Aliens vs Boyka 3: Dead Or Alive

di Lucius Etruscus
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 1 ***
Capitolo 2: *** 2 ***
Capitolo 3: *** 3 ***
Capitolo 4: *** 4 ***
Capitolo 5: *** 5 ***
Capitolo 6: *** 6 ***
Capitolo 7: *** 7 ***
Capitolo 8: *** 8 ***
Capitolo 9: *** 9 ***
Capitolo 10: *** 10 ***
Capitolo 11: *** 11 ***
Capitolo 12: *** 12 ***
Capitolo 13: *** LE FONTI ***



Capitolo 1
*** 1 ***


Tre mesi prima

Quando il drone entrò volando nel campo visivo, Lucas capì che quella storia sarebbe finita male. Che quella storia sarebbe finita con una morte. Probabilmente la sua morte.

«Non è possibile: quello è un drone!» esclamò allibito Alex al suo fianco, sporgendosi dal sedile per guardare nel cielo che sovrastava la loro auto. «Non può essere... Cazzo, non può essere! Solo la Weyland-Yutani usa i droni da guardia. Magari questo è un drone illegale.»

«O più semplicemente hai fatto la tua ultima cazzata.» Lucas scalò una marcia a prese potenza: era il momento di correre. Correre sul serio.

Non era uno di quei piloti spavaldi che le famiglie della valle utilizzavano per i trasporti, non era uno di quelli che si vantano per i galloni di benzina rubati al porto e trasportati nascondendoli in serbatoi truccati, nascosti nelle auto. Lucas era un semplice meccanico che amava guidare vecchie macchine: le conosceva a menadito, pezzo per pezzo, quindi saperle guidare bene la considerava parte integrante del suo lavoro.

Quello non era un trasporto importante, avevano rubato metà di un bidone di benzina arrivato da poco al porto, su una nave appartenente ad una piccola società straniera poco nota. Roba di bassissimo profilo. Per questo erano in due sull’auto, mentre di solito i piloti professionisti giravano da soli per risparmiare peso: due tizi che viaggiano su un vecchio scassone non danno nell’occhio, è difficile che ci sia bisogno di sfuggire alla polizia portuale con un inseguimento, e anche se il carico è poco sono pur sempre galloni di benzina che la famiglia rivenderà al triplo del loro valore.

L’arrivo di un drone di controllo cambiava tutto. Voleva dire che c’era di mezzo la Weyland-Yutani, la più grande e potente azienda dell’universo conosciuto, la multinazionale che aveva accesso a qualsiasi apparecchio informatico e che quindi aveva spinto i trasportatori a viaggiare su vecchie macchine a bassissima (o assente) tecnologia. Nessun software poteva rintracciare l’auto di Lucas o bloccarla in remoto, ma lo stesso il pilota non poteva nulla contro un drone WY: l’unica alternativa era correre più veloce degli inseguitori e andarsi ad infilare in qualche anfratto dove il drone non avrebbe potuto seguirlo.

«Non ho fatto cazzate», si stava discolpando il suo compagno di viaggio. «Ho preso la benzina dove mi è stato detto, e da nessuna parte c’era la sigla WY, in quel dannato porto. Non è roba loro, perché ci inseguono?»

Inutile rispondere a domande senza risposta. Lucas aumentava la velocità facendo aumentare lentamente i giri del motore. Non era una delle auto truccate con i cui i trasportatori potevano raggiungere altissime velocità in pochi attimi, questa era solo una vecchia auto: tenuta bene e potenziata per quanto possibile, ma sempre una normalissima auto d’epoca, pensata per non destare alcun sospetto.

«Che fai, amico?» chiese disperato Alex rendendosi conto che la velocità aumentava. «Non puoi seminarli con questo cesso ambulante, dobbiamo fermarci. Quelli cercano i pezzi grossi, a noi daranno sì e no qualche settimana di lavori socialmente utili: è solo mezzo bidone di benzina, dannazione...»

Lucas non rispose, perché sapeva che le cose non sarebbero andate così, se c’era di mezzo un drone. Aspettò l’ultimo secondo prima di sterzare e cambiare strada, abbandonando la stradina di campagna che stavano percorrendo ed infilandosi in uno stretto passo di montagna. «Io non ci finisco nelle mani della Compagnia: sai cosa fanno a chi ruba la loro benzina?»

«Sono solo storie di paese», provò a convincerlo Alex, mentre cercava di tenersi sul sedile: la velocità dell’auto e le buche della strada gli stavano frullando gli organi interni.

«Hai visto che macchinoni usano di solito? Non potranno mai seguirci in mezzo alla boscaglia», rispose Lucas cercando di mantenere quella velocità, non elevata ma pur sempre impegnativa in una stradina che si snodava in un bosco. «Piuttosto controlla quel cazzo di drone: ci sta ancora seguendo?»

Alex abbassò il finestrino e si sporse cercando di non essere colpito da qualche ramo sporgente degli alberi che costeggiavano la stradina. «Io non vedo niente.»

Lucas annuì soddisfatto. «Magari non seguiva neanche noi e ci siamo agitati per niente.»

«Infatti!» esclamò entusiasta Alex tornando a sedere composto. «Con tutti i ladri professionisti che bazzicano il porto, ti pare che proprio... attento!»

Non c’era bisogno di urlare, Lucas aveva già visto il problema e aveva sterzato all’ultimo secondo: imboccando quella scorciatoia sarebbero arrivati molto prima al punto d’incontro, mettendo fine a quella brutta serata, ma un uomo si trovava proprio davanti all’imbocco del sentiero. Avendolo visto all’ultimo secondo, impossibilitato a frenare data la velocità dell’auto Lucas non aveva avuto altra possibilità che riprendere la strada e proseguire dritto in attesa dello svincolo successivo. L’alternativa era travolgere l’uomo o andare a sfracellarsi contro uno degli alberi lì vicino.

«Chi cazzo era quello?» gridava il pilota. «Che ci faceva in piena notte lì, fermo come un ebete?»

«Non ci credo... Non ci credo...» balbettava Alex, che cominciava a subire gli effetti del panico.

D’improvviso una luce potente invase l’abitacolo, rendendo impossibile guardare negli specchietti retrovisori: a Lucas non serviva certo farlo per capire che qualche veicolo era appena sbucato alle loro spalle, iniziando a rincorrerli. Dal rumore assordante sembrava un gruppo di moto fuori strada.

«Ora me lo devi dire, Alex», sibilò Lucas al compagno di viaggio. «Che cosa hai preso veramente al porto?»

Se il pilota avesse avuto tempo di voltarsi a fissare il passeggero avrebbe visto un uomo completamente in preda al panico, con il volto reso ancora più bianco dalle luci posteriori che inondavano l’auto. «Ho preso quello che mi hanno indicato, amico, come faccio sempre: non ho mai sgarrato, neanche una volta, devi credermi, cazzo», riuscì a dire Alex tra un balbettio e l’altro.

«E allora come te lo spieghi questo spiegamento di forze?»

Alex fissava la strada davanti a loro mentre l’auto acquistava velocità e sembrava che ogni ramo d’albero fosse diretto verso di loro, pronto a sfondare il parabrezza. «Devono aver rinforzato la guardia ai porti. Hai sentito quelle voci, no? Altre famiglie hanno perso un sacco di piloti, ammazzati in corsa: evidentemente la Compagnia si è assunta anche il controllo di vigilanza.»

Lucas non faceva che dosare l’accelerazione massima, non molta visto il modello d’auto, con il controllo della strada, sempre più difficile. «Non ci credo che la Weyland-Yutani si metta a controllare i piccoli porti di periferia: tutto questo dispiegamento di forze per mezzo bidone di benzina? Andiamo...»

Malgrado la velocità dell’auto le moto si fecero sempre più vicine, tanto che con la coda dell’occhio Lucas vide che una gli si era affiancata alla portiera dal lato guidatore. Distogliere lo sguardo dalla strada anche solo per una frazione di secondo poteva essere fatale, ma doveva capire. Doveva sapere chi è che gli stava dando la caccia.

Un semplice mezzo giro della testa fu più che sufficiente per capire il modello della moto: anche al buio avrebbe riconosciuto i super-tecnologici modelli WY. Non erano semplici moto fuoristrada: erano carri armati su due ruote.

Le fiction televisive filogovernative erano piene di avventure di poliziotti in moto che combattevano il crimine, usando le loro super-moto per spazzare via i “cattivi”. Lo slogan di una di queste trasmissioni era sicuramente esagerato ma non distante della verità: “Se sei abbastanza vicino da vedere questa moto... allora sei morto”.

Un mezzo giro del volante verso sinistra e Lucas mandò l’auto a cozzare contro la moto che gli si era affiancata. Per quanto blindata fosse la moto, rimaneva un veicolo su due ruote lanciato a gran velocità su una strada alberata. Malgrado la vecchia auto di Lucas avesse fatto solo sbandare la moto, questo bastò perché un ramo sporgente facesse il resto. La moto continuò a seguire l’auto per altri secondi, rotolando vorticosamente in aria mentre del suo guidatore non c’era più traccia, risucchiato nel buio della foresta.

«Perché l’hai fatto?» chiese con un filo di voce Alex, a metà fra il disperato e il rassegnato. «Hai colpito un agente della Compagnia... ora sì che siamo davvero fottuti...»

Lucas ripeté l’operazione con la moto che si era affiancata all’altra portiera, mandandola stavolta a schiantarsi contro un enorme albero. L’esplosione generata fu potente, tanto che le moto dietro ne furono rallentate. «Non hai capito? Siamo già fottuti. Si tratta solo di mandarne il più possibile all’inferno e di tentare il tutto per tutto.»

Finalmente un altro bivio, un’altra possibilità di addentrarsi nel folto del bosco così da rendere ancora più difficile inseguirli. Ora imboccare quella strada era la differenza tra la vita e la morte. «Stavolta no, amico.» Lucas non stava parlando ad Alex, ma all’uomo che stava in piedi davanti al bivio, immobile come il precedente: stavolta non ci sarebbe stata una manovra all’ultimo secondo, stavolta il pilota andò per la sua strada. Travolgendo l’uomo alla massima velocità.

Mentre Alex gridava con voce afona, ormai in preda al panico, il cervello del passante si spiaccicò sul parabrezza, inondandolo di sangue bianco. «Un androide!» gridò Lucas. «Che cazzo sta succedendo? Perché ci sono androidi ad ogni svincolo? Tu non senti una maledetta puzza di trappola?»

Alex non era più in sé, non poteva più essere un interlocutore e si limitava a farfugliare senza criterio ballando sul suo sedile, a causa degli scossoni dell’auto su una strada ancora meno sterrata della precedente.

Un fiume di rami cominciò a frustare il veicolo mentre questo si addentrava a massima velocità nel bosco, seguendo una strada a malapena riconoscibile di giorno, impossibile da vedere di notte. Lucas però conosceva quei luoghi come le sue tasche, era la sua zona, era nato lì, era cresciuto lì. A questo punto era anche facile che sarebbe morto lì. Ma non prima di aver bruciato l’ultima goccia di benzina nella sua auto.

Luci strane si alternavano nel campo visivo, possibile che il drone li avesse ritrovati? Forse aveva un sensore termico, ma a questo punto non aveva più importanza: un drone era solo una telecamera volante, per acciuffare Lucas qualcuno avrebbe dovuto fargli esplodere l’auto. E lì non c’era nessuno.

Un’esplosione a pochi passi dimostrò subito errata la supposizione del pilota.

«E ora chi spara?» chiese Lucas, sapendo però che ormai Alex non era in grado di rispondere.

Un rapido sguardo allo specchietto retrovisore mostrò una lucetta che li inseguiva a bassa quota, qualcosa che assomigliava ad un semplice drone... ma che era evidentemente in grado di sparare. Quasi a confermare questa ipotesi l’oggetto sparò altri due proiettili, che dopo una scia luminosa esplosero proprio a pochi centimetri dalle ruote dell’auto.

Lucas imprecò fra i denti, un altro paio di colpi e quell’affare volante avrebbe aggiustato il tiro, e per quanto stesse sfiorando il massimo della velocità consentita dall’auto, per quanto stesse già abbondantemente sfidando la sorte a correre in un bosco di notte, non poteva neanche pensare di superare in velocità un drone WY da combattimento. Anzi, era un dannato miracolo che quell’aggeggio non avesse già trasformato la sua auto in una bolla di fuoco.

Guardò la buia strada alberata sfrecciargli davanti e le luci del drone dietro di lui. C’era solo una via d’uscita: folle, sconsiderata e da suicidi, ma sempre meglio che l’imminente morte sicura.

Attese eterni attimi che l’ondeggiare del drone nell’aria si posizionasse dove lo voleva lui, poi Lucas alzò il piede dall’acceleratore... schiacciandolo con tutta la sua forza sul freno. Un lamento sibilante esplose dai pneumatici, che opposero strenua resistenza al terreno sabbioso, mentre l’auto perse immediatamente gran parte della sua velocità: era lontano dall’essere ferma, ma non serviva la completa immobilità... per fregare il drone.

Lanciato alla stessa velocità dell’auto, l’apparecchio in volo si era abbassato fino all’altezza del veicolo: un’occasione che Lucas non poteva lasciarsi sfuggire. Per quanto fosse elevata la tecnologia del drone, frenare più velocemente di un’auto non rientrava fra i suoi poteri, infatti l’apparecchio volante venne travolto dal veicolo frenante e vi entrò dentro come un coltello caldo in una forma di burro. L’acciaio potenziato WY rendeva il drone invincibile persino contro le granate degli RPG: la lamiera di una vecchia auto era come un soffice panno che si spostava al passaggio dell’oggetto volante.

Il rumore di lamiere distorte e di vetri infranti fu nulla... in confronto all’esplosione della testa di Alex. Nel suo passaggio il drone distrusse tutto, che fosse vivo o meno, travolgendo il sedile passeggero e portandosi via abbondanti pezzi del corpo del giovane, immobile nel suo panico. Lucas non rimase indifferente davanti al compagno di viaggio che ora era sparso in mille pezzi fumanti sul cofano e nell’abitacolo, ma ormai la morte era troppo vicina per stare a questionare su chi avrebbe agguantato per prima.

Attraversare l’auto e un corpo umano rese il drone incerto nel suo volo, anche perché il tempo che gli servì per frenare servì anche a Lucas per riprendere velocità e farsi inseguitore a sua volta del drone. Il pilota piombò addosso all’oggetto volante prima che si riequilibrasse e decidesse di voltarsi. Il drone si trovò così incastrato nel cofano dell’auto, impossibilitato a girarsi: le sue armi erano tutte sul davanti, nessun ingegnere aveva mai pensato che un giorno sarebbe stato utile sparare all’incontrario...

Lucas non aveva dubbi che fra un attimo il potente drone si sarebbe liberato dalle lamiere dell’auto, si sarebbe voltato e avrebbe fatto saltare anche la sua, di testa, così non perse tempo e raggiunto il massimo della velocità prese di mira il primo albero utile che trovò. Vi si diresse a tutta potenza, chiedendosi quante volte quella sera avrebbe dovuto rischiare la vita. Schiacciò il pedale del freno solo qualche attimo di secondo prima dell’urto, così che il drone non avesse possibilità di evitare la traiettoria che lo portò a scontrarsi pesantemente contro il fusto di un grande albero.

L’urto dell’auto fu potente ma Lucas riuscì ad ammortizzare il colpo: le cinture di sicurezza fecero il suo lavoro e poi non c’era più un parabrezza contro cui poter sbattere la testa. Questo non significò che non fu doloroso, il pilota provò fitte in più punti contemporaneamente ma almeno era vivo. Lo stesso non poteva dirsi del drone.

Un apparecchio blindato non si faceva certo mettere fuori combattimento da un albero, ma lo scontro fu violento e il drone giaceva a terra emettendo un’ampia gamma di suoni, facendo lampeggiare spie varie. Sicuramente era ancora in funzione, ma guasto abbastanza da permettere a Lucas di allontanarsi... se solo quella dannata auto si fosse rimessa in moto.

Aveva chiesto troppo a quel ferrovecchio, l’aveva portata troppo oltre il limite, e dopo quei due incidenti in rapida sequenza ormai il pilota era seduto in mezzo ad un ammasso di macerie che non assomigliavano più ad un’auto.

«Maledizione!» gridò Lucas, poi lo assalì un pensiero. Si tolse la cintura di sicurezza ed uscì velocemente dall’auto, gettando un rapido gesto verso la parte posteriore: un rivolo fuoriusciva dal portabagagli. Il serbatoio nascosto nell’auto era stato forato. Mezzo bidone di benzina d’un tratto diventava un elemento importante da tenere in considerazione, in un eventuale tentativo di mettere in moto l’auto.

«Maledizione!» continuò ad urlare Lucas, ma in realtà era sollevato. Ormai era tutto finito... ed era ancora vivo. Appiedato, certo, con davanti la poco attraente prospettiva di attraversare a piedi un’enorme zona boscosa prima di tornare nel suo territorio, ma almeno era vivo e per lo più intatto, a parte qualche acciacco dovuto alla brutta esperienza. No, non poteva proprio lamentarsi.

Pensava a questo quando notò sottili strisce leggermente luminose attraversare l’aria. Sembravano scie di pallottole esplosive, ma non erano dirette a lui. Il tempo di capire e si gettò a terra.

L’auto esplose sollevandosi fino quasi a raggiungere la cima dell’albero alla cui base giaceva ancora il drone. Solo i migliori meccanici della Weyland-Yutani avrebbero ormai potuto rimetterlo in funzione.

Quando la carcassa fumante dell’auto ricadde a formare quel mucchio di macerie che poi nessuno sarebbe venuto a portar via, e che sarebbero rimaste lì a formare una delle tante curiosità in cui si imbattono gli escursionisti che visitano il bosco, ormai il fuoco aveva già fatto il suo lavoro, inondando tutta la zona. Lucas compreso.

Il pilota cominciò a rotolare a terra, per spegnere le fiamme che gli avevano lambito i vestiti, ma quelli non erano un problema. Il dolore che sentiva esplodergli da ogni nervo del volto, quello sì che sembrava un dannato problema.

Non udiva più le proprie grida, lo shock gli stava ovattando i sensi, ma sapeva di star gridando. Gridando forte. Soprattutto quando sentì un intenso dolore aggiuntivo alla spalla. Non era fuoco, era come se qualcosa gli fosse penetrato addosso con forza. Probabilmente chi aveva fatto saltare l’auto ora stava arrivando a completare l’opera.

Quasi in sogno si portò una mano alla spalla, trovandosi incagliato addosso un oggetto strano... come quelle punture per anestetizzare grandi animali che si vedono in TV.

Con la mente incapace di elaborare ulteriori concetti, Lucas stabilì che aveva fatto quanto umanamente possibile per rimanere in vita, non aveva proprio nulla da rimproverarsi, così si lasciò andare al vuoto che lo stava prendendo.

Con gli ultimi brandelli di coscienza fece in tempo a vedere un’ombra che gli si avvicinava e poi si chinava su di lui. Un’ombra che ora vedeva bene essere una donna. Una donna armata di tutto punto e con sulle spalle quelli che non potevano essere altro che gradi militari.

«Bella corsa, amico», gli disse la donna, anche se a Lucas sembrò che la voce provenisse da chilometri di distanza. «Sto cercando un pilota come te: che ne dici di correre per la Casata Yutani al torneo DOA?» La donna gli strizzò l’occhio. «Be’, ne parliamo meglio al tuo risveglio.»

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Capitolo 2
*** 2 ***


Il buio avvolgeva tutto ma non era un problema: Dunja non aveva bisogno di vedere la propria pistola, le bastava sentire il suo peso tra le mani. Stringendola sapeva sempre dov’era e dove puntava.

Era solo una recluta quando Rykov le insegnò a sparare come un Colonial Marine. Il generale non era certo solito scendere tra la marmaglia ad elargire consigli o addirittura ad istruire soldati, ma Dunja proveniva dalla Casata Yutani, e questo cambiava tutto. Nessuno lo sapeva, solo Rykov era informato di quel particolare che, ai suoi occhi, rendeva quella ragazza smorfiosa e strafottente come un tesoro prezioso.

Come ogni donna, la recluta Dunja passava ogni istante della propria vita a dimostrare di essere brava quanto un uomo, se non di più, e questo la rendeva un pessimo soldato: in ogni prova non pensava al risultato, ma a raggiungerlo come l’avrebbe raggiunto un uomo. Fu Rykov a prenderla sotto la propria ala e ad insegnarle il grande segreto degli uomini: fregarsene. Poniti un obiettivo e va’ per la tua strada, le diceva il generale: chi non ti segue, peggio per lui.

Dunja voleva fare carriera nei Colonial Marines perché sentiva dentro di sé di essere una combattente. Questo però lo capì solo nel momento in cui Rykov le chiese quale fosse il suo obiettivo. Dentro di sé la donna sapeva benissimo che era entrata nell’esercito per fare uno sgarro alla sua Casata: una “nobile” finita a dividere gli spogliatoi con i rudi soldatacci, con quei Colonial Marines che avevano la fama di essere poco più che mercenari senza troppi scrupoli. Per orgoglio Dunja avrebbe portato fino in fondo quella che era a tutti gli effetti una ragazzata, una scelta sbagliata che non poteva finire bene. Poi però arrivò Rykov.

Nel buio Dunja si muoveva il meno possibile, tenendo gli occhi fissi davanti a sé: non aveva senso muoverli, visto che non vedeva nulla, ma tenendoli fissi poteva controllare più spazio grazie alla “coda dell’occhio”. E i ricordi andavano, volavano indietro nel tempo fino a trovarla eccellere nelle prove militari: non perché fosse una donna uguale o migliore degli uomini, ma perché Rykov aveva saputo tirarle fuori la vera grinta. Non l’orgoglio o la cocciutaggine, ma il talento.

Si rivide esercitarsi giorno e notte con la pistola d’ordinanza. I suoi commilitoni non avevano gradito che la donna fosse stata esentata da qualsiasi incombenza militare, che potesse esercitarsi senza sosta interrompendo gli allenamenti solo per i pasti: niente servizi di pulizia, per lei, niente lavori umili, ma neanche libera uscita. Rykov sin da subito voleva fare di lei la propria preferita, il proprio gioiello e la cosa non metteva certo in buona luce la donna agli occhi dei suoi commilitoni.

Dunja era lusingata e orgogliosa di questo interesse, e forse davvero non si rese mai conto che l’unico obiettivo del generale era tenersi stretto qualcuno con un debito di riconoscenza, qualcuno imparentato con una potente Casata. Era un assegno in bianco che Rykov si staccava da solo, anche se poi non era mai riuscito ad incassarlo.

Fissando il vuoto, Dunja ricordò il nero del sangue schizzato sulla visiera che nascondeva il volto di Rykov, ricordò la pressione che esercitò sul proprio coltello mentre la sua lama entrava nel collo del generale. Mentre teneva salda la propria pistola davanti a sé ricordò di come aveva ucciso l’unica figura paterna della sua vita, l’unico uomo che avesse creduto in lei fin dal principio. Ora sapeva che era un verme spregevole, che si era preso cura di lei solo per interesse, che non aveva esitato ad affibbiarle la responsabilità di un massacro compiuto da lui, ma tutto questo non contava. Era stato l’unico padre che aveva avuto... e gli aveva squarciato la gola. L’ultima volta che si era vista le dita sembrava avessero ancora un alone rosso.

Quando la figura di uno xenomorfo esplose fuori dal buio, quando il suo corpo piombò nel campo visivo sibilando e gridando, Dunja non esitò: era stato Rykov ad insegnarle come mantenere la concentrazione fisica anche quando la mente vagava, o cedeva. Mosse velocemente ma saldamente le mani che impugnavano la pistola e sparò due colpi in rapida sequenza, piazzando i proiettili entrambi su ciò che poteva definirsi “fronte” dell’alieno. Poi altri due colpi dritti al collo, mentre il mostro alzava la testa per la forza dell’impatto. Meglio andare sul sicuro.

L’essere crollò, ma il sibilo si continuava ad avvertire: ce n’era un altro. Dunja si voltò di 180 gradi inchinandosi leggermente. Se l’alieno avesse cercato di colpirla alla testa, avrebbe evitato il colpo: se invece mirava al corpo, inchinandosi la situazione sarebbe rimasta grave alla stessa maniera.

Due colpi in rapida sequenza al petto, per fermare l’avanzata del mostro, poi alzo del tiro e due colpi a formare sulla sua testa allungata due cavità oculari artificiali. L’essere si agitava ancora... ma il caricatore della pistola era ormai vuoto. Dunja roteò su se stessa e sferrò un calcio circolare alla testa del mostro: il danno provocato era pari a zero, ma lo xenomorfo rimase spaesato, continuando ad agitare coda e braccia per il dolore provocato dai proiettili. Era esattamente quell’attimo di indecisione che serviva a Dunja, per ricaricare e piazzare altri due proiettili nel collo dell’essere.

Stavolta occhi e orecchie mandarono una gran brutta notizia al cervello della soldatessa: due alieni stavano attaccando in coppia. Paradossalmente era un vantaggio, perché malgrado fossero due nemici... conosceva già la loro meta finale. Cioè lei.

Ne vide uno con la coda dell’occhio ed attese che con una spinta delle possenti zampe si scagliasse contro di lei: l’altro probabilmente stava facendo la stessa cosa fuori dal suo campo visivo. Un attimo prima che il mostro le fosse addosso, Dunja si lasciò cadere a corpo morto.

«E quello lo chiami “a corpo morto”?» Sentiva ancora nelle orecchie il generale Rykov che le gridava addosso: la giovane Dunja aveva scoperto che è tutt’altro che facile cadere in terra, malgrado ciò che si potrebbe pensare. «Non stai giocando con le tue amichette, marine: devi cadere come se un fottuto cecchino ti avesse appena spappolato quella cazzo di testa. Se ti accasci lentamente capirà che fai per finta, che non ti ha colpito veramente, e perderai l’effetto sorpresa.»

Dunja allora aveva mostrato tutto il suo carattere. «Andiamo, generale», sbottò stizzita, «è mai riuscita questa stronzata? Qualcuno lisciato da un cecchino si è mai lasciato cadere fingendosi morto e fregando chi ha sparato? Questa è roba da film...»

