Stepbrothers - Another different Cinderella story

di Dandelionx
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 00. Prologo ***
Capitolo 2: *** 01. Di catastrofi e altre disdette. ***



Capitolo 1
*** 00. Prologo ***


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Stepbrothers – Another different Cinderella Story

Note preparatorie alla lettura: ecco, sì, alla fine ho deciso di riprendere questa storia impolverata nello scaffale dei numerosi progetti e, complice la curiosità e lo spirito innovativo, mi sono ritrovata a cliccare su quella voce (‘Aggiungi nuova storia’); curiosità, be’, perché non pubblico long dal lontano 2012 e l’ultima volta non è che sia andata proprio divinamente, anzi! Tant’è, che ho finito per cancellarla. Ma adesso siamo nel 2017, sono passati sei anni, ed io ho acquisito uno stile totalmente nuovo – sebbene non perfetto; quella condizione, ahimè, non so se potrò mai raggiungerla perché ora come ora sono costantemente nella fase del ‘revisiona, revisiona, revisiona’ e al massimo ‘riscrivi, riscrivi, riscrivi’. Sono una dura critica persino nei confronti di me stessa. Eppure, sono del parere che se le storie non siano soggette ad alcun tipo di lavorio e dedizione, tanto vale appendere la penna al chiodo. Non sono convinta neppure delle One-Shot già esistenti nella mia pagina – anche quelle sono state scritte tempo addietro e perciò risentono del precedente stile. ‘Stepbrothers’ nasce come una sfida, alla parte di me incostante e indecisa, che non riesce il più delle volte a concludere nulla perché, talvolta, come tutti gli scrittori, ha i suoi momenti ‘no’, in cui l’ispirazione parte indisturbata per luoghi sconosciuti, lasciandola con il fiato sospeso e l’acqua alla gola per la frenesia e la fretta del pubblicare. Ecco, dandovi un assaggio di questa storia imperfetta, non voglio palesare alcuna pretesa. Non so, probabilmente riceverà riscontri negativi, probabilmente rimarrà incompleta, perché per adesso ho deciso di pubblicare solo il prologo, di gettarmi a capofitto in questa impresa, senza lasciarmi sfuggire l’occasione, ma all’alba del nuovo anno mi sono solidamente promessa di rischiare subito, anche alla cieca, per non avere rimpianti in seguito. Mi farò male? Con tutta probabilità sì, ma quello sarà l’incentivo per spingermi a riprovare, finché non otterrò risultati soddisfacenti. Perdonate le mie paturnie ma mi sentivo in dovere di informarvi, di avvertirvi. 

P.s.: Non sono neanche una di quelle che elemosina recensioni, non costringo nessuno. Dunque, se semplicemente vi annoiate a scriverne una, ricordatevi che la mia posta è sempre aperta a scambi di opinione di ogni genere.
Non mi resta che augurarvi buona lettura e, si spera, alla prossima!

Vostra, Dandelionx.



Prologo
Every day by day was really just boring
What I want to say is thanks for coming back.
[...]

 
Welcome back I really missed you

Now will you take me into your arms?
[...]
Don’t act like you hate me, I see you smiling...

