10 Frittate

di Francine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chi non muore si rivede! ***
Capitolo 2: *** Apocalisse ***
Capitolo 3: *** L'ultima conquista del Re di Cuori ***
Capitolo 4: *** Debora ***
Capitolo 5: *** Luigi ***
Capitolo 6: *** La chiave ***
Capitolo 7: *** Per i miracoli, ci stiamo attrezzando ***



Capitolo 1
*** Chi non muore si rivede! ***


Mi aspetta alla fine della scala mobile, vestito come al solito: maglietta giallo acceso su pantaloni blu china. Un semaforo. Non è possibile! Che ci fa lui qui?, mi chiedo sbattendo le palpebre. E invece è proprio Stefano, il mio compagno di banco delle Medie. Quanto tempo è passato, vent’anni quasi?
Eppure, per quanto pazzesco possa essere, lo ritrovo uguale a come l’ho lasciato: stessa faccia da eterno ragazzino, stessa pellaccia dannatamente abbronzata…
«Stefano?»
«Azzurra!» È sorpreso, quasi quanto me.  «Ben arrivata!»
Ben arrivata un corno! Avrei fatto volentieri a meno di finire quassù, penso mentre lo raggiungo. Si avvicina e mi abbraccia. Sono cresciuta ancora.
«Quando sei arrivata?»
«Ieri, con il treno delle due.»
«Non me l’aspettavo proprio. E brava Azzurra! Allora, qual buon vento?», mi chiede dandomi una gran pacca sulla spalla. Certe abitudini non muoiono mai: ricordo che me lo faceva anche quando c’incontravamo la mattina davanti al cancello della scuola.
«Sfotti, sfotti! A dirla tutta, neanche noi ci aspettavamo che te ne andassi così… all’improvviso!» Tentenno: non lo vedo dalla cena di fine d’anno della Terza Media. L’ultimo fotogramma che ho di lui è la sua testa che sporge dal finestrino dell’auto verde bottiglia di suo padre, mentre si allontana dalla pizzeria dietro la scuola.
Risponde facendo spallucce. «Dimmi, da quanto tempo è che non ci si vede? Dalla fine delle medie, giusto? Che anno era? Il ’91?»
«Il ’90. Dovevamo vedere i Mondiali insieme, ricordi?»
«Sembra ieri, cazzarola…»
«Sei identico…» Mi scappa. Ecco, volevo evitare queste banalità da trentenni imbecilli, e invece…
Ancora non ci credo. Sono in ordine? Succede sempre così; quando uno meno se l’aspetta, e magari gira come un pazzo, i capelli arruffati, i vestiti spiegazzati e forse macchiati e l’aria imbranata, incontra matematicamente qualcuno. Nove volte su dieci è una persona molto importante del proprio passato. E Stefano era il mio migliore amico… e la mia prima cotta. Successe verso Aprile dell’ultimo anno: sfiorarlo, anche per sbaglio mentre gli passavo la gomma da cancellare, m’imbarazzava tantissimo, così come la complicità che c’era sempre stata tra di noi. E se avesse capito?, mi chiedevo in continuazione. Certo che me ne sparavo di paranoie, all’epoca!
«Beh, anche tu non sei cambiata, che credi?», mi risponde sorridendo, e un po’ mi rincuora. «E gli altri? Chiara, Emiliano, Monica… che fine hanno fatto?»
Ok. Anche lui si è perso in questi discorsi da quattro soldi. Non sono sola.
«Monica si è sposata; è rimasta incinta a vent’anni e così… Chiara fa la pendolare fra Roma e Pescara, dove è supplente di educazione fisica.»
«Chiara? Quel ciocco di legno?»
«Il ciocco di legno si è diplomata all’Isef.»
«Ma dai! Ed Emiliano?»
Sollevo le spalle: Emiliano è sempre il solito Emiliano. Lui annuisce.
«Una bella diaspora, eh?», commenta ridendo.
«Già, e abitiamo ad un tiro di schioppo l’uno dall’altro…»
Imbarazzo. Che altro puoi dirti quando ti rivedi dopo secoli e hai esaurito gli argomenti di rito? Parlare del tempo è da idioti. Sereno variabile. Che altro c’è da aggiungere?
«Dimmi un po’», mi chiede quando il piazzale è ormai deserto. «Come…?»
Mi guardo attorno: ci siamo solo noi due, e una vecchina spaesata.
«Io…» Un po’ mi vergogno. Taccio. Mi vergogno davvero.
«Ok, inizio io. Ci siamo messi in viaggio di sera, con la macchina nuova ancora in rodaggio. Io ero stanco e mi sono addormentato; quando mi sono svegliato ero qui. Se l’avessi saputo, sarei passato a salutarti. Davvero.»
Annuisco. Lo so. Glielo dico. Sorride. Ha ancora quella strana fossetta sul mento. Tocca a me.
«Te la ricordi Giada?» Fa segno di no. «Giada Tedesco. Quella biondona della F, tette grosse e erre moscia…» Niente. Va bene, non è importante.
«Abbiamo fatto il liceo assieme e anche il primo anno d’Università. Insomma, una sera andiamo in discoteca, una di quelle all’aperto, sul Tevere. Marco – Pagnozzi, hai presente? – ci fa entrare gratis e c’imbuchiamo. Musica, gente che balla, alcool. E lo vedo…»
Stefano drizza le antenne.
«Bello. Alto. Biondo, occhi verdi…» Somigliava a te, vorrei dirgli, ma lo ometto. «Ci fissiamo. Balliamo. Giada rompe che vuole da bere, che sta male, che ha fumato qualcosa… Vado al bar. Me lo ritrovo dietro. Mi bacia sul collo. E io decido che Giada può anche aspettare, che se sta male è solo colpa sua, così impara a prendere schifezze dagli sconosciuti…»
«E?», mi chiede Stefano, quando taccio di nuovo. Giusto: ormai sono in ballo e devo ballare.
«Lo seguo sul retro. Mi bacia. Ci tocchiamo. Penso che sto per farlo con uno sconosciuto, che può essere pericoloso, che… Che sono una cretina integrale, perché il biondo mi piazza un coltello qui e ciao core
Mi guarda perplesso.
«Non avrai pregiudizi, spero…»
«No, no. Affatto. Sono solo stupito di vedere che una ragazza in gamba come te si sia fatta fregare così.»
«Lo so. Me la sono cercata. Me l’hanno detto anche quelli del piano di sotto, ma adesso mi sembra tardi per recriminare, no?»
«Perché l’ha fatto?»
Bella domanda.
«Non lo so, non gliel’ho mica chiesto! Mi ha buttato nel Tevere e splash! Sarà stato un maniaco, che posso saperne? Mi ritrovo con un buco in pancia e basta… Per fortuna mi sono pentita appena in tempo.»
«Ah, ecco.»
Annuisco. Sapevo che prima o poi sarebbe finita così, che mi sarei salvata in extremis. «Sì. Per fortuna.»
«E adesso che farai?», mi chiede premuroso. Tipico di lui.
«Devo andare qui», gli dico mostrandogli il foglio che mi hanno consegnato all’ingresso. «Sai dov’è?»
«Sì, ti accompagno io.» E mi porge il braccio. Cavaliere come sempre. Sorrido, mentre camminiamo insieme, diretti verso un palazzo liberty che fa capolino tra le nuvole. Sorrido anche se siamo una coppia ridicola, io trentenne e lui ragazzino di tredici anni con due grandi ali bianche che fluttuano nell’aria.
«Che effetto fanno?», gli domando toccando una piuma. Me lo chiedevo ogni qual volta vedevo la statua di un angelo.
«Ci devi fare l’abitudine. All’inizio impacciano un po’.»
«E quanto c’hai messo per abituarti?»
«Poco, poco… Allora, che novità mi porti dall’Italia?»
Tentenno. «Abbiamo vinto i Mondiali di Germania. Siamo a quota quattro.»
«Davvero?! E la Juve?» Taccio. «Azzurra, la Juve? Ha vinto almeno uno scudetto dal 1990 a ieri, no?»
«Oh, sì, ne ha vinti sette, ma…»
«Ma?»
«L’hanno retrocessa l’altro giorno in Serie B…»
Avete mai sentito qualcuno bestemmiare in Paradiso?
 
 
Luglio 2006
 
 

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Capitolo 2
*** Apocalisse ***


«È ora, sorellina».
«Così presto?».
«Sì. Hanno preso tutti gli altri. Noi saremo i prossimi».
«Farà male? La Luce, intendo».
«Non lo so», rispose. «Non te lo so dire. Stammi vicino».
Attesero assieme la fine di quel mondo di ghiaccio. La Luce arrivò e loro chiusero gli occhi.


«Tesoro, che gusto vuoi? Limone?».
«Caffè. E prendine altre due, ché abbiamo ospiti, stasera».
«Chi? Paolo e Francesca?».
«Sì. Svelto o si formerà il ghiaccio!».
Obbedì, prese le due confezioni in più e la raggiunse, indeciso se detestasse di più cenare con Paolo e Francesca o la granita al caffè come dessert.




Agosto 2006

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Capitolo 3
*** L'ultima conquista del Re di Cuori ***


