La rosa dei venti I: Nostoi

di SherryVernet
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Il Nostro Giardino ***
Capitolo 2: *** Parte I: Nostoi - Capitolo I.1: Ad occhi aperti I ***
Capitolo 3: *** Parte I: Nostoi – Capitolo I.2: Ad occhi aperti II ***



Capitolo 1
*** Prologo: Il Nostro Giardino ***


Nota dell'autrice:

 

È doveroso che inizi con le mie scuse più sincere ai lettori che avevano recensito o inserito questa storia fra le seguite o le preferite: stavo provando ad aggiornare il prologo e - dando prova di assoluta inettitudine - ho accidentalmente cancellato tutto. Sono sinceramente mortificata e mi scuso profondamente del disagio arrecato. Spero di potermi far perdonare.

 

I personaggi di Saint Seiya appartengono a Masami Kurumada e alle altre persone giuridiche competenti; i personaggi storici e mitologici sono di dominio pubblico; i personaggi originali appartengono a me. Questa storia non è scritta a scopo di lucro.  Ulteriori note al fondo.

 

 

 

 

 

La rosa dei venti

 

Prologo

Il nostro giardino

 

Il faut cultiver notre jardin

- Voltaire, Candide ou De l’Optimisme -

 

 

Santuario, 17 aprile 1987

 

Aphrodite amava l’ordine.

Amava l’ordine perché Ordine è Bellezza; e la Bellezza è l’ordine, sottile e misterioso, nascosto nella trama delle cose, l’ordine silenzioso che segna ascisse ed ordinate nell’amalgama indicibile del caos – e fa il Sublime.

Aphrodite dall’alto vedeva, contemplava. Dall’alto della sua Dodicesima Casa, dalla quiete del suo santuario di petali e rovi, dalle contraddizioni quasi sopite, quietate, che aveva sentito, sofferto, compiuto e talora anche amato; da lì, dall’alto, anche la vita gli sembrava bella – più bella di quanto avesse mai visto e capito prima.

Ma la pienezza languida e matura d'un pomeriggio calmo è sempre troppo breve: seguita il tramonto; e l'orizzonte placido e brillante segna il confine d'un presentimento. Non che Aphrodite credesse alle sensazioni: aveva abbastanza precedenti per veder le premesse e trarne le dovute conclusioni. Però questa volta era sorto, inaspettato, un giorno nuovo, un giorno diverso, un giorno ch'era stato una sorpresa: questo tramonto era d'un'altra sorta.

Dall'alto, Aphrodite vedeva; ma non si vede mai dove finisca il cielo: l'altitudine diventa una vertigine, lo sguardo coglie solo linee tremolanti – ed i dettagli, che celano gli dèi, non sono più che miraggi indistinti.

“Cosa rimugini?”

Il tepore secco e noto d’una mano amica, familiare, di una pelle la cui consistenza, la cui trama, avrebbe saputo ridire a memoria, gli si posò sull’incavo tra la spalla e il collo, là dove palpita una favella ancora di vita. Quella mano forte, che – discretamente – prendeva la sua quando questa tremava, era la mano cui rivolgeva la sua più sincera, intima gratitudine, l’unica mano che potesse toccarlo così – entrambi disarmati, pronti a ferirsi, a lasciarsi far male, trovandovi una forma di piacere, o di consolazione –, nonostante tutto, tutti gli sguardi e le parole dette male o per scherzo crudele, privato, tra loro, nonostante tutti gli errori, nonostante tutte le carezze scambiate, troppo tenere – spesso – per non essere brutali per il fondo del cuore – o forse proprio per questo. Era l’unica mano che avrebbe voluto l’accompagnasse, stringendo la sua, fino alla fine dei suoi giorni, ancora una volta – mano non di rose ma di sole e di ombre indicibili; mano tanto amica, tanto nota.

Perso nei suoi pensieri, perso nel pomeriggio, non l'aveva sentito arrivare; non l'aveva visto salire. Sapeva benissimo come avesse trascorso il suo giorno fra le macerie della Casa che gli appartenne, fermo al passaggio che dovette custodire, il suo museo, il suo cimitero; sapeva benissimo che voleva andare.

“Stavo riflettendo,” rispose, con un sorriso accennato, nella voce più che sulle labbra: voleva quel che voleva, ma s'era risolto a venire – forse per farsi convincere, forse per farsi tentare; forse soltanto per salutare. Convincerlo, Aphrodite poteva, e farlo ragionare; tentalo era quasi banale... ma era impensabile doverlo salutare.

“Fin qui c’ero arrivato pure da solo, sai?”, Cancer gli sedette accanto, sull'ultimo gradone, nell'angolo che volge alla roccia, dove la montagna si schiude appena con un cenno segreto, un occhiolino, e lascia intravedere uno scorcio di mare in lontananza. Vestiva un ghigno che imitava il solito, ma era più stanco, un po' più finto, troppo poco violento per rassicurarlo che tutto fosse come sempre, che nulla fosse cambiato; probabilmente Deathmask intendeva solamente rassicurare sé stesso – e i muscoli tirati della faccia, in una smorfia che tenta appena d'essere l'usuale, son meglio di niente. Eppure, stavolta non osava guardarlo: si fissava le mani, pigramente giunte fra le gambe aperte – in una posa studiatamente lassa, scomposta, un po' arrogante –, e le punte dei piedi, per evitare di scorgere le nuvole vaganti e l'azzurro più in basso, più profondo e assai più invitante, che lo chiamava dallo squarcio nel monte; o forse solo gli occhi intelligenti di Aphrodite, quasi di mercurio in quella luce dorata e calante. In un'altra vita, Saga gli aveva detto che all'imbrunire aveva gli occhi duri di un inquisitore.

 

Deathmask sapeva che allo sguardo d'Aphrodite è difficile sfuggire – e che, per capire lui, non aveva neppure bisogno di osservare. Così sapeva anche che Aphrodite non amava girare intorno alle questioni: elegante, gli avrebbe dato uno spazio, un'apertura per parlare, usandogli il tatto che ci vuole verso un parigrado e – occasionalmente – verso un vecchio amante; ma, al suo silenzio, non avrebbe indugiato a domandare, senza tentennare, senza dargli tregua, come si fa con gli amici di sempre.

Con Aphrodite, in fondo, fra indulgenza e tortura non c'era una netta distinzione: faceva sempre quel che credeva ci fosse da fare, non si curava di quanto facesse male – almeno non a sé stesso: per loro, serbava un poco di riguardo, quel po' di compassione che troppo di rado riusciva a mantenere –; metteva in conto tutte le conseguenze, sapeva ch'è inevitabile soffrire. Ma non era Shaka: non s'illuse mai di non sentire.

Forse era anche quella una forma d'amore; lui, dal canto suo, d'amore non se ne intendeva: facevano l'amore a modo loro, un amore che entrambi non erano avvezzi a dire – la tenerezza sovente un sottinteso. L'amore d'Aphrodite era come un pugnale che affonda nella piaga, con una mano ferma, per farla sanguinare, finché non sia purgato tutto il marcio; se necessario, l'avrebbe riempita anche di sale, per disinfettare... L'amore di Aphrodite era un amore facile da odiare.

Eppure, Deathmask non l'odiò mai: avrebbe voluto solamente poterlo ringraziare, avere le parole, saper come; essere in grado di dire che, per lui, la tenerezza era la gratitudine di non aver dovuto vederlo morire, di non aver dovuto ricomporlo in un abito formale, avvolgerlo in un sudario bianco più della sua pelle, piantarlo troppo in fondo nella terra, assieme alle sue rose. La tenerezza era l'immenso sollievo di non aver dovuto volergli fare compagnia fino alla fine, per poi lasciarlo andare, guardandolo cadere, senza riuscire a distogliere lo sguardo – no, non avrebbe potuto smetter di guardare, neanche nell'orrore: togliere gli occhi di dosso ad Aphrodite è quasi impossibile, comunque è un errore, sovente letale. Deathmask non aveva smesso di guardarlo neanche sprofondando insieme: fisso, solo lui, come se invece che all'Inferno si stessero tuffando nel piacere. Sarebbe stato intollerabile non poterlo seguire, dover rimanere; adesso gli pareva altrettanto intollerabile non poter andare - né avere il coraggio di chiedergli se lo volesse accompagnare.

Anche volendo, Deathmask non sapeva da dove cominciare.

 

Però oggi anche Aphrodite aveva bisogno d'interrogarsi interrogando lui, ad alta voce, per mettere ordine in mezzo ai propri pensieri, tirarseli vicini: talvolta, se si sta troppo in alto, si è troppo lontani per vedere; talvolta quel che si chiede non è una domanda, ma una conferma, o una rassicurazione.

Tutto era quieto, si muoveva appena: i suoi capelli lunghi, li scostava la brezza – mite, accennata – che soffia quasi pigra a metà aprile; il sole arrossato, declinando, glieli infiammava d'oro brunito, un riflesso più scuro che scivolava via di secondo in secondo. Voltandosi a guardarlo, Deathmask pensò che non ci fosse nulla di più bello al mondo: bello come un segreto condiviso; bello come le cose troppo esili per essere fragili, che restano sempre e sono spietate. Neanche lui era un uomo di pace, neanche lui lo sarebbe mai stato: se glielo avesse detto, avrebbe capito; se l'avesse invitato, forse l'avrebbe seguito.

 

"Questa pace sospesa non potrà durare", Aphrodite andò diritto al cuore della questione, senza preavviso, esattamente come era solito fare. Non era altro che una constatazione, una presa d'atto, una premessa su cui ragionare – ed un ricatto: non te ne potrai andare –; ma era anche un fatto bruto e vero: neppure Deathmask lo poteva negare. Aphrodite non era incline ad essere gentile, ad indorare la pillola, a consolare, a rassicurare; ma con lui pareva sempre funzionare – in fondo Aphrodite, da bravo giardiniere, estirpava i problemi alla radice.

"Il che ti rincuora", non era una domanda, ma un'osservazione: le mani d'Aphrodite erano sporche, erano tagliate; la sabbia e la terra s'erano infilate sotto le sue unghie appena troppo lunghe, sempre curate. Non era stato mai capace di tollerar l'inerzia, di stare inoperoso, o d'aspettare un ordine o una spiegazione senza preoccuparsi, senza ragionare: la sua insofferenza nell'attesa dei marmocchi, gli invasori, fu di quelle che per anni si sarebbero potuti rinfacciare; s'era anche offerto d'andare a trucidare Cepheus e i suoi innocenti, soltanto per avere qualcosa da fare. Deathmask non aveva provato neppure a commentare: sapeva che le rose e il sangue l'aiutavano a calmarsi ed a pensare – in questo, si riuscivano a capire.

"Cercavo di rincuorare te", gli fece notare. "Siamo tornati indietro. Sai meglio di me che non è stata Athena, che non ne ha il potere. Siamo tornati indietro... Può esserci soltanto una ragione".

"Un'altra guerra..."

"La guerra. La guerra che aveva da venire", Aphrodite lo corresse, con un mezzo sorriso, piuttosto divertito: si dilettava anche a correggere e giudicare, ma – per fortuna sua – solo raramente a predicare.

"Un'altra guerra...", insistette lui, per abitudine e l'usuale spirito di contraddizione. "Forse alla fine niente dovrà cambiare", mormorò quasi a sé stesso – forse con speranza, forse con terrore.

"È già cambiato tutto. Siamo cambiati noi", Aphrodite gli rispose con un'evidenza e con rassegnazione. Come sempre, aveva anche ragione; Deathmask aveva solo la propria stanchezza ed un po' di rancore.

"Cosa ti fa credere che io sia in grado di combatterla, questa tua nuova guerra? Cosa ti fa credere che ci sia posto per me, tra queste fila? Non sono un santo, non sono un eroe...". Soltanto allora si rese dunque conto che, ancora una volta, Aphrodite era riuscito a farlo confessare, a fargli dire tutto quel che voleva sapere – con garbo, con una rosa rossa che all'apparenza non faceva male, ma che ora gli lasciava uno strappo nel petto, tra lo stomaco e il cuore.

Ancora un'altra volta, aperta la ferita, a modo suo Aphrodite la volle ricucire: "L'Inferno, il Muro dei Pianto, e che hai fatto sempre quello che c'è da fare. Cancer ti ha punito, non ti ha abbandonato; neanche tu ci puoi abbandonare."

"Ho abbandonato Mei... Cosa ti fa credere che non possa disertare?"

Aphrodite, allora, parve riflettere per qualche secondo, prima di sorridere, dolcissimo e tagliente, come la sera d'aprile, da mozzare il fiato in quel sole morente: "Mei ... al Chrysos Synagein chiederemo l'autorizzazione formale per andare a riprenderlo e farlo investire: se questa guerra sta per incominciare, avremo bisogno di tutti i guerrieri che riusciremo ad arruolare."

"Non voglio mandarlo a morire".

Non era stato certo un abbandono, ma solo il desiderio di poterlo risparmiare, la sciocca conseguenza d'un'insensata affezione: non voleva ammetterlo, ma non lo poteva refutare; Aphrodite, insolitamente magnanimo, non glielo fece notare.

"Allora fa in modo di essere qui per assicurarti che non accada".

"Sono queste le tue buone ragioni?", avrebbe dovuto essere sospettoso, non incredulo.

"Oh, no! C'è anche che non hai nessun altro luogo in cui poter scappare: l'Inferno è in subbuglio; e la vita di provincia ti farebbe annoiare".

Quando Aphrodite s'ammantava di quell'aria saputa, superiore, Deathmask voleva solamente cancellargli quell'indifferenza un po' affettata dalla faccia, trascinarlo in basso insieme a tutti loro, farlo urlare; con gli anni escogitarono un sistema che garantiva a entrambi la giusta soddisfazione. Quell'aria saputa, ora sapeva che voleva dire; si devono scambiare le formule di rito, stereotipate ma non sempre vuote: "Potrei viaggiare, fare il gran signore... O dar retta a mio nonno e magari fare il console, o l'ambasciatore..."

La risata d'Aphrodite ebbe la consistenza della luce: ampia, spiegata, sembrava invadere la valle; la valle, gioiosa nella primavera, sembrava rispondere.

"Quanti anni sono che ormai ti conosco? Sei molte cose, amico mio, ma non sei un vagabondo, né un diplomatico: ti piace troppo l'ebbrezza della lotta, il senso di potere che spetta solamente al vincitore; sai vincere le guerre, ma saresti atroce ad evitarle", ridacchiò ancora, riprendendo fiato. "E poi tuo nonno sarebbe il primo a rimandarti al fronte."

Deathmask non si sarebbe mai spiegato come Aphrodite fosse riuscito ad abbindolare quel vecchiaccio arcigno, né come a sua volta ne fosse rimasto abbindolato.

"Voi due andate d'accordo perché siete stronzi uguale".

"Il frutto non cade mai lontano dall'albero", si limitò a sottolineare. "E poi tuo nonno è un fine giocatore: se t'interessassi un pochino agli scacchi, magari non avrei bisogno di cercare tanto spesso la sua compagnia, tra l'altro piacevole", concluse e si alzò lentamente, indicando con un cenno del capo il suo giardino privato, dove il veleno cede il passo solo ai fiori e alle spine – soltanto uno stolto si sarebbe illuso che non fosse quello il giardino più rischioso. "Vieni, ho risistemato il roseto".