- Welcome back, IKON

Andrew Duncan è un bastardo.
Fu il primo pensiero che saettò nella mente di Ella, una volta chiusa la lettera, ora stropicciata e intrisa di lacrime meschine, in un pugno mentre il suo petto veniva scosso dai suoi singhiozzi.
Come aveva potuto sposare un’altra donna che non fosse sua madre? E cosa più importante, come aveva potuto farlo senza dirle nulla prima? Era stato molto vile da parte sua confessarlo dietro una lettera e lei non sapeva con quale coraggio lo avrebbe guardato negli occhi una volta atterrata a Miami. Per quanto la riguardava il suo papà poteva andarsi a fare fottere insieme a quella maledetta lettera che ora occupava un posto d’onore sul linoleum che ricopriva il pavimento dell’aereo.
Buffo che non le avesse pagato neppure il viaggio. In effetti quando aveva ricevuto quella prima lettera in cui il suo vecchio le comunicava che doveva con urgenza fare ritorno nella sua calda Florida avrebbe voluto rispondere con un perentorio no. Le vacanze invernali non erano ancora giunte al termine e anzi, i suoi nonni materni, dove alloggiava in quel periodo, avevano bisogno di lei più che mai allo Chalet ora che nel Montana cresceva l’affluenza di turisti. Tuttavia aveva dovuto fare uno sforzo e raccattare qualche effetto personale di corsa poiché temeva fosse successo qualcosa di grave. Poi, proprio mentre stava per imbarcarsi aveva deciso di leggere quella seconda lettera, sul cui dorso vi era inciso di aprirla solo una volta salita sul mezzo. Ella era stata più volte tentata dalla curiosità ed ora che era a conoscenza dell’amara realtà si rendeva conto che sarebbe stato preferibile e più saggio aprirla direttamente dopo la prima. Oramai era troppo tardi per volgersi indietro e cancellare tutto. Lei era una Duncan di nome ma nel profondo sapeva di essere al cento per cento una Garner, come la sua defunta madre, che le mancava ogni giorno di più. Sua madre Regan era una donna splendida e lei l’aveva sempre ritenuta un esempio da emulare; di lei era riuscita a ereditare la caparbietà soprattutto, una forza d’animo incredibile e il coraggio di affrontare tutte le situazioni a testa alta anche se esse sembravano apparire impossibili all’apparenza e così avrebbe fatto anche quella volta. Sorrise mentre con gli occhi scorgeva la distesa di nuvole che si intravedevano attraverso l’oblò dell’aereo, stringendo tra le dita il ciondolo di sua madre, che aveva spesso lo strano potere di calmarla.
Si ritrovò a ripensare alle settimane passate nel Montana insieme ai suoi cari e cordiali nonni, alla conoscenza di splendidi amici, come Harriett Reynolds, la ragazzina che perseverava con i suoi pattini nonostante la mancanza di giusto equilibrio la facesse rovinare sempre al suolo o il guardiano Wallace Carter che le rivolgeva ogni mattina un sorriso per farle iniziare bene la giornata e infine sospirò afflitta al pensiero di Xavier Lance, l’enigmatico quanto affascinante ragazzo incontrato per caso durante una discesa con il quale aveva stretto un rapporto molto piacevole, nonostante la sua poca fiducia nel genere maschile, e si chiese se sarebbe riuscita a rivederlo, a parlarci di nuovo o i problemi a casa l’avrebbero sommersa tanto da non permetterle di raggiungere nuovamente le sue spensierate vacanze. Con quell’ultima riflessione si assopì finché il sonno non la colse completamente.
*
 Miami non le era sembrata così calda come quel giorno. Si era quasi disabituata al clima afoso dello Stato e riprendere a respirare quell’aria torrida non era certo il massimo del relax cui lei si era prefissata di ottenere. Prese un gran respiro mentre si affrettava, con l’unico bagaglio che si era portata dietro, a raggiungere l’uscita. Contrariamente a quanto aveva sperato nessuno si era premurato di andare a prenderla e questo non fece che farla incazzare ancora di più. Come al solito, suo padre, troppo preso dagli affari, aveva dimenticato l’arrivo imminente dell’unica figlia. Forse, si disse Ella, badare alla mogliettina nuova di zecca era troppo sfiancante. Scosse la testa velocemente e dopo aver sbuffato, a ridosso del marciapiedi, alzò due dita per chiamare un taxi. Sarebbe arrivata a destinazione tutta sudata dal momento che si era imbacuccata conscia delle fredde temperature del Montana.
Cielo, si era proprio dimenticata del clima asfissiante della Florida o forse il suo inconscio l’aveva rimosso di proposito. Aveva sempre odiato quella città. Troppo caotica e soleggiata per i suoi gusti più propensi per la neve ed i luoghi freddi. Freddi come lei, avrebbe obiettato chiunque la conoscesse bene.
Si portò il polso sotto gli occhi per controllare la data impressa sul quadrante e come se il destino le fosse stato avverso anche in quella circostanza calciò un sassolino colta dai nervi. Era un giorno festivo, ovviamente, sebbene non sembrasse affatto, viste le macchine che sfrecciavano una dopo l’altra in una successione talmente veloce da fare venire capogiri a chiunque.
Provò, dunque, a maneggiare il suo telefono ma anche questo sembrava non dare alcun segnale di vita così afflitta e dopo aver elargito un’imprecazione, si appostò all’ombra e si sedette per terra come una perfetta barbona.
Quando alzò lo sguardo notò un ragazzo che la stava guardando da lontano, cosa che lo fece risultare, agli occhi della giovane, come uno stalker. Ciononostante, Ella si limitò a fare finta di niente, dandosi addirittura della paranoica, sulle prime. Successivamente, dato che il tipo sembrava insistere, mosse impercettibilmente la testa nella sua direzione come a domandargli cosa avesse così tanto da guardare.
Che maleducato! – pensò.
Quello si decise a quel punto ad avvicinarsi lentamente e circospetto come se stesse cercando di capire qualcosa. Aveva un’espressione assorta, la fronte aggrottata ed un diavolo per capello che gli donava un look scombinato e quasi ribelle.
La cosa che però saltò subito all’occhio di Ella fu la sua mise, se non altro adatta al clima afoso, a differenza sua. Indossava dei bermuda, probabilmente era un costume, con delle palme stampate sopra, una T-shirt bianca aderente che lasciava intravedere la pelle abbronzata delle sue muscolose braccia, ai piedi delle espadrillas ed i suoi occhi nascosti da un paio di occhiali da sole all’ultimo grido. Inizialmente non sembrò riconoscerlo e subito il suo istinto di sopravvivenza si impadronì di lei, spingendola ad assumere un atteggiamento retrivo e guardingo.
«Mammina non te lo ha mica insegnato che fissare insistentemente gli sconosciuti è una cosa poco educata e soprattutto irrispettosa? Voi ragazzi ricchi vi credete troppo Dio, avevo quasi rimosso questo particolare caratteristico di questa città. E che cazzo, scendete un po’ dal piedistallo qualche volta!».
Non seppe come mai avesse dato per scontato che lui fosse un riccone senza scrupoli e oltremodo con la puzza sotto il naso ma uno dei suoi peggiori difetti era giudicare un libro direttamente dalla copertina. Era una sua prerogativa quella di mettersi sempre sulla difensiva. Lo strano ragazzo, ancora senza identità, invece di prendersela, mosse le labbra creando un ghigno divertito. Questo non fece altro che alimentare la sua stizza.
«Complimenti per la performance da stalker, comunque, eh! Dimenticavo anche che qui ci vivono la maggior parte degli aspiranti attori che sognano Hollywood ma ehi, hai sbagliato zona e soprattutto persona, qualsiasi cosa tu ti sia messo in testa», asserì convinta alzando di scatto un sopracciglio indagatore.
«Oh, lingua lunga e biforcuta, aspetto da stracciona, carattere piuttosto irascibile...», e nel dire ciò, si calò gli occhiali per osservare meglio la ragazza che gli stava dinanzi, poi riprese: «Devo dire che la tua descrizione fisica non mi stava aiutando molto ma è bastato che tu aprissi la bocca per farti riconoscere. Che hai fatto ai capelli, a proposito?», chiese curioso indicando i suddetti con un indice.
Chiunque il tipo fosse sembrava conoscere Ella e molto bene, per giunta. Di riflesso si portò una mano ai capelli biondi ora recisi in un taglio sbarazzino in un attimo di follia e desiderio improvviso di cambiare nota alla sua vita. Non è forse risaputo che le donne, quando desiderano dare una svolta alla propria vita, partano proprio dai capelli?
Ad ogni modo, non passò molto che ripartì alla carica, più agguerrita di prima.
«Anche se non credo siano affari tuoi, li ho tagliati, e se te lo stai chiedendo, sì, da sola. Perché? Affari miei. Adesso, visto che sembra che tu mi conosca perché non mi rinfreschi la memoria? Credo di aver rimosso le persone di Miami in questi mesi, ops», fece finta che le dispiacesse davvero mordendosi un labbro. Forse era la prima a potersi presentarsi ad Hollywood per un provino come attrice.
«Ehi, ehi... sta’ calma, Veronica Mars. Hai affilato le tue tecniche di retorica in questi mesi in Montana? Ti ricordavo così silenziosa. Che rivelazione!», ammiccò divertito incrociando le braccia al petto.
A quel punto le venne un’illuminazione. Solo una, quella persona – nella fattispecie – la chiamava a quel modo. Ella sosteneva fosse un vizio, quello di soprannominarla in tutti i nomi possibili e immaginabili; a quel punto si ritrovò a sghignazzare. Se glielo avessero detto qualche tempo fa, che stava sghignazzando con il Golden Boy della Eastwood, non ci avrebbe creduto neanche lei. Eppure, la vita è così strana a volte che neanche ti accorgi dei cambiamenti che gli eventi possano portare con sé, arrivando a stravolgerla se non complicarla del tutto.
«Owens. E chi se no? Sto perdendo colpi. Ma come ho fatto a non capirlo subito, mi chiedo...».
Ora era una sfida aperta. Occhi negli occhi. Sì, perché lui si era sfilato del tutto gli occhiali appendendoli alla maglia con assoluta nonchalance e adesso la squadrava con un sorrisetto che di amichevole aveva ben poco.
«Era ora, piattola. Dimmi un po’, come mai sei ritornata così presto? Okay che sentivo la tua mancanza ma...», lasciò la frase incompleta volutamente, aggrottando le sopracciglia chiare, e comunque Ella captò subito il tono prettamente ironico. In fondo neanche lei aveva pensato a lui sebbene fosse il suo incubo ricorrente da più o meno sempre. Sembrava godere nel punzecchiarla e solo per il gusto di scatenare una sua qualche reazione. Si divertiva con poco, il ragazzo, e questo, Ella, l’aveva sempre reputato un comportamento infantile per un diciassettenne di quella stazza. Tristan Owens poteva anche essere famoso per essere il ragazzo più acclamato e in a scuola ma Ella lo odiava per averle reso la vita un inferno. Lo odiava con tutta se stessa e quel sentimento non sarebbe cambiato tanto facilmente, soprattutto nel momento in cui avrebbe sganciato la bomba che ormai, mancava poco, avrebbe distrutto e segnato la vita di Eleanor Jillian Duncan per sempre. 
«Quell’idiota di Andrew si è sposato. Un’altra volta. E senza consultarmi, per giunta. Che diamine, sono sua figlia o no?».
Resasi conto del fatto che quel manipolatore l’avesse convinta a dargli spiegazioni in merito al suo ritorno, scosse la testa, incredula.
«Cielo, non so neppure perché mi stia confidando con una feccia come te ma è stato un dispiacere incontrarti di nuovo quindi... a mai più rivederci», concluse perentoria e risoluta, voltando su se stessa, decisa a chiamare un altro taxi. Ne aveva già abbastanza.
«Tesoro, io me ne andrei volentieri visto che la compagnia non è delle migliori». E qui Ella storse la bocca in una smorfia; per lei era lo stesso. «In fondo, avrei ben altro da fare – se capisci cosa intendo – che improvvisarmi autista per un giorno... per te, poi! Assurdo, non trovi? Chi l’avrebbe mai detto?». Il suo tono adesso aveva diverse sfumature; dalla nota ironica a quella allusiva e maliziosa a, ancora, quella incredula.  Ella arrestò la sua andatura e assunse un’espressione indecifrabile. Che cavolo voleva dire quel bastardo? E cosa più importante, chi l’aveva nominato suo autista? Piuttosto avrebbe raggiunto Duncan Manor a piedi! Imprecò mentalmente una seconda volta, anche contro suo padre che l’aveva costretta a quella situazione.
Prima che potesse chiedere informazioni a Owens, comunque, questi sorrise meschinamente e, contrariamente ad ogni aspettativa, tese una mano nella sua direzione. Ed il suo volto? Chi se lo sarebbe mai dimenticato? Era quasi gelido, turbato ma anche infidamente appagato. Era il volto della vendetta.
Te ne pentirai amaramente, piattola di una Duncan, aveva detto l’ultimo giorno di scuola dopo che Ella lo aveva umiliato pubblicamente per l’ennesima volta, quella volta lanciandogli il pranzo addosso. E a lei, in quel frangente, poco era importata la sua minaccia ma quel volto, in quel momento, aveva tutta l’aria di essere il preambolo di una spiacevole storia, di una nefasta notizia. E così fu.
«Bentornata a casa, sorellina».
Strano come la vita ti colga sempre impreparata...
È meschina, la vita. Confusionaria, a volte. Ma trova sempre, sempre il modo di buttarti giù e farti a pezzi, calpestarti e darti eventualmente anche i colpi di grazia. Fu in quel momento che il mondo illusoriamente perfetto di Ella Duncan crollò, inesorabilmente, come tutte le sue certezze.
Andrew Duncan sei un bastardo!
Ecco, quello è stato, è e sarebbe stato ancora a lungo un dato di fatto.
 
 
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Capitolo 2
*** 01. Di catastrofi e altre disdette. ***


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STEPBROTHERS
_________________________