«Largo, largo! Arriva il Re di Cuori!»
Stefano apre la porta del bar Da Filippo ed entra ridacchiando insieme ad un ragazzone alto, con una massa di capelli castani vanitosamente arricciati sulla testa. E, con un sorriso da pubblicità, i due si dirigono al bancone tirato a lucido, dove stringono la mano al barista.
«Altra tacca, fratello?», chiede questo con un sorriso sornione.
«Due, prego...», risponde il “Re di Cuori”.
«Due?», chiede l'uomo perplesso.
«Ge. Mel. Le...», sillaba l'altro e ridacchia, mentre il Re di Cuori sorride beffardo. «Valgono doppio, no?» Poi i due si allontanano dal bancone e vanno verso uno dei tavoli da biliardo, non prima di aver lanciato un'occhiata alla bella donna dai capelli neri che sta bevendo un cappuccino e piluccando una brioche.
Filippo ridacchia guardando suo fratello allontanarsi; poi si cava di tasca il coltellino svizzero, incide un paio di segni sul bancone e lo ricaccia via.
«Figlio di buona donna, salvando mamma nostra, s'intende!», commenta con un sorriso bonario. Poi, rivolgendosi alla cliente, le consiglia: «È un gran lazzarone, mio fratello! Dai retta a me, Moira: stagli lontano!».
Moira, la bella donna dai capelli neri, sorride e sorseggia il suo cappuccino.
«Lo terrò a mente, anche se credo sarà difficile...»
«Non mi dire!», la canzona Filippo. «Federico ha fatto colpo? Oh, non vedo l'ora di dirglielo!», e, sempre ridendo, porta i due caffè ai giocatori di biliardo.
Federico, passando il gesso sulla sua stecca, con sopra inciso il suo soprannome, "El Matador", non appena arriva il vassoio, si avvicina al fratello e chiede: «Chi è quella tipa? Non l'avevo mai vista qui, prima...».
Sempre il solito, pensa Filippo. «Ti sei appena rimorchiato due gemelle e già pensi alla prossima vittima? Prenditi un giorno di ferie, o ti salteranno le coronarie!»
«Chi è quella?», chiede imperterrito Federico, e suo fratello capisce che il segugio è entrato in frenesia e che non mollerà la presa fino a quando non avrà catturato la volpe.
«Ti piace, eh? Si è trasferita qui da una settimana, viene la mattina presto o verso l'ora di pranzo. Si chiama Moira, fa la segretaria e l'hanno presa da Giggoni. Altro, non so.» E torna al suo bancone prima che Moira capisca che stanno parlando di lei.
«È bello avere un fratello allegro come il suo, vero?», gli chiede la donna non appena si posiziona dietro il bancone.
«Moira, devi darmi del tu!», la rimprovera mentre pulisce il filtro della macchina per l'espresso. «Mi danno del lei solo quando vado dal dottore, e i dottori non mi piacciono.»
«Va bene, allora, Filippo», replica lei paziente. « Ma vede... vedi, è che sono così abituata in ufficio che mi viene automatico usarlo sempre.»
«Pure con i tuoi? No, vero?»
«Vivo da sola», replica diretta Moira, dando un’occhiata al Messaggero.
«Beh, allora fai conto che ti stai rivolgendo ad un amico o un cugino. Non daresti mai del lei ad un cugino, giusto?»
Moira fa spallucce. «Non ho né cugini, né fratelli. E anche il mio capitolo delle amicizie è vuoto.»
Una come te? Non sarai un'extraterreste, vero, bellezza?, si chiede Filippo prima di sorriderle e risponderle: «Ok, allora: io sarò il tuo primo, nuovo amico in questo quartiere. Mi trovi sempre qui, al palo, come si dice da noi; per qualsiasi cosa, non esitare a chiedere.» 
Moira sorride. «Va bene, va bene», replica. «Ma adesso, parlami di tuo fratello...»
Ecco, sempre così... , pensa Filippo mettendo i bicchieri da caffè a testa in giù nel cesto della lavastoviglie.Io sono quello simpatico, quello da cui corrono le donne per ridere e per risolvere problemi pratici; e Federico, invece, è quello con cui escono a cena.
«Mio fratello? Consiglio spassionato: lascia stare quel disgraziato! Ne ha fatte piangere di belle donne, come te!», esordisce Filippo sperando che lei abbia colto il complimento.
«Davvero?» Moira ribatte come se niente fosse.
«Vedi?», le dice Filippo indicandole una serie di incisioni sul legno del bancone che occupa mezzo metro buono. «Una tacca per ogni donna. Abbiamo iniziato a segnarle dal '90, dalla prima storia di mio fratello. Ormai sia io che lui abbiamo perso il conto, tanto che abbiamo deciso di terminare la scommessa quando le tacche arriveranno in fondo al bancone.»
«E cosa c'è in palio? Se posso essere indiscreta...»
Filippo sorride. «Che resti tra di noi...», le dice guardandosi in giro in modo che non senta nessun altro. «Ce lo siamo dimenticati. Tutti e due! Penso che oramai sia una questione di principio e basta.»
Ridacchia. Entrano altri clienti, Filippo li serve e Moira resta lì, seduta sullo sgabello imbottito. 
Due vecchie conoscenze, a giudicare dal tono confidenziale con cui parlano tra loro.
«Novità?», chiede il più alto dei due, un ragazzo sulla trentina e l'aria da perfettino inamidato.
«Nessuna nuova...», ribatte Filippo.
«Vuoi dire che Federico è andato in bianco?», s'intromette l'altro, restando con la tazzina del caffè a mezz'aria.
«See... Marcé, quando succederà che a mio fratello j'è nnata buca...»
«Lo so, lo so... Sprofonnerà San Pietro co' tutto er Cupolone...,» lo interrompe Marcello facendogli il verso. «È che non si sa mai...»
«Rosichi, eh?» lo sfotte Filippo. «Ancora non ti è andata giù che ti ha soffiato sotto il naso quella sventola bionda, eh?»
Marcello posa la tazzina e fa: «Quant'è?».
«Ma che ti sei offeso?», gli domanda Filippo.
«Quant'è?», prosegue Marcello alzando il tono di voce.
«Segna sul mio conto, Pippo!», dice l'altro prendendo l'amico sotto braccio ed uscendo dal bar, non senza prima aver lanciato un'occhiata a Filippo come a dirgli: Complimenti per il tatto!
I due spariscono ingoiati dal traffico e Filippo commenta con un: «Che tipo, quello!».
«Deve bruciargli ancora, qualsiasi cosa gli sia successa...», commenta Moira senza alzare gli occhi dalla Cronaca Nera. «Altrimenti non avrebbe reagito così, non credi?»
«Oh, su... Dopo dieci anni ancora gli rode? Naaah, non ci credo!»
«I fatti dimostrano il contrario...», ribatte Moira tranquilla. E Filippo infila il carico di bicchieri nella lavastoviglie.
«Forse hai ragione tu, ma io credevo avesse superato quella cosa. Insomma, avevano diciotto anni, erano due ragazzini...», si giustifica, non senza aver prima lanciato un'occhiata a suo fratello. Federico ride beato, come se Marcello non fosse mai entrato nel locale. «Guardalo lì, quel fijo de... salvando povera mamma, s'intende. Guardalo come ride!»
«Cuor contento il ciel l'aiuta, si dice dalle mie parti», sentenzia Moira leggendo i necrologi.
«Speriamo. Non mi stupirei se un giorno me lo vedessi rientrare con una costola rotta.» 
«Addirittura?»
«Sissignore! Prendi Marcello ad esempio: quand'erano appena usciti dalle superiori, lui s'innamora di una bella sventola rimorchiata in vacanza coi suoi. Hai visto anche tu com'è fatto, no?»
Moira annuisce: Marcello non è molto alto, ha la faccia che ricorda un topo di laboratorio e un appariscente tic all'occhio destro. Per non parlare del suo aspetto da fraticello e del completo verde morto che indossava.
«Ecco, quand’era pischelletto era anche peggio. Aveva certi brufoli grossi come pomodori. E credimi, mi fa schifo ricordarlo com'era. Sempre secco allampanato, sempre silenzioso e coi libri sotto al braccio, sempre con mamma e papà. Sai, è l'ultimo di quattro figli maschi, i genitori erano anziani...»
«E lui andava sempre con loro in vacanza. Ho capito il soggetto», taglia corto Moira, temendo che Filippo parta a fargli la cronistoria delle disgrazie di Marcello.
«Bene. Un'estate di dieci... forse no, erano addirittura quindici anni fa, porca l'oca!, Federico e gli altri si mettono d'impegno e organizzano una bella vacanza come Dio comanda. Sole, sesso e risate. Loro partono per la Spagna a fare danni e Marcello se ne va a Fregene con mamma e papà. Solo che Federico e gli altri rientrano a casa con le pive nel sacco, mentre Marcello ha rimorchiato. Pensaci. Ha rimorchiato. Marcello. In vacanza coi suoi.»
«Una straniera?»
«No, era di Firenze. Si chiamava… ah, sì: Micaela, nome esotico qui a Roma. Una sventola galattica, dice lui.»
«Non gli hanno creduto?», domanda Moira, interessata.
«Tu che cosa avresti fatto, scusa?», risponde Filippo. «Certo che non gli hanno creduto, anzi: si erano convinti che si fosse inventato tutto e che, al massimo, fosse un cesso galattico. Così, iniziano a fare una testa tanta a Marcello. E faccela vedere. E non te la mangiamo mica. Sai come sono fatti i ragazzi a quell'età, no?»
«Vaso di coccio tra vasi di ferro...», commenta Moira torturando una briciola di brioche.
«Scusa?»
«Niente, niente. Insomma, che succede?»
«Succede che Marcello cede. E organizza un incontro.»
«E?»
Filippo si guarda intorno, poi le si avvicina. «Hai presente la Schiffer? U-gu-a-le! Porco mondo, non ci credevo nemmeno io, e sì che l'ho vista con questi occhi!»
«Davvero? Bella come Claudia Schiffer?»
«Me possino cecamme
Moira lo fissa come se avesse preso a parlare in arabo. «Cioè?»
«Scusa, è che dimentico sempre che non sei di Roma, tu. Me possino cecamme significa più o meno, che potessi diventare cieco se dico una bugia. Imparerai presto ad usarlo anche tu.»
Ne dubito, pensa Moira, ma annota ugualmente l'informazione. «Insomma, che è successo?»
«E che vuoi che sia successo? Mio fratello ha visto Micaela, Micaela ha visto quel gran paraculo e tanto ha detto, tanto ha fatto che se l'è portata a letto. E Marcello è rimasto a bocca asciutta.»
«E ovviamente se l'è legata al dito...»
Filippo ride. Il fischio annuncia che la lavastoviglie ha terminato il ciclo; apre la macchina e, immerso in una nuvola di vapore, le dice: «Povero Marcello. S'era innamorato sul serio...», e riprende a lavorare alacremente. 
Moira sprofonda nel silenzio, leggendo con calma piatta la pagina sportiva, mentre in sottofondo si sentono i commenti dei giocatori di biliardo.
Filippo la guarda con la coda dell'occhio e vede che, ogni tanto, Moira si volta ad incrociare lo sguardo di quel disgraziato di suo fratello. Come volevasi dimostrare, pensa, aggiungendo che è davvero un peccato che un così bel bocconcino abbia messo gli occhi su suo fratello e non su di lui. Una volta tanto, non gli sarebbe dispiaciuto prendersi una rivincita sul bello di casa. Però... Posso sempre provare a batterlo sul tempo. Moira è lì da quanto? Una settimana? E in questo tempo che cosa ha saputo di lei? Nulla, tranne quello che ha riferito a Federico. Ok. Adesso rimedio subito.
«Oggi sei in ferie?», le chiede. Sono le undici e quaranta di giovedì mattina. Di solito, Moira arriva con calma verso le sette e trenta, si siede - è un mistero come trovi sempre un posto libero- e ordina un cappuccino ed una brioche da portare via. Stamani, invece, è scesa al bar verso le undici e si è seduta a bere un cappuccino ormai freddo, e a torturare un cornetto integrale.
«No. Non sono in ferie. Diciamo che, per adesso, sono in pausa.»
«Alla faccia! Ma non ti fanno storie? »
Moira nega. «No, anzi. Diciamo che mi hanno fatto delle storie, sì, ma non per le pause.» 
Filippo la fissa curioso così lei si dice Ok, accontentiamolo, e gli spiega la situazione. «Faccio questo lavoro da cinque anni, e la prima cosa che ho imparato è che chi lavora sodo è ben visto dai superiori, ma sta messo malissimo con i colleghi.»
«Cioè?»
«Ho iniziato nel settembre di cinque anni fa. Ricordo che mi avevano messo davanti una pila di pratiche enorme. Grossa. C’era così tanto lavoro da farti rizzare i capelli. Il millennium bug che non aveva fatto danni, l’aggiornamento, proroghe, dilazioni, l’euro in arrivo… Ma io li ho fregati. Mi sono messa sotto e in meno di un’ora ho sistemato in un colpo solo delle pratiche che giacevano ferme da mesi. Così, dato che in ufficio da me non faceva niente nessuno, a cominciare dal Caposezione fino all'ultimo degli apprendisti, vedendo che lavoravo sin troppo per i loro standard da pelandroni, mi hanno gentilmente intimato di lavorare di meno… » 
«Altrimenti i Grandi Capi avrebbero preteso che anche loro sfacchinassero come te...», commenta Filippo. «Capisco perfettamente.»
Silenzio. Moira torna a leggere gli annunci di lavoro. No, così non va. E Filippo si sente in dovere di portare avanti la conversazione.
«Cerchi lavoro?», le domanda. Moira alza il caschetto nero e risponde di sì con un cenno del capo. «Non ti piace quello che hai?»
«Non lo so... vedi, hai mai presente quella sensazione che si prova quando si sa di essere nati per un lavoro, ma quel lavoro lo si odia? Non so se t'è mai successo...»
«Mmm... No. Io sono nato per fare il barista e amo fare il barista.»
«Beh, anche io sono nata per occuparmi di numeri e contatti sociali! Io sono nata per prendermi cura degli altri. Dopo tutto, vivo in mezzo a loro, no?» Non si direbbe che sei nata per le pubbliche relazioni, cara mia...pensa Filippo annuendo. «Ecco, io amo avere a che fare con gli esseri umani, ma a volte vorrei non dover essere io ad ascoltare le loro lamentele. E Non è giusto!, e Mi dia un altro po' di tempo!, e Adesso no, non vede che è il compleanno di mio figlio?, e mille altre frasi del genere. Ma io che colpa ne ho? Ho del lavoro da sbrigare, se loro non rispettano le scadenze, non è mica colpa mia, no? Dico bene? »
Filippo annuisce: sa bene quanto sappiano essere rognosi i fornitori. Prima si fanno versare l'anticipo; poi, quando devono portarti la merce che hai pagato a peso d'oro, col cavolo che si presentano in orario. Allora, e solo allora, iniziano le magagne. Fattorini che perdono la strada, o peggio ancora la consegna. Materiali in perenne ritardo dalla ditta fornitrice.
«Ne ho un'idea. Vedi questo forno a microonde? Secondo te, quanto tempo c'ha messo per arrivare fin qui da Pomezia? Pomezia. A quaranta chilometri dal Raccordo Anulare.» Moira fa spallucce. «Nove mesi. Nove. Mesi. Manco fosse ‘na creatura. E ogni volta ce n'era una. E prima l'ordine inviato durante le ferie, così nessuno se l'è filato. Poi problemi per reperire il pezzo in Germania, mannaggia a me e a quando ordino prodotti stranieri. E poi i fattorini che... boni, quelli! Lasciamo perdere che è meglio, e ho pure fatto un fioretto!»
Moira annuisce. «Lo so. I fattorini sono i più restii a fare il loro dovere, lo so per esperienza. Anche se, in certi casi, una categoria vale l'altra.»
«Ma sei in amministrazione?», le domanda Filippo.
«In un certo senso...», gli risponde sorniona. «Che ore sono?»
«Mezzogiorno meno dieci. È ora?»
«Sì. Tra poco devo tornare al lavoro.»
Moira sorride, mentre gli scioperati in fondo al locale ridono come pazzi. I due al bancone si voltano: Federico, a giudicare da come se la ride, deve aver vinto l'ennesima partita.
«Ah, quello lì sarà la rovina della poveretta che se lo sposerà! Ammesso che trovi una santa che lo sopporti!» commenta Filippo sorridendo. «Guardalo, a trentacinque anni non ha ancora un lavoro fisso. Fa il modello, lui... Un giorno lavora e un mese sta a spasso. O a casa delle sue amiche...»
«Devi volergli molto bene…», commenta lei andando con lo sguardo dall’uno all’altro fratello. In effetti, si assomigliano molto, nonostante abbiano tre anni di differenza. Stessi riccioli castani, stessi occhi dal taglio a mandorla, stesse labbra carnose.
«È mio fratello minore. Bado a lui da che ho l’età del ricordo. Anzi, si può dire che i miei ricordi incominciano con lui! E sono anche piuttosto singolari…»
«Singolari?»
«Già. Mio fratello si è dato da fare con le donne fin da quando è nato.»
«Vuoi farmi credere che c’ha provato anche con la vicina di culla?», chiede lei.