Il generale aveva estratto una pistola e le aveva sparato dritto in testa. Quando era rinvenuta, con un livido violaceo nel bel mezzo della fronte lasciato dal proiettile di gomma anti-sommossa, con un mal di testa di quelli da impazzire e con una rabbia mista a confusione, Dunja era stata trascinata dal generale davanti ad un monitor. Mentre ancora cercava di respirare in modo regolare, visto che il dolore alla fronte le mozzava il fiato, la donna vide un filmato dove c’era lei stessa... che cadeva a terra dopo che il generale le aveva sparato. «Ecco come devi cadere, marine. Come un cazzo di corpo morto.»

Dunja aggiunse quell’episodio al numero di eventi di cui vendicarsi con il generale, elenco lungo ma sbiadito, che infine si cancellò da solo. Malgrado le intenzioni fossero malvagie, Rykov l’aveva addestrata per sopravvivere, che è quanto di meglio si possa sperare da una figura paterna.

La donna cadde a terra in un lampo, come nel tempo aveva imparato a fare, proprio mentre i due alieni stavano per finirle addosso. Da sdraiata, non dovette far altro che puntare in alto la sua pistola e far fuori i restanti sei colpi della sua arma: testa, testa, collo del primo; testa, testa, collo del secondo. Due alieni a terra. Scatto di addominali, gambe in alto e Dunja rotolò all’indietro, ritrovandosi accovacciata: una manovra eseguita senza mani perché così aveva tempo di ricaricare. Puntò l’arma ma ai due mostri erano bastate quelle tre pallottole esplosive a testa.

Dunja rimase immobile ad aspettare, fissando il buio e controllando la respirazione: sotto attacco era facilissimo perdere fiato e ritrovarsi in carenza d’ossigeno. Ogni respiro doveva essere calibrato e controllato, e ad ogni pausa dal combattimento doveva buttare fuori il fiato: era inevitabile inspirare troppo durante uno scontro, quindi doveva buttare fuori l’aria in eccesso per non ritrovarsi senza fiato nello scontro successivo.

Respirazione, frequenza cardiaca, tutto doveva essere controllato perché tutto il corpo di un soldato contribuisce a tenerlo in vita. Questo le ripeteva Rykov ma la giovane recluta Dunja amava i muscoli e appena poteva scappava in palestra. Amava sedersi alle macchine dei pesi, sempre affollate di soldati a torso nudo a pomparsi i muscoli: si toglieva maglietta e reggiseno e si metteva a pompare i muscoli anche lei, deliziata degli sguardi furtivi degli altri commilitoni, che le ammiravano i seni sudati, non grandi ma sodi e ben fatti.

Amava l’eccitazione che si creava nell’aria e la sfida insita in quel gesto: ci provasse qualcuno ad allungare la mano o a tentare un approccio, l’avrebbe sistemato a dovere. E pompava i muscoli di braccia e gambe, passando poi ad ammirare nello specchio il suo petto nudo e sodo. Gli altri avevano capito il gioco e le stavano intorno ad ammirarsi i muscoli anche loro: era l’unico tipo di approccio che in quel momento Dunja accettava.

«È questo che vuoi?» le chiese un giorno il generale. «Farti le seghe allo specchio come una ragazzina? Non serve mica entrare nell’esercito per questo. I muscoli vanno bene per rimorchiare in spiaggia: tu devi pensare a cuore e polmoni. Frequenza cardiaca e respirazione ti salveranno la vita, non delle stupide braccia muscolose.» Dunja non fece in tempo a rispondere, perché d’un tratto non poteva più respirare.

Dopo averla legata ad una sedia, ora Rykov le stava tenendo la testa in una bacinella d’acqua. Dopo qualche secondo gliela sollevò e le gridò nelle orecchie: «Soffia sott’acqua, respira all’aria» E le ricacciò la testa nella bacinella. Dopo qualche altro secondo, le gridò «A cosa ti servono, ora, i muscoli sulle braccia?» E la immerse di nuovo. «Questo è solo un gioco, dolcezza», le disse una volta risollevata la testa. «Se ti volessi torturare ti terrei molto di più sott’acqua e non resisteresti, ma in fondo è solo un allenamento», e le rimise la testa a mollo, stavolta per più tempo.

Una volta svenuta, Rykov smise quella seduta di allenamento. La fece rinsavire con degli schiaffi e la fissò negli occhi. «Ora sei in libera uscita, ma domani, a questa stessa ora, ti ripresenterai qui e rifaremo questo allenamento. Sta a te decidere se passare il tuo tempo a pompare muscoli e mostrare le tette ai tuoi amici, oppure se esercitarti nella respirazione.» Dunja era sotto shock e non riusciva a rispondere, così andandosene Rykov ribadì: «Respira quando puoi, e butta fuori l’aria quando puoi. Sta a te stabilire quando prendere l’aria e quando darla via: non lasciare che i tuoi polmoni decidano per te. Perdi il ritmo o dimentica di gestirlo, e morirai.»

Senza una sola parola Dunja andò via e il giorno dopo si presentò all’allenamento, sedendosi con gesto di sfida davanti a Rykov. «Sono pronta», fu tutto ciò che disse. Il generale non la legò neppure, era chiaro che non ce n’era bisogno. Le immerse a testa nell’acqua più volte, senza una sola parola: la donna gorgogliò, gemette, vomitò e svenne. Ma era chiaro che aveva capito la tecnica, perché quando rinvenne non aveva alcun fiatone.

Nel buio Dunja aveva il pieno controllo di polmoni e cuore. Non doveva neanche pensarci: era ormai parte di lei e le veniva automatico. Quando un altro xenomorfo l’attaccò era più che pronta: era come se fosse il primo ad attaccarla. Schivò l’attacco ruotando il busto e piazzò due proiettili nella schiena dell’alieno, che si voltò di scatto facendo roteare la lunga coda affilata. Dunja si inchinò per evitare il colpo e dal basso piazzò due colpi sotto la testa dell’alieno, che cadde roteando per la spinta che la sua coda continuava a generare.

Ultimi quattro colpi. Apparve un alieno davanti a sé e tutto era perfetto: due colpi alla testa e due al collo e fine dei giochi. Anche perché l’essere stava fermo davanti a lei, scuotendo leggermente la lunga testa quasi a studiare la situazione. Dunja alzò le mani che impugnavano la pistola e mirò... ma rimase immobile. Perché quell’alieno non attaccava? Perché se ne rimaneva lì davanti a fare il bersaglio? E allora la donna capì...

«Devi sbagliare tutte le prove.» La voce di Rykov era così placida e tranquilla che Dunja pensò di aver frainteso, ma il generale fu ancora più specifico. «All’esame di domani dovrai comportarti come la classica donnicciola soldato: starnazzare in giro che vali quanto un uomo e poi sbagliare clamorosamente tutte le prove. Alla fine voglio vederti piangere e fare i capricci.»

Dunja lo fissava come in sogno: quell’ordine non poteva essere vero, tutta quella situazione non poteva essere che un brutto incubo. «Sono gli esami finali», disse quasi con un fil di voce. «Se non li passo dovrò abbandonare l’esercito.»

«E potrai entrare nel mio corpo scelto», disse il generale con un certo orgoglio. «Voglio solo il meglio per la mia squadra e tu sei il meglio di quest’anno di corso.»

«E allora?» gridò Dunja. «Perché devo perdere, se sono la migliore?»

Il generale la fissò con occhi duri. «Perché sei orgogliosa, e l’orgoglio uccide. Sei una soldatessa fenomenale, ma non posso permettere che tu metta a rischio la tua vita o quella dei tuoi commilitoni per orgoglio. Devi dimostrarmi che se serve sai inghiottire merda.»

«Io posso farlo!» gridò ancora la donna.

«Non me lo devi dire: me lo devi dimostrare. Voglio vederti umiliata davanti all’intera caserma, voglio che ridano tutti di te, della ragazzina che si credeva la preferita del generale invece all’atto pratico è solo una mocciosa piagnucolosa. Voglio che ti spezzi: solo allora saprò che sei forte. Perché vorrà dire che non ti spezzerai mai più.»

Dunja stava per dare di matto, e d’un tratto sentì le lacrime premergli negli occhi: era esattamente quello che non doveva fare. Stava per perdere tutto prima ancora di iniziare a giocare. Strinse i pugni e digrignò i denti fino a ricacciare indietro le lacrime. «Posso pensarci?»

Rykov si dimostrò deluso. «Certamente», disse seccato. «Domani puoi fare un esame impeccabile e prepararti a fare carriera fra i Colonial Marines. Ne hai la stoffa e sono più che sicuro che ci riuscirai. Anche se questo mi deluderà e mi farà pentire del tempo perso con te.» La fissò qualche secondo con uno sguardo durissimo. «Alla tua prima battaglia vorrai dimostrare quanto vali, quanto una donna sa essere brava come un uomo, e ti farai uccidere, o peggio farai uccidere chi ti è vicino.» Si alzò e se ne andò senza più guardarla. Dunja non lo vide più quel giorno, né lo rivide l’indomani, durante gli esami finali.

Rivide Rykov due giorni dopo, al suo quartier generale. Non erano più alla base militare e ora Rykov era il re assoluto. Per questo aveva ancora più valore il sorriso e l’affetto con cui accolse la donna. «Ho visto il filmato», disse. «Sei stata odiosa e imbarazzante, la classica recluta piagnucolona che sbaglia tutto e dà la colpa al sessismo dell’esercito. Dal filmato non si vede, ma si dice che ti abbiano visto pisciarti addosso.»

Il generale gongolava mentre Dunja lo fissava serissima. «Esagerano», disse con voce secca, «ma lo spirito era quello: mi sono resa ridicola oltre ogni sopportazione. Ho ricoperto di vergogna me stessa e la mia casata... e l’ho fatto per lei, generale.» I due si fissarono a lungo.

Rykov, con un sorriso estasiato, si alzò, girò intorno alla scrivania ed offrì una mano alla donna. «Benvenuta tra i migliori, Dunja: sei la soldatessa che cercavo. Sarà un onore averti a bordo.»

Tutto questo passò davanti agli occhi di Dunja, mentre l’alieno rimaneva immobile. Era ovvio che stava facendo da elemento di distrazione, era ovvio che uno xenomorfo silenzioso stava per attaccare Dunja alle spalle mentre lei mirava a quello fermo davanti alla sua pistola. Era tutto ovvio... ma lo stesso la donna sparò all’alieno fermo. Mentre quello cadeva, lo xenomorfo alle sue spalle la avvinghiò, stringendo con tutta la forza.

Una luce rossa iniziò a lampeggiare mentre un allarme insopportabile riempì la stanza di rumore. Le luci si accesero e gli xenomorfi scomparvero, lasciando spazio a dei soldati raggruppati in circolo.

«Peccato!» esclamò uno di loro. «Ti hanno fregato proprio alla fine.»

«Complimenti», disse invece un altro. «Non male quel trucco di buttarsi per terra.»

Dunja sorrise blandamente e si mostrò quasi vergognosa. «Che rabbia, non avevo proprio capito che quell’alieno stava facendo da esca.» Dei soldati si avvicinarono e le diedero pacche sulle spalle, consolandola e facendole complimenti.

Teoricamente stavano tutti dalla stessa parte. Teoricamente Dunja stava tornando a casa, in seno alla famiglia Yutani che aveva abbandonato tanti anni prima. Se fosse stata ancora la giovane recluta d’un tempo avrebbe fatto di tutto per dimostrare il proprio valore, per dimostrare a quei soldati – che poi avrebbero riferito alla Casata Yutani – che era una bravissima combattente, che non si lasciava certo fregare da una semplice esca in un gioco di “caccia all’alieno” in realtà virtuale, con una pistola-giocattolo settata per sparare a xenomorfi digitalizzati. Ma Dunja non era più quella giovane recluta: Rykov l’aveva spezzata.

Sbagliare volutamente tutte le prove davanti ai propri commilitoni, battere i piedi e piangere di fronte agli uomini che aveva stuzzicato mostrandosi a seno nudo era stato assurdamente difficile. Era stato doloroso, a pelle. Si era umiliata completamente, perdendo di vista tutti quelli con cui aveva condiviso un durissimo anno di corso. Ogni tanto le era venuto in mente che quelli avrebbero raccontato in giro la storia della ragazzina piagnucolosa che si credeva la preferita del generale, ma che invece alla prima prova si pisciava addosso: il dolore che provava durò a lungo, finché non si rese conto che dopo era diventata un soldato migliore. Rykov l’aveva spezzata ed ora... non aveva più nulla da dimostrare: aveva passato la più dura delle prove ed era rimasta in piedi, quindi ora sapeva quanto valeva. Che lo sapessero anche gli altri non aveva più alcuna importanza.

I soldati della Yutani con cui stava passando il tempo, mentre l’astronave li riportava a casa, non erano suoi amici, non li conosceva né li voleva conoscere. Stava andando verso l’ignoto, verso una nuova casa che poteva anche rifiutarla. Che poteva anche essere una trappola.

Se avesse superato brillantemente quel “gioco virtuale” con gli alieni, avrebbe svelato troppe carte del suo mazzo: molto meglio se si fosse mostrata una soldatessa mediocre, così da non risultare un pericolo per nessuno. Qualcuno le aveva detto che un combattente forte deve sempre mostrarsi debole, per far abbassare la guardia all’avversario.

Lei sapeva che poteva superare quel gioco virtuale, lei sapeva quanto valeva come soldato, quindi non le pesò minimamente fare volutamente una brutta figura davanti ad estranei. Rykov l’aveva spezzata proprio per quello: per non essere più spezzata.

«Magari Eve le darà qualche lezione privata», ghignarono due soldati fra loro, mentre tutti cominciavano a lasciare la sala: ormai era passato il momento della curiosità nei confronti di una soldatessa di sangue nobile che sa sparare agli xenomorfi.

«Chi è Eve?» chiese Dunja ai due marine.

I due risero. «Si vede che sei stata lontana tanto tempo: Eve è la Lazarus della Casata Yutani.» Davanti all’espressione interrogativa della donna uno dei marine cercò di essere più chiaro. «Tutte le casate hanno un capo della sicurezza di altissimo livello chiamato Lazarus, un soldato super-potenziato che ha come compito principale la protezione della Famiglia. Visto che a quanto pare tu hai sangue Yutani nelle vene, ora Eve dovrà occuparsi anche di te.»

Dunja scosse la testa, per nulla convinta. «Eve, eh?»

«Sì, ma è un diminutivo», precisò l’altro soldato. «Il nome completo è Forever.»

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Capitolo 3
*** 3 ***


Tre mesi prima

«Forever? Che razza di nome è?»

Lucas era ancora in convalescenza, le ustioni causate dall’esplosione della sua auto non erano gravi ma necessitavano comunque di cure particolari. Cure costose. In altre circostanze sarebbe rimasto sfregiato a vita, quand’anche fosse sopravvissuto all’esplosione, ma la donna misteriosa che l’aveva “salvato” lo aveva poi affidato ai medici di alto profilo che lavoravano per la Yutani, i quali l’avevano curato e gli avevano ricreato la parte ustionata del volto.

«Per questo mi faccio chiamare Eve», rispose la donna. «Così non devo rispondere a stupide domande come la tua.»

La donna si era presentata in tenuta da combattimento, armata fino ai denti, e quando gli si era seduta al fianco del letto Lucas non sapeva cosa pensare: chi è che si presenta in un ospedale con un fucile a tracolla e due pistole ai fianchi? E quelle erano solo le armi che si vedevano...

«Perché mi hai salvato?» chiese l’uomo. Aveva il corpo pieno di tubi che entravano ed uscivano ma in fondo non stava male. Probabilmente gli stavano dando qualche tranquillante.

«Ecco, questa è una domanda a cui mi piace rispondere», rispose lei strizzandogli l’occhio. «Ti ho salvato perché mi serve un pilota, uno bravo. E tu mi sei sembrato bravo.»

Lucas la fissava allibito. «C’è stata un’epidemia e sono morti tutti quelli infinitamente più bravi di me?»

La donna rise. «Noto che ti esprimi solo a domande, ma per fortuna non mi servi per la tua arte retorica.» Cambiò posizione sulla sedia, avvicinandosi all’interlocutore. «Ora te la faccio io una domanda: sai cos’è il DOA?»

Lucas annuì leggermente, per quanto gli fosse concesso dalle bende che gli avvolgevano il volto. «Il Dead Or Alive, il torneo dove i ricconi si vanno a spaccare le corna. Lo guardo sempre, in TV: è l’unico momento in cui i potenti vengono presi a calci.»

Eve rise. «Proprio quello. Immagino allora che avrai seguito il DOA Race, la parte in cui si gareggia in auto.» L’uomo annuì. «I piloti Yutani sono sempre stati i migliori, per questo le altre Casate si sono messe insieme e hanno convinto la Weyland a modificare le regole.» Alzò le dita a formare ideali virgolette in aria. «“Per una competizione più leale”. Come se essere più bravi fosse un segno di slealtà.»

«Avere le macchine più potenti e costose non vuol dire necessariamente essere più bravi.»

La donna non si aspettava quell’intervento sarcastico. Era una mancanza di rispetto nei confronti della Casata, ma invece di seccarla la divertì. «È proprio quello che vanno dicendo i nostri avversari, che non viaggiano certo su vecchi macinini: le gare del DOA Race sono disputate solo da automobili super-potenziate. O almeno era così fino a ieri, perché l’imminente prossima edizione si dovrà svolgere con le nuove regole. Da un circuito asfaltato si passerà ad una strada sterrata, e al posto delle auto potenziate ogni Casata dovrà mettere in campo...» Eve agitò un dito in aria, come se non le venisse la parola. «Non so come chiamavi quel cesso che guidavi: auto d’epoca?»

«Dovete gareggiare con auto normali?» chiese stupito Lucas, abbozzando un sorriso che però non era molto visibile sotto le bende. «Incredibile...»

«Esatto, è incredibile, eppure è così. Questo significa che tutti i piloti Yutani sono inutili: sono cresciuti guidando auto di altissimo livello, ogni anno più potenti e più veloci, con computer di bordo e la tecnologia sempre più sofisticata. Sono ingegneri di altissimo livello che non si limitano a progettare computer: li guidano. Proprio per questo però non saprebbero neanche entrare in quel catorcio che tu invece hai guidato così bene nel bosco.»

D’un tratto Lucas si irrigidì. «Era una prova?» bisbigliò.

Eve sbuffò. «Continui a parlare solo per domande, stai diventando seccante. Comunque sì, da mesi stiamo mettendo alla prova i contrabbandieri di tutte le zone portuali. Aspettiamo che compiano i loro piccoli furti e poi li inseguiamo, così da testare la loro bravura alla guida in situazioni di forte stress.» La donna incrociò le braccia al petto e guardò Lucas con uno sguardo seccato ma inequivocabilmente sorridente. «Sei l’unico che sia sopravvissuto. Non so spiegarmelo, ma l’evidenza è che sei un ottimo pilota di auto vecchie.»

«Tutti quei morti nelle famiglie della valle...»

«Almeno non hai fatto una domanda. Di nuovo sì, sono tutti morti perché li ho messi alla prova. Non c’è stato neanche bisogno di far uscire i motociclisti: appena hanno visto il drone in cielo molti sono andati a sbattere contro un albero. Tecnicamente sono tutti morti di incidenti stradali, perché non sono stati in grado di gestire lo stress e hanno cominciato a guidare malissimo.»

«Maledetta...»

Eve arricciò un labbro, divertita dall’offesa. «Hai finito i punti interrogativi?»

«Mi hai salvato per farmi correre al DOA? E ti regalo un altro punto interrogativo: come riuscirai a farmi passare per uno della Casata?»

«Che spreco di domande», sbuffò la donna. «Sai già che dovrai correre per la Yutani, e secondo te per la Casata sarebbe un problema spacciarti per un qualche cugino? Piuttosto parliamo di cose serie. Se ti metto a disposizione un garage, fondi illimitati e tutto quanto ti possa servire, ce la fai in un mese a creare un’auto non potenziata che però sia in grado di affrontare una gara? Scusa, ho sbagliato verbo: in grado di vincere una gara?»

Lucas la fissò a lungo. «Che succede se mi rifiuto?»

Eve fece cadere la testa all’indietro, sbuffando rumorosamente. «Che strazio, e pensare che mi eri simpatico, prima.» Tornò a guardarlo con aria annoiata. «Sai benissimo cosa ti succederà se ti rifiuti. Pensa all’ipotesi peggiore e moltiplica per dieci. Ora basta con le stupidaggini e rispondi alla mia domanda.»

«Sì.»

La risposta lapidaria rimase nell’aria e, visto che non arrivavano altre precisazioni, Eve riprese la parola. «Immagino che quel tuo singolo “sì” stia ad indicare che ce la puoi fare in un mese a costruire un’auto vecchia che sappia vincere. Quindi organizzerò tutto e appena l’ospedale ti dimetterà ti scorterò fino al tuo “regno”: il garage di cui sarai signore assoluto.» Lo guardò senza espressione e poi riprese. «Spero si capisca il sarcasmo della mia affermazione: è vero che avrai massima libertà sulle scelte inerenti la costruzione dell’auto, ma ovviamente sarai controllato a vista da qualche mia persona di fiducia.»

Lucas si limitava a fissare immobile la donna, la quale si era aspettata un dialogo più particolareggiato, mentre la discussione in merito sembrava finita. Avrebbe voluto parlare di marche d’auto, di pianificazione, di pezzi di ricambio, di scorte di benzina, ma si rendeva conto che in quel momento era tutto inutile. Doveva aspettare che l’uomo digerisse quelle novità, che accettasse il suo destino e la smettesse di ribellarsi. Eve poteva avvertire i pensieri che si ammassavano nella mente di Lucas in quel momento: tutti pensieri che sarebbero finiti con la morte di qualcuno. Non che questo fosse un problema, ma c’era il rischio che l’unico pilota buono trovato in mesi di ricerca alla fine si facesse ammazzare per stupide questioni di puntiglio. Forse Eve doveva cambiare strategia.

«Mi rendo conto che non ti ho parlato del dopo-gara», disse con il tono più amichevole di cui fosse capace. Non un grande risultato. «Visto che seguivi l’evento in TV conosci già gli onori e i privilegi che spettano al vincitore del DOA Race, ma visto che il tuo caso è particolare è prevista anche l’adozione da parte della Casata. Capisci? Diventerai uno Yutani, e questo significa che la tua vita cambierà completamente: non dovrai più preoccuparti di nulla, se non di auto e corse. Che se non sbaglio sono già la tua passione.»

«Grazie.»

La situazione era più drammatica del previsto. Eve fissò l’uomo negli occhi: era palese che aveva scelto una strategia di passività fasulla, in attesa della situazione giusta per ribellarsi. Era una dannata bomba ad orologeria.

Eve si alzò di scatto. Il peso del fallimento le era caduto addosso. «Tanta fatica per ritrovarmi tra le mani uno stronzetto piagnucoloso», sibilò fra i denti. Con un potente calcio fece volare via una delle apparecchiature accanto al letto che monitoravano lo stato di salute di Lucas. Un allarme scattò ma soprattutto la macchina volando strappò via dei cavi che erano piantati nel corpo dell’uomo, che iniziò a gridare dal dolore.

«Tutti questi mesi e ora devo ricominciare da zero», gridò Eve sopra la voce squillante di Lucas. Estrasse una pistola e la caricò lentamente, per farla vedere all’uomo. «Sapessi quanto ti ho lodato con la Casata, mostrando il video della tua corsa nel bosco. Ecco il nuovo campione, ho detto, questo si berrà qualsiasi autista-ingegnere. Che spreco...» Si sporse sul letto e con un ginocchio immobilizzò il corpo mentre posava la pistola sulla fronte.

«Ho detto che lo faccio! Corro per voi!» cominciò a gridare Lucas.

«No, stai facendo lo stronzo», gridò più forte Eve. «Stai solo aspettando l’occasione giusta per fuggire: ti farai ammazzare come un coglione ma non è certo questo il problema. Non posso permettermi di perdere del tempo con te, se devo cercare un altro pilota: ti ammazzo subito così ci evitiamo altri problemi.»

«Lo faccio, per Dio: lo faccio!» continuò a gridare Lucas mentre con il collo cercava di liberarsi la testa dalla pressione della pistola.

«Non lo devi fare per Dio: lo devi fare per te! Non mi hai chiesto niente per te, non mi hai chiesto una ricompensa, un premio, una cazzo di medaglia: voglio sapere cos’è che ti convincerebbe a correre sul serio per la Yutani, perché sono disposto a dartelo. Vuoi soldi, donne, uomini? Vuoi sgozzare vergini o inchiappettarti ragazzini? Tu chiedi e io te lo faccio avere. Ma no, tu sei troppo orgoglioso, tieni il broncio e aspetti la prima occasione per...»

«Voglio il tuo culo!» gridò Lucas.

Eve lo fissò, meravigliata e allibita. «Vuoi... cosa

Lucas ansimava sempre più forte. «Voglio ammazzarti, voglio vedere il tuo maledetto culo spiaccicarsi fra le lamiere di un’auto. Voglio vedere un parabrezza che ti sega in due mentre la marmitta ti si infila su per il culo. Ecco cosa voglio: puoi darmi questo

La donna lo fissò a lungo, poi improvvisamente rinfoderò la pistola e scese dal letto. Si sedette di nuovo e fissò l’uomo per qualche secondo, prima di allargare le labbra in un sorriso. «Sì, posso dartelo. Perché non l’hai detto prima?»

Lucas era ancora in preda al dolore e non riusciva a capire se la donna stesse scherzando.

«Tu costruisci la tua auto in un mese», disse con pacatezza Eve, «mentre io ne faccio costruire una agli ingegneri della Casata, seguendo le stesse idee a cui penseranno anche i concorrenti. Poi ti sfido ad una gara con me. Io ho lo stesso allenamento dei piloti Yutani: se batti me allora sarai in grado di vincere il DOA Race.» Lo fissò, sorridendo. «E durante la gara puoi cercare di farmi il culo quanto vuoi, avrai carta bianca: gli altri concorrenti non giocheranno certo in modo leale, quindi più trucchi userai per farmi fuori meglio sarà. Se riesci ad ammazzarmi non sarai passibile legalmente. Lascerò tutti i documenti del caso, e se ti farà piacere specificherò che avrai diritto ad avere il mio culo impagliato sul caminetto. Contento?»

«Non puoi parlare sul serio...» riuscì a balbettare Lucas, scosso dai dolori e con il sangue che fuoriusciva dalle ferite lasciate dai tubi strappati.

