò discutere anche con loro i termini della vostra sospensione.”
Sentendo quella parola scattai in avanti – mi ero già alzata quando avevo sentito la porta aprirsi – e parlai, ignorando Ashton che piagnucolava qualcosa tipo “non è giusto, guardi come sono ridotto”.
“Preside Harper,” dissi, ansiosa di essere finalmente ascoltata, “è un errore. Io c’ero, ho visto come sono andate le cose e…”
Harper mi lanciò uno sguardo duro e immediatamente mi zittii: quell’uomo sì che sapeva incutere timore, a differenza del professor Berries. Era un omaccione alto e robusto, di circa cinquant’anni, con l’espressione quasi sempre bonaria e sorridente. Ma conosceva ad uno ad uno tutti i nomi degli studenti e, quando c’era da tirare fuori l’autorità che il suo ruolo richiedeva, sapeva davvero come farlo, con tanto di voce stentorea che riusciva a far sì che chiunque a scuola lo rispettasse. In effetti, girava addirittura un modo di dire su di lui: quando qualcuno, professore o alunno, si arrabbiava tanto da far paura, si diceva che aveva usato la voce da Harper.
“Gray, giusto?” mi domandò, continuando a squadrarmi.
“Sissignore,” risposi d’istinto.
Alle mie spalle udii il colpo di tosse che Josh fece per mascherare una mezza risata. Da dove diavolo mi era uscita quella risposta militare?
“Stai buona ancora qualche minuto, Gray, devo fare una telefonata, poi sentirò anche voi,” mi avvisò, prima di rivolgersi di nuovo a Patterson e Ashton. “Andate,” disse loro, dopodiché rientrò nel suo studio e si chiuse la porta alle spalle.
Ashton si volatizzò alla velocità della luce, Patterson invece venne fermato da David, che gli mise una mano sul braccio per bloccarlo mentre prendeva la porta e aprì bocca per la seconda volta dopo il fattaccio.
“Grazie,” gli disse solamente, e io sapevo quanto sentitamente il mio amico stesse pronunciando quell’unica parola.
Matt fece in risposta solo un cenno della testa e, appena prima di uscire, mi rivolse una breve occhiata distratta e io notai il livido bluastro che gli si stava gonfiando sotto lo zigomo.
Restai in silenzio per i pochi minuti successivi, finché il preside non riaprì la porta dell’ufficio chiedendomi di entrare.
“Da sola?” borbottai io, ancora lievemente intimidita.
“Sì, Gray, preferisco sentirvi uno alla volta. Vieni.”
Entrai e mi sedetti, a un cenno di Harper, sulla sedia di fronte alla sua scrivania.
Ero stata solo una volta nell’ufficio del preside, quando, l’anno precedente, mi ero iscritta a scuola, e avevo dovuto discutere con lui il mio piano di studi e i dettagli del mio inserimento a inizio secondo semestre. Ma quella volta con me c’era mio padre, non era un richiamo per ragioni disciplinari; ora invece non sapevo bene come comportarmi, anche se volevo evitare che Patterson subisse un’ingiustizia.
Il preside Harper parlò per primo, guardandomi dritto in faccia, e io non evitai i suoi occhi.
“Allora Gray, il professor Berries mi ha riferito che ti ha visto mentre cercavi di fermare Patterson durante la rissa, ma ha aggiunto che poco dopo sei stata irrispettosa nei suoi confronti. È vero?”
Sbuffai, ritrovando la mia sicurezza. “Stavo solo cercando di spiegare a Berries che…”
“Al professor Berries,” mi corresse Harper, serio.
“Sì, volevo che il professore sapesse com’erano andate le cose.”
“E come sono andate, Gray? I due diretti interessati non hanno voluto parlare, prima, ma sapere che si sono picchiati in corridoio potrebbe bastarmi per dare loro un provvedimento disciplinare che…”
Lo interruppi coraggiosamente. “No, preside Harper, deve ascoltarmi. Patterson avrà sbagliato a replicare al pugno di Ashton, è vero, ma è intervenuto per un buon motivo. Ashton stava insultando e spintonando David McPharrell in corridoio. L’ho visto, stavo per intervenire io stessa, ma Patterson mi ha preceduta, ha cercato di farlo smettere, e quando Ashton se l’è presa con lui allora ha reagito.”
“McPharrell, mmh? È il ragazzo qui fuori, giusto?”
Annuii con forza, contenta che qualcuno finalmente mi ascoltasse.
“Perché stavano litigando?”
“Non litigavano, signore, Ashton ha attaccato McPharrell.”
“Per quale motivo, lo sai?” insisté Harper, che nel frattempo aveva messo gli occhiali e stava scrivendo qualcosa su un foglio.
Tentennai, non me la sentivo di sbandierare ai quattro venti le questioni personali di Dave.
“È una cosa… privata.”
Il preside smise di scrivere e mi guardò.
“Ascolta Delia,” iniziò, chiamandomi per nome com’era solito fare quando non stava rimproverando uno studente. “Non è la prima volta che qualcuno denuncia una scorrettezza di Ashton, quindi potrei anche crederti. Capisco la lealtà nei confronti dei tuoi compagni, ma ho bisogno che tu mi dica cos’è successo, altrimenti non posso fare niente.”
Sospirai, messa alle strette. “Deve promettermi che alcune delle cose che le dirò resteranno tra noi.”
Harper restò piuttosto serio alla mia infantile richiesta, e annuì. “Sarò discreto, hai la mia parola.”
A pelle mi fidavo di quell’uomo, senza nemmeno sapere il perché. Non sapevo niente di lui, in realtà poteva anche essere tanto omofobo quanto Ashton, ma il mio istinto mi diceva che non era così, ed allora parlai. Gli raccontai la scena esattamente come l’avevo vista, senza aggiungere né togliere niente, probabilmente parlai anche troppo, da mia abitudine. Harper mi ascoltò gravemente, scrivendo ogni tanto qualcosa sul foglio di fronte a lui.
Alla fine si tolse gli occhiali e mi guardò posato, prima di parlare.
“Non hai nominato Parker, sbaglio o è qui fuori anche lui?”
“Josh non c’entra, signore, mi ha solo aiutato a separare Patterson e Ashton. Credo sia venuto qui per darmi una mano e… Beh, probabilmente trovava divertente farsi spedire nel suo ufficio.”
Harper ridacchiò, sembrava quasi divertito.
“Quel piccolo mascalzone,” borbottò tra sé e sé, prima di tornare serio a guardarmi. “Devo farti un’altra domanda, Delia. Per caso hai una relazione o un interesse particolare per Matthew Patterson?”
Saltai sulla sedia. “COSA?!”
“Non prenderla nel modo sbagliato, non lo chiedo per farmi gli affari tuoi. Ma devo sapere se hai un motivo personale per difenderlo.”
“Assolutamente no, signore!” replicai con una faccia oltraggiata. “Anzi, io e Patterson cerchiamo di tenerci il più possibile alla larga l’uno dall’altra.”
Il preside sorrise ancora, saputo, e io mi sentii in dovere di spiegarmi.
“Dave… Sono amica di David.”
Harper annuì, rimise su la sua espressione seria e sistemò gli occhiali nella custodia.
“Va bene, credo di avere un quadro abbastanza completo della situazione, ma parlerò anche con McPharrell. Tranquilla, non gli dirò quello che mi hai rivelato,” mi anticipò, prima che aprissi bocca per parlare. “Ma ti avviso già che probabilmente avrai un pomeriggio di punizione anche tu.”
“Perché?” domandai sbigottita, già pronta a lamentarmi.
“Capisco che fossi agitata, Delia, ma hai comunque sbagliato a rivolgerti in quel modo al professor Berries.”
Abbassai la testa, avevo dimenticato quel particolare. “Lo so, signore.”
“Puoi chiamarmi professore, non sono molto diverso dagli altri insegnanti qui,” risolse lui, alzandosi per aprirmi la porta. “Puoi andare, grazie Delia.”
Uscii nella sala d’aspetto, dove David e Josh mi guardavano curiosi; Harper mi seguì per dirci cosa fare.
“David, puoi entrare tu ora. Parker, Gray, voi tornate in classe.”
Josh si alzò. “È sicuro che non le servo, professore?”
Harper lo guardò con la sua espressione autoritaria, ma notai, come Josh, una nota di ironia nella sua voce quando rispose.
“Vai pure, Parker, vai pure.”
Mentre camminavamo verso l’aula di storia, Josh mi spiegò che il motivo per cui Ashton aveva attaccato David in corridoio era, probabilmente, che aveva origliato una loro conversazione in bagno il giorno precedente. Lui e David avevano parlato di un ragazzo del collegio privato con cui Dave si stava sentendo e, anche se pensavano che non ci fosse nessun altro nel bagno in quel momento, si dovevano essere fatti sentire.
Rientrai in classe ancora con lo schifo addosso per quella situazione e per tutto il giorno non parlai con nessuno se non con i miei amici più stretti: ero arrabbiata, davvero incazzata nera perché nessuno aveva pensato di intervenire o di difendere Dave. A parte Patterson, ovviamente.
Vidi Matt alla fine della lezione, mentre usciva da scuola scortato da quella che doveva essere sua madre, una donna molto bella e piuttosto elegante, che camminava spedita di fronte a lui, la mascella stretta in una chiara espressione di rabbia. Pensai che non fosse corretto che Patterson dovesse sentirsele anche dai suoi genitori, in fondo aveva fatto la cosa giusta.
Lui non mi vide nemmeno. Teneva la testa alta, ma guardò solamente di fronte a sé finché non fu fuori dall’edificio.

Il giorno dopo, le decisioni prese da Harper riguardo la rissa in corridoio erano sulla bocca di tutti. Io me l’ero cavata con un pomeriggio di punizione da scontare il giorno successivo, Patterson aveva scampato la sospensione ma si era beccato una nota di demerito e una settimana di punizione.
Per Ashton, invece, la questione fu molto più dura: aveva attaccato un compagno in corridoio senza apparente motivo, inoltre aveva iniziato la rissa dando il primo pugno a Matt. Fu sospeso per quattro giorni e questo, unito ai suoi voti non certo eccellenti, significava per lui una bocciatura quasi certa a fine anno. I suoi genitori si lamentarono molto e, infine, lo ritirarono da scuola, ma la cosa non dispiacque quasi a nessuno.
Un’altra notizia che stava dando parecchio da parlare era quella della presunta omosessualità di David. Come immaginavo, non era trapelato niente di quello che avevo detto nell’ufficio del preside, ma diverse persone avevano assistito alla scena in corridoio. Ovviamente, per Dave non fu bello per niente: in quel periodo era piuttosto fragile, e dovemmo occuparci noi della sua incolumità. Pierce Ashton non c’era più, ma le teste di cazzo certo non mancavano a scuola.

Il mercoledì, subito dopo la pausa pranzo, mi presentai nell’aula dove avrei dovuto scontare le mie quattro ore di punizione. La sorte aveva voluto che fosse proprio Berries a gestire le punizioni quel pomeriggio, quindi immaginavo che avrei avuto a che fare con qualche compito extra di letteratura inglese, prospettiva che tutto sommato non mi pareva poi così male.
Quando entrai nell’aula il professore era già lì, perciò lo salutai educatamente e andai a sedermi su un banco qualsiasi. Alzai lo sguardo mentre appoggiavo lo zaino per terra e incontrai due occhi grigio-azzurri che mi guardavano imperscrutabili. Sussultai sorpresa, stupidamente: sapevo che anche Patterson era stato messo in punizione ma, distratta com’ero stata in quei giorni, non avevo minimamente pensato che avrei potuto trovarlo lì. Matt mi fissò serio per un paio di secondi, dopodiché spostò lo sguardo sulla matita che si stava rigirando pigramente fra le mani.
Io mi sedetti e aspettai ulteriori chiarimenti dal professore, che arrivarono solo qualche minuto più tardi, quando entrò anche l’ultima persona che stavamo attendendo, una ragazzina che sembrava del primo anno e che, da come lo guardava adorante, con ogni probabilità pensava che Patterson fosse un qualche dio sceso in terra.
Berries mi assegnò un compito di quattro pagine sul rispetto dell’autorità e sul ruolo dell’educazione nella letteratura inglese moderna, con tanto di riferimenti e testi da consultare. Quel bastardo. Mi misi al lavoro senza ascoltare quello che dava da fare agli altri: prima avrei finito e prima avrei potuto tornare a casa, ultimare i compiti che dovevo fare per il giorno successivo, e telefonare a David per chiacchierare un po’ con lui come spesso facevo la sera.
Berries però doveva essere ancora parecchio offeso con me, perché quando terminai il compito e glielo consegnai soddisfatta con quaranta minuti di anticipo, mi squadrò altezzoso e mi informò che avrei comunque dovuto aspettare fino alle sei per muovermi di lì. Dieci minuti dopo anche la ragazza del primo anno finì la propria consegna, e fu autorizzata da Berries a tornare a casa.
Ovviamente provai a lamentarmi per quella differenza di trattamento.
“Professore, ma come…” cominciai sicura.
Berries mi interruppe. “Non le ho dato il permesso di parlare.”
Sbuffai e alzai la mano per attirare la sua attenzione, che però continuava a essere risucchiata da un compito che stava correggendo. Non demorsi e rimasi con la mano per aria per cinque minuti buoni, con Matt, ancora intento a scrivere, che ogni tanto mi lanciava occhiate semi divertite. Dopo un po’ Berries cedette e alzò uno sguardo esasperato su di me.
“Sì, Gray?”
“Perché ha permesso all’altra ragazza di andarsene mentre io devo stare qui fino alle sei?”
“Perché il motivo per cui la signorina Adams era qui era meno grave del suo.”
“Ma io ho…”
“È sicura di voler continuare, Gray? Perché mi verrebbe da pensare che il tema che le ho dato da svolgere non sia stato sufficiente.”
Sospirai mordendomi la lingua e incrociando le braccia al petto: mancavano circa venti minuti alle sei, dovevo resistere.
Mi annoiai a morte per tutto il tempo restante, costretta a stare zitta e ferma sulla sedia, cosa che per me rasentava la fantascienza. Ogni tanto buttavo un occhio su Matt, seduto due banchi oltre il mio, che scriveva fitto fitto su un quaderno risolvendo quello che sembrava un problema di geometria. Sul suo zigomo l’ematoma era ancora piuttosto evidente, di un brutto viola scuro; doveva fare piuttosto male, pensai.
Riflettei su quello che mi aveva detto il preside Harper il giorno precedente, cioè che non era a conoscenza di ciò che era accaduto in corridoio perché né Patterson né Ashton avevano voluto parlare. Possibile che Matt non avesse provato a difendersi in nessun modo? Era dalla parte del giusto, in fondo, anche il preside l’aveva riconosciuto quando aveva capito le dinamiche dell’episodio.
Così, quando finalmente scoccarono le sei e Berries mi diede il permesso di uscire, raccolsi le mie cose con più calma del previsto per poter attendere che anche Patterson finisse e chiedergli una spiegazione; nonostante ciò, lo dovetti aspettare comunque un paio di minuti fuori dall’aula.
Matt uscì senza degnarmi di uno sguardo e si incamminò nel corridoio, così lo seguii, chiamandolo per attirare la sua attenzione.
“Patterson, ehi!”
“Che c’è?” fece lui, sgarbato come al solito, senza smettere di camminare.
Mi affiancai a lui. “Volevo ringraziarti per ieri e per quello che hai fatto per David, dato che…”
Mi interruppe. “No, non volevi dirmi questo. Cosa c’è, Gray?”
Sbuffai per la sua presunzione, ma stavolta non aveva torto, quindi decisi di andare dritta al punto.
“Perché non hai detto subito ad Harper cos’era successo? Ti avrebbe ascoltato.”
“Non sono uno spione, era una cosa che andava risolta in corridoio,” rispose Matt, secco.
Ormai avevamo raggiunto la porta, lo seguii fuori, ma la sua motivazione mi sembrava talmente stupida da farmi nuovamente innervosire.
“Ma cosa diavolo stai dicendo? Avresti potuto essere sospeso, forse anche perdere l’anno per una cosa che stavi…”
Mi bloccò di nuovo, ormai sapeva che quando cominciavo a parlare non mi fermavo più. “Ci hai pensato tu, no, a dire tutto al preside? Quindi alla fine sono qui.”
“Ti avrebbero sospeso!” gridai, esasperata, leggendo nella sua frase una sottospecie di accusa nei miei confronti.
“Non sono affari tuoi, Gray.”
“Lo sono, dal momento che sei intervenuto per evitare che lo facessi io!” sputai fuori, arrivando al vero punto della questione.
Patterson finalmente si fermò, non lontano dal parcheggio, e si girò a guardarmi. Restammo immobili per qualche secondo, in piedi in quel giardino, solo a fissarci, infine Matt parlò.
“Sono intervenuto perché Ashton è un coglione, ed era giusto fare qualcosa.”
“Lo so. Dico solo che… Se non lo avessi fatto tu… Insomma, stavo per fare qualcosa anch’io e tu sei… In quel momento ho visto che…”
M’impappinai miseramente nelle mie stesse parole e, incredibilmente, mi zittii da sola.
“Accetto il tuo grazie, Gray, stai tranquilla.”
“Non ti ho ringraziato,” specificai celere.
Matt fece una faccia dubbiosa ma non infierì. “Ok. Ti chiederei se vuoi un passaggio,” disse, indicando con la mano la zona del parcheggio, “ma non credo che riuscirei a reggere la tua lingua lunga per altri cinque minuti.”
Mi offesi. “Non ho bisogno del tuo passaggio, principino. Addio.”
Patterson mi guardò col suo sorrisetto strafottente mentre mi allontanavo dirigendomi verso il mio motorino. Evitai di pensare a lui e al suo stupido sguardo per il resto della serata.

Il giorno dopo raggiunsi la zona caffetteria prima delle lezioni e trovai Josh e Audrey che avevano già occupato un tavolino. Si informarono sulla mia punizione e scrollai le spalle, buttandomi sulla poltroncina, distrutta: la sera prima ero dovuta stare alzata più del previsto per finire alcuni compiti. Dopo qualche minuto ci raggiunse anche David; Jude, ovviamente, era in ritardo come al solito.
Mentre parlavo con Audrey della professoressa di spagnolo, vidi con la coda dell’occhio Patterson che ci superava, diretto, immaginavo, al suo solito tavolo solitario. Non potei fare a meno di voltare la testa e guardarlo, ma più per una reazione spontanea che per un reale interesse verso ciò che stava facendo: vidi che trovava il suo tavolo occupato, sbuffava e si dirigeva alla macchinetta per prendersi un caffè, rassegnato a restare in piedi. Josh seguì il mio sguardo e lo vide.
“Perché non lo invitiamo qui con noi?” suggerì, e quella situazione mi si ripropose come un déjà-vu di cattivo gusto.
“Non ti azzardare,” ringhiai a bassa voce.
“Ma senti, è solo!”
Guardai Audrey e Dave, nessuno dei due sembrava avere obiezioni sul far sedere Matt con noi. Ovviamente.
“Dai Delia,” insisté Josh, ma dal suo tono capii che aveva già deciso. “A me Patterson non è mai stato antipatico, e comunque dopo quello che ha fatto per Dave…”
Lasciò la frase in sospeso e io abbassai la testa, sconfitta. Forse Jude mi avrebbe dato manforte, ma in realtà non ne ero nemmeno così sicura, non ricordavo che avesse qualcosa contro Matt.
“Patterson!” sentii chiamare il mio amico. “Ehi, vieni qui.”
Matt alzò la testa stupito, nello stesso momento in cui lo facevo anch’io, ed entrambi guardammo Josh.
“Sì?”
“Vieni a sederti, c’è posto.”
Gli occhi di Matt passarono, molto lentamente, da Josh a David, che gli sorrideva timido ma incoraggiante, e infine si posarono su di me. Io ressi il suo sguardo senza dire nulla, alzai solo leggermente le sopracciglia. Alla fine, dopo un’attenta analisi, Patterson decise che poteva sedersi con noi, se non altro per darmi un po’ di fastidio, e prese posto tra Audrey e Josh, il quale gli diede una leggera pacca sulla spalla e cominciò a chiacchierare con lui.
Sospirai, arrendendomi. Avrei dovuto tirare fuori tutta la mia pazienza per sopportare quella situazione, perché non avevo idea di quanto sarebbe durata.











Ed ecco com'è successo il patatrac che ha permesso a Matt di cominciare a uscire col gruppo. Chi ha letto l'altra storia (Of all the people in the world, click per vederla, solo se volete) sapeva già a grandi linee cos'era successo, ma mi piaceva l'idea di spiegare com'era andata. La verità è che poi il problema del bullismo e dell'emarginazione - nelle scuole ma non solo - è ancora, purtroppo, drammaticamente reale.
Fatemi sapere cosa ne pensate, se ci sono andata giù troppo pesante o se ho gestito il tutto con troppa leggerezza. Non ho voluto approfondire troppo perché la protagonista, ripeto, è Delia, non David, e i pensieri che filtro sono solo i suoi (con mio grosso dispiacere, a volte mi prudono le mani per la voglia di dar voce anche a qualcun altro).
Matt sta uscendo poco per volta, come avevo anticipato. Mi piacerebbe sapere anche cosa ne pensate di lui.
So che, rispetto ad altre storie nel sito, questa può sembrare che proceda a rilento. Non ci sono sbaciucchiamenti, strusciamenti e amoreggiamenti ogni capitolo; le interazioni tra i due protagonisti sono quelle che sono, ma vi garantisco che io mi diverto un sacco a scriverle. Arriverà il momento in cui si avvicineranno di più, ma questi due per ora fanno fatica a vedersi (davvero?), quindi non si può pretendere immediatamente di vederli a letto.
Infine, forse ho allungato un po' la parte sul preside, ma dovete perdonarmi, mentre la scrivevo quell'uomo mi piaceva sempre di più. :)
La prossima volta vedremo se Delia riesce a sopportare la presenza di Patterson nel gruppo.
Recensite, please, senza le recensioni forse non mi sarebbe venuta voglia di aggiornare, e purtroppo il prossimo capitolo è ancora a metà.
Un abbraccio a chi legge e a chi è passato. See you soon.

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Capitolo 6
*** Becoming Delia ***


6. Becoming Delia


La situazione, purtroppo per me, durò decisamente tanto. Josh e David – per quanto mi sembrasse assurdo – trovarono da subito piacevole la compagnia di Matt, e lo invitarono sempre più spesso a stare con noi. Fu una cosa graduale: all’inizio si sedeva ogni tanto con noi prima delle lezioni, poi lo vidi parlare sempre più frequentemente con Josh a scuola e sedersi vicino a lui quando Jude non c’era o era accanto a Audrey.
Infine, una sera dovevamo uscire per andare al Platinum, uno dei pochi locali underground e pseudo-alternativi di Winthrop, e scoprii che David aveva invitato anche Patterson solo nel momento in cui varcai la soglia del pub con Audrey, che mi aveva accompagnata, e lo vidi lì. Ovviamente, nessuno mi aveva detto niente, portandomi così davanti al fatto compiuto: rimasi a bocca aperta quando entrai e vidi Matt che sorrideva a una battuta di Jude. Poi lui alzò lo sguardo e mi notò, ancora bloccata davanti alla soglia, quindi fece un sorrisetto che giudicai di sfida.
David mi si avvicinò per salutarmi dandomi il solito bacio sulla guancia e io glielo impedii spostandomi, irrequieta e anche un po’ offesa.
“Che ci fa lui qui?” domandai ad alta voce, indicando con la mano Patterson che continuava a guardarci da poco lontano.
“Dee, parla piano! È lì, può sentirti.”
“Non me ne frega niente se può sentirmi, sa perfettamente che non lo sopporto. E lo sapete anche voi, brutti traditori,” sentenziai, riferendomi al fatto che i miei amici mi avevano tenuta fuori dalla decisione di includere Matt nella nostra serata speciale di divertimento.
Già, era la nostra serata, cavoli! Non avevano il diritto di rovinarmela così, la organizzavamo da… Beh, da non più di tre giorni in realtà, ma non contava. Ciò che contava era che io quella sera volevo divertirmi coi miei migliori amici, senza avere a che fare con quel buzzurro di Patterson anche fuori dalle mura scolastiche. Se l’avevo sopportato in quelle settimane era solo perché pensavo che fosse un periodo, un’eccezione senza seguito; doverlo vedere seduto con noi ogni tanto prima dell’inizio delle lezioni non era minimamente paragonabile al trovarmelo tra i piedi durante una serata di divertimenti al Platinum.
“L’ho invitato io, prenditela con me,” rispose Dave pacato.
“È esattamente quello che sto facendo, McPharrell.”
David a quel punto mi prese per un gomito e mi condusse in un luogo un po’ più appartato, prima di rimproverarmi con quel suo modo che riusciva sempre a farmi sentire stupida.
“Ti prego, smettila di fare così.”
Sbuffai. “Perché diavolo l’hai invitato?” David fece per rispondermi, ma non avevo ancora finito. “Perché Patterson piace al mondo intero tranne a me? Hai visto anche tu come si comporta con me! Non è giusto, ho ragione di non farmelo piacere.”
Mi stavo comportando da persona immatura, me ne rendevo conto da sola, ma gli occhi di David me lo confermarono.
“Matt è una delle poche persone che non mi tratta come un appestato da quando tutti sanno che sono gay.”
“Io non ti tratto come un appestato,” continuai, in pieno stile bambina che fa i capricci.
“Tu sei una delle mie migliori amiche, Deels, lo so che non mi consideri diversamente solo perché mi piacciono gli uomini. Ma non è così scontato per le altre persone, e lo sai. Io e Josh abbiamo dovuto lasciare la squadra per questo.”
Era vero, e quella constatazione ebbe il potere di zittire parte delle mie proteste. Quando la voce dell’omosessualità di Dave aveva fatto il giro della scuola, diverse persone avevano cominciato a trattarlo in modo strano. Alla fine il mio amico era stato costretto a lasciare la squadra di basket della scuola, perché ad alcuni compagni non andava giù il fatto di doversi cambiare nel suo stesso spogliatoio; Josh, per solidarietà, aveva fatto lo stesso. Ora andavano più spesso a giocare al campetto dietro casa di David, ma immaginavo che non fosse la stessa cosa.
Dave continuò, spinto dalla mia momentanea mutezza. “Anche Matt è stato escluso da alcuni nostri compagni, per avermi difeso con Ashton.”
“Non che prima fosse pieno di amici, eh,” borbottai duramente.
“Dee, Matt è sempre stato parecchio popolare a scuola. Non aveva una compagnia fissa ma spesso usciva con persone diverse, lo sai.”
Sapevo anche questo, mi stavo solo comportando da ragazzina offesa. Patterson non era particolarmente socievole, a causa del suo carattere, immaginavo, ma conosceva un mucchio di persone a scuola, ed era anche capace di presentarsi a una festa da solo, per poi incontrare qualcuno lì.
Mugugnai ancora una debole lamentela, incrociando le braccia.
“Avanti, Delia, non puoi rovinarti la serata solo perché non avevi previsto la presenza di Matt!”
“Non ci posso credere che tu l’abbia invitato senza dirmi nulla!” contrattaccai ancora, con l’ultima carta che mi rimaneva.
Sapevo di aver colpito nel segno questa volta, Dave infatti mi lanciò uno sguardo di scuse.
“Mi dispiace, avrei dovuto avvisarti, ma sapevo che avresti reagito così e non volevo litigare.”
Mantenni il mio broncio, ma non era mia abitudine restare arrabbiata a lungo con le persone, quindi sapevo già che avrei perdonato presto David per quell’affronto.
“Allora, bimba,” fece David, più affettuoso, dandomi un buffetto sulla guancia, “pensi di poterlo sopportare? Prometto che la prossima volta ti avviso prima di fare una cosa del genere. Scusami, dai.”
Lo guardai dal basso, sconfitta. “Volete più bene a lui che a me.”
Dave scoppiò sonoramente a ridere e mi abbracciò. “Non dire cazzate, scema.”
Mi lasciai coccolare un po’ dal mio amico, la rabbia ormai era svanita. Poi David disse qualcosa che mi sorprese davvero.
“Sai, credo che tu e Matt siate un po’ simili, in fondo.”
“Adesso non dirle tu le cazzate, McPharrell. Lui è un asociale musone, io sono simpatica e solare con tutti,” elencai, senza un minimo di modestia.
“Ma entrambi, alla fine dei conti, tenete davvero solo a una manciata di persone,” mi spiegò lui, facendomi sbuffare leggermente.
David era sempre il migliore, non c’era niente da fare. Slacciò l’abbraccio e mi disse un’ultima cosa, per smorzare l’atmosfera seria.
“Ed entrambi diventate dei deliziosi stronzetti l’uno con l’altra,” disse sorridendo. “Per il resto, te ne do atto, sembrate abbastanza diversi.”
“Abbastanza?” mugugnai offesa.
Dave ridacchiò dandomi un altro buffetto sulla testa. “Andiamo a divertirci, su, californiana.”

Tornai verso i miei amici e salutai con la mano Jude e Josh che chiacchieravano in un angolo. Stavo per raggiungerli quando la voce di Patterson mi fermò.
“Bei capelli, novellina,” mi salutò con ancora stampato in faccia quel sorrisetto da impunito.
“È da quattro giorni che sono così, mi hai già visto a scuola,” bofonchiai acidamente in risposta. Le parole di David non mi avevano ammorbidito nemmeno un po’ nei suoi confronti.
“Ah sì? Si vede che non me ne sono accorto,” fece Matt, scrollando le spalle con noncuranza.
Gli scoccai un’occhiataccia, senza credergli. Era impossibile che non avesse notato prima i miei capelli, quel commento, come al solito, era stato fatto per punzecchiarmi.
Non che io fossi così tanto egocentrica, ma io e Matt ci eravamo incontrati più di una volta nei giorni precedenti e, soprattutto, i miei nuovi capelli non passavano certo inosservati: erano cresciuti in quei mesi ed ora mi arrivavano circa fin sotto le spalle, ed ero passata da un marrone scuro, quasi moro, a un castano molto chiaro con le punte rosa acceso, motivo per il quale ritenevo impossibile che non avesse notato prima il cambiamento. Va bene che gli uomini non facevano attenzione a questo genere di cose, ma nei giorni precedenti, a scuola, avevo visto gente girarsi in corridoio per fissarmi stupita e commentare il mio passaggio.
Lanciai a Matt un’occhiata storta e mi morsi la lingua per non rispondergli male: continuavo a voler passare la mia serata di divertimento in tutta tranquillità, e nemmeno Matt Patterson in persona avrebbe potuto rovinarmela, a prescindere da tutto l’impegno che ci avrebbe messo per farlo. Mi allontanai da lui andando verso il bancone del bar per prendere qualcosa, ma ovviamente il barista, quando provai a ordinare una birra, mi guardò storto e mi chiese quanti anni avessi. Maledetta me e la mia faccia da ragazzina quale ero.
“Due birre,” sentii alle mie spalle una voce conosciuta.
Il barista fece un cenno d’assenso a Matt e andò subito a spinare le birre.
Mi girai e guardai Patterson con uno sguardo a metà tra il nervoso e l’incredulo: va bene che era un ragazzo, ma aveva la faccia pulita almeno quanto la mia, non capivo perché a me rifiutassero qualsiasi tipo di alcolico mentre a lui no. La risposta arrivò qualche secondo dopo, quando il barista tornò con le birre, le spinse nella direzione del biondo e lo salutò cordialmente.
“Ecco a te, Matt. Tutto bene?”
Conosceva quel ragazzo? Ero la sola a pensare che un tipo del genere non potesse avere amici?
Patterson rispose educatamente mentre pagava, i due fecero un breve scambio di battute che non ascoltai con attenzione, poi il barman si allontanò richiamato da un altro cliente.
Io nel frattempo non avevo smesso di guardare sospettosa Matt, perciò quando lui mi porse una delle due birre che aveva preso, rimasi piuttosto stupita.
“Che fai, non la vuoi?” domandò lui con noncuranza, notando la mia immobilità.
Quei suoi sbalzi d’umore mi mandavano decisamente fuori di testa: un attimo prima mi insultava nemmeno troppo velatamente, il secondo dopo mi offriva la birra come se fosse la cosa più normale del mondo, come se lo facesse tutte le settimane da mesi. L’ultima birra che avevo accettato da Patterson risaliva a quasi un anno prima, e quella volta non era certo andata a finire bene: mi ero quasi illusa che lui fosse un essere umano e Lauren Garreth mi aveva odiata fino al diploma, rendendomi piuttosto impopolare a scuola.
“L’hai presa per me?”
“Mi pareva ne avessi appena ordinata una.”
Presi la birra dalla sua mano, ancora titubante.
“Quanto ti devo?” chiesi, infilando nella mia borsa la mano libera per cercare il portafoglio.
“Niente.”
“Avanti, Patterson, non voglio debiti con te.”
“Non è un debito, non ti preoccupare. E smettila di frugare in quel modo nella borsa se non vuoi rovesciare tutta la birra, magari addosso a me.”
Gli lanciai un’occhiataccia per dimostrargli che la birra gliel’avrei volentieri lanciata addosso, ma smisi di cercare il portafoglio, borbottando un grazie a mezza voce.
Matt sorrise, sorseggiando la sua birra.
Dopo solo pochi secondi di silenzio alzai gli occhi al cielo, esasperata.
“Mi arrendo, principino, hai vinto. Non ti capisco proprio. Perché diavolo sei gentile con me adesso?”
“Non sono gentile,” negò lui, un po’ troppo velocemente per risultare del tutto credibile.
“Da come mi parli amabilmente si direbbe di sì.”
“È per fare conversazione, mica ti sto facendo dei complimenti.”
“Non mi stai neanche insultando, però.”
“È così assurdo?”
“Sì, perché poco fa hai sorriso,” ribattei, facendo una smorfia.
Matt sembrò soppesare la questione. “Sarà stata una paresi,” risolse poi, noncurante.
Contrattaccai mostrandogli il bicchiere di birra che stringevo in mano. “E questo, allora?”
Lui tentennò. “Quello era solo per… È un…”
Vedere Matt Patterson in difficoltà era un vero spasso, perciò non dissi niente, mi limitai a sorridere vittoriosa continuando a incalzarlo con lo sguardo. Alla fine lui sospirò, esasperato.
“E va bene, Gray, mi farebbe piacere se non ci scannassimo stasera. David è mio amico ed è anche amico tuo, Josh pure, credo sia meglio dimostrare loro che riusciamo a tollerarci.”
“Dave e Josh sono più amici miei che tuoi,” mi lamentai io, ritirando fuori il tono da bambinetta che avevo usato proprio con David poco prima.
Matt scoppiò a ridere di gusto e io non potei fare a meno di pensare che vederlo così divertito e sorridente era uno spettacolo niente male.
“Ok, novellina, cercherò di rispettare questa gerarchia. Ma nel frattempo potremmo evitare di lanciarci coltelli alle spalle a vicenda, almeno quando sono presenti anche loro.”
Feci una faccia pensierosa e Matt mi guardò in silenzio, in attesa del mio verdetto finale. Il suo ragionamento aveva senso e dovevo ammettere, mio malgrado, che era molto più maturo delle mie lamentele. Forse potevo anche provare a non ucciderlo, perlomeno per quella sera, ma non volevo comunque che avesse la soddisfazione di sentirsi dalla parte del giusto.
“Ci penserò su,” stabilii quindi, con un mezzo sorriso criptico che Patterson, sorprendentemente, ricambiò.
Poi mi si avvicinò di mezzo passo e mi resi conto di quanto di quanto fossimo stati vicini fino a quel momento. Quando parlò, il suo respiro mi sfiorò il viso.
“Stai attenta a non sbottonarti troppo, eh, novellina. Sia mai che io possa piacerti, altrimenti.”
“Questo lo trovo impossibile,” declamai io, ma persi subito un po’ di sicurezza quando, un attimo dopo, mi ritrovai a fissare le labbra di Matt per un secondo di troppo.
Lui dovette accorgersene, perché prima di allontanarsi mi guardò divertito, come se sapesse qualcosa che a me sfuggiva, infine mi diede la schiena e fece per raggiungere gli altri.
“Patterson,” lo chiamai io, un attimo prima che fosse troppo lontano.
Lui si girò e mi lanciò uno sguardo interrogativo.
“Perché mi chiami novellina? Non sono più nuova da un pezzo, né qui né a scuola.”
Matt scrollò le spalle, ma sembrava vagamente colpito dalla mia domanda, come se non se l’aspettasse. “Abitudine, immagino.”

Andare d’accordo con Patterson per le due ore successive fu più facile di quanto potessi immaginare. Oddio, forse andare d’accordo non è il modo più adatto di definire ciò che accadde, ma riuscimmo a divertirci insieme al resto dei miei amici – continuavo a considerarli miei amici, sì, ero una stronza possessiva – e addirittura a scambiarci qualche battutina sarcastica ma priva dell’odio profondo che ci riservavamo a vicenda di solito.
Matt riusciva incredibilmente a farsi piacere dalle persone. Non quanto me, capiamoci, quella era la mia specialità, ma riusciva a essere affabile, carino e simpatico con chi gli interessava. Non era particolarmente chiacchierone, quello l’avevo notato da subito, al contrario di me apriva la bocca solo per dire il minimo indispensabile ma, nonostante la nostra fosse una compagnia alquanto difficile da conquistare, – Josh e Dave erano amichevoli, sì, ma Jude è sempre stata diffidente e Audrey timida all’inverosimile – lui sembrava esserci riuscito.
Dopo qualche birra, mi ritrovai quasi a guardarlo con occhi diversi. Era stranissimo per me apprendere che Patterson fosse una persona del tutto normale, persino simpatica quando voleva esserlo. Mi dovetti fare violenza psicologica per evitarmi di fissarlo a bocca aperta ogni volta che faceva una battutina a Josh, o che diceva qualcosa di sensato a David. Mi ritenevo piuttosto brava a inquadrare le persone, e non riuscivo a darmi pace per il fatto di trovarmi continuamente a cambiare idea su quell’individuo: sapeva darmi ai nervi come nessuno, eppure riusciva anche a sorprendermi in maniera per me inconcepibile.
In più – sempre dopo le famose birre e aggiunto un cocktail che il barista preparò a Matt per me lanciandomi occhiate dubbiose – cominciai seriamente a sospettare che Patterson flirtasse con me. Era sempre lui ad andare a prendermi da bere quando notava che avevo finito il mio drink, anche se mi rifiutai di farlo pagare dopo la prima birra; non passammo molto tempo assieme, ma ogni tanto mi passava di fianco facendo una battutina sul mio modo di ballare o sui miei capelli ormai spettinati o sui miei gusti in fatto di ragazzi. Forse era perché avevamo entrambi bevuto, anche se non molto in realtà, ma come alla festa di Ramirez mi venne da trovare le sue battute non fastidiose come al solito, bensì ironiche e divertite. Lui sembrava divertito, a dire il vero, sembrava divertirsi un mondo a prendermi in giro, a vedermi sbuffare o sentirmi rispondere a tono.
Ad un certo punto, dopo essermi scatenata per parecchio tempo con Audrey sotto il palco dove suonava un gruppo rock locale, tornai a dirigermi verso il tavolo dove avevamo la base, stanca e intenzionata a bere qualcosa per dissetarmi, quando venni fermata da una mano che si posò delicatamente sulla base della mia schiena. Girai la testa, convinta che fosse il ragazzo che aveva ballato con me negli ultimi minuti, ma mi trovai davanti agli occhi scintillanti di Matt, che mi guardava con un mezzo sorriso.
“Non ti sembra di aver ballato un po’ troppo?” mi domandò, senza spostare dalla mia schiena la mano che, anzi, risalì di qualche centimetro dandomi l’impressione di fare una strana carezza distratta.
“Non… Non credo,” balbettai, stordita dall’alcol e da quella vicinanza, non riuscendo quindi a ribattere con la mia solita verve.
Matt mi guardò giocoso e si avvicinò di più per farsi sentire senza dover alzare la voce. “Ti va di uscire?”
“Non fumo,” risposi immediatamente, di riflesso, dando per scontato che la sua domanda sottintendesse quello.
“Nemmeno io. Volevo solo prendere un po’ d’aria.”
Lo guardai con tanto d’occhi. C’erano due cose che non mi tornavano nella sua risposta: in primis, io l’avevo visto fumare, l’estate passata, sul retro del Green Cafè; e poi, se non voleva andare fuori per una sigaretta, perché diavolo mi aveva chiesto di uscire dal locale con lui? La mia testolina bacata, com’è ovvio, si concentrò sulla questione meno rilevante.
“Ma io ti ho visto fumare.”
Matt alzò un sopracciglio sospettoso, cercando di capire a cosa mi riferissi, così glielo spiegai.
“La scorsa estate, dietro al Green Cafè,” mormorai, vergognandomi un po’ di quella confessione: mi sembrava quasi di dichiarare di averlo osservato per tutta l’estate, ma non era affatto così.
“Che, mi hai pedinato?” domandò infatti Matt, che comunque non sembrava per nulla turbato da quell’ipotesi.
“No!” protestai, offesa. “Ti ho visto per sbaglio un pomeriggio. E avevi una sigaretta.”
“La usavo come scusa per fare un paio di pause in più durante la giornata, ma avrò fatto sì e no due tiri a settimana per tutta l’estate.”
Mi bloccai, ricordando la scena: in effetti non avevo mai visto Patterson portarsi la sigaretta alla bocca in quei cinque minuti in cui io e Audrey l’avevamo osservato; mi era sembrato stanco, annoiato, pensieroso, ma non aveva fumato veramente. Né mi veniva in mente di averlo mai notato fumare a scuola, o di avergli sentito odore di fumo addosso, a ben pensarci.
“Lavoravi lì?” gli chiesi, ancora sovrappensiero.
Lui si limitò ad annuire, ma non disse niente di più. Le sue dita sulla mia schiena, però, si staccarono lentamente, e io mi accorsi in quel momento del fatto che non avesse smesso di toccarmi fino ad allora.
“Senti, non fa niente,” biascicò Matt, alzando leggermente le spalle per sottolineare le sue parole. “Non ne hai voglia, esco da solo.”
Stavo per rispondergli, d’istinto, che sarei uscita con lui, che non volevo sembrare scortese nel dirgli di no, ma la sua frase successiva mi anticipò.
“L’ho chiesto a te solo perché sei la prima persona conosciuta che mi è passata davanti, figurati.”
Mi lanciò un’ultima occhiata glaciale e si diresse verso il punto dove c’era l’uscita del Platinum.
Incredibile, aveva di nuovo cambiato personalità nel giro di un minuto. Mi ritrovai metà confusa e metà arrabbiata a fissare la sua schiena che si allontanava da me, per poi valutare che l’impellente necessità di un bagno, in quel momento, era decisamente più importante del lasciarmi innervosire di nuovo da Patterson. Quando rientrai nel locale, dopo aver dovuto fare un’insopportabile e lunghissima coda per la toilette, ero decisa a trovare Matt e intimargli di smetterla di comportarsi come un perfetto psicopatico affetto da bipolarismo. I miei occhi lo trovarono, stranamente, sulla pista sotto al palco, dove la gente si stava ancora scatenando con la musica a tutto volume, e i miei piedi scattarono in quella direzione prima di notare un particolare che mi fece bloccare a metà strada e restare a bocca aperta per lo stupore.
Matt ballava con Audrey. Circa, insomma: più che ballare, infatti, lui la cingeva con le braccia mentre lei, anche se si vedeva lontano un miglio che era imbarazzata all’inverosimile, si lasciava toccare i fianchi e si muoveva a ritmo di musica, guardando ovunque tranne che verso Patterson.
Per un attimo, ma fu solo un attimo, mi sentii come se mi avessero appena lanciato una secchiata d’acqua gelata addosso. Poi mi ripresi.
Era ovvio, come avevo fatto a non pensarci prima? Era dannatamente ovvio che a Matt piacesse Audrey, e viceversa. Erano gli antipodi, ma erano due delle persone più belle che conoscessi, vederli vicini era davvero uno spettacolo per gli occhi: lei così timida, mora, con la pelle ambrata, le labbra a cuore e gli occhi verdissimi; lui con quell’atteggiamento sicuro e quel sorriso da cardiopalma, i capelli biondo scuro, gli occhi di ghiaccio e quel sedere in grado di resuscitare gli ormoni di chicchessia.
Restai a guardarli per un minuto buono, poi vidi Audrey girarsi, dire qualcosa a Matt nell’orecchio. Lui le sorrise accomodante, gentile, in un modo che non aveva mai usato con me, le disse qualcosa che non riuscii a capire dal solo labiale, infine si allontanò da lei, ed entrambi si diressero al nostro tavolo senza più guardarsi né sfiorarsi. Erano belli anche così, solo camminando uno di fianco all’altra, senza nessun contatto.
È ovvio, mi ripetei nuovamente, spostandomi dalla mia posizione da baccalà e muovendomi anch’io verso il tavolo – o meglio, verso il mio cocktail ancora a metà.
Lo presi e lo finii in un paio di sorsi, poi, senza nemmeno guardare i miei amici che al momento erano tutti seduti al tavolo salvo Dave, mi spostai verso il bancone del bar, dove lasciai il vuoto e cominciai a guardarmi intorno. Individuai poco più in là un ragazzo carino – era biondastro e sembrava essere un po’ più grande di me – e, soprattutto, solo, che attendeva il suo turno con il barman. Controllai il mio decolleté con aria critica, abbassando un po’ la maglia per allargare la scollatura, – non che lì sotto ci fosse molto da mostrare, ma non era il caso di sottilizzare proprio in quel momento – infine mi avvicinai alla mia preda. Ero uscita per divertirmi e mi sarei divertita, maledizione.
“Ciao,” cominciai in direzione del biondo, sorridendo.
Lui mi guardò, poi si guardò intorno, stupito che parlassi proprio con lui, infine mi rispose, abbozzando un sorriso a sua volta. “Ehi.”
“Io sono Delia, tu?”
Il ragazzo sembrò squadrarmi per valutare se fossi sana di mente, alla fine, forse, decise che non gli importava. Non era tanto normale che una ragazza della mia età si approcciasse così direttamente, di solito le mie coetanee aspettavano che fosse il tipo di turno ad avvicinarsi e anche in quel caso, poi, se ne stavano attaccate alla propria migliore amica, redendo difficile qualsiasi approccio. Io ero diversa. Non che fossi abituata a provarci tutti i weekend con un tizio diverso, ma non ero timida, non avevo stupidi preconcetti sulle relazioni e sui ruoli di uomo e donna, e se mi piaceva qualcuno non avevo problemi a farglielo capire, a costo di spaventarlo.
“Chris,” rispose il biondo, porgendomi la mano che strinsi con sicurezza. “Vieni spesso al Platinum, Delia? Non mi pare di averti mai vista in giro.”
“Mmh, non così spesso, ma mi piace.”
“Vai al liceo?” chiese lui, appoggiandosi al bancone del bar.
“No!” mi affrettai a mentire io, per giustificare il cocktail che avrei preso di lì a poco. “College, ho vent’anni. Ma tra meno di un mese sono ventuno, a dire il vero, manca davvero pochissimo. Lo so che sembro più piccola, ma tranquillo, si sbagliano tutti,” insistei nella mia bugia, blaterando più del solito.
Chris  mi squadrò con un sorriso lieve, così decisi di evitare ulteriori domande da parte sua facendogliene io una. “E tu, invece? Vai al college anche tu?”
“Più o meno,” rispose evasivo.
Sbuffai alla sua risposta vaga. “Senti, sei carino, ma per stasera ne ho abbastanza di biondi che parlano in modo sfuggente e ambiguo, davvero. Fai il college o no?  Sei un netturbino, sei stato rimandato per sei volte di fila al liceo, sei un serial killer? Non importa, purché tu me lo dica, per dio.”
Lui parve piuttosto spiazzato dal mio discorso, ma quando aprì bocca per rispondermi – o forse per mandarmi al diavolo – sentii una voce alle mie spalle.
“Gray?”
Alzai gli occhi al cielo, ben sapendo chi avrei trovato alle mie spalle, e Chris mi lanciò un’occhiata sorridente e divertita. Quando mi girai, sfoderando un sorriso falsissimo e un po’ esasperato, Patterson mi fissava serio, con le sopracciglia appena inarcate.
“Sì?”
“Ho visto che hai finito il tuo drink. Stavo venendo a prendermi una birra e mi domandavo se… Beh, vuoi qualcosa?”
La smetteva di controllarmi il bicchiere? Con quei dannatissimi occhi grigi, peraltro?
Mantenni il mio sorrisetto falso stampato in faccia. “No, non serve, Patterson, grazie mille. Chris mi sta già prendendo da bere,” risposi, indicando il ragazzo con un cenno della mano.
Matt alzò lo sguardo dietro di me e fissò l’interpellato, il quale gli sorrise spudoratamente; io passai gli occhi da uno all’altro. Chris aveva davvero un bel sorriso e, cosa importante, lo usava spesso.
“Ah… Capisco,” asserì Patterson. Mi lanciò un’ultima occhiata indecifrabile, che durò qualche attimo di troppo per i miei momentanei canoni di sopportazione, infine si allontanò di nuovo.
Tornai a concentrarmi su Chris. Avevo intenzione di flirtare un po’ senza fare niente di male, non ero una poco di buono. Che pensasse quel diavolo che voleva, quell’imbecille di Patterson.
“Allora,” fece il ragazzo, “quello sarebbe il famoso biondo che parla in modo sfuggente e ambiguo?” mi domandò, ripetendo le mie parole di poco prima.
“È… è un mio amico,” borbottai io, distogliendo gli occhi solo per un secondo.
“Li chiami tutti per cognome i tuoi amici?”
“Sì.”
“E loro chiamano per cognome te?”
“Sì,” mentii di nuovo, poi mi corressi. “Senti, è circa un mio amico, va bene? Non è molto importante, in questo momento. Ora non è che possiamo…”
“Prendere da bere, certo.”
Chris fece un cenno al barista, che pochi secondi dopo fu lì di fronte.
“Per me una birra e per lei…” Si voltò a guardarmi, io stavo per aprire bocca per dire la mia ordinazione, quando lui stesso mi anticipò. “E per lei una Coca-Cola.”
Il barista fece un cenno di assenso e aprii la bocca per lamentarmi. “Ma…!”
Chris mi interruppe. “Ricordi prima, quando mi hai chiesto se facevo il college? La risposta è no, ho ventun anni e faccio l’Accademia di Polizia. Mi spiace.”
Sbiancai. “O-ok, ho vent’anni, non sono così piccola, volevo bere una birra, sono… Non sono così piccola, no?” pigolai per giustificarmi, con l’espressione di una che stava commettendo chissà quale reato.
“Rilassati, non sono un poliziotto,” sorrise Chris, prendendo la coca dal bancone e porgendomela. “Ma tu non hai vent’anni.”
“Diciannove e mezzo?” tentai, poco convinta.
Lui scoppiò a ridere e io nascosi il mio broncio dietro il bicchiere. “Avrai sedici anni al massimo!”
“Ne ho diciassette!” sbottai allora io, ritrovando un po’ della mia sicurezza.
“Davvero?”
“Davvero! Non sono così piccola!” ripetei di nuovo, sentendomi per l’ennesima volta quella sera una bambina guardata dall’alto in basso. Ma che avevano tutti?
“No, non lo sei,” mi diede finalmente ragione lui, “ma non ho voglia di farti bere illegalmente per poi approfittarmi di te, mi stai simpatica.”
“Peccato,” scherzai io, facendo un sorriso malizioso.
Lui ridacchiò. “Posso darti un consiglio, Delia?”
“Purché non sia l’ennesimo discorsetto maturo e paternalistico della serata, sì.”
“Beh, sarò anche paternalistico e un po’ tradizionalista, ma credo dovresti evitare di dire a un ragazzo appena conosciuto che non importa se è un serial killer. Qualcuno potrebbe prenderti sul serio.”
Toccò a me ridere. “Era per dire, uff, che serietà! Non mi sembri un serial killer.”
“Wow, grazie.”
“Non c’è di che,” risposi io, sedendomi sullo sgabello lì vicino al bancone. “Com’è che hai deciso di fare il poliziotto invece dell’assassino, quindi?”
Continuai a chiacchierare con lui per diverso tempo: era simpatico, maturo, ascoltava i miei sproloqui e rispondeva a tono e – come avevo già notato – sorrideva spesso. Quando Dave venne a chiamarmi perché stavano andando a casa, dovetti salutare Chris a malincuore.
“Ci si vede in giro?” gli domandai.
“Può darsi. Tu nel frattempo stai attenta ai potenziali serial killer e ai biondi sfuggenti.”
Roteai gli occhi. “Quello sempre, figurati.”
Lui si chinò e, a discapito delle mie aspettative iniziali, mi diede un casto bacio sulla guancia che mi fece sorridere.
“È stato un piacere chiacchierare con te, Delia.”
“Anche per me. Buona serata, Chris.”
Raggiunsi i miei amici e, sotto gli occhi fintamente disinteressati di Patterson, Audrey mi fece il solito quarto grado a cui risposi evasivamente.