Lo scintillio nei suoi occhi chiari – mentre gli tendeva una mano per aiutarlo ad alzarsi – era malizioso e invitante, ma nascondeva un fremito di dubbio: Deathmask lo conosceva e se ne accorse; s'avvide di quella sorta di timore, il tarlo del pensiero che nemmeno le cose fra loro fossero più come prima e non potessero più esserlo, che neppure Aphrodite lo potesse aiutare né trattenere. Ma la proposta gli si serrò intorno alla bocca dello stomaco come un pugno di ferro, con tutta l’eccitazione dell’attesa, della caccia o della danza: quello che Aphrodite gli stava offrendo era un rifugio cui ritornare, un buon motivo per restare – l'unico argomento stringente, ma che non voleva esporgli apertamente. Afferrò come stordito, inebriato, le dita protese, che si ritirarono subito, scivolarono via dalle sue; e, mentre Aphrodite si incamminava verso l'ingresso – un brivido nelle caviglie il solo sentore che temesse di non essere seguito –, lui si perse per un momento a contemplare la linea dei suoi fianchi sottili, così chiaramente maschili, e – con un piglio d'artista – non poté fare a meno di stupirsi di quanto fosse naturalmente lasciva quella bellezza, di come potesse stregare tutti i sensi senza nemmeno provarci, senza far niente. Lo raggiunse in un paio di falcate, gli afferrò un polso: doveva fermarlo, non poteva tacere.

"Ti avrei chiesto di partire con me", ammise, con lo stesso coraggio disperato che disperatamente aveva invocato nell'uccidere la prima volta, tanti anni prima, quando era un bambino.

Aphrodite parve spiazzato: lo fissava con gli occhi spalancati, nudi, stupiti; era uno sguardo grato – era lo sguardo di chi l'avrebbe portato nel suo orto chiuso, l'avrebbe fatto stendere sul terriccio morbido, su un manto di petali, su un letto di rovi, e ce l'avrebbe piantato, affondando le sue radici, annaffiandole, tagliando quel che avesse dovuto, solo per farlo restare.

"Grazie. Grazie anche di non averlo fatto", perché sapevano entrambi che cosa gli avrebbe risposto. Ma un'ammissione vale un'ammissione: "Qui c'è bisogno di noi, questo è il nostro posto. Ho bisogno di te: da così in alto, non sempre so vedere."

Deathmask capiva che cosa gli voleva dire, ma era passato il tempo per parlare: "Sarebbe comunque rimasto Shura: figurati se quello si muove", la prese a scherzare.

"Shura è tutta un'altra gatta da pelare". E già vedeva la mente d'Aphrodite mettersi a intrigare, a pianificare; ma anche lassù il tramonto s'era ormai consumato: domani sarebbe stato un altro giorno, e quasi tutto il resto poteva aspettare.

"Adesso andiamo: dobbiamo coltivare il nostro giardino."

 

*

 

Un luogo nascosto, Grecia; una notte di mezza estate agli albori del Tempo del Mito

 

 

"Su cosa intrattieni i tuoi pensieri, o nobile Athanasios?"

La notte di mezza estate, senza luna e senza stelle, era mite ed opprimente; un soffio di brezza appena smuoveva l'aria pesante, gravida d'umidità, che prometteva pioggia; ma il passo del nuovo venuto era leggero, come se appena sfiorasse la terra. Dall'altura su cui il nobile e prode Athanasios sedeva profondamente assorto, si avvertiva salmastro il sentore del mare, portato dal vento, e il profumo dolce e pungente dei fiori selvatici – crochi, oleandri, ginestre; mirti e carrubi, qualche giovane ulivo... – che avevano conquistato le rocce tutt'intorno, indomiti, orgogliosi e incuranti dell'ambiente ostile. Sì, quello era un buon posto per un baluardo, elevato e protetto, pensò il nuovo venuto dai passi leggeri – quello che aveva parlato –, accomodandosi anch'egli sulla nuda roccia accanto al nobile Athanasios vestito di oro. Entrambi volgevano al mare, uno scorcio di pece brillante incastrato tra il nero dei monti e il nero del cielo, che il nobile e saggio Athanasios non aveva più occhi per vedere. Era bello, Athanasios l'Ario, bello, forte e nel rigoglio degli anni, quando la giovinezza è virile e matura, non ancora avvizzita: aveva il profilo regale ed aguzzo del suo popolo di magi e di cavalieri; fra i fini capelli corvini, increspati dal sale e dal vento, non si celavano che pochi fili d'argento, quasi preziosi; e gli occhi dorati che aveva perduto, quegli occhi come l'orizzonte un momento prima dei bagliori dell'aurora, occhi da gatto, le donne avevano detto che rubassero l'anima – e si erano segnate contro la sciagura, senza tuttavia poter smetter di guardare. Non aveva bisogno dei suoi occhi di oro e di rame il nobile e virtuoso Athanasios, perché l'universo dentro di lui era immenso; né mai aveva guardato le donne e nessuno di rimando. Con quei suoi occhi aveva contato e dato un nome alle stelle, ne aveva studiato il moto lento e costante, nelle notti insonni e febbrili, con il suo amico accanto, sfidandosi a quanto lontano potessero arrivare a scovare il più remoto bagliore; con il cuore, di quelle stelle, entrambi avevano abbracciato il potere, e si erano riconosciuti e riscoperti come universi che si schiantano. Ed ora il suo amico era di nuovo lì, il suo cosmo così mutato eppure lo stesso... Quei capelli biondi – che mai Athanasios avrebbe rivisto, non in questa vita – non sarebbero sbiaditi coi segni del tempo; né quella pelle bianca, soffice e forte, da uomo di pace, sarebbe avvizzita; i suoi occhi blu come il cielo sopra le steppe in un mattino sereno non si sarebbero spenti nelle nebbie della vecchiaia o nel buio della morte. Athanasios non aveva bisogno di occhi per guardare le stelle: ne sentiva il moto e il potere, e non credeva ai presagi. Non c'erano stelle nel cielo quella notte, ma Athanasios le maledisse tutte.

"L'incantesimo è completo: non ci vedranno qui, né per questi monti, dal grande ingresso fino al mare, mio .... non so se chiamarti nobile o divino, amico mio", rispose, con un sorriso amaro. E l'altro gli prese una mano, sulla roccia e la ghiaia, e la strinse forte, continuando a guardare lontano, dove il cielo incontrava il mare e il nero era più scuro e profondo.

"Non te ne dolere, non tu che sei caro al mio cuore sopra ogni altro."

Athanasios strinse di rimando la sua mano fredda come il marmo, e con la voce rotta da un'angoscia non detta gli chiese, senza guardarlo: "Perché ne hai bevuto?"

Quell'altro alzò le spalle, lasciandosi cullare un momento dal vento salmastro e pesante che gli schiaffeggiava la faccia. "Cos'altro avrei potuto fare? Non sono mai stato un guerriero, non come voi altri; e quel mostro ti stava uccidendo... I tuoi begli occhi...".

Allora Athanasios si volse, gli carezzò il viso, muovendolo verso di sé, e ripercorse il contorno di una guancia, l'incavo del collo, il profilo del suo naso con la punta di un dito; dischiuse le palpebre su due sfere di oro, uniforme e lucente. "L'allievo del fabbro me ne ha fatti di nuovi, ma non ho bisogno di occhi per vedere," disse sorridendo. "Ma tu ti sei condannato forse ad un'eternità senza pace, e per cosa?"

"Non potevo lasciarti morire, non quando non siamo ancora sicuri che tu conosca la strada del ritorno. Dobbiamo porre rimedio a quel che abbiamo fatto: in fondo, è colpa nostra."

"Oh, Hermes, ma io invecchierò, e morirò, mille e mille volte ancora, e tu, costretto in una stasi senza tempo, non potrai far nulla, potrai solo stare a guardare ed aspettare. Questo mi spezza il cuore."

"Meglio che vederti morire forse una volta sola e non ritrovarti per sempre. E poi c'era la bambina, dovevo portar via la bambina e tu non eri in condizioni, dovevo portare al sicuro anche te...". Ripensava a quella figuretta esile, riversa al suolo, al sangue che imporporava il suo vestito bianco, alle piccole mani che non avevano più la forza di fare pressione sulla ferita, le dita quasi dischiuse nella spossatezza che precede la morte. Strinse la mano morbida e calda di Athanasios, la sua carne viva, un poco più forte. "Un' innocente..."

E Athanasios distolse il suo sguardo cieco, ed abbassò il capo, quasi con vergogna. "L'ho condannata, amor mio, ho condannato un'innocente. Ma il padre l'aveva trafitta per aver protetto me, passata da parte a parte come se non avesse importanza... E che importanza poteva avere ormai? Cosa sono, a confronto dell'immortalità ed un infinito potere, le tre vacche per cui, fra qualche settimana, l'avrebbe venduta in sposa ad un uomo con tre o quattro volte i suoi anni?". Tremava di rabbia Athanasios magnanimo e nobile, tremava per quell'ingiustizia; tremava perché a quella fanciulla del villaggio vicino – inviata a servire alla Casa dei Saggi prima che raggiungesse l'età da marito – lui stesso aveva insegnato a leggere e scrivere, a fare di conto, e i nomi che alle stelle andavano imponendo, e i segreti dell'universo che pian piano scoprivano. "Come potevo lasciarla morire per me? Ho versato il nettare dalla coppa sulla sua ferita, amico mio, prima di sigillare quel maledetto calice in un'altra dimensione cui neanche io potessi accedere. Non ho pensato al giogo che le stavo addossando, solo che non potevo lasciarla morire senza far niente... Ed ora ho dannato lei e l'anima mia". Athanasios allora avrebbe pianto, se ancora avesse potuto. "Non si è ancora svegliata... dorme un sonno innaturale, sulla cima del monte. Non so come il suo corpo reagirà, non so se crescerà, per morire e ritornare, ancora e ancora... O forse non c'è differenza, forse è come se ne avesse bevuto, e allora rimarrà così per sempre. Anche nell'incoscienza, il suo cosmo è immenso, e ne provo terrore". Nella sua voce c'era tutta la disperazione che aveva covato nei giorni trascorsi – o erano già settimane? che fossero mesi?–, quando il suo Hermes era in missione ed Athanasios, Athanasios il forte, Athanasios il lungimirante, Athanasios che non vacilla, aveva sorretto quello sparuto gruppetto di loro che era scampato alla lotta – guerrieri e sapienti ormai rotti – raccogliendone i pezzi, ed una bambina che ora era una dea e dormiva un sonno come di morte; e aveva costruito un rifugio, gettato le basi di un forte, mentre guariva dalle proprie ferite – almeno quelle del corpo. Aveva perduto il senso del tempo: i giorni e le notti ormai uguali, le stelle cantavano un muto lamento, il suo cuore a lutto. "Quanto sei stato via?"

"Quasi una luna". Rispose Hermes, dolce, o così dolce, così calmo e fidato. "Si sveglierà... Si sveglierà e rimedieremo a ciò che abbiamo creato". La sua stretta era di ferro, che non si rompe, e Athanasios per un momento credette alle sue parole.

"Abbiamo creato gli dèi, amico mio. Che cosa avremmo potuto riversare di più terribile sul mondo?"

"Le nostre intenzioni erano buone."

"O Hermes, quando inventeranno un inferno ci lastricheranno la strada con le nostre intenzioni! Sono come bambini crudeli, ma col potere dell'universo nelle loro mani, abbastanza per saltare al di là dell'ordine delle cose e le leggi della natura. Sono come bambini, e giocheranno alle loro guerre e tutti gli altri ne pagheranno il prezzo. Sono come bambini: scriveranno le proprie leggende ed esigeranno adorazione. Si spartiranno il mondo. Saranno adorati: per timore, reverenza, o fiducia malriposta, saranno adorati. Ed è colpa mia. Verranno per lei, verranno per noi, non oggi, non forse domani, ma verranno e verranno ancora, e che cosa potremo fare?"

"Athanasios, anima della mia anima, respiro del mio respiro, tu sei onorato come saggio e lungimirante; tu chiamasti le stelle prima che avessero un nome, ne studiasti gli influssi sottili, ma non sei un profeta: non credere di conoscere il futuro. Che vengano! Proteggeremo la fanciulla, proteggeremo noi stessi e questo luogo, proteggeremo tutti. Abbiamo creato un abominio, ripareremo alla nostra colpa. Le stelle e la terra mi siano testimoni, li squarcerò tutti con le mie stesse mani, drenerò fino all'ultima goccia del loro sangue corrotto, del mio stesso sangue, se questo solo servisse a quietare il tuo spirito. Il biasimo ricade almeno altrettanto su di me; non farti carico di fardelli che non ti spettano e non disperare: è una stoltezza che poco si addice alla tua saggezza e alla tua lungimiranza". Quelle di Hermes erano parole formali e parole d'amore, perché non era solo l'amico e l'amante a parlare, ma l'uomo giusto, Hermes il pratico, Hermes il laborioso, e Athanasios lo sapeva – ma non cambiava niente.