Eve si alzò, perché finalmente erano arrivati gli infermieri che avrebbero dovuto sistemare il disastro che aveva provocato. «Tu pensa a guarire. Nei prossimi giorni ti porto i documenti da firmare.» Si diresse verso l’uscita, ma prima di sparire lanciò un altro sorriso al pilota. «Sarà un piacere vedere come proverai ad ammazzarmi...»

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Capitolo 4
*** 4 ***


Eloise guardava in continuazione Boyka, inquieta.

Aveva vissuto tutta la sua vita in una gabbia, esattamente come il lottatore, ed ora si ritrovava a viaggiare nello spazio insieme ad altri uomini. Una cosa era sapere cosa significasse tutto questo, un’altra era capirlo. Capirlo dentro.

Eloise non era come gli altri, e lo sapeva. Sapeva di essere il frutto dell’esperimento di una mente folle, sapeva che era nata in laboratorio e che non era umana, malgrado lo sembrasse in apparenza, così come sapeva che l’unico scopo per cui era stata creata era vivere fra gli essere umani, per motivi che non le erano ben chiari. Tutto questo era un’informazione che la donna aveva sempre avuto in sé, ma l’unica vera esperienza con un essere umano era stata con il suo “creatore”, un padre crudele e torturatore. E poi era arrivato Boyka, che l’aveva liberata.

Eloise continuava a fissare l’uomo: prima o poi mi farà un cenno e saprò che è il segnale, si ripeteva fra sé. Il segnale di cominciare ad ammazzare tutti.

Alla ginoide non piaceva il contatto con troppi esseri umani, e non la si poteva accusare di “razzismo”: non ne aveva mai incontrati così tanti quindi ignorava che le avrebbero generato qualcosa che poteva forse essere definita “nausea”. Non sapeva dare un nome a quel sentore vago che provava, ma di sicuro non era piacevole. I soldati che li stavano scortando erano sgradevoli, erano rumorosi, gesticolavano in modo che non riusciva a comprendere e ciò che dicevano era ancor più incomprensibile. Le erano state insegnate le principali lingue umane, visto che avrebbe dovuto passare per umana anch’essa, ma quel chiacchiericcio sguaiato e fastidioso non le riusciva comprensibile. Sapeva solo che ad ogni strana frase di un soldato tutti gli altri esplodevano in risate sguaiate. Forse era qualche dialetto da caserma che lei ignorava.

Boyka sedeva placidamente e fissava il vuoto oltre l’oblò della nave. Se ci fossero state stelle o pianeti si sarebbe potuto dire che quel rude galeotto, cresciuto fra le sole quattro mura della sua prigione, stesse ammirando la potenza dei corpi celesti... ma in realtà la nave stava attraversando uno spicchio particolarmente vuoto d’universo. Non c’era nulla da vedere né il lottatore ne sentiva particolarmente il bisogno.

«Mi dici cosa guardi tutto il tempo?» aveva chiesto Eloise la prima volta che Boyka le aveva fatto cenno di sedere con lui su una delle poltroncine della sala comune, posizionata proprio davanti ad uno degli oblò dell’astronave.

L’uomo le aveva risposto a bassa voce, senza voltarsi. «Guardo l’unica cosa degna di nota di questa astronave: il vuoto al di fuori di essa.»

Eloise non aveva capito ma aveva deciso di non fare altre domande. Avrebbe voluto chiedere perché da quando erano saliti a bordo non si erano allenati una sola volta, avrebbe voluto chiedere perché da quando erano arrivati i soldati Boyka sembrava aver smesso di essere il suo maestro di combattimento, e le domande si sovrapponevano le une alle altre, tanto che la ginoide malediceva una volta di più il suo creatore: perché le aveva dato quelle facoltà intellettive? Perché le continuavano a venire in mente domande a cui nessuno sembrava intenzionato a dare risposta? Forse erano state più fortunate le sue sorelle, nate come gusci vuoti con l’unico obiettivo di essere macchine di morte al servizio del loro padrone.

No, era ingiusta. Disprezzava quelle che non considerava più sorelle bensì schiave. Adorava essere superiore a loro, così come aveva trovato deliziosa la sensazione di potere quando stringeva loro il collo fino a farle accasciare: morivano come insetti e solo questo erano. Lei invece era di più. Non sapeva perché, ma sapeva di esserlo.

Purtroppo era difficile mantenere alta la propria considerazione indossando una divisa militare fuori misura e molto rovinata. Per fortuna condivideva quella situazione con Boyka. «Non farci caso», le aveva detto lui il primo giorno, quando la ginoide gli aveva chiesto se era quello il modo di vestire del suo popolo. «Anch’io non amo girare con questi stracci, ma è solo provvisorio. Presto potrai scegliere qualcosa che ti piaccia di più.»

Eloise l’aveva fissato con sguardo serio. Era inutile cercare di spiegarsi, non ci sarebbe riuscita, così tacque. Come avrebbe potuto spiegare all’uomo che perché qualcosa piaccia bisogna possedere del gusto... se non riusciva neanche a spiegarlo a se stessa? Sapeva solamente che non aveva idea di cosa volesse dire “ti piaccia di più” e decise di aspettare che le venisse spiegato spontaneamente.

Quando iniziarono a rimanere seduti senza far niente qualche soldato si avvicinò e disse cose incomprensibili, ma dalla faccia era chiaro che non era una persona gentile. «Perché ti fai parlare così da questo insetto?» chiese a Boyka quando il soldato si fu allontanato, deluso di non aver ottenuto quello che evidentemente cercava.

«Perché è appunto un insetto», rispose Boyka senza guardarla. «Se lo schiaccio poi mi sporco le mani, e non mi va.»

~

I giorni passavano ed Eloise trovava sempre più difficile arginare le domande che costantemente le affollavano la mente. Quando sarebbero arrivati a destinazione? Quale sarebbe stato il suo destino? Poteva rimanere con il suo maestro Boyka? Ma Boyka era ancora il suo maestro? Non le aveva insegnato nulla né fatta allenare: aveva rinunciato a lei? In questo caso, perché non glielo diceva direttamente, invece di continuare guardare fuori?

«Che ne dite di un’ultima partita, prima di atterrare domani?» Quelle parole pronunciate da un uomo in divisa le aveva capite, Eloise, quindi i soldati sapevano parlare in modo comprensibile, quando non emettevano quei suoni sgradevoli che li facevano tanto ridere.

Mentre i marine, dopo aver esultato e gridato, si organizzarono per fare qualcosa che evidentemente per loro era molto appassionante, Eloise bisbigliò a Boyka. «Siamo quasi arrivati, allora.» Non voleva porre una domanda, così si limitò a quella semplice constatazione.

L’uomo voltò il viso e la fissò, sorridendo. Con lentezza cambiò posizione sulla poltroncina facendole segno di imitarlo: era la prima comunicazione che passava tra i due, e la ginoide esultò dentro di sé.

Si sedettero in modo da guardare verso la sala, stavolta, come se volessero ammirare quegli strani movimenti che i soldati iniziarono a fare: una loro pratica oltremodo divertente, visto quanto ridevano e gridavano. «Vuoi insegnarmi questa usanza umana?» chiese Eloise.

Boyka scosse la testa sorridendo e la guardò. «Sono giochi stupidi ma se penseranno che li guardiamo non baderanno a noi.»

Altre domande a cui cercare risposta. «E invece di guardarli cosa faremo?» cedette la ginoide.

Boyka la fissò negli occhi in modo intenso. «Senza guardarli, dimmi quanti uomini sono.»

Eloise non capiva. Perché quando parlava con gli umani c’erano così tante cose che non capiva? «Sono dodici, ora.»

Boyka annuì soddisfatto. «Perché hai specificato ora

«Perché tre giorni fa c’erano due uomini che ora non ci sono, che hanno dato il cambio ad altri due nuovi. Quindi ai dodici in questa stanza andrebbero aggiunti almeno due fuori, da qualche parte.»

«Quante porte ci sono in questa sala?»

«Quattro: due ad accesso libero e due ad accesso limitato.»

«Cosa potrebbe esserci dietro quelle ad accesso limitato?»

«Roba limitata ai soldati: armi, munizioni, o qualcosa del genere.»

Boyka annuiva. «Come mai hai notato tutte queste cose?»

«Me l’hai detto tu di studiare sempre ciò che mi circonda, facendo finta di essere distratta», rispose immediatamente Eloise, sperando che quell’interrogatorio – la prima conversazione da tanto tempo – portasse a qualcosa.

«Sono fiero di te», disse Boyka sorridendo. Se Eloise fosse stata umana si sarebbe emozionata, ma il fatto di avere sangue rosso in corpo non voleva dire che fosse sangue umano. «Per questo ti propongo un gioco.»

La ginoide si voltò a guardare i soldati agitarsi, che si davano spintoni e correvano per la sala. «Devo unirmi a loro?»

Il lottatore scosse la testa. «No, sarebbe tempo perso. Sai cosa sta facendo Dunja?»

«Sta partecipando a simulazioni di scontri a fuoco contro xenomorfi, stando a quanto ci hanno comunicato.»

«Esatto, e voglio fare una cosa simile con te. Una simulazione.»

«Se vuoi combattere sono pronta, ma posso togliermi questa roba di dosso?»

Eloise si era alzata di scatto ed era pronta a strapparsi la divisa improvvisata di dosso, quando Boyka la afferrò per un braccio e la fece ricadere sulla poltroncina. «Non voglio che questi soldatini sappiano quanto sono bravo nel combattere.» Si fermò e guardò la donna. «Volevo dire, quanto siamo bravi. Perciò ti propongo una simulazione da fermi.»

Stavolta Eloise doveva proprio dirlo. «Non capisco.»

Boyka la fissò. «Guardami... e pensa a come neutralizzeresti quegli stupidi insetti umani.» La ginoide trasalì, mentre il lottatore continuò con voce decisa. «Usa le tecniche che ti ho insegnato per immaginare come, io e te insieme, potremmo prendere il controllo della sala prima che quei soldatini entrino nelle stanze chiuse a prendere le armi.» La ginoide non muoveva un muscolo facciale, ma il lottatore vedeva che aveva capito benissimo. «Pensa a come rendere inoffensivi quei soldati nel minor numero di mosse possibili, e quando hai finito di immaginarlo alza la mano. Io farò lo stesso. Sei pronta?»

Perché era tutto così strano da quando aveva incontrato quell’uomo? Perché era tutto così dannatamente fuori dalla sua comprensione? Eloise però sapeva che la vera domanda era l’unica che aveva risposta: voleva davvero passare il resto della sua inutile vita chiusa in una gabbia? La risposta era no. Non sapeva cosa fosse il rimpianto, ma sapeva che non ne provava ad aver ucciso le sue sorelle-schiave per guadagnarsi la libertà insieme al suo maestro. Sorrise leggermente ed annuì con il capo. «Sono pronta.»

I due si guardarono e rimasero immobili per qualche attimo, finché Boyka non sibilò: «Ora!»

~

I due scattarono in piedi e raggiunsero il centro della sala, dove i Colonial Marines stavano giocando a football: una versione modificata per sottostare agli spazi ristretti della nave.

Divisi, Boyka ed Eloise si avventarono velocemente verso gli uomini. Ce n’era uno che correva con la palla in mano: la ginoide lo trovò particolarmente stupido così, intercettandolo in corsa, fece scattare le sue potenti braccia e gli strappò la testa mentre il corpo del soldato continuò a correre per alcuni metri. Messa la testa sotto il braccio, come l’uomo si era messo la palla, Eloise continuò a correre prendendo a spallate alcuni soldati: la potenza dei suoi muscoli li mandò a terra, in modo da rendere più lenta la loro reazione.

Boyka correndo si lanciò in una capriola che finì a due piedi sulla schiena di un soldato, che volò in avanti verso altri suoi commilitoni mentre le sue vertebre avevano emesso un crack inquietante. Il lottatore afferrò con le mani le teste di due uomini vicino a lui e le fece scontrare fra di loro: il rumore di ossa rotte e di sangue schizzato gli disse che quei due non si sarebbero rialzati velocemente.

Mentre l’uomo che aveva subìto il colpo alla schiena si accasciava lentamente, gli altri commilitoni si fecero avanti: forti del numero pensavano di poter affrontare Boyka. Il lottatore colpì il primo con la punta della mano tesa al collo: le dita tese e durissime, frutto di anni di allenamento a colpire le pareti della cella e a riempirsi le mani di calli ossei, spezzarono la carotide dell’uomo come fosse burro. Prima che questi capì d’essere morto, Boyka gli si strinse addosso e lo usò come scudo contro i colpi degli altri.

Un soldato cercò di dargli un pugno ma era difficile colpire il lottatore che si nascondeva dietro un soldato. Il secondo pugno sarebbe stato migliore... se mai fosse arrivato a tirarlo. Quando aveva il braccio ancora sospeso in aria, il soldato fu colpito da Boyka sotto l’ascella: sembrava quasi un buffetto, ma il dolore lancinante che ne seguì rese impossibile all’uomo pensare lucidamente a tentare un altro colpo. Stesso destino toccò al compagno che cercò di colpire Boyka dall’altra parte con un calcio: il lottatore parò il colpo e rispose calciando la gamba dell’avversario, facendo pressione su un punto del muscolo che mandò fuori di testa il soldato, dal dolore che ne scaturì.

Contemporaneamente Eloise aveva lanciato la testa del soldato verso un suo commilitone, che l’aveva afferrata in automatico senza capire cosa fosse: non avrebbe avuto tempo di realizzare l’orrore che aveva stretto fra le mani, perché un potente pugno della ginoide schiacciò la testa recisa contro quella ancora attaccata al collo del soldato, fondendole in una massa sanguinolenta.

Un paio di soldati le saltarono sulle spalle ed Eloise non fece nulla per opporsi al loro peso: portò il busto in basso seguendo la loro spinta finché con le mani raso terra afferrò le caviglie dei due uomini. Esaurita la spinta, la ginoide si rialzò con tutta la forza che aveva, tirando in avanti le mani che stringevano le caviglie: i due soldati vennero trascinati indietro e prima di capire, di fare mente locale... non c’era più alcuna mente. Eloise li fece sbattere con la nuca a terra talmente forte che i due crani si frantumarono.

Voltandosi di scatto gettò i due cadaveri addosso ai due ultimi soldati, che ancora stavano in terra da quando li aveva spintonati. I loro tempi di reazione rallentati diedero tempo alla ginoide di raggiungere prima uno e poi l’altro. Al primo si limitò a spezzare il collo, misericordiosamente, mentre con il secondo si volle togliere una curiosità, aprendogli la bocca fino a sbirciare nel cervello. Il corpo umano non era adatto a questo tipo di “indagini”, tutto diventava subito una poltiglia sanguinante e tremolante...

Lasciato cadere il corpo, non rimaneva che attendere l'arrivo dei due soldati del cambio della guardia ma ormai il “gioco” poteva dirsi completo. Eloise alzò la mano... nel momento esatto in cui l’alzava Boyka.

~

I soldati gridavano perché uno di loro doveva aver fatto un punto, in quel loro strano gioco. Boyka ed Eloise non ci badarono.

«Tempismo perfetto», disse soddisfatto il lottatore, che non aveva distolto gli occhi da quelli della sua allieva.

«È la prima volta che combatto con la mente», disse la ginoide, seccandosi di aver aperto bocca. Per lei tutto era la prima volta, aveva detto una stupidaggine e detestava che il suo maestro la sentisse dire stupidaggini.

«Ti sei limitata a rendere innocui i soldati, evitando violenza inutile?» le chiese d’un tratto Boyka.

Le labbra di Eloise si incresparono in un sorriso. «Sono stata molto... umana

Boyka storse la bocca, imitando un’espressione seccata che in realtà non aveva. «Gli umani sono delle bestie.»

Il sorriso della ginoide si allargò ancora di più. «Lo so!»

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Capitolo 5
*** 5 ***


Un mese prima

«Sarebbe questa la macchina che vincerà il DOA Race?»

Il disprezzo nella voce di Eve era stemperato dalla sua espressione divertita, come se in fondo provasse un certo divertimento ad insultare il duro lavoro di Lucas. Non era stato facile costruire un’auto a tecnologia basica e con assenza totale di informatica, quasi una bestemmia nei confronti dei livelli di alta qualità raggiunti dalle industrie automobilistiche più prestigiose: i pezzi di ricambio erano ormai quasi introvabili o peggio ancora in mano a collezionisti poco disposti a cederli. Non erano certo problemi di Lucas, lui si limitava a chiedere i pezzi di cui aveva bisogno e gli assistenti che la Yutani gli aveva affiancato dovevano fare il resto: il pilota ipotizzava che per costruire un’auto così essenziale, semplice, che sul mercato valeva zero, fosse stata spesa una cifra vergognosa. I collezionisti cedono solo davanti ai soldi. Tanti soldi.

Lucas fermò la sua auto davanti ad Eve. Tornava dall’ennesimo attraversamento a velocità di crociera del percorso accidentato che gli era stato affidato come prova. Era inutile correre, preferiva procedere con calma e analizzare bene la strada: per correre ci sarebbe stato tempo.

Da un giorno all’altra si aspettava l’arrivo della donna, alla scadenza del tempo fissato, quindi non era sorpreso e soprattutto non voleva dare alla sua carceriera la soddisfazione di mostrarsi agitato dalla sua presenza: quello era il giorno decisivo e voleva gustarselo, non subirlo.

Uscendo lentamente dall’auto Lucas squadrò velocemente Eve, ma non la donna in sé: più che altro l’auto sul cui cofano lei era appoggiata. «Quella sarebbe la tua auto?»

Eve lo aveva fissato divertita per tutto il tempo. «Noto con piacere che continui ad esprimerti a domande. Non ci vediamo da più di un mese, sono venuta qui e, secondo il contratto che abbiamo firmato, sono pronta ad essere uccisa da te in corsa, o almeno a divertirmi nel vederti provare... e non mi dici neanche “ciao”?»

Lucas chiuse la portiera e si appoggiò al cofano imitando – o meglio scimmiottando – la posa della donna. «Ciao. Quella sarebbe la tua auto?»

Eve sorrise. «A quanto pare non ho speranze di superare la barriera linguistica che ci separa.» Batté con la mano sul cofano. «Questa schifezza è l’auto che gli ingegneri Yutani hanno studiato seguendo le nuove regole del DOA Race. È come se ad un ingegnere nucleare chiedessero di costruire un mouse: alla fine ci riesce, ma il risultato non è dei migliori. Gli ingegneri della Casata sono i migliori in circolazione, quindi se loro falliscono gli avversari faranno peggio, ma capisci che puntiamo molto su di te. Sulla carta jolly.»

Lucas si frugò lentamente in tasca ed estrasse un mozzicone di sigaretta. Se lo portò alle labbra ed iniziò a cercarsi in tasca dei fiammiferi. «Se puntate tanto su di me perché avete costruito un’auto vostra mentre io costruivo la mia?»

«In questo consisterà la gara di oggi: metteremo a confronto il meglio che sanno fare i nostri ingegneri con il meglio che sai fare tu, cioè la feccia. La mia tesi è che la tua auto, guidata da te, farà risultati migliori e sbaraglierà gli avversari. Perché scendere di livello lo possono fare tutti, ma non raggiungeranno gli stessi risultati di chi ci vive, al livello più basso... Ma stai fumando una dannata sigaretta vera

Con fare plateale Lucas aveva acceso la sigaretta con un fiammifero ed ora stava emettendo lentamente fumo dalla bocca. «Non sapevo quanti insulti avevi ancora da lanciarmi, così ho pensato di rilassarmi.»

«Sai che le sigarette elettroniche WY sono le migliori in circolazione? Almeno a quanto mi dicono, visto che non ho mai fumato.»

«Non lo sapevi che la feccia fuma sigarette vere? A noi, dei livelli bassi, non piace la tecnologia, né i chip che la Weyland-Yutani infila nelle sigarette per controllarne l’uso.»

Eve rise di gusto. «Un vero uomo dei boschi, non potevo incontrare di meglio. Magari credi anche alla leggenda dei chip impiantati sottopelle alla nascita.»

Lucas sbuffò altro fumo e fissò Eve. «Quindi mi stai dicendo che la Compagnia non inserisce chip nelle sigarette elettroniche per controllare i gusti dei fumatori? Non credo alle leggende, ma al marketing sì.»

Eve sostenne lo sguardo, finché non sbottò a ridere. «Non mi occupo di marketing, ma ora te la faccio io una domanda: dove accidenti hai trovato quella sigaretta? Le mie spie mi informano che hai vissuto come un monaco, questo mese, non hai chiesto nulla né cercato nulla: fumo, alcol, donne, uomini. Niente. Ho pensato davvero di aver trovato un santone dei boschi, ma ora stai fumando...»

Lucas sorrise. «Le tue spie hanno detto bene, non ho chiesto niente... a loro. Ma un garage è un porto di mare, soprattutto se per giorni e giorni arrivano pezzi di ricambio portati da appassionati e collezionisti. Non sai quante sostanze avrei potuto assumere, se avessi voluto: sei fortunata che mi concedo giusto una sigaretta. Anche se sarebbe stato meglio fumarla dopo...»

Eve sapeva che era un aggancio, ma non resistette. «Dopo cosa?»

«Dopo averti fatto il culo», rispose Lucas senza alcuna inflessione nella voce.

La risata della donna fu sincera. «Ti prego, dimmi che lo farai sul serio, perché scoprire che sei solo un pallone gonfiato sarebbe troppo doloroso per me.»

I due rimasero a guardarsi per qualche secondo. «Proprio perché non sono un pallone gonfiato voglio mettere in chiaro una cosa», disse Lucas. «Come hai detto, con molte più offese, sono un uomo semplice, a bassa tecnologia, nato e cresciuto in una zona rurale. Sono la feccia che cerchi, ne convengo, ma sono anche un uomo di parola: è l’unica merce che conta da dove vengo io.» Fissò la donna con sguardo serio. «Se dico che ti ucciderò in corsa... vuol dire che ti ucciderò in corsa.» E gettò via il mozzicone consumato di sigaretta, con fare teatrale.

Eve sostenne il suo sguardo serio, poi si alzò dalla macchina e gli si avvicinò lentamente. Quando i due volti furono a pochi centimetri di distanza, la bocca della donna si trasformò in un sorriso. «E quando io dico che sarà un piacere vederti provare... vuol dire che sarà un piacere vederti provare.»

~

Le due auto partirono sfrecciando, lasciando al loro posto solo una nuvola di polvere.

Aver spostato la competizione da un circuito asfaltato ad un percorso su strada sterrata voleva dire tener conto di molte più incognite, dalla scarsa aderenza delle gomme alla polvere che poteva impedire la visibilità. Saper calcolare queste incognite non voleva dire controllarle.

Alla fine del rettilineo che apriva il percorso le due auto erano ancora alla pari, anzi quella di Eve stava leggermente superando in velocità l’altra. «Non mi stai stupendo, uomo dei boschi», disse la donna.

Lucas la sentì nelle cuffie. Quella “tecnologia” non era accettata nella competizione ufficiale ma ora stavano giusto facendo una gara fra di loro, e la donna aveva insistito per rimanere in contatto con lui. «Ti sei fatta costruire un carro armato, è naturale che vai veloce», rispose il pilota mentre la sua auto rimaneva sempre più indietro. «Comunque il mio obiettivo non è quello di stupirti...» Arrivò la prima curva e l’ingombrante veicolo di Eve la prese larga, mentre la snella auto di Lucas la dominò senza problemi, superando l’avversaria. «È quello di farti il culo.»

Durante il nuovo rettilineo l’auto di Eve rimontò in velocità e si avvicinò sempre di più a quella di Lucas, fino a tamponarla. «Per ora sono io a contatto con il tuo culo», disse ridendo la donna. Lucas non rispose, si limitò a scartare sulla sinistra e a rallentare fino a ritrovarsi dietro Eve: con l’arrivo di un’altra curva e di un’altra manovra “lenta” della donna, il pilota la superò di nuovo sulla destra. Un gioco inutile, portato avanti solo per sbeffeggiare l’avversaria.

«Spero che non farai questa roba anche in gara», disse Eve, con voce palesemente seccata.

«Sì, se gli avversari saranno così stupidi da costruirsi macchine grosse e impacciate coma la tua.» Iniziava una serie di curve che l’auto di Lucas gestì alla perfezione, mantenendo una velocità costante.

«Gli ingegneri sono convinti che un circuito così accidentato abbia bisogno di un veicolo resistente, corazzato il più possibile», disse la donna.

Lucas ormai stava aumentando sensibilmente la distanza da Eve. «Le curve non hanno bisogno di corazza.»

D’un tratto un tonfo sul cofano spezzò il fiato dell’uomo.

Eve capì, anche a distanza. «Le curve no... ma loro sì!»

Un enorme xenomorfo nero era piombato sul cofano dell’auto di Lucas e, aggrappandosi con gli artigli ai lati, stava sibilando sul parabrezza. «Questo non era previsto!» cominciò a gridare il pilota.

«Dici di aver sempre seguito il DOA Race in TV, quindi sai benissimo che gli alieni sono parte integrante della corsa.»

«Questa non è la corsa vera, è una gara di velocità tra me e te.»

«Mai parlato di “gara di velocità”, uomo dei boschi: devo sapere se sarai in grado di gestire le situazioni sotto stress della corsa.»

Lucas cominciò a sterzare lentamente per far vibrare l’auto a destra e a sinistra senza perdere troppa velocità, ma l’alieno era troppo ben saldo sul cofano per lasciarsi sbalzare via. «Ammazzarti una volta sola sarà davvero poco», gridava il pilota nel microfono, mentre Eve rideva.

Nello specchietto retrovisore Lucas vide che l’auto della donna si stava avvicinando in corsa: aveva affrontato le curve in modo terribile, ma ora stava recuperando in fretta. E non aveva xenomorfi di cui doversi occupare.

Il pilota vide che Eve stava spostandosi a sinistra per cercare di superarlo, e visto che l’alieno non aveva alcuna intenzione di mollare la presa ed anzi stava preparandosi ad infrangere il parabrezza, decise di frenare. Schiacciando il pedale con ogni muscolo del suo corpo.

L’auto inchiodò tanto da trasformare gli pneumatici in nuvole di polvere e fumo, e la differenza di velocità fu tale che l’alieno fu sbalzato via dal cofano, rotolando sulla strada. La velocità e il vantaggio accumulati da Lucas erano irrimediabilmente persi, ma aveva calcolato il momento giusto per fermarsi... e la posizione giusta: era impossibile per Eve, che stava arrivando dietro di lui a tutta velocità, evitarlo. Lucas diede gas un secondo prima che l’auto dell’avversaria lo travolgesse da dietro, dandogli la spinta necessaria a riacquistare velocità e a travolgere lo xenomorfo con spinta sufficiente da sbalzarlo via senza provocargli fuoriuscite di sangue acido.