Filippo ride. «No, no, peggio!»
Lei lo fissa con un’aria tra il perplesso e il curioso, quella stessa espressione che corre sul viso di sua sorella Flavia quando ha capito che le sta nascondendo l’ultimo pettegolezzo.
«Hai cinque minuti?» Moira annuisce. «Allora, noi siamo tre fratelli; io, Federico e la più piccola, Flavia. Quando è nato Federico, ricordo di essere andato con papà a prendere mamma in ospedale per riportarla a casa. Io ero felice come una pasqua: finalmente tornavo a casa con la mamma. Mi avevano affidato a mia nonna paterna, che non sopportava i ragazzini e mi metteva a giocare sotto al tavolo. Niente tv, niente giochi, per lei dovevo baloccarmi con le dita o con le costruzioni di legno. E poi, aveva una gatta scorbutica che non faceva che graffiarmi. E il bello è che mia nonna se la prendeva con me…
«Divagazione a parte, vado con papà a prendere mamma e mi fanno salire su al reparto. Mamma stava aspettandoci con Federico tra le braccia, la borsa con le sue cose sul letto in una camerata che puzzava di Lisoform da starci male. Faceva caldo. Noi siamo arrivati in ritardo e mamma aveva appena finito di dare la poppata a Federico. Mentre papà va a firmare delle carte, mamma mi fa vedere Federico da vicino. Ed è lì che ho visto per la prima volta la gran faccia da paraculo di mio fratello.
«Mamma si accorge che è da cambiare, così disfa in parte il borsone e gli toglie il pannolino, lo lava, gli mette la cremina rosa sulle chiappette lisce lisce. In quel momento, entra un’infermiera. Bella. Bella, bella. Hai presente la Fenech negli anni ’70? Uguale. Sputata, con tanto di capelli ramati sciolti sulle spalle, camice scollato e con orlo ascellare. Vede Federico, mentre mamma cerca il talco, e lo prende in braccio. “Ma che bel piselletto che abbiamo qui! E di chi è questo piseletto, eh?” gli ha detto issandoselo sopra la testa. E sai che ha fatto lui?»
«Che ha fatto?», domanda Moira cogliendo il tempo teatrale.
«Gliel’ha fatta nella scollatura!» Filippo ride dando una gran manata sul bancone.
«No…»
«Sicuro! Non scorderò mai né la faccia dell’infermiera, né quella di mio padre, che era entrato in quel momento. Una traiettoria perfetta, se avesse preso la mira non so dove l’avrebbe innaffiata…» Filippo libera i lavandini dalle tazzine e dai bicchieri sporchi. Li passa sotto il getto e prepara l’ennesimo carico per la lavastoviglie. «Gajardo. Veramente gajardo
«E l’infermiera?»
«Uh, come s’è incazzata!», ride. «Era nera…»
«Non starai raccontando ancora quell’episodio, vero?»
Federico si è avvicinato al bancone e si è seduto accanto a Moira. La scruta con i suoi occhi ammaliatori, quegli stessi occhi che hanno fatto cadere ai suoi piedi più di cento donne in quasi vent’anni di onorata carriera. Moira ricambia la cortesia, distratta.
«Stavo spiegando a Moira che razza di tipo è il mio caro fratello», spiega Filippo inserendo il cestello nella lavastoviglie. «Così che ti stia il più lontano possibile.»
«Bel fratello che ho, vero?», si lagna Federico con un sorriso accattivante. «Invece di fare propaganda a suo fratello, va raccontando in giro gli episodi più imbarazzanti…»
Filippo fa per ribattere quando squilla il telefono e Pamela, la cassiera, lo chiama. «Filippo? Per te. È la copisteria qui all’angolo.»
«Non sparire…», gli dice Filippo andando a rispondere al telefono. Federico lo fissa, fa’ l’occhiolino a Pamela, che volta la testa dall’altra parte, piccata.
«Non dirmelo, hai spezzato il cuore anche a lei…», dice Moira per rompere il ghiaccio.
«È innamorata di me da quand’era una ragazzina; ma diciamo che lei non è esattamente il mio tipo.»
«No? Che cos’ha che non va?»
«Beh… Diciamo che se uno mi chiedesse “Com’è Pamela?”, io risponderei “Simpatica!”. Non so se rendo…»
Moira allunga l’occhio sulla cassiera: capelli devastati da una permanente sbagliata e di un colore che ha virato sul giallo stoppa dopo quell’operazione. Trucco appariscente di chi brama farsi notare da chi rappresenta la luce dei suoi occhi. Abiti formali, occhi castani, manicure perfetta. 
Non sarà una bellezza, ma dalla sua faccia traspare che il sentimento che nutre per quel disgraziato di Federico è sincero. È in momenti come questo che Moira odia il suo lavoro.
«Ah sì? E sentiamo un po’: quale sarebbe la tua donna ideale?», gli chiede mentre fissa il suo riflesso nello specchio alle spalle del bancone.
«La mia donna ideale?», ripete Federico ricambiando lo sguardo. Poi alza il viso, si porta la mano sotto il mento e se ne resta zitto per un paio di secondi. «Alta. Mora. Occhi scuri. Gambe sinuose. Labbra morbide e con una spiccata predilezione per il nero…» 
Ma guarda che combinazione! Sono io!, pensa Moira dicendo che, tutto sommato, Pamela è stata fortunata a non legarsi ad un soggetto simile.
«Non ti dice nulla?», insiste avvicinandosi a lei perché senta il suo dopobarba. Funziona sempre.
«E dimmi un po’… anche le gemelle erano come me?», domanda Moira.
Federico ride. «Fregato. Sei la prima che mi prende in castagna così, davvero!»
Forse perché hai sempre frequentato delle oche?, pensa lei decisa a non suppurare le sue perplessità. «C’è sempre una prima volta», ribatte laconica.
«Vero. E tu? Che mi dici di te?»
«Che sono un tipo molto… come dire? Banale. Talmente banale che sembra di conoscermi da una vita.»
«Vediamo un po’, fammi indovinare. Scommetto che sei timida, romantica, vegetariana, ami la precisione, e ascolti Bach», la spara lui.
Moira scuote la testa. «Errore. Sono spiccia e diretta, amo farmi gli affari miei, vado dritta per la mia strada. Vado pazza per le fiorentine alte tre dita e adoro la pajata. Sono precisa solo in ufficio e ascolto Heavy Metal sparato a palla nelle cuffie», risponde spiazzandolo completamente. Forse troppo. «Scherzo!», aggiunge ridendo, e lui si riprende.
«Per un attimo c’avevo creduto… Dimmi, c’ho azzeccato?»
Moira lo fissa, mentre con la coda dell’occhio osserva le mani affusolate di Pamela torcere uno scontrino fiscale. Anche Filippo deve essersi accorto che c’è qualcosa che non va, e scribacchia veloce degli appunti su una consegna. Poi, quando torna al suo regno, si accorge che cos’è che faceva storcere le labbra di Pamela. Federico si è avvicinato a Moira, forse troppo. E la piccola cassiera diciottenne sta per avere una crisi isterica.
Eppure ti avevo chiesto, pregato di non fare l’idiota davanti a Pamela! Un minimo di rispetto, cazzo, potresti anche avercelo per lei!, pensa Filippo fulminando suo fratello con lo sguardo e iniziando ad armeggiare con tramezzini e panini imbottiti.
«Beh, in parte sì e in parte no…», scherza Moira. «Pippo, me lo fai un altro cappuccino, per favore?»
«Ah… », replica lui. «È che sto andando a fare una consegna. Porto il pranzo alla copisteria all’angolo, e questo disgraziato non mi ci va.»
«Sfido io: sono tutti uomini!», risponde Federico ridendo. «Se ci fosse una donna…»
«Saresti lo stesso la mia rovina», ribatte Filippo. «Moira, puoi aspettare che torno, o devi rientrare?»
E Federico coglie la palla al balzo. «Vai, vai pure. Glielo faccio io il cappuccino.» Si alza, passa dietro al bancone e Filippo capisce - l’avrebbe capito anche un cieco – che suo fratello sta per sferrare l’attacco in grande stile. Sotto a chi tocca, pensa Filippo prendendo il vassoio. Chissà se già in serata ci sarà l’ennesima tacca?
«Moira, se il cappuccino fa schifo, non prendertela con me…», dice prima di uscire e scomparire tra la folla con il suo completo nero e il grembiule immacolato.
«Mai una volta che si fidi di me. È tremendo!», commenta Federico, una mano sul fianco e l’altra appoggiata al bancone, pericolosamente vicino alle sue tacche. Moira guarda l’orologio. Si sta facendo tardi. «Ti faccio subito il cappuccino!», le dice Federico iniziando ad armeggiare con la macchina. Svuota le cialde, prepara una miscela speciale di caffè, e spinge il pulsante rosso mentre versa del latte in un bricco di ferro. Settanta secondi dopo, il caffè esce caldo nella tazza grande e il fischio dell’aria calda riempie il silenzio del bar. Caffè, latte montato e una decorazione di cacao amaro a formare un cuore sulla schiuma. Più chiaro di così…
«Madame è servita…», e le porge la tazza. Le sue dita sfiorano quelle di Moira. Sono fredde. Di ghiaccio. Chissà se è vero il detto…, si domanda Federico restando a fissarla mentre beve il suo cappuccino. «Com’era?»
«Squisito», risponde lei. «Se sei anche così bravo a cucinare, beata chi ti si sposa.»
Lui ride. 
«Non sarai per caso già sposato?», gli chiede, sinceramente allarmata; se così fosse, le dispiacerebbe non poco.
«No. Non ho ancora trovato la donna giusta», spiega sempre ridendo. E non la troverai mai, caro, te lo garantisco io…, pensa Moira. «Per cui, se tu vuoi assaporare la mia cucina, considerati pure invitata. Facciamo stasera a cena?»
«Adesso, invece? Hai da fare?»
Federico la fissa, visibilmente sorpreso. Chi avrebbe mai pensato che quella ragazza dall’aria mite fosse così sfacciata. Sorride, mostrando una fila di denti perfetti.
«Ma… Non so neppure il tuo nome…»
«E ti formalizzi per così poco? Chiamami Moira. Allora, hai da fare adesso sì o no?!» 
«Adesso? Non dovevi lavorare?» Federico ride di nuovo, ma quando il suo sguardo si posa su di lei, il sangue gli si gela nelle vene.
«Sto già lavorando, caro. Hai capito chi sono, vero?»
Federico fa cenno di sì con la testa, incatenato ai suoi occhi neri. Ricorda, e si stupisce nel farlo, che da bambino suo padre ha portato lui e Filippo a caccia di cinghiali. Avevano uno zio in quel di Acquapendente, e questo zio conosceva un tale che cacciava con i falconi. E di quella giornata d’inizio autunno, tra foglie morte e castagne cadute, gli è rimasto vivo e vivido il ricordo degli occhi dei falconi, due pozzi neri e profondi che sembrano inghiottire la preda. «Dicono che la morte abbia questi occhi…», aveva scherzato quel cacciatore. E Federico deglutisce a fatica mentre sta precipitando negli occhi scuri di Moira.
«Bene», dice la donna con gli occhi di falco. «Ti assicuro che non c’è nulla di personale. È un lavoro ingrato, ma qualcuno doveva pur farlo, ed è toccato a me. »
«Ma…», dice lui: vuole provare a trattare, come sempre. Moira lo sa. E un po’ se l’aspettava.
«Non gioco a scacchi. Non serve piangere, urlare o dire no. Ti ho rincorso in lungo e in largo, e te la sei sempre cavata per un soffio. Adesso, però, ho raccolto tutti i permessi e le carte necessarie. Vuoi venire con me o devo usare le maniere forti?»
La calma con cui lei parla gli fa accapponare la pelle per un secondo. Poi Federico abbassa le spalle e il suo sorriso si rilassa.
«Ho diritto, almeno, all’ultima sigaretta?», chiede passando le dita sulle tacche che adornano il bancone di Filippo. Hai vinto tu, fratellone. Se solo mi ricordassi cosa, pagherei la scommessa, pensa mentre sente le lacrime pizzicargli gli occhi.
Moira controlla l’orologio.
«Ok, ma la fumerai fuori di qui. Dobbiamo andare, ho un tifone in Bangladesh tra dieci minuti ed un paio di terremoti in Giappone tra quindici.»
Federico fa un rapido giro panoramico del bar del fratello, soffermandosi sul suo angolo preferito: il biliardo, le macchinette dei videogames e il televisore su cui hanno seguito tutte le partite dei mondiali. Il tempo s’è fermato. Anche Pamela, a ben guardarla, non è poi così brutta come ha sempre creduto. Ha solo sbagliato colore. E parrucchiere.  «Ok», dice in un soffio.
«Vogliamo andare?», domanda lei e il tempo riprende a scorrere normalmente.
«Come comanda, mia signora», scherza lui, con non sa quale coraggio.
Moira sorride, e adesso il suo sguardo è dolce e comprensivo. Non avercela con me, gli stanno dicendo i suoi occhi di falco e lui annuisce. 
Federico esce da dietro il bancone pensando a quello che le ha appena detto, che lo ha rincorso in lungo e in largo. Come il soldato nella canzone di Vecchioni che mamma ci cantava per farci addormentare, quello che correva, correva correva fino a Samarcanda, si dice con un sorrisetto. 
Prende la giacca appesa al muro, la indossa, fa un cenno di saluto agli altri e si avvia alla cassa. Pamela lo fissa accigliata. No. Non può andarsene via così, c’è ancora una cosa che deve fare.
«Moira, aspetta un secondo», le dice. 
Lei fissa prima lui, convinta si tratti del solito piagnisteo, poi capisce.
«Ti aspetto fuori. Non metterci troppo, ho una tabella di marcia da far rispettare», ed esce in strada.
Federico fa un gran respiro e si avvicina alla cassa. Pamela ha iniziato a farsi aria con uno di quei ventagli cinesi che si comprano al mercato. Quanti ne ha rotti anche lui a sua sorella? Ricorda che Flavia li comprava sempre con delle grandi farfalle dalle ali nere e blu. Chissà perché, poi.
«Hai caldo?», le chiede giocando con un ricciolo. Stopposo. Eppure aveva dei bei capelli castani, Pamela. Vai a capire perché se li è tinti e si è fatta quel colore che la fa assomigliare ad una palla di sterpaglie, come quelle che si vedono in quei western con John Wayne.
«Fa caldo», risponde lei piccata.
Lui sorride. «Me la fai una cortesia?»
Pamela chiude di scatto il ventaglio e alza gli occhi al cielo. «Sai che non so dirti di no…»
«Diresti a Filippo di mettere un’altra tacca sul bancone?» Pamela lo fulmina con lo sguardo. I tuoi occhi sono belli, dopo tutto, pensa Federico sorridendole. «Non è come credi, Pamela. È…»
«Solo un’amica. Già!», l’interrompe lei.
«In un certo senso, sì. Pamela, credimi. Non è un’uscita di piacere, la mia.»
«D’accordo, glielo dirò a Filippo. Ma non t’aspettare che ti creda!»
«A me basta che mi creda tu», le dice incatenandole gli occhi ai suoi. 
Pamela è rimasta spiazzata. Perché tutte quelle manfrine? In genere, le dice due parole spicce, come se parlasse ad un cane ammaestrato. Quante volte le ha detto di riferire a Filippo che non sarebbe tornato, magari mentre in sottofondo c’era una donna che rideva o gli rendeva impossibile parlare tempestandogli la bocca di baci?
«Federico, che succede?», chiede lei spaventata.
«Niente, piccola, niente.» Nel locale ci sono solo gli amici di sempre che non si stanno perdendo una parola. Al diavolo. «Pamela, glielo dirai?»
Lei annuisce. E lui le regala un sorriso dolcissimo. È tutto perfetto, pensa Pamela mentre sente il cuore che fa le bizze.
«Chiudi gli occhi…», le dice lui sfiorandole la punta del naso con il suo. Lei obbedisce e lui la bacia, a fior di labbra, come lei ha sempre sognato. Poi le lascia sulla fronte un altro bacio ed esce, mentre lei resta ad occhi chiusi ad assaporare quel momento.
«Che succede qui? Pamela perché piangi?»
È Filippo. È tornato. E sta fissando la sua cassiera con un’espressione preoccupata.
«Pamela, che è successo?», ripete porgendole un fazzoletto. «Stai piangendo, ma che… ?»
Lei esce da dietro la cassa mormorando qualcosa come “tacca” e “bancone” e scappa in bagno a darsi una sistemata: con tutto quel mascara che le cola dalle ciglia, le sta diventando impossibile tenere gli occhi aperti senza che non le brucino.
Filippo la vede scomparire dietro la porta verde acqua. Posa il vassoio sul bancone e si rivolge agli amici del fratello.
«Ma che è successo?», domanda indicando il bagno con un colpo di mento. 
Stefano risponde facendo spallucce. «Non lo so, Pippo; Federico si è avvicinato, ha bisbigliato qualcosa e l’ha baciata.»
«Che ha fatto quello stronzo?», alza la voce Filippo, e Pamela, che lo sente dal bagno, trema impaurita. «E dov’è Moira? Dov’è andato quello stronzo di mio fratello?»
«È uscito con la sua ultima conquista», risponde Stefano.
Poi, lo schianto.
 