 
01. Di catastrofi e altre disdette.

 
Se Ella, in un primo momento, era rimasta sconvolta dall’incredibile notizia, in seguito, a mente lucida, era venuta alla conclusione che l’intera situazione rappresentasse una vera e propria catastrofe – utopica, certo, ma pur sempre catastrofe. Dover sopportare Tristan Owens a scuola costituiva già una croce cui Ella era certa non potesse sottrarsi e di cui, a malincuore, era stata costretta a farsi carico, ma dover addirittura convivere con quell’idiota dotato di patente, era tutt’altra storia.
«Tu non puoi dire sul serio», aveva asserito convinta, prima di scoppiare a ridergli in faccia, senza alcun pudore. In realtà, la risata ilare che era scaturita al suono di quelle parole celava in sé una nota stonata, al retrogusto di nervosismo. Tristan non vi fece caso, comunque, poiché troppo intento a scrutarla con piglio pensieroso. Non poteva certo biasimare quella ragazzina che per anni gli aveva dato filo da torcere, opponendosi a lui e alle sue continue provocazioni, senza mai cedere per prima; quella ragazzina, detentrice di un orgoglio inattaccabile, avrebbe faticato ad accettare la questione. Lui era consapevole di ciò, ed era proprio a fronte di quello che aveva deciso di renderla partecipe della lieta novella. Aveva ardito per settimane, mesi, di gustarsi l’espressione di sorpresa, stupore, sconvolgimento di Eleanor Duncan. E ne era rimasto soddisfatto, a lavoro compiuto, poiché adesso la biondina mostrava segni, ormai evidenti, di star facendo i conti con la prima fase, rispondente al nome della negazione. Tristan era convinto, ci avrebbe scommesso il pacco, che Ella non avrebbe creduto a lui finché non avesse visto e appurato con i suoi occhi la veridicità di quella storia.
«Ok, Barbie, facciamo così: tu mi segui senza lagne inutili in macchina, ti accompagnerò a casa, da bravo fratellone, e lì potrai risolvere ogni dubbio che alberga la tua bella testolina. Ti va?». 
Ella aveva odiato ogni singola parola che era defluita dalle labbra del giovane ancor prima che esse andassero a formare un discorso di senso compiuto. Probabilmente, era a causa del tono di scherno che aveva adoperato.
Sembrava che si stesse rivolgendo ad una bambina di sei anni!
«Io, seguirti, in macchina? Affinché tu possa cogliere l’attimo ed uccidermi? Ti sei bevuto il cervello, Owens?!».
Tristan davvero non capiva dove quel peperino dell’altezza di un comune Hobbit trovasse la forza di urlare a quel modo, con l’unico risultato di dare spettacolo; e sì, magari non c’era poi questa gran folla ad ascoltare i loro battibecchi se si escludeva il tradizionale via vai di gente che usciva, di tanto in tanto, dall’aeroporto.
Ad ogni modo, non capiva neppure come riuscisse a partorire simili e assurde idee. Come se avesse voluto davvero che morisse. C’erano poche cose a cui Tristan Owens era indissolubilmente legato e una di quelle era proprio il valore che assegnava alla vita.
Mai avrebbe commesso l’atto di toglierla a qualcuno, né mai gli sarebbe venuto in mente di farlo, semplicemente perché non era nella sua indole.
Aveva fama di stronzo, non di mostro.
«Sì, davvero allettante. Ogni giorno mi sveglio e il mio primo pensiero è: ‘Andiamo ad infastidire quella piattola della Duncan, magari è la volta buona che mi capita a tiro cosicché possa passarle sopra con la macchina!’. Andiamo, fai sul serio?», l’aggredì, servendosi di un’ironia tagliente, fattosi all’improvviso scuro in volto. Ella sospirò, ammettendo a se stessa di aver esagerato nella scelta dei termini. Non pensava che Tristan potesse sul serio prendere in considerazione l’idea di ucciderla, solo... non si sarebbe sentita a suo agio a stare accanto al suo nemico di sempre.
Prima regola di sopravvivenza: mai, mai socializzare con il nemico.
Ed Ella aveva speso anche troppo tempo ad intrattenersi con lui.
«Okay, forse non è nei tuoi piani, almeno per oggi, di attentare alla mia vita ma... insomma, non crederai che io mi beva la tua storia, eh! Non ho bisogno di accertarmi di nulla perché un mondo in cui tu diventi il mio fratellastro – al pronunciare quella parola un brivido le attraversò, celere, la schiena – è inconcepibile, mera utopia».
Tristan pareva essersi rilassarto, poiché le sue labbra assunsero la forma di un mezzo sorriso, quasi divertito. «Non mi darai mai la soddisfazione di avere l’ultima parola, vero?».
Ella era rimasta interdetta per un attimo. Tristan aveva assunto qualche droga di recente, durante la sua assenza? Era bipolare, accidenti! Un attimo sembrava volerla sbranare, quello dopo atteggiarsi a suo amico. Era un bel rompicapo! Sbuffò, già stanca di quella sorta di botta e risposta amebeo. Non era proprio in vena di assecondare i suoi capricci e le sue uscite da cavernicolo, dal momento che aveva ben altro per la testa. Si massaggiò le palpebre, percependole appesantite.
«Guarda, in realtà sto appena dichiarando forfait,», e nel dirlo aveva alzato le mani, in segno di resa, «dammi questo maledetto passaggio e facciamola finita! Voglio solo incontrare il mio letto per oggi, domani è un altro giorno. Dove hai parcheggiato quel rottame?».
Tristan non ebbe neanche il tempo di schiudere le labbra per la sorpresa di essere stato di nuovo zittito dall’Hobbit poiché quest’ultima si era appena incamminata verso una meta indefinita alla ricerca della sua macchina. Rottame. La Maserati Ghibli, l’unico regalo che Tristan avesse mai accettato dal padre di Ella, non aveva niente a che vedere con il rottame cui si riferiva la piattola. Da quando aveva avuto l’incidente, neanche ci pensava più al pick-up che suo fratello gli aveva lasciato in dotazione; primo, perché pensare di averlo distrutto gli faceva ricordare di essere stato un irresponsabile ed un codardo; secondo, perché Andrew Duncan si era esposto visibilmente e aveva fatto il diavolo a quattro pur di tirarlo dai guai e Tristan se l’era cavata con qualche punto represso dalla patente ed un paio di punti guadagnati al sopracciglio sinistro. La sorte peggiore era toccata al conducente dall’altro lato; era ubriaco, molto ubriaco, e aveva messo a repentaglio la sua vita e quella di Sailör che quella notte era seduta al suo fianco.
Se solo avesse rimandato il divertimento ed il soddisfacimento dei suoi bisogni al giorno seguente Lör, adesso, non sarebbe stata costretta ad una sedia a rotelle, e non sarebbe mai arrivata ad odiarlo, né avrebbe perso le Olimpiadi di Cheerleading cui aspirava da una vita. Aveva intuito, dall’uscita serafica di Ella, che Duncan Senior non l’avesse messa al corrente degli ultimi trascorsi, tralasciando anche quello di farle presente – era sua figlia, dannazione! –  che la mogliettina nuova di zecca fosse niente poco di meno che sua madre e che lui stesso, che sarebbe diventato suo fratellastro, fosse la persona che sua figlia detestava di più al mondo!
Scrollando il capo, si era affrettato a seguirla prima che continuasse a girare a vuoto, nel cercare un’automobile che non esisteva più.
«Hobbit, la macchina è da questa parte!», le aveva fatto presente Tristan, afferrandola per un braccio e deviando la sua traiettoria dall’altro lato. Il contatto con la sua pelle bollente l’aveva fatto desistere dal prolungarlo e l’aveva lasciata, non appena fu sicuro che stesse camminando nella direzione esatta.
«Sei un bruto. Bastava dirlo. E comunque, io non sono un hobbit. Mi chiamo Eleanor e sarebbe carino che, almeno una volta nella vita, tu la smettessi di... che cosa stai facendo?! Oh, mio Dio, ma sei anche un vandalo, adesso?».
Ella era sbiancata, quando aveva compreso le intenzioni poco nobili del suo compare. Perché diavolo stava tentando di scassinare una macchina di quel calibro?! Sarebbe potuta appartenere ad un pezzo grosso dell’alta società ed... era troppo giovane per finire in prigione per complicità in tentativo di furto con scasso. La sua mente aveva preso a vagare verso mete poco piacevoli.
Fu un attimo. Tristan le si era avvicinato in un lampo, tappandole la bocca con una mano prima che potesse disconoscerlo ed urlare: “Al ladro, al ladro!”. Ella aveva sgranato gli occhi, pensando al peggio.
Magari l’avrebbe uccisa davvero. D’istinto, era andata rovistando nella borsa, alla ricerca del fedele spray al peperoncino nel caso in cui le cose si fossero messe male. Tristan, tuttavia, che stronzo sì ma stupido anche meno, le aveva bloccato l’arto prima che potesse anche solo obiettare o tranciargli le dita con un morso, a seconda dei punti di vista. Aveva ottenuto un mugugno contrariato in risposta. «Ah, ma taci!», le aveva ordinato perentorio, sbloccando la sicura della macchina con la mano libera ed aprendo la portiera per sbattercela dentro.
Anche sequestro di persona... le sue accuse andavano incrementando sempre di più, aveva pensato Ella, una volta che si ritrovò, spaesata e sofferente per la pressione che Tristan aveva attuato per tenerle fermo il braccio, a respirare a fatica. Dannazione, ma lui era al corrente, dopo tutti quegli anni, che soffrisse di asma ed attacchi di panico e che in quel modo c’erano buone probabilità che di lì a poco se ne generasse uno?!
Quando il teppista – criminale si era seduto al lato guida, Ella gli aveva riservato un sonoro schiaffo che era rimbombato nell’abitacolo silenzioso e che aveva lasciato l’uno e l’altra, ancora una volta, a corto di fiato e di parole.
«Non metterti a piangere, Duncan, per favore», l’aveva poi supplicata Tristan, quando si era reso conto di averla fatta grossa. Tendeva spesso a dimenticare quanto in realtà fosse fragile quella ragazza, sotto quegli strati di indifferenza, strafottenza e intramontabile orgoglio. Aveva dimenticato che soffrisse di attacchi di panico ed era lungi da lui l’idea di provocargliene uno! Stava solo cercando di limitare i danni, maledizione. Se solo si fosse messa ad urlare alla maniera Duncan, sarebbero potuti essere guai seri.
Ed Andrew Duncan era stato chiaro con lui: “D’ora in avanti, non devi mai più dare nell’occhio. Sono stato abbastanza chiaro?! Ricordati che io ho rischiato il culo ed il posto per tirarti fuori dai casini e che se solo dovessi mettermi in una posizione scomoda una seconda volta, stavolta niente mi fermerà dal farti affondare con me. E non sarà piacevole. Parola di Andrew Duncan!”.
«Menomale che non volevi attentare alla mia vita…», aveva commentato sarcastica, accigliandosi e spezzando quel silenzio oppressivo che si era instaurato dopo lo schiaffo. Se l’era meritato. Non avrebbe dovuto intimorirla a quel modo; doveva scortarla a casa sana e salva, senza nessun graffio e senza troppe cerimonie. Ed invece era accaduto il contrario. Aveva intravisto con la coda dell’occhio il livido violaceo che ora si stava ingrandendo sul polso minuscolo della biondina che, di tanto in tanto, si apprestava a massaggiare. Per non parlare delle sue espressioni. Aveva cercato di limitare i danni anche in quel caso, non osando ribattere né rompere la bolla in cui lei si era rinchiusa per la rabbia e, Tristan temeva, anche per la paura che lui potesse “metterle” di nuovo le mani addosso. Sussultava ogni volta che Tristan lasciava saettare la mano sul cambio e si ritraeva a mo’ di riccio, per mettere più distanza possibile tra lui e lei.
Quello, dal canto suo, aveva sospirato, prendendo a grattarsi la nuca. «Infatti non è così. Cercavo solo... tu non capisci!». Si era voltata di scatto a guardarlo, con un cipiglio scettico ed iracondo.
«Cos’è che non capirei, esattamente? Ti riferisci al fatto che tu abbia rubato una macchina, che tu mi abbia appena rapita o che tu mi stia portando a…», si era interrotta, al limite dello shock, guardando fuori dal finestrino per un momento.
Erano nei pressi di Duncan Manor. L’aveva portata davvero a casa. E non l’aveva uccisa.
 