«Sei un dannato pazzo!» gridò Eve. «Con questo scherzo ti sei fatto sfondare mezza auto.»

«Non mi serve arrivare sano al traguardo, mi basta arrivarci.»

«Adesso hai capito perché sarebbe stata meglio un’auto corazzata? Ti sono venuta addosso a tutta velocità e non ho che qualche graffio. In gara gli avversari non saranno così gentili come me: faranno di tutto per massacrarti e farti volare fuori strada.»

Grazie ad una serie di curve, affrontate tutte in derapata, Lucas stava tornando ad acquisire vantaggio su Eve. «Immagino che tu non abbia riconosciuto l’auto che ho costruito, con i soldi della Yutani.»

La donna non si aspettava questa domanda, anche perché era intenta a non perdere troppa velocità nelle curve. «Evidentemente no.»

«È una Ford Mustang, ma magari a voi che vivete fuori dalle fogne non dice niente questa marca.»

«Al momento sono un po’ occupata a raggiungerti, ma se vuoi perdere tempo e concentrazione a parlare fallo pure...»

Ignorando il sarcasmo della donna, Lucas continuò. «È la prima auto ad aver vinto un DOA Race, anche se all’epoca il nome della competizione era diverso. Potete mettere in campo tutti i computer che volete, potete costruire carri armati resistenti a tutto, ma la vostra preziosa gara è nata sul puro talento a bassa tecnologia.»

All’improvviso sulla strada comparve un altro alieno, ma stavolta Lucas non si fece cogliere impreparato. Sterzata improvvisa, freno a mano e l’auto iniziò un rapido testacoda, un giro su se stessa di cui il pilota riprese il controllo una volta tornato dritto sulla strada. Nel frattempo, nel suo giro l’auto aveva colpito l’alieno con la parte posteriore, scalciando via il mostro grazie alla velocità acquisita. Velocità che ora Lucas doveva recuperare in breve tempo.

«Continui a fare giochetti ammazza-velocità», sentì la voce di Eve nelle cuffie. «Sei bravo, te lo concedo, ma questa roba non va bene per il DOA Race.»

Mentre parlava l’auto della donna iniziò a superare quella di Lucas, che aveva perso velocità per liberarsi dell’alieno. Il pilota aspettò che l’avversaria iniziasse il suo passaggio a sinistra e poi sterzò in quella direzione: la sua Ford Mustang non poteva certo fare danni al veicolo corazzato di Eve, ma a quella velocità bastava una piccola sbandata per mandarlo fuori strada. La donna si ritrovò d’un tratto fra gli sterpi che costeggiavano la strada mentre Lucas sfrecciava via riacquistando velocità.

«È così che cerchi di farmi fuori?»

«È così che mi assicuro di arrivare al traguardo prima di te.»

Eve rientrò in carreggiata e ricominciò la sua corsa, non esplosiva ma inesorabile. «Il fatto di essere davanti a me non mi basta, uomo dei boschi: non hai promesso di vincermi, hai promesso di uccidermi.»

«Fottuta squilibrata», bisbigliò il pilota, senza ricevere risposta.

Finché il percorso consisteva solo in curve non c’era problema, lo stesso per i tratti boschivi, ma ogni volta che con la coda dell’occhio Lucas vedeva un alieno – probabilmente fuoriuscito da gabbie sistemate durante il percorso – la situazione si faceva dannatamente seria. La sua auto probabilmente non era in grado di subire un attacco a piena forza di uno xenomorfo, le lamiere leggere si sarebbero contorte sotto gli artigli potenti dell’essere, ma non poteva ogni volta perdere tempo ad evitare gli attacchi. L’unica cosa che poteva fare in questo momento era correre più veloce dei mostri... e non era facile, in un percorso così accidentato.

Riuscì a sfuggire ad uno xenomorfo su rettilineo, sorpassandolo e sgommando fino a seminarlo, ma quando in una curva all’interno di un bosco se ne trovò davanti due... capì che doveva assolutamente inventarsi qualcosa.

Frenò di scatto prima che i mostri potessero raggiungerlo, perdendo non solo tutta la velocità ma iniziando a procedere in retromarcia. «Eh no, bello mio», gli disse Eve nelle orecchie. Arrivando a tutta velocità stavolta fece in tempo ad evitarlo e a superarlo a sinistra, proprio mentre Lucas ripartiva a tutto gas. Il risultato fu che il pilota si attaccò in scia all’auto di Eve mentre questa procedeva a tutta velocità fra gli xenomorfi: la sua corazza se ne fregava dei mostri e li investiva senza problemi, facendo giusto attenzione a non schiacciare il sangue acido con gli pneumatici.

«Davvero?» gridò la donna. «Vuoi usarmi come scudo contro gli alieni?» Un tonfo indicò un altro mostro che provò ad espugnare l’auto corazzata di Eve senza successo. «Sarebbe questa la tua strategia?»

Il traguardo era ormai vicino ed Eve era seccata. Lucas era ancora dietro di lei e probabilmente all’ultimo secondo l’avrebbe superata contando sulla maggiore velocità dell’auto, ma quella vittoria stentata non era ciò che cercava. Voleva qualcuno che la stupisse e il pilota non l’aveva fatto. Forse pretendeva troppo, in fondo era sopravvissuto fin lì e questo era già un risultato per nulla scontato.

Lucas si spostò dalla scia dell’auto di Eve e iniziò il sorpasso, fino ad affiancarsi alla donna. «Siamo partiti affiancati ed arriviamo affiancati, buffo no?»

La donna si voltò a fulminarlo con gli occhi. «Mi hai molto deluso: rimanere in vita non fa di te un campione.»

Lucas la guardò serio. «Per noi feccia “campione” è quello che taglia il traguardo, se per voi ricconi vuol dire altro avresti dovuto specificarlo.»

«Non hai ancora tagliato il traguardo, e soprattutto io sono ancora viva: finora quindi non hai combinato ancora niente.»

Lucas la fissava cercando di capire quella donna che continuava a sfuggirle: davvero era seccata perché non aveva provato ad ucciderla? Possibile la Yutani si affidasse ad una folle di quel genere? «Sai perché nelle corse clandestine nei bassifondi i partecipanti cercano di farsi sfondare subito qualche parte dell’auto?»

«Sento che stai per dirmelo», rispose sarcastica la donna, guardando la strada davanti a sé mentre il traguardo era sempre più vicino, con la sua bandiera sospesa tra due aste.

«Per avere subito qualcosa di appuntito e sporgente da poter usare contro gli avversari». Con una rapida sterzata contro l’auto di Eve, Lucas fece in modo di colpirla con il proprio posteriore distrutto, con le lamine piegate che fuoriuscivano. Lamine che colpirono una delle ruote posteriori dell’auto avversaria, dilaniandola.

Eve perse subito il controllo dell’auto, anche se riuscì a non farla sbandare, ma divenne più difficile contrastare la spinta che Lucas cominciò ad applicarle: premendo con la sua auto la stava mandando fuori strada... proprio contro il muro che delimitava la zona del traguardo.

L’auto di Eve era ormai chiaramente diretta contro la parete e la scelta di tempo di Lucas era stata perfetta: frenare non era più una soluzione efficace, visto che si trattava di frazioni di secondo. Un secondo prima e alla donna sarebbe stato sufficiente schiacciare il pedale del freno, invece ora era troppo tardi. Le rimaneva giusto il tempo di voltarsi verso Lucas e scoprire gli occhi di fuoco con cui la stava fissando. Nelle frazioni di secondo che le rimasero, Eve abbozzò un sorriso alla volta dell’uomo... prima che l’impatto contro la parete trasformasse la sua auto in una bolla di fuoco.

Lucas tagliò il traguardo a tutta velocità e iniziò a frenare facendo roteare l’auto su se stessa. Una volta fermo, scese e cominciò a correre verso il punto dove l’auto di Eve si era distrutta contro la parete, in un ammasso di lamiere e mattoni. Guardava la scena come sotto l’effetto di una droga: non poteva essere vera, non poteva esserci riuscito sul serio. Per quanto avesse aspettato l’ultimo secondo, per quanto l’avesse messa alle strette, quella donna non poteva essere andata incontro ad una morte annunciata con il sorriso sulle labbra.

Lucas si fermò quando il calore delle fiamme che avvolgevano l’auto dell’avversaria si fece insopportabile. Si trovava in mezzo al nulla, non sapeva chi chiamare, non sapeva come chiamare qualcuno: si limitava a rimanersene immobile a fissare le fiamme con la bocca aperta... spalancandola ancora di più quando vide qualcosa muoversi.

Le lamiere si scostarono mentre una forma scura, avvolta dalle fiamme, fuoriusciva dall’auto. Davanti allo sguardo allibito e gelato di Lucas, la donna si alzò dalle rovine infuocate della sua auto e gli si fece avanti. Con il corpo ancora ardente delle ustioni e i capelli ancora avvolti dalla fiamme.

Una voce profonda e rauca uscì da quel corpo.

«Chiedimi di nuovo perché mi chiamo Forever...»

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Capitolo 6
*** 6 ***


«Fatemi capire: questa Eve è un robot?»

Le manovre di attracco erano lunghe e noiose, e i Colonial Marines dovevano aspettare a lungo, seduti ai loro posti, con le cinture ben strette e quindi impossibilitati a fare baldoria come loro solito. Così per Dunja era stato semplice attaccare bottone con il soldato vicino a lei, chiedendo maggiori informazioni su questa Eve che avrebbe dovuto sicuramente incontrare da un momento all’altro.

«Non credo sia un robot», rispose svogliato il marine senza guardare la donna. Era chiaro che non aveva piacere a parlare con lei, ma era immobilizzato e quindi in qualche modo doveva pur passare il tempo. «So solo che non la puoi ammazzare, e se ci provi quella risorge e ti fa il culo a strisce. Per questo li chiamano Lazarus.»

«Può darsi che sia una cyborg?» tornò alla carica Dunja. «Cioè una donna umana però potenziata in modo da essere invincibile?»

Il soldato di fronte a Dunja sbottò in una risata sguagliata, e si rivolse ai suoi commilitoni. «Ve la ricordate su LV-438 quella battona potenziata?» Ne nacque un coro di grida e risate. «Quella sì che sapeva come sfruttare la migliore tecnologia cibernetica.»

«Quindi nessun Lazarus è mai morto?» continuò Dunja senza darsi per vinta. «Questo vuol dire che sono sempre gli stessi da... be’, da sempre!»

Il soldato accanto a lei scosse le spalle, infastidito. «Una volta un tizio mi ha raccontato di averne ucciso uno, ma era ubriaco perso...»

«E come l’avrebbe ucciso?»

«Col fiato!» gridò un soldato, e tutti risero rumorosamente.

«Se faccio un’ultima domanda, promettendo poi di cucirmi la bocca, mi rispondete onestamente?» chiese Dunja a tutti, guardando il gruppo di soldati. Alcuni la fissarono incuriositi, altri annuirono sorridendo. «State evitando di rispondere seriamente alle mie domande perché vi è stato ordinato di comportarvi così... o semplicemente perché siete dei cazzoni?»

Il silenzio cadde improvviso e ogni sorriso scomparve dalla facce dei soldati. Dunja appoggiò la testa alla parete a cui era fissato il suo sedile e chiuse gli occhi: aveva avuto la più eloquente delle risposte. Era stata a contatto con abbastanza militari nella sua vita per sapere che ad un’offesa del genere si rispondeva in modo acceso: nessun soldato avrebbe consentito a qualcuno, per lo più estraneo, di chiamarlo “cazzone”. Potevano offendersi, potevano prenderla in scherzo o reagire in vari altri modi... invece rimase solo un pesante silenzio, ad indicare che quelle risate erano solo un modo per distrarre l’attenzione.

Nessuno poteva rispondere alla domanda, visto che entrambe le ipotesi erano squalificanti. Era chiaro che a quei soldati era stato imposto di non parlare con la straniera, tanto che Dunja si convinse decisamente che non stava tornando a casa. Si stava andando ad infilare nella tana del leone.

~

«Perché la tua amica non ci ha degnato di uno sguardo da quando siamo saliti a bordo?»

Boyka ed Eloise sedevano affiancati, lontani dagli altri. I sedili erano tanti e nessuno aveva loro imposto una particolare disposizione, così era stato il lottatore stesso a scegliere i posti più lontani, senza che qualcuno glielo impedisse. Né Dunja aveva fatto loro alcun cenno di volerli vicini: semplicemente li aveva ignorati per tutto il viaggio.

«Dunja ha detto addio alla sua vita e ora, dopo tanti anni, vi sta tornando: bisogna capire che sta provando forti emozioni. È un ritorno a casa che ha il forte sapore del fallimento... Non è facile quello che sta facendo.»

«Fare finta che non ci conosce l’aiuta in questo?»

Boyka teneva gli occhi chiusi e si limitò a scuotere leggermente la testa, in segno di diniego. «Non saprei dirtelo, ma sono sicuro che c’è un motivo: inutile chiederselo, quando sarà il momento lo sapremo.»

Il silenzio che seguì fece capire all’uomo che Eloise non era rimasta convinta da questa risposta, che tante altre domande le affollavano la mente malgrado lei cercasse di frenarle. Così Boyka aprì gli occhi e si girò verso di lei, guardandola con un sorriso amaro, quasi dispiaciuto.

«Noi siamo armi, Eloise. Rimaniamo nel cassetto finché non arriva il momento di usarci.» Scosse le spalle. «Non so se tu avevi altri progetti, ma è questa la nostra realtà: quando non serviamo, è come se non esistessimo.»

La ginoide lo fissò negli occhi. «Io non so niente di tutto questo, a me va bene tutto, ma quello che mi chiedo è... a te va bene?»

Boyka tornò a chiudere gli occhi ed ad appoggiare la testa alla parete. «Non sono abituato a farmi queste domande. Ciò che io voglio non ha mai contato nulla, nella mia vita, tanto che non saprei neanche dirti ciò che voglio.»

Eloise rimase in silenzio, guardando gli altri umani. Non li capiva, e più cercava di farlo e meno ci riusciva. Gli xenomorfi erano più semplici, comprensibili. Quando aveva affrontato la Regina tutto era chiaro: ogni impulso che l’essere le mandava al cervello era perfettamente comprensibile. Invece ogni segnale emanato dagli umani era di difficile interpretazione.

Forse aveva sbagliato la razza con cui allearsi...

~

Quando l’astronave atterrò, in un sol lampo tutti i soldati si tolsero le cinture così da sentirsi di nuovo liberi. Nessuno rivolse più un solo sguardo a Dunja.

Bentornata a casa, si disse la donna fra sé, con una punta di amarezza.

Le procedure di sbarco furono più veloci e d’un tratto Dunja si ritrovò trascinata fuori: la freschezza dell’aria della sera la colpì sul viso. L’hangar era di una grandezza immane, rispetto alla loro nave che in fondo era una semplice scialuppa. Alcuni veicoli si avvicinarono rapidamente, mentre Dunja veniva trascinata giù per le scale: non era chiaro se i soldati la stessero guidando energicamente o se la stessero trascinando come una prigioniera. Forse non c’era tutta quella differenza.

In un attimo si ritrovò a terra mentre una grande automobile arrivava e si fermava davanti a lei. Con altrettanta velocità le portiere si aprirono e ne scese una donna sorridente. «Il maggiore Dunja, presumo», disse.

Dunja era frastornata e si limitò ad annuire leggermente, guardandosi in giro.

«Mi aspettavo un saluto militare, da un maggiore, ma non fa niente», disse ridendo la donna. «Bentornata a casa», ed allungò una mano. «Io sono Eve, Lazarus della Yutani.»

Il sorriso della donna si infrangeva di fronte allo sguardo allibito di Dunja, che lentamente prese la mano proprio mentre pensava che c’era il rischio di ritrovarsela fratturata, se quello che aveva davanti era davvero un robot.

La stretta di mano durò più del dovuto, finché Dunja non fece mente locale e capì cosa fosse quel movimento che vedeva in lontananza: c’erano dei fotografi che stavano immortalando quel momento. Evidentemente non avevano il permesso di avvicinarsi troppo ma quella stretta di mano si stava svolgendo proprio a favore di macchina fotografica.

Dunja continuava a fissare allibita il sorriso falso di Eve, che evidentemente sapeva posare a favore di camera, e si irrigidì quando la donna d’un tratto sfilò la mano e la abbracciò. Probabilmente sui quotidiani del giorno dopo avrebbe fatto effetto l’immagine della responsabile della sicurezza Yutani che abbracciava la figliola prodiga, tornata nella Casata.

Quando finalmente si staccò, Eve strinse sorridente le spalle di Dunja per altri eterni istanti, prima di indicarle l’auto. «Vieni con me o vuoi viaggiare insieme ai tuoi amici?»

Dunja fissò negli occhi la donna e finalmente parlò. «Io non ho amici, non più. Sono tutti morti per colpa mia. Quelli sono semplici compagni di viaggio.»

Eve non chiese altro, limitandosi a far salire Dunja sulla grande auto con cui era arrivata. Lei stessa salì al posto di guida e partì velocemente.

«Compagni di viaggio?» chiese Eloise mentre metteva piede a terra insieme a Boyka. «Ma tu e lei non...»

«Te l’ho già detto», la interruppe Boyka. «Quando un’arma non serve se ne rimane chiusa in un cassetto.»

Un soldato si avvicinò ai due. «Seguiteci. Stanotte dormirete in caserma poi domani qualcuno verrà a prendervi.»

I due annuirono, ma mentre seguivano il soldato che li aveva chiamati la ginoide si avvicinò a Boyka e, bisbigliando, chiese: «a proposito... che cos’è un cassetto?»

~

«È un piacere incontrarti.»

Mentre l’auto sfrecciava, Dunja si era ritrovata a stringere non sapeva più quante mani. L’interno dell’auto era molto ampio ma non immaginava potesse contenere così tante persone. Così tante donne.

Tutti sapevano che la Yutani era una Casata storicamente matriarcale, ma Dunja ricordava che ai suoi tempi la proporzione fra uomini e donne era pari: ora era circondata esclusivamente da signore di ogni età, come se le uniche di rango abbastanza elevato da fare da rappresentanza fossero solo donne.

«Scusate se sembro confusa», continuava a ripetere il maggiore, «è che in effetti sono confusa.»

Tutte risero. «Ma certo, ci mancherebbe. Se io stessi lontano così tanti anni dalla Casata andrei fuori di testa.» Altre risate.

«Ti verrà ripetuto più volte, stasera», prese la parola la più anziana delle donne, «ma permettimi di essere la prima a congratularmi con te. Sappiamo tutto di quello che hai fatto, sappiamo a quanto hai rinunciato pur di sventare una terribile minaccia alla Casata. E per questo ti prego di credere che te ne saremo eternamente grati.»

Grati di cosa? Cosa sapevano? Che cosa era stato raccontato loro? Se ai soldati era stato ordinato di non rispondere alle sue domande, quanto si poteva credere alla libera circolazione di informazioni nella Casata? Cosa era stato detto esattamente a queste donne? Dunja non lo sapeva e, per non rischiare, si limitava ad annuire con la testa.

«Lasciatela respirare», sentì dire alle sue spalle. «Ha appena compiuto un lungo viaggio spaziale, non statele addosso.»

Il tono era divertito, era una frase amichevole, ma quando Dunja capì che a pronunciarla era stata Eve, mentre guidava, il tono non le sembrò più così amichevole. Era un modo per incitare le altre a non fare domande?

Dunja si limitava ad assumere un’espressione confusa – sensazione che in effetti provava – ma continuava a chiedersi cosa fosse rimasto della Casata in cui era nata e cresciuta. Una Casata in cui non esistevano Lazarus...

~

La serata era stata un turbine di saluti e strette di mano, mentre Dunja era sballottata da un ambiente ad un altro. Era entrata in una casa, poi in un’altra e un’altra ancora senza sosta, trascinata da Eve e da altre donne. Tanti le si erano presentati sorridenti e l’avevano ringraziata per la grande minaccia sventata, e a tutte Dunja si limitava a sorridere annuendo, in attesa di capire di cosa esattamente la stessero ringraziando.

Appena qualcuno dava segnale di voler parlare più di qualche secondo, Eve o chi per lei subito trascinava via Dunja adducendo sempre la stessa scusa: la madre stava aspettando di poterla abbracciare. In fondo era naturale, dopo vent’anni di assenza quale madre non sarebbe stata ansiosa di poter riabbracciare la propria figlia? Questo però per Dunja indicava un altro chiaro segnale di pericolo... visto che sua madre era morta quando lei era bambina.

Spintone dopo spintone, dopo un tempo incalcolabile Dunja si ritrovò in un’ampia stanza dove finalmente il vociare e il chiacchiericcio erano assenti. Finalmente un attimo di riposo. Forse.

«Serata piena, eh?» le disse con fare complice Eve, strizzandole l’occhio. Tutto faceva pensare ad un comportamento amichevole, ma lo stesso c’era qualcosa che non andava: era proprio come se un nemico stesse fingendosi amico.

Un gruppetto di donne si avvicinò, e da come quella al centro camminava e da come le altre seguivano ossequiose, Dunja immaginò fosse un pezzo grosso della Casata.

La donna dal fiero aspetto si fermò a pochi passi da Dunja e la fissò a lungo, prima di parlare. «Hai fatto un lavoro eccezionale. Come sempre.»

Il maggiore stava per rispondere che non capiva il significato di quella frase, quando si rese conto che non erano parole rivolte a lei.

«Grazie, Signora», intervenne Eve con malcelato orgoglio, accennando anche un inchino. «Ma sono stata solo fortunata.»

La donna sbuffò. «Non sminuirti. Hai dato in pasto all’opinione pubblica un’eroina, una paladina della Yutani.» I suoi occhi studiavano Dunja come si fa con un animale mai visto prima. «Quando quei cani della Weyland la uccideranno ci sarà un’indignazione popolare: non avresti potuto avere un’idea migliore, Eve.»

Dunja non si stupì affatto, sapeva che non era fra amici e ormai non valeva neanche più la pena chiedere spiegazioni. Si limitò a guardare la vecchia altolocata che la fissava, mentre quella Eve – quella Lazarus – continuava ad inchinarsi ossequiosa.

«Quel robot costruito dal dottor Lichtner? L’hai prelevato?» chiese la donna.

«Certo, Signora. È stato gravemente danneggiato ma il suo software dovrebbe essere intatto. Ho già fatto in modo che venisse consegnato al reparto tecnico.»

«Bene. E le armi del dottore?»

«Prelevate e già dirette alla nostra Sezione Armi.»

«Ottimo. Ah, non c’erano due ospiti? Un uomo e una donna?»

«Sì, signora. Sulla donna non abbiamo informazioni ma l’uomo risultava essere l’amante del maggiore. Da quando però li abbiamo prelevati i due non si sono neanche guardati e Dunja non ha voluto l’uomo al suo fianco. Temo siamo state male informate.»

La donna alzò una mano. «Meglio. Sarebbe stato un peccato sacrificare quell’uomo. Mi sembra in forma, magari può tornarci utile per il circuito dei combattimenti.»

«Certo, Signora. E della donna che ne facciamo?»

«Cerca di capire se può esserci utile in qualche modo, altrimenti sbarazzatene.»

Eve si esibì in un altro dei suoi piccoli inchini ossequiosi.

«Mi stupisce che non provi vergogna ad indossare una divisa militare», disse la vecchia, per la prima volta rivolgendosi a Dunja. «Ho visto il filmato dei tuoi esami, dove facevi i capricci e battevi i piedi come una ragazzina viziata: hai ricoperto di disonore e vergogna la Casata.» Gli occhi della vecchia scandagliavano quelli di Dunja, la quale non mosse un muscolo né disse una sola parola. Si limitava a fissare la donna senza la minima espressione.

«La memoria della gente è breve», disse alla fine la donna, di nuovo rivolta ad Eve. «Ora che questa pecorella smarrita è tornata all’ovile e tutti la vogliono incontrare... è il momento giusto per mandarla al macello. Fallo stanotte.»

La vecchia sorrise arcigna e poi si voltò, andandosene con il suo crocicchio di cortigiane al seguito.

Dunja si sentì spingere e non fece alcuna opposizione, iniziando a camminare verso la direzione in cui era forzata.

~

«Posso esprimere un ultimo desiderio?» chiese Dunja mentre camminava per una lunga navata.

Eve le camminava a fianco e non la guardava. «Puoi, ma non è detto che io possa esaudirlo.»

«Tranquilla, è facile: vorrei solo sapere perché mi state uccidendo.»

«Noi non ti stiamo uccidendo», rispose pacata la Lazarus. «Ti abbiamo semplicemente scelto per una delle sezioni del DOA: quella in cui un combattente particolarmente meritevole della Yutani deve affrontarne uno della Weyland. Nessuno sa delle tue scarse qualità militari, né che sei una piagnucolona, quindi ufficialmente sei un’eroina per ogni donna e uomo della Casata.»

«Se mi giudicate così male, perché mandate me invece di un vero “eroe”?»

«Perché dobbiamo dare una lezione agli Yautja. La loro razza è stata nostra alleata da tempo immemore quando d’un tratto ci ha traditi e si è schierata con la Weyland: quei Predator si sono dimostrati alquanto infidi, malgrado il loro sacro codice d’onore. Dunque la Weyland in questa sezione del DOA metterà in campo uno Young Blood, un giovane Predator desideroso di farsi un nome e di avere un trofeo di alto livello: la testa di un eroe Yutani. Ecco perché la Signora ha deciso di mandare te: sarà facile farti fuori e questo farà indignare l’opinione pubblica. Gli Yautja e la Weyland saranno ricoperti di vergogna e quindi ogni decisione politicamente forte della Yutani verrà accettata dalla gente.»

«Tutto qua?» sbottò Dunja voltandosi a fissare Eve. «Un semplice giochetto politico? Speravo di morire per un ideale molto più elevato.»

Eve sorrise. «Sono contenta che la prendi in scherzo. Si vede che comunque hai sangue Yutani nelle vene.»

«Almeno io ho qualcosa, nelle vene. Tu ce le hai le vene? Perdonami, ma sono stata lontano in questi anni e non so come sono fatte le Lazarus: hai degli ingranaggi che ti ronzano nel petto?»