Settembre 2006  

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Capitolo 4
*** Debora ***


«Aggeggio infernale!», e giù l’ennesimo colpo contro la parete lucida. Niente, s’è fatta male lei, ma quel coso non s’è smosso di un millimetro.
«Che è successo, signò
«Il solito», risponde la diretta interessata. «Quest’attrezzo si è mangiato i miei soldi!»
«Eh, lo fanno, lo fanno…», commenta l’uomo mentre lei insiste a picchiare quel macchinario. «Permette?»
La donna si scansa e l’uomo poggia una mano sulla superficie fredda, quindi pem!, assesta una gran manata al macchinario, ottenendo il medesimo risultato.
Il distributore continua a lampeggiare il suo messaggio accattivante come se nulla fosse. «Niente. Se l’è magnati, signò. Se vede che c’aveva fame…»
«Ho anche io fame!», protesta la donna con cinquanta centesimi in mano. «Ma io dico! Se non funziona, ci vuole tanto a mettere un bel cartello o spegnere ‘sto coso?»
«E chiamali scemi. Uno non lo sa e continua a metterci i soldi, convinto che funziona. Eh, so’ dei fiji de bona donna, quelli…» 
Il distributore sembra osservarli con disinteresse, come se quei due non stessero parlando di lui. Resta lì, a ribadire il suo asettico invito, Prenditi qualcosa di buono!, che lampeggia in azzurro sul display, e la signora si sente presa in giro.
«Io vorrei sapere adesso come faccio!», si lamenta pigiando in continuazione il pulsante per la restituzione delle monete. Niente.
«Ci vorrebbe un bel baretto!», commenta l’uomo, le mani dietro la schiena, mentre osserva i suoi sforzi. «A Monte Mario ce l’hanno, come pure l’edicola.»
«Già…», replica la donna premendo come un’ossessa il pulsante. Niente.
«Che poi io guardo, guardo, guardo e poi mi chiedo: una stazione ben servita, un posto dove c’è un via vai di gente continuo sarebbe l’ideale per un bar o per l’edicola. Guardi tutti quei bei locali inutilizzati! Che ci vuole ad aprire un bel negozio? Con i ritardi dei treni, una fresca e l’altra, si fa comunque un bell’incasso, e io di incassi me ne intendo, modestamente…»
«Già», replica spiccia la donna, sperando che quel distinto signore con i capelli sale e pepe faccia qualcosa di concreto. Oppure chiuda il becco.
«Pure per gli autisti, dico», continua lui imperterrito. «Quei poveri cristiani arrivano, prendono un caffè, una cosa calda, un tramezzino…»
La donna non gli risponde più neppure a monosillabi; guarda il distributore che ripete il suo accattivante invito e segnala che la temperatura interna si aggira sui diciotto gradi. «Pensi che quando il 97 cambiò capolinea, dieci anni fa, il barista di via Tarsella fece addirittura una raccolta di firme pur di riavere il capolinea davanti al suo bar.»
«Immagino che lei c’era…», scappa detto alla donna, tutta presa a fronteggiare il nemico.
«Sicuro!», risponde lui. C’avrei giurato! pensa lei cominciando a dare segni d’impazienza. «Ho firmato tra i primi, anche se a me, le dico la verità, la cosa non mi riguardava manco di striscio. Io abito alle case bianche di via della Speranza, ha presente? Quelle dietro il cinema. Mi servo alla latteria sotto casa, ma sa com’è, conosco Pino da quand’era un pizzangrillo alto così con i calzoni corti…»
«Pino?»
«Il padrone del bar», specifica, come se la cosa dovesse risultare ovvia. 
«Capisco…», replica la donna, i cinquanta centesimi nella mano destra oramai caldi, mentre spinge ancora il pulsante d’acciaio che entra nel distributore senza che cambi la sostanza delle cose. «Niente. Inutile. S’è proprio mangiato i soldi…»
«Signò, lasci perdere», consiglia l’uomo. «Ormai è andata. C’aveva messo molto?»
«Due euro», risponde estraendo il cellulare dalla borsetta. «Proviamo a chiamare questo numero verde…», aggiunge esasperata.
«Dia retta a me, qui non fa niente nessuno. Una volta uno di questi cosi qui ha fregato dieci euro a mio figlio Gabriele. Dieci, mica uno.»
«A-ah», fa la signora, il telefonino attaccato all’orecchio.
«Ma io gliel’ho detto. “È colpa tua! Guarda me, io mi preparo un panino la mattina e ho risparmiato”. Ci metto dentro gli avanzi della cena, che altrimenti andrebbero buttati. Oppure un paio di pomodori con il tonno. Che ci vuole? Tanto li ho nel frigo, no?», le racconta l’uomo, nonostante lei sia tutta presa ad aspettare che qualcuno risponda dall’altra parte.
«No, dico, ha visto che prezzi? Due euro. Ma stiamo scherzando? Con due euro sa quanti panini mi preparo? Se vado al supermercato che sta su via del Marmo, compro tutto il necessario, pane, tonno, pomodori e mi danno anche il resto! E io dovrei dare due euro a loro? Ma questi stanno fori coll’accuso
La donna non risponde. Ascolta il disco registrato che, con voce meccanica e lagnosa, le dice, in sostanza, che i suoi due euro sono stati incamerati dal distributore, ma che per riaverli potrà inviare un fax al numero… In pratica, spenderebbe più per riavere quei soldi che lasciandoli nella pancia ingorda della macchina.
«Porco Giuda!», si lamenta chiudendo la comunicazione e portandosi una mano alla bocca.
«Allora?» domanda l’uomo. «Che le hanno detto?»
«Che me la pijo in saccoccia!», risponde la donna, non sa nemmeno lei perché. 
Si conoscono forse? No. Nemmeno di vista. Neppure per sentito dire. Anzi, a pensarci bene, non sa nemmeno come si chiama quel signore dai capelli un tempo neri che ha preso con così tanto interesse il suo caso.
«Che le avevo detto? Va sempre a finire in quel posto all’ortolano! Sempre!»
La voce meccanica dell’altoparlante li interrompe e annuncia che il prossimo treno arriverà con dieci minuti di ritardo. 
«C’avrei giurato!», commenta la donna avviandosi verso le scale mobili. «Quando una giornata comincia male…»
«Su, su, non ci pensi. Tanto, si sa, il treno di e un quarto arriva sempre con dieci minuti di ritardo, cascasse il mondo. Puntuale nel ritardo, che paradosso, eh?»
«Già…»
«Che poi io vorrei tanto sapere il perché di questo costante ritardo. Che incontra, quel treno? Le papere e le lascia passare?»
E l’uomo si accoda alla donna sulle scale mobili, sfinendola con le sue chiacchiere.
Ma non si azzitta mai?, si domanda lei sperando che squilli il cellulare, che incontri qualcuno che conosce, che cada un fulmine sulla testa di quel tizio che parla, parla, parla… Che si esauriscano le batterie o che trovi il modo per spegnerlo, qualcosa, insomma, che chiuda la bocca di quel logorroico senza speranza.
Il treno alla fine arriva spaccando il secondo, i passeggeri salgono e la vettura riparte, mentre la stazione ritrova il suo silenzio.
Dopo cinque minuti un rumore di tacchi risuona per l’atrio luminoso. Tac, tac, tac e un paio di gambe lunghe si fermano davanti al distributore incriminato.
Buongiorno! Prenditi qualcosa di buono!, recita la scritta sul display luminoso. La temperatura è di quattro gradi.
«Buongiorno a te!», risponde il ragazzo mettendo le mani in tasca ed inserendo le monete nello scomparto ad una ad una, fino a raggiungere i due euro.
Controlla il numero del prodotto che gli interessa, lo compone sulla tastiera e pigia sul tasto “ok”.
Con un clang delicato la molla si muove, gira piano piano nella scansia metallica e spinge in avanti la confezione di tramezzini pomodoro e mozzarella, che cade con un tonfo morbido nel vano sottostante.
Il ragazzo infila la mano, tasta all’interno della fessura, trova il pacchetto e lo tira fuori. E in quel momento, il ditributore fa clang ancora una volta: nello scomparto del resto è caduta una moneta da cinquanta centesimi.
«Grazie!», risponde il ragazzo intascandosela e ridendo. «A domani, Debora», e si volta verso le scale mobili per andare al binario due. Tempo un paio di minuti e le sue lunghe gambe spariscono alla vista del distributore.
«Debora?»
«Che c’è?»
«Sai che quello che hai fatto va contro ogni logica e contro le regole?»
Se solo potesse, Debora lancerebbe uno sguardo gelido a Sabrina, la collega alla sua destra.
«Ha ragione!», rincara la dose Jessica, addetta alle bevande fredde, forte del proprio nome scritto con la vernice a spray rosso fuoco sopra il vetro di plexiglass. «Le regole sono regole.»
Debora, specializzata in tramezzini e prodotti da forno nei tre comparti superiori, e alimenti del banco-frigo per i restanti dieci inferiori, le sente ronzare con maggiore intensità.
«Essù, chiudete un occhio…»
«Non li abbiamo, Debora…», rimarca Sabrina.
«E comunque sia, hai ripetutamente infranto le regole, interrompendo il servizio di tua spontanea volontà e non per cause tecniche, HK7542J.»
«Eddai, Jessica…»
«E non chiamarmi Jessica, non attacca!»
In realtà, lei non si chiama Jessica. 
Debora, Sabrina e Jessica non sono i nomi di tre ragazzine con la gomma da masticare perennemente tra i denti. Una mattina di Aprile, quando il mondo è troppo bello per sprecare quattro ore tra i banchi di scuola, queste tre hanno fatto sega e hanno comperato le bombolette di vernice spray dal ferramenta accanto al cinema.
Rosso per Jessica, blu cobalto per Debora e argento per Sabrina. Volevano fare dei graffiti sui muri della stazione, ma non sapendo da che parte cominciare, e dopo un paio di tentativi andati male, hanno deciso di scrivere i propri nomi sui distributori automatici della stazione, dimostrando a tutto il quartiere di sapere come si chiamano. E mentre si accingevano a quest’operazione che mescola in sé arte da strada e grammatica italiana, hanno pensato bene di sillabare i propri nomi, così da non sbagliare come ha fatto Massimiliano Catarsi quando ha scritto uno struggente messaggio d’amore di vernice e cemento alla sua bella – ribattezzata per l’occasione Debbora – firmandosi Massimigliano.
E i tre distributori, da poco accesi e ancora inesperti delle cose del mondo, e ubbidienti ai comandi impartiti dagli Uomini, hanno creduto che quelle tre sgallettate li stessero battezzando. Così, HK7542J è diventata Debora, FJ501WA Sabrina, e SMA77l59 Jessica.
«Hai sbagliato. Lo sai. Ma continui a fregartene. Ti picchiano, battono contro il vetro, ti chiedono di vomitare indietro il cibo, ma tu…»
«Adesso basta!», ronza Sabrina mettendole a tacere. «Debora, all’introduzione di monete deve corrispondere l’erogazione del prodotto. Possibile che tu non capisca? Se continui a tenerti i soldi per far quadrare i conti, pensi che nessun utente protesterà?»
«Ma…»
«Debora è la quarta volta questo mese che la ditta manda il tecnico. E io sono stanca», replica Jessica. «Ogni volta ci mettono i secoli per fare le verifiche, mangiano a sbafo e ci rivoltano come pedalini per non trovare niente di niente. Avanti di qusto passo, penseranno che ci sia un bug nel software. E in tutta sincerità, a me non va di essere smontata per il tuo viaggiatore dagli occhi neri!»
«Lo capisco, però… Oh, è che lui mi piace così tanto…», e la temperatura interna di Debora sale a venticinque gradi. «Quando mi accarezza è così… gentile. Ha del riguardo per me. Non spalanca lo sportelletto ed infila la mano in un colpo solo.»
«A me pare solo un po’ tocco…», ronza Jessica.
«E la sua voce, quando mi saluta e mi dice “Buongiorno!” con quell’accento caldo….»
«Adesso basta!» Sabrina alza il brusio. «Debora, smettila o farai saltare la resistenza!»
«Facile a dirsi!», protesta Debora, e la temperatura scende pian piano a venti gradi.
«Ma tu puoi riuscirci. Così, su. Brava, brava. Pensa che se alzi la temperatura rovini gli alimenti. E non vuoi dare al tuo amato viaggiatore un prodotto scadente, vero?»
«No, no… Certo che no», e pian piano la temperatura di Debora torna nella norma. «Però vorrei che fosse chiaro un passaggio…»
«Quale?», ronzano in coro le altre due.
«Antonio non mangia a sbafo. Gli faccio semplicemente lo sconto…»
«Sarà, ma anche così…», interviene Sabrina, quando Jessica impone il silenzio.
«Zitte! Zitte, per carità! Arriva gente!» 
Due suore. Passano davanti a loro parlando in spagnolo, il velo oltre le spalle e un sorriso stampato sui volti olivastri. Tirano dritto di fronte alle tre macchine, che nel recente passato hanno rubato dei soldi a suor Magda – quella più bassa e grassoccia – e salgono anche loro sulle scale mobili, nella direzione per Roma.
E poco dopo, il ronzio dei distributori torna a farsi sommesso, in attesa che il prossimo avventore decida di prendersi qualcosa di buono, nell’attesa di un treno puntualissimo, sì, ma solo quando si tratta di essere in ritardo.
Per cui, amici miei, fate attenzione: se un distributore vi ruba una moneta, non lo fa perché è ingordo, o dispettoso, o non gli piace la vostra cravatta.
Forse, è semplicemente innamorato.