Ho ben altro a cui pensare che farti da autista per un giorno”.
 
Senza sapere cosa dire, aveva ripreso a guardarlo mentre lui era intento a fare una manovra degna di un racer per immettersi nel vialetto adibito a parcheggio. Il sole ed il caldo di quella mattina stavano rapidamente scemando, lasciando il posto ai tenui raggi rossastri del crepuscolo e ad un piacevole tepore che le accarezzava il viso, dandole un po’ di pace, presentandosi come una boccata d’aria fresca opposta al clima torrido e asfissiante del pomeriggio che aveva trovato all’atterraggio.
«Mi hai portata a casa», aveva mormorato, dando adito ai suoi pensieri. «Allora perché…», inspirò, serrando le palpebre per poi riaprirle, «perché... ti sei comportato come un noto criminale degno di quel nome? Volevi spaventarmi? E perché hai rubato questa macchina?».
Tristan aveva tirato il freno a mano, spegnendo l’auto e, appiattendosi al sedile nero di pelle, aveva tirato un sospiro. Forse era meglio se avesse trasgredito agli ordini impartiti dal suo nuovo patrigno e fosse andato a giocare a football, piuttosto che incontrare la principessina. Ah, la sua vita stava diventando un porto di rimpianti!
«No», aveva scandito, digrignando i denti.
«È che stavi per fare una delle tue scenate plateali e ho agito senza pensare. Scusami se ti ho fatto male, non era mia intenzione ma te l’hanno mai che sai solo dare fiato alla bocca? Se solo avessi atteso dieci minuti, dieci, io ti avrei spiegato che questa maledetta macchina sia la mia e che sia un regalo da parte di tuo padre! Ma no, la signorina deve fare la sapientona e ci credo che ho dovuto metterti a tacere ma, a costo di ripetermi, non avevo intenzione di attentare alla tua vita!».
Ella non aveva neanche prestato attenzione alla restante parte del discorso, troppo presa dalle parole ‘mia macchina’ e ‘tuo padre’.
Perché suo padre avrebbe dovuto regalargli un’auto del genere, quando lei aveva dovuto pregare in ginocchio affinché ne potesse guidare una?
«Ellie?».
Per tutti Eleanor Duncan era solo Ella e lei detestava, da una parte, i soprannomi che Tristan le affibbiava di tanto in tanto ma più di tutti non era neanche in grado di udire quello che aveva scelto in quel momento. Stranamente, non era riuscito ad infastidirla quella volta perché era presa da qualcosa di ben più rilevante e complicato da assimilare.

“La macchina che
tuo padre mi ha regalato”.

“Bentornata a casa, sorellina”.

 
Era tutto vero. Tristan non stava scherzando quando aveva tirato fuori quella assurda quanto utopica notizia a cui lei si era si ostinata di non credere.
Ma la macchina, la promessa fatta al padre di riaccompagnarla a casa, il fatto che conoscesse l’esatta ubicazione della villa, erano chiari segni che si trattasse della pura ed infelice realtà. Una realtà da cui Ella avrebbe voluto senz’altro evadere.
Se fosse esistita una dimensione parallela, in cui lei ed il suo acerrimo nemico fossero divenuti parenti, be’, Ella l’aveva appena appurato, lei c’era finita dentro con tutte le scarpe.
E di piacevole quella storia non presagiva nulla.
 