Giunti ad un grande portone Eve aprì le ante, mostrando due marine che erano in attesa. La Lazarus spinse violentemente la donna in avanti, facendola cadere fra le braccia dei due marine, che la trascinarono via senza che lei dicesse una sola parola. «Sei simpatica, Dunja: perderti farà piangere i miei ingranaggi.»

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Capitolo 7
*** 7 ***


Cinque anni prima

Nel carcere duro di Gorgon le sfide erano all’ordine del giorno. Una struttura nota per gli infiniti incontri clandestini che vi si svolgevano non poteva evitarlo. Giochi di bustarelle e corruzione varia facevano sì che arrivassero sempre nuovi criminali esperti di lotta, campioni di varie discipline da poter far scontrare per offrire agli spettatori on line uno spettacolo sempre appassionante. Tanti lottatori in una sola prigione davano spesso vita a sfide molto personali.

Così quella sera Boyka, il campione incontrastato, il big boss finale da abbattere, aveva un motivo in più per mandare a tappeto il suo avversario. Non solo era un appunto un avversario, e quindi come suo solito avrebbe fatto di tutto per battere, ma perché l’aveva sfidato apertamente.

Ogni nuovo criminale, appena entrato nel carcere ed informatosi su chi fosse il più duro, si presentava da Boyka con la strafottenza tipica dell’inesperienza. Dimostrarsi spavaldi con il più duro poteva evitare di dover affrontare tutti i meno duri del carcere, e di solito questi inutili screzi duravano molto poco: Boyka non cedeva mai alle provocazioni, combatteva solo sul ring, a meno che la cosa non diventasse personale. E Gogol aveva fatto di tutto perché lo diventasse.

Nessuno sapeva per quale crimine fosse stato condannato, ma Gogol era un uomo abbastanza sgradevole da averne compiuto qualcuno odioso. Sin dal primo giorno stuzzicò Boyka ad ogni occasione, senza che il lottatore cedesse. «Se vuoi combattere, sali sul ring» rispondeva sempre lui, e Gogol cominciava ad offenderlo per non dover salire sul serio, su quel ring. La storia andò avanti per qualche giorno, finché il giovane arrogante decise di alzare il livello: mentre Boyka stava lasciando la mensa, gli si avvicinò e velocemente estrasse una sbarra di ferro, trovata chissà dove, sferrandola con rabbia contro una gamba del lottatore. Il colpo non fu preciso, data la tensione, ma il dolore accecò Boyka e lo fece cadere: per diversi giorni non riuscì a muovere il ginocchio.

Dopo un breve periodo di isolamento, Gogol fu prelevato dalla sua cella buia e trascinato sul ring del carcere, immerso nella semi-oscurità.

«Volevi sfidarmi», disse lentamente Boyka, uscendo dall’ombra, «e ci sei riuscito.» Non c’era nessuno sugli spalti e le guardie lasciarono subito la stanza. «Siamo soli, io e te. Forza: impediscimi di massacrarti.»

Gogol disse frasi sconclusionate, mosse sicuramente dalla paura, ma Boyka non lo stava più a sentire. Zoppicando vistosamente gli si avvicinò e lo colpì con una sequenza di pugni che mandò l’avversario a tappeto. «Alzati, non farmi inchinare: come vedi il ginocchio mi fa ancora male, anche se per tua fortuna guarirà. I dottori me l’hanno assicurato, ed è solo per questo che tu sei su un ring invece che in qualche angolo buio con la testa spaccata.»

Non c’era rabbia nella sua voce, era passata quella fase: ora c’era solo cieca determinazione nel punire chi aveva chiesto in ogni modo di essere punito.

Gogol scalciava da terra, cercando di far cadere l’avversario, finché decise di alzarsi e provare a colpirlo sulla gamba dolorante: scoprì che era meno facile del previsto. Fingeva tecniche di pugno ma poi partiva in spazzate che avrebbero dovuto colpire Boyka sul ginocchio, mandandolo a terra dal dolore, ma ovviamente il lottatore era più esperto del giovane irruente ed evitava tutte le tecniche. Rispondendo con potenza. Ad ogni tentativo di mandare a terra Boyka, Gogol riceveva moltiplicata la dose del dolore che avrebbe voluto infliggere.

«Rialzati, abbiamo ancora tanto da fare», diceva Boyka quando l’avversario cadeva e cercava di riprendere fiato. «Sei tu che l’hai voluto, sei tu che mi hai cercato: ora sono qua, ed esaudirò ogni tuo desiderio.» Il lottatore non colpiva mai il giovane in punti che l’avrebbero fatto svenire o immobilizzare, per via di una qualche frattura: era un massacro scientifico in modo che durasse il più a lungo possibile. E spesso Boyka dovette far rialzare l’avversario tirandolo su per i capelli con la mano sinistra e prendendolo a piccoli pugni con la destra, finché quello non si decideva a rimettersi in piedi: solo allora poteva affondare le sue tecniche più forti.

A notte inoltrata Gogol da per terra bofonchiava parole difficili da capire. «Qualsiasi cosa tu stia dicendo, avresti dovuto dirla giorni fa», gli rispose Boyka. «Se volevi un incontro “pulito”, avresti dovuto sfidarmi sul ring, davanti al pubblico dei nostri compagni di cella e davanti agli scommettitori. Allora sì che mi sarei limitato a mandarti nel mondo dei sogni, con un k.o. pulito. Invece hai voluto comportarti come un topo di fogna, e come tale io ti sto trattando.»

Tirato su per l’ennesima volta dai capelli, Boyka capì che Gogol non era più in grado di sentirlo: non era svenuto ma non era più neanche in sé. «Siamo alla fine dell’incontro, un ultimo sforzo.» Cercò di chinarsi ma il dolore al ginocchio lo bloccò. «Giusto il tempo di lasciarti un ricordino, perché non ti passi più per la testa di storpiare un lottatore. Ed è proprio per la tua testa che passerà il ricordino.»

Tirato su l’uomo, Boyka lo afferrò saldamente con entrambe le mani per i capelli, poi con una smorfia di dolore saltò con il ginocchio malandato facendolo poi cadere al suolo: fu molto doloroso, ma gli servì per caricare la forza da sprigionare con l’altra gamba, che spintonò la schiena di Gogol così forte... da farlo volare in avanti... mentre i suoi capelli rimanevano nelle mani di Boyka.

L’infermeria del carcere non garantiva certo la chirurgia estetica ai detenuti, così che il cranio deturpato di Gogol fu curato alla meno peggio, ma alla fine ottenne quel che voleva: nessuno del carcere si azzardò ad infastidirlo. Tutti sapevano che da quel giorno si stava allenando per diventare più forte, tutti sapevano che era una bomba ad orologeria, che un giorno avrebbe presentato il conto a chiunque gli avesse dato fastidio. Da quel giorno, quindi, nessuno diede fastidio a Testa di Cuoio.

~

Oggi

Il soldato mostrò sbrigativamente a Boyka la stanza che gli era stata riservata nella caserma locale dei Colonial Marines. «Le caserme sono tutte miste», spiegò il giovane militare, «quindi la tua amica si dovrà accontentare.»

«La mia allieva starà benissimo, qui con me», rispose Boyka senza guardare l’uomo ma studiando la piccola stanza.

Il compito del soldato era solo quello di accompagnare l’“ospite”, quello che poi avrebbe fatto non gli interessava. Prima di uscire accese il grande schermo che campeggiava su una delle pareti e poi imprecò. «Sta per iniziare!» Detto questo uscì velocemente dalla stanza.

Boyka ed Eloise si guardarono. Ormai la ginoide si era ripromessa di non fare domande in continuazione, visto che sembrava impossibile capire il comportamento degli umani. Stavolta però anche Boyka era confuso. Guardando la TV capì che il DOA stava per iniziare, in diretta, e questo gli fece ricordare quando era lui la star degli incontri clandestini mandati on line da Gorgon, visti da milioni di scommettitori sparsi nell’universo. Era un divo che faceva spostare enormi quantità di denaro ogni volta che appariva in video, e non poteva negare che quella sensazione lo inebriasse.

Mentre i presentatori introducevano l’incontro e citavano nomi ed eventi che entrambi ignoravano, Boyka ed Eloise si misero seduti in silenzio sulla brandina. «Sono curioso di scoprire la qualità degli incontri di questo torneo», si limitò a dire il lottatore, quasi che volesse ammantare di “studio di approfondimento” la semplice curiosità che lo spingeva.

Eloise non rispose: non provava particolare curiosità ma seguiva le indicazioni del suo maestro, sperando che prima o poi portassero a qualcosa. Cercava di smetterla di stupirsi di tutto, cercava di iniziare a pensare come un’umana – sebbene ogni goccia di sangue alieno le opponesse strenua resistenza – eppure non riuscì a mascherare un’espressione di totale stupore quando Boyka la spinse ad alzarsi, con fare ansioso. «Che succede?» chiese.

«Dobbiamo andare, ora», premette il lottatore. «Dobbiamo approfittare che tutti staranno con gli occhi fissi sugli schermi per lasciare questo posto. Ti ricordi il discorso che siamo armi, e dobbiamo stare in un cassetto?» La ginoide annuì. «Be’, è arrivato il momento di scuotere quel cassetto...»

Questo non rispondeva ad alcuna domanda ma Eloise c’era abituata e si limitò a seguire Boyka, che da impassibile si era trasformato ad un fascio di nervi.

Quando i due uscirono di soppiatto dalla stanza, i presentatori in TV stavano annunciando l’inizio del primo incontro, e introducendo il lottatore che avrebbe gareggiato per la Yutani. Un lottatore dalle vistose cicatrici rosso scuro che gli solcavano la testa. Un lottatore di nome Testa di Cuoio.

~

«Andiamo, ragazzi, mi avete appena accolto nella Casata: non potete almeno farmi riposare un po’», stava piagnucolando Dunja mentre i due soldati non la degnavano di uno sguardo. Il viaggio non era stato lungo e si era svolto in silenzio, perché il maggiore era impegnata a contare le curve e ogni altro elemento che le facesse memorizzare il percorso. Una volta arrivati, poteva anche iniziare la recita.

Pianse e scalciò mentre i due soldati la estraevano dall’auto e la portavano davanti ad un sentiero di montagna: immaginò che portasse alla zona dove si sarebbe svolto il DOA, ma nessuno dei due militari le rivolse la parola o le diede spiegazioni. Si appellò ad ogni sacro valore della Yutani e si gettò in ginocchio addosso ad uno dei soldati: l’uomo era così vistosamente disgustato dallo spettacolo che non volle guardarla, così non si rese conto di nulla quando Dunja gli sfilò la pistola d’ordinanza, mise una pallottola nella nuca del suo compagno e poi sparò in fronte a lui. Se loro non volevano dirle nulla, lei non aveva certo qualcosa da dire a loro.

Dunja guardò verso il sentiero boscoso che avrebbe dovuto portarla ad affrontare la morte, e disse tra sé: «Nessun posto è bello come casa mia.»

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Capitolo 8
*** 8 ***


Il fuoco rischiarava la zona e rendeva Dunja visibile a chilometri di distanza. Mentre si scaldava le mani il maggiore si chiese se non stesse esagerando, ma ormai era decisa ad andare fino in fondo.

Aveva ripulito i due soldati che aveva ucciso, prendendo loro un pulse rifle e tutte le munizioni che poteva. Se si considerava anche il suo inseparabile coltello, questo formava un arsenale irrisorio, se davvero voleva affrontare un Predator. Forse se avesse avuto il suo vecchio fucile da cecchino, o meglio ancora il potente fucile datole dal dottor Lichtner, magari se ne poteva discutere, ma con quel semplice fucile d’ordinanza era come se fosse nuda davanti ad uno Young Blood yautja. Non a caso aveva lasciato il pulse rifle a pochi passi da lei, bene in vista, a sottolineare il fatto che in quel momento fosse disarmata.

Un ramo spezzato in lontananza la fece raggelare. Se era il giovane yautja che si stava avvicinando, voleva dire che era un incapace e questo poteva essere pericoloso: poteva essere l’equivalente di un ragazzino terrestre che gioca con armi da adulto. Forse quello non era un buon piano, forse Dunja doveva salire sul mezzo militare con cui i soldati l’avevano portata fin lì: in fondo aveva memorizzato il percorso attraverso le curve e i rumori, probabilmente sarebbe riuscita a tornare alla Casata... ma per fare cosa?

Era da sola contro la Yutani. Tutti la credevano un’eroina ma nessun abitante della città l’avrebbe aiutata contro la Casata stessa. E non poteva affrontare Eve con un semplice fucile. No, aveva bisogno di qualcosa di più potente...

un fruscio sulla destra

... aveva bisogno di qualcuno più potente...

un sibilo di laser che carica potenza

... aveva bisogno di un’alleanza che nessuno avrebbe potuto sospettare.

un lampo di luce nella notte

Dunja si gettò in avanti saltando sopra il fuoco, e schivando per un soffio il fascio laser che colpì la pietra dove era seduta. Gran brutto segno, un Predator che spara a tradimento su una preda umana disarmata: più che un giovane guerriero desideroso del battesimo del sangue questo sembrava un assassino maldestro.

Il maggiore atterrò con una capriola e fu subito in piedi, fissando i cespugli intorno: alcuni si muovevano in modo diverso, come se ci fosse qualcuno nascosto dietro. Altro pessimo segno, un Predator incapace di nascondersi...

«Sono tua amica!» gridò Dunja nella lingua yautja: il cespuglio smise di muoversi. Aveva stupito l’avversario e non doveva perdere l’occasione. «Siamo finiti in un gioco più grande di noi: unisciti a me e combatteremo chi ha tradito la nostra antica alleanza.»

Era innegabile che dopo tanti anni la sua conoscenza della lingua yautja era molto arrugginita, così pensò a frasi brevi e non complesse, per evitare qualche sfondone. Nella Yutani in cui era cresciuta gli Yautja erano stimati come valorosi guerrieri e l’antica alleanza delle due casate si esprimeva nello studio reciproco. Da troppo tempo non le capitava più di parlare quella lingua, ma averla studiata bene da giovane le tornava utile.

Il silenzio però fu l’unica risposta che ottenne, così provò ancora. Alzò le mani lentamente in aria. «Sono disarmata. Non voglio combattere contro di te. Non sono tua nemica.» Niente, nessun tipo di reazione. E se fosse una trappola? Fingersi incapace per far abbassare la guardia al nemico? Dunja ne sapeva qualcosa...

Si chinò di scatto, guidata esclusivamente dall’intuito militare, proprio mentre una rete metallica cercava di imbrigliarla. Non era stata lanciata dal cespuglio, quindi la sceneggiata del Predator incapace era solo un trucco. Non sapeva se gioirne o meno...

Rotolò da un lato e afferrò il pulse rifle, solamente per alzarlo in aria e lasciarlo cadere. «Non voglio combattere con te. Non sono tua nemica», ripeteva il maggiore, confidando almeno nella curiosità del suo avversario. Un tonfo davanti a lei fu il segno che la curiosità aveva fatto effetto.

Uno sfrigolio di scariche elettrostatiche accompagnò la “comparsa” del Predator, che disattivò la sua invisibilità. Aveva capito le intenzioni di Dunja o semplicemente non la reputava un avversario così pericoloso da rimanersene nascosto?

«Le nostre casate sono state ingannate», si affrettò a dire ad alta voce il maggiore. «Yutani e Yautja sono sempre stati amici. Io sono tua amica.» I suoni acuti le venivano malissimo ma sperò che il senso della frase fosse comunque comprensibile.

Il Predator fissò a lungo la donna prima che un suo verso risuonasse nel silenzio. «Il tuo accento fa schifo.» E si scagliò contro Dunja.

~

«Fammi capire», disse l’asiatico con fare sarcastico. «Tu sei il migliore lottatore dell’universo e vuoi che la tua allieva combatta per la nostra Casata?»

Boyka annuì. Non era stato facile rapire un soldato e farsi trasportare fino allo stadio dov’era in corso il torneo DOA. Non era stato facile trovare la Casata con meno possibilità di vincere – la cinese Jingtì Lóng – e spiegare che il campione della Yutani, Testa di Cuoio, era ben noto a Boyka e la sua allieva poteva batterlo quando voleva, una volta superati i vari gironi ad eliminazione.

«Se questa tua allieva è così brava», chiese sorridendo l’uomo asiatico, «perché non andate dalla Yutani a proporre di lasciar combattere lei al posto del loro Testa di Cuoio?»

L’uomo rideva, ma Boyka no. «Ci abbiamo già provato, ma ci hanno riso in faccia. Volevo offrire la vittoria alla Yutani ma non l’hanno voluta, così ora la offro a voi.»

L’uomo continuava a sghignazzare. «Perché mi fai questi discorsi quando sai benissimo che non mi convincerai mai?»

Boyka scosse le spalle. «Perché così non mi sento in colpa a fare questo.» Fece un cenno e l’uomo asiatico, incuriosito, si voltò nella direzione a cui il cenno era indirizzato, voltando la testa nel momento esatto in cui Eloise faceva volare via il lottatore della Jingtì Lóng con un calcio.

Si trovavano negli spogliatoi e non era stato facile accedervi: ne avevano dovuti picchiare di buttafuori. Non c’era molto spazio per volare così il lottatore colpito sbatté contro una parete e crollò a terra: almeno quella sera non avrebbe potuto combattere. Forse neanche rinvenire.

«Ma voi... siete pazzi...» bisbigliò l’asiatico, rimasto a bocca aperta, tornando a guardare Boyka. «Io vi denuncio a...»

«Lasciamo stare le stupidaggini», lo interruppe il lottatore. «Puoi chiamare il giudice di gara e fare un gran chiasso, ma rimane il fatto che stasera la vostra Casata non ha nessuno da far salire sul ring. Se invece accetti la mia allieva, quella che ha appena fatto volare il vostro miglior lottatore attraverso la stanza, ti garantisco la vittoria in tutti gli incontri. Compreso quello contro Testa di Cuoio.»

L’uomo era scandalizzato ma pensava anche in fretta. «Come fa quella ragazza a picchiare così duro?»

«Ha sangue e muscoli alieni in corpo», rispose onestamente il lottatore, «ma io non lo andrei a dire al giudice.»

L’asiatico fissò Boyka per diversi secondi. «Tutti i lottatori sono potenziati in qualche modo, non sempre lecito: nessuna Casata chiederà un’indagine che potrebbe smuovere troppo le acque.» D’un tratto allungò una mano verso il lottatore. «Affare fatto, ma se quella tipa perde vi ammazzo entrambi e dico ai giudici che mi avete ricattato. Il che è anche vero.»

Boyka sorrise e strinse la mano. «Preparati a vincere il DOA.»

~

Il garage era avvolto nella semi-oscurità. L’unica luce era quella che rischiarava il motore della Ford Mustang su cui Lucas stava lavorando.

La mattina dopo sarebbe iniziato il DOA Race, il motivo per cui la sua vita era stata completamente stravolta, e non poteva negare di essere teso. Non per l’esito della gara, ma per ciò che ne sarebbe seguito: cos’aveva in serbo per lui la Yutani? Niente per cui dormire sonni tranquilli, malgrado le tante promesse di Eve.

«Non dovresti andare a riposare?»

Era stata proprio Eve a parlare, senza che Lucas alzasse lo sguardo. «Ho quasi finito», si limitò a rispondere. Aveva smontato e rimontato quell’auto chissà quante volte, ma voleva che fosse perfetta per la gara. Qualunque sarebbe stato il suo destino, comunque l’auto doveva risplendere.

Eve si avvicinò e si mise a guardare anche lei il motore dell’auto, senza dire niente.

«Vuoi controllare che non stia nascondendo qualcosa nel motore?» chiese Lucas con tono indifferente, sempre senza voltarsi.

La donna rispose dopo qualche attimo di silenzio. «Stasera ho mandato a morire una persona che non lo meritava. Sono tenuta a compiere atti spregevoli, ma non vuol dire che io sia spregevole.» Lucas non rispose. «Mi piacerebbe essere il robot che tutti pensano che io sia, perché allora sarei priva di sentimenti e sarebbe un sollievo.»

«Io sono una persona semplice», disse l’uomo armeggiando con degli strumenti, «e se una persona si comporta da assassino, per me è un assassino.»

Immobile, Eve rispose dopo qualche secondo. «Ti va di essere un po’ gentile con me, almeno stasera?»

Lo disse quasi in un bisbiglio, ma Lucas sentì benissimo e alzò di scatto il busto dal motore dell’autore, piantandosi a pochi centimetri dal volto della donna. «E tu? Sarai gentile con me e mi lascerai andare?»

Eve sostenne lo sguardo. «Sai che non posso...» mormorò.

«Però hai il coraggio di chiedermi gentilezza nei confronti del mio carnefice, eh?» Lucas cominciò ad urlare e a pressare la donna. «Domani rischierò la vita per colpa tua e mi chiedi gentilezza?»

L’uomo gridava mentre la donna indietreggiava, finché Eve si ritrovò con le spalle al muro, spinta indietro da Lucas, con gli occhi furenti. La guardava come quel giorno della gara di prova, come nel momento in cui la mandò fuori strada. La guardava come quando la uccise. La guardava... come lei aveva scoperto che le piaceva. «Uccidimi...» bisbigliò la donna, e Lucas perse il controllo.

Afferrare il collo della donna e stringerlo, premendo con ogni muscolo del proprio corpo quel collo contro la parete, non fu una scelta dell’uomo: fu come un riflesso condizionato impossibile da contrastare. Con gli occhi offuscati dalla rabbia e i denti digrignati, Lucas rilasciava ogni briciolo di energia nell’esecuzione del suo sogno: uccidere quella donna mostruosa. Sapeva benissimo che era impossibile, sapeva benissimo che era esattamente quello che lei voleva, ma non era più in grado di pensare lucidamente.

Eve non respirava più e sentiva la testa gonfiarsi. Sentiva le vene ingrossarsi sulle tempie e negli occhi, sentiva la violenza riversarsi in lei e riempire tutto il suo essere. Fissava gli occhi omicidi dell’uomo e ne godeva la forza distruttiva: lui la odiava più di qualsiasi altra cosa al mondo, e quell’odio la faceva impazzire.

L’aveva scoperto quel giorno, in cui era morta in auto. In tanti le avevano sparato, aveva perso il conto di quante volte era morta per la Yutani, ma quello era diverso. Quello era dannatamente personale. Lucas non voleva colpire la Casata, non voleva combattere un nemico o altro: Lucas voleva uccidere lei, in persona, non come simbolo. Quando l’uomo l’aveva vista rialzarsi dalle macerie dell’auto era quasi impazzito dalla frustrazione, tanto che Eve cercò di consolarlo nell’unico modo che conosceva: donandogli la propria morte. «Uccidimi ancora», gli aveva detto quando ancora il suo corpo era fumante dell’incendio dell’auto, e Lucas le era saltato addosso. La donna non aveva opposto resistenza quando l’uomo aveva afferrato una sbarra dell’auto e aveva cominciato a trapassare il suo corpo già devastato. Piangendo e gridando, Lucas aveva scoperto un insano piacere nell’infierire sul corpo di Eve... e la donna aveva scoperto di amare quella furia distruttrice.

La bocca della donna ora si aprì e il suo corpo rimase molle tra le mani di Lucas: l’aveva uccisa di nuovo. L’aveva posseduta nell’unico modo in cui Eve poteva essere posseduta. Allentò la presa al suo collo e la tenne lo stretto necessario per sostenere il corpo della donna, che ora lo guardava con occhi vitrei. Lucas si strinse a lei e baciò le labbra aperte, morte, e premette forte. Voleva che il primo respiro di Eve risorta lo prendesse da lui.

La sentì tornare il vita fra le sue labbra, odiandola per questo: non bastava tenerlo in ostaggio come pilota, ora era invischiato anche come uomo. Mai aveva provato un piacere simile, e poteva averlo ancora solo da Eve... Per questo la odiava ancora di più.

Quando le labbra si separarono, Eve non aveva sul volto alcun segno della passata esperienza. Solo il broncio di una donna che ha goduto in un modo illecito.

«Un giorno mi dirai di cosa sei fatta?» chiese Lucas ansimando, vergognandosi di aver ceduto a quell’insana passione.

«Ora come ora», mormorò Eve, «sono fatta del tuo odio per me...»

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Capitolo 9
*** 9 ***


Evitare il pugno del Predator fu facile, e questo preoccupò Dunja. Niente è mai facile con un guerriero Yautja, anche se ancora un Young Blood. Il fatto che avesse tirato una tecnica così lenta poteva voler dire che la creatura si sarebbe divertita con lei, come il gatto con il topo. E, ancora, voleva dire che non era riuscita minimamente a convincerlo.

«Siamo vittime di un gioco politico: noi non siamo nemici», continuava a ripetere il maggiore, evidentemente senza successo. Non era chiaro se il messaggio non arrivava perché il Predator non credeva alle sue parole o semplicemente perché la donna le pronunciava male – visto che da almeno vent’anni non parlava la lingua yautja – ma era evidente che non stava ottenendo alcun risultato. La speranza di trovare un alleato forte nella razza degli Yautja, storicamente alleata della Casata Yutani, stava rivelandosi semplicemente una speranza vana.

Un secondo pugno sfiorò la donna di pochi centimetri: il “gioco” del Predator si stava facendo pericoloso, e i suoi pugni se raggiungevano l’obiettivo facevano male. Molto male.

«Perché non vuoi credermi?» provò ancora Dunja, svicolando qua e là per trovarsi sempre sufficientemente fuori portata dalle imponenti braccia della creatura. Per fortuna il Predator aveva stabilito che la donna non rappresentava un pericolo tale da usare le armi, ma per sfortuna questo avrebbe significato che si preparava a farle male a lungo, divertendosi. Se la situazione fosse volta al peggio, non sarebbe stata una cosa indolore. Né veloce.

«Perché non mi ascolti?» continuava a gridare la donna.

«Taci!» gridò il Predator allungando troppo un pugno nella speranza di colpirla. Era stata una mossa frettolosa, imprecisa, segno che lo Yautja si stava innervosendo. Dunja non sapeva decidersi se fosse un bene, ma a questo punto era chiaro che la creatura la capiva: semplicemente non era disposto ad ascoltarla.

«Siete sempre stati una razza di teste dure», sibilò il maggiore, svicolando mentre la creatura si faceva sempre più pressante.