 


Ottobre 2006

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Capitolo 5
*** Luigi ***


Ciao! Mi chiamo Luigi, ho due anni e un gran paio di occhi verdi, almeno a sentire Mamma.
Mamma è la signora con i capelli rossi e vestita di verde dalla testa ai piedi che sta parlando di me con te, bella signorina in marrone. 
Come? Se vedo i colori? Certo li vedo! Vorrei proprio sapere chi ha messo in giro la voce che vediamo in bianco a nero!
Ce l’avete mai chiesto?
No, cara signorina, altrimenti avremmo risposto con un educato «Sì, vediamo tutti i colori dello spettro solare, anche quelli che voi non riuscite a distinguere».
Cosa sto facendo qui? Di sicuro non un simposio sui colori. Ho avuto un piccolo incidente domenica pomeriggio e adesso Mamma mi sta portando da uno specialista sulla Nomentana. Prima che me lo chiedi: non so né dove sia, né cosa sia la Nomentana. Ho sentito Mamma che ne parlava a Papo, stamattina; poi, verso mezzogiorno, Mamma mi ha messo nella mia culla da viaggio e abbiamo preso il treno.

Treno…
Secondo me assomiglia ad un gigantesco lombrico, come quelli che trovo scavando nel giardino. Faccio certe buche, belle profonde! Il mio posto preferito è l’aiuola con le rose bianche perché il terreno è sempre bagnato, e quindi più facile da scavare. Mamma mi urla dietro ogni volta, ma a me piace tanto scavare.
Si trovano sempre dei tesori: scarafaggi, lombrichi, larve… Poi, vorrei sapere che male faccio; scavo, estraggo le mie prede e ci gioco un po’, ma sul posto, non li porto certo dentro casa! Mamma non capisce, non capisce mai. Ha il bruttissimo vizio di farsi delle storie tutte sue; le basta un indizio e parte per la tangente con ricostruzioni impossibili.
Ad esempio, il mese scorso siamo stati a casa della Zia Lilly, che è identica a Mamma come una goccia d’acqua, solo che Zia Lilly veste sempre di blu. Ora, Zia Lilly aveva un canarino giallo giallo che se ne stava felice e beato nella sua gabbietta dorata. Si chiamava Titty, se non sbaglio… Comunque sia, il mese scorso andiamo a trovare Zia Lilly e dopo pranzo, Mamma, Papo, Zia Lilly e Zio Piero (credo sia il marito di Zia Lilly, ma non ci scommetterei) fanno le loro cose da grandi: si mettono in salotto e giocano con quelle carte strane che a loro piacciono tanto. A me non dicono nulla: sì, è divertente farle volare in aria, lanciarle e riprenderle, ma dopo un po’ mi stufo e lascio perdere. Loro, invece, ci perdono le ore appresso a quelle carte, tra mozziconi di sigarette e quello schifo che chiamano caffè.

All’improvviso, si sente un tonfo nella stanza dove sta Titty, ma un tonfo bello forte, così Zia Lilly e Mamma accorrono come se stesse crollando la casa, e trovano la finestra aperta e la gabbia di Titty rovesciata in un angolo, mezza ammaccata.
«La gabbia deve essere caduta e deve essersi aperta e Titty deve essere volato via per lo spavento!», ha detto Mamma dopo aver studiato la situazione e dato un’occhiata a me, che dormivo beato e pacioso sul divano.
Ora, io mi domando e dico, serve una laurea per capire cosa possa essere successo ad un uccellino lasciato tutto solo in una stanza con un gatto? Quante probabilità ci sono che il gatto si sia pappato il volatile? Dieci su dieci, no? Ebbene, la rossa testolina di Mamma non è stata sfiorata affatto da quest’ipotesi.

Come Sherlock Holmes non vale una cicca. Come cuoca, invece, è ottima: mi prepara certi pranzetti da leccarsi i baffi. Niente cibi preconfezionati, zuppette strane e intrugli vari: Mamma va al mercato e mi compra il petto di pollo, le uova fresche fresche, il merluzzetto buono buono e cucina al momento, mentre io aspetto paziente che lei abbia finito e che il pranzo non sia più rovente. Non amo i cibi caldi, odio scottarmi la lingua. A te non capita mai? È davvero fastidioso, poi la lingua resta indolenzita un sacco di tempo e non sentite più i sapori.
Che stavo dicendo?
Ah, sì,ti parlavo un po’ di me e di Mamma che mi sta portando sulla Nomentana, che non so cosa sia, né dove sia. Io conosco poco del mondo esterno. Conoscevo benissimo la Casa a Monteverde, che stava al pian terreno, con una cucina piccola piccola e un grande stanzone centrale dove Mamma e Papo facevano tutto: mangiavano, dormivano, ricevevano gli amici e i parenti, litigavano. C’era un lettone grande, appoggiato alla parete e coperto da una serie di tende e tendine colorate; quanto mi piacevano! Mi divertivo a nascondermi lì dietro e a saltar fuori all’improvviso, oppure mi ci nascondevo aspettando che Mamma mi trovasse. Era simpatica quella casa, specie per i piccioni, grossi grossi, che camminavano sul davanzale della cucina. 
Anche il quartiere era tranquillo, e io e Mamma ci facevamo delle lunghe passeggiate per strada: quando non faceva troppo freddo o troppo caldo, mi metteva la pettorina e via! Devo ammettere che quell’arnese mi ha sempre disgustato. Sempre. Mi sento ridicolo, senza dignità. 
Non usarlo mai, capito Signorina Marrone che mi stai guardando da mezz’ora?
 
Mi sei piaciuta subito. C’è qualcosa, in te, che mi attira. Come ti muovi? I capelli lunghi? O il fatto che come i nostri occhi si sono incrociati è scattato un feeling?
«Posso vederlo?», chiedi a Mamma e lei, che non aspettava altro, ti invita a sederti accanto a lei. Ad essere sinceri, è da quando siamo saliti a Manziana che non fa che parlare di me e del mio incidente a tutti quelli che incontra e che mi guardano curiosi. Che avranno da guardare, poi? Neanche fossi una bestia rara, avessi tre teste o sputassi fuoco dal sedere. Come sei gentile, Signorina Marrone; Mamma ti parla, ti dice tutta la mia storia e vedo che t’interessi sul serio a me.
Peccato non esserci conosciuti prima! Capiamoci, voglio bene a questi due pazzi di Mamma e Papo, e non li cambierei con nessuno al mondo; solo che, a volte, sanno essere veramente pesanti. Io sono uno spirito libero, un curiosone, uno che va alla scoperta di tutto e di tutti. Se adesso mi vedi così è perché sono ancora mezzo rincoglionito dall’operazione. Sì, mi hanno dato un paio di punti qui, all’occhio destro. Niente di che, è solo Mamma che è ansiosa da morire e ha stressato a morte i medici perché non restasse nessun segno.

Ma come?, ho pensato, Se non resta il segno, come potrò fare il figo da grande?

Mamma non è stata sfiorata dall’idea, come al solito.
Però, cara la mia Signorina Marrone, devo ammettere che sono stati molto buoni con me: siccome la casa a Monteverde era troppo piccola, ne hanno comperata una sul Lago di Bracciano, a più piani – e io mi diverto come un pazzo a correre su e giù per le scale, anche se Mamma ha paura, tanto per cambiare! – e con un gran bel giardino. C’è sempre il lettone di Mamma e Papo, ma non ci sono più le tende e mi dispiace, poi c’è la cucina con la porticina che dà sul giardino, la piscinetta colorata, la palestra, il bagno tutto per me con le mie cose e la cesta con i miei giocattoli preferiti.
Il giardino è separato da una siepe di alloro – così lo chiama Mamma, io lo chiamo Puzzone – da quello dei vicini dove vive Lola.