"Guardati intorno! Erano tanti i saggi e siamo rimasti in tredici! E quasi tutti si sono dannati!  Lì, quasi alla vetta, Alrischa ha piantato un giardino sul cadavere del suo bambino. Povero piccolo, il suo corpicino era così velenoso che è tutto un veleno lassù. E lei non ne può morire. Lo hanno trovato a giocare vicino al laboratorio, un gruppo di loro. Non sapevano della coppa che è sempre piena, non sapevano che non era lì, cercavano le giare che avevamo riempito: hanno testato su di lui ogni elemento ogni pozione. Non parlava ancora, nemmeno il suo nome, oh mio Hermes: 'Vernalis' è difficile da pronunciare. Camminava da appena una luna! Quando Alrischa è arrivata non piangeva più neppure: era livido e gonfio, e quelli continuavano a fargli bere a forza ogni ampolla, ma non poteva più inghiottire perché era già morto. Ridevano, dicevano che era una questione di tempo, che avrebbero trovato la bottiglia giusta. Continuo a vederla nella mente di Alrischa, quell'orribile scena. La sua anima continua ad urlare il suo dolore ed io non la posso fermare. Aveva una fiala con sé, povera donna: andava a testarla sui fiori e sul fuoco, non si era accorta di nulla, non aveva sentito il pericolo. E ne ha bevuto. Li ha uccisi tutti, tutti tranne uno che le è sfuggito, a mani nude e senza armatura: ha strappato loro gli arti uno alla volta, ha aperto le mandibole che avevano osato ridere, come prugne mature; ha spappolato loro i cuori di pietra ancora nei petti. Ma il suo spirito grida ancora vendetta, è una fiamma che non si placa, che vuole bruciare il mondo perché non può estinguere sé stessa. Laggiù, quasi a valle, Mephitis, che del piccolo era altrettanto madre che se fosse uscito dalle sue viscere, continua a cercarne l'essenza nel regno dei morti. Non lo troverà, e non avrà mai pace: anche lei ha bevuto - non ne so la ragione, forse per non lasciare Alrischa da sola. E lì, un poco più in basso, Castor piange il gemello ucciso - il primo a cadere: pugnalato alle spalle, diritto nel cuore. Pollux non aspettava l'attacco: quando Castor è andato a recuperare il suo corpo lo ha trovato lì, alla sua scrivania, riverso sulle sue carte come se il sonno l'avesse sorpreso, ma niente in lui aveva le sembianze del riposo. È stato uno di noi, Hermes, un traditore. Lo vedo ogni notte nei sogni di Castor: il corpo di Pollux è una bambola di cera rotta, che gocciola sangue come una clessidra. Ed anche Castor aveva bevuto, il suo tormento non si spegnerà nel silenzio, non troverà mai pace né il fratello nell'altro mondo: a sé stesso Castor è morto e lo spettro di Pollux vive ancora. Sargas trascinerà uno squarcio nel fianco fino alla fine dei tempi, per proteggere Bàn il Bibliotecario, l'amico suo prediletto, che distruggeva le note delle nostre ricerche, perché quelli non potessero averle. Ma quelli erano già giunti agli Archivi, quindici, venti, cinquanta, tutti armati di daghe e di lance bagnate d'ambrosia e coperte di incantesimi che neanche io conosco né posso spezzare - armi che tagliano l'oro delle nostre vestigia, armi che tagliano le carni immortali. Bàn, quando ha visto Sargas accasciarsi, ha trasformato la biblioteca in un inferno di ghiaccio, così freddo da annullare la materia: ogni libro, ogni appunto, tutto il sapere che avevamo raccolto è perduto; lo è un po' più anche il cuore di Bàn per ogni giorno che Sargas non si risveglia. Niente sembra guarire la sua ferita – non il sangue immortale, neppure la stessa ambrosia –; ma l'anima non può lasciare il suo corpo. Bàn veglia sul suo sonno senza sogni, rinchiuso in un silenzio di morte. Bàn veglierà il suo sonno sino alla fine dei tempi, finché le stelle saranno tutte spente, forse anche dopo, se gli immortali continuano ad esistere senza spazio né tempo. Nath il grande, Nath il buono, a sua volta ha bevuto per impedire all'allievo del Fabbro di farlo ed ora attende a lui lì a valle, mentre quello veglia smarrito l'armatura del suo maestro senza osare vestirla. Quanto smarrimento, quanto terrore, sento nel suo giovane cuore... Nashira dal braccio e dal cuore affilati, Nashira l'inamovibile, è in preda al dubbio, la sua risoluzione vacilla, ed io non posso guidarla, non posso guidare nessuno di loro! Kiffa il temperante, che è il più saggio ed il più anziano di noi, non ha bevuto: passa i suoi giorni seduto lassù, assorto in profondi pensieri. Ci aveva detto che sperimentare con forze che non conosciamo era avventato, ci aveva messi in guardia; e noi, stolti che siamo, gli rispondemmo che troppe cose non conosciamo ancora a questo mondo, e come potremmo apprenderle se non sperimentando? Eppure, non ha avuto una parola di biasimo o di rimprovero per me e per tutti noi: semplicemente riflette, è rinchiuso in una meditazione senza calma. Neanche Zosma e Crotus hanno bevuto, non credo che lo faranno da quel poco che siamo riusciti a mettere in salvo. Zosma ha voluto, ha dovuto combattere nonostante il suo stato; il prezzo da pagare è stato tremendo, ed io e l'allievo del fabbro abbiamo dovuto riscuotere il conto: perdeva sangue nero a tre giorni dalla battaglia, era in delirio, stava morendo... E noi abbiamo dovuto strapparle dal ventre quel cadavere appena formato che ancora si portava dentro, mentre lei ci implorava di non farlo, di lasciarlo lì, e Crotus – che era il padre – le teneva la mano, le bagnava la fronte, la teneva attaccata al mondo. Si erano scambiati l'un l'altra voti infrangibili – gli stessi voti che pronunciai per te, e tu per me, con lo stesso ardore – che non è ancora volto un ciclo delle stagioni. Ora Zosma si aggira irrequieta di giorno e di notte, sorveglia il perimetro, mantiene la guardia, feroce come la fiera delle sue stelle; e Crotus dagli occhi acuti la segue da lontano, discreto e in silenzio, senza poterla domare né consolarla. Non so come dirle che il suo ventre non darà più frutto, non so come farlo, mio Hermes! E tutti gli altri sono morti o dispersi, ma forse la loro è stata una sorte migliore: io sento tutto il dolore di quelli che restano, il loro smarrimento, la disperazione. Che consolazione posso offrire io? Come puoi dire che non devo portarne la colpa, per loro e per tutti gli altri che seguiranno? Mi guardo intorno, Hermes! E quello che vedo, quello che sento, non lascia spazio alla lungimiranza: di tutti i Saggi non restano che dodici guerrieri in pezzi, molti col cuore in frantumi ed un potere terrificante; una bambina che io ho condannato; e tu, anima dell'anima mia, tu che sei il sacrificio più brillante e più doloroso di tutti". Athanasios tremava di rabbia e di angoscia, la voce piena di pianto in ogni parola di quel suo rapporto, di quella sua confessione. Abbassò il capo sconfitto, con un profondo senso di vuoto e di rassegnazione. "Dove posso guidarli io, che li ho portati a questo punto?"

Hermes gli accarezzò i capelli, ci affondò una mano con indulgenza, gli massaggiò il cranio con dolcezza, come in tante notti passate e notti a venire, quando era troppo teso per dormire, troppo stanco per sostenere il peso dei sogni; poi lo tirò a sé, gentilmente, a fargli posare il capo sulla sua spalla, e quello si lasciò tirare con un sospiro come di sollievo. La punta dello spallaccio di Athanasios spingeva nel suo fianco, ma era un fastidio gradito, il segno della vicinanza e che erano ancora lì, ancora armati, che si sarebbero rialzati.

"Allora lascia che sia io a guidarti. Sarò la tua stella polare, l'astrolabio e la rosa dei venti; troveremo insieme la strada". Si chinò a baciargli la fronte, con tenerezza e con devozione. "Tu vedi una manciata di uomini rotti, io vedo un manipolo di possenti guerrieri, di grandi sapienti, sopravvissuti. Abbiamo visto la battaglia, conosciamo il nemico, abbiamo doti e risorse per fronteggiarlo e tutto il tempo del mondo - letteralmente. È doloroso, ma non è un male. Qui costruiremo un rifugio, erigeremo un Santuario; di qui proteggeremo la bambina, gli oppressi ed ogni vita preziosa. Faremo tutto il possibile per mantenere la pace. Istruiremo le generazioni a venire, perché veglino su questo luogo e sulla piccola Athena se ce ne sarà bisogno. E gli altri verranno - come potrebbero non venire? è un'esca troppo ghiotta! Saremo, saranno pronti ad accoglierli. Ma quando saremo forti e protetti, tu ed io e quelli di noi che restano - noi i colpevoli, noi i primi - partiremo a cercare una soluzione lontano da occhi indiscreti. Forgeremo nuove armi, inventeremo nuove trappole, decimeremo le fila nemiche, finché non troveremo la nostra redenzione ed aggiusteremo il mondo. Ti giuro che lo faremo, lo giuro su tutte le stelle, sugli occhi che ti hanno strappato, sull'amore infinito che porto nel cuore e l'universo che mi brucia nel petto".

Athanasios annuì, quasi rincuorato, e gli adagiò le labbra morbide sul collo in un bacio lievissimo. "Dimmi che porti buone notizie...". Era un mormorio ed una preghiera; e si trovò quasi a sorridere di sé stesso: non aveva mai pregato, perché aveva sempre saputo che non c'era niente cui pregare ed era ancora vero – niente al mondo era degno d'essere pregato, se non quell'uomo al suo fianco, che sempre era e sempre sarebbe stato il suo unico dio.

"Hanno il Fabbro". Rispose Hermes, essenziale. "Lo hanno costretto a bere e lo tengono in catene in uno stato di semi-incoscienza, ma la sua volontà non è piegata".

"Vogliono che fabbrichi per loro un esercito...Oh Hermes!"

"Lo libereremo, abbiamo tempo: Ephaistos è un giovane forte, temprato come i suoi metalli, il suo spirito è inamovibile. Lo riporteremo a casa, è la nostra priorità". Hermes era così sicuro delle proprie parole che Athanasios gli credette, ma ancora rimaneva l'inquietudine, l'orripilante sospetto: "Sapevano come trovarlo... come soggiogarlo...".

"Sono d'accordo con te: c'è un traditore. Non sono riuscito a scovarlo però: di tutti i dispersi, il Fabbro è l'unico che ho veduto".

"Se vogliono un esercito e il Fabbro non collabora cercheranno di conquistare il suo popolo! Hanno il segreto dell'alchimia e poteri immensi! Sono tutti in pericolo!"

"Ho già avvisato l'allievo: lui e Nath di Taurus sono partiti per Mu, con l'ordine di metterli in guardia, di supplicarli di andare in un posto sicuro, fra le tue montagne remote e nascoste alle mappe degli uomini, dove solo i rapaci possano osare, e di portare con sé i propri segreti". Hermes lasciò scivolare la mano sulla corazza di Athanasios e non vi sentì imperfezioni lasciate dalla battaglia: l'oro prezioso delle vestigia era caldo e sembrava cantare amorevole al tocco delle sue dita. "L'allievo del fabbro l'ha riparata. Ha fatto un buon lavoro".

"È sempre stato solerte ed è tanto saggio per i suoi anni. Ma gli manca il suo maestro".

"Glielo ridaremo, e ripareremo il resto. Per ora, quelli sono impegnati a litigarsi l'ambrosia rubata tra loro, a spartirsi territori e domini, a gozzovigliare. Sono selvaggi, con grandi poteri che ancora non conoscono bene né sanno dominare. Faranno le cose come sono abituati a farle, secondo il loro costume. La guerra tribale che già si prepara fra loro li terrà impegnati almeno per qualche tempo. Questa è la buona notizia. Saremo pronti".

Athanasios allora rise e nonostante tutto era divertito: "Devi lavorare alle tue buone notizie, Messaggero!"

Prima di chinarsi a baciarlo, col bacio che avrebbe dovuto dargli sin dal primo momento, Hermes gli sorrise di rimando: "Sei un uomo troppo esigente, o ingiusto Athanasios che gli stolti chiamano saggio! Mentì mai il povero e bistrattato Hermes al tuo cospetto? Mentirono mai le mie labbra alle tue o sulla tua pelle?"

"Oh Hermes scaltro e mendace, e dalle dita leggere che vagano leste," gli disse Athanasios, quando ebbe ripreso fiato, "quante volte mi richiamasti dai miei studi, dall'arena, dai laboratori, pretendendo questioni della massima urgenza, solo per il piacere della mia compagnia nelle tue stanze? E non promettesti forse che mai il mio letto avrebbe conosciuto il vuoto della tua assenza? Eppure, ecco ora ritorni dopo quasi una luna...".

Ed Hermes gli sorrise d'un sorriso adorante e divertito, passandogli le mani sulla gola, sulle ganasce, sul collo sottile, su tutta la pelle che potesse trovare sotto l'oro vibrante. Athanasios poteva sentirlo, quel sorriso, vederlo così chiaramente con occhi più acuti e profondi di quelli che aveva perduto; e gli rallegrava l'anima tutta, gli stringeva lo stomaco.

"Mio diletto Athanasios, ognuno di quei richiami fu dalla mia mente alla tua, dal mio cosmo al tuo, ma mai al tuo cospetto... E forse il dolore della tua lontananza e il desiderio d'averti fra le mie braccia son ragioni da poco?" Ancora un bacio leggero, all'angolo della sua bocca. "Oh, iniquo, crudele Athanasios, hai vegliato sotto le stelle, ti sei assopito appena sulla nuda roccia per quasi una luna. Come avrebbe potuto il fedele Hermes riscaldare il tuo letto?"

"Sei impossibile...", ribatté Athanasios, senza aggiungere nessuna parola ma solo un altro bacio profondo, guardandolo e guardandolo ancora, guardandolo tutto, con le proprie mani: i capelli ricciuti intrisi di vento, le guance rialzate, le palpebre chiuse su occhi d'un blu penetrante che mai avrebbe dimenticato, la forma della sua clavicola, il petto solido e sempre accogliente, la seta della sua tunica, l'incavo dolce della sua nuca, la curva della sua coscia...

Quando si staccarono un poco, sempre vicini, il più vicini che lì potessero stare, fronte contro fronte, erano entrambi affannati e accaldati come dopo una lotta.

"Conosco un angolo ameno dietro quell'altura, lungo il corso del torrente che mormora piano", sussurrò Hermes. "Vi crescono i crochi odorosi, belli come la linea dell'orizzonte all'alba o al tramonto; ginestre dorate dai fusti sottili e gelsomini selvatici, simili a quelli della tua terra, all'ombra del mirto, della salvia aromatica, di teneri ulivi... Lascia che ti conduca lì a deporre le armi, perché possa amarti su un letto di malva e papaveri e riposare fra le tue braccia, stanotte e ogni notte finché t'avrò costruito un tempio e una casa sotto la protezione delle tue stelle, oh Athanasios di Virgo."

Athanasios si alzò, gli tese una mano, lo sollevo e lo tirò a sé, non mollò la stretta. "Mostrami la strada".

Mentre scendevano dall'altura delle stelle e si incamminavano fianco a fianco lungo il pendio, lasciandosi alle spalle il mare con un passo appena affrettato che tradiva impazienza e batteva la roccia col ritmo di una promessa, l'aria era ancora pesante, ma il piede di Hermes era sempre leggero ed ora ancora più leggero era il suo cuore.

Sì, lì era un buon posto, sicuro e nascosto dal mondo, per stare arroccati e aspettare – e resistere anche agli dèi.

 

*

 

Oltre l'Inferno, lo spazio ed il tempo (17 aprile 1987)

 

Non aveva mentito: fu un bagliore accecante, la vista assoluta che sorpassa gli occhi ed i sensi e la mente.

Bruciare, insieme e tutt'uno, come era stato nel grembo materno, quel calore avvolgente, quell'essere indistinti che sempre aveva cercato di ritrovare, da che era al mondo, con immenso dolore. In tanta luce che neppure lui adesso era più un'ombra, l'anelito era saziato in un altro anelito, non c'era più pena o dolore.

Non aveva mentito: fu un'esperienza unica, che non lascia esperire nient'altro, che svuota di ogni sostanza ogni altra esperienza passata. Galassie che conflagrano, si riempiono e si svuotano, non sono più che un respiro pieno, così profondo che dà alla testa, dove non ci sia più aria o polmoni a respirare. Galassie che conflagrano, universi che si spengono ed esplodono... è tutto luce, luce la sua stella infausta, luce quella stella oscura, luce, luce e tepore, senza distinzione. Bruciare, bruciare infinitamente quando non c'è più nulla da consumare e tutto è completo.

Non aveva mentito, ma quello non era più un condividere, perché non c'era più divisione, non più una morsa di braccia e di gambe intrecciate, la schiena contro il suo petto: erano e non erano le sue braccia e le sue gambe, era e non era la sua schiena e il suo petto; e assieme era tutto un universo, un universo immenso, un universo solo, che bruciava così ardentemente, così dolcemente.

Bruciare, bruciare, bruciare insieme fino alla fine, fino oltre la fine, fino a dove la fine e l'inizio, il tu e l'io, non hanno più senso. E bruciare ancora, finché la sua solitudine non era più la sua - mai più, mai più solitudine! Il ricordo delle mani di Saga e di mille altre mani, di cento altre vite che aveva e non aveva vissuto, di amori profondi e sinceri andati alla polvere che aveva e non aveva sentito; la sua fedeltà e la sua ribellione; risvegliarsi ogni volta con la morte intorno, risvegliarsi senza Saga al suo fianco; cercare il sole, troppo sbiadito e troppo rovente per chi ne è tenuto lontano; essere un'ombra, essere un fantasma – non è poi così diverso –; la perdita e la privazione; le labbra di Saga, il tradimento e l'abbandono; la nebbia sulla campagna verde come uno smeraldo, sotto un cielo pallido che mai aveva visto e che era stato casa; il Santuario e l'Inferno; il sole sulle coste di Grecia; il fondo del mare profondo sopra la testa, un'altra prigione; promesse e promesse, mantenute ed infrante; il suo stesso viso che non era più il suo né quello di Saga, ma il viso visto e ammirato da un inconciliabile nemico; la giustizia, la tristezza, la rabbia; la misura, l'attesa, l'eccesso; fremiti uguali di desiderio per le cose che non possono essere mai... tutto era uno.

Non aveva mentito - come avrebbe potuto? -: non c'era più niente su cui potesse mentire, niente da nascondere, solo bruciare, bruciare, e bruciare ancora, insieme e tutt'uno. Mai era stato così sincero, più di sé stesso, così libero nel laccio mortale di gambe e di braccia che sono e non sono le sue, di stelle che non sono più. Era quello che aveva sempre voluto: essere intero di nuovo, essere uno, un po' come essere amato. Era quasi la pace. Avrebbe voluto piangere di tenerezza, di gratitudine, di una gioia inebriata. Bruciare, bruciare, così insieme e tutt'uno, così per sempre...