Il giorno successivo, ovvero domenica, mi svegliai a un’ora inconsueta, così decisi di vestirmi e recarmi al Marie’s per fare colazione chiacchierando con Dave. Il Marie’s, infatti, era il bar dei genitori di David, si trovava non lontano dal porto di Winthrop ed era facilmente raggiungibile da me con il mio scooter di seconda mano. Era un bar carino, che apriva la serranda di mattina presto e profumava di brioches e caffè caldo, apparteneva alla famiglia McPharrell da due generazioni, da quando cioè il nonno di David si era trasferito lì dopo la guerra e aveva comprato il locale, chiamandolo così in onore di sua moglie Marie.
Entrai nel bar e salutai allegramente il padre di Dave, Alfred, che stava servendo altri clienti, per poi sedermi a un tavolino da sola. Avevo scritto un messaggio al mio amico per avvisarlo della mia improvvisata, ma evidentemente non l’aveva visto ed era ancora a letto. Questa mia ipotesi fu confermata poco dopo da Alfred, che mi si avvicinò sorridente.
“Delia, bambina, stai aspettando mio figlio?” mi chiese affettuoso.
Annuii con la testa. “Gli ho scritto solo stamani, non eravamo d’accordo.”
“Quel furbo sarà ancora che dorme, te lo dico io. Adesso chiamo a casa, mia moglie è ancora lì.”
Non feci in tempo a fermarlo con un “No, non disturbare…”, che Al si era già allontanato per andare al telefono dietro il bancone del bar; cinque minuti dopo tornò da me con caffè e pancake caldi.
“Ecco qui, gioia. David sta arrivando, dovrebbe portare anche sua sorella.”
“Non era necessario che lo chiamassi, Al.”
“Ma figurati, quel pigrone non si sarebbe mai alzato sennò. Avete fatto tardi ieri sera?” chiese ciarliero, sedendosi al tavolo con me per farmi compagnia.
I genitori di Dave erano piuttosto particolari: entrambi erano persone alla mano e disponibili, appena li avevo conosciuti avevano preteso che li chiamassi per nome – Al ed Esther – e avevano accettato noi, gli amici di loro figlio, come se fossimo di famiglia. Alfred era quasi sempre lì al Marie’s per lavoro, mentre sua moglie gli dava spesso una mano durante la settimana; perciò quando il weekend mi presentavo a scroccare la colazione – a volte con Audrey e Jude, altre volte, come quella domenica, da sola – mi sentivo sempre accolta e coccolata da quell’uomo adorabile.
“Non troppo, ma ci siamo divertiti comunque.”
“Eravate al Platinum, giusto? Pensa che quel locale era già aperto ai miei tempi… Cioè un trilione di anni fa,” borbottò sovrappensiero.
“Non sei così vecchio, dai,” ridacchiai, ma ero sincera: i genitori di Dave avevano poco più di quarant’anni e, infatti, avevano anche una bambina di cinque anni, Rachel.
“Eh, ma le cose erano comunque diverse all’epoca. Pensa che non era troppo ben vista una coppia meticcia come me ed Esther.”
Annuii, comprendendo perché per i genitori di David fosse stato così naturale accettare la sua omosessualità: erano aperti mentalmente, sì, ma avevano pure vissuto sulla propria pelle la discriminazione. Non ero a conoscenza di tutta la loro storia, ma sapevo che Esther veniva da una famiglia ebrea, mentre Alfred era mezzo francese – dalla parte di sua madre Marie, appunto.
“Ma parliamo di cose decisamente più nuove, bambina: stai proprio bene con questi capelli!”
“Grazie!” sorrisi contenta: Al notava ed apprezzava sempre i miei mutamenti di look, un po’ come suo figlio.
“Avevi bisogno del cambiamento per un motivo in particolare?” mi chiese, tirando fuori il suo tipico lato da barista-psicologo un po’ impiccione.
“Mah, no… Ogni tanto sento la necessità di farlo, però. Sono un’anima in pena.”
Lui ridacchiò di gusto. “C’è sicuramente qualcosa sotto. La psiche umana lavora in modi che non possiamo comprendere.”
“Non scomoderei Freud per la mia psiche, né per i miei capelli, impazzirebbe persino lui,” mi presi in giro da sola, sbocconcellando i miei pancake.
“Almeno lo ammetti da te!” commentò ironica la voce di David, arrivandomi alle spalle.
Mi voltai a guardarlo e lui lasciò la manina di sua sorella Rachel, che corse in braccio ad Alfred. Poi Dave si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia, mentre suo padre si alzò per tornare a lavorare; prima di allontanarsi del tutto, lanciò un bonario rimprovero a suo figlio.
“Hai lasciato la tua amica da sola fino ad ora, razza di figlio degenere.”
“Non sapevo nemmeno che fosse qui, padre ficcanaso!” rispose lui con una linguaccia. “Rachel, vieni a sederti qui con noi, adesso papà ti porta dei fogli per colorare.”
La bimba fece come le veniva detto e, appena le arrivarono fogli e matite colorate, si immerse in una delle sue attività preferite, mentre Dave cominciava ad interrogarmi.
“Quindi che ci fai qui, Deels?”
“Stamattina mi sono svegliata e non riuscivo più a dormire. Non volevo disturbarti.”
“Ti è passata la bambinite di ieri sera?” domandò lui, con un sorriso furbo.
M’imbronciai, un po’ per scherzo, e lui mi diede il solito buffetto.
“Dal broncio si direbbe di no,” convenne, semiserio.
“Davie, cos’è la bambinite?” intervenne Rachel, smettendo di disegnare un grande sole giallo per spostare la sua attenzione sulla risposta del fratello maggiore.
“È quando un grande si comporta come un bambino, tesoro. Un po’ come una malattia.”
“Io sono una bambina, ma non solo malata. A parte quando ho avuto la varicella,” rispose lei, con una logica impeccabile.
“Perché tu sei una brava bimba.”
“E Delia no?” chiese lei, spostando lo sguardo confuso su di me.
“Anche lei, ma ogni tanto fa i capricci.”
“Non faccio i capricci!” sbottai io, mentre Rachel mormorava un “ah” finale e rinunciava a capire i nostri discorsi per tornare a concentrarsi sul suo foglio.
Dave incrociò le braccia, guardandomi ironico. “No, eh? Mi ha detto Audrey che ieri quando ti ha portato a casa eri piuttosto scostante. È successo qualcosa?”
“Io… Non credo che…” balbettai, presa alla sprovvista.
Se l’aveva notato persino Audrey non dovevo essermi comportata molto bene, in effetti, e non era da me essere burbera con un’amica. Dave mi incalzò con gli occhi e io tentai miseramente di cambiare argomento: non volevo assolutamente pensare ai motivi per i quali mi ero comportata così la sera precedente.
“Hai sentito anche Jude, per caso? Ieri sera le ho prestato il mio elastico e si è dimenticata di tornarmelo.”
“Sei patetica.”
“Niente affatto!”
“Davie, cos’è patiteca?” si intromise di nuovo Rachel, che a quanto pareva riusciva perfettamente a stare attenta al nostro discorso e, in contemporanea, a continuare a disegnare con le matite.
“Si dice patetica. Ed è quello che è Delia adesso.”
Rachel mi scrutò sospettosa, poi tornò a puntare gli occhioni nocciola sul fratello. “A me Delia sembra bella, non patiteca.”
Mi sporsi dalla sedia per scoccarle un bacio di gratitudine sulla testa. “Ecco, brava Rachel, diglielo anche tu.”
“Ci mancava solo che ti alleassi con la mia sorellina di cinque anni,” commentò Dave. “Tu continua il tuo disegno, nocciolina, Delia sa difendersi benissimo da sola.”
Poi tornò a guardarmi e sospirò. “Senti Dee, se ce l’hai ancora con me perché ho invitato Matt ieri sera non mi sembra il caso di rivalersela anche su Aud. E poi alla fine ci siamo divertiti, no? Mi è sembrato addirittura che andassi quasi d’accordo con lui, durante la serata. Quasi,” sottolineò nuovamente, onde evitare fraintendimenti.
“Anche a me pareva che andassimo quasi d’accordo,” borbottai: ero sul punto di esplodere in una delle mie solite filippiche. Dave dovette capirlo, perché mi fece segno con la mano di continuare pure, ché era lì apposta per ascoltarmi, così non mi trattenni ulteriormente.
“Non è colpa mia se quello è uno psicopatico, va bene? Un minuto prima è il ragazzo più freddo e antipatico dell’universo, quello dopo mi chiede un favore col sorriso più incredibile e affabile della East Coast e il minuto dopo ancora torna a essere il Signor Pezzo di Me…” Notai gli occhi di David spalancarsi per la presenza della sua sorellina e mi corressi all’ultimo. “Merlo. Pezzo di Merlo.”
Rachel, in effetti, mi guardava con interesse crescente. “Il merlo è un uccello, vero?” domandò curiosa.
“Sì, nocciolina,” rispose Dave.
“Di che colore è?”
“Nero con il becco arancione. Che dicevi su quel Merlo, Deels?” continuò salottiero.
“Che ieri sera ha addirittura fatto il carino con me!”
“Il carino in che senso?”
“Il carino, Dave, con i sorrisetti maliziosi e tutto il resto. Non mi sbaglio su queste cose, di solito, anche se trovavo impossibile che ci provasse proprio con me. E infatti evidentemente avevo preso un granchio, dal momento che cinque minuti dopo era tornato freddo come l’Everest e quando sono rientrata dal bagno si stava strusciando su Audrey in pista.”
A quel punto David spalancò gli occhi incredulo, come se avesse capito qualcosa all’improvviso, qualcosa che non mi sfuggì.
“Non mi interessa che ci provi con Aud, ok? Sono stupendi assieme, li hai visti anche tu, sono davvero meravigliosi, ma mi dà fastidio quando qualcuno fa lo str…ambo,” mi corressi di nuovo sul filo del rasoio, “con una mia amica, in particolare con Audrey, che non ha la minima idea di essere così gnocca e che, lo sai benissimo, non si accorgerebbe che qualcuno ci sta provando solo per portarsela a letto nemmeno se questo qualcuno glielo dicesse chiaramente.”
“Sei preoccupata per Audrey?” mi chiese il mio amico, dubbioso.
“Sono preoccupata per lei, sì.”
“Solo questo?”
“Certo, solo questo! Che altro, sennò?”
Dave mi lanciò un’occhiata eloquente e io alzai gli occhi al cielo.
“Non farti strane idee, McPharrell.”
“Facciamo che io non mi faccio nessuna idea, ma che tu, appena finiamo questa conversazione, prendi e vai da Audrey a espiare i tuoi peccati.”
“Quali peccati?”
“Aud e Matt non si piacciono. Lui la stava solo aiutando a liberarsi di un ragazzo che ci provava insistentemente, con tanto di palpate qua e là, per questo le si è avvicinato e ha ballato con lei, fingendo che fossero intimi. Fingendo male, tra l’altro, perché se tu fossi un po’ meno scema ti saresti accorta che a malapena si sfioravano, Aud è troppo timida e Matt è troppo rispettoso, e non si piacciono: sembravano due stoccafissi. Il tipo si è allontanato e sono tornati al tavolo.”
“Oh,” mormorai, adombrata.
David mi guardò con quella che sembrava commiserazione negli occhi. “Sei senza speranza.”
Ignorai il suo commento e mi grattai il collo, ancora confusa. “Perché non hai aiutato tu Aud? O Josh, come al solito?”
Era una cosa normale, per noi, dover tirare fuori Audrey da situazioni come quella: capitava spesso che ricevesse delle attenzioni non gradite e che, siccome era troppo timida per allontanare seccamente i molestatori, lanciasse richieste di SOS con gli occhi a qualcuno di noi. A quel punto Josh o Dave si avvicinavano fingendosi il suo ragazzo, ma era successo anche a me di salvarla, dicendo al seccatore di turno che eravamo lesbiche e di lasciarci in pace.
“Josh non era lì in quel momento e io… Beh, sarei stato poco credibile.”
“Perché?”
“Ecco, un attimo prima ci avevo provato col ragazzo in questione, che poi ha cominciato a provarci con Aud.”
Finalmente mi sciolsi in una risata sincera. “Non dicevi di avere un gay radar infallibile?”
“È ancora in fase di perfezionamento,” rispose Dave, raddrizzando la schiena altezzosamente.
Ridacchiai ancora un po’, dopodiché ripensai a tutta la situazione e tornai a imbronciarmi. “Non è solo questo, McPharrell. Patterson mi urta i nervi. Può provarci con chi gli pare, ma mi urta i nervi.”
“Pff, fossero solo i nervi, Deels.”
Lo fulminai con lo sguardo. “Dico sul serio. Si comporta sempre come un mer… merloso, e poi all’improvviso mette su l’armatura da Principe Azzurro con tanto di mantello e va a salvare chiunque si trovi nelle vicinanze del suo scudo dorato. A te sembra normale?”
“A me sembra carino ciò che ha fatto per difendermi. E per quanto riguarda Aud, gli ho chiesto io di darle una mano.”
“L’ha fatto anche con me, e nessuno gli aveva chiesto niente,” mi scappò detto con una certa acredine, per poi rendermi conto che non l’avevo ancora raccontato a nessuno.
David infatti fece un’espressione stupita. “Ieri?”
“No, al prom. Senti, lasciamo perdere.”
“Eh no, cara mia, adesso devi spiegare!”
“Ti ricordi che quando ho visto Steve con Chantal Sterling sono sparita?” Aspettai che Dave annuisse per continuare. “Ho incontrato Patterson, che ha deciso in totale autonomia che per vendicarmi di Steve dovessi farlo ingelosire. Peccato che si sia dimenticato di avvisarmi.”
Il mio amico aggrottò le sopracciglia pensieroso. “Avvisarti di che?”
“Ha notato che Steve ci guardava e mi ha… ecco, sai, mi ha…”
David lanciò un urletto sconvolto e si portò una mano davanti alla bocca, poi si avvicinò e mi parlò con fare cospiratorio, come se qualcuno potesse sentirci.
“Vi siete baciati?!” chiese, disteso sul tavolino per sporgersi verso di me e con gli occhi praticamente fuori dalle orbite.
“No!” urlai sconvolta, poi abbassai la voce anch’io. “Lui ha baciato me.”
“Sai che differenza!”
“La differenza è che non gli ho dato il permesso di farlo! E comunque è durato un secondo, me ne sono a malapena accorta.”
David se ne stette stranamente zitto per qualche attimo.
“McPharrell, dì qualcosa,” lo incitai, mordicchiandomi un’unghia.
“Sto valutando se dovrei toglierti dalla lista dei miei migliori amici per avermi nascosto una cosa del genere.”
“Senti, non volevo che si sapesse in giro, ok? Non è successo niente di che, l’avevo già quasi dimenticato,” minimizzai per scusarmi con lui. “E ti sarei grata se non lo raccontassi a nessuno, Dave, sul serio.”
“Ok, ok. Adesso si spiegano un mucchio di cose, comunque.”
“La mia antipatia per Patterson ha ragioni ben più profonde e radicate,” sostenni, capendo dove voleva andare a parare.
Lui scosse la testa. “Sì, lo so.”
Guardai l’orologio e interruppi qualsiasi suo ragionamento successivo. “È meglio se vado. Devo fare delle commissioni per mia nonna e poi volevo passare da Aud.”
Mi alzai mettendomi la giacca, ma prima che mi muovessi Rachel mi prese per la manica, attirando la mia attenzione e guardando alternativamente me e suo fratello.
“Volete vedere il mio disegno?”
“Certo, nocciolina, facci vedere,” la incoraggiò David sorridendole.
“Questa è Delia,” spiegò la bambina, indicando col ditino la figura stilizzata coi capelli mezzi fucsia, “e questo è il merlo, vedete, ha il becco arancione.”
Dave rise di gusto, mentre io chiedevo spiegazioni più dettagliate. “Come mai io sono sopra quella… ehm… cosa?”
“È la torre, come Raperonzolo,” scandì lei, come se fosse scontato.
“La torre?”
“Sì, il merlo viene a salvarti, però. Hai detto tu che è come un principe.”
“Non esattamente quel tipo di principe,” mormorai io, mentre Dave al mio fianco si divertiva sempre di più.
“Non ho capito come fa un uccello a essere un principe, ma gli ho fatto anche il mantello, per sicurezza.”
“Sei stata molto brava, stellina,” mi congratulai io, facendole una carezza sulla testa.
Rachel sembrò illuminarsi. “Ti piace?”
“Sicuro!”
“L’ho fatto per te,” esclamò allora la piccola, porgendomi il foglio che io presi con titubanza.
“Grazie mille.”
Mi congedai da lei facendomi dare un bacio sulla guancia, salutai Al con la mano e poi mi feci accompagnare fuori da David, che aveva ancora un ultimo consiglio da darmi.
“Tu e Matt siete caratterialmente poco compatibili, ma trovo perlomeno interessante come continuiate a gravitarvi intorno a vicenda.”
“Non ci gravitiamo intorno, ci insultiamo, Dave. Stai perdendo colpi.”
Lui sbuffò, sventolando la mano. “Ascolta, Matt non è così male. Impara ad andarci d’accordo, perché credo che continuerai a vederlo in circolazione per un bel po’.”
“Sei un guastafeste.”
“E va’ da Aud, che quell’ingenua ragazza crede che tu ce l’abbia con lei.”
“Era ciò che avevo intenzione di fare, papà,” lo presi in giro, salutandolo con una smorfia delle mie.
Seguii il suo consiglio e raggiunsi Audrey a casa sua, raccontandole anche tutto ciò che voleva sapere sulla mia chiacchierata con Chris della sera precedente.
Dopotutto, non valeva proprio la pena di farsi rovinare il fegato da un finto principe – vero idiota – come Matt Patterson.









Hola, ecco il nuovo capitolo! Ho appena finito di scriverlo, quindi potrebbero esserci degli errori, ma volevo pubblicarlo perché non so quando avrò tempo, poi. È strano, il capitolo così com'è non doveva proprio esistere, è uscito praticamente da solo, il che vuol dire che la storia comincia ad avere vita propria, e non so se è esattamente un bene.
Matt si comporta da psicotico, sappiate che io do ragione a Delia in questo caso, pur essendo diversissima da lei. Voi che ne pensate? Ho esagerato? Avete preso paura per Matt e Audrey? :)
Vi prego di farmi sapere i vostri pareri, sono molto indietro con la storia e, anche se vedo che ha un po' di seguito, ho assoluto bisogno dei vostri commentini. GRAZIE alle stelle che hanno recensito l'altra volta, mi avete spinta a scrivere. <3

Un po' di precisazioni sul capitolo in sé:
- Il titolo, Becoming Delia, fa riferimento al fatto che - credo - in questo capitolo la protagonista comincia a diventare quello che sarà da adulta, nel bene e nel male. Chi ha letto l'altra storia (Of all the people in the world, io continuo a linkarla che non si sa mai) ha già conosciuto, almeno un poco, Delia, e notato il suo carattere particolare: qui comincia a vedersi quella Delia, secondo me, perché la ragazzina sta pian piano maturando.
- Il Platinum è un omaggio al Bronze, il locale di Buffy TVS. Non serve che l'abbiate visto, era solo per citare chi di dovere. :)
- So che adesso è abbastanza normale tingersi i capelli dei colori più svariati, ma la storia è ambientata in una cittadina non troppo grande e temporalmente è collocata qualche anno fa - diciamo nella seconda metà degli anni 2000, col passare del tempo si andrà avanti con gli anni, ovviamente. Ho immaginato che Delia potesse essere guardata un po' così per dei capelli mezzi rosa.
- In America, come penso sappiate, bisogna avere ventun anni per bere alcolici. In teoria.
- La descrizione della famiglia di David era dovuta, visto che praticamente Dave è il terzo protagonista della storia. Spero abbiate apprezzato, io li amo già tutti, obviously.
- Il discorso che Al fa a Delia sui cambiamenti dei suoi capelli non è buttato a caso, lo riprenderò più avanti (e ce n'è un accenno anche in Of all).

Ho finito! Spero mi facciate sapere cosa ne pensate. Devo ancora iniziare il prossimo capitolo, purtroppo potrei metterci di più a pubblicarlo.
Alla prossima, smack.

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Capitolo 7
*** War and Peace ***


7. War and Peace



La verità era che Patterson, purtroppo, mi dava sui nervi tanto quanto mi incuriosiva. Su questo, perlomeno, David aveva ragione.
Vivevo a Winthrop da un anno e mezzo e da circa due mesi Matt si era avvicinato a Dave e Josh; perciò avevo avuto modo di osservarlo e di cercare di comprendere i suoi comportamenti ma, evidentemente, non ero riuscita a venirne a capo. Patterson sembrava una persona schiva e riservata, anche un po’ burbera a volte, ma avevo notato che – a parte con me – non era quasi mai maleducato né cercava lo scontro con altri nostri compagni di scuola. In questo era cambiato: ricordavo che un anno prima tendeva a rispondere seccamente a più persone, ma crescendo era diventato più docile. Non che fosse uno zuccherino, tutt’altro, ma si poteva dire che fosse un ragazzo tranquillo e beneducato. Era poco loquace con la maggior parte delle persone, certo, e dava risposte piuttosto freddine soprattutto alle ochette che gli ronzavano intorno e a cui lui non era interessato; con quelle che gli interessavano, d’altro canto, aveva tutt’altro atteggiamento.
Nonostante non facesse parte della squadra di basket né di quella di football, infatti, godeva di una certa popolarità a scuola, popolarità che lui non faceva nulla per alimentare, a dire il vero. Sapevo, perché me l’avevano raccontato, che durante il suo primo anno aveva giocato nella squadra di basket, sport nel quale era anche piuttosto bravo, ma che aveva deciso di mollare senza una motivazione precisa. David e Josh erano entrati in squadra l’anno successivo, quindi nemmeno loro sapevano se fosse successo qualcosa di particolare. Dopo che aveva lasciato la squadra, comunque, la popolarità di Patterson era rimasta invariata e le ragazze avevano continuato a girargli attorno come api col miele, attratte dalla sua indubbia bellezza, dai suoi occhioni grigi, ma anche – purtroppo – dalle voci sul suo patrimonio familiare piuttosto ingente.
Non ero mai stata a casa sua, ma si diceva che fosse una villa enorme con tanto di piscina e dependance che un tempo serviva alla servitù. Sua madre, che avevo visto dopo la rissa con Ashton, andava sempre in giro vestita di tutto punto e firmata dalla testa ai piedi, e suo padre pure – dicevano, io non l’avevo mai incontrato. Ma Matt no. E questa era un’altra delle cose per me incomprensibili: mi avevano raccontato che Matt aveva frequentato l’istituto privato fino all’età di quattordici anni e che poi, una volta giunto il momento di scegliere quale liceo frequentare, si fosse fatto trasferire alla scuola pubblica. A vederlo non si sarebbe detto che fosse così benestante: veniva a scuola con una vecchia macchina usata e portava quasi sempre delle scarpe mezze sfasciate, per il resto si vestiva normalmente.
Era un ragazzo intelligente, questa era l’unica cosa su cui non avevo dubbi. Mi sarebbe piaciuto insultarlo per la sua pochezza o per la sua stupidità, ma purtroppo non mi dava motivi per farlo. Si vedeva che non si ammazzava di studio, ma se la cavava piuttosto bene in tutte le materie e aveva una predisposizione particolare per quelle scientifiche, tanto che era diventato il cocco della professoressa Mitchell. Ed era sveglio, aveva sempre la risposta pronta, oltre che essere dotato di un sarcasmo tagliente che non tutti comprendevano e che, spesso, usava proprio contro di me.
Era un rebus che proprio non riuscivo a risolvere ed era anche questo, di lui, che mi dava tanto sui nervi. Oltre, ovviamente, ai punzecchiamenti cui mi sottoponeva quasi ogni giorno, che spesso mettevano a dura prova la mia pazienza già di per sé piuttosto labile. Ma se c’era una cosa che mi infastidiva di più delle sue battutine era quando, per ragioni conosciute solo dal Padreterno, decideva di ignorarmi del tutto e fare finta che io non esistessi per lassi di tempo che variavano da un paio di giorni a qualche settimana di fila. Dopo questi periodi di apatia nei miei confronti, di solito, un giorno entrava in classe e, dal nulla, mi salutava facendo un commento sarcastico sulle mie scarpe o sulle occhiaie che sfoggiavo quel giorno; io gli rispondevo a tono e ritornava tutto come al solito.
Non ero abituata a quell’incostanza e non ero abituata alle persone fumose e mutabili: i miei atteggiamenti potevano sembrare strani, ma erano quasi sempre chiari e atti a raggiungere un obiettivo preciso. Matt Patterson era l’esatto opposto.
Ci ragionavo sempre più spesso, durante quelle ultime settimane del terzo anno, e più ci ragionavo meno ne saltavo fuori. La cosa, neanche a dirlo, mi innervosiva.
“Dee?”
Era maggio, la scuola sarebbe finita nel giro di un paio di settimane, dunque a breve ci sarebbe stato anche l’attesissimo Prom. Visto com’era andato l’anno precedente io avrei dovuto non avere voglia di parteciparvi, ma rimanevo attratta dalle feste, di qualsiasi tipo fossero. Però avrei dovuto cercarmi un accompagnatore, accidenti, era già tardi.
“Delia?”
Posai gli occhi su Patterson, una fila avanti alla mia. Si passava distrattamente una mano sul collo mentre con la sinistra – sì, era mancino, si doveva distinguere anche in questo il signorino – scarabocchiava qualcosa sul foglio di fronte a sé. Anche oggi indossava quelle scarpe mezze distrutte ai piedi. Forse era troppo pigro per andare a comprarsene un paio di nuove? Era possibile.
“Delia!”
E poi come diavolo faceva ad ottenere tutti quei voti alti in Matematica se durante le ore della Mitchell era così distratto? Non che io fossi attenta, certo: infatti il mio rendimento nelle materie scientifiche era discreto, non ottimo come il suo.
“Gray, per la miseria, vuoi rispondere a Byrne che cerca di attirare la tua attenzione o continui a fissare la nuca di Patterson fino alla fine dell’ora?”
La voce della professoressa Mitchell mi fece trasalire, ma non feci in tempo a spostare lo sguardo che, purtroppo, puntava esattamente dove aveva detto lei: quando Matt si girò i suoi occhi incrociarono i miei per qualche secondo, mentre il resto della classe rideva di gusto.
Abbassai gli occhi vedendo lo sguardo di Matt farsi da interrogativo a vagamente divertito e, forse, arrossii anche un po’, cosa che, ci tengo a precisarlo, mi succede di rado. Mi ricomposi in fretta comunque e, mentre la prof tornava alla lavagna per ricominciare a spiegare, mi voltai verso Audrey che mi guardava con un’espressione colpevole e che mi sillabò uno “scusa”, con Jude al suo fianco che alzava gli occhi al cielo. Ovviamente, dopo la piazzata della Mitchell, non ebbe il coraggio di dirmi il motivo per cui mi aveva chiamata così insistentemente da farsi sentire persino dalla prof e io decisi di aspettare la campanella per chiederle spiegazioni.
Patterson, d’altro canto, si voltò un’altra volta a guardarmi prima della fine dell’ora e io, fingendo di essermi ripresa del tutto dalla figura di merda di poco prima, gli feci una smorfia semi altezzosa; lui sorrise ironico scuotendo la testa e tornò a scribacchiare sul suo quaderno.
Quando suonò la campanella notai con la coda dell’occhio che Matt si alzava e puntava nella mia direzione, forse intenzionato a chiedermi qualcosa. Io, presa da una sorta di panico non normale per me, decisi di fuggire a quella possibile situazione imbarazzante andando a parlare con Audrey ma, nel tentare di infilare tutte le mie cose nello zaino alla velocità della luce, feci accidentalmente cadere l’astuccio con la cerniera ancora aperta, seminando penne, matite, pennarelli e quant’altro sul pavimento dell’aula. Imprecai a mezza voce maledicendo la mia sfiga e mi rassegnai a sopportare le battutine al vetriolo di Patterson. Ma la sua voce sarcastica non arrivò alle mie spalle, così, dopo aver finito di riordinare il mio astuccio, mi alzai e mi voltai per controllare cosa fosse successo.
Patterson era evidentemente stato bloccato da Hillary Kane, una nostra compagna del terzo anno, mora, riccia, carina, nonché vice capitano della squadra di cheerleader della scuola. Era una di quelle persone che camminavano con venti metri di puzza sotto il naso e che io, pur non avendo un motivo per cui odiarle, evitavo come la peste da quando mi ero trasferita a Winthrop. Non era il fatto che fosse una cheerleader a influenzarmi, avevo ottimi rapporti con almeno un paio di ragazze della squadra, ma il suo atteggiamento costantemente altezzoso mi impediva di esserle amica: aveva tutte le carte in regola per diventare la nuova Lauren Garreth, da quando quest’ultima si era diplomata l’anno precedente lasciando la scuola senza una vera e propria nuova reginetta.
Ad ogni modo, senza volerlo, Hillary mi aveva aiutato a liberarmi di Patterson in quel frangente, perciò la ringraziai mentalmente e feci per caricarmi lo zaino sulle spalle, quando venni attirata da uno stralcio del loro discorso.
“Quindi,” stava chiedendo lei con un sorriso finto timido sulle labbra, “sai già con chi andrai al ballo?”
Patterson sembrò rimanere un attimo basito, sbatté le palpebre un paio di volte, poi si riprese e le rispose. “No, in verità non so nemmeno se ci andrò.”
La Kane fece un’espressione sconvolta, con tanto di mano a coprirle la bocca semi aperta. Alzai gli occhi al cielo e decisi di muovermi da lì, che ne avevo avuto abbastanza della falsità di quella ragazza.
“Ma come? Devi assolutamente! Neanch’io ho un accompagnatore, potremmo andarci assieme!”
Uscii dall’aula mentre in testa mi si accendeva una lampadina su ciò che avrei dovuto fare: George Peterson! Come avevo fatto a non pensarci prima? Era George la mia prima scelta per il ballo, avevo una mezza cotta per lui ancora dall’anno precedente.
Così, quando uscii dall’aula, invece di dirigermi verso il punto dove avrei trovato i miei amici, girai a destra e mi avvicinai con decisione all’armadietto di George Peterson. Sì, mi piaceva da un po’, e all’inizio dell’anno scolastico avevo fatto in modo di scoprire in che punto del corridoio fosse posizionato il suo armadietto, così da sapere sempre dove trovarlo tra una lezione e l’altra. No, non sono una stalker, sono sempre stata molto organizzata però, non ci trovo niente di male.
Quando arrivai George stava appunto aprendo il suo armadietto per sistemarci dei libri prima, probabilmente, di dirigersi in mensa per il pranzo come tutti gli altri. Ero talmente decisa nella mia camminata che lo raggiunsi ancora prima di rendermene conto e mi accorsi solo quando si girò a guardarmi interrogativo che non avevo la minima idea di cosa dovessi dirgli.
“Ehm…”
Complimenti Delia, ottimo inizio.
“Ciao,” fece George, dopo un attimo di spaesamento.
Avevamo già parlato un paio di volte, essendo entrambi del terzo anno alla Winthrop High; non si poteva dire che fossimo amici dal momento che non frequentavamo lo stesso giro di persone, ma sicuramente sapeva chi io fossi, ecco.
“Ciao,” risposi, ritrovando un grammo della mia solita sicurezza. “Tutto bene?”
La mia seconda frase non si poteva certo dire migliore dell’incipit. Maledizione a me e alla mia impulsività, avrei dovuto prepararmi qualcosa da dire!
George annuì sorridendo, ma si vedeva che era vagamente imbarazzato. Guardò un punto alle mie spalle, chiuse l’armadietto e mi fece un nuovo sorriso stiracchiato.
“Volevi chiedermi qualcosa?” mi domandò quindi, avendo evidentemente fretta di arrivare al punto.
“Sì, scusa. Mi domandavo,” iniziai ancora incerta sulle parole da usare, “se avessi per caso già…”
“Tesoro, eccoti qui!”
Una voce femminile mi interruppe prima che facessi quella che poteva essere definita una figura barbina: la proprietaria di tale voce, infatti, mi superò senza degnarmi di uno sguardo mettendosi tra me e George, e baciò quest’ultimo sulla bocca con uno schiocco talmente teatrale da risultare quasi fuori luogo.
Era Mindy Karpenter, un’altra cheerleader del nostro anno nonché degna migliore amica di Hillary Kane. Erano entrambe ricce, solo che Mindy, a differenza della sua amica che era mora, aveva i capelli castani con qualche mèche più chiara; andavano in giro sempre assieme e si facevano chiamare le 2K, per l’iniziale dei loro cognomi. E con ciò si spiegava piuttosto bene la mia avversione nei loro confronti: cioè, si erano scelte un nome d’arte, neanche fossero le Spice Girls. Almeno potevano optare per K2, come il monte, ma dubitavo seriamente che sapessero cosa fosse.
“Andiamo a mangiare, amoruccio?” insisté Mindy, attaccandosi al braccio di quello che evidentemente era, a mia insaputa, il suo fidanzato.
George annuì, poi mi guardò dubbioso. “Cosa mi stavi dicendo?”
Esitai solo un attimo, ma fu fatale perché la Karpenter mi lanciasse una sospettosa occhiata di fuoco.
“Per caso hai già copiato gli appunti di Biologia di lunedì? Perché non ci capisco niente dei miei…”
Ringraziai mentalmente la mia velocità nell’inventarmi delle scuse plausibili, e ancor di più ringraziai il fatto che Peterson seguisse qualche lezione con me, il che rendeva più credibile ciò che avevo appena detto. Lui comunque mi guardò stupito per poi scuotere la testa piano.
“No, mi spiace, non copio mai gli appunti. Non hai altre persone a cui chiederli? I miei sono sempre incasinati.”
George non era certo il miglior studente del nostro corso, ma mi sembrava che non se la cavasse male in Biologia, speravo di non aver preso un granchio.
“Sì, certo, chiederò a qualcun altro. Grazie lo stesso.”
Mi congedai con un cenno della mano salutando anche la Karpenter, che continuava a scrutarmi con gli occhi assottigliati, e scappai in mensa sperando di trovare i miei amici, ma la mia dose di sfiga giornaliera evidentemente non era ancora esaurita: un attimo prima di arrivare venni fermata da Patterson.
“Gray.”
Ero talmente presa dai miei pensieri sulla figuraccia appena fatta con George che, sentendo la voce di Matt che mi chiamava, sussultai miseramente.
“Distratta oggi, eh, novellina?” infierì lui, non facendosi mancare l’occasione per prendermi in giro per ciò che era successo in classe poco prima.
Gli scoccai un’occhiataccia fingendo stupore. “Non so di cosa stai parlando.”
“Certo, come no,” commentò Patterson, standomi di fianco mentre entravo in mensa e mi guardavo intorno alla ricerca dei miei amici. No, il mio gruppo non aveva il suo tavolo fisso come nei film adolescenziali, ogni giorno bisognava cercare un posto decente.
“Mi stai seguendo per un motivo in particolare?” domandai seccata, ancora ferma sulla soglia.
“Scusa, preferisci seguirmi tu? Ho una così bella nuca?”
Chiusi gli occhi e feci un sospirone, quando li riaprii vidi Dave che cercava di attirare la mia attenzione per dirmi di andare a sedermi con loro. Matt ovviamente venne con me, purtroppo aveva preso a mangiare assieme a noi sempre più spesso negli ultimi tempi, quindi non cercai nemmeno di fermarlo.
“Posso chiederti una cosa?” insisté Patterson.
“No, principino, non puoi.”
“Cattiva.”
“Oggi non è proprio giornata, mi spiace, ho esaurito la mia riserva di pazienza e di risposte ponderate, e pure quella di figure di merda, se lo vuoi proprio sapere,” replicai scontrosa mentre mi sedevo al tavolo e lui prendeva posto di fronte a me. “Ci manca solo che tu mi faccia finire la riserva di rispostacce ad effetto, a quel punto sarei completamente vuota.”
“Dubito seriamente tu possa finire la riserva di parole, in compenso.”
Sorrisi sarcastica. “Per la tua gioia? Mai.”
“Che stella.” Matt mi rimandò indietro lo stesso tipo di sorriso velenoso, ma con una punta di divertimento: evidentemente aveva deciso che quel giorno ero la sua dose quotidiana di svago, perché non sembrava troppo intenzionato a lasciarmi in pace.
Nel frattempo Dave, Aud, Jude e Josh ci guardavano interessati seguendo le battute del nostro scambio come se fosse una partita di tennis. Quand’eravamo in gruppo io e Patterson di solito cercavamo di mantenere la tregua che avevamo concordato durante la serata al Platinum, evitando cioè di scannarci; ovviamente era una cosa che, per la natura controversa del nostro rapporto, non sempre ci riusciva bene, e ci capitava di battibeccare anche in mezzo agli altri, che di solito ci osservavano appunto con grande partecipazione, come questa volta.
“Quanto amore,” commentò Dave interrompendo gli sguardi truci tra me e Patterson.
Scoccai un’occhiataccia pure a lui, poi mi girai verso Audrey.
“Cosa dovevi dirmi di così importante?” le domandai, impaziente di cambiare argomento.
Lei tentennò guardandosi intorno.
“Avanti!” insistei. “Potevi dirmelo a lezione della Mitchell e non qui in mensa?”
Mentre parlavo Matt si alzò per andare a prendersi da mangiare, mentre io decisi di rimandare la cosa per evitare altre battutine spiacevoli da parte sua.
Infine, Jude rispose al posto di Audrey, stufa di quel silenzio. “Teller le ha chiesto di andare al ballo con lui.”
Spalancai gli occhi stupita. “Hai detto di sì?”
Stranamente non sentivo alcun tipo di fastidio o di gelosia all’idea, per quanto mi dispiacesse per Aud nel caso avesse accettato: avevo ampliamente appurato quanto Teller fosse un idiota, ma se aveva avuto il coraggio di domandare a una mia amica di andare al Prom assieme dopo avermi tradito proprio lì l’anno prima, forse avevo sottovalutato la sua stupidità.
“No, figurati,” rispose Audrey scuotendo la testa, ma sembrava dispiaciuta per qualcosa.
Jude intervenne di nuovo. “Aud gli ha risposto di no con la sua solita gentilezza, io gli ho chiesto con che cazzo di coraggio facesse una cosa del genere,” spiegò riassumendo il mio pensiero di poco prima. “E gli ho detto di sparire. Quel verme.”
Josh ridacchiava al suo fianco. “Che classe, Free,” commentò divertito, masticando di gusto un boccone di patate al forno che si era appena portato alla bocca.
Jude lo guardò con una faccia mezza schifata. “Senti da che pulpito. Dovresti ripassare il galateo, Parker.”
Io mi concentrai nuovamente su Audrey, continuava a esserci qualcosa che non mi quadrava nella sua espressione. “Ma avresti voluto dirgli di sì? Perché per me non c’è problema, sai.”
“No, è che…” Sospirò stropicciandosi le mani prima di decidersi a parlare. “Non capisco perché l’ha chiesto proprio a me, ho pensato avrebbe potuto dispiacerti, ecco.”
“L’unica cosa che mi dispiace è di essere uscita con quel cretino. Non è colpa tua se sei così bella, Aud, quindi smettila di dire cavolate,” replicai per tranquillizzarla.
“Ok,” risolse, vagamente imbarazzata dal mio complimento.
“Invece,” la incalzai, “dimmi perché non mi hai avvisata dell’affare tra Peterson e la Karpenter? Sai sempre tutto, non è possibile che ti sia sfuggito.”
A riprova delle mie parole, Audrey si batté una mano sulla fronte. “Uh, l’ho saputo ieri, hai ragione! Pensavo di dirtelo ma stamattina mi sono dimenticata.”
Proprio stavolta che mi serviva, pensai scoraggiata, evitando di commentare ad alta voce per non dover subire il quarto grado.
“Da quanto stanno insieme?” chiesi invece.
“Mah, penso una settimana sì e no, forse dal weekend scorso.”
“Si comportano come una coppia sposata da anni,” ringhiai, avevo ancora nelle orecchie la voce fastidiosa di Mindy Karpenter che chiamava George amoruccio, roba da far venire i conati.
Aud annuì comprensiva. “Ho visto, mi spiace.”
Scrollai le spalle e nel frattempo vidi con la coda dell’occhio Patterson che tornava verso il tavolo col vassoio pieno, quindi decisi che quello era il momento più adatto per alzarmi e andare a servirmi il pranzo, per continuare a evitarlo almeno per un po’. Quando tornai, dopo una coda interminabile, Jude e Audrey se n’erano già andate e David, che si stava alzando, mi salutò con un bacio sulla guancia dicendo che aveva urgenza di andare in biblioteca. Poco dopo anche Josh, appena finita la porzione esagerata di patate che si era fatto servire, decise che poteva ritenersi soddisfatto e spostò la sedia pronto ad alzarsi.
“Devo assolutamente andare a fare gli esercizi di Chimica, sennò Perth mi manda di nuovo dal preside,” disse raccogliendo la sua roba. “Posso lasciarvi da soli o sgorgherà del sangue?”
Lo congedai con un cenno della mano e lui sparì. Io e Patterson restammo a mangiare senza dire una parola per i successivi minuti, ma mi aspettavo che avrebbe fatto un commentino fastidioso da un momento all’altro, perciò rimasi piuttosto stupita quando il nostro silenzio venne interrotto da qualcun altro. Hillary Kane si era avvicinata al nostro tavolo arrivandomi alle spalle, motivo per cui non l’avevo sentita arrivare, e ora se ne stava di fianco a noi. Immaginai che volesse parlare con Matt, quindi mi limitai a degnarla di uno sguardo fiacco e tornai a concentrarmi sul pezzo di crostata duro come il marmo che stavo provando a mangiare, valutando se finirlo o gettarlo direttamente via, ma lei mi stupì e si rivolse invece a me.
“Gray, dovrei dirti due parole.”
La guardai con tanto d’occhi, incapace di pensare a un solo motivo che l’avesse spinta a rivolgersi a me; infine deglutii, bevvi un sorso d’acqua e le feci segno di sedersi al posto accanto al mio, lasciato libero da David.
“Non devo mica pranzare!” berciò lei offesa, come se solo l’idea di mangiare qualcosa le facesse ribrezzo, figurarsi di farlo seduta vicino a me.
“Beh, io devo finire il dolce, perciò se vuoi parlarmi ti toccherà sederti, a meno che tu non preferisca restare in piedi lì dietro.”
Hillary sembrò valutare se farlo o meno, infine decise che rimanere a parlarmi dritta come un baccalà in mezzo alla mensa fosse l’opzione peggiore, perciò si sedette sul bordo della sedia che le avevo indicato e mi puntò gli occhi addosso.
“Quindi?” la spronai a parlare, ormai incuriosita.
“Credo che tu sappia cosa devo dirti.”
“A dire il vero no, sennò non te lo chiederei.”
Mi ero leggermente voltata verso di lei ma continuavo a intravedere, a lato del mio campo visivo, Patterson: seduto di fronte a me fingeva noncuranza e, di contro, seguiva la conversazione con pigra attenzione. La cosa, comunque, innervosiva più la Kane di me, visto il suo interesse per il soggetto.
Hillary infatti si mosse sulla sedia e, indecisa, spostò gli occhi per un secondo su Matt prima di parlarmi.
“Dovresti scegliere con più cura a chi rivolgere le tue attenzioni,” disse con un’espressione seria in volto.
“Di che parli?” domandai, ma mi stavo facendo una mezza idea sul motivo per cui era lì: evidentemente la mia storia era davvero destinata a ripetersi.
“Di George. Sta con Mindy ora, non farti venire strane idee.”
“Lo so, li ho visti. Sono molto carini, vero?”
Mostrai un sorriso esagerato; quella giornata stava decisamente mettendo a dura prova le mie doti attoriali, mi feci un appunto mentale per ricordarmi di cercare un College con un buon corso di recitazione.
La Kane sembrò rimanere spiazzata all’inizio, aprì e richiuse la bocca, poi incrociò le braccia al petto e si sporse un po’ verso di me.
“Non mi freghi, bella, le conosco quelle come te, vi piace stare sempre in mezzo come il giovedì. Volevi chiedere a George di venire al ballo con te ma lui è fuori dalla tua portata, capito?”
Decisi che a quel punto valeva la pena di continuare la recita, perciò la mia espressione non si modificò di una virgola.
“Credo che ci sia stato un malinteso, io a malapena ci parlo con Peterson,” spiegai continuando a sorridere. “E in ogni caso so già con chi andrò al ballo.”
L’ultima frase colpì davvero la Kane. “Lo sai già?”
“Certo.”
Udii Patterson fare un colpo di tosse e per un attimo mi sentii incredibilmente stupida ad essermi ficcata in quella situazione con lui presente: mi avrebbe tormentato per secoli. Non potei fare a meno di lanciargli una breve occhiata che lui non ricambiò, in apparenza troppo impegnato a sbucciare un’arancia.
“E con chi ci andresti?” chiese Hillary con un’espressione scettica sul volto.
Tentennai, colta in fallo. “Non sono affari tuoi.”
Lei mi guardò sospettosa, sperando in una risposta più soddisfacente che però non arrivò.
“Non mi convinci,” confermò infine, alzandosi dalla sedia e guardandomi dall’alto. “Ma ti conviene comunque stare lontana da George, non sarai mai all’altezza di una come Mindy, Gray.”
Quell’affermazione, mio malgrado, mi fece arrabbiare sul serio. Se c’era qualcosa che al mondo non sopportavo erano le persone che si credevano superiori a tutto e a tutti solo perché erano carine e indossavano vestiti firmati, che fossero ragazzi o ragazze non importava, le detestavo proprio.
Prima di andarsene, Hillary si girò verso Patterson per salutarlo e i suoi lineamenti si fecero d’un tratto più melensi e zuccherosi. “Ciao Matt. Pensa alla mia proposta per il ballo, per favore.”
Improvvisamente seppi cosa dovevo fare e fermai la Kane che si era già voltata per allontanarsi. “Sai, Matt è troppo gentile per dirtelo, ma anche lui sa già con chi andrà al Prom.”
Lei si gelò sul posto e ruotò su se stessa per guardarmi, gli occhi spalancati. Lasciai qualche secondo di suspense prima di sciogliere il suo dubbio.
“Con me,” dissi infine, cercando di non gongolare troppo alla sua espressione allibita.
Tiè, brutta racchia, beccati questa, pensai comunque dentro di me.
Hillary si mosse giusto quel tanto che le bastava per controllare Matt ancora seduto dall’altra parte del tavolo e io feci lo stesso, non sapendo cosa avrei visto.
“È… è vero?” balbettò la poveretta, chiedendo conferma anche al diretto interessato.
Patterson era a dir poco impassibile, stringeva tra le mani metà arancia ancora da mangiare. La appoggiò piano sul tavolo, prese il proprio bicchiere d’acqua e diede una lunga sorsata per finirlo, poi posò anche quello davanti a sé, mi guardò e alla fine guardò la Kane.
“Sì.”
Espirai profondamente, rendendomi conto solo mentre lo facevo di aver trattenuto il fiato fino a quel momento. Non avevo la minima idea di come avrebbe potuto reagire Patterson, era vero che ci eravamo fatti altri tiri del genere in precedenza, ma questo non mi dava il diritto di fingermi la sua accompagnatrice per il Prom davanti a una sua potenziale spasimante. Probabilmente mi avrebbe scuoiata viva, quel “sì” così serio era solo di facciata, anche se dovetti ringraziarlo mentalmente per avermi retto il gioco.
La faccia di Hillary Kane, d’altro canto, valeva tutta la candela, e me la godetti fino in fondo: sembrava una che aveva appena visto Naomi Campbell uscire di casa vestita di stracci sporchi. Finse di riprendersi dopo qualche secondo, accennò un mezzo sorriso che uscì più come una smorfia nauseata e si congedò con un’ultima frase, cercando di mantenere la propria dignità.
“Ok, beh… Vorrà dire che accetterò uno degli altri inviti, allora.”
La guardai mentre si allontanava con la testa appena più incassata del solito tra le spalle – o almeno così pareva – dopodiché mi voltai di nuovo verso il tavolo, presi in mano la forchetta di plastica e cercai di rompere in due l’ultimo pezzo di crostata rimasto sul mio piatto. Si ruppe la forchetta. Imprecai a bassa voce e rinunciai all’impresa, decidendo invece di prendere in mano la torta e portarmela tutta in bocca per un solo boccone. Nel farlo non alzai mai una sola volta lo sguardo.
Patterson cercò di attirare la mia attenzione battendo ritmicamente le dita sul tavolo; non riuscendoci decise di chiamarmi.
“Gray.”
“Che c’è?” bofonchiai, finendo di masticare quella cosa che il menu della scuola si ostinava a definire crostata.
“C’è qualcosa che mi devi dire?”
“A proposito di…?”
“Di quello che è appena successo,” ringhiò Patterson, socchiudendo gli occhi.
“Giusto!” feci io. “Ti sembra normale che in questa scuola le cheerleader mandino l’amichetta a segnare il territorio intorno al loro ragazzo? È già la seconda volta che mi capita in poco più di un anno! È un’usanza qui da voi o sono io ad aver beccato persone con le rotelle non proprio a posto? C’è un corso apposta qui a Winthrop per imparare a essere così minacciose? Poi con quel tono intimidatorio, ma chi si credono di essere? Le tirapiedi di Al Capone?”
Matt alzò le sopracciglia. “Non pensare di stordirmi con la tua solita raffica di parole, novellina.”
Continua a negare finché puoi, Delia, nega.
Non era un gran pensiero, ma era l’unico ordine che il mio cervello riusciva a impartirmi in quel momento: decisi di seguirlo, forse perché avevo più intenzione di innervosire Patterson che altro.
“In che senso?”
“Ho sentito che andremo al ballo assieme, ne sai qualcosa?”
“No. Davvero?”
“Gray, sei bipolare o cerchi di far impazzire me?”
“Sì.”
Patterson sospirò, dopodiché decise di cambiare tattica.
“Senti, ho capito che ti piaccio. Se volevi un appuntamento con me bastava chiedere. Magari concordando un numero di parole massimo da farti usare durante la serata…”
Il suo attacco funzionò. Mi alzai sbuffando e raccolsi le mie cose. “E con questo direi che la conversazione è finita.”
Lui, ovviamente, non perse tempo e mi seguì fuori dalla mensa.
“Ti ho già detto che non è giornata, Patterson.”
“Non è che puoi obbligarmi a venire al ballo con te e poi non spiegarmi nemmeno.”
Mi girai e assottigliai gli occhi guardandolo. “Innanzitutto, io non ho obbligato proprio nessuno a fare un cavolo. E comunque non andremo al ballo assieme, di questo puoi stare sicuro.”
Detto ciò ripresi a camminare verso il giardino, con Matt sempre alle calcagna.
“Non sarebbe almeno…” Si interruppe. “Dove vai?”
“A prendere un po’ di sole, è quasi giugno e ho un’ora libera.”
“Pure io. Puoi ascoltarmi un attimo?”
“No,” dissi risoluta, raggiungendo un pezzo di giardino assolato e abbastanza tranquillo prima di sedermi a terra, lanciare il mio zaino accanto a me e appoggiarmi all’indietro su di esso chiudendo gli occhi per percepire il calore del sole sul mio viso.
Patterson, neanche a dirlo, mi imitò sedendosi. “Ascolta, Gray, ti ho retto il gioco. Non puoi fare così, sembri psicopatica.”
“Ok, ti ringrazio. Va meglio ora?” domandai con sarcasmo, aprendo un occhio per guardarlo di striscio.
Lui sbuffò esasperato. “Va bene. Adesso vado a dire a Hillary che ti sei inventata tutto e che non ti ho contraddetto perché hai problemi psichiatrici. A vederti ora non sembrerebbe nemmeno una scusa.”
Mi rimisi con la schiena dritta e incrociai le braccia, in uno dei miei tipici atteggiamenti da bambinetta che vuole avere ragione. “Non voglio venire al ballo con te, Patterson. Volevo solo che la Kane abbassasse la cresta. Ti rendi conto che la gente come lei se va in giro per la scuola come se le appartenesse? Come se tutti gli altri fossero scarafaggi da spiaccicare? Sapevo che ti aveva chiesto di farle di accompagnatore al Prom e volevo infastidirla; il fatto di essere riuscita col mio gesto a infastidire anche te è solo un bonus.”
A Matt scappò un sorriso che non potei fare a meno di notare. Incrociò le gambe e si sporse un po’ in avanti, l’angolo della bocca ancora piegato all’insù.
“E se ti dicessi che non mi hai infastidito?”
Distolsi gli occhi dalle sue labbra. “Ti direi che è un peccato.”
“Non me ne frega niente di Hillary Kane, questa situazione potrebbe tornare utile a entrambi.”
“Principino, non scherzo quando dico che non ci voglio venire al ballo con te. Devi smetterla di usarmi come scudo per liberarti delle seccatrici.”
“Senti chi parla,” ridacchiò lui. “Comunque non serve che ci andiamo assieme, basta che non facciamo nemmeno il contrario. Io ci vado da solo, tu ci vai da sola. Frequentiamo la stessa compagnia, quindi bene o male le persone ci vedranno lì con gli altri, e anche Dave sarà solo, non vuole portare un ragazzo.”
Mi stavo per cacciare in un grosso guaio, già lo sapevo: il ragionamento di Patterson filava, purtroppo.
“Non saprei…” mormorai, mangiucchiandomi le pellicine dell’indice.
“Non sto a pregarti, a me non cambia granché,” spiegò lui, appoggiandosi all’indietro sulle mani e riprendendo il suo tipico atteggiamento menefreghista. “Al Prom ci vado comunque da solo. Ma non capisco cosa ti fa tentennare.”
“Il fatto che non ti sopporto,” risposi sicura.
“Questo patto servirebbe più a te che a me, ti sto facendo un favore,” biascicò Patterson noncurante.
“Oh, certo. Arriva il Principe Azzurro col cavallo bianco e la spada sguainata!”
Quel suo modo di fare stava ricominciando seriamente a darmi ai nervi.
Sorrise di nuovo. “E non mi detesti così tanto, dai.”
Stavolta mi sporsi io verso di lui. “Credimi, Patterson, io ti odio.”
“Ne sei così certa?”
“Assolutamente sì.”
Matt mi porse la mano. “Siamo d’accordo, quindi?”
La guardai indecisa, mordicchiandomi il labbro inferiore, infine la presi con la mia. “Non siamo quasi mai d’accordo, ma per stavolta potremmo fare uno strappo alla regola.”
Patterson mi strinse la mano deciso. “Mi sembra giusto.”
“Lasciamo fuori gli altri da questa cosa, per piacere,” specificai, riflettendo sul fatto che non volevo coinvolgere i miei amici, anche se non sapevo bene il perché.
“Pensi davvero che non lo verranno a sapere? L’hai appena detto a Hillary Kane.”