È bella Lola, sai Signorina Marrone? Simpatica, le piace stare allo scherzo e conosce un sacco di giochi divertenti. Mi piace stare con Lola e spesso è lei che viene a chiamare me. Allora Mamma mi fa uscire e magari ci prepara anche la merenda. Poi il giardino mi piace anche perché adesso che è estate ci sono i sicomori – così li chiama Mamma, per me sono solo alberi – che fanno ombra e tira un bel venticello verso le due del pomeriggio. Allora io mi sdraio pacifico sulle sedie verdi e mi faccio un bel sonnellino, cullato dal vento. A volte Papo mi imita e finiamo per dormire vicini, mentre Mamma lava i piatti, o scrive le sue cose.
Quello che fanno Mamma e Papo per campare?
Papo fa il fotografo per un giornale, e sono state parecchie le volte che mi si è messo davanti con quell’aggeggio che chiama macchinetta e ha fatto non so che. Prima la odiavo, adesso mi lascia indifferente. Non capisco che divertimento ci sia nel mettersi dietro quell’aggeggio e chiamarmi, dirmi «Luigi, guarda qui!».
 
La prima volta che mi sono avvicinato a quell’attrezzo è esplosa una lucetta bianca che mi ha accecato per un bel pezzo!
E loro due ridevano, capisci, Signorina Marrone? Ridevano!
Tu non avresti riso, vero? 
E non avresti fatto esplodere la lucetta bianca davanti ai miei occhi, vero?
E non mi romperesti le balle con la storia che a noi piace il verde, vero? Tutte le mie cose sono verdi. Ora, capiamoci: è un bel colore, rilassante, simpatico, pacato. Ma questo vale se hai una cosa verde, due cose verdi, tre cose verdi… quando hai tutto verde, diventi un pazzo omicida! Grazie al cielo, sono un tipo equilibrato, io, altrimenti, non so che…

Ma sto divagando! Scusami, Signorina Marrone, non riesco ad interessarmi ad una cosa per troppo tempo. Dicevamo? Ah, sì. Mamma.
Mamma lavora come scrittrice: ha vinto un paio di premi amatoriali – me lo ha spiegato lei – e adesso scrive degli articoli – pezzi – per dei giornali sugli animali. Ha in mente di scrivere un romanzo incentrato su di me e su di lei, ma da quando è uscito il libro di Sor Coso Rosa credo abbia cambiato idea.
Fai anche tu lo stesso lavoro, vero Signorina Marrone? Lo capisco dai fogli e dalla penna che tieni in mano, e che metti via non appena Mamma inizia a spiegarti la mia disavventura. O meglio: la sua versione dei fatti circa la mia disavventura.

«Deve essere successo domenica, verso le due», dice Mamma con la stessa faccia di quella tizia che appare in tv e che incontra solo morti ammazzati. Lo so perché Mamma guarda sempre la Signora Gialla mentre stira e io le faccio compagnia seduto in poltrona. «Stavo lavando i piatti, quando me lo vedo tornare tutto sporco e con l’occhio insanguinato, tumefatto. Ho pensato che deve essere stata Lola, magari giocando, ma quando sono uscita, lei non c’era.»
«Ma… l’occhio è salvo?», chiedi tu, e capisco che hai conosciuto gente rimasta orba. Dalla tua faccia intuisco che non deve essere divertente, vero Signorina?
«Sì, sì, tutto a posto! Per fortuna si è bucata solo la cornea, il cristallino è rimasto sano e salvo. Solo che, a vedermelo rientrare tutto sporco e con l’occhio pieno di sangue, mi è preso un colpo!»

E tu, Signorina Marrone, mi rivolgi un sorriso dolce.
«Posso accarezzarlo?» chiedi a Mamma, ma guardandomi dritto nell’occhio aperto. Ma sai che quasi non ci credo? È la prima volta che qualcuno non solo chiede il permesso di potermisi avvicinare di più, ma lo chiede direttamente al sottoscritto! 
«Ma sì, certo! Vai pure, tanto lui è un tipo socievole!», ti dice Mamma, e tu, Signorina Marrone, ti comporti da ragazza ben educata: allunghi un solo dito e aspetti che sia io ad accettare te.
Il mio istinto non sbagliava: c’è qualcosa in te che mi piace, Signorina Marrone. Il tuo sguardo, forse. Che è come il nostro. Agata screziata dalle sabbie del tempo, come dice spesso Papo. E che resti tra noi, le tue carezze farebbero resuscitare i morti.
«Certo che è proprio bello…E com’è morbido! Luigi, che bel nome!»

Oh, ma grazie mille, Signorina Marrone!

«Vero? Quando è arrivato, l’ho guardato in faccia e gli ho detto Sì, tu hai proprio la faccia di uno che si chiama Luigi e così l’abbiamo battezzato. Speriamo non si veda troppo la cicatrice…»
«Non credo… Oggi si applicano dei punti così leggeri che è quasi impossibile si veda qualcosa. E poi, mal che vada, potrà andarsene in giro bullandosi della sua cicatrice. Fa sempre molto figo, no?»

Ecco, io lo sapevo che tu, Signorina Marrone, mi avresti capito! L’ho saputo dal primo momento che sei salita su questo assurdo lombrico di metallo. E a te voglio dire cosa è successo, dato che né Mamma, né Papo – notoriamente più razionale – hanno chiesto a me cosa mi fosse accaduto prima di caricarmi in macchina e correre al più vicino Pronto Soccorso.
È vero, quando ho avuto l’incidente stavo sulle sedie verdi, ma non perché mi piaccia il verde, quanto perché soffiava un bel venticello dal lago. Ad un certo punto mi è entrato un granello di sabbia in un occhio e ho provato a togliermelo, solo che mi sono grattato e mi sono ferito da solo. Povera Lola! Lei se ne sta in vacanza al mare con i padroni, come poteva?
Anche io andrò in vacanza, sai Signorina Marrone? A Lampedusa. Mamma vuole scrivere la storia di una ragazzina che dice di capire i gatti perché la sua Mamma, quando era incinta di lei, faceva il sonnellino con il suo gatto sulla pancia. Tu hai la faccia di una che dormiva cullata dalle fusa, vero, Signorina Marrone? Vorrei provare a fartene un po’, anche per ringraziarti delle tue carezze sull’orecchio – ma come fai? Sono… divine! – ma non mi viene. Scusami, sono troppo assonnato, confuso e scojonato. Questo trasportino sembra una valigia, sarà pure comodo ma fa un caldo qui dentro…

Prossima fermata, Stazione Trastevere.

Che fai Signorina Marrone? Perché hai tolto la mano?
«Io scendo alla prossima. Allora, in bocca al lupo, Luigi!»

No, aspetta… Resta con noi, Signorina Marrone! E tu, Mamma, dalle il numero del cellulare! Lo dai a cani e porci, e a una che sembra un gatto umano no? Ma sei strana forte, eh?

«Ci vediamo!», dici stringendo forte la mano di Mamma, che non ti da il numero del cellulare. E scendi, non senza avermi dato un ultimo sguardo fugace. Io mi giro, col mio collare elisabettiano che m’impedisce i movimenti, e ti seguo, seguo i tuoi capelli marroni e grano, così simile al pelo di Lola, e la tua gonna larga che sparisce nel sottopassaggio, tra altre persone che non sono come te.
Tu brilli, Signorina Marrone, di quella luce così forte ed intensa che solo chi ama noi gatti può emanare. Oh, anche Mamma e Papo risplendono, ma in confronto a te sono spenti. E io, adesso solamente, capisco.
Addio, Signorina Marrone. 
Dirò a Lola che ti ho incontrata e che esisti davvero. Che non sei solo una leggenda. 
Addio Signorina Marrone.
Notti stellate e cacce proficue sul tuo cammino, fino a quando non ci rincontreremo.
«Ti piaceva quella signorina, eh, Luigi?»
Sì, Mamma, mi piace. Ma non era una Signorina come le altre, quella.
Quella era la dea Bastet.
 
 
  Novembre 2006

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Capitolo 6
*** La chiave ***



«No, smettila... Ma che fai...»
La sentì ridacchiare con un tono toppo imbarazzato perché il gatto potesse averle di nuovo infilato il muso nell'orecchio.
Rimase con la maniglia della porta nella mano. Che fare? Entrare di scatto e beccarla in flagrante adulterio, oppure giocare d'astuzia?
E se mi stessi sbagliando?
Forse il gatto le stava davvero strusciando il naso o la linguetta ruvida dentro l'orecchio, piccolo rituale della sera che da qualche tempo a questa parte aveva cominciato a mettere in scena alle otto e quarantasei spaccate.
Forse, sempre il gatto, se la stava semplicemente arruffianando per ottenere l'ennesimo supplemento del supplemento del supplemento della cena, e le stava ronfando a piena potenza contro le gambe, magari facendola inciampare...
Sì, dev'essere così, pensò lui poco prima che il gatto si strusciasse contro le sue, di gambe. Abbassò gli occhi e incontrò quelli verdi del micio, che li socchiuse come a dirgli: «E allora? Nun entramo? Sento 'n bon odorino de pesce...».
Rimase a fissare la bestiola, poi la maniglia che stringeva salda nella mano, poi di nuovo il gatto.
«Miao!», fece questo, come a dirgli: «Allora? Guarda che c'ho fame, io...».
«Uffa...», sbuffò lei oltre la porta a vetri smerigliati.
Era lì, con il suo golfino rosa fragola, seduta davanti alla penisola che usavano come tavolo, in cucina. Con la coda dell'occhio poteva vedere il fuoco acceso sotto la pentola per l'acqua della pasta. Il sugo alla puttanesca era già bell'e pronto e non aspettava altro che di spalmarsi morbido e soave contro le pennette, già pesate e contate per scrupolo, che lei aveva messo a portata di mano.
Sentì il clic clic dei tasti e capì. Il portatile. Era su internet.
Cosa sta facendo?, si chiese, mentre il gatto si accucciò paziente ai suoi piedi. Stava chattando? Stava cercando immagini che mettessero in risalto i muscoli di Christian Bale o il mento volitivo di Hugh Jackman? Con chi ce l'aveva?
Ridacchiò di nuovo. «Dai, così mi farai arrossire...», disse lei e a lui crollò il mondo addosso.
Un altro. Un altro! La sua dolce metà, la compagna di un buon terzo della sua vita, aveva inaspettatamente deciso di prendersi un altro, dopo dieci anni di fidanzamento, tre di convivenza e due di matrimonio.
«Un bel colpo, non c'è che dire...», gli soffiò all'orecchio il suo se stesso diavolo, comodamente appollaiato sulla spalla sinistra, la coda appuntita che gli graffiava la pelle.
«Non essere affrettato come al solito!», sentì sull'altra spalla, la destra, mentre una piccola lira spandeva il suo pizzicar di corde nell'aria frammista ad un dolce odor di vaniglia. «Forse le cose non stanno come pensi tu...»
«Non stanno come dico io?», rispose piccato il diavoletto all'angelo. «E allora dimmi: cosa dovrei pensare? Che sia improvvisamente impazzita e stia parlando da sola?»
«Tutti noi, a volte, pensiamo a voce alta», rispose l'angioletto alzando le spallucce alate.
«Ma davvero?», replicò l'altro appoggiandosi al suo forcone rosso fiamma. «E cosa dovrei pensare, allora, vecchio mio? Che la nostra principessina sta chattando con una ragazza? Te lo concedo, sarebbe una prospettiva interessante, è vero...»
L'angioletto arrossì fino alla cima dei boccoli biondi che gli ornavano il capo areolato.
Lei ridacchiò di nuovo. «Certo che sei davvero carino...». Un sospiro. Intenso. Forte. Partecipe. Coinvolto. Di quelli che le tredicenni lanciano ai poster dei cantanti appesi dietro le porte delle loro camere, convinte che la mamma non vedrà mai lo sconveniente busto ignudo del bell'attore o del carismatico cantante con gli occhi di cielo e il sorriso imbronciato da malandrino. Lo stesso tipo di immagine che lei si era affrettata a far sparire non appena si erano messi insieme, togliendo il poster in bianco e nero del suo cantante preferito dal suo posto segreto e chiudendolo dentro un portarotolo giallo acceso.
E adesso... adesso eccola lì, seduta in cucina, la porta chiusa e la pentola sul fuoco, a chattare con il suo nuovo amichetto. Imprudente? E perché mai? 
Dopotutto, io dovrei essere uscito con Antonio e Simone, e non dovrei tornare che fra un paio di ore, se non tre.
Voleva farle una sorpresa e invece... la sorpresa gliel'aveva fatta lei.
«Cielo, quant'è tardi!», le sentì dire all'improvviso e la maniglia tra le dita di lui prese a scottare come se fosse appena uscita dalla forgia.
«Che fai? Entra e affrontala!», ordinò il diavoletto. «Sbattila contro il muro e inchiodala di fronte alle sue responsabilità!»
«Non dargli retta!», intervenne con un tono più pacato, ma altrettanto fermo, l'angioletto. «Parlale, sono sicuro che si tratta di un malinteso...»
Lei scostò lo sgabello, quello col sedile bianco, il suo, e spense il pc. Si avvicinò al fuoco e calò la pasta.
«Tetsuya? Tetsuya, dove sei?», chiamò a gran voce il gatto, che iniziò a risponderle miagolando da oltre la porta.
Zitto, stupida bestiaccia!, pensò lui mentre la porta si apriva e lei appariva sulla soglia della cucina con un aspetto... radioso.
«Oh, sei già a casa?», chiese sorpresa. «Non ti ho sentito arrivare...»
«Già, dicono tutte così le colpevoli», sibilò da non si sa bene dove la voce del diavoletto.
«Chi è senza peccato scagli la prima pietra...», sentenziò da un altrettanto oscuro meandro l'angelo.
«Sì...», rispose lui cercando di far tacere quelle voci. «Antonio non si è sentito bene e Simone ha avuto un contrattempo in ufficio, così...»
«Ah... benone», disse lei poco convinta. «Arrivi giusto in tempo, ho appena calato la pasta. Ne aggiungo un po' anche per te, allora. Vai a lavarti le mani, io sistemo la tavola.»
Niente bacio, niente strofinatina di naso, niente abbraccio, nemmeno uno straccio di sorriso. Niente di niente. La sentì canticchiare un po' nervosa Aggiungi un posto a tavola e pregò che il pavimento si aprisse sotto di lui e lo ingoiasse in un colpo solo.
«No, no, no, per carità! Non lo sai che il suicidio è un peccato gravissimo?», lo redarguì l'angelo prima che il diavoletto lo cacciasse via con una poderosa sederata.
«Non dare retta a questo babbeo! Fagliela pagare! Gioca d'astuzia e inchiodala con delle prove schiaccianti. Fai finta di niente e aspetta che lei si tradisca. A quel punto, nessuno potrà biasimarti se cercherai di allungare le mani sulla rossa del terzo piano... Sì, quella con le curve generose al punto giusto e la risatina facile. E non dire che non l'hai vista, non ti credo. Puoi darla a bere a lei, ma non a me...»
«Che stai facendo ancora lì?», gli domandò lei voltandosi di tre quarti, un piatto in mano. «Fila a lavarti le mani, ché è pronto...»
Lui obbedì, strascinando i piedi che si erano fatti improvvisamente di piombo.