*
 
«Owens! Cosa ti fa credere che tu possa lasciare in giro per casa i calzini sporchi e puzzolenti, eh?! Io non sono la tua stracazzo di serva, mi sembrava di essere stata abbondantemente chiara!».
Ella, un diavolo per capello, il pantalone del pigiama – casualmente – strappato all’estremità, batteva una mano con rabbia sulla porta del suo odiato – e nuovo di zecca –  fratellastro. Tre mesi, da quando aveva assodato che la sua vita fosse irrimediabilmente volta al termine e tre mesi, da quando Andrew Duncan l’aveva accolta con un misero biglietto lasciato per conto della segretaria in cui diceva: ‘Bentornata, tesoro. Mi dispiace non poter essere lì ad accoglierti ma vedrai, Charlotte è così entusiasta di conoscerti e non ti farà mancare nulla. Baci, A.D.’.
Siamo finiti in Pretty Little Liars? fu il primo pensiero che aveva affollato la mente di Ella al termine del testo e non ‘Stronzo di un padre fedifrago e senza palle” e non “Chi cazzo è Charlotte?”, come in realtà ci si sarebbe dovuto aspettare. Della prima, Ella aveva potuto già prendere atto grazie al gioco di epistole in cui Andrew si era prodigato – benché lei fosse più che convinta che fossero frutto della penna della zelante segretaria – della seconda, be’, dopo un bicchiere di coraggio liquido aveva avuto anche modo di conoscere Charlotte. Quando aveva incrociato i suoi occhi, di un azzurro così glaciale e ipnotico, così differenti da quelli di Tristan, più tendenti al verde bosco, non poteva credere che quella fosse sul serio sua madre. Tutto faceva pensare il contrario; gli occhi erano solo un piccolo particolare fra tanti. I capelli, neri come l’ebano, cozzavano irrimediabilmente con quelli del figlio, di un biondo cenere slavato. Solo la bellezza sembrava essere un tratto caratteristico di famiglia. Inoltre, non appena era entrata nel suo campo visivo, imponente e slanciata, passo sinuoso ed elegante, sorriso e portamento raffinati aveva potuto notare quanto fosse giovane, terribilmente giovane. Se l’avesse incontrata per strada, aveva ponderato, l’avrebbe scambiata per una sua coetanea, tanto portava bene gli anni. Ciò che, tuttavia, aveva colpito Ella più di tutto era stato il suo carattere: genuino e affabile, dolce e bonario, come se volesse davvero andare d’accordo con lei e come a voler mettere in chiaro che non fosse assolutamente una cacciatrice di dote. Ella, alla fine, per il bene comune, aveva deciso di non partire premeditata, almeno per una volta nella vita, e di tentare di darle una minima possibilità di conquistare la sua fiducia. Qualora questa fosse stata tradita, in qualsiasi caso, non ci sarebbe stato punto di ritorno, alcuna remora, alcun tentennamento, alcun perdono; questi, erano i patti a cui Ella era scesa e cui aveva convenuto, con se stessa, di rispettare. Fino ad ora, Charlotte si era comportata in modo egregio, lontana da lei l’idea di provare a sostituire in qualche modo la sua defunta madre. Quell’approccio l’aveva stupita più di ogni altra cosa e più di quanto volesse ammettere.
La precedente moglie di suo padre s’era dimostrata ben presto per ciò che era realmente: una patetica arrivista senza alcuno scrupolo, che mirava più alla posizione sociale occupata dal padre di Ella e alla conquista del prestigio che a condividere la sua vita con il primo, per puro amore. Era proprio quello il timore che aveva attanagliato Ella nel momento in cui era venuta a conoscenza del secondo matrimonio. Andrew era rimasto profondamente scottato dalla precedente relazione e l’ultima cosa che la figlia desiderava era raccogliere i pezzi del suo cuore infranto, per la seconda volta. Venire a conoscenza di Charlotte, della vera Charlotte, colei che guardava Andrew Duncan con gli occhi dell’amore, dell’affetto, della devozione, aveva contribuito ad incrementare il suo dubbio riguardo alla parentela con Owens. Sua madre era una persona di cuore, generosa, altruista, buona mentre lui era l’esatto contrario. Ella si era ritrovata a chiedersi più volte se in realtà fosse Tristan quello adottato, piuttosto che il fratello James. Vedeva più affinità tra quest’ultimo e la sua matrigna di quanto ne avesse vista mai con Tristan. Probabilmente, Tristan era la copia sputata del padre naturale che lei, tuttavia, non aveva mai conosciuto e che per quello non poteva dare alcun giudizio certo.
«Sei davvero un raggio di sole, Elenöir. Ti prego, svegliami così ogni mattina».
La voce di Tristan Owens trasudava ironia e fastidio da tutti i pori. Fasciato solo da dei calzoncini blu di cotone, se ne stava bellamente appoggiato allo stipite, una mano sul battente in alto. Sguardo annoiato e stropicciato di chi: a) ha appena lottato con il cuscino; b) ha passato una notte insonne; c) ha dormito beato come un bambino, la osservava dall’alto del suo metro e novanta mentre un rapido sorriso andava a sfumargli le labbra.
Okay, ora sì che può andare a fanculo, rifletté Ella, senza palesare a voce quel pensiero ma mimandolo con la fronte aggrottata.
“Stai cercando di metterti in mostra, per caso?”, lo canzonò, del tutto immune al suo fascino da Golden Boy, ai suoi occhi, ormai scaduto. Era un cliché vivente, quel ragazzo; chi mai avrebbe potuto anche solo pensare di impegnarsi in una relazione seria con lui?
Oh, ma sciocchina, lui non cerca relazioni, ricordi?
Con noncuranza, si apprestò a lanciare contro il suo petto i calzini incriminati, ora appallottolati, che aveva tenuto tra indice e pollice e a debita distanza dal suo naso.
Che schifo vivere con un maschio...
«Copiti, idiota!».
Una vocina bassa e assonnata irruppe in corridoio, destando l’attenzione di entrambi che dovettero chinare lo sguardo per accorgersi dello scricciolo che era appena sgattaiolato fuori dalla sua stanza. Ecco, Danika era compresa nel pacchetto quando Andrew aveva deciso di impelagarsi in quella avventura e così Ella si ritrovava a dover convivere con una presenza materna – che per quanto si ostinasse a prendere le distanze dal desiderio di essere chiamata ‘mamma’ anche dalla figlia acquisita, rimaneva comunque quanto di più vicino ad una madre ci fosse – con un fratellastro ogni giorno più antipatico, ed una sorella minore, sei anni ed una lingua lunga e biforcuta già sviluppata. Danika non condivideva il sangue neppure con Tristan, sebbene quest’ultimo la trattasse come se fosse sua sorella a tutti gli effetti, senza badare ad alcun legame. Ed era l’unica persona a far emergere un Tristan diverso, animato da una luce nuova, molto più piacevole dal solito tenebroso e arrogante Owens. Quando c’era Nika di mezzo, lui era solo Tristan, spoglio di ogni aspetto negativo di cui, con il tempo, Ella aveva imparato a prendere atto.
«E tu impara a parlare», fu la risposta del fratello maggiore che, sorridente, le scompigliò i capelli in un gesto affettuoso. Ella cercava in tutti i modi di non intenerirsi di fronte a quelle scene ma talvolta Tristan l’aveva colta sul fatto, benché lei avesse provato a negare ogni cosa. Era semplicemente adorabile. Ma non era necessario che Ella lo mettesse al corrente.
Nika gonfiò le guanciotte, irritata dal commento del maggiore.
«Io so palare benissimo! Sono gande, omai».
Ella le sorrise, piegandosi sulle ginocchia per giungere alla sua altezza. «Hai ragione, piccola. Stai diventando proprio grande e presto imparerai anche tu a rispondere a dovere a questo cattivone. È tutta apparenza, sai?».
Tristan scoccò la lingua sul palato, ma si lasciò sfuggire anche un sorriso divertito. Ella alzò gli occhi in tempo per coglierlo e sorrise soddisfatta.
«Visto? Can che abbaia...», esordì Ella, indirizzandosi alla bambina. «Non mode», completò lei, battendo le mani, felice.
«Nika, dobbiamo andare all’asilo. Corri a prepararti, su».
Charlotte spuntò sulle scale prima che potessero accorgersene. La bimba si adombrò di colpo a quelle parole e incrociò le braccia al petto, contrariata.
«Butto l’asilo. I bambini sono ’tupidi. Veo, Trix?».
Tristan uscì dalla camera dopo essersi infilato una T-shirt – alla rovescia, per altro – e prese in braccio la piccola, facendole fare una gira volta. Quella, colta di sorpresa, emise un urletto estasiato e poi si aprì in una risata di cuore quando Tristan le schioccò un bacio sulla guancia. Infine, la mise a terra.
«Verissimo, piccola. Ma tu li stenderai tutti, prima o poi…», commentò, mimando dei pugni immaginari per farle intendere il concetto. Le espressioni che accompagnarono i gesti, Ella avrebbe voluto tanto immortalarle. Era raro che Tristan si lasciasse andare a quel modo.
«...o lo farò io», completò sottovoce, come se a sentirlo dovessero essere solo gli adulti presenti. Charlotte scosse la testa, ridacchiando e prese in braccio la figlia, salutando i due adolescenti. Ella, invece, si ritrovò a fissare, impensierita, un punto indefinito sulla ringhiera delle scale.
Chissà come sarebbe dovuto essere avere un fratello maggiore che mi riempisse di attenzioni come Tristan fa con Nika? A lei era toccato uno zotico, fin troppo cresciuto per poter riservarle quel genere di riguardi.
«Ellie?», sentì Tristan chiamarla in sottofondo ma lei lo ignorò. Si diresse nella sua camera e lì vi rimase finché non fu vestita e pronta per andare a scuola.
 
«Ehi, c’è Tristan!», esclamò Ink Larsson non appena Tristan si immise nel parcheggio riservato agli studenti. La Maserati spiccava in modo particolare tra tutti gli altri mezzi, alcuni più economici, altri del suo stesso calibro ed il tridente brillò colpito da un raggio di sole. L’idillio fu interrotto dal fischio di Brian Finnegan che con un indice si ritrovò a lisciare e a seguire il profilo della rifinitura nera dell’auto.
«Wow, che bel gioiellino abbiamo qui!», mormorò, mentre i suoi occhi si accendevano di luce propria. Tristan, preso dai suoi amici, neanche s’era accorto che Ella era sgattaiolata senza farsi notare e che fosse andata chissà dove. Sicuramente doveva presenziare all’accoglienza nuove matricole dal momento che era stata nominata Presidentessa del Comitato Studentesco l’anno precedente. Senza troppi indugi, alzando gli occhi al cielo, tirò via il suo amico dal parcheggio, distogliendo la sua attenzione dalla vettura lussuosa.
 
«Come Presidentessa del Comitato Studentesco, io ed il mio team vi diamo il nostro caloroso benvenuto alla Eastwood High School».
Casey, Lorelai, Pete, Jasper, Ines e Gabriela offrirono un gran sorriso ai presenti, annuendo alle parole del loro ‘capo’.
«Nessie adesso vi illustrerà il vasto campo di opzioni tra cui scegliere per conseguire al meglio l’anno scolastico. Ines, pronta?».
Ines fece un cenno con il mento, destreggiandosi e macchinando con il computer ed il proiettore. Non appena il PowerPoint fu aperto, iniziò: «Io sono Ines, dirigo le iscrizioni ai club scolastici e mi tocca mettervi al corrente che la scuola ne ospiti diversi, tutti a discrezione degli studenti. Dunque, la scelta toccherà a voi. E adesso andiamo a vedere di che si tratt…”
Lasciando che i suoi soci continuassero il loro lavoro, Ella, lanciata un’occhiata all’orologio da polso, si accorse che fosse tardi per l’inizio delle lezioni e che sarebbe dovuta correre in segreteria a ritirare l’occorrente da distribuire alle matricole. Avvisò rapidamente Jasper e sfrecciò via dalla aula-magna, correndo all’impazzata, dando, di tanto in tanto, delle occhiate all’orario. Quando aveva deciso di deviare con impeto per irrompere nello studiolo della segreteria non aveva calcolato che dietro l’angolo potesse esserci qualcuno e in men che non si dica si ritrovò sbalzata per terra, complice l’attrito.
 