Fu un morire così dolce, cui dolce è abbandonarsi, lasciarsi andare, come alla risacca o all'abbraccio di un amante... fu un morire così dolce.

Poi tutto finì e fu un vero morire atroce e crudele, laddove la morte era stata tanto dolce, tanto amata. L'erba bagnata sotto la sua pelle nuda fu come uno schiaffo doloroso, un pugno allo stomaco. L'aria era umida e pungente: dopo la tenerezza di tutto quel bruciare, il freddo di quell'aria umida e pungente, il gelo di essere uno, di essere di nuovo solo, era peggio di mille ferite, peggio della Cuspide Scarlatta di Milo, peggio della linea diritta delle spalle di Saga che si allontanano senza voltarsi indietro per lasciarlo in una cella senza uscita ad annegare. Mai pena fu tanto grande che l'aver avuto quel che sempre aveva voluto, più vivido e così più assoluto del sogno sfocato d'uno stato di pienezza e di grazia prima dell'essere al mondo; di averlo creduto per sempre; di averlo perduto.

Dove era stata luce, così tanta luce, ora era buio: aveva gli occhi chiusi, aveva occhi che erano suoi e avrebbe voluto strapparseli – non osò aprirli, non subito, non ora, non così, no, no, no!

Cercò disperatamente, ciecamente, una mano, a tentoni fra l'erba bagnata, sulla terra umida. Altre dita, un poco ruvide, tiepide come della memoria di tutto quel bruciare, scivolarono fra le sue, spinte da un moto uguale e contrario. Entrambi strinsero forte, con un sospiro quasi di sollievo, per non lasciarsi andare.

Non era solo. Si fece coraggio. Aprì gli occhi.

La luce della prima mattina, troppo bianca, troppo pallida, era tagliente, faceva male. Insetti senza colore, che sembravano ma non erano api, ronzavano pigri su fiori senza colore, fiori che non conosceva, sotto un cielo come di latte - senza colore. Solo il verde del prato, di qualche arbusto, di qualche stelo che riusciva a vedere, era incredibilmente intenso, lucido, quasi abbagliante; se avesse alzato lo sguardo avrebbe visto che il verde sui pochi alberi dai tronchi pallidi sparsi lì intorno era lo stesso: incredibilmente intenso, lucido, quasi abbagliante, in quel mondo pallido e senza colore. Per un momento fu troppo, ne fu stordito. Poi mise a fuoco le mura sullo sfondo, d'una pietra spessa e grigiastra, corrosa dal tempo; lo stipite intarsiato d'un portale gotico; l'arco acuto d'una trifora troppo bassa per essere stata progettata con cura; la trama neutra e discreta del tweed su due gambe piantate di fronte a lui. Hortus clausus, pensò, in una terra straniera che conosceva da memorie non sue. Pensò anche che avrebbe dovuto provare terrore di quelle gambe fasciate di tweed, elegante e discreto, del cosmo disumano ed immenso che ne proveniva; pensò che avrebbe dovuto essere in guardia, pronto alla lotta. Ma che poteva far lui, che era di nuovo uno soltanto, nudo e indifeso su quell'erba bagnata, nell'aria umida e troppo pungente, in quel giardino troppo verde e senza colore? Che cosa poteva lui, che solo voleva tornare a morire, così dolcemente, insieme e tutt'uno? Strinse più forte la mano dell'uomo che aveva accanto, strinse più forte l'eco di quel tepore, per non lasciarlo andare.

"Kanon di Gemini... il mio preferito, bentornato", disse una voce da sopra quelle gambe terrificanti, fasciate di tweed elegante e discreto. Kanon spalancò gli occhi, con lo stupore improvviso che non si può celare: era una voce che conosceva, da un tempo remoto e lontano, dai giorni dell'addestramento, dai suoi giorni di ombra in terra di Grecia. Non aveva parlato con molti in quegli anni lunghi, lunghi come sono gli anni per i bambini e i fanciulli, ancora più lunghi per lui cui era precluso il contatto con gli uomini: Saga e sé stesso; il loro maestro; più tardi, un bambino biondo e silenzioso, che gli portava sempre dolci strani, tondi ed esotici, e non apriva mai gli occhi; una volta soltanto, Aiolos; e poi quell'uomo. Alzò la testa. Non era invecchiato di un giorno. Quello gli sorrise bonario, poi si rivolse al suo compagno - anche lui nudo sull'erba - che gli stringeva forte la mano per non lasciarlo andare, e il sorriso si fece più compiaciuto.

"Rhadamanthys, vecchio mio", fece mellifluo, "tu sei uomo giusto e leale, e noi avevamo un accordo".

Rhadamanthys della Viverna, Stella celeste della ferocia, guardiano del Tempio di Saturno, Giudice Infernale e Primo Generale dell'esercito di Hades, grugnì con irritazione e rassegnazione, nudo sull'erba, e aprì i suoi occhi di fiera come se si fosse appena svegliato assai controvoglia. Kanon si sentì scuotere da un fremito inappropriato. L'uomo dalle gambe fasciate di tweed sorrise ancora di più: "La guerra fra il tuo signore ed Athena è finita, il fatto che stiamo parlando e il sole splenda ancora – per quanto possa splendere in questa terra stramaledetta – ti lascia ben intuire il risultato. Ma io sono ancora qui e tu sei di nuovo qui, e c'è una pila di esami da correggere".

Kanon sbatté le palpebre, guardando dall'uno all'altro, spaesato. Rhadamanthys grugnì di nuovo: "Non credo che fosse previsto che tu mi riportassi qui".

Quello rise di gusto: "Non era escluso. Avresti dovuto riflettere meglio sui termini e le condizioni, mio caro! Kanon, ovviamente la tua collaborazione sarebbe molto apprezzata".

Kanon, che continuava a essere all'oscuro di ogni informazione rilevante, ma che intuiva che non si stesse parlando solo di chissà quali esami, annuì cautamente, perché conosceva quell'uomo.

"Perfetto!", disse tutto contento, sfregandosi le mani – non era invecchiato di un giorno –, dunque si fece più serio: "Poi spero che vogliate ascoltare la mia proposta".

"Che ne è stato del mio signore?", chiese Rhadamanthys, con la voce quasi sottile, insicuro come mai Kanon lo aveva visto, se non in memorie di infanzia che non erano sue. Kanon strinse più forte quelle dita che tremavano appena, mosse le proprie leggermente, in una minuscola carezza – non lo considerò fuori luogo: erano stati uno, avevano condiviso la furia, la fedeltà, la perdita, morendo così dolcemente.

Rhadamanthys continuò: "Se non sono sciolto dai miei vincoli, sai bene dove ripongo la mia lealtà". E lo sapeva anche Kanon.

"Credo che tutto si risolverà per il meglio: ora abbiamo ampi margini per contrattare una soluzione soddisfacente per tutti", fu la risposta serafica dell'uomo dal cosmo immenso e le gambe fasciate di tweed, elegante e discreto, che non era invecchiato di un giorno in più di vent'anni. "Per il momento, direi di dirigerci verso le nostre stanze: le vecchie cornacchie stanno per svegliarsi, sono quasi le sei, e verrebbe loro un colpo a trovarsi due bei giovanotti come mamma li ha fatti nel giardino dei fellow. Non che non sia capitato, per carità! Ma di solito si tratta di matricole irresponsabili dopo una notte di baldoria, ed io preferirei evitare di ritrovarmi coinvolto in uno scandalo col mio miglior dottorando".

"Sono il tuo unico dottorando", rispose Rhadamanthys, alzandosi e tirandosi dietro Kanon.

"Dettagli!", sventolò una mano per tutta risposta quell'altro. "Sono sinceramente mortificato per la mancanza di vestiti: le resurrezioni sono difficili di per sé, ed ho dovuto recuperare i vostri atomi tutti mischiati! Spero che non me ne vogliate. In ogni caso, mi auguro che tu abbia un paio di completi di scorta nel tuo ufficio: non credo che niente di mio possa entrare al nostro comune amico", ridacchiò, incamminandosi col suo passo tanto leggero, dopo aver squadrato dalla testa ai piedi il buon Kanon e lanciato un'occhiata eloquente al proprio allievo.

 

Rhadamanthys provò a respirare profondamente, strizzò gli occhi, si massaggiò il mal di testa incipiente in mezzo alla fronte, e per mantenere la calma iniziò a ripetersi che non si uccidono gli dèi – anche se probabilmente gli altri due sarebbero entrambi stati in sonoro disaccordo. Pensò che sarebbe stata una lunga giornata e tornò a rimpiangere quel morire tanto dolce – anche se, ora come ora, gli sarebbe andato altrettanto bene essere semplicemente morto. Conscio della propria nudità, si incamminò velocemente verso il portale gotico, dallo stipite intarsiato e l'arco acuto, attraverso quel giardino che mai gli era apparso di un verde così incredibilmente intenso, lucido, quasi abbagliante, nella luce pallida e tagliente, sotto un cielo senza colore.

La mano di Kanon nella sua era ancora tiepida di tutto quel bruciare, insieme e tutt'uno; ed era rassicurante.

Camminando lesti, dietro a quei passi così tanto leggeri, si strinsero ancora un poco più forte, per non lasciarsi andare.

 

 

 

 

 

 

 

 

Note dell'autrice:

La prima versione della prima parte di questo prologo datava 2009. Da allora, la storia che - molto molto lentamente - sto raccontando è cambiata, si è evoluta, si è espansa, ed io sono diventata più risoluta nella mia operazione di autoconvincimento. Dunque c'è una nuova versione aggiornata e corretta dell'incipit.

 

So che i miei tempi di aggiornamento con questa storia sono biblici, ma spero che riordinando le vecchie sudate carte riesca ad avere una buona base cui agganciare il resto. Per ora, impegni a sorpresa permettendo, confido di avere la seconda parte del primo capitolo pronta entro maggio.

 

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Capitolo 2
*** Parte I: Nostoi - Capitolo I.1: Ad occhi aperti I ***


Nota dell'autrice:

Capitolo ripostato con qualche cambiamento minore, ma senza modifiche sostanziali rispetto alla precedente versione. Che dire? Mi impegno per dare di che mangiare ai filologi delle generazioni future.

Rinnovo le mie scuse per la cancellazione accidentale della storia; e mi scuso anche per il ritardo con cui mi rimetto in pari: i miei file sono più disordinati di quanto sia disposta ad ammettere...

Prometto di fare del mio meglio per postare la seconda parte di "Ad occhi aperti" quanto prima!

 

 

 

Parte I: Nostoi

 

 

La notte lunga si spegne

negli occhi dei gatti

e canta il gallo l'approdo

alle rive del giorno.

È faticoso tornare

ad essere vivi.

- Giulio Stolfi, "Alba" –

 

 

Capitolo I.1

 

Ad occhi aperti I

 

Petite âme, âme tendre et flottante, compagne de mon corps qui fut ton hôte, tu vas descendre dans ces lieux pâles, durs et nus, où tu devras renoncer aux  jeux d’autrefois. Un instant encore. Regardons ensamble les rives familières, les objets que sans doute nous ne reverrons plus… Tâchons d’entrer  dans la mort les yeux ouverts.

- Marguerite Yourcenar, Mémoires d'Hadrien-

 

 

 

 

Santuario, notte fra il 17 e il 18 aprile 1987

 

Il primo ricordo che aveva del suo essere al mondo era di luce, di una luce accecante, e la certezza che non ci fosse persona al mondo più preziosa di lui.

 

Il volto di suo padre non aveva mai sfiorato la sua memoria, come se non fosse mai esistito, neppure in quell’angolo ombroso e insondabile, dove talvolta, ancora poco più che bambino, aveva frugato, senza particolare convincimento né speranza di trovare qualcosa. Di sua madre non aveva neppure un sogno; a volte indugiava ad immaginare come sarebbe potuta essere: si figurava una voce, soffusa e gentile, lontana, e forse la sensazione di lunghi capelli di seta bionda sotto dita che non sanno ancora stringere bene, che non sanno afferrare, perché non hanno ancora imparato che cosa voglia dire la perdita o l’abbandono. L'immagine di sua madre aveva gli occhi – persi a guardare un confine lontano – di Saga non ancora uomo, le mani un poco rugose del vecchio Shion, il sorriso di Aiolos fanciullo, l'universo caldo e avvolgente di qualcuno che non ricordava. Sua madre non era che una fantasia indistinta ed algida, messa assieme male, perché Shaka non aveva idea di come una madre dovesse essere – perché Shaka, gli avevano detto, era nato da un fiore.

 

E quello che gli restava, dell’inizio della sua vita, del prima di tutto, era un mare di luce, soltanto un abisso di luce purissima che non si osa guardare e cancella le cose, e fa chiudere gli occhi, perché fa troppo male, col suo cuore di tenebra scura e brillante che mangia l’anima.

 

Luce e dolore – questa la primitiva materia, la forma originaria che l’esistere gli aveva impresso nella carne.

 

Tutte le altre reminiscenze della sua infanzia – i volti tracciati appena e sbiaditi dal tempo, il mormorare di una fontana e un giardino pervaso da mille profumi, il penetrante sentore del loto, quello quasi fragile del gelsomino, le parole pacate e dal tono profondo d’un giovane uomo che gli insegnava a chiamare le stelle, l’ombra imponente dell'antica dimora (o era già il monastero, sempre il monastero?) che era stata casa, il ronzio di un colibrì e di troppe zanzare, il sapore amarognolo d’una tazza di tè vellutato da una goccia di latte… e poi l’immensità dell’aperta pianura e delle montagne, le acque del Gange, il fruscio dei campi di canapa, l’eterno silenzio – erano come offuscate da quel suo primo ricordo di luce, dal male che brucia il cervello, e il senso metallico del sangue sulle labbra e sulle palpebre: perché questo associava immediatamente all’essere vivo, questo gli ricordava, con la presenza serena che aveva portato annidata nell’anima, che sarebbe dovuto morire, un giorno.

Una luce accecante, il profumo del loto e del gelsomino, il sapore e il tepore del sangue, ed un immenso dolore – questa la prima impressione dell'essere al mondo.

 

Ne aveva parlato soltanto a Mu, una volta, anni prima, in Jamir, quando erano quasi adolescenti e si facevano visita occasionalmente, di tanto in tanto, nei giorni in cui la solitudine dell’esilio diventava troppo opprimente, schiacciante, per entrambi: Mu, allora, lo chiamava, lo invocava con la mente, e l’eco della sua mancanza arrivava fino a Shaka, cullata dal vento che scivolava verso la grande piana fra i valichi delle montagne, oltre le quali lo aspettava il suo amico; Mu lo chiamava col bagliore gentile del suo cosmo e Shaka accorreva, come una nuvola – niente di più che un fruscio di vesti indicava il suo arrivo e la sua attesa. Shaka accorreva perché dentro di sé sentiva vibrare la stessa armonia, lo stesso cielo: e all’improvviso l’assenza era insostenibile, inammissibile, anche per la sua anima che in molti dicevano grande.

Quella volta, Mu lo aveva guardato lungamente, d’uno sguardo aperto e innocente che non cessa di essere indagatore; e Shaka, pur con gli occhi chiusi, aveva sentito quello sguardo familiare scrutarlo, valutarlo – o forse valutare soltanto che cosa fosse il caso di dire perché fosse vero e lui potesse capire.

Gli aveva preso la mano tra le proprie, Mu, e se l’era portata al petto, dolcemente, lasciando adagiare la punta delle sue dita sul proprio cuore.

“Ricordo il vuoto”, aveva detto, “il vuoto qui.”

E Shaka in quel momento l’aveva sentito anche lui, il vuoto nel cuore, e aveva capito che cosa fosse quel primitivo senso di privazione, che cosa volesse dire 'desiderare' – e che non c'era persona al mondo più preziosa di Mu.