La mattina seguente Audrey mi travolse nei pressi del mio armadietto, trafelata.
“Cos’è questa storia di te e Matt che andate al ballo assieme? Perché non mi hai detto niente?”
Mi fece circa un centinaio di domande prima che riuscissi a bloccarla e a spiegarle che era tutto un malinteso, che io avrei voluto chiedere a George di venire al Prom con me, ma che il giorno prima avevo scoperto che stava con la Karpenter. Le dissi velocemente del mio scontro in mensa con la Kane e di ciò che era avvenuto in seguito. Non le raccontai una vera e propria bugia, soltanto tralasciai la parte dell’accordo tra me e Patterson. All’epoca non capivo del tutto perché non avessi voglia di parlarne, la verità era che io e Matt, per quanto mi seccasse ammetterlo, ci eravamo di fatto messi d’accordo per andare al ballo insieme.
Il che era assurdo: il fatto che io avessi preso a tollerare le presenza di Patterson nel gruppo non significava certo che lo trovassi meno insopportabile e odioso, o che mi andasse bene farmi vedere in giro con lui come se uscissimo assieme. Solo il fastidio ancor più profondo che provavo nei confronti di Hillary Kane mi aveva spinta ad accettare: che pensasse pure che io e Matt fossimo intimi, se questo serviva a farle capire che non poteva comandare tutti a bacchetta solo perché si credeva chissà chi.
Vissi comunque quella settimana con una certa tensione addosso, tensione che scaricai come ero solita fare. Un paio di giorni prima del Prom andai dal parrucchiere e dissi a Marisol – la ragazza latinoamericana che ormai era diventata il mio punto di riferimento per i capelli – di propormi qualcosa di nuovo. Ne uscii con la frangia e i capelli talmente scuri da sembrare quasi neri.
La sera del ballo, in piena sintonia con il mio solito stile da stramba della scuola, arrivai nel parcheggio della palestra guidando il mio motorino, vestita di tutto punto. Notai un paio di ragazze del primo anno guardami scioccate, gli altri erano per l'appunto abituati alle mie stranezze: nessuno andava al ballo in scooter, nessuno tranne me. Mi tolsi il casco, mi passai una mano tra i capelli per sistemarli ed entrai per raggiungere i miei amici.
Patterson era già lì. Lo notai solo quando Dave venne a salutarmi e a complimentarsi per il mio “fascino molto dark” (citazione testuale): indossavo un abito nero con la gonna in pizzo leggermente a palloncino e un trucco abbastanza scuro sugli occhi. Vista la quantità estrema di colori che tendevo a mettermi addosso di solito, sapevo che quel cambiamento sarebbe stato ampliamente notato. Ringraziai David con un bacino sulla guancia e in quel momento i miei occhi si fermarono su Patterson alle sue spalle. In giacca scura e camicia bianca faceva ovviamente la sua gran bella figura, ma questo – purtroppo – lo sapevo già dall’anno precedente. Forse mi aspettavo che venisse a salutarmi anche lui – per avvalorare il suo piano cretino contro Hillary Kane, eh, mica per altro – ma non lo fece, si limitò ad alzare fiaccamente una mano per dare segno di avermi vista, così lo ignorai di rimando. Già, non il modo migliore per iniziare col piano, ma almeno così i nostri amici non sospettarono nulla.
Fu una serata tutto sommato divertente. La passai perlopiù con David, che era l’unico non accoppiato dei miei amici: Josh ogni tanto spariva con Pearl, la sua accompagnatrice; Jude si intratteneva con Roger, un ragazzo simpatico che però lei vedeva solo come amico, per quanto lui si sforzasse di farle cambiare idea; Audrey invece sembrava aver trovato un buon feeling col tipo di cui aveva accettato l’invito, un certo Toby.
Quando andai a prendere da bere per me e Dave incontrai Hillary Kane che si pavoneggiava a lato della pista da ballo nel suo costoso abito azzurro cielo. Cercai di girarmi per non farmi vedere, contando sul fatto che la gente non si era ancora abituata al mio nuovo colore di capelli, ma lei mi individuò e mi si avvicinò sicura.
“Delia, ciao! Non dovevi essere con Matt stasera?” mi domandò, andando dritta al punto. Già il fatto che mi avesse chiamato Delia mi metteva i brividi.
Continuai a versarmi il punch nel bicchiere senza nemmeno guardarla. “Sì, è là con gli altri,” risposi indicando il punto dove speravo che Patterson fosse insieme ai miei amici.
“Oh, certo,” fece lei. “Io sono qui con Samuel, un ragazzo del College, sai.”
Non me ne poteva importare di meno. Annuii, presi i bicchieri che avevo riempito e mi allontanai dopo averle risposto solo un cenno della testa, giusto per non essere troppo maleducata. David stava parlando con Audrey e Toby, gli lasciai il suo bicchiere di punch e andai a sedermi con Jude e Roger a uno dei tavolini posti tutti intorno alla pista da ballo. Mi intrufolai come se niente fosse nella loro conversazione sull’esame finale di Chimica, che quell’anno era stato più difficile del solito, finché non venni raggiunta da qualcuno che, per chiamarmi, mi toccò lievemente la spalla con una mano. Quando vidi che in piedi dietro la mia sedia c’era Patterson drizzai di riflesso la schiena e gli lanciai un’occhiata interrogativa.
“Balli?” chiese lui porgendomi la mano per invitarmi ad alzarmi.
Rimasi talmente scioccata che il mio cervello si inceppò e il mio corpo reagì da solo: annuii sotto lo sguardo stupito di Jude, poggiai la mano sulla sua e lo seguii in mezzo alle altre coppie danzanti. Una volta lì Matt si fermò e si avvicinò a me, tenendo la mia mano nella sua e posando l’altra sulla mia schiena lasciata libera dall’ampia scollatura sul retro del vestito. Senza rendermene conto, d’istinto rabbrividii appena, poi mi ricomposi, mi sciolsi un po’ per non sembrare uno stoccafisso e alzai la testa per guardarlo.
“Hai deciso di darti al punk?” domandò ironico, commentando il mio look: sapevo che lo avrebbe fatto, perciò lo ignorai, testarda.
“Hai le mani fredde,” dissi invece, con voce apparentemente piatta.
“Lo dici come se potessi aver fatto anche questo di proposito, solo per darti fastidio.”
“Non si sa mai.”
Sorrise appena e io ritenni opportuno spostare lo sguardo di fronte a me, su un punto imprecisato della sua spalla. Probabilmente Patterson aveva aspettato che il dj mettesse la canzone adatta ad evitarci facili imbarazzi: era una ballata rock, abbastanza tranquilla da permetterci di ballare senza muoverci troppo, ma non così smielata da obbligarci a stare in mezzo a un centinaio di coppiette avvinghiate e amoreggianti. Ci consentiva di stare vicini ma non troppo.
Improvvisamente, capii perché mi aveva invitata a ballare. “Tutto questo a uso e consumo della Kane?”
“Dovrebbe essere dietro di me adesso,” confermò lui. “L’ho incontrata già un paio di volte, penso stesse cominciando a chiedersi come mai non ci siamo mai guardati tutta la sera.”
“Potevi dirle che è perché ci sopportiamo poco, se non fosse così idiota l’avrebbe già capito da sola.”
Patterson tirò indietro la testa per guardarmi e io fui obbligata a fare lo stesso: aveva un’espressione a metà tra lo stupito e il divertito, e seppi che stava per fare una delle sue solite battutine.
“Nel giro di pochi giorni sei passata da Ti odio a Ci sopportiamo poco? Sono onorato, dico davvero.”
“Oh, non ti preoccupare troppo. Sono sicura che con altri due minuti di vicinanza forzata riusciamo a tornare al Ti odio come se niente fosse.”
Come per sfidarmi, lui mi obbligò a farmi più vicina, spingendomi leggermente con la mano poggiata sulla mia schiena: ora i nostri corpi si toccavano e la cosa mi metteva addosso una sorta di agitazione difficile da spiegare.
“Stai esagerando,” lo avvertii quindi, adattandomi comunque a quella nuova situazione.
“Non ti pesto i piedi, tranquilla.”
Notai in quel momento che in effetti era piuttosto bravo a danzare; non stavamo certo facendo qualcosa di particolarmente difficile, ma non era goffo come la maggior parte degli accompagnatori che avevo avuto in precedenza, né immobile come molte persone intorno a noi.
“Te la cavi bene col ballo,” mi uscì, prima di rendermi conto che poteva essere considerato un mezzo complimento.
“Genitori ricchi e snob,” spiegò lui, “che ritenevano assolutamente necessario farmi prendere lezioni di danza per prepararmi al ballo delle debuttanti.”
“Non è una cosa per ragazze?”
Mi lanciò uno sguardo che sembrava altezzoso. “Hanno anche degli accompagnatori.”
“Perdonami per la mia ignoranza in materia, principino,” ribattei sarcastica. “Quand’è che dovresti debuttare in società, quindi?”
“Mai, spero,” rispose criptico, prima di rispondere alla mia occhiata interrogativa con un sospiro. “Avrei dovuto farlo quest’anno a Boston, ma mi sono rifiutato. Mia madre spera ancora che ci ripensi per l’anno prossimo.”
“Ci ripenserai?”
“Non credo proprio.”
“Che adolescente ribelle,” osservai con un sorrisetto di sfottò sulle labbra.
Lui mi scrutò semiserio, poi mi punì facendomi fare un mezzo casqué che, cogliendomi di sorpresa, mi obbligò ad intrecciare entrambe le braccia dietro il suo collo per reggermi.
“Ti fidi poco di me, ma non te la cavi male neppure tu,” bisbigliò direttamente al mio orecchio, non appena mi permise di riprendere una posizione completamente verticale.
Mi allontanai di qualche centimetro da lui col cuore ancora incastrato in gola per la sorpresa. “Ho… ho studiato danza per un annetto da piccola. Danza classica, perlopiù, ma ho provato un po’ di tutto.”
“Ti annoiava?”
“No, in realtà. Alle elementari non stavo mai ferma, ero in un periodo in cui provavo quasi qualsiasi cosa, dal nuoto al pianoforte all’equitazione. Quella è l’unica che smisi davvero a malincuore, quando scoprii che mio padre non aveva intenzione di comprarmi un cavallo. Mi accontentai di un criceto qualche mese più tardi.”
Mi bloccai accorgendomi di aver cominciato a blaterare come al solito e constatai anche che la canzone che avevamo ballato fino a quel momento era appena finita, sfumando in un pezzo più lento e decisamente troppo romantico per i miei gusti. Come scottata, spostai le mani che erano ancora allacciate al collo di Matt e feci un passo indietro; lui tolse le mani dai miei fianchi permettendomi di farlo.
“Abbiamo…” Mi schiarii la voce con un colpo di tosse prima di continuare. “Direi che abbiamo dato abbastanza spettacolo.”
“Sì?”
Vidi i miei amici che ci guardavano alle spalle di Patterson e annuii convinta.
“Credo che Audrey non si riprenderà per i prossimi due mesi, mentre Dave si sta ancora chiedendo quando cercheremo di ucciderci a vicenda. Quindi è molto probabile che ci abbia visto anche la Kane, sì.”
“Beh, allora…” Matt si chinò e mi prese la mano, sfiorandone poi il dorso con le labbra piegate in un sorrisetto sfrontato. “Grazie per il ballo, novellina.”
Alzai gli occhi al cielo e scossi piano la testa, ignorando la sensazione strana all’altezza dello stomaco, procurata dai suoi occhi grigi irriverenti.
“Si vede proprio che sei un piccolo lord, Patterson, anche se ti rifiuti di entrare di società,” lo presi in giro incamminandomi con lui verso gli altri.
“Lo prenderò come un complimento.”
“Ovviamente non lo era.”
“Ci sono ben poche cose ovvie al mondo, Gray,” concluse lui sibillino, prima di lanciarmi un’ultima occhiata strana e allontanarsi.
Inutile dire che mi ignorò bellamente per tutto il resto della serata, limitandosi a un saluto distratto quando giunse il momento di tornare ognuno a casa propria. Chi non mi ignorò affatto fu invece Audrey, che mi domandò perché diavolo avessi ballato con lui almeno un centinaio di volte, non accontentandosi della mia prima e definitiva risposta: “Perché me l’ha chiesto.”
David, dal canto suo, evitò di commentare la cosa e mi lanciò solo qualche sguardo sentenzioso, e sapevo senza bisogno di chiederglielo che stava pensando a quando gli avevo rivelato del bacio che Patterson mi aveva dato l’anno prima. Non poteva immaginare che ci stavo pensando anch’io, ma per un motivo ben diverso: mi stavo rendendo conto che mentre quel bacio aveva dato definitivamente il via alla guerra tra me e Patterson, il ballo e le chiacchiere che avevamo appena condiviso, anche se in modo tutt’altro che tradizionale, avevano sancito la tregua che – più o meno consapevoli – ci preparavamo a vivere.










Mi dispiace incredibilmente di avervi fatto aspettare tanto, ma è stato un periodo un po' pieno, e inoltre avevo avvisato che normalmente non sono regolare negli aggiornamenti. Sto facendo i salti mortali per pubblicare oggi, in effetti, spero di far piacere a qualcuno, perché le recensioni che mi state lasciando non saranno molte ma sono davvero stupende. Quindi grazie davvero, di cuore. <3
Le solite sceme precisazioni, poi mi dileguo.

Non mi pare di averlo mai detto, in realtà, ma Winthrop, la cittadina dov'è ambientata la storia, esiste davvero, ha circa ventimila abitanti, è in Massachusetts, molto vicina a Boston, ed è sul mare. Quando ho iniziato a scrivere la storia mi sono fissata con la verosimiglianza e baggianate simili, in realtà avrei solo potuto inventare una città e piazzarla dove volevo, ma la mia insanità mentale ha portato a questo. Naturalmente so ben poco altro di Winthrop - quella vera - a parte ciò che vi ho appena detto, perciò tutte le informazioni che darò nella storia saranno più o meno inventate, la verità potete spulciarla cliccando qui.

Matt e Delia hanno fatto un passetto in avanti in questo capitolo, ebbene sì. So che può sembrare poco, so che magari vi aspettavate e speravate ben altro, ma i tempi per sti due sono questi, purtroppo. Non disperate! Non abbandonateli! Sono carini, no? Almeno un pochino? :)
Matt sta cominciando pian piano ad aprirsi, la conversazione che hanno durante il ballo non è casuale. Fatemi sapere cosa ne pensate, se vi sono piaciuti o se vorreste venire a cercarmi a casa per picchiarmi.

Il titolo del capitolo, War and Peace, si rifà al noto romanzo di Tolstoj, anche se tutto il resto, per mia sfortuna, non ci azzecca un cavolo con esso! ^^
Penso sia abbastanza chiaro il perché del titolo, perciò non mi dilungo oltre.

Sto pubblicando davvero di fretta, forse stasera o domani farò una revisione, se qualcuno nel frattempo dovesse trovare sviste o errori me lo faccia sapere e sarà ricompensato con la mia gratitudine!
Se non mi avete abbandonato, recensite please. Un abbraccio grosso, alla prossima! :*

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Capitolo 8
*** What's important to me ***


8. What's important to me



L’estate prima del mio ultimo anno di liceo passò talmente in fretta che fu quasi un trauma accorgermi che era finita. Winthrop era dotata di un porto e delle spiagge carine, che in alta stagione si riempivano di turisti e ragazzi in cerca di avventure estive, occasione che non mi lasciai sfuggire.
Portavo con me nella “caccia al turista” David e una recalcitrante Jude, che era sempre poco propensa a conoscere gente nuova. Josh ogni tanto si univa a noi, ma aveva appena cominciato a frequentarsi più seriamente del solito con Olivia, una ragazza di un anno più grande che a settembre sarebbe partita per andare al College dall’altra parte del paese, quindi cercava di godersi più tempo possibile in sua compagnia prima di doversene separare. Audrey, invece, continuava a vedersi con Toby, il ragazzo del Prom, e sembrava piuttosto felice. Matt lavorava part-time in una gelateria del centro e, anche se David lo invitava spesso, si faceva vedere molto di rado, giustificandosi col fatto che spesso aveva i turni serali. Non mi lamentai.
Come l’anno precedente ad agosto passai due settimane in California con i miei genitori e tornai una decina di giorni prima dell’inizio della scuola. Feci a malapena in tempo a mettere piede in casa – preoccupata per la miriade di compiti che avevo lasciato indietro e convinta di dovermi segregare per tutta la settimana – che David stava bussando alla mia porta trafelato.
Entrò abbracciandomi come se fossi appena tornata dalla guerra.
“Deels, tesoro, che bello vederti!”
“Ehi, calmo. Sei venuto a casa mia, non è che ci siamo incontrati per caso.”
“Mi sei mancata!”
“Sono stata via quindici giorni, Dave.”
Lui si staccò dall’abbraccio e mi guardò con occhio critico. “Niente cose strane ai capelli?”
“Mm, no, ho rifatto la tinta scura, avevo la ricrescita.”
“Puoi permettertela solo perché sei abbronzata, tesoro, tra due mesi sembreresti Mercoledì Addams.”
“Grazie, Davie.”
“Sono sincero,” si giustificò lui, facendo spallucce. “Saresti splendida anche in versione Mercoledì Addams, se ti può consolare.”
“Sei il solito lecchino.”
“È che mi sei mancata!” ripeté accorato il mio amico, tornando ad abbracciarmi brevemente.
Appena riuscii a liberarmi dalle sue grinfie lo scrutai sospettosa. “Tutte queste feste per il mio ritorno sono troppe persino per uno come te,” commentai stranita.
Dave alzò gli occhi al cielo con fare teatrale. “Ok, mi hai beccato! Devo assolutamente raccontarti una cosa che è successa in tua assenza, o rischio di scoppiare.”
A dire la verità non lo avevo esattamente beccato; il suo comportamento mi era parso strano, sì, ma non ero io quella intuitiva tra noi due: David aveva solo colto la palla al balzo e aveva approfittato della mia perplessità per decidere di parlarmi. Mi trascinò senza troppi complimenti in camera mia, fermandosi solo per salutare educatamente mia madre in sala.
“Dee, mi devi aiutare a risolvere una situazione,” esordì una volta nella mia stanza, buttandosi a sedere sul mio letto e guardandomi con due occhi profondamente indecisi.
“Di che si tratta?”
“Prima devi promettermi che non ne parlerai con nessuno. Almeno finché non avremo deciso come procedere.”
“Finché non avremo deciso come procedere? Stai cominciando a preoccuparmi sul serio, Dave.”
Mi sedetti sul letto a gambe incrociate e rivolta verso di lui, che a sua volta ruotò per stare girato dalla mia parte.
“Sputa il rospo, su,” lo incitai quindi, ormai incuriosita.
“Sul serio, non lo dirai a nessuno?”
“Certo, so mantenere un segreto.”
Lui mi lanciò un’occhiata scettica e io sbuffai, offesa.
“Va bene, parlo troppo, ma so controllarmi quando ce n’è bisogno, cosa credi? Non è come se parlassi a vanvera con tutti di qualsiasi cosa, compresi i segreti dei miei amici. Sono pazza, ma solo fino a un certo punto. E comunque stiamo andando fuori tema, cos’è che mi devi dire. Sono sicura che non è così grave come lo stai facendo sembrare, insomma, stai esagerando per…”
“Toby l’altra sera ci ha provato con me.”
Rimasi con la bocca leggermente socchiusa, cercando di assimilare le parole del mio amico ma, come ho già detto, non sono certo un esempio di intuito, perciò alla fine aggrottai le sopracciglia e scossi la testa.
“Toby…?”
“Mm-mm.”
“Non stai parlando del Toby di Audrey, vero?”
“Quanti altri Toby conosci?”
“Cosa… Cosa diavolo vuol dire che ci ha provato con te?” capitolai infine, in confusione totale.
“Secondo te cosa vuol dire?” si stupì David. “Sul serio, Delia, sei sicura di stare bene? Sembri un po’ fuori fase, la California deve averti fuso il cervello.”
“A me sembra che sia tu quello col cervello fuso. Toby non sta con Aud?”
“Sì, scema. Perciò quello che ti sto raccontando è un segreto.”
“Ma perché, ad Audrey non l’hai ancora detto?”
David mise su un’espressione colpevole che mi rese superflua una sua risposta: era evidente che non aveva avuto il coraggio di parlare con la nostra amica in comune.
Sospirai arricciando il naso, scompigliata.
“Senti, non sapevo cosa fare!” si giustificò lui, mettendo le mani avanti. “Non farmi sentire ancora più in colpa, sono venuto da te per un consiglio.”
“Non voglio farti sentire in colpa, Dave, io non…” Mi bloccai per riordinare le idee e ricominciai dall’inizio. “Senti, partiamo daccapo. Sei sicuro che ci abbia proprio provato?”
“Dipende,” rispose lui facendo spallucce, e io partii in quarta, già più sollevata.
“Ecco, vedi! Magari è stata solo un’impressione, non ti sei…”
“Dipende se per te tentare di baciarmi significa provarci oppure no,” continuò David, facendo una faccia spaventata.
“Ha provato a… Vuoi dirmi che vi siete… Ma come diavolo è potuto…?”
“Calmati Dee, sembri Berries durante una delle sue crisi.”
“Non fare il pacato adesso, sai, due minuti fa sembravi in preda a una crisi di panico in piena regola. Sei un pazzoide.”
“Ma io sono in panico!” esplose lui, allargando le braccia. “Ne ho il diritto! Non so che cosa fare!”
“Ehi, ok, non schizzare ora! Raccontami bene cos’è successo.”
“Non è molto complicato. Sabato sera eravamo al Platinum e stavamo ballando e bevendo un po’ e divertendoci. Poi sono uscito un attimo con Matt e ho trovato una mia amica, mi sono fermato a chiacchierare. Quando Matt è rientrato Toby era uscito, mi ha chiesto di seguirlo, mi ha portato in un posto un po’ appartato e ha provato a baciarmi. Mi sono scansato e sono rientrato. Ero così sconvolto che poco dopo sono andato a casa. Fine della storia.”
Uno dei particolari del racconto mi aveva colpito più degli altri, così mi ritrovai a fare una domanda stupida. “C’era anche Matt?”
“Ci ha raggiunti quando ha finito il turno in gelateria, l’ha fatto anche le altre sere.”
“Davvero?”
Mi sembrava strano, nel periodo in cui io ero a Winthrop non era uscito molto spesso con noi. Quasi mai, a dire il vero.
“Sì, davvero. Ti sembra una cosa rilevante, Dee? Capisco e supporto la vostra storia di odio-amore e bla bla bla, lo sai bene, ma ti stai perdendo il punto focale della faccenda che, per la cronaca, stavolta non è Matt.”
“Ma quale odio-amore! Ti sei bevuto il cervello,” esclamai scandalizzata.
David alzò un sopracciglio sospettoso.
“Ok,” continuai, cambiando argomento. “Non hai fatto niente di male, McPharrell, ma Aud deve sapere cos’è successo. È pur sempre il ragazzo con cui si frequenta.”
Il mio amico abbassò la testa sospirando. “Lo so, lo so, ma non ho idea di come fare a dirglielo.”
Lo vidi piuttosto abbattuto e cercai di tirarlo su. “Non hai fatto niente di male,” ripetei, sottolineando le mie parole con una carezza sul braccio.
“So anche questo, ma…”
“Cos’è che ti preoccupa?”
“È che io e Toby ultimamente abbiamo legato abbastanza, non vorrei che avesse pensato fosse lecito provare a baciarmi.”
Lo guardai con tanto d’occhi, incitandolo a spiegarsi meglio. David mi raccontò che lui e Toby si erano spesso trovati bene a parlare nell’ultimo periodo, scoprendo di andare parecchio d’accordo. Ovviamente Dave non aveva mai fatto niente con malizia, al contrario: sapeva che Toby era il ragazzo di Audrey, quindi etero, quindi al massimo un amico.
Ci riflettei un attimo su, mi stesi sul letto e David, accanto a me, fece lo stesso, ascoltando il mio silenzio. Alla fine giunsi alla soluzione che mi sembrava più sensata.
“Ascolta, Dave, facciamo così. Hai detto che i prossimi giorni Toby non c’è, giusto?”
“Me l’ha confermato Audrey. Sta in campeggio tutto il weekend con la sua famiglia, mi pare.”
“Ok, perfetto,” commentai, guardando pensierosa il soffitto. “Allora domani sera usciamo tutti insieme. Purtroppo io durante il giorno non posso, ho un mucchio di compiti da fare ancora, mio padre non mi farà mai uscire. Ma il sabato sera posso guadagnarmelo.”
“Mi darai una mano?”
“Certo, McPharrell, sono dalla tua parte.”
David si sporse sul letto per abbracciarmi di nuovo. “Grazie Dee. Sei la migliore.”
“Povera Aud. Sarà un brutto colpo per lei.”
Lui annuì, abbattuto. “Quella ragazza è proprio sfigata nelle scelte sentimentali.”
Rimanemmo qualche secondo in silenzio, poi mi venne in mente una cosa.
“Senti, se inviti anche Matt… Non dirgli che ci sono anch’io, per favore. Anzi, digli proprio che sono ancora in California.”
Il mio amico mi guardò stranito, poi scrollò le spalle, probabilmente troppo preso dai propri pensieri per far caso ai miei.
“Come vuoi, piccola paranoica,” rispose lanciandomi una frecciatina.
Magari mi sbagliavo, ma avevo la sensazione che il rampollo di casa Patterson stesse cercando di evitarmi. Era l’occasione giusta per scoprirlo.

La sera successiva uscii di casa principalmente preoccupata per Audrey, ma un piccolo brivido alla base del collo mi ricordava che forse avrei rivisto Patterson. Non riuscivo a capire se avessi voglia di vederlo oppure no. Tendenzialmente le mie viscere e la mia testa dicevano di no, che non avevo per niente voglia di vedere quello stronzo; ma c’era una parte di me che si sentiva offesa per lo snobismo con cui mi aveva trattata nell’ultimo periodo e che voleva rinfacciargli la cosa. Ero piuttosto combattuta.
Ma quella sera stavo uscendo per rivedere i miei amici dopo la vacanza in California e, soprattutto, per risolvere una possibile crisi, quella che vedeva coinvolti Audrey, David e Toby in un insolito e imbarazzante triangolo sessualmente ambiguo.
Fu quello che successe, anche perché quando arrivai al Platinum di Patterson non c’era nemmeno l’ombra, perciò sospirai di sollievo e mi concentrai nella faccenda scottante di Dave. Gli avevo promesso che l’avrei aiutato ma, ovviamente, toccava a lui parlare con Audrey, su questo non c’erano dubbi. Gli feci da spalla e lo incoraggiai e appena arrivò Aud lo guardai andare da lei per parlare, con l’accordo che se avesse avuto bisogno del mio aiuto avrebbe dovuto farmi un cenno e io sarei intervenuta. Nonostante il suo carattere apparentemente aperto e sereno, David era piuttosto insicuro in questo genere di situazioni.
Restai al tavolo da sola con Josh, poiché Jude doveva ancora arrivare. Josh mi guardò solo un attimo confuso quando gli altri due si allontanarono, ma non fece domande indiscrete, quindi mi misi a chiacchierare con lui e nel frattempo tenni un occhio fisso su Aud e Dave che parlavano in un angolo.
Passarono pochi minuti e arrivò pure Jude che, dopo avermi salutata e avermi chiesto della vacanza, lanciò uno sguardo preoccupato a Josh.
“Come stai tu, Parker?” gli chiese subito, sedendosi con noi.
“Bene.”
“Olivia è partita?”
“Ieri.”
Merda! Ero talmente presa dal problema di David che mi ero dimenticata che Josh era appena stato costretto a salutare la ragazza con cui aveva passato l’intera estate. Ero una pessima amica, meno male che c’era Jude.
“Sei sicuro di stare bene?”
Josh annuì di nuovo e io mi sentii stranita. Non sembrava il tipo da struggersi per una ragazza, non l’avevo mai visto innamorato probabilmente, pareva più abituato a divertirsi e a spezzare cuori lui stesso. Eppure aveva l’aria di essere effettivamente un po’ abbattuto: forse non si sarebbe strappato i capelli, ma era evidente che a questa Olivia teneva davvero.
“Ho bisogno di divertirmi,” disse invece Josh. “Non c’è Matt? Il barista qui è suo amico, gli dà sempre da bere.”
Sbuffai, ricordando la prima serata al Platinum in cui avevo avuto a che fare con Patterson, quando mi era sembrato che mi facesse gli occhi dolci. Come no.
“Oh, eccolo lì!” esclamò di nuovo Josh, lasciandomi di stucco.
Quando mi voltai, infatti, sulla porta del locale era appena apparso Matt Patterson, con tanto di scarpe distrutte e sguardo grigio annoiato. Josh gli fece un cenno con la mano e lui lo notò, avvicinandosi subito al nostro tavolo. Appena i suoi occhi incontrarono i miei, però, mi parve per un attimo indeciso e il suo passo rallentò quasi impercettibilmente. Ma io l’avevo beccato, dannazione.
“Ciao,” salutò con sicurezza quando ci raggiunse.
Jude e Josh gli risposero allegramente, io mi limitai a un sorriso tirato e un cenno del capo.
“Tutto bene?” chiese lui, in generale. Poi, senza aspettare una risposta, continuò. “Non c’è McPharrell?”
Josh gli indicò Dave con la mano. “È là che parla con Audrey,” spiegò celere.
A quel punto anche Jude drizzò le antenne e, dopo aver guardato gli altri due, mi lanciò un’occhiata interrogativa. Le feci segno con la mano di aspettare, che avrebbe saputo tutto dopo, non me la sentivo di spifferare io ciò che era successo. Nel frattempo Josh stava domandando a Matt, ancora in piedi di fianco al tavolo, se fosse possibile avere qualcosa da bere dal barista che di solito lo serviva senza problemi; Patterson annuì e si voltò per andare verso il bancone e io, come azionata da una molla, mi alzai di scatto.
“Vengo con te!” esclamai.
Matt mi guardò, per la prima volta da quando si era avvicinato a noi, con un’espressione vagamente stupita, ma non disse niente, così lo seguii mentre pensavo a come agire.
“Vuoi una birra anche tu?” mi domandò quando arrivammo di fronte al banco, attendendo che il suo amico si liberasse per servirci.
Notai che non si era nemmeno girato a guardarmi e mi innervosii ancora di più, perché non capivo se lui fosse improvvisamente diventato ancora più stronzo del solito o sei io fossi improvvisamente diventata paranoica.
“Sì,” risposi concisa.
“Jeff, tre birre per favore,” disse allora Matt sporgendosi sul bancone.
“Tu non bevi?” gli chiesi stupita: sapevo che le altre due birre erano per Jude e Josh.
“No, ho già bevuto un paio di birre coi colleghi prima di venire qui.”
“Devi guidare?”
“No, sono a piedi.”
“E perché non bevi, allora?”
“Hai dimenticato di prendere la pillola contro la curiosità stasera, Gray?” sbottò lui, ma più che infastidito il suo tono sembrava divertito ed esasperato.
“Dalla tua rispostaccia dopo solo tre battute immagino di esserti mancata da morire, principino.”
Lui ridacchiò e si appoggiò con la schiena al banco, voltandosi finalmente a guardarmi.
“Pensavo fossi ancora in California,” disse dopo qualche attimo di silenzio.
“Lo so,” risposi stupidamente io, distratta per un secondo di troppo dai suoi occhi grigi.
Matt mise su un’espressione dubbiosa. “Lo sai?”
Sospirai, incerta, maledicendo me stessa per la mia lingua lunga; ma sapevo che alla fine la verità sarebbe saltata fuori, parlavo sempre troppo.
“Ho chiesto io a David di dirti che non c’ero.”
Patterson alzò un sopracciglio. “E perché l’avresti fatto?”
Decisi di sganciare la bomba per vedere come avrebbe reagito, presi fiato e parlai velocemente. “Perché mi hai evitato per tutta l’estate. Ho pensato che se avessi creduto che stasera non c’ero saresti uscito. E infatti, eccoti qua.”
Il suo sopracciglio alzato ebbe solo un lievissimo tremore, quasi impossibile da notare, tanto che pensai di essermelo immaginato, dopodiché, a sorpresa, Matt scoppiò a ridere di gusto. Rimasi immobile, indecisa se offendermi o continuare il mio copione per cercare di smascherarlo, anche se parte della mia sicurezza stava volando via.
Corrucciai la fronte. “Che ci sarà di così divertente?”
Lui continuò allegramente a ridacchiare mentre tentava di spiegarmi. “Non sei mai stata del tutto a posto, ma pensare che ti abbia evitata di proposito per tutta l’estate… Stai rasentando la follia, Gray.”
“Non credo proprio che…” cominciai decisa, ma venni interrotta dalla voce del barista.
“Matt, le tue birre.”
Lui ringraziò e fece per tirare fuori il portafoglio, ma l’altro gli fece un cenno con la mano. “Per stavolta offro io. Meredith ed io stiamo andando a vivere insieme, stasera si festeggia!”
“Tu e Meredith? Bel colpo, amico!”
“Grazie. Ora torno al lavoro, divertitevi.”
Patterson prese una birra dal bancone e me la porse, poi si girò per recuperare le altre due. Non sembrava molto intenzionato a ricominciare il discorso che era stato interrotto dal barista, ma non desistetti, cocciuta come al solito.
“Quindi non mi stai evitando?”
“No. Avevo una cotta per lei quand’ero bambino, sai?”
“Chi?” chiesi, confusa dall’improvviso cambio d’argomento.
“Meredith. La ragazza di Jeff,” spiegò quindi e, vedendo che non ne venivo a capo, indicò dietro le sue spalle il barista.
“Che c’entra ora?”
“Niente. Mi faceva da baby sitter da piccolo ed ero innamorato di lei. Ora vanno a vivere assieme.”
“Che storia strappalacrime,” commentai acida, nervosa per essere stata interrotta di nuovo.
“Sei piuttosto stronza. Ti ho appena aperto il mio cuore,” fece lui sarcastico, mostrando un mezzo sorriso.
“Come no.”
“Invece sì.”
“Tu non ce l’hai un cuore, Patterson.”
“Da ragazzino ce l’avevo. Avevo una cotta per Meredith.”
“E questa Meredith rimarrà per sempre il tuo unico amore?”
Lui sembrò pensare a qualcosa, lo sguardo perso nel nulla, poi si riscosse e mi osservò di nuovo, gli occhi incredibilmente seri. “Chi lo sa.”
Sospirai rassegnata. “Portiamo le birre agli altri, va’.”
Proprio mentre mi giravo per tornare al tavolo Matt mi toccò lievemente un braccio per fermarmi. Non me l’aspettavo, tanto che reagii sussultando e rovesciai sul pavimento un po’ della birra che avevo in mano, poi imprecai poco elegantemente mentre controllavo di non essermi sporcata.
“Perché diavolo l’hai fatto?” lo insultai.
“Io ti ho solo sfiorata, sei tu che sei saltata per aria!”
“Ho preso paura. Senti,” continuai, anticipando la sua battuta sarcastica, “ho capito l’andazzo, sono tre mesi che praticamente non ci vediamo ma non è cambiato un cavolo tra di noi, continuiamo a non sopportarci, forse è il caso di…”
“Perché pensi che ti abbia evitata?”
“Mi… mi hai evitata, quindi?” balbettai, presa alla sprovvista.
Sospirò, avvicinandosi di un passo. “No, ti ho chiesto solo perché lo pensi.”
Spostai gli occhi per cercare di evitare i suoi, ormai troppo vicini per i miei gusti. “Non… non è che…”
Dovevo cercare una risposta in fretta, ma in realtà non sapevo più cosa dire, le sensazioni dei giorni precedenti sul fatto che mi avesse appositamente scansata durante l’estate stavano svanendo sotto il suo sguardo caldo e vagamente curioso. Mentre facevo vagare gli occhi oltre la spalla di Matt in cerca di una risposta, incontrai l’espressione atterrita di David, che mi faceva segno di aver bisogno di una mano, come avevamo concordato in precedenza.
“Ti sei inceppata?” mi domandò Patterson, incerto.
“Devo andare.”
Lo superai e andai dritta verso David, sentendomi estremamente in colpa: per la seconda volta nella serata mi sentii una pessima amica, ero così presa dai miei stupidi drammi personali che mi ero dimenticata di controllare la situazione tra Aud e Dave. Quando arrivai da lui era solo e sembrava piuttosto abbattuto.
“Dave! Com’è andata? Sei riuscito a dirle tutto? Dov’è Audrey?” lo bombardai subito dopo averlo abbracciato brevemente.
“Sì, le ho detto tutto.”
“Se l’è presa?”
“No, non con me almeno. Ma credo ci sia rimasta davvero male.”
“Dov’è ora?” gli chiesi, mentre mi guardavo in giro senza trovarla.
“È appena uscita. Dee, vai, accompagnala a casa.”
Annuii e mi voltai per andarmene, ma mi venne in mente un’ultima cosa.
“Dovresti spiegare agli altri cos’è successo,” consigliai a David, indicando il tavolo dov’erano seduti Jude, Josh e Matt, poi gli porsi la birra che avevo ancora in mano. “E tieni questa.”
Uscii di fretta senza salutare nessuno e raggiunsi Audrey che camminava a testa bassa verso casa propria.
“Aud!” la chiamai, accelerando il passo per arrivare a toccarla su una spalla.
Lei sussultò e si girò di scatto, sorpresa. “Delia…”
“Sono qui, tesoro. Mi dispiace tanto.”
“Tu lo sapevi?”
Sospirai pesantemente, sentendomi un po’ in colpa. “Sì.”
“Da quanto…?”
Non la lasciai nemmeno continuare, non volevo che pensasse che le avevamo mentito. “È una cosa nuova, Aud, nessuno poteva sospettarlo. È successo mentre ero via e David me l’ha detto ieri. Era davvero in panico, solo per questo non te ne ha parlato subito, ma non te l’avremmo mai tenuto nascosto, davvero.”
Audrey sembrò indecisa sulla risposta da dare, alla fine abbassò la testa e non disse niente, vidi solo due grosse lacrime che le solcavano lentamente le guance per poi cadere sulla sua maglietta.
“Oh, tesoro!” mormorai avvicinandomi per abbracciarla.
Lei si lasciò stringere da me e mi si spezzò il cuore a sentirla singhiozzare così.
“Perché capitano tutti a me?” mi domandò con una vocina piccola piccola.
“Perché sei troppo bella e intelligente e buona per essere vera. Quando arriverà il tuo Principe Azzurro sarà un ragazzo spettacolare.”
Lei ridacchiò, si staccò da me e si asciugò le lacrime. “Puoi dire a David che non sono arrabbiata con lui? Ora non ho voglia di tornare al Platinum.”
“Glielo dirai tu domani, ma credo che lo sappia già.”
“Domani?” chiese lei titubante.
“Sì. Ora andiamo a casa tua, tiriamo fuori una mega confezione di gelato dal freezer, due cucchiai, e ci buttiamo davanti alla tv per cercare un film stupido e divertente che ci distragga un po’.”
“Non credo di avere del gelato in casa,” pigolò lei abbattuta.
“Allora so esattamente dove possiamo andare.”