«Cazzo».
Ella prese a massaggiarsi la testa, chiudendo gli occhi per il dolore ed imprecando mentalmente verso il suo attentatore.
«Ti costa tanto guardare dove...», iniziò, con un accenno di ira nella voce; accenno, che andò sfumando non appena le sue iridi entrarono in contatto con quelle del ragazzo che si era già alzato e non mostrava alcun segno di dolore. Ella arrossì, dimentica ormai del bernoccolo che le si stava formando sulla nuca. Rhys Lawrence la stava fissando con uno sguardo preoccupato mentre lei sbatteva gli occhi, incredula.
Tra tutti gli studenti dell’Eastwood perché era dovuta incappare proprio in lui?
Aveva maturato una cotta per Rhys non appena aveva messo piede all’Eastwood, fasciato della mise sportiva della squadra di football che sfoggiava con tanto orgoglio. Le era bastato posare i suoi occhi sulla figura del giovane per un secondo perché il suo cuore capitolasse e dichiarasse forfait. Non era mai stata una fan dell’amore a prima vista; non ci aveva mai creduto ma era bastato davvero poco affinché iniziasse a provare qualcosa per lui. E negli anni, quel sentimento tremendo e dispettoso si era acuito sempre di più, portandola a soffrire, poiché da sempre conscia che lei, un ragazzo come Rhys Lawrence, non l’avrebbe mai meritato, né potuto avere. Non a caso, alla fine, aveva intrapreso una relazione con la reginetta del ballo, la dolce e perfetta Sailör Clark, che non perdeva alcuna occasione per dispensare sorrisi e per prodigarsi in favore del prossimo. Dunque non era rimasta stupita dalla scelta di Rhys poiché tutti adoravano Sailör, ma ferita sì; ciò era innegabile. Aveva dovuto sopprimere quei sentimenti, fino ad inglobarli nel profondo del suo cuore, non mettendo, tuttavia, in conto che a lungo andare quelli avrebbero finito per farla implodere a causa della loro grande portata e grande intensità.
Si riscosse dalla piega verso cui i suoi pensieri si erano inerpicati e, semplicemente, sorrise.
«Rhys!».
«Eleanor, mi dispiace averti travolto, colpa mia. È tutto okay?», si accertò, premuroso, poiché altrimenti non sarebbe stato Rhys. Il cuore di Ella, in quella circostanza, palesò un sussulto ed Ella si accorse che fosse talmente forte tanto che Rhys avrebbe potuto captarlo e quasi si vergognò delle sue stesse, sconsiderate, emozioni.
È fidanzato, si ripeté, a mo’ di mantra, così come aveva fatto negli anni scorsi.
Ella annuì, mandando giù un groppo enorme e forzando l’ennesimo sorriso. Non lo vedeva da prima che partisse e, con amarezza, stava attestando quanto le fosse mancato. Improvvisamente, Tristan, la sua matrigna, Nika, suo padre e tutto il nuovo mondo cui stava ancora cercando di abituarsi le parvero scomparire dinanzi agli occhi più belli e più rasserenanti che avesse mai visto. Ancora una volta, provando vergogna per se stessa, si ritrovò ad invidiare Sailör.
«Grazie a Dio! Sei tornata da poco? È da molto che non ti vedo in città. I ragazzi del tuo club giravano sempre senza di te, così ho pensato fossi partita...». Ciò detto, si passò la mano dietro la nuca, iniziando a presentare sintomi di nervosismo.
Ella pensò che da un lato fosse buffo e quasi paradossale, che mentre per lei Rhys fosse un porto sicuro, in cui rifugiarsi quando la vita le andava male, per lui, lei fosse solo la presidentessa del Comitato Studentesco ed era doloroso rendersi conto che senza quel titolo, Rhys non si sarebbe neanche mai accorto di lei. D’altro canto, non sapeva se dovesse fare i salti dalla gioia poiché lui, la sua cotta adolescenziale, aveva fatto caso alla sua assenza, come se si fosse impegnato a cercarla tra i presenti.
Scosse la testa e affrettandosi a levarlo dall’imbarazzo venutosi a creare, Ella raccattò, senza entusiasmo, la borsa che nella caduta era stata spazzata qualche metro più lontano.
«Sì, ero... ero in Montana, dai miei nonni».
In quel momento, il suo cercapersone trillò ed Ella ringraziò chiunque si celasse dall’altro lato. Utilizzando quella scusa, si defilò, lasciandolo con una mano alzata a metà, quasi come se il saluto si fosse disperso nell’aria a causa della sua frettolosa dipartita, ed un’espressione confusa.
Ella concordò con se stessa che per preservare il suo incarico, che richiedeva attenzione e dedizione alla causa, ma anche il suo cuore, distrazioni come Rhys Lawrence avrebbe dovuto evitarle come la peste.
 