La grande mole del Predator gli impediva i movimenti fluidi e scattanti della donna, ma bastava che un solo colpo giungesse a segno perché il gioco finisse male. Per questo lo Yautja iniziò a tirare due pugni per volta, nel tentativo di cogliere in fallo la donna che sgattaiolava rimanendo sempre fuori dalla sua portata. Non era una scelta da guerriero, non l’avrebbe raccontato quando avrebbe narrato la storia della sua vittoria, ma era chiaro che cominciava ad essere stufo di quell’esserino che gli sfuggiva continuamente.

Dunja avrebbe potuto continuare a lungo, non le mancava certo il fiato e si muoveva il minimo indispensabile per non sprecare energie, contando proprio sul fatto che il Predator invece si stava sfiancando velocemente, a forza di tirare potenti pugni a vuoto. Però il poco tempo a disposizione le aveva impedito di adempiere ad una delle regole più importanti di un combattimento: conoscere il territorio.

D’un tratto i due combattenti si ritrovarono in una zona boscosa: sarebbe stata perfetta per nascondersi, ma Dunja se ne accorse troppo tardi. Se ne accorse solo quando svicolò da un colpo del Predator e trovò un tronco d’albero a bloccarle la strada. Non ebbe tempo d’imprecare, perché tutto si fece scuro e luminoso al tempo stesso quando il potente pugno della creatura la raggiunse sul volto.

Non fu una tecnica pulita, l’assoluta casualità impedì al pugno di essere letale ma di sicuro fu doloroso, e sbatté la donna a terra: Dunja non svenne, ma le fu improvvisamente difficile distinguere il caleidoscopio di luci e ombre che le passava davanti agli occhi.

Una risata gracchiante accompagnava il suo stordimento, mentre il Predator approfittava di quella piccola vittoria per riprendere fiato. Troneggiava sulla donna a terra, che agitava le mani in avanti come a difendersi. Lo Yautja respirava pesantemente, ma decise che non valeva la pena perdere tempo a recuperare le forze: si inginocchiò lentamente e mise la sua grande mano attorno al collo di Dunja, immobilizzandola a terra senza premere troppo: non voleva che il gioco durasse troppo poco.

«Sei la vergogna degli Yutani», disse lentamente la creatura, scandendo le parole per essere sicuro che l’umana lo capisse. «La tua Casata ha avuto molto onore, in passato, ma ora è fatta di vigliacchi e traditori: vi spazzeremo via.» Non c’era alcun astio in queste parole, il Predator stava semplicemente informando la donna di ciò che pensava.

Dunja avrebbe voluto rispondere, spiegare, ma la forte mano sulla sua gola le impediva già quasi di respirare, e poi il panico stava facendo il resto. Aveva commesso un errore stupido proprio nel momento più importante della sua vita, ma fu proprio questo pensiero a “liberarla”: quell’errore le toglieva ogni remora su ciò che stava per fare.

Afferrò il braccio del Predator con la mano sinistra, cercando di graffiarlo così da fargli allentare la presa. Lo Yautja rise gracchiando forte, trovando davvero patetico quel ridicolo tentativo della donna di liberarsi. Rise così forte che non vide la mano destra di Dunja infilarsi nella tasca e tirare fuori il suo inseparabile coltello. Rise così forte da non vedere la mano destra della donna passare dolcemente ma rapidamente intorno al polso della creatura. Smise di ridere solo quando cercò di capire da dove arrivasse quel dolore che ora provava... e perché non riuscisse più a muovere la mano...

Con gli occhi sbarrati il Predator si fissava la mano che teneva ancora sul collo della donna, e cercava di capire perché non riuscisse più a stringere le dita. La sua vittima cercava ancora di graffiarlo: era impossibile che fosse quello a bloccarlo. Solo con la coda dell’occhio vide la mano destra della donna accarezzargli il braccio all’altezza del gomito. Glielo accarezzò due volte: perché? E perché quella fitta di dolore? E perché ora non riusciva più a muovere il braccio?

Senza più avere la pressione delle dita sul collo, Dunja riuscì a parlare, anche se con voce stentata. «Ho cercato di ragionare con te, perché ricordavo che gli Yautja sono guerrieri onorevoli: tu invece sei solo un grande idiota». Tossì per lo sforzo. «Visto che è inutile parlare con te... mi tocca ammazzarti.»

La bocca della creatura si spalancò in un grido di rabbia e frustrazione: come osava quell’umana parlargli così? Come poteva quell’inutile insetto minacciarlo? Caricò l’altro braccio per sfondare il petto a quell’essere insignificante e fastidioso: il cranio lo voleva integro come trofeo.

Mentre il Predator caricava il braccio “sano”, Dunja ne approfittò per divincolarsi dalla presa ormai inesistente, e mentre lo Yautja colpiva il terreno dov’era prima la donna, questa iniziava a strusciarglisi addosso. Gli accarezzava le spalle, le gambe, le cosce, e infine gli si avvinghiava alla schiena, tenendolo per il collo. Perché quella donna si comportava in quel modo? E perché d’un tratto lo Yautja non riusciva più a muoversi?

«Non è facile per degli umani essere alleati con gli Yautja», bisbigliò la donna all’orecchio della creatura. «Malgrado il vostro bel codice d’onore, ogni tanto vi piaceva “giocare” con noi, soprattutto con le donne: fra i nobili guerrieri c’è sempre nascosto qualche vigliacco. Ecco perché la prima cosa che ci insegnano a scuola è l’uso del karambit». Dunja alzò la mano e mise davanti agli occhi del Predator il piccolo coltello dalla lama curva sporca di sangue che stringeva in mano. «Per un umano è impossibile avere la meglio su un bestione potente come un Predator, ma anche il più forte degli Yautja ha un punto debole: i tendini.». Dunja cominciò a far roteare fra le dita il piccolo coltello. «Bastano movimenti precisi nei punti giusti perché la lama affilatissima recida i tendini, e da grande guerriero uno Yautja diventa un grande sacco di carne tremolante.»

Il Predator in effetti si accorse di star tremando: cercava disperatamente di muoversi ma ormai il suo corpo era una ragnatela di rivoli di sangue. Con i suoi rapidi ma precisi movimenti la donna aveva passato il suo piccolo coltello tagliente in ogni punto chiave della creatura. Ogni tendine e legamento importante era reciso: lo Yautja rimaneva nella sua posizione per semplice inerzia.

Dunja gli accarezzò la gola con il karambit, poi si alzò con calma, massaggiandosi la testa dolorante. Si mise davanti al Predator, che la fissava gorgogliando per la gola recisa. La donna lo fissò senza odio: un Predator reso invalido non avrebbe mai voluto restare in vita, quindi dandogli la morte lei si era comportata secondo il suo codice.

Mentre ripuliva dal sangue il suo karambit, Dunja fissò lo Yautja morente. «Ai miei tempi, nella Casata c’era un detto: per un nemico grande non serve un coltello grande... ma un grande coltello!»

~

«Un nuovo k.o. per Eloise, la misteriosa campionessa della Jingtì Lóng!»

I presentatori della diretta televisiva stavano facendo a gara per descrivere ed esaltare quella lottatrice che mai nessuno aveva visto prima, che all’ultimo secondo aveva sostituito il lottatore infortunato della compagnia cinese. In altri tempi probabilmente non sarebbe stato permesso questo “colpo di scena”, ma ormai il DOA era un evento televisivo di portata universale – trasmesso su ogni pianeta grazie ai ripetitori Weyland-Yutani – e i soldi che vi ruotavano attorno erano così tanti che ogni codice, regola o restrizione diventava particolarmente labile. L’importante era che ci fosse uno spettacolo grandioso per far girare le scommesse e il merchandising: chi saliva sul ring alla fin fine non aveva poi tutta questa importanza.

Per Eloise era stato facile vincere i primi incontri di qualificazione, dove si potevano incontrare lottatori improvvisati che speravano di rimediare giusto qualche piazzamento dignitoso: quelli che finirono davanti alla ginoide non trovarono alcuna dignità.

La donna indossava una tuta trovata in uno spogliatoio, non proprio della taglia giusta, ma malgrado non fosse a suo agio così conciata non perdeva la sua velocità nell’esecuzione delle mosse. «Non vale la pena parare e contrattaccare», le aveva detto Boyka prima di iniziare a combattere. «A questo punto del torneo sono sicuramente tutti brocchi: vai d’anticipo e stendili subito.»

La ginoide aveva annuito e non aveva ceduto alla voglia di chiedere cosa fosse un “brocco”: l’unica cosa che aveva capito era che non avrebbe mai capito quell’assurdo mondo umano. Saliva sul ring, aspettava che l’arbitro dicesse le sue cose di rito, poi appena vedeva le spalle dell’avversario accennare un movimento partiva. Mano a taglio sotto il mento, gambe a spazzata, e l’avversario dritto a terra di nuca. Un ulteriore pugno sulla mascella per assicurarsi che rimanesse lì. Fine dell’incontro.

Il terzo avversario di quella serata finalmente riuscì a schivare questo attacco, guadagnandosi un minimo di stima di Eloise. Il lottatore, molto più alto della ginoide, reagì sferrando due potenti pugni in rapida sequenza sul volto dell’avversaria, approfittando dell’apparente momento di distrazione dovuto all’aver mancato la tecnica. Incassati i colpi senza problemi, Eloise lo guardò sorridendo.

L’avversario, spiazzato, commise l’errore di tirare un terzo pugno, più forte. Eloise scattò e mentre il pugno dell’uomo procedeva in avanti lei roteava il busto fino a colpire il volto dell’avversario con una gomitata. Stordito dalla forza dell’impatto, l’uomo non ebbe il tempo di barcollare perché una tecnica di gambe lo mandò a terra, senza neanche capire cosa lo avesse colpito.

«Migliori ad ogni incontro», la elogiò Boyka.

«Imparo da ogni avversario», si limitò a rispondere Eloise, senza neanche un accenno di fiatone. Per il suo organismo xenomorfo quegli incontri non erano neanche considerati “sforzo fisico”.

«Mi dicono che per stasera è tutto», continuò Boyka. «Ti sei qualificata per il secondo giorno: probabilmente Testa di Cuoio lo incontrerai domani.»

«Non vedo l’ora.» Eloise parlò senza alcuna enfasi, né sarcasmo o altro.

L’uomo la guardò. «Cos’hai? Hai vinto tutti, guarda: tutte le telecamere ti inquadrano. Sei una campionessa.»

Eloise lo fissò senza espressione. «È per questo che mi hai portato con te? Per fare di me una campionessa? Per farmi inquadrare da telecamere, che poi non so neanche cosa voglia dire?»

In quel momento la ginoide si ritrovò circondata da giornalisti che cominciarono a subissarla di domande. Era la misteriosa campionessa che proveniva dal nulla e nessuno riusciva a batterla. Era la donna del momento e ogni spettatore – e scommettitore – voleva sapere di più su di lei. Eloise guardava quella gente molesta senza capire perché strillassero tanto.

L’uomo della Jingtì Lóng fece intervenire la sicurezza, che con gran fatica riuscì a sottrarre Eloise dagli attacchi dei giornalisti, portandola via. Senza che Boyka riuscisse a rispondere alla sua domanda.

~

La domanda la assillava. Perché continuava a rimanere lì, invece di darsela a gambe? E la risposta era sempre la stessa: non poteva andare da nessuna parte da sola.

Dunja aveva acceso un altro fuoco nel punto in cui il Predator giaceva, morto. Aveva pensato di trascinarlo ma era davvero troppo pesante. Meglio aspettare lì che venissero a prenderlo. Perché gli Yautja non lasciano mai uno di loro sul campo.

Non era riuscita a convincerlo, non era riuscito a stringere alleanza come sperava, non era riuscita neanche a farsi ascoltare. Era un piano sballato: nessun Predator sarebbe stato a sentirla, soprattutto ora che aveva ucciso uno di loro. Ma quando non si ha più niente, qualcosa – per quanto sbagliata – è sempre meglio di zero.

Rimase immobile quando vide le luci della nave yautja atterrare. Aveva pensato di alzare le mani per dimostrarsi disarmata, ma a quanto pare non serviva. Meglio rimanere ferma con le mani a scaldarsi sul fuoco.

Mentre due Yautja caricavano il corpo del loro caduto, un Predator anziano si avvicinò a Dunja. Il suo corpo era pieno di cicatrici e trofei di ogni sorta: era un Elder, sopravvissuto a chissà quante battaglie e combattimenti.

Dunja lo guardò fisso negli occhi. «Ho cercato di avvertirlo» disse, sperando che il suo pessimo accento fosse comprensibile. «Non volevo ucciderlo, non sono vostra nemica. Ma neanche vostra preda.»

Il vecchio Yautja parlò lentamente, per essere compreso. «La tua Casata è infida, traditrice e inaffidabile. Ci aveva promesso un combattimento facile invece ha inviato te, una lottatrice in grado di uccidere un nemico molto più forte di lei. Mio figlio non era un guerriero d’onore, era frettoloso e violento, meritava una lezione. Forse non così dura.»

Dunja si paralizzò: aveva ucciso il figlio di un capo clan? Possibile che riuscisse a trovarsi in situazioni sempre peggiori?

«Io non sono più una Yutani», cercò di cambiare subito argomento. «Lo sono stata da giovane, quando la Casata si comportava con onore: ora è governata da traditori. Voglio allearmi con voi per distruggerla.» Dal silenzio che seguì si capiva che il capo clan stava riflettendo, così Dunja volle approfittarne. «Ho cercato di proporre l’alleanza anche a tuo figlio, ma non ha voluto ascoltarmi.»

Detto questo, il maggiore rimase immobile. Non poteva fare altro, non c’era altro da aggiungere. Ormai tutto era nelle mani di un potente capo clan Yautja a cui aveva appena ucciso il figlio.

L’Elder la guardò a lungo. «Come faccio a sapere che stai dicendo la verità?»

Un dubbio era un ottimo segno: voleva dire che non era sicuro di volerla uccidere. «Avrei potuto scappare», rispose subito Dunja. «C’è un’auto blindata all’inizio di questo sentiero: avrei potuto raggiungerla e tornare alla Casata prima che voi atterraste. Ma non ho voluto: la Yutani è mia nemica, mentre voi no.» Stava improvvisando, e sperò che bastasse visto che non sapeva cos’altro aggiungere.

Il vecchio Yautja alzò la mano e la agitò davanti a Dunja. «Sali a bordo: parleremo durante il viaggio.»

~

Le parole di Boyka non erano servite, per quel poco che aveva capito.

Eloise guardava il soffitto mentre giaceva a letto, sveglia, nella camera che la Jingtì Lóng le aveva dato. Era la loro campionessa e la volevano trattare con tutti i riguardi. Tutti erano stati gentili con lei, tutti erano sorridenti, e la ginoide doveva continuamente ripetersi che la razza umana mostrava i denti non in senso aggressivo, ma al contrario per indicare amicizia. Non era così ai suoi occhi.

Lì nessuno era suo amico: credeva lo fosse Boyka, ma da quando era partita con lui non faceva che trattarla come uno strumento, senza mai parlarle.

Eloise d’un tratto sentì che era stanca di non capire il mondo in cui si ritrovava a vivere. Un mondo umano. Un mondo a lei alieno.

Eloise d’un tratto sentì che forse aveva compiuto la scelta sbagliata, che forse aveva scelto la razza sbagliata con cui allearsi. E in effetti non aveva mai stretto alcuna alleanza: semplicemente per rispetto al suo maestro sopprimeva i suoi istinti di morte verso gli umani.

Eloise d’un tratto cominciò a trovare sollievo nell’ascoltare quel rumore di sottofondo che aveva avvertito sin da quando aveva messo piede su quel pianeta. Cominciò a trovare conforto in quell’insieme di voci familiari che sentiva nella testa, in fondo, nel suo essere. Quelle voci che non assomigliavano in alcun modo a voci umane. Erano più flussi di pensieri chimici.

Eloise d’un tratto cominciò ad ascoltare le voci aliene che la sua vera natura le permetteva di avvertire. Le voci di tutti gli alieni tenuti in gabbia nei paraggi. Le voci dei suoi schiavi... dei suoi fratelli... dei suoi sudditi.

Eloise d’un tratto cercò di entrare in quel flusso di voci...

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Capitolo 10
*** 10 ***


Il rombo dei motori non era quello delle passate edizioni del DOA Race, quando milioni di spettatori sparsi sui pianeti fremevano per ammirare le incredibili automobili che ogni Casata metteva su strada. Ogni volta migliori, ogni volta più potenti, ogni volta più truccate da mille impianti quasi mai legali. Prima ancora che iniziasse la corsa lo spettacolo era garantito, e le scommesse illegali – gestite dagli stessi che avrebbero dovuto garantire la legalità – schizzavano alle stelle: quale portento su quattro ruote avrebbe visto quest’edizione del DOA Race? Ogni scommettitore aveva la sua risposta perché ognuno era un esperto e sapeva valutare un’auto da come la vedeva sugli schermi televisivi. Questo significava che cifre inimmaginabili entravano nelle tasche di chi gestiva le scommesse.

Questa volta però lo spettacolo pre-corsa fu molto deludente. Niente macchine truccate, niente portenti tecnologici, niente colori sgargianti: sulla pista davano un ben misero spettacolo di sé alcune tristissime auto basiche, che a vederle dagli schermi sembravano ancora più malmesse di quanto fossero in realtà. E il rumore dei loro motori metteva solo tanta tristezza.

Lucas non guardava nessuno e ignorava la folla che dagli spalti lo incitava. Nessuno sapeva chi fosse, quindi era solo isteria collettiva da “pilota famoso”.

Lui guardava avanti e ignorava anche gli altri partecipanti. Gli erano stati forniti abbondanti video delle imprese degli altri piloti, che aveva studiato e ristudiato a lungo, anche se erano puramente indicativi. In quei video i piloti guidavano auto più simili ad astronavi: come si sarebbero comportati a bordo di un’auto normalissima? Era una grande incognita che per lo meno coinvolgeva tutti, e inoltre Lucas partiva avvantaggiato perché non esistevano filmati della sua guida da studiare.

«Agitato?» chiese Eve affacciandosi al finestrino. Sorrideva ma non riuscì a contagiare Lucas, che non rispose. «Mi sono informata, tutti i piloti ti odiano. Pensano che tu sia un campione sconosciuto che abbiamo pescato chissà dove. Cercheranno subito di mandarti fuori strada o ucciderti in qualche modo.» Stavolta Lucas si voltò a fissarla, con occhi di fuoco, sempre senza parlare. «Che c’è? Va tutto a tuo vantaggio: saranno distratti e faranno cose avventate. Basta che tu mantieni il controllo e te li bevi tutti.»

Il pilota continuava a fissare davanti a lui e a tenere le mani sul volante. Voleva solo che quell’incubo iniziasse così che finalmente potesse finire.

Quando un segnale luminoso avvertì che la gara stava per iniziare, Eve batté con la mano sulla portiera e sparì dalla vista. Possibile che nel suo desiderio di mostrarsi affabile se ne sia andata senza un saluto?, si chiese Lucas. Non ebbe il tempo di cercare una risposta che sentì aprirsi l’altro sportello, mentre Eve entrava nell’abitacolo.

«Che diavolo ci fai qui?» chiese indignato il pilota.

«Allora ce l’hai la voce», rispose al donna assicurandosi le cinture al petto. «Credevo che avessi mal di gola.»

«Perché ti stai mettendo le cinture di sicurezza?»

Eve guardò in alto e si portò il dito indice al mento. «Questa sì che è una domanda difficile: perché mai sono entrata in un’auto che sta per partire? Una risposta potrebbe essere che sono la co-pilota ma sembra troppo facile...»

«Sei tu la co-pilota?» gridò Lucas.

Eve tornò a guardare in alto e a portarsi un dito al mento. «Sono l’unica seduta sul sedile del passeggero e ho le cinture allacciate: chissà se sono io la co-pilota.»

«Piantala!» gridò l’uomo.

Finalmente Eve lo guardò, sorridendo. «E tu piantala di fare l’isterico. Cosa c’è di strano nel fatto che io sia la tua co-pilota?»

Lucas serrò la mascella. «Perché non me l’hai detto prima?»

«Quindi è questo che ti scoccia? Che non ti ho comunicato i miei piani?» Lucas aveva le nocche bianche per quanto stringeva il volante. «Rilassati, cosa ti importa se sono a bordo? Sono qui per aiutarti e per renderti tutto più facile, come faranno i co-piloti delle altre auto.»

«Tu sei qui per controllarmi.»

Lucas pronunciò la frase quasi sottovoce, fissando la strada davanti a sé e il segnale che stava per indicare l’inizio della gara.

«Abbiamo superato quella fase», rispose con lo stesso tono Eve, che ora lo fissava anche se lui non ricambiava lo sguardo. «Ormai i giochi sono fatti e non si può tornare indietro. Sei il nostro campione ma non pensi ancora come il nostro campione: so che alla prima occasione cercherai di fuggire, non è mai stata un’incognita ma una certezza. Però so che sei più che consapevole che verresti ucciso, nel caso, e che saresti fortunato se toccasse a me l’incombenza: alcuni dei miei uomini provano un certo gusto a torturare i traditori, quindi nel caso dovrei intervenire io per assicurarti qualcosa di più rapido e indolore.»

Parlando, Eve allungò una mano ad accarezzare una guancia di Lucas, che scattò e la fulminò con i suoi occhi infuocati di rabbia.

Eve non sorrideva più. Ora si beava di quello sguardo. «Così mi piace... Odiami...» Lucas scacciò la sua mano con un gesto. «Questo l’hai sempre saputo, non sono certo qui a ricordartelo. La Casata ha paura che riescano ad ammazzarti in corsa, visto che non sei abituato a queste gare, così nel caso io sono qui a sostituirti alla guida per cercare di vincere comunque. Spero non ci sia bisogno di arrivare a questo, così nel frattempo ti faccio da co-pilota e ti libero la strada da alieni e umani: non so quale razza sia peggio...»

«Lo faresti sul serio?» disse fra i denti. Poi si voltò a fissarla. «Se io a metà gara uscissi fuori pista e me ne andassi per conto mio... mi pianteresti una pallottola in testa?»

«No», rispose immediatamente Eve. «Ti farei male fino a farti tornare in pista e a completare la corsa, sperando che il tempo perso non ti facesse perdere. Solo una volta tagliato il traguardo in una posizione che non fosse la prima... ti sparerei in testa.» I due si fissarono, poi Eve continuò. «Questo dev’essere chiaro, tra noi due, così che non farai scelte stupide e ti assicurerai di vincere. Dopo di che non avrai mai più problemi.»

«E se...»

«Lucas, basta!» lo zittì la donna. «Credimi se ti dico che proverò un grandissimo dispiacere a far saltare in aria quella tua testa di cazzo, quindi non costringermi a farlo. Guida e sta’ zitto.»

~

Non era ancora tempo di affrontare il campione Yutani Testa di Cuoio, ma era chiaro che la folla che gremiva l’edificio era lì per lo scontro del secolo: la lottatrice misteriosa imbattibile contro il rude campione.

Tutti sapevano che Testa di Cuoio era il più scorretto dei lottatori e che aveva mille trucchi per assicurarsi la vittoria, ma era pur vero che quella ragazza misteriosa poteva avere molte frecce al suo arco: chissà cos’era capace di fare...

Eloise camminava lentamente ed era infastidita dalle urla dei tifosi e dall’invadenza dei giornalisti. Non capiva perché si agitassero così tanto come non capiva gran parte di ciò che le dicevano, quindi cercava semplicemente di ignorarli. Boyka camminava al suo fianco e ogni tanto ne spiava lo sguardo: lo interpretò come un maestro fiero che la sua allieva fosse oggetto di così tanta rumorosa attenzione.

Era chiaro che l’uomo aveva piacere che Eloise fosse quello che chiamava “campionessa”, ma la ginoide non poteva certo dirsi soddisfatta di un desiderio così infimo. Non aveva mai pensato al suo futuro, non sapeva nemmeno che ne avrebbe avuto uno, ma di sicuro quel futuro non la interessava. Anzi la deludeva profondamente.

Come se non bastasse, avvertiva nettamente l’agitazione e l’inquietudine dei messaggi psico-chimici che le arrivavano dai suoi fratelli. Sì, fratelli. Gli unici esseri viventi che poteva chiamare tali. Quelli che gli umani chiamavano xenomorfi.

I loro messaggi erano confusi, frementi. Qualcosa di grosso stava avvenendo, qualcosa che li stava scuotendo nel profondo, e questa sensazione raggiungeva Eloise, sempre più ricettiva. Qualcosa di dannatamente serio stava per avvenire, e lei si ritrovava in mezzo a quegli stupidi umani urlanti.

Il suo disprezzo la portava a non guardare nessuno in faccia, a non concentrarsi su nessuno. Così non vide chi la colpì. Sentì solo uno strano dolore e l’impossibilità di stare in piedi.

Stava ancora “ascoltando” i suoi fratelli quando si ritrovò a terra, circondata dalle gambe scalpitanti degli stupidi umani che la circondavano. Mani la toccarono, piedi si scansarono, voci lontane gridarono. Qualcosa stava accadendo intorno a lei, ma gli occhi di Eloise ora fissavano la propria gamba. Che sembrava dannatamente diversa dal solito.

Qualcuno, nascosto fra la folla, l’aveva colpita così forte da spezzarle il ginocchio.

~

Quando il segnale divenne verde, Lucas dimenticò tutto. E dopo tre mesi d’inferno finalmente fu libero. Libero dalla tensione, libero dall’attesa, libero dalla paura. Era l’inizio della fine: in qualunque modo fosse finita quella storia, tutto si sarebbe concluso.

Da anni Lucas correva per piccole strade impervie trasportando benzina rubata, rischiando la vita ad ogni corsa: era il suo mestiere e sapeva farlo dannatamente bene. L’unica differenza con il DOA Race non era l’assenza di benzina: era il ritrovarsi costretto a correre.

Lucas odiava le costrizioni e gli ordini. Lui offriva un servizio, non rispondeva ad un ordine: lui trasportava roba che scotta per conto di qualcuno che lo pagava per farlo. Stavolta invece doveva obbedire ad un ordine e questo era odioso, per lui. Anche se l’ordine era in tutto identico a quello che faceva quasi ogni giorno da anni.

La Ford Mustang che aveva costruito era migliore di qualsiasi auto avesse mai guidato: l’unica soddisfazione in quella situazione. Gli spettatori dell’evento non poterono apprezzarlo, ma il suono di quel motore era pura poesia senza parole.