La casa di mia nonna Charlotte distava abbastanza dal locale, perciò decidemmo di arrivarci col mio scooter, che poi era il mezzo con cui ero arrivata al Platinum. Avevo le chiavi ma, anche se sapevo che a mia nonna non sarebbe dispiaciuto vedermi piombare lì alle dieci di sabato sera, decisi di farle una telefonata per avvisarla della situazione. Lei non mi fece neanche spiegare tutto: appena cominciai a dirle quello che era successo mi ordinò di andare subito, e che avrebbe avvisato lei i miei genitori che avrei dormito lì, nella cameretta che teneva sempre pronta per me.
Quando ci aprì la porta accogliendoci in pigiama e vestaglia svolazzante, fu chiaro che quando l’avevo chiamata fosse già pronta per andare a dormire o, peggio ancora, che l’avessi svegliata.
“Nonna! Non serviva che ci aspettassi su, potevi andare a dormire!”
“Non dire sciocchezze, Delia. Vi ho preparato la camera e sono andata a prendere il gelato nel congelatore di sotto, l’ho messo in cucina. È una confezione con cioccolato, stracciatella e crema, andate a prenderlo prima che si sciolga.”
Audrey aveva già conosciuto mia nonna, ma probabilmente si accorse quanto mi somigliasse proprio in quel momento, quando sciorinò tutta la sua parlantina e ci spinse dentro casa invitandoci ad andare in cucina, senza lasciarmi protestare né ringraziare.
“Ora che siete arrivate posso ritirarmi nelle mie stanze da vecchia decrepita e lasciarvi alle vostre giovani occupazioni. Potete anche stare in sala, se volete, c’è la pay tv, almeno voi la sfrutterete, io la uso solo per quei vecchi film dei miei tempi che fanno il venerdì sera sul canale 77. L’altra settimana c’era Casablanca, un vero classico. E non preoccupatevi di fare confusione, ragazze, sono mezza sorda.”
Era evidente che non fosse né decrepita né sorda, e per la verità non era nemmeno eccessivamente vecchia: aveva settantun anni ma sprizzava energia da tutti i pori. La adoravo da sempre, ma in quel momento la adorai ancora di più, con quel suo modo di farci sentire le benvenute senza lasciarsi andare a stupidi convenevoli né mettere Audrey a disagio.
“Grazie nonna,” le dissi, seriamente riconoscente.
Lei sventolò per aria una mano, come a dire che non c’era niente di cui ringraziare, dopodiché ci diede le spalle per andare verso le scale che portavano alle camere.
“Buonanotte, bambine.”
Non ci diede neanche il tempo di rispondere che era già sparita, veloce come il vento. In cucina, oltre al gelato, trovammo sul tavolo anche due bicchieri, il succo di frutta e un pacco di biscotti con le gocce di cioccolato. Lanciai un’occhiata di sbieco a Audrey e la vidi già un po’ rinfrancata.
“Tua nonna è una vera forza. Me la presti?”
Sorrisi mentre ci spostavamo in salotto con tutto il necessario. “Puoi venire quando vuoi, ma la nonna rimane la mia. La amo troppo.”
Aud sospirò e si accucciò sull’angolo del divano. Io presi il telecomando e mi misi di fianco a lei, cominciando a spulciare i vari canali fino a trovarne uno per bambini, dove passavano La bella addormentata nel bosco, la versione Disney. Guardai la mia amica, sapevo quanto le piacesse quel cartone, e infatti le si illuminarono gli occhi quando notò che il film era iniziato da poco.
Passammo la serata così, a guardare un cartone per bambini e parlare male dei ragazzi ingozzandoci di gelato e biscotti.
“Perché non esistono ragazzi come il Principe Filippo?” sospirò Audrey alla fine del film con voce sognante.
“Non è che sia il massimo, in realtà.”
La mia amica mi guardò con gli occhi sgranati, come se avessi detto un’eresia.
“Cioè,” continuai, “è carino e tutto il resto, certo, ma senza le fate sarebbe morto abbrustolito da Malefica. Le donne sono le vere toste di questo film, tolta quella rincoglionita di Aurora, che comunque si vede ben poco. Dovremmo imparare un po’ più di girl power, dovremmo imparare a vendicarci come Malefica. Con un po’ meno di cattiveria omicida, magari.”
Audrey ridacchiò. “È facile per te parlare così, sei già una forza della natura. Riesci sempre a districarti con facilità in ogni situazione.”
“Certo, come no,” commentai ricordando il balbettio confuso che avevo sfoggiato poche ore prima di fronte a Patterson.
“Dico davvero, Dee. Vorrei essere un po’ più come te, fregarmene di tutto e di tutti.”
“Non è esattamente così.”
“Lo so, ma dai quest’impressione,” disse lei, sospirando di nuovo. “Tipo coi ragazzi, sembri così… libera.”
“Perché sono stata male pure io. Dopo la faccenda con Teller mi sono ripromessa di divertirmi e basta finché avrei potuto: per il momento mi va bene così, trovo che sia molto più facile per come sono fatta. Ma tu sei diversa da me, Aud, sei molto più sensibile e gentile e fiduciosa, e non devi vedere questi come dei difetti, perché ti rendono la persona stupenda e l’amica fantastica che sei.”
Audrey mi lanciò uno sguardo riconoscente, gli occhi lucidi. “Mi piaceva davvero Toby. Mi stavo innamorando di lui.”
“Lo so, tesoro, non è colpa tua.”
“Non è nemmeno colpa sua, povero, è gay.”
Sbuffai, alzando gli occhi al cielo. “Non devi sempre vedere il buono in tutti. È vero, è gay e non è colpa sua, ma poteva almeno avvisarti prima di provarci con uno dei tuoi migliori amici, cosa dici? Puoi insultarlo un po’, non c’è nulla di male.”
Lei arricciò il naso. “Hai ragione, è stato scorretto.”
“È stato un vero bastardo, altroché!” esclamai, ormai abituata alla sua difficoltà nell’essere cattiva con chicchessia. “Ripeti con me: Toby è stato uno stronzo e lo lascerò per sms senza nemmeno concedergli il diritto di replica.”
Audrey sorrise, ma poi rifletté qualche secondo. “Dovrò comunque affrontarlo a scuola.”
“Lì non sei sola, non ti devi preoccupare: io e Jude siamo delle brave guardie del corpo,” la rassicurai raddrizzando le spalle.
A quel punto la mia amica scoppiò finalmente a ridere. “Lo so bene! Meno male che ho voi.”
“Puoi dirlo forte, sorella. Andiamo a nanna?”
Lei annuì con uno sbadiglio, così ci sistemammo in camera e ci infilammo nei due letti che mia nonna aveva preparato per noi con le lenzuola rosa a fiorellini bianchi.
“Buonanotte Aud.”
“Buonanotte Dee. E grazie.”
Non risposi, non ce n’era bisogno: quello che avevo fatto per lei quella sera era il minimo, ne eravamo entrambe consapevoli. Mi addormentai più serena, sapendo di aver compiuto il mio dovere e, in fondo, sentendo di non essere un’amica poi così pessima.

La mattina seguente mi svegliai con il profumo familiare delle mie domeniche a casa della nonna: cannella e caffè. Mi alzai e notai che il letto di Audrey era già vuoto, così mi diressi verso la cucina, facendo prima un passaggio in bagno per la pipì. Quando arrivai in cucina trovai Audrey seduta al bancone vicino al piano di lavoro che chiacchierava amabilmente con nonna Charlotte, la quale, nel frattempo, stava alzando la pila di waffle che aveva costruito su un piatto di fronte alla mia amica.
“Buongiorno,” esordii entrando, già di buonumore per il profumo di cannella che si spandeva nell’aria.
“Buongiorno bambina,” mi salutò mia nonna, porgendomi un piatto dove aveva appena messo due waffle. “Aspetta che ti prendo la panna. L’ho appena montata.”
“Sì, lo so. Non esiste che tu compri quella spray del supermercato.”
“Figurarsi! È troppo dolce e piena d’aria.”
Andai a scoccarle un bacio di ringraziamento sulla guancia prima di sedermi di fianco ad Audrey e cominciare a mangiare.
“Di cosa parlavate?” domandai mentre addentavo un boccone gigante di waffle.
“La tua amica mi stava raccontando la sua sfortunata vita sentimentale,” rispose mia nonna, con fare ciarliero.
Guardai stupita Audrey, ma lei mi sorrise di rimando, senza alcun accenno di imbarazzo. Era strano: di solito Aud era molto riservata sulla sua vita privata e, anche se parlava con chiunque delle faccende altrui, tendeva a essere timida riguardo le proprie. Evidentemente mia nonna le aveva ispirato davvero molta fiducia, tanto da spingerla a confidarsi con lei.
“E che ne pensi, nonna?”
“Ah, la sfortuna non dura per sempre,” commentò lei saggia, prima di rivolgersi direttamente ad Audrey. “E comunque, tesoro, più stronzi incontrerai più sarai capace di riconoscerne l’odore da lontano la prossima volta.”
Sputacchiai il succo d’arancia dentro il bicchiere nell’udire mia nonna che usava una parolaccia, ma lei non si scompose.
“Credimi, gli uomini bisogna saperli prendere: se trovi quello giusto lo puoi addestrare. Ma alla vostra età è ancora difficile capire chi ha un briciolo di sale in zucca e chi invece è proprio una causa persa.”
“Vedi?” mi intromisi io per battere sul mio punto. “Ho ragione io a lasciar perdere per ora. I ragazzi servono solo per divertirsi.”
“Tu ti diverti fin troppo, bambina mia,” mi rimproverò mia nonna, ma c’era un sorriso svagato nella sua voce che non potei fare a meno di notare.
Le feci una linguaccia irriverente. “Scommetto che a tuo tempo ti sei divertita anche tu.”
“La solita impertinente,” ridacchiò lei.
La verità era che mi capitava, a volte, di parlare con mia nonna dei tipici problemi della mia età: scuola, amici e sì, anche ragazzi. Avevamo un rapporto molto confidenziale e la consideravo quasi come un’amica, non avevo alcun tipo di timore reverenziale nei suoi confronti, anche se aveva mezzo secolo più di me. Audrey ci guardava rapita e non ebbe il coraggio di intromettersi nei nostri botta e risposta.
“Continua con i tuoi consigli illuminanti, nonna.”
“Mi stai prendendo in giro, nipote?”
“No, stavolta no. Era davvero interessante quello che stavi dicendo. Sai che non mi stufo mai di ascoltarti!”
“Sei la solita piccola ruffiana.”
Avrei avuto anch’io delle cose da chiedere a mia nonna, su Patterson, sul perché si comportasse sempre in modo così criptico, sul motivo per cui un giorno volevo prenderlo a sberle e il giorno dopo mi stupiva tanto da lasciarmi senza parole, ma non avevo ancora il coraggio di parlarne con nessuno, perché non capivo cosa significasse. E in ogni caso la mia priorità in quel momento rimaneva Audrey. E David.
“Dave mi sta chiamando,” notai prendendo in mano il mio telefono.
Alzai gli occhi su Aud, che fece un’espressione vagamente allarmata, poi mi porse la mano per prendere il cellulare.
“Sei sicura?”
Lei annuì leggermente e rispose alla chiamata al posto mio, mentre mia nonna mi lanciava un ultimo sguardo ammonitore.
“Tu cerca di non fare troppa confusione coi ragazzi, che hai solo diciassette anni.”
“Ti voglio bene anch’io, nonna. C’è ancora panna?”












Eccomi in ritardo di solo qualche mese, come previsto! -.-
È anche inutile che mi scusi, purtroppo sono fatta così e questi mesi sono stati incasinati. Spero vogliate seguirmi ancora, perché sono piena di idee per questa storia e spero di mantenere un ritmo più simile a quello dei primi capitoli, anche se purtroppo non posso garantire niente.

So che è un ritorno abbastanza vergognoso, perché vi aspettavate (e mi aspettavo) qualcosa di più. Doveva succedere tutt’altro in questo capitolo, ciò che a sto punto accadrà nel prossimo capitolo, che sarà bello succoso, soprattutto per quanto riguarda Matt e Delia. È che ogni tanto la storia prende vita e si scrive da sé… Cioè, non proprio da sé, sennò si sarebbe pubblicata prima, ahimè. ^^ Ma mi sembrava necessario lasciare più spazio ad Audrey e soprattutto mostrare finalmente nonna Charlotte, che ho nominato in moltissimi capitoli e che finora avevo solo immaginato e mai descritto. Spero apprezziate, ma non ne sono così sicura, perché i personaggi secondari ogni tanto non interessano. Fatemi sapere cosa ne pensate e se preferireste che lasciassi meno spazio a queste parti.
In ogni caso ciò che è successo tra Matt e Delia, anche se è poco, sarà importante nel prossimo capitolo. So che è difficile tenere il filo ma so anche di avere delle lettrici brave brave e super attente. <3

Aspetto pareri e intanto mi mangio freneticamente le pellicine delle unghie, quindi siate gentili e lasciate un commentino! A presto, spero.
Grazie per la pazienza! Un bacio!

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Capitolo 9
*** The scarlet letter ***


9. The scarlet letter


Ricominciare la scuola fu piuttosto difficile per Audrey. Era il nostro Senior Year, avemmo dovuto goderci il primo giorno entrando nei corridoi in pompa magna e sentendoci i padroni del mondo, ma purtroppo all’inizio non andò esattamente così.
Toby non prese bene il fatto che Dave avesse parlato: tentò di difendersi dicendo che si era inventato tutto, pregò Aud di non credergli e cercò di infangare il nostro amico in tutti i modi possibili, arrivando persino a dire che era stato David a provarci con lui quella sera al pub e non viceversa. Ovviamente lei non credette neanche a una parola di quello che lui tentava di propinarle e, anzi, la sua amicizia con Dave uscì rafforzata da quella prova. Ma ci vollero diverse settimane prima che Toby capisse che nessuno di noi avrebbe parlato dell’accaduto per ridicolizzarlo a scuola e decidesse infine di lasciar perdere Audrey.
Quello che invece accadde a me all’inizio dell’anno scolastico fece un bel po’ di scalpore in più e disturbò il mio ritorno a scuola, ma per raccontarlo devo partire dal principio.

Il primo giorno dell’ultimo anno, tolti i problemi di Audrey, fu da me, come sempre, accolto con gran entusiasmo. Arrivai in anticipo come l’anno precedente e andai a prendere posto nella zona caffetteria per aspettare i miei amici, eccitata e ansiosa al mio solito.
Dopo pochi minuti, mentre controllavo l’orario delle lezioni, che ero già andata a ritirare in segreteria non appena quest’ultima aveva aperto, qualcuno si sedette sulla sedia accanto alla mia, salutandomi.
“Delia Gray! Non sei un po’ presto?”
Alzai gli occhi stupita, poiché non avevo riconosciuto la voce. Lì di fianco, sorriso ammiccante e busto piegato in avanti, c’era Thomas Petrovic, Petey per gli amici, che mi guardava con un’espressione apertamente interessata.
“Sei qui anche tu,” ribattei, rispondendo anche al suo sorriso.
Lui scrollò le spalle e si sedette più comodo, appoggiandosi allo schienale della seggiola e prendendo in mano il caffè che aveva precedentemente lasciato sul tavolino.
“Io non vedevo l’ora di provare la mia nuova macchina, che mi hanno regalato i miei stamattina per il compleanno. Qual è la tua scusa, invece?”
“È il tuo compleanno? Auguri!”
Non avevo avuto a che fare con lui abbastanza da sapere quando facesse gli anni, le cose che sapevo sulla sua persona si contavano sulle dita di una mano: era del mio stesso anno, giocava a football nella scalcinata squadra della Winthrop High School, aveva i capelli corti e castani e due grandi occhi verdi che avevano steso più di una ragazza della scuola. Era simpatico, ci avevo parlato qualche volta gli anni precedenti e mi era sempre parso un ragazzo a posto, per quel poco che avevo potuto capire, un po’ troppo cascamorto forse, ma era un dettaglio che non mi preoccupava vista la mia natura libertina.
Petey annuì e si sporse nuovamente in avanti. “Quindi mi dai un bacio?”
Non mi mossi di un millimetro. “Perché?”
“Per il mio compleanno,” spiegò lui ammiccante.
Mi rilassai e decisi di stare al gioco: se un bel ragazzo ci provava con me così apertamente, di certo non sarei stata io a farlo desistere. Mi avvicinai sporgendomi sulla sedia e gli lasciai un bacio sulla guancia, soffermandomi poi un secondo di più per ripetere un “auguri” bisbigliato. Quando mi allontanai lui mi guardava soddisfatto e tornò a mettersi comodo.
“Per stavolta mi accontento, Delia.”
Stavo per rispondergli a tono quando ci raggiunse Nathan Wilde, un altro ragazzo della squadra di football, con cui ero anche uscita un paio di volte l’anno precedente senza combinarci niente di che.
“Petey!” iniziò, arrivando vicino al suo amico e dandogli una pacca sulla spalla. “È tuo il bolide qui fuori, amico? Che colpaccio!”
“Sì, ti avevo detto,” rispose l’altro. “Siediti, Wilde.”
“Ciao Delia,” mi salutò Nate mentre ascoltava l’invito e si sedeva con noi.
“Ehi, ciao, come stai?”
Lui rispose con un “bene, grazie” e poi tornò a parlare col suo amico, così io mi ritrovai nel bel mezzo di una conversazione sui motori di cui avrei volentieri fatto a meno, vista anche l’ora del mattino. Dopo diverso tempo cominciai ad annoiarmi seriamente, stavo giusto prendendo in considerazione l’ipotesi di alzarmi e allontanarmi da quel martirio quando arrivò Josh. Mentre si avvicinava alla macchinetta del caffè mi notò e mi fece un cenno con la mano, dopodiché vide con chi ero seduta e cominciò a farmi espressioni maliziose e a domandarmi a gesti se avessi intenzione di farmi due giocatori di football contemporaneamente. Ridacchiai alla sua sfacciataggine e mi alzai per raggiungerlo, e in quel momento Petrovic e Wilde smisero di ciarlare per guardarmi stupiti.
“Dove vai?” mi domandò Petrovic.
“È arrivato un mio amico, volevo raggiungerlo. Grazie per la compagnia, ragazzi, è stato un piacere,” mentii senza pudore, mentre raccoglievo le mie cose.
Non attesi nemmeno una risposta, mi allontanai senza troppi convenevoli e mi diressi al tavolo dove Josh aveva appena preso posto in compagnia di Patterson, che non avevo idea di quando fosse arrivato.
“Ebbrava piccola Delia,” mi accolse Josh, sul volto un sorriso furbo che feci finta di non notare.
“Non infierire, Parker, ho dovuto sorbirmi discorsi degni di un episodio di Supercar fino ad ora,” sospirai lasciandomi cadere su di una poltroncina consunta, vicino a Josh, pur sapendo che mi avrebbe preso in giro ancora per un bel po’.
“Ah, non stavate organizzando una cosuccia a tre?” chiese infatti lui.
“Non proprio.”
“Sei fortunata che Audrey debba ancora arrivare, se ti avesse vista in quella situazione ti starebbe già bombardando con domande piccanti.”
“Già,” mormorai, pensando che in effetti avrei potuto distrarre Aud con ciò che mi era appena successo.
A quel punto, senza preavviso, Patterson decise di intervenire. “Petrovic è un coglione.”
Mi stupì sentire la sua voce, fino a quel momento era sembrato poco interessato all’argomento della conversazione, quindi rimasi qualche secondo di troppo a pensare a una risposta, finché Josh non mi precedette.
“Mah, non lo conosco abbastanza per dirlo. Nathan Wilde non è male, ogni tanto viene con me e Dave a giocare al campetto, ma con Petrovic avrò scambiato sì e no tre parole in tre anni.”
“È un coglione,” ribadì Matt con decisione.
“Se lo dici tu,” rispose Josh. “Che ne pensi, Dee?”
“Lo conosco a malapena, ma ho visto di peggio.”
“Con quegli occhioni verdi, eh?” mi prese in giro Josh sbattendo le ciglia per esprimere meglio il concetto.
Stavo per scoppiare a ridere quando Patterson parlò di nuovo, con aria annoiata.
“Se ti basta così poco, Gray.”
Mi offesi a morte per quell’insinuazione di superficialità, di certo io non ero il tipo di ragazza che si faceva convincere da due begli occhi, la prova lampante di ciò era proprio il mio odio nei confronti di Matt Patterson, che a scuola era Mister Occhioni per eccellenza.
Lanciai a Patterson uno sguardo fulminante, con l’intenzione, se possibile, di dargli fuoco con la sola forza del pensiero, ma purtroppo non mi riuscì.
“Sei il solito deficiente.”
“Ho detto la verità.”
“Non sai neanche di cosa stai parlando, Patterson. Non mi conosci.”
“Ah, e da quando saresti diventata selettiva nei confronti dei ragazzi con cui esci?”
Boccheggiai, punta sul vivo. “Sempre meglio delle ochette insipide con cui esci tu.”
“Chi? Thomas Petrovic? Sono abbastanza sicuro di conoscerlo meglio di te.”
“Se hai questa fissazione per lui escici tu, allora, principino. Io non ho mai detto che l’avrei fatto.”
Josh guardava il nostro battibecco da fuori, come al solito, limitandosi a ridacchiare per le battute più velenose. Non appena terminai l’ultima frase sentii qualcuno che mi chiamava da poco lontano e mi girai interrompendo il contatto visivo con Patterson per trovarmi davanti proprio Tom Petrovic. Era in piedi poco lontano dal nostro tavolo e aveva appena raccolto il suo zaino per dirigersi, probabilmente, verso il corridoio, dove Wilde lo aspettava.
“Vieni con me all’Homecoming venerdì sera? Dopo la partita possiamo fare qualcosa insieme, se ti va.”
Rimasi interdetta e con la bocca socchiusa per qualche secondo, senza sapere come rispondere: mi capitava un po’ troppo spesso di recente, e non era un bene. Solo quando sentii Matt sbuffare alle mie spalle decisi cosa fare, e prima ancora di rendermene conto stavo parlando.
“Certo.”
“Ottimo!” esultò Petrovic. “Più tardi ci mettiamo d’accordo, allora.”
Si diresse verso il suo amico e io mi voltai verso i miei. Josh ridacchiava apertamente, mentre Patterson mi guardava con aria scettica.
Escici tu, io non ho mai detto che l’avrei fatto?” mi scimmiottò, ricalcando la mia affermazione di poco prima.
“Ho cambiato idea,” borbottai, ancora offesa con lui.
Dopotutto a me Tom Petrovic non era sembrato così male e se quell’idiota di Patterson aveva una pessima opinione di lui non poteva che essere un punto in suo favore.

Inutile dire che l’appuntamento, se così si può definire, fu un disastro totale. Ero talmente determinata a farlo andare bene e a far sì che Patterson avesse torto nel suo giudizio negativo su Petrovic, che finsi di non notare tutti i segnali d’allarme. E ce ne furono a bizzeffe.
L’Homecoming era una tradizione della mia e di molte altre scuole e università del paese, ed era una specie di festa di benvenuto per l’inizio dell’anno scolastico. Di solito ci si radunava per guardare la partita di uno sport praticato a scuola, e dal momento che da diverso tempo la nostra squadra di football non vinceva un incontro nemmeno per sbaglio, quell’anno la scelta era ricaduta sul basket, il secondo sport più popolare da noi. Era prevista una presentazione della squadra della Winthrop High, una partita amichevole contro la formazione del Collegio Saint James e, infine, un party per gli studenti sul campo di football.
Avevo appuntamento con Petey per le sette e mezza, ma lui si presentò con più di mezz’ora di ritardo, mancando la presentazione della squadra. Nessuno dei miei amici era presente alla prima parte dell’Homecoming: Josh e David boicottavano tutte le partite di basket poiché avevano lasciato la squadra al terzo anno, quando il coming out di Dave aveva reso loro la vita impossibile all’interno dello spogliatoio; Audrey era ancora in fase depressiva per la faccenda di Toby e Jude aveva deciso di stare a casa con lei. Sapevo che, nel caso Petrovic mi avesse dato buca, le mie due migliori amiche non mi avrebbero raggiunte nemmeno per il post partita, ma non potevo scommettere lo stesso su Josh e David che, nonostante gli umori altalenanti dell’ultimo periodo, erano da sempre dei festaioli nati.
Ad ogni modo alla fine Petey arrivò, si scusò fiaccamente per il ritardo e si sedette di fianco a me sugli spalti. Pensai con un vago accenno di stizza che avrebbe almeno potuto inventarsi una scusa per quei quaranta minuti di ritardo ma, spinta da una bontà d’animo che di norma non mi apparteneva, decisi di fare finta di nulla e di dargli una seconda possibilità. Gliene diedi una terza quando, durante l’intervallo della partita, incontrò un suo compagno di squadra e si mise a parlare con lui come se io non esistessi, per poi ricordarsi di me quando si girò e mi mise in mano dieci dollari chiedendomi di andare a prendere due birre per lui e Jackson.
“E ovviamente prendi qualcosa anche per te, splendida,” aggiunse, ma non mi sembrò notare il mio sguardo di fuoco.
Tornai portando loro due aranciate con la scusa che al gazebo non vendevano alcolici agli studenti, cosa probabilmente verosimile, ma che non mi ero premurata di verificare.
Concessi a quel troglodita addirittura una quarta possibilità perché, no, proprio non volevo darla vinta a Patterson, dopo che lo vidi correggere la propria aranciata con della vodka che estrasse direttamente dalla tasca interna della giacca, come nei migliori cliché sugli alcolizzati. Non mi scandalizzavo per un po’ di vodka, ma per giustificare la fiaschetta in tasca di Petrovic dovetti ricorrere ai più strani film mentali che potessi farmi: credetti che l’avesse portata per il post partita, mi dissi che di certo non aveva intenzione di ubriacarsi al nostro primo appuntamento, pensai che sicuramente ne avrebbe offerta un po’ anche a me e ai suoi amici. Non me l’offrì. Inoltre alla fine del match era già piuttosto alticcio, anche se non lo dava a vedere, e lo capii solamente a causa di ciò che successe durante il party.
Ci dirigemmo al campo da football e lì Petrovic sparì per qualche tempo, lasciandomi sola. Chiacchierai un po’ con un paio di persone che conoscevo, infine vidi Josh e mi avvicinai a lui, sollevata. Quando notai che era in compagnia di Matt il mio passo si fece più incerto, non avevo proprio voglia di affrontarlo in quel momento, ma andai comunque nella loro direzione per evitare che si accorgessero del mio tentennamento.
“Delia!” mi accolse Josh, felice di vedermi. “Come va il tuo appuntamento?”
“Piuttosto bene, direi,” mentii, stampandomi un sorriso sulle labbra.
“E dov’è… Cutie Petie? Lo chiami già così, vero? Siete intimi?”
Abbozzai un sorriso, ma sapevo che in un altro momento le prese in giro di Josh mi avrebbero divertita. Se ne accorse anche lui, perché smise di infierire e mi lanciò un’occhiata indagatrice.
“Allora, dov’è?” domandò di nuovo.
Evitai accuratamente di guardare Matt mentre rispondevo. “Non saprei, si è allontanato poco fa per salutare qualcuno e… Beh, insomma, con tutta questa gente poi ci siamo persi di vista. Ma sono sicura che è qua da qualche parte.”
Josh annuì lentamente, poi sembrò valutare cosa dire. “Vuoi… Hai bisogno di qualcosa?”
Sapevo che mi stava proponendo un modo rapido e indolore per uscire indenne da quel disastro di appuntamento ma, poco propensa ad abbandonare il mio orgoglio di fronte a Patterson, risposi con un cenno negativo.
“Sei sicura?”
Stavolta era stato proprio Matt a parlare, anche se fino a quel momento era stato muto come un pesce.
“Sì, sono sicura,” risposi senza tentennare. “Dave non c’è?”
Josh scosse la testa. “Ha preferito rimanere a casa.”
Annuii lentamente, senza sapere cos’altro dire, e in quel momento vidi Petrovic a pochi passi da noi.
“Eccolo,” dissi indicandolo ai miei amici. “Torno da lui, ragazzi, ci si vede in giro.”
Li abbandonai con qualche riluttanza e tornai da Petie, intenzionata a inventarmi una scusa per tornare a casa il più presto possibile. Se ci fosse stato solamente Josh forse gli avrei detto la verità, cioè che l’appuntamento si stava rivelando una mezza catastrofe e che mi avrebbe fatto comodo qualcuno che mi salvasse, ma la presenza di Patterson mi aveva in qualche modo inibita.
Petrovic quando mi vide mi fece un gran sorriso, mi raggiunse, mi prese per un polso e mi trascinò in un posto meno affollato. Lo lasciai fare, pensando che volesse portarmi fuori dalla festa, che comunque non era un granché, per fare insieme qualcosa da “primo appuntamento”, un gelato, una passeggiata, due chiacchiere. Ma quando notai che non ci stavamo dirigendo vero l’uscita gli domandai dove stessimo andando.
“In un posto tranquillo,” rispose lui, imboccando un passaggio per entrare sotto le gradinate dello stadio.
Quando ci ritrovammo protetti dall’ombra delle tribune Petrovic si fermò, si girò verso di me e senza troppi complimenti si avvicinò per baciarmi, cosa che ovviamente, tolti i primi due secondi di sorpresa, non gli lasciai fare.
“Cosa diavolo stai facendo?” gli chiesi trafelata, staccandomi da lui.
“Mi sembra chiaro, ti ho portato in un posto isolato così finalmente ci divertiamo un po’.”
Biascicava nel parlare e aveva l’aria di non essere del tutto in sé. Mi allontanai di un paio di passi per prudenza e intanto mi insultai mentalmente per essermi ficcata in quella situazione.
“Sei ubriaco e forse ti sei pure fumato qualcosa.”
“Macché ubriaco, che vuoi che sia! Ti credevo un po’ meno bacchettona.”
“Bacchettona un cazzo!” sbraitai sconvolta. “Non ti avrei toccato nemmeno se fossi stato sobrio, dopo questo appuntamento di merda!”
“Con Nate non ti sei fatta tanti problemi, però.”
“Che paragone idiota! Sono uscita tre volte con Wilde e non si è mai minimamente sognato di comportarsi così.”
Petrovic rise di gusto. “Infatti gliel’hai data subito.”
“Ma ti sei bevuto anche il cervello? Non c’ho fatto sesso!” Feci un paio di respiri profondi per calmarmi e poi continuai. “Senti, pensa quello che vuoi, non devo certo giustificarmi con te. Me ne vado.”
Lui cercò di avvicinarsi a me per fermarmi. “Dai, Delia, scusa, non volevo…”
Gli risposi dandogli le spalle e mi allontanai il più velocemente possibile. Uscii dallo stadio e mi fermai solo per infilarmi il casco e salire sul mio scooter, infine me ne andai senza voltarmi indietro.

Sabato sera, per evitare ulteriori disastri sociali, mi rintanai in casa. David venne a trovarmi e passammo la serata a lamentarci come due vecchie zitelle del fatto che gli uomini facevano schifo e che non avremmo mai trovato la persona giusta.
Quando arrivò il lunedì mattina, in realtà, avevo fatto in tempo a dimenticarmi per bene lo schifoso appuntamento con Petrovic, così racimolai un po’ del mio solito buon umore, mi attaccai in faccia un bel sorriso ed entrai a scuola con l’intenzione di passare una settimana migliore della precedente. Purtroppo i miei buoni propositi  durarono giusto il tempo di arrivare al mio armadietto.
Avevo notato, in corridoio, qualcuno che mi guardava bisbigliando, ma avevo pensato che fosse dovuto al fatto che in testa avevo un cerchietto rosso con dei piccoli pois bianchi che, unito alla mia lunga gonna sui toni del giallo, alla maglietta blu e ai miei capelli scuri, faceva tanto effetto Biancaneve. Così quando giunsi nei pressi del mio armadietto e notai qualche persona di troppo che ronzava lì intorno non mi preoccupai, almeno finché non venni placcata da un David alquanto agitato che tentava di impedirmi di giungere a destinazione.
“Delia, ciao. Devi sapere una cosa prima di vedere il tuo armadietto.”
“Cosa?”
“Innanzitutto questa scuola è piena zeppa di teste di cazzo,” iniziò lui prendendo l’argomento piuttosto alla larga.
“Questo lo so, Dave, si può sapere cosa cavolo non posso vedere?”
“Amore, non rimanerci male. Sei migliore di così, tu non…”
Lo superai e mi diressi spedita all’armadietto, con un allarme che risuonava forte nella mia testa: se David mi aveva chiamata amore sapevo che c’era davvero qualcosa di brutto, perciò non mi stupii quando vidi che sullo sportello, con una bomboletta spray rossa, qualcuno aveva scritto un messaggio semplice e inequivocabile: TROIA.
Sbuffai infastidita, non era la prima volta che vedevo episodi del genere a scuola, non ero mai stata coinvolta personalmente ma avevo imparato che c’era qualcuno che a volte si divertiva a fare anonimamente il moralizzatore di turno. Finsi indifferenza, aprii l’armadietto e ci riposi le mie cose e, mentre lo facevo, sentii Dave appoggiarmi una mano sulla spalla.
“Tutto ok?”
“Sarà il solito stronzo bigotto, non credo sia il caso di preoccuparsi,” minimizzai, cercando di non dare a vedere che il mio umore era rovinato.
“Puoi prendertela, Deels, sai che puoi sfogarti con me.”
“E perché dovrei? Non sei stato tu a imbrattarmi l’armadietto. Adesso siamo in ritardo per Biologia, alla fine dell’ora andrò a denunciare la cosa al preside o a un professore e domani sarà tutto come nuovo. Mi hanno fatto anche un favore, in realtà, magari è la volta buona che mi sostituiscono lo sportello, è difettoso già dall’anno scorso.”
Parlai a voce alta per farmi sentire dalle persone lì intorno, presi i libri che mi servivano, richiusi l’armadietto con una spinta un po’ troppo vigorosa e mi caricai lo zaino sulla spalla per incamminarmi verso il laboratorio di Biologia. David, che mi aveva creduto o aveva finto di credermi, mi seguì in silenzio.
Ma, nonostante il sangue freddo che avevo mostrato, quella scritta era stata come un pugno nello stomaco per me e ciò che mi riferì Audrey durante la prima ora fu la famosa goccia che fece traboccare il vaso. Non l’avevo incontrata in corridoio perché, dopo aver visto la scritta, si era messa d’accordo con Dave e, mentre lui aspettava il mio arrivo, lei era andata in giro a raccogliere informazioni sulla faccenda. Aveva scoperto che nessuno pareva sapere chi avesse usato la bomboletta, ma che a scuola giravano delle dicerie parecchio scandalose e altrettanto menzognere sul mio conto.
“C’è chi dice che ti sei fatta metà squadra di football e metà squadra di basket solo durante l’anno scorso,” mi raccontò Audrey mentre guardavamo a turno dei vetrini al microscopio per poi annotare sul quaderno ciò che vedevamo.
“Sì. Magari, guarda,” commentai stizzita.
“Ma la cosa che mi ha stupita è che ci sono voci molto più specifiche, credo siano il quelle il vero motore di tutto.”
“Cioè?”
Aud mi lanciò un’occhiata dubbiosa e io la incitai a parlare con un cenno della mano: se volevo capirci qualcosa e, magari, trovare un colpevole, tanto valeva sapere tutta la storia.
“Morgan dice che Allison le ha detto che… Ok, chi se ne frega,” tagliò corto notando la mia occhiata disperata. “Dicono che ti sei fatta Nate Wilde, Carter Austin e Jeremy Bell. E che all’Homecoming hai trascinato Tom Petrovic sotto le gradinate del campo da football per fargli un… Sì, insomma, hai capito.”
“Innanzitutto non so nemmeno chi sia questo Jeremy Bell. E comunque: magari la mia vita sessuale fosse tanto interessante! Di certo non passerei il sabato sera reclusa in casa a guardare Desperate Housewifes col mio migliore amico gay.”
“Dee, in quest’impiccio c’entra sicuramente Petrovic.”
“Lo sospettavo già,” annuii io. “Ma per me può mettere in giro tutte le voci che vuole, non vedo chi può credere a un patetico sfigato del genere.”
Aud fece una faccia allarmata e dispiaciuta. “Beh, veramente…”
La interruppi, sconfitta. “Lo so, lo so. Vorrei almeno provare a far finta che i nostri compagni di scuola non fossero tutti degli imbecilli patentati.”
“Morgan e Allison non ci hanno creduto, se ti può consolare. Non a tutto, almeno.”
“In che senso non a tutto?”
“Morgan ha detto che Petrovic aveva aggiunto così tanti particolari alla storia dell’Homecoming che…”
Sbottai, agitando per aria la matita che avevo in mano. “Particolari che si è inventato di sana pianta! Quel coglione mi ha palpeggiata sotto le tribune e siccome l’ho respinto vuol far passare me per una poco di buono!”
“Lo so, Dee, gliel’ho detto e lei mi ha creduto. Ma sai come sono le voci qui a scuola, si spargono a macchia d’olio e…”
“Non fa niente, passerà anche questa,” sbuffai, stufa dell’argomento.
Ma quella conversazione mi lasciò con l’amaro in bocca e con una sensazione di peso alla bocca dello stomaco, tanto che alla fine dell’ora mi allontanai dai miei amici e andai a cercarmi un posto tranquillo dove riposarmi per cinque minuti dalle occhiate maliziose (dei ragazzi) e disgustate (delle ragazze) che mi vedevo piovere addosso.
Vagai a vuoto per qualche minuto, poi, temendo di essere beccata in giro per i corridoi da un professore o, peggio, dal preside Harper, mi decisi e mi infilai nell’Aula Conferenze, che non era altro che una specie di piccolo auditorium dove si tenevano le riunioni plenarie della scuola, gli spettacoli o gli incontri formativi. Visto che non era previsto nessun evento l’aula era prevedibilmente vuota; tirai un sospiro di sollievo e scelsi una fila a caso per buttarmi a sedere su una delle poltroncine rosse in stile teatro, per godermi la pace e la penombra della stanza.
Adesso me ne sto qui, pensai, stremata. Salto Fisica e poi Letteratura e anche Storia, e sto nascosta tutta la mattina. Posso fare la fifona, per una cazzo di volta.
Ovviamente non feci nemmeno in tempo a concludere il pensiero che il mio brillante piano venne rovinato sul nascere dall’ingresso nella stanza di una persona. Lì per lì cercai di far finta di niente, chiusi gli occhi, mi rimpicciolii un po’ sulla sedia e sperai con tutto il cuore di non essere notata dall’intruso. Poi sentii dei passi avvicinarsi e, con gli occhi ancora chiusi e la testa incassata fra le spalle, percepii una sedia sulla stessa fila della mia abbassarsi sotto il peso di qualcuno. Mi accartocciai un po’ di più sulla seggiola, piegando le ginocchia per nascondervi il viso in mezzo, ma non aprii ancora gli occhi.
“Dimmi solo che non sei un professore,” mormorai invece.
“Non sono un professore.”
Nonostante il nervosismo, l’agitazione e la voglia di rimpicciolirmi fino a sparire in uno sbuffo d’aria, riconobbi all’istante quella voce e, se possibile, la cosa mi destabilizzò ancora di più.
“Patterson,” borbottai, aprendo finalmente le palpebre.
Mi tolsi il cerchietto e mi passai nervosamente la mano fra i capelli, più e più volte.
“Biancaneve, sei tu?” mi canzonò lui.
“Preferivo fosse un professore.”
Lo sentii muoversi, probabilmente per mettersi più comodo, e finalmente mi girai per lanciargli una breve occhiata. Era seduto un paio di sedie oltre la mia, si sporse leggermente verso di me e prese il cerchietto rosso che avevo appoggiato al bracciolo, per poi cominciare a girarselo tra le mani, quasi sovrappensiero. Notai che il suo zaino giaceva abbandonato sul pavimento lì di fianco.
“Non ti ho visto alla prima ora,” gli dissi, mentre tornavo a guardare di fronte a me.
“Sono arrivato adesso.”
“Ah.” Feci una lunga pausa, dopodiché mi decisi a parlare, lanciandogli un’altra occhiata. “Quindi avrai notato il mio splendido armadietto.”
Lui mi guardò serio ma non disse niente. Lo presi come un sì.
“Sei qui per questo?” domandai, appoggiandomi completamente allo schienale e buttando la testa all’indietro per guardare il soffitto. “Per rinfacciarmi il fatto che avevi ragione tu su Petrovic?”
Matt schioccò la lingua sul palato. “Quanto stronzo pensi che io sia?”
“Non lo so, ma so che mi odi. Adesso almeno sei in buona compagnia.”
L’ultima frase la borbottai a voce bassissima, quasi inudibile, se non fosse che eravamo immersi in un silenzio pressoché assoluto.
Lui in risposta sbuffò, quasi con impazienza. “Ma finiscila di compatirti.”
Tipico. Riuscivo a innervosirlo anche nelle condizioni pietose in cui versavo in quel momento: se questo non la diceva lunga sul nostro rapporto, non sapevo cos’altro avrebbe potuto farlo. Non avevo nemmeno voglia di litigare, così mi limitai ad alzare le spalle.
“La fai facile, tu. Non hai un’etichetta gigante con su scritto troia stampata in fronte.”
Matt sembrò riflettere a lungo sulle parole da dire subito dopo; quando ormai pensavo che non avrebbe più parlato, mi stupì. “Forse non sono la persona più adatta a dirtelo, ma dovresti fregartene. Sei migliore di un deficiente che scrive cazzate con una bomboletta spray e sicuramente sei migliore delle quattro chiacchiere da spogliatoio che Petrovic ha messo in giro su di te.”
“Chiacchiere?” ripetei, amara, ricordando le sue affermazioni del primo giorno di scuola. “Pensi anche tu che io sia una facile.”
“Non lo penso. E mi dispiace se ho detto qualcosa che te l’ha fatto credere.”
A quel punto ero davvero stupita. “Mi stai chiedendo scusa?”
“Certo che no.”
“Perché sei così carino con me adesso?” insistei.
“Avevi ragione,” rispose serio. “Quest’estate ho cercato di evitarti, soprattutto in quelle serate in cui uscivate per bere e festeggiare.”
“Mi prendi in giro?”
Scosse la testa. “Il problema è che… Dopo che ho bevuto un paio di birre ti odio di meno e cominci a piacermi un po’ di più.”
Il mondo smise di girare per qualche secondo e io mi trovai ad aggrapparmi ai braccioli della sedia. “Comincio a… Cosa?”
“Piacermi. Poco, eh. Ma non va comunque bene.”
Aprii la bocca un paio di volte a vuoto prima di trovare il coraggio di rispondere. “Perché me lo dici ora? Sei… sei sobrio.”
“Perché è una cosa compromettente. Immagino che l’idea di avere qualcosa con cui ricattarmi in futuro possa tirarti un po’ su.”
Ero talmente confusa e stupita che non riuscivo a smettere di fare domande idiote. “Vuoi tirarmi su di morale?”
Lui fece una faccia annoiata, continuando a fissare il mio cerchietto che si passava da una mano all’altra con finto interesse. “Mica per bontà d’animo nei tuoi confronti. Sei lagnosa e più fastidiosa del solito oggi, quasi quasi ti preferisco logorroica e petulante.”
“Non sono lagnosa, stronzo!” mi inalberai subito ai suoi insulti.
Matt alzò finalmente la testa per guardarmi con un sopracciglio alzato. “Eccola qua.”
“E in ogni caso non sono mai petulante.”
“Oh, lo sei.”
Il sorrisetto furbo con cui mi rispose mi fece saltare definitivamente i nervi, così sbottai. “Ma guarda te da chi mi devo far insultare!” mi lamentai incrociando le braccia. “Un damerino altezzoso e pieno di sé che prende lezioni di danza per andare al ballo delle debuttanti. Che comunque, per la cronaca, è una cosa per femmine. Magari i tuoi genitori avrebbero voluto una femmina, almeno sarebbero riusciti a inculcarle un po’ di buone maniere, invece sei uscito tu, una specie di irritante, egocentrico, maleducato…”
Non aspettò che finissi e si sporse un po’ verso di me. “Almeno non puoi negare di essere logorroica.”
Lo ignorai e continuai a insultarlo. “…borioso, bugiardo e indisponente principino viziato.”
“Hai finito?”
“Ne avrei ancora,” bofonchiai, fingendomi più offesa di quello che ero.
“Non ho dubbi. Sembri un dizionario di sinonimi.”
Lo fulminai con un’occhiataccia e lui mi lanciò il cerchietto che acciuffai per un pelo, dopodiché si alzò e fece con la testa un cenno per indicare la porta.
“Andiamo, dai.”
“Non ho voglia di andare a lezione della Mitchell, davvero,” gli risposi senza muovermi di un millimetro. “Vi raggiungo alla terza ora.”
Matt mi sorprese di nuovo. “E facciamo a meno. Non ho voglia nemmeno io.”
Detto questo, raccolse da per terra il suo zaino e la mia tracolla e si diresse verso l’uscita. Potevo passare sopra a tutto, ero praticamente in uno stato catatonico provocato dagli avvenimenti della mattina e dalle parole incredibili di Matt, ma il furto della mia borsa mi smosse.
“Ehi, che stai facendo?”
Lo seguii senza avere risposta e, una volta fuori dall’auditorium, fui colpita dalla luce accecante che illuminava il corridoio e strizzai gli occhi. Quando li riaprii Patterson sembrava essere sparito, tanto che mi ritrovai, spaesata, a guardare più volte nelle varie direzioni in cui poteva essersi mosso, finché la sua testa non spuntò da in fondo al corridoio alla mia sinistra.
“Gray! Veloce, prima che ci veda qualcuno.”
Gli andai dietro senza protestare, ma solo perché avevo paura di dare nell’occhio: i corridoi erano praticamente deserti, la maggior parte degli studenti erano nelle aule, ma poteva sbucare un professore libero da un momento all’altro. Patterson, a sorpresa, s’infilò per uno svincolo di cui non conoscevo nemmeno l’esistenza, alla fine del quale c’era una porta che dava sul retro del parcheggio. Quando fummo all’esterno continuò a camminare diversi passi davanti a me, raggiunse quella che avevo imparato a riconoscere come la sua macchina, una vecchia Ford marroncina di seconda mano di cui non conoscevo il modello, aprì lo sportello posteriore per buttarci la mia tracolla e il suo zaino, e infine entrò sedendosi sul sedile del guidatore.
Solo allora tornò a puntare gli occhi verso di me, che ero ferma in piedi a pochi passi dall’auto. Mi guardò interrogativo e io mi posai una mano all’altezza del cuore, nell’inutile tentativo di fermare la tachicardia dovuta alla corsa e alla paura di essere scoperta.
“Sei pazzo,” lo accusai, puntandogli un dito contro. “E pericoloso.”
Lui sorrise con aria angelica. “Che fai, non vieni?”
Tentennai qualche secondo, immobile con la mano sul petto e la bocca schiusa per riprendere fiato. Pensai che non ero maggiorenne, che mancavano tre mesi al mio diciottesimo compleanno, che i miei genitori mi avrebbero ammazzata. Poi pensai all’armadietto, alle occhiate che avrei dovuto sorbirmi a scuola, a Petrovic. Infine pensai che per me non era normale pensare così tanto e, proprio mentre Matt sbuffava impaziente e apriva la bocca per dirmi di decidere alla svelta, feci il giro dell’auto, aprii lo sportello e mi accomodai sul sedile del passeggero.
“Devo essere impazzita anch’io,” mormorai tra me e me, allacciandomi la cintura di sicurezza ed evitando di guardare alla mia sinistra.
Patterson accese il motore e partì con un’ultima raccomandazione che ebbe il potere di farmi uscire il fumo dalle orecchie.
“Finché sei nella mia macchina segui le mie regole: puoi usare frasi composte al massimo da venti parole. Niente monologhi deliranti alla Delia Gray.”
“Io non faccio monologhi deliranti alla…”
Mi bloccai alla sua occhiata eloquente, incrociai le braccia e misi su un’espressione offesa. “Non mi sentirai dire una parola, principino.”
“Questa sì che sarebbe una novità.”
“Voglio scendere,” brontolai, non troppo convinta.
“È troppo tardi, Gray,” rispose lui prendendo una svolta a sinistra. “Stamattina sei bloccata con me.”