 

Erano passati molti anni, ma quella conoscenza – la seconda grande lezione del suo essere al mondo: la prima fu il senso della vita e della morte, il profumo del loto e del gelsomino, il sapore del sangue – gli era rimasta conficcata come un pugnale fra un polmone e lo sterno; e non poteva non associarla al profumo di Mu – di cannella e ancora, sempre, di gelsomino, e sostanze segrete, di nevi, di stelle e di alchimia –, o al tepore della sua carne, in quel giorno lontano, attraverso i vestiti pesanti. Non aveva avuto il coraggio di riceverla ad occhi aperti: Mu sarebbe stato come la luce del sole e lui non avrebbe visto più niente, perché il sangue già gli tremava al ritmo di quell’altro cuore, sconvolgeva la quiete ordinata e studiata del suo spirito giovane che a questo nuovo dolore non sapeva dare un nome appropriato.

 

“Il vuoto nel cuore...", ripeté solo a sé stesso, adesso.

La notte era dolce, il cielo indulgente sulle rovine del tempio di Virgo; la brezza leggera dell'aprile greco, mite e secca, gli sfiorava la pelle come una carezza d’amante che non aveva mai osato immaginare. Le mani di Mu e il vuoto nel cuore… questo quel pensiero gli richiamava alla mente.

Ma un altro vuoto, un vuoto diverso, un vuoto infinito più grande della sua comprensione, più grande della sua anima – che in molti dicevano grande –, lo aveva svegliato quella notte: lo aveva chiamato nel suo sonno senza sogni, incubi di tenebra sterminata senza più luce, gelsomini né sangue; lo aveva cercato per ghermirlo; e lui ne aveva provato orrore. Era un vuoto contrario al vuoto del cuore: il vuoto del cuore è un richiamo gentile, chiede di esser colmato, di esser lenito; il vuoto che lo aveva scovato quella notte, nel suo sonno senza sogni, era un vuoto che tutto distrugge, che tutto divora, terrificante – e stava venendo per lui.

Si era svegliato di soprassalto, ansimando e sudato, come se avesse corso mille miglia e mille altre ancora, come se avesse provato a scappare oltre i confini del mondo senza riuscirci, senza riuscire a muoversi – come se avesse provato a dimenticare che siamo tutti stretti nella mano del Buddha sempre aperta. Si era svegliato senza luce, in un letto non suo, nella notte stagnante, e ancora una volta aveva dubitato della propria Illuminazione.

Poi si era detto che non era come quando Saga, giovane e splendente come un dio tutto d'oro, era venuto in India per condurlo la prima volta al Santuario – ma anche altri erano venuti, e c'era stata battaglia, e il sangue scarlatto di Saga di Gemini, e il sangue scuro di quelle creature di tenebra che divorano l'anima, e i suoi occhi aperti; e poi un brivido di ammirazione e terrore di fronte al suo spaventoso potere, quando tutto era finito. Si era detto che non era come quella volta un paio di anni dopo, quando – ancora bambino – si era allontanato poco oltre i confini del Santuario, seguendo un'ombra familiare in un pomeriggio tiepido, e di nuovo aveva sentito un vuoto orrendo chiamarlo, calare su di lui per divorarlo, e quegli altri erano venuti ancora e nuovamente c'era stata battaglia – quella battaglia che gli era valsa a pieno titolo l'investitura. Non aveva mai detto a nessuno – non a Mu, non a Saga, né ad Aiolia – che quel giorno non aveva combattuto per proteggere solo sé stesso, perché l'aveva promesso; non aveva mai detto che non aveva combattuto da solo, perché l'aveva giurato; né aveva detto che aveva sentito il nemico venire soltanto per lui, perché per la prima volta, in quel pensiero, aveva avuto paura. Una promessa per una promessa: entrambi avevano taciuto.

Ora non era più un bambino. No, si era detto nella notte stagnante, non era stato che un brutto sogno, un residuo della morte, dell'ultimo annullamento che non è più liberazione.

Aveva accettato la morte, l'aveva abbracciata pienamente, come mai si era concesso di fare con niente e con nessun altro; aveva saldato i suoi conti e i suoi debiti con questa vita – nella lotta, nel sacrificio, in un unico bacio sulle labbra di Mu prima che tutto iniziasse, prima che tutto finisse.

E tutto era finito, con tanta luce, il sapore del sangue, e un mare di fiori mandati a portare un messaggio importante – il più bello però lo aveva inviato a lui, per indicargli la strada.

La morte dovrebbe essere definitiva: non la fine, ma un passaggio da cui non si ritorna. Non lo era stata; e lui era tornato, così com'era – Shaka di Virgo e non qualcun altro –, e aveva scoperto con stupore ed orrore di avere rimpianti. Pensò che Milo aveva sempre avuto ragione e il dolore ha davvero un colore, ma non era il rosso scarlatto della Cuspide dello Scorpione: era il verde ardente degli occhi di Mu – e lui, cieco, non lo aveva visto, non lo aveva capito fino a quell'ultimo, quell'unico bacio sulle labbra di Mu, ad occhi aperti.

Non erano stati amanti, non nel senso ordinario, e avrebbero dovuto esserlo.

Sarebbe dovuto restare, restare lì con Mu, concedergli e concedersi ancora un po' di tempo – un minuto, un secondo, un'eternità, che conta? –, ancora la spiegazione che gli era dovuta ma che lui non sapeva e non poteva dargli, in quel tramonto rosso e amaro come tutto il sangue che sarebbe stato versato. Sarebbe dovuto restare: avrebbe dovuto contemplare la sua carne e la propria, il sapore della sua pelle, il profumo dei suoi capelli (gelsomino e cannella, nevi e sostanze segrete, stelle e alchimia), il dolore e il piacere della vita che si apprestava a lasciare; avrebbe dovuto guardarlo fino a saziarsi, come un pellegrino che parte per l'esilio più lungo; avrebbe dovuto abbracciare Mu con tutto il suo essere, concedersi pienamente a Mu prima che alla morte. Avrebbe dovuto dirgli che solo per lui cantava il vuoto nel proprio cuore; ma non sapeva come, non aveva le parole.

Allora Shaka gli aveva preso una mano fra le proprie e se l'era portata al petto, come lui tanti anni prima, ma ad occhi aperti; e aveva fatto brillare il proprio cosmo soltanto per Mu, lo aveva cercato, lo aveva avvolto, aveva accarezzato tutto il suo universo, e Mu lo aveva incontrato. Così avevano fatto da ragazzini, nella gioia di ritrovarsi ogni volta, quando non sapevano ancora quanta intimità stessero condividendo; così avevano fatto, sempre più spesso, dopo la Battaglia delle Dodici Case, nella gioia di non essersi persi, di riconoscersi sempre; ma questa volta Mu era stato come il sole, e Shaka non aveva più niente da vedere. Tutto l'essere di Shaka aveva pregato Mu di capire, di perdonare, di vivere, vivere, vivere – e di riamarlo come lui lo amava. Shaka, allora, aveva richiuso gli occhi; e Mu aveva capito, come sempre capiva, perché conosceva il suo spirito, e si era lasciato strappare una promessa di non intervenire – la più difficile da mantenere, ma Mu di Aries era sempre stato un uomo di parola. Mu aveva giurato a Shaka di custodire il suo cuore; e Shaka di Virgo era andato a morire in pace, facendosi guida e giustiziere, facendo il proprio dovere. Sarebbe dovuto restare – un minuto, un secondo, quell'ora ancora che non avevano.

 

Ora Shaka dischiuse gli occhi lentamente al bagliore fioco, argentato, delle stelle e della luna calante; e vide, con la devastazione del palazzo della Vergine Celeste, la desolazione infinita della propria anima, che in molti dicevano grande, ma che lui sentiva ancora bambina, come il giorno doloroso in cui era nato. Nessuno lo aveva capito, allora, che era un bambino; nessuno glielo avrebbe perdonato.

“È faticoso tornare ad essere vivi”, soprattutto se si è vissuti in vista della propria morte, progettandola, come un’opera d’arte o un monumento, una composizione di fiori. È faticoso guardare la vita a occhi aperti, ma questo tremolare notturno di astri impalliditi nella calura non gli faceva poi così male; e la roccia spezzata sembrava fasciata d’incanto, come una ferita…

“Ed è ancora più faticoso se ci si priva del sonno”. Una voce gentile alle sue spalle, e una stretta cameratesca.

Si voltò di scatto, ma senza essere sorpreso di trovarsi di fronte Aiolia, con il suo sorriso gentile di pacata, inamovibile fermezza d’azioni e d’intenti.

“Ho sentito il tuo animo turbato”, disse, a motivare la sua presenza, ma senza giustificarsi affatto.

“C’è molto lavoro da fare perché le cose tornino a posto”, rispose Shaka, adagiando le dita esangui sul polso dell’amico, polso baciato dal sole, con un sospiro – tacito invito a lasciare la presa.

“Parli della sesta Casa o del suo custode, Shaka?”, Aiolia aveva sussurrato appena, ma le sue parole risuonarono nella mente di Virgo come colpi a un tamburo di guerra, che scuotono i muri e le ossa.

“Lasciami, per piacere”, respirò profondamente, provando a tornare calmo o a ritrovare almeno un po’ di compostezza.

Quegli fece per ritirarsi, come se avesse toccato un metallo bollente, ma la stretta di Shaka sulla sua mano si serrò un momento più forte, a trattenerlo, a spiegarsi in un gesto: “Non hai fatto nulla di male, amico mio. Sono solo ancora un po’ stanco”, disse, lentamente e pacatamente, forse parlando a sé stesso, ma sinceramente, con un sospiro. Non sapeva Shaka dire di più; non sapeva mettere meglio in parole il proprio animo perché Aiolia, diretto, onesto e buono, potesse leggervi a chiare lettere; non sapeva, perché quel tumulto interiore era qualcosa che aveva sempre creduto di non dover provare, di esserne incapace, e parlarne non era nella sua natura – sorrise appena al pensiero che, forse, aveva congelato il proprio cuore come Camus della Neve e dei Ghiacci mai aveva saputo fare.

La carezza di Aiolia sulla sua guancia era un po’ ruvida ma con la delicatezza di chi teme di ledere una cosa bella e preziosa con dita atte alla forza, al lavoro… alla guerra; era una carezza da fratello maggiore, piena di tenerezza, perché – Aiolia lo rammentava ancora – quando, bambino, non ritrovava la pace dopo un brutto sogno che non voleva però raccontare, Aiolos lo accarezzava così, e lui poteva tornare a dormire, e non aveva paura.

“Sei un essere umano anche tu… è inutile tormentarsi ora che te ne sei reso conto”.

Shaka sorrise: “Sono cresciuto credendo diversamente”. E a quelle parole, sotto il peso della consapevolezza della loro verità, sentì qualcosa spezzarglisi dentro e un dolore di vetri rotti schiantarglisi nelle vene; non riuscì a trattenere una smorfia di disgusto e di orrore – forse per i propri errori, forse anche per sé stesso.

“Cosa c’è, Shaka? Ti senti male? Vuoi che ti accompagni da Mu?", chiese Aiolia con simulata leggerezza, per distrarlo da quel turbamento che non sembrava del corpo. “Checché Athena ne dica, non c’è ferita che Mu non sappia curare perfettamente…”. Poi uno sguardo di comprensione – allorché Shaka indietreggiava discretamente per voltarsi di nuovo a contemplare il luogo che un tempo aveva protetto – : “…né di un’armatura, né del corpo… né del cuore". Nonostante dovessero costargli tanto quelle parole – i suoi legami con Mu erano da anni impostati su una rispettosa e reciproca non sopportazione, un costante fraintendersi, e qualche occasionale minaccia di morte qua e là, sempre sincera –, Aiolia aveva sempre dato a Cesare quel che è di Cesare; Aiolia aveva sempre saputo che Mu manteneva Shaka ancorato alla terra – anche quando Shaka era troppo cieco per vederlo.

“Non quelle che infligge lui stesso”, sospirò Shaka per tutta risposta, ma si rese conto di essere stato ingiusto; tentò di essere più equanime e risoluto: "Mu non è ancora tornato. Ma non è colpa sua: il mio sonno è stato inquieto, ed io sono stolto a leggere infausti presagi in quello che è assai probabilmente solo il frutto del mio cosmo ancora esausto. Ho lasciato vagare la mente, quando dovrei concentrarmi e meditare".

Aiolia si perse un momento a studiare quella schiena rilassata per la stanchezza, qualche filo di capelli dorati, sfuggito al fascio che l’amico aveva raccolto su un lato del collo, vagava sperduto, come un gioco dimenticato di bimbo, nel mare color del vino della sua veste.

“Non gli hai parlato?”

“E tu hai parlato con Shura?”, rimbrottò Shaka, caustico. Aiolia rimase pietrificato come una statua di sale.

“Aiolia, non avrei dovuto. Io…”

“Non ti preoccupare, sei molto turbato”, deglutì, come a ricacciare cupi pensieri nel fondo delle viscere. “Non è dei miei problemi che sono venuto a discutere,” né ti voglio imporre anche questo peso – ma non lo disse. “Allora?”

“Non per molto…”. Un attimo di silenzio, il frusciare del vento tiepido gli riempiva le orecchie e i polmoni: "È dovuto partire per Tokio, non c'è stato tempo".

Aiolia sapeva quanto Kiki – incaricato di accompagnare Mu ancora debole dalla resurrezione – avesse indugiato prima di raggiungere il suo maestro, nonostante la gioia strabordante di averlo di nuovo lì, vivo, per dargli tempo prezioso; e sollevò un sopracciglio, divertito ma non senza quel po' di malizia che mai si risparmia ad un amico.

 

Shaka, che non aveva bisogno di aprire gli occhi o voltarsi per sapere esattamente che espressione avesse stampata in faccia, non poté evitargli un commento inequivocabile sulla sua intelligenza – un po' imbarazzato, ma senza rancore. Non poté evitarsi di ripensare a quella mattina: la luce accecante dell'alba greca, troppo pungente dopo il vuoto ed il nero del niente, anche attraverso le palpebre chiuse, per aprire gli occhi; l'incredulità, lo smarrimento di essere lì, sull'altura desolata bagnata dal sole nascente, di pallido platino e diamante brillante, non ancora d'oro; la carezza della brezza d'aprile, carica dell'umidità e del profumo salmastro del mare vicino, e d'un sentore spettrale di rose e di melograno, sulla nuda roccia e sulla polvere, sulla pelle nuda, come una frustata, pesante come un pugno nei polmoni, difficile da prender dentro e mandar fuori – dentro, fuori ... dentro, fuori... Respirare era stata una sorpresa sconvolgente, un boccheggiare senza fiato, come il soffocare di chi annega – in tutta quella luce di platino e diamante, in quell'aria salmastra di mare ed aspra di rose e di melograno, in tutta quella vita che non sarebbe dovuta essere.

Shaka non era mai stato così consapevole del proprio corpo – d'avere un corpo, d'essere corpo (lui, anima bambina che in molti dicevano grande), d'essere vivo.

I passi trafelati, i respiri affannati di Shaina, di Marin, d'una terza fanciulla velata di bianco ma a volto scoperto, e dello sparuto manipolo rimasto a guardia del Santuario, si erano arrestati davanti a loro come se fossero andati a sbatter contro un muro in una strada senza uscita. Nessuno aveva detto niente: i vivi troppo stupefatti per trovare le parole, i redivivi – gli occhi bassi – ancora persi in contemplazione di sé stessi, nel sole e nel vento, nell'essere lì.

Poi Kiki, fedele all'impeto delle proprie stelle (come Mu non era che raramente), era corso avanti, ridendo e piangendo assieme, ad abbracciare il suo maestro, a nascondere le lacrime e la faccia, a soffocare riso e singhiozzi contro il suo ventre. Mu gli aveva sorriso piano, come in un risveglio lento; gli aveva accarezzato i capelli – la mano quasi ferma a trattenerlo lì, come ad assicurarsi che non fosse un miraggio –; gli aveva mormorato qualcosa che Shaka non aveva udito, ma che certo doveva essere affettuoso e rassicurante per entrambi.