Munita del materiale necessario all’immatricolazione – prelevato dalla segreteria non prima di aver firmato e aver crocettato una serie di scartoffie burocratiche – si affrettò a condurre la scatola, abbastanza pesante, che la faceva barcollare qui e lì, nell’aula magna, cosicché i nuovi ragazzi, e anche i membri del club, potessero intraprendere le lezioni.
Attenta a non inciampare in niente e in nessuno, spostava la scatola, di tanto in tanto, per avere una migliore visuale del passaggio. Non sarebbe finita bene.
“Cassie, no, ho già detto che posso farlo io. Non c’è bisogno che…”
“Lör, tu non sei nelle condizioni di…”
“Cassie, taci”.
Una serie di bisbigli concitati e anche piuttosto velati giunse all’orecchio di Ella prima ancora che potesse ignorare ciò che stessero dicendo. Le voci sembravano appartenere a Cassandra Lawrence, la sorella di Rhys, e Sailör Clark, la fidanzata di quest’ultimo. Solo, Ella non capiva a cosa si stessero riferendo. Che ci fossero problemi nella squadra di cheerleading? Se così fosse stato, perché nessuno l’aveva avvisata? Era lei a dover occuparsi delle eventuali sostituzioni e delle ammissioni delle nuove aspiranti cheerleaders. Il decreto supremo spettava a Sailör, in quanto capitano della squadra, ma le iscrizioni e i cambiamenti di programma sarebbero dovuti filtrare attraverso lei in primo luogo.
Stranita ma troppo impegnata a non cadere, insieme all’occorrente degli studenti, decise di lasciar correre, appuntandosi, comunque, di indagare non appena le fosse stato possibile.
«Ce ne hai messo di tempo, Dunck! Li hai presi in Siberia, quei cosi? E... sicura di sentirti bene? Hai una cera...».
Effettivamente si sentiva spossata e stanca – ed era solo la prima ora. Non aveva idea se a concorrere a quello strano malessere fosse il fatto che non avesse avuto modo di fare colazione, poiché quell’animale di Tristan aveva minacciato di lasciarla a piedi – e la sua auto serviva a Charlotte per accompagnare Nika all’asilo – o la botta che aveva preso nello scontro con Rhys. In un primo momento, non le aveva dato molto peso, poiché l’aveva considerato come un semplice ematoma da caduta, che non avrebbe avuto ripercussioni sul suo stato di salute ma ora sentiva freddo e la vista le si era annebbiata più di una volta.
«Ella? Vuoi andare in infermeria? Non stai benone...», le chiese Ines, dandole un colpetto sulla spalla.
«È tutto okay, Ines, tranquilla. Adesso mi passa, solo... solo un capogiro», minimizzò, sforzandosi di elargire un sorriso convincente.
Dopo un momento di tentennamento, Ines cedette. «E va bene, testona, sai che non devi interpretare la parte di Wonder Woman solo perché la tua posizione, in teoria, lo richiede. Sei la nostra presidentessa ma sei anche una persona, Ella, e come tutti è normale presentare delle debolezze ma, credimi, celarle non è sinonimo di coraggio, anzi, alla lunga, diventa questo atteggiamento assume i tratti di una mancanza».
«Grazie, Nessie. Credo tu sia l’unica a cui interessa il mio reale stato d’animo e di salute. Tu mi vedi anche come Ella Duncan e non solo come la presidentessa di questo club. Quindi... grazie».
Si potevano contare sulle dita le volte in cui Ella avesse ringraziato uno di loro e questo Ines Bennet lo aveva imparato a sue spese. La sua amica era sempre troppo impegnata ad impartire ordini affinché tutto filasse liscio, senza alcun imprevisto e questa sua tendenza a programmare tutto, a volte, la faceva apparire come un’insensibile stronza, pronta a caricare di lavoro i membri del gruppo che non potevano neppure lamentarsi poiché tutti, chi più chi meno, intendevano portare a termine un lavoro fatto bene.
Le sorrise bonaria e felice che Ella fosse riuscita a palesare qualche sentimento umano a fare da contraltare alle solite azioni tipiche da macchina da guerra. Vedere Ella ammorbidita era una sensazione nuova ma non per questo meno piacevole.
«Qui abbiamo finito», annunciò Casey, spegnendo il proiettore e infilando la pen-drive nella borsa. Il brusio delle matricole si diffuse nell’aria a macchia d’olio mandando tutti in confusione.
Che mandria di indisciplinati! pensò Ella, reggendosi la fronte con una mano, iniziando a sudare freddo.
Jasper, colta l’antifona, iniziò ad agitare le braccia come a richiamare l’attenzione di quegli animali da zoo. Quando ottenne il risultato sperato, iniziò a dare loro istruzioni: «Adesso, date un’occhiata all’orario come Gabriela vi ha spiegato poco fa. Non appena vi sarà chiara la lezione cui dovrete partecipare disponetevi in gruppi ordinati. Pete», disse indicando il giovane dai capelli fulvi, stante la porta, «scorterà i ragazzi del corso di chimica. Gabriela, quelli del corso di algebra. Ines vi mostrerà la strada per il corso di storia e geografia. Casey, per quello di letteratura inglese. Lorelai, per quello di spagnolo. Infine, io vi porterò nell’aula di giornalismo. È tutto per oggi. Forza, forza, andiamo! I professori odiano i ritardatari!».
E come un vigile, iniziò ad impartire ordini a destra e a sinistra. Ella gli regalò un sorriso carico di gratitudine e lui le rispose con un occhiolino.
«Ella, vai a farti visitare in infermeria. Quel livido sulla nuca non mi piace per niente».
Casey Gomez sognava di studiare medicina una volta al college ed Ella era convinta ce l’avrebbe fatta perché era una ragazza brillante, in gamba, e aveva occhio per ogni minimo particolare. Sarebbe stata un grande e valido medico, da grande.
«Cosa? Un livido? Ma cosa è successo nel tragitto aula magna-segreteria?», intervenne sconvolta Ines. Menomale che stava bene!
Ella sospirò. «Niente. Sono solo scivolata. Casey, vai pure, chiederò un po’ di ghiaccio da applicare sull’ematoma e vi raggiungerò alla lezione di spagnolo. Su, andate! Non so per quanto Pete riuscirà a tenerli…», annunciò, ammiccando con il mento all’orda di ragazzini pestiferi e ad un Pete che, sconsolato, chiedeva aiuto ai suoi compagni. Casey fu la prima ad immolarsi per quel compito e fu impressionante constatare che tutti i presenti, al suono della sua voce, ammutolissero, prendendo ad osservarla come rapiti.
«Che spaccona”, commentò Lorelai, divertita.
Quando tutti scomparvero, Ella, rimasta sola, iniziò a tastarsi il punto dolorante, trovandovi una protuberanza gonfia e irritata.
Cazzo, che male!
«Signorina Duncan, si sente bene?», domandò l’inserviente, notandola sola in aula-magna, l’espressione sofferente. Si apprestò a darsi un contegno, sorridendo genuina alla donnina di mezza età con un piglio preoccupato.
«Miss Johnson, quanto è bella lei, nessuno mai!».
Ella sbiancò, sentendo quella voce e iniziò a gesticolare e a scuotere la testa come a far capire la bidella di mandarlo via. Quella, tuttavia, non la ascoltò nemmeno perché troppo impegnata a voltarsi per accogliere Tristan e rimproverarlo per essere fuori dall’aula nell’ora di lezione, piuttosto che a studiare.
Era una catastrofe! Se gli avesse riferito di averla trovata con un’espressione di dolore Tristan, come minimo, avrebbe iniziato a deriderla, solo per il gusto di darle fastidio.
Lì, all’Eastwood High nessuno era stato messo a conoscenza del fatto che lei e Tristan avessero unito le famiglie e che, quindi, fossero fratellastri. Ella aveva voluto così e Tristan, dal canto suo, non s’era opposto, sebbene fosse rimasto perplesso dinanzi alla richiesta della biondina.
Lei era dell’idea che sarebbe stato meglio non dare voce ai pettegolezzi che, in quella scuola, si diffondevano molto rapidamente.
«Signor Owens, sa bene che non mi incanta adulandomi! Ma seriamente, è convinto di far capitolare una ragazza servendosi di queste battute pre-confezionate? Ah, Cielo, i giovani d’oggi…».
Tristan incassò il colpo, fingendosi ferito nel profondo, con tanto di mano plateale sul petto.
«Lei mi uccide così. Possibile mai che niente riesca a scalfirla? Mmh, sa che mi ricorda qualcuno?».
Rigida come il manico di scopa che tiene in mano, totalmente inerme al suo fascino, intenta ad intaccare il suo orgoglio... be’, la versione più anziana della sua sorellastra!
Ella che, all’inizio, aveva gioito per la stoccata impartita dalla bidella, suo nuovo mito, non appena captò quelle ultime parole smise di sorridere. Si stava riferendo a lei, quel cafone!
E dimentica, dei suoi tentativi di apparire inosservata, nascondendosi sotto alla scrivania o, alla peggio, di frantumare di testa la finestra, precipitandosi giù, si alzò, noncurante della fitta che le attraversò la testa e, impettita, avanzò verso l’uscio, pronta a dirgliene quattro.
Ma insomma, che maleducato...
«Questa ragazza di cui parla deve essere molto scaltra e superiore per non lasciarsi incantare da quello che lei si ostina a definire fascino. Le donne, caro mio, preferiscono i giovani nobili d’animo che riservano dolcezze e riverenze all’amata e non i bellocci tutto fumo e niente arrosto!».
Sì, forse, nella sua epoca dimenticata da Dio, rifletté Tristan, assorto. Era risaputo che nel ventunesimo secolo tutte preferissero ormai il ‘bello e misterioso’ al “gentile ma stupido”.
«Sì, in effetti è molto intelligente, anche troppo, ad essere sinceri, ma anche piuttosto strana. Miss Johnson, crede davvero che la ragazza di cui parla sia immune al mio fascino? È tutta tattica, la sua. Fare le recidiva affinché un bel maschione, in questo caso il sottoscritto, colga la sfida, decidendo di correrle dietro. Ormai è assoldato che sia una mera trappola per imbrogliare chiunque stia dall’altro lato!».
Ella batté le mani. Una, due, tre volte. Si avvicinò con passo cadenzato ed un’espressione fintamente soddisfatta.
«Ma bravo, bravo, continua con la tua filippica cinica e misogina! Tu sei un idiota! Ecco perché la sottoscritta non ti viene e mai ti verrà dietro. Ho ben altro da fare che rispondere ad i tuoi stupidi quanto cavernicoli modi di approcciarti a me. Non è che forse sarai tu, quello bisognoso di attenzioni che non perde attimo di punzecchiare la preda affinché questa cada vittima della tua trappola?».
Tristan sussultò, come se l’avessero schiaffeggiato. Di tutto quel discorso, non aveva seguito nulla, perché era troppo impegnato ad interrogarsi sul perché la diligente e zelante Eleanor Duncan fosse fuori dall’aula, a poltrire in aula-magna.
«Che diavolo ci fai tu qui?», l’accusò, furente in volto.
Neanche capiva da dove derivasse quella bizzarra emozione. Forse era legata al fatto che Ella, ancora una volta, l’avesse colto impreparato e che in quel modo lui non avrebbe saputo come ribattere.
«E sai cosa? Miss Johnson ha ragione quando dice che noi ragazze preferiamo l’altro genere di uomo ed io ne sono la prova vivente!».
Ma cosa cazzo stava dicendo? Perché era così criptica? E soprattutto, cos’era quel colorito biancastro che le incorniciava il volto?! Ella aveva sempre avuto un incarnato pallido e diafano ma mai così spento e terrificante. E fu strano accorgersi che avesse notato quel particolare ma ancora più strano e preoccupante il fatto che quando l’aveva accompagnata a scuola stesse bene.
«Dio, Ellie, ma ti sei messa la cipria in faccia stamattina?».