Hola! Non odiatemi, per favore: il capitolo doveva continuare, lo so. So anche che avrei potuto farlo lungo il doppio e che probabilmente nessuno si sarebbe lamentato, ma avevo paura uscisse un papiro assurdo e, soprattutto, avevo paura di non riuscire a pubblicarlo entro tempi brevi. Ho fatto fatica già a scrivere questa parte e volevo avere qualcosa da far leggere a chi mi segue con tanto amore.

Sto faticando a scrivere e temo che il capitolo ne risenta. Ho bisogno di qualche feedback per capire se sto andando nella direzione giusta o se devo chiudere baracca e burattini. So che sono stata assente per tanto tempo, ma so anche che qualcuno che segue la storia c’è, se trovaste cinque minuti per lasciarmi due righe di recensione mi fareste la persona più felice del mondo!

Per quanto riguarda il capitolo, spero di non aver deluso nessuno, mi sto sforzando di mantenere i personaggi il più IC possibile e non è facile. A volte mi devo trattenere per non fargli dire troppo (non a Delia, lei può parlare quanto vuole, tanto ormai è così), perché trovo che sarebbe inverosimile un dialogo in cui Matt spende troppe parole per consolarla, o le spiega perché è andata a cercarla (sì, stavo per scriverlo, ma poi ho cancellato tutto). Per questo a molti può sembrare che la storia proceda a rilento, ma dal mio punto di vista non è così. L’obiettivo è mostrare un avvicinamento tra due persone tendenzialmente e apparentemente tanto diverse, e forse, sì, mi sto dilungando, ma non voglio nemmeno affrettare le cose. Gli step della storia sono ben chiari nella mia testolina, forse per arrivarci faccio dei giri un po’ assurdi ed esagero? Let me know.

Il titolo del capitolo è ovviamente un rimando al romanzo La lettera scarlatta di Nathaniel Hawthorne che, per farla breve, parla di adulterio e di gogna pubblica. Mi pareva adatto.
Il Senior Year è l'ultimo anno di High School (le nostre superiori) negli US. Tra qualche capitolo finirà la parte "scolastica", yep.

Aspetto pareri e spero apprezziate lo sforzo di una pubblicazione (relativamente) veloce.
Un bacio grosso a tutti quelli che leggono! <3

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Capitolo 10
*** I'll take you away ***


10. I'll take you away


Cercare di stare zitta durante il viaggio in macchina con Patterson fu per me un autentico supplizio. Mi venne spontaneo aprire la bocca per dire qualcosa almeno una dozzina di volte, anche perché non sapevo dove eravamo diretti e non conoscevo la strada che avevamo imboccato quando eravamo usciti dal centro di Winthrop. Ma sentivo lo sguardo divertito di Matt su di me ogni volta che sospiravo per lo sforzo di non dire nulla, quindi, per orgoglio, mi morsi la lingua e riuscii a restare più o meno in silenzio per quasi tutto il tragitto.
Rassegnata e obbligata a tacere, quindi, mi misi a fare delle considerazioni su ciò che era appena accaduto, dal momento che ero ancora vagamente scossa.
Innanzitutto, quel coglione di Petrovic aveva messo in giro voci false sul mio conto e ora mezza scuola credeva che fossi una poco di buono. Se lui andava a letto con tutte le ragazze della scuola era da considerarsi un eroe, ma io, che tra l’altro non avevo fatto nulla di ciò andava in giro a raccontare, ero stata fatta passare per la sgualdrina della situazione. Robe da pazzi.
Non ero una persona vendicativa, non lo ero mai stata, perlomeno, ma se Petrovic pensava che gliel’avrei fatta passare liscia si sbagliava di grosso. Aveva pestato i piedi alla ragazza sbagliata, decisi in quel momento, e alla prima occasione se ne sarebbe pentito.
E poi c’era l’altra questione, la questione con due occhi grigi e una spiccata tendenza a irritarmi di proposito. La questione che mi sedeva di fianco in quel momento. Guardai Patterson con la coda dell’occhio e mi domandai per l’ennesima volta cosa diavolo ci facessi seduta nella sua macchina.
Era vero, negli ultimi mesi, da quando lui aveva cominciato a uscire col mio gruppetto di amici, avevamo iniziato ad avvicinarci anche noi due, seppur a modo nostro, ma non potevo ancora considerare Matt un amico, né era una persona che mi ispirava particolare fiducia. Nonostante i passi in avanti compiuti da entrambi durante il precedente anno scolastico, l’estate ci aveva allontanati di nuovo e subito dopo mi era sembrato di dover ricominciare da zero, con lui. Poi però quella mattina era venuto a cercarmi – o forse no, forse mi aveva trovata per caso, non gliel’avevo nemmeno chiesto ­– e mi aveva quasi consolata per la storia del mio armadietto. Diamine, mi aveva addirittura detto che con l’alcol cominciavo a piacergli di più.
Cosa accidenti significava quella frase, poi? Lì per lì non ci avevo dato peso, ero troppo presa dalla situazione per soffermarmi su quel particolare, ma ora che ci riflettevo… Beh, non sapevo davvero cosa pensare.
Lanciai una seconda occhiata a Matt, che guidava in silenzio. Probabilmente intendeva solamente dire che quando beveva un paio di birre riusciva poi a trovare la mia compagnia più tollerabile. Era una cosa che accadeva anche a me: tutto sommato, a partire da quella volta alla festa di Ramirez, ogni volta che bevevamo qualcosa insieme Patterson sembrava diventare più umano e meno insopportabile.
Ma si trattava davvero solo di questo? Aveva detto che con l’alcol cominciavo a piacergli di più e che la cosa non andava bene. Che intendesse che gli piacevo da un punto di vista… Romantico? Fisico? Naah, era impossibile, non l’avrebbe mai spifferato con tutta quella tranquillità.
Sbuffai, frustrata da quell’enigma. La verità era che in genere ero brava in queste cose, capivo al volo quando un ragazzo stava flirtando con me e che cosa volesse ottenere. Ero sveglia e maliziosa al punto giusto, non ero un riccio come Jude né ero ingenua come Audrey; ci sapevo fare, a detta di tutti. Eppure quando si trattava di Patterson diventavo insicura e mi riempivo di dubbi, mi sembrava che lui cambiasse atteggiamento nei miei confronti ogni due per tre e non capivo il suo gioco. Non credevo che ci avesse mai provato davvero con me e, anche se ogni tanto mi aveva dato l’impressione di flirtare, era sempre talmente enigmatico che era impossibile dirlo con certezza, pure per me.
Tornai a guardarlo, concentrata nei miei pensieri. Era un po’ corrucciato, aveva una leggera rughetta tra le sopracciglia e, forse, delle occhiaie appena più marcate del solito, ma era comunque carino da far schifo. Teneva gli occhi fissi sulla strada, ma sembrava sciolto alla guida, sicuro come io non sarei mai stata, anche perché mio padre mi permetteva di usare la macchina solo per brevi tratti.
Quando Matt parlò, ovviamente, la sua voce mi colse di sorpresa e tornai subito a fissare un punto davanti a me.
“L’hai presa piuttosto seriamente la faccenda del non dire più una parola,” disse, con un tono vagamente ironico.
“Potresti ricambiarmi il favore con la stessa moneta.”
“Avanti, Gray, ho notato come mi fissi. So che ti stai facendo violenza psicologica per non chiedermi dove stiamo andando.”
Era da un po’ che non stavo pensando a quello, in realtà, ma era meglio che lui continuasse a crederlo. Sperai di non essere arrossita e puntai gli occhi fuori dal finestrino, notando che in effetti non avevo idea della nostra ubicazione in quel momento. Di sicuro eravamo usciti da Winthrop, ma non mi pareva ci stessimo dirigendo verso Boston, la città più vicina, perché conoscevo la strada per arrivarci.
“Non mi interessa,” mentii spudoratamente.
Lui mi fissò la nuca per un paio di secondi, ma non commentò ulteriormente.
Qualche minuto più tardi eravamo in aperta campagna e Matt imboccò una strada sulla destra, alla fine della quale c’era un grande spiazzo in ghiaia con qualche macchina e un camion parcheggiati. Ci fermammo lì anche noi, Patterson parcheggiò in un posto a caso, si slacciò la cintura di sicurezza e mi guardò, indeciso se dire qualcosa, prima di scendere dall’auto.
Lo imitai e mi guardai attorno, stranita. Dal parcheggio partiva una stradina, sempre in ghiaia, che portava a una serie di edifici bassi ed estesi in lunghezza, dietro i quali vedevo solo campagna, prati, qualche recinto e degli animali non meglio identificabili da quella distanza.
Patterson non disse niente, si limitò a chiudere la macchina e incamminarsi con sicurezza verso gli edifici, io lo seguii con qualche titubanza, non sapendo che altro fare. Eppure a quel punto ero decisamente troppo curiosa per riuscire ancora a tacere, quindi, nonostante le mie intenzioni, alla fine cedetti.
“Dove siamo?” gli domandai, cercando di stagli dietro.
“Appena fuori Beachmont,” rispose lui senza nemmeno girarsi.
“Questo l’avevo intuito, dato che non siamo andati verso Boston. Ti domandavo cos’è quel posto dove siamo diretti, genio.”
“Sei cieca o cosa?”
“Senti, Patterson, posso anche capire che tu…” iniziai mentre acceleravo il passo per raggiungerlo, ma bloccai da sola il fiume di parole che stava per uscirmi dalle labbra quando riconobbi l’edificio davanti a noi. “Mi hai portato in un maneggio?”
C’era il tipico odore delle stalle, che di sicuro non era il massimo ma che avevo imparato a riconoscere come familiare quando avevo fatto equitazione per qualche tempo, anni prima, e ora che ci eravamo avvicinati potevo anche notare i recinti e diversi cavalli che trottavano allegri al loro interno.
Matt nemmeno mi rispose, ma io ricordavo bene il prom dell’anno precedente, quando gli avevo confessato che tra la miriade di attività che avevo provato da bambina l’equitazione era l’unica che mi aveva appassionata davvero. Non credevo fosse un caso che mi avesse portata proprio in un maneggio.
“Io non ho soldi con me,” mi ricordai all’improvviso.
“Non è un problema,” rispose lui con distacco.
“È un problema, sì! Non voglio che mi paghi qualcosa tu, poi ti rifiuti di accettare che ti torni i soldi e non va bene. E comunque…”
“Placati, Gray. Non ti pagherò assolutamente niente, ma non è un problema se non hai soldi.”
Sbuffai e continuai a seguirlo, decisa a rifiutare altri regali da parte sua. Ma, già quando superammo la hall del maneggio e ci incamminammo verso le stalle con i cavalli, capii che in quel posto Patterson conosceva chiunque e che con ogni probabilità era per quel motivo che aveva assicurato che non avrebbe pagato per me.
“Sono tutti tuoi amici qui?” chiesi a Matt mentre lui prendeva con sicurezza la strada per un box davanti al quale ci fermammo.
“Più o meno,” rispose, senza spiegarsi ulteriormente.
Poi entrò nel box lasciando la porticina semi aperta, e io cominciai ad agitarmi di nuovo.
“Ma puoi entrare?” domandai guardandomi intorno nervosa.
“Direi proprio di sì.”
“Perché? Conosci il proprietario del cavallo? Nessun dipendente del maneggio ci ha detto che potevamo venire fin qui, non è che magari…”
“Rilassati, Gray, non stiamo facendo niente di illegale,” mi interruppe lui.
“A parte bigiare la scuola,” mormorai io a bassa voce. “Allora, chi è quell’incanto?” feci poi, indicando il cavallo che Matt aveva preso a carezzare amorevolmente sul muso mentre, addirittura, gli sussurrava qualche parola dolce a mo’ di saluto.
“Lei è Amber,” spiegò lui sottolineando il sesso dell’animale. “Ed è mia.”
Rimasi a bocca aperta per qualche istante prima di trovare le parole per rispondere. “Tua nel senso che… Vieni spesso qui? A trovarla?”
“No, mia nel senso che i miei genitori me l’hanno comprata e,” fece una smorfia, come se gli costasse ammettere ciò che stava per dire, “la mantengono in questo maneggio da cinque anni.”
“Ah,” asserii solamente, senza sapere cos’altro aggiungere.
Stetti qualche minuto in silenzio, fuori dal box, solo a osservarlo mentre dava qualcosa da mangiare ad Amber e recuperava una spazzola per strigliarla. Dopo un po’ Matt alzò gli occhi e mi guardò serio.
“Non entri?”
“Posso?” chiesi, già elettrizzata all’idea.
“Da quando ti fai così tanti problemi, novellina?”
Alzai gli occhi al cielo mentre aprivo la porticina ed entravo nel box. “Non conosco il suo carattere, magari è buona solo con te.”
Lui mi passò la spazzola e, prima di cominciare a usarla, carezzai dolcemente il muso dell’animale, attenta a non fare gesti bruschi che la spaventassero.
“È un test,” disse Patterson divertito. “So già che è buona, ma se sopporta la tua presenza significa che è davvero una santa.”
Lo fulminai con gli occhi prima di contrattaccare. “E comunque non volevo disturbarti. Eri così carino mentre parlavi con lei, sembravi quasi umano.”
Lo stavo prendendo in giro, ma sapevo che c’era un fondo di verità nelle mie parole: non avevo mai visto Matt così dolce e remissivo.
Lui fece un mezzo sorriso e mi distolse dai miei pensieri aprendo la porticina del box. “Visto che fai tanto la spiritosa, vediamo come te la cavi fuori di qui.”

Passammo la mattinata così, a prenderci cura di Amber e a farla passeggiare fuori dal suo box. Matt chiamò uno dei dipendenti del maneggio e fece in modo che io avessi dei pantaloni adatti a cavalcare, così quando uscii dagli spogliatoi vidi che avevano già sellato e preparato la puledra.
Erano diversi anni che avevo smesso con l’equitazione, perciò mi sentivo un po’ in ansia, ma cercai di non darlo troppo a vedere mentre mi avvicinavo al recinto. Patterson, non so come, lo intuì comunque.
“Sei nervosa?” mi domandò non appena fui abbastanza vicina.
Decisi di non mentire. “Un pochino.”
Charlie, il ragazzo di nemmeno trent’anni che lavorava lì al maneggio e che ci stava dando una mano, mi fece un sorriso incoraggiante. “Puoi stare tranquilla,” mi rassicurò. “Amber è davvero buonissima, e comunque starò qui con voi.”
Dopo appena pochi minuti, ad ogni modo, mi ricordai il motivo per cui avevo amato così tanto andare a cavallo quand’ero più piccola. Amber era intelligente e molto sensibile, nonostante fosse Charlie a seguirla e dirle cosa fare, lei percepiva ogni mio movimento e lo assecondava. All’inizio ero preoccupata, avevo paura di non ricordarmi e di non essere in grado di stare in sella, ma dopo i primi istanti mi resi conto di essere perfettamente a mio agio. Se ne accorse anche Charlie e, forte della sicurezza di Amber, ci spinse ad accelerare il passo e a muoverci al trotto: corsi più veloce per qualche tempo, il vento sulla faccia, la sensazione di libertà che finalmente ritrovavo dopo anni.
Finita la corsa, mio malgrado, dovemmo riportare Amber nel suo box e sistemarla, prima di dirigerci al piccolo bar del maneggio: ormai era ora di pranzo e noi non avevamo minimamente pensato all’eventualità di dover mangiare fuori dalla mensa scolastica, quindi prendemmo due panini e dell’acqua lì. Poi, mentre io mi cambiavo per rimettere i miei vestiti, Matt andò a recuperare un asciugamano da mare che aveva ancora in macchina, lo stendemmo su un prato che si trovava non lontano da dove avevamo parcheggiato e ne usammo un pezzetto a testa.
Alla fine, dopo aver mangiato, ci ritrovammo stesi per metà sull’asciugamano e per metà fuori, entrambi con le gambe poggiate sull’erba tagliata di recente. Chiusi gli occhi e forse sonnecchiai anche un po’, non lo ricordo. Quello che ricordo bene, invece, è che quando riaprii gli occhi Matt aveva tirato fuori un libro dal proprio zaino e lo leggeva completamente risucchiato da esso.
Non avevamo parlato molto fino a quel momento, prima la mia attenzione era stata assorbita da Amber e dalla cavalcata, poi avevo chiacchierato con Charlie di cavalli e del suo lavoro lì, infine ci eravamo messi a mangiare e Patterson mi era sembrato poco propenso a spiccicare parola. D’altro canto io restavo una chiacchierona di natura, perciò non potevo trattenermi a lungo e, quando riuscii a vedere la copertina del libro, gli domandai spiegazioni.
Madame Bovary?”
Lui alzò gli occhi dal testo e mi guardò stupito. “Lo dobbiamo leggere per Francese,” spiegò celere, senza però chiudere il libro.
“Quindi è la versione originale?”
“No, è tradotto. È per Letteratura. La Chastain vuole farci leggere un libro a semestre.”
Annuii piano e Matt tornò a posare gli occhi sulle pagine del libro, ma io non avevo ancora finito.
“In effetti ti facevo più tipo da Hemingway o cose così,” dissi in uno sbadiglio, mentre mi mettevo più comoda, stesa a pancia in su con la testa appoggiata alla mia borsa.
“Faccio un po’ fatica con Hemingway, a dire il vero,” rispose lui senza spostare l’attenzione dal libro.
“Davvero?”
Lui sentì il mio stupore e si affrettò a spiegarsi. “Non intendo che faccio fatica a leggerlo, solo che trovo le sue tematiche lontane dalla mia visione. Ma è soggettivo, immagino.”
Ci riflettei un attimo prima di replicare. “In quel senso, allora, faccio anch’io un po’ fatica con Hemingway. È stato un grande scrittore e so che dovrei leggere tutto quello che ha prodotto, ma devo essere dell’umore giusto per mettermici.”
Patterson annuì senza dire niente e restammo in silenzio per qualche minuto. Per sua sfortuna io non avevo niente da leggere, mi annoiavo e, quand’era così, non riuscivo proprio a trattenermi dal parlare per troppo tempo di fila.
“Immagino che la tua famiglia paghi un sacco per tenere Amber in un posto come questo,” buttai lì senza malizia, solo con l’intento di chiacchierare.
“Immagino di sì,” confermò lui senza sbilanciarsi.
“Non lo sai? Io so solo che comprare e mantenere un cavallo sarebbe stato proibitivo per la mia famiglia. Sei fortunato.”
Matt mi guardò per la prima volta da qualche minuto, poi dovette decidere che era inutile intestardirsi a leggere quando io volevo così caparbiamente rovinargli i piani, così chiuse il libro e lo ripose nello zaino alle sue spalle, prima di stendersi nella mia stessa posizione e rispondermi.
“È quasi l’unica cosa che mi faccio ancora pagare dai miei, con il solo stipendio estivo non potrei mai permettermela.”
Stavo per domandargli il perché, curiosa di sapere che tipo di rapporto avesse coi suoi genitori per arrivare a dire cose del genere, ma mi trattenni all’ultimo per non risultare troppo invadente e Patterson ne approfittò per cambiare argomento, evidentemente ansioso di non parlare più di se stesso.
“Non ti manca la California?” mi chiese quindi, dal nulla. “Qui dev’essere tutto così piatto rispetto a una città come Oakland.”
Feci una smorfia seguendo i movimenti di una nuvola sopra di me. “Non tanto. Tutto sommato viviamo non troppo lontano da Boston, ho sempre pensato che fosse un buon compromesso il trasferirsi qui.”
Lui sbuffò piano e io ridacchiai, decidendo quindi di essere sincera.
“No, non è del tutto vero. All’inizio l’ho odiato, il trasferimento, ho odiato tutto di Winthrop: la scuola, le persone, persino il mare, l’oceano, che mi ricordava tanto il mio oceano, il Pacifico della West Coast. Poi Oakland è attaccata a San Francisco, ti puoi immaginare il tipo di vita che c’è lì.” Presi fiato, ma non mi fermai. “Alla fine mi sono adattata. Sono piuttosto brava, sai, ad adattarmi. Col tempo Winthrop ha finito per piacermi.”
“Perché un compromesso?” mi domandò Matt.
Non capii subito quello di cosa stesse parlando. “In che senso?”
Lui ne approfittò per prendermi in giro, ovviamente. “Parli talmente tanto che non ti ricordi neanche tu quello che dici,” ridacchiò divertito.
Gli tirai un pugno fiacco sul fianco e lui continuò. “Hai detto che è stato un buon compromesso trasferirsi qui.”
“La vita non ci andava troppo bene a Oakland. Alla mia famiglia, intendo.” Sospirai, incerta se continuare o meno, ma alla fine non riuscii a trattenermi. “Mia madre è stata fortemente depressa per degli anni, prima che ci trasferissimo a Winthrop. Ebbe un brutto aborto quando io avevo all’incirca otto o nove anni, e da quel momento alternò momenti di umore stabile a periodi di depressione nera, in cui non si alzava nemmeno dal letto per giorni interi. Sembrava una situazione senza via d’uscita e inoltre mio padre aveva problemi sul posto di lavoro. Così, mentre mia madre sembrava pian piano riprendersi, papà decise di licenziarsi e trasferirsi. Qui c’è mia nonna materna, ci ha aiutati tantissimo. Credo sia stata la scelta più giusta e, anche se avrei preferito per mille motivi restare in California, non rimpiango quei bruttissimi momenti. Fu un incubo anche per me vedere mamma stare così, ed ero solo una ragazzina. Per questo non ho mai contestato la scelta di papà, né ho dato a vedere come la pensavo, in una situazione del genere mi sembrava stupido mettermi a fare i capricci.”
Mi ero decisamente lasciata andare: non sapevo perché gli avevo raccontato tutte quelle cose, lui non mi aveva chiesto niente di specifico e comunque non aveva insistito perché entrassi nei particolari. Evitai di spostare lo sguardo su di lui e mi zittii per diversi minuti di fila, convinta di averlo messo in imbarazzo e di avergli dato un ulteriore motivo per starmi alla larga: la pena. Non volevo che le persone provassero compassione per me e per la mia storia, stavo bene ora.
Stavo quasi per alzarmi e cercare una scusa per chiedergli di tornare verso casa – ormai non mancava molto all’orario in cui saremmo dovuti rientrare, ad ogni modo – quando Matt mi stupì parlando per primo.
“Conosco Thomas Petrovic da quando eravamo piccoli,” confessò all’improvviso, come se gli avessi chiesto spiegazioni sulla faccenda.
Non me l’aspettavo e per qualche secondo non seppi come reagire, era un cambio d’argomento talmente repentino che rasentava la follia. Ma alla fine, come sempre, la curiosità ebbe la meglio.
“Siete amici d’infanzia?” domandai, senza muovermi di un millimetro.
“Per niente. Non ci siamo mai stati molto simpatici, ma i nostri genitori si frequentavano. Si frequentano ancora, in realtà, fanno parte della stessa cerchia di ricconi snob.”
Parlava senza usare un’intonazione particolare, come se fosse una storia da niente che raccontava tutti i giorni, col suo solito modo di fare un po’ annoiato e casuale; eppure era impossibile non notare l’amarezza – la malinconia? – che traspariva dalle sue parole. Ormai mi aveva interessata, quindi lo incitai a continuare.
“Perché non frequentate la scuola privata? La Saint James, si chiama così, no? Come gli altri ricconi snob, dico.”
“La frequentavamo entrambi. Io ho scelto di cambiare scuola per fare il liceo pubblico, lui è stato espulso per dei motivi che non ho mai saputo bene. Non si comportava granché bene, adesso sembra essere migliorato, ma non con le ragazze, a quanto pare.”
“È per questo che… Beh, che mi hai consigliato di non uscire con lui?” chiesi, un po’ indecisa su come porre la domanda.
Sentii Matt sistemarsi lo zaino sotto la testa prima di rispondere. “Anche, sì. Ho presente il personaggio, diciamo.”
“Perché hai lasciato la scuola privata?”
Ormai ci avevo preso gusto con le domande e anche se Matt non era un fiume di parole come la sottoscritta avevo notato che stava cominciando a rispondere. A modo proprio, usando meno sillabe possibile, ma rispondeva.
“Non mi piaceva più quell’ambiente. All’inizio ero anch’io il tipico rampollo snob dell’alta società, ero un principino.”
Ridacchiai quando, con il sorriso nella voce, usò di proposito il termine che io avevo coniato per prenderlo in giro neanche troppo amichevolmente.
“Io l’ho sempre detto,” commentai infatti. “E poi?”
“Più vivevo in quella bolla, più mi rendevo conto che non era il posto per me. Forse con un po’ di pelo sullo stomaco avrei potuto finire le scuole lì e uscire pronto per qualsiasi college del paese, ma non ho retto.”
“Perché eri troppo snob anche per gli snob,” lo presi in giro, sapendo di poter scherzare con lui, a quel punto.
“Esatto,” rispose Patterson con tono fintamente altezzoso. “Almeno alla Winthrop High posso trattare tutti per ciò che sono: plebaglia.”
Ridacchiai appena, poi tornai seria per fargli un’altra domanda, una ancora più personale, a cui non sapevo nemmeno se avrebbe voluto rispondere: si basava su di un’ipotesi che avevo costruito in base a ciò che mi aveva detto in precedenza, magari stavo per fare un buco nell’acqua. Non mi tirai comunque indietro.
“È stato il trasferimento il motivo della rottura coi tuoi genitori? Insomma, il fatto che vuoi mantenerti e tutto il resto…” blaterai, gesticolando senza rendermene conto.
Matt rifletté qualche istante sulla possibilità di darmi o meno una risposta, poi sospirò. “No, i problemi c’erano da prima. Mio padre era sempre assente per lavoro, mia madre era anaffettiva. Sono ancora così, entrambi. Mi ci sono staccato per necessità, non voglio diventare come loro.”
Trattenni quasi il fiato, colpita dalla durezza delle sue parole. “È una decisione… coraggiosa. Insomma, a nemmeno diciotto anni.”
Lui rispose come se fosse una cosa da nulla. “Cerco solo di mantenermi per quello che posso, con lavoretti part-time ed estivi. E da qualche mese sono andato a vivere nella dependance della nostra villa. Non è molto. Sono sempre a casa loro.”
Era da qualche tempo, ormai, che immaginavo degli strani equilibri nella famiglia Patterson: mi ero ritrovata a fantasticare sulle poche informazioni racimolate in giro e sulle pochissime parole dette da Matt in proposito, pensando che ci dovesse essere qualcosa di non troppo chiaro. Eppure mai avrei pensato a una situazione simile. Matt era ricco, poteva avere tutto ciò che voleva, ma aveva deciso di allontanarsi da quell’agiatezza e dai propri genitori perché, probabilmente, non si sentiva abbastanza amato da loro.
Improvvisamente, senza sapere come fosse successo, mi ritrovai a essergli grata. Mi ero sbilanciata troppo raccontandogli la storia di mia mamma, gli avevo parlato di cose che non avevo mai confessato a nessuno, mi ero mostrata a lui per la prima volta senza quella corazza che ero solita mettere di fronte a quasi tutti. Matt doveva averlo capito e, anche se con qualche difficoltà, aveva deciso di raccontarmi a sua volta qualcosa, per togliermi dall’imbarazzo. Era come se non volesse mantenere quella posizione di vantaggio che io gli avevo consegnato rivelandogli la mia situazione familiare: senza rendersene conto mi aveva restituito quel vantaggio e, così facendo, mi aveva dato una fiducia che non sapevo nemmeno se era meritata.
Perciò sì, gli fui grata, sentii il mio cuore riempirsi di una strana sensazione di leggerezza che interpretai come riconoscenza. Ma non riuscii comunque a ringraziarlo.
“Mi dispiace,” dissi invece, girando appena la testa per guardarlo.
Durante quella conversazione eravamo rimasti stesi sul prato, con le teste appoggiate ai rispettivi zaini, guardando il cielo pur di non far incontrare i nostri sguardi. Quando mi girai verso Matt anche lui si voltò, si mise su un fianco puntellandosi su di un gomito e mi guardò dall’alto.
Fece una smorfia e poi un sorriso stiracchiato. “Ci sono cose peggiori,” commentò pragmatico.
“Già,” risposi io, stranamente a corto di parole.
Aveva ragione, c’erano cose decisamente peggiori al mondo, e anche se a nessuno di noi due la vita stava riservando un trattamento facile, non potevamo certo dirci sfortunati nel vero senso della parola. Anzi, forse Matt era messo pure peggio di me: io avevo avuto i miei problemi in famiglia, ma almeno avevo dei genitori che mi volevano bene e che me lo dimostravano ogni giorno.
Fu di nuovo lui a rompere il silenzio, facendo un’espressione pensierosa. “Siamo un bel duo di sfigati.”
Drizzai la schiena per sembrare più altezzosa e mi alzai appena appoggiandomi a mia volta all’indietro sui gomiti, avvicinandomi inevitabilmente a lui che continuava a guardarmi dall’alto.
“Pensa per te, principino, io sto benissimo,” gli risposi, fingendomi offesa. “E poi oggi sarei io quella lagnosa,” aggiunsi a voce più bassa, per sottolineare che mi ricordavo ciò che mi aveva detto appena qualche ora prima.
Matt scoppiò a ridere alla mia espressione oltraggiata ed io, non so perché, rimasi totalmente incantata dall’immagine di quella risata, dai suoi occhi per una volta così luminosi, dalla piccola fossetta che gli si formava sulla guancia mentre sorrideva in quel modo. Così, quando notai quanto fossimo vicini, di riflesso mi sporsi verso di lui e socchiusi le labbra, ancora confusa per tutto ciò che stava accadendo. Lui smise immediatamente di ridere e mi guardò perplesso, ma fu solo quando vidi i suoi occhi diventare da stupiti a esitanti che mi resi conto di quello che stavo facendo e mi allontanai di scatto, mettendomi seduta.
Mi ero avvicinata a Matt Patterson aspettandomi che si sporgesse per baciarmi. Come se fosse una cosa naturale, che succedeva tutti i santi giorni. Come se non mi ricordassi che lo odiavo, che mi odiava, che un bacio tra noi due probabilmente avrebbe causato la distruzione del mondo e lo sgretolamento dell’intero universo. Merda.
Il cuore mi batteva talmente forte nel petto che pensavo sarebbe uscito per fuggire – almeno lui – da un momento all’altro, ma finsi indifferenza, mi schiarii la gola e parlai per prima.
“Andiamo? Si è fatto un po’ tardi, non vorrei che i miei si insospettissero. Anche se in realtà devo andare da mia nonna oggi pomeriggio, forse lei non sa nemmeno a che ora finisco scuola. O magari sì, non saprei. Non mi ricordo se gliel’ho detto.”
Mentre blateravo mi alzai in piedi e mi lisciai la gonna per pulirla dall’erba, ma non guardai mai nella direzione di Patterson, anche se sentivo il suo sguardo su di me. Alla fine decise di non rispondere, si alzò a sua volta e raccolse l’asciugamano da terra, poi lo sbatté e lo piegò, si caricò lo zaino sulle spalle e mi lanciò un’altra occhiata.
Annuii, piuttosto stupidamente visto che non mi aveva posto alcuna domanda, e mi incamminai verso la macchina.
“Immagino che valga di nuovo la regola del non parlare,” biascicai una volta entrata, mentre mi allacciavo la cintura.
L’idea di fare un altro viaggio silenzioso con lui di fianco che controllava ogni mio movimento con la coda dell’occhio mi metteva addosso un’agitazione incredibile, a maggior ragione visto ciò che era appena accaduto, ma non potevo fare altrimenti. Anche volendo non avrei saputo cosa dire e avevo paura che iniziando a parlare mi sarei messa a sparare cazzate a raffica come al mio solito.
“Veramente la regola dice solo di non usare frasi troppo lunghe,” puntualizzò Matt, mettendo in moto l’auto.
Non riuscii a trattenermi. “Per te non c’è pericolo, mi sa,” borbottai a bassa voce, quasi indignata dalla sua non-reazione fino a quel momento.
Lui prese fiato per rispondermi, ma alla fine si limitò a sospirare piano senza dire niente, per non smentirsi. Non aveva intenzione di dire alcunché per provare a togliermi – toglierci – dall’imbarazzo, sembrava assolutamente impermeabile a ogni mio commento. Però notai che teneva un’andatura più veloce dell’andata, anche se non avevamo davvero fretta di arrivare, dal momento che eravamo abbondantemente in anticipo sul suono della campanella: forse anche lui voleva accorciare quel viaggio il più possibile, dunque.
Eravamo ormai su un rettilineo nelle campagne fuori Winthrop ed eravamo in silenzio da un buon quarto d’ora, quando Matt si fece prendere da un’eccessiva smania di arrivare e accelerò più del dovuto. Il secondo successivo avevamo una volante della polizia alle spalle con i lampeggianti accesi, a intimarci di fermare la macchina a bordo strada.
“Cazzo,” imprecò Patterson rallentando e accostando sulla destra, le mani strette sul volante con tanta veemenza da avere le nocche bianche.
“Non è una macchina rubata, vero?” domandai con tono piatto, non sentendomi nemmeno in grado di fare battute di spirito.
Lui mi lanciò un’occhiata furibonda, come se fosse davvero, davvero incazzato con me, ed era la prima vera reazione emotiva che gli vedevo avere da quando avevamo lasciato il maneggio, da quando mi aveva guardato le labbra con aria indecisa, per la precisione. Il mio cuore accelerò in protesta: non aveva il diritto di essere arrabbiato con me.
Non facemmo in tempo a dire nient’altro, perché l’agente che era sceso dalla volante batté sul finestrino di Matt, che si voltò sospirando e abbassò il vetro.
“Documenti, prego,” fece serio il poliziotto dopo aver guardato bene dentro l’auto.
Patterson si sfilò il portafogli dalla tasca posteriore dei jeans e gli diede la patente, poi si sporse verso di me e io sussultai appena prima di rendermi conto che voleva prendere le carte della macchina dal vano portaoggetti davanti al mio sedile. Mi spiaccicai allo schienale per non sfiorarlo nemmeno per sbaglio, ma sentivo comunque il profumo dei suoi capelli e la cosa mi destabilizzava vagamente. Per fortuna la ricerca finì in fretta e, trovati quei dannati documenti, Matt si rimise dritto al proprio posto.
Chiusi brevemente gli occhi, sospirando, mentre l’agente controllava ciò che gli aveva passato Patterson.
“E lei, signorina?”
Riaprii gli occhi di scatto e notai che, com’era prevedibile, il poliziotto stava parlando con me.
“Cosa?” domandai sentendomi estremamente stupida per la milionesima volta quel giorno.
“Posso vedere un documento?”
Sentii distintamente un brivido corrermi lento lungo la schiena nell’istante in cui realizzai che, non avendo con me il portafoglio, non avevo alcun documento da esibire.
“Io veramente… Cioè, vede, oggi non ho con me il… E quindi… No-non pensavo che, insomma…” balbettai senza ritegno.
Matt alzò gli occhi al cielo e provò a rispondere al posto mio. “Sta cercando di dire che ha dimenticato il portafogli a casa. Ma può vedere da lei che non è molto pericolosa, agente, al massimo è pericolosamente sbadata.”
Quindi il principino sapeva ancora bene come parlare: mi indignai, ma non ero certo nelle condizioni di rispondergli per le rime.
Il poliziotto ci scrutò serio prima di iniziare la ramanzina. “Non farei tanto lo spiritoso, se fossi in lei. Stava correndo ben oltre il limite di velocità concesso in questo tratto, è minorenne, immagino che lo siate entrambi, e la sua amica è senza documenti. Potrei anche pensare che siate fuori da scuola senza il permesso dei vostri genitori.”
Trattenni il fiato, nel panico più totale: eravamo spacciati. Mio padre si fidava di me, me se avesse scoperto che avevo saltato la scuola avrei fatto la muffa per sei mesi in camera mia prima che mi concedesse nuovamente il permesso di uscire.
L’agente, infatti, non aveva ancora finito. “Non ho intenzione di perdere tempo portandovi in centrale, ma se poteste darmi un recapito telefonico cada uno per verificare se…”
“Foreman?”
La voce maschile che aveva interrotto il predicozzo proveniva dalla spalle del poliziotto, che si voltò per rispondere. Mi attaccai istintivamente al braccio di Matt, in ansia, e lui fissò perplesso, senza commentare, le mie mani aggrappate al suo bicipite. Lo mollai e mi misi a stritolarmi le dita; Patterson scosse la testa e guardò fuori dal finestrino. Non potevamo vedere chi aveva parlato, ma intuimmo che si trattava di un altro agente che era uscito dalla macchina dallo scambio di battute successivo.
“Tutto okay?”
“Sì.”
“Ci stai mettendo più del previsto, c’è qualche problema?”
“Sono due minorenni, volevo verificare che avessero le carte in regola per essere fuori da scuola a quest’ora.”
“Ah.”
Il poliziotto numero due, di cui vedevo solo il busto, si piegò per lanciare un’occhiata dentro la macchina, si rialzò e poi si riabbassò strabuzzando gli occhi mentre mi guardava meglio.
“Porca troia,” imprecai a bassa voce, riconoscendolo all’istante.
Era Chris, il ragazzo che avevo conosciuto qualche mese prima al Platinum. Notai che la sua divisa era leggermente diversa da quella del suo collega e pensai che magari non aveva ancora finito l’Accademia di Polizia. In realtà non sapevo se fosse un bene o un male il fatto di aver trovato proprio lui, ma cominciai in cuor mio a sperare di non finire in carcere o, più verosimilmente, in punizione per il resto della mia vita.
“Conosco la ragazzina, Foreman,” disse infatti Chris all’altro, e io sbuffai per quel ‘ragazzina’.
Quando Patterson mi guardò interrogativo, mi limitai a scrollare le spalle, ascoltando il resto della conversazione.
“Bene,” fece Foreman. “È senza documenti, almeno adesso potremmo identificarla.”
“Conosco anche i suoi genitori,” mentì Chris, con un tono talmente deciso da risultare più che credibile. “È una brava ragazza, sono sicuro che non sta facendo niente di male. Se la cosa ti fa sentire più tranquillo stasera faccio una chiamata a sua madre per verificare che sia tutto a posto.”
L’altro tentennò, era un vero osso duro. “Sei sicuro?”
“So che tecnicamente non sono ancora un agente, ma… Lascia fare a me, va bene? Gli do una bella strigliata per l’eccesso di velocità e li rimando a casa. Credo ci fosse qualcosa di più importante alla radio, poco fa, prova ad andare a controllare.”
Alla fine l’aveva convinto: il poliziotto annuì e si diresse verso la volante, mentre Chris si abbassò sul finestrino e mi lanciò un’occhiataccia.
Graziegraziegraziegraziegrazie,” lo investii non appena fui certa che ci fossimo liberati del collega rompipalle, sporgendomi persino su Patterson per la foga senza rendermene conto. “Non ti ringrazierò mai abbastanza.”
“Il che mi fa pensare che stavate facendo davvero qualcosa di poco lecito,” rispose lui, ma la sua intonazione non era dura, era quasi scherzosa.
A quel punto intervenne Matt, silenzioso fino a quel momento. “Io ti ho già visto,” commentò, indeciso, guardando Chris. Poi si girò verso di me ed ebbe l’illuminazione. “Mi ricordo! Ci hai provato con lui al pub, vero?”
Gli mollai un pugno sul braccio, stavolta non molto scherzosamente. “Sei un idiota.”
“Beh, mica ti sto giudicando. Anzi, vista la situazione attuale hai fatto bene a provarci,” ribatté lui abbassando la voce e facendomi un sorriso gelido.
Evitai di mandarlo a quel paese solo perché Chris ci stava ancora osservando, perciò mi voltai verso di lui e lo ringraziai di nuovo.
“Figurati, il mio collega è sempre troppo pesante in questo genere di cose,” rispose lui. “Ma è la prima e l’ultima volta che ti paro il culo, Delia, ricordatelo.”
Abbassai la testa e annuii contrita. “Va bene,” mormorai.
Chris puntò un dito verso Matt. “E tu, ragazzino, stavi correndo un po’ troppo. Datti una regolata, non è una cosa su cui scherzare.”
Patterson fece un cenno col capo, ma mantenne la proprio espressione altezzosa e annoiata che, ormai, avevo imparato e riconoscere come una maschera.
“Dico sul serio,” lo redarguì infatti l’altro.
Mi premurai di intervenire per evitare altri problemi: era evidente che a Matt non andasse troppo a genio Chris, forse perché aveva chiamato anche lui “ragazzino”.
“Sì, ha capito. Scusalo, è che questa è proprio la sua solita faccia da schiaffi,” improvvisai, togliendomi la soddisfazione di prenderlo in giro a mio volta.
Chris sospirò e poi mi sorrise. “Okay, ragazzi, potete andare. Stammi bene, Delia.”
“Ci vediamo in giro?” gli chiesi prima che se ne andasse.
Matt sbuffò quasi impercettibilmente, mi ero sporta di nuovo su di lui.
“Tu cerca di non metterti nei guai,” ribatté lui allontanandosi.
Quando ripartimmo mi accorsi che, nonostante tutto, l’atmosfera nell’abitacolo non era migliorata di molto: entrambi eravamo silenziosi e poco propensi a scherzare l’uno con l’altra. Pigiai qualche tasto a caso sulla radio finché non trovai una stazione decente, alzai il volume e mi misi più comoda sul sedile. Patterson non commentò e quasi mi dispiacque di non averlo infastidito con quel gesto. Un quarto d’ora dopo, grazie a qualche indicazione data da me a mezza voce, eravamo davanti a casa di mia nonna.
Mi slacciai la cintura di sicurezza e mi allungai sui sedili posteriori per recuperare la mia borsa.
“Vado,” dissi quindi, aprendo la portiera. “Grazie per… Beh, per avermi fatto conoscere Amber.”
Matt fece il solito cenno con la testa e io, che nonostante tutto avevo fatto una fatica incredibile per riuscire a ringraziarlo, mi indispettii di nuovo per la sua totale mancanza di uno sforzo di gentilezza.
“Ci vediamo a scuola,” ringhiai mentre uscivo dall’auto.
“Ciao,” si degnò di rispondere lui.
Per tutto il pomeriggio mia nonna fu costretta a subirsi il mio malumore ingiustificato, ma sopportò con uno stoicismo tipico della sua età.
Alla fine mi chiusi in camera e parlai un’ora al telefono con Audrey, mentendole spudoratamente su tutta la parte che riguardava la presenza di Patterson nella mia gita al maneggio. Se la mia amica si insospettì non lo diede a vedere, forse anche perché era ancora preoccupata per la faccenda dell’armadietto, cosa che io avevo completamente dimenticato; infatti parlammo soprattutto di quello e dei mille e uno modi per vendicarmi su Petrovic.
Riuscì comunque a distrarmi e quando andai a dormire, decidendo per quella notte di restare a casa di mia nonna, ero un pelino più tranquilla, almeno finché non realizzai, un attimo prima di addormentarmi, che avevo lasciato il motorino a scuola e che il giorno dopo mi sarei dovuta alzare prestissimo per prendere l’autobus. L'ultimo pensiero di quella giornata costellata di alti e bassi fu quindi una nuova e poco fantasiosa maledizione nei confronti di Patterson.