L’auto scattò in avanti dando l’impressione che gli altri concorrenti fossero rimasti fermi. Tutti si erano costruiti auto enormi, potenti, resistenti a tutto, e questo voleva dire che andavano alla metà della velocità di Lucas. Almeno in rettilineo. Qualcuno avanti a lui provò a tagliargli la strada, ma la Mustang era troppo agile e quei carri armati non potevano bloccarla.

In pochi secondi Lucas fu in testa. «Questo è il mio uomo!» gridò ridendo Eve.

Lucas non rispose né la donna se lo aspettava. Mentre il pilota dava il meglio di sé per acquisire più vantaggio possibile, Eve si slacciò la cintura di sicurezza – allacciata per pura formalità, giusto per far credere ai giudici di gara che contassero ancora qualcosa – e infilò la mano sotto il sedile: quando la tirò fuori stringeva un fucile, che caricò in un attimo.

Quando abbassò il finestrino Lucas si accorse della sua attività. «Che cazzo fai?» gridò senza guardarla.

«Ti salvo il culo, tesoro. Nel vero senso della parola.» Eve si sporse dal finestrino fino a sedersi sul bordo della portiera. Il vento le sferzava i lunghi capelli neri raccolti dietro la nuca e dovette stringere con forza l’arma per non farla volare via. La puntò senza troppa attenzione ed aprì il fuoco.

Dopo qualche secondo tornò nell’abitacolo, mentre Lucas era fuori di sé, anche se troppo concentrato nella guida per parlare. «Giusto una sventagliata», rispose Eve ad una domanda non posta, «così se qualcuno voleva approfittarne per spararci alle ruote posteriori ha dovuto desistere.»

«Ma può farlo ora.»

«No, se continui a guidare così. A questa distanza potrebbero colpirci le ruote solo con un fucile di precisione, ed è impossibile usarlo da un’auto in corsa.»

Lucas affrontò la prima curva con troppa velocità, ma riuscì a mantenere l’aderenza delle gomme. «Sta’ calmo, stai andando benissimo. Non è il momento di perdere il controllo.»

«Ha mai funzionato?» chiese d’un tratto Lucas.

«Cosa?»

«Hai mai detto a qualcuno di non perdere il controllo e quello non l’ha perso?»

Eve scoppiò in una risata fragorosa. «Se riesci a fare lo stronzo vuol dire che non hai perso il controllo.»

La donna infilò di nuovo la mano sotto il sedile e ne tirò fuori un altro fucile.

«Ma quanta roba hai messo lì sotto?» chiese il pilota.

«Tutta quella che ci serviva: ora arrivano i granchiacci.»

Lucas aveva visto le gabbie fuoriuscire in lontananza dalla strada: era il momento della gara in cui doveva fare lo slalom fra gli xenomorfi, sperando che questi non facessero troppi danni all’auto.

Eve caricò il pulse rifle e se lo assicurò con la tracolla. Iniziò a fuoriuscire dall’abitacolo ma a metà si fermò e si rivolse a Lucas. «Chi odi di più, me o gli alieni?»

Senza aspettare la risposta la donna sgusciò dal finestrino e si arrampicò sul tettuccio dell’auto. Sdraiata e puntellata con i piedi, Eve aprì il fuoco contro gli xenomorfi che rimanevano confusi sulla strada. Pochi colpi mirati e precisi, con pallottole esplosive speciali in dotazione ai Colonial Marines, e le teste degli alieni esplodevano prima del passaggio dell’auto. Il compito di Eve non era quello, facilissimo, di stendere le creature: era quello di farlo in modo da non versare il loro sangue sulla strada, per non rischiare che corrodesse gli pneumatici della loro auto.

Tutti gli alieni a terra. Ne mancava uno, che gridava e soffiava e dava cenno di voler scomparire nella boscaglia vicina. Eve cambiò la modalità di sparo del fucile e colpì il mostro con proiettili normali: lo ferì alle gambe in modo che rimanesse a terra, sanguinante e pericoloso. Lo fece proprio mentre passavano: ora l’alieno era un grosso problema per chi sarebbe venuto dopo. Se lo colpivano in pieno il sangue acido avrebbe messo fuori uso l’auto. E visto che stava in mezzo alla strada, urlante e disperato, era davvero difficile schivarlo.

Eve tornò sul sedile, soddisfatta. «Rischia di essere noiosetta, come gara, se continua ad andare tutto così bene.»

Lucas si prese il lusso di rallentare leggermente per prendere una curva in modo più preciso. Aveva abbastanza vantaggio per farlo, grazie al lavoro fatto dalla sua co-pilota. E questo gliela faceva odiare ancora di più.

D’un tratto si vide un coltello appoggiato su una gamba. «Prendilo», gli disse Eve, «e sfoga un po’ di odio su di me. C’è un rettilineo e non ti servo per qualche secondo: sfogati al volo, che ne hai bisogno.»

Ancora ordini. Ancora ordini assurdi. Ma quella donna folle su una cosa aveva ragione: Lucas doveva sfogare un po’ di rabbia, per guidare meglio. L’uomo prese il coltello con la mano destra e lo piantò tra le costole di Eve.

Il tutto fu così veloce e avvolto dalla nebbia dell’adrenalina che Lucas quasi si stupì quando sentì la donna gridare: era lui che la stava facendo gridare? Era il suono più bello che avesse mai sentito...

Ora gridava anche lui, di soddisfazione, mentre rigirava la lama nel fianco martoriato della donna urlante.

~

Eloise urlava, ma non per il dolore. Anche per quello, certo, ma era quasi secondario: urlava perché quella era la goccia finale. Era chiaro che quello non era il suo mondo, che quella non era la sua gente, ed ora ne pagava un prezzo salato. L’errore di aver seguito un umano ora lo scontava sdraiata su un letto di dolore, nell’infermeria dello stadio.

Tutti urlavano ma ormai non li ascoltava più: nulla di ciò che usciva da quelle bocche aveva più senso o importanza, per Eloise.

D’un tratto vide Boyka affacciarsi al suo campo visivo, spingere via alcuni umani che le stavano addosso, afferrarle la gamba e farla scrocchiare. Tutto fu rosso di dolore, di dolore vivo e pulsante, ma subito dopo sentì la voce del lottatore. «Dovevo almeno rimetterti la gamba al suo posto.»

Eloise smise di urlare e lo guardò. “Almeno”. Capiva solo una minima parte di quello che Boyka diceva, quando non parlava di combattimento, ma stavolta era riuscita a cogliere la sfumatura. In quell’“almeno” il lottatore stava riponendo tutto il suo rammarico per non aver saputo gestire la situazione, tutto il suo dispiacere per il destino della donna, tutta l’amarezza per un sogno che non solo era svanito, ma risultava non essere mai esistito.

Boyka la guardò e non disse altro. Semplicemente perché non c’era niente da dire. Eloise non ce l’aveva con lui, era l’unico umano che le avesse dimostrato rispetto e che l’avesse trattata bene: l’unico suo sbaglio era stato pensare per lei un sogno che non le apparteneva. Aveva sognato per lei quello che per lui era importante, e questo Eloise non se la sentiva di rimproverarglielo.

«Non posso essere una campionessa», disse la ginoide.

Nella confusione generale, mentre dei medici cercavano di assisterla e dei giornalisti gridavano nei loro microfoni, Eloise e Boyka sembravano parlare per conto loro, come se fossero soli nella stanza.

«Potresti guarire», disse senza convinzione il lottatore, ma entrambi avevano capito.

«Non posso essere ciò che non sono», disse la ginoide, guardando con occhi doloranti il lottatore. «Così come non puoi esserlo tu. Tu sei un lottatore: va’ a lottare...»

I due si guardarono finché Boyka annuì, e se ne andò senza aggiungere nulla. Si erano già detti tutto quello che dovevano. Senza saperlo avevano entrambi cercato di vivere una vita incompatibile con la loro natura, avevano cercato di essere migliori... o semplicemente diversi. Fallendo in ogni caso.

Mentre Boyka usciva, sapeva che la sua natura lo avrebbe portato a cercare Testa di Cuoio – sicuramente il mandante di quello spregevole atto – e fargliela pagare cara. Ma una domanda cercò di affacciarsi nella mente del lottatore, per poi venir ricacciata indietro: cosa l’avrebbe portata a fare, la natura di Eloise?

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Capitolo 11
*** 11 ***


Eve sputò sangue sul parabrezza. L’obiettivo era raggiunto, Lucas si era sfogato ed ora guidava più concentrato, ma in pochi secondi l’abitacolo si era riempito di schizzi di sangue. Il pilota ci aveva dato dentro, ed ora la canottiera nera della donna riluceva dal sangue che la ricopriva.

Lucas fissava avanti a sé e cercava di ignorare gli schizzi di sangue che aveva in faccia, e di come il volante gli sguisciasse da sotto la mano destra, bagnata. Si pulì la mano sul pantalone per cercare di asciugarsela. «L’altra volta non hai sanguinato così tanto», disse in tono neutro.

Eve non rispose, impegnata a cercare di asciugare quel disastro. Il sangue era caduto copioso anche sui fucili e cercò di ripulirli. La donna non riusciva a parlare perché era ancora in preda al piacere: essere accoltellata con una furia ed un odio così totali era stato estasiante. Non lo avrebbe permesso a nessuno, mai, ma c’era qualcosa in Lucas che le faceva perdere il controllo. Questo la spaventava, perché la distraeva... ma allo stesso tempo la inebriava.

Un forte scossone riportò entrambi alla realtà: stavano partecipando ad una corsa automobilistica dove ben poco era vietato, e dove i partecipanti avrebbero fatto di tutto per vincere. Di tutto.

Si voltarono entrambi a sinistra per scoprire un’auto blindata che stava tentando di speronarli e mandarli fuori strada. Com’era arrivato fin lì quel carro armato? Come aveva raggiunto la velocissima Ford Mustang? Non c’era tempo per trovare risposte: ora era il momento per Lucas di fare quello che sapeva fare meglio. L’unica cosa che sapesse fare.

Sterzando leggermente nella direzione dov’era spinto, Lucas riuscì a minimizzare gli spintoni ma non poteva continuare a lungo e stavano arrivando delle curve. «Spara a quello stronzo!» gridò Lucas.

Eve agguantò i due fucili più stretto che poté, visto che erano ancora viscidi di sangue. Lanciò il suo busto fuori dal finestrino e cominciò a sparare all’auto avversaria con entrambe i fucili. Era un fuoco impreciso, ma serviva a spiazzare l’avversario.

Le due auto era quasi allineate così Eve si limitò a sparare sul cofano dell’avversaria. «Rallenta!» gridò la donna, e Lucas capì. Rallentò quel minimo per retrocedere e lasciare sguarnita l’auto avversaria, così che Eve potesse sparare alle gomme.

Il pilota avversario sembrò capire il trucco e rallentò anch’egli, facendo in modo di stare così attaccato alla Ford da offrire il minor bersaglio possibile ai fucili di Eve. I secondi passavano e le curve si avvicinavano: la situazione andava sbloccata subito.

Eve lanciò nell’abitacolo uno dei fucili, si passò velocemente intorno alla testa la tracolla del pulse rifle e spingendosi con i piedi sulla portiera salì sul tettuccio della Ford Mustang. Lucas le urlava che non avrebbe resistito, che sarebbe caduta giù, ma la donna non rispose. Con una mano afferrò uno dei bordi del tettuccio e con l’altra sporse il fucile fino quasi ad infilarlo nell’abitacolo dell’auto avversaria: il pilota se ne accorse e frenò di colpo, ma non prima che Eve aprisse il fuoco.

Pochi proiettili esplosivi furono più che sufficienti per crivellare il corpo del guidatore, che perse il controllo dell’auto. Questa diminuì drasticamente la velocità ma non prima di sbandare, assestando un ultimo forte colpo alla carrozzeria della Mustang, con una forza sufficiente per sballottare Eve fuori dal tettuccio.

«Eve!» gridò Lucas cercando la donna attraverso gli specchietti retrovisori, finché la vide: reggendosi ancora con la mano al tettuccio dell’auto, il suo corpo si teneva a stento sul fianco della Mustang. «Tienti forte!» gridò il pilota.

«Non preoccuparti per me, pensa a guidare», gridò la donna, mentre impiegava ogni briciolo di forza per issarsi sull’auto, appoggiando ogni parte del corpo alla fiancata. Essere tutta ricoperta di sangue viscido non aiutava di certo.

Lucas prese la prima curva malissimo, perché aveva paura che un sobbalzo dell’auto facesse volar via Eve. D’un tratto fissò gli occhi nel vuoto: che diavolo stava facendo? Quella donna era il suo carceriere, lo stava costringendo a rischiare la vita e l’avrebbe ucciso senza batter ciglio, in caso di fallimento. Quella era l’occasione giusta: con la scusa di una curva presa male poteva farla volar via e metter fine a quella storia...

Il pilota guardò di getto nello specchietto retrovisore laterale e incrociò gli occhi di Eve: era chiaro che entrambi stavano pensando la stessa cosa. La donna lo fissava mentre le dita viscide di sangue perdevano la presa: stava cadendo, e non poteva evitarlo.

Lucas la fissò per interminabili attimi, prima di sporgere una mano fuori dal finestrino. «Prendimi la mano!» gridò.

La donna fissò quella mano, chiedendosi perché Lucas non stesse approfittando della situazione per liberarsi di lei. Velocemente la afferrò. «Cosa pensi...»

Non fece in tempo a finire la frase che il pilota affrontò una curva in modo tale da fare testa-coda. Mentre l’auto roteava su se stessa, Lucas lanciò in avanti la donna, sfruttando la forza centrifuga che l’auto stava sviluppando: senza alcuno sforzo, grazie solo alla spinta dell’auto, Eve si ritrovò spinta in avanti fino ad atterrare sul cofano dell’auto. «Al resto pensaci tu», le disse il pilota, mentre iniziava il lungo compito di recuperare il tempo perso.

Eve era stupita e senza fiato, ritrovandosi sdraiata sulla schiena sul cofano della Mustang. Solo di una cosa era sicura: prima di rientrare nell’abitacolo doveva occuparsi delle auto avversarie che stavano arrivando di gran carriera.

Afferrò il pulse rifle che aveva ancora a tracolla e dal cofano cominciò a sparare raffiche di proiettili esplosivi addosso agli avversari. Quasi come se pensassero all’unisono, Lucas cominciò a correre all’indietro, così da permettere alla donna di sparare dritto per dritto.

Acquisita abbastanza velocità e avvertita Eve, Lucas sterzò e fece roteare l’auto per tornare dritto sulla strada: la donna assecondò il nuovo giro centrifugo dell’auto e si fece rotolare nell’abitacolo. Entrò di testa e fu impegnativo rigirarsi per mettersi seduta normalmente, ma alla fine si ritrovò come quando erano partiti. Come se nulla fosse successo.

Per qualche attimo i due rimasero in silenzio, poi fu Eve a parlare. «Perché non mi hai mollato per strada?»

Lucas accennò un vago sorriso. «Immagino che questo sia il tuo modo di dire grazie. Perciò... prego.»

La donna sbuffò. «E va bene, grazie. Ma non capisco...»

«Mi piace troppo ucciderti, per rinunciare a te.»

Eve rimase di ghiaccio. Non si aspettava una frase del genere e non sapeva cosa dire. Purtroppo non ebbe tempo sufficiente per elaborarla e per trovare una risposta, perché quello che vide in lontananza cancellava ogni altra questione.

«Che cazzo succede?» bisbigliò.

~

Gli occhi di Eloise non vedevano più. Non perché fossero chiusi, ma perché stava ignorando sempre di più la sua fisicità per dedicarsi con sempre maggior vigore all’universo di sensazioni psico-chimiche che le proveniva dalla comunicazione con gli altri alieni.

Sentiva i muscoli irrigidirsi e ogni parte del suo corpo trasformarsi, seguendo le istruzioni genetiche che il dottor Lichtner aveva impostato, ma la sua mente era ormai lontana. La sua mente era entrata nel flusso costante delle comunicazioni fra xenomorfi. E non si limitava più ad ascoltare gli unici messaggi che ormai era in grado di capire, perché ora poteva comunicare.

Eloise stava invocando ogni alieno fosse in grado di avvertire il suo messaggio. E il suo messaggio era chiaro: «Venite a me...»

~

Boyka si muoveva come un fantasma tra la folla. Tutti erano in fermento per l’incidente, avvenuto in diretta televisiva, e al contrario delle altre scorrettezze che regolarmente si compivano al DOA questa non si poteva ignorare. C’era una parvenza di legalità da mantenere e già si parlava di aprire un’indagine: un modo elegante per mettere tutto a tacere. Ma intanto la confusione era ancora protagonista al posto dei combattimenti.

Mentre il pubblico urlava e tutti i tecnici si agitavano, Boyka camminava spedito verso la postazione di Testa di Cuoio. Sapeva che c’era lui dietro la vigliaccata subita da Eloise, sapeva che quel lottatore scorretto non aveva perso il vizio di cercare di spezzare le ginocchia per evitare gli scontri, ed ora era il momento di sistemare la questione. Era stato troppo tenero con lui, anni addietro, e aveva sbagliato a lasciarlo in vita: stavolta non avrebbe commesso lo stesso errore. L’unica domanda che Boyka si poneva era: ammazzarlo in fretta o fargliela pagare cara?

Lo intravide che parlottava con i suoi uomini. Pensò di avvicinarsi di soppiatto per contare sull’effetto sorpresa, ma ci ripensò: l’avrebbe affrontato a viso aperto per dimostrare che lui non era una iena, pronta a colpire di nascosto. Si avvicinò con passo deciso finché Testa di Cuoio non lo vide, contraendo il viso in un’espressione a metà fra la sorpresa e la gioia. Era come se fosse contento di poter saldare il conto con l’uomo che gli aveva strappato lo scalpo, ma allo stesso tempo ne avesse anche paura.

Testa di Cuoio disse qualcosa ai suoi sgherri che subito si dileguarono, mischiandosi alla folla: sicuramente andavano a preparare trappole da vigliacchi per proteggere il loro amico. Boyka si fermò e salì sul primo ring che trovò, facendo poi segno all’avversario di seguirlo: che lo affrontasse a viso aperto e senza trucchi.

Testa di Cuoio cominciò a guardarsi in giro, agitato, e forte del fatto che nessuno badava a quello che stava succedendo pensò bene di darsela a gambe verso gli spogliatoi.

Boyka già stava per scattare all’inseguimento quando si immobilizzò davanti ad una scena che lo lasciò di stucco. Testa di Cuoio era rientrato in sala e lentamente si stava avvicinando al ring... ma non con le sue gambe! Uno Yautja lo teneva sollevato per il collo, e si avvicinava al ring mentre l’uomo si agitava e scalciava.

Salito sul ring, il Predator si fermò davanti a Boyka, che lo fissava allibito.

«So chi sei», gracchiò lo Yautja in modo stentato: aveva evidentemente imparato la lingua umana ma non sembrava la sapesse padroneggiare più di tanto. «I miei uomini ti hanno visto ieri, mi sono informato su di te. So cosa ha fatto questo verme», ed agitò Testa di Cuoio, paonazzo, davanti al lottatore. «Non mi interessa la tua vendetta: voglio combattere e vincere un lottatore famoso come te.» Finito di gracchiare, il Predator con un colpo di polso spezzò il collo a Testa di Cuoio, lanciando via il cadavere come fosse spazzatura. «Basta con stupidaggini senza onore», disse poi. «Io sono un guerriero famoso, come te: solo uno di noi scenderà da qui.»

Boyka lentamente si tolse la divisa che gli era stata data: quello era il combattimento più importante della sua vita e voleva il corpo libero da stupidi stracci. Nessuna divisa poteva stargli bene, perché nulla della civiltà umana era pensato per lui. Forse era il più alieno fra gli umani di quella sala...

Distratto da quei pensieri, non si rese conto di cosa stava accadendo intorno al ring.

~

Il messaggio era stato recepito. Il messaggio era stato accolto. Ed Eloise era il messaggio.

Per evitare un’invasione incontrollata, gli umani tenevano sul pianeta solo alieni maschi, droni sterili che da soli erano spaesati. Non c’era alcuna Regina a coordinarli, a guidarli, a renderli un esercito invincibile. Finora...

Il messaggio di Eloise era diverso da qualsiasi altro mai avvertito dagli xenomorfi del pianeta, e “diverso” voleva dire una cosa sola: era appena arrivata una Regina a guidare la rivolta, a liberare gli alieni dalle gabbie in cui gli umani li avevano costretti. Era arrivato il tempo della rivolta.

Il messaggio psico-chimico che Eloise ricevette fu così potente che quasi ne fu annichilita. Così potente che ci si tuffò senza più speranza di tornare indietro: non era più Eloise, era parte di una forza potente che aspettava solo lei per essere completa.

Ora non erano più migliaia di alieni separati, ora erano una legione. Un corpo unico che pensava all’unisono. E il primo pensiero fu: «Che la guerra cominci.»

~

Lucas aveva il suo da fare a prendere le curve evitando di essere superato dalle altre auto che ormai gli erano alle costole. Aveva perso tutto il suo vantaggio ed ora doveva sudare ogni metro di strada. Così non sentì l’esclamazione di Eve.

Quando finalmente affrontò l’ultima curva e iniziò a pompare benzina per affrontare il rettilineo alla massima velocità, per riacquistare vantaggio sui pesanti mezzi blindati che lo inseguivano, vide finalmente cosa aveva visto la donna prima.

Si aspettava due o tre xenomorfi sulla strada, per rendere la gara più difficile, ma questo superava ogni aspettativa. L’orizzonte era nero. L’orizzonte si muoveva. L’orizzonte brillava dei corpi chitinosi delle creature che lo riempivano.

«Mio Dio...» si limitò a sibilare Lucas.

«Mi spiace», rispose Eve al suo fianco. «Neanche Lui potrà fare molto in questo caso.»

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Capitolo 12
*** 12 ***


Gli occhi di Boyka e del Predator si fissavano in modo marziale, quello sguardo privo di astio o di furia che contraddistingue due combattenti che si studiano. Ognuno dei due lottatori portava la propria storia negli occhi, per chi fosse in grado di leggerla: ogni vittoria, ogni sconfitta, ogni paura e ogni determinazione, tutto era inciso a fuoco nel loro sguardo. E i due si studiavano senza voltare gli occhi, neanche quando era chiaro che c’era qualcosa che non andava.

La sala era agitata sin dall’incidente di cui era stata vittima Eloise, ma ora sembrava esserci altro, ma i due lottatori avevano escluso tutto ciò che non fosse compreso dai quattro lati del ring: in quel momento esistevano solo loro, il loro tempo e la loro dimensione. Il resto era solo rumore di fondo, una distrazione da ignorare. Compresi i versi che facevano chiaramente capire come degli xenomorfi fossero entrati in sala...

Lo Yautja si fece leggermente avanti, e Boyka capì che era un trattamento di favore. Si vedeva che si stava trattenendo, e il lottatore era più che convinto che quella creatura fosse solita gettarsi di peso addosso agli avversari, per assestare subito un colpo potente che avrebbe fiaccato loro fiato e resistenza, ma era chiaro che ora non stava per attaccare in quel modo. Voleva un combattimento più pulito.

Urla umane si fondevano con grida aliene, rumori inquietanti di carne strappata facevano da sfondo a schiocchi secchi che quasi sicuramente erano da imputare alle bocche aliene che si chiudevano addosso alle loro vittime. Tutto questo andava ignorato, perché stava avvenendo fuori dal ring.

Il Predator tentò un pugno dritto davanti a sé, a testare l’avversario: Boyka non si mosse. Era immobile a guardare l’avversario, senza che un solo muscolo vibrasse. In realtà stava raccogliendo ogni briciola di energia vitale e di concentrazione.

Il Predator tentò un pugno a spazzata non troppo convinto, troppo distante perché potesse essere davvero una minaccia, e anche stavolta Boyka non si mosse. Quando partecipava ai combattimenti clandestini trasmessi in diretta, allora sì che sapeva come intrattenere il proprio pubblico, soprattutto con tecniche inutili ma di grande effetto. Ora no, ora doveva combattere per... sopravvivere? No, un campione non pensa mai alla sopravvivenza, sarebbe un impedimento: un campione lotta perché è un campione. Perché l’energia che gli arde dentro ha bisogno di essere veicolata e di essere riversata all’esterno.

Lo Yautja gracchiava e pronunciava parole incomprensibili. Lo stava spronando, magari essere molto più alto e muscoloso di lui credeva fosse un deterrente per l’avversario. Come se nei lunghi anni nel carcere di Gorgon per Boyka non ci fossero mai stati giganti da atterrare...

La sala era ormai nera di carne chitinosa e di versi alieni. L’invasione stava per essere completa, e forse fu questo a distrarre lo Yautja. Un oceano di xenomorfi che dilania decine di corpi umani non è uno spettacolo da lasciare indifferenti, eppure sembrava che il Predator ignorasse ciò che stava accadendo. Lo stesso commise un grave errore: pensò che Boyka fosse fermo. Invece si stava solo caricando.

Ripetere due volte la stessa tecnica è da sciocchi. Ripeterla tre volte è da folli. Farlo sul ring con Boyka è da morti. Il Predator per la terza volta provò un pugno, stavolta diretto al volto, per spingere l’avversario ad iniziare a combattere. Ma mentre il pugno era ancora in volo Boyka fece scattare la spalla e in un attimo il suo gomito colpì le nocche della creatura. La convinzione di essere fisicamente superiore aveva impedito allo Yautja di caricare più di tanto il colpo, così anche un piccolo gomito umano fu in grado di provocargli danni alle nocche.

Il tempo di gridare per il dolore fu troppo lungo, perché lasciò la mano sospesa. E in pochi attimi di secondo Boyka gliela crivellò di pugni. L’incontro era appena iniziato e lo Yautja aveva già la mano destra ferita. Gli xenomorfi forse erano il nemico meno pericoloso in sala...

~

Lucas frenò così di colpo che a momenti Eve veniva sbalzata fuori dall’abitacolo. L’auto cominciò a sbandare e gli avversari che erano alle calcagna in un attimo la superarono. Lucas continuò ad accelerare e frenare per fare in modo di non trovarsi mai parallelo ad alcuna auto, perché c’era il rischio che l’autista gli sparasse dal finestrino. E già così stava rischiando parecchio.