Le risa e i singhiozzi, il mormorio di Mu – sempre l'ariete dorato che sfonda il confine fra i mondi – cullato dal silenzio del vento, avevano infranto l'immobilità della morte, avevano sollevato il sortilegio della vita che non crede a sé stessa. Aldebaran, buono e saldo, sempre segretamente più saggio di quanto non fossero gli altri, più bravo ad accettare le cose per quelle che sono senza lasciarsi scuotere, aveva regalato una risata bonaria e tonante a tutti loro e a sé stesso, e una pacca amichevole alla schiena di Mu. Era stato abbastanza per strapparli tutti al loro stupore. Dohko di Libra, forte dei suoi diciott'anni e di duecento di solitudine, era andato al cospetto di Shion, ogni suo passo un peana. Camus di Aquarius era rimasto in silenzio, come di ghiaccio, lo sguardo basso, perché non voleva, non poteva vedere la rabbia e il rancore negli occhi di Milo, lo scotto del tradimento, dell'abbandono; ma Milo di Scorpio, come sempre, lo aveva raggiunto, gli occhi pieni di reverenza e d'amore, e la carezza che gli aveva adagiato su una guancia, sulla curva del collo, e lasciato correre via lungo una spalla, era dolce come una promessa e un'assoluzione – e Camus, come sempre, si era adagiato nel calore di quella mano nota e così tanto rimpianta. Aiolia aveva avuto un unico, interminabile, sguardo per Shura, ineffabile di devozione, rabbia e dolore: era uno sguardo che non si può incontrare; e Shura, immobile e pallido, teso come una corda di violino che sta per spezzarsi, lo aveva fuggito – né aveva ardito incrociare lo sguardo di nessun altro. Aphrodite, altero e bellissimo, ancora una volta l'ultimo baluardo, aveva frapposto la propria incommensurabile bellezza di fronte a Shura e Deathmask, come uno scudo o una sfida a chi volesse osar giudicarli o lanciare la prima pietra. Poi Aiolos aveva chiamato Aiolia – Aiolos non più adolescente, rinato uomo, alto e possente, con un sorriso dolce senza l'ombra degli anni perduti – e per Aiolia non era più esistito nient'altro. Saga di Gemini era sembrato sul punto di strapparsi ancora una volta il cuore dal petto; poi il panico e la disperazione lo avevano sopraffatto, come un uragano, ineluttabili come la marea: Kanon! Kanon non era lì, Kanon era assente! Saga lo aveva cercato con tutto il fievole cosmo che gli era rimasto, freneticamente, ciecamente, un urlo dell'anima e un folle richiamo; era crollato in ginocchio; infine lo aveva trovato – Kanon!-, un remoto bagliore, così lontano, a nord-ovest, da dove soffia il maestrale; e aveva ripreso a respirare. Anche Shaka, nel suo stordimento, prigioniero e cosciente del proprio corpo, lo aveva sentito, Kanon lontano, come in un sogno; così come aveva sentito soffusa, a oriente, la luce di Athena. Anche gli altri si erano quietati, si erano ricordati del mondo al di là di loro stessi, della dea oltre i confini del Santuario, della battaglia vinta – perché quell'alba pallida di platino e diamante era l'alba di un nuovo giorno che sarebbe potuto non essere, che non sarebbe stato se avessero perso.

Shion, Grande Sacerdote per investitura e per abitudine, aveva impartito i suoi ordini: a Mu – l'allievo fidato, il discepolo tanto amato, il figlio che non aveva avuto –  di recarsi da Athena con Kiki, non appena si fosse ristorato abbastanza, di accertarsi della situazione e prestare il suo aiuto se necessario, di rientrare a fare rapporto al Chrysos Synagein indetto per il suo ritorno; a Marin e alla fanciulla velata di venire al Tredicesimo Tempio per le debite presentazioni, scusandosi senza vergogna dell'accoglienza poco adeguata, più tardi quella mattina.

"Verso il tramonto", aveva suggerito Dohko con un gran sorriso compiaciuto e bonario – e con la furba soddisfazione di un gatto che alla fine ha scovato la tana del topo.

"Nel pomeriggio," aveva concluso Shion, indulgente, conciliante e sfacciato, con tenerezza. Poi si era rivolto a Saga di Gemini, ancora per terra in ginocchio, ancora prostrato e svuotato, perché tutti i suoi peccati erano radiosi e impressi a fuoco lì di fronte a lui, perché Kanon era un miraggio debole e lontano. Non c'era stato rimprovero nella voce dell'antico Ariete, non c'era stata condanna, nessun rancore, solo una pragmatica dolcezza, nell'ordinargli di andare a vederlo il mattino seguente per aggiornarlo sugli ultimi tredici anni d'amministrazione del Santuario, sulle finanze, le missioni e gli intrighi, sui conti rimasti in sospeso, perché poi potessero iniziare a ricostruire; gli altri dorati li avrebbero raggiunti dopo mezzogiorno.

Saga aveva annuito, solenne però assente a sé stesso – ma avrebbe voluto avere ancora abbastanza anima da essere in grado di piangere, avrebbe voluto che quella salda dolcezza lo facesse tremare, avrebbe voluto che Kanon ci fosse e che Aiolos non lo guardasse.

"Nel frattempo, prendetevi cura di voi stessi e gli uni degli altri", aveva infine ordinato Shion, mentre una mano leggera di Dohko sull'incavo della sua schiena lo guidava gentile verso le sue stanze – perché non avevano di nuovo ancora vent'anni e dopo più di due secoli non c'era più tempo che si potesse aspettare. "Ritornate ad abbracciare la vita. Per il resto c'è tempo domani".

Shaka, ancora perso nel sole nascente e nel vento leggero, nell'eco assordante del proprio respiro, come in un limbo, aveva pensato che, in fondo, era stato quello che avevano sempre provato a fare, in quegli interminabili tredici anni e negli ultimi mesi di lutto e stupore: prendersi cura gli uni degli altri, tenere assieme alla meno peggio i loro cocci di uomini rotti, di bimbi sperduti, e un po' di speranza, e l'illusione che valesse bene a qualcosa. Ciascuno aveva fatto del proprio meglio, ciascuno secondo quello che aveva ritenuto necessario e giusto, con sangue e con sacrificio: i successi, fragili e segreti, consumati nell'intimità dei loro templi, nell'ombra d'una pace impermanente; e i fallimenti... i fallimenti erano stati deliranti e disastrosi, distruttivi senza discrezione – ma il più delle volte Shaka non aveva saputo distinguerli, e ancora si chiedeva quali fossero state le vittorie, quali le sconfitte, quale il prezzo troppo alto da pagare.

La stretta d'acciaio della mano di Mu sul suo polso lo aveva strappato alla sua rêverie; gli occhi di Mu, piantati nei suoi come due pugnali, erano ardenti e lo avevano fatto tremare in quel luogo segreto fra lo stomaco e il cuore: Mu era furioso. Non gli aveva detto niente – non ce n'era stato bisogno –, non aveva detto niente a nessuno – ma forse lo aveva fatto mentre Shaka era intento a smarrirsi lungo il filo dei propri pensieri –; semplicemente lo aveva condotto giù per la scalinata, senza correre, ma con decisione e con una fermezza che non ammette repliche: se Shaka si fosse opposto, probabilmente lo avrebbe trascinato comunque, come il destino; ma se Shaka aveva imparato qualcosa negli anni, sin da quando era bambino, era che non avrebbe mai saputo opporsi a Mu.

La Casa del Montone Bianco aveva subito danni – qualche colonna crollata, il frontone diroccato, polvere e detriti sulle scale e nell'ingresso sotto i piedi nudi al loro passaggio –, ma era ancora lì, solida, eburnea e brillante nella pallida aurora, come la linea ferma delle spalle di Mu. La Casa della Vergine celeste non esisteva più.

Erano entrati, Mu un passo avanti, sempre tenendolo per il polso, ma il suo tocco era un poco più lieve, un po' più gentile, mentre lo portava alle sue stanze private quasi intatte: non era più un ordine, ma una richiesta – non tremare, concedimi almeno questo, me lo devi, ed io ne ho bisogno.

La sala da bagno – spaziosa, spoglia – era grigia e perlacea come sempre; le finestre, troppo alte, troppo piccole, per offrire più che una luce soffusa e una penombra dolce; l'aria era densa e fresca come pietra.

Mu lo aveva lasciato per riempire la grande vasca, poi: "Entra", gli aveva detto, e lo aveva seguito. Entrambi in piedi, senza smettere di guardarsi, nella penombra fresca e nel gorgogliare dell'acqua che scorre, Mu aveva lavato Shaka: ogni tocco leggero delle sue mani – sulle spalle, sul collo, sul suo petto, lungo le braccia e le gambe, su tutto il suo corpo – gli accarezzava via la morte di dosso, era un rituale e un battesimo. Ad ogni tocco sul corpo di Shaka, Mu stava lavando via un po' della sua stessa rabbia; quando, alla fine, gli aveva accarezzato il terzo occhio con un pollice, tenendogli il viso fra le palme bagnate, con delicatezza infinita, entrambi avevano sospirato – entrambi si erano quasi sciolti in lacrime. Allora Shaka aveva fatto lo stesso a sua volta – e nel lavare Mu gli era parso di purificare sé stesso, di tornare alla vita come mai era stato vivo prima.

Poi Mu si era asciugato, aveva asciugato Shaka, aveva indossato i suoi abiti usuali e lo aveva vestito con una tunica color del vino; aveva infine appoggiato la fronte alla sua.

"So che hai fatto quello che ritenevi necessario, lo capisco; so che era il tuo dovere", aveva confessato, con una carezza sulla guancia di Shaka, "e so anche che lo rifaresti; non posso biasimarti per questo. Ma, Shaka...". Non aveva avuto modo di finire: forse gli erano mancate le parole, forse in verità non c'era niente da dire; ma il cosmo di Kiki brillava impaziente oltre il pronao del tempio di Aries ed era ormai tempo di andare.

"Parleremo al mio ritorno", aveva concluso e Shaka aveva annuito. "La mia casa è la tua casa, se non ti pesa restare qui in mia assenza", e si era accomiatato con un bacio minuscolo all'angolo della sua bocca che aveva il sapore di una promessa di risoluzione. Shaka lo aveva guardato allontanarsi, prima di richiudere gli occhi.

 

Ma come poteva dire tutto questo ad Aiolia? Come poteva spiegargli l'orrore di trovarsi vivo e dei mostri notturni della sua infanzia che ancora lo visitavano negli incubi? Come descrivere il dolore di quell'alba di platino e diamante e il sollievo della penombra, delle mani e del corpo di Mu? Come poteva, quando neppure lui sapeva che cosa volesse dire?

"Mu era arrabbiato con me", ed era vero.

Aiolia gli venne accanto, chinandosi a raccogliere in un pugno una manciata di polvere che era stata roccia immutabile, intangibile al tempo: “Hai idea del perché?"

Shaka non gli rispose, gli occhi chiusi e il capo chino, una posa di rassegnazione di fronte a sé stesso, che Aiolia non avrebbe mai immaginato su di lui, né avrebbe mai voluto vedere.

“Shaka... Se stamattina Mu non ti avesse portato via di gran carriera – per farti non voglio sapere cosa volesse farti –, un pugno sul muso non te lo avrebbe risparmiato neanche Athena”. Il tono di Aiolia era quasi scherzoso, ma Shaka sapeva benissimo che era serissimo – e che lo avrebbe fatto davvero.

"Perché?"

Allora Aiolia aveva risposto onestamente, cercando di mantenere tutta la calma di cui fosse capace, perché Shaka sinceramente faticava a capire e lui doveva spiegargli, ma la voce tremava: "Perché sei andato a morire – o qualunque cosa tu abbia fatto –, deliberatamente, senza dirci niente. Non ci hai degnato di uno straccio di spiegazione. Lo sai che Mu mi ha impedito di entrare nel tuo stupido giardino? Che sorvegliava la porta piangendo? Che ogni minuto di quell'agonia sapeva perfettamente che cosa avevi intenzione di fare e si sentiva morire anche lui? Che mi sentivo morire anche io? Avrai avuto le tue buone ragioni – anche i muri hanno orecchie, le spie di Hades, quello che ti pare, non mi interessa –, perché tu hai sempre le tue buone ragioni anche quando sono completamente stupide! E sicuramente Mu lo aveva capito benissimo o almeno lo immaginava, ma ciò non toglie il fatto che sia dovuto star lì a lasciarti morire, a sentirti desiderare di morire. Io avevo il cuore spezzato; come immagini che stesse il suo, di cuore?"

E Shaka aveva finalmente capito, come in una sconvolgente illuminazione; e tremava. "Che cosa posso dirgli ora?"

"Chiedigli scusa, Shaka. Anche se lo rifaresti, chiedigli scusa".

 

 

*

 

 

Santuario, notte fra il 24 e il 25 ottobre 1986

 

 

Milo sedeva – giaceva – prostrato accanto alla grande porta chiusa, la schiena abbandonata contro lo stipite, senza avere il coraggio, o la forza, di entrare: così vegliava, lui stesso corpo senz’anima, o una bambola rotta. Quella che Aiolia – di fronte a lui, accasciato su una colonna, quando non sarebbero bastati i pilastri del mondo a sostenerlo – vegliava non era una veglia funebre, non solo, ma il disperato stupore dei sopravvissuti ad un’insospettata congiura, dei traditi che non si salvano mai, e piangeva rabbiosamente anche lui il suo pezzo strappato di cuore – che non credeva d’avere, non prima che fosse tardi, e tutto rovinato e perduto.

Marin li sorvegliava in disparte, tagliata dall’ombra, in silenzio: era l’unica che aspettasse ancora qualcosa, perché per gli altri due il tempo si era fermato in una goccia densa di dolore scurissimo, pesante più del sangue, e aveva perso di senso misurarlo in un prima e in un poi, in oggi e domani, perché lo ieri non esisteva più e si era portato via tutto; né si poteva sperare scorresse, passasse. C’era solo la notte, la notte infinita del riposo dei morti, e il vuoto devastante della perdita.

 

Nessuno dei guerrieri dorati sopravvissuti aveva seguito Athena e i suoi piccoli Cavalieri di Bronzo feriti: la morte e il dolore erano cose cui erano stati abituati a badare da soli, fra di loro, a questo erano stati addestrati; e le ferite del cuore dovevano essere riaccostate dolorosamente lembo per lembo, in solitudine, prima che la Dea potesse suturarle col suo cosmo divino – prima che loro stessi potessero pienamente accettarne la ragione.

Ma non era il momento della ragione quello, non per Milo: appena l'aereo della Fondazione fu alto sulle loro teste – a sgravarli per un attimo del loro dovere di santi ed eroi, lasciandoli soltanto uomini, nello spazio dei loro lutti –, si era girato, come se null’altro contasse – perché più nulla contava –, col passo lento e scosso, ma inarrestabile, delle prefiche della sua terra, che aveva visto bambino; e nessuno, nemmeno Mu, aveva provato a fermarlo, o ad accompagnarlo, o a dirgli qualcosa – perché non c’era parola che si potesse dire, né di conforto, né di rassegnazione. No, non era quello il momento della ragione; ma il silenzio che urlava nell’anima dello Scorpione riportava alla schiacciante realtà tutti loro, perché erano i reduci e gli abbandonati.

Era sceso, muto e implacabile, fino all’Undicesimo Tempio; il battere ritmico e angosciante dei suoi calzari sugli scalini di pietra era l’unica cosa che gli scandisse nel petto il pulsare del cuore, e se si fosse fermato si sarebbe arrestato anche lui – il suo piccolo cuore di insetto schiacciato e privato del sole.