Eccomi! Solo poche righe, perché vorrei riuscire a pubblicare subito e non ho molto tempo.
Il capitolo non mi convince molto. È una parte importantissima e ho paura di non averla resa al meglio. Commenti, please. <3
So che alcune speravano in un bacio, per lungo tempo sono stata indecisa se inserilo o no, ma ho già ben chiari nella mia testa i tempi della storia e non sono riuscita a modificarli. Spero di non avervi fatto imprecare troppo!
Non sono un esperta di cavalli, ho cercato (sigh) di stare sul vago, ma se ci fossero castronerie da correggere fatemelo pure sapere.
Il titolo del capitolo l'ho preso da questa canzone (click per il link): Take you away
Okay, chiudo qui! Un bacio grande grandissimo a tutte, grazie a chi commenta, a chi ha aggiunto la storia nelle varie liste e a chi mi segue. Alla prossima.

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Capitolo 11
*** Don't ask questions you don't want to know the answer to ***


11. Don't ask questions you don't want to know the answer to


Il giorno successivo a quello in cui avevo avuto la malsana idea di saltare la scuola per fare una gita con Patterson entrai a scuola con due occhiaie che mi arrivavano fino ai piedi: avevo dormito male e mi ero dovuta alzare molto presto per prendere l’autobus. Perciò quando Dave mi accolse, festante e incuriosito dalla mia sparizione del lunedì, io non avevo molta voglia di scherzare. Rimasi sul vago, come avevo fatto la sera prima con Audrey, gli dissi che avevo sentito il bisogno di stare per conto mio e che ero stata in un maneggio.
“Come ci sei andata, dato che il tuo motorino era qui fuori stamattina?”
Dave era dannatamente attento ai dettagli, lo sapevo che mentire a lui sarebbe stato più difficile. Che poi tecnicamente non stavo mentendo, stavo giusto omettendo dei particolari non molto rilevanti.
“In autobus,” borbottai senza troppa convinzione.
Il mio amico mi guardò sospettoso, ma decise di non infierire oltre. Sapeva che non gli mentivo spesso, ma sapeva anche che quando lo facevo era per un buon motivo e che, in quel caso, avevo bisogno di tempo per decidere di dire tutta la verità.
“Stai meglio oggi, Deels?”
Annuii, sollevata dal cambio d’argomento. Ed era vero: tolti i problemi che mi ero creata con Patterson il giorno precedente, per il resto non mi sentivo più appesantita come quando avevo scoperto la scritta sul mio armadietto. Il quale, lo vidi poco dopo, era stato coperto con un pezzo di cartone nell’attesa che venisse sostituito lo sportello.
Il passaggio successivo fu mettere in atto il piano di vendetta nei confronti di Thomas Petrovic. Era molto semplice: lui aveva messo in giro delle voci false e volgari su di me e io avrei messo in giro delle voci false e imbarazzanti su di lui. Era una cosa talmente stupida e infantile che quasi mi vergognavo, ma per com’ero fatta non potevo permettere che quell’idiota continuasse a fare il bello e il cattivo tempo a scuola.
Nel giro di una mattinata, grazie soprattutto all’aiuto di Audrey e alle conoscenze di Dave, mezza scuola sapeva che tra me e Petrovic non era successo niente sotto alle gradinate, ma solo perché lui aveva dei problemi meccanici lì sotto. In poche parole, che non riusciva ad avere un’erezione. Un’idea cretina, sì, ma ci facemmo tante di quelle risate a mettere in giro quella voce che valse la pena di farlo solo per il nostro divertimento.
Dopo pranzo, quando pensavo di potermi finalmente mettere l’anima in pace, venni fermata in corridoio da Nathan Wilde, l’amico e compagno di squadra di Petrovic con cui ero uscita un paio di volte l’anno precedente. In quel momento ero sola e non riuscii a evitarlo, per quanto ci provai.
“Gray,” mi chiamò Wilde mentre mi muovevo dalla mensa alla biblioteca, dove dovevo restituire un libro che avevo preso in prestito.
Lo guardai di striscio e, appena lo riconobbi, lo ignorai e accelerai il passo.
“Ehi, Delia, aspettami.”
Non mi fermai, ma lui riuscì ovviamente a raggiungermi lo stesso e a mettersi al mio fianco.
“Che vuoi, Wilde?” gli domandai poco gentile.
Forse non avevo motivi per avercela anche con lui, ma era pappa-e-ciccia con Petrovic e questo mi bastava a considerarlo, nella mia testa, colpevole quasi quanto questo. Inoltre le falsità messe in giro sul mio conto comprendevano anche Wilde, che era conteggiato tra le innumerevoli persone con cui, in teoria, ero andata a letto, eppure non era successo nulla di simile tra di noi in quel breve periodo in cui eravamo usciti.
Nathan continuò a seguirmi. “Volevo… vorrei parlarti di quello che è successo.”
“Detta così è un po’ vaga la questione, non credi?”
Lui mi toccò un braccio con delicatezza, nel tentativo di non farmi proseguire. “Delia, ti prego, ascolta.”
Sospirai, fermandomi appena fuori dalla porta della biblioteca, poiché sapevo che se fossimo entrati non avremmo più potuto dire una parola: il signor Bellamy, il bibliotecario, non transigeva al riguardo.
“Ti ha mandato Petrovic?” domandai a Nathan, che sembrava essere vagamente sulle spine.
Lui fece una faccia stupita, come se non si aspettasse quella domanda. “No, perché?”
“Non so, avete delle usanze particolari qui,” bofonchiai, ripensando alle due volte in cui ero stata minacciata da ragazze che difendevano l’amichetta del cuore.
Wilde scosse la testa. “Non avrebbe senso.”
“Dimmi che c’è, allora,” cercai di tagliare corto, senza adoperare un briciolo di cortesia in più rispetto a prima.
“Mi dispiace per… Beh, per quello che è successo,” mormorò lui, guardandosi la punta delle scarpe.
“Ti stai scusando per Petrovic?” chiesi di nuovo, dal momento che non riuscivo a capire il punto.
“Ancora? No, io e Petey siamo due entità separate, credimi.”
“Da come ve ne andate in giro sempre insieme non si direbbe,” commentai sprezzante.
Non era del tutto vero, ma non avevo intenzione di rendere a Wilde le cose più semplici: lui e Petrovic erano compagni di squadra e, sì, erano anche amici, ma non erano sempre assieme e mi sembrava che fuori da scuola frequentassero compagnie diverse.
“Tom è stato un coglione e so che le cattiverie che ha messo in giro su di te non sono vere. Ma non verrà mai a chiederti scusa.”
Alzai le sopracciglia, colpita. “Immagino di no.”
Nate aveva finalmente alzato la testa, cominciando a guardarmi. “Ma io sono qui per la parte che riguarda me. Non è giusto che girino quelle voci, perché… Insomma, non è successo niente di che tra di noi, l’anno scorso.”
“Ah, meno male che me lo dici tu. Stavo cominciando a pensare di avere l’Alzheimer,” borbottai, stavolta usando un tono più ironico e divertito che cattivo.
Wilde sorrise, prima di ricominciare con le spiegazioni. “Quando frequenti uno spogliatoio come il nostro, certe notizie girano. A volte sono vere, a volte sono pompate. Non ho messo in giro io le voci su di te e non le ho alimentate, ma non ho fatto niente per smentirle, e in questo ho sbagliato.”
Lo guardai seria. “Sì, hai sbagliato.”
“Mi dispiace,” continuò lui. “Farò quello che posso per aiutarti a far sparire quelle dicerie, io…”
Lo interruppi, vedendolo in difficoltà. “Nate, non fa niente. Hai fatto errori ben più gravi. Tipo essere amico di Petrovic.”
Lui sorrise di nuovo e si grattò la nuca. “Ci ho appena litigato, sai. Credo che abbia esagerato stavolta.”
Mio malgrado, fui colpita dal suo parlarmi in modo così sincero e diretto, così mi ritrovai senza parole per qualche secondo. Nate alzò le spalle e approfittò del mio mutismo per cominciare a congedarsi.
“Ecco, quello che dovevo dire te l’ho detto. Se posso fare qualcosa per…”
Non riuscì a terminare la frase che la porta davanti alla quale eravamo si aprì e ci trovammo davanti il volto serio del bibliotecario.
“Vi sembra forse il posto dove mettersi a chiacchierare del più e del meno?” domandò con voce bassa ma rabbiosa, indicando il cartello che, già fuori dalla porta, intimava a fare silenzio.
“Scusi, professore,” mi uscì detto prima di riuscire a trattenermi, e Nathan tossì per camuffare una mezza risata.
Bellamy mi squadrò severo, cercando di capire se lo stessi prendendo in giro. “Non sono un professore. E ora entrate in silenzio o spostatevi da qui.”
Feci un cenno con la mano a Wilde per dirgli che entravo in biblioteca, lui sembrava intenzionato ad aggiungere qualcosa al discorso, ma l’occhiataccia di Bellamy lo bloccò, quindi mi salutò con un sorriso e si allontanò.

Per le successive due settimane le voci su me e Petrovic continuarono a rincorrersi per i corridoi della scuola, finché non vennero sostituite da qualcosa di più succoso e più nuovo, nella fattispecie la liaison tra Melanie Frayer, un’ochetta del nostro anno, e un ragazzo ultratrentenne, il fratello della sua migliore amica. Avevo smesso di ascoltare i pettegolezzi a scuola da quando avevo capito che spesso non avevano alcun fondamento di verità, ma in quel caso ne approfittai per calcare la mano, un po’ scherzosamente un po’ no, con Jude. Quando Audrey tirò fuori l’argomento a tavola mi ritrovai a sorridere soddisfatta.
“Hai sentito, Judes?” trillai, guardando la mia amica, che sembrava non aver capito dove volessi andare a parare. “Non sono troppo piccola per Kerr, puoi ancora mettere una buona parola per me.”
Lei roteò gli occhi. “Oddio, Delia, non ricominciare.”
La cotta per suo fratello, anche se superficiale e poco seria, non mi era mai passata del tutto.
“Beh, se la Frayer se la fa col fratello trentaduenne della Jerkins, cosa vuoi che sia la differenza d’età tra me e Kerr? Ha solo… Quanti anni ha? Ventidue?”
“Ventitré,” specificò lei. “E non è quello il problema, mi rifiuto di vedervi insieme, è mio fratello! Non credo che la Jerkins sia contenta del casino che è scoppiato tra la sua migliore amica e suo fratello.”
Sospirai, affranta. “Il nostro è un amore impossibile, tu ci metterai sempre i bastoni tra le ruote.”
“Il vostro non è un amore. Kerr sa a malapena che esisti,” mi corresse Jude senza cattiveria. “E ti ho già detto che sta con una ragazza, adesso.”
“Sottigliezze,” sbuffai, sventolando una mano.
In quel momento arrivò Patterson e mi resi conto, con un piccolo sobbalzo del mio stomaco, che l’unico posto rimasto libero al nostro tavolo era di fronte a me. Anche lui se ne accorse, ma non sembrò preoccuparsene e appoggiò lì il proprio vassoio salutando tutti. Per fortuna avevo quasi finito, reggere tutto il pranzo costretta a guardare Patterson e magari a parlare con lui era impensabile. Finii in due bocconi la mia verdura, mi infilai la mela in borsa intenzionata a mangiarla dopo e mi alzai in tutta fretta, con la scusa di dover andare in bagno. Gli altri non dissero niente, ma vidi David radiografarmi con un lungo sguardo indagatore che non lasciava presagire nulla di buono.
Mentre mi allontanavo dalla mensa lanciai una maledizione a Patterson e alla giornata al maneggio che avevamo condiviso, compreso quel momento imbarazzante in cui avevo pensato che mi baciasse, che era il vero motivo per cui ultimamente mi ritrovavo a evitare la sua presenza con più tenacia del solito, a volte anche in modo inconscio. Quando mi ero trovata obbligata a parlare con lui, d’altro canto, le cose non erano andate meglio e tutti, amici e non, si erano accorti di quanto il mio odio nei suoi confronti fosse, se possibile, aumentato: gli rispondevo in maniera tagliente e quasi sempre monosillabica, sbuffavo alle sue battute, anche quelle che in un’altra situazione mi avrebbero fatto ridere, e trovavo qualsiasi suo atteggiamento insopportabile.
Sapevo che David se n’era accorto, tanto che una volta aveva anche tentato di chiedermi spiegazioni, ma io avevo liquidato il tutto rispondendo che avevo sempre odiato Patterson e dicendo che le sue erano solo paranoie. Proprio a causa di Dave e del suo occhio lungo, comunque, avevo deciso di provare a essere meno esplicita nelle mie manifestazioni d’odio e mi ero ritrovata a cercare di evitare Matt il più possibile: perciò si spiegavano le varie fughe che intraprendevo nel momento in cui mi trovavo nelle sue vicinanze, compresa quella appena avvenuta.
Alla fine andai davvero in bagno e poi mi ritrovai da sola senza sapere cosa fare. Decisi quindi di andare in giardino: era appena iniziato ottobre e fuori c’era il sole, a quell’ora potevo permettermi un po’ di relax all’esterno. Mi tolsi il giubbino in jeans e lo appoggiai per terra per sedermici sopra, estrassi dalla tracolla un libro e la mela che cominciai a sgranocchiare mentre sfogliavo senza troppa attenzione le pagine.
“Ehi.”
Era ovvio che non potevo pretendere di stare in pace per sempre, ma speravo di avere almeno cinque minuti prima di venire raggiunta da uno dei miei amici. Alzai gli occhi sulla persona in piedi di fronte a me e, a causa del sole che batteva proprio alle sue spalle, ci misi qualche secondo a riconoscerne la figura: Nathan Wilde.
Lo salutai con un sorriso e lui prese posto sull’erba accanto a me, incoraggiato dall’aria rilassata che avevo assunto quando avevo capito che si trattava di lui.
“Come va?” mi chiese mentre io appoggiavo il libro e incrociavo le gambe voltandomi per guardarlo.
“Tutto okay,” risposi, senza perdermi in dettagli. “Tu? Hai fatto pace con il tuo amichetto?”
Lui scosse la testa, fingendo di non cogliere la mia frecciatina su Petrovic. “Ci limitiamo a dei rapporti piuttosto freddini ultimamente.”
Lo sapevo, l’avevo già notato: vedere Nathan Wilde e Tom Petrovic che si ignoravano in maniera palese non era una cosa che capitava spesso, tanto che a scuola le ipotesi al riguardo si sprecavano. C’era chi diceva che avessero litigato perché erano innamorati della stessa ragazza e chi giurava che fosse un problema riguardante il football, ma forse io ero uno delle pochissime persone che sapevano come fossero andate davvero le cose.
“Mi spiace che abbiate litigato a causa mia,” gli dissi quindi, spinta da un improvviso senso di colpa che, in realtà, non aveva motivo di esistere.
Nate sorrise. “Non è colpa tua, è stato lui ad aver sbagliato per primo. E comunque prima o poi avremmo rotto comunque, il suo atteggiamento stava iniziando a darmi seriamente sui nervi.”
“Che atteggiamento?” chiesi, anche se non mi risultava difficile capire che cosa intendesse.
“Il suo modo di fare con le ragazze, con gli altri della squadra, in generale con le persone. Petey è convinto che tutto gli sia dovuto e di poter fare sempre quello che gli pare, senza curarsi di niente e nessuno. Ha già litigato con diversi nostri amici per questo, anche se la maggior parte della squadra lo vede come un semidio e non gli si rivolterebbe mai contro.”
Udito ciò, incuriosita, non riuscii a trattenermi dal fargli un’ulteriore domanda. “Se la pensavi così su di lui, perché eri ancora suo amico?”
Nathan alzò le spalle. “Tom non è male come compagnia. È viziato ed egocentrico, è vero, ma è spiritoso e in squadra riesce sempre a tenere alto il morale. Non era il mio migliore amico, ma mi sono sempre divertito in sua compagnia. L’ho visto fare diverse scorrettezze ad altre persone, ma non pensavo potesse essere così meschino anche nei miei confronti.”
A quel punto ero davvero confusa. “In che senso?”
Lui aggrottò le sopracciglia, tornando a guardarmi come se fino a quel momento fosse stato quasi sovrappensiero. “In che senso cosa?”
“Hai detto che è stato meschino nei tuoi confronti, ma mi pare che la scorrettezza l’abbia fatta più che altro a me,” spiegai indicandomi con un pollice. “Non per essere megalomane,” specificai poi con un sorriso.
“Sì, certo che la scorrettezza l’ha fatta a te ma… Intendevo prima che… Mi sono trovato anch’io lì mentre… Beh, insomma, hai capito, no?”
“In realtà no.”
Nathan sembrava vagamente nel panico. “Non… non è che avessi previsto di dirtelo, ma… Dio, che idiota che sono,” sbuffò, passandosi una mano tra i capelli scuri.
“Posso sapere pure io di cosa stai parlando o devo continuare a rimanere ignara?”
Lui mi fissò indeciso, prima di distogliere lo sguardo, in evidente imbarazzo. “Ho litigato con Petey per come si era comportato con te, ma ero già offeso con lui da prima.” Fece una pausa. “Da quando ti ha chiesto di uscire. Con me lì presente.”
Aprii la bocca e la richiusi a vuoto prima di decidermi a parlare. “Perché?”
Nate mi fissò come se fossi tonta. “Perché io e te eravamo usciti e… era rimasto qualcosa in sospeso.”
Non sapevo come rispondere. Non avevo mai pensato che tra noi fosse rimasto qualcosa in sospeso, eravamo usciti giusto un paio di volte l’anno precedente, in un periodo in cui mi ero trovata a frequentare diversi ragazzi, anche se mai in contemporanea. Dopo averlo baciato mi ero resa conto che non era scattato niente tra di noi, almeno così credevo, e avevamo smesso di vederci. Ero stata piuttosto scostante coi ragazzi in quel periodo, anche più di quanto lo fossi di solito, ma non mi pareva di aver ferito nessuno. Forse mi sbagliavo.
Wilde notò il mio mutismo e intervenne per togliermi dall’impiccio. “Non capivo cosa non fosse andato, io mi ero trovato bene con te. Avrei voluto chiederti un altro appuntamento, magari organizzare qualcosa di più carino, ma poco dopo uscivi con Todd e ho lasciato perdere.”
“Mi dispiace, io…”
Lui mi bloccò subito. “Non ti preoccupare. Quello che intendevo dire è che Petey sapeva tutto e non si è comunque trattenuto dal provarci con te. Non era niente di che, ma ci sono rimasto un po’ così.”
Di nuovo mi ritrovai senza parole e di nuovo fu Nate a parlare per primo.
“Se non dici niente mi preoccupi,” borbottò, e percepii una nota di inquietudine nella sua voce.
“Scusa, è che… io queste cose non le noto mai. Sono stata una cretina.”
Lui mi sorrise, rassicurante. “Non ti devi scusare, tu non hai fatto niente di male.”
Presi aria a pieni polmoni, accorgendomi di avere il battito leggermente accelerato, per la sorpresa e per l’agitazione. “Mi dispiace comunque se ho fatto qualcosa che ti ha ferito.”
Il sorriso di Wilde si fece amaro, mi parve, e poco dopo lui era in piedi pronto ad andarsene. “Non volevo dirti queste cose. Lasciamo perdere, va bene? Fa’ come se non ti avessi raccontato nulla, preferivo quando mi prendevi in giro.”
“Nathan, non…”
“Ci si vede in giro,” mormorò appena prima di voltarsi per dirigersi verso la scuola.
Sentii un misto di tenerezza e urgenza premermi alla bocca dello stomaco e, spinta da non so quale istinto primordiale, mi alzai per raggiungere Nate, che si dirigeva a passi svelti verso l’ingresso della scuola.
“Ehi, fermati!” esclamai, notando che non riuscivo a raggiungerlo così facilmente.
Certo, è un giocatore di football e tu sei una nanetta, Dee, cosa ti aspettavi? disse la mia voce interiore con una sfumatura fastidiosamente sarcastica.
“Nate!” lo chiamai di nuovo, e stavolta si voltò.
Per lo stupore mi fermai sul posto pure io, ancora distante qualche passo da lui, e mi ammutolii.
“Senti, non importa. Stavolta sono io che ho parlato troppo, okay?”
“Cosa vorresti insinuare?” replicai, e nel dirlo mi scappò un sorriso che, poco dopo, contagiò anche le labbra di lui.
Alzò le mani, come per giustificarsi. “Assolutamente niente.”
“Come no. Farò finta di non aver sentito,” affermai allora.
Dalla sua espressione e dal sorriso che continuava a dipingergli il volto, capii che aveva compreso cosa intendevo, così mi buttai.
“Ti va se usciamo uno dei prossimi giorni?” chiesi tutto d’un fiato.
Lo colsi di sorpresa. “Non devi, io… Non credevo ti sentissi in dovere di…”
“Non è che devo, mi va. Non ci vedo niente di male.”
Nate si morse l’interno della guancia, indeciso. “Penso che si possa fare.”
“Okay,” feci io.
“Okay,” ripeté stupidamente lui.
Ci fermammo, restando in silenzio per qualche secondo. Alla fine, almeno quella volta, fui io a rompere la situazione di stallo.
“Vado a recuperare la mia roba,” dissi, indicando la borsa ancora appoggiata in mezzo al cortile.
Lui annuì. “Io devo ancora pranzare, dovrei andare in mensa. Tu hai già…?”
“Sì.”
“Certo, allora…”
“Ci mettiamo d’accordo nei prossimi giorni, va bene? Magari per il weekend.”
Nate annuì di nuovo, sorrise e si congedò con un cenno della mano prima di voltarsi ed entrare nell’edificio. Rimasi ferma ancora qualche secondo, poi tornai a leggere il libro che avevo abbandonato per fare quella strana chiacchierata con Wilde.
Trovavo assurdo ciò che era appena successo e, come al solito, ci rimuginai parecchio su, ma una cosa molto più assurda mi accadde poco dopo. Quando mancavano una ventina di minuti all’inizio delle lezioni, decisi di alzarmi e raggiungere l’aula di Letteratura per vedere se qualcuno dei miei amici era già lì; una volta in corridoio vidi, in lontananza, la figura di Matt Patterson che camminava nella mia direzione. Senza pensarci due volte mi infilai nella prima porta che trovai alla mia sinistra, quella dell’aula “delle punizioni”, dove non c’era quasi mai nessuno. Ero sicura che Patterson non mi avesse visto e che avesse tirato dritto per la sua strada, perciò ebbi un sussulto ancora più grosso nel momento in cui, pochi secondi dopo, la porta si aprì ed entrò proprio lui. Dallo spavento mi cadde per terra la borsa che stavo appoggiando su di un banco in quel preciso istante.
“Nervosetta?” mi domandò infatti Matt con un tono irriverente nella voce.
Raccolsi la borsa e tentai di fuggire. “No, ma devo aver sbagliato aula, mi sa. Avrei il corso supplementare di Letteratura adesso, credo che dovrei andare.”
Patterson fece un passo di lato per posizionarsi esattamente tra me e la porta, lanciandomi al contempo un’occhiata eloquente. “Manca almeno un quarto d’ora all’inizio della lezione.”
“Volevo prendere posto,” biascicai tentando un’ultima scusa.
“È un corso facoltativo, non credo ci sia il pienone.”
“Ma Audrey mi ha chiesto se potevo…”
Lui mi interruppe con secchezza. “Gray, è ridicolo. Quanto vuoi andare avanti?”
Non mi aspettavo che andasse dritto al punto, non era da lui, ma indietreggiare in quel momento avrebbe significato dargliela vinta e non ero pronta a farlo.
Tentennai solo per un secondo. “A fare cosa?” domandai infine, con la mia solita faccia tosta.
Matt non si lasciò ingannare. “Non è mia abitudine chiedere spiegazioni e normalmente non ti avrei teso un’imboscata in un’aula vuota,” ammise, senza distogliere neanche per un attimo gli occhi dai miei.
“Allora lasciami in pace,” borbottai, la voce già meno sicura di prima.
Lui mi ignorò. “Ma mi stai trattando di merda da quando…” Si interruppe, forse indeciso su come continuare la frase senza farla diventare compromettente. “Da quando siamo stati al maneggio,” decise infine. “E voglio sapere se è per qualcosa che ho fatto.”
O per qualcosa che non hai fatto, lo corresse in automatico il mio cervello.
Mi maledissi mentalmente, ma mi impedii con veemenza di pensare al vero significato che avevano quelle parole. Invece, cercai di mettere su un’espressione neutra per rispondere a Patterson, che continuava a guardarmi in attesa.
“Non è per qualcosa che hai fatto, mi stavi sulle palle già da prima,” dissi, con troppa acredine per risultare del tutto credibile.
“Mi sembrava avessimo fatto pace da tempo.”
Sbuffai. “Un po’ meno di così, principino.”
Lui sorrise saputo e mi si avvicinò di un paio di passi, come per mettermi alla prova. “Quindi non è successo niente di strano tra di noi?”
“Quando?”
“Al maneggio.”
“No, niente.”
“Bene.”
“Perché lo chiedi?” domandai fingendo noncuranza, mentre il cuore mi martellava insistentemente in gola.
Fece spallucce e si avvicinò di un altro passo, costringendomi ad alzare ancora il viso per continuare a guardarlo negli occhi.
“Così, per essere sicuro,” rispose con il mio stesso finto disinteresse.
Era diventata una gara a chi avrebbe ceduto prima e sapevo di non avere dei nervi perfettamente saldi come quelli di lui. Così, dal nulla, sparai la prima cosa che mi passò per la testa, o almeno la cosa che pensavo potesse allontanarlo da me in quel momento e togliergli quell’atteggiamento sicuro e spavaldo che mi innervosiva da morire.
“Sto uscendo con Nate. Nathan Wilde.”
Matt mi guardò inarcando le sopracciglia, sorpreso, ma non si spostò di un millimetro. “Okay.”
“Da oggi. Cioè, ci esco stasera per la prima volta. Anche se tecnicamente non è la prima volta, ci ero già uscita l’anno scorso, in realtà,” specificai, inventandomi un paio di dettagli solo per risultare più credibile.
“Non ti ho chiesto niente, Gray.”
Si era allontanato di un paio di passi ed il suo tono era diventato improvvisamente freddo: ero riuscita nel mio intento, anche se evitai di analizzare il modo in cui l’avevo fatto, sennò avrei dovuto pormi troppe domande scomode.
Mi sistemai la tracolla sulla spalla e mi schiarii la voce prima di parlare di nuovo. “Posso andare ora?”
Matt si spostò di lato senza dire nulla e io lo superai, per niente alleggerita, dirigendomi vero la porta dell’aula. Una volta fuori tirai un sospiro di sollievo e continuai a camminare finché, in corridoio, non notai Nathan che parlava con un suo amico. Poiché non volevo ancora fermarmi, ma avevo anche bisogno di scambiare due parole con lui, lo presi per una manica della felpa e lo costrinsi a seguirmi in modo piuttosto rude.
“Ciao Robbie, te lo rubo un attimo,” mi premurai di avvisare l’amico, che ghignò sotto i baffi e fece un cenno di saluto con la mano.
“Mi accompagni in aula?” chiesi a Nate, lasciando andare il suo braccio; continuai senza aspettare che mi rispondesse. “Ti va bene se ci vediamo stasera? Sono libera.”
“Non avevi detto di aspettare il weekend?” domandò lui confuso.
“Sì, ma ho cambiato idea.”
Nel giro di cinque minuti, aggiunsi mentalmente, pensando che mi avrebbe preso, a ragione, per pazza.
Nathan sembrava confuso, ma non mi contraddisse. “Va bene,” decise infine, ancora poco convinto.
Eravamo giunti davanti alla porta dell’aula dove avrei dovuto seguire la mia lezione di Letteratura, perciò mi fermai e lui fece lo stesso, piazzandosi di fronte a me.
“Ti ricordi dove abito?” mi informai, nel tentativo di riguadagnare una parvenza di sanità mentale ai suoi occhi.
Nate annuì, poi mi sorrise e piegò leggermente la testa di lato, come se stesse pensando a qualcosa. “Andiamo al cinema, ti va?”
Sorrisi di rimando anch’io, finalmente rilassata dalla sua espressione tranquillizzante. “Basta che non mi porti a vedere uno di quei film romanticoni e strappalacrime solo per fare colpo su di me, non funzionerebbe.”
Lui ridacchiò, infine si avvicinò e mi diede un bacio sulla guancia per salutarmi. “Come vuoi,” mormorò prima di allontanarsi. “Passo a prenderti alle sette e mezza. A stasera.”
Lo guardai allontanarsi e sospirai, infilandomi nell’aula ancora semi vuota per paura di fare altri brutti incontri in corridoio.

Quella sera, mentre mi preparavo per uscire con Nathan, ero più agitata del previsto. Forse era dovuto al fatto che il mio ultimo vero appuntamento era stato quello disastroso con Petrovic, o forse era perché, anche se ci ero già uscita, Wilde mi piaceva davvero. Sembrava cresciuto dall’anno precedente: fisicamente, certo, era più alto e più carino, aveva di sicuro fatto palestra in quei mesi, anche se continuava a sembrarmi troppo smilzo per giocare a football. Ma, soprattutto, lo trovavo cresciuto in quanto a maturità, ed era quello ciò che mi interessava davvero: già il fatto di aver capito che Petey fosse un mentecatto superficiale e borioso era una cosa che di per sé gli faceva onore. E poi quando mi aveva confessato – circa – di avere una mezza cotta per me era stato estremamente dolce e mi aveva sciolto qualcosa dentro che non sentivo da molto tempo, per la precisione da quando avevo iniziato a lasciarmi andare con Steve Teller.
Indossai una gonna in jeans e un maglioncino color lampone, mi truccai e valutai di mettere le zeppe per diminuire il divario di altezza che c’era tra me e Nate, ma alla fine optai per le sneakers nere: meglio evitare troppi colori o accessori bizzarri, il ragazzo già credeva che fossi mezza matta, e aveva le sue ragioni. Mi guardai allo specchio per cinque minuti buoni prima di muovermi, pensando che era dal prom che non cambiavo colore di capelli, che quindi erano ancora neri e lunghi fin sotto le spalle, e che era giunto il momento di farlo. Quasi mi innervosii per non essere andata dalla parrucchiera la settimana prima, perché in realtà era da qualche tempo che mi sentivo sulle spine, quasi agitata, e di solito trasformavo la mia irrequietezza in un taglio e un colore nuovi.
Scossi la testa e mi smossi i capelli con le mani per movimentare le onde che avevo creato con la piastra, poi presi la borsa, mi infilai la giacca in pelle e uscii di casa per aspettare Nate seduta sui gradini del portico.
“Pulcina, tutto bene?”
Mi girai e vidi la testa di mio padre spuntare dalla porta di casa, sul volto un’espressione leggermente preoccupata.
“Sì, papà, perché?”
Avevo avvisato mia madre del fatto che sarei uscita, dando a lei il compito di istruire papà. Per quanto si fosse pian piano abituato e avesse dovuto capire che ormai ero cresciuta e che, sì, frequentavo dei ragazzi, mio padre rimaneva sempre abbastanza protettivo nei miei confronti.
“Che fai qui fuori a quest’ora?” chiese infatti, facendosi più sospettoso.
“Ho un appuntamento, ho già detto tutto a mamma.”
“Beh, cos’è questa storia? Perché io non so niente? Adesso non mi racconti più le cose? È un ragazzo nuovo o lo conosciamo già?”
Sospirai, per niente stupita, e mi alzai per spingere mio padre in casa e cercare di chiudergli la porta in faccia.
“Ci vediamo dopo, papi. Non faccio tardi. Ciao.”
Lui cercò di protestare, ma venne richiamato all’ordine da mia madre che arrivò dal salotto in quel momento e lo trascinò con sé in cucina. Tornai sui miei passi, scesi i gradini della veranda e mi misi ad aspettare in piedi sotto le scale, immaginando che Nate sarebbe arrivato da un momento all’altro.
Avevo ragione: dopo un paio di minuti vidi un’auto blu in fondo alla strada che rallentava, indecisa su dove fermarsi. Alzai un braccio per farmi notare e la macchina mi giunse di fronte, accostando sul ciglio della strada. Salii prima che Nate potesse uscire, convinta che mio padre ci stesse osservando dalla finestra per carpire qualche informazione sul mio appuntamento.
“Meno male che ti ricordavi dove abitavo,” esordii, lanciando un sorriso a Nate, che rispose con una piccola smorfia.
“Mi pareva di ricordarmelo,” borbottò, e sembrava essere in imbarazzo, cosa che me lo fece piacere ancora un po’ di più.
“Non dovevamo andare al cinema?” gli domandai quindi, notando che non stava prendendo la strada per il centro, bensì quella per uscire da Winthrop.
“Sì, ma al Venice davano solo PS. I love you. A occhio, a giudicare dal titolo, sembrava una melensaggine romantica. Per trovare un multisala dovremmo andare fino a Boston, ma temo che faremmo troppo tardi, quindi andiamo a Beachmont.”
“A fare cosa?”
“Al cinema, no?”
Mi resi conto che si era dovuto impegnare davvero per organizzare quella piccola gita fuori porta, solo per non risultare banale nella scelta del film.
“Non serviva andare fino a Beachmont, mi accontentavo di qualsiasi cosa,” pigolai, sentendomi quasi in colpa.
“Tranquilla, lo faccio anche perché mi interessa il film che andremo a vedere.”
“Qual è?”
“Lo scoprirai,” rispose, criptico.
“Basta che non sia Transformers,” dissi, ricordando di aver visto il trailer in televisione negli ultimi giorni.
Nate mise su una faccia allarmata. “Mi hai beccato.”
“Oddio, davvero? No, perché l’ho detto così per dire, non è che… Cioè, alla fine a me piace andare al cinema, guarderei qualsiasi cosa, poi Transformers avrà dei bellissimi effetti speciali, vederlo al cinema dev’essere bello, ci sono un milione di altri film che invece…” balbettai in preda al panico, prima di accorgermi che Nathan al mio fianco stava ridacchiando di gusto. “Mi stavi prendendo in giro?”
“Solo un poco.”
“Sei un maledetto,” bofonchiai, incrociando le braccia al petto.
“Mi farò perdonare. Zodiac. A Beachmont fanno Zodiac.”
“Mmmh,” mugolai cogitabonda, prima di saltare sul sedile emozionata, capendo di che film stesse parlando. “Oh! È quello con quel figo fotonico di Jake Gyllenhaal?”
“Esatto.”
“Mio dio, io lo amo alla follia! In Brokeback Mountain, poi, con Heath Ledger… Quei due sono uno più meraviglioso dell’altro. Ma poi ho visto quasi tutti i suoi film, me ne mancheranno uno o due che non sono riuscita a trovare in videoteca e…”
“Sapevo che era un errore.”
“Cosa?” domandai, interrotta nel mio delirio da innamoramento platonico.
“Portarti a vedere un film con Gullenhal.”
“Gyllenhaal.”
Nate scosse la testa, ridacchiando. “Sei l’unica al mondo che sa pronunciarlo.”
“Diventerà mio marito, è ovvio che so pronunciarlo.”
Continuammo a scherzare e prenderci in giro a vicenda per tutto il resto del viaggio fino al cinema, dove Nathan insistette per pagarmi biglietto e popcorn. Fu una serata talmente piacevole che mi dimenticai di essere già uscita in passato con lui, tanto sembrava una persona diversa. Dopo il film facemmo una passeggiata sul lungomare di Beachmont e prendemmo un gelato, sempre continuando a chiacchierare con leggerezza di qualsiasi cosa.
Nate non era il tipico belloccio, ma mi resi conto che comunque stava cominciando a piacermi, anche fisicamente. Era alto, con occhi e capelli scuri, aveva un fisico asciutto che a prima vista non sembrava troppo atletico, il suo viso era un po’ affilato e, quando lo prendevo in giro, faceva un sorriso timido e distoglieva lo sguardo in un modo che trovavo adorabile. Intuii di piacergli a mia volta dal modo in cui mi guardava, dal fatto che durante il film ogni tanto si girava per sbirciare il mio viso, o anche le mie gambe, per la verità. Capii di piacergli davvero quando vidi che non aveva quasi paura di avvicinarsi troppo a me, come se temesse di essere respinto.
Arrivammo a casa mia che ancora non aveva avuto il coraggio di provare un approccio diretto, anche se ci eravamo già baciati l’anno precedente. Perciò, quando accostò la macchina al marciapiedi e alzò su di me uno sguardo esitante, decisi di farmi avanti io, prima di perdere tutta l’audacia che sentivo in quel momento. Mi avvicinai lentamente a lui e lasciai che le mie labbra toccassero le sue, per poi approfondire il bacio e sporgermi di più verso di lui, per quanto l’abitacolo dell’auto me lo permettesse. Il cuore mi martellava forte in gola quando mi allontanai di poco e gli sorrisi, notando la stessa espressione stupefatta e felice sul volto di Nate, che si riabbassò per darmi un altro veloce bacio sulle labbra prima di scostarsi del tutto.
“È meglio se vai,” disse quindi, senza smettere di sorridere.
Rimasi stupita dalle sue parole, mi pareva stesse andando tutto più che bene, e boccheggiai appena senza sapere come replicare, un po’ ferita. Nathan capì che avevo frainteso e mi indicò la casa alle mie spalle con il mento, spiegandosi meglio.
“Si è appena accesa una luce sul portico.”
Risi. “Ah, cavolo, sarà papà. Sì, vuol dire che devo andare.”
Lui tornò verso di me e mi lasciò un ultimo bacio sulla guancia. “A domani.”
“Grazie per la bella serata.” Erano parole che mi uscivano quasi in automatico, ma quella volta le intendevo davvero. “Buonanotte.”
“Notte Delia.”

La mattina seguente entrai a scuola con il sorriso ancora stampato sulle labbra, sorriso che però si gelò dopo appena pochi passi in corridoio, quando mi si parò davanti agli occhi una scena inaspettata e che trovai, in tutta sincerità, anche un po’ deprimente. Passando davanti all’armadietto di Matt, infatti, non potei fare a meno di voltare gli occhi nella direzione in cui immaginavo ci sarebbe stato lui, indecisa se avrei voluto vederlo o meno. Lui, in barba alla mia indecisione, era ovviamente lì, ma non era solo.
Appoggiata a un armadietto lì di fianco, Hillary Kane sbatteva le lunghe ciglia e rideva compiaciuta a una battuta che probabilmente lui aveva appena fatto, ma stavolta Patterson non sembrava infastidito dalla sua presenza, né aveva un’aria indifferente come da sua abitudine. Al contrario, se ne stava appiccicato a lei, tanto vicino che all’inizio faticai a credere che fosse davvero lui, che di solito stava per conto proprio. Ma non c’erano dubbi, era Matt Patterson quello che ora flirtava così apertamente con la Kane, che si lasciava spostare da lei un ciuffo di capelli dalla fronte, che le si avvicinava per dirle qualcosa all’orecchio, che le sorrideva con quell’angolo della bocca piegato all’insù, divertito e un po’ malizioso.
Poi Matt voltò appena la testa e per un secondo i suoi occhi incrociarono i miei. Mi vide, non si scompose, tornò a girarsi verso la Kane – ma non la odiava? – e si abbassò per lasciarle un bacio sulla guancia prima di sistemarsi lo zaino sulla spalla e incamminarsi dandomi la schiena. Solo a quel punto mi accorsi di essermi fermata in mezzo al corridoio e, ripensandoci, mi resi conto che Patterson non mi aveva nemmeno rivolto un saluto, cosa che un anno prima sarebbe stata normale, ma che non era più accaduta negli ultimi mesi.
Era normale che avessi percepito quella specie di stretta allo stomaco nel vedere la scena? E che ci rimanessi male perché Matt non mi aveva salutato? Il mio inconscio decise che era meglio non farsi certe domande, decise che la stretta allo stomaco non era altro che nausea, decise che non me ne importava nulla.
Anche ora che sono passati anni da quel giorno, faccio ancora fatica ad accettare la verità. So che la mia reazione dell’epoca diceva più cose di quelle che ero (e sono) disposta ad ammettere, ma ho passato tanti di quegli anni nella convinzione più totale di aver sempre odiato Patterson con tutto il cuore, che rendermi conto ora di una cosa di tale portata non è facile.
Avevo una cotta per Matt.
È difficile persino da pensare, figurarsi da mettere nero su bianco. A diciassette anni avevo una cotta per Matt, sfociata probabilmente dal fatto che in quel periodo ci eravamo avvicinati parecchio. Era di sicuro una cosa immatura e irrazionale e di poca importanza, tanto che è svanita subito. Non ho più nessun tipo di cotta, di sbandata o di debolezza per lui da diversi anni, ne sono convinta. Lo so. Sto solo cercando di dimostrarlo.












Boom! Lo so, non è una gran rivelazione, noi lo sapevamo già da un po', ma per la povera Delia è uno choc, cercate di capire. ^^ Come al solito vorrei evitare di perdermi in chiacchiere, ma siccome (anche) stavolta il risultato finale del capitolo non mi piace per niente, vorrei dare due spiegazioni.
Mi dispiace che dobbiate sorbirvi dei pezzi, come questo, che sono di passaggio, ma, come credo di aver già specificato in precedenza, non so scrivere in altro modo se non così. Ho bisogno di dare spiegazioni, lavorare sulla coerenza dei comportamenti, e in particolare in una storia come CA, che si svolge in un periodo di anni, in cui c'è una crescita dei personaggi e alcuni inevitabili salti temporali, non riesco a fare a meno di scrivere anche queste parti. Se il capitolo vi ha fatto schifo, oltre che pregarvi di farmelo sapere (recensioni, please, mi servono davvero tento tanto!), forse vi può consolare il fatto che nel prossimo si andrà un po' più svelti.
Raccontare questi momenti mi serviva appunto ad arrivare al finale, dove la Delia del presente (a cui sono successe nel frattempo delle cose che vedremo anche più avanti) capisce che la Delia del passato aveva (già) una cotta per quel piccolo scemo di Matt. Il perché credo sia chiaro, come credo sia chiaro il fatto che Delia, all'epoca, ha "ripiegato" su Nate pur di evitare di affrontare la cosa (cliché, lo so, avevo detto che la storia ne sarebbe stata piena). Nate, nonostante tutto, avrà comunque un ruolo importante nella sua vita e nella sua crescita personale, ma mi fermo qui con gli spoiler.
A proposito del dialogo in giardino con Nate, invece, volevo scusarmi se suona forzato e un po' troppo "telefonato", ma per una volta avevo bisogno di far dare delle spiegazioni ai personaggi senza troppi giri di parole, senza che ogni atteggiamento risultasse criptico. C'è già Matt che mi dà del filo da torcere in quel senso, maledetto lui. Voi che ne pensate? Avete trovato alcuni dialoghi troppo inverosimili? Quello con Matt? Con Nate?

Ultime precisazioni sul capitolo prima di salutarci.
- I film nominati durante il capitolo sono usciti tutti nel 2007. Finora non ho dato una collocazione temporale precisa alla narrazione, ma può benissimo essere, per ora, quel periodo. In realtà mi piaceva l'idea di inserire Zodiac perché è un film che ho nominato anche in Of all the people in the world, la storia da cui prende il via questa, tutto qui. Ah, essendo il 2007, Heath Ledger, pace all'anima sua, non era ancora morto, quindi  non ne ho fatto menzione.
- Anche Melanie Frayer, la ragazza di cui parlano nella scena in mensa, era già nominata in Of all, per la precisione nelle primissime righe, e la nomina proprio Dee, sconvolta del fatto che (nel futuro rispetto a questa storia) esca con George Peterson, la sua cotta del liceo.
- Hillary Kane, invece, è la ragazza che aveva già chiesto a Matt di andare al ballo con lei l'anno precedente. Faccio passare un sacco di tempo tra un capitolo e l'altro, quindi trovo ovvio che qualcuno possa non ricordare queste cose!
- Il titolo del capitolo l'ho copiato da una frase di Men in Black, mi pare. In realtà cercavo qualcosa che avesse quel significato, ho trovato quella citazione e, anche se un po' lunga, mi pareva adatta. Letteralmente: Non fare domande di cui non vuoi sapere la risposta. Delia docet.

Credo di aver finalmente detto tutto! Grazie mille dell'attenzione e dell'amore con cui seguite la storia, soprattutto a Evelyn 98 che ha recensito lo scorso capitolo e i precedenti: <3
Aspetto con ansia i vostri commenti. Un bacione grande!