«SaioggiFabianahadettocheforsepotreiesserepromossamoderatricediprimolivello,mentreinufficiolaBellavitano
nhafattocherompermilescatoleconmillerichieste,unapiùassurdadell'altra.Ovviamentelofasoloperrendermilavita
uninfernopergliultimitremesichepasseròinquellagabbiadimatti,manonostantequestoiononsonodispostaamo
llareeadarglielavinta.Etucosahaifatto?
»


Lei parlava, parlava, parlava, ma alle sue orecchie arrivavano solo suoni indistinti e ovattati, come se stesse con la testa sott'acqua e gli stessero parlando dalla superficie.
«Ehi? C'è nessuno in casa?», disse lei sventolandogli una mano davanti alla faccia.
«Eh?»
«Ti ho chiesto com'è andata oggi. Qualcosa del tipo cos'hai fatto dopo che ci siamo salutati stamattina, oppure com'è andato il lavoro o roba simile...»
«No, scusami... Sono un po' stanco...»
«Ottima scusa», commentò la voce del diavoletto. Stava ghignando?
«Capisco...», disse lei un po' delusa.
«Anzi, se non ti dispiace vorrei andarmene a letto subito. Non mi sento molto bene. Andrea ha l'influenza e non vorrei essermela presa anch'io.»
«Eh sì, gira. Non ti preoccupare, vai pure a letto, ci penso io qui.»
«Sicura?»
«Sì, ci metto dieci minuti. Vattene pure sotto le coperte e rilassati un po'.»
«È quello che farò...», disse lui alzandosi. Posò il tovagliolo di carta sul ripiano lucido della penisola e fece per andarsene, quando la voce di lei lo fermò.
«Ce la fai ad aspettarmi alzato? C'è una cosa che vorrei mostrarti.»
Il tono di voce. Quel tono di voce, lo stesso di chi sta annunciando all'altro che è in arrivo una grossa novità, lo stesso che lei aveva usato prima di dirgli «O andiamo a convivere, o la finiamo qui.».
Deglutì a vuoto.
«Ce... certo.», le disse con un sorriso stanco e spiegazzato.
«Benone!», disse lei quasi trillando di contentezza. Prese il grembiule incerato, lo infilò e si mise di buona lena a fare i piatti. Canticchiando.
«A... allora io vado...», biascicò lui in direzione della porta. Il gatto lo fissò come a dirgli «Ancora qui stai?», poi chiuse gli occhi e si acciambellò sullo sgabello dal sedile rosso.
«Porteresti di là il portatile, per favore?», chiese lei senza voltarsi.
I suoi occhi corsero al gioiellino che era costato l'intera tredicesima di tutti e due messa assieme e che se ne stava zitto e buono in un angolo.
«Che occasione!», gridò il diavoletto dritto al suo timpano sinistro. «Prendilo e vattene in camera da letto. Scommetto che troverai le prove tra i file recenti!». Chiedendosi cosa mai potesse saperne un diavolo di come funzionasse l'ultimissimo ed infernale sistema operativo che avevano trovato già installato, lui obbedì e le sue mani afferrarono il portatile, pronte a correre sui tasti per cercare le risposte alle sue inquietudini.


Una bozza di una storia da correggere.
Un layout sgangherato, rosso, oro e nero che stava realizzando per chissà quale delle sue amiche di rete.
Alcuni primissimi piani che aveva scattato l'estate scorsa - o quella prima ancora? - ad un geranio dalla declinazione lillà intenso.
La cronologia cantava chiaro: le fotografie di Christian Bale erano state visionate magna cum copia due sere avanti, mentre quelle di Hugh Jackman il giorno prima ancora.
Nella cronologia di msn non risultava alcuna conversazione con utenti sconosciuti, o con pseudonimi maschili - eccezion fatta per D'Éon che sapeva essere una ragazza.
Con chi diamine ce l'aveva, allora?
Si prese il mento tra le mani, mentre una parte di lui gli dava dell'idiota e l'altra, quella razionale e analitica, si scervellava per capire dove fosse la magagna. Perché era chiaro che c'era qualcosa, un piccolissimo particolare di cui lui non aveva tenuto conto quando aveva preso il portatile e l'aveva trafugato in camera da letto.
«Avanti...», prese a dire la voce suadente dell'angelo. «Non vorrai dirmi che se fosse stata in torto ti avrebbe fornito le prove della sua colpevolezza...»
«Magari è masochista...», propose il diavoletto guardandosi le unghie, mentre lui si disse che sì, la chiave stava nelle parole dell'angelo.
La chiave.
La chiavetta usb.
Quella rosso fiammante che lui le aveva regalato a Pasqua e dove lei aveva inserito tutte le sue storie per paura che il pc impazzisse nuovamente e danneggiasse tutti i file un'altra volta.
Quella che portava al collo e da cui non si separava se non per dormire. Quella su cui lui doveva assolutamente mettere le mani se voleva arrivare in fondo a questa storia.
Devo avere quella dannatissima chiavetta usb, altrimenti impazzirò. 
Rimase a pensare a come avrebbe potuto fare, quando il diavoletto punse il sedere dell'angelo con il suo forcone e gli sussurrò all'orecchio un piano geniale.
Sì... Può andare...


Il bello di lei era il suo sonno granitico. Quando cadeva in catalessi non c'era niente e nessuno che avrebbe potuto destarla dal suo coma profondo, nemmeno le cannonate del Gianicolo. Senza accendere la lampada sul suo comodino ingombro di fumetti, lui si alzò e circumnavigò il letto matrimoniale fino ad approdare al comodino di lei. Trovò a tastoni la chiavetta usb, la prese e molto delicatamente sgattaiolò in cucina, il portatile sotto al braccio.
Lupin nun te temo, si disse orgoglioso. Chiuse la porta alle sua spalle con molto prudenza, accese il portatile e collegò la chiavetta. Attese. Il programma trovò il disco removibile e lui ci cliccò sopra. Sullo schermo apparve una selva sterminata di nuove cartelle e cartelline denominate semplicemente attraverso un numero progressivo.
Maledizione a me e a quando ho deciso di regalarle una chiave da 4 Giga...
Fotografie. Fiori. Gatti. Storie. Immagini di Hugh Jackman. Ancora fiori. Gattini bianchi. Un pdf contenente una nuova ambientazione fantasy. Ancora fiori. Rose. Fatine in resina. I suoi disegni. Quelli di lei. Schemi per il filet. Schemi per le perline. Immagini di Hello Kitty. Layout per il suo sito. Screencap. E la lista era ancora molto, molto lunga.
Il brutto del suo sonno granitico era la durata, totalmente imprevedibile. 
Poteva durare dieci ore, oppure limitarsi a solo centottanta minuti di rilassamento. E questo poteva dire solo una cosa: lei poteva svegliarsi da un momento all'altro e coglierlo in castagna.
«Che stai facendo?»
Appunto...
La voce sbadigliosa di lei lo colpì alla schiena come una secchiata d'acqua gelida. Si voltò. Lo guardava dal corridoio, facendo capolino dalla cucina con i capelli arruffati, gli occhi socchiusi e l'aria di uno zombie che ha sbagliato candeggio.
«Niente...», mentì spudoratamente lui, lo schermo azzurro del portatile che faceva capolino oltre la sua spalla.
«Niente?», ripeté lei. Guardò l'orologio, poi tornò con gli occhi su di lui. «Niente alle tre del mattino davanti al mio portatile?»
«Ecco...»
Non sapeva più cosa ribatterle. Era ovvio che non solo stava facendo qualcosa, ma che si stava scavalcando quel confine labile ma invalicabile di cui lei era possessivamente gelosa.
Lei si prese un bel bicchiere d'acqua e lo guardò di nuovo. «Hai aperto la mia chiave usb.»
Non seppe come prenderla. Stava per cavargli gli occhi? Se ne sarebbe tornata a letto brontolando? Non gli avrebbe rivolto la parola per due giorni filati?
«Aspetta un secondo. Frena, frena, frena! Ehi, amico, guarda che sei tu quello ferito in tutta questa storia. Vorrei ricordarti che è stata lei a tradirti con un altro, non tu...»
«Che discorsi sono questi?», s'intromise l'angelo pestando un calzare sulla spalla di lui. «Se uno ti picchia tu devi necessariamente ricambiare il colpo ricevuto?»
«Sissignore!», rispose il diavoletto.
«Porgi l'altra guancia!», sibilò l'angelo sventolando un indice ammonitore sotto il naso del proprio antagonista. «Se ti ammazzano il cane non hai alcun diritto di fare altrettanto alle bestiola del tuo nemico.»
«Ah no?»
«Eh no!»
«Silenzio!», sbottò lui. Lei si svegliò di colpo versando alcune gocce d'acqua sul pavimento. «Sei tu quella che mi deve una spiegazione, non io. E poi non ti ho certo ammazzato il cane!»
«Il cane?», domandò lei perplessa. «Noi non abbiamo un cane...»
«Non ha nessuna importanza!» Si alzò e le si avvicinò. «Con chi parlavi, oggi?»
«Eh?»
«Non fare la finta tonta! Ti ho sentito! Oggi, quando sono tornato. Ho fatto piano per farti una sorpresa, ma ho sentito che stavi parlando con qualcuno. Con un maschietto. E non dirmi che mi sono confuso, il tono che hai usato non ammetteva errori!»
«Di' un po', te sei ammattito? Qui con me c'era solo Tetsuya...»
«Non è esatto. Tetsuya se ne stava fuori dalla porta, insieme a me...»
Lei corrugò le sopracciglia. «Cos'avresti sentito di preciso?»
«Lo sai...»
«No che non lo so. Te lo sto chiedendo apposta...»
Lui prese un gran respiro. «No, smettila... Ma che fai...», disse facendole il verso.
Lei sgranò gli occhi, forse sorpresa dalla fedeltà dell'esecuzione, poi disse: «Ah, ho capito!», e si diresse verso il portatile. Fece scorrere la pallina del mouse, poi si fermò davanti ad una cartella, la penultima e vi cliccò sopra.
«Chiudi gli occhi...»
«Stai scherzando?»
«Chiudi gli occhi!», ripeté lei e lui si trovò stranamente ad ubbidire.
La sentì smanettare ancora un istante con la tastiera poi gli disse: «Pronto?», e lui sentì una musichetta a otto bit riempire il silenzio della cucina.
Aprì gli occhi e li sgranò dalla sorpresa.
«Ma questo...»
«Esatto!», disse lei battendo le mani. «Angela mi ha passato un emulatore dei giochi arcade della nostra infanzia. Ho la versione da sala giochi dello sparatutto dei robot!»
Aveva gli occhi lucidi ed eccitati di una bambina delle elementari a Piazza Navona per la Befana, nonostante una ventina abbondante di anni in più sulle spalle e qualche filo d'argento tra i capelli.
«Guarda, puoi scegliere il pilota... Io prendo Tetsuya.»
Il Grande Mazinga apparve sullo schermo, mentre intorno a lui scorreva l'ambientazione e diversi nemici tentavano di fare a pezzi il robot sparando la propria santabarbara contro il protagonista. In alto a sinistra, Tetsuya se ne stava con la sua aria scazzata, subendo i contraccolpi che man mano scuotevano il robot ogni volta che un mostro guerriero lo intercettava.
«Prendi i vari missili che Venus e Diana lasciano in giro... Oppure il Booster», diceva lei man mano che il robot afferrava i bonus dissemninati lungo la strada. «Così spari il Raggio Gamma, così, invece, il Grande Tifone e con la barra spaziatrice lanci il Doppio Fulmine.»
Lui restava a bocca aperta guardarla portare a compimento la prima missione, scartando gli ostacoli e prendendo ogni bonus possibile e immaginabile. Alla fine, dopo aver sconfitto l’ennesimo nemico, apparve sullo schermo una scritta che comunicava la fine del primo quadro e lei ridacchiò.
Lui la guardò. Aveva le guance imporporate.
«Ma che diamine...», ma non fece in tempo a commentare che il gioco riprese, con una nuova missione tra i ghiacci dell'Antartide.
«Ecco, qui, invece, devi fare così...», ed anche stavolta lei portò a termine la missione sconfiggendo tutta la sequela di mostri, con un immancabile rossore alla fine del secondo quadro. E del terzo. E del quarto.
Verso metà del quinto, lei iniziò a parlare all'icona del pilota.
«Povero amore patato mio...», disse rivolgendosi ad un Tetsuya che sembrava aver accusato una potente sventagliata di raggi gialli e rossi.
«Parli con Tetsuya?»
«Sì, perché?», chiese lei candidamente.
Lui tornò a fissare quella faccia apatica e, alla fine, lo vide.
Quando lei, dopo un paio di manovre complesse, riuscì ad abbattere la Fortezza volante del Dottor Inferno grazie ad un sapiente uso del Doppio Fulmine, lui vide l'iconcina di Tetsuya farle l'cchiolino. Ed allora capì a chi mai lei stesse sospirando quando, una manciata di ore prima, l'aveva sentita parlare da sola con un tono di voce estasiato.
«Non è una figata immane?», gli domandò lei.
«Eccome!», rispose lui. «Posso portare Goldrake?»
«Provaci, se vuoi. Ma dubito proprio che riuscirai ad essere più bravo del mio Tetsuya...»
«Stiamo parlando di Actarus, ragazza mia...», le disse sedendosi al suo posto e selezionando Daisuke Umon come pilota.
Lei si portò alle sue spalle e lo osservò giocare schiacciando i tasti.
«Mi sembra che qualcuno abbia fatto qualcosa che non avrebbe dovuto fare...», disse una voce angelica pizzicando una lira dalle corde dorate.
«Concordo», le fece eco una risatina un po' malvagia.
«Ok, ragazze...», sussurrò lei all'indirizzo della sua angioletta e della sua diavoletta personali. «Vorrà dire che pagherò con la carta di credito di questo qualcuno il bellissimo e carissimo modellino in vinile di Tetsuya che ho visto su E-bay…»
E l’angelo ed il diavolo sorrisero. Insieme.
 