Era crollato in ginocchio di fronte al suo Camus, crollato rovinosamente come un monumento cui all’improvviso vengano meno le fondamenta, come il ragazzo che era, senza più aria, o speranza, senza più niente, perché il suo Camus era lì, ancora di ghiaccio, ma questa volta non avrebbe scostato né ricambiato le sue carezze, non gli avrebbe regalato il sorriso più piccolo, non lo avrebbe più rimproverato con la più dolce, impercettibile tenerezza.

Aveva pianto, Milo, per un'eternità, senza più tempo, in ginocchio, disperatamente e senza ritegno; aveva singhiozzato finché solo il bruciore di fuoco nella sua gola, in fondo ai polmoni, gli ricordava che lui era vivo – ma questo era un dolore insopportabile.

Aveva sollevato Aquarius come una sposa dormiente, anche se non aveva niente del sonno; lo aveva portato fra le braccia con la stessa avvolgente e amorevole cura che gli aveva usato quando era in vita, fino a una manciata di ore prima, quando aveva giurato e rigiurato che niente, niente avrebbe mai toccato il suo Camus – una manciata di ore prima lo aveva mandato lui, il suo assassino al suo Camus. Avrebbe dovuto saperlo che Camus aveva il cuore troppo caldo e troppo in pezzi per congelare quel bambino ancora una volta; avrebbe dovuto saperlo che si sarebbe lasciato morire per insegnare la sua stupida lezione – perché Camus amava troppo, aveva sempre amato troppo, e la sua morte ed il dolore di Milo, che lo riamava e che lui si lasciava dietro, era la sua stupida, insensata lezione. Avrebbe dovuto saperlo e tenerlo fra le sue braccia quando era tornato dalla Casa di Libra, finché non avesse più tremato, finché non avesse avuto più freddo, finché la battaglia non fosse finita, senza lezioni. Avrebbe dovuto saperlo....

Milo aveva trascinato anche il proprio cadavere, fino alle stanze del Sacerdote; e il corpo che aveva affidato con reticenza e un’ultima carezza sulla fronte gelida, come di marmo, alle mani tremanti di Shaka, perché facesse quel che andava fatto, pesava anche di tutta la sua anima che non poteva più stargli nel petto, che s’era involata da lui.

“Camus…”

 

Ora, dentro, tremavano ancora le mani di Shaka, tremavano come mai avevano tremato, le sue mani ferme; e Mu non sapeva come quietarlo, quel profondo terrificante tremore dell’antro dove mente e cuore non si distinguono più.

Subito dopo aver adagiato Camus erano andati a deporre le armature, come trasognati; avevano indossato tuniche bianche, sacerdotali, lavato via polvere e sudore dalle proprie membra e tracce di sangue che non volevano vedere, che non era loro.

Milo era rimasto accanto alla porta, attendendo il loro ritorno, come a guardia dell’inferno; e ancora era là, senza neppure più la forza di piangere: aveva l’elmo in grembo, lo stringeva assentemente, così perso da non sentire il dolore della pelle lacerata dalla cuspide dello Scorpione, perché gli si erano spezzate tutte le corde del cuore – e avrebbe voluto non sentire più niente. Aiolia aveva aggiunto la propria solitudine alla sua; non era stato lui ad andare a prendere Shura.

 

Non è vero, non è logico, non è possibile, era il mantra di Virgo; non è vero, non è logico, non è possibile, si ripeteva, tracciando, con le mani intrise d’acqua e d’essenze che avevano l’odore del pianto, i tratti del viso di Saga, a cancellare qualche schizzo di rosso e tracce di terra – i segni della lotta si erano distesi da soli, e sembrava in pace, in una pace che non è sonno, né è riposo, ma l’attesa delle cose distrutte che non si ricompongono più.  Ed erano tutti, tutti i vivi e tutti i morti, quali statue di cera fatte a pezzi; e Shaka non aveva il coraggio di aprire gli occhi mentre ricostruiva la compostezza di corpi vuoti – così, tremando, raccoglieva anche i pezzi della propria umanità.

Mu lo osservava preoccupato, mentre continuava ad occuparsi di Camus: nella morte sembrava meno preciso – i capelli di fiamma bagnati di ghiaccio sciolto, le sopracciglia senza una piega accigliata, pensosa e lontana, le dita distese, non più strette ad afferrare il controllo perfetto che scivola via, impercettibilmente, ogni momento; e sulle labbra neppure più lo sforzo di celare i suoi più segreti sorrisi. Con quanti rimpianti fosse partito quell’uomo, Mu non se lo chiedeva, perché non spettava a lui; e l’angoscia dei vivi lo arenava alle cose di questo mondo, rendendo il dolore una sorta di torpore, di stordimento, che avrebbe fatto male dopo, quando tutto sarebbe stato sepolto e avrebbero avuto lunghi giorni per pensare ed attendere ordini e domandarsi ancora e ancora “come”, e “perché”.

Aphrodite sembrava fragile – la pelle ancora più diafana adesso che nessun calore l’animava, la bocca di un pallore quasi infantile –, rimaneva di una bellezza altera e perfetta, ora più immobile ed immutabile, che non si corrompe; profumava ancora di rose, di una fragranza dolceamara che sapeva di attese, di amori non senza pericoli, di ricordi d’infanzia e di lui. Deathmask gli era stato deposto accanto, con delicatezza infinita, perché non c’è crimine o morte che sciolga il nodo d’impegno e d’affetto dei compagni d’armi, quel nodo serrato sul cuore, per cui ogni tradimento fa male come il filo d’un pugnale, ma che inietta nel sangue il filtro sottile di una comprensione profonda più delle viscere, e il rancore stesso è quello che si porta a un fratello.

Aldebaran aveva raccolto Shura; fra le sue grandi braccia, sembrava ancora più snello e sottile: era tanto alto, ma il suo corpo così fermo e flessuoso, disegnato per i balli frementi della sua terra, ora pareva non avere più ossa, neanche un piccolo sostegno che il rigore della morte potesse tendere ancora. Quando il Toro era passato col suo fardello, Aiolia aveva girato la testa – ma non era solo per rabbia che non voleva, non poteva vedere.

 

“Shaka…”, aveva mormorato Mu, quando tutti gli altri erano stati preparati per gli ultimi riti e gli estremi onori, e Virgo sistemava ancora le pieghe della veste e i capelli di Saga, gli occhi chiusi e le mani tremanti, perso nei suoi pensieri, o in ricordi remoti che anche Mu divideva, ricordi di anni e di tutti loro – comunque altrove.

Shaka aveva annuito come assente e, con un’ultima carezza al volto morto d’una memoria distante, aveva seguito Mu via dalla grande sala, per lasciare che Shaina e Marin compissero le celebrazioni che spettano solo alle donne, preghiere alla notte e alla terra perché il loro grembo fosse benigno e accogliente, invocazioni di vita e sangue senza sole, e canti più acuti del vento – cose che neppure lui conosceva, né avrebbe mai pronunciato.

Aiolia era fuggito a covare nell’ombra il rancore che gli straziava e riapriva le ferite del cuore; Milo non si era mosso di lì, perché sarebbe sceso anche lui nella tomba con Camus. Aveva levato gli occhi, come se avesse voluto chiedere loro “come sta?”; li aveva riabbassati con la dignità sofferente del guerriero sconfitto e il pudore del bambino colto in fallo o che, semplicemente, ha pianto troppo. Fu come un congedo e non aggiunse nulla, perché quella guardia notturna era per lui, su di lui tutto il peso della tenebra e del sopraggiungere – impossibile e inammissibile, perché come può esserci sole se non c’è lui? – della straziante luce del giorno.

Dall’altra parte della porta, giungeva, come irreale, penetrante un odore di incenso e di fiori bruciati, e sommessi lamenti come cantilene singhiozzate; a Shaka dava la nausea.

“Scendiamo insieme fino al tuo tempio, se non ti disturba la mia compagnia”, gli aveva proposto Mu, con l’usuale cortesia e lo sguardo gentile – quello sguardo che, quando se lo sentiva addosso, gli riscaldava l’anima e stringeva lo stomaco, gli faceva venire voglia di sorridere senza motivo. Questa volta fu come un balsamo per lo straniamento delle ultime ore, l’ultima cosa che avesse senso in un mare di assurdità e di certezze rovinate al prezzo di troppo sangue e troppo passato perduto – e lui, in preda all’orrore, dubitava e aveva la sensazione paralizzante di aver sbagliato tutto, tutto quello che si potesse sbagliare.

“Non potrebbe che farmi piacere”, rispose. “La tua compagnia mi è indispensabile”, aggiunse in un sussurro debole.

Mu gli sfiorò un braccio, consolatorio e incoraggiante – perché solo lui leggeva e conosceva ogni turbamento dell’animo suo, nonostante fosse passato tanto tempo –,   rassicurante come sanno essere solo i saggi che non smarriscono il mondo umano, dolce come una madre e un fratello, o come un amante.

“Andiamo, è bene dormire almeno qualche ora: domani sarà una lunga giornata per tutti”.

Scesero spalla contro spalla, e quel poco calore della semplice presenza poteva quasi bastare a mitigare il gelo di un cielo troppo buio; il silenzio era rotto solo dai loro passi e dal sentore lontano di foglie cadute: quella notte, tutte le stelle erano mute, niente segnava la direzione.

“Come si può dormire, davanti al sonno dei morti?”, mormorò Shaka, di fronte all’ingresso della sesta Casa, con nuda sincerità e nudo turbamento, perché parlare con Mu era qualcosa di più intimo che parlare a sé stesso. Gli rispose un lieve bagliore di cosmo, un noto richiamo dell’anima, che non aveva dimenticato. Si volse verso l’amico, stupito e con gli occhi spalancati: vide un sorriso triste.

“Perché non mi inviti a prendere una tazza di tè? Questa notte non è per vegliare in solitudine”.

 

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Capitolo 3
*** Parte I: Nostoi – Capitolo I.2: Ad occhi aperti II ***


Parte I – Nostoi

 

 

 

Capitolo I.2

 

Ad Occhi Aperti II

 

 

 

"... ces rites barbares, qui créent entre les affiliés des liens à la vie et à la mort, flattaient les songes les plus intimes d'un jeune homme impatient du présent, incertain de l'avenir, et par là même ouvert aux dieux. Je fus initié..."

 

– Marguerite Yourcenar, Mémoires d'Hadrien

 

 

*

 

 

Tra la Grande Piana e le Porte del Cielo, circa vent'anni prima del Tempo del Mito

 

 

 

Era un figlio del vento e della steppa.

 

La grande piana brulla, senza limiti o confini – dove gli orizzonti sono solo laddove l'occhio può arrivare e si rincorrono al ritmo forsennato di un galoppo leggero come l'etere, pesante come il cielo –, l'aveva cullato alla sua nenia di zoccoli che alzano la terra sottile come cenere, di aria che sgretola le rocce, di sibili tra le torri del silenzio. La grande piana arida, di polvere e di sabbia, che beve tutta l'acqua, prosciuga tutto il sangue, l'aveva nutrito nel suo ventre sterile, che rigurgita le ossa dei cadaveri e solo i ricordi degli scheletri. La grande piana verde, tutta in fiore, pingue di rugiada e di frescure, che s'insinua flessuosa fra gli immensi monti, incontrastata, profonda come una ferita, gentile come una promessa, cortigiana imperiosa... la grande piana verde, tutta in fiore, lo aveva temprato all'incudine della tentazione del riposo; al martello dell'indicibile bellezza di paesaggi mai violati – altera, imponente, vera bellezza sempre inquietante –, lo aveva fatto diventare quasi un uomo, la grande piana verde, flessuosa, tutta in fiore. Però il suo cuore inquieto e pellegrino seguiva ancora il moto delle stelle, che lo chiamavano, sempre più insistenti, oltre la grande piana; oltre le montagne; oltre il fiume immenso che si dipanava, gigante come il mare o un imperatore; oltre...

 

Era un figlio del vento e della steppa. Era il figlio più bello degli arya, che si dicono nobili.

 

Ogni guerriero gli era stato madre, ogni sapiente padre, i cavalli ed i falchi suoi cugini e fratelli, senza distinzione – questo il costume della sua stirpe di esseri liberi, di conquistatori: senza giogo o possesso, senza catene, senza attaccamento, danzavano col fuoco; cercavano nell'acqua il segreto della vita, l'eterno movimento; battevano la terra col passo incessante degli esploratori; nell'aria, ascoltavano i sospiri del futuro, le promesse di ogni strada nuova, e le affidavano i caduti ed i segreti, gli anziani consumati dal ciclo degli anni, perché li consumasse ancora un poco, acché, ridotti a niente, trovassero un facile ritorno. E l'aria, in fondo, è tanto più leggera della terra: si scosta più in fretta.

 

Era un figlio del vento e della steppa, un figlio fatto nel grembo delle stelle, dal fuoco e dalla sabbia, un figlio battezzato nella pioggia: il più bello e il più saggio dei figli degli arya, che si dicono nobili; anche il più inquieto.

 

Aveva corso il mondo noto, capo a capo, in dorso al suo cavallo: in dorso al suo cavallo aveva dormito, aveva sognato; era cresciuto; era diventato quasi un uomo. Ma il suo cavallo andava troppo piano; così imparò a correre più forte, veloce com'è rapido un pensiero, però mai quanto il costante tremolare che gli stringeva il cuore – e che gli sussurrava di cercare, di avanzare ancora, d'andare un altro poco, un po' più in là, di non aspettare...

 

La grande piana, un giorno, poi, era finita: s'apriva ancora una distesa sterminata, mille direzioni da esplorare, in cui vagare; eppure, i nobili si vollero fermare, vollero imparare le opere dei giorni e delle stagioni, vollero coltivare e costruire. La piana non esiste, se non ci si può smarrire.

 

Ma il loro figlio più forte, il più saggio e il più bello, di tutti il più inquieto, apparteneva al vento ed alla steppa: al vento voleva tornare, e riattraversare la steppa, inseguire le stelle, andare col falco a caccia di qualche cosa che non conosceva, ma che doveva scoprire – e lì, lì fermo, lì non poteva.

 

 

 

Così, per settimane, avanti e indietro, camminò assorto, tra i bordi d'un fazzoletto; insofferente, su quei campi pingui che già iniziavano a fruttare; libero come un prigioniero che non osa scappare. Il mistero del seme che germoglia non lo affascinava; la geometria segreta delle radici nascoste non lo riusciva ancora a interessare. Sospeso a mezz'aria in quella fermezza – non più bambino, non ancora uomo –, non poteva far altro che attendere l'iniziazione, il segno temuto ed agognato di chi sarebbe dovuto diventare, d'un ultimo passaggio da cui non si sarebbe potuto svincolare. Gli astri, però, indifferenti ai vezzi del rituale, quasi si misero ad urlare: il cielo, forse eterno, non conosce pazienza – ed anche lui la doveva ancora imparare.

 

Parvero lustri, quelle settimane: la stasi dell'attesa rende i minuti angusti, l'inerzia sfiancante. Consumò il tempo guardando le fiamme; ignorando sguardi che non poteva – forse non voleva – ricambiare; danzando solo, con la sciabola e la spada; parlando distrattamente al vecchio rapace ch'ormai non osava più volare, al corsiero consunto, stanco di galoppare; smaniando lontananze sconosciute, che gli erano precluse.

 

Giunse, alla fine, la convocazione – nel buio, quando la notte è scura ma non già fonda–; rispose con sollievo e con terrore. Gli Anziani, nobili fra i nobili, non l'accolsero in sella, com'era tradizione: sedevano su stuoie intrecciate, un tetto sulla testa. Il fuoco non era nudo: cinto di bronzo, stretto nel rame, li illuminava come statue di cera vestite a festa.