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Capitolo 12
*** Love and friendship and other things ***


12. Love and friendship and other things


Pochi giorni dopo il mio primo appuntamento con Nate seguii l’impulso che sentivo solleticarmi le mani da diverso tempo e tornai dalla parrucchiera per cambiare di nuovo i miei capelli. Li spuntai e basta, ma la tentazione di cambiare colore, dopo aver tenuto il nero per quasi quattro mesi, era troppo forte: scartai a malincuore alcune tonalità troppo audaci per amore del fatto che avevo appena cominciato a uscire con un ragazzo nuovo e non volevo spaventarlo e, consigliata da Marisol, puntai su un castano ramato molto naturale e carino.
Inaspettatamente non cambiai più colore per tutto l’anno scolastico, né pensai di farlo. D’altronde per me i mesi successivi furono piuttosto strani e mi sembrarono scorrere a velocità doppia rispetto al solito, soprattutto a causa di qualcosa che mi colse di sorpresa e che scosse non poco la mia visione del mondo: Nate.
So che non c’è modo di spiegare una cosa del genere senza risultare zuccherosa e banale, ma alla fine, quasi senza rendermene conto, mi innamorai davvero di lui, come non mi era mai successo prima e come non mi è più successo dopo, finora. M’innamorai di Nate come ci si innamora a diciassette anni, in modo imprevisto, totale e forse pure un po’ ingenuo.
So anche di aver appena detto che all’epoca avevo una cotta per Matt, ed è vero, non posso negarlo, ma in quel periodo i nostri rapporti si freddarono parecchio e raggiunsero i minimi storici: ci salutavamo quasi sempre in corridoio e uscivamo ancora con lo stesso gruppo di amici, ma evitavamo con tenacia di parlare l’uno con l’altra, a meno che non fosse strettamente necessario, e persino le battutine sarcastiche che eravamo soliti rivolgerci sparirono quasi del tutto.
Matt mi rese le cose più semplici uscendo per qualche settimana con Hillary Kane, particolare che me lo rese ancora più odioso, soprattutto dal momento che lei non perdeva occasione per esibirsi in corridoio con strusciamenti, occhioni dolci e, quando lui glielo permetteva, sbaciucchiamenti vari. Alla fine si stufò anche lui, era già stupefacente il fatto che avesse retto così a lungo quella pantomima, e scaricò la Kane, che per una settimana buona camminò per i corridoi della scuola come se fosse un’attrice hollywoodiana in lutto, con tanto di occhiali da sole giganti a coprirle il viso. Qualche giorno dopo già usciva con Thomas Petrovic, nientepopodimeno, e Patterson era tornato agli occhi di tutti il solito ragazzo solitario, attraente e misterioso.
Solo che non era affatto solitario, quella era una definizione stupida e tipicamente adolescenziale che gli era stata appiccicata addosso e che continuava a precederlo nonostante l’evidenza: Matt non era quasi mai solo, aveva diversi amici a scuola e girava sempre assieme a Josh e David. Non aveva una ragazza diversa ogni weekend, quindi neanche l’etichetta di playboy, guardando alla realtà dei fatti, era meritata. Durante il nostro anno da Senior uscì, oltre che con la Kane, con un altro paio di ragazze, con nessuna di loro ebbe storie troppo serie, ma nemmeno si comportò da stronzo per il gusto di farlo.
Io, da parte mia, guardavo a tutto ciò con moderato interesse, continuando nel frattempo a vivere la mia vita che, appunto, in quel periodo era vivace, allegra e movimentata. Patterson riempiva il bordo esterno della mia visuale, perché se da un lato, frequentando la sua stessa compagnia, ero obbligata ad averlo sempre tra i piedi, dall’altro non riuscivo del tutto a disinteressarmi a ciò che gli accadeva, e avevo il sospetto che per lui fosse lo stesso con me.
Così, mentre tenevo le distanze da Matt e mi barcamenavo tra lezioni, compiti e feste del mio ultimo anno di liceo, la cotta involontaria che mi ero presa per lui parve dissolversi in favore di ciò che cominciai a provare per Nate, che era invece un sentimento limpido, luminoso e, per me, totalmente nuovo. Nate stesso era limpido, era l’esatto opposto del tipo di ragazzo per cui sbandavo di solito, era solare e affettuoso, era un po’ timido all’inizio, ma quando ti permetteva di avvicinarti a lui ti donava tutto ciò che aveva, senza remore. Era spiritoso e autoironico; parlava chiaramente, senza troppi giri di parole, anche dei propri sentimenti; riusciva a farsi voler bene da tutti in poco tempo.
Non era perfetto, tutt’altro, e nemmeno la nostra relazione lo era. Per settimane e settimane mi tenne nascosta ai suoi amici: parlavamo a scuola e non aveva problemi a farsi vedere con me in pubblico, ma fingeva che tra noi non ci fosse nulla di che e sembrava non volermi presentare a nessuna delle persone della sua compagnia. All’inizio lasciai correre, non mi importava più di tanto, ma poi, man mano che le cose si fecero più serie, cominciai a trovare ridicola quella messinscena e glielo feci notare. Col tempo e grazie alla mia insistenza la situazione migliorò, ma rimase sempre una patina di freddezza tra me e i suoi amici, tanto che, anche se Nate usciva sempre con la mia compagnia, raramente accadeva che io passassi del tempo con la sua.
Questo però era solo un neo nel rapporto tra noi due, che restava stupendo, fatto di batticuore e parole dolci sussurrate quand’eravamo soli, di weekend fuori porta di nascosto dai nostri genitori e mani intrecciate per strada. Ogni tanto c’era anche qualche litigata, certo, un paio di volte ci urlammo contro e io corsi a casa di mia nonna arrabbiata col mondo, o chiamai Audrey con la voce spezzata. Ma Nate era una persona che, per il proprio carattere, evitava gli scontri il più possibile, perciò anche quando il mio umore non era alle stelle trovava sempre il modo di stupirmi facendomi tornare il sorriso. Con lui mi sentivo al sicuro, quasi sempre.
A dicembre, quando festeggiai il mio diciottesimo compleanno, Nate mi organizzò una festa a sorpresa a casa sua, mettendosi d’accordo coi miei amici. Quella sera mi disse “ti amo” per la prima volta, e il mio cuore esplose in migliaia di coriandoli colorati.
Ero così su di giri che quando arrivò Patterson e mi si avvicinò per farmi gli auguri lo abbracciai di slancio, come avevo abbracciato quasi chiunque quella sera; durò solo un paio di secondi, ma lo sentii irrigidirsi appena contro il mio corpo prima di rendermi conto di ciò che stavo facendo e allontanarmi da lui. Matt, prendendomi alla sprovvista, mi trattenne per un polso, si abbassò su di me e mi posò un bacio sulla guancia.
“Buon compleanno, novellina,” mi sussurrò, prima di scostarsi e guardarsi in giro con un mezzo sorriso stampato in faccia. “Bella festa,” aggiunse poi, quasi distratto.
Mi guardai intorno anch’io: non ero sicura di conoscere tutti i presenti e, soprattutto, non ero per niente sicura che i presenti sapessero di essere lì per il mio compleanno, dal momento che Matt era una delle poche persone che erano venute a farmi gli auguri.
Lo guardai di nuovo e alzai le spalle. “Mi piacciono le feste,” risposi stupidamente.
Lui sorrise come a dire “lo so” e io mi sentii improvvisamente a disagio. Spostai di nuovo gli occhi nei dintorni finché non intravidi Nate che mi faceva un cenno con la mano, così mi congedai da Matt, e quella fu una delle pochissime conversazioni amichevoli che avemmo in quei mesi: un abbraccio dato per sbaglio e tre battute sì e no.
Durante le vacanze invernali Nate mi sorprese di nuovo portandomi nella casa in montagna dei suoi genitori. Fu solo un weekend lungo, ma fu lì che cominciai per la prima volta a pensare che potesse esserci un futuro per noi. Nate mi portava la colazione a letto e io gli preparavo la cena, durante il giorno e la sera decidevamo insieme che cosa fare o che film guardare, e la notte, prima di dormire definitivamente, mi lasciava un bacio sui capelli.
A letto avevamo un’alchimia pazzesca e raramente riuscivamo a passare un pomeriggio assieme senza finire spalmati l’uno sull’altra, ovunque ci trovassimo.
Eravamo giovanissimi, innamorati e assolutamente privi di una visione realistica del futuro. La bolla d’amore ingenuo e luminoso in cui vivevamo sembrava indistruttibile, ma era pur sempre una bolla e, come sempre in questi casi, a un certo punto esplose, facendo non pochi danni.

Nathan era bravo a scuola. Studiava molto e sembrava concentrato nel raggiungere l’obiettivo che si era prefissato fin dall’inizio del liceo, ovvero l’essere ammesso in una università prestigiosa, dove poter continuare anche a giocare a football.
Quando ci ritrovammo assieme a compilare le domande di ammissione per i vari college mi accorsi delle nostre differenti prospettive: mentre lui faceva richiesta per tutte le università migliori, senza curarsi della distanza da Winthrop, io avevo deciso di rimanere a Boston, perché non me la sentivo proprio di trasferirmi di nuovo dall’altra parte del paese. Non capivo dove fosse il problema: nell’area in cui vivevamo era pieno di ottimi college e di corsi di studio rinomati, quindi evitavo di pensare a questa divergenza che si stava creano tra me e Nate. Perciò ne parlammo pochissimo e io non mi accorsi che era una questione più grande di quello che sembrava.
Quando, verso metà aprile, Nathan si decise a parlarmene, ormai era troppo tardi per pensare a una soluzione. Io ero stata accettata alla Northeastern University, a Boston appunto, città in cui avrebbe studiato la maggior parte dei miei amici e dove anche Nate aveva fatto diverse domande di iscrizione. Ma lui, alla fine, aveva altri programmi.
“Phoenix?” domandai, le sopracciglia che mi toccavano quasi l’attaccatura dei capelli per lo stupore.
Nathan annuì, seduto a gambe incrociate sul proprio letto, lo sguardo sul lenzuolo ancora mezzo sfatto dalla mattina. Ero andata a casa sua per una seduta pomeridiana di studio e coccole, e invece mi ritrovavo a dover affrontare una delle discussioni più importanti della nostra relazione.
“Non stai parlando della Phoenix in Arizona, vero?”
“Sì, quella.”
Mi lasciai cadere sulla sedia della sua scrivania, stupita. “Perché non… Quando hai fatto… Insomma, perché?” balbettai.
“È un’ottima università.”
“Hai fatto richiesta per università migliori di quella solo in Massachusetts. Per non parlare di tutti gli altri stati che non sono… non sono dall’altra parte del paese.”
“Nessuna ha il programma sportivo della Phoenix University, nel basket e nel football, per cui ho la borsa di studio.”
“Non avevi mai parlato di andare così lontano, non riesco a capire come sia possibile!”
Nate sospirò e alzò su di me gli occhi, ma solo per qualche secondo. “Esatto, non capisci, Delia. Non è una decisione che ho preso con leggerezza.”
Sentii un il peso che avevo sul petto diventare ancora più insostenibile. “Decisione? Hai già deciso quindi?”
“Io e mio papà abbiamo valutato tutto, e…”
“Bene, perfetto. Se hai valutato con tuo papà, figurati,” sbottai, seriamente infastidita. Suo padre mi aveva sempre mal sopportato, anche se non lo dava a vedere, e pensavo temesse che bloccassi Nate e gli impedissi di fare le scelte migliori per il suo futuro. Alla fine, a quanto pareva, le sue paranoie si erano rivelate infondate.
“Sai quanto ci tengo, quanto ci tiene anche lui!” rispose Nathan. “Ho lavorato sodo per poter scegliere l’università che volevo, possibile che non riesci a metterti nei miei panni?”
“Io ci provo, Nate, ci provo davvero. Ma per quanto mi sforzi non capisco perché non me ne hai parlato prima, avrei potuto valutare se…”
Lui mi interruppe, secco. “Hai sempre detto di voler fare il college a Boston o nei dintorni, non volevo che le mie scelte ti condizionassero.”
Misi il broncio, coi miei soliti modi da bambina viziata e Nate alzò gli occhi al cielo, preoccupato per qualcosa che non potevo ancora capire.
“Dai, non fare così,” borbottò. “Non ti ho detto ancora tutto, Dee. Se sei già arrabbiata adesso, immagino quanto bene prenderai il resto.”
Sbiancai. “Il resto?”
Lui sospirò. “Seguirò… Ci sono dei pre-corsi per studenti meritevoli, a cui sono stato accettato. I miei crediti sono sufficienti anche senza finire gli esami, e contando la borsa di studio per lo sport posso…”
“Cosa vuol dire dei pre-corsi? Senza… senza finire gli esami?”
“Iniziano tra un mese e durano qualche settimana, dopodiché mi sono iscritto a un camping estivo di football.”
Aveva parlato tutto d’un fiato, come per liberarsi di un peso, così io ci misi un paio di secondi a capire ciò che aveva appena detto. Quando compresi, rimasi letteralmente a bocca aperta.
“Andrai via prima che finisca la scuola?”
Lui annuì in silenzio.
“Puoi farlo?”
Fece di nuovo un cenno con la testa. “Devo sistemare un paio di cose burocratiche, ma sì, posso.”
A quel punto mi alzai senza dire una parola, decisa ad andarmene da lì.
“Delia…” tentò di fermarmi senza troppa convinzione.
“Lasciami andare,” mormorai. “Davvero, è meglio così. Sono così incazzata che se parlassi adesso direi cose di cui potrei pentirmi. Non mi hai mai vista così, Nate, dico sul serio. Ci sentiamo.”
Lui seguì il mio consiglio e mi guardò uscire dalla stanza con aria preoccupata.

Un paio di giorni dopo io e Nate ci eravamo già riappacificati, ma il peso sul mio stomaco restava consistente. Non avevamo ancora davvero parlato del futuro, di quello che intendevamo fare, ed a quel punto nemmeno io, per la verità, ero sicura di voler intraprendere una relazione a distanza, tuttavia ero troppo legata a lui per decidere diversamente in quel momento. Neanche lui era così sicuro del nostro rapporto, lo potevo sentire dal modo in cui passammo le ultime settimane insieme.
Il secondo martedì di maggio Nathan doveva partire, ma aveva promesso che sarebbe tornato in meno di un mese, per partecipare al Prom e alla cerimonia del diploma. Sarebbe stata la prima prova per una relazione a distanza.
Lo accompagnai in aeroporto e ci lasciammo con un mucchio di baci, promesse sussurrate e qualche lacrima che però trattenni il più possibile. Tornai a casa e telefonai ad Audrey per sfogarmi e, grazie alle sue parole rassicuranti, un po’ mi consolai.
La tranquillità durò poco. All’inizio io e Nate tentavamo di sentirci tutti i giorni, di darci il buongiorno e la buonanotte e di fare una videochiamata su Skype quando potevamo. Ma man mano che i suoi impegni aumentavano a causa degli allenamenti e delle partite la situazione si fece più difficile e sentii chiaramente che ci stavamo allontanando, anche solo nel giro di un mese. Erano dettagli, piccole cose: una chiamata della sera mancata a causa di un’uscita con gli amici, una telefonata più frettolosa e meno calda delle precedenti, nessun racconto di ciò che gli era successo durante la giornata… Eppure erano dettagli che percepivo.
Non posso dire che sia stata solo colpa sua, avevamo cominciato ad allontanarci già da prima che partisse, forse anche da prima che mi dicesse la scelta che aveva fatto per il college. Se non fosse stato così, un mese non sarebbe mai bastato a dividerci, credo.
Ad ogni modo, quando mi telefonò per dirmi che, nonostante avesse già preso il biglietto aereo, non sarebbe tornato per il Prom come aveva promesso, mi stupii solo fino a un certo punto: era come se la cosa fosse già nell’aria da un bel po’.
Mi arrabbiai comunque. Mancavano solo due giorni al ballo e il mio ragazzo mi stava tirando il bidone via telefono, senza nemmeno darmi una spiegazione che non fosse “ho troppe cose da fare qui”. Quindi mi arrabbiai e litigammo, e una delle cose che mi disse mi rimase impressa più delle altre e mi colpì dritta al cuore.
“Non so nemmeno se sei innamorata di me!”
Boccheggiai, offesa. “Ma cosa diavolo vuol dire, Nate, stiamo insieme da mesi ormai, e fai come se non ti avessi mai dimostrato che…”
“Delia, me l’hai detto due volte in sette mesi, ed eri mezza ubriaca entrambe le volte!” esplose lui, la voce tremante.
“Io non… Non è vero,” ribattei, colpita, cercando di riflettere su ciò che mi aveva rinfacciato per dimostrare in qualche modo il contrario.
“Sì, invece. Lasciamo perdere, è meglio. Devo andare.”
“Nathan…”
Cercai di fermarlo ma aveva già riagganciato il telefono. Aspettai che le lacrime mi riempissero gli occhi, ma non arrivarono mai, non perché non fossi distrutta, ma perché ero talmente sconvolta da quello che mi aveva detto che non riuscivo a pensare ad altro. E non riuscivo a trovare un modo per negarlo: ero convinta di aver sempre dimostrato a Nate il mio amore, ma non gliel’avevo quasi mai detto a parole, e questo per lui aveva pesato.
Ci risentimmo il giorno successivo per decidere che non era il caso di continuare in quel modo. Gli dissi che mi mancava e lui rispose che gli mancavo anch’io, ma sapevamo entrambi che non saremmo durati un altro mese separati e che non eravamo pronti per vivere una relazione a distanza.  Così mi trovai a ridosso del Prom senza accompagnatore e, soprattutto, senza fidanzato.
Andai a scuola il giorno successivo con una faccia che da sola spiegava il mio stato d’animo. Jude e Audrey mi coccolarono tutto il tempo, ma quando dissi loro che avevo dei dubbi riguardo l’andare o meno al ballo cominciarono a bombardarmi di motivi per cui dovevo assolutamente andare. Dissi che ci avrei pensato, ma la mattina dopo non avevo ancora deciso cosa fare.
“È l’ultimo ballo del liceo, Dee, devi venire! Ti ricordi quanto ci siamo divertiti da Senior al ballo d’inverno?”
Sbuffai. Eravamo in mensa e Audrey, che aveva preso molto a cuore la faccenda, continuava a torturarmi per convincermi a non rinunciare al Prom, previsto per quella sera stessa.
“Tu hai un accompagnatore, Aud, io mi sono lasciata da meno di quarantotto ore col mio ragazzo. Posso prendermi una tregua dalle feste pure io, ogni tanto.”
“Ma è l’ultima e… Non voglio che tu rimanga a casa da sola, dai! Se è l’accompagnatore il problema vedrai che qualcuno lo troveremo. Anche Jude era rimasta sola, ma Josh ha scaricato quella poveretta della Montgomery per andare con lei, alla fine.”
“Posso andare anche da sola…” tentai, già conoscendo la sua risposta.
“No, non esiste,” risolse infatti la mia amica, sventolando la mano come a scacciare una mosca. “Sennò poi te la svigni appena noi siamo distratti. Invece devi venire al party post ballo a casa di Matt, sarà la cosa più divertente.”
“I suoi genitori sono via, alla fine?” chiesi, per cambiare argomento e provare a distrarre Audrey dal proposito di trovarmi qualcuno per il ballo.
“Sì, i ragazzi hanno già organizzato quasi tutto” rispose lei, sovrappensiero. “Vediamo, non dev’essere un vero appuntamento, non sei ancora pronta. Più tipo un ripiego…”
“Se poi mi lasci in pace ti prometto che chiedo a Dave appena lo vedo.”
Aud mi lanciò uno sguardo che non riuscii a leggere. “Dave non può,” disse solo, prima di sbattere una mano sul tavolo della mensa facendo girare un paio di persone lì di fianco. “Matt!” esclamò all’improvviso, facendomi sobbalzare.
“Matt cosa? Perché Dave non può?” chiesi, con l’impressione di essermi persa qualcosa. “Vanno insieme?”
“Ma no, scema. Matt può venire con te, non ha invitato nessuno, anche perché pensava di liberarsi presto per andare a sistemare delle cose per la festa.”
“Piuttosto che andare con Matt vado con Thomas Petrovic,” ribattei d’istinto.
“Non dire cavolate.”
“Okay, ho esagerato. Piuttosto che andare al ballo con Matt vado con quel tipo del secondo anno coi capelli sempre unti, quello che si dice abbia una svastica tatuata sul petto. Piuttosto che andare con Patterson mi tatuo io stessa una svastica.”
“È sempre bello sentirti dichiarare ai quattro venti il tuo amore per me, novellina,” esclamò una voce ironica alle mie spalle.
Poggiai la fronte sul tavolo, depressa. “Perfetto.”
Matt, Jude e Josh si sedettero al nostro tavolo coi vassoi del pranzo e, appena alzai la testa, Patterson, che evidentemente aveva sentito almeno parte delle mie parole, mi indirizzò un fintissimo sorriso a trentadue denti che evitai di ricambiare.
“Dove dovresti andare con Matt?” domandò Josh, incuriosito, dimostrando che almeno lui non aveva origliato il discorso per intero.
“Da nessuna parte,” risposi secca, ma sapevo che la questione non sarebbe caduta lì: Audrey si era messa in testa qualcosa e non l’avrei smossa così facilmente.
Infatti parlò subito dopo di me. “A Delia servirebbe qualcuno per il ballo.”
“Non è vero,” tentai di intervenire, ma senza convinzione.
Josh scrollò le spalle, come se fosse una cosa da niente. “Beh, sono sicuro che qualcuno di libero c’è. Nessuno sano di mente rifiuterebbe di andare al Prom con Delia.”
Sapevo che Josh l’aveva detto di proposito per tirarmi su, quindi lo ringraziai con un sorriso.
Audrey scosse la testa. “Non è pronta per un appuntamento.”
“Sono qui di fianco a te, Aud.”
Lei mi ignorò e continuò a parlare come se non fossi presente. “Ci vuole qualcuno che venga con lei, così nessuno noterà che non ha un accompagnatore, e così non tenterà di sfuggirci alla prima occasione.”
“Quindi Matt?” si informò Josh.
“Matt è la prima scelta perché è solo,” spiegò Audrey.
“Matt è l’ultima opzione perché lo odio,” la corressi io, quasi ringhiando.
“Sono qui anch’io, grazie,” si fece notare il diretto interessato, con un cenno della mano e un mezzo sorriso esasperato.
Audrey gli rivolse il suo miglior sorriso, spostando gli occhi un paio di volte da me a Patterson. “Ma tu non lasceresti mai sola una tua amica in un momento di difficoltà, vero?” gli chiese melliflua.
Matt mise su la tipica espressione di chi non sa come uscire da una situazione scomoda, aggrottò le sopracciglia e, con l’aria di essere vagamente perplesso, aprì la bocca per parlare, ma a quel punto avevo già deciso che era il caso di intervenire per fermare quella carneficina.
“È una cosa che non sta né in cielo né in terra,” dissi a voce alta, per farmi notare. “Non andrò al ballo con Patterson, questione chiusa.”
Aud non demorse subito. “Ma non è un vero…”
La interruppi seccamente, alzandomi da tavola. “Ho detto questione chiusa, Audrey. Sono stufa di queste puttanate, scusa.”
Me ne andai senza attendere la sua risposta e senza guardare negli occhi nessuno, anche se sentivo gli sguardi di tutti piantati sulla mia schiena.
Quando, pochi minuti dopo, uscii dal cubicolo del bagno, trovai Jude che mi aspettava poggiata ai lavandini con le braccia incrociate e un’espressione risoluta sul volto.
“Senti, non…” cominciai, decisa ad allontanarla, ma lei non mi lasciò continuare.
“Cerca di non fare la stronza anche con me, che non attacca,” mi stoppò, senza muoversi. “Ascolta, Dee. Capisco che Audrey abbia esagerato e capisco che in questo momento l’ultima cosa che hai voglia di fare sia andare al ballo con Matt, ma non puoi prendertela così, quando cercavamo solo di aiutarti.”
Scossi la testa e finii di lavarmi le mani, per poi appoggiarmi al lavabo, accanto a lei. “Non ce l’ho con nessuno, sono solo nervosa ultimamente. Le chiederò scusa.”
“Lo so, non ti ho seguita per farti la ramanzina, ma per chiederti di venirci incontro.”
Gemetti, passandomi la mano ancora umida tra i capelli. “Non posso semplicemente venire al ballo per conto mio?”
“Vieni con me e Josh, così non sei costretta a trovare qualcun altro e Audrey sarà comunque contenta perché non sei sola. Che ne dici?”
Tentennai, ma dovevo ammettere che quella di Jude non sembrava una cattiva idea. “Non voglio rovinare la serata a te e Josh…”
“Non dire scemenze. Non è come se fosse un appuntamento.”
“Ma se Josh ha scaricato la Montgomery per venire con te!”
Lei arrossì leggermente, colta in fallo. “Non è andata proprio così, ma… E comunque non sapevo che l’avrebbe fatto, di certo non gliel’ho chiesto io.”
“Quel ragazzo farebbe qualsiasi cosa per te, Judes.”
Scrollò le spalle. “Resta il fatto che siamo amici, quindi non abbiamo un vero appuntamento. Puoi unirti a noi oppure dare retta a Audrey e andare al ballo con Matt.”
Sospirai, arrendendomi. “Se non vi dispiace, allora…”
Jude mi diede una leggera spallata. “Ci divertiremo, vedrai.”

Alla fine andare al ballo si rivelò la scelta giusta: mi divertii e riuscii per qualche ora a non pensare a Nate, cosa che avrei senz’altro fatto se fossi rimasta a casa da sola a rimuginare. Così fui costretta ad ammettere il mio errore, mi scusai con Audrey e ballai con lei facendo un po’ le sceme, e passai buona parte del tempo rimanente a commentare con Jude i look dei nostri compagni di scuola, ridendo del suo umorismo sarcastico e pungente.
Anche Patterson passò, rimase circa un’ora prima di andare a casa a sistemare il necessario per il party, chiacchierò con Josh, e danzò con una ragazzina del primo anno che era riuscita a tirare fuori il coraggio per chiedergli di ballare e che lo guardava come se fosse il suo sogno divenuto realtà. Lo prendemmo scherzosamente  in giro per il modo in cui si era imbarazzato alla richiesta della ragazza, ma, anche se non lo avrei ammesso nemmeno sotto tortura, trovai carino il fatto che non se la fosse tirata troppo e avesse accettato di ballare con lei. Conoscevo ben poche persone della nostra età che avrebbero fatto altrettanto e rimasi stupita della reazione di Matt, ma dovetti convenire che, forse, in quell’anno fosse maturato ancora e io non me ne fossi accorta, dal momento che quasi non ci parlavamo.
Mi stavo divertendo, quindi, e avevo promesso ad Audrey che, dopo, sarei andata anche alla famosa festa a casa di Patterson, dove avremmo concluso la serata con la maggior parte delle persone del nostro anno. Mi ritrovavo a stare da sola al massimo per una manciata di minuti alla volta, che di solito coincidevano coi momenti in cui mi allontanavo dai miei amici per andare a prendere il punch.
In uno di quei momenti, appunto, mi stavo versando la bibita nel bicchiere quando qualcuno mi parlò.
“Quei due stanno assieme?” sentii una voce domandare alle mie spalle.
Mi voltai e vidi Jeremy, il ragazzo con cui usciva Audrey. All’epoca ci sembrava essere una persona decente, ma poi, nemmeno a dirlo, nel giro di qualche settimana si rivelò un completo stronzo, di quelli per cui Aud aveva un radar formidabile.
Seguii il suo sguardo con il mio e trovai Josh e Jude che ballavano in un angolo.
Mi scappò un sorriso. “No, no, sono amici,” risposi, abituata a quel tipo di domande.
Jeremy non sembrava troppo convinto. “È strano, non sono l’unico a scuola a essere convinto che siano una coppia.”
Li guardai con più attenzione: Josh la teneva stretta, tanto che Jude era stata forzata a mettere le braccia dietro il collo di lui, erano vicinissimi, ma si guardavano negli occhi senza imbarazzo, con una sintonia e un’intesa che erano difficili da trovare nelle altre coppie che danzavano attorno a loro. Lui disse qualcosa facendo una piccola smorfia e Jude gli tirò uno scappellotto sulla nuca, ma ridevano entrambi. A quel punto Josh si abbassò per darle un bacio su una guancia, ma le sue labbra atterrarono talmente vicino all’angolo della bocca di lei da essere fraintendibili per chiunque, poi si abbassò ancora e le sussurrò qualcosa all’orecchio, facendole poggiare la testa sulla propria spalla.
“Sei sicura?” chiese ancora Jeremy, al mio fianco.
Josh e Jude continuavano a ballare come se non ci fosse nessuno intorno a loro. Tentennai: se non avessi saputo con certezza che quei due erano amici, anch’io dal loro ballo avrei dedotto che fossero una coppietta amoreggiante. Avevo pensato sin dall’inizio che Josh avesse un debole per Jude, era così dolce e protettivo solo con lei, eppure man mano che li frequentavo mi ero resa conto che il loro modo di relazionarsi fosse proprio quello, e che loro due non ci trovassero niente di strano.
Scrollai le spalle, annuendo appena, e Jeremy si fece bastare la mia risposta e versò del punch per se stesso e per Audrey, dopodiché tornammo insieme al punto dove ci eravamo sistemati da inizio serata. Quando arrivammo Aud stava rientrando e rimettendo il telefono nella propria borsetta appoggiata su di una sedia.
“Con chi parlavi?” domandai io, curiosa come sempre.
“Dave,” mi informò la mia amica. “Ha detto che da Matt hanno sistemato tutto e che possiamo andare quando ci va. Pensa che Stevenson, Hart e altre persone sono già là, hanno portato la spina della birra e si sono piazzati in giardino.”
“Mh,” risposi pensierosa. Poi, siccome non riuscivo a togliermi quel pensiero dalla testa, sputai fuori la questione che mi attanagliava da quella mattina. “Sai perché David non è venuto al Prom?”
“Sì, lo so,” confermò Audrey, quasi sulle spine.
La sua risposta mi insospettì ancora di più. “Non dirmi che è perché doveva mettere a posto la casa di Patterson, perché bastava che andassimo via tutti un po’ prima dal ballo per farlo in pochi minuti. Nessuno ha voluto spiegarmi cosa sta succedendo e sinceramente la cosa sta diventando seccante, quindi se non vuoi parlare nemmeno tu…”
“No, non è così.” Aud si guardò in giro, come per verificare che nessuno ci stesse ascoltando: siccome anche Jeremy si era allontanato per chiacchierare con un suo amico, alla fine continuò. “Non è che non voglio dirtelo, Dee, e non è nemmeno vero che Dave ti sta nascondendo qualcosa. Credo solo che non abbia ancora trovato il tempo di parlartene.”
“Di cosa?”
Lei sospirò, ma cedette. “Ha conosciuto un ragazzo e si frequentano. L’ha invitato al ballo, ma lui preferiva non venire, anche perché credo sia più grande di noi di un paio d’anni e… Insomma, lo vedremo alla festa più tardi, per quella ha detto di sì.”
Spalancai gli occhi, sorpresa. “Dave sta… Sta con uno?”
“Più o meno. Non so molto, ma è una cosa nuova, comunque.”
“Da quanto tempo?”
“Due, forse tre settimane. L’ha incontrato in un locale a Boston e…” Si fermò e, vedendo la mia faccia confusa, capì che ero ferita, così si precipitò a spiegare il resto. “Te l’avrebbe detto lui stasera, Delia, per questo non te ne ho parlato prima, non volevo intromettermi.”
“Lo sapevate tutti?”
“No, no… Credo l’abbia accennato solo a me ed a Matt. E non so se anche a Josh, ma…”
“Se lo sa Josh lo sa anche Jude, quindi sì, lo sapevate tutti tranne me,” decretai, rattristata.
Io e David parlavamo sempre di qualsiasi cosa, da quando ero arrivata a Winthrop era stata la persona con cui mi ero confidata di più. Possibile che nell’ultimo periodo fossi così presa dai miei drammi personali da non accorgermi che si stesse frequentando con qualcuno? Perché non aveva voluto parlarmene?
Tentai di nascondere i miei pensieri dietro un’espressione noncurante, ma quel tarlo continuò a martellarmi anche quando lasciammo la palestra e ci dirigemmo verso casa di Patterson.

Alla festa c’era ormai diversa gente: in casa si aggirava solo qualche persona isolata, ma in giardino, attorno alla grande piscina, c’era già un miscuglio di ragazzi e ragazze della nostra scuola. In teoria doveva essere un party aperto a quelli del nostro anno, i diplomandi, in pratica, mentre la serata procedeva, vedevo sempre più gente che non avrebbe dovuto essere lì. Qualcuno era vestito come al ballo, io, ad esempio, avevo tenuto il mio abito bordeaux corto, altri si erano portati il costume per fare un salto in piscina, altri ancora volevano buttarsi ma, essendo sprovvisti del necessario, facevano il bagno con gli abiti da cerimonia o direttamente in mutande. Era un delirio.
La prima volta che parlai con David riuscii a fare finta di niente e mi limitai a qualche convenevole. Più tardi lo vidi parlare con la faccia a due centimetri di distanza da quella di un ragazzo moro e alto circa come lui, e intuii che fosse il tipo di cui mi aveva parlato Audrey. Non riuscii a fermarmi e mi avvicinai a loro.
“Allora, ragazzi, com’è andato il pre-party qui?” esordii, porgendo loro un bicchiere a testa con della birra che ero appena andata a spinare.
Dave sembrò in imbarazzo e pensai se lo meritasse. “Bene, noi… Abbiamo più che altro preparato l’impianto stereo e fatto sparire alcune cose che non potevano essere toccate. Anche perché i genitori di Matt non hanno idea che ci sia una festa qui.” Esitò, prima di continuare. “E il Prom, invece? Sei stupenda stasera, Deels, davvero.”
Sbuffai. Di solito i complimenti di Dave mi mettevano di buon umore, ma quella sera non ero in vena.
Fu l’altro ragazzo a intervenire, invece. “Deels? Sei tu Delia?”
Feci sì con la testa e abbozzai un sorriso girandomi verso di lui, che mi porse la mano.
“Tyler, piacere. David mi ha parlato di te.”
Il mio sorriso di accentuò, ma diventò più tagliente mentre mi voltavo a guardare il mio amico. “È buffo, perché a me invece non ha detto proprio nulla di te. Vero, Davie?”
Lui assottigliò gli occhi e capii che voleva suggerirmi di non fare scenate, ma ormai ero partita.
“Da quant’è che vi conoscete, qualche settimana? Ho solo notizie di seconda mano, sai, non sapevo praticamente nulla fino a poco fa.”
“Delia…”
“Dimmi, Dave.”
Lui mi prese per un braccio, si scusò con Tyler e, per limitare i danni, mi portò in cucina, dove c’erano solo un paio di altre persone.
“Ti sembra il caso?” ringhiò, esasperato.
Arrivata a quel punto e con un paio di birre in corpo, non potevo più trattenermi. “Perché non mi hai detto niente?”
“Volevo parlartene, Delia, davvero. Ma ero così felice e tu eri così triste per Nate, che mi sembrava di farti un torto, negli ultimi giorni sei stata sempre peggio.”
“Quindi adesso sarebbe colpa mia?”
“Non ho detto questo, è che…”
Lo interruppi. “Io e Nate ci siamo lasciati tre giorni fa, già prima avevi tutto il tempo per parlare. Non hai voluto.”
“Non eri molto ricettiva nemmeno prima,” sbottò allora lui, cominciando ad innervosirsi per il mio continuo attaccare.
Alzai la voce di qualche tono. “Lo vedi che dai la colpa a me? Sono l’ultima a sapere le cose e devo anche sentirmi additata perché non sono stata ricettiva!”
“Delia, io ho provato a parlartene ancora due settimane fa. Ti ho detto che ero stato a Boston in un club, ricordi? L’Exspace.”
“Non… non ricordo che tu me l’abbia detto,” balbettai, sulla difensiva. “Forse ti sbagli tu.”
“No, me lo ricordo bene, te l’ho accennato ma tu non riuscivi ad ascoltarmi, quindi ho rimandato e rimandato. È stato un mio errore, lo so, ma da quando hai cominciato ad avere problemi con Nate sei stata completamente assente.”
“Va bene, sono io! Sono un’amica di merda! Penso solo ai miei problemi!” urlai, indietreggiando.
Dave aggrottò le sopracciglia mentre tentava di avvicinarsi a me. “Non fare così, adesso. Non ho detto questo, volevo solo…”
Spostai il braccio quando me lo sfiorò. “Lasciami in pace,” mormorai con la voce rotta, prima di allontanarmi definitivamente.
Scappai da lì con il cuore che faceva male. Le lacrime premevano forte per uscire, ma le ricacciai indietro deglutendo: non ero una persona che piangeva spesso e, soprattutto, non volevo farlo in pubblico, davanti a metà della nostra scuola.
Dovevo cercare un luogo dove stare in pace, perché tutto quello che fino a quel momento avevo cercato di trattenere, tutta la tristezza, la rabbia, la frustrazione, tutto l’orgoglio ferito, tutte queste cose ora traboccavano dal mio petto, come se fosse impossibile contenerle, sperare di fare ancora finta di nulla.
Quella mattina ero sbottata contro Audrey che stava cercando di aiutarmi e ora avevo pure litigato con David, nonostante sapessi perfettamente che lui non c’entrava nulla col mio stato d’animo. Ma mi sentivo tradita anche da lui, mi sentivo messa da parte, mi sentivo sola come poche volte mi era successo in vita; era una sensazione di quelle che ti si infilano sotto pelle, che non puoi scrollarti di dosso con facilità, e anche se adesso, col senno di poi, posso dire di non essere mai stata davvero sola, in quel momento non riuscivo a ragionare in modo oggettivo.
Superai alcune persone che giocavano a birra pong su un lato del giardino e, istintivamente, aprii la porta della dependance e mi ci infilai dentro, sperando di non trovarvi nessuno. Per fortuna le mie preghiere vennero esaudite: la stanza, che comprendeva una piccola cucina e un’area salotto con una televisione di fronte a un tavolino, un divano e una poltrona, era vuota e in penombra, e non sembrava provenire alcun rumore nemmeno dalle due porte chiuse che si affacciavano sul salone. Era evidente che le persone avevano preferito riversarsi nella villa principale e in cortile, magari pensando che la dependance fosse chiusa.
Sapevo che Patterson viveva lì da almeno un anno a quella parte, ma non ci ero mai entrata. Non ero molto in vena di curiosare in giro, né mi interessava farlo, per la verità, perciò in due passi raggiunsi il divano e mi ci buttai sopra e, appena mi rilassai, le lacrime che avevo trattenuto per tanto tempo fecero capolino.
Erano passati solo pochi minuti dal mio arrivo quando sentii un rumore alle mie spalle e, guardando sopra lo schienale del divano, vidi Patterson che usciva da una delle porte infilandosi una maglietta. Senza volerlo, emisi uno sbuffo di lamentela che lo fece sussultare appena, prima di voltarsi e vedermi. Restammo in silenzio per qualche secondo, poi io tirai su col naso e gli feci la domanda che entrambi avevamo in testa.
“Cosa ci fai tu qui?”
Matt indicò la porta da cui era appena uscito. “Quella è la mia camera, io ci vivo qui. Casomai dovrei chiedere cosa ci fai tu qui.”
Aprii la bocca per rispondere e la richiusi, a corto di parole, finché un pensiero mi balenò in testa, improvviso. “Oh mio dio, ti ho disturbato mentre facevi…?”
Lui inarcò le sopracciglia, invitandomi a continuare.
“Stai… Sei con qualcuno lì dentro?” pigolai, indicando la porta con il mento.
Patterson sorrise, criptico. “Sarebbe imbarazzante, vero?”
Gemetti e mi tirai in piedi alla velocità della luce, pronta a sparire, ma Matt mi fermò prima che facessi un passo.
“Ma no, sta’ ferma. Sono venuto a cambiarmi, Josh mi ha lanciato in piscina poco fa.”
Sospirai, sollevata, e mi ributtai sul divano senza farmi ripetere l’invito a rimanere. In effetti, quando Matt fece il giro del divano e si fermò circa davanti a me, notai che non indossava più l’abito del ballo, ma dei pantaloncini e una maglietta blu, e che i suoi capelli erano umidi. Lui, nel frattempo, se ne stava fermo di fronte al divano e occhieggiava nella mia direzione indeciso sul da farsi: pensai che avesse intuito il motivo della mia fuga e che non sapesse se lasciarmi sola o meno.
Una lacrima che fino a quel momento era rimasta impigliata sulle mia ciglia si decise a cadere e rotolò sul lato della mia guancia. La asciugai con la mano, imbarazzata, ma Patterson finse di non vederla, anche se quella fu probabilmente la motivazione che lo spinse a fare qualche passo incerto e sedersi sulla poltrona che faceva angolo col divano sul quale ero posizionata io. Non disse niente e io, nonostante la situazione, sentii come al solito l’urgenza di parlare per riempire quel silenzio così poco adatto a me.
“Perché quando sono sola e depressa spunti sempre tu?”
Matt sorrise e scrollò le spalle. “Giuro che stavolta non sono venuto a cercarti.”
“Stavolta?” domandai, ma lui non si scompose di un millimetro.
“Vuoi che vada a chiamarti qualcuno?” chiese invece, titubante. “Audrey? Dave?”
“No, no, ti prego,” dissi di fretta. “Non… non disturbare nessuno. Non volevo disturbare neanche te, in realtà, quindi non serve che stai qui, la festa è bella e immagino che avrai voglia di divertirti insieme a tutti gli altri piuttosto che rimanere con l’unica persona che odi, solo per pena. Sei gentile, ma non serve. Tra l’altro è casa tua ed è pieno di persone di là, è pieno di belle ragazze, c’è la piscina, c’è l’alcol, è casa tua, dovresti più che altro controllare che vada tutto bene… Non devi stare qui.”
Lui rimase in silenzio un paio di secondi al termine della mia tirata, come per essere certo che avessi finito di parlare. “Cos’è successo?”
“Come se non lo sapessi,” ribattei, risentita.
“Non ti ho chiesto cos’è successo nella tua vita, non sono la persona adatta da farti da padre confessore. È successo qualcosa adesso, vero?”
Mi guardai le mani con interesse. “Ho litigato con Dave.”
Lui annuì, come se si aspettasse una risposta del genere, ma non fece le altre domande che sembravano scontate; invece, si alzò dalla poltrona e andò verso la cucina ad angolo che occupava una piccola parte della stanza. Quando tornò aveva in mano una bottiglia di tequila e un paio di bicchierini da shot.
Cercai di ribellarmi debolmente. “Non tutto si risolve con l’alcol, principino.”
“Alla festa post ballo del liceo sì.”
Appoggiò sul tavolino i bicchieri e li riempì, poi sembrò ricordarsi di qualcosa e tornò verso la cucina. Mi girai e lo guardai trafficare per un po’ senza capire cosa stesse combinando e, quando si riavvicinò a me, notai che aveva un piattino in mano.
“Tequila sale e limone?” domandai incerta, vedendone il contenuto. “Non l’ho mai bevuta così.”
“Allora devi,” disse lui, spingendo il bicchierino verso di me.
Si inumidì con la lingua la pelle tra il pollice e l’indice della mano destra e io lo imitai, per fare in modo che il sale si attaccasse meglio, poi presi la fetta di limone e la tequila.
“Pronta?” mi chiese Matt, che poi, notando la mia esitazione, aggiunse: “prima il sale, poi bevi, e poi metti subito in bocca il limone.”
“Perché subito?”
“Perché ti salva la vita,” rispose con un mezzo sorriso, prima di sporgersi per far tintinnare il bicchiere sul mio.
“Non c’è molto da brindare,” commentai amara.
“Come no? È finito il liceo! A quanto dicono, abbiamo superato la parte più difficile.”
Arricciai il naso in una smorfia, ma mi scappò un sorrisino. “Alla fine del liceo, allora,” confermai, alzando il bicchierino.
Leccai il sale dalla mia mano, buttai giù la tequila tutta d’un fiato e, infine, prima ancora di sentirla bruciare nel mio stomaco, mi infilai il limone in bocca, strizzando forte gli occhi. Senza rendermene conto cominciai a mugugnare e feci un paio di colpi di tosse sputacchiando la fetta di limone, che mi cadde sulle gambe incrociate.
“Che cazzo,” brontolai, pulendomi la bocca con il retro della mano senza troppa finezza. “Ogni volta che bevo la tequila mi dimentico che la volta precedente avevo detto che non l’avrei più bevuta.”
Matt ridacchiò. “Non ti è piaciuta?”
“Stai scherzando?” esclamai, rimettendo in bocca il mio limone per finire di mangiarlo, buccia compresa. “La adoro. Il limone ti salva davvero la vita.”
Feci scivolare il mio bicchierino sul tavolo nella direzione di Patterson, che mi guardò stupito e un po’ ammirato, ma non disse niente, me lo riempì e me lo porse di nuovo, prima di versare la tequila anche a se stesso.
“Alla fine del liceo e alla fine della mia prima relazione decente,” dissi, alzando lo shot.
Matt si limitò ad assecondarmi.

Facemmo diversi altri brindisi quella sera, io e Patterson: alla mia prima litigata con David, alle feste in piscina piene di ragazze in bikini, alla professoressa di matematica che aveva un debole per lui, a Monty, il modellino di scheletro del laboratorio di biologia, alla ragazzina coraggiosa del Prom, alle lezioni di danza per il ballo delle debuttanti.
Matt mi permise di proporre la maggior parte di quelle dediche, divertito dal fatto che diventassi sempre più fantasiosa a ogni bicchiere riempito e successivamente svuotato, ma l’ultima la decise lui, poco dopo essersi alzato e aver riposto la bottiglia mezza vuota su un mobiletto in alto, difficile per me da raggiungere.
“Mi nascondi la tequila?” chiesi, cercando di fare una faccia da cucciolo abbandonato.
“Direi che siamo a posto così,” spiegò, deciso, buttandosi a sedere, stavolta, accanto a me sul divano.
“Sei una femminuccia, Patterson.”
“Oh, credimi, lo faccio per te, stellina.”
“Perfetto, non sei neanche capace di approfittarti di una ragazza,” risposi a tono, sbeffeggiandolo. “E non chiamarmi stellina.”
“Dai, ultimo brindisi,” propose lui, porgendomi il mio bicchiere per poi allungarsi a prendere il proprio.
“Quando l’hai versata questa?” domandai, confusa.
Matt rise e io capitolai, come da manuale.
“Non ridere,” lo pregai, gli occhi quasi sbarrati.
“Sei divertente, Gray, non ti ho mai vista così.”
Non ascoltai nemmeno quello che stava dicendo. “Quando ridi fai quella cosa con la faccia, con… È meglio se non ridi. Per favore.”
Ora era decisamente lui ad essere confuso. “Quale cosa?”
“Quella cosa,” ripetei, ancora abbastanza in me da auto intimarmi di non continuare quel discorso. “A cosa brindiamo?”
Matt alzò il bicchiere verso il mio. “A noi due, che abbiamo ricominciato a parlare.”
“Solo perché ti stai approfittando del fatto che sono triste e sola,” mugugnai un secondo prima di bere.
Lui mi seguì a ruota e poi rispose. “Ma se hai appena detto che non sono capace di approfittarmene.”
“Mi hai ubriacata tu, eh,” gli feci notare, totalmente a sproposito.
“Sei bella che ubriaca, sì,” commentò lui, ridacchiando. “E non dire che adesso sono responsabile di te, che non sono messo benissimo neppure io.”
Il mio cervello era piuttosto inceppato. “Hai detto che sono bella da ubriaca?” biascicai, perplessa.
“Ho detto che sei bella che ubriaca,” specificò Matt.
“Comunque hai detto bella,” ripetei, ridendo come una scema.
Lui scrollò le spalle, arrendendosi. “Come vuoi.”
Cercai di alzarmi, appoggiandomi con le mani al divano, e Patterson mi porse il braccio per aiutarmi. Lo ringraziai confusamente, mi lisciai le pieghe del vestito e mi diressi verso la porta a vetri della dependance. La vetrata era per più di metà coperta da una tenda azzurro chiaro, ma si vedeva comunque che il party era ancora vivace e pieno di gente.
“Io vado a dare un’occhiata intorno alla piscina prima che la festa finisca, magari trovo qualcun altro che mi dice che sono bella. Senza… senza la parte sull’ubriaca.”
Matt rise e mi accorsi che si era alzato anche lui ed era di fianco a me.
“Non ridere, ho detto,” gli ordinai di nuovo, puntandogli un dito sul petto.
Lui alzò le mani, tornando fintamente serio, dopodiché mi aprì la porta e mi poggiò leggera una mano alla base della schiena per spingermi a uscire, prima di seguirmi. Non appena fui fuori, in mezzo alla gente, mi ritrovai inconsciamente e stupidamente a sperare che la mano di Matt restasse dov’era ancora per un po’, ma lui si scostò e mi rivolse un mezzo sorriso incerto.
“Divertiti, la serata è ancora lunga,” mi consigliò, mettendosi le mani in tasca.
“Certo. Ci si becca in giro.”
Annuì. “Cerca di non fare troppe stupidaggini, novellina.”