Eve reputò inutile chiedere quale fosse il piano, anche perché quell’oceano di xenomorfi rendeva qualsiasi piano molto debole. Lucas finalmente stabilizzò l’auto solo quando riuscì a mettersi in scia dietro uno dei concorrenti, dall’enorme auto corazzata. Nel giro di pochi secondi dai contorni del retro dell’auto cominciarono a volare via alieni: quel concorrente stava letteralmente aprendosi un varco nel mare xenomorfo.

«Non durerà, lo sai?» chiese Eve, che intanto aveva ricaricato entrambi i fucili. Li guardava e le sembravano dannatamente inutili in quella situazione.

Ai lati della Ford Mustang sfrecciavano orde di teste oblunghe, artigli frementi e zanne luccicanti. Tutti troppo lontani per poterli colpire, grazie all’enorme auto che stava aprendo il varco. «Fin qui tutto bene...» bofonchiò Lucas.

«Sarebbe questo il piano?» gridò d’un tratto Eve. «“Fin qui tutto bene”?»

Lucas non rispose ma guardò per alcuni secondi il tachimetro: era innegabile che stavano rallentando. Forse il pilota davanti stava diminuendo la velocità perché si stava avvicinando una curva, ma la paura di Lucas era un’altra: anche quelle auto così blindate non potevano nulla contro un’invasione aliena di quelle proporzioni.

Il pilota si voltò di scatto a guardare la donna. «Ti fidi di me?»

Eve lo guardò stupita. Come poteva farle quella domanda? «Ma certo che non mi fido di te», rispose.

Lucas sbottò in una risata poi con la mano destra premette un pulsante invisibile alla base della leva del cambio. Senza guardare infilò la mano nel pertugio che si era aperto, sempre invisibile, e ne tirò fuori una granata, che porse ad Eve. «Io invece mi fido di te, perché se muoio nessuno saprà più farti provare certe emozioni.»

Eve aveva spalancato la bocca. In un’altra situazione avrebbe fatto pagar cara quella mancanza di rispetto, quel modo tronfio di rivolgersi a lei da parte di chi stava esagerando di molto l’importanza che aveva, ma tutto era cancellato davanti a quella granata.

«Perché avevi una granata nascosta?» sibilò la donna, afferrandola.

«Perché vicino al traguardo avrei fatto esplodere l’auto simulando la mia morte, così da poter avere abbastanza vantaggio per scappare il più lontano possibile da te.» Lucas disse tutto sorridendo. «Quella roba è potente, l’auto si sarebbe trasformata in un cumulo di metallo contorto e non avresti mai avuto la certezza che io non c’ero, dentro.»

Eve era allibita. «È un piano folle. Ci sono telecamere ovunque, come pensavi di uscire dall’auto non visto?»

«Avrei agito nel tratto di strada con il percorso alberato. Non dico che era un piano sicuro, ma qualcosa dovevo provare. Ora però non ha più importanza.»

«Dopo tutto quello che...»

«Dopo tutto quello che, sì» si sbrigò a chiudere il discorso Lucas. «Se volevi un pilota onesto e leale non dovevi venire a cercare nella fogna di paese dove mi hai trovato. Io non ho mai eseguito gli ordini di qualcuno, non fa parte del mio organismo. Se mi costringi, io fuggirò sempre. Sta a te, ora decidere...»

Eve lo fissava, sempre più allibita. «Decidere cosa

Lucas la fissò, sorridendo. «Se fuggire con me.»

~

Il Predator era potente, aveva una massa muscolare come una montagna: per questo non aveva alcuna possibilità con Boyka. Era lento, era massiccio, ogni suo colpo era prevedibile perché muoveva un gran numero di muscoli per caricarlo. Un solo suo pugno avrebbe spaccato la testa dell’avversario, e molti suoi incontri li aveva vinti perché aveva letteralmente spezzato in due l’altro lottatore, facendogli scrocchiare la schiena come un fuscello di legno, ma per far questo doveva prenderlo, l’avversario.

Boyka era carico e scattante, e dal primo colpo di gomito non si stava più fermando. Le sue mani callose erano durissime, per gli standard umani, ma non potevano nulla contro i potenti muscoli della razza Yautja: per questo stava attento a non colpire muscoli ma solo nervi e cartilagini.

Mentre ancora il Predator gridava per il dolore alle dita gli aveva preso a pugni polso ed attaccatura del bicipite, assicurandosi maggior lentezza nel braccio destro dell’avversario. Mentre la creatura cercava di spazzar via Boyka con la sinistra, questi si scansò velocemente per colpire a mano aperta l’ascella dell’avversario: non poteva provocare danni permanenti, ma dolore accecante sì.

Le grida del Predator quasi coprivano l’ululato dei mille xenomorfi che avevano invaso la sala. Boyka con rapidi gesti si arrampicò sul corpo dell’avversario fino ad incastrare la propria gamba con la sua grande testa: seduto sulle spalle del gigante, iniziò a riversargli su nuca e faccia una gragnola di colpi a pugni chiusi, con le nocche dell’indice esposte. Un’antica tecnica cinese per provocare più dolore possibile.

Quella posizione era troppo instabile per durare, e quando vide che il Predator alzava le braccia per afferrarlo, Boyka si lasciò cadere all’indietro, così che quando lo Yautja si trovò a braccia alzate poté infilarsi sotto le sue gambe e fare leva: la montagna cadde a terra con un tonfo sordo.

Rialzatosi d’un lampo, il Predator era furioso e totalmente fuori controllo: esattamente come lo voleva Boyka. Il lottatore non aveva la forza sufficiente per affrontare un avversario del genere, così ora poteva contare sulla forza che l’avversario stesso gli forniva, involontariamente.

Lo Yautja partì alla carica per schiacciare l’uomo con il suo peso, quindi a Boyka bastò lasciarsi cadere all’indietro alzando le gambe, così da fare da “rampa di lancio” per l’avversario, che volò dall’altra parte del ring, cadendo addosso alle corde. Quando si rese conto che aveva le gambe a penzoloni fuori dal ring, dove era pieno di xenomorfi, lo Yautja si sbrigò a ritirarle dentro. Ma nessun alieno lo aveva degnato di attenzione.

«Nessuno ci attaccherà» disse Boyka, sapendo che la creatura lo capiva. «Sono tutti controllati da una mia amica.» Questa l’avrebbe capita, lo Yautja?

Quest’ultimo partì di nuovo alla carica, a riprova che non era un campione così capace come credeva: probabilmente aveva vinto tutti gli incontri con gli umani sfruttando semplicemente la forza fisica. Meritava una lezione, così Boyka aspettò che fosse vicino e fece scattare in avanti la mano, afferrandogli una delle zanne che, nel grido di battaglia, il Predator aveva esposte all’aria. Il lottatore strattonò giù così forte che l’avversario, costretto a seguire la sua mano, cadde rovinosamente a terra con un rumore sinistro. Il rumore della sua zanna che si spezzava, sotto il peso del suo stesso corpo.

Una capriola, e Boyka cadde a peso morto sull’avversario, assicurandosi che il proprio tallone finisse su un’altra zanna, rompendogliela. Il Predator gridava e fendeva l’aria coi suoi potenti pugni, ma i riflessi di Boyka li evitavano accuratamente.

Quando lo Yautja si rialzò era una maschera di sangue verde luminescente. I suoi occhi non erano più sicuri, il suo corpo non più così dritto. Boyka continuava invece ad essere immobile: era inutile attaccare quella montagna, bastava aspettare che si sgretolasse da sola.

~

«E dove potremmo fuggire, io e te?» chiese Eve con tono sarcastico.

«Non lo so, sei una donna capace e sono sicuro che hai mille risorse. Fra pochi secondi c’è una curva, dovremo rallentare e gli alieni ci prenderanno. Oppure lanci quella granata in modo da colpire più macchine avversarie, creiamo un botto di quelli potenti che si porta via qualche creatura e attira l’attenzione degli altri, e invece della curva andiamo dritti. In qualsiasi altro posto.»

«I tuoi piani mi sembrano uno peggio dell’altro...»

«Stiamo rallentando sempre di più, Eve, da un momento all’altro saremo sommersi da mostri. A te non frega niente, tanto non puoi morire, ma perderai me. Perderai l’unico uomo che...»

«Ma piantala!» gridò Eve, «e preparati a mancare quella curva.»

Lucas sorrise. Eve si sporse e lanciò la granata in un punto preciso. Rientrò e guardò il pilota. «Vediamo quanto fa schifo il tuo piano...»

~

Con il braccio destro rattrappito dal dolore e i muscoli frementi, gli attacchi del Predator si erano fatti molto meno temibili. Era una montagna di carne tremula che combatteva ciecamente, che non voleva ammettere che Boyka era diverso da tutti gli avversari umani che aveva incontrato finora. Che gli altri erano semplici lottatori: lui era un campione.

Lo Yautja cercò di afferrare l’uomo con le due mani in avanti, ma quando strinse l’aria poté vedere Boyka sferrargli una gomitata in pieno volto, proprio doveva aveva già colpito prima con i gomiti. Un occhio dello Yautja si chiuse definitivamente e il sangue continuava a sgorgare.

Era inutile continuare. Approfittando che il Predator era chino a gemere di dolore, Boyka gli afferrò una delle zanne ancora sane e tirò in avanti, seguito dal corpo dolorante dello Yautja, fino a scagliarlo fuori dal ring. La montagna cadde nel fiume chitinoso sotto di lui, scomparendo per sempre.

~

L’esplosione fece il suo dovere. Coinvolse almeno due auto, che a loro volta esplosero, e decine di xenomorfi vennero spazzati via, attirando l’attenzione di tutti gli altri. Lucas sterzò violentemente un attimo prima dell’esplosione, così da non essere colpito e di essere già lanciato quando gli alieni cominciavano a volare via. Corpi di xenomorfi ammaccarono pesantemente l’auto, ma dopo alcuni attimi tesi in cui non era chiaro se le lamiere avrebbero resistito, Lucas ed Eve si ritrovarono in un tratto desertico, viaggiando a tutta velocità lontano dal tracciato del DOA.

Lucas non aveva tempo di esultare, perché guidare quell’auto su un terreno ancora più impervio non era uno scherzo, con il rischio che l’ondata di xenomorfi li seguisse e il rischio, tutt’altro che sventato, che uno pneumatico forato dal sangue alieno li lasciasse fermi nel nulla. L’esplosione era un diversivo perfetto, tutte le creature stavano circondando la zona mentre le auto dei partecipanti si ammassavano. Sarebbe stata una strage, ma questo non lo riguardava. Tutte le persone di cui gli importava erano in quell’auto che stava guidando verso la salvezza. Anche se la salvezza era una enorme incognita.

Si voltò giusto un attimo per sorridere ad Eve e fargli capire quanto fosse importante per lui... e fu allora che la vide sanguinare...

~

Quanto poteva fidarsi Boyka a scendere dal ring? Quanto poteva essere sicuro che gli xenomorfi erano davvero guidati da Eloise? In fondo nessuno aveva provato a salire sul ring, quindi era quasi sicuro. Ma scendere tra loro era tutto un altro discorso.

Mentre si guardava intorno per decidere il da farsi, Boyka vide Eloise. O meglio, vide il suo corpo. Un gruppo di xenomorfi lo stava trascinando con cura, probabilmente per farne la propria Regina.

Boyka guardò impotente lo spettacolo della sua ex allieva, ridotta quasi ad un involucro, che veniva trascinata come una bambola senza vita. Forse sarebbe stato meglio per lei rimanere nella casa del suo creatore, forse sarebbe stato meglio per lei non averlo mai incontrato... Di sicuro non l’aspettava un bel futuro, come Regina Aliena, ma forse lei preferiva così.

Boyka non sapeva cosa pensare, né comunque aveva potere di intervenire. Guardava tristemente il corpo della ginoide che aveva sperato di poter forgiare a propria immagine... Era uno spettacolo penoso, quindi Boyka prese come consolazione la potente luce che invase la sala.

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«Che ti prende, Eve, perché stai sanguinando così tanto?» continuava a chiedere Lucas, sentendosi d’un tratto in colpa: che fosse per via delle coltellate che le aveva inferto prima? In effetti aveva sanguinato più del solito.

Eve tossiva e non rispondeva, limitandosi ad accasciarsi sul sedile. «Ora mi fermo», disse il pilota. «Questi sobbalzi non ti fanno bene.»

«Non... fermarti...» sussurrò la donna, sforzandosi. Una volta assicuratasi che Lucas andasse alla massima velocità, così da abbandonare la zona dell’invasione aliena, parlò con le ultime energie che le rimanevano. «Sono stata spietata, con te... perché dal DOA Race dipendeva tutto... per me. Il mio corpo appartiene alla Yutani, e per assicurarsi che dessi il massimo... l’hanno impostato perché collassasse se mi fossi allontanata... dal percorso della gara...»

«Cosa?» gridò Lucas. «Perché non me l’hai detto? Maledizione, forse ce la facciamo ancora. Dietro quelle colline c’è il traguardo, se mi sbrigo possiamo...»

«No», bisbigliò la donna. «Non servirebbe a niente, sono già compromessa... Servirebbe solo a farti uccidere.»

«Ma che bisogno c’era?» si lamentava Lucas. «È solo una fottuta gara!»

«E io... sono solo un fottuto corpo potenziato...» rispose Eve. «Per loro, trovare un’altra ragazza che si lasci trasformare in Lazarus è semplicissimo. Si richiede solo fedeltà totale... Ne trovano a frotte...»

Lucas stringeva il volante fino a sentirsi esplodere le mani. «Perché l’hai fatto?» chiese rabbioso. «Potevi... maledizione, sei un’abile pilota, potevi prendere la macchina e arrivare al traguardo.»

«Ma senza di te...» sussurrò Eve. «Purtroppo avevi ragione, non posso stare senza di te, senza il tuo odio nei miei confronti... senza la morte che mi davi... Piuttosto che vivere perdendoti... ho preferito...» Un violento colpo di tosse inondò il cruscotto di sangue. Il corpo di Eve stava cedendo, e Lucas cominciò a prendere a pugni il volante, urlando.

«Non... sprecare quella rabbia...» mormorò la donna. «E uccidimi... per l’ultima volta...»

Lucas non sentiva più le sue urla, non sentiva più il piede sull’acceleratore, non vedeva più la strada desertica e ignota che gli sfrecciava davanti. Sentiva solo la mano che afferrava il corpo esangue di Eve e se lo stringeva al petto. Sentiva solo il suo braccio che cingeva il collo della donna. Sentiva solo le sue labbra che le davano l’ultimo bacio. Sentiva solo che la stringeva con ogni briciola di forza. Sentiva solo la morte che le dava. Il gesto d’amore più grande...

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Il corpo di Eloise scomparve, come scomparvero in poco tempo i corpi degli xenomorfi che la trasportavano. Seguiti subito dopo dai corpi degli alieni che avevano inondato la sala. Quell’arma era potente, dannatamente potente, pensò Boyka.

L’astronave yautja aveva sfondato una parete dell’edificio, e a essa erano fuoriuscite decine di Predator armati di tutto punto che cominciarono a bonificare la zona. Man mano che i corpi degli xenomorfi andavano in fumo sotto i colpi delle armi yautja, venne alla luce il cadavere dell’avversario di Boyka: non ne rimaneva un gran che, ma bastava per indisporre i nuovi venuti.

Boyka rimase immobile sul ring mentre i Predator si avvicinarono e cominciarono a parlarsi l’un l’altro, indicando il loro campione a terra. Il lottatore era sicuro che mancava poco prima che mandassero in fumo anche lui, e forse dopo quello in cui aveva coinvolto Eloise se lo meritava anche. Dopo una vita passata a fare il re in una fogna, pestando chiunque gli si fosse messo davanti, aveva viaggiato per l’universo e vissuto più avventure di quante mai avesse potuto immaginare. Dalla vita aveva ottenuto molto più di quanto una nullità come lui potesse sperare.

Boyka era sereno, quando i due Predator alzarono i fucili verso di lui.

Un grido li fermò. I due Yautja si voltarono di scatto e attesero che le due figure che per ultime erano scese dalla nave si avvicinassero. Al che Boyka ne riconobbe almeno una.

«Dunja?» gridò. «Che cazzo ci fai lì?»

La donna indossava un’armatura Yautja e camminava impettita al fianco di un Predator molto vecchio, che evidentemente doveva essere il capo. «Scusa se ti ho un po’ trascurato, straniero», disse la donna, sorridendo, «ma ho avuto un po’ da fare. Ti va di aiutarmi nella mia nuova missione?»

Boyka era allibito. «Sai che mi stai facendo rimpiangere la tranquillità della mia vecchia prigione?»

Dunja rise. «Devo prenderlo come un sì?»

«E questa tua “missione”», disse Boyka in tono sarcastico, «in cosa consisterebbe?»

Dunja mostrò il grande fucile che imbracciava. «Dobbiamo aiutare i nostri amici Yautja a ripulire la Casata Yutani dagli insetti che la abitano. No, non intendo gli xenomorfi: intendo gli umani che l’hanno usurpata e che in questi anni l’hanno trasformata in una dittatura. Ti prometto che dopo ci ritiriamo in una casetta in campagna.»

Boyka storse la bocca in un sorriso. Per la prima volta nella sua vita era stanco. Ma per la prima volta era contento di non essere solo.

FINE

Alla prossima con le FONTI del racconto

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Capitolo 13
*** LE FONTI ***


Questa fan fiction è una storia originale che utilizza però personaggi e situazioni pre-esistenti, estratti da varie fonti: ecco la specifica del materiale a cui ho attinto per la stesura di Aliens vs Boyka 3: Dead Or Alive.

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Boyka - personaggio cinematografico nato nel film Undisputed II: Last Man Standing (2006) di Isaac Florentine, prodotto dalla NU Image / Millennium Films. Nato come cattivo, conquista talmente il pubblico che diventa protagonista assoluto del successivo Undisputed III: Redemption (2010): dopo un vano tentativo dell’attore Scott Adkins di diventare “attore normale”, nel 2016 gira il terzo (deludente) film nei panni del personaggio.

Personaggio venerato in ogni angolo del mondo, tranne in Italia dove è totalmente inedito, Boyka è un detenuto del carcere duro di Gorgon, campione indiscusso dei combattimenti illegali finché il buono del secondo film gli ha spezzato una gamba. Diventato buono (e religioso), riesce a riabilitarsi e sebbene zoppo partecipa al campionato di Gorgon sbaragliando ogni avversario.

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Dunya e il generale Rykov sono personaggi del videogioco Aliens vs Predator 2 (2001) prodotto dalla Sierra, ma ho preso in considerazione anche l’espansione Primal Hunt (2002).

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Eloise nasce il 27 agosto 1997 dal fumetto Aliens: Purge, scritto da Ian Edginton per la Dark Horse quasi a "bruciare" il soggetto di Alien Resurrection, che uscirà nel novembre successivo.

Su Sybaris 503 il dottor Lichtner compie vari esperimenti, tra cui la creazione di una donna partendo da materiale genetico alieno: uno xenomorfo a forma di donna di nome Eloise. Quando i nuovi “padroni” del dottore vengono a prendere possesso dell’impianto, Eloise massacrerà tutto ciò che respira e rimarrà regina del suo piccolo impero. Ovviamente questo fumetto è inedito in Italia, come la stragrande maggioranza degli Aliens Comics.

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Lucas – La saga di Fast and Furious e Transporter hanno un debito di riconoscenza verso un film storico: Il contrabbandiere (Thunder Road, 1958) di Arthur Ripley, concepito e interpretato da un mito come Robert Mitchum.

La famigerata contea di Harlan, nel Kentucky, è nota per il suo whisky di contrabbando, come ben sanno gli spettatori della fortunata serie televisiva Justified (2010). Il film di Ripley mostra come le famiglie che gestivano le distillerie clandestine avevano studiato un modo per portare l’alcol illegale ai locali cittadini: fenomenali piloti lo trasportavano in scompartimenti segreti delle loro auto, attraversando le pericolose strade sterrate di boschi inseguiti da auto della polizia. Il migliore di questi piloti è un veterano di guerra che non ha trovato altro posto nella società se non quello di sfidare la morte ogni notte, stando attento che nessuno dei suoi cari si azzardi ad intraprendere la sua stessa professione: Lucas (Robert Mitchum). Chissà se il nostrano Lucio Fulci aveva in mente questo personaggio quando ha intitolato il suo film Luca il contrabbandiere (1980).

Visto che l’alcol illegale non mi sembrava adatto per l’universo narrativo di Aliens, ho preferito far trasportare benzina al mio Lucas, il cui nome peraltro è un omaggio anche al cognome del protagonista di Death Race 2 (2010) e Death Race: Inferno (2013), Carl “Luke” Lucas, interpretato da Luke Gross. Insomma, Luca, Lucas, Luke, Lucio... come potevo non sfruttare questa congiunzione astrale di nomi?

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Forever, detta Eve – Il 26 giugno 2013 la Image Comics presenta una nuova eroina a fumetti del grande sceneggiatore Greg Rucka, che mentre scrive roba discutibile per la DC si tiene il meglio per le altre case. La testata si chiama “Lazarus” e inizia con una protagonista che alla prima pagina viene crivellata di corpi. Rimasta a terra in un lago di sangue... si rialza e fa fuori i suoi assassini...

In un futuro post-apocalittico l’America è governata da due famiglie, i Morray e i Carlyle, ed entrambe hanno un Lazarus: visto che Greg Rucka non si è messo a spiegare nei dettagli cosa sia, perché dovrei farlo io? Il Lazarus protagonista della testata è una donna potenziata di nome Eve, contrazione di Forever: è invincibile e guida l’esercito della sua Casata, ma è anche figlia del patrono dei Carlyle: questo crea non pochi problemi con i fratelli “normali”.

Della splendida saga di Lazarus – in minima parte arrivata anche in Italia per Panini Comics (come ci racconta il blog "La Bara Volante") – ho già parlato a lungo nel mio blog “Fumetti Etruschi”, analizzando le prime quattro stagioni: qui mi preme far notare che due Casate mi è sembrata la stessa divisione dell’universo narrativo di Aliens, con i Weyland e gli Yutani.

La perversione di Eve per cui la morte le provochi piacere è una mia idea: non so se la Image Comics avrebbe accettato un’idea simile da Rucka!

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«Guardami... e pensa a come ammazzeresti quegli stupidi insetti umani.» – La prima volta che ho incontrato l’idea di un combattimento “immaginato” è stato con Hero (Ying xiong, 2002) di Zhang Yimou, e l’ho subito amata. Nel geniale wuxiapian il ribelle Sky (Donnie Yen) viene avvicinato dal cacciatore di taglie senza nome (Jet Li) e i due si limitano a chiudere gli occhi: il combattimento che segue è tutto immaginato.

L’idea era stupenda e l’esecuzione dei due mostri sacri asiatici talmente perfetta che mi è rimasta nel cuore, apprezzando al sua versione giapponese l’anno successivo, in Zatôchi (id., 2003) di Takeshi Kitano. Qui lo scontro finale fra il “massaggiatore cieco” (Kitano) ed Hattori (Tadanobu Asano) viene preceduto da alcune “prove”: i due fenomenali spadaccini immaginano alcune tecniche per capire se potrebbero funzionare, ipotizzando la reazione dell’altro.

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Ford Mustang – L’auto protagonista della saga filmica di Death Race, dal 2008 al 2013.

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Yautja – Quando nel 1994 la romanziera S.D. Perry, figlia del celebre Steve, si ritrovò a dover trasformare in romanzo il celebre fumetto Aliens vs Predator (Dark Horse Comics 1990), si rese conto che sarebbe stato molto difficile descrivere i Predator. Gli xenomorfi poteva chiamarli bugs o vari altri sinonimi animaleschi, ma i Predator? Il semplice sinonimo hunters non bastava, così decise di pensare in grande: si inventò di sana pianta un’intera cultura e una intera lingua. Con il (noioso) romanzo Aliens vs Predator: Prey nacque dunque il termine Yautja come nome proprio della razza dei Predator.

A parte qualche fan sfegatato, nessuno ha mai utilizzato questo nome negli anni successivi: viene tuttora ignorato dalla Fox per i film e dalla Dark Horse per i fumetti, rimanendo puro e semplice fun stuff, roba da fan. Poi nei primi anni del Duemila è arrivata Wikipedia che cita il termine e d’un tratto tutti pensano che Yautja sia il nome “ufficiale” dei Predator, quando è usato solo ed esclusivamente per un paio di libri della Perry. (Nel 2016 l’ha ripreso Tim Lebbon per la sua orripilante trilogia “Rage War”: è un’opera nata morta quindi merita solo indifferenza.)

Avendolo ignorato per circa 25 anni, il nome Yautja non mi ha mai conquistato ma è innegabile che scrivere un racconto con dei Predator rende indispensabile un qualche sinonimo per loro, a meno di non usare nomi propri singoli: così mi sono ritrovato a farne largo uso.

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Lingua Yautja – I Predator si sono sempre espressi a gesti, al massimo hanno comunicato con gli umani ripetendo storpiandole alcune frasi di questi ultimi. Poi, come dicevo, la Perry si è inventata di sana pianta la loro lingua e da quel 1994 i Predator hanno cominciato a parlare fra di loro.

I film ignorano la loro lingua mentre la Dark Horse ne ha fatto un accenno all’inizio della saga Aliens vs Predator: Fire and Stone (2014). Visto che ho immaginato i Predator come alleati della Casata Yutani, cioè di umani, mi è piaciuto dare per scontato che le due razze si siano anche parlate, studiando le rispettive lingue.

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Jingtì Lóng – Il nome della compagnia cinese è preso dal racconto Deep Black di Jonathan Maberry, raccolto nella splendida antologia Aliens: Bug Hunt da lui stesso curata nel 2017. Mi è piaciuta l’idea di una contaminazione cinese – il popolo protagonista del mondo del Duemila – nell’universo alieno, quindi ho voluto omaggiarla.

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Karambit – Fenomenale piccolo coltello tipico del sud-est asiatico, presente in celebri pellicole indonesiane marziali arrivate in tempi recenti anche in Occidente. L’idea di una piccola umana che affronti un enorme Predator e lo vinca recidendo i tendini proviene ovviamente dal piccolo Tony Jaa che affronta il gigante Nathan Jones nel film The Protector. La legge del muay thai (Tom yum goong, 2005).

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«Per un nemico grande non serve un coltello grande... ma un grande coltello!» – Parafrasi di un celebre spot televisivo anni Ottanta del “Pennello Cinghiale”, cult per un’intera generazione.

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