 

Lui non era come loro erano stati; non era neanche quello che erano diventati. Adesso si sentiva solamente soffocare, il petto costretto in un moto d'angoscia: sarebbe voluto scappare; avrebbe voluto pregarli di non forzarlo, di lasciarlo andare. Come in un sogno sfocato, di quelli che vengono quando se ne va l'aria, carezzò il pensiero di fingersi folle, di farsi scacciare.

 

Lo accontentarono quasi, non dové domandare.

 

"Figlio dei nostri figli e dei nostri avi, dono di fine estate, che hai nome Immortale, tu sei il nostro figlio più saggio, il più bello, di tutti il più nobile", fu quella Antica a parlare, seduta nel mezzo, rugosa e dura come cartapecora, gli occhi fumosi non più distratti da luci e colori – quella che nessuno aveva visto nascere, quella il cui tempo nessuno avrebbe mai saputo misurare. La sua voce sembrava venire dal vuoto, risuonare nel vuoto; sembrava vuoto a sua volta. "Quindici primavere sono passate: il tuo falco non lascia il trespolo, anche il cavallo è sfiancato; per le valli e per l'immensa pianura con noi a lungo hai viaggiato; non più frutto acerbo, sei quasi un uomo, sei maturato. Quello che cercavamo, noi l'abbiamo trovato. Ma tu, tu cosa cerchi, Athanasios dal cuore inquieto?".

 

Al vuoto non si può mentire, non avrebbe senso neppure provare. Il figlio più bello degli arya, che si dicono nobili, era forte, era saggio, fu onesto: "Saggia fra i Saggi, non so rispondere, non prima d'averlo trovato. Le stelle mi chiamano, mi parlano, ma dicono cose che non capisco. Mi mancano il vento e la steppa; mi manca il moto libero del fuoco; mi manca la carezza dell'acqua che tutto conquista".

 

Poi prese fiato; il vuoto dentro di lei si prese un momento.

 

"Figlio dei nobili, parli dell'aria, dell'acqua, del fuoco, ma sei della terra: tu sei la sabbia nel vento; la sabbia che smorza il fuoco; sabbia che intorbida l'acqua, finché non si posa. Noi, questo, non possiamo ricordartelo. Non ti possiamo iniziare".

 

Per lui fu quasi una liberazione, sentì di nuovo di poter respirare.

 

"Da noi hai già imparato tutto quel che ti potessimo insegnare", continuò lei – una constatazione. "La tua cavalcata è lungi da finire. Segui la Via che taglia la notte, ritorna indietro, su per i grandi monti: ti aspetta lì chi ti potrà guidare, fra i passi dove al Cielo si apre la Terra, ed alla Terra il Cielo".

 

Così fu congedato: né lui, né lei, né gli altri sprecarono parole; prima d'allontanarsi, li ringraziò soltanto con un cenno del capo.

 

Il figlio più bello degli arya, il figlio più forte, ed anche il più saggio, fu loro grato che riconoscessero quello che per primo aveva intuito. Non si voltò indietro.

 

 

Chi nasce senza giogo né possesso, chi cresce senza attaccamento, non ha bisogno di prendere commiato: non ha niente da prendere, niente da lasciare.

 

S'incamminò prima che arrivasse il giorno; non si fermò neanche a salutare il falco ed il cavallo che sempre l'avevano accompagnato: forse alla morte – in un'altra vita – sarebbe potuto andare insieme a loro; ma, all'iniziazione, ciascuno, disarmato, va da solo.

 

Furono le stelle, brillanti contro il nero, a fargli compagnia; lo scortò ancora il cammino noto, all'incontrario; la grande piana l'accolse di nuovo, lo lasciò passare laddove diventava più sottile, fino a farsi valle, fino alle pendici. Athanasios corse, corse come un lampo, corse perché non c'era nessuno a trattenerlo: ascoltò le stelle, senza guardarle; non indugiò sulla via del ricordo, lungo il cammino che aveva conosciuto; il ventre della piana – cara, crudele, così tanto buona –, lo sfiorò appena; s'arrampicò lungo le pareti con una carezza lieve delle mani – perché i bambini afferrano le cose, ma i tocchi degli adulti sono più fugaci: hanno imparato, ormai, a lasciarle andare.

 

Salì, salì ancora, salì sempre più in alto, fino all'altopiano brullo, desolato, che si stagliava osceno contro il cielo, spudorato, come tuffandocisi, come a caderci dentro; l'audacia, la bellezza mozzavano il fiato – o forse fu soltanto la scalata.  Toccò la vetta assieme al primo sole.

 

A riceverlo trovò solamente la polvere e la luce, reali quanto quello che dà forma a un'illusione; coagulate in grani fluttuanti, quasi una fiamma immota; evanescenti sul seno dell'aurora.

 

"Benvenuto, giovane Immortale", disse la polvere, disse la luce, dissero insieme – facendosi fanciulla, polvere e luce ancora, vecchio, bambino, fiore, e cavaliere; parlando con la voce delle stelle. Per un attimo, Athanasios credé d'intravedere il proprio sorriso, sulla propria faccia, come se si stesse specchiando sul ciglio dell'acqua che s'increspa; poi fu il riflesso d'un raggio di sole; infine ebbe davanti una forma umana, adulta, femminea, un corpo ed un viso, niente di speciale.

 

"Siediti, ti stavo aspettando", lo invitò la donna – la luce, la polvere –, con un garbato gesto della mano. "Tutti i tuoi sensi si stanno svegliando, ma ci vuole tempo, occorre fatica, per venire al mondo: non è una cosa facile, il risveglio. Siediti, t'insegnerò ad intendere le stelle e l'universo che tutti abbiamo dentro – e che non può morire".

 

Athanasios sedette; lei gli sorrise: "Bene. Adesso chiudi gli occhi: così si vede meglio".

 

 

 

*

 

 

 

Santuario – Casa della Vergine Celeste, notte fra il 24 e il 25 ottobre 1986

 

 

 

Regnava, giù alla Sesta, un silenzio assordante, sepolcrale; l'aria era greve come in una tomba – o forse un mausoleo, ch'è grave anche del peso dell'assenza.

 

Aveva capito subito come sarebbe finita: con una conversazione lunga e complicata che avrebbe preferito non dover affrontare e che, in qualunque altro momento, con chiunque altro, avrebbe cercato di evitare – magari fuggendosene in Jamir, rintanandosi nella propria torre, sbarrando anche la porta che non c'era. Però sapeva pure che quella conversazione era ineluttabile, perché lo conosceva, e conosceva anche i suoi rituali, le piccole manie che avrebbe continuato a negare ciecamente, come ogni evidenza che non gli facesse piacere: nessuno era bravo quanto Shaka a non vedere; ma, se Virgo apre gli occhi, non c'è via di scampo, finché non t'ha svuotato, finché non ha ottenuto tutto quello che vuole ottenere.

 

Invitandosi – offrendosi –, s'era quasi illuso che si sarebbero leccati le ferite vicendevolmente, che si sarebbero fatti un poco compagnia, poggiati l'uno all'altro, trascinandosi fino alla mattina. Dopo, l'avrebbero fatto comunque. Probabilmente.

 

Virgo, però, per esser consolato, esige spiegazioni. E Mu, a Shaka, di spiegazioni, ne doveva troppe; ma, se potesse darne, era un'altra storia – certo non voleva.

 

Shaka aveva già chiesto, davanti a tutti, in mezzo alla battaglia; non avrebbe lasciato cadere la faccenda: Buddha impaziente, era un segugio, un cane da tartufo, quando si metteva qualche cosa in testa. Avrebbe chiesto ancora, se necessario più insistentemente: avrebbe chiesto, esatto le sue ragioni, avrebbe preteso che fossero buone; dovendo, gliele avrebbe estorte, strappandogliele coi sensi, una ad uno.

 

Mu non aveva l'animo per sostenere ancora un altro scontro; però, aveva sempre preso bene le misure, da mastro ferraio, con mano da artigiano: sapeva attendere e osservare.

 

Sospirò. Fra quei cuscini molli, damascati, di fronte al tavolo basso, nell'odore stantio d'incenso bruciato ormai da troppe ore, era davvero con le spalle al muro. Dunque, aveva aspettato di vedere che tè Shaka avrebbe servito: un Chai intenso, speziato, il tè della consolazione, un piccolo lusso, per dimenticare, per smettere – soltanto per un sorso – di pensare, perdendosi nel mare sfumato d'ogni fragile aroma, di ogni sapore effimero; o una miscela inglese, Occidentale, amara, netta, decisa, senza finezze né mezze misure, una domanda che non si può ignorare – il suo modo d'avere a che fare con l'esser preoccupato o l'essere triste.

 

Shaka rientrò, portando il vassoio: aveva gli occhi chiusi, stretti stretti; più stretta ancora la presa delle mani sul bordo del metallo, come se stesse trascinando il peso del mondo – come se il mondo fosse di cristallo e, al primo passo falso, potesse cadere. Mu si diede del folle, dello stolto, per aver avuto anche un solo dubbio, una vana speranza: in quelle due tazze, nel bricco, nella porcellana tonda e bianca della teiera grassa, non c'era proprio nulla d'Orientale.

 

Il suo tè, Shaka lo beveva amaro, come ogni altra cosa. Anche stavolta mancavano lo zucchero e il cucchiaio; Mu quasi sorrise della dimenticanza, ma forse, questa sera, era deliberata, una dichiarazione, forse d'intenti, forse di guerra – forse l'intento e la guerra, stanotte, erano la stessa cosa.

 

L'amaro calice sia, si disse rassegnato.

 

Shaka, tuttavia, non gli sedette di fronte, in un interrogatorio. Dispose invece i pezzi con cura, in ginocchio, assorto come se stesse recitando una preghiera; piano, come preparando la scacchiera per una partita che esitava a giocare: prima una stoffa spessa, pesante, intrecciata – a Mu piaceva immaginare che Shaka, nei nodi, vedesse i colori con le dita –, a ricoprire il legno; poi il bricco panciuto, bollente, col beccuccio già bagnato, brillante d'una goccia di liquido irrequieto, che smaniava d'uscire; dunque le tazze sottili, delicate, posate sul piattino – ché senza, aveva sempre detto, erano incomplete. Gli porse la sua gentilmente, ancora vuota, come un assegno in bianco da firmare. Scivolò infine sui cuscini, facendoglisi accanto, venendogli vicino. Il tè fu servito con un goccio di latte, al fondo, per ciascuno.

 

Tacquero entrambi, immobili quasi, quasi senza respirare, forse per pochi secondi – niente, in quella stanza, segnava il tempo, se non di giorno l'incedere discreto e pigro d'una lama di sole –, forse per un pugno di minuti; parvero comunque essere ore. Shaka non apriva gli occhi; Mu non riusciva a smettere di guardare la piega accigliata fra le sue sopracciglia e l'increspatura dell'acqua dorata nella tazza che cullava tra entrambe le mani, senza sollevarla né portarla alla bocca. Nessuno osava bere; nessuno sapeva come incominciare.

 

Ogni apertura è sempre di cavallo o di pedone; ma la risposta segna il corso del gioco: la prima contromossa lascia intravedere il labirinto che, dopo, porterà a una conclusione.

 

"Perché non mi hai detto niente?".

 

Che avrei potuto dire?, avrebbe voluto rispondere Mu, se fosse stato un po' più ingenuo e non avesse saputo che in battaglia non si lasciano sguarniti mai la testa né il cuore, o che l'attacco è la difesa migliore – ed ogni colpo deve andare a segno e fare male. Non ebbe neppure bisogno di mentire: "Io sospettavo solo. E un simile sospetto è già empio abbastanza da rendere chiunque un traditore". Piccola concessione – un cucchiaino di misericordia –, si risparmiò di dirgli neanche di te mi potevo fidare; era un'omissione così lampante, che finanche Shaka la poteva vedere. Tanto valeva colpire ed affondare: "Ma tu, Virgo, che conosci gli animi e soppesi i cuori... Tu come hai potuto, per anni, non sapere?".

 

A Virgo, adesso, la tazza tremava tra le mani, leggermente – come si fosse scottato, senza bere, e stesse cercando di non lasciarla cadere, di trattenerla nonostante il dolore e un moto di stupore; come se, anche per un attimo soltanto, avesse dimenticato chi la stesse reggendo, o chi stesse soffrendo. E Mu si rese conto che, a un certo punto – Mu non sapeva quando –, aveva aperto gli occhi, appena appena, come se stesse sbirciando qualcosa che soltanto lui poteva vedere, nascosto tra la posa nel tè ormai freddo, insieme alle foglie precipitate al fondo. Poi lo sentì, un tocco leggero, pianissimo, tremante anche quello – come la tazza, le mani, le labbra, le ciglia e forse il resto del mondo – contro il cosmo; un mormorio dell'anima che non aveva bisogno di parole; solo un'ammissione, un dubbio, un concetto: forse non volevo, forse non potevo volerlo, forse lo sapevo ed anch'io fingevo, forse...

 

Dopo una vita spesa nella certezza, nella convinzione della perfezione – la propria e quella dell'ordine del mondo – per oggi Shaka aveva visto e ammesso, perso troppo, troppo riconosciuto, confessato ed espiato, in un solo colpo. Mu, certo, covava da anni il proprio rancore, la propria perdita, con tutta l'amarezza del risentimento che appesantisce il cuore ed avvelena lo stomaco; ma Mu era anche pragmatico e suo amico, una costante – entrambi l'uno all'altro quanto di più simile avessero sempre avuto all'attaccamento. Gli rispose, dunque, di riflesso, allo stesso modo, lasciandogli sentire tutta la propria stanchezza, tutto il vuoto dentro che aveva preso il posto che fu della nostalgia, del sogno del ritorno: lo so; lo sai che capisco; la colpa non è solo tua; basta così, per adesso.

 

Spalla contro spalla, rimasero in silenzio, con gli occhi aperti ed esausti ad ascoltarsi respirare e scrutare la notte della veglia funebre, cercando di non pensare al come, al perché, al poi; né alle fosse che al mattino avrebbero dovuto scavare, o ai morti da seppellire.

 

Spartirono quel po' d'intimità tacita, discreta, di debolezza, fino a che la pietra della stanza non parve iniziare a impallidire e presto sarebbe stato tempo d'andare. Allora, con la voce, quasi strappandosi di gola le parole, Shaka gli disse così sottovoce, come se non volesse farsi sentire: "Mu, dopo il funerale, dovremo convocare un'Assemblea, per decidere il daffare, consultare i Maestri... Mu, il Buddha ha smesso di parlarmi".

 

"Gli ultimi giorni sono stati difficili per tutti, Shaka; per te più che per molti. Non lasciarti suggestionare". Il suggerimento fu accompagnato da un sorriso, rassicurante almeno nell'intento.

 

Ma Shaka si volse a lui, teso come una corda di violino, serissimo, gli occhi brillanti d'acciaio battuto a fuoco, d'ira e d'un poco di vergogna che volgeva a sé stesso: "Da prima che vestissi Virgo. Mu, il Buddha non mi parla da anni".

 

 

 

 

 

 

 

Nota dell'autrice:

 

No, non sono morta. No, questa storia non è abbandonata. Sì, ho deciso di spezzettare ulteriormente questo capitolo perché, allo stato in cui era il precedente file, superava le trentamila parole; il che, per una capitolazione strutturata in paragrafi non continuativi, secondo me ha poco senso. Dunque, aspettatevi più sezioni di "Ad occhi aperti", prima o poi. Ok, probabilmente più poi che prima, ché sono un po' fuori fase con Saint Seiya ed ho poca voglia di revisionare. Del resto, se siete ancora qui dopo anni, siete abbastanza temprati ai tempi biblici d'aggiornamento.

 

9 aprile 2023

Questa storia non è abbandonata ed io continuo ad essere assente ma non morta. Ho svecchiato e uniformato la veste grafica dei capitoli sin qui pubblicati; Ad Occhi Aperti III potrebbe non essere ad anni luce di distanza...

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