Miss Johnson, intanto, stava facendo ondeggiare lo sguardo dall’uno all’altra, davvero presa dal teatrino che stava mettendo in scena. Anche meglio delle sue soap-opera argentine. Le mancavano solo i pop-corn per godersi a pieno quella scenetta degna di nota.
«...che cosa?», completò Ella, ai limiti della comprensione di cui Dio l’aveva dotata. Che domanda era quella, esattamente? E come si era accorto di avere qualcosa di strano in viso?
«Dico, sei bianca cadaverica…», continuò, fissandola con un piglio inquisitore.
«Vero?», diede manforte Miss Johnson, «L’ho notato anche io non appena l’ho vista e inoltre…»
No, ti prego, taci. Ella le lanciò un’occhiata eloquente che la bidella, di nuovo, ignorò bellamente. Allora attese. Attese che Tristan la deridesse per la sua sbadataggine e quell’insulto che, sicuramente, ne sarebbe scaturito sarebbe piovuto come una spada di Damocle sulla sua testa.
«...inoltre, l’ho colta a massaggiarsi la nuca, in modo dolorante. Sicura che non sia caduta, signorina Duncan?».
Perché diavolo non era andata subito in classe? Perché non aveva dato retta a Nessie andando in infermeria?
«No. Non sono caduta. Ero solo stanca. Sono stanca e adesso andrei in classe perché ho già perso un’ora. Smettetela di chiedermi come sto!».
Disse quelle parole con un impeto tale da provocarle un capogiro e si appoggiò, di istinto, al muro.
«Blondie, tu non stai bene», asserì il giovane, scrutandola con un’intensità tale da perforare chiunque, da parte a parte.
Lo detesto, perché non tace?
«Ah, ma lo saprò io, se sto bene oppure no. Devo andare».
«Signorina Duncan! Non si regge in piedi”, aggiunse Miss Johnson, preoccupata.
Si staccò dalla parete, decisa ad andarsene, a fuggire dalle preoccupazioni dei due presenti. Un attimo... preoccupazione?
Tristan era... no, impossibile. Allora perché la frecciatina al vetriolo non era ancora giunta dalle sue dannate labbra? Non doveva andare così.
«Signor Owens, non sarebbe meglio accompagnarla in infermeria?», propose Miss Johnson, guadagnandosi un’occhiata quasi accondiscendete da parte del ragazzo che era intento a fissare Ella che barcollava, reggendosi a stento in piedi.
Era cocciuta, cocciuta come un mulo e cosa più grave, con la sua testardaggine si sarebbe ammazzata tra un corridoio e l’altro.
Tristan imprecò, maledicendo il Fato che aveva fatto in modo di incrociare i loro destini più di quanto già non fossero. Poco male, avrebbe potuto usare la scusa, con se stesso, che la sua improvvisa e inconsapevole preoccupazione, fosse scaturita in quanto responsabile della sua incolumità, in veste di fratello maggiore. Fratellastro, le ricordò una vocina infima nella mente.
«Elenöir», scandì a denti stretti, rincorrendola. Doveva sempre dare spettacolo, quella stupida, neanche fossero in un reality!
Era veloce per essere una che stesse per crollare da un momento all’altro. Con ampie falcate riuscì a raggiungerla, arpionandole un braccio.
«Ma ti rendi conto di quanto tu sia incosciente? Perché ti costa tanto chiedere aiuto, per una volta?», le urlò contro, strattonandola con forza, senza applicarne troppa per non farle male come quella volta nel parcheggio dell’aeroporto.
«E tu, che stai interferendo con il corso naturale degli eventi, stravolgendolo? Non sai che è auspicio di cattivo presagio?», rispose a tono, divincolandosi da quella presa ferrea.
Cazzo, ma quanto forte l’aveva battuta, la testa?
Tristan sembrò formulare lo stesso pensiero perché assunse un’espressione confusa e... divertita.
Sì, adesso andava bene. Adesso sì che era Tristan Owens.
«Non...», serrò le palpebre, «...non dovresti, che so, spingermi tu stesso a terra ora, per farti una sana risata?».
Tristan si levò quel sorriso dalla faccia, facendosi serio all’improvviso.
Era incredibile! E stava anche delirando. Sembrava ubriaca.
“Forse un tempo l’avrei fatto, sì. Ma non sono così stronzo, Ella. Capisco quando comportarmi come tale e quando smetterla e in questo momento non ho proprio voglia di giocare, non quando tu sei più a terra che in piedi. Si può sapere che cazzo hai fatto stamattina? Dovevi solo accogliere dei ragazzini!”.
Ella ridacchiò. Si sentiva davvero strana. Come se le avessero iniettato una dose di Valium e quello stesse facendo i suoi effetti. Del resto, era a poco dallo svenire e le gambe di colpo fatte di gelatina ne erano il sintomo lampante. Alla fine, complice la fatica nel ribattere e litigare, si arrese. Sbuffò. «Sono scivolata e ho battuto la testa. Più forte di quanto credessi, ad onor del vero. Ma stavo bene, te lo giuro. Solo che ora… ora... oh, mio Dio», si allarmò, portandosi le mani davanti alla bocca poiché all’improvviso ci vedeva doppio, «hai un gemello, per caso?».
Ella fece per assopirsi, chiudendo gli occhi e se non ci fosse stato lui a tenerla avrebbe incontrato nuovamente il pavimento duro.
«Merda. Ellie, ehi, apri gli occhi», mormorò, dandole uno schiaffetto in faccia affinché si riprendesse. Poi, colto da un istinto di sopravvivenza, le prese un braccio portandoselo dietro il collo e mettendole il suo sul fianco, così da poterla scortare in infermeria.
Idiota, incosciente e... Ella sembrava così tranquilla e indifesa, nel suo attuale stato; in un modo che faceva venire voglia a Tristan di prendersi cura di lei, di aiutarla a stare meglio. E questo improvviso desiderio lo spaventò terribilmente.
«Tristan», lo accolse Clementine Roberts, sorpresa di vederlo lì in infermeria per un motivo che non avesse niente a che fare con i loro incontri sporadici in cui se la spassavano allegramente. Clementine aveva solo vent’anni e Tristan aveva raggiunto la maggior età, quindi non si trattava di nulla di illegale e neanche nulla di serio, in quanto lei, in veste di dipendente della Eastwood, non avrebbe potuto impegnarsi seriamente con uno studente. Era contro il regolamento. E comunque, erano sempre stati molto attenti a non farsi scoprire da occhi indiscreti.
«Che è successo?», domandò, allarmata, non appena vide la ragazza esanime ora stesa sul lettino.
Pescò la torcia medica dal taschino del camice ed iniziò a proiettarla verso le pupille della giovane distesa, dopo aver sollevato le palpebre.
«È cosciente, ma troppo sfiancata per rispondere agli impulsi».
Clementine alzò gli occhi, notando che Tristan non avesse smesso di guardare la ragazza nemmeno per un attimo e si chiese cosa ci fosse tra quei due. Era noto a tutti che a Tristan non importasse di nessuno che non fosse se stesso ed era alquanto strano vederlo penarsi per qualcuno che non fosse lui.
Avanzò, facendo il giro del lettino andando in cerca di ematomi o simili che potessero farle comprendere la causa di quello svenimento.
«Tristan». Dovette chiamarlo tre volte prima di destare la sua attenzione. «Devi dirmi cosa è successo altrimenti non so come muovermi».
«Io… è svenuta... è svenuta tra le mie braccia... io... non lo so... ha detto che è caduta… ha sbattuto la testa».
Possibile che non riuscisse a formulare un pensiero di senso compiuto? Che fine aveva fatto il Tristan inamovibile e insensibile a cui era abituata?
Clementine annuì, lasciando perdere le sue elucubrazioni mentali, e andò a verificare il punto indicato. Con le dita raggiunse l’ematoma che si aspettava di trovare e trovandolo, iniziò a toccarlo per rendersi conto della gravità della situazione.
«È davvero gonfio ma non letale. In teoria dovrebbe andare in ospedale per fare una tac e scongiurare il trauma cranico ma, per quanto ne so, non è niente che non possa risolversi con un po’ di riposo, un antidolorifico e un impacco di ghiaccio».
Clementine si disfece dei guanti in lattice, gettandoli nel cestino sotto il letto e andò alla vetrina dei medicinali per prendere una compressa che diede a Tristan affinché la facesse prendere alla ragazza ancora dormiente e si spostò allo scomparto del ghiaccio per prelevarne una bustina. Diede un pugno deciso a quest’ultima e, celere, quella iniziò a raffreddarsi. Consegnò anche quella al ragazzo cosicché andasse ad appoggiarla sotto la nuca della biondina.
«È solo una tua compagna o anche...  qualcos’altro?».
Tristan ponderò a lungo sulla risposta da dare alla donna. Aveva promesso ad Ella di tacere sul fatto che fossero fratelli e non sarebbe certo venuto meno alla sua parola.
«È una compagna. Ma non vedo come questo possa riguardarti, Clementine».
Era stato più duro di quanto avesse voluto, nel rivelare quelle parole ma sul serio non capiva cosa potesse importare alla donna con cui scopava occasionalmente chi fosse quella ragazza.
Clementine non sembrò prendersela, anzi sorrise compiaciuta.
«Ah, questo è il ragazzo che conosco!», osservò, felice, avvicinandosi a lui con passo felpato. Tristan captando, le sue intenzioni, si fece più vicino ad Ella, prendendo a carezzarle la fronte. La donna si fermò, decidendo di arretrare. «Capisco», disse e quell’unica parola fu come una doccia fredda per lui. Era sicuro che Clementine si fosse fatta un’idea del tutto sbagliata di loro due, eppure, in quel frangente, non gli importò più di tanto. Ella si decise ad aprire gli occhi, proprio mentre la ventenne stava osando sfiorargli il braccio in maniera molto poco casta, gesto seguito da un’occhiata languida e lussuriosa.
Tristan si ritrasse, come se la voce di Ella, che era andata a rompere quella bolla che si era creata tra i due amanti, l’avesse risvegliato, l’avesse riportato a ragionare con mente lucida, non ottenebrata dal piacere che, se avesse seguito la richiesta velata di Clementine, avrebbe potuto provare.
Non poteva affermare con certezza se Ella avesse notato o meno quel contatto ma il solo pensiero gli dava il voltastomaco, senza alcun appartenente motivo.
«Dove... dove sono?».
«Come ti senti?», si informò Clementine, aiutandola ad alzarsi. Era pur sempre una studentessa e, per quanto avesse tutta l’aria rappresentare una minaccia, che minasse il rapporto venutosi a creare con Tristan, Clementine non poteva avvalersi di alcuna scusa per evitare di prestarle assistenza.
«Frastornata e... confusa. Che ci fa lui qui?!», Ella additò il giovane, con piglio severo e tono colmo di stizza.
Sembrava avercela a morte con lui, lui che si era preoccupato tanto per lei!

Improvvisamente le venne voglia di schiaffeggiarla.

Ma insomma, bel ringraziamento!
«Come ti senti?», ripeté Tristan, ignorando le sue occhiatacce.
Era svenuta? Tristan l’aveva davvero portata in infermeria?
«Adesso che ti vedo, male», fu la sua secca risposta. Tristan, oltre ogni previsione, sorrise, lasciando di stucco non una, ma ben due ragazze.
«Be’, direi che stai benone se sei capace di fare del sarcasmo. Signore, il mio lavoro qui è finito. Hasta luego», e ciò detto, scomparve dietro la porta, non prima di aver indirizzato uno sguardo eloquente e carico di aspettative in direzione della dottoressa.
Ella arcuò un sopracciglio, riconoscendo la natura di quell’espressione, e si limitò a fissare la porta da cui era uscito. Tristan se la faceva con la dottoressa…
Inorridendo, alzò una mano, percependo un conato in arrivo: «Scusi, mi sa che devo vomitare».
 
 

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