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Capitolo 7
*** Per i miracoli, ci stiamo attrezzando ***






«Esprimi un desiderio, Fanciulla.»
La voce del Genio, uscito dalla lampada che stavi lucidando con olio di gomito - quella che zia Bettina ti ha portato dal quel suo viaggio al Cairo di almeno vent'anni fa - ti fissa, le braccia possenti - come quelle dei cuochi del Pastamatic, pensi - incrociate davanti al petto. È fatto di fumo azzurro, denso e vorticante, che gli accarezza i lunghi capelli racchiusi in una coda di cavallo alta sulla testa e i pesanti orecchini a cerchio che gli decorano i lobi di nebbia. Sembra calmo, atarassico, pacifico; eppure, qualcosa dentro di te, ti sussurra che con avambracci come quelli i suoi manrovesci debbano fare male, molto male. Più di quelli che Bud Spencer menava a destra e a manca quando s'arrabbiava per davvero.
«Un desiderio...»
«Sì», la voce del Genio rimbomba come un sussurro in una grotta marina, «qualcosa che il tuo cuore desidera ardentemente, ma fa' attenzione. Posso esaudirne uno solo, quindi ti consiglio di compiere una scelta oculata.».
Ci pensi su.
«Il mio è un desiderio complesso...»
«Non c'è desiderio, per quanto complesso esso sia, che io non posso esaudire.»
È piccato?
«È articolato...»
«Illustramelo.»
Così, colla lampada di zia Bettina ancora tra le mani, deglutisci e spieghi: «Stammi a sentire. Con attenzione». Il Genio annuisce. «Vorrei che gli anni '80 non ci avessero rimbambito. Parlo della mia generazione. Mi spiego meglio. Non è stata colpa loro, ma nostra. Abbiamo vissuto per dieci anni in un gigantesco Luna Park. Era tutto coloratissimo, tutto un gioco. E noi ci abbiamo creduto. E non siamo cresciuti. Siamo rimasti a trastullarci in un'eterna adolescenza che non è mai finita. Ma non soffriamo della sindrome di Peter Pan, no. Magari, fosse così! È peggio di così. Peter Pan, almeno, aveva conservato un cuore allegro, da bambino. Noi, no. Noi siamo invecchiati senza crescere. È per questo che il mondo va come va.»
«E come va?»
«A scatafascio, ecco come va.»
Pausa.
«Non fraintendermi, io voglio aver vissuto gli anni '80. Ci mancherebbe altro! Sono stati un decennio splendido. Ero una bambina, all'epoca, e sono stati il periodo più felice della mia vita. Allegri, chiassosi, colorati. Come potrei non amarli? Solo, vorrei che non ci avessero lasciato in questo sfacelo. È stato come andare a dormire nel Paese delle Meraviglie alla sera, per poi svegliarsi al mattino tra le macerie di Sarajevo bombardata. Te la ricordi, com'era Sarajevo nel '92, vero?»
«No.»
«Un colabrodo, ecco com'era.» Pausa. Prendi fiato: «Puoi esaudire questo mio desiderio, Genio?».
Il Genio tace. Ti guarda con quella sua espressione indecifrabile, le sopracciglia blu notte spesse come cespugli a coprire gli occhi di un color zaffiro intenso che spiccano sul suo volto di fumo azzurro.
Ecco, lo sapevo, pensi. L'ho stordito colle chiacchiere. Zia Bettina l'ha sempre detto che saresti stata capace di vendere congelatori agli esquimesi, no?
Il Genio si liscia il suo lunghissimo pizzetto - i bracciali ai suoi polsi tintinnano come arpe eoliche - e ti dice: «Io avevo detto che avrei esaudito un tuo desiderio. Questo che chiedi tu sia chiama miracolo.». Pausa. «E per i miracoli ci stiamo ancora attrezzando», dice. Quasi come a volersi scusare.
«Ah.»
Pausa.
Fissi il Genio, che aspetta, una nuvola di fumo azzurro in attesa di un tuo cenno come se, davanti a sé, avesse tutto il tempo di questo mondo. E forse pure dell'altro.
«Posso pensarci su?»
«Certo», dice il Genio, sciogliendo le braccia e massaggiandosi il collo. Dev'essere scomodo abitare dentro ad una lampada ammaccata, pensi, anche se sei fatto di fumo. «Io ne approfitto per sgranchirmi un po', se non ti spiace.»
«Suppongo che anche chiederti di tornare ad indossare una taglia 42 vita natural durante sia un miracolo, vero?»
Il Genio annuisce.
«Un viaggetto Terra-Luna andata e ritorno?»
«L'andata è un desiderio, il ritorno un altro.»
«Desidero avere tutti i desideri del mondo?»
Solleva un sopracciglio.
«Cioè?»
«Desidero che tu possa esaudire per sempre tutti i miei desideri.»
Sbuffa.
«È una richiesta non valida. Il contratto lo cita espressamente. Comma diciannove, paragrafo sette.»
«Okay, okay. Mi fido», dici. «E se ti liberassi?»
Ti fissa, scandalizzato, come se avessi appena pronunciato la più irripetibile delle bestemmie, una di quelle capace di far arrossire fin oltre le orecchie un marinaio navigato.
«Sei impazzita?! Mi ritroverei in mezzo a una strada! No, no, nossignore. E dopo che faccio? Come vivo, eh? Nella mia famiglia siamo tutti Genî, da generazioni! Che desiderio irresponsabile! Che ti ho fatto di male, eh? Ti sto forse antipatico? Ma che colpa ne ho, se non posso realizzare i miracoli?!»
«Ma io pensavo di farti un piacere!», protesti.
«E pensavi male!», ribatte lui, che ha perso all'istante la sua atarassia, la sua magnificenza, la sua calma olimpica. Adesso ti sembra che assomigli a Mandrake di Febbre da Cavallo, cogli stessi occhi spiritati e le stesse narici dilatate.
Come un cavallo innervosito che sbuffa, pensi. Un cavallo fatto di fumo azzurro e molto, molto pericoloso.
«Perché non esprimi un desiderio normale come tutte le persone normali, hn? Che so? Un vestito nuovo, la vincita al Superenalotto, alla Lotteria, un atollo tutto per te, una stanza piena zeppa di fragole? Questi desideri non vanno più di moda?»
Io non sono normale, pensi. Non te l'ha sempre ripetuto e ribadito zia Bettina, fino alla nausea, tua e sua?
«Le cose sono cambiate», dici invece. «Forse farei meglio ad aggiornarti su cosa va di moda, adesso...»
«O forse faresti meglio ad esprimere il tuo desiderio, così la facciamo finita, hn?»
«Quando dici che per i miracoli vi state attrezzando, che intendi?»
Solleva lo sguardo al soffitto, come a raccogliere un po' di pazienza. Ti piace di più, da quando ha calato la sua maschera di algido distacco.
«Significa che ci stiamo ancora lavorando su. Non so dirti quando potremo realizzarli o se mai potremo farlo. Tuttavia, il Reparto Ricerca e Sviluppo sta studiando un sistema, e non escludo che, chissà quando, potremo effettivamente realizzare dei miracoli. Ma tutto dipende da voi.»
«In che senso?»
Ti senti un po' Mimmo di Un sacco bello, ma grazie al cielo non hai fatto cadere nessuna bottiglia d'olio per terra, né una turista spagnola si è installata a casa tua scambiandola per un ostello. Almeno quello.
«Nel senso che solo quando voi umani avrete imparato a realizzare i desideri colle vostre manine, noi Genî potremo passare allo stadio successivo, quello dei miracoli. Ma fino a quando voi non passerete di livello, non potremo farlo neppure noi...»
Sospiri. Lo sapevi che c'era la fregatura.
«Va bene. Regalami una stanza piena zeppa di fragole, allora, e facciamola finita. Ma...»
«Ma?», ti domanda il Genio. Timoroso che ci sia una supercazzola colossale appostata dietro a quell'innocuo ma.
«Ma non subito. Un po' per volta, altrimenti, golosa come sono, finirei per farne indigestione. Senza contare che non potrei mai mangiare tutte assieme una stanza di fragole. E poi, che unità di misura è una stanza di fragole? Mica posso andare in giro a dire "Ehi, lo sai che è uscito fuori un Genio dalla lampada di zia Bettina e mi ha regalato una stanza di fragole?". Mi chiederebbero tutti che cosa sia questa stanza di fragole, quanto sia grossa. Insomma, c'è stanza e stanza. Anche lo stanzino delle scope è una stanza. Piccola, magari...»
«Ho capito», dice il Genio, stendendo un braccio tra di voi, come se avesse impugnato una spada per difendersi da quello sproloquio. «Vuoi avere un tot di fragole al giorno...»
«Esatto!», lo interrompi, «già condite, buone buone come le faccio io, e tante quante ne posso mangiare senza fare indigestione. Magari condividendole con un amico. Te, ad esempio. Ti piacciono le fragole, vero?»
«No.»
«Vabbè, tu allora mangerai quello che più ti piace. Noci di cocco? Fichi d'india? Datteri?»
«Ciliegie», ribatte il Genio. «E mele cotogne. E ananassi. Io vado matto per gli ananassi.»
«E sia. Un rendez-vouz giornaliero. Io, te, le fragole, le ciliegie, gli ananassi e le mele cotogne.»
«E tè alla menta. E karkadé freddo. Altrimenti non se ne fa nulla.»
«Andata», dici, tendendogli la mano. «Ho delle fragole buone buone, in frigorifero. Che ne dici se prima attacchiamo quelle?»

Aprile 2017


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