Non mi servì bere ancora per fare stupidaggini, la tequila fece il suo dovere per bene. Un’ora dopo stavo flirtando con un ragazzo per cui non avevo alcun interesse e, ancora un po’ più tardi, stavo baciando qualcuno nella cucina della casa principale.
Ero confusa, la testa mi girava abbastanza, tenevo gli occhi chiusi e mi concentravo su quel bacio disordinato e morbido e strano, così strano.
Conoscevo la persona che stavo baciando, ne riconoscevo il profumo, mischiato all’odore di alcol, che non era proprio il massimo, ma, cavolo, chi ero io per giudicare? Ero quasi sicuramente più ubriaca di lui. Conoscevo il suo profumo e forse anche il suo sapore… Ci eravamo già baciati?
Dio, avevo così paura di aprire gli occhi, mi piaceva quel bacio, davvero. Non mi preoccupava il fatto di baciare uno sconosciuto da ubriaca, mi preoccupava di più il fatto che potesse essere qualcuno che conoscevo bene. Un’idea raccapricciante mi balenò in testa: e se fosse stato Petrovic? L’avevo sicuramente visto alla festa.
Fu a causa di quel pensiero che, alla fine, mi costrinsi ad alzare un po’ il mento per interrompere il bacio e ad aprire gli occhi. Davanti a me, occhi serrati e labbra ancora socchiuse, c’era Matt.
Okay, era Matt. Richiusi gli occhi, sollevata, ricollegando anche quello strano formicolio alla base del mio stomaco al fatto che davanti a me ci fosse lui, proprio lui, e non qualcun altro. Mi alzai sulle punte dei piedi e lo baciai di nuovo, stringendogli di più le braccia dietro al collo.
Stavo baciando Matt, non Petrovic. Tutto a posto, quindi. No?













Ciao a chi è arrivato fino in fondo! Siete eroici ad aspettarmi, davvero. <3
Se avete altri due minuti di pazienza leggete anche le note, anche se purtroppo ho diverse cose da dire e non posso promettere brevità, conoscendomi.

Innanzitutto il capitolo (di nuovo) non doveva finire così, ma nella mia testa era destinato ad andare avanti almeno fino al giorno successivo alla sera della festa. Poi mi sono accorta che stavo scrivendo troppo, che questo, pur non essendo un papiro, era già il capitolo più lungo che avessi mai scritto finora (in questa storia) e che, se avessi continuato, avrebbe avuto almeno altre 2-3000 parole, forse di più. Non ho voluto restringere né limitare la parte successiva, che è molto importante. Non odiatemi, tutto sarà spiegato. Più o meno.
La cosa positiva è che, siccome non ho scritto il capitolo in ordine cronologico ma a pezzi (spero che non si noti troppo), una parte del capitolo successivo è già pronta, e un'altra parte è in fase di scrittura.
Non sono sicura che mi piaccia ciò che ho scritto. Di sicuro ho amato far parlare di nuovo Matt e Delia, ma è stata dura e spero di non aver fatto errori: nella parte finale dovevano prima riavvicinarsi dopo essersi ignorati per lungo tempo, poi interagire da ubriachi e infine... beh, avete letto. L'ultima parte è stata la più difficile. Non vedevo l'ora di farli parlare, riavvicinare, ma ho fatto una fatica boia.

E ora le note dolenti. Per quanto un pezzo del capitolo successivo sia già scritto (e anche parti ancora più avanti), se continuo a procedere a questa velocità diventiamo tutti vecchi qui. C'è solo una cosa che aiuta in questi casi ed è trovare qualche recensione (positiva, ma anche no) come stimolo per continuare. E credetemi, mi dispiace davvero rompere le palle al riguardo, ma la storia ha più di cinquanta persone che la seguono e una media di meno di due recensioni per capitolo. Forse dovrei dedurre che le persone che l'hanno inserita nei preferiti/seguiti non la guardino davvero, e sto cominciando a pensarlo, in effetti.
Ora, non vi chiedo di commentare ogni capitolo, capisco che non abbiate voglia di farlo, ma vi garantisco che una recensione una tantum può fare miracoli, qui. A questo proposito, ringrazio di cuore, di nuovo, Evelyn 98, che finora ha seguito Matt e Delia con così tanta devozione e riponendo fiducia immeritata nei miei confronti. Mille volte grazie! <3

Solite precisazioni prima di dileguarmi:
- Il titolo del capitolo è schematico come sembra: Love (parte iniziale, Nate) and friendship (parte centrale, Aud, Jude, Josh, Dave) and other things (parte finale, Matt). La fantasia!
- Per chi fosse interessato a Jude e Josh, ricordo, dato che è da un po' che non lo faccio, che questa storia è uno spin-off di Of all the people in the world, che parla proprio di quei due. Click sul titolo se vi interessa, sennò pazienza.
- La battuta in cui Delia chiede a Matt come mai spunti sempre lui quando lei è triste è un vago rimando a un dialogo di BTVS tra Buffy e Spike: "Why are you always around when I'm miserable?" "Cause that's when you're alone, I reckon". Per quanto io abbia amato la risposta di Spike in quel momento, Matt non è ancora pronto a quel tipo di rivelazione, purtroppo. :) 

Mi trovate anche su Wattpad (qualcuno mi ha già trovata, eheh) con lo stesso nome e con le stesse storie. Continuo a pubblicare sempre prima qui, anche perché non capisco molto bene il mondo di Wattpad e i suoi meccanismi.

Chiudo qui, ché stavolta ho davvero esagerato. Vi prego, fatemi sapere cosa ne pensate di qualsiasi cosa vi venga in mente, da ciò che vi è piaciuto a quello che avete odiato, dall'html al mio stile di scrittura. Davvero, ne sarei felice.
Un bacio grande a chi continua a seguirmi! Alla prossima.

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Capitolo 13
*** Watching the flashbacks intertwine ***


13. Watching the flashbacks intertwine


La prima e la seconda cosa che percepii quando mi svegliai furono la mia bocca completamente secca e un discreto mal di testa. Allungai un braccio, senza nemmeno aprire gli occhi, per trovare la bottiglietta d’acqua che tenevo sempre sul comodino, e mi accorsi che il comodino non era dove avrebbe dovuto essere.
A quel punto, non senza difficoltà, decisi di aprire gli occhi per verificare la mia situazione e, guardandomi intorno senza muovermi troppo, notai alcuni dettagli. Innanzitutto, ero su un letto che non era il mio, in una camera che non era la mia, presumibilmente in una casa che non era la mia. Il balcone alla mia destra era semi aperto e da esso entrava una luce che mi colpiva in modo fastidioso il viso, e forse era proprio quello il motivo per cui mi ero svegliata. Mi girai sul fianco sinistro per evitare quell’inconveniente e il mio stomaco si lamentò, decidendo di svegliarsi per lanciarmi addosso un bruttissimo senso di nausea.
Non ebbi il tempo di assimilarlo, però, perché quello che vidi sull’altro lato del letto matrimoniale mi gelò da capo a piedi e mi fece dimenticare la nausea. Davanti a me, girato di schiena, appallottolato al lenzuolo e con la testa coperta in modo da risultare quasi del tutto riparato dalla luce, c’era un corpo che sembrava essere maschile.
Imprecai tra me e me, seriamente preoccupata. Non era la prima volta che mi svegliavo coi postumi di una sbornia, ma non mi era ancora mai capitata una situazione del genere. Oltretutto faticavo a ricordare la fine della serata precedente, quindi, conoscendomi, poteva essere successo pressoché di tutto.
Serrai gli occhi sforzandomi di trovare delle reminiscenze nascoste tra gli angoli della mia testolina bacata, e quello che il mio cervello mi rimandò indietro furono immagini di me e Matt che ci baciavamo in cucina, avvinghiati l’uno all’altra come se fosse una cosa del tutto normale. Spalancai di nuovo gli occhi, col cuore che mi martellava nel petto neanche dovesse uscire da un momento all’altro. Cosa diavolo avevo fatto?
In uno sprazzo di lucidità, cercando di capirci qualcosa di più, buttai l’occhio sotto le lenzuola e mi tastai i vestiti per capire com’ero conciata. Quello che scoprii peggiorò, se possibile, la mia condizione: addosso avevo solo una maglietta blu non mia, che dalle dimensioni sembrava una t-shirt da uomo, visto che mi arrivava fino alla coscia, e il reggiseno che avevo indossato per andare al ballo. Delle mutande non c’era la minima traccia, constatai con l’ennesimo tuffo al cuore.
Non può essere vero, dimmi che non è vero, pensai, angosciata, mentre mi sforzavo di guardare qualunque cosa che non fosse la montagnola coperta dalle lenzuola accanto a me.
Sospirai per cercare di regolarizzare il battito cardiaco, ma non funzionò. Decisi quindi, a malincuore, di avvicinarmi al corpo dormiente per verificare le mie paure. Scivolai piano sul letto e allungai un braccio per far scorrere il lenzuolo in giù, in modo da vedere la nuca del ragazzo. Mi aspettavo di trovare una testa bionda e spettinata, invece, a sorpresa, mi si parò davanti una zazzera di capelli castani e un po’ più lunghi del previsto. Allungai il collo per vedere meglio e, finalmente, lo riconobbi: era David.
La rivelazione non aiutò molto il mio stato d’animo: dopo un primo momento di sollievo, infatti, la mia mente malata cominciò a elaborare i dati, giungendo alla peggior conclusione possibile. Ero andata a letto con Dave? Mi sembrava un’eventualità poco probabile, ma non era un’ipotesi da scartare del tutto, alla festa ero talmente ubriaca che avrei anche potuto fare una cosa del genere. Però non mi pareva di aver avuto a che fare con David, non dopo la nostra mezza litigata, almeno.
Mi obbligai a chiudere di nuovo gli occhi per provare a concentrarmi meglio sui ricordi della sera precedente.

Dopo aver bevuto la tequila con Matt – maledizione, era tutta colpa di quella stupida tequila – uscii a fare un giro in giardino e chiacchierai con qualche persona che conoscevo. Alla fine mi ritrovai, chissà come, a parlare con un ragazzo che avevo già visto a scuola, un certo Brendan. Era più piccolo di me di un anno e io, tendenzialmente, non guardavo i ragazzi più piccoli, ma ero ubriaca, confusa e, oltretutto, stavo solo giocando, non avevo intenzione di combinarci niente.
Infatti, dopo diversi minuti che parlavamo, mi resi conto che il tizio era parecchio irritante, uno di quei pavoni pieni di sé che fanno di tutto per mettersi in mostra descrivendo i propri pregi e le imprese che credevano di aver compiuto. All’ennesimo racconto sulle sue doti di tennista pluripremiato, quindi, mi stufai e cercai un metodo indolore per liberarmi di lui.
In quel modo, da brava scema, riuscii solo a cacciarmi in un guaio ancora più grosso. Per allontanare Brendan, infatti, fermai la prima persona conosciuta che mi capitò davanti, Russ, un amico di Nate, che giocava nella squadra di football con lui. Il tipo cominciò da subito a flirtare con me in maniera piuttosto palese, facendomi complimenti sul vestito, sui capelli, persino sul trucco. Capii finalmente perché Nate si era sempre rifiutato di farmi frequentare in modo continuativo i suoi amici: se quello era un esempio di ciò che sarebbe successo, forse, non aveva tutti i torti.
Mi allontanai da Russ con una scusa, entrai in casa traballando, e raggiunsi poco dopo la cucina, l’unica stanza in cui era vietato l’accesso e che quindi era vuota. Ma, si sa, una ragazza ubriaca è come la carta moschicida per qualcuno che pensa di potersene approfittare in qualche modo, e infatti dopo appena pochi minuti apparve proprio Russ, che evidentemente mi aveva seguita fino a lì per continuare a provarci con me.
Non perse tempo: mi si avvicinò con un sorriso che, nel suo intento, doveva essere seducente e malizioso, e mi intrappolò tra sé e il piano di lavoro alle mie spalle poggiando le mani su quest’ultimo.
“Tu non sei amico di Nate?” gli domandai, sconcertata dal suo comportamento, ma senza muovermi di un millimetro né allontanarlo.
Lui alzò le spalle con noncuranza. “Beh, Nate non è qui adesso.”
Sbuffai: probabilmente non sapeva nemmeno che io e Nathan ci eravamo mollati e già ci stava provando così con me, gran bell’amico. Appoggiai le mani sulle sue spalle per spostarlo e lui, per la verità, non oppose resistenza e indietreggiò subito di un paio di passi.
“Che c’è?” mi chiese, stupito che qualcuno, dopo avergli toccato le spalle, potesse rifiutare un ragazzo con un fisico scultoreo come il suo.
“Non siamo abbastanza in confidenza,” risposi, non del tutto sincera: se non fosse stato un amico di Nathan probabilmente gli avrei dato più corda.
Russ si appoggiò con un fianco sul piano cucina, sempre con quel sorrisetto malizioso sulle labbra. “Beh, possiamo conoscerci meglio, se ti va.”
Era una battuta talmente scontata da rasentare il ridicolo, ma, purtroppo, io ero ubriaca, quindi mi ritrovai a ridacchiare come una stupida: Russ pensò quindi di avere campo libero e si avvicinò di nuovo.
“Eccoti.”
Voltandomi verso la porta della cucina vidi Matt che ci guardava, leggermente corrucciato. Mi guardai intorno, pensando che non stesse parlando con me, ma nella stanza c’eravamo solo io e Russ, appunto.
“Ti ho cercata dappertutto,” continuò lui, guardandomi dritta negli occhi e cancellando ogni dubbio. Poi, prima che riuscissi a pensare di rispondere, si rivolse al ragazzo che mi stava ancora troppo vicino. “Sparisci, Stevenson. Non si può neanche stare in cucina, ho messo un cartello fuori! Non sai leggere?”
Lui sembrava confuso. “Ma lei…”
Patterson si avvicinò di un passo e alzò le sopracciglia. “Lei è off-limits stasera.”
“E perché?”
“È impegnata,” si corresse, come se così avesse più senso.
“Con te?”
Matt annuì lentamente, stringendo le labbra in un’espressione di stizzita ovvietà.
Io seguivo il loro scambio muovendo la testa per guardare prima l’uno e poi l’altro, e più osservavo Patterson comportarsi in quel modo più la mia bocca si allargava in un sorriso di comprensione. In un’altra occasione mi avrebbe dato fastidio che qualcuno – lui in particolare – pensasse di decidere cosa potevo o non potevo fare, ma nel linguaggio del corpo di Matt, in quel momento, leggevo una sorta di malcelata gelosia che, in qualche modo, mi faceva piacere.
Fece un gesto con la mano, indicando all’altro la porta. “Ti conviene uscire. Ci sono molte ragazze ubriache fuori, prova con Sheila Bradbury.”
Russ fece come gli era stato detto senza fiatare e io, dal canto mio, piantai su Patterson due occhi curiosi e un po’ appannati dalla tequila.
“So prendermi cura di me stessa, ma è stato istruttivo vederti comportare da amico geloso, per una volta.”
Lui ignorò le mie parole e mi lanciò uno sguardo furioso. “Ti avevo detto di non fare stupidaggini.”
“Non pensavo fossi così intransigente sul fatto di non entrare in cucina.”
Matt sbuffò sdegnato e mezzo divertito, e quella strana rabbia che non gli avevo mai visto addosso prima sparì, mascherata, come al solito, dalla sua tipica tranquillità. “Sei spiritosa, Gray.”
“Sono impegnata,” lo corressi, avvicinandomi piano a lui.
Socchiuse gli occhi, scrutandomi con sospetto mentre gli arrivavo sempre più vicina. “Dai, l’ho detto per liberarti di quel tipo. Te li scegli proprio bene, eh, tra parentesi.”
Mi morsi il labbro inferiore senza riuscire a trattenere un sorriso e Matt mi guardò la bocca, indeciso, come quella volta al maneggio. Eravamo distanti sì e no mezzo metro, se avessi fatto un altro passo sarei stata attaccata a lui: ero ubriaca e il mio autocontrollo era quasi del tutto dissolto, ma sentivo comunque che quel passo, tra noi, pesava tantissimo.
Stavo ancora riflettendo su cosa fare quando dalla porta spuntò di nuovo la testa di Russ Stevenson, che chiaramente quella sera era meno intuitivo del solito.
“Ehi, amico,” iniziò, quasi infastidito, “mi hai mentito, la Bradbury non c’è e se n’è andata diversa gente. Mi hai appena rubato una delle ultime ragazze ubriache disponibili.”

Matt sbuffò, alzò gli occhi al cielo esasperato e compì quell’ultimo passo che ci separava. Poi, mi baciò.

Sentii un rumore alla mia sinistra e trasalii, distratta. David si stava stiracchiando con un brontolio appena accennato, alla fine dell’operazione si girò verso di me e mormorò un “Buongiorno” soffocato da un vistoso sbadiglio. Gli risposi con un sorriso nervoso, sentendo lo stomaco ancora più sottosopra di quanto non lo fosse prima.
Lui mi lanciò un’occhiata indecifrabile e tirò un po’ giù il lenzuolo, quindi, con l’ennesimo tuffo al cuore, notai che aveva su una maglietta. Chissà se indossava le mutande, almeno lui.
“Stai bene?”
“Credo che vomiterò entro la mattinata,” risposi, con sincerità.
“Beh, sono già le…” Guardò l’orologio sul comodino prima di continuare la frase. “Undici e un quarto, quindi non hai molto tempo per raggiungere questo obiettivo.”
Ci fu qualche secondo di silenzio in cui entrambi ci guardammo in giro pensierosi, prima che mi decidessi a parlare.
“Dave?”
Lui mugugnò in risposta, tenendo lo sguardo fisso sul soffitto.
“Posso farti una domanda?”
“Vai.”
Ci pensai un attimo. “Due domande? Anzi, tre?”
David si mise su un fianco voltandosi verso di me, e mi lanciò uno sguardo accondiscendente. “Anche settanta, Delia, basta che ti decidi.”
“Abbiamo fatto sesso?” sputai fuori, lo stomaco aggrovigliato per l’ansia.
Lui spalancò gli occhi. “Io e te?”
Annuii mordendomi il labbro inferiore e Dave scoppiò a ridere come se non avesse mai sentito qualcosa di più divertente in tutta la sua vita. Mentre rideva il lenzuolo scese ancora e notai che, per fortuna, aveva addosso dei boxer grigi. Mi sentii improvvisamente molto stupida.
“Beh, grazie,” borbottai, quasi offesa.
“Sono gay!” esclamò il mio amico, senza smettere di ridacchiare.
“Lo so, ma ieri sera ero davvero, davvero ubriaca, e non mi ricordo bene tutto quello che è successo, penso di aver fatto un sacco di casini e…” blaterai, in confusione. “Anzi, ho fatto sicuramente danni a destra e manca, sono una deficiente. E Dave, l’altra domanda è… Insomma, sei ancora arrabbiato con me?”
Lui non ci pensò nemmeno un secondo. “No, Deels, no. Vieni.”
Aprì le braccia e io espirai, un po’ più tranquilla, gettandomi sulla sua spalla e facendomi stringere da lui. “Scusa,” mormorai, la voce spezzata.
Dave mi carezzò la testa. “Siamo stati entrambi cretini. E non serve che io ti dica che sei e rimarrai un’ottima amica per me, non ho mai pensato il contrario. Ti voglio bene,” sussurrò, prima di sdrammatizzare con una risata. “E comunque ti sei già scusata a sufficienza ieri sera.”
Corrucciai la fronte e alzai il viso per guardarlo. “Davvero?”
“Davvero! Mentre stavamo andando a dormire non facevi altro che chiedere scusa per qualsiasi cosa, eri disperata. Hai tirato fuori cavolate di due anni fa di cui non mi ricordavo neanche. Adorabile,” disse, ammiccando.
Tornai a poggiare la testa sul mio cuscino, sistemai la maglietta per coprirmi al meglio, infine mi misi le mani sul volto, strofinandole sugli occhi.
“Non mi ricordo,” mi lamentai, mentre la lieve angoscia di poco prima tornava a farsi strada nel mio petto.
“Qual era la terza cosa che volevi chiedermi?” mi spronò David, capendo dove volessi andare a parare.
Chiusi gli occhi e sospirai. “Sono… sono andata a letto con qualcuno?” domandai con voce tremante.
“A parte con me, intendi?”
Scoccai un’occhiataccia di sbieco al mio amico e lui tornò serio, ma aveva un’espressione rassicurante.
“No, non l’hai fatto.”
“Ne sei sicuro?”
“Abbastanza, sì.”
Mi accorsi che mi stavo stritolando le mani e incrociai le braccia al petto, continuando a guardare il soffitto. “Cosa vuol dire abbastanza?”
“Era tardi, la maggior parte della gente era già andata a casa. Matt ti ha portato da me e mi ha chiesto se potevo occuparmi di te. Avevo già previsto di dormire qui e Tyler era andato via da almeno un’ora. Ti ho fatto lavare il viso, ti ho aiutata a svestirti e a mettere quella maglietta, ho mandato un messaggio a tuo papà dal tuo cellulare, ti ho fatto bere un bel bicchierone d’acqua e ti ho sistemata sul letto con me, mentre tu continuavi a blaterare scuse e ringraziamenti a casaccio.”
Un particolare del racconto aveva fatto attorcigliare le mie budella ancora di più di quanto non lo fossero già. “Matt?” pigolai, la voce appena udibile.
“Sì, Matt. Ha detto che ti aveva tenuta d’occhio lui da quando avevi iniziato a bere, per questo sono abbastanza sicuro che tu non abbia fatto sesso con nessuno.” Fece una pausa, riflettendo. “A meno che…” aggiunse poi, in tono malizioso.
Mugugnai in segno di protesta, mi sfilai il cuscino da sotto la testa e ci seppellii il viso, in imbarazzo.
“Deels?”
“Credo di aver fatto una cazzata,” mormorai, afflitta.
“Se non esci da lì sotto non capirò mai quello che stai cercando di dirmi.”
Spostai il cuscino giusto il necessario. “Credo di aver fatto una cazzata,” ripetei.

Il bacio di Matt mi trovò con le labbra già schiuse e mi fece balzare il cuore direttamente in gola. Rimase comunque in superficie, come la prima volta che mi aveva baciata per allontanare Teller, al ballo, ma fu una cosa completamente diversa.
Innanzitutto, stavolta durò di più. Mi appoggiò la mano destra sulla nuca subito dopo aver posato le labbra sulle mie e io chiusi gli occhi, d’istinto. Quando li riaprii Matt si era staccato da me e stava guardando verso la porta, forse per verificare che Stevenson fosse uscito. Io, invece, non riuscivo a staccare gli occhi dal suo viso, completamente andata.
“Si è deciso a sparire, quell’idiota,” borbottò lui, voltandosi di nuovo verso di me.
Appena vide che lo stavo fissando come una scema, la sua espressione si corrucciò di più. Non aveva spostato la mano dalla mia testa: piano, come se stesse facendo una carezza involontaria, infilò le dita sotto i miei capelli raccolti sulla nuca.
“Non guardarmi così, Gray,” mi ammonì, la voce leggermente roca. “Ho bevuto parecchia tequila anch’io.”
Mi ricordai di quando mi aveva detto che quand’era ubriaco gli piacevo un po’ di più, e mi scappò un mezzo sorriso alcolico. Lui spostò di nuovo gli occhi sulle mie labbra.
“Maledizione,” imprecò a bassa voce.
Poi portò la mano sinistra sul mio fianco, stringendo la stoffa del mio vestito e  avvicinandomi ancora di qualche centimetro, finché non fui costretta ad appoggiare le braccia sulle sue spalle.
“È la tequila,” mormorai, un sorrisetto a dipingermi il volto.
Lui annuì, ancora corrucciato. “La tequila,” ripeté.
Si avvicinò di nuovo alle mie labbra, lentamente, come se volesse darmi – e darsi – il tempo di cambiare idea, ma quella volta fui io che mi sporsi in avanti percorrendo gli ultimi centimetri che ci separavano.
Quel secondo bacio non fu delicato, né rimase in superficie. Dopo i primi istanti di stupore, Matt ricambiò, mi strinse di più a sé e indietreggiò fino ad appoggiarsi all’isola della cucina, cercando un sostegno per aiutare la propria stabilità. Poi approfondì il bacio e ci ritrovammo entrambi ad assaggiare il sapore della tequila sulla lingua dell’altro.
Matt si allontanò di qualche millimetro solo per inspirare a pieni polmoni quella sensazione nuova e strana, così strana, che sentivo anch’io premermi alla base dello stomaco.
“È decisamente la tequila, sì,” bisbigliò di nuovo, buttando fuori l’aria e rilassando finalmente le spalle, lasciandosi andare, un attimo prima di tornare a baciarmi con la bocca schiusa e inquieta.
Lo lasciai decidere come continuare, ero troppo ubriaca e presa dalla situazione per fare un altro solo passo in avanti. Mi bastava continuare a stare lì, aggrapparmi alle sue spalle e baciarlo, mentre lui mi passava le mani sui fianchi e sulla schiena. Quando, in un attimo di confusione dettata dal mio tasso alcolemico, tirai la testa indietro per controllare chi stessi baciando, lui non si mosse nemmeno, troppo impegnato a riprendere fiato e ad impedirsi di aprire gli occhi.
Ci baciammo ancora e ancora, per non so quanto tempo, forse per delle ore, più probabilmente solo per qualche minuto, finché Patterson non scambiò le nostre posizioni, girandosi e facendo in modo che mi appoggiassi io all’isola. Dopo un paio di goffi tentativi riuscii a issarmi con le braccia sul ripiano, afferrai la maglietta di Matt e lo tirai di nuovo a me, aprendo le gambe per fargli spazio. Lui appoggiò entrambe le mani di fianco a me, sul mobile, e mi guardò serio negli occhi per la prima volta dopo un po’ di tempo: in quella posizione il mio viso era alla sua altezza e potevo vederne ogni particolare da vicino, così mi colpirono le sue sopracciglia ancora corrucciate e l’espressione indecisa che gli leggevo negli occhi.
“Cosa?” gli domandai, sempre sottovoce.
Si umettò le labbra, sospirò, distolse lo sguardo girando impercettibilmente la testa. Non capivo a cosa stesse pensando: lo tirai di nuovo per la maglietta che non avevo mai mollato e lui mi accontentò, baciandomi piano.

“Hai baciato Matt. E allora?”
“Non l’ho baciato, cioè sì, ci siamo baciati. Ma è lui che ha baciato me. Per primo,” lo corressi, balbettando, pur consapevole che quella volta era un dettaglio inutile e anche poco veritiero.
Dave, infatti, non modificò la propria espressione dubbiosa. “E allora?” ripeté.
“Come e allora? Davvero non ci arrivi?”
“Ci arrivo benissimo. Matt è un gran bel pezzo di ragazzo, Delia, e vi piacete da una vita. Non capisco dove stia il problema.”
Spalancai gli occhi. “Ci piacciamo da…? Ma cosa stai dicendo? Ti vorrei ricordare che da quando ci conosciamo…”
Il mio amico mi interruppe con un gesto secco della mano. “Non iniziare con la tiritera. Il fatto che non siate perfettamente compatibili dal punto di vista caratteriale non significa che non possiate piacervi dal punto di vista fisico. C’è sempre stata attrazione tra di voi.”
Scossi la testa, spazientita. “È evidente che devi ancora smaltire la sbronza.”
“Come no,” fece lui, sarcastico.
Decisi di troncare lì il discorso, in parte perché stava prendendo una piega che non mi piaceva per niente, in parte perché sentivo il bisogno di muovermi da quel letto. Ma c’era un problema.
“Ho un’ultima domanda, ma è un po’ imbarazzante,” ammisi, cambiando argomento.
“Avanti, sentiamo. Tanto peggio di così,” commentò lui, garrulo.
“Se non sono… Insomma, se tu mi hai…” Presi fiato e buttai fuori il quesito. “Perché diavolo sono senza mutande?”
Dave spalancò gli occhi, sbalordito, prima di scoppiare sonoramente a ridere.
“Eddai, non ridere, è una cosa importante!” lo rimproverai io, offesa.
“Ma che ne so, Delia! Eri completamente andata, te le sarai tolte mentre dormivi!” sghignazzò il mio amico, ancora piuttosto divertito.
“Quindi non sei stato tu?”
“Secondo te mi metto a toglierti l’intimo, così a caso? Non so neanche slacciare un reggiseno!”
Il mio broncio si distese un pochino. “Quello ce l’ho ancora su, è la parte sotto che è sparita.”
“Io ti posso solo dire che quando ti ho controllata l’ultima volta avevi tutta la tua biancheria addosso, poi non so come sei abituata a dormire a casa tua.”
Borbottai un insulto e mi ficcai sotto le lenzuola, uscendone qualche secondo dopo con le mie mutande in mano, trionfante. David fece un gesto di vittoria col pungo chiuso e, per la prima volta quella mattina, ridemmo insieme, poi io mi infilai gli slip e scivolai fuori dal letto, stiracchiandomi appena.
“Ho seriamente bisogno del bagno,” biascicai, sentendo la nausea che tornava con prepotenza. “Sai dov’è? Io non so nemmeno dove cavolo siamo.”
“Se esci e vai a destra lo trovi in fondo al corridoio.”
Lo ringraziai e andai a rintanarmi in bagno per diversi minuti: mi lavai bene il viso e i rimasugli del trucco che comunque Dave si era premurato di togliermi la sera prima, mi diedi una rinfrescata generale e mi obbligai a bere un po’ d’acqua, mentre il mio stomaco ancora si lagnava, ma con più garbo.
Mi venne in mente, all’improvviso, che anche se David aveva avvisato mio padre sulla mia permanenza fuori casa per la notte, non avevo ancora detto niente ai miei riguardo il pranzo. Uscii dal bagno in tutta fretta e per poco non finii contro Patterson, che stava salendo in quel momento l’ultimo gradino delle scale che portavano fin lì: per fortuna lui si fermò in tempo per evitare di sbattermi addosso, salvando così anche il vassoio che stava trasportando. Lo superai di un paio di passi, prima di sospirare a pieni polmoni per calmarmi e voltarmi ad affrontarlo.
“Scusami,” biascicai, ancora agitata nonostante l’impegno. “Non… non ti ho sentito arrivare.”
Lui mi studiò con un’espressione imperscrutabile e all’improvviso mi sentii decisamente troppo poco vestita. Stavo per parlare di nuovo, spinta dal suo silenzio prolungato, quando Matt si decise infine a proferire parola.
“Stai bene con la mia maglietta. Hai già vomitato?”
Boccheggiai, presa totalmente in contropiede da quel suo evidente tentativo di mettermi in difficoltà, tentativo che, peraltro, era andato a segno. Mi ricomposi e gli scoccai un’occhiataccia, incrociando le braccia al petto in posizione di difesa.
“Non ancora, grazie per l’interessamento. Credo che parlare con te potrebbe aiutare la causa, però, stai già peggiorando il mio voltastomaco.”
Lui si morse piano il labbro per evitare di ridere e si voltò per appoggiare il vassoio su una cassapanca lì di fianco.
“Sul serio, stai poco bene?” chiese poi.
Notai che stava portando la colazione a me e Dave: caffè, un brick di latte, un pacco di biscotti e qualche fetta di pane tostato col burro d’arachidi. Perché doveva essere così gentile, dannazione? Stavo riuscendo così bene a ricominciare a odiarlo, era una cosa che dovevo fare ad ogni costo.
Annuii, stranamente a corto di parole, e mi trovai a fissare con insistenza un nodo del pavimento in legno.
“Vuoi mangiare qualcosa?”
Feci di nuovo un cenno con la testa. “Magari il caffè potrebbe aiutare, ma credo di aver già superato il reale rischio di rimettere.”
Pensai che a quel punto avrebbe ripreso il vassoio per portarlo in camera, invece rimase fermo dov’era e si passò una mano fra i capelli, indeciso. Non sapevo se avesse abbastanza fegato da tirare fuori ciò che era successo la sera precedente per dire qualcosa, ma era evidente che aveva intenzione di farlo, perciò decisi che volevo essere la prima a parlarne, per dimostrare più coraggio di lui.
“Non credo di ricordarmi quello che è successo ieri,” dissi, guadagnandomi una sua occhiata stupita.
“No?”
“Non… non tutto,” balbettai, già meno spavalda.
Corrugò la fronte. “Quindi qualcosa lo ricordi?”
“Ricordo…” Distolsi lo sguardo per riuscire a parlare. “Ricordo fino a quando eravamo in cucina e poi ho un vuoto, non mi viene proprio in mente come sono arrivata qui per dormire, insomma. Ma David mi ha assicurato, circa, che non sono andata a letto con nessuno, quindi… Be-bene, direi. Abbastanza.”
Ero andata alla grande, a parte il mio solito fiume di parole, fino all’ultimo momento, in cui mi ero ritrovata a impappinarmi senza pietà.
Matt annuì senza commentare i miei balbettii. “Okay.”
Sospirai, tanto valeva fare quella domanda anche lui, già che c’ero. “Non… non sono andata a letto con… con nessuno, vero?”
All’ultimo mi trattenni dal dire “con te”, ma lui dovette comprendere lo stesso il sottinteso, perché drizzò appena la schiena, e non l’avevo mai visto così nervoso in più di due anni di conoscenza.
Tentò comunque di scherzare. “Solo con Dave, ma non in senso biblico. Credo.”
“Non prendermi in giro,” borbottai, cercando di mantenere un tono leggero. “Quando mi sono svegliata per un attimo ho creduto davvero di averlo fatto. E poi ero su un letto non mio, con addosso una maglietta non mia e l’unica cosa che mi ricordavo con chiarezza era quello che era successo con te in… in cucina e quindi… Ero a pezzi ieri sera, non avrei dovuto dire o fare certe cose.”
E tanti saluti al tono leggero, brava Delia, mi insultai da sola per essere riuscita a far riemergere l’imbarazzo in quel modo.
Eppure Matt, stavolta, non sembrò sorpreso: scosse la testa e si avvicinò esitante di un passo, costringendomi a prendere il bordo della maglietta che indossavo per abbassarlo e coprirmi un po’ di più.
“Forse abbiamo esagerato con la tequila,” esordì, e parve soppesare le proprie parole. “Eravamo ubriachi, ma non abbiamo fatto niente di male.”
Sembrava propenso ad aggiungere altro, ma lo interruppi, sentendomi più leggera. “Hai ragione, mi faccio prendere dal panico per niente. Eravamo sbronzi, tu volevi solo aiutarmi con Stevenson che mi stava addosso, tra l’altro ci sei anche riuscito. Ormai abbiamo l’abbonamento per tirarci fuori a vicenda da situazioni del genere, non trovi? Ma so perfettamente che non sarebbe successo niente se quell’idiota non ci avesse provato con me. Insomma, siamo io e te.”
Le sue sopracciglia aggrottate e la smorfia indecisa sulle sue labbra mi fecero pensare che non avevo detto ciò che intendeva esprimere lui. Alla fine scrollò le spalle, decidendo di lasciar correre.
“Delia, ti sei persa?”
La voce di Dave ci colse di sorpresa. Sussultai come una scema: mi ero completamente dimenticata di lui. Mi girai e vidi la sua testa spuntare in fondo al corridoio, dalla porta della camera dove avevamo dormito.
“Ehilà, scusate,” esclamò mellifluo, appena si accorse della situazione. “Non volevo disturbarvi, piccioncini.”
Spalancai gli occhi mimandogli con la bocca di smetterla, consapevole che Matt, alle mia spalle, non avrebbe potuto vedere la mia espressione.
“Nessun disturbo,” rispose proprio Patterson, senza accogliere la provocazione di David. “Ho portato la colazione. È meglio se mangiate in camera, giù c’è ancora confusione.”
“Uh, che bellezza!” cinguettò l’altro, saltellando fin lì per guardare con desiderio il vassoio. “Ti serve una mano per sistemare di sotto, amico? Chiamiamo qualcuno?”
“No, ieri sera ho già raccolto le bottiglie in giro e fatto tre sacchi dell’immondizia. Per le pulizie tanto dovrebbe arrivare Martha tra poco.”
Seguivo il loro scambio di battute con moderato interesse e alzai un sopracciglio al sentir nominare quella Martha.
Dave risolse i miei dubbi. “La cameriera? Sicuro che non spiffererà niente ai tuoi?”
Nah, sono il suo pupillo, mi ama.”
David scoppiò sonoramente a ridere e io lanciai a Matt uno sguardo che nascondeva un mezzo rimprovero esasperato.
“Il solito piccolo principe,” commentai, alzando gli occhi al cielo.
Lui si difese dalla mia accusa velata. “Che c’è? È logico che mi adora, mi ha visto crescere! E comunque l’avevo avvisata della festa.”
Dave si intromise, si ficcò in mezzo a noi due e prese il vassoio. “Io ho fame, ragazzi, torno in camera a mangiare in santa pace, così vi lascio alle vostre scaramucce.”
“Vengo anch’io!” esclamai, cogliendo la balla al balzo per fuggire da una conversazione che comunque, a mio avviso, poteva considerarsi morta e sepolta.
Purtroppo per me, non lo era. Non feci più di un paio di passi prima di sentirmi richiamare da Patterson.
“Gray.”
Espirai e mi fermai, rassegnata. Immaginavo che mi avrebbe bloccata, ma speravo di evitarlo: non ero stata abbastanza veloce, quindi mi voltai di nuovo per affrontare qualsiasi cosa mi aspettasse. Prima di parlare, Matt lanciò un rapido sguardo alle mie spalle, per verificare che David fosse sparito in maniera definitiva. Mi riusciva difficile credere che quell’impiccione non fosse dietro la porta ad origliare ogni parola, ma in quel momento non me ne interessai, tanto sapevo che gli avrei raccontato tutto dopo, Dave mi avrebbe obbligato a farlo.
Patterson forse la pensava al mio stesso modo, perché alla fine si decise a parlare. “Siamo a posto?” chiese solamente.
“In che senso?”
“Non smetterai di nuovo di parlarmi? Dopo ieri sera.”
Quello, mio malgrado, mi colpì. Non mi aspettavo una domanda del genere, ma non ero solo stupita: sentii un leggero formicolio sui palmi delle mani che mi spingeva a rispondere velocemente per poi fuggire. Non ero una persona codarda di natura, ma come tutti tendevo ad evitare determinati discorsi che pensavo potessero mettermi in difficoltà, ed era una cosa che con Matt mi capitava spesso: sentirmi in difficoltà tanto da voler scappare. Mi costrinsi a ragionare con lucidità.
“Non credo ti dispiacerebbe troppo,” risposi, tenendo un tono scherzoso.
Le sue labbra disegnarono un sorriso tirato. “È stancante sforzarmi di capire quando posso e quando non posso rivolgerti la parola. E poi farti arrabbiare è una specie di antistress per me.”
Piegai la testa di lato, fingendo di pensarci. “Non voglio che ti stressi troppo,” mormorai infine.
Matt sorrise di nuovo, ma quella volta lessi spontaneità nella sua espressione: sapeva, e lo sapevo anch’io, che avevamo fatto un enorme passo avanti nel nostro modo di relazionarci, fatto di continui alti e bassi, di esagerazioni da entrambe le parti. Qualcosa sfarfallò nel mio petto, come ogni volta che lui sorrideva così, e mi costrinse a mettere le mani avanti.
“Ma sappi che mi sento ancora in svantaggio per ieri sera, dato che non mi ricordo tutto, e probabilmente mi ci vorrà del tempo per superare la cosa e…”
“E bla bla bla… Lo so. Neanche coi postumi rallenti la parlantina, Gray?”
Assottigliai gli occhi, offesa solo a metà. “Ognuno ha il suo antistress. E ora sparisci, principino, per i miei gusti oggi abbiamo già parlato troppo.”
“Incredibilmente siamo d’accordo,” replicò lui, voltandosi con un cenno di commiato.
Ci ripensò meno di un secondo dopo: stavo fissando la sua schiena quando si girò per aggiungere qualcosa, abbassando la voce di un tono.
“Ti ho solo portata su, per evitare che ti capitasse qualcosa. Mi sono accorto, non so come, che eravamo entrambi troppo ubriachi. Ho preso te, una bottiglia d’acqua e una maglietta, e vi ho consegnate nelle mani della persona più affidabile che ci fosse in circolazione: Dave. Tutto qui.”
Quando terminò di parlare, mi diede le spalle e cominciò a scendere le scale, seppi che quel discorso era definitivamente chiuso per lui. Serrai gli occhi qualche istante per cercare gli ultimi flashback della sera precedente, per fare in modo che la questione fosse chiusa anche per me. C’erano dei ricordi, delle immagini racchiuse da qualche parte nella mia memoria, solo che fino a quel momento ero rimasta convinta che fossero parte dei sogni di quella notte, perché avevano una forma confusa e spezzettata. Mi concentrai di più.

Io e Matt eravamo davvero sul punto di andare oltre i baci. Perlomeno, io lo ero. Ero seduta sul piano cucina, lui era ancora tra le mie gambe e mi baciava così lentamente da farmi impazzire. Volevo di più: forse ero già impazzita.
Lo avvicinai ancora a me e afferrai il bordo della sua maglietta per sfilargliela, lui mugolò qualcosa di indefinito sulle mie labbra e fece un passo indietro. Senza rendermene conto seguii il movimento del suo corpo con il mio e, nel farlo, scivolai giù dall’isola. Non era molto alta, ma io ero ormai completamente andata, e forse sarei caduta se Matt non mi avesse acciuffata, posando le mani sui miei fianchi per tenermi in piedi.
Barcollai ancora un po’, infine alzai gli occhi per osservarlo. Doveva esserci una domanda nascosta nel mio sguardo, perché lui scosse la testa piano.
“No,” disse solo, fissando un punto del mio viso, appena sotto lo zigomo sinistro, come se stesse cercando di concentrarsi su qualcosa.
Misi su un’espressione disconnessa. “No?”
“No, senti… Si è fatto tardi. Come sei venuta alla festa?”
“In motorino,” risposi, come se fosse ovvio. Avevo preferito muovermi con quello ed evitare la macchina con gli altri miei amici in modo da essere autonoma per il ritorno, ma non ci avevo pensato nel momento in cui avevo iniziato a bere.
“Dormi qui, allora.”
“Qui?”
Lui annuì e io mi toccai con due dita il viso, dove il suo sguardo continuava a essere puntato.
“Ho qualcosa sulla guancia?” gli domandai.
Accennò un sorriso. “No. No, sei…” Si bloccò un attimo, indeciso. “Stai bene.”
Poi mi tirò a sé e si abbassò per lasciarmi un bacio proprio sulla guancia sinistra. Vi si soffermò più del necessario, lo sentii sospirare piano tra i miei capelli sopra l’orecchio, ma quando mi voltai, scossa da quella vicinanza, e provai a baciarlo di nuovo, lasciò a malapena che le nostre labbra si sfiorassero prima di scostarsi.
Mi prese la mano. “Andiamo, ti porto da David.”
“Dave è arrabbiato con me,” gli ricordai, la voce sempre più flebile e lamentosa.
“Sono sicuro di no.”

Rientrai in camera e vidi David che si buttava sul letto: quello sfacciato non provava nemmeno a fingere di non aver origliato.
“Vi siete baciati di nuovo?”
“No.”
“Perché avete smesso di parlare? Non capivo bene quello che dicevate, questo corridoio è troppo lungo, maledizione. E mi sono perso tutta la prima parte, pensavo fossi in bagno!”
“Ero in bagno.”
Mi gettai sul letto accoccolandomi al suo fianco e lui mi passò una fetta di pane tostato. Masticai qualche secondo in silenzio, finché Dave non si intromise di nuovo nei miei pensieri.
“Farete finta che sia successo solo per allontanare un ragazzo che voleva approfittarsi di te?”
Finii di inghiottire il mio boccone prima di rispondere. “È successo solo per quello.”
“Delia
” mi ammonì lui, e immaginavo dove volesse andare a parare, quindi lo interruppi subito.
“È successo solo per allontanare quel tipo, David, non può esserci un’altra ragione per me e Matt, ora come ora. Io sono sotto un treno per via di Nate, non pensavo di potermi mai sentire così, ho litigato con te, ho bevuto, ho fatto delle stupidaggini. Matt mi ha aiutato perché Stevenson mi stava appiccicato. Basta.”
Lui sospirò, rassegnato, ed evitò di prolungare il discorso. Sapevo che, anche se non era d’accordo con me, non mi avrebbe contraddetto in quel momento: la mia verità era quella che gli avevo appena spiegato e non c’era modo che cambiassi idea.
Mi tornò in mente che dovevo sentire i miei genitori, quindi mi alzai controvoglia dal letto e recuperai il cellulare, ancora infilato nella mia borsa. Lessi velocemente un paio di messaggi di Audrey e di Jude, e quando trovai l’sms che la sera prima Dave aveva mandato a mio padre da parte mia, mi ritrovai a fare un verso oltraggiato.
“Dave!” lo chiamai con tono di rimprovero.
“Cosa?”
Lessi ad alta voce il messaggio che avevo sotto gli occhi. “Dormo da David, perché David, che doveva darmi il passaggio, dorme qui. Non preoccupare, ti sapevo domani. Cos’è questa roba?”
Dave si mise a ridere quasi ululando. “Ero ubriaco anch’io, Deels, ti aspettavi un poema epico?”
“Bastava scrivere molto meno!” lo rimproverai. “Dormo fuori, per esempio, era più che sufficiente!”
Lui continuò a ridere di gusto stendendosi sul letto e io, per non fare troppi danni, mi premurai di spostare il vassoio sul pavimento prima di gettarmi sul mio amico per iniziare una lotta a colpi di solletico.













Eccoci! Non so se vi aspettavate qualcosa di più, ma questo è quanto.
Speravo di riuscire ad essere più svelta nella pubblicazione, ma purtroppo a causa di vari casini ho dovuto rimandare di almeno una settimana.
Speravo anche che il capitolo uscisse moolto più breve, ma a quanto pare avevo fatto male i conti. Perlomeno è più corto degli ultimi di un bel po'.
L'ultimissima parte è scritta abbastanza velocemente e revisionata allo stesso modo. Potrebbe avere degli errori (ho modificato delle cose anche l'ultima volta che l'ho riletta), quindi se qualcosa non vi torna fatemi pure sapere!

Per il resto, non sono del tutto soddisfatta, ma non lo sono quasi mai, quindi è inutile che tenga qui il capitolo a fare muffa.
Sono stata a lungo indecisa su cosa far ricordare a Delia, non volevo toglierle niente di fondamentale e ho optato per uno schema così. Tenete comunque conto che i ricordi sono solo i suoi, come al solito non ci è dato sapere la parte di Matt, quel ragazzo è impossibile.
Sono stata a lungo indecisa (e l'ho cambiato più volte) anche sul tempo verbale da tenere nelle parti in corsivo. Essendo dei ricordi precedenti al racconto avevo iniziato a scriverle usando il trapassato, ma man mano che scrivevo mi sono accorta che così sarebbe cambiato completamente il tono. Ho optato per il corsivetto e per mantenere il passato remoto, ma non so. Se qualcuno pensa che abbia sbagliato accetto suggerimenti, ancora oggi non sono convinta.

Il titolo del capitolo è traducibile con qualcosa tipo "Guardare i flashback che si intrecciano tra loro". È un verso della canzone da cui prende il titolo la storia, Falling away with you.

Ho tediato abbastanza. Ringrazio davvero di cuore le stelle che hanno commentato lo scorso capitolo per darmi un po' di carica. Love <3
Rinnovo l'invito a commentare e a farmi qualsiasi domanda vi passi per la testa, sono qui apposta!
Causa prossimi impegni vari, non posso garantire tempi brevi di pubblicazione, ma posso promettervi che farò del mio meglio e che, come al solito, cercherò la spinta in tutte le persone che seguono e commentano la storia con tanto amore.
Un bacio per voi! Alla prossima!

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